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Tony Bradman
Tony Ross

LE PIÙ BELLE STORIE DAL


MONDO

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Viaggio ai confini del mondo
LA STORIA DI GIASONE E DEL VELLO D’ORO

Per essere il rampollo di una famiglia reale, Giasone non ebbe affatto
una vita facile all’inizio. Suo padre era Esone, il sovrano di una città
greca. Sfortunatamente Esone aveva un fratello perfido e astuto che si
chiamava Pelia. Un giorno Pelia fece rinchiudere Esone in una prigione e
s’impadronì del trono. Poi mandò i suoi uomini a uccidere il picciolo
Giasone. Ma la madre di Giasone riuscì a portare il figlioletto in salvo, e
con il tempo Giasone divenne un giovane onesto e coraggioso, determinato
a rimediare alle malefatte di Pelia.
Un giorno Giasone partì per la sua isola natia. Non appena mise piede a
terra, andò dritto al palazzo reale e chiese di incontrare lo zio. Le guardie
lo condussero da Pelia, che sedeva sul trono di Esone.
«Che piacere rivederti, nipote» disse Pelia «anche se ho la vaga
sensazione che tu non sia qui per una visita di cortesia. Che cosa posso
fare per te?»
«Puoi liberare mio padre e restituirgli il suo regno» disse Giasone, con
sguardo fiero. «Se lo farai immediatamente, gli chiederò di risparmiarti la
vita.»

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«Quale audacia!» disse Pelia ridendo. «Potrei farti uccidere all’istante
per tanta impudenza. Ma ho un’idea migliore. Accetto le tue richieste… a
una condizione.»
«Parla!» ribatté Giasone. «Giuro che accetterò qualsiasi condizione.»
«Molto bene» disse Pelia, rivolgendo un sorriso compiaciuto alle sue
guardie. «Sarò felice di liberare tuo padre e di restituirgli il regno… se mi
porterai il Vello d’Oro.»
Le guardie presero a sghignazzare e Giasone capì di essere caduto nel
tranello di Pelia. Recuperare il Vello d’Oro era un’impresa impossibile.

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Molti altri in passato ci avevano provato, ma nessuno era tornato indietro.
Tuttavia Giasone aveva giurato, e non si sarebbe rimangiato la parola.
«Tutto qui, zio?» disse. «Mi aspettavo qualcosa di più arduo.»
Quindi si allontanò dal palazzo a grandi passi, sentendo ancora nelle
orecchie l’eco delle risate delle guardie.
Naturalmente Giasone era molto meno sicuro di quanto avesse lasciato
credere. Non sapeva nemmeno dove fosse esattamente il Vello d’Oro.
Sapeva soltanto che, secondo la leggenda, si trovava oltre il mare.
Giasone, allora, andò a chiedere aiuto ad Argo, il più abile costruttore di
navi della Grecia.
Argo fabbricò per Giasone una splendida nave a cinquanta remi con un
albero altissimo, e Giasone la battezzò Argo. Quindi annunciò che era in
partenza per una grande avventura e che aveva bisogno di una ciurma di
eroi. I migliori guerrieri dell’epoca risposero al suo appello da ogni angolo
della Terra. Decisero di chiamarsi Argonauti (che in greco significa
“naviganti di Argo”) e salparono. Affrontarono un lungo viaggio e videro
infinite meraviglie. Superarono tempeste e mari insidiosi, passarono
indenni oltre gli scogli delle Simplegadi, lottarono contro tribù di selvaggi
e mostri. E divennero come fratelli.
A tutti quelli che incontravano, Giasone chiedeva dove si trovasse il
Vello d’Oro, ma l’unico a dare una risposta fu Re Fineo.

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Fineo era stato condannato dagli dei alla fame eterna: ogni volta che si
sedeva a tavola per mangiare veniva attaccato dalle Arpie, creature
demoniache alate, che gli rubavano il cibo di bocca. Gli Argonauti
entrarono nel palazzo di Fineo proprio mentre era in corso l’assalto delle
Arpie. Giasone, allora, sguainò la spada e corse in avanti.
«All’attacco, uomini!» gridò dando inizio a una furibonda battaglia.
Terrificanti urla si levavano ogni volta che Giasone e i suoi guerrieri
trafiggevano le Arpie con le lance, le spade e le frecce. Le Arpie
rispondevano con pesanti colpi d’ala e facendo stridere i loro artigli,
affilati come rasoi, sugli elmi e gli scudi dei guerrieri.
Ma alla fine gli Argonauti ebbero la meglio, uccidendo la maggior
parte delle Arpie e costringendo le altre alla ritirata. Fineo era così felice
che non sapeva come ringraziare Giasone.
«Deve esserci un modo per ripagarti» disse.
«Potresti dirmi dove si trova il Vello d’Oro» rispose Giasone
rinfoderando la spada. «Sempre che tu lo sappia.»
«So dove si trova» rispose Fineo facendosi pallido. «Ma preferirei che
mi chiedessi qualcos’altro. La strada per il Vello d’oro conduce a morte
sicura.»

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«L’unica cosa sicura» disse Giasone «è che devo portare a termine la
mia missione.»
Fineo fu colpito dalla determinazione di Giasone. Perciò gli rivelò che
il Vello d’Oro apparteneva a Eeta, re della Colchide, e gli indicò la strada
per arrivare in quel regno.

Giasone e gli Argonauti salutarono in fretta Fineo, e qualche giorno più


tardi entrarono in un porto della Colchide. Si trovavano all’ingresso di una
città cupa e inquietante sovrastata da un cielo grigio come il ferro. Le
mura del porto erano sorvegliate da una schiera di soldati.

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Gli Argonauti ormeggiarono al molo. Giasone andò con alcuni uomini a
chiedere udienza al re Eeta.

«Stranieri!» esordì re Eeta, la voce gelida e il volto ostile. Dietro il


trono si schierò una drappello di guardie dall’aria feroce. «Che cosa vi
porta qui nel mio regno?»
«Sono venuto per chiedervi il Vello d’Oro» replicò Giasone, pensando
che fosse meglio dire la verità. Vide che dietro le guardie si era radunata

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una piccola folla, tra cui spiccava una fanciulla dagli occhi scuri che lo
fissava con grande interesse.
«Voglio liberare mio padre in modo che possa riavere il suo regno»
continuò.
«Che novità!» borbottò Eeta con un sorriso sottile. «Non sei il primo
eroe che vuole prendersi il Vello d’Oro. Ti risponderò come ho risposto
agli altri. È tuo, figliolo. Te lo cedo di buon grado… a patto che tu faccia
qualcosa per me.»
«Di cosa si tratta?» domandò Giasone, cauto.
«Niente di difficile» rispose Eeta, rivolgendo a Giasone un altro dei
suoi sorrisi gelidi e affilati. «Dovrai solo arare un campo e seminare
qualche seme.»
Giasone era certo che Eeta stesse tramando qualcosa, ma per il
momento decise di assecondarlo. Perciò accettò le sue condizioni ed Eeta
invitò Giasone e i suoi uomini a un grande banchetto.
Giasone prese posto accanto al sovrano e di nuovo vide tra i
commensali la fanciulla dagli occhi scuri, che continuava a fissarlo
intensamente. Scoprì che si chiamava Medea ed era la figlia del re. E ben
presto scoprì che anche per lui era impossibile smettere di fissarla.
Alla fine del banchetto, Giasone e i suoi uomini lasciarono la tavola,
pronti a tornare a bordo di Argo. Ma appena fuori dal palazzo qualcuno
tirò Giasone per un braccio.
Era la principessa Medea, che lo condusse in un angolo appartato.
«Domani avrai bisogno di questo» sussurrò porgendogli un vaso
contenente un unguento. «Spalmatelo addosso prima di presentarti a
palazzo. Poi ascolta bene quello che ti dirò quando avrai finito di
seminare.»

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«A cosa serve questo unguento? E perché vuoi aiutarmi?»
Medea non rispose. Si limitò a dargli un bacio e fuggì via. Amava il
padre, ma dal primo momento aveva capito di amare Giasone molto di più.
Giasone era confuso, ma ormai era innamorato di Medea. Perciò la
mattina seguente, prima di recarsi a palazzo con i suoi uomini, si spalmò il
misterioso unguento su tutto il corpo. Eeta lo aspettava davanti ai cancelli
insieme alle sue guardie e lo condusse in un campo lì vicino. Da una parte
c’era una grande stalla. Dall’altra una folla di curiosi. Tra questi ultimi
Giasone scorse Medea, che lo salutò con un cenno del capo.
«Cominciamo!» disse Eeta. «Fate uscire i tori!»

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Le porte della stalla furono spalancate e due enormi tori si avventarono
su Giasone, lanciando fiamme dalle narici. Ma l’unguento di Medea aveva
reso Giasone invulnerabile al loro alito infuocato. L’eroe riuscì a mettere
le due bestie al giogo e arò il campo.
Gli argonauti si complimentarono con il loro comandante, ma Eeta
corrugò la fronte. «Il tuo compito non è ancora finito» disse. «Ecco i semi
che dovrai seminare.»
Eeta porse a Giasone un elmo pieno di frammenti che assomigliavano a
denti affilati. Camminando tra i solchi che aveva scavato, Giasone

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cominciò a gettare i semi da una parte e dall’altra. Non immaginava che
quei semi erano in realtà denti di drago.
Con grande orrore, vide spuntare da ogni dente un guerriero armato. E
presto, insieme ai suoi uomini, si ritrovò coinvolto in una feroce battaglia.
Finché, a un tratto, sopra il clangore delle spade e degli scudi, Giasone
udì la voce di Medea: «Getta loro l’elmo!» gridò.
Giasone ubbidì. Nell’istante in cui l’elmo atterrò tra i guerrieri, questi
cominciarono ad accapigliarsi e lottare uno contro l’altro. Pochi minuti
dopo erano tutti morti.
«Ho fatto ciò che mi avevi chiesto» gridò Giasone tornando a grandi
passi verso Eeta. «Ora tieni fede alla tua promessa e consegnami il Vello
d’Oro.»
«Certo» disse Eeta con un sorriso. «Lo troverai nel mio giardino.»
Giasone chiese ai suoi uomini di aspettarlo ed entrò da solo nel
giardino. Era un luogo buio, dalla vegetazione lussureggiante e
l’atmosfera tetra. Giasone rabbrividì e quasi fece un salto quando Medea
apparve all’improvviso al suo fianco.
«Ssh…» sussurrò lei. «Dobbiamo stare attenti a non svegliare il drago.»
Medea condusse Giasone nel cuore del giardino, dove si ergeva una
grande quercia. In quel momento Giasone si bloccò, pieno di stupore:
davanti a lui, appeso a un ramo dell’albero, c’era il Vello d’Oro. Brillava
di una luce magica ed era ancora più straordinario di quanto avesse
immaginato. Non riusciva a credere che quel tesoro così ambito – e per cui
tanti uomini erano morti – si trovasse a pochi passi da lui.
Quando vide il gigantesco drago che dormiva ai piedi della quercia,
Giasone capì perché Eeta aveva sempre quello strano sorriso sul volto: il
sovrano era certo che Giasone non avrebbe mai osato sfidare il Guardiano
del Vello. Ma Medea aveva dato una pozione al drago per farlo dormire
profondamente.

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Giasone si avvicinò furtivo e afferrò il Vello d’Oro. Il ramo si piegò e
colpì il muso squamato del drago. L’eroe arretrò, trattenendo il respiro.
Lentamente il drago aprì un occhio, poi ne aprì un altro. E quando vide
Giasone balzò in piedi con un ruggito feroce.
«Corri, Medea!» gridò Giasone. Sfoderò la spada e colpì il drago che
svettava come un gigante su di lui. Poi l’eroe si voltò e scappò dal
giardino.
Quando vide la figlia Medea correre accanto a Giasone, Eeta strabuzzò
gli occhi, stupefatto. E quando si accorse che Giasone stringeva il Vello
d’Oro sotto il braccio andò su tutte le furie.
«Uccidete gli stranieri!» gridò ai suoi uomini.
Ma proprio allora il drago balzò fuori dal giardino, ruggendo, sputando
fuoco e calpestando chiunque passasse nelle vicinanze. Il palazzo e gli
edifici circostanti presero fuoco. Il panico si diffuse tra le guardie, e
Giasone decise di approfittarne.
«Forza, uomini!» gridò sopra quel frastuono. «Tutti a bordo!»
E così gli Argonauti si allontanarono dalla Colchide a colpi di remi.
Dietro di loro una grande nuvola di fumo nero saliva verso il cielo. Medea

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era a poppa accanto a Giasone. Sapeva che probabilmente non avrebbe più
rivisto il padre, ma aveva preso la sua decisione ed era felice.
Anche Giasone era felice. Teneva il vello luccicante tra le mani e
sorrideva. Medea e i suoi fratelli Argonauti erano con lui. E presto avrebbe
liberato suo padre Esone e deposto Pelia.
Argo filava rapida verso casa, solcando le acque scure del mare al
tramonto.

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La spada nella roccia
LA STORIA DEL GIOVANE ARTÙ

Tanto tempo fa, mentre la Britannia attraversava un’epoca buia di


guerre e carestie, un giovane fanciullo di nome Artù viveva in un angolo
sperduto dell’isola insieme al padre, Sir Ettore, e al fratello maggiore,
Caio. Sir Ettore era il signore di un piccolo territorio. Dunque, Artù e la
famiglia vivevano in un castello, al sicuro, e avevano sempre di che
mangiare. Ma Artù sapeva che per molti altri la vita non era così facile.

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Caio era quasi un uomo ormai e possedeva già un cavallo, delle armi e
un’armatura. Artù aspettava impaziente il giorno in cui finalmente
avrebbe potuto montare anche lui su un cavallo, armato di una grande
spada e di uno scudo. Caio intuiva i suoi desideri e spesso si prendeva
gioco di lui e lo derideva.
Poi, in una fredda e nebbiosa mattina invernale, un messaggero giunse
al castello di Sir Ettore. Annunciò che presto ci sarebbe stato un grande
raduno di tutti i signori e i condottieri della Britannia e aggiunse che anche
Sir Ettore era invitato a partecipare. Quindi il messaggero ripartì per
portare la notizia in altri castelli.
«Posso venire anch’io?» domandò Caio, speranzoso.
«Certamente» rispose Sir Ettore. «E con noi verrà anche Artù.»
Il giovane Artù sorrise, emozionato e sorpreso al tempo stesso.
«Ma perché, padre?» disse Caio. «È ancora un bambino. È questo è un
raduno per uomini adulti.»
«Presto sarà adulto anche lui» disse Sir Ettore guardando Artù. «E in
quest’occasione avrà modo di imparare che cosa significa essere un uomo.
Inoltre, tu avrai bisogno di uno scudiero, Caio.»

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Come scudiero di Caio, Artù avrebbe dovuto prendersi cura delle armi e
dell’armatura del fratello, ma quell’incarico non gli dispiaceva affatto. E a
Caio piaceva l’idea di poter dare ordini ad Artù. Una settimana dopo, Sir
Ettore si mise in viaggio, insieme a Caio, Artù e un piccolo drappello di
soldati.
Il raduno si sarebbe tenuto a Londra, la vecchia capitale romana, che si
trovava dalla parte opposta dell’isola. Il gruppo aveva di fronte a sé un
lungo cammino.
Artù non si era mai allontanato da casa prima di allora. All’inizio lui e
Caio erano entusiasti all’idea di vedere tanti luoghi nuovi. Ma le cose

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peggiorarono durante il viaggio. Attraversarono campi, città e villaggi
devastati. Ovunque incontravano gente affamata e spaventata.
«È terribile, padre» disse un giorno Artù, sconvolto, mentre cavalcava
accanto a Sir Ettore. «Non capisco. Perché la situazione è così
drammatica?»
«È cominciato tutto quando i Romani ci hanno lasciato indifesi» disse
piano Sir Ettore, con un’espressione cupa sul volto. «I Sassoni hanno
invaso l’isola, uccidendo la nostra gente e rubandoci la nostra terra. E i
capi britannici hanno peggiorato la situazione litigando e facendosi la
guerra.»
«Perché non si uniscono e non combattono i Sassoni tutti insieme?»
chiese Artù.
«Perché non si fidano l’uno dell’altro» rispose Sir Ettore. «Dai tempi
del grande re Uter Pendragon nessuno è mai stato capace di farli ragionare.
E del resto nemmeno lui è riuscito a tenerli insieme abbastanza a lungo
per riuscire a cacciare i Sassoni.»
«Che cosa è accaduto a Uter Pendragon, padre?» chiese Artù. «È morto
in battaglia?»
«No, Artù» disse Sir Ettore. Artù notò che aveva una strana espressione.
«Si dice che alcuni condottieri tramarono contro di lui e che re Pendragon
fu avvelenato insieme alla sua famiglia. Ma nessuno hai mai scoperto che
cosa accadde davvero.»
Proseguirono il viaggio in silenzio e Artù si fece pensieroso. Avrebbe
voluto fare qualcosa per aiutare la sua gente. Ma non aveva alcun potere.
Era solo un ragazzo, troppo piccolo per sperare di combinare qualcosa in
quel duro mondo di guerrieri.
«Chi ci ha convocato a Londra?» chiese Artù dopo un po’.
«Non lo so» disse Sir Ettore. «Ma so che questa potrebbe essere la
nostra ultima possibilità di salvarci. Anche se dubito che i capi britannici
giungeranno a un accordo…»
Poi Caio affiancò Sir Ettore e Artù smise di fare domande.
Pochi giorni dopo, il gruppo giunse a Londra. Molti degli edifici
romani erano distrutti e nelle strade brulicavano uomini dallo sguardo
gelido e i volti sfregiati. Erano i condottieri britannici, accompagnati dai
loro sgherri. Un clima di sospetto aleggiava sulla città come una nebbia
densa.

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«Artù, aspetta qui» disse Sir Ector.
Mentre gli altri si allontanavano, Artù rimase solo a fare la guardia ai
cavalli e si accorse che la spada di Caio era rimasta sulla sella.
A un tratto udì delle grida in lontananza. Lasciò i cavalli per andare a
vedere che cosa stava succedendo e, mentre correva, urtò una figura alta,
scura e incappucciata, che sembrava strisciare sull’acciottolato come un
fantasma. Artù si bloccò e sentì un brivido percorrergli la schiena. Rimase
a fissare la misteriosa figura finché non si fu allontanata. Poi si riscosse e
riprese a correre.

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Due uomini discutevano animatamente, ma quando Artù giunse sul
posto i contendenti erano già stati separati e la lite si era ormai spenta.
Artù tornò subito sui suoi passi, improvvisamente inquieto. Gli bastò
un’occhiata, da lontano, per capire che la spada di Caio non era più al suo
posto. Proprio allora comparve il fratello.
«Sono venuto a prendere la mia spada» disse. «Dov’è finita?»
«Non lo so» rispose Artù. «Credo che… l’abbiano rubata.»
«È colpa tua!» ringhiò Caio. «Sei il mio scudiero. Dovevi controllarla.
Farai meglio a trovarmi un’altra spada, e anche in fretta, altrimenti dirò a
nostro padre che sei un buono a nulla.»
Artù fuggì via. Ormai era scesa la sera e si ritrovò a vagare per le strade
buie e dissestate di Londra. Ovunque c’erano capannelli di uomini che si
scaldavano intorno a falò improvvisati. Artù continuava a ripetersi che era
stato uno stupido. Come avrebbe fatto a trovare un’altra spada?
Poi, per la seconda volta, s’imbatté nella misteriosa figura alta e scura.
«Là dentro puoi trovare ciò di cui hai bisogno» disse l’uomo dalla testa
incappucciata, e indicò un punto alle spalle di Artù. Il ragazzo si voltò e
vide un grande tendone in un cortile.
Quando si voltò di nuovo, si accorse che l’uomo incappucciato era
sparito. Di nuovo sentì i brividi lungo la schiena, ma non vi prestò
attenzione.
Entrò di soppiatto nel tendone e vide una grande roccia al centro di un
cerchio formato da lunghe candele che emettevano un bagliore dorato.
Sulla pietra erano incise alcune parole, ma Artù le ignorò. Era troppo
impegnato a guardare la spada conficcata nella roccia. Afferrò l’elsa e
sfilò la spada. In quel momento avvertì come un formicolio al braccio, ma
ignorò anche quello e corse subito a cercare Caio.

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«Questa sì che è una spada!» disse Caio, mentre strappava l’arma di
mano al fratello senza nemmeno ringraziarlo.
Artù non aveva notato l’impugnatura ornata di pietre preziose e la lama
scintillante che sembrava attirare la luce. Al contrario, Sir Ettore,
sopraggiunto in quell’istante, fu subito colpito dalla spada.
«Questa non è la tua spada, Caio» osservò.

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L’uomo volle sapere che ne era stato della spada di Caio e dove si erano
procurati la nuova spada. Caio tentò di imbrogliare, disse che aveva
scambiato la sua vecchia spada con quella. Ma Sir Ettore non credette a
una parola e alla fine Artù confessò.
«Portami alla roccia, Artù» disse Sir Ettore. «Voglio vederla.»
Insieme, padre e figli ripercorsero la strada fino al cortile. Il tendone
era ancora al suo posto, come la roccia del resto. Sir Ettore si avvicinò e
lesse le parole che vi erano incise: «Colui che estrae la spada dalla roccia è
il vero re di Britannia».
«Artù ha mentito!» disse Caio. «Non è stato lui a prendere la spada.
Sono stato io. Sono io il re!»
«Bene, allora potrai compiere di nuovo questo prodigio. Rimetti la
spada nella roccia e poi estraila» disse Sir Ettore.
Caio spinse la spada nella pietra senza difficoltà. Ma quando provò a
ritirarla fuori non accadde niente. Provò di nuovo. Per la fatica divenne
paonazzo e cominciò a gemere, ma la spada non si mosse. Anche Sir
Ettore volle tentare l’impresa. L’uomo tirò con tutte le sue forze, e tuttavia
la spada rimase al suo posto.
«Tocca a te provare, Artù» disse Sir Ettore alla fine.
In preda a uno strano stordimento, Artù afferrò l’elsa, e con il più
delicato dei movimenti la sfilò dalla roccia. Di nuovo avvertì un
formicolio al braccio, ma stavolta era molto più potente. Per qualche

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istante fissò la spada, come incantato. Poi si accorse che il padre e il
fratello si erano inginocchiati ai suoi piedi.
«Che cosa fate?» disse Artù. «Io… non posso essere re.»

«Sì che puoi!» disse una voce tonante. «La prova è nelle tue mani. Sei il
figlio di un re e sarai il re dei britannici.»
Artù si guardò intorno e vide per la terza volta la figura misteriosa.
L’uomo scostò il cappuccio mostrando un volto giovane e vecchio al

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tempo stesso, gli occhi di un colore verde profondo, i capelli bianchi che
ricadevano sulla fronte alta e pallida.
«Merlino!» disse Sir Ettore. «Avrei dovuto immaginare che c’era il tuo
zampino dietro tutto questo.»
Artù aveva sentito parlare del leggendario Merlino, ma fino a quel
momento non aveva mai sospettato che il mago esistesse davvero.
Tuttavia, era più interessato alle parole di Merlino che alla sua fama.
«Mio padre è Sir Ettore» disse Artù. «Non è un re.»
«Ti ho sempre amato come un figlio, Artù» disse Sir Ettore. «Ma non
sei sangue del mio sangue. Il tuo vero padre era il grande Uter
Pendragon…»
Artù ascolto stupefatto la storia che gli raccontò Sir Ettore. Uter
Pendragon era venuto a conoscenza del piano ordito contro di lui e aveva
chiesto a Merlino di portare in salvo suo figlio Artù. Perciò, in una notte
buia e ventosa, Merlino aveva preso il bambino e lo aveva condotto al
castello di Sir Ettore. Quest’ultimo aveva promesso di crescere Artù come
un figlio e di non rivelare a nessuno che Uter Pendragon era il suo vero
padre.
«Ti ringrazio dal profondo del cuore» disse Artù alla fine.
«Giuro che qualunque cosa accada in futuro, ti considererò sempre un
padre. E tu, Caio, sarai sempre mio fratello, se anche tu lo desideri.»
Caio annuì, sorridendo, e tutti e tre si presero per mano.
«Da molto tempo veglio su di te, Artù» disse Merlino. «È giunto il
momento che tu prenda il posto che ti spetta. Sono stato io a convocare qui
i capi britannici così che possano riconoscerti come loro re. Abbiamo
bisogno di un sovrano, di qualcuno che unisca il nostro popolo e ci guidi
contro i Sassoni.»
«Ma sono troppo giovane!» disse Artù, che all’improvviso si sentiva
pieno di dubbi e paure. «Nessuno mi riconoscerà mai come capo.»
Merlino sorrise e gli disse di rimettere la spada nella roccia.
La mattina successiva, Merlino convocò tutti i condottieri e i signori
nella corte. Durante la notte il tendone era stato smantellato e adesso la
spada nella roccia era visibile a tutti. Qualcuno lesse ad alta voce la scritta
incisa nella pietra e un mormorio di stupore si levò dalla folla.
«Questa spada ci indicherà chi è il vero re» disse Merlino. «Tutti voi
dovrete sottoporvi alla prova.»

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Uno alla volta, gli uomini presenti si avvicinarono alla spada e
tentarono di sfilarla, ma senza successo. Per quanto si impegnassero e
lottassero nessuno riuscì a smuoverla.
Infine Merlino chiamò Artù. Cauto, il ragazzo si fece largo tra la folla.
I condottieri lo fissavano sospettosi. Artù impugnò l’elsa e liberò la lama
dalla roccia. Tutti sussultarono increduli.

Ma quando Artù sollevò la spada in trionfo, cominciarono a protestare.


«È un trucco. Uccidiamo il mago… e il ragazzo!»
Molti sguainarono le spade, pronti all’attacco. E d’improvviso Artù si
accorse di non avere paura. Aspettava quel momento da tutta la vita.
Sapeva ciò che doveva fare, così come al momento opportuno avrebbe
saputo come combattere i Sassoni e liberare la sua gente dalla fame e dalla
paura. Perciò balzò in avanti.
Il clangore delle armi coprì qualsiasi altro rumore. La lama della spada
di Artù scintillava nella luce del mattino, mentre il nuovo re rispondeva
colpo su colpo, con incredibile abilità, agli attacchi dei condottieri ribelli.

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Artù combatteva come un uomo, come il re di cui tutti avevano bisogno. E
presto i suoi avversari dovettero arrendersi.
Adesso Artù avvertiva quello strano formicolio in tutto il corpo. Una
luce nuova gli brillava negli occhi.
«Inchinatevi al vostro re, Britanni!» tuonò Merlino, e i guerrieri
obbedirono.
La leggenda di Re Artù era cominciata.

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Il favoloso genio
LA STORIA DI ALADINO E LA LAMPADA MAGICA

Molto tempo fa, in Cina, viveva un giovane sfaccendato e impudente di


nome Aladino. Abitava con la madre. Il padre era morto quando Aladino
era ancora un bambino, senza lasciare un soldo alla famiglia. Perciò la

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madre era costretta a lavorare duramente, giorno e notte, facendo la sarta,
la lavandaia, la sguattera e tutto quello le capitava.
Ciononostante, Aladino e la madre non avevano mai abbastanza denaro
e spesso soffrivano la fame. Bisogna ammettere che, per quanto fosse
sempre sorridente e di buon umore, Aladino non era di grande aiuto. La
madre gli voleva molto bene, ma era preoccupata per lui. Molto
preoccupata.
«Che ne sarà di te quando sarò morta?» si disperava. «Se soltanto
avessi un lavoro e trovassi il modo di mantenerti…»

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«Smettila di affliggerti» rispondeva Aladino in quei casi. Un lavoro era
l’ultima cosa che desiderava. «Qualcosa salterà fuori… Aspetta e vedrai.»
E, incredibile, qualcosa saltò fuori, anzi qualcuno.
Un giorno Aladino si trovava nella piazza del mercato della sua città.
Aveva trascorso la mattinata rubacchiando e organizzando brutti scherzi ai
danni dei mercanti, quando a un tratto sentì una mano sulla spalla. Si voltò
e vide un uomo che indossava un turbante di seta e un mantello dall’aria
molto costosa. L’uomo fissava Aladino con occhi scuri e inquietanti, ma
sorrideva.
«Finalmente ti ho trovato!» disse. «Sono tuo zio Hasan, il fratello
perduto del tuo povero padre. Che la sua anima possa riposare in pace.»
«Zio?» esclamò Aladino, sorpreso. «Non sembri uno di famiglia… E
inoltre io non ho nessuno zio.»
«Capisco, è tutta colpa mia…» disse Hasan. «Ho… lasciato il Paese
molto prima che tu nascessi… prima ancora che i tuoi genitori si
incontrassero, a dire il vero. Avrei dovuto scrivere, mantenere i contatti…
Ma non importa: adesso sono qui. Perché non mi porti a conoscere tua
madre? È ancora viva, giusto?»
«Ehm… sì…» rispose Aladino, non sapendo se fidarsi. Ma alla fine si
disse che Hasan sembrava una brava persona. E poi era entusiasta all’idea
di avere un parente così ricco. Perciò accompagnò Hasan a casa dalla
madre.
«Zio?» commentò lei, sospettosa. «Tuo padre non mi ha mai parlato di
un fratello. Oh, Aladino, quante volte devo dirti di non rivolgere la parola
agli estranei?»
«A quanto pare, dovrò faticare più del previsto per convincervi che dico
la verità» intervenne Hasan, mostrando una borsa piena di monete.
«Perché non ne parliamo davanti a un po’ di cibo? Tieni, Aladino, prendi
qualche soldo e vai a comprare del riso e dell’agnello…»
Il pranzo fu abbondante e delizioso. Mentre mangiavano, Hasan
raccontò ai padroni di casa la storia della sua vita.
«Tuo padre e io, Aladino, eravamo molto uniti finché non ho deciso di
partire per un lungo viaggio in un paese straniero. Credo di avergli
spezzato il cuore e che da allora lui non abbia più voluto pronunciare il
mio nome per non risvegliare il dolore.»

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Hasan disse anche che all’estero aveva fatto ottimi affari ed era
diventato un ricco mercante, ma nonostante questo non aveva mai smesso
di pensare al fratello. Al suo ritorno in Cina, aveva fatto subito qualche
ricerca e, quando aveva scoperto che il suo adorato fratello era morto,
aveva quasi avuto un colpo al cuore.

Alla fine del pranzo, anche la madre di Aladino era ormai convinta
della sincerità di Hasan.

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E da quel momento la loro vita cambiò drasticamente. Il giorno dopo,
quel ricco parente ritrovato comprò loro altro cibo e vestiti costosi e pagò
un anno di affitto della casa. Poi Hasan annunciò che avrebbe sistemato
Aladino per sempre, facendolo diventare un mercante.
«Ce l’abbiamo fatta!» esclamò la madre. «Le mie preghiere sono state
esaudite!»
«Possiamo cominciare anche subito» disse Hasan. «Aladino, mi
accompagnerai nel mio prossimo viaggio e ti insegnerò il mestiere.»
Hasan comprò due cammelli e quella mattina stessa partì insieme ad
Aladino. La madre rimase a guardarli mentre si allontanavano, agitando la
mano. «Aladino, ubbidisci ad Hasan!» gridò. «E comportati bene!»
Aladino fece una smorfia e salutò la madre con un gesto della mano,
senza nemmeno voltarsi. In cuor suo, però, aveva tutta l’intenzione di
comportarsi bene. Voleva sfruttare quell’occasione per imparare ed era
impaziente e nervoso al tempo stesso.Infatti, per tutto il lungo viaggio
attraverso il deserto, non smise di parlare nemmeno un attimo. Hasan,
invece, era stranamente tranquillo e taciturno, il che rese Aladino ancora
più ansioso.
Alla fine si fermarono in un luogo isolato, in mezzo al nulla. Hasan
smontò da cavallo, seguito da Aladino, e cominciò a osservare il terreno
camminando a capo chino. Dopo qualche istante, sembrò aver trovato
qualcosa.
«Non capisco» disse Aladino. «Perché ci siamo fermati qui?»
«Taci, pezzente!» ringhiò Hasan, e senza preavviso colpì Aladino con
uno schiaffo violento.
«Ma che cosa ti ho fatto!» gridò Aladino, sconvolto.
«Sono stufo delle tue chiacchiere. È ora che tu sappia che non sono tuo
zio. E se non farai quello che ti dico diventerò il tuo incubo.»
«Chi sei allora?» chiese Aladino, massaggiandosi l’orecchio.
«Uno stregone» rispose Hasan. «E grazie alle magia nera sono riuscito
a scoprire la posizione di una caverna in cui è custodito un tesoro segreto.
È proprio qui, sotto i nostri piedi.» Hasan spazzò via un po’ di sabbia e
scoprì una lastra di pietra con una grossa maniglia di metallo al centro.
«Ma sfortunatamente solo un giovane di nome Aladino può accedere alla
caverna.»

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«Perché proprio io?» domandò Aladino, confuso. «Hai detto che sei uno
stregone… dovresti avere tutte le risposte!»
«Taci, verme!» sbraitò Hasan. «Certe cose non si possono sapere. Avrei
preferito poter fare a meno di te, credimi. Ho impiegato molto tempo a
trovare te e tua madre e speso altrettanto denaro per guadagnarmi la vostra
fiducia. Ma alla fine ne sarà valsa la pena. Ora apri quella botola, e fai in
fretta!»
La mente di Aladino arrancava, cercando di assimilare tutte quelle
informazioni. Ma nonostante la confusione – e l’orecchio dolorante – il
ragazzo era curioso: un tesoro proprio sotto i suoi piedi? Afferrò la
maniglia e tirò. La botola si aprì rivelando una scalinata stretta che
scendeva nell’ombra. Ne emerse un tanfo di muffa e polvere, seguito da un
paio di pipistrelli.
«Scendi!» disse Hasan, con occhi fiammeggianti.
«Veramente, preferirei restare qui» disse Aladino. L’oscurità, la puzza e
i pipistrelli l’avevano scoraggiato, e adesso non era più così curioso. Ma
Hasan sfoderò un coltello e glielo puntò alla gola.
«D’accordo… scendo» disse Aladino.
«Molto saggio da parte tua» replicò Hasan con un sorriso maligno.
«Tutto quello che voglio è una lampada. La riconoscerai subito, non
appena la vedrai…»
Aladino mise il piede sul primo gradino con il cuore che gli martellava
nel petto. Quando giunse in fondo alla scalinata trovò una torcia. L’accese
usando una pietra focaia che portava sempre con sé. Poi sollevò la fiamma
e… sussultò per la meraviglia.
Davanti a lui c’era una caverna enorme e apparentemente senza fondo.
Il pavimento era disseminato di mucchi di monete d’oro e gioielli che
riflettevano la luce del fuoco.

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Aladino riconobbe diamanti, rubini e smeraldi. Di sicuro nemmeno il
sultano possedeva tante ricchezze.
E, proprio al centro della caverna, c’era un piedistallo di marmo che
reggeva una piccola lampada.
«Dev’essere lei» si disse Aladino. La afferrò e con sorpresa vide che
era una semplice lampada a olio, piuttosto vecchia e rovinata.
Aladino alzò le spalle e s’incamminò verso l’uscita, fermandosi a
raccogliere qua e là qualche tesoro. In breve si riempì le tasche di zaffiri,
perle e monete. Tra i vari oggetti preziosi, trovò anche un anello con un

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enorme diamante che risplendeva alla luce della torcia. Aladino rimase a
fissarlo come ipnotizzato per qualche istante, poi se lo mise al dito.
Quindi giunse ai piedi della scalinata.
«Finalmente!» disse Hasan, fissando la lampada. «Sbrigati!»
«No… Non vengo» disse Aladino. Chissà che cosa avrebbe fatto Hasan
dopo aver preso la lampada? «Io sto bene qui.»
Hasan si sforzò di essere gentile. Lo pregò, lo supplicò, cercò di
convincerlo con le lusinghe e infine lo minacciò, ma Aladino non si
muoveva.
Hasan cominciava a essere stanco, per il lungo viaggio, per le
chiacchiere interminabili di Aladino e per la frustrazione. E alla fine perse
la pazienza. «Come vuoi, resta pure laggiù!» sbottò e con un colpo secco
richiuse la botola.
Quindi lo stregone girò sui tacchi, risalì sul suo cammello e si rimise in
viaggio. E finché non giunse nella sua terra, in Marocco, molti mesi più
tardi, continuò a borbottare e inveire contro la Cina, le caverne nascoste e i
ragazzini impudenti.
Aladino intanto era bloccato nella caverna. La botola era come sigillata
e per quanto si sforzasse non riusciva a sollevarla. Allora strillò fino a
perdere la voce, ma presto dovette rassegnarsi al fatto che là fuori non
c’era più nessuno. La torcia si spense. In preda allo sconforto, Aladino si
sedette e cominciò a singhiozzare, a invocare sua madre e a tormentarsi le
mani per la disperazione, sfregando senza accorgersene l’anello col
diamante.

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All’improvviso, dal diamante si levò una sottile striscia di fumo blu,
che prese la forma di una spirale e cominciò ad allungarsi e a ruotare. Il
fumo divenne sempre più denso e brillante e in breve davanti ad Aladino si
materializzò una creatura blu, alta e muscolosa, che portava un grosso
turbante sulla testa.

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«Ohhh!» esclamò Aladino facendo un balzo all’indietro. «Chi... cosa
sei?»

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«Sono il genio dell’anello» rispose la creatura. «Qual è il tuo desiderio,
padrone?»
Dapprima Aladino rimase come interdetto. Poi si rese conto che forse
aveva una possibilità di salvarsi.
«D’accordo» disse incrociando le dita. «Portami fuori dalla caverna.»
Vide un lampo e un attimo dopo si ritrovò di nuovo all’aria aperta, sano
e salvo. Con uno sbuffo di fumo il genio rientrò nell’anello e Aladino
cominciò a danzare per la gioia. Poi saltò sul suo cammello e tornò a tutta
velocità verso casa per raccontare a sua madre che cosa era successo. Le

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disse che lo zio era in realtà uno stregone e le parlò della caverna, del
tesoro e del genio. Ma la donna non credette a una sola parola. Era
convinta che Aladino avesse litigato con Hasan, mandando all’aria
l’occasione di diventare un ricco mercante. E quando il figlio le mostrò
l’anello e i gioielli e le monete che aveva nelle tasche, lei disse che
probabilmente li aveva rubati a qualcuno.
«E quella cos’è?» chiese furiosa, indicando la lampada.
«È solo una vecchia lampada» disse Aladino, sfregandola
svogliatamente.
Dal beccuccio spirò una striscia di fumo sottile e rossastra, che presto
prese la forma di una spirale e cominciò ad allungarsi e a ruotare. Il fumo
divenne sempre più denso e brillante e in breve nella casa si materializzò
una creatura rossa, alta e muscolosa che portava un grosso turbante sulla
testa. Questo essere, però, era decisamente più grosso del precedente.
Quando sollevò il capo, la creatura fissò Aladino con occhi penetranti.
«Sono il genio della lampada» tuonò. «Qual è il tuo desiderio,
padrone?»
«Un altro!» esclamò Aladino. «Di meglio in meglio! Hai visto, madre?
Non mentivo…»
«Oh povera me!» fece in tempo a dire la donna prima di svenire.
Poco dopo si riprese, e intanto Aladino aveva scoperto che il genio
della lampada poteva esaudire qualunque desiderio.
All’inizio Aladino si sbizzarrì. Ordinò al genio di portargli cibi ancora
più abbondanti e deliziosi di quelli che aveva offerto Hasan, il tipo di
banchetto che solo un sultano avrebbe potuto permettersi. Poi gli chiese
abiti sontuosi, gioielli splendenti e profumi per la madre. A un tratto, però,
si fermò a riflettere. Doveva stare più attento. Un tale sfoggio di ricchezza
avrebbe potuto destare sospetti e, se qualcuno avesse scoperto la lampada
magica, forse avrebbe cercato di rubarla. Aladino non aveva alcuna
intenzione di dire addio alla sua fortuna.
Il ragazzo decise di tenere la lampada nascosta e di usarla solo di tanto
in tanto. Nel frattempo cominciò a lavorare come mercante e in pochi anni
divenne l’uomo più ricco della città.

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Non molto tempo dopo sposò la bella Jasmine, la figlia del sultano.
Vivevano insieme in uno splendido palazzo ed erano molto felici. Aladino
amava Jasmine, e Jasmine amava il marito e pensava che fosse un uomo
straordinario, sebbene qualcosa in lui la insospettisse. Possedeva una
lampada annerita e ammaccata, che teneva sempre chiusa in un mobile
della stanza da letto. Aladino sembrava tenere molto a quella vecchia
lampada ma non le aveva mai spiegato che cosa avesse di speciale.
A parte questo dettaglio, tutto andava a gonfie vele per la giovane
coppia di sposi – Jasmine andava perfino d’accordo con la madre di

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Aladino che viveva insieme agli sposi nel palazzo – e probabilmente le
cose non sarebbero cambiate, se non fosse stato per Hasan.
Lo stregone aveva quasi dimenticato il suo viaggio in Cina di tanti anni
prima, ma un giorno ebbe la curiosità di sapere che ne era stato di Aladino.
Pronunciò una formula magica, guardò nella sua sfera di cristallo e vide,
con enorme stupore, che la vita di quel ragazzino sfaccendato era
decisamente cambiata.
«Ha preso la lampada!» sibilò furioso.
Qualche settimana dopo Hasan giunse nella città di Aladino. Grazie alla
magia nera sapeva che la lampada era nascosta in un luogo segreto, e
aveva ordito un piano per impossessarsene. Si camuffò da vecchio
venditore di lampade e si presentò a casa di Aladino, una mattina in cui il
ragazzo era uscito.
«Si ritirano vecchie lampada in cambio di nuove!» gridò.
La madre di Aladino non udì la sua voce, ma Jasmine sì, e subito pensò
alla vecchia lampada nel mobile in camera.
Decise di fare una sorpresa ad Aladino. Gli avrebbe fatto trovare una
lampada nuova al posto di quella vecchia. Perciò andò alla porta e
consegnò la vecchia lampada ad Hasan. Lo stregone la prese e fuggì via.
Sapeva che quell’oggetto anonimo conteneva un genio potentissimo.
«Finalmente!» esclamò Hasan mentre fregava la lampada. Un attimo
dopo apparve il genio – con la solita sequela di effetti speciali,
naturalmente.

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«Genio, portami subito in Marocco» disse. «E trasporta laggiù anche il
palazzo di Aladino…»
«Ogni tuo desiderio è un ordine, padrone» disse il genio. Ed esaudì
subito le richieste di Hasan, avvolgendo lo stregone e il palazzo di Aladino
in una grande nuvola di fumo.
Nel palazzo c’erano Jasmine e, sfortunatamente, anche la madre di
Aladino.
Quando Aladino tornò a casa trovò ad attenderlo un’orrenda sorpresa:
un’enorme e spaventosa voragine aveva preso il posto del suo palazzo.
Aladino era sconvolto e tremendamente preoccupato per la moglie e la
madre, ma nessuno seppe dirgli che cosa era accaduto.
Allora cominciò ad avere qualche sospetto, e d’improvviso si ricordò
che qualcuno poteva aiutarlo a scoprire la verità. In tutti quegli anni aveva
sempre tenuto da parte il vecchio anello con il diamante, per usarlo in un
caso di emergenza.
Lo sfregò e poco dopo il genio dell’anello gli apparve. La creatura blu
gli svelò che Hasan aveva ingannato Jasmine e poi l’aveva portata in
Marocco, insieme alla madre e all’intero palazzo. Purtroppo, però, il genio
dell’anello non era abbastanza potente per riportare indietro il palazzo.

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«E va bene» disse Aladino serio. «Dovrò risolvere questa situazione da
solo.»

Chiese quindi al genio blu di portarlo in Marocco, nel suo palazzo, che
adesso si trovava vicino al mare. Aladino vi entrò di soppiatto, sperando di
non farsi sorprendere da Hasan. Fortunatamente dello stregone non c’era
traccia e Aladino riuscì a trovare facilmente Jasmine e sua madre,
entrambe felici di riabbracciarlo.
«Oh, Aladino» singhiozzò Jasmine. «Devi salvarmi da quell’uomo
orribile. Vuole che ti dimentichi e accetti di diventare la sua sposa.»
Ma Aladino era più furbo di Hasan e ideò un piano per sbarazzarsi dello
stregone una volta per tutte. Secondo alcuni, Jasmine diede ad Hasan una
pozione velenosa. Secondo altri, Aladino si nascose dietro una tenda e al
momento giusto saltò fuori e pugnalò lo stregone. Ma la verità è molto più
divertente.
Aladino disse al genio dell’anello di rimpicciolire Hasan, fino a farlo
diventare piccolo come un topolino. Po gli chiese e di rinchiuderlo in una
bottiglia magica insieme a una copia in miniatura di Aladino stesso. Ed è
lì dentro che ancora oggi si trova Hasan, intrappolato in una bottiglia e
costretto ad ascoltare all’infinito le chiacchiere e le burle di un giovane
sfacciato e petulante.
Aladino ritrovò la sua lampada e chiese al genio rosso di riportarli tutti
a casa, nel loro palazzo. E questa è all’incirca la fine della storia, eccetto

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che per qualche dettaglio: Aladino e Jasmine ebbero molti bambini e
vissero per sempre felici e contenti.

Oh, e la madre di Aladino visse a lungo e non dovette mai più lavorare,
cosa di cui fu sempre grata al figlio. Tuttavia, di tanto in tanto, non poteva
fare a meno di guardare Aladino ed esclamare: «Avresti dovuto cercarti un
lavoro normale…».
D’altra parte, si sa, alcune persone sono incontentabili.

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Il supereroe
LA STORIA DI ERCOLE E DEL MOSTRO CACO

In un tardo pomeriggio di sole, Ercole camminava lungo un sentiero


fischiettando allegramente. Era un giovane muscoloso e aitante, che
indossava delle pelli di leone come mantello e portava un’enorme clava
sulla spalla. Davanti a lui marciava una mandria di giovenche dal manto
bianco.
«Forza, belle!» disse Ercole, spingendo le vacche sul ciglio della strada.
«Stanotte ci fermeremo qui. Mi sembra il posto ideale.»
Da un lato del sentiero c’era un grande campo delimitato da una schiera
di colline basse e rocciose.
Dall’altro lato c’era un pendio che portava a un villaggio situato in riva
a un fiume. Ercole sistemò il bestiame, accese un fuoco e, mentre il sole

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tramontava e le prime stelle facevano capolino in cielo, si preparò
qualcosa da mangiare.
Quando ebbe cenato, si avvolse nel mantello e si coricò. Era stata una
bella giornata, pensò, mentre in sottofondo le giovenche muggivano e
ruminavano l’erba fresca e succosa.
Aveva appena compiuto la sua decima fatica. Adesso gli rimanevano
ancora due prove da affrontare, e poi sarebbe stato libero.
Negli ultimi tempi la vita di Ercole non era stata facile. Era celebre per
la sua incredibile forza e per il coraggio, e aveva compiuto molti atti
eroici.
Ma in questo modo aveva attirato su di sé l’ira degli dei, che erano
invidiosi della sua fama. Così si era ritrovato a servire come schiavo un
certo Re Euristeo, un uomo subdolo e malvagio, deciso a esaudire la
volontà degli dei. Naturalmente Ercole non poteva essere considerato uno
schiavo qualunque.
Perciò Euristeo gli aveva promesso che gli avrebbe restituito la libertà,
a patto che l’eroe compiesse prima dodici imprese, le quali presentavano
un unico problema: sembravano tutte impossibili.
Ercole aveva affrontato le fatiche una alla volta, con grande coraggio.
Aveva ucciso terribili mostri e bestie pericolose, domato tori impazziti,
catturato cavalli magici che correvano più veloce del vento e annientato un
gigante a tre teste che possedeva una mandria di splendide giovenche.
Quelle stesse giovenche adesso pascolavano nel campo, mentre Ercole
riposava sotto il cielo stellato. Erano animali splendidi e molto ambiti, ed
Euristeo era impaziente di accoglierli nelle sue stalle.
Ercole, dunque, non poteva considerare conclusa la decima fatica
finché non avesse consegnato la mandria al re. Ed Euristeo sapeva
esattamente quante giovenche facevano parte della mandria.
Ma mentre l’eroe dormiva e, con il sorriso sulle labbra, sognava
l’imminente libertà, accadde qualcosa di strano. Sulle colline un masso
gigantesco si mosse, come per magia, rivelando una caverna nascosta.
Un’ombra grande e scura strisciò fino al campo e raggiunse le giovenche.
La figura annusò e sogghignò.

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«Ah, carne fresca!» mormorò, soddisfatta, con voce malvagia. «Ne
prendo un po’. Saranno perfette per colazione.»
L’ombra era in realtà un’orrenda creatura chiamata Caco, un incrocio
raccapricciante tra un gigante e un mostro dotato di tentacoli. Caco viveva
in una caverna ed era il terrore degli abitanti della zona. Rapiva uomini e
animali, trascinandoli nella sua tana per poi mangiarseli vivi.

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Era una notte buia e senza luna, il fuoco si era spento da un po’, perciò
Caco non si accorse di Ercole. Prese mezza dozzina di giovenche e le portò
via così in fretta che le povere bestie non ebbero nemmeno il tempo di
lanciare un muggito di protesta.
Poco dopo il masso tornò al suo posto ed Ercole continuò a dormire
beato, ignaro di tutto.
Qualche ora dopo il sole comparve all’orizzonte e i primi raggi si
posarono sul viso dell’eroe. Ercole si alzò in piedi, si stiracchiò, cominciò
a pensare a cosa preparare per colazione, poi controllò la mandria e rimase
di sasso. Senza bisogno di contare era certo che mancassero delle
giovenche, e quando alla fine le contò risultò che ce n’erano sei in meno.
«Oh, no!» esclamò, sconfortato. «Ci mancava anche questa!»
Pensò che forse le giovenche si erano allontanate e poi perse, ma gli
sembrò improbabile. Aveva imparato che la mandria tendeva a restare
sempre unita. L’unica possibilità era che qualcuno – per esempio una
banda di perfidi ladri di bestiame – le avesse rubate.
Ercole si fece scuro in volto. Era adirato con sé stesso per non aver
sorvegliato la mandria. Ed era ancora più adirato con l’autore del furto,
che aveva messo a repentaglio la sua liberazione. Sapeva, infatti, che se si
fosse presentato a Euristeo senza la mandria al completo il sovrano gli

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avrebbe assegnato altre fatiche. Ercole, dunque, non aveva scelta: doveva
trovare gli animali e dare ai ladri una lezione che non avrebbero
dimenticato facilmente.

Controllò il terreno alla ricerca di orme o altri indizi che potessero


suggerirgli chi aveva rubato il bestiame e quale direzione aveva preso.
C’erano svariate impronte di zoccoli nel campo, ma durante la notte le
giovenche rimaste avevano calpestato i segni lasciati dal mostro.

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Si fermò a riflettere per qualche istante. Osservò le colline basse e
rocciose, poi volse lo sguardo verso il villaggio.
«Mmh, forse qualcuno laggiù può aiutarmi» mormorò.

Si assicurò che le giovenche superstiti fossero tranquille e poi si mise


in cammino di buona lena, con la clava sulla spalla. Pochi minuti più tardi
entrava nel villaggio.
Era un luogo desolato, decrepito e maleodorante. La strada principale
era un sentiero fangoso, popolato da qualche sparuta gallina. Le case erano
catapecchie che se ne stavano addossate l’una all’altra come se avessero
paura di qualcosa. In giro non si vedeva nessuno.
«C’è qualcuno?» gridò Ercole.
Non ci fu risposta, tranne quella delle galline, che starnazzarono
spaventate e fuggirono via.
Ercole era confuso. Si avvicinò a una casa e provò a bussare alla porta.
Si aprì uno spiraglio da cui fece capolino il volto pallido e atterrito di un
uomo.
«S-sì?» disse l’uomo. «Che cosa volete?»
«Sto cercando delle giovenche» disse Ercole. «Credo che me le abbiano
rubate. Sapete per caso chi può…»
«Aaah!» strillò l’uomo. «Di sicuro è stato Caco!»

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E senza aggiungere altro gli sbatté la porta in faccia. Ercole era sempre
più confuso. Non aveva idea di chi fosse questo Caco, perciò andò a
bussare alla porta accanto. Ma la scena di poco prima si ripeté. E lo stesso
accadde in tutte le altre case.
Alla fine Ercole perse la pazienza. Tornò nella prima casa, sfondò la
porta con un calcio e trascinò fuori l’uomo dal volto pallido e spaventato.
«Bene» disse Ercole, afferrando l’uomo per il bavero e sollevandolo a
mezz’aria senza sforzo. «Vorrei una risposta.»
D’improvviso l’uomo divenne loquace. Spiegò a Ercole che Caco era
una creatura sputa-fuoco, metà mostro e metà gigante. Aggiunse che di
sicuro era stato lui a rapire le giovenche di Ercole. E concluse chiedendo a
Ercole – in tono perfettamente cortese – se c’era altro che potesse fare per
lui.
«Sì» rispose Ercole. «Dimmi dove posso trovare questo Caco.»
«Sulle colline oltre i campi» balbettò l’uomo. «Ma nessuno sa
esattamente dove si nasconda. In una caverna segreta, forse.»
«Grazie» rispose Ercole lasciando la presa e facendo precipitare il
pover’uomo a terra.
L’eroe si voltò e si rimise in cammino. Nascosti dietro i loro usci
socchiusi, gli abitanti del villaggio lo spiavano incuriositi, ma lui non vi
fece caso. Stava già scrutando le colline per individuare la tana di Caco.
Non gli ci volle molto per trovarla. Sul fianco di una collina vide un
masso che sembrava coprire l’ingresso di una caverna. Vide anche delle
impronte che sparivano proprio in prossimità del masso. Ercole, allora,
salì in cima alla collina, appoggiò un orecchio a terra, si mise in ascolto e
infine sorrise. Poi cominciò a scavare fino a quando non raggiunse lo
strato di roccia.
Afferrò la pietra e tirò con tutte le sue forze. Si udì un fragore
spaventoso e… la cima della collina si staccò. Ercole se la gettò alle spalle
e l’enorme macigno atterrò su un’altra collina con un boato fortissimo.
Quindi l’eroe si sporse sul bordo dell’enorme cavità che aveva creato.
Sotto di lui c’era Caco, che lo fissava esterrefatto. Il gigante teneva tra i
tentacoli una giovenca ed era pronto ad addentarla.
«Che odore rivoltante!» commentò Ercole sventolando la mano davanti
alla faccia. Era vero: un fetore insopportabile si levava dalla caverna
adesso che era esposta all’aria aperta. Caco era accovacciato sopra un

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tappetto di ossa e altri resti indistinguibili. Ercole, che aveva già
affrontato diversi mostri in passato, pensò che quella era decisamente la
creatura più ripugnante che avesse mai incontrato.

Ma almeno le giovenche erano ancora vive: alle spalle di Caco ce


n’erano altre cinque, schiacciate contro la parete della caverna.
«Come hai potuto fare questo alla mia caverna?» ringhiò Caco. «Ti
piacerebbe se qualcuno strappasse via il tetto della tua casa? Si può sapere
chi sei?»
«Il mio nome è Ercole» rispose il nostro eroe. «E soprattutto sono il
padrone delle giovenche che hai rubato l’altra notte. Ma se me le
restituisci senza fare storie me ne vado subito e non ne parliamo più.»
Caco mise a terra la giovenca e sul suo volto comparve un ghigno
inquietante.

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«Stai scherzando, immagino» disse il gigante, mentre cominciava ad
arrampicarsi sulla parete. «Sono perfette per colazione. Per pranzo, invece,
mi mangerò te.»
Ercole indietreggiò e rimase a guardare Caco che risaliva lentamente.
Era davvero uno spettacolo orripilante. La creatura aveva il corpo di un
uomo, un uomo massiccio, ma al posto delle gambe e delle braccia esibiva
grappoli di tentacoli attorcigliati. Anche il viso era rivoltante e la bocca
era piena di enormi zanne.

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«Ascolta, non voglio guai» disse Ercole. «Voglio solo riprendermi ciò
che è mio.»
«Non vuoi guai?» sibilò Caco, che con un rumore viscido si issò sul
bordo della voragine. «Purtroppo per te è troppo tardi. Inizia a correre!»
Caco si sollevò sulle zampe e ruggì, costringendo Ercole a voltarsi e
tapparsi il naso per il fetore dell’alito. Poi il mostro cominciò a sputare
palle infuocate e l’eroe si diede alla fuga per schivarle. L’erba, i cespugli,
gli alberi che crescevano sul fianco della collina furono inghiottiti dalle
fiamme e una nuvola di fumo si levò verso il cielo.
«Allora, che te ne pare?» ruggì Caco. «E adesso arriva la parte
migliore, quella in cui ti acchiappo e ti faccio a brandelli…»
Caco si lanciò verso Ercole, schioccando la lingua e arricciando i
tentacoli.
Ercole fece un sospiro profondo e strinse la clava in pugno. Attese che i
tentacoli si avvicinassero, poi assestò un colpo fortissimo alla testa della
creatura. Si udì un sonoro CRACK! e Caco cadde a terra stordito, con gli
occhi riversi. Ercole lo afferrò per i tentacoli con la mano libera e
cominciò a farlo roteare in aria, una volta, due volte…
Al terzo giro, Ercole lasciò la presa. Caco sfrecciò nel cielo più veloce
di una saetta, trascinandosi dietro i tentacoli come una cometa con la scia.
Presto fu solo un punto lontano, e alla fine sparì del tutto. Sicuro che fosse
precipitato in fondo al mare e che nessuno l’avrebbe più rivisto, Ercole si
pulì le mani appiccicose sulla pelle di leone che indossava e si voltò.
«Un’altra missione compiuta» disse. «Peccato che non sia sulla lista
delle mie fatiche.»
Tornò in cima alla collina, turandosi il naso, e saltò dentro la voragine.
Spostò il masso davanti all’entrata e riportò le sei giovenche nel campo
insieme al resto della mandria. Era già pronto a rimettersi in viaggio verso
il regno di Euristeo, quando vide arrivare una piccola folla.
«Aspetta! Non andare!» gridò un uomo. Era lo stesso che aveva svelato
a Ercole dove si nascondeva Caco. Dietro di lui si accalcavano gli altri
abitanti del villaggio con volti visibilmente sollevati. «Abbiamo visto
cos’hai fatto» dissero. «Sei stato fantastico. Chi sei? Perché non resti qui e
diventi il nostro re?»
«Mi dispiace, ma non posso» rispose Ercole. «Purtroppo ho molte cose
da fare.»

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Gli abitanti del villaggio parevano delusi.
«Non dovete preoccuparvi» proseguì Ercole. «D’ora in poi non avrete
problemi… Senza la minaccia di Caco potrete rimettere in sesto il vostro
villaggio. A proposito… come si chiama?»
«Roma» dissero gli uomini, sorridendo.
Ercole ricambiò il sorriso. «Vedrete…» concluse, spronando le
giovenche a rimettersi in marcia. «Un giorno il vostro villaggio diventerà
una grande città che si estenderà dal fiume alle colline. Buona fortuna!»
Fischiettando, Ercole si avviò lungo il sentiero. In seguito riuscì
davvero a completare le sue dodici fatiche. Riguadagnò la libertà e compì
molti altri gesti eroici. Come aveva predetto, Roma divenne una grande
città, per giunta bella e potente. E i suoi abitanti organizzarono ogni anno
una grande festa in onore dell’eroe che aveva restituito loro la pace.

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Il fantastico viaggio di Sindbad
LA STORIA DEL MARINAIO SINDBAD

Un tempo nella città di Baghdad viveva un giovane di nome Sindbad.


Suo padre, un ricco mercante, era morto quando Sinbad era ancora un
bambino, lasciandogli tutto il suo patrimonio. Ma, non appena divenne
grande, Sinbad cominciò a darsi ai vizi e ai divertimenti, e in breve
dilapidò la sua fortuna.
Un giorno Sindbad si sveglio dopo l’ennesima notte di festeggiamenti e
si rese conto di essere nei guai. Non aveva più un soldo e, a meno che non
si fosse trovato un lavoro, sarebbe stato costretto a chiedere l’elemosina in
mezzo alla strada. Perciò decise di fare il mercante, come suo padre.
Vendette la casa e i mobili e racimolò il denaro sufficiente ad
acquistare le prime merci. Quindi disse addio agli amici e partì insieme ad
altri mercanti a bordo di una nave. Il viaggio cominciò nel migliore dei

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modi: la nave procedeva di porto in porto e i mercanti facevano ottimi
affari. Sindbad era molto soddisfatto e di nuovo fiducioso verso il futuro.
Poi un giorno, mentre la nave stava tornando a Baghdad, il marinaio di
vedetta avvistò un’isola. A bordo avevano finito le scorte di acqua e
inoltre sia i marinai che i mercanti volevano sgranchirsi le gambe sulla
terraferma. Il capitano allora ordinò di gettare l’ancora e, poco dopo, la
ciurma e i passeggeri sbarcarono sulla spiaggia. Con loro c’era anche
Sindbad.

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Era una bellissima isola. C’erano prati ricoperti di fiori esotici, alberi
carichi di frutti e un ruscello scintillante che scendeva da una collina. I
marinai e i mercanti si sdraiarono al sole, sulla spiaggia. Sindbad, invece,
decise di esplorare l’isola e si addentrò nella macchia di vegetazione.
Dopo una lunga camminata si fermò a riposare ai piedi di un albero e in
breve si addormentò.
Si risvegliò qualche ora più tardi, fresco e ritemprato, e riprese il
sentiero che portava alla spiaggia, convinto di ritrovare i suoi compagni.
Ma con grande stupore scoprì che la spiaggia era deserta, e quando scrutò
il mare alla ricerca della nave vide soltanto un piccolo puntino
all’orizzonte. Erano ripartiti senza di lui! Probabilmente non si erano
nemmeno accorti della sua assenza!

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Qualunque fosse il motivo, Sindbad era stato abbandonato sull’isola e
tutti i suoi averi – le merci, il denaro, il suo futuro – stavano scivolando
via davanti ai suoi occhi. Continuò a fissare la nave, sperando che
qualcuno a bordo si accorgesse della sua assenza e desse l’allarme al
capitano… Ma a ogni minuto che passava sapeva che quella possibilità
diventava sempre più remota.
Alla fine crollò a terra e scoppiò a piangere.
Maledisse il giorno in cui aveva deciso di lasciare Baghdad, inveì
contro la mala sorte e si convinse di essere spacciato: avrebbe trascorso il

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resto dei suoi giorni su quell’isola, lontano dalla sua terra e dai suoi amici.
Poi lentamente si ricompose.
«Così non va bene» mormorò, asciugandosi gli occhi. «Aiutati che il
ciel ti aiuta, dice il proverbio. Devo darmi da fare, e forse la situazione
non è così drammatica come credo.»
Per cominciare, decise di scoprire qualcosa in più sull’isola. Perciò
cercò un albero alto e si arrampicò.
Non si vedevano tracce di insediamenti umani. L’interno dell’isola era
dominato da una vegetazione fittissima. Eppure qualcosa, in lontananza,
attirò l’attenzione di Sindbad.
Non riusciva a vedere con chiarezza, ma gli parve di distinguere una
grande collina bianca. Scese dall’albero e si mise subito in marcia, deciso
a scoprire di che cosa si trattasse. Camminò a lungo attraverso la giungla
scura e fitta, e quando finalmente spostò l’ultimo ramo e riemerse alla
luce del sole rimase esterrefatto.
Davanti a lui c’era una gigantesca cupola, molto più grande della più
grande moschea di Baghdad. La superficie era liscia e dura come pietra.
Sindbad vi fece un giro completo intorno ma non trovò entrate, né finestre,
né altri indizi utili a scoprire che funzione avesse quella strana
costruzione.
Poi, all’improvviso, un’ombra oscurò la cupola.
Il giovane alzò gli occhi e vide qualcosa di ancor più stupefacente, un
uccello di proporzioni colossali scendeva dal cielo. «Deve essere grande
quanto Baghdad» si disse Sindbad. Poi si accorse che l’uccello puntava
dritto verso la cupola.
Corse a cercare rifugio tra la vegetazione mentre l’uccello si posava
sulla cupola. Quando trovò il coraggio di aprire gli occhi, Sindbad vide
l’enorme uccello ripiegare le ali e allungare le zampe. Così facendo rase al
suolo almeno un paio di alberi.

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Poi l’uccello emise un suono simile a un tuono, si accovaccio sulla
cupola e infine tacque.
«Sembra una gallina che cova le uova» mormorò Sindbad. D’un tratto
gli tornò in mente una storia che gli aveva raccontato un marinaio sulla
nave. Parlava di un uccello leggendario di grandezza smisurata, una
creatura chiamata Roc. Adesso Sindbad sapeva che quell’uccello non era
affatto una leggenda, ma era vero, e che la cupola bianca era in realtà un
uovo. Sindbad cominciò a riflettere e un po’ alla volta elaborò un piano. Il
Roc non passava tutto il suo tempo seduto sull’uovo, infatti Sindbad
l’aveva appena visto atterrare dal cielo. E se gli avesse chiesto un
passaggio? Non aveva niente da perdere, in fondo. Ed era certo che
ovunque il Roc l’avesse portato sarebbe stato un posto migliore di
quell’isola.
Il sole stava ormai tramontando e le ombre degli alberi si allungavano.
Era il momento ideale, pensò Sindbad. Probabilmente il Roc non si alzava
mai in volo durante la notte. Il giovane riemerse dai cespugli e, in punta di

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piedi, si avvicinò a una delle gigantesche zampe del Roc. Poi sciolse il
turbante e, usandolo come una fune, si legò agli artigli curvi del gigante.
Adesso non gli restava che aspettare – per quanto fosse molto più facile
a dirsi che a farsi.

Naturalmente non riuscì a dormire. Non faceva che pensare al suo


piano, chiedendosi se avrebbe funzionato. E se al suo risveglio il Roc si
fosse accorto di lui e l’avesse infilzato con il suo becco enorme? E se la
stoffa del turbante non avesse retto per tutto il viaggio?

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Si era appena appisolato quando fu svegliato di soprassalto da uno
scossone. Il sole era già comparso all’orizzonte e Sindbad vedeva la terra
sotto di lui scorrere velocemente e l’uovo farsi sempre più piccolo. Capì
allora che il Roc aveva preso il volo. Si aggrappò agli artigli con tutte le
sue forze, pregando che la stoffa del turbante tenesse.
Per fortuna la stoffa era resistente e presto Sindbad cominciò a godersi
il volo. Sopra di lui sventolavano le grandi ali del Roc, il vento gli soffiava
sul viso e in basso scintillava il mare, punteggiato da tanti isolotti. A un
tratto l’uccello superò la costa di una terra montuosa e cominciò a planare.
Infine atterrò, facendo schioccare ogni osso del corpo di Sindbad, che
ne uscì a pezzi, ma vivo. Prima che il Roc potesse accorgersi della sua
presenza, Sindbad sciolse il turbante e a passo svelto andò a nascondersi
dietro un grande masso. Ancora non si capacitava di essere riuscito a
superare indenne un viaggio così pericoloso. Adesso, però, doveva capire
dove si trovava e che cosa stava facendo il Roc. Perciò lentamente si
sporse dal masso.
Fu un colpo al cuore. Si trovava sul fianco di una montagna rocciosa e
ripidissima. In fondo al pendio c’era una vallata stretta e brulla, ricoperta
di massi e strani ciottoli luccicanti. La valle era circondata da grandi
montagne dalle cime proibitive. Avrebbe potuto restare prigioniero in quel
luogo per l’eternità.
Il Roc zampettava tra le rocce del pendio. A un tratto alzò il capo, e
Sindbad vide che aveva un gigantesco serpente nel becco. Ecco perché era
volato fino a lì: per cercare del cibo. Sindbad vide altri serpenti che
strisciavano rapidi per sfuggire agli artigli del grande uccello. Ma il Roc li
ignorò e riprese il volo con la sua preda nel becco. «Oh, no. Non posso
crederci…» gemette Sindbad, che non si era mai trovato in una situazione
più disperata. «Sono caduto dalla padella alla brace…»

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«Non avrei mai dovuto lasciare quell’isola.»
Laggiù almeno avrebbe trovato cibo e acqua, si disse Sindbad. E c’era
sempre la possibilità che la nave tornasse a riprenderlo. Mentre in quella
terra dimenticata da tutti non aveva nulla, se non la prospettiva di una
morte certa – un’agonia lenta per la fame e la sete o una fine rapida e
atroce tra le fauci di un serpente. Fortunatamente i serpenti erano spariti
per il momento, osservò Sindbad.
In preda allo sconforto, il giovane si lasciò cadere a terra con le spalle
appoggiate al grande masso. Presto il sole si tuffò dietro le montagne e le
tenebre spesse che avvolgevano la vallata cominciarono ad allungarsi
minacciose verso Sindbad.

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Un vento tagliente aggirava il masso e s’infiltrava nei suoi abiti leggeri.
Sindbad si alzò e si mise alla ricerca di un posto più riparato in cui
trascorrere la notte. Vide l’ingresso di una grotta bassa ed entrò. A un
tratto udì un lieve sibilo. Si voltò proprio mentre gli ultimi raggi del sole
illuminavano il fondo della grotta.
In un angolo, avvinghiato alle sue uova, c’era un serpente enorme.
Sindbad rabbrividì. Il serpente sembrava tranquillo, ma qualsiasi
movimento avrebbe potuto indispettirlo. In quel momento la grotta
precipitò nel buio, Sindbad capì di non avere altra scelta. Rimase
immobile, come pietrificato dalla paura, per tutta la notte.
Non appena il primo raggio di sole rischiarò la caverna, saltò in piedi e
corse fuori, più veloce che poteva. Aveva fatto solo pochi passi quando
un’ombra lo sfiorò e atterrò davanti ai suoi piedi.

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L’ombra rotolò per un tratto giù dal pendio, e Sindbad la seguì
incuriosito. Poi, quando capì di che cosa si trattava, arretrò disgustato. Era
la carcassa di una pecora. Nelle carni putrefatte erano conficcati gli stessi
ciottoli luccicanti che ricoprivano il fondo della vallata.
Fu allora che gli tornò in mente un’altra storia che aveva sentito sulla
nave.
Un marinaio gli aveva raccontato delle leggendarie Montagne di
Diamanti che circondavano una valle tappezzata di pietre preziose, tanto
invitante quanto irraggiungibile. I cercatori di diamanti, allora, avevano
elaborato un piano.
Ogni mattina salivano in cima alle montagne e facevano precipitare le
pecore morte nella vallata, in modo che i diamanti si conficcassero nelle
carni degli animali. Poi aspettavano l’arrivo dei Roc che durante il giorno
afferravano le carcasse e le portavano via per mangiarle. A quel punto gli
uomini lanciavano frecce e pietre sui volatili, costringendoli a lasciar
andare le loro prede. Infine non dovevano fare altro che estrarre i diamanti
dalle carni.

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Tutt’a un tratto Sindbad ritrovò la speranza, e un nuovo piano prese
forma nella sua mente. Le pietre ai suoi piedi erano diamanti, pensò, e
cominciò a riempirsene le tasche. Alzò lo sguardo e vide una gigantesca
ombra alata volteggiare nel cielo. Di nuovo sciolse il turbante e lo usò
come una fune per legarsi alla carcassa. Poi si nascose sotto il corpo della
pecora, in attesa.
Poco dopo avvertì uno scossone familiare e capì che l’uccello aveva
afferrato la preda. Il Roc si alzò in volo. Sindbad volse il capo e scorse le

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cime delle montagne. D’improvviso udì delle grida e vide pietre e dardi
sfrecciargli intorno.
Quindi il Roc lanciò un terribile urlo e lasciò andare la preda. Solo
allora Sindbad si rese conto che non aveva previsto da quale altezza
sarebbe caduto. Chiuse gli occhi, sperando di non sfracellarsi al suolo. Per
fortuna, mentre precipitavano, la carcassa ruotò di lato per il peso. E
quando atterrarono – con un sonoro SPLAT! – attutì l’impatto al suolo.
Sindbad sciolse in fretta il turbante e saltò in piedi. Era completamente
ricoperto di una poltiglia sanguinolenta, ma guardandosi intorno capì di
trovarsi dall’altro lato delle montagne, lontano dalla valle maledetta. Poco
più in basso si snodava un sentiero che sembrava condurre a terre più
accoglienti e sicure.
«Chi sei tu… O, forse, che cosa sei?» gridò una voce alle sue spalle.
Sindbad si voltò e vide una banda di selvaggi armati di archi, spade e
lance, che lo osservavano tenendosi a distanza. Immaginò che fossero i
cercatori di diamanti e fece un passo in avanti. Gli uomini
indietreggiarono, spaventati, e abbassarono le armi.
«Vengo in pace!» dichiarò Sindbad alzando le mani e mostrando i
palmi. «Sono un viaggiatore e un uomo proprio come voi!»
«Come mai eri legato alla carcassa di quella pecora?» disse uno dei
cercatori.
«Ah, è una lunga storia» rispose Sindbad «a cui perfino io faccio fatica
a credere. Tuttavia ve la racconterò, se mi aiuterete a tornare a casa.»
I cercatori di diamanti accettarono, e pochi mesi dopo Sindbad fece
ritorno a Baghdad, con grande stupore e meraviglia dei suoi amici, che lo
avevano dato per morto. E il loro stupore crebbe quando Sindbad raccontò
le sue avventure e mostrò i diamanti che aveva raccolto nella valle
maledetta.
Grazie a quelle pietre preziose, Sindbad ricomprò la sua vecchia casa e,
per qualche tempo, si godette una vita di lussi. Ma, al contrario di quello
che credevano i suoi amici, si tenne alla larga dai vizi e i bagordi di un
tempo. Presto cominciò ad annoiarsi e a pensare a tutte le avventure
fantastiche ed emozionanti che aveva vissuto durante il viaggio. Della
paura e le avversità, invece, non ricordava quasi nulla. E alla fine, un
giorno, decise di ripartire.
Certa gente non impara mai, non è così?

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Il terribile drago del lago
LA STORIA DI GIORGIO E IL DRAGO

C’era una volta un cavaliere coraggioso di nome Giorgio, che aveva


giurato di combattere il male ovunque si trovasse. Era nato orfano e
cresciuto in povertà, poi era diventato un soldato e aveva imparato l’arte
della guerra.
Un giorno, però, si rese conto che il male era ovunque, e decise di fare
del suo meglio per combatterlo.
Dopo molte battaglie venne a sapere che un drago malvagio
terrorizzava gli abitanti della città di Selem, in Libia, e partì per andare ad
aiutarli.

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Attraversò il deserto in sella a uno splendido cavallo bianco. Il sole del
mattino si levava alle sue spalle, riversando sulla sabbia un bagliore
dorato. L’armatura di Giorgio scintillava. Sotto il braccio destro il
cavaliere reggeva una lancia e con la mano sinistra teneva le redini del
cavallo. La spada era nel fodero sulla coscia sinistra e lo scudo era legato
alla schiena.
Giorgio sapeva che Selem non era più molto lontana. Proseguì su un
sentiero in salita e, quando giunse in cima a un promontorio, si fermò a
guardare il panorama. Sotto di lui c’era la città circondata dalle mura di
pietra. Sulla destra vide un grande lago dalle acque scure e stranamente
calme. E tra il lago e la città si allungava una striscia di terra pianeggiante,
in mezzo alla quale si ergeva un palo conficcato in un cumulo di terra.
«Strano…» mormorò tra sé Giorgio, spronando il cavallo. Percorsero il
sentiero che portava fino al lago. Adesso che lo vedeva da vicino, Giorgio
si accorse che non era così calmo come gli era apparso.

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Sull’acqua aleggiavano spire grigie di vapore, e di tanto in tanto grosse
bolle guizzavano in superficie con un sonoro gorgoglio.
Giorgio condusse il cavallo fino al palo. La terra intorno era bruciata, e
qua e là si intravedevano ossa carbonizzate. Il cavaliere si fece cupo, poi
strinse la presa sulla lancia e spronò il cavallo al galoppo. Non c’era
tempo da perdere, pensò. La situazione sembrava seria, proprio come gli
avevano detto.
Giorgio fermò il cavallo davanti alle porte della città. Erano grandi,
fortificate con sbarre di ferro e borchie, ma il legno con cui erano state

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costruite era annerito e bruciacchiato, come del resto le mura della città.
Giorgio scese da cavallo e sollevò il pugno rivestito di maglia
metallica, già pronto a bussare, quando le porte cominciarono ad aprirsi
emettendo un lungo scricchiolio. Giorgio si fece da parte e rimase in
attesa. Poco dopo vide sfilare una strana processione, guidata da una
colonna di soldati armati di lance e archi. Seguiva un carro trascinato da
un vecchio cavallo, che trasportava una fanciulla con i polsi legati e un
volto pallido e spaventato. Infine comparve un uomo senza cavallo, che
camminava con lo sguardo rivolto a terra e l’espressione più triste che
Giorgio avesse mai visto.

Quando videro quel cavaliere sconosciuto, i soldati si fermarono.


«Chi sei, straniero?» chiese l’uomo dalla faccia triste. «Perché sei
venuto in questo luogo maledetto? Non sai quale grave piaga affligge il
mio regno?»
«Lo so bene» rispose Giorgio, intuendo che quello fosse il re di Selem.
«Ed è proprio per questo che sono qui. Sono prono a combattere per te,
mio signore.»
«Che cosa? Vuoi affrontare il drago del lago?» farfugliò un soldato.
«Non parleresti così se avessi visto quella creatura! No, di certo!»

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«Ha ragione!» disse un altro soldato. «È enorme e sputa fuoco, ha fauci
enormi e denti affilati come rasoi, capaci di ridurre un uomo in brandelli.»
«Inoltre» aggiunse un altro soldato «non occorre combatterlo. Se gli
portiamo un pasto di tanto in tanto, lui ci lascia in pace.»
«Un pasto?» mormorò Giorgio. «E di cosa si nutre?»
I soldati si scambiarono sguardi pieni di imbarazzo e poi indicarono la
fanciulla sul carro. Fino ad allora era rimasta in silenzio. Ma in quel
momento prese la parola.
«Di persone» rispose, calma. «Un essere umano al giorno. E se non
verrà accontentato brucerà la città e ci ucciderà tutti.»
«Perciò ogni sera tiriamo a sorte per scoprire chi sarà la vittima del
giorno dopo» aggiunse il re con voce rotta. «Oggi tocca a Sabra, mia
figlia…»
«Sono felice di dare la vita per il nostro popolo, padre» disse la
fanciulla, benché il suo volto non tradisse felicità, e nemmeno quello del
padre.
«È giusto così» disse il primo soldato. «Abbiamo tutti le stesse
probabilità di essere scelti.»
«E come farete se questo continuo tiro a sorte non dovesse mai finire?»
osservò Giorgio. «Come farete se il drago chiederà nuove vittime ogni
giorno?» I soldati non risposero, ma Giorgio capiva dai loro volti di aver
dato voce alle loro preoccupazioni. «Finirete per morire tutti» disse. «Un
essere tanto malvagio va combattuto e sconfitto.»
«Ma non puoi sconfiggerlo» obiettò un altro soldato. «Sei soltanto un
uomo e le tue armi non ti saranno di alcun aiuto.»
«Ho un’arma più potente della lancia, la spada e lo scudo» replicò
Giorgio. «Ho la fede. Sono convinto di potercela fare. Inoltre il male
nasconde sempre un punto debole…»
A un tratto si udì un gorgoglio proveniente dal lago e tutti si voltarono.
Un’enorme bolla era scoppiata sulla superficie, seguita da altre bolle più
piccole. Presto la superficie del lago cominciò a ribollire, come se
qualcuno sul fondo stesse scaldando e rimestando l’acqua.
«Fa’ come credi» borbottò uno dei soldati con voce rotta dal panico.
«Ma io preferisco che le cose restino così. Prepariamo la principessa!»
I soldati accompagnarono il carro fino alla striscia di terra
pianeggiante. Poi fecero scendere la principessa e la legarono al palo,

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lanciando occhiate furtive al lago. Infine tornarono di gran carriera verso
la città trascinandosi dietro il re, che non ebbe nemmeno il tempo di dire
addio alla figlia.

Scivolarono dentro le mura e si richiusero le porte alle spalle.


Giorgio si avvicinò al suo cavallo, che lo aveva atteso pazientemente, e
montò in sella. Imbracciò lo scudo, sollevò la lancia e partì al trotto, per
poi fermarsi a pochi passi dal palo.
La principessa si voltò a guardarlo, sempre più pallida.
«Sei ancora in tempo a fuggire…» gli disse.
«Sono qui per salvarvi, principessa» disse Giorgio senza distogliere lo
sguardo dal lago. Le acque erano sempre più agitate e il gorgoglio sempre

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più intenso. Il sole era ormai alto nel cielo e Giorgio sudava sotto la
pesante armatura.

Udì un brusio alle sue spalle e quando si voltò vide il re, i soldati e gli
abitanti della città, assiepati in cima alle mura per assistere al
combattimento.
«Ma non riuscirai a salvarmi!» gridò la principessa, un attimo prima di
sussultare per il terrore. Una figura gigantesca era emersa dalla superficie
dell’acqua: una testa ricoperta di scaglie, due occhi fiammeggianti e una
bocca spalancata in un ghigno che mostrava denti enormi e luccicanti. Il
resto del corpo, verde e viscido, emerse lentamente provocando una
cascata d’acqua. Il drago era così grande che oscurò il sole. L’incarnazione
del male, pensò Giorgio…
La bestia posò lo sguardo furente prima sul cavaliere e poi sulla
fanciulla.
«Bene, bene, che cosa abbiamo qui?» disse con un ruggito. «Doppia
razione! Il re è stato generoso.»
«Non c’è niente da mangiare per te!» disse Giorgio. «Né ora né mai
più!»

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«Davvero?» chiese il drago. Gli occhi lampeggiarono e il ghigno si aprì
mostrando altri terribili denti. «E chi mi fermerà? Tu?»
«Proprio così!» disse Giorgio. Si calò l’elmo sul volto, tirò le redini e
partì al galoppo. Quindi abbassò la lancia, puntandola verso il drago,
mentre sotto di lui gli zoccoli del cavallo scalpitavano sulla terra e
sollevavano nuvole di polvere.
Il drago fu colto di sorpresa e non fece nemmeno in tempo a muoversi.
La punta della lancia lo colpì a una zampa, ma le scaglie erano troppo dure
e la lama non riuscì a penetrare. La lancia si spezzò come un ramoscello.
Giorgio udì le urla di delusione della folla accalcata sulle mura della città.
Si allontanò e gettò a terra la parte di lancia che gli era rimasta in mano.
Poi sguainò la spada. La lama luccicò alla luce del sole.
«Comincio a stancarmi, umano» tuonò la creatura. «Ti farò fare la fine
di un moscerino, vedrai…»
Il drago alzò la testa, spalancò le fauci ed emise un potentissimo getto
di fuoco. Giorgio sollevò lo scudo appena in tempo, proteggendo sé stesso
e il cavallo. Ma sentiva la povera bestia tremare per la paura e lo scudo
diventare sempre più caldo.

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Quando la tempesta di fuoco si esaurì, lo scudo di Giorgio era ormai
distrutto. Il cavaliere se ne liberò e saltò a terra, spingendo via il cavallo.
Adesso era solo davanti all’enorme drago, armato solo della sua spada.
Scrutò ogni più piccola parte di quel corpo colossale, alla ricerca di un
punto debole.
Ma il drago era ricoperto di scaglie dure come il ferro, dalla testa alla
punta della coda. Era come se indossasse un’armatura, pensò Giorgio, in
preda allo sconforto. Tuttavia era ancora convinto di poter avere la meglio.
Non si sarebbe arreso così facilmente.

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«A quanto pare dovrò fare ancora un piccolo sforzo» ringhiò il drago,
avventandosi su di lui a fauci spalancate. Giorgio riuscì a schivarlo. Poi,
con la coda dell’occhio, vide che una gigantesca zampa dagli artigli
affilati stava per piombargli sulla testa. Di nuovo riuscì a schivare il
colpo, ma questa volta cadde a terra.
Si voltò e vide il drago svettare su di lui con sguardo trionfante.

«Ti schiaccerò come un moscerino!» ruggì la bestia, sollevandosi sulle


zampe posteriori e preparandosi a colpire il cavaliere. Giorgio giaceva a
terra inerme, fissando l’avversario e cercando disperatamente un modo per
mettersi in salvo.
Poi, a un tratto, vide una piccola porzione di pelle sul ventre del
mostro, che non era protetta da scaglie.
“Ecco, il suo punto debole!” pensò Giorgio.
Giorgio si rimise in piedi, e con uno scatto affondò la spada nella
pancia del drago. Per un attimo nella pianura scese il silenzio.
Poi il drago cominciò a indietreggiare, gridando per il dolore. Giorgio
estrasse la spada dal ventre della creatura e immediatamente un fiotto di
sangue rovente prese a sgorgare dalla ferita. Il cavaliere si ritrasse e il
drago vacillò per un istante, prima di crollare a terra con urla e gemiti.
Presto i lamenti si placarono. Il drago sussultò e poi giacque immobile,
esalando un ultimo sbuffo di fumo dalle narici. Dalle mura della città
giunsero grida di esultanza, ma Giorgio non vi prestò attenzione. Si ripulì
le mani dal sangue del drago, rinfoderò la spada e corse subito a liberare la
principessa, che piangeva, colma sollievo e gratitudine. Poco dopo Giorgio

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fu circondato da una folla di uomini in festa, che lo sollevarono e lo
portarono in città in trionfo.
In suo onore fu celebrata una grande festa. Per ringraziarlo, il re gli
consegnò una grossa ricompensa e gli offrì in sposa la figlia, la
principessa Sabra. Ma Giorgio si limitò a sorridere, e dopo aver bevuto e
mangiato a sufficienza chiese che qualcuno gli portasse il suo cavallo.
«Vi ringrazio» disse al re, mentre saliva in sella. «Ma non ho bisogno di
denaro. Donate pure la mia ricompensa ai poveri della città. E non posso
nemmeno sposarmi per il momento, non finché sulla terra esisterà il male
e sarà necessario combatterlo. Addio.»
Senza aggiungere altro, Giorgio superò le porte della città e
s’incamminò verso il sole che calava all’orizzonte. La sua figura fiera si
stagliava nella luce dorata del tramonto facendosi sempre più sottile.
Molte battaglie e molti popoli bisognosi di aiuto lo attendevano. Giorgio
non si tirò mai indietro e compì innumerevoli gesta eroiche. Tanto che alla
sua morte fu dichiarato santo.
Un santo dall’armatura scintillante.

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Apriti sesamo!
LA STORIA DI ALÌ BABÀ E I QUARANTA LADRONI

È strano, ma esistono fratelli così diversi nel carattere che non


sembrano essere nati dalla stessa famiglia. Era il caso di due fratelli
persiani di nome Kassim e Alì Babà. E fu sempre il caso a mettere in moto
una curiosa catena di eventi che portò un fratello alla morte e cambiò per
sempre la vita dell’altro.
Per farla breve, Kassim era avido, disonesto e prepotente, tanto quanto
Alì Babà era generoso, onesto e di buon cuore. Kassim sposò la figlia di un
uomo ricco per assicurarsi il suo patrimonio; Alì Babà sposò una ragazza
povera semplicemente perché la amava. I due fratelli, dunque, sembravano
destinati a seguire strade molto diverse.
Kassim divenne, in effetti, molto ricco, anche se non si accontentava
mai. Alì Babà, invece, riusciva appena a procurarsi di che sopravvivere,

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tagliando legna nella foresta e rivendendola in città. Nonostante questo,
era contento di ciò che aveva. E fu ancora più contento quando sua moglie
diede alla luce un bambino – anche se, con tre bocche da sfamare, la vita
divenne ancora più dura.
Tuttavia, passarono gli anni e Alì Babà continuava a essere felice, e suo
figlio che di nome faceva Ahmed, crebbe e divenne un giovane bravo e
onesto. Poi un giorno, Alì Babà uscì di casa con il suo asino per andare a
raccogliere la legna e decise di avventurarsi in un boschetto che aveva
esplorato solo di rado. Cominciò a tagliare alcuni i rami, li legò insieme e
caricò il fascio di legna sul dorso dell’asino. Quando, a un tratto, udì un
fragore di cavalli al galoppo, che sembravano andare proprio nella sua
direzione. E poiché udì anche un inconfondibile tintinnio di armi, spinse
subito l’asino dietro un cespuglio e cominciò ad arrampicarsi sull’albero
più vicino. Quando giunse in cima, guardò in basso e vide sfilare una
colonna di uomini a cavallo che, superato il boschetto, si fermò davanti a
una parete di roccia poco distante.

Ad Alì Babà bastò una rapida occhiata per capire che erano banditi.
Si acquattò su un ramo, trattenendo il fiato e sperando che gli uomini
non notassero il tremore delle foglie. Ma a un tratto accadde qualcosa che
e lo lasciò a bocca aperta per lo stupore. Uno dei banditi – quello che
doveva essere il capo – smontò da cavallo e si avvicinò alla parete.
«APRITI SESAMO!» gridò con voce tonante.

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E all’improvvisò nella roccia si aprì una porta nascosta, svelando
l’ingresso di una caverna. Il capo entrò per primo, seguito dai suoi uomini.
Alì Babà li contò. Erano quaranta in tutto e ognuno portava con sé una
bisaccia rigonfia. Poi Alì Babà udì il capo gridare: «CHIUDITI
SESAMO!». E la porta segreta si richiuse all’istante.
Alì Babà rimase a bocca aperta, e sarebbe bastato un soffio per farlo
cadere a terra. Non immaginava che il nome di un seme potesse avere un
potere magico. Rimase in attesa, osservando i cavalli dei banditi che
brucavano l’erba tranquilli, e domandandosi che cosa sarebbe successo
ancora. Poi la porta si riaprì. I quaranta banditi riemersero dalla grotta con
i sacchi vuoti e risalirono a cavallo. Il capo esclamò: «CHIUDITI
SESAMO!». La porta si richiuse e la banda si allontanò al galoppo.
Alì Babà attese a lungo prima di scendere dall’albero, per essere certo
che i banditi se ne fossero andati davvero. Poi balzò a terra con un salto e
andò subito a controllare la parete di roccia. Non trovò alcuna porta.
Allora cominciò a pensare e a grattarsi il capo, e a un tratto gli venne in
mente che forse la formula del capitano avrebbe funzionato anche con lui.
«Apriti sesamo!» sussurrò con un filo di voce. Aveva troppa paura per
gridare come aveva fatto il capo dei banditi. La porta, però, si aprì lo
stesso.
Alì Babà entrò nella grotta in punta di piedi. Grazie a una torcia che i
banditi avevano lasciato accesa, vide che era molto più grande di quanto
avesse creduto e soprattutto che era colma di ogni genere di tesoro.
C’erano calici e coppe d’oro e d’argento, pietre preziose, sacchi e casse
pieni di monete d’oro. Un povero uomo come Alì Babà non avrebbe potuto
immaginare così tante ricchezze nemmeno nei suoi sogni più arditi. Pensò
che forse i banditi nascondevano lì i loro bottini da anni, o addirittura da
generazioni. Poi si rese conto che quella era un’occasione unica! Il genere
di occasione che non capitava spesso nella vita di un uomo povero…

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Alì Babà afferrò un paio di sacchi rigonfi – certo che, in mezzo a tutta
quella ricchezza, i ladri non avrebbero nemmeno notato la loro assenza – e
uscì di corsa dalla grotta, senza dimenticare di pronunciare la formula
magica. «CHIUDITI SESAMO!» gridò e la parete di roccia si ricompose.
Poi il taglialegna caricò i sacchi sul dorso dell’asino e si avviò verso casa.
Sua moglie, Ayesha, non riusciva a credere ai proprio occhi quando Alì
Babà aprì i sacchi e un fiume di monete d’oro si riversò sul pavimento. E
fu ancora più sorpresa quando il marito le raccontò dove aveva trovato
quella fortuna. Per la gioia balzò in piedi, abbracciò Alì Babà e cominciò a
danzare per la stanza.
«Quante sono?» chiese alla fine con occhi luccicanti.
«Non lo so di preciso» rispose Alì Babà. «E non abbiamo tempo di
contarle. Voglio nasconderle quanto prima. Se qualcuno scoprisse che
abbiamo così tanto denaro, comincerebbe a fare domande. E questa è
l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. Sarà il nostro segreto.»

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Con l’aiuto di Ayesha, Alì Babà nascose le monete, poi uscì per andare
a vendere la legna che aveva raccolto. Ayesha, invece, non trovava pace.
Voleva sapere esattamente a quanto ammontasse la loro fortuna. A un
tratto ebbe un’idea: non avrebbe fatto in tempo a contare l’oro e a
nasconderlo prima del ritorno di Alì Babà, ma poteva sempre pesarlo.
In casa non avevano mai avuto una bilancia perché non erano
abbastanza ricchi per permettersi oggetti di lusso, ma Ayesha era certa che
sua cognata ne possedesse una. Perciò corse subito al palazzo di Kassim.
«Una bilancia?» disse Fatima, la moglie di Kassim, che era avida e
prepotente quanto il marito e che, per indole, sospettava sempre di tutto.
«Certo che te la presto, mia cara. A patto che tu mi dica a cosa ti serve.»
«A niente di speciale» borbottò Ayesha, che non era capace di mentire.
«Devo solo pesare qualcosa. Ecco tutto…»
«Tutto qui?» sorrise Fatima, mentre stava già elaborando un piano.
«Vado subito a prenderla. Aspettami qui. Non ci metterò molto.»
Fatima corse in cucina, tirò fuori la sua bilancia e strofinò un po’ di
grasso su uno dei piatti, sperando che qualche traccia degli oggetti
misteriosi di Ayesha rimanesse attaccata sul fondo. Poi tornò dalla
cognata, le consegnò la bilancia e le chiese di restituirla al più presto.
Ayesha si precipitò a casa, tirò fuori le monete d’oro dal nascondiglio,
le pesò e le rimise al loro posto. Poi riportò la bilancia alla cognata, troppo
eccitata per accorgersi che su uno dei piatti era rimasta attaccata
minuscola moneta d’oro. A Fatima invece quel dettaglio non sfuggì. La
donna prese la moneta e la mostrò subito al marito.

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Quella sera Kassim si presentò a casa del fratello. Quando lo vide sulla
porta, Alì Babà si allarmò, perché Kassim non si degnava quasi mai di fare
visita ai parenti.
«A quanto pare hai fatto fortuna, fratello» disse Kassim, con una
smorfia. «Così tanto che tua moglie deve pesare il vostro denaro e può
permettersi di dimenticare qualche moneta sulla bilancia.» Kassim tese la
mano e mostrò ad Alì Babà una moneta d’oro. Ayesha sussultò.
«Dimmi che cosa sta succedendo» proseguì Kassim. «E non cercare di
mentirmi.»

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Alì Babà sospirò. Era troppo buono per prendersela con la moglie e in
fondo non gli dispiaceva condividere il suo segreto con il fratello. Kassim
lo ascoltò in silenzio, con gli occhi che gli brillavano d’eccitazione. Alla
fine tornò a casa, determinato a prendersi tutto il tesoro nascosto nella
grotta.

«Oh, non importa» disse Alì Babà, quando rimase solo con Ayesha. «È
meglio se usiamo quel denaro invece di tenerlo da parte. Potremmo
sistemare la casa, comprare dei nuovi abiti per noi e per Ahmed e prendere
una serva che ci aiuti in casa. Nessuno ci farà caso.»
Il giorno dopo Alì Babà, Ayesha e Ahmed andarono insieme al mercato
a fare spese e trovarono una serva. Si chiamava Margiana ed era una
giovane ragazza orfana cresciuta in povertà, che fu molto felice di quel
nuovo lavoro.
Nel frattempo Kassim avanzava nella foresta davanti a un codazzo di
asini, deciso a recuperare il tesoro della grotta. Giunto di fronte alla parete
di roccia, si guardò intorno per assicurarsi che non ci fosse nessuno nei
paraggi. Poi si schiarì la gola e gridò: «APRITI SESAMO!».
E la porta nascosta si aprì, proprio come era accaduto ad Alì Babà.

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Kassim sorrise ed entrò nella grotta. Accese la torcia che aveva con sé e
rimase senza fiato. Alla vista di tutti quei tesori il cuore cominciò a
martellargli nel petto. Ma non c’era tempo da perdere. Si voltò e disse
subito: «CHIUDITI SESAMO!» per evitare che qualche passante scoprisse
la caverna. Poi cominciò a rovistare tra i tesori.

In poco tempo aveva sistemato davanti all’ingresso della grotta una


schiera di casse e sacchi colmi d’oro, ma con la mente pianificava già di
tornare a prendere il resto e fantasticava su quello che avrebbe potuto fare

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adesso che era diventato l’uomo più ricco del mondo. Quando fu
soddisfatto dei sacchi e le casse che aveva accumulato tornò verso
l’ingresso.
In preda all’eccitazione, aprì la bocca per pronunciare la formula
magica, ma in quel momento si accorse di aver dimenticato le parole.
La verità era che il cervello di Kassim non era molto capiente, e tutto
quel fantasticare e fare piani sul futuro non aveva lasciato spazio per
nient’altro. Si ricordava solo che la prima parola magica era “apriti”, e che
la seconda era il nome di un seme molto comune…
«Apriti… grano!» gridò, ma non accadde nulla. «Apriti… granoturco!»
strillò. «Apriti… orzo! Apriti… riso! Apriti… Oh, santo cielo, apriti e
basta!»
Ma la porta, ostinata e impudente, rimaneva chiusa.
Disperato, Kassim picchiò i pugni sulla roccia e all’improvviso vide la
porta spalancarsi. Ma il sollievo svanì in fretta, perché fuori, ad aspettarlo,
c’erano i quaranta ladroni, e non avevano un’espressione rassicurante. Il
capo sfoderò la spada – era una scimitarra enorme, curva e affilata – e si
fece avanti, spingendo Kassim dentro la grotta. L’uomo inciampò e cadde.
I banditi avevano cominciato a insospettirsi quando erano arrivati in
prossimità della caverna e avevano visto gli asini di Kassim. Adesso che
avevano trovato una conferma ai loro sospetti non smettevano di fare
domande ed erano furibondi. Il capitano uccise Kassim e lo fece a pezzi. I
suoi uomini appesero i resti del corpo all’interno della caverna come
monito per i futuri visitatori.
Poi lasciarono la grotta e sparirono nella foresta.
Scese la notte. Fatima aspettava trepidante l’arrivo del marito.
Continuava a pensare a tutto l’oro e i gioielli che lui aveva promesso di
portarle. Ma le ore passavamo e Kassim non tornava, e quando il sole
comparve in cielo, la mattina dopo, Fatima era agitatissima. Corse a casa
di Alì Babà e chiese al cognato di andare alla grotta per scoprire che cosa
era successo.

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Alì Babà partì subito in sella al suo asino, preoccupato per la sorte del
fratello. E naturalmente la preoccupazione si trasformò in orrore quando
entrò nella grotta e vide i resti di Kassim appesi alle pareti. Li mise in
fretta dentro un paio di sacchi, poi li caricò sull’asino e, dopo aver
richiuso la grotta, tornò subito a casa per dare a Fatima la terribile notizia.
La donna gridò e si strappò i capelli, mentre Ayesha cercava
inutilmente di consolarla. Alì Babà, intanto, rifletteva sulle conseguenze
di ciò che era accaduto.
«Non dobbiamo dire a nessuno che è stato fatto a pezzi» disse. «Se la
notizia giunge ai ladroni, capiranno che anche io sono entrato nella grotta.
Dobbiamo rimettere insieme il corpo di Kassim prima che lo vedano i
becchini. Ma non so come fare.»
«Posso darvi un suggerimento?» disse una voce. Era Margiana, la serva,
che aveva assistito in silenzio a tutta la scena. «Dall’altra parte della città
vive un vecchio sarto» proseguì. «Dicono che sia molto bravo nel suo

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lavoro e che sarebbe capace di ricucire una ferita profonda senza lasciare
cicatrici. Forse potremmo chiedere il suo aiuto.»

Alì Babà annuì, impressionato dall’intelligenza di Margiana, e lo stesso


fece Ahmed, che era accorso quando aveva sentito le grida di Fatima. I due
giovani sembravano avere un debole l’uno per l’altra, e Ahmed fu ancora
più colpito quando Margiana spiegò il suo piano nel dettaglio
La giovane andò a fare visita al sarto e gli offrì una grossa ricompensa
per un lavoro speciale. L’uomo accettò, e Margiana lo condusse, bendato,
nella cantina buia della casa di Alì Babà. Quando gli tolse la benda e gli

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mostrò i resti di Kassim, il sartò rabbrividì, ma poi ripensò ai soldi ed
eseguì il lavoro. Infine il sarto fu bendato un’altra volta e riportato nel suo
negozio, dove Margiana lo ringraziò e gli consegnò altro denaro per il suo
silenzio. Margiana aveva ragione: il sarto non aveva lasciato segni di
cuciture sul corpo di Kassim.
Il giorno dopo, con profondo dolore, Alì Babà annunciò che il fratello
era morto nel sonno e organizzò un funerale sfarzoso. Alla fine della
cerimonia sospirò sollevato, sperando di essersi lasciato quella brutta
avventura alle spalle. Ma purtroppo si sbagliava. Proprio in quel momento,
dentro la grotta dei tesori, il capo dei ladroni inveiva e tirava calci contro i
sacchi di monete d’oro. Quando aveva visto che i resti del corpo di Kassim
erano scomparsi, aveva capito che qualcun altro era a conoscenza del suo
segreto.
«Dobbiamo trovarlo e ucciderlo!» ruggì.
«Sì, uccidiamo anche la sua famiglia!» gli fecero eco i suoi uomini.
E così il capo e i suoi ladroni si recarono in città, camuffati da
viaggiatori. Chiesero ai passanti – in modo discreto, per non destare
sospetti – se di recente era stato celebrato il funerale di un uomo fatto a
pezzi, ma non ebbero fortuna. Finché uno dei banditi non si fermò nella
bottega del sarto.
L’uomo aveva riflettuto a lungo su ciò che aveva fatto e trovava sempre
più difficile mantenere il segreto. Perciò il ladrone non dovette faticare
per estorcergli la verità e per convincerlo, con un piccolo compenso, a
farsi bendare di nuovo. Orientandosi grazie al tatto, i suoni e i profumi, il
sarto condusse il bandito davanti alla casa di Alì Babà. Il ladro sorrise,
disegnò una croce sulla porta, poi riportò il sarto nella sua bottega e corse
dai compagni.
Poco dopo Margiana rientrò a casa con la spesa e vide la croce sulla
porta. Quel segno non le piaceva affatto. Allora cercò subito un gesso
dello stesso colore e disegnò croci identiche a ogni porta che si affacciava
sulla strada. Per il momento decise di non raccontare nulla ad Alì Babà.
Non voleva che la famiglia si preoccupassero inutilmente – soprattutto
Fatima che ormai viveva in pianta stabile a casa di Alì Babà ed era ancora
molto scossa. Tuttavia Margiana si ripromise di restare in allerta.
Il capo dei banditi non si fece ingannare. Quando vide le croci su tutte
le porte marciò dritto alla bottega del sarto, che in cambio dell’ennesima

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ricompensa accettò di buon grado di farsi bendare e di condurre il capitano
a casa di Alì Babà. Il bandito osservò bene l’edificio, in modo da poterlo
identificare anche senza l’aiuto di un marchio.
La sera dopo Alì Babà sentì bussare alla porta e, quando andò ad aprire,
si ritrovò di fronte un uomo con il capo coperto da un turbante. Alle sue
spalle c’era una fila di cavalli da soma, che trasportavano otri di
terracotta.
«Buonasera, amico mio» disse lo sconosciuto. «Sono un mercante e
sono appena giunto in città. Conoscete qualcuno che possa ospitarmi per la
notte.»
«Potete stare qui» rispose Alì Babà, generoso come sempre. «Lasciate i
cavalli nel mio cortile…»
L’uomo seguì Alì Babà con un sorriso soddisfatto sulle labbra: il piano
procedeva come previsto. Lo sconosciuto, infatti, non era altri che il capo
dei ladroni. Prima di presentarsi alla porta aveva chiesto informazioni su
Alì Babà in città e aveva scoperto che era un uomo di buon cuore e che di
sicuro non gli avrebbe negato un riparo per la notte.

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Ma il capitano non aveva alcuna intenzione di dormire. I suoi uomini
erano nascosti negli otri e aspettavano solo il segnale – un leggero colpo
sulla terracotta – per saltare fuori e uccidere tutti gli abitanti della casa.
Così finalmente il segreto della grotta sarebbe stato di nuovo al sicuro.
Alì Babà insistette perché il suo ospite mangiasse qualcosa prima di
andare a dormire. Margiana preparò la cena e poi andò in cortile a
controllare i cavalli. Alì Babà aveva chiesto al suo ospite che cosa
contenessero gli otri e lui aveva risposto che erano colmi di olio di oliva.
La giovane serva urtò involontariamente un otre e rabbrividì quando
udì una voce maschile all’interno.
«È ora di muoversi?» sussurrò la voce. Margiana intuì che il suo
padrone e la famiglia erano in grave pericolo. E capì che il mercante
doveva essere il capo dei banditi e che i suoi uomini erano nascosti negli
otri.
«Non ancora» sussurrò a sua volta, mentre cercava di riflettere. Passò
accanto agli altri cavalli, bussando a ogni otre. E ogni volta si sentì fare la
stessa domanda: «È ora di muoversi?» e diede la stessa risposta. Poi tornò
in casa per mettere in atto il suo piano.
Margiana preparò dell’olio bollente e ne versò un po’ in ogni otre,
uccidendo tutti i banditi. Poi andò a informare Alì Babà di ciò che era
accaduto. Proprio in quel momento il capo dei banditi uscì nel cortile per
chiamare a raccolta i suoi uomini, ma presto scoprì che erano tutti i morti
e capì che il suo piano era stato scoperto. Temendo di essere ucciso a sua
volta, fuggì nella notte. Ma giurò a sé stesso che si sarebbe vendicato.
Dapprima, Alì Babà non credette alle parole di Margiana, ma poi la
serva gli mostrò i corpi negli otri e presto si accorsero che il mercante era
fuggito. A quel punto, il taglialegna ebbe un brivido al pensiero di ciò che
sarebbe potuto succedere alla sua famiglia.
«Non potrò mai ringraziarti abbastanza, Margiana» mormorò Alì Babà.
«Non merito la tua dedizione.»
«Sì, che la meritate!» ribatté la serva. «Farei qualsiasi cosa per aiutarvi.
Nessun’altra famiglia è stata così generosa con me.»
«Sei gentile…» replicò Alì Babà, timidamente. «Ma spero proprio che
tu non sia costretta a correre altri rischi per causa nostra in futuro. Mi
auguro davvero che questa brutta storia sia finita.»

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Nelle settimane e nei mesi successivi non ci furono altre brutte sorprese
e Alì Babà e la sua famiglia si godettero la tranquillità e la ricchezza. Il
taglialegna assoldò altri uomini per aiutarlo nella foresta e in breve si
arricchì. Presto avviò una piccola impresa anche per il figlio, che lavorò
duramente e divenne ricco a sua volta.
Poi un giorno, molto anni dopo, Ahmed chiese ad Alì Babà se poteva
invitare un amico a cena.
«Si chiama Hussein» disse Ahmed. «Ed è il proprietario della bottega
accanto alla mia. Mi è stato di grande aiuto negli ultimi tempi e vorrei
ringraziarlo.»
Alì Baba acconsentì, e poco dopo cominciarono i preparativi per la
cena. Quando l’ospite si presentò alla porta, tutta la famiglia era presente
– Alì Babà, Ayesha, Ahmed e perfino Fatima.
Margiana prese il mantello di Hussein e studiò attentamente il suo
volto. C’era qualcosa, in lui, che non la convinceva, perciò decise di
tenerlo d’occhio.
Dopo aver portato il cibo in tavola prese un fiasco di vino. Hussein
rideva e scherzava con gli altri in modo amichevole, e per un attimo la
serva pensò che le sue preoccupazioni fossero eccessive. Quando però si
piegò per versare il vino a Hussein notò qualcosa che le fece gelare il
sangue nelle vene.
Sotto la tunica, l’uomo nascondeva un pugnale.
Margiana capì perché il suo volto l’aveva messa in allarme, Hussein
assomigliava al mercante che aveva chiesto ospitalità ad Alì Babà tanti
anni prima. Il che significava che era il capo dei banditi e che era venuto
per uccidere Alì Babà e tutta la famiglia.
Margiana non disse nulla. Si rifugiò in cucina, prese un coltello e lo
nascose dietro la schiena, poi tornò dai commensali. Appena in tempo: Alì
Babà dava le spalle a Hussein, che aveva appena infilato una mano tra le
pieghe della tunica.
Margiana fece un balzo in avanti e conficcò il coltello nel cuore di
Hussein. L’uomo morì sul colpo e nella casa si scatenò il panico. Ayesha e
Fatima cominciarono a strillare – naturalmente Fatima strillava più forte –
mentre Alì Babà e Ahmed balzarono in piedi, scambiandosi sguardi pieni
di orrore.
«Perché hai ucciso il mio amico?» gemette Ahmed.

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«Ti ha dato di volta il cervello?» rincarò Alì Babà.
«Stava per uccidervi!» disse Margiana.
Quando la serva mostrò loro il pugnale nascosto nella tunica di
Hussein, Alì Babà si rese conto che diceva la verità. E osservando il volto
dell’ospite con più attenzione si chiese come avesse fatto a non accorgersi
della sua somiglianza con il capo dei banditi.
Così la famiglia di Alì Babà non ebbe più nulla da temere. E qui finisce
la parte più emozionante e avventurosa della storia, benché molte atre cose
accaddero in seguito, tra cui un matrimonio.
Per la gioia di Alì Babà, Margiana e Ahmed annunciarono che erano
innamorati e si sposarono poco dopo.
E Alì Babà e la sua famiglia vissero per sempre nella felicità e
nell’agio, anche grazie a qualche sporadica visita nella grotta dei tesori.
Del resto, erano gli unici a conoscerne il segreto.

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Il mostro mangia-uomini
LA STORIA DI TESTO E IL MINOTAURO

Pochi personaggi furono più malvagi e assetati di sangue di Minosse, il


re dell’isola di Creta. Era temuto da ogni sovrano della Grecia, perché
poteva fare affidamento su un’infinità di soldati e su una potentissima
flotta di navi da guerra, ma soprattutto perché possedeva il terrificante
Minotauro.
Il Minotauro era un mostro mezzo uomo e mezzo toro – ma molto più
grosso di entrambi. Aveva corna massicce e una fame insaziabile di carne
umana. Minosse lo teneva rinchiuso in un labirinto e per nutrirlo
costringeva i sovrani degli altri regni a inviargli giovani fanciulli e
fanciulle come vittime sacrificali. Nessuno osava opporsi.
A nord di Creta sorgeva il regno di Atene, governato da Egeo. Ogni
anno il figlio di Egeo, Teseo, vedeva arrivare da Creta una nave dalla vela

96
nera. E ogni anno sette fanciulle e sette fanciulli ateniesi venivano
strappati alle loro famiglie per essere dati in pasto al Minotauro. Teseo li
guardava mentre venivano incatenati e scortati a bordo della nave, tra le
urla di disperazione dei parenti.
Finché un giorno decise che non poteva più restare a guardare.
«Aspettate!» gridò ai soldati cretesi. «Prendete anche me!»
La folla sussultò mentre Egeo cercava di trattenere il figlio. «Questa è
pura follia!» gridò Egeo. «Non te lo permetterò!»
«Mi dispiace, padre» disse Teseo «ma devo andare. Voglio uccidere il
Minotauro e mettere fine a quest’incubo una volta per tutte.»
Egeo era orgoglioso e sconvolto al tempo stesso, e provò in ogni modo
a far ragionare quel figlio tanto coraggioso quanto dissennato. Ma Teseo fu
irremovibile, e alla fine il padre si arrese. Con un ghigno, un soldato
cretese afferrò il principe e lo incatenò agli altri giovani. Dopodiché la
nave prese il largo.

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«Aspetterò il tuo ritorno in cima alla rupe!» gridò Egeo, con il viso
solcato dalle lacrime. «Ricordati di issare una vela bianca, così saprò che
sei salvo. Se vedrò una vela nera, capirò che il peggio è accaduto.»
«Lo farò, padre» gridò di rimando Teseo. «Te lo prometto!»
Giunti a Creta, Teseo e gli altri ateniesi furono subito portati al cospetto
di Minosse. Il re sedeva su un grande trono nel suo magnifico palazzo, e
quando i soldati gli riferirono ciò che aveva detto Teseo scoppiò a ridere.
«Questa volta Egeo mi ha mandato un vero eroe» esclamò, scrutando il
giovane principe. «Che cosa ti fa credere di poter uccidere il mio mostro?

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E come pensi di riuscirci, a mani nude forse?»

«Se non avrò altro modo, così farò» disse Teseo in tono di sfida e a
testa alta, benché cominciasse a sentirsi nervoso.
La figlia del re, Arianna, lo osservava, rapita dal suo coraggio e dalla
sua fierezza. Anche lei aveva paura di Minosse e lo odiava. E in quel
momento ebbe un’idea.
«Bene, credo proprio che ci sarà da divertirsi» disse Minosse. «Il
Minotauro ti troverà molto più interessante delle sue solite prede. Guardie,

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portatelo via! Lo spettacolo comincerà domani.»
I giovani ateniesi furono rinchiusi nei sotterranei del palazzo. Teseo
cercava di consolare i compagni terrorizzati, ma anche lui aveva paura e
rimpiangeva di essersi messo in quella orribile situazione. Come avrebbe
fatto a uccidere da solo un mostro feroce come il Minotauro?
D’improvviso Teseo udì una voce sussurrare il suo nome.
Si avvicinò alla porta della prigione e vide il volto di una giovane
donna tra le sbarre.
«Sono Arianna, la figlia di Minosse» disse la fanciulla aprendo la porta
con uno scatto. «Ho una proposta per te. Se fai quello che ti chiedo, ti
aiuterò a uccidere il Minotauro e a fuggire da Creta.»
«Che cosa vuoi esattamente?» chiese Teseo, sospettando un inganno.
«Che mi porti via con te» disse Arianna. «E… che mi sposi.»
Teseo non si aspettava una richiesta tanto ardita, e l’idea di sposare
Arianna non lo entusiasmava di certo. Ma in quel momento la cosa più
importante era uccidere il Minotauro. Avrebbe pensato a tutto il resto in
seguito.
«D’accordo» disse incrociando le dita dietro la schiena.
Arianna, allora, lo condusse fuori da quella cella buia. Aveva con sé una
torcia ma nessuno li vide, perché la principessa aveva dato alle guardie
una pozione per farle dormire. Arianna e Teseo imboccarono un sentiero
fino a fermarsi davanti a una piccola cavità nella roccia che assomigliava
all’ingresso di una tomba.
Teseo sentiva il cuore martellargli nel petto.

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«Il labirinto è immenso, ha cunicoli interminabili, più bui dell’anima di
mio padre» sussurrò Arianna. «Chiunque vi entri è destinato a perdersi. Il
mostro, invece, conosce ogni angolo, e ti troverà ovunque tu sia. Ma grazie
a questo gomitolo magico, sarai tu a trovarlo per primo.»
Legarono un’estremità del gomitolo a un cespuglio. Il filo l’avrebbe
portato dal Minotauro. E se Teseo fosse sopravvissuto avrebbe potuto
riavvolgere il gomitolo e ritrovare la strada.
«Ma come faccio a sconfiggere il Minotauro?» chiese Teseo. «Ho detto
che l’avrei ucciso a mani nude, ma preferirei avere un’arma, un coltello,
almeno…»

101
«Ho pensato anche a questo» disse Arianna, frugando dentro un altro
cespuglio. «Prendi questa.»
Era una splendida spada, dalla lama scintillante e affilata come un
rasoio.
Arianna consegnò a Teseo la spada e la torcia. Poi lasciò cadere a terra
il gomitolo. Teseo lo vide rimbalzare ed entrare nel labirinto. Fece un
respiro profondo ed entrò a sua volta, trovandosi circondato da ombre
scure e minacciose.
Dovette fare appello a tutto il suo coraggio per proseguire. A ogni curva
era certo che il Minotauro lo attendesse in agguato dietro l’angolo, pronto
a coglierlo di sorpresa, pronto a coglierlo di sorpresa, e sentiva il cuore
fermarsi. Eppure non vedeva niente e gli unici suoni che giungevano alle
sue orecchie erano il rumore del suo respiro e lo strisciare dei sandali sulla
pietra.
Quando il filo del gomitolo era quasi finito, Teseo si ritrovò in una
grande stanza al centro del labirinto. La torcia riusciva a malapena a
illuminare l’ambiente. Ai suoi piedi c’erano frammenti di ossa umane,
rosicchiati e sanguinolenti – i resti delle povere vittime del Minotauro.
D’improvviso una figura minacciosa e gigantesca emerse dall’ombra,
facendo tremare il terreno. Teseo vide un paio di corna massicce e due
occhi malvagi brillare nelle tenebre, e per poco il cuore non gli esplose nel
petto. Il Minotauro era più grande di lui di due, tre, o perfino quattro volte.
«Chi osa entrare nella mia tana?» tuonò una voce.
«Teseo di Atene, figlio del re Egeo» rispose tremante e con voce incerta
il giovane principe. «Preparati a morire, mostro!»
Ora o mai più, si disse Teseo. Con un grido di battaglia, si lanciò sul
Minotauro, la torcia in una mano e la spada nell’altra. Il mostro ruggì e
tentò di colpirlo a morte con i suoi giganteschi zoccoli. Per schivarli,
Teseo saltava in basso, in alto, a destra e a sinistra.
Ma quel balletto era faticoso e Teseo sapeva che non avrebbe retto a
lungo. Quando ormai era allo stremo delle forze, riuscì ad affondare la
lama in una zampa del Minotauro. Il mostro cadde sulla schiena, gridando
di rabbia e dolore. Teseo ne approfittò per trafiggerlo al petto, uccidendolo
sul colpo. L’eroe estrasse la spada e la ripulì dal sangue della bestia. Poi,
senza quasi riprendere fiato, afferrò il filo magico e si avviò all’uscita del
labirinto.

102
Arianna lo stava aspettando.
«Forza!» esclamò. «Non abbiamo molto tempo!»

Tornarono nei sotterranei del palazzo e Teseo liberò velocemente i suoi


compagni. Una guardia li vide e diede l’allarme. Altri soldati accorsero e
si misero al loro inseguimento. Ma Teseo riuscì a trovare una nave e, sotto
una pioggia di frecce, gli ateniesi lasciarono Creta. Il viaggio proseguì
senza sorprese, tranne che per un dettaglio: Teseo non voleva mantenere la
sua promessa. Aveva fatto salire Arianna sulla nave, ma più il tempo
passava meno lo entusiasmava l’idea di sposarla.

103
Certo, senza il suo aiuto non sarebbe mai riuscito a uccidere il
Minotauro. Ma d’altra parte come poteva fidarsi di una donna che
preparava pozioni magiche ed era capace di tradire il proprio padre?
Teseo non ebbe dubbi. Abbandonò Arianna sulla prima isola in cui
fecero tappa e non si voltò più indietro. Secondo alcuni, la principessa
morì sola, sulla stessa isola. Altri, invece, sostengono che la principessa
sia tornata a Creta e si sia riappacificata con il padre. Altri ancora dicono
che un dio l’abbia presa in sposa. Qualunque sia la verità, la storia di
Arianna finisce qui.

Proseguendo il viaggio, Teseo infranse un’altra promessa. Dimenticò di


issare una vela bianca sulla sua nave. Quando Egeo vide arrivare da Creta
una nave con la vela nera pensò che i suoi timori si fossero avverati. E,
convinto che il figlio fosse stato divorato dal Minotauro, si gettò dalla
rupe e annegò.
Teseo fu distrutto dal dolore. Ma da quel momento, la vita del popolo di
Atene cambiò. Minosse aveva troppo timore dell’eroe che aveva ucciso il
Minotauro e non osò più minacciare il suo regno.
Teseo non dimenticò mai il padre e decise di dare il suo nome al mare
che si estendeva da Creta ad Atene. Ancora oggi lo chiamiamo Mar Egeo.

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La freccia d’argento
LA STORIA DI ROBIN HOOD

All’epoca dell’invasione normanna l’Inghilterra attraversò uno dei suoi


periodi più bui. Gli invasori misero a ferro e fuoco l’intera isola,
derubarono e uccisero molte persone, saccheggiarono le città e
depredarono le campagne. Infine instaurarono un regno di terrore e
violenza e costrinsero i sassoni a vivere nella miseria.
Quasi nessuno osava opporsi al loro dominio, e i pochi che osavano
ribellarsi venivano subito catturati e puniti, tutti tranne uno… un giovane
conosciuto come Robin Hood.
Secondo alcuni Robin era in realtà Robert di Locksley, il figlio di un
nobile ucciso dai normanni. Secondo altri era il figlio di un povero
cacciatore o di un piccolo proprietario terriero. Si diceva che un giorno
una banda di normanni lo avesse attaccato a tradimento e che, prima di
fuggire indenne, Robin Hood avesse ucciso da solo tre uomini.
Qualunque fosse la verità, da molto tempo ormai Robin era stato
dichiarato un fuorilegge e aveva trovato rifugio nel cuore della foresta di
Sherwood, vicino alla città di Nottingham. Con il tempo aveva messo

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insieme una banda di fedeli seguaci, uomini – e anche qualche donna – che
come lui avevano perso le famiglie e le case per mano dei normanni.
Ma Robin e i suoi compagni non si limitavano a stare nascosti.
Lottavano contro il nemico ogni volta che ne avevano l’occasione.
Piombavano sui soldati normanni che marciavano ai margini della foresta,
scagliavano su di loro una pioggia di frecce e poi tornavano rapidissimi
nell’ombra. Spesso attaccavano anche i viandanti normanni, rubando ai
ricchi per dare ai poveri.
I sassoni adoravano Robin e ovunque si ritrovassero non facevano altro
che parlare delle sue imprese. Ne apprezzavano soprattutto il coraggio,
l’audacia, il senso dell’umorismo e le abilità nel combattimento. C’erano
molti altri ottimi arcieri tra i ribelli, tra cui il prode Will Scarlett, ma
Robin Hood era di gran lunga il migliore. E sapere che Robin Hood lottava
per tutti era di grande conforto per il popolo.
I normanni temevano e odiavano Robin Hood in egual misura.
Uno in particolare, l’astuto e brutale Sceriffo di Nottingham, era
determinato a catturare il bandito e a mettere fine alle sue scorrerie una
volta per tutte. Ma per quanto lo sceriffo organizzasse spedizioni per
stanarlo e inviasse scorte di soldati a protezione dei viaggiatori, Robin
Hood riusciva sempre a beffarlo.
Stanco di quella situazione, lo sceriffo si rinchiuse nel suo freddo e
tetro castello e non ne uscì finché non ebbe elaborato un piano.
In una sera buia, un ragazzino – il figlio di uno dei fuorilegge della
banda – irruppe nel rifugio segreto di Robin Hood, una radura nel cuore
della foresta. Il bandito e i suoi compagni erano seduti intorno al fuoco
intenti a consumare la cena, la carne di un cervo che avevano rubato allo
Sceriffo di Nottingham – Robin diceva sempre che la selvaggina sottratta
allo sceriffo era più saporita.
«Robin!» gridò il ragazzino, piombando in mezzo al gruppo. «Guarda
questa! Era appesa all’ingresso di una taverna. E ce ne sono molte altre in
giro.»
Il ragazzino gli porse una pergamena. Robin Hood lesse attentamente e
poi sorrise.
«Sentite questa, amici miei!» esordì, e subito il gruppo si zittì. «Sembra
proprio che il nostro caro Sceriffo di Nottingham si annoi e abbia bisogno
di un po’ di divertimento. Vuole stabilire chi sia il miglior arciere

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d’Inghilterra. Per questo ha organizzato un grande torneo nel suo castello.
Il vincitore avrà un premio molto generoso… una freccia d’argento.»

«Robin, non starai pensando di partecipare al torneo?» disse Marian, la


sua innamorata, con espressione preoccupata. «È una trappola.»
«Marian ha ragione» intervenne Will Scarlett, uno dei primi membri
della banda. «Lo sceriffo sa benissimo che sei tu il miglior arciere
d’Inghilterra.»
«E sa anche che quando c’è una sfida non ti tiri mai indietro» disse
Frate Tuck, un altro che si era unito alla banda sin dai primi tempi. «È solo
un modo per prenderti in trappola.»
Uno dopo l’altro Much il figlio del mugnaio, Little John, Alan A’Dale e
gli altri compagni di Robin intervennero per tentare di dissuaderlo, tutti
ugualmente preoccupati per il loro capo. Presto la radura si riempì di un
fitto brusio di voci, finché Robin Hood non levò una mano e ottenne il
silenzio.
«Certo che è una trappola» disse. Il bagliore del fuoco illuminava il suo
sorriso. «Lo so benissimo. Ma questa è una ragione in più per partecipare.
E vincere.»

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«Ma che cosa puoi guadagnarci in una situazione così pericolosa?»
disse Marian. «Sei l’unica speranza per il popolo, l’unica ragione per cui
la povera gente continua a resistere…»
«Esatto!» disse Robin, sempre più sorridente. «Pensa a come saranno
felici se riuscirò a beffare lo sceriffo nel suo stesso castello.»
«Forse non hai tutti i torti…» mormorò Frate Tuck con gli occhi che gli
brillavano. Gli altri membri della banda si scambiarono occhiate
interrogative e poi sorrisero a loro volta. L’unica che sembrava ancora
perplessa era Marian.

«Non lo so, Robin» disse, accigliata. «penso che sia troppo rischioso.»
«Tutto è rischioso per noi sassoni, di questi tempi» rise Robin. Gli altri
risero con lui e anche a Marian sfuggì un sorriso. «Se non altro ci
divertiremo» aggiunse il fuorilegge. «Fidatevi di me. Ho in mente un
piano. Lo sceriffo crede di essere più furbo di me, ma si sbaglia di
grosso.»
Trascorse una settimana e finalmente giunse il giorno del torneo. Il sole
splendeva sopra la grande folla che si era radunata davanti al castello dello
sceriffo. I sassoni furono ammassati da una parte, dietro una barriera, e
sorvegliati a vista da una schiera di soldati normanni muniti di elmo,
spade e armatura.
A un’estremità della corte un grande tendone, fatto di seta lucida e
decorato con stendardi svolazzanti, ospitava lo Sceriffo di Nottingham,
che in questo modo poteva assistere al torneo al riparo dal sole. Lo

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sceriffo sedeva sopra un palco, in una poltrona grande quanto un trono, ed
era circondato dalle sue guardie e da alcuni nobili normanni.
Davanti allo sceriffo, sopra un tavolino, era esposta la freccia
d’argento.
«Avete raccomandato a tutti gli uomini di stare in allerta?» mormorò lo
sceriffo all’orecchio del capitano delle guardie. «Non devono lasciarselo
sfuggire, pena la loro stessa morte.»
«Non temete, signore. Sanno perfettamente ciò che devono fare»
rispose il capitano, sorridendo. «Sarà un giorno memorabile, vedrete. A
proposito, due guardie vorrebbero partecipare al torneo, se voi
permettete…»
«Sì, certo…» sibilò lo sceriffo, liquidando il capitano con un gesto
della mano.
Nonostante l’apparenza, lo sceriffo era molto teso. Passava in rassegna
i volti nella folla, domandandosi dove si nascondesse il suo acerrimo
nemico, il misterioso bandito che gli aveva causato tanti guai. Lo sceriffo
non aveva mai visto Robin Hood, perciò non sapeva che aspetto avesse. E
nessuno era stato in grado di fornirgli una descrizione precisa del
leggendario bandito.
Finalmente lo sceriffo chiamò il suo araldo di corte e gli ordinò di dare
inizio al torneo. Al suo squillo di tromba, i contendenti si fecero avanti.

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Si misero in fila davanti allo sceriffo e l’araldo, che spiegò loro le
regole della gara. Lo sceriffo, intanto, si piegava in avanti per osservare da
vicino i partecipanti. Ce n’erano oltre un centinaio e arrivavano da ogni
angolo del paese, nella speranza di aggiudicarsi la freccia d’argento. Erano
quasi tutti sassoni, alcuni giovani, altri anziani, perlopiù gente di
campagna, eccetto i due soldati normanni di cui gli aveva parlato il
capitano delle guardie.
In quella moltitudine un contendente spiccava sugli altri: un tizio
robusto, vestito di verde dalla testa ai piedi, con il volto parzialmente
celato da un cappuccio. “Mmmh strano…” pensò lo sceriffo, aguzzando la
vista e sfregandosi il mento. Si ripromise di tenere d’occhio quel
misterioso arciere incappucciato.
Poi, dopo un altro squillo di tromba, la gara ebbe inizio.
I bersagli erano disposti lungo le mura del castello, a una distanza di
cinquanta piedi.

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Uno dopo l’altro, gli arcieri si presentarono al tiro. Il pubblico era
rumoroso e festante, mentre lo sceriffo e i suoi uomini seguivano la gara
in silenzio con sguardi da predatori.
Metà dei concorrenti fu eliminata al primo turno. Dopodiché la distanza
dai bersagli aumentò di altri venticinque passi.
Presto non rimasero in gara che una decina di uomini. E, quando il
bersaglio fu portato a centocinquanta passi, i contendenti si ridussero a
cinque. Erano tutti abilissimi. Due di loro erano i soldati normanni, per la
grande soddisfazione dello sceriffo, ansioso di dimostrare al popolo che
anche i normanni potevano essere buoni arcieri. Nonostante questo il
pubblico presente aveva fischiato i due soldati per tutto il tempo.
Gli altri tre partecipanti ancora in gara erano sassoni. Due di loro erano
ottimi tiratori, ma fino a quel momento il migliore del torneo era stato il
terzo, che aveva fatto centro a ogni tentativo: si trattava dell’uomo
incappucciato. La sua identità restava ancora un mistero: fino a quel
momento non aveva parlato con nessuno e non aveva abbassato il
cappuccio nemmeno per un attimo.

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Lo sceriffo lanciò uno sguardo al capitano delle guardie e annuì.Il
capitano si voltò e bisbigliò qualcosa all’orecchio di una guardia. Poco
dopo apparvero altri soldati dagli elmi e le spade scintillanti, che si
disposero intorno ai cinque finalisti. Il capitano guardò lo sceriffo in attesa
di un segnale, ma lo sceriffo gli lasciò intendere che era ancora troppo
presto.
La fase finale del torneo ebbe inizio. I due sassoni fecero due ottimi
tiri, ma non colpirono il centro. Lo stesso accadde alle due guardie
normanne. Infine venne il turno dell’uomo misterioso. Nella corte del
castello scese il silenzio. Il pubblico trattenne il respiro.
L’arciere tese l’arco, prese la mira e scoccò la sua freccia, che sibilò
nell’aria e andò a conficcarsi proprio al centro del bersaglio. La folla
esultò, ma esattamente allora accadde l’imprevedibile.
«Prendetelo!» gridò lo sceriffo, impaziente.
I soldati si avventarono sull’uomo incappucciato e lo bloccarono.
Dapprima la folla mormorò, confusa, poi prese a fischiare. Lo sceriffo li
ignorò. Balzò in piedi e abbandonò il palco, seguito dal capitano dalle
guardie.

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«Signore…» disse il capitano, affannato. «Devo dirvi una cosa…»
«Non ora, idiota!» sbraitò lo sceriffo, allontanandolo.
Lo sceriffo si fermo davanti all’arciere misterioso, che se ne stava tra
due soldati a capo chino.
«Finalmente, Robin Hood…» sibilò. «Sono felice di incontrarti.» E con
un gesto brusco scostò il cappuccio dell’arciere, ritrovandosi di fronte un
viso giovane e sorridente. «Non hai niente da dire?» ringhiò lo sceriffo.
«Non molto» rispose il giovane. «Soltanto che non sono la persona che
cercate.»

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«Cerchi solo di salvarti la pelle!» gridò la sceriffo. «Guardie, portatelo
via. Più tardi sarà impiccato… dopo che l’avremo torturato!»
«Aspettate!» intervenne uno dei soldati che aveva partecipato alla gara.
«Dice la verità. Non è Robin Hood.»
«Di che cosa parli, soldato?» ribatté lo sceriffo, paonazzo per la rabbia.
«Come puoi affermare che non è lui?»
«Perché il suo nome è Will Scarlett» disse il soldato levandosi l’elmo.
«Robin Hood sono io. E ora è tempo di concludere la gara. Prendilo,
Alan!»
D’improvviso il secondo soldato sguainò la spada. E prima che
qualcuno potesse fermarlo, afferrò lo sceriffo e gli puntò la lama alla gola.
La folla gridava e, presi dal panico, gli uomini dello sceriffo non sapevano
che cosa fare.
«Non state lì impalati, idioti!» gridò lo sceriffo. «Uccideteli!»
«Fossi in voi, non mi muoverei» disse Robin. «Una mossa falsa e vi
giuro che il mio amico Alan, taglierà la gola allo sceriffo. Anzi, vi
consiglio di gettare le armi. Guardatevi intorno!»
Sulla mura del castello erano comparsi altri arcieri che tenevano sotto
tiro i soldati normanni. Erano i compagni di Robin che inizialmente si
erano confusi tra la folla.

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Con un gran frastuono i soldati lasciarono cadere le armi a terra.
«Mi dispiace, signore» disse il capitano. «Ho cercato di avvertirvi.
Abbiamo appena trovato due dei nostri uomini nudi e legati…»
«È opera nostra, sceriffo» disse Robin. «Non trovate che l’uniforme mi
doni?» Poi il bandito si voltò verso il popolo. «Lo sceriffo ha organizzato
il torneo solo per catturarmi. Catturare me, Robin Hood» pronunciò con
voce squillante. «Ma a quanto pare abbiamo mandato a monte i suoi
piani.»
La folla rispose con grida di esultanza. Robin e gli altri sorrisero, felici.
«Se davvero sei Robin Hood» protestò lo sceriffo «allora tutte le storie
che ho sentito sul tuo conto sono false. Dicono che tu sia il migliore
arciere d’Inghilterra, ma oggi qualcuno ti ha battuto.»
«Ne sei sicuro?» disse Robin. Sapeva che lo sceriffo stava cercando di
metterlo in difficoltà davanti al popolo. «Forse allora dovrei darti un
assaggio di quello che so fare. Non ti dispiace se faccio un altro tiro, vero,
Will?»

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«Accomodati» rispose Will. «Ma sarà difficile che tu faccia meglio di
me.»
Robin non rispose. Imbracciò l’arco, afferrò una freccia dalla faretra e
la incoccò. Poi tese la corda fino a sentire le piume della freccia sulla
guancia e prese la mira, puntando all’ultimo bersaglio centrato da Will. Di
nuovo tutti i presenti – sassoni e normanni, poveri e ricchi – trattennero il
respiro.
Robin era perfettamente immobile, il braccio teso, il sole che brillava
sopra di lui.
Poi lasciò la corda, la freccia corse spedita fino al bersaglio e spezzò in
due quella di Will, conficcandosi proprio al centro. Un grido di
acclamazione si levò dalla folla. Perfino i normanni si lasciarono sfuggire
un sospiro pieno di ammirazione. Mentre lo sceriffo rimase a bocca aperta
– e con la spada di Alan A’Dale puntata alla gola.

«Bene, adesso non dovreste avere più dubbi sulla mia identità,
sceriffo!» disse Robin. «E credo proprio di essermi meritato un bel
premio! Will, tu prendi la freccia d’argento, io lancio il segnale a
Marian.»
Will corse a recuperare la freccia d’argento, mentre Robin estrasse un
corno dall’uniforme. Ci soffiò dentro tre volte, e poco dopo Marian varcò
le porte del castello a cavallo. Era vestita di verde dalla testa ai piedi e
portava un arco sulla schiena. Dietro di lei giunsero altri quattro cavalli.
«Tutto a posto?» chiese a Robin.

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«Tutto secondo i piani!» rispose il bandito, saltando in sella a uno dei
cavalli. «E ora torniamo a casa. Temo proprio che dovrete seguirci,
sceriffo. Almeno fino al limitare della foresta» aggiunse. «Ma in fondo è
una bella giornata, una passeggiata a cavallo vi farà bene.»
Will fece accomodare lo sceriffo su uno dei cavalli liberi e gli legò i
polsi alla sella. Poi i banditi si misero in marcia. Robin, in testa, esibiva la
freccia trionfante. Marian procedeva al suo fianco. Una volta lasciato il
castello partirono al galoppo, diretti alla foresta di Sherwood.
Nel frattempo i banditi che erano rimasti nel castello si dileguarono
come fantasmi, prima che i normanni facessero in tempo a riprendersi e a
reagire.
Qualche ora dopo lo sceriffo ricomparve in sella al cavallo, legato
come un salame e nudo. La gente che ancora affollava la corte del castello
scoppiò a ridere: da tempo non vedevano una scena così divertente.
Presto la storia di come lo sceriffo era stato beffato da Robin Hood si
diffuse in tutto il paese.
Ma la battaglia di Robin contro i normanni non era finita, naturalmente.
Andò avanti per molti anni ancora, e il bandito si scontrò con lo sceriffo
altre volte. Tuttavia la reputazione dello sceriffo era ormai compromessa,
mentre la fama del fuorilegge crebbe a dismisura.
E ancora oggi, ogni volta che è necessario combattere un tiranno, la
povera gente ripensa a Robin Hood e alla sua leggenda per trovare
coraggio.
Questa storia, però, è giunta al termine. Lasciamo che Robin Hood e la
sua banda si godano il tepore del fuoco e che le loro risa e i loro canti si
levino verso il cielo, mentre tutto intorno la foresta di Sherwood li avvolge
nelle sue ombre.

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