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Frontespizio
Prefazione
Nota sulle fonti
Il sufismo
I. Il sentiero sufi
1. Il contesto islamico
2. I tre domini della fede
3. La shahāda
4. Misericordia e collera
5. La teoria sufi
6. La pratica sufi
II. La tradizione sufi
1. Una descrizione funzionale
2. Spettro della teoria e della pratica
3. Il sufismo nel mondo moderno
III. Nome e realtà
1. L’espressione degli insegnamenti sufi
2. Amore divino e amore umano
3. La sobrietà dei nomi
IV. L’autorealizzazione
1. Il sé dell’uomo
2. Il volto permanente
3. La conoscenza profetica
V. Il ricordo di Dio
1. Il dhikr nel Corano e nel Ḥadīth
2. Il dhikr nella tradizione sufi
VI. La via dell’amore
1. La creatività dell’amore
2. Il vero amato
3. La religione dell’amore
VII. La danza senza fine
1. I nomi divini
2. L’ascolto primordiale
3. La perfezione umana
4. L’ascesa dell’anima
5. La musica delle sfere
6. Danzando con Dio
VIII. Immagini di beatitudine
1. La visione di Dio
2. Ricordare Dio
3. Gli svelamento di Dio
IX. La caduta di Adamo
1. Aḥmad Sam’ānī
2. La caduta nel Corano
3. La creazione
4. L’amore
5. Aspirazione e discernimento
6. Povertà e necessità
7. Umiltà
8. Perdono
X. Il paradosso del velo
1. La barriera
2. Il velo secondo al-Niffarī e Ibn ‘Arabī
3. Il velo come volto
Bibliografia
Elenco degli aḥādīth e dei detti
Elenco dei nomi e dei termini
Il libro
L’autore
Copyright
William C. Chittick
Il sufismo
A cura di Francesco Alfonso Leccese
Prefazione
Mi auguro che nessuno scorga tra le righe colui che si è avventurato in questo
commento, o avanzi critiche e proteste, perché l’autore non ha altra funzione che
quella del traduttore e altro ruolo se non quello dell’interprete 3.
1. I dieci saggi che compongono il presente volume hanno avuto una precedente versione,
ma sono stati riscritti totalmente e risultano, di fatto, un’opera nuova.
2. Per la traduzione italiana si segnala ‘ABD AL-RAḤMĀN JĀMĪ , Frammenti di luce. Lawā’iḥ,
traduzione dal persiano, introduzione e note di S. Foti, Libreria Editrice Psiche, Torino 1998
[N. d. C.].
3. Ibid., introduzione. Questo libro fu tradotto in inglese all’inizio del XX secolo. Si veda la mia
nuova traduzione in s. murata, Chinese Gleams of Sufi Light, Suny Press, Albany 2000.
Nota sulle fonti
1. Il contesto islamico.
3. La «shahāda».
In questo quadro sintetico dei fondamenti dell’Islam è importante
notare il ruolo basilare assegnato alla duplice shahāda o
«testimonianza di fede». Essa ha lo scopo di attestare che «non vi è
dio all’infuori di Dio» e che «Muḥammad è il Suo inviato». La shahāda
fornisce la chiave per comprendere il punto di vista islamico in tutti i
domini a cui abbiamo fatto riferimento.
Nella definizione di «sottomissione», la shahāda è al primo posto,
essendo il primo atto che si richiede ai musulmani. Con l’attestazione
verbale dell’esistenza di Dio e della missione profetica di Muḥammad,
il credente impone a se stesso anche gli altri quattro pilastri e la
sharī’a. La shahāda definisce anche il contenuto della fede, il cui
elemento principale è rappresentato dalla fede in Dio. La natura del
Dio in cui i musulmani credono è definita in maniera incisiva nella
prima parte della shahāda, mentre tutti gli oggetti della fede sono
concettualizzati contestualmente nella seconda parte, che sottolinea la
preminenza del messaggio e del messaggero.
Infine, è impossibile comprendere cosa implichi «il praticare il
bene» se non si conosce la natura degli esseri umani, e anche questa
conoscenza scaturisce dalla shahāda. Conoscere la realtà degli esseri
umani significa sapere come Dio interferisce nella condizione degli
uomini, perché l’immagine umana di Dio non può essere compresa
indipendentemente dall’oggetto che essa riflette. La bontà e la
perfezione a livello umano possono essere raggiunte soltanto
riferendosi a Dio da un lato, e dall’altro a coloro che l’hanno già
raggiunta, cioè i profeti, e in particolare Muḥammad. Il
raggiungimento è necessario per realizzare l’immagine divina innata
nell’anima, che dipende dal mettere in pratica la shahāda.
Tutte e tre le dimensioni dell’Islam sono state presenti ovunque vi
siano stati dei musulmani. Non si può praticare seriamente la propria
religione senza impegnarsi con il corpo, con la mente e con il cuore,
cioè con le proprie azioni, con i propri pensieri e con il proprio essere.
Ma queste dimensioni si sono differenziate storicamente in varie
forme, la cui diversità ha molteplici cause, a proposito delle quali gli
storici hanno scritto un numero infinito di libri. Dopotutto stiamo
parlando del modo in cui i musulmani praticano la loro religione,
concettualizzano la loro fede e la loro comprensione delle cose ed
esprimono la loro ricerca spirituale per avvicinarsi a Dio. Stiamo
parlando cioè di varie ramificazioni della legge islamica e di istituzioni
di governo, di diverse scuole di pensiero che studiano la natura di Dio
e l’anima umana, e delle numerose organizzazioni che guidano i fedeli
lungo il sentiero della via spirituale e prestano attenzione alle loro
esperienze, profondamente differenti, della presenza divina. A queste
diverse espressioni dell’Islam, che hanno subito profondi mutamenti a
livello storico e geografico, sono stati dati vari nomi nel corso della
storia islamica. Tutta la questione è diventata molto piú complessa a
causa delle ricerche degli studiosi moderni, i quali hanno avuto i loro
programmi, le loro agende di lavoro, i loro obiettivi e hanno adottato
diversi schemi interpretativi nel loro tentativo di comprendere la storia
islamica in termini moderni.
In breve, l’Islam, come tutte le grandi religioni, abbraccia l’intera
gamma degli interessi e delle azioni umane, e l’approccio islamico si è
manifestato nel corso della storia in una grande varietà di forme e di
istituzioni. Contrariamente agli stereotipi moderni, l’Islam ha una
particolare propensione per la pluralità d’espressione. In parte ciò si
deve al fatto che non esiste un’autorità centrale paragonabile al clero
o alla Chiesa cattolica. Anzi, la civiltà islamica ha dato vita a una
varietà di forme istituzionali che si sono sviluppate e si sono estinte, e
tutte hanno trasmesso e insegnato la pratica, la comprensione e la
spiritualità.
Man mano che l’Islam ha assunto le sue specifiche connotazioni
storiche con la codificazione di insegnamenti e pratiche e la
costituzione di istituzioni sociali, le tre dimensioni indicate dal ḥadīth di
Gabriele hanno dato vita nella società ad aspetti relativamente diversi,
anche se strettamente connessi, della civiltà islamica. Tuttavia,
praticare il bene rimase un intangibile esercizio interiore. A livello
individuale questa terza dimensione era presente nel cuore di tutti
quei musulmani che praticavano la religione soltanto per amore di Dio.
Nella sfera sociale essa ha avuto la sua espressione piú evidente nella
vita di coloro che chiamerei «sufi», sebbene molti di quelli che
rivendicarono per sé questa definizione non erano degni dell’ideale
sufi, e molti che in realtà ne erano degni la rifiutarono.
Il sufismo in questo senso può essere visto come un’invisibile
presenza spirituale che anima tutte le autentiche espressioni
dell’Islam. Le varie forme storiche in cui esso si è manifestato aiutano
a dimostrare che questa dimensione della religione ha continuato a
rappresentare un ideale di importanza fondamentale. Nondimeno, la
difficoltà di raggiungere la perfezione a livello umano ha significato
che gli individui e le istituzioni storicamente collegate con il nome non
possono necessariamente essere indicate come espressioni della vera
natura del sufismo. Gli stessi sufi sono sempre stati consapevoli del
pericolo di degenerazione e di corruzione insito nel tentativo di
adattare delle istituzioni sociali a ideali che possono essere realizzati
solo da individui eccezionali. Quando Būshanjī diceva che il sufismo
era un nome senza realtà, si riferiva a questi tentativi inadeguati di
codificare e istituzionalizzare il cuore della tradizione.
4. Misericordia e collera.
5. La teoria sufi.
6. La pratica sufi.
Quando l’amore di al-Ḥallāj per Dio raggiunse il suo grado piú alto, egli divenne
il nemico di se stesso e si annientò. Disse: «Io sono il Vero», cioè «Mi sono
annientato, rimane il Vero e nient’altro». Ciò rappresenta la massima umiltà e
l’estremo limite della sottomissione. Significa: «Solo Lui è». Affermare il falso ed
essere presuntuosi è dire: «Tu sei Dio e Io sono il servo». In questo modo tu stai
affermando la tua propria esistenza, e la dualità ne è la conseguenza obbligata.
Se dici: «Lui è il Vero» ancora c’è dualità, perché non vi può essere un «Lui»
senza un «Io». Quindi il Vero disse: «Io sono il Vero». Oltre a Lui, null’altro era
esistente. Al-Ḥallāj era stato annientato, pertanto quelle erano le parole del
Vero 18.
Capitolo secondo
La tradizione sufi
Gli esperti del sufismo non sono unanimi sull’oggetto del loro
studio. Quelli che attribuiscono un valore alla conoscenza di se stessi
propria dei maestri sufi di solito dipingono il sufismo come una
componente essenziale dell’Islam. Quelli che invece sono ostili al
sufismo, oppure che sono ben disposti verso di esso ma contrari
all’Islam, o che ancora sono scettici nei confronti della conoscenza di
sé dei soggetti da loro studiati, solitamente descrivono il sufismo come
un movimento che fu aggiunto all’Islam in epoca successiva a quella
in cui visse il Profeta. Le diverse teorie sulla natura e le origini del
sufismo proposte dagli studiosi moderni non possono essere qui
riassunte, ma costituiscono in verità un affascinante capitolo nella
storia dell’orientalismo.
Per gli obiettivi che ci siamo prefissati, basta ripetere che la
maggior parte dei teorici del sufismo ha inteso quest’ultimo come lo
spirito vivente della tradizione islamica. Abū Ḥāmid al-Ghazālī, uno dei
piú grandi maestri sufi, forní una descrizione sintetica del ruolo del
sufismo nel titolo della sua opera principale, Ihyā’ ‘ulūm al-dīn, «La
vivificazione delle scienze religiose». Per «scienze» al-Ghazālī
intendeva le varie ramificazioni del sapere sorte nell’Islam dopo la
morte del Profeta. Si potrebbe dire che la radice dell’Islam è il Corano
e che il suo tronco è la sunna, gli insegnamenti e le pratiche esemplari
del Profeta. Man mano che l’Islam gradualmente si sviluppava in un
albero vigoroso, la sua radice e il suo tronco crescevano e venivano
rafforzati dalla loro capacità di fornire un costante nutrimento alla
comunità islamica. Allo stesso tempo, i temi principali indicati dal
Corano e dalla sunna iniziarono a essere analizzati e approfonditi da
diversi gruppi di musulmani con attitudini, capacità e obiettivi
differenti. Essi vedevano il Corano e la sunna come depositari di
insegnamenti e pratiche che potevano essere comprese e assimilate
solo attraverso una profonda attenzione alla tradizione tramandata dai
primi musulmani. Tuttavia, ogni gruppo tendeva a mettere in luce
alcuni aspetti della tradizione piuttosto che altri.
Il ḥadīth di Gabriele fornisce un mezzo per analizzare la struttura
dell’albero. Nella radice e nel tronco originali, il Corano e la sunna,
tutte e tre le dimensioni della religione erano inestricabilmente unite.
Tuttavia, man mano che l’albero fioriva e cresceva, varie ramificazioni
o scienze si sviluppavano dalla stessa radice e dallo stesso tronco.
Come abbiamo visto, le tre ramificazioni principali sono l’islām, la
«sottomissione» o il giusto agire, l’īmān, la «fede» o corretta
comprensione, e l’iḥsān, «praticare il bene», virtú spontanea e
perfezione spirituale.
Fin tanto che i musulmani sono rimasti fedeli alla loro tradizione,
essi sono stati coinvolti in tutte e tre le dimensioni della religione.
Ciononostante, ogni ramificazione giunse ad avere le proprie
importanti autorità e i propri principali esponenti, che guardavano alla
radice e al tronco come alle fonti principali della loro conoscenza, dei
loro obiettivi e delle loro pratiche. Solo coloro i quali parlavano della
ramificazione dell’iḥsān sostenevano che l’islām e l’īmān dovevano
essere subordinati all’obiettivo piú elevato, ovvero «adorare Dio come
se Lo si vedesse». In linea di massima, queste persone vennero
messe in relazione con ciò che in seguito divenne noto come
«sufismo». Al contrario, coloro che asserivano la supremazia dell’islām
concentrarono le loro energie sulla sharī’a e sulla giurisprudenza, e
quelli che ritenevano che l’īmān e la conoscenza costituissero il
fondamento dell’Islam incanalarono i propri sforzi nel Kalām e nelle
altre scuole di pensiero che si occupavano della conoscenza e
dell’esposizione degli oggetti della fede. Nel suo «La vivificazione delle
scienze religiose» al-Ghazālī illustra molto dettagliatamente come
l’islām e l’īmān abbiano bisogno di essere vivificati e resi validi
dall’iḥsān.
La scienza vivificatrice del sufismo spiega il fondamento logico non
solo della fede ma anche della sottomissione. Si distingue dal Kalām
sia per prospettiva che per centro d’interesse, ma poggia non meno
saldamente sulle fonti della tradizione. Sul piano pratico, il sufismo
fornisce i mezzi con cui i musulmani possono potenziare la propria
comprensione e osservanza dell’Islam, con il fine di trovare Dio in loro
stessi e nel mondo. Esso rafforza la vita rituale islamica attraverso una
viva attenzione ai dettagli della sunna e la concentrazione sul dhikr, il
ricordo di Dio, in ogni momento. Il dhikr assume specificatamente la
forma di metodica ripetizione di certi nomi di Dio o di formule
coraniche, come la prima parte della shahāda. Negli incontri collettivi i
sufi hanno di solito praticato il dhikr ad alta voce, spesso con un
accompagnamento musicale. In alcuni gruppi sufi queste cerimonie
collettive finirono per essere considerate il rituale piú importante, con
una corrispondente disattenzione verso diversi altri aspetti della
sunna. A questo punto, la pratica sufi divenne sospetta non solo agli
occhi dei giuristi, ma anche di molti tra gli stessi maestri sufi.
In termini storici, è utile prendere in considerazione il sufismo su
due piani distinti. Sul primo, che rappresenta l’interesse principale dei
sufi, il sufismo non ha storia, perché è un’invisibile presenza
animatrice all’interno della comunità dei credenti. Sul secondo, che
riguarda sia gli osservatori musulmani sia gli storici moderni, la
presenza del sufismo si manifesta attraverso alcune caratteristiche
proprie di alcuni popoli e società o attraverso certe specifiche forme
istituzionali. Wilfred Cantwell Smith, nel sua famosa critica allo studio
storico della religione, The Meaning and the End of Religion, chiama
questi due piani «fede» e «tradizione cumulativa». Essi possono
facilmente essere paragonati a ciò che Būshanjī chiamava la «realtà»
e il «nome» del sufismo. Sebbene gli insegnamenti e le pratiche sufi
siano parte del nome e della tradizione cumulativa, essi svolgono un
ruolo preminente nel compito di risvegliare la fede e aprire una via per
sperimentare la realtà dietro il nome, cioè la viva presenza di Dio che
anima la tradizione.
Come la maggior parte dei musulmani, i sufi nutrivano scarso
interesse verso la «storia» dell’Islam in sé. Ciò che essi consideravano
importante erano gli insegnamenti del passato, raccolti fino al
presente. Tali insegnamenti venivano studiati affinché fossero di aiuto
per mantenere vivi gli ideali della religione e per concretizzarli
attraverso le azioni quotidiane. Sebbene gli studiosi moderni abbiano
spesso rivendicato il proprio approccio imparziale allo studio della
storia, essi hanno tuttavia sempre descritto e analizzato la tradizione
cumulativa secondo le proprie teorie e categorie. Senza dubbio tale
studio assolve a un compito utile, ma non deve portare gli osservatori
a dimenticare che i musulmani e i sufi hanno sempre guardato alla
tradizione cumulativa come alla superficie di una realtà piú profonda,
come a un mezzo e non a un fine, come all’Occidente e non
all’Oriente. Rūmī sembra rivolgersi agli studiosi moderni quando dice:
Il mio servo si avvicina a Me attraverso ciò che ho stabilito per lui come
obbligatorio. Egli poi continua ad avvicinarsi a Me attraverso gli atti
supererogatori, fino a che Io non lo amo. E quando Io lo amo, Io sono l’udito con
cui ascolta, la vista con cui vede, la mano con cui prende e i piedi con cui
cammina.
Una volta che gli iniziati amano Dio, anch’essi saranno amati da Lui.
L’amore di Dio potrebbe allora inebriarli e annientare tutte le loro
debolezze e limitazioni umane: potrebbe scacciare l’oscurità della
temporalità e della contingenza, lasciando al loro posto il fulgore
dell’eterna esistenza di Dio. Si noti qui che il ḥadīth recita: «Quando Io
lo amo, Io sono l’udito con cui ascolta». Come alcuni sufi hanno
rilevato, le parole Io sono ci segnalano che Dio è già l’udito con cui
ascoltiamo, la vista con cui vediamo e la mano con cui prendiamo. Il
problema non è la vicinanza di Dio a noi, perché Egli è eternamente
vicino a noi, piú vicino della nostra stessa vena giugulare. Il problema
è la nostra vicinanza a Dio, che non possiamo vedere e non possiamo
sondare. La visione della vicinanza di Dio deve essere raggiunta e il
modo per raggiungerla è di adeguarsi al modello profetico. Sebbene
ora non Lo vediamo, possiamo raggiungere la Sua visione se Lo
adoriamo e Lo serviamo come se Lo vedessimo.
1. Il sé dell’uomo.
2. Il volto permanente.
Gli gnostici si innalzano dalla bassezza della metafora alla cima della realtà, e
portano a termine la propria elevazione. Poi vedono con i propri occhi che non vi
è altro nell’esistenza se non Dio, e che Ogni cosa perisce eccetto il Suo volto. Il
che non significa che ciascuna cosa perisce in un momento anziché in un altro
ma, piuttosto, che essa sta perendo dall’eternità che non ha principio all’eternità
senza fine. Essa non può essere concepita altrimenti. Dopotutto, quando l’essenza
di ogni cosa che non sia Dio viene considerata rispetto alla propria essenza, essa
è pura non-esistenza. Ma quando la si considera in rapporto al volto verso cui
fluisce l’esistenza proveniente dal Primo, il Vero, allora la si vede esistente, non in
sé, ma attraverso il viso rivolto verso Colui che le dona Esistenza. Pertanto l’unica
cosa esistente è il volto di Dio.
Cosí ogni cosa ha due volti: un volto che guarda a sé, e l’altro che guarda al
suo Signore. Rispetto al volto di sé essa non è esistente, ma in rapporto al volto
di Dio è esistente. Pertanto nulla esiste se non Dio e il Suo volto. Quindi, ogni
cosa perisce eccetto il Suo volto dall’eternità che non ha principio all’eternità
senza fine 2.
«Ogni cosa perisce eccetto il Suo volto», che è il vero sé. Quindi,
nessun sé perirà e il sé individuale di ogni uomo sussisterà per
sempre. Tuttavia, gli uomini hanno dei livelli di comprensione e di
consapevolezza estremamente differenti. Molti non hanno la minima
idea di ciò che avviene e sono convinti che i loro sé appartengano in
proprio a loro. Alcuni pensano di sapere bene cosa avviene. Certuni
vivono nel volto di Dio e sperimentano con totale consapevolezza la
creazione che si rinnova incessantemente, e questi ultimi sono «la
gente dei respiri» o «i figli del momento».
Quale sia il livello di comprensione, ognuno ha bisogno di tazkiya,
purificazione e accrescimento del sé. Quelli che pensano che i loro sé
siano specifici, definiti e limitati dalle loro percezioni e dalle loro
esperienze, hanno bisogno di purificare i loro sé dalla disattenzione e
dall’ignoranza. Coloro che pensano di conoscere se stessi hanno
bisogno di purificarsi e di accrescere la loro conoscenza. E quelli che
sperimentano lo svelamento di sé del volto divino in continuo
rinnovamento gioiscono in uno stato di purificazione che si ripete
costantemente e di accrescimento senza fine. Troviamo qui la comune
triade sufi, nafs ammāra (il sé istigatore [al male]), nafs lawwāma (il
sé che rimprovera [se stesso per i suoi sbagli]) e nafs muṭma’inna (il
sé pacificato [con Dio]). Queste sono le tre stazioni fondamentali
attraverso le quali procedere se si vuole raggiungere la perfezione.
Possiamo anche considerare questo tema alla luce di quanto viene
narrato nel Corano a proposito di Adamo, il padre di tutti gli esseri
umani e il primo profeta, modello che ognuno deve imitare per poter
diventare un essere umano nel senso piú completo. Quando nel
Corano viene detto: «Dio insegnò ad Adamo i nomi di tutte le cose»
(2:31), uno dei significati principali è semplicemente che gli esseri
umani hanno dentro se stessi il potenziale di una conoscenza infinita.
Il nome di ogni cosa che Dio ha creato e che creerà è insito in loro.
Divenuti consapevoli delle cose del mondo esteriore e interiore, essi
acquistano la coscienza dei nomi delle cose e comprendono di averle
sempre conosciute. Ciononostante, a meno di conoscere tutti i nomi
che Dio insegnò ad Adamo, essi non possono conoscere se stessi. La
conoscenza dei nomi è inerente al sé di Adamo e al sé di ognuno dei
suoi figli. Si potrebbe dire che è proprio questa conoscenza che
costituisce il fondamento del concetto di fiṭra, la «disposizione
originale» che permette agli uomini di riconoscere l’unità di Dio. Se
essi non conoscono ciò che Dio insegnò al sé di Adamo, allora essi
non hanno conosciuto se stessi.
Se Dio insegnò agli uomini «tutti i nomi», come asserisce il Corano,
come possono essi mai conoscere questi nomi simultaneamente e con
piena consapevolezza? Infatti è impossibile mettere in atto la piena
conoscenza specifica di tutti i nomi in uno stesso momento, perché ciò
significherebbe conoscere tutto ciò che Dio ha creato e creerà, e in
effetti la creazione di Dio è infinita. Quindi, gli esseri umani
continueranno a mettere in atto la conoscenza dei nomi per sempre, e
ciò spiega la gioia del paradiso, che consiste nel donare
incessantemente la consapevolezza a ogni sé fortunato. Anche
l’inferno, naturalmente, implica il dono della consapevolezza, ma
quest’ultima non è necessariamente causa di felicità. Una delle cose
piú dolorose al mondo è la consapevolezza dei propri limiti e dei propri
errori. Ibn ‘Arabī ci dice che Dio non colloca eternamente gli uomini
all’inferno per punirli, ma piuttosto per essere misericordioso con loro.
Essi alla fine diventeranno adusi ai tormenti e inizieranno perfino a
gradirli ma, se venissero portati in paradiso, essi proverebbero
vergogna al cospetto di Dio e dei profeti, e ciò sarebbe un tormento
ancora piú doloroso che le fiamme dell’inferno 3.
In tutto questo non ho dimenticato il ḥadīth della conoscenza di sé:
«Chi conosce se stesso conosce il suo Signore». Sono state proposte
molte interpretazioni di questo detto ma, in qualunque modo lo
interpretiamo, non possiamo addurlo come una prova del fatto che
siamo in grado di conoscere noi stessi o il nostro Signore
completamente e totalmente. Piuttosto, fino al punto in cui arriveremo
a conoscere noi stessi, allo stesso punto arriveremo a conoscere il
nostro Signore. Ibn ‘Arabī ci ricorda che Dio in Sé è in ultima istanza
inconoscibile. Gesú non sapeva cosa c’è nel Sé di Dio, e certamente
nessun altro può pretendere di conoscerlo. Quindi Ibn ‘Arabī scrive:
3. La conoscenza profetica.
Per i musulmani, una delle prove piú convincenti del fatto che gli
uomini non conoscono e non possono conoscere se stessi è che Dio
ha inviato loro dei profeti. Se gli uomini fossero in grado di conoscere
se stessi, potrebbero scoprire da soli che cosa è bene e che cosa è
male per loro. Ma in verità essi non sono neanche sicuri di cosa sia
bene e cosa sia male per i loro corpi, e ancora meno per il loro corpo
e la loro anima messi insieme. E non intendo riferirmi soltanto alla
gente comune, ma a tutti i grandi specialisti, come i medici, che quasi
regolarmente cambiano le loro opinioni su cosa sia bene e cosa sia
male per noi.
La funzione dei profeti consiste nel dire agli uomini cosa è bene e
cosa è male per il loro essere tutto intero. Il sé non ha una fine, anche
se ha un inizio. Gli insegnamenti profetici si occupano del sé in
rapporto alla sua interminabilità. Da questo punto di vista, la morte
fisica è piuttosto ininfluente, sebbene essa segni un confine
importante. Dopo la morte, gli uomini non avranno piú la libertà di
scegliere o rifiutare la guida di Dio. Essi serviranno semplicemente Dio
nel modo in cui Egli vuole che essi Lo servano, perché non potranno
piú nascondersi dietro la loro ignoranza, il che significa che non
potranno piú «seppellire» il loro sé nella disattenzione.
La guida dei profeti non dice agli uomini chi essi sono, quanto
piuttosto chi non sono. Essi non sono esseri con identità definite,
limitate e compiute e non potranno mai assolutamente essere tali. Se
potessero raggiungere un limite finale, o non sarebbero diversi da Dio,
cosa impossibile, o giungerebbero a un lacerante arresto nella loro
esperienza del Reale, cosa altrettanto impossibile. Essi infatti vivono in
questo momento e vivranno per sempre nel processo di cambiamento.
Da soli non sono in grado di vedere al di là del momento, certamente
non al di là della morte. La conoscenza profetica insegna loro ciò che
è bene e ciò che è male per il sé, questo sé che non ha fine e non ha
alcuna specifica identità.
La profezia insegna agli uomini che la tazkiyat al-nafs è bene per
loro e che dovrebbero perseguirla. Essi hanno bisogno di coltivare il
sé. Ciò implica sia la purificazione del sé, ovvero l’allontanamento da
tutto ciò che è per lui negativo, sia l’accrescimento del sé, ovvero il
raggiungimento di tutto ciò che è per lui positivo. In altre parole,
coltivare il sé consiste nel provvedere alla sua felicità, ed è necessario
che ciò sia stabilito rispetto all’esistenza eterna e alla incessante
trasformazione. Dal momento che da soli e senza l’aiuto di Dio gli
uomini non hanno alcuna possibilità di conoscere tutto ciò che
riguarda l’altra vita, essi non sono assolutamente in grado di sapere
cosa avrà un effetto positivo o un effetto negativo sul loro divenire
nell’altro mondo. La funzione dei messaggi profetici è appunto quella
di fornire questa conoscenza. Il punto fondamentale da cogliere,
quindi, è che da soli non sappiamo e non possiamo in alcun modo
arrivare a conoscere chi siamo. Soltanto il Creatore del sé può fornire
la conoscenza che permette di prendersi cura del sé, in modo tale da
garantire la sua felicità perenne.
Dal punto di vista della tradizione sufi, per la felicità del sé nulla è
piú dannoso di credere di sapere chi siamo e di risolvere i nostri
problemi senza bisogno di aiuto, fosse anche un piccolo aiuto o l’aiuto
di quelli che riteniamo gli «esperti». Nell’interpretazione sufi, questa
convinzione di non aver bisogno dell’aiuto profetico costituisce l’errore
fatale del mondo moderno. La scienza moderna, la tecnologia e tutti
gli altri rami del sapere, per non parlare della politica, non sono
nient’altro che ignoranza del sé mascherata da conoscenza. I tentativi
di interpretare il mondo su basi razionali e di utilizzarlo nel nostro
interesse sono destinati a fallire, perché noi non possiamo in alcun
modo sapere in che cosa consiste il nostro interesse. Questa è l’ultima
follia dell’«autorealizzazione». L’unico modo attraverso il quale
possiamo pretendere di conoscerci per aiutare noi stessi è seppellirci
in una falsa conoscenza, pretendendo di conoscere ciò che noi non
conosciamo e non possiamo conoscere.
Gli uomini fanno ciò definendo il sé mediante termini limitati:
biologici, antropologici, psicologici, storici, economici, sociali,
ideologici, teologici, islamisti. Questi tentativi falliti di comprendere il
sé spiegano ampiamente lo spargimento di sangue, storicamente
senza precedenti, del XX secolo.
Infine, mi sia permesso di ritornare ancora una volta sul passo
coranico che ho citato all’inizio del capitolo, sebbene l’abbia tradotto in
modo leggermente diverso: «Per il sé e per Chi lo commisurò, e la sua
pietà e la sua empietà gli ispirò. Prospererà chi lo coltiverà, e fallirà chi
lo seppellirà». In breve, questi versetti significano che Dio ha creato
gli esseri umani e ha dato loro tutto ciò che essi sono. Tuttavia, ciò
che essi sono non potrà mai essere conosciuto pienamente, perché ciò
che Dio dà loro non avrà mai fine. Parte di ciò che Egli dà, attraverso i
profeti, è la conoscenza, la cui funzione è specificare in cosa consiste
l’«empietà» che allontana gli uomini da Dio e dalla loro vera natura, e
la «pietà» che procura la prosperità e la felicità. Coloro i quali
coltivano i loro sé seguendo gli insegnamenti profetici raggiungeranno
la pienezza eterna e la felicità del sé, ma coloro i quali seppelliscono i
loro sé nell’ignoranza e nella dimenticanza avranno arrecato danno a
nessun altro che a loro stessi.
Capitolo quinto
Il ricordo di Dio
Dio gli disse: «O Muḥammad, ti ho fatto diventare uno dei ricordi di Me stesso.
Coloro che menzionano te menzionano Me, e coloro che amano te amano Me».
Quindi il Profeta disse: «Coloro che menzionano me hanno menzionato Te, coloro
che amano me hanno amato Dio» 3.
Data la centralità del ricordo di Dio nel Corano e nel Ḥadīth, non c’è
alcun dubbio che il dhikr fosse fondamentale per la pratica islamica
durante i primi secoli. Mentre gradualmente codificarono la sharī’a, i
giuristi non poterono tuttavia imporre il dhikr alla comunità dei fedeli.
Anche se il Corano ordina con insistenza agli uomini di ricordare Dio,
per sua natura il dhikr è connesso molto di piú all’intenzione e
all’intima consapevolezza che non al comportamento esteriore, che è
regolato dalla sharī’a. Eppure, data l’accezione generica in cui il
termine è utilizzato nel Corano, non ci si allontanava molto dal
significato coranico se si affermava che la recitazione del Corano, il
«Ricordo» per eccellenza, fosse nient’altro che la pratica del ricordo di
Dio. Per di piú il Corano chiarisce che la preghiera canonica giornaliera
(ṣalāt) è anch’essa il ricordo di Dio. In questo senso, i giuristi resero il
dhikr un dovere per tutti i musulmani. Inoltre, essi scrissero
copiosamente volumi di suppliche e formule di ricordo con le quali
tutti i musulmani avrebbero dovuto tenersi occupati il piú possibile.
Tuttavia, per la sharī’a queste pratiche possono essere considerate
soltanto raccomandate e lodevoli, non prescritte e obbligatorie.
I sufi si distinguono dagli altri musulmani in parte perché
considerano il ricordo di Dio, inteso come la menzione dei Suoi nomi
secondo l’insegnamento impartito dai loro maestri, come obbligatorio
e non semplicemente raccomandato. Sono loro che ci ricordano
costantemente che l’essenza di tutte le attività rituali, dopotutto,
consiste nel ricordare Dio. Perché gli uomini dovrebbero pregare e
digiunare? Per ricordare Dio, per tenerLo costantemente al centro dei
loro pensieri. «Iḥsān significa adorare Dio come se Lo vedessi» e
mantenere la lingua umida attraverso la menzione del Suo nome è un
aiuto per farlo. Lo shaykh naqshbandī Khwāja Muḥammad Pārsā (m.
1420) scrive: «Il fondamento per essere un buon musulmano è “Non
vi è dio all’infuori di Dio”, parole che sono identiche al ricordo».
Quindi, egli dice, lo spirito della preghiera giornaliera e delle altre
pratiche rituali, come il pellegrinaggio e il digiuno, consiste nel
«rinnovare il ricordo di Dio nel cuore» 5.
Allo stesso modo i sufi considerano tutti gli insegnamenti teoretici
islamici come intesi a risvegliare il ricordo nell’anima. Nel commentare
gli insegnamenti coranici, essi dimostrano che il dhikr implica molto di
piú che non le sole attività rituali suggerite dal nome. Il ricordo
completo significa realizzare ogni perfezione latente nella disposizione
umana originale (fiṭra), in virtú del fatto che essa è un’immagine
divina. Al-Ghazālī e molti altri parlano della perfezione umana come di
un «conformarsi alle caratteristiche dei nomi divini» (al-takhalluq bī ‘l-
asmā’ al-ilāhiyya). Il nome Allāh è il nome omnicomprensivo (al-ism
al-jāmi’), termine di riferimento per tutti gli altri nomi divini, perciò il
grado della perfezione umana è a volte indicato come «diventare
simile a Dio» (ta’alluh), che potrebbe anche essere tradotto con
«deiformità» o «teomorfismo». Per molti sufi, il ricordo dello stesso
nome Allāh è il segno di un’individualità umana pienamente realizzata,
alla quale si fa riferimento nel detto profetico: «L’ultima ora non
arriverà fin tanto che rimarrà qualcuno in questo mondo a dire “Dio,
Dio!”» 6.
Il segno distintivo dell’immagine divina sul cui modello sono stati
creati gli esseri umani è l’intelligenza, che li distingue da tutte le altre
creature. L’invocazione di Dio – ovvero il ricordo – risveglia nel cuore
la consapevolezza di Dio e realizza l’immagine divina latente
nell’anima. La felicità ultima non è nient’altro che il ricordo della
sorgente della nostra vera natura, vale a dire Dio stesso; ovvero la
realizzazione dei tratti della vera natura umana, tratti che sono i segni
dei nomi di Dio.
La shahāda è comunemente chiamata «il miglior dhikr». Come
abbiamo visto essa racchiude tutti gli insegnamenti e le pratiche sufi.
L’obiettivo del ricordo di Dio è di annullare ogni altra cosa diversa da
Dio e di arrivare a sussistere nel divino. Come afferma Ibn ‘Aṭā’ Allāh:
«Nessuno dice Non vi è dio all’infuori di Dio correttamente a meno che
egli non respinga dalla propria anima e dal proprio cuore tutto ciò che
è diverso da Dio» 7. Il suo contemporaneo Najm al-Dīn Razī scrive:
Con non vi è dio il musulmano praticante nega tutto ciò che non è il Vero,
mentre con all’infuori di Dio afferma la Presenza della Esaltazione. Quando egli fa
ciò in maniera costante e vi si attiene scrupolosamente, l’attaccamento dello
spirito a qualsiasi altra cosa diversa da Dio viene gradualmente reciso dalle forbici
di non vi è dio. La bellezza dell’imperiosità di all’infuori di Dio si svela da dietro al
Padiglione della Esaltazione. Nel tener fede alla promessa, Ricordati di me, e Io ti
ricorderò [2:152], il ricordo è liberato dall’involucro di lettere e suoni. Le
caratteristiche specifiche di Ogni cosa perisce eccetto il Suo volto [28:88]
diventano manifeste nella rivelazione della luce della magnificenza della Divinità 8.
Non c’è nessun ricordo insieme con la testimonianza. Quindi coloro che
ricordano devono essere velati. Sebbene [un ḥadīth dica]: «Dio siede con coloro
che Lo ricordano», ciò avviene dietro il velo del ricordo. Ogni qualvolta l’oggetto
della ricerca di qualcuno è dietro un velo, egli non può sentirsi sereno. Quando il
velo è rimosso, avviene la testimonianza, e il ricordo scompare nello svelamento
del Ricordato 14.
A partire dal XIII secolo pochi temi hanno avuto negli insegnamenti
sufi un ruolo cosí importante quanto l’amore. Gli storici hanno di solito
parlato di uno sviluppo graduale del sufismo, che ha avuto inizio con
una mistica basata sull’ascesi e sul timore, lentamente si è
trasformato in accentuazione dell’amore e dell’aspetto devozionale e
infine è giunto a dare preminenza alla conoscenza e alla gnosi. Alcuni
hanno suggerito che questi tre modi per avvicinarsi a Dio
corrispondono ai tre cammini principali dell’induismo: karma yoga,
bhakti yoga e jnana yoga. Quale che sia il valore euristico di tali
schemi, non c’è dubbio che sin dai tempi piú antichi i musulmani che
si sforzavano di raggiungere la vicinanza con Dio hanno fatto ricorso
alle opere, all’amore e alla conoscenza. Ogni attenta lettura del
Corano mostrerà che esso prefigura le diverse possibilità dello
svelamento dell’anima. E ogni attenta lettura della letteratura sufi
rivelerà in tutti i periodi storici un’acuta introspezione nella
complessità dell’animo umano.
Si potrebbe sostenere che l’Islam si basa sul karma yoga, perché
ciascuno, senza eccezione, deve osservare la sharī’a, che stabilisce le
regole per conformarsi, attraverso le proprie azioni, al volere di Dio. Si
può anche ritenere che i musulmani e i sufi accentuino il jnana yoga,
perché in genere essi attribuiscono alla conoscenza un valore
maggiore rispetto agli ebrei e ai cristiani. Tuttavia, è all’amore che il
sufismo riconosce una certa preminenza. Nelle pagine seguenti vorrei
accennare brevemente al significato dell’amore cosí come è espresso
nell’opera dei due grandi spartiacque della tradizione, Rūmī e Ibn
‘Arabī. Non voglio suggerire che l’uno o l’altro abbiano trascurato i
sentieri della conoscenza e dell’azione, e anzi, per quanto riguarda Ibn
‘Arabī, possono essere addotte valide argomentazioni a favore del
fatto che egli ha dato priorità alla conoscenza. Intendo, piuttosto,
evidenziare semplicemente la comprensione basilare della realtà
dell’amore da parte del sufismo, dato che l’amore è spesso il tema
principale dei testi sufi.
Nonostante l’amore fosse enfatizzato di rado nelle prime
espressioni del sufismo, nel Corano vi si fa riferimento in molti versetti
chiave, che ne chiariscono il ruolo essenziale. Abbiamo già discusso a
proposito di uno di questi versetti, che ci dice che l’amore di Dio per
gli uomini aumenta di pari passo con il loro successo nel conformarsi
all’esempio del Profeta. Sebbene questo versetto indichi nell’amore
per Dio la condizione preliminare per ricevere in cambio il Suo amore,
tutti coloro che Lo hanno molto amato hanno compreso che è proprio
l’amore di Dio per gli esseri umani a suscitare in primo luogo l’amore
per Lui: Gli uomini non potrebbero amare Dio se già Lui non li
amasse. Il ḥadīth del Tesoro Nascosto precisa esattamente questo,
che Dio ha creato gli uomini a causa del Suo amore per loro. Il
versetto coranico citato piú spesso come prova scritturale per questa
gerarchia dell’amore è: «Egli ama loro, e loro Lo amano» (5:54).
Prima Dio ama gli esseri umani, poi gli esseri umani amano Dio. Una
volta che essi giungono ad amarLo, il Suo amore per loro aumenterà
nella misura in cui essi seguono il Profeta, purificano e coltivano la
propria anima, ricordano Dio incessantemente e diventano esseri
umani perfetti.
Che l’amore venga menzionato o meno, le prime espressioni della
realtà del sufismo tendono ad assumere la forma di brevi detti, che
toccano una grande varietà di argomenti riguardanti il cammino verso
Dio. Due o tre figure spiccano, come Rābi’a e al-Ḥallāj, ricordati come
esempi perfetti di una vita d’amore. Ma dall’XI al XIII secolo – cioè dal
V al VII secolo dell’egira – apparvero numerosi e importanti autori che
delinearono una dettagliata psicologia dell’amore. Il famoso Abū
Ḥāmid al-Ghazālī scrive a volte a proposito dell’amore umano e divino,
ma il suo meno celebre fratello, Aḥmad (m. 1126), dedica gran parte
dei suoi Sawāniḥ, opera relativamente breve in persiano, all’amore
come realtà fondamentale e unitiva dell’anima. Ad essa si ispirarono in
seguito dozzine di trattati successivi. Un discepolo di Aḥmad al-
Ghaẓālī, Ayn al-Quḍāt Hamadānī (m. 1131), svolse un ruolo
fondamentale nell’elaborazione di una psicologia e di una metafisica
dell’amore. Forse il piú originale e profondo nell’approccio – in un
periodo in cui vissero molti grandi maestri – fu Aḥmad Sam’ānī (m.
1140), quasi del tutto sconosciuto agli studiosi moderni (di lui si
parlerà piú diffusamente nel nono capitolo). In seguito fece la sua
comparsa il grande poeta persiano ‘Aṭṭār (m. 1221), le cui opere
toccarono tutti i temi dell’amore.
Nonostante il gran numero di autori che hanno scritto sull’amore
divino e umano, Ibn ‘Arabī e Rūmī possono essere considerati i due
piú grandi maestri della tradizione. Ibn ‘Arabī nacque a Murcia, in
Spagna, e morí a Damasco nel 1240; autore molto prolifico in lingua
araba, è considerato il principale teologo e filosofo sufi. Nei secoli
successivi il suo nome divenne quasi sinonimo dell’espressione waḥdat
al-wujūd, «l’Unicità dell’Essere», dottrina che è stata spesso
considerata la sintesi della sua visione filosofica 1. Scrisse piú di
cinquecento opere in prosa, alcune delle quali di notevole lunghezza,
e qualcosa come ventimila versi poetici. Il suo piú giovane
contemporaneo, Rūmī, nato a Balkh nell’attuale Afghanistan, si trasferí
in gioventú in Anatolia, stabilendosi infine a Konya, nell’odierna
Turchia, dove morí nel 1273. Egli compose circa sessantacinquemila
versi di straordinaria poesia in lingua persiana, unitamente a tre brevi
opere in prosa. Il mondo di lingua persiana, dalla Turchia all’India,
guarda a Rūmī come al piú grande poeta spirituale della storia,
proprio come l’intero mondo islamico considera Ibn ‘Arabī il piú grande
teorico sufi.
Ibn ‘Arabī e Rūmī appartengono a due diverse sponde del sufismo e
ciascuno, alla propria maniera, segna il punto piú elevato della
tradizione. La maggior parte delle formulazioni degli insegnamenti sufi
successivi è stata ispirata in una certa misura dagli scritti di uno dei
due o da entrambi. Le loro prospettive divergevano sotto molti aspetti,
ma essi condividevano anche numerosi temi, specialmente quello
dell’amore. Nelle pagine che seguono illustrerò come Ibn ‘Arabī spiega
alcuni aspetti della realtà dell’amore e offrirò alcuni esempi appropriati
delle espressioni poetiche di Rūmī sugli stessi concetti.
1. La creatività dell’amore.
L’amore di Dio per i Suoi servi non è limitato da un inizio e da una fine, perché
non accetta qualità temporali o accidentali… Quindi l’amore di Dio verso di loro è
lo stesso di quello espresso nel versetto Egli è con loro ovunque essi siano [57:4]
… Proprio come Egli è con loro nello stato dell’esistenza, cosí lo è anche in quello
della non-esistenza, perché essi sono gli oggetti della Sua conoscenza. Egli
attesta la loro esistenza e li ama infinitamente… Egli ha sempre amato le Sue
creature, proprio come le ha sempre conosciute… La Sua esistenza non ha un
punto d’origine, cosí come non lo ha il Suo amore per i Suoi servi 6.
2. Il vero amato.
L’anima comprende che essa vede Dio soltanto attraverso di Lui, e non
attraverso se stessa, e che Lo ama solo attraverso di Lui, e non attraverso se
stessa. Quindi è Lui che ama Se Stesso – e non l’anima che Lo ama. L’anima Lo
guarda insistentemente in ogni cosa esistente proprio attraverso il Suo stesso
sguardo. Quindi essa sa che nessuno Lo ama all’infuori di Lui. Egli è l’amante e
l’amato, colui che cerca ed è cercato 13.
Rūmī offre molte versioni simili dell’amore di Dio, che pervade tutte
le cose. Ma la sua prospettiva si focalizza piú sulla pratica che non
sulla teoria, e cosí ricorda continuamente ai suoi lettori la loro
condizione. Ecco una sua poesia amorosa, ghazal 14:
Nessun altri che Dio è amato nelle cose esistenti. È Lui che è manifesto in ogni
amato agli occhi di ogni amante – e non c’è nessuna cosa esistente che non ami.
Cosí tutto il cosmo è amante e amato, e tutto ciò torna a Lui. Allo stesso modo,
nessuno è adorato se non Lui, perché nessun adoratore adora qualcosa senza
immaginare la divinità che è in essa; altrimenti, egli non l’adorerebbe. Cosí Dio
dice: Il tuo signore ha decretato che non adori altri che Lui [17:23].
Cosí è anche per l’amore. Nessuno ama qualcun altro se non il proprio
Creatore, ma ci separa da Lui il velo dell’amore per Zaynab, per Su’ād, per Hind,
per Laylā, per questo mondo, per il denaro, per la posizione e per tutto ciò che
amiamo quaggiú. I poeti consumano le loro parole su tutte queste cose, ma in
realtà essi non comprendono. Gli gnostici non ascoltano mai un verso, un
indovinello, un elogio, una poesia d’amore che non riguardi Dio, nascosto dietro il
velo delle forme 17.
Tutte le speranze, i desideri, gli amori e gli affetti che gli uomini hanno per
varie cose – il padre, la madre, gli amici, il cielo, la terra, i giardini, i palazzi, le
scienze, le azioni, il cibo, le bevande – tutti sono desideri per Dio, e queste cose
sono come dei veli. Quando gli uomini lasceranno questo mondo e vedranno il Re
Eterno senza quei veli, allora capiranno che tutte quelle cose erano veli e
parvenze e che l’oggetto del loro desiderio era in realtà una Cosa Sola. Tutte le
loro difficoltà saranno superate, tutte le domande e le perplessità che avevano in
fondo al cuore troveranno una risposta, ed essi vedranno ogni cosa faccia a
faccia 18.
Il segno distintivo dell’amore divino è l’amore per tutti gli esseri in ogni dominio
– spirituale, sensoriale, immaginale e immaginario. Ogni dominio ha un occhio
che riceve la Luce dal suo Nome, un occhio attraverso il quale esso guarda verso
il Suo nome il Bello 21.
3. La religione dell’amore.
1. I nomi divini.
Dio creò gli esseri umani a Sua immagine o, volendo essere piú
fedeli alla lingua araba, «secondo la Sua forma». I sufi hanno spesso
interpretato questo fatto nel senso che gli esseri umani sono come dei
teatri in cui tutti i nomi di Dio manifestano i propri segni come un
insieme unificato, proprio come l’universo manifesta le proprietà dei
nomi in un dispiegamento diffuso all’infinito. La differenza tra gli esseri
umani e le altre creature è che ognuno di noi è creato secondo la
forma di Dio Stesso, e possiede perciò almeno i segni e le proprietà di
tutti i nomi di Dio come un insieme coerente e organico. Le altre
creature manifestano alcuni dei nomi di Dio, ma non tutti. Solo gli
esseri umani manifestano tutti i gioielli del Tesoro Nascosto, quindi
essi soltanto possono conoscere il Tesoro nella sua totalità.
2. L’ascolto primordiale.
Cos’è l’ascolto? Un messaggio dalle cose nascoste nelle profondità del cuore.
Il cuore, uno straniero, trova serenità dalla loro missiva.
Questa brezza fa sbocciare i fiori sul ramo dell’intelletto,
questo strimpellare apre tutti i pori dell’essere 9.
L’amante si trovava a suo agio nell’essere nel non-essere. Riposava nel rifugio
della testimonianza, non avendo visto il volto dell’Amato. All’improvviso la melodia
del Sii lo scosse dal sonno della non-esistenza. L’ascolto di quella melodia rese
manifesta un’estasi e da quell’estasi (wajd) egli trovò l’esistenza (wujūd). Il gusto
di quella melodia entrò nella sua testa: «L’amore gettò la nostra anima nello
scompiglio». Dopo tutto, «Alcune volte l’orecchio si innamora prima dell’occhio».
L’amore sbaragliò la serenità del suo sé esteriore e interiore con la canzone
«L’amante visita colui che ama». Poi lo spirito precipitò nella danza e nel
movimento 19.
«Come mai un uomo che può essere in pace, quando avverte l’Ascolto entra
tuttavia in uno stato di agitazione?»
Egli rispose: «Dio nel Patto si rivolse alla progenie di Adamo con le parole:
“Non sono Io il vostro Signore?” Tutti i loro spiriti erano immersi nel piacere di
quelle parole. Quando essi avvertono l’Ascolto in questo mondo, entrano nel
movimento e nell’agitazione» 20.
3. La perfezione umana.
I pipistrelli dell’oscurità
danzano nel loro amore per le ombre,
gli uccelli del sole
danzano dall’alba fino alla luce del mattino [93:1] 22.
Dio non creò alcun essere che non fosse vivente e dotato di linguaggio
razionale, sia che fosse una cosa inanimata, una pianta, o un animale, nell’alto o
nel basso mondo. La prova testuale di ciò sono le Sue parole: Non c’è cosa alcuna
che non canti le Sue lodi: solo che voi non comprendete le parole di lode
[17:44] 23.
Dio mostrò benevolenza verso Adamo. Egli gli diede una forma che in piccolo
comprende ogni genere di cosa che si possa trovare nel cosmo. È come se Adamo
fosse tutte le cose del cosmo, o una copia in miniatura del mondo 28.
Negli esseri umani vi è la potenzialità di ogni cosa esistente nel cosmo e quindi
essi ne possiedono tutti i gradi. Questa è la ragione per cui solo loro furono scelti
per la Forma. Gli uomini riuniscono in sé le realtà divine – che sono i nomi – e le
realtà del cosmo, dal momento che essi sono stati gli ultimi ad accedere
all’esistenza… Negli esseri umani diventa manifesto ciò che non lo è nelle singole
parti del cosmo, o nei singoli nomi fra le realtà divine, perché ciascuno dei nomi
non racchiude quelle peculiarità che gli altri nomi contengono. Quindi gli esseri
umani sono le cose esistenti piú perfette 29.
Dio non ha creato gli esseri umani per scherzo [23:115]. Al contrario, Egli li ha
creati solo perché essi fossero secondo la Sua forma. Quindi ognuno nel cosmo
ignora il tutto e conosce il particolare, eccetto l’essere umano perfetto. Perché Dio
insegnò ad Adamo i nomi di tutte le cose [2:31] e gli diede le parole che
comprendono tutto, cosí la sua forma divenne perfetta. L’essere umano perfetto
racchiude dentro di sé l’immagine del Vero e quella del cosmo. Egli è un istmo tra
il Vero e il cosmo, uno specchio sito nel mezzo. Il Vero vede la Propria forma nello
specchio dell’uomo e anche la creazione vede in lui la sua forma. Coloro che
raggiungono questo livello hanno raggiunto un grado di perfezione di cui nel
mondo del possibile non ve ne è di piú perfetto 30.
L’essere umano perfetto è un libro che comprende tutti i libri divini e cosmici.
Abbiamo detto riguardo al Vero che la Sua conoscenza della Propria essenza
comprende la Sua conoscenza di tutte le cose, e che Egli conosce tutte le cose
attraverso la conoscenza della Propria essenza. Allo stesso modo diciamo a
proposito dell’uomo perfetto che la sua conoscenza della propria essenza
comprende la sua conoscenza di tutte le cose, e che egli conosce tutte le cose
attraverso la conoscenza della propria essenza. Questo perché egli è tutte le cose,
sia nell’indifferenziazione sia nella differenziazione.
Quindi «Chi conosce se stesso conosce il Suo Signore» e conosce anche tutte
le cose. Dunque, figlio mio, se rifletti su te stesso, ciò ti basta, perché non vi è
niente all’infuori di te. Il maestro degli gnostici, ‘Alī ibn Abī Ṭālib, disse:
Non hai sentito le parole di Dio? Leggi il tuo libro! Basterai tu stesso, oggi, a
computare contro di te le tue azioni [17:14]. Chiunque legga questo libro deve
sapere cos’è stato, cosa è e cosa sarà. Se non puoi leggere tutto il tuo libro,
leggine ciò che puoi. Non hai visto come Egli dice, e dentro di voi stessi ancora:
non li scorgete? [51:21]. E non hai visto come Egli dice: Mostreremo loro i Segni
Nostri sugli orizzonti del mondo e fra di essi, finché non sia chiaro per loro che
esso è la Verità. Non ti basta sapere che il tuo Signore è a tutte le cose presente?
[41:53].
È stato riportato che quando le truppe di ‘Alī ebbero il sopravvento su quelle di
Ā’isha (che la pace sia su entrambi!) nella battaglia seguita all’uccisione di
‘Uthmān, l’esercito di Ā’isha issò il Libro Divino su una lancia, in modo che i
seguaci di ‘Alī non li uccidessero e travolgessero. Quando quelli videro fare ciò,
abbandonarono la battaglia. Poi ‘Alī disse: «O gente! Io sono il Libro parlante di
Dio, ma quello è il Libro silenzioso di Dio! Non attaccateli e non abbandonateli!»
Allo stesso modo Dio dice: Di’: «Basta Dio fra me e voi, basta chi è saggio nelle
Sante Scritture» [13:43]. Quindi questo, figlio mio, è il Libro e la conoscenza del
Libro. E tu sei il Libro, come abbiamo detto. La tua conoscenza di te stesso e la
tua conoscenza del Libro, E non v’è nulla d’umido, cioè il mondo visibile, o secco,
cioè il mondo spirituale e tutto ciò che è dietro di esso, che non sia registrato in
un Libro Chiarificatore [6:59], e quel Libro sei tu 32.
4. L’ascesa dell’anima.
Lo gnostico viaggia verso il mondo superiore, e dal momento in cui parte dalla
terra non passa mai accanto ad alcun elemento, presenza o sfera celeste, senza
abbandonare presso di essi la parte di se stesso che corrisponde loro – la parte
che acquisí quando in principio venne al mondo. Cosí obbedisce alle parole di Dio:
Iddio vi comanda di restituire i depositi agli aventi diritto [4:58] 37.
Coloro che abbandonano questo punto mediano, centrale – che è il punto della
perfezione in presenza dell’unità che tutto comprende – verranno giudicati in base
alla loro distanza o alla loro vicinanza rispetto al centro. Alcuni saranno vicini e
altri piú vicini, alcuni lontani e altri piú lontani. Tra il completo squilibrio specifico
del satanico e questo perfetto equilibrio divino, che deriva dal nome, vengono
designati tutti i gradi della gente della felicità e della gente dell’infelicità 38.
Rūzbihān Baqlī (m. 1209), uno dei piú ebbri tra gli autori di prosa
sufi, descrive lo stato del viandante lungo la via spirituale che
contempla il mondo invisibile e ascolta la sua musica primordiale:
Rūmī ci dice che la danza dei sufi ha luogo nei loro cuori e nei loro
spiriti. È la gioiosa resurrezione dell’anima che permane dopo
l’estinzione delle proprie imperfezioni.
L’ascolto è un influsso che proviene da Dio, con cui Egli risveglia i cuori e li
incoraggia a cercarLo. Chiunque l’ascolti attraverso il Vero trova la via verso il
Vero, e chiunque l’ascolti attraverso se stesso cade nell’eresia 47.
In un capitolo sul samā’ di uno dei suoi molti libri, Rūzbihān spiega
che non tutti sono qualificati per ascoltare la musica:
Tutte le cose viventi ed esistenti tendono all’Ascolto, perché ognuna di esse ha
uno spirito proprio attraverso il quale vive, e questo spirito a sua volta vive grazie
all’Ascolto. L’Ascolto ristora tutti i pensieri dalla pesantezza dell’umanità mortale.
Ciò risveglia le forze vitali negli esseri umani e porta i misteri del Signore in
movimento. Per alcuni è una seduzione, perché sono incompleti, per altri è
un’indicazione, perché sono completi. Coloro che sono vivi nel corpo e morti nel
cuore non dovrebbero dedicarsi all’Ascolto, perché porterebbe in loro solo
distruzione 48.
Un gruppo di uomini della danza delirante recita poesie, pratica l’Ascolto, batte
le mani e si strappa le vesti, immaginando che, avendo raggiunto questo stato,
essi hanno raggiunto gli stati propri degli amici di Dio. Che sciocchezza! Come
possono le stazioni [della perfezione] essere raggiunte attraverso tali
deformazioni? 49.
Se questo è ciò che i sufi trovano quando bevono il vino di Dio, c’è
da meravigliarsi che essi non possano far altro che danzare? Rūmī
descrive lo scompiglio che provocano:
In paradiso, in ogni istante c’è una nuova creazione e una nuova beatitudine,
quindi non c’è mai tedio. Dopotutto, quando qualcosa avviene in un dominio
naturale continuamente e senza cambiamenti, gli uomini si annoiano, perché
questa è la loro caratteristica essenziale. Se Dio non li nutrisse rinnovandoli, in
ogni momento in modo che essi possano riceverne beatitudine, la noia li
opprimerebbe. Cosí, con ogni sguardo che essi gettano verso i loro regni, la gente
del paradiso percepisce cose e forme che non aveva mai visto prima, e cosí
cresce la loro beatitudine. Ogni volta che mangiano o bevono scoprono nuovi
deliziosi sapori, che non avevano mai provato prima 60.
Già in questo mondo i sufi perfetti vivono con Dio. Essi viaggiano
nell’Infinito, ascoltando la musica dell’ordine creativo di Dio. In ogni
momento Dio dice «Sii» e un nuovo svelamento, piú perfetto e
glorioso di quello precedente, allieta l’occhio. Con le parole di ‘Irāqī:
La canzone non cesserà mai, né la danza avrà fine, per tutta l’eternità,
perché l’Amato è infinito. Qui l’amato canta fra sé e sé:
1. La visione di Dio.
Gli esperti del Kalām sostengono che la visione (ru’ya) di Dio non
sarà concessa agli uomini fino a che essi non raggiungeranno il
paradiso, ma Bahā’ Walad ci dice che coloro che hanno fede Lo stanno
già vedendo, che Lo riconoscano o meno. In un brano egli spiega che
la formula «Sia Gloria a Dio», solitamente ritenuta come
l’affermazione della trascendenza di Dio e dell’impossibilità di vederLo,
significa in realtà che Dio è visto dovunque.
Stavo dicendo Sia gloria a Te [2:32]. Questo significa: Tu sei puro e lontano
dall’imperfezione – l’imperfezione che le creature immaginano, che ogni parte di
me immagina, e che tutte le parti del mondo immaginano. [Essi immaginano che]
Tu non sei potente, che Tu non possiedi la conoscenza, e che Tu non eserciti il
controllo su di loro. Essi dicono che queste parti non ti vedono, poiché essi non
vedono come Tu dai l’esistenza a queste parti, rendendole basse e rendendole
alte. Essi dicono che Tu crei le parti della luce degli occhi, ma queste non Ti
vedono. Tu dai l’esistenza alle parti dell’intelletto, della consapevolezza e della
percezione, ma queste non Ti vedono.
No, no, Sia gloria a Te significa che Tu sei puro e di gran lunga al di sopra
dell’imperfezione di parole come queste che essi pronunciano, che cioè ogni parte
non Ti vede. Come possono conoscerTi se non Ti hanno visto? Senza vederti,
conoscerTi è impossibile. Quelli che negano la visione di Te non Ti hanno
conosciuto. Come può qualcuno essere incline a servire se la visione di Te non è
davanti a lui? Questa è la «vicinanza» di Ed Egli è con te ovunque tu sia [57:4]. O
parti, senza che ci sia la visione, la vicinanza è impossibile! Sembra che
miscredenza sia non vederTi, e Islam sia vederTi 4.
Stavo descrivendo le urì e stavo parlando dei giardini e dei paradisi. Uno
shaykh che faceva parte della Gente della Gnosi disse: «Coloro che in questo
mondo si tengono occupati con queste cose lo saranno anche nell’altro mondo.
Quando ritorneranno a Dio? Quando lo vedranno?»
Risposi: «È corretto pensare che le “urì, i palazzi, i giardini, le fontane, e lo
zenzero” siano parte degli stadi della visione di Dio. Ogni volta che vedi, provi un
gusto differente. Quindi, rifletti sui significati, come Dio ti tiene costantemente nel
palmo della Sua mano e nel Suo petto. Appartieni a Dio e al Suo compagno! Sii
uno straniero per le altre cose e per gli altri stadi. Mantieni il tuo sguardo sul tuo
Sovrano. Qualunque cosa tu voglia, chiedila a Lui. Strofinati contro di Lui.
Mescolati a Lui come latte al miele. Quindi troverai tutte le urì, i palazzi e dolcezze
del paradiso in moneta sonante. Troverai Dio. La tua felicità dipende dall’apertura
di questa porta, perché tu sai che Egli è con te ovunque tu sia 5.
Stavo pensando che queste mie parti hanno trovato diverse migliaia di vicini.
Queste parole che danno voce ai miei pensieri, come erba verde e zafferano, da
quale petto sono uscite? O, sulle guance colorite di chi si sono arrampicate come
formiche, inciampando l’una sull’altra nel mio petto? Poi ho visto che Dio agisce
da solo dietro la cortina dell’Invisibile. Egli trattiene ciascuno secondo il Suo
volere. Non dà a nessuno un sentiero che conduce a Lui, sia che si tratti di un
angelo, di un profeta, di un santo, di un peccatore o di qualcuno che abbia subito
un torto. Nessuno è a conoscenza del modo in cui Egli agisce. Da lí Egli invia
ordini a tutti. Egli giudica e stabilisce. Non permette a nessuno di agire secondo il
proprio volere. Egli ha reso impenetrabile il muro di Alessandro, cosí che nessuno
possa oltrepassarlo. Ha stretto un nodo finale alla concettualizzazione e
all’immaginazione di ognuno, in modo che nessuno possa venirne fuori. Chiunque
muova un passo al di fuori di quel confine viene depredato a tal punto da cessare
di esistere. Un freddo intenso lo assale e lo gela, oppure un vento torrido soffia su
di lui e lo brucia.
Poi vidi che il mondo è come una casa e un padiglione che Dio ha fatto
comparire. Egli vi ha inviato i miei pensieri, come individualità consapevoli, come
se i servi di un re se ne stessero seduti nei padiglioni e sotto i porticati. Le mie
parti materiali sono come muri di case in cui camminano i pensieri. Il mondo è
dolce per coloro che lo trovano come Eden. Dopo tutto, come potrei non essere
felice? Dio compie tutti i miei atti. Egli Stesso crea e dà esistenza alla mia terra,
alla mia aria e a tutti i miei atomi. Vedo che tutte queste parti di me fanno
affidamento felici sull’azione di Dio, i loro corpi a proprio agio 8.
Osservai con attenzione il mio stato. Vidi che le parti dei miei pensieri, le mie
linee di condotta e le mie percezioni sono come uccelli, passeri e moscerini che si
alzano ritti di fronte a Dio. È come se Egli avesse messo una catena intorno al
collo di ognuno, o come se avesse legato ognuno di loro con una corda in modo
da farli rimanere tutti sotto il Suo controllo. È Lui che concede loro la vita, è Lui
che concede loro un gusto 9, in modo che ciascuno di essi potrebbe aprire
agevolmente le ali. Questi uccelli stanno fermi a guardare per vedere cosa Dio
ordinerà loro e su chi di loro Egli eserciterà il Suo controllo.
Guardai ancora e vidi che Dio stava aprendo ogni parte di me. Mi mostrò
centomila fiori multicolori. Poi aprí le parti dei fiori e mi mostrò centomila fili
d’erba verde e acque che scorrevano e brezze che soffiavano, poi aprí i venti e mi
mostrò centomila fragranze 10.
2. Ricordare Dio.
Essi chiesero: «Il credente è in prigione. Come può avere il cuore felice?»
Dissi: «Quando egli è sincero, egli avrà il cuore felice, proprio come Giuseppe il
Sincero in prigione. A volte un credente compie un atto di disobbedienza e la sua
bocca diventa amara: «Con una simile disobbedienza, come posso implorare
perdono a Dio? Come potrò parlare con Dio quando ne avrò bisogno, come posso
rivolgermi a Lui?» Devi essere felice per questa amarezza e per questa
lacerazione del corpo. Devi essere contento per questa distribuzione per ciò che
Dio ti ha assegnato, tu che hai la bocca amara per il timore della separazione da
Lui. A meno che ti manchi la fede, perché dovresti temere la punizione? Se,
nonostante l’impudenza e l’audacia nei peccati, tu sei felice nel ricordare il
paradiso e i suoi doni, la generosità e il perdono, ciò può già essere considerato
una fede, un amore e un credo, a qualunque genere essi appartengano. Da
questo punto di vista, l’afflizione, la gioia, la corruzione del peccato e l’audacia nel
trasgredire sono la prova del tuo amore e della tua fede in Dio. Il tuo amore per
Dio è la prova dell’amore di Dio per te, perché Egli li ama, ed essi Lo amano.
Ovunque vi siano pianto e riso, la risata è causata dall’unione con i doni di Dio
e il pianto è causato dalla separazione dai Suoi doni. Quando un bambino cresce
è felice a causa dei doni di Dio; nella vecchiaia è triste per la separazione dai Suoi
doni: egli ride in Lui e piange nella separazione da Lui.
Adesso, se vuoi che la tua felicità sia eterna, servi l’Eterno. Intendo dire che se
tu giungi al ricordo di Dio, il frutteto di ogni parte di te fiorirà, il giardino della tua
anima inizierà a ridere e il vento orientale del tuo stato comincerà a soffiare.
Guarda e osserva come Dio soffia col Suo respiro benedetto, inducendo al riso
ogni parte di te 13.
Il mio spirito fu completamente preso dalla preoccupazione del mio corpo: «Mi
fa male la testa», e cose del genere. Stava scivolando fuori, da sotto il mio corpo,
mentre osservavo. Vidi i fiori dell’intelletto e della percezione, e per tutto il tempo
lo spirito continuò a sbattere contro l’albero. I fiori si sparsero e rimasero
schiacciati sotto i piedi come spighe di grano. Una volta uscito dalla pelle del
corpo, non importa cosa mi succedesse, mi trascinai fuori. Stavo entrando nel
mondo di Dio e del senza-come, stavo entrando negli attributi di Dio. Mi sono
sentito sollevato: «Sono stato liberato da ogni sofferenza».
All’improvviso vidi Dio, che si ergeva dietro la non-esistenza e che faceva sí che
questa racchiudesse ogni cosa. Egli stava portando le cose fuori dalla non-
esistenza, e io stavo assistendo all’esito di tutto questo. Ritornai verso gli attributi
e le tracce di Dio – i verdi prati, l’acqua che scorreva, le splendide urì. Dissi:
«Lascia che apra tutte queste dolci, dolci cose l’una all’altra. Distruggerò e
metterò da parte tutto ciò che è forma e afferrerò il sapore dei significati assoluti.
Tale è la realtà dello spirito, e tale è Dio perché Egli non ha il come».
Dio ha trasformato questa infinita non-esistenza in un amato. Centomila
bellezze, desideri, passioni, amori, opinioni, comportamenti, scelte,
innamoramenti, carezze di amanti, capacità, modi di vita, astuzie, inganni,
abbracci, baci, dolci incontri. Dio ha disteso tutto ciò sulla faccia della non-
esistenza. C’è bisogno di qualcuno che possa fissare la non-esistenza, con le
lacrime che gli scendono lungo le guance a causa del suo amore per essa. Tale
non-esistenza contiene e racchiude ogni parte di me da tutte e sei le direzioni.
Alla fine, come potranno le parti di me stare da sole, senza un amico intimo? 15.
Stavo pensando: dal momento che le cose create non hanno affinità con Dio,
come possono esse giungere a essere intime, felici, in pace con Dio? Dio mi
ispirò: «Dal momento che le cose create provengono da Colui che dona
l’esistenza, cioè da Me, come non dovrei essere loro vicino? Dopo tutto, se
l’esistenza non è in pace con ciò che le dà esistenza, come può diventare
esistente? Come può l’una far del male all’altro? Se l’esistenza non è in pace con
ciò che dà esistenza, con cosa sarà in pace? Dal momento che il Mio desiderio, il
Mio atto, il Mio attributo, il Mio creare e la Mia misericordia sono collegati alle
creature, se esse non sono intimamente a Me vicine, a chi saranno vicine? Dopo
tutto, non provengono da Me tutti questi desideri, amori e intimità? Non sono essi
una mia creazione? Come non dovrebbe esserci intimità con me? L’intimità è un
Mio atto. Tutte le parole tra gli amanti, i loro segreti sussurrati, le loro carezze, le
loro relazioni, sono Io a portarle tutte all’esistenza. Come può la cosa esistente
non essere a suo agio con Colui che dona l’esistenza? A chi essa desidera
rimanere intimamente vicino se non a Me?
Quindi, pronuncia il ricordo e sii intimo con Dio e con i Suoi attributi. Leggi il
Corano e attesta la realtà dell’intima vicinanza: Dio, non vi è dio, all’infuori di Dio.
Dal momento che nessuna volontà ha effetto se non quella di Dio, e dal momento
che io sono l’oggetto di quella volontà che è desiderato, come può l’oggetto del
volere non aver intimità con Colui che vuole? Il Vivente. Dal momento che Egli
vive in eterno, come non dovrebbe Egli essere intimamente vicino alle cose
viventi? Colui che di Sé vive. Egli crea tutte le tue giornate, e mette a posto tutte
le tue attività di controllo. Come non dovresti avere parole, segreti e intimità con
Lui? Non lo prende mai né sopore né sonno. In nessun momento Egli è
inconsapevole, quindi come puoi non essere in grado di mostrarGli la tua
condizione? Lascia che gli amanti siano svegli! Sei tu allora l’amato che adesso
dovrebbe stare a dormire?
La tua esistenza è come un rametto di dolce basilico nella mano di Dio: tutti i
fiori dei tuoi desideri e tutte le foglie dei tuoi segreti devono essere con Dio! 16.
Affinché le foglie e i fiori degli iniziati siano con Dio, essi devono
ricordarLo assiduamente menzionando il Suo nome. L’immagine di Dio
deve far ritorno a ciò che l’ha proiettata, il raggio di luce deve fare
ritorno al sole. Il sentiero del ritorno è quello della consapevolezza e
della conoscenza della natura delle cose, della realtà del mondo,
dell’identità del sé, della presenza di Dio in tutte le cose e in tutti i
pensieri. Il dhikr è un’alchimia che trasforma la percezione e la
consapevolezza in gioia assoluta. Nel capitolo successivo, Bahā’ Walad
prende spunto da un versetto coranico e analizza due nomi divini,
Colui che dà la vita (al-Muḥyī) e Colui che dà la morte (al-Mumīt),
mostrando come essi siano da riferirsi al «piú ancora» che il Corano
promette nel versetto: «E Dio chiama alla Dimora della Pace e guida
chi vuole sul retto sentiero. A chi avrà fatto il bene, supremo bene
sarà dato e piú ancora» (10:25-26). Di seguito esamina il versetto:
«La lode appartiene a Dio» (1:2), una formula di ricordo che asserisce
la presenza delle benedizioni e dei doni generosi di Dio in ogni cosa
buona e lodevole.
Dissi: Dio, Tu hai promesso: Non c’è animale sulla terra cui Dio non si curi di
provvedere il cibo [11:6]. Tu mi hai tirato fuori da porte manifeste, sii Tu a darmi
il mio pane quotidiano. Dal momento che non mi hai permesso di agire senza le
cause seconde, io voglio bellezze, voglio benedizioni, voglio l’Ascolto, voglio stima,
voglio potere, voglio volontà. Dio mi ispirò: «Dio e Egli è Dio consistono delle
gioie, degli oggetti del desiderio e delle volontà di tutte le creature. E piú ancora è
bere da me senza fine, come un’ape dai fiori, affinché ogni tua parte possa
trasformarsi in miele. Perché Noi siamo Colui che dà la vita, e “dare la vita” ha
luogo solo attraverso la felicità e gli oggetti del desiderio. Noi siamo Colui che dà
la morte, e “dare la morte” ha luogo solo attraverso la separazione dalla felicità e
dagli oggetti del desiderio. Quanto piú sopraggiunge la felicità, tanto piú compare
l’esistenza. Quanto piú la felicità va via, tanto piú compare l’estinzione.
Tutte le forme del paradiso, come le urì e le fanciulle dai grandi occhi,
pascolano su di Noi. Le anime sono gocce del nostro sudore. Le cause di ogni
felicità e di tutti gli oggetti del desiderio sono come mestoli davanti a Noi. Quanto
piú puoi, bevi da Noi con la coppa del ricordo di Dio. Quando il Nostro vino ti avrà
reso ubriaco e barcollante, Noi ti daremo la dolcezza del sonno, come i Sette
Dormienti [18:9 sgg.]. Bevi da Noi e ringrazia per la Nostra ebbrezza. Dà la
notizia della Nostra felicità alle creature che Noi possiamo darti piú ancora».
Dissi: La lode appartiene a Dio. In altre parole, da quando Dio esercita il Suo
controllo e agisce in ogni parte di me questa elevazione non è ancora completa
per me. Mi ha tratto dalla non-esistenza e mi ha dato l’esistenza. Egli esercita il
controllo su ogni mia parte, e io so che Egli sta esercitando il suo controllo su di
me. Questo stadio ai miei occhi è il piú elevato degli stadi, perché con questo
attributo io vado verso Dio.
Ora sto pronunciando parole di lode, con ogni respiro mi riempio di questo
stato. Divento ignaro delle creature e degli altri stati, mi isolo da ogni familiarità.
È come se pronunciassi lodi per le cose che Dio predilige, perché gli uomini
dicono queste parole d’amore e tutte queste lodi per un assaggio delle cose
predilette da Dio. Adesso piango, come una sposa innamorata: «O Dio, non
privarmi delle tue predilezioni! Non ho nessuno all’infuori di Te. Non lasciarmi
solo! Pur se Tu sei degli eredi il migliore! [21:89]».
Quando la compagnia di ogni cosa con Dio diminuisce, la perfezione del suo
stato è trasformata in imperfezione. Cosí, allo stesso modo, quando uno sposo
allontana il proprio sguardo da un’amabile sposa, quella appassisce.
Dio è in amicizia con l’intelletto, e la predilezione per le cose intelligibili deriva
da questo. Lo stesso vale per il senso della percezione. Il fatto che Dio esercita il
Suo controllo e agisce su ogni parte di me non ha luogo senza i Suoi attributi,
come la misericordia e la generosità. Questi attributi sono pura luce e lasciano
tracce di luce nei colori che io vedo. Fasci di luce inondano ogni parte di me,
come oro fuso. Essi si irradiano dagli attributi di Dio.
Dal momento che Dio lavora in ciascuna parte di me e che tutti i pensieri e
tutte le predilezioni nascono da Dio, tutte hanno girato il proprio viso verso Dio,
che è come uno sposo attraente seduto fra nuove spose. Una lo mordicchia sulla
schiena, un’altra gli bacia la spalla, un’altra ancora si struscia contro di lui. Oppure
come dei bambini, come tante perle che si riuniscono intorno al loro giovane
padre e giocano con lui. Oppure ancora come piccioni e passeri, che scendono
tutt’intorno a colui che dà loro da mangiare e gli si posano addosso ovunque
possano. Proprio come tutti i granelli di polvere dell’universo girano attorno alla
Bellezza di Dio, cosí tutte le mie azioni e tutti i pensieri girano attorno a Dio,
proferendo parole di lode e di glorificazione 17.
Stavo dicendo Sia gloria a Dio. Dissi: il significato di Sia gloria a Dio è questo:
se il tuo cuore si volge verso la bellezza, Egli sta dicendo: «La bellezza senza
difetti è qui». Se si volge verso la proprietà, Egli sta dicendo: «Le ricchezze senza
difetti sono qui». Se si volge a una posizione, Egli sta dicendo: «La posizione
senza difetti è qui». Se si volge verso l’Ascolto e i discorsi degli altri uomini, «Il
discorso senza difetti è qui». «La misericordia e la gentilezza senza difetti sono
qui». E cosí via con tutti gli attributi, fino a dove Egli dice: «Io sono il Custode
[59:23], una chioccia non bada ai propri pulcini come Io tengo i Miei amici sotto
la Mia ala». Tutto questo affinché tu non perda la speranza e dica: «Dio non è del
mio genere, non mi darà intimità con la dolcezza della Sua bellezza». Non troverai
in nessun altro genere la dolcezza che viene da Dio.
Sia Gloria a Te, Dio dice: «Qualunque cosa tu possa amare e cercare non è
senza difetti. Dal momento che Io sono puro e senza difetti, dirigi qui l’amore!»
«Le glorie del Suo volto si consumerebbero nel fuoco […]». Questo è tutto ciò
che sono «le glorie del volto». Dissi: «O Dio, il difetto è il mio stesso essere. La
mia immaginazione e il mio sguardo sono il velo che Ti ricopre quando Ti guardo.
O Dio, la veste della mia esistenza e dei miei sensi è stata distesa sopra la mia
testa, ma le glorie del Tuo volto sono al di là della veste dell’esistenza. Voglio
rimuovere il mantello dell’esistenza del sé che mi copre il viso e la testa perché
vederTi è solo diletto e gioia. Essere velati da questo amore e privati di questa
vista sono i gradi discendenti dell’inferno, ai quali è data una forma sensoriale».
Mi si mostravano l’attributo di non avere difetti e il sigillo di purezza in modo
da poter subito diventare innamorato. «Venerare» significa offrire amore.
L’obiettivo è essere incessantemente in quella Bellezza e cercarLa, nient’altro.
Cosí, O Dio, quando divento stanco di cercarTi nella veste della mia esistenza, che
è il Tuo velo, e quando divento pigro nella ricerca, mostro le mie parti davanti a
Te come calici: «O Dio, in questi calici porta in esistenza il potere e il gusto di
cercarTi, perché io vivo il gusto di questa ricerca. Se non fosse per il gusto di
cercare, sarei morto».
L’amore per i vari tipi di bellezza, per l’Ascolto e per le verdi erbe è come la
brezza del mattino che fa conoscere la bellezza di Giuseppe: «O Giacobbe, sii
soddisfatto della Presenza di Dio nella brezza del mattino. Vieni dal tuo Giuseppe,
e vedi ciò che sarà» 20.
Raggiunsi un posto dove c’erano dei forni per la cottura di mattoni. Vidi che il
lato interno era bianco, il centro rosso e brillante e l’esterno nero. Il mio cuore
percepí che qualunque cosa che raggiunge il fuoco prima diventa nera, poi rossa
e infine rimane bianca, senza cambiare di colore. Lo stesso accade con il fuoco
dell’amore per Dio. In principio il figlio di Adamo è pieno di angoscia e scuro in
volto; poi egli entra negli stati spirituali e nell’estasi, e cosí è rosso e illuminato;
infine resta bianco e splendente, come la luce di Mosè, la luce di Muḥammad e di
altri ancora tra i profeti.
Qualcuno ha detto: «Voglio studiare per acquisire la conoscenza». Ho risposto:
«La conoscenza è di due tipi. Una è convenzionale e di compromesso; l’altra è la
conoscenza della realtà. Quella convenzionale è come la teoria, la retorica e le
regole che seguono i giudici o i predicatori: tutte sono tagliate fuori a metà
strada. La conoscenza della realtà consiste nel fatto che tieni in conto l’obiettivo
del lavoro, che lotti per esso e che lo fai prosperare. Quando Dio dà a qualcuno
questa conoscenza e questa dottrina, quegli viene prescelto e gode del dolce
gusto. Ogniqualvolta questa dottrina gli viene tolta, egli perde il dolce gusto. È
come se gli spiriti di queste persone fossero incoscienti nel Mondo dell’Invisibile,
oppure ne fossero ebbri, o ne assorbissero la forza a loro misura. Essi hanno
anche altri stadi, ma nessuno conosce se non Lui [6:59]. Essi diventano
consapevoli di questo mondo solo quando Dio li rende consapevoli e dà loro
notizia di esso». Stavo parlando di questo quando improvvisamente il cane abbaiò
e mi disturbò.
Bibi ‘Alawī si svegliò e venne da me allo spuntare del giorno. Il desiderio si
risvegliò in me. Il mio cuore percepí che anche ciò è una manifestazione del moto
che viene messo in atto da Dio. Perché dovrebbe essere motivo di punizione e di
dispersione? Dio mi ispirò: «Quando Io metto le cose in movimento, ciò avviene
abbassando e innalzando 21. Con un movimento esalto, con un altro umilio.
Adesso, quando qualsiasi percezione raggiunge il tuo spirito, per prima cosa
ricorda Dio. Ricorda che Dio l’ha messa in movimento. Riflettici. Se questo
mettere in movimento è causa di punizione, di bassezza e sofferenza, allora chiedi
aiuto a Dio, in modo che Egli non ti muova piú in quel modo. Se è causa di
esaltazione e di fortuna, prega Dio affinché ti trattenga in quel movimento in ogni
respiro. Ogniqualvolta Egli dà uno di questi due stati al tuo spirito, ricorda che tu
sei stato scelto per la luce della profezia.
Ero in piedi accanto a Hajjī Ṣiddīq durante la preghiera, e queste percezioni
stavano pervadendo il mio spirito. Stavo dicendo: mi stupisco che gli uomini non
riconoscano Dio, dal momento che Egli esercita il controllo sullo spirito e su
queste percezioni sensoriali. Queste percezioni che girovagano intorno allo spirito
provengono da Dio. Cosí, Dio può essere visto in modo sensoriale con l’occhio
dello spirito. Come si può negare Dio?
Poi pensavo che se ognuno avesse questa conformazione mentale e questa
consapevolezza, tutti sarebbero profeti. Come potrebbe essere cosí? Per loro
costituzione i profeti si sono allontanati dal cibo, dagli abiti, dai divertimenti, dal
mangiare carne e il loro sguardo è fisso solo su Dio. Dio ha dato questi stati allo
spirito dei profeti ma non ad altri. È come se Dio mantenesse i profeti, uno per
uno, in questa costituzione. Dà loro la dignità regale e fa del loro impero un
paradiso. Quanto a coloro che non hanno questa costituzione, che esercitano i
loro capricci e appetiti e che trovano gusto nei cibi di questo mondo, quando essi
amano il Profeta e lo seguono, Dio li colloca, grazie alla benedizione del Profeta,
tra la gente del tawḥīd, della gnosi e del paradiso 22.
Quando mi svegliai dal sonno, vidi l’intero mondo come Tu di Dio. Quando
incomincio a muovermi prendo il Tu di Dio nel mio abbraccio per vedere quel che
da esso mi arriverà e penetrerà nei miei sensi da esso. Allo stesso modo accade a
uno sposo, si sveglia dal sonno e immagina di essere solo; e quando i riccioli, il
viso e le parti del corpo della sposa lo urtano, egli capisce che la sposa è lí, in
intimità con lui. Cosí si ferma e incomincia a parlarle.
Anch’io incomincio a parlare con il Tu di Dio di qualunque cosa. Entro nelle
dolci, buone e belle cose di Dio. In ogni istante mi mescolo con il Tu di Dio e
guardo fisso le sue meraviglie non manifeste. Vedo le sue meraviglie e di ciascuna
ne gusto il vino, tanto da rimanere a lungo senza sensi, proprio come il dolcissimo
stato di Mosè: Mostrati a me, che io possa rimirarTi [7:143]. A ogni istante
abbraccio il Tu di Dio, perché Quando i Miei servi chiedono di Me, Io sono vicino
[2:186]. A ogni istante ho il passo ardente di Gesú, l’estasi di Mosè, l’infallibilità di
Muḥammad (su tutti loro la pace!), gli svelamenti e la fermezza dei santi, la
bellezza degli amanti insieme allo stato e alla dolce prosperità dei loro amati.
Mi sono stati dati due piedi per correre da queste loro dolci cose. Fisso queste
meraviglie e dico: «O Dio, dammi di queste cose, perché Tu dall’Invisibile le hai
tratte all’esistenza ed esse sono diventate tali attraverso il Tuo dono. Da’ anche a
me! Sii ed essa è [16:40], e che cosí possa essere anche per me. O Dio, Tu hai
dato il passo ardente ai profeti, alle sfere e ai pianeti. Dammi la stabilità, il sonno
e l’agio della felicità».
La felicità del regno manifesto trae alimento dalla felicità del regno non
manifesto, il regno non manifesto trae alimento dall’esercizio del controllo di Dio e
l’esercizio del controllo di Dio trae alimento dagli attributi di Dio. Quindi le porte
del giardino eterno chiamato «paradiso» sono gli attributi di Dio, e in ogni genere
di felicità del mondo, una porta – l’attributo di Dio – è aperta, in modo che Egli
possa soffiarvi dentro e accrescerla. Adesso vieni, lascia che mi offra a queste
porte degli attributi di Dio, e lasciami entrare in quel paradiso, cosí che non debba
piú ricordare il mondo ma ricordare Dio e appartenere a Lui.
Stavo ricordando Dio. Dissi: Fin quando Dio non mi ama, come posso amarLo?
L’amore da una parte sola è impossibile. Una sola mano non batterà mai 23. Allo
stesso modo la disposizione delle urì del paradiso verso i suoi abitanti è l’amore di
Dio. È come se Dio facesse l’abbraccio, come quando due forme si abbracciano
l’un l’altra, come l’amore di due spiriti. Ma a livello della realtà dello spirito e del
significato della forma non vi può essere abbraccio 24.
Capitolo nono
La caduta di Adamo
1. Aḥmad Sam’ānī.
3. La creazione.
Dio portò Adamo nel giardino della gentilezza e lo fece sedere sul trono della
felicità. Gli diede coppe di gioia, una dopo l’altra. Poi lo mandò via, piangente,
bruciante, gemente. Proprio come all’inizio gli aveva fatto assaporare la coppa
della gentilezza, cosí alla fine gli fece assaporare un sorso della severità pura,
assoluta e senza causa prima 7.
Nel vaso della tua esistenza ci sono splendidi gioielli e pietre nere lucenti.
Nascoste dentro l’oceano della tua costituzione ci sono perle e frammenti di vaso.
E quanto a Noi, abbiamo due case: in una stendiamo la tovaglia del
compiacimento, affidandolo a [l’angelo] Riḍwān. Nell’altra accendiamo la luce
della collera, affidandola a [l’angelo] Malik. Se avessimo dovuto farti rimanere nel
Giardino, il Nostro attributo della severità non sarebbe stato soddisfatto. Cosí,
lascia questo luogo e scendi nella fornace dell’afflizione e della dura prova della
distanza. Quindi Noi porteremo allo scoperto i sedimenti, i manufatti, le
sottigliezze e i doveri che sono nascosti nel tuo cuore.
Se fosse stato solo uno spirito, i giorni di Adamo sarebbero stati privi di
vergogna e le sue azioni sarebbero rimaste senza corruzione. Ma azioni senza
macchia non sono appropriate a questo mondo, e sin dal principio egli fu creato
come vicario per questo mondo.
Adamo non fu portato dal paradiso sulla terra a causa del suo errore. Se anche
supponessimo che non avesse sbagliato, sarebbe stato ugualmente portato in
questo mondo. La ragione di ciò consiste nel fatto che la mano del vicariato e il
tappeto della regalità stavano aspettando l’arrivo del suo piede. Ibn ‘Abbās disse:
«Dio lo aveva tolto dal Giardino prima ancora di mettervelo».
Una delle molte virtú della caduta di Adamo è che essa aprí la
strada ai suoi discendenti per entrare in paradiso. Sam’ānī ci dice che
Dio scacciò Adamo dal paradiso con la promessa che ve lo avrebbe
riportato con tutti i suoi figli.
4. L’amore.
Dio ha fatto conoscere l’attributo della Sua conoscenza: In verità Dio è di tutte
le cose sapiente [29:62]. Egli ha fatto anche conoscere l’attributo della nostra
ignoranza: E l’uomo è ingiusto e d’ogni legge ignaro! [33:72].
Egli ha fatto conoscere l’attributo del Suo potere: Dio è, in verità, onnipotente
[2:109]. Egli ha fatto anche conoscere l’attributo della nostra incapacità: Iddio vi
pone questa similitudine, la similitudine d’un servo, posseduto, che non ha potere
su nulla [16:75].
Egli ha fatto conoscere l’attributo della Sua gloria: Ma la gloria è tutta di Dio
[4:139]. Egli ha fatto anche conoscere la nostra umiliazione: Umili saranno gli
sguardi di fronte al Vivente, Colui che di per Sé esiste [20:111].
Egli ha fatto conoscere l’attributo della Sua incomparabilità e santità: Gloria al
tuo Signore, il Signore della Gloria, oltre le loro empie descrizioni! [37:180]. Egli
ha fatto anche conoscere l’attributo della nostra corruzione: Non v’abbiam Noi
creato d’acqua sozza? [77:20].
Egli ha fatto conoscere l’attributo della Sua permanenza: E solo resta il Volto
del Signore, pieno di Potenza e di Gloria [55:27]. Egli ha fatto anche conoscere
l’attributo della nostra caducità: E tutto quel che vaga sulla terra perisce [55:27].
Egli ha fatto conoscere l’attributo della Sua vita: Tu confida nel Vivo che mai
non muore [25: 58]. Egli ha fatto anche conoscere l’attributo della nostra morte:
Ecco: morrai, ecco: morranno [39:30].
Dal momento che la Signoria è un Suo attributo – È il Signore vostro, il Signore
dei vostri padri [26:26] – la servitú è un nostro attributo – E Io non ho creato i
geni e gli uomini altro che perché M’adorassero [51:56].
Dal momento che l’unità è un Suo attributo – Il vostro dio è un Dio solo
[16:22] – l’accoppiare e l’associare sono nostre qualità – E di tutte le cose
creammo una coppia [51:49].
Tuttavia, quando Egli ha fatto conoscere l’amore, proprio come ha affermato
l’amore per Se Stesso, cosí ha affermato anche l’amore per noi: Egli amerà come
essi ameranno Lui [5:54].
Qui ci deve essere un segreto che accrescerà il sollievo dello spirito degli
amanti: conoscenza, potere, vita, santità, permanenza e unità sono l’attributo
della Sua Essenza, e la Sua Essenza è sacra e incomparabile. Questi attributi sono
appropriati a Lui. Gloria a Lui che è incline alla gloria e ad essa appropriato!
Quando si osserva l’essenza umana, essa è corrotta e confusa: è melma, acqua
scura, argilla. Quindi in essa sono comparsi tutti quegli attributi. Tuttavia, la sede
dell’amore è il cuore, e il cuore è oro puro, la perla dell’oceano del petto, il rubino
della miniera del mistero piú profondo. Non l’ha toccato la mano di nessun altro, e
l’occhio di nessun altro che non sia un intimo vi si è posato sopra. La
testimonianza della maestà di Dio l’ha pulito e il brunitore dell’Invisibile vi ha
posto il suo sigillo, rendendolo lucido e splendente. Dal momento che il lavoro del
cuore comprende tutto questo, la Presenza della Gloria ha amore per ciò. Egli
tenne la bellezza di quell’amore davanti ai cuori dei grandi, e le tracce di luce
della bellezza dell’amore assoluto apparvero nello specchio dei loro cuori. Perciò, il
nostro amore vive attraverso il Suo amore, non il Suo amore attraverso il nostro.
L’amore per Dio risponde a tutti i Suoi nomi. Gli angeli sono esclusi
dall’amore perché non possono assaporare la collera, la severità e la
distanza, e le bestie sono lontane dall’amore perché non possono
sperimentare la bellezza, la gentilezza e la vicinanza. Gli esseri umani
sono un miscuglio di vicinanza e di lontananza, di gentilezza e di
severità. Tutti i contrastanti attributi divini sono racchiusi in loro.
Soltanto loro possono realmente amare Dio, nel quale gli opposti
coincidono. «Nei diciottomila mondi, nessuno bevve fino in fondo dalla
coppa che contiene il patto di Essi Lo amano, fatta eccezione per gli
esseri umani».
Dio ha creato ogni creatura conformemente a ciò che la sua potenza esigeva,
ma ha creato Adamo e i suoi figli in conformità con l’amore. Egli ha creato le altre
in quanto è il Forte, ma ti ha creato in quanto è l’Amico.
Dal trono fin giú alla terra, l’amore viene smerciato soltanto nella casa umana
del dolore e della gioia. Molti angeli puri e senza peccato erano nella Corte, ma
solo questa manciata di polvere era in grado di sopportare il fardello di questo
versetto che scioglie il corpo e che fa bruciare il cuore: Egli li ama, ed essi Lo
amano.
Prima che Adamo fosse portato nell’esistenza, vi era un mondo pieno di cose
esistenti, creature, cose formate, cose determinate, ma tutto ciò era una zuppa
insapore; mancava il sale del dolore. Quando quel grand’uomo mosse i suoi passi
dal nascondiglio della non-esistenza nell’immenso deserto dell’esistenza, la stella
dell’amore iniziò a brillare nel paradiso del petto dell’argilla di Adamo. Il sole di chi
ama iniziò a risplendere nel cielo del suo piú profondo mistero.
Quando Dio offrí il Patto ai cieli, alla terra e alle montagne, tutti si
rifiutarono, giacché non conoscevano il segreto dell’amore. Adamo
invece pensò solo al suo Amato. Perciò non si preoccupò di guardare
alla propria incapacità, anche se il Pegno era un duro fardello, temuto
da tutta la creazione.
La povera palla da polo nel campo! Presa con la curva della mazza, rotola sulla
propria testa, lanciata dalle mani e dai piedi dei giocatori. Ovunque vada, trova
una mazza ad aspettarla. Una fragile manciata di polvere fu posta sulla curva
della mazza da polo: la severità della Sua Gloria. La palla sfreccia dall’inizio del
campo – il volere divino senza inizio – fino alla fine del campo – il desiderio divino
senza fine. Davanti al campo è issato uno stendardo: A Dio non si chiede conto di
quello che fa, mentre a loro sarà chiesto conto [21:23]. Dietro al campo c’è un
secondo stendardo: Fa quel ch’Ei vuole [85:16].
Ma la palla ne ottiene anche un guadagno: «Tu hai gli occhi fissi sullo sguardo
del sultano, non sul colpo della mazza». Coloro che guardarono il colpo della
mazza abbandonarono la corte. Ed essi rifiutaron di portarlo [33:72]. Poi Adamo,
con il fegato di un leone, raccolse quel fardello. Come conseguenza inevitabile
colse il frutto.
Dopo tutto, essi erano bambini di soli sei giorni: E Dio che ha creato i cieli e la
terra e quel che v’è frammezzo in sei giorni [32:4]. Un bambino non può portare
un fardello. Ma Adamo fu messo nella culla del Patto per quaranta giorni, e gli fu
dato il latte della sovranità dal petto del premuroso favore. «Egli modellò l’argilla
di Adamo per quaranta giorni con le Sue stesse mani».
Il cielo e la terra videro il fardello [bār] di oggi. Ma Adamo vide la corte reale
[bār] di domani. Egli disse: «Se non porto questo fardello non sarò introdotto
domani nella corte della Maestà». Da uomo, si precipitò verso l’incarico, e cosí
divenne il punto cardinale della bussola del mistero. In verità, in verità, i sette
cieli e la terra non hanno aspirato neppure un soffio di queste parole.
5. Aspirazione e discernimento.
Adamo aveva l’aspirazione nella testa. Egli prese e diede attraverso la propria
aspirazione. Ogniqualvolta gli uomini raggiungono qualcosa, lo fanno con
l’aspirazione, perché con ciò che hanno in proprio nella loro costituzione non
otterrebbero mai nulla.
Quando Adamo fu portato per la prima volta in esistenza, era vestito con gli
abiti della munificenza e della gloria e col mantello dell’incoronazione, e gli angeli
si prostrarono di fronte a lui. Il nome della regalità e del vicariato fu registrato
nella proclamazione del suo patto. Gli otto paradisi furono concessi a lui soltanto.
O Adamo, abita, tu e la tua compagna, questo Giardino [2:35]. «O Adamo il
prescelto, agisci liberamente nella Casa della Permanenza e nella Dimora
dell’Eternità, secondo i tuoi desideri e il tuo volere. Nella vita dell’agiatezza, sii
pronto per il giorno della promessa».
L’instancabile aspirazione di Adamo lo pose come un sultano sul cavallo
dell’amore. Prese il dardo della solitudine dalla faretra della separazione e tese
l’arco fino al limite. Colpí il bel pavone del paradiso, che incedeva tronfio nel
giardino della Dimora. Egli sapeva che questo era il sentiero di coloro che si sono
separati, il lavoro di quelli che hanno una grande aspirazione, la corte di coloro
che sono portati vicini a Dio. Tempo, spazio, entità, tracce, vestigia, forme, cose
esistenti e oggetti della conoscenza devono essere completamente cancellati
davanti a te. Se uno qualunque di questi si aggrappa alla tua veste, il nome della
libertà non si applicherà a te. Fintanto che il nome libero non farà parte di te, non
potrai mai essere un vero servo di Dio.
Amore, quindi, significa essere liberi da ogni cosa del mondo creato
e scegliere Dio. Significa servire Dio, e niente altro. Solo gli esseri
umani furono creati in modo tale da poter amare Dio nella Sua realtà
infinita, onnicomprensiva, abbracciando sia gli attribuiti della bellezza
che della maestà, sia della gentilezza che della severità. Quando essi
si concentrano su Dio, realizzando il tawḥīd, superano la limitazione di
possedere certi attributi piuttosto che altri. Secondo Sam’ānī, Dio si
rivolge alle Sue creature cosí:
Ciò che rese grande Adamo fu il fatto che portò il fardello della
Fiducia, che è l’amore per Dio. Solo lui conosceva il segreto
dell’amore, perché esso era il motivo fondamentale della sua
esistenza. Egli sapeva che il suo amore poteva essere nutrito e
rafforzato solo quando avesse assaporato il dolore della separazione e
della severità. Quindi, mangiò il frutto proibito.
Quando Adamo vide che il paradiso non aveva alcun valore, decise
di partire. Ma Dio glielo aveva concesso come dominio suo proprio, e
cosí l’unico modo per uscirne velocemente consisteva nel trasgredire
l’ordine divino.
Per Dio il Tremendo! Misero il valore del paradiso nel palmo della mano di
Adamo. Non c’era sposa piú bella del paradiso fra tutte le cose esistenti: qual bel
viso e quali perfetti ornamenti! Ma il potere dominante dell’aspirazione di Adamo
entrò dal mondo della Gelosia Invisibile. Egli pesò l’importanza del paradiso con la
mano e il suo valore sul piatto della bilancia. Il paradiso cominciò a gridare: «Non
riesco a sopportare quest’uomo sfrontato!»
O nobile giovane! Se domani andrai in paradiso e lo guarderai dall’angolo
dell’occhio del tuo cuore, in verità, in verità non avrai raggiunto l’aspirazione di
Adamo. Qualcosa che tuo padre ha venduto per un chicco di grano, perché mai
vorresti stabilirti lí?
6. Povertà e necessità.
Sahl ibn ‘Abd Allāh Tustarī ha detto: «Fissai questo sentiero e posai lo sguardo
interiore sulla realtà. Non ho visto nessun cammino che porti piú vicino se non il
bisogno, e nessun velo piú spesso che l’avanzare delle pretese».
Guarda il sentiero di Iblīs e non vedrai altro che l’avanzare delle pretese. Poi
guarda il sentiero di Adamo e non vedrai nient’altro che il bisogno. O Iblīs, cosa
dici? Io sono migliore di lui [7:12]. O Adamo cosa dici? O Signor nostro! Abbiam
fatto torto a noi stessi [7:23].
Dio portò fuori tutte le cose esistenti dalla veste della non-esistenza alla
pianura del Suo comando, ma la pianta del bisogno cresce solo sulla terra.
Quando venne data forma a questa manciata di terra, essa fu modellata con
l’acqua del bisogno. Comprendeva ogni cosa ma doveva contenere anche il
bisogno, cosí non avrebbe mai cessato di piangere davanti alla corte di Dio.
La costituzione di Adamo fu modellata con il bisogno e ricevette l’aiuto del
bisogno. Gli angeli dovettero prostrarsi davanti a lui. Fu posto sul trono della
regalità e del vicariato e gli angeli vicini a Dio furono collocati accanto a lui. Ma il
suo bisogno non diminuí di un solo granello di polvere. Fu portato in paradiso, e
fu fatta questa proclamazione: «O Adamo, abita, tu e la tua compagna, questo
giardino, e mangiatene abbondantemente e dove volete [2:35]. Gli otto paradisi ti
appartengono: gira liberamente a tuo piacimento». Ma la sua povertà non
scomparve.
Prima di Adamo, era l’era dei ricchi e dei possessori di beni. Non appena giunse
il turno di Adamo, il sole della povertà e del bisogno sorse e l’indigenza fece la
sua comparsa. C’era un gruppo di creature sedute sul tesoro della glorificazione
che chiamavano Dio santo. Stavano mettendo all’asta i loro beni: Noi cantiamo le
Tue lodi [2:30]. Ma Adamo era un uomo povero, che usciva dalla capanna del
bisogno e dall’angolo della preghiera interiore. Si era vestito poveramente e non
possedeva alcun bene. Essere indigente era la sua condizione, cosí con
rammarico levò un grido nella corte della Gloria: O Signore nostro! Abbiam fatto
torto a noi stessi [7:23].
O derviscio! Dai mendicanti essi prendono monete di scarto al posto di quelle
di valore. Chiudono gli occhi durante la transazione. Ma quando la cosa arriva ai
ricchi essi sono attenti e cauti. Senza dubbio, gli angeli della Sovranità avevano
molti beni, ma tra questi c’era una certa dose di presunzione. Avevano scritto sui
manufatti delle loro azioni ossequienti l’annotazione «noi-ità». Adamo non aveva
alcun bene, ma il suo petto era una miniera dei gioielli della necessità e un’ostrica
per la perla della povertà.
Quando la moneta è contraffatta deve essere messa nella fornace, in modo
che la sua contraffazione scompaia e divenga pura. Adamo possedeva il fuoco
della ricerca. Il suo petto era il focolare dell’amore e nell’esistenza non vi era nulla
che avesse la capacità di una scintilla di quella fiamma vivida. «Un solo respiro di
coloro che desiderano ardentemente incendia le azioni degli uomini e dei geni ed
estingue il fuoco di tutte le cose». Quando egli mise a soqquadro il paradiso, fu a
causa dell’impeto del suo desiderio. Il grano era al suo posto e il sussurro di Iblīs
fu solo un pretesto. La ricerca dei misteri era il suo tratto caratteristico.
«O angeli della Sovranità, o abitanti dei quartieri della Sacralità e dei giardini
dell’Intimità! Siete tutti ricchi e possessori di ricchezze, ma Adamo è un uomo
povero, e guarda se stesso con disprezzo. La vostra moneta è contraffatta, dal
momento che volgete lo sguardo e l’attenzione su voi stessi. Adesso dovete
mettere la moneta delle vostre azioni nella fornace del bisogno di Adamo. Egli è il
saggiatore della Presenza: «Prostratevi avanti ad Adamo!» [2:34].
La prima linea che la povertà tracciò sul volto dei giorni di Adamo fu questa:
L’uomo è ingiusto e d’ogni legge ignaro [33:72]. La povertà è oscurità del volto in
entrambi i mondi.
O nobile giovane! L’aloe ha un mistero. Se l’annusi per mille anni non emetterà
mai un aroma. Vuole il fuoco per mostrare il suo mistero. Il suo volto è nero e il
suo colore è scuro. Il suo sapore è amaro ed è un tipo di legno. Vuole un fuoco
vivo per rivelare il segreto del suo cuore. Nel petto di Adamo c’era il fuoco della
ricerca, e le sue scintille consideravano un nonnulla tutti gli atti di culto e di
obbedienza e tutti i beni degli angeli della Sovranità. Egli era ingiusto e d’ogni
legge ignaro. Era un incenso che doveva essere gettato nel fuoco. Da
quell’incenso spuntò una brezza. Cos’era? Egli li ama, ed essi Lo amano.
Per Dio, Egli li ama ti cosparge di polvere, ma essi Lo amano non ha polvere.
Egli li ama significa: «Raccoglili tutti». Essi Lo amano significa «Lasciali andare
tutti». Quando dici, Egli li ama, il tuo colletto dice: «Non sei superiore a me».
Quando dici, essi Lo amano, il Trono ti si fa incontro dicendo: «Sono il tuo
schiavo».
Dissero a un derviscio: «Chi sei?» Egli rispose: «Sono il sultano. Egli è il mio
rappresentante».
Se il nostro vino è tutto feccia, questo non è per noi una perdita,
ma un guadagno. Sam’ānī non si stanca mai di dire che sono il
peccato e la dimenticanza a rendere la condizione umana cosí elevata,
non la pietà e la virtú.
Questo è uno strano affare. Quando Adamo sollevò il fardello del Patto, ci fu il
discorso: Egli era ingiusto e d’ogni legge ignaro. Ma quando gli angeli dissero:
Vuoi metter sulla terra chi vi porterà la corruzione e spargerà il sangue? [2:30],
Egli inviò un fuoco che bruciò migliaia di loro. È vero, gli amici dicono cose a
proposito degli amici, ma non sono contenti di sentire estranei guardarli con occhi
taglienti. «Sparlerò di mio fratello, ma non permetterò a nessun altro di farlo».
Quando Dio creò Adamo disse: Io creerò un uomo d’argilla. [38:71]. Gli angeli
dicevano: Vuoi metter sulla terra chi vi porterà la corruzione? Iblīs diceva: Io sono
migliore di lui: me Tu creasti di fuoco e lui creasti di fango! [7:12]. Il Signore
della Gloria rispose: Io so ciò che voi non sapete [2:30]. «Non sbattere la porta
sul fortunato, per non danneggiare il capitale del vostro spirito! O fuoco, tu hai la
forza, ma la terra ha la buona sorte. Come può la forza accidentale contrastare
una degna buona sorte?»
O derviscio, quando arrivarono queste parole [che offrivano il Patto], esse
arrivarono per la gente di Adamo. Se un qualche splendore proveniente da queste
parole avesse brillato sulle altre cose esistenti e se la gente di Adamo ne fosse
stata privata, sarebbe stata una grande perdita.
Dovresti sapere per certo che il chicco di grano che Adamo si mise in bocca era
la fortezza della durata della sua vita. La natura umana mortale richiede di
osservare, e chiunque osserva se stesso non sarà liberato. Questo è il motivo per
cui i grandi scrivono lettere ai loro fratelli dicendo: «Possa Dio non darti alcun
assaggio del tuo sé, perché se tu lo assaporerai, non sarai mai liberato».
Quel chicco di grano fu trasformato nella fortezza di Adamo. Ogniqualvolta
Adamo guarda se stesso, lo fa con imbarazzo. Si fa avanti chiedendo perdono,
senza superbia. Se qualcuno vuole essere un viandante lungo il cammino che
conduce a Dio, ogni volta che guarda la concessione del successo da parte di Dio,
deve dire: «La lode appartiene a Dio». Ogni volta che guarda alle proprie azioni,
deve dire: «Chiedo perdono a Dio».
A causa del suo errore, Adamo si rende conto che i suoi difetti sono
la realtà dominante della sua esistenza. Egli non è che sporcizia. Ogni
altra cosa proviene dalla provvidenza divina. Quindi, la caduta di
Adamo è la fonte della sua conoscenza di sé e il fatto che egli è
«ingiusto e d’ogni legge ignaro» è la sua salvezza e la sua gloria.
Gli angeli erano privi di errori, sia per quanto riguarda il passato, sia per il
futuro. Ma ci sarebbe stato un errore da parte di Adamo in futuro, perché Dio
disse: Adamo si ribellò [20:121]. Tuttavia qui c’è un mistero nascosto, perché gli
angeli videro che essi erano puri, ma Adamo vide che era povero. Gli angeli
dicevano: Ti chiamiamo santo, cioè noi ci conserviamo puri per amor Tuo. Adamo
disse: Nostro Signore, abbiamo corrotto noi stessi. Dio mostrò ad Adamo che
l’errore di colui che vede il proprio errore è migliore ai Suoi occhi della purezza di
colui che vede la purezza. Ecco perché Egli diede ad Adamo l’onore di essere
l’oggetto della prostrazione, mentre diede agli angeli l’attributo di esseri prostrati.
Quindi nessuna persona obbediente dovrebbe ritenersi soddisfatta di sé e nessun
disobbediente dovrebbe perdere la speranza.
8. Perdono.
Gli angeli erano i grandi della presenza divina. Ciascuno di loro adorava senza
alcuna afflizione, indossando una veste di purezza e un orecchino di obbedienza.
Ma non appena giunse il turno della terra, gridarono dall’alto della loro purezza e
cominciarono a vantarsi nel bazar dell’«io e nessun altro». Dicevano: Noi
cantiamo le Tue lodi.
«O angeli del dominio celeste! Nonostante voi siate obbedienti, non avete
alcun appetito in voi stessi, né avete alcuna macchia nella vostra costituzione. Se
gli esseri umani disobbediscono, hanno appetiti dentro di sé e oscurità nella loro
costituzione. La vostra obbedienza insieme con la vostra forza non vale un
granello di polvere in confronto alla Mia maestà e alla Mia Severità. E la loro
disobbedienza insieme con tutta la loro corruzione e bruttura non diminuisce la
perfezione del Mio reame. Voi vi tenete stretti alla vostra purezza, ma gli uomini si
tengono stretti alla Mia misericordia. Attraverso la vostra obbedienza, evidenziate
la vostra purezza e grandezza, ma attraverso la loro disobbedienza, essi
manifestano la Mia bontà e la Mia misericordia».
Gli angeli dissero: Vuoi metter sulla terra chi vi porterà la corruzione e spargerà
il sangue? Dio non negò che lo stesse facendo, ma disse: Io so ciò che voi non
sapete. In altre parole: «Io so che li perdonerò. Voi conoscete la loro
disobbedienza, ma Io conosco il Mio perdono. Nel vostro glorificare, voi rendete
manifesta la vostra azione, ma nel Mio perdono Io rendo manifeste la Mia bontà e
la Mia generosità. Io so ciò che voi non sapete, cioè il Mio amore per loro e la
purezza della loro fede nel loro amore per Me. Sebbene apparentemente le loro
buone azioni siano misere, interiormente il loro amore per Me è puro. Io so ciò
che voi non sapete, cioè il Mio amore per loro. Non importa cosa essi siano, Io li
amo».
Dissi alla mia amata dalle guance di rosa: «O tu con la bocca simile a un
germoglio,
perché continui a nascondere il tuo volto come le ragazze che civettano»?
Lei rise e disse: «A differenza delle bellezze del tuo mondo,
nel velo sono visibile, ma senza di esso sono nascosta» 1.
1. La barriera.
I veli sono due: il primo deriva dalla ruggine – cerchiamo da essa rifugio in
Dio! – e non sarà mai rimosso. Il secondo deriva dall’annuvolamento e può essere
rimosso velocemente.
La spiegazione di ciò è la seguente: ci sono alcuni servi la cui reale «essenza»
vela il Vero, in modo tale che il Vero e il non-vero sono dal loro punto di vista la
stessa cosa. Ci sono altri servi i cui «attributi» velano il Vero, ma la loro natura e
il loro cuore intimo cercano continuamente il Vero e fuggono dal non-vero.
Il velo dell’essenza, che deriva dalla ruggine, non sarà mai rimosso. Qui il
significato di «ruggine», «sigillo» e «marchio» è identico. Dio dice: No per certo!
Che quel che iniquamente operano devasta loro il cuore come un velo di ruggine
[83:14]; in seguito Egli chiarisce la caratteristica dominante di questo fatto e
aggiunge: Ché in verità, quanto a coloro che non credono, è per loro indifferente
che tu li ammonisca o non li ammonisca: mai crederanno [2:6]. Poi ne spiega la
ragione: Iddio ha suggellato il loro cuore e l’udito [2:7]. Dice anche: Sono essi
coloro cui Dio ha stampato un suggello sul cuore [16:108].
Il velo degli attributi, che deriva dall’annuvolamento, di quando in quando può
essere rimosso. Dopo tutto alterare l’essenza di una cosa sarebbe strano e
meraviglioso, e impossibile nell’entità stessa; ma è invece ammissibile per
l’attributo essere alterato rispetto a ciò che è…
Junayd dice: «La ruggine è una delle patrie, ma la nuvolosità è una delle cose
passeggere». La patria rimane, mentre la cosa passeggera scompare.
Nessuna pietra può essere trasformata in uno specchio, anche se molte
persone si mettono insieme per lucidarla, ma quando uno specchio [d’acciaio] si
arrugginisce può essere reso lucente con una lima. L’oscurità è intrinseca alla
pietra e la lucentezza è intrinseca allo specchio. L’intrinseco rimane, ma l’attributo
preso in prestito non ha sussistenza 7.
Potresti aver sentito i sufi dire che «la conoscenza vela da questo sentiero» e
potresti averlo negato. Ma non negare queste parole, perché sono vere. Dopo
tutto, quando occupi te stesso e ti immergi nelle cose sensoriali e in ogni genere
di conoscenza che si ottiene attraverso di essi, questo è un velo.
Il cuore è come uno stagno e i sensi sono come cinque ruscelli attraverso i
quali l’acqua vi penetra dall’esterno. Se vuoi che dell’acqua limpida sorga dal
fondo dello stagno, il modo per ottenerlo è rimuovere tutta l’acqua insieme con la
melma nera che è il suo deposito. I sentieri di tutti i ruscelli devono essere
bloccati, in modo che l’acqua non arrivi. Il fondo dello stagno deve essere scavato
finché acqua limpida non sgorghi dall’interno dello stagno. Fin quando lo stagno è
occupato dall’acqua che viene dall’esterno, l’acqua non potrà sgorgare
dall’interno. Allo stesso modo la conoscenza che viene dal profondo del cuore non
sarà acquisita finché il cuore non sarà svuotato di tutto ciò che proviene
dall’esterno.
Tuttavia, se una persona dotata di conoscenza dovesse svuotarsi delle nozioni
che ha appreso e non curarsene piú nel proprio cuore, la sua conoscenza passata
non costituirà per lui un velo; è possibile che in lui si verifichi «l’apertura» [della
porta allo svelamento]. Allo stesso modo, se svuota il cuore dalle fantasie e dagli
oggetti sensoriali, le fantasie passate non gli faranno da velo.
Causa di velo è che qualcuno apprende il credo dei sunniti e ne impara le
prove, cosí come sono espresse nella dialettica e nella discussione. Poi vi si dedica
con tutto il cuore e crede che non vi è altra conoscenza oltre a questa. Se
qualcos’altro entra nel suo cuore, dirà: «Questo è in contraddizione con ciò che
ho sentito, e qualunque cosa lo contraddica è falsa». È impossibile per una simile
persona conoscere la realtà delle cose, perché la fede appresa dalle persone
comuni è la forma della realtà, non la realtà stessa. Nel caso delle realtà, la
conoscenza perfetta è che esse vengano svelate dall’interno della forma, come
una noce dall’interno del guscio 10.
Non vi è nulla nell’esistenza se non veli sospesi. Gli atti della percezione si
afferrano solo ai veli, che lasciano tracce in colui che li percepisce con il suo
occhio 14.
I veli oscuri e luminosi attraverso i quali il Vero è velato dal cosmo sono solo la
luce e l’oscurità: è grazie ad esse che il possibile si qualifica nella sua realtà, in
quanto esso è un termine mediano. Il possibile guarda solo se stesso, e quindi
guarda solo il velo. Se i veli dovessero essere rimossi dal possibile, la stessa
possibilità verrebbe rimossa e con questa rimozione anche il Necessario e
l’impossibile verrebbero a sparire. Quindi i veli rimarranno distesi per sempre,
perché è impossibile che avvenga diversamente… I veli non verranno rimossi al
momento della visione [di Dio]. Quindi la visione avviene attraverso il velo, e
unicamente in questo modo 15.
Le forme viste dagli occhi e percepite dalle facoltà razionali, nonché le forme
immaginate dalla facoltà dell’immaginazione, sono veli, dietro i quali viene visto il
Vero… Quindi il Vero rimane per sempre assente dietro le forme manifeste
dell’esistenza. Le entità delle cose possibili nella loro materialità fissa e con tutte
le variazioni dei loro stati testimoniati dal Vero rimangono anch’esse assenti…
Le entità delle forme che sono manifeste nell’Essere – che è identico al Vero –
sono le proprietà delle entità possibili in quanto agli stati, alle variazioni, ai
cambiamenti e alle alterazioni che esse hanno nella loro fissità. Diventano
manifeste nel Vero Essere Stesso. Ma il Vero non cambia rispetto a ciò che è in Se
Stesso. I veli rimangono per sempre distesi, perché sono le entità di queste
forme… Tutto questo – la lode appartiene a Dio! – è in effetti immaginazione, dal
momento che non è mai fissato in un singolo stato. Ma [come disse il Profeta]
«gli uomini sono addormentati» – benché il dormiente possa riconoscere ogni
cosa che vede e la presenza in cui la vede – «e quando moriranno, si
sveglieranno» da questo sogno nel sogno. Essi non cesseranno mai di dormire,
come non cesseranno mai di sognare. Perciò non cesseranno mai di passare
attraverso un costante cambiamento interiore, né ciò che percepiscono con i loro
occhi cesserà mai il suo continuo cambiamento. La situazione è sempre stata
questa, e tale sarà sempre, in questo mondo e nel prossimo 16.
Dio ti ha fatto identico al Suo velo su di te. Se non fosse per questo velo, tu
non cercheresti di accrescere la conoscenza che hai di Lui. Egli parla e si rivolge a
te da dietro il velo della forma.
Considera la tua umanità mortale. La troverai identica al velo dietro il quale
Egli ti parla. Egli dice: A nessun uomo Dio può parlare altro che per Rivelazione, o
dietro un velame [42:51]. Perciò, Egli può parlare a te da te, dal momento che tu
veli te stesso da te, e tu sei il Suo velo su di te.
È impossibile per te cessare di essere un essere umano mortale, perché sei
mortale nella tua propria essenza. Anche se ti assenti da te stesso o vieni estinto
da uno stato che ti sorpassa, la tua umanità mortale si atterrà alla sua entità.
Perciò il velo è disteso e l’occhio non fisserà nient’altro se non un velo, dal
momento che non cade altro che su una forma… Non c’è fuga dal velo, perché
non c’è fuga da te stesso 17.
Il terzo punto di Niffarī è che solo la guida di Dio può liberare gli
uomini dai veli. Gli iniziati non possono mai lacerare i veli, ma Dio ne
può rimuovere alcuni o molti. Ogni volta che un velo è sollevato, gli
iniziati si avvicinano all’oggetto della loro ricerca. Il risultato dello
svelamento può essere un’estasi inesprimibile o straordinari influssi di
conoscenza visionaria, ma ancora, in ultima analisi, uscir fuori da un
velo significa entrare in un altro. Nel seguente passo Ibn ‘Arabī parla
dei veli come «occasioni» o «cause seconde» (asbāb), attraverso le
quali Dio stabilisce l’ordine dell’universo.
Dal momento che è stato Dio a stabilire le cause seconde, Egli non le svela a
chiunque. Ciò che Egli fa è di dare ad alcuni dei Suoi servi una luce sufficiente a
guidarli, affinché essi possano camminare nell’oscurità delle cause seconde. Non
fa nient’altro. Poi attraverso quella luce vedono faccia a faccia, nella misura della
propria luce.
I veli – che sono le cause seconde – sono distesi e non saranno mai sollevati,
quindi non desiderarlo! Se il Vero ti conduce via da un’occasione, è soltanto per
condurti verso un’altra. Inoltre, Egli non ti farà mai perdere completamente
l’occasione.
Dopo tutto, la corda di Dio [3:103] alla quale Egli ha ordinato di afferrarti è
una causa seconda, ed è la shar’īa. Fra le cause seconde, essa è la piú forte e
veritiera. Nella sua mano è la luce dalla quale possiamo essere guidati nelle
tenebre della terra e del mare [6:97] di queste cause seconde. Chiunque faccia
questo e quest’altro – che è la causa seconda – sarà ricompensato con questo e
quest’altro. Quindi non desiderare ciò che non può essere desiderato! Piuttosto
chiedi a Dio di spargere un po’ di quella luce sulla tua essenza 18.
Nel brano citato da Niffarī, Dio dice: «Tu non uscirai dal tuo velo se
non attraverso la Mia luce». Ciò potrebbe essere inteso nel significato
che la luce di Dio può concedere la totale liberazione dai veli. Ma molti
altri passi suggeriscono che per Niffarī la rimozione di un singolo velo
significa semplicemente stenderne un altro. Scrive per esempio:
Egli mi disse: «Se ti chiamo, non aspettarti che i veli siano rimossi dal fatto che
Mi segui, perché tu non puoi calcolarne il numero e non sarai mai in grado di
rimuoverli».
Egli mi disse: «Se fossi in grado di rimuovere i veli, dove li rimuoveresti? L’atto
di rimuovere è esso stesso un velo e il “dove” in cui è rimosso è a sua volta un
velo. Quindi seguimi. Io rimuoverò i tuoi veli e ciò che rimuoverò non ritornerà. Ti
guiderò lungo il tuo sentiero e ciò che Io guido non si smarrirà» 21.
Egli mi disse: «Ti sto guardando fisso e amo che tu Mi guardi fisso, ma ogni
apparenza ti vela da Me. Il tuo sé è il tuo velo, la tua conoscenza è il tuo velo, la
tua gnosi è il tuo velo, i tuoi nomi sono il tuo velo e il Mio renderMi manifesto a te
è il tuo velo. Quindi, scaccia ogni cosa dal tuo cuore e scaccia da esso la
conoscenza di ogni cosa e il ricordo di ogni cosa. Ogniqualvolta farò apparire
qualcosa davanti al tuo cuore, rimandala alla sua apparenza e svuota il tuo cuore
per Me, in modo che tu possa guardarMi e non superarMi» 23.
Guidando gli uomini sul sentiero, Dio non elimina i veli, giacché ciò
è impossibile. Quello che secondo Niffarī Egli fa è portare gli uomini
dal «velo lontano», che è l’ignoranza o il vedere il lato occidentale, al
«velo vicino», che è il riconoscimento della fulgida luce di Dio che
brilla attraverso i veli, o la visione della faccia orientale delle cose.
In breve, questi brani ci dicono che i veli non saranno mai rimossi,
ma che la guida di Dio può dare agli uomini la sicurezza e la salvezza
dai pericoli dell’essere velati. Ne consegue che la vera conoscenza non
è realmente «svelare», ma è piuttosto la rimozione dei veli lontani,
affinché essi possano essere sostituiti da quelli vicini; oppure, essa è il
riconoscimento dei veli per ciò che sono.
O servo Mio! Che cosa cerchi da Me? Se stai cercando ciò che già conosci,
allora sei soddisfatto del velo. Ma se stai cercando ciò che non conosci, allora stai
cercando il velo 27.
Cercare il volto di Dio nasce dal sé, e il sé è il velo dei veli. La vera
visione delle cose come esse sono realmente permette di vedere che
non vi è sé e che quindi non vi è alcun velo. Dal punto di vista del
«Tutti sono Lui» c’è solo lo svelamento che Dio fa di Se Stesso, quindi
non vi è nulla se non il volto divino.
Questo sembra essere ciò che Ibn ‘Arabī sottintende nel seguente
passo:
Non c’è alcun velo e non c’è alcuna cortina. Nulla Lo nasconde se non la Sua
manifestazione. Se i sé si dovessero arrestare davanti a ciò che è divenuto
manifesto, conoscerebbero la situazione com’è in se stessa. Ma essi cercano
qualcosa che è assente da loro, cosicché la loro ricerca è identica al loro velo.
Quindi non apprezzano cosa è diventato manifesto nella giusta misura [6:91],
perché sono occupati da ciò che essi immaginano sia per loro non-manifesto.
Nulla è non-manifesto: è la mancanza di conoscenza a renderlo tale. Non vi è
nulla di non-manifesto nel caso del Vero, perché Egli si è rivolto a noi dicendo che
Egli è il Manifesto e il Non-manifesto, il Primo e l’Ultimo [57:3]. In altre parole, ciò
che cerchi nel dominio del non-manifesto è manifesto, quindi non stare a
logorarti 28.
Egli mi disse: «Quando Mi avrai visto, svelamento e velo saranno uguali» 29.
Egli disse: «Non giungerai alla visione fino a che non vedrai il Mio velo come
visione e la Mia visione come velo» 30.
Egli disse: «O servo Mio! C’è un velo che non è svelato e uno svelamento che
non è velato. Il velo che non è svelato è la conoscenza di Me, e lo svelamento che
non è velato è la conoscenza di Me» 31.
Mi fece stare nel velo. Poi vidi che Egli si è velato da un gruppo attraverso Se
Stesso e da un altro attraverso la Sua creazione.
Egli mi disse: «Non rimane alcun velo. Poi vidi tutti gli occhi guardare fissi il
Suo volto. Lo vedono in ogni cosa attraverso cui Egli vela Se Stesso, e quando
abbassano lo sguardo Lo vedono in se stessi».
Mi disse: «Mi vedono e Io li velo da Me attraverso la loro visione di Me» 32.
1. C. W. ERNST, The Shambhala Guide to Sufism, Shambala, Boston 1997 [trad. it. Il grande
libro della sapienza sufi, Mondadori, Milano 2000].
2. H. A. R. GIBB, The Structure of Religious Thought in Islam (1948), ristampato in ID. , Studies
on the Civilization of Islam, Beacon Press, Boston 1962, p. 218.
3. Per una valida raccolta di queste definizioni, si veda J. NURBAKHSH, Sufism: Meaning,
Knowledge, and Unity, Khaniqahi-Nimatullahi Publications, New York 1981, pp. 16-41.
4. Per uno studio dettagliato della tradizione islamica basata su questa antica divisione in tre
dimensioni, si veda S. MURATA e W. C. CHITTICK, The Vision of Islam, Paragon House, New
York 1994.
5. Per un’analisi dei principî della teologia islamica si faccia riferimento a J. VAN ESS, L’alba
della teologia musulmana, a cura di I. Zilio Grandi, Einaudi, Torino 2008 [N. d. C.].
6. La sunna può essere definita la «tradizione», ovvero l’insieme di tutto ciò che è stato
tramandato a proposito dei detti e dei fatti attribuiti a Muḥammad. Sul concetto di sunna e
per la traduzione di una delle raccolte piú popolari di aḥādīth, i racconti veri e propri
riguardanti il Profeta dell’Islam, cfr. AL-NAWAWĪ , Il giardino dei Devoti. Detti e fatti del
Profeta, a cura di A. Scarabel, Società Italiana Testi Islamici, Trieste 1990 [N. d. C.].
7. Il testo arabo recita al-taṣdīq bī ‘l-janān wa ‘l-qawl bī ‘l-lisān wa ‘l-’amal bī ‘l-arkān.
8. R. A. NICHOLSON, The Mathnawi of Jalálu’ddín Rúmí, 8 voll., Luzac, London 1925-40, vol. VI,
v. 1890.
9. GIBB , The Structure of Religious Thought in Islam cit., p. 211.
10. La formula completa della shahāda recita: «Attesto che non vi è dio all’infuori di Dio e
attesto che Muḥammad è l’Inviato di Dio» [N. d. C.].
11. ‘IZZ AL-DĪN KĀSHĀNĪ (m. 1334-35), Miṣbāḥ al-hidāyah, a cura di J. al-Din Huma’ī,
Chāpkhāna-yi Majlis, Teheran 1325/1946, p. 22.
12. W. C. CHITTICK, The Sufi Path of Knowledge: Ibn al-’Arabī’s Metaphysics of Imagination,
Suny Press, Albany 1989, p. 392, nota 13. In seguito, l’opera sarà citata come SPK.
13. La faccia «occidentale» e quella «orientale» delle cose sono citate da Shabistarī nel suo
famoso poema Gulsan-i rāz («Il Roseto del Mistero») e discusse approfonditamente da
Lāhijī (m. 1506) nel suo commentario, Sharh-i Gulsan-i rāz, a cura di M. R. B. Khāliqī e ‘I.
Karbāsī, Intishārāt-i Zuwwār, Teheran 1371/1992, pp. 117-18.
14. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. II, vv. 3067-68, 3071, 3073. Per alcuni dei temi
trattati da Rūmī, si veda W. C. CHITTICK, The Sufi Path of Love: The Spiritual Teachings of
Rumi, Suny Press, Albany 1983, pp. 113-18. In seguito, l’opera sarà citata come SPL.
15. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. I, v. 772.
16. Ibid., vv. 277-78; SPL, p. 96.
17. Sul «martire dell’Islam» cfr. AL-ḥUSAYN IBN MANṣ ūR AL-ḥALLĀJ , Al-Ḥusayn ibn Manṣūr al-
Ḥallāj. Il Cristo dell’Islam. Scritti mistici, a cura di A. Ventura, Mondadori, Milano 2007 [N.
d. C.].
18. RŪMĪ , Fīhi mā fīhi, a cura di B. Furūzānfar, Amir Kabir, Teheran 1348/1969, p. 193; SPL,
pp. 191-92.
La tradizione sufi
1. R. A. NICHOLSON, The Mathnawi of Jalálu’ddín Rúmí, 8 voll., Luzac, London 1925-40, vol. II,
v. 1022; SPL 20.
2. Per alcune critiche sufi al sufismo popolare, si vedano le osservazioni di ‘Abd al-Wahhāb
Sha’rānī cosí come sono descritte in M. WINTER, Society and Religion in Early Ottoman
Egypt: Studies in the Writings of ‘Abd al-Wahhāb al Sha’rānī, Transaction Books, New
Brunswick 1982, pp. 102 sg.
3. SPK, p. 283.
4. H. A. R. GIBB, Mohammedanism: an Historical Survey, Oxford University Press, London
1953, p. 127 [trad. it. L’islamismo: un’introduzione storica, il Mulino, Bologna 1970].
5. Su questo tema cfr. A. SCARABEL, Preghiera sui Nomi piú belli. I novantanove nomi di Dio
nella tradizione islamica, Marietti, Genova 1996 [N. d. C.].
6. Per un’analisi dettagliata della tradizione intellettuale islamica rispetto alla tensione creativa
fra tanzīh e tashbīh, si veda S. MURATA e W. C. CHITTICK, The Vision of Islam, Paragon
House, New York 1994, parte II.
7. Come valido studio analitico di un esempio concreto di questo fenomeno, si veda M.
WOODWARD , Islam in Java, University of Arizona Press, Tucson 1989, in particolare le pp.
234 sg.
8. Per una raccolta di testi sufi sulla sobrietà e l’ebbrezza, e anche su coppie di termini in
correlazione tra loro, si veda J. NURBAKHSH, Sufism: Fear and Hope, Contraction and
Expansion, Gathering and Dispersion, Intoxication and Sobriety, Annihilation and
Subsistence, Khaniqah-i Nimatullahi, New York 1982.
9. Per il modo in cui la poesia e la musica sono utilizzate nel sufismo contemporaneo, si veda
E. H. WAUGH, The Munshidin of Egypt: Their World and Their Song, University of South
Carolina Press, Columbus 1989.
10. H. CORBIN, Creative Imagination in the Sufism of Ibn ‘Arabi, Princeton University Press,
Princeton 1969, pp. 70-71 [trad. it. L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo,
Laterza, Roma-Bari 2005].
11. Si veda, come esempio, J. BERKEY, The Transmission of Knowledge in Medieval Cairo,
Princeton University Press, Princeton 1992, in special modo il capitolo III , che evidenzia
come figure di sufi e giuristi siano state a volte indistinguibili le une dalle altre.
L’autorealizzazione
1. Per la traduzione italiana si veda L. VECCIA VAGLIERI e R. RUBINACCI, La Nicchia delle Luci, in
Scritti scelti di al-Ghazālī, Utet, Torino 1970, pp. 561-639 [N. d. C.].
2. Mishkāt al-anwār, a cura di e tradotto da David Buchman come The Niche of Lights,
Brigham Young University Press, Provo 1998, pp. 17-18. Per un approfondimento sul volto
che non perisce cfr. W. C. CHITTIK, The Self-Disclosure of God: Principles of Ibn al-’Arabī’s
Cosmology, Suny Press, Albany 1998, pp. 92 sgg. (in seguito l’opera sarà citata come
SDG).
3. Si veda ID ., Imaginal Worlds: Ibn al-’Arabī and the Problem of Religious Diversity, Suny
Press, Albany 1994, p. 117.
4. MUḥYĪ AL-DĪN IBN ‘ARABĪ , Al-Futūḥāt al-makkiya, ristampa, Dar Sadir, Beirut s. d., vol. III, p.
412, riga 26; per il brano preso in esame, si veda SDG, p. 134.
Il ricordo di Dio
1. Ascrivergli l’idea risulta comunque problematico. Si veda W. C. CHITTICK, Rūmī and Waḥdat
al-wujūd, in A. BANANI, R. HOVANNISIAN e G. SABAGH (a cura di), Poetry and Mysticism in
Islam: the Heritage of Rūmī, Cambridge University Press, Cambridge 1994, pp. 70-111.
2. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt al-makkiya, ristampa, Dār Ṣādir, Beirut s. d., vol. II, p. 111, riga 12;
cfr. vol. II, p. 325, riga 12 tradotto in W. C. CHITTICK, The Divine Roots of Human Love, in
«Journal of Muhyiddîn Ibn ‘Arabî Society», XVII (1995), pp. 55-78 (p. 57).
3. RŪMĪ , Kulliyyāt-i Shams, a cura di B. Furūzānfar, Danishgah, Teheran 1336-46/1957-67, vv.
29 050-51; per un approfondimento su questi temi, si veda SPL, pp. 194-95.
4. RŪMĪ , Kulliyyāt, v. 17 361.
5. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 167, riga 12.
6. Ibid., 329.5; SDG, p. 22.
7. RŪMĪ , Fīhi mā fīhi, a cura di B. Furūzānfar, Amir Kabir, Teheran 1348/1969, pp. 176-77;
SPL, p. 48.
8. R. A. NICHOLSON, The Mathnawi of Jalálu’ddín Rúmí, 8 voll., Luzac, London 1925-40, vol. V,
vv. 2735-40; SPL, p. 198.
9. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 114, riga 8; per una traduzione dall’arabo del brano
preso in esame, si veda M. CHODKIEWICZ, Les Illuminations de La Mecque/The Meccan
Illumination, Sindbad, Paris 1988, p. 97.
10. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. III, vv. 4400-1, 14-15; SPL, pp. 198-99.
11. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 113, riga 2.
12. Ibid., p. 114, riga 14; CHODKIEWICZ , Les Illuminations de La Mecque/The Meccan
Illumination cit., p. 98.
13. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 331, riga 17.
14. Il ghazal è un componimento poetico breve, generalmente di non meno di cinque e di non
di piú di dodici versi, molto comune nella lirica tradizionale persiana [N. d. C.].
15. Una caratteristica della poesia di Rūmī è l’utilizzo di giochi di parole. Qui la parola kū è
impiegata sia nel significato di «dove?» sia come suono onomatopeico indicante il tubare
della colomba che simboleggia il desiderio di Dio [N. d. C.].
16. RŪMĪ , Kulliyyāt cit., ghazal n. 442.
17. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 326, riga 19; cfr. SPK, p. 181. Sulla lettura
«ontologica» dei versetti coranici, si veda ibid., pp. 342-43.
18. RŪMĪ , Fīhi mā fīhi cit., p. 35; SPL, p. 201.
19. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. VI, vv. 971-80; cfr. SPL, pp. 202-3.
20. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. II, vv. 1529-35.
21. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 113, riga 6.
22. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. V, vv. 586-91; SPL, p. 215.
23. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. I, v. 629.
24. RŪMĪ , Kulliyyāt cit., v. 35 477; SPL, p. 209.
25. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 600, riga 32.
26. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. II, v. 3497.
27. RŪMĪ , Kulliyyāt cit., 29 753.
28. Rustam è l’eroe piú celebre dell’epica iranica. Questo personaggio compare anche nello
Shā-nāme, «Epica dei Re» del poeta persiano Firdawsī (940/41-1020 [N. d. C.].
29. Ibid., ghazal n. 1138.
30. Ibid., ghazal n. 920.
31. Ibid., ghazal n. 244.
32. Sulla figura di Giuseppe nel Corano cfr. M. CAMPANINI, Il profeta Giuseppe. Monoteismo e
storia nel Corano, Morcelliana, Brescia 2007, e R. TOTTOLI, I profeti biblici nelle tradizione
islamica, Paideia, Brescia 1999, pp. 52-57 [N. d. C.].
33. Ibid., ghazal n. 1826.
Immagini di beatitudine
1. A. J. ARBERRY, Aspects of Islamic Civilazation, A. S. Barnes, New York 1964, pp. 227-55. Piú
recentemente Fritz Meier ha scritto un dettagliato studio storico del testo: F. MEIER, Bahā’-i
Walad: Gründzuge seines Lebens und seiner Mystik, Brill, Leiden 1989.
2. Per la traduzione francese cfr. RŪZBEHĀN BAQLĪ, Le Dévoilement des secrets: Journal
spirituel, a cura di P. Ballanfat, Seuil, Paris 1998 [N. d. C.].
3. RŪZBIHĀN BAQLĪ, The Unveiling of Secrets, Diary of a Sufi Master, tradotto da C. W. Ernst,
NC Parvadigar Press, Durham 1997.
4. BAHĀ’ WALAD, Ma’ārif, a cura di B. Furūzānfar, Majlis, Teheran 1333-1338/1954-59, vol. I, p.
91.
5. Ibid., p. 131.
6. Cfr. SPL, pp. 248 sg.
7. BAHĀ’ WALAD, Ma’ārif cit., vol. I, p. 33.
8. Ibid., pp. 31-32.
9. Nel linguaggio del sufismo il termine «gusto» (dhawq) rappresenta la capacità di
assaporare e sperimentare direttamente le realtà spirituali [N. d. C.].
10. Ibid., p. 34.
11. Angelo della morte [N. d. C.]
12. BAHĀ’ WALAD, Ma’ārif cit., cap. 98, vol. I, pp. 139-40.
13. Ibid., p. 130.
14. R. A. NICHOLSON, The Mathnawi of Jalálu’ddín Rúmí, 8 voll., Luzac, London 1925-40, vol. I,
v. 602.
15. BAHĀ’ WALAD, Ma’ārif cit., cap. 88, vol. I, p. 128.
16. Ibid., pp. 128-29.
17. Ibid., cap. 94, pp. 133-35.
18. Sul ḥadīth si veda SPK, p. 401, nota 19; SDG, pp. 155-63.
19. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. VI, vv. 4010 sg; SPL, pp. 234-36.
20. BAHĀ’ WALAD, Ma’ārif cit., cap. 96, vol. I, p. 137.
21. I due termini che Bahā’ Walad impiega qui sono gli attributi divini khafd e raf’. Per l’uso
che fa Rūmī dei due stessi attributi per spiegare la natura dei movimenti cosmici, si veda
NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. VI, vv. 187 sg; SPL , p. 50.
22. BAHĀ’ WALAD, Ma’ārif cit., cap. 240, vol. I, pp. 381-82.
23. Si confronti l’utilizzo di Rūmī dello stesso «koan» nei due passaggi. SPL, p. 209.
24. BAHĀ’ WALAD, Ma’ārif cit., cap. 104, vol. I, pp. 147-48.
La caduta di Adamo
1. GIOVANNI PAOLO II, Varcare la soglia della speranza, Arnoldo Mondadori Editore, Milano
1994, p. 104.
2. AḥMAD SAM’ĀNĪ , Rawḥ al-arwāḥ fī sharḥ asmā’ al-malik al-fattāḥ, a cura di N. Māyil Harawī,
Shirkat-i Intishārāt-i ‘Ilmī wa Farhangī, Teheran 1368/1989.
3. Ibid., pp. XXVII-XXVIII .
4. D. GIMARET, Le noms Divins en Islam, Cerf, Paris 1988.
5. La tradizione islamica non è unanime su quale fosse il frutto proibito colto da Adamo.
Mentre alcuni lo individuano nella mela o nel fico, per altri ancora tale frutto sarebbe il
grano [N. d. C.].
6. AḥMAD SAM’ĀNĪ , Rawḥ al-arwāḥ fī sharḥ asmā’ al-malik al-fattāḥ cit., p. 262.
7. Ibid., p. 199.
Generale.
Traduzioni.
Bahā’ Walad
Balaam
Ballanfat, Paul
bambini
Banani, Amin
baqā’
baraka
bay’at al-riḍwā
bellezza (jamāl ) del cosmo
di Dio
e maestà
bene, praticare il (iḥsān)
Beniamino
Berkey, Jonathan
Buchman, David
buono e malvagio
Burrell, David B.
Būshanjī, ‘Alī ibn Aḥmad
cabala
Calasso, Giovanna
cambiamento (trasformazione)
Vedi anche creazione.
capriccio (hawa)
carattere, tratti (khuluq)
cattolica, Chiesa
cerrahi, confraternita
Chittick, William C.
Chodkiewicz, Michel
Cina
collera (ghaḍab), vedi misericordia e collera.
Compassionevole (Raḥim)
confraternita (ṭarīqa)
conoscenza (‘ilm)
dei nomi
di Dio
di sé
due tipi di
infinita
Vedi anche amore.
consapevolezza
Corano
Corbin, Henry
Core
corpo
e anima (spirito)
cosmo (‘alam)
Vedi anche creazione.
creazione
obiettivo
rinnovamento
Vedi anche Tesoro Nascosto.
cristiani
misticismo cristiano
culto (‘ibāda)
cuore (qalb, dīl)
e argilla
maestro del
purezza del
ricordo nel
Daher, Nazih
Danner, Mary Ann Koury
danza
dervisci (darwīsh)
roteanti
dhikr (ricordo)
autorizzazione a praticare il
individuale
Dhū ’l-Nūn al-Miṣrī
digiunare
dimenticanza (nisiyan), vedi ghafla
dī.
Dio, non vi è dio all’infuori di
Vedi anche atti, Allāh, creazione, nomi, shahāda.
discepoli e maestro
discernimento
discorso, divino
di tutte le cose
umano
disposizione originale (fiṭra)
donna
dotti (‘ulamā’)
du’ā’
ebbrezza (sukr)
e sobrietà
ebrei
Ede
ego (nafs)
Vedi anche anima.
elemosina
Ernst, Carl W.
errore (zillat)
escatologia
esistenza (wujūd)
e non-esistenza
circolo dell’
Vedi anche Essere.
esoterismo
essenza (dhāt)
di Dio
Essere (wujūd)
del mondo (kawn)
unicità dell’
Vedi anche esistenza.
esseri umani (insān)
immagine divina (forma)
obiettivi degli
perfetti
potenziale degli
unicità degli
Vedi anche Adamo, disposizione, perfezione.
estasi (wajd)
estinzione (fanā’)
e permanenza
Eva
fachiro (faqīr)
fanā’, vedi estinzione.
faqr
Faraone
fede (īmān)
approcci alla
oggetti di
principî della
Vedi anche iḥsā.
felicità (sa’āda)
e infelicità
Fenice
filosofia (falsafa)
greca
Firdawsī, pseudonimo di Abu al-Qasem Mansur
fiṭra
fondamentalismo
forma (ṣūra) vedi esseri umani.
Foti, Sergio
fuoco vedi terra, paradiso.
Furūzānfar, Badī’ az-Zamān
fuqahā’
Gabriele
ḥadīth di
Gardet, Louis
gentilezza (lutf) e severità
Vedi anche misericordia.
Gesú
ghafla (dimenticanza)
Ghani, Qasim
al-Ghanī
al-Ghazālī, Abū Ḥāmid
al-Ghazālī, Aḥmad
Giacobbe
Giardino, vedi paradiso.
Gibb, Hamilton Alexander Rosskeen
Gilsenan, Michael
Gimaret, Daniel
Giovanni Paolo II, vedi Wojtyła, Karol Józef.
giurisprudenza (fiqh), giuristi (fuqahā’)
e sufismo
Giuseppe
glorificazione (tasbīḥ)
gnosi (ma’arifa)
Guénon, René Jean-Marie-Joseph
guida (huda)
gustare, gusto (dhawq), sapore
Ḥadīth
Hāfez-e Sīrāzī, Khwāja Samsu d-Dīn Muḥammad (detto anche Ḥāfeẓ)
al-Ḥallāj, al-Ḥusayn ibn Manṣūr
Hamadānī, Ayn al-Quḍāt
Ḥamza al-Fanārī, Muḥammad Ibn
ḥaqīqa
ḥaqq
Hikmat, Ali Asghar
ḥijāb
himma
Hoca, Nazif H
Hovannisian, Richard
Ḥudaybiyya
Ḥujwīrī
Huma’j, Jalal al-Din
nafs
ammāra, lawwāma, muṭma’inna
nahī an al-munkar
Naqshbandiyya (confraternita)
Nasr, Sayyed Hossei
al-Nawawi, Cheikh Muhyi al-Din
necessità (niyāz)
Neẓāmī Ganjavī
Nicholson, Reynold Alleyne
al-Niffarī, ‘Abdi ‘l-Jabbār
Ni’matallahi (confraternita)
Noé
nomi, attributi di Dio
due categorie di
onnicomprensivo
piú bei
Vedi anche Adamo, realizzazione.
non-esistenza (adam), vedi esistenza.
Nurbakhsh, Javad
al-Nūrī, Al-Mathnawi
Nwyia, Paul
panteismo
paradiso
come velo
e Adamo
e l’inferno
paradosso
parola di Dio
Vedi anche discorso.
Pārsā, Khwāja Muḥammad
paura (dard)
Patto, vedi alast, Patto di.
peccato
originale
Vedi anche disobbedienza, errore.
Pegno (amāna)
pellegrinaggio (ḥajj)
pentimento (tawba)
Percy, Walker
perdono (maghfira)
perfezione (kamāl)
due tipi di
essere umano perfetto
permanenza (baqā’), vedi estinzione.
perplessità, vedi smarrimento.
persiano
persianizzato
Pir Vilayat Kha
Platone di Atene
poesia
e prosa
possibilità (imkān)
pratica (‘amal), vedi sufismo.
preghiera giornaliera (ṣalāt)
litanie
supplica
Vedi anche dhikr.
presenza (ḥuḍūr) di Dio
principî della fede
profezia (nubuwwa), profeti
il Profeta vedi Muḥammad.
purificazione
del cuore
dell’anima
Qazwini, Muḥammad
Qūnawī, Ṣadr al-Dīn
Qushayrī
Sabagh, George
Sacconi, Carlo
Sa’dī
ṣaḥw
ṣalāt
samā’
Sam’ānī, ‘Abd al-Karīm
Sam’ānī, Aḥmad
Sanā’ī, Ḥakīm
santo (walī)
al-Sarrāj, Abū Naṣr
Satana (Iblīs)
satanico
Scarabel, Angelo
Schimmel, Annemarie
Schuon, Frithjof, filosofo
scienza
sciismo
sé, vedi anima.
segni (ayāt)
e veli
Senegal
sensi percettivi (ḥiss)
sentiero (verso Dio)
stazioni del
Vedi anche viaggio.
separazione, vedi unione.
Serafiele, angelo
servo (‘abd), servitú (‘ubudiyya)
settarismo
severità (qahr)
Sgabello
Shabistarī, Sa’d Ud Din Mahmud
Shādhiliyya ‘Alawiyya, confraternita
shafi’ita
shahāda
come dhikr
come discernimento
Vedi anche Dio.
Shams al-Dīn Tabrīz
sharī’a
shaykh
ṣifāt
significato (ma’nà)
e forma
sii (kūn)
silsila
sincerità (ikhlāṣ)
Siria
sirr
smarrimento (hayra)
Smith, Margaret
Smith, Wilfred Cantwell
sobrietà (ṣaḥw), vedi ebbrezza.
sociale
istituzioni
sottomissione (islām)
Sovranità (malakūt)
speranza e paura
spirito (rūḥ)
divino
Vedi anche corpo, argilla.
spiritualità
stati (aḥwāl)
stazioni (maqamāt)
sufismo
ai giorni nostri
attrazione degli occidentali per il
definizioni
distorsioni
e Islam
il termine
istituzioni del
letteratura del
nome e realtà
obiettivi
ostilità verso il
specificità.
teoria e pratica del
teorie sul
Suhrawardī, Abu ‘l-Najīb
Suhrawardī, Shihāb al-Dīn ‘Umar
sukr
Sulamī
sunna
Vedi anche Muḥammad.
sunnismo
Surur, Tana ‘Abdul
svelamento (kashf), vedi ragione, anima.
ta’alluh
al-Tabrīzī, Muḥammad Ibn ‘Abd Allāh
tadhkīr
taḥaqquq
Tahiri Iraqi, Ahmad
tajallī
tajrīd
takhalluq
talqīn
tanzīh
taqlīd
taqwa
ṭarīqa
taṣawwuf
tashbīh
Tavola
tawḥīd
ta’wīl
tazkiyat
an-nafs
tecnologia
teologia
Vedi anche Kalām.
terra (di Adamo)
contrapposta a fuoco
Tesoro Nascosto
testimonianza (mushāhada)
timore (taqwā)
Tottoli, Roberto
tradizione cumulativa
trascendenza e immanenza
Trimingham, J. Spencer
Trono (di Dio, ‘arsh)
versetto del
Turchia
turco
Tustarī, Sahl ‘Abd Allāh
‘ulamā’
Vedi anche dotti.
umiltà
unicità
attestazione, affermazione dell’unicità di Dio (tawḥīd)
dell’Essere (waḥdat al-wujūd)
e molteplicità
unione (wišāl)
e separazione
unione sessuale
uomo
urì
Urizzi, Paolo
‘Uryabī, Abū ‘l-Abbās
waḥdat al-wujūd
wajd
wajh
Waugh, Earle H.
Wilson, Peter L.
Winter, Michael
Wojtyła, Karol Józef (Giovanni Paolo II), papa
Woodward, Mark R.
wujūd, vedi Essere, esistenza.
Yā Sīn, sūra
yoga
Yunus Emre
zen
zillāt, vedi errore.
Zukovsky, V. A.
Zulaykhā
Il libro
I
L SUFISMO, LA CORRENTE MISTICA DELLA RELIGIONE ISLAMICA, È CELEBRE PER LA SUA
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