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Università di Pisa

Corso di Laurea in Scienze per la Pace

COMUNICAZIONE, GRUPPI, CONFLITTI E MEDIAZIONE.


ELEMENTI DI PSICOLOGIA SOCIALE PER MEDIATORI.

Avvertenza.
Il presente lavoro costituisce un supporto per la didattica universitaria. La Sua riproduzione è
quindi riservata ai Corsisti e alle persone autorizzate. L’eventuale utilizzazione e/o riproduzione
per scopi diversi dalla consultazione personale per motivi di studio o di ricerca, d’interesse
scientifico, culturale, comunque non autorizzati dagli Autori, al di fuori del Corso di Laurea e
dell’Ateneo di Pisa, è da considerarsi perciò illegittima.

Premessa (2017).
Alle Corsiste, ai Corsisti
Vi ripropongo questa dispensa in una delle sue varianti.
L’idea da tempo perseguita di realizzare un vero e proprio manuale insieme alla Collega Serena
Silvino non è ancora andata in porto, anche se un capitolo del testo curato da Consorti e
Valdambrini (2015) Mediazione sociale. Riflessioni teoriche e buone pratiche, Pisa, contiene un
capitolo da me scritto di sintesi di psicologia della comunicazione che potete consultare.

E-mail: corrieri.fulvio@gmail.com. Cellulare: 360-903883

Dott. Prof. Fulvio Corrieri, psicologo


Dott.ssa Prof.ssa Serena Silvino, psicologa
Moduli di base e avanzato di Psicologia e mediazione
Corso di Laurea in Scienze per la Pace
Università di Pisa
1. Relazioni, conflitti e mediazione.

“La mediazione non è un compromesso (…), non è una negoziazione.


Il mediatore non cerca una soluzione mediana, ibrida.
Cerca una soluzione buona”

(J. Bernard, 1990)

Full Metal Jacket

Relazioni, conflitti e mediazione sono concetti intimamente collegati. Infatti,


nelle relazioni fra due o più persone, ma anche nelle relazioni interne ai gruppi umani
e tra di loro, la presenza di conflitti interpersonali sembra essere per lo più
inevitabile, proprio per le caratteristiche del sistema relazionale in cui solitamente si
inserisce l’interazione fra le persone.
Tralasciando la vexata quaestio di quale sia l’influenza e il peso esercitato dal
contesto sociale, in particolare socioculturale, e dai fattori biologici nel determinare
l’esistenza stessa del conflitto, si può rilevare che, quando nascono i conflitti
interpersonali, le modalità di risolverli e gestirli sono molteplici.
La mediazione costituisce uno tra i metodi di risoluzione dei conflitti
alternativi al cosiddetto modo ”normale” di risoluzione delle controversie, tipiche di
un sistema giudiziario che, almeno nel nostro paese, ha per lungo tempo teso a
riportare entro le sue competenze la funzione di dirimere il conflitto in tutte le sue
forme.
In effetti, negli ultimi decenni, si è sviluppato un ampio movimento che “di
fronte ai costi, alle lungaggini, alle inefficienze e alle storture della Legge quale viene
praticata nei tribunali, si è posto come obiettivo proprio l’individuazione di tecniche
alternative per la risoluzione delle vertenze”(Castelli, 1996, p.30), tecniche indicate
con la sigla ADR (Alternative Dispute Resolution).
Si tratta di pratiche di mediazione che stanno rilevandosi sempre più utili non
soltanto per evitare il ricorso agli strumenti tradizionali per dirimere i conflitti, ma
anche per modificare in positivo la Qualità di Vita (Qol, Quality of Life), intesa come
indicatore insieme etico-scientifico ed economico-utilitaristico, ritenuto sempre più
importante per definire lo stesso valore del contesto sociale in cui gli uomini vivono
quotidianamente.
Infatti, nonostante che il concetto di QoL sia prevalentemente utilizzato in
campo socio-sanitario, essendo stato definito per la prima volta proprio dall’OMS
(1948) come "l'insieme delle percezioni di un individuo in merito ai valori esistenziali
dello stesso, nel contesto di culture e sistemi di valori in cui vive ed in relazione a
finalità, aspettative, standard e preoccupazioni personali”, esso si presta anche a
caratterizzare la soddisfazione personale in relazione alla propria vita individuale nei
diversi contesti sociali ed organizzativi, più o meno complessi, come dimostra
l’utilizzo esteso di questo termine nella ricerca sociale (ad esempio, in ambito
scolastico o lavorativo).
In effetti un intervento di mediazione sociale in un contesto scolastico può
rappresentare un contributo significativo alla Qualità di Vita dei soggetti, sia alunni
sia operatori, come nel caso della prevenzione o dell’intervento su forme di
conflittualità legata ad atti di bullismo, mobbing o bossing, che mal si prestano a
strategie di natura esclusivamente giudiziaria o sanitaria, pur trattandosi di fenomeni
con un elevato costo economico-sociale e dannose conseguenze per la salute dei
soggetti implicati.
L’attenzione alla mediazione del conflitto inteso perciò anche come
prevenzione del medesimo attraverso la formazione degli operatori e degli stessi
soggetti alla gestione del medesimo nei diversi contesti della vita sociale, è, come
osserva ancora Castelli (1996), un modo per trasformare i conflitti in qualcosa di
utile, un “prendersene cura” senza volerli curare.
La parola “conflitto”, derivando dal latino confligere (urtare, battere insieme),
rievoca il senso persino fisico dello scontro tra poteri, persone e gruppi.
Per informazioni in proposito si può consultare:
http://www.educational.rai.it/lemma/testi/cultura/conflitto.htm
Peraltro occorre sottolineare che la parola “conflitto” non è affatto di per sé
sinonimo di distruttività: una visione manichea della realtà sociale che individuasse
nella conflittualità stessa il “male assoluto” contro cui scagliarsi, non farebbe altro
che riproporre, in forme paradossali, il conflitto come pura negatività contro cui
confliggere fino alla sua stessa distruzione.
Esso, infatti, si collega anche all’idea del mutamento, come da tempo
sottolineato dalla ricerca sociale, e in questo senso assume il significato di processi
che sono necessari alla vita sociale, come accade nelle dinamiche “conservazione vs.
innovazione”, essenziali ai diversi sistemi sociali e alle loro parti per sopravvivere ai
cambiamenti storici.
Di conseguenza il termine può assumere significati assai diversi in relazione a
principi etici differenti (si pensi al Dio “Signore degli eserciti” dell’Antico
Testamento che il filosofo Nietzsche esaltava contro la morale cristiana) ma anche ai
diversi contesti epistemologici entro il quale il conflitto stesso diventa oggetto
d’indagine.
Nel contesto della psicologia, in particolare di quella sociale, esso assume il
valore di “una situazione sociale in cui due o più individui, apertamente, si
oppongono l’uno all’altro”, in cui “l’opposizione può essere mediata da condotte sia
fisiche che verbali e può tradursi in azioni di rifiuto, di impedimento, di negazione o
di resistenza nei confronti delle affermazioni o dell’azioni dell’altro” (Bonino, 1994,
p.164).
In questa prospettiva lo stesso sviluppo individuale richiede momenti più o
meno acuti di conflittualità interpersonale, come accade già dai primi 15 mesi di vita
del bambino quando si oppone ai divieti del genitore nella sua costruzione identitaria
(la “fase del no”).
Inoltre lo sviluppo socio-affettivo avverrebbe, soprattutto nell’ottica
psicodinamica e analitica, attraverso conflitti intrapsichici in grado di condizionare, a
seconda del modo in cui essi vengano rielaborati dal soggetto, il suo stesso livello di
maturità emozionale ed affettiva.
Il termine conflitto inoltre assume un valore socio-cognitivo a partire da Piaget,
che lo riteneva prodotto dalle perturbazioni –esogene o endogene- dell’equilibrio
interno del sistema cognitivo del bambino, fino ad arrivare alle più recenti concezioni
costruttiviste che, a differenza della sua epistemologia genetica, interpretano lo stesso
sviluppo cognitivo come il frutto di coordinazioni di punti di vista, che possono
essere inizialmente molto diversi, posseduti da due o più partner, solitamente l’adulto
con il bambino o i bambini tra di loro.
La varietà di significati che il termine conflitto assume richiede perciò di
evitare assolutizzazioni dogmatiche della parola, pur nella consapevolezza che nel
linguaggio quotidiano assume per lo più connotazioni negative, associate al mal-
essere piuttosto che al benessere personale e collettivo.
Il termine “mediazione” (dal latino mediare, cioè “dividere, aprire nel mezzo”)
deve allora assumere un senso diverso dall’uso ordinario, rapportandosi
dialetticamente al conflitto in modo da costituire un nesso inscindibile che li lega
entrambi, e che ha comunque di per sé il valore di un autentico mutamento culturale
perché consente alla parola “conflitto” di associarsi a costruttive pratiche di
“mediazione”, tese a valorizzare l’idea che il contrasto possa generare nuovi modi di
relazionarsi tutt’altro che distruttivi.
In questa prospettiva la ricerca attiva della pace assume un valore propositivo,
costituzionalmente non-violento, che evita di soggiacere alle alcinesche seduzioni del
pacifismo di maniera, promuovendo strategie culturali, cognitive e comportamentali
adeguate alla problematicità e alla complessità del reale storico, nei termini di un
“continuo aggiornamento dinamico” della propria proposta valoriale (Castelli, cit.,
p.51).
Occorre perciò evitare di ritenere che il mutamento culturale possa di per sé
garantire tale valorizzazione.
I conflitti, affinché possano assumere un tale significato nella coscienza dei
soggetti sociali, hanno bisogno di essere gestiti in maniera opportuna.
La mediazione stessa, intesa come processo psicologico, richiede perciò di
delimitare il significato del termine “conflitto” a quelle situazioni di difficoltà tra
persone in cui l’obiettivo dell’intervento del mediatore non è terapeutico, giudiziario
o negoziale e arbitrale, quanto piuttosto è teso a gestire un momento di crisi di un
sistema dinamico di relazioni interpersonali, intese come relazioni tra più soggetti,
siano due o più di due, come può accadere tra operatori appartenenti ad una stessa
organizzazione, oppure tra un insegnante ed un suo allievo, tra cittadini e istituzioni,
tra gruppi maggioritari e minoritari o interni al gruppo stesso.
La mediazione in questo modo assume il significato di “un processo attraverso
il quale due o più parti si rivolgono liberamente a un terzo neutrale, il mediatore, per
ridurre gli effetti indesiderabili di un grave conflitto”, e che “mira a ristabilire il
dialogo tra le parti per poter raggiungere un obiettivo concreto: la realizzazione di un
progetto di riorganizzazione delle relazioni che risulti il più possibile soddisfacente
per tutti”; in questo modo “l’obiettivo finale della mediazione si realizza una volta
che le parti si siano creativamente riappropriate, nell’interesse proprio e di tutti i
soggetti coinvolti, della propria attiva e responsabile capacità decisionale” (Castelli,
1996, p.5).
La mediazione assume così il senso di un processo mirato a far evolvere
dinamicamente una situazione problematica, a far aprire canali di comunicazione che
si erano bloccati e che hanno determinato una crescente conflittualità tra i soggetti
implicati nella relazione. Data questa finalità del processo di mediazione, è evidente
come il miglioramento della comunicazione fra le parti in disaccordo sia un passo
essenziale al superamento delle situazioni di crisi.
L’analisi dei processi comunicativi che presentano maggiore rilevanza ai fini
delle attività di gestione dei conflitti è perciò essenziale per il mediatore.
E’ peraltro lecito affrontare l’argomento con un poco di ottimismo: anche nelle
situazioni in cui l’ostilità è massima, vale la pena ricordare che “comunicazione”
viene dal latino communis, che ha anche il significato di “mettere in comune”.
In effetti, chi è coinvolto in un conflitto, qualcosa in comune lo ha già fin
dall’inizio, non foss’altro il conflitto stesso.

2. Modelli di comunicazione e mediazione.

“(…) la comunicazione non è solo razionalità,


ma anche e soprattutto espressione
di emozioni, di sentimenti, di valori”
(S. Castelli, 1996)

Una delle prime formalizzazioni teoriche apparse in tempi moderni dei modelli
di comunicazione è il classico modello di Shannon e Weaver (1949), in cui si
definisce la comunicazione come il trasferimento di informazioni da un emittente a
un ricevente a mezzo di messaggi.
Lo schema è semplice e lineare: prevede un emittente che, dopo averlo
codificato, trasmette un messaggio attraverso un canale a capacità limitata ad un
ricevente, che lo decodifica. Il processo avviene nell’ambito di un contesto che
consente di definire la natura e il tipo di comunicazione che si realizza tra i due poli
dell’interazione.
Dal punto di vista della mediazione in genere questo schema è utile perché
sottolinea la presenza di “rumori” che possono disturbare la trasmissione del
messaggio.
I “rumori” possono essere di varia natura: parole difficili, concetti confusi,
perifrasi, evocazioni connesse alla storia emozionale dei due poli del processo
comunicativo ne sono esempi.
Esistono inoltre errori connessi alla educazione ricevuta o alla struttura stessa
di personalità, che spingono a distorcere sistematicamente alcune parole o alcuni
significati.
Con l’estendersi degli studi sulla comunicazione, prendendo in esame le
modalità non verbali, si rese necessario abbandonare modelli lineari come questo, per
rendersi conto del fatto che la comunicazione non solo “passa” da un emittente ad un
ricevente, ma viene in ogni istante modulata dalle risposte che il ricevente elabora.
In primo luogo, infatti, l’informazione trasmessa origina inevitabilmente un feedback,
un segnale di ritorno che consente all’emittente di modulare la propria comunicazione
successiva, adattandola a quella che gli appare essere la situazione di chi riceve.
Basti immaginare che cosa accadrebbe se, durante una lezione, i corsisti
iniziassero ad annoiarsi, ad esprimere rumorosamente l’insofferenza con colpi di
tosse, sguardi distratti, magari se qualcuno di questi si alza e se ne va.
Anche in questo caso, apparentemente di una comunicazione ad un solo senso,
si verifica che il ricevente (il gruppo dei corsisti) influisce in modo significativo sul
comportamento dell’emittente (il docente).
Il passaggio da modelli di comunicazione a causalità lineare a modelli a
causalità circolare ha rappresentato una vera e propria rivoluzione scientifica
nell’ambito degli studi della comunicazione.
Nei modelli lineari il rapporto di causa-effetto è di tipo deterministico: si può
dire cioè che l’evento A (il passaggio dell’informazione) viene per primo, e che
l’evento B (il comportamento conseguente) è causato dal verificarsi di A. I modelli
circolari o interattivi della comunicazione invece introducono nuovi concetti tra cui è
fondamentale quello di retroazione o di feedback: tra le due parti implicate nel
processo comunicativo, si attua sempre un processo di retroazione negativa con il
quale il ricevente è in grado di far pervenire all’emittente una sua reazione a quanto
gli viene comunicato.
Il ricevente è così in grado di influire con le sue parole e con il suo
comportamento sul successivo procedere del processo comunicativo. Pertanto la
comunicazione non segue più un processo lineare (da A a B a C ecc.), bensì
circolare: il messaggio torna al punto di partenza, proprio come i dati in uscita
rientrano nel sistema arricchendo lo spazio vitale in cui si realizza l’interazione
comunicativa di ulteriori dati essenziali al mantenimento dello stesso processo
comunicativo.
La comunicazione è quindi un processo di interazione circolare dove non ha
più senso dire che l’evento A viene per primo e che l’evento B è causato dal
verificarsi di A, (non è possibile stabilire qual è la causa determinante e l’effetto
determinato, cosa viene prima e cosa viene dopo), perché commettendo lo stesso
errore si potrebbe dire che l’evento B precede l’evento A a seconda di dove si scelga
di interrompere la continuità del processo circolare.
Non c’è generalmente un inizio ed una fine, bensì ogni messaggio o
comportamento è insieme effetto e causa di altri messaggi o comportamenti.
L’assenza della consapevolezza di questo carattere circolare del processo
comunicativo produce errori spesso fatali per le relazioni interpersonali, come accade
quando sia la persona A sia la persona B dichiarano che i loro comportamenti
comunicativi sono soltanto la reazione al comportamento del partner, senza
accorgersi che sono loro stessi ad influenzare l’altro con la loro reazione.

3. La pragmatica della comunicazione

“Di ciò di cui non si deve parlare si deve tacere”


(L. Wittgenstein, Tractatus logicus-philosophicus, 1920)

Paul Watzlawick (1921 – 2007)

Negli anni Sessanta - settanta del secolo appena trascorso, un gruppo di


studiosi, del quale facevano parte studiosi come Watzlawick e a cui comunemente ci
si riferisce come “scuola di Palo Alto” (dalla località californiana dove sorgeva il loro
laboratorio di psicologia della comunicazione, il Mental Research Institute),
analizzarono sistematicamente gli effetti pragmatici, cioè comportamentali, della
comunicazione, ponendo in evidenza il ruolo patogenetico dei processi comunicativi
nelle patologie psichiatriche (ad esempio, nella schizofrenia).
La loro ricerca si concentrò quindi sul modo in cui la comunicazione influenza
il comportamento, considerando sia il contenuto verbale sia gli aspetti non verbali dei
processi comunicativi.
A differenza degli studiosi del modello lineare della comunicazione, il loro
interesse non era limitato all’effetto della comunicazione sul comportamento del solo
ricevente, ma si rivolgeva anche all’effetto che la reazione del ricevente produceva
sull’emittente.
Nel loro studio ormai classico "Pragmatica della comunicazione umana"
(1967), gli Autori indicarono le "proprietà semplici della comunicazione che hanno
fondamentali implicazioni interpersonali" (Watzlawick et al., p.40).
Tali proprietà hanno quindi una natura assiomatica, trattandosi di affermazioni
basilari che consentono di dimostrare l'influenza che la comunicazione stessa esercita
sui comportamenti umani, e derivanti da una vasta gamma di osservazioni dei
fenomeni di comunicazione.
Gli assiomi della comunicazione sono cinque.
Il primo assioma sostiene che “non si può non comunicare”.
“Se si accetta che l’intero comportamento in una situazione di interazione ha
valore di messaggio, vale a dire è comunicazione, ne consegue che comunque ci si
sforzi, non si può non comunicare”, per cui l’attività e il suo opposto, le parole o il
silenzio sono comunque messaggi in grado di influenzare gli altri “ e gli altri, a loro
volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano
anche loro”(ibidem, p.41).
In effetti qualsiasi comportamento, le parole o i silenzi, l’attività o l’inattività
dei soggetti in situazione di mediazione hanno il valore di messaggio, influenzando
gli interlocutori che non possono non rispondere a queste comunicazioni.
Occorre ricordare che gli Autori il termine di comunicazione viene usato come
sinonimo di comportamento e il comportamento non ha un suo opposto, non è
possibile non avere un comportamento.
Se si accetta che il comportamento, in una situazione di interazione come
quella della mediazione, ha il valore di messaggio, vale a dire di comunicazione, ne
consegue che comunque ci si sforzi a dissimulare o a evitare l’interazione
comunicativa, non si può non comunicare.
E’ chiaro che il semplice fatto che non si parli o che non si presti attenzione
reciproca non costituisce affatto un’eccezione a quanto asserito.
Il passeggero di un treno che siede con gli occhi chiusi o tenendo ben fisso un
giornale davanti a sé, sta comunicando di non voler parlare con nessuno e di non
voler essere disturbato. I vicini di solito afferrano il messaggio e rispondono in modo
adeguato, lasciandolo in pace.
La comunicazione comunque avviene, anche quando non è intenzionale e
conscia. Il che significa che il processo comunicativo non s’identifica con la
comprensione reciproca dei soggetti in interazione tra di loro.
Il mediatore deve però stare molto attento ad evitare di applicare meccanicisticamente
questo assioma, come gli altri, alla situazione in cui si trova. Egli, infatti, può correre
il rischio di iper-interpretare i comportamenti comunicativi delle parti in conflitto,
determinando in tal modo l’acutizzarsi del contrasto.
Il secondo assioma “metacomunicazionale” afferma che “ogni comunicazione
ha un aspetto di contenuto e uno di relazione di modo che il secondo classifica il
primo, ed è quindi metacomunicazione” (ibidem, p.46).
In ogni processo comunicativo sono implicati due livelli comunicativi, il livello
del contenuto e quello della relazione, per cui “una comunicazione non soltanto
trasmette informazione, ma al tempo stesso impone un comportamento” (ibidem,
p.43).
Se vi trovate di fronte ad un cartello indicatore che vi segnala la direzione della
città che dovete raggiungere, e sotto il nome della città trovare scritto “ignorate
questa indicazione”, costituisce un esempio di comunicazione paradossale dovuta al
conflitto tra il contenuto della comunicazione e la metacomunicazione, intesa come
comunicazione sulla comunicazione stessa.

Ciò equivale a dire che, quando vi è una comunicazione tra due o più persone,
non vi è mai solo uno scambio di contenuti e informazioni, bensì viene definito anche
il tipo di relazione che sussiste tra le persone e implicitamente se stessi.
Dire ad un guidatore inesperto che sta imparando a condurre l’auto “è
importante togliere la frizione gradatamente e dolcemente”, non è diverso, dal punto
di vista del contenuto del messaggio, dal dire “togli di colpo la frizione e rovinerai la
trasmissione del mezzo!”, mentre è assai diverso dal punto di vista relazionale,
perché nel primo caso la relazione si caratterizza nel senso dello sforzo per sostenere
le difficoltà dell’allievo, mentre nel secondo caso l’accento cade sulla posizione di
subalternità di questi rispetto al guidatore esperto che rimarca la sua superiorità
sull’altro proprio attraverso il modo in cui comunica il messaggio.
L’informazione sul contenuto è perciò data dagli aspetti semantici, mentre ciò
che codifica quella relazione è il modo del nostro messaggio: tono, gesti, parole
scelte, determinano il significato del contenuto stesso.
Lo stesso identico contenuto cambia di valore in funzione della modalità in cui
viene espresso; infatti, la domanda: “perché non provi ad ordinare il materiale
cartaceo prima di inserirle nel PC? Vedrai che ti troverai meglio” non presenta alcuna
informazione diversa dalla frase “Ordina le schede prima di inserirle nel PC!”.
Quello che cambia è la relazione: nel primo caso un collega propone una
relazione più o meno paritaria, collaborativa, mentre nel secondo caso la relazione
che viene proposta è di dominio-sottomissione.
Le risonanze emotive e le risposte comportamentali che provocano questi due
messaggi sono molto diverse: è quindi l’aspetto di relazione che chiarisce il
significato del contenuto.
Come nel caso dei due colleghi, quando qualcuno non accetta un certo
messaggio, il rifiuto spesso non è rivolto al contenuto, ma alla relazione proposta, al
“come” si comunica piuttosto che al “cosa” si veicola nel processo comunicativo.
Non seguendo il suggerimento del suo collega, il soggetto A non ha fatto altro che
contestare il tipo di relazione veicolato dalla comunicazione.
Molti dei conflitti della comunicazione nascono proprio perché i due
interlocutori non sono d’accordo su come impostare la loro relazione comunicativa.
Spesso si crede di scontrarsi per ragioni di contenuto, in realtà lo si sta facendo a
livello di relazione.
È probabile che ognuno di noi abbia fatto esperienza di scambi di opinioni,
discussioni o litigi che avevano come oggetto argomenti di nessuna importanza:
quello che è in gioco non è la scelta di un mobile rosso o di una lampada blu, ma la
definizione di “chi gioca quale ruolo” all’interno della relazione interpersonale.
Quanto più una relazione è spontanea e sana, tanto più l’aspetto relazionale della
comunicazione (“ecco come mi vedo… ecco come ti vedo… ecco come ti vedo che
mi vedi..”) recede sullo sfondo.
Viceversa le relazioni patologiche sono caratterizzate “da una lotta costante per
ridefinire la natura delle relazioni, mentre l’aspetto del contenuto della
comunicazione diventa sempre meno importante”(ibidem, p.44).
Ciò spiega il motivo per cui il mediatore è costantemente chiamato a gestire il
processo comunicativo nel senso di limitare l’incidenza della metacomunicazione e di
ricondurre le parti in conflitto all’effettivo contenuto dei messaggi oggetto della
contesa. Anche in questo caso, l’analisi del processo comunicativo è tanto essenziale
quanto rischiosa da gestire nel corso del processo di mediazione perché i “rumori”
psicologici della comunicazione, come le emozioni mal controllate, possono
interferire nella negoziazione dei significati da dare alla situazione.
Una coppia in crisi che si rivolge allo psicologo in qualità di mediatore può non
riuscire a gestire gli aspetti relazionali della vita in comune perché il marito interpreta
i cambiamenti di opinione della moglie in merito alla scelta della scuola della figlia
come una disconferma delle sue ‘giuste’ affermazioni espresse tempo addietro,
rimproverandola di non ascoltarlo mai a sufficienza.
Un’altra donna viene costantemente rimproverata dal marito perché non segue
le sue indicazioni nel fare la spesa per se stessa, essendo incapace di dare un ‘giusto’
valore ai prodotti da acquistare.
In questi due esempi, ciò che conta non è il messaggio in sé bensì quello che il
messaggio permette di ribadire sul piano relazionale (la superiorità dell’uomo sulla
donna nelle decisioni comuni). In queste situazioni conflittuali dunque non sono
importanti le opinioni dell’uno o dell’altra (gli aspetti di contenuto), bensì la
posizione reciproca all’interno della coppia (gli aspetti di relazione).
Analogamente, nella mediazione sociale, ci si può trovare nella situazione in
cui l’insegnante può rimproverare i suoi alunni che contestano –giustamente- il
comportamento della custode che non è riuscita a contenere la sua -peraltro più che
comprensibile- reazione verbale di fronte ad un comportamento poco accorto di un
alunno verso il proprio lavoro.
Anche in questo caso ciò che viene messo in discussione non è l’episodio in sé,
bensì le posizioni di status (e di potere) all’interno di un’organizzazione in cui
soggetti adulti interagiscono con soggetti in età evolutiva, alcuni de jure già adulti,
altri ancora minorenni, e nella quale chi ricopre la posizione di status più elevata (ad
esempio, il responsabile del servizio) può essere persino assente o delegare la
responsabilità del ruolo a chi non può o non vuole pienamente esercitarla.
Infatti, “la capacità di metacomunicare in modo adeguato non solo è la conditio
sine qua non della comunicazione efficace, ma è anche strettamente collegata con il
grosso problema della consapevolezza di sé e degli altri”(ibidem, p.45).
Il terzo assioma, che si richiama agli studi del matematico Bernard Bolzano
sul concetto di infinito, afferma che “la natura di una relazione dipende dalla
punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i partecipanti” (ibidem, p.51).
L’alternanza continua fra messaggio e feedback rende la comunicazione umana un
processo continuo per cui un osservatore esterno potrebbe considerare una serie di
comunicazioni come una sequenza ininterrotta di scambi.
Poniamo la situazione di un capo e del suo collaboratore in cui il primo si
comporta in maniera sempre più autoritaria e il secondo non perde occasione di
manifestare atteggiamenti sempre più polemici. Se si chiede spiegazioni di questa
situazione ai due protagonisti presi separatamente, essi si pronunceranno in maniera
simmetrica: il capo giustificherà il proprio autoritarismo a causa degli atteggiamenti
polemici del suo collaboratore, mentre quest’ultimo sosterrà di difendersi dal
comportamento del proprio capo contestandolo apertamente. La lettura non si
differenzia per i contenuti, ma per il diverso ordine in cui li pongono, o come sostiene
il terzo assioma, per il diverso modo di punteggiare la comunicazione, per cui ognuno
interpreta il proprio comportamento come una risposta a quello dell’altro.
Partendo da posizioni diverse, i due punteggiano diversamente lo stesso
scambio con la pretesa di entrambi di imporre la propria punteggiatura su quella
dell’altro.
L’errore non nasce dal fatto che una delle due prospettive sia meno corretta
dell’altra, ma da un’imprescindibile esigenza umana, quella di voler attribuire una
linearità, un inizio e una fine, ad un fenomeno che invece si configura come circolare,
al fine di renderlo più compatibile con i nostri schemi mentali per lo più improntati
alla causalità lineare.
La possibilità di interpretare il processo comunicativo in tanti modi, fa sì che
persone mosse da emozioni, aspettative, desideri diversi, segmentano diversamente la
comunicazione fra di loro. Per risolvere i casi di malintesi o di conflitti che si
generano per il diverso modo di punteggiare l’interazione, è necessario spostare il
piano del confronto: il capo e il collaboratore possono uscire dall’empasse soltanto a
patto di comunicare sulla loro comunicazione, cioè di metacomunicare. Si tratta cioè,
di parlare del loro modo di rapportarsi l’uno all’altro, di come comunicano.
E’ necessario passare dal piano dei contenuti a quello delle relazioni, cioè dagli
argomenti della comunicazione alla sua modalità: il loro problema, infatti, non è sulle
informazioni, ma sul modo, rispettivamente autoritario e polemico, di trattarle.
Finché il capo contesta il contenuto delle polemiche del proprio collaboratore,
per esempio la sua convinzione di essere sempre sfavorito nei turni, nulla cambierà; è
parlando della loro comunicazione, cioè dei loro diversi punti di vista, del loro
trattarsi reciprocamente in maniera polemica e autoritaria, che riescono a confrontarsi
sul problema.
Questo passaggio al piano della relazione (che è la metacomunicazione),
rappresenta l’unico strumento per risolvere gli inconvenienti che derivano dalla
circolarità della comunicazione.
Nel quarto assioma si afferma che “gli esseri umani comunicano sia con il
modulo numerico che con quello analogico. Il linguaggio numerico ha una sintassi
logica assai complessa e di estrema efficacia ma manca di una semantica adeguata nel
settore della relazione, mentre il linguaggio analogico ha la semantica ma non ha
nessuna sintassi adeguata per definire in un modo che non sia ambiguo la natura delle
relazioni” (ibidem, p.57). Gli esseri umani quindi comunicano sia con il linguaggio
numerico (verbale) sia con quello analogico (non verbale). Il fatto che la specie
umana, grazie alle sue caratteristiche biologiche, abbia saputo sviluppare un
linguaggio inteso come sistema di segni e simboli altamente complessi, non vuol
perciò dire che gli esseri umani utilizzino solo il linguaggio verbale per comunicare.
Quando noi comunichiamo utilizziamo due modi principali: la parola e tutte le
modalità che rientrano nell’area della comunicazione non verbale (gesti, posizione
del corpo, espressioni del viso, inflessioni della voce, la prossemica).
Il linguaggio verbale ha un’importanza particolare perché serve a scambiare
informazioni sugli oggetti, a nominarli e trasmettere la conoscenza da epoca in epoca;
il linguaggio verbale, rispetto a quello non verbale, è molto più ricco, articolato,
flessibile, capace di piegarsi alle infinite esigenze della comunicazione, in quanto
funzionale ad esprimere concetti mentali, di indicare oggetti concreti, fissare grandi
idee o accennare a sottili sfumature. Esiste però un settore in cui facciamo
assegnamento quasi esclusivamente sulla comunicazione non verbale, il settore della
relazione.

4. La comunicazione non verbale (CNV).


Massimo Troisi

Il linguaggio non verbale svolge nella relazione una funzione elettiva,


esprimendo in modo adeguato stati d’animo ed emozioni nel segnalare atteggiamenti
(superiorità/inferiorità, amicizia/ostilità) e nell’influenzare il tipo di relazione che si
stabilisce con l’altro.
In altre parole, con la mimica non possiamo certo addizionare due più due, né
parlare della pace nel mondo, ma con un sorriso, più che con le parole, siamo in
grado di segnalare all’altro la nostra disponibilità a voler simpatizzare con lui.
Il codice verbale e il codice non verbale sono complementari e servono a
rinforzare reciprocamente il messaggio; tuttavia, quando il non verbale e il verbale
sono incongruenti, chi riceve il messaggio presterà più attenzione ai messaggi non
verbali e darà ad essi maggiore credibilità proprio perché comunemente sono ritenuti
dalle persone più veritieri e diretti.
Si è soliti indicare come tipici della comunicazione non verbale i segnali vocali
non verbali, i segnali cioè che accompagnano l’espressione verbale (il tono della
voce, la sua altezza, le pause, la velocità del parlare), le espressioni facciali (ad
esempio, aggrottare le sopracciglia, spalancare gli occhi, storcere il naso o la bocca,
ecc.), il contatto visivo (lo sguardo, l’abbassare gli occhi, il fissare negli occhi, ecc.),
il contatto corporeo (ad esempio, prendere sottobraccio l’altro), la postura e
l’orientazione del corpo (ad esempio, lo stare in piedi con le braccia conserte), i gesti
e la distanza tra i soggetto comunicanti.
Nelle relazioni con gli altri spesso sono decisivi sono proprio gli aspetti non
verbali della comunicazione.
Un leggero tremolio alle mani può dire molto di più sullo stato emotivo di una
persona rispetto a quanto dice verbalmente di provare.
I messaggi non verbali, infatti, sembrano essere meno soggetti al controllo
consapevole da parte del soggetto e possono influenzare in modo decisivo
l’interazione sociale.
Questi aspetti sono stati studiati osservando pazienti psichiatrici, scoprendo che
chi tra loro era sotto tensione, angosciato o preoccupato, rivelava all’osservatore
questa condizione attraverso i gesti del corpo, i movimenti delle braccia e degli arti
anche se i soggetti tentavano di mascherare questa loro condizione, simulando una
condizione di maggior equilibrio a livello verbale. Questi pazienti riuscivano a
controllare il movimento del capo ma non quello del resto del corpo i cui messaggi
erano più efficaci nel mostrare la loro autentica condizione emotiva.
Dunque il corpo ha un suo linguaggio che, a differenza di quello verbale, è
meno controllato in modo consapevole dal soggetto ed esprime in maniera più
efficace gli atteggiamenti e le emozioni proprie della persona più del contenuto delle
sue parole.
Si tratta di un risultato che era stato anticipato dalle osservazioni di Darwin
(1872), il naturalista che scoprì l’evoluzione biologica delle specie animali e che
studiò le espressioni delle emozioni nell’uomo comparandole a quelle degli animali.
Alcuni studi verificarono sperimentalmente l’efficacia della comunicazione
non verbale nel trasmettere gli stati emotivi e le reazioni dei soggetti. Si chiedeva ai
soggetti di valutare lo stato di superiorità (one-top) o inferiorità (one-down) del
protagonista di un video che comunicava messaggi verbali contraddittori o coerenti
con messaggi non verbali. In uno di questi esperimenti una donna veniva presentata
nel ruolo di una docente universitaria molto decisa e determinata, che comunicava
atteggiamenti di grande superiorità, ma ai quali erano accompagnati da messaggi non
verbali di inferiorità, quali il sorriso rispettoso, la testa abbassata, il tono della voce
nervoso. Questi messaggi non verbali apparivano ben più potenti di quelli verbali nel
valutare la donna come effettivamente superiore o autorevole (Forgas, 1995).
Le implicazioni di tali ricerche sono chiare: possiamo esprimere con il nostro
corpo ciò che tentiamo di nascondere a parole e questi messaggi non verbali saranno
decisivi nell’interazione sociale, quindi nel rapporto con gli altri. Se non adeguiamo
i nostri movimenti corporei al contenuto del messaggio rischiamo di trasmettere
messaggi contraddittori e inefficaci.
La ricerca psicologica ha analizzato da molti anni i diversi aspetti della CNV
ma occorre ricordare i singoli segnali raramente sono utilizzati da soli, per cui “il
messaggio complessivo è sempre la somma di più parti” (Forgas, op. cit., p.159).
La postura, ad esempio, intesa come la modalità con cui il corpo nella sua
globalità si atteggia nello spazio”, ha un particolare rilievo persino nella diagnosi
medica e psicologica: un soggetto gravemente depresso presenta un modo particolare
di ‘comunicare’ colla posizione del proprio corpo la sua sofferenza interiore.
Un altro di questi canali comunicativi non verbali è sicuramente lo sguardo.
Basti pensare che la pubblicità utilizza questo canale in modo privilegiato per
persuadere i potenziali acquirenti della bontà dei prodotti reclamizzati. Gli occhi non
mentono, sostiene la cultura popolare, e se non alzi gli occhi verso l’interlocutore
vuol dire che provi vergogna; negli occhi si dice che si specchia l’anima.
In effetti lo sguardo ha un grande potere: basterebbe che il condannato a morte
guardasse negli occhi il boia perché questi dubiti della giustezza dell’ordine che gli è
stato dato di ucciderlo. La benda posta sugli occhi del condannato serve proprio ad
impedire che il plotone d’esecuzione possa evitare di colpirlo durante la fucilazione a
causa del suo sguardo. Eppure molte convinzioni in proposito diffuse a livello di
senso comune vanno ridimensionate. Talvolta i selettori inesperti, nelle selezioni del
personale da inserire in posti di lavoro, tentano di mettere in difficoltà i candidati
fissandoli intensamente per vedere quanto tempo riescono a sostenere lo sguardo
dell’esaminatore o per vedere come reagiscono.
Si tratta di un comportamento controproducente e da evitare perché sappiamo
che fissare intensamente una persona acquista il significato di una sfida e può
assumere un valore aggressivo.
Infatti, se fissiamo intensamente un guidatore ad un semaforo rosso, egli
scatterà in avanti più velocemente dei guidatori che non sono stati fissati (Ellsworth
et al., 1972; in Forgas, 1995).
Guardare troppo o guardare troppo poco sono per lo più comportamenti errati
nei processi di mediazione, se utilizzati dal mediatore, mentre è assai utile poterli
osservare negli interlocutori.
Lo sguardo intenso infatti esprime anche intimità che può diventare eccessiva,
invadente, in qualche modo voyeuristica ed offensiva, mentre guardare poco può
assumere il significato di una negazione dell’altro.
Il contatto fisico richiede anch’esso, proprio per il suo intenso valore
comunicativo, di essere attentamente considerato nel corso di una mediazione.
Si tratta infatti di una modalità comunicativa in grado di esprimere grande
intimità: essa è usata dalla mamma e dal bambino nei loro primi contatti fisici e
corporei.
Il tatto perciò costituisce uno dei più antichi modi di comunicazione con gli
altri (comunicazione aptica). Toccare è quindi uno dei segnali non verbali più
importanti nella vita di un individuo; da adulti questa modalità di comunicazione non
verbale è regolamentata da regole complesse, che variano da cultura a cultura. Si
tratta perciò di aspetti da considerare con attenzione nelle attività di mediazione
interculturale.
Il valore comunicativo del contatto fisico varia anche in relazione al sesso: gli
uomini toccati da un’infermiera prima di entrare in sala operatoria per un intervento
chirurgico manifestarono più ansia e un innalzamento della pressione arteriosa ben
più significativa delle donne che ricevettero lo stesso contatto fisico (Whitcher e
Fisher, 1979; in Forgas, 1995).
L’attenzione verso questi aspetti consente al mediatore di gestire in modo
efficace l’interazione comunicativa fin dal prime battute del processo di mediazione.
Con il termine ‘prossemica’ s’intende riferirsi al fatto che la distanza e il modo
in cui noi occupiamo e ci disponiamo nello spazio ha un valore comunicativo. Lo
spazio occupato dai soldati e dai loro ufficiali è preordinato dalle relazioni
gerarchiche e di obbedienza che caratterizzano la vita militare. Analogamente, se un
uomo sconosciuto si avvicina troppo ad una donna, potremmo pensare che abbia
intenzione di molestarla o tentare un approccio. Questo perché esiste uno spazio
personale che caratterizza la nostra sfera di intimità e di privacy che non può essere
superato da tutti e quando si vuole. Una persona possiamo giudicarla invadente
proprio perché infrange quella invisibile ‘bolla’ che circonda il nostro corpo nello
spazio fisico.
Lo studio di queste caratteristiche comunicative connesse allo spazio è
diventato oggetto di una vera e propria disciplina, la ‘prossemica’ appunto, che è
riuscita nel corso delle sue ricerche (condotte in particolare negli anni Sessanta -
settanta) ad individuare diversi tipi di distanza derivanti dalla maggiore vicinanza o
lontananza tra soggetti. In questo modo, attraverso lo spazio, posso esprimere il
rifiuto o l’accettazione dell’altro.
Oltre alla vicinanza-distanza esiste un’altra dimensione prossemica, legata al
contatto-non contatto tra soggetti: posso avvicinarmi alla mia fidanzata, posso
toccarla, carezzarla. Se, però, a comportarsi così è un amico, posso interpretare un
tale comportamento come intrusivo e persino offensivo e agire di conseguenza,
richiamandolo ad un maggiore rispetto verso di lei.
In un altro caso, potrebbe essere proprio lei a dimostrarsi ‘fredda’ nei miei
confronti, sottraendosi alla mia vicinanza fisica, magari per esprimere una sua
delusione nei miei confronti per un fatto accaduto tra noi.
L’esistenza di tale spazio personale e intimo si rende esplicita anche in
numerosi contesti della vita quotidiana.
Basti pensare a quando ci troviamo in ascensore con altre persone. Quando
siamo costretti a ridurre drasticamente le distanze interpersonali, la nostra reazione
abituale è di ridurre o evitare di guardare gli altri; evitando lo sguardo diretto, noi
evitiamo anche di parlare con chi stavamo parlando in precedenza.
Uscendo dall’ascensore, riprendiamo a parlare come prima. Questo fenomeno è
conosciuto come “fenomeno dell’equilibrio nell’intimità”, per cui, diminuendo la
distanza interpersonale e aumentando di conseguenza i segnali di intimità, tendiamo a
compensare tale turbamento nell’equilibrio comunicativo diminuendo altri segnali di
intimità (come il contatto visivo).
Tale fenomeno consente inoltre di rendersi conto che la CNV, nell’uso dello
spazio e della distanza, è centrale anche per regolare i rapporti sociali.
In alcune culture avvicinarsi troppo ad una persona socialmente importante
significa rompere una specie di ‘regola non scritta’: ricerche condotte negli Stati
Uniti, ad esempio, hanno dimostrato che i bambini bianchi appartenenti al ceto medio
preferiscono stare meno vicino ad altre persone in genere rispetto ai bambini neri e ai
bambini appartenenti alla classe operaia che sono invece più ‘invadenti’ di loro lo
‘spazio invisibile’ che circonda ognuno di noi.
Questo ‘spazio sociale’ in cui ci troviamo condiziona di conseguenza
fortemente il nostro modo di interagire con gli altri. Se entrate in un’aula scolastica vi
accorgete che il modo in cui sono disposti gli arredi (la cattedra, le seggiole, i banchi)
condiziona il tipo di relazione e comunicazione tra docente ed alunni.
I gesti, come abbiamo già accennato in precedenza, costituiscono uno dei
canali più significativi della CNV e risentono dell’influenza culturale. Accanto a
questi canali non verbali, esistono una serie di modalità comunicative extraverbali
particolarmente importanti che accompagnano la comunicazione verbale, quali il tono
della voce, il suo volume, il ritmo, l’altezza. Si tratta dei cosiddetti ‘indizi (o
indicatori) paralinguistici’, il come pronunciamo ciò che diciamo.
Con il tono della voce possiamo influenzare il comportamento degli altri: se
invitiamo alla calma un gruppo di persone urlando e agitandosi a più non posso, con
una voce spaventata, l’effetto sarà di elevare ulteriormente la tensione.
La persona affetta da depressione accompagna il suo parlare con un tono della
voce piatto e monocorde, mentre in alcuni soggetti cerebrolesi la voce appare cupa.
Perciò, a differenza di quanto comunemente si crede, non sono gli occhi a svelare se
una persona non dice la verità: per scoprire questo occorre piuttosto analizzare ancora
una volta il tono della voce.
Parlare con la lentezza della lumaca o come se fossimo una mitragliatrice che spara
parole al posto dei proiettili sono modi errati di gestire un altro importante indicatore
paralinguistici, la velocità di emissione delle parole.
Anche il silenzio è un indicatore paralinguistico, come lo può diventare il
balbettare, pur non essendo affatto balbuzienti, che può essere rivelatore delle
tensioni emotive che stiamo provando in una certa situazione (ad esempio, se
abbiamo sbagliato qualcosa e non abbiamo il coraggio di dire la verità per timore
della punizione o di ammettere l’errore).
Altri comportamenti comunicativi non verbali sono quelli legati all’aspetto
esteriore, tra cui vanno ricordati, oltre al volto, la conformazione fisica,
l’abbigliamento, il trucco, l’acconciature dei capelli, lo stato della pelle.

5. Il quinto assioma della comunicazione.

L’ultimo dei cinque assiomi della comunicazione afferma che “tutti gli scambi di
comunicazione sono simmetrici o complementari a seconda che siano basati
sull’uguaglianza o sulla differenza” (Watzlawick, 1967, op. cit., p.60).
Si ha un’interazione simmetrica quando il comportamento di un individuo
tende a rispecchiare quello dell’altro: se viene comunicato un comportamento di
sfida, le stesse caratteristiche saranno messe in evidenza dal partner, nel tentativo di
minimizzare le differenze.
Nelle relazioni complementari il comportamento di un individuo completa il
comportamento di un altro individuo: un partner assume una posizione superiore o
dominante (one-up) e l’altro occupa la posizione corrispondente (one-down).
Si può quindi descrivere le prime relazioni come basate sull’uguaglianza e le
seconde basate sulla differenza.
Appartengono alla categoria delle interazioni complementari non soltanto i
rapporti legati a certe idiosincrasie di una data coppia, ma anche quelli stabiliti dal
contesto culturale: è il caso dei rapporti tra padre-figlio, tra insegnante e alunno, tra
medico e paziente.
In molti casi è da notare che queste relazioni asimmetriche non vengono
imposte in modo esplicito, ma ciascun soggetto si comporta in modo da presupporre
il comportamento dell’altro, offrendoli al tempo stesso le ragioni perché tale
asimmetria esista e perduri nel tempo.
Nella comunicazione, i termini simmetria e complementarietà, non sono in sé
sinonimi di “buono e cattivo” o “normali e anormali”, perché entrambe svolgono
delle funzioni importanti e sono necessarie nelle relazioni sane, ovviamente
alternandosi e operando in contesti diversi.
Anche nelle relazioni più asimmetriche, come quelle fra genitore e figlio, si
può cambiare: ad esempio, nel caso di un figlio con competenze informatiche che il
padre non ha, nell’ambito dell’utilizzazione di un PC è certamente in posizione up
rispetto al padre.
Se, invece, nelle relazioni si irrigidisce una delle due modalità di entrare in
rapporto con il partner, allora si producono patologie o fallimenti comunicativi: la
simmetria, ad esempio, può degenerare in una relazione patologica in cui è dominante
una dinamica di competizione per dimostrare “che io sono meglio di te”, come
accade, ad esempio, se alla violenza si risponde con violenza, creando un escalation
di violenza senza fine.
Il legame complementare diventa patologico quando allarga la forbice della
differenza fino agli estremi, e, chi domina, lo fa in forma assoluta. Ad esempio, se ad
una critica si risponde con un complementare atteggiamento di sottomissione e a
questo fa seguito un’ulteriore risposta critica, col passare del tempo i messaggi
diventano rispettivamente sempre più critici e sempre più sottomessi.

6. Le caratteristiche della comunicazione problematica.

Le forme che la comunicazione problematica può assumere sono molteplici, e


possono coinvolgere aspetti diversi dell’interazione, riguardando uno degli
interlocutori o entrambi, oppure riferirsi al contenuto del messaggio o, ancora, alla
relazione fra i soggetti interagenti, o ad entrambi gli aspetti.
I problemi di contenuto si verificano nel caso di un mancato incontro fra le
intenzioni del parlante e l’interpretazione dell’ascoltatore.
Se si considera il soggetto che partecipa all’atto comunicativo, possiamo
distinguere fra incomprensione dell’ascoltatore, quando comprende oppure interpreta
in modo sbagliato le intenzioni sottostanti al discorso dell’altro, e rappresentazione
erronea, quando invece è il parlante a causare il fallimento della comunicazione (non
necessariamente in modo deliberato), pronunciando frasi non corrette o non
chiarendo in modo accurato le proprie intenzioni.
Nelle situazioni in cui due interlocutori desiderano, in buona fede, comunicare,
e che nonostante questa premessa hanno difficoltà a farlo, possono verificarsi errori
dal punto di vista dell’emittente, quali:
- la percezione interiore di ciò che si ha da dire
- la scelta del proprio codice di trasmissione
- Il canale di trasmissione e l’ambiente esterno sono ‘rumorosi’
Errori tipici dal punto di vista di chi riceve la comunicazione sono invece:
- il rischio di interpretazioni eccessivamente soggettive
- le deformazioni dovute agli atteggiamenti personali del “ricevente”
- la valutazione giudicante del contenuto
L’incomprensione da parte dell’ascoltatore e la rappresentazione erronea da
parte del parlante sono due aspetti della comunicazione problematica che riguardano
il contenuto delle frasi, il mancato incontro fra le intenzioni del parlante e
l’interpretazione dell’ascoltatore.
L’incomprensione si ha quando l’ascoltatore comprende oppure interpreta in
modo sbagliato le intenzioni sottostanti il discorso dell’altro.
Le difficoltà nascono dal fatto che in generale viene dato per scontato che gli
altri comprendano esattamente ciò che si vuole comunicare, così come si pensa di
intendere correttamente ciò che gli altri esprimano.
Gli psicologi cognitivisti hanno verificato che noi non raccogliamo
semplicemente l’informazione, ma la elaboriamo.
Per rappresentarci le nostre conoscenze e per inserire nuovi elementi di
informazione utilizziamo gli schemi cognitivi.
Questi non hanno semplicemente una funzione organizzativa.
Quando un'informazione è parziale o ci pare "strana" tendiamo a completarla e
a far sì che diventi coerente con tutte le altre informazioni che già abbiamo a
disposizione, se questo non è possibile, tendiamo ad ignorarla, a sottovalutarla o a
ritenere la fonte poco attendibile.
Questo modo di manipolare le informazioni ha un ruolo adattivo, ossia ci rende
la vita più facile; ci permette, infatti, di utilizzare delle informazioni più semplificate,
di lavorare anche con informazioni incerte o frammentarie, di essere "intuitivi".
A volte però la nostra elaborazione diventa una vera e propria distorsione
cognitiva: ci allontaniamo troppo dalle informazioni ricevute e facciamo delle
operazioni di "inferenza indebita".
Questo accade nella vita di tutti i giorni e di solito non ce ne rendiamo conto.
Tutti i nostri pregiudizi su noi stessi e sugli altri, tutti gli stereotipi nascono da
operazioni di questo tipo.
Essere consapevoli di questo può far riflettere sulla necessità di essere il più
possibile chiari quando ci si rivolge agli altri e di imparare un'arte molto importante,
quella di ascoltare attivamente gli altri.

7. I problemi di comunicazione nelle relazioni tra gli interlocutori.

La comunicazione problematica è tuttavia un fenomeno più ampio che riguarda


le interazioni riuscite o fallimentari tra le persone.
Il modello pragmatico-relazionale precedentemente esposto focalizza le
proprietà o assiomi che agiscono indipendentemente dalla nostra consapevolezza e
che, se vengono rispettate, danno luogo ad una comunicazione efficace; al contrario
la comunicazione risulta disturbata quando cerchiamo di evaderle.
Quindi una modalità per analizzare i fallimenti comunicativi nelle relazioni tra
interlocutori è analizzare cosa accade quando questi assiomi o proprietà della
comunicazione vengono evase o si irrigidiscono.
Per quanto riguarda l’impossibilità di non comunicare, cercheremo di mettere
in atto tentativi di non comunicazione ogni volta che vogliamo evitare di impegnarci
in una comunicazione.
Mettiamo il caso di trovarci nella sala d'aspetto del dentista con un estraneo che
per passare il tempo dell'attesa vuole parlare con noi mentre noi non ne abbiamo
nessuna voglia.
Non possiamo andarcene e non possiamo non-comunicare.
Vediamo cosa possiamo fare in una situazione di questo genere:
-possiamo rifiutare la comunicazione facendo capire al nostro interlocutore che non
vogliamo parlare con lui. Questo atteggiamento però potrebbe essere considerato
maleducato e oltre a farci trovare in un pesante silenzio, non ci avrà evitato di parlare
con quella persona;
-possiamo accettare la comunicazione rassegnandoci a comunicare, sperando che il
nostro interlocutore si stanchi presto;
-possiamo squalificare la comunicazione rispondendo in modo vago,
contraddicendoci, cambiando argomento, dicendo frasi insensate;
.-infine possiamo comunicare attraverso il sintomo facendo finta di non avere capito,
di avere sonno, di stare male, un qualche malessere fisico che ci aiuti a giustificare la
nostra impossibilità di comunicare.
Quello che trasmettiamo in questo caso in effetti è: "mi piacerebbe parlare con
lei ma non posso". Peraltro il sintomo somatico può diventare esso stesso una forma
di comunicazione.
Molto spesso le difficoltà di comunicazione sono provocati dalla confusione
che facciamo tra aspetti di contenuto e aspetti di relazione di un problema.
Mentre cerchiamo di metterci d'accordo con l’interlocutore sul piano del
contenuto, il problema è sul piano della relazione.
Al di là di ogni contenuto, ciò che comunichiamo in ogni messaggio è come ci
vediamo noi rispetto alla persona con cui stiamo parlando. Per esempio, se ci
vediamo come amici (la definizione che io offro di me) possiamo avanzare un invito
a cui la persona in questione può rispondere in tre modi:
- può confermarlo (per esempio, accettando l'invito);
- può rifiutarlo (per esempio, rifiutando l'invito);
- può disconfermarlo (per esempio, ignorando l'invito)
Se non si risolvono le discrepanze relative alla punteggiatura delle sequenze, la
comunicazione arriverà ad un punto morto dove gli interlocutori possono arrivare a
lanciarsi reciprocamente accuse di cattiveria e di pazzia.
Differenze nelle punteggiature si hanno normalmente quando nei casi in cui
almeno uno dei due comunicanti è all'oscuro di alcuni fatti senza saperlo.
Se lasciamo continuamente messaggi in segreteria ad un’amica che non ci
richiama (mettiamo che lei non sappia di avere la segreteria rotta), potremmo
considerare questo come segnale di un suo disinteresse nei nostri confronti; d’altra
parte, l’amica potrebbe considerare che noi non teniamo alla sua amicizia, dal
momento che non ci facciamo mai sentire.
Da qui in poi potremmo entrambe decidere di allontanarci oppure cercare di
contattarci per capire cosa è successo.
In questo caso un fatto esterno impedisce di punteggiare correttamente la
sequenza di eventi.
Più spesso capita di non conoscere le sequenze di pensiero dell'altro, il
ragionamento che ha fatto per arrivare a quella conclusione e a quel comportamento
che ci è sembrato offensivo.
In linea di massima non è corretto ritenere che un interlocutore abbia il nostro
stesso grado di informazioni e che tragga le nostre stesse conclusioni, ma sembra un
fatto inevitabile determinato dalla necessità di operare una selezione sui dati
sensoriali a cui siamo sottoposti continuamente per impedire che i centri più elevati
del cervello vengano sommersi dalle informazioni irrilevanti.
Alla base di molte incomprensioni c'è la convinzione profondamente radicata
che esiste soltanto una realtà, la nostra, e che ogni opinione diversa dipenda
dall'irrazionalità dell'altro o dalla sua mancanza di buona volontà.
Si stabiliscono così dei circoli viziosi che non si possono interrompere a meno
che la comunicazione stessa non diventa oggetto di comunicazione.
Per fare questo però dobbiamo essere fuori dal circolo vizioso.
Nei casi in cui si presentano discrepanze sulla punteggiatura, solitamente si
produce un conflitto su ciò che si considera la causa e su ciò che si considera l'effetto
in un'interazione.
Questo ci porta al concetto di “profezia che si autodetermina” (self-fulfilling
prophecy). Se, per esempio, una persona è convinta di non piacere a nessuno, tenderà
a mettere in atto comportamenti sospettosi, difensivi o aggressivi ed è probabile che
questi stimolino negli altri reazioni di antipatia che confermeranno la convinzione di
fondo di non piacere a nessuno (Watzlawick, op.cit., p.88).
L'aspetto tipico di questa sequenza è che la persona in questione è convinta di
reagire ai comportamenti degli altri e non di provocarli.
Oltre alla definizione di se stessi, in ogni scambio comunicativo i soggetti sono
impegnati anche nella definizione della relazione esistente tra di loro, che può essere
basata sulla simmetria o sulla complementarità.
In una relazione sana è necessaria la presenza di entrambe.
In una relazione simmetrica è sempre presente il pericolo della competitività: si
può osservare, sia negli individui sia nelle nazioni, che l’uguaglianza sembra più
rassicurante se si riesce ad essere un pò più uguali degli altri, come affermò Orwell in
Animal Farm (1934).
È questa tendenza alla competitività a cui si deve la qualità tipica di escalation
delle interazioni simmetriche, una volta che queste abbiano perduto la stabilità (la
cosiddetta runaway, i litigi tra coniugi o le guerre tra nazioni). Ad esempio, è
frequente osservare nei conflitti coniugali l’escalation di un modello decisamente
frustrante e conflittuale che i coniugi perseguono nelle loro interazioni, caratterizzate
da litigi, rimproveri, critiche, ripicche, aggressioni verbali, persino fisiche, e che
s’interrompono solo perché entrambi sono spossati fisicamente o emotivamente; essi
mantengono una tregua inquieta finché non si sono sufficientemente ristabiliti per lo
scontro successivo.
Perciò “la patologia della interazione simmetrica è quindi caratterizzata da uno
stato di guerra più o meno aperto o scisma”(ibidem, p.96).
Nella relazione complementare invece la relazione patologica consiste nella
fissazione dei ruoli degli interlocutori che si trovano costretti dall’interazione sempre
in una posizione one-up l’uno e one-down l’altro, senza che venga quasi mai offerta
ad entrambi la possibilità di modificare tali posizioni.
Quando i partners di una relazione simmetrica arrivano alla rottura, ciò è
dovuto al fatto che uno dei due arriva a rifiutare l'altro.
Nelle relazioni complementari la patologia equivale a disconferme del Sé
dell'altro piuttosto che ai rifiuti di tale Sé (ibidem, p.97).
Persino la traduzione di un messaggio analogico in numerico può comportare
degli errori. I messaggi analogici, come abbiamo visto, danno indicazioni sulla natura
della relazione tra le persone che stanno comunicando; se ci sono controversie
interpersonali sul significato da dare ad un certo messaggio analogico, viene
automaticamente fatta la traduzione numerica che consente di mantenere costante
l'idea preesistente su quella relazione.
Portare un dono è un esempio di comunicazione analogica. Tuttavia chi riceve
il dono lo giudica a seconda della relazione che ha con il donatore: può sembrargli un
segno di affetto, un tentativo di corruzione, un ringraziamento o altro.
Capita a più di un marito di restare sconcertato quando scopre che la moglie lo
sospetta di una colpa mai confessata se ha violato le regole del gioco matrimoniale,
magari regalandole un mazzo di fiori senza che lei se lo aspetti.
Abbiamo detto che il linguaggio numerico è particolarmente adatto per
comunicare a livello di contenuto, mentre quello analogico offre indicazioni al livello
della relazione.
Nel tradurre il materiale analogico in numerico è necessario tradurre funzioni
che mancano al modulo analogico; una di queste è la negazione.
E' semplice infatti trasmettere un messaggio analogico del tipo "ti aggredirò",
ma è molto più difficile trasmettere "non ti aggredirò".
Quello che si verifica, paradossalmente, è che, nel tentativo di dimostrare di
non avere l'intenzione di fare del male all’altro, stimoliamo in lui reazioni di paura e
di allontanamento che stimolano a loro volta in noi disperazione (che rende
ulteriormente necessario dimostrare che non vogliamo fare del male): ciò provoca la
disperazione di essere respinti e di non poter dimostrare che non abbiamo intenzione
di fare del male.
Il modo migliore per segnalare una negazione sembra che sia quello di
proporre l'azione che si vuole negare senza poi portarla a termine, come fanno anche
gli animali.

8. La comunicazione efficace: ascolto empatico e ascolto attivo.


Carl Rogers (1902 - 1987)

Nel corso delle sedute di mediazione si presenteranno, in ogni fase, numerose


situazioni nelle quali emergeranno problemi specifici.
E’ di grande aiuto allora per i mediatori poter ricorrere a metodi efficaci per
l’elaborazione di questi problemi.
Come gli artigiani hanno i propri strumenti di lavoro e adoperano ogni
strumento per un determinato scopo, allo stesso modo i mediatori dovrebbero sempre
disporre dei propri ferri del mestiere, saperli usare bene e ricorrere a questi al
momento giusto.
E’ vero che non esiste uno strumento specifico della mediazione, tuttavia i
metodi possono essere mutuati da altri settori.
Tra queste tecniche che dovrebbero essere conosciute e padroneggiate dei
mediatori, risalta l’empatia di Carl Rogers (1902-1987), psicologo umanista,
particolarmente utile per realizzare un ascolto comprendente e non giudicante delle
parti in conflitto, senza che questo diventi collusione o alleanza con una di loro o con
entrambi, pena il fallimento del processo di mediazione.
Rogers (1951) notò che tre erano le condizioni necessarie e sufficienti per
produrre un cambiamento positivo in una persona che vive una situazione di
conflittualità, di confusione, di malessere, rispetto ad una certa situazione. Queste tre
condizioni sono capaci di far evolvere la persona verso il superamento della difficoltà
e quindi verso la crescita.
Esse sono:
- l'empatia, intesa come la capacità di mettersi nei panni dell'altro, pensare e
sentire "come se" si fosse l'altro, mantenendo nel contempo il contatto con se stesso e
con le proprie emozioni;
- la congruenza, intesa come stato di accordo interno;
- l'accettazione positiva dell'altro che presuppone una visione alterocentrica della
vita, secondo la quale si dà per scontato che ogni persona è diversa dall'altra.
L'ascolto empatico rappresenta quindi una struttura psicologica di accoglienza,
nel senso che l'empatia comporta il "sentire" e "l'essere consapevole" delle proprie
emozioni, (congruenza), ma anche il "sentire" e "l'essere consapevole" delle emozioni
dell'altro (empatia in senso stretto).
Questo processo determina la capacità dell'io di relazionarsi e quindi è indice di
maturità affettiva (posizione alterocentrica).
Secondo quanto osservava Rogers, se in un’interazione a due, uno dei due partners si
pone in modo alterocentrico (e quindi non egocentrico), questo modo di relazionarsi
nella persona si "contagerà" all'altro e determinerà corresponsabilità nella relazione, il
che è indice di maturità sociale.
Questo processo rappresenta il presupposto per la negoziazione dei reciproci
punti di vista e quindi, di conseguenza, della prevenzione dei conflitti.
Gli strumenti di applicazione dell'empatia sono l'ascolto passivo e l'ascolto
attivo. Il primo si avvale della comunicazione non verbale ma anche della
comunicazione verbale (esprimendo, mentre si ascolta una persona, con parole e
suoni, riconoscimento e accettazione, ad esempio, "Va bene, continui";"Si, sono
d’accordo", ecc.).
Relativamente alla CNV, è utile adottare la postura sia aperta e leggermente
inclinata in avanti, indicando così disponibilità verso l'altro, evitando una postura
chiusa (braccia incrociate, gambe chiuse), che solitamente indica un atteggiamento
difensivo, poco incline ad accettare davvero quello che viene detto dall’interlocutore.
La prossemica invece, rappresentata in questo caso dalla distanza che
intercorre tra la persona e il suo interlocutore, segue un insieme di regole fortemente
influenzate dal contesto socioculturale. Sono tre i tipi di distanza che caratterizzano le
relazioni interpersonali nella nostra società occidentale (Forgas, 1995):
- la distanza personale, che è quella che caratterizza i rapporti di tipo amichevole
e va da cinquanta centimetri a un metro-un metro e mezzo;
- la distanza sociale, che caratterizza le posizioni di ruolo e va da un metro-un
metro e mezzo a tre metri;
- la distanza pubblica, che è quella che caratterizza le posizioni pubbliche (ad
esempio, in una conferenza).
L'espressione del volto indica, ad esempio, se una persona è preoccupata,
arrabbiata, triste o altro. Se rivolgiamo lo sguardo a una persona mentre le parliamo o
mentre l'ascoltiamo, le comunicheremo attenzione, rispetto e valorizzazione; è come
se dicessimo che quello che ci sta comunicando ci interessa.
Al contrario, distogliere lo sguardo dal proprio interlocutore può esprimere
scarso valore per ciò che l'altro ci sta dicendo, a meno che esso assuma il significato
di una pausa di riflessione rispetto a ciò che viene comunicato nel corso
dell’incontro.
Accompagnare il discorso con una gestualità morbida (movimenti lenti e
rotatori delle braccia e delle mani) comunica serenità e senso di rilassamento,
mettendo l'interlocutore a proprio agio.
Occorre inoltre prestata particolare attenzione agli indicatori paralinguistica,
cioè a tutto ciò che accompagna linguaggio, come il timbro di voce, il tono di voce,
le pause.
Nell'ascolto passivo, i canali di comunicazione non verbale che entrano in
gioco più degli altri sono il contatto oculare (lo sguardo) e la postura aperta e
leggermente inclinata in avanti, perché questi due elementi testimoniano attenzione
all’interlocutore.
Altro elemento importante che entra in gioco nell'ascolto passivo è il silenzio.
Il silenzio non è solo da intendersi in senso verbale, di non-parole, ma anche e
soprattutto silenzio interiore, come vuoto interno di pensieri e sentimenti, come
presupposto per il sentire e l'esprimere verso l'altro, interesse e accettazione.
L'ascolto passivo si avvale inoltre della comunicazione verbale, attraverso
l’espressione di riconoscimento e accettazione dell'altro, tramite l'uso di parole e
suoni (come, ad esempio, “Va bene...”, “Uhm,....”, ecc.).
L’ascolto attivo si avvale soprattutto della comunicazione verbale e anche della
comunicazione non verbale, esprimendo empatia attraverso il tono della voce e
l'espressione facciale.
L'ascolto attivo significa ascoltare con partecipazione, cercando di capire
quello che l’altra persona sente o vorrebbe esprimere.
Comprendere il punto di vista dell’altro non significa comunque adottare il
modo di vedere dell’altra persona.
Se una persona ha la possibilità di parlare fino in fondo e si sente compresa, è
più disposta ad ascoltare con attenzione gli altri e a mostrare comprensione.
Per verificare se si è capito bene l’una o l’altra, il mediatore può avvalersi delle
seguenti tecniche: la riflessione del contenuto di ciò che dice il parlante, la riflessione
del sentimento sottostante al messaggio e il confronto attraverso il messaggio in
prima persona.
La riflessione del contenuto (o parafrasi) consiste nell'abilità di parafrasare ciò
che dice l’interlocutore, usando parole diverse e frasi sintetiche. Prendiamo, ad
esempio, la frase seguente: "Il nuovo coordinatore non lo capisco proprio, così rigido,
con le sue regole immodificabili...." – Parafrasi - "Sta dicendo che non riesce a
cogliere il senso del suo comportamento?"
La riflessione del sentimento consiste nell'abilità di cogliere il vissuto emotivo
del cliente sottostante al contenuto e rimandarglielo, verbalizzandolo.
Nell'esempio di prima, si può dire:
"Si sente sorpreso da questo comportamento?".
In tal modo il cliente è aiutato a mettersi in contatto con la propria parte più
emotiva.
Il confronto attraverso il messaggio in prima persona consiste in un atto di
auto-rivelazione, attraverso il quale il parlante esprime il proprio punto di vista.
Esprimere il proprio punto di vista significa dire ciò che si vuole dire usando
frasi come "Secondo me..”, “Io penso che...", e non invece frasi come "questa è la
verità..”, “Si fa così...".
Esprimersi usando messaggi in prima persona significa contestualizzare (e non
generalizzare) ciò che si pensa e si dice, assumendosi nel contempo, la responsabilità
del proprio pensiero.
Invitando i contraenti ad usare messaggi in prima persona, si aiutano a dire con
chiarezza quel è il problema reale e che tipo dio sentimenti questo suscita loro
La parafrasi e la riflessione del sentimento determinano una condizione
psicologica di apertura nell’interlocutore. La persona che riceve questo tipo di
atteggiamento si sente infatti capita, accettata e non giudicata. E' come se gli si
dicesse (metamessaggio) che può aprirsi, farsi vedere, abbassare le difese. La
parafrasi e la riflessione del sentimento creano un clima di fiducia. In questo clima di
fiducia è possibile poi confrontarsi con l'altro, dire il proprio punto di vista, attraverso
l'uso del messaggio in prima persona. Ciò facilita la convergenza tra i partners della
relazione, portandoli verso la soluzione del problema. L'empatia che si esprime
attraverso la riflessione del contenuto e la riflessione del sentimento fa sì che quando
ciò che l'altro ci dice non ci è ancora chiaro, ci può essere chiarito attraverso l'uso di
queste due modalità.
Inoltre l'atteggiamento empatico determina nell'altro una condizione di
abbassamento delle difese dall’ansia del confronto con il mediatore, proprio perché la
persona non si sente giudicata e si auto-esplora più facilmente.
In un’interazione, quando uno dei due ha ricevuto un atteggiamento empatico
da parte dell'altro, sarà più disposto a sentire e quindi a mostrare altrettanta apertura e
comprensione. Per questo, il messaggio in prima persona, usato per confrontarsi,
esprimendo il proprio punto di vista si rivela più efficace quando segue ad un
intervento fatto in termini di rimando empatico.
Per introdurre l'ascolto attivo è utile usare alcune frasi tipiche. Se siete
abbastanza sicuri di aver capito bene, è opportuno usare frasi come "Ti senti...”,
“Secondo te...”, “Tu pensi che...”, “Mi stai dicendo che..”, “Vuoi dire che...". Se
invece non siete abbastanza sicuri di aver capito bene, conviene usare frasi
come..."Potrebbe essere che..”, “Mi chiedo se...”, “Non so se ho capito, ma...”,
“Correggimi se sbaglio, ma...”, “E' possibile che...”, “Sembra che tu...”, “Forse ti
senti...".

9. Il gruppo.

Come osserva Vianello (1998), in psicologia sociale si è soliti definire il


gruppo come un insieme di individui che interagiscono tra loro facendo riferimento a
modelli comuni di comportamento, che si ritengono membri del gruppo medesimo e
che sono considerati, da altri individui o gruppi, come parte del gruppo inteso come
un insieme omogeneo.
Un gruppo è perciò un insieme dinamico (una totalità dinamica) costituito da
individui che si percepiscono vicendevolmente come interdipendenti per qualche
aspetto.
Si tratta di una definizione che risale a Kurt Lewin, uno dei padri fondatori
della psicologia sociale, e da lui elaborata negli anni Trenta - Quaranta del secolo
XX°, ispirandosi alla psicologia gestaltista che aveva contribuito a sviluppare in
Europa, prima dell’avvento del nazismo e dell’emigrazione forzata negli Stati Uniti.
La psicologia della Gestalt aveva scoperto che la nostra percezione seguiva
leggi basate sul principio secondo cui l’insieme delle sensazioni percepite aveva
proprietà non riducibili alle proprietà delle singole sensazioni.
In altri termini, il tutto ha proprietà specifiche diverse dalla somma delle parti
costituenti e che sono in grado di strutturare queste stesse parti in una totalità
organica.
Quindi l'identità, il riferimento a modelli di comportamento comuni e il senso
di appartenenza sono i tratti distintivi dell'essere gruppo.
All’interno del gruppo ogni componente ha uno status sociale ed esercita un
ruolo sociale. Lo status indica la posizione che l’individuo ricopre all’interno del
gruppo, il ruolo di un individuo è l’insieme delle azioni che ci si aspetta che egli
metta in atto nelle interazioni con gli altri. Lo status può essere ascritto, come, ad
esempio, l’età o il sesso, oppure acquisito, come la posizione professionale, il tipo di
lavoro che si svolge.

10. Gruppi primari e secondari.

Si è soliti distinguere tra i gruppi primari, come il gruppo degli amici più
intimi, e gruppi secondari, come può esserlo un gruppo di frequentanti un corso di
formazione o un gruppo di lavoro di insegnanti. La famiglia è l’esempio tipico di
gruppo primario, in cui i componenti sono affettivamente legati fra di loro.
L'interazione tra i componenti di un gruppo primario è perciò molto intensa,
emotivamente ed affettivamente coinvolge, a differenza di quanto accade in un
gruppo secondario in cui invece l'interazione è meno profonda e spesso legata ad
obiettivi determinati dal contesto organizzativo in cui il gruppo opera.
In effetti accade, come dimostrarono le ricerche condotte negli Stati Uniti tra il
1927 e il 1932, conosciute come "esperimenti Hawthorne" (dal nome dell’industria
elettrica in cui tali ricerche si svolsero), che un gruppo secondario possa tramutarsi in
un gruppo primario, come nel caso del piccolo gruppo di operaie che lavorava
all'interno di quella azienda e che risultavano, alle osservazioni dei sociologi, molto
legate fra di loro al punto che il fattore che maggiormente incideva sulla loro
produttività era proprio rappresentato da questo ‘spirito di gruppo’.
Perciò quel che contava per farle produrre di più non era tanto la promessa di
premi in denaro bensì piuttosto la loro opinione collettiva su quanto fosse giusto
lavorare di più o di meno.
Una successiva ricerca su di un gruppo di circa quindici operai della stessa
azienda confermò che anche all'interno di un gruppo secondario potevano svilupparsi
regole comuni di convivenza simili a quelle dei gruppi primari, e che si attuavano
anche attraverso le comunicazioni tra loro, con la creazione di un particolare gergo,
una suddivisione spontanea di ruoli diversi all'interno del gruppo, per cui c'era chi
guidava gli altri ma anche chi interveniva per ridurre le tensioni tra i membri o chi
invece impediva agli altri che il lavoro svolto fosse superiore a quanto stabilito dal
gruppo stesso.
Gli altri membri potevano svolgere una funzione esattamente opposta,
segnalando a chi rallentava troppo il lavoro di incentivare la sua produzione,
indicandolo con nomignoli quali ‘cesellatore’, oppure appellando ‘spione’ chi dava
informazioni che potessero mettere in difficoltà un altro membro del gruppo davanti
al caporeparto.

11. Le caratteristiche del gruppo.

Quando e come accade che un semplice aggregato di persone si trasformi in un


gruppo psicologico? Perché non è sufficiente che un insieme di persone condivida
una stessa situazione per definirlo un gruppo?
Esistono alcune condizioni essenziali perché un aggregato di individui diventi
un gruppo, costituenti dei veri e propri parametri con i quali è possibile definirlo tale
(Cartwright, Zander, 1998).
Il primo parametro per caratterizzare un gruppo è che esso necessita di una
determinata ampiezza.
Infatti, occorrono almeno quattro persone per fare un gruppo.
Una coppia non è un gruppo vero e proprio, ma nemmeno una triade è un
gruppo perché solitamente due membri si ‘alleano’ tra di loro e il terzo viene escluso
dal ‘rapporto di complicità’ diadico, di coppia, che si crea.
Il motivo psicologico più profondo per spiegare questa difficoltà nel “fare gruppo in
tre” è rappresentato dal riattivarsi della dinamica edipica, con la diade che rievoca la
coppia parentale e il terzo escluso che assume nei fatti il ruolo di ‘membro filiale’
della triade.
Se quattro è il limite inferiore, tra dieci e quindici è il limite superiore.
Questo criterio è di natura quantitativa nel senso che per ogni persona in più
presente nel gruppo, il numero di relazioni che si forma nel gruppo medesimo non
aumenta di una sola unità bensì di un numero di volte che risulta dalla seguente
formula matematica:

½ Numero dei componenti • (Numero dei componenti – 1)

In altri termini, il numero delle relazioni di un gruppo è equivalente al numero


corrispondente alla metà delle persone presenti moltiplicato per il numero meno uno
delle stesse persone.
Ad esempio, considerando equivalente a 10 il numero dei componenti del
gruppo, in esso si costituiranno ben 45 “canali” di rapporto (canali di comunicazione)
fra le persone. Se solo aumentiamo di 2 unità il gruppo, il numero delle “relazioni”
tra i componenti aumenterà del 46%, passando da 45 a 66.
Quando il numero delle persone componenti il gruppo supera il numero dei
canali di comunicazione che è ragionevole aspettarsi di essere gestito da un
conduttore, allora il gruppo sarà un grande gruppo e tenderà a suddividersi in tanti
piccoli gruppi.
Il secondo parametro che permette di definire un gruppo è la possibilità offerta
ai suoi membri di interagire in un tempo significativo. La durata temporale deve
essere tale che il gruppo possa avere la possibilità di passare dalla pura e semplice
interazione alla relazione vera e propria, il che accade quando i componenti del
gruppo cominciano ad avere una storia comune.
Il terzo parametro è costituito dagli obiettivi condivisi. Un insieme di persone
diventa gruppo quando elabora al suo interno, in modi e forme anche inconsapevoli,
degli obiettivi comuni.
Nel gruppo di lavoro gli obiettivi vengono dati dall’esterno (ad esempio, dal
‘committente’, dall’ufficio superiore, ecc.) ma per lavorare davvero in gruppo occorre
che tali obiettivi divengano i propri obiettivi, rielaborandoli in modo da condividerli.
Il quarto parametro è strettamente connesso al precedente, e riguarda le norme
di funzionamento del gruppo e i suoi valori.
La fase del confronto (e talvolta del conflitto) è qui ineludibile. Proprio grazie a
questo confronto, se costruttivo, il gruppo arriva a darsi le sue regole e il processo di
normazione, risolta la fase del conflitto, produce i valori del gruppo che ne
costituiranno la base fondamentale per la sua vita.
Il quinto parametro per caratterizzare un gruppo in senso psicologico e sociale,
è costituito dai ruoli che si costituiscono al suo interno e che sono le attese che gli
altri hanno nei confronti di un membro del gruppo per il fatto che quel membro
occupa una determinata posizione nel gruppo stesso.
Le aspettative che gli altri hanno su di noi, la loro origine, su cosa esse si
basano, quanto effettivamente siano in grado di rispecchiare le nostre effettive
capacità o di soddisfare il nostro piacere, sono questioni che devono essere affrontate
proprio nella relazione col gruppo.
Infine, il sesto parametro è costituito dall’esistenza di relazioni affettive tra i
componenti del gruppo.
Non esiste, infatti, un gruppo se non c’è un clima affettivo tra i suoi
componenti. Questo clima è in grado di condizionare, spesso in modo decisivo sia in
senso positivo sia in senso negativo, la performance del gruppo stesso in relazione ai
suoi obiettivi.

12. Perché il gruppo è una risorsa.

Ch.Lasch (1981; 1987) ha posto in evidenza le difficoltà del “fare gruppo”


nella società attuale caratterizzata da un narcisismo diffuso e dalla costruzione di
micro-identità (l’io minimo) che allontana piuttosto che avvicinare gli individui tra di
loro.
Nonostante i limiti culturali della vita sociale contemporanea che spingono più
verso l’individualità che la gruppalità, molteplici sono i vantaggi del costituirsi in
gruppo.
Innanzi tutto perché, essendo il gruppo qualcosa d’altro della semplice somma
delle singole parti, sviluppa, una volta raggiunta la stabilità psicologica propria, una
sorta di “mente gruppale” che può però degenerare in una vera e propria “patologia
della vita di gruppo”(group think), nella quale il conformismo, l’unanimismo e la
percezione distorta dell’out-group rispetto all’in-group, sistematicamente
sopravvalutato, sono i sintomi in grado di condizionare negativamente i processi
decisionali del gruppo stesso (Janis, 1972, 1982, 1989).
In altri termini, se il “pensiero di gruppo” viene contrastato in maniera efficace,
l’insieme delle capacità singolari dei componenti si potenziano tra di loro ed essi
diventano capaci di produrre qualcosa che i diversi componenti da soli non sarebbero
stati in grado di creare.
Il gruppo inoltre è necessario per vedersi riconosciuto nel proprio status che
costituisce la dimensione complementare ed opposta al ruolo: perciò, se il ruolo
prescrive i doveri che ho verso gli altri, lo status sancisce i miei diritti che devono
essere rispettati dagli altri per una buona qualità della vita in gruppo.
Il gruppo inoltre sostiene la stima dei suoi componenti. Quindi, se è indirizzato
alla sua realizzazione, esso influisce positivamente sull’autostima dei membri del
gruppo stesso.
Nel darsi delle regole, il gruppo indica dei limiti al vivere sociale che sono
preziosi proprio per la qualità della vita individuale.
Il gruppo peraltro fornisce regole che sono meno costrittive e inibenti delle
regole macrosociali.
I gruppi si distinguono tra di loro per il modo in cui realizzano le caratteristiche
distintive dell’essere gruppo, per cui esiste una sorta di “indice di gruppalità” che
permette di valutare in modo qualitativo lo scarto del gruppo considerato rispetto al
prototipo del gruppo sociale (De Grada, 1999; Mannetti, 2002).
In relazione ai parametri descritti è possibile che tale “indice” sia maggiore se
le persone interagiscono tra di loro in modo integrato e orientato al raggiungimento di
uno scopo comune e se si percepiscono come membri di uno stesso gruppo,
caratteristica questa molto valorizzata dalle ricerche orientate in senso cognitivo,
perché consente al gruppo e ai suoi componenti di costruire la loro stessa identità
sociale attraverso processi di autocategorizzazione (Tajfel, 1981, 1982; Turner et al.,
1987).
Inoltre le persone componenti un gruppo con l’”indice di gruppalità” più alto
nutrono sentimenti positivi nei confronti degli altri membri dell’insieme e verso le
attività comuni, determinando il “sentimento del noi” (we feeling), quel senso di
appartenenza del singolo al gruppo che ci consente di valutare gli individui come più
o meno affiatati tra di loro.
L’identificazione reciproca consente inoltre di sviluppare un’elevata
influenzabilità tra i componenti, tale che esiste una specie di idem sentire in cui la
proposta del singolo viene accolta con condivisione ed entusiasmo.
Il gruppo ad elevata coesione presenta un’elevata articolazione interna, con una
struttura organizzativa e gerarchica in relazione alle attività, ai ruoli e agli status,
funzionante, riconosciuta e accettata.
Infine il gruppo condivide il sistema di norme implicito o esplicito che ha
prodotto, dando origine ad una struttura normativa solida, capace di creare una vera e
propria ideologia o cultura del gruppo.
Bion (1961) usa l’espressione “cultura di gruppo” in modo assai estensivo,
includendovi anche la struttura che il gruppo produce nel corso dei diversi momenti
della sua esistenza ed evoluzione, le attività che svolge e l’organizzazione che adotta.

13. Struttura e dinamica del gruppo.

Ogni gruppo, da quello familiare ed amicale al gruppo secondario di lavoro, ha


una sua struttura, perché ogni membro ha un suo ruolo, di cui si può essere più o
meno consapevoli.
Nel caso del ‘mobbing’ la vittima ha appunto il ruolo di ‘capro espiatorio’ dei
conflitti che esistono nel gruppo.
Talvolta accade che ci sia chi vuole utilizzare il gruppo per tentare di
manipolarlo per suoi scopi e questo può accadere perché l’individuo ha bisogno di
essere riconosciuto come capace di avere successo.
In altre occasioni invece un individuo può ostacolare le attività del gruppo,
opponendosi sistematicamente, nel caso di un gruppo di lavoro, al conduttore delle
attività per dimostrare in negativo il suo ‘potere’.
In altri casi all’interno di un gruppo alcuni individui possono sentirsi
emarginati, mentre altri non pensano di esserlo e invece di fatto lo sono. In altri casi,
alcuni membri vogliono mettersi ‘al di sopra degli altri’, alzando la voce
continuamente oppure ponendosi sempre al centro dell’attenzione.
Si tratta di fenomeni abbastanza abituali che, finché si manifestano in maniera
sostanzialmente rispettosa degli altri e nelle prime fasi della vita di un gruppo, sono
spesso riconducibili a preoccupazioni e timori legati proprio al vivere l’esperienza
stessa dello stare in gruppo.
Possono invece emergere sul lungo periodo comportamenti di ‘dipendenza’ da
parte dei membri di un gruppo: ci sono persone che cercano in esso certezze acritiche
in grado di compensare le loro insicurezze e tali bisogni possono essere così forti da
creare veri e propri gruppi ‘settari’, che possono persino impedire ai componenti di
poter manifestare comportamenti autonomi dalle rigide regole stabilite dal gruppo
stesso. In altri casi i comportamenti ostili o negativi dei singoli possono continuare e
in tal caso può essere necessario ristrutturare il gruppo in modo da rendere possibile
il suo lavoro.
Solitamente si può intervenire nell’analizzare la struttura e le dinamiche del
gruppo per prevenire fenomeni eccessivamente conflittuali o disagi all’interno del
medesimo attraverso l’osservazione e la formazione dei gruppi stessi al vivere
insieme, come avviene nei cosiddetti T-Groups (Training-Groups), in cui s’apprende
a convivere positivamente insieme, sperimentando in condizioni controllate le
difficoltà che questo comporta e imparando dai propri errori.
Uno degli strumenti più utili per comprendere la struttura e la dinamica di un
gruppo è costituito da un vero e proprio test, detto Test Sociometrico, ideato da
Jacob Levi Moreno, celebre per la tecnica terapeutica nota col nome di psicodramma.
Il Test consente di rappresentare anche graficamente la struttura e la dinamica
di un gruppo in un certo momento della sua vita e consiste nella richiesta, fatta ai
membri del gruppo, di esprimere preferenze o rifiuti verso gli altri componenti del
medesimo. La raccolta dei dati viene elaborata in un sociogramma che può essere
variamente rappresentato e che permette di individuare la posizione di ogni singolo
individuo nel gruppo rispetto agli altri e ad un ipotetico punto di massima coesione
del gruppo stesso. Si tratta di un utile strumento per comprendere chi in effetti
conduce il gruppo, chi si trova distante o persino isolato dagli altri componenti, chi
invece è più vicino ad altri, costituendo così dei sottogruppi interni al gruppo.

14. Il conflitto intragruppo e intergruppi.

Spesso, soprattutto all’inizio di un’attività di un gruppo, i suoi componenti


possono entrare in contrasto tra di loro. Se questo contrasto degenera in conflitto
aperto questo potrebbe causare lo sfaldamento del gruppo stesso.
Ma non tutti i conflitti in un gruppo sono negativi: ad esempio, la diversità di
opinioni all’interno del medesimo sul modo in cui raggiungere uno stesso obiettivo
non è affatto un limite all’inizio di un’esperienza di lavoro insieme.
Il gruppo deve però riuscire a trovare modi e forme di negoziazione dei
conflitti, per riuscire a valorizzare queste stesse diversità nell’interesse di tutti i suoi
componenti. Questo è legato anche a modo in cui il gruppo comunica al suo stesso
interno.
In effetti, il conflitto nel gruppo sembra essere legato alle fasi di sviluppo del
gruppo stesso, come evidenziato da Tuckman (1965; Tuckman e Jensen, 1977) che ha
individuato cinque fasi di tale evoluzione: la fase di Forming, la fase di Storming, la
fase di Norming, la fase di Performing, la fase di Adjourning. Nella fase 1. i
componenti del gruppo stabiliscono le relazioni reciproche iniziali, ma si chiedono
anche se sia o meno il caso di far parte del gruppo stesso. Se trovano di avere
“qualcosa in comune”, allora si passa alla fase 2, di ‘turbolenza’ (storming è la
tempesta), in cui prevalgono il conflitto e la disorganizzazione perché tutti cercano di
affermare i propri bisogni e di influenzare gli altri. Nella fase 3 i componenti si
avvertono più in relazione tra di loro, la coesione aumenta e si definiscono le
posizioni di status e di ruolo. Nella fase 4, i membri del gruppo cooperano per il
raggiungimento dello scopo. Si tratta della fase in cui il gruppo ha raggiunto la
maturità di performance. Nella fase finale, una volta raggiunto l’obiettivo, cresce il
disimpegno e l’interdipendenza diminuisce.
Il conflitto può nascere tra gruppi, come dimostrato sperimentalmente sul
campo da Sherif (1961) con il famoso Robbers-cave Experiment (l’esperimento della
caverna dei ladri) in cui due gruppi di pre-adolescenti si misero in competizione l’uno
contro l’altro semplicemente perché i ricercatori, nella previsione di realizzare una
situazione conflittuale, li avevano divisi fin dal loro arrivo nel campo estivo in cui si
svolgeva lo studio.
Fu possibile ridurre il conflitto solo introducendo scopi sovraordinati, come
quello di far funzionare il camion per gli approvvigionamenti alimentari.
Tajfel (1981) ha approfondito il significato di tale conflittualità intergruppo,
dimostrando che la semplice assegnazione degli individui a categorie diverse poteva
originare il contrasto anche in assenza di qualsiasi motivo di competizione oggettiva,
ponendo così in evidenza la centralità del processo cognitivo di differenziazione
categoriale nella costruzione del mondo fisico e sociale.
Questo processo di categorizzazione induce a distinguere tra gli ingroups e gli
outgroups e a privilegiare nelle relazioni e nei comportamenti gli appartenenti al
‘nostro’ gruppo rispetto a quelli dell’altro gruppo. L’identità sociale dipende proprio
da questo senso di appartenenza ai gruppi di riferimento.

15. La comunicazione nel gruppo.

I modi in cui i componenti di un gruppo interagiscono e comunicano tra di loro


configurano la struttura del gruppo stesso e le sue modificazioni determinano la
dinamica del medesimo.
Le reti di comunicazione di un gruppo sono perciò il modo in cui i suoi
componenti comunicano tra di loro e la loro rilevazione è indispensabile per
mantenere la coesione del gruppo. Vi sono diversi tipi di queste reti: a Y, a catena, di
tipo circolare, a ruota, e altre ancora (Leavitt, 1951).
Queste reti sono descrizioni delle modalità di interazione comunicativa tra i
componenti di un gruppo, ma non ci dicono quale struttura comunicativa sia più utile
da adottare in assoluto.
Si potrebbe, infatti, pensare che una rete di comunicazione aperta e circolare
che descrive un gruppo in cui tutti interagiscono tra di loro in maniera cooperativa e
paritaria sia da preferirsi sempre ad altre strutture comunicativo-relazionali, come
quella più centralizzata.
Shaw (1964) ha dimostrato sperimentalmente che quest’ultimo tipo di rete di
comunicazione a Y o a ruota (reti centralizzate), sono più funzionali di altre solo se i
compiti sono cognitivamente semplici, mentre nel caso di compiti complessi queste
reti comunicative sono meno produttive di quelle non centralizzate.
E’ importante che i componenti del gruppo sappiano davvero lavorare insieme
e siano messi in condizioni di poterlo fare, valorizzando l’apporto di tutti i suoi
componenti, compito questo che richiede una conduzione efficace del gruppo di
lavoro, assegnata solitamente ad un leader.

16. Lavorare in gruppo è rischioso?

Occorre poi ricordare che nei gruppi possono prodursi fenomeni di distorsione
interpretativa e decisionale già a partire dalla semplice triade, come hanno dimostrato
alcuni esperimenti ormai classici di M.Sherif (1935) e S.Asch (1951; 1955,1956).
In uno di questi studi, un piccolo gruppo era inserito all'interno di una stanza
completamente buia dove si proiettava su di una parete un punto luminoso e si
chiedeva ai componenti del gruppo di valutare l'entità dello spostamento del punto
nel corso del tempo.
In effetti, ciò che accade è che il punto luminoso sembra muoversi per un
effetto percettivo conosciuto come "effetto autocinetico", una vera e propria illusione
ottica.
In altri termini, il punto non si muoveva per niente ma i componenti del gruppo
concordavano su valutazioni pressoché unanimi di questo spostamento di fatto
puramente illusorio.
In un altro esperimento (Asch, 1952, 1955) un soggetto che rappresentava la
"cavia" della situazione veniva inserito in un gruppo di collaboratori dello
sperimentatore (che facevano finta di non conoscersi tra loro).
Lo sperimentatore successivamente chiedeva al gruppo di valutare
collettivamente l'eventuale differenza di lunghezza tra delle immagini di bastoncini
proiettati su di uno schermo, comparandoli rispetto ad un altro bastoncino
"campione".
I collaboratori dello sperimentatore si erano in precedenza accordati nel fornire
le medesime risposte sbagliate anche nel caso di evidenti differenze di lunghezza tra i
diversi bastoncini.
Il soggetto sottoposto all'esperimento, assolutamente ignaro di tutto, spesso si
uniformava al giudizio espresso dal resto del gruppo.
Solo in pochi casi (seppur significativi) le “cavie” rifiutavano le valutazioni del
gruppo, dimostrando così come un gruppo può arrivare a valutazioni errate per
l'influenza esercitata sui singoli componenti dal gruppo stesso.
Per evitare queste distorsioni può essere utile l’adozione di strategie di analisi
dei problemi come il problem-solving

17. Il problem-solving.

Spesso i contrasti più gravi all’interno di un gruppo di lavoro nascono da vari


fattori, tra cui: il non aver chiarito i ruoli dei partecipanti rispetto ai compiti che il
gruppo deve realizzare; le loro effettive responsabilità rispetto al compito; non aver
chiaro i contorni del problema da affrontare; non aver condiviso gli scopi del lavoro
comune; non avere un modo comune per affrontare il problema e per prendere
decisioni sul da farsi. Per evitare questi problemi si può adottare una procedura detta
di problem-solving che consiste in sei passi successivi che il gruppo deve articolare
nei tempi e nelle modalità pratiche di esecuzione condividendoli prima di avviare il
lavoro sul problema.
I passi del problem-solving nella sua versione più semplice sono i seguenti:
- esporre con chiarezza i contorni del problema
- ipotizzare le varie soluzioni possibili
- valutare gli aspetti positivi e negativi di ogni proposta
- eliminare le soluzioni non adatte e selezionare le più idonee
- predisporre i mezzi per attuare le soluzioni individuate
- verificare i risultati ottenuti
Questa procedura inoltre può svilupparsi nel senso di monitorare i processi interni del
gruppo riguardo alle modalità in cui sono prese le decisioni sulle azioni da realizzare.
18. Un modello di lettura multidimensionale del gruppo di lavoro.

Il modello di lettura proposto da Francescato e Ghirelli (1988) permette di


cogliere il gruppo di lavoro in modo multidimensionale.
Partendo dal punto di vista, tipico di Lewin, che il gruppo è un’unità dinamica,
gli Autori propongono uno schema di lettura complesso che permetta di valutare
diverse variabili, la cui interazione ci riporta all'unità, partendo dall'aspetto più
oggettivo del gruppo per arrivare all'aspetto più soggettivo.

Il gruppo, infatti, è caratterizzato da variabili di tipo:

I. Strutturali (costituzione, finalità, assetto del gruppo)


II. Legate al compito (obiettivi, decisioni e processi)
III. Legate al mantenimento affettivo del gruppo (rapporti fra le persone, clima,
fasi di vita del gruppo)
IV. Legate ai singoli individui (rapporti dei membri fra loro e dei membri con il
gruppo a livello consapevole ed inconsapevole).

Analizziamole una alla volta.

I. Variabili strutturali.

Esse sono:

A. La numerosità.

I gruppi di lavoro sono gruppi di piccole dimensioni, composti da un minimo di tre-


quattro persone ad un massimo di trenta. Gruppi di lavoro composti da un massimo di
sei persone facilitano molto una conoscenza reciproca, una maggiore fluidità nella
comunicazione, una reale partecipazione e un maggior numero di interventi da parte
di tutti i partecipanti (comunicazione in rete circolare). Pertanto è opportuno abituare
il gruppo a lavorare in maniera tale da alternare momenti di assemblea con momenti
di lavoro, di approfondimento in sottogruppi, per poi tornare in assemblea e
recuperare il processo nella sua globalità.

B. Il reclutamento.
Ogni persona che entra in un gruppo è portatrice di una storia, di valori, di emozioni.
La diversità è una forza che per potersi esprimere come tale richiede di essere
riconosciuta, accettata e valorizzata, altrimenti rischia di divenire un ostacolo alla
crescita individuale e del gruppo. Se i valori e i significati ai quali una persona fa
riferimento trovano la possibilità di essere espressi chiaramente a se stessi e poi
confrontati con quelli degli altri, possono tradursi in atteggiamenti e comportamenti
condivisi. Nel caso in cui la diversità non sia riconosciuta si realizza frequentemente
una modalità relazionale di tipo verticale: il rapporto interpersonale tra i membri non
cresce mentre si alimenta l'attenzione verso il referente o il capo del gruppo dal quale
si cerca di ottenere conferma e legittimazione, al quale si esprimono le nostre
opinioni e si sente di dover rendere conto. In questi gruppi sembra che il bisogno di
stare con gli altri, e il bisogno di appartenenza siano in parte soddisfatti, mentre il
bisogno di cooperazione , di realizzare qualcosa che da soli non si riuscirebbe a fare,
rimane insoddisfatto. Una struttura di tipo orizzontale , caratterizzata da
corresponsabilità, differenziazioni di poteri e ruoli funzionali al raggiungimento degli
obiettivi, promuove l'inserimento attivo dei membri e la cooperazione cera tra loro
una stretta interdipendenza.

C. Le reti comunicative.

Fra gli indici per descrivere vari tipi di reti, importanti sono l'indice di distanza (il
numero minimo di legami di comunicazione che un individuo deve attraversare per
comunicare con un altro membro del gruppo) e l'indice di centralità, che misura il
grado di centralizzazione di una rete (cioè misura quanto le comunicazioni in un
gruppo siano centralizzate su una persona o distribuite più o meno uniformemente fra
i membri.)

Si sono messe in luce delle correlazioni tra l'indice di centralità di una rete e
certe espressioni del lavoro di gruppo: più la rete è centralizzata, meno numerose
sono le comunicazioni e più rapido è lo svolgimento del compito, anche se il morale
medio del gruppo diminuisce con la centralità. Successivamente altre ricerche
corressero l'idea che i gruppi centralizzati risolvessero i compiti più rapidamente: ciò
vale per i compiti semplici, mentre di fronte a compiti più complessi, sono più
efficienti i gruppi a rete circolare.
In un gruppo efficace la comunicazione è bi-direzionale: l' espressione aperta e
accurata delle idee e dei sentimenti, è accettata e favorita.
In un gruppo di lavoro cooperativo i membri cercano di finalizzare gli scambi
(comunicazione finalizzata) al raggiungimento sia degli obiettivi condivisi che di
quelli del singolo. La comunicazione finalizzata è un'attività concreta perché porta a
sviluppare soluzioni alternative di un problema, a prendere decisioni, a gestire
relazioni. E' una comunicazione pragmatica, perché da più importanza ai fatti e ai
dati e meno alle opinioni e ai giudizi di valore personali; si orienta verso l'operatività
del gruppo.

D. L’organizzazione spaziale.

Riguarda sia il luogo dove il gruppo si incontra, che la disposizione spaziale il gruppo
usa quando lavora. Di solito la disposizione a cerchio favorisce il coinvolgimento di
tutti i partecipanti.
… seppur con le dovute eccezioni …

E. L’organizzazione temporale.

Quando è nato il gruppo, in che fase di vita si trova, con che frequenza si incontra..
Normalmente si osserva che un gruppo cooperativo ha una vita più lunga di un
gruppo non cooperativo. Infatti l'interazione tra i membri tende essere più costante e
prolungata nel tempo, dal momento che i partecipanti percepiscono ed esperiscono
uno scambio più ricco, un aiuto costante, un sostegno.

F. Lo scopo.
Lo scopo del gruppo di lavoro dipende dal tipo di gruppo.
Nei gruppi di formazione lo scopo è far crescere le persone, in quelli di auto-aiuto la
finalità è la condivisione di problematiche personali.

G. La gerarchia.
Nei gruppi a gerarchia alta il potere appartiene ad una persona, il leader, le decisioni
vengono prese da una sola persona, che se sbaglia paga. E' la tipica struttura delle
aziende piramidali. Nei gruppi a gerarchia bassa il gruppo è responsabilizzato, le
decisioni sono prese per consenso. E' tipica delle aziende moderne in cui ci sono
pochi livelli di potere, e in cui c'è un gruppo dirigenziale e gruppi di operai
organizzati in team con empowerment. Nei gruppi cooperativi la gerarchia è bassa la
leadership e la partecipazione sono distribuite tra i membri del gruppo, il potere è ben
distribuito e condiviso.
II. Variabili di Compito

A. L'obiettivo.

Ciò che lega le persone allo stesso gruppo è la consapevolezza di condividere


degli scopi comuni.
All'inizio si tratterà di percepire che gli interessi dell'uno sono simili a quelli
dell'altro e che vi è l'intenzione di perseguirli insieme. Si tratta di obiettivi comuni,
condivisi e simili, ma non identici.
Essi rappresentano la convergenza di scopi diversi: bisogni, desideri,
motivazioni personali di ogni singolo componente del gruppo.
Questi non sempre vengono comunicati agli altri; talvolta restano impliciti
anche per la stessa persona e vengono dati per scontati. L'obiettivo sintetizza da un
lato le ragioni che hanno portato le persone a costituirsi come gruppo, dall'altro il
risultato desiderato e poi realizzato: l'obiettivo contiene contemporaneamente il
passato e il futuro del gruppo.
Il percorso per arrivare a obiettivi comuni non è certo semplice , ma la
chiarificazione e la delimitazione di essi è la condizione primaria affinché si possa
parlare di gruppo efficace. Questo aspetto è molto importante nella vita di gruppo.
La condivisione di obiettivi, riconosciuti come simili ma non uguali, svolge
una forte funzione di collante, di catalizzatore di risorse. Quindi i membri di un
gruppo possono avere anche obiettivi personali diversi: ciò che conta è che siano
congruenti e che confluiscono tutti nell'obiettivo comune.

B. La partecipazione (intesa come il livello di attività del gruppo).

Indici di partecipazione possono essere il numero di interventi, il numero di


interazioni fisiche fra le persone, le richieste di informazioni, i ritardi e le
assenze/presenze.
Nei gruppi cooperativi la partecipazione qualitativa è alta quando sono
rispettati gli elementi essenziali di uno stile cooperativo.

C. La produttività.

Essa consiste nella quantità e qualità del materiale prodotto; es. numero di
progetti progettati e attuati nel gruppo.

D. I processi decisionali.

Ci sono diverse modalità che un gruppo può seguire per prendere una
decisione. Chiaramente non esiste una risposta univoca , valida per tutte le situazioni.
Pertanto il gruppo di volta in volta dovrà decidere scegliere e valutare quale modalità
decisionale adottare.

Si possono descrivere sette (7) principali modalità decisionali:

D. 1. Modalità decisionale di tipo autoritario.


Si tratta di una decisione presa da una singola persona (spesso il presidente, il
leader carismatico, il responsabile, che impegna il gruppo in una decisione senza
consultarlo prima. In genere si tende a connotare negativamente questo tipo di
modalità, ma ci sono delle situazioni in cui è opportuno prendere decisioni in tal
modo. Ad esempio, in situazioni in cui i tempi sono ristretti, o non si ritiene
necessario il consenso o il coinvolgimento di tutti o sono sufficienti poche
informazioni già disponibili per arrivare ad una decisione convincente e il problema
non si presenta come particolarmente complesso, in questi casi è da considerare più
adeguata una decisione autoritaria.

D. 2. Modalità decisionale con il ricorso di esperti.


Questa modalità si rivela molto utile quando a causa della complessità del
problema o della carenza di informazioni, il gruppo intero non ha il tempo né le
risorse per formarsi competenze necessarie per l'ideazione della soluzione migliore.
Risulta perciò più agevole e meno dispendioso affidarsi ad un gruppo ( sia interno
che esterno) che abbiano le competenze per aiutare il gruppo ad affrontare il
problema nel miglior modo possibili. Alla base di ciò occorre indubbiamente, che ci
sia un'ampia fiducia da parte del gruppo nei confronti degli esperti, mentre
evidentemente, risultano penalizzati la condivisione, il consenso, e l'adesione totale
alla decisione che verrà presa.

D. 3. Modalità decisionale basata sulla consultazione di ogni singolo membro del


gruppo, in genere da parte del responsabile, senza una discussione di gruppo.
Le singole informazioni e opinioni vengono raccolte e utilizzate ai fini della
decisione, che comunque, non può definirsi condivisa da tutti.. Ciò in genere crea un
senso di scarsa partecipazione alla decisione e di basso coinvolgimento. Utile nei casi
in cui il tempo sia ristretto, vi sia un’emergenza evi siano scarse possibilità di riunire
fisicamente i membri.

D. 4. Modalità decisionale basata sulla decisione di un membro responsabile del


gruppo dopo una discussione di gruppo.
Presupposto di questa modalità è che vi siano il tempo e la volontà necessari
per discutere in gruppo la risoluzione del problema. La decisione viene comunque
presa dal leader, dopo discussione. Il coinvolgimento e la percezione di una personale
responsabilità nella decisione da parte di ogni membro, è sicuramente più alto delle
precedenti modalità, anche se la decisione finale potrebbe andare totalmente in senso
opposto a quanto immaginato da una parte del gruppo.
D. 5. Modalità di decisione fondata sulla responsabilità della decisione affidata a un
gruppo ristretto( minoranza).
Questo è il caso in cui ritiene di affidare la decisione a un ristretto gruppo di
persone interne. Affinché questa modalità possa rivelarsi davvero utile è necessario
che il piccolo gruppo goda della massima fiducia da parte degli altri membri, che in
questo modo, possono sentirsi rappresentati. Contrariamente a quanto dovrebbe
avvenire nei gruppi capita spesso che la decisione venga presa da poche persone, pur
essendoci le condizioni per una decisione collegiale.

D. 6. Modalità decisionale ottenuta attraverso una votazione che intende esprimere


l'orientamento della maggioranza.
Pur essendo una modalità molto comune può creare tra i membri del gruppo
insoddisfazione, frustrazione e deresponsabilizzazione rispetto alla decisione presa.
Ciò può verificarsi sopratutto perché si tratta di una modalità che tende
unicamente a concludere la discussione nel momento in cui questa diventa sterile, e
soprattutto lascia i conflitti irrisolti.
La votazione per maggioranza infatti consente di raggiungere una decisione,
ma il più delle volte con scarsa soddisfazione personale dei membri del gruppo
perdente, creando vissuti di "perdente-vincente" e conflittualità più o meno latenti.

D. 7. Modalità fondata sul consenso: questa modalità richiede che tutti esprimano il
loro parere e che la soluzione scelta sia realmente condivisa da tutti.
E' sicuramente la modalità decisionale più difficile da conseguire, ma la
migliore in termini di soddisfazione personale e responsabilizzazione dei singoli
componenti del gruppo. Richiede tempi lunghi, apertura e fiducia reciproca fra i
membri, partecipazione e disponibilità a cambiare idea e opinione, capacità di
ascolto, e di accogliere i punti di vista dell'altro, essere consapevoli che la
partecipazione, la competenza e il potere del gruppo sono distribuiti fra tutti i suoi
membri.

E. Le norme del gruppo.

Le norme del gruppo possono essere implicite ed esplicite.


Le norme possono essere definite come aspettative condivise rispetto a come
dovrebbero comportarsi i membri del gruppo. La dinamica di interazioni sociali
all'interno di un gruppo comporta la costruzione di un set limitato di comportamenti e
opinioni cui ci si attende che i membri debbano conformarsi, un insieme di norme
consensuali.
Questo insieme di norme consensuali permettete di definire la "latitudine"
dell'espressione delle differenze individuali, cioè i limiti entro i quali la diversità di
opinioni e comportamenti individuali può essere accettata senza essere giudicata
come devianza.
III. Variabili di mantenimento.

A. La collaborazione.

La collaborazione è potere con l'altro, mentre la competizione è potere


sull'altro. Rollo May (1989) distingue lungo un continuum il potere positivo
dell'integrazione e del nutrimento ( potere all'interno di un gruppo di lavoro dove si
riconoscono le risorse che gli altri hanno) e un potere negativo dello sfruttamento e
della manipolazione che uso per far fare agli altri ciò che serve a me o manipolando
l'altro lo convinco che ciò che interessa me interessa anche lui.. A metà fra questi due
modalità estreme di usare il è potere nel gruppo si situa la competizione che è
positiva quando è con me stesso e gli altri mi sono da stimolo per apprendere , e
negativa se è competizione con l'altro.

B. La conflittualità.

La conflittualità all'interno di un gruppo rientra nella fisiologia della vita dei


gruppi. Ciò che rende un gruppo sano non è tanto la mancanza di conflitti, ma è il
modo in cui questi conflitti sono gestiti. Il conflitto è costruttivo quando è un
confronto di idee, è distruttivo quando è un attacco alle persone In un gruppo efficace
i conflitti e le controversie sono ritenute occasioni che favoriscono la partecipazione
dei membri, la qualità e l'originalità delle decisioni, il mantenimento di un buon clima
di gruppo.

C. Il clima.

Il clima è una variabile fondamentale della dimensione orientata alla relazione.


Il clima è l'atmosfera, "la temperatura" del gruppo ed è costituita dalle percezioni
della relazioni fra i membri, dal sostegno reciproco, dalla fiducia e dalla accettazione.
Ci sono alcuni indicatori utili per effettuare una valutazione della qualità del
clima gruppale:

1. il sostegno: si riferisce alla percezione che gli individui hanno della possibilità di
affidarsi al gruppo nelle situazioni di difficoltà;
2. il riconoscimento dei ruoli: indica i grado di percezione e accettazione delle
differenti competenze;
3. l’apertura: l'apertura di un gruppo verso i propri componenti è strettamente
connessa al livello di comunicazione;
4. la percezione comune di sentirsi liberi di esprimere le opinioni, le idee, ma anche
sentimenti e disagi per le questioni del gruppo, si traduce nella consapevolezza di
riuscire a raggiungere bene il compito mantenendo una qualità della relazione basato
sul confronto e sul dialogo.

D. La coesione vs. frammentazione.


La coesione del gruppo costituisce un elemento essenziale per la vita del gruppo di
lavoro perché “nell’interazione un gruppo sviluppa quel fenomeno definito coesione
che corrisponde all’emergere delle uguaglianze, consentendo ai membri di
riconoscere il gruppo stesso come proprio, permettendo di fissare legami, e
orientando alla percezione dei vantaggi correlati all’aggrapparsi di un collettivo”
(Quaglino et al., 1992, p.25).
Essa comunque non è sempre identificabile con la solidarietà dato che la
coesione stessa può mantenersi attraverso forti conflittualità.
La coesione del gruppo può essere perciò intesa come la risultante di forze
dinamiche di attrazione centripeta, ostacolate da altre forze di natura centrifuga che
spingono alla disgregazione e allontanamento.
Si possono individuare due categorie di fattori che contribuiscono alla
formazione di coesione nel gruppo: fattori intrinseci e fattori estrinseci.
I fattori intrinseci di un gruppo si individuano nell'area socio-emotiva e in
quella socio-operativa.
Esse riguardano le relazioni e le azioni al gruppo, gli aspetti emotivi, affettivi
(la soddisfazione di importanti bisogni personali, la stima degli altri membri) e gli
aspetti operativi delle relazioni interpersonali (individuazione di ruoli e di compiti da
portare avanti nel rispetto delle competenze di ciascuno permette di sentirsi
riconosciuti e di essere valorizzati per quello che si può dare.

IV. Variabili individuali.

A. Appartenenza vs. individuazione.

L'appartenenza è costituita dalla adesione ai valori, idee, norme, cultura del


gruppo, dall'identificazione con il leader e con i membri. Si esprime usando il termine
"noi" evidenziando quanto di comune e di simile c'è tra i partecipanti.
L'individuazione è in stretta relazione con l'appartenenza. Affinché quest'ultima
non diventi conformismo è necessario che sia accettato il bisogno di individuazione
dei singoli membri, ovvero la possibilità di essere se stessi . Chi si sta individuando
parla usando il pronome “io”, fa lunghi interventi, sottolinea le differenze fra i vari
membri del gruppo.
Quanto più un gruppo è maturo tanto più permette ai singoli membri di
individuarsi e di crescere.

B. Stili personali.

Ciascun membro del gruppo ha un sistema di competenze (cognitive,


relazionali) e un patrimonio di esperienze che lo portano a dare un personale
contributo cha va valorizzato.

C. I ruoli.
Il riconoscimento dei ruoli, indica il grado di accettazione delle differenti
competenze.
Questo rafforza il senso di utilità di ognuno e la messa in atto di
un’interdipendenza positiva.
Si può contare sul contributo di tutti perché tutti hanno qualcosa da mettere a
disposizione.
Oltre ad avere una notevole incidenza sul clima di gruppo, la gestione dei ruoli
ha importanti effetti anche sul gruppo operativo.
Il ruolo può essere definito come un insieme di aspettative condivise circa il
modo in cui dovrebbe comportarsi un individuo che occupa una determinata
posizione nel gruppo.
Si comprende da qui come l'attribuzione di un ruolo assicuri un certo grado di
prevedibilità nel comportamento che verrà eseguito.
I ruoli non evidenziano solo una differenza tra gli individui, ma
conseguentemente anche la loro interrelazione, una complementarietà per il
conseguimento di finalità e obiettivi comuni.
Gli stili di leadership costituiscono un ulteriore elemento costitutivo del gruppo
di lavoro.

19. La leadership.

All'interno di ogni gruppo, alcuni individui assumono sia spontaneamente sia


per designazione la funzione di guida delle attività del gruppo stesso. Questa
funzione, detta di leadership, può essere svolta anche da più persone in momenti
diversi. Solitamente si pensa che i gruppi sociali o le organizzazioni siano in genere
guidati da personaggi "carismatici", capaci cioè di imporre la propria volontà al
gruppo grazie alle particolari attitudini e doti di comando di cui sono dotati.
Pur essendo questo del ‘leader carismatico’ un fenomeno reale, la leadership
nei diversi gruppi può essere esercitata da individui "comuni", per cui la capacità di
esercitare tale funzione può essere appresa e perfezionata attraverso l'esperienza.
Diversi individui possono esercitare all'interno di uno stesso gruppo forme di
leadership di tipo diverso.
Alcuni individui possono indirizzare gli altri al raggiungimento degli obiettivi
del gruppo, essendo in grado di richiamare il gruppo stesso alle regole che lo
guidano, alla responsabilità di raggiungere nei tempi previsti di obiettivi condivisi,
sollecitandoli a superare le difficoltà e suggerendo soluzioni efficaci ai problemi
incontrati.
Questa forma di conduzione del gruppo viene definita come leadership
funzionale e il leader che la svolge come orientato al compito.
Altri, invece, potranno manifestare in modo più efficace la capacità di
esprimere le esigenze specifiche dei componenti del gruppo, i loro bisogni di tipo
affettivo ed emotivo.
Questa forma di conduzione dei gruppi è invece definita come leadership
espressiva o socioemotiva e il leader che la svolge come orientato alla relazione.
L'equilibrio tra le diverse forme di leadership, funzionale ed espressiva, è
indispensabile per garantire la vita del gruppo, per aumentarne la coesione, per
migliorarne il clima interno e per promuovere il benessere dei suoi componenti.

20. Gli stili di leadership.

Il conduttore del gruppo può assumere stili di leadership assai diversi tra loro.
Il leader può esercitare una conduzione di tipo autoritario in cui non permette al
gruppo di discutere su ciò che si deve fare e imponendo forme di comunicazione e
relazione che privilegiano il rapporto diretto tra i singoli componenti del gruppo e il
conduttore stesso.
Questo stile di conduzione può essere necessario in momenti particolarmente
difficili della vita di un gruppo, ad esempio nel caso in cui vi sono forti tensioni
dovute a fattori esterni al gruppo stesso oppure in situazioni in cui il tempo necessario
a raggiungere obiettivi indispensabili per il gruppo sia limitato.
All'opposto, in altri casi chi esercita la leadership può evitare di assumere
alcuna responsabilità, promuovendo un clima di caotica interazione tra i membri del
gruppo, senza consigliare o suggerire alcun comportamento funzionale a
raggiungimento degli obiettivi (stile di conduzione laissez-faire).
Altri stili di conduzione del gruppo di lavoro sono invece di tipo democratico e
autorevole.
In questi casi il conduttore assume comportamenti che favoriscono la
comunicazione reciproca tra i membri del gruppo, manifestando attenzione e rispetto
per le diverse idee e opinioni in relazione alle attività da realizzare in modo da
assicurare una partecipazione democratica alle decisioni senza però, nel caso dello
stile autorevole, perdere di vista le finalità fondamentali del gruppo.

Tipologie di leadership e di stili di leadership sono perciò così sintetizzabili (Corrieri,


2003; Corrieri, Piz, 2003):

Leadership funzionale, orientata al compito.


Il leader, tra l’altro, orienta continuamente il gruppo all’obiettivo da raggiungere,
supporta gli sforzi dei suoi componenti nelle attività necessarie al lavoro da svolgere,
stimola la loro creatività e l’apporto attivo alla discussione, favorisce un clima sereno
di collaborazione reciproca, riformula continuamente gli apporti dei componenti per
tenere aperti i canali comunicativi, media i conflitti per evitare che possano
degenerare in scontro aperto senza impedire peraltro che si manifesti la diversità di
opinioni e di punti di vista).

Leadership socio-emotiva, espressiva.


Il leader, tra l’altro, ascolta con attenzione ed empatia il contributo degli altri, intesa
come capacità di sperimentare il vissuto affettivo ed emotivo dell’altro senza mai
immedesimarsi totalmente in esso, esprime e riformula i bisogni più profondi del
gruppo, collaborando alla leadership funzionale ed evitando che la loro espressione
possa tradursi in conflitto antagonistico tra i membri del gruppo).

Il leader orientato al compito:

 ha conoscenze relative al compito


 è creativo e innovativo
 cerca il consenso del gruppo
 riformula e riassume i problemi e le proposte del gruppo
 è affidabile nella realizzazione del lavoro

Il leader orientato alla relazione:

 offre amicizia, dà calore


 risolve gli eventuali conflitti, riduce le tensioni, negozia le
controversie tra i componenti del gruppo
 ascolta i diversi punti di vista
 è tollerante verso di essi

Leadership autoritaria.

Chi ha la responsabilità di guidare il gruppo lo fa senza ascoltare gli altri


membri, distribuendo i compiti secondo criteri fissati apriori e non negoziati col
gruppo stesso.
La comunicazione privilegia la rete a Y o a catena perché i componenti del
gruppo si limitano per lo più ad eseguire le indicazioni date dal leader che non si cura
più del necessario degli aspetti socioemotivi dei componenti del gruppo i quali spesso
entrano in conflitto tra di loro.
Domina la passività nell’esecuzione del compito affidato e l’aggressività che
può prodursi nei momenti di maggiore stanchezza può esprimersi contro il ‘capro
espiatorio’.

Vantaggi: è utile quando gli obiettivi sono semplici da definire e c’è poco tempo per
raggiungerlo. Un esempio potrebbe essere quello di un gruppo che deve soccorrere
immediatamente persone in difficoltà, anche se lo stesso risultato positivo si può
avere con un gruppo ‘ben affiatato’ proprio grazie ad uno stile di leadership meno
autoritaria esercitato prima di entrare in azione.

Limiti: c’è scarsa soddisfazione per quel che si fa, stare in gruppo diventa faticoso, e
c’è il rischio di vivere l’esperienza come frustrante soprattutto per i più motivati al
lavoro, mentre i più dipendenti dall’autorità possono essere eccessivamente
compiacenti rispetto al ‘capo’, alimentando rancori e gelosie tra i componenti del
gruppo.

Leadership permissiva (laissez-faire)

Paradossalmente può essere la forma più negativa di conduzione di un gruppo


perché può esprimere in forma mascherata un bisogno aggressivo dello stesso
conduttore, indotto anche da possibili frustrazioni sperimentate prima o durante
l’esecuzione del lavoro comune.
Questa forma di leadership, infatti, è caratterizzata da una sostanziale
deresponsabilizzazione del leader dal suo ruolo di conduzione, per cui il gruppo è
completamente abbandonato a se stesso nell’attività da svolgere. La coesione del
gruppo è debole, il suo rendimento è basso, si lavora male, i conflitti insorgono
continuamente e non si riesce a mediarli in modo efficace perché manca chi interpreti
tale ruolo di negoziazione in maniera continuativa.

Vantaggi: se non è espressione di incapacità o demotivazione sostanziale all’esercizio


del ruolo di conduzione del gruppo da parte del leader, questo stile può talvolta essere
utile in situazioni di difficoltà; ad esempio, quando è difficile -se non impossibile-
attuare efficacemente le attività lavorative, consentendo al conduttore di prendere
tempo in attesa che chi occupa posizioni più elevate di responsabilità
nell’organigramma dell’organizzazione (cioè nella struttura gerarchica della
medesima) chiarisca gli obiettivi che il gruppo deve effettivamente raggiungere, le
risorse realmente disponibili, ecc.
Ciò peraltro potrebbe prestarsi proprio a ‘colpevolizzare’ il conduttore del gruppo che
dimostrerebbe così la sua ‘incapacità’ nell’esercitare il ruolo assegnato e diventare il
‘capro espiatorio’ della situazione.
La rete comunicativa che si determina in conseguenza di questo stile di leadership
potrebbe essere anche di tipo aperto, in cui tutti interagiscono tra di loro, ma se
l’obiettivo da raggiungere è a breve termine questo potrebbe costituire un ostacolo.

Limiti: se la conduzione è all’insegna del laissez-faire il rendimento è decisamente


basso, i componenti del gruppo, magari anche motivati all’obiettivo, possono
progressivamente vivere un senso di deresponsabilizzazione crescente e che rende più
facile l’emergere di tensioni nel gruppo.
Lo spreco delle risorse è eccessivo.
Spesso uno stile di questo genere si configura come l’altra faccia dello stile
autoritario, perché chi lo esercita può vivere l’esperienza della conduzione come
esercizio di autoritarismo invece di essere l’assunzione di una responsabilità
consapevole e da esercitarsi in contesti definiti.

Leadership democratica
Forse è la forma di conduzione di un gruppo più apprezzata perché consente di
valorizzare l’apporto creativo e autonomo di tutti i suoi componenti. Il leader appare
aperto al contributo di tutti, stimola la comunicazione diffusa, evita di precludere la
discussione, accetta la diversità, valorizzandola in modi adeguati. Essa però richiede
anche una certa direttività da parte del conduttore, intesa come guida equilibrata e
rispettosa del lavoro del gruppo anche nelle sue esigenze emozionali ma nel rispetto
del raggiungimento degli obiettivi, peraltro discussi e condivisi. In questo senso
richiede autorevolezza del conduttore, che talvolta, soprattutto se il gruppo è
paritario, può non essere immediatamente evidente o condivisa da tutti i componenti.

Vantaggi: la coesione nel gruppo così diretto è alta, buono è il rendimento; tutti
partecipano al lavoro con soddisfazione, mentre sono stimolati dal leader che
riformula i problemi continuamente alla luce dei diversi apporti. La comunicazione è
diffusa e aperta, si esce da una riunione solitamente soddisfatti del lavoro svolto.

Limiti: occorre tempo per condurre in porto il lavoro, perché la soddisfazione che i
componenti nel lavorare in questo modo provano può indurli a cercare più
l’esperienza di gratificazione che il raggiungimento dell’obiettivo che talvolta può
essere vissuto come estraneo o scarsamente definito o persino impossibile da
raggiungere. Si ha talvolta la sensazione di trovarsi in un ‘salotto a conversare’ più
che in un ‘gruppo a lavorare’.

21. Stereotipi e pregiudizi.

"Gli italiani sono passionali"; "le donne non sono portate per la matematica";
"gli adolescenti sono ribelli". Queste frasi rappresentano ciò che in psicologia sociale
chiamiamo stereotipi, ovvero le credenze sugli attributi personali di una categoria
sociale, in particolare di alcuni gruppi sociali, per esempio, le donne. In altre parole,
lo stereotipo è un insieme coerente e abbastanza rigido di credenze che un certo
gruppo condivide rispetto a un altro gruppo o categorie di persone (Mazzara, 1997;
Villano, 2003).
Come sostiene Rubert Brown (1997), ciò che accomuna tutte queste tipologie
è che lo stereotipo è una rappresentazione della realtà spesso arricchita da aspetti
valutativi e affettivi, i quali segnalano alla persona che li mette in atto quali aspetti
siano positivi e quali sono invece irrilevanti e negativi.
Per quanto riguarda il pregiudizio, dal punto di vista etimologico questo
termine indica un giudizio precedente all'esperienza, o in assenza di dati empirici, che
può intendersi quindi come più o meno errato, orientato in senso favorevole o
sfavorevole, riferito tanto ad eventi che a persone o gruppi. Le scienze sociali
interessate ad evidenziare l'utilità di questo concetto per la comprensione dei
fenomeni socialmente rilevanti, hanno aggiunto due specificazioni di significato del
termine pregiudizio, ormai diventato parte integrante del suo uso comune.
La prima specificazione riguarda il fatto che il pregiudizio si riferisca a
specifici gruppi sociali, piuttosto che a fatti o eventi; la seconda che tale pregiudizio
sia di solito sfavorevole. In quest’accezione più specifica e ristretta, il pregiudizio è
pertanto definito come la tendenza a considerare in modo ingiustificatamente
sfavorevole persone che appartengono ad un determinato gruppo sociale. A
quest’accezione si associa inoltre l'idea che il pregiudizio non si limiti alle valutazioni
rispetto all'oggetto, ma sia in grado di orientare concretamente l'azione nei suoi
confronti.
Il "passaggio all'azione" è, infatti, la caratteristiche che differenzia il
pregiudizio dallo stereotipo. Uno dei modi per orientarsi fra le diverse interpretazioni
che nel corso del tempo sono state elaborate per comprendere questi fenomeni, è
quello di individuare alcuni criteri discriminanti, rispetto ai quali le diverse
spiegazioni possono essere considerate come alternative. A tal fine i due criteri più
utili sono:

ORDINARIETA' vs. ECCEZIONALITA' DEL PREGIUDIZIO, che vede opposte da


un lato l'opinione che i pregiudizi e stereotipi si fondino su processi ordinari, tipici
della natura umana, e dall'altro lato la convinzione che si tratti di fenomeni
intrinsecamente anormali e negativi, che si sviluppano solo in condizioni di patologia
individuale o sociale;

LIVELLO DI SPIEGAZIONE PRESCELTO: INDIVIDUALE vs. SOCIALE.


Da un lato si collocano le spiegazioni che mettono l'accento sull'individuo, dall'altro
troviamo spiegazioni che spostano l'attenzione sulle interazioni tra gli esseri umani
In questa sede prenderemo in considerazione due prospettive sullo stereotipo e sul
pregiudizio che hanno dato un contributo fondamentale alla comprensione di questi
fenomeni, cominciando dalla spiegazione psicanalitica. Intorno agli anni '50
l'interesse principale delle numerose ricerche si sposta dall'analisi del contenuto
specifico degli stereotipi ai processi sottostanti questi fenomeni. L'approccio
psicodinamico concepisce gli stereotipi e i pregiudizi come espressione di bisogni
motivazionali del soggetto e di profondi conflitti intrapsichici.

Questa spiegazione, visibilmente influenzata dalle teorie freudiane, sostiene


che attraverso meccanismo di difesa come la proiezione, gli attributi negativi riferiti a
sé o ad un membro del proprio gruppo, sono percepiti invece come caratteristica di a
altri gruppi, generalmente più deboli.

Quest’approccio enfatizza il ruolo della personalità nella creazione e nel


mantenimento degli stereotipi e dei pregiudizi. Gli esempi più noti che
quest’orientamento è la teoria del capro espiratorio e gli studi sulla personalità
autoritaria di Adorno. Fra le spiegazioni che riconducono i fenomeni del pregiudizio
e dello stereotipo a processi di base, ordinari e neutrali, sono dominanti i modelli di
tipo sociocognitivo. G. Allport (1954) pubblicò "La normalità del pregiudizio",
volendo con ciò indicare che per la piena comprensione del fenomeno non si può non
riconoscere che esso si fonda su un’esasperazione di processi che per loro natura sono
ordinari.
Allport individuò l’origine di questi processi nel processo di categorizzazione:
il sistema cognitivo, di fronte all'estrema abbondanza e complessità di informazioni
da elaborare, ha come prima necessità quella di ridurre e semplificare la massa di
informazioni da trattare.
Per far ciò usa delle categorie, raggruppando le informazioni in insiemi
omogenei che possono essere trattati come un tutto unico. Il meccanismo in base al
quale operano stereotipi e pregiudizi è in pratica lo stesso: riteniamo che gli individui
che appartengono da una certa categoria siano in possesso dei tratti tipici della
categoria stessa.
L'inferenza ci porta a prevedere la corrispondenza fra certi tratti subito
rilevabili e certe caratteristiche soggettive e nascoste, insieme all'accentuazione
percettiva (il percepire oggetti inclusi in una stessa categoria come più simili di
quanto non lo siano in realtà) sono i processi cognitivi alla base degli stereotipi e
conflitti che possono costituire fattori decisivi per l’insorgere dei conflitti.

22. Il conflitto.

Il conflitto è l'espressione di una tensione e di incompatibilità tra alcune parti


che prima avevano un equilibrio positivo.
Comunemente i conflitti sono vissuti come qualcosa di fastidioso, minaccioso,
distruttivo doloroso e la maggior parte delle persone tenta di evitarli. D'altra parte è
chiaro che i conflitti ci saranno sempre, per questo motivo i conflitti devono essere
considerati in un modo diverso e più adeguato.
I conflitti sono il segnale importante di qualcosa che non va più e deve essere
modificato, sono quindi un'opportunità per migliorare e sviluppare i rapporti
reciproci.
E' il modo (costruttivo o distruttivo) in cui il conflitto è gestito a stabilire se
quest’opportunità sia colta o meno.
Una divergenza di opinioni o di idee spesso degenera in un conflitto personale.
I diversi modi di vedere rispetto a determinati problemi vengono, infatti,
trasformati in rimproveri verso l’altra persona o illazioni sul suo carattere, le sue
intenzioni, e i suoi motivi. Invece di affrontare il problema, si identifica la persona
con il problema stesso. Nella maggior parte dei conflitti, i contenuti della
controversia cambiano con l’intensificarsi del conflitto.
All’inizio si trattava di un problema singolo, col passare del tempo emergono
però nuovi e diversi problemi d’altro tipo. Il colloquio sui problemi diventa sempre
meno specifico e sempre più vago. I problemi proliferano e lasciano una sensazione
di confusività.
Alla fine anche la comunicazione diventa sempre più indiretta e sempre meno
precisa. I contendenti hanno sempre meno contatto tra loro e tendono ad intensificarlo
con le persone che condividono le loro idee. Alla crescente intensità e al crescente
coinvolgimento emotivo corrisponde la minore capacità di ascoltare e di comunicare.
In questo modo difficilmente si raggiungeranno soluzioni soddisfacenti.
Risolvere i conflitti in modo costruttivo significa cercare una soluzione al
problema senza attaccare la persona che ci sta di fronte. Quindi si tratta di evitare di
identificare la persona con il problema.
Nello stesso modo in cui si opera una distinzione fra persona e problema, così
occorre distinguere tra posizione e interesse. Le singole posizioni, vale a dire le idee
ben strutturate su come andrebbe risolto un problema, spesso sono inconciliabili tra
loro (esempi). Non sembra perciò possibile una soluzione concordata del problema.
Tuttavia nella maggior parte dei casi gli interessi che vi stanno alla base, che alla fine
sono la cosa più importante, possono essere soddisfatti in modo diverso. Se gli
interessi sono esplicitati, diventa possibile trovare delle soluzioni soddisfacenti per
tutti.
Occorre perciò focalizzarsi sugli interessi (bisogni), non sulle posizioni
(soluzioni). Nello stesso modo in cui si opera una distinzione tra persona e problema,
così occorre distinguere fra posizione e interesse. Le singole posizioni, vale a dire le
idee ben strutturate di come dovrebbe essere risolto un problema, spesso non sono
conciliabili fra di loro. Non sembra quindi possibile una soluzione concordata del
problema. Tuttavia, nella maggioranza dei casi, gli interessi che vi stanno alla base-
che sono alla fine dei conti la cosa più impartante- possono essere soddisfatti in modo
diverso. Se gli interessi sono esplicitati, diventa più spesso possibile trovare delle
soluzioni soddisfacenti per tutti.

Due sorelle si contendono un’arancia. Alla fine convengono di dividere il frutto. Una
prende la sua metà, mangia la polpa e getta la buccia. L’altra invece butta la parte
interne e usa la buccia per fare il dolce.

Come mostra l’esempio, persino interessi diversi potrebbero benissimo essere


utilizzati per raggiungere una soluzione ottimale comunque se si decidesse soltanto
dopo avere preso in esame le posizioni (“Io voglio l’arancia”) sulla base degli
interessi (“Io voglio mangiare la polpa” - “ Io voglio la buccia per fare il dolce”). Il
processo di soluzione costruttiva porta per entrambi le parti a soddisfazione e
migliora spesso il rapporto reciproco.
Quando si parla di conflitto generalmente viene in mente una lite o discussione
fra due o più persone causata dai loro diversi punti di vista su una determinata
questione: è la modalità che le persone sperimentano più facilmente e riconoscono in
quanto "conflitto". In realtà si possono distinguere tre diversi livelli:
- Intrapersonale: quando qualcuno deve decidere per esempio se accettare o meno una
proposta di lavoro che ha i suoi pro e i suoi contro
- Interpersonali: quando due persone sono in disaccordo perché hanno esigenze ed
obiettivi diversi
- Tra gruppi o categorie sociali (intergruppo): come nei casi delle dispute fra
comunità o nazioni differenti.

23. Strategie personali di risposta ai conflitti interpersonali.


Il primo passo per gestire i conflitti fra persone è capire come gli individui
affrontano queste situazioni: di fronte ad un conflitto si reagisce mettendo in atto
quello che l'abitudine e l'esperienza ha permesso di acquisire, ovvero una serie di
strategie personali di risoluzione dei conflitti. Johnson e Johnson (1991; in Atzei,
2003) affermano che per ognuno esiste un modo abbastanza spontaneo e naturale di
risolvere i conflitti.
Secondo questi studiosi è possibile associare metaforicamente le cinque
strategie che hanno individuato a cinque animali che nella nostra cultura richiamano
un modo di agire caratteristico.

- La tartaruga (fuga).
La tartaruga si ritira dentro la sua corazza per evitare il conflitto. In questo modo
rinuncia ai suoi obiettivi personali e alla relazione con gli altri. Si tiene lontana da
ogni situazione conflittuale. E' ormai convinta che non esistono soluzioni ai conflitti.

- Lo squalo (violenza).
Lo squalo cerca di forzare i suoi "nemici" forzandoli ad accettare la sua soluzione.
Per lui ciò che conta è raggiungere i suoi obiettivi a tutti i costi disprezzando la
relazione con gli altri e quindi non ponendo attenzione ai loro bisogni.

- L'orsacchiotto (modo gentili, affabili, educati).


Per l'orsacchiotto sono molto importanti le relazioni con gli altri e meno gli obiettivi e
gli interessi personali, dal momento che gli piace farsi ben accettare e dagli altri. Per
questo i suoi modi sono sempre affabili pur di non uscire male da una situazione
relazionale.
- La volpe (compromesso).
La volpe non cerca né gli obiettivi personali né la relazione con gli altri, ma piuttosto
un compromesso tra i due modo di agire: in parte rinuncia ai propri interessi, in parte
persuade gli altri a rinunciare ai propri. Quindi cerca una soluzione in cui entrambi le
parti possono guadagnare qualcosa.

Jacovitti

- Il gufo (confronto).
Il gufo persegue sia i propri obiettivi che la relazione con gli altri. Egli cerca una
soluzione che soddisfi tanto se stesso che gli altri con cui è in disaccordo.

Queste cinque strategie si distribuiscono su una scala che oscilla tra due
dimensioni molto importanti, che fungono da perni su cui si struttura il conflitto:
- Il soddisfacimento dei propri bisogni ed interessi personali
- Il mantenimento della relazione con l'altro
E' opinione diffusa che risolvere un conflitto voglia dire uscirne vincitore,
ottenere cioè, una posizione di potere ponendo l'altro in una situazione di
sottomissione.
La trasmissione culturale e educativa di questi codici si traduce in
comportamenti consolidati che, per quanto riguarda il conflitto e il suo tentativo di
risolverlo, si possono individuare come segue:

1.Dominio. (vincente perdente).


Corrisponde al binomio vincente/perdente. Questa modalità è messa in atto da chi
cerca in tutti i modi di raggiungere solo gli obiettivi personali.. Il conflitto è visto
come uno spazio in cui sopraffare l'altra persona e uscirne come vincitori. Ma la
propria vittoria è strettamente collegata alla sconfitta di chi è visto come avversario.

2. Compromesso (né vincente, né perdente).


Con questa strategia non vi è né un vincitore, né un perdente. Ciò che le parti mettono
in atto non è il tentativo di trovare una soluzione di soddisfacimento per entrambi, ma
di salvaguardare la relazione raggiungendo un accordo in cui nessuno delle due abbia
avuto più dell'altro.

3. Fuga difensiva (perdente/perdente).


Questa modalità non vede nessun vincitore, ma solo perdenti, in quanto vi è una
rinuncia sia agli obiettivi personali sia alla relazione con gli altri. Chi adotta questa
soluzione non riesca ad intravedere soluzioni; riesce solo ad allontanarsene.

4. Accomodamento (perdente/vincente).
Il binomio perdente/vincente questa volta è invertito. Con l'accomodamento la
priorità è riservata alla relazione interpersonale e al suo mantenimento, piuttosto che
al raggiungimento di interessi, obiettivi concreti. Anche qui vi è una rinuncia agli
interessi, ma soltanto da una delle due parti, la quale proprio per timore di
compromettere la relazione con l'altro, anticipando gli sviluppi negativi, preferisce
piegarsi ai suoi interessi e alla sua volontà.

5. Integrazione (vincente/vincente).
Qui il potenziale conflitto si sviluppa sul binomio vincente/perdente. Le parti hanno
entrambe lo scopo di perseguire il mantenimento della relazione. L'atteggiamento e
quello di comprendere e avvicinarsi ai bisogni e ragioni dell'altra persona, e viene
anche detto di collaborazione confronto, in cui si possono osservare azioni quali
indagare sull'origine del disaccordo, non rinunciare ad esprimere le proprie opinioni
ascoltando con empatia, lasciarsi convincere della forza delle ragioni, ecc
Come si è evince ognuna delle strategie propende prevalentemente o per
l'aspetto del raggiungimento dei bisogni o interessi, o per l'aspetto del mantenimento
della relazione.
Abitualmente si converge o verso l'obiettivo o verso l'altro: o si propende per la
relazione rinunciando a veder soddisfatti i propri interessi, oppure ci si focalizza su
ciò che si vuole ottenere in termini pratici e si trascura la relazione, rischiando di
incrinarla. Essere consapevole delle proprie strategie è il primo passo non solo per
capire su quale versante ci si trova, ma anche per preveder la possibilità di cambiare e
acquisire nuove modalità di comportamento in situazioni conflittuali. Va precisato,
comunque, che non in tutte le situazioni conflittuali è proficuo usare la stessa
modalità di risoluzione, anzi si dovrebbe possedere l'abilità di saperne usare diverse.
Ma prima ancora occorre affinare la capacità di riconoscere i diversi tipi di conflitto.

24. I diversi tipi di conflitto

Si è soliti indicare sei (6) situazioni conflittuali tipiche.

- Di interesse (o conflitto tangibile).


Avviene quando due o più persone perseguono obiettivi inconciliabili a causa di
fattori concreti, misurabili, pratici. Questo tipo di conflitto coinvolge molto spesso le
componenti delle organizzazioni che si trovano a fare delle scelte circa le risorse a
disposizione, quali il tempo, i servizi da offrire, le disponibilità economica, le risorse
umane.

- Di valori.
Si manifesta quando le persone differiscono per i loro valori, ideologie, opinioni su
questioni, o problemi o per le loro convinzioni su certi fatti. I conflitti di valori non
hanno una rapida risoluzione e non sempre si risolvono. Il più delle volte il miglior
equilibrio sta nell'imparare a coesistere nelle differenze che contraddistinguono gli
individui e a comprendere le loro prospettive, pur senza doverle abbracciare per
forza.

- Cognitivo o percettivo.
Esso ruota intorno a incomprensioni o inferenze relative agli stessi fatti o
informazioni. Questo tipo di conflitti è legato dunque, ad un problema di
comunicazione (punteggiatura della comunicazione), o un'attribuzione di significati
diversi. Un parametro importante dei conflitti è la differente percezione che ognuno
ha delle cose che vede e che sente. Esiste spesso una discrepanza tra ciò che
costituisce la realtà e ciò che le parti percepiscono come reale. Questo perché la
modalità con la quale attribuiamo significato a ciò che avviene è un processo
altamente soggettivo. I conflitti quindi spesso nascono perché vi è una diversa
inferenza sui fatti. Frasi come "..ma il non intendevo questo", possono facilmente
sfumare il dissidio. I conflitti cognitivi sono abbastanza semplici da risolvere, dando
informazioni adeguate.
- Di confine
Esso si suddivide in invasione di confine e in allargamento di confine. Il termine
confine si riferisce alla delimitazione dei ruoli e mansioni in contesti organizzativi, ad
esempio quando in un organizzazione un operatore prende una decisione o svolge
un'attività che abitualmente spettano ad altri, senza prima discuterne con gli
interessati. Il conflitto esplode perché ci si sente invasi da qualcuno che ha abusato di
un ruolo che non gli spettava, o, al contrario, ci si attendeva che un collega si
mettesse a disposizione per una certa attività, ma questi non lo considera un suo
compito. In quest'ultimo caso si ha la pretesa di espandere i confini di ruolo di un
altro senza neanche averlo interpellato. Questi conflitti sono abbastanza delicati e se
lasciati irrisolti, sfociano in conflitti interpersonali.

- Di scopi
Esso si verifica quando delle persone sono in disaccordo rispetto ad un obiettivo o al
risultato da raggiungere come quando si deve prendere una decisione o si
esprimono delle preferenze che pongono gli interessati su piani diversi.

- Interpersonale o emozionale
Si presenta quando vi è un forte coinvolgimento di emozioni. Questo tipo di conflitto
è spesso il risultato di fraintendimenti, incomprensioni, divergenze di principi, abusi
di funzioni, ecc, non riconosciuti e non affrontati in modo adeguato mentre
accadevano.

25. I piani del conflitto

Nel mondo del conflitto si intrecciano inevitabilmente il piano degli oggetti, dei
comportamenti, delle azioni, dei discorsi, ed il piano del significato che tali oggetti,
comportamenti, azioni, hanno per le persone che vi sono implicate.
Il Triangolo di Galtung

Tratto da: http://www.unisi.it/mastercomrel/articoli%20e%20saggi/il%20ruolo%20dei%20madia%20come.htm

Figura 1 – L’ABC del conflitto (da J. Galtung, 2000)

Fonte: E. Cheli, UNISI

Secondo J. Galtung (2000) alla base di ogni conflitto sono individuabili 3 elementi di fondo: gli atteggiamenti (Attitudes) i
comportamenti (Behaviours) e le contraddizioni o contrasti di interessi (Contraddiction); questi elementi danno luogo al triangolo di
figura 1, definito da Galtung l’ABC del conflitto. Dunque in un conflitto troviamo un un contrasto di interessi o una divergenza di vedute
tra le parti in causa (contraddiction) che può portare ad un blocco dei rapporti tra le due parti, a far loro sentire che non ci sono possibilità
di trovare delle valide soluzioni (scoraggiamento) e questo, a sua volta, può determinare (o incrementare, se già presente) un
atteggiamento di sfiducia, di odio, o magari di apatia; questo atteggiamento può poi portare, ad un certo momento, ad un comportamento
aggressivo, che può essere di sfida, di competizione o di “violenza” (fisica, verbale o psicologica).

La sequenza con cui si passa da un elemento all’altro non è necessariamente quella esemplificata: la manifestazione del conflitto può
iniziare con A e poi condurre a B e C ma può anche iniziare con C e poi portare a B e solo in ultimo ad A, oppure ancora iniziare con un
comportamento (B) e poi passare al punto C ed infine A, e così via. Quale che sia la sequenza con cui si manifestano, è importante
considerarli nella loro interdipendenza e non come aspetti separati.

L’emergere e il manifestarsi del conflitto non va necessariamente visto come negativo, e anzi può assolvere a molte funzioni positive,
come ad esempio portare a galla un disagio sotterraneo e magari represso, creando così i presupposti per affrontarlo, oppure può rimettere
in discussione un rapporto stanco e rivitalizzarlo. Il problema di fondo è piuttosto quello delle forme che tale manifestazione assume: si
può infatti trattare di forme distruttive, violente, oppure di forme più costruttive e comunicative che possono servire allo sviluppo positivo
dei rapporti interpersonali, interetnici, internazionali
B

IL TRIANGOLO di
GALTUNG

A C

A. PERCEZIONI SOGGETTIVE
B. COMPORTAMENTO MANIFESTO
C. OGGETTO DEL CONTENDERE. INTERESSI.

Possiamo riscontrare nei conflitti un livello manifesto (punto B), che riguarda il
comportamento conflittuale così come noi lo vediamo (esempio: violenza fisica,
verbale, litigio, ecc.), ed un livello latente (nel senso che non sempre è
immediatamente comprensibile), che riguarda sia l’oggetto del contendere, ossia il
motivo per cui si litiga (punto C), sia il cosiddetto vertice soggettivo del conflitto
(punto A).
Quando si parla di vertice soggettivo del conflitto si intendono in particolare
sentimenti, vissuti, emozioni modi di vedere e concepire il conflitto e/o l’oggetto del
contendere da parte di ciascuno dei soggetti coinvolti nel conflitto.
Chi decide di lavorare sui conflitti, come il mediatore, deve lavorare in particolare sul
vertice soggettivo; evitando quello, difficilmente il conflitto sarà gestibile! Perché?
Perché il conflitto ha la caratteristica di coinvolgere in maniera molto forte la parte
emotiva di ciascun individuo, i suoi modi di sentire, di concepire, il suo modo di
vedere le cose, che per ciascuno è unico ed inimitabile; quindi non esiste solo il
problema a causa del quale il conflitto si è acceso, ma esistono soprattutto i diversi
modi delle parti in conflitto di vivere e vedere lo stesso problema e le diverse
emozioni, i diversi stati d’animo con i quali essi affrontano il problema stesso.
Ecco perché l’ascolto è importantissimo, ecco perché chi si accinge a diventare
mediatore o è interessato alle tecniche di mediazione dei conflitti, deve fare un lavoro
molto approfondito sull’ascoltare più che sul parlare.
La mediazione tiene quindi conto, nella elaborazione del conflitto, sia della
dimensione oggettiva (il livello manifesto), sia di quella emotiva di un diverbio. In
questo modo unisce in maniera ragionevole i vantaggi dei procedimenti orientati in
un solo senso come il processo giudiziario (oggettivo) o la terapia (emotivo). Il
procedimento tiene conto in questo modo delle conoscenze della psicologia e della
ricerca di conflitti secondo i quali i sentimenti, gli atteggiamenti, i rapporti e la
comunicazione devono essere concepiti come fattori essenziali del conflitto e quindi
inseriti nel procedimento atto a trovare una soluzione.

26. I Metodi ADR (Alternative Dispute Resolution).

Molti e diversi sono gli strumenti di soluzione delle controversie riconducibili


all'ambito dell'ADR (Bouchard, Mierolo, 2000; Scaparro, 2001).
Essi però condividono la caratteristica di voler fornire una gestione privata del
conflitto, nel senso che le parti si accordano per tentare di risolverlo con dei mezzi
diversi da quelli del processo giudiziario pubblico.
Gli strumenti dell'ADR sono molteplici ma, a ben vedere, costituiscono
essenzialmente delle 'variazioni sul tema' di due modelli base: L'arbitrato e la
mediazione.
In termini generalissimi, il primo è una forma di giudizio privatizzato; la
seconda una negoziazione assistita.
L'arbitrato è una procedura secondo cui le parti si accordano per sottomettere la
loro controversia alla valutazione di un terzo (singolo o collegio) arbitro imparziale.
Il risultato della procedura è di solito una decisione (lodo) variamente vincolante.
Lo schema di massima è quello del processo-giudizio ufficiale. Rispetto a
questo, l'arbitrato ha i seguenti vantaggi:
- Diminuisce il formalismo della procedura (le parti possono accordarsi
preventivamente sulle regole da seguire per produrre documenti, testimonianze, ecc.);
- Aumenta la competenza del terzo decisore, che viene di solito designato in
quanto esperto nella materia oggetto del contendere (mentre il giudice pubblico è
'precostituito per legge);
- Accorcia drasticamente i tempi di decisione.
- Dell'arbitrato si servono soprattutto soggetti imprenditoriali e commerciali. Può
avere dei costi elevati, ma questi vengono comunque in genere ripagati dai risparmi
di tempo e dalla competenza della decisione. Dato l'informalismo della procedura,
l'arbitrato può aprirsi abbastanza agevolmente agli altri strumenti alternativi di
soluzione delle controversie; in particolare alla conciliazione.
La mediazione è invece una procedura in cui un terzo neutrale, il mediatore,
assiste le parti nel ricercare una soluzione al loro conflitto accettabile per entrambi.
A differenza dell'arbitro, il mediatore non ha il potere di prendere decisioni
vincolanti.
La mediazione può funzionare anche quando le parti non sono state capaci di
raggiungere un accordo in sede negoziale, perché il mediatore, grazie alle sue
tecniche di comunicazione e alla sua competenza in materia, può assisterle
nell'esplorare alternative che esse, da sole, non erano state capaci di prendere in
considerazione. Alcuni dei principali vantaggi della mediazione sono i seguenti:
- le parti sono coinvolte direttamente nella negoziazione dell'accordo;
- il mediatore, in quanto terzo neutrale, possiede una visione 'esterna' e oggettiva
del conflitto; proprio per questo può aiutare le parti nella ricerca di alternative
insospettate;
- la procedura è rapida e meno costosa non solo rispetto al giudizio, ma anche
all'arbitrato;
- i mediatori sono professionisti dotati di formazione specifica e di competenza
tecnica;
- è la procedura che maggiormente tutela la conservazione dei rapporti tra le
parti;
- è aperta a soluzioni creative che rispecchiano i reali interessi delle parti;
- le informazioni assunte nel corso della mediazione sono normalmente riservate
e non possono essere utilizzate nell'ambito di altre procedure, formali o informali.

27. Il procedimento della mediazione. Le fasi del processo di mediazione.

La successione dei singoli passi del processo di mediazione non deve essere rispettata
rigorosamente: a seconda del tipo di conflitto e dall’andamento del colloquio se ne
possono saltare alcuni, da riprendere eventualmente in altri momenti (Besemer,
1999).

- FASE PRELIMINARE
La miglior situazione di partenza è quando le parti in conflitto esprimono insieme il
desiderio di una mediazione e ne intraprendono i passi relativi. Tuttavia, in genere,
questo non si verifica; spesso accade che sia una sola delle due parti a prendere
l’iniziativa. I mediatori prendono allora contato con le altre parti coinvolte nel
conflitto e tentano di indurle a partecipare al colloquio di mediazione. Motivare le
parti in conflitto a partecipare può essere in alcuni casi uno dei problemi più difficili
del processo di mediazione

Prima presa di contatto delle parti in conflitto con i mediatori o viceversa oppure attraverso terzi
Parlare con tutte le parti in conflitto e motivare alla partecipazione
Preparazione di mediatori; raccogliere informazioni, parlare eventualmente con esperti, riflettere
sul modo di procedere
Eventuale pre-mediazione / consulenza per i contendenti

- IL COLLOQUIO DI MEDIAZIONE

- Introduzione
I mediatori fanno in modo che il colloquio possa aver luogo in un’atmosfera
piacevole, aperta e che ispiri fiducia. Il luogo del colloquio dovrebbe essere scelto e
organizzato accuratamente, la disposizione dei posti a sede dovrebbe rendere
possibile una comunicazione paritaria.
I partecipanti al colloquio sono informati sullo svolgimento, sul ruolo dei mediatori e
sulle regole fondamentali, quali:
- Lasciar finire di parlare
- Niente offese o zuffe

I mediatori hanno la responsabilità dell’andamento del colloquio e intervengono


quando necessario.

1. Introduzione
Creare una buona atmosfera: deve essere piacevole, rilassata, libera da paure, cooperativa, basata
sulla fiducia
Presentazione dei mediatori e dei contraenti
Stato delle cose attuale: tipo di presa di contatto e livello di informazione dei mediatori
Conferma e/o correzione: chiedere quali sono le aspettative dei partecipanti
Chiarire il processo di mediazione: procedimento, ruolo dei mediatori, regole fondamentali
(concordare)
Prendere sul serio e tenere in considerazione le renitenze
Sistemare la parte formale (contratto) e organizzativa (appuntamenti, calendario, ecc.)

Modo di vedere delle singole parti in conflitto.


Ogni parte ha ora la possibilità di raccontare il conflitto dal proprio punto di vista. Per
fare ciò le è concesso il tempo necessario per dire tutto quello che concerne la
questione. I mediatori ascoltano in modo attivo, pongono delle domande aperte
riepilogano quello che hanno sentito. Le altre parti contraenti, in questa fase si
limitano ad ascoltare e devono rimandare le loro repliche al memento in cui arriva il
proprio turno per parlare. Possono tuttavia prendere appunti per non “esplodere” e per
tenere a mente le proprie obiezioni.

Modo di vedere dei singoli contendenti


Modo di vedere di ognuno dei contendenti: raccontare ai mediatori fatti e sensazioni
Ascolto attivo e richiesta di delucidazioni da parte dei mediatori
Riassunto da parte dei mediatori
Domande di comprensione da parte dei contraenti
Risposta della controparte
Per quanto possibile e utile:
Comunicazione diretta delle parti in conflitto e accertamento di come è stato recepito dall’altra
parte
Altrimenti: comunicare per mezzo dei mediatori
Constatare affinità e differenze (mediatori)

Chiarimento del conflitto: sentimenti nascosti, interessi, retroscena.


Se non è ancora avvenuto nella fase precedente, si devono ora esprimere i sentimenti
legati al conflitto e devono anche essere sviscerati gli interessi e i desideri che stanno
realmente a cuore delle parti coinvolte. I mediatori aiutano a chiarire il conflitto
facendo domande idonee e adottando tecniche ausiliarie. La direzione in cui la
comunicazione è spostata sempre più verso il contatto tra le parti contraenti. Le frasi
fondamentali per comprendere una è parte in conflitto devono essere riepilogate dai
contraenti con parole proprie (rispecchiare).

Chiarimento del conflitto/approfondimento


Sondare i singoli problemi
Iniziare con un problema semplice e/o urgente
Sviscerare interessi, sensazioni e aspetti nascosti di cui non si è parlato fino a quel momento
Lasciare esprimere desideri, rappresentazioni ideali
Stabilire una comunicazione diretta (in particolare in caso di dichiarazioni positive, messaggi in
prima persona e desideri)
Informarsi sulla reazione dell’altra parte

Soluzione del problema: raccogliere e sviluppare possibilità di soluzione


Se con la fase precedente si è resa possibile una comprensione reciproca, ora i
contendenti possono valutare insieme come possono ricomporre le loro divergenze di
opinione. Il conflitto è diventato un problema, della cui soluzione tutti i contraenti
hanno la responsabilità. Con i metodi idonei (per esempio brainstorming) si
raccolgono spunti creativi e se ne elaborano i più interessanti affinché diventino
proposte di soluzione.

4. Soluzione del problema/abbozzo di soluzioni


Raccogliere possibilità di soluzione: raccogliere idee (brainstorming)
Presentare eventualmente idee dei mediatori
Valutazione e scelta delle idee più interessanti
Elaborazioni, impiego di informazioni oggettive

Accordo.
Le parti in conflitto si mettono d’accordo su proposte di soluzione che si ritengono
migliori. Sistemano tutte le questioni connesse con la verifica e con l’eventuale
revisione dell’accordo. Il tutto è fissato per iscritto e firmato dagli interessati

5. Accordo e attuazione
Accordo per la soluzione migliore e formulazione dell’accordo
Chiarire l’attuazione, il controllo e il modo di affrontare i problemi futuri
Sottoscrivere l’accordo
Conclusione: eventualmente un gesto conciliante, ringraziamento dei partecipanti
Incontro successivo per la valutazione e discussione dei problemi
Eventualmente ulteriore trattativa
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