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Sezione per le
questioni fondamentali dell’evangelizzazione nel mondo».
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Vivere la liturgia in parrocchia
(SC 40-46)
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INDICE
Introduzione
Sacrosanctum Concilium n. 40
Un piccolo glossario
La facoltà di lodare
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La cura della liturgia nella cattedrale
Ripensare le commissioni
Epilogo
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Introduzione
Ho accolto con molto piacere l’invito che mi ha rivolto mons. Rino Fisichella – che ho
l’onore di considerare un caro amico da lungo tempo, di stendere questo modesto contributo per
aiutare i più giovani a cogliere ed accogliere alcuni messaggi fondamentali provenienti dal concilio
ecumenico Vaticano II, di cui mi sento figlio. E, nel raccogliere alcune idee da proporre, mi sono
passati davanti agli occhi i tantissimi volti di ragazzi e di giovani che, in quasi 40 anni di
sacerdozio, ho avuto la grazia di incontrare, di conoscere, e di accompagnare nella loro crescita
umana e cristiana. Ricordando i loro volti, ho come risentito nel cuore le loro emozioni, le loro
commozioni, i loro sorrisi e le loro lacrime, che hanno popolato tante celebrazioni, tante feste, tanti
momenti speciali della loro vita, tanti incontri con il Signore che hanno lasciato un segno indelebile,
tante esperienze forti che hanno modificato profondamente chi le vive, (cfr. GADAMER H.G., Verità
e metodo, Milano, Bompiani, 1997, p. 542).
È pensando a questi molti giovani, è ricordando il poco che ho potuto dare e il molto che ho
ricevuto da loro, che mi accingo a stendere queste note. È come se mi rivolgessi ancora e di nuovo a
loro, cogliendo e accogliendo le loro domande, il loro bisogno di significato, la loro fame e sete di
autenticità, la loro ricerca di verità, capace ancora di renderli liberi, il loro gusto di celebrare « in
spirito e verità» (Gv 4,23), che mi ha motivato per tutta la vita a dedicarmi all’approfondimento
della liturgia ed alla cura della pastorale liturgica, nello spirito della Regola di S. Benedetto, che
esorta così i discepoli del Signore: «Nihil operi Dei praeponatur [Nulla sia anteposto all’opera di
Dio]» (Benedetto da Norcia, Regola monastica, IV,21) convinto com’era dell’eminenza della
liturgia. Ecco perché risuona, in questo momento, nel mio spirito, l’esortazione dell’Apostolo:
«Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori» (1Pt 3,15), e la ripeto a me stesso, e a tutti i lettori. E
prima di iniziare il cammino per sviluppare un tema avvincente, è necessario mettere a fuoco alcune
premesse.
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Una delle esperienze più “profumate”, significative, e saporose, che le comunità cristiane
possono gustare, e che si collocano al centro e al cuore della loro vita e della loro vitalità, è quella
della liturgia, forse l’unica capace di assolvere olisticamente molteplici funzioni: sa nutrire la
mente, toccare il cuore, suscitare emozione e commozione, muovere quello stupore che è la
premessa più autentica e significativa per la fede, indurre alla carità, fornire motivazioni e forza per
viverla eroicamente. La liturgia oggi si trova di fronte ad una sorta di bivio e può facilmente
imboccare due strade inconciliabili: quella dell’essere affascinante – se è celebrata e vissuta nella
sua verità; così come quella del risultare repellente – se viene celebrata senza motivazioni,
trascinata, stanca ed annoiata, pedante ed annoiante, capace di far trasudare la poca fede ed il poco
amore dei suoi protagonisti, presbiteri e laici, ministri e fedeli. Una delle più deprimenti accuse che
ci possano muovere, come credenti, è quella di essere degli «atei praticanti». Occorre ritrovare il
profumo ed il sapore più autentico della liturgia, grazie ad un rinnovamento e approfondimento
della fede.
La liturgia sta vivendo una sua crisi profonda, rilevabile nella disaffezione di molti
battezzati, che la condannano alla irrilevanza nella loro vita, determinata, dunque, da una crisi di
fede. Dovrebbe, invece, essere uno dei patrimoni più amati e tutelati, custoditi e promossi, dalle
comunità cristiane, parrocchiali e non. Eppure, paradossalmente, accade che di essa si appropriano
(a proposito e a sproposito) gruppi, movimenti, associazioni, istrioni, capaci di elaborare un loro
linguaggio ‘liturgico’ specifico ed accattivante – anche se talvolta periferico, rispetto al culto
cristiano, al punto da risultare caratterizzante ed identitario per un certo tipo di esperienza di fede. E
così accade, sempre più spesso, che soprattutto le giovani generazioni, per vivere qualche
esperienza liturgica significativa, debbano ‘emigrare’ dalle loro comunità parrocchiali per
approdare in qualche esotica ‘oasi’, mentre dovrebbe avvenire il processo esattamente opposto, che,
cioè, dalla parzialità di alcune esperienze (non necessariamente negative, anzi) la pienezza e
l’eccellenza dell’esperienza liturgica cristiana dovrebbe consumarsi all’interno di quella porzione di
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Chiesa che nasce dalla, e vive della liturgia, giungendo, proprio grazie ad essa, alla piena maturità
di Cristo. Va onestamente segnalato che, negli anni in cui la Chiesa si è spesa per attuare la riforma
liturgica auspicata e promossa dal concilio ecumenico Vaticano II, si è assistito ad un transito, non
desiderato e non provocato da Sacrosanctum Concilium (il documento conciliare che tratta della
liturgia): da un culto fortemente segnato dal senso del Mistero, e dal conseguente rispetto e stupore
adorante di fronte ad esso, ad un tipo di celebrazione spesso banalizzata o verbosa, irrispettosa del
Mistero di Dio e dimentica del fatto che il bisogno eccessivo di teatralità superficiale snatura il culto
e che la necessità quasi ossessiva di spiegazioni, la verbosità didascalica, tradisce e denuncia da sé
la scarsa comunicabilità e comunicazione di quanto sta avvenendo. Questi sono alcuni tratti della
crisi della liturgia.
Un ripensamento della liturgia, alla luce di questi fenomeni, è dunque doveroso a tutti i
livelli della vita comunitaria, ed una riforma della riforma è auspicabile, non per formalismo
preconcetto, quanto per impedire alla liturgia di trasformarsi in ideologia astrusa, o in prassi avulsa
dalla teologia, e, conseguentemente, di tradire quella che è la sua natura e la sua identità, che
tentiamo di approfondire. Effettivamente la liturgia, prima che un raziocinare, è un essere; e prima
che un fare è un credere ed un vivere: la prova di una adeguata comprensione della liturgia non
risiede nella capacità di una sua rigorosa e dettagliata spiegazione o della esecuzione impeccabile
del rito, quanto, piuttosto, nella conversione della vita che ne consegue. Incontro e conversione
personale, oltre che conversione comunitaria a Cristo, questo è il centro ed il cuore della Chiesa e
del suo culto.
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La liturgia, per natura sua, è questione ecclesiale, e non può essere celebrata
individualisticamente: nel suo DNA essa ha un carattere comunitario. Il termine ‘liturgia’, infatti,
trova la sua radice nel termine greco laòs, che significa “popolo”. Per questa sua connotazione
‘popolare’, la liturgia è ontologicamente e strutturalmente una azione corale, è l’agire del popolo di
Dio, la cui vita nasce da un atto liturgico, il Battesimo; cresce e matura grazie ad una serie di atti
liturgici, i sacramenti; e vede il suo epilogo in un atto liturgico, un sacramentale, che chiude le porte
alla vita terrena, per spalancare il portale dell’eternità. La liturgia, dunque, è realtà da vivere in quel
contesto comunitario specifico che ha preso il nome di parrocchia – di questo dobbiamo
sostanzialmente parlare, termine derivante sempre dal greco parà e oikìa, cioè letteralmente
«abitazione presso». La parrocchia, come la liturgia, è facilmente identificabile nell’edificio chiesa
in cui la comunità celebra normalmente il culto di Dio; eppure, quello dei credenti è un abitare in
modo non stabile, temporaneo, come racconta già l’antico scritto cristiano intitolato Lettera a
Diogneto: «I cristiani… abitano ciascuno la loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutte le
attività di buoni cittadini e accettano tutti gli oneri come ospiti di passaggio. Ogni terra straniera è
patria per loro, mentre ogni patria è per essi terra straniera» (Lettera a Diogneto, Cap. 5, Funk, p.
397). Questa dimensione di ‘provvisorietà’ manifesta la connotazione esodiaca della Chiesa, realtà
in movimento, alla ricerca della sua vera patria e della definitiva città futura, comunità segnata da
tensione escatologica verso un ‘definitivo’ che, nella nostra attuale provvisorietà, possiamo solo
sperare. La liturgia consente di intuire e pregustare questa estensione escatologica – cioè definitiva,
eterna – che è insita in ogni celebrazione, tanto è vero che nella celebrazione eucaristica, dopo il
momento della memoria della Cena del Signore, all’annunzio della grandezza del Mistero della
fede, qui e ora, l’assemblea liturgica proclama: «Annunziamo la tua morte Signore, proclamiamo la
tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta». La para-oikìa diviene così la manifestazione più
visibile della Ecclesia orans, che attinge dal passato, si esprime nel presente ed è protesa al futuro.
In ciò la Chiesa si mostra particolarmente viva poiché nel culto esercita la sua dimensione di sposa
del Signore, tanto quanto abbraccia il territorio su cui vive, dove ama e serve le icone viventi del
Cristo, ovvero tutte le donne e gli uomini, i giovani e gli anziani, i singles e le famiglie, le gioie e le
speranze, le fatiche e i drammi di tutti, per annunziare, celebrare, ed amare, per esprimere al meglio
la sua fede a tutti. Per questo la parrocchia è un corpo che celebra il Capo, è luogo privilegiato dove
si mettono in comunione i propri doni, dove si condivide ciò che si è, e ciò che si può dare, dove ci
si fa carico delle fatiche e delle povertà altrui, dove, alimentandosi di Cristo nella liturgia, si diventa
come lui dono, segno e sacramento del Signore. Così il Corpo onora il suo Capo, e vive per lui, con
lui, e in lui, che ha dato tutto sé stesso per la sua Chiesa.
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Ultima premessa, non di merito, ma di metodo
Il testo che segue è strutturato in quattro capitoletti, che, evidentemente, non commentano
l’intera costituzione Sacrosanctum Concilium, ma solo i numeri che vanno dal 40 al 46, con una
focalizzazione specifica sulla comunità locale, la diocesi e la parrocchia, come luoghi naturali per
celebrare e vivere la liturgia, per fare sintesi feconda tra il culto e la vita.
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CAPITOLO 1
ELOGIO DELL’ADATTAMENTO
Per tutte le ragioni di fede e di vita, espresse nelle premesse, la liturgia non può mai essere
riducibile a realtà muta ed inespressiva, ma ha bisogno di essere loquace, anzi, eloquente. E questo
è il motivo per cui il rito romano non è mai stato trattato, e non può essere considerato e gestito
come un reperto archeologico, incartapecorito, ibernato nella sua intangibilità, ma ha la necessità di
sottoporsi a ciò che SC 40 chiama con il nome di “adattamento”, che, nei decenni successivi,
troverà un variopinto florilegio di coniugazioni, e che approderà ad un termine più maturo, mutuato
dalla antropologia culturale, con il quale viene descritto il processo di trasmissione della propria
cultura da una generazione all’altra: “inculturazione”. Si tratta di una più ampia e felice
declinazione del termine adattamento, con la quale accogliere e proporre la trasmissione e l’opera di
conferimento di significatività del culto in contesti culturali differenti: questa è l’operazione cui
ambiva Sacrosanctum Concilium. Si è appropriato di questa espressione, e l’ha in un certo senso
benedetta, il Papa Giovanni Paolo II, il quale ha definito l’inculturazione come «l’incarnazione del
Vangelo nelle culture autoctone ed insieme l’introduzione di esse nella vita della Chiesa» (Giovanni
Paolo II, enciclica Slavorum Apostoli, 1985, n. 21). Il Pontefice ha con ciò tratteggiato una sorta di
elogio dell’adattamento ed ha delineato un duplice movimento di “andata e ritorno” tra Vangelo e
culture: l’“andata” consiste nel fatto che le culture si incontrano col Vangelo ed assorbono il
messaggio cristiano ai livelli più profondi della loro peculiare sensibilità, ed il “ritorno” si evidenzia
in una sorta di “conversione” reciproca, che genera un’espressione rinnovata, rafforzata, talvolta
inedita del cristianesimo, una nuova singolare esperienza di Chiesa, entro la comunione cattolica.
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nell’aldilà, nella definitiva dimensione di cui gli umani non hanno esperienza, e coloro che sono
ancora nell’aldiqua – unica esperienza a noi accessibile – per seguirlo, per incontrarsi con lui, per
familiarizzare con lui? Come potremo noi condividere la sua grazia e la sua salvezza alla stregua di
quelli che lo hanno conosciuto nello spazio e nel tempo, per salvare tutti hic et nunc qui e ora?
La risposta che possiamo dare a questi interrogativi seri e determinanti, senza ombra di
dubbio è: nella liturgia, e grazie alla liturgia, e ad una delle sue categorie specifiche, cioè il
‘memoriale’, non riducibile a semplice memoria, ma esperienza che consente di accedere dal tempo
all’eterno, dal kronos al kairòs, per usare termini cari alla Scrittura, cioè dal tempo insulso, che è
pura routine, e che divora la vita, al tempo che è evento, meraviglia, miracolo, e non si spegne mai,
perché appartiene al giorno senza tramonto. E per motivare, o giustificare questa risposta perentoria,
riprendiamo un’immagine cara a S. Bernardo. Possiamo dire della liturgia, così come della Chiesa,
e della Vergine Maria, sua perfetta icona, che essa è una sorta di «acquedotto». Scrive il doctor
mellifluus: «Avete già capito, se non erro, di quale acquedotto intendo parlare, acquedotto che ha
fatto giungere fino a noi la pienezza della sorgente che è sgorgata dal cuore del Padre, perché ne
ricevessimo, se non in tutta la sua abbondanza, almeno nella misura della nostra capacità… Ecco
perché per tanti secoli il genere umano fu privo dei rivoli della grazia: perché non esisteva ancora il
tramite di quel tanto sospirato acquedotto di cui stiamo parlando. E non c’è di meravigliarsi che si
sia fatto attendere così a lungo» (Bernardo di Clairvaux, De Aqueductu, sermone per la festa della
Natività della Beata Vergine, [par. 4] in: Testi Mariani del secondo millennio, cura di Luigi
Gambero, Roma, Città Nuova, 1996, Vol. III, pp. 248-260). La liturgia è questo mirabile
acquedotto, attraverso il quale l’acqua viva di Cristo può raggiungere i credenti di tutti i luoghi e di
tutti i tempi. Gli antichi romani hanno costruito grandiosi, imponenti acquedotti per trasportare
l’umile acqua dalle sorgenti nelle città, nelle case, nei campi, così come la Chiesa, nella sua
sapienza secolare, ha elaborato il complesso rituale liturgico cristiano, per consentire al Mistero di
Dio di raggiungere le città, le case, i luoghi frequentati, e, soprattutto, le persone, e di portare
l’acqua viva di Cristo, che ancora possiamo sorseggiare, dopo 2.000 anni, in modo identico.
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Adattamento… per rendere comunicabile e partecipabile il Mistero
Parlare di adattamento significa parlare di questo desiderio e di questo impegno della Chiesa
per rendere comunicabile e partecipabile il Mistero, significativo per l’oggi. Nella storia le
architetture e gli stili possono variare, e sono variati – ricorriamo sempre all’analogia
dell’acquedotto; ciò che è immutabile è la funzione, che la liturgia, celebrata da ogni comunità,
deve assolvere, e lo fa non per compiacere sé stessa, i gusti imperanti, o le mode che vanno per la
maggiore, ma per poter presentare la Chiesa sposa al suo Sposo, Cristo Signore, «tutta gloriosa,
senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef 5,27), in vista dell’incontro
salvifico con lui. Questa attenzione, questa preoccupazione, e questa occupazione, la fedeltà a Dio e
all’uomo, allo Spirito Santo eterno ed al tempo presente, la cura per la partecipabilità del Mistero,
sono sintetizzati in una felice espressione: «Itinera fidelitatis sunt semper et necessario itinera
creativitatis [I cammini di autentica fedeltà sono sempre e necessariamente cammini di sapiente
creatività]» (la citazione è in Edward Schillebeeckx, Per una Chiesa dal volto umano, Brescia,
Queriniana, 1986, p. 247.)
Sacrosanctum Concilium n. 40
Con le dichiarazioni degli ulteriori paragrafi la Chiesa non si è nascosta le difficoltà del
caso, ma non le ha neppure considerate un ostacolo insormontabile, quanto, piuttosto, una
stimolante opportunità per strappare la liturgia dalla irrilevanza per il popolo di Dio – che
alimentava la sua spiritualità nelle devozioni, anziché in essa, e restituirla, invece, nuovamente,
ricca di senso e di nutrimento, ai singoli fedeli ed alle comunità cristiane. Se accettiamo di tradurre
il datato termine “adattamento”, con il più rispondente alla sensibilità maturata nei decenni
successivi al concilio, ovvero “inculturazione”, ci rendiamo perfettamente conto che tra culto e
cultura vi è un rapporto di “simpatia” – nel senso greco del termine – che non è solo frutto di una
comune etimologia, ma deriva da uno sguardo positivo reciproco, dall’instaurarsi di un dialogo
reciprocamente arricchente, dall’apertura ad un abbraccio accogliente di elementi che possono
favorire l’esperienza rituale e culturale del Mistero di Dio, incarnatosi dentro la cultura e le culture
umane.
L’esortazione formulata nel primo punto di SC 40, in qualche modo ricorda e rimanda alla
suggestiva elaborazione del teologo olandese Johannes Christiaan Hoekendijk, che ha voluto
approfondire il concetto di popolo e di popoli, a partire dalla teologia biblica della creazione. A suo
avviso, ogni popolo custodisce una delle infinite “eredità” della creazione. Il patrimonio creaturale-
culturale conservato da ciascun gruppo umano non è dunque riducibile ad un retaggio meramente
materiale o biologico, ma costituisce un valore teologico-spirituale, proprio per la sua provenienza.
Conseguentemente, dal suo punto di vista, è necessaria una sorta di “ecologia”, non relativa
unicamente agli ecosistemi, ma ai “complessi culturali”, che forniscono identità ad un popolo, ad
una cultura ed al suo culto. La salvaguardia di ogni cultura è, dunque, doverosa, in quanto coglie e
definisce l’identità di un popolo. Il teologo giunge ad una logica conclusione: «Non possiamo
portare avanti la missione in modo assoluto, ma in modo contestuale» (citato in Jesus Lòpez-Gay,
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Ecclesiologia della missione, in Associazione Teologica Italiana, L’ecclesiologia contemporanea,
Padova, Edizioni Messaggero, 1994, p. 53).
Un piccolo glossario
Chi si accinge a mettere mano alla liturgia dovrebbe ispirarsi alla monastica ruminatio della
Parola di Dio, consapevole che sta compiendo un atto di fede e di amore ecclesiali. È necessario
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ricorrere a questo sapiente criterio suggerito da mons. Brambilla, poiché l’agire liturgico non
presuppone, anzi, esclude l’insipienza. Lo scopo di chi si occupa di adattamento liturgico consiste
nel salvaguardare l’intenzione rituale presente nel complesso celebrativo ricevuto dalla tradizione,
con il legittimo e nobile sforzo di presentarla in un diverso sistema simbolico rispetto a quando essa
si è stratificata e codificata nei secoli. Il problema, evidentemente, si pone anche per chi traduce il
rito romano da una lingua non più comunemente parlata – il latino, ai linguaggi in costante
effervescenza di oggi. È chiaro che le traduzioni corrono, in ogni caso, anche con Platone o Seneca,
il rischio di risultare dei tradimenti, e per evitare il più possibile tale pericolo, non possono avvenire
semplicemente de verbo ad verbum, da parola a parola, ma de sensu ad ritum, dal senso del rito, al
rito celebrato, che esprime in actu il suo profondo significato. Su questo è necessario fare chiarezza
a tutti i livelli ecclesiali: «Una prima risposta riguarda il che cosa non si celebra: non si celebrano la
vita e gli eventi della società in cui viviamo, anche se si trattasse di eventi assolutamente positivi e
grandiosi; non si celebra la vita dei fedeli, anche se questa fosse una somma di virtù; non si celebra
nemmeno la vita della Chiesa intesa come comunità che vive e cammina nella storia. La Liturgia
celebra soltanto l’evento della salvezza in Cristo» [Enrico Mazza, Problemi e prospettive della
Riforma Liturgica, “La Rivista del Clero Italiano”, LXXI (1990) 2, p. 89]. In questa chiave
interpretativa va letto il paragrafo secondo del n. 40 di Sacrosanctum Concilium.
Lo scarno paragrafo terzo auspica un corale impegno ecclesiale nel generare e nell’educare,
nel preparare persone culturalmente e cultualmente competenti, così che le linee guida, e le concrete
attualizzazioni, non siano lasciate all’arbitrio scriteriato, all’improvvisazione selvaggia, alla fantasia
sfrenata e avulsa dal Mistero, ma siano espressioni varie, qualificate e qualificanti, di una Chiesa
mater nel generare et magistra nell’educare alla piena maturità di Cristo, come richiede l’apostolo
Paolo: «finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di
uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13). Questa maturità
di fede è una delle ambizioni che la liturgia si prefigge.
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CAPITOLO 2
La facoltà di lodare
Prima di essere uno dei tanti impegni da espletare nella Chiesa, la liturgia è dono da ricevere
dall’alto. È partecipazione umana alla liturgia celeste, è benedizione discendente ed ascendente, è la
manifestazione più eclatante del depositum fidei, il patrimonio della fede, perché la Chiesa che
celebra i sacramenti, in modo mirabile, confessa la fede ricevuta dagli Apostoli, e ringrazia Dio, con
la lode e con la vita che ne consegue. Una delle convinzioni coltivate dai credenti, e mai smentite
dalla tradizione ecclesiale, è facilmente memorizzabile: «lex orandi, lex credendi». La sua
formulazione più articolata, ad opera di Prospero di Aquitania (V secolo), suona così: «Legem
credendi lex statuat supplicandi, ovvero, la legge della preghiera stabilisce la legge della fede; in
altre parole, la Chiesa crede come prega. La liturgia è dunque patrimonio da ereditare e trasmettere,
terra vergine da scoprire nella sua bellezza e ricchezza spirituale, hortus conclusus, secondo la bella
immagine del Cantico dei Cantici (4,12), in cui abitare. Inoltrarsi nella selva lussureggiante dei
simboli e dei riti cristiani, scoprire la presenza del Signore per ritus et preces, cioè attraverso i riti e
le preghiere, accorgersi di come la facoltà di lodare impedisce alla nostra vita di essere imprigionata
nella logica del divertimento ossessivo, è un dono grande ed una risorsa vitale per ciascun credente
e per ogni comunità cristiana, specialmente per i giovani ed i gruppi giovanili, più facilmente preda
della cultura dello sballo e dei “piaceri forzati”.
Dono, dunque, ma anche impegno, perché nella vita del cristiano e della comunità cristiana,
la liturgia va amata, va approfondita, va curata, va promossa, va educata, va convertita, qualora si
trovasse ad essere vittima di una deriva di significato, che la inficia di demagogia o di sociologia, di
divagazioni svariate, o di ritualismo fine a sé stesso. I campi per prendersi cura, per prendersi a
cuore la liturgia sono innumerevoli e richiedono, accanto alla competenza ed alla professionalità
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degli esperti, comunità vive ed appassionate, ricche di forze giovani e fresche nella fede, sensibili
ed entusiaste nel lavorare per il Regno in questo settore cruciale della sua edificazione. Proviamo a
fare un elenco di ambiti di cui curarsi, pensando ad una concreta comunità cristiana, ad una delle
nostre parrocchie, e a come può impegnarsi a lodare con arte.
La cura del canto liturgico, che è un genere letterario proprio e specifico, non identificabile
semplicemente con il canto religioso o con il canto sacro. La cura del canto liturgico presuppone
una domanda: che cosa si prefigge il canto liturgico? Innanzitutto un obiettivo di fede. Se è vero
quanto afferma S. Agostino, che, cioè: «Cantare amantis est [Cantare è tipico di chi ama]», ci
prefiggiamo di elevare una lode che esprima non i gusti personali degli addetti ai lavori, ma la fede
e l’amore di una Chiesa per il suo Signore. Quindi l’obiettivo è tipicamente liturgico, ovvero
l’offerta di uno strumento che consenta di attuare egregiamente l’arte di celebrare, nelle nostre
comunità, poiché non tutto può entrare nella celebrazione del culto di Dio. Occorre avere chiari i
criteri che la Chiesa ha formulato, ed il primo criterio riguardante il che cosa cantare, ed il come, ci
è offerto dall’Ordinamento generale del Messale Romano, ai nn. da 46 a 90 e 367. È bene che chi si
occupa di canto liturgico prenda visione di queste indicazioni, per maturare convinzioni e abilità
ecclesiali, per entrare in un clima cultuale ecclesiale. Questo significa che ogni canto deve avere
una sua dignità, una sua logica celebrativa, ed essere eseguito nel momento opportuno. Valga la
regola: «Il canto giusto al momento giusto»! Inoltre, accanto ad un criterio di logica celebrativa, va
tenuto presente un criterio di qualità letteraria e musicale di ciò che si canta… se il problema è
“cantare la fede”. Occorre, pertanto, giungere ad un salto ‘culturale’: dobbiamo passare da canti
giustapposti nella Messa, a normali celebrazioni in canto. Ciò è facilmente comprensibile. In un
articolo trovato casualmente in internet e intitolato Da Sacrificio ad avanspettacolo: la Messa nel
terzo millennio, nel quale l’autore si riferiva al musicista «non-cattolico Franco Battiato…
intervistato da Fabio Fazio a ‘Che tempo che fa’… commentò: “Trovo che la liturgia dovrebbe
essere una cosa molto seria, fatta con criterio. Non puoi all’interno di una Messa mettere dei
ragazzini che cantano in uno stile di serie C della musica leggera italiana più triviale, che trovo, tra
le altre cose, la vera blasfemia. Cioè: tirare in ballo Cristo, Dio: “tu sei con noi”, “tu sei di più”,
dicono delle cose incredibili… Calma! Parla così del tuo compagno di banco». È grottesco che
un’analisi così lucida della grandezza del mistero liturgico (e del suo tradimento) provenga
dall’esterno del mondo cattolico. Ebbene l’ambito musicale è uno spazio vastissimo e rigoglioso per
il dialogo, la sintonia, la sinergia, tra culto e cultura, e per l’esercizio della santa libertà dei figli di
Dio.
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La cura dell’accoglienza, come tratto che deve divenire sempre più caratterizzante e
caratteristico delle comunità cristiane, se non vogliono ridursi a entità freddamente amministrative,
fiscali, pedanti, sovraccaricate dalla dimensione burocratica, e sottratte alla intensità delle relazioni
dalle sempre più impellenti questioni d’ufficio, o ridursi a spazio museale di un glorioso passato,
comunque defunto. La famiglia di Dio ha nella celebrazione liturgica la sua manifestazione più
eclatante: «Liturgia epiphania Ecclesiae [La liturgia manifesta la Chiesa]», una Chiesa accogliente,
che sia davvero così!
La cura della ministerialità, che non è prerogativa esclusiva da bambini, ma esercizio del
sacerdozio battesimale di credenti adulti, in tutto ciò che prevede una pluralità di carismi e di
ministeri: nel servizio all’altare, nella proclamazione qualificata e qualificante della Parola di Dio,
nella raccolta dei doni, nella distribuzione dell’Eucaristia, nel sostegno del canto, nella premura per
la dimensione orante prima, durante e dopo la celebrazione, nella dedizione carismatica ai mille
bisogni di una comunità.
La cura dell’aula e degli spazi liturgici, così che chi entra in chiesa sia immediatamente
provocato e richiamato a vivere il Mistero della festa o del tempo che si celebra. La chiesa
d’Avvento deve essere diversa dalla chiesa di Quaresima; la chiesa di Natale deve essere singolare
rispetto alla chiesa di Pasqua; la chiesa della Pentecoste deve distinguersi rispetto alla chiesa del
tempo ordinario. La cura dei dettagli: dai fiori alle candele, dagli addobbi ai colori, dalle immagini
ai simboli, dai sussidi alla disposizione generale, diviene la narrazione della fede e dell’amore di
una comunità per Colui che è Re e centro dei cuori, ma anche del buon gusto ecclesiale ed
ecclesiastico, espressione di una Chiesa chiamata ad essere educatrice in tutto e per tutto.
Soprattutto la cura delle persone: ciascuno, entrando nell’aula liturgica, deve avere la netta
sensazione di non essere un anonimo, collocato casualmente dentro un ambiente impersonale, ma
una persona unica e irrepetibile, amata e redenta, perché qui è palpabile la realtà che il Signore,
Cristo, è «Redentore dell’uomo», e quindi l’uomo «è la prima e fondamentale via della Chiesa»
(Giovanni Paolo II, lettera enciclica Redemptor Hominis, 1979). Per queste ragioni la Liturgia è per
l’uomo e per gli uomini.
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Accanto a questa serie di cure, di dimensione tipicamente parrocchiale, SC 41 fa eccellere
quelle di dimensione diocesana e quindi episcopale. Il pensiero corre, in ogni diocesi, alla chiesa del
vescovo. Ogni cattedrale, in ciascuna città vescovile, costituisce di per sé un segno evidente e caro
al cuore di un popolo: tutta la storia di una città si condensa in essa; il meglio della sua arte e del
suo genio qui risiedono come a casa loro; tutti i momenti festosi e drammatici della civitas trovano
in questo luogo il loro habitat naturale; tutta la santità, fiorita in una Chiesa locale lungo i secoli, ha
nel duomo il suo naturale riferimento: le cripte custodiscono il sancta sanctorum di ogni Diocesi;
tanto è vero che questo edificio unico non viene mai chiamato con il nome comune di chiesa, ma
con il nome proprio, determinato da quell’elemento che la caratterizza e la rende unica e speciale: la
cattedra del vescovo. Si sa che la cattedrale, oltre a questo, ha tante altre unicità: un capitolo di
canonici deputati esplicitamente al culto; tradizioni proprie, che generazioni di preti e di laici hanno
imparato a conoscere e a gustare, sin da seminaristi o da membri di associazioni giovanili
cattoliche; organi di grande pregio, supportati spesso da strumenti vari, sui quali musicisti titolati
esprimono i loro virtuosismi; cori famosi ed impeccabili, che si cimentano sulle pagine più impervie
e monumentali della letteratura musicale; navigati cerimonieri, che solo qui hanno la facoltà di
dirigere persino i vescovi. La cattedrale è sede naturale di celebrazioni significative e singolari per
la vita di una città e di una diocesi: le ordinazioni presbiterali ed episcopali, le Messe crismali, i
sinodi diocesani, l’apertura e la chiusura degli anni pastorali, rinomati quaresimali con relatori
illustri, i momenti cittadini più rilevanti, la visita di personaggi ragguardevoli.
Proprio per questa sua unicità ed irripetibilità, la vita liturgica della cattedrale esercita quel
fascino irresistibile sulle singole persone e sulle comunità di una diocesi, che richiede una
responsabilità immane: l’esemplarità. La cattedrale, stando al dettato conciliare, ha il dovere di
fornire alle parrocchie della diocesi una esemplarità positiva e propositiva, paziente ed, insieme,
incalzante. Mai una cattedrale dovrebbe fornire quella esemplarità negativa, per cui lì si apprende
tutto ciò che non andrebbe assolutamente ripetuto nella più piccola e umile chiesa della diocesi. Se
in ogni chiesa è doveroso percepire il profumo della Chiesa una, santa, cattolica, e apostolica, la
fragranza dell’Ecclesia orans, a maggior ragione nella cattedrale tale aroma dovrebbe farsi più
intenso. Qui tutti: vescovo, presbiteri, diaconi, religiosi e religiose, laici, sono chiamati ad essere i
testimoni ed i protagonisti della Chiesa una – in comunione secondo lo stile della Pentecoste, che
non consiste nella uniformità massificante, ma nella «convivialità delle differenze» (per usare
un’espressione cara a don Tonino Bello) di spiritualità, di sensibilità pastorale, di punti di vista
differenti su quanto è opinabile; protagonisti della Chiesa santa – e non solo perché le cripte delle
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cattedrali solitamente custodiscono le reliquie dei santi patroni e le tombe dei vescovi defunti, ma
perché ogni diocesi diventa scuola di vita santa; protagonisti della Chiesa cattolica – perché nella
diocesi e nelle parrocchie si è capaci, soprattutto attraverso la liturgia, di coniugare e di conciliare la
propria specificità con l’universalità, e qui si diventa esperti nell’arricchire la Chiesa universale con
il proprio apporto originale e nell’arricchirsi di quanto la Chiesa cattolica offre, per impedire che le
singole comunità risultino asfittiche e prigioniere del perimetro dei loro confini territoriali;
protagonisti della Chiesa apostolica – perché, grazie al sapiente connubio tra nova et vetera, tra
Traditio et progressio, tra l’antico ed il nuovo, la comunità diocesana rimane saldamente ancorata
alle radici cristiane che l’hanno generata, ed aperta ed esperta nel gestire la novità che lo Spirito
suscita nella Chiesa. La liturgia è un fortissimo ed importantissimo terreno di sperimentazione di
queste dimensioni costitutive della Chiesa di Cristo, poiché è consapevole che in essa la lex orandi
è lex credendi, e, conseguentemente, lex vivendi. Questo inquadramento rende maggiormente
comprensibile il dettato conciliare, che troviamo in SC 41.
La vita liturgica del vescovo e della cattedrale, evidentemente, non esauriscono il culto del
popolo di Dio che vive in una diocesi; anzi, postulano la necessità di una dislocazione di esso,
perché tutte le comunità in cui esso è strutturato possano esprimersi come Ecclesia orans. Il testo
del concilio, dunque, incalza, in SC 42, puntando l’obiettivo sulla vita liturgica parrocchiale. Molto
espressiva e significativa l’immagine qui evocata: le comunità parrocchiali “«rappresentano in certo
modo la Chiesa visibile stabilita su tutta la terra». La parrocchia, dunque, è la modalità concreta,
percepibile, fruibile, per gustare e vedere quanto è bella la Chiesa. È evidente che la Chiesa non è il
fine dell’esperienza credente: noi siamo fatti per Dio, come ricorda il Catechismo della Chiesa
Cattolica («Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell’uomo, perché l’uomo è stato creato da Dio e
per Dio; e Dio non cessa di attirare a sé l’uomo e soltanto in Dio l’uomo troverà la verità e la
felicità che cerca senza posa»: Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 27), sull’onda lunga di quanto
già affermato da S. Agostino: «Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non
trova riposo in te» (Aurelio Agostino, Confessioni, 1,1). Ma è pure vero anche quanto asserisce uno
dei Padri della Chiesa: «Non può avere Dio per Padre, chi non ha la Chiesa come Madre» (Cipriano
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di Cartagine, L’unità della Chiesa cattolica, 4). Ogni gesto e parola, ogni preoccupazione e
occupazione del credente e della comunità parrocchiale sono significativi ed importanti, ma niente
come la liturgia, e più della liturgia, è epiphania Ecclesiae, è rivelazione a sé stessa ed al mondo
della sua identità e della sua missione.
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documenti più freschi e felici dell’episcopato italiano, la nota pastorale Il giorno del Signore, del
maggio 1984, che, a 40 anni di distanza, rivela ancora la propria attualità.
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CAPITOLO 3
Una lettura piatta ed amorfa, riesce a rendere spregevole anche un vero e proprio
capolavoro, pietra miliare della storia della musica. Una interpretazione raffinata ed intensa, offerta
da un grande musicista come Herbert von Karajan, riesce a rendere vivo qualsiasi testo antico.
Quando ascolto alcune interpretazioni magistrali dei miei due autori preferiti, Johann Sebastian
Bach e Wolfgang Amadeus Mozart, percepisco quasi il loro respiro, sento aleggiare il loro spirito,
avverto la loro presenza eterna ed il loro genio immortale nei virtuosismi di cui sono stati
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impareggiabili maestri, infliggendo ai loro alunni il dovere dell’eccellenza, costi quello che costi.
Lo stesso discorso vale per molte altre forme di arte: la letteratura, il teatro, la poesia… Le grandi
rappresentazioni di Eschilo, di Sofocle, di Euripide, riproposte ogni anno nei teatri greci sparpagliati
lungo le sponde del Mediterraneo, fanno vivere e rivivere la perenne attualità e modernità della
tragedia greca, sequestrandoci dal frammento di tempo che stiamo vivendo, per divenire, a nostra
volta, protagonisti del dramma perpetuo che attraversa la storia, così come fanno le parabole
evangeliche. Ecco, il medesimo ragionamento si addice alla liturgia romana, i cui Padri sono
Ippolito Romano, Leone Magno, Gelasio, Gregorio Magno, personaggi assai lontani nel tempo;
eppure la loro fede e la loro preghiera, se adeguatamente rivitalizzate nel rito, mediante l’ars
celebrandi, divengono l’espressione dell’immutata fede e dell’eterna preghiera della Chiesa, sanno
far vibrare le corde del cuore di ogni comunità, capace, se radicata in questo humus vitale, di far
crescere la liturgia insieme a chi la celebra, la prega: non solo la liturgia, ma la storia della salvezza
che in essa si incarna e si realizza in sempre nuove ed inedite esperienze di Chiesa. La liturgia è per
natura sua vibrante, perché tutto ciò che è stato vissuto storicamente, ed è narrato dalla Sacra
Scrittura, noi, egualmente, lo viviamo, cultualmente!
Mettiamoci dunque alla scuola di buoni e grandi maestri. Molti santi lo sono stati, ma anche
illustri teologi, scrutatori ed esperti del Mistero di Dio. Andrebbero ritrovati e riscoperti insieme alle
loro monumentali opere. Uno, in particolare, voglio qui ricordare: il maestro che ha rinvenuto il
tesoro del culto sepolto dall’oblio, e lo ha offerto all’intera Chiesa, uno dei pionieri del movimento
liturgico, il monaco benedettino Odo Casel, che nella sua grandiosa opera intitolata Il mistero del
culto cristiano, pubblicato in Italia da Borla, ha avviato e favorito quella ricomprensione del senso
del celebrare, che, col trascorrere dei secoli, si era appannata e offuscata. Ho provato un brivido di
emozione e di commozione, celebrando l’Eucaristia, insieme ad uno degli ultimi testimoni di quella
stagione dello Spirito, il vegliardo padre Burkhard Neunheuser, O.S.B. nella cripta dell’abbazia di
Maria Laach, non lontano da Colonia, in Westfalia, dove, negli anni ’20 del XX secolo, questi
monaci profeti del movimento liturgico sperimentavano in nuce quanto per noi è divenuto abituale.
Il movimento liturgico, che ha attraversato trasversalmente l’Europa nel XX secolo, costituisce
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effettivamente «un segno dei provvidenziali disegni di Dio sul nostro tempo, come un passaggio
dello Spirito Santo nella sua Chiesa» (SC 43). Ma questo movimento liturgico non è riducibile ai
grandi nomi dei suoi antesignani e protagonisti: dom Prosper Guéranger, dom Salvatore Marsili,
dom Lambert Beauduin, dom Cipriano Vagaggini, don Romano Guardini o il card. Joseph
Ratzinger – che, pur non essendo un liturgista strictu sensu, si è occupato moltissimo e con
pertinenza di liturgia. Il movimento liturgico chiede di divenire un fenomeno sempre più corale e
coinvolgente, sempre più ecclesiale, sempre più partecipato in tutte quante le realtà parrocchiali, da
quelle dove la massiccia presenza di ministri garantisce normali e metodici cammini di fede e
sacramentali, a quelle dove l’assenza di presbiteri e di ministri crea sofferenza, senso di abbandono,
condizione di diaspora. Ovunque è necessario un movimento di amore e di valore conferito alla
liturgia, per generare nuovi autorevoli maestri, nuovi mistagoghi e padri, consapevoli che, dove si
attua l’ars celebrandi, come espressione dell’ars credendi, si realizza il perenne miracolo della
Chiesa: liturgia crescit cum orante. Ecco il senso di quanto ‘contemplava’ e stabiliva SC 43.
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CAPITOLO 4
Ripensare le commissioni
Siamo giunti ad una questione finale non irrilevante: chi si deve occupare di liturgia? Se ci
fermiamo al dettato conciliare, pare che, ad occuparsi di liturgia, debbano essere i classici addetti ai
lavori, in particolari le fatidiche commissioni, sulle quali è opportuno soffermarsi per un istante,
dando loro la dovuta attenzione, per un loro ripensamento. Le commissioni, ormai, hanno invaso ed
occupato quasi tutti gli spazi del vivere collettivo. È divenuto un vezzo sociale: quando non si sa
come affrontare e risolvere un problema, si nomina una commissione. In questo modo la coscienza
comunitaria e personale dei responsabili viene tacitata e ci si illude che la questione sia
praticamente risolta. È tale il pullulare di commissioni, che, praticamente, tutta quanta la vita è
commissionata. I problemi sono tutti commissariati e le soluzioni, spesso, rimangono altrettanto
commissariate, tanto che nemmeno le proverbiali calende greche hanno talvolta avuto la grazia di
vedere qualche risultato tangibile e apprezzabile dalla sonnolenta attività di altisonanti commissioni.
Salvo, naturalmente, lodevoli eccezioni! Non solo, le commissioni sono spesso strutture blindate, i
nomi dei loro componenti costituiscono la fiera dell’ovvio, sempre e solo quelli, da sempre e per
sempre, entrati nelle commissioni da sagaci seminaristi o da arzilli membri del consiglio diocesano
di Azione Cattolica. Questi, divenuti ormai venerandi patriarchi, hanno dedicato la loro vita a
sentenziare nell’iperuranio, ma, forse mai a “sporcarsi le mani”, cioè a vedere/giudicare/agire sui
reali campi di battaglia. Sì, lo ammetto, corro il rischio di sembrare un po’ polemico. Del resto mi
sento in buona compagnia, se qualcuno, molto più autorevole di me, ha detto: «L’inculturazione
deve coinvolgere tutto il popolo di Dio, non solo alcuni esperti, poiché è noto che il popolo riflette
quel genuino senso della fede che non bisogna mai perdere di vista… dev’essere espressione di vita
comunitaria, cioè maturare in seno alla comunità, e non frutto esclusivo di ricerche erudite»
(Giovanni Paolo II, enciclica Redemptoris missio, 1990, n. 54.) Queste le ragioni magisteriali per
cui provo una certa allergia per le commissioni, o meglio, per come normalmente vengono
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concepite e condotte. Credo vadano proprio ripensate per una loro autentica funzionalità. Avendo
avuto questa preziosa opportunità di dire a voce alta qualche pensiero recondito fuori dal coro,
approfitto di questa occasione più unica che rara per dire la mia sofferenza nel rilevare ciò che non
va, e, soprattutto, per formulare l’auspicio che qualcosa possa funzionare meglio.
Evidentemente non ho ricette miracolose da proporre, e non sono nemico per partito preso
dei gruppi di esperti – cui, senza particolari meriti appartengo – perché essi sono deputati a lavorare
per il bene di tutti, anzi, ben vengano! Purché il bene di tutti non sia decretato unicamente da
qualche solone, ma anche da tutti quegli ‘esperti’ che hanno vera esperienza di fede e di amore per
Cristo e per la Chiesa, come indica splendidamente uno dei testi liturgici più intensi ed espressivi:
«expertus potest credere quid sit Jesum diligere [solo chi ha sperimentato è in grado di
comprendere che cosa significhi amare Cristo]» (inno Jesu dulcis memoria, Liber Usualis,
Solesmes 1961, pag. 452). Con loro è doveroso e necessario un rapporto dialogico, ed anche
dialettico, perché no? Se non proprio con tutti – perché ciò è utopistico – almeno con molti di loro,
che hanno sinceramente qualcosa da dire e tanto cuore con cui offrire il loro contributo. Così vedrei
bene una commissione: aperta a molte voci e contributi, dal carattere e dal cuore largo, in modo tale
che il suo lavoro, se così si facesse, forse, porterebbe a superare e a vincere una certa aridità di gesti
e di testi. Con questo presupposto possiamo leggere il dettato conciliare di SC 44-46, sul quale vi è
poco da commentare. Al massimo si può formulare l’auspicio che tali commissioni abbiano forma
non esclusiva ma inclusiva.
E, sempre a proposito di allargamento di prospettive, tema cardine del concilio Vaticano II,
trovo difficilmente comprensibile concepire ancora oggi la realtà del culto distinta in tre
compartimenti stagni quali ‘liturgia’, ‘musica’, ‘arte’. Chi si dedica alla liturgia non può prescindere
da quel grande atto di culto che è l’armonia – una delle caratteristiche di Dio – e l’arte, celebrazione
altissima dei magnalia Dei. Testimone autorevole di questa consapevolezza olistica è l’allora card.
Ratzinger, che, nel discorso tenuto al Meeting di Rimini del 2002 portò questa testimonianza
personale: «Resta per me un’esperienza indimenticabile il concerto di Bach diretto da Leonard
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Bernstein a Monaco di Baviera dopo la precoce scomparsa di Karl Richter. Ero seduto accanto al
vescovo evangelico Hanselmann. Quando l’ultima nota di una delle grandi Thomas-Kantor-
Kantaten si spense trionfalmente, volgemmo lo sguardo spontaneamente l’uno all’altro e altrettanto
spontaneamente ci dicemmo: “Chi ha ascoltato questo, sa che la fede è vera”. In quella musica era
percepibile una forza talmente straordinaria di realtà presente da rendersi conto, non più attraverso
deduzioni, bensì attraverso l’urto del cuore, che ciò non poteva avere origine dal nulla, ma poteva
nascere solo grazie alla forza della verità che si attualizza nell’ispirazione del compositore». La
connotazione della musica è prettamente religiosa, e trova nel canto gregoriano uno dei vertici
insuperati ed insuperabili.
E come non ricordare che il locus iste, in cui si celebra e si loda, è normalmente uno scrigno
di arte, frutto di ciò che Paolo VI descriveva nella celebre omelia della Messa degli artisti, celebrata
nella Cappella Sistina il 7 maggio 1964: «E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in
formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri. È il vostro mestiere, la vostra missione; e la
vostra arte è proprio quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di
colori, di forme, di accessibilità. E non solo una accessibilità quale può essere quella del maestro di
logica, o di matematica, che rende, sì, comprensibili i tesori del mondo inaccessibile alle facoltà
conoscitive dei sensi e alla nostra immediata percezione delle cose. Voi avete anche questa
prerogativa, nell’atto stesso che rendete accessibile e comprensibile il mondo dello spirito: di
conservare a tale mondo la sua ineffabilità, il senso della sua trascendenza, il suo alone di mistero,
questa necessità di raggiungerlo nella facilità e nello sforzo allo stesso tempo… Se Noi mancassimo
del vostro ausilio, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno
sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico. Per assurgere alla
forza della espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio
con l’arte». Dunque, ancelle della liturgia sono l’armonia, da una parte, e, dall’altra, quella
professione di fede in actu che è l’arte stessa nelle sue varie forme. Celebrazione di Dio è
l’architettura (in una delle mie chiese, per certi aspetti unica al mondo, uno dei celebri architetti del
’700, Antonio Galli da Bibiena, ha realizzato una serie di volte traforate nella muratura, contenute
in una doppia e tripla cupola, grazie alle quali ho modo di spiegare ai visitatori che cosa è la fede:
un vedere non con immediatezza, ma con certezza, perché il paradiso lo si intravede affrescato,
anche se non in tutti i suoi dettagli. L’architetto chiamava questo geniale artificio: «le celesti
prospettive»). Celebrazione di Dio è la scultura (ne parlava in termini teologici uno dei dottori della
Chiesa: «La stessa idea applicata però all’ambito antropologico, si trovava già in San Bonaventura,
il quale spiega il cammino attraverso cui l’uomo diviene autenticamente sé stesso, prendendo lo
spunto dal paragone con l’intagliatore di immagini, cioè con lo scultore. Lo scultore non fa
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qualcosa, dice il grande teologo francescano. La sua opera è invece una ablatio: essa consiste
nell’eliminare, nel togliere via ciò che è inautentico. In questa maniera, attraverso la ablatio, emerge
la nobilis forma, cioè la figura preziosa. Così anche l’uomo, affinché risplenda in lui l’immagine di
Dio, deve soprattutto e prima di tutto accogliere quella purificazione, attraverso la quale lo scultore,
cioè Dio, lo libera da tutte quelle scorie che oscurano l’aspetto autentico del suo essere, facendolo
apparire solo come un blocco di pietra grossolano, mentre invece inabita in lui la forma divina»
(Joseph Ratzinger, Una compagnia sempre riformanda, discorso al Meeting di Rimini del 1990).
Celebrazione di Dio sono la pittura e tutte le cosiddette “arti minori” (che poi tanto minori non
sono): le nostre chiese ed i nostri musei traboccano di meravigliose ‘icone’ che si rivelano per i
fedeli, come per i visitatori, anche i più distratti, autentiche finestre sul Mistero. Un genio come il
Beato Angelico dipingeva in ginocchio, esprimendo davanti al Mistero da lui rappresentato, la
stessa venerazione che la Chiesa tributa al SS. Sacramento. L’arte si è sviluppata ed ha raggiunto le
vette che ben conosciamo nello sforzo di narrare il Mistero, di renderlo visibile, palpabile, fruibile,
partecipabile. H.G. Gadamer è convinto che, nell’esperienza estetica, l’arte si fa veicolo per
incontrare e gustare la verità e l’incontro con la verità non è mai evento inerte ed innocuo:
«nell’esperienza dell’arte vediamo attuarsi un’esperienza che modifica realmente colui che la fa»
(Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, Milano, Bompiani, 1997, p. 112). Nell’opera d’arte la
verità della realtà trova una proclamazione singolare, che l’esperienza comune mai può esprimere in
modo così alto. La verità che si rivela esteticamente non è meno vera, anzi, lo è di più della realtà
acquisita empiricamente e l’opera d’arte si rende più reale della realtà, perché di essa ne è forma ed
immagine, intelligibile al massimo grado di comprensione, in quanto libera dalla fattualità e dalla
particolarità delle cose quotidiane. Il reale, divenuto forma artistica, dice del reale, non solo
l’apparire, ma l’essere.
Il vero liturgista, dunque, è anche musicista ed artista, così come il vero musicista è anche
liturgista, oltreché artista, ed il vero artista è ministro della gloria divina, e cantore della bellezza
suprema. Sono ben consapevole che non tutte le piccole realtà (e talvolta neppure le maggiori)
dispongono di una pluralità di persone tanto poliedriche, ma è pure vero che la Chiesa, in 2.000 anni
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di storia, ha sempre investito sulla educazione e sulla preparazione di persone competenti. La
carenza odierna di tali figure denuncia un deficit ecclesiale: forse ci si è concentrati su altre
questioni importanti e necessarie, benemerite, ma si è trascurato di valorizzare il momento
celebrativo come culmen et fons (SC 10) di tutta quanta l’esperienza credente. Eppure l’una cosa
non esclude l’altra. L’unguento di «puro nardo assai prezioso» versato a Betania, in casa di Maria,
sui piedi di Gesù, appare uno spreco, umanamente parlando, ma il Figlio di Dio ha elogiato questo
gesto liturgico di amore nei suoi confronti (cfr. Gv 12,1-11). Per i poveri, che sono sempre con noi,
non mancano certamente nella Chiesa le risorse umane ed economiche, con le quali si può e si deve
garantire loro dignità e umanità. Allo stesso modo, altrettante risorse, di persone e di mezzi, ci
possono essere per il culto di Dio, grazie al quale la salvezza raggiunge tutto l’uomo e tutti gli
uomini. La Chiesa ha bisogno di una nuova vasta generazione di ‘liturgisti’, anche senza titoli
accademici, che sono tali, non per mestiere, ma per fede e per amore. Uniti ai liturgisti per
vocazione e per competenza, essi possono dare alla Chiesa un grande contributo.
Per meglio chiarire il mio pensiero su tale questione, e per evitare spiacevoli equivoci con
amici e colleghi, circa il ruolo che le commissioni liturgiche sono chiamate a svolgere all’interno
delle comunità parrocchiali, diocesane, e nella Chiesa universale, credo di poter descrivere la loro
funzione ricorrendo ad una analogia liturgica: i cori nella liturgia. Essi non devono fagocitare
l’assemblea, impedendo ad essa di cantare un solo amen. Devono, al contrario, promuovere il canto
di tutta l’assemblea, attraverso un sapiente dosaggio di parti corali, solistiche, a cappella. Molto
espressivo e fruttuoso può essere il culto che concilia tutti questi aspetti. Così le commissioni non
devono fagocitare le comunità cristiane con proposte avulse dalla vita e dalla fede del popolo di
Dio, impedendo alla comunità di essere vox populi, vox Dei. Le commissioni, invece, lavorando in
sintonia e in sinergia con l’intera comunità, devono promuovere l’educazione liturgica e il
coinvolgimento celebrativo di tutta quanta la comunità e di tutte le comunità, anche attraverso un
doveroso e sapiente discernimento – che è carisma innanzitutto del vescovo, e, di conseguenza, di
tutti i corresponsabili suoi collaboratori nella conduzione della pastorale ecclesiale, quindi della
Chiesa nel suo insieme, discernimento che consente di custodire ciò che è buono e di abbandonare
quanto non lo è. Molto espressivo e fruttuoso può essere il culto che scaturisce dalla conciliazione
di tutti questi aspetti e da un cammino di fede condiviso ed educativo.
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soprattutto, dal retto sentire della fede. È evidente che le reazioni di segno nettamente opposto
rivendichino la medesima libertas operandi, anche sapendo di trovare veti talvolta immotivati, pur
essendo pienamente nel solco della Tradizione della Chiesa. Ci si chiede onestamente il perché di
pesi e misure diversi e non equi. L’arte del discernimento, propria del vescovo e dell’intera Chiesa,
trova in questa materia uno degli esercizi privilegiati.
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EPILOGO
La liturgia in parrocchia, soprattutto nei tre momenti princeps, ovvero “l’anno”, “il giorno”,
“la cena” del Signore, è il primo e principale cammino di fede del credente e della Chiesa, è il
momento in cui, proclamando con fede e con amore il nostro eukaristein, il rendimento di grazie,
nella speranza gridiamo: «Maranathà» allo Sposo che viene, affinché stia con noi tutti i giorni, sino
alla fine del mondo, e, nella liturgia, lo possiamo abbracciare come Maestro e seguire come
Signore.
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SACROSANCTUM CONCILIUM 40-46
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visibile stabilita su tutta la terra. Per questo motivo la vita liturgica della parrocchia e il suo
legame con il vescovo devono essere coltivati nell’animo e nell’azione dei fedeli e del
clero; e bisogna fare in modo che il senso della comunità parrocchiale fiorisca soprattutto
nella celebrazione comunitaria della messa domenicale.
Altre commissioni
46. Oltre alla commissione di sacra liturgia, siano costituite in ogni diocesi, per
quanto possibile, anche le commissioni di musica sacra e di arte sacra. È necessario che
queste tre commissioni collaborino tra di loro, anzi talora potrà essere opportuno che
formino un’unica commissione.
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