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Rivista su trasformazione dei conflitti, cultura della riparazione

riparazione e mediazione
Journal on Conflict Transf
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restorative Culture and Mediation

Giustizia penale e paradigma riparativo: una chiave di lettura hegeliana

Stefano Fuselli*

Abstract: The complementary relationship between restorative justice and traditional criminal justice
outlined by Legislative Decree 150/2022 seems to suppose a real cultural turning point. At the same time,
the possibility of such a convergence between two models of criminal justice often thought of as antagonistic
raises the question of what is the theoretical horizon in which this relationship is inscribed and what are the
conditions of its possibility. To shed light on these aspects, which appear in the text of the Decree, the
contribution proposes a comparison with the set of Hegelian categories of crime, punishment, and judgment,
the scope of which goes far beyond the logic of retribution.

Keywords: restorative justice; Hegel; crime; punishment; reconciliation; retribution.

Abstract: La relazione di complementarietà tra giustizia riparativa e giustizia penale tradizionale disegnata
dal d.lgs. 150/2022 pare supporre una vera e propria svolta culturale. Al contempo, la possibilità di tale
convergenza fra due modelli di giustizia penale spesso pensati come antagonisti, solleva la questione di quale
sia l’orizzonte teoretico in cui si inscrive questa loro relazione e quali ne siano le condizioni di possibilità. Per
fare chiarezza su questi aspetti, che traspaiono nel testo licenziato dal legislatore, il contributo propone un
confronto con il plesso delle categorie hegeliane di reato, pena e giudizio, la cui portata va ben al di là della
logica retributiva.

Parole chiave: giustizia riparativa; Hegel; crimine; pena; conciliazione; retribuzione.

1. La disciplina della giustizia riparativa: alcuni nodi teoretici

In un suo recente intervento pubblicato su questa rivista, Adonella Presutti ha posto in


evidenza, con la chiarezza adamantina che le è peculiare, il tipo di relazione che il legislatore ha
delineato tra giustizia riparativa e giustizia penale tradizionale e la “svolta culturale sottintesa”1. È

*
Professore ordinario di Filosofia del diritto nell’Università di Padova, Dipartimento di Diritto Privato e Critica del
Diritto. Ha condotto studi sulla filosofia hegeliana, sull’epistemologia giuridica, sull’argomentazione giuridica e sui
rapporti tra diritto e nuove tecnologie, con particolare riguardo agli apporti delle neuroscienze.

1 Presutti (2022, 8)

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opportuno riproporre quelli che mi paiono essere gli snodi fondamentali, attinenti sia al profilo
sostanziale sia al profilo processuale, che quell’intervento ha messo in luce.
Anzitutto, evitando sia la contrapposizione sia la confusione fra due paradigmi, il d.lgs.
150/2022 ha attribuito alla giustizia riparativa “un ruolo complementare, anziché
alternativo/sostitutivo, del processo penale e della risposta sanzionatoria”2. In questo modo, la
giustizia riparativa, nel concorrere ad erodere il primato della pena detentiva, senza scalzare “le
tradizionali categorie del diritto penale”, può “contribuire alla affermazione di un nuovo modo di
prospettare la riposta al reato”3.
In secondo luogo, garantendo il diritto all’accesso generalizzato ai programmi riparativi, lo
stesso sistema processuale penale “apre un canale parallelo di operatività sempre percorribile al di
là delle intersezioni normativamente consentite e interamente soggetto alle sue regole”, al punto
tale che lo stesso processo penale, se da un lato sfrutta ai fini di economicità le opzioni della
giustizia riparativa, dall’altro “offre il proprio contributo alla giustizia riparativa, facendosi
promotore di una opportunità preordinata a soddisfare i suoi peculiari obiettivi”4.
In terzo luogo, con l’ingresso della giustizia riparativa nel sistema punitivo, viene sancita la
“coesistenza” di due modelli di riparazione, l’uno, di matrice codicistica, che “si riferisce all’offesa
intesa come bene giuridico tutelato dalla norma violata […] poggia sull’iniziativa unilaterale e
autonoma dell’autore dell’illecito”; l’altro, invece, “attiene all’offesa quale entità complessa e più
ampia rispetto al danno, poiché include, inoltre, una “componente tendenzialmente soggettiva “5.
Questi tre profili attestano dunque che tratto specifico della nuova disciplina è di comporre in
un quadro unitario aspetti non solo diversi, ma tradizionalmente visti come antitetici, facendone
emergere invece la loro complementarietà, se non addirittura la reciproca funzionalità. È evidente
che questo innesto del modello riparativo sia sui profili sostanziali sia su quelli processuali
tradizionali in tanto può non essere visto e patito come una forzatura solo in quanto fa aggio su un
aspetto strutturale, costitutivo sia della pena sia del processo penale, che già è all’opera.
Altrimenti, più che di una complementarietà si dovrebbe parlare di una radicale sostituzione o di
una contaminazione.
In questa prospettiva, allora, la vera svolta dal punto di vista culturale non sta tanto nella
previsione di nuovi strumenti di risposta al reato, ma semmai nel portare allo scoperto il principio
che li accomuna all’impianto tradizionale. La sfida più grande, da un punto di vista teoretico, sta
proprio nel mostrare come la categoria stessa della penalità – e del processo penale – renda

2 Presutti (2022, 9)
3
Presutti (2022, 10).
4
Presutti (2022, 9–10).
5
Presutti (2022, 7).

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possibile la presenza sia degli strumenti repressivo-punitivi tradizionali, sia del modello
riparativo.
Del resto, è il testo stesso della nuova disciplina a indurre a percorrere questa via. L’art. 42 d.lgs
150/2022, dopo avere ricondotto, alla lettera a) del primo comma, la definizione della “giustizia
riparativa” alla categoria di “programma”6, determina, alla lettera c) dello stesso comma, il
significato dell’”esito riparativo” riconducendolo a quello di “accordo risultante dal programma di
giustizia riparativa, volto alla riparazione dell'offesa e idoneo a rappresentare l'avvenuto
riconoscimento reciproco e la possibilità di ricostruire la relazione tra i partecipanti”. Per contro,
all’art. 43, in cui si determinano i principi generali e gli obiettivi della giustizia riparativa, dopo
avere annoverato, alla lettera a) del primo comma, “la partecipazione attiva e volontaria della
persona indicata come autore dell'offesa e della vittima del reato e degli altri eventuali partecipanti
alla gestione degli effetti pregiudizievoli causati dall'offesa”, menziona, alla lettera c), il “il
consenso alla partecipazione ai programmi di giustizia riparativa”.
Per quanto possa apparire banale il sottolinearlo, nel consenso che è richiesto per la
partecipazione ai programmi di giustizia riparativa deve già essere all’opera un qualche tipo di
accordo: per lo meno quanto basta perché la vittima e l’autore del reato non condizionino la
propria partecipazione ai programmi alla esclusione della controparte. Anche la mera accettazione
dell’altro come compartecipe al programma, da questo punto di vista, è una prima e ineludibile
forma tanto di riconoscimento reciproco quanto di ricostruzione della relazione.
In altri termini, nel relegare la giustizia riparativa alla forma di un programma che conduce ad
un esito, il legislatore lascia in ombra ciò che costituisce la condizione che sin da principio rende
tale programma possibile, ossia il fatto che una forma di riconoscimento e di accordo sia già
presente. La questione non è di poco conto, perché consente di pensare alla riparazione non solo
come esito, ma come principio e condizione del processo che viene a dispiegarsi, attraverso il
coinvolgimento dei vari attori, tra cui il mediatore.
In questo modo, la sfida aperta dal d.lgs. 150/2022 si fa dunque alquanto complessa e articolata.
Non si tratta infatti solo di esaminare fino a che punto il principio che accomuna l’impianto
tradizionale della giustizia penale sostanziale e procedurale con le istanze riparatorie si radichi
nella necessità di rispondere al reato, ma di mostrare anche se e in che modo esso sia riconducibile
ad una relazione di riconoscimento che è già preliminarmente attiva e operante.
All’insegna di queste istanze, intendo riprendere qui quelle che, a mio avviso, costituiscono le
linee portanti della trattazione hegeliana delle nozioni di pena e di processo: se nessuno, infatti,

6
“Giustizia riparativa: ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come
autore dell'offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo
consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l'aiuto di un terzo
imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore”.

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più di Hegel, ha connesso in modo strutturale la possibilità di darsi del diritto e dei suoi diversi
istituti alla nozione di riconoscimento, egli ha anche espressamente connesso la celebrazione del
processo penale e l’irrogazione della sanzione alla nozione di conciliazione7.

2. Hegel retribuzionista

Secondo un’immagine piuttosto diffusa, basata su precisi riscontri testuali, la teoria hegeliana
della pena è riconducibile ad alcuni passaggi elementari. La pena scaturirebbe in modo necessario
e giusto dalla struttura logica dell’azione criminale, che è un’azione in se stessa contraddittoria e
perciò nulla. Il criminale, infatti, è un soggetto razionale, cioè un individuo che, nel suo agire, si
orienta secondo principi universali. Commettendo un reato (ad esempio uccidendo) affermerebbe
la validità universale, oggettiva, di una massima soggettiva (è lecito uccidere). La contraddittorietà
di questa massima starebbe nel fatto che, in tal modo, – come si legge negli appunti di uno degli
studenti di Hegel – il criminale “pronuncia il suo stesso verdetto di morte”8, ovvero stabilisce che
nemmeno la sua vita sia da rispettare.
La pena come “retribuzione” manifesterebbe così la nullità del crimine come contraddittorietà,
cioè l’impossibilità per l’azione criminale di venire sussunta sotto la sua stessa massima, ovvero
l’impossibilità di valere universalmente, come essa pretende, a meno di annullarsi. Ritorcendo sul

7
Il presente contributo riprende, con gli opportuni aggiustamenti, le tesi sostenute in Fuselli (2001). A
scanso di equivoci, è opportuno precisare che non intendo minimamente “arruolare” Hegel fra i sostenitori
della giustizia riparativa, nemmeno nella apparentemente comoda categoria dei “precursori”. Hegel è
lontano da una tale prospettiva: su questo, è (forse fin troppo) categorico il giudizio di Siep (2017). Nelle sue
pagine, ad esempio, non pare esserci pressoché alcuna attenzione per la vittima, se non come destinatario di
un indennizzo civilistico – Hegel (1996, §. 98; 1987b, 88) – o come membro del corpo sociale in cui vengono
colpiti tutti – Hegel (1996, § 218; 1987b, 176). Tuttavia, questa almeno la prospettiva di queste pagine, credo
che la sua trattazione del crimine e della pena offra una serie di strumenti concettuali che, nell’intento di
dare una fondazione filosofica alla pena, possono contribuire allo sforzo di ripensarla in termini riparativi. In
altre parole, mi propongo di mostrare come Hegel, proprio pensando fino in fondo i concetti di delitto e di
pena depositatisi nel corso di una lunga tradizione, ne abbia portato a compimento anche le possibilità e ne
abbia mostrato i limiti, apparecchiando così il terreno per un loro ripensamento. Se è vero che “la filosofia
giunge sempre troppo tardi”, perché come “pensiero del mondo essa appare soltanto dopo che la realtà ha
compiuto il suo processo di formazione e s’è bell’e assestata”, allora quando essa “dipinge il suo grigio su
grigio”, “una figura della vita è invecchiata”, ed è il momento che ne sorga una nuova – Hegel (1996, 27–28;
1987b, 17).
Con Hegel, dunque, per andare anche oltre Hegel.
8
„[…] damit aber spricht er sich sein Todesurtheil selbst aus.“, Hegel (2015a, 858).

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delinquente il principio da lui stesso posto, la pena sortirebbe un duplice effetto: da un lato
riaffermerebbe la validità del diritto che il delinquente aveva leso – è il noto argomento della pena
come “lesione della lesione”9, – dall’altro onorerebbe la razionalità del delinquente in quanto erige
la sua massima soggettiva a legge universale.
In generale, date queste premesse, proporre un confronto con la teoria hegeliana della pena
potrebbe sembrare essere un’inutile fatica. Infatti, le risposte che Hegel sembra fornire al grave
problema del “perché punire?” hanno tutto il sapore di un vano esercizio formalistico.
I limiti dello schema argomentativo ora menzionato, che sembrerebbe richiamare la
giustificazione kantiana dello jus talionis10, sono ben visibili. Le critiche a cui essi hanno dato luogo
possono esser brevemente riassunte seguendo l’efficace esposizione di Seelmann11.
L’intera costruzione hegeliana si orienta ad una universalità priva di contraddizioni: perciò ogni
massima che pretenda di valere universalmente deve mostrare di non essere contraddittoria
qualora venga di fatto elevata a principio universale. Se il delinquente – ad esempio un ladro – in
quanto essere razionale, accetta il carattere della non contraddittorietà della massima universale,
allora, per non cadere in contraddizione, deve ammettere che, non solo la proprietà altrui, ma
anche la propria sia passibile di essere violata.
Ma, si sostiene, da questa argomentazione logica, non deriva affatto una giustificazione della
pena nei termini previsti da Hegel. Resta infatti ancora da dimostrare come dalla necessità logica
di evitare le contraddizioni si possa desumere una norma di comportamento, passando senza
soluzione di continuità dal piano logico-formale a quello etico-pratico. Tanto più difficile diventa
inoltre comprendere perché ritorcere sul delinquente la sua stessa massima sia ristabilire il diritto:
reagire alla irrazionalità con l’irrazionalità non serve a ristabilire la razionalità.
Accanto a questo genere di obiezioni, si possono inoltre ricordare quelle mosse in merito alla
tesi hegeliana secondo cui la pena – che onora la razionalità del reo12 perché lo sussume sotto la
sua stessa massima – è “un diritto posto nel delinquente stesso, cioè entro la sua volontà essenteci”13.
Infatti, definire la pena come un diritto è quanto meno equivoco: sarebbe un diritto a cui il
delinquente rinuncerebbe volentieri, a meno che non lo si intenda come un diritto di cui il titolare
non è il reo, ma lo stato, che quindi è il soggetto legittimato a punire. Oppure, tale espressione

9
Hegel (1996, §. 101; 1987b, 90).
10
Sul problema del rapporto tra la concezione penale di Hegel e di Kant cfr. Schild (1984); Tunik (1992, cap.
3); Seelmann (1995, 81-97;123-37;) Becchi (2011); Bown (2016).
11
Cfr. Seelmann (1995, 63–79).
12
Su questo tema si vedano i lavori di Deigh (1984); Fœssel (2003); Seelmann (2014); Tortorella (2021).
13
Hegel (1996, §. 100; 1987b, 89).

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potrebbe essere spiegata interpretando la pena come diritto del reo alla rieducazione, possibile
proprio perché è un essere razionale14.

3. Pena e società civile

Queste critiche, mosse da filosofi e giuristi di diversa tradizione culturale, assumono come loro
base di partenza i §§ 90-103 che Hegel dedica al tema Coercizione e delitto, ovvero l’ultima sezione
di quella parte dei Lineamenti intitolata Il diritto astratto. Questo non è tuttavia l’unico luogo
sistematico dei Lineamenti dove Hegel affronta il tema del crimine e della pena. Come noto, infatti,
egli ritorna su tali questioni nella sezione dell’Eticità dedicata alla Società civile, e precisamente in
quelli dedicati al tema dell’Esserci della legge (in particolare il § 218) e del Giudizio (in particolare il §
220).
Qui Hegel afferma che, attraverso l’azione del tribunale, la risposta al delitto “cessa d’essere il
contraccambio soltanto soggettivo e accidentale attraverso la vendetta e si muta nella verace
conciliazione del diritto con se stesso, in pena”15. Anzi, proprio perché non è più rimessa
all’esercizio di una volontà soggettiva, ma a un organo istituzionale che agisce sulla base di una
legge positiva, la pena viene a configurarsi come una doppia riconciliazione. Dal lato oggettivo,
essa interessa “la legge, che col togliere il delitto ristabilisce e con ciò realizza come valida se stessa”.
Dal lato soggettivo, essa interessa il delinquente “come conciliazione della sua legge da lui saputa e
valida per lui e a sua protezione, nella cui esecuzione in lui egli quindi addirittura trova
l’appagamento della sua giustizia, soltanto il compimento di stava in lui compiere”16.
Da un lato, si può ritenere che egli non faccia che ribadire qui lo schema retribuzionistico,
istituzionalizzandolo. Nel Diritto astratto la reazione al crimine è vista come risposta soltanto
soggettiva, privata e arbitraria o discrezionale, sia nelle modalità del suo esercizio sia nella sua
effettività sia nella sua efficacia. La vendetta, infatti, lungi dal porre fine al crimine e ristabilire il
diritto, non fa che innescare un processo di ritorsioni reciproche potenzialmente infinito. Per
questo, la retribuzione vendicatrice risulta essere giusta nel suo contenuto concettuale, ma
inadeguata rispetto alla sua forma. Nella Società civile, invece, ad agire non sono più i privati, ma la
pubblica autorità, sulla base di leggi penali sostanziali e procedurali positive. Non è un caso che
Hegel collochi la trattazione della pena entro la sezione denominata Il giudizio (Das Gericht): la
risposta appropriata al crimine non ha più nulla di privato, di particolare. Perciò, da un lato, non vi è

14
Sulla particolare linea interpretativa elaborata in ambito anglosassone si vedano i lavori di Primoratz
(1980; 1986, 29:83–93) e, per una critica, Rizzi (1988) e Merle (2003).
15
Hegel (1996, § 220; 1987b, 177).
16
Hegel 1996, § 220; 1987b, 178).

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più un protrarsi all’infinito della catena delle vendette, perché la pena irrogata mette un punto
fermo rispetto alla vicenda delittuosa, secondo criteri certi, tassativi e noti a tutti i membri della
società. Dall’altro il reo, proprio attraverso la pena stabilita per legge e irrogata a seguito di un
processo, sa di non essere esposto alla furia cieca della violenza vendicatrice, ma di essere
giudicato in base a regole che valgono per tutti, quindi anche per lui stesso, e può a tutti gli effetti
considerarsi pari a tutti gli altri membri della società, con gli stessi diritti e doveri.
Tuttavia, questo tipo di spiegazione sembra trascurare almeno due aspetti, che sono essenziali
nell’ottica sistematica hegeliana. Da un lato, infatti, non viene preso in considerazione il profondo
dislivello concettuale che sussiste fra le categorie del Diritto astratto e quelle dell’Eticità. Dall’altro
lato, pare trascurata la complessità del concetto hegeliano di conciliazione (Versöhnung)17. Diversi
studiosi hanno messo a fuoco questi aspetti e ciò ha condotto, nelle ultime decadi, a una profonda
rivisitazione della teoria hegeliana del crimine e della pena, al punto da fare di Hegel un
sostenitore sia di una concezione di tipo preventivo18 sia risocializzante19 sia il teorico di una
visione integrata20 della pena. Vediamo brevemente perché, cominciando proprio dalla nozione di
conciliazione.

4. Conciliazione e destino

Agli studiosi è noto che Hegel iniziò a confrontarsi coma il tema della conciliazione molto
presto. Ancora durante i suoi studi universitari, il giovane Hegel – riflettendo sulla filosofia
kantiana – si chiedeva come fosse possibile conciliare la pluralità delle inclinazioni, delle passioni,
degli interessi con il rigore della legge morale21.
La conciliazione fra passioni sensibili e legge morale costituisce un problema, perché impegna a
trovare una composizione fra istanze opposte. La sensibilità è infatti caratterizzata da molteplicità,
pluralità, differenza, accidentalità, è condizionabile e individualistica; la legge morale è invece
razionale, unica, universale, sempre identica a se stessa in ogni tempo e luogo. Da un lato, quindi,

17
Sul valore ‘epocale’ della nozione di conciliazione nei Lineamenti, cfr. Rózsa (2005, 103–261).
18
Seelmann (1995, 70–79). Per una critica Lesch (1999, 84–89).
19
Merle (2003); Moccia (1984).
20
Becchi (2007); Brooks (2012, 2017); Mohr (1997).
21
Cfr. ad es. Hegel (1989, 1:84–85; 1993, 1:173–74).

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abbiamo una pluralità riottosa a qualsiasi unificazione, dall’altro un’unità che astrae da ogni
differenza22.
Secondo Hegel, fin tanto che l’unità fra i due opposti viene concepita in termini di astratta
identità, di annullamento delle differenze, non vi sarà mai vera conciliazione. Laddove infatti
l’universale – la legge – sussuma sotto di sé il particolare, astraendo dalla pluralità che lo
caratterizza costitutivamente (interessi, passioni, circostanze) per trarne una regola unica, valida in
ogni tempo e luogo, non fa che ridurlo a qualcosa di altrettanto astratto, uniforme e
indifferenziato; laddove invece sia il particolare a prevalere, l’universale viene adattato agli
interessi di volta in volta in gioco, rischiando di diventare lo strumento di legittimazione di chi ne
agita il vessillo e pretende per le proprie azioni e i propri scopi una validità assoluta23.
Piuttosto, per approdare ad una vera conciliazione, ad una ricomposizione dell’opposizione si
rende necessario concepire una diversa forma di unità, una unità che non annulli la differenza fra
gli opposti, ma anzi la mantenga; una unità che non tema di confrontarsi con quella che, agli occhi
di un astratto intellettualismo, appare come una contraddizione (se c’è unità non c’è molteplicità e
viceversa), ma che anzi se ne faccia carico e la accolga in sé.
La connessione di queste istanze con la giustizia penale viene esplicitata da Hegel stesso, il
quale, in un suo scritto francofortese, affronta proprio il tema del rapporto tra legge positiva,
delitto e pena24. Fin tanto che ci si mantiene in un ambito puramente legalistico, sostiene, “allora
non è possibile nessuna riconciliazione, neanche col sottostare alla pena; la legge è sì soddisfatta,
giacché è superata (…) l’eccezione che il colpevole voleva fare all’universalità della legge. Ma il
colpevole non si è riconciliato con la legge”25. La legge, infatti, “quando ha trattato il colpevole
nello stesso modo in cui egli ha agito, lo lascia bensì andare, ma si ritira in un’attitudine
minacciosa”26.
La pena perciò è insufficiente a ricomporre il rapporto spezzato dal delitto: “Così, se la
punizione dovesse esser considerata solo come un qualcosa di assoluto, se non sottostesse a
nessuna condizione e non avesse nessun lato per cui essa e la sua condizione potessero essere

22
Cfr. Hegel (1989, 1:219; 1993, 1:344): “Così come non si può servire con uguale zelo a due padroni, così il
servizio di Dio e della ragione è inconciliabile con il servizio dei sensi: l’uno dei due esclude l’altro, oppure
sorge un funesto ed impotente oscillare qua e là tra i due”.
23
“Per il particolare (impulsi, inclinazioni, amore patologico, sensibilità o come altro si voglia chiamare)
l’universale è sempre e necessariamente elemento esterno e oggettivo”, Hegel (1966, 266; 1972, 378).
24
Una ricostruzione storico-genetica della trattazione hegeliana della pena è presente in Flechtheim (1975);
Primoratz (1986).
25
Hegel (1966, 278–79; 1972, 391).
26
Hegel ( 1966, 279; 1972, 391).

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subordinate ad una più alta sfera, non vi sarebbe allora nessun ritorno all’unità della coscienza (…)
nessun superamento della punizione”27.
Quindi, anche per il giovane Hegel la punizione come retribuzione, anche se legalmente
giustificata, in quanto “ha la figura dell’atto che ha contraddetto la legge”28, non è tuttavia capace
di produrre conciliazione, né tra la legge e il reo, né del reo con se stesso: “la punizione subita non
cambia nulla. Infatti il colpevole si vede sempre come colpevole, non ha nessun potere sulla sua
azione in quanto realtà”29.
Laddove la legge positiva sia eretta ad universale assoluto, non è possibile alcuna conciliazione
fra essa e la volontà dell’individuo, del reo. I due termini restano l’uno esterno all’altro e qualsiasi
tentativo di porli in rapporto non fa che riprodurre questa loro reciproca esteriorità ed ostilità, per
cui l’azione dell’uno sull’altro sarà sempre e solo un’azione violenta, coercitiva e lesiva.
È Hegel stesso ad indicare una via di superamento di questa aporia. La legge positiva stessa
deve essere subordinata ad una più alta sfera, che ne costituisce la condizione di possibilità, il
senso ultimo, il suo principio e il suo fine, in una parola il suo destino.
Se la legge positiva e la volontà del reo non sono più due entità assolute, contraddicentesi e
annullantesi a vicenda, ma sono riconosciute come due diverse manifestazioni di una superiore
unità che le contiene entrambe, la loro conciliazione è possibile. Entrambe ritrovano il loro comune
fondamento, le condizioni del loro darsi e il senso della loro opposizione in una unità più alta, la
quale si rivela essere il loro destino, ovvero non solo il principio che le regge e ne governa il corso,
ma anche la regola che ne esplicita inesorabilmente i limiti, che rende evidente la loro non
assolutezza, la relatività delle loro pretese.
Questa sfera superiore che Hegel, in questa fase del suo pensiero, designa come vita è anteriore
sia alla legge positiva, sia al reato e li fonda entrambi, rendendo così possibile la loro conciliazione.
Quando infatti il reo riconosce nella punizione il proprio destino, non vi vede più una forza
estranea e minacciosa, ma “riconosce la sua propria vita”30. Non solo il crimine è una lesione
inferta alla vita – quindi un atto violento mediante cui il criminale pretende di dare valore assoluto
alle proprie pretese e nega il tessuto relazionale in cui, come vivente, è immerso –, ma la legge
stessa appare incapace di manifestare la ricchezza della vita e riduce tutto, a sua volta, a meri
rapporti di forza31.

27
Hegel (1966, 279; 1972, 392).
28
Hegel (1966, 280; 1972, 392).
29
Hegel (1966, 279; 1972, 391).
30
Hegel (1966, 282; 1972, 395).
31
“Nella punizione come destino la legge è posteriore alla vita e vi sta più in basso: essa è solo una lacuna di
vita, una deficienza di vita che si presenta come forza”, Hegel (1966, 282; 1972, 394).

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Il destino, quindi, è la manifestazione della unilateralità tanto della legge positiva quanto della
volontà del reo, perciò è la negazione della loro pretesa assolutezza. Proprio questo rende possibile
la riconciliazione: la riconciliazione che viene messa in atto dal destino, nell’esperienza della pena,
non è dunque “la distruzione o la sottomissione di un elemento estraneo”32, ma è piuttosto un
ritrovare se stessa della vita, in ciascuna delle sue manifestazioni, anche in quelle che appaiono
contrastarla e contraddirla33. La conciliazione ha una duplice direzione: non solo riconcilia fra di sé
gli opposti della legge e della volontà del reo, ma li riconcilia con il loro principio, fa sì che il loro
principio – quello che Hegel chiama vita – si ricongiunga con sé anche laddove veniva negato e
violato, ridotto a qualcosa di parziale, di astratto.
Quindi, la prima condizione perché vi sia una reale conciliazione sta nel ricondurre le opposte
pretese al loro fondamento comune, del quale sono entrambe delle unilateralizzazioni, delle
determinazioni particolari e, perciò, relative, non assolute. Si tratta di un atto di negazione nei
confronti di entrambi gli opposti: viene negato che essi possano sussistere per sé, separatamente34.
La continuità tra questa intuizione giovanile quanto proposto nei Lineamenti è abbastanza
evidente. Come si è visto, nei Lineamenti Hegel presenta due lati della conciliazione, uno oggettivo
e uno soggettivo: ciò che li accomuna è di essere entrambi il superamento di una. Al contempo ne
sono evidenti anche le discontinuità, prima fra tutte, forse, quella fra i due diversi ambiti pratici sui
quali pare focalizzarsi l’interesse hegeliano. Mentre negli scritti giovanili il problema è interno ad
una teoria della morale, nei Lineamenti l’ambito è invece quello del diritto35, anche se di un modo
di pensare il diritto quantomai lontano dalla sensibilità e dalla prospettiva di un giurista36.
Vi è però un aspetto che non può essere affatto trascurato e che contribuisce non poco a metter
in discussione l’idea che per Hegel il fondamento della pena sia di tipo retributivo. Della
conciliazione alla retribuzione manca proprio quell’aspetto per cui nessuno dei termini opposti
può erigersi ad assoluto: entrambi, cioè, in tanto possono istituire un rapporto che tenga assieme
l’unità e la molteplicità, l’universale e il particolare, solo in quanto entrambi si riconoscano come
termini di una relazione che li domina e li sovrasta entrambi, cioè come parti che, proprio in quella
relazione e in quella superiore unità, hanno la loro ragion d’essere.37
La retributività, come tale, non è esaustiva di ciò che la pena propriamente è non solo per il fatto
che Hegel stesso menziona tutta una serie di altre finalità, prevenzione, sicurezza sociale,

32
Hegel (1966, 282; 1972, 395).
33
“Quel che è contraddittorio nel regno della morte non lo è nel regno della vita”, Hegel (1966, 308; 1972,
420).
34
Siep (2017).
35
Becchi (2007).
36
Schild (2011).
37
Questo è. Il motivo per cui non concordo con Becchi (2007, 89–111).

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risocializzazione, emenda38, ma perché manca proprio di quell’aspetto che nell’immagine


giovanile è affidato al destino. Mentre infatti nella dinamica della retribuzione la connessione fra gli
opposti ha la forma di un atto lesivo dell’identità dell’uno o dell’altro, la conciliazione richiede che
le due opposte istanze vengano condotte a superare la propria particolarità. Ogni termine della
relazione ritrova, in quel limite che lo costituisce, il principio dell’unità con il proprio opposto.

5. Il diritto e le sue articolazioni

Il secondo aspetto che deve essere tenuto in considerazione è il diverso luogo sistematico in cui
Hegel discute dei concetti di crimine e di pena. Come è stato notato, infatti, Hegel è un pensatore
“topologico”39: i concetti di cui si serve, cioè, acquistano un significato diverso e un diverso
spessore teoretico a seconda del contesto sistematico in cui sono inseriti. Ciò che più conta, però, è
che Hegel affronta il tema della pena, del perché punire, alla luce non tanto dei fini della pena, ma
interrogandosi sul suo concetto, ossia su ciò che la pena è. Questa indagine è possibile e intanto ha
senso soltanto in quanto la pena viene pensata come una determinazione di ciò che, a suo giudizio,
il diritto stesso è, il concetto di diritto nelle sue articolazioni.
Nella sua generalità, il diritto è, per il filosofo di Stoccarda, “esserci [Dasein] della volontà
libera”40, ovvero quella dimensione nella quale la volontà si dà esistenza liberamente, in maniera
non soltanto istintiva o arbitraria. La volontà di cui Hegel qui parla, non è la semplice appetizione,
il semplice impulso, ma una volontà che è tutt’uno con l’intelligenza. L’idea che possa sussistere
una volontà separata dall’intelligenza è per Hegel un’astrazione41. L’esistenza della libertà è
costitutivamente caratterizzata dalla presenza dell’alterità. Ciò significa che l’altro, il diverso,
l’opposto non è un elemento estraneo, ma si radica nell’essenza stessa della libertà. Com’è noto,
Hegel ripartisce Lineamenti in Diritto astratto, Moralità ed Eticità. Questo non è un artificio
espositivo, né un’operazione arbitraria, ma affonda le sue radici nel concetto stesso del diritto42.
La volontà libera esiste, infatti, secondo Hegel, anzitutto nella forma di un rapporto con se
stessa: l’esistenza, il Dasein, della volontà libera consiste nell’essere “come cosa stante di fronte a
sé”43. La relazione è duplice: da un lato la volontà ha a che fare sempre con sé, si rapporta sempre

38
Mettono in discussione il retribuzionismo hegeliano Schild (1979); Merle (2003); Schild (2004); Brooks
(2004; 2012; 2017); Tortorella (2021); Cabrera (2022).
39
Verra (1992, 7–9).
40
Hegel (1996, § 29; 1987b, 42).
41
Cfr. Hegel (1996, §§. 4 An; 5 An; 1987b, 27–29) e Hegel (1817, § 368; 1987a, 219–21).
42
Cfr. Peperzak (1987) .
43
Hegel (1996, § 23; 1987b, 39).

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a se stessa; dall’altro, però, questo sé con cui sempre si rapporta ha la forma di un’esistenza
esteriore, ovvero di un qualcosa – ad esempio un’altra volontà – ad essa contrapposto. Sin dal suo
inizio, pertanto, la sfera del diritto è caratterizzata da questa tensione, da questo rapporto tra
termini che, pur mostrandosi diversi o addirittura opposti, hanno la stessa origine.
Ora, che l’ambito proprio del diritto sia questa intersoggettività, questo rapporto tra volontà
diverse, non è certo cosa nuova nella storia del pensiero giuridico e politico, anzi sta alla base di
tutte le teorie contrattualiste. Il punto saliente del tentativo hegeliano, che lo distingue
profondamente da ogni ipotesi contrattualistica, sta piuttosto nel fondare tale intersoggettività
nella struttura stessa della volontà libera.
Secondo Hegel, infatti, il rapporto tra diverse volontà, tra le volontà di diversi individui, è
possibile soltanto se si radica nell’essenza stessa della volontà. La volontà è nella sua natura
l’istituzione di un rapporto, perché la sua esistenza consiste nell’avere a che fare con sé come con
qualcosa che le sta di fronte, che le si contrappone. Nel diritto in generale quella alterità che è
costitutiva della volontà libera si manifesta proprio nella insopprimibilità di questa tensione.
La conformazione logica della volontà libera che si dà esistenza è pertanto quella di una unità
(la relazione a sé) che implica necessariamente la compresenza della molteplicità e della differenza
(lo stare di fronte a sé). La volontà di ogni singolo individuo può realizzarsi liberamente solo nella
relazione con le altre volontà, perché l’essenza della volontà è di contrapporsi a se stessa e, in tale
contrapposizione, ritrovare costantemente l’unità con sé, riconoscere se stessa anche in ciò che le sta
di fronte come qualcosa d’altro, di diverso o addirittura di opposto44.
Riconoscere sé in ciò che è posto come altro, quindi ricomporre l’unità anche laddove si danno
molteplicità e differenza, significa ammettere che tanto l’unità, quanto la molteplicità rampollano
da una comune radice, che le comprende e le preserva entrambe perché non è a sua volta una unità
indifferenziata. Se la volontà libera è già in sé il suo distinguersi da se stessa, il suo differenziarsi
da sé, allora l’altro, il molteplice, non è qualcosa che sopraggiunge dall’esterno a limitare la
volontà, ma è un momento del suo stesso libero e autonomo realizzarsi. L’alterità è costitutiva
dell’essenza della libertà, ovvero di ciò in cui la libertà si identifica; pertanto l’altro, il diverso, non
solo non può venire soppresso, ma non può nemmeno essere considerato un elemento estraneo,
separato e separabile da ciò che la libera volontà è.
Questa intersoggettivà originaria della libertà fa sì che la condizione in virtù della quale la
volontà di ogni singolo individuo esiste è che essa sia in grado di riconoscersi nelle volontà altrui e

44
Sul tema cfr. Siep (2007; 2010); Quante (2011; 2016). Non sono d’accordo con Seelmann (1995, 15–18; 71–72)
che, mi sembra, interpreta il rapporto di riconoscimento solo come esito di una lotta. Questo è infatti il modo
“fenomenologico” di manifestarsi della relazione di riconoscimento sui limiti logici del rapporto di
riconoscimento delineato nella Fenomenologia, cfr. Chiereghin (1994, 87–97); Siep (1992, 172–81).

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di essere da esse riconosciuta. Il diritto è così “il regno della libertà realizzata”45, in quanto in esso
vengono poste, ed esplicitate nei loro limiti, le condizioni in virtù delle quali, di volta in vola, la
volontà di ogni singolo individuo può essere riconosciuta come valida anche per gli altri individui.
Autodeterminazione e riconoscimento, autonomia del volere e intersoggettività manifestano,
così, nel diritto, la loro inscindibilità: libera non è solo quella volontà che si determina da sé, ma
quella che sa ritrovare la propria libertà, se stessa, anche in ciò che non appare riducibile ad un
prodotto del suo operare, in ciò che, quindi, le si manifesta come altro e che, in qualche modo, le
resiste.
Si instaura perciò una relazione complessa. Riconoscere nell’altro la propria libertà significa
riconoscere che anche l’altro e il rapporto con esso è costitutivo della libertà stessa, è indispensabile
per il suo realizzarsi. Perciò ogni manifestazione della volontà, proprio per potersi realizzare come
libera, ha bisogno del riconoscimento: non solo di riconoscere l’altro, ma di essere a sua volta
riconosciuta dall’altro.
Questo implica che la relazione di riconoscimento abbia una struttura logica del tutto
particolare. Il riconoscimento esige che l’alterità, la differenza, venga preservata; al tempo stesso,
però, è necessario che tale differenza non impedisca di identificare la propria libertà con ciò che
appare come prodotto della volontà di un altro. Tale esigenza si manifesta sin da subito, sin dalle
prime e più immediate determinazioni del diritto: il primo imperativo giuridico è infatti “sii una
persona e rispetta gli altri come persone”46.
La partizione dei Lineamenti sopra ricordata si radica in questo concetto del diritto, in quanto
costituisce l’articolazione delle diverse modalità in cui la libera volontà manifesta la sua capacità di
valere universalmente. Ognuna delle parti in cui Hegel suddivide la trattazione è una sorta di
genere comune, che fornisce la forma della relazione mediante la quale e all’interno della quale la
volontà, dandosi esistenza, realizza il rapporto di riconoscimento. Così, molto sommariamente, nel
Diritto astratto sono raccolte le forme in cui la volontà si dà esistenza universale in modo immediato,
La moralità raggruppa le forme in cui la stessa volontà si riflette dentro di sé, mentre L’eticità mostra
l’inseparabilità dei primi due momenti nella realizzazione della libertà47.

6. Diritto astratto ed Eticità

45
Hegel (1996, § 4; 1987b, 27).
46
Hegel (1996, §. 36; 1987b, 48).
47
Hegel (1996, § 33; 1987b, 45–46).

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Nel Diritto astratto la volontà libera esiste nel modo della immediatezza48. In generale,
l’esistenza della libertà si manifesta nella capacità che la volontà ha di porsi in relazione con
qualcosa che è altro da sé – esterno – e con il quale tuttavia si identifica. Il primo e più immediato
modo in cui ciò si realizza è, secondo Hegel, la relazione di proprietà precontrattuale. Nella
proprietà la persona dà alla propria infinita libertà una esistenza determinata, in quanto pone
qualcosa di differenziato, immediatamente diverso e separabile dalla propria volontà, come identico con
sé49.
Il termine “astratto”, che connota qui il diritto, pertanto non va inteso come sinonimo di
“soltanto teorico”, di “non pratico”, “non reale”. Sta piuttosto ad indicare il carattere che
accomuna tutta una serie di istituti o figure giuridiche presenti, operanti e “reali”, con le quali
quotidianamente si ha a che fare: scambi, contratti, frodi, illeciti, reati.
La loro astrattezza è data dal fatto che, in ciascuna delle relazioni che qui hanno luogo, due
termini, esterni l’uno all’altro, vengono identificati, senza che tuttavia ciò faccia venire meno la
loro originaria separabilità. L’unità fra i due è asserita, senza che possa essere altrimenti fondata e
giustificata, se non come prodotto dell’azione di un termine sull’altro, che a tale azione soggiace.
Nella sfera del diritto astratto si ha a che fare con delle determinazioni puramente esteriori della
volontà e della libertà: la libertà delle “persone” è identificata con la possibilità di possedere cose,
di scambiarle, venderle, comprarle, di stipulare contratti. Anche i rapporti tra le “persone” sono
esteriori, ovvero concernono le loro “proprietà”.
I rapporti che intercorrono nel diritto astratto sono regolati dal criterio della equivalenza e della
simmetria che rende tutti gli attori persone che si riconoscono e rispettano solo in quanto hanno
questo carattere. Per questo, in tale sfera, ledere la proprietà – e in questo contesto tra le proprietà
vanno annoverate anche il corpo o la vita50 – significa ledere il diritto come tale: significa ledere,
infatti, il principio stesso su cui si fonda la possibilità della volontà di riconoscersi e di essere
riconosciuta come esistente e come libera: ovvero che la persona possa identificarsi con delle “cose”
esteriori, con delle “proprietà”, appunto.
Nell’Eticità non si ha più a che fare con “persone”, cioè con delle volontà esistenti solo se e in
quanto legate a cose esterne in un quadro di perfetta simmetria; né si ha a che fare – come nella
“Moralità” – con dei “soggetti”51, cioè con una volontà proiettata intimisticamente su se stessa,
tutta tesa a non macchiare la bontà dei propri propositi, a costo addirittura di condannarsi
all’inazione e alla paralisi. Nell’Eticità si ha a che fare con degli “individui”52, cioè con una volontà

48
Bartuschat (1987).
49
Hegel (1996, § 41; 1987b, 51).
50
Hegel (1996, § 40 An; 1987b, 50).
51
Hegel (1996, §§. 105–106; 1987b, 94).
52
Hegel (1996, § 148): “Individuum” è il vocabolo usato da Hegel.

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che sa l’indisgiungibilità della propria libertà - della propria capacità di autodeterminarsi -


dall’ambito in cui essa si manifesta e si attua.
Ciò configura una forma di relazionalità diversa da quella del diritto astratto. Nell’Eticità, il
fatto che gli individui siano in relazione non è solo il teatro esterno dell’agire, né è il prodotto
dell’incontro/scontro tra le opposte pretese di più volontà che si identificano con un medesimo
oggetto, ma è il principio e il contenuto stesso di ogni singola azione.
Ogni singola azione è qui una determinazione, una particolarizzazione di quella sostanza
universale costituita dalla interrelazionalità degli individui. L’individuo è tale perché in ciò che fa,
quindi, nelle sue volizioni, nei suoi fini, nei mezzi che impiega, ma anche negli effetti che produce,
nel contesto in cui opera, non si separa mai da se stesso, dal principio della propria libertà. Ecco
allora che l’eticità viene a costituire una “seconda natura” degli individui, che li pervade e li anima,
dando significato e realtà al loro esserci53. L’eticità è quindi la sfera in cui l’individuo viene
compreso, in ogni sua determinazione, in unità indivisibile con il suo principio universale.
Come noto, la sezione Eticità si articola, per Hegel, nei tre momenti della famiglia, della società
civile e dello stato. La caratteristica della società civile, all’interno della cui trattazione si collocano i
paragrafi che ci interessano, è data dal fatto che tale necessaria interconnessione è rimessa alla
presenza di un terzo, che mantiene una certa esteriorità rispetto ai soggetti di cui regola i rapporti.
Gli individui sono infatti necessariamente relati l’uno all’altro dai loro bisogni, regolamentati e
tutelati mediante una costituzione giuridica, ad opera di un ordinamento che è diverso, altro, rispetto
agli interessi che tutela54. La società civile, quindi, è animata da questa tensione, fra il permanere
della particolarità degli interessi dei singoli, da un lato, e la consapevolezza che essi si radicano in
un tessuto più ampio che li tutela e salvaguarda le condizioni per il loro armonizzarsi e il loro
compiuto realizzarsi, dall’altro.
Quei rapporti giuridici che erano già emersi nel diritto astratto vengono ora codificati e posti
come leggi, vincolanti non solo per i cittadini, ma anche per l’ordinamento, il quale deve renderle
note, pubblicarle, difenderle, farle vigere: in una espressione, deve amministrare la giustizia.
Ogni atto criminale, pertanto, non resta un alcunché di isolato, ma scuote l’intera rete di
relazioni e di rapporti di cui la società civile si sostanzia. Il reato non è un danno che intercorre in
una relazione fra privati, ma è una lesione inferta all’intero corpo sociale nella concretezza della
vittima. Se il cittadino è colui che si sa calato in un contesto di leggi che lo tutelano, ogni singola

53
Hegel (1996, § 151; 1987b, 137).
54
Hegel (1996, § 157; 1987b, 139). Su ciò cfr. von Bogdandy (1989, 63–117).

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violazione costituisce per lui una messa in pericolo dell’intero ordinamento e della sua effettiva
capacità di difendere il tessuto dei rapporti intersoggettivi e della convivenza55.

7. Nullità, manifestazione, superamento

Tanto nel Diritto astratto quanto nell’Eticità, il crimine è per Hegel una lesione del diritto in in
quanto diritto, e, per questo, è in se stesso nullo. Come abbiamo visto, il diritto in sé, il diritto in
quanto diritto, di volta in volta assume forme diverse, via via più complesse e articolate. Tuttavia il
crimine si caratterizza come un atto che colpisce non questo o quell’individuo, questo o
quell’assetto sociale, questa o quella legge, ma in primo luogo l’essenza stessa del diritto. In un
certo qual senso, si può dire che quello che per Hegel accomuna ogni atto criminale sta nel fatto
che la prima vittima dell’azione delittuosa è il diritto come tale.
Da quanto ricordato, non è difficile capire perché Hegel possa sostenere che il crimine è in se
stesso nullo. Il diritto, infatti, non è altro che la realizzazione della libertà. Ma la volontà libera è
una volontà che è in se stessa relazionale e intersoggettiva. L’atto criminale è una lesione di questa
relazionalità e intersoggettività del volere in cui consiste il diritto. Nel momento, infatti, in cui
viene commesso un crimine vi è una volontà che pretende di affermarsi in modo incondizionato,
spazzando via o riducendo all’insignificanza ogni forma di resistenza che la possa limitare: non
solo quella che viene esercitata dalla vittima, ma anche quella che si manifesta attraverso le norme
o i costumi.
Da questo punto di vista, l’atto criminale è violento non perché implichi necessariamente l’uso
della forza, ma perché è strutturalmente volto a sopprimere ogni forma di alterità. L’altro – l’altro
individuo, la legge, la società – è presente solo in quanto è ridotto a nulla: tutto ciò che esso è o
afferma è per il criminale un nulla (Hegel lo esprime ricorrendo alla struttura del giudizio
infinitamente negativo). Tuttavia, proprio in quanto è un atto violento, il crimine è, per Hegel, un
modo d’essere della volontà che è anzitutto lesivo di quella libertà che lo rende possibile. Se la
libertà è intersoggettività, allora la violenza è una libertà che nel suo modo di esistere rende
impossibile proprio ciò che la costituisce come volontà libera.
L’insufficienza concettuale del delitto e la sua conseguente contraddittorietà non risiedono tanto
nel fatto che il reo, con il suo gesto, istituisce una massima universale alla quale non vuole o non

55
“Nel vivente il singolare è immediatamente non come parte, bensì come organo, nel quale l’universale
come tale esiste presenzialmente, così che nell’assassinio non viene leso un pezzo di carne, come qualcosa di
singolare, sibbene ivi la vita stessa”, Hegel (1996, § 119 An; 1987b, 104–5).

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può sottostare, pena il suo annientamento. Piuttosto significa che il principio della sua azione non
riesce nemmeno a costituirsi, perché è la negazione delle condizioni di possibilità del suo darsi56.
Di qui allora anche l’esistenza della pena. La pena anzitutto viene fondata da Hegel sulla
necessità che questa intrinseca nullità dell’atto criminale venga a manifestazione e che, in tale
modo, sia resa palese la insostenibilità della violenza. Prima ancora di essere determinata circa la
sua forma, la sua struttura, la pena è mostrata nella sua intrinseca necessità. Paradossalmente,
proprio perché essa non fa altro che manifestare la nullità del crimine, la pena non aggiunge nulla
a quanto già in esso si dà, ovvero la sua stessa autodistruttività. Agli occhi di Hegel, ciò che conta
non è tanto la lesività della risposta al crimine, ma il venire alla luce, il rendersi manifesta il fatto
che la volontà criminale è una volontà che si rivolge contro se stessa: in questo senso la pena è
Wiedervergeltung57.
Tuttavia, lo schema retributivo, in virtù di cui il criminale viene sussunto sotto la sua stessa
legge, e in questo modo patisce su di sé quella stessa lesività che ha esercitato, non è che un modo,
tutt’altro che esaustivo, di determinare questa intrinseca natura della pena. Come si è visto, infatti,
nel contesto della Società civile la pena non è vista dal profilo della sua lesività ma per l’aspetto per
cui è conciliazione, non impossibilità di rapporti e relazioni, ma ricostituzione di una diversa
trama di rapporti basati sul riconoscimento. Da questo punto di vista, la lesività è del tutto
giustificata in un contesto come quello del diritto astratto, caratterizzato dalla simmetria, ma non
pare essere l’aspetto costitutivo della pena. Ciò che invece Hegel sostiene è che attraverso la pena
si realizza il superamento, la Aufhebung del crimine e, in questo modo, si riafferma la vigenza del
diritto nella sua universale concretezza. Anzi, proprio in quanto, e nella misura in cui, la pena è
manifestazione della nullità del crimine essa ne è anche il superamento.
È noto che il concetto di Aufhebung è, per il filosofo di Stoccarda, “uno dei più importanti
concetti della filosofia; è una determinazione fondamentale, che ritorna addirittura dappertutto”58.
Proprio per questa sua centralità è importante “cogliere precisamente il senso” di tale
determinazione, “distinguendola in particolar maniera dal nulla”59. Infatti “la parola togliere

56
“L’avvenuta lesione del diritto come diritto è sì un’esistenza positiva, esteriore, che però è entro di sé
un’esistenza nulla”, Hegel (1996, § 97; 1987b, 87). In questo senso anche il seguente passo dalla Nachschrift di
Griesheim: “Il delitto è contraddizione in sé, è l’annientamento dell’esserci della volontà e tuttavia la volontà
deve dare a sé esserci, essa è così l’interna contraddizione in sé”, Hegel (2015b, 238).
57
“se nella parola retribuzione [Wiedervergeltung] si potrebbe vedere la rappresentazione di un capriccio
particolare della volontà soggettiva invece va detto che essa non significa altro che il volgersi contro se stessa
della figura del delitto”, Hegel (1996, § 101 Z).
58
Hegel (1985, 21:94; 1988a, I:100).
59
Hegel (1985, 21:94–95; 1988a, I:100). Sul tema si veda Chiereghin (1996).

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(Aufheben) ha nella lingua il doppio senso, per cui val quanto conservare ritenere, e nello stesso
tempo quanto far cessare, metter fine”60.
Negare l’atto criminale, toglierlo, superarlo, non è quindi il prodursi di un nulla. Del nulla e nel
nulla non è possibile alcuna determinazione, una qualsiasi forma, una qualsiasi attività; invece il
negare è un processo che prende le mosse a partire da ciò che si intende negare.
L’attività del negare produce un risultato, ovvero la negazione del dato di partenza. Tale
risultato è così un non-essere, nel senso che ciò da cui si è partiti, ciò che si è negato, non è più.
D’altro canto, però, questo non essere non è indeterminato; il risultato non è una qualsiasi
negazione, un generico “non”, o un vuoto di forme, ma la negazione di quella cosa, di quel dato, di
quell’elemento di partenza e quindi mantiene “ancora in sé la determinatezza da cui proviene”61. Il
risultato di una negazione è perciò “esso stesso un nulla determinato e ha un contenuto”, è “il nulla
di ciò da cui risulta”62.
La negazione che viene a configurarsi nel processo di Aufhebung si presenta così come il
superamento dell’opposizione fra determinazioni che appaiono escludersi a vicenda:
negare/conservare, essere/non essere, inizio/risultato. La Aufhebung consiste anzitutto nel
mostrare che ciascuna determinazione non è autosufficiente, ovvero che il suo isolamento, la sua
distinzione e la sua separazione sono delle astrazioni e che la relazione con il suo opposto, con ciò
che, presentandosi come altro, la nega, le è essenziale. “Qualcosa è tolto (aufgehoben) solo in quanto
è entrato nella unità con il suo opposto”63.
Questo però è ancora solo un aspetto del movimento dell’Aufhebung. Lo sforzo teoretico di
Hegel sta nel cercare di mostrare che la negazione di una determinatezza è un movimento che la
anima dall’interno64. Proprio in quanto è determinata, ogni forma è già in sé la negazione di se
stessa e il suo toglimento coincide con la piena realizzazione di ciò che essa è in sé65.
Il processo di Aufhebung che governa la sfera dello spirito oggettivo - in cui si situa il diritto -
scandisce una progressiva acquisizione di consapevolezza della negatività implicita in ogni forma
determinata della libertà, in cui emerge quella negazione di sé, quel farsi altro da se stesso nel

60
Hegel (1985, 21:95; 1988a, I:100).
61
Hegel (1985, 21:95; 1988a, I:100).
62
Hegel (1980, 9:75; 1973, 71).
63
Hegel (1985, 21:95; 1988a, I:101). Sul tema dell’unità degli opposti come vera infinità cfr. Lugarini (1998,
35–79).
64
Cfr. ad es. Hegel (1996, § 31; 1987b, 43–44).
65
“La più alta maturità e grado che qualcosa può raggiungere, è là dove comincia il suo tramonto”, Hegel
(1981, 12:42; 1988b, II:692).

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proprio attuarsi e compiersi, che segna la storia dello spirito66. In questa capacità di porsi oltre se
stesso, di sapere il proprio limite e quindi la necessità del suo passare, consiste l’infinità dello
spirito, la sua assolutezza67.
Per contro, l’indice della finitezza di ogni forma determinata è dato dal patire questa
contraddizione che essa porta in sé, di essere il proprio superamento e la propria negazione:
quanto più ogni determinazione della volontà astrae dalla sua intima negatività, tanto più questa
le appare nella forma di una limitazione esteriore, di una coazione o di una necessità esterna alla
quale è destinata a soccombere. Il negativo che è insito in ogni determinazione concreta si presenta
con le fattezze di una potenza superiore e ostile che costringe ogni singola manifestazione della
libertà a fare i conti con il proprio limite costitutivo.
Nel momento in cui Hegel connette la possibilità del diritto di realizzarsi al toglimento –
Aufhebung – della lesione inferta dal crimine, addita perciò un compito arduo. Togliere la lesione
non significa infatti semplicemente annientare la volontà del reo o il danno inferto, ma piuttosto
fare emergere quell’unità in cui gli opposti vengono mostrati entrambi nella loro parzialità e nel
loro necessario collegamento.
La negazione a cui una determinazione è sottoposta, che la costringe ad uscire dalla sua
unilateralità, perviene quindi ad una unità in cui gli opposti sono entrambi superati – in quanto
determinazioni assolute, esclusive, che pretendono di valere come principi incondizionati – e sono
al contempo conservati – come determinazioni parziali di una superiore totalità che li trascende
entrambi. L’unità degli opposti non è una semplice giustapposizione, né un incontro accidentale:
essa è piuttosto quel vincolo necessario che, delimitando l’ambito di ciascuna determinazione,
riconducendola cioè all’interno di quei limiti che le sono propri, ne mostra anche le condizioni di
validità.
Da questo punto di vista tale unità si rivela al tempo stesso come il principio a partire da cui
ogni elemento si costituisce e si determina, nella relazione con il suo opposto. Mostrare la
parzialità di una determinazione significa rendere manifesta l’inconsistenza della sua pretesa di
valere come principio assoluto, unilaterale. Però, il superamento coinvolge entrambi gli opposti,
entrambe le pretese che si escludono a vicenda. Quindi il superamento dell’unilateralità della

66
“La storia dello spirito è il di lui fatto, poiché esso è soltanto ciò ch’esso fa, e il suo fatto è rendersi, e
proprio qui come spirito, oggetto della sua coscienza, interpretando apprendere sé per sé stesso. Questo
apprendere è il suo essere e principio, e il compimento di un apprendere è in pari tempo la sua alienazione e
la sua transizione”, Hegel (1996, § 343; 1987b, 265).
67
“Il sapere non conosce soltanto sé, ma anche il negativo di se stesso o il suo limite. Sapere il suo limite vuol
dire sapersi sacrificare”, Hegel (1980, 9:433; 1973, 304).

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volontà del delinquente è al contempo il superamento della pretesa unicità della volontà opposta,
sia di quella che si presenta codificata come diritto68.

8. Unità e mediazione

Si è visto che, nei suoi primi scritti, Hegel attribuisce al destino una funzione fondamentale per
la realizzazione della conciliazione. Tuttavia, se la figura del destino esplica qual è la condizione
necessaria per giungere alla riunificazione, non dice ancora nulla su come essa si presenta, sulla
struttura logica che essa deve avere. La relativizzazione degli opposti, compiuta dal destino, dice
solo che nessuno è legittimato ad annientare l’altro e che quindi la loro unità non può essere
guadagnata con la soppressione di uno di essi. Al massimo, il destino può fare insorgere nel reo la
“nostalgia per la vita perduta”69, ovvero può mostragli l’insufficienza della sua posizione,
indicandogli una meta a cui tendere.
È piuttosto in altro modo Hegel indica in modo chiaro, per la prima volta, la struttura logica di
quella superiore unità che egli ha definito vita e che sola può garantire la ricomposizione della
frattura, la conciliazione. La vita nella sua infinità, non è un’unità indistinta e indifferenziata, ma è
una unità in se stessa articolata, una unità che contiene in se stessa il proprio opposto, cioè la
divisione, la differenza, la molteplicità. Per questo, la conciliazione che ha luogo nella vita non
appare come l’imposizione di un rapporto tra elementi estranei e ostili, ma come l’esplicitazione di
una relazione che li racchiude entrambi all’interno di un principio unitario, di cui sono delle
determinazioni opposte. L’unità che viene raggiunta tra questi opposti non è perciò soltanto il
risultato di un processo, ma è il principio stesso, a partire dal quale e all’interno del quale, essi si
costituiscono e si determinano come opposti.
Riprendendo un esempio già proposto da Kant, Hegel spiega questa particolare relazione
richiamando il modello di un albero, con le sue ramificazioni. Ogni ramo è diverso da un altro
ramo e diverso anche dall’albero e purtuttavia esso è un prodotto, una specificazione dell’albero:
separato da esso, staccato dalla relazione che lo fa essere, muore, così come, per converso, muore
un albero che sia privato delle sue radici, dei suoi rami, delle sue foglie70.

68
Che la pena non sia solo costrizione, ma sia l’unità di due opposti, e perciò vero infinito, è convinzione già
espressa in Hegel (1968b, 448–49; 1962, 61–62).
69
Hegel (1966, 282; 1972, 395).
70
“Un albero con tre ramificazioni forma con queste un solo albero, ma ogni figlio dell’albero, ogni
ramificazione (anche gli altri suoi figli, cioè foglie e fiori) è esso stesso un albero; le fibre che portano la linfa
dal tronco ai rami sono della stessa natura delle radici, tanto è vero che un albero piantato alla rovescia trarrà

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Nell’organismo vivente, però, non solo gli organi sono un prodotto dell’intero organismo - e
una volta separati da esso si riducono ad un alcunché di morto - ma ogni organo è a sua volta ciò
che produce l’organismo, è ciò in virtù di cui l’organismo sussiste e vive. Pertanto nel vivente ogni
parte (l’organo, appunto) è al contempo un prodotto del tutto (dell’organismo), ma a sua volta
produce l’intero organismo, lo fa essere. La vita ha quindi questa proprietà di essere presente tutta
indivisa in ciascuna delle sue articolazioni e delle sue membra, le quali non sono solo una parte
dell’organismo, ma sono l’organismo71.
Nella vita, cioè, si istituisce una forma di relazione tale tra l’intero e le parti, per cui l’uno è al
contempo principio e prodotto degli altri: l’organismo si articola nelle sue membra, le quali sono al
contempo ciò che lo mantiene in vita. In questa relazione, quindi, ciascuno dei relati - le membra e
l’organismo - è indivisibile dagli altri, in quanto ha di volta in volta la funzione di vivificante e di
vivificato, di intero (in quanto principio) e di parte (in quanto principiato). La formulazione con cui
Hegel indica questa struttura della vita, quale unità di determinatezze opposte, è “unione di
unione e di non-unione”72.
Già da tempo gli interpreti73 hanno richiamato l’attenzione sull’origine platonica di tale
formulazione, debito che Hegel stesso, del resto, riconosce74. Essa si rifà al tema del legame
presentato nel Timeo. Com'è noto, il problema affrontato da Platone in questo dialogo è quello di
spiegare come i quattro elementi costitutivi del cosmo (terra, acqua, aria e fuoco) possano
armonizzarsi tra di loro in modo che, pur non venendo meno la loro identità, tuttavia non paiano
semplicemente giustapposti, ma si integrino reciprocamente in un tutto unitario. Platone pone la
questione in questi termini:

“Ma non è possibile che due sole cose si compongano bene senza una
terza: bisogna che in mezzo vi sia un legame che le congiunga entrambe. E
il più bello dei legami è quello che faccia, per quant’è possibile, una sola
cosa di sé e delle cose legate: ora la proporzione compie questo in modo
bellissimo. Perché quando di tre numeri o masse o potenze quali si
vogliano, il medio sta all’ultimo come il primo al medio, e d’altra parte

foglie dalle radici che si stendono all’aria e i rami si radicheranno nella terra; dunque è tanto vero dire che
qui vi è un solo albero quanto dire che vi sono tre alberi”, Hegel (1966, 309; 1972, 420–21).
71
“Ogni parte, oltre di cui vi è il tutto, è al contempo un tutto, è vita”, Hegel (1966, 307; 1972, 418).
72
Hegel (1966, 348; 1972, 475).
73
L’ascendenza platonica di tale formulazione è stata messa in rilievo da Chiereghin (1966, 11–35). Sulla sua
importanza per la concezione logico-politica di Hegel, cfr. Henrich (1982, 428–50). Sull’influenza di Platone
sul giovane Hegel cfr. anche Janicaud (1975); Düsing (1981); Goldoni (1992, 27–31).
74
Hegel (1968a, 65; 1971, 80).

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ancora il medio sta al primo, come l’ultimo al medio, allora il medio


divenendo primo e ultimo, e l’ultimo e il primo divenendo a loro volta
medi ambedue, così di necessità accadrà che tutti siano gli stessi, e divenuti
gli stessi fra loro, saranno tutti una cosa sola”75.

Di questo passo platonico, preme qui portare all’attenzione alcune caratteristiche. Anzitutto,
l’unità dei diversi non può avere luogo tramite un accostamento immediato dei due termini che si
vogliono legare assieme, gli estremi. Per mettere assieme due cose che appaiono distinte e separate
occorre un terzo elemento che faccia da collante tra le due, il legame.
Ma come deve essere questo legame?
Già l’esperienza quotidiana e il senso comune indicano che questo terzo, questo collante, non
può essere identico a ciò che lega, altrimenti il problema, anziché risolto, verrebbe moltiplicato. Il
legame, quindi, non può essere pensato come un elemento fra gli elementi: ciò che lega - ovvero
ciò che è causa e principio di unificazione - non è identico a ciò che viene legato.
Tuttavia il modello che Platone presenta propone qualcosa che sembra contraddire il senso
comune: l’unità tra i due termini sarà tanto più compiuta quanto più il legame saprà farsi identico
ai legati, quanto più esso mostrerà di condividere la loro stessa natura, di non essere cioè un
elemento estraneo interposto fra di loro e li eleverà, quindi, a loro volta, al ruolo e alla funzione di
mediatori. L'unità assicurata dal legame più bello è tale da non apparire come un atto estraneo ai
rapportati, perché il legame si fa uno con essi.
La mediazione, perciò, mostra un carattere problematico: per realizzarla nel modo più
compiuto, più bello, si devono tenere assieme due istanze che paiono escludersi a vicenda. Da una
parte, il principio unificatore non deve essere a sua volta un elemento fra gli elementi, pena una
infinita ricerca di mediazione; né, d'altra parte, può essere completamente estraneo ad essi, come
una forza che li soggioghi, annullando le loro differenze.
Il legame più bello, infatti, svolge la sua funzione mediatrice non tramite una costrizione, ma
facendosi identico ad essi, realizzando ciò che risiede già nella natura stessa dei collegati. Il
principio unificatore che è all’opera in questa forma di mediazione deve perciò essere identico e
non-identico agli elementi, unito e non-unito ad essi, deve cioè essere in se stesso uno e molteplice.
Vi è però un ulteriore aspetto rilevante del modello platonico: l’unità finale viene raggiunta
grazie al fatto che ciascun termine svolge la funzione di mediazione. In tal modo ogni termine di
quella relazione diventa il medio, cioè il legame necessario, indispensabile al costituirsi dell’intero.
La proporzione platonica prospetta così una unificazione tale per cui ogni singolo elemento viene
progressivamente riscattato dalla sua parzialità, dalla sua particolarità, e viene elevato al rango di
principio dell’intera relazione, di ciò che sta al di sopra delle parti.

75
Platone (1987, 6:31c–32a; 371–72).

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L’identità fra tutti i termini, quell’uguaglianza che fa sì che tutti siano “una cosa sola”, non è
pertanto raggiunta eliminando le loro differenze, ma mostrando che ciascun elemento è capace di
elevarsi al di sopra dell’opposizione e della particolarità, di farsi intero, di produrre unificazione.
Ciascun elemento è al tempo stesso legante e legato, unificante ed unificato.
A questo punto, non è difficile comprendere perché questo passo platonico abbia esercitato una
così forte attrazione su Hegel: a torto o a ragione egli vi vedeva condensati in modo mirabile i nodi
teoretici impliciti nel pensiero della conciliazione.
Egli vi ritrova espressa l’esigenza che l’unificazione avvenga mostrando, da un lato, come
ciascuno degli estremi unificati sia una determinazione parziale del principio che li tiene uniti;
dall’altro, che ciascuno di essi sia tuttavia riconosciuto nella sua capacità di produrre, a sua volta,
la mediazione, sia cioè, proprio in quanto determinazione di quel principio, capace di porre a sua
volta la relazione che tiene uniti tutti i termini in questione, in modo che essa non appaia
unilaterale e arbitraria76.

9. Punire e riconciliare

Alla luce di questa struttura possiamo provare a sviluppare le indicazioni che Hegel fornisce
circa la conciliazione che si attua nella pena. L’intero sforzo hegeliano è teso a mostrare come il
nesso fra crimine e pena. Come si è visto, egli afferma che nella sua pienezza la pena realizza la
conciliazione del diritto con se stesso, sia sul piano dell’universalità reale, dando garanzia ai
cittadini della vigenza delle leggi, sia sul piano del reo, consentendogli di ritrovare in quelle leggi
non solo una tutela77, ma la sua stessa volontà la quale, pertanto, non è cristallizzata nell’atto
criminale da lui commesso ed è quindi legittimata a rientrare all’interno del tessuto sociale78. Tutto
questo è rimesso a un concetto di diritto che respinge ogni ipotesi contrattualistica: la vita associata
non è altro che una realizzazione della volontà libera, che in se stessa è intersoggettiva.
Anzitutto, dunque, il concetto di conciliazione individua una ben precisa struttura logica, una
relazione tale per cui l’unità dei relati non viene raggiunta eliminando le loro differenze. Infatti,

76
Così, ad esempio, nella Fenomenologia la struttura del riconoscimento così come è “per noi” e non come
appare alla coscienza, è presentata come un sillogismo in cui “il medio è l’autocoscienza che si scompone
negli estremi, e ciascun estremo è questa permutazione della sua determinatezza, ed è assoluto passaggio
nell’estremo opposto. (…) Ciascun estremo rispetto all’altro è il medio, per cui ciascun estremo si media e si
conchiude con se stesso; e ciascuno è rispetto a sé e all’altro un’immediata essenza che è per sé, la quale in
pari tempo è per sé solo attraverso questa mediazione. Essi si riconoscono come reciprocamente riconoscentesi”,
Hegel (1980, 9:110; 1973, 155).
77
Cfr. Hegel (1996, § 220; 1987b, 178), ripreso in Hegel (2015b, 1358), commentato da Schild (2004: 160).
78
Cfr. Hegel (2015b, 1356).

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ogni termine della relazione ritrova, in quel limite che, determinandolo, lo costituisce, il principio
dell’unità con il proprio opposto. La conciliazione richiede che le due opposte istanze vengono
condotte a superare la propria particolarità, a esercitare, ciascuna nella propria determinatezza, la
funzione di mediazione caricandosi su di sé anche il “peso” dell’altra. La conciliazione, quindi, è
possibile solo laddove si superi una visione particolaristica che caratterizza le istanze in gioco.
Dal momento che nella concezione hegeliana della pena è ineliminabile la sua funzione di
togliere tutti gli unilateralismi, ciò può essere inteso non solo in rapporto al reo o alla reazione
punitiva, ma anche in relazione all’offeso. Questo accade anzitutto dando alla risposta penale una
dimensione pubblica. Tuttavia, ciò non significa solo che essa avviene per mano dello stato, che
può esser irrogata solo da un organo giurisdizionale, o che non può in alcun modo finire per
mettere il reo nelle mani della vittima, che ne dispone a suo arbitrio. Piuttosto, sta ad indicare che
anche la vittima vi viene assunta come membro di una comunità e non solo come ‘privato’. Nel
rimettere alla pubblica autorità la risposta alla violenza patita, la vittima si mostra capace di
elevarsi al di sopra del suo particolare, la sua volontà si mostra capace dell’universale79.
Ora, mi pare che almeno una indicazione possa essere colta nelle pieghe del testo hegeliano: ciò
che la vittima ha patito, nella specificità della sua persona, della sua coscienza, è una violenza che
attenta a ciò che la rende, di volta in volta, una persona fra le persone80, un essere che ha valore
infinito81, un membro della società82. Qualsiasi sia la modalità concreta in cui può eventualmente
essere intesa, la conciliazione deve consentire che siano superate queste molteplici articolazioni
della lesività dell’atto criminale che determinano l’essere proprio della vittima: sia sul piano del
danno, rispetto a cui può legittimamente assumere una forma coattiva nei confronti del reo83; sia
sul piano della libertà morale della vittima, che non può essere costretta entro una relazione che
non vuole intrattenere; sia sul piano della sua legittimazione sociale, restituendole il suo onore e la
sua sicurezza di cittadino.

79
Punto sottolineato in particolare da Klesczewski (1991), per il quale tuttavia la pena resta in Hegel
retribuzione
80
Hegel (1996, § 35; 1987b, 47).
81
Hegel (1996, § 96 An; § 105; 1987b, 87; 95).
82
Hegel (1996, §. 190 An; § 218 An; 1987b, 160; 176).
83
Sulla distinzione fra coercizione e dovere cfr. Hegel (1996, §§. 90–91; §§ 148–149; 1987b, 84–85; 135–36).

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