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Cardinale Giuseppe Siri

GETSEMANI

Riflessioni sul Movimento Teologico Contemporaneo

FRATERNITA' DELLA SANTISSIMA VERGINE MARIA - ROMA

_______________

SOMMARIO

CRITERI FONDAMENTALI

Considerazioni fondamentali

Fonti di giudizio e di valutazione

Logica eterna della Carità infinita

CARATTERISTICHE GENERALI DEL MOVIMENTO TEOLOGICO

PRINCIPI ETERNI E PUNTI DI RIFERIMENTO TEMPORALI PER LA


COMPRENSIONE DEL MOVIMENTO TEOLOGICO ATTUALE

Il rapporto tra ordine naturale e ordine soprannaturale - Tre casi significativi:

1 - P. Henri de Lubac

2 - P. Karl Rahner

3 - Jacques Maritain

"L'impalpabile"

ALTERAZIONE DELLA STORIA E LIBERAZIONE ETERNA


TRE ESPRESSIONI DELLA NUOVA CORRENTE

L'ALTERAZIONE DELLA STORIA

La coscienza storica

Pietre miliari

CARATTERISTICHE DELLA MENTALITÀ STORICISTA

L'idea del progresso

La mistificazione kantiana

Lo storicismo di Hegel e di Dilthey

ARCO DELLE CORRENTI TEOLOGICHE SCATURITE DALLA MENTALITÀ


STORICISTA

A proposito dell'ermeneutica

Reinterpretazione globale del cristianesimo

Relativismo dottrinale assoluto

Negazione dell'Incarnazione. Alterazione della realtà di Cristo

Alterazione radicale della Rivelazione

Disgregazione pluralistica

GETSEMANI

Getsemani

_____________________

CRITERI FONDAMENTALI

Considerazioni fondamentali
È più che mai necessario avere un'idea chiara, globale, ma al tempo stesso
precisa e con sfumature, di quello che si può chiamare «il movimento teologico
contemporaneo». Un riassunto oggettivo, concreto e accurato, che esprima la
realtà profonda, è tuttavia molto difficile, malgrado i numerosissimi scritti
consacrati ormai da parecchi anni a questo soggetto.

D'altra parte, quasi nessuna analisi e nessuna sintesi potrebbe pretendere


un'oggettività pura, perché spessissimo esiste una generale opzione interiore
di ordine spirituale, morale o socio-storica che avvolge tutti i giudizi e gli stessi
criteri. Come esempio ci si può riferire ad uno degli ultimi esposti di sintesi
sulla teologia contemporanea, «Bilancio della Teologia del XX secolo» (1); è
chiaro che gran parte di questo lavoro è condotto sulla falsariga di Karl Rahner
(2).

Una sintesi oggettiva non dipende neanche dall’estensione dell'informazione


bibliografica. Questa, in generale, può essere utile, ma non sempre aiuta gli
spiriti a penetrare la realtà dei movimenti del pensiero e della vita. A volte,
avviene proprio il contrario: affascinati dal continuo sforzo di informazione
esteriore, si perde il filo conduttore interiore, cioè si perdono i riferimenti
capitali permanenti che debbono determinare, più di ogni altra cosa, il criterio
attraverso cui si debbono vedere e giudicare i fatti, le idee e le cose.

Tutto il problema dell'oggettività pura consiste nel cogliere i riferimenti


fondamentali dati dalla Rivelazione e dalla logica sacra. Se non c'è un
riferimento fondamentale percettibile e definibile, apportato nell'intelligenza e
nella esperienza umana dalla Rivelazione, se non c'è una logica, che esprima
nell'uomo l'ordine eterno della Creazione, che sia dunque sacra, ogni problema
di oggettività è annullato, ed ogni tentativo di conoscenza è vano.

Perciò al di là o anche in seno alle differenti nozioni di pluralismo concernenti la


conoscenza, il linguaggio o le cose, pluralismo accettabile o rigettato, c'è una
necessità semplice e assoluta, non soltanto di ricerca dei riferimenti
fondamentali, ma di percezione in modo veridico dei riferimenti fondamentali
imposti dalla Rivelazione. E quando la volontà è libera da ogni influenza che
non sia l'amore incondizionato della verità, la logica sacra è vivente e
dominatrice nell'intelletto. È facile capire come queste considerazioni possano
far parte di un fondamento essenziale di metodo.

FONTI DI GIUDIZIO E DI VALUTAZIONE


Prima di tutto, si debbono ricercare e precisare le fonti di giudizio e di
valutazione. E per questo si è costretti, in mezzo alla polivalenza di
vocabolario, illimitata e senza precedenti, a chiarire la nozione di teologia, cosa
che permette di stabilire un vero criterio teologico; e si potrà allora
comprendere che cos'è il movimento teologico, approfondire le sue radici e
valutare la sua portata. (3)

Per pensare e parlare in modo giusto e adeguato su ciò che è la teologia,


bisogna ritornare a nozioni primarie, a concetti semplici e puri, a principi
fondamentali. Questi principi sono conosciuti da tutti, ma è necessario
ritornarvi, ed anche spesso, nella nostra vita di pellegrini, nella nostra missione
apostolica quotidiana, perché in fondo a tutta questa problematica ansiosa e
disordinata, c'è l'oblio, momentaneo o in modo permanente, di quella che è
l'origine, l'essenza e la finalità ultima della teologia.

In generale si dice che la teologia è la scienza di Dio fondata sulla Rivelazione.


È una definizione esatta per un'intelligenza esatta della Rivelazione, perché i
suoi principi le vengono immediatamente da Dio. (4)

Si dice anche che la teologia è la scienza della fede. In quanto la fede è la


Rivelazione ricevuta, la definizione è esatta, perché il contenuto e l'essenza
della fede è la Rivelazione. La teologia è dunque la scienza della Rivelazione
ricevuta, e non abbiamo altra Rivelazione se non quella ricevuta.

A volte si parla in modo da far pensare che c'è una differenza tra la Rivelazione
ed il contenuto della fede. (5) Ciò può avere senso solo quando si parla della
fede individuale in rapporto a quella della Chiesa che, come depositaria
universale e perenne, ha ricevuto la Rivelazione.

Il Santo Padre Paolo VI, parlando della fede, ha detto:

«La teologia non è altro che la fede nell'ordine concettuale: come ha detto
Agostino, è la «scientia, qua fides saluberrima nutritur, defenditur, roboratur
(De Trin. XIV, 1).»

Nello stesso discorso, il Santo Padre dice:

«La teologia è profondamente connessa con il Magistero della Chiesa, perché la


loro comune radice è la Rivelazione divina». (6)

È evidente che il Santo Padre parla della teologia come scienza della
Rivelazione, che è l'essenza della fede.

Talvolta però, si sente il bisogno di una visione più sviluppata, più dettagliata e
più chiarificatrice del concetto di teologia; perché le generalizzazioni e le grandi
formule sintetiche elevano e aiutano coloro che sono in armonia con il senso
interno, univalente ed insieme esteso e ricco di sfumature del vocabolario. Si è
ben lontani però, da questa intesa armoniosa ed universale. E ciò è tanto vero
che si cerca di «scoprire» o coniare un altro vocabolario ed anche un altro
linguaggio.

Non si deve confondere la nozione di univalenza con il senso che a volte viene
dato a quella di «univocità»; quest'ultima è utilizzata da alcuni autori, in
tutt'altro senso da quello di «univalenza». I termini del linguaggio possono
avere significati molto ricchi che involgono e sintetizzano molti altri termini.
Resta sempre però, il significato fondamentale, il valore unico che determina,
che gerarchizza e armonizza tutte le sfumature e tutte le accezioni secondarie.

Con il termine «univocità» si può anche esprimere l'univalenza, il valore unico


e fondamentale, che unifica e armonizza termini e sfumature. Qualche volta
però, si utilizza il termine di univocità per definire - confutando o sostenendo -
alcune tendenze riguardanti il carattere essenziale del pensiero umano circa la
percezione della verità, il ragionamento e il giudizio; tale definizione colpisce
allora il linguaggio nella sua struttura interna, e quindi il termine «univocità» è
impiegato per esprimere un senso diverso da quello positivo di «univalenza».
(7)

Ma il Papa parlando dell'interpretazione della Parola di Dio, dice


espressamente:

«Si può sostenere l'inadeguatezza d'ogni parola umana a esprimere la


profondità insondabile del contenuto teologico d'una formula dogmatica...; e
sostenere la virtuosità interpretativa di una medesima verità dogmatica
nell'annuncio kerygmatico..., la legittimità delle varie scuole teologiche e
spirituali; ma non saremmo fedeli all'univocità della Parola di Dio, al Magistero,
che ne deriva, della Chiesa, se ci arrogassimo la licenza d'un «libero esame»,
di un'interpretazione soggettiva, d'una subordinazione della dottrina definita ai
criteri delle scienze profane, e tanto meno alla moda dell'opinione pubblica, ai
gusti e alle deviazioni... della mentalità speculativa e pratica della letteratura
corrente». (8)

Il Santo Padre aveva già precedentemente denunciato il pericolo:

«...il pericolo di ambiguità, di reticenza o di alterazione dell'integrità del


messaggio..., adattando la Parola di Dio alla propria mentalità, alla propria
cultura, sottoponendola a quel libero esame, che le toglie... il suo univoco
significato e la sua obiettiva autorità, e finisce per privare la comunità dei
credenti dell'adesione ad una identica verità, ad una medesima fede: la «una
fides» (Ef 4, 5) si disintegra e con essa quella stessa comunità che si chiama la
Chiesa unica e vera». (9)
Logica eterna della Carità infinita

In ogni caso si può dire che la teologia è affermazione illuminata e attestata


dalle fonti; intelligenza sempre più profonda e più completa di quanto si
afferma, basata sulle fonti; deduzione sempre nella luce dei principi
fondamentali e controllata dalle fonti, dai dati della Rivelazione. Così la
teologia, per mezzo dell'affermazione controllata e attestata dall'Alto, tende in
ogni tempo a costituire un insieme stabile e organizzato di conoscenza, sempre
alla luce delle fonti, cioè di Dio. Ed in questo senso si potrebbe dire che la
teologia tende ad essere «istituzionale».

Questo circolo perenne dalla Rivelazione all'intelligenza della cosa rivelata,


dall'affermazione alla dimostrazione e alla deduzione che conduce
all'intelligenza della cosa rivelata, questo movimento meraviglioso sorto dalla
Bontà infinita di Dio, è stato spesso mal capito, mal espresso e quindi
deformato. Invece di vedere in questa manifestazione della Logica eterna, una
manifestazione della Carità infinita di Dio e la partecipazione dell'uomo a
questa Carità che lo eleva ad una sempre più sublime intelligenza di Dio e della
Creazione, spesso vi si è voluto vedere una specie di naturalizzazione
inaridente del mistero che conduce l'uomo alla conoscenza della verità eterna e
all'unione con Dio.

Con tranquillità di coscienza si può affermare che se la teologia sfugge al


controllo delle fonti e dei principi fondamentali di cui abbiamo parlato sopra,
non sarà più continuamente illuminata dalla Rivelazione: essa dunque non avrà
più come oggetto l'essenza della Rivelazione, Dio. Di conseguénza, questa
attività teologica non potrà più costituire un insieme stabile e organizzato di
conoscenza alla luce delle fonti.

Potrà sempre parlare di Dio e delle cose di Dio. Potrà avere qua e là qualche
momento di elevazione ed anche qualche luce di fronte a problemi difficili, ma
tutto ciò sarà sporadico, senza ordine, ed i riferimenti non saranno sempre
quelli immutabili della Rivelazione; non ci sarà la pace della verità e di
conseguenza la libertà che soltanto la verità eterna può dare.

In ultima analisi, se la teologia non è sotto il continuo controllo delle fonti, se


non è costantemente nella luce della Rivelazione, che apre verso l'infinito, nella
carità, la via della conoscenza, ed annulla sempre ogni rigidezza artificiale
dovuta alla natura ed all'esperienza puramente umana, essa non può essere
veramente e santamente istituzionale.
Si è detto sopra che il circolo perenne dalla Rivelazione all'intelligenza della
cosa rivelata, dall'affermazione alla dimostrazione e alla deduzione, è una
manifestazione della Logica eterna e della Carità infinita di Dio. Ora l'uomo ha
potuto formulare molteplici definizioni del termine «logica»; nondimeno c'è una
comprensione generale comune del termine, e questa comune comprensione
costituisce una norma sufficiente per parlare con certezza e semplicità della
logica umana.

L'uomo ha una struttura intellettuale che è connaturale all'intelligenza, cioè ha


una conformazione intellettuale che, possiamo dire, per sua natura è «logica».
La logica ordina, classifica e misura. La logica coglie la causa, coglie l'effetto e
coglie il rapporto tra causa ed effetto. La logica stabilisce l'ordine di origine,
l'ordine di valore e l'ordine di successione degli esseri e dei fatti. Così la logica
è una azione pura dell'ordine dell'intelligenza, che riflette nell'uomo l'ordine
eterno della creazione. La logica dell'uomo, datagli da Dio sin dalla creazione,
permette nella vita di carità di ritrovare l'ordine della logica eterna che
manifesta la verità e la carità di Dio.

Ora, secondo questa stessa logica concepiamo che Dio rivelando «ha calato»
cose divine nelle forme umane del pensiero umano. In questo senso, è
conveniente dire che Dio ha assunto il pensiero umano. Il che vuol dire che le
forme nelle quali si produce e si manifesta il pensiero umano sono ordinate al
reale oggettivo; sono forme assunte da Dio. Se Dio ha parlato agli uomini, il
pensiero dell'uomo deve corrispondere al reale. È per questo che la logica e il
pensiero dell'uomo sono connaturali all'intelligenza che nella carità realizza la
vera conoscenza di Dio.

E a questo punto la dottrina dell'analogia appare con tutta la sua indefinibile e


insieme incontestabile realtà meravigliosa; appare come una via misteriosa di
comunicazione nell'intelletto, tra il mondo creato e l'eterna realtà divina.

Non si deve certamente pensare che ogni paragone ed ogni espressione


analogica di ciascun uomo esprima una verità; la dottrina dell'analogia mette
in evidenza una legge profonda dell'intelletto e attesta che il pensiero umano
nel riflettere le cose divine rivelate, è analogico. Ma ciò non significa che il solo
riferirsi a questo carattere analogico del pensiero umano sia sufficiente per
raggiungere la verità. Infatti, ciò corrisponderebbe ad un altro errore per cui
ogni uomo è salvato automaticamente a causa del pensiero che Cristo si è
offerto per la salvezza di tutti gli uomini. Come la salvezza dipende dalla
risposta libera all'amore indicibile di Dio, così la conoscenza esatta del reale
dipende dall'amore libero della verità eterna.

Le realtà divine sono infinite e noi non possiamo raggiungere l'infinità del reale
divino. Per l'analogia abbiamo oggettivamente accesso alla verità divina,
perché come abbiamo detto, Dio «ha calato» nei concetti umani, nelle forme
del pensiero umano, la Sua Rivelazione.

Il fondamento di questa affermazione ha una immensa portata per ogni cosa e


per ogni oggetto del nostro pensiero. Per l'analogia l'uomo può rendersi conto
da dove è caduto ed anche del Regno a cui è chiamato; basta proteggersi con
l'umiltà dalla tentazione originaria: voler conoscere fuori di Dio.

Molto spesso l'analogia è stata dimenticata, ed ora, a volte anche svalutata e


totalmente rigettata. A ragione il P. Battista Mondin (10) parlando della
teologia radicale, ossia della corrente denominata «teologia della morte di
Dio», fa la seguente osservazione:

«I teologi radicali sono concordi nel respingere la dottrina tradizionale, la quale


riconosceva al linguaggio teologico valore analogico». (11)

Questo oblio, o rigetto, è un sintomo molto caratteristico di tante correnti,


convergenti tutte verso una tendenza unica, un monismo ontologico, cioè verso
una visione che conduce, coscientemente o incoscientemente, direttamente o
indirettamente, ad un concetto d'identità di due «parti» che non si devono
considerare che analoghe.

Questo concetto annulla ogni distinzione di ordine, di essenza e di linguaggio. E


accade un fatto strano, solo apparentemente strano: questo rigetto o oblio
dell'analogia comporta intrinsecamente la negazione di ogni principio di
oggettività e di ogni principio di verità eterna.

Ora l'analogia è una realtà oggettiva perché fuori da ogni altra accezione del
termine, manifesta nella mente in modo funzionale i due ordini della realtà,
come la Rivelazione ce l'ha svelata: l'ordine detto «naturale» e l'ordine detto
«soprannaturale».

Si può fare riferimento alla comunione tra i due ordini, che si realizza nello
stato d'orazione e in quello d'estasi, stati in cui il pensiero sembra essere in
recettività passiva e riceve senza una specifica azione dell'anima le
comunicazioni e l'operazione di Dio. Ma anche nello stato di abbandono e di
adorazione, la comunione si realizza in seno al mistero della carità, nell'intimo
dell'intelletto; cioè nell'intimo dell'anima intelligente per mezzo di percezioni, di
nozioni o di immagini di un'estrema finezza, delicatezza e trasparenza, che non
si situano però al di fuori del carattere fondamentale dell'intelletto che è
analogico.

La natura umana riceve tutto ciò che può ricevere nella sua struttura
intelligente, a volte con una grandissima capacità di corrispondenza o
d'adattamento alla nozione, alla cosa, all'essere percepito e ricevuto; senza
che ci sia, a causa di questo, una trasmutazione dell'essenza della creatura
pensante. Lì agisce il principio dei limiti del suo ordine di creazione, limiti di
ordine che la purificazione perfetta e la beatitudine della visione di Dio non
annullano.

Si può fare ancora riferimento alla promessa e alla lunga nostalgia dell'uomo di
vedere l'essenza di Dio. Ora è certo, secondo molti testi della Scrittura (12),
che:

«Nella partecipazione alla divinità consiste la vera beatitudine dell'uomo e il


fine della vita umana».(13)

«Infatti, dice San Paolo, possediamo la scienza ed abbiamo la profezia in modo


ben imperfetto, e quando verrà ciò che è perfetto, l'imperfetto sparirà... Noi
vediamo ora, come in uno specchio, in un'ombra; allora invece vedremo faccia
a faccia». (14)

Tutte le parole della promessa circa la visione beatifica riguardano l'anima dei
beati dopo il pellegrinaggio terrestre. Non si può concepire per l'anima, finché
vive nello stato attuale, sulla terra, nella vita della carne mortale, la possibilità
di vedere l'essenza di Dio. (15)

E questo è il punto principale del discorso: l'anima umana quando sarà nella
beatitudine, vedrà l'essenza di Dio non per immagini create, ma per un
intervento di Dio che illumina l'intelligenza del beato. L'anima umana non può
vedere direttamente l'essenza di Dio sin da questa vita.

Quando San Giovanni dice che «nessuno ha mai visto Dio; Dio unigenito, che è
nel seno del Padre, egli stesso lo ha rivelato (spiegato) » (16), non dice,
parlando del Cristo, che soltanto lui, il Figlio, l'ha visto; dice che il Figlio che è
nel seno del Padre, l'ha rivelato. Ha rivelato con la Sua Persona il Padre, la Sua
propria Persona e lo Spirito Santo. Il Figlio-Dio ha rivelato la divinità della
Santissima Trinità. Ora il problema dell'intelligenza di Cristo, della visione della
divinità da parte di Gesù Cristo, è un problema ben al di sopra di quello della
visione dell'essenza di Dio da parte dei beati.

E né si può trovare nella stessa Scrittura, nella Tradizione o in un pensiero in


armonia con queste fonti, un indizio che il pensiero umano - almeno fino alla
grazia della visione beatifica, cioè almeno fino al momento in cui la luce divina
pone l'essenza divina nella nostra luce - sia trasmutato, perdendo così un
carattere essenziale come quello dell'analogia.

Se dunque si vuole violare questo limite di ordine di cui abbiamo parlato sopra,
si perde il fondamento interiore del linguaggio. Tutte le parole: «Dio»,
«Creazione», «finito» e «infinito», «unità» e «molteplicità», «tempo» e
«eternità», «immagine» e «senso», ecc. non possono più avere un senso
rispondente al reale, né un carattere universale, multiforme ma universale; il
linguaggio non ha più riferimento, e l'uomo cade in un soggettivismo assoluto,
che in fondo corrisponde ad una specie di nichilismo totale.

Per una maggiore semplificazione, si può dire che la nozione di analogia


significa che il pensiero umano, riflettendo le cose divine rivelate, corrisponde
in parte alla realtà superiore e ne esprime la verità, e corrisponde in parte alla
realtà naturale, «inferiore» in rapporto alla prima e ne esprime la verità; non si
tratta in realtà di due parti, si tratta di due corrispondenze di cui la
simultaneità nel pensiero umano apporta una conoscenza, e qui si trova il
segno della distinzione degli ordini.

L'uomo, il pensiero umano può senza fine elevarsi verso una percezione più
immediata, più diretta delle realtà, divine ed eterne. Questo perfezionamento,
però, non può mai raggiungere per identità l'infinità di Dio di cui cogliamo il
mistero, potendolo vivere sempre più a seconda della pace acquisita e della
nostra nostalgia di pace e di amore eterno.

Così è per quanto concerne il pensiero umano; più oltre, sta l'immenso mistero
della potenza, della saggezza di Dio; il mistero immenso dell'Essere che è luce
increata e carità infinita. Per questo, San Tommaso dice giustamente:

«Se colui che vede Dio concepisce di Lui qualcosa nel suo pensiero, questo non
è Dio stesso, ma semplicemente un effetto divino». (17)

***

Su queste basi riguardanti l'intelletto, si deve fondare il primo criterio


teologico. Il criterio è certamente il mezzo, il punto di riferimento attraverso
cui si giudica. Il criterio teologico non concerne soltanto il metodo né soltanto
l'essenza; concerne il metodo e l'essenza. Il criterio teologico è un riferimento
permanente sempre presente, in mezzo ad ogni cultura, ad ogni abitudine e ad
ogni spinta istintiva; un riferimento dato direttamente dalle fonti della
Rivelazione o, dopo, dagli eredi confermati da essa e in completa armonia con
la stessa; in armonia cioè con il contenuto della Rivelazione. Ora ci si può
chiedere: qual è il criterio teologico per cui posso dire che il Verbo si è fatto
uomo?

Si dovrebbe poter dare a questa domanda una risposta semplice e capace di


soddisfare ogni coscienza ed ogni retta ragione; una risposta che renda
immediatamente presente la fonte in cui lo spirito spontaneamente trova il
riferimento e la verità immutabile rivelata da Dio.

Non si possono però chiudere gli occhi davanti ad un fenomeno di


un'importanza capitale per la vita dei cristiani e di conseguenza per tutti gli
uomini. Le parole, le più ricche di senso, le parole consacrate da Dio, dalla vita
e dalla parola degli Apostoli, dalla vita e dalla parola dei Santi, hanno, più o
meno, cessato di essere per molte persone punti di riferimento in sé, sicuri e
garanti della pace nel pensiero e nella coscienza; le parole hanno cessato di
essere punti di riferimento viventi, con tutta l'unzione del mistero che
comportano ed esprimono.

Le parole continuamente ripetute che esprimono verità stabili, fondamentali e


controllate, una volta per sempre dalla Rivelazione nella fede, sono ascoltate e
trattate da alcuni con diffidenza o indifferenza come se si trattasse di nozioni
superate e a volte anche con disprezzo e con un desiderio accanito di andar
oltre non solo ai vocaboli, ma alla stessa parola, cioè alle nozioni e ai sensi che
essa «incarna».

Spesso si vedono persone, anche molto dotate, prese dalla vertigine della
«ricerca perpetua», che sentono sempre meno il bisogno di stabilità, il bisogno
di punti di riferimento immutabili, come le parole, i vocaboli e le formule
consacrate dalla Rivelazione nella vita profonda della Chiesa.

Se dunque qualcuno chiede: «qual' è il criterio teologico per cui posso dire che
'il Verbo s'è fatto uomo'?», la risposta semplice a questa domanda non viene
ormai facilmente allo spirito di molti; ma debbo potergli dire, con la certezza e
la gioia di trasmettere una risposta garantita da Dio, una parola «generata»
dalla Rivelazione in seno alla Chiesa: puoi dire che 'il Verbo si è fatto uomo',
perché ciò è consegnato e formulato nel Simbolo della fede: «et incarnatus est
de Spiritu Sancto». Ecco amico, l'essenza del tuo criterio teologico.

Spesso, tuttavia, questa risposta semplice e di profonda verità è considerata


come non corrispondente ad un'esatta intelligenza della Rivelazione e del
mistero della Salvezza. Anche in seno alla Chiesa, il riferirsi al Credo come ad
un criterio fondamentale di verità, è ora considerato ingenuo ed estraneo alle
vie di conoscenza oggettive per l'uomo. Infatti, il principio e i fatti della
Rivelazione sono stati «torturati» da interminabili prestidigitazioni di
linguaggio.

Questo tentativo di deformazione del mistero della Rivelazione si è verificato


più volte nella Chiesa, sin dai primi tempi, ma ad ogni epoca con argomenti un
po' diversi e vocaboli modificati. Oggi assistiamo allo sforzo sfrenato di trattare
gli argomenti più sublimi della Rivelazione e della Salvezza, con vocaboli
forzati, talvolta con linguaggi di un'astrazione artificiale, che in fondo li
allontanano dalla parola derivata dal Verbo eterno e dalla vita della Chiesa.

Malgrado, però, tutte le contestazioni e tutte le prestidigitazioni del linguaggio,


è sempre certo nel cuore della Chiesa: primo, che quello che si può chiamare
criterio teologico è fondato sulle fonti, radicato nelle fonti, e sorto dalle fonti
della Rivelazione; secondo, che abbiamo due canali, chiamati anche fonti: la
Scrittura e la Tradizione, attraverso i quali la Sorgente unica di ogni verità e di
ogni vita si è rivelata e la sua rivelazione giunge fino a noi.

All'inizio del Concilio Vaticano II, si verificò un fatto dolorosissimo: si tentò di


negare una delle fonti della Rivelazione, dicendo che la Sorgente era unica.
Appunto perché la Sorgente della Rivelazione è unica, se uno dei canali viene
ignorato, la comunione con la sorgente unica è alterata o ostruita, o ignorata;
se una delle fonti è chiusa, significa che la via dell'unica sorgente è ostruita.
Per questa ragione, il Concilio ha dichiarato:

«La sacra Tradizione e la sacra Scrittura sono dunque strettamente tra loro
congiunte e comunicanti. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina
sorgente, esse formano in certo qual modo una cosa sola e tendono allo stesso
fine. Infatti la sacra Scrittura è parola di Dio in quanto è messa per iscritto
sotto l'ispirazione dello Spirito divino; la parola di Dio affidata da Cristo Signore
e dallo Spirito Santo agli Apostoli, viene trasmessa integralmente dalla sacra
Tradizione ai loro successori, affinché questi, illuminati dallo Spirito di verità,
con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la
diffondano; accade così che la Chiesa attinge la sua certezza su tutte le cose
rivelate non dalla sola sacra Scrittura. Perciò l'una e l'altra devono essere
accettate e venerate con pari sentimento di pietà e rispetto». (18)

Malgrado la confusione senza fine delle vedute contraddittorie e delle


osservazioni sofisticate, e malgrado il multiforme attacco secolare contro la
stabilità del nostro riferimento alla Rivelazione, il profondo significato delle due
fonti resterà radicato nella coscienza della Chiesa, perché appartiene alla
comprensione che la Chiesa ha avuto ed ha della Rivelazione. D'altronde, è
inconcepibile pensare che la Tradizione, la vita della Chiesa, nella sua
profondità dei primi anni, si sia alterata nella sua essenza, appena furono
scritti i libri del Nuovo Testamento. Se la vita della Chiesa ormai non portasse
in sé stessa e non trasmettesse più verità certe rivelate, rivelate per la sua
parola vivente e la sua vita, la Scrittura sarebbe inutile, perché allora sarebbe
incompresa. La «lettera» non sarebbe andata lontano senza lo spirito che la
comprenda. E tale spirito è l'anima della Chiesa, nella quale è iscritta sin
dall'origine la parola di Dio.

Ma non si tratta soltanto del fatto di comprendere la Scrittura. Il problema è


più profondo. Colui che nega alla Tradizione il suo carattere di fonte perde, de
facto, la realtà esatta della Scrittura. Colui che relativizza l'una, relativizza
anche l'altra; c'è a volte una relativizzazione dei fatti, per mezzo della critica
razionalista trascendente, peggiore della semplice e franca negazione. (19)
Pretendere per esempio, da un lato che «la Scrittura è praticamente l'unica
fonte materiale della fede», e dall'altro, che «la tradizione non è esclusa»(20),
equivale a negare alla Tradizione il suo carattere intrinseco di canale (fonte)
originario della Rivelazione. E questa minimizzazione della Tradizione è di
grandissimo impedimento per percepire in tutta la sua ampiezza ed in tutta la
sua profondità ciò che Dio ha voluto rivelarci.

Certamente, nessuno contesta che per arrivare agli scritti del Nuovo
Testamento, ci sia stata una trasmissione orale e di vita, dal Cristo e dalla
Pentecoste fino ai Vangeli e alle Lettere degli Apostoli, ma si contesta che la
Tradizione, dopo gli scritti del Nuovo Testamento, abbia conservato il suo
carattere e la sua natura di fonte originaria della Rivelazione. Mentre la
Tradizione e la Sacra Scrittura non sono due vie di trasmissione impiegate
indifferentemente dal Signore.

Queste due vie, le due fonti, per mezzo delle quali la Rivelazione è compiuta e
si trasmette fino alla fine dei tempi, corrispondono alla realtà più profonda
della natura umana. L'uomo vive con il suo apporto interiore sia come persona
sola e sia come unito e vivente con gli altri; vive in seno ad un universo ove
ogni essere ed ogni esistenza è al tempo stesso segno e linguaggio. Dall'inizio
è entrato nella storia per la parola di Dio, vive in una perenne interdipendenza
tra il suo apporto interiore e il segno delle cose. Da questa realtà intrinseca
dell'uomo dipendono la necessità e il mistero delle due vie per mezzo delle
quali Dio si è rivelato e la Rivelazione resta vivente.

L'uomo non può avere l'intelligenza, sia del linguaggio della natura, sia della
parola degli uomini, sia della parola ispirata se non in relazione alla parola che
porta in sé sin dall'origine, e che si trasmette e si arricchisce. Con il Cristo,
questa parola d'origine è la Rivelazione compiuta. La presenza di Cristo e la
sua parola costituisce la rivelazione ricevuta dagli Apostoli, trasformati
fondamentalmente da essa. Gli Apostoli hanno trasmesso la Rivelazione, non
come una lezione appresa che può essere dimenticata ma come un apporto
vivente; l'hanno trasmessa a loro volta come presenza e parola inalterabile che
sviluppava la Chiesa. Questa stessa verità fu consegnata per ispirazione divina
nello Scritto, e questo Scritto sarebbe lettera muta senza l'apporto della verità
che l'uomo della Chiesa porta vivente in sé.

Per questo ogni fonte ha una funzione particolare intrinseca direttamente


legata all'altra, e nello stesso tempo alla Sorgente unica che conserva vivente
nell'uomo la verità unica. Ogni via ha, dunque, una missione intrinseca nei
confronti dell'altra; e questa missione non può essere sostituita alla missione
dell'altra. È la realtà misteriosa ed insieme evidente delle due fonti, il mistero
profondo della vita della Chiesa e dell'eterna Saggezza di Dio. E malgrado la
vastità e le abilità del linguaggio esteriore umano, non si potrà mai mutilare o
soffocare definitivamente la verità che la Chiesa porta in sé sin dall'inizio.

Molti leggendo queste righe potrebbero restare perplessi davanti alla fallibilità
degli uomini, davanti a tante inadeguatezze ed errori, davanti alle persone che
hanno ed hanno avuto fra loro, in tutta la storia della Chiesa, una grande
diversità di opinioni sui problemi fondamentali, e che, malgrado questo, per
funzione e per legame sacrale con il Cristo, costituiscono il Magistero della
Chiesa.

In un tempo in cui tutte le nozioni, tutti i concetti sono stati rimessi in


questione, contestati, rivisti, riesaminati, era inevitabile che la nozione ed il
principio del Magistero fossero colpiti e gravemente alterati nella coscienza di
molti. Non è ancora giunto il momento di esaminare in tutta la sua estensione
questo problema, così importante per molte ragioni e particolarmente per
quella del criterio teologico. Se si vuole, però, penetrare nella più profonda
oggettività della realtà e della storia della Chiesa, non bisogna mai dimenticare
una verità: Cristo non ha affidato la trasmissione del sacro deposito alla
relatività e all'instabilità dell'uomo storico. Appunto per liberarlo da questa
instabilità e relatività, Egli si è incarnato, ha subito la Passione e fondato la
Chiesa per la Redenzione. Gesù Cristo ha affidato la trasmissione del sacro
deposito alla sua presenza perenne nell'«opera della trasmissione», cioè nella
sua Chiesa in quanto docente. E per questo, attraverso tutte le vicissitudini e
fluttuazioni personali o dell'intero corpo della Chiesa, e malgrado ogni
confusione di idee e di concetti, per lunghi periodi, il sacro deposito è stato
sempre trasmesso nella sua immutabile verità, e lo sarà fino alla fine dei
tempi.

Non sono le scosse, più o meno violente e profonde, nel corpo dei successori
degli Apostoli che potranno prevalere su questa garanzia di verità, che Cristo
ha dato alla Chiesa.

Le grandi prove ed il travaglio che accompagnano la Chiesa sin dall'inizio sono


- nel mistero dell'iniquità - il compimento del suo cammino escatologico e della
sua missione salvifica. I percorsi provvidenziali del cammino sfuggono
all'intelligenza umana; ed in questo cammino provvidenziale, missionario ed
escatologico, i successori degli Apostoli, questi uomini fallibili ed incerti,
costituiscono per grazia e attraverso le prove, lo strumento della trasmissione
veritiera del deposito; costituiscono l'istituzione della Chiesa docente, il
Magistero autentico, ed in quanto autentico, infallibile.

Quando si dice che la Sacra Scrittura «deve rendere testimonianza all'intera


fede della Chiesa» (21), si dice il vero; ma ciò significa che la Sacra Scrittura
testimonia sull'apporto della Tradizione, come la Tradizione testimonia
sull'origine ed il contenuto della Sacra Scrittura.

La Tradizione non è soltanto «la testimonianza della coscienza di fede della


Chiesa» (22); la Tradizione, l'abbiamo detto, trasmette per parola e vita, la
verità di Cristo, ricevuta attraverso la sua vita, la sua bocca, attraverso lo
Spirito Santo; attraverso la bocca degli Apostoli, la vita, la preghiera e gli atti
degli Apostoli; attraverso la bocca, la preghiera e gli atti dei successori
autentici degli Apostoli; cioè, attraverso tutto ciò che è assistito e illuminato
dallo Spirito Santo nell'intera vita della Chiesa.

Non si può dire: «se e nella misura in cui la tradizione è testimonianza della
coscienza di fede della Chiesa e della dottrina del Magistero». Cosa significa
«se e nella misura»? Nella Chiesa non si può parlare di una tradizione che,
secondo una più o meno grande probabilità, sarebbe testimonianza della
«coscienza» di fede della Chiesa, perché la Tradizione è una norma autentica
per la vita dottrinale e la pietà della Chiesa intera; e in questo senso, è anche
una norma autentica per spiegare la Scrittura.

E quando si dice che «l'unità dell'oggetto della fede rende inammissibile


l'ipotesi di due trasmissioni della fede materialmente diverse» (23), si
formulano norme gratuite.

Innanzi tutto, quali cose sono materialmente diverse? Sono diversi i mezzi
delle due trasmissioni, o è diverso il contenuto? Chi ha mai sostenuto che la
Sacra Scrittura e la Tradizione trasmettono una fede diversa, per poter dire
che «l'unità dell'oggetto della fede» è in pericolo per questa differenza
materiale di trasmissione? Come può l'unità di un fiore essere in pericolo
quando è ricevuto nell'intelligenza simultaneamente per mezzo della vista,
dell'odorato, e del tatto? Affacciare tali proposizioni è veramente perdere il
contatto con la realtà della Rivelazione e della vita intima della Chiesa.

A volte, con estrema sagacità di analisi, hanno creduto di vedere nei testi del
Concilio Vaticano II una volontà di mostrare una «supremazia della sacra
Scrittura» (24) sulla Tradizione. Ciò però non corrisponde affatto né allo spirito
né alla lettera dei testi del Concilio, molto chiari e molto espliciti a proposito
della Rivelazione. Il P. J. Alfaro (25), per esempio, sostiene che il Concilio ha
dichiarato che solo la Sacra Scrittura è parola di Dio (locutio Dei), mentre la
Tradizione è semplicemente trasmissione della parola di Dio (26); e per
sostenere questa accezione, si riferisce ad alcuni brani come il seguente della
Costituzione del Concilio sulla Rivelazione:

«Il Magistero non è superiore alla parola di Dio, ma ad essa serve, insegnando
soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con
l'assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e
fedelmente espone quella parola». (27)

Come si può, quindi, concludere che «queste parole proclamano la supremazia


della parola di Dio, della sacra Scrittura» sulla Tradizione? Da queste parole,
anche se isolate, emerge nettamente che il Magistero insegna la parola di Dio,
e con l'assistenza dello Spirito Santo la custodisce santamente e fedelmente,
avendola ricevuta piamente. Con pietà e santità si deve ascoltare e leggere,
ripetere le parole ascoltate e stampare la parola manoscritta. Basta rivedere i
testi fondamentali del Concilio sulla Rivelazione per comprendere chiaramente
che ogni nozione di supremazia dell'una o dell'altra fonte è esclusa; anzi, il
Concilio, sotto la mozione dello Spirito Santo, previene ogni errore possibile su
questo argomento:

- «La sacra Tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito


della parola di Dio affidato alla Chiesa.»(28)

- «L'ufficio d'interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa è


affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel
nome di Gesù Cristo.» (28)

- «È chiaro dunque che la sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il Magistero


della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente
connessi e congiunti, da non poter indipendentemente sussistere, e tutti
insieme, secondo il proprio modo, sotto l'azione di un solo Spirito Santo,
contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime». (28)

- «Gli apostoli perciò, trasmettendo ciò che essi stessi avevano ricevuto,
ammoniscono i fedeli di attenersi alle tradizioni che avevano appreso sia a voce
che per lettera». (29)

- «La sacra Tradizione trasmette integralmente la parola di Dio, affidata da


Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli Apostoli, ai loro successori». (30)

- «La Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola
Scrittura. Perciò l'una e l'altra devono essere accettate con pari sentimento di
pietà e riverenza». (30)

Dopo tali enunciati, non c’è posto per speculazioni che mettano in dubbio
l’uguaglianza e l'unità delle due fonti della Rivelazione.

Se dunque in altri testi del Magistero, come per esempio nel decreto del
Concilio Vaticano II sulla formazione sacerdotale, si trova un'insistenza sulla
necessità di studiare e di servirsi della Scrittura per la teologia e per la
formazione spirituale, ci si deve rallegrare perché la parola di Dio è esaltata,
ma occorre sempre avere nella mente e nel cuore la verità totale, come fu
portata e vissuta nella Chiesa, espressa numerosissime volte nella lunga storia
della Chiesa, e come è manifestata nell'insieme dei testi del Concilio
riguardante la Rivelazione o la teologia:

«La sacra teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio
scritta, insieme con la sacra Tradizione». (31)

Se la tradizione orale e vissuta, giunta fino alla scrittura del Nuovo


Testamento, non avesse potuto più trasmettere con la stessa garanzia ciò che
aveva trasmesso fino a quel momento, attraverso quale mezzo avrebbe colto
nel futuro il mistero che la Scrittura significava? Come si costituisce una norma
«normans» per poter giudicare, in mezzo alle diverse interpretazioni della
Scrittura che s'incontrano nel mondo cristiano? Dove sarebbe la Chiesa, cosa
sarebbe divenuto il deposito della fede, se una verità fondamentale rivelata e
trasmessa, sin dall'origine, attraverso la via della vita e della parola della
Chiesa, non mantenesse vivo in seno a tutte le interpretazioni contraddittorie e
alle controversie umane, questo contenuto della Rivelazione consegnato nella
Sacra Scrittura?

Il problema delle due fonti non è una questione di discussione accademica.


Rifiutare il carattere di fonte perenne alla Tradizione comporta una profonda
alterazione nel modo di riferirsi alle verità essenziali, cosa che attenta più o
meno direttamente al contenuto essenziale della Rivelazione, e di conseguenza
al contenuto della trasmissione, per mezzo della vita e della pietà, della
Rivelazione stessa di Dio su Lui stesso e sulla Salvezza.

C'è, però, una verità consolante: anche se qualcuno nega una verità come
quella delle due fonti che manifestano la rivelazione della Sorgente unica, ciò
non significa che questo uomo non subisce, positivamente o negativamente, la
verità giunta a lui per mezzo dell'immutabile unità della Tradizione e della
Sacra Scrittura. È come un uomo che nega o odia Dio: nondimeno, egli vive
grazie alla Saggezza, all'Onnipotenza e Bontà di Dio.

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CARATTERISTICHE GENERALI DEL MOVIMENTO TEOLOGICO

Se il nostro amore per la verità ci rende liberi da ogni pregiudizio e ci pone in


armonia con i principi e gli insegnamenti fondamentali derivati dalle fonti della
Rivelazione, possiamo discernere alcune caratteristiche generiche del
movimento teologico del nostro tempo. Per cogliere la sua realtà, non basta
l'esame di tutta la produzione stampata che si definisce - giustamente o
ingiustamente - teologica. Certamente i saggi, le opere specializzate, le opere
a carattere generale, ed inoltre le riviste specializzate o quelle che accolgono
nel loro programma l'argomento teologico, rappresentano più o meno il
movimento detto «teologico». Questo però, costituisce una rappresentazione
che può essere incoerente e caotica, se manca un criterio attraverso cui si
possa discernere il valore in sé degli scritti, ed il loro valore come influenza sul
popolo della Chiesa.

C'è poi la trasmissione, l'insegnamento orale, l'interpretazione dei testi e degli


insegnamenti che il culto manifesta nelle sue forme nuove, sia legittime, sia
estranee alla volontà e allo spirito della Chiesa. In mezzo a tutto ciò e con tutto
ciò si è incitati a discernere i dati e le caratteristiche del movimento teologico,
molto esteso e pieno di contraddizioni.

Appaiono, subito, nel movimento due correnti principali: da una parte,


un'attività multipla che tende a conservare, più o meno fedelmente, la dottrina
professata dalla Chiesa; dall'altra, un'attività molto perseverante che tende a
superare ogni limite ed ogni ostacolo stabilito fino allora dall'insegnamento e
dal culto della Chiesa. Da una parte la resistenza più o meno energica, più o
meno intelligente, ed anche più o meno giusta, alle nuove tendenze di
trasformazione radicale dell'insegnamento e della vita spirituale nella Chiesa;
dall'altra, uno sforzo di affrancamento da ogni esigenza di ordine
soprannaturale riguardo alla percezione della verità e alla salvezza.

È necessario, per approfondire le cose e gli avvenimenti, di non dimenticare


mai che ciò che è, deriva da ciò che era. Si può pensare senza errore che la
parola di Cristo circa cose «nuove e vecchie» può applicarsi, in un certo modo,
tanto per il bene quanto per il male, tanto per la salita quanto per la discesa.
Certo quando si vogliono esaminare le cose nuove e recenti, non si può, per
meglio cogliere la realtà dei fatti, ripercorrere ogni volta tutta l'interminabile
serie di avvenimenti, tutte le correnti fino all'origine. È impossibile risalire tutto
il corso della storia ogni volta che si vuole studiare una manifestazione
contemporanea, perché bisognerebbe ritornare costantemente ad Adamo.
Tuttavia è necessario che questo lungo percorso, con i suoi alti e bassi, sia
sempre presente nella nostra coscienza e sempre illuminato dai dati
fondamentali della Rivelazione, per giudicare e comprendere ogni realtà nuova.

Infatti solo e sempre alla luce dei principi fondamentali della Rivelazione, si
possono cogliere i motivi reali e le cause profonde che legano il passato alle
nuove manifestazioni. Senza questo, e al di fuori di questa luce, non si
potranno mai discernere le vere cause dalle apparenze.
Va qui confessato con molta semplicità e chiarezza che una parte, grande o
piccola, delle opere presentate come teologiche, è sprovvista di vero criterio
teologico, e quindi i giudizi, i pareri, i postulati sono senza conseguenza, senza
reale legame logico, dunque senza verità.

In ogni caso, in seno alla corrente che tende all'affrancamento totale, appaiono
simultaneamente: una ripresa pura e semplice del razionalismo protestante del
secolo scorso, ed una rottura con ogni barriera di ordine teologico ed anche
filosofico. E questa rottura, questa volontà di affrancamento totale si verifica
sia tra i teologi protestanti sia in seno alla Chiesa Cattolica.

Quali possono essere le cause di questa singolare tendenza del movimento


teologico? Se è difficile reperire le cause nella loro multipla origine e natura, è
tuttavia possibile reperire i caratteri particolari di ogni tendenza.

Ora, prima di ogni altra manifestazione, si delinea una mentalità che esprime
un ritorno all'eresia pelagiana. Circa quindici secoli fa, Pelagio con il suo
discepolo Celestius, ha messo alla prova la Chiesa. All'inizio il Papa Innocenzo
I, detto «Il Grande», non si era accorto del pericolo. I vescovi orientali si
avvidero della pericolosa eresia, e riunendosi in Concilio, la condannarono; e
solo allora Roma se ne rese conto, e Pelagio fu di nuovo condannato.
Seguirono poi le differenti prese di posizione, soprattutto nei due Concili
provinciali di Cartagine - che da un certo punto di vista hanno valore di Concili
generali; a seguito di essi ci fu la condanna promossa dal Concilio d'Orange.

Dopo quindici secoli, durante i quali qua e là, l'uno o l'altro errore di Pelagio si
manifestava esplicitamente o implicitamente nella vita dottrinale della Chiesa,
assistiamo ad una apparizione, sottile ed evidente insieme, della dottrina,
secondo cui non esiste peccato originale, secondo cui l'uomo può vivere senza
peccato con le proprie forze e senza l'aiuto della grazia. È noto che Pelagio e i
Pelagiani hanno voluto far dipendere ad ogni costo la salvezza dell'uomo da lui
stesso, e per le stesse ragioni hanno considerato la grazia - questa grazia
costretti a riconoscere - come dipendente dai meriti dell'uomo. Si sa fino a qual
punto la difesa e il culto di una falsa concezione della libertà umana hanno
condotto Pelagio e i suoi seguaci ad un errore capitale, ad un oscurantismo e
ad una deformazione degli scritti dei Padri.

Accanto a questa eresia di esaltazione dell'uomo, appare anche l'errore ancora


più vecchio, secondo cui il Figlio di Dio era una creatura, errore che colpiva
profondamente la concezione della Santissima Trinità e la realtà del Redentore.
Ario ha avuto una grande influenza, ma la verità è stata sempre preservata e
l'errore messo a nudo; così la Chiesa proclama durante la Santa Messa, nel
Credo, l'eterna verità del Figlio di Dio.
Un terzo carattere della tendenza che come ultima conseguenza, conduce
all'affrancamento totale di cui abbiamo parlato, è quell'insieme di pensiero
costituente il modernismo, che San Pio X ha condannato fermamente e voluto
estirpare dalla vita della Chiesa. Ma questo non fu pienamente realizzato,
perché le tendenze moderniste sono sopravvissute più o meno apertamente, e
in uno stato latente. Il modernismo, ora come all'inizio del secolo, con parole e
sfumature nuove, all'inizio implicitamente ed esplicitamente dopo, offende il
principio della Rivelazione, che è sostituito dalle elaborazioni del «senso
religioso» nel subcosciente.

Oggi, forse più che all'origine, il modernismo spinge verso un agnosticismo


quasi «trascendentale» e verso un «evoluzionismo dogmatico» in modo da
distruggere ogni nozione di oggettività nella Rivelazione e nella conoscenza
acquisita.

Ecco come il Santo Padre Paolo VI vede la rinascita del modernismo:

«La Rivelazione è un fatto, un avvenimento, e nello stesso tempo un mistero,


che non nasce dallo spirito umano, ma è venuto da un'iniziativa divina, la quale
ha avuto molte manifestazioni progressive, distribuite in una lunga storia,
l'Antico Testamento, ed è culminata in Gesù Cristo (cfr. Eb. 1, 1; 1Gv. 1, 2-3;
Cost. del Concilio «Dei Verbum», n. 1). La Parola di Dio è così finalmente per
noi il Verbo Incarnato, il Cristo storico e poi vivente nella comunità a Lui
congiunta mediante la fede e lo Spirito Santo, nella Chiesa, cioè il suo Corpo
mistico.

«Così è, Figli carissimi; e così affermando, la nostra dottrina si stacca da errori


che hanno circolato e tuttora affiorano nella cultura del nostro tempo, e che
potrebbero rovinare totalmente la nostra concezione cristiana della vita e della
storia. Il modernismo rappresenta l'espressione caratteristica di questi errori, e
sotto altri nomi è ancora d'attualità (cfr. Decr. «Lamentabili» di S. Pio X, 1907,
e la sua Enc. «Pascendi»; Denz. Sch. 3401, ss.).

«Noi possiamo allora comprendere perché la Chiesa cattolica, ieri e oggi, dia
tanta importanza alla rigorosa conservazione della Rivelazione autentica, e la
consideri come tesoro inviolabile, e abbia una coscienza così severa del suo
fondamentale dovere di difendere e di trasmettere in termini inequivocabili la
dottrina della fede». (32)

Questi tre orientamenti caratteristici, ariano, pelagiano e modernista, si


trovano combinati più o meno coscientemente, con più o meno sottigliezza ed
anche a volte astuzia, in un amalgama speculativo senza contorno preciso e
senza riferimenti fondamentali, che serve di base per una precipitazione verso
l'umanizzazione integrale di tutta la religione. Questo amalgama costituisce
una specie «d'iniziazione» nuova di origine protestante, che si fa sentire in tutti
i campi e in tutti gli ambienti. Molto significativa, per esempio, è la reazione del
teologo protestante Oscar Cullmann (33), osservatore luterano al Concilio
Vaticano II:

«Se mi è permesso, come protestante, di fare questa costatazione, direi che da


allora (il Concilio Vaticano II) certi ambienti cattolici, ben lungi dal lasciarsi
ispirare dalla necessità di osservare i limiti dell'adattamento che non vanno
superati, non si accontentano di cambiare le forme esteriori, ma prendono le
stesse norme del pensiero e dell'azione cristiana, non dal Vangelo, ma dal
mondo moderno. Più o meno inconsciamente, seguono così i protestanti, non
in ciò che hanno di migliore, la fede dei Riformatori, ma nel cattivo esempio
che loro offre un certo protestantesimo, detto moderno. Il grande colpevole
non è il mondo secolarizzato, ma il falso comportamento dei cristiani riguardo
a questo mondo, l'eliminazione dello «scandalo» della fede. Si ha «vergogna
del Vangelo». (Rom. I, 16)». (34)

____________________________________

PRINCIPI ETERNI E PUNTI DI RIFERIMENTO TEMPORALI PER LA


COMPRENSIONE DEL MOVIMENTO TEOLOGICO ATTUALE

Se ci si trova in un punto della circonferenza e si vuole percorrerla per intero,


si può partire indifferentemente da destra o da sinistra; in ogni modo, infatti,
occorrerà percorrere la stessa distanza. Se ci si trova però davanti, o piuttosto
all'interno di un immenso gomitolo di filo estremamente intricato, e i cui due
capi si perdono, l'uno in un lontano passato inaccessibile sperimentalmente, e
l'altro in un sempre lontano futuro sconosciuto, cioè all'origine e alla fine della
storia, è inutile voler seguire tutto il percorso del filo per conoscere in
profondità le cause ed i fatti di un certo presente. È necessario tuttavia poter
stabilire qualche punto di riferimento. Ora la Rivelazione, con la santa logica
nella carità, ci dà sempre validi principi per tutto il cammino in qualsiasi tempo
e a proposito di qualsiasi gruppo di fenomeni e di fatti. Questi principi ci
aiutano, sia nella nebbia delle ideologie, sia nel filone storico generale,
infinitamente intricato, a stabilire riferimenti di verità, per conoscere nella
verità ed elevarsi verso la Verità eterna.

Questi punti di riferimento possono essere uomini, fatti isolati, o le forze e gli
orientamenti intimi dei movimenti di massa. Si ha bisogno di tali riferimenti per
discernere e constatare il fondamento delle manifestazioni di un determinato
tempo e il loro vero orientamento. La moltitudine di aspetti, di punti di
partenza, di indagini, di speculazioni e di sistemi, nella storia del pensiero e dei
fatti, non cambia per niente questa verità: ci sono principi fondamentali,
sgorgati dalla Rivelazione e su di essa fondati, che permettono di trovare
sempre, in mezzo ad ogni confusione e ad ogni disordine, la via dell'oggettività
santa.

Il rapporto tra ordine naturale e ordine soprannaturale

Tre casi significativi:

1 - P. Henri de Lubac

Il rapporto tra ordine naturale e ordine soprannaturale

Se si torna indietro di una quarantina di anni, si vede negli scritti di alcuni


teologi, un rinnovato interesse circa il rapporto tra quello che si chiamava, fino
allora, ordine naturale e ordine soprannaturale. È indispensabile capire che
questo non è un argomento astratto, una speculazione da «dilettante», da non
poter avere conseguenze di lunga portata nel pensiero e nella vita della Chiesa.
Sia in teologia che in filosofia e nella scienza sperimentale, pochi argomenti,
pochi casi sono assolutamente neutri.

Il P. Henri de Lubac (35) aveva formulato in quel periodo considerazioni nuove,


non assolutamente nuove, ma presentate con un linguaggio nuovo e con
applicazioni particolari. Nel 1946 pubblicava il suo libro «Il Soprannaturale»,
ove è espresso tutto il suo pensiero di allora (36). Affermava che l'ordine
soprannaturale è necessariamente implicato in quello naturale. Come
conseguenza di questo concetto veniva fatalmente che il dono dell'ordine
soprannaturale non è gratuito perché è debito alla natura. Allora esclusa la
gratuità dell'ordine soprannaturale, la natura per lo stesso fatto che esiste si
identifica al soprannaturale. Qual'era la ragione addotta? Il ragionamento
fondamentale può essere espresso così: l'atto intellettuale comporta la
possibilità di riferirsi alla nozione dell'infinito e per questo il soprannaturale è
implicato nella natura umana di per sé.

Questa visione della realtà intima ed essenziale dell'uomo era diffusa negli
scritti anteriori del P. de Lubac. Ci sono brani, per esempio nel suo libro
«Cattolicesimo» (37), di cui non si può veramente comprendere il tenore, né
l'insistenza con la quale sono messe in rilievo alcune espressioni bibliche, se
non nello spirito della dottrina più tardi espressa nel «Soprannaturale».
Si resta colpiti dall'insistenza con la quale l'autore vuole dare un significato
particolare all'espressione di San Paolo «rivelare in me il Figlio suo», significato
che sembra andare oltre alla spiegazione ammessa da tutti gli esegeti che
hanno interpretato la parola «in me» (***), esattamente come il Padre M. J.
Lagrange (38).

Il Padre de Lubac scrive:

«Paolo ha pronunciato una tra le parole più nuove e più ricche di significato che
mai siano state pronunciate da uomo, il giorno in cui, costretto a presentare la
propria apologia ai suoi cari Galati per ricondurli sulla retta via, dettò queste
parole: «Ma quando piacque a colui che sin dal seno di mia madre, mi
prescelse e mi chiamò mediante la sua grazia, di rivelare in me il Figlio suo... »
(Gal. 1, 15-16). Non soltanto - qualunque sia il prodigio esteriore di cui gli Atti
degli Apostoli ci hanno trasmesso il racconto - rivelarmi suo Figlio,
mostrarmelo in una visione qualunque o farmelo comprendere oggettivamente,
ma rivelarlo in me. Rivelando il Padre ed essendo rivelato da lui, il Cristo
finisce di rivelare l'uomo a se stesso. Prendendo possesso dell'uomo,
afferrandolo e penetrando fino in fondo al suo essere, spinge anche lui a
discendere in sé per scoprirvi bruscamente regioni fino allora insospettabili. Per
Cristo la persona è adulta, l'Uomo emerge definitivamente dall'universo». (39)

Mentre, come il Padre M. J. Lagrange scrive, «in me ***» significa:

«Per mezzo di una comunicazione intima che ha fatto conoscere a Paolo il


Figlio di Dio, tesoro della sua intelligenza e del suo cuore (Fil. 3, 8). Dando a
«***» il suo significato naturale, si prova nel versetto 16, non un terzo
beneficio di Dio verso Paolo, ma la realizzazione nella sua anima dell'appello
del versetto 15». (40)

Il Padre de Lubac dice che il Cristo rivelando il Padre e rivelato da Lui, finisce di
rivelare l'uomo a sé stesso. Quale può essere il significato di questa
affermazione? O Cristo è unicamente uomo, o l'uomo è divino. Tali conclusioni
possono non essere espresse così nettamente, tuttavia determinano sempre
questa nozione del soprannaturale in quanto implicato nella natura umana di
per sé. E quindi, senza volerlo coscientemente, si apre il cammino
dell'antropocentrismo fondamentale.

In generale l'argomentazione speculativa è condotta come se si escludessero i


principi, le nozioni accettate fino allora come principi fondamentali della fede.
Come concludere con semplicità e logica non artificiosa che il riferimento alla
nozione d'infinito significa automaticamente che l'infinito sia colto?
L'argomento è stato però ripreso venti anni più tardi nel libro «Il Mistero del
Soprannaturale» (41) con sfumature e più preoccupato delle conseguenze che
tali proposizioni possono rappresentare per gli spiriti. È molto grave, infatti,
emettere come principio che il riferimento all'ordine dell'infinito implichi che
l'essenza dell'infinito sia la natura umana.

Nessun sillogismo, sottile e complicato che sia, può colmare la differenza tra la
nozione dell'infinito che l'uomo può avere in lui e la realtà infinita di Dio,
positiva, presunta, sentita e nello stesso tempo inaccessibile; la differenza tra
l'aspirazione verso l'infinito e questo stesso Infinito così come l'uomo lo
concepisce. Certamente si può affermare che l'aspirazione dell'uomo verso
l'eternità esprime la finalità eterna dell'anima creata, la possibilità per l'uomo
di partecipare, nella grazia, a mille illuminazioni della Vita eterna, ma non si
può dire che questa nostalgia implichi che l'uomo esista sin dall'eternità e che
possa possedere la pienezza eterna di Dio. Allo stesso modo, la nozione
dell'infinito, l'aspirazione verso l'infinito esprimono la possibilità per l'uomo di
entrare in contatto continuo con l'infinità di Dio. Non si può dire, però, che
questa aspirazione dell'uomo verso l'infinito significhi che l'uomo possa
partecipare per identità all'infinità divina. In questa aspirazione dell'uomo
verso l'infinito sono sempre presenti la nozione e la certezza dei nostri limiti. Il
nostro cammino può essere interminabile, ma la stessa essenza del nostro
cammino verso l'infinito manifesta la differenza tra la nostra nozione, la nostra
partecipazione e l'Infinito Divino.

Nel 1950, quattro anni dopo la pubblicazione del «Soprannaturale», è stata


emessa dalla Chiesa l'Enciclica di Pio XII «Humani Generis». Ed a proposito di
queste concezioni Pio XII dice espressamente in questa enciclica:

«Alcuni deformano la vera nozione della gratuità dell'ordine soprannaturale,


quando pretendono che Dio non può creare esseri dotati d'intelligenza senza
chiamarli e ordinarli alla visione beatifica». (42)

Indipendentemente dal consenso o dalle critiche sollevate da questa enciclica,


è incontestabile che Pio XII fu il primo a mettere il dito sul punto
estremamente delicato e pericoloso di questa definizione dell'uomo e dei suoi
rapporti con Dio. Se Dio, quando crea, imprime nella creatura ciò che abbiamo
concepito come soprannaturale, allora cambia la nozione di questo
soprannaturale e della gratuità; da cui deriva, malgrado tutti gli sforzi per
professare la gratuità dell'atto creatore di Dio, una moltitudine di
considerazioni sull'uomo, sulla sua libertà, sulla grazia, sui rapporti dell'uomo
con Dio, sulla libertà dell'uomo e sulla libertà di Dio, ecc... Considerazioni che
possono condurre anche come spesso hanno condotto - al capovolgimento dei
principi essenziali della Rivelazione. Facilmente questa nongratuità dell'ordine
soprannaturale - per ogni singolo caso - conduce ad una specie di monismo
cosmico, ad un idealismo antropocentrico.
***

Nel suo nuovo libro «Il Mistero del Soprannaturale», il Padre de Lubac spiega
alcune insufficienze d'espressione del suo primo libro «Il Soprannaturale», ma
sostiene sempre la stessa tesi e vuole soltanto evitare nuovi malintesi. (43)

Egli produce e intreccia, con una sorprendente sagacità, sillogismi e


speculazioni, nello sforzo di equilibrare i due concetti: da un lato il
soprannaturale implicato nella natura sin dalla creazione, e dall'altro la gratuità
del soprannaturale, della grazia. Si preoccupa di respingere l'accusa
dell'«Humani Generis»... Chi ha letto il suo libro si accorge chiaramente di
questa preoccupazione del P. de Lubac e sicuramente formulerà la stessa
domanda, posta dallo stesso P. de Lubac verso la fine del libro: «Per quale
ragione ci dilunghiamo invano su questo argomento con tanti discorsi e
moltiplichiamo inutilmente tante frasi e diciamo una tale moltitudine di parole?
(44)

«Ecco forse, continua de Lubac, quello che più d'un lettore avrà potuto dire,
scorrendo questo lavoro. Ecco, ad ogni modo, quello che l'autore non ha potuto
mancare di domandarsi assai spesso, al seguito d'un discepolo medievale di
Sant'Agostino e di San Tommaso che un giorno s'interrogava in tal modo,
precisamente a proposito del nostro argomento». (45)

Un umile interrogativo; la risposta però che lo stesso P. de Lubac dà più sotto


alla sua domanda lascia perplessi: «La risposta è scritta nella natura della
nostra intelligenza, che non può ricevere la rivelazione divina senza che subito
sorgano in essa mille questioni, che si generano l'una dall'altra. Essa non può
fare a meno di rispondervi. Ma nelle sue spiegazioni, sempre barcollanti, per
quanto avanti sembri andare, sa di non andar mai incontro a terre
sconosciute». (46)

Questa risposta del P. de Lubac rivela i suoi criteri riguardo alle vie della
conoscenza ed anche il suo atteggiamento intellettuale riguardo al grande
problema dei rapporti tra l'uomo e Dio. Questo spiega l'impossibilità di trovare
per questa via l'equilibrio di cui abbiamo parlato ed una conoscenza che, in
armonia con la Rivelazione, con la miseria e la profonda aspirazione dell'uomo,
dia pace. I nostri criteri riguardo alle vie della conoscenza sono veri ed
oggettivi quando scaturiscono e sono in armonia stabile, chiara e immediata
con i grandi dati eterni della Rivelazione.

In ogni caso, il P. de Lubac parla di un «desiderio naturale assoluto» della


visione di Dio. Questa nozione del desiderio naturale assoluto scarta, malgrado
tutti gli sforzi speculativi impiegati, la gratuità del soprannaturale, cioè della
visione beatifica. Ed in questo «l'intelligenza» a cui sopra si riferisce il P. de
Lubac non può essere da sola di grande aiuto. Infatti resta l'antinomia. Essa
resta ed ha avuto conseguenze molto grandi nelle coscienze.

Per rendersi conto dell'orientamento generale del pensiero e del linguaggio del
P. de Lubac e del suo ruolo nella nuova teologia contemporanea, ed anche per
rendersi conto di come resti l'antinomia, di cui abbiamo parlato, basta riferirsi
ad alcune formule e ad alcune affermazioni fondamentali del «Mistero del
Soprannaturale»:

- Primo tipo di affermazioni:

«Il 'desiderio di vedere Dio' non potrebbe essere eternamente frustrato senza
una sofferenza essenziale». (47)

«La vocazione di Dio è costitutiva. La mia finalità, di cui questo desiderio è


l'espressione, è scritta nel mio essere stesso, tale come è posto da Dio in
questo universo. E, per volontà di Dio, io non ho oggi altro fine reale, cioè
realmente assegnato alla mia natura e offerto alla mia adesione - sotto
qualsiasi forma ciò si verifichi - che quello di 'vedere Dio'». (48)

«In altri termini: il vero problema, se ce n'è uno, si pone per l'essere, la cui
finalità è 'già', se si può dire, tutta soprannaturale, poiché tale è, in effetti, il
nostro caso. Si pone per la creatura per la quale la 'visione di Dio' imprime non
soltanto un fine possibile, o futuribile - persino il fine che conviene di più - ma
il fine che, a giudicare umanamente, sembra dover essere, poiché è, per
ipotesi, il fine che Dio assegna a questa creatura. Dal momento che io esisto,
ogni indeterminazione è tolta. E qualunque cosa sarebbe potuto essere prima,
o qualunque cosa esso sarebbe potuto essere in un'esistenza realizzata in
modo diverso, nessun'altra finalità sembra ormai per me possibile che quella
che si trova ora, di fatto, iscritta nel fondo della mia natura. Esiste un solo fine
di cui, per conseguenza, porto in me, consapevole o no, il 'desiderio naturale'».
(49)

E, a questo proposito il P. de Lubac afferma la corrispondenza del suo pensiero


con la dottrina dell'«esistenziale soprannaturale permanente, pre-ordinato alla
grazia» del P. Karl Rahner, di cui parleremo più oltre. (50)

- Secondo tipo di affermazioni:

«Il nostro Dio è 'un Dio che sorpassa ogni capacità di desiderio' (Ruysbroeck).
È un Dio, nei confronti del quale sarebbe blasfemo e folle supporre che alcuna
esigenza di qualsiasi ordine possa mai imporglisi, qualunque sia l'ipotesi nella
quale uno voglia porsi in spirito, e qualunque sia la situazione concreta nella
quale si possa immaginare la creatura». (51)
«Dio avrebbe potuto rifiutarsi alla sua creatura proprio come Egli ha potuto e
voluto donarsi. La gratuità dell'ordine soprannaturale è particolare e totale. Lo
è in se stessa. Lo è per ciascuno di noi. Lo è in 'rapporto a ciò che per noi,
temporalmente e logicamente, lo precede. Anzi - ed è questo che alcune
teorie, che noi abbiamo discusso, non ci è sembrato lascino vedere abbastanza
- questa gratuità è sempre intatta. Lo resta in ogni ipotesi. È sempre nuova.
Resta in tutte le tappe della preparazione del Dono, in tutte le tappe del Dono
stesso. Nessuna «disposizione», nella creatura potrà mai, in nessuna maniera,
legare il Creatore. Constatiamo qui con gioia l'accordo sostanziale non soltanto
di sant'Agostino, di san Tommaso e degli altri antichi, ma anche di san
Tommaso e dei suoi commentatori, a cominciare dal Gaetano; come anche di
teologi che, nel nostro stesso secolo, divergono più o meno nei loro tentativi di
spiegazione. Come il dono soprannaturale mai in noi è naturalizzabile, mai la
beatitudine soprannaturale può divenir per noi - qualunque sia la nostra
condizione reale o semplicemente pensabile - una meta 'necessaria ed
esigibile'». (52)

Solo queste affermazioni, citate come esempio, sarebbero sufficienti per


mettere in evidenza l'antinomia e il vicolo cieco nel quale il P. de Lubac fa
entrare il pensiero ed il cuore, nel tentativo di fondare la sua propria dottrina
riguardo al soprannaturale. Si sollevano numerose questioni senza possibilità di
risposta o di un orientamento del pensiero che dia pace. Come capire per
esempio che il mio «fine reale» - cioè «vedere Dio» - è «assegnato alla mia
natura»? E che allo stesso tempo è offerto alla mia adesione? Quando accade
questo? Al momento della mia creazione, o dopo durante il tempo della mia
vita terrestre? Se accade al momento della mia creazione, come posso
scegliere la mia adesione? Se avviene dopo, durante la mia vita, come posso
dire che «la vocazione di Dio è costitutiva» cioè la mia vocazione alla visione di
Dio è una parte integrante della creatura che sono?

Se «dal momento che esisto, ogni indeterminazione è tolta», come potrebbe


aver luogo allora la mia adesione dopo i primi momenti della mia esistenza?
Infatti, se tutto è determinato in modo assoluto, come insiste de Lubac, non
c'è la possibilità per me di adesione o di non adesione.

Se porto in me, anche senza averne coscienza - come dice il P. de Lubac - il


«desiderio naturale», com'è offerto questo fine alla mia adesione?

Il P. de Lubac ripete che Dio poteva non crearmi. Ha però voluto crearmi.
Allora ci si può chiedere: una volta che mi ha creato, come posso dire che non
è impegnato, sin dalla mia creazione, a darmi la gioia di vederlo, poiché il
desiderio naturale assoluto di vederlo, l'ha messo egli stesso al centro del mio
essere col suo atto creativo?
Se ammetto che con il suo atto creativo Dio è impegnato e non può rifiutarmi il
mio compimento, cioè la gioia di vederlo, come potrei dire che «la gratuità
dell'ordine soprannaturale è particolare e totale; lo è in se stessa, lo è per
ciascuno di noi»? Si potrebbe anche pretendere che la gratuità dell'ordine
soprannaturale è la gratuità della creazione, cioè ammettere l'identità
dell'ordine naturale e soprannaturale; questo però il P. de Lubac non vuole
ammetterlo. Accetta che ci sia la grazia della creazione e che a parte ci sia la
grazia della chiamata soprannaturale.

Come possiamo dire che «nessuna disposizione nella creatura potrà mai in
nessuna maniera legare il Creatore», e nello stesso tempo dire che «la
vocazione di Dio è costitutiva»? Tale «disposizione», infatti, il Creatore l'ha
imposta alla creatura. Come dunque proporre che «la propria disposizione di
Dio non lo lega in nessuna maniera»? Quale idea potremmo avere allora del
Creatore e della sua suprema libertà?

Non è né logicamente né spiritualmente conveniente presentare in tutti i modi


- com'è nel caso della citazione del P. de Lubac sopra riportata - che Dio non è
stato obbligato a crearci così come ci ha creati, per affermare la gratuità
dell'ordine soprannaturale; non è conveniente, perché è confondere i problemi
e le realtà. Dire infatti, che Dio avrebbe potuto rifiutare di donarsi alla sua
creatura, come ha potuto e ha voluto farlo, è come parlare dell'inizio della
creazione dell'uomo, perché la frase significa che Dio ha già scelto di donarsi. E
quando parliamo della gratuità dell'ordine soprannaturale, parliamo di tutte le
grazie e di tutti gli interventi di Dio nella nostra vita terrestre, ciò senza nessun
merito e nessuna possibile esigenza da parte nostra.

Se «dal momento che esisto, ogni indeterminazione è tolta», cioè se tutto è


iscritto nell'uomo sin dal momento della sua creazione e in modo assoluto,
come dice il P. de Lubac, come la creatura non avrebbe un'esigenza per gli
appetiti in essa iscritti, e come concepire che il Creatore di questi appetiti e di
questi desideri «non sia legato in nessun modo»?

Ci si può porre un'infinità di tali domande che si estendono a tutti i domini e


sotto parecchie angolature, dalla definizione del soprannaturale fino alle più
evidenti e pratiche conseguenze nella vita della Chiesa. Più tardi, però, ed in
una prospettiva più globale, si potrà meditare più profondamente sull'insieme
di questo grave problema. Per il momento, è sufficiente non dimenticare
questo: se si può dire che l'uomo sin dalla sua creazione porta la possibilità di
ascoltare la chiamata di Dio per il fine soprannaturale al quale è destinato, non
significa che questa possibilità di ascoltare sia già la chiamata, e che il
soprannaturale, al quale l'uomo è chiamato, sia già presente in lui.
2 - P. KARL RAHNER

La concezione del soprannaturale necessariamente legato alla natura umana è


chiaramente proposta da Karl Rahner sin dagli anni '30. Nella sua tesi «Geist
im Welt» presenta nettamente questa concezione del soprannaturale non-
gratuito. Dopo venti anni, le proposizioni sono state ampiamente sviluppate. A
volte si può credere che Rahner rigetti le tesi del P. de Lubac, ma subito ci si
rende conto che in realtà K. Rahner segue lo stesso pensiero ed anzi lo supera.

Le stesse idee ritornano in molti trattati. È necessario subito notare che negli
scritti di Karl Rahner da un lato il principio dialettica hegeliano è flagrante -
come l'attesta lo stesso Hans Kung (53), discepolo in contestato di Karl Rahner
(54) - e dall'altro lo stesso procedimento rende molto fluido ed inafferrabile il
cardine del pensiero. Ci si trova, infatti, dinanzi ad un'antitesi che egli cerca di
risolvere optando per l'uno dei termini, cosa che annulla automaticamente il
procedimento dialettico. Questa osservazione è fatta qui unicamente per
spiegare le contraddizioni della sua posizione nei confronti delle tesi del P. de
Lubac. Ed anche per aiutare a cogliere il suo fondamentale accordo con il P. de
Lubac.

Negli scritti sulla Natura e la Grazia, Karl Rahner scrive:

«Questa ordinazione intima dell'uomo alla grazia è tale un costitutivo della sua
'natura', che questa non si potrebbe pensare senza di quella, cioè come natura
pura? Sarebbe irrealizzabile il concetto di natura pura? Questo è il punto in cui
dobbiamo apertamente rigettare la concezione ritenuta come quella fatta
propria dalla 'nouvelle théologie'. La 'Humani Generis'... dà a tal proposito un
insegnamento inequivocabile». (55).

«Dalla più intima essenza della grazia segue piuttosto l'impossibilità di una
disposizione alla grazia, che appartenga alla natura dell'uomo, o segue che tale
disposizione, nel caso che sia necessaria, appartenga già a questo stesso
ordine del soprannaturale. Non segue però che essa come naturale lascerebbe
sussistere la gratuità della grazia». (56)

«Si può tranquillamente accettare il concetto di 'potentia oboedientialis'


rifiutato da de Lubac. La natura spirituale deve essere tale da avere
un'apertura a questo esistenziale soprannaturale, senza però esigerlo da sé
incondizionatamente. Non si penserà questa apertura solo come una non
contraddizione, ma come una ordinazione intima, purché non sia
incondizionata». (57)
Karl Rahner qui afferma che: primo, occorre rigettare la concezione della
«nuova teologia», per la quale la natura dell'uomo comporta l'ordinazione alla
grazia; secondo, l'essenza della grazia è incompatibile con una disposizione
della natura umana alla grazia, e se una tale disposizione alla grazia si
confermasse necessaria, apparterrebbe all'ordine soprannaturale ed in questo
caso la grazia non sarebbe gratuita.

In seguito Rahner non solo accetta ciò che qui rifiuta, ma lo propone con
accezioni molto più forti. Quando per esempio dice che si può accettare
tranquillamente il concetto di «potentia oboedientialis» che de Lubac rifiuta, dà
l'impressione di voler presentare un concetto più tradizionale.

Già nello stesso paragrafo Rahner dice che l'apertura della natura
all'«esistenziale soprannaturale» è un'«ordinazione intima». Ed aggiunge -
cosa che confonde nuovamente la chiarezza del pensiero - «purché non sia
incondizionata». In questa dichiarazione c'è una contraddizione fondamentale,
perché se l'apertura a questo esistenziale soprannaturale è un'ordinazione
intima, questa apertura è universale e costituisce una condizione fondamentale
della natura umana; dire che questa apertura al soprannaturale, che è già
un'ordinazione intima, non è incondizionata, non aggiunge nessuna chiarezza.

Rahner però, continua e con formule molto precise prova che il suo pensiero
non solo è quello della «nuova teologia», ma che lo supera. Riferendosi ad un
articolo che espone i principi della «nuova teologia», Karl Rahner dice che
parlare di «un dinamismo illimitato» della natura che «include obiettivamente
nella sua essenza il soprannaturale come fine intrinseco necessario», non
costituisce una «minaccia immediata alla soprannaturalità e gratuità di questo
fine». (58) E precisamente dichiara:

«La capacità per il Dio dell'amore personale, che dona se stesso, è


l'esistenziale centrale e permanente dell'uomo nella sua realtà concreta».
Questo è «l'esistenziale soprannaturale, permanente, previamente ordinato
alla grazia». (59)

Ci si può chiedere: Se la natura include obiettivamente nella sua essenza il


soprannaturale come fine intrinseco necessario, se «la capacità per Dio» è
l'esistenziale centrale e permanente dell'uomo, e se questo esistenziale
soprannaturale permanente è previamente ordinato alla grazia, se tutto è così,
come si può sopra affermare che dall'essenza intima della grazia deriva
l'impossibilità per la natura dell'uomo di portare una disposizione alla grazia?
Ed ancor più: se questa disposizione è necessaria, essa appartiene allora già
all'ordine soprannaturale, ed anche questa disposizione annulla il concetto della
gratuità della grazia?
Per Rahner il nucleo più intimo della natura dell'uomo è «l'esistenziale
soprannaturale», cioè la capacità di ricevere la grazia. (60) L'uomo, sempre
secondo Rahner, non può avere vera esperienza di se stesso che in quanto
ordinato interiormente ed in modo assoluto al soprannaturale:

«L'uomo può fare esperienza su sé stesso solo nell'ambito dell'amorosa volontà


soprannaturale di Dio, non può presentare la natura in uno 'stato
chimicamente puro', separata dal suo esistenziale soprannaturale. La natura in
questo senso permane un concetto astratto derivato. Però questo concetto è
necessario e obiettivamente fondato, se si vuol prendere coscienza riflessa
della gratuità della grazia, nonostante che l'uomo sia ad essa ordinato
interiormente e in modo assoluto».(61)

Sullo stesso argomento ritorna con un vocabolario sempre più esplicito e con
espressioni che, se si accettassero come postulati, condurrebbero ad un
capovolgimento di tutti i fondamenti della teologia:

«L'uomo vive sempre consapevolmente, anche se egli non lo 'sa' e non lo


crede, ossia se non lo può rendere oggetto particolare del suo sapere mediante
riflessione introversa, dinanzi al Dio Trino della vita eterna. Questo è
l'ineffabile, ma reale obiettivo della dinamica di tutta la vita spirituale e morale
nell'ambito spirituale dell'esistenza, fondato effettivamente da Dio, vale a dire
innalzato soprannaturalmente». (62)

«La predicazione è l'esplicitazione e il risveglio di ciò che c'è nel profondo


dell'essere umano, non di natura, bensì di grazia. Una grazia che avvolge
l'uomo, anche il peccatore e l'infedele, come ambito inevitabile della sua
esistenza». (63)

«La natura effettiva non è mai una 'pura' natura, bensì una natura nell'ordine
soprannaturale, dal quale l'uomo (anche come incredulo e peccatore) non può
uscire». (64)

È certo, e nessuno potrebbe negarlo sinceramente, neppure Karl Rahner - che


un gran numero dei suoi testi, delle sue espressioni e delle sue definizioni
permettono un qualunque orientamento del pensiero. In seno, però, a questa
polivalenza di espressioni e di postulati appare chiaramente un'antropologia
fondamentale che non soltanto concorda con il pensiero del P. de Lubac, ma lo
supera in modo da trasformare nella coscienza degli adepti della nuova
teologia, articoli di fede come per esempio quelli dell'Incarnazione e
dell'Immacolata Concezione. Dove, infatti, può condurre il pensiero teologico o
la meditazione spirituale, l'affermazione che:

«Lo spirito dell'uomo non è possibile in sostanza senza questa trascendenza


che è suo compimento assoluto, cioè la grazia» (65)?
Quale significato può avere il fatto di dire più oltre, che «questo compimento
resta gratuito»? L'affermazione che lo spirito dell'uomo non esiste senza la
grazia del compimento assoluto è il fondamento dell'insegnamento di questo
testo.

Come comprendere la proposizione secondo cui:

«Si può addirittura tentare di vedere la unio hypostatica nella linea di questo
perfezionamento assoluto di ciò che è l'uomo» (66)?

Non si può comprenderla altrimenti da ciò che essa dice; dire infatti che
occorre vedere l'unione ipostatica nella linea di questo perfezionamento è dire
che l'unione ipostatica è il perfezionamento dell'uomo. La sfumatura
dell'espressione «vedere nella linea del perfezionamento» è un mitigare
linguistico della cruda affermazione che il perfezionamento dell'uomo realizza
l'unione ipostatica.

Rahner dichiara in tutti i modi che l'essenza in Dio e in noi è la stessa:

«Quando il Logos si fa uomo ... questo uomo in quanto uomo è precisamente


la auto-manifestazione di Dio nella sua auto-espressione»; - «il 'cosa' infatti è
uguale in noi e in lui; noi lo chiamiamo 'natura umana'».(67)

Ora è chiaro che Dio e l'uomo hanno la stessa essenza, e che noi, secondo Karl
Rahner, la chiamiamo semplicemente «natura umana».

Certo non è concesso all'uomo di percepire, di circoscrivere e di approfondire


analiticamente e sinteticamente il mistero dell'essenza di Dio, neanche il
mistero dell'essenza umana in sé e in rapporto all'essenza di Dio. La questione
nella sua profonda semplicità apre una via interminabile di meditazione e allo
stesso tempo di adorazione del Creatore. Quando, però, si agisce, quando si
pensa e quando ci si esprime in modo da porre postulati come quello
dell'identità dell'essenza di Dio e dell'uomo, che capovolgono la dottrina sorta
dalla Rivelazione, non seguiamo il filone della verità, ma quello dell'errore.

Il problema del rapporto dell'essenza dell'uomo con l'essenza di Dio è il più


grande problema che l'uomo possa porre a proposito di Dio: esso è il problema
dell'alterità. Molti servi di Dio nel loro lungo insegnamento hanno capito, nel
passato ed oggi, come di fronte a tali cose, a tali problemi che sorgono nella
mente e nel cuore, occorra divenire piccoli, molto piccoli. Certo, a parte il
mistero trinitario, e tutto ciò che l'accompagna, la realtà più difficile da
comprendere è come esistiamo al di fuori di Dio; è questo il problema
dell'alterità. Da qui nasce la questione: come si può concepire accanto alla
libertà di Dio, la nostra libertà?
Possiamo dimostrare negativamente che non vi è nessuna contraddizione tra
queste due libertà. Tuttavia rimane un mistero. Probabilmente l'affermazione di
Rahner sull'identità dell'essenza di Dio e dell'uomo è il frutto di speculazioni su
questo immenso mistero.

Ciò viene qui detto perché le affermazioni di Rahner a proposito


dell'Incarnazione e dell'Unione Ipostatica non lasciano dubbio che se non si può
accusarlo di panteismo, si può però, definire il suo pensiero e la sua dottrina
come «panantropista» ed in questa espressione si possono comprendere tante
cose! Per Karl Rahner l'umanità di Cristo interessa la teologia non già come
una realtà unita a Dio, ma come essendo essa stessa la realtà del Logos:
infatti, dice chiaramente, l'umanità di Cristo non è unita al Logos, ma è la
realtà stessa del Logos. (68) E nella sua interminabile acrobazia linguistica
emette le definizioni più improbabili e contraddittorie, ma senza insegnare mai
chiaramente la dottrina della Chiesa sull'Incarnazione o sulla Creazione.
Citiamo per esempio qualche proposizione sconcertante:

«Si potrebbe definire l'uomo come ciò che sorge allorché l'auto-espressione di
Dio, la sua Parola, viene lanciata per amore nel vuoto del nulla senza Dio… Se
Dio vuol essere non-Dio, sorge l'uomo, proprio lui e null'altro, potremmo dire».
(69)

»Di Dio che noi professiamo in Cristo bisogna dire che egli è precisamente
dove noi siamo e solo lì lo possiamo trovare». (70)

Ed ecco come Rahner, con termini più precisi, parla dell'unione ipostatica:

«Il compito imposto alla teologia dalla formula di Calcedonia e da essa non
ancora assolto, è proprio quello di spiegare, senza evidentemente eliminare il
mistero, perché e in qual modo chi (71) si spoglia di sé non solo rimane ciò che
era, ma per di più, confermato definitivamente e perfettamente nel suo stato,
diventa nel senso più radicale (72) quel che è: una realtà umana.

«Ciò però è possibile solo se si dimostrasse come la tendenza ad annientarsi


(73) consegnandosi al Dio assoluto, in senso antologico e non puramente
morale, è uno dei costitutivi più fondamentali dell'essenza umana. Perciò
l'attuazione suprema, indebita e realizzata una volta sola, di questa potenza
obbedienziale, che non è una determinazione puramente negativa, né una non-
repugnanza meramente formale, rende l'essere, che si è così annientato, uomo
nel senso più radicale e l'unisce proprio per tale via al Logos. Solo nell'unio
hypostatica si realizza in sommo grado e si rende pienamente cosciente che
questo spogliamento di sé può essere un dato dell'autocoscienza umana.
Infatti, a questa (autocoscienza umana) spetta il possedere questa disponibilità
all'annientamento di sé, che si attua in sommo grado nella unio pypostatica».
(74)
Tale brano, scelto fra tanti altri dello stesso tenore si riferisce chiaramente al
testo conosciuto dell'Epistola ai Filippesi e alla dottrina sull'unione ipostatica
per poter parlare del mistero della Persona del Redentore.

Secondo Rahner, colui che si è spogliato di sé e che, confermato, diventa in un


senso più radicale ciò che è, è una realtà umana, è un uomo. Egli afferma
anche che la tendenza ad annientarsi per abbandonarsi al Dio assoluto è un
costitutivo dell'essenza umana. Ed ancora dice che nell'attuazione suprema di
un tale annientamento, l'essere, l'uomo nel senso più radicale, è unito proprio
per tale via dell'annientamento al Logos. E precisa che tale disponibilità
all'annientamento di sé, che si attua in sommo grado nell'unione ipostatica,
appartiene alla coscienza umana.

Si possono fare molteplici meditazioni e considerazioni assennate. Ma è


impossibile ad una coscienza retta non notare due punti fondamentali: da un
lato, bisogna sapere che questo brano dell'Epistola ai Filippesi al quale Rahner
si riferisce, non permette tale genere di prestidigitazione di parole. Colui che si
è spogliato («***») si è spogliato, essendo in forma di Dio (nella condizione di
Dio), per aggiungersi la natura umana; si è spogliato della gloria per prendere
la forma di schiavo. Questo nella sua semplicità è il significato delle parole di
San Paolo. Che poi sia stato San Paolo a comporle o che sia stato un inno
utilizzato da San Paolo, questo non cambia nulla nel significato del testo. Ora,
nel testo citato di Karl Rahner, è l'uomo che si spoglia per offrirsi a Dio.

Da un altro lato, bisogna notare che questo spogliamento non riguarda


l'essenza propria di colui che si spoglia, come è detto nel testo citato prima (si
spoglia di sé). San Paolo scrive: «si spoglia» e non dice «di sé». In più questo
spogliamento non è un semplice dato della coscienza; è molto importante
sapere ciò, perché non è nella coscienza umana che si realizzò l'unione
ipostatica. Secondo il testo dell'autore, l'unione ipostatica sarebbe il risultato
della perfezione nella vita interiore di un uomo. Ma la realtà è il contrario:
l'Incarnazione e l'Unione Ipostatica in Cristo Gesù hanno dato all'uomo la
perfezione, perché altrimenti l'unione ipostatica sarebbe un avvenimento che è
avvenuto «nella e per la coscienza umana». Ed è proprio questo che afferma
Rahner dicendo più oltre:

«L'immediata ed effettiva visione di Dio null'altro è fuorché l'originaria


consapevolezza, non oggettiva, di essere il Figlio di Dio; tale consapevolezza si
dà per il solo fatto che essa è l'unione ipostatica» (75).

Non c'è dubbio che Rahner qui altera radicalmente il pensiero e la fede della
Chiesa a proposito del mistero dell'incarnazione del Verbo di Dio in Gesù Cristo
come è espresso nel Vangelo e dalla Tradizione:
«Se l'essenza dell'uomo in generale viene compresa, in questo senso
ontologico-esistenziale, come l'aperta ... trascendenza all'essere assoluto di
Dio, allora l'incarnazione può apparire come l'adempimento assolutamente
sublime (anche se completamente libero, indebito ed unico) di ciò che 'uomo'
in generale significa». (76)

Questo modo di vedere e di presentare il cristianesimo ha prodotto grandi


conseguenze e ripercussioni nella formazione del clima teologico attuale. Non
si può comprendere fino a che punto questo clima, le idee e gli atteggiamenti
nei confronti di Dio e della Chiesa, nei confronti del principio della verità
eterna, siano legati a queste idee e speculazioni che hanno sconvolto la vita e
la fede nella Chiesa. Non ci si meraviglia oggi, di ascoltare come insegnamento
che l'incarnazione del Verbo si realizza a poco a poco nella vita di Cristo, e che
nessun momento della sua vita realizza la pienezza della sua libertà; si realizza
al termine della sua vita.

A questo conducono le dottrine liberamente professate ed insegnate le quali


alterano l'oggettività dell'insegnamento rivelato e vogliono strappare con la
forza dell'intendimento soggettivo i segreti supremi di Dio circa la creazione, la
grazia e la salvezza. E si può riportare qui una proposizione dello stesso Karl
Rahner che illustra l'importanza del modo errato di affrontare la questione della
grazia e del soprannaturale:

«Una soddisfacente definizione della grazia, se non vuole fatalmente cadere nel
vuoto verbalismo, nella mitologia, nell'affermazione gratuita, potrà solamente
partire dal soggetto, dalla sua trascendentalità e dalla sua esperienza di un
orientamento necessario verso la realtà della verità assoluta e dell'amore che
ha acquistato validità assoluta». (77)

Ancora una volta Rahner conclude che la grazia è il compimento della nostra
essenza. Partendo da una visione delle cose che, si voglia o no, rifiuta 'de
facto' la vera gratuità dell'ordine soprannaturale, arriva a mettere Cristo e Dio
nelle cose:

«Dio e la grazia di Cristo sono in tutto, quale segreta essenza di ogni realtà».
(78)

Di conseguenza basta fare riferimento al compimento dell'essenza umana per


accettare il Figlio dell'uomo, il Cristo, perché in lui Dio ha assunto l'uomo:

«Chi perciò (pure ancora lontano da ogni rivelazione esplicitamente formulata


in forma verbale) accetta la sua esistenza, quindi la sua umanità ... costui, pur
non sapendolo, dice di sì a Cristo ... Chi accetta completamente il suo essere-
uomo ... ha accettato il Figlio dell'uomo, poiché in esso Dio ha accettato
l'uomo». (79)
Ora bisognerebbe poter comprendere cosa significhi esattamente «accettare
completamente il suo essere-uomo»; lo stesso Rahner dice che questa
accettazione è «indicibilmente difficile e resta oscuro quando lo facciamo
realmente».(80) In ogni modo, però, si comprende molto bene come da tutto
questo derivi, sottilmente forse ma nettamente, l'inutilità dell'atto di fede e
così un dato fondamentale è distrutto. L'atto di fede diviene inutile perché nella
mia essenza c'è Dio; perché ogni azione è Dio che la fa; l'atto di fede
presuppone un altro rapporto tra l'uomo e Dio, tra la creatura e il Creatore. Se
accetto il Cristo per il semplice fatto «d'accettare la mia essenza», l'atto di fede
è un non-senso.

Ecco dove si arriva se si parte da un concetto riguardante un grande mistero,


come il mistero del soprannaturale, artificialmente presentato come facente
parte della dottrina della Chiesa. Tutti gli argomenti sono stati sfiorati. Gli uni
dopo gli altri tutti i principi, tutti i criteri e tutti i fondamenti della fede sono
stati messi in questione e si sfaldano. Certo non è giusto dire che Rahner
stesso abbia tratto tutte queste conseguenze. È giusto però dire che, seguendo
il filone che partiva da alcuni concetti erronei circa il soprannaturale, l'essenza
dell'uomo e di Dio, questa alterazione generalizzata ha potuto verificarsi nelle
coscienze. D'altra parte, non si può sfuggire totalmente alle conseguenze di un
movimento iniziale provocato da sé stesso. Basta per esempio vedere come
Karl Rahner ha considerato l'Immacolata Concezione negli anni '50 e come sia
stato portato a parlarne più tardi.

Nel 1953 cita la definizione di Pio IX professando la sua infallibilità. (81) In


seguito parla lungamente del ruolo di Maria nella salvezza e del fine comune di
noi tutti e della Santissima Vergine: la beatitudine. Riconosce che la Santissima
Vergine fu preservata dalla macchia del peccato originale che ogni uomo porta
venendo al mondo. Questa accettazione certamente è avvolta da una
moltitudine di considerazioni riguardante la sorte comune degli uomini e ciò
con sfumature incerte e a volte molto contraddittorie, cosa che ne attenua il
carattere di certezza dottrinale. In ogni modo, però, sembra ammettere in
questi testi la dottrina del peccato originale e la preservazione della Santissima
Vergine dalla macchia del peccato originale.

Ora nelle sue «Meditazioni teologiche su Maria»(82) scrive:

«Il dogma (dell'Immacolata Concezione) non significa in nessun modo che la


nascita di un essere umano sia accompagnata da qualche cosa di
contaminante, da una macchia, e che per evitarla, abbia perciò dovuto avere
un privilegio. - L'immacolata concezione della Santa Vergine consiste dunque
semplicemente nel possesso dall'inizio della sua esistenza della vita di grazia
divina, che l'è stata donata. - Fin dall'inizio della sua esistenza, Maria fu
avvolta dall'amore redentivo e santificante di Dio. Questo è, in tutta la sua
semplicità, il contenuto della dottrina che Pio IX nell'anno 1854, ha
solennemente definita come verità della fede cattolica». (83)

Tuttavia la definizione del dogma nell'«Ineffabilis Deus» dice a più riprese


nettamente che la Santissima Vergine fu preservata da ogni macchia del
peccato originale. Ecco il testo della Definizione:

«Dichiariamo, pronunciamo e definiamo che la dottrina, che sostiene che la


beata Vergine Maria è stata, nel primo istante della sua concezione, per una
grazia ed un favore peculiare di Dio onnipotente, in vista dei meriti di Gesù
Cristo, Salvatore del genere umano, preservata intatta da ogni sozzura del
peccato originale, è una dottrina rivelata da Dio e così essa deve essere
creduta fermamente e costantemente da tutti i fedeli». (84)

Come dunque dobbiamo oggi capire, prescindendo dalla definizione «Ineffabilis


Deus», la nozione del «peccato originale» di cui parlano i testi del Vaticano II,
come per esempio il decreto sull'Apostolato dei laici:

«Gli uomini, in conseguenza del peccato originale, spesso sono caduti in


moltissimi errori intorno al vero Dio, alla natura dell'uomo ed ai principi della
legge morale» (85)?

Come dobbiamo comprendere i testi più espliciti dello stesso Concilio, che
chiama la Madre di Dio «la tutta Santa, immune da ogni macchia di peccato,
dallo Spirito Santo quasi plasmata e formata come una nuova creatura» e
dichiarandola «Immacolata Vergine, preservata immune da ogni macchia di
colpa originale» (86)?

Se l'uomo alla sua nascita non è accompagnato da una macchia - come


afferma Rahner -, di quale macchia parla la Bolla di Pio IX? Come si può
pretendere che non c'era macchia da evitare e che Maria non aveva bisogno di
privilegio?

Non è in queste pagine che si deve parlare della luminosa e profonda realtà
dell'Immacolata Concezione. L'unica intenzione è stata quella di illustrare
mediante un soggetto che concerne l'insieme della salvezza e l'eterna verità, la
contraddizione e gli errori fondamentali ai quali si giunge a partire di un
concetto iniziale errato e da un atteggiamento intellettuale assai temerario
verso le cose di Dio.

Se attraverso i dati della Rivelazione, conservati dal Magistero, nonostante


tutte le vicissitudini umane, con semplicità e sobrietà, si esamina
pazientemente l'orizzonte attuale della teologia, si vede come il filone iniziale
conduca fino alla dottrina del «cristiano anonimo», alla dottrina della «morte di
Dio», della «secolarizzazione», della «demitizzazione», della «liberazione» e
tante altre correnti sotto una molteplicità di vocaboli, spesso effimeri.
3 - JACQUES MARITAIN

Un filosofo che nello stesso periodo, cioè sin dagli anni '30, ha molto
influenzato la formazione delle tendenze contemporanee, sia filosofiche che
teologiche, è Jacques Maritain. (87) In tutto il suo pensiero, non solo non ha
cercato di assimilare l'ordine naturale all'ordine soprannaturale, ma al
contrario, li ha separati in modo tale da riconoscere nella creazione e nella
storia umana due vocazioni distinte, legate certamente da un principio di
subordinazione, ma essenzialmente autonome, con fine e mezzi propri: la
vocazione e la missione terrestre, e la vocazione soprannaturale.

Se qualcuno volesse rendersi conto e cogliere immediatamente - se si può dire


- la caratteristica del pensiero di Maritain circa l'autonomia delle due vocazioni
distinte, basterebbe che leggesse l'ultima frase del suo libro «Humanisme
Intégral», pubblicato nel 1936, e che costituì il riferimento fondamentale di
alcune tendenze teologiche ed anche dell'azione temporale e politica in molti
ambienti cristiani:

«I mondi che sono sorti nell'eroismo, tramontano nella fatica, affinché


vengano a loro volta nuovi eroismi e nuove sofferenze che faranno sorgere altri
mondi. La storia umana cresce così, perché non si ha là un processo di
ripetizione, ma di espansione e di progresso; cresce, come una sfera di
espansione, ravvicinandosi insieme alla sua doppia consumazione: nell'assoluto
di quaggiù, ove l'uomo è dio senza Dio, e nell'assoluto dell'alto, ove è dio in
Dio». (88)

Questi due assoluti costituiscono una specie di intimo segreto di tutto il


pensiero di Maritain e, si potrebbe dire, anche di tutta la sua sensibilità. Essi
sono alla base di tutti i suoi scritti, sono il leitmotiv e il prisma fondamentale
attraverso cui vede tutte le cose, dalle più piccole alle più grandi.

Già nel 1927, nel suo libro «Primauté du Spirituel», afferma in molti modi
che:

«Ognuno di noi appartiene a due città, una città terrestre che ha come fine
il bene comune temporale e la città universale della Chiesa che ha per fine la
vita eterna».

E, rifacendosi a una frase di Etienne de Tournai, specifica:

«Nella medesima cerchia e nella medesima moltitudine umana ci sono due


popoli, e questi due popoli suscitano due vie distinte, due principati, un duplice
ordine giuridico». (89)
Nell'«Umanesimo Integrale», Maritain esprime più diffusamente la sua
visione della Creazione e della realtà del mondo spirituale. In esso la dottrina
della distinzione e del carattere autonomo dell'ordine temporale e dell'ordine
spirituale è stata esposta con una vasta prospettiva di applicazione nell'azione
in vista di «un ideale storico concreto d'una nuova cristianità», cioè
«un'immagine prospettica significante il tipo particolare, il tipo specifico di
civiltà al quale tende una data età storica». (90) E sempre attraverso questo
principio di autonomia degli ordini, iniziale o acquisita, intravede il cammino del
mondo:

«In virtù d'un processo di differenziazione normale in sé stesso (benché viziato


dalle più false ideologie) l'ordine profano o temporale, nel corso dei tempi
moderni, si è costituito nei confronti dell'ordine spirituale o sacro in una
relazione d'autonomia tale da escludere di fatto la strumentalità. In altri
termini è giunto alla sua maggiorità. E questo è ancora un guadagno storico
che una nuova cristianità dovrebbe conservare».(91)

Verso il declino della sua vita, con i suoi due libri: «Le Paysan de la Garonne»
(1966) e «De l'Eglise du Christ» (1970), Maritain ha voluto presentare la
grande crisi dottrinale e morale del mondo e della Chiesa. Ha voluto anche
denunciare gli «abusi» di certi concetti, di certe dottrine e formule come per
esempio l'espressione «personalista e comunitario» utilizzata da Emmanuel
Mounier, il fondatore della rivista «Esprit»:

«Grazie soprattutto ad Emmanuel Mounier scrive - l'espressione 'personalista


e comunitario' è divenuta un ritornello per il pensiero cattolico. Anch'io in
questo non sono esente da una qualche responsabilità ... Penso che Mounier
l'abbia presa da me. Essa è giusta, ma vedendo l'uso che se ne fa ora, non ne
sono molto fiero». (92)

Pur desiderando fondamentalmente una più profonda unità, Maritain resta


sempre, nonostante tutto, impregnato di questa visione generale di distinzione
e di autonomia. Basta per questo vedere nella prefazione del suo ultimo libro
«De l'Eglise du Christ», con quale preoccupazione e quale perseveranza si
applica a difendere l'autonomia della filosofia in rapporto alla teologia,
manifestando la stessa preoccupazione che aveva venti anni prima quando
scriveva:

«Il filosofo terrà conto degli apporti della scienza teologica, senza cessare per
questo d'essere filosofo (se veramente è filosofo, allora lo sarà più che mai)
richiedendo però a fonti d'informazioni degne di fede il supplemento
d'informazione di cui ha bisogno». (93)

Non è questo il luogo per parlare più profondamente e più dettagliatamente


della portata di tutta l'opera di Maritain, e di tutta l'influenza che ha avuto nella
teologia e nell'azione dei cristiani di questo secolo. Ciò sarà fatto in seguito,
come per gli altri autori di cui abbiamo appena parlato. È stato necessario,
però, ricordare innanzi tutto, a proposito del rapporto tra l'ordine naturale e
l'ordine soprannaturale, il principio di distinzione degli ordini nel significato
particolare che ha avuto per Maritain; le ripercussioni infatti, sono state grandi
in tutte le direzioni, e spesso contrarie al senso del suo pensiero e alle sue
intime aspirazioni.

A titolo di esempio e prima di parlare in altro luogo della «teologia della


liberazione», si può riportare il giudizio di Gustavo Gutierrez (94) su Maritain,
nel suo libro «Teologia della liberazione». Si comprende allora l'importanza di
questo argomento della distinzione degli ordini che può sembrare per alcuni
troppo astratto, anodino o antiquato; e si comprendono anche le
preoccupazioni e le tristezze che la nobile persona di Jacques Maritain ha
provato nell'ultimo periodo della sua vita.

Ecco per ora le parole di Gutierrez: «I gravi problemi che la nuova situazione
storica pone alla Chiesa a partire dal secolo XVI e che si acutizzano con la
rivoluzione francese, danno origine ad un'altra prospettiva pastorale e ad
un'altra mentalità teologica, che, grazie a Maritain, riceveranno il nome di
«nuova cristianità». La troviamo esposta, con tutta la chiarezza voluta, nella
sua opera conosciuta 'Humanisme Intégral'. Essa cercherà di far tesoro delle
lezioni venute dalla rottura fra fede e vita sociale, intimamente legate in
un'epoca di cristianità, ma con categorie che non riusciranno a liberarsi
completamente, e lo notiamo meglio ora, dalla mentalità tradizionale ...
Tommaso d'Aquino, sostenendo che la grazia non sopprime la natura né la
sostituisce ma la perfeziona, apre la strada per un'azione politica più autonoma
e disinteressata. Su questa base, Maritain elabora una filosofia politica che
cerca pure di fare propri alcuni elementi moderni. Il pensiero di Maritain ebbe
molta influenza su certi settori cristiani dell'America Latina». (95)

Ecco un discorso molto significativo. Gutierrez, con il suo giudizio, ci permette


di scorgere chiaramente la natura particolare dell'influenza esercitata dal
pensiero di Maritain. Nello stesso tempo, Gutierrez critica Maritain perché non
si è abbastanza liberato dal corpo della Chiesa. Ironizza anche sul suo
attaccamento alla tradizione ecclesiale. Tutto ciò però concorre a mostrare
ancor più la portata dottrinale del principio fondamentale di Maritain circa la
distinzione degli ordini e l'autonomia del temporale.

In fondo, la filosofia di Maritain è una «filosofia-teologia» della storia, che ha


avuto profonde ripercussioni nella vita teorica e sociale della Chiesa.

_________________
«L’Impalpabile»

Le pagine che precedono sono una specie d'introduzione all'esame di tutta la


realtà teologica in sé e in rapporto alla vita della Chiesa. Questo esame deve
essere fatto con una grande, e, se si può dire, sacra oggettività; e malgrado
l'acuità dei problemi e delle situazioni, deve essere compiuto nella immutabile
speranza evangelica e nella pace di Cristo.

Ora, è bene rammentare a proposito dei rapporti tra l'ordine naturale e l'ordine
soprannaturale:

Non c'è problema, astratto che sia, che possa essere discusso o trattato
nell'ambito della Chiesa senza avere ripercussione diretta o indiretta sulla
formazione del pensiero, della morale e della pietà. Ci sono problemi che
restano sempre con un grande alone d'impalpabile, e che sono tuttavia
fondamento di conoscenza santa, luminosa e apportatrice di pace.

Quando, però, si vuole violentare i misteri di Dio e giungere a forza di volontà


e di intelletto a mettere una mano pesante su questo «impalpabile», si rischia
seriamente di perdere la visione della realtà universale e la giusta percezione
della verità eterna, il tanto che è permesso all'uomo di averla, e ciò può
causare grandi danni nell'opera della Chiesa riguardo alla salvezza e alla verità.

Che l'uomo sia creato in stato di grazia, che sia destinato ad un fine
soprannaturale, che ci sia una disposizione naturale della creatura al
soprannaturale fa parte dell'insegnamento fondamentale della Chiesa,
insegnamento fondato sulla rivelazione.

Non è detto, però, che questo fine soprannaturale sia questa stessa
disposizione della natura al soprannaturale, né che questo fine soprannaturale
sia totalmente presente, sia come conoscenza cosciente, sia come «desiderio
naturale assoluto» della visione beatifica, nella creatura sin dal momento della
sua creazione.

Tutte queste nozioni di creazione, di grazia, di disposizione, di finalità, di


natura, di soprannaturale, sono certamente nozioni dal contenuto molto ricco e
dalle molte sfumature, e non possono essere trattate riducendo il loro
significato fino al soffocamento e alla pietrificazione, né dilatandolo, al di là di
ogni norma ed ogni limite, fino all'evaporazione. Tutto dipende dalla fedeltà a
certe norme di linguaggio scaturite esse stesse direttamente dalla Rivelazione
e confermate da essa.

Quando per esempio San Giacomo dice nella sua Epistola che Dio «ci generò
per sua volontà per mezzo di una parola di verità, affinché noi fossimo come le
primizie delle sue creature» (96), quando San Paolo dice: «Poiché l'essere o il
non essere circonciso non conta nulla; conta solo l'essere una nuova creatura»
(97), e «se uno è in Cristo è una nuova creazione, ciò che era antico è
passato: ecco, il nuovo è sorto» (98); quando San Pietro dice: «noi aspettiamo
nuovi cieli e nuova terra» (99); ed in generale quando la Sacra Scrittura parla
di rinnovamento e di nuova creazione, ci rivela un nuovo avvenimento non solo
morale, ma che comporta ripercussioni ontologiche nell'uomo. Se si vuole
restare fedeli al messaggio evangelico, non si può architettare dottrine e
postulati con intellezioni forzate, che - direttamente o indirettamente -
sopprimono questa nuova creatura, questo «nuovo» apportato dalla grazia di
Cristo nell'uomo attuale storico, nell'uomo «in breve».

Il fatto che una creatura spirituale sia creata per un fine al di sopra della sua
creazione, non significa che la pienezza di questa finalità sia posta nella
creatura come parte costitutiva al momento della creazione. Tutti i dati rivelati
e tutta l'esperienza dell'uomo affermano il contrario: è il Creatore che porta in
lui la pienezza della finalità. Dio, Creatore insondabile, manifestatosi
gratuitamente all'uomo, contiene Egli stesso il mistero dell'ultima finalità, la
svela e l'imprime nella creatura, quando l'ha già chiamata e secondo il grado
della sua risposta; e segue di tappa in tappa, grazia dopo grazia, il cammino di
perfezione e di elevazione della natura, verso il fine soprannaturale supremo.

L'insieme delle considerazioni dottrinali di tutti i Padri e Dottori della Chiesa,


Duns Scot compreso, riguardo alla finalità della creazione e dell'uomo, e
riguardo alla natura della grazia in generale e al carattere delle grazie
particolari, non permettono di emettere come postulato il concetto del rapporto
tra naturale e soprannaturale, così come emerge dalle dottrine di H. de Lubac
e di K Rahner.

In questi ultimi anni il P. de Lubac, venerabile religioso, ha mostrato con i suoi


scritti la sua grande preoccupazione per la difesa della fede, del corpo e della
vita della Chiesa nel mondo. Abbiamo, però, parlato qui dei principi e dei
concetti dottrinali che hanno contribuito, più o meno intensamente e più o
meno coscientemente, alla formazione del movimento teologico
contemporaneo.

Ed in questo movimento, il messaggio evangelico e l'insegnamento della


Chiesa sulla nuova creazione, sul rinnovamento dell'uomo e di ogni cosa, sono
stati fondamentalmente alterati. E quindi è stata alterata la speranza della
Chiesa. È certo, però, che niente potrà arrestare il compimento dell'opera vera
di Cristo nella sua Chiesa. Già David nel suo centotreesimo salmo, cantava il
consolante annuncio:

«Manderai il Tuo spirito, verranno creati e rinnoverai la faccia della terra».


ALTERAZIONE DELLA STORIA E LIBERAZIONE ETERNA

TRE ESPRESSIONI DELLA NUOVA CORRENTE

I pochi punti di riferimento per la comprensione dell'attuale movimento


teologico - di cui abbiamo parlato non sono certo emersi subitamente in seno
ad una «terra vergine», come se fossero la primaria sorgente del movimento
che n'è conseguito.

Il punto di riferimento, si fissa o si situa in vista di una finalità che ci si


propone o che si accetta per meditare o per apportare un giudizio su un
insieme di avvenimenti e di concetti. Questa finalità, che costituisce un criterio,
può essere più o meno estesa per quel che riguarda la durata e la somma dei
fatti esaminati e per quel che riguarda la più profonda e la più generale
visione, che l'uomo che medita, si fa delle cose; questa finalità-criterio può
essere più o meno universale, più o meno trascendentale ed escatologica, o
invece relativa e temporale.

Che si voglia o no, c'è sempre un criterio attraverso il quale si riconoscono


punti di riferimento nello sviluppo di una serie di fatti in un lasso di tempo. E
quanto è stato qui detto, cioè l'inevitabile necessità di avere un criterio per
situare punti di riferimento, fa già parte dell'argomento fondamentale sul quale
adesso rifletteremo. Giacché, attenendosi a tutta l'esperienza della storia
umana, il pensiero ed il discorso, senza un punto di riferimento, manifestano il
disordine e lo squilibrio.

In ogni modo, il dominio nel quale stiamo per entrare è più vasto e già
contiene la più remota origine di queste manifestazioni, che sono allora i punti
di riferimento di cui abbiamo parlato.

In seno al mondo del pensiero, mondo filosofico, teologico, scientifico e


politico, e più particolarmente in seno al mondo cristiano, al di dentro e al di
fuori della Chiesa cattolica, si è manifestato un evento nuovo, o meglio si è
manifestato di nuovo, in modo più acuto e in una nuova veste, un fatto
antichissimo, che da sempre accompagna l'avventura del pensiero e dell'azione
dell'uomo: un insieme di vedute, di proposizioni, di postulati e di concetti ha
ormai da lungo tempo creato una tendenza polimorfa e nel contempo
uniforme, se così si può dire, perché unico è il suo orientamento.

Questa tendenza rivendica sotto parecchie forme, apparentemente dai


differenti orientamenti, il diritto morale ed intellettuale di rinnovare da cima a
fondo ogni nozione e metodo di scienza, di filosofia, di teologia, di morale e di
storia. Si tratta di una potente corrente che intacca ormai la nozione ed il
principio della vita, e la nozione ed il principio della conoscenza.
In questa corrente generale che abbraccia tutto il campo dell'attività
intellettuale, morale e pratica, tre fatti meglio esprimono la base di questo
cambiamento polimorfo ed uniforme:

- In primo luogo, il credere di aver scoperto una nuova dimensione dell'uomo:


la coscienza storica.

- In secondo luogo, il credere di aver scoperto un «nuovo» ed unico cammino


per la conoscenza della verità: l'ermeneutica.

- In terzo luogo, il credere di aver scoperto una nuova percezione


fondamentale dei fenomeni, un modo radicalmente nuovo per percepire la
Realtà, la vita universale, il cosmo e la vita interiore dell'uomo, ossia un nuovo
riferimento trascendentale riguardo alla verità e alla conoscenza che si può
chiamare: il riferimento esistenziale.

Questi tre fatti compendiano un gran numero di orientamenti spesso


divergenti, ma solo in apparenza, infatti facilmente ci si può rendere conto
come siano interdipendenti; essi si manifestano come se mossi e provocati da
un solo ed unico fattore. La distinzione, però, di questi tre fatti corrisponde
anche alla realtà delle cose, e per questo ci è di aiuto per approfondire l'attuale
realtà generale e più particolarmente il movimento teologico contemporaneo.

Per percepire, dunque, quel tanto che è possibile e permesso all'uomo, sia la
lontana origine come le conseguenze generali di questi tre fatti, cioè per poter
stimare, con la massima oggettività possibile, il significato e le conseguenze
della tendenza espressa da questi tre fatti, da questi tre generici fenomeni, si
dovrebbe prima di tutto poter esaminare in profondità la nozione ed anche la
realtà della nozione «storia», la nozione e la realtà del verbo (parola,
linguaggio e lingua) ed anche la nozione dei vocaboli «essere» ed «esistenza».

C'è un fattore, però, che va tenuto in conto sin dall'inizio, in ogni meditazione,
in ogni inchiesta, in ogni studio; giacché è un fattore che ora appartiene
intrinsecamente ai tre fatti, ai tre fenomeni di cui abbiamo appena parlato.
Ossia nella moltitudine degli scritti più o meno sapienti, più o meno dottrinali,
più o meno indipendenti e rivoluzionari, concernenti direttamente o
indirettamente il problema della coscienza storica, il problema dell'ermeneutica
e il problema del riferimento esistenziale, i termini-chiave degli enunciati
appaiono spesso ambigui, contraddittori e polivalenti, e questo accade negli
autori di una stessa scuola, di una stessa terminologia e spesso nello stesso
scritto di un medesimo autore.

Così ci si trova davanti ad un fattore che determina e trasforma sempre più la


parola e la sensibilità di un considerevole numero di uomini del nostro secolo.
Termini antichi e termini nuovi, che sono fondamenti di teorie, di proposizioni
basilari e si ripetono senza tregua con una patetica insistenza e talvolta a
modo di cantilena, come se da soli contenessero la chiave di ogni arcano,
restano spesso con un contenuto molto incerto, privi di una vera sfumatura
liberatrice, e di conseguenza senza alcuna forza per trasmettere una luce di
pace nel pensiero e nel cuore.

Non è raro assistere ad una specie di insospettabile prestidigitazione delle


parole: essere, ente, esistenza, interpretazione, comprensione, ermeneutica,
linguaggio, lingua, parola, sostanza, essenza, soggettività, oggettività,
struttura, identità, prassi, ortoprassi, liberazione, acculturazione, e molte altre
parole antiche e nuove, persino di primaria importanza, cambiano di risonanza,
di significato in modo da ricordare il camaleonte sotto il sole e all'ombra della
foresta. Da una scuola all'altra, da un capitolo all'altro dello stesso libro, le
parole fuggono, scivolano in continuazione, piene di sottintesi con risonanze
ogni volta differenti, in modo da non lasciar dietro alcun principio, alcuna
nozione, alcun concetto dal significato fondamentale stabile; si assiste, in
nome di una rivalutazione della parola, ad una polivalenza e ad un'anarchica
dispersione di ogni ordine essenziale del verbo.

Questo fenomeno, che molto spesso, accompagna ora le differenti


manifestazioni dei tre fatti sopra citati - riguardo alla coscienza storica,
riguardo all'ermeneutica, riguardo al riferimento esistenziale - è un evento
molto significativo e molto grave. Giacché non si tratta di considerazioni e di
atteggiamenti personali da parte di dilettanti, ma si tratta di tutta una corrente
filosofica e teologica e di una trasformazione della sensibilità nel linguaggio
circa i più importanti argomenti quali sono la verità, la conoscenza, l'uomo,
Dio.

È grave perché si tratta di una «nuova coscienza» dell'uomo e di «nuovi


postulati» per l'approfondimento del verbo e del linguaggio. È grave perché
questo investe tutto l'orientamento del pensiero e della vita della Chiesa e della
città. E così si assiste spesso ad uno sforzo per creare e definire un linguaggio
e conferire ai termini un nuovo significato. Ci si sforza di creare un linguaggio
universalmente ammesso, ma in fondo senza un universale riferimento. È uno
sforzo disperato, poiché i termini di un linguaggio, per quanto sfumati e sottili
si possano volere, debbono avere un riferimento, un intrinseco riferimento
universale reale per essere universali, veri ed efficaci.

Dalla letteratura filosofica di differenti tendenze e dalla letteratura teologica di


differenti confessioni cristiane, affiora invece un rifiuto viepiù combattivo
contro ogni riferimento ad una nozione semplice e profonda dell'essere. È come
se ci si trovasse davanti ad una specie di allergia ontologica ad ogni nozione,
ogni parola ed ogni sentimento che evochino una stabilità eterna.
Per rendersi conto di questo formidabile differenziarsi della sensibilità
dell'uomo circa la verità come anche della fluente incertezza del linguaggio
polivalente, è sufficiente, malgrado il grande dispiacere che questo comporti,
prima di ogni paziente inchiesta ed ogni studio, prendere esempi a caso, quasi
senza scegliere, dai differenti scritti.

Per illustrare questo argomento così importante del dubbio nel mondo del
linguaggio, apportato dalla tendenza generale e manifestato dai tre fatti di cui
abbiamo parlato, ci riferiamo per una prima volta al pensiero e al linguaggio di
Martin Heidegger (100), che ha avuto una grande influenza nella filosofia ed
anche nella teologia del nostro secolo.

«Una definizione esauriente del linguaggio non potrebbe d'altronde essere


raggiunta nemmeno riunendo sincretisticamente tutte queste definizioni. Il
decisivo resta sempre l'elaborazione chiarificativa dell'unità ontologica-
esistenziale della struttura del discorso sul fondamento dell'analisi
esistenziale». (101)

Certo senza un riferimento dominante ed universale, non si può dare alcuna


definizione esauriente né del linguaggio, né di alcun'altra manifestazione nella
vita del pensiero e del cosmo. Si può, però, concludere che il «decisivo» che
resta, consiste nel fatto che l'espressione «ontologica-esistenziale» vuole
sopprimere ogni nozione di «essere - **», ogni riferimento dei termini a
significati e a realtà stabili.

All'edizione italiana del libro di Martin Heidegger "Sein und Zeit", "Essere e
tempo" è stato aggiunto un glossario, certamente nell'intento di facilitare la
comprensione del testo. Basta scorrere questo glossario per capire in quale
vicolo cieco, a causa di questa tendenza - che si può chiamare qui, per farci
capire: storica, ermeneutica ed esistenziale - siano entrati ed entrino il
pensiero di gran parte della cristianità come pure le università del mondo.

In questo glossario si può leggere:

- «Esistenza (Existenz): È l'essere dell'Esserci, a cui l'Esserci si rapporta


sempre nella comprensione dell'essere che è propria di esso. Non va quindi
confusa con l'existentia che la tradizione contrappone alla essentia e che in
Heidegger corrisponde piuttosto alla semplice-presenza (v.)». (102)

E seguendo il rinvio, si va alla parola «semplice-presenza»:

- «Semplice-presenza (Vorhandenheit): È una categoria fondamentale, cioè un


modo di essere degli enti che l'Esserci incontra nel mondo. lnnanzitutto e per lo
più (v.) l'Esserci incontra l'ente intramondano prendendosi cura (v.) di esso; in
tal modo questo ente si rivela sotto l'aspetto categoriale dell'utilizzabilità (v.).
Quando l'Esserci assume invece l'atteggiamento conoscitivo, va oltre
l'utilizzabilità immediata e tende ad esibire all'ente intramondano la semplice-
presenza». (103)

E per meglio circoscrivere e mettere in evidenza quel che questi esempi


indicano, è utile vedere come Martin Heidegger definisce egli stesso il termine
«ente»:

- «Noi diamo il nome di 'ente' a molte cose e in senso diverso. Ente è tutto ciò
di cui parliamo, ciò a cui pensiamo, ciò nei cui riguardi ci comportiamo in un
modo o nell'altro; ente è anche ciò che noi siamo e come siamo». (104)

E infine il glossario continua:

- «Esserci (Dasein): È il termine scelto da Heidegger per designare la realtà


umana. L'essere dell'Esserci è l'esistenza». (105)

Quindi per ogni uomo libero, psicologicamente e spiritualmente libero, e


persino per un uomo in buona fede e agnostico, è chiaro che in queste tre
espressioni «essere», «Esserci» e «esistenza», l'una è almeno superflua,
perché se l'essere dell'Esserci è l'esistenza e se l'Esserci è la realtà umana nelle
modulazioni e fluttuazioni temporali dell'esistenza, la nozione dell'essere si
dissipa e si dilegua, sostituita fondamentalmente dalla nozione di esistenza nel
tempo.

Il libro di Heidegger "Essere e tempo" è uno tra i numerosi tipici esempi di


questa avventura senza fine del linguaggio umano, manifestando in quale
vicolo cieco intellettuale, spirituale e morale si trovi l'uomo ribellatosi ai suoi
naturali ed eterni riferimenti.

L'ALTERAZIONE DELLA STORIA

La cultura universale del nostro tempo, in tutte le sue manifestazioni e


ripercussioni intellettuali e pratiche, è dominata in profondità e in superficie da
un orientamento del pensiero e della sensibilità che ci si sforza di esprimere
con la parola «storia» e i suoi derivati. Quel che ogni volta s'intende con questa
parola «storia» è una nozione o una realtà o una qualità variabilissima che
permette di orientare il pensiero e il discorso, sulla base di questo stesso
mutevole vocabolo, in differenti direzioni, in modo che le cose e i vocabolari
non possano più avere, né nell'intimo dell'uomo, né nel discorso, un significato
universalmente compreso ed ammesso.
Nondimeno parlare della Storia o di filosofia della storia, di ragione storica, di
coscienza storica, di senso della storia e di altre espressioni con sfumature
derivate dalla parola «storia», presuppone perlomeno che si ammetta un
qualche significato stabile della nozione «storia», significato che verrebbe a
costituire un criterio generale, cioè un punto di riferimento.

Giacché per dare una definizione o anche per fare una semplice precisazione
esplicativa di un evento o di una serie di eventi e di fatti, sì incerti o sottili che
siano, occorre avere un criterio centrale, occorre riferirsi a un qualche punto di
riferimento nel linguaggio e tramite esso; punto di riferimento che non sia
soltanto supposto o vagamente sottinteso, ma che sia, - con tutte le sfumature
che si voglia esplicito e formulabile. È una fondamentale necessità
dell'intendimento, una necessità di logica elementare e di coerenza richiesta
intimamente da ogni uomo, moralmente se non intellettualmente libero, e
dunque in buona fede.

Questo vale tanto per la filosofia, come per la scienza, la metafisica, la


teologia; questo vale per ogni campo del pensare e del sentire.

In questo sempre più esteso fenomeno di polivalenza dei termini e dei


vocabolari, si è sviluppata una più specifica tendenza che si potrebbe chiamare
il culmine della «frenesia linguistica»: è uno sforzo per reperire una nuova
comprensione dei testi e dei fatti, ed anche per porre e risolvere problemi circa
la vita, la storia, l'anima, la fede, l'origine e il fine ultimo, basandosi su
considerazioni spesso troppo sofisticate e lambiccate fino all'assurdo, del
linguaggio, delle lingue e dei vocabolari.

Come si vedrà quando tratteremo dell'ermeneutica, questa tendenza ha preso


talvolta l'apparenza di una nuova gnosi, di un esoterismo intellettuale.
Nonostante, però, il carattere di cui a volte si rivestono questo sforzo e questo
metodo, carattere di un sagace e pio desiderio di oggettività, non si può non
risentire un profondo malessere come quello che si prova davanti alla
manifestazione di un grande disordine, di un grande sconcerto e di una
confusione in profondità. Noi, infatti, vediamo chiaramente che nello sforzo di
cogliere e di spiegare la realtà del mondo, dell'uomo e della storia tramite una
semantica viepiù analizzata e tormentata, si finisce col perdere di vista il vero
riferimento al vero verbo interiore dell'uomo.

Perciò occorre tener conto di quel fatto che si è chiamato «frenesia linguistica»
che, presto o tardi, conduce alla disgregazione, in seno ad ogni impresa
intellettuale, spirituale e morale.

Nell'assieme delle considerazioni circa la storia, nei tempi cosiddetti moderni,


talvolta si è guardato all'uomo dell'antichità, come del tutto sprovvisto
d'interesse intellettuale o spirituale per il corso delle vicende della terra, per la
successione degli eventi e delle società. E questo, a volte, per motivi filosofici,
sociologici tendenziosi, e non in una pura ricerca della verità. Per capire quel
che di realmente nuovo ci sia nel vasto movimento circa la storia e per evitare
anche ogni confusione talora provocata dalla «frenesia linguistica», è utilissimo
riferirsi innanzitutto ai significati avuti sin dall'inizio dalla parola «storia».

La parola «storia» (***) è antichissima. La sua origine si perde nella


misteriosa fonte sacra da dove sono scaturite la parola umana e le lingue.
Nella remota antichità, si trova utilizzata con molte sfumature. All'inizio
significava ricerca - inchiesta - informazione; ed anche il risultato di
un'informazione; cioè a seconda dei casi, significava un sapere o una
conoscenza: Erodoto (106), Platone (107), Aristotele (108), Demostene (109).
In pari tempo era utilizzata nel senso di relazione orale o scritta di quel che si
conosceva, di quel che si sapeva, di quel che era stato reperito; cioè nel senso
del racconto: Erodoto (110), Aristotele (111), Plutarco (112) (113).

Da tutti questi riferimenti emerge chiaramente che il termine «storia» era


utilizzato certo con differenti sfumature, riassumentesi tutte, però, nelle parole
di Aristotele: «le inchieste di quanti scrivono sulle azioni umane» (Retorica I,
4, 1360a), come anche gli stessi fatti riferiti nel loro concatenamento.

Dall'esame della totalità di questa informazione antica riguardante la


trasmissione scritta dei fatti e degli avvenimenti accaduti come pure la vasta
letteratura in cui si parla della sorte dei popoli, degli interventi degli dei, dei
destini e delle ripercussioni nel futuro contratte dagli atti del passato, ci si
rende molto facilmente conto di alcune verità utili per comprendere sia
l'antichità come i tempi moderni per quel che riguarda la coscienza, la storia e
le nozioni del senso della storia e della coscienza della storia; nozioni che sono
penetrate ed hanno notevolmente influenzato il pensiero teologico e il pensiero
ed il volere nella cristianità. Tra queste verità, che l'esame dell'informazione
antica mette comunque in evidenza, vanno ritenute le seguenti:

a) Se da un lato, in qualsiasi epoca, l'esame e la maniera di esaminare il


passato o il presente sono sempre dipesi e dipendono sia dalla veracità come
dalla ricchezza delle fonti d'informazione, d'altro lato è pure incontestabile che
questo esame e questo racconto dipendono da quella che si può chiamare la
personale ottica generale del relatore in riferimento ad ogni cosa.

Prima che qualcuno affronti il vasto problema della conoscenza oggettiva e


della nozione del reale, non si può non ammettere l'esistenza di un prisma,
particolare ad ogni persona, attraverso il quale viene filtrata ogni esperienza;
questa ottica generale sceglie, concatena, colora e agisce come l'occhio, che
vede tutte le cose sempre con le sue stesse possibilità naturali; sempre con le
stesse, salvo una fondamentale differenziazione nell'intimità della coscienza e
dell'intelletto dell'uomo, salvo un mutamento generale dell'essere. Quando si
parlerà qui del problema della conoscenza oggettiva del reale, si potrà vedere il
perché l'uomo debba rimanere meravigliato davanti a questa armonia nel
creato: armonia tra il prisma ontologico sempre personale degli esseri e la
conoscenza veramente oggettiva del reale.

b) C'è sempre stata la preoccupazione di essere ben informati per riferire fatti
in verità. Il risalire filologico fino alle più remote antichità mostra che il senso
di responsabilità riguardo alla verità da descrivere e da trasmettere non fu
inferiore a quello dei tempi moderni. Le ingenuità, le lacune in buona fede
inevitabili, le descrizioni e le spiegazioni tendenziose, prive di un vero senso di
responsabilità verso la verità, non furono nell'antichità né più numerose, né più
gravi di quelle che si possono costatare negli uomini, dall'inizio della «storia»
fino ai nostri giorni; è il minimo che si possa dire.

c) Nell'esporre lo sviluppo dei fatti o delle idee, ci sono sempre state, per
ragioni intrinseche all'umana natura, considerazioni, implicite o esplicite, che
possono essere chiamate escatologiche.

È necessario che ci ricordiamo sempre di queste tre verità per evitare erronei
riferimenti al passato quando si parla della scoperta di una nuova dimensione
dell'uomo. La sola cosa nuova fondamentale che è sopraggiunta nei dati e nelle
determinazioni della conoscenza, è la Rivelazione.

La coscienza storica

Das historische Bewusstsein

La nozione generale di «coscienza storica» sia nella filosofia come nella


teologia - con ogni evidenza e secondo la testimonianza di tutti - è stata
formulata e presentata infaticabilmente, nel corso di una lunga vita, dal filosofo
tedesco Wilhelm Dilthey (114). Così egli definisce quel che chiama «la
coscienza storica» (115):

«La considerazione della scienza storica è un'iniziativa tedesca. Ebbe la sua


culla qui a Berlino. Ed io ho avuto l'inestimabile fortuna di vivere e studiare qui
in questo periodo. E se mi chiedessi quale sia stato il suo punto di partenza:
sono le grandi realtà generate dalla evoluzione storica, i sistemi teleologici
(Zweck Zusammenhänge) della civiltà delle nazioni, ed in fin dei conti la
medesima umanità - il loro sviluppo secondo una legge interiore: poi il modo in
cui agiscono sotto forma di forze organizzate e la cui storia nasce in seno alle
rivalità tra stati. Ne risultano infinite conseguenze. Le riassumerei volentieri
chiamandole la coscienza storica».(116)

Questa espressione non segnala certo il vero inizio dell'orientamento del


pensiero verso criteri storicisti, ma segnala la teorizzazione e la
dottrinalizzazione del riferimento, per ogni cosa e riguardo alla realtà, alla
nozione generica e multiforme della storia. E questo, occorre ripeterlo, non è
un'elaborazione che è rimasta nella ristretta cerchia degli ambienti filosofici di
un'epoca; è un orientamento del pensiero che è penetrato o piuttosto che è
stato caldeggiato da teologi protestanti e cattolici, in modo da imprimere
sempre più nel pensiero e nella letteratura generale del mondo cristiano questa
specie di nuova «mistica razionalista»: il senso della storia - la coscienza
storica.

Martin Heidegger considera Dilthey come il fondatore-teorico della nuova


«filosofia storica»:

«L'esame del problema della storia che noi perseguiamo è frutto


dell'assimilazione dell'opera di Dilthey». (117)

C'è un incalcolabile numero di manifestazioni che provano come questa


nuova scala di criteri sia profondamente penetrata nell'ambiente del mondo
cristiano. Queste manifestazioni possono talvolta essere divergenti ed anche
tra loro contraddittorie e condurre eventualmente verso orientamenti diversi,
filosofici o teologici, ma costituiscono un indice e una prova identici: la prova di
questa penetrazione in profondità nel pensiero e persino nella coscienza dei
cristiani ed anche nella Chiesa cattolica. È sempre utile citare alcuni esempi per
documentare questa realtà:

Ci si può riferire al "Corso di dogmatica" in undici volumi dal titolo generico


"Mysterium salutis". (118) A questa somma dogmatica, redatta ogni volta da
un certo numero di teologi (diciotto per il primo volume) e sotto la direzione
generale di due sacerdoti, professori di teologia (119), è allegato alla fine un
dodicesimo volume dal titolo "Lessico dei teologi del secolo XX" sotto la
direzione di Piersandro Vanzan S.I. e Hans Jurgen Schultz. Il libro, sia
nell'introduzione come nel corpo del testo, inizia dall'opera di Wilhelm Dilthey.

Il Padre Piersandro Vanzan così inizia l'introduzione del grande «Lessico»:

«Volendo dare una cornice ai 111 ritratti che formano la galleria di questo
Lessico, cominceremo con l'inquadrare la teologia del secolo XX nella svolta
culturale tipica della nostra epoca: l'emergere della coscienza storica, che
Gadamer (120) considera 'la più importante fra le rivoluzioni da noi subite
dopo l'avvento dell'epoca moderna'. Dove per coscienza storica s'intende, da
una parte, la nuova comprensione (aprioristico-trascendentale) che l'uomo ha
di se stesso quale 'essere della storia' (per cui il suo essere concreto non è più
staticamente inteso e universalmente dato... ) e, dall'altra, la nuova
comprensione o scoperta che, in questo determinato aspetto della sua specifica
costituzione, raggruppante mondo e tempo, l'uomo attinge della 'storia del suo
essere'».

«Tutta l'opera di Dilthey, con cui appunto comincia il nostro Lessico per
evidenziare tale svolta culturale, consiste nello sforzo di costruire,
parallelamente alla critica della ragion pura kantiana, una critica della ragion
storica, con cui ridimensionare la pretesa della coscienza filosofica hegeliana
d'essere un 'sapere assoluto' e attingere invece una comprensione, limitata ma
sicura, delle scienze dello spirito». (121)

Quel che costituisce ancora una di queste manifestazioni di prova è il posto e


l'importanza date in un «Lessico» consacrato ai «Teologi del secolo XX» a
Wilhelm Dilthey che non era un teologo. A parte Dilthey, è pure dimostrativo il
fatto che in questo «Lessico» siano comprese persone che, in ogni modo, non
sono da considerarsi come teologi: il filosofo Martin Heidegger, i professori di
filosofia Karl Jaspers e Hans-Georg Gadamer, lo psichiatra Karl-Gustav Jung, il
filosofo tedesco marxista Ernst Bloch, il filosofo e drammaturgo Gabriel Marcel,
il poeta francese Charles Péguy, il romanziere francese Georges Bernanos, il
fisico Carl Friedrich von Weizsacker, il prete-operaio Henri Perrin, l'ingegnere
Friedrich Dessauer.

D'altra parte non si può fare a meno di vedere come un segno indicativo il fatto
che non sono compresi nell'elenco delle centoundici rappresentanze del
voluminoso Lessico, teologi del XX secolo come il Padre GarrigouLagrange e il
Cardinal Charles Journet.

È necessario ben precisare qui che quest'ultima osservazione non concerne per
nulla le persone citate nel Lessico in quanto tali. È del tutto da escludersi e
completamente estraneo alle intenzioni e ai criteri di queste pagine. Trattasi
unicamente di manifestazioni intellettuali e spirituali, manifestazioni riguardanti
fondamentalmente la vita intellettuale e spirituale della cristianità e della
Chiesa.

Un'altra prova della vastità e della penetrazione del criterio e della sensibilità
storici sta nella cerchia della teologia cattolica è costituita dagli scritti di Karl
Rahner. Ecco una considerazione, fra tante altre, che in fondo predica la
storicità assoluta nella conoscenza:

«Noi viviamo nella storia e solamente nel suo progredire possediamo l'eterna
verità di Dio che è la nostra salvezza. In questa storia essa è sempre la stessa,
ma pur ha avuto e ha ancora una storia. Tale univocità esiste sempre, ma non
permette mai che la separiamo dalle sue forme storiche per poter così, almeno
nella nostra conoscenza della verità, uscire dal moto continuo e dal flusso
storico, per mettere piede sulla ferma riva dell'eternità. Nella storia
possediamo quel che di eterno questa verità presenta, ma appunto lo
possediamo soltanto se ci affidiamo al suo continuo progredire». (122)

Il teologo protestante Rudolf Bultmann (123) testimonia, con differenti


sfumature, della medesima accezione generale della nozione di storia e della
visione storicista della realtà. Ecco per esempio una tra le sue numerose
considerazioni:

«Il risultato globale dello sviluppo fu un emergere sempre più incalzante della
storicità dell'uomo, nel senso che l'uomo dipende dalla storia, è consegnato ad
essa; e la sua Weltanschauung (124), i suoi giudizi, la sua religione, sono
condizionati dalle circostanze storiche in cui, di volta in volta, vengono a
trovarsi. Questa prospettiva è il leit-motiv della storiografia del cosiddetto
positivismo storico; ma ha trovato la sua elaborazione sistematica in campo
filosofico nella filosofia della storia di Wilhelm Dilthey. La considerazione della
storia diventa qui 'psicologia comprendente'». (125)

Nello stesso testo Bultmann parlando delle idee di Gerhard Kruger (126) dice
peraltro:

«È evidente che Kruger deve mettere in antitesi storia e tradizione, se storia è


il cambiamento continuo, tradizione invece l'elemento costante. Questa
contrapposizione di storia e tradizione mi sembra impossibile». (127)

«La risposta alla domanda su che cos'è l'elemento costante dell'uomo, deve
dunque essere: la sua storicità. Ci troviamo in pieno relativismo?
Effettivamente, l'analisi della storicità condotta da Heidegger può essere vista
come la radicalizzazione del relativismo di Dilthey». (128)

E per documentare quanto questa mentalità da noi chiamata storicista


determini e rivesta tutto il pensiero filosofico e teologico dell'universale
ambiente cristiano, sono qui riportate due considerazioni del professore di
teologia Jurgen Moltmann (129), protestante:

«La caratteristica esperienza che l'uomo moderno fa della storia si fonda sulla
costatazione delle infinitamente nuove e opprimenti possibilità che non si
riesce a dominare con i mezzi tramandati per tradizione. Sono possibilità nuove
di bene e di male, di progresso e di catastrofe definitiva». (130)

«Il senso storico, l'interesse per la storia e la necessità di comprenderla


sorgono sempre in momenti di crisi e di inquietudine, in cui cominciano ad
apparire all'orizzonte nuove possibilità, finora sconosciute e insospettate».
(131)
Queste poche illustrazioni e considerazioni non danno certo un'immagine
completa dell'assieme del fenomeno storicista, né offrono una spiegazione atta
a costituire un criterio stabile di ricerca e di conoscenza. Tuttavia mettono in
evidenza quanto sia divenuto universale tale riferimento alla nozione della
storia a riguardo di ogni cosa; universale nel senso che investe tutti i campi del
pensiero e della vita affettiva dell'uomo.

E questo non avrebbe un gran significato per la reale vita degli uomini e per il
cammino di questa stessa storia degli uomini, se non avesse generato e non
generasse continuamente, nelle più intime profondità dell'intendimento e del
volere umani, uno sradicamento dei perenni riferimenti coscienti o
semicoscienti, insostituibili, confermati, purificati e universalizzati dalla
Rivelazione.

Occorrerebbe un lavoro assiduo e collettivo, di più di una generazione, per


redigere una semplice «antologia» degli scritti e degli atti in tutti i campi e di
una sola epoca, concernenti il fenomeno di questo sradicamento e di questa
sostituzione dei criteri. Con la parola «epoca» si può intendere nel contempo
parecchi secoli da un lato e pochi decenni dall'altro. Anche se fosse possibile
una tale «antologia», un tale accumulo di testi e di raccolta di atti esprimenti
questa nuova mentalità, questa nuova direzione del pensiero e del volere,
sarebbero un lavoro ed una pena inutili e vani.

Sarebbe inutile e vano per due ragioni: primariamente perché, per la coscienza
che non avesse perso i riferimenti fondamentali ed essenziali confermati dalla
Rivelazione, sarebbe sufficiente un rapido sguardo circolare per essere
informata ed avere un'immagine della vastità e dell'importanza del fenomeno
dell'alterazione storicista dei criteri; secondariamente, perché per la coscienza
avente ormai l'ottica generale alterata, l'accumulo di testi documentanti tale
trasformazione di mentalità e di sensibilità nei confronti della realtà del mondo
e della Rivelazione, non farebbe che confermare questa coscienza nella sua
nuova visione per il semplice fatto della quantità degli esempi.

Tuttavia uno dei sintomi di questa era - chiamiamola storicista - è il disperato


sforzo per redigere questa chimerica «antologia»; talvolta ci si accorge
dell'impossibilità di una pienezza di sapere. E siccome si è presi dalla corrente
e sballottati quindi nell'illimitato oceano, dalle sempre nuove ondate di fugace
sapere, si ha la nostalgia della terra ferma, ma la si cerca in isole inesistenti,
invece di elevarsi verso l'origine di ogni riferimento.

Ci si accorge del vicolo cieco, lo si riconosce senza però dichiarare fallimento.


Questa confessione è una testimonianza, forse, involontaria, ma pur sempre
testimonianza del vano errare attraverso un sapere problematico, spesso
sofisticato e sempre relativo, errare a cui conduce lo sradicamento dei saldi
criteri, errare che altera innanzi tutto, la vera nozione della Storia e che quindi
turba l'intima coscienza del rapporto dell'identità dell'uomo, dell'appello
dell'uomo, con la sua missione, missione temporale ed eterna.

Quest'ultima considerazione può sembrare a taluni esagerata. È difficile, infatti,


rendersi conto di un tale deterioramento dei criteri. Per questo in tutti i campi
del pensiero, è necessario riferirsi costantemente a testimonianze e a prove
che dissipino i dubbi ed illuminino le coscienze, soprattutto delle persone
giovani che, mosse da un qualche desiderio di verità più o meno profondo, e
generose per natura, restano spesso interdette e dubbiose al primo contatto
con alcune parole e con certe realtà.

Ci sono testi che indicano chiaramente il carattere tragico di questa avventura


intellettuale. Ecco per esempio come Karl Rahner si esprime circa il ruolo che
ormai gioca la quantità di sapere nel problema della conoscenza del reale:

«Che altro può fare l'uomo nella sua situazione caratterizzata da una
"concupiscenza gnoseologica" (che non permette di elaborare né di sintetizzare
la massa enorme del sapere) se non ritirarsi verso questo centro originario;
deve esistere un centro del genere». (132)

Secondo Rahner questa «concupiscenza gnoseologica», concupiscenza che


riguarda la conoscenza, è sin dall'origine o è divenuta dunque (l'autore non lo
precisa) una caratteristica stabile della situazione dell'uomo, almeno di quella
attuale. E il fatto di tale diletto intellettuale non permette di sintetizzare la
somma del sapere. Non permette dunque, sempre secondo Rahner, la
conoscenza, perché la conoscenza significherebbe una sintesi della somma del
sapere in tutti i campi. Sarebbe un elaborato dell'uomo su questa enorme
somma del sapere nei diversi campi.

Se però questo fosse vero, l'uomo dovrebbe smettere di sperare in qualsiasi


cosa. La conoscenza, infatti, non può mai essere considerata come il risultato
di una dominazione del sapere, né di un elaborato analitico sulla base di questo
medesimo sapere.

E Rahner dice che l'uomo, davanti a questa impossibilità, non può che ritirarsi
verso un centro originario. Aggiunge che un tale centro deve esistere. Se però,
un tale centro esiste, perché ritirarsene dopo uno smacco nel dominare il
sapere, fondandosi sulle proprie forze, cioè lungi da questo centro? Perché non
fondarsi sempre su tale centro? Perché seguire la «concupiscenza
intellettuale», che stando ad ogni evidenza, è ben altra cosa dalla gioia della
conoscenza dello spirito? Quel che è significativo, però, è che Rahner così
prosegue:
«Oggi non è più possibile raggiungere una sintesi perfetta tra tutte le verità di
fede da un lato e il sapere e la mentalità odierni dall'altro. Perciò nel nostro
mondo anche il teologo che ha lavorato per tutta la vita nella sua scienza ha il
diritto di dire che, per esempio, egli in quanto non esegeta non è in grado di
spiegare come si concilino positivamente tra di loro Matteo 16,18 e l'ufficio
petrino esistente e accettato con fede nell'odierna Chiesa cattolica. A tale
scopo infatti dovrebbe possedere una tale quantità di cognizioni, quale una
singola testa non è più in grado di contenere. Quel che la teologia
fondamentale diceva una volta a proposito di tale questione non è sicuramente
più sufficiente per una risposta oggettiva». (133)

In queste righe, è espressa ancora una volta l'alterazione dei riferimenti e dei
criteri permanenti. Perché oggi «questo» non sarebbe più possibile, se una
volta almeno lo è stato? Si tratta di fare una sintesi di tutte le verità della fede
con un sapere e la mentalità di un dato tempo? È questo che l'espressione
«verità della fede» suppone? Il sapere con il suo accrescimento sarebbe
realmente allergico alle verità della fede? Sarebbe dunque necessaria una testa
sovrumana, capace di contenere una quantità innumerevole di diverse
cognizioni, per essere esegeta, per poter capire che S. Pietro doveva avere un
successore e che la Chiesa di Cristo non poteva essere figura di alcun'altra
realtà se non di quella del Regno, e che tutte le prove nel suo tempo terreno,
tutte le alterazioni e i tradimenti umani nel suo seno non le avrebbero tolto il
suo carattere, né la necessità di un legislatore e di un pastore supremi?

In modo netto si vede, però, come per Karl Rahner l'ufficio di Pietro accettato
con fede nella Chiesa odierna non possa essere più ricevuto né spiegato a
causa dell'impossibilità di dominare la vastità del sapere e quindi poterlo
sintetizzare con la fede e l'attuale mentalità. E così Karl Rahner, nonostante la
sua perseveranza nell'analisi da «dilettante», come egli stesso dice, arriva
spesso davanti al muro elevato da questa medesima «concupiscenza
gnoseologica». Ed è per questo, che tra tante altre simili manifestazioni,
esclama:

- «Si deve continuamente inculcare al cristiano che oggi per l'uomo è evidente,
anche indipendentemente dalla fede e dalla teologia, che egli deve sopportare
il dato di fatto della concupiscenza gnoseologica. Quante cose esistono nel
nostro mondo che non riusciamo più a convogliare in una sintesi positiva!».
(134)

- «Parlo del rapporto tra papato e episcopato e mi accorgo che propriamente


dovrei essere anche un filosofo del diritto e un costituzionalista che invece non
sono e che non posso diventare.

- «Io sono oggi in grado di scrivere soltanto in modo dilettantistico.


- «Astrazion fatta da alcuni saggi sulla storia del dogma della penitenza, tutto il
resto che ho scritto non è affatto scienza teologica e tanto meno filosofica
(specialistica). Sa troppo di dilettantistico. D'altra parte nella situazione
moderna che ho delineato, ciò è ben giustificato, cosicché io non me ne
vergogno.

- «Non credo che con questo giudizio io svaluti quanto ho scritto. Sostengo
addirittura che oggi, quando parliamo a uomini che vogliono sapere qualcosa di
esistentivo (135), non possiamo parlare e scrivere in altro modo». (136)

Ecco la significativa confessione: non si può parlare agli uomini, se vogliono


imparare qualcosa sulla loro propria esistenza, se non con un linguaggio da
dilettante, e questo perché non è possibile «che una singola testa contenga
tutto il sapere degli uomini», secondo la stessa parola di Rahner. Si dovrà
ritornare su questo argomento a proposito del linguaggio, dell'oggettività e
della soggettività. Questa visione, però, secondo la quale il discorso dell'uomo,
a causa della somma delle cognizioni specializzate, non possa avere né
architettura né universalità, né riferimento diretto ad una verità che trascenda
queste diverse cognizioni, è una visione di un'infinita tristezza.

Per l'uomo, la possibilità di formulare problemi e di proporre argomenti come


espressioni di un aspetto della realtà o di tutta la realtà, è infinita. Non ci sono
limiti per lo spirito umano nel modulare i concetti, in base ad interminabili
combinazioni dei dati sia dell'esperienza, sia della speculazione, sia degli
elaborati personali e gratuiti. Così come non ci sono limiti nella composizione di
sviluppi melodici e di insiemi armonici, combinando i sette toni e i cinque
semitoni, convenzionalmente ammessi come base del linguaggio musicale.

Questa possibilità di generare problemi e argomenti è delimitata e condizionata


soltanto quando c'è una finalità coscientemente percepita e inamovibile o
quando ci sono criteri e riferimenti permanenti nell’uomo.

Sarebbe perciò assurdo credere che sia necessario poter dispiegare davanti a
sé tutte le possibili combinazioni, almeno tutte le combinazioni effettuate dagli
uomini fino alla nostra epoca, per poter infine penetrare il mistero della
musica, riconoscerne le leggi e formulare infine enunciati di indubbia
conoscenza.

Sarebbe assurdo primariamente perché un tal possesso ed una tale rassegna


sono impossibili. Secondariamente ed è quel che più importa - perché,
quand'anche una tale informazione si rendesse possibile, grazie ad una qualche
tecnica straordinaria, non potrebbe far procedere in nulla la nostra vera
conoscenza del mistero e dell'universo musicale. Questo vale anche per
l'informazione totale immaginabile in tutti i campi.
Tuttavia, nella storia del pensiero, spesso abbiamo assistito alla manifestazione
di una tale tendenza e talvolta anche ad una disposizione dello spirito, quale la
manifesta la dichiarazione di Karl Rahner sulla necessità di vedere e di scrivere
le cose da dilettante. (137) Certo non si può sulla terra camminare e pensare
senza una qualche informazione. Il fatto di esistere comporta la necessità di
un'informazione per quel che concerne l'immediato bisogno dell'esistenza fisica
e per quel che concerne il pensiero disinteressato come il culto, la preghiera,
l'adorazione.

Certo non occorre mai parlare e sentire come Auguste Comte che si vantava di
aver stabilito il suo sistema filosofico «in modo irrevocabile», come egli stesso
ebbe a dire, senza aver letto gli autori conosciuti. (138) Questo, però, non
attenua la gravità del fatto che una maggioranza della gioventù dedita allo
studio o attiva, tanto nel campo religioso, come nel campo politico o sociale, si
lasci trascinare, e talvolta con compiacimento, dal miraggio di una
«informazione totale» e dal culto della «ricerca», nel dedalo dell'interminabile
informazione senza vero filo di Arianna.

In tutti i campi, la cosa principale è il criterio fondamentale, che determina


quella che abbiamo chiamato l'ottica generale. L'«informazione totale» è stata
in ogni epoca e sempre lo sarà, un miraggio che permette di muoversi senza
sosta verso un termine che si sposta in continuazione e si allontana, senza
implicare, dunque, un impegno interiore verso una Verità assoluta,
inconfutabile e trascendente. Ci si può compiacere, infatti, in un tale
movimento verso uno scopo irreale; il miraggio non si trova in fondo
all'orizzonte, ma nell'uomo. È l'assenza di criteri fondamentali vissuti a poter
creare o il miraggio dell'«informazione totale» o un «agnosticismo beato»
cosciente o incosciente, confessato o nascosto.

La facilità di parola posseduta dall'uomo permette di contestare una tale


costatazione. Questo non impedisce, però, che il movimento attivo ed
entusiasta verso il miraggio dell'«informazione totale» come anche
l'«agnosticismo beato» facciano nascere ad ogni istante nuovi criteri, cosa che
crea nel contempo un illimitato pluralismo di criteri e di scopi. In questi casi,
ogni nuovo sapere, ogni nuova informazione, ogni speculazione ed intuizione
entrano nell'«io» come in una botte delle Danaidi. Giacché - occorre dirlo, per
quanto duro possa sembrare - a causa dell'assenza di amore fondamentale l'io
non può permettere un criterio e un riferimento oggettivi eterni. E in questo
caso, si possono ammassare all'infinito informazioni e criteri nuovi; la botte
delle Danaidi rimane senza fondo. Il culto intrinseco dell'io non permette una
Conoscenza, una comunione diretta con il reale eterno.

Si realizza effettivamente quel che Jacobi (139) disse per definire Kant:
l'«egoismo speculativo». (140) Non si tratta di un semplice gioco di spirito
circa la psicologia; neanche si tratta della costatazione di una manifestazione
occasionale psicologica; si tratta del rifiuto ontologico che l'io oppone, nel suo
«auto-culto», all'oggettiva verità eterna.

Pertanto, meditando sulla natura e sull'origine del movimento teologico, non è


necessario - e da un certo punto di vista è persino inutile e talvolta nefasto -
voler seguire tutte le «investigazioni analitiche» che si sono tentate e sempre
si tentano, con la pretesa di precisare la natura e la definizione della filosofia,
della teologia e della scienza, i loro rapporti e l'evoluzione di questi rapporti, e
come essi stessi si siano sviluppati, per esempio con la penetrazione di
Aristotele nella Scuola (141), per poter costatare che al tempo di Dilthey si è
concretizzato in modo speciale l'evento, del quale abbiamo già segnalato
l'importanza; il quale ormai già da molto tempo, ma in modo particolare cento
anni prima, al tempo di Kant (142), di Hamann (143), di Herder (144), di
Jacobi, aveva cominciato a cambiare l'orientamento del pensiero e trasformare
i criteri nel mondo cristiano: il fatto di riferirsi alla storia del mondo non
soltanto quale semplice fenomeno d'interminabile successione di eventi e di
rapporti tra gli esseri e non soltanto quale catena di fatti successivi e
interdipendenti tramite i quali o anche mediante i quali si compiono i destini
conosciuti o sconosciuti dell'uomo, ma riferirsi alla Storia quale unica fonte per
la speculazione filosofica e la «metafisica», per la Conoscenza e la Verità,
riferirsi alla Storia, allo sviluppo storico come se esso stesso costituisse
l'essenza e i fini ultimi dell'uomo.

Questo modo di affrontare e di giudicare la realtà degli eventi e la vita, che si


cristallizza in criteri che possiamo qualificare «criteri di escatologia storicista»
ha avuto, alla lunga, insospettabili ed incalcolabili conseguenze: ha alterato
nella coscienza degli uomini il vero senso del mistero della Storia, quindi la
vera realtà della storia.

I rapporti dell'uomo, rapporti originari e costituzionali, in quanto essere e


persona, con la sua origine, con la sua missione e finalità, sono stati
certamente alterati dall'errore iniziale, ma ristabiliti in sé e nelle coscienze dalla
Rivelazione del Redentore. Questi rapporti sono stati capovolti, in modo più o
meno radicale negli spiriti, col prevalere della «coscienza storica»: la persona è
portata a cercare la sua origine e il suo compimento, non soltanto tramite e
mediante gli eventi costituenti la storia, ma in vista della storia e per la storia,
«in vista» di un futuro non extra-storico, neanche intrastorico, ma unicamente
e totalmente storico.

Di fronte a questa immagine dei nostri giorni, di fronte a tutti gli scritti e a tutti
gli insegnamenti orali diffusi sotto il nome di teologia nel mondo, e
particolarmente tra la gioventù studentesca, molti spesso si pongono questa
domanda: quali sono la causa e le leggi fondamentali di un tale sviluppo delle
cose a partire da Cristo Gesù annunciante: «chi perde la sua vita guadagna la
vita eterna», da San Paolo dicente in nome di Cristo: «la nostra patria è nei
cieli», fino alla «coscienza storica» di Dilthey e alla visione filosofica della
coscienza storica di Gadamer, e alla storicità fondamentale dell'antropologia
teologica di Rahner (145); fino alla teologia «sempre in situazione» di
Schillebeeckx (146) o la teologia «dal basso» di Kung?(147)

In genere tutte le teorie filosofiche e tutte le dottrine teologiche, ed anche la


storiografia, preparano, in principio, una specie di risposta, giacché pretendono
voler cogliere o aver colto cause e leggi fondamentali del reale, dunque leggi
fondamentali a proposito della storia, dell'evoluzione del mondo, della missione
dell'uomo e dei suoi fini ultimi.

Ogni dottrina e ogni sistema comportano implicitamente o esplicitamente un


giudizio su tutto quel che è avvenuto fino alla loro epoca. Sin dalla più remota
antichità, attraverso tutte le tappe dello sviluppo del pensiero, il pensatore, il
filosofo o il «teologo» presentano sempre un'intuizione delle leggi e delle
norme del reale, sia a proposito delle essenze degli esseri come delle
esistenze, sia a proposito dell'immutabilità come del movimento.

Ora questo intuire le leggi e le norme, reale o illusorio, implicitamente


comporta una spiegazione (una proposta di spiegazione) del processo degli
eventi e delle idee costituenti l'aspetto almeno esteriore della storia. Per
questo si può dire che tutti i sistemi filosofici e le dottrine teologiche
contengono un principio a proposito dell'evoluzione delle cose del mondo,
dunque della storia, e, di conseguenza, un principio di risposta alla domanda
per sapere come, dalla parola di Cristo e di San Paolo, si sia giunti, nel mondo
cristiano, a idee e a concetti, a sentimenti e a «visioni delle cose», che hanno
fatto sorgere, ai tempi detti moderni, i concetti storicisti e più particolarmente
la filosofia della storia.

Non è dunque «costruendo» una specie di storia della «filosofia della storia»
che si potrà trovare una risposta, un'immagine corrispondente alla profonda
realtà. E questo è così per principio e stando a tutta l'esperienza umana nel
corso dei secoli. Lo scopo e l'intenzione sono qui diversi, e sono semplici e
precisi: mettere in evidenza, con tutta la pazienza necessaria, certi dati che
sono sempre presenti nello sviluppo delle dottrine e dei fatti nella vita, e che
possono costituire una specie di costante, nell'avvicendarsi delle città e dei
sistemi. Si tratta di quei dati la cui risultante ha orientato e orienta il pensiero
e la coscienza verso concetti e concezioni storiciste della realtà.

All'uomo è infatti possibile vedere più o meno chiaramente quanto sia stata
grande, e lo sia ancor oggi, l'influenza di questi dati intellettuali e psicologici, di
questa tendenza storicista, nella formazione e nell'orientamento dell'assieme
delle attuali correnti teologiche, nella cristianità in genere ed anche nella
Chiesa cattolica.

Ed ogni fatica per cogliere questa influenza non avrebbe valore se fosse
soltanto una manifestazione della cultura, un bagaglio in più nella memoria
dell'uomo. Infatti anche la percezione e la penetrazione della realtà più ricca in
argomenti, illustrazioni, e sfumature, rimarrebbero in ogni modo imperfette e
senza reale valore per l'uomo se non fossero rischiarate e interpretate
attraverso un riferimento, una permanente finalità non condizionata dai fatti né
dalla fatica. E con questo scopo, allora, e a questa luce, la percezione e la
comprensione dei dati del movimento storicista, in genere, hanno
un'importanza affinché l'uomo possa emergere da questa immensità di lavori,
di movimenti e di tendenze dei secoli, e ricevere la luce che armonizza e spiega
i fatti e le dottrine, e dissipa ogni cosa inutile: cioè ottenere la vera visione
della storia.

Nello spazio dei 366 anni, trascorsi dalla morte di Lutero (1546) (148) alla
morte di Dilthey (1912), il mondo, e più particolarmente, il mondo cristiano, ha
conosciuto grandi capovolgimenti di ogni specie: intellettuale, spirituale e
sociale. Ed in questo tempo, si sono manifestate numerosissime correnti e
tendenze, che hanno profondamente influenzato la vita intellettuale e spirituale
e quindi la vita dottrinale come pure quella morale nella Chiesa e nel mondo.

Se qualcuno, se uno spirito libero, libero da ogni miseria di sociale ambizione,


da ogni vanità intellettuale, libero perché ama più di ogni altra cosa la verità,
desiderasse farsi un'idea più o meno corrispondente alla realtà di questo
periodo, si accorgerebbe prestissimo che si trova dinanzi ad un inestricabile
ammasso di concetti, di classificazioni, di denominazioni, di correnti, di idee e
di persone. E rimarrebbe stupefatto dinanzi a questa immensa energia che non
è riuscita, almeno in parte, a trasmettere certezza, pace e gioia per amore alla
verità, nel cuore e nella mente delle società e della maggioranza degli uomini
nella cristianità in genere.

Questo uomo, nei confronti della filosofia e della teologia, dovrà molto penare
per trovare in seno alla medesima teoria o tra parecchie, una qualche
conseguenza interna nell'impiego dei termini e delle classificazioni, delle
correnti e delle epoche, concernenti il pensiero, l'azione, l'origine e i fini ultimi
della storia e della vita.

Qualcuno potrebbe considerare tali parole come esagerate o anche del tutto
ingiuste, come non riflettenti la realtà oggettiva. Esse non sono, però, né
esagerate né ingiuste, perché come già è stato detto e lo vedremo appresso,
viviamo oggi stesso in una nebulosità di termini e di significati equivoci e
contraddittori.
Immaginiamo un uomo giovane, battezzato, sincero ed in buona fede, che
desideri studiare il movimento teologico e filosofico dopo Lutero nel pensiero di
alcuni autori che generalmente sono considerati come «pietre miliari» dello
sviluppo del pensiero riguardo alla storia, alla filosofia e alla teologia. Chi gli
garantirebbe la retta comprensione del pensiero di questi autori? Anzi spesso
parecchi autori e commentatori si sforzano, quasi con prestidigitazioni, di
presentare alcuni sistemi o considerazioni filosofiche o teologiche con aspetti
dottrinali per nulla giustificabili, aspetti senza alcuna conseguenza con i
fondamenti dei sistemi e delle considerazioni. Sono sforzi, che si potrebbero
dire «deontologici», cioè sforzi per nascondere per convenienza sociale,
interessata o meno, o le lacune o gli errori, sforzi dunque che non hanno
niente a che fare con l'amore della verità, ma che turbano fondamentalmente
la visuale dei giovani e di ogni persona che cerchi sinceramente di conoscere la
verità.

E a questo giovane sarà dunque difficilissimo, se non impossibile, poter aprire,


con le sue proprie forze, una breccia in questo vasto ammasso pluralistico,
senza un riferimento che trascenda nel suo intendimento e nella sua sensibilità
tutti questi commenti.

______________

Pietre miliari

Per molti, una di queste «pietre miliari» dell'orientamento del pensiero circa la
storia, la filosofia ed infine anche la teologia, è l'opera ed il pensiero di
Giambattista Vico. (149) Sembra che l'espressione «filosofia della storia» sia
dovuta a Voltaire. È Vico, però, che l'ha presentata al mondo degli studi
filosofici e storici, con un insieme di principi, di idee e di considerazioni, come
una «scienza nuova».

È innegabile che l'orientamento del pensiero del Vico ha esercitato con il


tempo, in tutti gli ambienti, una vastissima influenza, tanto diversa e nel
contempo unilaterale. D'altra parte, è anche innegabile, secondo il parere di
tutti, dei suoi apologisti come dei suoi critici, che le sue esposizioni sono in
genere oscure o confuse, in special modo nei punti cruciali dello sviluppo degli
argomenti. Tutti i commentatori del Vico, i suoi critici come i suoi apologisti,
differiscono più o meno sull'interpretazione di questo carattere oscuro o
confuso dei suoi scritti. Differiscono anche sulla portata e sul significato reali di
certe formule, che si potrebbero chiamare «formule-chiave» della concezione
del Vico, come appunto la formula: «la storia ideale eterna».
Se sentiamo il dovere di occuparci, almeno un po' di questa oscurità degli
scritti del Vico, non è certo né per giudicare lo stile né la persona. Solo Dio
conosce il reale fondo delle anime. Dobbiamo occuparcene proprio perché i
contrasti, nelle differenti interpretazioni, permettono già di cogliere l'origine, la
natura e il motivo di questa oscurità, di questa intrinseca difficoltà. E il cogliere
questa oscurità e la sua origine interessa direttamente l'argomento dello
storicismo, così come è stato trattato qui, in quanto importante, significativo e
determinante fattore nello sviluppo delle correnti filosofiche e teologiche.

Certuni attribuiscono questa oscurità o confusione del Vico, che era cattolico,
ad un continuo sforzo per proteggersi contro eventuali reazioni della Chiesa, a
causa del suo orientamento filosofico e scientifico in opposizione ad alcuni
punti fondamentali dell'insegnamento cattolico e della fede. Ecco come uno dei
più sagaci specialisti dell'opera del Vico, Fausto Nicolini, spiega le oscurità:

«... Quelle ipotesi conducevano diritto alla negazione di taluni principi


fondamentali della religione cattolica: negazione alla quale, nel, paese e nel
tempo in cui il Vico scriveva, non sarebbe stato possibile giungere apertamente
senza esporsi a pericoli d'ogni sorta. Donde la necessità di superare codesto
temibile scoglio con tutta una serie di sottili accorgimenti. - Si spiega altresì
perché prendesse a intercalare nei suoi scritti continue professioni di fede
cattolica, culminanti proprio nei passi nei quali una proposizione nettamente
eterodossa venga presentata quale prova irrefutabile della verità della religione
romana. E maggiore importanza ha il fatto ch'egli si sforzasse di cristianizzare
più che potesse quanto, segnatamente nelle ricordate dottrine degli «ateisti»
napoletani, rendesse un suono troppo anticristiano». (150)

Certi altri hanno preteso che questa oscurità sia dovuta al fatto che Vico parla
di due storie in corso di sviluppo, una ordinaria di ciascuna nazione o di
parecchie nazioni, ed una «storia ideale eterna». Ed è questo il motivo per cui,
secondo costoro, il filo conduttore in questa «scienza nuova» diviene oscuro e
confuso proprio nei momenti capitali.

«In Vico i due significati non sempre sono distinti, né sempre chiaramente
avvertiti; e questo è uno dei motivi che nuocciono alla chiarezza del capolavoro
vichiano, tante volte accusato, appunto di oscurità». (151)

Queste interpretazioni sono state sostenute con svariate e notevoli sfumature


da taluni. Benedetto Croce, il filosofo napoletano, uno tra i più ferventi
apologisti e ammiratori del Vico e dell'influenza del suo pensiero, dopo molti
studi ed elogi, ammette che è obbligato a riconoscere, tra molte altre cose
significative, l'interpretazione del Nicolini:

I soli che nel XVIII secolo veramente penetrassero la tendenza fondamentale


del Vico e, pur senza volerlo, ne riconoscessero la genuina grandezza, furono
gli avversari cattolici, che egli, allora, ebbe in buon numero: il Romano, il Lami,
il Rogadeo, e, sopra tutti, il Finetti. Videro costoro che il Vico, nonostante i suoi
fermi propositi di ortodossia religiosa, coltivava un'idea della Provvidenza
affatto difforme da quella della teologia cristiana, e di Dio faceva continua
menzione a parole, ma non lo lasciava poi operare effettivamente, come Dio
personale, nella storia». (152)

Una cosa certa emerge da tutte le interpretazioni: l'esposizione della "Scienza


nuova" comporta difficoltà intrinseche. In parte queste difficoltà provengono
dallo sforzo per una corrispondenza e per una conciliazione impossibili: far
corrispondere o conciliare un vocabolario talora di eternità con un vocabolario
di desideri e di criteri racchiusi nel tempo; far corrispondere o conciliare il
desiderio di presentare una fedeltà all'anelito di eterna liberazione con il
desiderio di una scienza autonoma circa lo sviluppo degli eventi umani,
protratti all'infinito nel tempo terreno.

D'altra parte, nonostante tutte le oscurità o le incoerenze facilmente evidenti


nell'opera del Vico, alcuni punti capitali, fondamentali ed essenziali, della sua
visione generale e dei suoi ragionamenti sono troppo netti per rifugiarsi dietro
ad alcune oscurità, al fine di poter, per affinità personale o per una qualche
deontologia, restare in un'incertezza piena di sottintesi. Giacché, con il pretesto
dell'incertezza, si evita di abbracciare pienamente o di confutare chiaramente,
cioè si evita un impegno deciso davanti ad una spinosa questione. Ed a
proposito del Vico, ci sono state e ci sono ancora parecchie manifestazioni di
un tal giudizio deontologico. Talvolta queste manifestazioni sono tali da
offendere sia l'autore giudicato sia il lettore e il buon senso ed ogni senso di
sacra estetica interiore. (153)

***

Il Vico ha posto degli assiomi concernenti la questione della conoscenza e la


realtà oggettiva del mondo. Questi assiomi sono continuamente contraddetti
da altre affermazioni esse pure assiomatiche. Questo è attestato in modo
esplicito persino dai suoi più ferventi difensori. Le proposizioni non sono
soltanto arricchite da un'estensione includente sempre più campi, con
sfumature che vorrebbero togliere la rigidezza e il carattere abitualmente
sommario e forse troppo condensato delle proposizioni. Si tratta di
proposizioni-assiomi che più volte si annullano a vicenda in seno alle
esposizioni senza una possibile conciliazione. E gli apologisti del Vico costatano
questa irriducibilità e spesso sono portati, talvolta in modo patetico, benché
sconcertante, a tirare conclusioni non giustificate.

Ecco uno degli assiomi-chiave della dottrina del Vico: «In tal densa notte di
tenebre ond'è coverta la prima da noi lontanissima antichità, apparisce questo
lume eterno, che non tramonta, di questa verità, la quale non si può a patto
alcuno chiamar in dubbio: che questo mondo civile egli certamente è stato
fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i
principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana». (154)

Per il Vico è chiaro che l'uomo può ritrovare i principi da dove scaturisce la
storia, perché egli stesso l'ha fatta; e questi principi si possono ritrovare dentro
le «modificazioni della mente umana». Per il Vico l'uomo non può conoscere la
natura. Solo Dio lo può, perché è stato Lui a farla, mentre gli uomini possono
conseguire la scienza della storia perché sono essi a farla:

«A chiunque vi rifletta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si


studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale,
perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e trascurarono di meditare
su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l'avevano
fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini». (155)

Questa sola idea espressa dovrebbe rivelare ad ognuno lo slittamento del


pensiero, della volontà, dell'assieme dell'essere verso una gnoseologia senza
un reale contenuto né sperimentale, né metafisico. Purtroppo non è così.

E poi di seguito un altro assioma, conformemente al quale i principi di ogni


scienza devono essere ricercati nelle cose sulle quali tutti gli uomini
convengono:

«Or, poiché questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini, vediamo in
quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli
uomini, perché tali cose ne potranno dare i principi universali ed eterni, quali
devon essere d'ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutti vi si conservano
in nazioni». (156)

Dunque stando a queste parole del Vico, i principi universali di ogni scienza si
possono trovare nel fatto che tutti gli uomini convengono su alcuni punti. Il
convenire di tutti gli uomini determina la realtà fondamentale intrinseca di ogni
scienza (!). Soltanto un'immensa deontologia potrebbe far passare tali
accezioni tranquillamente e tacitamente o soltanto tacitamente nel mondo
filosofico e scientifico.

Il Vico ha certamente criticato Descartes e gli ha confutato non soltanto


l'assenza di riferimento alla storia, ma in genere il suo razionalismo
meccanicistico. Tuttavia questo non gli ha impedito di vedere e di giudicare,
stando a molti dei suoi apologisti e critici, con uno sguardo di razionalista e di
idealista. Benedetto Croce lo caratterizza come l'ultimo grande filosofo idealista
italiano e come filosofo idealista razionalista. (157)
Il Vico, trascinato dal desiderio di trovare la giustificazione di ogni realtà nel
movimento della storia, e dal desiderio di innalzare un edificio scientifico sulla
base dell'osservazione dei fenomeni della storia nel loro aspetto collettivo e
massivo, ha razionalizzato, in modo stranamente arbitrario, tutti gli elementi in
nome dei quali ha criticato Descartes e tutti i filosofi; cioè in nome di tutti i
suoi riferimenti alla poesia, alla fantasia, e a tutto quello che il percorso delle
civiltà comporta come mistero, come realtà leggendaria e come poesia, sin
dalla più remota antichità dell'umanità.

Il Vico dichiara che si possono e si debbono ritrovare i principi del mondo civile
nelle modificazioni della nostra mente. Cosa può significare questo concetto o
questo principio? Si può passare oltre, dicendo semplicemente: «è oscuro»?
Certamente no, prima perché non è talmente oscuro. Quale il tenore ed il
valore reale del suo principio così enunciato: «Verum ipsum factum» (158)?

Per il Vico, soltanto quel che l'uomo fa è vero. La nozione della conoscenza
s'identifica con la nozione del fare. E il giovane sopra detto, che cerca di
conoscere lo sviluppo del pensiero, può chiedersi con malinconia: come posso
accedere in quel che hanno fatto i miei antenati, poiché non sono io ad averlo
fatto? Come capire questo plurale: gli uomini hanno fatto, e dunque capire
quello che non ho fatto? Visto che quel che ho fatto nella storia è minimo, cosa
posso dunque conoscere di tutta la storia dell'umanità? Come posso pretendere
che ho partecipato alla costruzione delle Piramidi o che ho preso parte alla
battaglia di Maratona o che ho scritto i «Dialoghi» di Platone, per osare
pretendere che ho ottenuto una qualche conoscenza di queste epoche e di
queste civiltà?

Queste domande non sono gretti sofismi. Anzi non si può enunciare un
principio tanto fondamentale a proposito della conoscenza dell'uomo, e voler
coprire poi le sue conseguenze con il fumo, con il fumo di parole che si
contraddicono e contraddicono l'assioma. Giacché talora, a causa di legami
sentimentali o per indifferenza o per naturale generosità, ma priva di
responsabilità, o per giustificare un'opzione presa senza troppa riflessione, si
ha la tendenza di velare le conseguenze intellettuali e morali degli assiomi
enunciati.

Non sono le sfumature che si vogliono attribuire alle parole «scienza» e


«coscienza» e ai loro rapporti, a poter attenuare le inevitabili conseguenze del
principio enunciato dal Vico: «Verum ipsum factum», il Vero è ciò che si fa. Il
pretendere che l'uomo possa a poco a poco conoscere, aver «coscienza», come
dice il Vico, tramite un riferimento assoluto a Dio, non può né dissimulare né
minimizzare il fondamento del suo principio per cui la condizione per conoscere
ogni cosa sia di farla. E siccome Dio conosce ogni cosa e ha fatto ogni cosa (è
insensato voler precisare che Dio conosce ogni cosa in quanto ne è il creatore),
l'uomo non può conoscere, né può avere una scienza reale e perfetta di una
cosa se non ne è il creatore indipendente.

Il fervente commentatore e apologista del Vico, Giuseppe Flores d'Arcais


riconosce che l'uomo non può giungere ad una vera sintesi scientifica. Per lui,
l'uomo pensa in modo limitato, descrive, ma sempre in modo parziale. E
onestamente tira la conclusione necessaria:

«Tuttavia, per una di quelle estensioni, che non mancano nel pensiero del Vico,
il filosofo applica all'uomo lo stesso criterio di Dio: anche l'uomo potrà avere
scienza di ciò di cui egli sia costruttore. Ed è di fatto costruttore l'uomo: delle
matematiche, perché egli crea il punto e l'unità, e con il punto la grandezza, e
con l'uno il numero - 'Mathematica demonstramus, quia verum facimus' -.
Come sarebbe infatti possibile riconoscere da parte della nostra mente
l'assoluta certezza del conoscere, se non perché è per essa valido quello stesso
principio del 'verum ipsum factum', che vale per Dio?» (159)

Tuttavia l'uomo semplice, che ama profondamente la verità, al di là di ogni


deontologia sentimentale o interessata, può chiedersi: Come potrebbe l'uomo
«costruire» la matematica, senza avere una qualche conoscenza, e senza che
questa conoscenza sia dovuta a ben altra cosa che al fatto di averla
«costruita»? Come riferirsi a Platone, per giustificare il «verum ipsum factum»,
quando per Platone il primissimo movimento è la conoscenza? Come accettare
poi che l'uomo può avere la scienza della storia, perché l'ha fatta e dichiarare
nello stesso tempo che Dio è il creatore di ogni cosa e di ogni realtà? E come è
possibile far concordare l'altra proposizione dello stesso Vico:

«In cotal favola i filosofi poi ficcarono il più sublime delle loro meditazioni
metafisiche: che l'idea eterna in Dio è generata da esso Dio, ove l'idee create
sono in noi prodotte da Dio (160).

A parte ogni altra osservazione che si potrebbe fare a proposito di tutte queste
svariate proposizioni, una verità è evidente: primariamente, una volontà di
divinizzazione dell'uomo nel suo conoscere e fare, al di fuori di ogni riferimento
ad una nozione di redenzione; secondariamente un inter-annullamento dei
principi: da un lato, «verum ipsum factum» e dall'altro «l'idee create sono in
noi prodotte da Dio». Questo apologista, preoccupato a causa della sua probità
intellettuale e spirituale, cerca ad ogni costo di mettere in valore il riferimento
del Vico a Platone, con applicazioni forzate, per conservare certi principi
riguardanti sia la conoscenza dell'uomo, sia il valore storico, particolarmente
per la pedagogia. (161) Tuttavia nel corso delle sue esposizioni, si sente
obbligato ad evidenziare alcune incoerenze:

«Questa incertezza tra i momenti ideali e i momenti storici fa sì che venga a


presentarsi confuso lo stesso concetto della natura umana, che dovrebbe
essere spiegata nei suoi elementi ideali, mentre, spesso, viene caratterizzata
soltanto attraverso i momenti temporali della storia.

«Ma questa confusione tra i momenti ideali e i momenti temporali, che è poi la
impossibilità di stabilire la concordanza perfetta tra la filosofia e la storia, è
difetto costitutivo della mentalità vichiana, e deriva dall'aver voluto applicare
assolutamente all'uomo quello stesso criterio del 'verum ipsum factum' ,che ha
il suo pieno significato soltanto per la Divinità. Ciò è il vizio intimo di struttura
della 'Scienza nuova'». (162)

Se l'intellighenzia, in questi 250 anni, dal Vico ai nostri giorni, avesse


affrontato questo «vizio» con un'altra sensibilità nei riguardi della verità e nei
riguardi della Rivelazione, con una minore ebbrezza umanista e naturalista
cosa che spostava il centro di gravità della speranza cristiana -, il dramma
interiore intellettuale e morale del Vico non sarebbe divenuto un riferimento
fondamentale dottrinale dello storicismo, perché la nozione di storia non
sarebbe alterata, anzi sarebbe ogni giorno di più approfondita dalla vera
speranza in una vera liberazione eterna dell'uomo.

Ora, questo «verum ipsum factum» non è che un arbitrario «slogan», senza
fondamento né sperimentale né metafisico. Fa pensare però, ad un'antitesi
della sublime testimonianza di San Giovanni. Cioè non più «all'inizio era il
Verbo», ma «all'inizio era l'azione»:

«Sta scritto: "In principio era il Verbo".

E eccomi già fermo. Chi m'aiuta a procedere?

M'è impossibile dare a "Verbo"

tanto valore. Devo tradurre altrimenti,

se mi darà giusto lume lo Spirito.

Sta scritto: "In principio era il Pensiero".

Medita bene il primo rigo,

ché non ti corra troppo la penna.

Quel che tutto crea e opera, è il Pensiero?

Dovrebb'essere: "In principio era l'Energia".

Pure, mentre trascrivo questa parola, qualcosa

già mi dice che non qui potrò fermarmi.

Mi dà aiuto lo Spirito! Ecco che vedo chiaro


e, ormai sicuro, scrivo: "In principio era l'Azione"»! (163)

Un altro principio-assioma del Vico è quello della «storia ideale eterna». In


questa espressione la parola «eterna», come già abbiamo detto, è sprovvista
del suo interiore senso cristiano. Cosa può essere questa «storia ideale» e al
contempo «eterna»? Stando a quanto emerge dall'assieme delle proposizioni
chiare, semi chiare o contraddittorie della "Scienza nuova" non potrebbe essere
altro che:

- o il perenne ricorso sullo stesso schema delle curve degli sviluppi dei popoli,
corsi e ricorsi perpetui, senza fine, senza un termine immaginabile;

- o una grande città, una grande civiltà, verso la quale i popoli camminano o
dovrebbero camminare, attraverso i loro corsi e ricorsi, città che oramai
sarebbe liberatrice e senza ricorso, città lontana che si perde nella notte dei
tempi futuri e che sarebbe il segreto intimo della storia;

- o un «godimento» (?) davanti a questo movimento interminabile, davanti a


questi corsi e ricorsi delle nazioni, da parte di spiriti superiori extra-storici;
godimento davanti ad uno spettacolo i cui attori sarebbero i popoli, gli uomini
che nascono e che muoiono;

- o ogni altra combinazione complicata più di quanto si possa immaginare, in


seno ai movimenti massivi dei popoli nel tempo.

Quel che di capitale emerge dalla "Scienza nuova", è che l'uomo non trova
giustificazione alla sua esistenza se non nel susseguirsi dei corsi e ricorsi delle
nazioni, secondo una delle accezioni possibili appena immaginate. Ogni altro
commento, che cercasse di combinare stralci di proposizioni contraddittorie
sparse nella "Scienza nuova" per dare all'espressione «storia ideale eterna» un
alone di giustificazione secondo il messaggio di Cristo, sarebbe una
mistificazione. La nozione infatti di eternità nella "Scienza nuova" non perfora
lo sconfinato tetto della storia, né il suo orizzonte sempre sfuggente:

«Questa Scienza viene nello stesso tempo a descrivere una storia ideal eterna,
sopra la quale corron in tempo le storie di tutte le nazioni ne' loro sorgimenti,
progressi, stati, decadenze e fini». (164)

La parola «eterna» prende dunque soltanto un senso d'immutabile e


d'implacabile. Non c'è nessuno spiraglio verso la speranza di una salvezza
personale dell'uomo, elaborata in seno alla storia e realizzata al di fuori della
storia delle nazioni da venire nel tempo. Nella "Scienza nuova" non c'è nessuna
salvezza personale; non c'è posto per il Cristo incarnato e risorto.

Nicola Abbagnano, nella sua "Storia della Filosofia", così commenta


l'espressione «storia ideale eterna»:
«La storia ideale eterna è la struttura che regge la storia temporale, la norma
che consente di giudicarla. In questo senso è il dover essere della storia nel
tempo; ma è un dover essere che non annulla la problematicità di tale storia,
la quale può anche non adeguarsi ad essa e non raggiungere il termine che
essa addita». (165)

E Benedetto Croce, che nessuno potrebbe classificare tra i difensori del


Cristianesimo, riconosce che, nella storia dell'umanità, secondo la dottrina
cristiana, c'è stata una rivelazione primitiva che la «storia ideale» di Vico
ignora e rifiuta:

«Vico distaccava con taglio così netto storia profana e storia sacra da giungere
a una dottrina affatto naturale e umana delle origini della civiltà (mercé lo
stato ferino) e di quelle della religione (mercé il timore, il pudore (166) e
l'universale fantastico), laddove la dottrina tradizionale cattolica ammetteva
una certa comunicazione tra la storia sacra e la profana, e nella religione e
civiltà pagana riconosceva il lievito operante di una qualche notizia, sia pur
vaga, della primitiva verità rivelata». (167)

Che questo sia così, che la «storia ideale» sia una «Città» ideale di un futuro
indeterminato, un riferimento ideale ma inaccessibile, o accessibile in un tempo
ignoto, il pateticamente fedele e contemporaneamente onesto Giuseppe Flores
d'Arcais l'ha costatato e l'attesta:

«La storia ideale eterna si deve riportare così alla repubblica di Platone». (168)

Vico, per concludere la "Scienza nuova", si riferisce a Platone, e


particolarmente alla "Repubblica" di Platone. Se ne fa un riferimento come se
questa «repubblica» fosse l'ideale che, come una forza immanente, spingesse
da principio il genere umano verso questa stessa repubblica. Ed è per questo
che così inizia l'ultimo capitolo della "Scienza nuova", la conclusione dell'opera:

«Conchiudiamo adunque quest'opera con Platone, il quale fa una quarta spezie


di repubblica, nella quale gli uomini onesti e dabbene fussero supremi signori;
che sarebbe la vera aristocrazia naturale. Tal repubblica, la qual intese Platone,
così condusse la provvedenza da' primi incominciamenti delle nazioni». (169)

Questa «repubblica» di Platone è dunque la città ideale della «storia ideale


eterna», verso la quale camminano, guidate da una provvidenza, tutte le
nazioni. Questa città ideale può essere accessibile o inaccessibile, ma è lo
scopo ideale della provvidenza.

E Vico parla della provvidenza. Ma chi esercita questa provvidenza? Da chi


emana? Egli la chiama «divina». Ma sono gli uomini ad aver fatto la storia e
appunto per questo possono conoscerla. Come l'uomo può conoscere e parlare
con una tale sicurezza di una provvidenza che non ha creato, dato che la storia
è creazione dell'uomo, volontaria e deliberata in quanto «per scelta»? Il ruolo
che Vico affida all'uomo nella creazione della storia è tale da rendere
impossibile la realizzazione dell'armonia della dottrina evangelica, cioè
l'armonia tra santa Provvidenza divina, libero arbitrio e predestinazione. Tutti
hanno sempre tanto penato per presentare «decentemente» la contraddizione
di certi termini come quello di provvidenza nel vocabolario del Vico.

È superfluo, inutile e per di più improbo confrontare ognuna delle


numerosissime proposizioni con il suo riscontro contraddittorio. In ogni caso,
non è lo scopo di queste pagine. Per ogni uomo in buona fede, è stato
sufficientemente detto, perché colga non soltanto il fatto di questa perenne
evasione di ogni proposizione verso altre, ma anche il fondamentale motivo di
un tale vortice che ha fatto seguito da vicino alla filosofia e alla teologia degli
ultimi secoli.

Per cogliere questo motivo centrale della continua contraddizione del Vico,
dovrebbe bastare il racconto immaginario tendente a spiegare, sotto forma
«razionale» (?), l'inizio dell'umanità, il succedersi delle civiltà, il passaggio
dall'età ferina all'età della fantasia e poi della ragione; e più di tutto dovrebbe
bastare il racconto insensato e triviale a proposito dell'istituzione del
matrimonio monogamico nelle caverne e la formazione delle classi sociali, ed il
racconto a proposito della crescita degli esseri umani nella sporcizia per
spiegare la formazione dei giganti. (170)

Una cosa è certa: nella visione storica del Vico, non c'è posto per una
predisposizione da parte di un Dio personale e creatore in seno alle storie
umane, con la missione di conservare il libero accesso all'amore di Dio e la
salvezza eterna dell'uomo preso nella sua personalità distinta e al tempo
stesso unita a tutti gli altri.

Per questo Emile Bréhier scrive nella sua "Histoire de la Philosophie" che Vico
ammette una provvidenza di Dio e aggiunge:

«Ammette, ma per questa stessa ragione la lascia (la provvidenza)


deliberatamente fuori dalla propria ricerca, giacché vuole determinare le leggi
naturali della storia, indipendente da ogni intervento miracoloso (privandosi
d'altronde così di tutti i documenti che la Bibbia potrebbe fornirgli)». (171)

Ogni nozione di giustizia è intra-storica, cioè si manifesta tramite gli alti e bassi
delle nazioni. (172) Tuttavia gli uomini, pur subendo le catastrofi, le malattie e
la morte, non «subiscono» la storia perché sono loro che la fanno
deliberatamente. Così parla il Vico:
«Questo, che fece tutto ciò, fu pur mente, perché 'l fecero gli uomini con
intelligenza; non fu fato, perché 'l fecero con elezione; non caso, perché con
perpetuità, sempre così faccendo, escono nelle medesime cose». (173)

Nonostante la grande moltitudine delle proposizioni e delle contraddizioni della


"Scienza nuova", la conclusione è semplice e può esprimersi per intero in
poche parole:

- la volontà di trovare nel flusso della storia leggi immutabili naturali che
gestiscano la successione dei fatti e delle città.

- la volontà e il desiderio profondo e sagace di presentare l'umanità come


autonoma in un perenne movimento, al di fuori di ogni nozione di progresso; e
sulla base di un principio secondo il quale tutti i «momenti», sia quelli razionali
come quelli fantastici, sono uguali e secondo il quale l'agire umano, anche
quello inconscio, non può comportare elementi di errore e di male. (174)

- la volontà di presentare un riferimento generale al cristianesimo, seppur


vago, lontano e contraddittorio; e nel contempo di distogliere lo sguardo
dell'uomo da ogni riferimento che non sia quello del perenne divenire delle
nazioni, che per lui è la Storia.

Questa triplice volontà spiega l'oscurità, la confusione e la contraddizione


dell'opera del Vico, attestate, in un modo o in un altro, dai suoi critici e dai suoi
apologisti. Se tutti gli storici della filosofia non considerano il Vico come un
fondatore di scuola o di corrente, ciò non impedisce che egli sia una «pietra
miliare». Pietra miliare del cammino verso il pensiero e la sensibilità storici sta
nella filosofia e nella teologia.

Si è detto che il Vico ha separato la storia profana dalla storia sacra. (175) La
verità è che, nonostante queste due storie, la storia ordinaria delle nazioni e la
«storia ideale eterna», ha in realtà unificato ogni nozione e accezione di storia
in una sola visione naturalistica. Il riferimento del Vico alla «poesia», al
fantastico e all'immaginazione non va oltre l'immaginazione epica,
massivamente eroica: nessuna reale vibrazione di intima poesia dell'uomo, di
intima nostalgia dell'essere che serba in sé le impronte della sua origine sacra,
perché creato da Dio; nessuna lettura veramente poetica ed educativa della
natura; nessuna speranza per la singola persona umana, speranza di unione
diretta con il suo Creatore.

Nel Vico, la storia ordinaria rispetto alla «storia ideale eterna», può essere
paragonata al movimento della terra intorno al sole. Nessuna differenza
qualitativa tra le due realtà: movimento da un lato e movimento dall'altro.
Questa volontà e questa visione del Vico hanno precluso il vero adito verso
l'unico ed essenziale riferimento di eternità per ogni essere nei suoi rapporti
con il suo Creatore, e hanno aperto la via dello slittamento verso il polimorfo e
al contempo uniforme storicismo e verso la massificazione, alterando così in
profondità la giusta visione ed il veridico e profondo senso della Storia.

E così dopo 150 anni, si vede Dilthey, il fondatore dello storicismo moderno,
adottare gli argomenti del Vico:

«La prima condizione per la possibilità di una scienza della storia sta nel fatto
che io stesso sia un essere storico e che colui che studia la storia e fa ricerche
sulla storia sia anche colui che fa la storia». (176)

E così anche nel nostro tempo, notiamo rinomati teologi, come per esempio
Karl Rahner, adottare una visione della storia che conduce alla naturalizzazione
della grazia e all'assorbimento di ciascun uomo nell'entità massiva della società
storica, fondamenti questi della filosofia della storia del Vico:

«Con il progredire della storia della grazia, il mondo diviene sempre più
indipendente, maturo, profano e deve pensare ad auto-realizzarsi. Questa
crescente «mondanità» storica del mondo - malgrado i colpevoli equivoci e le
sempre) presenti deformazioni a ben guardare non è una sventura che si
contrappone ostinatamente alla grazia e alla Chiesa, ma invece è il modo, nel
quale la grazia si realizza poco a poco nella creazione: come liberazione e
legittimazione del mondo nella sua specificità». (177)

- «È necessario elaborare i principi di una 'teologia politica', cioè di sviluppare


la teologia (come contenuto) in generale, ed in particolare l'ecc1esiologia
tenendo conto della loro importanza socio-politica e creatrice di storia. Soltanto
così sarà superata la riduzione individualista della rivelazione alla salvezza di
ogni uomo». (178)

Il nostro giovane, del quale abbiamo parlato sopra, senza riferirsi ad alcun
«luogo teologico», né ad alcun discorso intricato del passato o dei nostri giorni,
può, davanti a queste affermazioni di un teologo del suo tempo, sentirsi
sconcertato ed esprimere il suo grave problema ai successori degli Apostoli:

Quando si parla di «storia della grazia», questo significa che la grazia divina
discende sugli uomini, li penetra e li trasforma, nella misura in cui è accolta
con buona volontà dall'uomo, e così un numero più o meno grande di uomini si
sussegue e, con questo susseguirsi, la grazia di Dio si espande, penetra e
agisce nel mondo. Ecco quel che si può chiamare «la storia della grazia». Ora
quando qualcuno dice che «man mano che la storia della grazia progredisce, il
mondo diviene sempre più indipendente e profano», cosa si deve capire?

Non si può né si deve capire nient'altro, ossia nessuno ha il diritto di


pretendere di poter capire altra cosa se non che il mondo profano diventa più
profano e che si separa sempre più dalla «tutela» della grazia; e questo
incremento del suo carattere profano e questa indipendenza rispetto alla grazia
divina è l'opera stessa della grazia; e in fondo la grazia «si realizza» poco a
poco, e questa realizzazione della grazia è l'emancipazione del mondo nei
confronti della grazia ed un'autonomia nel suo specifico carattere di mondo
che, essendo già profano, è divenuto ancor più profano per il progredire della
storia della grazia.

Di fronte a chi potrebbe divenire più indipendente? Di fronte al peccato? Di


fronte al male? Ma allora la parola «profano» starebbe a significare il mondo
santo, senza peccato. Perché vi sarebbe dunque bisogno della grazia,
dell'Incarnazione e della Passione di Cristo? La parola «profano», così com'è
impiegata dal Concilio nella Costituzione «Gaudium et spes» (179), è
impiegata per indicare tutta la creazione. La fede è venuta per rimuovere
l'uomo dalla ignoranza, dal male. E per questo, dire che il mondo diventa più
profano per la grazia non può altro significare se non che il mondo perde la
necessità della fede e deve perdere ogni dipendenza. Se alla parola «profano»
si vuole attribuire il significato della creazione pura di ogni realtà universale,
anche in questo senso, la grazia non avrebbe come opera, come missione e
come risultato il rendere il mondo più «creazione», il che sarebbe una
proposizione assurda; né più indipendente, perché è la nozione del peccato ad
indicare lo sforzo d'indipendenza della volontà nei confronti dell'ordine e
dell'eterna volontà del Creatore.

Ancora una volta, ci si trova davanti ad un caso di questa malaugurata


tendenza a trastullarsi con le parole e con i significati delle parole. Quale
significato ha nei testi di Rahner, la parola «profano»? Giacché da lì dipende la
comprensione di tutto il suo enunciato.

Spesso molte persone, in un modo o in un altro, si riferiscono ad alcuni testi


del Concilio Vaticano II, per sostenere che il profano e il non-profano
rappresentano realtà di pari valore e di pari significato etico, spirituale ed
escatologico. Se questo fosse possibile, l'enunciato di Karl Rahner potrebbe
essere in armonia con il Concilio. Ma non è così. Anzi è tutto il contrario. E quel
che è gravissimo, è che questa mistificazione si ripete.

La parola «profano» invece è utilizzata con un significato specifico dal Concilio


nella Costituzione pastorale «Gaudium et Spes». In questa costituzione è
scritto:

«Perciò la ricerca metodica in ogni disciplina, se procede in maniera veramente


scientifica e secondo le norme morali, non sarà mai in reale contrasto con la
fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal
medesimo Dio». (179)
S'intende qui con la parola «profano» la creazione originaria; e «le realtà della
fede» sono quelle che sono state rivelate agli uomini dopo che la creazione
originaria si è addentrata nella storia della disarmonia tra la legge di Dio e la
volontà dell'uomo. Tutte e due le realtà traggono la loro origine da Dio. E
affinché nessuno possa pretendere o voler insinuare una qualche «autonomia»
del temporale, il Concilio nello stesso paragrafo precisa:

«Se invece con l'espressione «autonomia delle realtà temporali» s'intende che
le cose create non dipendono da Dio, e che l'uomo può disporne senza riferirle
al Creatore, allora la falsità di tale opinione non può sfuggire a chiunque crede
in Dio». (179)

Come si può dire che nella misura in cui la grazia progredisce, il mondo diventa
più indipendente e che deve «auto-realizzarsi»? Giacché diventare
indipendente dalla grazia significa allora diventare indipendente da Dio. E
secondo la formula del Concilio, «la creatura, senza il Creatore svanisce».
(179)

L'enunciato di Karl Rahner, appena citato sopra, suppone una visione del
mondo e della storia del tutto estranea a quella che il Concilio esprime, quando
parla della medesima origine delle «realtà profane» e delle «realtà della fede».
In tutte le Costituzioni e tutti i Decreti, anche là dove si specifica tutto quel che
vi può essere come valore positivo nel mondo, come nella Costituzione
«Gaudium et spes», la visione fondamentale della Chiesa nei confronti della
storia rimane immutabile; contiene il primordiale dovere del perenne
combattimento spirituale al quale l'uomo è chiamato fino alla fine della propria
vita, e al quale sono chiamati gli uomini fino alla fine del mondo:

«Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una dura lotta contro le
potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall'origine del mondo e che durerà,
come dice il Signore, fino all'ultimo giorno. Inserito in questa battaglia, l'uomo
deve combattere senza soste per aderire al bene, né può. conseguire la sua
unità interiore se non a prezzo di grandi fatiche, con l'aiuto della grazia di
Dio». (180)

Conformemente al secondo enunciato di Rahner sopra citato, per corrispondere


alle necessità del mondo secondo una «nuova» intelligenza della realtà e della
rivelazione, occorrerebbe creare una teologia ed un'ecclesiologia, tenendo
conto «della loro importanza socio-politica e creatrice di storia», perché
sarebbe il solo mezzo di una teologia universale per superare «la riduzione
individualista della rivelazione alla salvezza di ogni uomo».

E il nostro giovane, con l'acume e la profondità della vera innocenza, potrebbe


chiedersi come l'umanità può essere salvata nel suo insieme, come entità
universale, se ogni uomo non è salvato come unità? L'uomo è ogni volta un
essere unico, creato nell'ordine e in vista dell'ordine di armonia con tutte le
unità, ma non è destinato ad essere assorbito e annientato come tale in un
immenso agglomerato senza limiti.

Questa nozione dell'essere «ogni volta unico», la cui liberazione consiste


nell'unione diretta con il Creatore viene rifiutata da una grande quantità di
scritti, in nome delle esigenze cosiddette scientifiche dell'attuale teologia;
sarebbe più giusto dire: della mentalità attuale.

Questa mentalità attuale è la stessa che si trova negli scritti del Vico e di tutta
una serie di pensatori, di filosofi e di teologi, che gli sono succeduti come Kant,
Herder, Hamann, Jacobi, Hegel, Dilthey, Teilhard de Chardin, Heidegger,
Bultmann, Blondel, Maritain, Rahner, Hans Kiing, Schillebeeckx, Moltmann,
Metz, Gutierrez, ecc. Non si tratta di un'ideologia; non si tratta di un'identità
«di speranza» specifica o di una particolare estetica. Si tratta di una particolare
mentalità, di un'opzione della volontà che trascina il pensiero ed anche la
sensibilità - se non l'attenua verso un certo orientamento, verso una certa
visione dell'essere umano, dei fatti e del corso della storia. E quel che è
notevole - tristemente notevole, certo - è che dovunque, in tutti, questa
mentalità storicista sposta, in un modo o in un altro, il centro di gravità del
pensiero e di ogni speculazione, e cambia, più o meno radicalmente, il
contenuto della Speranza.

***

Johann-Gottfried Herder, molto più arioso, più ordinato ed in ogni modo più
poetico del Vico, è considerato come il fondatore della filosofia della storia in
Germania. Da certuni è classificato come teologo, come «il teologo tra i classici
della letteratura tedesca».(181) Prima di ogni altra cosa, occorre costatare
immediatamente che la sua visione della storia ha veramente spostato in modo
netto il centro di gravità della Realtà e del Messaggio di Cristo.

Taluni esegeti e critici protestanti, come per esempio Hans-Joachim Kraus


(182), attribuiscono alla sua opera una grandissima importanza per lo sviluppo
delle ricerche a proposito dell' Antico Testamento. E Hermann Gunkel (183) ha
egli stesso scritto che «si muoveva» sulle tracce di Herder e di Wellhausen
(184). Lo stesso Kraus dice che Herder, con il suo «umanesimo ebraico», si è
innalzato al di sopra dell'ortodossia e del razionalismo. (185) Lo scopo adesso
non è quello d'intraprendere un esame sull'«importanza» e sulla natura
dell'influenza di Herder, nello sviluppo al contempo intricato e unilaterale, della
critica storica e dell'esegesi in Germania e quindi anche nel mondo cristiano.
Sarà invece molto utile avere un'immagine fedele dello spirito dello storicismo
di Herder, per poter così giudicare quale realmente sia questo spirito che ha
avuto questa «importanza» che gli si riconosce.
Franco Venturi, nell'introduzione all'edizione italiana di "Ancora una filosofia
della storia" dice chiaramente che la visione di Herder sulla Sacra Scrittura era
il risultato della lotta tra due correnti nei confronti della Rivelazione e
dell'origine della Sacra Scrittura, lotta che per molto tempo si svolgeva nella
sua anima, come nell'anima di molti scrittori di quell'epoca. E insiste sul fatto
che Herder è stato influenzato dal «deismo settecentesco» e si è trovato in
nettissimo contrasto con la teologia tradizionale. Secondo l'espressione del
Venturi, è vero dire che in Herder non è stata la teologia a guidare il suo
pensiero, bensì un «pensiero storico in formazione»; la teologia accompagnava
semplicemente questo pensiero. (186)

Ed è significativo qui il fatto che anche Franco Venturi riconosca una


caratteristica comune a tutti gli storicisti: cioè che Herder era impregnato di
deismo settecentesco e che la sua visione della Provvidenza svelava le
contraddizioni del suo «storicismo nascente». (187)

Herder, di un'incontestabile ricchezza di fantasia, che vedeva la storia in


immensi affreschi, affreschi pieni di agitazione e di movimento di provvidenza
e di volontà umana, umanista «illuministicamente» anti-illuminista, non ha
potuto evitare di essere aspirato dal miraggio della «giustificazione storicista»
della Storia. Il mistero dell'uomo «ogni volta unico» è sempre più superato
dall'«agglomerato», ed il poeta umanista, affascinato dal movimento degli
assiemi storici, mostra spesso una sensibilità affievolita:

«Nella propria età nessuno mai è solo, costruisce sul passato, e diventa base
del futuro, altro non vuol essere: così parla l'analogia della natura, la parlante
immagine di Dio in tutte le opere sue, e questo pure è il linguaggio del genere
umano. Gli Egizi non avrebbero potuto esistere senza gli Orientali, il Greco
costruì su di quelli, il Romano si erse sulle spalle del mondo tutto: progresso
reale, sviluppo in continuo processo anche se i singoli non vi guadagnano
nulla».(188)

Ci si può, anzi ci si deve chiedere come Herder potesse conciliare questa


visione del progresso storico, di un progresso ove tutto è valorizzato da
movimenti e da trasformazioni di grandi insiemi e dove «il singolo non
guadagna nulla», con l'insegnamento divino del Buon Pastore che, lasciate le
novantanove pecore è andato dietro a quella perduta, e dopo averla ritrovata,
l'ha messa sulle sue spalle ed è ritornato a casa per far festa. (189)

Nella perenne, evidente o camuffata contraddizione, è impossibile - e abbiamo


il diritto di pensare che fosse impossibile per lo stesso Herder - di trovare una
conseguenza, un'armonia nelle considerazioni, un'armonia nella speranza.
Come conciliare questa implacabilità del progresso, dove «i singoli non
guadagnano nulla» e la seguente affermazione, che si trova in un altro capitolo
della stessa opera:

- «La felicità dell'uomo è dappertutto un bene individuale e, quindi,


dappertutto in rapporto alla conformazione organica e al clima, frutto
dell'esercizio, della tradizione e dell'abitudine». (190)

- «Se si può trovare felicità sulla terra, è in ogni essere senziente; anzi essa
deve essere in lui per opera della natura e anche l'arte ausiliare deve diventare
in lui natura, se deve dare gioia». (191)

In Herder non c'è la possibilità né di una conseguenza né di un'armonia tra le


proposizioni, le allusioni e le arbitrarie sentenze riguardanti i più grandi eventi
e il più profondo mistero, il quale si risente in tutte le manifestazioni, in tutte le
evoluzioni, in tutte le ascese e i declini del lineare processo della storia. Con
altre formule e con altre parole si ritrova in Herder la stessa labilità e la stessa
incertezza e la stessa contraddizione.

Se dovessimo costatare dagli Egiziani agli Orientali, dagli Orientali ai Greci, nei
Romani, erigentisi su tutti questi e sul mondo intero, un «progresso reale»,
uno sviluppo in continuo progresso, pur senza alcun guadagno per i singoli,
come capire che «la felicità dell'uomo è dappertutto un bene individuale
dipendente dalla sua conformazione organica e dal clima e
contemporaneamente dalla tradizione e dall'abitudine»?

Tutta la posizione e l'esposizione della visione di Herder mettono in chiaro il


desiderio di giustificare la vita e tutte le pene degli uomini, e di fissare la
speranza nella perennità del movimento evolutivo degli infiniti insiemi; e
questo, con allusioni ad altri «fini superiori» e ad altri esseri, ai quali non
bisogna pensare, perché non è dato all'uomo, per natura delle cose, di
conoscerli e d'intuirli:

«… per il nobile orgoglio, in cui consiste la sua destinazione, gli è stata tolta la
vista di esseri più nobili, perché probabilmente noi disprezzeremmo noi stessi,
se li conoscessimo». (192)

E Herder aggiunge questa sentenza-istruzione che svela, come tante altre, il


carattere che si può definire «illuminista occulto» del suo sogno:

«L'uomo, dunque, non deve guardare nel suo stato futuro, ma soltanto
credervi». (192)

Utilizzare di tanto in tanto o anche spesso il nome di Dio e le parole «nobile»,


«bellezza», «bontà» e altre simili non può dissimulare l'assenza di un reale
riferimento del pensiero e del cuore a Dio Creatore e Salvatore; né ripetendo di
tanto in tanto le parole:«***» («eschaton»), «fini ultimi» e' «scopo ultimo» si
può dissimulare il rigetto, talvolta veemente e ostile, della promessa di
resurrezione e di vita eterna.

Talvolta Herder stesso ha senza dubbio sentito quanto questo metodo


d'informazione e di formazione dei criteri, e di ricerca di leggi universali
immutabili, fosse in fondo una costruzione utopica. Nonostante i dettagli e i
numerosi riferimenti a fatti e a realtà storiche, nonostante la ricchezza delle
immagini e degli arbitrari accostamenti di fatti, Herder ha talvolta scorto con
grande chiarezza la fragilità e l'imperfezione del metodo storico della
conoscenza:

«Niuno al mondo più di me sente la debolezza delle caratterizzazioni generali.


Andiamo dipingendo interi popoli, età e terre: e chi è stato dipinto così?
Abbracciamo genti e tempi susseguentisi l'un l'altro, in un eterno avvicendarsi,
come le onde del mare: e chi è stato dipinto così, a chi si applica la nostra
parola, la nostra descrizione? Finiamo per comprenderli tutti in un nulla, in una
parola generica, che suscita in ciascuno pensieri e sentimenti diversi
personali». (193)

Tuttavia, nonostante questi sprazzi di discernimento, tutta la sua opera è piena


di affreschi su assiomi storici spesso contraddittori, interpretati non sempre
sulle stesse basi, ricchissime in fantasia e in varietà di culture; le sue
descrizioni e le sue raccolte di masse di fatti si alternano sia con perseveranti
sforzi per classificare e interpretare razionalmente, sia con ammissioni
tolleranti e pertinenti sull'incompletezza del metodo e dei mezzi per edificare
una vera conoscenza del mistero della Storia. Il che è ancor più visibile dal
momento che Herder termina questo primo saggio di filosofia della storia,
citando, in greco, le parole di San Paolo nell'Epistola ai Corinzi:

«Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a


faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò
perfettamente, come anch'io sono conosciuto. Ora rimangono dunque queste
tre cose: la fede, la speranza e la carità, ma di tutte più grande è la carità».
(194)

Il giovane chiederà: quando finisce per Herder la visione in uno specchio, per
enigma? Quando e dove comincia la visione faccia a faccia? Chi dovremo
vedere faccia a faccia? E quando conoscerò perfettamente come anch'io sono
conosciuto? Qual è il contenuto di questa parola «ora», quando l'Apostolo dice
«ora rimangono la fede, la speranza e la carità»? Chi è in verità Colui in nome
del quale parla San Paolo? Lo storicismo, né quello di Vico, né di Kant, né di
Herder, né di Dilthey, né quello di molti filosofi e teologi attuali, nessuno
storicismo può rispondere alla profondità maestosa, intima e al tempo stesso
universale, e all'amore infinito dell'insegnamento del Buon Pastore sulla pecora
ritrovata.

Per capire l'importanza della mentalità storici sta nella formazione delle
correnti della teologia attuale, è molto utile conoscere la posizione dottrinale e
spirituale di Herder, in quanto «il teologo tra i classici della letteratura
tedesca», davanti a Cristo, ed anche davanti alla Chiesa e alla nozione della
Chiesa in genere.

La nascita del cristianesimo è vista e descritta da Herder con gli stessi criteri
con i quali ha voluto abbracciare e spiegare tutte le civiltà. Gesù Cristo, l'uomo
idealista puro, portatore di una civiltà interiore, è morto come Socrate per
fedeltà al suo ideale.

Il sentimento di Herder di fronte alluminoso mistero di Cristo è nettamente


naturalista e rimane nel contempo confuso; confuso perché così è stato per
tutti coloro, di origine cristiana o non-cristiana, che non hanno voluto rifiutare
totalmente l'avvento di Cristo nel mondo; è anche il caso di tutti gli occultisti e
di tutte le sette che accettano Gesù come un grande maestro o un grande
iniziato. In tutte queste persone c'è una caratteristica confusione quando
parlano di Cristo. Secondo Herder, quel che Gesù ha attestato nella sua vita e
confermato con la sua morte è l'Umanità.

Concludendo l'introduzione al suo diciassettesimo libro delle "Idee per la


filosofia della storia", Herder s'indirizza direttamente al Cristo e venera la sua
«nobile figura»; Gli dichiara che mai nella storia troviamo una rivoluzione che
sia stata «provocata così tacitamente in breve tempo», come quella che si è
comunicata «ai popoli sotto il nome della Tua religione». E dopo chiaramente
dice che Cristo ha trasmesso in prevalenza, a parte il suo disegno vivente per il
bene dell'uomo, una religione che crede nella sua persona:

«... una religione che crede in Te, una adorazione sconsiderata della Tua
persona e della Tua croce. Il Tuo spirito lucido ha previsto tutto ciò e sarebbe
una profanazione del Tuo nome, se si osasse nominarlo a proposito di ogni
torbido rivolo che defluisce dalla Tua fonte. Per quanto è possibile non
vogliamo nominarlo; di fronte all'intera storia che discende da Te, stia solitaria
la Tua silenziosa figura». (195)

Per Herder, Cristo ha predicato un cristianesimo che «doveva essere una


comunità priva di capi e di maestri». (196) La formazione della Chiesa,
organizzata nel mondo, delle famiglie religiose, delle anime consacrate, tutto
era deviazione o abuso o superstizione, o sviluppo di buone volontà sotto la
protezione di abili e accorti capi. E così si è diffuso il cristianesimo,
combinandosi con tutte le correnti filosofiche imperanti in ogni luogo. (197)
Herder parla di una setta di persone pure e sante, il cui capo, che non nomina,
era in Bulgaria (198), come rappresentante il segno della povertà e della
semplicità in opposizione all'amore per le ricchezze ed il potere dei capi della
Chiesa cattolica. I membri di questa setta dispersi per il mondo avrebbero
lottato contro tutti gli abusi e le superstizioni magiche della Chiesa
istituzionale. È in seguito a questi sforzi degli eroi della «vera eredità di
Cristo», come i manichei, la setta dei Bulgari, i catari, i patarini, la setta di
Enrico e Pietro de Bruis e i loro adepti, i valdesi, Wickliff, Huss, ed è in seguito
agli sforzi di questi eroi che, sempre stando ad Herder, è stata possibile la
Riforma. (199)

E se si volesse completare l'immagine che s'impone dall'atteggiamento di


Herder davanti a Cristo e davanti alla Chiesa, basterebbe spigolare qua e là
alcuni esempi in mezzo alle numerosissime asserzioni concernenti la nozione e
la vita sacramentale della Chiesa:

- «Il cristianesimo aveva soltanto due sacramenti, ai quali però furono presto
aggiunti e sovrapposti usi e riti dalle origini più diverse, e malauguratamente
ciò accadde in un tempo di generale decadenza del gusto».(200)

- «In particolare quella setta respinse gli usi e le credenze superstiziose, di cui
negava l'immorale forza magica, e al loro posto riconosceva soltanto una
semplice benedizione con l'imposizione delle mani, e una lega dei membri,
sotto il loro presule, il prefetto. La trasformazione del pane, la croce, la messa,
il purgatorio, l'intercessione dei santi, i privilegi propri del clericato romano
erano per loro istituzioni umane e fantasie». (201)

Tale è la visione di Herder su tutto quel che concerne la fondazione della


Chiesa e l'opera di Cristo per mezzo di essa nella Creazione. Basta leggere le
sue asserzioni in altri campi, come quello della «genetica nella storia», e anche
le sue asserzioni riguardanti la correlazione dei fatti e dei dati della fisiologia
del suo tempo, per comprendere in primo luogo la volontà di racchiudere tutte
le cause della creazione e della generazione delle specie, e della specie
dell'uomo in particolare, nella ristretta natura dei fenomeni osservabili; in
secondo luogo l'incoerenza di queste stesse osservazioni e conclusioni da un
capitolo all'altro; e in terzo luogo l'implicita ammissione, e talvolta esplicita,
dell'assenza di ogni riferimento centrale e universale, per le sue peregrinazioni
attraverso la storia dei fatti, delle culture e delle dottrine.

Per quanto riguarda questa spiegazione della fondazione e dell'estensione della


Chiesa, il meno che anche un ateo convinto potrebbe dire, sarebbe che essa è
superficiale, tendenziosa e passionale. È più serio quando parla delle origini del
politeismo e del paganesimo, più serio e più amichevole. Tutti i sacrifici, tutto
l'ammirabile messaggio e la semente di dolcezza, d'amore che si sacrifica, di
eterna speranza che ha riversato nei popoli l'interminabile stirpe dei martiri,
dei santi e dei servi e delle serve di Dio, indipendentemente da tutto quel che
concerne la Rivelazione dell'Uomo-Dio per la conoscenza in sé, Herder ha
sepolto tutto sotto le lacune degli uomini che hanno popolato e popolano la
Chiesa di Cristo.

Quel che stupisce però, ed è contemporaneamente rivelatore delle


conseguenze: della mentalità e della sensibilità storiciste, è che oggi si ritrova
lo stesso accento, lo stesso modo arbitrario e la stessa facilità nel radiare i fatti
capitali ed essenziali, dell'avvento di Cristo e della fondazione della Chiesa,
nell'esposizione e nell'argomentazione dei teologi del XX secolo; e questo in
nome di una ecclesiologia «più pura», «più umana», «più apostolica», «più
cristica» come per esempio negli scritti di Hans Kung, riguardanti la Chiesa e la
persona del Cristo. (202) Ma ci troviamo di nuovo nel tempo del Getsemani.

Herder dice che ogni essere animato e inanimato è soggetto alle leggi del
cambiamento. Dice nettamente che il ritmo è implacabile, dal male al meglio e
dal meglio al peggio; e tale è «il ciclo di tutte le cose» (203). Qual è però il
valore della salvezza e dell'eterna liberazione di questi «cicli» di Herder o dei
corsi e ricorsi del Vico, per ogni uomo dell'incalcolabile sfilata che costituisce il
mutevole aspetto esterno della storia? Quale può essere il rapporto di questi
«cicli» insensibili e meccanici con la profonda aspirazione a compiersi dell'uomo
«ogni volta unico» e la sua liberazione dalla morte nel tempo storico?

***

In ogni modo, nell'immagine generale del mondo, di Cristo e della Chiesa


offerta da Herder, c'è sempre un linguaggio che crea una prima immagine di
due realtà, di due ordini situantisi come «inferiore» o «superiore», che
s'incontrano e si risolvono sempre all'interno della storia e della natura fisica; è
più o meno la percezione di tutti gli idealisti e di tutti gli storicisti. Questa
immagine è contraria ad un'altra immagine, quella di due ordini, l'uno dei quali
trascende i fatti e il tempo dell'altro: l'ordine extra-storico eterno che spiega e
ordina nella coscienza dell'uomo la storia, perché la trascende.

Tutte le sottigliezze di linguaggio e ogni accumulo di erudizione non possono


colmare l'assenza del reale spiraglio verso l'eternità, al quale anela ogni uomo
innamorato di verità assoluta e di amore assoluto. Attraverso questo spiraglio
l'uomo ogni volta unico, ed ogni volta unito a tutti gli uomini, essi stessi unici,
può essere giustificato, redento e liberato.

Se s'insiste su tale o talaltro aspetto del pensiero di tale o talaltro scrittore che
ha fatto della storia il centro della sua informazione, speculazione e
meditazione, è perché si deve più volte ripeterlo - la mentalità e
l'orientamento storicisti nella filosofia si sono riversati nella cristianità ed hanno
così trasformato e deformato i criteri e le aspirazioni di molti tra coloro che
sono portatori attivi di certune tendenze di disgregazione della Chiesa di Cristo
nella teologia attuale.

Tre sono i riferimenti, i misteri davanti ai quali si trova l'uomo: Dio è l'origine
di ogni cosa e dunque dell'uomo; l'uomo tra la sua nascita e la sua morte ed
anche la sua origine, ossia Dio; la vita eterna, dunque Dio e l'uomo. Da quando
esiste la testimonianza del pensiero umano, si ripete senza fine, attraverso
tutta la storia, e in particolare attraverso la storia del pensiero, un duplice
movimento. Da un lato, uno sforzo personale intimo, e dunque anche
moltiplicato e quindi generale, per penetrare il segreto dell'universo e della
storia, del mondo e della vita dell'uomo, sforzo che fissa sempre più la
conoscenza e la vita dell'uomo su una coscienza autonoma; e dall'altro lato,
uno sforzo cosciente o semicosciente per mettersi, per quanto è possibile, a
disposizione del Creatore, e recepire, con pazienza e umiltà, la verità che
questo Creatore, inaccessibile e sempre presente ed infinitamente buono,
rivela all'uomo «ogni volta unico» la cui effimera vita costituisce un anello della
catena della storia; in tal modo ogni conoscenza e ogni vita personale è
stabilita su una coscienza di diretta dipendenza dal Creatore per ogni cosa. Nel
primo caso l'uomo si allontana dalla libertà; diventa sempre più schiavo del
miraggio della sua autonomia. Nel secondo caso l'uomo ritrova l'origine della
libertà eterna, perché ritrova la dipendenza d'amore dalla verità eterna del
Creatore.

Il pensiero e la mentalità storicista non possono che orientarsi più o meno


direttamente e più o meno intensamente, ma ineluttabilmente, verso il
miraggio di una giustificazione e di una salvezza tramite l'attività storica e
l'autonomia dell'uomo nella storia. E quel che è ancora ineluttabile è che tale
orientamento, ammesso o non ammesso, si preclude all'essenza e al mistero
reale della Rivelazione.

Quando oggi si parla di Rivelazione a proposito di qualsivoglia argomento


preciso, s'incontra spesso una reticenza, seppure talvolta nascosta. È uno dei
segni della grande differenziazione operata in molti uomini dalla mentalità e
dalla sensibilità storiciste sui dati della fede. Certo, i veri discepoli di Cristo, sin
dall'inizio, hanno avuto ed hanno sempre presente davanti a loro un duplice
combattimento: sia di fronte a coloro che rifiutano semplicemente ogni nozione
di Rivelazione, sia di fronte a coloro che spessissimo inconsciamente o semi-
coscientemente, alterano l'essenza, i fatti e il messaggio della Rivelazione.

A proposito dell'alterazione della Rivelazione, è bene precisare che non si tratta


di dispute su argomenti sui quali la Chiesa non si è pronunciata, né di
speculazioni forse troppo sottili, che tolgono al pensiero la sicurezza e l'agio di
muoversi nei limiti delle formulazioni dogmatiche. Non si tratta di uno
«stiracchiare» troppo esteso o di una «aerazione» troppo intensa di concetti e
di proposizioni della fede. Come si mostrerà in modo più esplicito in seguito, si
tratta di un'alterazione dovuta ad uno slittamento naturalista nel campo della
volontà, di un'alterazione del mistero centrale, della realtà fondamentale, sulla
quale la teologia cristiana ha potuto radicarsi e crescere come una
manifestazione d'amore di Dio e di conoscenza della verità.

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CARATTERISTICHE DELLA MENTALITÀ STORICISTA

Come abbiamo già detto - ed è bene ripeterlo - non si tratta certo di uno sforzo
per tracciare qui una storia della filosofia della storia, e neanche un abbozzo;
d'altronde, un tale sforzo, da parte di chiunque, sarebbe ormai inutile per
molte ragioni. Infatti, non sarebbe in alcun modo di aiuto a nessuno. Ma il
nostro giovane può esaminare, forse con qualche profitto, l'opera di tale o
talaltra persona, più o meno nota, nel mondo della filosofia e della teologia.
Potrebbe infatti reperire qua e là il filo conduttore della mentalità, da noi
denominata storicista che, malgrado le differenze nelle formule dottrinali ed
anche le differenze dei caratteri. delle persone, rivelerebbe alcune comuni
caratteristiche fondamentali.

Una tra le più sottili e nel contempo rivelatrici caratteristiche di questa


mentalità storicista e della sua quasi universale ripercussione, è l'attitudine di
pensiero nei confronti della realtà di Dio: lo sforzo da parte di numerosi autori,
per raggirare la difficoltà che per loro è rappresentata dal nome e dall'intima
percezione di Dio. Questo sforzo, più o meno sottile e insinuante, ma sempre
tenace, caratterizza l'opera di molti noti ed anche celebri autori.

Tutto un vocabolario, tutta una fraseologia talvolta molto fluidi e troppo incerti,
sono stati ideati, evitando così, inconsciamente o no, di pronunciarsi con
cristallina chiarezza sulla realtà e sulla Persona di Dio; realtà inafferrabile, ma
mai vaga e incerta, giacché Dio è, e non è una concettuale probabilità idealista.
In tal modo, è stato tessuto tutto un linguaggio per parlare di Dio, della fede e
della speranza, da un punto di vista di una falsa e neutra oggettività, senza
necessariamente credere in Dio, né aver la fede e la speranza.

Si può vedere, come al tempo di Herder, per esempio, e dopo, tutta una
pleiade di autori abbia influenzato lo sviluppo delle correnti filosofiche e
teologiche, e come in loro si manifesti chiaramente questo «gioco» più o meno
cosciente che ha luogo nell'intimità pensante dell'uomo.

E c'è una seconda caratteristica altrettanto sottile e rivelatrice della medesima


mentalità storicista. Di fronte ai valori che le correnti e la vastità delle
manifestazioni della mentalità storicista hanno col tempo imposto all'opinione
pubblica, diviene quasi sconveniente evidenziare le incongruenze, le
contraddizioni, le ambivalenze di certuni giochi di linguaggio che valicano i
secoli.

Occorre avere la spensieratezza e l'innocenza dei bambini per affrontare, non


certo un qualche «buon senso» universale, ma alcuni tabù universali che si
forgiano col tempo tramite la ripetizione di slogans, che ingenerano artificiali
venerazioni o artificiali repulsioni; in modo che, se da un lato, spesso quasi
nessuno osa mostrare il pensiero decisamente anticristiano e la nefasta
influenza di taluni autori per la percezione della Verità e per la reale speranza,
dall'altro accade che neanche si osa pronunciare il nome di taluni autori per
tema di affrontare slogans dottrinali, che si moltiplicano senza interruzione
negli ambiti dell'umanità trascinata dalla corrente del tempo.

Queste due caratteristiche, di cui abbiamo appena parlato, costituiscono un


gravissimo fenomeno, ben più importante di quel che si possa pensare in un
primo momento, perché lo spirito che tale fenomeno manifesta, si è infiltrato in
tutti gli ambienti e ha «impregnato» l'opera di molti autori e di molti di quegli
storici della filosofia e della teologia, che hanno modellato e modellano
l'intellighenzia nella cristianità. Allora è utilissimo cercare, con alcuni esempi,
presi senza una particolare scelta tra tanti autori, di illustrare questo fenomeno
molteplice e contemporaneamente unico, manifestato dalle due caratteristiche.

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L'idea del progresso

Jacques Chevalier (204) è un professore di filosofia e un autore decisamente


cristiano. Nella sua "Histoire de la pensée" (Storia del pensiero), opera
considerata ora come classica, scrive per il tempo dell'illuminismo,
dell'Enciclopedia, sulle idee «di progresso, di scienza e di umanità» e sul «loro
posto nel pensiero moderno».(205)

Con tutta la stima e tutto il rispetto dovuto all'autore della "Histoire de la


pensée" e nella più chiara carità, si deve ammettere che in queste pagine, in
un ammasso mutevole di formule frammiste, Jacques Chevalier trasmette,
accanto ad affermazioni positive, una continua incertezza nei suoi riferimenti e
nel suo discernimento riguardo ai fattori storici e ai principi fondamentali. Ogni
lettore di fronte a questo relativizzare che precede e segue quasi tutte le
affermazioni positive, a proposito di Dio, della natura, dell'uomo e dei fini
ultimi, ogni lettore in buona fede non può non essere colpito da questo
oscillare tra l'affermazione positiva da un lato, e la giustificazione di almeno
una parte del contrario dall'altro.
Jacques Chevalier, a riguardo delle «idee di progresso, di scienza e di umanità
e del loro posto nel pensiero moderno», così scrive:

«Questa idea che era destinata ad una singolare fortuna, è l'idea di progresso:
di un progresso la cui sorgente, il cui termine o fine, è l'uomo, o se si vuole
l'umanità; ma l'uomo ridotto alla tecnica, e il progresso identificato al
progresso materiale derivante dalla scienza.

«Gli uomini oggi, stando alla comune mentalità, tendono a farsene (dell'idea
del progresso) un idolo. Quel che è nuovo in essi, non è l'idea di un progresso
indefinito dell'uomo nel suo destino terreno, ma è, oltre all'estensione senza
limiti che gli hanno attribuito, una certa concezione che vi hanno incorporato, o
più esattamente, che vi hanno sostituito, che hanno diffuso poi nella massa
sotto il nome e la figura di Umanità, ma di un'umanità la cui essenza e il cui
progresso si sono fermati precisamente al suo destino terreno: in modo che la
città degli uomini sostituisce la Città di Dio, e che lo Spirito di Dio cede il posto
allo Spirito della Terra». (206)

La prima citazione contiene una critica di una certa idea del progresso la cui
«fonte» non è Dio, ma l'uomo, e il termine e il fine ancora l'uomo. «Ma»
l'uomo ridotto alla tecnica, e il progresso identificato a un progresso materiale.
Tutta la formula implica che, se l'uomo non è ridotto alla tecnica, e se il
progresso non è materiale, ma intellettuale o estetico, l'idea del progresso la
cui fonte e il cui fine è sempre l'uomo, sia in armonia con il mistero
dell'Incarnazione di Cristo e della Redenzione.

Ci si può chiedere: questa armonia è concepibile, nonostante il fatto che la


sorgente del progresso sia sempre l'uomo?

Nella seconda citazione, emerge con molta buona volontà da parte del lettore,
che c'è un progresso per mezzo del quale l'umanità dovrà un giorno superare il
destino terreno. Emerge da questa citazione, nel contesto dell'assieme di
queste pagine, che questa idea è l'idea cristiana circa l'essenza dell'umanità e
del progresso. Il «nuovo», apportato dunque dagli uomini moderni di allora,
sarebbe di «fermare» l'idea del progresso al destino terreno.

Quale luce può apportare, dopo tali proposizioni sul destino dell'uomo, la
dichiarazione che «la città degli uomini sostituisce la Città di Dio - lo Spirito di
Dio cede il posto allo Spirito della Terra»? Nessuna luce, perché i testi che
seguono, presentano per quanto strano possa sembrare in un autore cristiano,
come non del tutto negativo il fatto che lo Spirito di Dio ceda il posto allo
Spirito della Terra.

A proposito di questa idea, il testo continua immediatamente così:


«Idea che ha i suoi limiti, ma che ha anche la sua grandezza e che risponde a
esigenze o a necessità nuove, idea la cui concezione cristiana del progresso
umano non potrà non tener conto». (207)

È chiaro che, secondo Chevalier, la concezione cristiana del progresso


dovrebbe arricchirsi di una nuova nozione, con quella: «Lo Spirito di Dio cede il
posto allo Spirito della Terra», almeno in un certo grado. E per questo
arricchimento mediante l'incorporazione di questa idea nuova, l'idea -
ripetiamolo - dello Spirito di Dio che cede il posto allo Spirito della Terra, si
avvalora a titolo di riferimento, della visione che Teilhard de Chardin (208)
espone nel suo "Fenomeno umano".

«Alla fine del diciottesimo secolo, il colpo di barra era decisamente dato in
Occidente. E d'allora, nonostante talvolta la nostra ostinazione a ritenerci gli
stessi, siamo entrati in un nuovo mondo. - 'Abbiamo soltanto da poco lasciato
gli ultimi ormeggi, che ci trattenevano ancora al Neolitico'. Formula
paradossale, ma luminosa. - Come la nostra intelligenza non potrebbe sfuggire
alle prospettive intraviste nello Spazio - Tempo, così le nostre labbra non
potrebbero dimenticare, per averlo una volta gustato, il sapore di un Progresso
universale e duraturo». (209)

E Chevalier si riferisce anche a questo testo che costituisce il fondamento della


carta della personificazione dello storicismo, il miraggio di annunci generosi che
trascina verso la Morte totale:

«Umanità. Tale è la prima figura sotto la quale, all'istante stesso in cui l'uomo
moderno si svegliava all'idea del Progresso, egli doveva cercare di conciliare,
con le prospettive della morte individuale inevitabile, le speranze di avvenire
illimitato delle quali non poteva più fare a meno. Umanità: entità all'inizio
vaga, sperimentata più che ragionata, dove un oscuro senso di permanente
crescita si alleava con una necessità di universale fratellanza. Umanità:
oggetto di una fede spesso ingenua, ma la cui magia, più forte di ogni
vicissitudine e di ogni critica, continua ad agire con la medesima forza di
seduzione sia sull'anima delle masse attuali come sui cervelli
del’"intellighenzia". Che si partecipi al suo culto, o che lo si ridicolizzi, chi può
ancor oggi sfuggire all'assillo, o anche all'invasamento dell'idea di Umanità?»
(210)

Chevalier si sforza, nel corso della sua opera, e più particolarmente a proposito
di certi periodi e di certe correnti, con affermazioni talvolta giustissime, talvolta
molto ambigue, e talvolta contrarie alle prime, si sforza con riferimenti spesso
«scompaginati» e contraddittori, di collegare la sua idea del Progresso alla
tradizione cristiana e alla dottrina della Chiesa.
Quale in fondo, tra le molteplici formulazioni, la nozione del progresso in
Chevalier? C'è l'idea di un concatenamento dei fatti e delle idee nella storia,
che evolve e che compie un destino terreno dell'Umanità, «il cui polo è
l'Infinito». Le prospettive dell'Umanità in questa corsa devono contenere «una
fede nell'aldilà». Alla fine di questo progresso umano nel corso dello sviluppo
storico, c'è l'accesso a un destino non soltanto terreno.

E poi c'è questa accezione peculiare molto significativa per quel che concerne
l'essenza, le leggi e l'orientamento di questo progresso: «l'umanità è in
cammino verso la giustizia e l'amore»; e attraverso il suo «peregrinare nel
tempo», aspetta - è l'umanità ad aspettare - la «stabilità dell'eterno
soggiorno». Il termine di questa «grandiosa visione della storia umana» è la
gloria. E questa accezione, l'attribuisce a Sant'Agostino e a tutti i dottori e
autori cristiani ed anche a tutti gli umanisti deisti e persino atei. Cita anche
specificamente gli autori dei Misteri, tutti coloro che si sono occupati di somme
teologiche, gli eruditi del Medioevo, Bossuet e Pascal; e cita ancora Herder,
Kant, Hegel, Cournot ed anche Condorcet e Auguste Comte. (211) A darci il filo
di Arianna di questo orientamento, non soltanto certo di Chevalier, ma di tutti
coloro che sono stati sedotti da questo linguaggio e da questa visione di un
sovrano progresso, è il fatto che cita come il profeta della vera struttura della
storia, Giambattista Vico. (212)

Prima di continuare la nostra meditazione sui rapporti che Chevalier vuole


stabilire tra la «Città di Dio» di Sant'Agostino e «l'Umanità» di Teilhard de
Chardin, è santamente utile mettere in evidenza un fatto apparentemente
molto secondario, ma molto rivelatore sotto tanti punti di vista: Chevalier, tra
differenti affermazioni in favore del soprannaturale e rimostranze a causa del
materialismo di certi autori, si riferisce per avvalorare la sua idea del progresso
e del pregio che ha per l'umanità lo sviluppo continuo della scienza, ad un
testo di Blaise Pascal (213); si riferisce alla "Prefazione sul Trattato del Vuoto".
(214)

Si rimane molto stupiti nel vedere un filosofo-storico presentare come


appoggio alla propria idea del progresso, il testo di un uomo scritto nel 1647,
cioè alcuni anni prima della sua conversione avvenuta nel 1654. Chevalier
conosceva bene l'opera e il pensiero di Pascal, perché ne ha pubblicato le
Opere complete. D'altronde Pascal stesso non ha mai pubblicato questo testo
che è stato edito dopo la sua morte, dagli intimi, con una prefazione molto
significativa per il reale pensiero di Pascal convertito:

«Infatti benché fosse tanto capace, quanto lo si possa essere, nel penetrare i
segreti della natura, e che vi avesse ammirabili aperture, aveva tuttavia, da
più di dieci anni prima della morte, talmente conosciuto la vanità e il nulla di
tutte queste specie di conoscenze e ne aveva concepito un tale disgusto che
sopportava a mala pena che persone di mente ci si occupassero e ne
parlassero seriamente». (215)

Questo riferimento di Chevalier a Pascal non è del tutto giustificato, perché il


pensiero di Pascal e la sua sensibilità dopo la conversione sono opposte sia alla
nozione come alla visione del progresso nella storia, quali Chevalier le presenta
nelle sue esposizioni.

Blaise Pascal, indipendentemente da ogni pensiero che ciascuno potrebbe fare


a proposito delle "Provinciales" e della sua posizione nei confronti di Port-Royal
(216), ha manifestato, in parecchi modi, la sua intima convinzione nella
missione del Cristo, nel valore del sapere umano, nella via della salvezza. Tale
convinzione non permette alcun riferimento alla sua persona e al suo reale
pensiero per sostenere un'idea di progresso storico dal valore escatologico,
secondo l'accezione di Jacques Chevalier e di Teilhard de Chardin. Cioè non si
ha il diritto di riferirsi a Pascal per sostenere l'idea di un progresso che si
realizzerebbe con lo sviluppo del sapere, con l'evoluzione della scienza, con
l'organizzazione sociale in un «avvenire storico».

Qualunque testo di Pascal, dopo la sua conversione, non lascia alcun dubbio sul
suo vero pensiero, sulle sue vere convinzioni e sulla sua visione del mondo,
della Chiesa e della salvezza, in rapporto all'evoluzione del mondo e del
sapere. Ecco alcuni estratti spigolati senza speciale sforzo:

«Anno di grazia 1654.

- Dio d'Abramo, Dio d'Isacco, Dio di Giacobbe,

non dei filosofi e dei dotti.

Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace.

Dio di Gesù Cristo.

Deum meum et Deum vestrum.

Il tuo Dio sarà il mio Dio.

Oblio del mondo e di tutto fuorché di Dio.

Egli non si trova che per le vie insegnate nel Vangelo». (217)

«Il mondo giudica bene le cose, perché si trova in un'ignoranza naturale che è
la vera condizione dell'uomo. Le scienze hanno due estremità che si toccano.
La prima è la pura ignoranza naturale in cui si trovano tutti gli uomini col
nascere. L'altra estremità è quella a cui pervengono le grandi anime, le quali,
dopo d'aver conosciuto tutto quello che gli uomini possono conoscere,
s'accorgono di non saper nulla e si ritrovano in quella stessa ignoranza dotta,
che conosce se stessa». (218)

«Ridersela della filosofia significa filosofare per davvero. - Non stimiamo che
tutta la filosofia valga un'ora di fatica». (219)

«Felici coloro che piangono, non già vedendo trascorrere tutte le cose periture
che i torrenti trascinano, ma nel ricordo della loro cara patria, la celeste
Gerusalemme, di cui si ricordano continuamente nel loro lungo esilio! I fiumi di
Babilonia scorrono, precipitando e trascinando. O santa Sion, dove tutto è
stabile e nulla cade!». (220)

«Che cosa dunque ci gridano questa avidità e questa impotenza se non che un
tempo c'è stata nell'uomo una vera felicità di cui adesso non gli restano che il
segno e la traccia di un vuoto che egli inutilmente cerca di colmare con tutto
quello che lo circonda, chiedendo alle cose assenti il soccorso che non ha dalle
presenti, ma che tutte quante sono incapaci di dargli, perché l'abisso infinito
non può essere colmato se non da un oggetto infinito e immutabile, vale a dire
da Dio stesso?» (221)

«Infatti per parlarvi francamente della geometria, la reputo il più alto esercizio
della mente, ma nello stesso tempo la considero tanto inutile dal fare poca
differenza tra un uomo che non è che un geometra e un abile artigiano. - Non
farei due passi per la geometria». (222)

«Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo; non bisogna dormire durante
questo tempo». (223)

Per capire la sottile ma profonda differenziazione che subiscono il pensiero e la


speranza cristiana, sotto la spinta nascosta o visibile della mentalità storicista,
basterebbe notare con quale leggerezza un uomo così laborioso e colto come
Chevalier prenda, come punto di appoggio per il suo concetto di progresso,
espressioni dalla "Lettera agli Ebrei" a proposito di Gesù Cristo; e dice
espressamente:

«La maggioranza dei pensatori cristiani, a partire da Sant'Agostino, l'avevano


proclamato con forza, non facendo così che esplicitare il carattere profondo del
cristianesimo, che non è un mito atemporale sito nel ciclo di un grande anno a
ricorsi periodici, ma un evento, un avvenimento e un progresso, Jesus Christus
heri et hodie, ipse et in saecula» (Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi, e sempre)
(Ebrei XIII, 8). (224)

Con tristezza si deve ammettere che è inspiegabile come ci si possa servire di


un'affermazione sulla perennità e sull'immutabilità di Cristo per illustrare una
dottrina del progresso secondo la nozione di Chevalier - Teilhard de Chardin.
Come spiegare questo, visto che persino il contesto di questa affermazione, è
un'esortazione rivolta dall'autore sacro ai fedeli affinché siano coraggiosi e
fedeli alla dottrina ricevuta dalla parola e dall'esempio di vita dei loro maestri?
«Perché - continua il testo sacro - non abbiamo quaggiù una città stabile, ma
andiamo in cerca di quella futura» (Ebrei XIII, 14).

C'è urta concezione realmente cristiana del progresso? Certo ce n'è una. Infatti
esiste, per ogni cosa e per ogni termine positivo o negativo, una concezione
giusta, precisa e al contempo sfumata, secondo l'azione e il messaggio di
Cristo al mondo. Di fronte, però, a tutte queste considerazioni a proposito del
Progresso storico, il nostro giovane certo si chiederà: Quale luce da tutto
questo?

Dove si situa questa Città di Dio? E dove si trova la città nella quale lo Spirito
di Dio deve, per necessità storica positiva, lasciare il posto allo Spirito della
Terra? Quali sono i cittadini di questa Città di Dio? Sono tutti i morti salvati, al
di là del corso degli eventi nel tempo, o forse sono tutti gli uomini di un lontano
Eldorado, di un «escaton» del movimento storico?

Quale la sorte di tutti gli uomini che sono vissuti, che saranno vissuti e saranno
morti fino al tempo dell'Eldorado? Dove si situa il compimento finale del
progresso? Qual è il senso della resurrezione di Cristo, senza la quale, come
dice San Paolo, vana è la nostra fede (1Cor. 15, 17)? Come armonizzare i tanti
numerosi testi della "Città di Dio" di Sant'Agostino, che presentano i cittadini di
questa Città come perforando nel loro tempo «il tetto della Storia», con la
nozione di una Perfezione che sarà realizzata al termine del movimento
storico?

Qual è il senso della salvezza in seno al progresso indefinito? Quando passa


l'uomo dalla Storia nel Regno? Dove «l'intera storia» passa dal tempo
all'eternità? Dove ha luogo questa differenziazione del cittadino della città
terrena, affinché divenga cittadino della Città celeste?

C'è una reale risposta, risposta di luce a tutto questo, a tutte queste domande
e ad una moltitudine di altre che il nostro giovane si pone senza dubbio o
potrebbe porsi? Sì, ce n'è una. Ma perché si abbia risposta senza ambiguità, e
senza grettezza, né aridità, né ardori e freddi infernali, ma con freschezza e
ardore eterni, risposta dall'incognito benefico e di santa certezza, risposta
veramente teologica di verità e di speranza, occorre capovolgere in se stessi
tutta l'eredità storicista.

La mistificazione kantiana
Le due caratteristiche delle quali abbiamo appena parlato (225), cioè da un
lato la sofisticata venerazione che costituisce quasi un habitus universale del
pensiero moderno, e dall'altro lo sforzo per evitare un reale e diretto
riferimento all'Essere di Dio, hanno provocato viepiù una mancanza di vera
oggettività e di coerenza intellettuale e spirituale. Questa forma di pensiero si è
estesa come una gigantesca macchia di olio, provocando così un sottile e
generale relativismo in un considerevole numero di opere e di movimenti.

L'uomo si è abituato a vivere in questo clima intellettuale dei tempi detti


moderni, senza quasi accorgersi che cade spesso in contraddizioni. Talvolta,
infatti, nei confronti di opere e di autori, affaccia considerazioni e giudizi che, in
fondo, sono contrari alle sue convinzioni fondamentali, che sono spesso quelle
veridiche e molto elevate.

Per questo si deve illustrare, per quanto è possibile, il fenomeno, che non è
soltanto intellettuale, ma anche psicologico, e la cui origine, in ultima analisi, si
trova nella mentalità e nella sensibilità storiciste.

Tutti sono d'accordo nel dire che Kant ha esercitato una grandissima influenza
nelle sfere filosofiche e di conseguenza in quelle teologiche, dalla sua epoca
fino ad oggi; questa influenza si è esercitata malgrado la comparsa di sistemi e
di nuove dottrine che non si riferivano per niente al pensiero di Kant. Questo a
prima vista sembra un mistero. Non è però l'immediato argomento di queste
pagine. È particolarmente strano, però, come molti critici e storici della filosofia
si affannino per coprire con un velo cristianizzante l'interna contraddizione
della parola, il razionalismo radicale, l'agnosticismo «trascendentale» e
l'antispiritualismo fondamentale di Kant.

Questo «velo cristianizzante» costituisce un fattore molto più importante di


quel che non si possa supporre, per l'orientamento del pensiero teologico,
tramite le università e le enciclopedie.

Come esempio dall'incontestabile evidenza di «cristianizzazione» si può


prendere l'opera del R. P. Sertillanges, domenicano francese, membro
dell'Istituto di Francia. Nel suo libro "Le christianisme et les philosophies" (Il
cristianesimo e le filosofie) (226), Sertillanges, a proposito della libertà
noumenale e del peccato originale in Kant, scrive:

«Questa libertà dell'altro mondo (libertà concettuale non applicabile) non può
definirsi, poiché essa è al di fuori del tempo e dello spazio mediante i quali
tutto si definisce. È inafferrabile persino a colui che vi si applica, poiché nel
riflettere sui propri atti, costui non può reperire se non cause vincolate
anch'esse allo spazio e al tempo. Invece di reggere i fatti della nostra vita
inseriti nella vita dell'universo, questa libertà extratemporale sovrasta il nostro
universo e lascia i nostri umani fatti sotto il suo duro e totale invasamento
(l'invasamento dell'universo). È veramente insensato, e ci si può chiedere chi si
rassegnerebbe, fosse lo stesso Kant, ad una libertà così smembrata e come
assente da se stessa. Tuttavia, è bello, e tanto più bello moralmente e
religiosamente, quanto più è pazzo». (227)

- «Non si può far a meno di prevedere che si stabilisce un vincolo tra la libertà
noumentale secondo Kant e la dottrina cristiana del peccato originale». (228)

Indipendentemente dall'irrealtà, ammessa da Kant stesso e da tutti, di questa


libertà noumenale, indipendentemente dall'evidente contraddizione che
contiene la sopracitata citazione di Sertillanges, basta leggere una delle
innumerevoli affermazioni di Kant per provare ai più ingenui, quanto la nozione
di peccato originale sia aliena dal suo pensiero e dalla sua sensibilità. Nel suo
libro "La religione entro i limiti della sola ragione" (il titolo è già tutta una
dottrina) al capitolo "Dell'origine del male nella natura umana", Kant scrive:

«Comunque possa essere l'origine del male morale nell'uomo, è certo che fra
tutte le maniere di rappresentare la diffusione del male e la sua propagazione
in mezzo a tutti i membri della nostra razza ed a tutte le generazioni, la più
sconveniente è quella di rappresentarci il male come una cosa che ci viene per
eredità dai nostri primi parenti.

« - Non bisogna cercare un'origine temporale per un'attitudine morale che


deve esserci imputata; anche se tale ricerca è inevitabile. - La Scrittura può
aver rappresentato in questo modo l'origine temporale del peccato, per
adattarsi alla nostra debolezza.

« - La disposizione originaria dell'uomo (che nessun altro fuor di lui ha potuto


corrompere, se questa corruzione deve essergli imputata) è una disposizione al
bene; qui non v'è dunque alcun fondamento, per noi comprensibile, da cui, per
la prima volta, il male morale possa essere venuto in noi». (229)

Mettendo da parte la fatale e continua contraddizione in tutto il libro di Kant


sulla Religione, ogni uomo in buona fede non può non rimanere stupito di
fronte alle affermazioni di Sertillanges. Le prestidigitazioni di parole e di
formule, che si intrecciano e si annullano tra loro, non possono annullare il
radicale rifiuto della nozione di peccato originale, sotto qualsiasi accezione
realmente cristiana. Anche con la migliore volontà, Kant non potrebbe mai
ammettere una visione veramente cristiana della realtà e della storia
dell'uomo, senza uscire deliberatamente dal circolo chiuso dove, come egli
stesso l'ha in mille modi determinato, l'uomo ha a che fare soltanto con le
proprie rappresentazioni e dove è per sempre impossibile ogni conoscenza
delle cose in se stesse.
Non è soltanto la nozione di peccato originale a non poter essere ricollegata a
qualche concetto o postulato di Kant. La sua concezione del mondo, quando la
si svincola dall'«inestricabile groviglio» (espressione dello stesso Sertillanges)
(230) delle contraddizioni interne della sua parola, è tale da non essere
soltanto aliena dal mistero di Cristo, ma anche per essenza gli è ostile.

Com'è possibile che tali contraddizioni siano entrate nei costumi intellettuali?
Jacques Chevalier, nella sua "Histoire de la pensée", tra tante considerazioni
contraddittorie, scrive che la pretesa di Kant «di escludere il soprannaturale» e
di negare alla ragione ogni altro ideale, che non sia «un concetto vuoto», sfocia
in una dottrina mortale:

«Questa dottrina toglie sin dall'inizio all'uomo ogni mezzo per trovare nelle
cose un qualcos'altro che se stesso o quel che egli stesso ha messo; dottrina
per la quale tutto quel che supera la nostra natura gli è del tutto alieno e gli
rimane per sempre precluso». (231)

Poi, un po' più oltre, alla fine di tutto un discorso senza via di scampo, circa la
nozione di Dio in Kant, Chevalier conclude ancora con un'espressione ambigua:

«Dio non può essere ricercato se non in noi. Nell'idea di Dio noi viviamo,
agiamo e siamo. Ecco quel che confida al termine della sua vita terrena questo
uomo, questo saggio». (232)

Dopo aver dichiarato che è una saggezza credere che si deve vivere nell'idea di
Dio - e non in Dio - e dopo molti elogi per Kant, Chevalier aggiunge:

«Tuttavia questo Dio, secondo Kant, non può essere ricercato e non può essere
trovato se non in noi. Sono proprio tali, in effetti, le ultima verba del filosofo in
cerca di una verità che si ostina magnificamente a ricercare nel suo intimo,
senza giungere a ritrovarne per ragione la fonte». (233)

E l'oscillare continua. Tuttavia l'ostinazione di Kant non è magnifica,


nonostante quel che ne dica Chevalier. Si ostina infatti, in modo allucinante, a
sostituire l'idea delle cose e degli esseri alle cose e agli esseri, il concetto di Dio
a Dio. Kant non ha trovato la verità né per ragione né per alcuna via. Non ha
trovato né la fonte della verità né quindi la stessa verità. E poi di nuovo il
vicolo cieco. Chevalier aggiunge:

«Per non essere giunto a discernere questo punto (che Dio è) Kant, per
sfuggire allo scetticismo trascendentale e per salvaguardare i valori morali, si è
rifugiato nel fideismo. - Questa credenza, però, si fonda in ultima analisi,
soltanto sulle esigenze di una esperienza morale che in realtà non si fonda su
niente». (234)
Ma per mostrare ancor più chiaramente quale sia la nozione di Dio in Kant,
nozione alla quale molti autori cercano di attribuire una qualche realtà
soprannaturale, non sarebbe che fideista, basta riportare le affermazioni dello
stesso Kant in alcune pagine postume, nelle quali, come diceva, aveva esposto
il fondamento del suo sistema e della sua dottrina:

«Il concetto di Dio - e della personalità dell'essere rappresentato da questo


concetto - ha del reale. C'è un Dio presente nella ragione pratico-morale, cioè
nell'idea della relazione dell'uomo al diritto e al dovere. Ma questa esistenza di
Dio non è quella di un essere esterno all'uomo». (235)

È necessario commentare tali affermazioni, per mettere in evidenza quel che è


evidente? Con quali raggiri linguistici è possibile estrarre da questa
dichiarazione un'immagine o anche un concetto che corrispondano a una
nozione di Dio e ancor più del Dio del Vangelo? Questa divinizzazione della
ragione pratico-morale è la negazione di ogni realtà soprannaturale e la
chiusura «volontaria» di ogni apertura al Dio eterno, al quale anela l'anima.

Un sentimento di grande desolazione nasce in ogni uomo, quando comincia ad


accorgersi della vasta mistificazione che si è operata tramite giochi di
linguaggio che torturano la ragione e il cuore"nel campo della filosofia e della
trasmissione della dottrina. Non c'è un'altra parola che quella di
«mistificazione» per esprimere questo ingarbugliamento di nozioni e di
vocabolario, in modo da capovolgere le santi leggi della logica eterna e di
nascondere l'orizzonte dell'unica speranza nel Cristo.

È ora evidente che la mentalità che ha portato alla «coscienza storica» di


Dilthey e alla «coscienza storica» intrinseca in gran parte delle diverse
specificazioni delle correnti teologiche attuali, questa mentalità storicista non è
l'opera degli storici in genere. Non è il risultato della pura ricerca delle realtà
del passato; è il risultato di un propendere, conscio o inconscio, all'autonomia
dell'uomo, alla sua emancipazione dal vero Regno eterno; propendere che ha
determinato la speculazione filosofica di molti, e quindi l'orientamento del
pensiero e della coscienza teologica.

Emanuele Kant costituisce una tappa in cui si è sintetizzato tutto lo sforzo di


questa emancipazione da ogni realtà soprannaturale. E il filosofismo, che ha
caratterizzato l'evoluzione delle correnti teologiche, ha fatto sì che il pensiero
di Kant sia presente in molti lavori riguardanti la teologia. Infatti - e questo è
detto di sfuggita - la dialettica di Hegel o quella del materialismo storico,
l'evoluzione di Bergson e di Teilhard de Chardin, sebbene siano considerati
come sistemi «dinamici», apparentemente differenti dall'anti-storicismo
illusorio di Kant, sono soltanto le espressioni differenziate di quell'ostinato
sforzo di emancipazione sintetizzato e dottrinalizzato da Kant.
Ci sono affermazioni di Kant che, nonostante ogni buona volontà, non
permettono di parlare del suo «cristianesimo» o anche del suo fideismo.
Inoltre, mostrano come lo sforzo di questa emancipazione dall'ordine divino e
dall'Essere di Dio sia intenso, tenace e privo di grazia e di amore. Ecco alcune
affermazioni, tra molte altre, che esprimono il fondamento della mistificazione
storicista.

Affermazione A

In essa, la persona, l'anima, così come ne parla il Vangelo, non ha posto e in


essa lo scopo unico della natura non si realizza in ciascun uomo, in quanto
essere singolo e ogni volta unico, ma nell'astratta e anonima nozione di specie.

Dall’"Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico":

«Tesi seconda - Nell'uomo, che è l'unica creatura razionale della terra, le


naturali disposizioni, dirette all'uso della sua ragione, hanno il loro completo
svolgimento solo nella specie, non nell'individuo. Se la natura ha stabilito che
la vita abbia durata breve, occorre una serie indefinita di generazioni che si
trasmettono l'una all'altra i loro lumi per portare i germi insiti nella nostra
specie a quel grado di sviluppo che corrisponda perfettamente al suo scopo
(della specie) ». (236)

Affermazione B

In essa è particolarmente esclusa la possibilità per l'uomo della terra di sperare


e di realizzare, in quanto individuo ogni volta unico, la sua destinazione nella
propria vita; in essa le promesse di Cristo per ogni anima giusta, buona e mite,
nel suo "Discorso sulla Montagna", sono soppresse.

«Forse tra questi (supposti abitanti di altri pianeti), ogni individuo può attuare
pienamente la sua destinazione nella propria vita. Ma per noi (terrestri) le cose
vanno altrimenti: solo la specie può sperare questo». (237)

Affermazione C

In essa la natura, nella necessità di attuare lo sviluppo delle sue disposizioni


(?), si serve dell'antagonismo degli uomini, antagonismo che è la causa di un
ordinamento civile; e in essa l'uomo è buono e portato alla concordia, ma la
natura, per il bene della specie, l'obbliga all'insocievolezza e alla lotta; in essa
sono esaltati il vizio, la vanità e la durezza; e in essa tutto questo è il saggio
ordine di Dio, e non il risultato di un disordine contrario all'ordine eterno della
Creazione .

«Tesi quarta - Il mezzo di cui la natura si serve per attuare lo sviluppo di tutte
le sue disposizioni, è il loro antagonismo (degli uomini) nella società, in quanto
però tale antagonismo sia da ultimo la causa di un ordinamento civile della
società stessa. - Senza la condizione, in sé certo non desiderabile, della
insocievolezza, da cui sorge la resistenza che ognuno nelle sue pretese
egoistiche deve necessariamente incontrare, tutti i talenti rimarrebbero in
eterno chiusi nei loro germi in una vita pastorale arcadica (238) di perfetta
armonia, frugalità, amore reciproco: gli uomini, come le pecore che essi
menano al pascolo, non darebbero alla loro esistenza un valore maggiore di
quello che ha questo loro animale domestico; essi non colmerebbero il vuoto
della creazione rispetto alloro fine di esseri razionali. Siano allora rese grazie
alla natura per l'intrattabilità che genera, per la invidiosa emulazione della
vanità, per la cupidigia mai soddisfatta di averi o anche di dominio!

« - L'uomo vuole la concordia; ma la natura sa meglio di lui ciò che è buono


per la sua specie. - Gli impulsi naturali che lo spingono a ciò rivelano l'ordine di
un saggio Creatore e non la mano di uno spirito maligno che abbia guastato o
rovinato per gelosia la magnifica opera dell'universo» (239)

Affermazione D

In essa la storia umana non serve che ad un occulto piano della natura, che
consiste nel creare una costituzione politica mondiale, un ordinamento
cosmopolitico; in questa costituzione politica, verrebbero a svilupparsi tutte le
disposizioni della specie umana.

«Tesi ottava - Si può considerare la storia della specie umana nel suo insieme
come l'effettuazione di un occulto piano della natura per porre in essere una
costituzione politica internamente (e a questo scopo anche esteriormente)
perfetta - cioè un generale ordinamento cosmopolitico, che sia la matrice, nella
quale vengano a svilupparsi tutte le originarie disposizioni della specie
umana». (240)

Affermazione E

In essa Kant critica specificamente Herder per i punti che potrebbero essere
considerati come riferimenti soprannaturali e circa l'immortalità dell'anima.

Dalla "Recensione di J. G. Herder, 'idee sulla filosofia della storia


dell'umanità'”:

«Nessun membro di tutte le generazioni umane, ma solo il genere raggiunge


pienamente la sua destinazione». (241)

Affermazione F
In essa la morte di ciascun uomo è il risultato di un mostruoso desiderio del
«corpo comune», perché, per questa morte, si conserverebbe il «corpo
comune».

Dai “Manoscritti postumi” (n. 1401):

«Ogni singolo aborre la morte; ma il corpo comune che vuole conservare se


stesso ha ben motivo di desiderare la morte dei singoli».

Affermazione G

In essa la vita eterna, secondo la promessa di Cristo, è soltanto un bell'ideale


per un'epoca del mondo; a questa epoca l'uomo si avvicina nella misura in cui
più si avvicina verso il più gran bene possibile sulla terra; in essa di
conseguenza viene rifiutato tutto l'insegnamento evangelico a proposito della
Resurrezione di Cristo e della speranza nella resurrezione.

Da "La religione entro i limiti della sola ragione", capitolo sulla


«Rappresentazione storica della graduale fondazione del dominio del buon
principio sulla terra». A proposito della visione escatologica del Nuovo
Testamento e del Regno di Dio, Kant conclude:

«Questa rappresentazione di una narrazione storica della vita futura, la quale


non è in sé una storia, è un bell'ideale di un'epoca del mondo - cui rivolgiamo il
nostro sguardo solo nel nostro continuo progredire e avvicinarci verso il più
grande bene possibile sulla terra (in tutto ciò non c'è nulla di mistico, ma tutto
procede naturalmente secondo la maniera morale) ». (242)

Affermazione H

In essa sono esclusi dall'insegnamento di Cristo a proposito del Regno di Dio,


la conoscenza di Dio, la conoscenza del Padre per il Figlio, il superamento del
mondo mediante l'amore di Dio.

«Il maestro dell'Evangelo aveva indicato ai suoi discepoli il regno di Dio sulla
terra solo dal magnifico ed edificante lato morale» (243).

Affermazione I

In essa la psicologia razionale sarebbe un non-senso, perché non potrebbe


aggiungere nulla alla conoscenza dell'uomo su se stesso; perché ci sarebbero
limiti invalicabili per la ragione, quindi ne risulta che la nozione di anima
sarebbe al di là di tali limiti, non essendo altro se non un'idea della ragione; e
in essa il riferirsi allo spirito per conoscersi è considerato come una follia,
infatti lo spirito non avrebbe alcun fondamento nella vita.
«La psicologia razionale non esiste dunque come dottrina che aggiunge
qualcosa alla conoscenza li i noi stessi. Esiste soltanto come disciplina che
definisce in questo campo i limiti invalicabili per la ragione speculativa; essa
impedisce, da un lato di gettarsi in seno ad un materialismo senza anima, e
dall'altro, di perdersi sconsideratamente in uno spiritualismo che per noi non
ha alcun fondamento nella vita». (244)

Affermazione K

In essa ogni atto di culto non può servire alla salvezza, non è che una
superstizione religiosa; e in essa il desiderio di un'intimità con Dio non può
servire alla salvezza c non è che un'inutile e fanatica pretesa religiosa; e in
essa tutto il mistero liturgico della Chiesa, che sin dall'inizio, fece parte
integrante del suo insegnamento, è rifiutato; e in essa ogni vita spirituale, che
riavvicini interiormente l'uomo a Dio è rifiutata.

«L'illusione di compiere, con atti religiosi riferentisi al culto, qualcosa in vista


della giustificazione davanti a Dio, è superstizione religiosa, così come
l'illusione di voler conseguire questo fine con un'aspirazione ad una pretesa
intimità con Dio è fanatismo religioso». (245)

Tale è il pensiero di Kant. Tale il suo assolutismo agnostico, la sua certezza nel
negare ogni realtà spirituale. È facile redigere un elenco di affermazioni di un
simile tenore, tanto chiarificatore quanto opprimente, elenco che potrebbe
essere lunghissimo.

Perciò si rimane stupiti di fronte a tanto lavorio, speso per elaborare una teoria
della conoscenza, così irreale e così tediosa, un metodo senz'altro punto di
partenza se non l'io «ideante»; una scienza a priori dell'a priori e della critica
per a priori, tanto lavorio per dimostrare che non si può conoscere quella che è
l'unica fonte di conoscenza, di vita, di libertà e di vera gioia.

Quel che sorprende però, è il costatare questa ostinazione, in passato e ancor


oggi, nel voler nonostante tutto, trovare nel pensiero di Kant, pensiero così
antieterno, alcuni germi di cristianesimo, o almeno un sottofondo di un qualche
sincero deismo. E per di più, ostinazione nel voler trovare, in questa stessa
teoria di Kant, una scienza del conoscere, e nel voler ad ogni costo far credere
che, in questa scienza, possono attingere verità trascendenti, per quel che
riguarda il Reale, anche coloro che hanno ricevuto il Cristo.

È il dilagare, in tutti gli ambienti, di questa mentalità, a far sempre più


propendere l'uomo verso gli eventi transitori, rifiutando ogni nozione
dell'essere nella sua origine e finalità eterna; questo dilagare della mentalità
storicista può da solo spiegare che c'è stato, e che c'è sempre, un tale sforzo
per attribuire a Kant una fede o una credenza o un pensiero o un sentimento o
una visione gènerale dell'universo che si ricolleghi, in un qualche modo a un
Essere divino, a Dio e alla Persona e al Vangelo dell'Uomo-Dio, del Cristo.

Sarebbe prestarsi al medesimo vano gioco di diletto intellettuale, voler con


interminabili e infinite cogitazioni, precisare se sia stata questa mentalità, che
abbiamo denominato storicista, a provocare la deviazione dello sguardo
interiore verso il culto dèlla falsa ragione oppure se sia stata una deviazione
dello sguardo interiore a creare questa mentalità che conduce al culto della
falsa ragione. Incontestabilmente, però, c'è culto della falsa ragione. Una cosa
appare certa: in questa mentalità, uomini, credenti in Dio, sono stati costretti
ad aggrapparsi disperatamente ad una pretesa immagine cristiana o deista di
Kant.

Questo sforzo, sforzo talvolta patetico, di collegare il pensiero di Kant con


l'eterna realtà di Dio e con la realtà di Dio incarnato, di Gesù Cristo, ha
provocato grandi mali nella vita e nel pensiero cristiano in genere.

Certuni hanno pensato che l'influenza del pensiero di Kant, e particolarmente


della sua concezione della religione, sia terminata da molto tempo e che, ad
attenuare questa influenza e ad impedirne la proiezione nell'avvenire (246),
siano stati Hegel e Schleiermacher (247). Tale opinione non corrisponde alla
realtà. Anzi è il contrario.

D'altra parte, si è diffusa l'idea che Kant non s'interessasse alla storia,
occupato com'era della sua «anatomia» dell'intendimento. Anche questo non
corrisponde alla realtà. Infatti tutta la giustificazione della vita, tutto il
compimento umano dell'individuo, come quello dei gruppi, non sono concepibili
per Kant se non nella realizzazione storica della specie. Il fatto, per esempio,
che Herder abbia rimproverato a Kant la mancanza d'interesse per la storia,
non significa che Kant non avesse altra speranza se non la realizzazione di una
società che lui stesso chiamava «cosmopolitica»; i suoi concetti a proposito
della conoscenza e tutte le sue elaborazioni intellettuali non hanno avuto altri
riferimenti, né altri fondamenti, né altre leggi e finalità nell'avvenire, se non lo
svolgersi degli eventi della specie umana verso questa società «cosmopolitica»
che sarebbe lo scopo supremo della storia.

Per Kant la giustificazione dell’esistenza e di tutte le mutevoli vicende che


compongono la storia è il progresso. Il fatto che «la Critica» non permetta
neanche a questa nozione di progresso, di avere un carattere ideale
trascendente, non cambia il riferimento unilaterale di Kant: la società futura
cosmopolitica, alla quale contribuiscono «le disposizioni della natura» e le
particolari disposizioni dell'uomo. Il freddo e quasi inumano ottimismo di Kant,
era racchiuso nella medesima mutevole cerchia dell'entusiasta e caloroso
ottimismo di Herder: la Storia.
È utile ripetere qui che la mentalità storicista significa ben più di una
particolare teoria. Parecchie teorie, diverse sotto molti punti di vista, si
ricollegano in una comune caratteristica: la totale giustificazione dell'attività e
del pensiero, e ogni nozione di compimento della specie e dell'individuo
avvengono nel quadro della storia e nel senso di un progresso irreversibile. La
mentalità storicista racchiude la coscienza, il pensiero e la speranza dell'uomo
in un mito, nella società futura sulla terra. A questa società si avrebbe accesso
tramite un progresso lineare o ciclico, prevedibile o imprevedibile, lento o
rapido, ma progresso realizzantesi sempre attraverso un incalcolabile numero
di generazioni che scomparirebbero per sempre.

È stata questa mentalità a ingenerare o a permettere che sia generato lo


storicismo nella teologia cristiana. Per il momento però, è necessario dire qui
che classificare Kant, come non-storicista, vuol dire non aver colto i suoi
essenziali riferimenti, il condizionamento storicista del suo a priori. Infatti in
Kant non c'è nessuno spiraglio, per un qualche compimento che si apra verso
una qualche realtà al di fuori del semplice fatto della successione delle
generazioni sulla terra. Il progresso, per quanto sia relativizzato in Kant,
rimane irreversibile. Questa nozione fondamentale, che non può non essere
criterio e filtro per tutte le sue speculazioni, svela la mentalità storicista
dell'origine, dell'opera e dell'eredità di Kant.

Per toccar con mano la realtà di tutto quel che abbiamo detto a proposito delle
due caratteristiche della mentalità storicista, ossia a proposito della
venerazione sofisticata e dello sforzo di aggirare la difficoltà, rappresentata per
molti dalla santa Realtà di Dio, e per mettere il dito sulle conseguenze di
questa mentalità nel pensiero teologico fino ai giorni nostri, sarebbe sufficiente
al nostro giovane di soffermarsi un po' di fronte al prodigioso sforzo del Padre
Maréchal (248) per «superare» il criticismo di Kant. Certo il giovane, per
discernere l'essenziale verità in seno ad un immenso lavorio d'intelligenza
brillante, dovrebbe potersi liberare dai criteri sofisticati, creati ed imposti da
questa stessa mentalità socialmente e intellettualmente storicista.

Il capitolo "Esistenza di Dio" nella considerevole opera di Maréchal "Il punto di


partenza della metafisica", inizia con alcune righe che, da sole, potrebbero
servire da tipica illustrazione della perdita di criterio e della volontà di
«recuperare» ad ogni costo sistemi, idee ed anche intenzioni:

«Dopo una rapida scorsa dell'Opus Postumum, l'esistenza di Dio deve


sembrare, a molti lettori, il più sconcertante dei temi abbozzati in questa
raccolta di frammenti. L'affermazione rasenta la negazione; il sic e il non si
cimentano alternativamente per occupare il terreno; ma altri passaggi
frammisti ai primi, sono colmi di sottintesi che invitano lo spirito ad astenersi
da posizioni estreme». (249)
Dopo queste parole, ci si chiede primariamente quali possano essere queste
«posizioni estreme»: o Kant credeva in Dio personale, Essere esistente al di
fuori dell'uomo, o Kant non credeva in Dio personale, Essere esistente al di
fuori dell'uomo. Non c'è altra posizione che Maréchal possa intendere con le
parole «posizioni estreme».

È necessario poi, stando al Maréchal, astenersi dall'attribuire a Kant una di


queste posizioni estreme; questo significa nettamente che Maréchal crede che
nei voluminosi scritti di Kant, non ci siano elementi che permettano di dire sì o
no; e inoltre occorrerebbe, sempre stando al Maréchal, astenersi dal prendere
una di queste posizioni estreme per la semplice ragione che nell'edificio di
Kant, ci sono dei sottintesi.

Tuttavia questi «sottintesi» non si possono reperire se non vicino a molte


affermazioni ben più esplicite che negano l'esistenza di Dio in quanto Essere al
di fuori dell'uomo; affermazioni che asseriscono che:

«Questa esistenza di Dio non è affatto quella di un essere esistente all'esterno


dell'uomo - come sarebbe una sostanza distinta dall'uomo e facente riscontro
al mondo ... La realtà dell'uno e dell'altro ideale, (Dio e il mondo), è dell'ordine
dell'idea». (250)

E Maréchal riporta pure quest'altra affermazione di Kant:

«Che nessun precetto, nessun divieto non sono stati in realtà intimati agli
uomini da un Essere santo e onnipotente; che, anche nell'ipotesi di un
messaggio dall'alto, gli uomini, ai quali sarebbe stato destinato, sarebbero
rimasti incapaci sia di recepirlo, come di convincersi della sua realtà: di questo
non c'è alcun dubbio». (251)

Il giovane inevitabilmente si chiederà:

- E’ possibile credere che Kant abbia voluto annullare tali affermazioni con
«sottintesi» in altri passaggi dei suoi scritti?

- E’ possibile capire come Maréchal, dopo la sua breve introduzione al capitolo


sull’"esistenza di Dio", dove dichiara che «l'affermazione rasenta la negazione e
che il sic e il non si cimentano alternativamente per occupare il terreno»,
cerchi di reperire alcuni sinceri sottintesi; e poi sulla base di questi sottintesi, si
sforzi di dimostrare la presenza in Kant di una credenza in Dio eterno?

- È possibile capire come si consacri un immenso lavorio e doni per provare, ad


ogni costo, che in un pensiero contraddittorio in se stesso, trascendentalmente
antitrascendente, dogmaticamente anti-dogmatico, aprioristicamente
categorico e nel contempo fugace, c'è una percezione e una fede in Dio eterno;
e reperire così una corrispondenza di questo pensiero con il pensiero e le più
profonde e trascendenti affermazioni di tutti i grandi Confessori e Dottori della
Chiesa di Cristo?

Queste domande possono essere poste dal nostro giovane ed anche da molte
altre persone che resistono al miraggio dei «giochi di intellezione e di
vocabolario», al miraggio del caleidoscopio, di cui si è trattato all'inizio di
questo libro, È il miraggio costituito dalla possibilità che possiede l'uomo, nel
suo pellegrinaggio terreno, di combinare indefinitamente schemi di concetti,
senza che corrispondano ad una realtà; ossia schemi di concetti che si
dimostrano senza correlazione con la Verità eterna né con una missione eterna
di ogni uomo oltre la propria morte. Tale è il miraggio del «caleidoscopio
intellettuale».

Ogni persona che ha accolto, nel suo intimo di essere intelligente e amante, la
Verità del Verbo eterno, è portata a porsi tali domande, delle quali abbiamo
appena parlato, ed un'infinità di altre; e questo, sempre nella carità e in
relazione armoniosa con la conoscenza profonda, ontologica e altamente
oggettiva che la fede comunica all'uomo.

____________________

Lo storicismo di Hegel e di Dilthey

In una grande foresta, il fogliame degli alti alberi e degli arbusti, e i cespugli,
fatta qualche eccezione, sono di colore verde, più o meno scuro, più o meno
chiaro, ma sempre di col or verde. Per questo è un'impresa senza significato
quella di cercare di provare che il fogliame di ogni ramo di ogni albero, è
verde. Con un solo colpo d'occhio, sia all'esterno come all'interno della foresta,
si riconosce il colore. È la stessa cosa per le caratteristiche dominanti degli
innumerevoli rappresentanti, più o meno coscienti, delle correnti intellettuali,
che ricoprono lunghi periodi.

Così è per lo storicismo. Da tempo, molto prima di Kant, fino ad oggi, l'opera di
un vastissimo numero di autori, filosofi, letterati ed anche teologi, è tinta da
questo colore storicista. E in tale clima, il pensiero e la meditazione cristiana,
con un ritmo divenuto quasi implacabile, sono stati condotti, anche tramite
Hegel e Dilthey, verso la «coscienza storica» dell'attuale teologia.

Per questo è ormai inutile per la vera conoscenza per quel che riguarda Dio,
l'eternità, l'uomo, il mondo, la storia, è inutile ed anche spesso nocivo, per
l'intelligenza e la carità, consacrare lunghi lavori per determinare, con
interminabili analisi, la parentela intellettuale tra gli autori; per determinare,
per esempio, in qual misura Hegel sia un continuatore di Kant e in qual misura
l'abbia confutato. È utile certo seguire i grandi filoni dello sviluppo di climi
intellettuali; ma sempre si ricade negli stessi dati fondamentali.

Discussioni, spesso piene di deduzioni a priori non sempre sprovviste di


sofismi, al fine di dare o di rifiutare a tal sistema o a tal insieme di pensiero o
di credenza, il titolo di metafisica, o l'accumulo di esaurienti inventari di autori,
di discussioni e di sottigliezze, - inventari, recensioni e rendiconti storici, che
hanno la pretesa di una «neutralità» oggettiva - non hanno potuto condurre ad
alcuna luce. Spesso non sono serviti ad altro, se non a riempire ancor più con
tediosi miraggi storicisti, l'orizzonte intellettuale e spirituale di tutta l'umanità e
di tutta la cristianità.

Se il giovane, nello splendore della sua innocenza e della sua rettitudine,


volesse cercare di capire e approfondire il pensiero essenziale di Hegel e
l'intima origine di questo pensiero, spinto da un grande amore innato per la
Verità per conformarvi la sua vita, rimarrebbe stupito davanti a due cose:
primariamente, di fronte all'assenza di ogni vita reale nell'artificiale edificio
creato con giochi di parole e di concetti, giochi che non apportano nessun
sapere e nessuna pace di vera conoscenza a proposito dell'uomo, a proposito
di Dio e a proposito del segreto della storia; secondariamente, rimarrebbe
stupito di fronte al numero inconcepibilmente grande di commenti, di apologie
e di critiche parziali delle opere di Hegel.

Avrebbe letto per esempio a proposito della nozione fondamentale dell'essere:

«Partizione generale dell'essere: l'essere è anzitutto determinato in generale


contro altro.

«In secondo luogo si vien determinando dentro di se stesso.

«In terzo luogo, in quanto si rigetta questa partizione anticipata, l'essere è


l'astratta indeterminatezza e immediatezza, nella quale esso ha da costituire il
cominciamento». (252)

Si potrebbe chiedere allora:

- Come si è potuto continuare, dopo aver letto questa definizione dell'essere, a


ricercare nelle pagine seguenti del libro e nelle opere di questo autore una
qualche verità, sia sull'uomo, sia su Dio, sia sulle cose?

- Come è stato possibile che tanti commentatori non si siano sentiti offesi,
nella più profonda intimità del loro essere ed anche di tutta la loro esistenza?

- Come si può conciliare questa percezione, così unica e fondamentale


dell'essere, come determinato anzitutto da un «CONTRO», conciliarlo con
l'Essere e l'insegnamento di Cristo?
- Come si può conciliare l'incessante auto-negazione e recupero, secondo gli
infinitesimi momenti astratti, con l'ancestrale esperienza intima degli uomini e
con i fondamenti della logica, in seno ad ogni esperienza riguardante il
movimento?

- Quale può essere l'apporto di un tale edificio, che in definitiva non offre alcun
sapere, alcuna conoscenza trascendente, alcuna conoscenza di pace e di
grazia? Infatti quand'anche questo edificio fosse internamente almeno
internamente - coerente con i principi fondamentali della logica, non offrirebbe
alcun sapere utile, alcuna conoscenza che possa dissetare gli assetati di Verità
eterna.

- Come concepire che ci si serva dei principi fondamentali della logica interna
del verbo per annullarlo e costruire, con combinazioni di parole, un sistema,
montato come un immenso gioco di «meccano»? Come è possibile questo,
dato che, quand'anche questo edificio fosse all'interno coerente e solidamente
montato, rimane inerte ed inutile? I bambini, appena montato il «meccano»,
non sanno più cosa fare.

E il nostro giovane avrebbe poi potuto leggere, nei libri di Hegel, testi
costituenti tipici esempi dell'annientamento degli eterni principi della logica
interna del verbo della loro sostituzione con artifici di parola, che non lasciano
nella coscienza alcun segno di ordine della creazione, alcuna armonia benefica
della vera conoscenza, alcun sapore di carità e di speranza.

Ci sono testi che sono sentenze. Non si possono annullare indirettamente con
altri testi, anche se nettamente contrari, perché la presenza di testi antitetici,
come espressione del pensiero dello stesso autore, costituisce in sé un'ulteriore
inadeguatezza. Tra il rilevantissimo numero di tali testi-testimoni del pensiero
e dello spirito in generale di Hegel, ci si potrebbe fermare sul seguente testo
della sua "Scienza della logica":

«La legge è anche l'altro del fenomeno come tale, e la sua riflessione negativa
come nel suo altro. Il contenuto del fenomeno, che è diverso dal contenuto
della legge, è l'esistente, che ha per suo fondamento la sua negatività, ossia è
riflesso nel suo non essere. Ma questo altro, che è anche un esistente, è
parimenti un simile riflesso nel suo non essere. È dunque lo stesso, e quello
che appare non è costì nel fatto riflesso in un altro ma vi è riflesso in sé;
appunto questa riflessione in sé dell'esser posto è la legge. Ma come tale che
appare esso è essenzialmente riflesso nel suo non essere, ossia la sua identità
è essa stessa essenzialmente in pari tempo la sua negatività e il suo altro. La
riflessione in sé del fenomeno, la legge, è quindi anche non solo la sua identica
base, ma il fenomeno ha nella legge il suo contrapposto, e la legge è la sua
unità negativa». (253).
I biografi di Hegel riferiscono che uno dei suoi discepoli gli avrebbe chiesto il
significato di un passaggio di uno dei suoi scritti. Sembra che Hegel abbia
risposto dicendo: «Quando ho scritto, eravamo in due a capirlo, il Buon Dio ed
io; ora, temo che sia rimasto solo il Buon Dio». (254)

Tuttavia se si riesce a seguire un filo, attraverso tutte queste inter-riflessioni


tra contrari e inter-annullamenti, in seno a questo apparente sforzo di
intuizione, tramite i contrari, della realtà sempre inafferrabile dell'essere, allora
si assiste al reale sforzo di tutte le fatiche, che è allucinante: lo sforzo di
annientare ogni nozione dell'essere e ogni possibilità per l'uomo di situarsi
come creatura dotata di una permanenza eterna. Non gli rimarrebbe come
stabile riferimento per tutto l'universo e per tutta la realtà spirituale, al di fuori
del suo proprio io, che Hegel stesso, perfetto compimento, come d'altronde egli
stesso aveva dichiarato di sé: perfetto compimento dell'Idea della filosofia.

Come l'uomo giunge a credere che, con tali dissociazioni interne, possa
raggiungere l'intimità del reale? Non è facilmente spiegabile, perché non è il
risultato di erronei ragionamenti. Anzi questi erronei ragionamenti, sono la
risultante di un'interna disposizione generale che concerne prima di tutto la
volontà. La mentalità storicista dovuta prima di tutto ad una distorsione della
volontà e quindi del pensiero nei confronti del fenomeno del mondo.

Per Hegel, come per Kant e Vico, gli uomini sono strumenti per la realizzazione
dei piani e delle disposizioni della Natura o della Ragione. Il carattere
provvidenziale di questi compimenti, lineari o ciclici, rimane sempre
indefinibile, perché urta con l'intima disposizione di questi autori, come di tanti
altri, a scartare un riferimento diretto ad una Intelligenza Suprema al di fuori
dell'uomo, che agisce eternamente in un'armonia inconcepibile, pur sempre
presente di provvidenza e di libertà. Le differenze tra le diverse teorie e
sistemi, a proposito della natura e del ruolo dei popoli e delle particolari leggi
della loro evoluzione, non tolgono la comune caratteristica: la personificazione
del movimento compatto nel tempo, movimento che costituisce in sé l'essere-
fatto, il suo compimento e la sua giustificazione; giustificazione davanti a chi?
davanti a essa stessa, la Storia.

Le differenze che si possono stabilire, nel quadro della filosofia della storia tra
le differenti nozioni del «senso storico», non sono di vero aiuto. Si può sempre
stabilire un'infinità di differenze tra due gemelli, senza che per questo siano
soppresse la loro comune origine, la loro rassomiglianza e la loro attrazione
interna. Il movimento dialettico di Hegel differisce certo, come espressione,
come processo di argomentazione, come immagine progettata del movimento
universale, dalle diverse concezioni e espressioni del fatto e del senso storico,
così come si può vedere nelle opere a lui anteriori; differenze invero, fino ad un
certo punto.
Non si può, però, costruire nulla su queste differenze, infatti queste differenti
teorie di parecchie epoche; si rassomigliano già molto, talvolta come gemelli,
per il loro comune rifiuto dell'Essere di Dio, e per il loro sforzo di raggirare, con
sottigliezze di espressione, la difficoltà che tale rifiuto presenta.

Ci sono differenze più o meno profonde tra teorie, dottrine, idee, metodi che si
propongono con il medesimo appellativo e talvolta con le medesime formule.
Queste differenze, però, se non sono radicali, non sono sufficienti per annullare
l'identità o l'omogeneità fondamentali di origine, di procedimento e di finalità.
E vi sono differenze che manifestano, malgrado certe similitudini intrinseche, la
differenza del punto di partenza e d'intenzione degli autori; manifestano la
differenza d'intenzione e di speranza.

In tal modo vi sono differenze, più o meno distinte e percepibili, tra le diverse
idee e teorie, che sono state esposte sotto il nome di fenomenologia. Certo c'è
una differenza talora grande, come, per esempio, tra la nozione di
fenomenologia nella «fenomenologia dello spirito» di Hegel e la fenomenologia
di Husserl. (255) C'è la differenza di due esseri, di due intenzioni, di due
volontà, di due sensibilità.

Tuttavia lo sviluppo intellettuale di Husserl non ha fatto che confermare il


principio in questione, direttamente o indirettamente in tutte queste pagine
appena scritte: non è possibile sfuggire alla cerchia agnostica e materialista
dell'idealismo senza dirigersi verso l'Essere, verso la suprema Intelligenza
creatrice, organizzatrice e conservatrice dell'essere di ogni cosa e di ogni
realtà.

Husserl cerca un'evidenza apodittica che sarebbe la prova assoluta della verità,
ma della «verità scientifica». Ricerca le essenze delle cose, che fanno che le
cose siano incessantemente tali. È difficile vedere in questa tendenza una
fenomenologia puramente descrittiva e nel contempo non dilucidante, dunque
ricorrente a speculazioni. In altre parole, è impossibile attendersi una prova as-
soluta della verità, dalla sola descrizione dei fenomeni nella vita interiore
dell'uomo.

Quando Husserl ha pubblicato il suo libro "Ricerche logiche" (256) molti hanno
creduto che il suo rifiuto dell'idealismo critico di Kant lo avvicinasse
filosoficamente al pensiero di San Tommaso. Il suo libro era considerato come
neo-scolastico. In seguito, quando parecchi anni dopo, ha pubblicato le "Idee a
proposito di una pura fenomenologia e di una filosofia fenomenologica", (257)
parecchi tra i suoi discepoli l'hanno abbandonato, perché hanno creduto che
ritornasse all'idealismo. La sua allieva e assistente, una tra le più belle anime
del nostro secolo, Edith Stein, la futura Suor Teresa-Benedetta della Croce,
(258) che per lunghi anni lo ha seguito e ha lavorato con lui, attestava questo
fatto con le seguenti righe:

«Fu (il libro "Ricerche logiche") considerato come neo-scolastico, perché non
partiva dal soggetto per andare poi verso le cose: conoscere era ancora una
volta un processo di recezione le cui leggi erano date dalle cose, e non era -
come nell'idealismo critico - l'imposizione di leggi alle cose. Tutti i giovani
fenomenologisti erano realisti convinti. Tuttavia le "Idee a proposito di una
pura fenomenologia e di una filosofia fenomenologica" contenevano alcuni
passaggi che facevano pensare intensamente che 'il Maestro si volgesse
all'idealismo. E le sue spiegazioni nella discussione non rimuovevano questo
dubbio». (259)

Husserl riconosceva un valore di verità alle proposizioni di evidenza. È secondo


questo criterio che giudica gli eventi del passato e li classifica. Il suo desiderio,
però, di «scientificazione» assoluta nella conoscenza gli fa tralasciare, in
secondo piano, queste nozioni di evidenza.

Scienza assoluta, oggettività assoluta, mondo esteriore reale, fenomeni non


spiegati, evidenza e molti altri termini, sono nozioni con le quali si può giocare
con serietà e buona intenzione, nello sforzo di penetrare e di possedere il
reale, al di fuori della Realtà suprema che ordina ogni reale.

Un cammino penoso come quello di Husserl, pieno di fatiche su basi idealiste e


razionaliste, sotto il nome di una fenomenologia, nel contempo oggettivista ed
esistenzialista, ci conduce ancora una volta di fronte ad un'immagine di sforzi
dolorosi, e questa volta veramente disperati; sforzi per evitare d'impegnarsi -
in nome di un miraggio di scienza assoluta - sull'unita via del reale per quel
che riguarda l'individuo, la storia e l'universo.

Husserl si rese conto del vicolo cieco e della cerchia idealista-agnostica-


materialista della quale abbiamo parlato sopra: Due anni prima della sua
morte, in un incontro con Edith Stein, tra molte altre dichiarazioni e
significative e chiarificatrici ammissioni, ebbe a dire:

«La vita dell'uomo non è nient'altro che un cammino verso Dio. Ho cercato di
pervenire alla meta senza l'aiuto della teologia, senza le sue prove e i suoi
metodi; in altre parole, ho voluto raggiungere Dio senza Dio». (260)

Dopo la lunga ostinazione nel «scientificare», al di fuori di ogni rivelazione,


l'apporto del fenomeno della vita interiore, ci sono molti altri scritti, parole e
testimonianze di Husserl che lo presentano in una malinconica luce, come chi
lentamente ha preso coscienza del vicolo cieco: conoscere al di fuori di Dio.

L'Assoluto, termine misterioso, impreciso e al tempo stesso limpido e conciso,


serve spesso nella filosofia a sostituire il Nome e l'Essere di Dio. Nello sforzo
multiforme e nello stesso tempo unico, per aggirare l'ostacolo rappresentato
per molti dall'eterna Realtà dell'Intelligenza suprema, in quanto Essere distinto
ed immutabile, il termine «Assoluto» è un luminoso sotterfugio, elevato, ma
spesso privo di realtà; sia come concetto, sia come essere sia come fatto
oggettivo nella creazione.

Ci sono un'infinità di accezioni del termine e della nozione di Assoluto, in


quanto parola catalizzatrice di ogni differenza e di ogni variazione. E accade
che in nome di un qualche Assoluto, la nozione di Verità assoluta e di Essere
assoluto è confutata o sottilmente alterata.

Per questo il giovane, invece di estenuarsi a inseguire l'alternarsi in Hegel tra


l'Assoluto in sé e l'Assoluto che si compie, e per cogliere un criterio superiore al
fine di capire lo spirito di Hegel di fronte alla storia, cioè per capire quale sia il
senso della sua filosofia della storia, potrebbe meditare su alcuni segni
indubitabili.

Quando nel 1806 Napoleone entrò a Iena, Hegel riversò in una lettera il suo
sentimento e il suo giudizio nei confronti di questo evento, cosa che esprime
un criterio di filosofia della storia:

«Ho visto l'imperatore - questa Anima del mondo - cavalcare in ricognizione


attraverso la città; è davvero una sensazione meravigliosa vedere un tale
individuo che, concentrato qui in un punto, dritto su di un cavallo, conquista il
mondo intero e lo domina». (261)

Il nostro giovane resterà certamente strabiliato da una tale autentica


testimonianza del sentimento e della visione intima del «senso della storia» di
un uomo che si considerava il perfetto compimento dell'Idea della filosofia nella
storia. Stenterebbe però, a credere in un altro testotestimone scritto dieci anni
più tardi, dopo la caduta di Napoleone, in una lettera a Friedrich Emmanuel
Niethammer. Questa lettera è tanto più chiarificatrice quanto più il gigantismo
storicista di Hegel scorge unicamente la forza gigantesca dello «spirito della
storia» che avanza spietatamente. E questa immagine lo riempie di
entusiasmo:

«Io considero che lo Spirito del mondo ha dato al tempo la parola d'ordine di
avanzare; un tale comando è obbedito; questo essere si avanza irresistibile
come una falange corazzata, in ordine chiuso, e con il movimento
impercettibile del sole, attraverso ogni ostacolo; innumerevoli truppe leggere si
muovono nell'uno e nell'altro senso, e la maggior parte di esse non sa neppure
di che si tratta e non fa che incassare colpi che provengono come da una mano
invisibile. Tutte le millanterie temporeggiatrici... a nulla servono; tutto ciò si
può dire giunga soltanto ai legacci delle scarpe di questo colosso e serva
unicamente a lucidargliele o a gettarvi sopra un po' di fango, ma non è certo in
grado di slacciarle, e ancor meno di cavare le scarpe divine munite di suole
elastiche, o gli stivali delle sette leghe, se al colosso piace di calzarli. Il partito
più sicuro (interiormente ed esteriormente) è quello di osservare questo
gigante che si avanza». (262)

Dopo questa lettura, il giovane si spiegherebbe, certo, come Hegel abbia


considerato se stesso come il compimento dialettico della filosofia e come
quindi, in un certo senso, lo sviluppo si fosse «arrestato» e che l'Assoluto si
fosse raggiunto in lui.

Sarebbe pervaso da una profonda tristezza al pensiero che la mentalità,


manifestata da questa visione apersonale, fredda e inumana, sia potuta
penetrare così profondamente ed essere accettata dal mondo dello studio,
della scienza ed anche nella cristianità.

In seguito, il giovane si accorgerebbe ancora che lo storicismo intrinseco del


pensiero di Kant è esplicitato nello storicismo dottrinale di Dilthey. Per Dilthey,
Kant è, non soltanto la luce del mondo filosofico, ma è stato anche «un
profondo interprete del cristianesimo». (263)

Come Dilthey ha potuto pensare questo di Kant? In questo caso non si tratta di
venerazione sofisticata. È identità di attitudine intellettuale di fronte al mistero
della vita. Tutta l'opera di Dilthey, tutto il suo storicismo è uno sforzo per
costruire una psicologia unicamente sperimentale fondata sulle due grandi
norme di Kant: l'impossibilità di conoscere al di là del fenomeno storico da un
lato, e dall'altro il postulato che l'inchiesta sperimentale può essere soltanto
trascendentale nel senso kantiano (ossia non trascendente).

In tal modo, in Dilthey, tutto procede per classificazioni, parallelismi,


astrazioni, sempre a priori e per categorie a priori. Come Kant, Dilthey, persino
quando parla di spirito, non può uscire e non vuole uscire dallo scorrere e dal
concatenamento dei fenomeni. Abbiamo già detto quanto sia stata grande
l'influenza di Dilthey nella filosofia e nella teologia fino ad oggi.

Per Dilthey, la filosofia è legata ai suoi albori alla vita religiosa. Con il suo
sviluppo, con lo sviluppo delle scienze, però, aumenta il desiderio di «fondare
su solide basi la soluzione dell'enigma universale», ed allora, comincia una
lotta metodica della filosofia, della letteratura, della scienza, cioè la lotta di
tutto quel che costituisce «la vita normale» secondo Dilthey, lotta contro la
religione. La loro maturità esige la loro autonomia. La filosofia implica la
negazione della mentalità religiosa, della «fede dogmatica e della pesante
autorità dei potenti cleri». E Dilthey precisa:

«Questa negazione ha per arma l'intelligenza, che decompone l'irrazionalità e


la trascendenza della fede. Prende la difesa della gioia di vivere, legittima lo
scopo della vita nel lavoro profano - lotta contro i mezzi del tutto inadeguati di
pacificazione che sono i sacrifici, le cerimonie e i sacramenti». (264)

Tutto quel che Dilthey scrive a proposito di religione e particolarmente sotto il


titolo «il problema della religione» è di questo tenore. Malgrado il suo desiderio
di sembrare un samurai del pensiero e dell'inchiesta storica, non lascia alcun
dubbio sulle sue convinzioni e sui suoi sentimenti anti-religiosi. Così termina
queste pagine:

«La religione è un insieme psichico che, come la filosofia, la scienza e l'arte,


costituisce un elemento di certe individualità e si obiettiva nei più differenti
modi nei suoi prodotti. - Ciascuna di queste religioni ha una storia, è possibile
sottomettere al metodo comparativo tutte queste creazioni di ordine storico
per cogliere gli elementi della religione che li accomunano. Ma si cade allora in
un circolo vizioso...». (265)

Il manoscritto, scritto nel 1911, lo stesso anno della sua morte, è interrotto a
questo punto.

Quale profonda tristezza di fronte a questa inutile e vuota perseveranza, fino


alla fine nel chiudere lo sguardo e l'udito interiori all'appello della Rivelazione e
al vero linguaggio della natura.

E quando il giovane avrà chiuso questo libro, continuerà a chiedersi, senza


aver certo una risposta immediata: cosa è accaduto negli spiriti e nei cuori,
perché una tale parola, che tanto dissolve ogni essenza fondamentale del
verbo e dei fatti nella storia, così estranea alla Parola della Rivelazione, della
dottrina della Chiesa e dell'universale sentimento di amore e di speranza della
cristianità, un tale pensiero si sia potuto considerare come riferimento positivo
nella teologia?

___________________

ARCO DELLE CORRENTI TEOLOGICHE SCATURITE DALLA MENTALITÀ


STORICISTA

In seno a questo immenso fiume di eventi, di dottrine e di controversie di


ordine filosofico, la mentalità, che abbiamo denominato storicista, ha suscitato,
in tutti i campi, uno spirito di critica e di autonomia antropocentrica; e questo
ha condizionato e orientato, con il tempo, lo studio della Sacra Scrittura, lo
studio e la ricerca storica e le formulazioni di proposizioni e di concetti sia nella
teologia positiva come in quella speculativa. Certuni attribuiscono alla teologia
protestante lo sviluppo della filosofia tedesca. (266) Altri credono che la
filosofia tedesca abbia influenzato molti teologi ed esegeti nella Chiesa
cattolica. (267) Altri risalgono a Lutero per reperire la sorgente dello storicismo
e del criticismo filosofico nel mondo della teologia sia protestante come
cattolico. (268) Altri si fermano a Kant con un gran «hinterland» di pensatori e
di autori prima di lui e del suo tempo. (269) Altri si fermano a Schleiermacher
come al padre dell'Ermeneutica (270); e a Hegel come al padre del metodo ed
anche della più adeguata sensibilità alla «realtà»: al movimento dialettico
infinito. (271)

Ognuna di queste considerazioni può trovare qualche punto di appoggio nei


fatti e negli scritti, perché ciascuna esprime un aspetto del fenomeno. In
mezzo a tutto questo esteso amalgama, emerge una verità: la mentalità
storicista ha profondamente alterato la nozione e la visione sacra della storia
ed ha, a poco a poco, inserito nella teologia moderna e nella Lettura della
Sacra Scrittura il carattere comune delle nozioni della coscienza storica, della
nuova ermeneutica e dell'esistenzialismo filosofico. E queste nozioni assimilate
da molti sono la causa - e nel contempo il risultato - di un movimento che ha
avuto luogo e ha luogo nel profondo della volontà, e quindi nella coscienza: lo
spostamento del centro di gravità della speranza cristiana.

Questo spostamento, l'abbiamo appena detto, è il risultato, e nello stesso


tempo la causa di tre generiche forme attraverso le quali lo storicismo è
penetrato nella mentalità e nel pensiero moderno e ha orientato, in buona
parte, la teologia moderna.

Al di fuori di ogni spiegazione e critica, l'uomo libero vede chiaramente che la


differenziazione storicista della speranza è un evento enorme; è una grande
avventura e prova del pensiero e della coscienza cristiana. Dal tempo
dell'illuminismo, di Kant e di Herder, è iniziato un cedimento perché un sempre
maggior numero di coscienze si lasciava trascinare. Nel nostro secolo, e
particolarmente nella nostra epoca, il movimento è diventato più rapido e più
esteso, manifestandosi sotto mille forme, con postulati e formule dottrinali,
ogni volta imprevedibili, e tuttavia quasi fatali e in fondo della stessa identica
essenza.

Tuttavia, nelle più profonde acque della Chiesa, perseverava il progredire verso
il compimento della sua storia, che concerne la salvezza eterna di ogni uomo,
ogni volta unico; progredire segnalato nei tempi moderni dai due dogmi del
XIX e del XX secolo sulla Santa Vergine: l'Immacolata Concezione e
l'Assunzione. Nello stesso tempo, un liberalismo storicista cristiano impregnava
i popoli, trasmettendo un'effervescenza di emancipazione; emancipazione
dell'uomo da ogni visione gerarchica nell'universo, emancipazione del cristiano
dalla nozione dei sacramenti della Chiesa, e dalla Rivelazione, in quanto eterna
norma di conoscenza.

_____________________

A proposito dell'ermeneutica
Il verbo dell'uomo è scaturito da un ordine di suprema armonia. È questa
un'immutabile e fondamentale conoscenza. Il verbo dell'uomo è scaturito
dall'ordine dell'Intelligenza eterna del Creatore. Nessun ricorso ad immagini
dell'uomo e della società umana, nel più remoto passato, nessuna analisi dei
dati delle lingue e dei linguaggi, nessuna speculazione sui dati della psicologia,
detta sperimentale, nessuna ricerca in qualsiasi campo, può alterare questa
grande e profonda verità, che è e deve essere sempre alla base di ogni
meditazione e di ogni speculazione a proposito della verità, di Dio, dell'uomo e
dei suoi eterni destini. Il verbo dell'uomo ha la sua origine nel Verbo di Dio.

Assistiamo, ormai già da tempo, ad un ostinato sforzo per rinnovare la nozione


fondamentale della parola e dei rapporti dell'uomo con la sua propria parola e
con la parola degli altri. Questo, che lo si voglia o no, conduce dapprima alla
negazione o all'oblio dell'origine e della natura del verbo dell'uomo, e poi
ineluttabilmente alla distruzione nell'uomo delle fondamentali basi ontologiche
della parola umana.

Questa alterazione si compie in seno all'ermeneutica, alterando radicalmente


ogni norma di logica eterna dell'Interpretazione. In tutte le direzioni e in tutte
le attività intellettuali, si nota facilmente un'effervescenza nella ricerca di un
nuovo linguaggio, ricerca patetica di una nuova lettura dei testi, e non soltanto
di quelli della Sacra Scrittura, ricerca di una nuova concezione del fatto di
«comprendere»; nuove norme, sempre labili, per l'interpretazione dei testi, dei
segni ed anche dei fatti. Questa ricerca conduce, per forza di cose, ad uno
sforzo di analisi dei rapporti tra testo e autore, tra testo e lettore, tra autore e
lettore, tra interlocutori, tra opera e ambiente storico; analisi senza fine, in
quanto non è possibile stabilire un qualche possibile punto fisso di riferimento;
perché tutte le nozioni e i contatti tra le opere e gli uomini sono presi nella
danza di un «impalpabile esistenziale».

Questo sforzo di analisi fa scomparire dalla coscienza le basi ontologiche del


verbo dell'uomo. E l'uomo si sente preso in un interminabile flusso e riflusso
tra soggetto e oggetto, tra realtà fugace e la percezione di questa fugace
realtà. L'uomo così non ha alcun punto di appoggio, nel suo naturale
movimento di conoscenza; perde ogni possibilità di saldo riferimento al suo
proprio essere, non ha più norma interiore, immutabile, della parola umana. I
testi, il sapere, i ricordi, la grammatica, il senso di sé e il senso dell'altro, sono
talmente rimessi in causa che subiscono come una diluizione, perdendo ogni
consistenza. Ad ogni istante, la parola vacilla; nel desiderio di cogliere, non
una cosa o un'idea, ma la quintessenza di un «momento di comprensione», le
parole perdono i loro rapporti intrinseci con l'ordine originario della parola; le
parole perdono ogni possibilità di render stabile un significato.
Dispaiono, allora, con i significati di base, anche tutte le possibili sfumature
delle parole e dei significati. L'uomo diviene così incapace di recepire una
certezza. Questa è la più grande prova per la parola dell'uomo, nel quadro
dell'ermeneutica del nostro tempo.

Nei secoli che recano l'impronta dello sviluppo della mentalità storicista, ha
preso forma e si è sviluppata una lettura sempre più nuova dei testi dell'Antico
e del Nuovo Testamento. E in tal modo sono nate e si sono sviluppate tutte le
peculiari forme della nuova critica della Sacra Scrittura.

Questa nuova e sempre più nuova lettura, questa critica è emersa e si è


sviluppata su un duplice criterio storicista: da un lato, ricontrollare tutti i fatti e
tutte le testimonianze riportate da questa stessa Sacra Scrittura, attraverso
criteri e fonti d'informazione della storia generale; dall'altro, recepire il
messaggio della Scrittura, come un messaggio di escatologia intra-storica.

Contemporaneamente, questo medesimo controllo e questa medesima analisi


dei testi della Sacra Scrittura sono stati effettuati su basi letterarie, filologiche,
archeologiche, etnologiche, ed anche secondo i dati sempre nuovi delle scienze
sperimentali, come la fisica e l'astronomia.

Come tutte le cose su questa terra, in parallelo a questa critica storica, che ha
evoluto nel senso della mentalità storicista, uno studio critico, un
approfondimento della Sacra Scrittura, ha continuato a trasmettere fino ai
nostri giorni, in modo più o meno imperfetto, ma sempre fedele alla Verità
rivelata, il senso reale del più profondo mistero dell'Antico e del Nuovo
Testamento e dei fatti della Storia Sacra, dell'Incarnazione del Verbo di Dio e
della Resurrezione di Gesù Cristo.

Questo progredire in parallelo raramente si compie nella vita del mondo come
il prolungamento di due rotaie di una strada ferrata. C'è un'interpenetrazione
nella quale domina l'una o l'altra tendenza, talora nella medesima persona o in
una medesima epoca.

La critica storica, letteraria e filologica non si è limitata soltanto ai quadri della


Sacra Scrittura; si è estesa a tutti i testi apostolici, patristici, agli Atti dei
Concili e di tutto il Magistero della Chiesa.

E in tal modo ha preso forma una tendenza a reinterpretare i testi scritturali, i


testi teologici dei Padri, i testi dogmatici della Chiesa; tendenza che ha finito
col «reinterpretare» ogni scritto, ogni fatto e insegnamento giunto fino a noi
tramite la Tradizione; «reinterpretare» interamente l'avvento e il messaggio di
Cristo.

È evidente che tutto questo vasto evento della nuova critica ha fondamental-
mente influenzato in molti la nozione della fede della Chiesa, e di conseguenza
l'orientamento della teologia, cosiddetta biblica, e della teologia in genere,
essendo stato rimesso in causa da successive «reinterpretazioni» il fondamento
dogmatico della Chiesa.

Anzi da uno sguardo circolare e approfondito su tutti questi fenomeni


ermeneutici, emerge, di ancor più importante e significativo, che questa spinta
che quasi si potrebbe definire istintiva per una reinterpretazione di ogni cosa,
ha rivestito il carattere di una teoria generale della conoscenza. E a questo
punto si è parlato di ermeneutica filosofica. Dunque non si tratta più soltanto
dell'interpretazione di un testo o di una narrazione che ci è pervenuta per
trasmissione orale; si tratta di una teoria che concerne la natura
dell'intendimento, della comprensione in sé.

Questa «ricerca» è stata la giustificazione teorica, giustificazione nella


coscienza esitante, dell'emancipazione generale dell'uomo; emancipazione nei
confronti di una conoscenza di verità rivelata e nei confronti di una percezione
e di una «lettura» dell'universo naturale e della storia umana, secondo norme
iscritte nell'uomo come basi ontologiche della parola.

Questa emancipazione, questo sforzo più o meno cosciente e più o meno


intenso d'emancipazione, ha preso la forma di una rivoluzione che ha intaccato
tutti i campi del pensiero e la carità della vita cristiana. Questa emancipazione
va oltre alle divergenze di idee e di dottrine, divergenze che si verificano sulle
stesse basi della parola umana. A causa dell'emancipazione, infatti, l'Amore e
la Conoscenza sono stati messi a dura prova nella cristianità, perché il verbo,
la nozione del verbo sono stati scossi nelle loro basi umane ontologiche e di
ordine eterno.

Il nostro giovane potrà percepire, certo, tutta questa effervescenza


dell'evoluzione dell'ermeneutica; ma gli sarà molto difficile dominare la sua
esperienza e organizzare la sua informazione. Inoltre si sentirà quasi
nell'impossibilità di trovare un mezzo per comunicare con gli altri, perché il
relativismo del verbo, divenuto ormai fondamento dottrinale della nuova
ermeneutica, sopprime ogni punto di riferimento. In seno a questo perpetuo
rimettere in discussione ogni percezione e ogni trasmissione, ogni nozione a
proposito della parola, del capire e del conoscere, il giovane sarà portato così a
riferirsi più che mai, per ogni cosa e per ogni sua parola e per quella degli altri,
alla base di tutta la vita umana e di ogni vera conoscenza; a quel fondamento
universale del verbo interiore. Infatti il verbo interiore appartiene all'essenza
dell'uomo, in quanto essere e in quanto esistenza.

Il giovane, seguendo, per lunghi lassi di tempo, esposizioni storiche sulle


differenti tappe dell'esegesi, della critica dei testi, le diverse messe a punto del
Magistero, ed i commenti interminabili e le analisi filologiche divergenti dei
testi e delle dottrine, si accorgerà anche di due cose:

-primariamente: i diversi itinerari dell'ermeneutica, differenti che siano,


conducono comunque alla conclusione che le divergenze in seno allo storicismo
non fanno che confermare l'identità storicista di tutte le sue ramificazioni nella
teologia e nell'esegesi,

- secondariamente: è ormai poco chiarificante, per quanto riguarda la realtà


essenziale dell'attuale teologia, continuare ad esaminare tutte le analisi dei
testi, tutte le divergenti argomentazioni, tutti i commenti e tutte le
interpretazioni che hanno riempito e riempiono, ogni giorno, il mondo dello
studio ed anche il mondo della preghiera.

Avrà infatti già costatato che le tre caratteristiche generali: la coscienza


storica, l'ermeneutica e il riferimento esistenziale, appartengono allo stesso
agglomerato intellettuale nell'attuale movimento teologico; e questo, in tal
modo, da non poter più, se non difficilmente, distinguerli separatamente in
qualsiasi proposizione esegetica e teologica.

E questa certezza gli verrà confermata dall'esame di ogni manifestazione delle


correnti teologiche sorte dalla mentalità storicista. Vedrà dispiegarsi davanti a
lui l'arco di tutte le correnti teologiche che esprimono la grande prova della
Chiesa, della Cristianità intera e del mondo.

___________________

Reinterpretazione globale del cristianesimo.

I più elevati e i più begli eventi della storia della terra, i sacrifici inauditi per
puro amore, le manifestazioni di tenerezza e di fedeltà di una grandezza e
profondità irreperibili in tutta la letteratura profana, le meditazioni e le
speculazioni intellettuali sul mistero di Dio, dell'uomo e della conoscenza, che
se non altro con la loro cattedralesca architettura, provocano rispetto in ogni
persona in buona fede e di sana sensibilità, le legislazioni e i costumi, che
hanno comunque temperato la ribellione e l'accecamento dei popoli, le opere
musicali e architettoniche, che hanno svelato segreti di armonia universale
della creazione, le opere del verbo umano, che generano e trasmettono la pace
di amore eterno e l'amore di pace eterna, tutta la perennità vivente del Cristo,
che attraverso la sua Chiesa, attraverso tutte le umane vicissitudini materiali e
intellettuali, ha mantenuto il luminoso contenuto della Fede, tutto questo deve,
secondo la «teologia storicista» essere reinterpretato e fecondato da un'«auto-
interpretazione profana» che l'uomo possiede in una determinata epoca.

E per quale via questo contenuto della Fede, che ha mantenuto nella pietà
profonda grandi sapienti e ha colmato di conoscenza elevata l'anima di molti
figli di Dio, deve lasciarsi fecondare?

L'odierna teologia storicista così propone: la teologia autentica deve assimilare


la concezione profana che l'uomo possiede di se stesso e «lasciarsi fecondare»
da questa concezione profana, per quanto riguarda il linguaggio; anzi, la
teologia per essere genuina deve lasciarsi fecondare da questa concezione
profana che ha l'uomo in una determinata epoca - non soltanto per quanto
riguarda il suo linguaggio - ma ancor più per quanto riguarda il suo contenuto.
(272)

Il risultato, però, di questa fecondazione, ossia quel che ne emergerebbe come


dottrina e teologia, dovrebbe di nuovo assimilare la concezione profana che
l'uomo avrebbe di se stesso nella nuova epoca; cioè assimilare il mondo. E
dopo che la teologia abbia assimilato la concezione profana che l'uomo avrebbe
di se stesso a quella nuova epoca, dovrebbe di nuovo lasciarsi fecondare dalla
concezione profana assimilata; cioè la teologia dovrebbe di nuovo lasciarsi
fecondare dal mondo. Ci sarebbe, così, una continua assimilazione da parte
della teologia dell'opinione profana dell'uomo e una continua fecondazione
della teologia da parte dell'opinione profana assimilata.

Tale è la generica visione alla quale conduce la mistificazione storicista. Il


Cristo è venuto per salvare il mondo, per fecondare il mondo, con il messaggio
e la speranza della vita eterna. Non è venuto per essere fecondato dal mondo.

Il giovane, colpito da questa visione e da questo linguaggio, di certo si


chiederà: com'è possibile dare a tutto questo il nome di teologia cristiana?
Cosa resterebbe della cosiddetta teologia autentica, dopo una tale multipla
fecondazione di se stessa da parte di tutto quello che avrebbe assimilato come
mondo profano?

In questa volontà di re interpretazione del cristianesimo, che è esplicitamente


manifesta in un notevole numero di opere di scrittori e di diversi teologi, il
giovane riconoscerà la presenza dell'agglomerato del quale abbiamo parlato: la
coscienza storica, che giudica che tutto deve essere considerato e capito in
base alla perenne variazione nel tempo; l'ermeneutica che vuole imporre una
nuova interpretazione di tutta la Scrittura, di tutto il mistero della Chiesa:
reinterpretazione generale del cristianesimo; il riferimento esistenziale, che è
alla base dei giudizi della coscienza storica e della comprensione e
dell'interpretazione dell'ermeneutica. (273)
Relativismo dottrinale assoluto

Tutte le parole di Cristo, il suo messaggio, il suo monito rivolto agli Apostoli:
«sia il vostro parlare sì, sì; no, no», tutte le parole degli Apostoli a proposito
della loro testimonianza e della verità da trasmettere (274), ogni parola della
Sacra Scrittura riguardante la verità da conoscere e da trasmettere, tutto
questo deve essere reinterpretato secondo le «nuove teorie» del linguaggio.
Così la teologia dovrebbe cambiare punti di riferimento ed entrare
deliberatamente e coscientemente nell'era del relativismo trascendente.

La Chiesa non potrebbe mai formulare proposizioni certe per definire la fede,
perché «essa dovrà tener conto della problematica inerente a tutte le
proposizioni in generale», e non si potrà mai concepire ed esprimere con
certezza alcuna verità.

Secondo questa nuova filosofia del linguaggio (275), «le proposizioni di fede
non sono mai parola di Dio immediata», per questo tale parola mediata è
«percepibile e trasmissibile in quanto proposizione umana. Come tali, le
proposizioni di fede rientrano nella problematica generale delle proposizioni
umane». Infatti «le proposizioni non corrispondono alla realtà»; «le
proposizioni sono fraintendibili»; «le proposizioni sono solo relativamente
traducibili»; «le proposizioni sono in movimento»; «le proposizioni sono
ideologizzabili - anche la proposizione 'Dio esiste' è ideologizzabile». Ecco come
Hans Kung espone in cinque punti il suo credo sull'impossibilità di poter mai
avere un credo certo. (276)

Tali predicati non possono essere celati con altri testi degli stessi autori, testi
forse voluminosi, ma sempre nella medesima direzione e molto spesso evasivi.
Questi predicati manifestano, infatti, un relativismo assoluto, insediano nella
Chiesa un relativismo assoluto; trasmettono una dottrina del linguaggio tale
che nessuno si possa mai sentire nella verità, né acquisita a forza di
speculazione e di ricerca, né rivelata da Dio.

Il relativismo è lungi dal corrispondere al desiderio naturale di oggettività e ad


una percezione oggettiva dei rapporti continui tra gli esseri e le cose. È un
predicato così alieno dalla verità quanto lo è il monolitismo concettuale, privo
di sfumature e di riferimento eterno; infatti, il monolitismo concettuale vuole
imporre ogni volta concetti sprovvisti di ogni reale rapporto di carità con il
Principio della Verità e con gli altri esseri; vuole imporre concetti inariditi,
senza contenuto di vita, privi di sfumature ed estranei ad ogni speranza
vissuta, imporli come verità oggettiva e come principio universale di
conoscenza della verità.

Il cristianesimo, cioè il messaggio della persona e dell'insegnamento di Cristo,


ha apportato appunto, in seno alla relatività della filosofia e dell'esperienza
naturale degli uomini, criteri e punti di riferimento che risolvono in armonia di
pace, nell'intendimento, nella memoria e nel cuore, il movimento e
l'oscillazione perenni tra soggetto e oggetto, tra oggettività e soggettività.

In tal modo si manifesta il luminoso mistero della Rivelazione, quando è


ricevuta non soltanto come concetto nell'intelletto, ma come amore nella
volontà.

_____________________

Negazione dell'Incarnazione.

Alterazione della realtà di Cristo.

Gesù Cristo, sin dall'inizio, già prima della sua Passione è stato contestato dagli
scribi e dai dottori. È stato condannato, perché apportava con la sua Persona, il
messaggio della salvezza degli uomini, essendo il Figlio di Dio e perché aveva
dichiarato, dinanzi alla più alta autorità d'Israele, che era il Figlio del Dio
Benedetto. Poi è stato contestato in seno alla stessa sua Chiesa da «scribi e
dottori», nel corso di tutti i secoli della vita del cristianesimo.

È accaduto di nuovo, nel nostro secolo, che sia penetrata, più o meno
consciamente, nell'ambito della Chiesa la negazione della Realtà divina di
Cristo e del Mistero della sua Incarnazione. Nel quadro di alcune teologie nella
Chiesa e in tutte le confessioni, è particolarmente evidente che questa
negazione è il risultato manifesto di un capovolgimento della speranza, del
quale abbiamo già parlato. È anche evidente che questa negazione e questo
capovolgimento della speranza comportino obbligatoriamente la perdita
sempre più considerevole dell'ordine costituzionale di veracità e di carità del
linguaggio.

È certamente difficile, per la maggior parte dei fedeli, con il semplice aiuto
della riflessione e dell'informazione intellettuale esteriore, discernere, in mezzo
alla moltiplicazione di continue messe in discussione di ogni nozione,
considerazione, accezione, principio e postulato della Chiesa docente, la via
stretta ma regale della logica interna e dell'ordine eterno del verbo. Senza
queste nozioni e questi principi fondamentali della Chiesa docente, non ci
sarebbe nessuna possibilità né diritto di parlare in teologia, in seno al mondo
cristiano.

L'orientamento, infatti, della volontà verso concetti storicisti della speranza, ha


provocato una rivolta in profondità contro il verbo della teologia, del pensiero
in genere e della vita cristiana, scaturito dalla vera speranza apportata da
Cristo.
La verità dell'Incarnazione del Verbo che gli Apostoli hanno ricevuto da Gesù
Cristo stesso e trasmesso come deposito alla Chiesa, deposito che la Chiesa ha
difeso e conservato, attraverso i secoli della sua vita, questa verità è rigettata
da teologi e autori in seno alla Chiesa.

In questo libro (pag. 74) abbiamo già mostrato come Karl Rahner insegni che
Dio e l'uomo hanno la medesima essenza.

Karl Rahner, nella sua Enciclopedia teologica "Sacramentum mundi", nelle


poche pagine del suo articolo sull'Incarnazione, come nelle pagine del suo
articolo su Gesù Cristo, non soltanto afferma in più modi questa identità di
essenza di Dio e dell'uomo, ma distrugge anche, con un gran numero di
proposizioni, sapientemente intricate, tutta la verità della dottrina
sull'Incarnazione di Gesù Cristo.

Se il nostro giovane avesse la pazienza di dipanare i diversi sensi, spesso


contraddittori, delle esposizioni e delle proposizioni di Rahner, vedrebbe con
chiarezza una laboriosa costruzione che cambia radicalmente tutto il fondo
dottrinale e l'autentico significato interno della parola e dei predicati che sin
dall'inizio costituiscono con tutto l'arricchimento dei secoli - l'insegnamento
della Chiesa.

a) Secondo Rahner occorrerebbe distinguere tre dottrine sull'Incarnazione: la


prima è una dottrina del Nuovo Testamento su Gesù; la seconda una dottrina
«ecclesiastica»; e la terza una dottrina della «predicazione odierna». (277)

b) Secondo Rahner, «non si nega che all'interno di questa cristologia del Nuovo
Testamento sia dato trovare concezioni di fondo diverse, ma che non per
questo si eliminano a vicenda, di questa cristologia, a seconda che venga
preferito (gnoseologicamente ed ontologicamente) uno schema di ascesa o di
discesa». (278)

Ci sarebbe non soltanto una dottrina del Nuovo Testamento su Gesù, una
dottrina ecclesiastica e una dottrina della predicazione odierna, ma persino
quella, che è accettata come dottrina del Nuovo Testamento, conterrebbe delle
«concezioni di fondo» diverse. Questo dovrebbe bastare per capire l'abisso tra
il Vangelo e tutte queste considerazioni che si propongono come insegnamento
della Chiesa di Cristo. C'è però, in merito al Vangelo, qualcosa di più,
nell'immediato contesto di queste proposizioni dell'esposizione di Karl Rahner,
che dice: «La dottrina dei Nuovo Testamento su Gesù è al di là
dell'autotestimonianza del Gesù storico».(279)

Questo significa che il Nuovo Testamento non sarebbe un veridico testimone


del mistero e dell'insegnamento di Cristo. Tali postulati a proposito del Nuovo
Testamento e della Persona di Cristo sono il risultato delle «re interpretazioni»
e delle «demitizzazioni» dei testi che la Chiesa ha ricevuto dalle mani degli
Apostoli e degli Evangelisti. Questa semplice e limpida espressione: «la Chiesa
ha ricevuto dalle mani degli Apostoli e degli Evangelisti i suoi testi sacri» può
sembrare antiquata e non scientifica. Il giovane, però, avrà già capito che ci
sono due distinte nozioni generali della Scienza, e ciascuna di esse corrisponde
ad una diversa posizione, radicalmente diversa, nei confronti della creazione,
nei confronti dell'uomo, nei confronti della storia degli uomini e nei confronti
dell'intendimento e della memoria dell'uomo.

Quindi, secondo una di queste nozioni, l'espressione: «La Chiesa ha ricevuto


dalle mani degli Apostoli i suoi testi sacri» corrisponde ad una verità
profondamente storica e scientifica.

A tal punto il giovane si chiederà certamente:

- Quale valore può avere una dottrina del Nuovo Testamento, se questo
Documento, il Nuovo Testamento, altera la testimonianza che Gesù Cristo ha
reso di se stesso?

- Se si crede che il Nuovo Testamento abbia alterato la testimonianza di Cristo,


e poiché è impossibile stabilire onestamente differenze tra l'informazione
apportata dalla Tradizione e l'informazione (alterata stando a Rahner) scritta
del Nuovo Testamento, come si può essere apologista del Cristo e riferirsi a
questo medesimo Nuovo Testamento?

Per Rahner, però, questa domanda del giovane è superata, senza reale
risposta, con speculazioni, da lui stesso qualificate con il nome di «cristologia
trascendentale». Dice, infatti, chiaramente, in queste stesse pagine del suo
articolo su Gesù Cristo, che la cristologia paolina e giovannea, sebbene
impegnativa, è già un'interpretazione, e non può costituire il punto di partenza
per una teologia sistematica odierna:

«Una cristologia sistematica odierna non può tuttavia prendere il suo naturale
punto di partenza in questa comprensione teologica di Gesù Cristo; questo in
fondo vale anche per le affermazioni cristologiche della Scrittura più antiche
prepaoline».(280)

Secondo Karl Rahner, uno dei punti della dottrina del Nuovo Testamento che
va al di là della testimonianza, che il Cristo ha reso di se stesso, è
precisamente la preesistenza del Cristo, ossia la preesistenza del Verbo di Dio,
prima della nascita di Gesù di Nazareth:

«La cristologia odierna, nell'annuncio e nella riflessione teologica, deve in certo


modo riprendere e predicare! - nuovamente quella storia della 'cristologia
dell'ascesa' che già nell'ambito del Nuovo Testamento, passando con enorme
rapidità dall'esperienza del Gesù storico alle formule di discesa della cristologia
di Paolo e Giovanni, si è trasformata in una dottrina dell'incarnazione del Figlio-
Logos preesistente».(281)

La dottrina sull'Incarnazione deve dunque essere predicata in modo da


rimettere in vigore nella predicazione questa teologia che si può denominare
«teologia dell'ascesa», ossia occorre predicare che la Chiesa, arrestandosi e
conformandosi all'insegnamento di San Paolo e di San Giovanni, ha
trasformato con precipitazione la «cristologia dell'ascesa» nella dottrina
dell'Incarnazione del Verbo-Figlio preesistente. Allora il primo dovere della
predicazione è denunciare gli errori cristologici di San Paolo e di San Giovanni.
Dunque l'ascesa dell'uomo verso Dio, la perfezione dell'uomo costituirebbe,
come dice Rahner, «quel che la Chiesa chiama incarnazione» e la discesa del
Logos-Figlio nell'umanità di Maria costituirebbe una deformazione, che
bisognerebbe rimuovere con la nuova predicazione. Per questo allorquando
Rahner parla di unione, è necessario intenderla nel senso di «vicinanza
assoluta» tra l'uomo e Dio, senso del tutto differente da quello
dell'Incarnazione. È così che Rahner, nel suo articolo su Gesù Cristo, si riferisce
alla parte biblica di questo medesimo articolo per rendere esplicita la sua tesi:

«A portare alla fede nella preesistenza di Gesù sarebbe stata la dottrina


giudeo-ellenistica sulla sapienza anteriore al mondo, portando così
all'affermazione dell'incarnazione». (282)

«Si può contare che titoli di dignità come 'Messia', 'Figlio dell'uomo', 'Signore',
forse anche 'il Figlio', siano stati presi soltanto dalla comunità primitiva per
caratterizzare la coscienza, e quindi la pretesa, da parte di Gesù, di essere
stato mandato, come anche per esprimere la propria fede in lui». (283)

Con tutte queste considerazioni, che danno l'impressione di uno sforzo


sovrumano per aggirare il luminoso Mistero dell'Incarnazione del Verbo di Dio
nella Vergine Maria, è enunciata, esplicitamente ed implicitamente, la teoria di
un uomo Gesù che, nella sua attività per diventare «autonomo», va verso Dio,
che a sua volta va incontro all'uomo per autocomunicarsi. E avverrebbe, allora,
un incontro, un «punto culminante» di vicinanza assoluta e definitiva.

È questo che si deve predicare, secondo Karl Rahner, sotto il vocabolo


d'«Incarnazione di Cristo». Questo Gesù non è un profeta come gli altri. La sua
vicinanza con il divino è molto più perfetta, e così è divenuto il «portatore
assoluto della salvezza». È questa teoria che, con molto ermetismo speculativo
e linguistico, è presentata come capace di essere in armonia con le «formule
della cristologia antica», e come la dottrina della Chiesa da doversi predicare.

Per quanto riguarda l'armonia di queste teorie cristologiche, di questa


«cristologia dell'ascesa» con «le formule antiche», Rahner non spiega come la
si possa concepire, ma dice che occorre tuttavia conservarla «per molti motivi
che qui non è necessario illustrare». (284)

Rahner chiede precisamente di «predicare l'Incarnazione in modo tale» che la


teoria della «vicinanza assoluta e definitiva» appaia come la dottrina della
Chiesa per l'Incarnazione. (285)

Nell'assieme della sua teoria, esposta in tutti i suoi scritti, come anche nei suoi
articoli dell'«Enciclopedia teologica», è ignorato e implicitamente confutato il
mistero dell'Annunciazione, ossia il mistero dell'Incarnazione. (286)

L'infinità di proposizioni esplicite e implicite, che sfiorano il mistero


dell'Incarnazione e se ne discostano diligentemente, per mezzo di speculazioni
prive di fondo e di conseguenza, l'infinità di espressioni apersonali, cioè
espressioni delle quali è imprecisabile il soggetto ontologico, non possono
presentare una dottrina, erronea forse per la Chiesa, ma con almeno la
possibilità di una qualche coerenza tra punto di partenza e meta finale; e non
possono velare la netta negazione che contengono del mistero
dell'Incarnazione.

Per Rahner, l'Incarnazione è in Gesù; non è il concepimento di Gesù Cristo.


Questo è detto a più riprese: «La fattualità dell'Incarnazione proprio in Gesù di
Nazareth rappresenta un momento della concretezza di questo mistero».(287)

Ossia questa concretezza del mistero dell'Incarnazione comporta molti


momenti, e l'Incarnazione in Gesù è uno di questi momenti. In tal modo la
fattualità dell'Incarnazione «in Gesù» non sarebbe tutta l'Incarnazione.
L'enunciato dell'Incarnazione è suggerito nel quadro di un'evoluzione cristica
dell'umanità e del cosmo, cosa che in ogni caso, non ha mai costituito
l'insegnamento della Chiesa.

L'attesa della creazione che geme (Rom. 8, 19) non significa che l'Incarnazione
sia un evento di «vicinanza» di Dio e dell'uomo, né un evento collettivo a lunga
scadenza. Tutta la creazione attende la redenzione. Essa non segue i tempi
successivi dell'evento di un'Incarnazione che deve espletarsi a lunga scadenza.

Rahner, infatti, sintetizzando in un'immagine molto espressiva il fondo della


sua teoria, dice nettamente:

«Quando l'autocomunicazione di Dio e l'autotrascendimento (288) dell'uomo


giungono, in senso categoriale-storico, alloro punto culminante assoluto ed
irreversibile, cioè quando nella spazio-temporalità Dio 'esiste' in modo assoluto
ed irreversibile, e l'autotrascendimento dell'uomo giunge così appunto a un
simile pieno trasferimento in Dio, si ha quella che cristianamente è detta
incarnazione». (289)
Ad agire sono due: Dio che si autocomunica e l'uomo, già esistente, che si
autotrascende. Quando Dio diventa esistente nella spazio-temporalità, non in
modo relativo, ma in modo assoluto e irreversibile, e quando nel medesimo
tempo l'uomo, nel suo sforzo d'autotrascendimento, giunge ad un pieno
trasferimento in Dio, allora, secondo Rahner, avviene la realizzazione di quella
che cristianamente si chiama l'Incarnazione.

È certo che nella teologia scolastica lo studio dell'uomo Gesù ebbe una vasta
importanza. In particolare San Tommaso d'Aquino si è minuziosamente
occupato di tutto quel che riguarda la conoscenza, la scienza, la volontà
dell'uomo come anche la conoscenza, la scienza, la volontà di Dio, in Gesù
Cristo. Qui siamo, però, ben lungi da tali questioni. San Tommaso, infatti, parla
della realtà umana di Gesù Cristo, come essendo stata concepita nel seno di
una donna, per diretto intervento di Dio. Per questo la teoria di Rahner non
può procurarsi un appoggio qualsiasi col riferirsi al fatto che l'umanità di Gesù
Cristo sia stata largamente trattata dalla Scolastica.

Attraverso l’ermetismo di Rahner, il giovane avrà capito che San Tommaso


parla di Gesù concepito per intervento divino; e che Rahner parla di un Gesù
che, concepito naturalmente e nell'agire per suo «desiderio di autonomia»,
giunge alla «vicinanza assoluta ed irreversibile» di Dio, che desidera la propria
«auto comunicazione». Non è qui il caso, dunque, di delicate sfumature e di
immagini talvolta ineffabili, attraverso le quali, in alcuni momenti, si vive
nell'intimo il mistero dell'Incarnazione, il mistero di un uomo concepito nel
seno di una donna per diretto intervento di Dio.

L'insieme dei discorsi di Rahner riguarda il cammino intellettuale e spirituale di


un uomo concepito naturalmente, e questo non si può chiamare
"incarnazione". Questa teoria, che si voglia o meno, è negazione
dell'Incarnazione e alterazione della realtà di Cristo.

L'antropologia è un termine che può avere e ha parecchie accezioni, parecchi


punti di partenza. Quanto Rahner dice, rivela una teoria antropologica che
conduce direttamente ad una totale storicizzazione di Dio e all'identità di
essenze di Dio e dell'uomo. Ed è per questo che Rahner così s'esprime:

«Ciò che l'uomo sia, costituisce l'affermazione della totalità della teologia in
assoluto». (290)

***

Alcune considerazioni sulla persona di Cristo evocano certune dottrine occulte


in merito all'Incarnazione del Verbo di Dio, in particolare quelle degli
antroposofi e dei Rosacroce. Secondo questa dottrina Gesù, grande iniziato,
successore dei grandi iniziati, ha accettato che la sua anima abbandoni il corpo
nelle acque del Giordano e il Verbo di Dio ha preso il suo posto. Colui che
emerse dalle acque del fiume era un'altra persona, Gesù Cristo. (291)

Il professore Hans Kung a più riprese afferma che Gesù ha potuto prendere
«coscienza della propria vocazione nel contesto del battesimo - e da quel
momento egli si sentì pervaso dallo Spirito». (292) Certamente Kung dice
ancor meno degli occultisti, dal momento che non accetta alcuna divinità in
Gesù Cristo né prima né dopo il battesimo. Con tutti i suoi scritti Kung
conferma, con minore ermetismo di Rahner, la sua dottrina su Gesù Cristo.
Secondo questa dottrina, l'Incarnazione e tutto quel che concerne
l'Annunciazione e la Natività di Cristo, nei testi del Nuovo Testamento, sono pie
leggende dovute ad anonime compilazioni della primitiva comunità cristiana.
(293) In Kung, la spiegazione della persona di Cristo è più sociale e psicologica
che speculativa. Con il termine «incarnazione», intende la vita e
l'insegnamento di Cristo:

«In nessun luogo del Nuovo Testamento si parla dell'incarnazione di Dio stesso
- Se oggi si vuol parlare senza fraintendimenti anche dell'incarnazione del
Figlio di Dio, questa non potrà essere ridotta al punctum mathematicum o
mysticum del concepimento o della nascita di Gesù, ma dovrà piuttosto essere
estesa all'intero vivere e morire di Gesù». (294)

È così che in seguito nel suo libro "Dio esiste?" esprime con caratteri in rilievo,
il suo credo, che confuta il mistero dell'Annunciazione del Credo della Chiesa:

«Incarnazione di Dio in Gesù significa che: in tutti i discorsi di Gesù, in tutta la


sua predicazione, nell'intero suo comportamento e destino, hanno preso figura
umana la Parola e la Volontà di Dio: in tutto il suo parlare ed agire, patire e
morire, insomma in tutta la sua persona, Gesù ha annunciato, manifestato,
rivelato la Parola e la Volontà di Dio. Egli, nel quale parola e volontà,
insegnamento e vita, essere e agire coincidono perfettamente, è
corporalmente, è in figura umana Parola, Volontà, Figlio di Dio».(295)

E altrove ha già reso esplicito questo credo:

«Nella tendenza della comunità a definirlo innanzitutto 'il Figlio', si deve


scorgere come un riverbero, sul volto di Gesù, del Dio da lui proclamato Padre.
È agevole, per questa via, spiegare il passaggio all'altro titolo, 'Figlio di Dio',
coniato dalla tradizione». (296)

E Kung afferma che in questo senso e certo soltanto in questo senso, «accetta
anche il Concilio di Nicea del 325». (297)

Questa accettazione da parte di Kung «anche del Concilio di Nicea» è


condizionata da tutta la sua dottrina, secondo il senso della quale afferma che
lo avrebbe accettato. È chiaro che questo significa che bisognerebbe svuotare
di ogni senso ontologico le formule del Concilio e sostituirlo con il senso
storico-sociologico-psicologico di Kung.

Kung, come molti teologi di oggi, è erede dell'atteggiamento intellettuale e


spirituale di Hegel nei confronti del mondo e di Dio. D'altronde testimonia
ampiamente ad Hegel la sua riconoscenza, quando dichiara che il suo pensiero
l'ha «stimolato ed incoraggiato a riflettere sulla storicità di Dio e sulla storicità
di Gesù».(298)

Ma ecco l'immagine che Kung fa di Gesù, immagine che non esprime soltanto
una sfrontatezza di cattivo gusto o una sconsiderata fantasia; ma esprime la
risultanza interiore di una visione escatologica fondamentale storicista:

«Gesù non era sacerdote - egli fu un comune 'laico', guida di un movimento


laico - Non era neppure un teologo - Gesù era un paesano, per giunta
'illetterato' - non poteva vantare nessuna cultura teologica - Non diede a
intendere di essere un esperto di ogni possibile questione dottrinale, morale,
giuridica, legale - Egli fu, se si vuole, un narratore pubblico, uno di quei
personaggi che si incontrano ancor oggi sulla piazza principale di Kabul». (299)

Esiste un piccolo libro il cui autore non è noto e, pensiamo, senza alcuna
pretesa teologica, intitolato "Mai un uomo ha parlato come quest'uomo". (300)
Si nota nelle pagine di questo libro, che la parola di Cristo è venerata per la
sua sovrumana grandezza, profondità e vitalità e per la sua origine eterna.

Questo libretto, il cui titolo costituisce già un insegnamento, trasmette una


veritiera immagine di Gesù di Nazareth, di Gesù Cristo, del Figlio dell'Uomo,
del Figlio di Dio, del Verbo incarnato; esso mostra come e quando la parola di
Cristo trasmette la sua vibrazione di vita reale e svela la sua divina verità a
coloro che, senza essere dottori né professori di teologia, Lo ricevono secondo
la parola di San Giovanni, con semplicità e verità.

Quando non è ricevuto, è respinto con ostilità e talvolta con una mancanza di
elementare decenza. Persino un «narratore di Kabul», più di molti dotti, può
essere recettivo e sensibile alla grandezza e alla bontà uniche ed inimitabili
della parola e degli atti di Cristo.

***

L'Incarnazione costituisce la più profonda base e nel contempo la chiave di


volta del mistero della Redenzione. Perciò l'Incarnazione, per Maria e per lo
Spirito Santo, del Verbo di Dio costituisce il fondamento di base di tutta la
verità dottrinale che è stata espressa e vissuta intimamente nella Chiesa, in
mezzo a tutte le tribolazioni sia morali come intellettuali nelle quali ha dovuto e
dovrà vivere il suo Mistero di Redenzione.
Orbene, l'Incarnazione non è una costruzione né la proiezione delle umane
considerazioni fatte con amore e pietà.

- Non è il prodotto dell'esaltazione collettiva di una fervente comunità che


procede, però, a tentoni per quanto riguarda l'origine della sua verità, della sua
propria nascita e della sua propria missione.

- Non è la conclusione volontaria di un'interpretazione di certuni testi o di


certune parole trasmesse oralmente, interpretazione sempre riadattata alle
varie culture.

- Non è il prodotto di un'interpretazione del Nuovo Testamento e di una


predicazione che avrebbe, con il suo continuo adattamento, costruito la storia-
leggenda di Cristo, il messaggio di Cristo e lo sviluppo dottrinale.

- Non è il prodotto di una predicazione secondo la quale il Nuovo Testamento e


la Tradizione non avrebbero dovuto occuparsi di quel che il Cristo fosse
(cristologia ontologica), ma soltanto di quel che il Cristo avesse fatto
(cristologia funzionale).

- Non è scaturita da un appassionato desiderio di «liberazione» nel tempo dagli


impedimenti e dalle miserie della stirpe di Adamo.

- Non è la mitizzazione poetica di un Eroe amato ed «eterno».

- Non è la personificazione simbolica scaturita da un sentimento di ordine


religioso che sarebbe immanente all'uomo.

- Non è il nome di una perfezione dell'uomo che s'innalza per amore,


combattimento e sacrificio fino a Dio.

- Non è il prodotto dell'immaginazione o dell'astuzia umana in seno ad un


gruppo con uno scopo sociale e politico.

È la più elevata verità rivelata: la verità della salvezza ontologica dell'uomo.

Questa verità fondamentale della realtà dell'Incarnazione costituisce un criterio


generale, attraverso il quale tutti gli argomenti, i problemi, i temi concernenti
tutta l'economia della Redenzione debbono essere visti e compresi. Così il
mistero della Chiesa, la sua origine e la sua realtà costituzionale sono fondati
sull'Incarnazione.

Il problema dei rapporti tra Chiesa e mondo, il problema del naturale e del
soprannaturale, il problema dell'essenza e del significato della realtà
sacramentale, il problema della vocazione dell'uomo e della sua missione nella
storia, il problema dei rapporti dell'uomo singolo e dell'umanità con la storia e
con l'eternità, tutti i problemi, tanto quelli riguardanti la conoscenza di Dio
come quelli riguardanti i mezzi e le vie di salvezza, hanno un comune
denominatore: l'Incarnazione del Verbo di Dio per Maria e per lo Spirito Santo.

Se questa verità è confutata e alterata, come d'altronde lo è, sono nel


contempo confutate e alterate de facto tutte le altre realtà dell'uomo, della sua
storia e dei suoi ultimi fini. Nessun argomento può essere trattato e affrontato
indipendentemente dalla nozione fondamentale dell'Incarnazione.

Per questo è impossibile che avvenga un radicale cambiamento dell'enunciato


dell'Incarnazione senza che l'assieme dei problemi dottrinali, spirituali e morali,
l'assieme della Rivelazione non subisca un'alterazione nel pensiero, nella
coscienza e nella volontà.

Avere un criterio fondamentale, un principio con il quale si riflette sulla realtà


universale, sulla realtà di ogni uomo, sulle verità rivelate e sulla scienza
umana, non offusca le sfumature e le particolarità di ogni caso affrontato
attraverso questo criterio generale. Ma la molteplicità di sfumature e di
particolarità non altera neanche l'unicità e l'universalità del criterio e del
principio. Se questa unicità è differenziata in molteplicità, nessuna percezione e
nessun giudizio possono stabilire nell'uomo un ordine di conoscenza e di vita.

Per questo non bisogna mai dimenticare che le più elevate speculazioni sulla
Santissima Trinità, per esempio, o la meditazione sul fenomeno globale della
storia degli uomini o sull'essenza reale della nozione di sacramento, dipendono
logicamente ed inevitabilmente dalla nozione dell'Incarnazione; e soprattutto
dal nostro intimo rapporto con questa nozione.

Le radici del mistero della Chiesa affondano direttamente ed ontologicamente


nel mistero dell'Incarnazione. È stata sempre una grande illusione credere che
si possa seguire un'«indagine», cercare una migliore interpretazione e
comprensione dei testi, cercare di stabilire una dottrina a proposito della grazia
o della Passione di Cristo o della Morte e Resurrezione di Cristo,
indipendentemente dalla nozione dell'Incarnazione o semplicemente
lasciandola talvolta malignamente - nell'ombra.

Gli uomini vivono, amano Dio e i loro simili, senza che tutti abbiano la
medesima conoscenza intellettuale del mistero di Dio e della creazione. Questa
differenza, però, nel grado di conoscenza intellettuale, non impedisce
necessariamente agli uomini di essere in interna armonia con la Verità e la
Volontà del Creatore. Se l'uomo, però, coscientemente si sforza di costruire,
con le proprie forze e secondo l'inclinazione della propria volontà, spiegazioni
dei segreti di Dio, confutando o alterando o ignorando volontariamente quel
che gli è stato dato come verità rivelata, si distacca de facto da ogni armonia,
e da ogni possibilità di percezione del reale.
Secondo questa legge, l'umanità ha fatto il suo cammino fino ad oggi e la
Chiesa è stata costituita, ha ricevuto la Rivelazione, l'ha conservata e l'ha
trasmessa intatta attraverso molte attese ed esitazioni, molte sofferenze e
molta santa ignoranza. Questa santa ignoranza, infatti, non impedisce che si
riceva, si viva e si trasmetta in atti di vita e in parole di vita la Verità rivelata e
ricevuta.

***

Per quanto sia umanamente permesso raffigurarsi la realtà dei primissimi


tempi della Chiesa, l'Incarnazione del Verbo di Dio è stata rivelata pur
rimanendo anche un arcano. Arcano non significa sempre una vita segreta e un
sapere segreto da svelare soltanto ai rari iniziati. Significa anche, però, che ci
sono verità non sempre trasmissibili a tutti, non a causa di un divieto o di un
culto del segreto, ma perché sono verità che esigono un grado di liberazione
interiore ed una particolare elevazione spirituale per poter essere concepite
intellettualmente e quindi espresse tramite il vocabolario della parola esterna.

Quando San Paolo afferma che «udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno
pronunciare», (301) non vuol dire con questo che si tratta di un segreto
affidato, da custodire ad ogni costo, ma vuol dire che ha udito parole che sono,
per se stesse, indicibili e che non è dato all'uomo di poterle pronunciare. In tal
modo parla di un mistero, ma non di un segreto. Ogni mistero contiene una
realtà celata.

Non si tratta, però, di un segreto che qualcuno deve custodire. Si tratta


dell'impossibilità di comunicazione a livello della parola umana. Si possono
concepire alcune realtà secondo il verbo interiore, senza che si possano
trasmettere con la parola esteriore. La Chiesa ha avuto sin dall'inizio
un'esistenza limpida, ma essa è in sé un mistero come la vita è un mistero.

In tal modo il Cristo è stato ricevuto immediatamente ma il suo mistero è stato


approfondito intellettualmente, più o meno lentamente a seconda delle
persone, pur essendo interamente ricevuto dai medesimi uomini. È d'altronde
uno dei dati che permette che la Chiesa di Cristo, malgrado le sue umane
lacune, sia l'unica detentrice dei misteri della Verità eterna.

È in seno alla vita profonda della Chiesa, per mezzo della Santissima Vergine e
degli Apostoli, che Cristo ha depositato le grandi verità sul mistero della sua
persona e della sua opera di Redentore. La predicazione per mezzo di persone
dallo spirito totalmente rinnovato, è scaturita da questo eterno deposito di
verità rivelata e di carità, come una luce e come una forza. E, mentre la
predicazione si adattava certamente ai linguaggi e ai livelli dei popoli, subendo
talvolta perturbazioni, le grandi verità del sacro deposito si trasmettevano
immutabili, illuminavano le menti e venivano a poco a poco formulate e
definite, secondo le provvidenziali necessità, nell'ambito della vasta ed
effervescente vita della Chiesa.

Tale è l'immagine, veramente troppo sintetica, ma reale della trasmissione


della Rivelazione su Dio, sul Figlio di Dio, sulla salvezza e sulla missione eterna
dell'uomo; l'immagine del cammino dottrinale. Cristo, infatti, come l'abbiamo
già detto all'inizio di questo libro (pag. 34), non ha affidato la trasmissione del
sacro deposito alla relatività e all'instabilità dell'uomo storico.

La predicazione si è estesa a tanti differenti popoli; mentre la Rivelazione, il


deposito di Cristo, attraverso la Santissima Vergine e gli Apostoli, è stata
trasmessa nelle profondità dell'anima e della vita della Chiesa. Non è la
predicazione che ha condizionato la trasmissione della Rivelazione. È la
presenza del deposito, irradiante la sua originaria luce di verità divina
immutabile, che ha conservato immutato e nel contempo vivente e attivo,
nonostante tutte le fluttuazioni e tribolazioni esterne, e tutti i temporanei
adattamenti kerigmatici, il mistero trascendente della Chiesa.

_________________

Alterazione radicale della Rivelazione

Sin dall'inizio, l'abbiamo già detto, la realtà divina di Cristo è stata contestata.
Era inevitabile, perché se il Figlio di Dio fosse accettato senza contestazione,
sarebbe il segno che lo scopo dell'Incarnazione, in questa carne dell'uomo nella
storia che ha fatto seguito ad Adamo, sarebbe stato raggiunto, prima
dell'Incarnazione.

Il cammino della verità rivelata si è compiuto, si compie e si compirà ad


immagine della vita di Cristo: venuta direttamente da Dio, nascosta, pubblica,
contestata, calunniata, integrale, sacrificante, colma di amore, misteriosa e
limpida, divina e umana. In tal modo la Verità è apparsa alla superficie della
vasta Chiesa e a poco a poco è stata espressa nelle formule e nelle definizioni
della fede della Chiesa.

Lo storicismo filosofico e sociale, in quanto fissazione della coscienza dell'uomo


su fini temporanei e ultimi, ma circoscritti nell'interminabile e storico tempo e
movimento, ha suscitato nella coscienza cristiana, nei tempi detti moderni, con
innumerevoli argomenti fittizi per mezzo di criteri razionalisti ma irrazionali,
una contestazione diretta o indiretta, nascosta o ammessa, dell'integrale realtà
del Figlio di Dio.

Tutta la vasta effervescenza critica degli ultimi secoli, la rimessa in discussione


di tutti i fondamenti d'informazione storica sulla realtà di Cristo, sulla realtà
della Chiesa, sulla realtà e la comprensione dei testi considerati come
espressione scritturale delle verità rivelate, tutti gli sforzi di erronea e
corruttrice analisi del linguaggio dell'uomo hanno avuto, coscientemente o
incoscientemente, come bersaglio centrale l'Incarnazione del Verbo di Dio. La
fede dell'uomo in questa verità, però, è l'unico fondamento della sua
liberazione nella vita eterna.

È umanamente impossibile enumerare tutte le manifestazioni di quel che n'è


conseguito. Spesso gli uomini, invece di essere innamorati della verità e di
cercarla in se stessa, ossia di seguire le vie dischiuse dalla Rivelazione ed
illuminate dalla Rivelazione, sono presi dal piacere della ricerca e dalla china
storicista della speranza, e si smarriscono in meandri senza fine, in vie sempre
nuove che non hanno via d'uscita.

Se veramente si volessero enumerare ed affrontare, una dopo l'altra, tutte le


manifestazioni dello storicismo razionalista e irrazionale, sarebbe come se si
volesse svuotare il mar mediterraneo con un cucchiaio. L'immagine può
sembrare esagerata, ma è veridica. La possibilità, infatti, di cogitazione e di
argomentazione, distolte da un ordine iniziale oggettivamente eterno e
rivelato, è senza fine. Tutto può essere detto. Si possono accumulare
montagne di considerazioni su argomenti arbitrari e talvolta molto fantasiosi,
senza alcun reale riferimento, senza alcuna prova, alcuna corrispondenza con
le reali aspirazioni dell'uomo.

Spesso ci si lascia prendere, da un argomento arbitrario dopo l'altro, fino a


dimenticare il punto di partenza e lo scopo della nostra ricerca, il nostro
appello da parte di Dio.

Se il nostro giovane aprendo un libro sulla filosofia antica, trovasse scritto nella
prima pagina che Aristotele non aveva ben capito il senso con il quale Platone
utilizzava alcuni termini, mentre l'autore del libro pretende di averlo capito
meglio dopo 24 secoli, il giovane penserebbe che l'autore del libro non doveva
essere serio. Egli si direbbe:

- Certamente Aristotele, ex-discepolo di Platone poteva non condividere con


Platone molte opinioni e molte nozioni. Conosceva, però, meglio della maggior
parte dei suoi contemporanei il senso che Platone attribuiva ai termini,
indipendentemente dal fatto che lui, Aristotele, non condividesse questi
significati di Platone.

Se il giovane aprisse un libro di storia della medicina e leggesse, nell'ultima


pagina del capitolo su Pasteur, che il suo primo e più fedele assistente non
aveva ben capito il senso che lo stesso Pasteur attribuiva ai termini «bacillo»,
«microbo», «cocco», mentre l'autore pretende, cento anni dopo, di averlo
capito meglio, il giovane resterebbe colpito da questa pretesa, soprattutto
perché l'autore non avrebbe, per pretendere questo, alcun punto di appoggio,
alcuna prova, ma soltanto la sua immaginazione, o in fondo il proprio desiderio
di giustificare le sue idee personali.

Lo stesso stupore e lo stesso dubbio sulla serietà dell'autore sopravverrebbero


se il giovane leggesse, in un libro di economia politica o di sociologia, che
Engels non aveva ben capito il senso che Marx attribuiva ai termini della sua
analisi del processo economico nel "Capitale", mentre l'autore affermerebbe di
aver capito meglio di Engels il senso che Marx attribuiva ai termini utilizzati.

Questi esempi possono sembrare costruzioni della mente. Esprimono però,


d'altronde molto fievolmente, le incredibili conseguenze dello sviluppo della
critica razionalista e della mentalità storicista in genere. È facile, con finzioni
terminologiche incontrollabili, creare un alone dottrinale e culturale, senza mai
permettersi, né permettere agli altri, di ricondurre gli argomenti alla loro
essenziale e profonda semplicità.

Per questo il nostro giovane, nella sua carità, sarà molto perplesso di fronte ad
innumerevolissimi casi come, per esempio i seguenti:

1. Nel libro "La nuova ermeneutica" di James M. Robinson e Ernst Fuchs (302)
nella prima pagina si legge:

«La glossolalia, in realtà, non consisteva nel parlare lingue straniere, come
sembra intenderla Luca». (303)

Il giovane, sul principio, non avrebbe sicuramente capito la portata di questa


affermazione. Ma nel prenderne coscienza, rimarrebbe costernato di fronte
all'enormità della frase. Robinson si riferisce contemporaneamente a San Paolo
e a San Luca, per quanto concerne il fatto di «parlare in lingue» e in particolare
si riferisce alla Prima Lettera ai Corinzi dove San Paolo parla d'«interpretazione
delle lingue». (304)

San Luca, negli "Atti" impiega le espressioni «parlare in altre lingue» (305) e
«parlare in lingue».(306) San Luca è stato compagno e collaboratore di San
Paolo. È più che normale pensare che San Luca sapesse meglio di molti altri
suoi contemporanei cosa San Paolo intendesse con alcuni termini ed
espressioni, forse fin troppo sintetiche. Indipendentemente, però,
dall'espressione di San Paolo «parlare in lingue», il fatto significato da questa
espressione, era accaduto più volte dopo la Pentecoste. E San Luca non poteva
scrivere con leggerezza su un fatto straordinario, dal momento in cui - come
egli stesso lo dice all'inizio del suo vangelo - ha scritto dopo aver fatto
«ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi» (307). D'altra parte è
inconcepibile che abbia capito il fatto di parlare in lingue in modo diverso da
San Paolo. Poter affermare che noi capiamo meglio di San Luca quel che aveva
saputo sugli eventi e quel che San Paolo intendesse con l'espressione «parlare
in lingue», mostra in quale alterazione del giudizio sia sfociato il lungo logorio
dei criteri e dei riferimenti ad opera della crescente pletora di considerazioni
della critica razionalista, nella mentalità storici sta ed esistenziale.

2. Il professore Rudolf Schnackenburg (308), in uno studio sulla «cristologia


del Nuovo Testamento» scrive a riguardo della confessione di San Pietro a
Cesarea di Filippo:

«Inizio storico della fede in Cristo la risurrezione di Gesù lo è proprio nel senso
che, soltanto partendo di là, si può parlare realmente di fede in Gesù, il Cristo
e Figlio di Dio. - Ci si richiama soprattutto alla confessione di Simon Pietro a
Cesarea di Filippo: 'Tu sei il Figlio del Dio vivente'. L'indagine evangelica
recente ci ha tuttavia insegnato a non prendere tali asserzioni semplicemente
in un senso storico. - Matteo voleva, in questo punto, introdurre la sua
tradizione speciale circa la promessa di Gesù di costruire su Pietro la roccia, la
sua comunità e la confessione di fede di questo discepolo esaltato da Gesù la
formulò in una maniera che non corrispondeva in vero alla situazione storica di
allora, ma alla sua piena fede posteriore». (309)

Questa indagine sui Vangeli della quale parla il professore Schnackenburg


avrebbe provato che gli Apostoli non intendevano stendere una relazione dei
fatti storici, ma una relazione della loro fede, una relazione che «presenta i
fatti della storia di Cristo alla luce della loro fede pasquale». (310) Ossia gli
Evangelisti avrebbero espresso la loro fede tale quale essi l'avrebbero avuta e
modellata dopo la Resurrezione, con relazioni storicamente non vere. Gli
Apostoli e gli Evangelisti avrebbero illustrato, con fatti e parole immaginarie,
quel che avrebbero creduto, a fatto compiuto.

Schnackenburg, per spiegare cosa intende con l'espressione «indagine sui


Vangeli», si riferisce alla «Storia delle forme», alla «Storia delle tradizioni e
delle redazioni». Questo significa, secondo considerazioni letterarie, cioè
considerazioni filologiche e morfologiche, sulla base di ipotesi riguardanti i
gruppi della Chiesa dei primi tempi, che questi gruppi avrebbero modellato
quel che è stato ricevuto come messaggio e come storia di Cristo; modellato in
tal maniera che i «testimoni scritti», i Vangeli e l'intero Nuovo Testamento non
possono servire come riferimento storico della realtà di Cristo. Infatti dopo la
Resurrezione e dopo la Pentecoste, la realtà e il messaggio di Cristo sarebbero
già stati troppo adattati e quindi trasformati dai sentimenti, dai pensieri e dalle
credenze, perché si possa trovare nella vita della Chiesa, nei testi sacri e nelle
testimonianze apostoliche e patristiche, la verità intatta sulla Persona del Cristo
e sul suo messaggio.
Di fronte ad un tale cumulo di ipotesi e di considerazioni arbitrarie basate su
queste ipotesi, il giovane potrebbe credere che sta sognando. Si chiederebbe,
infatti:

- Se San Matteo può riferire un fatto immaginario e parole immaginarie


unicamente per «pia» tattica apostolica e avendo come scusa, la fede che San
Pietro ha avuto dopo la Pentecoste, chi può, allora, garantire la sacralità e la
veracità dei Vangeli? Il fatto stesso di continuarlo a proporre come il vero libro
del cristianesimo non costituisce automaticamente un'opera di disgregazione
della fede cristiana?

- Questa abitudine di dare a questo cumulo d'interipotesi il nome di scienza


non provoca automaticamente una disgregazione della nozione tanto profonda
quanto pratica di scienza? È scienza attribuire all'improvviso ad una persona,
considerata come «autore sacro» narrazioni tendenziose relazionanti fatti
inesistenti, e questo per confutare, con un lunga serie di tali ipotesi negative, il
fondo del messaggio dell'autore sacro e della natura trascendente della
storicità della Chiesa di Cristo, e dunque del messaggio ricevuto e
dell'insegnamento della Chiesa?

E Schnackenburg continua sostenendo che l'Evangelista San Matteo ha sempre


proceduto in tal modo, cioè riportando fatti fittizi per confermare a posteriori la
fede così come è stata elaborata dalla e nella comunità cristiana:

«Un altro passo conferma questo modo di procedere del primo evangelista. Alla
fine del cammino sulle acque da parte di Gesù egli scrive a proposito dei
discepoli: 'E quelli che erano sulla barca gli si prostrarono davanti,
esclamando: "Tu veramente sei Figlio di Dio". (311) Se questo fosse un
racconto storico preciso, in che cosa Simon Pietro a Cesarea sarebbe stato
superiore ai suoi condiscepoli?». (312)

E quindi, Schnackenburg si richiama a San Marco che riporta il fatto di quella


notte del cammino di Gesù sulle acque, parlando soltanto dello spavento e
dell'incomprensione dei discepoli, perché non avevano capito il fatto dei pani
(della moltiplicazione che era stata narrata prima) e perché il loro cuore era
indurito». (313)

Schnackenburg vuole mettere qui in contraddizione San Matteo con se stesso e


con San Marco. Se San Pietro, secondo Schnackenburg, avesse dichiarato a
Cesarea che Gesù era il Cristo, il Figlio di Dio, dopo che i discepoli spaventati
sulla loro barca avevano detto meravigliati: «Tu sei veramente il Figlio di Dio»,
San Pietro non avrebbe detto qualcosa di eccezionale per meritare le parole di
Cristo: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te
l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli!».(314)
E dopo questa «contraddizione» di San Matteo con se stesso, ci sarebbe,
sempre stando a Schnackenburg, una «contraddizione» rispetto alla narrazione
di San Marco che non dice nulla su questa confessione degli Apostoli sulla
barca, terminando la sua narrazione con lo spavento dei discepoli e con la loro
pesantezza di cuore di fronte al miracolo dei pani. E Schnackenburg si sente
del tutto giustificato nello spiegare questo tipo di diversità delle narrazioni con
tutto un capovolgimento dell'ordine morale, spirituale e sacro della parola di
testimoni oculari.

Inoltre Schnackenburg nota che San Marco, quando riporta la confessione di


San Pietro a Cesarea di Filippo, scrive che San Pietro ha risposto a Gesù: «Tu
sei il Cristo!».(315) E Schnackenburg conclude che c'è contraddizione tra San
Matteo e San Marco, perché in San Matteo, il Cristo conferma la confessione di
San Pietro, dicendogli che ad illuminarlo è l'eterno Padre, mentre in San Marco,
per prima cosa San Pietro dice soltanto «Tu sei il Cristo», e poi la narrazione
finisce senza la lode a Pietro, ma soltanto con la severa consegna di Cristo di
non parlare ancora a nessuno del mistero della sua Realtà. (316)

E il nostro giovane avrà pensato certamente: perché tale capovolgimento? E


semmai i discepoli avessero accolto nei loro cuori tutta l'azione miracolosa di
Gesù e tutta la sua parola semplice e densa, colma del mistero della sua
origine e della sua missione, semmai le avessero accolte, prendendo poco a
poco coscienza di quel che stavano vivendo, e al momento dello spavento e
dello stupore, nonostante la pesantezza dei loro cuori dinanzi al precedente
miracolo della moltiplicazione dei pani, essi si fossero messi in ginocchio e
avessero detto o uno di loro avesse detto spaventato e strabiliato: «Tu sei
veramente il Figlio di Dio»?

E semmai Gesù, conoscendo come e quanto fosse ricevuto nel cuore degli
Apostoli, che avevano abbandonato tutto e lo seguivano dovunque, sapendo
che la loro fede si era sempre più ampliata, approfondita e
soprannaturalizzata, sapendo che la nozione di «Figlio di Dio» ritornava sulle
loro labbra e nella loro meditazione con più o meno timore e stupore, e
semmai Gesù avesse trovato il momento propizio per porre chiaramente la
domanda capitale sulla sua Persona: «La gente chi dice che sia il Figlio
dell'uomo? Voi chi dite che io sia?». (317) Semmai?

Semmai San Marco, discepolo di San Pietro, seguendo i consigli e i desideri


dell'umile tra gli umili che, persino al momento della sua crocifissione, ha
mostrato su quale tipo di roccia il Cristo aveva promesso di fondare la sua
Chiesa, semmai San Marco avesse sobriamente riportato la confessione di San
Pietro, e la consegna del silenzio che sarebbe venuta dopo la risposta di Cristo
a San Pietro e la promessa di edificare la Chiesa sulla pietra che era San
Pietro?
E semmai San Matteo non avesse fatto altro che riferire semplicemente la
consegna del silenzio dopo aver riportato la gloriosa promessa di Gesù a San
Pietro, e se invece di esserci una contraddizione, ci sia una meravigliosa
armonia di fatti e d'intenzioni, di mente e di cuore, parlando dell'inconcepibile
mistero e dell'inconcepibile amore dell'Uomo-Dio?

3. San Matteo cita il famoso passo d'Isaia (318) per mostrare il compimento
della profezia con l'Incarnazione verginale di Gesù Cristo. Si serve del versetto
dei Settanta: «Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio». Il giovane
sarebbe certamente preso da vertigini, se seguisse, una dopo l'altra, tutte le
considerazioni pro e contro la traduzione della parola ebrea «almah» con
«vergine».

Per San Girolamo, secondo il "Dizionario della Bibbia" di Migne,(319) «almah»


significa «vergine» e «betulah», «ragazza». Il "Dizionario universale di filologia
sacra" traduce «almah» con: «una ragazza da maritare, di conseguenza
vergine, nel senso rigoroso di questa parola». (320) Il Padre Giuseppe Girotti,
nel suo commento all'Antico Testamento, traduce la parola «almah» con
«vergine», e qualifica ogni traduzione contraria come la conseguenza di
un'esegesi «parziale» che non corrisponde ad un reale studio scientifico del
testo. (321) Angelo Penna, nel suo commento al libro di Isaia, traduce
«almah» con «vergine» e dice che questa parola «vergine» è «il punto più
discusso della traduzione, che, come sempre, è anche un po' interpretazione».
(322)

Dennefeld, nel "Dizionario di teologia cattolica", (323) come molti altri, come
Josef Schmid, nel suo commento ai Vangeli di San Matteo e di San Luca, (324)
traducono dapprima la parola «almah» con «vergine» e poi trovano che non è
possibile che il profeta Isaia, rivolgendosi a tutto Israele, a tutta la casa di
David, abbia di mira un'altra donna vergine che non sia quella rivelata in lui da
Dio, la Santissima Vergine Maria. E specialmente Josef Schmid scrive, tra
l'altro:

«Sia Matteo (1, 18-25; cfr. anche l, 16) che Luca (1, 26-38) attestano
chiaramente e decisamente che Giuseppe non era il vero padre di Gesù. -
Matteo per i suoi lettori giudeo-cristiani appoggia espressamente il fatto da lui
narrato col rinvio alla profezia dell'Emmanuele (Is. 7, 14) ».

«Il tentativo compiuto da A. Harnack e da altri di cancellare nell'importante


paragrafo di Lc. 1, 26-38 i due versi decisivi 34 s. e nel v. 27 la parola
"vergine", ripetuta due volte, come pure in (sempre in S. Luca) 3, 23 le parole
(in merito a San Giuseppe considerato dalla gente come il padre di Gesù)
"come si credeva", come aggiunte posteriori, non è solo, dal punto di vista
della critica testuale, completamente arbitrario ma è addirittura impossibile in
base al contesto. Perché in tal modo si eliminerebbe precisamente il nocciolo
dell'intero paragrafo». (325)

Non è certo difficile rendersi conto del movente che ha fatto sorgere una
generale contestazione nei confronti del riferimento di San Matteo ad un
versetto di Isaia, e nei confronti della traduzione della parola «almah» con
«vergine». Questo non è difficile, ma rimane incredibile.

Nell'«Introduzione alla Bibbia» sotto la direzione di Henri Cazelles, è scritto che


l'esegesi di questo passo di Isaia sarebbe meno «complessa» se si escludesse
nello studio del testo, ogni «cristiana preoccupazione». (326)

Nel «Grande commentario biblico», è scritto che l'annuncio della nascita di un


bambino, di Emmanuele, si riferirebbe al figlio di Achaz, Ezechia, manifestando
così la continuità della stirpe di David; (327) e che San Matteo ha citato il
versetto di Isaia, mettendo l'accento piuttosto sulla nascita del bambino
salvatore, che sulla parola «vergine». (328)

Nel «Mysterium salutis», si legge che non è impossibile che Isaia si sia servito
di un mito conosciuto all'epoca per parlare della «giovane donna». (329)
Questa «giovane donna» potrebbe essere la dea Anat, dea della vegetazione,
che come la vegetazione muore e ricresce ogni anno, così, nonostante «il suo
santo matrimonio» che si celebra ogni anno, è ancora vergine. (330)

Stando a D. Guthrie e J.A. Motyer, nel loro "Commentario biblico" i Settanta


hanno tradotto la parola «almah» con il termine greco *** per ragioni ancora
poco chiare». (331)

Nel "Grande lessico del Nuovo Testamento» di Gerhard Kittel, si legge che
l'etimologia della parola greca *** è incerta. Lo sviluppo semantico non
potrebbe essere dedotto se non dall'uso letterario. E si legge questa incredibile
"informazione":

«Palesemente il vocabolo *** indica in primo luogo una giovane donna


matura». (332)

Cita, però, anche Plutarco che dice a proposito della Pizia che era «vergine
nella sua anima». Inoltre il "grande dizionario della lingua greca" cita
Aristofane, Omero, Esiodo, Senofonte, Sofocle, Erodoto, Euripide, presso i quali
la parola «***» è utilizzata per significare «una giovane donna che non
conosce affatto uomo». (333) Per questo la definizione della parola «vergine»,
«***» di Kittel stupisce e lascia perplessi.

A proposito del passo di Isaia 7,14, in Kittel si legge che il profeta parla di una
donna ben precisa: o della moglie del profeta, o di quella di Ezechia o di una
donna sconosciuta tra la folla o sconosciuta anche ad Isaia o a «tutte le giovani
donne di Israele che erano allora incinte». (334)

Ci sono casi che provano quanto un certo atteggiamento interiore, di fronte a


testimonianze scritturali e tradizionali del Mistero di Cristo, tolga la luce e il
discernimento, talvolta negli uomini più dotati. Hugo Gressmann (335), amico
e contemporaneo di Gunkel, ha reputato che Isaia non poteva che riferirsi ad
una tradizione che sarebbe una sopravvivenza della credenza politeista alle
dee-madri. Per Gressmann, il fatto che il profeta non dica «una vergine», ma
«la vergine» prova che Isaia si riferisce a nozioni conosciute. Il profeta avrebbe
parlato come se conoscesse già questa vergine. Per questo, sempre stando a
Gressmann, Isaia non poteva avere di mira sua moglie, né la moglie del re
Achaz, né nessun'altra donna conosciuta della storia che sarebbe stata in quel
momento incinta. Infatti - e questo è il punto più strano di questo
ragionamento - «come avrebbe potuto dire con una tale sicurezza che
partorirebbe un figlio piuttosto che una figlia». (336)

In numerosi commenti e articoli di dizionari teologici e biblici, sono contestati


la citazione di Isaia, 7,14, fatta da San Matteo, l'intenzione di San Matteo nel
citare questo passo di Isaia, il vero significato della parola «almah» nel testo
ebreo, il significato messianico del versetto e sono messi in discussione, in
modo che almeno un dubbio avvolga la testimonianza evangelica di San
Matteo.

Tuttavia ci sono fatti e considerazioni che testimoniano l'assenza di ogni valida


argomentazione, in tutta questa critica e questa svalutazione. Per esempio, c'è
un fatto che dovrebbe far riflettere tutti coloro che hanno preteso che la
traduzione nei Settanta della parola «almah» con la parola greca «***» era
ingiustificata. Questo fatto è che il famoso rabbino Akiba, che ha vissuto nel II
secolo, fondamentalmente anticristiano, intendeva la parola «almah» con il
significato di «vergine». (337)

D'altronde la Bibbia di Gerusalemme che traduce nel testo la parola «almah»


con «ragazza» specifica in nota la sua concezione:

«Il testo dei LXX è un testimone prezioso dell'interpretazione giudaica antica


che sarà consacrata dal Vangelo». (338)

Da dove proverrebbe, allora, questa multipla e ostinata interpretazione forzata


dei testi e dei fatti? Non è inutile, né lungi dalla verità, ricordare che unico è lo
scopo, cosciente o incosciente, della contestazione, della critica e della
negazione: far vacillare, se non togliere dalla coscienza dei cristiani, la certezza
della verità apportata nel mondo dal Cristo, e poi dai suoi Apostoli e dai suoi
testimoni, sul mistero della Sua divina realtà. Per questo, occorreva far
vacillare, prima di ogni altra cosa, la certezza sull'Incarnazione del Verbo di
Dio.

Occorreva far vacillare la testimonianza del Vangelo e della Tradizione della


Chiesa. Per questo Josef Schmid, nel suo commentario dei Vangeli di San
Matteo e di San Luca, in merito alla concezione verginale così si esprime:

«Matteo fa naufragare ogni tentativo di cancellare la concezione verginale della


vergine, perché tutto il paragrafo 1, 18-25 serve solo a provare questo fatto.
La sua eliminazione dall'opera di Luca avverrebbe unicamente per ragioni di
preconcetti, ossia per la negazione della possibilità di miracoli e quindi anche
della concezione verginale». (339)

***

La critica storica è da molto tempo diventata il modo generale di pensare, per


ogni cosa. E' una spiccatissima e molto specifica manifestazione della mentalità
storicista. Nel clima filosofico e teologico dei tempi moderni, si è creato tutto
un vasto mondo di postulati arbitrari, un mondo in movimento, che tende a
sconvolgere ogni certezza tanto storica quanto teologica e spirituale.

Questo vasto universo si è sviluppato con un poderoso slancio d'indipendenza.


Sarebbe ormai temerario voler separare quel che è stato positivo per il
cammino degli uomini verso la verità e nella verità, da quel che è stato
negativo. In ogni attività, ci sono elementi positivi ed elementi negativi, a
causa dell'imperfezione del nostro stato d'essere nella vita della terra.

A caratterizzare una vera via positiva di verità, è la stabile fissità dell'uomo,


anche nei suoi tentennamenti, ad un amore fondamentale di questa verità; e
questa è la garanzia dell'esito finale del suo cammino. Certamente sulla via di
Damasco, si è manifestato un diretto intervento di Dio, un intervento talmente
radicale ed efficace che San Paolo è uscito da questa prova, si può dire di luce
e di grazia, un uomo nuovo, un servo assoluto della Verità assoluta. Spesso,
però, si dimentica che San Paolo, prima di conoscere tanto direttamente la
Verità, l'aveva appassionatamente amata, e questa Verità si è presentata a lui
e l'ha inondato.

Questo, certo, non vuol dire che tale grazia non sia stata realmente grazia, che
non sia stata veramente un dono gratuito, ma questo dono, imperioso che sia,
è stato liberamente e totalmente ricevuto con amore. San Paolo è uno tra i più
grandi esempi dell'armonia quasi impalpabile, ma fondamentalmente oggettiva
tra la decisione irrevocabile di Dio e la libertà dell'uomo nel suo amore per la
verità.
Tale amore è evidente anche quando si cammina su strade sbagliate; e la sua
assenza è anche evidente quando si cammina su strade che, dal punto di vista
strettamente concettuale, possono considerarsi giuste.

E proporzionalmente a questo amore trascendente della verità, prima che


venga riconosciuta dall'intendimento, l'uomo può nello studio del passato e del
presente, nello studio delle correnti, delle dottrine e dei metodi, può più o
meno discernere quel che è positivo, in quanto fondato sulla verità eterna; e
discernere quel che è negativo, in quanto fondato sulla volontà personale
autonoma.

Nello sviluppo della critica storica dei testi, di tutti i metodi e considerazioni
dottrinali che costituiscono oggi l'attività esegetica e l'ermeneutica in genere,
vi sono principi e orientamenti intellettuali e spirituali molto positivi, positivi
perché in seno a questo sviluppo ed anche in base ai nuovi dati, l'uomo ha
potuto sentire confermate, nel suo intendimento e nel suo cuore, con sempre
maggiore intensità, ampiezza e intimità, le grandi verità rivelate
dall'Incarnazione di Cristo e dal suo messaggio trasmesso in modo vissuto, e
consegnato anche per iscritto nella Chiesa.

Ci sono stati anche dei deterioramenti, e degli orientamenti del pensiero tali da
degradare e persino rifiutare i criteri fondati sulle verità rivelate. Spesso così,
da ogni lato, sia nella coscienza di coloro che erano ancorati in forme svuotate
dallo spirito ma rimaste tradizionali, come nella coscienza di coloro che erano
trascinati dalla frenesia di un incontrollato rinnovamento, senza reale legame
con la verità rivelata, c'è un deterioramento più o meno radicale della Persona
del Cristo, della sua azione ontologicamente redentrice e del suo messaggio di
redenzione per l'uomo.

La massa di lavori critici, l'estensione sociale dei nuovi principi e dei nuovi
metodi di approccio della verità e di ricerca della verità, hanno creato quasi un
mondo di essere e di pensare nuovo. In questo mondo, quegli stessi che
avevano la giusta visione e l'amore chiaro e libero della verità sono stati
trascinati ad impiegare il linguaggio, a seguire i metodi e a procedere con modi
di giudizio alieni dai principi che li avevano animati, quando avevano sentito
l'appello di Dio. Tale è stato il logorio dei principi e dei criteri nello sviluppo
della mentalità storicista e nell'estensione del relativismo esistenziale.

Indubbiamente quel che è positivo rimane in sé sempre positivo. Quel che è


lettera pietrificata rimane e rimarrà lettera morta. Quel che però, è falsamente
vivente e che non è se non mondanamente «dinamico», si estende come
un'immensa bruma che penetra ovunque e che tutto avvolge. La prima cosa
della quale ci si deve rendere conto, è che non si può stipare in sacchi la
bruma; occorre uscirne; occorre mantenere accesa la propria lampada,
camminare con prudenza nell'attesa che la bruma sia dissipata da un gran
vento della grazia, orientandoci sempre verso le altezze.

Il sommergere l'uomo in una speranza diversa da quella che il Cristo gli ha


dato e che gli Apostoli hanno tramandato, lo speculare senza riferimento
fondamentale e impegnativo nei confronti della Rivelazione, cioè nei confronti
dell'Incarnazione del Verbo eterno e dell'azione redentrice dell'Uomo-Dio e nei
confronti del suo messaggio vissuto ed orale per gli uomini, hanno condotto da
un argomento all'altro, il pensiero teologico e la vita spirituale di molte persone
fino ad una rottura interna, cosciente o incosciente, con la Rivelazione e con il
Mistero trascendente della Chiesa. Non s'intendono qui gli atti esterni degli
uomini; s'intende la manifestazione del loro pensiero e del loro implicito o
esplicito insegnamento.

Non sarebbe di alcuna reale ed edificante utilità cercare di aggiungere ancora


un itinerario da Sant'Agostino fino a Lutero e da Lutero, passando attraverso il
dottor Astruc (340) e tutta la foresta dei critici moderni protestanti e cattolici,
fino a Bultmann e ai critici dei nostri giorni, per spiegare, con analisi e
riferimenti nuovi, il risultato di una certa critica storicista, di un probabilismo
senza limiti e di un relativismo esistenziale, nel pensiero teologico e nella
sensibilità cristiana.

Sarebbe sufficiente per il giovane soffermare il suo sguardo su alcuni casi, tra
gli innumerevoli casi che l'assalgono da ogni lato.

1. - Abbiamo visto (a pagina 274) che Rahner considera che l'insegnamento di


San Paolo ha alterato l'iniziale «cristologia dell'ascesa», trasformandola nella
dottrina dell'Incarnazione del Verbo-Figlio preesistente.

Nello stesso libro, Rahner scrive che la cristologia di San Paolo e di San
Giovanni è già una «teologia», cioè una riflessione fatta dopo la Risurrezione
sulla coscienza che Gesù Cristo storico aveva di se stesso e aggiunge:

«Una cristologia sistematica odierna non può tuttavia prendere il suo naturale
punto di partenza in questa comprensione teologica di Gesù Cristo; questo in
fondo vale anche per le affermazioni cristologiche della Scrittura più antiche,
pre-paoline». (341)

Ci sarebbe, dunque, una documentazione scritturale seria più antica,


antecedente a San Paolo, che sarebbe più autentica e che sarebbe stata
alterata con riflessioni, fatte certo con pietà da San Giovanni e da San Paolo
dopo la Risurrezione, e questa cristologia di San Paolo e di San Giovanni non
deve essere la base per una teologia su Cristo, dunque per una cristologia
attuale. Ma, neanche questa supposta cristologia autentica pre-paolina deve
essere presa dalla cristologia attuale come base e punto di partenza, per
raggiungere la vera realtà di Cristo e del suo messaggio.

Prima di meditare su tutto questo quadro dottrinale di Rahner, sarebbe bene


soffermare il proprio sguardo su altre considerazioni presentate da E.R. Brown,
I. A. Fitzmyer, R.E. Murphy, nel "Grande Commentario biblico":

a) - «L'interesse ontologico della Chiesa posteriore si può vedere nel contrasto


tra la confessione di fede di Paolo, 'Dio in Cristo si riconciliava il mondo' (2Cor
5, 19) e la confessione, proclamata a Nicea, di Gesù Cristo, 'Dio vero da Dio
vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre'». (342)

Ed il “Commentario” continua:

b) - «La confessione di Paolo assicura gli uomini che Dio era loro presente in
Gesù; la confessione di Nicea assicura gli uomini che Gesù era Dio.
Un'affermazione conduce, in ultima analisi, all'altra - ma dall'una all'altra c'è
sviluppo di dottrina». (342)

Ora stando al "Commentario", ci sarebbe contraddizione tra la cristologia di


San Paolo e il Concilio di Nicea; ossia tra la concezione di San Paolo, secondo
la quale il Cristo non sarebbe Dio, ma Dio sarebbe presente in lui, e la
concezione del Concilio di Nicea, secondo la quale il Cristo era Dio generato e
non creato, della stessa sostanza del Padre.

Per Rahner, invece, la concezione di San Paolo così come quella di San
Giovanni sarebbe in contraddizione con la cristologia "originaria"(?),
trasformata nel Nuovo Testamento nella dottrina enunciata in seguito dal
Concilio di Nicea, ossia del Figlio-Logos preesistente.

Entrambi, Rahner e il "Commentario", nonostante i loro divari di opinioni sulla


cristologia di San Paolo, convergono nella comune prospettiva: il Cristo non era
Dio e quindi l'Annunciazione è una leggenda sorta dalla pietà dopo la
Risurrezione, conformemente alla corrente che ha deviato la verità per sfociare
alla fine nel Credo del Concilio di Nicea.

Per prima cosa, il giovane cercherebbe di reperire i documenti e i testimoni di


questa cristologia pre-paolina che sarebbe stata alterata nel quadro del Nuovo
Testamento, alterazione che si sarebbe aperta un varco nella Chiesa, si
sarebbe cristallizzata nei Concili di Nicea e di Calcedonia, avrebbe solcato i
secoli e sarebbe pervenuta fino a noi. Poi si renderebbe conto dell'enormità
delle proposizioni, si sentirebbe profondamente afflitto, giacché si
accorgerebbe che, in tutto questo linguaggio e in tutti questi ragionamenti, c'è
una totale assenza di base.
Dove trovare la cristologia pre-paolina e pre-giovannea? Cosa vuol dire
l'espressione «nel quadro del Nuovo Testamento»? Chi ha dimostrato che la
predicazione originaria tradisce, trasforma, altera, «supera» l'auto-coscienza e
l'auto-rivelazione di Cristo?

Cosa rimane della nozione di Chiesa, per uomini che si suppone che recitino
tutte le domeniche il Credo durante la Santa Messa, mentre lo confutano, in
mille maniere, e soprattutto sul punto capitale della Redenzione, l'Incarnazione
del Verbo eterno di Dio?

A che serve di parlare e di ritornare con una continua insistenza alla


Risurrezione? Chi sarebbe il Risorto in questa novella cristologia, per esempio
di Rahner e del "Commentario"? Sarebbe l'uomo, che con il suo sviluppo e la
sua ascensione spirituale, si sarebbe fatto avanti per ricevere l'«auto-
comunicazione» di Dio che veniva a lui. Non sarebbe l'Uomo-Dio
dell'insegnamento della Chiesa. La Chiesa non sarebbe la continuazione
dell'opera redentrice di Dio. Essa non sarebbe altro che un'arena di confronto,
di ricerca, senza l'immutabile «zavorra» dottrinale del Mistero della
Redenzione.

Quel che, però, per molti è il più importante, è di abbattere nelle coscienze,
nella speranza e nel culto, l'Incarnazione.

Per questo sul Mistero della Santissima Vergine Madre di Dio è caduto
l'oscuramento. Nessuna esagerazione di un pietismo semplicistico popolare, e
nessun riferimento o invocazione a Lei, meccanica, formalista e puramente
intellettuale, potrebbero mai giustificare un tale ostruzionismo e una tale
illogicità di fronte ai reali dati della Scrittura e della Tradizione.

Questa mentalità storicista ha deteriorato tutti i termini, per esempio il termine


antropologia, del tutto innocente e positivo, è diventato il canale della
deviazione. Non è senza ragione né per abitudine che la Chiesa porta come
supremo segno esterno il Crocifisso. Tutto il Mistero della Redenzione è
esattamente fondato sul fatto che il Figlio eterno di Dio è diventato anche Figlio
dell'uomo. Allora l'antropologia, nel senso dell'Incarnazione del Verbo di Dio,
costituisce una base, si potrebbe dire un luogo teologico, per tutta la
speculazione teologica e per tutta la comprensione dei testi e della Tradizione.
Non è però, in tal senso che l'ermeneutica storicista esistenziale usa e propone
la teologia antropologica o l'antropologia teologica. Con innumerevoli
espedienti linguistici s'introduce nella coscienza e nel pensiero il concetto di
una teologia basata sul principio che il Cristo sarebbe un uomo elevato fino alla
prossimità («vicinanza assoluta») di Dio. Il Figlio di Dio sarebbe l'uomo che
avrebbe ricevuto pienamente la Parola divina, e già per molti questa immagine
è troppo esaltata.
Il giovane penserà, di certo, che occorre riferirsi alla vita di Cristo così come il
Nuovo Testamento ce l'ha trasmessa, nonostante le alterazioni che la teologia
contestatrice vi scopre; penserà a come i dottori hanno trattato il Cristo e
capirà com'è ancora trattato oggi. Come spiegare differentemente queste
ipotesi presentate dai «teologi»?

I testimoni oculari avrebbero «interpretato» la realtà e il messaggio di Cristo,


come San Matteo, per tattica, diciamola sacra, e due mila anni dopo, per
mezzo della chiave magica della critica storica e «la storia delle forme», si
sarebbe in grado di scoprire le intenzioni di San Matteo e di San Luca e di San
Marco ed anche di San Paolo e di San Giovanni, e persino quali potrebbero
essere le parole storicamente autentiche e quali parole sarebbero state
impiegate per ragioni di predicazione. E quando si dice «parole di
predicazione», questo significa sempre, per questo filone esegetico, alterazione
del messaggio originario.

Infatti, secondo una certa branca della critica, non si potrebbe mai predicare
senza alterare; alterare ogni realtà, con aggiunte di fede e di pietà personali o
con il desiderio d'imprimere nelle coscienze tale accezione personale del
messaggio iniziale.

Tutte le parole-chiave sarebbero tardive e aggiunte dopo. Fatti-chiave della


narrazione evangelica sarebbero inventati di sana pianta per mettere in
evidenza insegnamenti astratti o accezioni personali, scaturiti dalla fede o dalla
polemica apologetica. Ci si è spesso eretti a esperti degli stili e dei generi
letterari e si pretenderebbe di essere capaci di scovare tutti i congegni
psicologici e intellettuali di tutti i personaggi che sono stati i grandi testimoni e
i grandi Apostoli di Cristo.

Tutte le parole, come le parole della Santa Cena, tutte le confessioni, tutti i
maggiori fatti come l'Annunciazione, sono reputati sia come aggiunte tardive
sia come scritti con pie intenzioni, alteranti però, la realtà originaria. Dalla
critica storica è derivata una branca, possiamo dire speciale, di formale
contestazione di ogni affermazione o fatto della Rivelazione, del messaggio e
della storia di Cristo e della Chiesa, che contiene, implicitamente o
esplicitamente, il messaggio della speranza di vita eterna; speranza che
trascende tutte le aspettative temporali della storia.

2. - Ci sono postulati ermeneutici che contengono l'annichilimento della


nozione di verità, della nozione di logica, della nozione della parola e della
nozione della reale evoluzione nella storia degli uomini. Ci sono postulati che
trascinano l'uomo verso uno stato di pensare e di sentire che si può
denominare stato di perenne instabilità esistenziale. L'uomo, infatti, nel suo
amore per la Verità eterna, si sviluppa e si dilata infinitamente a misura che la
sua stabilità interiore aumenta. Questa stabilità è una stabilità di conoscenza e
di criterio, cosa che permette che egli sia sempre in più grande armonia con le
verità rivelate ed anche con l'intimo ordine del cosmo.

I postulati, dei quali stiamo parlando, contengono la distruzione di ogni


stabilità di criterio e di ogni responsabilità nei confronti della verità rivelata da
Dio e di ogni conoscenza sempre nei confronti della conoscenza accordata da
Dio, mediante l'ordine naturale delle cose.

La mentalità storicista esistenziale ha determinato, tramite l'attività e i


problemi dell'ermeneutica, una propensione della volontà ed anche una
propensione intellettuale verso l'instabilità e l'incertezza, che talvolta domina e
si trasforma quasi in una specie di fissa compiacenza intellettuale: non aver
alcun metodo, alcun riferimento, né alcuna conoscenza stabile, quindi nessun
criterio immutabile di verità rivelata.

Nel "Dizionario di teologia biblica", si legge questa conclusione all'articolo su


Gesù Cristo di Xavier LéonDufour:

«Le presentazioni del mistero di Gesù di Nazareth divenuto Signore e Cristo


non possono essere ridotte a un unico sistema. - Dopo il Nuovo Testamento,
l'ermeneutica prosegue il suo movimento; arriva, per esempio, a parlare di
«coscienza» di Gesù, di «natura» e di persona, senza pretendere di fissare
l'interpretazione per sempre; ancor oggi, deve essere praticata nelle diverse
culture nelle quali si esprime la fede in Gesù Cristo» (343)

Questo postulato afferma per prima cosa che la comprensione di quel che
significa l'espressione «coscienza» di Gesù deve essere sempre incerta e ci si
deve aspettare sempre una nuova interpretazione. Orbene, interpretazione non
significa espressione, illustrazione di un concetto o di un'idea. Se si deve
modificare l'interpretazione, questo significa che la prima non sarebbe più
valida; e poi stando a questo postulato, questa ermeneutica deve essere
praticata in diversi ambienti, nei quali secondo l'autore viene espressa la fede
in Gesù Cristo. Cosa, però, deve fare l'ermeneutica in seno a queste differenti
culture? Perché l'interpretazione dipenderebbe dalla cultura dell'ambiente?
Servirsi dei mezzi linguistici e dei dati locali per intendersi con le persone non è
un problema di ermeneutica né di nuova interpretazione. E' la stessa
interpretazione che occorre trasmettere ovunque, servendosi dei mezzi e delle
diverse forme, a seconda delle necessità.

Il postulato così come è formulato, non può indicare nient'altro che questo:
l'ermeneutica deve dare interpretazioni sempre nuove, a seconda delle culture.
Cioè: è come se l'interpretazione fosse lo strumento che deve suonare le
musiche locali. Non consiste nello sforzo per mettere alla portata di tutti la
grande ed immutabile Verità, infatti in questo caso l'interpretazione sarebbe
immutabile nonostante le espressioni più o meno relative. Si tratterebbe
soltanto di reperire i mezzi linguistici, i parallelismi e gli esempi, per
trasmettere questa medesima ed unica interpretazione, in seno a differenti
culture.

Una più completa interpretazione della Verità del Cristo significherebbe che si
sarebbe completato qualcosa che illustrerebbe la stabilità della conoscenza.
Dire, però, che «non si deve mai pretendere di fissare l'interpretazione» è
illudersi e giocare, in tal modo, sulle parole.

Il problema è ben più grave di quel che si possa, all'inizio, pensare perché, in
nome della perenne interpretazione, si abolisce il riferimento stabile della
Rivelazione e l'universalità di una comprensione fondamentale. L'ermeneutica,
secondo questa tendenza, diviene «problematica dell'intendimento». Non si
tratterebbe più d'interpretare delle realtà, infatti non ci sarebbe più, stando a
questi postulati, realtà stabile da interpretare. Si tratterebbe dunque soltanto
di un adattamento perpetuo a situazioni e a dati culturali mutevoli.

In tal modo si spiega l'impiego abusivo di una parola sana e semplice, che è
diventata la parola-chiave di ogni contestazione delle certezze rivelate e delle
certezze veramente teologiche: il kerigma, ***.

Il kerigma viene opposto, come l'antimateria, alla verità stabile umanamente


formulata, il dogma. Così si spiega il Padre Piet Smulders nei confronti della
dottrina su Gesù Cristo formulata nei dogmi dei Concili di Nicea, di Efeso, di
Calcedonia e di Costantinopoli III:

«Non soltanto i cattolici romani e le Chiese orientali ortodosse accettano


queste definizioni, bensì anche la maggior parte delle Chiese della riforma.
'Una persona in due nature' - così si professa continuamente secondo una
sintesi sommaria della dottrina del concilio di Calcedonia: così anche
nell'istruzione dei fedeli, ogni giorno. Ciononostante, in nessuna parte ci
tormenta tanto dolorosamente il problema e lo scandalo della distanza tra
kerigma e dogma come appunto qui». (344)

Secondo il Padre Smulders, e certo secondo molti altri, ci sarebbe una


«scandalosa» distanza tra kerigma e dogma. Queste affermazioni, però, così
taglienti fanno sorgere nel nostro giovane, molte nuove domande, nella sua
patetica ricerca della verità.

Il kerigma, che significa proclamazione e, per estensione, predicazione,


starebbe qui ad indicare il contenuto della fede o, diciamo, il contenuto
dottrinale o semplicemente la dottrina proclamata dagli Apostoli
immediatamente dopo la Pentecoste. Dove si troverebbe allora consegnata
integralmente, senza omissione e senza addizione, questa dottrina proclamata,
questo kerigma?

Bisognerebbe, infatti, essere giunti a trovare questa proclamazione consegnata


tale e quale, ossia questo kerigma apostolico tale e quale , per confrontarlo
con il dogma cristologico dei Concili. I soli testimoni, che abbiamo della
dottrina consegnata agli Apostoli dal Cristo sono il Nuovo Testamento e la
Tradizione orale e di vita della Chiesa.

Bisognerebbe, dunque ammettere dapprima che il Nuovo Testamento non è


una proclamazione apostolica, che contiene gravi alterazioni della dottrina a
proposito dell'identità di Cristo proclamata dagli Apostoli, e che questa dottrina
cristologica del Nuovo Testamento, come l'abbiamo detto sopra in merito agli
scritti di Rahner, sarebbe sfociata nella solenne formulazione di questa
alterazione cristologica, in dogmi di fede della Chiesa.

È anche quanto Smulders sostiene, in seguito alla sua affermazione sullo


scandalo dell'opposizione tra kerigma e dogma. In special modo afferma di
dubitare che nella Chiesa «postapostolica avesse ancor valore la cristologia
dell'ascesa», la cristologia secondo la quale l'uomo nato naturalmente sarebbe
stato elevato fino ad «incontrare» Dio. E contemporaneamente si chiede se
questa «buona» cristologia dell'ascesa degli Apostoli, non avrebbe preso, al
tempo della predicazione postapostolica, una «forma sottosviluppata la quale
fu poi superata dai ragionamenti di Paolo e di Giovanni». (345) Questo significa
che in tutti i casi, sarebbe stata la dottrina dell'ascesa quella degli Apostoli del
primo tempo, perché secondo queste teorie, ci sarebbero gli Apostoli del
secondo tempo, San Paolo e San Giovanni, che avrebbero alterato la cristologia
degli Apostoli del primo tempo.

Il giovane si dirà allora:

- Se San Paolo e San Giovanni esprimono già la predicazione postapostolica,


che avrebbe abbandonato la «cristologia dell'ascesa», non bisognerebbe
concludere che c'è stata una scissione, una deviazione tra gli Apostoli? E inoltre
che la proclamazione degli Apostoli sarebbe smarrita in quanto tale? E ancora
non bisognerebbe concludere che la Chiesa, dal Nuovo Testamento, non solo
cammina tra le perturbazioni interne ed esterne, ma su una falsa pista
dottrinale a proposito di un problema fondamentale che concerne il suo
fondamento, ossia l'identità del suo fondatore?

Smulders conclude il suo studio costatando che dopo il Concilio di


Costantinopoli III (680-681) non c'è stato sviluppo nella cristologia. C'è stata
una calma per la durata di secoli che «può significare che gli antichi concili
hanno fissato un ambito per il pensiero cristologico entro il quale senza grande
fatica poterono essere evitate deviazioni e soppressi errori». (346)
Smulders, però immediatamente dopo questa costatazione sulla lunga
tranquillità dottrinale nella Chiesa su questo punto, enuncia un pensiero che,
se corrispondesse alla verità, esprimerebbe una terribile realtà, perché la
Chiesa non sarebbe altro che una mistificazione secolare. Dice:

«Questa calma (calma secolare cristologica nella Chiesa) ha anche qualche


cosa che desta preoccupazione. Sarebbe essa stata possibile (questa calma) se
la predicazione e il pensiero teologico avesse veramente inserito il mistero
dell'uomo-Dio nel cuore della fede?». (346)

Perché questa calma sarebbe preoccupante? Sarebbe preoccupante soltanto se


questa calma esprimesse un torpore del popolo cristiano, dei teologi, dei
predicatori, dei pastori compresi; o se esprimesse un secolare compromesso
dei teologi e dei predicatori, che, benché non avessero la fede nel senso
dell'Incarnazione, avrebbero predicato ugualmente il dogma di Nicea; o se la
predicazione non avesse messo al centro della dottrina predicata il «Mistero
dell'uomo-Dio» e il popolo sarebbe vissuto senza preoccupazione cristologica.
Oppure perché la calma sarebbe inquietante? Potrebbe essere inquietante per i
«ridestati» di un tempo posteriore, soltanto se esprimesse una lunga e falsa
situazione, una ferita in profondità e di lunghissima durata della Chiesa.

Smulders pone una domanda che include una risposta sia a proposito della
calma come a proposito della cristologia in genere. Secondo Smulders la calma
nella Chiesa non sarebbe stata possibile se i teologi e i predicatori avessero
insegnato una dottrina contraria a quella dei concili; non ci sarebbe stata
calma, se la predicazione e la teologia si fossero contrapposte alla dottrina
solenne del Magistero. E inoltre, questo contrasto si sarebbe verificato qualora
la vera dottrina sul «Mistero dell'uomo-Dio» fosse stata inserita nella
predicazione sulla fede, «nel cuore della fede». La calma, dunque per lunghi
secoli dopo il Concilio di Costantinopoli III fino all'attuale «risveglio» dei tempi
recenti, sarebbe dovuta al fatto che tutti sarebbero stati sottomessi allo stesso
errore, alla «falsa» dottrina dell'Incarnazione.

Perciò, questi stessi problemi posti da Smulders significano in ogni modo due
cose: primariamente, che in questo lungo periodo, la Chiesa avrebbe vissuto
praticamente il dogma dell'Incarnazione sia con un monofisismo, sia con un
nestorianesimo, perché - da quanto emerge - il dogma dell'Incarnazione
sarebbe in fondo inconcepibile e impossibile. Secondariamente, che il «Mistero
dell'uomo-Dio non sarebbe stato veramente inserito» come fondamento della
dottrina della fede predicata, e sarebbe questo fatto, questa assenza tanto nel
dogma quanto nella predicazione della Chiesa, della «vera» dottrina sul Cristo,
che avrebbe mantenuto la calma. Questa vera dottrina del Mistero dell'uomo-
Dio, «soffocata» dal Magistero, dai teologi e dai predicatori per lunghi secoli,
sarebbe dunque la dottrina dell'ascesa e non la dottrina del dogma
dell'Incarnazione.

E Smulders concludendo, per spiegare probabilmente il risveglio, così collega:

«Il mondo ellenistico e quello bizantino degli inizi, in cui il dogma cristologico
ha raggiunto la sua forma, sono tramontati ormai da secoli; le loro concezioni,
i loro concetti, le loro categorie e schemi mentali, sono diventati estranei
all'umanità». (347)

Il giovane, stordito di fronte a tutte le affermazioni di questi teologi, avrà preso


così nota di quanto si è reso conto:

a) Dopo la critica storica e la teologia fondata su questa, la Chiesa, sin da San


Paolo, vive in un errore capitale: il mistero dell' Annunciazione e dunque
dell'Incarnazione del Verbo di Dio.

b) Tutta la fede definita in base al mistero dell'Annunciazione, sin da Nicea fino


al 1950, ossia fino alla proclamazione del dogma dell'Assunzione, sarebbe stata
fondata, si sarebbe sviluppata e avrebbe vissuto su una credenza erronea: la
cristologia dell'Incarnazione.

c) Attualmente si predica come possibile una conservazione dei termini della


fede da parte della Chiesa, pur dando loro poco a poco un nuovo contenuto,
una cristologia del tutto contraria. Ossia: chiamare Incarnazione la dottrina
dell'ascesa di un uomo verso un punto culminante dove ci sarebbe l'incontro
con un Dio «discendente» al fine di comunicare Se stesso; chiamare cristologia
la teologia dell'ascesa dell'uomo; chiamare Figlio di Dio l'uomo perfezionato,
l'uomo «umanizzato» secondo Kung; (348) chiamare Chiesa di Dio
l'associazione degli uomini sotto l'ispirazione dell'uomo perfettamente
umanizzato. E così di seguito a proposito di ogni nozione e di ogni esperienza e
di ogni rivelazione.

d) Non ci sarebbe nessun documento sufficientemente oggettivo che avrebbe


trasmesso alla Chiesa del tempo di San Paolo e di San Giovanni le basi
fondamentali della realtà e del messaggio di Cristo, e questo, perché già una
predicazione al tempo di San Pietro, sarebbe stata alterata dalla predicazione,
sempre al tempo di San Pietro, poiché già gli scritti di San Paolo e di San
Giovanni porterebbero le conseguenze di questa alterazione.

e) Non avremmo l'integrale testimonianza di nessun testimonio oculare, poiché


San Matteo, che era tra i Dodici, avrebbe riportato fatti e parole non
corrispondenti alla realtà.

f) I Padri dei primi secoli, come Sant'lreneo, per esempio (349), non avrebbero
avuto una vera conoscenza della lingua dei Settanta né di certo di quella
ebraica, poiché costoro avrebbero visto e letto in Isaia 7,14 l'annuncio
dell'Annunciazione. Sant'Ireneo specificamente, avrebbe avuto un gran torto
nel dichiarare così fermamente e così nettamente:

«Fu, dunque, Dio a farsi uomo e il Signore in persona ci salvò, egli che ci diede
il segno della Vergine (Is. 7,14). Non è perciò vera l'interpretazione di alcuni
che osano tradurre la Scrittura così: 'Ecco, una giovane porterà nel seno e
partorirà un figlio'. - Gli apostoli, infatti, che sono anteriori a costoro,
convengono con la predetta versione (quella dei LXX) e la nostra versione
concorda con quella degli apostoli. Pietro e Giovanni, Matteo e Paolo, gli altri
ancora e i loro discepoli annunziarono tutte le cose profetate nel modo che è
contenuto nella versione degli anziani (i 'Settanta') ». (350)

g) L'idea di preesistenza dell'entità eterna (Verbo di Dio) in San Paolo e San


Giovanni e nell'Epistola agli Ebrei non proverrebbe da Cristo. Dapprima perché
tutte le parole di Cristo sulla sua preesistenza sarebbero il risultato di una
cogitazione teologica tardiva e non sarebbero state veramente pronunciate dal
Cristo e d'altronde sarebbe senza importanza sapere se il Cristo ha pronunciato
qualche titolo cristologico. (351)

h) Non si potrebbe fondare una cristologia attuale né sulla teologia di San


Paolo né su quella di San Giovanni e neanche - come nettamente lo dice
Rahner - sulla cristologia anteriore a San Paolo (della quale, per altro, non si
ha alcun documento, salvo interpretazioni arbitrarie che si potrebbero fare oggi
su passaggi dei testi degli stessi San Paolo e San Giovanni e degli Atti degli
Apostoli ed anche di tutto il Nuovo Testamento in genere).

i) Queste considerazioni non sono isolate in qualche scritto di uno o due o tre o
quattro o cinque persone. È il tenore degli scritti di numerosi autori, di
professori, d'insegnanti, ed anche di pastori, oltrepassando talvolta ogni
frontiera ed ogni limite di dottrina, di storia e di logica, con più o meno
chiarezza nell'espressione o nei concetti. Si tratta di una disgregazione non
soltanto cristologica, ma necessariamente ecclesiologica. Se il Cristo è uomo e
soltanto uomo, la Chiesa è soltanto umana. L'identità di Cristo è la base di ogni
teologia veridica per il cristianesimo.

Tutto questo lungo errore della Chiesa nei confronti dell'identità di Cristo, della
vera proclamazione della dottrina e sulla realtà della Chiesa stessa «sarebbe
messo particolarmente in evidenza» con la comparsa, all'inizio del nostro
secolo, del fiore della critica rappresentata dalle opere di Dibelius, di Bultmann,
di Schmidt, di Bertram. (352) È la teoria del «metodo della storia delle forme»
(Formgeschichtliche Methode). È il tempo del gran mito: del mito della
demitizzazione.

***
La teoria della «storia delle forme», cioè la teoria che vuole dapprima porre
degli archetipi di forme letterarie come categorie alle quali bisognerebbe
ricondurre tutti gli scritti del Nuovo Testamento, in base alla più meccanica
delle critiche storiche, è un'invenzione che, indipendentemente dal ruolo che
ha giocato in seno alla Chiesa e al cristianesimo in genere, non corrisponde in
sé ad una legge o ad un'esperienza generale delle scienze umane. Non
corrisponde neanche a quel che l'uomo può concepire seriamente come nozioni
e principi della Scienza in genere.

Ogni cosa contiene una qualche verità, o piuttosto corrisponde da un qualche


lato, relativo che sia, ad una realtà. A riguardo del «metodo della storia delle
forme», si può dire senza timore di sbagliare che sia il caso di applicare questo
apoftegma di martire:

O voi uomini, in nome delle mie piccole oscurità, volete soffocare la mia grande
verità, e in nome dei vostri piccoli barlumi, volete coprire le vostre grandi
tenebre.

La critica per mezzo del «metodo delle forme» è una falsa via di ritorno al
passato e di «ricostituzione della storia» sia per quanto riguarda i fatti e i testi
di cui essa si è occupata, sia per quanto riguarda la reale esperienza degli
uomini a proposito dell'informazione, della trasmissione delle cose viste e
udite.

Soprattutto è una grande illusione sotto l'aspetto della conoscenza oggettiva


del passato. Il grave errore consiste nell'inseguimento di un miraggio:
«perforare il tempo e captare il passato con un'oggettività assoluta». È la
morte dell'oggettività concessa all'uomo dal Creatore. Questo vale in ogni
campo della vita, dell'esperienza e del sapere umano.

La critica in base alle forme letterarie del Nuovo Testamento non ha messo più
in evidenza alcune differenze tra i testi e certi «vuoti» non facilmente spiegabili
nel Nuovo Testamento, di quel che non l'avessero notato, conosciuto e
profondamente vissuto i primi Padri e tutti i Dottori della Chiesa.

La sola differenza sta nel clima intellettuale e spirituale nel quale ci si è messi a
spiegare ad ogni costo, con riferimenti e parallelismi arbitrari, i punti oscuri e
le differenze tra stili, forme, parole, ordini di relazione dei fatti. E questo, con
l'illusione ancor più profonda di credere che il «critico attuale» può essere in sé
più oggettivo degli autori del Nuovo Testamento, più oggettivo dei pastori della
Chiesa dei primi tempi, che ricevevano e trasmettevano, per via orale e di vita,
il messaggio globale della Persona e dell'insegnamento di Cristo. Questa,
illusione si è resa possibile persino in persone in buonissima fede, a causa della
storicizzazione della mentalità, e quindi dei criteri.
Il giovane potrebbe chiedere ad un fervente discepolo e maestro della critica
storica del «metodo della storia delle forme»:

- Tramite quali criteri si può esser sicuri dell'assoluta oggettività di una delle
molteplici storie della Rivoluzione francese o del Risorgimento, considerate le
«omissioni», le «addizioni» e le relazioni comuni a tutti i libri di storia?

- Come si può esser sicuri dell'oggettività delle esposizioni su fatti molto più
recenti, come la storia della Rivoluzione russa dell'ottobre 1917 e di quel che è
venuto dopo? Secondo quali criteri si può trovare il libro di verità oggettiva?

- Qual è il criterio per trovare la verità oggettiva di fatti ancor più recenti,
come per esempio la storia del Concilio Vaticano II? Qual è il criterio che, per
cogliere il vero «Fatto Conciliare», mi permette di scegliere tra lo spirito dei
testi di Karl Rahner e lo spirito dei testi di Urs von Balthasar?

Egli potrebbe allungare indefinitamente la lista delle sue domande, senza mai
ricevere una risposta adeguata dal critico, discepolo della «Formgeschichtliche
Methode».

Non è qui il luogo di protrarsi sul vasto problema dell'oggettività della


conoscenza e dell'informazione. Appena, però, si esce da questo «incantesimo»
dei parallelismi, delle precisazioni a priori di una fonte o di due fonti, che subito
ci si rende conto del soffocamento della grande verità, in nome delle piccole
oscurità e dei «vuoti», senza immediata spiegazione pratica. Il giovane capirà
anche che seguire i molteplici sentieri già aperti e quotidianamente aperti da
ogni specie di cogitazione esegetica, equivale a perdere la via regale dello
studio, del confronto dei testi con la vita profonda dell'uomo, e perdere così il
vero volto e il vero messaggio del Cristo; cioè perdere la vera Storia.

E si renderà così conto della vera essenza e del vero aspetto del problema della
conoscenza della verità storica. Si renderà conto del come e del perché la
Chiesa nonostante le contraddizioni apparentemente insolubili per la ragione
ordinaria e nonostante la ristrettezza talvolta desolante di alcuni suoi figli, ha
potuto cogliere in quanto insieme e per mezzo delle migliori intelligenze
dell'umanità, la realtà storica e il mistero storico di Cristo, attraverso la realtà
storica e il mistero storico del Nuovo Testamento e della Tradizione.

E si renderà conto che la Chiesa ha potuto afferrare questa profonda realtà in


mezzo alle continue crisi di tutti i popoli ed anche, sin dall'inizio nel proprio
seno.

Il giovane intuirà allora i criteri e il metodo del vero pensiero e della vera
coscienza scientifica. E capirà molte cose semplici, profonde e immense:
- Capirà che nessuno dei nostri sapienti critici attuali potrebbe essere un
testimonio più oggettivo e veridico di San Matteo, di San Luca, di San Marco, di
San Giovanni, di San Paolo, né più oggettivo re latore e continuatore del
messaggio apostolico che non lo siano stati i Padri apostolici, nel ricevere e
continuare la Tradizione scaturita dall'essere stesso e dal verbo di Cristo.

- Capirà quanto sia semplice non fare un'artificiale distinzione tra Nuovo
Testamento-documento storico e Nuovo Testamento-documento religioso.
lnfatti è proprio il carattere luminoso della testimonianza apostolica, diretta e
indiretta, ad essere altamente religioso perché profondamente storico e
altamente storico perché profondamente religioso.

- Capirà che l'oggettività dei fatti che concernono l'uomo e Dio non è mai
neutra, perché la verità non è mai neutra. Essa è sempre di Dio. E senza Dio,
nessuna realtà dei rapporti dell'uomo e di Dio può essere colta e trasmessa
oggettivamente.

- Capirà che il riferimento all'anonima «comunità primitiva» per quanto


riguarda la testimonianza e il messaggio dal più elevato significato per la
redenzione dell'uomo giacente nella sua relatività temporale, è un non-senso.
È forzare l'ordine logico delle cose, sfigurare la più elementare realtà dei
rapporti dello spirito e del verbo, tanto più che si tratta di un unico essere, del
Cristo.

- Capirà che è disonesto spezzettare e ricomporre i testi e cercare di reperire


ad ogni costo fonti diverse, purché la fonte non sia colui che il Cristo ha inviato
come Apostolo e colui al quale l'Apostolo ha trasmesso l'immensa esperienza di
aver accettato totalmente ed ontologicamente il Cristo.

- Capirà che non sono i divari delle narrazioni a poter infirmare sia la storicità
come la veridicità sacra del Nuovo Testamento. Per tutti questi casi, si
rammenterà le parole di San Pietro in relazione agli iscritti di San Paolo:

«Come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto - in esse (nelle sue
lettere) ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili
le travisano, al pari delle altre Scritture, per la loro rovina». (353)

- Capirà che è profondamente rattristante vedere fino a qual punto si può


arrivare, purché sia annullata la testimonianza della preesistenza della divinità
di Cristo; come per esempio l'invenzione di Bultmann a proposito del Prologo
del Vangelo di San Giovanni, caratterizzandolo come un «inno gnostico
proveniente da circoli del Battista» (354); o come fa Schnackenburg che
accetta ogni soluzione purché San Giovanni non ne sia l'autore. E il giovane
imparerà come si può giungere fino a pretendere, come Schnackenburg per
esempio, che il Prologo di San Giovanni è «un inno cantato dalla comunità»
che l'Evangelista ha raccolto e adattato al suo Vangelo. (355)

- Capirà che il clima spirituale e intellettuale, che crea questa ostinata


negazione di ogni affermazione importante e di ogni evento miracoloso del
Vangelo, come spesso fa Bultmann, clima pesante, pieno di dubbi e di sospetti,
è una prova immediata che lo spirito e il metodo di critica, di analisi e di
spiegazione non provengono da Dio.

- Capirà che quella che la Chiesa chiama Tradizione, fonte e via d'informazione
veritiera sulla realtà di Cristo e sul messaggio di Cristo, è una realtà storica, e
non un'invenzione.

- E avrà capito che nessun metodo come «la storia delle forme» o come quello
della «storia delle tradizioni» e della «storia delle redazioni» potrà confermare
e infirmare una testimonianza. Capirà perché la più perfetta prova di vera
testimonianza non può venire dall'esterno, ma dalle stesse testimonianze.
Quando la prova è immanente alla testimonianza, nessun paragone, nessun
confronto può alterare la sua trascendente veracità. È la verità immanente alla
testimonianza che giudica i mezzi e gli strumenti di ricerca. Non sono i mezzi e
gli strumenti di ricerca a giudicare della trascendenza della testimonianza.

___________________

Disgregazione pluralistica

La lunga storicizzazione dei criteri fondamentali e della speranza, la critica


storica e tutte le sue ramificazioni, come il «metodo della storia delle forme»,
hanno condotto alla proliferazione di una molteplicità di proposizioni, di
postulati, di analisi con la pretensione teologica ed anche con la pretensione di
un rinnovamento fondamentale delle basi dottrinali del cristianesimo. Questo
discorso che rimette tutto in discussione è senza fine. Se ci si mette a seguire
un argomento dopo l'altro, una considerazione dopo l'altra, un'affermazione
dopo l'altra e una contestazione dopo l'altra, si è trascinati nella foresta, su dei
sembianti di sentieri tracciati da mani misteriose, ma sentieri che sono illusori;
e quando uno se ne rende conto, si trova sperduto in mezzo alla giungla, senza
poter raggiungere il punto di partenza, salvo un soccorso superiore.

Così è accaduto e ancora accade, a causa della molteplicità delle tendenze


apparentemente particolaristiche sotto diversi appellativi. Tuttavia tutto l'arco
di queste tendenze non è altro che l'espressione di tre forme embricate l'una
nell'altra, sotto le quali si manifesta l'unico orientamento di una considerevole
parte della teologia moderna. L'arco di queste tendenze molteplici e
apparentemente particolaristiche è l'espressione della coscienza storica,
dell'ermeneutica moderna e del riferimento esistenziale.

Il mondo cristiano ha visto così nascere queste denominazioni teologiche (356)


senza rapporto né con la Rivelazione né con la vera vita:

- teologia della secolarizzazione

- teologia antropologica

- teologia della liberazione

- teologia della speranza

- teologia politica

- teologia delle realtà terrestri

- teologia della rivoluzione

- teologia del progresso e dello sviluppo

- teologia del lavoro

- teologia dell'ortoprassia

- teologia della cultura

- teologia della predicazione

- teologia del laicato

- teologia del futuro

- teologia dal basso o ascendente

- teologia della rappresentanza

- teologia della morte di Dio.

Le problematiche che questi postulati, proposizioni e considerazioni


presentano, sono già fuori del campo e delle perenni norme della teologia.
Infatti, come l'abbiamo già detto all'inizio e mostrato a più riprese nel corso di
questo libro (pag. 12), tutto il problema della pura oggettività consiste nel
cogliere i fondamentali riferimenti dati dalla Rivelazione e dalla logica sacra.

Se non c'è un riferimento fondamentale percettibile e definibile, apportato


nell'intelligenza e nell'esperienza umana dalla Rivelazione, e se non c'è una
logica, che esprima nell'uomo un ordine eterno della Creazione, e che sia
dunque sacra, ogni problema di oggettività è annullato e ogni tentativo di
conoscenza è vano. La teologia è dunque la scienza della Rivelazione ricevuta,
e non abbiamo altra Rivelazione se non la Rivelazione ricevuta.

La prima costatazione, dopo un primo contatto preso dal giovane con tutte
queste «teologie», è che esse esprimono implicitamente o esplicitamente, una
sempre crescente tendenza verso un pluralismo trascendentale, ossia verso un
pluralismo che sovverte ogni distinzione ed ogni limite posto da criteri stabili; e
questo è valido sia per quel che riguarda il punto di partenza di queste
tendenze e sia per quel che riguarda l'orientamento prestabilito dalla volontà e
sia per quel che riguarda termini, linguaggio e verbo interiore.

Non si tratta di un pluralismo di espressioni o di mezzi di espressione,


pluralismo di immagini, parallelismi. Si tratta del pluralismo totale, come se
ogni uomo potesse essere un punto di partenza e il suo pensiero e il suo volere
potessero essere del tutto autonomi.

Da molti scritti, come da quelli di Karl Rahner per esempio, emana un


pluralismo dottrinale tale da non permettere più ormai, alcuna base oggettiva
per una teologia cristiana, fondata sulla Rivelazione ricevuta. Le sfumature,
tutto quel che permane indefinito o indefinibile, tutto quel che permane ignoto,
tutte le elevazioni e le libere creazioni dell'uomo, non possono giustificare in
alcun modo un pluralismo che annichila ogni nozione di verità universale dal
punto di vista del metodo e dell'essenza; pluralismo che annichila i fondamenti
dell'intendimento, in quanto rapporto dell'individuo con Dio e rapporto
dell'individuo con gli altri individui che formano l'umana società.

Niente, nessuna accezione, né considerazione può annichilire la nozione e il


fatto della Rivelazione. Tuttavia, in molte coscienze, tale è il risultato del
pluralismo totale. E Rahner, cercando sempre di presentare come conciliabili
cose che sono fondamentalmente inconciliabili, così si esprime:

«La teologia del futuro sarà contraddistinta da un pluralismo notevole e


ormai insuperabile di teologie, nonostante l'unica professione dell'unica
chiesa». (357)

Il pluralismo ha smesso di essere soltanto un concetto di distinzione e di


«coesistenza»; ha smesso di essere un'espressione dell'incertezza di parecchie
accezioni su un medesimo soggetto. È diventato una forma di mente e di
sensibilità: vivere senza riferimento stabile, senza ricerca né possibilità di
discernimento, senza intima esigenza di armonia, il che permette che ci si
sforzi - poco importa i motivi di questo sforzo - per equilibrare, nei confronti di
ogni cosa il sì e il no. Si giunge fino a proporre proposizioni la cui simultanea
applicazione è impossibile e irreale.
Ed è così che Rahner scrive nello stesso studio le seguenti asserzioni, che
nonostante la migliore volontà e la più ampia e tollerante apertura
intellettuale, sono impossibili da coordinare:

«-La teologia dell'avvenire dev'essere una teologia 'demitizzante'.

- Occorre dire, con ogni franchezza, che gli enunciati di fede tradizionali sono
inadeguati, in buona parte, per lo meno per quanto concerne ciò che è
necessario prima di ogni altra cosa: l'annuncio della fede.

- Beninteso, rimangono - precisamente per la teologia - un punto di partenza


ed una norma. Ma se la teologia vuol essere al servizio dell'annuncio, le
formulazioni tradizionali della fede non possono rappresentare il punto d'arrivo
della riflessione teologica.»

Dopo queste dichiarazioni, Rahner dice nello stesso testo:

«- Le formulazioni tradizionali della fede, le dichiarazioni anteriori del


magistero ecclesiastico che hanno forza di definizioni, continueranno ad essere,
in futuro, non soltanto il punto di partenza e la norma della teologia
dell'annuncio, ma anche il loro punto d'arrivo».

E poi sempre nello stesso testo:

«- Una 'teologia demitizzante' rettamente intesa, dovrà rendersi conto che


delle proposizioni come: 'vi sono tre persone in Dio' - 'Dio ha inviato il suo
Figlio nel mondo' - 'Noi siamo salvati dal sangue di Gesù Cristo' sono
puramente e semplicemente incomprensibili per un uomo moderno, se
rimangono, alla maniera antica della teologia e dell'annuncio, il punto di
partenza ed il punto d'arrivo dell'enunciato cristiano. Esse fanno la stessa
impressione della pura mitologia in una religione del tempo passato.

- La teologia ha 'demitizzato' da sempre, ma ciò è diventato propriamente solo


oggi un compito che dev'essere svolto con piena coscienza ed in una forma
pluralista». (358)

Il pluralismo è un grave evento, perché esprime, come abbiamo appena detto,


ben altra cosa di una santa modestia di fronte all'immensità delle cose
ignorate. È la formale negazione della Rivelazione, di ogni contenuto di ordine
morale e spirituale consegnato nell'ordine naturale della creazione. È la
negazione dell'ordine interno del verbo dell'uomo. Tale è il pluralismo
trascendentale attestato da una considerevole parte delle attuali tendenze
teologiche.

Il pluralismo è una calamità universale che toglie, nell'ambito intellettuale,


spirituale e morale dell'uomo, il discernimento tra segno e fatto, e la parola
evolve senza filo conduttore comune e neanche individuale. Il pluralismo come
dottrina significa il totale distacco da Dio creatore, e quindi dal vero amore.

La pluralità delle forme della creazione, la pluralità dei movimenti manifestano,


per lo spirito libero, l'unità e la stabilità dell'ordine interno del creato. Il
pluralismo dissolve nella coscienza l'unico vincolo tra le molteplici forme. È la
distruzione della molteplicità delle forme di vita, per mezzo dell'assenza di uno
stabile punto di partenza di verità e, peculiarmente per il tempo della Chiesa,
di verità rivelata. Il pluralismo esprime l'ostruzionismo dell'interna ribellione ad
ogni principio, essere e verità superiori.

Il pluralismo, nel campo dell'attività teologica, anche senza intenzione


cosciente, sfocia nel sovvertimento di ogni principio e di ogni organismo di vita.
Falsa prima di tutto la profonda nozione, nel contempo umana e sovrumana,
della Chiesa.

Sarà sufficiente che il giovane dia un'occhiata a certi scritti, che riempiono ora
le librerie e le biblioteche, per rendersi conto dell'inadeguatezza e della
contraddizione che caratterizzano tutte le manifestazioni del pluralismo
dottrinale. Si chiederà, con profonda tristezza: chi parla in questo testo? Un
uomo che cerca la verità di Dio, o un uomo che vuole distruggere nelle
coscienze tutto quel che gli uomini hanno ricevuto da Dio come verità rivelata,
ed anche tramite l'ordine naturale delle cose? Di quale Chiesa parla? Di quale
salvezza parla? Di quale amore parla? In nome di quale Chiesa parla
quest'uomo?

Karl Rahner, nei suoi «Nuovi Saggi», parla della Chiesa, della teologia e del
Magistero della Chiesa, e dice che c'è una grande «differenza tra il vero
contenuto di fede inteso dalla professione e la teologia che lo esprime ed
interpreta», e specifica:

«Oggi il pluralismo della teologia non si può più superare adeguatamente.


Perciò si deve forse tener conto che nel futuro il magistero potrà emettere ben
poche dichiarazioni dottrinali. L'unità della teologia che si deve presupporre a
tale scopo (l'emissione di dichiarazioni dottrinali) non esiste più». (359)

Orbene, per rendersi conto dove sfocia il pensiero e la sensibilità pluralistica


nell'attuale teologia, basta sapere che si pretende, per salvare il «contenuto
della fede», la necessità di predicare il cristianesimo senza cominciare da Gesù
Cristo:

1. «Se il corso fondamentale (sulla fede) si concentrasse in maniera ristretta


su Gesù Cristo, vedendo in lui la chiave e la soluzione di tutti i problemi
esistentivi e la giustificazione totale della fede, ci offrirebbe una concezione
troppo semplice. Non è vero che basta predicare Gesù Cristo e che in tal modo
si sono risolti tutti i problemi. Gesù Cristo è un problema anche oggi». (360)

2. «Possediamo varie fonti di esperienza e di conoscenza, la cui pluralità


dobbiamo sviluppare e comunicare. Esiste una conoscenza di Dio che non viene
comunicata in maniera adeguata attraverso l'incontro con Gesù Cristo». (361)

3. «Non è necessario né oggettivamente giustificato cominciare questo corso


fondamentale semplicemente con la dottrina riguardante Gesù Cristo,
quantunque nel decreto conciliare "Optatam totius" il corso fondamentale
venga presentato come 'introduzione al mistero di Cristo' (introductio in
mysterium Christi) ». (362)

Tutte queste denominazioni delle varie teologie che abbiamo appena


enumerato e con le quali si vuole indicare una base o un nuovo particolare
orientamento della teologia, corrispondono alla medesima tendenza generale e
al medesimo unico orientamento. Tutte queste particolarità possono essere
moltiplicate all'infinito senza offrire una più perfetta conoscenza dell'uomo e di
Dio, senza aprire una via di meditazione e di studio positiva. Infatti tutte sono
sorte dall'idea e dalla volontà di secolarizzazione. Tutte sono portate e portano
verso il miraggio di soluzioni storiciste ai problemi degli uomini.

Il grande principio di morte, che domina sin dalla loro origine tutte queste
tendenze, è il principio di secolarizzazione: il mondo contiene le forze della
plenaria realizzazione degli uomini e ne è anche l'ambiente, in cui lo scopo
della vita dell'uomo deve essere raggiunto; occorrerebbe dunque abolire ogni
distinzione tra sacro e profano, tra Chiesa e mondo.

Per questo il pluralismo è un pluralismo unilaterale, pluralismo di


secolarizzazione. Infatti, a causa del suo fondamentale principio, il pluralismo è
la negazione di un comune riferimento fondamentale che garantirebbe
l'armonia di vita alla pluralità delle forme di espressione.

Ora c'è una vertiginosa attività in seno a questa pluralità unilaterale di


secolarizzazione nella quale tutte queste teologie s'impegnano, consciamente o
inconsciamente, a sfigurare la Persona e il messaggio di Cristo e la nozione,
l’essenza e la missione della Chiesa. Tutti i fondamenti e tutte le nozioni
teologiche, tutti i termini dell'attività spirituale in seno alla società sono
trasformati e utilizzati con un altro contenuto.

Una «teologia della speranza» infonde nelle anime un altro contenuto di quello
della speranza apportata dal Cristo. L'uomo dovrebbe ormai sperare nella
«salvezza» tramite la comunità in cammino verso la società ideale futura. La
speranza dovrebbe dunque essere rivoluzionaria in tutti i sensi. Così, per
esempio, il Padre Schillebeeckx snaturando fondamentalmente il pensiero del
Concilio Vaticano II, scrive:

«Il Concilio dichiara infine che la volontà salvifica di Dio è presente negli
sviluppi politici e socio-economici dell'umanità. - Dare alla fede cristiana una
legittimazione valida in ogni epoca risulta impossibile. - Anche senza una
'teologia', la rivoluzione può indubbiamente contare sui cristiani. - In Cristo è
ora possibile dire Amen alla realtà mondana e considerarla come culto poiché,
dopo l'apparizione di Gesù, sulla terra abita la pienezza di Dio». (363)

Schillebeeckx si riferisce, in particolar modo per quest'ultimo enunciato sulla


pienezza di Dio che abita sulla terra, alla Lettera ai Colossesi (364), nella quale
San Paolo parla della pienezza di Dio. Schillebeeckx, però, evita di dire nel suo
libro di quale pienezza parla San Paolo e a chi l'Apostolo si riferisce. San Paolo,
infatti, parla della pienezza di Dio che abita nel Cristo e unicamente nel Cristo.
E il testo continua spiegando in qual modo si possa ottenere la riconciliazione
tra il mondo e Dio:

«Perché piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui
riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè
per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli».

San Paolo parla dunque della pienezza che abita nel Cristo, e poi parla della
riconciliazione a Dio di tutte le cose, che non si può compiere se non con il
sangue della Croce. Non si può dunque fare riferimento né al Concilio né a San
Paolo per poter «dire Amen alla realtà mondana e considerarla come culto».

Quale rapporto hanno con il Vangelo, con il Concilio, con la Chiesa, questi
enunciati? Soltanto un pluralismo incondizionato e nel contempo unilaterale,
può dare l'illusione che tutti questi pensieri, tutte queste cogitazioni sono
teologia, sulla base di un personaggio che si chiama il Cristo, Gesù di Nazareth.

In tale spirito di assoluto pluralismo nei confronti della secolarizzazione Rahner


mutila la nozione della Chiesa e respinge il suo mistero:

«La Chiesa non è né vuole essere la manipolazione integrale della realtà


umana od etica nel mondo; non è il tutto, ma solo una parte di questo tutto,
che è per sua essenza 'pluralistico'». (365)

Non c'è una sola realtà del mistero della Chiesa che non sia presa di mira dallo
spirito e dal desiderio di secolarizzazione. Quando, per esempio Schillebeeckx
in merito alla Santa Eucaristia scrive che il Sacramento è il cambiamento di
significato dato dall'uomo, immediatamente si diffonde un concetto di
transignificazione, e allora Schillebeeckx si sente in grado di formulare queste
dichiarazioni fondamentalmente naturaliste, umanistiche, estranee a tutte le
realtà e a tutta la teologia della Chiesa:
«L'uomo vive naturalmente di continue "transignificazioni". Egli umanizza il
mondo. - La transustanziazione è irreversibilmente una creazione di significato
umana». (366)

La secolarizzazione, normale esito della mentalità storicista, genera e giustifica


ogni specie di formule e di attitudini intellettuali e morali. Diviene fatale, per
esempio costruire tutto un linguaggio ed enunciati sull'appellativo di «teologia
della liberazione» (367). Diventa fatale che la liberazione dell'uomo, apportata
e predicata dal Cristo, si trasformi in azione di rivendicazione di ordine sociale
e personale.

Diventa fatale elaborare, nella libertà pluralistica, un intero linguaggio di


«teologia della speranza», e osare insegnare solennemente in nome di Cristo
all'opposto di ogni interpretazione veridica del Vangelo:

«Questa speranza infatti, per dirla con Ludwig Feuerbach, pone 'al posto
dell'aldilà che sovrasta in cielo la nostra tomba, l'aldilà che la sopravanza (la
nostra tomba) su questa terra: il futuro storico, il futuro dell'umanità'. Essa
scorge nella risurrezione di Cristo non l'eternità del cielo ma il futuro di quella
stessa terra». (368)

L'abbiamo già detto, il cambiamento del contenuto della speranza è alla base
della mentalità storicista e esistenzialista. È anche l'orizzonte del miraggio.

Il pensiero e il linguaggio esistenziali che caratterizzano le manifestazioni di


tutto il processo storicista del pensiero teologico, filosofico ed anche letterario,
esprimono in sé, in tutti i casi, un rifiuto nel riferirsi ontologicamente,
spontaneamente a riferimenti immutabili, riferimenti di vita immutabili. Questo
rifiuto non è senza una lontana origine e senza una grave conseguenza, per lo
spirito dell'uomo e la pace della coscienza di fronte alla Verità.

Il giovane, a tal riguardo, sarà molto edotto se ricorderà con carità, con grande
carità, come la penetrante assistente di Husserl, la profonda e santa anima che
è stata Edith Stein definisce il pensiero e l'attitudine filosofica di Martin
Heidegger: «la filosofia della cattiva coscienza».(369)

In tutti i casi, però, c'è una cosa che sfugge ai promotori della secolarizzazione
pluralistica. Questo fenomeno, accada quel che accada, è condannato a perire
sia con il mondo sia da solo. L'infinità di forme dell'universo visibile e delle
forme spirituali di concezione e di creazione dell'uomo, quando queste restano
in armonia con il loro ordine di origine sacra della creazione, contiene il
principio di riferimento fondamentale all'unità della Verità eterna. E affinché
questa molteplicità di forme di vita e di creazione dell'uomo ritrovi la pienezza
di armonia con la Verità eterna, il Verbo eterno si è incarnato per risacralizzare
ogni cosa. Per questo la Chiesa, originata dall'amore di Cristo, si è inserita
nella relatività disarmonica del mondo.

__________

GETSEMANI

Getsemani, è la porta del santuario attraverso la quale la Storia ritrova il suo


vero volto e il suo vero ordine, nell'intendimento e nella coscienza dell'uomo
liberato. È il santuario dove si è spiritualmente compiuta, nella solitudine, la
suprema offerta, affinché l'uomo, ogni volta unico, e tutta la stirpe degli uomini
possano ritrovare l'ordine eterno della loro creazione e avere così la possibilità
di entrare per grazia nella gioia della diretta contemplazione del Creatore.

Soltanto nel raggio del Getsemani la teologia può essere spogliata di ogni vano
diletto intellettuale, di ogni lettera morta e di ogni rigido schema di pensiero, di
ogni aridità del cuore, di ogni illusione di autonomia e di ogni torpore di
febbrile attività naturalista. Soltanto in quel luogo l'intendimento e la volontà
sono liberati dalla verità conformemente alla parola di Cristo (370), perché là il
Redentore ha vissuto nella sua intimità umana, con tutto il suo amore divino,
la Croce della storia degli uomini.

E nel segreto dell'agonia di Gesù di Nazareth, si può intravedere il significato


dell'uomo nel mistero della storia degli uomini.

Nel mistero del Getsemani si svelano i due più grandi, più struggenti e più dolci
misteri: l'Incarnazione di Dio in uomo perfetto in Maria e la generazione della
Chiesa santa nella relatività dell'uomo temporale.

Nel popolo d'Israele, ci sono stati molti Santi e molti Profeti. Ci sono state
molte anime che hanno sofferto per il loro popolo e che hanno saputo amare
Dio fino al sacrificio totale. Ci sono state molte anime forti e grandi che hanno
penetrato per grazia di Dio i segreti della Natura, più di quanto non l'abbiano
fatto gli uomini di scienza delle future generazioni.

Ma l'uomo della notturna agonia sul monte degli ulivi era l'Essere di un'altra
economia; corrispondeva ad un'altra necessità, ad un'altra attesa della
creazione. E per tale motivo questa agonia non solo concerne ogni uomo, ma è
ontologicamente vincolata ad ogni uomo. L'uomo non è vincolato all'agonia di
Cristo soltanto con l'immaginazione e la compassione per qualcuno che soffre
ingiustamente. L'uomo vi è vincolato perché è stato il soggetto dell'offerta
solitaria nel giardino del Getsemani, che non era un atto morale, ma un'azione
di essere.

Il «Fiat» della Vergine Maria ha avuto come immediata conseguenza un evento


nella natura dell'essere umano, un evento ontologicamente nuovo. Le parole
con le quali il Cristo si abbandona totalmente alla volontà del Padre
costituiscono il secondo «Fiat» dell'economia della salvezza dell'uomo. Il «Fiat»
del Getsemani fu la conseguenza, in una nuova tappa, del primo «Fiat»
dell'essere umano di Maria. Il secondo «Fiat», pronunciato e compiuto
dall'Essere generato da Dio nella natura umana, ha avuto come conseguenza
l'unione di Dio con le esistenze di tutti gli uomini, cioè con l'esistenza di tutti gli
esseri che costituiscono la Storia degli uomini.

Quale potrebbe essere la finalità di tutta la sofferenza della Croce accettata da


prima? Una tale offerta non è concepibile senza concepire, fievolmente che sia,
il perché di questa offerta. E appare, allora, in tutta la sua luminosa semplicità,
l'essenza della misteriosa agonia di Cristo.

«Padre, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma
come vuoi tu» (371). Quando Gesù ha pronunciato questo «se è possibile»,
chiedeva di essere liberato dall'onere della salvezza delle anime? Quando il suo
spirito ha lanciato questo appello, aveva improvvisamente preferito, non
sarebbe che solo per qualche istante, di distaccarsi dalla sua missione e poi
vivere, invecchiare e spegnersi un giorno, secondo la sorte di ogni uomo?

Sono pensieri che svaniscono come vane finzioni dell'orgoglio dell'uomo;


svaniscono quando il nostro intendimento e il nostro cuore penetrano
umilmente e con abbandono nel raggio del Getsemani. Là, le nostre categorie,
secondo le quali percepiamo e giudichiamo, sfumano, o piuttosto sono
trasformate, prendendo un altro tenore e un'altra ampiezza. E così, tanto
l'intendimento come il cuore, in un'armonia di pace, ricevono il mistero
dell'Essere che pregava prostrato a terra per la salvezza degli uomini.
L'appello, infatti, del «se è possibile» non significava la stanchezza e che il
Cristo preferisse che un altro si addossasse la salvezza degli uomini. Cristo non
pregava soltanto per lui; pregava in nome di tutti gli uomini, ai quali si era
vincolato con la sua offerta: «come vuoi tu».

Cristo, Persona unica di essenza divina, come Redentore degli uomini, viveva
interiormente nella sua pienezza umana, la sofferenza d'inconcepibile amore di
fronte alla cattiveria e al peccato che generavano la sua Passione e la sua
Morte.

Allora l'anima, con tutto il suo potenziale d'intelligenza e di amore, penetra nel
mistero dell'Incarnazione e dell'agonia del Getsemani e capisce che la
redenzione dell'uomo non è stata opera di un nuovo insegnamento, e l'esempio
di una grande perfezione, sconosciuta fino allora. L'uomo capisce che la sua
Redenzione non è consistita in un rinnovamento morale, è stata innanzi tutto
un atto che ha riguardato il principio dell'essere dell'uomo, che ha riguardato la
rigenerazione della legge della generazione dell'uomo.

Se non ci fosse stato un uomo generato dalla Parola del Creatore, la


Redenzione dell'uomo sarebbe sempre un'attesa di rinnovamento morale.
Questo insegnamento e questo esempio, i Profeti e i Santi d'Israele li avevano
compiuti e avrebbero potuto compierli ancora. Ma l'atto iniziale della nuova
generazione, per il diretto intervento di Dio, non sarebbe stato compiuto; e
l'intervento ontologico divino nella stirpe di Adamo non sarebbe stato
compiuto.

Ebbene, l'Essere che pregava prostrato a terra nel giardino del Getsemani era
esattamente questa penetrazione ontologica di Dio nella stirpe di Adamo. Dio
ha suscitato un essere con il suo proprio Verbo divenuto così uomo, avendo
preso «forma» di uomo nell'organismo naturale umano.

L'uomo, nonostante tutte le sue ricerche e le sue indagini, non può penetrare
con i propri suoi mezzi il segreto della differenza di livello dei popoli, sia nel
passato come nel presente. Raramente si giunge a distinguere da lontano nella
profondità del presente la vera immagine iniziale dell'uomo e dell'umanità,
perché abbiamo perso la freschezza e il gioioso e continuo stupore della
contemplazione, attiva e sempre nuova, dell'infinita Realtà di Dio Creatore.

Questa perdita c'impedisce di poter sempre percepire la grazia e il continuo


miracolo dell'esistenza di ogni cosa, e c'impedisce di percepire il «semplice
naturale» delle opere che superano la nostra propria esperienza, delle grandi
opere miracolose del nostro Dio Creatore.

L'uomo non può mai afferrare, con le sue ricerche e le sue invenzioni di
curiosità, l'inizio delle cose e degli esseri.

Perciò incontriamo difficoltà nel concepire il misterioso atto di amore e di


armonia che si è compiuto con il primo «Fiat» della Vergine Maria.

Tuttavia è quest'atto che ha permesso all'Essere, che pregava con il volto


coperto di sudore di sangue, di unirsi ontologicamente all'esistenza di ogni
uomo, nel disordine anarchico e doloroso della Storia. Ed è questa unione che
offre all'uomo la possibilità di diventare un essere nuovo e di conoscere che in
lui s'innalza una seconda volontà che è in lotta con la prima volontà della sua
natura in disordine: il disordine del peccato.

E questa unione particolare fu compiuta dal «Fiat» del Getsemani: «Non come
voglio io, ma come vuoi tu». Questa unione, infatti, era il soggetto della
preghiera dell'agonia e del «Fiat»; e fu la causa della Croce che sarebbe
seguita.

L'agonia del Getsemani, nel suo mistero ontologico, non sarebbe stata
possibile, se l'Essere dell'agonia non fosse stato l'Essere dell'Incarnazione.
L'agonia del Cristo esprime la sofferenza nello spirito e nel cuore e di
conseguenza in tutta la natura umana; sofferenza che appartiene a questo
unico Fiat d'amore indicibile: unirsi all'esistenza di tutti gli esseri umani che
costituiscono la Storia.

L'unica Persona, che da sempre possiede la conoscenza oggettiva di ogni cosa,


è Colui che è stato concepito a Nazareth, e Colui che è stato concepito a
Nazareth è Dio. Soltanto Colui che al Getsemani, si è unito all'esistenza di ogni
uomo, avendo accettato per amore di soffrire, nel suo essere unico, il dolore di
tutti i secoli, conosce con assoluta oggettività quella che noi chiamiamo Storia.
È Colui che, dopo la sua sofferenza interiore e universale al Getsemani, ha
sofferto i dolori fisici e morali del martirio e della morte sulla Croce; Colui che,
uomo e Dio per l'eternità, ha risolto per tutti gli uomini nel suo essere il
mistero d'iniquità, con la sua Resurrezione.

L'uomo desidera l'oggettività, come desidera la vita eterna. Solo il Maestro


della vita eterna può dare all'uomo l'oggettività. L'uomo non può progredire in
conoscenza oggettiva se non unendosi sempre più al Signore della Storia, che
per lui ha detto il «Fiat» del Getsemani.

Quando l'uomo riceve questa verità, tutte le leggi, le norme e le categorie della
ragione umana si rigenerano e viepiù si liberano dagli impedimenti delle opere
morte e delle parole morte. A misura che l'uomo sottomette Dio e le opere di
Dio al suo desiderio spesso molto sottile ma impetuoso di autonomia,
svaniscono le vere leggi della ragione umana e si pietrificano le categorie.

Soltanto il soggetto completamente libero può essere totalmente oggettivo. Per


questo l'uomo, soltanto nella misura in cui riceve intimamente con amore la
Rivelazione del Soggetto assoluto, può ottenere oggettività nella sua visione
degli esseri e delle cose. L'oggettività del sapere dell'uomo, ossia il grado di
vera conoscenza dipende dalla sua unione ontologicamente spirituale con Colui
che possiede tutta la realtà oggettiva, perché Egli è l'eterna Verità incarnata
per l'eternità.

Questa fondamentale verità esclude dal cammino dell'uomo verso la


conoscenza ogni teoria pluralistica. L'uomo non si trova di notte nella foresta,
senza sapere dove andare e non è «una successione di momenti». È un essere
dotato di memoria, e questo lo pone simultaneamente sia nel tempo come
fuori del tempo. Infatti per il dono della memoria valica il tempo, e la
«successione dei momenti»; l'uomo nel corso della sua esistenza, arricchendosi
indefinitamente e sviluppandosi continuamente, permane immutabile come
essere e come potenziale di arricchimento e di espansione all'infinito. Il Cristo
segue tutto il cammino dell'umanità ed è lo stesso ieri e oggi e nell'eternità.

Scartando la Rivelazione per cogitare su Dio e il mondo, fondandoci, per sottile


desiderio di autonomia, esclusivamente sui nostri propri mezzi d'indagine,
perdiamo ogni possibilità di oggettività ed entriamo nella «notte esistenziale».
Infatti per lo spirito è notte fonda, quando l'uomo, tutte le sue facoltà
d'intendimento e di azione sono fissate sui «momenti fuggevoli», sull'«essere-
qui» o l'«essere-là». Questo sguardo esistenziale, ossia il fatto di considerare
tutte le cose senza fare continuo riferimento alla nostra più profonda realtà, al
di là di ogni gioco del linguaggio delle parole esterne, elimina, nel nostro
andare, la nostra propria realtà di coscienza e di memoria. Ed è impossibile
riconoscersi ed essere veridici, perché rifiutare il Signore dell'oggettività
equivale a rifiutare ontologicamente la verità.

La relatività dei momenti che trascorrono non può colpire l'essere che conosce
e che ama. Quando però l'essere si lascia prendere dalla relatività, entra nel
turbinio del discorso esistenziale, cosa che impedisce all'uomo di avere una
vera immagine della sua esistenza e della nozione dell'esistenza. Il discorso
può essere indefinito; e senza fine la coniatura dei vocabolari e delle
espressioni; è il triste gioco di una falsa filosofia che rifiuta di sottomettersi per
ogni cosa al Signore della Storia, che è la Verità incarnata, che è l'eterno
ordine di tutto il molteplice dell'universo e della Storia.

Quando, nel nostro spirito e nel nostro cuore, si svela il mistero del Getsemani
e il suo rapporto con il «Fiat» dell'Annunciazione, un intero linguaggio diviene
caduco, infatti ci si accorge che la Storia non può svelare alcun segreto né in
merito alle leggi che la governano, né in merito ai fini ultimi dell'uomo. Essa
non lo può, perché non ha né conoscenza né coscienza. Una sola cosa può
insegnare: il Sovrano della Storia ha detto il «Fiat» della sofferenza e
dell'unione con l'esistenza di tutti gli uomini, per liberare ogni uomo, ogni volta
unico, dalla morte e farlo entrare in un'altra realtà di vita eterna.

Riferirsi ogni volta, alla Storia, per evitare di riferirsi al Sovrano della Storia, è
voler parlare alla polifonia, senza rivolgersi né a colui che ne ha composto la
musica né a coloro che la eseguono. Solo il Creatore delle leggi e dei fini può
conoscere la realtà dei fini ultimi di ogni cosa, il Creatore e coloro ai quali Egli
lo rivela e che accolgono con umiltà e amore la sua Rivelazione.

Ogni uomo non può essere redento come società. E' la Redenzione di ogni
persona a creare un insieme di persone redente. È per amore per ogni persona
d'Israele, per ogni Israelita, che Simeone ha avuto la gioia di ricevere nelle sue
braccia il Redentore. Aveva ricevuto il messaggio divino, secondo il quale
avrebbe dovuto vedere il Redentore prima di morire. E quando l'ha visto, ha
provato gioia per la redenzione non di un'entità astratta, ma per tutti coloro
che sarebbero redenti, e non a causa di un desiderio di uno stato forte e
fiorente nella storia, per questo ha detto:

«Nunc dimittis servum tuum, Domine».

È stato lieto per la Luce di tutti gli uomini, che era il Cristo e per la gloria
d'Israele. Questa Gloria era il Cristo, che chiamava ogni Israelita alla salvezza.
Giacché Israele non era un'idea; era un insieme in cui ciascun membro era
chiamato alla redenzione.

***

Il giovane, il carissimo giovane potrà trovare nel mistero del «Fiat» del
Getsemani, la via della conoscenza del mistero dell'uomo nella Storia, via
nascosta ma piena di luce. E vedrà rischiararsi davanti a lui l'enigma della
Chiesa, e conoscerà una profonda gioia, la gioia che come il Cristo ha detto,
nessuno può togliere.

Avrà grandi certezze sulle realtà naturali e soprannaturali. E avrà una grande
pace, la pace di verità, che soltanto il Cristo dà. Capirà con tutto il suo essere
che il mistero dell'Incarnazione del Dio inconcepibile, nella nostra povera e
debole carne contiene l'intero segreto dell'origine dell'uomo, del dolore della
terra e dei veri fini ultimi.

Capirà che soltanto il Maestro dell'oggettività, tramite l'accoglienza da parte


nostra della sua identità divina e nel contempo umana, può istruirei sul senso
del tempo e dell'eternità, e sulla vanità di credere che si possa alterare la
nozione dell'eternità e della speranza nell'eternità, invitando gli uomini, in
nome di Dio, a «scoprire il tempo».

Capirà perché il Cristo ha rifiutato di essere giudice della divisione dei campi di
due fratelli, e perché in tutto il suo insegnamento, presenta agli sguardi degli
uomini di ogni condizione la medesima via per entrare nella vita eterna.

Capirà nella più profonda intimità del suo essere, che tutto quel che evolve,
prima di evolvere e dopo, è,. e che tutto quel che muta, ogni arricchimento e
impoverimento non distrugge né altera questa realtà dell'essere che si
arricchisce o s'impoverisce. E nell'impalpabile e aspaziale realtà di essere
dell'uomo c'è un'immensità: la coscienza e la memoria. Chi rinnega questa
immensità, si rinnega ed entra nell'anarchico ed esistenziale vicolo cieco, dove
non può realmente incontrare il Maestro di ogni oggettività. È una folle corsa
dietro il miraggio dell'«essere-là» o l'«essere-qui»; il miraggio di poter stabilire
un linguaggio e fondare una scienza dell'uomo sul mutevole, e non su quel che
è, che si ricorda e che ha coscienza di essere, e che è portato ad adorare;
essere portato significa che ci si muove, e l'adorazione significa una stabilità
che abbraccia e armonizza quanto si muove ed ogni movimento.

Capirà che comprendere la Storia al di fuori del «Fiat» del Verbo incarnato,
dell'Uomo-Dio al Getsemani è una vana finzione, che può offrire l'occasione di
creare veri miti di filosofia della storia, o anche di teologia della storia. Non si
può strappare, a forza d'informazione e di parallelismi, il segreto della vita
dell'insieme degli uomini. Tutte le esperienze di tutte le scienze umane e
naturali, tutte le profezie sull'avvenire dei popoli e sull'avvenire della Chiesa
riguardano, coscientemente o meno, la vita al massimo nel limite di un secolo,
di quest'uomo che ha un'anima immortale.

Capirà che la Chiesa, sin dall'inizio, a causa della sua origine e della sua intima
essenza, ha avuto e avrà fino alla fine del mondo la fervente preoccupazione
del bene di tutti gli uomini. Tale bene comporta ogni cosa che addolcisca il
cuore e mantenga la vita fisica fino alla fine quando l'uomo lascia la storia per
l'eternità.

Capirà che è una vana o perversa finzione di opporre l'identità e la missione


della Chiesa al bene reale, naturale e sociale degli uomini; è una vana finzione
alterare la sua missione e adattarla alle prospettive temporali, che sempre
sono temporanee.

Capirà che l'avvenire dell'umanità non può essere la liberazione dell'uomo nel
suo secolo, che nella misura in cui quest'uomo avrà pensato e operato,
acciocché gli innumerevoli uomini, che popoleranno il tempo in fuga, possano
uscire dalla Storia, alla fine della loro vita, verso la luce eterna.

Capirà che è una vana finzione, incosciente o perversa, mettere in


contrapposizione, nella coscienza dei battezzati: persona e gruppo, essere
umano e comunità, anima chiamata alla vita eterna e umanità. L'”Apocalisse”,
parlando e profetizzando a proposito dell'avvenire della Chiesa e dell'umanità,
parla della fede e della salvezza di ciascun uomo. La nuova Gerusalemme che
discende dal Cielo non può significare - in qualunque interpretazione
dell'immagine - se non un insieme ordinato, dove ciascun essere umano adora
e gode l'immenso mistero del Signore. «Vieni, Signore Gesù». Sì, vieni per far
entrare tutti gli uomini, se è possibile, nella vita eterna del tuo Regno.

Capirà che tutti i tradimenti conosciuti e sconosciuti di pochi o di molti membri


della Chiesa, la grettezza d'animo, la ristrettezza di mente, la crudeltà ed ogni
infedeltà, che la Chiesa ha potuto avere e vivere nel suo seno, non sono che la
corrispondenza del sudore di sangue al Getsemani e delle piaghe e del sangue
della Croce. Per questo occorre pensare al santo Essere dell'Uomo-Dio. Non si
può né cambiare né abbandonare il Signore a motivo delle sue piaghe.
Capirà che la Chiesa, malgrado le sue piaghe, porta non soltanto nella sua
bocca, ma nel suo cuore la Verità e la Vita, perché il suo cuore è quello di
Cristo.

Capirà che tutta la Creazione, tutto quel che è, è il segno di una realtà
immutabile, e l'uomo può leggere e riconoscere indefinitamente questo
immutabile. L'uomo può, in seno ad ogni situazione, situazione calma, o
esplosiva come nei nostri giorni, imparare a leggere questo linguaggio che è il
creato. Lo può, perché la sua propria parola, nonostante tutta la sua relatività,
ha la sua origine, come l'uomo stesso, nel Verbo eterno di Dio.

Capirà allora, perché nella stirpe degli uomini, c'è un essere privilegiato. È
l'essere che ha detto il primo «Fiat» nella storia della salvezza, Maria; e capirà
perché non si tratta di una letteratura composta da una pia sentimentalità, il
fatto che la Chiesa chiami la Vergine Maria, Madre di Dio.

Capirà che nessuna urgenza, nessun pericolo personale o generale, nessuna


ostilità verso il Verbo incarnato e la Madre del Verbo incarnato, debbono
alterare, nella mente e nel cuore, la reale base della santa teologia e dell'unica
finalità storica: ossia l'Incarnazione del Verbo, del Cristo Gesù nella Santissima
Vergine Maria.

Capirà che l'unica via per servire la verità è di far nascere o rinascere negli
uomini la vera speranza apportata dalla Persona e dalla Parola del Cristo.

E si ricorderà che il Signore ha detto nel Vangelo di San Giovanni: «Nel mondo
voi avrete tribolazioni, ma abbiate fiducia, io ho vinto il mondo», e
nell’"Apocalisse": «Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona di vita».

________________________

Note

(1) «Bilancio della teologia del XX secolo» diretto da R. VANDER GUCHT e H.


VORGRIMLER; Città Nuova Ed., Roma 1972.

(2) KARL RAHNER S. I., nato nel 1904, professore di teologia dogmatica nelle
Università di Monaco di Baviera e di Munster, teologo al Concilio Vaticano II, è
stato membro della Commissione Teologica Internazionale.

(3) Questa difficoltà è atte stata da tutti coloro che studiano i movimenti
intellettuali e spirituali del nostro tempo: «Non è facile orientarsi nell'attuale
vasta produzione teologica il cui valore stesso è di varia portata e la cui
impostazione risponde talvolta ad ambiti culturali diversi, che non si possono
ben comprendere solo attraverso la traduzione dei testi». (ALFREDO
MARRANZINI, in Correnti teologiche postconciliari, Città Nuova Ed., 1974,
Introduzione p. 11).

(4) «Se la teologia si vale della filosofia, non è perché abbia bisogno del suo
soccorso, ma per mettere in luce più viva le verità che insegna. Essa non ha
trovato i suoi principi sulla terra: essa li ha avuti da Dio stesso attraverso la
Rivelazione». (S. TOMMASO D'AQUINO, Somma Teol. I, q. 1 a. 5).

«La sacra teologia si basa, come su un fondamento perenne, sulla parola di Dio
scritta, insieme con la sacra Tradizione, e in quella vigorosamente si consolida
e ringiovanisce sempre, scrutando alla luce della fede ogni verità racchiusa nel
mistero di Cristo». (Conc. Vatic. II, Cost. «Dei Verbum», n. 24).

(5) «L'oggetto della teologia stessa è posto, e quindi esiste di fatto, in senso
originario ed essenziale, nel contenuto della rivelazione e della fede». (H.
FRIES, articolo «Teologia», Dizionario teologico, Vol. III, Queriniana Ed.,
Brescia, 2a ed. 1969, p. 473).

(6) S. S. Paolo VI, discorso del 13-5-1973

(7) Come esempio di questo senso particolare del termine «univocità», citiamo
un'espressione di B. Mondin: «Solo Dewart ha proposto di sostituire alla
dottrina dell'analogia quella della univocità: egli afferma che le proposizioni del
linguaggio teologico si devono intendere propriamente e letteralmente». (B.
MONDIN, Il linguaggio della teologia radicale, in «Il linguaggio teologico oggi»,
Ancora Ed., Milano 1970, p. 279).

(8) PAOLO VI, Insegnamenti, VI, 1969; Tip. Pol. Vat., 1970, p. 957.

(9) PAOLO VI, Insegnamenti, VI, 1968; Tip. Pol. Vat., 1969, p. 1043-1044.

(10) BATTISTA MONDIN, dei Missionari Saveriani, nato nel 1926, decano della
Facoltà Filosofica della Pontificia Università Urbaniana a Roma.

(11) B. MONDIN, Il linguaggio della teologia radicale, in "Il linguaggio teologico


oggi", Ancora Ed., Milano 1970, p. 279.

I principali rappresentanti di questa corrente radicale sono i protestanti Harvey


Cox, Paul Van Buren, William Hamilton, Thomas Altizer, l'anglicano John
Robinson ed il cattolico Leslie Dewart, denominati anche "teologi della
secolarizzazione".

(12) S. Giov. 1, 12; 3, 5; 1Giov. 3, 1.

(13) S. Teol. III, q. 1 a. 2.


(14) 1Cor XIII, 9, 12.

(15) S. Teol., Suppl. q. 92.

(16) S. Giov. 1, 18.

(17) S. Teol., Suppl. a. ad 4.

(18) Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione "Dei
Verbum", n. 9.

(19) Come esempio dello spirito di relativizzazione della Tradizione si può


citare:

- «Noi troviamo la testimonianza e il messaggio originari negli scritti del


Vecchio e del Nuovo Testamento. Ogni altra testimonianza della tradizione
ecclesiastica, anche la più ricca e solenne, non può in fondo far altro che
gravitare intorno a questa originaria testimonianza sulla Parola di Dio;
nient'altro che interpretare, commentare, spiegare e applicare questo
documento originario a seconda della situazione storica sempre diversa» (!).
(H. KDNG, Chiesa, Ed. Queriniana, Brescia 1972, p. 37).

- «...Dinanzi all'esperienza della fede e alla teologia dei nostri fratelli riformati
noi abbiamo il dovere di prendere il più possibile sul serio il principio
protestante della sola Scrittura, perch'esso sottintende un'esperienza religiosa
autentica, e a mio avviso, una tradizione teologica egualmente autentica, che
risale al passato cattolico». (K. RAHNER, Sacra Scrittura e Tradizione, in
«Nuovi Saggi I», Ed. Paoline, Roma 1968, p. 192).

(20) «Per la teologia la Scrittura è praticamente l'unica fonte materiale di fede,


alla quale essa deve volgersi come alla fonte semplicemente originaria, in
derivata e norma non normata. Con ciò non escludiamo dalla teologia la
tradizione». (K. RAHNER, Sacra Scrittura e Teologia, in «Nuovi Saggi I», Ed.
Paoline, Roma 1968, p. 168).

(21) «Se è vero che la Scrittura non può essere la testimone a favore di se
stessa, però a parte questo, per essere quel che è - cioè Scrittura ispirata da
Dio - deve rendere testimonianza all'intera fede della Chiesa». (K. RAHNER,
Sacra Scrittura e Tradizione, in «Nuovi Saggi I», Ed. Paoline, Roma 1968, p.
195).

(22) «La tradizione, se e nella misura in cui è testimonianza della coscienza di


fede della Chiesa e della dottrina del Magistero, rimane sempre di fronte al
singolo teologo norma autentica per la spiegazione della Scrittura». (K.
RAHNER, Sacra Scrittura e Teologia, in «Nuovi Saggi I», Ed. Paoline, Roma
1968, p.169).
(23) «L'unità dell'oggetto della fede, ...rende perlomeno inverosimile e
inammissibile, dal punto di vista religioso, l'ipotesi di due fonti di fede, di due
trasmissioni della fede materialmente diverse, una chiamata Scrittura, e l'altra
tradizione». (K. RAHNER, Sacra Scrittura e Tradizione, in «Nuovi Saggi I», Ed.
Paoline, Roma 1968, p. 197).

(24) J. ALFARO, Cristologia e Antropologia, Cittadella Ed., Assisi 1973, p. 12


ss.

(25) JUAN ALFARO S. I., teologo spagnolo, professore nella Pontificia


Università Gregoriana a Roma, membro della Commissione Teologica
Internazionale.

(26) J. ALFARO, Cristologia e Antropologia, Cittadella Ed., Assisi 1973, p. 12


ss.

(27) Concilio Vaticano II, Cost. "Dei Verbum", n. 10.

(28) Concilio Vaticano II, Cost. "Dei Verbum", n. 10.

(29) Concilio Vaticano II, Cost. "Dei Verbum", n. 8.

(30) Concilio Vaticano II, Cost. "Dei Verbum", n. 9.

(31) Concilio Vaticano II, Cost. "Dei Verbum", n. 24.

(32) S. S. Paolo VI, Discorso del 19-1-1972

(33) OSCAR CULLMANN, nato nel 1902, professore a Basilea, alla Sorbona, e
nella Facoltà Libera di Teologia Protestante a Parigi.

(34) OSCAR CULLMANN, Gravité de la crise actuelle et ses remèdes,


Comunicazione al Colloquio Europeo di Strasburgo 1971, pubblicata nell'opera
collettiva «Fidélité et Ouverture», Ed. Mame, 1972, pp. 79-80.

(35) HENRI DE LUBAC S. I., nato nel 1896, professore nella Facoltà teologica
di Lyon-Fourvière e nell'Istituto Cattolico di Parigi, perito al Concilio Vaticano
II, membro della Commissione Teologica Internazionale.

(36) H. DE LUBAC, «Surnaturel», Etudes historiques. Ed. du Seuil, Paris 1946.

(37) H. DE LUBAC, Catholicisme, les aspects sociaux du dogme. Ed. du Cerf,


Paris 1938; 4a ed. 1947.

(38) MARIE-JOSEPH LAGRANGE O.P. (1855-1938), professore di esegesi


nell'Istituto Cattolico di Toulouse e fondatore dell’"Ecole Biblique de
Jérusalem".

(39) H. DE LUBAC, Catholicisme, ed. cit. pp. 295-296


(40) M. J. LAGRANGE, l'Epitre aux Galates, Lecoffre ed., Paris 1918, p. 14.

(41) H. DE LUBAC, Le Mystère du Surnaturel, Aubier, Paris 1965; Ed. italiana,


Il Mistero del Soprannaturale, Il Mulino ed., Bologna 1967.

(42) cf. Denz. 3891.

(43) Il Mistero del Soprannaturale, p. 76.

(44) «Ut quid in vanum bane materiam in tot sermones prorumpimus, et


frustra tot eloquia multiplieamus et in tantam verborum multitudinem
jacimus?». (Il Mistero del Soprannaturale, p. 308).

(45) Il Mistero del Soprannaturale, p. 308, citazione d'Egidio Romano.

(46) Il Mistero del Soprannaturale, p. 308

(47) Il Mistero del Soprannaturale, p. 80.

(48) Il Mistero del Soprannaturale, p. 80.

(49) Il Mistero del Soprannaturale, p. 82.

(50) Il Mistero del Soprannaturale, p. 82 nota. 4.

(51) Il Mistero del Soprannaturale, p. 306.

(52) Il Mistero del Soprannaturale, p. 307.

(53) HANS KUNG, sacerdote, nato nel 1928, perito al Concilio Vaticano II,
professore nella Facoltà di Teologia Cattolica dell'Università di Tubinga
(Germania) dal 1960 fino a dicembre 1979, e direttore dell'Istituto di Teologia
Ecumenica nella medesima università.

(54) «Nella più recente teologia cattolica è stato Karl Rahner, qui come altrove
e con esemplare coraggio intellettuale e vigorosa forza di pensiero, ad aprire
nuovi orizzonti ed a porre la cristologia classica a confronto con il pensiero
moderno. Lo spirito insigne che aleggia nello sfondo di questo
approfondimento, svolto con rigore concettuale, della cristologia classica
(calcedonese-scolastica), e fin nella sua più profonda concettualità, altri non è
che Hegel (non sono assenti comunque influssi heideggeriani). Gli sporadici
tentativi di distanziarsi, in affermazioni secondarie, da Hegel non fanno che
sottolineare questo fatto. Rahner si propone. di chiarire teologicamente,
seguendo la sua impostazione trascendentale, le condizioni della possibilità di
un'incarnazione». (H. KUNG, Incarnazione di Dio, Queriniana, Brescia 1972,
pp. 643-644).
(55) K. RAHNER, Rapporto tra Natura e Grazia, in «Saggi di antropologia
soprannaturale», Ed. Paoline, Roma 1969, pp. 53-54.

(56) Rapporto tra Natura e Grazia, in «Saggi di antropologia soprannaturale»,


pp. 60-61.

(57) Rapporto tra Natura e Grazia, in «Saggi di antropologia soprannaturale»,


pp. 72-73.

(58) Rapporto tra Natura e Grazia, in «Saggi di antropologia soprannaturale»,


p. 63.

(59) Rapporto tra Natura e Grazia, in «Saggi di antropologia soprannaturale»,


p. 68 & nota.

(60) Secondo Rahner, si può distinguere nell'essenza dell'uomo, «concreta e


sempre indissolubile, ciò che è questa capacità, reale e indebita, di ricevere la
grazia, che chiamiamo esistenziale soprannaturale, e ciò che resta, quando si
sottrae questo intimo nucleo dal complesso della sua essenza concreta, dalla
sua 'natura'» (Rapporto tra Natura e Grazia, in «Saggi di antropologia
soprannaturale», pp. 69-70).

(61) Rapporto tra Natura e Grazia, in «Saggi di antropologia soprannaturale»,


p. 72.

(62) Natura e Grazia, in «Saggi di antropologia soprannaturale», p. 109.

(63) Natura e Grazia, in «Saggi di antropologia soprannaturale», p. 110.

(64) Natura e Grazia, in «Saggi di antropologia soprannaturale», p. 112.

(65) Natura e Grazia, in «Saggi di antropologia soprannaturale», p. 118.

(66) Natura e Grazia, in «Saggi di antropologia soprannaturale», p. 120.

(67) K. RAHNER, Teologia dell'incarnazione, in «Saggi di Cristologia e di


Mariologia»,Ed. Paoline, 2a ed., Roma 1967, p. 113.

(68) K. RAHNER, Problemi della cristologia d'oggi», in «Saggi di Cristologia e di


Mariologia», Ed. Paoline, 2a ed., Roma 1967, p. 75.

(69) K. RAHNER, Teologia dell'incarnazione, in «Saggi di Cristologia e di


Mariologia», ed. cit. p. 114.

(70) Teologia dell'incarnazione, in «Saggi di Cristologia e di Mariologia», p.


115.

(71) La traduzione francese invece di "chi" riporta "ciò che".


(72) La traduzione francese invece di "nel senso più radicale" riporta
"veramente".

(73) La traduzione francese invece di "ad annientarsi" riporta "a spogliarsi di


sé",

(74) Problemi della cristologia d'oggi, ed. cit., p. 41.

(75) K. RAHNER, Considerazioni dogmatiche sulla scienza e autocoscienza di


Cristo, in «Saggi di Cristologia e di Mariologia», ed. cit., p. 224.

(76) K. RAHNER, Lexikon fur Theologie und Kirche, V, 956; trad. ital. di Franca
Janowski in «Incarnazione di Dio» di Hans Kung; Queriniana, Brescia 1972, p.
644.

(77) K. RAHNER, Teologia e antropologia, in «Nuovi Saggi 111», Ed. Paoline,


Roma 1969, p. 58.

(78) K. RAHNER, Teologia dell'incarnazione, in «Saggi di Cristologia e di


Mariologia», p. 119.

(79) Teologia dell'incarnazione, in «Saggi di Cristologia e di Mariologia», pp.


119-120.

(80) Teologia dell'incarnazione, in «Saggi di Cristologia e di Mariologia», pp.


119-120.

(81) K. RAHNER, «L'Immacolata Concezione» e «Il dogma dell'immacolata e la


nostra pietà», in «Saggi di Cristologia e di Mariologia», Ed. Paoline, 2a ed.,
Roma 1967, p. 413 e seg.

(82) K. RAHNER, Maria, Meditazioni, Herder-Morcelliana, Brescia 1970, 3a ed.,


(1a ed., 1968).

(83) Maria, Meditazioni, p. 50. (84) Cf. Denz. 1641.

(85) Concilio Vaticano II, Decr. "Apostolicam Actuositatem", n. 7.

(86) Concilio Vaticano II, Costit. «Lumen Gentium», cap. 8, n. 56 e 59.

(87) JACQUES MARITAIN (1882-1973), convertito al cattolicesimo nel 1906,


professore di filosofia a Parigi, a Toronto (Canada) e Princeton (Stati Uniti).

(88) J. MARITAIN, Umanesimo Integrale, Borla Ed., Bologna 1962, 5a ed.


1973, p. 303.

(89) J. MARITAIN, Primauté du Spirituel, Plan, Paris 1927, p. 17.

(90) Umanesimo Integrale, p. 167.


(91) Umanesimo Integrale, p. 208.

(92) J. MARITAIN, Le Paysan de la Garonne, Desclée de Brouwer ed., Paris


1965, pp. 81-82.

(93) J. MARITAIN, Neuf Leçons sur les notions premières de la philosophie


morale, Téqui, Paris 1964, 1a ed. 1951, p. 103.

(94) GUSTAVO GUTIERREZ, sacerdote, nato nel 1928, professore di teologia


nell'Università di Lima (Perù) e nell'Istituto di Pastorale di Medellin (Colombia).

(95) G. GUTIERREZ, Teologia della liberazione, Queriniana, Brescia 1972, 2a


ed. 1973, p. 61, e nota.

(96) Giac. 1, 18.

(97) Gal. 6, 15.

(98) 2Cor 5, 17.

(99) 2 Pietro 3, 13.

(100) MARTIN HEIDEGGER (1889-1976), filosofo tedesco, professore alla


università di Marburgo, poi successore alla cattedra di Husserl all'università di
Friburgo im Breisgau.

(101) MARTIN HEIDEGGER, Essere e tempo - Sein und Zeit, 3a edizione,


Longanesi & Co, Milano 1976, p. 206.

(102) MARTIN HEIDEGGER, Essere e tempo, p. 544.

(103) MARTIN HEIDEGGER, Essere e tempo, p. 548.

(104) MARTIN HEIDEGGER, Essere e tempo, p. 22.

(105) MARTIN HEIDEGGER, Essere e tempo, p. 544.

(106) ERODOTO, 2, 118.

(107) PLATONE, Fedone 96 a.

(108) ARISTOTELE, Sulle parti degli animali 3,14.

(109) DEMOSTENE, 275, 27.

(110) ERODOTO, 1, 1.

(111) ARISTOTELE, Retorica 1, 4, 13.

(112) PLUTARCO, Pericle 13.


(113) C'è il verbo «istoreo, ***» che significa cercare di sapere: ERODOTO, 1,
61; SOFOCLE, Trachinie v. 418. Cercare qualcuno esaminare o interrogare su
qualcuno: ERODOTO, 2, 113; EURIPIDE, Ione v. 1547; PLUTARCO, Teseo 30;
POLIBIO, 3, 48, 12. Per estensione, significa anche sapere - conoscere -
narrare verbalmente o per iscritto quel che si sa: ARISTOTELE, Sulle piante 1,
3, 13; TEOFRASTO, Storia delle piante 4, 13, 1; PLUTARCO, Moralia 30 d;
LUCIANO, Sul modo di scrivere la storia 7.

- C'è la parola «istor, ***» dalla quale, secondo il parere degli specialisti della
lingua greca, si sono formati il verbo «istoreo» e la parola «storia, ***».
Significava colui che sa - colui che è competente - colui che conosce qualcosa o
qualcuno.

- Tutte queste parole «istor, istoreo, istoria» si ricollegano al verbo «ido - ida,
***», che significa vedere con i propri occhi: OMERO, Iliade I, 587; EURIPIDE,
Oreste v. 1020; PLATONE, Repubblica 620 a. Osservare - esaminare: OMERO,
Iliade 2, 274 - 3, 364. Rappresentarsi con il pensiero - raffigurarsi nella mente:
OMERO, Iliade 21, 61; PLATONE, Repubblica 510 e. Apparire - sembrare -
rendersi simile: OMERO, Iliade 2, 791- 20, 80; ERODOTO, 6, 69 - 7,56. Essere
istruito intorno a: OMERO, Iliade 17,219; PLATONE, Apologia di Socrate 21 d.

(114) WILHELM DILTHEY (1833-1911), filosofo tedesco, professore di filosofia


a Berlino.

(115) Il traduttore francese ha tradotto l'espressione «das historische


Bewusstsein» con «il sentimento della storia», mentre la parola «Bewusstsein»
designa in particolar modo «la coscienza psicologica», e non soltanto «il
sentimento».

(116) WILHELM DILTHEY: Discours du 70ème anniversaire, in Le monde de


l'esprit, éd. Aubier, Paris 1947, t. I, p. 13.

(117) MARTIN HEIDEGGER, Essere e tempo, p. 475.

(118) Mysterium salutis, Queriniana, Brescia 1967-1978. (119) R.P. JOHANNES


FEINER e DOM MAGNUS LOHRER.

(120) HANS-GEORG GADAMER, nato nel 1900, professore di filosofia,


successore di Jaspers all'università di Heidelberg nel 1949.

(121) Lessico dei Teologi del secolo XX: "Mysterium salutis", Supplemento (vol.
12), Queriniana, Brescia 1978, introduzione p. XIII.

(122) KARL RAHNER, Sulla storicità della teologia, in "Nuovi Saggi III", ed.
Paoline, Roma 1969, pp. 109-110.
(123) RUDOLF BULTMANN (1884-1976), professore di esegesi del Nuovo
Testamento a Marburgo.

(124) Weltanschauung: Visione del mondo.

(125) RUDOLF BULTMANN, Riflessioni sul tema: Storia e tradizione, estratto da


"Weltbewohner und Wéimaraner", Zurich 1961, pubblicato in "Credere e
comprendere", Queriniana, Brescia 1977, p. 939.

(126) GERHARD KRUGER, nato nel 1902, professore di filosofia a Heidelberg.

(127) RUDOLF BULTMANN, Storia e tradizione, in "Credere e comprendere",


Brescia 1977, p. 941.

(128) RUDOLF BULTMANN, Storia e tradizione, in "Credere e comprendere", p.


943.

(129) JURGEN MOLTMANN, nato nel 1926, professore di teologia a Tubingen.

(130) JURGEN MOLTMANN, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1971,


3a edizione, p. 237.

(131) JURGEN MOLTMANN, Teologia della speranza, p. 239.

(132) KARL RAHNER, Motivazione della fede oggi, in Teologia dall'esperienza


dello spirito: "Nuovi Saggi VI", ed. Paoline, Roma 1978, pp. 26-27.

(133) KARL RAHNER, Motivazione della fede oggi, p. 27

(134) KARL RAHNER, Motivazione della fede oggi, pp. 30-31

(135) È Heidegger che ha voluto specificare la differenza tra «analisi


esistentiva» e «analisi esistenziale». Si può riassumere pressappoco così:
«Esistentivo» (existentiell) corrisponde, secondo il pensiero di Jaspers, alla
domanda: «che cosa è essere uomo?» e «Esistenziale» (existentiale) concerne
l'essere in generale al di là dell'essere umano preciso. Essere e tempo, p. 29.

(136) KARL RAHNER, Semplice chiarimento al riguardo della propria opera, in


Teologia dall'esperienza dello spirito, "Nuovi Saggi VI", ed. Paoline, Roma
1978, pp. 738-739.

(137) «Si dovessero suscitare tutte le indignazioni e urtare tutti i pregiudizi,


bisogna dirlo, perché è la verità: essere di più, è innanzitutto sapere di più. Più
possente di tutti gli smacchi e di tutti i ragionamenti, portiamo in noi l'istinto
che, per essere fedeli all'esistenza, bisogna sapere, sapere sempre di più, e
quindi cercare, cercare sempre di più, non sappiamo esattamente cosa, ma
Qualcosa che, certamente, un giorno o l'altro, per coloro che avranno sondato
il Reale fino alla fine, apparirà». (PIERRE TEILHARD DE CHARDIN, L'Avenir de
l'Homme, Ed. du Seuil, Paris 1959, pp. 31-32).

- «La natura non ha imposto alcun termine al perfezionamento delle facoltà


umane; là perfettibilità dell'uomo è realmente indefinita; i progressi di questa
perfettibilità, ormai indipendenti da ogni potenza che vorrebbe fermarli, non
hanno altro termine se non la durata del globo dove la natura li ha gettati.
Senza dubbio, tali progressi possono seguire un cammino più o meno rapido;
ma non sarà mai retrogrado - Tutto ci dice che ci avviciniamo all'epoca di una
tra le più grandi rivoluzioni della specie umana ... Lo stato attuale delle
illuminazioni ci garantisce che sarà felice». (ANTOINE DE CONDORCET,
Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humain, riportato da
JACQUES CHEVALIER, Histoire de la pensée, vol. 3, p. 469. Antoine de
Condorcet si avvelenò sotto il Terrore per sfuggire al patibolo).

(138) AUGUSTE COMTE, (i798-1857). È molto rivelatore e istruttivo leggere


tali righe di colui che è considerato come fondatore del positivismo. Dichiara
nella Prefazione del suo "Cours" (Corso) (56a lezione) che non ha mai letto
Vico, né Kant, né Herder, né Hegel, cosa che, aggiunge, ha «molto contribuito
alla purezza e all'armonia della mia filosofia sociale. Ma poiché tale filosofia è
stata infine irrevocabilmente instaurata, mi propongo d'imparare
prossimamente, a mio modo, la lingua tedesca, per meglio apprezzare le
necessarie relazioni della mia nuova unità mentale con gli sforzi sistematici
delle principali scuole germaniche». Citato da J. CHEVALIER, Histoire de la
pensée, éd. Flammation, Paris 1966, t. IV, p. 308, n. 1.

(139) F. H. JACOBI (1743-1819) filosofo tedesco, contrario all'illuminismo.

(140) Dizionario dei Filosofi, ed. Sansoni, Firenze 1976, p. 623, col. 2.

(141) La penetrazione di Aristotele in Occidente è considerata sempre come un


fatto che non si può descrivere storicamente, con precisione, in tutti i suoi
dettagli. Certo stabilire esattamente chi ha avuto l'idea delle prime traduzioni,
quando, come e perché, esse siano state fatte, e stabilire con esattezza tutta la
successione delle traduzioni e delle influenze in seno alla cristianità del XII e
XIII secolo, non è una cosa possibile. Sebbene Boezio avesse dal VI secolo
iniziato una traduzione delle opere di Aristotele, è ben più tardi, nel XII secolo,
che sono state fatte le traduzioni delle principali opere che hanno diffuso
l'empirismo naturalista tipico di Aristotele negli ambienti cristiani. In tal modo,
per mezzo di Abelardo e poi di San Tommaso d'Aquino, Aristotele e il pensiero
scientifico sono stati impiegati nell'argomentazione gnoseologica della teologia
della Scuola. Una cosa è certa: indipendentemente dall'uso da parte di San
Tommaso dei fondamenti della logica di Aristotele, l'occidente cristiano è stato
fortemente scosso - poco a poco, ma scosso - dal peculiare naturalismo di
Aristotele. Cfr. FERDINAND VAN STEENBERGHEN, "La Filosofia nel XIII secolo",
Vita e Pensiero, Milano 1972, Pp. 58 e seguenti, e MAURICE DE WULF "Histoire
de la philosophie médiévale", Institut de philosophie, Louvain 1924, t. I. p. 66
e seguenti e p. 147 e seguenti.

(142) IMMANUEL KANT (1724-1804), professore di filosofia a Kònigsberg per


tutta la vita.

(143) J. G. HAMANN (1730-1788), filosofo tedesco contrario all'illuminismo.


Amico di Herder. (144) G. G. HERDER (1744-1803), filosofo tedesco, da molti
considerato come il fondatore della filosofia della storia, criticò l'illuminismo.

(145) «Una filosofia odierna e quindi anche la teologia non può e non deve
permettersi di rimanere indietro nei confronti della rivoluzione antropologico-
trascendentale operata dalla filosofia moderna a partire da Cartesio, Kant,
attraverso l'idealismo tedesco (ivi comprese le correnti di opposizione) sino alla
fenomenologia, alla filosofia esistenziali sta e all'ontologia fondamentale
d'oggi». (KARL RAHNER, Teologia e antropologia, in "Nuovi Saggi III'', Ed.
Paoline, Roma 1969, p. 61).

(146) EDWARD SCHILLEBEECKX, O.P. nato nel 1914, Maestro in teologia,


professore di teologia dogmatica all'Università di Nimega, esperto al Concilio
Vaticano II, direttore della sezione dogmatica della rivista internazionale
"Concilium", da lui fondata con Karl Rahner nel 1963.

- «Non abbiamo avuto mai un'espressione «totalmente» uniforme e


metastorica della fede; non abbiamo mai avuto un'espressione che non fosse
storica. La fede bisogna ripensarla sempre nelle circostanze moderne... »
(EDWARD SCHILLEBEECKX, in La fede nel pluralismo della cultura, Cittadella,
Assisi 1979, p. 254).

- «Questo contatto nella fede con la realtà della salvezza - Dio, il Cristo - è
sempre differentemente «situato», secondo le circostanze terrene. Ecco
un'affermazione centrale in tutta la teologia di Schillebeeckx, tale da
giustificare il suo progetto di re interpretazione della fede». (PAUL BOURGY, in
Bilancio della teologia del XX secolo, Città Nuova, Roma 1972, vol. 4, p. 259).

(147) «Una cristologia futura dovrebbe esaminare le obiezioni fondamentali,


qui soltanto accennate - senza prevenzioni dogmatiche In breve: perché non
dovrebbe essere possibile una cristologia, non evoluta speculativamente o
dogmaticamente dall'alto, ma storicamente dal basso?» (HANS KONG,
Incarnazione di Dio, Queriniana, Brescia 1972, pp. 560-561).

(148) MARTIN LUTHER (1483-1546) ebbe una rilevantissima influenza sulla


filosofia tedesca e ha facilitato lo slittamento verso lo storicismo, nell'ambiente
cristiano.
(149) GIAMBA TTISTA VICO (1668-1744), filosofo italiano, considerato come il
precursore della «filosofia della storia».

(150) FAUSTO NICOLINI, Introduzione a: GIAMBATTISTA VICO, La Scienza


nuova, Laterza, Bari, 1967, p. XXI

(151) F. AMERIO in Dizionario dei Filosofi, Sansoni, Firenze 1976, p. 1229, col.
2.

(152) BENEDETTO CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, Laterza, 1973, p.


286.

(153) «'La Scienza nuova', opera frondosa ma grandiosa di un uomo che la


malattia, il dubbio, sorto da una lettura di Lucrezio, l'angoscia e la nativa
fierezza appartarono dalle scuole - opera strabiliante che sorprende, sconcerta
ma avvince con il suo geniale disordine, con un'incommensurabile profondità,
accompagnata da un difetto di penetrazione, con quella specie d’incompletezza
e di oscurità, tipiche del creatore incapace di ladroneggiare e di esprimere le
idee». (JACQUES CHEVALIER, Histoire de la pensée, Flammarion, Paris 1961, t.
III, p. 473).

- «La scienza è la creazione dell'umanità dall'umanità registrata a sua volta


dall'umanità. Non si accettava il ramoscello d'oro che (Vico) riportava.
Possiamo in tal modo sentire ancora nella «Scienza nuova» le grida di
un'anima indignata. La passione cerca di sollevare frasi troppo cariche di
pensiero perché prendano agevolmente il volo. - Vico, ostinato, si ripete;
impaziente, va troppo presto, esponendo i risultati, mentre si trova ancora ai
primi principi; ha l'ebrezza del nuovo, dell'audace del paradossale, del vero».
(PAUL HAZARD, La Crise de la conscience européenne, Fayard, Paris 1961, pp.
387-388).

(154) GIAMBATTISTA VICO, La Scienza nuova, n. 331.

(155) GIAMBATTISTA VICO, La Scienza nuova, n. 331.

(156) GIAMBATTISTA VICO, La Scienza nuova, n. 332.

(157) BENEDETTO CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, p. 290. - BREHIER,


Histoire de la Philosophie, Paris 1942, t. II, p. 367.

(158) GIUSEPPE FLORES D'ARCAIS, La Pedagogia di Vico, La Scuola, Brescia


1962, introduzione p. XV.

(159) GIAMBATTISTA VICO, La Pedagogia, a cura di Giuseppe Flores d'Arcais,


p. XVIII.

(160) GIAMBAITISTA VICO, La Pedagogia, p. XIX.


(161) Cfr. Dizionario dei filosofi, Sansoni, Firenze 1976, p. 396, col. 2.

(162) GIAMBAITISTA VICO, La Pedagogia, p. XII-XIII.

(163) GOETHE, Faust I, vv. 1224-1237, ed. Mondadori, Milano 1976, 3a ed., p.
95.

(164) GIAMBATTISTA VICO, La Scienza nuova, n. 349.

(165) NICOLA ABBAGNANO, Storia della filosofia, Utet, Torino 1969, vol. II, p.
316.

(166) Da qualunque punto di vista si voglia comprendere o interpretare le


asserzioni di Vico sul timore dei tuoni da parte degli «uomini primitivi» (dei
bestioni) e sul ratto delle donne nelle grotte, non si può affatto parlare di
pudore. Basta riferirsi a "La Scienza nuova", n. 1098 e n. 1099.

(167) BENEDETTO CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, p. 286.

(168) GIAMBATTISTA VICO, La Pedagogia, p. LI.

(169) GIAMBATTISTA VICO, La Scienza nuova, n. 1097.

(170) GIAMBATTISTA VICO, La Scienza nuova, n. 1098.

(171) EMILE BREHIER, Histoire de la Philosophie, P.U.F., Paris 1942, t. II, p.


367.

(172) È molto significativo il fatto dell'impossibilità di stabilire un criterio di


valutazione a proposito della storia delle nazioni; sia a proposito del rapporto
degli uomini primitivi, i «bestioni», con le forze superiori o piuttosto con il
timore delle forze superiori, sia a proposito della formazione e dell'evoluzione
della parola e delle lingue, il senso di alto e basso è polivalente e arbitrario.

(173) GIAMBATTISTA VICO, La Scienza nuova, n. 1108.

(174) GIAMBATTISTA VICO, La Pedagogia, p. XXIX.

(175) Cfr. HANS URS VON BALTHASAR, "Il tutto nel frammento - Per una
teologia della Storia", Jaca book, Milano 1972, p. 98.

(176) Riportate da PIERSANDRO VANZAN, in Lessico dei Teologi del Secolo XX,
p. XIII.

(177) KARL RAHNER, Teologia pratica e attività sociale della Chiesa, in "Nuovi
Saggi III", p. 768.

(178) KARL RAHNER, Riflessioni teologiche sulla secolarizzazione, in "Nuovi


Saggi III'', pp. 744-745.
(179) Gaudium et spes, n. 36

(180) Gaudium et spes, n. 37

(181) HANS-JOACHIM KRAUS, L'Antico Testamento nella ricerca storico-critica


dalla Riforma ad oggi, Il Mulino, Bologna 1975, p. 183.

(182) HANS-JOACHlM KRAUS, nato nel1918, professore di teologia della


Riforma a Gottingen.

(183) HERMANN GUNKEL (1862-1932), professore di teologia e di esegesi


biblica a Halle.

(184) JULIUS WELLHAUSEN (1844-1918), professore di esegesi e di lingue


semitiche a Marburgo e Gottingen.

(185) HANS-JOACHIM KRAUS, L'Antico Testamento nella ricerca storicocritica


dalla riforma ad oggi, p. 195.

(186) FRANCO VENTURI, Introduzione a: Ancora una filosofia della storia per
l'educazione dell'umanità di JOHANN-GOTTFRIED HERDER, Einaudi, Torino
1971, p. XVI e p. XXVI.

(187) FRANCO VENTURI, Introduzione a: Ancora una filosofia della storia per
l'educazione dell'umanità di JOHANN-GOTTFRIED HERDER, p. XXVI.

(188) JOHANN-GOTTFRIED HERDER, Ancora una filosofia della storia per


l'educazione dell'umanità, p. 41.

(189) Matteo 18, 12.

(190) JOHANN-GOTTFRIED HERDER, Idee per la filosofia della storia


dell'umanità, Zanichelli, Bologna 1971, p. 204.

(191) JOHANN-GOTTFRIED HERDER, Idee per la filosofia della storia


dell'umanità, p. 211.

(192) JOHANN-GOTIFRIED HERDER, Idee per la filosofia della storia


dell'umanità, p. 156.

(193) JOHANN-GOTTFRIED HERDER, Ancora una filosofia della storia per


l'educazione dell'umanità, p. 30.

(194) JOHANN-GOTTFRIED HERDER, Ancora una filosofia della storia per


l'educazione dell'umanità, p. 125: San Paolo, 1Cor 12, 12-13.

(195) JOHANN-GOTTFRIED HERDER, Idee per la filosofia della storia


dell'umanità, p. 389.
(196) JOHANN-GOTTFRIED HERDER, Idee per la filosofia della storia
dell'umanità, p. 390.

(197) Cfr. JOHANN-GOTTFRIED HERDER, Idee per la filosofia della storia


dell'umanità, pp. 389-415.

(198) Si tratta del pope Bogomil, fondatore dei Bogomili in Bulgaria al X


secolo. Il bogomilismo è una setta implicata con l'origine del catarismo.

Cfr. Vacant, Dictionnaire de Théologie catholique, articolo "Bogomiles".

(199) Cfr. JOHANN-GOTTFRlED HERDER, Idee per la filosofia della storia


dell'umanità, pp. 414-415.

(200) JOHANN-GOTTFRIED HERDER, Idee per la filosofia della storia


dell'umanità, p. 390.

(201) JOHANN-GOTTFRIED HERDER, Idee per la filosofia della storia


dell'umanità, p. 415.

(202) Cfr. oltre p. 28l.

(203) JOHANN-GOTTFRIED HERDER, "Fragmente" 1,152, riportato da VALERIO


VERRA, Introduzione a: Idee per la filosofia della storia dell'umanità, p. 8.

(204) JACQUES CHEVALIER (1882-1962), filosofo francese, considerato da


molti come discepolo di Bergson.

(205) JACQUES CHEVALIER, Histoire de la pensée, Flammarion, Paris 1961, t.


III, pp. 448-470.

(206) JACQUES CHEVALIER, Histoire de la pensée, t. III, pp. 462-463.

(207) JACQUES CHEVALIER, Histoire de la pensée, t. III, pp. 463-464.

(208) PIERRE TEILHARD DE CHARDIN, S.J. (1881-1955), sacerdote,


paleontologo, scrittore, ispiratore e animatore di un movimento nella Chiesa
sulla base di una specifica visione evoluzionista.

(209) TEILHARD DE CHARDIN, Le Phénomène humain, éd. du Seuil, Paris


1955, pp. 236, 237, 257.

(210) TEILHARD DE CHARDIN, Le Phénomène humain, p. 272.

(211) JACQUES CHEVALIER, Histoire de la pensée, Flammarion, Paris 1956, t.


II, p. 115.

- ANTOINE COURNOT (1801-1877), matematico, economista e filosofo


francese.
- ANTOINE DE CONDORCET (1743-1794), matematico, filosofo del gruppo
degli «Enciclopedisti» e membro della Convenzione.

(212) JACQUES CHEVALIER, Histoire de la pensée, t. III, pp. 471-472.

Si veda sopra pp. 145-173.

(213) BLAISE PASCAL (1623-1662), matematico e geniale fisico francese che,


convertito alla Chiesa cattolica, cambiò radicalmente orientamento intellettuale
e spirituale, totalmente preso dal Mistero della Persona e della missione di
Cristo.

(214) BLAISE PASCAL, Préface sur le Traité du Vide, in Oeuvres complètes, éd.
du Seuil, Paris 1963, pp. 231-232.

(215) BLAISE PASCAL, Traité de l'équilibre des liqueurs et de la pesanteur de


la masse del’air, in Oeuvres complètes, p. 233.

(216) BLAISE PASCAL, Les Provinciales (Varie lettere concernenti la crisi


giansenista che ha messo il monastero di Port-Royal in contrasto con la
Gerarchia), Oeuvres complètes, p. 371.

(217) BLAISE PASCAL, Memoriale, in "Pensieri", ed. Paoline, Roma 1979, p.


126.

(218) BLAISE PASCAL, Pensieri, edizione Brunschvicg, n. 327.

(219) BLAISE PASCAL, Pensieri, edizione Brunschvicg, n. 4 e n. 79.

(220) BLAISE PASCAL, Pensieri, edizione Brunschvicg, n. 458 e n. 459.

(221) BLAISE PASCAL, Pensieri, edizione Brunschvicg, n. 425.

(222) BLAISE PASCAL, Lettre au grand mathématicien Fermat, in Oeuvres


complètes, p. 282.

(223) BLAISE PASCAL, Pensieri, edizione Brunschvicg, n. 553.

(224) JACQUES CHEVALIER, Histoire de la pensée, t. III, p. 463.

(225) Si veda pp. 191-193, Caratteristiche della mentalità storicista.

(226) R.P. A.-D. SERTILLANGES, Le Christianisme et les philosophies, 2 vol.,


Aubier, Paris 1941.

(227) R.P. A.-D. SERTILLANGES, Le Christianisme et les philosophies, t. II, p.


192.

(228) R.P. A.-D. SERTILLANGES, Le Christianisme et les philosophies, t. II, p.


194.
(229) IMMANUEL KANT, La religione entro i limiti della sola ragione, ed.
Laterza, Roma 1980, pp. 41, 45 e 46.

(230) R.P. A.-D. SERTILLANGES, Le Christianisme et les philosophies, t. II, p.


193.

(231) JACQUES CHEVALIER, Histoire de la pensée, t. III, p. 632.

(232) JACQUES CHEVALIER, Histoire de la pensée, t. III, p. 636.

(233) JACQUES CHEVALIER, Histoire de la pensée, t. III, p. 637.

(234) JACQUES CHEVALIER, Histoire de la pensée, t. III, p. 639.

(235) IMMANUEL KANT, Opus postumum, p. 60, citato da Joseph Maréchal, Le


point de départ de la métaphysique, Ed. universelle, Bruxelles 1947, t. IV, p.
295.

(236) IMMANUEL KANT, Idea di una storia universale dal punto di vista
cosmopolitico, in Scritti politici, Ed. UTET, Torino 1965, p. 125.

(237) IMMANUEL KANT, Idea di una storia universale dal punto di vista
cosmopolitico, in Scritti politici, p. 130.

(238) L'Arcadia è una regione del Peloponneso i cui abitanti erano pastori ed
essa rappresentava per i poeti dell'antichità, un luogo di felicità e d'innocenza
nella vita pastorale.

(239) IMMANUEL KANT, Idea di una storia universale dal punto di vista
cosmopolitico, in Scritti politici, pp. 127 e 128.

(240) IMMANUEL KANT, Idea di una storia universale dal punto di vista
cosmopolitico, in Scritti politici, pp. 134 e 136.

(241) IMMANUEL KANT, Recensione di: I. G. Herder, "Idee sulla filosofia della
storia dell'umanità", parte I e II, in Scritti politici, p. 174.

(242) IMMANUEL KANT, La religione entro i limiti della sola ragione, pp. 149 e
150.

(243) IMMANUEL KANT, La religione entro i limiti della sola ragione, p. 148.

(244) IMMANUEL KANT, Critique de la raison pure, éd. Flammarion, Paris


1929, t I, p. 345.

(245) IMMANUEL KANT, La religione entro i limiti della sola ragione, p. 193.

(246) Cfr. R.P. PIERRE CHARLES, S.I. professore a Lovanio, Dictionnaire de


Théologie catholique, éd. Letouzey, Paris 1925, articolo "Kant".
(247) GEORG-WILHELM-FRIEDRICH HEGEL (1770-1831) insegnò la filosofia a
Iena, Heidelberg e Berlino. - FRIEDRICH SCHLEIERMACHER (1768-1834),
teologo protestante e filosofo considerato come principale rappresentante del
romanticismo in Germania, che nega ogni realtà sacrale alla Chiesa; secondo
lui, la coscienza che il Cristo aveva della sua missione redentrice era la sola
testimonianza per la sua Divinità.

(248) JOSEPH MARECHAL (1878-1944), S.J., professore di storia della filosofia


a Lovanio.

(249) JOSEPH MARECHAL, Le point de départ de la métaphysique, t. IV, p.


293.

(250) IMMANUEL KANT, Opus postumum, citato da Joseph Maréchal, Le point


de départ de la métaphysique, t. IV, pp. 295, 296 e 297.

(251) IMMANUEL KANT, Opus postumum, citato da Joseph Maréchal, Le point


de départ de la métaphysique, t. IV, p. 299.

(252) G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, ed. Laterza, Roma 1974, t. I, p. 81

(253) G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, t. II, p. 163.

(254) Citato da Jacques Chevalier, Histoire de la pensée, t. IV, p. 17.

(255) EDMUND HUSSERL (1859-1938), filosofo tedesco, fondatore della scuola


fenomenologica.

(256) Logische Untersuchungen, 2 vol. Halle 1900-1901.

(257) Ideen zu einer reinen Phanomenologie und phanomenologischen


Philosophie, Halle, 1913.

(258) EDITH STEIN (1891-1942), nata a Breslau, di origine israelita, assistente


di Russerl, convertita alla Chiesa cattolica; arrestata con sua sorella pure
convertita, morta nella camera a gas ad Auschwitz.

(259) EDITH STEIN, citata da Sr. Theresia de Spiritu Sancto in Edith Stein,
London 1952, p. 34.

(260) Incontro del dicembre 1935 con Edith Stein, citato in Edith Stein, éd. du
Seuil, Paris 1954, p. 113.

(261) G.W.F. HEGEL, citato da Karl Lowith, Da Hegel a Nietzsche, ed. Einaudi,
Torino 1949, p. 324.

(262) a.W.F. HEGEL, citato da Karl Lowith, Da Hegel a Nietzsche, p. 325.

(263) WILHELM DILTHEY, Le monde de l’èsprit, t. II, p. 295.


(264) WILHELM DILTHEY, Le monde de l’èsprit, t. II, p. 291-292.

(265) WILHELM DILTHEY, Le monde de l’èsprit, t. II, p. 306.

(266) Cfr. KARL LOWITH, Da Hegel a Nietzsche, p. 482.

(267) Cfr. ERNEST RENAN (1823-1892), scrittore ed esegeta francese, che


confutò la divinità di Cristo: «Soprattutto io che devo alla Germania quello che
più mi è caro, la mia filosofia, direi quasi la mia religione». (Pages françaises,
5e éd., Paris 1921, p. 101).

- Cfr. CLAUDE TRESMONTANT, La crise moderniste, éd. du Seuil, Paris 1979,


pp. 268-269.

(268) Cfr. LUDWIG FEUERBACH (1804-1872, filosofo tedesco proveniente


dall'hegelismo): «Il compito dell'età moderna è stato quello di realizzare ed
umanizzare Dio, vale a dire di trasformare e risolvere la teologia in
antropologia. La forma religiosa o pratica di questa umanizzazione è stato il
protestantesimo». (Principi della filosofia dell'avvenire 1-2, Einaudi, Torino
1946, p. 71).

- Cfr. KARL BARTH (1886-1968), teologo protestante, professore a Basilea che


segnalava ai teologi del Concilio Vaticano II «il peiicolo che si potrebbe così
facilmente scivolare nella deprecabile ripetizione degli errori commessi dal
protestantesimo moderno». (Ad limina Apostolorum, 1967, p. 23, citato in
Bilancio della Teologia del XX secolo, ed. Città nuova, Roma 1972, vol. 4, p.
34.

- Cfr. H. ZAHRNT (nato nel 1915, teologo protestante, professore di teologia


pratica ad Amburgo): «Lutero, che l'abbia voluto o meno, ha spinto la porta
che apriva sull'epoca moderna». (Aux prises avec Dieu, éd. du Cerf, Paris
1969, p. 195).

(269) Cfr. DANIEL ROPS (1901-1965, scrittore cattolico francese, accademico):


«Emanuel Kant che, con la sua diffidenza della ragione è un po' un Lutero
laico, aveva nondimeno anch'egli 'ridotto la religione ai limiti della semplice
ragione'». (Storia della Chiesa del Cristo, ed. Marietti, Torino-Roma 1969, t.
VI-3, p. 246).

(270) HANs-JOACHIM KRAUS: L'Antico Testamento nella ricerca storicocritica


dalla Riforma ad oggi, p. 268.

- Cfr. A RIZZI: «Il momento in cui la questione ermeneutica assurge da


problema tecnico a problema filosofico è rappresentato dall'opera di
Schleiermacher. (I libri di Dio, ed. Marietti, Roma 1975, p. 275).
(271) Cfr. KARL LOWITH: «L'opera di Hegel non contiene soltanto una filosofia
della storia e una storia della filosofia; ma tutto il suo sistema è inoltre pensato
fondamentalmente sotto una prospettiva storica quanto nessun'altra filosofia
anteriore». (Da Hegel a Nietzsche, p.61).

(272) «La teologia è genuina e predicabile solo nella misura in cui riesce a
entrare in contatto con tutta l'auto-interpretazione profana che l'uomo
possiede in una determinata epoca, a entrare in dialogo con essa, ad
assimilarla e a lasciarsene fecondare per quanto riguarda il linguaggio, ma
ancor più per quanto riguarda la cosa stessa». (KARL RAHNER, Corso
fondamentale sulla fede, Ed. Paoline, Alba 1977, p. 25).

(273) Cfr. MARCEL NEUSCH: «L'ermeneutica prende oggi un nuovo slancio,


legato alla consapevolezza della dimensione collettiva dell'umanità. Con
Moltmann e le teologie politiche, una terza generazione di ermeneuti fa la sua
comparsa, che sposta l'accento dall'ortodossia all'ortoprassia, dal cristianesimo
come "dottrina" al cristianesimo come "prassi". - L'ermeneutica si prende come
incarico di liberare la Parola di Dio per renderle la sua efficacia nella Storia. -
Tali foraggi nel campo dell'ermeneutica lasciano il sentimento che il termine
prende un'estensione incontrollabile. Almeno vediamo che i problemi si sono
spostati: verità storica, significato esistenziale, autenticità sociale»! (Aù pays
de la théologie, éd. du Centurion, Paris 1979, pp. 133-134):

(274) Matteo 5, 37.

Marco 13, 31: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non
passeranno».

Tito 1, 1: «Per chiamare alla fede gli eletti di Dio e per far conoscere la verità».

(275) Kung, a proposito della nuova filosofia del linguaggio, si riferisce a M.


Heidegger, H.G. Gadamer, H. Lipps, B. Liebrucks, K. Jaspers, M. Merleau-
Ponty, L. Wittgenstein, G. Frege, Ch.W. Morris, H. Lefèbvre, N. Chomsky
(HANS KONG, L'infallibilità, ed. Mondadori, Milano 1977, p. 114).

(276) HANS KUNG, L'infallibilità, pp. 114-118.

(277) KARL RAHNER, Sacramentum Mundi, ed. Morcelliana, Brescia 1975, t. 4,


col. 485-491.

(278) KARL RAHNER, Sacramentum Mundi, t. 4, col. 485.

(279) KARL RAHNER, Sacramentum Mundi, t. 4, col. 485.

(280) KARL RAHNER, Sacramentum Mundi, t. 4, col. 194.

(281) KARL RAHNER, Sacramentum Mundi, t. 4 col. 492.


(282) KARL RAHNER, Sacramentum Mundi, t. 4, col. 173-174.

(283) KARL RAHNER, Sacramentum Mundi, t. 4, col. 171.

(284) KARL RAHNER, Sacramentum Mundi, t. 4, col. 191.

(285) KARL RAHNER, Sacramentum Mundi, t. 4, col. 492.

(286) Nella sua "Enciclopedia" c'è l'articolo sulla Rivoluzione, sulla Rivoluzione
francese, sul Turismo, sulla Psicologia del profondo, sulla Psico-igiene, sulla
Psicoanalisi, e altri articoli i cui nomi, per rispetto alla Santissima Vergine, non
sonò qui nominati, ma non c'è un articolo sull'Annunciazione, né
sull'Immacolata Concezione, due dogmi della Chiesa.

(287) KARL RAHNER, Sacramentum Mundi, t. 4, col. 484.

(288) Auto-trascendimento: parola coniata dal traduttore per esprimere la


nozione di una trascendenza che si compirebbe progressivamente (?).

(289) KARL RAHNER, Sacramentum Mundi, t. 4, col. 498.

(290) KARL RAHNER, Sacramentum Mundi, t. 4, col. 273.

(291) Cfr. RUDOLF STEINER (1861-1925, fondatore della società teosofico-


cristiana antroposofica), De Jésus au Christ, éd. La Science spirituelle, Paris
1947; e MAx HEINDEL, Cosmologie des Rose-Croix, éd. Paul Leymarie, Paris
1947.

(292) Cfr. HANS KUNG, Essere cristiani, ed. Mondadori, Milano 1976, p. 197.

(293) Cfr. HANS KUNG, Essere cristiani, pp. 510, 511 e 388.

(294) HANS KUNG, Dio esiste?, ed. Mondadori, Milano 1979, p. 763.

(295) HANS KUNG, Dio esiste?, p. 763.

(296) HANS KUNG, Essere cristiani, p. 440.

(297) HANS KUNG, Dio esiste?, p. 764.

(298) HANS KUNG, Incarnazione di Dio, ed. Queriniana, Brescia 1972, p. 604.

(299) HANS KUNG, Essere cristiani, pp. 192-193.

(300) H.L. CHEVRILLON, Jamais homme n'a parlé comme cet homme, éd. St.
Paul, Paris 1975.

(301) 2Cor 12, 4


(302) JAMES M. ROBINSON nato nel 1924, professore di teologia e di esegesi
neotestamentaria alla Southern California School of Theology.

ERNST FUCHS, nato nel 1903, professore all'università di Marburg.

(303) JAMES M. ROBINSON e ERNST FUCHS, La nuova ermeneutica, ed.


Paideia, Brescia 1975, p. 9.

(304) 1Cor 12, 10.

(305) Atti 2,4: «Ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a
parlare in altre lingue come lo Spirito Santo dava loro il potere d'esprimersi».

(306) Atti 10, 46: «Li sentivano, infatti, parlare in lingue e glorificare Dio».

Atti 19,6: «Scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e


profetavano».

(307) Luca 1, 1-4.

(308) RUDOLF SCHNACKENBURG, sacerdote, nato nel 1914, professore


d'esegesi del Nuovo Testamento all'università di Wurzburg.

(309) RUDOLF SCHNACKENBURG, Mysterium salutis, t. 5, pp. 293-294.

(310) RUDOLF SCHNACKENBURG, Mysterium salutis, t. 5, p. 294.

(311) Matteo 14, 33.

(312) RUDOLF SCHNACKENBURG, Mysterium salutis, t. 5, p. 295.

(313) Marco 6, 52.

(314) Matteo 16, 17.

(315) Marco 8, 29.

(316) Cfr. RUDOLF SCHNACKENBURG, Mysterium salutis, t. 5, p. 294.

(317) Matteo 16, 13 e 15.

(318) Isaia 7, 14.

(319) MIGNE, Dictionnaire de la Bible, Paris 1846, t. l, col. SU.

(320) HURE, Dictionnaire universel de philologie sacrée, éd. Migne, Paris 1846,
col. 923.

(321) GIUSEPPE GIROTTI, O.P., Il vecchio testamento, ed. L.I.C.E., Torino


1942, t. VII, p. 211 e ss.
(322) ANGELO PENNA, Isaia in La Sacra Bibbia a cura di Mons. Salvatore
Garofalo, ed. Marietti, Torino-Roma 1964, p. 97.

(323) Dictionnaire de théologie catholique, articolo "Messi e", col. 1435.

(324) JOSEF SCHMID, L'Evangelo secondo Luca, ed. Morcelliana, Brescia 1965,
p. 65 e ss.

(325) JOSEF SCHMID, L'Evangelo secondo Luca, p. 65.

(326) HENRI CAZELLES, Introduction à la Bible, éd. Desclée, Paris 1973, t. 2,


p. 385.

(327) RAYMOND E. BROWN, JOSEF A. FITZMYER, ROLAND E. MURPHY, Grande


commentario biblico, (tradotto dall'inglese) ed. Queriniana, Brescia 1973, p.
349.

(328) Grande commentario biblico, p. 905.

(329) Mysterium salutis, t. 5, p. 153.

(330) Mysterium salutis, t. 5, p. 153, nota 28.

(331) D. GUTHRIE e J.A. MOTYER, Commentario biblico, ed. Voce della Bibbia,
Modena 1916, t. 3, p. 45.

(332) GERHARD KITTEL, Grande lessico del Nuovo Testamento, ed. Paideia,
Brescia 1974, t. IX, col. 752.

(333) RENRY G. LIDDELL e ROBERT SCOTT, Grand dictionnaire de la langue


grecque, 1948, alla parola «***».

(334) GERHARD KITTEL, Grande lessico del Nuovo Testamento, t. IX, col. 765.

(335) HUGO GRESSMANN (1877-1927), professore d'esegesi alle facoltà di


teologia protestante di Kiel e Berlino.

(336) A. FEUILLET, Etudes d'exégèse et de théologie biblique. Ancien


Testament, éd. Gabalda, Paris 1975, pp. 231-232.

(337) Dictionnaire de la Bible, éd. Migne, t. I, col. 311.

(338) Bibbia di Gerusalemme, ed. Dehoniane, Bologna 1977, p. 1566.

(339) JOSEF SCHMID, L’Evangelo secondo Luca, p. 65

(340) JEAN ASTRUC (1684-1766), medico cardiologo di Luigi XIV, fu la prima


persona nota a sostenere l'esistenza di più fonti del Pentateuco. La sua opera è
considerata il punto di partenza degli attacchi contro l'autenticità del
Pentateuco.
(341) KARL RAHNER, Sacramentum mundi, t. 4, col. 194.

(342) E.R. BROWN, 1.A. MURPHY, Grande Commentario biblico, p. 1836, col.
2.

(343) XAVIER LEON-DUFOUR S.J. (nato nel 1912), Dizionario di Teologia


biblica, ed. Marietti, Torino 1971, col. 464-465.

(344) PIET SMULDERS S.J. (nato nel 1911, professore di dogmatica e di storia
della Chiesa alla Scuola Superiore di Teologia Cattolica di Amsterdam),
Mysterium salutis, t. 5, p. 493.

(345) PIET SMULDERS, Mysterium salutis, t. 5, p. 496.

(346) PIET SMULDERS, Mysterium salutis, t. 5, p. 595.

(347) PIET SMULDERS, Mysterium salutis, t. 5, p. 595.

(348) HANS KUNG, Incarnazione di Dio, p. 604.

(349) SMULDERS critica sant'Ireneo, perché ha condannato la «cristologia


dell'ascesa» degli ebioniti (Mysterium salutis, t. 5, p. 498).

(350) SANT'IRENEO, Contro le eresie, libro III, 21, 1-21, 3. (351) Cfr.
Mysterium salutis, pp. 298 e 313.

(352) MARTIN DIBELIUS (1883-1947), RUDOLF BULTMANN, KARL LUDWIG


SCHMIDT e GEORG BERTRAM, in alcune pubblicazioni tra il 1919 e il 1922,
ciascuno per conto suo ha presentato in Germania il «metodo della storia delle
forme».

(353) 2Pt. 3, 15-16.

(354) RUDOLF BULTMANN, citato da RUDOLF SCHNACKENBURG, Commentario


teologico del Nuovo Testamento - Il Vangelo di Giovanni, I parte, ed. Paideia,
Brescia 1973, p. 287.

(355) Cfr. RUDOLF SCHNACKENBURG, Commentario teologico del Nuovo


Testamento - Il Vangelo di Giovanni I Parte, p. 289.

(356) Parecchie di queste denominazioni, come parecchi altri appellativi che


sono ora impiegati a profusione possono avere un significato realmente
positivo. Spessissimo, però, quasi sempre attualmente, l'utilizzazione degli
appellativi e delle denominazioni ha come punto di partenza e come
orientamento una mentalità ed una volontà palesemente naturaliste ed
antisoprannaturali.

(357) KARL RAHNER, Sacramentum mundi, t. 8, col. 345.


(358) KARL RAHNER, Le vie future della teologia in Bilancio della teologia del
XX secolo, t. 3, pp. 577-579.

(359) KARL RAHNER, Il pluralismo teologico e l'unità della professione di fede


nella Chiesa, in "Nuovi Saggi IV", ed. Paoline, Roma 1973, p. 34.

(360) KARL RAHNER, Corso fondamentale sulla fede, ed. Paoline, Roma 1977,
p. 31.

(361) KARL RAHNER, Corso fondamentale sulla fede, pp. 31-32.

(362) KARL RAHNER, Corso fondamentale sulla fede, p. 32.

(363) E. SCHILLEBEECKX, Dio, il futuro dell'uomo, ed. Paoline, Roma 1970, pp.
132, 205, 219, 112.

(364) Col. 1,19-20.

(365) KARL RAHNER, Riflessioni teologiche sulla secolarizzazione, in "Nuovi


Saggi III", p. 73 L

(366) E. SCHILLEBEECKX, La presenza eucaristica, ed. Paoline, Roma 1969,


pp. 142 e 145.

(367) Tra i principali promotori di questa tendenza c'è Gustavo Gutierrez (cfr.
nota 94) e Johann-Baptist Metz, (nato nel 1928), discepolo di Rahner,
professore di teologia all'università di Munster.

(368) JURGEN MOLTMANN, Teologia della speranza, ed. Queriniana, Brescia


1970, p. 14.

(369) TERESIA RENATA DE SPIRITU SANCTO, Edith Stein, Morcelliana, Brescia


1952, p. 143.

(370) Gv 8, 32

(371) Mt 26, 39

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