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Il presente lavoro costituisce un supporto per la didattica universitaria. La Sua riproduzione è
quindi riservata ai Corsisti e alle persone autorizzate. L’eventuale utilizzazione e/o riproduzione
per scopi diversi dalla consultazione personale per motivi di studio o di ricerca, d’interesse
scientifico, culturale, comunque non autorizzati dagli Autori, al di fuori del Corso di Laurea e
dell’Ateneo di Pisa, è da considerarsi perciò illegittima.
Premessa (2017).
Alle Corsiste, ai Corsisti
Vi ripropongo questa dispensa in una delle sue varianti.
L’idea da tempo perseguita di realizzare un vero e proprio manuale insieme alla Collega Serena
Silvino non è ancora andata in porto, anche se un capitolo del testo curato da Consorti e
Valdambrini (2015) Mediazione sociale. Riflessioni teoriche e buone pratiche, Pisa, contiene un
capitolo da me scritto di sintesi di psicologia della comunicazione che potete consultare.
Una delle prime formalizzazioni teoriche apparse in tempi moderni dei modelli
di comunicazione è il classico modello di Shannon e Weaver (1949), in cui si
definisce la comunicazione come il trasferimento di informazioni da un emittente a
un ricevente a mezzo di messaggi.
Lo schema è semplice e lineare: prevede un emittente che, dopo averlo
codificato, trasmette un messaggio attraverso un canale a capacità limitata ad un
ricevente, che lo decodifica. Il processo avviene nell’ambito di un contesto che
consente di definire la natura e il tipo di comunicazione che si realizza tra i due poli
dell’interazione.
Dal punto di vista della mediazione in genere questo schema è utile perché
sottolinea la presenza di “rumori” che possono disturbare la trasmissione del
messaggio.
I “rumori” possono essere di varia natura: parole difficili, concetti confusi,
perifrasi, evocazioni connesse alla storia emozionale dei due poli del processo
comunicativo ne sono esempi.
Esistono inoltre errori connessi alla educazione ricevuta o alla struttura stessa
di personalità, che spingono a distorcere sistematicamente alcune parole o alcuni
significati.
Con l’estendersi degli studi sulla comunicazione, prendendo in esame le
modalità non verbali, si rese necessario abbandonare modelli lineari come questo, per
rendersi conto del fatto che la comunicazione non solo “passa” da un emittente ad un
ricevente, ma viene in ogni istante modulata dalle risposte che il ricevente elabora.
In primo luogo, infatti, l’informazione trasmessa origina inevitabilmente un feedback,
un segnale di ritorno che consente all’emittente di modulare la propria comunicazione
successiva, adattandola a quella che gli appare essere la situazione di chi riceve.
Basti immaginare che cosa accadrebbe se, durante una lezione, i corsisti
iniziassero ad annoiarsi, ad esprimere rumorosamente l’insofferenza con colpi di
tosse, sguardi distratti, magari se qualcuno di questi si alza e se ne va.
Anche in questo caso, apparentemente di una comunicazione ad un solo senso,
si verifica che il ricevente (il gruppo dei corsisti) influisce in modo significativo sul
comportamento dell’emittente (il docente).
Il passaggio da modelli di comunicazione a causalità lineare a modelli a
causalità circolare ha rappresentato una vera e propria rivoluzione scientifica
nell’ambito degli studi della comunicazione.
Nei modelli lineari il rapporto di causa-effetto è di tipo deterministico: si può
dire cioè che l’evento A (il passaggio dell’informazione) viene per primo, e che
l’evento B (il comportamento conseguente) è causato dal verificarsi di A. I modelli
circolari o interattivi della comunicazione invece introducono nuovi concetti tra cui è
fondamentale quello di retroazione o di feedback: tra le due parti implicate nel
processo comunicativo, si attua sempre un processo di retroazione negativa con il
quale il ricevente è in grado di far pervenire all’emittente una sua reazione a quanto
gli viene comunicato.
Il ricevente è così in grado di influire con le sue parole e con il suo
comportamento sul successivo procedere del processo comunicativo. Pertanto la
comunicazione non segue più un processo lineare (da A a B a C ecc.), bensì
circolare: il messaggio torna al punto di partenza, proprio come i dati in uscita
rientrano nel sistema arricchendo lo spazio vitale in cui si realizza l’interazione
comunicativa di ulteriori dati essenziali al mantenimento dello stesso processo
comunicativo.
La comunicazione è quindi un processo di interazione circolare dove non ha
più senso dire che l’evento A viene per primo e che l’evento B è causato dal
verificarsi di A, (non è possibile stabilire qual è la causa determinante e l’effetto
determinato, cosa viene prima e cosa viene dopo), perché commettendo lo stesso
errore si potrebbe dire che l’evento B precede l’evento A a seconda di dove si scelga
di interrompere la continuità del processo circolare.
Non c’è generalmente un inizio ed una fine, bensì ogni messaggio o
comportamento è insieme effetto e causa di altri messaggi o comportamenti.
L’assenza della consapevolezza di questo carattere circolare del processo
comunicativo produce errori spesso fatali per le relazioni interpersonali, come accade
quando sia la persona A sia la persona B dichiarano che i loro comportamenti
comunicativi sono soltanto la reazione al comportamento del partner, senza
accorgersi che sono loro stessi ad influenzare l’altro con la loro reazione.
Ciò equivale a dire che, quando vi è una comunicazione tra due o più persone,
non vi è mai solo uno scambio di contenuti e informazioni, bensì viene definito anche
il tipo di relazione che sussiste tra le persone e implicitamente se stessi.
Dire ad un guidatore inesperto che sta imparando a condurre l’auto “è
importante togliere la frizione gradatamente e dolcemente”, non è diverso, dal punto
di vista del contenuto del messaggio, dal dire “togli di colpo la frizione e rovinerai la
trasmissione del mezzo!”, mentre è assai diverso dal punto di vista relazionale,
perché nel primo caso la relazione si caratterizza nel senso dello sforzo per sostenere
le difficoltà dell’allievo, mentre nel secondo caso l’accento cade sulla posizione di
subalternità di questi rispetto al guidatore esperto che rimarca la sua superiorità
sull’altro proprio attraverso il modo in cui comunica il messaggio.
L’informazione sul contenuto è perciò data dagli aspetti semantici, mentre ciò
che codifica quella relazione è il modo del nostro messaggio: tono, gesti, parole
scelte, determinano il significato del contenuto stesso.
Lo stesso identico contenuto cambia di valore in funzione della modalità in cui
viene espresso; infatti, la domanda: “perché non provi ad ordinare il materiale
cartaceo prima di inserirle nel PC? Vedrai che ti troverai meglio” non presenta alcuna
informazione diversa dalla frase “Ordina le schede prima di inserirle nel PC!”.
Quello che cambia è la relazione: nel primo caso un collega propone una
relazione più o meno paritaria, collaborativa, mentre nel secondo caso la relazione
che viene proposta è di dominio-sottomissione.
Le risonanze emotive e le risposte comportamentali che provocano questi due
messaggi sono molto diverse: è quindi l’aspetto di relazione che chiarisce il
significato del contenuto.
Come nel caso dei due colleghi, quando qualcuno non accetta un certo
messaggio, il rifiuto spesso non è rivolto al contenuto, ma alla relazione proposta, al
“come” si comunica piuttosto che al “cosa” si veicola nel processo comunicativo.
Non seguendo il suggerimento del suo collega, il soggetto A non ha fatto altro che
contestare il tipo di relazione veicolato dalla comunicazione.
Molti dei conflitti della comunicazione nascono proprio perché i due
interlocutori non sono d’accordo su come impostare la loro relazione comunicativa.
Spesso si crede di scontrarsi per ragioni di contenuto, in realtà lo si sta facendo a
livello di relazione.
È probabile che ognuno di noi abbia fatto esperienza di scambi di opinioni,
discussioni o litigi che avevano come oggetto argomenti di nessuna importanza:
quello che è in gioco non è la scelta di un mobile rosso o di una lampada blu, ma la
definizione di “chi gioca quale ruolo” all’interno della relazione interpersonale.
Quanto più una relazione è spontanea e sana, tanto più l’aspetto relazionale della
comunicazione (“ecco come mi vedo… ecco come ti vedo… ecco come ti vedo che
mi vedi..”) recede sullo sfondo.
Viceversa le relazioni patologiche sono caratterizzate “da una lotta costante per
ridefinire la natura delle relazioni, mentre l’aspetto del contenuto della
comunicazione diventa sempre meno importante”(ibidem, p.44).
Ciò spiega il motivo per cui il mediatore è costantemente chiamato a gestire il
processo comunicativo nel senso di limitare l’incidenza della metacomunicazione e di
ricondurre le parti in conflitto all’effettivo contenuto dei messaggi oggetto della
contesa. Anche in questo caso, l’analisi del processo comunicativo è tanto essenziale
quanto rischiosa da gestire nel corso del processo di mediazione perché i “rumori”
psicologici della comunicazione, come le emozioni mal controllate, possono
interferire nella negoziazione dei significati da dare alla situazione.
Una coppia in crisi che si rivolge allo psicologo in qualità di mediatore può non
riuscire a gestire gli aspetti relazionali della vita in comune perché il marito interpreta
i cambiamenti di opinione della moglie in merito alla scelta della scuola della figlia
come una disconferma delle sue ‘giuste’ affermazioni espresse tempo addietro,
rimproverandola di non ascoltarlo mai a sufficienza.
Un’altra donna viene costantemente rimproverata dal marito perché non segue
le sue indicazioni nel fare la spesa per se stessa, essendo incapace di dare un ‘giusto’
valore ai prodotti da acquistare.
In questi due esempi, ciò che conta non è il messaggio in sé bensì quello che il
messaggio permette di ribadire sul piano relazionale (la superiorità dell’uomo sulla
donna nelle decisioni comuni). In queste situazioni conflittuali dunque non sono
importanti le opinioni dell’uno o dell’altra (gli aspetti di contenuto), bensì la
posizione reciproca all’interno della coppia (gli aspetti di relazione).
Analogamente, nella mediazione sociale, ci si può trovare nella situazione in
cui l’insegnante può rimproverare i suoi alunni che contestano –giustamente- il
comportamento della custode che non è riuscita a contenere la sua -peraltro più che
comprensibile- reazione verbale di fronte ad un comportamento poco accorto di un
alunno verso il proprio lavoro.
Anche in questo caso ciò che viene messo in discussione non è l’episodio in sé,
bensì le posizioni di status (e di potere) all’interno di un’organizzazione in cui
soggetti adulti interagiscono con soggetti in età evolutiva, alcuni de jure già adulti,
altri ancora minorenni, e nella quale chi ricopre la posizione di status più elevata (ad
esempio, il responsabile del servizio) può essere persino assente o delegare la
responsabilità del ruolo a chi non può o non vuole pienamente esercitarla.
Infatti, “la capacità di metacomunicare in modo adeguato non solo è la conditio
sine qua non della comunicazione efficace, ma è anche strettamente collegata con il
grosso problema della consapevolezza di sé e degli altri”(ibidem, p.45).
Il terzo assioma, che si richiama agli studi del matematico Bernard Bolzano
sul concetto di infinito, afferma che “la natura di una relazione dipende dalla
punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i partecipanti” (ibidem, p.51).
L’alternanza continua fra messaggio e feedback rende la comunicazione umana un
processo continuo per cui un osservatore esterno potrebbe considerare una serie di
comunicazioni come una sequenza ininterrotta di scambi.
Poniamo la situazione di un capo e del suo collaboratore in cui il primo si
comporta in maniera sempre più autoritaria e il secondo non perde occasione di
manifestare atteggiamenti sempre più polemici. Se si chiede spiegazioni di questa
situazione ai due protagonisti presi separatamente, essi si pronunceranno in maniera
simmetrica: il capo giustificherà il proprio autoritarismo a causa degli atteggiamenti
polemici del suo collaboratore, mentre quest’ultimo sosterrà di difendersi dal
comportamento del proprio capo contestandolo apertamente. La lettura non si
differenzia per i contenuti, ma per il diverso ordine in cui li pongono, o come sostiene
il terzo assioma, per il diverso modo di punteggiare la comunicazione, per cui ognuno
interpreta il proprio comportamento come una risposta a quello dell’altro.
Partendo da posizioni diverse, i due punteggiano diversamente lo stesso
scambio con la pretesa di entrambi di imporre la propria punteggiatura su quella
dell’altro.
L’errore non nasce dal fatto che una delle due prospettive sia meno corretta
dell’altra, ma da un’imprescindibile esigenza umana, quella di voler attribuire una
linearità, un inizio e una fine, ad un fenomeno che invece si configura come circolare,
al fine di renderlo più compatibile con i nostri schemi mentali per lo più improntati
alla causalità lineare.
La possibilità di interpretare il processo comunicativo in tanti modi, fa sì che
persone mosse da emozioni, aspettative, desideri diversi, segmentano diversamente la
comunicazione fra di loro. Per risolvere i casi di malintesi o di conflitti che si
generano per il diverso modo di punteggiare l’interazione, è necessario spostare il
piano del confronto: il capo e il collaboratore possono uscire dall’empasse soltanto a
patto di comunicare sulla loro comunicazione, cioè di metacomunicare. Si tratta cioè,
di parlare del loro modo di rapportarsi l’uno all’altro, di come comunicano.
E’ necessario passare dal piano dei contenuti a quello delle relazioni, cioè dagli
argomenti della comunicazione alla sua modalità: il loro problema, infatti, non è sulle
informazioni, ma sul modo, rispettivamente autoritario e polemico, di trattarle.
Finché il capo contesta il contenuto delle polemiche del proprio collaboratore,
per esempio la sua convinzione di essere sempre sfavorito nei turni, nulla cambierà; è
parlando della loro comunicazione, cioè dei loro diversi punti di vista, del loro
trattarsi reciprocamente in maniera polemica e autoritaria, che riescono a confrontarsi
sul problema.
Questo passaggio al piano della relazione (che è la metacomunicazione),
rappresenta l’unico strumento per risolvere gli inconvenienti che derivano dalla
circolarità della comunicazione.
Nel quarto assioma si afferma che “gli esseri umani comunicano sia con il
modulo numerico che con quello analogico. Il linguaggio numerico ha una sintassi
logica assai complessa e di estrema efficacia ma manca di una semantica adeguata nel
settore della relazione, mentre il linguaggio analogico ha la semantica ma non ha
nessuna sintassi adeguata per definire in un modo che non sia ambiguo la natura delle
relazioni” (ibidem, p.57). Gli esseri umani quindi comunicano sia con il linguaggio
numerico (verbale) sia con quello analogico (non verbale). Il fatto che la specie
umana, grazie alle sue caratteristiche biologiche, abbia saputo sviluppare un
linguaggio inteso come sistema di segni e simboli altamente complessi, non vuol
perciò dire che gli esseri umani utilizzino solo il linguaggio verbale per comunicare.
Quando noi comunichiamo utilizziamo due modi principali: la parola e tutte le
modalità che rientrano nell’area della comunicazione non verbale (gesti, posizione
del corpo, espressioni del viso, inflessioni della voce, la prossemica).
Il linguaggio verbale ha un’importanza particolare perché serve a scambiare
informazioni sugli oggetti, a nominarli e trasmettere la conoscenza da epoca in epoca;
il linguaggio verbale, rispetto a quello non verbale, è molto più ricco, articolato,
flessibile, capace di piegarsi alle infinite esigenze della comunicazione, in quanto
funzionale ad esprimere concetti mentali, di indicare oggetti concreti, fissare grandi
idee o accennare a sottili sfumature. Esiste però un settore in cui facciamo
assegnamento quasi esclusivamente sulla comunicazione non verbale, il settore della
relazione.
L’ultimo dei cinque assiomi della comunicazione afferma che “tutti gli scambi di
comunicazione sono simmetrici o complementari a seconda che siano basati
sull’uguaglianza o sulla differenza” (Watzlawick, 1967, op. cit., p.60).
Si ha un’interazione simmetrica quando il comportamento di un individuo
tende a rispecchiare quello dell’altro: se viene comunicato un comportamento di
sfida, le stesse caratteristiche saranno messe in evidenza dal partner, nel tentativo di
minimizzare le differenze.
Nelle relazioni complementari il comportamento di un individuo completa il
comportamento di un altro individuo: un partner assume una posizione superiore o
dominante (one-up) e l’altro occupa la posizione corrispondente (one-down).
Si può quindi descrivere le prime relazioni come basate sull’uguaglianza e le
seconde basate sulla differenza.
Appartengono alla categoria delle interazioni complementari non soltanto i
rapporti legati a certe idiosincrasie di una data coppia, ma anche quelli stabiliti dal
contesto culturale: è il caso dei rapporti tra padre-figlio, tra insegnante e alunno, tra
medico e paziente.
In molti casi è da notare che queste relazioni asimmetriche non vengono
imposte in modo esplicito, ma ciascun soggetto si comporta in modo da presupporre
il comportamento dell’altro, offrendoli al tempo stesso le ragioni perché tale
asimmetria esista e perduri nel tempo.
Nella comunicazione, i termini simmetria e complementarietà, non sono in sé
sinonimi di “buono e cattivo” o “normali e anormali”, perché entrambe svolgono
delle funzioni importanti e sono necessarie nelle relazioni sane, ovviamente
alternandosi e operando in contesti diversi.
Anche nelle relazioni più asimmetriche, come quelle fra genitore e figlio, si
può cambiare: ad esempio, nel caso di un figlio con competenze informatiche che il
padre non ha, nell’ambito dell’utilizzazione di un PC è certamente in posizione up
rispetto al padre.
Se, invece, nelle relazioni si irrigidisce una delle due modalità di entrare in
rapporto con il partner, allora si producono patologie o fallimenti comunicativi: la
simmetria, ad esempio, può degenerare in una relazione patologica in cui è dominante
una dinamica di competizione per dimostrare “che io sono meglio di te”, come
accade, ad esempio, se alla violenza si risponde con violenza, creando un escalation
di violenza senza fine.
Il legame complementare diventa patologico quando allarga la forbice della
differenza fino agli estremi, e, chi domina, lo fa in forma assoluta. Ad esempio, se ad
una critica si risponde con un complementare atteggiamento di sottomissione e a
questo fa seguito un’ulteriore risposta critica, col passare del tempo i messaggi
diventano rispettivamente sempre più critici e sempre più sottomessi.
9. Il gruppo.
Si è soliti distinguere tra i gruppi primari, come il gruppo degli amici più
intimi, e gruppi secondari, come può esserlo un gruppo di frequentanti un corso di
formazione o un gruppo di lavoro di insegnanti. La famiglia è l’esempio tipico di
gruppo primario, in cui i componenti sono affettivamente legati fra di loro.
L'interazione tra i componenti di un gruppo primario è perciò molto intensa,
emotivamente ed affettivamente coinvolge, a differenza di quanto accade in un
gruppo secondario in cui invece l'interazione è meno profonda e spesso legata ad
obiettivi determinati dal contesto organizzativo in cui il gruppo opera.
In effetti accade, come dimostrarono le ricerche condotte negli Stati Uniti tra il
1927 e il 1932, conosciute come "esperimenti Hawthorne" (dal nome dell’industria
elettrica in cui tali ricerche si svolsero), che un gruppo secondario possa tramutarsi in
un gruppo primario, come nel caso del piccolo gruppo di operaie che lavorava
all'interno di quella azienda e che risultavano, alle osservazioni dei sociologi, molto
legate fra di loro al punto che il fattore che maggiormente incideva sulla loro
produttività era proprio rappresentato da questo ‘spirito di gruppo’.
Perciò quel che contava per farle produrre di più non era tanto la promessa di
premi in denaro bensì piuttosto la loro opinione collettiva su quanto fosse giusto
lavorare di più o di meno.
Una successiva ricerca su di un gruppo di circa quindici operai della stessa
azienda confermò che anche all'interno di un gruppo secondario potevano svilupparsi
regole comuni di convivenza simili a quelle dei gruppi primari, e che si attuavano
anche attraverso le comunicazioni tra loro, con la creazione di un particolare gergo,
una suddivisione spontanea di ruoli diversi all'interno del gruppo, per cui c'era chi
guidava gli altri ma anche chi interveniva per ridurre le tensioni tra i membri o chi
invece impediva agli altri che il lavoro svolto fosse superiore a quanto stabilito dal
gruppo stesso.
Gli altri membri potevano svolgere una funzione esattamente opposta,
segnalando a chi rallentava troppo il lavoro di incentivare la sua produzione,
indicandolo con nomignoli quali ‘cesellatore’, oppure appellando ‘spione’ chi dava
informazioni che potessero mettere in difficoltà un altro membro del gruppo davanti
al caporeparto.
Occorre poi ricordare che nei gruppi possono prodursi fenomeni di distorsione
interpretativa e decisionale già a partire dalla semplice triade, come hanno dimostrato
alcuni esperimenti ormai classici di M.Sherif (1935) e S.Asch (1951; 1955,1956).
In uno di questi studi, un piccolo gruppo era inserito all'interno di una stanza
completamente buia dove si proiettava su di una parete un punto luminoso e si
chiedeva ai componenti del gruppo di valutare l'entità dello spostamento del punto
nel corso del tempo.
In effetti, ciò che accade è che il punto luminoso sembra muoversi per un
effetto percettivo conosciuto come "effetto autocinetico", una vera e propria illusione
ottica.
In altri termini, il punto non si muoveva per niente ma i componenti del gruppo
concordavano su valutazioni pressoché unanimi di questo spostamento di fatto
puramente illusorio.
In un altro esperimento (Asch, 1952, 1955) un soggetto che rappresentava la
"cavia" della situazione veniva inserito in un gruppo di collaboratori dello
sperimentatore (che facevano finta di non conoscersi tra loro).
Lo sperimentatore successivamente chiedeva al gruppo di valutare
collettivamente l'eventuale differenza di lunghezza tra delle immagini di bastoncini
proiettati su di uno schermo, comparandoli rispetto ad un altro bastoncino
"campione".
I collaboratori dello sperimentatore si erano in precedenza accordati nel fornire
le medesime risposte sbagliate anche nel caso di evidenti differenze di lunghezza tra i
diversi bastoncini.
Il soggetto sottoposto all'esperimento, assolutamente ignaro di tutto, spesso si
uniformava al giudizio espresso dal resto del gruppo.
Solo in pochi casi (seppur significativi) le “cavie” rifiutavano le valutazioni del
gruppo, dimostrando così come un gruppo può arrivare a valutazioni errate per
l'influenza esercitata sui singoli componenti dal gruppo stesso.
Per evitare queste distorsioni può essere utile l’adozione di strategie di analisi
dei problemi come il problem-solving
17. Il problem-solving.
I. Variabili strutturali.
Esse sono:
A. La numerosità.
B. Il reclutamento.
Ogni persona che entra in un gruppo è portatrice di una storia, di valori, di emozioni.
La diversità è una forza che per potersi esprimere come tale richiede di essere
riconosciuta, accettata e valorizzata, altrimenti rischia di divenire un ostacolo alla
crescita individuale e del gruppo. Se i valori e i significati ai quali una persona fa
riferimento trovano la possibilità di essere espressi chiaramente a se stessi e poi
confrontati con quelli degli altri, possono tradursi in atteggiamenti e comportamenti
condivisi. Nel caso in cui la diversità non sia riconosciuta si realizza frequentemente
una modalità relazionale di tipo verticale: il rapporto interpersonale tra i membri non
cresce mentre si alimenta l'attenzione verso il referente o il capo del gruppo dal quale
si cerca di ottenere conferma e legittimazione, al quale si esprimono le nostre
opinioni e si sente di dover rendere conto. In questi gruppi sembra che il bisogno di
stare con gli altri, e il bisogno di appartenenza siano in parte soddisfatti, mentre il
bisogno di cooperazione , di realizzare qualcosa che da soli non si riuscirebbe a fare,
rimane insoddisfatto. Una struttura di tipo orizzontale , caratterizzata da
corresponsabilità, differenziazioni di poteri e ruoli funzionali al raggiungimento degli
obiettivi, promuove l'inserimento attivo dei membri e la cooperazione cera tra loro
una stretta interdipendenza.
C. Le reti comunicative.
Fra gli indici per descrivere vari tipi di reti, importanti sono l'indice di distanza (il
numero minimo di legami di comunicazione che un individuo deve attraversare per
comunicare con un altro membro del gruppo) e l'indice di centralità, che misura il
grado di centralizzazione di una rete (cioè misura quanto le comunicazioni in un
gruppo siano centralizzate su una persona o distribuite più o meno uniformemente fra
i membri.)
Si sono messe in luce delle correlazioni tra l'indice di centralità di una rete e
certe espressioni del lavoro di gruppo: più la rete è centralizzata, meno numerose
sono le comunicazioni e più rapido è lo svolgimento del compito, anche se il morale
medio del gruppo diminuisce con la centralità. Successivamente altre ricerche
corressero l'idea che i gruppi centralizzati risolvessero i compiti più rapidamente: ciò
vale per i compiti semplici, mentre di fronte a compiti più complessi, sono più
efficienti i gruppi a rete circolare.
In un gruppo efficace la comunicazione è bi-direzionale: l' espressione aperta e
accurata delle idee e dei sentimenti, è accettata e favorita.
In un gruppo di lavoro cooperativo i membri cercano di finalizzare gli scambi
(comunicazione finalizzata) al raggiungimento sia degli obiettivi condivisi che di
quelli del singolo. La comunicazione finalizzata è un'attività concreta perché porta a
sviluppare soluzioni alternative di un problema, a prendere decisioni, a gestire
relazioni. E' una comunicazione pragmatica, perché da più importanza ai fatti e ai
dati e meno alle opinioni e ai giudizi di valore personali; si orienta verso l'operatività
del gruppo.
D. L’organizzazione spaziale.
Riguarda sia il luogo dove il gruppo si incontra, che la disposizione spaziale il gruppo
usa quando lavora. Di solito la disposizione a cerchio favorisce il coinvolgimento di
tutti i partecipanti.
… seppur con le dovute eccezioni …
E. L’organizzazione temporale.
Quando è nato il gruppo, in che fase di vita si trova, con che frequenza si incontra..
Normalmente si osserva che un gruppo cooperativo ha una vita più lunga di un
gruppo non cooperativo. Infatti l'interazione tra i membri tende essere più costante e
prolungata nel tempo, dal momento che i partecipanti percepiscono ed esperiscono
uno scambio più ricco, un aiuto costante, un sostegno.
F. Lo scopo.
Lo scopo del gruppo di lavoro dipende dal tipo di gruppo.
Nei gruppi di formazione lo scopo è far crescere le persone, in quelli di auto-aiuto la
finalità è la condivisione di problematiche personali.
G. La gerarchia.
Nei gruppi a gerarchia alta il potere appartiene ad una persona, il leader, le decisioni
vengono prese da una sola persona, che se sbaglia paga. E' la tipica struttura delle
aziende piramidali. Nei gruppi a gerarchia bassa il gruppo è responsabilizzato, le
decisioni sono prese per consenso. E' tipica delle aziende moderne in cui ci sono
pochi livelli di potere, e in cui c'è un gruppo dirigenziale e gruppi di operai
organizzati in team con empowerment. Nei gruppi cooperativi la gerarchia è bassa la
leadership e la partecipazione sono distribuite tra i membri del gruppo, il potere è ben
distribuito e condiviso.
II. Variabili di Compito
A. L'obiettivo.
C. La produttività.
Essa consiste nella quantità e qualità del materiale prodotto; es. numero di
progetti progettati e attuati nel gruppo.
D. I processi decisionali.
Ci sono diverse modalità che un gruppo può seguire per prendere una
decisione. Chiaramente non esiste una risposta univoca , valida per tutte le situazioni.
Pertanto il gruppo di volta in volta dovrà decidere scegliere e valutare quale modalità
decisionale adottare.
D. 7. Modalità fondata sul consenso: questa modalità richiede che tutti esprimano il
loro parere e che la soluzione scelta sia realmente condivisa da tutti.
E' sicuramente la modalità decisionale più difficile da conseguire, ma la
migliore in termini di soddisfazione personale e responsabilizzazione dei singoli
componenti del gruppo. Richiede tempi lunghi, apertura e fiducia reciproca fra i
membri, partecipazione e disponibilità a cambiare idea e opinione, capacità di
ascolto, e di accogliere i punti di vista dell'altro, essere consapevoli che la
partecipazione, la competenza e il potere del gruppo sono distribuiti fra tutti i suoi
membri.
A. La collaborazione.
B. La conflittualità.
C. Il clima.
1. il sostegno: si riferisce alla percezione che gli individui hanno della possibilità di
affidarsi al gruppo nelle situazioni di difficoltà;
2. il riconoscimento dei ruoli: indica i grado di percezione e accettazione delle
differenti competenze;
3. l’apertura: l'apertura di un gruppo verso i propri componenti è strettamente
connessa al livello di comunicazione;
4. la percezione comune di sentirsi liberi di esprimere le opinioni, le idee, ma anche
sentimenti e disagi per le questioni del gruppo, si traduce nella consapevolezza di
riuscire a raggiungere bene il compito mantenendo una qualità della relazione basato
sul confronto e sul dialogo.
B. Stili personali.
C. I ruoli.
Il riconoscimento dei ruoli, indica il grado di accettazione delle differenti
competenze.
Questo rafforza il senso di utilità di ognuno e la messa in atto di
un’interdipendenza positiva.
Si può contare sul contributo di tutti perché tutti hanno qualcosa da mettere a
disposizione.
Oltre ad avere una notevole incidenza sul clima di gruppo, la gestione dei ruoli
ha importanti effetti anche sul gruppo operativo.
Il ruolo può essere definito come un insieme di aspettative condivise circa il
modo in cui dovrebbe comportarsi un individuo che occupa una determinata
posizione nel gruppo.
Si comprende da qui come l'attribuzione di un ruolo assicuri un certo grado di
prevedibilità nel comportamento che verrà eseguito.
I ruoli non evidenziano solo una differenza tra gli individui, ma
conseguentemente anche la loro interrelazione, una complementarietà per il
conseguimento di finalità e obiettivi comuni.
Gli stili di leadership costituiscono un ulteriore elemento costitutivo del gruppo
di lavoro.
19. La leadership.
Il conduttore del gruppo può assumere stili di leadership assai diversi tra loro.
Il leader può esercitare una conduzione di tipo autoritario in cui non permette al
gruppo di discutere su ciò che si deve fare e imponendo forme di comunicazione e
relazione che privilegiano il rapporto diretto tra i singoli componenti del gruppo e il
conduttore stesso.
Questo stile di conduzione può essere necessario in momenti particolarmente
difficili della vita di un gruppo, ad esempio nel caso in cui vi sono forti tensioni
dovute a fattori esterni al gruppo stesso oppure in situazioni in cui il tempo necessario
a raggiungere obiettivi indispensabili per il gruppo sia limitato.
All'opposto, in altri casi chi esercita la leadership può evitare di assumere
alcuna responsabilità, promuovendo un clima di caotica interazione tra i membri del
gruppo, senza consigliare o suggerire alcun comportamento funzionale a
raggiungimento degli obiettivi (stile di conduzione laissez-faire).
Altri stili di conduzione del gruppo di lavoro sono invece di tipo democratico e
autorevole.
In questi casi il conduttore assume comportamenti che favoriscono la
comunicazione reciproca tra i membri del gruppo, manifestando attenzione e rispetto
per le diverse idee e opinioni in relazione alle attività da realizzare in modo da
assicurare una partecipazione democratica alle decisioni senza però, nel caso dello
stile autorevole, perdere di vista le finalità fondamentali del gruppo.
Leadership autoritaria.
Vantaggi: è utile quando gli obiettivi sono semplici da definire e c’è poco tempo per
raggiungerlo. Un esempio potrebbe essere quello di un gruppo che deve soccorrere
immediatamente persone in difficoltà, anche se lo stesso risultato positivo si può
avere con un gruppo ‘ben affiatato’ proprio grazie ad uno stile di leadership meno
autoritaria esercitato prima di entrare in azione.
Limiti: c’è scarsa soddisfazione per quel che si fa, stare in gruppo diventa faticoso, e
c’è il rischio di vivere l’esperienza come frustrante soprattutto per i più motivati al
lavoro, mentre i più dipendenti dall’autorità possono essere eccessivamente
compiacenti rispetto al ‘capo’, alimentando rancori e gelosie tra i componenti del
gruppo.
Leadership democratica
Forse è la forma di conduzione di un gruppo più apprezzata perché consente di
valorizzare l’apporto creativo e autonomo di tutti i suoi componenti. Il leader appare
aperto al contributo di tutti, stimola la comunicazione diffusa, evita di precludere la
discussione, accetta la diversità, valorizzandola in modi adeguati. Essa però richiede
anche una certa direttività da parte del conduttore, intesa come guida equilibrata e
rispettosa del lavoro del gruppo anche nelle sue esigenze emozionali ma nel rispetto
del raggiungimento degli obiettivi, peraltro discussi e condivisi. In questo senso
richiede autorevolezza del conduttore, che talvolta, soprattutto se il gruppo è
paritario, può non essere immediatamente evidente o condivisa da tutti i componenti.
Vantaggi: la coesione nel gruppo così diretto è alta, buono è il rendimento; tutti
partecipano al lavoro con soddisfazione, mentre sono stimolati dal leader che
riformula i problemi continuamente alla luce dei diversi apporti. La comunicazione è
diffusa e aperta, si esce da una riunione solitamente soddisfatti del lavoro svolto.
Limiti: occorre tempo per condurre in porto il lavoro, perché la soddisfazione che i
componenti nel lavorare in questo modo provano può indurli a cercare più
l’esperienza di gratificazione che il raggiungimento dell’obiettivo che talvolta può
essere vissuto come estraneo o scarsamente definito o persino impossibile da
raggiungere. Si ha talvolta la sensazione di trovarsi in un ‘salotto a conversare’ più
che in un ‘gruppo a lavorare’.
"Gli italiani sono passionali"; "le donne non sono portate per la matematica";
"gli adolescenti sono ribelli". Queste frasi rappresentano ciò che in psicologia sociale
chiamiamo stereotipi, ovvero le credenze sugli attributi personali di una categoria
sociale, in particolare di alcuni gruppi sociali, per esempio, le donne. In altre parole,
lo stereotipo è un insieme coerente e abbastanza rigido di credenze che un certo
gruppo condivide rispetto a un altro gruppo o categorie di persone (Mazzara, 1997;
Villano, 2003).
Come sostiene Rubert Brown (1997), ciò che accomuna tutte queste tipologie
è che lo stereotipo è una rappresentazione della realtà spesso arricchita da aspetti
valutativi e affettivi, i quali segnalano alla persona che li mette in atto quali aspetti
siano positivi e quali sono invece irrilevanti e negativi.
Per quanto riguarda il pregiudizio, dal punto di vista etimologico questo
termine indica un giudizio precedente all'esperienza, o in assenza di dati empirici, che
può intendersi quindi come più o meno errato, orientato in senso favorevole o
sfavorevole, riferito tanto ad eventi che a persone o gruppi. Le scienze sociali
interessate ad evidenziare l'utilità di questo concetto per la comprensione dei
fenomeni socialmente rilevanti, hanno aggiunto due specificazioni di significato del
termine pregiudizio, ormai diventato parte integrante del suo uso comune.
La prima specificazione riguarda il fatto che il pregiudizio si riferisca a
specifici gruppi sociali, piuttosto che a fatti o eventi; la seconda che tale pregiudizio
sia di solito sfavorevole. In quest’accezione più specifica e ristretta, il pregiudizio è
pertanto definito come la tendenza a considerare in modo ingiustificatamente
sfavorevole persone che appartengono ad un determinato gruppo sociale. A
quest’accezione si associa inoltre l'idea che il pregiudizio non si limiti alle valutazioni
rispetto all'oggetto, ma sia in grado di orientare concretamente l'azione nei suoi
confronti.
Il "passaggio all'azione" è, infatti, la caratteristiche che differenzia il
pregiudizio dallo stereotipo. Uno dei modi per orientarsi fra le diverse interpretazioni
che nel corso del tempo sono state elaborate per comprendere questi fenomeni, è
quello di individuare alcuni criteri discriminanti, rispetto ai quali le diverse
spiegazioni possono essere considerate come alternative. A tal fine i due criteri più
utili sono:
22. Il conflitto.
Due sorelle si contendono un’arancia. Alla fine convengono di dividere il frutto. Una
prende la sua metà, mangia la polpa e getta la buccia. L’altra invece butta la parte
interne e usa la buccia per fare il dolce.
- La tartaruga (fuga).
La tartaruga si ritira dentro la sua corazza per evitare il conflitto. In questo modo
rinuncia ai suoi obiettivi personali e alla relazione con gli altri. Si tiene lontana da
ogni situazione conflittuale. E' ormai convinta che non esistono soluzioni ai conflitti.
- Lo squalo (violenza).
Lo squalo cerca di forzare i suoi "nemici" forzandoli ad accettare la sua soluzione.
Per lui ciò che conta è raggiungere i suoi obiettivi a tutti i costi disprezzando la
relazione con gli altri e quindi non ponendo attenzione ai loro bisogni.
Jacovitti
- Il gufo (confronto).
Il gufo persegue sia i propri obiettivi che la relazione con gli altri. Egli cerca una
soluzione che soddisfi tanto se stesso che gli altri con cui è in disaccordo.
Queste cinque strategie si distribuiscono su una scala che oscilla tra due
dimensioni molto importanti, che fungono da perni su cui si struttura il conflitto:
- Il soddisfacimento dei propri bisogni ed interessi personali
- Il mantenimento della relazione con l'altro
E' opinione diffusa che risolvere un conflitto voglia dire uscirne vincitore,
ottenere cioè, una posizione di potere ponendo l'altro in una situazione di
sottomissione.
La trasmissione culturale e educativa di questi codici si traduce in
comportamenti consolidati che, per quanto riguarda il conflitto e il suo tentativo di
risolverlo, si possono individuare come segue:
4. Accomodamento (perdente/vincente).
Il binomio perdente/vincente questa volta è invertito. Con l'accomodamento la
priorità è riservata alla relazione interpersonale e al suo mantenimento, piuttosto che
al raggiungimento di interessi, obiettivi concreti. Anche qui vi è una rinuncia agli
interessi, ma soltanto da una delle due parti, la quale proprio per timore di
compromettere la relazione con l'altro, anticipando gli sviluppi negativi, preferisce
piegarsi ai suoi interessi e alla sua volontà.
5. Integrazione (vincente/vincente).
Qui il potenziale conflitto si sviluppa sul binomio vincente/perdente. Le parti hanno
entrambe lo scopo di perseguire il mantenimento della relazione. L'atteggiamento e
quello di comprendere e avvicinarsi ai bisogni e ragioni dell'altra persona, e viene
anche detto di collaborazione confronto, in cui si possono osservare azioni quali
indagare sull'origine del disaccordo, non rinunciare ad esprimere le proprie opinioni
ascoltando con empatia, lasciarsi convincere della forza delle ragioni, ecc
Come si è evince ognuna delle strategie propende prevalentemente o per
l'aspetto del raggiungimento dei bisogni o interessi, o per l'aspetto del mantenimento
della relazione.
Abitualmente si converge o verso l'obiettivo o verso l'altro: o si propende per la
relazione rinunciando a veder soddisfatti i propri interessi, oppure ci si focalizza su
ciò che si vuole ottenere in termini pratici e si trascura la relazione, rischiando di
incrinarla. Essere consapevole delle proprie strategie è il primo passo non solo per
capire su quale versante ci si trova, ma anche per preveder la possibilità di cambiare e
acquisire nuove modalità di comportamento in situazioni conflittuali. Va precisato,
comunque, che non in tutte le situazioni conflittuali è proficuo usare la stessa
modalità di risoluzione, anzi si dovrebbe possedere l'abilità di saperne usare diverse.
Ma prima ancora occorre affinare la capacità di riconoscere i diversi tipi di conflitto.
- Di valori.
Si manifesta quando le persone differiscono per i loro valori, ideologie, opinioni su
questioni, o problemi o per le loro convinzioni su certi fatti. I conflitti di valori non
hanno una rapida risoluzione e non sempre si risolvono. Il più delle volte il miglior
equilibrio sta nell'imparare a coesistere nelle differenze che contraddistinguono gli
individui e a comprendere le loro prospettive, pur senza doverle abbracciare per
forza.
- Cognitivo o percettivo.
Esso ruota intorno a incomprensioni o inferenze relative agli stessi fatti o
informazioni. Questo tipo di conflitti è legato dunque, ad un problema di
comunicazione (punteggiatura della comunicazione), o un'attribuzione di significati
diversi. Un parametro importante dei conflitti è la differente percezione che ognuno
ha delle cose che vede e che sente. Esiste spesso una discrepanza tra ciò che
costituisce la realtà e ciò che le parti percepiscono come reale. Questo perché la
modalità con la quale attribuiamo significato a ciò che avviene è un processo
altamente soggettivo. I conflitti quindi spesso nascono perché vi è una diversa
inferenza sui fatti. Frasi come "..ma il non intendevo questo", possono facilmente
sfumare il dissidio. I conflitti cognitivi sono abbastanza semplici da risolvere, dando
informazioni adeguate.
- Di confine
Esso si suddivide in invasione di confine e in allargamento di confine. Il termine
confine si riferisce alla delimitazione dei ruoli e mansioni in contesti organizzativi, ad
esempio quando in un organizzazione un operatore prende una decisione o svolge
un'attività che abitualmente spettano ad altri, senza prima discuterne con gli
interessati. Il conflitto esplode perché ci si sente invasi da qualcuno che ha abusato di
un ruolo che non gli spettava, o, al contrario, ci si attendeva che un collega si
mettesse a disposizione per una certa attività, ma questi non lo considera un suo
compito. In quest'ultimo caso si ha la pretesa di espandere i confini di ruolo di un
altro senza neanche averlo interpellato. Questi conflitti sono abbastanza delicati e se
lasciati irrisolti, sfociano in conflitti interpersonali.
- Di scopi
Esso si verifica quando delle persone sono in disaccordo rispetto ad un obiettivo o al
risultato da raggiungere come quando si deve prendere una decisione o si
esprimono delle preferenze che pongono gli interessati su piani diversi.
- Interpersonale o emozionale
Si presenta quando vi è un forte coinvolgimento di emozioni. Questo tipo di conflitto
è spesso il risultato di fraintendimenti, incomprensioni, divergenze di principi, abusi
di funzioni, ecc, non riconosciuti e non affrontati in modo adeguato mentre
accadevano.
Nel mondo del conflitto si intrecciano inevitabilmente il piano degli oggetti, dei
comportamenti, delle azioni, dei discorsi, ed il piano del significato che tali oggetti,
comportamenti, azioni, hanno per le persone che vi sono implicate.
Il Triangolo di Galtung
Secondo J. Galtung (2000) alla base di ogni conflitto sono individuabili 3 elementi di fondo: gli atteggiamenti (Attitudes) i
comportamenti (Behaviours) e le contraddizioni o contrasti di interessi (Contraddiction); questi elementi danno luogo al triangolo di
figura 1, definito da Galtung l’ABC del conflitto. Dunque in un conflitto troviamo un un contrasto di interessi o una divergenza di vedute
tra le parti in causa (contraddiction) che può portare ad un blocco dei rapporti tra le due parti, a far loro sentire che non ci sono possibilità
di trovare delle valide soluzioni (scoraggiamento) e questo, a sua volta, può determinare (o incrementare, se già presente) un
atteggiamento di sfiducia, di odio, o magari di apatia; questo atteggiamento può poi portare, ad un certo momento, ad un comportamento
aggressivo, che può essere di sfida, di competizione o di “violenza” (fisica, verbale o psicologica).
La sequenza con cui si passa da un elemento all’altro non è necessariamente quella esemplificata: la manifestazione del conflitto può
iniziare con A e poi condurre a B e C ma può anche iniziare con C e poi portare a B e solo in ultimo ad A, oppure ancora iniziare con un
comportamento (B) e poi passare al punto C ed infine A, e così via. Quale che sia la sequenza con cui si manifestano, è importante
considerarli nella loro interdipendenza e non come aspetti separati.
L’emergere e il manifestarsi del conflitto non va necessariamente visto come negativo, e anzi può assolvere a molte funzioni positive,
come ad esempio portare a galla un disagio sotterraneo e magari represso, creando così i presupposti per affrontarlo, oppure può rimettere
in discussione un rapporto stanco e rivitalizzarlo. Il problema di fondo è piuttosto quello delle forme che tale manifestazione assume: si
può infatti trattare di forme distruttive, violente, oppure di forme più costruttive e comunicative che possono servire allo sviluppo positivo
dei rapporti interpersonali, interetnici, internazionali
B
IL TRIANGOLO di
GALTUNG
A C
A. PERCEZIONI SOGGETTIVE
B. COMPORTAMENTO MANIFESTO
C. OGGETTO DEL CONTENDERE. INTERESSI.
Possiamo riscontrare nei conflitti un livello manifesto (punto B), che riguarda il
comportamento conflittuale così come noi lo vediamo (esempio: violenza fisica,
verbale, litigio, ecc.), ed un livello latente (nel senso che non sempre è
immediatamente comprensibile), che riguarda sia l’oggetto del contendere, ossia il
motivo per cui si litiga (punto C), sia il cosiddetto vertice soggettivo del conflitto
(punto A).
Quando si parla di vertice soggettivo del conflitto si intendono in particolare
sentimenti, vissuti, emozioni modi di vedere e concepire il conflitto e/o l’oggetto del
contendere da parte di ciascuno dei soggetti coinvolti nel conflitto.
Chi decide di lavorare sui conflitti, come il mediatore, deve lavorare in particolare sul
vertice soggettivo; evitando quello, difficilmente il conflitto sarà gestibile! Perché?
Perché il conflitto ha la caratteristica di coinvolgere in maniera molto forte la parte
emotiva di ciascun individuo, i suoi modi di sentire, di concepire, il suo modo di
vedere le cose, che per ciascuno è unico ed inimitabile; quindi non esiste solo il
problema a causa del quale il conflitto si è acceso, ma esistono soprattutto i diversi
modi delle parti in conflitto di vivere e vedere lo stesso problema e le diverse
emozioni, i diversi stati d’animo con i quali essi affrontano il problema stesso.
Ecco perché l’ascolto è importantissimo, ecco perché chi si accinge a diventare
mediatore o è interessato alle tecniche di mediazione dei conflitti, deve fare un lavoro
molto approfondito sull’ascoltare più che sul parlare.
La mediazione tiene quindi conto, nella elaborazione del conflitto, sia della
dimensione oggettiva (il livello manifesto), sia di quella emotiva di un diverbio. In
questo modo unisce in maniera ragionevole i vantaggi dei procedimenti orientati in
un solo senso come il processo giudiziario (oggettivo) o la terapia (emotivo). Il
procedimento tiene conto in questo modo delle conoscenze della psicologia e della
ricerca di conflitti secondo i quali i sentimenti, gli atteggiamenti, i rapporti e la
comunicazione devono essere concepiti come fattori essenziali del conflitto e quindi
inseriti nel procedimento atto a trovare una soluzione.
La successione dei singoli passi del processo di mediazione non deve essere rispettata
rigorosamente: a seconda del tipo di conflitto e dall’andamento del colloquio se ne
possono saltare alcuni, da riprendere eventualmente in altri momenti (Besemer,
1999).
- FASE PRELIMINARE
La miglior situazione di partenza è quando le parti in conflitto esprimono insieme il
desiderio di una mediazione e ne intraprendono i passi relativi. Tuttavia, in genere,
questo non si verifica; spesso accade che sia una sola delle due parti a prendere
l’iniziativa. I mediatori prendono allora contato con le altre parti coinvolte nel
conflitto e tentano di indurle a partecipare al colloquio di mediazione. Motivare le
parti in conflitto a partecipare può essere in alcuni casi uno dei problemi più difficili
del processo di mediazione
Prima presa di contatto delle parti in conflitto con i mediatori o viceversa oppure attraverso terzi
Parlare con tutte le parti in conflitto e motivare alla partecipazione
Preparazione di mediatori; raccogliere informazioni, parlare eventualmente con esperti, riflettere
sul modo di procedere
Eventuale pre-mediazione / consulenza per i contendenti
- IL COLLOQUIO DI MEDIAZIONE
- Introduzione
I mediatori fanno in modo che il colloquio possa aver luogo in un’atmosfera
piacevole, aperta e che ispiri fiducia. Il luogo del colloquio dovrebbe essere scelto e
organizzato accuratamente, la disposizione dei posti a sede dovrebbe rendere
possibile una comunicazione paritaria.
I partecipanti al colloquio sono informati sullo svolgimento, sul ruolo dei mediatori e
sulle regole fondamentali, quali:
- Lasciar finire di parlare
- Niente offese o zuffe
1. Introduzione
Creare una buona atmosfera: deve essere piacevole, rilassata, libera da paure, cooperativa, basata
sulla fiducia
Presentazione dei mediatori e dei contraenti
Stato delle cose attuale: tipo di presa di contatto e livello di informazione dei mediatori
Conferma e/o correzione: chiedere quali sono le aspettative dei partecipanti
Chiarire il processo di mediazione: procedimento, ruolo dei mediatori, regole fondamentali
(concordare)
Prendere sul serio e tenere in considerazione le renitenze
Sistemare la parte formale (contratto) e organizzativa (appuntamenti, calendario, ecc.)
Accordo.
Le parti in conflitto si mettono d’accordo su proposte di soluzione che si ritengono
migliori. Sistemano tutte le questioni connesse con la verifica e con l’eventuale
revisione dell’accordo. Il tutto è fissato per iscritto e firmato dagli interessati
5. Accordo e attuazione
Accordo per la soluzione migliore e formulazione dell’accordo
Chiarire l’attuazione, il controllo e il modo di affrontare i problemi futuri
Sottoscrivere l’accordo
Conclusione: eventualmente un gesto conciliante, ringraziamento dei partecipanti
Incontro successivo per la valutazione e discussione dei problemi
Eventualmente ulteriore trattativa
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI