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Publications de l'cole franaise

de Rome

Su due passi delle Tuscolane di Cicerone (I, 87-88 e III 8-11)


Alberto Grilli

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Grilli Alberto. Su due passi delle Tuscolane di Cicerone (I, 87-88 e III 8-11). In: Mlanges de philosophie, de littrature et
d'histoire ancienne offerts Pierre Boyanc. Rome : cole Franaise de Rome, 1974. pp. 345-356. (Publications de l'cole
franaise de Rome, 22);

http://www.persee.fr/doc/efr_0000-0000_1974_ant_22_1_1684

Document gnr le 09/05/2016


Alberto Grilli

SU DUE PASSI DELLE TUSCOLANE DI CICERONE


(I 87-88 e III 8-11)

Che le Tuscolane siano state sottoposte a un lavoro di revisione


per una seconda edizione, che tracce delle due redazioni siano ancora
reperibili nel I e nel III libro ipotesi attraente formulata da M. Giusta (*),
mirante a superare le difficolt riscontrate in alcuni passi dei due libri
e affrontate finora in modo insoddisfaciente. Ma non sono restato
convinto che questa impostazione sia risolutiva. Vorrei qui per due passi
fermarmi ad un esame attento che ne metta in risalto il preciso
intendimento dell'autore, i legami formali con cui s'esprime il pensiero, la
coerenza tra il pensiero (con le sue derivazioni culturali) e la forma stessa.
Un primo passo dato da Tusc. 1, 87-88, che, per giustificare le due
redazioni, viene presentato dal Giusta cos:
87. Sed hoc ipsum concedatur, bonis rebus
homines morte privari. Ergo etiam carere
mortuos vitae commodisf

A
Idque esse miserum? Certe ita dicant An potest is qui non est re ulla carere?
necesse est.

C D
Triste enim est nomen ipsum carenai, 88. Hoc premendum etiam atque etiam est
et urguendurti, confirmato ilio de quo, si
mortales animi sunt, dubitare non possu-
mus, quin tantus interitus in morte sit
ut ne minima quidem suspicio sensus re-
linquatur. Hoc igitur probe stabilito et
fixo, illud excutiendum est, ut sciatur
quid sit carere, ne relinquatur aliquid
erroris in verbo.

(*) M. Giusta, Due edizioni originali delle Tusculane ?, Atti Acc. Scienze Torino,
103, 1968-69, pp. 62 (estratto).
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quia subicitur haee vis: habuit, non habet; Carer e igitur hoc significat: egere eo
desiderai, requirit, indiget. quod habere velis. Inest enim velie in
carendo,
nisi cum sic tamquam in jebri dicitur
alia quadam notione verbi. Dicitur enim
alio modo etiam, carere, cum aliquid non
habeas et non habere te sentias,
etiamsi id facile pattare.
Carere in morte non dicitur; nec enim
esset dolendum.
IIaec, opinor, incommoda sunt carentis. Dicitur Mud: bono carere, quod est malum.
Caret oculis, odiosa caecitas; liberis, orbitas. Sed ne vivus quidem bono caret, si eo
Valet hoc in vivis, non indiget.
Sed in vivo intellegi tarnen polest
regno te carere; dici autem hoc in te satis
subtiliter non potest: posset in Tarquinio,
cum regno esset expulsus.
mortuorum autem non modo vitae com- At in mortuo ne intellegi quidem. Carere
modis, se ne vita quidem ipsa quisquam enim sentientis est, nec sensus in mortuo;
caret. ne carere quidem igitur in mortuo est.

De mortuis loquor, qui nulli sunt: nos,


qui sumus, num aut si cornibus caremus
aut pinnisf Ecquis id dixeritf Certe nemo.
Quid ita? quia cum id non habeas quod
Ubi nec usu nec natura sit aptum, non
careas, etiamsi sentias te non habere.
89. Quamquam quid opus est philosophari,
cum rem non niagnopere philosophia egere
videamus?

La ripartizione tale che la II redazione (A + 0) sarebbe indegna


d'uno scrittore raziocinante; inoltre l'inizio di 89, che dovrebbe
rappresentare la continuazione della redazione definitiva, pu solo valere
per la prima, in quanto non si vede come philosopiari possa riferirsi alla
II: la prima, che si chiude appunto, com' gi stato visto, con un
sillogismo. Dovremmo ammettere una grossolana trascuratezza da parte di
Cicerone, proprio nella revisione definitiva.
Se per noi ci avviciniamo al testo di Cicerone come a un bel
plaidoyer d'avvocato, vi vediamo applicati quei principi retorici deWin-
stare adversario, iterare, renovare (part. or. 38, 133), che Cicerone non solo
dava come pura teoria, ma anche applicava concretamente nei suoi
discorsi.
SU DUE PASSI DELLE TUSCOLANE DI CICERONE 347

Un primo espediente formale non privo d'efficacia rilevo quasi


all'inizio del 87:
Ma ammettiamo proprio questo, che l'uomo sia privato con la morte delle cose
buone: allora anche che i morti sentano la mancanza dei vantaggi della vita e che
questo sia un'infelicit? Certo inevitabile che dicano cos .

Certe ita dicant necesse est stato inutilmente bersagliato: lo Schiene


ha supplito (non} necesse est; il Frederking ha espunto l'intera frase e
il Dougan propenso a dargli ragione; molti altri, a partire dal Pohlenz,
vi hanno visto un inciso parentetico. Anzi tutto a me pare, anche per il
certe iniziale, che Cicerone abbia voluto dare il massimo rilievo alla frase,
isolandola cos come risposta a un'interrogativa introdotta da ergo, cio
destinata ad essere nettamente respinta i1). In altre parole, eliminato
l'espediente retorico, avremmo: Allora inevitabile che dicano che
i morti sentano la mancanza dei vantaggi della vita e ne siano infelici .
E che cos sia ci dimostra il seguito del ragionamento, che alla
conclusione, dice: Parlo di morti, che non hanno esistenza; noi, che esistiamo,
forse sentiamo la mancanza delle corna della penne? Ma chi avrebbe
il coraggio di dirlo? Certo nessuno; ecquis id di er it? certe
nemo la precisa ripresa e al tempo stesso replica a certe ita
dicant.
Ci detto, chiaro che la presunta frattura, che nel ragionamento
comporterebbe a detta degli studiosi il certe ita dicant necesse est, sentita
come tale solo perch non si colto il procedimento retorico di Cicerone:
e quindi il legame con la meravigliata domanda successiva An potest is
qui non est re ulla carere%, ma pu chi non esiste provare la mancanza di
qualche cosa? , solidissimo, in quanto serve a portare il ragionamento
su carere = . (2). Il quale ragionamento aperto da un enim,
che non cade sul semplice triste, ma su nomen, cio sulla ' definitio ' di
carere, che secondo la buona tecnica della retorica parte dal noto
e porta al non noto, proprio perch essa quasi involutum evolvit id de
quo quaeritur (top. 1, 7). Quello che si sa, riguarda i vivi (valet hoc in vi-
vis), perci si definisce la vis del vocabolo per chi vivo.

(!) Si veda l'intelligente annotazione di 0. Heine su ergo (ed. Leipzig 18732,


p. 52).
(2) Che carere qui ' provare la mancanza ' confermato da Cicerone stesso,
Caio 14, 47: quamquam non caret is qui non desiderai.
348 ALBERTO GRILLI

Ma tecnicamente parlando, qui Cicerone ci da, come primo momento,


la del vocabolo, cio il
(), legandosi a un punto preciso, i commoda vitae,
ora esemplificati (2), e riserva al vero e proprio un momento
successivo. Dalla trae poi le sue prime conseguenze: mortuorum
autem non modo vitae e m m d s , sed ne vita quidem ipsa
quisquam caret. Come ho gi detto, alle conseguenze Cicerone fa seguire,
da buon retore, la replica formale (3), che prepara in nuce e in forma
negativa la denitio : cum id non habeas quod Ubi nee usu nee natura
sit aptum, non careas, etianisi sentias te non hhere.
Con ci, secondo l'ipotesi del Giusta, avremmo la fine della II
redazione, cui segue la ripresa Quamquam quid opus est in hoc plilosophari
Per quanto la descriptio possa essere pi filosofica che retorica,
non di per s un elemento cos evidente, a mio parere, da giustificare
l'accenno al filosofare. Ci si chiede in pi come mai Cicerone avrebbe
sostituito a una regolare definitio della I redazione una pi debole e generica
descriptio nella II.
Vediamo invece che cosa segue col 88: abbiamo subito due elementi,
uno di richiamo (hoc . . . urguendum) e uno di precisazione (confirmato. . .
relinquatur): precisazione che, in quanto , intende a fortiori
chiarire etiamsi sentias te non habere, riferendolo anche ai morti (4).
Che cos' Vhoc su cui si deve tanto insistere? Dal contesto chiaro
che non un hoc prolettico, ma si riferisce a qualche cosa che precede:
ebbene, non pu essere altro, a mio modo di vedere, che l'ultima, capitale
conclusione di 87, perch su quell'affermazione soltanto si pu fondare
il che vien dato per car er e: Cicerone vuoi fare consapevole il suo
ascoltatore (e lettore) con la scelta di verbi particolarmente forti (pre-
mendum, urgendum, excutiendum) che la parte precedente in certo
modo introduttiva, rispetto a questa seconda (5).

(!) Galen, defin. vied. 1 (19, 349 .); Suda 627 aggiunge che :
-. Si veda in mondo latino Gelilo, 1, 25, 11: sed profeclo
non id fuit Varroni negotiuni ut indutias superstitiose definirei et legibus rationibusque
omnibus definitionum inserviret. Satis enim vistivi est eiusmodi facere dernonstrationem,
quod genus Graeei magis et quani vocant.
(2) Cio il vedere e l'avere i figli.
(3) Ecquis id dixeritf Nemo certe.
(4) Si noti come la ne minima quidem suspicio sensus si rifaccia a 1, 34, 82: num
igitur aliquis dolor aut omnino post mortevi sensus in corpore estf nemo id quidem dicit.
(5) La iicapitolazione che fa perno su due elementi gi noti (hoc e ilio)
introdotta senza nessuna congiunzione coordinante; se poniamo lo stesso periodo dopo
B, cio dopo un ergo e un an, tutto lascia molto perplessi formalmente parlando.
SU DUE PASSI DELLE TUSCOLANE DI CICERONE 349

La definitio parte con Vexplicatio:


Carere igitur hoc significai (), egere eo quod habere velis;
Ebbene carere significa mancare di ci che si vorrebbe avere .

La definizione precisa e scientifica (): in tutta la prima parte


carere era stato usato nel senso del nostro provar la mancanza , ma
implicitamente: ora questo valore messo in rilievo dal concetto con esso
compartecipe della volont: la volont di avere qualche cosa
quella che del generico carere fa un tipo particolare (e cosciente) di egere
ed reso esplicito ci che con Vetiamsi sentias te non habere era finora
un corollario del ragionamento fondamentale.
Appunto perch la definizione rende esplicito il valore intimo del
termine, la precisione vuole, secondo buona tradizione (2), che esso venga
ulteriormente determinato ex dissimilibus, per esempio carere febri, che
estraneo al nostro ragionamento, ed ex paribus, cio cum aliquid non
habeas et non habere te sentias, etiamsi id facile pattare. In sostanza qui
viene ripresa l'estrema conseguenza della , ma facendo un
ulteriore passo innanzi.
Se mettiamo in parallelo la chiusa della e il nostro passo,
chiaro che Cicerone ora vuoi dire altro che l, ma che si fonda sul
precedente per far procedere il suo ragionamento. L diceva:
Qualora non si abbia ci che non ti idoneo per uso per natura
anche se ci si accorge di non averlo
non si prova mancanza .

Ma qui dice:
Qualora non si abbia qualche cosa e ci si accorga di non averla
anche se lo si tollera facilmente
se ne manca .

In primo luogo a negativo, b positivo; ma ci che importa come


quella che in a era una condizione aggiuntiva, viene in b inglobata nella
premessa, come caso dimostrato e ormai accolto. Ci il risultato
dell'inserzione del velie: dico tanto il passaggio alla forma positiva, quanto la
nuova collocazione di non habere te sentias. Affermata la precisa funzione

i1) Si veda il commento del Pohlenz a 88 excutiendum . . . ut sciatur (Leipzig


1912, p. 107).
(2) Cic. part. or. 12, 41: definienduni est saepe ex contrariis, saepe etiam ex dissi-
milibus, saepe ex paribus.
350 ALBERTO GKILLI

del carere attraverso un fattore volontaristico, la percezione della


mancanza non pu pi essere ammessa come eventualit, ma diviene
necessaria, perch velie sentire.
Posto a fondamento questo, inizia l'ultimo sviluppo:
Carere in morte non dicitur (nee enim esset dolendum), dicitur illud bono carere , quod
est malum.
Sed ne vivus quidem bono caret, si eo non indiget.
At in mortuo ne intellegi quidem (potest bono carere).

Il termine medio ampliato con un esempio, regno carere, che ha chiara


funzione esplicativa rispetto alla (habuit, non habet) e al
(si eo non indiget)', gli si collega la conclusione avversativa (at) e
infine il sillogismo finale, che chiude definitivamente e obbligatoriamente
il ():
Carere enim sentientis est [A non B]
nec sensus in mortuo [B non C]
ne carere quidem igitur in mortuo est [A non C]

Tutto il passo, seppur condotto con una certa struttura rilassata,


che deve riprodurre il tono del sermo, per, dal punto di vista della
coerenza logica, chiaro e rigoroso e lo ridurrei al seguente schema:
I. a) obiezione dialetticamente accolta (concedatur )
b) specificazione di uno dei suoi elementi (commoda vitae) [obiezione particolare]
e) dimostrazione della falsit dell'obiezione particolare
1. di carere (triste . . . orbitas) nei vivi
2. estensione a fortiori ai morti
d) conclusione contro l'obiezione particolare
e) trapasso (cum id non habeas ecc.) dal particolare al generale.
II. /) richiamo alla formula di trapasso e) come fondamentale perch generale
g) dimostrazione della falsit dell'obiezione generale
1. di carere (illud excutiendum est ... potiare)
2. dimostrazione dai vivi ai morti (come sopra)
h) sillogismo conclusivo finale.

Tirando le somme: non si vede perch Cicerone non dovrebbe aver


scritto tutto il passo cos come l'abbiamo fin dal momento della stesura
del libro, vista la sua intima coerenza; parrebbe oltre tutto strano che un

Si veda Cic. top. 1, 5 coll'esemplificazionc.


SU DUE PASSI DELLE TUSCOLANE DI CICERONE 351

tema come quello dei commoda vitae, che opinio communis, non fosse
venuto in mente a Cicerone immediatamente, quando era tema diffu-
sissimo dall' Assioco a Lucrezio il ...
(1).

Il secondo passo di cui vorrei occuparmi Tusc. 3, 8-11. Siamo nella


sezione introduttiva del problema se pu cadere in sapientem aegritudo.
Cicerone, seguendo il sistema stoico, parte dal primo punto che
, anche se lo rende esplicito solo all'inizio di 11: totiim igitur id
quod quaerimus quid et quale sit. Quindi il deve prendere le
mosse dal nomen, ma non da quello di aegritudo, bens da quello di
insania. Il che non stupisce, perch come tutte le virt sono e
formano la sapientia, cosi lo sono in certo modo anche i morbi
perturbationes animi, che risultano essere secondo il famoso paradosso
stoico , cio insania. Proprio dall'antitesi
~ = sapientia insania parte Cicerone: ci che vale per V
insania, vale per ogni sua forma specifica, compresa Yaegritudo.
Nella definitio, che tecnicamente va da nomen insaniae fino al
sillogismo che si chiude con igitur insaniunt (2), anche se i critici sono
intervenuti pesantemente sul testo espungendo id est... insaniam (Bentley),
addirittura tutto il testo, sillogismo compreso (Bake, Heine), una sola
cosa mi urta: id est insanitateli. Chi legga tutto il contesto, s'accorger
che alla fine di 10 abbiamo quasi insanitas qu a e d am : il modo
in cui il vocabolo introdotto vuoi farci accorti che si tratta d'un
neologismo, quasi (3), coniato per far pendant a sanitas. Che si tratti
di una glossa marginale dovuta a un lettore che anticipava qui, sulla
scorta del passo subito successivo, l'identit tra insania e insanitas
evidente e anche Vid est lo mostra; e che si tratti di glossa insinuatasi
nel testo indica la sua assurda collocazione: che vuoi dire quell'in est
insanitatem, che spezza i due termini della definizione, cio animi aegro-
tationem et morbum + et aegrotum animum, in cui si devono vedere il

i1) [Plat.] Ax. 365c; si veda 369d-70a, con & ,


che da ultimo L. Alfonsi, IS Assioco 'pseudoplatonico, Studi di filos. gr. in onore di
R. Mondolfo, Bari 1950, p. 253 accosta a Tusc. 1, 34, 83.
(2) Come si vede la tecnica della definitio analoga a quella del passo
precedentemente discusso.
(3) Tale lo si pu definire, anche se insanitas compare in Varrone, Men. 133,
in una satira che pure gioca su sani e insani.
352 ALBERTO GRILLI

valore astratto e il valore concreto di insania Un lettore dunque,


rifacendosi a 10 e a 9b, ha annotato al margine su due righi:
id est insanitatem
quarti appellarunt insaniam

e le parole si sono inserite nel testo, appunto in corrispondenza dei due


righi. Del resto nomen insaniae. . . quam appellarmi insaniam non
tanto una stranissima ripetizione rispetto a quel che segue (x), un
assurdo: vorremmo che, di chiunque si tratti, si potesse chiamare V insania
diversamente da insaniai II periodo va dunque ricostruito cos, se vedo
giusto:
Quia nomen insaniae signifcat mentis aegrotationem et morbum [id est insanitatem]
et aegrotum animum [quam appellarunt insaniam].

Un altro punto che merita discussione 9b-10a, che secondo il Giusta


rappresenterebbe la versione originaria del testo (2). possibile che
Cicerone, avendo detto che omnis animi commotio era sembrata insania
agli antichi Eomani, parta dicendo Infatti ritenevano la sanitas animo-
rum consistente in una forma di tranquillit e di stabilit ? che trascuri
cio il concetto base e senta il bisogno di partire dal suo contrario?
Occorre ricordarsi che il ragionamento di Cicerone incomincia un po' pi
in su, coll'equivalenza di = morbos () perturbationes animi
passo anche per il Giusta fuori d'ogni dubbio di II redazione
attraverso la definizione stoica di =
(motus animi rationi non obtemperantis, SVF III 462, p. 114, 36, cfr.
Tusc. 3, 11, 24). La logica vorrebbe che innanzi tutto Cicerone, dopo la
definizione dell'insania, proseguisse, servendosene, per dimostrare ci
da cui era partito, cio la posizione dei Graeci. Se non lo facesse, pazienza:
ma lo fa; perch vogliamo distruggere la logicit di questa costruzione?
E poi, quanto della definizione attribuita ai maiores genuinamente
romano? e di molte generazioni prima di Socrate ? A parte l'uso figurato
di tranquillitas ( significativo che compaia con la palliata), questa tran-
quillitas constantiaque, assai prossima alla stoica (SVF III
111), ci ricorda come la sia nell'insegnamento di Zenone e

1) . Giusta, art. cit., p. 12 dell'estratto.


(2) Si tratterebbe d'una versione originaria (da 9b sanitatem a 10a quod in
morbo est) + D ( 11), cui si contrappongono rispettivamente A (8b multis saeculis
ante fino a 9a igitur insaniunt) e C (10b da Ita fit a nunc quod instai).
SU DUE PASSI DELLE TUSCOLANE DI CICERONE 353

Crisippo del tutto analoga alla del corpo (SVF III 471, p. 121,
15 dal crisippeo), cos come i sono ():
tranquillitas eonsta?itiaque non terminologia antica, solo l'inverso della
stoica. Tutto del resto cos poco romano che l'aggiunta
su amentia e dementia ha ogni apparenza di nascere, direttamente
indirettamente, dall'osservazione platonica che
, di cui una forma la , strettamente legata alla (2).
Il che, a mio modo di vedere, confermato da un altro elemento
platonico nella sanitas:
::' e a sua volta . . .
(resp. 444d). Tutti concetti cui poteva
Cicerone tranquillamente ricorrere, dato che lo stoicismo non aveva nulla
da eccepire e ne scaturiva un insieme senza contraddizioni.
Certo Cicerone non perspicuo, ma non lo perch ha voluto portare
a gloria romana concetti greci, quindi gli sfugge quel censebant, che egli
vuoi riferire agli antichi Romani, ma in sostanza manca d'un soggetto,
perch in realt soggetto sono i filosofi greci. Se teniamo presente questa
impostazione romana (che non , in questa et, solo di Cicerone, ma
compare perfino in mondo greco (3)), tutto diviene molto pi chiaro. Per
esempio l'ambiguo qui haec rebus nomina posuerunt: chi sono? Dal
ragionamento, come formalmente lo ha fatto fin qui Cicerone, devono essere i
Eomani; mentre da quel che segue devono essere i Greci, perch altrimenti
non ha senso hoc idem quod a Socrate acceptum diligenter Stoici retinuerunt.
Anche qui se avessimo il solo Cicerone saremmo indotti in errore: ben
vero che c' rapporto tra Socrate e stoici a proposito della e lo
cogliamo da ci che ci tramanda Senofonte (mem. 3, 9, 6):
' ... . . .
; tanto che la definizione stoica di appunto
' (SVF III 663). Ma mentre cogliamo una ragione
in pi di perch all'inizio Cicerone abbia contrapposto alla sapienta =
la insania = , dobbiamo riconoscere che i passi greci non
dicono quello che Cicerone vorrebbe, cio omnes insipientes esse non sanos.

i}) SVF III 412; cfr. Ili 663: -


.
(2) Cfr. Tim. 86b; resp. 382c. Su dementia si veda anche quanto aggiungo poco
oltre.
(3) Si veda Phil. op. vi. 42, 127 e Anon. Londin. Arnim (. i miei Proemi del de
re publica di Cicerone, Brescia 1971, pp. 83-87): siamo in un ambiente che risente
di Antioco da Ascalona; vedi anche n. 1, pag. 354.

25
354 ALBERTO GRILLI

Del resto anche il riferimento a (cfr.


Proci, in Grat. 16, p. 5, 26 P.) squisitamente greco e per giunta crisip-
peo nella questione (' ^).
Se manteniamo il ragionamento, ma ne eliminiamo i Eomani, frutto
del nazionalismo culturale ciceroniano, anche la ripresa ut modo dixi (2)
un richiamo alla definitio, punto capitale, e non all'introduzione ( 7),
come vuole il Giusta. Considerando nel suo insieme il brano 9b-10a,
proprio perch Cicerone ha fatto parlare i Eomani antichi con concetti
stoici, sta bene che 9b (sanitatem enitn (3)) segua a tutta la definitio, in
cui la concezione stoica stata impostata esplicitamente. Questo il
punto di partenza, in cui 9 = , fino alla conclusione sillogistica (4),
per cui omnes insipientes insaniunt: in tutta questa parte noi ritroviamo
l'uso greco che parla di aegrotatio e morbi (Jiaee omnia morbos Graeci
appellant a 4, 7), mentre Cicerone rifiuta per l'anima il termine morbi, in
quanto sarebbe stato detto in latino non satis usitate, e viceversa
propone, partendo da , di chiamarli moins concitati e per ci pertur-
bationes. Infatti nell'inserire, dopo la parte schiettamente greca, quella
che egli propone come romana, evita il termine morbus, in quanto,
data per scontata l'equivalenza morbus = perturbatio, la sanitas
mancanza di perturbatio, tranquillitas constantiaque. h^enim iniziale, dunque,
collega tutto il ragionamento greco su insania = aegritudo/ morbus con la
conferma romana di insania = perturbatus animus.
A questo punto abbiamo la conseguenza (ita fit ut) di tutto ci che
precede: in 10a che Cicerone ha posto le premesse per dire che insi-

i1) Si veda Diogeniano presso Eus. praep. ev. 6, 8, 11:


, > [== Crisippo] ,
& ecc. Non diversamente Filone nel passo sopra citato:
. Cicerone di fronte a una posizione
diffusa nella sua et, che passa anche nelle scuole di retorica, cfr. Quint, inst, l, 6,
29: in denitionibus adsignatur etymologiae loctis.
(2) II Drexler, Zu U eberlief erung und Text der Tusculanen, Roma 1961, p. 89,
vi trova difficolt in quanto il richiamo gli pare troppo ravvicinato; direi che non
esatto, perch qui intercorrono 15 righe Teuhner, mentre in fin. 3, 24 ne intercorrono
solo e in 2, 75 addirittura solamente 3.
(3) I/enim iniziale fa difficolt al Giusta, che osserva (art. cit., p. 11) come esso,
che affatto privo di senso ove lo si colleghi con la fine di A, invece logicissimo
se lo si congiunge con la frase maioribus nostris hoc ita visum intellego . L'interpreta-
zione mi pare troppo rigida; si veda comunque ci che qui vengo dicendo.
(4) La tecnica d'introdurre nella definitio un sillogismo fa cadere i tentativi
d'espungere questo peiiodo iniziale di 9.
SU DUE PASSI DELLE TUSCOLANE DI CICERONE 355

pieitia insania eademque dementia', con che logica comparirebbe questa


identit insania = dementia, se Cicerone non avesse detto che
(sull'esempio di da ) insipientia animi adfectionem I u ni ine mentis
carentem e perci dementia (*)? Xon vedo come Vita fit possa
rappresentare, secondo vorrebbe il Giusta, la diretta continuazione del sillogismo
di 9a, in cui non compare affatto la dementia, mentre insanitas come
abbiamo visto ha dovuto esserne espunto (2).
Ultimo problema proposto dal Giusta quello della superiorit del
latino nel campo lessicale: era gi stato sollevato in Tusc. 2, 15, 35 ed
un tema fisso per Cicerone che reagisce alla patrii sermonis egestas.
Esiste un vero doppione tra questa parte finale del 10 e l'ampio excursus
di 11? Io non credo. Intanto Vigitur iniziale di 11 tanto sta bene
come ripresa d'argomento dopo nunc quod instat, quanto mal
spiegabile come conclusione d'un tema che invece viene immediatamente
ripreso e ampliato, cio quello del rapporto tra insanus e morbus. Siamo,
a mio avviso, a una ripresa della definitio, che per tien conto di tutto
quanto stato detto nei 9-10, come mostra il saldo quoniam (3). Qual'
il problema che ora affronta Cicerone! puramente terminologico: i
Latini dicono insania (e insanus), i Greci ; all'infuori della origine
della parola, su cui Cicerone rifiuta di pronunciarsi, il termine greco e
quello latino si corrispondono ?
Il , che determinante della , definito, almeno dagli
stoici, (4) ed essi parlano di - (5): ecco che per
l'identit = exisse ex potestate viene introdotta la lunga
disquisizione sugli ecfrenati = , che si chiude con il regnum =
del . Fin qui, dunque, niente che fuor dell'innocente
mania di Cicerone d'esaltare sempre il suo latino, onde quel melius sia

i1) Si noti come anche qui gli antichi Romani nonien posuerunt, secondo la nota
etimologia (concepihile in greco) di da e , propria d'Aristotele (de
philos, fr. 8 WR = 1 Unterst.). In amentia ci vuoi essere un rapporto etimologico con
lumine mentis carentem e perci solo al suo seguito abbiamo eandemque
dementiamo infatti solo la dementia .
(2) Oltre al fatto che ita fit riprende, ovviamente, il paragone animus in aliquo
morbo corpus quod in morbo est.
(3) Che si rifa contemporaneamente al 10 su quanto detto dagli stoici e al 9b
sulla sanitas, come ben fondate premesse.
(4) Cloni. Alex, strm. 2, 13, 59, 6; la in Amm. adj.
roc. 313.
(5) S VF III 478.
356 ALBERTO GRILLI

ripetizione, come dati come impostazione di pensiero, di quanto


compariva nel 10; il ragionamento procede invece su un binario contenutistico
rigoroso, perch passa a distinguere = insania da = furor,
dichiarando il furor pi grave dell'"insania = stultitia, perch il primo
mentis ad omnia caecitas (cfr. ), in quanto viene assimilato
alla (x). Mentre V insania permette di compiere i
, com' per i (2) e in particolare per i , ma non
ammissibile nel saggio, il furor pu trovarsi anche nel saggio: il che
esattamente stoico (3). Non dunque una questione di prestigio
linguistico, ma di precisione terminologica; nemmeno nella chiusa Cicerone
fa questione di lingua: con sed Jiaec alia quaestio est sostiene, e a ragione,
che discutere se e come il saggio possa - altro problema da
quello se e come possa essere soggetto ad aegritudo.
Mi pare che la lunga e minuziosa interpretazione di questi due passi
abbia mostrato che arbitrario parlare di due redazioni (4); ma anche ha
messo in luce come Cicerone mirasse con attenzione stilistica a
riprodurre il tono vivace e mutevole della conversazione. In particolare il
secondo passo buon esempio di come l'introduzione del III libro nasca
da una libera e non infelice rielaborazione di tutto il materiale che
culturalmente egli aveva presente nel suo pensiero: una prova di pi di come
abbia ragione Pierre Boyanc a sostenere che Cicerone non lavora a
mosaico colle sue fonti, ma que sa pense avait un degr d'indpendence
et de vie personnelle qu'il ne faut pas sous-estimer (5).

(x) Cfr. DG 402a, 20, dove in materiale stoico vengono accoppiati i -


e i , coll'esempio d'Oreste; Oreste e Alcmeone sono esempi di
in Crisippo, SVF III 668; l'esempio d'Aiace in Arist. probi. 30, 1.
(2) SVF III 512; 510.
(3) SVF III 644.
(4) Come si vede, mancano i tre presupposti che lo stesso Giusta (art. cit., p. 24)
propone per poter riconoscere la doppia redazione e cio 1) la netta frattura logica;
2) la ripetizione contraddizione; 3) un motivo plausibile di rifacimento. In particolare,
mi sembra, sono venuti alla luce rapporti logici estremamente interessanti e s' messo
in chiaro che un procedere per gradi di successivo approfondimento non pu essere
ritenuto ripetizione.
(5) P. Boyanc, Les mthodes de histoire littraire. Cicron et son uvre
philosophique, BEL, 1936, p. 309 (ora in Etudes sur V humanisme cicronien, Bruxelles 1970,
p. 221): ma tutto l'articolo dell'illustre Maestro mrita di essere letto e meditato.

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