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Ma
in che senso la metafora sacrificale è stata applicata alla sua
AlessAndro sAcchi
così una volta per tutte le esigenze della giustizia di Dio e
2007-2009.
LA
MORTE
DEL
MESSIA
Alessandro
Sacchi
Titolo | La morte del messia
Autore | Alessandro Sacchi
Immagine di copertina | Chagall, «Exodus»
ISBN | 978-88-91196-00-2
Youcanprint Self-Publishing
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A
mons.
Oscar
Romero,
umile
discepolo
di
Gesù
e
coraggioso
pastore
del
gregge,
che
ha
dato
la
vita
per
le
sue
pecorelle.
PREFAZIONE
8 LA MORTE DEL MESSIA
influire
sulla
condizione
dell’umanità
nel
corso
della
sto-‐
ria.
Una
spiegazione
largamente
attestata
nel
Nuovo
Te-‐
stamento,
anche
se
per
lo
più
mediante
semplici
allusioni,
è
quella
che
si
rifà
alle
categorie
sacrificali:
Gesù
avrebbe
liberato
l’umanità
offrendosi
a
Dio
come
vittima
per
espia-‐
re
i
peccati
di
tutti.
A
questa
interpretazione
ha
dato
voce
in
modo
determinante
la
lettera
agli
Ebrei.
Questa
concezione
è
stata
ulteriormente
elaborata
da
Anselmo
d’Aosta,
il
quale
ne
ha
tratto
la
dottrina
denomi-‐
nata
«espiazione
vicaria».
In
base
a
essa
Gesù
avrebbe
preso
su
di
sé
il
peccato
che,
da
Adamo,
si
era
trasmesso
a
tutta
l’umanità.
Morendo
sulla
croce
egli
avrebbe
scontato
la
pena
dovuta
ai
peccatori,
soddisfacendo
così
una
volta
per
tutte
le
esigenze
della
giustizia
divina.
In
tal
modo
avrebbe
riconciliato
l’umanità
con
Dio,
rendendo
possibile
a
tutti
la
felicità
eterna,
già
anticipata
in
questo
mondo
mediante
l’adesione
alla
Chiesa
e
la
vita
sacramentale.
Questa
interpretazione
della
morte
di
Gesù,
ancora
lar-‐
gamente
diffusa
nella
teologia
e
nella
catechesi,
rispecchia
chiaramente,
come
il
racconto
del
primo
peccato,
la
con-‐
cezione
mitologica
dell’antichità.
Oggi
essa
è
messa
in
di-‐
scussione
in
quanto
suscita
tutta
una
serie
di
interrogativi.
Come
è
possibile,
infatti,
che
un
uomo
prenda
su
di
sé
i
peccati
di
tutta
l’umanità?
Come
può
una
morte,
accettata
per
soddisfare
le
esigenze
di
un
Dio
offeso,
attuare
una
salvezza
valida
per
tutti?
Ma
soprattutto
ci
si
può
chiedere
in
che
misura
il
concetto
di
espiazione
vicaria
risponda
al
bisogno
di
salvezza
presente
nella
società
di
oggi.
Per
ri-‐
spondere
a
queste
domande
è
necessario
prima
di
tutto
verificare
se
questo
concetto
è
veramente
radicato
nella
Bibbia
e
poi
confrontarlo
con
le
categorie
mentali
moder-‐
ne.
In
questo
lavoro
mi
propongo
di
affrontare
in
modo
critico
la
teoria
anselmiana.
A
tale
scopo
esaminerò
anzi-‐
Prefazione 9
tutto
il
concetto
di
espiazione
vicaria
(capitolo
1),
poi
cer-‐
cherò
di
delineare
il
significato
del
sacrificio
nelle
diverse
religioni
(capitolo
2);
in
seguito
affronterò
il
tema
del
sa-‐
crificio
nel
Primo
Testamento,
mostrando
anzitutto
come
esso
si
configuri
all’interno
della
religione
dell’alleanza
(capitolo
3);
passerò
poi
a
indicare
il
significato
specifico
del
sacrificio
israelitico
alla
luce
di
alcuni
testi
riportati
nel
Pentateuco
(capitolo
4)
e
poi
all’interno
della
corrente
profetica
(capitolo
5);
in
questo
contesto
riserverò
una
trattazione
speciale
alla
figura
del
Servo
di
YHWH
(capitolo
6);
successivamente
illustrerò
il
significato
della
«morte
per»
gli
altri
nel
mondo
ellenistico
(capitolo
7);
infine
mo-‐
strerò
in
che
senso
nel
Nuovo
Testamento
la
metafora
del
sacrificio
sia
stata
applicata
alla
morte
di
Cristo
in
quanto
Messia
(capitolo
8).
Da
questa
ricerca
apparirà
chiaramen-‐
te
come
la
teoria
dell’espiazione
vicaria
non
abbia
nessun
fondamento
biblico.
Nella
conclusione
mostrerò
come
es-‐
sa
sia
inconciliabile
con
la
mentalità
moderna
e
proporrò
qualche
soluzione
alternativa
per
presentare
oggi
in
modo
più
convincente
la
morte
di
Gesù
(capitolo
9).
Numerosi
studiosi
hanno
già
espresso
in
modi
diversi
le
idee
che
cercherò
di
trasmettere
in
questo
volumetto.
Non
ho
però
l’impressione
che
il
risultato
delle
loro
ricer-‐
che
abbia
raggiunto
gli
operatori
pastorali
e
i
semplici
cri-‐
stiani,
presso
i
quali
la
teoria
anselmiana
è
ancora
impe-‐
rante.
Penso
quindi
che
non
sia
male
riprendere
in
modo
divulgativo
questo
argomento.
Nella
bibliografia
al
termine
di
questa
opera
ho
elenca-‐
to
i
libri
da
me
consultati,
limitandomi
quasi
esclusiva-‐
mente
a
quelli
in
lingua
italiana.
In
essi
i
lettori
troveran-‐
no,
se
lo
desiderano,
gli
strumenti
per
ulteriori
approfon-‐
dimenti.
A
motivo
dello
scopo
che
mi
sono
prefisso,
non
10 LA MORTE DEL MESSIA
ho
pensato
che
fosse
necessario
fare
uso
di
note
a
piè
di
pagina
per
citare
le
fonti
delle
mie
affermazioni
o
discute-‐
re
i
pareri
diversi
dal
mio.
Gli
specialisti
in
questo
campo
sono
in
grado
di
scoprire
senza
difficoltà
quali
sono
le
opere
alle
quali
mi
sono
ispirato.
Invece
i
lettori
ordinari,
ai
quali
questa
opera
è
rivolta,
non
hanno
bisogno
di
un’ulteriore
documentazione.
È
mia
speranza
che
quanto
andrò
affermando
si
giustifichi
da
sé,
senza
bisogno
di
fare
ricorso
ad
altre
autorità.
I
L’ESPIAZIONE
VICARIA
a. La dottrina anselmiana
Nel
suo
opuscolo
Cur
Deus
homo
(«Perché
Dio
si
è
fatto
uomo»),
Anselmo
d’Aosta
(1033-‐1109
d.C.)
si
pone
lo
sco-‐
po
di
spiegare
razionalmente
il
motivo
per
cui
Dio
si
è
fat-‐
to
uomo.
Egli
presuppone
che
il
disegno
di
Dio
espresso
nella
creazione
abbia
lo
scopo
di
far
sì
che
l’umanità
rag-‐
giunga
la
beatitudine.
Purtroppo
l’ordine
naturale
è
stato
stravolto
dal
peccato
di
Adamo,
che
da
lui
è
stato
trasmes-‐
so
a
tutti
i
suoi
discendenti.
Questo
peccato,
in
quanto
rappresenta
un’offesa
fatta
a
Dio,
ha
deteriorato
in
modo
determinante
il
rapporto
dell’uomo
con
lui.
Con
esso
viene
12 LA MORTE DEL MESSIA
dunque
compromessa
la
possibilità
stessa
che
l’umanità
raggiunga
la
beatitudine
e
ottenga
la
salvezza.
D’altra
par-‐
te,
se
l’uomo
si
perdesse,
Dio
non
potrebbe
realizzare
il
suo
progetto.
È
dunque
necessario
che
si
ristabilisca
il
rapporto
originario
tra
Dio
e
la
sua
creatura.
Perché
ciò
avvenga,
si
prospettano
due
vie
ugualmente
impercorribili:
o
l’uomo
restituisce
a
Dio
l’onore
che
gli
è
stato
tolto
o
Dio
stesso
perdona
gratuitamente
l’umanità
peccatrice.
Nel
primo
caso,
siccome
l’entità
della
colpa
si
misura
in
base
alla
dignità
dell’offeso
e
non
dell’offensore,
l’ampiezza
della
soddisfazione
richiesta
è
tale
da
preclu-‐
dere
all’uomo
la
possibilità
di
realizzarla.
Infatti
esiste
uno
squilibrio
insuperabile
tra
Creatore
e
creatura,
tra
gran-‐
dezza
dell’offeso
e
piccolezza
dell’offensore.
Nel
secondo
caso
sarebbe
Dio
stesso
a
perdonare
di
sua
iniziativa
l’umanità.
Ma
se
Dio
rimettesse
il
debito
dell’uomo
con
un
atto
di
pura
misericordia,
non
verrebbe
ristabilito
l’ordine
turbato
dal
peccato.
Ciò
può
avvenire
soltanto
mediante
la
spontanea
soluzione
del
debito
(«soddisfazione»)
da
parte
dell’offensore.
Senza
di
essa
né
Dio
può
perdonare
il
peccato
dell’uomo
né
l’uomo
può
giungere
alla
beatitudine.
La
necessità
che
questa
si
rea-‐
lizzi
si
scontra
quindi
con
l’impossibilità
da
parte
dell’uomo
di
offrire
un’adeguata
soddisfazione
e,
da
parte
di
Dio,
di
perdonare
senza
di
essa.
Si
crea
quindi
una
si-‐
tuazione
a
prima
vista
senza
via
d’uscita.
Per
superare
questa
impasse,
Dio
stesso
ha
adottato
l’unica
soluzione
possibile.
Egli
ha
inviato
nel
mondo
il
suo
unico
Figlio
il
quale
si
è
fatto
uomo
e
ha
preso
su
di
sé
il
peccato
dell’umanità;
offrendosi
in
sacrificio
sulla
croce
egli
ha
scontato
la
pena
dovuta
ai
peccatori
e
così
ha
offer-‐
to
a
Dio
la
soddisfazione
che
gli
era
dovuta.
Solo
lui,
infatti,
essendo
al
tempo
stesso
Dio
e
uomo,
poteva
soddisfare
le
esigenze
dell’onore
dovuto
a
Dio,
e
così
liberare
l’umanità
I. L'espiazione vicaria 13
dal
castigo
che
incombeva
su
di
essa.
Questa
interpreta-‐
zione
è
stata
chiamata
«espiazione
vicaria»
in
quanto
Cri-‐
sto,
come
vittima
sacrificale,
avrebbe
preso
su
di
sé
i
no-‐
stri
peccati
e
li
avrebbe
espiati
al
nostro
posto.
Questa
spiegazione
della
morte
di
Cristo
suppone
una
certa
visione
del
sacrificio
in
quanto
soddisfazione
offerta
a
Dio
per
l’offesa
a
lui
arrecata
dal
peccato.
Inoltre
essa
dà
per
scontato
che
Dio
non
può
conferire
all’uomo
peccatore
la
salvezza
se
non
come
effetto
di
un
recupero
dell’onore
a
lui
dovuto.
Infine
la
salvezza
viene
vista
come
il
frutto
di
uno
scambio
che
avviene
esclusivamente
tra
Dio
Padre
e
il
suo
Figlio
incarnato.
b. Tommaso d’Aquino
14 LA MORTE DEL MESSIA
c. Il Catechismo della Chiesa Cattolica
I. L'espiazione vicaria 15
considerata
dai
più
come
un
dogma
indiscutibile
della
fe-‐
de
cristiana;
come
reazione
coloro
che
non
l’accettano
so-‐
no
spinti
all’abbandono
della
chiesa.
Dall’accettazione
o
dal
rifiuto
della
dottrina
di
Anselmo
dipende
in
gran
parte
la
visione
di
Dio
e
dei
suoi
rapporti
con
il
mondo.
Ma
soprattutto
è
da
essa
che
deriva
l’idea
di
salvezza
che
la
Chiesa
propone
ai
credenti
e
all’umanità
in
generale.
Se
infatti
la
liberazione
dal
peccato
dipende
da
uno
scambio
privato
tra
Dio
e
il
suo
Figlio,
allora
resta
po-‐
co
da
fare
per
cambiare
le
realtà
terrene
alla
luce
del
Van-‐
gelo.
Il
peccato
è
stato
eliminato
una
volta
per
tutte.
Ma
purtroppo
si
ha
l’impressione
che
la
morte
di
Gesù
non
abbia
cambiato
nulla
nella
condizione
oggettiva
dell’uma-‐
nità,
in
cui
domina
il
sopruso
e
la
violenza.
Se
si
desidera
veramente
che
il
messaggio
cristiano
in-‐
cida
sulla
vita
delle
persone
e
sulle
strutture
sociali,
biso-‐
gna
rivedere
alla
radice
la
dottrina
dell’espiazione
vicaria,
mettendo
in
discussione
i
suoi
presupposti
e
correggendo,
nella
catechesi,
nella
liturgia
e
nella
predicazione,
il
lin-‐
guaggio
religioso
che
si
rifà
a
essa.
Prima
di
dare
voce
alle
critiche
che
sono
state
fatte
a
questa
teoria,
è
necessario
però
chiedersi
se
essa
corri-‐
sponda
ai
dati
biblici
sui
quali
si
fonda.
È
quanto
faremo
ora
a
partire
dall’AT
e
dal
NT.
Ma
prima
è
necessario
ac-‐
cennare
al
concetto
di
sacrificio
prevalente
nelle
religioni
in
genere
e
specialmente
in
quelle
dell’antico
Medio
Orien-‐
te:
da
esso
deriva
infatti
tutta
una
serie
di
idee
che
hanno
condizionato
erroneamente
l’interpretazione
del
sacrificio
così
come
è
presentato
in
campo
biblico
e
cristiano.
II
I
SACRIFICI
NELL’ANTICO
MEDIO
ORIENTE
18 LA MORTE DEL MESSIA
tavano.
I
doni
alimentari
venivano
posti
ai
piedi
della
sta-‐
tua,
con
la
convinzione
che
la
divinità
presente
in
essa
po-‐
tesse
consumarli
in
segreto
(cfr.
Dn
14,3).
Quando
invece
si
trattava
del
sacrificio
di
animali,
il
primo
passo
era
l’uccisione
della
vittima.
Ad
esso
facevano
seguito
i
riti
sa-‐
crificali
veri
e
propri.
Quello
più
ordinario
era
di
bruciare
la
carne
della
vittima
sull’altare:
questo
rito
aveva
un
forte
significato
simbolico
perché
la
carne
della
vittima,
andan-‐
do
in
fumo,
raggiungeva
il
cielo,
cioè
la
sfera
in
cui
si
rite-‐
neva
che
abitasse
la
divinità.
Un
altro
modo
per
trasferire
la
vittima
nel
mondo
divi-‐
no
era
quello
basato
sull’uso
del
sangue.
Secondo
una
con-‐
vinzione
diffusa
in
tutta
l’antichità,
il
sangue
era
conside-‐
rato
come
la
parte
più
nobile
di
un
essere
vivente,
in
quan-‐
to
si
pensava
che
esso
fosse
la
sede
della
vita.
Perciò
era
soprattutto
il
sangue
delle
vittime
che
doveva
entrare
nel-‐
la
sfera
divina.
Ciò
veniva
ottenuto
facendolo
scorrere
ai
piedi
dell’altare
o
aspergendo
con
esso
gli
oggetti
che
indi-‐
cavano
la
presenza
della
divinità,
soprattutto
la
stele
o
il
palo
sacro.
Lo
scopo
di
far
giungere
il
proprio
dono
alla
divinità
era
raggiunto
anche
mediante
la
consumazione
della
car-‐
ne
della
vittima
da
parte
dei
sacerdoti
o
degli
offerenti.
Perciò
diversi
riti
sacrificali
erano
conclusi
con
un
ban-‐
chetto
nella
zona
del
tempio.
Sullo
sfondo
di
questo
rito
vi
era
la
convinzione
secondo
cui
la
divinità,
dopo
aver
accol-‐
to
il
dono
che
le
veniva
fatto,
donava
la
carne
della
vittima
ai
suoi
fedeli,
i
quali
la
mangiavano
festosamente
alla
sua
presenza.
Naturalmente
questo
rito
significava
che
la
divi-‐
nità
aveva
accettato
il
dono
che
le
era
stato
fatto
e
assicu-‐
rava
la
sua
costante
protezione
nei
confronti
degli
offeren-‐
ti.
Inoltre
il
banchetto
sacro
era
espressione
di
un
vincolo
strettissimo
che
univa
i
devoti
alla
divinità,
la
quale
non
poteva
esimersi
dall’assicurare
loro
i
suoi
favori.
II. I sacrifici nell'antico Medio Oriente 19
b. I riti dei cananei e degli arabi
20 LA MORTE DEL MESSIA
riti
venivano
eseguiti
potevano
essere
i
più
disparati.
In
questo
contesto
è
sufficiente
mettere
in
luce
la
mentalità
che
stava
normalmente
all’origine
dei
riti
sacrificali
delle
popolazioni
in
mezzo
alle
quali
si
è
sviluppato
Israele.
In
genere
si
trattava
di
un
rapporto
tendenzialmente
egoisti-‐
co
con
la
divinità,
dalla
quale
si
pensava
di
poter
ottenere
certi
vantaggi
per
se
stessi
o
per
il
proprio
clan,
spesso
a
prescindere
da
una
visione
più
vasta
di
bene
comune.
A
ben
riflettere
quella
mentalità
non
era
lontana
da
tante
manifestazioni
religiose
non
solo
del
mondo
biblico
ma
anche
di
quello
moderno,
nonostante
l’enorme
distanza
che
ci
separa
dall’antichità.
III
LA
PRASSI
SACRIFICALE
ISRAELITICA
22 LA MORTE DEL MESSIA
a. Il culto di Israele
III. La prassi sacrificale israelitica 23
poi
le
stesse
praticate
dai
loro
progenitori
prima
dell’esilio
(cfr.
2Re
17,24-‐41;
Esd
4,1-‐5).
Il
nuovo
significato
attribuito
al
culto
israelitico
appare
dal
fatto
che
la
descrizione
dettagliata
dei
riti
che
ne
fanno
parte
è
riportata
nel
contesto
della
tradizione
sinaitica.
Questa
si
estende
da
Es
19
fino
a
Nm
10
e
copre
tutto
il
periodo
trascorso
dagli
israeliti
ai
piedi
del
monte
Sinai.
In
essa
si
raccontano
anzitutto
l’incontro
con
YHWH
e
la
con-‐
clusione
dell’alleanza
sinaitica
(Es
19-‐24).
Vengono
poi
riportate
le
direttive
date
da
Dio
per
la
costruzione
del
santuario
(Es
25-‐31).
In
una
seconda
sezione
narrativa
si
racconta
l’adorazione
del
vitello
d’oro,
usuale
nel
mondo
cananeo,
presentata
come
il
«peccato
originale»
di
Israele.
Esso
è
punito
con
una
serie
di
terribili
castighi,
a
cui
fa
se-‐
guito
il
rinnovamento
dell’alleanza
(Es
32-‐34).
Segue
un’altra
sezione
cultuale
in
cui
si
descrive
la
costruzione
del
santuario
(Es
35-‐40).
Nei
due
libri
successivi
si
presuppone
l’esistenza
del
santuario
e
si
danno
le
disposizioni
riguardanti
la
liturgia
che
in
esso
doveva
svolgersi.
Anzitutto
sono
descritti
i
sa-‐
crifici
che
dovevano
essere
offerti
nel
santuario
(Lv
1-‐7);
nella
sezione
successiva
si
descrive
l’investitura
dei
sacer-‐
doti
(Lv
8-‐10);
vengono
poi
elencate
le
norme
riguardanti
la
purezza
rituale,
che
si
concludono
con
la
descrizione
della
festa
dell’Espiazione
(Kippur)
(Lv
11-‐16);
la
sezione
successiva
contiene
un
codice
che,
in
base
alla
finalità
del-‐
le
norme
in
esso
contenute,
viene
chiamato
«Legge
di
san-‐
tità»
(Lv
17-‐26).
Il
libro
termina
con
un’appendice
relativa
ai
voti
(Lv
27).
Nel
libro
dei
Numeri
è
riportato
anzitutto
il
risultato
del
censimento
degli
israeliti
(Nm
1-‐4);
segue
una
sezione
in
cui
sono
raccolte
leggi
e
disposizioni
rituali
riguardanti
situazioni
diverse
(Nm
5-‐8);
infine,
si
raccontano
la
cele-‐
24 LA MORTE DEL MESSIA
brazione
della
prima
Pasqua
dopo
l’uscita
dall’Egitto
e
la
partenza
dal
Sinai
(Nm
9-‐10).
Da
questa
rapida
carrellata
appare
chiaramente
come
il
culto
di
Israele
fosse
strettamente
collegato
con
l’alleanza,
dalla
quale
riceveva
il
suo
significato.
Le
norme
di
carattere
rituale
riguardanti
i
sacrifici
sono
collocate
al
centro
della
tradizione
sinaitica,
subito
dopo
il
racconto
della
costruzione
del
santuario,
dove
essi
saranno
offerti,
e
prima
delle
norme
riguardanti
i
sacerdoti,
a
cui
ne
è
de-‐
mandata
l’esecuzione.
Questa
collocazione
mette
chiara-‐
mente
in
luce
l’importanza
e
il
significato
dei
sacrifici
nel
culto
di
Israele.
III. La prassi sacrificale israelitica 25
gere
fino
a
Dio.
Non
c’era
un
motivo
specifico
per
cui
l’olocausto
veniva
offerto,
se
non
la
volontà
dell’offerente.
L’animale
offerto
doveva
essere
senza
difetto.
L’offerente
imponeva
le
mani
sulla
testa
della
vittima,
indicando
così
che
essa
era
di
sua
proprietà
e
la
dedicava
a
YHWH;
in
se-‐
guito
la
vittima
veniva
uccisa
e
bruciata
interamente.
Il
sangue
veniva
sparso
dal
sacerdote
intorno
all’altare:
era
questo
il
compito
sacerdotale
per
eccellenza.
Nel
seguito
del
capitolo
vengono
date
ulteriori
specificazioni
circa
le
situazioni
concrete
in
cui
questo
veniva
offerto.
26 LA MORTE DEL MESSIA
si
rende
noto
che
il
resto
della
carne
veniva
diviso
tra
il
sacerdote
e
l’offerente
che
lo
consumava
con
i
suoi
con-‐
giunti
e
amici
nell’area
del
tempio
(cfr.
Lv
7,11-‐15;
19,5-‐
8).
III. La prassi sacrificale israelitica 27
5)
Sacrificio
di
riparazione
(Lv
5,14-‐26)
Questo
sacrificio,
chiamato
<asham,
era
analogo
al
pre-‐
cedente.
Non
è
chiaro
quali
fossero
le
sue
finalità
specifi-‐
che,
ma
sembra
che
venisse
offerto
esclusivamente
dai
privati.
Se
il
peccato
per
cui
era
offerto
aveva
causato
dei
danni,
questi
dovevano
essere
previamente
risarciti.
An-‐
che
in
questo
caso
si
afferma
che,
in
forza
del
rito
espiato-‐
rio,
il
peccato
sarà
perdonato
(cfr.
5,26).
28 LA MORTE DEL MESSIA
derato
come
la
sede
della
presenza
di
Dio
in
mezzo
al
suo
popolo:
a
motivo
di
questo
rito
esso
era
chiamato
kappo-‐
ret,
«espiatorio»
(in
greco
hilastêrion)
(vv.
11-‐15).
Viene
portato
poi
il
capro
scelto
per
il
sacrificio
espia-‐
torio.
Aronne
lo
scanna
e
con
il
suo
sangue
compie
nuo-‐
vamente
lo
stesso
rito,
questa
volta
per
l'intero
popolo.
In
tal
modo
egli
«fa
l’espiazione»
(kipper)
sul
santuario
non
solo
per
le
impurità
ma
anche
per
le
ribellioni
(peshaîm)
e
per
tutti
i
peccati
(úaÃÃa<ôt)
degli
israeliti;
egli
asperge
poi
la
tenda
del
convegno
(v.
16).
Infine
esce
all’aperto
e
con
il
sangue
delle
due
vittime,
il
giovenco
e
il
capro,
asperge
i
lati
dell'altare
degli
olocausti
(vv.
17-‐19).
Il
capro
usato
per
questo
rito
è
chiamato
«capro
espiatorio»
poiché
con
il
suo
sangue
veniva
fatta
l’espiazione
dei
peccati.
Infine
il
secondo
dei
due
capri
scelti
precedentemente
viene
condotto
vivo
davanti
al
sommo
sacerdote.
Questi
impone
le
mani
sul
suo
capo
mentre
confessa
le
colpe
(>avonôt),
le
ribellioni
(peshaîm)
e
i
peccati
(úaÃÃa<ôt)
del
popolo
(v.
20).
Questo
gesto
aveva
lo
scopo
di
far
ricadere
sul
capro
i
peccati
del
popolo.
Esso
però
non
era
sacrifica-‐
to
ma
veniva
inviato,
col
suo
carico
di
peccati,
nel
deserto
da
Azazel,
la
potenza
demoniaca
dalla
quale
si
riteneva
che
il
peccato
fosse
causato
(vv.
21-‐22.26).
Questo
rito
era
probabilmente
più
arcaico.
Il
capro
che
era
utilizzato
in
esso
viene
solitamente
chiamato
«capro
emissario»
in
quanto
era
mandato
nel
deserto.
Mentre
le
vittime
offerte
a
Dio
erano
cosa
santa,
il
capro
emissario,
proprio
perché
caricato
dei
peccati
del
popolo,
era
impuro
e
chi
lo
aveva
condotto
nel
deserto
doveva
purificarsi
prima
di
ritornare
alla
vita
normale
(v.
28).
I
riti
compiuti
sui
due
capri
avevano
dunque
un
signifi-‐
cato
diverso,
sebbene
ambedue
servissero
allo
stesso
sco-‐
po,
quello
cioè
di
eliminare
i
peccati.
È
importante
perciò
non
confonderli,
come
si
fa
quando
si
dà
l’appellativo
di
III. La prassi sacrificale israelitica 29
«capro
espiatorio»
al
capro
inviato
nel
deserto
con
su
di
sé
i
peccati
del
popolo.
30 LA MORTE DEL MESSIA
ne
privava
per
offrirla
a
Dio.
L’idea
di
sostituzione
era
dunque
assente.
I
peccati
perdonati
mediante
riti
sacrificali
erano
le
trasgressioni
della
legge
di
purità
commesse
per
inavver-‐
tenza
(cfr.
Lv
4,13.22),
cioè
per
debolezza
e
ignoranza,
senza
un
pieno
coinvolgimento
personale;
per
quelli
commessi
volontariamente
si
esigevano
invece
il
penti-‐
mento
(cfr.
2Sam
12,13)
e
una
riparazione
adeguata
del
torto
fatto
(cfr.
Lv
5,21-‐25),
mentre,
nei
casi
estremi,
si
richiedeva
l’eliminazione
del
peccatore
dal
popolo
(cfr.
Nm
15,30),
cioè
la
pena
di
morte.
Tuttavia,
come
si
è
visto,
si
riteneva
che
mediante
il
rito
del
Kippur
venissero
eli-‐
minare
anche
le
colpe
e
le
ribellioni
del
popolo.
È
difficile
stabilire
con
precisione
a
quali
tipi
di
peccato
si
riferissero
questi
termini.
Sembra
però
che
neanche
il
rito
del
Kippur
potesse
eliminare
i
peccati
che
prevedevano
la
pena
di
morte.
È
quindi
assente
l’idea
che
a
un
animale
fosse
inflit-‐
ta
la
morte
dovuta
al
peccatore.
È
vero
che
sul
capro
emis-‐
sario
erano
riversate
le
colpe
degli
israeliti.
Ma
questo
ca-‐
pro,
come
si
è
detto,
non
era
ucciso
in
sostituzione
del
po-‐
polo
peccatore,
ma
veniva
inviato
vivo
nel
deserto
perché
riportasse
le
sue
colpe
al
diavolo
che
ne
era
l’ispiratore.
I
riti
sacrificali
di
Israele
erano
dunque
sostanzialmen-‐
te
quelli
del
mondo
cananeo.
In
essi,
come
nei
riti
cananei,
aveva
particolare
importanza
l’uso
del
sangue.
Il
loro
si-‐
gnificato
però
era
cambiato
in
quanto
erano
visti
in
fun-‐
zione
dell’alleanza,
che
costituiva
la
ragione
d’essere
di
Israele.
Era
infatti
l’alleanza
israelitica
che
dava
significato
ed
efficacia
ai
sacrifici
israelitici.
Questi
erano
visti
soprat-‐
tutto
come
il
segno
della
misericordia
di
Dio
che
perdona
continuamente
i
peccati
del
suo
popolo.
Essi
erano
neces-‐
sari
per
la
sua
stessa
sopravvivenza.
IV
SIGNIFICATO
DEI
SACRIFICI
ISRAELITICI
32 LA MORTE DEL MESSIA
no.
Il
sangue
è
indicato
due
volte,
all’inizio
e
alla
fine,
co-‐
me
sede
della
«vita»
(nefesh).
Questo
termine
indica
origi-‐
nariamente
il
soffio:
da
qui
il
significato
di
vita
e
infine
di
persona
in
quanto
essere
vivente
animato,
vivo
(cfr.
Gn
2,7).
Che
la
vita
avesse
sede
nel
sangue
è
una
ingenua
cre-‐
denza
popolare,
già
attestata
in
Gn
9,4,
che
deriva
dal
fatto
che,
da
una
parte,
il
sangue
versato
emette
un
po’
di
vapo-‐
re,
e
dall’altra
la
sua
fuoruscita
produce
la
morte.
Dio
concede
che
il
sangue
sia
posto
sull’altare
in
«espiazione
per
le
vostre
anime».
Il
termine
«espiazione»
(dalla
radice
kafar),
come
si
è
già
osservato
precedente-‐
mente,
non
indica
in
ebraico
un
atto
dell’uomo
che,
con
la
propria
sofferenza,
paga
il
debito
contratto
mediante
la
trasgressione
di
una
norma,
ma
piuttosto
un
intervento
di
Dio
che
rimuove,
cancella
il
peccato
dell’uomo.
La
prepo-‐
sizione
tradotta
con
«per»
(>al)
ha
diversi
significati
(so-‐
pra,
al
posto
di,
contro,
in
favore
di,
per);
qui
essa
significa
«in
favore
di».
Il
sangue
esercita
dunque
un
ruolo
positivo
in
favore
delle
«anime»
(pl.
di
nefesh,
esseri
dotati
di
vita,
persone)
degli
offerenti.
Il
brano
significa
dunque
che
il
sangue
è
stato
dato
da
Dio
perché
venisse
asperso
sull’altare;
esso
ha
lo
scopo
di
espiare,
cioè
di
rimuovere
il
peccato
dell’offerente
ristabi-‐
lendo
la
sua
unione
con
Dio.
Il
sangue
della
vittima
ottiene
il
perdono
non
in
forza
di
un’iniziativa
umana
tendente
a
placare
la
divinità
offesa,
ma
perché
è
Dio
stesso
che,
me-‐
diante
il
rito
compiuto
dal
suo
rappresentante,
mette
il
proprio
perdono
a
disposizione
del
popolo
e
di
tutti
i
suoi
membri.
Il
rito
del
sangue
non
aveva
quindi,
come
nella
religione
cananea,
lo
scopo
di
fare
giungere
alla
divinità
il
dono
dell’uomo
per
renderla
propizia.
Tanto
meno
si
rite-‐
neva
che
il
sangue
della
vittima
sostituisse
quello
del
pec-‐
catore
a
cui
sarebbe
stata
dovuta
la
pena
di
morte
per
i
suoi
crimini.
In
primo
piano
vi
è
invece
un
rapporto
che
IV. Significato dei sacrifici israelitici 33
era
stato
rotto
o
indebolito
dal
peccato
e
ora,
in
forza
di
un
intervento
divino,
viene
ripristinato
o
rafforzato
proprio
mediante
il
sangue
della
vittima.
Non
è
detto
però
in
che
modo
il
sangue
compie
questo
suo
ruolo
a
favore
degli
of-‐
ferenti.
Nella
traduzione
greca
le
cose
cambiano.
In
essa
l’espressione
«il
sangue
espia
in
quanto
è
la
vita»
(v.
11c)
viene
così
trasformata:
«Il
suo
sangue
(della
vittima)
espierà
al
posto
(anti)
dell’anima
(tês
psychês,
cioè
della
vita
dell’offerente)».
Secondo
questa
traduzione,
la
vittima
prenderebbe
su
di
sé
la
punizione
dovuta
all’offerente
peccatore
che
in
tal
modo
otterrebbe
il
perdono
da
Dio.
Questa
traduzione
è
chiaramente
influenzata
da
un
altro
modo
di
concepire
il
sacrificio
che
non
ha
fondamento
nel
testo
biblico:
in
essa
infatti
è
stata
introdotta
l’idea
di
espiazione
vicaria,
secondo
la
quale
la
vittima
prende
su
di
sé
la
punizione
che
sarebbe
dovuta
al
peccatore.
Ma
si
tratta
di
un’interpretazione
che,
come
vedremo,
subisce
già
fortemente
l’influsso
della
cultura
greca.
34 LA MORTE DEL MESSIA
verse,
delle
quali
la
prima
(vv.
1-‐2.9-‐11)
è
stata
spezzata
in
due
parti
per
lasciare
posto
alla
seconda
(vv.
3-‐8).
Nei
vv.
1-‐2
si
dice
che
Mosè
riceve
l’ordine
di
salire
«verso
YHWH»,
cioè
sulla
montagna
dove
YHWH
abita,
por-‐
tando
con
sé
Aronne
e
i
suoi
due
figli
Nadab
e
Abiu,
che
rappresentano
la
casta
sacerdotale.
Ad
essi
devono
unirsi
i
settanta
anziani
che
rappresentano
tutto
il
popolo
(cfr.
Es
18,13-‐27).
Solo
Mosè
però
potrà
avvicinarsi
a
YHWH.
Il
po-‐
polo
invece
dovrà
rimanere
ai
piedi
del
monte.
Dopo
l’introduzione,
il
racconto
procede
in
un’altra
di-‐
rezione.
Mosè
si
trova
non
più
in
cammino
verso
il
monte,
ma
con
il
popolo
al
quale
riferisce
le
«parole»
di
YHWH,
cioè
il
decalogo
(Es
20,1-‐17),
a
cui
sono
successivamente
ag-‐
giunte
le
«norme»,
ossia
le
prescrizioni
del
codice
dell’alleanza
(Es
20,22−23,19).
Questa
tradizione
ignora
che
il
decalogo
e
il
successivo
codice
sono
già
stati
comu-‐
nicati
al
popolo.
Il
redattore
finale
ha
voluto
sottolineare
che,
come
fondamento
dell’alleanza,
vi
è
non
solo
il
deca-‐
logo
ma
anche
il
successivo
codice
dell’alleanza.
Pronta-‐
mente
il
popolo
risponde
dicendosi
disposto
a
eseguire
le
«parole»
che
YHWH
ha
pronunziato
(v.
3).
Allora
Mosè
mette
per
iscritto
le
parole
di
YHWH,
cioè
il
decalogo
(v.
4a).
Sono
poi
descritti
i
preparativi
del
rituale:
Mosè
si
alza
di
buon
mattino
ed
erige
un
altare
ai
piedi
del
monte,
con
dodici
stele
per
le
dodici
tribù
d’Israele
(v.
4b).
L’altare
è
necessario
perché
su
di
esso
sono
bruciate
le
vittime
in
onore
della
divinità
(cfr.
Es
20,22-‐26).
Esso
rappresenta
simbolicamente
la
divinità
stessa
alla
quale
viene
rivolto
il
culto.
Le
stele
sono
simboli
fallici
che,
nell’antico
Medio
Oriente,
rappresentavano
anch’esse
la
divinità
e
come
tali
erano
proibite
a
Israele.
Ma
qui
il
significato
di
questi
og-‐
getti
è
stato
modificato,
in
quanto
ora
non
sono
più
simbo-‐
IV. Significato dei sacrifici israelitici 35
li
divini
ma
rappresentano
le
tribù
di
Israele.
In
forza
di
questo
cambiamento,
esse
assumono
il
significato
di
te-‐
stimoni
di
quanto
sta
per
accadere.
I
preparativi
proseguono
con
l’immolazione
delle
vit-‐
time
(v.
5).
Non
essendo
ancora
stato
istituito
il
sacerdo-‐
zio,
sono
incaricati
di
questo
compito
alcuni
giovani
che
erano
probabilmente
i
primogeniti
delle
principali
fami-‐
glie.
Essi
devono
offrire
«olocausti»
(>™l™t)
e
«sacrifici
di
comunione»
(zebaúîm
shelamîm).
Sono
questi
i
due
tipi
di
sacrificio
più
importanti
che
contemplano
l’uccisione
della
vittima,
le
cui
carni
sono
poi
bruciate
tutte
o
in
parte
sull’altare
(cfr.
Lv
1;
3).
Mosè
però
non
è
interessato
all’uccisione
delle
vittime
e
alla
loro
combustione
sull’altare,
ma
al
sangue
che
se
ne
ricava:
«Mosè
prese
la
metà
del
sangue
e
la
mise
in
tanti
catini
e
ne
versò
l’altra
metà
sull’altare»
(v.
6).
Il
gesto
successivo
compiuto
da
Mosè
è
quello
di
legge-‐
re
il
libro
dell’alleanza
alla
presenza
degli
israeliti
i
quali
rispondono:
«Quanto
ha
detto
il
Signore,
lo
eseguiremo
e
vi
presteremo
ascolto»
(v.
7).
Mosè
vuole
essere
certo
che
il
popolo
sia
disposto
a
compiere
la
volontà
di
Dio.
Poi
egli
prende
il
sangue
dai
catini
e
ne
asperge
il
popolo
dicendo:
«Ecco
il
sangue
dell’alleanza
che
YHWH
ha
concluso
con
voi
sulla
base
di
tutte
queste
parole»
(v.
8).
Il
gesto
di
Mosè
significa
dunque
che,
in
forza
dell’alleanza,
la
stessa
vita
unisce
ormai
Dio
e
Israele:
in
altre
parole,
si
stabilisce
tra
i
due
contraenti
una
profonda
solidarietà,
analoga
alla
con-‐
sanguinità
esistente
fra
i
parenti
più
stretti.
L’unione
tra
YHWH
e
il
popolo
non
avviene
però
automaticamente,
in
quanto
l’aspersione
del
popolo
è
stata
preceduta
dalla
let-‐
tura
del
libro
dell’alleanza
e
dalla
dichiarazione
del
popolo
che
si
impegna
a
osservarne
le
prescrizioni.
Si
tratta
dun-‐
que
di
un
rapporto
che
potrà
sussistere
solo
se
il
popolo
sarà
fedele
alla
legge.
36 LA MORTE DEL MESSIA
Dopo
aver
raccontato
il
rito
del
sangue,
il
narratore
ri-‐
prende
la
tradizione
menzionata
nei
due
versi
iniziali
(vv.
9-‐11).
Diversamente
da
quanto
era
stato
comandato
all’inizio,
si
narra
che
Aronne,
Nadab,
Abiu
e
i
settanta
an-‐
ziani
di
Israele
salgono
con
Mosè
sulla
montagna:
è
questo
un
segno
che
anche
all’interno
della
stessa
tradizione
vi
erano
testi
non
del
tutto
armonizzati.
Sulla
montagna
i
rappresentanti
del
popolo
vedono
Dio:
in
realtà
vedono
solo
quello
che
poteva
sembrare
lo
sgabello
dei
suoi
piedi:
è
questo
un
modo
figurato
per
dire
che
hanno
avuto
una
profonda
esperienza
di
Dio.
Il
narratore
si
dà
pensiero
di
spiegare
che,
diversamente
da
quanto
si
pensava,
la
visio-‐
ne
di
Dio
non
ha
provocato
la
morte
dei
rappresentanti
di
Israele.
Costoro
invece
mangiano
e
bevono,
cioè
consuma-‐
no
un
banchetto
alla
presenza
di
YHWH.
Il
banchetto
era
uno
dei
modi
più
comuni
con
cui
veniva
ratificata
un’alleanza
(cfr.
Gn
31,46);
inoltre
nel
culto
israelitico
i
sacrifici
di
comunione
includevano
un
banchetto
alla
pre-‐
senza
di
YHWH.
Anche
il
pasto
consumato
sulla
montagna
significa
dunque
la
comunione
che
si
attua
tra
Dio
e
Israe-‐
le
in
forza
dell’alleanza.
Le
due
tradizioni
riguardanti
la
ratifica
dell’alleanza
hanno
un
chiaro
significativo
eziologico
in
quanto
spiega-‐
no
l’origine
e
il
significato
dei
riti
che
si
compivano
in
oc-‐
casione
dei
sacrifici.
In
altre
parole,
essi
hanno
lo
scopo
di
ricollegare
i
due
maggiori
riti
sacrificali
di
Israele,
l’olo-‐
causto
e
il
sacrificio
di
comunione,
all’evento
fondamenta-‐
le
dell’alleanza,
indicandone
in
tal
modo
il
significato
reli-‐
gioso.
Esternamente
questi
riti
erano
simili
a
quelli
delle
popolazioni
circonvicine,
le
quali
praticavano
anch’esse
l’aspersione
del
sangue
sugli
oggetti
del
culto
e
il
banchet-‐
to
sacro.
Ma
il
significato
era
diverso:
secondo
la
religiosi-‐
tà
cananea
(e
anche
quella
popolare
degli
israeliti)
questi
riti
erano
un
mezzo
per
fare
giungere
un
dono
alla
divinità
IV. Significato dei sacrifici israelitici 37
allo
scopo
di
«propiziarla»;
nella
Bibbia,
invece,
essi
ser-‐
vono
a
ricordare
l’alleanza
che
proprio
in
tal
modo
era
sta-‐
ta
ratificata
e
a
rinnovare
la
comunione
con
Dio
mediante
un
rinnovato
impegno
di
obbedienza
alla
sua
volontà.
È
significativo
il
fatto
che
nei
sacrifici
israelitici
il
sangue
fosse
sparso
solo
sugli
oggetti
del
culto
mentre
nel
sacrifi-‐
cio
dell’alleanza
era
sparso
anche
sul
popolo.
Ciò
manife-‐
sta
l’intenzione
di
conferire
all’antico
rito
di
origine
cana-‐
nea,
ancora
praticato
dagli
israeliti,
un
significato
diverso
da
quello
che
aveva
originariamente,
senza
con
questo
vo-‐
ler
mutare
un’usanza
ormai
consolidata.
38 LA MORTE DEL MESSIA
23,39).
Il
racconto
del
sacrificio
richiesto
ad
Abramo
ave-‐
va
forse
lo
scopo
di
spiegare
l’origine
di
un
santuario
in
cui
i
sacrifici
umani
erano
stati
sostituiti
con
l’offerta
di
animali.
Anche
la
legge
mosaica
imponeva
agli
israeliti
di
offrire
a
Dio
i
primogeniti,
i
quali
però
non
erano
sacrifica-‐
ti
ma
dovevano
essere
riscattati
mediante
il
sacrificio
di
un
animale
(cfr.
Es
13,1-‐2.11-‐16).
Nella
versione
biblica
di
questa
leggenda
il
protagoni-‐
sta
è
Abramo,
padre
e
modello
di
Israele.
Il
suo
gesto
non
ha
quindi
un
significato
limitato
alla
sua
persona
ma
as-‐
sume
un
valore
paradigmatico
per
tutto
il
popolo.
La
sto-‐
ria
descrive
una
situazione
paradossale:
dopo
l’attesa
lun-‐
ga
e
sofferta
dell’erede
promesso
da
Dio,
questi
domanda
ad
Abramo
di
dargli
personalmente
la
morte.
Non
si
tratta
qui
soltanto
della
perdita
di
un
figlio
unico
e
amato,
ma
anche
della
rinunzia
all’oggetto
stesso
della
promessa
di-‐
vina.
In
altre
parole,
ad
Abramo
è
chiesto
di
credere
che
Dio,
anche
senza
Isacco,
potrà
far
sì
che
egli
diventi
il
pa-‐
dre
di
un
popolo
numeroso.
Solo
quando
il
patriarca
ha
dimostrato
la
sua
fede
totale
in
Dio,
il
figlio
gli
viene
ridato
e
al
suo
posto
viene
sacrificato
un
capro.
Anche
questo
racconto
contiene
un
insegnamento
circa
il
significato
dei
sacrifici
israelitici.
Anzitutto
in
esso
si
mette
in
luce
una
premessa
essenziale
al
culto
sacrificale:
YHWH
non
gradisce
i
sacrifici
umani.
Se
si
considera
il
sa-‐
crificio
come
un
dono
fatto
a
Dio,
l’offerta
di
un
essere
umano
sarebbe
quanto
di
più
appropriato
si
possa
imma-‐
ginare
in
quanto
esso
rappresenta
il
bene
più
grande
che
uno
possedeva.
Dio
però
ha
in
abominio
questa
pratica
perché,
da
una
parte,
il
comandamento
proibisce
di
ucci-‐
dere
(cfr.
Es
20,13)
e,
dall’altra,
il
sacrificio
non
è
un
dono
fatto
a
Dio
con
lo
scopo
di
renderlo
propizio
ma
è
un
se-‐
gno
della
misericordia
infinita
di
Dio
verso
il
suo
popolo.
IV. Significato dei sacrifici israelitici 39
Nel
racconto
biblico,
Isacco
viene
offerto
a
Dio
in
quan-‐
to
sarà
il
padre
del
popolo
di
Israele.
Secondo
il
narratore,
offrendo
in
sacrificio
il
suo
unico
figlio,
Abramo
offre
sim-‐
bolicamente
a
Dio
tutto
il
popolo
che
nascerà
da
lui.
All’origine
dell’esistenza
di
Israele
vi
sono
una
scelta
e
una
chiamata
che
fanno
di
esso
un
popolo
speciale
che
appar-‐
tiene
a
Dio.
A
questa
scelta
il
popolo
deve
rispondere
con
il
dono
di
sé
che
consiste
nel
compiere
la
volontà
del
suo
Dio
osservando
fino
in
fondo
la
sua
legge.
All’ultimo
momento
Isacco
viene
sostituito
da
un
capro
che
si
trova
casualmente
in
quel
luogo
e
quindi
è
dato
da
Dio
stesso.
Ciò
non
significa
che
una
vittima
animale
deb-‐
ba
essere
uccisa
in
sostituzione
dell’uomo
a
cui
sarebbe
dovuta
la
morte
per
i
suoi
peccati.
Isacco
infatti
non
era
il
rappresentante
di
un’umanità
decaduta
che
meritava
la
morte;
al
contrario
era
l’eletto
dal
quale
avrebbe
tratto
origine
Israele.
Il
significato
di
questa
sostituzione
appare
chiaro
se
si
tiene
presente
che
il
fatto
ha
avuto
luogo
sul
monte
Moria
(cfr.
Gn
22,2),
dove
sorgerà
il
tempio
di
Ge-‐
rusalemme
(cfr.
2Cr
3,1),
l’unico
in
cui
gli
israeliti
poteva-‐
no
offrire
a
YHWH
il
culto
sacrificale.
Il
racconto
ha
dunque
un
significato
eziologico:
esso
vuol
dire
che
le
vittime
sa-‐
crificate
nel
tempio
significano
simbolicamente
il
dono
di
sé
che
Dio
si
attende
dal
suo
popolo.
Offrendo
i
loro
sacri-‐
fici
nel
tempio
di
Gerusalemme,
i
giudei
reduci
dall’esilio
volevano
esprimere,
a
imitazione
del
loro
progenitore,
la
loro
fedeltà
all’alleanza
spinta
fino
al
dono
totale
di
sé.
Questo
significato
del
sacrificio
di
Isacco
viene
appro-‐
fondito
nella
leggenda
giudaica
chiamata
Aqedah
(«lega-‐
mento»):
in
essa
si
dice
che
Isacco,
al
momento
del
sacrifi-‐
cio,
era
già
adulto
e
ha
fatto
propria
la
decisione
del
padre,
chiedendogli
di
essere
legato
saldamente
all’altare
per
evi-‐
tare
il
rischio
che,
spinto
dalla
paura,
mandasse
a
monte
il
suo
sacrificio;
quando
poi
si
è
trovato
con
la
faccia
rivolta
40 LA MORTE DEL MESSIA
al
cielo,
mentre
il
padre
stava
per
ucciderlo,
ha
avuto
una
visione
di
angeli
e
ha
udito
una
voce
che
diceva:
«Ecco
i
miei
due
unici:
uno
sacrifica
e
l’altro
è
sacrificato.
Colui
che
sacrifica
non
esita
e
colui
che
è
sacrificato
tende
la
go-‐
la»
(cfr.
Tg
Gn
22,10).
Questa
tradizione
mette
dunque
chiaramente
in
luce
come
il
sacrificio
sia
l’espressione
rituale
della
fedeltà
a
YHWH
da
parte
del
popolo
che
egli
ha
unito
a
sé
nell’alleanza.
L’immolazione
di
una
vittima
sull’altare
ha
solo
un
significato
simbolico.
Ciò
che
conta
è
una
vita
spe-‐
sa
per
Dio
nella
fedeltà
all’alleanza
con
lui.
I
tre
testi
esaminati
sono
molto
importanti
per
capire
qual
era
il
significato
che
il
sacrificio
assumeva
nella
reli-‐
gione
israelitica.
Esso
non
era
fondamentalmente
un
dono
fatto
a
Dio
per
ottenere
la
sua
benevolenza,
ma
un
segno
della
fedeltà
di
Dio
al
suo
popolo.
Questo,
a
sua
volta,
esprimeva
nel
sacrificio
la
sua
volontà
di
accettare
il
dono
divino
dell’alleanza
e
di
vivere
in
sintonia
con
le
prescri-‐
zioni
che
Dio
gli
aveva
dato
quando
essa
era
stata
ratifica-‐
ta
ai
piedi
del
monte
Sinai.
I
sacrifici,
pur
servendosi
di
riti
di
diversa
origine,
rappresentavano
il
mezzo
scelto
da
Dio
per
rendere
attuale
la
comunione
con
lui
che
faceva
di
es-‐
so
il
suo
popolo
eletto.
A
questo
significato
fondamentale
del
sacrificio
erano
collegati
altri
aspetti
della
vita
religiosa
di
Israele.
I
sacri-‐
fici,
e
non
solo
quelli
espiatori,
erano
l’occasione
in
cui
ve-‐
nivano
espressi
il
pentimento
e
la
richiesta
di
perdono
quando
il
popolo
era
colpito
da
gravi
calamità.
Essi
erano
anche
l’ambito
in
cui
si
ringraziava
YHWH
per
i
suoi
inter-‐
venti
nella
storia
del
popolo
e
nella
vita
dei
singoli
israeli-‐
ti.
I
sacrifici
accompagnavano
la
richiesta
di
aiuto
nei
momenti
di
difficoltà.
In
essi
si
facevano
preghiere
per
le
autorità,
anche
straniere,
che
governavano
il
paese.
V
LA
PREDICAZIONE
PROFETICA
a. I libri profetici
42 LA MORTE DEL MESSIA
profeti
in
quanto
i
riti
che
venivano
compiuti,
anche
se
ri-‐
volti
a
YHWH,
comportavano
una
visione
religiosa
in
forza
della
quale
la
divinità
era
strumentalizzata
a
fini
egoistici
individuali
o
di
gruppo.
L’adorazione
del
vitello
d’oro,
per
esempio,
era
probabilmente
la
forma
ordinaria
del
culto
jahwista
nel
regno
di
Israele:
essa
è
stata
condannata
in
Es
32
come
il
peccato
originale
del
popolo,
perché
riduceva
YHWH
al
rango
di
una
divinità
della
fecondità,
che
doveva
essere
resa
propizia
mediante
preghiere
e
sacrifici.
In
modo
speciale
i
profeti
condannano
un
culto
di-‐
sgiunto
dalla
pratica
della
giustizia
sociale.
Essi
affermano
con
insistenza
che
YHWH
rifiuta
categoricamente
i
sacrifici
degli
israeliti
perché
non
può
sopportare
delitto
e
solenni-‐
tà,
culto
e
spargimento
di
sangue
(Is
1,11-‐17);
i
loro
olo-‐
causti
e
sacrifici
non
gli
sono
graditi
perché
essi
hanno
ri-‐
gettato
la
sua
legge
(Ger
6,19-‐20);
YHWH
non
ha
dato
ordi-‐
ni
sull’olocausto
e
sul
sacrificio
quando
li
ha
fatti
uscire
dall’Egitto
ma
ha
semplicemente
ordinato:
«Ascoltate
la
mia
voce»
(Ger
7,22-‐23);
egli
non
volge
lo
sguardo
ai
loro
olocausti
e
alle
loro
vittime,
ma
si
attende
che
al
loro
posto
scorrano
il
diritto
e
la
giustizia
(Am
5,22.24).
Dio
rifiuta
le
vittime
che
gli
sono
offerte
in
abbondanza
e
non
gradireb-‐
be
neppure
il
sacrificio
del
primogenito
se
gli
fosse
offer-‐
to;
ciò
che
egli
si
aspetta
è
«praticare
la
giustizia,
amare
la
bontà,
camminare
umilmente
con
il
tuo
Dio»
(Mi
6,6-‐8).
I
sacrifici
dunque
sono
inutili
quando
mancano
l'obbedien-‐
za
a
YHWH,
nonché
la
pratica
del
diritto
e
della
giustizia.
Il
rifiuto
dei
sacrifici
da
parte
di
YHWH
è
sottolineato
in
modo
particolare
dal
profeta
Osea.
Nel
capitolo
6
del
suo
libro,
Dio
rimprovera
gli
israeliti
perché
la
loro
fedeltà
(úesed)
è
come
una
nube
del
mattino,
come
la
rugiada
che
all’alba
svanisce.
Perciò
li
ha
colpiti
mediante
la
sua
parola
pronunziata
dai
profeti
(vv.
4-‐5).
Al
termine
dell’ammoni-‐
zione
il
profeta
attribuisce
a
YHWH
un’affermazione
molto
V. La predicazione profetica 43
drastica:
«Poiché
voglio
la
fedeltà
e
non
il
sacrificio
(ze-‐
baú),
la
conoscenza
di
Dio
più
degli
olocausti
(>ôlôt)»
(v.
6).
Secondo
Osea
quindi
anche
il
sacrificio
più
significati-‐
vo,
l’olocausto,
che
consisteva
nel
bruciare
integralmente
la
vittima
sull’altare
in
onore
di
YHWH,
era
da
lui
rifiutato.
Ciò
che
Dio
si
attende
dal
suo
popolo
è
un
atteggiamento
interiore
che
viene
identificato
con
la
«fedeltà»
e
la
«cono-‐
scenza
di
YHWH».
Dio
non
si
accontenta
dunque
di
gesti
esteriori
di
culto,
ma
vuole
una
vera
e
radicale
conversio-‐
ne
del
cuore
che
si
manifesta
nel
compimento
della
sua
volontà.
A
questo
proposito
sono
significative
le
parole
di
Sa-‐
muele,
il
quale
era
profeta
ma
anche
svolgeva
un
ruolo
sa-‐
cerdotale.
Rivolto
a
Saul
egli
dice:
«YHWH
gradisce
forse
gli
olocausti
e
i
sacrifici
quanto
l'obbedienza
alla
voce
di
YHWH?
Ecco,
obbedire
è
meglio
del
sacrificio,
essere
docili
è
meglio
del
grasso
degli
arieti»
(1Sam
15,22).
Perciò
il
rifiuto
dei
sacrifici
da
parte
dei
profeti
va
di
pari
passo
con
gli
oracoli
di
condanna.
II
giudizio
di
Dio
è
deciso,
e
il
ca-‐
stigo
imminente
non
sarà
allontanato
da
atti
esteriori
di
culto,
giacché
le
colpe
del
popolo
sono
troppo
gravi
(cfr.
Ger
6,19-‐20;
14,12;
Mi
3,4;
e
anche
1Sam
3,14).
I
profeti
dunque
non
condannano
il
culto
in
se
stesso
e
neppure
i
sacrifici
offerti
a
YHWH,
ma
un
culto
privo
delle
condizioni
richieste
dal
rapporto
con
lui.
Per
loro
il
sacrifi-‐
cio
non
può
essere
usato
per
propiziare
YHWH,
ma
piutto-‐
sto
deve
diventare
un
segno
della
fedeltà
a
lui.
Se
questa
viene
a
mancare,
il
sacrificio
non
serve
a
nulla,
anzi
diven-‐
ta
una
provocazione
che
suscita
l’ira
di
YHWH.
La
posizione
profetica
si
distingue
dunque
da
quella
degli
esseni,
i
quali
non
immolavano
animali
(Filone,
Quod
omnis
probus
liber
sit,
75)
non
perché
criticassero
l’infedeltà
alla
legge
di
chi
li
offriva
ma
perché
non
riconoscevano
la
legittimità
del
sacerdozio
di
Gerusalemme
e
del
culto
ufficiale.
44 LA MORTE DEL MESSIA
b. I Salmi
V. La predicazione profetica 45
sua
misericordia
(vv.
10-‐12).
Anche
in
questo
salmo
si
contesta
qualsiasi
sacrificio
disgiunto
dal
compimento
del-‐
la
volontà
di
Dio
contenuta
nella
«legge».
Nel
Sal
50
il
salmista,
facendo
ricorso
al
genere
lettera-‐
rio
del
«processo»
(rîb)
nei
confronti
del
popolo
peccato-‐
re,
precisa
il
significato
del
culto
alla
luce
dell’alleanza
(cfr.
Is
1,10-‐20).
Egli
esordisce
descrivendo,
con
le
immagini
classiche
della
teofania,
la
venuta
di
YHWH
(vv.
1b-‐3)
e
la
chiamata
in
giudizio
del
popolo,
con
il
quale
aveva
un
giorno
stabilito
l’alleanza
mediante
un
sacrificio
(cfr.
Es
24,1-‐11)
(vv.
4-‐6).
Dio
rimprovera
gli
israeliti
non
perché
gli
facciano
mancare
i
loro
sacrifici,
che
invece
si
moltipli-‐
cano
a
dismisura.
Egli
non
ha
bisogno
né
di
vitelli
né
di
capri
perché
sono
sue
tutte
le
bestie
della
foresta.
Se
aves-‐
se
fame,
non
lo
direbbe
certamente
a
loro,
perché
è
suo
il
mondo
e
quanto
contiene.
Egli
chiede
un’unica
cosa:
«Offri
a
Dio
come
sacrificio
la
lode
e
sciogli
all’Altissimo
i
tuoi
voti».
In
questo
salmo
si
auspica
dunque
l’offerta
di
un
sa-‐
crificio
in
cui
l’offerente
non
offre
a
Dio
una
vittima
anima-‐
le
ma
se
stesso,
non
mediante
un
gesto
rituale
ma
vivendo
fino
in
fondo
la
fedeltà
nei
suoi
confronti
(cfr.
Is
66;
Dn
3,39-‐40).
Alla
luce
della
predicazione
profetica,
che
sta
all’origi-‐
ne
dei
salmi
che
abbiamo
citato,
appare
dunque
che
il
sa-‐
crificio
ha
valore
solo
se
rappresenta
la
manifestazione
esterna
di
un
atto
di
fedeltà
interiore
a
YHWH.
Al
di
fuori
di
un
rapporto
sincero
con
lui,
il
sacrificio
non
solo
non
è
gradito
a
YHWH
ma
suscita
la
sua
ira.
c. La letteratura sapienziale
46 LA MORTE DEL MESSIA
sacrificio
compiuto
da
chi
non
osserva
la
legge.
Nel
libro
dei
Proverbi
si
leggono
le
massime
seguenti:
«Il
sacrificio
dei
malvagi
è
un
orrore
per
YHWH,
la
preghiera
dei
buoni
gli
è
gradita»
(Pr
15,8);
«Praticare
la
giustizia
e
l’equità
per
il
Signore
vale
più
di
un
sacrificio»
(Pr
21,3);
«Il
sacri-‐
ficio
dei
malvagi
è
un
orrore,
tanto
più
se
offerto
con
catti-‐
va
intenzione»
(Pr
21,27).
Il
Qohelet
avverte:
«Bada
ai
tuoi
passi
quando
ti
rechi
alla
casa
di
Dio.
Avvicinati
per
ascoltare
piuttosto
che
of-‐
frire
sacrifici,
come
fanno
gli
stolti,
i
quali
non
sanno
di
fare
del
male»
(Qo
4,17).
Il
Siracide
riporta
una
collezione
riguardante
la
legge
e
i
sacrifici,
in
cui
stabilisce
il
primato
della
morale
sul
culto
(Sir
34,18–35,10).
Secondo
lui
nella
vita
religiosa
il
culto
assume
un
posto
secondario
rispetto
agli
obblighi
fondamentali
della
legge.
Sulla
linea
della
predicazione
profetica,
egli
afferma
chiaramente
che
Dio
non
accetta
il
sacrificio
che
va
di
pari
passo
con
l’ingiu-‐
stizia:
«Sacrificare
il
frutto
dell’ingiustizia
è
un’offerta
da
scherno
e
i
doni
dei
malvagi
non
sono
graditi.
L’Altissimo
non
gradisce
le
offerte
degli
empi
né
perdona
i
peccati
se-‐
condo
il
numero
delle
vittime.
Sacrifica
un
figlio
davanti
al
proprio
padre
chi
offre
un
sacrificio
con
i
beni
dei
poveri»
(Sir
34,21-‐24).
Pur
senza
condannare
i
sacrifici,
il
Siracide
sostiene
che
il
vero
culto
consiste
nell’osservanza
della
legge:
«L’osservanza
della
legge
vale
quanto
molte
offerte;
chi
adempie
i
comandamenti
offre
un
sacrificio
che
salva.
Chi
ricambia
un
favore
offre
fior
di
farina,
chi
pratica
l’elemosina
fa
sacrifici
di
lode.
Cosa
gradita
al
Signore
è
tenersi
lontano
dalla
malvagità,
sacrificio
di
espiazione
è
tenersi
lontano
dall’ingiustizia»
(Sir
35,1-‐5).
Nei
testi
che
abbiamo
esaminato
il
sacrificio
viene
in-‐
terpretato
non
come
un
dono
fatto
a
Dio,
ma
come
V. La predicazione profetica 47
l’espressione
rituale
di
un
rapporto
con
lui
che
presuppo-‐
ne
la
fedeltà
e
l’obbedienza
nei
suoi
confronti.
Si
com-‐
prende
perciò
come
il
sacrificio
diventi
espressione
di
una
dedizione
totale
del
credente
o
di
tutto
il
popolo
nei
con-‐
fronti
di
Dio
e
della
sua
legge.
Si
passa
dunque
sponta-‐
neamente
dal
concetto
di
un
sacrificio
offerto
a
Dio
a
quel-‐
lo
di
un
impegno
totale
per
lui
e
per
il
suo
progetto
di
libe-‐
razione.
In
questo
contesto
l’idea
stessa
che
nel
sacrificio
una
vittima
possa
espiare
al
posto
del
peccatore
è
total-‐
mente
assente.
C’è
solo
un
testo
nel
quale
si
è
pensato
che
questa
idea
facesse
capolino.
Si
tratta
del
quarto
carme
del
Servo
di
YHWH,
al
quale
dedichiamo
ora
la
nostra
attenzio-‐
ne.
VI
IL
SERVO
DI
YHWH
a. Situazione storica
50 LA MORTE DEL MESSIA
zione.
Anche
per
i
giudei
infatti
cominciava
a
concretizzar-‐
si
la
possibilità
di
un
ritorno
nella
loro
terra.
In
questo
contesto
si
situa
il
personaggio
a
cui
è
dato
il
titolo
onori-‐
fico
di
Servo
(rappresentante,
portavoce)
di
YHWH,
una
fi-‐
gura
che
riveste
caratteri
sia
messianici
che
profetici.
Oggi
è
opinione
comune
che
i
testi
che
lo
riguardano
debbano
essere
letti
non
come
un
corpo
estraneo
ma
come
parte
integrante
del
Deutero-‐Isaia.
Attualmente
si
è
anche
d’accordo
nel
leggere
i
quattro
carmi
in
modo
unitario.
Essi
dunque
raccontano
una
vi-‐
cenda
che
inizia
con
il
primo
di
essi
e
raggiunge
il
suo
culmine
nell’ultimo.
Nel
primo
carme
(Is
42,1-‐8)
viene
de-‐
scritta
la
missione
che
il
Servo
ha
ricevuto
da
Dio.
Egli
do-‐
vrà
radunare
i
giudei
esiliati
in
Mesopotamia,
riportarli
a
YHWH
mediante
una
conversione
sincera
e
infine
farli
usci-‐
re
da
quel
paese
e
ricondurli
nella
loro
terra.
Nel
secondo
carme
(49,1-‐7)
si
dice
che
egli,
nell’esercizio
della
sua
mis-‐
sione,
è
andato
incontro
a
un
fallimento
doloroso,
a
moti-‐
vo
del
quale
però
non
si
è
scoraggiato,
perché
YHWH
era
con
lui.
Nel
terzo
carme
(50,4-‐10)
si
racconta
come
il
rifiu-‐
to
iniziale
si
sia
tramutato
in
una
vera
e
propria
persecu-‐
zione.
Infine,
nel
quarto
carme
(52,13−
53,12)
si
descrive
la
sua
fine
dolorosa
e
si
mettono
in
luce
i
motivi
che
l’hanno
provocata
e
le
prospettive
che
essa
ha
aperto.
VI. Il Servo di YHWH 51
Nell’oracolo
iniziale
(Is
52,13-‐15)
l’autore
intende
aiu-‐
tare
il
lettore
a
non
lasciarsi
sconvolgere
dalle
cose
terri-‐
bili
che
sta
per
narrare.
Il
Servo,
è
vero,
ha
fatto
una
brutta
fine,
ma
questa
è
stata
solo
la
premessa
di
un
grande
suc-‐
cesso.
Nella
lamentazione
che
segue
(vv.
1-‐10)
l’autore,
fa-‐
cendosi
portavoce
di
un
gruppo
di
persone
che
hanno
as-‐
sistito
alla
vicenda
del
Servo,
descrive
anzitutto
la
sua
sof-‐
ferenza
(vv.
1-‐3),
passando
poi
a
indicarne
le
cause:
«Egli
si
è
caricato
delle
nostre
sofferenze,
si
è
addossato
i
nostri
dolori
»
(v.
4a).
Il
Servo
è
dunque
pienamente
solidale
con
le
sofferenze
che
hanno
colpito
l’autore
e
i
suoi
compagni.
Vedendo
la
sua
condizione
dolorosa,
costoro
avevano
pensato
che
egli
fosse
colpito,
percosso
da
Dio
e
umiliato
(v.
4b).
Secondo
una
mentalità
molto
diffusa,
una
grave
sofferenza
non
poteva
essere
che
il
castigo
divino
per
i
peccati
commessi.
Invece,
prosegue
l’autore
della
lamen-‐
tazione,
egli
è
stato
trafitto
per
i
(min,
a
motivo
dei)
nostri
delitti,
schiacciato
per
le
(min,
a
motivo
delle)
nostre
ini-‐
quità
(v.
5a).
C’è
dunque
un
rapporto
stretto
tra
le
soffe-‐
renze
del
Servo
e
i
peccati
di
coloro
che
adesso
ne
piango-‐
no
la
fine.
Si
può
immaginare
che,
facendosi
solidale
con
il
gruppo
degli
esuli
ma
dissociandosi
dai
loro
progetti
ispi-‐
rati
da
sentimenti
di
egoismo
e
di
violenza,
il
Servo
sia
di-‐
ventato
oggetto
di
ostilità
e
di
cattiverie.
Di
conseguenza,
la
sofferenza
che
si
è
abbattuta
su
di
lui
era
«la
correzione
della
nostra
pace»,
cioè
una
prova
che
aveva
come
scopo
la
loro
salvezza;
infatti,
proprio
in
forza
delle
sue
piaghe,
essi
hanno
ottenuto
la
guarigione
(v.
5b),
cioè
hanno
supe-‐
rato
la
loro
violenza
e
ostilità.
L’autore
spiega
poi
come
ciò
si
sia
verificato:
«noi
tut-‐
ti»,
cioè
il
gruppo
che
si
identifica
con
lui,
«eravamo
sper-‐
duti
come
un
gregge,
ognuno
di
noi
seguiva
la
sua
strada»
(v.
6a):
il
loro
peccato
si
identificava
dunque
con
la
lacera-‐
52 LA MORTE DEL MESSIA
zione
del
tessuto
sociale
e
religioso
del
gruppo.
Sono
pre-‐
cisamente
le
conseguenze
di
queste
divisioni
che
sono
ri-‐
cadute
sul
Servo:
infatti
«YHWH
fece
ricadere
su
di
lui
l’iniquità
di
noi
tutti»
(LXX:
il
Signore
lo
ha
dato
[pa-‐
redôken]
ai
nostri
peccati)
(v.
6b).
La
sua
reazione
è
così
caratterizzata:
«Maltrattato,
si
lasciò
umiliare
e
non
aprì
la
sua
bocca;
era
come
un
agnello
condotto
al
macello,
come
pecora
muta
di
fronte
ai
suoi
tosatori,
e
non
aprì
la
sua
bocca»
(v.
7).
Egli
si
è
comportato
dunque
in
modo
mite
e
non
violento,
come
il
profeta
Geremia,
il
quale
però,
diver-‐
samente
da
lui,
chiedeva
vendetta
per
i
torti
subiti
(cfr.
Ger
11,19):
neppure
i
maltrattamenti
più
atroci
lo
hanno
fatto
desistere
dal
suo
atteggiamento.
L’agnello
è
qui
pre-‐
sentato
come
simbolo
di
mitezza
e
di
non
violenza,
non
come
vittima
di
un
sacrificio.
La
vicenda
del
Servo
si
conclude
in
modo
tragico.
Il
Servo
è
stato
condannato
e
ucciso
a
motivo
della
malvagi-‐
tà
del
suo
popolo:
«Con
oppressione
e
(ingiusta)
sentenza
fu
tolto
di
mezzo;
chi
si
affligge
per
la
sua
sorte?
Sì,
fu
eli-‐
minato
dalla
terra
dei
viventi,
per
(min,
a
motivo
di)
l’iniquità
del
mio
popolo
fu
percosso
a
morte»
(v.
8).
La
sua
morte
è
conseguenza
di
un’ingiusta
sentenza,
davanti
alla
quale
i
suoi
connazionali
hanno
reagito
con
l’indifferenza,
isolandolo
e
così
mettendolo
nelle
mani
di
un
potere
nemico.
Alla
fine
si
ricorda
che
gli
fu
data
sepol-‐
tura
con
gli
empi,
sebbene
non
avesse
commesso
violenza
né
vi
fosse
trovato
inganno
nella
sua
bocca
(v.
9).
Egli
non
ha
ceduto
neppure
un
istante
alla
violenza
e
all’inganno.
Proprio
per
questo
è
diventato
lui
stesso
la
prima
vittima
della
violenza
altrui.
Con
la
sua
morte
però
non
è
stata
detta
l’ultima
parola:
«A
YHWH
è
piaciuto
prostrarlo
con
dolori.
Siccome
ha
offer-‐
to
se
stesso
come
sacrificio
di
riparazione
(<asham),
vedrà
una
discendenza,
vivrà
a
lungo,
si
compirà
per
mezzo
suo
VI. Il Servo di YHWH 53
la
volontà del
Signore»
(v.
10).
Il
termine
ebraico
<asham
(riparazione)
indica
il
secondo
dei
due
tipi
di
sacrificio
ai
quale
si
ricorreva
per
ottenere
il
perdono
dei
peccati
(cfr.
Lv
5,14-‐19).
Egli
è
equiparato
simbolicamente
alla
vittima
sacrificale
perché
ha
attuato
nel
modo
più
pieno
quella
riconciliazione
del
popolo
con
Dio
che
era
lo
scopo
dei
sa-‐
crifici.
La
lunga
vita
promessa
al
Servo
dopo
la
sua
morte
indica
il
successo
della
sua
opera.
Per
mezzo
suo
infatti
si
compie
la
volontà
di
Dio,
cioè
la
conversione
del
popolo
e
il
suo
ritorno
nella
terra
promessa.
Direttamente
non
si
parla
di
una
glorificazione
del
Servo
nell’altra
vita
o
di
una
sua
risurrezione
dopo
la
morte.
Nell’oracolo
finale
(vv.
11-‐12)
riprende
la
parola
YHWH
il
quale
fa
una
sintesi
della
lamentazione
precedente.
Egli
afferma
che
il
Servo,
dopo
il
suo
intimo
tormento,
vedrà
la
luce
e
si
sazierà
della
sua
conoscenza;
egli
renderà
giusti
i
molti,
cioè
i
membri
del
suo
popolo,
perché
si
è
addossato
le
loro
iniquità.
YHWH
gli
darà
in
premio
le
moltitudini,
i
potenti
gli
saranno
sottomessi,
perché
«ha
spogliato
se
stesso
fino
alla
morte».
Questa
espressione
è
tradotta
in
greco
«perché
fu
data
alla
morte
(paredothê
eis
thanaton)
la
sua
anima».
Non
si
precisa
se
sia
stato
il
Servo
a
fare
l’offerta
di
sé
o
se
sia
Dio
che
l’ha
voluta.
In
conclusione,
egli
è
stato
annoverato
fra
gli
empi,
mentre
portava
il
pec-‐
cato
di
molti
e
intercedeva
per
i
colpevoli.
Ancora
una
vol-‐
ta
si
sottolinea
la
sua
solidarietà
con
il
popolo
peccatore.
54 LA MORTE DEL MESSIA
sione:
siccome
questa
è
conseguenza
di
una
sentenza
in-‐
giusta,
i
responsabili
potrebbero
essere
stati
i
babilonesi
che
erano
pronti
a
reprimere
ogni
scintilla
di
nazionali-‐
smo
nelle
popolazioni
deportate.
Dal
quarto
carme
risulta
però
che
anche
i
giudei
esiliati
avevano
le
loro
responsabi-‐
lità,
se
non
altro
perché
erano
divisi,
ancora
chiusi
nei
loro
interessi
e
proprio
per
questo
l’avevano
isolato
e
abban-‐
donato
alla
sua
sorte.
La
morte
del
Servo
viene
spesso
spiegata
mediante
il
concetto
di
«espiazione
vicaria»:
egli
cioè
avrebbe
svolto
il
ruolo
di
vittima
sacrificale,
assumendo
su
di
sé
il
castigo
che
era
dovuto
al
popolo
peccatore
(cfr.
Is
53,10).
Ciò
si
deduce
da
due
aspetti
del
racconto:
egli
ha
preso
su
di
sé
i
peccati
del
popolo
e,
di
riflesso,
la
sua
morte
è
stata
assi-‐
milata
a
un
sacrificio
di
riparazione.
Questa
interpretazione,
per
quanto
suggestiva,
non
regge
però
alla
prova
dei
fatti.
Anzitutto,
secondo
il
Deute-‐
ro-‐Isaia
la
colpa
di
Gerusalemme,
cioè
del
popolo
in
esilio,
è
già
stata
scontata
«perché
ha
ricevuto
dalla
mano
di
YHWH
il
doppio
per
tutti
i
suoi
peccati»
(Is
40,2).
Per
que-‐
sto
al
Servo
è
stato
affidato
il
compito
non
di
ottenere
il
perdono
divino
ma
di
radunare
il
popolo
disperso
per
ri-‐
condurlo
nella
sua
terra.
La
sua
morte
quindi
deve
avere
a
che
fare
con
la
missione
che
gli
è
stata
conferita.
Inoltre,
nel
linguaggio
biblico
il
termine
«peccato»
(>awon
e
i
suoi
sinonimi)
viene
spesso
usato
per
indicare
non
solo
la
colpa,
ma
anche
le
sue
conseguenze
(sofferen-‐
za
e
morte).
Come
risulta
dal
contesto,
il
Servo
ha
preso
su
di
sé
non
tanto
le
colpe,
che
non
sono
trasferibili,
quanto
piuttosto
le
conseguenze
disastrose
dell’infedeltà
del
po-‐
polo
che,
a
causa
del
proprio
peccato,
era
stato
disperso
come
un
gregge
senza
pastore
(v.
6;
cfr.
Ger
23,1;
31,10;
Ez
34,5).
Per
due
volte
la
sua
solidarietà
con
il
popolo
vie-‐
ne
espressa
in
greco
con
il
verbo
«donare»
(paradidômi):
è
VI. Il Servo di YHWH 55
YHWH
che
lo
ha
donato
per
i
nostri
peccati
(v.
6)
e
lui
stes-‐
so
si
è
donato
per
questo
scopo
fino
alla
morte
(v.
12).
Proprio
nel
compimento
della
sua
missione,
egli
ha
trova-‐
to
la
morte
come
conseguenza,
da
una
parte,
della
prepo-‐
tenza
dei
poteri
politici
e,
dall’altra
dell’omertà
del
suo
popolo,
dal
quale
non
è
stato
compreso
e
quindi
è
stato
isolato
e
abbandonato
alla
sua
sorte.
La
sua
morte,
però,
accettata
liberamente
come
espres-‐
sione
della
sua
fedeltà
totale
a
Dio
e
al
popolo,
ha
avuto
l’effetto
di
rompere
la
spirale
della
violenza
e
di
creare
fra
gli
esiliati
un
movimento
di
riconciliazione
e
di
aggrega-‐
zione.
In
seguito
a
essa
gli
esuli,
ormai
consapevoli
del
progetto
di
Dio,
hanno
potuto
accettare
la
sfida
del
ritorno
nella
loro
terra.
In
lui
la
sofferenza
e
la
morte
assumono
perciò
un
significato
nuovo,
diventando
il
segno
della
fe-‐
deltà
indefettibile
di
Dio
verso
il
suo
popolo.
La
fine
del
Servo
è
stata
quindi
riletta
in
chiave
sacrificale
in
quanto
con
essa
egli
ha
conseguito
lo
scopo
dei
sacrifici,
che
era
quello
di
ripristinare
l’alleanza
di
YHWH
con
Israele.
In
al-‐
tre
parole,
la
morte
del
leader
mandato
da
YHWH
rappre-‐
senta
lo
scossone
che
darà
inizio
a
un
movimento
di
ritor-‐
no
degli
esiliati
nella
loro
patria.
Possiamo
dunque
concludere
che
il
concetto
di
espia-‐
zione
vicaria
è
assente
anche
nei
carmi
del
Servo.
La
sua
morte
è
intesa,
sulla
linea
profetica,
come
sacrificio,
ma
solo
nel
senso
di
un
impegno
per
Dio
e
per
il
popolo
porta-‐
to
fino
alle
estreme
conseguenze.
Ma
è
assente
l’idea
che
una
persona
possa
«sacrificarsi»
fino
a
morire
al
posto
di
altri,
assumendosi
così
la
punizione
a
loro
dovuta.
VII
EROI
FILOSOFI
E
MARTIRI
a. La concezione greca
58 LA MORTE DEL MESSIA
poi
il
caso
di
Socrate
il
quale,
per
rispetto
delle
leggi
della
città,
non
volle
sottrarsi
all’ingiusta
pena
capitale
che
gli
era
stata
comminata
(cfr.
Platone,
Critone
54d)
Nella
letteratura
greca
è
presente
anche
l’idea
di
una
morte
per
gli
altri,
siano
essi
parenti
amici
o
concittadini,
o
anche
per
la
verità
filosofica.
In
questo
contesto
si
tro-‐
vano
spesso
espressioni
come
«morire
per»
(apothnêskein
hyper)
oppure,
più
raramente,
«donare
se
stesso
per»
([epi]didonai
heauton
hyper)
e
altre
formule
simili
con
peri
o
pro.
Per
esprimere
questo
fenomeno
viene
coniato
addi-‐
rittura
il
verbo
composto
hyper-‐apothnêskein
(«morire
per»).
In
molti
testi
si
celebra
la
morte
affrontata
nel
combat-‐
timento
per
la
città.
L'idea
risale
già
ad
Omero.
Ettore
sprona
i
troiani:
«Su,
combattete
contro
le
navi,
in
massa;
e
chi
fra
voi
ferito
o
colpito
incontri
la
morte
e
il
suo
desti-‐
no,
muoia;
bello
per
lui
morire
difendendo
la
patria»
(Ilia-‐
de
15,496-‐497).
Il
poeta
spartano
Tirteo
si
esprime
in
ma-‐
niera
analoga:
«E
bello,
invero,
che
un
uomo
valoroso
muoia
cadendo
nelle
prime
file,
combattendo
per
la
sua
patria»
(Frammenti).
Quasi
contemporaneamente,
Callino
così
esorta
i
giovani
di
Efeso:
«È
oggetto
di
onore
e
di
glo-‐
ria
per
un
uomo
il
combattere
per
(peri)
la
propria
terra,
per
i
figli
e
la
moglie»
(Frammenti,
vv.
6-‐7).
Dopo
le
guerre
persiane
si
potevano
vedere
numerose
iscrizioni
funerarie
e
testi
onorifici
che
cantavano
la
gloria
degli
eroi
morti
in
combattimento.
Una
testimonianza
fra
le
più
antiche
è
il
monumento
ai
caduti
alle
Termopili
nel-‐
la
città
locrese
di
Opunte
dove
è
scritto:
«Opunte,
la
ma-‐
drepatria
dei
locresi
amanti
della
giustizia,
piange
costoro,
che
morirono
un
tempo
per
(hyper)
l'Ellade
contro
i
Medi»
(Strabone
9,4,2).
Nel
Menesseno
di
Platone,
Socrate
fa
l'elogio
di
coloro
i
quali
sono
morti
per
la
città:
essi
«hanno
accettato
la
mor-‐
VII. Eroi filosofi e martiri 59
te
in
cambio
(anti)
della
salvezza
dei
vivi»
(237a).
Pindaro
canta
la
morte
per
la
città
presentandola
come
un
sacrifi-‐
cio
religioso:
«Ascolta,
alalà,
ascoltaci,
figlia
della
guerra,
preludio
di
lance,
cui
i
soldati
sono
sacrificati
per
(hyper)
la
salvezza
della
loro
città,
nel
santo
sacrificio
di
morte»
(Frammento
66).
Il
«morire
per
la
città»
fu
anche
introdotto
nei
catalo-‐
ghi
dei
doveri
dei
filosofi.
È
il
tema
centrale
del
Menesseno
di
Platone;
nella
sua
Etica
Nicomachea,
Aristotele
associa
al
dovere
di
morire
per
la
città
natale
quello
di
dare
la
propria
vita
«per
gli
amici»,
quando
è
necessario.
Nel
Con-‐
vito
di
Platone
la
morte
per
colui
che
si
ama
è
presentata
come
espressione
della
singolare
potenza
dell'Eros:
«Solo
coloro
che
amano
consentono
di
morire
per
(hyper-‐
apothnêskein)
coloro
che
amano»
(208d).
Il
fatto
che
alla
patria
siano
aggiunti
gli
«amici»
indica
l’importanza
as-‐
sunta
dal
tema
filosofico
dell'amicizia.
L’esaltazione
del
«morire
per»
si
prolunga
fino
all'epo-‐
ca
ellenistica.
Fra
i
motivi
che
giustificano
una
morte
vo-‐
lontaria,
gli
Stoici,
da
Crisippo
in
poi,
ponevano
in
primo
luogo
la
difesa
della
patria
e
degli
amici.
È
noto
il
verso
di
Orazio
secondo
il
quale
dulce
et
decorum
est
pro
patria
mori
(«è
dolce
e
bello
morire
per
la
patria»
)
(Carmina
3,2,13):
questo
ideale
era
familiare
a
romani
e
a
greci
sin
dall'infanzia
in
quanto
era
un
tema
fisso
della
scuola
anti-‐
ca.
Invece
per
Epicuro
e
i
suoi
discepoli,
avversi
a
ogni
at-‐
tività
politica,
solo
«la
morte
per
un
amico,
in
alcune
circo-‐
stanze»,
faceva
parte
delle
caratteristiche
dell'uomo
«sag-‐
gio».
Anche
Epitteto
ammette
solo
la
morte
per
gli
amici
(Dissertazioni
2,7,3cfr.
Gv
15,13
e
Rm
5,6).
I
cinici,
invece,
pur
rifiutando
la
paura
della
morte,
negavano
che
si
do-‐
vesse
morire
per
le
istituzioni,
sia
per
lo
Stato
che
per
la
famiglia,
in
quanto
si
ritenevano
cittadini
del
mondo.
60 LA MORTE DEL MESSIA
Nella
letteratura
greca
si
trova
anche
l'ideale
della
morte
in
«sostituzione»
di
altri.
La
morte
«al
posto
di…»
aveva
luogo
quando
un
individuo,
per
esempio
il
re
o
il
comandante
in
capo
dell’esercito,
accettava
volontaria-‐
mente
di
morire
per
evitare
la
rovina
di
altri.
I
testi
antichi
menzionano
con
relativa
frequenza
l'esempio
eroico
di
Codro,
l'ultimo
leggendario
re
di
Atene,
il
quale,
in
guerra
contro
Sparta,
aveva
saputo
dall'oracolo
di
Delfi
che
gli
ateniesi
avrebbero
vinto
se
il
loro
sovrano
fosse
stato
uc-‐
ciso.
La
notizia
giunse
presto
alle
orecchie
degli
spartani,
i
quali,
naturalmente,
facevano
attenzione
a
non
fargli
del
male.
Il
re,
tuttavia,
travestito
da
vecchio,
provocò
alcuni
soldati
spartani
andati
a
fare
legna,
i
quali
lo
uccisero.
Gli
ateniesi
svelarono
l'inganno
agli
spartani,
che
così
seppe-‐
ro
della
morte
di
Codro
e
persero
la
guerra
(Pausania,
Pe-‐
riegesi
della
Grecia,
IV,
5,
4).
La
scelta
di
morire
in
sostituzione
di
altri
ricorre
in
modo
impressionante
nelle
tragedie
di
Euripide.
Nell'Alce-‐
ste
si
racconta
che
le
Moire
accettarono
di
rinviare
la
mor-‐
te
ormai
prossima
di
Admeto,
se
qualcuno
fosse
stato
di-‐
sposto
a
morire
al
suo
posto.
Admeto
era
convinto
che
uno
dei
suoi
anziani
genitori
sarebbe
stato
lieto
di
sostituirlo,
ma
essi
rifiutarono.
Allora
sua
moglie
Alceste
scelse
di
morire
al
suo
posto
(Alceste,
18,178.282
ecc.).
Nelle
Feni-‐
cie,
si
racconta
che
Tiresia,
un
indovino
cieco,
aveva
avvi-‐
sato
i
tebani
che
l’unico
modo
di
salvare
la
loro
città
sa-‐
rebbe
stato
quello
di
sacrificare
il
figlio
del
re
Creonte,
Meneceo;
questi,
contro
la
volontà
del
padre,
accetta
il
re-‐
sponso
e
parte
segretamente
dicendo:
«Io
andrò
e
salverò
la
città,
e
abbandonerò
la
mia
vita
alla
morte
per
questo
paese»
(Fenicie
997-‐998).
Nelle
Eraclidi,
si
racconta
che
i
figli
di
Eracle,
perseguitati
da
Euristeo,
re
di
Micene,
sono
accolti
e
difesi
da
Demofonte,
re
di
Atene.
Tra
i
due
re
si
va
quindi
allo
scontro
armato,
ma
un
oracolo
rivela
a
Demo-‐
VII. Eroi filosofi e martiri 61
fonte
che,
per
conseguire
la
vittoria,
è
necessario
sacrifica-‐
re
una
nobile
vergine.
Allora
Macaria,
figlia
anche
lei
di
Eracle,
offre
la
vita
per
i
suoi
fratelli:
«Io
do
la
mia
vita
per
loro
di
mia
spontanea
volontà,
e
non
costretta»
(Eraclidi
550-‐551).
A
prima
vista
potrebbe
sembrare
che
in
questi
testi
sia
assente
qualsiasi
significato
religioso.
Ma
non
è
così:
nella
società
antica,
il
fatto
di
morire
per
la
città,
per
i
propri
dèi,
per
le
leggi
sante
e
il
tempio,
per
le
tombe
degli
ante-‐
nati
e
delle
famiglie
scomparse,
ha
sempre
avuto
un
carat-‐
tere
essenzialmente
religioso
e
chi
moriva
in
combatti-‐
mento
per
questi
valori
supremi
era
onorato
come
eroe,
cioè
come
un
essere
divino.
Le
affermazioni
riguardanti
la
morte
in
favore
di
altri,
della
patria
o
per
un
ideale
o
un
valore
si
trovano
dunque
in
grande
abbondanza
nella
letteratura
greca.
Esistono
anche
dei
casi
in
cui
qualcuno,
dietro
richiesta
degli
dèi,
è
disposto
a
morire
al
posto
di
altri,
siano
essi
singoli
indi-‐
vidui
o
i
propri
concittadini.
Ma,
come
è
facile
intuire,
i
due
tipi
di
morte
non
sono
facilmente
distinguibili
l’uno
dall’altro.
Comunque
bisogna
riconoscere
che
nell'elleni-‐
smo,
diversamente
dal
mondo
biblico,
l’idea
di
una
morte
sostitutiva
è
presente,
soprattutto
in
testi
di
carattere
mi-‐
tologico.
b. I giudei martiri
L’ideale
di
una
morte
eroica
per
il
popolo
o
per
la
legge
fa
il
suo
ingresso
nel
mondo
giudaico
in
epoca
ellenistica,
a
partire
dal
tempo
dei
Maccabei.
Nel
primo
libro
dei
Mac-‐
cabei,
originariamente
scritto
in
ebraico,
Mattatia
esorta
i
suoi
figli
con
queste
parole:
«Abbiate
zelo
per
la
Legge
e
date
la
vostra
vita
per
(hyper)
l’alleanza
dei
nostri
padri.
Ricordate
le
gesta
compiute
dai
padri
e
riceverete
grande
62 LA MORTE DEL MESSIA
reputazione
e
nome
imperituro»
(1Mac
2,50-‐51).
Flavio
Giuseppe
rende
questo
invito
in
una
forma
ancor
più
gre-‐
cizzante:
«Preparate
le
vostre
anime,
così
che,
se
è
neces-‐
sario,
possiate
morire
per
(hyper)
la
legge»
(Antichità
giu-‐
daiche
12,281).
È
chiaro
che
egli
utilizza
qui
una
formula
greca
conosciuta
sin
dal
tempo
di
Aristotele.
Asserzioni
simili
si
trovano
spesso
negli
scritti
giudeo-‐ellenistici
sulla
bocca
di
giudei
martiri
o
combattenti
per
la
libertà.
Un
esempio
tipico
di
questa
concezione
si
trova
nel
racconto
del
gesto
eroico
di
Eleazaro
che
uccide
un
elefan-‐
te
dell’esercito
seleucida,
pur
sapendo
che
l'animale
gli
sarebbe
crollato
addosso
uccidendolo.
L’autore
commen-‐
ta:
«Pensava
che
sopra
vi
fosse
il
re.
Allora
diede
(edôken)
se
stesso
per
salvare
il
popolo
e
acquistarsi
un
nome
im-‐
perituro»
(1Mac
6,44).
È
chiaro
che
Eleazaro
muore
per
il
bene
del
popolo
e
non
al
suo
posto.
In
alcuni
casi
viene
attribuito
un
carattere
espiatorio
alla
morte
di
coloro
che
l’hanno
affrontata
liberamente
perché
non
erano
disposti
a
trasgredire
la
legge
di
Dio.
Nel
2Maccabei
si
legge
che,
quando
Antioco
IV
profanò
il
Tempio
di
Gerusalemme
introducendovi
un'immagine
di
Zeus,
vietò
il
culto
israelitico
e
impose
ai
giudei
di
parteci-‐
pare
ai
sacrifici
pagani,
sette
fratelli
furono
martirizzati
a
causa
del
loro
rifiuto
di
obbedire
all’ordine
del
re.
L'ultimo
di
essi,
prima
di
morire,
dice:
«Anch’io,
come
già
i
miei
fra-‐
telli,
offro
(prodidômi)
il
corpo
e
la
vita
per
(peri)
le
sacre
leggi,
supplicando
Dio
che
presto
perdoni
(hileôs
gene-‐
sthai,
faccia
l’espiazione
per)
il
suo
popolo...,
con
me
e
con
i
miei
fratelli
possa
arrestarsi
l'ira
dell'Onnipotente,
giu-‐
stamente
attirata
su
tutta
la
nostra
stirpe»
(2Mac
7,37-‐
38).
Il
martire
dunque
non
prende
su
di
sé
la
pena
dovuta
al
popolo,
ma
affronta
la
morte
per
essere
fedele
alle
leggi
dei
padri
e
spera
che
il
suo
gesto
possa
avere,
come
le
vit-‐
time
dei
sacrifici,
l’effetto
di
espiare
i
peccati
del
popolo.
VII. Eroi filosofi e martiri 63
Il
concetto
specifico
di
«espiazione
vicaria»
fa
invece
la
sua
velata
apparizione
in
due
testi
del
4Maccabei,
un
libro
giudaico
composto
nella
prima
metà
del
I
secolo
d.C.
In
esso
si
racconta
che
Eleazar,
durante
il
suo
martirio,
dice:
«Tu,
lo
sai,
o
Dio
che
avrei
potuto
salvarmi,
ma
muoio
sot-‐
to
il
supplizio
del
fuoco
a
causa
della
legge
(dià
tòn
no-‐
mon).
Perdona
(hileôs
genou,
fai
l’espiazione
per)
il
tuo
popolo,
fa'
che
ti
sia
sufficiente
la
punizione
(dikê)
che
su-‐
biamo
per
essi
(hyper
autôn,
cioè
per
i
suoi
membri).
Fa'
che
il
mio
sangue
serva
loro
di
purificazione
(katharsion),
e
come
sostituto
per
la
loro
vita
(antipsychon
autôn)
pren-‐
di
la
mia
vita»
(4Mac
6,27-‐29).
Lo
stesso
pensiero
viene
poi
ripreso
successivamente
quando
si
dice
che
i
martiri
sono
morti
perché,
per
merito
loro,
«la
patria
fosse
purifi-‐
cata
(katharisthênai);
essi
furono
nello
stesso
tempo
un
sostituto
(antipsychon)
per
il
peccato
del
popolo.
Mediante
il
sangue
di
quei
pii
e
il
sacrificio
espiatorio
della
loro
morte
(tou
hilasteriou
thanatou
autôn),
la
provvidenza
di-‐
vina
ha
salvato
Israele,
che
prima
era
gravemente
oppres-‐
so»
(4Mac
17,21-‐22).
Secondo
questi
due
testi
i
martiri
non
muoiono
soltan-‐
to
a
causa
della
loro
fedeltà
alla
legge
e
per
espiare
i
pec-‐
cati
del
popolo,
ma
così
facendo
prendono
su
di
sé
la
pena
ad
esso
dovuta.
Al
tempo
stesso
si
adotta
una
terminologia
cultuale.
Eleazar
infatti
esprime
il
desiderio
che
la
sua
vita
sia
un
antipsychon,
un
sostituto,
un
dono
dato
in
contrac-‐
cambio
per
la
vita
del
popolo.
Inoltre
il
suo
sangue
dev'es-‐
sere
un
katharsion,
un
mezzo
di
purificazione,
quindi
di
espiazione
per
il
suo
popolo.
In
questi
due
ultimi
testi
si
verifica
una
confluenza
del
pensiero
ebraico
veterotestamentario
con
quello
greco-‐
ellenistico.
Dal
primo
deriva
la
concezione,
rappresentata
dall’esperienza
del
Servo
di
YHWH,
secondo
cui
la
fedeltà
a
Dio
fino
alla
morte
ha
una
dimensione
sacrificale
in
quan-‐
64 LA MORTE DEL MESSIA
to
è
il
segno
supremo
dell’amore
di
Dio
per
il
suo
popolo
e
il
mezzo
da
lui
scelto
per
provocarne
la
conversione;
dal
mondo
greco
viene
invece
la
concezione
(già
accennata
nella
traduzione
greca
di
Lv
17,11)
di
una
morte
accettata
volontariamente
a
beneficio
di
altri
e
al
loro
posto.
Mediante
l’esperienza
dei
martiri,
morti
nella
persecu-‐
zione
di
Antioco
IV
Epifane,
entra
dunque
nel
mondo
giu-‐
daico
la
concezione
greca
secondo
cui
è
bello
offrire
la
propria
vita
per
la
famiglia,
per
la
patria,
per
gli
amici
o
per
un
valore
importante
quale
la
verità.
Per
i
martiri
si
tratta
di
una
morte
accettata
liberamente
per
Dio,
per
la
sua
legge,
per
tutto
il
popolo.
Si
fa
strada
anche
il
concetto
secondo
cui
la
morte
dei
martiri
ha
un
valore
espiatorio,
in
quanto
serve
a
riconciliare
il
popolo
con
Dio.
Sullo
sfondo
c’è
però
l’esempio
del
Servo
di
YHWH,
il
quale
si
è
messo
a
capo
di
un
movimento
di
conversione
degli
israeliti
al
suo
Dio
in
vista
del
loro
ritorno
nella
terra
dei
padri
e
per
que-‐
sto
ha
affrontato
sofferenze
e
umiliazioni
e
alla
fine
ha
da-‐
to
per
questo
scopo
la
sua
vita.
La
morte
dei
martiri
è
stata
considerata
metaforica-‐
mente
come
un
sacrificio
offerto
a
Dio
per
l’espiazione
dei
peccati
del
popolo.
Ma
siamo
sempre
sulla
linea
del
con-‐
cetto
biblico
di
sacrificio,
in
base
al
quale
l’espiazione
av-‐
viene
in
forza
non
di
una
sostituzione
nella
pena
ma
della
fedeltà
totale
di
persone
che,
con
il
loro
esempio,
aprono
la
strada
a
una
conversione
di
tutto
il
popolo
e
alla
sua
ri-‐
conciliazione
con
Dio.
L’idea
di
origine
greca
secondo
cui
la
morte
di
uno
può
sostituire
quella
dovuta
ad
altri
appa-‐
re
in
alcuni
testi
sotto
l’influsso
della
traduzione
greca
di
Lv
17,11
ma
è
piuttosto
secondaria.
VIII
LA
MORTE
DI
CRISTO
COME
SACRIFICIO
a. Le formule di dono
66 LA MORTE DEL MESSIA
1)
Formule
semplici
di
donazione
In
alcuni
testi
la
donazione
di
Cristo
viene
vista
come
un’azione
del
Padre:
Dio
«non
ha
risparmiato
il
proprio
Figlio,
ma
lo
ha
consegnato
per
tutti
noi»
(Rm
8,32);
«Dio
ha
tanto
amato
il
mondo
da
dare
il
suo
Figlio
unigenito»
(Gv
3,16).
Sullo
sfondo
di
questi
testi
si
intravede
il
rac-‐
conto
del
sacrificio
di
Isacco
(cfr.
Gn
22,16),
riletto
secon-‐
do
la
prospettiva
dell’Aqedah
(cfr.
Tg
Gn
22,8-‐17),
ma
so-‐
prattutto
l’esperienza
del
Servo
di
YHWH,
del
quale
si
dice
che
«il
Signore
l’ha
consegnato
(paredôken)
ai
nostri
pec-‐
cati»
(Is
[LXX]
53,6;
cfr.
v.
11).
Nonostante
l’allusione
a
Isacco,
il
riferimento
non
è
dunque
al
sacrificio,
ma
alla
sofferenza
che
il
Servo
ha
dovuto
subire
come
profeta
e
guida
del
popolo.
Nella
maggior
parte
dei
testi
è
Cristo
stesso
che
si
do-‐
na.
Nelle
lettere
autentiche
di
Paolo
il
testo
fondamentale
è
quello
in
cui
l’Apostolo
afferma
che
il
Figlio
di
Dio
(…)
«mi
ha
amato
e
ha
consegnato
se
stesso
per
me
»
(Gal.
2,20).
Questo
tema
viene
ripreso
da
lui
nel
racconto
dell’ultima
Cena:
«Questo
è
il
mio
corpo
che
è
per
voi»
(1Cor
11,24).
La
formula
appare
due
volte
nella
lettera
agli
Efesini:
«Cristo
ci
ha
amato
e
ha
dato
se
stesso
per
noi,
offrendosi
a
Dio
(come)
sacrificio
(prosforan)
e
vittima
(thysia)
di
soave
odore»
(Ef
5,2);
«Cristo
ha
amato
la
Chiesa
e
ha
dato
se
stesso
per
lei»
(Ef
5,25).
Un’altra
volta
la
stessa
espres-‐
sione
viene
usata
nelle
Pastorali:
«Egli
ha
dato
se
stesso
per
noi»
(Tt
2,14).
Nei
vangeli
sinottici
la
dedizione
di
Cristo
viene
espressa
nel
racconto
della
Cena
dove
egli
dice
che
il
pane
è
il
suo
corpo
che
è
«dato
per
voi»
(Lc
22,19)
e
il
suo
san-‐
gue
è
«versato
per
molti»
(ekchynnomenon
hyper
pollôn)
(Mc
14,24)
oppure
«per
voi»
(Lc
22,19-‐20).
VIII. La morte di Cristo come sacrificio 67
Fra
tutti
questi
testi
solo
in
Ef
5,2
la
formula
di
autodo-‐
nazione
viene
collegata
espressamente
con
il
tema
del
sa-‐
crificio.
Negli
altri
casi
il
dono
di
sé
a
Dio
fatto
da
Cristo
sulla
croce
ha
solo
un
riferimento
remoto
con
il
rito
sacri-‐
ficale
del
tempio.
Direttamente,
esso
viene
presentato
co-‐
me
espressione
del
suo
amore
incondizionato
per
Dio
e
per
i
fratelli
secondo
il
modello
profetico,
e
specialmente
del
Servo
di
YHWH
il
quale,
secondo
la
versione
greca,
ha
consegnato
se
stesso
alla
morte
per
liberare
il
suo
popolo.
68 LA MORTE DEL MESSIA
to
che
egli
ha
posto
(ethêken)
la
sua
vita
per
noi»
(1Gv
3,16)
In
questi
testi
viene
sottolineato
come
il
dono
di
sé
è
stato
portato
da
Cristo
fino
alle
estreme
conseguenze,
cioè
alla
morte.
Infatti
è
solo
nella
morte
accettata
liberamente
che
si
esprime
il
dono
totale
e
irrevocabile
a
Dio,
per
il
be-‐
ne
del
popolo.
VIII. La morte di Cristo come sacrificio 69
vamente
ampia
e
non
sempre
esattamente
determinabile:
«per»,
«a
favore
di»,
«a
vantaggio
di»,
ma
anche
«al
posto
di»,
«invece
di»,
o
«a
causa
di»,
«a
motivo
di».
Tuttavia
nei
casi
citati
vuol
dire
chiaramente
«a
favore
di…».
In
alcuni
casi
hyper
è
sostituito
con
peri
o
con
dia,
che
assumono
lo
stesso
significato
(cfr.
Mt
26,28;
cfr.
Mc
14,24;
1Pt
3,18;
1Gv
2,2).
In
due
passi
si
usa,
sempre
con
lo
stesso
signifi-‐
cato,
dia
con
l'accusativo:
1Cor
8,11
(=
Rm
14,15);
Rm
4,25.
In
Mc
10,45
e
Mt
20,28
si
trova
anti,
anche
qui
con
lo
stesso
significato.
In
due
casi
soltanto
la
morte
di
Gesù
potrebbe
essere
stata
interpretata
come
la
condanna
del
giusto
al
posto
dei
peccatori.
Il
primo
è
quello
in
cui
Paolo
afferma
che
«Cri-‐
sto
ci
ha
riscattati
dalla
maledizione
della
Legge,
diven-‐
tando
lui
stesso
maledizione
per
(hyper)
noi»
(Gal
3,13).
Nel
secondo
dice
che
«colui
che
non
aveva
conosciuto
pec-‐
cato,
Dio
lo
ha
fatto
peccato
per
(hyper)
noi»
(2Cor
5,21).
Ma
anche
questi
due
testi
sono
più
comprensibili
alla
luce
del
concetto
di
solidarietà,
in
forza
della
quale
il
giusto
si
fa
partecipe
della
condizione
del
peccatore
comunicando-‐
gli
i
frutti
di
una
vita
tutta
donata
a
Dio.
In
tutti
i
testi
citati,
il
dono
di
sé,
che
Gesù
ha
fatto
nel
corso
della
sua
vita
fino
alla
sua
morte
cruenta,
viene
dunque
presentato
come
il
modo
scelto
da
Dio
per
con-‐
durre
a
sé
l’umanità.
Sullo
sfondo
di
questi
testi
si
scorge
chiaramente
l’immagine
sacrificale,
filtrata
però
attraver-‐
so
l’esperienza
del
Servo
di
YHWH,
il
cui
dono,
nella
tradu-‐
zione
greca
della
Bibbia,
viene
espresso
con
il
verbo
para-‐
didômi
(cfr.
Is
53,12).
In
essi
è
assente
invece
l’idea
di
un
sacrificio
offerto
«al
posto»
dell’umanità
peccatrice;
anzi
è
Dio
stesso
che,
per
mezzo
di
Cristo,
manifesta
la
sua
mise-‐
ricordia
infinita
per
i
peccatori.
70 LA MORTE DEL MESSIA
b. Espiazione
VIII. La morte di Cristo come sacrificio 71
Gesù
ha
sostituito
la
vittima
sacrificale
«pagando»
per
i
peccati
del
popolo,
ma
piuttosto
che,
morendo
in
croce,
egli
ha
manifestato
la
fedeltà
e
la
misericordia
di
Dio
che,
di
sua
iniziativa,
ricostituisce
con
tutta
l’umanità
il
rappor-‐
to
di
alleanza
compromesso
dal
peccato.
Il
verbo
hilaskesthai,
«espiare»,
appare
ancora
nella
lettera
agli
Ebrei
dove
si
dice
che
Gesù
è
diventato
sommo
sacerdote
misericordioso
e
fedele
«allo
scopo
di
espiare
i
peccati
del
popolo»
(Eb
2,17).
Dal
contesto
appare
che
ciò
è
avvenuto
per
mezzo
della
sua
morte,
che
è
vista
non
co-‐
me
sostituzione
di
quella
dovuta
ai
peccatori,
ma
come
vittoria
sul
potere
del
diavolo
che,
mediante
la
paura
della
morte,
teneva
schiava
l’umanità
(cfr.
Eb
2,14-‐15).
In
tutto
il
NT
questo
verbo
riappare
solo
in
Lc
18,13
sulla
bocca
del
pubblicano
con
il
senso
di
«avere
misericordia».
Il
sostantivo
hilasmos,
«strumento
di
espiazione»,
se-‐
guito
dalla
preposizione
peri
viene
usato
due
volte
nella
prima
lettera
di
Giovanni:
«(Cristo)
è
strumento
di
espia-‐
zione
per
i
nostri
peccati;
non
soltanto
i
nostri,
ma
anche
quelli
di
tutto
il
mondo»
(1Gv
2,2);
«In
questo
sta
l’amore:
non
siamo
stati
noi
ad
amare
Dio,
ma
è
lui
che
ha
amato
noi
e
ha
mandato
il
suo
Figlio
come
strumento
di
espiazio-‐
ne
per
i
nostri
peccati»
(1Gv
4,10).
In
questi
due
testi
il
linguaggio
sacrificale
è
implicito
nel
termine
«espiazione»,
ma
manca
qualsiasi
idea
di
una
punizione
inflitta
a
Cristo
al
posto
dei
peccatori.
Al
contrario
egli
rappresenta
il
se-‐
gno
e
lo
strumento
del
perdono
gratuito
di
Dio,
determi-‐
nato
dal
suo
amore
per
tutta
l’umanità.
Al
di
fuori
di
questi
casi
non
esiste
altro
utilizzo
del
termine
«espiazione»
da
parte
degli
autori
del
NT.
È
pos-‐
sibile
che
costoro,
pur
conoscendo
la
rilettura
sacrificale
della
morte
di
Cristo,
non
abbiano
voluto
spingere
in
que-‐
sta
direzione,
proprio
prevedendo
il
malinteso
che
poteva
derivare
nel
mondo
greco
dall’associazione
di
questo
con-‐
72 LA MORTE DEL MESSIA
cetto
con
quello
della
morte
sostitutiva
che,
come
abbiamo
visto,
era
presente
in
quel
contesto
culturale.
c. Redenzione-riscatto
VIII. La morte di Cristo come sacrificio 73
gnore
ha
riscattato
Giacobbe,
lo
ha
redento
dalle
mani
del
più
forte
di
lui»
(Ger
31,11).
Le
due
radici
ga<al
e
padah,
quando
designano
la
libe-‐
razione
di
Israele,
sono
state
rese
nella
versione
greca
dell’AT
con
il
verbo
lytroô
a
cui
corrisponde
il
latino
redi-‐
mere
(ricomprare).
Esso
designa
il
riscatto
di
uno
schiavo
mediante
il
pagamento
di
un
prezzo.
Se
il
traduttore
greco,
e
poi
quello
latino,
hanno
scelto
un
termine
dotato
di
que-‐
sto
significato,
ciò
è
dovuto
al
fatto
che
anche
Israele
era
schiavo
in
Egitto
o
in
Mesopotamia;
per
di
più
Dio
non
lo
aveva
semplicemente
liberato,
ma
lo
aveva
«acquistato»,
unendolo
a
sé
nell'alleanza.
Il
concetto
di
riscatto/reden-‐
zione
proviene
dunque
dall’ambito
delle
transazioni
eco-‐
nomiche.
Il
pagamento
di
un
prezzo
fa
parte
dell’immagi-‐
ne
del
fare
propria,
acquistare
una
cosa
(il
popolo).
Questa
però
non
implica
il
pagamento
di
un
prezzo
a
qualcuno:
la
liberazione
appare
come
conseguenza
di
un
atto
sovrano
di
Dio
mediante
il
quale
il
popolo
è
riscattato
dalla
schiavi-‐
tù
ed
entra
in
un
rapporto
speciale
con
lui.
Nel
NT
l’immagine
del
riscatto,
applicata
alla
morte
di
Gesù,
viene
espressa
qualche
volta
con
il
verbo
apo-‐
lytrousthai
(«redimere»,
«liberare
mediante
il
pagamento
di
un
prezzo»)
e
i
suoi
derivati
usati
nell’AT
greco.
Nella
lettera
ai
Romani,
Paolo
afferma
che
tutti
«sono
giustificati
gratuitamente
in
virtù
della
redenzione
realizzata
da
Cri-‐
sto
Gesù»
(Rm
3,24).
Altrove
si
trovano
queste
espressio-‐
ni:
«Egli
ha
dato
se
stesso
per
noi
per
redimerci
da
ogni
iniquità»
(Tt
2,14);
in
un
caso
il
sangue
di
Gesù
è
presenta-‐
to
come
prezzo
del
riscatto:
«Non
con
cose
corruttibili,
con
argento
o
con
oro,
siete
stati
redenti
dal
vano
modo
di
vivere
tramandatovi
dai
vostri
padri,
ma
col
prezioso
san-‐
gue
di
Cristo,
come
quello
di
un
agnello
senza
difetto
né
macchia»
(1Pt
1,18-‐19).
74 LA MORTE DEL MESSIA
I
sostantivi
lytron
o
antilytron
(«prezzo
di
riscatto»)
appaiono
in
due
testi.
Nel
primo
si
dice:
«(…)
il
Figlio
dell'uomo
non
è
venuto
per
essere
servito,
ma
per
servire,
e
per
dare
la
sua
vita
come
prezzo
di
riscatto
per
(anti)
molti»
(Mc
10,45;
par.
Mt
20,28).
Nel
secondo
si
fa
ricorso
a
una
frase
simile:
«Ha
dato
se
stesso
come
prezzo
di
ri-‐
scatto
per
(hyper)
tutti»
(1Tm
2,6).
Dal
confronto
tra
i
due
testi
appare
che
le
due
preposizioni
usate
hanno
pratica-‐
mente
lo
stesso
significato
di
«in
favore
di».
L’immagine
del
riscatto
viene
anche
espressa
nel
NT
con
il
verbo
agorazô
(«acquistare»),
non
utilizzato
nella
versione
greca
dell’AT.
Rivolgendosi
ai
corinzi
Paolo
dice
loro:
«Non
sapete
...
che
non
appartenete
a
voi
stessi?
Poi-‐
ché
siete
stati
acquistati
a
(caro)
prezzo
(timês)»
(1Cor
6,19-‐20);
«Poiché
colui
che
è
stato
chiamato
nel
Signore,
essendo
schiavo,
è
un
liberto
del
Signore;
ugualmente
co-‐
lui
che
è
stato
chiamato
mentre
era
libero,
è
schiavo
di
Cristo.
Voi
siete
stati
acquistati
a
(caro)
prezzo;
non
diven-‐
tate
schiavi
degli
uomini»
(1Cor
7,22-‐23).
Nella
seconda
lettera
di
Pietro
si
dice:
«Ci
saranno
anche
tra
di
voi
falsi
dottori
che
introdurranno
occultamente
eresie
di
perdi-‐
zione
e,
rinnegando
il
Signore
che
li
ha
acquistati,
si
attire-‐
ranno
addosso
una
rovina
immediata»
(2Pt
2,1).
La
formula
dell’acquisto
si
trova
anche
nell’Apocalisse:
«Sei
stato
immolato
e
hai
acquistato
a
Dio,
con
il
tuo
san-‐
gue,
gente
di
ogni
tribù,
lingua,
popolo
e
nazione,
e
ne
hai
fatto
per
il
nostro
Dio
un
regno
e
dei
sacerdoti...
»
(Ap
5,9-‐
10);
«Nessuno
poteva
imparare
il
cantico
se
non
i
cento
quarantaquattromila,
che
sono
stati
acquistati
dalla
terra...
Essi
sono
stati
acquistati
tra
gli
uomini
per
esser
primizie
a
Dio
ed
all'Agnello»
(Ap
14,3-‐4).
In
altri
due
testi
Paolo
usa
con
lo
stesso
significato
il
composto
ex-‐agorazô,
riacquistare.
Egli
afferma:
«Cristo
ci
ha
riacquistati
dalla
maledizione
della
legge,
essendo
di-‐
VIII. La morte di Cristo come sacrificio 75
venuto
maledizione
per
noi»
(Gal
3,13);
«
...
Dio
mandò
suo
Figlio,
nato
da
donna,
nato
sotto
la
legge,
per
riacqui-‐
stare
quelli
che
erano
sotto
la
legge,
affinché
noi
riceves-‐
simo
l'adozione»
(Gal.
4,5-‐6).
Infine
a
questo
contesto
ap-‐
partiene
anche
il
verbo
peripoieomai
usato
da
Luca
per
affermare
che
Dio
ha
acquistato
la
Chiesa
con
il
sangue
del
proprio
(Figlio)
(At
20,28).
Per
i
cristiani
dunque
è
stato
Cristo
a
liberare
l’umanità
riscattandola
dalla
schiavitù
del
peccato.
La
re-‐
denzione
che
gli
israeliti
avevano
sperimentato
in
occa-‐
sione
dell'esodo
o
del
ritorno
dall'esilio
diventa
così
una
semplice
figura
della
vera
e
definitiva
redenzione
realizza-‐
ta
da
Cristo.
Naturalmente
si
tratta
anche
qui
di
un’immagine,
in
quanto
Gesù
riscatta
l’uomo
peccatore
senza
dover
pagare
alcun
prezzo.
Questa
liberazione
però
ha
un
costo,
in
quanto
esige
la
sofferenza
e
la
morte
di
Cri-‐
sto.
Non
si
tratta
però
di
un
prezzo
pagato
a
qualcuno,
ma
semplicemente
di
un
amore
senza
limiti
che
lo
ha
spinto
ad
affrontare
una
prova
così
dolorosa.
Tanto
meno
questa
immagine
implica
l’idea
che
la
sua
morte
sia
un
prezzo
pa-‐
gato
da
Cristo
a
Dio
in
sostituzione
dell’umanità
peccatri-‐
ce.
Il
concetto
di
redenzione
non
ha
nulla
a
che
vedere
con
quello
di
espiazione
vicaria.
d. Il sangue
76 LA MORTE DEL MESSIA
non
è
altro
che
una
metafora
con
la
quale
si
proietta
sulla
sua
morte
la
concezione
biblica
di
sacrificio.
Al
di
fuori
della
lettera
agli
Ebrei,
di
cui
parleremo
in
seguito,
si
fa
riferimento
al
sangue
di
Cristo
soprattutto
nei
racconti
dell’ultima
cena.
Questo
aspetto
è
maggior-‐
mente
sottolineato
nella
tradizione
sinottica:
secondo
Marco,
egli
invita
tutti
a
bere
dal
calice
e
poi
soggiunge:
«Questo
è
il
mio
sangue
dell’alleanza
che
è
versato
per
molti»
(Mc
14,24);
Matteo
riprende
la
stessa
formula
ma
aggiunge
che
il
sangue
è
stato
versato
«in
remissione
dei
peccati»,
con
chiaro
riferimento
sia
al
rito
del
Kippur
sia
alla
morte
del
Servo
di
YHWH
(cfr.
Is
53,12).
Secondo
Luca
Gesù
dice
invece:
«Questo
calice
è
la
nuova
alleanza
nel
mio
sangue
che
è
versato
per
voi»,
con
riferimento
a
coloro
che
effettivamente
entrano
a
far
parte
della
nuova
alleanza.
Con
questa
formula,
nella
quale
è
implicito
il
riferimento
al
rito
del
sangue
celebrato
ai
piedi
del
monte
Sinai
(Es
24,3-‐8),
si
vuol
dire
che
Gesù
con
il
suo
sangue
ha
attuato
la
«nuova
alleanza»
promessa
da
Geremia
per
gli
ultimi
tempi
(Ger
31,33;
cfr.
2Cor
3,6.10).
Paolo
fa
un
accenno
al
sangue
di
Cristo
al
termine
del
dibattito
sulla
liceità
di
consumare
le
carni
sacrificate
agli
idoli:
«Il
calice
della
benedizione
che
noi
benediciamo,
non
è
forse
comunione
con
il
sangue
di
Cristo?»
(1Cor
10,16a).
Nel
racconto
della
Cena,
Paolo
si
avvicina
a
Luca
in
quanto
secondo
lui
Gesù,
indicando
la
coppa,
colma
di
vino,
dice:
«Questo
calice
è
la
nuova
alleanza
nel
mio
sangue»
(1Cor
11,25b).
Egli
aggiunge
poi
questo
commento:
«Perciò
chiunque
mangia
il
pane
o
beve
al
calice
del
Signore
in
modo
indegno,
sarà
colpevole
verso
il
corpo
e
il
sangue
del
Signore»
(1Cor
11,27).
Nelle
sue
lettere
autentiche
Paolo
si
riferisce
altre
due
volte
al
sangue
di
Cristo.
Anzitutto
lo
fa
nel
testo
che
ab-‐
biamo
già
esaminato
dove
si
dice
che
Dio
ha
stabilito
Cri-‐
VIII. La morte di Cristo come sacrificio 77
sto
come
strumento
di
espiazione,
per
mezzo
della
fede,
«nel
suo
sangue»
(Rm
3,25).
Parlando
della
giustificazione
ormai
avvenuta
egli
afferma:
«A
maggior
ragione
ora,
giu-‐
stificati
nel
suo
sangue,
saremo
salvati
dall’ira
per
mezzo
di
lui»
(Rm
5,9).
Il
riferimento
al
sangue
di
Cristo
appare
altre
tre
volte
nelle
lettere
deuteropaoline.
In
esse
si
dice:
«In
lui,
me-‐
diante
il
suo
sangue,
abbiamo
la
redenzione,
il
perdono
delle
colpe,
secondo
la
ricchezza
della
sua
grazia»
(Ef
1,7);
«Ora
invece,
in
Cristo
Gesù,
voi
che
un
tempo
eravate
lon-‐
tani,
siete
diventati
vicini,
grazie
al
sangue
di
Cristo»
(Ef
2,13);
egli
è
stato
strumento
di
riconciliazione
«avendo
pacificato
con
il
sangue
della
sua
croce
sia
le
cose
che
stanno
sulla
terra,
sia
quelle
che
stanno
nei
cieli»
(Col
1,20).
Secondo
1Pietro
i
credenti
sono
aspersi
dal
sangue
di
Cristo
(1Pt
1,2);
essi
sono
liberati
dalla
loro
vuota
condot-‐
ta
«con
il
sangue
prezioso
di
Cristo,
agnello
senza
difetti
e
senza
macchia»
(1,19).
Secondo
1Gv
1,7
«il
sangue
di
Ge-‐
sù,
suo
Figlio
[di
Dio]
ci
purifica
da
ogni
peccato».
Secondo
l’Apocalisse
Cristo
«ci
ha
liberati
dai
nostri
peccati
con
il
suo
sangue»
(Ap
1,5);
«hai
riscattato
con
il
tuo
sangue
uomini
di
ogni
tribù,
lingua,
popolo
e
nazione»
(Ap
5,9);
«quelli
che
vengono
dalla
grande
tribolazione
hanno
lava-‐
to
le
loro
vesti,
rendendole
candide
nel
sangue
dell’agnello»
(7,14);
«essi
hanno
vinto
il
drago
grazie
al
sangue
dell’agnello»
(12,11).
Infine
secondo
gli
Atti
degli
apostoli
Paolo
dice,
come
abbiamo
già
ricordato,
che
Dio
ha
acquistato
la
Chiesa
«con
il
sangue
del
proprio
(Figlio)»
(At
20,28).
In
tutti
questi
testi
il
versamento
del
sangue
da
parte
di
Cristo
viene
utilizzato
simbolicamente
per
indicare,
alla
luce
dei
testi
biblici
riguardanti
i
sacrifici,
il
compito
di
ri-‐
conciliazione
e
di
comunione
con
Dio
che
Cristo
ha
attuato
78 LA MORTE DEL MESSIA
mediante
la
sua
morte.
Come
nei
sacrifici
dell’AT,
il
sangue
di
Cristo,
che
simboleggia
la
sua
dedizione
fino
alla
morte,
è
visto
come
l’elemento
unitivo
per
eccellenza,
mediante
il
quale
l’alleanza
viene
rinnovata.
In
altre
parole,
alla
fedel-‐
tà
di
Cristo
fino
alla
morte
viene
attribuito
l’effetto
unitivo
tipico
del
sangue
versato
sull’altare
e
sul
popolo
nel
sacri-‐
ficio
con
cui
è
stata
ratificata
l’alleanza
(cfr.
Es
24,6-‐8).
Il
concetto
di
un’espiazione
vicaria,
in
forza
della
quale
il
sangue
di
Cristo
è
sostituito
a
quello
dei
peccatori,
è
to-‐
talmente
assente.
VIII. La morte di Cristo come sacrificio 79
Questa
conclusione
rappresenta
un
vero
e
proprio
dato
di
fede,
in
quanto
il
sacerdozio
di
Cristo
era
stato
prean-‐
nunziato
nel
Salmo
110
che
l'autore,
in
sintonia
con
tutta
la
tradizione
cristiana,
considera
come
messianico
(Eb
1,3.13;
8,1;
10,12;
12,2;
cfr.
Mc
12,35-‐37
e
par.;
14,62
e
par.;
16,19;
At
2,34-‐35;
Ef
1,20
ecc.).
In
esso
infatti
si
af-‐
ferma:
«Il
Signore
ha
giurato
e
non
si
pente:
Tu
sei
sacer-‐
dote
per
sempre
al
modo
di
Melchisedek»
(Sal
110,4).
Questo
testo,
spesso
citato
nello
scritto
(cfr.
Eb
5,6.10;
6,20;
7,1-‐25),
non
si
limita
ad
attestare
in
modo
inequivo-‐
cabile
il
sacerdozio
di
Cristo,
ma
lo
collega
a
quello
dell'an-‐
tico
re
di
Gerusalemme
a
cui
Abramo
aveva
pagato
la
de-‐
cima
(cfr.
Gn
14,18-‐20).
Una
volta
affermato
il
sacerdozio
di
Cristo,
resta
il
compito
di
determinare
in
che
modo
egli
lo
ha
esercitato.
La
tradizione,
come
abbiamo
visto,
aveva
già
utilizzato
al-‐
lusioni
sacrificali
per
spiegare
la
sua
morte
in
croce.
Su
questa
linea
l'autore
afferma
che
Cristo
offrì
un
sacrificio
del
quale
egli
stesso
è
la
vittima:
imitando
il
gesto
che
il
sommo
sacerdote
compiva
una
volta
all'anno
nel
gran
giorno
dell'espiazione,
Cristo
entrò
una
volta
per
tutte
con
il
proprio
sangue
nel
santuario,
non
però
in
quello
terre-‐
stre
ma
in
quello
celeste,
procurando
così
una
redenzione
eterna
(Eb
9,11-‐14;
10,8-‐10).
Nella
sua
nuova
condizione,
Cristo
continua
ad
attuare
il
suo
servizio
sacerdotale
mediante
l’intercessione
in
fa-‐
vore
di
coloro
che
per
mezzo
suo
si
accostano
a
Dio
(Eb
7,25).
Il
suo
sacrificio
si
distacca
perciò
radicalmente
da
quello
antico:
a
un
culto
rituale,
esteriore
e
inefficace
su-‐
bentra
un
culto
personale
e
interiore,
che
prende
tutto
l'uomo
e
lo
rende
perfetto
(2,10;
5,9;
7,28).
In
forza
del
suo
ruolo
sacerdotale
Cristo
riceve
alcuni
appellativi
significativi:
egli
è
«autore
e
perfezionatore
della
fede»
(Eb
12,2),
«guida-‐capo»
che
conduce
gli
altri
80 LA MORTE DEL MESSIA
alla
salvezza
(2,10),
«garante»
e
«mediatore»
di
un'allean-‐
za
nuova
e
migliore
(7,22;
8,6;
9,15;
12,24),
«precursore»
nel
tempio
celeste
(6,20)
e
«apostolo»
della
professione
di
fede
(3,1).
Ma
soprattutto
egli
è
presentato
nel
prologo
(1,1-‐4)
come
la
sapienza
divina,
mediante
la
quale
Dio
ha
creato
il
mondo
e
ha
rivolto
la
sua
parola
ultima
e
definiti-‐
va
a
tutta
l'umanità.
Attraverso
questi
attributi
si
possono
già
cogliere
gli
effetti
che
l'opera
sacerdotale
di
Cristo
ha
prodotto
nei
confronti
della
comunità
cristiana.
L’autore
della
lettera
agli
Ebrei
proietta
dunque
sulla
persona
di
Cristo
le
categorie
sacrificali.
Ma
non
dice
che
egli
si
è
offerto
come
vittima
al
nostro
posto.
Al
contrario
Cristo
è
presentato
come
il
Figlio
che,
mediante
il
dono
di
sé,
conduce
l’umanità
a
Dio.
Il
suo
sangue,
più
volte
ricor-‐
dato,
sostituisce
quello
delle
vittime
sacrificali
in
quanto
realizza
la
nuova
alleanza
e
attua
quella
purificazione
che
il
sangue
delle
vittime
non
poteva
ottenere.
Possiamo
dunque
concludere
che
nel
NT
le
categorie
sacrificali
sono
usate
raramente
per
indicare
la
morte
di
Cristo,
e
soprattutto
in
un
modo
estremamente
allusivo
e
reticente.
Solo
la
lettera
agli
Ebrei
fa
un
ricorso
massiccio
a
queste
categorie,
ma
sia
in
questo
come
negli
altri
scritti
manca
qualsiasi
riferimento
che
faccia
pensare
a
un’espiazione
vicaria
da
parte
di
Cristo.
Ma
soprattutto
è
chiaro
che
i
testi
si
ispirano
non
tanto
all’ambito
cultuale
ma
più
direttamente
all’esperienza
del
Servo
di
YHWH,
sul-‐
la
cui
morte
era
già
stata
proiettata
la
categoria
del
sacrifi-‐
cio
di
riparazione.
Alla
luce
di
questo
accostamento,
Gesù
appare
come
un
capo
religioso
che
conduce
l’umanità
all’incontro
con
Dio
pagando
un
prezzo
doloroso,
quello
dell’incomprensione
e
della
persecuzione
fino
alla
morte.
Ma
così
facendo
egli
dà
inizio
a
un
movimento
di
riconci-‐
liazione
che
coinvolge
tutta
l’umanità.
IX
LA
MORTE
DI
GESÙ
OGGI
82 LA MORTE DEL MESSIA
a. L’«espiazione vicaria»:
una teoria inaccettabile
1)
L’espiazione
Il
termine
«espiazione»,
così
come
viene
utilizzato
da
Anselmo,
assume
un
significato
diverso
da
quello
che
ha
in
ambito
biblico,
in
quanto
esprime
l’azione
con
cui
chi
sba-‐
glia
sconta
una
pena
proporzionata
al
crimine
commesso,
al
fine
di
ristabilire
l’ordine
costituito.
La
regola
della
giu-‐
sta
compensazione,
comunemente
accolta
in
tutti
i
codici
penali,
si
trova
anche
nella
Bibbia,
dove
è
conosciuta
col
nome
di
«legge
del
taglione».
Questa
è
così
formulata:
«Vi-‐
ta
per
vita,
occhio
per
occhio,
dente
per
dente,
mano
per
mano,
piede
per
piede»
(Dt
19,21;
cfr.
Es
21,24-‐25;
Lv
24,19-‐20).
Essa
ha
lo
scopo
non
di
prescrivere
la
vendetta,
ma
di
porle
un
limite,
per
contrastare
l’esplodere
di
una
violenza
arbitraria,
quale
appare
nel
«canto
di
Lamec»
(cfr.
Gn
4,23-‐24).
Secondo
la
teoria
dell’espiazione
vicaria
anche
Dio
si
regolerebbe
secondo
questa
norma
e
richie-‐
derebbe
dall’umanità
di
scontare
una
pena
adeguata
all’offesa
che
gli
è
stata
fatta.
L’applicazione
del
principio
della
giusta
compensazio-‐
ne
ai
rapporti
dell’umanità
con
Dio
suscita
però
dei
grossi
problemi.
Anzitutto
è
difficile
pensare
che
Dio
debba
sot-‐
tostare
a
una
legge
che,
secondo
la
Bibbia,
sarebbe
stata
IX. La morte di Gesù oggi 83
stabilita
da
lui
stesso
per
l’umanità.
Come
pensare
che
Dio,
per
perdonare
gli
uomini
peccatori,
abbia
richiesto
l’ese-‐
cuzione
di
una
pena
adeguata,
consistente
addirittura
nel-‐
la
morte
del
reo?
Dio,
per
poter
perdonare,
ha
davvero
bi-‐
sogno
che
i
peccatori
paghino
con
la
vita
per
il
male
com-‐
messo?
Non
poteva
Dio
perdonare
mediante
un
atto
di
mi-‐
sericordia,
senza
esigere
alcuna
soddisfazione?
La
dottrina
anselmiana
presuppone
l’immagine
di
un
Dio
che,
pur
amando
l’umanità
e
volendo
salvarla,
non
può
farlo
se
non
quando
essa
ha
pagato
per
i
suoi
crimini.
Gesù
nella
sua
predicazione
non
ha
avallato
questa
idea
di
Dio.
Secondo
lui
Dio
è
come
un
padre
che
aspetta
il
ritorno
del
suo
figlio
ingrato
e
lo
perdona
senza
condizio-‐
ni.
Il
Dio
di
Gesù
non
chiede
un
risarcimento
per
le
offese
ricevute,
ma
instaura
un
regno
di
pace
in
cui
tutti
possano
godere
di
una
felicità
senza
fine.
Se
si
vuole
ritornare
all’annunzio
evangelico
originario
bisogna
dunque
elimi-‐
nare
l’immagine
di
un
Dio
che,
pur
volendo
il
bene
dell’umanità,
non
può
fare
a
meno
di
esigere
da
essa
una
soddisfazione
per
il
torto
ricevuto.
Da
un
punto
di
vista
penale,
l’idea
secondo
cui
un
cri-‐
mine
deve
essere
punito
con
una
pena
proporzionata,
nel-‐
la
convinzione
che
ciò
serva
a
ristabilire
l’ordine,
è
oggi
messa
in
discussione.
Da
tempo
si
è
fatta
strada
la
convin-‐
zione
secondo
cui
lo
scopo
della
pena
non
è
quello
di
ri-‐
stabilire
l’ordine
infliggendo
a
chi
ha
commesso
un
reato
una
sofferenza
pari
a
quella
che
egli
ha
inflitto
alla
vittima,
ma
di
favorirne
il
ricupero
e
il
reinserimento
nella
società.
Il
concetto
di
pena
rieducativa
è
entrato
nel
diritto
penale
a
partire
da
Cesare
Beccaria
(Dei
delitti
e
delle
pene,
1764)
ed
è
stato
accolto
anche
nella
Costituzione
italiana,
dove
si
dice:
«Le
pene
non
possono
consistere
in
trattamenti
con-‐
trari
al
senso
di
umanità
e
devono
tendere
alla
rieduca-‐
zione
del
condannato»
(Art.
27).
84 LA MORTE DEL MESSIA
L’idea
che
si
possa
compensare
il
male
fatto
dal
delin-‐
quente
mediante
un
male
di
eguale
entità
esercitato
su
di
lui
si
rivela
sempre
più
come
una
pretesa
assurda.
Il
male
si
vince
non
punendo
chi
lo
ha
commesso,
ma
dandogli
la
possibilità
di
ricredersi
e
di
condurre
una
vita
onesta.
In
questo
contesto
l’immagine
di
un
Dio
che,
pur
essendo
in-‐
finitamente
misericordioso,
attende
dal
suo
Figlio,
me-‐
diante
una
morte
ignominiosa,
la
soddisfazione
che
i
pec-‐
catori
gli
devono,
non
è
per
nulla
convincente.
Al
contrario
ha
un
grande
fascino
l’idea
di
un
uomo
mandato
da
Dio
che
si
prodiga
per
sanare
le
ferite
dei
suoi
fratelli,
accet-‐
tando
coraggiosamente
i
rischi
e
le
incomprensioni
che
ciò
comporta.
Purtroppo
la
concezione
vendicativa
della
pena
è
anco-‐
ra
diffusa
nel
comune
modo
di
pensare.
Ci
si
può
chiedere
se
questa
mentalità
non
sia
anche
frutto,
nei
Paesi
cristia-‐
ni,
del
principio
dell’espiazione
vicaria,
inculcato
nella
ca-‐
techesi
fin
dalla
più
tenera
infanzia.
È
facile
infatti
tra-‐
sporre
nei
rapporti
interpersonali
il
comportamento
at-‐
tribuito
a
Dio
nei
confronti
di
tutta
l’umanità.
Per
un
vero
progresso
non
solo
religioso
ma
anche
sociale
dell’umanità,
è
dunque
necessario
che
il
concetto
di
espia-‐
zione
vicaria
sia
rimosso
dalla
teologia
e
dalla
catechesi
cristiane.
2)
La
vicarietà
La
teoria
dell’espiazione
vicaria
ha
un
altro
aspetto
che
crea
notevoli
problemi.
Essa
infatti
si
basa
sul
principio
secondo
cui
un
innocente
possa
pagare
per
i
delitti
altrui.
Questo
concetto
si
trova
a
volte,
come
abbiamo
visto,
nella
mitologia
greca,
ma
non
è
accolto
in
nessun
modo
sia
nell’AT
che
nel
NT.
In
nessuna
parte
della
Bibbia
appare
infatti
che
nei
sacrifici
la
vittima
sostituisca
il
peccatore.
Si
è
pensato
di
trovare
il
principio
dell’espiazione
vicaria
in
IX. La morte di Gesù oggi 85
Is
53
dove
a
prima
vista
sembra
che
il
Servo
di
YHWH
sia
punito
al
posto
dei
peccatori.
Ma
si
tratta,
come
si
è
visto,
di
un’interpretazione
gratuita:
ciò
che
qualifica
l’operato
del
Servo
non
è
il
principio
di
sostituzione
ma
quello
di
solidarietà.
Nell’AT
si
afferma,
è
vero,
che
Dio
«punisce
la
colpa
dei
padri
sui
figli
fino
alla
terza
e
alla
quarta
generazione»
(Es
20,5)
ma
si
precisa
che
ciò
riguarda
solo
coloro
che
lo
odiano,
cioè
coloro
che
sono
conniventi
con
il
peccato
del
proprio
genitore.
Altrimenti
vale
il
principio
secondo
cui
«Chi
pecca
morirà;
il
figlio
non
sconterà
l’iniquità
del
pa-‐
dre
né
il
padre
l’iniquità
del
figlio»
(Ez
18,20).
Si
nota
qui
ancora
l’idea
arcaica
del
Dio
punitore,
ma
la
sostituzione
del
peccatore
con
il
giusto
è
tassativamente
esclusa.
Ognuno
deve
rispondere
per
se
stesso.
Gesù,
dal
canto
suo,
non
ha
mai
parlato
di
un’espiazione
dovuta
a
Dio
da
parte
degli
uomini,
e
tanto
meno
della
possibilità
che
qualcuno
dovesse
pagare
il
conto
aperto
da
altri.
Oggi
l’idea
di
una
pena
comminata
a
un
innocente
al
posto
del
criminale
è
vista
comunemente
come
il
delitto
più
grande
contro
i
diritti
della
persona.
La
disponibilità
a
interporsi
per
prendere
su
di
sé
l’ingiusta
condanna
com-‐
minata
a
un
innocente,
come
nel
caso
di
Massimiliano
Kolbe,
può
essere
considerata
come
un
atto
di
eroismo.
Non
così
viene
valutato
il
gesto
di
chi
prende
su
di
sé
la
giusta
pena
spettante
a
un
altro.
Il
diritto
esige
che
ciascu-‐
no
risponda
della
sua
colpa
davanti
alla
legge.
Lavorare
per
il
recupero
di
chi
ha
commesso
un
crimine
è
apprezza-‐
to,
non
il
prendere
su
di
sé
una
pena
dovuta
a
un
altro.
Si
può
dunque
affermare
che
l’idea
di
vicarietà
nei
con-‐
fronti
della
pena
non
è
accettata
nella
Bibbia,
anzi
è
con-‐
traria
alla
visione
di
Dio
che
in
essa
è
presentata.
Oggi
questa
idea
è
motivo
di
scandalo
per
i
nostri
contempora-‐
nei.
Perciò
deve
essere
eliminata,
togliendo
così
uno
dei
86 LA MORTE DEL MESSIA
più
grossi
ostacoli
che
l’uomo
moderno
trova
nei
confronti
del
cristianesimo.
3)
Il
peccato
Il
principio
dell’espiazione
vicaria
si
basa
sul
presup-‐
posto
che
tutta
l’umanità
si
sia
allontanata
da
Dio
a
causa
del
peccato
commesso
dal
suo
lontano
progenitore
e
quindi
abbia
bisogno
di
essere
riconciliata
con
lui.
Ora
è
proprio
questo
aspetto
che
oggi
ha
bisogno
di
una
corre-‐
zione
radicale
alla
luce
dell’insegnamento
biblico
e
della
sensibilità
moderna.
Nell’AT
è
certamente
presente
una
visione
pessimistica
dello
stato
morale
di
tutta
l’umanità,
non
escluso
quello
del
popolo
che
Dio
si
è
scelto.
Questa
situazione
viene
fatta
risalire,
mediante
un
procedimento
mitologico,
a
un
pec-‐
cato
commesso
dal
primo
progenitore.
Il
racconto
della
caduta
di
Adamo
(Gn
3)
non
ha
lo
scopo
di
affermare
l’esistenza
di
uno
stato
di
peccato
in
cui
tutti
sono
coinvol-‐
ti
a
prescindere
dai
loro
peccati
personali.
L’autore
del
racconto
vuole
piuttosto
spiegare
l’origine
del
male
diffu-‐
so
nel
mondo,
con
lo
scopo
di
affermare
che
esso
non
di-‐
pende
dalla
volontà
di
Dio
ma
è
conseguenza
del
compor-‐
tamento
umano.
Non
si
tratta
certo
di
una
spiegazione
ra-‐
zionale,
in
quanto
è
difficile
immaginare
come
Dio
abbia
potuto
lasciarsi
sfuggire
di
mano
la
creatura
più
perfetta
da
lui
creata.
Ma
è
sufficiente
per
evitare
di
attribuire
a
Dio
l’esistenza
di
tanto
male
e
di
tanta
sofferenza
in
que-‐
sto
mondo.
L’idea
però
che
questo
peccato
sia
stato
tra-‐
smesso
da
padre
in
figlio
a
tutta
l’umanità
è
totalmente
assente.
La
concezione
di
un
peccato
originale
così
come
è
inte-‐
so
dalla
teologia
cattolica
è
assente
anche
nel
NT.
Certa-‐
mente
in
esso
la
presenza
del
male
nel
mondo
è
presup-‐
posta
e
spesso
è
descritta
a
fosche
tinte
(cfr.
Rm
IX. La morte di Gesù oggi 87
2,18−3,20).
Anche
nel
NT
è
presente
la
visione
mitologica
di
un
peccato
che
è
entrato
nel
mondo
a
causa
di
Adamo
e
si
è
diffuso
fra
tutti
i
suoi
figli;
ma
è
assente
l’idea
che
que-‐
sto
peccato
sia
stato
trasmesso
a
tutti
i
suoi
discendenti.
È
ormai
chiarito
che
in
Rm
5,12
Paolo
non
afferma
che
tutti
hanno
peccato
«in
Adamo»,
come
aveva
affermato
Agosti-‐
no,
ma
che
i
discendenti
di
Adamo
sono
diventati
conni-‐
venti
con
il
peccato
del
loro
progenitore
in
quanto
anch’essi
hanno
peccato.
Mentre
una
solidarietà
nel
pecca-‐
to
è
concepibile,
non
è
invece
accettabile
l’idea
che
un
pec-‐
cato
commesso
da
una
persona
possa
essere
stato
trames-‐
so
ad
altre.
Si
può
essere
solidali
nel
peccato,
ma
in
ultima
analisi
ciascuno
deve
rispondere
per
le
proprie
azioni.
La
dottrina
classica
del
peccato
originale
è
oggi
impro-‐
ponibile
anche
perché
va
contro
la
visione
del
mondo
tipi-‐
ca
della
nostra
cultura.
In
seguito
alle
scoperte
scientifiche
si
è
giunti
alla
conclusione,
ormai
generalmente
accettata,
secondo
cui
l’umanità
attuale
è
il
punto
d’arrivo
di
una
lunga
evoluzione
durata
milioni
di
anni.
Da
una
forma
di
vita
primordiale
l’essere
umano
è
giunto
allo
stato
attuale
di
grande
differenziazione
e
continua
a
progredire,
con
la
propria
collaborazione,
non
solo
in
campo
biologico
ma
anche
in
quello
più
sofisticato
della
psiche.
In
questo
con-‐
testo
non
si
può
più
presentare
l’uomo
come
un
essere
creato
in
uno
stato
di
perfezione
il
quale,
in
seguito
a
una
ribellione,
è
caduto
nell’attuale
situazione
di
sofferenza
e
di
peccato.
Al
contrario,
esso
appare
come
un
essere
in
via
di
trasformazione,
che
si
è
progressivamente
liberato
e
continua
a
liberarsi
da
tutta
una
serie
di
condizionamenti.
Quindi,
più
che
di
una
situazione
di
peccato,
bisogna
par-‐
lare
del
limite
tipico
dell’essere
umano
che
questi
tende
continuamente
a
superare,
spesso
purtroppo
con
notevoli
passi
indietro
a
livello
sia
individuale
che
sociale.
88 LA MORTE DEL MESSIA
In
questa
prospettiva,
è
per
noi
inaccettabile
l’inter-‐
pretazione
mitologica
di
una
creazione
perfetta
che
è
stata
subito
deteriorata
da
una
ribellione,
i
cui
effetti
si
fanno
sentire
ancora
oggi.
L’idea
che
la
nostra
situazione
dipen-‐
da
da
quanto
avvenuto
agli
inizi
del
mondo
e
che
la
nostra
salvezza
sia
stata
attuata
mediante
un
sacrificio
offerto
a
Dio
dal
suo
Figlio
al
nostro
posto
duemila
anni
fa
è
sentito
come
contraria
alla
ragione
e
al
buon
senso.
Ciò
di
cui
l’umanità
sente
il
bisogno
non
è
una
sanatoria
effettuata
mediante
l’espiazione
vicaria
di
un
Dio
incarnato,
ma
piut-‐
tosto
un
aiuto
costante
perché
possa
ulteriormente
pro-‐
gredire,
evitando
i
passi
all’indietro
che
sono
tipici
di
un’evoluzione
che
non
è
necessariamente
lineare
e
pro-‐
gressiva.
IX. La morte di Gesù oggi 89
di
radunare
le
folle,
composte
certamente
da
persone
che
rifiutavano
il
dominio
romano.
Egli
poi
ha
deluso
anche
le
autorità
religiose.
Facendo
i
segni
che
anticipavano
la
venuta
del
regno
di
Dio
nella
storia
umana,
egli
prendeva
posizione
anzitutto
nei
con-‐
fronti
dei
farisei
e
degli
scribi
appartenenti
al
loro
partito.
Costoro
non
potevano
tollerare
non
solo
gli
attacchi
sfer-‐
rati
nei
propri
confronti
(cfr.
Mc
7)
ma
neppure
la
critica
del
loro
modo
di
intendere
la
legge.
Gesù
infatti
subordi-‐
nava
l’osservanza
del
sabato
al
rispetto
della
dignità
dell’uomo,
trasgrediva
le
regole
di
purità,
socializzava
con
gli
esclusi
e
i
peccatori.
Ai
sacerdoti
non
potevano
far
piacere
il
suo
distacco
dal
culto
(cfr.
Mt
9,13;
12,7;
citazione
di
Os
6,6)
e
le
sue
critiche
nei
confronti
del
tempio
(cfr.
Mc
11,15-‐18).
Se-‐
condo
Giovanni
la
sua
morte
sarebbe
stata
voluta
proprio
dai
sacerdoti
per
paura
che
egli
sollevasse
le
folle
e
provo-‐
casse
una
repressione
violenta
da
parte
dei
romani
(cfr.
Gv
11,47-‐52).
Il
sinedrio,
nel
quale
sedevano
anche
i
rap-‐
presentanti
degli
scribi
di
estrazione
farisaica,
l’avrebbe
invece
condannato
per
un
improbabile
reato
di
bestem-‐
mia,
esigendo
poi
da
Ponzio
Pilato
la
sua
condanna
a
mor-‐
te.
In
realtà
è
probabile
che
la
condanna
sia
stata
pronun-‐
ziata
dal
rappresentante
di
Roma
per
sua
iniziativa,
non
senza
la
connivenza
interessata
delle
autorità
giudaiche.
La
sua
eliminazione
fisica
è
presentata
dagli
evangelisti
non
come
un
evento
rituale
ma
come
conseguenza
delle
scelte
da
lui
fatte
durante
il
suo
ministero
pubblico.
Si
può
dunque
parlare
di
un
sacrificio
da
parte
di
Gesù
solo
nella
misura
in
cui
questo,
nella
religione
profetica,
era
un’immagine
del
dono
che
in
Israele
i
giusti
facevano
di
sé
a
Dio
nell’osservanza
della
legge.
Tutta
la
sua
vita
infatti
è
stata
l’espressione
di
una
fedeltà
totale
al
piano
di
Dio,
che
si
manifesta
nel
suo
amore
per
tutti
i
suoi
figli.
In
senso
90 LA MORTE DEL MESSIA
esistenziale,
parlare
di
sacrificio
a
proposito
della
morte
di
Cristo
aveva
un
carattere
evocativo
molto
profondo,
in
quanto
univa
la
sua
esperienza
a
quella
di
tutti
i
giusti
che
avevano
«sacrificato»
la
loro
vita
per
il
bene
del
popolo.
Oggi,
però,
in
un
diverso
contesto
culturale
e
a
motivo
della
poca
familiarità
con
l’AT,
presentare
la
morte
di
Cri-‐
sto
come
un
sacrificio
non
ha
più
la
forza
evocativa
che
aveva
per
i
cristiani
di
estrazione
giudaica.
Inoltre
la
dot-‐
trina
dell’espiazione
vicaria,
insegnata
fin
dalla
più
tenera
età,
fa
dell’interpretazione
sacrificale
la
fonte
di
malintesi
difficilmente
superabili.
Perciò
è
consigliabile
lasciar
ca-‐
dere
il
modello
sacrificale
e
far
ricorso
ad
altri
modelli
in-‐
terpretativi,
ugualmente
suggeriti
dalla
Bibbia,
ma
che
ri-‐
spondono
meglio
alla
mentalità
moderna.
c. Modelli alternativi
I
modelli
a
cui
si
riferisce
il
NT
per
spiegare
la
morte
di
Cristo
sono
numerosi,
e
molti
di
essi
hanno
forti
risonanze
nel
mondo
moderno,
in
quanto
si
riferiscono
a
esperienze
molto
vive
anche
nella
nostra
società.
Le
più
significative
sono
quelle
del
profeta,
del
martire
e
del
maestro.
IX. La morte di Gesù oggi 91
nato
a
morte
(Is
53,8).
Per
definizione
i
profeti
sono
per-‐
seguitati
(At
7,52).
Gesù
stesso
si
è
presentato
come
un
profeta
perseguitato
(Mc
6,4;
Lc
13,34-‐35).
Il
modello
pro-‐
fetico
è
oggi
molto
apprezzato
in
quanto
forse
come
non
mai
si
sente
il
bisogno
di
figure
profetiche
capaci
di
op-‐
porsi
alla
violenza
e
alla
corruzione
e
di
interpretare
i
se-‐
gni
dei
tempi.
La
presentazione
di
Gesù
come
profeta
che
muore
per
la
sua
fedeltà
al
compito
di
annunziare
la
paro-‐
la
di
Dio
in
un
mondo
dominato
da
interessi
personali
e
di
casta
ha
un
grande
impatto
nella
mentalità
della
gente.
92 LA MORTE DEL MESSIA
3)
Maestro,
pastore
e
guida
del
popolo
Durante
il
suo
ministero
pubblico,
Gesù
si
è
presentato
soprattutto
come
un
maestro,
e
così
è
stato
riconosciuto
dalla
gente
che
si
è
rivolta
a
lui
con
il
titolo
di
«rabbi».
La
folla
lo
seguiva
perché
parlava
con
autorità,
non
come
gli
scribi
(cfr.
Mc
1,21-‐22.27).
In
quanto
maestro
riconosciuto
egli
ha
fatto,
secondo
Matteo,
cinque
grandi
discorsi
met-‐
tendo
le
basi
di
quella
che
sarà
la
sua
comunità.
Sempre
come
maestro
è
stato
seguito
da
diversi
discepoli,
fra
cui
ne
ha
scelto
dodici
(Mc
3,13-‐19)
ai
quali
ha
affidato
il
compito
di
collaborare
con
lui
nell’annunzio
del
regno
di
Dio
(Mc
6,7-‐13).
Analoga
a
quella
del
maestro
è
la
figura
del
pastore,
già
attribuita
nell’AT
ai
capi
del
popolo
che
spesso
venivano
criticati
perché
facevano
i
loro
interessi
e
non
quelli
delle
persone
a
loro
affidate;
per
questo
Dio
stesso
si
presenta
come
l’unico
pastore
del
popolo
che,
dopo
averlo
liberato
dalla
schiavitù
egiziana,
lo
riconduce
nella
terra
promessa
al
termine
dell’esilio
(cfr.
Is
40,10-‐11;
Ez
34).
Anche
Gesù
viene
presentato
da
Giovanni
come
il
buon
pastore
(Gv
10,1-‐18).
In
un’epoca
in
cui
emerge
sempre
più
la
corru-‐
zione
dei
politici
e
degli
amministratori
della
cosa
pubbli-‐
ca,
l’immagine
di
Gesù
come
colui
che
non
è
un
mercena-‐
rio
ma
dà
la
vita
per
le
sue
pecore
è
estremamente
sugge-‐
stiva.
Alla
luce
di
queste
figure
bibliche
la
morte
di
Gesù
rap-‐
presenta
un
esempio
capace
di
illuminare
e
di
trascinare
(cfr.
Gv
13,15;
Eb
12,1-‐3;
1Pt
2,21).
In
realtà,
è
proprio
con
il
suo
esempio
che
Gesù
ci
salva.
L’idea
di
un
sacrificio
espiatorio
offerto
tanti
anni
fa
da
un
uomo-‐Dio
a
un
Dio
preoccupato
di
ricevere
la
giusta
soddisfazione
per
i
pec-‐
cati
commessi
dall’umanità
non
può
fare
breccia
nel
cuore
dell’uomo
moderno,
così
lontano
dalla
visione
mitologica
IX. La morte di Gesù oggi 93
contenuta
in
tale
messaggio.
Mentre
oggi
ci
si
rende
sem-‐
pre
più
conto
che
solo
l’esempio
di
una
fedeltà
portata
fi-‐
no
alla
fine
può
motivare
l’impegno
per
una
ricerca
vera-‐
mente
efficace
del
bene
comune.
È
con
il
suo
esempio
che
Gesù
ha
aperto
una
strada
per
tutta
l’umanità,
chiamando
alla
sequela
non
solo
i
suoi
discepoli,
ma
tutti
gli
uomini
che
cercano
la
verità
e
la
giustizia
(cfr.
Gv
13,14-‐15;
1Pt
2,21).
La
salvezza
che
Gesù
ci
ha
portato
non
deve
dunque
essere
vista
come
frutto
di
una
transazione
giuridica
in-‐
tercorsa
tra
lui
e
il
Padre,
ma
come
la
conclusione
di
una
vita
impegnata
per
il
bene
del
suo
popolo
e
di
tutta
l’umanità.
In
altre
parole,
la
morte
di
Gesù
ha
un
effetto
salvifico
perché
imprime
alla
sua
dedizione
verso
Dio
e
verso
gli
uomini
il
sigillo
della
totalità
e
della
irreversibili-‐
tà.
Per
questo
il
suo
esempio,
accompagnato
dalla
potenza
dello
Spirito
che
promana
da
lui,
è
l’unica
causa
capace
di
trasformare
i
cuori,
sia
a
livello
di
individui
che
di
comuni-‐
tà.
Solo
la
sua
morte
poteva
smuovere
l’inerzia
di
persone
chiuse
nel
loro
egoismo,
intente
unicamente
alla
ricerca
del
proprio
interesse.
Per
questo
Gesù
diventa
un
modello
non
solo
per
i
cristiani
ma
per
tutta
l’umanità.
È
importan-‐
te
però
non
isolare
la
figura
di
Gesù
da
quella
di
tanti
uo-‐
mini
e
donne
di
buona
volontà
che
hanno
speso
la
loro
vi-‐
ta
fino
all’ultimo
per
il
bene
comune.
Gesù
è
uno
di
loro,
anche
se
per
i
cristiani
li
sorpassa
tutti
per
la
sua
eccezio-‐
nalità
e
per
la
potenza
dello
Spirito
che
promana
da
lui.
Per
concludere
è
interessante
rileggere
quanto
scrive-‐
va
J.
Ratzinger
nella
sua
Introduzione
al
cristianesimo
del
1969:
«…
la
coscienza
cristiana
è
in
genere
ancora
impron-‐
tata
a
una
grossolana
e
rozza
idea
della
teologia
d’espia-‐
zione
risalente
ad
Anselmo
di
Canterbury… Per molti cri-
94 LA MORTE DEL MESSIA
stiani… le cose stanno come se la croce andasse vista inserita
in un meccanismo costituito dal diritto offeso e riparato. Sa-
rebbe la forma in cui la giustizia di Dio infinitamente lesa ver-
rebbe nuovamente placata da un’infinita espiazione… la ‘in-
finita espiazione’ su cui Dio sembra reggersi si presenta in
una luce doppiamente sinistra… s’infiltra così nella coscienza
proprio l'idea che la fede cristiana nella croce immagini un
Dio la cui spietata giustizia abbia preteso un sacrificio umano,
l’immolazione del suo stesso Figlio. Per cui si volgono con
terrore le spalle ad una giustizia, la cui tenebrosa ira rende
inattendibile il messaggio dell'amore» (pp. 227-228; cfr. an-
che pp. 182-185).
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96 LA MORTE DEL MESSIA
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Pulcinelli
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La
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Gesù
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La
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San
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Essai
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la
mort
de
Jésus,
Labor
et
Fides,
Genève
2013.
INDICE
PREFAZIONE
..........................................................................................................
7
I.
L’ESPIAZIONE
VICARIA
..................................................................................
11
a.
La
dottrina
anselmiana
..................................................................
11
b.
Tommaso
d’Aquino
.........................................................................
13
c.
Il
Catechismo
della
Chiesa
Cattolica
.........................................
14
II.
I
SACRIFICI
NELL’ANTICO
MEDIO
ORIENTE
.............................................
17
a.
Lo
scopo
dei
sacrifici
.......................................................................
17
b.
I
riti
dei
cananei
e
degli
arabi
......................................................
19
III.
LA
PRASSI
SACRIFICALE
ISRAELITICA
......................................................
21
a.
Il
culto
di
Israele
...............................................................................
22
b.
Diversi
tipi
di
sacrifici
....................................................................
24
c.
Il
grande
giorno
dell’«espiazione»
(Lv
16)
............................
27
d.
Caratteristiche
dei
sacrifici
di
riparazione
............................
29
IV.
SIGNIFICATO
DEI
SACRIFICI
ISRAELITICI
.................................................
31
a.
L’efficacia
unitiva
del
sangue
(Lv
17,10-‐11)
.........................
31
b.
Il
rito
dell’alleanza
(Es
24,1-‐11)
................................................
33
c.
Il
sacrificio
di
Isacco
(Gn
22,1-‐19)
.............................................
37
V.
LA
PREDICAZIONE
PROFETICA
....................................................................
41
a.
I
libri
profetici
....................................................................................
41
b.
I
Salmi
....................................................................................................
44
c.
La
letteratura
sapienziale
.............................................................
45
VI.
IL
SERVO
DI
YHWH
......................................................................................
49
a.
Situazione
storica
.............................................................................
49
b.
Il
quarto
carme
(Is
52,13−53,12)
..............................................
50
c.
Interpretazione
del
carme
............................................................
53
VII.
EROI
FILOSOFI
E
MARTIRI
........................................................................
57
a.
La
concezione
greca
........................................................................
57
b.
I
giudei
martiri
..................................................................................
61
98 LA MORTE DEL MESSIA
VIII.
LA
MORTE
DI
CRISTO
COME
SACRIFICIO
..............................................
65
a.
Le
formule
di
dono
...........................................................................
65
b.
Espiazione
...........................................................................................
70
c.
Redenzione-‐riscatto
........................................................................
72
d.
Il
sangue
...............................................................................................
75
e.
La
lettera
agli
Ebrei
.........................................................................
78
IX.
LA
MORTE
DI
GESÙ
OGGI
............................................................................
81
a.
L’«espiazione
vicaria»:
una
teoria
inaccettabile
................
82
b.
La
morte
di
Gesù
come
sacrificio
..............................................
88
c.
Modelli
alternativi
............................................................................
90
BIBLIOGRAFIA
....................................................................................................
95