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(EBOOK ITA) Card - Siri - Errori - Teologia - Contemporanea
(EBOOK ITA) Card - Siri - Errori - Teologia - Contemporanea
GETSEMANI
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SOMMARIO
CRITERI FONDAMENTALI
Considerazioni fondamentali
1 - P. Henri de Lubac
2 - P. Karl Rahner
3 - Jacques Maritain
"L'impalpabile"
La coscienza storica
Pietre miliari
La mistificazione kantiana
A proposito dell'ermeneutica
Disgregazione pluralistica
GETSEMANI
Getsemani
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CRITERI FONDAMENTALI
Considerazioni fondamentali
È più che mai necessario avere un'idea chiara, globale, ma al tempo stesso
precisa e con sfumature, di quello che si può chiamare «il movimento teologico
contemporaneo». Un riassunto oggettivo, concreto e accurato, che esprima la
realtà profonda, è tuttavia molto difficile, malgrado i numerosissimi scritti
consacrati ormai da parecchi anni a questo soggetto.
A volte si parla in modo da far pensare che c'è una differenza tra la Rivelazione
ed il contenuto della fede. (5) Ciò può avere senso solo quando si parla della
fede individuale in rapporto a quella della Chiesa che, come depositaria
universale e perenne, ha ricevuto la Rivelazione.
«La teologia non è altro che la fede nell'ordine concettuale: come ha detto
Agostino, è la «scientia, qua fides saluberrima nutritur, defenditur, roboratur
(De Trin. XIV, 1).»
È evidente che il Santo Padre parla della teologia come scienza della
Rivelazione, che è l'essenza della fede.
Talvolta però, si sente il bisogno di una visione più sviluppata, più dettagliata e
più chiarificatrice del concetto di teologia; perché le generalizzazioni e le grandi
formule sintetiche elevano e aiutano coloro che sono in armonia con il senso
interno, univalente ed insieme esteso e ricco di sfumature del vocabolario. Si è
ben lontani però, da questa intesa armoniosa ed universale. E ciò è tanto vero
che si cerca di «scoprire» o coniare un altro vocabolario ed anche un altro
linguaggio.
Non si deve confondere la nozione di univalenza con il senso che a volte viene
dato a quella di «univocità»; quest'ultima è utilizzata da alcuni autori, in
tutt'altro senso da quello di «univalenza». I termini del linguaggio possono
avere significati molto ricchi che involgono e sintetizzano molti altri termini.
Resta sempre però, il significato fondamentale, il valore unico che determina,
che gerarchizza e armonizza tutte le sfumature e tutte le accezioni secondarie.
Potrà sempre parlare di Dio e delle cose di Dio. Potrà avere qua e là qualche
momento di elevazione ed anche qualche luce di fronte a problemi difficili, ma
tutto ciò sarà sporadico, senza ordine, ed i riferimenti non saranno sempre
quelli immutabili della Rivelazione; non ci sarà la pace della verità e di
conseguenza la libertà che soltanto la verità eterna può dare.
Ora, secondo questa stessa logica concepiamo che Dio rivelando «ha calato»
cose divine nelle forme umane del pensiero umano. In questo senso, è
conveniente dire che Dio ha assunto il pensiero umano. Il che vuol dire che le
forme nelle quali si produce e si manifesta il pensiero umano sono ordinate al
reale oggettivo; sono forme assunte da Dio. Se Dio ha parlato agli uomini, il
pensiero dell'uomo deve corrispondere al reale. È per questo che la logica e il
pensiero dell'uomo sono connaturali all'intelligenza che nella carità realizza la
vera conoscenza di Dio.
Le realtà divine sono infinite e noi non possiamo raggiungere l'infinità del reale
divino. Per l'analogia abbiamo oggettivamente accesso alla verità divina,
perché come abbiamo detto, Dio «ha calato» nei concetti umani, nelle forme
del pensiero umano, la Sua Rivelazione.
Ora l'analogia è una realtà oggettiva perché fuori da ogni altra accezione del
termine, manifesta nella mente in modo funzionale i due ordini della realtà,
come la Rivelazione ce l'ha svelata: l'ordine detto «naturale» e l'ordine detto
«soprannaturale».
Si può fare riferimento alla comunione tra i due ordini, che si realizza nello
stato d'orazione e in quello d'estasi, stati in cui il pensiero sembra essere in
recettività passiva e riceve senza una specifica azione dell'anima le
comunicazioni e l'operazione di Dio. Ma anche nello stato di abbandono e di
adorazione, la comunione si realizza in seno al mistero della carità, nell'intimo
dell'intelletto; cioè nell'intimo dell'anima intelligente per mezzo di percezioni, di
nozioni o di immagini di un'estrema finezza, delicatezza e trasparenza, che non
si situano però al di fuori del carattere fondamentale dell'intelletto che è
analogico.
La natura umana riceve tutto ciò che può ricevere nella sua struttura
intelligente, a volte con una grandissima capacità di corrispondenza o
d'adattamento alla nozione, alla cosa, all'essere percepito e ricevuto; senza
che ci sia, a causa di questo, una trasmutazione dell'essenza della creatura
pensante. Lì agisce il principio dei limiti del suo ordine di creazione, limiti di
ordine che la purificazione perfetta e la beatitudine della visione di Dio non
annullano.
Si può fare ancora riferimento alla promessa e alla lunga nostalgia dell'uomo di
vedere l'essenza di Dio. Ora è certo, secondo molti testi della Scrittura (12),
che:
Tutte le parole della promessa circa la visione beatifica riguardano l'anima dei
beati dopo il pellegrinaggio terrestre. Non si può concepire per l'anima, finché
vive nello stato attuale, sulla terra, nella vita della carne mortale, la possibilità
di vedere l'essenza di Dio. (15)
E questo è il punto principale del discorso: l'anima umana quando sarà nella
beatitudine, vedrà l'essenza di Dio non per immagini create, ma per un
intervento di Dio che illumina l'intelligenza del beato. L'anima umana non può
vedere direttamente l'essenza di Dio sin da questa vita.
Quando San Giovanni dice che «nessuno ha mai visto Dio; Dio unigenito, che è
nel seno del Padre, egli stesso lo ha rivelato (spiegato) » (16), non dice,
parlando del Cristo, che soltanto lui, il Figlio, l'ha visto; dice che il Figlio che è
nel seno del Padre, l'ha rivelato. Ha rivelato con la Sua Persona il Padre, la Sua
propria Persona e lo Spirito Santo. Il Figlio-Dio ha rivelato la divinità della
Santissima Trinità. Ora il problema dell'intelligenza di Cristo, della visione della
divinità da parte di Gesù Cristo, è un problema ben al di sopra di quello della
visione dell'essenza di Dio da parte dei beati.
Se dunque si vuole violare questo limite di ordine di cui abbiamo parlato sopra,
si perde il fondamento interiore del linguaggio. Tutte le parole: «Dio»,
«Creazione», «finito» e «infinito», «unità» e «molteplicità», «tempo» e
«eternità», «immagine» e «senso», ecc. non possono più avere un senso
rispondente al reale, né un carattere universale, multiforme ma universale; il
linguaggio non ha più riferimento, e l'uomo cade in un soggettivismo assoluto,
che in fondo corrisponde ad una specie di nichilismo totale.
L'uomo, il pensiero umano può senza fine elevarsi verso una percezione più
immediata, più diretta delle realtà, divine ed eterne. Questo perfezionamento,
però, non può mai raggiungere per identità l'infinità di Dio di cui cogliamo il
mistero, potendolo vivere sempre più a seconda della pace acquisita e della
nostra nostalgia di pace e di amore eterno.
Così è per quanto concerne il pensiero umano; più oltre, sta l'immenso mistero
della potenza, della saggezza di Dio; il mistero immenso dell'Essere che è luce
increata e carità infinita. Per questo, San Tommaso dice giustamente:
«Se colui che vede Dio concepisce di Lui qualcosa nel suo pensiero, questo non
è Dio stesso, ma semplicemente un effetto divino». (17)
***
Spesso si vedono persone, anche molto dotate, prese dalla vertigine della
«ricerca perpetua», che sentono sempre meno il bisogno di stabilità, il bisogno
di punti di riferimento immutabili, come le parole, i vocaboli e le formule
consacrate dalla Rivelazione nella vita profonda della Chiesa.
Se dunque qualcuno chiede: «qual' è il criterio teologico per cui posso dire che
'il Verbo s'è fatto uomo'?», la risposta semplice a questa domanda non viene
ormai facilmente allo spirito di molti; ma debbo potergli dire, con la certezza e
la gioia di trasmettere una risposta garantita da Dio, una parola «generata»
dalla Rivelazione in seno alla Chiesa: puoi dire che 'il Verbo si è fatto uomo',
perché ciò è consegnato e formulato nel Simbolo della fede: «et incarnatus est
de Spiritu Sancto». Ecco amico, l'essenza del tuo criterio teologico.
«La sacra Tradizione e la sacra Scrittura sono dunque strettamente tra loro
congiunte e comunicanti. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina
sorgente, esse formano in certo qual modo una cosa sola e tendono allo stesso
fine. Infatti la sacra Scrittura è parola di Dio in quanto è messa per iscritto
sotto l'ispirazione dello Spirito divino; la parola di Dio affidata da Cristo Signore
e dallo Spirito Santo agli Apostoli, viene trasmessa integralmente dalla sacra
Tradizione ai loro successori, affinché questi, illuminati dallo Spirito di verità,
con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la
diffondano; accade così che la Chiesa attinge la sua certezza su tutte le cose
rivelate non dalla sola sacra Scrittura. Perciò l'una e l'altra devono essere
accettate e venerate con pari sentimento di pietà e rispetto». (18)
Certamente, nessuno contesta che per arrivare agli scritti del Nuovo
Testamento, ci sia stata una trasmissione orale e di vita, dal Cristo e dalla
Pentecoste fino ai Vangeli e alle Lettere degli Apostoli, ma si contesta che la
Tradizione, dopo gli scritti del Nuovo Testamento, abbia conservato il suo
carattere e la sua natura di fonte originaria della Rivelazione. Mentre la
Tradizione e la Sacra Scrittura non sono due vie di trasmissione impiegate
indifferentemente dal Signore.
Queste due vie, le due fonti, per mezzo delle quali la Rivelazione è compiuta e
si trasmette fino alla fine dei tempi, corrispondono alla realtà più profonda
della natura umana. L'uomo vive con il suo apporto interiore sia come persona
sola e sia come unito e vivente con gli altri; vive in seno ad un universo ove
ogni essere ed ogni esistenza è al tempo stesso segno e linguaggio. Dall'inizio
è entrato nella storia per la parola di Dio, vive in una perenne interdipendenza
tra il suo apporto interiore e il segno delle cose. Da questa realtà intrinseca
dell'uomo dipendono la necessità e il mistero delle due vie per mezzo delle
quali Dio si è rivelato e la Rivelazione resta vivente.
L'uomo non può avere l'intelligenza, sia del linguaggio della natura, sia della
parola degli uomini, sia della parola ispirata se non in relazione alla parola che
porta in sé sin dall'origine, e che si trasmette e si arricchisce. Con il Cristo,
questa parola d'origine è la Rivelazione compiuta. La presenza di Cristo e la
sua parola costituisce la rivelazione ricevuta dagli Apostoli, trasformati
fondamentalmente da essa. Gli Apostoli hanno trasmesso la Rivelazione, non
come una lezione appresa che può essere dimenticata ma come un apporto
vivente; l'hanno trasmessa a loro volta come presenza e parola inalterabile che
sviluppava la Chiesa. Questa stessa verità fu consegnata per ispirazione divina
nello Scritto, e questo Scritto sarebbe lettera muta senza l'apporto della verità
che l'uomo della Chiesa porta vivente in sé.
Molti leggendo queste righe potrebbero restare perplessi davanti alla fallibilità
degli uomini, davanti a tante inadeguatezze ed errori, davanti alle persone che
hanno ed hanno avuto fra loro, in tutta la storia della Chiesa, una grande
diversità di opinioni sui problemi fondamentali, e che, malgrado questo, per
funzione e per legame sacrale con il Cristo, costituiscono il Magistero della
Chiesa.
Non sono le scosse, più o meno violente e profonde, nel corpo dei successori
degli Apostoli che potranno prevalere su questa garanzia di verità, che Cristo
ha dato alla Chiesa.
Non si può dire: «se e nella misura in cui la tradizione è testimonianza della
coscienza di fede della Chiesa e della dottrina del Magistero». Cosa significa
«se e nella misura»? Nella Chiesa non si può parlare di una tradizione che,
secondo una più o meno grande probabilità, sarebbe testimonianza della
«coscienza» di fede della Chiesa, perché la Tradizione è una norma autentica
per la vita dottrinale e la pietà della Chiesa intera; e in questo senso, è anche
una norma autentica per spiegare la Scrittura.
Innanzi tutto, quali cose sono materialmente diverse? Sono diversi i mezzi
delle due trasmissioni, o è diverso il contenuto? Chi ha mai sostenuto che la
Sacra Scrittura e la Tradizione trasmettono una fede diversa, per poter dire
che «l'unità dell'oggetto della fede» è in pericolo per questa differenza
materiale di trasmissione? Come può l'unità di un fiore essere in pericolo
quando è ricevuto nell'intelligenza simultaneamente per mezzo della vista,
dell'odorato, e del tatto? Affacciare tali proposizioni è veramente perdere il
contatto con la realtà della Rivelazione e della vita intima della Chiesa.
A volte, con estrema sagacità di analisi, hanno creduto di vedere nei testi del
Concilio Vaticano II una volontà di mostrare una «supremazia della sacra
Scrittura» (24) sulla Tradizione. Ciò però non corrisponde affatto né allo spirito
né alla lettera dei testi del Concilio, molto chiari e molto espliciti a proposito
della Rivelazione. Il P. J. Alfaro (25), per esempio, sostiene che il Concilio ha
dichiarato che solo la Sacra Scrittura è parola di Dio (locutio Dei), mentre la
Tradizione è semplicemente trasmissione della parola di Dio (26); e per
sostenere questa accezione, si riferisce ad alcuni brani come il seguente della
Costituzione del Concilio sulla Rivelazione:
«Il Magistero non è superiore alla parola di Dio, ma ad essa serve, insegnando
soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con
l'assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e
fedelmente espone quella parola». (27)
- «Gli apostoli perciò, trasmettendo ciò che essi stessi avevano ricevuto,
ammoniscono i fedeli di attenersi alle tradizioni che avevano appreso sia a voce
che per lettera». (29)
- «La Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola
Scrittura. Perciò l'una e l'altra devono essere accettate con pari sentimento di
pietà e riverenza». (30)
Dopo tali enunciati, non c’è posto per speculazioni che mettano in dubbio
l’uguaglianza e l'unità delle due fonti della Rivelazione.
Se dunque in altri testi del Magistero, come per esempio nel decreto del
Concilio Vaticano II sulla formazione sacerdotale, si trova un'insistenza sulla
necessità di studiare e di servirsi della Scrittura per la teologia e per la
formazione spirituale, ci si deve rallegrare perché la parola di Dio è esaltata,
ma occorre sempre avere nella mente e nel cuore la verità totale, come fu
portata e vissuta nella Chiesa, espressa numerosissime volte nella lunga storia
della Chiesa, e come è manifestata nell'insieme dei testi del Concilio
riguardante la Rivelazione o la teologia:
«La sacra teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio
scritta, insieme con la sacra Tradizione». (31)
C'è, però, una verità consolante: anche se qualcuno nega una verità come
quella delle due fonti che manifestano la rivelazione della Sorgente unica, ciò
non significa che questo uomo non subisce, positivamente o negativamente, la
verità giunta a lui per mezzo dell'immutabile unità della Tradizione e della
Sacra Scrittura. È come un uomo che nega o odia Dio: nondimeno, egli vive
grazie alla Saggezza, all'Onnipotenza e Bontà di Dio.
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Infatti solo e sempre alla luce dei principi fondamentali della Rivelazione, si
possono cogliere i motivi reali e le cause profonde che legano il passato alle
nuove manifestazioni. Senza questo, e al di fuori di questa luce, non si
potranno mai discernere le vere cause dalle apparenze.
Va qui confessato con molta semplicità e chiarezza che una parte, grande o
piccola, delle opere presentate come teologiche, è sprovvista di vero criterio
teologico, e quindi i giudizi, i pareri, i postulati sono senza conseguenza, senza
reale legame logico, dunque senza verità.
In ogni caso, in seno alla corrente che tende all'affrancamento totale, appaiono
simultaneamente: una ripresa pura e semplice del razionalismo protestante del
secolo scorso, ed una rottura con ogni barriera di ordine teologico ed anche
filosofico. E questa rottura, questa volontà di affrancamento totale si verifica
sia tra i teologi protestanti sia in seno alla Chiesa Cattolica.
Ora, prima di ogni altra manifestazione, si delinea una mentalità che esprime
un ritorno all'eresia pelagiana. Circa quindici secoli fa, Pelagio con il suo
discepolo Celestius, ha messo alla prova la Chiesa. All'inizio il Papa Innocenzo
I, detto «Il Grande», non si era accorto del pericolo. I vescovi orientali si
avvidero della pericolosa eresia, e riunendosi in Concilio, la condannarono; e
solo allora Roma se ne rese conto, e Pelagio fu di nuovo condannato.
Seguirono poi le differenti prese di posizione, soprattutto nei due Concili
provinciali di Cartagine - che da un certo punto di vista hanno valore di Concili
generali; a seguito di essi ci fu la condanna promossa dal Concilio d'Orange.
Dopo quindici secoli, durante i quali qua e là, l'uno o l'altro errore di Pelagio si
manifestava esplicitamente o implicitamente nella vita dottrinale della Chiesa,
assistiamo ad una apparizione, sottile ed evidente insieme, della dottrina,
secondo cui non esiste peccato originale, secondo cui l'uomo può vivere senza
peccato con le proprie forze e senza l'aiuto della grazia. È noto che Pelagio e i
Pelagiani hanno voluto far dipendere ad ogni costo la salvezza dell'uomo da lui
stesso, e per le stesse ragioni hanno considerato la grazia - questa grazia
costretti a riconoscere - come dipendente dai meriti dell'uomo. Si sa fino a qual
punto la difesa e il culto di una falsa concezione della libertà umana hanno
condotto Pelagio e i suoi seguaci ad un errore capitale, ad un oscurantismo e
ad una deformazione degli scritti dei Padri.
«Noi possiamo allora comprendere perché la Chiesa cattolica, ieri e oggi, dia
tanta importanza alla rigorosa conservazione della Rivelazione autentica, e la
consideri come tesoro inviolabile, e abbia una coscienza così severa del suo
fondamentale dovere di difendere e di trasmettere in termini inequivocabili la
dottrina della fede». (32)
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Questi punti di riferimento possono essere uomini, fatti isolati, o le forze e gli
orientamenti intimi dei movimenti di massa. Si ha bisogno di tali riferimenti per
discernere e constatare il fondamento delle manifestazioni di un determinato
tempo e il loro vero orientamento. La moltitudine di aspetti, di punti di
partenza, di indagini, di speculazioni e di sistemi, nella storia del pensiero e dei
fatti, non cambia per niente questa verità: ci sono principi fondamentali,
sgorgati dalla Rivelazione e su di essa fondati, che permettono di trovare
sempre, in mezzo ad ogni confusione e ad ogni disordine, la via dell'oggettività
santa.
1 - P. Henri de Lubac
Questa visione della realtà intima ed essenziale dell'uomo era diffusa negli
scritti anteriori del P. de Lubac. Ci sono brani, per esempio nel suo libro
«Cattolicesimo» (37), di cui non si può veramente comprendere il tenore, né
l'insistenza con la quale sono messe in rilievo alcune espressioni bibliche, se
non nello spirito della dottrina più tardi espressa nel «Soprannaturale».
Si resta colpiti dall'insistenza con la quale l'autore vuole dare un significato
particolare all'espressione di San Paolo «rivelare in me il Figlio suo», significato
che sembra andare oltre alla spiegazione ammessa da tutti gli esegeti che
hanno interpretato la parola «in me» (***), esattamente come il Padre M. J.
Lagrange (38).
«Paolo ha pronunciato una tra le parole più nuove e più ricche di significato che
mai siano state pronunciate da uomo, il giorno in cui, costretto a presentare la
propria apologia ai suoi cari Galati per ricondurli sulla retta via, dettò queste
parole: «Ma quando piacque a colui che sin dal seno di mia madre, mi
prescelse e mi chiamò mediante la sua grazia, di rivelare in me il Figlio suo... »
(Gal. 1, 15-16). Non soltanto - qualunque sia il prodigio esteriore di cui gli Atti
degli Apostoli ci hanno trasmesso il racconto - rivelarmi suo Figlio,
mostrarmelo in una visione qualunque o farmelo comprendere oggettivamente,
ma rivelarlo in me. Rivelando il Padre ed essendo rivelato da lui, il Cristo
finisce di rivelare l'uomo a se stesso. Prendendo possesso dell'uomo,
afferrandolo e penetrando fino in fondo al suo essere, spinge anche lui a
discendere in sé per scoprirvi bruscamente regioni fino allora insospettabili. Per
Cristo la persona è adulta, l'Uomo emerge definitivamente dall'universo». (39)
Il Padre de Lubac dice che il Cristo rivelando il Padre e rivelato da Lui, finisce di
rivelare l'uomo a sé stesso. Quale può essere il significato di questa
affermazione? O Cristo è unicamente uomo, o l'uomo è divino. Tali conclusioni
possono non essere espresse così nettamente, tuttavia determinano sempre
questa nozione del soprannaturale in quanto implicato nella natura umana di
per sé. E quindi, senza volerlo coscientemente, si apre il cammino
dell'antropocentrismo fondamentale.
Nessun sillogismo, sottile e complicato che sia, può colmare la differenza tra la
nozione dell'infinito che l'uomo può avere in lui e la realtà infinita di Dio,
positiva, presunta, sentita e nello stesso tempo inaccessibile; la differenza tra
l'aspirazione verso l'infinito e questo stesso Infinito così come l'uomo lo
concepisce. Certamente si può affermare che l'aspirazione dell'uomo verso
l'eternità esprime la finalità eterna dell'anima creata, la possibilità per l'uomo
di partecipare, nella grazia, a mille illuminazioni della Vita eterna, ma non si
può dire che questa nostalgia implichi che l'uomo esista sin dall'eternità e che
possa possedere la pienezza eterna di Dio. Allo stesso modo, la nozione
dell'infinito, l'aspirazione verso l'infinito esprimono la possibilità per l'uomo di
entrare in contatto continuo con l'infinità di Dio. Non si può dire, però, che
questa aspirazione dell'uomo verso l'infinito significhi che l'uomo possa
partecipare per identità all'infinità divina. In questa aspirazione dell'uomo
verso l'infinito sono sempre presenti la nozione e la certezza dei nostri limiti. Il
nostro cammino può essere interminabile, ma la stessa essenza del nostro
cammino verso l'infinito manifesta la differenza tra la nostra nozione, la nostra
partecipazione e l'Infinito Divino.
Nel suo nuovo libro «Il Mistero del Soprannaturale», il Padre de Lubac spiega
alcune insufficienze d'espressione del suo primo libro «Il Soprannaturale», ma
sostiene sempre la stessa tesi e vuole soltanto evitare nuovi malintesi. (43)
«Ecco forse, continua de Lubac, quello che più d'un lettore avrà potuto dire,
scorrendo questo lavoro. Ecco, ad ogni modo, quello che l'autore non ha potuto
mancare di domandarsi assai spesso, al seguito d'un discepolo medievale di
Sant'Agostino e di San Tommaso che un giorno s'interrogava in tal modo,
precisamente a proposito del nostro argomento». (45)
Questa risposta del P. de Lubac rivela i suoi criteri riguardo alle vie della
conoscenza ed anche il suo atteggiamento intellettuale riguardo al grande
problema dei rapporti tra l'uomo e Dio. Questo spiega l'impossibilità di trovare
per questa via l'equilibrio di cui abbiamo parlato ed una conoscenza che, in
armonia con la Rivelazione, con la miseria e la profonda aspirazione dell'uomo,
dia pace. I nostri criteri riguardo alle vie della conoscenza sono veri ed
oggettivi quando scaturiscono e sono in armonia stabile, chiara e immediata
con i grandi dati eterni della Rivelazione.
Per rendersi conto dell'orientamento generale del pensiero e del linguaggio del
P. de Lubac e del suo ruolo nella nuova teologia contemporanea, ed anche per
rendersi conto di come resti l'antinomia, di cui abbiamo parlato, basta riferirsi
ad alcune formule e ad alcune affermazioni fondamentali del «Mistero del
Soprannaturale»:
«Il 'desiderio di vedere Dio' non potrebbe essere eternamente frustrato senza
una sofferenza essenziale». (47)
«In altri termini: il vero problema, se ce n'è uno, si pone per l'essere, la cui
finalità è 'già', se si può dire, tutta soprannaturale, poiché tale è, in effetti, il
nostro caso. Si pone per la creatura per la quale la 'visione di Dio' imprime non
soltanto un fine possibile, o futuribile - persino il fine che conviene di più - ma
il fine che, a giudicare umanamente, sembra dover essere, poiché è, per
ipotesi, il fine che Dio assegna a questa creatura. Dal momento che io esisto,
ogni indeterminazione è tolta. E qualunque cosa sarebbe potuto essere prima,
o qualunque cosa esso sarebbe potuto essere in un'esistenza realizzata in
modo diverso, nessun'altra finalità sembra ormai per me possibile che quella
che si trova ora, di fatto, iscritta nel fondo della mia natura. Esiste un solo fine
di cui, per conseguenza, porto in me, consapevole o no, il 'desiderio naturale'».
(49)
«Il nostro Dio è 'un Dio che sorpassa ogni capacità di desiderio' (Ruysbroeck).
È un Dio, nei confronti del quale sarebbe blasfemo e folle supporre che alcuna
esigenza di qualsiasi ordine possa mai imporglisi, qualunque sia l'ipotesi nella
quale uno voglia porsi in spirito, e qualunque sia la situazione concreta nella
quale si possa immaginare la creatura». (51)
«Dio avrebbe potuto rifiutarsi alla sua creatura proprio come Egli ha potuto e
voluto donarsi. La gratuità dell'ordine soprannaturale è particolare e totale. Lo
è in se stessa. Lo è per ciascuno di noi. Lo è in 'rapporto a ciò che per noi,
temporalmente e logicamente, lo precede. Anzi - ed è questo che alcune
teorie, che noi abbiamo discusso, non ci è sembrato lascino vedere abbastanza
- questa gratuità è sempre intatta. Lo resta in ogni ipotesi. È sempre nuova.
Resta in tutte le tappe della preparazione del Dono, in tutte le tappe del Dono
stesso. Nessuna «disposizione», nella creatura potrà mai, in nessuna maniera,
legare il Creatore. Constatiamo qui con gioia l'accordo sostanziale non soltanto
di sant'Agostino, di san Tommaso e degli altri antichi, ma anche di san
Tommaso e dei suoi commentatori, a cominciare dal Gaetano; come anche di
teologi che, nel nostro stesso secolo, divergono più o meno nei loro tentativi di
spiegazione. Come il dono soprannaturale mai in noi è naturalizzabile, mai la
beatitudine soprannaturale può divenir per noi - qualunque sia la nostra
condizione reale o semplicemente pensabile - una meta 'necessaria ed
esigibile'». (52)
Il P. de Lubac ripete che Dio poteva non crearmi. Ha però voluto crearmi.
Allora ci si può chiedere: una volta che mi ha creato, come posso dire che non
è impegnato, sin dalla mia creazione, a darmi la gioia di vederlo, poiché il
desiderio naturale assoluto di vederlo, l'ha messo egli stesso al centro del mio
essere col suo atto creativo?
Se ammetto che con il suo atto creativo Dio è impegnato e non può rifiutarmi il
mio compimento, cioè la gioia di vederlo, come potrei dire che «la gratuità
dell'ordine soprannaturale è particolare e totale; lo è in se stessa, lo è per
ciascuno di noi»? Si potrebbe anche pretendere che la gratuità dell'ordine
soprannaturale è la gratuità della creazione, cioè ammettere l'identità
dell'ordine naturale e soprannaturale; questo però il P. de Lubac non vuole
ammetterlo. Accetta che ci sia la grazia della creazione e che a parte ci sia la
grazia della chiamata soprannaturale.
Come possiamo dire che «nessuna disposizione nella creatura potrà mai in
nessuna maniera legare il Creatore», e nello stesso tempo dire che «la
vocazione di Dio è costitutiva»? Tale «disposizione», infatti, il Creatore l'ha
imposta alla creatura. Come dunque proporre che «la propria disposizione di
Dio non lo lega in nessuna maniera»? Quale idea potremmo avere allora del
Creatore e della sua suprema libertà?
Le stesse idee ritornano in molti trattati. È necessario subito notare che negli
scritti di Karl Rahner da un lato il principio dialettica hegeliano è flagrante -
come l'attesta lo stesso Hans Kung (53), discepolo in contestato di Karl Rahner
(54) - e dall'altro lo stesso procedimento rende molto fluido ed inafferrabile il
cardine del pensiero. Ci si trova, infatti, dinanzi ad un'antitesi che egli cerca di
risolvere optando per l'uno dei termini, cosa che annulla automaticamente il
procedimento dialettico. Questa osservazione è fatta qui unicamente per
spiegare le contraddizioni della sua posizione nei confronti delle tesi del P. de
Lubac. Ed anche per aiutare a cogliere il suo fondamentale accordo con il P. de
Lubac.
«Questa ordinazione intima dell'uomo alla grazia è tale un costitutivo della sua
'natura', che questa non si potrebbe pensare senza di quella, cioè come natura
pura? Sarebbe irrealizzabile il concetto di natura pura? Questo è il punto in cui
dobbiamo apertamente rigettare la concezione ritenuta come quella fatta
propria dalla 'nouvelle théologie'. La 'Humani Generis'... dà a tal proposito un
insegnamento inequivocabile». (55).
«Dalla più intima essenza della grazia segue piuttosto l'impossibilità di una
disposizione alla grazia, che appartenga alla natura dell'uomo, o segue che tale
disposizione, nel caso che sia necessaria, appartenga già a questo stesso
ordine del soprannaturale. Non segue però che essa come naturale lascerebbe
sussistere la gratuità della grazia». (56)
In seguito Rahner non solo accetta ciò che qui rifiuta, ma lo propone con
accezioni molto più forti. Quando per esempio dice che si può accettare
tranquillamente il concetto di «potentia oboedientialis» che de Lubac rifiuta, dà
l'impressione di voler presentare un concetto più tradizionale.
Già nello stesso paragrafo Rahner dice che l'apertura della natura
all'«esistenziale soprannaturale» è un'«ordinazione intima». Ed aggiunge -
cosa che confonde nuovamente la chiarezza del pensiero - «purché non sia
incondizionata». In questa dichiarazione c'è una contraddizione fondamentale,
perché se l'apertura a questo esistenziale soprannaturale è un'ordinazione
intima, questa apertura è universale e costituisce una condizione fondamentale
della natura umana; dire che questa apertura al soprannaturale, che è già
un'ordinazione intima, non è incondizionata, non aggiunge nessuna chiarezza.
Rahner però, continua e con formule molto precise prova che il suo pensiero
non solo è quello della «nuova teologia», ma che lo supera. Riferendosi ad un
articolo che espone i principi della «nuova teologia», Karl Rahner dice che
parlare di «un dinamismo illimitato» della natura che «include obiettivamente
nella sua essenza il soprannaturale come fine intrinseco necessario», non
costituisce una «minaccia immediata alla soprannaturalità e gratuità di questo
fine». (58) E precisamente dichiara:
Sullo stesso argomento ritorna con un vocabolario sempre più esplicito e con
espressioni che, se si accettassero come postulati, condurrebbero ad un
capovolgimento di tutti i fondamenti della teologia:
«La natura effettiva non è mai una 'pura' natura, bensì una natura nell'ordine
soprannaturale, dal quale l'uomo (anche come incredulo e peccatore) non può
uscire». (64)
«Si può addirittura tentare di vedere la unio hypostatica nella linea di questo
perfezionamento assoluto di ciò che è l'uomo» (66)?
Non si può comprenderla altrimenti da ciò che essa dice; dire infatti che
occorre vedere l'unione ipostatica nella linea di questo perfezionamento è dire
che l'unione ipostatica è il perfezionamento dell'uomo. La sfumatura
dell'espressione «vedere nella linea del perfezionamento» è un mitigare
linguistico della cruda affermazione che il perfezionamento dell'uomo realizza
l'unione ipostatica.
Ora è chiaro che Dio e l'uomo hanno la stessa essenza, e che noi, secondo Karl
Rahner, la chiamiamo semplicemente «natura umana».
«Si potrebbe definire l'uomo come ciò che sorge allorché l'auto-espressione di
Dio, la sua Parola, viene lanciata per amore nel vuoto del nulla senza Dio… Se
Dio vuol essere non-Dio, sorge l'uomo, proprio lui e null'altro, potremmo dire».
(69)
»Di Dio che noi professiamo in Cristo bisogna dire che egli è precisamente
dove noi siamo e solo lì lo possiamo trovare». (70)
Ed ecco come Rahner, con termini più precisi, parla dell'unione ipostatica:
«Il compito imposto alla teologia dalla formula di Calcedonia e da essa non
ancora assolto, è proprio quello di spiegare, senza evidentemente eliminare il
mistero, perché e in qual modo chi (71) si spoglia di sé non solo rimane ciò che
era, ma per di più, confermato definitivamente e perfettamente nel suo stato,
diventa nel senso più radicale (72) quel che è: una realtà umana.
Non c'è dubbio che Rahner qui altera radicalmente il pensiero e la fede della
Chiesa a proposito del mistero dell'incarnazione del Verbo di Dio in Gesù Cristo
come è espresso nel Vangelo e dalla Tradizione:
«Se l'essenza dell'uomo in generale viene compresa, in questo senso
ontologico-esistenziale, come l'aperta ... trascendenza all'essere assoluto di
Dio, allora l'incarnazione può apparire come l'adempimento assolutamente
sublime (anche se completamente libero, indebito ed unico) di ciò che 'uomo'
in generale significa». (76)
«Una soddisfacente definizione della grazia, se non vuole fatalmente cadere nel
vuoto verbalismo, nella mitologia, nell'affermazione gratuita, potrà solamente
partire dal soggetto, dalla sua trascendentalità e dalla sua esperienza di un
orientamento necessario verso la realtà della verità assoluta e dell'amore che
ha acquistato validità assoluta». (77)
Ancora una volta Rahner conclude che la grazia è il compimento della nostra
essenza. Partendo da una visione delle cose che, si voglia o no, rifiuta 'de
facto' la vera gratuità dell'ordine soprannaturale, arriva a mettere Cristo e Dio
nelle cose:
«Dio e la grazia di Cristo sono in tutto, quale segreta essenza di ogni realtà».
(78)
Come dobbiamo comprendere i testi più espliciti dello stesso Concilio, che
chiama la Madre di Dio «la tutta Santa, immune da ogni macchia di peccato,
dallo Spirito Santo quasi plasmata e formata come una nuova creatura» e
dichiarandola «Immacolata Vergine, preservata immune da ogni macchia di
colpa originale» (86)?
Non è in queste pagine che si deve parlare della luminosa e profonda realtà
dell'Immacolata Concezione. L'unica intenzione è stata quella di illustrare
mediante un soggetto che concerne l'insieme della salvezza e l'eterna verità, la
contraddizione e gli errori fondamentali ai quali si giunge a partire di un
concetto iniziale errato e da un atteggiamento intellettuale assai temerario
verso le cose di Dio.
Un filosofo che nello stesso periodo, cioè sin dagli anni '30, ha molto
influenzato la formazione delle tendenze contemporanee, sia filosofiche che
teologiche, è Jacques Maritain. (87) In tutto il suo pensiero, non solo non ha
cercato di assimilare l'ordine naturale all'ordine soprannaturale, ma al
contrario, li ha separati in modo tale da riconoscere nella creazione e nella
storia umana due vocazioni distinte, legate certamente da un principio di
subordinazione, ma essenzialmente autonome, con fine e mezzi propri: la
vocazione e la missione terrestre, e la vocazione soprannaturale.
Già nel 1927, nel suo libro «Primauté du Spirituel», afferma in molti modi
che:
«Ognuno di noi appartiene a due città, una città terrestre che ha come fine
il bene comune temporale e la città universale della Chiesa che ha per fine la
vita eterna».
Verso il declino della sua vita, con i suoi due libri: «Le Paysan de la Garonne»
(1966) e «De l'Eglise du Christ» (1970), Maritain ha voluto presentare la
grande crisi dottrinale e morale del mondo e della Chiesa. Ha voluto anche
denunciare gli «abusi» di certi concetti, di certe dottrine e formule come per
esempio l'espressione «personalista e comunitario» utilizzata da Emmanuel
Mounier, il fondatore della rivista «Esprit»:
«Il filosofo terrà conto degli apporti della scienza teologica, senza cessare per
questo d'essere filosofo (se veramente è filosofo, allora lo sarà più che mai)
richiedendo però a fonti d'informazioni degne di fede il supplemento
d'informazione di cui ha bisogno». (93)
Ecco per ora le parole di Gutierrez: «I gravi problemi che la nuova situazione
storica pone alla Chiesa a partire dal secolo XVI e che si acutizzano con la
rivoluzione francese, danno origine ad un'altra prospettiva pastorale e ad
un'altra mentalità teologica, che, grazie a Maritain, riceveranno il nome di
«nuova cristianità». La troviamo esposta, con tutta la chiarezza voluta, nella
sua opera conosciuta 'Humanisme Intégral'. Essa cercherà di far tesoro delle
lezioni venute dalla rottura fra fede e vita sociale, intimamente legate in
un'epoca di cristianità, ma con categorie che non riusciranno a liberarsi
completamente, e lo notiamo meglio ora, dalla mentalità tradizionale ...
Tommaso d'Aquino, sostenendo che la grazia non sopprime la natura né la
sostituisce ma la perfeziona, apre la strada per un'azione politica più autonoma
e disinteressata. Su questa base, Maritain elabora una filosofia politica che
cerca pure di fare propri alcuni elementi moderni. Il pensiero di Maritain ebbe
molta influenza su certi settori cristiani dell'America Latina». (95)
_________________
«L’Impalpabile»
Ora, è bene rammentare a proposito dei rapporti tra l'ordine naturale e l'ordine
soprannaturale:
Non c'è problema, astratto che sia, che possa essere discusso o trattato
nell'ambito della Chiesa senza avere ripercussione diretta o indiretta sulla
formazione del pensiero, della morale e della pietà. Ci sono problemi che
restano sempre con un grande alone d'impalpabile, e che sono tuttavia
fondamento di conoscenza santa, luminosa e apportatrice di pace.
Che l'uomo sia creato in stato di grazia, che sia destinato ad un fine
soprannaturale, che ci sia una disposizione naturale della creatura al
soprannaturale fa parte dell'insegnamento fondamentale della Chiesa,
insegnamento fondato sulla rivelazione.
Non è detto, però, che questo fine soprannaturale sia questa stessa
disposizione della natura al soprannaturale, né che questo fine soprannaturale
sia totalmente presente, sia come conoscenza cosciente, sia come «desiderio
naturale assoluto» della visione beatifica, nella creatura sin dal momento della
sua creazione.
Quando per esempio San Giacomo dice nella sua Epistola che Dio «ci generò
per sua volontà per mezzo di una parola di verità, affinché noi fossimo come le
primizie delle sue creature» (96), quando San Paolo dice: «Poiché l'essere o il
non essere circonciso non conta nulla; conta solo l'essere una nuova creatura»
(97), e «se uno è in Cristo è una nuova creazione, ciò che era antico è
passato: ecco, il nuovo è sorto» (98); quando San Pietro dice: «noi aspettiamo
nuovi cieli e nuova terra» (99); ed in generale quando la Sacra Scrittura parla
di rinnovamento e di nuova creazione, ci rivela un nuovo avvenimento non solo
morale, ma che comporta ripercussioni ontologiche nell'uomo. Se si vuole
restare fedeli al messaggio evangelico, non si può architettare dottrine e
postulati con intellezioni forzate, che - direttamente o indirettamente -
sopprimono questa nuova creatura, questo «nuovo» apportato dalla grazia di
Cristo nell'uomo attuale storico, nell'uomo «in breve».
Il fatto che una creatura spirituale sia creata per un fine al di sopra della sua
creazione, non significa che la pienezza di questa finalità sia posta nella
creatura come parte costitutiva al momento della creazione. Tutti i dati rivelati
e tutta l'esperienza dell'uomo affermano il contrario: è il Creatore che porta in
lui la pienezza della finalità. Dio, Creatore insondabile, manifestatosi
gratuitamente all'uomo, contiene Egli stesso il mistero dell'ultima finalità, la
svela e l'imprime nella creatura, quando l'ha già chiamata e secondo il grado
della sua risposta; e segue di tappa in tappa, grazia dopo grazia, il cammino di
perfezione e di elevazione della natura, verso il fine soprannaturale supremo.
In ogni modo, il dominio nel quale stiamo per entrare è più vasto e già
contiene la più remota origine di queste manifestazioni, che sono allora i punti
di riferimento di cui abbiamo parlato.
Per percepire, dunque, quel tanto che è possibile e permesso all'uomo, sia la
lontana origine come le conseguenze generali di questi tre fatti, cioè per poter
stimare, con la massima oggettività possibile, il significato e le conseguenze
della tendenza espressa da questi tre fatti, da questi tre generici fenomeni, si
dovrebbe prima di tutto poter esaminare in profondità la nozione ed anche la
realtà della nozione «storia», la nozione e la realtà del verbo (parola,
linguaggio e lingua) ed anche la nozione dei vocaboli «essere» ed «esistenza».
C'è un fattore, però, che va tenuto in conto sin dall'inizio, in ogni meditazione,
in ogni inchiesta, in ogni studio; giacché è un fattore che ora appartiene
intrinsecamente ai tre fatti, ai tre fenomeni di cui abbiamo appena parlato.
Ossia nella moltitudine degli scritti più o meno sapienti, più o meno dottrinali,
più o meno indipendenti e rivoluzionari, concernenti direttamente o
indirettamente il problema della coscienza storica, il problema dell'ermeneutica
e il problema del riferimento esistenziale, i termini-chiave degli enunciati
appaiono spesso ambigui, contraddittori e polivalenti, e questo accade negli
autori di una stessa scuola, di una stessa terminologia e spesso nello stesso
scritto di un medesimo autore.
Per illustrare questo argomento così importante del dubbio nel mondo del
linguaggio, apportato dalla tendenza generale e manifestato dai tre fatti di cui
abbiamo parlato, ci riferiamo per una prima volta al pensiero e al linguaggio di
Martin Heidegger (100), che ha avuto una grande influenza nella filosofia ed
anche nella teologia del nostro secolo.
All'edizione italiana del libro di Martin Heidegger "Sein und Zeit", "Essere e
tempo" è stato aggiunto un glossario, certamente nell'intento di facilitare la
comprensione del testo. Basta scorrere questo glossario per capire in quale
vicolo cieco, a causa di questa tendenza - che si può chiamare qui, per farci
capire: storica, ermeneutica ed esistenziale - siano entrati ed entrino il
pensiero di gran parte della cristianità come pure le università del mondo.
- «Noi diamo il nome di 'ente' a molte cose e in senso diverso. Ente è tutto ciò
di cui parliamo, ciò a cui pensiamo, ciò nei cui riguardi ci comportiamo in un
modo o nell'altro; ente è anche ciò che noi siamo e come siamo». (104)
Giacché per dare una definizione o anche per fare una semplice precisazione
esplicativa di un evento o di una serie di eventi e di fatti, sì incerti o sottili che
siano, occorre avere un criterio centrale, occorre riferirsi a un qualche punto di
riferimento nel linguaggio e tramite esso; punto di riferimento che non sia
soltanto supposto o vagamente sottinteso, ma che sia, - con tutte le sfumature
che si voglia esplicito e formulabile. È una fondamentale necessità
dell'intendimento, una necessità di logica elementare e di coerenza richiesta
intimamente da ogni uomo, moralmente se non intellettualmente libero, e
dunque in buona fede.
Perciò occorre tener conto di quel fatto che si è chiamato «frenesia linguistica»
che, presto o tardi, conduce alla disgregazione, in seno ad ogni impresa
intellettuale, spirituale e morale.
b) C'è sempre stata la preoccupazione di essere ben informati per riferire fatti
in verità. Il risalire filologico fino alle più remote antichità mostra che il senso
di responsabilità riguardo alla verità da descrivere e da trasmettere non fu
inferiore a quello dei tempi moderni. Le ingenuità, le lacune in buona fede
inevitabili, le descrizioni e le spiegazioni tendenziose, prive di un vero senso di
responsabilità verso la verità, non furono nell'antichità né più numerose, né più
gravi di quelle che si possono costatare negli uomini, dall'inizio della «storia»
fino ai nostri giorni; è il minimo che si possa dire.
c) Nell'esporre lo sviluppo dei fatti o delle idee, ci sono sempre state, per
ragioni intrinseche all'umana natura, considerazioni, implicite o esplicite, che
possono essere chiamate escatologiche.
È necessario che ci ricordiamo sempre di queste tre verità per evitare erronei
riferimenti al passato quando si parla della scoperta di una nuova dimensione
dell'uomo. La sola cosa nuova fondamentale che è sopraggiunta nei dati e nelle
determinazioni della conoscenza, è la Rivelazione.
La coscienza storica
«Volendo dare una cornice ai 111 ritratti che formano la galleria di questo
Lessico, cominceremo con l'inquadrare la teologia del secolo XX nella svolta
culturale tipica della nostra epoca: l'emergere della coscienza storica, che
Gadamer (120) considera 'la più importante fra le rivoluzioni da noi subite
dopo l'avvento dell'epoca moderna'. Dove per coscienza storica s'intende, da
una parte, la nuova comprensione (aprioristico-trascendentale) che l'uomo ha
di se stesso quale 'essere della storia' (per cui il suo essere concreto non è più
staticamente inteso e universalmente dato... ) e, dall'altra, la nuova
comprensione o scoperta che, in questo determinato aspetto della sua specifica
costituzione, raggruppante mondo e tempo, l'uomo attinge della 'storia del suo
essere'».
«Tutta l'opera di Dilthey, con cui appunto comincia il nostro Lessico per
evidenziare tale svolta culturale, consiste nello sforzo di costruire,
parallelamente alla critica della ragion pura kantiana, una critica della ragion
storica, con cui ridimensionare la pretesa della coscienza filosofica hegeliana
d'essere un 'sapere assoluto' e attingere invece una comprensione, limitata ma
sicura, delle scienze dello spirito». (121)
D'altra parte non si può fare a meno di vedere come un segno indicativo il fatto
che non sono compresi nell'elenco delle centoundici rappresentanze del
voluminoso Lessico, teologi del XX secolo come il Padre GarrigouLagrange e il
Cardinal Charles Journet.
È necessario ben precisare qui che quest'ultima osservazione non concerne per
nulla le persone citate nel Lessico in quanto tali. È del tutto da escludersi e
completamente estraneo alle intenzioni e ai criteri di queste pagine. Trattasi
unicamente di manifestazioni intellettuali e spirituali, manifestazioni riguardanti
fondamentalmente la vita intellettuale e spirituale della cristianità e della
Chiesa.
Un'altra prova della vastità e della penetrazione del criterio e della sensibilità
storici sta nella cerchia della teologia cattolica è costituita dagli scritti di Karl
Rahner. Ecco una considerazione, fra tante altre, che in fondo predica la
storicità assoluta nella conoscenza:
«Noi viviamo nella storia e solamente nel suo progredire possediamo l'eterna
verità di Dio che è la nostra salvezza. In questa storia essa è sempre la stessa,
ma pur ha avuto e ha ancora una storia. Tale univocità esiste sempre, ma non
permette mai che la separiamo dalle sue forme storiche per poter così, almeno
nella nostra conoscenza della verità, uscire dal moto continuo e dal flusso
storico, per mettere piede sulla ferma riva dell'eternità. Nella storia
possediamo quel che di eterno questa verità presenta, ma appunto lo
possediamo soltanto se ci affidiamo al suo continuo progredire». (122)
«Il risultato globale dello sviluppo fu un emergere sempre più incalzante della
storicità dell'uomo, nel senso che l'uomo dipende dalla storia, è consegnato ad
essa; e la sua Weltanschauung (124), i suoi giudizi, la sua religione, sono
condizionati dalle circostanze storiche in cui, di volta in volta, vengono a
trovarsi. Questa prospettiva è il leit-motiv della storiografia del cosiddetto
positivismo storico; ma ha trovato la sua elaborazione sistematica in campo
filosofico nella filosofia della storia di Wilhelm Dilthey. La considerazione della
storia diventa qui 'psicologia comprendente'». (125)
Nello stesso testo Bultmann parlando delle idee di Gerhard Kruger (126) dice
peraltro:
«La risposta alla domanda su che cos'è l'elemento costante dell'uomo, deve
dunque essere: la sua storicità. Ci troviamo in pieno relativismo?
Effettivamente, l'analisi della storicità condotta da Heidegger può essere vista
come la radicalizzazione del relativismo di Dilthey». (128)
«La caratteristica esperienza che l'uomo moderno fa della storia si fonda sulla
costatazione delle infinitamente nuove e opprimenti possibilità che non si
riesce a dominare con i mezzi tramandati per tradizione. Sono possibilità nuove
di bene e di male, di progresso e di catastrofe definitiva». (130)
E questo non avrebbe un gran significato per la reale vita degli uomini e per il
cammino di questa stessa storia degli uomini, se non avesse generato e non
generasse continuamente, nelle più intime profondità dell'intendimento e del
volere umani, uno sradicamento dei perenni riferimenti coscienti o
semicoscienti, insostituibili, confermati, purificati e universalizzati dalla
Rivelazione.
Sarebbe inutile e vano per due ragioni: primariamente perché, per la coscienza
che non avesse perso i riferimenti fondamentali ed essenziali confermati dalla
Rivelazione, sarebbe sufficiente un rapido sguardo circolare per essere
informata ed avere un'immagine della vastità e dell'importanza del fenomeno
dell'alterazione storicista dei criteri; secondariamente, perché per la coscienza
avente ormai l'ottica generale alterata, l'accumulo di testi documentanti tale
trasformazione di mentalità e di sensibilità nei confronti della realtà del mondo
e della Rivelazione, non farebbe che confermare questa coscienza nella sua
nuova visione per il semplice fatto della quantità degli esempi.
«Che altro può fare l'uomo nella sua situazione caratterizzata da una
"concupiscenza gnoseologica" (che non permette di elaborare né di sintetizzare
la massa enorme del sapere) se non ritirarsi verso questo centro originario;
deve esistere un centro del genere». (132)
E Rahner dice che l'uomo, davanti a questa impossibilità, non può che ritirarsi
verso un centro originario. Aggiunge che un tale centro deve esistere. Se però,
un tale centro esiste, perché ritirarsene dopo uno smacco nel dominare il
sapere, fondandosi sulle proprie forze, cioè lungi da questo centro? Perché non
fondarsi sempre su tale centro? Perché seguire la «concupiscenza
intellettuale», che stando ad ogni evidenza, è ben altra cosa dalla gioia della
conoscenza dello spirito? Quel che è significativo, però, è che Rahner così
prosegue:
«Oggi non è più possibile raggiungere una sintesi perfetta tra tutte le verità di
fede da un lato e il sapere e la mentalità odierni dall'altro. Perciò nel nostro
mondo anche il teologo che ha lavorato per tutta la vita nella sua scienza ha il
diritto di dire che, per esempio, egli in quanto non esegeta non è in grado di
spiegare come si concilino positivamente tra di loro Matteo 16,18 e l'ufficio
petrino esistente e accettato con fede nell'odierna Chiesa cattolica. A tale
scopo infatti dovrebbe possedere una tale quantità di cognizioni, quale una
singola testa non è più in grado di contenere. Quel che la teologia
fondamentale diceva una volta a proposito di tale questione non è sicuramente
più sufficiente per una risposta oggettiva». (133)
In queste righe, è espressa ancora una volta l'alterazione dei riferimenti e dei
criteri permanenti. Perché oggi «questo» non sarebbe più possibile, se una
volta almeno lo è stato? Si tratta di fare una sintesi di tutte le verità della fede
con un sapere e la mentalità di un dato tempo? È questo che l'espressione
«verità della fede» suppone? Il sapere con il suo accrescimento sarebbe
realmente allergico alle verità della fede? Sarebbe dunque necessaria una testa
sovrumana, capace di contenere una quantità innumerevole di diverse
cognizioni, per essere esegeta, per poter capire che S. Pietro doveva avere un
successore e che la Chiesa di Cristo non poteva essere figura di alcun'altra
realtà se non di quella del Regno, e che tutte le prove nel suo tempo terreno,
tutte le alterazioni e i tradimenti umani nel suo seno non le avrebbero tolto il
suo carattere, né la necessità di un legislatore e di un pastore supremi?
In modo netto si vede, però, come per Karl Rahner l'ufficio di Pietro accettato
con fede nella Chiesa odierna non possa essere più ricevuto né spiegato a
causa dell'impossibilità di dominare la vastità del sapere e quindi poterlo
sintetizzare con la fede e l'attuale mentalità. E così Karl Rahner, nonostante la
sua perseveranza nell'analisi da «dilettante», come egli stesso dice, arriva
spesso davanti al muro elevato da questa medesima «concupiscenza
gnoseologica». Ed è per questo, che tra tante altre simili manifestazioni,
esclama:
- «Si deve continuamente inculcare al cristiano che oggi per l'uomo è evidente,
anche indipendentemente dalla fede e dalla teologia, che egli deve sopportare
il dato di fatto della concupiscenza gnoseologica. Quante cose esistono nel
nostro mondo che non riusciamo più a convogliare in una sintesi positiva!».
(134)
- «Non credo che con questo giudizio io svaluti quanto ho scritto. Sostengo
addirittura che oggi, quando parliamo a uomini che vogliono sapere qualcosa di
esistentivo (135), non possiamo parlare e scrivere in altro modo». (136)
Sarebbe perciò assurdo credere che sia necessario poter dispiegare davanti a
sé tutte le possibili combinazioni, almeno tutte le combinazioni effettuate dagli
uomini fino alla nostra epoca, per poter infine penetrare il mistero della
musica, riconoscerne le leggi e formulare infine enunciati di indubbia
conoscenza.
Certo non occorre mai parlare e sentire come Auguste Comte che si vantava di
aver stabilito il suo sistema filosofico «in modo irrevocabile», come egli stesso
ebbe a dire, senza aver letto gli autori conosciuti. (138) Questo, però, non
attenua la gravità del fatto che una maggioranza della gioventù dedita allo
studio o attiva, tanto nel campo religioso, come nel campo politico o sociale, si
lasci trascinare, e talvolta con compiacimento, dal miraggio di una
«informazione totale» e dal culto della «ricerca», nel dedalo dell'interminabile
informazione senza vero filo di Arianna.
Si realizza effettivamente quel che Jacobi (139) disse per definire Kant:
l'«egoismo speculativo». (140) Non si tratta di un semplice gioco di spirito
circa la psicologia; neanche si tratta della costatazione di una manifestazione
occasionale psicologica; si tratta del rifiuto ontologico che l'io oppone, nel suo
«auto-culto», all'oggettiva verità eterna.
Di fronte a questa immagine dei nostri giorni, di fronte a tutti gli scritti e a tutti
gli insegnamenti orali diffusi sotto il nome di teologia nel mondo, e
particolarmente tra la gioventù studentesca, molti spesso si pongono questa
domanda: quali sono la causa e le leggi fondamentali di un tale sviluppo delle
cose a partire da Cristo Gesù annunciante: «chi perde la sua vita guadagna la
vita eterna», da San Paolo dicente in nome di Cristo: «la nostra patria è nei
cieli», fino alla «coscienza storica» di Dilthey e alla visione filosofica della
coscienza storica di Gadamer, e alla storicità fondamentale dell'antropologia
teologica di Rahner (145); fino alla teologia «sempre in situazione» di
Schillebeeckx (146) o la teologia «dal basso» di Kung?(147)
Non è dunque «costruendo» una specie di storia della «filosofia della storia»
che si potrà trovare una risposta, un'immagine corrispondente alla profonda
realtà. E questo è così per principio e stando a tutta l'esperienza umana nel
corso dei secoli. Lo scopo e l'intenzione sono qui diversi, e sono semplici e
precisi: mettere in evidenza, con tutta la pazienza necessaria, certi dati che
sono sempre presenti nello sviluppo delle dottrine e dei fatti nella vita, e che
possono costituire una specie di costante, nell'avvicendarsi delle città e dei
sistemi. Si tratta di quei dati la cui risultante ha orientato e orienta il pensiero
e la coscienza verso concetti e concezioni storiciste della realtà.
All'uomo è infatti possibile vedere più o meno chiaramente quanto sia stata
grande, e lo sia ancor oggi, l'influenza di questi dati intellettuali e psicologici, di
questa tendenza storicista, nella formazione e nell'orientamento dell'assieme
delle attuali correnti teologiche, nella cristianità in genere ed anche nella
Chiesa cattolica.
Ed ogni fatica per cogliere questa influenza non avrebbe valore se fosse
soltanto una manifestazione della cultura, un bagaglio in più nella memoria
dell'uomo. Infatti anche la percezione e la penetrazione della realtà più ricca in
argomenti, illustrazioni, e sfumature, rimarrebbero in ogni modo imperfette e
senza reale valore per l'uomo se non fossero rischiarate e interpretate
attraverso un riferimento, una permanente finalità non condizionata dai fatti né
dalla fatica. E con questo scopo, allora, e a questa luce, la percezione e la
comprensione dei dati del movimento storicista, in genere, hanno
un'importanza affinché l'uomo possa emergere da questa immensità di lavori,
di movimenti e di tendenze dei secoli, e ricevere la luce che armonizza e spiega
i fatti e le dottrine, e dissipa ogni cosa inutile: cioè ottenere la vera visione
della storia.
Nello spazio dei 366 anni, trascorsi dalla morte di Lutero (1546) (148) alla
morte di Dilthey (1912), il mondo, e più particolarmente, il mondo cristiano, ha
conosciuto grandi capovolgimenti di ogni specie: intellettuale, spirituale e
sociale. Ed in questo tempo, si sono manifestate numerosissime correnti e
tendenze, che hanno profondamente influenzato la vita intellettuale e spirituale
e quindi la vita dottrinale come pure quella morale nella Chiesa e nel mondo.
Questo uomo, nei confronti della filosofia e della teologia, dovrà molto penare
per trovare in seno alla medesima teoria o tra parecchie, una qualche
conseguenza interna nell'impiego dei termini e delle classificazioni, delle
correnti e delle epoche, concernenti il pensiero, l'azione, l'origine e i fini ultimi
della storia e della vita.
Qualcuno potrebbe considerare tali parole come esagerate o anche del tutto
ingiuste, come non riflettenti la realtà oggettiva. Esse non sono, però, né
esagerate né ingiuste, perché come già è stato detto e lo vedremo appresso,
viviamo oggi stesso in una nebulosità di termini e di significati equivoci e
contraddittori.
Immaginiamo un uomo giovane, battezzato, sincero ed in buona fede, che
desideri studiare il movimento teologico e filosofico dopo Lutero nel pensiero di
alcuni autori che generalmente sono considerati come «pietre miliari» dello
sviluppo del pensiero riguardo alla storia, alla filosofia e alla teologia. Chi gli
garantirebbe la retta comprensione del pensiero di questi autori? Anzi spesso
parecchi autori e commentatori si sforzano, quasi con prestidigitazioni, di
presentare alcuni sistemi o considerazioni filosofiche o teologiche con aspetti
dottrinali per nulla giustificabili, aspetti senza alcuna conseguenza con i
fondamenti dei sistemi e delle considerazioni. Sono sforzi, che si potrebbero
dire «deontologici», cioè sforzi per nascondere per convenienza sociale,
interessata o meno, o le lacune o gli errori, sforzi dunque che non hanno
niente a che fare con l'amore della verità, ma che turbano fondamentalmente
la visuale dei giovani e di ogni persona che cerchi sinceramente di conoscere la
verità.
______________
Pietre miliari
Per molti, una di queste «pietre miliari» dell'orientamento del pensiero circa la
storia, la filosofia ed infine anche la teologia, è l'opera ed il pensiero di
Giambattista Vico. (149) Sembra che l'espressione «filosofia della storia» sia
dovuta a Voltaire. È Vico, però, che l'ha presentata al mondo degli studi
filosofici e storici, con un insieme di principi, di idee e di considerazioni, come
una «scienza nuova».
Certuni attribuiscono questa oscurità o confusione del Vico, che era cattolico,
ad un continuo sforzo per proteggersi contro eventuali reazioni della Chiesa, a
causa del suo orientamento filosofico e scientifico in opposizione ad alcuni
punti fondamentali dell'insegnamento cattolico e della fede. Ecco come uno dei
più sagaci specialisti dell'opera del Vico, Fausto Nicolini, spiega le oscurità:
Certi altri hanno preteso che questa oscurità sia dovuta al fatto che Vico parla
di due storie in corso di sviluppo, una ordinaria di ciascuna nazione o di
parecchie nazioni, ed una «storia ideale eterna». Ed è questo il motivo per cui,
secondo costoro, il filo conduttore in questa «scienza nuova» diviene oscuro e
confuso proprio nei momenti capitali.
«In Vico i due significati non sempre sono distinti, né sempre chiaramente
avvertiti; e questo è uno dei motivi che nuocciono alla chiarezza del capolavoro
vichiano, tante volte accusato, appunto di oscurità». (151)
***
Ecco uno degli assiomi-chiave della dottrina del Vico: «In tal densa notte di
tenebre ond'è coverta la prima da noi lontanissima antichità, apparisce questo
lume eterno, che non tramonta, di questa verità, la quale non si può a patto
alcuno chiamar in dubbio: che questo mondo civile egli certamente è stato
fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i
principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana». (154)
Per il Vico è chiaro che l'uomo può ritrovare i principi da dove scaturisce la
storia, perché egli stesso l'ha fatta; e questi principi si possono ritrovare dentro
le «modificazioni della mente umana». Per il Vico l'uomo non può conoscere la
natura. Solo Dio lo può, perché è stato Lui a farla, mentre gli uomini possono
conseguire la scienza della storia perché sono essi a farla:
«Or, poiché questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini, vediamo in
quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli
uomini, perché tali cose ne potranno dare i principi universali ed eterni, quali
devon essere d'ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutti vi si conservano
in nazioni». (156)
Dunque stando a queste parole del Vico, i principi universali di ogni scienza si
possono trovare nel fatto che tutti gli uomini convengono su alcuni punti. Il
convenire di tutti gli uomini determina la realtà fondamentale intrinseca di ogni
scienza (!). Soltanto un'immensa deontologia potrebbe far passare tali
accezioni tranquillamente e tacitamente o soltanto tacitamente nel mondo
filosofico e scientifico.
Il Vico dichiara che si possono e si debbono ritrovare i principi del mondo civile
nelle modificazioni della nostra mente. Cosa può significare questo concetto o
questo principio? Si può passare oltre, dicendo semplicemente: «è oscuro»?
Certamente no, prima perché non è talmente oscuro. Quale il tenore ed il
valore reale del suo principio così enunciato: «Verum ipsum factum» (158)?
Per il Vico, soltanto quel che l'uomo fa è vero. La nozione della conoscenza
s'identifica con la nozione del fare. E il giovane sopra detto, che cerca di
conoscere lo sviluppo del pensiero, può chiedersi con malinconia: come posso
accedere in quel che hanno fatto i miei antenati, poiché non sono io ad averlo
fatto? Come capire questo plurale: gli uomini hanno fatto, e dunque capire
quello che non ho fatto? Visto che quel che ho fatto nella storia è minimo, cosa
posso dunque conoscere di tutta la storia dell'umanità? Come posso pretendere
che ho partecipato alla costruzione delle Piramidi o che ho preso parte alla
battaglia di Maratona o che ho scritto i «Dialoghi» di Platone, per osare
pretendere che ho ottenuto una qualche conoscenza di queste epoche e di
queste civiltà?
Queste domande non sono gretti sofismi. Anzi non si può enunciare un
principio tanto fondamentale a proposito della conoscenza dell'uomo, e voler
coprire poi le sue conseguenze con il fumo, con il fumo di parole che si
contraddicono e contraddicono l'assioma. Giacché talora, a causa di legami
sentimentali o per indifferenza o per naturale generosità, ma priva di
responsabilità, o per giustificare un'opzione presa senza troppa riflessione, si
ha la tendenza di velare le conseguenze intellettuali e morali degli assiomi
enunciati.
«Tuttavia, per una di quelle estensioni, che non mancano nel pensiero del Vico,
il filosofo applica all'uomo lo stesso criterio di Dio: anche l'uomo potrà avere
scienza di ciò di cui egli sia costruttore. Ed è di fatto costruttore l'uomo: delle
matematiche, perché egli crea il punto e l'unità, e con il punto la grandezza, e
con l'uno il numero - 'Mathematica demonstramus, quia verum facimus' -.
Come sarebbe infatti possibile riconoscere da parte della nostra mente
l'assoluta certezza del conoscere, se non perché è per essa valido quello stesso
principio del 'verum ipsum factum', che vale per Dio?» (159)
«In cotal favola i filosofi poi ficcarono il più sublime delle loro meditazioni
metafisiche: che l'idea eterna in Dio è generata da esso Dio, ove l'idee create
sono in noi prodotte da Dio (160).
A parte ogni altra osservazione che si potrebbe fare a proposito di tutte queste
svariate proposizioni, una verità è evidente: primariamente, una volontà di
divinizzazione dell'uomo nel suo conoscere e fare, al di fuori di ogni riferimento
ad una nozione di redenzione; secondariamente un inter-annullamento dei
principi: da un lato, «verum ipsum factum» e dall'altro «l'idee create sono in
noi prodotte da Dio». Questo apologista, preoccupato a causa della sua probità
intellettuale e spirituale, cerca ad ogni costo di mettere in valore il riferimento
del Vico a Platone, con applicazioni forzate, per conservare certi principi
riguardanti sia la conoscenza dell'uomo, sia il valore storico, particolarmente
per la pedagogia. (161) Tuttavia nel corso delle sue esposizioni, si sente
obbligato ad evidenziare alcune incoerenze:
«Ma questa confusione tra i momenti ideali e i momenti temporali, che è poi la
impossibilità di stabilire la concordanza perfetta tra la filosofia e la storia, è
difetto costitutivo della mentalità vichiana, e deriva dall'aver voluto applicare
assolutamente all'uomo quello stesso criterio del 'verum ipsum factum' ,che ha
il suo pieno significato soltanto per la Divinità. Ciò è il vizio intimo di struttura
della 'Scienza nuova'». (162)
Ora, questo «verum ipsum factum» non è che un arbitrario «slogan», senza
fondamento né sperimentale né metafisico. Fa pensare però, ad un'antitesi
della sublime testimonianza di San Giovanni. Cioè non più «all'inizio era il
Verbo», ma «all'inizio era l'azione»:
- o il perenne ricorso sullo stesso schema delle curve degli sviluppi dei popoli,
corsi e ricorsi perpetui, senza fine, senza un termine immaginabile;
- o una grande città, una grande civiltà, verso la quale i popoli camminano o
dovrebbero camminare, attraverso i loro corsi e ricorsi, città che oramai
sarebbe liberatrice e senza ricorso, città lontana che si perde nella notte dei
tempi futuri e che sarebbe il segreto intimo della storia;
Quel che di capitale emerge dalla "Scienza nuova", è che l'uomo non trova
giustificazione alla sua esistenza se non nel susseguirsi dei corsi e ricorsi delle
nazioni, secondo una delle accezioni possibili appena immaginate. Ogni altro
commento, che cercasse di combinare stralci di proposizioni contraddittorie
sparse nella "Scienza nuova" per dare all'espressione «storia ideale eterna» un
alone di giustificazione secondo il messaggio di Cristo, sarebbe una
mistificazione. La nozione infatti di eternità nella "Scienza nuova" non perfora
lo sconfinato tetto della storia, né il suo orizzonte sempre sfuggente:
«Questa Scienza viene nello stesso tempo a descrivere una storia ideal eterna,
sopra la quale corron in tempo le storie di tutte le nazioni ne' loro sorgimenti,
progressi, stati, decadenze e fini». (164)
«Vico distaccava con taglio così netto storia profana e storia sacra da giungere
a una dottrina affatto naturale e umana delle origini della civiltà (mercé lo
stato ferino) e di quelle della religione (mercé il timore, il pudore (166) e
l'universale fantastico), laddove la dottrina tradizionale cattolica ammetteva
una certa comunicazione tra la storia sacra e la profana, e nella religione e
civiltà pagana riconosceva il lievito operante di una qualche notizia, sia pur
vaga, della primitiva verità rivelata». (167)
Che questo sia così, che la «storia ideale» sia una «Città» ideale di un futuro
indeterminato, un riferimento ideale ma inaccessibile, o accessibile in un tempo
ignoto, il pateticamente fedele e contemporaneamente onesto Giuseppe Flores
d'Arcais l'ha costatato e l'attesta:
«La storia ideale eterna si deve riportare così alla repubblica di Platone». (168)
Per cogliere questo motivo centrale della continua contraddizione del Vico,
dovrebbe bastare il racconto immaginario tendente a spiegare, sotto forma
«razionale» (?), l'inizio dell'umanità, il succedersi delle civiltà, il passaggio
dall'età ferina all'età della fantasia e poi della ragione; e più di tutto dovrebbe
bastare il racconto insensato e triviale a proposito dell'istituzione del
matrimonio monogamico nelle caverne e la formazione delle classi sociali, ed il
racconto a proposito della crescita degli esseri umani nella sporcizia per
spiegare la formazione dei giganti. (170)
Una cosa è certa: nella visione storica del Vico, non c'è posto per una
predisposizione da parte di un Dio personale e creatore in seno alle storie
umane, con la missione di conservare il libero accesso all'amore di Dio e la
salvezza eterna dell'uomo preso nella sua personalità distinta e al tempo
stesso unita a tutti gli altri.
Per questo Emile Bréhier scrive nella sua "Histoire de la Philosophie" che Vico
ammette una provvidenza di Dio e aggiunge:
Ogni nozione di giustizia è intra-storica, cioè si manifesta tramite gli alti e bassi
delle nazioni. (172) Tuttavia gli uomini, pur subendo le catastrofi, le malattie e
la morte, non «subiscono» la storia perché sono loro che la fanno
deliberatamente. Così parla il Vico:
«Questo, che fece tutto ciò, fu pur mente, perché 'l fecero gli uomini con
intelligenza; non fu fato, perché 'l fecero con elezione; non caso, perché con
perpetuità, sempre così faccendo, escono nelle medesime cose». (173)
- la volontà di trovare nel flusso della storia leggi immutabili naturali che
gestiscano la successione dei fatti e delle città.
Si è detto che il Vico ha separato la storia profana dalla storia sacra. (175) La
verità è che, nonostante queste due storie, la storia ordinaria delle nazioni e la
«storia ideale eterna», ha in realtà unificato ogni nozione e accezione di storia
in una sola visione naturalistica. Il riferimento del Vico alla «poesia», al
fantastico e all'immaginazione non va oltre l'immaginazione epica,
massivamente eroica: nessuna reale vibrazione di intima poesia dell'uomo, di
intima nostalgia dell'essere che serba in sé le impronte della sua origine sacra,
perché creato da Dio; nessuna lettura veramente poetica ed educativa della
natura; nessuna speranza per la singola persona umana, speranza di unione
diretta con il suo Creatore.
Nel Vico, la storia ordinaria rispetto alla «storia ideale eterna», può essere
paragonata al movimento della terra intorno al sole. Nessuna differenza
qualitativa tra le due realtà: movimento da un lato e movimento dall'altro.
Questa volontà e questa visione del Vico hanno precluso il vero adito verso
l'unico ed essenziale riferimento di eternità per ogni essere nei suoi rapporti
con il suo Creatore, e hanno aperto la via dello slittamento verso il polimorfo e
al contempo uniforme storicismo e verso la massificazione, alterando così in
profondità la giusta visione ed il veridico e profondo senso della Storia.
E così dopo 150 anni, si vede Dilthey, il fondatore dello storicismo moderno,
adottare gli argomenti del Vico:
«La prima condizione per la possibilità di una scienza della storia sta nel fatto
che io stesso sia un essere storico e che colui che studia la storia e fa ricerche
sulla storia sia anche colui che fa la storia». (176)
E così anche nel nostro tempo, notiamo rinomati teologi, come per esempio
Karl Rahner, adottare una visione della storia che conduce alla naturalizzazione
della grazia e all'assorbimento di ciascun uomo nell'entità massiva della società
storica, fondamenti questi della filosofia della storia del Vico:
«Con il progredire della storia della grazia, il mondo diviene sempre più
indipendente, maturo, profano e deve pensare ad auto-realizzarsi. Questa
crescente «mondanità» storica del mondo - malgrado i colpevoli equivoci e le
sempre) presenti deformazioni a ben guardare non è una sventura che si
contrappone ostinatamente alla grazia e alla Chiesa, ma invece è il modo, nel
quale la grazia si realizza poco a poco nella creazione: come liberazione e
legittimazione del mondo nella sua specificità». (177)
Il nostro giovane, del quale abbiamo parlato sopra, senza riferirsi ad alcun
«luogo teologico», né ad alcun discorso intricato del passato o dei nostri giorni,
può, davanti a queste affermazioni di un teologo del suo tempo, sentirsi
sconcertato ed esprimere il suo grave problema ai successori degli Apostoli:
Quando si parla di «storia della grazia», questo significa che la grazia divina
discende sugli uomini, li penetra e li trasforma, nella misura in cui è accolta
con buona volontà dall'uomo, e così un numero più o meno grande di uomini si
sussegue e, con questo susseguirsi, la grazia di Dio si espande, penetra e
agisce nel mondo. Ecco quel che si può chiamare «la storia della grazia». Ora
quando qualcuno dice che «man mano che la storia della grazia progredisce, il
mondo diviene sempre più indipendente e profano», cosa si deve capire?
«Se invece con l'espressione «autonomia delle realtà temporali» s'intende che
le cose create non dipendono da Dio, e che l'uomo può disporne senza riferirle
al Creatore, allora la falsità di tale opinione non può sfuggire a chiunque crede
in Dio». (179)
Come si può dire che nella misura in cui la grazia progredisce, il mondo diventa
più indipendente e che deve «auto-realizzarsi»? Giacché diventare
indipendente dalla grazia significa allora diventare indipendente da Dio. E
secondo la formula del Concilio, «la creatura, senza il Creatore svanisce».
(179)
L'enunciato di Karl Rahner, appena citato sopra, suppone una visione del
mondo e della storia del tutto estranea a quella che il Concilio esprime, quando
parla della medesima origine delle «realtà profane» e delle «realtà della fede».
In tutte le Costituzioni e tutti i Decreti, anche là dove si specifica tutto quel che
vi può essere come valore positivo nel mondo, come nella Costituzione
«Gaudium et spes», la visione fondamentale della Chiesa nei confronti della
storia rimane immutabile; contiene il primordiale dovere del perenne
combattimento spirituale al quale l'uomo è chiamato fino alla fine della propria
vita, e al quale sono chiamati gli uomini fino alla fine del mondo:
«Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una dura lotta contro le
potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall'origine del mondo e che durerà,
come dice il Signore, fino all'ultimo giorno. Inserito in questa battaglia, l'uomo
deve combattere senza soste per aderire al bene, né può. conseguire la sua
unità interiore se non a prezzo di grandi fatiche, con l'aiuto della grazia di
Dio». (180)
Questa mentalità attuale è la stessa che si trova negli scritti del Vico e di tutta
una serie di pensatori, di filosofi e di teologi, che gli sono succeduti come Kant,
Herder, Hamann, Jacobi, Hegel, Dilthey, Teilhard de Chardin, Heidegger,
Bultmann, Blondel, Maritain, Rahner, Hans Kiing, Schillebeeckx, Moltmann,
Metz, Gutierrez, ecc. Non si tratta di un'ideologia; non si tratta di un'identità
«di speranza» specifica o di una particolare estetica. Si tratta di una particolare
mentalità, di un'opzione della volontà che trascina il pensiero ed anche la
sensibilità - se non l'attenua verso un certo orientamento, verso una certa
visione dell'essere umano, dei fatti e del corso della storia. E quel che è
notevole - tristemente notevole, certo - è che dovunque, in tutti, questa
mentalità storicista sposta, in un modo o in un altro, il centro di gravità del
pensiero e di ogni speculazione, e cambia, più o meno radicalmente, il
contenuto della Speranza.
***
Johann-Gottfried Herder, molto più arioso, più ordinato ed in ogni modo più
poetico del Vico, è considerato come il fondatore della filosofia della storia in
Germania. Da certuni è classificato come teologo, come «il teologo tra i classici
della letteratura tedesca».(181) Prima di ogni altra cosa, occorre costatare
immediatamente che la sua visione della storia ha veramente spostato in modo
netto il centro di gravità della Realtà e del Messaggio di Cristo.
«Nella propria età nessuno mai è solo, costruisce sul passato, e diventa base
del futuro, altro non vuol essere: così parla l'analogia della natura, la parlante
immagine di Dio in tutte le opere sue, e questo pure è il linguaggio del genere
umano. Gli Egizi non avrebbero potuto esistere senza gli Orientali, il Greco
costruì su di quelli, il Romano si erse sulle spalle del mondo tutto: progresso
reale, sviluppo in continuo processo anche se i singoli non vi guadagnano
nulla».(188)
- «Se si può trovare felicità sulla terra, è in ogni essere senziente; anzi essa
deve essere in lui per opera della natura e anche l'arte ausiliare deve diventare
in lui natura, se deve dare gioia». (191)
Se dovessimo costatare dagli Egiziani agli Orientali, dagli Orientali ai Greci, nei
Romani, erigentisi su tutti questi e sul mondo intero, un «progresso reale»,
uno sviluppo in continuo progresso, pur senza alcun guadagno per i singoli,
come capire che «la felicità dell'uomo è dappertutto un bene individuale
dipendente dalla sua conformazione organica e dal clima e
contemporaneamente dalla tradizione e dall'abitudine»?
«… per il nobile orgoglio, in cui consiste la sua destinazione, gli è stata tolta la
vista di esseri più nobili, perché probabilmente noi disprezzeremmo noi stessi,
se li conoscessimo». (192)
«L'uomo, dunque, non deve guardare nel suo stato futuro, ma soltanto
credervi». (192)
Il giovane chiederà: quando finisce per Herder la visione in uno specchio, per
enigma? Quando e dove comincia la visione faccia a faccia? Chi dovremo
vedere faccia a faccia? E quando conoscerò perfettamente come anch'io sono
conosciuto? Qual è il contenuto di questa parola «ora», quando l'Apostolo dice
«ora rimangono la fede, la speranza e la carità»? Chi è in verità Colui in nome
del quale parla San Paolo? Lo storicismo, né quello di Vico, né di Kant, né di
Herder, né di Dilthey, né quello di molti filosofi e teologi attuali, nessuno
storicismo può rispondere alla profondità maestosa, intima e al tempo stesso
universale, e all'amore infinito dell'insegnamento del Buon Pastore sulla pecora
ritrovata.
Per capire l'importanza della mentalità storici sta nella formazione delle
correnti della teologia attuale, è molto utile conoscere la posizione dottrinale e
spirituale di Herder, in quanto «il teologo tra i classici della letteratura
tedesca», davanti a Cristo, ed anche davanti alla Chiesa e alla nozione della
Chiesa in genere.
La nascita del cristianesimo è vista e descritta da Herder con gli stessi criteri
con i quali ha voluto abbracciare e spiegare tutte le civiltà. Gesù Cristo, l'uomo
idealista puro, portatore di una civiltà interiore, è morto come Socrate per
fedeltà al suo ideale.
«... una religione che crede in Te, una adorazione sconsiderata della Tua
persona e della Tua croce. Il Tuo spirito lucido ha previsto tutto ciò e sarebbe
una profanazione del Tuo nome, se si osasse nominarlo a proposito di ogni
torbido rivolo che defluisce dalla Tua fonte. Per quanto è possibile non
vogliamo nominarlo; di fronte all'intera storia che discende da Te, stia solitaria
la Tua silenziosa figura». (195)
- «Il cristianesimo aveva soltanto due sacramenti, ai quali però furono presto
aggiunti e sovrapposti usi e riti dalle origini più diverse, e malauguratamente
ciò accadde in un tempo di generale decadenza del gusto».(200)
- «In particolare quella setta respinse gli usi e le credenze superstiziose, di cui
negava l'immorale forza magica, e al loro posto riconosceva soltanto una
semplice benedizione con l'imposizione delle mani, e una lega dei membri,
sotto il loro presule, il prefetto. La trasformazione del pane, la croce, la messa,
il purgatorio, l'intercessione dei santi, i privilegi propri del clericato romano
erano per loro istituzioni umane e fantasie». (201)
Herder dice che ogni essere animato e inanimato è soggetto alle leggi del
cambiamento. Dice nettamente che il ritmo è implacabile, dal male al meglio e
dal meglio al peggio; e tale è «il ciclo di tutte le cose» (203). Qual è però il
valore della salvezza e dell'eterna liberazione di questi «cicli» di Herder o dei
corsi e ricorsi del Vico, per ogni uomo dell'incalcolabile sfilata che costituisce il
mutevole aspetto esterno della storia? Quale può essere il rapporto di questi
«cicli» insensibili e meccanici con la profonda aspirazione a compiersi dell'uomo
«ogni volta unico» e la sua liberazione dalla morte nel tempo storico?
***
Se s'insiste su tale o talaltro aspetto del pensiero di tale o talaltro scrittore che
ha fatto della storia il centro della sua informazione, speculazione e
meditazione, è perché si deve più volte ripeterlo - la mentalità e
l'orientamento storicisti nella filosofia si sono riversati nella cristianità ed hanno
così trasformato e deformato i criteri e le aspirazioni di molti tra coloro che
sono portatori attivi di certune tendenze di disgregazione della Chiesa di Cristo
nella teologia attuale.
Tre sono i riferimenti, i misteri davanti ai quali si trova l'uomo: Dio è l'origine
di ogni cosa e dunque dell'uomo; l'uomo tra la sua nascita e la sua morte ed
anche la sua origine, ossia Dio; la vita eterna, dunque Dio e l'uomo. Da quando
esiste la testimonianza del pensiero umano, si ripete senza fine, attraverso
tutta la storia, e in particolare attraverso la storia del pensiero, un duplice
movimento. Da un lato, uno sforzo personale intimo, e dunque anche
moltiplicato e quindi generale, per penetrare il segreto dell'universo e della
storia, del mondo e della vita dell'uomo, sforzo che fissa sempre più la
conoscenza e la vita dell'uomo su una coscienza autonoma; e dall'altro lato,
uno sforzo cosciente o semicosciente per mettersi, per quanto è possibile, a
disposizione del Creatore, e recepire, con pazienza e umiltà, la verità che
questo Creatore, inaccessibile e sempre presente ed infinitamente buono,
rivela all'uomo «ogni volta unico» la cui effimera vita costituisce un anello della
catena della storia; in tal modo ogni conoscenza e ogni vita personale è
stabilita su una coscienza di diretta dipendenza dal Creatore per ogni cosa. Nel
primo caso l'uomo si allontana dalla libertà; diventa sempre più schiavo del
miraggio della sua autonomia. Nel secondo caso l'uomo ritrova l'origine della
libertà eterna, perché ritrova la dipendenza d'amore dalla verità eterna del
Creatore.
_____________________
Come abbiamo già detto - ed è bene ripeterlo - non si tratta certo di uno sforzo
per tracciare qui una storia della filosofia della storia, e neanche un abbozzo;
d'altronde, un tale sforzo, da parte di chiunque, sarebbe ormai inutile per
molte ragioni. Infatti, non sarebbe in alcun modo di aiuto a nessuno. Ma il
nostro giovane può esaminare, forse con qualche profitto, l'opera di tale o
talaltra persona, più o meno nota, nel mondo della filosofia e della teologia.
Potrebbe infatti reperire qua e là il filo conduttore della mentalità, da noi
denominata storicista che, malgrado le differenze nelle formule dottrinali ed
anche le differenze dei caratteri. delle persone, rivelerebbe alcune comuni
caratteristiche fondamentali.
Tutto un vocabolario, tutta una fraseologia talvolta molto fluidi e troppo incerti,
sono stati ideati, evitando così, inconsciamente o no, di pronunciarsi con
cristallina chiarezza sulla realtà e sulla Persona di Dio; realtà inafferrabile, ma
mai vaga e incerta, giacché Dio è, e non è una concettuale probabilità idealista.
In tal modo, è stato tessuto tutto un linguaggio per parlare di Dio, della fede e
della speranza, da un punto di vista di una falsa e neutra oggettività, senza
necessariamente credere in Dio, né aver la fede e la speranza.
Si può vedere, come al tempo di Herder, per esempio, e dopo, tutta una
pleiade di autori abbia influenzato lo sviluppo delle correnti filosofiche e
teologiche, e come in loro si manifesti chiaramente questo «gioco» più o meno
cosciente che ha luogo nell'intimità pensante dell'uomo.
_______________
«Questa idea che era destinata ad una singolare fortuna, è l'idea di progresso:
di un progresso la cui sorgente, il cui termine o fine, è l'uomo, o se si vuole
l'umanità; ma l'uomo ridotto alla tecnica, e il progresso identificato al
progresso materiale derivante dalla scienza.
«Gli uomini oggi, stando alla comune mentalità, tendono a farsene (dell'idea
del progresso) un idolo. Quel che è nuovo in essi, non è l'idea di un progresso
indefinito dell'uomo nel suo destino terreno, ma è, oltre all'estensione senza
limiti che gli hanno attribuito, una certa concezione che vi hanno incorporato, o
più esattamente, che vi hanno sostituito, che hanno diffuso poi nella massa
sotto il nome e la figura di Umanità, ma di un'umanità la cui essenza e il cui
progresso si sono fermati precisamente al suo destino terreno: in modo che la
città degli uomini sostituisce la Città di Dio, e che lo Spirito di Dio cede il posto
allo Spirito della Terra». (206)
La prima citazione contiene una critica di una certa idea del progresso la cui
«fonte» non è Dio, ma l'uomo, e il termine e il fine ancora l'uomo. «Ma»
l'uomo ridotto alla tecnica, e il progresso identificato a un progresso materiale.
Tutta la formula implica che, se l'uomo non è ridotto alla tecnica, e se il
progresso non è materiale, ma intellettuale o estetico, l'idea del progresso la
cui fonte e il cui fine è sempre l'uomo, sia in armonia con il mistero
dell'Incarnazione di Cristo e della Redenzione.
Nella seconda citazione, emerge con molta buona volontà da parte del lettore,
che c'è un progresso per mezzo del quale l'umanità dovrà un giorno superare il
destino terreno. Emerge da questa citazione, nel contesto dell'assieme di
queste pagine, che questa idea è l'idea cristiana circa l'essenza dell'umanità e
del progresso. Il «nuovo», apportato dunque dagli uomini moderni di allora,
sarebbe di «fermare» l'idea del progresso al destino terreno.
Quale luce può apportare, dopo tali proposizioni sul destino dell'uomo, la
dichiarazione che «la città degli uomini sostituisce la Città di Dio - lo Spirito di
Dio cede il posto allo Spirito della Terra»? Nessuna luce, perché i testi che
seguono, presentano per quanto strano possa sembrare in un autore cristiano,
come non del tutto negativo il fatto che lo Spirito di Dio ceda il posto allo
Spirito della Terra.
«Alla fine del diciottesimo secolo, il colpo di barra era decisamente dato in
Occidente. E d'allora, nonostante talvolta la nostra ostinazione a ritenerci gli
stessi, siamo entrati in un nuovo mondo. - 'Abbiamo soltanto da poco lasciato
gli ultimi ormeggi, che ci trattenevano ancora al Neolitico'. Formula
paradossale, ma luminosa. - Come la nostra intelligenza non potrebbe sfuggire
alle prospettive intraviste nello Spazio - Tempo, così le nostre labbra non
potrebbero dimenticare, per averlo una volta gustato, il sapore di un Progresso
universale e duraturo». (209)
«Umanità. Tale è la prima figura sotto la quale, all'istante stesso in cui l'uomo
moderno si svegliava all'idea del Progresso, egli doveva cercare di conciliare,
con le prospettive della morte individuale inevitabile, le speranze di avvenire
illimitato delle quali non poteva più fare a meno. Umanità: entità all'inizio
vaga, sperimentata più che ragionata, dove un oscuro senso di permanente
crescita si alleava con una necessità di universale fratellanza. Umanità:
oggetto di una fede spesso ingenua, ma la cui magia, più forte di ogni
vicissitudine e di ogni critica, continua ad agire con la medesima forza di
seduzione sia sull'anima delle masse attuali come sui cervelli
del’"intellighenzia". Che si partecipi al suo culto, o che lo si ridicolizzi, chi può
ancor oggi sfuggire all'assillo, o anche all'invasamento dell'idea di Umanità?»
(210)
Chevalier si sforza, nel corso della sua opera, e più particolarmente a proposito
di certi periodi e di certe correnti, con affermazioni talvolta giustissime, talvolta
molto ambigue, e talvolta contrarie alle prime, si sforza con riferimenti spesso
«scompaginati» e contraddittori, di collegare la sua idea del Progresso alla
tradizione cristiana e alla dottrina della Chiesa.
Quale in fondo, tra le molteplici formulazioni, la nozione del progresso in
Chevalier? C'è l'idea di un concatenamento dei fatti e delle idee nella storia,
che evolve e che compie un destino terreno dell'Umanità, «il cui polo è
l'Infinito». Le prospettive dell'Umanità in questa corsa devono contenere «una
fede nell'aldilà». Alla fine di questo progresso umano nel corso dello sviluppo
storico, c'è l'accesso a un destino non soltanto terreno.
E poi c'è questa accezione peculiare molto significativa per quel che concerne
l'essenza, le leggi e l'orientamento di questo progresso: «l'umanità è in
cammino verso la giustizia e l'amore»; e attraverso il suo «peregrinare nel
tempo», aspetta - è l'umanità ad aspettare - la «stabilità dell'eterno
soggiorno». Il termine di questa «grandiosa visione della storia umana» è la
gloria. E questa accezione, l'attribuisce a Sant'Agostino e a tutti i dottori e
autori cristiani ed anche a tutti gli umanisti deisti e persino atei. Cita anche
specificamente gli autori dei Misteri, tutti coloro che si sono occupati di somme
teologiche, gli eruditi del Medioevo, Bossuet e Pascal; e cita ancora Herder,
Kant, Hegel, Cournot ed anche Condorcet e Auguste Comte. (211) A darci il filo
di Arianna di questo orientamento, non soltanto certo di Chevalier, ma di tutti
coloro che sono stati sedotti da questo linguaggio e da questa visione di un
sovrano progresso, è il fatto che cita come il profeta della vera struttura della
storia, Giambattista Vico. (212)
«Infatti benché fosse tanto capace, quanto lo si possa essere, nel penetrare i
segreti della natura, e che vi avesse ammirabili aperture, aveva tuttavia, da
più di dieci anni prima della morte, talmente conosciuto la vanità e il nulla di
tutte queste specie di conoscenze e ne aveva concepito un tale disgusto che
sopportava a mala pena che persone di mente ci si occupassero e ne
parlassero seriamente». (215)
Qualunque testo di Pascal, dopo la sua conversione, non lascia alcun dubbio sul
suo vero pensiero, sulle sue vere convinzioni e sulla sua visione del mondo,
della Chiesa e della salvezza, in rapporto all'evoluzione del mondo e del
sapere. Ecco alcuni estratti spigolati senza speciale sforzo:
Egli non si trova che per le vie insegnate nel Vangelo». (217)
«Il mondo giudica bene le cose, perché si trova in un'ignoranza naturale che è
la vera condizione dell'uomo. Le scienze hanno due estremità che si toccano.
La prima è la pura ignoranza naturale in cui si trovano tutti gli uomini col
nascere. L'altra estremità è quella a cui pervengono le grandi anime, le quali,
dopo d'aver conosciuto tutto quello che gli uomini possono conoscere,
s'accorgono di non saper nulla e si ritrovano in quella stessa ignoranza dotta,
che conosce se stessa». (218)
«Ridersela della filosofia significa filosofare per davvero. - Non stimiamo che
tutta la filosofia valga un'ora di fatica». (219)
«Felici coloro che piangono, non già vedendo trascorrere tutte le cose periture
che i torrenti trascinano, ma nel ricordo della loro cara patria, la celeste
Gerusalemme, di cui si ricordano continuamente nel loro lungo esilio! I fiumi di
Babilonia scorrono, precipitando e trascinando. O santa Sion, dove tutto è
stabile e nulla cade!». (220)
«Che cosa dunque ci gridano questa avidità e questa impotenza se non che un
tempo c'è stata nell'uomo una vera felicità di cui adesso non gli restano che il
segno e la traccia di un vuoto che egli inutilmente cerca di colmare con tutto
quello che lo circonda, chiedendo alle cose assenti il soccorso che non ha dalle
presenti, ma che tutte quante sono incapaci di dargli, perché l'abisso infinito
non può essere colmato se non da un oggetto infinito e immutabile, vale a dire
da Dio stesso?» (221)
«Infatti per parlarvi francamente della geometria, la reputo il più alto esercizio
della mente, ma nello stesso tempo la considero tanto inutile dal fare poca
differenza tra un uomo che non è che un geometra e un abile artigiano. - Non
farei due passi per la geometria». (222)
«Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo; non bisogna dormire durante
questo tempo». (223)
C'è urta concezione realmente cristiana del progresso? Certo ce n'è una. Infatti
esiste, per ogni cosa e per ogni termine positivo o negativo, una concezione
giusta, precisa e al contempo sfumata, secondo l'azione e il messaggio di
Cristo al mondo. Di fronte, però, a tutte queste considerazioni a proposito del
Progresso storico, il nostro giovane certo si chiederà: Quale luce da tutto
questo?
Dove si situa questa Città di Dio? E dove si trova la città nella quale lo Spirito
di Dio deve, per necessità storica positiva, lasciare il posto allo Spirito della
Terra? Quali sono i cittadini di questa Città di Dio? Sono tutti i morti salvati, al
di là del corso degli eventi nel tempo, o forse sono tutti gli uomini di un lontano
Eldorado, di un «escaton» del movimento storico?
Quale la sorte di tutti gli uomini che sono vissuti, che saranno vissuti e saranno
morti fino al tempo dell'Eldorado? Dove si situa il compimento finale del
progresso? Qual è il senso della resurrezione di Cristo, senza la quale, come
dice San Paolo, vana è la nostra fede (1Cor. 15, 17)? Come armonizzare i tanti
numerosi testi della "Città di Dio" di Sant'Agostino, che presentano i cittadini di
questa Città come perforando nel loro tempo «il tetto della Storia», con la
nozione di una Perfezione che sarà realizzata al termine del movimento
storico?
C'è una reale risposta, risposta di luce a tutto questo, a tutte queste domande
e ad una moltitudine di altre che il nostro giovane si pone senza dubbio o
potrebbe porsi? Sì, ce n'è una. Ma perché si abbia risposta senza ambiguità, e
senza grettezza, né aridità, né ardori e freddi infernali, ma con freschezza e
ardore eterni, risposta dall'incognito benefico e di santa certezza, risposta
veramente teologica di verità e di speranza, occorre capovolgere in se stessi
tutta l'eredità storicista.
La mistificazione kantiana
Le due caratteristiche delle quali abbiamo appena parlato (225), cioè da un
lato la sofisticata venerazione che costituisce quasi un habitus universale del
pensiero moderno, e dall'altro lo sforzo per evitare un reale e diretto
riferimento all'Essere di Dio, hanno provocato viepiù una mancanza di vera
oggettività e di coerenza intellettuale e spirituale. Questa forma di pensiero si è
estesa come una gigantesca macchia di olio, provocando così un sottile e
generale relativismo in un considerevole numero di opere e di movimenti.
Per questo si deve illustrare, per quanto è possibile, il fenomeno, che non è
soltanto intellettuale, ma anche psicologico, e la cui origine, in ultima analisi, si
trova nella mentalità e nella sensibilità storiciste.
Tutti sono d'accordo nel dire che Kant ha esercitato una grandissima influenza
nelle sfere filosofiche e di conseguenza in quelle teologiche, dalla sua epoca
fino ad oggi; questa influenza si è esercitata malgrado la comparsa di sistemi e
di nuove dottrine che non si riferivano per niente al pensiero di Kant. Questo a
prima vista sembra un mistero. Non è però l'immediato argomento di queste
pagine. È particolarmente strano, però, come molti critici e storici della filosofia
si affannino per coprire con un velo cristianizzante l'interna contraddizione
della parola, il razionalismo radicale, l'agnosticismo «trascendentale» e
l'antispiritualismo fondamentale di Kant.
«Questa libertà dell'altro mondo (libertà concettuale non applicabile) non può
definirsi, poiché essa è al di fuori del tempo e dello spazio mediante i quali
tutto si definisce. È inafferrabile persino a colui che vi si applica, poiché nel
riflettere sui propri atti, costui non può reperire se non cause vincolate
anch'esse allo spazio e al tempo. Invece di reggere i fatti della nostra vita
inseriti nella vita dell'universo, questa libertà extratemporale sovrasta il nostro
universo e lascia i nostri umani fatti sotto il suo duro e totale invasamento
(l'invasamento dell'universo). È veramente insensato, e ci si può chiedere chi si
rassegnerebbe, fosse lo stesso Kant, ad una libertà così smembrata e come
assente da se stessa. Tuttavia, è bello, e tanto più bello moralmente e
religiosamente, quanto più è pazzo». (227)
- «Non si può far a meno di prevedere che si stabilisce un vincolo tra la libertà
noumentale secondo Kant e la dottrina cristiana del peccato originale». (228)
«Comunque possa essere l'origine del male morale nell'uomo, è certo che fra
tutte le maniere di rappresentare la diffusione del male e la sua propagazione
in mezzo a tutti i membri della nostra razza ed a tutte le generazioni, la più
sconveniente è quella di rappresentarci il male come una cosa che ci viene per
eredità dai nostri primi parenti.
Com'è possibile che tali contraddizioni siano entrate nei costumi intellettuali?
Jacques Chevalier, nella sua "Histoire de la pensée", tra tante considerazioni
contraddittorie, scrive che la pretesa di Kant «di escludere il soprannaturale» e
di negare alla ragione ogni altro ideale, che non sia «un concetto vuoto», sfocia
in una dottrina mortale:
«Questa dottrina toglie sin dall'inizio all'uomo ogni mezzo per trovare nelle
cose un qualcos'altro che se stesso o quel che egli stesso ha messo; dottrina
per la quale tutto quel che supera la nostra natura gli è del tutto alieno e gli
rimane per sempre precluso». (231)
Poi, un po' più oltre, alla fine di tutto un discorso senza via di scampo, circa la
nozione di Dio in Kant, Chevalier conclude ancora con un'espressione ambigua:
«Dio non può essere ricercato se non in noi. Nell'idea di Dio noi viviamo,
agiamo e siamo. Ecco quel che confida al termine della sua vita terrena questo
uomo, questo saggio». (232)
Dopo aver dichiarato che è una saggezza credere che si deve vivere nell'idea di
Dio - e non in Dio - e dopo molti elogi per Kant, Chevalier aggiunge:
«Tuttavia questo Dio, secondo Kant, non può essere ricercato e non può essere
trovato se non in noi. Sono proprio tali, in effetti, le ultima verba del filosofo in
cerca di una verità che si ostina magnificamente a ricercare nel suo intimo,
senza giungere a ritrovarne per ragione la fonte». (233)
«Per non essere giunto a discernere questo punto (che Dio è) Kant, per
sfuggire allo scetticismo trascendentale e per salvaguardare i valori morali, si è
rifugiato nel fideismo. - Questa credenza, però, si fonda in ultima analisi,
soltanto sulle esigenze di una esperienza morale che in realtà non si fonda su
niente». (234)
Ma per mostrare ancor più chiaramente quale sia la nozione di Dio in Kant,
nozione alla quale molti autori cercano di attribuire una qualche realtà
soprannaturale, non sarebbe che fideista, basta riportare le affermazioni dello
stesso Kant in alcune pagine postume, nelle quali, come diceva, aveva esposto
il fondamento del suo sistema e della sua dottrina:
Affermazione A
Affermazione B
«Forse tra questi (supposti abitanti di altri pianeti), ogni individuo può attuare
pienamente la sua destinazione nella propria vita. Ma per noi (terrestri) le cose
vanno altrimenti: solo la specie può sperare questo». (237)
Affermazione C
«Tesi quarta - Il mezzo di cui la natura si serve per attuare lo sviluppo di tutte
le sue disposizioni, è il loro antagonismo (degli uomini) nella società, in quanto
però tale antagonismo sia da ultimo la causa di un ordinamento civile della
società stessa. - Senza la condizione, in sé certo non desiderabile, della
insocievolezza, da cui sorge la resistenza che ognuno nelle sue pretese
egoistiche deve necessariamente incontrare, tutti i talenti rimarrebbero in
eterno chiusi nei loro germi in una vita pastorale arcadica (238) di perfetta
armonia, frugalità, amore reciproco: gli uomini, come le pecore che essi
menano al pascolo, non darebbero alla loro esistenza un valore maggiore di
quello che ha questo loro animale domestico; essi non colmerebbero il vuoto
della creazione rispetto alloro fine di esseri razionali. Siano allora rese grazie
alla natura per l'intrattabilità che genera, per la invidiosa emulazione della
vanità, per la cupidigia mai soddisfatta di averi o anche di dominio!
Affermazione D
In essa la storia umana non serve che ad un occulto piano della natura, che
consiste nel creare una costituzione politica mondiale, un ordinamento
cosmopolitico; in questa costituzione politica, verrebbero a svilupparsi tutte le
disposizioni della specie umana.
«Tesi ottava - Si può considerare la storia della specie umana nel suo insieme
come l'effettuazione di un occulto piano della natura per porre in essere una
costituzione politica internamente (e a questo scopo anche esteriormente)
perfetta - cioè un generale ordinamento cosmopolitico, che sia la matrice, nella
quale vengano a svilupparsi tutte le originarie disposizioni della specie
umana». (240)
Affermazione E
In essa Kant critica specificamente Herder per i punti che potrebbero essere
considerati come riferimenti soprannaturali e circa l'immortalità dell'anima.
Affermazione F
In essa la morte di ciascun uomo è il risultato di un mostruoso desiderio del
«corpo comune», perché, per questa morte, si conserverebbe il «corpo
comune».
Affermazione G
Affermazione H
«Il maestro dell'Evangelo aveva indicato ai suoi discepoli il regno di Dio sulla
terra solo dal magnifico ed edificante lato morale» (243).
Affermazione I
Affermazione K
In essa ogni atto di culto non può servire alla salvezza, non è che una
superstizione religiosa; e in essa il desiderio di un'intimità con Dio non può
servire alla salvezza c non è che un'inutile e fanatica pretesa religiosa; e in
essa tutto il mistero liturgico della Chiesa, che sin dall'inizio, fece parte
integrante del suo insegnamento, è rifiutato; e in essa ogni vita spirituale, che
riavvicini interiormente l'uomo a Dio è rifiutata.
Tale è il pensiero di Kant. Tale il suo assolutismo agnostico, la sua certezza nel
negare ogni realtà spirituale. È facile redigere un elenco di affermazioni di un
simile tenore, tanto chiarificatore quanto opprimente, elenco che potrebbe
essere lunghissimo.
Perciò si rimane stupiti di fronte a tanto lavorio, speso per elaborare una teoria
della conoscenza, così irreale e così tediosa, un metodo senz'altro punto di
partenza se non l'io «ideante»; una scienza a priori dell'a priori e della critica
per a priori, tanto lavorio per dimostrare che non si può conoscere quella che è
l'unica fonte di conoscenza, di vita, di libertà e di vera gioia.
D'altra parte, si è diffusa l'idea che Kant non s'interessasse alla storia,
occupato com'era della sua «anatomia» dell'intendimento. Anche questo non
corrisponde alla realtà. Infatti tutta la giustificazione della vita, tutto il
compimento umano dell'individuo, come quello dei gruppi, non sono concepibili
per Kant se non nella realizzazione storica della specie. Il fatto, per esempio,
che Herder abbia rimproverato a Kant la mancanza d'interesse per la storia,
non significa che Kant non avesse altra speranza se non la realizzazione di una
società che lui stesso chiamava «cosmopolitica»; i suoi concetti a proposito
della conoscenza e tutte le sue elaborazioni intellettuali non hanno avuto altri
riferimenti, né altri fondamenti, né altre leggi e finalità nell'avvenire, se non lo
svolgersi degli eventi della specie umana verso questa società «cosmopolitica»
che sarebbe lo scopo supremo della storia.
Per toccar con mano la realtà di tutto quel che abbiamo detto a proposito delle
due caratteristiche della mentalità storicista, ossia a proposito della
venerazione sofisticata e dello sforzo di aggirare la difficoltà, rappresentata per
molti dalla santa Realtà di Dio, e per mettere il dito sulle conseguenze di
questa mentalità nel pensiero teologico fino ai giorni nostri, sarebbe sufficiente
al nostro giovane di soffermarsi un po' di fronte al prodigioso sforzo del Padre
Maréchal (248) per «superare» il criticismo di Kant. Certo il giovane, per
discernere l'essenziale verità in seno ad un immenso lavorio d'intelligenza
brillante, dovrebbe potersi liberare dai criteri sofisticati, creati ed imposti da
questa stessa mentalità socialmente e intellettualmente storicista.
«Che nessun precetto, nessun divieto non sono stati in realtà intimati agli
uomini da un Essere santo e onnipotente; che, anche nell'ipotesi di un
messaggio dall'alto, gli uomini, ai quali sarebbe stato destinato, sarebbero
rimasti incapaci sia di recepirlo, come di convincersi della sua realtà: di questo
non c'è alcun dubbio». (251)
- E’ possibile credere che Kant abbia voluto annullare tali affermazioni con
«sottintesi» in altri passaggi dei suoi scritti?
Queste domande possono essere poste dal nostro giovane ed anche da molte
altre persone che resistono al miraggio dei «giochi di intellezione e di
vocabolario», al miraggio del caleidoscopio, di cui si è trattato all'inizio di
questo libro, È il miraggio costituito dalla possibilità che possiede l'uomo, nel
suo pellegrinaggio terreno, di combinare indefinitamente schemi di concetti,
senza che corrispondano ad una realtà; ossia schemi di concetti che si
dimostrano senza correlazione con la Verità eterna né con una missione eterna
di ogni uomo oltre la propria morte. Tale è il miraggio del «caleidoscopio
intellettuale».
Ogni persona che ha accolto, nel suo intimo di essere intelligente e amante, la
Verità del Verbo eterno, è portata a porsi tali domande, delle quali abbiamo
appena parlato, ed un'infinità di altre; e questo, sempre nella carità e in
relazione armoniosa con la conoscenza profonda, ontologica e altamente
oggettiva che la fede comunica all'uomo.
____________________
In una grande foresta, il fogliame degli alti alberi e degli arbusti, e i cespugli,
fatta qualche eccezione, sono di colore verde, più o meno scuro, più o meno
chiaro, ma sempre di col or verde. Per questo è un'impresa senza significato
quella di cercare di provare che il fogliame di ogni ramo di ogni albero, è
verde. Con un solo colpo d'occhio, sia all'esterno come all'interno della foresta,
si riconosce il colore. È la stessa cosa per le caratteristiche dominanti degli
innumerevoli rappresentanti, più o meno coscienti, delle correnti intellettuali,
che ricoprono lunghi periodi.
Così è per lo storicismo. Da tempo, molto prima di Kant, fino ad oggi, l'opera di
un vastissimo numero di autori, filosofi, letterati ed anche teologi, è tinta da
questo colore storicista. E in tale clima, il pensiero e la meditazione cristiana,
con un ritmo divenuto quasi implacabile, sono stati condotti, anche tramite
Hegel e Dilthey, verso la «coscienza storica» dell'attuale teologia.
Per questo è ormai inutile per la vera conoscenza per quel che riguarda Dio,
l'eternità, l'uomo, il mondo, la storia, è inutile ed anche spesso nocivo, per
l'intelligenza e la carità, consacrare lunghi lavori per determinare, con
interminabili analisi, la parentela intellettuale tra gli autori; per determinare,
per esempio, in qual misura Hegel sia un continuatore di Kant e in qual misura
l'abbia confutato. È utile certo seguire i grandi filoni dello sviluppo di climi
intellettuali; ma sempre si ricade negli stessi dati fondamentali.
- Come è stato possibile che tanti commentatori non si siano sentiti offesi,
nella più profonda intimità del loro essere ed anche di tutta la loro esistenza?
- Quale può essere l'apporto di un tale edificio, che in definitiva non offre alcun
sapere, alcuna conoscenza trascendente, alcuna conoscenza di pace e di
grazia? Infatti quand'anche questo edificio fosse internamente almeno
internamente - coerente con i principi fondamentali della logica, non offrirebbe
alcun sapere utile, alcuna conoscenza che possa dissetare gli assetati di Verità
eterna.
- Come concepire che ci si serva dei principi fondamentali della logica interna
del verbo per annullarlo e costruire, con combinazioni di parole, un sistema,
montato come un immenso gioco di «meccano»? Come è possibile questo,
dato che, quand'anche questo edificio fosse all'interno coerente e solidamente
montato, rimane inerte ed inutile? I bambini, appena montato il «meccano»,
non sanno più cosa fare.
E il nostro giovane avrebbe poi potuto leggere, nei libri di Hegel, testi
costituenti tipici esempi dell'annientamento degli eterni principi della logica
interna del verbo della loro sostituzione con artifici di parola, che non lasciano
nella coscienza alcun segno di ordine della creazione, alcuna armonia benefica
della vera conoscenza, alcun sapore di carità e di speranza.
Ci sono testi che sono sentenze. Non si possono annullare indirettamente con
altri testi, anche se nettamente contrari, perché la presenza di testi antitetici,
come espressione del pensiero dello stesso autore, costituisce in sé un'ulteriore
inadeguatezza. Tra il rilevantissimo numero di tali testi-testimoni del pensiero
e dello spirito in generale di Hegel, ci si potrebbe fermare sul seguente testo
della sua "Scienza della logica":
«La legge è anche l'altro del fenomeno come tale, e la sua riflessione negativa
come nel suo altro. Il contenuto del fenomeno, che è diverso dal contenuto
della legge, è l'esistente, che ha per suo fondamento la sua negatività, ossia è
riflesso nel suo non essere. Ma questo altro, che è anche un esistente, è
parimenti un simile riflesso nel suo non essere. È dunque lo stesso, e quello
che appare non è costì nel fatto riflesso in un altro ma vi è riflesso in sé;
appunto questa riflessione in sé dell'esser posto è la legge. Ma come tale che
appare esso è essenzialmente riflesso nel suo non essere, ossia la sua identità
è essa stessa essenzialmente in pari tempo la sua negatività e il suo altro. La
riflessione in sé del fenomeno, la legge, è quindi anche non solo la sua identica
base, ma il fenomeno ha nella legge il suo contrapposto, e la legge è la sua
unità negativa». (253).
I biografi di Hegel riferiscono che uno dei suoi discepoli gli avrebbe chiesto il
significato di un passaggio di uno dei suoi scritti. Sembra che Hegel abbia
risposto dicendo: «Quando ho scritto, eravamo in due a capirlo, il Buon Dio ed
io; ora, temo che sia rimasto solo il Buon Dio». (254)
Come l'uomo giunge a credere che, con tali dissociazioni interne, possa
raggiungere l'intimità del reale? Non è facilmente spiegabile, perché non è il
risultato di erronei ragionamenti. Anzi questi erronei ragionamenti, sono la
risultante di un'interna disposizione generale che concerne prima di tutto la
volontà. La mentalità storicista dovuta prima di tutto ad una distorsione della
volontà e quindi del pensiero nei confronti del fenomeno del mondo.
Per Hegel, come per Kant e Vico, gli uomini sono strumenti per la realizzazione
dei piani e delle disposizioni della Natura o della Ragione. Il carattere
provvidenziale di questi compimenti, lineari o ciclici, rimane sempre
indefinibile, perché urta con l'intima disposizione di questi autori, come di tanti
altri, a scartare un riferimento diretto ad una Intelligenza Suprema al di fuori
dell'uomo, che agisce eternamente in un'armonia inconcepibile, pur sempre
presente di provvidenza e di libertà. Le differenze tra le diverse teorie e
sistemi, a proposito della natura e del ruolo dei popoli e delle particolari leggi
della loro evoluzione, non tolgono la comune caratteristica: la personificazione
del movimento compatto nel tempo, movimento che costituisce in sé l'essere-
fatto, il suo compimento e la sua giustificazione; giustificazione davanti a chi?
davanti a essa stessa, la Storia.
Le differenze che si possono stabilire, nel quadro della filosofia della storia tra
le differenti nozioni del «senso storico», non sono di vero aiuto. Si può sempre
stabilire un'infinità di differenze tra due gemelli, senza che per questo siano
soppresse la loro comune origine, la loro rassomiglianza e la loro attrazione
interna. Il movimento dialettico di Hegel differisce certo, come espressione,
come processo di argomentazione, come immagine progettata del movimento
universale, dalle diverse concezioni e espressioni del fatto e del senso storico,
così come si può vedere nelle opere a lui anteriori; differenze invero, fino ad un
certo punto.
Non si può, però, costruire nulla su queste differenze, infatti queste differenti
teorie di parecchie epoche; si rassomigliano già molto, talvolta come gemelli,
per il loro comune rifiuto dell'Essere di Dio, e per il loro sforzo di raggirare, con
sottigliezze di espressione, la difficoltà che tale rifiuto presenta.
Ci sono differenze più o meno profonde tra teorie, dottrine, idee, metodi che si
propongono con il medesimo appellativo e talvolta con le medesime formule.
Queste differenze, però, se non sono radicali, non sono sufficienti per annullare
l'identità o l'omogeneità fondamentali di origine, di procedimento e di finalità.
E vi sono differenze che manifestano, malgrado certe similitudini intrinseche, la
differenza del punto di partenza e d'intenzione degli autori; manifestano la
differenza d'intenzione e di speranza.
In tal modo vi sono differenze, più o meno distinte e percepibili, tra le diverse
idee e teorie, che sono state esposte sotto il nome di fenomenologia. Certo c'è
una differenza talora grande, come, per esempio, tra la nozione di
fenomenologia nella «fenomenologia dello spirito» di Hegel e la fenomenologia
di Husserl. (255) C'è la differenza di due esseri, di due intenzioni, di due
volontà, di due sensibilità.
Husserl cerca un'evidenza apodittica che sarebbe la prova assoluta della verità,
ma della «verità scientifica». Ricerca le essenze delle cose, che fanno che le
cose siano incessantemente tali. È difficile vedere in questa tendenza una
fenomenologia puramente descrittiva e nel contempo non dilucidante, dunque
ricorrente a speculazioni. In altre parole, è impossibile attendersi una prova as-
soluta della verità, dalla sola descrizione dei fenomeni nella vita interiore
dell'uomo.
Quando Husserl ha pubblicato il suo libro "Ricerche logiche" (256) molti hanno
creduto che il suo rifiuto dell'idealismo critico di Kant lo avvicinasse
filosoficamente al pensiero di San Tommaso. Il suo libro era considerato come
neo-scolastico. In seguito, quando parecchi anni dopo, ha pubblicato le "Idee a
proposito di una pura fenomenologia e di una filosofia fenomenologica", (257)
parecchi tra i suoi discepoli l'hanno abbandonato, perché hanno creduto che
ritornasse all'idealismo. La sua allieva e assistente, una tra le più belle anime
del nostro secolo, Edith Stein, la futura Suor Teresa-Benedetta della Croce,
(258) che per lunghi anni lo ha seguito e ha lavorato con lui, attestava questo
fatto con le seguenti righe:
«Fu (il libro "Ricerche logiche") considerato come neo-scolastico, perché non
partiva dal soggetto per andare poi verso le cose: conoscere era ancora una
volta un processo di recezione le cui leggi erano date dalle cose, e non era -
come nell'idealismo critico - l'imposizione di leggi alle cose. Tutti i giovani
fenomenologisti erano realisti convinti. Tuttavia le "Idee a proposito di una
pura fenomenologia e di una filosofia fenomenologica" contenevano alcuni
passaggi che facevano pensare intensamente che 'il Maestro si volgesse
all'idealismo. E le sue spiegazioni nella discussione non rimuovevano questo
dubbio». (259)
«La vita dell'uomo non è nient'altro che un cammino verso Dio. Ho cercato di
pervenire alla meta senza l'aiuto della teologia, senza le sue prove e i suoi
metodi; in altre parole, ho voluto raggiungere Dio senza Dio». (260)
Quando nel 1806 Napoleone entrò a Iena, Hegel riversò in una lettera il suo
sentimento e il suo giudizio nei confronti di questo evento, cosa che esprime
un criterio di filosofia della storia:
«Io considero che lo Spirito del mondo ha dato al tempo la parola d'ordine di
avanzare; un tale comando è obbedito; questo essere si avanza irresistibile
come una falange corazzata, in ordine chiuso, e con il movimento
impercettibile del sole, attraverso ogni ostacolo; innumerevoli truppe leggere si
muovono nell'uno e nell'altro senso, e la maggior parte di esse non sa neppure
di che si tratta e non fa che incassare colpi che provengono come da una mano
invisibile. Tutte le millanterie temporeggiatrici... a nulla servono; tutto ciò si
può dire giunga soltanto ai legacci delle scarpe di questo colosso e serva
unicamente a lucidargliele o a gettarvi sopra un po' di fango, ma non è certo in
grado di slacciarle, e ancor meno di cavare le scarpe divine munite di suole
elastiche, o gli stivali delle sette leghe, se al colosso piace di calzarli. Il partito
più sicuro (interiormente ed esteriormente) è quello di osservare questo
gigante che si avanza». (262)
Come Dilthey ha potuto pensare questo di Kant? In questo caso non si tratta di
venerazione sofisticata. È identità di attitudine intellettuale di fronte al mistero
della vita. Tutta l'opera di Dilthey, tutto il suo storicismo è uno sforzo per
costruire una psicologia unicamente sperimentale fondata sulle due grandi
norme di Kant: l'impossibilità di conoscere al di là del fenomeno storico da un
lato, e dall'altro il postulato che l'inchiesta sperimentale può essere soltanto
trascendentale nel senso kantiano (ossia non trascendente).
Per Dilthey, la filosofia è legata ai suoi albori alla vita religiosa. Con il suo
sviluppo, con lo sviluppo delle scienze, però, aumenta il desiderio di «fondare
su solide basi la soluzione dell'enigma universale», ed allora, comincia una
lotta metodica della filosofia, della letteratura, della scienza, cioè la lotta di
tutto quel che costituisce «la vita normale» secondo Dilthey, lotta contro la
religione. La loro maturità esige la loro autonomia. La filosofia implica la
negazione della mentalità religiosa, della «fede dogmatica e della pesante
autorità dei potenti cleri». E Dilthey precisa:
Il manoscritto, scritto nel 1911, lo stesso anno della sua morte, è interrotto a
questo punto.
___________________
Tuttavia, nelle più profonde acque della Chiesa, perseverava il progredire verso
il compimento della sua storia, che concerne la salvezza eterna di ogni uomo,
ogni volta unico; progredire segnalato nei tempi moderni dai due dogmi del
XIX e del XX secolo sulla Santa Vergine: l'Immacolata Concezione e
l'Assunzione. Nello stesso tempo, un liberalismo storicista cristiano impregnava
i popoli, trasmettendo un'effervescenza di emancipazione; emancipazione
dell'uomo da ogni visione gerarchica nell'universo, emancipazione del cristiano
dalla nozione dei sacramenti della Chiesa, e dalla Rivelazione, in quanto eterna
norma di conoscenza.
_____________________
A proposito dell'ermeneutica
Il verbo dell'uomo è scaturito da un ordine di suprema armonia. È questa
un'immutabile e fondamentale conoscenza. Il verbo dell'uomo è scaturito
dall'ordine dell'Intelligenza eterna del Creatore. Nessun ricorso ad immagini
dell'uomo e della società umana, nel più remoto passato, nessuna analisi dei
dati delle lingue e dei linguaggi, nessuna speculazione sui dati della psicologia,
detta sperimentale, nessuna ricerca in qualsiasi campo, può alterare questa
grande e profonda verità, che è e deve essere sempre alla base di ogni
meditazione e di ogni speculazione a proposito della verità, di Dio, dell'uomo e
dei suoi eterni destini. Il verbo dell'uomo ha la sua origine nel Verbo di Dio.
Nei secoli che recano l'impronta dello sviluppo della mentalità storicista, ha
preso forma e si è sviluppata una lettura sempre più nuova dei testi dell'Antico
e del Nuovo Testamento. E in tal modo sono nate e si sono sviluppate tutte le
peculiari forme della nuova critica della Sacra Scrittura.
Come tutte le cose su questa terra, in parallelo a questa critica storica, che ha
evoluto nel senso della mentalità storicista, uno studio critico, un
approfondimento della Sacra Scrittura, ha continuato a trasmettere fino ai
nostri giorni, in modo più o meno imperfetto, ma sempre fedele alla Verità
rivelata, il senso reale del più profondo mistero dell'Antico e del Nuovo
Testamento e dei fatti della Storia Sacra, dell'Incarnazione del Verbo di Dio e
della Resurrezione di Gesù Cristo.
Questo progredire in parallelo raramente si compie nella vita del mondo come
il prolungamento di due rotaie di una strada ferrata. C'è un'interpenetrazione
nella quale domina l'una o l'altra tendenza, talora nella medesima persona o in
una medesima epoca.
È evidente che tutto questo vasto evento della nuova critica ha fondamental-
mente influenzato in molti la nozione della fede della Chiesa, e di conseguenza
l'orientamento della teologia, cosiddetta biblica, e della teologia in genere,
essendo stato rimesso in causa da successive «reinterpretazioni» il fondamento
dogmatico della Chiesa.
___________________
I più elevati e i più begli eventi della storia della terra, i sacrifici inauditi per
puro amore, le manifestazioni di tenerezza e di fedeltà di una grandezza e
profondità irreperibili in tutta la letteratura profana, le meditazioni e le
speculazioni intellettuali sul mistero di Dio, dell'uomo e della conoscenza, che
se non altro con la loro cattedralesca architettura, provocano rispetto in ogni
persona in buona fede e di sana sensibilità, le legislazioni e i costumi, che
hanno comunque temperato la ribellione e l'accecamento dei popoli, le opere
musicali e architettoniche, che hanno svelato segreti di armonia universale
della creazione, le opere del verbo umano, che generano e trasmettono la pace
di amore eterno e l'amore di pace eterna, tutta la perennità vivente del Cristo,
che attraverso la sua Chiesa, attraverso tutte le umane vicissitudini materiali e
intellettuali, ha mantenuto il luminoso contenuto della Fede, tutto questo deve,
secondo la «teologia storicista» essere reinterpretato e fecondato da un'«auto-
interpretazione profana» che l'uomo possiede in una determinata epoca.
E per quale via questo contenuto della Fede, che ha mantenuto nella pietà
profonda grandi sapienti e ha colmato di conoscenza elevata l'anima di molti
figli di Dio, deve lasciarsi fecondare?
Tutte le parole di Cristo, il suo messaggio, il suo monito rivolto agli Apostoli:
«sia il vostro parlare sì, sì; no, no», tutte le parole degli Apostoli a proposito
della loro testimonianza e della verità da trasmettere (274), ogni parola della
Sacra Scrittura riguardante la verità da conoscere e da trasmettere, tutto
questo deve essere reinterpretato secondo le «nuove teorie» del linguaggio.
Così la teologia dovrebbe cambiare punti di riferimento ed entrare
deliberatamente e coscientemente nell'era del relativismo trascendente.
La Chiesa non potrebbe mai formulare proposizioni certe per definire la fede,
perché «essa dovrà tener conto della problematica inerente a tutte le
proposizioni in generale», e non si potrà mai concepire ed esprimere con
certezza alcuna verità.
Secondo questa nuova filosofia del linguaggio (275), «le proposizioni di fede
non sono mai parola di Dio immediata», per questo tale parola mediata è
«percepibile e trasmissibile in quanto proposizione umana. Come tali, le
proposizioni di fede rientrano nella problematica generale delle proposizioni
umane». Infatti «le proposizioni non corrispondono alla realtà»; «le
proposizioni sono fraintendibili»; «le proposizioni sono solo relativamente
traducibili»; «le proposizioni sono in movimento»; «le proposizioni sono
ideologizzabili - anche la proposizione 'Dio esiste' è ideologizzabile». Ecco come
Hans Kung espone in cinque punti il suo credo sull'impossibilità di poter mai
avere un credo certo. (276)
Tali predicati non possono essere celati con altri testi degli stessi autori, testi
forse voluminosi, ma sempre nella medesima direzione e molto spesso evasivi.
Questi predicati manifestano, infatti, un relativismo assoluto, insediano nella
Chiesa un relativismo assoluto; trasmettono una dottrina del linguaggio tale
che nessuno si possa mai sentire nella verità, né acquisita a forza di
speculazione e di ricerca, né rivelata da Dio.
_____________________
Negazione dell'Incarnazione.
Gesù Cristo, sin dall'inizio, già prima della sua Passione è stato contestato dagli
scribi e dai dottori. È stato condannato, perché apportava con la sua Persona, il
messaggio della salvezza degli uomini, essendo il Figlio di Dio e perché aveva
dichiarato, dinanzi alla più alta autorità d'Israele, che era il Figlio del Dio
Benedetto. Poi è stato contestato in seno alla stessa sua Chiesa da «scribi e
dottori», nel corso di tutti i secoli della vita del cristianesimo.
È accaduto di nuovo, nel nostro secolo, che sia penetrata, più o meno
consciamente, nell'ambito della Chiesa la negazione della Realtà divina di
Cristo e del Mistero della sua Incarnazione. Nel quadro di alcune teologie nella
Chiesa e in tutte le confessioni, è particolarmente evidente che questa
negazione è il risultato manifesto di un capovolgimento della speranza, del
quale abbiamo già parlato. È anche evidente che questa negazione e questo
capovolgimento della speranza comportino obbligatoriamente la perdita
sempre più considerevole dell'ordine costituzionale di veracità e di carità del
linguaggio.
È certamente difficile, per la maggior parte dei fedeli, con il semplice aiuto
della riflessione e dell'informazione intellettuale esteriore, discernere, in mezzo
alla moltiplicazione di continue messe in discussione di ogni nozione,
considerazione, accezione, principio e postulato della Chiesa docente, la via
stretta ma regale della logica interna e dell'ordine eterno del verbo. Senza
queste nozioni e questi principi fondamentali della Chiesa docente, non ci
sarebbe nessuna possibilità né diritto di parlare in teologia, in seno al mondo
cristiano.
In questo libro (pag. 74) abbiamo già mostrato come Karl Rahner insegni che
Dio e l'uomo hanno la medesima essenza.
b) Secondo Rahner, «non si nega che all'interno di questa cristologia del Nuovo
Testamento sia dato trovare concezioni di fondo diverse, ma che non per
questo si eliminano a vicenda, di questa cristologia, a seconda che venga
preferito (gnoseologicamente ed ontologicamente) uno schema di ascesa o di
discesa». (278)
Ci sarebbe non soltanto una dottrina del Nuovo Testamento su Gesù, una
dottrina ecclesiastica e una dottrina della predicazione odierna, ma persino
quella, che è accettata come dottrina del Nuovo Testamento, conterrebbe delle
«concezioni di fondo» diverse. Questo dovrebbe bastare per capire l'abisso tra
il Vangelo e tutte queste considerazioni che si propongono come insegnamento
della Chiesa di Cristo. C'è però, in merito al Vangelo, qualcosa di più,
nell'immediato contesto di queste proposizioni dell'esposizione di Karl Rahner,
che dice: «La dottrina dei Nuovo Testamento su Gesù è al di là
dell'autotestimonianza del Gesù storico».(279)
- Quale valore può avere una dottrina del Nuovo Testamento, se questo
Documento, il Nuovo Testamento, altera la testimonianza che Gesù Cristo ha
reso di se stesso?
Per Rahner, però, questa domanda del giovane è superata, senza reale
risposta, con speculazioni, da lui stesso qualificate con il nome di «cristologia
trascendentale». Dice, infatti, chiaramente, in queste stesse pagine del suo
articolo su Gesù Cristo, che la cristologia paolina e giovannea, sebbene
impegnativa, è già un'interpretazione, e non può costituire il punto di partenza
per una teologia sistematica odierna:
«Una cristologia sistematica odierna non può tuttavia prendere il suo naturale
punto di partenza in questa comprensione teologica di Gesù Cristo; questo in
fondo vale anche per le affermazioni cristologiche della Scrittura più antiche
prepaoline».(280)
Secondo Karl Rahner, uno dei punti della dottrina del Nuovo Testamento che
va al di là della testimonianza, che il Cristo ha reso di se stesso, è
precisamente la preesistenza del Cristo, ossia la preesistenza del Verbo di Dio,
prima della nascita di Gesù di Nazareth:
«Si può contare che titoli di dignità come 'Messia', 'Figlio dell'uomo', 'Signore',
forse anche 'il Figlio', siano stati presi soltanto dalla comunità primitiva per
caratterizzare la coscienza, e quindi la pretesa, da parte di Gesù, di essere
stato mandato, come anche per esprimere la propria fede in lui». (283)
Nell'assieme della sua teoria, esposta in tutti i suoi scritti, come anche nei suoi
articoli dell'«Enciclopedia teologica», è ignorato e implicitamente confutato il
mistero dell'Annunciazione, ossia il mistero dell'Incarnazione. (286)
L'attesa della creazione che geme (Rom. 8, 19) non significa che l'Incarnazione
sia un evento di «vicinanza» di Dio e dell'uomo, né un evento collettivo a lunga
scadenza. Tutta la creazione attende la redenzione. Essa non segue i tempi
successivi dell'evento di un'Incarnazione che deve espletarsi a lunga scadenza.
È certo che nella teologia scolastica lo studio dell'uomo Gesù ebbe una vasta
importanza. In particolare San Tommaso d'Aquino si è minuziosamente
occupato di tutto quel che riguarda la conoscenza, la scienza, la volontà
dell'uomo come anche la conoscenza, la scienza, la volontà di Dio, in Gesù
Cristo. Qui siamo, però, ben lungi da tali questioni. San Tommaso, infatti, parla
della realtà umana di Gesù Cristo, come essendo stata concepita nel seno di
una donna, per diretto intervento di Dio. Per questo la teoria di Rahner non
può procurarsi un appoggio qualsiasi col riferirsi al fatto che l'umanità di Gesù
Cristo sia stata largamente trattata dalla Scolastica.
«Ciò che l'uomo sia, costituisce l'affermazione della totalità della teologia in
assoluto». (290)
***
Il professore Hans Kung a più riprese afferma che Gesù ha potuto prendere
«coscienza della propria vocazione nel contesto del battesimo - e da quel
momento egli si sentì pervaso dallo Spirito». (292) Certamente Kung dice
ancor meno degli occultisti, dal momento che non accetta alcuna divinità in
Gesù Cristo né prima né dopo il battesimo. Con tutti i suoi scritti Kung
conferma, con minore ermetismo di Rahner, la sua dottrina su Gesù Cristo.
Secondo questa dottrina, l'Incarnazione e tutto quel che concerne
l'Annunciazione e la Natività di Cristo, nei testi del Nuovo Testamento, sono pie
leggende dovute ad anonime compilazioni della primitiva comunità cristiana.
(293) In Kung, la spiegazione della persona di Cristo è più sociale e psicologica
che speculativa. Con il termine «incarnazione», intende la vita e
l'insegnamento di Cristo:
«In nessun luogo del Nuovo Testamento si parla dell'incarnazione di Dio stesso
- Se oggi si vuol parlare senza fraintendimenti anche dell'incarnazione del
Figlio di Dio, questa non potrà essere ridotta al punctum mathematicum o
mysticum del concepimento o della nascita di Gesù, ma dovrà piuttosto essere
estesa all'intero vivere e morire di Gesù». (294)
È così che in seguito nel suo libro "Dio esiste?" esprime con caratteri in rilievo,
il suo credo, che confuta il mistero dell'Annunciazione del Credo della Chiesa:
E Kung afferma che in questo senso e certo soltanto in questo senso, «accetta
anche il Concilio di Nicea del 325». (297)
Ma ecco l'immagine che Kung fa di Gesù, immagine che non esprime soltanto
una sfrontatezza di cattivo gusto o una sconsiderata fantasia; ma esprime la
risultanza interiore di una visione escatologica fondamentale storicista:
Esiste un piccolo libro il cui autore non è noto e, pensiamo, senza alcuna
pretesa teologica, intitolato "Mai un uomo ha parlato come quest'uomo". (300)
Si nota nelle pagine di questo libro, che la parola di Cristo è venerata per la
sua sovrumana grandezza, profondità e vitalità e per la sua origine eterna.
Quando non è ricevuto, è respinto con ostilità e talvolta con una mancanza di
elementare decenza. Persino un «narratore di Kabul», più di molti dotti, può
essere recettivo e sensibile alla grandezza e alla bontà uniche ed inimitabili
della parola e degli atti di Cristo.
***
Il problema dei rapporti tra Chiesa e mondo, il problema del naturale e del
soprannaturale, il problema dell'essenza e del significato della realtà
sacramentale, il problema della vocazione dell'uomo e della sua missione nella
storia, il problema dei rapporti dell'uomo singolo e dell'umanità con la storia e
con l'eternità, tutti i problemi, tanto quelli riguardanti la conoscenza di Dio
come quelli riguardanti i mezzi e le vie di salvezza, hanno un comune
denominatore: l'Incarnazione del Verbo di Dio per Maria e per lo Spirito Santo.
Per questo non bisogna mai dimenticare che le più elevate speculazioni sulla
Santissima Trinità, per esempio, o la meditazione sul fenomeno globale della
storia degli uomini o sull'essenza reale della nozione di sacramento, dipendono
logicamente ed inevitabilmente dalla nozione dell'Incarnazione; e soprattutto
dal nostro intimo rapporto con questa nozione.
Gli uomini vivono, amano Dio e i loro simili, senza che tutti abbiano la
medesima conoscenza intellettuale del mistero di Dio e della creazione. Questa
differenza, però, nel grado di conoscenza intellettuale, non impedisce
necessariamente agli uomini di essere in interna armonia con la Verità e la
Volontà del Creatore. Se l'uomo, però, coscientemente si sforza di costruire,
con le proprie forze e secondo l'inclinazione della propria volontà, spiegazioni
dei segreti di Dio, confutando o alterando o ignorando volontariamente quel
che gli è stato dato come verità rivelata, si distacca de facto da ogni armonia,
e da ogni possibilità di percezione del reale.
Secondo questa legge, l'umanità ha fatto il suo cammino fino ad oggi e la
Chiesa è stata costituita, ha ricevuto la Rivelazione, l'ha conservata e l'ha
trasmessa intatta attraverso molte attese ed esitazioni, molte sofferenze e
molta santa ignoranza. Questa santa ignoranza, infatti, non impedisce che si
riceva, si viva e si trasmetta in atti di vita e in parole di vita la Verità rivelata e
ricevuta.
***
Quando San Paolo afferma che «udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno
pronunciare», (301) non vuol dire con questo che si tratta di un segreto
affidato, da custodire ad ogni costo, ma vuol dire che ha udito parole che sono,
per se stesse, indicibili e che non è dato all'uomo di poterle pronunciare. In tal
modo parla di un mistero, ma non di un segreto. Ogni mistero contiene una
realtà celata.
È in seno alla vita profonda della Chiesa, per mezzo della Santissima Vergine e
degli Apostoli, che Cristo ha depositato le grandi verità sul mistero della sua
persona e della sua opera di Redentore. La predicazione per mezzo di persone
dallo spirito totalmente rinnovato, è scaturita da questo eterno deposito di
verità rivelata e di carità, come una luce e come una forza. E, mentre la
predicazione si adattava certamente ai linguaggi e ai livelli dei popoli, subendo
talvolta perturbazioni, le grandi verità del sacro deposito si trasmettevano
immutabili, illuminavano le menti e venivano a poco a poco formulate e
definite, secondo le provvidenziali necessità, nell'ambito della vasta ed
effervescente vita della Chiesa.
_________________
Sin dall'inizio, l'abbiamo già detto, la realtà divina di Cristo è stata contestata.
Era inevitabile, perché se il Figlio di Dio fosse accettato senza contestazione,
sarebbe il segno che lo scopo dell'Incarnazione, in questa carne dell'uomo nella
storia che ha fatto seguito ad Adamo, sarebbe stato raggiunto, prima
dell'Incarnazione.
Se il nostro giovane aprendo un libro sulla filosofia antica, trovasse scritto nella
prima pagina che Aristotele non aveva ben capito il senso con il quale Platone
utilizzava alcuni termini, mentre l'autore del libro pretende di averlo capito
meglio dopo 24 secoli, il giovane penserebbe che l'autore del libro non doveva
essere serio. Egli si direbbe:
Per questo il nostro giovane, nella sua carità, sarà molto perplesso di fronte ad
innumerevolissimi casi come, per esempio i seguenti:
1. Nel libro "La nuova ermeneutica" di James M. Robinson e Ernst Fuchs (302)
nella prima pagina si legge:
«La glossolalia, in realtà, non consisteva nel parlare lingue straniere, come
sembra intenderla Luca». (303)
San Luca, negli "Atti" impiega le espressioni «parlare in altre lingue» (305) e
«parlare in lingue».(306) San Luca è stato compagno e collaboratore di San
Paolo. È più che normale pensare che San Luca sapesse meglio di molti altri
suoi contemporanei cosa San Paolo intendesse con alcuni termini ed
espressioni, forse fin troppo sintetiche. Indipendentemente, però,
dall'espressione di San Paolo «parlare in lingue», il fatto significato da questa
espressione, era accaduto più volte dopo la Pentecoste. E San Luca non poteva
scrivere con leggerezza su un fatto straordinario, dal momento in cui - come
egli stesso lo dice all'inizio del suo vangelo - ha scritto dopo aver fatto
«ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi» (307). D'altra parte è
inconcepibile che abbia capito il fatto di parlare in lingue in modo diverso da
San Paolo. Poter affermare che noi capiamo meglio di San Luca quel che aveva
saputo sugli eventi e quel che San Paolo intendesse con l'espressione «parlare
in lingue», mostra in quale alterazione del giudizio sia sfociato il lungo logorio
dei criteri e dei riferimenti ad opera della crescente pletora di considerazioni
della critica razionalista, nella mentalità storici sta ed esistenziale.
«Inizio storico della fede in Cristo la risurrezione di Gesù lo è proprio nel senso
che, soltanto partendo di là, si può parlare realmente di fede in Gesù, il Cristo
e Figlio di Dio. - Ci si richiama soprattutto alla confessione di Simon Pietro a
Cesarea di Filippo: 'Tu sei il Figlio del Dio vivente'. L'indagine evangelica
recente ci ha tuttavia insegnato a non prendere tali asserzioni semplicemente
in un senso storico. - Matteo voleva, in questo punto, introdurre la sua
tradizione speciale circa la promessa di Gesù di costruire su Pietro la roccia, la
sua comunità e la confessione di fede di questo discepolo esaltato da Gesù la
formulò in una maniera che non corrispondeva in vero alla situazione storica di
allora, ma alla sua piena fede posteriore». (309)
«Un altro passo conferma questo modo di procedere del primo evangelista. Alla
fine del cammino sulle acque da parte di Gesù egli scrive a proposito dei
discepoli: 'E quelli che erano sulla barca gli si prostrarono davanti,
esclamando: "Tu veramente sei Figlio di Dio". (311) Se questo fosse un
racconto storico preciso, in che cosa Simon Pietro a Cesarea sarebbe stato
superiore ai suoi condiscepoli?». (312)
E semmai Gesù, conoscendo come e quanto fosse ricevuto nel cuore degli
Apostoli, che avevano abbandonato tutto e lo seguivano dovunque, sapendo
che la loro fede si era sempre più ampliata, approfondita e
soprannaturalizzata, sapendo che la nozione di «Figlio di Dio» ritornava sulle
loro labbra e nella loro meditazione con più o meno timore e stupore, e
semmai Gesù avesse trovato il momento propizio per porre chiaramente la
domanda capitale sulla sua Persona: «La gente chi dice che sia il Figlio
dell'uomo? Voi chi dite che io sia?». (317) Semmai?
3. San Matteo cita il famoso passo d'Isaia (318) per mostrare il compimento
della profezia con l'Incarnazione verginale di Gesù Cristo. Si serve del versetto
dei Settanta: «Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio». Il giovane
sarebbe certamente preso da vertigini, se seguisse, una dopo l'altra, tutte le
considerazioni pro e contro la traduzione della parola ebrea «almah» con
«vergine».
Dennefeld, nel "Dizionario di teologia cattolica", (323) come molti altri, come
Josef Schmid, nel suo commento ai Vangeli di San Matteo e di San Luca, (324)
traducono dapprima la parola «almah» con «vergine» e poi trovano che non è
possibile che il profeta Isaia, rivolgendosi a tutto Israele, a tutta la casa di
David, abbia di mira un'altra donna vergine che non sia quella rivelata in lui da
Dio, la Santissima Vergine Maria. E specialmente Josef Schmid scrive, tra
l'altro:
«Sia Matteo (1, 18-25; cfr. anche l, 16) che Luca (1, 26-38) attestano
chiaramente e decisamente che Giuseppe non era il vero padre di Gesù. -
Matteo per i suoi lettori giudeo-cristiani appoggia espressamente il fatto da lui
narrato col rinvio alla profezia dell'Emmanuele (Is. 7, 14) ».
Non è certo difficile rendersi conto del movente che ha fatto sorgere una
generale contestazione nei confronti del riferimento di San Matteo ad un
versetto di Isaia, e nei confronti della traduzione della parola «almah» con
«vergine». Questo non è difficile, ma rimane incredibile.
Nel «Mysterium salutis», si legge che non è impossibile che Isaia si sia servito
di un mito conosciuto all'epoca per parlare della «giovane donna». (329)
Questa «giovane donna» potrebbe essere la dea Anat, dea della vegetazione,
che come la vegetazione muore e ricresce ogni anno, così, nonostante «il suo
santo matrimonio» che si celebra ogni anno, è ancora vergine. (330)
Nel "Grande lessico del Nuovo Testamento» di Gerhard Kittel, si legge che
l'etimologia della parola greca *** è incerta. Lo sviluppo semantico non
potrebbe essere dedotto se non dall'uso letterario. E si legge questa incredibile
"informazione":
Cita, però, anche Plutarco che dice a proposito della Pizia che era «vergine
nella sua anima». Inoltre il "grande dizionario della lingua greca" cita
Aristofane, Omero, Esiodo, Senofonte, Sofocle, Erodoto, Euripide, presso i quali
la parola «***» è utilizzata per significare «una giovane donna che non
conosce affatto uomo». (333) Per questo la definizione della parola «vergine»,
«***» di Kittel stupisce e lascia perplessi.
A proposito del passo di Isaia 7,14, in Kittel si legge che il profeta parla di una
donna ben precisa: o della moglie del profeta, o di quella di Ezechia o di una
donna sconosciuta tra la folla o sconosciuta anche ad Isaia o a «tutte le giovani
donne di Israele che erano allora incinte». (334)
***
Questo, certo, non vuol dire che tale grazia non sia stata realmente grazia, che
non sia stata veramente un dono gratuito, ma questo dono, imperioso che sia,
è stato liberamente e totalmente ricevuto con amore. San Paolo è uno tra i più
grandi esempi dell'armonia quasi impalpabile, ma fondamentalmente oggettiva
tra la decisione irrevocabile di Dio e la libertà dell'uomo nel suo amore per la
verità.
Tale amore è evidente anche quando si cammina su strade sbagliate; e la sua
assenza è anche evidente quando si cammina su strade che, dal punto di vista
strettamente concettuale, possono considerarsi giuste.
Nello sviluppo della critica storica dei testi, di tutti i metodi e considerazioni
dottrinali che costituiscono oggi l'attività esegetica e l'ermeneutica in genere,
vi sono principi e orientamenti intellettuali e spirituali molto positivi, positivi
perché in seno a questo sviluppo ed anche in base ai nuovi dati, l'uomo ha
potuto sentire confermate, nel suo intendimento e nel suo cuore, con sempre
maggiore intensità, ampiezza e intimità, le grandi verità rivelate
dall'Incarnazione di Cristo e dal suo messaggio trasmesso in modo vissuto, e
consegnato anche per iscritto nella Chiesa.
Ci sono stati anche dei deterioramenti, e degli orientamenti del pensiero tali da
degradare e persino rifiutare i criteri fondati sulle verità rivelate. Spesso così,
da ogni lato, sia nella coscienza di coloro che erano ancorati in forme svuotate
dallo spirito ma rimaste tradizionali, come nella coscienza di coloro che erano
trascinati dalla frenesia di un incontrollato rinnovamento, senza reale legame
con la verità rivelata, c'è un deterioramento più o meno radicale della Persona
del Cristo, della sua azione ontologicamente redentrice e del suo messaggio di
redenzione per l'uomo.
La massa di lavori critici, l'estensione sociale dei nuovi principi e dei nuovi
metodi di approccio della verità e di ricerca della verità, hanno creato quasi un
mondo di essere e di pensare nuovo. In questo mondo, quegli stessi che
avevano la giusta visione e l'amore chiaro e libero della verità sono stati
trascinati ad impiegare il linguaggio, a seguire i metodi e a procedere con modi
di giudizio alieni dai principi che li avevano animati, quando avevano sentito
l'appello di Dio. Tale è stato il logorio dei principi e dei criteri nello sviluppo
della mentalità storicista e nell'estensione del relativismo esistenziale.
Sarebbe sufficiente per il giovane soffermare il suo sguardo su alcuni casi, tra
gli innumerevoli casi che l'assalgono da ogni lato.
Nello stesso libro, Rahner scrive che la cristologia di San Paolo e di San
Giovanni è già una «teologia», cioè una riflessione fatta dopo la Risurrezione
sulla coscienza che Gesù Cristo storico aveva di se stesso e aggiunge:
«Una cristologia sistematica odierna non può tuttavia prendere il suo naturale
punto di partenza in questa comprensione teologica di Gesù Cristo; questo in
fondo vale anche per le affermazioni cristologiche della Scrittura più antiche,
pre-paoline». (341)
Ed il “Commentario” continua:
b) - «La confessione di Paolo assicura gli uomini che Dio era loro presente in
Gesù; la confessione di Nicea assicura gli uomini che Gesù era Dio.
Un'affermazione conduce, in ultima analisi, all'altra - ma dall'una all'altra c'è
sviluppo di dottrina». (342)
Per Rahner, invece, la concezione di San Paolo così come quella di San
Giovanni sarebbe in contraddizione con la cristologia "originaria"(?),
trasformata nel Nuovo Testamento nella dottrina enunciata in seguito dal
Concilio di Nicea, ossia del Figlio-Logos preesistente.
Cosa rimane della nozione di Chiesa, per uomini che si suppone che recitino
tutte le domeniche il Credo durante la Santa Messa, mentre lo confutano, in
mille maniere, e soprattutto sul punto capitale della Redenzione, l'Incarnazione
del Verbo eterno di Dio?
Quel che, però, per molti è il più importante, è di abbattere nelle coscienze,
nella speranza e nel culto, l'Incarnazione.
Per questo sul Mistero della Santissima Vergine Madre di Dio è caduto
l'oscuramento. Nessuna esagerazione di un pietismo semplicistico popolare, e
nessun riferimento o invocazione a Lei, meccanica, formalista e puramente
intellettuale, potrebbero mai giustificare un tale ostruzionismo e una tale
illogicità di fronte ai reali dati della Scrittura e della Tradizione.
Infatti, secondo una certa branca della critica, non si potrebbe mai predicare
senza alterare; alterare ogni realtà, con aggiunte di fede e di pietà personali o
con il desiderio d'imprimere nelle coscienze tale accezione personale del
messaggio iniziale.
Tutte le parole, come le parole della Santa Cena, tutte le confessioni, tutti i
maggiori fatti come l'Annunciazione, sono reputati sia come aggiunte tardive
sia come scritti con pie intenzioni, alteranti però, la realtà originaria. Dalla
critica storica è derivata una branca, possiamo dire speciale, di formale
contestazione di ogni affermazione o fatto della Rivelazione, del messaggio e
della storia di Cristo e della Chiesa, che contiene, implicitamente o
esplicitamente, il messaggio della speranza di vita eterna; speranza che
trascende tutte le aspettative temporali della storia.
Questo postulato afferma per prima cosa che la comprensione di quel che
significa l'espressione «coscienza» di Gesù deve essere sempre incerta e ci si
deve aspettare sempre una nuova interpretazione. Orbene, interpretazione non
significa espressione, illustrazione di un concetto o di un'idea. Se si deve
modificare l'interpretazione, questo significa che la prima non sarebbe più
valida; e poi stando a questo postulato, questa ermeneutica deve essere
praticata in diversi ambienti, nei quali secondo l'autore viene espressa la fede
in Gesù Cristo. Cosa, però, deve fare l'ermeneutica in seno a queste differenti
culture? Perché l'interpretazione dipenderebbe dalla cultura dell'ambiente?
Servirsi dei mezzi linguistici e dei dati locali per intendersi con le persone non è
un problema di ermeneutica né di nuova interpretazione. E' la stessa
interpretazione che occorre trasmettere ovunque, servendosi dei mezzi e delle
diverse forme, a seconda delle necessità.
Il postulato così come è formulato, non può indicare nient'altro che questo:
l'ermeneutica deve dare interpretazioni sempre nuove, a seconda delle culture.
Cioè: è come se l'interpretazione fosse lo strumento che deve suonare le
musiche locali. Non consiste nello sforzo per mettere alla portata di tutti la
grande ed immutabile Verità, infatti in questo caso l'interpretazione sarebbe
immutabile nonostante le espressioni più o meno relative. Si tratterebbe
soltanto di reperire i mezzi linguistici, i parallelismi e gli esempi, per
trasmettere questa medesima ed unica interpretazione, in seno a differenti
culture.
Una più completa interpretazione della Verità del Cristo significherebbe che si
sarebbe completato qualcosa che illustrerebbe la stabilità della conoscenza.
Dire, però, che «non si deve mai pretendere di fissare l'interpretazione» è
illudersi e giocare, in tal modo, sulle parole.
Il problema è ben più grave di quel che si possa, all'inizio, pensare perché, in
nome della perenne interpretazione, si abolisce il riferimento stabile della
Rivelazione e l'universalità di una comprensione fondamentale. L'ermeneutica,
secondo questa tendenza, diviene «problematica dell'intendimento». Non si
tratterebbe più d'interpretare delle realtà, infatti non ci sarebbe più, stando a
questi postulati, realtà stabile da interpretare. Si tratterebbe dunque soltanto
di un adattamento perpetuo a situazioni e a dati culturali mutevoli.
In tal modo si spiega l'impiego abusivo di una parola sana e semplice, che è
diventata la parola-chiave di ogni contestazione delle certezze rivelate e delle
certezze veramente teologiche: il kerigma, ***.
Smulders pone una domanda che include una risposta sia a proposito della
calma come a proposito della cristologia in genere. Secondo Smulders la calma
nella Chiesa non sarebbe stata possibile se i teologi e i predicatori avessero
insegnato una dottrina contraria a quella dei concili; non ci sarebbe stata
calma, se la predicazione e la teologia si fossero contrapposte alla dottrina
solenne del Magistero. E inoltre, questo contrasto si sarebbe verificato qualora
la vera dottrina sul «Mistero dell'uomo-Dio» fosse stata inserita nella
predicazione sulla fede, «nel cuore della fede». La calma, dunque per lunghi
secoli dopo il Concilio di Costantinopoli III fino all'attuale «risveglio» dei tempi
recenti, sarebbe dovuta al fatto che tutti sarebbero stati sottomessi allo stesso
errore, alla «falsa» dottrina dell'Incarnazione.
Perciò, questi stessi problemi posti da Smulders significano in ogni modo due
cose: primariamente, che in questo lungo periodo, la Chiesa avrebbe vissuto
praticamente il dogma dell'Incarnazione sia con un monofisismo, sia con un
nestorianesimo, perché - da quanto emerge - il dogma dell'Incarnazione
sarebbe in fondo inconcepibile e impossibile. Secondariamente, che il «Mistero
dell'uomo-Dio non sarebbe stato veramente inserito» come fondamento della
dottrina della fede predicata, e sarebbe questo fatto, questa assenza tanto nel
dogma quanto nella predicazione della Chiesa, della «vera» dottrina sul Cristo,
che avrebbe mantenuto la calma. Questa vera dottrina del Mistero dell'uomo-
Dio, «soffocata» dal Magistero, dai teologi e dai predicatori per lunghi secoli,
sarebbe dunque la dottrina dell'ascesa e non la dottrina del dogma
dell'Incarnazione.
«Il mondo ellenistico e quello bizantino degli inizi, in cui il dogma cristologico
ha raggiunto la sua forma, sono tramontati ormai da secoli; le loro concezioni,
i loro concetti, le loro categorie e schemi mentali, sono diventati estranei
all'umanità». (347)
f) I Padri dei primi secoli, come Sant'lreneo, per esempio (349), non avrebbero
avuto una vera conoscenza della lingua dei Settanta né di certo di quella
ebraica, poiché costoro avrebbero visto e letto in Isaia 7,14 l'annuncio
dell'Annunciazione. Sant'Ireneo specificamente, avrebbe avuto un gran torto
nel dichiarare così fermamente e così nettamente:
«Fu, dunque, Dio a farsi uomo e il Signore in persona ci salvò, egli che ci diede
il segno della Vergine (Is. 7,14). Non è perciò vera l'interpretazione di alcuni
che osano tradurre la Scrittura così: 'Ecco, una giovane porterà nel seno e
partorirà un figlio'. - Gli apostoli, infatti, che sono anteriori a costoro,
convengono con la predetta versione (quella dei LXX) e la nostra versione
concorda con quella degli apostoli. Pietro e Giovanni, Matteo e Paolo, gli altri
ancora e i loro discepoli annunziarono tutte le cose profetate nel modo che è
contenuto nella versione degli anziani (i 'Settanta') ». (350)
i) Queste considerazioni non sono isolate in qualche scritto di uno o due o tre o
quattro o cinque persone. È il tenore degli scritti di numerosi autori, di
professori, d'insegnanti, ed anche di pastori, oltrepassando talvolta ogni
frontiera ed ogni limite di dottrina, di storia e di logica, con più o meno
chiarezza nell'espressione o nei concetti. Si tratta di una disgregazione non
soltanto cristologica, ma necessariamente ecclesiologica. Se il Cristo è uomo e
soltanto uomo, la Chiesa è soltanto umana. L'identità di Cristo è la base di ogni
teologia veridica per il cristianesimo.
Tutto questo lungo errore della Chiesa nei confronti dell'identità di Cristo, della
vera proclamazione della dottrina e sulla realtà della Chiesa stessa «sarebbe
messo particolarmente in evidenza» con la comparsa, all'inizio del nostro
secolo, del fiore della critica rappresentata dalle opere di Dibelius, di Bultmann,
di Schmidt, di Bertram. (352) È la teoria del «metodo della storia delle forme»
(Formgeschichtliche Methode). È il tempo del gran mito: del mito della
demitizzazione.
***
La teoria della «storia delle forme», cioè la teoria che vuole dapprima porre
degli archetipi di forme letterarie come categorie alle quali bisognerebbe
ricondurre tutti gli scritti del Nuovo Testamento, in base alla più meccanica
delle critiche storiche, è un'invenzione che, indipendentemente dal ruolo che
ha giocato in seno alla Chiesa e al cristianesimo in genere, non corrisponde in
sé ad una legge o ad un'esperienza generale delle scienze umane. Non
corrisponde neanche a quel che l'uomo può concepire seriamente come nozioni
e principi della Scienza in genere.
O voi uomini, in nome delle mie piccole oscurità, volete soffocare la mia grande
verità, e in nome dei vostri piccoli barlumi, volete coprire le vostre grandi
tenebre.
La critica per mezzo del «metodo delle forme» è una falsa via di ritorno al
passato e di «ricostituzione della storia» sia per quanto riguarda i fatti e i testi
di cui essa si è occupata, sia per quanto riguarda la reale esperienza degli
uomini a proposito dell'informazione, della trasmissione delle cose viste e
udite.
La critica in base alle forme letterarie del Nuovo Testamento non ha messo più
in evidenza alcune differenze tra i testi e certi «vuoti» non facilmente spiegabili
nel Nuovo Testamento, di quel che non l'avessero notato, conosciuto e
profondamente vissuto i primi Padri e tutti i Dottori della Chiesa.
La sola differenza sta nel clima intellettuale e spirituale nel quale ci si è messi a
spiegare ad ogni costo, con riferimenti e parallelismi arbitrari, i punti oscuri e
le differenze tra stili, forme, parole, ordini di relazione dei fatti. E questo, con
l'illusione ancor più profonda di credere che il «critico attuale» può essere in sé
più oggettivo degli autori del Nuovo Testamento, più oggettivo dei pastori della
Chiesa dei primi tempi, che ricevevano e trasmettevano, per via orale e di vita,
il messaggio globale della Persona e dell'insegnamento di Cristo. Questa,
illusione si è resa possibile persino in persone in buonissima fede, a causa della
storicizzazione della mentalità, e quindi dei criteri.
Il giovane potrebbe chiedere ad un fervente discepolo e maestro della critica
storica del «metodo della storia delle forme»:
- Tramite quali criteri si può esser sicuri dell'assoluta oggettività di una delle
molteplici storie della Rivoluzione francese o del Risorgimento, considerate le
«omissioni», le «addizioni» e le relazioni comuni a tutti i libri di storia?
- Come si può esser sicuri dell'oggettività delle esposizioni su fatti molto più
recenti, come la storia della Rivoluzione russa dell'ottobre 1917 e di quel che è
venuto dopo? Secondo quali criteri si può trovare il libro di verità oggettiva?
- Qual è il criterio per trovare la verità oggettiva di fatti ancor più recenti,
come per esempio la storia del Concilio Vaticano II? Qual è il criterio che, per
cogliere il vero «Fatto Conciliare», mi permette di scegliere tra lo spirito dei
testi di Karl Rahner e lo spirito dei testi di Urs von Balthasar?
Egli potrebbe allungare indefinitamente la lista delle sue domande, senza mai
ricevere una risposta adeguata dal critico, discepolo della «Formgeschichtliche
Methode».
E si renderà così conto della vera essenza e del vero aspetto del problema della
conoscenza della verità storica. Si renderà conto del come e del perché la
Chiesa nonostante le contraddizioni apparentemente insolubili per la ragione
ordinaria e nonostante la ristrettezza talvolta desolante di alcuni suoi figli, ha
potuto cogliere in quanto insieme e per mezzo delle migliori intelligenze
dell'umanità, la realtà storica e il mistero storico di Cristo, attraverso la realtà
storica e il mistero storico del Nuovo Testamento e della Tradizione.
Il giovane intuirà allora i criteri e il metodo del vero pensiero e della vera
coscienza scientifica. E capirà molte cose semplici, profonde e immense:
- Capirà che nessuno dei nostri sapienti critici attuali potrebbe essere un
testimonio più oggettivo e veridico di San Matteo, di San Luca, di San Marco, di
San Giovanni, di San Paolo, né più oggettivo re latore e continuatore del
messaggio apostolico che non lo siano stati i Padri apostolici, nel ricevere e
continuare la Tradizione scaturita dall'essere stesso e dal verbo di Cristo.
- Capirà quanto sia semplice non fare un'artificiale distinzione tra Nuovo
Testamento-documento storico e Nuovo Testamento-documento religioso.
lnfatti è proprio il carattere luminoso della testimonianza apostolica, diretta e
indiretta, ad essere altamente religioso perché profondamente storico e
altamente storico perché profondamente religioso.
- Capirà che l'oggettività dei fatti che concernono l'uomo e Dio non è mai
neutra, perché la verità non è mai neutra. Essa è sempre di Dio. E senza Dio,
nessuna realtà dei rapporti dell'uomo e di Dio può essere colta e trasmessa
oggettivamente.
- Capirà che non sono i divari delle narrazioni a poter infirmare sia la storicità
come la veridicità sacra del Nuovo Testamento. Per tutti questi casi, si
rammenterà le parole di San Pietro in relazione agli iscritti di San Paolo:
«Come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto - in esse (nelle sue
lettere) ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili
le travisano, al pari delle altre Scritture, per la loro rovina». (353)
- Capirà che quella che la Chiesa chiama Tradizione, fonte e via d'informazione
veritiera sulla realtà di Cristo e sul messaggio di Cristo, è una realtà storica, e
non un'invenzione.
- E avrà capito che nessun metodo come «la storia delle forme» o come quello
della «storia delle tradizioni» e della «storia delle redazioni» potrà confermare
e infirmare una testimonianza. Capirà perché la più perfetta prova di vera
testimonianza non può venire dall'esterno, ma dalle stesse testimonianze.
Quando la prova è immanente alla testimonianza, nessun paragone, nessun
confronto può alterare la sua trascendente veracità. È la verità immanente alla
testimonianza che giudica i mezzi e gli strumenti di ricerca. Non sono i mezzi e
gli strumenti di ricerca a giudicare della trascendenza della testimonianza.
___________________
Disgregazione pluralistica
- teologia antropologica
- teologia politica
- teologia dell'ortoprassia
La prima costatazione, dopo un primo contatto preso dal giovane con tutte
queste «teologie», è che esse esprimono implicitamente o esplicitamente, una
sempre crescente tendenza verso un pluralismo trascendentale, ossia verso un
pluralismo che sovverte ogni distinzione ed ogni limite posto da criteri stabili; e
questo è valido sia per quel che riguarda il punto di partenza di queste
tendenze e sia per quel che riguarda l'orientamento prestabilito dalla volontà e
sia per quel che riguarda termini, linguaggio e verbo interiore.
- Occorre dire, con ogni franchezza, che gli enunciati di fede tradizionali sono
inadeguati, in buona parte, per lo meno per quanto concerne ciò che è
necessario prima di ogni altra cosa: l'annuncio della fede.
Sarà sufficiente che il giovane dia un'occhiata a certi scritti, che riempiono ora
le librerie e le biblioteche, per rendersi conto dell'inadeguatezza e della
contraddizione che caratterizzano tutte le manifestazioni del pluralismo
dottrinale. Si chiederà, con profonda tristezza: chi parla in questo testo? Un
uomo che cerca la verità di Dio, o un uomo che vuole distruggere nelle
coscienze tutto quel che gli uomini hanno ricevuto da Dio come verità rivelata,
ed anche tramite l'ordine naturale delle cose? Di quale Chiesa parla? Di quale
salvezza parla? Di quale amore parla? In nome di quale Chiesa parla
quest'uomo?
Karl Rahner, nei suoi «Nuovi Saggi», parla della Chiesa, della teologia e del
Magistero della Chiesa, e dice che c'è una grande «differenza tra il vero
contenuto di fede inteso dalla professione e la teologia che lo esprime ed
interpreta», e specifica:
Il grande principio di morte, che domina sin dalla loro origine tutte queste
tendenze, è il principio di secolarizzazione: il mondo contiene le forze della
plenaria realizzazione degli uomini e ne è anche l'ambiente, in cui lo scopo
della vita dell'uomo deve essere raggiunto; occorrerebbe dunque abolire ogni
distinzione tra sacro e profano, tra Chiesa e mondo.
Una «teologia della speranza» infonde nelle anime un altro contenuto di quello
della speranza apportata dal Cristo. L'uomo dovrebbe ormai sperare nella
«salvezza» tramite la comunità in cammino verso la società ideale futura. La
speranza dovrebbe dunque essere rivoluzionaria in tutti i sensi. Così, per
esempio, il Padre Schillebeeckx snaturando fondamentalmente il pensiero del
Concilio Vaticano II, scrive:
«Il Concilio dichiara infine che la volontà salvifica di Dio è presente negli
sviluppi politici e socio-economici dell'umanità. - Dare alla fede cristiana una
legittimazione valida in ogni epoca risulta impossibile. - Anche senza una
'teologia', la rivoluzione può indubbiamente contare sui cristiani. - In Cristo è
ora possibile dire Amen alla realtà mondana e considerarla come culto poiché,
dopo l'apparizione di Gesù, sulla terra abita la pienezza di Dio». (363)
«Perché piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui
riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè
per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli».
San Paolo parla dunque della pienezza che abita nel Cristo, e poi parla della
riconciliazione a Dio di tutte le cose, che non si può compiere se non con il
sangue della Croce. Non si può dunque fare riferimento né al Concilio né a San
Paolo per poter «dire Amen alla realtà mondana e considerarla come culto».
Quale rapporto hanno con il Vangelo, con il Concilio, con la Chiesa, questi
enunciati? Soltanto un pluralismo incondizionato e nel contempo unilaterale,
può dare l'illusione che tutti questi pensieri, tutte queste cogitazioni sono
teologia, sulla base di un personaggio che si chiama il Cristo, Gesù di Nazareth.
Non c'è una sola realtà del mistero della Chiesa che non sia presa di mira dallo
spirito e dal desiderio di secolarizzazione. Quando, per esempio Schillebeeckx
in merito alla Santa Eucaristia scrive che il Sacramento è il cambiamento di
significato dato dall'uomo, immediatamente si diffonde un concetto di
transignificazione, e allora Schillebeeckx si sente in grado di formulare queste
dichiarazioni fondamentalmente naturaliste, umanistiche, estranee a tutte le
realtà e a tutta la teologia della Chiesa:
«L'uomo vive naturalmente di continue "transignificazioni". Egli umanizza il
mondo. - La transustanziazione è irreversibilmente una creazione di significato
umana». (366)
«Questa speranza infatti, per dirla con Ludwig Feuerbach, pone 'al posto
dell'aldilà che sovrasta in cielo la nostra tomba, l'aldilà che la sopravanza (la
nostra tomba) su questa terra: il futuro storico, il futuro dell'umanità'. Essa
scorge nella risurrezione di Cristo non l'eternità del cielo ma il futuro di quella
stessa terra». (368)
L'abbiamo già detto, il cambiamento del contenuto della speranza è alla base
della mentalità storicista e esistenzialista. È anche l'orizzonte del miraggio.
Il giovane, a tal riguardo, sarà molto edotto se ricorderà con carità, con grande
carità, come la penetrante assistente di Husserl, la profonda e santa anima che
è stata Edith Stein definisce il pensiero e l'attitudine filosofica di Martin
Heidegger: «la filosofia della cattiva coscienza».(369)
In tutti i casi, però, c'è una cosa che sfugge ai promotori della secolarizzazione
pluralistica. Questo fenomeno, accada quel che accada, è condannato a perire
sia con il mondo sia da solo. L'infinità di forme dell'universo visibile e delle
forme spirituali di concezione e di creazione dell'uomo, quando queste restano
in armonia con il loro ordine di origine sacra della creazione, contiene il
principio di riferimento fondamentale all'unità della Verità eterna. E affinché
questa molteplicità di forme di vita e di creazione dell'uomo ritrovi la pienezza
di armonia con la Verità eterna, il Verbo eterno si è incarnato per risacralizzare
ogni cosa. Per questo la Chiesa, originata dall'amore di Cristo, si è inserita
nella relatività disarmonica del mondo.
__________
GETSEMANI
Soltanto nel raggio del Getsemani la teologia può essere spogliata di ogni vano
diletto intellettuale, di ogni lettera morta e di ogni rigido schema di pensiero, di
ogni aridità del cuore, di ogni illusione di autonomia e di ogni torpore di
febbrile attività naturalista. Soltanto in quel luogo l'intendimento e la volontà
sono liberati dalla verità conformemente alla parola di Cristo (370), perché là il
Redentore ha vissuto nella sua intimità umana, con tutto il suo amore divino,
la Croce della storia degli uomini.
Nel mistero del Getsemani si svelano i due più grandi, più struggenti e più dolci
misteri: l'Incarnazione di Dio in uomo perfetto in Maria e la generazione della
Chiesa santa nella relatività dell'uomo temporale.
Nel popolo d'Israele, ci sono stati molti Santi e molti Profeti. Ci sono state
molte anime che hanno sofferto per il loro popolo e che hanno saputo amare
Dio fino al sacrificio totale. Ci sono state molte anime forti e grandi che hanno
penetrato per grazia di Dio i segreti della Natura, più di quanto non l'abbiano
fatto gli uomini di scienza delle future generazioni.
Ma l'uomo della notturna agonia sul monte degli ulivi era l'Essere di un'altra
economia; corrispondeva ad un'altra necessità, ad un'altra attesa della
creazione. E per tale motivo questa agonia non solo concerne ogni uomo, ma è
ontologicamente vincolata ad ogni uomo. L'uomo non è vincolato all'agonia di
Cristo soltanto con l'immaginazione e la compassione per qualcuno che soffre
ingiustamente. L'uomo vi è vincolato perché è stato il soggetto dell'offerta
solitaria nel giardino del Getsemani, che non era un atto morale, ma un'azione
di essere.
«Padre, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma
come vuoi tu» (371). Quando Gesù ha pronunciato questo «se è possibile»,
chiedeva di essere liberato dall'onere della salvezza delle anime? Quando il suo
spirito ha lanciato questo appello, aveva improvvisamente preferito, non
sarebbe che solo per qualche istante, di distaccarsi dalla sua missione e poi
vivere, invecchiare e spegnersi un giorno, secondo la sorte di ogni uomo?
Cristo, Persona unica di essenza divina, come Redentore degli uomini, viveva
interiormente nella sua pienezza umana, la sofferenza d'inconcepibile amore di
fronte alla cattiveria e al peccato che generavano la sua Passione e la sua
Morte.
Allora l'anima, con tutto il suo potenziale d'intelligenza e di amore, penetra nel
mistero dell'Incarnazione e dell'agonia del Getsemani e capisce che la
redenzione dell'uomo non è stata opera di un nuovo insegnamento, e l'esempio
di una grande perfezione, sconosciuta fino allora. L'uomo capisce che la sua
Redenzione non è consistita in un rinnovamento morale, è stata innanzi tutto
un atto che ha riguardato il principio dell'essere dell'uomo, che ha riguardato la
rigenerazione della legge della generazione dell'uomo.
Ebbene, l'Essere che pregava prostrato a terra nel giardino del Getsemani era
esattamente questa penetrazione ontologica di Dio nella stirpe di Adamo. Dio
ha suscitato un essere con il suo proprio Verbo divenuto così uomo, avendo
preso «forma» di uomo nell'organismo naturale umano.
L'uomo, nonostante tutte le sue ricerche e le sue indagini, non può penetrare
con i propri suoi mezzi il segreto della differenza di livello dei popoli, sia nel
passato come nel presente. Raramente si giunge a distinguere da lontano nella
profondità del presente la vera immagine iniziale dell'uomo e dell'umanità,
perché abbiamo perso la freschezza e il gioioso e continuo stupore della
contemplazione, attiva e sempre nuova, dell'infinita Realtà di Dio Creatore.
L'uomo non può mai afferrare, con le sue ricerche e le sue invenzioni di
curiosità, l'inizio delle cose e degli esseri.
E questa unione particolare fu compiuta dal «Fiat» del Getsemani: «Non come
voglio io, ma come vuoi tu». Questa unione, infatti, era il soggetto della
preghiera dell'agonia e del «Fiat»; e fu la causa della Croce che sarebbe
seguita.
L'agonia del Getsemani, nel suo mistero ontologico, non sarebbe stata
possibile, se l'Essere dell'agonia non fosse stato l'Essere dell'Incarnazione.
L'agonia del Cristo esprime la sofferenza nello spirito e nel cuore e di
conseguenza in tutta la natura umana; sofferenza che appartiene a questo
unico Fiat d'amore indicibile: unirsi all'esistenza di tutti gli esseri umani che
costituiscono la Storia.
Quando l'uomo riceve questa verità, tutte le leggi, le norme e le categorie della
ragione umana si rigenerano e viepiù si liberano dagli impedimenti delle opere
morte e delle parole morte. A misura che l'uomo sottomette Dio e le opere di
Dio al suo desiderio spesso molto sottile ma impetuoso di autonomia,
svaniscono le vere leggi della ragione umana e si pietrificano le categorie.
La relatività dei momenti che trascorrono non può colpire l'essere che conosce
e che ama. Quando però l'essere si lascia prendere dalla relatività, entra nel
turbinio del discorso esistenziale, cosa che impedisce all'uomo di avere una
vera immagine della sua esistenza e della nozione dell'esistenza. Il discorso
può essere indefinito; e senza fine la coniatura dei vocabolari e delle
espressioni; è il triste gioco di una falsa filosofia che rifiuta di sottomettersi per
ogni cosa al Signore della Storia, che è la Verità incarnata, che è l'eterno
ordine di tutto il molteplice dell'universo e della Storia.
Quando, nel nostro spirito e nel nostro cuore, si svela il mistero del Getsemani
e il suo rapporto con il «Fiat» dell'Annunciazione, un intero linguaggio diviene
caduco, infatti ci si accorge che la Storia non può svelare alcun segreto né in
merito alle leggi che la governano, né in merito ai fini ultimi dell'uomo. Essa
non lo può, perché non ha né conoscenza né coscienza. Una sola cosa può
insegnare: il Sovrano della Storia ha detto il «Fiat» della sofferenza e
dell'unione con l'esistenza di tutti gli uomini, per liberare ogni uomo, ogni volta
unico, dalla morte e farlo entrare in un'altra realtà di vita eterna.
Riferirsi ogni volta, alla Storia, per evitare di riferirsi al Sovrano della Storia, è
voler parlare alla polifonia, senza rivolgersi né a colui che ne ha composto la
musica né a coloro che la eseguono. Solo il Creatore delle leggi e dei fini può
conoscere la realtà dei fini ultimi di ogni cosa, il Creatore e coloro ai quali Egli
lo rivela e che accolgono con umiltà e amore la sua Rivelazione.
Ogni uomo non può essere redento come società. E' la Redenzione di ogni
persona a creare un insieme di persone redente. È per amore per ogni persona
d'Israele, per ogni Israelita, che Simeone ha avuto la gioia di ricevere nelle sue
braccia il Redentore. Aveva ricevuto il messaggio divino, secondo il quale
avrebbe dovuto vedere il Redentore prima di morire. E quando l'ha visto, ha
provato gioia per la redenzione non di un'entità astratta, ma per tutti coloro
che sarebbero redenti, e non a causa di un desiderio di uno stato forte e
fiorente nella storia, per questo ha detto:
È stato lieto per la Luce di tutti gli uomini, che era il Cristo e per la gloria
d'Israele. Questa Gloria era il Cristo, che chiamava ogni Israelita alla salvezza.
Giacché Israele non era un'idea; era un insieme in cui ciascun membro era
chiamato alla redenzione.
***
Il giovane, il carissimo giovane potrà trovare nel mistero del «Fiat» del
Getsemani, la via della conoscenza del mistero dell'uomo nella Storia, via
nascosta ma piena di luce. E vedrà rischiararsi davanti a lui l'enigma della
Chiesa, e conoscerà una profonda gioia, la gioia che come il Cristo ha detto,
nessuno può togliere.
Avrà grandi certezze sulle realtà naturali e soprannaturali. E avrà una grande
pace, la pace di verità, che soltanto il Cristo dà. Capirà con tutto il suo essere
che il mistero dell'Incarnazione del Dio inconcepibile, nella nostra povera e
debole carne contiene l'intero segreto dell'origine dell'uomo, del dolore della
terra e dei veri fini ultimi.
Capirà perché il Cristo ha rifiutato di essere giudice della divisione dei campi di
due fratelli, e perché in tutto il suo insegnamento, presenta agli sguardi degli
uomini di ogni condizione la medesima via per entrare nella vita eterna.
Capirà nella più profonda intimità del suo essere, che tutto quel che evolve,
prima di evolvere e dopo, è,. e che tutto quel che muta, ogni arricchimento e
impoverimento non distrugge né altera questa realtà dell'essere che si
arricchisce o s'impoverisce. E nell'impalpabile e aspaziale realtà di essere
dell'uomo c'è un'immensità: la coscienza e la memoria. Chi rinnega questa
immensità, si rinnega ed entra nell'anarchico ed esistenziale vicolo cieco, dove
non può realmente incontrare il Maestro di ogni oggettività. È una folle corsa
dietro il miraggio dell'«essere-là» o l'«essere-qui»; il miraggio di poter stabilire
un linguaggio e fondare una scienza dell'uomo sul mutevole, e non su quel che
è, che si ricorda e che ha coscienza di essere, e che è portato ad adorare;
essere portato significa che ci si muove, e l'adorazione significa una stabilità
che abbraccia e armonizza quanto si muove ed ogni movimento.
Capirà che comprendere la Storia al di fuori del «Fiat» del Verbo incarnato,
dell'Uomo-Dio al Getsemani è una vana finzione, che può offrire l'occasione di
creare veri miti di filosofia della storia, o anche di teologia della storia. Non si
può strappare, a forza d'informazione e di parallelismi, il segreto della vita
dell'insieme degli uomini. Tutte le esperienze di tutte le scienze umane e
naturali, tutte le profezie sull'avvenire dei popoli e sull'avvenire della Chiesa
riguardano, coscientemente o meno, la vita al massimo nel limite di un secolo,
di quest'uomo che ha un'anima immortale.
Capirà che la Chiesa, sin dall'inizio, a causa della sua origine e della sua intima
essenza, ha avuto e avrà fino alla fine del mondo la fervente preoccupazione
del bene di tutti gli uomini. Tale bene comporta ogni cosa che addolcisca il
cuore e mantenga la vita fisica fino alla fine quando l'uomo lascia la storia per
l'eternità.
Capirà che l'avvenire dell'umanità non può essere la liberazione dell'uomo nel
suo secolo, che nella misura in cui quest'uomo avrà pensato e operato,
acciocché gli innumerevoli uomini, che popoleranno il tempo in fuga, possano
uscire dalla Storia, alla fine della loro vita, verso la luce eterna.
Capirà che tutta la Creazione, tutto quel che è, è il segno di una realtà
immutabile, e l'uomo può leggere e riconoscere indefinitamente questo
immutabile. L'uomo può, in seno ad ogni situazione, situazione calma, o
esplosiva come nei nostri giorni, imparare a leggere questo linguaggio che è il
creato. Lo può, perché la sua propria parola, nonostante tutta la sua relatività,
ha la sua origine, come l'uomo stesso, nel Verbo eterno di Dio.
Capirà allora, perché nella stirpe degli uomini, c'è un essere privilegiato. È
l'essere che ha detto il primo «Fiat» nella storia della salvezza, Maria; e capirà
perché non si tratta di una letteratura composta da una pia sentimentalità, il
fatto che la Chiesa chiami la Vergine Maria, Madre di Dio.
Capirà che l'unica via per servire la verità è di far nascere o rinascere negli
uomini la vera speranza apportata dalla Persona e dalla Parola del Cristo.
E si ricorderà che il Signore ha detto nel Vangelo di San Giovanni: «Nel mondo
voi avrete tribolazioni, ma abbiate fiducia, io ho vinto il mondo», e
nell’"Apocalisse": «Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona di vita».
________________________
Note
(2) KARL RAHNER S. I., nato nel 1904, professore di teologia dogmatica nelle
Università di Monaco di Baviera e di Munster, teologo al Concilio Vaticano II, è
stato membro della Commissione Teologica Internazionale.
(3) Questa difficoltà è atte stata da tutti coloro che studiano i movimenti
intellettuali e spirituali del nostro tempo: «Non è facile orientarsi nell'attuale
vasta produzione teologica il cui valore stesso è di varia portata e la cui
impostazione risponde talvolta ad ambiti culturali diversi, che non si possono
ben comprendere solo attraverso la traduzione dei testi». (ALFREDO
MARRANZINI, in Correnti teologiche postconciliari, Città Nuova Ed., 1974,
Introduzione p. 11).
(4) «Se la teologia si vale della filosofia, non è perché abbia bisogno del suo
soccorso, ma per mettere in luce più viva le verità che insegna. Essa non ha
trovato i suoi principi sulla terra: essa li ha avuti da Dio stesso attraverso la
Rivelazione». (S. TOMMASO D'AQUINO, Somma Teol. I, q. 1 a. 5).
«La sacra teologia si basa, come su un fondamento perenne, sulla parola di Dio
scritta, insieme con la sacra Tradizione, e in quella vigorosamente si consolida
e ringiovanisce sempre, scrutando alla luce della fede ogni verità racchiusa nel
mistero di Cristo». (Conc. Vatic. II, Cost. «Dei Verbum», n. 24).
(5) «L'oggetto della teologia stessa è posto, e quindi esiste di fatto, in senso
originario ed essenziale, nel contenuto della rivelazione e della fede». (H.
FRIES, articolo «Teologia», Dizionario teologico, Vol. III, Queriniana Ed.,
Brescia, 2a ed. 1969, p. 473).
(7) Come esempio di questo senso particolare del termine «univocità», citiamo
un'espressione di B. Mondin: «Solo Dewart ha proposto di sostituire alla
dottrina dell'analogia quella della univocità: egli afferma che le proposizioni del
linguaggio teologico si devono intendere propriamente e letteralmente». (B.
MONDIN, Il linguaggio della teologia radicale, in «Il linguaggio teologico oggi»,
Ancora Ed., Milano 1970, p. 279).
(8) PAOLO VI, Insegnamenti, VI, 1969; Tip. Pol. Vat., 1970, p. 957.
(9) PAOLO VI, Insegnamenti, VI, 1968; Tip. Pol. Vat., 1969, p. 1043-1044.
(10) BATTISTA MONDIN, dei Missionari Saveriani, nato nel 1926, decano della
Facoltà Filosofica della Pontificia Università Urbaniana a Roma.
(18) Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione "Dei
Verbum", n. 9.
- «...Dinanzi all'esperienza della fede e alla teologia dei nostri fratelli riformati
noi abbiamo il dovere di prendere il più possibile sul serio il principio
protestante della sola Scrittura, perch'esso sottintende un'esperienza religiosa
autentica, e a mio avviso, una tradizione teologica egualmente autentica, che
risale al passato cattolico». (K. RAHNER, Sacra Scrittura e Tradizione, in
«Nuovi Saggi I», Ed. Paoline, Roma 1968, p. 192).
(21) «Se è vero che la Scrittura non può essere la testimone a favore di se
stessa, però a parte questo, per essere quel che è - cioè Scrittura ispirata da
Dio - deve rendere testimonianza all'intera fede della Chiesa». (K. RAHNER,
Sacra Scrittura e Tradizione, in «Nuovi Saggi I», Ed. Paoline, Roma 1968, p.
195).
(33) OSCAR CULLMANN, nato nel 1902, professore a Basilea, alla Sorbona, e
nella Facoltà Libera di Teologia Protestante a Parigi.
(35) HENRI DE LUBAC S. I., nato nel 1896, professore nella Facoltà teologica
di Lyon-Fourvière e nell'Istituto Cattolico di Parigi, perito al Concilio Vaticano
II, membro della Commissione Teologica Internazionale.
(53) HANS KUNG, sacerdote, nato nel 1928, perito al Concilio Vaticano II,
professore nella Facoltà di Teologia Cattolica dell'Università di Tubinga
(Germania) dal 1960 fino a dicembre 1979, e direttore dell'Istituto di Teologia
Ecumenica nella medesima università.
(54) «Nella più recente teologia cattolica è stato Karl Rahner, qui come altrove
e con esemplare coraggio intellettuale e vigorosa forza di pensiero, ad aprire
nuovi orizzonti ed a porre la cristologia classica a confronto con il pensiero
moderno. Lo spirito insigne che aleggia nello sfondo di questo
approfondimento, svolto con rigore concettuale, della cristologia classica
(calcedonese-scolastica), e fin nella sua più profonda concettualità, altri non è
che Hegel (non sono assenti comunque influssi heideggeriani). Gli sporadici
tentativi di distanziarsi, in affermazioni secondarie, da Hegel non fanno che
sottolineare questo fatto. Rahner si propone. di chiarire teologicamente,
seguendo la sua impostazione trascendentale, le condizioni della possibilità di
un'incarnazione». (H. KUNG, Incarnazione di Dio, Queriniana, Brescia 1972,
pp. 643-644).
(55) K. RAHNER, Rapporto tra Natura e Grazia, in «Saggi di antropologia
soprannaturale», Ed. Paoline, Roma 1969, pp. 53-54.
(76) K. RAHNER, Lexikon fur Theologie und Kirche, V, 956; trad. ital. di Franca
Janowski in «Incarnazione di Dio» di Hans Kung; Queriniana, Brescia 1972, p.
644.
(110) ERODOTO, 1, 1.
- C'è la parola «istor, ***» dalla quale, secondo il parere degli specialisti della
lingua greca, si sono formati il verbo «istoreo» e la parola «storia, ***».
Significava colui che sa - colui che è competente - colui che conosce qualcosa o
qualcuno.
- Tutte queste parole «istor, istoreo, istoria» si ricollegano al verbo «ido - ida,
***», che significa vedere con i propri occhi: OMERO, Iliade I, 587; EURIPIDE,
Oreste v. 1020; PLATONE, Repubblica 620 a. Osservare - esaminare: OMERO,
Iliade 2, 274 - 3, 364. Rappresentarsi con il pensiero - raffigurarsi nella mente:
OMERO, Iliade 21, 61; PLATONE, Repubblica 510 e. Apparire - sembrare -
rendersi simile: OMERO, Iliade 2, 791- 20, 80; ERODOTO, 6, 69 - 7,56. Essere
istruito intorno a: OMERO, Iliade 17,219; PLATONE, Apologia di Socrate 21 d.
(121) Lessico dei Teologi del secolo XX: "Mysterium salutis", Supplemento (vol.
12), Queriniana, Brescia 1978, introduzione p. XIII.
(122) KARL RAHNER, Sulla storicità della teologia, in "Nuovi Saggi III", ed.
Paoline, Roma 1969, pp. 109-110.
(123) RUDOLF BULTMANN (1884-1976), professore di esegesi del Nuovo
Testamento a Marburgo.
(140) Dizionario dei Filosofi, ed. Sansoni, Firenze 1976, p. 623, col. 2.
(145) «Una filosofia odierna e quindi anche la teologia non può e non deve
permettersi di rimanere indietro nei confronti della rivoluzione antropologico-
trascendentale operata dalla filosofia moderna a partire da Cartesio, Kant,
attraverso l'idealismo tedesco (ivi comprese le correnti di opposizione) sino alla
fenomenologia, alla filosofia esistenziali sta e all'ontologia fondamentale
d'oggi». (KARL RAHNER, Teologia e antropologia, in "Nuovi Saggi III'', Ed.
Paoline, Roma 1969, p. 61).
- «Questo contatto nella fede con la realtà della salvezza - Dio, il Cristo - è
sempre differentemente «situato», secondo le circostanze terrene. Ecco
un'affermazione centrale in tutta la teologia di Schillebeeckx, tale da
giustificare il suo progetto di re interpretazione della fede». (PAUL BOURGY, in
Bilancio della teologia del XX secolo, Città Nuova, Roma 1972, vol. 4, p. 259).
(151) F. AMERIO in Dizionario dei Filosofi, Sansoni, Firenze 1976, p. 1229, col.
2.
(163) GOETHE, Faust I, vv. 1224-1237, ed. Mondadori, Milano 1976, 3a ed., p.
95.
(165) NICOLA ABBAGNANO, Storia della filosofia, Utet, Torino 1969, vol. II, p.
316.
(175) Cfr. HANS URS VON BALTHASAR, "Il tutto nel frammento - Per una
teologia della Storia", Jaca book, Milano 1972, p. 98.
(176) Riportate da PIERSANDRO VANZAN, in Lessico dei Teologi del Secolo XX,
p. XIII.
(177) KARL RAHNER, Teologia pratica e attività sociale della Chiesa, in "Nuovi
Saggi III", p. 768.
(186) FRANCO VENTURI, Introduzione a: Ancora una filosofia della storia per
l'educazione dell'umanità di JOHANN-GOTTFRIED HERDER, Einaudi, Torino
1971, p. XVI e p. XXVI.
(187) FRANCO VENTURI, Introduzione a: Ancora una filosofia della storia per
l'educazione dell'umanità di JOHANN-GOTTFRIED HERDER, p. XXVI.
(214) BLAISE PASCAL, Préface sur le Traité du Vide, in Oeuvres complètes, éd.
du Seuil, Paris 1963, pp. 231-232.
(236) IMMANUEL KANT, Idea di una storia universale dal punto di vista
cosmopolitico, in Scritti politici, Ed. UTET, Torino 1965, p. 125.
(237) IMMANUEL KANT, Idea di una storia universale dal punto di vista
cosmopolitico, in Scritti politici, p. 130.
(238) L'Arcadia è una regione del Peloponneso i cui abitanti erano pastori ed
essa rappresentava per i poeti dell'antichità, un luogo di felicità e d'innocenza
nella vita pastorale.
(239) IMMANUEL KANT, Idea di una storia universale dal punto di vista
cosmopolitico, in Scritti politici, pp. 127 e 128.
(240) IMMANUEL KANT, Idea di una storia universale dal punto di vista
cosmopolitico, in Scritti politici, pp. 134 e 136.
(241) IMMANUEL KANT, Recensione di: I. G. Herder, "Idee sulla filosofia della
storia dell'umanità", parte I e II, in Scritti politici, p. 174.
(242) IMMANUEL KANT, La religione entro i limiti della sola ragione, pp. 149 e
150.
(243) IMMANUEL KANT, La religione entro i limiti della sola ragione, p. 148.
(245) IMMANUEL KANT, La religione entro i limiti della sola ragione, p. 193.
(252) G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, ed. Laterza, Roma 1974, t. I, p. 81
(259) EDITH STEIN, citata da Sr. Theresia de Spiritu Sancto in Edith Stein,
London 1952, p. 34.
(260) Incontro del dicembre 1935 con Edith Stein, citato in Edith Stein, éd. du
Seuil, Paris 1954, p. 113.
(261) G.W.F. HEGEL, citato da Karl Lowith, Da Hegel a Nietzsche, ed. Einaudi,
Torino 1949, p. 324.
(272) «La teologia è genuina e predicabile solo nella misura in cui riesce a
entrare in contatto con tutta l'auto-interpretazione profana che l'uomo
possiede in una determinata epoca, a entrare in dialogo con essa, ad
assimilarla e a lasciarsene fecondare per quanto riguarda il linguaggio, ma
ancor più per quanto riguarda la cosa stessa». (KARL RAHNER, Corso
fondamentale sulla fede, Ed. Paoline, Alba 1977, p. 25).
Marco 13, 31: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non
passeranno».
Tito 1, 1: «Per chiamare alla fede gli eletti di Dio e per far conoscere la verità».
(286) Nella sua "Enciclopedia" c'è l'articolo sulla Rivoluzione, sulla Rivoluzione
francese, sul Turismo, sulla Psicologia del profondo, sulla Psico-igiene, sulla
Psicoanalisi, e altri articoli i cui nomi, per rispetto alla Santissima Vergine, non
sonò qui nominati, ma non c'è un articolo sull'Annunciazione, né
sull'Immacolata Concezione, due dogmi della Chiesa.
(292) Cfr. HANS KUNG, Essere cristiani, ed. Mondadori, Milano 1976, p. 197.
(293) Cfr. HANS KUNG, Essere cristiani, pp. 510, 511 e 388.
(294) HANS KUNG, Dio esiste?, ed. Mondadori, Milano 1979, p. 763.
(298) HANS KUNG, Incarnazione di Dio, ed. Queriniana, Brescia 1972, p. 604.
(300) H.L. CHEVRILLON, Jamais homme n'a parlé comme cet homme, éd. St.
Paul, Paris 1975.
(305) Atti 2,4: «Ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a
parlare in altre lingue come lo Spirito Santo dava loro il potere d'esprimersi».
(306) Atti 10, 46: «Li sentivano, infatti, parlare in lingue e glorificare Dio».
(320) HURE, Dictionnaire universel de philologie sacrée, éd. Migne, Paris 1846,
col. 923.
(324) JOSEF SCHMID, L'Evangelo secondo Luca, ed. Morcelliana, Brescia 1965,
p. 65 e ss.
(331) D. GUTHRIE e J.A. MOTYER, Commentario biblico, ed. Voce della Bibbia,
Modena 1916, t. 3, p. 45.
(332) GERHARD KITTEL, Grande lessico del Nuovo Testamento, ed. Paideia,
Brescia 1974, t. IX, col. 752.
(334) GERHARD KITTEL, Grande lessico del Nuovo Testamento, t. IX, col. 765.
(342) E.R. BROWN, 1.A. MURPHY, Grande Commentario biblico, p. 1836, col.
2.
(344) PIET SMULDERS S.J. (nato nel 1911, professore di dogmatica e di storia
della Chiesa alla Scuola Superiore di Teologia Cattolica di Amsterdam),
Mysterium salutis, t. 5, p. 493.
(350) SANT'IRENEO, Contro le eresie, libro III, 21, 1-21, 3. (351) Cfr.
Mysterium salutis, pp. 298 e 313.
(360) KARL RAHNER, Corso fondamentale sulla fede, ed. Paoline, Roma 1977,
p. 31.
(363) E. SCHILLEBEECKX, Dio, il futuro dell'uomo, ed. Paoline, Roma 1970, pp.
132, 205, 219, 112.
(367) Tra i principali promotori di questa tendenza c'è Gustavo Gutierrez (cfr.
nota 94) e Johann-Baptist Metz, (nato nel 1928), discepolo di Rahner,
professore di teologia all'università di Munster.
(370) Gv 8, 32
(371) Mt 26, 39