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Il contadino mondiale e l’eco-comunismo – Collettivo

MillePiani

di Baldassarre Caporali

quadro 1

Fabbrica, natura e piantagione: lo stesso padrone

L’ accumulazione capitalistica, fin dai suoi inizi, a partire dall’accumulazione originaria, ha predato uomini
e terre in uno spazio planetario, ha costituito il proprio meccanismo di produzione e ha generato i
movimenti convergenti e spiraliformi delle merci e del denaro in un’economia-mondo. Così il dominio
coloniale è presto divenuto una fondamentale condizione dell’accumulazione capitalistica, della
riproduzione allargata dei suoi rapporti e delle sue strutture. Marx ha enucleato con precisione questo
nesso: “La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù
della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e il saccheggio delle Indie
Orientali, la trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni
che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione capitalistica. Questi procedimenti idillici sono
momenti fondamentali dell’accumulazione originaria. Alle loro calcagna viene la guerra commerciale
delle nazioni europee, con l’orbe terracqueo come teatro”. Qui siamo in un quadro mercantilistico, con le
monarchie assolute o i primi parlamenti che distribuiscono le concessioni e con un capitale, ancora
prevalentemente commerciale e bancario, che non ha pienamente concentrato la forza-lavoro; eppure il
terreno dello sfruttamento coloniale è già stato preparato, a cominciare dalla piantagione, una forma di
organizzazione schiavistica del lavoro più vicina alla fabbrica moderna che alla schiavitù antica, nelle sue
differenti tipologie. Tuttavia, soltanto alla fine del XIX secolo, con i monopoli e con le “società finanziarie
giganti”, con gli Stati-nazione consolidati e con i grandi eserciti nazionali, con il coinvolgimento del piccolo
risparmio negli investimenti economici d’oltremare e con il prestito internazionale, le vecchie forme di
colonialismo si inseriscono in un nuovo processo di accumulazione capitalistica, in un processo che
assorbe e consuma le colonie come margini di espansione sempre rinnovati, nella stretta che il processo
subisce tra la lotta di classe proletaria e i suoi squilibri interni. Ed ecco allora l’imperialismo moderno, cui
Lenin ha attribuito, con qualche forzatura evoluzionistica, le caratteristiche di uno sbocco di tendenze
capitalistiche precedenti.

Per Rosa Luxemburg, invece, sono le economie pre-capitalistiche a racchiudere in sé, in contesti feudali o
comunitari, forme di produzione e di consumo che, nel corso della successiva distruzione dei loro elementi
e delle loro funzioni, cedono ricchezze e procurano spazi all’auto-valorizzazione del capitale, al “perpetuum
mobile” in cui l’accumulazione capitalistica si risolve. Queste economie pre-capitalistiche, prevalentemente
rurali nonostante la formazione, nell’Occidente medioevale, di una borghesia urbana corporativa e
commerciale, ritornano, come analoga storici, nelle condizioni ambientali e sociali che l’imperialismo, nel
quadro di un capitalismo maturo, ricerca e sfrutta nelle colonie. Rosa Luxemburg ne ha ricavato le linee e
le coordinate di una tendenza storica: “Nell’accumulazione primitiva, cioè ai primi albori storici del
capitalismo in Europa e fino al XIX secolo avanzato, l’erosione dell’economia contadina costituì in
Inghilterra e sul continente il mezzo più potente per la trasformazione dei mezzi di produzione e di forze-
lavoro in capitale. Oggi lo stesso obiettivo è perseguito, con mezzi ben altrimenti poderosi, nella politica
coloniale. E’ un’illusione sperare che il capitalismo si accontenti dei soli mezzi di produzione che può far
sorgere dallo scambio delle merci”. Al capitale occorre invece che l’intera compagine della natura – ossia il
“ricambio organico fra società e natura” – venga incorporata nella produzione di merci, e per questo i
rapporti sociali ancora veicolati da forze e da circostanze naturali, insieme alle istituzioni e alle leggi che le
mantengono, devono essere spezzati risolutamente. “La comunità contadina a tipo comunista o il feudo si
basano, nella loro organizzazione economica, sul vincolo del principale mezzo di produzione – il suolo – e
della forza-lavoro, in virtù del diritto e della consuetudine. L’economia naturale oppone dunque alle
esigenze del capitale, sotto tutti gli aspetti, rigide barriere. Perciò il capitalismo conduce sempre e ovunque
una preventiva campagna di annientamento contro l’economia naturale in qualsivoglia forma storica gli si
presenti”. Su questa violenza travolgente, statuale ed economica al tempo stesso, Marx dà ampi ragguagli:
“Il modo in cui il denaro si trasforma in capitale, storicamente assume spesso un aspetto chiaro e tangibile,
ad esempio quando il commerciante fa lavorare per sé un certo numero di tessitori e filatori che fino ad
allora avevano esercitato la tessitura e la filatura come attività collaterale nelle campagne, e fa di questa
loro attività collaterale la loro fonte di guadagno principale; ma in tal caso egli li ha in pugno e li mette ai
suoi ordini come operai salariati. Strapparli alle loro località di origine e riunirli in una casa di lavoro, è un
passo ulteriore”. Manifattura e “Grande Internamento” degli irregolari confondono i loro passi e vanno
nella stessa direzione: le case di lavoro, Workhouses o Maisons du travail, attendono gli sradicati della
campagna così come gli stabilimenti manifatturieri, dislocati in campagna per aggirare le corporazioni e
per attingere energia idraulica, attendono i vecchi artigiani urbani. Tuttavia, soltanto attraverso gli imperi
coloniali l’accumulazione capitalistica ha potuto dare continuità a questi sconquassi.

Quadro 2

Metamorfosi terzomondiste: da sottouomo a controuomo

Ma il “mondo coloniale” – come lo ha chiamato Fanon -, in quali decisive congiunture ha assunto i tratti
che lo hanno plasmato come periferia planetaria dell’Occidente, di un Occidente imperialistico che, in
questa ricorrente metafora, è divenuto la metropoli? Attraverso quali politiche coloniali le ambizioni di
conquista dei governi parlamentari della borghesia liberale del XIX secolo si sono fuse con l’assalto alle
colonie delle forze motrici dell’accumulazione capitalistica? E, inoltre, quali strumenti legislativi, perlopiù
provenienti dalle forme giuridiche dello scambio, sono stati impugnati nella metropoli come spartiacque
“progressista” fra la “civiltà” dei colonizzatori e l’“arretratezza” dei colonizzati? Lo sterminio degli indiani
d’America negli Stati Uniti, lo spolpamento inglese dell’India, attraverso l’avvicendamento e la spartizione
dei ruoli tra Compagnia delle Indie Orientali, parlamento e amministrazione coloniale, e infine i successivi
periodi della colonizzazione francese dell’Algeria, sono le aree coloniali in cui Rosa Luxemburg ha
rinvenuto i passaggi storici della disarticolazione e dell’annientamento imperialistici di economie pre-
capitalistiche. L’Algeria sotto la Terza Repubblica appare, a tal proposito, esemplare, poiché nelle parole di
Rosa non manca nessun atto rilevante, e l’insieme mostra un’implacabile coerenza, un’espressiva
organicità: “verso il 1870 l’Europa fu allarmata dal grido di dolore che saliva dall’Algeria, dove una
spaventosa carestia […] [testimoniava] di un quarantennio di dominazione francese. Per stabilirne le cause
e deliziare di nuovi provvedimenti legislativi le popolazioni indigene fu nominata una commissione il cui
unanime parere fu che una sola àncora di salvezza rimaneva agli arabi – la proprietà privata! Solo allora
ogni arabo avrebbe potuto vendere il suo pezzo di terra o accendervi un’ipoteca e, in tal modo, difendersi
contro la miseria. Così, per soccorrere gli arabi in una situazione di emergenza determinata dalle
spoliazioni in parte già compiute […], dal peso delle imposte e dall’indebitamento da esso provocato, si
dichiarava unica medicina il completo abbandono degli arabi in balia degli usurai. Questa beffa fu
sottoposta con perfetta serietà all’Assemblea e con altrettanta serietà approvata dal degno consesso. La
spudoratezza dei ‘vincitori’ della Comune parigina celebrava le sue orge trionfali”. Occorre riconoscere
tutta l’importanza di queste connessioni: la rovina dei contadini e di un’agricoltura patriarcale, fondata sui
possedimenti fondiari di grandi famiglie ma organizzata su reti di solidarietà di villaggio, è l’immediata
conseguenza di una frantumazione mercantile del vecchio assetto economico, dalla quale derivano
indebitamenti e forme di lavoro che fanno presto scivolare le nuove proprietà nelle mani delle compagnie
francesi. Il mercato mondiale, nel segno dell’imperialismo occidentale, assorbe così ambienti e popolazioni
nel gigantesco giro della produzione industriale capitalistica, alimentata dal saccheggio planetario delle
materie prime, dagli investimenti finanziari e dagli scambi ineguali generalizzati. La miseria dei contadini
delle periferie coloniali e i loro ambienti sociali devastati, le comunità rurali patriarcali disgregate e la
trasformazione capitalistica di un habitat naturale un tempo socializzato soltanto per i valori d’uso e per gli
scambi limitati, fanno intravedere un’unica vicenda storica, un unico conflitto.

In alcuni importanti rivoluzionari ed intellettuali dei movimenti anticoloniali, questa posizione storica dei
contadini ha influenzato idee e programmi di liberazione, nella consapevolezza che i contadini, sfuggiti agli
antichi rapporti servili nei confronti dei notabili, dei grandi proprietari, delle autorità religiose e dei
potentati militari autoctoni, sempre in combutta con i poteri coloniali, costituivano, per le loro condizioni e
per consolidate pratiche di vita, il gruppo sociale decisivo della rivoluzione anticolonialista, lo strato
popolare più sensibile all’azione dei militanti urbani. Fanon, guardando all’Algeria, ma inserendola in un
orizzonte assai ampio, caraibico e africano, ha colto l’essenza di questo rapporto, nato e rafforzato dal
ripiegamento dei rivoluzionari sulle campagne: “Quegli uomini prendono l’abitudine di parlare ai
contadini. Scoprono che le masse rurali non hanno mai cessato di impostare il problema della loro
liberazione in termini di violenza, di terra da riprendere agli stranieri, di lotta nazionale, d’insurrezione
armata. Tutto è semplice. Quegli uomini scoprono un popolo coerente che si perpetua in una specie
d’immobilità, ma che conserva intatti i valori morali […]. Scoprono un popolo generoso, pronto al
sacrificio, desideroso di darsi, […]. Si capisce che l’incontro di questi militanti braccati dalla polizia e di
quelle masse scalpitanti, e istintivamente ribelli, possa dare una miscela detonante d’insolita potenza. Gli
uomini venuti dalla città vanno a scuola dal popolo e nello stesso tempo aprono per il popolo corsi di
formazione politica e militare”. Questo incontro è stato l’avvio di un’esemplare guerra partigiana, di una
guerra partigiana che, nonostante la locuzione “lotta nazionale”, ingannevole anche nelle circostanze della
sua origine, avrebbe dovuto rinnovare gli intenti e accrescere i significati di un internazionalismo operaio
che i tradimenti dei vecchi partiti, socialdemocratici e stalinisti, avevano disperso. E la violenza, che ritorna
insistente nel discorso di Fanon, non è semplice strumento, ratio politica oggettiva, bensì ritorno
nell’umano di un sottouomo, di quel sottouomo che il colonizzato è divenuto agli occhi del colonizzatore. Il
filosofo Fanon, aggirandosi tra Hegel, Sartre e la psicoanalisi, fa della violenza del colonizzato un
umanesimo del controuomo: “La violenza assunta permette al tempo stesso ai traviati e ai proscritti del
gruppo di tornare, di ritrovare il loro posto, di reintegrarsi. La violenza è intesa così come la mediazione
principe”. Nella negazione dialettica che incarna, il sottouomo si fa controuomo per realizzare l’uomo. Il
contadino del “Terzo Mondo” emerge allora come la figura sociale di questa lotta di classe internazionale,
anche se Fanon avvolge il proletariato delle periferie imperialiste in un insistente uso profetico della parola
popolo.
Quadro 3

Dove la classe è il popolo…

La parola popolo è, forse, il nome terzomondista della classe, e questa designazione, incorporando in sé un
mito collettivo ridotto in monconi amorfi dalla colonizzazione, e trasformato da essa in un proprio
strumento di dominazione, esprime una coscienza sociale lacerata, una coscienza che, attraverso i suoi
sedimenti etnologici, sgorga dal mondo contadino. Perciò, come ha notato Deleuze parlando del cinema
del Terzo Mondo del periodo del neocolonialismo e delle borghesie nazionali, formatesi perlopiù nella
decolonizzazione – le cosiddette borghesie “compradoras” -, il popolo del mondo coloniale è il punto di
intersezione fra una terra simbolica infranta ed una voce futura da articolare: “il popolo non esiste più, o
non ancora… manca il popolo”. Secondo Deleuze, questa parola veicola il concetto controverso e sempre
incompiuto di un popolo mancante, ed è proprio questa mancanza che dà alla parola popolo, una parola
oscillante tra l’impossibilità di una presenza e la necessità di una chiamata all’azione, tutto lo spessore
storico che ne giustifica il compito, che fa del popolo l’amplificatore culturale e pedagogico della classe
rivoluzionaria. Se il colonizzatore inonda di merci culturali i colonizzati, la classe viene investita come
popolo, ed è lì che il problema politico prende forma ed acquisisce i suoi elementi. Il personaggio del
cineasta fa ancora da guida: “A volte il cineasta del Terzo Mondo si trova di fronte un pubblico spesso
analfabeta, imbevuto di serie americane […], ed è lì che bisogna passare, è questa materia che bisogna
elaborare, per trarne gli elementi di un popolo che ancora manca […]. A volte il cineasta di minoranza si
trova nell’impasse descritta da Kafka: impossibilità di non ‘scrivere’, impossibilità di scrivere nella lingua
dominante, impossibilità di scrivere in altro modo”. La letteratura minore di Kafka, traccia riemergente
della filosofia minore, sottrae il popolo alle connotazioni sostantive, ai presupposti, all’anteriorità delle
tradizioni, per avviarlo in un divenire come movimento di fuga dai rottami e in mezzo ai rottami della sua
condizione, per coglierlo in un divenire che non è un processo, che non è lo svolgimento finalistico di un
quadro sociale, ma che è, invece, invenzione e reinvenzione di un linguaggio, di una coscienza e di un
ambiente. Nei compiti di questa letteratura e di questo cinema traspare un progetto politico: “non
rivolgersi ad un popolo presupposto, che c’è già, ma contribuire all’invenzione di un popolo. Nel momento
in cui il padrone, il colonizzatore proclamano ‘qui non c’è mai stato un popolo’, il popolo che manca è un
divenire, esso si inventa, nelle bidonville e nei campi, oppure nei ghetti, in nuove condizioni di lotta alle
quali un’arte necessariamente politica deve contribuire”. Il popolo che si ritrova e si forgia nella replica alle
sentenze ideologiche del colonizzatore e gli ritorce le formule, annientatrici o reificanti che siano, tendano
esse a rifiutare o a imporre determinati caratteri antropologici, un tale popolo trascorre
retrospettivamente, nonostante le mutate circostanze storiche, dalle pagine di Deleuze a quelle di Fanon.
Dopo Fanon, dopo Lumumba, dopo Ben Bella, dopo Che Guevara, in seguito alle sconfitte del pan-
africanismo e con il terrore nord-americano in America Latina, la metropoli imperialista ha rimpiazzato le
sue burocrazie e le sue polizie coloniali con i governi-cricca delle burguesias compradoras, e così il popolo
di Fanon è scivolato nella non esistenza, nel popolo che non c’è più, per quanto tale situazione annunci, e
ciò è decisivo, un popolo che non c’è ancora. Ma in questa china le imprese finanziarie, le banche e i
monopoli estrattivi rendono effervescente di loquacità nazionalista il loro fantoccio imperialista, ora
amico degli Stati neocoloniali, cui riserva la fraseologia dell’indipendenza nazionale: “Stimatissimo
amico/Da sempre noi/siamo pieni di ammirazione/per le grandi imprese e le conquiste/della Sua
nazione/e questa alleanza per noi/è garanzia/ dell’esito vittorioso della lotta/contro le forze della
distruzione/in questo mondo”. Una nazione della diplomazia del capitale internazionale subentra al popolo
che manca, rigettato, in questa accecante “fantomachia”, tra le “forze di distruzione”. La parola popolo è
dunque il rovesciamento della nazione neocoloniale, e su questa linea racchiude e fa sbocciare un
contenuto di classe. Questa classe anche quando affolla le bidonville appartiene alla campagna.
Quadro 4

La natura politicizzata e gli equivoci della negritudine

La figura culturale, insieme contro-identitaria e neo-identitaria, che le lotte anticoloniali del Novecento
hanno gettato nello scontro con il razzismo e con l’etnocentrismo dilaganti dalle metropoli e nelle
metropoli occidentali, dove l’esotismo cominciava a ispirare mode di ogni genere, è stata la negritudine, un
ideale politico, etico ed estetico, irradiatosi dai Caraibi a Parigi e vorticante in mutue suggestioni con il
surrealismo. La negritudine ha echeggiato nel pan-africanismo, ma la forza storica di un concetto culturale,
ispirato e nutrito da immagini poetiche, è stata modesta, o almeno non ha smosso i sentimenti collettivi
delle masse africane, impotente a suscitarvi inedite prese di coscienza. Questa mancata svolta politica,
questa dispersione della rivolta culturale in una corrente storica che, sotto le insegne della
decolonizzazione, apriva nuove vie al dominio coloniale, è ben testimoniata da Aimé Césaire, approdato
alla fine del XX secolo ad una blanda e confusa fiducia nell’ideologia borghese e progressista dei diritti
umani, e quindi ormai lontano dal suo originale marxismo terzomondista. Césaire, infatti, in un discorso
commemorativo di quel periodo, restringeva il programma politico-artistico della negritudine ad un
obiettivo modesto e conciliante, e lo riassumeva in queste parole: “la Negritudine è stata […] una rivolta
contro il sistema mondiale della cultura formatosi durante questi ultimi secoli, un sistema caratterizzato da
un certo numero di pregiudizi, di presupposti, che a loro volta vengono a costituire una gerarchia
schiacciante ed estremamente rigida. In altre parole, la Negritudine è una rivolta contro quello che io
definirei il riduzionismo europeo”. Tutto qui? La negritudine come semplice contestazione di un edificio di
valori culturali che ha attribuito le proprie misure e le proprie scale a tutta l’umanità? Naturalmente no, la
negritudine era stata anche molte altre cose, ed aveva incontrato, rivelandone aspirazioni e cicatrici, le
lotte di classe anticoloniali. Un incontro a distanza, tuttavia: una possibilità sfiorata, un incontro mancato.

Nel reciproco attraversamento della negritudine e delle insurrezioni anticoloniali, nel mescolarsi variegato
delle immagini poetiche, agitate da una natura vibrante nell’ebbro abbandono dell’“anima negra”, e delle
sollevazioni delle campagne coloniali, con le masse contadine in movimento verso il sottoproletariato dei
suburbi degradati, secondo i passi di una rotta mondiale che ha riunito Fanon, Che Guevara e Mao, e,
soprattutto, nel combinarsi di due tendenze eterogenee, una proveniente dall’arte, erompente dal
simbolico, e naturalmente orientata verso l’impegno nella storia, verso una praxis, l’altra forgiata dalle
contraddizioni, dalle forze e dalle miserie dell’oppressione storica, in questi due poli, il poeta nero e il
rivoluzionario sono stati vicinissimi, si sono quasi toccati, ma una convergenza storica duratura non ha
avuto luogo. Quando Sartre scriveva il suo saggio sulla negritudine la questione gli appariva ingombra di
incognite. “Che cosa accadrà se il negro, una volta spoglio della sua Negritudine a vantaggio della
Rivoluzione, non vorrà più considerarsi che come un proletario? Che cosa accadrà se si lascerà definire
solamente dalla sua condizione oggettiva? Se si costringerà, per lottare contro il capitalismo bianco, ad
assimilare le tecniche bianche? Si inaridirà la sorgente della Poesia, oppure il grande fiume nero colorirà di
sé, nonostante tutto, il mare nel quale sbocca? Non importa. […] [Talvolta] lo slancio poetico coincide con
quello rivoluzionario, talvolta invece ne diverge”. Se il saggio di Sartre sfocia in queste domande, tutto il
suo testo le prepara, facendo del poeta della negritudine, un Orfeo negro che nella natura vivente sente
l’anima Euridice, e ne ridesta gli archetipi nel colore, nella terra e nel dolore dei popoli neri dell’Africa e
dell’America; ma Sartre fa di questo poeta anche un altro personaggio, ne fa l’incarnazione di una
negatività dialettica, del “lavoro oscuro della Negatività che rode pazientemente i nostri concetti” e ne
persegue un singolare rovesciamento, “un rovesciamento che ricorda in modo curioso quello del negro
umiliato e insultato quando si vendica come ‘sporco negro’”; poiché, e il pensiero di Sartre corre al Césaire
rivoluzionario, “è l’aspetto privativo delle tenebre che fonda il loro valore”, e “la libertà ha il colore della
notte”. Così, le invenzioni mitopoietiche, mettendo in tensione gli elementi espressivi della terra e del
cosmo, attingono attraverso la “razza”, come grande scena epica di una natura ferita e alienata, di un
possesso costitutivo e rigenerante, le traversie e le umiliazioni delle masse rurali delle colonie, fanno
esplodere quel carico estremo di fatica e di privazione che le precipita in un sottosuolo della storia, molto al
di sotto del proletariato delle metropoli. La razza, nel mito, risveglia dunque la classe, e la risveglia nella
storia. Ecco la dialettica, ed ecco la formula “razzismo antirazzista” che Sartre impugna polemicamente. E,
pur senza insistervi, proprio in questi strappi della “coscienza felice” del vecchio umanesimo europeo,
Sartre ci mostra, nel contadino mondiale, il sottouomo delle colonie: “suo malgrado l’operaio bianco
approfitta in parte della colonizzazione. Per basso che sia il suo livello di vita, senza la colonizzazione
sarebbe ancora inferiore. E comunque, viene sfruttato meno cinicamente che il lavoratore a giornata di
Dakar o di Saint-Louis; e inoltre […], visto dal Senegal o dal Congo, il socialismo si presenta soprattutto
come un bel sogno. Perché i contadini negri scoprano che rappresenta la soddisfazione necessaria delle
loro rivendicazioni locali e immediate, devono prima imparare a formulare, compatti, queste
rivendicazioni, e quindi a pensare se stessi come negri”. La negritudine diviene il materiale infiammabile, il
campo d’azione accidentato e la lingua materna di un contro-uomo.

La classe e il colore, come in un linguaggio successivo sono stati chiamati, trovano qui un segno unificante,
ma lo trovano nella prospettiva, forse ancora più hegeliana che marxiana o marxista, di una “presa di
coscienza”, di un superamento che, come tale, sembra lasciarsi alle spalle la persistente e impregiudicabile
compiutezza di un’esperienza, di un vissuto (Erlebnis). Se di una forzatura svalutante si tratta, questo
eccesso dialettico è stato rimproverato a Sartre da un Fanon che ha saputo far valere, da fine psichiatra
dell’alienazione coloniale, l’irriducibile unità di un trascendimento di sé, di un’autoformazione, contro il
filosofo che, sviandosi da se stesso, era scivolato in un paternalistico “cambierai, ragazzo mio; quando ero
giovane, anche io…vedrai, tutto passa”. Le parole di Fanon, rendono perspicuo, tuttavia, il comune
orizzonte che già in quegli anni, precedenti l’avvio della rivoluzione algerina, avvicinava i due uomini: “La
dialettica che introduce la necessità al punto d’appoggio della mia libertà mi espelle da me stesso. Rompe
la mia posizione irriflessa. Sempre in termini di coscienza, la coscienza nera è immanente a se stessa. Non
sono la potenzialità di qualcosa, sono pienamente ciò che sono. Non ha da cercare l’universale. Nessuna
probabilità prende posto in me. La mia coscienza negra non si dà come mancanza. Essa è. E’ aderente a se
stessa”. A questa replica, Fanon fa seguire i versi del poeta haitiano Jaques Roumain, dove la
concatenazione planetaria degli affari, degli annientamenti antropologici e delle schiavitù dei secoli
capitalistici viene fronteggiata dagli echi multiformi e dai rinvii reciproci di un internazionalismo
proletario spontaneo e quasi oceanico, un internazionalismo in cui la classe sembra universalizzarsi
attraverso il colore, affidandosi ancora alla figura polemica della “razza”: “non voglio essere che della
vostra razza/operai contadini di tutti i paesi…/… operaio bianco di Detroit peone nero d’Alabama/popolo
innumerevole delle galere capitalistiche/il destino ci erge spalla a spalla/e rinnegando l’antico maleficio dei
tabù del sangue/ calpestiamo le macerie delle nostre solitudini/[…] Se la Sierra è frontiera/spezzeremo la
mascella dei vulcani/che sostengono le Cordigliere/[…] noi proclamiamo l’unità della sofferenza/e della
rivolta/di tutti i popoli su tutta la superficie della terra […]”. Mescolando la propria voce a quella di
Romain e di altri poeti della negritudine, Fanon vuole scacciare il “razzismo antirazzista” evocato da Sartre
dall’universo politico e morale della “poesia negra”, e per compiere questo passo ha bisogno di individuare
l’insorgenza di una differenza, l’asimmetria sfuggita alla penna del filosofo, alla sua frettolosa sintesi
hegeliana. “Jean Paul Sartre ha dimenticato che il negro soffre fisicamente in modo diverso dal Bianco. Tra
il Bianco e me c’è irrimediabilmente un rapporto di trascendenza. […] E prendo questa negritudine, e, con
le lacrime agli occhi, ne ricostituisco il meccanismo. Ciò che era stato fatto a pezzi è ricostituito, edificato
dalle mie mani, liane intuitive”. Il meccanismo, però, viene ricostruito, ossia smontato sia da Sartre che da
Fanon, nella stessa direzione. Per entrambi, i rapporti di classe e i ruoli razziali si richiamano e si
sovrappongono senza tregua, ramificandosi nelle oggettivazioni morbose, ignare e alienate delle
coabitazioni inerti; e in entrambi, rispetto alle promesse e alle derive di un movimento artistico e politico,
viene perso di vista qualche cosa: in Sartre la già matura prorompenza rivoluzionaria della negritudine; in
Fanon le articolazioni storiche della lotta di classe. Rimane il fatto che queste articolazioni, riconfigurano,
antropologicamente, socialmente e geograficamente, l’alleanza – decisiva in ogni progetto rivoluzionario –
fra operai e contadini.

Quadro 5

Interludio schizo-analitico: razza e classe

Ma classi e razze, nel farsi e nel disfarsi delle loro costellazioni sociali, agitano forze potenti della psiche, e
ne catalizzano la libido, non come frantumi di archetipi, non come minerali di giacimenti originari, bensì
come oggetti privilegiati e quasi ossessivi dei più intensi investimenti inconsci di desiderio. Un inconscio
de-familiarizzato e de-edipizzato, Deleuze e Guattari vi ritornano spesso, ritroverebbe, nei flussi, nei
blocchi e nei deliri in cui è trascinato, proprio quegli oggetti storico-mondiali, e non “papà-mamma-ed-io”.
Tuttavia, sotto l’attenta tutela dei guardiani psichiatrici di Edipo, i piani di scorrimento storico-mondiali
del desiderio, nei quali i popoli, le masse, le classi e le razze si compongono e si scompongono in base ai
tagli, alle sintesi e alle disgiunzioni della libido, vengono sommersi dai fantasmi dell’intérieur borghese.
Uscendo da questa scena, ricompaiono, però, tutti i rapporti rimossi: non è il padre a veicolare
l’identificazione dei singoli individui con le forme storiche dell’autorità, ma è il soggiogamento collettivo a
produrre le identificazioni familiaristiche con le figure e con le funzioni del potere sociale. Razza e classe
entrano così nel delirio paranoico recitato nell’Edipo, e il desiderio viene canalizzato su elementi razziali e
classisti di tipo padronale, capitalistico e fascista: “(ho lavorato sin da tredici anni, innalzarsi nella scala
sociale, la promozione, far parte degli sfruttatori…). C’è dunque un uso segregativo delle sintesi
congiuntive che non coincide con le divisioni di classe, benché sia un’arma incomparabile al servizio d’una
classe dominante: grazie ad esso si costituisce il sentimento di ‘essere ben di casa nostra’, di far parte di
una razza superiore minacciata dai nemici esterni. Così il Piccolo-Bianco figlio di pionieri, l’Irlandese
protestante che commemora la vittoria dei suoi antenati, il fascista della razza dei padroni”. I tagli
paranoici della libido separano, assegnano, iscrivono, esibiscono, organizzano bi-univocamente il dentro e
il fuori e tracciano scale e misure; sono tagli che hanno innalzato nelle colonie il loro laboratorio vivente,
prima di ri-trasferire queste procedure nel panopticon metropolitano. Ecco Fanon: “Mondo a scomparti,
manicheo […], l’apartheid non è che una modalità della divisione in scomparti del mondo coloniale. La
prima cosa che l’indigeno impara, è a stare al suo posto, a non oltrepassare i limiti”. Ma fuori e contro gli
investimenti segregativi scorrono gli investimenti nomadici e polivoci, investimenti rivoluzionari che
concatenano classi, razze, masse e società in linee di fuga e di divenire, di divenire minoranza, di divenire
popolo minore, di divenire il popolo che manca. “L’investimento rivoluzionario inconscio è tale che il
desiderio […] interseca l’interesse delle classi dominate, sfruttate, e fa sgorgare flussi in grado di rompere
tutte le segregazioni e insieme le loro applicazioni edipiche, in grado inoltre di allucinare la storia, di
delirare le razze e di infiammare i continenti. No, non sono dei vostri, sono il difuori e il deterritorializzato,
‘sono di razza inferiore dall’origine dei tempi,…sono una bestia, un negro”. Il grido “non sono dei vostri”,
ancor più dei frammenti di Rimbaud, risponde al “sì, sono dei vostri”, alla voce con cui la razza, dalla
nazione alla famiglia, dall’equipe professionale al gruppo sportivo, fa echeggiare gli “arcaismi” dell’Edipo
nel “campo sociale”. Anche le lotte di liberazione anticoloniali, laddove hanno scavalcato la semplice
indipendenza della decolonizzazione, intaccando le forme neocoloniali della produzione capitalistica, si
erano ricordate di questa scissione, e avevano trasformato il colonizzato “inferiorizzato, ma non convinto
della sua inferiorizzazione”, il colonizzato che sognava “non già di diventare un colono, ma di sostituirsi al
colono”, in un uomo che “non [perdeva] tempo in lamenti e non [cercava] quasi mai [di ottenere] giustizia
nel quadro coloniale”. Le parole antiedipiche esprimono anche il controuomo: no, non sono dei vostri.

La razza e la classe, nella catena significante dell’ideologia borghese, costruita nel Novecento attraverso i
precipitati delle segregazioni coloniali, si incastrano in variazioni socialmente preformate, in distribuzioni,
a seconda dei contesti, stabili o mutevoli, formando così, in base a identificazioni e divaricazioni, i soggetti
collettivi connotati, in base a ruoli e posizioni, dai due caratteri. In tal modo il corpo biologico della razza –
il “corpo senza organi” di Deleuze e Guattari – diviene la superficie di iscrizione dei rapporti di classe, il
campo ideologico in cui la riproduzione dei rapporti di dominio capitalistici acquisisce uno dei congegni
più efficaci per compiere le sue flessibili articolazioni. Stuart Hall, rielaborando alcuni suggerimenti di
Althusser sull’origine comune del Soggetto e dell’ideologia, e considerando i vissuti collettivi emergenti in
questo nesso sociale, ha messo in rilievo la bidimensionalità dei conflitti di classe nelle metropoli
imperialiste: “La razza è […] la modalità attraverso cui viene ‘vissuta’ la classe, il mezzo attraverso cui i
rapporti di classe divengono “esperienza vissuta”, ovvero la forma che dà espressione all’appropriazione
della classe, così come ai modi attraverso cui si manifesta la lotta tra classi. E si tratta di un processo che
finisce per avere conseguenze per l’intera classe, e quindi non soltanto per il suo segmento ‘razzialmente
definito’. Tali conseguenze hanno a che vedere con la frammentazione e divisione interna della classe
operaia, poiché essa viene ad articolarsi come gruppo in parte anche attraverso la razza”. Il successo
ideologico capitalistico della colorazione razziale della classe, con la conseguente frantumazione di questa,
dipende qui dal monopolio istituzionale dell’interpellazione suscitatrice del Soggetto, il cui atto
primordiale, per Althusser, risuona nel richiamo “Ehi, lei laggiù!”; ma dipende anche dal riversamento
dell’immaginario nel vissuto – una fusione nella quale il primo cede l’espressività e il secondo procura una
carica di sentimento -, dal momento che la sociologia di Stuart Hall, seguendo Althusser, radica l’ideologia
nel “rapporto degli uomini col loro mondo”, nell’“unità (surdeterminata) del loro rapporto reale e del loro
rapporto immaginario con le loro reali condizioni d’esistenza”. In tal modo, però, Stuart Hall, se, da un
lato, può proporre un compito critico fecondo, mirando a “mostrare in che modo il razzismo venga
radicalmente riorganizzato e riarticolato dai rapporti dei nuovi modi di produzione”, dall’altro finisce per
sociologizzare l’ideologia in forme generali, per immetterla in costanti antropologiche: “E’ così che il
razzismo può riportare verso di sé altri discorsi ideologici – per esempio, esso si articola con quella
struttura corporativa della coscienza di classe “noi/loro” attraverso il meccanismo della condensazione
connotativa”. Nella formula “discorsi ideologici” è già percepibile la stupefacente comparazione fra
razzismo e coscienza di classe, il cui concetto allora, è importante notarlo, farebbe sì che essa, gravata
indebitamente da una struttura corporativa, possa passare all’opposto del suo essere sociale, e quindi
possa divenire ciò che le si oppone storicamente. Infatti, la coscienza di classe, come dice Benjamin, e come
per la prima volta era apparso in Lukács, è una conoscenza storica di cui la lotta di classe possiede la
chiave, non certamente come identità hegeliana di soggetto e oggetto, bensì come oscillazione tra un
passato-sogno e un presente-risveglio, in una “costellazione di pericoli”, nella crisi in cui, di volta in volta, è
entrato “il soggetto della storia”, che “non è per nulla un soggetto trascendentale, bensì la classe oppressa
che lotta, nella sua situazione più esposta”. Le angustie corporative appartengono non alla lotta di classe,
ma alle aristocrazie operaie e al sindacalismo riformista, e la formula “noi-loro” mistifica, presupponendo
un’umanità che non c’è, le basi etiche nella dis-alienazione umana, già all’opera nella coscienza di classe.
Nella replica, l’inconscio schizofrenico e la coscienza di classe uniscono allora le loro voci: no, non sono dei
vostri.
Quadro 6

Avvicinamento all’eco-comunismo

Il proletariato, nel Terzo Mondo, vive le sue tremende peripezie come classe contadina, e come classe
contadina ha subito e subisce, tra vecchio colonialismo e geopolitiche neocoloniali, le deportazioni, gli
espropri, le reclusioni concentrazionarie, i ghetti, il lavoro libero del diritto borghese, ossia il lavoro
assoggettato alle fluttuazioni capitalistiche dei costi di produzione, al ribasso senza sosta della merce forza-
lavoro, e, come sconvolgimento irreparabile di forme sociali tradizionali, la distruzione di ogni economia
comunalistica. Questo contadino ha assommato in sé lo sfruttamento della classe e le dislocazioni
territoriali delle sorveglianze razziali. Nel dominio coloniale si sono avvicendati padroni capitalistici con
differenti piani di appropriazione e tali contrasti, solitamente legati a blocchi di interessi non facilmente
componibili nel sistema coloniale dell’imperialismo, sono sfociati in tante guerre locali e in due guerre
mondiali; ma la posizione del contadino, come incarnazione della legittimità razziale dell’assoggettamento
sociale è rimasta preminente. Se in tutto l’Occidente il proletariato è stato razzializzato attraverso la
biologia, la psicometria, l’eugenetica delle popolazioni e la psichiatria e se queste scienze hanno filtrato la
mobilità della forza-lavoro nella metropoli imperialista, è indubbio che queste “tecnologie del controllo
sociale” abbiano ricevuto una spinta poderosa dal mondo coloniale. Il nesso funzionale tra accumulazione
capitalistica ed economie rurali, domestiche e artigianali extraeuropee ritorna allora nel quadro, e vi
ritorna, questa volta, nell’orizzonte catastrofico di un annientamento inevitabile di quelle economie.
Sentiamo Rosa: “Se […] il capitalismo vive di formazioni non-capitalistiche, vive però […] della loro rovina,
e se ha un incondizionato bisogno per la sua accumulazione di un ambiente non capitalistico, ne ha
bisogno come di un terreno di sviluppo a spese del quale, mediante il dissanguamento, compiere
l’accumulazione. Vista storicamente, l’accumulazione del capitale è un processo di ricambio organico
svolgentesi fra il modo di produzione capitalistico e quelli non-capitalistici. […] L’accumulazione del
capitale non può esistere senza le formazioni non-capitalistiche, ma queste, a loro volta, non possono
coesistere con lei. Solo il loro continuo e progressivo frantumamento pone le condizioni di esistenza
dell’accumulazione capitalistica”. La contraddizione è esplosiva, ma la dinamica storica dalla quale la
contraddizione si sprigiona ne mette in campo le forze sociali interne e immanenti, anche se la loro
soggettivazione rivoluzionaria, dopo l’acme delle lotte anticoloniali, sembra, nel nostro tempo, regredita e
dispersa. Certo è che questa biforcazione storica, per quanto procrastinata dai ritrovati tecnici e monetari
dispiegati dal piano del capitale, i quali, come ha mostrato Virilio, “miniaturizzano l’abitat terrestre” e ne
dissolvono i luoghi in un deserto tecnologico e sub-tecnologico, non può essere evitata dall’umanità. Così
le nuove forme di lotta di classe devono, e dovranno sempre più, sobbarcarsi il compito di sottrarre il
mondo e la natura alla legge dell’accumulazione capitalistica, e ciò significa la fine di quest’ultima. “L’idea
che ci si fa della lotta di classe può indurre in errore. Non si tratta, in essa, di una prova di forza in cui si
decida la questione di chi vince e chi perde […]. Perché la borghesia, sia che vinca o che soccomba nella
lotta, è comunque condannata a perire dalle sue interne contraddizioni […]. La questione è soltanto se essa
perirà per mano propria o per mano del proletariato. Durata o fine di un’evoluzione culturale tre volte
millenaria saranno decise dalla risposta a questo punto. […] E se la liquidazione della borghesia non si sarà
compiuta ad un punto quasi esattamente calcolabile dello sviluppo economico o tecnico […] tutto sarà
perduto. Prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va tagliata”. Il proletariato di
Benjamin era il proletariato metropolitano, la classe operaia dei sobborghi e delle fabbriche, con intorno le
masse sbandate e il sottoproletariato; ma la deriva storica degli ambienti di vita umani ha ricevuto la sua
onda possente dallo sventramento e dallo sminuzzamento caotico delle periferie coloniali, e quindi i
contadini del vecchio Terzo Mondo sono più vicini di altri, nel XXI secolo, alla miccia da tagliare. Inoltre,
la negritudine, il popolo che manca e che si inventa nei ghetti e nelle sierras, e che si inventa divenendo
razza inferiore e bastarda per dire “non sono dei vostri”, sono tracce componibili in un’unica corale,
sanguinosa e tenace educazione collettiva, sono immagini dialettiche. Allora si può andare oltre: tutto
questo epos minore configura una lotta di classe molecolare di dimensioni planetarie di cui i contadini dei
continenti colonizzati sono il connettore storico-mondiale. Se la catastrofe intravista da Rosa Luxemburg,
e di cui Benjamin fu un avvistatore instancabile, è maturata nell’assimilazione distruttiva della natura e
del valore d’uso nell’autovalorizzazione illimitata del capitale, allora soltanto un eco-comunismo che
ricostruisca quelle rovine su nuove fondamenta, può caricarsi di tutte le tensioni storiche di un’immagine
dialettica del rovesciamento rivoluzionario del capitalismo. Di questo eco-comunismo, da scoprire nel
furore e nella passione delle lotte più aspre, il contadino mondiale incarna le condizioni di classe – non la
classe, e neppure la classe in sé ! – che si trovano all’inizio di un cammino.

Quadro 7

Etnologie contadine ed eco-comunismo

Quando Marx dava di piglio alla sua polemica contro i socialisti russi sulla comunità contadina di villaggio,
sull’obscina, assegnando ad essa una posizione cruciale nella transizione rivoluzionaria verso forme
comuniste di produzione, l’intento che egli si proponeva era quello di strappare la sua teoria ad una
deformante riduzione evoluzionistica della storia, destinata a sfociare – in quei futuri menscevichi – in un
convinto sostegno della rivoluzione borghese, passaggio inevitabile, ai loto occhi, dagli arcaismi rurali della
proprietà feudale alla modernità industriale del socialismo. L’impresa non è stata di poco conto, poiché, in
quel caso, il materialismo storico non si arenava nelle sabbie progressiste; anche se, in quell’occasione,
Marx fece molto di più. In quella discussione, infatti, Marx incorporò definitivamente l’etnologia nel
materialismo storico e, attraverso una dialettica del ritorno, assai poco hegeliana, mise in contatto il
comunismo primitivo con il comunismo moderno, quale orizzonte anticapitalistico della liberazione
umana. La portata di queste idee, preparata da appunti e da un testo dei Grundrisse, non è sfuggita a
Dardot e Laval: “La rivoluzione nei paesi arretrati si presenta come una riattivazione in nuove condizioni di
forme arcaiche che sono state in parte preservate. Se le società moderne, secondo una formula che Marx
prende direttamente in prestito da Lewis Morgan, […] procurano ai paesi arretrati queste condizioni
materiali, ciò avviene da parte [di queste società] mediante ‘un ritorno a una forma superiore di un tipo
arcaico della proprietà e della produzione collettive”. Così Marx non soltanto sgancia la comunità
contadina russa dal servaggio fondiario e dall’autocrazia zarista, che, del resto, stava capitalistizzando
brutalmente il paese, ma, suggeriscono Dardot e Laval, lascia scorgere, sullo sfondo del comunalismo
contadino russo, l’esperienza rivoluzionaria operaia della Comune parigina. “Marx dunque poteva vedere
nella comune rurale ciò che egli avrebbe potuto chiamare ‘antitesi dello Stato zarista’, cioè considerare il
potenziale rivoluzionario che essa celava, […]. Facendo questo si può supporre che egli non avesse perduto
di vista l’analisi che aveva fatto dell’evoluzione in Francia, così differente dal ‘cammino inglese’. La
concentrazione politica come negazione della società vi aveva generato la sua propria negazione nella
forma dell’auto-organizzazione comunale della società. Era la lezione […] che egli aveva tratto dalla
Comune. Per quanto all’interpretazione di Dardot e Laval spetti l’indubbio merito di una comprensione
puntuale di alcuni snodi decisivi e spesso fraintesi del materialismo storico, di aspetti di esso passati sotto
silenzio dalle cerchie dirigenti della Seconda e della Terza Internazionale, e per quanto tale interpretazione
insista opportunamente sulla contrapposizione dell’autogoverno comunardo allo Stato burocratico della
borghesia, tuttavia i due filosofi francesi, muovendosi nel solco di un’artificiosa distinzione tra
comunalismo e comunismo, non priva di echi proudhoniani, finiscono per smarrire l’asse etnologico della
svolta politica di Marx. E’ stato invece proprio l’incontro – con tutta la densità concettuale che questa
parola possiede in Althusser – fra le prospettive decentranti di un’antropologia culturale ancora agli inizi e
la critica marxiana della storiografia e dell’economia politica borghesi, che ha permesso a Marx il passo
audace del carteggio con Vera Zasulich: il recupero dialettico del comunismo primitivo come fattore
storico di possibili trasformazioni rivoluzionarie.

Preme allora, impellente, una domanda: quali storie etnologiche danno al contadino mondiale la sua
polivoca natura rivoluzionaria? E inoltre: quali oggetti quotidiani, quali fluttuazioni archetipiche di
rapporti quotidiani, sono impigliati nel sogno-risveglio di una classe che non ha ancora acquisito una
consistenza sociale, di una classe generata e travagliata da un internazionalismo diasporico, e nella quale la
coscienza di classe trascorre, più sfuggente che in altre masse oppresse, attraverso la successione degli
chocs? Queste domande sono già il terreno di un’etnologia politica, e per questo sono anche la necessaria
articolazione etnologica di un eco-comunismo insorgente contro la tenaglia dell’accumulazione
capitalistica, di un eco-comunismo contrattaccante la catastrofe capitalistica. Spuntano allora storie
etnologiche istruttive, come quelle dei Tupí-Guaraní dell’America meridionale prima della conquista, e
come quella dei baruya della Nuova Guinea. Nei Tupí-Guaraní, Clastres rintraccia le linee di un problema
antropologico riemergente: il trauma originario del potere politico. “Le società primitive sono società senza
Stato perché lo Stato vi è impossibile. Eppure tutti i popoli civilizzati sono stati, dapprima, selvaggi: che
cosa ha fatto sì che lo Stato cessasse di essere impossibile? Perché i popoli cessarono di essere selvaggi?
[Quali formidabili avvenimenti] […] lasciarono sorgere la figura del Despota, di colui che comanda a coloro
che obbediscono? Da dove viene il potere politico?”. Il problema coincide pienamente con la formulazione
del concetto, ma non mancano le aporie. Infatti, al fondo della domanda radicale dell’antropologo,
ricompare tenace il vecchio dualismo delle infrastrutture economiche e delle sovrastrutture politiche,
sbilanciato, questa volta, sul complesso politico, la cui ricostruzione etnologica contiene le tappe del
passaggio da una chieftainship senza potere, sulla stessa linea del gruppo, ad un potere gerarchizzato e
sovraordinato al gruppo. Spinto dalle conseguenze di questo schema, che deve annullare l’influenza delle
divisioni sociali endogene nell’erosione dell’uguaglianza naturale, Clastres finisce per far apparire
l’irruzione del potere politico come una sorta di cataclisma. Il dramma interno dei Tupí-Guaraní gira,
allora, intorno ai profeti nomadi e ai brividi metafisici del popolo di fronte all’Uno cosmico incarnato dal
Despota, un abisso dissolvente che colloca gli amerindiani agli antipodi della prima filosofia greca: “i
Selvaggi ci fanno assistere allo sforzo permanente per impedire ai capi di essere capi, il rifiuto
dell’unificazione, la fatica di scongiurare l’Uno, lo Stato. La storia dei popoli, che hanno una storia, è […] la
storia della lotta delle classi. La storia dei popoli senza storia è, si dirà con altrettanta verità, la storia della
loro lotta contro lo Stato”. Se da queste contrapposizioni venate di rousseauvismo, che potrebbero esporre
Clastres a qualche sospetto di etnocentrismo capovolto, passiamo ai baruya si offre all’attenzione un altro
tipo di società, anch’esso molto lontano dalla modernità borghese e capitalistica dell’Occidente. Qui il fatto
antropologico saliente non è la resistenza soccombente all’avvento dello Stato, bensì la combinazione,
stabilizzatrice della società, fra una moneta naturale, e quindi uno scambio limitato, e un’organizzazione
del lavoro incentrata sui bisogni parziali e specifici dei sottogruppi, e perciò ignara del lavoro
genericamente umano, del lavoro astratto. Così Godelier ne può desumere che “negli scambi tra gruppi, ciò
che conta è la reciproca soddisfazione dei bisogni e non un bilancio equilibrato del dispendio di lavoro” e
che, fra i buruya, “v’è disuguaglianza senza sfruttamento dell’uomo sull’uomo”, in quanto la loro moneta
di sale “appartiene alla sfera della semplice circolazione delle merci”: una moneta che sottosta a
prescrizioni di valore d’uso applicate ai proprietari delle saline, indefettibilmente obbligati a “ridistribuirne
una parte”, al punto che “una vedova, un vecchio, un orfano riceveranno il sale e i prodotti di cui hanno
bisogno”. Godelier non si avvicina all’enigma di Clastres, e tuttavia un orizzonte comune abbraccia i due
casi, dal momento che istituzioni e forme sociali considerate primitive divengono istanze dissonanti
rispetto alla modernità capitalistica. I due casi, inoltre, non sono generalizzabili – l’induzione o il tipo
ideale sono fuori luogo ! –, ed entrambi riguardano situazioni precoloniali, di cui l’accumulazione
capitalistica si è impadronita sbriciolandole nei propri meccanismi. Il tempo di quelle società distrutte è
tuttavia raggiungibile dal balzo dialettico nel passato del contadino mondiale, da quel “balzo di tigre” che
Benjamin associava ad una palingenesi del passato nel presente, nella tensione esplosiva tra il balenare del
passato in un’attualità carica di pericolo e la chance rivoluzionaria racchiusa “nella lotta per il passato
oppresso”. Così, la sanguinante rammemorazione del colonizzato, riapparso nella figura del contadino
mondiale, annuncia un nuovo tragitto dalle società precapitalistiche alla liberazione. In questo tragitto, le
immagini che spronano alla lotta schizzano fuori dal continuum storico, e “l’immagine degli avi asserviti”
soverchia quella dei “liberi nipoti”. Per questo la rivoluzione dell’eco-comunismo, non più locomotiva ma
“freno d’emergenza”, si addice alle popolazioni contadine deterritorializzate.
Quadro 8

L’eco-comunismo e il nomade

Un vecchio dilemma strategico novecentesco sui luoghi di avvio della rivoluzione mondiale, quali colpi
decisivi da infliggere al concatenamento internazionale degli strumenti e delle aree dello sfruttamento
capitalistico, opponeva la rottura dell’anello debole e la rottura dell’anello forte della catena imperialistica.
Il dilemma, al di là dell’originaria formula di Lenin in cui venne sollevata la questione, ha assunto
successivamente questa espressione: l’anello che si romperà per primo si trova nella periferia coloniale o
nella metropoli imperialistica? Lenin da un lato, e Marcuse dall’altro. Mentre il primo è stato un
formidabile scopritore di anelli deboli, il secondo, nel Saggio sulla liberazione, scriveva che “la forza
esemplare delle rivoluzioni esterne [può] portare i [suoi] frutti soltanto se la coesione e la struttura interna
del sistema capitalistico cominciano a disgregarsi”. Il dilemma, tuttavia, non è mai stato tale, poiché la
teoria – secondo il suo autentico spirito marxiano – è stata quasi sempre un’interpretazione critica di
avvenimenti rivoluzionari in corso. Le condizioni di questa duplice prospettiva non hanno mai smesso di
riproporsi e così esse riemergono anche nei bivi di un eco-comunismo del contadino della colonizzazione,
di un eco-comunismo quale sbocco delle potenziali soggettivazioni di questo contadino. Con un’aggiunta
molto importante: il contadino mondiale è un nomade, e lo è, o lo diventa, in rotta di collisione con le
antropologie evoluzioniste, in base alle quali caccia, raccolta, allevamento e coltivazione sono fasi distinte e
successive. Al contrario, attraverso il prisma di una filosofia minore, nel quale si raccolgono e si
modificano le figure della rivolta anticoloniale – dal controuomo allo schizofrenico, dal divenire popolo
mancante al divenire razza inferiore, dal salto dialettico in un passato semi-onirico allo choc come presa di
coscienza -, il nomade si fa avanti come una staffetta inquieta del contadino mondiale, come un suo doppio
interno. Ma chi è allora questo nomade che appartiene all’orizzonte del contadino mondiale? Deleuze e
Guattari lo hanno così tratteggiato: “il nomade è […] colui che non si muove. Mentre il migrante
abbandona un ambiente divenuto amorfo o ingrato, il nomade è colui che non se ne va, che non vuole
andarsene, che si attacca a quello spazio liscio in cui la foresta si ritrae, in cui la steppa o il deserto
crescono e inventa il nomadismo come risposta a questa sfida. Naturalmente il nomade si muove, ma resta
seduto, non è mai seduto se non quando si muove […]. Il nomade sa attendere e ha una pazienza infinita.
Immobilità e velocità, catatonia e precipitazione, ‘processo stazionario’, lo stazionamento come processo,
questi tratti […] sono eminentemente i tratti del nomade”. Allora il contadino mondiale e il nomade si
confondono e il loro “movimento vorticoso”, che investe i continenti, accendendo lotte, difendendo terre,
seminando sollevazioni e inventando migrazioni – poiché le masse migranti extraeuropee del XXI secolo
sono masse nomadi -, è la “macchina da guerra” di questo popolo che diviene il popolo che manca, di
questa classe rivoluzionaria internazionale che sconvolge la topologia delle classi dei marxismi dottrinari.
Ma qual è il motore antropologico di questa macchina da guerra? O, per meglio dire, che cosa fa la
macchina da guerra? La risposta ritorna su un punto cruciale: la macchina da guerra produce
incessantemente un divenire, un divenire ateleologico, senza terminus a quo e terminus ad quem, un
divenire senza dissimulazione dell’essere, un divenire come fuga attiva, come “trasformazione del mondo”
attraverso scarti di intensità, attraverso le intensità in cui si dispiegano i luoghi, i tempi e i personaggi della
lotta di classe. Ascoltiamo ancora Deleuze: “La linea di fuga è una deterritorializzazione. [Gli occidentali]
non sanno bene che cos’è. Evidentemente essi fuggono come tutti, ma pensano che fuggire sia fuga dal
mondo, misticismo o arte, oppure che sia qualche cosa di vile, in quanto si sfugge così agli impegni e alle
responsabilità. Fuggire non significa affatto rinunciare alle azioni, non c’è niente di più attivo della fuga.
[…] Lo stesso vale per il far fuggire, non necessariamente altri, ma far fuggire qualcosa, far fuggire un
sistema, come si fa scoppiare un tubo. George Jackson scrive dalla prigione: ‘E’ possibile che io fugga, ma
durante la mia fuga cercherò un’arma’. […] Fuggire significa tracciare una linea, delle linee, tutta una
cartografia”. L’eco-comunismo, che fa fuggire la lotta di classe dalle figure storiche della “grande industria”
capitalistica, per tornare a sconvolgerla con i nomadismi delle proprie deterritorializzazioni, appartiene a
queste cartografie.

Bibliografia

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