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Indice

Copertina
Frontespizio
Prefazione
Nota sulle fonti
Il sufismo
I. Il sentiero sufi
1. Il contesto islamico
2. I tre domini della fede
3. La shahāda
4. Misericordia e collera
5. La teoria sufi
6. La pratica sufi
II. La tradizione sufi
1. Una descrizione funzionale
2. Spettro della teoria e della pratica
3. Il sufismo nel mondo moderno
III. Nome e realtà
1. L’espressione degli insegnamenti sufi
2. Amore divino e amore umano
3. La sobrietà dei nomi
IV. L’autorealizzazione
1. Il sé dell’uomo
2. Il volto permanente
3. La conoscenza profetica
V. Il ricordo di Dio
1. Il dhikr nel Corano e nel Ḥadīth
2. Il dhikr nella tradizione sufi
VI. La via dell’amore
1. La creatività dell’amore
2. Il vero amato
3. La religione dell’amore
VII. La danza senza fine
1. I nomi divini
2. L’ascolto primordiale
3. La perfezione umana
4. L’ascesa dell’anima
5. La musica delle sfere
6. Danzando con Dio
VIII. Immagini di beatitudine
1. La visione di Dio
2. Ricordare Dio
3. Gli svelamento di Dio
IX. La caduta di Adamo
1. Aḥmad Sam’ānī
2. La caduta nel Corano
3. La creazione
4. L’amore
5. Aspirazione e discernimento
6. Povertà e necessità
7. Umiltà
8. Perdono
X. Il paradosso del velo
1. La barriera
2. Il velo secondo al-Niffarī e Ibn ‘Arabī
3. Il velo come volto
Bibliografia
Elenco degli aḥādīth e dei detti
Elenco dei nomi e dei termini
Il libro
L’autore
Copyright
William C. Chittick

Il sufismo
A cura di Francesco Alfonso Leccese
Prefazione

Ho iniziato i miei studi sul sufismo, da studente universitario, oltre


trent’anni fa. Allora erano in pochi ad averne sentito parlare, e io ero
continuamente costretto a spiegare cosa fosse il sufismo (o cosa io
pensavo che fosse). Oggi sembra che tutti lo conoscano, e il termine è
citato nei quotidiani, in romanzi di successo e nei film commerciali.
Ancora, a quei tempi Rūmī era a stento conosciuto al di fuori dei
corsi di studi universitari sul Medio Oriente, mentre oggi le sue opere
di poesia si trovano in qualsiasi libreria e sono recitate in televisione
da personaggi famosi. I «dervisci roteanti» erano un retaggio esotico
dei racconti dei viaggiatori del XIX secolo, mentre oggi la «danza sufi»
si può imparare nei centri benessere e nei circoli New Age. Tutta
questa recente popolarità potrebbe indurci a concludere che oggi il
sufismo è conosciuto molto meglio di quanto non lo fosse trent’anni
fa, ma non è esattamente cosí, benché il nome, allora inconsueto,
oggi suoni sicuramente piú familiare. L’ondata di pubblicazioni sul
sufismo degli ultimi anni ha messo a disposizione una gran quantità di
informazioni, eppure, in un certo senso, ha accresciuto la confusione
sull’argomento. I testi accademici sono troppo tecnici e specialistici
per risultare utili a chi si accosta per la prima volta allo studio del
sufismo, e gli ancor piú numerosi libri scritti dagli entusiasti del
sufismo o da maestri sufi presentano punti di vista radicalmente
diversi sulla sua realtà. Gli studiosi impongono i propri schemi
concettuali dall’esterno, mentre gli entusiasti guardano alla tradizione
dal punto di vista privilegiato di chi è all’interno, limitato però a talune
ramificazioni contemporanee del sufismo. In questo libro ho cercato di
trovare una via di mezzo tra oscurità accademica ed esaltazione
fanatica.
La tradizione sufi è fin troppo ampia e diversa per tentare
un’esposizione esaustiva di tutto ciò che essa comprende, ma pochi
possono negare che vi siano dei temi comuni alle varie tendenze.
Cercando di fornire una descrizione oggettiva della tradizione, ho
seguito una via di mezzo tra genericità e specificità. In ogni capitolo
ho esaminato il sufismo rispetto a un tema, e in ciascuno ho cercato di
mostrare come gli insegnamenti basilari, in circostanze differenti,
compaiano secondo modalità diverse 1. Ho presentato un numero
piuttosto ampio di traduzioni dai testi piú importanti, perché ogni
tentativo di comprendere il sufismo nel suo contesto richiede l’analisi
delle modalità attraverso le quali esso si è espresso, e non
semplicemente le interpretazioni formulate secondo una prospettiva
contemporanea.
Il mio obiettivo principale è far sí che la tradizione parli da sé.
Sebbene tale impresa sia quasi impossibile, il tentativo può aiutare a
contraddistinguere questo libro da altri testi di introduzione al sufismo
disponibili in lingua inglese. Scelgo qui come mio mentore ‘Abd al-
Raḥmān Jāmī (morto nel 1492), che nell’introduzione al suo celebre
classico del sufismo, Lawā’iḥ, («Frammenti di luce») 2 scrive:

Mi auguro che nessuno scorga tra le righe colui che si è avventurato in questo
commento, o avanzi critiche e proteste, perché l’autore non ha altra funzione che
quella del traduttore e altro ruolo se non quello dell’interprete 3.

1. I dieci saggi che compongono il presente volume hanno avuto una precedente versione,
ma sono stati riscritti totalmente e risultano, di fatto, un’opera nuova.
2. Per la traduzione italiana si segnala ‘ABD AL-RAḤMĀN JĀMĪ , Frammenti di luce. Lawā’iḥ,
traduzione dal persiano, introduzione e note di S. Foti, Libreria Editrice Psiche, Torino 1998
[N. d. C.].
3. Ibid., introduzione. Questo libro fu tradotto in inglese all’inizio del XX secolo. Si veda la mia
nuova traduzione in s. murata, Chinese Gleams of Sufi Light, Suny Press, Albany 2000.
Nota sulle fonti

Questo libro si basa su alcune fonti originali in lingua araba e


persiana. L’arabo è una lingua semitica, sorella dell’ebraico e
dell’aramaico, ed è la lingua piú importante della civiltà islamica.
L’arabo letterario fu fissato nella sua struttura attuale dopo la
rivelazione del Corano, nel VII secolo, e comprende una vasta
letteratura sufi, gran parte della quale scritta da autori le cui lingue
madri erano il persiano, il turco, o uno dei tanti altri idiomi parlati dai
musulmani. Per quanto riguarda il persiano, si tratta di una lingua
indoeuropea, come l’inglese e il sanscrito. Esso acquistò la sua
struttura definitiva sotto l’influenza della cultura islamica, nei secoli IX
e X , e per questo presenta numerosi termini arabi. Il persiano ha
rivaleggiato con l’arabo come lingua piú importante della civiltà
islamica, dovunque essa si diffondesse, dalla Turchia alla Cina, ma
soprattutto nel subcontinente indiano.
Gli autori sufi hanno un ruolo piú rilevante nella lingua persiana che
non in quella araba, se non altro perché molti dei piú grandi poeti
persiani furono impregnati di cultura sufi. Basti menzionare Sanā’ī,
Neẓāmī, ‘Aṭṭār, Rūmī, Sa’dī e Ḥāfeẓ – verosimilmente i sei piú grandi
poeti di una delle piú importanti tradizioni letterarie del mondo.
Porterò citazioni dal Corano, dal Ḥadīth (il corpus di detti attribuiti
al profeta Muḥammad) e dagli scritti di molti maestri sufi, dai tempi
piú antichi fino a Jāmī, nel XV secolo. Non ho dimenticato che la
tradizione sufi ha continuato a fiorire in epoca moderna e che altre
lingue islamiche hanno molto da offrire. È tuttavia necessario fissare
dei limiti e i maestri sufi che menzionerò rappresentano la
formulazione classica degli insegnamenti che hanno dato un’impronta
duratura alla tradizione. Farò del mio meglio per non sommergere i
lettori con nomi insoliti e termini sconosciuti. Per quanto riguarda le
citazioni del Corano, si indicheranno semplicemente tra parentesi
capitolo e versetto. Nelle citazioni dai testi sufi, i versetti coranici
saranno evidenziati in corsivo, in modo da evitare un uso eccessivo
delle virgolette e tentare di riprodurre la sensazione del lettore davanti
al testo originale. Tutte le traduzioni sono state curate personalmente
da me.
IL SUFISMO
Nota del curatore.
Per quanto riguarda le citazioni presenti nel testo, si è preferito tradurle dalla versione
inglese riportata da C. W. Chittick anche quando già esistono delle traduzioni italiane.
Per la traduzione dei versetti del Corano si è fatto riferimento, salvo i casi in cui il contesto
richiedeva diversamente, a quella curata da Alessandro Bausani (Il Corano, Sansoni, Firenze
1955).
Capitolo primo
Il sentiero sufi

Piú di mille anni fa un maestro di Būshanj, nella Persia orientale,


chiamato ‘Alī il figlio di Aḥmad, si rammaricava che poche persone
avessero una qualche idea di cosa fosse il «sufismo». «Oggi», disse,
parlando in arabo, «il sufismo è un nome senza una realtà, mentre
una volta era una realtà senza nome».
In Occidente oggi il nome è piú conosciuto, ma la sua realtà è
diventata ancor piú oscura di quanto non lo fosse mai stata nel mondo
islamico. Il nome costituisce un’utile etichetta, ma la realtà non può
essere trovata nelle definizioni, nelle descrizioni e nei libri. Se ci
mettessimo in cerca della realtà, dovremmo sempre tenere a mente
che la linea di demarcazione tra i nostri tempi e quelli di ‘Alī ibn
Aḥmad Būshanjī – quando le varie manifestazioni che si sarebbero
chiamate «sufismo» stavano appena iniziando ad avere un’influenza
nella formazione della società islamica – è talmente netta e profonda
che potrebbe essere impossibile perfino riuscire a ritrovarne la piú
labile traccia.
Una facile scappatoia per evitare di cercare la realtà del sufismo
potrebbe essere quella di chiamarlo con un altro nome. Sentiamo
spesso dire che il sufismo è «misticismo» o «esoterismo» o, ancora,
«spiritualità», di solito con l’aggiunta dell’aggettivo «islamico». Queste
definizioni possono aiutare a orientarsi, ma sono in verità troppo
generiche e restrittive per designare i diversi insegnamenti e i
fenomeni che nel corso della storia sono stati identificati con il
sufismo. Esse possono tutt’al piú alludere alla realtà che intendeva
Būshanjī e potrebbero essere piú d’ostacolo che d’aiuto, perché
incoraggiano a inquadrare con leggerezza il sufismo nella categoria
che ci fa piú comodo. Affinché sia giustificato l’uso di uno di questi
nomi alternativi, dovremmo fornire una definizione e un’analisi
accurate e dettagliate del nuovo termine, e i tre che ho citato sono
palesemente vaghi. Se pure fossimo in grado di fornire una definizione
adeguata, dovremmo ancora spiegare perché proprio questa è adatta
per «sufismo».
Saremmo portati a una ricerca, fra scritti di accademici e di autori
sufi, di ciò che potrebbe giustificare la nostra definizione e coglierne la
realtà, ma non ci avvicineremmo alla realtà di cui parlava Būshanjī.
Piuttosto che addomesticare il sufismo attraverso una definizione piú
familiare, dovremmo sin dall’inizio riconoscere che c’è qualcosa nella
tradizione sufi che sfugge a ogni forma di definizione. Potrebbe essere
utile suggerire una parentela del sufismo con altre tradizioni – la
cabala, il misticismo cristiano, lo yoga, il vedanta o lo zen – ma questo
accostamento non ci aiuterebbe necessariamente a comprenderlo
meglio.
Esaminando la parola araba ṣūfī, da cui deriva sufismo, ci rendiamo
conto che questo termine già nel mondo islamico ha un significato
controverso. Infatti, per quanto ampiamente utilizzata in diverse
lingue, di solito quella parola non aveva il significato preciso che ha
assunto oggi. Il suo elevato profilo attuale si deve principalmente agli
scritti degli studiosi occidentali. Come Carl Ernst ha fatto notare nella
sua eccellente introduzione, alla parola «sufismo» hanno dato risalto
non tanto i testi islamici, quanto piuttosto gli orientalisti britannici, che
avevano bisogno di un termine per quegli aspetti della civiltà islamica
che essi trovavano affascinanti e congeniali e che evitasse gli
stereotipi negativi associati con la religione dell’Islam – stereotipi che
essi stessi avevano diffuso 1.
Nei testi islamici non c’è accordo su cosa significhi la parola ṣūfī, e i
vari autori hanno spesso discusso sia del suo significato sia della
legittimità del suo utilizzo. Coloro i quali hanno adoperato il termine in
un’accezione positiva lo hanno associato a una vasta gamma di idee e
di concetti che hanno a che vedere con il raggiungimento della
perfezione umana attraverso l’imitazione del modello del Profeta
Muḥammad. Quelli che lo hanno usato in un’accezione negativa lo
hanno associato alle varie deformazioni degli insegnamenti dell’Islam.
La maggior parte degli autori musulmani che vi ha fatto ricorso ha
assunto una posizione piú sfumata, non accettandolo appieno, ma
neppure disapprovandolo.
Gli studi moderni sul sufismo riflettono le divergenze di opinione sul
termine incontrate nei testi piú antichi. Gli studiosi non concordano sul
suo significato, e dai loro scritti si possono ricavare moltissime
definizioni e descrizioni. Non aggiungerò altra confusione proponendo
una mia definizione, ma utilizzerò il termine cosí com’è, perché mi
sembra meno inadeguato rispetto alle sue alternative. Il mio obiettivo,
tuttavia, sarà quello di arrivare alla realtà che è dietro al nome, per
fornire una serie di suggerimenti.

1. Il contesto islamico.

Non è raro incontrare in Occidente persone che abbiano familiarità


con alcuni insegnamenti e pratiche sufi, ma che ignorano, o che
negherebbero, la minima relazione tra sufismo e Islam. Ci sono libri
che entusiasticamente esaltano il sufismo come sorgente purissima di
spiritualità e di bellezza, ma che allo stesso tempo giudicano l’Islam,
se pure ne fanno cenno, secondo gli stereotipi che hanno ossessionato
l’Occidente sin dal Medioevo. Questa visione invalsa del sufismo è
stata rafforzata dall’ostilità che in epoca moderna molti musulmani
hanno mostrato nei suoi confronti. Il grande storico della civiltà
islamica Hamilton A. R. Gibb osservava cinquant’anni fa che questi
musulmani vedevano nel sufismo sia una «sopravvivenza di
superstizioni» sia un’«arretratezza culturale», o una deviazione dal
«vero Islam». Gibb era sufficientemente attento alla realtà del sufismo
da capire che tali atteggiamenti sembravano diretti a «eliminare
l’espressione di un’autentica esperienza religiosa» dal mondo
islamico 2.
In breve, sono molti, tra i musulmani e tra i non musulmani, a
considerare il sufismo estraneo all’Islam, in qualunque modo questi
due termini vadano intesi. Tuttavia, quei primi maestri che nel IX
secolo (III secolo del calendario islamico) sarebbero stati indicati come
sufi hanno sempre sostenuto fin dall’inizio di rappresentare il cuore e il
midollo della tradizione islamica. Il mio compito principale è quello di
far luce sul loro punto di vista. Quale ruolo essi assegnarono al
sufismo all’interno dell’Islam? Questa domanda non è cosí irrilevante
come alcuni potrebbero pensare, perché la maggior parte di coloro
che oggi rappresentano la tradizione sufi – per lo meno all’interno
dello stesso mondo islamico – ha conservato la stessa conoscenza.
I testi piú antichi offrivano un gran numero di definizioni per le
parole «sufi» e «sufismo», proprio come molte definizioni venivano
date per parecchi altri termini tecnici associati agli stessi maestri 3.
Potremmo partire da una o piú di queste definizioni, ma è forse piú
utile ricordare che Gibb era sulla strada giusta quando individuò nel
sufismo «un’autentica esperienza religiosa». In altre parole, i primi
maestri sufi ritenevano di rappresentare lo spirito animatore della
tradizione islamica. Dal loro punto di vista, ovunque fiorisca questo
spirito, l’Islam mantiene i suoi ideali spirituali e morali, ma laddove
esso langue, l’Islam diventa arido e sterile, se mai sopravvive. Questa
identificazione del sufismo con lo spirito dell’Islam è adombrata in un
famoso detto del Profeta, conosciuto come «il ḥadīth (pl. aḥādīth) di
Gabriele». Riflettere sul contenuto di questo detto può essere d’aiuto
per inquadrare la realtà del sufismo rispetto ad altre realtà, alle quali
sono stati dati nomi diversi nel corso della storia islamica.
Secondo questo ḥadīth, il Profeta era seduto con alcuni suoi
compagni quando apparve un uomo che gli rivolse varie domande.
Dopo che questi si fu allontanato, il Profeta spiegò ai suoi compagni
che si trattava in realtà dell’arcangelo Gabriele, il quale era venuto a
insegnare loro la loro religione (dīn). Dalle domande di Gabriele e
dalle risposte del Profeta si può comprendere che la religione islamica
ha tre dimensioni naturali. Chi ha familiarità con il Corano, fonte degli
insegnamenti islamici, vi riconoscerà alcuni temi coranici ricorrenti,
sebbene in nessuna parte del testo sacro ne venga data una
spiegazione cosí chiara e precisa. Le tre dimensioni dell’Islam sono la
«sottomissione» (islām), la «fede» (īmān), e «il praticare il bene»
(iḥsān) 4.
Il Profeta spiegò che per islām si intendeva «testimoniare che non
c’è divinità all’infuori di Dio e che Muḥammad è il Suo inviato, recitare
le preghiere giornaliere, elargire l’elemosina rituale, digiunare durante
il mese di ramaḍān e compiere il pellegrinaggio alla Mecca qualora se
ne possiedano i mezzi». Spiegò poi che l’īmān consisteva nell’«aver
fede in Dio, nei Suoi angeli, nei Suoi libri, nei Suoi inviati, nel giorno
del giudizio e nella predestinazione del bene e del male». Infine,
spiegò che l’iḥsān significava «adorare Dio come se Lo si vedesse, che
quand’anche non Lo si vede, nondimeno Egli vede noi».
I primi due gradi, islām e īmān, sono noti a tutti gli studenti
dell’Islam. Essi corrispondono ai «cinque pilastri» della religione e ai
suoi «tre principî», ovvero alla pratica e alla fede, cioè la sharī’a (la
legge rivelata) e gli insegnamenti dottrinali. I «cinque pilastri»
consistono nella testimonianza di fede, nella recitazione delle
preghiere giornaliere, nell’elemosina rituale, nel digiuno (ṣawm)
durante il mese di ramaḍān e nel pellegrinaggio alla Mecca. I «tre
principî» consistono nell’affermazione dell’unicità divina (tawḥīd), della
profezia e dell’escatologia. Ciò che si deve sottolineare è che il terzo
grado menzionato nel racconto – l’iḥsān – secondo il Profeta è
importante quanto gli altri due, ma il suo significato non è altrettanto
chiaro.
L’iḥsān non è fra i temi dibattuti dagli studiosi islamici che si fanno
sentire di piú, vale a dire i giuristi (fuqahā’). Per loro stessa
ammissione, costoro limitano il proprio campo di studio alla sharī’a,
che definisce i cinque pilastri e le altre pratiche che i musulmani sono
tenuti a seguire. L’iḥsān non viene preso in esame neppure da un
secondo, influente, gruppo di studiosi, i teologi (mutakallimūn), che
sono gli esperti nella scienza del Kalām o teologia dogmatica 5. Il loro
principale interesse è quello di formulare e di difendere gli
insegnamenti dottrinali, i quali fissano e chiariscono il significato dei
tre principî. Né l’una né l’altra di queste scuole di pensiero –
rappresentate rispettivamente dai giuristi e dai teologi – ha interesse
o competenza per occuparsi dell’iḥsān, per cui perderemmo il nostro
tempo se leggessimo i loro libri cercandovi una spiegazione. Sono i
sufi a considerare l’iḥsān come il proprio dominio particolare.
Per comprendere perché i grandi maestri sufi considerassero se
stessi dei veri musulmani, profondamente attenti a tutto ciò che Dio e
Muḥammad avevano chiesto agli esseri umani, è necessario capire la
logica della suddivisione in tre dimensioni della tradizione islamica, e il
ruolo particolare esercitato dall’iḥsān.
Al livello piú esteriore l’Islam è una religione che dice alla gente
cosa fare e cosa non fare. Le pratiche giuste e quelle sbagliate sono
descritte e codificate dalla sharī’a, che è la sintesi di una legge precisa
basata esclusivamente sugli insegnamenti coranici e sull’esempio del
Profeta, ma adattati e ridefiniti da generazioni di studiosi. La sharī’a
corrisponde al «corpo» dell’Islam, perché indica quali tra le azioni
compiute con il corpo sono lecite e perché preserva la vita e la
conoscenza della tradizione.
A un livello piú profondo, l’Islam è una religione che insegna a
comprendere il mondo e se stessi. Questa seconda dimensione
corrisponde alla mente. Tradizionalmente è stata chiamata «fede»,
perché i suoi punti di riferimento sono gli oggetti cui è collegata la
fede – Dio, gli angeli, le scritture, i profeti, e cosí via. Essi vengono
citati di continuo nel Corano e nella sunna 6, e lo studio della loro
natura e della loro realtà è diventato competenza di diverse discipline,
come il Kalām, la filosofia e il sufismo teoretico. Ogni serio tentativo di
analizzare questi oggetti nel loro insieme non può fare a meno di
indagare sui piú profondi quesiti riguardanti la condizione umana. I
grandi filosofi, i matematici, gli astronomi e i fisici dell’Islam, che sono
stati studiati e ammirati da molti storici occidentali, erano esperti in
questa dimensione della religione. Allo stesso modo anche i sufi piú
celebri erano profondamente impregnati di questa conoscenza
teoretica degli oggetti della fede.
Al livello piú profondo, l’Islam è una religione che insegna a
trasformare se stessi in maniera tale da raggiungere l’armonia con
l’intero creato. Né l’azione, né la comprensione, né tutte e due insieme
sono umanamente sufficienti. L’azione e la comprensione devono
essere focalizzate in modo da generare bontà e perfezione. Questa
bontà è inerente e intrinseca alla natura umana originale (fiṭra), creata
a immagine di Dio. Se la prima dimensione dell’Islam riguarda le
azioni che debbono essere compiute nel rapporto con Dio e con gli
altri esseri umani, e la seconda la nostra comprensione di noi stessi e
degli altri, la terza indica la via per avvicinarsi a Dio. Coloro che sono
dotati di sensibilità religiosa riconosceranno immediatamente nelle
espressioni usate per esaminare gli aspetti fondamentali di questa
terza dimensione il cuore stesso della religione. Questi termini sono
sincerità, amore, virtú e perfezione.

2. I tre domini della fede.

Il ḥadīth di Gabriele affronta il tema dell’īmān o «fede» in relazione


ai suoi obiettivi, che precisano i punti di riferimento necessari per
comprendere la natura delle cose. In un altro ḥadīth il Profeta spiegò
significato della parola īmān. «La fede, – egli disse, – è attestare con il
cuore, esprimersi con la lingua e agire con le membra» 7. Questo
ḥadīth suggerisce che gli esseri umani sono formati da tre domini in
un preciso ordine gerarchico: il cuore, ovvero la conoscenza piú
profonda; la lingua, vale a dire l’articolazione della comprensione; e le
membra, ovvero le parti del corpo. Questi tre domini sono distinti ma
strettamente collegati. In quanto distinti, essi sono stati studiati da
discipline diverse e giudicati secondo differenti criteri.
«Agire con le membra», o «mettere in pratica la fede» è il dominio
della giurisprudenza. È in questo ambito che gli uomini «si
sottomettono» al volere di Dio, obbedendo agli ordini stabiliti dalla
sharī’a.
«Esprimersi con la lingua» è il dominio dell’espressione della fede
attraverso la chiara consapevolezza di se stessi, ovvero mediante il
ragionamento. Gli esseri umani si distinguono dagli altri animali
proprio per l’uso della parola, che esprime e comunica la
consapevolezza nascosta nelle profondità del cuore. In quanto
dominio della comprensione, l’attestazione della fede fu propria di
quegli studiosi musulmani che si sforzarono di individuare gli
strumenti migliori per comprendere Dio, l’universo e l’animo umano.
Infine, «attestare con il cuore» significa riconoscere la verità e la
realtà degli oggetti della fede nell’ambito piú profondo della
consapevolezza umana. «Cuore» nel linguaggio coranico indica il
centro della vita, la coscienza, l’intelligenza e l’intenzionalità. Il cuore è
consapevole e cosciente ancor prima che la mente articoli il pensiero,
cosí come esso pulsa prima ancora che il corpo agisca. Il nucleo piú
intimo della fede si può trovare solo nel cuore. Il Profeta sembra
alludere a questo nucleo quando dice: «La fede è una luce che Dio
infonde nel cuore di chiunque Egli voglia».
La definizione della fede secondo tre distinti livelli data dal Profeta
indica gli stessi tre domini del ḥadīth di Gabriele: corpo, lingua e
cuore; ovvero azione, pensiero e conoscenza. L’ambito del corpo è
definito dalla sharī’a, quello della lingua dalla teologia (nei suoi vari
aspetti, non solo dal Kalām), e quello del cuore è associato con il
praticare il bene fin nel profondo della propria anima. Per raggiungere
l’ultimo dominio il cuore deve essere radicato nella conoscenza della
verità e della realtà in modo precognitivo. Le buone azioni devono
sgorgare dalle profondità del cuore in maniera spontanea, ancor prima
di articolare il pensiero e di metterlo in pratica con l’azione. Man mano
che procederemo, parleremo piú diffusamente di ciò che questo
implica: qui abbiamo soltanto il primo dei suggerimenti.
In breve, la tradizione islamica individua nella religiosità tre domini
fondamentali: quello del corpo, quello della lingua e le profondità
dell’anima, che sono rispettivamente i domini del giusto agire, del
giusto pensare e del giusto discernere. L’ultimo consiste in un’intima
consapevolezza della realtà delle cose, inscindibile dal nostro modo di
essere nel mondo. Questi tre domini possono anche essere definiti
perfezione delle azioni, perfezione della comprensione e perfezione
interiore. Tutti e tre sono intesi e concettualizzati come ideali che
devono essere realizzati per essere all’altezza delle potenzialità donate
agli esseri umani da Dio quando creò Adamo a Sua immagine e
somiglianza. Questi tre domini sono stati oggetto di attenti studi da
parte di autorevoli musulmani – che sarebbero divenuti celebri come
«i dotti» (‘ulamā’). Il dominio del giusto agire era di competenza dei
giuristi, quello del giusto pensare dei teologi e quello del giusto
discernere dei sufi. Questi ultimi amano citare il detto del Profeta: «O
Dio, mostraci le cose come esse sono realmente». Non si vedono le
cose come sono realmente con gli occhi o con la mente, ma piuttosto
con la parte piú intima del cuore. Dal cuore si sprigionerà il giusto
discernimento ed esso impregnerà ogni poro del corpo, determinando
il pensiero e l’azione.

3. La «shahāda».
In questo quadro sintetico dei fondamenti dell’Islam è importante
notare il ruolo basilare assegnato alla duplice shahāda o
«testimonianza di fede». Essa ha lo scopo di attestare che «non vi è
dio all’infuori di Dio» e che «Muḥammad è il Suo inviato». La shahāda
fornisce la chiave per comprendere il punto di vista islamico in tutti i
domini a cui abbiamo fatto riferimento.
Nella definizione di «sottomissione», la shahāda è al primo posto,
essendo il primo atto che si richiede ai musulmani. Con l’attestazione
verbale dell’esistenza di Dio e della missione profetica di Muḥammad,
il credente impone a se stesso anche gli altri quattro pilastri e la
sharī’a. La shahāda definisce anche il contenuto della fede, il cui
elemento principale è rappresentato dalla fede in Dio. La natura del
Dio in cui i musulmani credono è definita in maniera incisiva nella
prima parte della shahāda, mentre tutti gli oggetti della fede sono
concettualizzati contestualmente nella seconda parte, che sottolinea la
preminenza del messaggio e del messaggero.
Infine, è impossibile comprendere cosa implichi «il praticare il
bene» se non si conosce la natura degli esseri umani, e anche questa
conoscenza scaturisce dalla shahāda. Conoscere la realtà degli esseri
umani significa sapere come Dio interferisce nella condizione degli
uomini, perché l’immagine umana di Dio non può essere compresa
indipendentemente dall’oggetto che essa riflette. La bontà e la
perfezione a livello umano possono essere raggiunte soltanto
riferendosi a Dio da un lato, e dall’altro a coloro che l’hanno già
raggiunta, cioè i profeti, e in particolare Muḥammad. Il
raggiungimento è necessario per realizzare l’immagine divina innata
nell’anima, che dipende dal mettere in pratica la shahāda.
Tutte e tre le dimensioni dell’Islam sono state presenti ovunque vi
siano stati dei musulmani. Non si può praticare seriamente la propria
religione senza impegnarsi con il corpo, con la mente e con il cuore,
cioè con le proprie azioni, con i propri pensieri e con il proprio essere.
Ma queste dimensioni si sono differenziate storicamente in varie
forme, la cui diversità ha molteplici cause, a proposito delle quali gli
storici hanno scritto un numero infinito di libri. Dopotutto stiamo
parlando del modo in cui i musulmani praticano la loro religione,
concettualizzano la loro fede e la loro comprensione delle cose ed
esprimono la loro ricerca spirituale per avvicinarsi a Dio. Stiamo
parlando cioè di varie ramificazioni della legge islamica e di istituzioni
di governo, di diverse scuole di pensiero che studiano la natura di Dio
e l’anima umana, e delle numerose organizzazioni che guidano i fedeli
lungo il sentiero della via spirituale e prestano attenzione alle loro
esperienze, profondamente differenti, della presenza divina. A queste
diverse espressioni dell’Islam, che hanno subito profondi mutamenti a
livello storico e geografico, sono stati dati vari nomi nel corso della
storia islamica. Tutta la questione è diventata molto piú complessa a
causa delle ricerche degli studiosi moderni, i quali hanno avuto i loro
programmi, le loro agende di lavoro, i loro obiettivi e hanno adottato
diversi schemi interpretativi nel loro tentativo di comprendere la storia
islamica in termini moderni.
In breve, l’Islam, come tutte le grandi religioni, abbraccia l’intera
gamma degli interessi e delle azioni umane, e l’approccio islamico si è
manifestato nel corso della storia in una grande varietà di forme e di
istituzioni. Contrariamente agli stereotipi moderni, l’Islam ha una
particolare propensione per la pluralità d’espressione. In parte ciò si
deve al fatto che non esiste un’autorità centrale paragonabile al clero
o alla Chiesa cattolica. Anzi, la civiltà islamica ha dato vita a una
varietà di forme istituzionali che si sono sviluppate e si sono estinte, e
tutte hanno trasmesso e insegnato la pratica, la comprensione e la
spiritualità.
Man mano che l’Islam ha assunto le sue specifiche connotazioni
storiche con la codificazione di insegnamenti e pratiche e la
costituzione di istituzioni sociali, le tre dimensioni indicate dal ḥadīth di
Gabriele hanno dato vita nella società ad aspetti relativamente diversi,
anche se strettamente connessi, della civiltà islamica. Tuttavia,
praticare il bene rimase un intangibile esercizio interiore. A livello
individuale questa terza dimensione era presente nel cuore di tutti
quei musulmani che praticavano la religione soltanto per amore di Dio.
Nella sfera sociale essa ha avuto la sua espressione piú evidente nella
vita di coloro che chiamerei «sufi», sebbene molti di quelli che
rivendicarono per sé questa definizione non erano degni dell’ideale
sufi, e molti che in realtà ne erano degni la rifiutarono.
Il sufismo in questo senso può essere visto come un’invisibile
presenza spirituale che anima tutte le autentiche espressioni
dell’Islam. Le varie forme storiche in cui esso si è manifestato aiutano
a dimostrare che questa dimensione della religione ha continuato a
rappresentare un ideale di importanza fondamentale. Nondimeno, la
difficoltà di raggiungere la perfezione a livello umano ha significato
che gli individui e le istituzioni storicamente collegate con il nome non
possono necessariamente essere indicate come espressioni della vera
natura del sufismo. Gli stessi sufi sono sempre stati consapevoli del
pericolo di degenerazione e di corruzione insito nel tentativo di
adattare delle istituzioni sociali a ideali che possono essere realizzati
solo da individui eccezionali. Quando Būshanjī diceva che il sufismo
era un nome senza realtà, si riferiva a questi tentativi inadeguati di
codificare e istituzionalizzare il cuore della tradizione.

4. Misericordia e collera.

I maestri sufi hanno spesso spiegato la funzione del sufismo nel


tawḥīd, l’attestazione dell’unità di Dio espressa nel modo piú sintetico
nella prima parte della shahāda, lā ilāha illā Allāh, «non vi è dio
all’infuori di Dio». Creando l’universo, Dio fa sí che la molteplicità
nasca dall’unità. Egli mostra le potenzialità dell’esistenza che i suoi
«nomi e attributi» (asmā’ wa ṣifāt) sottintendono in un universo
infinito. Le creature di questo universo rendono manifesta la natura
del loro Creatore. L’incredibile diversità della creazione rivela l’illimitato
potere creativo di Dio. Ogni opposizione e contrasto esprime l’infinita
gamma delle perfezioni di Dio e il fatto che la ricchezza della realtà
divina può apparire soltanto al di fuori di se stessa, in un dominio di
diversità e dispersione senza fine. Le cose contrastanti e conflittuali
del mondo non possono mai raggiungere la pace e la quiete del
divino, l’unico ambito in cui gli opposti coincidono. Molti sufi
restringono gli archetipi basilari di tutta la pluralità e molteplicità a due
attributi divini, bellezza e maestà, o misericordia e collera, o gentilezza
e severità. I segni della misericordia e della collera nella creazione
possono essere illustrati secondo il simbolismo dello yin-yang. Proprio
come non c’è un puro yin o un puro yang (cosí come sono
rappresentati dal punto nero nella metà bianca e dal punto bianco
nella metà nera), allo stesso modo non esistono pura misericordia o
pura collera nel dominio del creato. Ovunque la misericordia riveli i
suoi segni e le sue tracce nella creazione, vi saranno anche
manifestazioni della collera, e viceversa. Nel mondo, come sappiamo
per esperienza, certe cose mostrano l’attributo della collera piú
direttamente, mentre altre sono dominate dalla misericordia. In
generale, le cose che appartengono ai domini esteriori e materiali
tendono a esprimere la collera, mentre piú ci avviciniamo al mondo
spirituale, piú ci accostiamo alla pura misericordia. Come afferma
Rūmī: «Questo mondo è la casa della severità di Dio» 8, il che significa
che l’altro mondo è la casa della gentilezza e della misericordia divina.
Dato che la collera di Dio è associata alla distanza di questo mondo
da Lui, essa è anche strettamente associata alla sharī’a, che attiene al
dominio umano piú esteriore, quello delle attività del corpo. Tuttavia
la collera che mostra il suo volto nella sharī’a deriva dalla misericordia
di Dio e riconduce a quest’ultima. Sebbene la misericordia e la collera
abbiano in questo mondo una specie di relazione yin-yang, esse non
hanno lo stesso peso presso Dio.
Secondo un famoso detto del Profeta la misericordia di Dio ha la
precedenza sulla Sua collera, il che significa che la natura essenziale di
Dio è misericordia e gentilezza, e che la collera e la severità attengono
al dominio delle cose create. Il carattere piuttosto severo e minaccioso
della sharī’a, che esige dai fedeli il rispetto delle prescrizioni per non
patire le pene dell’inferno, mostra la maestà e la severità di Dio,
mentre nascosta c’è la promessa della misericordia preminente. Tutto
è nato dalla misericordia, e tutto, alla fine, tornerà a essa.
Una volta che vediamo il parallelo tra la sharī’a e la maestà e la
collera divine, è facile scorgere la relazione tra la perfezione spirituale
perseguita dai sufi e la misericordia, la gentilezza e la bellezza divine.
Qui anche l’amore, centrale per esprimere gli insegnamenti sufi, ha un
suo ruolo. La connessione della misericordia con l’amore è ovvia
soprattutto a livello teologico, in quanto sia la misericordia sia l’amore
sono ritenuti causa della creazione. Secondo il grande teoretico sufi
Ibn ‘Arabī (m. 1240), la misericordia divina, che dà origine
all’universo, è essa stessa esistenza. Il solo atto di dare esistenza alle
cose è un atto di gentilezza e di bontà. Lo stesso punto è trattato in
termini di amore in un detto frequentemente citato nei testi sufi: «Ero
un Tesoro Nascosto, – dice Dio, – cosí ho desiderato essere
conosciuto. Ho quindi creato le creature affinché potessero
conoscermi».
La misericordia e l’amore di Dio danno origine al mondo, ma c’è
una differenza importante tra i due attributi. La misericordia fluisce in
un’unica direzione, da Dio verso il mondo, mentre l’amore si muove in
entrambe le direzioni. Gli esseri umani possono amare Dio, ma non
possono nutrire nei Suoi confronti sentimenti di misericordia, che
possono rivolgere soltanto verso le altre creature. Quando i sufi
dicono che l’amore di Dio per la creazione dà origine all’universo,
subito aggiungono che il corrispondente amore umano per Dio annulla
la distanza tra Dio e le Sue creature. L’amore umano si rende
manifesto attraverso la sincerità della devozione verso un Unico Dio.
Piú grande è l’amore, piú elevato è il grado di partecipazione
all’immagine divina, e piú alto il grado di perfezione umana raggiunto.
Per questo motivo «amore» è sempre utilizzato come sinonimo di
«praticare il bene».
Le contrastanti enfasi teoretiche e pratiche delle tre dimensioni
dell’Islam aiutano a capire come gli occidentali possano
contemporaneamente sentirsi attratti dal sufismo e provare repulsione
per l’«Islam». Tali persone, ovviamente, non hanno alcuna
conoscenza dell’Islam se non attraverso gli stereotipi che sono stati
trasmessi dal Medioevo, oppure lo identificano con la sharī’a, o ancora
con i vari movimenti politici e sociali presenti nel mondo musulmano
contemporaneo. Fin tanto che la loro conoscenza è limitata alla sharī’a
e agli aspetti piú esteriori della vita e della civiltà islamica, essi
rimangono disgustati dall’inflessibilità e severità della collera divina. Al
contrario, il sufismo – le cui espressioni caratteristiche si trovano nella
bellezza, nell’amore, nella poesia e nella musica – illustra la
dimensione della bellezza e della misericordia divine. Quando Gibb
scrive che «l’elemento estetico svolge nel sufismo un ruolo che
sarebbe difficile enfatizzare eccessivamente» 9, egli si riferisce al
riconoscimento dell’importanza della bellezza e dell’amore come segno
distintivo della tradizione sufi.
Quando gli occidentali guardano all’Islam per la prima volta, spesso
si sentono come nel deserto, lasciati fuori dalle mura austere di una
città che emana odore di morte. Al contrario, quando vengono
condotti verso il sufismo, entrano in giardini deliziosi, nascosti dai muri
che circondano le abitazioni arabe tradizionali. In una comunità
islamica vivente, le mura proteggono il giardino dai venti del deserto e
dagli occhi degli estranei, ma il giardino e il calore umano al loro
interno sono la ragione dell’esistenza di quelle stesse mura.

5. La teoria sufi.

La visione sufi della realtà deriva dal Corano e dalla sunna, ma è


stata ampliata e adattata da generazioni di maestri e sapienti sufi.
Essa fornisce una mappa del cosmo che permette di capire la propria
situazione nei confronti di Dio e spiega sia cosa sono gli esseri umani,
sia cosa essi dovrebbero aspirare a essere. Stabilisce una pratica che
può condurre dalla situazione in cui si vive all’obiettivo finale della vita
umana, o dall’imperfezione alla perfezione.
La prima affermazione della shahāda 10 – «Non vi è dio all’infuori di
Dio» – distingue tra il Reale e l’irreale, ovvero tra l’Assoluto e il
relativo, tra Dio e «ogni cosa all’infuori di Dio», cioè l’universo.
Tradizionalmente si dice che la shahāda è divisa in due parti: la
negazione («non vi è dio») e l’affermazione («all’infuori di Dio»). La
prima parte nega la realtà inerente al mondo e al sé; la seconda
afferma la magnificenza della realtà divina. La shahāda intende che
«non vi è creatore all’infuori di Dio», «nessun misericordioso se non
Dio», «nessuno che ha la conoscenza, se non Dio». In breve essa
vuole dire che «non vi è realtà all’infuori di Dio» e che tutte le
cosiddette realtà della nostra esperienza sono secondarie e derivate
da Dio.
Numerosi versetti coranici e aḥādīth ribadiscono il criterio basilare
contenuto nella shahāda e chiariscono le sue implicazioni. Tra quelli
piú spesso citati vi è il versetto: «Ogni cosa perisce eccetto il Suo
volto» (28:88). Come spiega un maestro sufi:
Dio non disse: «periranno», perché Egli voleva che si sapesse che l’esistenza di
tutte le cose sta perendo nella Sua Esistenza oggi. Solo coloro che hanno ancora
un velo davanti agli occhi (rispetto alla realtà delle cose) rinviano l’osservazione di
questa realtà a domani 11.

La realtà di Dio è tale che nulla può reggerne il confronto. Il suo


controllo senza eguali di tutto ciò che è reale e di tutto ciò che procura
realtà agli «altri» significa che gli altri sono in effetti non-esistenti.
Questo è il modo in cui i sufi interpretano il detto del Profeta: «Dio
era, e nient’altro era con Lui». Il grande shaykh sufi Junayd (m. 910)
aggiungeva: «Egli è adesso, come Egli fu». Solo Dio è, e ogni cosa
che sembra esistere insieme a Lui non ha una reale esistenza. Ibn
‘Arabī osservava che non era necessario che Junayd aggiungesse
questo chiarimento, perché il verbo «era» in riferimento all’Eterno
denota tutti i tempi verbali. «Dio era», «Dio è» e «Dio sarà» hanno
tutti lo stesso significato 12.
La prima distinzione tra il Reale e il non-reale, o tra Dio e il mondo,
è seguita da una seconda distinzione tra le realtà del mondo. La
seconda parte della shahāda ci dice che «Muḥammad è l’Inviato di
Dio». Ne segue che egli è una manifestazione, chiara e predestinata,
dell’Unico Reale. In altre parole, egli rappresenta Dio in modo piú
diretto di quanto possano fare le altre creature. Il Profeta e il Corano,
di cui egli è il veicolo, sono luci che guidano nell’oscurità delle cose
non-reali. Piú in generale, tutti i profeti sono stati inviati per rivelare la
legge e la misericordia divine agli esseri umani, cosí che la rivelazione
svolge un ruolo speciale nelle vicende umane. Senza la legge rivelata,
gli uomini possono solo vagare nell’ignoranza e nell’illusione, immersi
nelle cose non-reali che si frappongono tra loro e la realtà come veli
che ne impediscono la vista.
A un esame piú approfondito la distinzione tra rivelazione divina e
tutto ciò che non è rivelato da Dio è molto piú sottile di quanto possa
inizialmente sembrare. Il Corano definisce i suoi versetti e le altre
rivelazioni divine come «segni» (ayāt) e utilizza lo stesso vocabolo per
indicare ciò che fa parte dell’universo. Se il Corano è il Libro di Dio che
ne rivela i «segni», allo stesso modo l’universo è il Libro di Dio che ne
annuncia la rivelazione. Ne segue che il mondo, e tutto ciò che è a
esso inerente, può essere considerato da due punti di vista. Sotto un
aspetto, tutte le cose sono «altro da Dio» e quindi non-reali; sotto un
altro, tutte le cose sono «segni» di Dio e pertanto, in una certa
misura, reali. Qui abbiamo un’ulteriore distinzione d’importanza
fondamentale tra i fenomeni come «segni» e i fenomeni come «veli».
I sufi spiegano la distinzione tra segni e veli adoperando una serie
di termini. Secondo una formulazione, si può dire che ogni cosa
esistente ha due aspetti, la «faccia orientale» e la «faccia
occidentale». Se guardiamo la faccia occidentale delle cose, non
troviamo alcuna traccia del sole, perché è tramontato; se invece ne
guardiamo la faccia orientale, vediamo il sole brillare in tutto il suo
splendore. Ogni cosa mostra allo stesso tempo entrambi gli aspetti,
ma la stragrande maggioranza degli uomini vede soltanto la faccia
occidentale, non è cioè consapevole del fatto che ogni cosa è un
segno di Dio in cui Egli rivela la Sua realtà. Per queste persone il
versetto coranico: «Ovunque vi volgiate, ivi vi è il volto di Dio»
(2:115) è lettera morta. In antitesi, i profeti e i grandi sufi vedono la
faccia orientale e attestano la presenza di Dio in ogni cosa. Nel loro
caso, Dio ha esaudito la preghiera: «Mostraci le cose cosí come esse
sono». Per loro tutte le cose sono realmente ed effettivamente segni
di Dio 13.
L’antropologia islamica dipinge gli esseri umani come le uniche
creature che abbiano liberamente scelto Dio rispetto al mondo, il
Reale rispetto al non-reale, l’Oriente rispetto all’Occidente. Nel Corano
questo scegliere Dio liberamente è chiamato il «Pegno».
«Noi abbiamo proposto il Pegno ai Cieli e alla Terra e ai Monti, ed
essi rifiutarono di portarlo, e n’ebbero paura: Ma se ne caricò
l’Uomo». Tuttavia il versetto conclude: «L’Uomo è ingiusto e d’ogni
legge ignaro» (33:72). Questo versetto suggerisce che gli uomini non
riuscirono a essere degni delle loro responsabilità liberamente scelte.
Molti potrebbero obiettare che gli esseri umani non hanno mai fatto
una tale scelta. I sufi rispondono solitamente che l’obiezione è
contraddittoria. Ogni volta che ci impegniamo nel minimo atto di
volontà, abbiamo liberamente accettato la nostra condizione umana
come un dato di fatto. Essere umani significa possedere un certo
grado di libertà, e operare delle scelte vuol dire mettersi nella
condizione di dover rispondere di quelle scelte. Rūmī fornisce molti
argomenti divertenti per dimostrare che i tentativi di scaricarsi delle
responsabilità sono sempre a proprio vantaggio. Gli uomini cercano di
fare questo soltanto quando si confrontano con una decisione che non
intendono prendere. Al contrario, ogni qualvolta vedono che il corso di
un’azione si adegua ai propri desideri, vi aderiscono liberamente,
rimanendo per tutto il tempo consapevoli del fatto che le loro scelte
avranno delle conseguenze.

Come un ipocrita, tu offri le tue scuse –


«Sono cosí impegnato a provvedere al mantenimento di mia moglie e dei miei
bambini,
Che non ho neppure tempo di grattarmi la testa.
Come potrei trovare il tempo per praticare la religione? […]
Non posso sottrarmi all’impegno di procurare di che mangiare alla mia famiglia,
Devo cercare guadagni leciti con le unghie e con i denti» […]
Tu puoi sottrarti a Dio – ma non al bisogno del cibo.
Tu puoi sottrarti alla religione – ma non agli idoli 14.

Per tener fede al Pegno è necessario seguire l’insegnamento di


coloro che hanno già tenuto fede a esso, e tali persone sono
conosciute come «profeti». Piú specificamente, per essere musulmani
e sufi ci si deve sottomettere a Dio riconoscendo la verità contenuta
nella shahāda, avendo fede in Dio e nella perfettibilità della natura
umana come è insegnato nel Corano, e vivendo secondo le virtú
spirituali incarnate da Muḥammad e dai grandi esempi della tradizione.
In breve, la distinzione iniziale tra Dio e il mondo porta a due
distinzioni secondarie, entrambe espresse, almeno implicitamente,
nell’affermazione: «Muḥammad è l’Inviato di Dio». Gli uomini hanno
bisogno di distinguere tra la rivelazione e la conoscenza umana,
ovvero tra il Corano e i semplici tentativi umani di comprendere.
Hanno anche bisogno di distinguere tra le facce orientali e quelle
occidentali, cioè tra i segni e i veli. Una volta operate le distinzioni,
devono metterle in pratica. Gli insegnamenti e le istituzioni religiose
forniscono i mezzi pratici per scegliere gli aspetti orientali rispetto a
quelli occidentali.
In termini di discernimento, la differenza tra il punto di vista
genericamente islamico e la prospettiva specificamente sufi non si
trova tanto nei principî, quanto piuttosto in una certa consapevole
applicazione di quei principî. I sufi non ritengono sufficiente avere
fede e sottomettersi alla sharī’a se si ha anche la capacità di
approfondire le proprie conoscenze, purificare il proprio cuore e
praticare il bene. Per raggiungere la perfezione umana, non basta
imitare gli altri e seguire la religione ciecamente (taqlīd). Piuttosto,
bisogna acquistare una completa consapevolezza dei principî e dello
spirito che animano la religione o, come spiegano i sufi, realizzare il
Reale (taḥaqquq). A livello teoretico la shahāda diventa una concreta
espressione dell’assoluta realtà di Dio, una spada che separa l’illusorio
dal Reale. A livello pratico, le linee di condotta stabilite dalla sharī’a
assolvono alla stessa funzione, ma qui i sufi non le accettano «perché
lo debbono fare», ma perché sono consapevoli del ruolo fondamentale
che esse svolgono nel permettere agli esseri umani di agire in accordo
con la verità rivelata evitando gli errori.

6. La pratica sufi.

Se sufismo è un termine appropriato per indicare la pratica di ciò


che è bene e lo sforzo per raggiungere la perfezione spirituale, allora
esso si basa su due fondamenti – l’islām o sottomissione a Dio
(mettere in pratica la sharī’a e il modello profetico) e l’īmān o fede
(accettare gli insegnamenti islamici basilari su Dio, la profezia e
l’Ultimo Giorno). Una volta raggiunta una sufficiente conoscenza di ciò
che riguarda queste due dimensioni, coloro che sono alla ricerca di
una via spirituale possono focalizzare i propri sforzi nell’«adorare Dio
come se Lo vedessero». Alla fine, la sincerità e l’amore possono
portarli nel luogo in cui il «come se» scompare. In altre parole, Lo
adoreranno mentre Lo vedono. Un esempio spesso citato è quello del
cugino e genero del Profeta, ‘Alī, che disse: «Non adorerei un Signore
che non vedo». Come il credo sufi è fondato sulla shahāda, cosí lo è
anche la pratica sufi. Pertanto essa combina due prospettive
complementari, negazione e affermazione, cioè «non vi è dio» e
«all’infuori di Dio». Il «dio», ovvero la falsa realtà che deve essere
negata, è il sé individuale o ego, la faccia rivolta a occidente e
dimentica dell’oriente. Finché la coscienza sarà dominata dall’ego, non
si riuscirà a vedere la luce del sole. Si percepirà invece una
moltitudine di ombre, false realtà e «idoli». Con le parole di Rūmī: «La
madre di tutti gli idoli è il tuo ego» 15.
La vera via del sufismo richiede un processo di trasformazione
interiore attraverso il quale le potenzialità dell’anima sono rivolte verso
Dio. Il sufismo aggiunge alle semplici pratiche indicate dalla sharī’a
molti altri esercizi devozionali e spirituali. Il piú importante di essi,
intorno al quale gli altri sono ordinati come tanti mezzi ausiliari, è il
«ricordo» (dhikr) di Dio, che il Corano ordina agli uomini di praticare
in molti suoi versetti. Il dhikr fu insegnato dal Profeta ai suoi piú intimi
compagni nelle forme specifiche che costituiscono il nucleo della
disciplina sufi.
La condizione umana «normale» è di dimenticanza e disattenzione.
Il presupposto minimo indispensabile per raggiungere la perfezione
umana consiste nel riconoscere la propria imperfezione e ricordare la
perfezione dell’unica Realtà. Ma per ricordare il Reale nella sua
pienezza, coloro che portano avanti una ricerca spirituale devono
dimenticare il non-reale, cioè la faccia occidentale di se stessi e del
mondo.
Nel Corano e nell’uso islamico generale l’ordine di «ricordare» Dio
significa anche «menzionare» Dio, quindi il vero significato di questo
ricordare risiede nella menzione del nome (o dei nomi) di Dio. Il nome
è considerato la manifestazione diretta del divino sul piano umano.
Attraverso un graduale processo di trasformazione, il nome riempie la
mente e la coscienza, senza lasciar posto al ricordo di altri. L’intuizione
principale, qui, sta nel comprendere che la consapevolezza costituisce
la realtà piú importante della natura umana e che il suo contenuto è
determinante per ciò che noi siamo. Come afferma Rūmī:

Tu sei il tuo pensiero, fratello,


tutto il resto è solo ossa e fibra.
Se tu pensi alle rose, sei un giardino di rose,
se tu pensi alle spine, sei materia per la fornace 16.

L’attenzione costante su Dio alla fine conduce, a Dio piacendo,


all’obiettivo della via sufi, cioè all’«unione» con Dio, alla piena
attuazione della perfezione umana, ovvero alla realizzazione
dell’immagine divina sul cui modello gli esseri umani sono stati creati.
Una volta raggiunta la perfezione, la separazione tra divino e umano
prevista nel discernimento originale è superata, perlomeno da un
certo punto di vista. L’Occidente è scomparso perché il Sole è sorto.
Avendo percorso la via, i sufi possono dire con al-Ḥallāj 17 (m. 922),
«Io sono il Vero», cioè, «Io sono Dio». Questa non sarà
un’affermazione infondata, perché essi vedranno semplicemente la
realtà della propria condizione; piuttosto queste parole non saranno
nient’altro che il Sole che dispiega i suoi raggi. Questa è la
realizzazione finale del discernimento iniziale, il fatto che «Dio è, e
nient’altro è con lui». Il sé illusorio è stato annullato e Dio soltanto è
stato attestato. «Non vi è dio» ha eliminato tutte le cose transitorie, e
«all’infuori di Dio» ha lasciato tutto quello che realmente è. Come
Rūmī afferma:

Quando l’amore di al-Ḥallāj per Dio raggiunse il suo grado piú alto, egli divenne
il nemico di se stesso e si annientò. Disse: «Io sono il Vero», cioè «Mi sono
annientato, rimane il Vero e nient’altro». Ciò rappresenta la massima umiltà e
l’estremo limite della sottomissione. Significa: «Solo Lui è». Affermare il falso ed
essere presuntuosi è dire: «Tu sei Dio e Io sono il servo». In questo modo tu stai
affermando la tua propria esistenza, e la dualità ne è la conseguenza obbligata.
Se dici: «Lui è il Vero» ancora c’è dualità, perché non vi può essere un «Lui»
senza un «Io». Quindi il Vero disse: «Io sono il Vero». Oltre a Lui, null’altro era
esistente. Al-Ḥallāj era stato annientato, pertanto quelle erano le parole del
Vero 18.
Capitolo secondo
La tradizione sufi

In senso lato, il sufismo può essere descritto come interiorizzazione


e intensificazione della fede e della pratica islamica. La parola araba
ṣufī, nondimeno, è stata usata nel corso dei secoli in una vasta
gamma di significati, da parte sia dei sostenitori del sufismo sia dei
suoi detrattori, cosa che si rispecchia nelle fonti principali come in
quelle secondarie.
Si è spesso discusso sulla sua etimologia. Gli studiosi moderni sono
arrivati alla conclusione che il significato originale piú probabile fosse
«colui che indossa abiti di lana». Si dice che verso l’VIII secolo (II
secolo dell’egira) il termine venisse a volte adoperato per indicare
coloro che, indotti dalle proprie inclinazioni ascetiche, erano soliti
indossare scomodi indumenti di lana grezza. Gradualmente esso finí
per indicare un gruppo che si distingueva dagli altri musulmani per il
rilievo attribuito a determinate pratiche e a insegnamenti specifici del
Corano e del Profeta.
Nel IX secolo si era già sviluppata una grande varietà di metodi per
accostarsi allo studio del sapere islamico. I fautori di ciascuno di essi
consideravano il proprio metodo indispensabile per la comprensione
del Corano e del Ḥadīth. In questo periodo alcuni di coloro che
venivano chiamati sufi adottarono l’espressione taṣawwuf, che
significa «essere sufi» o «sufismo», come termine atto a indicare le
proprie azioni e aspirazioni. Tuttavia, queste stesse persone si
definivano anche attraverso altri termini, come «gnostici», «asceti»,
«coloro che rinunciano» e «coloro che non possiedono nulla». La
peculiarità del termine sufi è che la sua origine non risulta del tutto
chiara, cosí che esso ha assunto l’aura di un vero e proprio nome
specifico. Tuttavia, anche se il nome era nuovo, il principio ispiratore e
gli interessi dei sufi non erano assolutamente una novità. La «realtà»,
come faceva notare Būshanjī, era presente sin dai primordi dell’Islam.
In generale, i sufi hanno guardato a se stessi come a dei
musulmani che prendono sul serio l’ordine di Dio di percepire la Sua
presenza sia nel mondo sia nel proprio intimo. Essi prediligono
l’interiorità all’esteriorità, la contemplazione all’azione, la crescita
spirituale al legalismo e la cura dell’anima alle relazioni sociali. Sul
piano teologico i sufi si riferiscono piú alla misericordia, alla gentilezza
e alla bellezza di Dio che non alla Sua collera, alla Sua severità e alla
Sua maestà. Il sufismo è stato messo in relazione sia con individui e
istituzioni specifiche sia con una ricca produzione letteraria. Data la
difficoltà di fornire un’esatta definizione del sufismo, non è facile
capire quali musulmani siano stati sufi e quali no. Essere sufi non ha
niente a che vedere con la divisione tra sunniti e sciiti, né con il fatto
che tutti i musulmani seguono una o un’altra scuola giuridica. Il
sufismo non è associato in modo particolare a determinate aree
geografiche, sebbene abbia svolto un ruolo maggiore in alcune zone
piuttosto che in altre. Non ha nulla a che vedere con l’appartenenza
etnica, in quanto esso è diffuso in tutte le regioni del mondo islamico,
dal Senegal e dall’Albania fino alla Cina e all’Indonesia, e neppure con
l’estrazione sociale, benché alcune organizzazioni sufi possano essere
piú o meno specifiche di una determinata classe. Non c’è
necessariamente una correlazione di tipo familiare. Intere famiglie
possono essere affiliate a una confraternita sufi, ma è altrettanto
frequente trovare singoli individui che professano la propria iniziazione
al sufismo nonostante l’ostilità dei membri della propria famiglia, o
persone nate in una famiglia di sufi che considerano il sufismo una
forma inaccettabile di Islam. Aderiscono al sufismo sia uomini sia
donne, anche se queste ultime meno frequentemente, e partecipano
alle attività rituali sufi perfino i bambini, sebbene raramente siano
accettati come dei veri e propri iniziati prima della pubertà. Il sufismo
è strettamente legato alla religione popolare, ma ha anche prodotto le
espressioni piú elevate degli insegnamenti islamici. È sempre stato
visto come contrapposto ai giuristi, appoggiati dalle istituzioni statali,
eppure dei giuristi sono sempre stati annoverati tra i suoi devoti, e il
sufismo, a sua volta, ha di frequente goduto di appoggi statali, sia
assieme alla giurisprudenza, sia, al contrario, per controbilanciare
l’influenza dei giuristi. Le tipiche istituzioni sufi – le «confraternite» o
«vie» (ṭarīqa, pl.: ṭuruq) – non cominciarono a svolgere un ruolo
incisivo nella storia dell’Islam prima del XII secolo ma, anche dopo
quel periodo, il sufismo non ha implicato necessariamente l’affiliazione
a una confraternita.

1. Una descrizione funzionale.

Gli esperti del sufismo non sono unanimi sull’oggetto del loro
studio. Quelli che attribuiscono un valore alla conoscenza di se stessi
propria dei maestri sufi di solito dipingono il sufismo come una
componente essenziale dell’Islam. Quelli che invece sono ostili al
sufismo, oppure che sono ben disposti verso di esso ma contrari
all’Islam, o che ancora sono scettici nei confronti della conoscenza di
sé dei soggetti da loro studiati, solitamente descrivono il sufismo come
un movimento che fu aggiunto all’Islam in epoca successiva a quella
in cui visse il Profeta. Le diverse teorie sulla natura e le origini del
sufismo proposte dagli studiosi moderni non possono essere qui
riassunte, ma costituiscono in verità un affascinante capitolo nella
storia dell’orientalismo.
Per gli obiettivi che ci siamo prefissati, basta ripetere che la
maggior parte dei teorici del sufismo ha inteso quest’ultimo come lo
spirito vivente della tradizione islamica. Abū Ḥāmid al-Ghazālī, uno dei
piú grandi maestri sufi, forní una descrizione sintetica del ruolo del
sufismo nel titolo della sua opera principale, Ihyā’ ‘ulūm al-dīn, «La
vivificazione delle scienze religiose». Per «scienze» al-Ghazālī
intendeva le varie ramificazioni del sapere sorte nell’Islam dopo la
morte del Profeta. Si potrebbe dire che la radice dell’Islam è il Corano
e che il suo tronco è la sunna, gli insegnamenti e le pratiche esemplari
del Profeta. Man mano che l’Islam gradualmente si sviluppava in un
albero vigoroso, la sua radice e il suo tronco crescevano e venivano
rafforzati dalla loro capacità di fornire un costante nutrimento alla
comunità islamica. Allo stesso tempo, i temi principali indicati dal
Corano e dalla sunna iniziarono a essere analizzati e approfonditi da
diversi gruppi di musulmani con attitudini, capacità e obiettivi
differenti. Essi vedevano il Corano e la sunna come depositari di
insegnamenti e pratiche che potevano essere comprese e assimilate
solo attraverso una profonda attenzione alla tradizione tramandata dai
primi musulmani. Tuttavia, ogni gruppo tendeva a mettere in luce
alcuni aspetti della tradizione piuttosto che altri.
Il ḥadīth di Gabriele fornisce un mezzo per analizzare la struttura
dell’albero. Nella radice e nel tronco originali, il Corano e la sunna,
tutte e tre le dimensioni della religione erano inestricabilmente unite.
Tuttavia, man mano che l’albero fioriva e cresceva, varie ramificazioni
o scienze si sviluppavano dalla stessa radice e dallo stesso tronco.
Come abbiamo visto, le tre ramificazioni principali sono l’islām, la
«sottomissione» o il giusto agire, l’īmān, la «fede» o corretta
comprensione, e l’iḥsān, «praticare il bene», virtú spontanea e
perfezione spirituale.
Fin tanto che i musulmani sono rimasti fedeli alla loro tradizione,
essi sono stati coinvolti in tutte e tre le dimensioni della religione.
Ciononostante, ogni ramificazione giunse ad avere le proprie
importanti autorità e i propri principali esponenti, che guardavano alla
radice e al tronco come alle fonti principali della loro conoscenza, dei
loro obiettivi e delle loro pratiche. Solo coloro i quali parlavano della
ramificazione dell’iḥsān sostenevano che l’islām e l’īmān dovevano
essere subordinati all’obiettivo piú elevato, ovvero «adorare Dio come
se Lo si vedesse». In linea di massima, queste persone vennero
messe in relazione con ciò che in seguito divenne noto come
«sufismo». Al contrario, coloro che asserivano la supremazia dell’islām
concentrarono le loro energie sulla sharī’a e sulla giurisprudenza, e
quelli che ritenevano che l’īmān e la conoscenza costituissero il
fondamento dell’Islam incanalarono i propri sforzi nel Kalām e nelle
altre scuole di pensiero che si occupavano della conoscenza e
dell’esposizione degli oggetti della fede. Nel suo «La vivificazione delle
scienze religiose» al-Ghazālī illustra molto dettagliatamente come
l’islām e l’īmān abbiano bisogno di essere vivificati e resi validi
dall’iḥsān.
La scienza vivificatrice del sufismo spiega il fondamento logico non
solo della fede ma anche della sottomissione. Si distingue dal Kalām
sia per prospettiva che per centro d’interesse, ma poggia non meno
saldamente sulle fonti della tradizione. Sul piano pratico, il sufismo
fornisce i mezzi con cui i musulmani possono potenziare la propria
comprensione e osservanza dell’Islam, con il fine di trovare Dio in loro
stessi e nel mondo. Esso rafforza la vita rituale islamica attraverso una
viva attenzione ai dettagli della sunna e la concentrazione sul dhikr, il
ricordo di Dio, in ogni momento. Il dhikr assume specificatamente la
forma di metodica ripetizione di certi nomi di Dio o di formule
coraniche, come la prima parte della shahāda. Negli incontri collettivi i
sufi hanno di solito praticato il dhikr ad alta voce, spesso con un
accompagnamento musicale. In alcuni gruppi sufi queste cerimonie
collettive finirono per essere considerate il rituale piú importante, con
una corrispondente disattenzione verso diversi altri aspetti della
sunna. A questo punto, la pratica sufi divenne sospetta non solo agli
occhi dei giuristi, ma anche di molti tra gli stessi maestri sufi.
In termini storici, è utile prendere in considerazione il sufismo su
due piani distinti. Sul primo, che rappresenta l’interesse principale dei
sufi, il sufismo non ha storia, perché è un’invisibile presenza
animatrice all’interno della comunità dei credenti. Sul secondo, che
riguarda sia gli osservatori musulmani sia gli storici moderni, la
presenza del sufismo si manifesta attraverso alcune caratteristiche
proprie di alcuni popoli e società o attraverso certe specifiche forme
istituzionali. Wilfred Cantwell Smith, nel sua famosa critica allo studio
storico della religione, The Meaning and the End of Religion, chiama
questi due piani «fede» e «tradizione cumulativa». Essi possono
facilmente essere paragonati a ciò che Būshanjī chiamava la «realtà»
e il «nome» del sufismo. Sebbene gli insegnamenti e le pratiche sufi
siano parte del nome e della tradizione cumulativa, essi svolgono un
ruolo preminente nel compito di risvegliare la fede e aprire una via per
sperimentare la realtà dietro il nome, cioè la viva presenza di Dio che
anima la tradizione.
Come la maggior parte dei musulmani, i sufi nutrivano scarso
interesse verso la «storia» dell’Islam in sé. Ciò che essi consideravano
importante erano gli insegnamenti del passato, raccolti fino al
presente. Tali insegnamenti venivano studiati affinché fossero di aiuto
per mantenere vivi gli ideali della religione e per concretizzarli
attraverso le azioni quotidiane. Sebbene gli studiosi moderni abbiano
spesso rivendicato il proprio approccio imparziale allo studio della
storia, essi hanno tuttavia sempre descritto e analizzato la tradizione
cumulativa secondo le proprie teorie e categorie. Senza dubbio tale
studio assolve a un compito utile, ma non deve portare gli osservatori
a dimenticare che i musulmani e i sufi hanno sempre guardato alla
tradizione cumulativa come alla superficie di una realtà piú profonda,
come a un mezzo e non a un fine, come all’Occidente e non
all’Oriente. Rūmī sembra rivolgersi agli studiosi moderni quando dice:

Avendone visto la forma, sei ignaro del significato.


Se sei saggio, rimuovi la perla dalla conchiglia 1.

Quegli autori sufi che studiarono le grandi figure del passato si


dedicarono a questo compito con lo scopo di mostrare come dei
musulmani esemplari avessero raggiunto il fine della vita umana, che
dal loro punto di vista consisteva nel vivere nella presenza divina.
Perciò il loro genere peculiare fu l’agiografia, che mira a descrivere le
straordinarie qualità umane di coloro che raggiungono la vicinanza con
Dio. Al contrario, i musulmani che si opponevano al sufismo erano
desiderosi di dimostrare che quest’ultimo è una distorsione dell’Islam
e ben volentieri coglievano qualsiasi occasione si presentasse per
dimostrare che figure conosciute come «sufi» ignoravano gli elementi
essenziali dell’Islam, cospiravano in malafede ed eresia, ed erano
immersi nel lassismo morale.
Gli attacchi che nel corso della storia, internamente allo stesso
Islam, sono sempre stati condotti contro il sufismo hanno cause
diverse. Non ultima, l’influenza a livello politico e sociale dei maestri
sufi, che spesso costituiva una minaccia per il potere e i privilegi dei
giuristi, e perfino dei governanti. Inoltre, sebbene le grandi autorità
sufi stabilissero delle regole di comportamento affinché il sufismo
rimanesse saldamente ancorato al cuore della tradizione islamica,
nacquero di tanto in tanto dei movimenti religiosi popolari, che
miravano all’intensificazione dell’esperienza religiosa, dimostrando
però scarsa attenzione per le norme islamiche. Tali movimenti spesso
si associarono al sufismo o si svilupparono a partire da alcuni tipi di
insegnamenti e pratiche sufi. Che i membri di questi movimenti si
considerassero o meno dei sufi, i detrattori del sufismo erano ben lieti
di affermare che i loro eccessi rappresentavano la vera natura del
sufismo. Gli stessi maestri sufi di frequente criticavano i falsi sufi, e i
pericoli connessi con la perdita di contatto con il centro pulsante
dell’Islam non potevano che moltiplicarsi quando gran parte del
sufismo si istituzionalizzò nelle confraternite sufi 2.
Se, come asseriscono i grandi maestri sufi, il sufismo è
essenzialmente il cuore pulsante dell’Islam, coloro che studiano
specifici fenomeni storici hanno il problema di stabilire a quale livello
tali fenomeni meritino di essere definiti con un nome specifico. I
maestri sufi chiaramente ritengono che i criteri per giudicare
l’autentico sufismo si trovino nel giusto agire e nella corretta
conoscenza, e che tali caratteristiche siano attinenti alla definizione
stessa della religione. In altre parole, il sufismo deve essere giudicato
rispetto alla sua fedeltà al Corano, alla sunna e al consenso degli
‘ulamā’, oppure in base alla sua capacità di realizzare pienamente
l’islām, l’īmān e l’iḥsān.
Come altri rami del sapere e della prassi islamica, il sufismo viene
trasmesso ai discepoli da un maestro, che è tradizionalmente
chiamato shaykh (letteralmente «anziano», «maggiore d’età»). Gli
insegnamenti orali dello shaykh danno vita agli articoli di fede, e senza
la sua trasmissione la pratica metodica del dhikr è considerata nulla,
se non pericolosa. Come per il Ḥadīth, la trasmissione è fatta risalire,
attraverso una catena di trasmettitori autorevoli (chiamata silsila), fino
al Profeta. Il tipico rito di iniziazione ricalca la stretta di mano nota
come bay’at al-riḍwān («il patto con il beneplacito divino») che il
Profeta diede ai suoi compagni a Ḥudaybiyya (vi fa riferimento il
Corano in 48:10 e 48:18). Il rito è inteso come la trasmissione di
un’invisibile forza spirituale o benedizione (baraka), che apre l’anima
del discepolo alla trasformazione. La funzione principale del maestro –
come in altre forme del sapere islamico – è quella di forgiare il
carattere (khuluq) del discepolo, in modo da renderlo conforme al
modello profetico.
Se plasmare il carattere degli allievi e dei discepoli era interesse
universale dell’insegnamento islamico, i sufi svilupparono una scienza
della natura umana che non aveva eguale nella giurisprudenza o nel
Kalām, sebbene i filosofi già conoscessero qualcosa di simile. Forgiare
il carattere era talmente centrale per la via sufi che Ibn ‘Arabī poté
definire il sufismo come «l’acquisizione dei caratteri di Dio» 3.
Dio creò gli esseri umani a Sua immagine ed essi accettarono di
tener fede al Pegno: quindi è loro dovere realizzare i caratteri divini
che sono latenti nella loro anima. Non possono farlo senza l’aiuto di
maestri che sappiano esattamente quali siano tali qualità e in che
modo farle emergere. Questo interesse nel far affiorare le qualità
divine innate nell’anima aiuta a spiegare la grande attenzione che i
maestri sufi dedicano alle «stazioni» (maqamāt) dell’ascesa lungo il
cammino verso Dio e agli «stati» (aḥwāl), le trasformazioni
psicologiche e spirituali che i viandanti subiscono nel tentativo di
procedere attraverso le stazioni. La dottrina sufi offriva insegnamenti
teologici che per la stragrande maggioranza dei musulmani risultavano
molto piú attraenti rispetto al Kalām, disciplina accademica elitaria
dallo scarso impatto sulla maggioranza della gente. Sin dall’inizio gli
esperti del Kalām cercarono di comprendere gli insegnamenti coranici
in termini razionali, con l’aiuto dell’eredità filosofica greca. Senza
rinunciare alla propensione intrinseca della ragione al discernimento e
al distinguo, il Kalām fissava l’attenzione su tutti quei versetti coranici
che affermano la trascendenza e la diversità di Dio. Quando si trovava
di fronte a versetti che proclamano l’immanenza e la presenza di Dio,
il Kalām li giustificava attraverso le interpretazioni forzate (ta’wīl ).
Come ha fatto notare Gibb: «I sistemi teologici piú sviluppati erano
prevalentemente negativi e sostituivano al vivido rapporto personale
tra Dio e l’uomo presentato dal Corano una discussione astratta e
spersonalizzata di concetti logici» 4.
Il Corano si riferisce a Dio con una vasta gamma di aggettivi,
spesso definiti «i piú bei nomi» 5. Nella maggior parte dei casi, il Kalām
mette in risalto quei nomi divini che affermano la severità, la
magnificenza, la distanza e la lontananza di Dio. Sebbene molte fra le
espressioni iniziali del sufismo concordassero con le opinioni prevalenti
nel Kalām, un’altra corrente del pensiero sufi gradualmente acquistò
forza e divenne predominante tra l’XI e il XII secolo. Questa diversa
prospettiva si incentrava sugli attributi divini che menzionano la
vicinanza, l’identità, la somiglianza, l’interessamento, la compassione e
l’amore. I maestri sufi attribuivano particolare rilievo alla dimensione
personale del rapporto divino-umano, convenendo con le autorità del
Kalām che Dio era distante, ma aggiungendo che la sua concomitante
vicinanza costituiva il fattore piú importante. Il magnifico assunto
teologico degli autori sufi è esemplificato nel ḥadīth sull’antecedenza
della misericordia di Dio, che secondo i sufi intende significare che la
vicinanza di Dio è piú reale della sua lontananza. Dio è sempre
presente, e la percezione della Sua assenza, alla fine, svanirà.
Se il Kalām e la giurisprudenza si affidavano alla ragione per
stabilire categorie e distinzioni, i sufi contavano su un’altra facoltà
dell’animo per colmare le distanze e stabilire contatti. Molti di loro
chiamavano questa facoltà «immaginazione» (khayāl). Per loro si
trattava della capacità intrinseca dell’anima di percepire la presenza di
Dio in tutte le cose – una presenza indicata nel versetto: «Ovunque vi
volgiate, ivi è il volto di Dio» (2:115). Essi trovavano un riferimento al
potere dell’immaginazione nella definizione dell’iḥsān data dal Profeta:
«Adorare Dio come se Lo si vedesse». Attraverso una concentrazione
metodica sul volto di Dio, come rivelato nel Corano, i sufi rafforzano il
«come se», con l’obiettivo di raggiungere il grado dello «svelamento»
o «visione intuitiva» (kashf ), termine generico utilizzato per indicare
la visione soprarazionale della presenza di Dio nel mondo e nell’anima.
Ibn ‘Arabī afferma che lo svelamento è un metodo conoscitivo
superiore a quello razionale, ma asserisce anche che la ragione
fornisce gli indispensabili riscontri e valutazioni, senza i quali non è
possibile riuscire a distinguere tra gli afflussi della conoscenza
immaginale, quelli divini e angelici e quelli psichici e demoniaci.

2. Spettro della teoria e della pratica.

L’assioma teologico dell’Islam, il tawḥīd, afferma che Dio è unico,


ma allo stesso tempo che il mondo è molteplice. Tutto il pensiero
teologico islamico si occupa del problema di come riuscire a conciliare
la molteplicità con l’unità. Coloro i quali guardano di piú all’aspetto
divino delle cose danno maggior risalto all’unità, mentre coloro che
guardano di piú al mondo enfatizzano la molteplicità. Di regola, il
pensiero razionale su Dio si incentra sulla Sua separazione dal mondo
e sull’assoluta diversità del mondo rispetto alla Sua realtà unica, per
cui esso sottolinea la molteplicità e la diversità. Al contrario, il
pensiero immaginativo o «immaginale» su Dio tende a vedere in tutte
le cose l’unità immanente determinata dalla Sua presenza.
Lungo tutta la storia islamica è esistita una tensione creativa fra
questi due modi principali di guardare a Dio. In linea di massima le
autorità del Kalām e i giuristi hanno posto l’enfasi sulla percezione
razionale della distanza di Dio, mentre i sufi hanno risposto con la
percezione immaginale della vicinanza di Dio.
I teologi asseriscono che Dio è totalmente «incomparabile» (tanzīh)
con tutte le cose dell’universo, mentre i sufi replicano che tutte le cose
sono «simili» (tashbīh) a Lui, perché da Lui esse traggono la loro
realtà 6. Talvolta l’equilibrio tra questi due punti di vista è stato rotto,
da un lato, da una mentalità di tipo giuridico rigida e intransigente e,
dall’altro, da una religiosità eccessivamente emozionale. Nel primo
caso viene persa la comprensione dei domini interiori della vita
islamica, e non rimane nulla se non dispute teologiche, cavillosità
giuridiche e intrighi politici di potere. Nel secondo caso viene
dimenticata la necessità della guida divina fornita dalla sharī’a, e come
risultato si hanno movimenti settari che si allontanano dalla tradizione
dell’Islam. In epoca moderna questi due estremi sono rappresentati
da alcune forme di «fondamentalismo» da una parte e da un sufismo
sradicato dall’altra 7.
Un’analoga distinzione di prospettive si può osservare all’interno
della teoria e della pratica dello stesso sufismo. Molti sufi hanno con
forza sostenuto l’onnipresente e immanente unicità di Dio e la
possibilità dell’unione con Lui. Altri hanno messo in primo piano la Sua
assoluta trascendenza e hanno sottolineato i doveri di servitú che
scaturiscono non appena distinguiamo tra Creatore e creatura, reale e
non reale, verità e menzogna, giusto e sbagliato.
Per descrivere le concomitanze psicologiche di questi due punti di
vista, i sufi hanno parlato di varie dualità di «stati» (aḥwāl ), che
vengono attraversati da coloro che seguono il cammino verso Dio.
Una delle piú significative è la dualità di «ebbrezza» (sukr) e
«sobrietà» (ṣaḥw). Lo stato di ebbrezza si verifica quando si è
sopraffatti dalla presenza divina; esso mostra la gioia provata da
coloro che cercano Dio allorché trovano in se stessi la fonte eterna di
ogni amore e bellezza. Questi viandanti vedono Dio in tutte le cose e
perdono la capacità di discernere tra Lui e la Sua creazione, tra giusto
e sbagliato. L’ebbrezza è associata all’accrescimento, alla speranza e
all’intima vicinanza con Dio. È la risposta umana ai nomi divini che
esprimono la compassione, la clemenza, la bellezza, la gentilezza e la
sollecitudine di Dio 8.
Al contrario, la sobrietà consente di scorgere una netta
differenziazione tra Dio e il mondo e un sereno e attento distinguo tra
giusto e sbagliato, bello e brutto. Essa è collegata alla assoluta
diversità esistente tra Creatore e creature ed è associata allo stupore,
alla soggezione, alla contrazione e al timore. È la risposta umana ai
nomi divini che designano la maestà, la gloria, lo splendore, la
magnificenza, la potenza, la collera e la vendetta di Dio.
Se la percezione della distanza di Dio permette una chiara
comprensione della differenza tra servo e Signore, la visione della Sua
vicinanza oscura le facoltà di discernimento della mente. Nessuna di
queste due prospettive è in sé completa. La visione reale delle cose
richiede un equilibrio tra il vedere Dio distante e trovarLo vicino,
ovvero tra comprensione razionale e svelamento immaginale.
L’antitesi tra sobrietà ed ebbrezza, o tra la visione della molteplicità
diversificata e l’esperienza dell’unità che comprende il tutto, si ravvisa
in tutti gli scritti sufi e si riflette nei racconti agiografici dei maestri
sufi. Coloro che provano l’intima unicità confidano con audacia nella
misericordia di Dio, mentre coloro che sperimentano la distanza che
incute un timore riverente continuano a guardarsi dalla Sua collera. In
linea di massima, i sufi ebbri tendono a non enfatizzare la sharī’a e a
manifestare apertamente l’unione con Dio, mentre i sufi sobri si
attengono al buon comportamento (adāb), che un servo tiene nei
confronti del suo Signore. I sobri rimproverano agli ebbri di non
curarsi della sunna, mentre questi rimproverano a quelli di
dimenticarsi della realtà fondamentale della misericordia di Dio. Coloro
che, secondo le parole di Ibn ‘Arabī, «vedono con entrambi gli occhi»,
mantengono raziocinio e svelamento in perfetto equilibrio,
riconoscendo sia le ragioni dei sobri sia quelle degli ebbri.
Le espressioni della sobrietà e dell’ebbrezza hanno spesso fini
retorici. I sufi hanno scritto con un intento edificante, e diversi maestri
hanno tentato di inculcare a livello psicologico e spirituale dei
comportamenti rispondenti ai bisogni che essi percepivano in chi li
ascoltava e leggeva i loro scritti. Quegli autori che trascuravano le
regole razionali non erano necessariamente ebbri del vino divino – se
lo fossero stati, difficilmente avrebbero messo mano alla penna. Cosí
anche le espressioni del sufismo sobrio non significano che gli autori
non sapessero nulla dell’ebbrezza. C’è un piú elevato tipo di sobrietà,
che vede tutto nella sua giusta luce e che viene raggiunto dopo aver
sperimentato l’ebbrezza, e non prima.
Le espressioni ebbre del sufismo sono predominanti nella poesia,
che è ideale per descrivere il dominio dello svelamento immaginale,
cioè la conoscenza unitaria. Le espressioni sobrie trovano la loro
dimensione naturale nella prosa, che è perfettamente adatta per le
astrazioni teologiche e le analisi giuridiche, punto di forza della
ragione. La poesia sufi celebra costantemente la presenza di Dio,
mentre la prosa sufi è incline all’esposizione sistematica della dottrina
e della pratica, tenendo sempre d’occhio le opinioni dei giuristi e degli
esperti del Kalām. Il sufismo ebbro raramente dimostra interesse per
le faccende giuridiche o i dibattiti teologici, mentre il sufismo sobrio
offre discussioni metodologiche di ogni sorta su questioni giuridiche e
teologiche che stancherebbero in breve tempo chiunque non sia
istruito nelle scienze islamiche. I poeti prestano attenzione agli
interessi piú elevati dell’anima attraverso le immagini piú affascinanti e
attraenti; i teorici discutono i dettagli della pratica, il comportamento,
la crescita morale, le esegesi coraniche e la natura di Dio e del
mondo.
La licenza poetica permette ai poeti sufi di trasmettere l’esperienza
della presenza di Dio con un linguaggio immaginoso, che scandalizza il
devoto convenzionale e va contro la logica del discorso giuridico e
teologico. Negli esempi migliori, come Ibn al-Fāriḍ in lingua araba,
‘Aṭṭār, Rūmī e Ḥāfez in persiano e Yunus Emre in turco, il semplice
ascolto della poesia, soprattutto quando ben recitata o cantata,
suscita una gioia straordinaria 9. Il sufismo ebbro dei poeti è sempre
stato popolare tra i musulmani di qualsiasi opinione e classe sociale, e
può perfino accadere che i giuristi meno dotati di fantasia godano
della bellezza della poesia condannandone al tempo stesso le idee.
Il sufismo sobrio tende ad attirare i musulmani praticanti piú
istruiti, desiderosi di dedicare lunghe ore allo studio di opere che non
sono piú facili dei testi di giurisprudenza, di Kalām o di filosofia. Non
dovrebbe sorprendere che per molti occidentali, sia studiosi sia
sedicenti praticanti, il «vero» sufismo sia stato identificato con le
correnti ebbre, che ignorano le preoccupazioni pratiche dell’Islam
ortodosso. Si dimentica spesso che molti di quelli che si esprimono
attraverso l’audace poesia dell’unione scrivono anche nella prosa
ossequiosa della separazione e della servitú. Nell’ambito delle diverse
espressioni del sufismo si può osservare un’ampia gamma di punti di
vista: alcuni sufi sottolineano l’unità, altri la molteplicità; alcuni
l’amore, altri la conoscenza; alcuni l’ebbrezza, altri la sobrietà. Perché
la tradizione rimanga un tutt’uno, è necessario mantenere un
equilibrio tra sobrietà ed ebbrezza, ragione e svelamento, attenzione
per la sharī’a e la dottrina islamica da un lato e per l’esperienza della
presenza di Dio dall’altro.
Se la sobrietà viene persa, si perderà anche la razionalità, e insieme
con essa le restrizioni dell’islām e dell’iḥsān, i supporti formali della
tradizione cumulativa. Se viene persa l’ebbrezza, si perderanno anche
l’esperienza religiosa e la fede vissuta, insieme con l’amore, la
compassione e l’iḥsān.
L’esempio classico del contrasto tra ebbrezza e sobrietà si può
trovare nel ritratto che ci è stato tramandato di due figure del sufismo
del X secolo, al-Ḥallāj e Junayd. Il primo divenne il grande martire del
sufismo per aver svelato pubblicamente i misteri dell’unione divina e
per la sua noncuranza verso le sottigliezze delle norme della sharī’a. Il
secondo, conosciuto come il «maestro del gruppo» (shaykh al-ṭā’ifa),
si mantenne tranquillamente sobrio nonostante avesse raggiunto il piú
alto grado di unione con Dio.
Un altro esempio può essere dato dalla diversità fra i due vertici
letterari della tradizione sufi, Ibn ‘Arabī e Jalāl al-Dīn Rūmī. Il primo
scrisse copiosamente in prosa araba e affrontò ogni questione
teoretica sorta nell’ambito del pensiero e della pratica islamica. Le sue
opere sono straordinariamente erudite ed estremamente complesse, e
soltanto i musulmani piú colti, quelli già esperti di giurisprudenza, di
Kalām e di altre scienze islamiche, potrebbero pensare di leggerli e
riuscire a comprenderli. Al contrario, Rūmī scrisse piú di 70 000 versi
di poesia ebbra, con un linguaggio che qualsiasi musulmano di lingua
persiana è in grado di capire. Egli canta costantemente delle pene per
la separazione dall’Amato e le gioie dell’unione con Lui. Tuttavia la
diversità di questi due autori non dovrebbe suggerire che Rūmī sia
stato antirazionale o illetterato, o che Ibn ‘Arabī non fosse amante di
Dio e poeta. Piuttosto, stiamo discutendo di due modelli di perfezione
umana che generano differenze nei punti di vista, nei mezzi retorici
utilizzati e nell’importanza attribuita ai singoli temi, nonostante l’unità
d’intenti. Tra gli studiosi occidentali, Henry Corbin sostiene
fermamente che Rūmī e Ibn ‘Arabī appartengono allo stesso gruppo
dei Fedeli d’amore 10.
Nei testi classici sufi troviamo due modi fondamentali e tra loro
complementari di descrivere il sufismo. Se ne viene sottolineato
l’aspetto ebbro, il sufismo è dipinto come incurante della
giurisprudenza e del Kalām; se ne viene sottolineata la sobrietà, è
visto come la vita interiore (iḥsān) della giusta pratica (islām) e della
giusta fede (īmān). I grandi teorici del sufismo parlano dal punto di
vista della sobrietà e si sforzano di raggiungere un equilibrio fra tutte
le dimensioni del pensiero e della pratica islamica, ritenendo il sufismo
il loro spirito animatore. Nomi famosi di sufi che possiamo annoverare
in questa categoria sono quelli di Sarrāj (m. 988), Kalābādhī (m. 990),
Sulamī (m. 1021), Qushayrī (m. 1072), Hujwīrī (m. 1072), al-Ghazālī
(m. 1111), Shihāb al-Dīn ‘Umar Suhrawardī (m. 1234), Ibn ‘Arabī (m.
1240), Najm al-Dīn Rāzī (m. 1256) e ‘Izz al-Dīn Kāshānī (m. 1334-35).
Al contrario, la pratica quotidiana del sufismo, specialmente nelle sue
manifestazioni popolari, tende ad apparire contrapposta all’Islam
legalista, sebbene ciò non sia sempre del tutto vero 11.
3. Il sufismo nel mondo moderno.

Nel XIX e nel XX secolo molti musulmani hanno propugnato una


rinascita delle pratiche e degli insegnamenti autenticamente islamici,
anche allo scopo di contrastare il predominio politico e culturale
dell’Occidente. Alcuni musulmani hanno risposto prevalentemente in
termini politici, altri hanno cercato di dare nuovo vigore alla vita
interiore dell’Islam. Tra la maggior parte di coloro che avevano
ricevuto un’educazione di tipo occidentale e presentavano una
mentalità politicizzata, il sufismo divenne il capro espiatorio attraverso
cui spiegare l’«arretratezza» dell’Islam. In quest’ottica il sufismo è
visto come la religione della gente comune e incarna elementi
superstiziosi introdotti da altre religioni o culture locali.
Affinché l’Islam riacquisti la sua supremazia, che agli occhi di tali
critici si estende alla scienza moderna e alla tecnologia, il sufismo
deve essere sradicato. Fino a poco tempo fa molti osservatori
occidentali consideravano questo tipo di riformatori «la speranza
dell’Islam di entrare nell’era moderna». Oggigiorno, comunque, la
dissoluzione dell’identità culturale occidentale e la consapevolezza
delle radici ideologiche di concetti come progresso e sviluppo hanno
finito col far sembrare i fanatici modernisti degli ingenui, per quanto
sicuramente pericolosi. Nel frattempo, diversi maestri sufi si sono
impegnati a vivificare l’eredità islamica attraverso l’enfasi posta su
quella che essi ritengono essere l’origine di ogni disordine – la
dimenticanza di Dio. Di particolare interesse è a tal proposito il caso
del celebre eroe della lotta di liberazione algerina, ‘Abd al-Qādir al-
Jazā’irī (m. 1883), che durante l’esilio in Siria si adoperò per far
rivivere l’eredità di Ibn ‘Arabī. Oggi c’è maggiore probabilità che la
base dell’Islam sia attratta da maestri sufi che non da intellettuali
modernisti, isolati dalle masse per la loro formazione di stampo
occidentale. Tuttavia, la presenza in gran parte delle società islamiche
di demagoghi che non si fanno scrupolo di strumentalizzare il
sentimento religioso per fini politici complica notevolmente la
situazione.
Parallelamente al risveglio del sufismo nel mondo islamico, si è
verificata la diffusione degli insegnamenti sufi in Occidente. Il sufismo
«ebbro» fu introdotto nella prima metà del XX secolo dallo shaykh e
musicista indiano Inayat Khan. Il suo insegnamento è stato continuato
da suo figlio Pir Vilayat Khan, assiduo conferenziere nel circuito New
Age. In Francia il sufismo «sobrio» ha conquistato un vasto seguito
tra gli intellettuali attraverso gli scritti del matematico,
successivamente passato agli studi metafisici, René Guénon,
conosciuto anche come Shaykh ‘Abd al-Wāḥid Yaḥyā e morto al Cairo
nel 1951.
Piú recentemente, le lingue occidentali hanno visto la pubblicazione
di centinaia di volumi che si rivolgono a coloro che intraprendono una
ricerca spirituale, e che riflettono la gamma di punti di vista dei testi
originali, dall’estrema sobrietà all’ebbrezza totale. Molti di questi testi
sono opera di autentici rappresentanti di catene iniziatiche sufi (silsila,
pl.: salāsil ), ma la maggior parte di essi è stata scritta da persone che
hanno adottato il sufismo per giustificare insegnamenti di dubbia
origine, o che hanno abbandonato la salvaguardia della giusta pratica
e del giusto pensiero – islām e īmān – e che quindi non hanno alcun
accesso all’iḥsān, che è costruito sugli altri due.
I rappresentanti contemporanei del sufismo «sobrio» enfatizzano la
conoscenza, il discernimento e la differenziazione, e di solito
sottolineano l’importanza dell’osservazione della sharī’a. Tra essi il piú
famoso è Frithjof Schuon, shaykh della confraternita Shādhiliyya
‘Alawiyya del Nordafrica, benché abbia vissuto per la maggior parte
della sua vita in Svizzera e negli Stati Uniti. Egli assume una posizione
decisa sull’importanza del discernimento e propone una critica
rigorosa delle radici del moderno atteggiamento antireligioso. La
maggiore ambizione dei suoi scritti sembra essere quella di offrire una
teoria delle religioni del mondo basata sull’idea di un «esoterismo»
universale, di cui il sufismo rappresenta la forma islamica. Egli
sostiene frequentemente la necessità per gli «esoterici» di tutte le
religioni di osservare la dimensione pratica, «essoterica», delle loro
tradizioni, la sharī’a nel caso dell’Islam.
Martin Lings, che ha anche pubblicato alcune opere con il nome di
Abū Bakr Sirāj al-Dīn, presenta un quadro del sufismo
intellettualmente rigoroso, ma fortemente ancorato ai testi islamici.
Anche il famoso studioso iraniano Seyyed Hossein Nasr mette in
risalto la comprensione intellettuale piú che l’amore, e ripetutamente
asserisce che non c’è sufismo senza sharī’a.
Le opere del maestro cerrahi turco Muzaffer Ozak presentano un
sufismo orientato verso la sharī’a, molto piú focalizzato sull’amore che
non sulla comprensione intellettuale. Il maestro naqshbandī Nāẓim al-
Qubrūsī offre un’appassionata presentazione di qualità umane
desiderabili, ancora una volta basate su una prospettiva che dà risalto
all’amore e spesso mette in discussione le basi sharaitiche del sufismo.
Il maestro iraniano ni’matullahi Javād Nurbakhsh ha pubblicato diverse
eccellenti antologie di classici sufi. Il suo punto di vista predilige
l’aspetto «ebbro» del sufismo, enfatizzando l’unicità dell’essere e
l’unione con Dio. Egli riserva scarsa attenzione alla sharī’a, ma disserta
sull’importanza delle attività sufi collettive, come le riunioni di dhikr.
Ancora piú sul versante dell’amore e dell’ebbrezza si collocano le
opere di Guru Bawa Muhaiyaddeen, il quale presenta una sintesi di
sufismo e di diversi insegnamenti induisti.
Capitolo terzo
Nome e realtà

«Sufismo» è un nome limitativo e spesso controverso, che ha finito


per essere attribuito a varie manifestazioni sociali e istituzionali della
piú profonda realtà della fede islamica. È un nome che alcuni hanno
considerato un titolo d’onore e altri invece un disonore. Del nome,
comunque, si è già detto a sufficienza. Per avvicinarci alla realtà,
abbiamo bisogno di esaminare altri nomi e altre descrizioni.
Uno dei termini usati spesso nei testi classici per indicare ciò che io
chiamo «sufismo» è ma’rifa (o ‘irfān), che letteralmente significa
«conoscenza» o «cognizione». Ad ogni modo, il termine connota una
speciale, profonda conoscenza delle cose, che può essere raggiunta
soltanto attraverso una trasformazione personale, per cui la parola è
spesso tradotta con «gnosi». L’obiettivo e il frutto di questo tipo di
conoscenza sono comunemente spiegati con un detto del Profeta:
«Colui che conosce (‘arafa) se stesso conosce il suo Signore». Come
suggerisce il ḥadīth, questo genere di conoscenza richiede
l’acquisizione contestuale sia della conoscenza di se stessi che quella
di Dio.
I testi ci ripetono piú volte che questo tipo di conoscenza non può
essere trovata nei libri. Piuttosto, essa è già presente nel cuore, ma è
nascosta in profondità sotto il ciarpame dell’ignoranza, della
dimenticanza, di un comportamento teso verso l’esteriorità e verso
l’articolazione di pensieri razionali. L’accesso a questa conoscenza si
ottiene soltanto seguendo il sentiero che conduce alla perfezione
umana.
Parlando in generale, coloro che in Occidente sono divenuti famosi
come sufi, come per esempio al-Ḥallāj, Rūmī e Ibn ‘Arabī,
rappresentano alcuni fra i musulmani piú autorevoli che si siano
espressi a favore di questa dimensione della religione, o per una
completa realizzazione della conoscenza di sé.
Tuttavia, si dovrebbe tenere a mente che, nonostante la
pubblicazione ininterrotta di testi sufi in tutto il mondo islamico sin
dall’introduzione della stampa, non è stata finora pubblicata che una
minima parte di essi, e perfino quelli che sono stati stampati risultano
ancora oggi, per la maggior parte, non ancora letti e studiati in
profondità. La letteratura è ampia, ma l’interesse da parte dei moderni
è scarso, specialmente tra i musulmani contemporanei. Per ogni al-
Ḥallāj che è stato oggetto di studio in epoca moderna, vi sono dozzine
di altre figure di primaria importanza che ancora attendono di essere
analizzate. Inoltre, la letteratura che è stata scritta dai sufi, o sui sufi,
rappresenta soltanto una infinitesima parte del fenomeno del sufismo,
giacché la stragrande maggioranza dei musulmani che si sono dedicati
a Dio, inclusa la maggior parte di quelli che ai loro tempi o nelle
generazioni successive erano noti come grandi sufi o gnostici, non
aveva la vocazione per la scrittura. La produzione letteraria
rappresenta soltanto il nome di una realtà molto piú profonda ed
estesa, che per sua natura non può essere conosciuta dall’esterno.

1. L’espressione degli insegnamenti sufi.

Ho già detto che il «sufismo teoretico» rappresenta uno dei tre


modi principali per accostarsi alla fede, o conoscenza. Ho suggerito
che la teoria sufi è differente da altre teorizzazioni, in quanto enfatizza
la percezione immaginale piuttosto che l’analisi razionale. Possiamo
anche dire che ciò che differenzia l’approccio sufi alla fede islamica è
l’accento posto sulla ma’rifa, la conoscenza diretta di sé e di Dio che
fluisce liberamente nel cuore purificato. Al contrario, gli altri due
approcci alla fede, il Kalām e la filosofia, affermano la necessità del
‘ilm, che può essere tradotto con conoscenza, scienza o sapienza. Per
essi, la ragione (‘aql ) costituisce il mezzo principale per acquisire la
conoscenza, e i teologi aggiungono che la ragione deve sottomettersi
agli assunti della rivelazione.
Allo stesso modo degli esperti del Kalām e diversamente dai filosofi,
i sufi hanno attribuito la massima importanza al Corano e al Ḥadīth,
ma essi hanno anche sostenuto che l’unico modo per comprendere il
messaggio della rivelazione consisteva nel purificare il cuore, affinché
fosse degno di essere istruito da Dio stesso. Essi amavano citare il
versetto coranico: «Temete Dio e Dio vi istruirà» (2:282). Dato che
«essere timorosi di Dio» (taqwā) è indicato dallo stesso Corano
(49:13) come l’attributo umano piú alto agli occhi di Dio, questo
versetto rappresentava un forte sostegno scritturale al loro punto di
vista. È riportato che Abū Yazīd al-Biṣṭāmī, personaggio del IX secolo
chiamato comunemente «il sultano degli gnostici», abbia detto ad
alcuni sapienti che muovevano obiezioni alla sua esposizione degli
insegnamenti islamici: «Voi ricavate la vostra conoscenza morta dai
morti, mentre io traggo la mia conoscenza dal Vivente che mai
muore».
Come abbiamo osservato in precedenza, i sufi chiamavano
abitualmente questa conoscenza diretta di Dio «svelamento». In parte
perché lo svelamento spesso assume la forma di una conoscenza
visionaria e immaginifica, essi ricorrevano frequentemente all’utilizzo
della poesia per esprimere i loro insegnamenti su Dio, sul mondo e
sull’anima umana. Molti di loro sentivano che la poesia era il mezzo
ideale per esprimere le verità della relazione piú intima e misteriosa
che gli esseri umani possono mai raggiungere con Dio, ovvero amarLo
ed essere amati da Lui. Nella civiltà islamica in generale, la poesia è la
piú importante forma letteraria, ed essa è sempre stata largamente
popolare sia tra le classi colte sia tra quelle incolte. Nella maggior
parte del mondo islamico, vale a dire ovunque l’arabo non fosse la
lingua madre, le varie tradizioni poetiche delle lingue islamiche furono
di gran lunga piú importanti per la diffusione della visione del mondo
del Corano che non lo stesso Corano. E la maggioranza dei poeti
davvero grandi e popolari fu rappresentata da maestri sufi o si
espresse a favore degli insegnamenti sufi.
Si è fatto notare che l’approccio sufi alla spiegazione del messaggio
del Corano sottolinea la vicinanza, la presenza e l’immanenza di Dio
piuttosto che la sua distanza e la sua trascendenza. Ci sono molti
versetti coranici che comprovano questo punto di vista, come: «E Noi
siamo a lui piú vicini che la sua vena giugulare» (50:16) o: «Egli è con
voi ovunque voi siate» (57:4). La posizione unanime dei teologi è
stata quella di interpretare tali versetti come metafore, in modo da
enfatizzare la trascendenza di Dio e da rimuovere qualsiasi
suggestione di una vicinanza personale.
Al contrario, i sufi hanno ritenuto che tali versetti «antropomorfici»
non dovessero essere considerati come pure metafore, ma piuttosto
come affermazioni dell’effettiva realtà – sebbene essi non siano mai
caduti nella trappola di ignorare l’insegnamento complementare,
quello della distanza e della trascendenza di Dio.
I tentativi sufi di mantenere in equilibrio le esigenze di
trascendenza e di immanenza aiutano a comprendere il motivo per cui
essi sono particolarmente amanti dei paradossi – affermazioni che
esprimono sottili verità ignorando la legge della non contraddizione.
Questi paradossi aiutano a minare l’insistenza della mente razionale,
secondo la quale ogni cosa può essere spiegata e compresa. Dio,
infatti, non si adatta alle nostre categorie. Tutto nel nostro mondo e
nella nostra esperienza deve essere una cosa o un’altra, ma Dio è sia
niente sia tutto. Egli è sia vicino sia lontano, sia trascendente sia
immanente, sia assente sia presente, sia questo sia non questo.
Molti sufi sostengono, infatti, che la reale comprensione di Dio può
essere raggiunta soltanto attraverso il disorientamento e lo
smarrimento. Le espressioni paradossali e qualche volta scandalose
che tendono a emergere in questa perdita di distinzioni razionali
manifestano paura interiore, stupore e meraviglia. Una delle
espressioni impenetrabili preferite dai sufi risale ad Abū Bakr, l’intimo
compagno del Profeta e il primo califfo dopo la sua morte:
«L’incapacità di percepire è percezione». Noi percepiamo le cose di
questo mondo percependole, ma percepiamo Dio attraverso la chiara
percezione che non Lo percepiamo, né possiamo percepirLo.
I sufi che accentuano il paradosso e lo smarrimento tendono a
cadere nell’ebbrezza, mentre coloro che si esprimono in termini piú
misurati conservano la propria sobrietà. L’occhio dell’immaginazione,
dello svelamento e della gnosi si diletta della presenza di Dio e
abbandona ogni pretesa di giudizio sobrio e di precisione logica.
L’occhio della ragione non conosce nulla della presenza di Dio, perché
il suo approccio analitico è capace solo di sezionare incessantemente e
arrivare alla conclusione che Dio non si può trovare da nessuna parte.
Nelle frequenti discussioni sulle rispettive virtú della sobrietà e
dell’ebbrezza i maestri parlano spesso di tre stazioni lungo la via
spirituale. Prima di incamminarsi su di essa, i piú appaiono sobri, ma
sono, in realtà, ebbri. La loro è una sobrietà biasimevole, perché
scaturisce dall’ebbrezza e dall’inganno dei principî illusori della realtà
sociale, delle trappole e delle aspirazioni della vita ordinaria. Questa
sobrietà rappresenta un pericolo mortale per l’anima, perché è
costruita sulla dimenticanza di Dio e sull’incuranza della situazione
umana. Quando si intraprende il sentiero sufi, si raggiunge la vera
sobrietà, allontanandosi dalle follie di questo mondo e rinsavendo.
Dopo una lunga lotta sul sentiero della disciplina della purificazione
interiore, gli iniziati possono essere pronti alla profusione dell’amore,
della misericordia e della conoscenza divine. Ciò può essere talmente
sconvolgente da far perdere loro le facoltà del discernimento razionale
e da portarli a esprimersi in un linguaggio estatico e basato su
paradossi. Questo è il grado della vera ebbrezza, ma non è l’ultimo del
sentiero. Né il Profeta, né la stragrande maggioranza delle grandi
figure dell’Islam che seguirono le sue orme erano ebbri. Essi avevano
raggiunto il grado ancora successivo, la «sobrietà dopo l’ebbrezza»,
che è il ritorno al mondo dopo aver compiuto il viaggio verso Dio. Nel
corso di tale viaggio gli iniziati subiscono una totale trasformazione,
ma quando ritornano sono in grado di essere di aiuto agli altri.
All’inizio erano come delle pietre, ridotte in frantumi dal fulgore della
luce divina, e ora sono stati fatti rivivere come gioielli preziosi,
splendidi, luminosi e fermi negli attributi divini.
I due gradi piú alti di questo schema tripartito, e cioè l’«ebbrezza»
e la «sobrietà dopo l’ebbrezza», sono legati alle celebri espressioni
fanā’ e baqā’, «estinzione» e «permanenza». Attraverso il viaggio di
purificazione interiore e di devozione a Dio, i viandanti raggiungono un
grado nel quale si aprono completamente alla luce divina, e lo
splendore di questa luce annienta tutte le limitazioni umane che
avevano loro impedito di vedere il vero sé e il proprio Signore.
L’abbattimento degli ostacoli e degli impedimenti consente loro di
capire di non essere stati niente e di essere ancora niente, perché Dio
solo ha una vera realtà. Invece che se stessi, che non avevano mai
avuto alcuna realtà di cui si potesse parlare, essi ora vedono quello
che esiste dopo l’annullamento degli idoli e della falsa individualità. Ciò
che rimane è proprio Dio e la Sua gloria, e questa gloria implica lo
splendore della Sua luce.
È questo il grado spirituale nel quale, secondo l’interpretazione che
Rūmī dà della sua scandalosa affermazione, al-Ḥallāj disse: «Io sono il
Vero». I termini «estinzione» e «permanenza» derivano dal passo
coranico: «Tutto quel che vi è sulla terra si estingue, e solo permane il
Volto del tuo Signore, Detentore della Maestosità e della Munificenza»
(55:26-27). Lo specifico nome divino con il quale termina questo
verso, «Detentore della Maestosità e della Munificenza», è
particolarmente appropriato al contesto del viaggio spirituale, perché
allude alla duplice percezione delle cose che deve essere acquisita. Dio
è il «Detentore della Maestosità» in quanto è il Grande, l’Altero,
l’Adirato, il Vendicatore, il Sovrano e il Perenne. La Sua maestà e il
Suo splendore sono tali da annientare la realtà e l’esistenza di
qualsiasi altra cosa. Solo Lui è realmente meritevole di esistere.
Ma Dio è anche «Detentore della Munificenza», perché Egli è
l’Amorevole, il Misericordioso, il Compassionevole, l’Indulgente, il
Clemente, il Benefico e Colui che dà il nutrimento, ed Egli non fa che
donare generosamente alle sue creature. Nonostante la Sua maestosa
realtà le annienti, la Sua generosa concessione dona loro una nuova
realtà e una vera esistenza.
In altri termini, l’estinzione risulta dalla negazione espressa nella
prima parte della shahāda, mentre la permanenza risulta
dall’affermazione fatta nella seconda parte. «Non vi è dio» richiede
che tutte le qualità e le caratteristiche positive che sono ascritte alle
creature siano loro negate, perché in realtà esse non appartengono a
loro. «All’infuori di Dio» significa che Dio solo può essere dichiarato
reale, cosicché tutti gli attributi e le qualità positive appartengono
soltanto a Lui. Quando i viandanti giungono alla realizzazione delle
proprie potenzialità, create a immagine di Dio, essi sperimentano
nient’altro che la negazione della realtà egocentrica e separatrice e
l’affermazione della realtà unitaria, incentrata su Dio.
Nel confrontare permanenza ed estinzione, dobbiamo ricordare che
la permanenza è reale, non l’estinzione, in quanto la prima è
l’affermazione di una realtà primordiale, mentre la seconda è la
negazione di qualcosa che non è mai realmente esistito. «Non vi è
dio» nega tutte le false realtà, mentre «all’infuori di Dio» testimonia
l’esistenza del Vero.
In relazione agli attributi divini ciò significa che la misericordia che
designa la presenza e l’identità di Dio prevale sulla Collera che
esprime la Sua assenza e la Sua diversità. La misericordia di Dio ha la
precedenza sulla Sua collera, cosí la misericordia e la permanenza
hanno l’ultima parola, non la collera e l’estinzione.

2. Amore divino e amore umano.

Nonostante il fatto che la sobrietà rappresenti il piú alto grado della


via sufi, ciò non implica che i sobri non siano piú ebbri. Questo
significa che il vero sufi, avendo pienamente realizzato l’esempio e il
modello stabilito dal Profeta, è interiormente ebbro di Dio ed
esteriormente sobrio del mondo. Naturalmente, la felicità dell’ebbrezza
può talvolta manifestarsi esteriormente, ma la sobrietà di
discernimento rimane un fattore concomitante e necessario della fede.
Il mondo è il dominio del fare ciò che è giusto e appropriato, ed è
necessario che ciò venga stabilito attraverso una netta distinzione tra
ciò che si deve e ciò che non si deve fare. L’osservanza delle
necessarie distinzioni richiede una sobria consapevolezza della nostra
reale condizione nel mondo e nella società. Interiormente, tuttavia,
coloro che hanno raggiunto una sobrietà dopo l’ebbrezza si dilettano
nel vivere in intimità con Dio.
L’ebbrezza è il risultato della scoperta di Dio. I sufi esprimono
generalmente la ricerca di Dio attraverso il linguaggio dell’amore, la
piú intensa e profonda delle esperienze umane. Nell’adoperare questo
linguaggio, essi seguono non soltanto le diverse realtà della natura
umana, ma anche espliciti versetti coranici e aḥādīth. Particolarmente
significativo è il versetto: «Di’ [o Muḥammad!]: “Se veramente amate
Dio, seguite me e Dio v’amerà”» (3:31). Difficilmente si potrebbe
trovare nel Corano un versetto piú importante nel precisare il
fondamento razionale della prassi islamica e sufi. Perché i musulmani
si impegnano cosí duramente nel seguire la sunna del Profeta? La
risposta ovvia è che essi amano Dio e che Dio ha ordinato loro di
seguire Muḥammad, in modo che Dio possa arrivare ad amarli.
In una tipica interpretazione sufi di questo versetto l’amore per Dio
guida l’iniziato alla ricerca della reciprocità dell’amore, il che significa
che l’amante desidera essere corrisposto dal suo Amato e desidera
assaggiare il vino dell’abbraccio di Lui. Nessun amante è soddisfatto
senza essere corrisposto. Il versetto ci dice che l’unico modo per
mostrare il proprio amore per Dio è quello di far propria la sobrietà di
Muḥammad, e ciò significa che bisogna seguire le sue regole di
condotta, ovvero la sunna, che è codificata nella sharī’a. Se sei capace
di seguire Muḥammad con sincerità, ciò ti renderà meritevole
dell’amore di Dio e ti aprirà all’ebbrezza della Sua presenza.
In un ḥadīth spesso citato nei testi sufi il Profeta descrive cosa
avviene quando coloro che amano Dio si dedicano completamente al
loro Amato. Tale devozione richiede due tipi di pratiche, obbligatorie e
supererogatorie, entrambe codificate dalla sharī’a. I veri amanti non
possono mai accontentarsi di fare soltanto ciò che chiede l’Amato, ma
donano liberamente e completamente tutto quanto essi sperano sarà
gradito al loro Amato. In questo detto, considerato attendibile, il
Profeta cita le parole di Dio riguardanti i servi che Lo amano e che
seguono la sunna del Profeta, in modo che anche Dio possa
ricambiare il loro amore.

Il mio servo si avvicina a Me attraverso ciò che ho stabilito per lui come
obbligatorio. Egli poi continua ad avvicinarsi a Me attraverso gli atti
supererogatori, fino a che Io non lo amo. E quando Io lo amo, Io sono l’udito con
cui ascolta, la vista con cui vede, la mano con cui prende e i piedi con cui
cammina.

Una volta che gli iniziati amano Dio, anch’essi saranno amati da Lui.
L’amore di Dio potrebbe allora inebriarli e annientare tutte le loro
debolezze e limitazioni umane: potrebbe scacciare l’oscurità della
temporalità e della contingenza, lasciando al loro posto il fulgore
dell’eterna esistenza di Dio. Si noti qui che il ḥadīth recita: «Quando Io
lo amo, Io sono l’udito con cui ascolta». Come alcuni sufi hanno
rilevato, le parole Io sono ci segnalano che Dio è già l’udito con cui
ascoltiamo, la vista con cui vediamo e la mano con cui prendiamo. Il
problema non è la vicinanza di Dio a noi, perché Egli è eternamente
vicino a noi, piú vicino della nostra stessa vena giugulare. Il problema
è la nostra vicinanza a Dio, che non possiamo vedere e non possiamo
sondare. La visione della vicinanza di Dio deve essere raggiunta e il
modo per raggiungerla è di adeguarsi al modello profetico. Sebbene
ora non Lo vediamo, possiamo raggiungere la Sua visione se Lo
adoriamo e Lo serviamo come se Lo vedessimo.

3. La sobrietà dei nomi.

«Il sufismo, – diceva Būshanjī, – era una realtà senza nome».


Quando si inizia a dare un nome alle cose, la realtà che tende a
perdersi è la presenza di Dio. Dare dei nomi determina una certa
distanza, differenziazione e sobrietà. Il Corano ci dice che dopo aver
creato Adamo, Dio «gli insegnò i nomi di tutte le cose» (2:31). Dare i
nomi fa parte della natura umana, perché Dio ha insegnato agli
uomini il linguaggio al momento della loro creazione. Ma dare dei
nomi attiene alla separazione e alla molteplicità, al discernimento
razionale che ci permette di percepire noi stessi come differenti
rispetto agli altri. Al contrario, il dominio del non creato e
dell’indifferenziato rappresenta una sorta di ebbrezza. Quando gli
amanti sono in presenza dell’Amato, non vedono piú la molteplicità, la
separazione e la diversità e non sono in grado di descrivere la
differenza tra se stessi e Dio. Gli iniziati diventano ebbri lungo il
sentiero che porta a Dio, perché le distinzioni si offuscano ed essi
annegano nel dolce oceano dell’unità dell’amore, un oceano che
ignora assolutamente le distinzioni umane.
I «nomi» che Dio ha insegnato ad Adamo sono corpi che Dio stesso
ha conferito alle realtà prefigurate nella Sua eterna conoscenza. Come
tutti i corpi, essi passano e periscono ma, come tutti i corpi, essi
hanno anche degli archetipi stabiliti nel Divino. E proprio come i nomi
sono corpi, cosí anche i corpi sono i nomi dello spirito divino, che Dio
ha insufflato in ogni Sua immagine. Ogni corpo fornisce lo spirito di un
nome differente, il che significa che noi differenziamo la realtà
attraverso noi stessi, perché siamo immagini diverse di un unico Dio.
Allo stesso modo, noi differenziamo le cose dando loro dei nomi,
perché siamo i figli di Adamo.
Dal punto di vista sufi, la difficoltà della nostra condizione deriva
dal fatto che abbiamo dimenticato che Dio dapprincipio ci ha
insegnato i nomi e che, per conoscerne il significato, per comprendere
le realtà che stanno dietro di essi, dobbiamo conoscere i nomi cosí
come Dio ce li ha insegnati. Ciò si può ottenere amando Dio piuttosto
che i nomi e quel che essi designano. L’amore per Dio si mette in
pratica seguendo Muḥammad; poi Dio ci amerà e vivificherà i nomi, e
quindi noi vedremo le cose come sono realmente. Vedremo ogni nome
come la designazione dei diversi raggi della fulgida luce di Dio.
Se il sufismo è iniziato come «una realtà senza nome» è stato
perché dei musulmani agli albori dell’Islam semplicemente amavano
Dio e pertanto seguivano il Profeta, e a loro volta erano amati da Dio.
Essi non avevano la necessità di dare un nome a ciò che stavano
facendo. Vivevano in armonia con il Creatore, seguendo il Suo
messaggero e la Sua guida designata. Ma con il passare del tempo, gli
uomini trovavano sempre piú difficile essere all’altezza della realtà
dell’amore, imitare il Profeta in perfetta sottomissione e raggiungere lo
stato in cui Dio era il loro udito e la loro vista, e parlava loro di Se
Stesso e mostrava loro i segni della Sua presenza in ogni cosa.
Invece, essi parlarono sempre piú di come si dovesse raggiungere la
presenza di Dio, e diedero a ciò un nome che essi stessi idearono. Il
nome, sia esso «sufismo» o qualsiasi altro, perirà e non ha alcuna
importanza. La realtà, invece, è tutto.
Capitolo quarto
L’autorealizzazione

I maestri sufi offrono descrizioni coerenti del cosmo e dello spirito e


spiegano il percorso che riconduce gli uomini a Dio. Il loro punto di
vista sulla condizione umana può essere riassunto dal ḥadīth: «Questo
mondo è maledetto, è maledetto ciò che vi si trova, eccetto il ricordo
di Dio». Giacché il mondo e tutto ciò che vi si trova sono separati dalla
loro origine divina, essi sono distorti, bui e disorientati, perché il sole è
tramontato. Ma lo stesso mondo e le stesse cose, considerati come
segni di Dio, sono raggi luminosi del Sole che è sorto. Il mondo come
occidente è maledetto, ma il mondo come oriente è un canto gioioso
del ricordo, che spinge coloro che sanno vedere a celebrare la
beatitudine di tutte le cose. Per imparare a vedere Dio in se stessi e
nelle cose è necessario imparare a essere costantemente consapevoli
della Sua presenza. Bisogna vedere la luce splendente del sole che è
sorto, in un paesaggio che gli altri percepiscono come avvolto
nell’oscurità della notte. Tutte le pratiche dell’Islam e del sufismo sono
centrate su un unico obiettivo: far sí che gli uomini aprano gli occhi e
vedano. Numerosi versetti coranici e detti profetici fanno riferimento a
tale obiettivo, utilizzando un’ampia gamma di immagini e di
espressioni. Tra queste, una delle piú incisive, spesso usata dai
maestri sufi come definizione del sentiero che conduce verso Dio, è
tazkiyat al-nafs, che viene tradotta di solito come «purificazione
dell’anima».
Questa espressione deriva da un versetto coranico che tradurrei,
con qualche esitazione, nel mondo seguente: «Per l’anima e per Chi la
plasmò, e la sua pietà e la sua empietà le ispirò. Prospererà chi la
purificherà, e fallirà chi la seppellirà» (91:7-10).
Secondo questo versetto soltanto coloro che purificano la propria
anima raggiungeranno la «prosperità». Il Corano chiarisce che questa
prosperità appartiene all’altro mondo, mentre la prosperità di questo
mondo è irrilevante, se non addirittura pericolosa. Coloro i quali non
riescono a purificare la propria anima ma la «seppelliscono» – come
se la stessero nascondendo sottoterra – non saranno prosperi. Al
contrario, saranno poveri quando si trasferiranno nella loro ultima
dimora, che si considerino prosperi, o meno, in questo mondo.
Come per tutti i passaggi coranici, questa traduzione è dubbia e
incerta. Tanto per cominciare, «purificare» è decisamente una
traduzione fuorviante per tazkiya. Tutti i dizionari ci dicono che tazkiya
ha due significati, sebbene i lessicografi non concordino su quale sia
quello principale. Uno dei significati del verbo è purificare e pulire,
l’altro accrescere e incrementare. Quindi l’espressione tazkiyat al-nafs,
come riconoscono i commentatori del Corano, può essere intesa sia
come «purificazione» della nafs sia come «accrescimento» della nafs.
La maggior parte dei commentatori dà maggior rilievo al primo dei
due significati, apparentemente per ragioni teologiche. Dopo tutto, il
principale compito dei musulmani è quello di sottomettersi a Dio e ciò
non può avvenire fino a che non ci si libera delle cose che non
piacciono a Lui. Ciò si può definire «purificazione». D’altronde, è ovvio
che anche l’anima ha bisogno di crescere e di elevarsi con l’aiuto di
Dio. Provocare tale crescita può essere chiamato anch’esso tazkiya.
Cosí, è necessario che si verifichino due cose, ed entrambe sono
racchiuse nella parola tazkiya: la purificazione e l’accrescimento.
Possiamo anche ritenere che la purificazione si verifichi
contemporaneamente alla crescita e all’elevazione dell’anima, e cosí i
due significati della parola si fondono.
La complementarietà di questi due significati si può osservare in
alcuni dei modi in cui la parola tazkiya è utilizzata. I dizionari ci dicono
che essa può significare «piantare i semi» o «allevare bestiame», nel
qual caso non vuol dire né purificare, né accrescere, ma qualcosa che
combina questi due significati. Quando i semi sono piantati nel
terreno, essi sono purificati da tutto ciò che è a loro estraneo ed
esposti ai doni generosi di Dio, la terra, l’acqua e la luce del sole.
Tutto ciò li predispone allo sviluppo e alla crescita. Coloro che
piantano i semi non li «purificano» né li «accrescono», piuttosto li
mettono in condizione di poter attecchire, fiorire e sviluppare tutte le
loro potenzialità. Quindi tazkiyat al-nafs significa non solo «purificare
l’anima», ma anche permettere all’anima di crescere e di fiorire
aprendosi ai doni generosi di Dio. Una traduzione migliore potrebbe
essere «coltivare l’anima».

1. Il sé dell’uomo.

Il verbo tazkiya compare dodici volte nel Corano e di solito è Dio il


soggetto e gli uomini l’oggetto. Nella maggior parte di questi versetti il
concetto è il seguente: la grazia e la guida divine purificano e
benedicono gli uomini, sebbene, come mostra il versetto sopra citato,
gli stessi uomini svolgano un ruolo importante in questo processo. Al
contrario, la parola nafs compare circa trecento volte nel Corano. In
molti passaggi il termine è semplicemente un pronome riflessivo, e
quindi può essere riferito agli esseri umani, a Dio, o anche ad altre
cose. Nel senso riflessivo, «sé» è certamente la migliore traduzione. Il
Corano utilizza anche il termine con significati non precisamente
riflessivi, ma il termine sé è comunque una migliore traduzione di
anima. Per esempio, il Corano cita Gesú che si rivolge a Dio con
queste parole: «Tu conosci ciò che è nel mio sé, ma io non conosco
ciò che è nel Tuo sé» (5:116). Inoltre, nel Corano è utilizzato il
termine per indicare il sé (degli uomini) in generale, senza alcuna
relazione con un altro nome, ed è in questo contesto che i traduttori
di solito lo rendono con «anima» invece che con «sé». In breve, la
parola nafs nel Corano può essere tradotta sempre come «sé», spesso
come «anima».
Il problema di queste due parole, in particolare della prima, è che si
tende a reificarle. In altri termini, si parla dell’anima come se fosse
una «cosa», con una sua realtà concreta e distinta, come avviene per
il corpo. E cosí, per esempio, a volte ci si chiede se gli uomini e gli
animali abbiano o meno un’anima. In queste discussioni, le anime
vengono generalmente immaginate come realtà concrete e distinte,
specialmente quando si cerca di spiegare l’anima in termini cosiddetti
«scientifici». Il pensiero scientifico, per sua natura, ha la vista corta;
non ha assolutamente gli strumenti per occuparsi di termini come
nafs, nell’accezione in cui sono utilizzati nei testi islamici. Discutere
dell’esistenza dell’anima in arabo suonerebbe sciocco, soprattutto se
fosse utilizzata la parola nafs, anche perché la lingua araba e l’uso
coranico presuppongono che ogni cosa abbia una nafs.
Per quanto riguarda il Corano, la questione non è se gli uomini
abbiano o meno una nafs, poiché ogni cosa ne possiede una. La
questione è piuttosto: cos’è esattamente una nafs umana, e come si
differenzia dalla nafs di Dio, o da quella di un animale, o da quella di
una pietra? Perché mai Dio non ha bisogno di tazkiya per la Sua nafs?
Per quale motivo Dio non ordina a nessun angelo o animale di
praticare la tazkiya della propria nafs? Qui un proverbio persiano ci
viene in aiuto. Per indicare una perdita di tempo, i Persiani dicono:
«Recitare la sūra Yā Sīn nell’orecchio di un asino». La sūra Yā Sīn,
capitolo XXXVI del Corano, possiede un particolare potere ed è fonte di
speciale benedizione per chi la legge. Ora, la nafs di un asino è
profondamente differente da quella di un uomo, e cosí, se si recita il
Corano nell’orecchio di un uomo, ciò potrà sortire un effetto benefico,
mentre un asino rimarrà sempre un asino.
Cosa c’è dunque di diverso nella nafs dell’uomo? La risposta
islamica piú naturale a questa domanda è che non è nelle nostre
capacità dare una risposta precisa e corretta, o piuttosto che la qualità
specifica della nafs dell’uomo è che, nella sua piú profonda realtà,
essa non ha alcuna specifica realtà. Questo concetto richiede qualche
spiegazione.
Quando diciamo: «Mi guardo allo specchio», intendiamo dire che
guardiamo riflesso il nostro aspetto fisico. Tuttavia, proprio il fatto che
ci riconosciamo allo specchio dimostra che nel sé c’è molto di piú che
il semplice aspetto fisico. Le parole nafs, in arabo, e «sé», in italiano,
si riferiscono a tutto ciò che noi siamo, e che comprende sia il nostro
corpo materiale sia la consapevolezza che abbiamo di noi stessi e
degli altri. Eppure, cos’altro comprende? Oggi riconoscere che le
persone, in quanto dotate di un «inconscio», sono qualcosa di molto
piú complesso rispetto a ciò che esse ritengono di essere è cosa ovvia.
Tuttavia, dove tracciamo esattamente il confine tra il sé e l’altro? Il
vero problema quando si parla di sé è che noi non sappiamo
esattamente cosa siamo e non possiamo saperlo, se non in un senso
banale e approssimativo. Se pensiamo di sapere chi siamo, ci
sbagliamo.
Pochi si preoccupano di riflettere su se stessi, e a questo tipo di
atteggiamento si riferisce sicuramente uno dei significati del termine
ghafla, «disattenzione», parola chiave nel Corano. Coloro che
riflettono su se stessi saranno o confusi o bugiardi se affermano di
aver risolto il problema di chi essi siano. Il celebre scrittore Walker
Percy sviluppa questo punto nel suo Lost in the Cosmos: the Last Self-
Help Book («Persi nel Cosmo: l’ultimo manuale di autorealizzazione»).
Sotto molti aspetti, il libro è una parodia di tutti i testi
sull’autorealizzazione che si possono trovare sugli scaffali delle librerie
di quartiere (e sono convinto che a Percy, nella tomba, faccia piacere
che il suo libro sia accuratamente catalogato insieme a quelli). Il
problema, come illustra l’autore, è che nessuno di coloro che scrivono
questi libri sull’autorealizzazione e nessuno di quelli che li leggono
hanno la minima idea di cosa sia questo sé che essi cercano di aiutare
a realizzarsi. Percy ha corredato il suo libro con diversi sottotitoli. Uno
di essi merita di essere citato, se non altro per apprezzarne il senso:
«Come sopravvivere nel Cosmo del quale si sa sempre di piú, mentre
di se stessi si sa sempre di meno, nonostante diecimila manuali di
autorealizzazione, centomila psicoterapisti e cento milioni di
fondamentalisti cristiani».
Se si presta particolare attenzione alle discussioni sulla nafs nei
testi islamici, si vedrà che l’inconoscibilità del sé degli uomini
rappresenta un tema fondamentale. Pochi tra i dotti musulmani fanno
l’errore di reificare il sé, perché sanno che il sé non ha limiti specifici.
Tuttavia, soprattutto per coloro che non hanno studiato questi testi
con attenzione, potrebbe non essere tanto ovvio che l’idea islamica di
base del sé è che esso è sconosciuto e indefinibile. Per avvalorare la
mia tesi, mi sia consentito citare qualche testimonianza coranica.
Proprio il fatto che la parola al-nafs, «il sé», sia usata in un senso
non riflessivo soltanto quando è riferita agli esseri umani, dovrebbe
farci capire quanto sia complicato riconoscere che cosa sia un essere
umano. La parola nafs, come ho detto, può essere applicata a ogni
cosa, incluso Dio, perché è un pronome riflessivo. Quindi nafs non può
designare una qualsiasi cosa specifica, dal momento che in ogni caso
la nafs è semplicemente la cosa che è stata menzionata o a cui si
faceva riferimento, qualunque essa fosse. Proprio come il sé di Dio
appartiene unicamente a Lui, cosí anche ogni sé delle creature
appartiene esclusivamente a ognuna di loro, perché ciascuna nafs è
semplicemente ciò che quella cosa è, e nessun’altra creatura è
esattamente uguale a un’altra, perché altrimenti le due sarebbero una
cosa sola. Il sé di Dio è semplicemente Dio e il sé della creatura è
semplicemente la creatura. Io ho un sé ed esso è nient’altro che me
stesso, e tu hai un sé che non è nient’altro che te stesso. Se c’è
qualcosa di peculiare a proposito del sé dell’uomo è perché soltanto
esso merita di essere indicato dalla parola «sé» senza significato
riflessivo. Quando il Corano indica «la nafs», questa può soltanto
essere la nafs dell’uomo. Ciò implica che l’indeterminatezza della
parola nafs, che consente di poterla riferire a qualsiasi cosa, è cosí
appropriata nel caso degli esseri umani da esserne la caratteristica
distintiva.
Dato che il sé è sconosciuto e indefinito non andremo in giro a
chiedere: «Cos’è il sé»? Non possiamo reificarlo e precisarlo. Se
vogliamo «purificare» o coltivare il sé, non sarà di alcuna utilità
cominciare a farlo chiedendoci che cosa esso sia, perché non
troveremmo alcuna risposta. Possiamo solo affrontare il problema in
termini personali: invece di domandare: «Che cos’è il sé?», ognuno di
noi deve chiedere «Chi sono?»
La risposta coranica a questa domanda è indiretta, forse perché Dio
non vuole incoraggiare gli uomini a credere di sapere con sicurezza chi
siano. Tuttavia, il Corano chiarisce che tutti noi condividiamo alcune
caratteristiche con nostro padre Adamo. Esse ci differenziano dal sé di
Dio da una parte, e dal sé delle altre creature non umane dall’altra. Il
Corano chiarisce inoltre che nessun sé creato ha raggiunto la sua
individualità definitiva, se mai esso possa raggiungerla, perché
ciascuna creatura vive in un mutamento continuo. Ciascun «Io» è
impegnato in un processo di svelamento e non c’è ragione di pensare
che questo processo giunga mai a termine.
La differenza a questo punto tra il sé degli esseri umani e quello
degli esseri non umani è che, con un minimo di riflessione, ogni sé
umano si rende conto di non essere ancora arrivato alla sua fine.
Ognuno di noi sa, se siamo vivi, che il nostro sé non ha esalato il suo
ultimo «respiro» (nafas, una parola che in arabo è scritta esattamente
come nafs). Le altre cose non hanno ricevuto questa sorta di
autoconsapevolezza, cosicché esse agiscono senza il pensiero e la
riflessione. Recita la scrittura agli asini e perderai il tuo tempo. Invece
gli esseri umani sanno di doversi continuamente confrontare con
dimensioni sconosciute di se stessi, perché sanno di non sapere ciò
che saranno e cosa faranno nel momento successivo.
In numerosi testi teologici islamici, il problema
dell’autoconsapevolezza emerge chiaramente a proposito del tema del
libero arbitrio. Compiendo un atto volitivo, o facendo una scelta, io in
una certa misura specifico chi sono, cosa è il mio sé. Fino al momento
in cui non scelgo, il mio sé non si è manifestato nel mondo. E
naturalmente su questo punto il Corano dice ripetutamente agli
uomini che essi saranno ritenuti responsabili per queste scelte, il che
significa che dovranno rispondere a Dio quando egli domanderà loro
perché hanno fatto ciò che hanno fatto. Essi dovranno dire a Dio
perché hanno scelto di far scaturire dal proprio sé quell’atto e non un
altro.
Ciascuno di noi sa di trovarsi in uno stato di evoluzione e di
svelamento. Ciò che viene continuamente svelato è il nostro sé, ma
ogni sé è semplicemente unico. Noi non abbiamo una risposta
esauriente per spiegare cosa siamo, perché siamo soltanto ciò che
siamo in questo preciso istante, e in ogni attimo della nostra esistenza
siamo qualcosa di diverso. Quindi cosa è il nostro sé? È l’Io del
momento, e ciascun momento è differente.
Un famoso aforisma ci dice: «Il sufi è il figlio del momento» (al-ṣūfī
ibn al-waqt). Uno dei suoi significati è che il vero sufi vive nella
costante consapevolezza che il suo sé non è altro se non ciò che esso
è nell’attimo presente. E dal momento che ogni attimo presente è
unico, ogni attimo del sé è unico. In alcuni testi sufi ogni momento del
sé è chiamato nafas, un «respiro». I sufi sono quindi chiamati «la
gente dei respiri» (ahl al-nafas), perché vivono nella piena
consapevolezza dell’unicità della nafs in ogni nafas, in ogni respiro, in
ogni istante.
Cos’è questo nuovo sé che noi sperimentiamo a ogni respiro?
Secondo il punto di vista classico della teologia ash’arita, perfezionato
dalle numerose disquisizioni sull’argomento da parte di parecchi autori
sufi, il nuovo sé del momento è il rinnovamento costante e infinito
della creazione del sé da parte Dio. In ogni momento della nostra
esistenza un nuovo sé ci arriva da Dio, proprio come, in questo corpo,
arriva un nuovo respiro.

2. Il volto permanente.

A volte i sufi parlano del costante rinnovamento del sé utilizzando


le nozioni di fanā’ e baqā’, o «estinzione» e «permanenza». Come è
stato già notato, i termini si riferiscono al versetto coranico: «Tutto
quel che vaga sulla terra si estingue, e solo permane il Volto del
Signore, Detentore della Maestosità e della Munificenza» (55:26-27).
Il sé è sottoposto a estinzione in ogni momento, mentre il volto di Dio
permane. Questo «volto» è il dispiegamento dei Suoi nomi e attributi
attraverso la costante e continua creazione del sé. In quanto tale,
questo sé non ha niente da definire come proprio, perché ogni cosa
che esso possiede scompare velocemente. In verità gli uomini non
hanno altro sé se non ciò che essi sono con Dio, e tutto ciò che sono
appartiene a Dio, non a loro. Il nostro sé vero e proprio non è affatto
un sé, cioè non è un sé che ci appartiene. Il nostro vero sé è il sé che
Dio ci dà in ogni istante e, dato che viviamo nel continuo
rinnovamento del sé compiuto da Dio, noi sussisteremo per sempre
negli atti e negli attributi divini che giungono a noi.
In altri termini, il nostro vero sé è il volto di Dio che ci osserva in
ogni istante della nostra esistenza. Il versetto coranico, che abbiamo
precedentemente tradotto con: «Ogni cosa perisce eccetto il Suo
volto» (28:88), può anche essere tradotto: «Ogni cosa perisce eccetto
il suo volto», riferendo l’aggettivo a ogni cosa e non a Dio. Ma la
conclusione è la stessa. Nel primo caso, il versetto significa che tutte
le cose periscono eccetto il volto di Dio, e il volto di Dio è quello che
«osserva» la creazione. «Ovunque vi volgiate, ivi vi è il volto di Dio»
(2:115) che volge lo sguardo verso di te. È il volto di Dio che ti dà
qualsiasi realtà tu possieda, perché, se Lui non ti guardasse,
smetteresti di esistere.
Se leggiamo il versetto nel senso che il «suo volto» non perirà, ciò
significa che il tuo volto non perisce perché il tuo volto in verità è
quello che guarda Dio, e quello può essere soltanto il volto di Dio che
rivolge lo sguardo verso di te, perché niente vede Dio se non Dio
stesso. Ne La Nicchia delle Luci 1, al-Ghazālī spiega che gli gnostici
vedono il volto che mai perisce. Poi fa notare che ogni cosa ha due
volti, uno rivolto verso se stesso, l’altro verso Dio. Il primo volto è
rivolto verso il sé, che è l’occidente, e il secondo verso Dio, che è
l’oriente. Si noti che Ghazālī inizia con il mettere in contrapposizione
«metafora» (majāz) e realtà (ḥaqīqa). La metafora è il raggio di luce,
mentre la realtà è il sole.

Gli gnostici si innalzano dalla bassezza della metafora alla cima della realtà, e
portano a termine la propria elevazione. Poi vedono con i propri occhi che non vi
è altro nell’esistenza se non Dio, e che Ogni cosa perisce eccetto il Suo volto. Il
che non significa che ciascuna cosa perisce in un momento anziché in un altro
ma, piuttosto, che essa sta perendo dall’eternità che non ha principio all’eternità
senza fine. Essa non può essere concepita altrimenti. Dopotutto, quando l’essenza
di ogni cosa che non sia Dio viene considerata rispetto alla propria essenza, essa
è pura non-esistenza. Ma quando la si considera in rapporto al volto verso cui
fluisce l’esistenza proveniente dal Primo, il Vero, allora la si vede esistente, non in
sé, ma attraverso il viso rivolto verso Colui che le dona Esistenza. Pertanto l’unica
cosa esistente è il volto di Dio.
Cosí ogni cosa ha due volti: un volto che guarda a sé, e l’altro che guarda al
suo Signore. Rispetto al volto di sé essa non è esistente, ma in rapporto al volto
di Dio è esistente. Pertanto nulla esiste se non Dio e il Suo volto. Quindi, ogni
cosa perisce eccetto il Suo volto dall’eternità che non ha principio all’eternità
senza fine 2.

«Ogni cosa perisce eccetto il Suo volto», che è il vero sé. Quindi,
nessun sé perirà e il sé individuale di ogni uomo sussisterà per
sempre. Tuttavia, gli uomini hanno dei livelli di comprensione e di
consapevolezza estremamente differenti. Molti non hanno la minima
idea di ciò che avviene e sono convinti che i loro sé appartengano in
proprio a loro. Alcuni pensano di sapere bene cosa avviene. Certuni
vivono nel volto di Dio e sperimentano con totale consapevolezza la
creazione che si rinnova incessantemente, e questi ultimi sono «la
gente dei respiri» o «i figli del momento».
Quale sia il livello di comprensione, ognuno ha bisogno di tazkiya,
purificazione e accrescimento del sé. Quelli che pensano che i loro sé
siano specifici, definiti e limitati dalle loro percezioni e dalle loro
esperienze, hanno bisogno di purificare i loro sé dalla disattenzione e
dall’ignoranza. Coloro che pensano di conoscere se stessi hanno
bisogno di purificarsi e di accrescere la loro conoscenza. E quelli che
sperimentano lo svelamento di sé del volto divino in continuo
rinnovamento gioiscono in uno stato di purificazione che si ripete
costantemente e di accrescimento senza fine. Troviamo qui la comune
triade sufi, nafs ammāra (il sé istigatore [al male]), nafs lawwāma (il
sé che rimprovera [se stesso per i suoi sbagli]) e nafs muṭma’inna (il
sé pacificato [con Dio]). Queste sono le tre stazioni fondamentali
attraverso le quali procedere se si vuole raggiungere la perfezione.
Possiamo anche considerare questo tema alla luce di quanto viene
narrato nel Corano a proposito di Adamo, il padre di tutti gli esseri
umani e il primo profeta, modello che ognuno deve imitare per poter
diventare un essere umano nel senso piú completo. Quando nel
Corano viene detto: «Dio insegnò ad Adamo i nomi di tutte le cose»
(2:31), uno dei significati principali è semplicemente che gli esseri
umani hanno dentro se stessi il potenziale di una conoscenza infinita.
Il nome di ogni cosa che Dio ha creato e che creerà è insito in loro.
Divenuti consapevoli delle cose del mondo esteriore e interiore, essi
acquistano la coscienza dei nomi delle cose e comprendono di averle
sempre conosciute. Ciononostante, a meno di conoscere tutti i nomi
che Dio insegnò ad Adamo, essi non possono conoscere se stessi. La
conoscenza dei nomi è inerente al sé di Adamo e al sé di ognuno dei
suoi figli. Si potrebbe dire che è proprio questa conoscenza che
costituisce il fondamento del concetto di fiṭra, la «disposizione
originale» che permette agli uomini di riconoscere l’unità di Dio. Se
essi non conoscono ciò che Dio insegnò al sé di Adamo, allora essi
non hanno conosciuto se stessi.
Se Dio insegnò agli uomini «tutti i nomi», come asserisce il Corano,
come possono essi mai conoscere questi nomi simultaneamente e con
piena consapevolezza? Infatti è impossibile mettere in atto la piena
conoscenza specifica di tutti i nomi in uno stesso momento, perché ciò
significherebbe conoscere tutto ciò che Dio ha creato e creerà, e in
effetti la creazione di Dio è infinita. Quindi, gli esseri umani
continueranno a mettere in atto la conoscenza dei nomi per sempre, e
ciò spiega la gioia del paradiso, che consiste nel donare
incessantemente la consapevolezza a ogni sé fortunato. Anche
l’inferno, naturalmente, implica il dono della consapevolezza, ma
quest’ultima non è necessariamente causa di felicità. Una delle cose
piú dolorose al mondo è la consapevolezza dei propri limiti e dei propri
errori. Ibn ‘Arabī ci dice che Dio non colloca eternamente gli uomini
all’inferno per punirli, ma piuttosto per essere misericordioso con loro.
Essi alla fine diventeranno adusi ai tormenti e inizieranno perfino a
gradirli ma, se venissero portati in paradiso, essi proverebbero
vergogna al cospetto di Dio e dei profeti, e ciò sarebbe un tormento
ancora piú doloroso che le fiamme dell’inferno 3.
In tutto questo non ho dimenticato il ḥadīth della conoscenza di sé:
«Chi conosce se stesso conosce il suo Signore». Sono state proposte
molte interpretazioni di questo detto ma, in qualunque modo lo
interpretiamo, non possiamo addurlo come una prova del fatto che
siamo in grado di conoscere noi stessi o il nostro Signore
completamente e totalmente. Piuttosto, fino al punto in cui arriveremo
a conoscere noi stessi, allo stesso punto arriveremo a conoscere il
nostro Signore. Ibn ‘Arabī ci ricorda che Dio in Sé è in ultima istanza
inconoscibile. Gesú non sapeva cosa c’è nel Sé di Dio, e certamente
nessun altro può pretendere di conoscerlo. Quindi Ibn ‘Arabī scrive:

Credo, ma Dio è piú sapiente, che Dio ci ha ordinato di conoscerLo e ci ha fatto


rivolgere verso noi stessi per acquistare questa conoscenza, unicamente perché
Lui sapeva che noi non percepiamo e non conosciamo la realtà di noi stessi, e
siamo incapaci di farlo. Quindi arriviamo a comprendere che, a maggior ragione,
siamo incapaci di conoscerLo. Questa è la conoscenza di Lui: la non-conoscenza 4.

3. La conoscenza profetica.
Per i musulmani, una delle prove piú convincenti del fatto che gli
uomini non conoscono e non possono conoscere se stessi è che Dio
ha inviato loro dei profeti. Se gli uomini fossero in grado di conoscere
se stessi, potrebbero scoprire da soli che cosa è bene e che cosa è
male per loro. Ma in verità essi non sono neanche sicuri di cosa sia
bene e cosa sia male per i loro corpi, e ancora meno per il loro corpo
e la loro anima messi insieme. E non intendo riferirmi soltanto alla
gente comune, ma a tutti i grandi specialisti, come i medici, che quasi
regolarmente cambiano le loro opinioni su cosa sia bene e cosa sia
male per noi.
La funzione dei profeti consiste nel dire agli uomini cosa è bene e
cosa è male per il loro essere tutto intero. Il sé non ha una fine, anche
se ha un inizio. Gli insegnamenti profetici si occupano del sé in
rapporto alla sua interminabilità. Da questo punto di vista, la morte
fisica è piuttosto ininfluente, sebbene essa segni un confine
importante. Dopo la morte, gli uomini non avranno piú la libertà di
scegliere o rifiutare la guida di Dio. Essi serviranno semplicemente Dio
nel modo in cui Egli vuole che essi Lo servano, perché non potranno
piú nascondersi dietro la loro ignoranza, il che significa che non
potranno piú «seppellire» il loro sé nella disattenzione.
La guida dei profeti non dice agli uomini chi essi sono, quanto
piuttosto chi non sono. Essi non sono esseri con identità definite,
limitate e compiute e non potranno mai assolutamente essere tali. Se
potessero raggiungere un limite finale, o non sarebbero diversi da Dio,
cosa impossibile, o giungerebbero a un lacerante arresto nella loro
esperienza del Reale, cosa altrettanto impossibile. Essi infatti vivono in
questo momento e vivranno per sempre nel processo di cambiamento.
Da soli non sono in grado di vedere al di là del momento, certamente
non al di là della morte. La conoscenza profetica insegna loro ciò che
è bene e ciò che è male per il sé, questo sé che non ha fine e non ha
alcuna specifica identità.
La profezia insegna agli uomini che la tazkiyat al-nafs è bene per
loro e che dovrebbero perseguirla. Essi hanno bisogno di coltivare il
sé. Ciò implica sia la purificazione del sé, ovvero l’allontanamento da
tutto ciò che è per lui negativo, sia l’accrescimento del sé, ovvero il
raggiungimento di tutto ciò che è per lui positivo. In altre parole,
coltivare il sé consiste nel provvedere alla sua felicità, ed è necessario
che ciò sia stabilito rispetto all’esistenza eterna e alla incessante
trasformazione. Dal momento che da soli e senza l’aiuto di Dio gli
uomini non hanno alcuna possibilità di conoscere tutto ciò che
riguarda l’altra vita, essi non sono assolutamente in grado di sapere
cosa avrà un effetto positivo o un effetto negativo sul loro divenire
nell’altro mondo. La funzione dei messaggi profetici è appunto quella
di fornire questa conoscenza. Il punto fondamentale da cogliere,
quindi, è che da soli non sappiamo e non possiamo in alcun modo
arrivare a conoscere chi siamo. Soltanto il Creatore del sé può fornire
la conoscenza che permette di prendersi cura del sé, in modo tale da
garantire la sua felicità perenne.
Dal punto di vista della tradizione sufi, per la felicità del sé nulla è
piú dannoso di credere di sapere chi siamo e di risolvere i nostri
problemi senza bisogno di aiuto, fosse anche un piccolo aiuto o l’aiuto
di quelli che riteniamo gli «esperti». Nell’interpretazione sufi, questa
convinzione di non aver bisogno dell’aiuto profetico costituisce l’errore
fatale del mondo moderno. La scienza moderna, la tecnologia e tutti
gli altri rami del sapere, per non parlare della politica, non sono
nient’altro che ignoranza del sé mascherata da conoscenza. I tentativi
di interpretare il mondo su basi razionali e di utilizzarlo nel nostro
interesse sono destinati a fallire, perché noi non possiamo in alcun
modo sapere in che cosa consiste il nostro interesse. Questa è l’ultima
follia dell’«autorealizzazione». L’unico modo attraverso il quale
possiamo pretendere di conoscerci per aiutare noi stessi è seppellirci
in una falsa conoscenza, pretendendo di conoscere ciò che noi non
conosciamo e non possiamo conoscere.
Gli uomini fanno ciò definendo il sé mediante termini limitati:
biologici, antropologici, psicologici, storici, economici, sociali,
ideologici, teologici, islamisti. Questi tentativi falliti di comprendere il
sé spiegano ampiamente lo spargimento di sangue, storicamente
senza precedenti, del XX secolo.
Infine, mi sia permesso di ritornare ancora una volta sul passo
coranico che ho citato all’inizio del capitolo, sebbene l’abbia tradotto in
modo leggermente diverso: «Per il sé e per Chi lo commisurò, e la sua
pietà e la sua empietà gli ispirò. Prospererà chi lo coltiverà, e fallirà chi
lo seppellirà». In breve, questi versetti significano che Dio ha creato
gli esseri umani e ha dato loro tutto ciò che essi sono. Tuttavia, ciò
che essi sono non potrà mai essere conosciuto pienamente, perché ciò
che Dio dà loro non avrà mai fine. Parte di ciò che Egli dà, attraverso i
profeti, è la conoscenza, la cui funzione è specificare in cosa consiste
l’«empietà» che allontana gli uomini da Dio e dalla loro vera natura, e
la «pietà» che procura la prosperità e la felicità. Coloro i quali
coltivano i loro sé seguendo gli insegnamenti profetici raggiungeranno
la pienezza eterna e la felicità del sé, ma coloro i quali seppelliscono i
loro sé nell’ignoranza e nella dimenticanza avranno arrecato danno a
nessun altro che a loro stessi.
Capitolo quinto
Il ricordo di Dio

Il Corano si riferisce comunemente alla conoscenza trasmessa dai


profeti come «ricordo» (dhikr) e «monito» (dhikra, tadhkīr), termini
che derivano dalla radice dh-k-r. Essi vengono utilizzati piú di
quaranta volte, sia per indicare lo stesso Corano sia in riferimento ad
altri messaggi profetici, come la Torah e il Vangelo. La principale
spiegazione coranica della necessità di una pluralità di profeti è che i
figli di Adamo hanno continuato a cadere nella disattenzione e nella
dimenticanza, vale a dire nello stesso errore commesso dal loro padre
comune. L’unico modo per rimediare a questo errore è il ricordo che
Dio offre attraverso i profeti.
Se il Corano è un «ricordo», lo è anche la risposta che ad esso
viene data dagli uomini. Essere realmente umani significa ricordare,
riconoscere e confermare ciò che già conosciamo. «E certo non sono
uguali il cieco e il veggente, quelli che credono e operano il bene e il
malvagio. Quanto poco voi ricordate!» (40:58). Ciò che deve essere
ricordato è il Pegno, che gli uomini hanno accettato di rispettare per il
solo fatto di essere umani. In altri termini, ciò che è necessario
ricordare è il vero, la realtà, il reale (ḥaqq), che non è nient’altro che
l’evidenza dell’opera e della presenza di Dio nel mondo e nell’anima.
Ricordare Dio nel Suo agire e nella Sua presenza significa ricordarLo
come Egli è, e questo significa vedere che non esiste niente di
realmente vero se non il Vero.
Si è accennato al fatto che i sufi utilizzano questa stessa parola,
dhikr, per indicare il metodo che permette di raggiungere la piena
concentrazione sul loro Amato. Piú di ogni altra cosa, è questa pratica
che distingue i musulmani sufi dai musulmani che non lo sono. Il
termine significa non solo ricordare, ma anche menzionare. Dal
momento che la pratica sufi del dhikr può essere descritta come una
specie di preghiera che incanta chi l’ascolta, questa parola è spesso
tradotta come «invocazione». Nelle sue forme piú semplici, il dhikr
implica la ripetizione di un nome o di alcuni nomi di Dio, spesso
racchiusi in frasi come: «La lode appartiene a Dio».
Nelle fonti si parla spesso del dhikr congiuntamente al du’ā’, o
supplica, che letteralmente significa «invocazione (a Dio)». Il du’ā’ si
differenzia dal dhikr perché solitamente assume la forma di una
richiesta, non utilizza raccolte di formule e non è ripetitivo. Ogni
preghiera, recitata in una lingua qualsiasi, al fine di rivolgere una
richiesta a Dio, può essere definita «supplica», mentre il dhikr adopera
nomi arabi e formule tratte dal Corano e dal Ḥadīth. Sia il ricordo che
la supplica sono azioni volontarie, e devono essere distinte dalla
preghiera canonica giornaliera (ṣalāt), che è richiesta a tutti i credenti
come atto obbligatorio.
Gli studi sul dhikr nelle lingue occidentali hanno solitamente
enfatizzato le varie tecniche che i sufi impiegano per raggiungere la
concentrazione. L’attenzione rivolta a queste tecniche fa dimenticare
la centralità che il dhikr ha nel Corano, in cui il termine è utilizzato
circa duecentosettanta volte, insieme con vocaboli derivati,
strettamente collegati per significato. A dispetto della fascinazione
occidentale per le tecniche, queste ultime hanno invece sempre avuto
un’importanza secondaria nella tradizione sufi. Né occorre cercare
influenze esterne per spiegarne la genesi. Infatti, la perseveranza nel
ricordo di Dio – e il puro Islam non è altro che questo – alla fine
richiede una certa attenzione per gli aspetti tecnici del controllo dei
propri pensieri e della concentrazione della propria attenzione, e ciò
non può prescindere dalla postura e dalla respirazione 1.
Il significato principale del termine dhikr può essere ricavato
rispondendo a tre domande: cosa, perché e come. Che cosa deve
essere ricordato? Perché dovrebbe essere ricordato? Come può essere
ricordato? L’oggetto del ricordo è Dio, la cui realtà è indicata
sinteticamente attraverso la prima parte della shahāda, «Non vi è dio,
all’infuori di Dio», e in maniera piú specifica dall’intera gamma di nomi
e attributi menzionati nel Corano. Tale oggetto dovrebbe essere
ricordato perché Egli ha ordinato agli esseri umani di ricordarLo, e
perché la felicità ultima dipenderà dal ricordo. Esso può essere
ricordato imitando il Profeta, la cui sunna fornisce un modello per il
giusto agire e per il giusto ricordo.
In breve, per capire le piene implicazioni del termine dhikr nel
Corano e nella tradizione, è necessario avere una chiara comprensione
dell’oggetto ricordato. Per comprendere Dio secondo l’Islam, è
necessario riuscire a capire in che modo Egli si rivela attraverso il
Corano. Ciò significa che il dhikr implica tre temi fondamentali: Dio, la
Sua rivelazione di Sé e le conseguenze di questa Sua rivelazione di Sé
per gli esseri umani. Questi tre temi sono indicati sinteticamente come
i principî della fede: l’unicità di Dio (tawḥīd), la profezia (nubuwwa) e
il ritorno a Dio (ma’ād). L’ultimo deve essere considerato nella sua
accezione piú ampia, che comprende sia il «ritorno obbligatorio»
attraverso la morte, sia il «ritorno volontario» mediante l’imitazione
del Profeta.

1. Il «dhikr» nel Corano e nel Ḥadīth.

Nel Corano il termine dhikr Allāh, «il ricordo di Dio», è utilizzato


ventisei volte, sia come verbo sia come sostantivo. In molte altre frasi
la parola ism («nome») è inserita al centro, enfatizzando quindi la
menzione verbale dei nomi di Dio. Per esempio, agli uomini è ordinato
di ricordare – vale a dire menzionare – il nome di Dio prima di
sacrificare animali (5:4; 6:118 e altri ancora). Tuttavia, l’ordine di
menzionare il nome di Dio è anche inteso in modo piú generico, come
si può notare in diversi versetti, quali per esempio: «Invoca dunque il
nome del Signore e votati a Lui devoto» (73:8) e: «E il nome del
Signore menziona, all’alba e in sul far della sera» (76:25).
Questi versetti coranici aiutano a spiegare perché l’espressione
«ricordo di Dio» è normalmente interpretata come richiesta della
menzione del Suo nome, anche se «nome» non fa parte della frase.
Come pratica, il dhikr richiede l’articolazione del divino nella forma di
uno dei Suoi nomi rivelati, che ciò venga fatto verbalmente o
attraverso il semplice pensiero: il dhikr non è mai stato inteso come
un ricordo vago o generico della presenza o dell’operato di Dio.
Il ruolo centrale che il ricordo di Dio ha nel Corano diviene evidente
non appena notiamo che il libro prescrive poche azioni in modo cosí
deciso. Quindici versetti ordinano agli uomini di ricordare Dio.
Tuttavia, l’obbedienza a tali prescrizioni non è l’unico imperativo che li
spinge a praticare il dhikr. Un secondo imperativo è inerente alla
condizione umana, cosí come viene delineata dall’Islam. Gli uomini
devono ricordare Dio perché la vita reale – la vita con Dio nell’altro
mondo – dipende dal ricordo. Nel linguaggio coranico «essere
dimenticati da Dio» significa bruciare nel Fuoco dell’Inferno, mentre
essere ricordati da Lui vuol dire dimorare nei Giardini del Paradiso.
Parlando della resurrezione Dio dice: «Oggi Noi vi dimentichiamo cosí
come voi dimenticaste l’avvento di questo vostro Giorno! Vostro asilo
sia il Fuoco» (45:34). Tali versetti aiutano a comprendere perché Ibn
‘Aṭā’ Allāh al-Iskandarī (m. 1309) abbia potuto dire nel suo celebre
trattato sul dhikr: «Tutti gli atti di culto per il servo svaniranno nel
Giorno del Giudizio, eccetto il ricordo di Dio, la testimonianza
dell’unicità [tawḥīd] e la lode [a Lui]» 2.
Esattamente come conduce alla felicità nell’altro mondo, cosí il
dhikr fornisce anche il mezzo per raggiungere la vicinanza con Dio in
questo mondo. I cuori dei miscredenti, al contrario dei cuori di coloro
che sono timorosi di Dio, sono «induriti di fronte al ricordo di Dio»
(39:22). Si noti l’enfasi posta attraverso la ripetizione, in questo
versetto: «Coloro che hanno fede, essendo i loro cuori in pace nel
ricordo di Dio – nel ricordo di Dio sono in pace i cuori di coloro che
hanno fede e che operano il bene; ad essi spettano la beatitudine e il
dolce riposo» (13:28).
In breve, per riuscire ad avere il cuore pacificato in questo mondo e
nell’altro, è necessario ricordare Dio, perché il ricordarLo sollecita la
Sua risposta. Il versetto: «Ricordati di me, e Io ti ricorderò» (2:152)
indica una pratica specifica, che in quest’altro versetto è soltanto
implicita: «Di’: “Se veramente amate Dio, seguite me e Dio v’amerà e
vi perdonerà i vostri peccati, ché Dio è indulgente e misericordioso”»
(3:31). Uno dei nomi del Profeta è Dhikr Allāh, e seguire il suo
esempio significa ricordare Dio: «Voi avete nel messaggero di Dio un
esempio buono, per chiunque speri in Dio e nell’Ultimo Giorno e molto
menzioni Dio» (33:21). La sunna fornisce le indicazioni dettagliate su
come ricordare Dio in ogni azione della vita. Nel suo trattato sul dhikr,
Ibn ‘Aṭā’ Allāh cita un ḥadīth che illustra lo stretto legame che i
musulmani hanno sempre visto tra l’amore per Dio e il Profeta e il
ricordo di Dio e il Profeta:

Dio gli disse: «O Muḥammad, ti ho fatto diventare uno dei ricordi di Me stesso.
Coloro che menzionano te menzionano Me, e coloro che amano te amano Me».
Quindi il Profeta disse: «Coloro che menzionano me hanno menzionato Te, coloro
che amano me hanno amato Dio» 3.

La letteratura degli aḥādīth fornisce numerosi riferimenti che


confermano quanto illustrato nel Corano ed enfatizzano i benefici del
dhikr dopo la morte. Il Profeta definisce il dhikr il migliore tra gli atti di
culto. Ogni parola che una persona proferisce in questa vita sarà
contata contro di lui o di lei, fatta eccezione per l’ordinare il bene
(‘amr bī ‘l-ma’rūf ), il proibire il male (nahī an al-munkar) e il ricordare
Dio. Quando qualcuno si lamentava per i numerosi obblighi e le
proibizioni dell’Islam, chiedendo invece un’unica pratica a cui potersi
attenere fedelmente, il Profeta rispondeva: «Lascia che la tua lingua
sia inumidita dal ricordo di Dio». Egli riferiva quanto detto da Dio: «Io
sono con il Mio servo quando lui mi ricorda. Se Mi ricorda in se stesso,
Io ricordo lui in Me stesso, se Mi ricorda in un’adunanza, Io lo ricordo
in un’adunanza migliore della sua». Di tali «adunanze» del ricordo di
Dio esistono numerose attestazioni risalenti ai tempi del Profeta ed
esse sono diventate il modello di riferimento per le riunioni dei sufi.
Gli aḥādīth chiariscono che le principali formule del ricordo sono
quelle che si possono ascoltare ancora oggi in tutto il mondo
musulmano, in ogni genere di occasione – «Non vi è dio all’infuori di
Dio», «La lode spetta a Dio», «Sia gloria a Dio», «Dio è il piú grande»
e «Non c’è nessuna forza e potenza se non in Dio». Tutte, tranne
l’ultima, si possono trovare, parola per parola, citate nel Corano.
Essi precisano inoltre che tutti i nomi di Dio, tradizionalmente
considerati nel numero di novantanove, possono essere utilizzati nel
ricordo e nelle suppliche. L’implicazione è che ogni nome di Dio ha
una caratteristica specifica, che viene trasmessa a coloro che Lo
ricordano. Molti aḥādīth alludono al «Piú grande dei nomi di Dio» (al-
ism al-a’ẓām), che è «il nome attraverso cui, se Dio viene chiamato,
Lui risponde, e se Gli è chiesto, Lui dà». Le litanie (awrād, aḥzāb)
composte dai nomi divini, da formule di ricordo e da versetti coranici
sono state diffuse tra i musulmani sin dai tempi piú antichi e sono
diventate un segno distintivo della pratica sufi, seconde soltanto al
dhikr. Alcune menzionano i novantanove piú bei nomi di Dio; una, «La
grande cotta di maglia» (al-jawshan al-kabīr), illustra l’enorme
ricchezza della lingua araba attraverso l’impiego di mille diversi nomi
di Dio 4.

2. Il dhikr nella tradizione sufi.

Data la centralità del ricordo di Dio nel Corano e nel Ḥadīth, non c’è
alcun dubbio che il dhikr fosse fondamentale per la pratica islamica
durante i primi secoli. Mentre gradualmente codificarono la sharī’a, i
giuristi non poterono tuttavia imporre il dhikr alla comunità dei fedeli.
Anche se il Corano ordina con insistenza agli uomini di ricordare Dio,
per sua natura il dhikr è connesso molto di piú all’intenzione e
all’intima consapevolezza che non al comportamento esteriore, che è
regolato dalla sharī’a. Eppure, data l’accezione generica in cui il
termine è utilizzato nel Corano, non ci si allontanava molto dal
significato coranico se si affermava che la recitazione del Corano, il
«Ricordo» per eccellenza, fosse nient’altro che la pratica del ricordo di
Dio. Per di piú il Corano chiarisce che la preghiera canonica giornaliera
(ṣalāt) è anch’essa il ricordo di Dio. In questo senso, i giuristi resero il
dhikr un dovere per tutti i musulmani. Inoltre, essi scrissero
copiosamente volumi di suppliche e formule di ricordo con le quali
tutti i musulmani avrebbero dovuto tenersi occupati il piú possibile.
Tuttavia, per la sharī’a queste pratiche possono essere considerate
soltanto raccomandate e lodevoli, non prescritte e obbligatorie.
I sufi si distinguono dagli altri musulmani in parte perché
considerano il ricordo di Dio, inteso come la menzione dei Suoi nomi
secondo l’insegnamento impartito dai loro maestri, come obbligatorio
e non semplicemente raccomandato. Sono loro che ci ricordano
costantemente che l’essenza di tutte le attività rituali, dopotutto,
consiste nel ricordare Dio. Perché gli uomini dovrebbero pregare e
digiunare? Per ricordare Dio, per tenerLo costantemente al centro dei
loro pensieri. «Iḥsān significa adorare Dio come se Lo vedessi» e
mantenere la lingua umida attraverso la menzione del Suo nome è un
aiuto per farlo. Lo shaykh naqshbandī Khwāja Muḥammad Pārsā (m.
1420) scrive: «Il fondamento per essere un buon musulmano è “Non
vi è dio all’infuori di Dio”, parole che sono identiche al ricordo».
Quindi, egli dice, lo spirito della preghiera giornaliera e delle altre
pratiche rituali, come il pellegrinaggio e il digiuno, consiste nel
«rinnovare il ricordo di Dio nel cuore» 5.
Allo stesso modo i sufi considerano tutti gli insegnamenti teoretici
islamici come intesi a risvegliare il ricordo nell’anima. Nel commentare
gli insegnamenti coranici, essi dimostrano che il dhikr implica molto di
piú che non le sole attività rituali suggerite dal nome. Il ricordo
completo significa realizzare ogni perfezione latente nella disposizione
umana originale (fiṭra), in virtú del fatto che essa è un’immagine
divina. Al-Ghazālī e molti altri parlano della perfezione umana come di
un «conformarsi alle caratteristiche dei nomi divini» (al-takhalluq bī ‘l-
asmā’ al-ilāhiyya). Il nome Allāh è il nome omnicomprensivo (al-ism
al-jāmi’), termine di riferimento per tutti gli altri nomi divini, perciò il
grado della perfezione umana è a volte indicato come «diventare
simile a Dio» (ta’alluh), che potrebbe anche essere tradotto con
«deiformità» o «teomorfismo». Per molti sufi, il ricordo dello stesso
nome Allāh è il segno di un’individualità umana pienamente realizzata,
alla quale si fa riferimento nel detto profetico: «L’ultima ora non
arriverà fin tanto che rimarrà qualcuno in questo mondo a dire “Dio,
Dio!”» 6.
Il segno distintivo dell’immagine divina sul cui modello sono stati
creati gli esseri umani è l’intelligenza, che li distingue da tutte le altre
creature. L’invocazione di Dio – ovvero il ricordo – risveglia nel cuore
la consapevolezza di Dio e realizza l’immagine divina latente
nell’anima. La felicità ultima non è nient’altro che il ricordo della
sorgente della nostra vera natura, vale a dire Dio stesso; ovvero la
realizzazione dei tratti della vera natura umana, tratti che sono i segni
dei nomi di Dio.
La shahāda è comunemente chiamata «il miglior dhikr». Come
abbiamo visto essa racchiude tutti gli insegnamenti e le pratiche sufi.
L’obiettivo del ricordo di Dio è di annullare ogni altra cosa diversa da
Dio e di arrivare a sussistere nel divino. Come afferma Ibn ‘Aṭā’ Allāh:
«Nessuno dice Non vi è dio all’infuori di Dio correttamente a meno che
egli non respinga dalla propria anima e dal proprio cuore tutto ciò che
è diverso da Dio» 7. Il suo contemporaneo Najm al-Dīn Razī scrive:

Con non vi è dio il musulmano praticante nega tutto ciò che non è il Vero,
mentre con all’infuori di Dio afferma la Presenza della Esaltazione. Quando egli fa
ciò in maniera costante e vi si attiene scrupolosamente, l’attaccamento dello
spirito a qualsiasi altra cosa diversa da Dio viene gradualmente reciso dalle forbici
di non vi è dio. La bellezza dell’imperiosità di all’infuori di Dio si svela da dietro al
Padiglione della Esaltazione. Nel tener fede alla promessa, Ricordati di me, e Io ti
ricorderò [2:152], il ricordo è liberato dall’involucro di lettere e suoni. Le
caratteristiche specifiche di Ogni cosa perisce eccetto il Suo volto [28:88]
diventano manifeste nella rivelazione della luce della magnificenza della Divinità 8.

Sebbene molti dotti convengano nel ritenere che la formula di


ricordo per eccellenza sia «Non vi è dio all’infuori di Dio», altri
sostengono che il «ricordo singolo» (al-dhikr al-mufrad) – la menzione
del solo nome Allāh – sia superiore. Ibn ‘Arabī spesso cita,
concordando con lui, le parole di uno dei suoi maestri, Abū ‘l-Abbās
‘Uryabī, che reputava migliore il nome singolo, perché nel ricordare
«Non vi è dio all’infuori di Dio» si potrebbe morire nella terribile
distanza della negazione, mentre nel ricordare solo Dio, si può
soltanto morire nell’intimità dell’affermazione 9.
I maestri sufi adoperavano nomi e formule di ricordo specifiche per
far emergere le potenzialità spirituali e per plasmare i tratti del
carattere dei loro discepoli. Molti testi sufi offrono informazioni sui
nomi che possono essere utilizzati in modo appropriato dagli iniziati
nelle diverse stazioni della loro crescita spirituale, sebbene mai senza
il permesso e l’indicazione (talqīn) di un maestro. Testi sui «piú bei
nomi», come al-Maqṣad al-asnā («Il fine piú elevato») 10 di al-Ghazālī,
spesso dibattono dei tratti morali e delle attitudini spirituali che
ciascuno dei singoli nomi riflette a livello umano. Ibn ‘Aṭā’ Allāh dedica
diverse pagine alle proprietà dei vari nomi e alla loro influenza sugli
iniziati nei diversi gradi del loro cammino spirituale. Egli fa rilevare,
per esempio, che il nome il Ricco o l’Autosufficiente (al-Ghanī) risulta
utile per coloro che cercano l’astrazione (tajrīd) dagli eventi, ma sono
incapaci di raggiungerla. Il nome il Concessore di Favori (al-Mannān)
reca giovamento a coloro che hanno superato le gioie del sé piú
abietto, ma è dannoso per chi ha ancora bisogni egocentrici 11.
Nonostante le molte discussioni sui benefici dei nomi specifici, i
testi spesso affermano che coloro che ricordano i nomi di Dio non
dovrebbero curarsi dei vantaggi e dei risultati, siano essi immediati o
futuri. Piuttosto, dovrebbero mettere in pratica il proposito espresso
nella preghiera di Rābi’a: «Oh Dio, se Ti adoro per paura dell’inferno,
bruciami nell’inferno e se Ti adoro per la speranza del paradiso,
proibiscimelo. Ma se io Ti adoro per Te, non tenermi lontano dalla
Bellezza Eterna» 12.
Alcuni sufi hanno parlato di un dhikr trascendente, poiché in ultima
analisi ricordare Dio è una caratteristica dell’iniziato e pertanto fa
parte del dominio esclusivo di Dio. Secondo al-Nūrī (m. 907), il vero
ricordo è «l’estinzione di colui che ricorda nel Ricordato» 13. Ibn ‘Arabī
spiega che non ci può essere ricordo dopo che il velo è stato rimosso,
perché quando il viandante «attesta» (mushāhada) l’esistenza di Dio,
il sé individuale si estingue.

Non c’è nessun ricordo insieme con la testimonianza. Quindi coloro che
ricordano devono essere velati. Sebbene [un ḥadīth dica]: «Dio siede con coloro
che Lo ricordano», ciò avviene dietro il velo del ricordo. Ogni qualvolta l’oggetto
della ricerca di qualcuno è dietro un velo, egli non può sentirsi sereno. Quando il
velo è rimosso, avviene la testimonianza, e il ricordo scompare nello svelamento
del Ricordato 14.

Qūnawī (m. 1274), discepolo di Ibn ‘Arabī, scrive che il viandante


deve gradualmente abbandonare ogni ricordo, sia esteriore sia
interiore, finché raggiunge un vuoto totale 15. Tuttavia, l’ultima parola
per la maggior parte degli iniziati spetta a Ibn ‘Arabī: «Il ricordo è
superiore all’abbandono, perché lo si può solo abbandonare durante la
testimonianza, e la testimonianza non può mai essere raggiunta in
senso assoluto» 16.
Nelle opere sufi si possono trovare molte classificazioni del dhikr.
Alcune di queste si riferiscono alla profonda concentrazione raggiunta
dal discepolo, come il ricordo della lingua, del cuore e del mistero piú
recondito o cuore segreto (sirr). Un’altra comune distinzione è quella
tra il dhikr ad alta voce o pubblico e quello silenzioso o privato. Il
dhikr ad alta voce era di solito praticato in gruppi, seguendo i diversi
rituali stabiliti dalle diverse confraternite sufi. Le sessioni di
invocazione pubblica variano da quelle piú riservate a quelle estatiche.
Alcuni gruppi, come la Mawlāwiyya (che si rifà a Rūmī come suo
fondatore), consideravano la musica e la danza un aiuto per la
concentrazione; altri proibirono tutto ciò che non fosse recitazione del
Corano o lunghe litanie di nomi e formule eseguite collettivamente. La
maggior parte dei sufi sarebbe probabilmente d’accordo col dire che le
sessioni di gruppo sono una forma secondaria della pratica sufi,
perché il progresso dell’iniziato lungo il cammino spirituale, nella
misura in cui non dipende esclusivamente dalla grazia di Dio, è dovuto
agli sforzi individuali. Sa’dī (m. 1292) non parla metaforicamente
quando all’inizio del suo famoso Gulistān dice: «Ogni respiro preso
riempie la vita, e una volta emesso, infonde gioia nell’anima. Cosí
ciascun respiro vale come due benedizioni e ciascuna benedizione
richiede un ringraziamento». È il ricordo silenzioso e perseverante di
Dio, riconoscente per ogni respiro e per ogni battito del cuore, che
porta l’iniziato, nel rispetto della sunna, al raggiungimento
dell’obiettivo finale.
Capitolo sesto
La via dell’amore

A partire dal XIII secolo pochi temi hanno avuto negli insegnamenti
sufi un ruolo cosí importante quanto l’amore. Gli storici hanno di solito
parlato di uno sviluppo graduale del sufismo, che ha avuto inizio con
una mistica basata sull’ascesi e sul timore, lentamente si è
trasformato in accentuazione dell’amore e dell’aspetto devozionale e
infine è giunto a dare preminenza alla conoscenza e alla gnosi. Alcuni
hanno suggerito che questi tre modi per avvicinarsi a Dio
corrispondono ai tre cammini principali dell’induismo: karma yoga,
bhakti yoga e jnana yoga. Quale che sia il valore euristico di tali
schemi, non c’è dubbio che sin dai tempi piú antichi i musulmani che
si sforzavano di raggiungere la vicinanza con Dio hanno fatto ricorso
alle opere, all’amore e alla conoscenza. Ogni attenta lettura del
Corano mostrerà che esso prefigura le diverse possibilità dello
svelamento dell’anima. E ogni attenta lettura della letteratura sufi
rivelerà in tutti i periodi storici un’acuta introspezione nella
complessità dell’animo umano.
Si potrebbe sostenere che l’Islam si basa sul karma yoga, perché
ciascuno, senza eccezione, deve osservare la sharī’a, che stabilisce le
regole per conformarsi, attraverso le proprie azioni, al volere di Dio. Si
può anche ritenere che i musulmani e i sufi accentuino il jnana yoga,
perché in genere essi attribuiscono alla conoscenza un valore
maggiore rispetto agli ebrei e ai cristiani. Tuttavia, è all’amore che il
sufismo riconosce una certa preminenza. Nelle pagine seguenti vorrei
accennare brevemente al significato dell’amore cosí come è espresso
nell’opera dei due grandi spartiacque della tradizione, Rūmī e Ibn
‘Arabī. Non voglio suggerire che l’uno o l’altro abbiano trascurato i
sentieri della conoscenza e dell’azione, e anzi, per quanto riguarda Ibn
‘Arabī, possono essere addotte valide argomentazioni a favore del
fatto che egli ha dato priorità alla conoscenza. Intendo, piuttosto,
evidenziare semplicemente la comprensione basilare della realtà
dell’amore da parte del sufismo, dato che l’amore è spesso il tema
principale dei testi sufi.
Nonostante l’amore fosse enfatizzato di rado nelle prime
espressioni del sufismo, nel Corano vi si fa riferimento in molti versetti
chiave, che ne chiariscono il ruolo essenziale. Abbiamo già discusso a
proposito di uno di questi versetti, che ci dice che l’amore di Dio per
gli uomini aumenta di pari passo con il loro successo nel conformarsi
all’esempio del Profeta. Sebbene questo versetto indichi nell’amore
per Dio la condizione preliminare per ricevere in cambio il Suo amore,
tutti coloro che Lo hanno molto amato hanno compreso che è proprio
l’amore di Dio per gli esseri umani a suscitare in primo luogo l’amore
per Lui: Gli uomini non potrebbero amare Dio se già Lui non li
amasse. Il ḥadīth del Tesoro Nascosto precisa esattamente questo,
che Dio ha creato gli uomini a causa del Suo amore per loro. Il
versetto coranico citato piú spesso come prova scritturale per questa
gerarchia dell’amore è: «Egli ama loro, e loro Lo amano» (5:54).
Prima Dio ama gli esseri umani, poi gli esseri umani amano Dio. Una
volta che essi giungono ad amarLo, il Suo amore per loro aumenterà
nella misura in cui essi seguono il Profeta, purificano e coltivano la
propria anima, ricordano Dio incessantemente e diventano esseri
umani perfetti.
Che l’amore venga menzionato o meno, le prime espressioni della
realtà del sufismo tendono ad assumere la forma di brevi detti, che
toccano una grande varietà di argomenti riguardanti il cammino verso
Dio. Due o tre figure spiccano, come Rābi’a e al-Ḥallāj, ricordati come
esempi perfetti di una vita d’amore. Ma dall’XI al XIII secolo – cioè dal
V al VII secolo dell’egira – apparvero numerosi e importanti autori che
delinearono una dettagliata psicologia dell’amore. Il famoso Abū
Ḥāmid al-Ghazālī scrive a volte a proposito dell’amore umano e divino,
ma il suo meno celebre fratello, Aḥmad (m. 1126), dedica gran parte
dei suoi Sawāniḥ, opera relativamente breve in persiano, all’amore
come realtà fondamentale e unitiva dell’anima. Ad essa si ispirarono in
seguito dozzine di trattati successivi. Un discepolo di Aḥmad al-
Ghaẓālī, Ayn al-Quḍāt Hamadānī (m. 1131), svolse un ruolo
fondamentale nell’elaborazione di una psicologia e di una metafisica
dell’amore. Forse il piú originale e profondo nell’approccio – in un
periodo in cui vissero molti grandi maestri – fu Aḥmad Sam’ānī (m.
1140), quasi del tutto sconosciuto agli studiosi moderni (di lui si
parlerà piú diffusamente nel nono capitolo). In seguito fece la sua
comparsa il grande poeta persiano ‘Aṭṭār (m. 1221), le cui opere
toccarono tutti i temi dell’amore.
Nonostante il gran numero di autori che hanno scritto sull’amore
divino e umano, Ibn ‘Arabī e Rūmī possono essere considerati i due
piú grandi maestri della tradizione. Ibn ‘Arabī nacque a Murcia, in
Spagna, e morí a Damasco nel 1240; autore molto prolifico in lingua
araba, è considerato il principale teologo e filosofo sufi. Nei secoli
successivi il suo nome divenne quasi sinonimo dell’espressione waḥdat
al-wujūd, «l’Unicità dell’Essere», dottrina che è stata spesso
considerata la sintesi della sua visione filosofica 1. Scrisse piú di
cinquecento opere in prosa, alcune delle quali di notevole lunghezza,
e qualcosa come ventimila versi poetici. Il suo piú giovane
contemporaneo, Rūmī, nato a Balkh nell’attuale Afghanistan, si trasferí
in gioventú in Anatolia, stabilendosi infine a Konya, nell’odierna
Turchia, dove morí nel 1273. Egli compose circa sessantacinquemila
versi di straordinaria poesia in lingua persiana, unitamente a tre brevi
opere in prosa. Il mondo di lingua persiana, dalla Turchia all’India,
guarda a Rūmī come al piú grande poeta spirituale della storia,
proprio come l’intero mondo islamico considera Ibn ‘Arabī il piú grande
teorico sufi.
Ibn ‘Arabī e Rūmī appartengono a due diverse sponde del sufismo e
ciascuno, alla propria maniera, segna il punto piú elevato della
tradizione. La maggior parte delle formulazioni degli insegnamenti sufi
successivi è stata ispirata in una certa misura dagli scritti di uno dei
due o da entrambi. Le loro prospettive divergevano sotto molti aspetti,
ma essi condividevano anche numerosi temi, specialmente quello
dell’amore. Nelle pagine che seguono illustrerò come Ibn ‘Arabī spiega
alcuni aspetti della realtà dell’amore e offrirò alcuni esempi appropriati
delle espressioni poetiche di Rūmī sugli stessi concetti.
1. La creatività dell’amore.

Non è possibile dare una definizione dell’amore, anche se ne


possono essere descritti i segni. Su questo punto Ibn ‘Arabī il teoretico
e Rūmī il poeta sono in totale accordo:

Non esiste una definizione dell’amore che permetta di conoscerne l’essenza.


Esistono piuttosto definizioni descrittive e verbali, nient’altro. Quelli che danno
definizioni dell’amore non lo hanno conosciuto, quelli che non l’hanno assaggiato
bevendolo tutto di un sorso non lo hanno conosciuto, e quelli che dicono di
esserne stati soffocati non lo conoscono, perché l’amore significa bere senza
soffocare 2.

Qualcuno domandò, «Cosa significa essere un amante?»


Risposi: «Non chiedermi queste spiegazioni»
«Quando diventerai come me, lo saprai;
quando ti chiamerà, darai la tua versione» 3.

Cosa significa essere un amante? Avere una sete perfetta.


Quindi lasciatemi spiegare cos’è l’acqua della vita 4.

A livello divino, l’amore può essere definito la forza motrice


dell’attività creativa di Dio. In uno dei suoi tanti commenti sul ḥadīth
del Tesoro Nascosto, Ibn ‘Arabī ci dice che il tipo di conoscenza che
Dio desiderava raggiungere attraverso la creazione era una
conoscenza che avesse la sua origine nel tempo, perché Egli già
conosceva Se stesso e tutte le cose nell’eternità. Ibn ‘Arabī fa questa
osservazione mentre traccia un parallelo tra l’amplesso al fine di
procreare e il desiderio di Dio di essere conosciuto al fine di creare
l’universo.

Quando l’unione coniugale avviene per il desiderio della riproduzione e della


procreazione, essa si collega alla condizione dell’amore divino nel momento in cui
non esisteva il cosmo. Egli «amò per essere conosciuto». Quindi, a causa di
questo amore, Egli volse il Suo desiderio verso le cose mentre erano ancora in
uno stato di non-esistenza. Esse erano ancora allo stadio di radici, pronte a
sviluppare le loro potenzialità. Egli disse loro: Siate! Cosí esse pervennero
all’essere, in modo che Lui potesse essere conosciuto attraverso ogni genere di
conoscenza. Questa fu la conoscenza temporale. Fino ad allora essa non aveva
alcun oggetto, dal momento che colui che conosce attraverso di essa non era
ancora stato dotato dell’esistenza. Il Suo amore cercò la perfezione della
conoscenza e la perfezione dell’esistenza 5.

In un altro brano Ibn ‘Arabī spiega il significato del desiderio di Dio


di essere conosciuto attraverso il commento del versetto coranico:
«Ed Egli è con voi ovunque voi siate» (57:4). L’amore di Dio per gli
esseri umani significa che Egli non li lascia mai fuori del Suo sguardo.

L’amore di Dio per i Suoi servi non è limitato da un inizio e da una fine, perché
non accetta qualità temporali o accidentali… Quindi l’amore di Dio verso di loro è
lo stesso di quello espresso nel versetto Egli è con loro ovunque essi siano [57:4]
… Proprio come Egli è con loro nello stato dell’esistenza, cosí lo è anche in quello
della non-esistenza, perché essi sono gli oggetti della Sua conoscenza. Egli
attesta la loro esistenza e li ama infinitamente… Egli ha sempre amato le Sue
creature, proprio come le ha sempre conosciute… La Sua esistenza non ha un
punto d’origine, cosí come non lo ha il Suo amore per i Suoi servi 6.

In una delle sue opere in prosa, Rūmī spiega il significato del


Tesoro Nascosto riferendosi alle due categorie degli attributi divini –
misericordia e collera, o gentilezza e severità. Dio creò il mondo per
manifestare tutti i suoi attributi, e ciò richiede un’infinita diversità:

Dio dice: «Ero un Tesoro Nascosto, cosí ho desiderato essere conosciuto». In


altre parole: «Ho creato l’intero cosmo, e l’obiettivo di tutto ciò era renderMi
manifesto, a volte attraverso la gentilezza, altre attraverso la severità». Dio non è
il tipo di re per il quale sarebbe sufficiente un unico araldo. Se tutti gli atomi
dell’universo fossero i Suoi araldi, essi sarebbero inadeguati e incapaci di farLo
conoscere 7.

Rūmī indica spesso nell’amore il motivo della creazione di Dio,


attraverso il commento di una frase rivolta da Dio a Muḥammad: «Se
non fosse stato per te, non avrei creato le sfere celesti». Il Profeta
rappresenta la completezza dell’amore realizzato, attraverso il quale e
per il quale fu creato l’universo.

L’amore fa ribollire il mare come una pentola,


l’amore trita le montagne fino a ridurle in sabbia.
L’amore frantuma il cielo in centinaia di pezzi,
l’amore scuote la terra con un possente sussulto.
L’amore puro assomigliava a Muḥammad –
per amore Dio gli disse: «Non fosse stato per te».
Dal momento che lui solo era il fine dell’amore,
egli fu scelto fra tutti i profeti.
«Se non per puro amore,
perché darei esistenza alle sfere?»
«Ho innalzato la volta celeste
perché tu potessi comprendere l’elevatezza dell’amore» 8.

2. Il vero amato.

Dio creò il mondo attraverso l’amore, quindi l’amore produce la


molteplicità che riempie l’universo. Egli non cessa mai di amare le
creature, quindi non cessa mai di crearle, e ciò mantiene l’universo in
uno stato perpetuo di flusso e di trasformazione. Tutte le cose sono
intrise d’amore, perché l’attributo dell’amore divino le porta in vita ed
è causa di ogni loro attività.

Il Profeta disse: «Dio è bello e ama la bellezza», e questo è un ḥadīth sicuro.


Cosí Egli descrisse Se Stesso come bellezza che ama, ed Egli ama il cosmo.
Quindi, non c’è niente di piú bello del cosmo. Egli è bello, e siccome la bellezza è
intrinsecamente amabile, di conseguenza l’intero cosmo ama Dio. La bellezza
della Sua arte pervade la Sua creazione, mentre il cosmo è il luogo in cui Egli
diviene manifesto. Pertanto l’amore di alcune parti del cosmo per altre deriva
dall’amore di Dio per Se Stesso 9.
La saggezza di Dio attraverso il destino da Lui stabilito e il Suo volere
ha fatto in modo che ci amassimo l’un l’altro.
La predestinazione ha accoppiato tutte le parti del mondo
e ha fatto innamorare ciascuna del suo compagno…
La femmina tende verso il maschio,
in modo che ognuno possa perfezionare il lavoro dell’altro.
Dio ha posto questa inclinazione nell’uomo e nella donna,
affinché il mondo possa perdurare attraverso la loro unione 10.

Il potere creativo dell’amore non si ferma alla manifestazione e al


mantenimento del cosmo. Sebbene i gioielli del Tesoro Nascosto siano
stati rivelati, la maggior parte delle creature non li riconosce per ciò
che sono, né comprende che i loro stessi amori e desideri esprimono
l’amore di Dio. Il loro amore è semplicemente lo stesso amore di Dio
riflesso nelle creature. Ne consegue, come sostiene Ibn ‘Arabī, che:
«Nessuno ama Dio all’infuori di Dio» 11, e «Non c’è alcun amante e
alcun amato se non Dio» 12. Gli amanti afferrano questo concetto
quando raggiungono lo stadio nel quale vedono Dio in ogni cosa
esistente. Questo è l’amore pienamente realizzato citato nel ḥadīth:
«Quando amo il Mio servo, Io sono l’udito con cui egli ascolta, la vista
attraverso cui egli vede». Ibn ‘Arabī scrive:

L’anima comprende che essa vede Dio soltanto attraverso di Lui, e non
attraverso se stessa, e che Lo ama solo attraverso di Lui, e non attraverso se
stessa. Quindi è Lui che ama Se Stesso – e non l’anima che Lo ama. L’anima Lo
guarda insistentemente in ogni cosa esistente proprio attraverso il Suo stesso
sguardo. Quindi essa sa che nessuno Lo ama all’infuori di Lui. Egli è l’amante e
l’amato, colui che cerca ed è cercato 13.

Rūmī offre molte versioni simili dell’amore di Dio, che pervade tutte
le cose. Ma la sua prospettiva si focalizza piú sulla pratica che non
sulla teoria, e cosí ricorda continuamente ai suoi lettori la loro
condizione. Ecco una sua poesia amorosa, ghazal 14:

È impellente per gli amanti il desiderio di cercare l’Amico,


scorrendo come un torrente in piena verso il Suo fiume.
È Lui Stesso che cerca, e noi siamo come ombre.
Tutto il nostro parlare e chiacchierare sono le parole dell’Amico.
Alcune volte ci rallegriamo come acqua che scorre nella Sua corrente,
a volte siamo intrappolati come l’acqua nella Sua caraffa.
Ancora bolliamo come le carote nella pentola mentre Lui mescola
con il mestolo del pensiero – tale è il temperamento dell’Amico.
Egli avvicina le Sue labbra al nostro orecchio e sussurra
e la nostra anima prontamente si impregna della Sua fragranza.
Egli viene come lo spirito dello spirito, senza lasciare scampo –
non ho mai visto uno spirito che fosse un nemico dell’Amico!
Ti farà intenerire con civetteria, rendendoti fragile come un capello –
ma non accetteresti due mondi in cambio di un solo capello dell’Amico.
Ci mettiamo a sedere con l’Amico dicendo: Amico, dove [kū] sei?
Ebbri, continuiamo a parlare in tono amorevole [kū] 15 lungo il sentiero
dell’Amico.
Le tristi immagini e gli oscuri pensieri provengono da una natura oziosa e non
dall’Amico.
Rimani in silenzio, cosí che Egli stesso possa descrivere Se stesso!
Cosa ha a che vedere il tuo freddo «hey, hey» con il Suo «hey, hey»?! 16.

Ibn ‘Arabī e soprattutto Rūmī rammentano costantemente ai loro


lettori che l’amore per ogni creatura non può essere nient’altro che
amore per Dio. Solo l’ignoranza, come un velo, impedisce agli uomini
di percepire ciò che amano. Ibn ‘Arabī scrive:

Nessun altri che Dio è amato nelle cose esistenti. È Lui che è manifesto in ogni
amato agli occhi di ogni amante – e non c’è nessuna cosa esistente che non ami.
Cosí tutto il cosmo è amante e amato, e tutto ciò torna a Lui. Allo stesso modo,
nessuno è adorato se non Lui, perché nessun adoratore adora qualcosa senza
immaginare la divinità che è in essa; altrimenti, egli non l’adorerebbe. Cosí Dio
dice: Il tuo signore ha decretato che non adori altri che Lui [17:23].
Cosí è anche per l’amore. Nessuno ama qualcun altro se non il proprio
Creatore, ma ci separa da Lui il velo dell’amore per Zaynab, per Su’ād, per Hind,
per Laylā, per questo mondo, per il denaro, per la posizione e per tutto ciò che
amiamo quaggiú. I poeti consumano le loro parole su tutte queste cose, ma in
realtà essi non comprendono. Gli gnostici non ascoltano mai un verso, un
indovinello, un elogio, una poesia d’amore che non riguardi Dio, nascosto dietro il
velo delle forme 17.

Nella sua opera in prosa piú importante Rūmī afferma lo stesso


concetto con queste parole:

Tutte le speranze, i desideri, gli amori e gli affetti che gli uomini hanno per
varie cose – il padre, la madre, gli amici, il cielo, la terra, i giardini, i palazzi, le
scienze, le azioni, il cibo, le bevande – tutti sono desideri per Dio, e queste cose
sono come dei veli. Quando gli uomini lasceranno questo mondo e vedranno il Re
Eterno senza quei veli, allora capiranno che tutte quelle cose erano veli e
parvenze e che l’oggetto del loro desiderio era in realtà una Cosa Sola. Tutte le
loro difficoltà saranno superate, tutte le domande e le perplessità che avevano in
fondo al cuore troveranno una risposta, ed essi vedranno ogni cosa faccia a
faccia 18.

Tutto l’amore è in realtà amore per Dio. L’amore è bello perché è


divino, ma esso rimane un velo ingannevole fin tanto che gli amanti
non riconoscono il suo vero oggetto.

L’amore è un attributo di Dio, che non ha bisogni –


l’amore per qualsiasi altra cosa è una metafora.
La bellezza delle altre cose è indorata:
di fuori è luce, dentro è fumo.
Quando la luce va via e appare il fumo,
l’amore metaforico si trasforma in ghiaccio.
La bellezza ritorna alla propria radice,
il corpo è abbandonato – putrido, sgraziato, sgradevole.
Il chiaro di luna ritorna alla luna,
il riflesso della luna lascia il muro.
L’acqua e l’argilla rimangono senza forma –
senza la luna il muro diventa demoniaco.
Quando l’oro salta via dalla faccia della moneta falsificata,
se ne torna a sedere nella sua miniera.
Il rame messo a nudo è come il fumo
e ancor piú vergogna prova chi l’amava.
Quelli che hanno gli occhi rivolgono il proprio amore alla miniera d’oro,
e ogni giorno cresce il loro amore.
La miniera non ha eguale nel suo splendore
Salve! Oh Miniera d’Oro! In te non ci sono dubbi 19.

L’amore è una realtà sempre presente, ma tende ad essere


sprecata e dissipata perché le persone si innamorano dei riflessi
dell’Amato. Qui ritorniamo alla centralità della conoscenza. Anche se
Rūmī dedica tutte le sue opere all’amore, egli ci rammenta
continuamente che il vero amore dipende dal discernimento. L’amante
deve essere in grado di distinguere l’oro da ciò che è placcato in oro.

L’amore fa diventare l’amaro dolce,


l’amore trasforma il rame in oro,
l’amore cambia la feccia in vino,
l’amore muta la malattia in guarigione,
l’amore riporta il morto in vita,
l’amore trasforma i re in schiavi –
Ma questo amore proviene dalla conoscenza.
Quando mai un pazzo si è seduto su questo trono?
Come può una falsa conoscenza far nascere l’amore?
Essa fa nascere l’amore, ma per le cose inanimate.
Quando vede il colore del suo desiderio nelle cose,
ascolta il richiamo dell’amato in un fischio.
La falsa conoscenza non conosce la differenza –
pensa che il lampo sia il sole 20.

In breve, l’amore per Dio si sviluppa dall’attestazione di fede


fondamentale, la dichiarazione della realtà unica di Dio: «Non vi è Dio
all’infuori di Dio». Dato che l’amore è un attributo divino, ne consegue
che: «Non c’è nessun vero amante e nessun vero amato all’infuori di
Dio». Una volta che gli amanti vedono le cose chiaramente, scoprono
di amare nella creazione ogni cosa, perché l’intero creato rivela la
bellezza di Dio e il loro amore rivela l’amore di Dio. Ibn ‘Arabī ci dice
che quando gli iniziati vanno oltre l’amore «naturale» e «l’amore
spirituale» essi raggiungono la stazione dell’amore «divino», nel quale
amano Dio in tutte le cose attraverso l’amore delle cose da parte di
Dio. Poi essi amano tutte le cose in ogni dimensione dell’esistenza.

Il segno distintivo dell’amore divino è l’amore per tutti gli esseri in ogni dominio
– spirituale, sensoriale, immaginale e immaginario. Ogni dominio ha un occhio
che riceve la Luce dal suo Nome, un occhio attraverso il quale esso guarda verso
il Suo nome il Bello 21.

Quando il loro amore è completo, gli amanti vivono nella gioia di


sperimentare la propria unione con l’Uno, che è sia amante sia amato.
Come dice Rūmī:

La gioia e l’afflizione degli amanti sono Lui,


le retribuzioni e il salario per il servizio sono Lui.
Se essi guardassero con insistenza qualcuno che non sia l’amato,
come potrebbe quello essere amore? Sarebbe vana fantasia.
L’amore è quella fiamma che quando divampa,
distrugge tutto, tranne l’Amato immortale.
Uccide «altro che Dio» con la spada di nessun dio.
Guarda attentamente: dopo nessun dio cosa rimane?
Rimane all’infuori di Dio, il resto è scomparso.
Evviva, O Amore, grande fuoco che brucia tutti gli altri!
È Lui solo che è il primo e l’ultimo,
ogni altra cosa nasce dall’occhio che vede doppio 22.

3. La religione dell’amore.

Il presupposto indispensabile dell’amore è la capacità di vedere con


chiarezza. Ciò richiede la comprensione dei nostri limiti e della nostra
inadeguatezza. Dobbiamo riconoscere di non sapere chi siamo.
Attraverso l’ammissione della nostra ignoranza e della nostra
inadeguatezza comprendiamo che Dio solo è adeguato. Noi siamo
lontani dal Vero, lontani dalla totalità, lontani dalla ponderazione,
dall’equilibrio, dalla saggezza, dalla compassione e da ogni altra
qualità desiderabile. Comprendere realmente e assaporare questa
inadeguatezza produce un profondo struggimento nell’anima, che
Rūmī solitamente chiama «pena».

Chi è piú sveglio ha una pena maggiore,


Chi è piú consapevole ha un viso piú pallido 23.

Il fatto di soffermarsi sulla propria pena e sulla propria limitatezza


significa già cercare di porvi rimedio. Rūmī esorta di frequente i propri
lettori a cercare la pena e la sofferenza, per diventare assetati e non
cercare l’acqua.

Dal momento che il Rimedio del mondo consiste nel cercare


la pena e l’inquietudine,
ci siamo esclusi dai rimedi
e siamo i compagni della pena 24.

La comprensione dell’inadeguatezza umana è la comprensione della


nostra nullità di fondo. Il Corano chiama talvolta questa nullità
«povertà» (faqr), una parola che nelle lingue islamiche serve a
designare, molto piú spesso che non lo stesso termine taṣawwuf, ciò
che noi abbiamo chiamato «sufismo». Sia fachiro (dall’arabo faqīr) sia
derviscio (dal persiano darwīsh) significano «uomo povero», ovvero
colui che percorre il sentiero sufi. Il termine è tratto dal Corano, in
particolar modo dal versetto: «O uomini! Voi siete i poveri nei
confronti di Dio, e Dio è ricco, il sempre Degno di Lode!» (35:15).
Come dice Ibn ‘Arabī: «La povertà è una condizione inerente a ogni
cosa che non sia Dio: non c’è alcun modo per sfuggire ad essa» 25.
Scrive Rūmī:

La povertà non c’è per il gusto della privazione –


no, essa c’è perché nulla esiste all’infuori di Dio 26.

Il sufismo è povertà rispetto a Dio. Essere poveri rispetto a Lui


significa riconoscere il proprio bisogno di Lui, e quanto piú profonda e
sincera diventa questa consapevolezza, tanto piú essa si traduce in
un’irresistibile spinta a raggiungere l’Amato. Poche sofferenze sono
cosí profonde quanto quelle degli amanti nella separazione.
Conoscendo la propria pena, gli amanti anelano alla cura di ogni pena,
ovvero al loro Amato. La conseguenza è la guarigione da ogni dolore e
l’unione in totale gioia; tuttavia, senza sofferenza, il viaggio non avrà
mai inizio.

Prima Tu rendi gli amanti come svuotati a causa della separazione,


poi Tu li riempi di oro fino alla punta dei capelli 27.

In Rūmī possiamo trovare migliaia di versi sull’interazione fra


separazione e unione, speranza e paura, sobrietà ed ebbrezza,
estinzione e permanenza, pena e gioia. In ciò consiste la dialettica
dell’amore. Nessun amore è possibile senza gli alti e i bassi inerenti al
reame della creazione. Costantemente egli invita i suoi lettori a
gettarsi nella mischia. Questo ghazal è emblematico:

Quanto il Compagno mi ha fatto soffrire finché questo logorio


si è assuefatto alle lacrime degli occhi e al sangue del fegato!
Mille fuochi e fumi e angosce, tutti chiamati
«Amore»!
Mille pene e rincrescimenti e afflizioni, tutti chiamati
«Compagno»!
Se sei il nemico del tuo io, vieni, in nome di Dio!
Benvenuto al sacrificio dell’anima! Benvenuto al penoso macello!
Guardami – io Lo considero degno di cento morti come questa.
Né temo né fuggo l’uccisione da parte di Colui che mi tiene prigioniero il cuore.
Come l’acqua del Nilo, la tortura dell’amore ha due facce:
acqua per i suoi stessi abitanti, bere il sangue per altri.
Se aloe e candele non bruciassero, di che utilità sarebbero?
L’aloe sarebbe la stessa cosa che tronchi di rovo.
Se le battaglie non avessero colpi di spada e lance e frecce,
come potrebbe un effeminato essere diverso dall’eroe Rustam 28?
Rustam trova la spada piú dolce dello zucchero,
reputa le frecce che piovono meglio che monete d’oro.
Questa leonessa afferra la sua preda con duecento moine,
la preda corre desiderosa, onda dopo onda.
La preda trucidata, coperta di sangue, continua a urlare:
«Per amor di Dio, uccidimi ancora».
Gli occhi della preda massacrata fissano i vivi:
«O disattenti e gelidi, venite, non preoccupatevi».
Silenzio, silenzio! Le allusioni dell’Amore sono capovolte,
il troppo parlare troppo tiene i significati nascosti 29.

Se Rūmī obietta alle sue stesse espressioni poetiche d’amore, a


maggior ragione obietterebbe ai tentativi di Ibn ‘Arabī e di altri sufi
inclini alla teoretica di spiegare la realtà dell’amore. L’amore deve
essere provato e assaporato, e la poesia è molto piú adatta a
esprimerne l’esperienza che non l’indagine razionale. Anziché proporre
ulteriori spiegazioni da parte di Ibn ‘Arabī, presento tre ghazal di
Rūmī, senza tentare minimamente di chiarirne le immagini e le
allusioni. Né cercherò di spiegare perché tali componimenti poetici
debbano essere letti come riferimenti al divino Amato piuttosto che a
un amato umano (l’ambiguità in persiano è accresciuta dal fatto che i
pronomi sono invariabili per genere e non vengono utilizzate le
maiuscole). Per coloro che amano Dio il problema non si pone. Come
afferma Ibn ‘Arabī in un brano già citato: «Gli gnostici non ascoltano
mai un verso, un indovinello, un elogio, una poesia d’amore che non
riguardi Dio, nascosto dietro il velo delle forme».

Se qualcuno si innamora dello splendore del prato,


non meravigliarti che abbia perso come me il suo cuore per amore.
Non parlare di pazienza, la pazienza non arriverà mai
al cuore che è stato messo alla prova da quell’Amico.
Quando l’amore scuote le catene dell’intelletto,
Platone e Avicenna diventano dei pazzi.
Per lo spirito dell’amore! Nessuno spirito sfugge all’amore,
perfino dentro a cento fortezze, a cento corpi.
Se diventi un leone, l’amore è un grande cacciatore di leoni.
Se diventi un elefante, l’amore è un possente rinoceronte!
Se fuggi nelle profondità di un pozzo,
la fune dell’amore ti afferrerà per il collo come un secchio.
Diventi un capello, l’amore è bravo a spaccare un capello in due.
Diventi kebab, l’amore è uno spiedo.
L’amore è il santuario del mondo, la fonte di ogni giustizia,
anche se tende tranelli alla mente dell’uomo e della donna.
Silenzio! Perché la patria della lingua è Damasco, il cuore;
con una tale patria, non chiamarlo straniero 30.

Cosa accadrebbe, ragazzo, se tu diventassi un amante come me,


ogni giorno follia, ogni notte pianto.
La sua immagine che non abbandona i tuoi occhi neanche per un istante,
duecento lampi nei tuoi occhi da quel viso.
Vorresti isolarti dagli amici,
vorresti lavarti le mani del mondo:
«Mi sono separato da me stesso,
sono diventato totalmente tuo.
Quando mi mescolo con queste persone, sono come l’acqua con l’olio,
esteriormente unito, interiormente diviso».
Lasciandoti dietro tutti i desideri egoistici diventeresti pazzo,
ma non di una pazzia che un dottore possa curare.
Se per un istante i medici provassero quest’afflizione,
si libererebbero dalle loro catene e strapperebbero i loro libri.
Basta! Lasciati tutto questo alle spalle e cerca una miniera di zucchero!
Scompari in quello zucchero come il latte in un dolce 31.

Se qualcuno ti chiede delle urì


fatti vedere e di’: «Cosí».
Se qualcuno parla della luna,
sali sul tetto e di’: «Cosí».
Quando qualcuno cerca una principessa delle fiabe
fatti vedere.
Quando qualcuno parla di muschio,
sciogliti le trecce e di’: «Cosí».
Se qualcuno ti chiede:
«Come si separano le nuvole dalla luna?»
Sbottonati la veste, un bottone alla volta,
e di’: «Cosí».
Se ti chiede del Messia,
«Come potrebbe riportare i morti in vita?»
Bacia le mie labbra prima di lui
e di’: «Cosí».
Quando qualcuno dice: «Dimmi,
cosa significa morire d’amore?»
Mostragli la mia anima
e di’: «Cosí».
Se qualcuno per sollecitudine
ti chiede della mia condizione,
solleva le sopracciglia
piegato in due e di’: «Cosí».
Lo spirito si stacca dal corpo,
e poi rientra nuovamente in esso.
Vieni, mostra i quattrini,
entra in casa e di’: «Cosí».
In qualsiasi luogo tu oda
un amante lamentarsi,
quella è la mia storia, tutta quanta,
per Dio, cosí.
Sono la casa di tutti gli angeli,
il mio petto è diventato azzurro come il cielo.
Alza gli occhi e guarda con gioia
il cielo, cosí.
Ho raccontato il segreto dell’unione con l’Amico
soltanto al vento dell’est.
Allora, con la purezza del suo mistero,
il vento dell’est ha sussurrato: «Cosí».
Sono ciechi quelli che dicono:
«Come può il servo raggiungere Dio?»
Metti la candela della purezza nella mano di ognuno,
E di’: «Cosí».
Chiesi: «Come può il profumo di Giuseppe
passare di città in città?»
La fragranza di Dio si diffuse
dalla Sua Essenza e disse: «Cosí».
Chiesi: «Come può la fragranza di Giuseppe 32
ridare la vista ai ciechi?»
La tua brezza giunse e diede la vista
ai miei occhi: «Cosí».
Forse Shams al-Dīn a Tabrīz
mostrerà la sua generosità,
e nella sua cortesia manifesterà
la sua buona fede, cosí 33.
Capitolo settimo
La danza senza fine

Quando entri nella danza,


ti lasci indietro entrambi i mondi.
Il mondo della danza
si trova al di là del cielo e della terra 1.

Durante il mio primo anno d’insegnamento a Stony Brook un


collega mi presentò a una studentessa come docente del nuovo corso
sul sufismo. «Oh! il sufismo, – disse, – cioè la danza, vero?» Sulle
prime mi venne da ridacchiare tra me e me per la sua ignoranza ma,
riflettendoci sopra, pensai che avesse quasi ragione.
Gli Occidentali associarono per la prima volta il sufismo alla danza
quando i viaggiatori di ritorno dal Medio Oriente raccontarono dei
«dervisci roteanti». Piú di recente, molti di coloro che si sono fatti
passare per maestri sufi hanno trovato adepti entusiasti della danza
sufi. In genere, tuttavia, la danza ha svolto un ruolo secondario nel
sufismo, perfino all’interno della confraternita Mawlāwiyya, nella quale
la danza roteante ha avuto un’importanza indiscutibile. Eppure
l’argomento ricorre frequentemente nei testi, e l’analisi di ciò che i
maestri sufi hanno da dire in proposito può aiutarci nella ricerca della
realtà del sufismo.
L’approccio tipico dell’insegnamento sufi è quello di ricondurre ogni
cosa a Dio. Dato che il primo principio della fede e della conoscenza è
«Non vi è dio all’infuori di Dio», vedere le cose come esse sono
realmente implica che esse vengano messe in relazione con la loro
Origine. Per cogliere la realtà della danza, ovvero il suo archetipo
divino, abbiamo bisogno di riandare col pensiero ai principî divini che
diedero origine all’ebbrezza gioiosa e al movimento ritmico. A questo
scopo, possiamo esaminare i principali insegnamenti sufi sui nomi
divini, sull’immagine di Dio e sul sentiero che conduce alla perfezione
umana.

1. I nomi divini.

Vicino, amico, compagno di viaggio – tutti sono Lui.


Negli stracci del mendicante, nel raso del re – tutti sono Lui.
Nel banchetto dello sperpero e nel segreto della riunione,
tutti sono Lui, per Dio – per Dio, tutti sono Lui 2.

In questa quartina Jāmī utilizza un ritornello estatico che è stato


ascoltato per secoli in lingua persiana, almeno sin dai tempi di ‘Abd
Allāh Ansarī (m. 1089). A prima vista, «Tutti sono Lui» suggerisce una
sorta di panteismo semplicistico, il convincimento che la somma di
tutte le creature sia uguale a Dio, e molti osservatori malevoli ne
hanno dato esattamente questa interpretazione. Ma sufi come Jāmī
erano di gran lunga troppo ricercati per non considerare tali
espressioni entusiastiche nient’altro che espedienti retorici, tesi a
risvegliare anime umane dimentiche e negligenti a un aspetto della
realtà che è troppo spesso ignorato. Essi non dimenticarono mai che,
se in un certo senso «Tutti sono Lui», nella nostra situazione attuale è
ancora piú vero che «Nessuno è Lui».
Se guardiamo all’oriente dell’esistenza, ogni cosa mostra la luce
divina, ma la maggior parte delle persone si rivolge verso l’occidente e
non vede nient’altro che molteplicità e dispersione. Per ricondurre
questa molteplicità all’Uno, i pensatori musulmani hanno di solito fatto
ricorso ai nomi divini. Probabilmente il modo piú semplice per
comprenderli è quello di intenderli come il sole e i suoi raggi. Il sole
corrisponde a Dio Stesso (definito «Essenza» nella teologia islamica); i
raggi di luce che si irradiano dal sole corrispondono ai nomi di Dio
(chiamati anche i Suoi «attributi»). I colori e le forme che appaiono
nel mondo a causa dello splendore della luce sono i «segni» di Dio,
ovvero le «creature», l’aspetto orientale delle cose, vale a dire, nel
linguaggio teologico, gli «atti» di Dio. Proprio come un raggio di luce
che entra in una stanza è l’atto del sole, cosí anche ogni creatura – un
albero, un uccello, un fiume, una montagna – è un atto di Dio.
Se consideriamo i nomi divini come dei gioielli, possiamo leggere il
ḥadīth del Tesoro Nascosto come un riferimento alla creazione
dell’universo da parte di Dio attraverso la manifestazione dei Suoi
stessi attributi e delle Sue qualità. Se Dio non avesse dato esistenza al
mondo, i nomi sarebbero rimasti nascosti nello scrigno del tesoro. Non
esisterebbe null’altro che una pura luce abbagliante, senza nessuno
che la guardi e senza nulla da guardare. Secondo Ibn ‘Arabī i nomi
divini sono le possibilità creative latenti in Dio, e sono chiamati
«tesori» nel versetto coranico: «E non v’è cosa di cui non abbiamo
tesori presso di Noi, ma in misura contata ve la mandiamo» (15:21).
Rūmī paragona l’universo a un corso di acqua fluente, «nel quale
risplendono gli attributi della sua Maestà» 3. Egli dice:

Il mondo è schiuma, gli attributi di Dio l’oceano –


La schiuma nasconde al tuo sguardo la purezza dell’Oceano 4.

Secondo Ibn ‘Arabī, «L’intero cosmo è il luogo della manifestazione


dei nomi divini» 5. «In realtà, – dice, – non c’è niente nell’esistenza se
non i Suoi nomi» 6. Il criterio logico qui adottato è chiaro. Egli dice che
tutte le cose provengono da Dio, tutte le cose manifestano Dio, tutte
le cose sono un segno di Dio, tutte le cose rivelano Dio, tutte le cose
non sono altro che Dio, «tutte sono Lui». O, come egli argomenta:
«Non c’è niente che sia esistente all’infuori di Dio. Per quanto riguarda
noi, sebbene esistiamo, la nostra esistenza è attraverso di Lui. Quelli
che esistono attraverso qualcosa di diverso da loro stessi in realtà
sono non esistenti» 7.
Dire che le creature prendono in prestito tutta la loro esistenza e i
loro attributi da Dio e che, in se stessi, essi sono «non esistenti» è
come dire che i colori e le forme che noi percepiamo dovunque
volgiamo lo sguardo non ci mostrano nient’altro che l’esistenza e gli
attributi della luce. Se osserviamo gli oggetti, ci sembra di vedere cose
indipendenti ed esistenti di per sé. Tuttavia, sappiamo che stiamo
percependo soltanto la luce, alla quale sono stati dati specifici colori
dalla non esistenza di certi altri colori. Quindi un’unica luce ci appare
secondo un’ampia gamma di sfumature. Allo stesso modo l’unica cosa
che percepiamo nella creazione è la realtà unica di Dio. Eppure, le
tracce e le caratteristiche dei nomi e degli attributi di Dio ci appaiono
in una varietà infinita di forme e di fogge, e queste sono chiamate
«creature». Come spiega Jāmī:

Le entità sono finestre multicolori,


sulle quali cadono i raggi del sole dell’Essere.
Se le finestre siano rosse, blu, o gialle,
il sole si mostrerà esattamente in quella tonalità 8.

Dio creò gli esseri umani a Sua immagine o, volendo essere piú
fedeli alla lingua araba, «secondo la Sua forma». I sufi hanno spesso
interpretato questo fatto nel senso che gli esseri umani sono come dei
teatri in cui tutti i nomi di Dio manifestano i propri segni come un
insieme unificato, proprio come l’universo manifesta le proprietà dei
nomi in un dispiegamento diffuso all’infinito. La differenza tra gli esseri
umani e le altre creature è che ognuno di noi è creato secondo la
forma di Dio Stesso, e possiede perciò almeno i segni e le proprietà di
tutti i nomi di Dio come un insieme coerente e organico. Le altre
creature manifestano alcuni dei nomi di Dio, ma non tutti. Solo gli
esseri umani manifestano tutti i gioielli del Tesoro Nascosto, quindi
essi soltanto possono conoscere il Tesoro nella sua totalità.

2. L’ascolto primordiale.

Cos’è l’ascolto? Un messaggio dalle cose nascoste nelle profondità del cuore.
Il cuore, uno straniero, trova serenità dalla loro missiva.
Questa brezza fa sbocciare i fiori sul ramo dell’intelletto,
questo strimpellare apre tutti i pori dell’essere 9.

Il Corano parla della rivelazione profetica in generale e dei suoi


stessi versetti in particolare come di «segni», poiché essi forniscono
indicazioni riguardo a Dio e rammentano agli uomini i loro veri sé,
creati a immagine di Dio. Esso si riferisce anche alle creature e agli
eventi dell’universo come a dei segni, poiché ognuno di essi rivela le
tracce dei nomi e degli attributi di Dio. Cosí tutto ciò che è in noi stessi
è un segno di Dio. «Mostreremo loro i Segni Nostri sugli orizzonti del
mondo e in loro stessi» (41:53).
La risposta appropriata ai segni da parte degli uomini è quella di
leggerli e di comprendere ciò che essi dicono. Molti sufi hanno parlato
di tre libri in cui Dio ha scritto la gamma completa dei suoi segni: il
Corano, il cosmo e l’anima umana. Ma la parola Corano significa
letteralmente «recitazione». Molto prima che fosse scritto, il Corano
era un libro ascoltato e recitato. Il Profeta lo ascoltò da Gabriele e poi
lo recitò ai suoi Compagni. Quindi i segni di Dio non vengono solo
osservati ma anche ascoltati: «In verità, ecco dei segni per gente che
sappia ascoltare» (10:67).
Ascoltare il Corano quando viene recitato non è difficile. Ma come
«ascoltiamo» i segni degli altri due libri, l’universo e il sé? Come
evitiamo di ritrovarci tra coloro a proposito dei quali il Corano afferma:
«Essi hanno cuori, ma non comprendono attraverso di essi, e hanno
orecchie, ma non ascoltano attraverso di esse» (22:46)? Per ascoltare
i segni nel mondo e nel sé è sufficiente riconoscere la bellezza divina
nel canto degli uccelli e nel battito del cuore? Oppure l’ascoltare e il
sentire comprendono qualcosa di piú?
Nel Corano Dio dice: «E il nostro unico parlare a una cosa quando
Noi lo vogliamo, è dirle: “Sii!”, ed essa è» (16:40). In altre parole,
ogni cosa nell’universo ha origine come risultato della parola proferita
da Dio. Nel nostro caso, la parola è possibile solo attraverso il respiro.
Per quanto riguarda Dio, la parola avviene soltanto attraverso il
Respiro divino, conosciuto come «lo Spirito», lo stesso spirito che fu
insufflato nell’argilla di Adamo. «Poi Egli armoniosamente lo plasmò e
gli insufflò del Suo spirito» (32:9). Ibn ‘Arabī definisce spesso questo
spirito «il Respiro del Misericordioso». In esso Dio articola le sue
parole e immerge tutte le cose nella misericordia divina, a proposito
della quale il Corano dice: «La mia misericordia abbraccia ogni cosa»
(7:156). Il Respiro del Misericordioso è un’esistenza onnipresente,
«una misericordia per tutte le cose esistenti» 10 e una manifestazione
dell’amore di Dio per il Tesoro Nascosto. «A causa di questo desiderio
di essere conosciuto, Dio respirò, e il Respiro divenne manifesto» 11.
Il Respiro del Misericordioso conferisce esistenza alle forme delle cose possibili,
proprio come il respiro umano conferisce esistenza alle lettere. Quindi il cosmo è
la parola di Dio, in relazione al suo Respiro… Ed Egli ha rivelato che le Sue parole
non si esauriranno, e cosí le Sue creature non cesseranno mai di nascere, e Lui
non cesserà mai di essere un Creatore 12.

Ma come dice Dio «Sii» a qualcosa che non esiste ancora? La


risposta sintetica dice piú o meno questo: prima che le cose abbiano
origine, esse possiedono un certo tipo di essere nei tesori del mondo
invisibile: «E non v’è cosa di cui non abbiamo tesori presso di Noi»
(15:21). Quando Dio dice «Sii» a una cosa, in uno di questi tesori,
essa ascolta il Suo ordine e obbedisce. Viene al mondo, adempie alla
funzione per cui fu creata e poi ritorna ancora nel regno invisibile. «E
a Dio ritornano le cose» (2:210).
Per avere origine le cose hanno bisogno di ascoltare (samā’)
l’ordine di Dio a loro rivolto. La parola samā’ è anche utilizzata con il
significato di «ascoltare la musica» e, per estensione, di «musica». A
partire dalla fine del IX secolo, l’ascolto della musica o «ascolto»,
come il termine è spesso tradotto, divenne una pratica messa in atto
da alcuni sufi, e fu di solito accompagnata dalla danza. La maggior
parte dei giuristi e molti sufi considerarono questa pratica una
trasgressione della sharī’a. Quei sufi che la praticavano offrirono varie
argomentazioni tratte dalla sharī’a per dimostrarne la legittimità.
Tuttavia, il motivo principale era che essi la consideravano un modo
per risvegliare il ricordo di Dio nel cuore. C’è qualcosa nella musica,
dicevano, in grado di trasportare gli uomini nel mondo invisibile,
proprio all’origine della «non-esistenza», in quel reame in cui Dio sta
ancora proferendo loro la Sua eterna parola.
Ibn ‘Arabī non incoraggiava l’ascolto tra i suoi discepoli, ma
spiegava la teoria che stava dietro la pratica. Il vero samā’, ci dice, è
semplicemente il ricordo del primordiale «Sii» (kūn), che determinò in
principio l’essere (kawn) del mondo. La danza che accompagna questo
ricordo riflette il trasferimento delle cose dai tesori del reame invisibile
al mondo. «Ciò che la Gente del samā’ percepisce nelle parole del
cantore è la parola di Dio “Sii“, detta a una cosa prima che essa
esista» 13. La «Gente del samā’» è composta da quei sufi che utilizzano
la musica per raggiungere una condizione estatica.

L’esistenza del reame dell’essere è basata sull’attributo divino della parola,


perché gli esseri non conoscono null’altro di Dio se non la Sua parola. È questa
che essi ascoltano e perciò traggono diletto dall’ascolto, e non possono fare altro
che giungere all’esistenza. L’ascolto dispone naturalmente gli ascoltatori al
movimento, all’agitazione e al trasporto, perché quando sentono la parola Sii sono
trasferiti e trasportati dallo stato della non-esistenza a quello dell’esistenza e cosí
pervengono all’essere. Da ciò trae origine il movimento della Gente del samā’, che
è la gente dell’estasi 14.

Nel tentativo di cogliere la funzione dell’ascolto nella creazione


dell’universo, non dovremmo mai dimenticare il ruolo dell’amore di
Dio, che spinse Dio in primo luogo a dire «Sii». Come principio del
cosmo e come sua energia causale, l’amore pervade l’intera esistenza.
Come afferma Rūmī:

Le creature si mettono in movimento grazie all’amore,


l’amore per Dio in tutta l’eternità.
Il vento danza a causa delle sfere,
gli alberi a causa del vento 15.

Cosa provammo quando sentimmo la parola «Sii» nel nostro stato


di non-esistenza? Ascoltammo un canto meraviglioso, ci deliziammo
con la sua melodia e danzammo nel mondo creato. Da allora, ognuno
di noi danza e si diletta con quella musica, poiché essa riempie
completamente l’universo. Tuttavia essa ha un ritmo talmente
costante che la maggior parte di noi non se ne accorgerà mai. Che lo
notiamo o no, non smetteremo mai di danzare. Jāmī coglie il sapore di
questo canto onnipresente nel seguente ghazal:

Sai cos’è questo, il suono del liuto e della ribeca?


«Tu sei tutto ciò che mi basta, Tu sei il mio tutto, Oh amato Dio!»
L’arido e il cupo non hanno il sapore del samā’,
altrimenti quella canzone si sarebbe impadronita del mondo.
Oh quel Cantore! Una nota,
e ogni atomo dell’essere iniziò a danzare.
L’asceta sta sulla riva dell’immaginazione e della fantasia,
l’anima dello gnostico annega nel mare dell’Essere.
La sacra soglia dell’Amore non ha forma,
ma in ogni forma Esso mostra solo Se stesso.
Esso Si mostrò nel vestito della bellezza di Laylā,
rubò la pazienza e la serenità dal cuore di Majnūn 16.
Annodò il velo di ‘Adhrā’ al Suo viso,
aprí la porta dell’afflizione sulla guancia di Wāmiq 17.
In realtà Esso giocava all’amore con Se stesso,
Wāmiq e Majnūn non sono che dei nomi.
Jāmī vide il riflesso del Coppiere,
poi cadde in prostrazione, una brocca prima della coppa 18.

Fakhr al-Dīn ‘Irāqī (m. 1289), un allievo di Qūnawī, a sua volta


discepolo di Ibn ‘Arabī e autore del classico della prosa persiana
Lama’āt («Bagliori»), offre una spiegazione leggermente piú prosaica
di come l’ordine di Dio abbia spinto tutte le creature alla danza
estatica:

L’amante si trovava a suo agio nell’essere nel non-essere. Riposava nel rifugio
della testimonianza, non avendo visto il volto dell’Amato. All’improvviso la melodia
del Sii lo scosse dal sonno della non-esistenza. L’ascolto di quella melodia rese
manifesta un’estasi e da quell’estasi (wajd) egli trovò l’esistenza (wujūd). Il gusto
di quella melodia entrò nella sua testa: «L’amore gettò la nostra anima nello
scompiglio». Dopo tutto, «Alcune volte l’orecchio si innamora prima dell’occhio».
L’amore sbaragliò la serenità del suo sé esteriore e interiore con la canzone
«L’amante visita colui che ama». Poi lo spirito precipitò nella danza e nel
movimento 19.

I sufi spesso identificano la musica primordiale ascoltata dall’anima


con le parole rivolte da Dio ai figli di Adamo nel «Patto di alast».
Secondo il Corano, quando Dio creò Adamo come Suo vicario, Egli
stipulò un patto con lui e con i suoi figli. «Non sono Io (alast) il vostro
Signore?», domandò. Essi risposero: «Sí! Noi lo testimoniamo»
(7:172). Fu chiesto a Junayd:

«Come mai un uomo che può essere in pace, quando avverte l’Ascolto entra
tuttavia in uno stato di agitazione?»
Egli rispose: «Dio nel Patto si rivolse alla progenie di Adamo con le parole:
“Non sono Io il vostro Signore?” Tutti i loro spiriti erano immersi nel piacere di
quelle parole. Quando essi avvertono l’Ascolto in questo mondo, entrano nel
movimento e nell’agitazione» 20.

Se Junayd, un pilastro del sufismo sobrio, poteva riconoscere il


potere inebriante del samā’, allora non sorprende che Rūmī, il piú
autorevole rappresentante degli infervorati del sufismo ebbro, faccia
della musica di alast un tema frequente della sua poesia. In questo
ghazal egli si rivolge a coloro che hanno formalmente intrapreso il
sentiero sufi, ma che hanno paura di arrendersi all’Amato.

Sei ancora preso dal pensiero di sistemare le tue scarpe e il turbante;


come puoi alzare la coppa del grande bevitore?
Per l’anima mia, vieni per un momento nella taverna!
Anche tu sei figlio di Adamo, sei umano, hai un’anima.
Vieni, da’ in pegno il tuo mantello al mercante di vini di alast,
perché egli ha venduto il vino di alast prima dell’acqua e dell’argilla.
Ti definisci faqīr, gnostico, derviscio, e poi rimani sobrio?
Questi nomi sono metafore, stai immaginando delle cose.
Non sono l’Ascolto ed Egli dà da bere [76:21] il lavoro del derviscio?
Non sono la perdita e il profitto, il poco e il molto, il lavoro del mercante?
Suvvia, dimmi, cos’è alast? Una gioia senza fine.
Non trattenerti con tutte queste cerimonie, sii pronto ad andare.
Se la tua testa non è dolorante, perché te la fasci?
Se il tuo corpo non sente dolore, perché fingere di essere malato? 21

3. La perfezione umana.

I pipistrelli dell’oscurità
danzano nel loro amore per le ombre,
gli uccelli del sole
danzano dall’alba fino alla luce del mattino [93:1] 22.

Quando il Menestrello suonò la Sua melodia, le creature danzarono


nell’esistenza, rivelando i gioielli del Tesoro Nascosto e mostrando che
«Tutti sono Lui». Ma la danza non è ancora completa. Dio disse che
Egli amò «per essere conosciuto» dalle Sue creature. La conoscenza
ha dei gradi, e nessuno di noi dovrebbe mai pensare di saperne
abbastanza.
Senza dubbio, per il solo fatto di esistere, tutte le cose possiedono
una certa conoscenza di Dio. Il Corano afferma in diversi versetti che
«Ogni cosa nei cieli e sulla terra glorifica Dio», e la «glorificazione»
non è un atto inconscio. Come scrive Ibn ‘Arabī,

Dio non creò alcun essere che non fosse vivente e dotato di linguaggio
razionale, sia che fosse una cosa inanimata, una pianta, o un animale, nell’alto o
nel basso mondo. La prova testuale di ciò sono le Sue parole: Non c’è cosa alcuna
che non canti le Sue lodi: solo che voi non comprendete le parole di lode
[17:44] 23.

Rūmī ci dice che quelli che realizzano la conoscenza di se stessi ed


entrano nel novero degli gnostici riescono ad ascoltare il linguaggio di
tutte le cose.

Il linguaggio dell’acqua, il linguaggio della terra, il linguaggio dell’argilla:


tutti sono percepiti dalla Gente del Cuore 24.

Ogni creatura è stata creata con un proprio tipo di conoscenza e di


linguaggio, e ciò le permette di celebrare la gloria di Dio. Ma gli esseri
umani, fatti a immagine divina, sono stati creati per conoscere Dio in
relazione a tutti i Suoi nomi e attributi e, a differenza di quella
posseduta da altre creature, questa conoscenza è una cosa scontata.
Se gli uomini devono ricordare ciò che sanno in maniera innata, essi
hanno bisogno di impegnarsi nella ricerca con la loro volontà. Questo
è esattamente il significato del «Patto di alast», quando i figli di
Adamo accettarono di rispettare il Patto di Dio. Ibn ‘Arabī scrive:
«Dio creò Adamo a Sua immagine», perciò gli ascrisse tutti i Suoi piú bei nomi.
Attraverso la potenza di questi nomi l’uomo fu in grado di rispettare il patto
propostogli. La realtà della sua immagine divina non gli permise di respingere il
Patto, come fecero i cieli, la terra e le montagne, che si rifiutarono di
osservarlo 25.

Solo quando gli uomini hanno attuato l’immagine divina possono


comprendere il vero significato dell’espressione «Tutti sono Lui». Nel
frattempo, essi rimangono ignari della loro vera natura, e continuano
a vivere come se «Nessuno è Lui». Per realizzare pienamente il
proprio potenziale umano, essi hanno bisogno di intraprendere il
sentiero che conduce a Dio. I sufi di epoca successiva definiscono
«uomo perfetto» (insān kāmil ) colui che percorre questo sentiero e
raggiunge la vera condizione umana. Nel raggiungimento della
perfezione seguono le orme del loro padre Adamo, che Dio creò a Sua
immagine, facendone il luogo della manifestazione del Suo stesso
nome che tutto comprende. Questo nome è Dio (Allāh), che abbraccia
e include tutti i novantanove nomi piú belli. Come dice Ibn ‘Arabī:
«Adamo apparve nella forma del nome Dio, perché questo nome
contiene tutti i nomi divini. Perciò l’essere umano, sebbene sia dotato
di un corpo piccolo, contiene tutti i significati» 26. Dal momento che
Dio ci ha fatto sapere che soltanto Adamo fu creato a Sua immagine,
«È come se Egli dicesse: “Tutti i miei nomi diventano manifesti solo
nella figura umana”» 27.
Tutti i figli di Adamo furono creati a immagine di Dio, cosí tutti
hanno le potenzialità per conseguire la perfezione. I sufi citano spesso
il detto del Profeta: «Assumete i tratti distintivi delle qualità di Dio»!
In altre parole, acquisite come vostre le proprietà e le caratteristiche
dei nomi e degli attributi di Dio. Una volta che gli uomini raggiungono
la perfezione dell’immagine divina, essi diventano dei «microcosmi» o
«piccoli mondi», che riuniscono nella propria anima tutte le realtà
disperse nel cosmo. Al-Ghazālī dice:

Dio mostrò benevolenza verso Adamo. Egli gli diede una forma che in piccolo
comprende ogni genere di cosa che si possa trovare nel cosmo. È come se Adamo
fosse tutte le cose del cosmo, o una copia in miniatura del mondo 28.

Ibn ‘Arabī spiega spesso la perfezione umana come la realizzazione


dell’immagine divina e della corrispondenza tra l’essere umano e
l’universo. Ecco due esempi:

Negli esseri umani vi è la potenzialità di ogni cosa esistente nel cosmo e quindi
essi ne possiedono tutti i gradi. Questa è la ragione per cui solo loro furono scelti
per la Forma. Gli uomini riuniscono in sé le realtà divine – che sono i nomi – e le
realtà del cosmo, dal momento che essi sono stati gli ultimi ad accedere
all’esistenza… Negli esseri umani diventa manifesto ciò che non lo è nelle singole
parti del cosmo, o nei singoli nomi fra le realtà divine, perché ciascuno dei nomi
non racchiude quelle peculiarità che gli altri nomi contengono. Quindi gli esseri
umani sono le cose esistenti piú perfette 29.

Dio non ha creato gli esseri umani per scherzo [23:115]. Al contrario, Egli li ha
creati solo perché essi fossero secondo la Sua forma. Quindi ognuno nel cosmo
ignora il tutto e conosce il particolare, eccetto l’essere umano perfetto. Perché Dio
insegnò ad Adamo i nomi di tutte le cose [2:31] e gli diede le parole che
comprendono tutto, cosí la sua forma divenne perfetta. L’essere umano perfetto
racchiude dentro di sé l’immagine del Vero e quella del cosmo. Egli è un istmo tra
il Vero e il cosmo, uno specchio sito nel mezzo. Il Vero vede la Propria forma nello
specchio dell’uomo e anche la creazione vede in lui la sua forma. Coloro che
raggiungono questo livello hanno raggiunto un grado di perfezione di cui nel
mondo del possibile non ve ne è di piú perfetto 30.

Gli esseri umani perfetti realizzano la potenzialità umana di essere


uno dei tre libri divini. Non è sufficiente per coloro che vogliono
seguire le loro orme ascoltare i segni di Dio nei due libri esteriori, il
Corano e l’universo. Il sé umano è il piú grande dei libri, perché
soltanto esso fa sí che Dio raggiunga il Suo obiettivo nella creazione
del mondo. Sia l’universo che il Corano sono dei mezzi per
raggiungere l’obiettivo, ma nessuno dei due ha la potenzialità di
diventare un libro consapevole di se stesso. Entrambi manifestano il
Tesoro Nascosto, ma nessuno dei due può conoscerlo con piena
consapevolezza. Qūnawī utilizza l’immagine del libro nell’incoraggiare
un giovane discepolo a perseguire il sentiero della conoscenza di sé:

L’essere umano perfetto è un libro che comprende tutti i libri divini e cosmici.
Abbiamo detto riguardo al Vero che la Sua conoscenza della Propria essenza
comprende la Sua conoscenza di tutte le cose, e che Egli conosce tutte le cose
attraverso la conoscenza della Propria essenza. Allo stesso modo diciamo a
proposito dell’uomo perfetto che la sua conoscenza della propria essenza
comprende la sua conoscenza di tutte le cose, e che egli conosce tutte le cose
attraverso la conoscenza della propria essenza. Questo perché egli è tutte le cose,
sia nell’indifferenziazione sia nella differenziazione.
Quindi «Chi conosce se stesso conosce il Suo Signore» e conosce anche tutte
le cose. Dunque, figlio mio, se rifletti su te stesso, ciò ti basta, perché non vi è
niente all’infuori di te. Il maestro degli gnostici, ‘Alī ibn Abī Ṭālib, disse:

La tua cura è dentro di te, ma tu non lo sai,


la tua malattia proviene da te, ma non te ne accorgi.
Tu sei il «Libro Chiarificatore»,
attraverso le cui lettere diventa manifesto ciò che è nascosto.
Tu credi di essere un piccolo corpo,
ma il piú grande dei mondi si rivela dentro di te.
Non avresti bisogno di cosa c’è fuori di te,
se riflettessi su te stesso, ma tu non rifletti.

Allo stesso modo, il sigillo della peculiare santità muḥammadiana 31


[Ibn ‘Arabī] ha detto:

Io sono il Corano e i sette ripetuti [15:87],


e lo spirito dello spirito: non c’è nessuno spirito che Io non sia.

Non hai sentito le parole di Dio? Leggi il tuo libro! Basterai tu stesso, oggi, a
computare contro di te le tue azioni [17:14]. Chiunque legga questo libro deve
sapere cos’è stato, cosa è e cosa sarà. Se non puoi leggere tutto il tuo libro,
leggine ciò che puoi. Non hai visto come Egli dice, e dentro di voi stessi ancora:
non li scorgete? [51:21]. E non hai visto come Egli dice: Mostreremo loro i Segni
Nostri sugli orizzonti del mondo e fra di essi, finché non sia chiaro per loro che
esso è la Verità. Non ti basta sapere che il tuo Signore è a tutte le cose presente?
[41:53].
È stato riportato che quando le truppe di ‘Alī ebbero il sopravvento su quelle di
Ā’isha (che la pace sia su entrambi!) nella battaglia seguita all’uccisione di
‘Uthmān, l’esercito di Ā’isha issò il Libro Divino su una lancia, in modo che i
seguaci di ‘Alī non li uccidessero e travolgessero. Quando quelli videro fare ciò,
abbandonarono la battaglia. Poi ‘Alī disse: «O gente! Io sono il Libro parlante di
Dio, ma quello è il Libro silenzioso di Dio! Non attaccateli e non abbandonateli!»
Allo stesso modo Dio dice: Di’: «Basta Dio fra me e voi, basta chi è saggio nelle
Sante Scritture» [13:43]. Quindi questo, figlio mio, è il Libro e la conoscenza del
Libro. E tu sei il Libro, come abbiamo detto. La tua conoscenza di te stesso e la
tua conoscenza del Libro, E non v’è nulla d’umido, cioè il mondo visibile, o secco,
cioè il mondo spirituale e tutto ciò che è dietro di esso, che non sia registrato in
un Libro Chiarificatore [6:59], e quel Libro sei tu 32.

4. L’ascesa dell’anima.

Per un periodo di tempo fosti gli elementi,


per un altro fosti un animale.
Adesso sei stato uno spirito,
perciò diventa l’Amato! Diventa l’Amato! 33.

Creati a immagine di Dio, gli esseri umani hanno le potenzialità per


partecipare con piena consapevolezza allo svelamento infinito delle
tracce e delle proprietà dei nomi di Dio. Il Corano esprime spesso
stupore per coloro che osservano i segni nel cosmo e in loro stessi e
non riconoscono che ogni cosa è costruita sulla trasformazione e sul
cambiamento, tutte con una visione tesa alla piena realizzazione di ciò
che esse realmente sono. La morte e la resurrezione non sono che i
due stadi successivi della crescita che inizia nel grembo materno. «O
uomini! Se voi siete in qualche dubbio sulla Resurrezione, ebbene
sappiate che Noi vi creammo di terra, poi facemmo di quella terra una
goccia di sperma, poi un grumo… poi, secondo la Nostra volontà, lo
facciamo restare nel ventre materno sino a termine fisso, poi ve ne
traiamo in forma di bambino, poi lasciamo che raggiungiate l’età
matura» (22:5).
I sufi interpretano gli stadi della vita del corpo come segni esteriori
della fioritura e dello svelamento dell’anima. Rūmī è famoso per le sue
descrizioni dello sviluppo dell’anima da uno stadio in cui è in pratica
inanimata fino a uno che supera gli angeli. Il fatto che l’ascesa
dell’anima avviene grado dopo grado spiega perché, sebbene «Tutti
sono Lui», nessuno può esserne realmente consapevole senza aver
raggiunto la perfezione. Finché gli uomini non saranno passati
attraverso i livelli della crescita morale e spirituale essi continueranno
a ignorare la propria vera natura.
Il viaggio verso la perfezione inizia nella «non-esistenza» insieme
con Dio. Una volta che gli uomini ascoltano l’ordine «Sii» e
riconoscono Dio nel Patto di alast, essi discendono grado dopo grado
fino a entrare nel grembo materno, che è il punto della creazione piú
lontano dall’Origine. Di qui essi cominciano la propria ascesa verso
Dio, poiché tutte le cose ritornano a Dio, proprio come tutte le cose
sono venute da Lui. I due viaggi – da Dio verso il mondo e dal mondo
verso Dio – sono spesso chiamati i due «archi» del Cerchio
dell’Esistenza.
In un certo senso il ritorno a Dio è obbligatorio, perché esso
rappresenta lo svelamento naturale del processo creativo, e nessuno
ha possibilità di scelta in materia. «Si sottomette a Lui, volente o
nolente, tutto ciò che è nei cieli e sulla terra e a Lui tutti saran fatti
tornare» (3:83). Ma vi è anche un ritorno volontario che costituisce
una prerogativa degli esseri umani, perché solo a loro, creati secondo
la forma di Dio, è stata concessa una quota della libertà divina
sufficiente a plasmare il proprio destino. Solo gli esseri umani sono
guidati dai profeti, i quali forniscono le istruzioni su come far ritorno
volontariamente a Dio, prima che siano portati a Lui attraverso la
morte. Soltanto gli uomini hanno accettato di rispettare il Patto.
Gli esseri umani hanno due perfezioni. La prima può essere definita
«naturale», e porta alla morte materiale e successivamente alla
resurrezione e all’incontro con Dio. «O uomo! Tu che tanto pieno di
desiderio ti protendi verso il Signore, ebbene, allora, Lo incontrerai»
(84:6). La seconda perfezione può essere raggiunta solo attraverso
una coltivazione volontaria dell’anima.
Dal primo punto di vista, gli uomini sono costretti a crescere e a
morire, ma dal secondo essi sono liberi di scegliere che tipo di
esistenza sperimenteranno negli stadi successivi del loro divenire.
Lo sviluppo naturale dell’anima inizia nel grembo materno, quando
Dio insuffla il Proprio spirito nel corpo. Questo spirito, che discende
attraverso il reame di alast, è luce pura e vivente, mentre il corpo è
scura argilla morta. L’unione di spirito e corpo dà vita alla vera anima,
che comprende entrambi i mondi, quello spirituale e quello materiale.
L’anima è l’intermediaria attraverso cui lo spirito puro e trascendente
viene messo in contatto con il corpo mortale. È la somma totale della
vita e della consapevolezza, nata dall’incontro di luce e argilla. È il sé
che è immerso nel mondo, anche se interiormente proteso verso
l’Infinito.
Lo spirito è un raggio della conoscenza divina descritta da tutti gli
attributi di Dio. Esso può manifestare le sue proprietà soltanto
attraverso un corpo, proprio come il Tesoro Nascosto può essere
conosciuto solo attraverso il cosmo. Quando nasce una persona, le
perfezioni latenti nei nomi divini iniziano a manifestarsi nell’anima, che
unisce spirito e corpo. Qui la luce ci offre di nuovo un’utile analogia.
Lo spirito è una luce pura e intelligibile, mentre il corpo è oscurità allo
stato puro. Quando la luce e l’oscurità si mescolano, una miriade di
colori appare davanti agli occhi, svelando le proprietà intrinseche della
luce. Nell’anima lo spirito della vita, la conoscenza, il desiderio e il
potere dello spirito assumono caratteristiche specifiche e individuali.
L’anima di ciascuna persona diventa diversa da quella di ogni altra,
nonostante tutte siano state create da un unico spirito divino, il
Respiro del Misericordioso.
Durante lo svelamento dell’anima le tracce dei nomi divini si
manifestano gradualmente. Molti sufi (come molti filosofi musulmani)
paragonano il feto nel suo stadio iniziale a un oggetto inanimato o a
un minerale. A poco a poco compaiono in lui le proprietà della vita e le
sensazioni, fino a che esso raggiunge uno stadio vegetale. Al
momento della nascita egli avrà acquisito tutti gli attributi di un
animale, per quanto in modo imperfetto. È solo nel periodo della
pubertà, quando le facoltà umane piú elevate – l’intelligenza e il
linguaggio – cominciano a mostrare le proprie possibilità, che una
persona merita la definizione di «essere umano», per quanto
temporaneamente. Infatti tutti noi rimaniamo meno che umani fino al
momento in cui raggiungiamo la piena realizzazione dei nomi divini
dentro noi stessi.
Lo svelamento naturale dell’anima non può mai portare alla
perfezione, perché non richiede l’assunzione del libero arbitrio e il
rispetto del Patto. Certamente tutti torniamo a Dio, ma come avverrà
questo ritorno? Torneremo alla misericordia di Dio o alla Sua collera,
alla felicità o alla punizione, al paradiso o all’inferno? Come ama
puntualizzare Ibn ‘Arabī, gli esseri umani torneranno ai nomi divini
specifici le cui tracce essi hanno messo in pratica durante il proprio
soggiorno sulla terra, ed essi non dovrebbero dimenticare le diverse
proprietà e caratteristiche dei nomi stessi.

Le proprietà dei nomi divini, riguardo all’essere nomi, sono differenti.


Cosa hanno in comune il Vendicatore, il Terribile nella Punizione e l’Opprimente
con il Compassionevole, il Perdonatore, il Gentile? Perché il Vendicatore richiede
che sia messa in atto la vendetta verso il suo oggetto, e il Compassionevole
richiede la cancellazione della vendetta dallo stesso oggetto 34.

La sharī’a rende obbligatoria la pratica della religione per i bambini


quando essi raggiungono la pubertà, cioè quando l’intelligenza
(l’attributo divino della «conoscenza») si è sufficientemente sviluppata
per distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Le norme della
sharī’a permettono la realizzazione di certe potenzialità della forma
divina che non potrebbero verificarsi senza una scelta chiara tra ciò
che è giusto e ciò che è sbagliato e senza una libera accettazione del
Patto. L’obiettivo per ognuno dei nomi divini è di essere realizzato
nell’anima in perfetta armonia con tutti gli altri.
Se nella sua visione dello sviluppo dell’anima il sufismo si
differenzia dall’Islam non sufi è perché i maestri sufi hanno una
migliore comprensione dell’obiettivo e dell’importanza della ricerca. Ci
sono sempre persone che si sentono attirate da Dio in questa vita, che
non hanno la pazienza di rimanere separate dal proprio amato fino
alla morte. Essi seguono la massima del Profeta: «Morite prima di
morire!» Morendo rispetto ai propri limiti individuali, essi nascono
nella distesa infinita della bellezza divina. Essi non hanno alcuna paura
della morte, dal momento che sono già morti molte volte, e ogni volta
sono rinati come qualcosa di migliore. Rūmī spiega ciò in uno dei suoi
versi piú celebri:

Morii come minerale e divenni pianta,


morii come pianta e divenni animale.
Morii come animale e divenni uomo. Perché dovrei aver paura?
Quando sono mai divenuto meno attraverso la morte?
La prossima volta abbandonerò la natura umana,
distendendo le mie ali e sollevando la mia testa insieme agli angeli.
Poi salterò il ruscello della natura angelica,
perché Tutte le cose periscono eccetto il Suo volto [28:88].
Una volta che mi sarò sacrificato come angelo,
diventerò ciò che non rientra nell’immaginazione.
Diventerò niente, poiché la non-esistenza suona la melodia:
a Lui ritorniamo [2:156] 35.

Quest’ingresso nella «non-esistenza» è un ritorno alla condizione


umana originale, quando dimoravamo in pace con Dio prima della
creazione. Questo è lo stato che a volte è chiamato «estinzione» delle
limitazioni dell’ego e «permanenza» del vero sé. L’estinzione è la
realizzazione del «Non vi è dio» della shahāda attraverso la negazione
di tutto ciò che è diverso da Dio. La permanenza è la realizzazione
dell’«all’infuori di Dio», attraverso l’affermazione degli attributi divini le
cui tracce risplendono nell’anima. Prima dell’estinzione, gli occhi
dell’anima sono fissi sul lato occidentale dell’esistenza e non possono
vedere il sole. Attraverso la permanenza, il sole sorge dall’orizzonte
occidentale in cui era tramontato, e nulla rimane se non la luce
sfolgorante di Dio. Come spiega Rūmī:

Tutte le cose periscono eccetto il Suo Volto.


Dal momento che non sei nel Suo volto, non chiedere di esistere.
«Quando qualcuno si estingue nel Nostro Volto,
non gli si puė piú ascrivere Tutte le cose periscono.
Poiché egli è nell’all’infuori di Dio, egli ha oltrepassato il non vi è dio.
Chiunque sia nell’eccetto non è stato estinto» 36.
Grazie all’amore per Dio e all’abbandono a Lui attraverso la sunna
del Profeta, i viandanti lasciano il lato occidentale dell’esistenza ed
entrano nell’oriente del sole che è sorto, dove non appare nulla se non
i raggi dei nomi e degli attributi di Dio. È qui che essi mettono in
pratica l’ordine del Profeta di assumere come propri i tratti
caratteristici di Dio. Qūnawī descrive questa ascesa verso Dio come la
liberazione dalle limitazioni proprie delle creature, grado dopo grado:

Lo gnostico viaggia verso il mondo superiore, e dal momento in cui parte dalla
terra non passa mai accanto ad alcun elemento, presenza o sfera celeste, senza
abbandonare presso di essi la parte di se stesso che corrisponde loro – la parte
che acquisí quando in principio venne al mondo. Cosí obbedisce alle parole di Dio:
Iddio vi comanda di restituire i depositi agli aventi diritto [4:58] 37.

Qūnawī spiega che quando i viandanti raggiungono il nome di Dio,


secondo la cui forma essi sono stati creati, si stabiliscono nei nomi di
primordiale misericordia e gentilezza. Questi designano ciò che lui
chiama «il punto centrale del cerchio» o il «punto di equilibrio». Non
riuscire a stare al centro significa cadere nella periferia dell’esistenza,
che è il dominio della collera e della severità.

Coloro che abbandonano questo punto mediano, centrale – che è il punto della
perfezione in presenza dell’unità che tutto comprende – verranno giudicati in base
alla loro distanza o alla loro vicinanza rispetto al centro. Alcuni saranno vicini e
altri piú vicini, alcuni lontani e altri piú lontani. Tra il completo squilibrio specifico
del satanico e questo perfetto equilibrio divino, che deriva dal nome, vengono
designati tutti i gradi della gente della felicità e della gente dell’infelicità 38.

5. La musica delle sfere.

Nelle nostre linee di combattimento, non fermiamo alcuno scudo,


nel nostro Ascolto, non sappiamo nulla del flauto e del tamburo.
Estinti nel Suo amore, siamo sporcizia sotto il Suo piede,
amore in lungo e in largo, amore in conclusione, non siamo nient’altro 39.
Nel fare volontariamente ritorno a Dio, i sufi cercano di realizzare
l’intera gamma e il totale equilibrio dei nomi divini, ovvero di
assumere come propri i tratti distintivi del nome di Dio, che
comprende tutti i nomi. Essi raggiungono il proprio obiettivo
attraverso il dhikr. Soltanto ricordando Dio, volgendo la loro mente e
la loro intera esistenza verso di Lui, secondo la cui forma sono stati
creati, possono sperare di diventare realmente simili a Dio. Come dice
Rūmī: «Dio ti darà ciò che cerchi. Qual che sia la tua aspirazione,
quello diventerai, perché “L’uccello vola con le sue ali, ma il credente
vola con la propria aspirazione”» 40. Il ricordo continuo di Dio ravviva il
fuoco dell’amore nel cuore.

Nel mondo esteriore il vento fa muovere gli alberi.


In quello interiore, il ricordo fa stormire le foglie del cuore 41.

L’obiettivo dell’Ascolto è rafforzare il ricordo di Dio e ravvivare le


fiamme che distruggono tutto ciò che non è l’Amato. Per la Gente del
samā’ la musica è il linguaggio segreto dei segni chiari e percepibili di
Dio. Ascoltandola, l’anima ricorda il suo soggiorno originale nei giorni
di alast, quando la vicinanza con Dio era la sua dimora naturale. Come
dice Rūmī:

I filosofi dicono che abbiamo preso


queste melodie dalla rivoluzione delle sfere.
Le canzoni che gli uomini suonano con il liuto e la voce
sono i suoni delle sfere in movimento…
Eravamo tutti parte di Adamo,
ascoltavamo quelle melodie in paradiso.
L’acqua e l’argilla ci hanno coperti con il dubbio,
ma ricordiamo ancora qualcosa di quei suoni.
Quindi l’Ascolto è il cibo degli amanti.
In esso trovano l’immagine dell’unione 42.

Un contemporaneo di Rūmī, Najm al-Dīn Razī, spiega l’attrazione


della musica attraverso il Patto di alast:
Quando un occhio che vede il Vero e un orecchio che Lo ascolta compaiono
nell’anima e quando questa riscopre il gusto dell’ispirazione, allora ovunque vi sia
una corrispondenza quell’anima ritroverà il gusto dell’ispirazione dall’Invisibile e si
muoverà verso il Vero. Perciò Dio dice: Quelli che ascoltano il mondo e seguono
la sua essenza piú bella [39:18]. Quindi, ogniqualvolta l’anima ascolta il cantore
intonare parole ricoperte di dolci indumenti e di ritmi misurati, essa assapora il
discorso di alast. Questo dolce suono provoca un movimento di un desiderio
ardente per Dio… Una volta che l’anima scopre il gusto di questo discorso,
l’uccello dello spirito non può resistere ed entra in agitazione. Cerca di fracassare
la gabbia del corpo e di ritornare nel suo mondo… Come risultato, la gabbia del
corpo entra in agitazione. La «danza» e gli «stati» spirituali consistono in questa
agitazione 43.

Rūzbihān Baqlī (m. 1209), uno dei piú ebbri tra gli autori di prosa
sufi, descrive lo stato del viandante lungo la via spirituale che
contempla il mondo invisibile e ascolta la sua musica primordiale:

Quando lo gnostico rivolge il proprio orecchio verso l’Invisibile dell’invisibile, la


luce della testimonianza improvvisa cade nel profondo del suo cuore segreto e il
suo spirito incontra la bellezza del Vero sotto le vesti di soddisfazione e
manifestazione di gioia. Il suo spirito si allieta in Dio e quasi vola via dalla sua
forma umana. Esso rimane imprigionato e confuso nella prigione della
disposizione originale. Quanto piú la luce del Vero gli si svela, tanto piú tenderà a
elevarsi verso il Reame della Sovranità mentre la sua forma trascina le sue
estremità in questo mondo. A causa del diletto in Dio, tutto ciò viene descritto
come danza, movimento, spostamento e cosí via. Lo splendore delle qualità che
piovono velocemente su di lui gli conferisce l’attributo della gioia, e questo perché
ha trovato l’oggetto del suo desiderio: la visione degli attributi e l’ascolto specifico
della parola [divina]… Lo gnostico dice: «La danza è lo spirito che fluttua nel
santuario dell’eternità senza inizio perché vede l’esistenza del Vero sotto la veste
di bellezza» 44.

Danzare esprime quindi la gioia dei viandanti per la liberazione del


proprio io. Razī spiega che l’agitazione dell’anima getta l’anima stessa
nello scompiglio.
Danzare non significa continuare a saltare,
fluttuare nell’aria senza paura come polvere.
Danzare significa saltar fuori dai due mondi,
spezzare il tuo cuore per balzare fuori dalla tua anima! 45.

Rūmī ci dice che la danza dei sufi ha luogo nei loro cuori e nei loro
spiriti. È la gioiosa resurrezione dell’anima che permane dopo
l’estinzione delle proprie imperfezioni.

La gente danza e si diverte nella piazza,


Gli uomini danzano nel loro stesso sangue.
Liberi delle loro stesse mani, battono le mani.
Balzati via dalle proprie imperfezioni, danzano.
Insieme a loro i loro menestrelli battono sui tamburelli,
il loro frastuono fa battere le onde all’oceano 46.

La danza, quindi, non è necessariamente collegata con il corpo, dal


momento che essa è sperimentata dall’anima liberata dai suoi limiti.
La vera musica non può essere udita da orecchie imperfette, e la
danza degli Uomini – i veri sufi, che siano uomini o donne – non può
essere osservata con gli occhi. La distinzione tra le persone ordinarie e
quelle che hanno intrapreso il sentiero che conduce a Dio rimane
basilare nei testi. Non si dovrebbe mai supporre che i sufi prescrivano
la musica o la danza a chiunque, anzi è piuttosto vero il contrario.
Perfino i sufi che erano favorevoli a queste pratiche ne riconoscevano
la posizione ambigua. Dhū ’l-Nūn al-Miṣrī (m. 861) ha affermato
questo concetto con lo stile aforistico tipico dei testi piú antichi, e le
sue parole sono riecheggiate nel corso dei secoli:

L’ascolto è un influsso che proviene da Dio, con cui Egli risveglia i cuori e li
incoraggia a cercarLo. Chiunque l’ascolti attraverso il Vero trova la via verso il
Vero, e chiunque l’ascolti attraverso se stesso cade nell’eresia 47.

In un capitolo sul samā’ di uno dei suoi molti libri, Rūzbihān spiega
che non tutti sono qualificati per ascoltare la musica:
Tutte le cose viventi ed esistenti tendono all’Ascolto, perché ognuna di esse ha
uno spirito proprio attraverso il quale vive, e questo spirito a sua volta vive grazie
all’Ascolto. L’Ascolto ristora tutti i pensieri dalla pesantezza dell’umanità mortale.
Ciò risveglia le forze vitali negli esseri umani e porta i misteri del Signore in
movimento. Per alcuni è una seduzione, perché sono incompleti, per altri è
un’indicazione, perché sono completi. Coloro che sono vivi nel corpo e morti nel
cuore non dovrebbero dedicarsi all’Ascolto, perché porterebbe in loro solo
distruzione 48.

Se la posizione della musica è ambigua, quella della danza lo è


ancora di piú. La vera danza ha luogo in un altro mondo, anche se,
occasionalmente, mostra le sue tracce nel reame visibile. Questo aiuta
a comprendere la derisione che si coglie nelle parole di Rūzbihān:

Un gruppo di uomini della danza delirante recita poesie, pratica l’Ascolto, batte
le mani e si strappa le vesti, immaginando che, avendo raggiunto questo stato,
essi hanno raggiunto gli stati propri degli amici di Dio. Che sciocchezza! Come
possono le stazioni [della perfezione] essere raggiunte attraverso tali
deformazioni? 49.

Jāmī, uno dei piú importanti esponenti della teoria dell’Unicità


dell’Essere (waḥdat al-wujūd) e autore di numerosi versi di poesia
estatica, esprime un disgusto simile nei confronti degli eccessi di quelli
che si autoproclamano sufi:

La danza imperfetta tende all’imperfezione,


ma il movimento del perfetto non è «danza».
Lo spirito del perfetto batte le sue ali,
liberandosi dalle profondità del male.
Un solo suono fa in modo che entrambi i gruppi
sobbalzino per il samā’.
Ma questi spiegano i loro mantelli sopra le sfere,
e quelli scendono giú nella terra.
Questi strofinano la testa contro il cielo piú alto,
quelli si mettono a letto sottoterra.
Il triste gufo siede accanto al falcone,
ma quando i due si alzano verso il cielo,
il falcone trova la propria dimora nel castello del re,
il gufo torna indietro in un anfratto fra le rovine.
Ogni persona tende verso la propria dimora,
ogni uccello vola verso il proprio nido…
Essi non mostrano alcuna scintilla della luce del ricordo,
nessuna traccia dello stato dell’Ascolto.
Il loro ricordo fa loro dolere la testa e il collo,
la loro danza indebolisce il loro ventre e la loro schiena 50.

6. Danzando con Dio.

Vieni, vieni, Tu sei lo spirito dello spirito dello spirito dell’Ascolto!


Vieni, perché tu sei un cipresso che cammina nel giardino dell’Ascolto!
Vieni, perché nessuno come Te è mai stato o sarà mai!
Vieni, perché gli occhi dell’Ascolto non hanno mai visto Tuoi pari! 51.

Quando i sufi seguono il lungo sentiero che li riporta al loro Amato,


attraversano molti «stati» dell’anima – paura e speranza, gioia e
dolore, espansione e contrazione, ebbrezza e sobrietà – e
acquisiscono le «stazioni» che sono le virtú, i tratti caratteristici e le
perfezioni dell’anima. Questi stati e queste stazioni sono stati descritti
in modo dettagliato in molte opere sufi. Nel lungo poema Il linguaggio
degli uccelli 52, uno dei piú famosi e allo stesso tempo piú
appassionanti racconti sul viaggio dello spirito della letteratura sufi,
Farīd al-Dīn ‘Aṭṭār ci narra di come gli uccelli si riunirono e decisero di
mettersi in viaggio per andare dal loro re, la Fenice. Guidati dall’upupa
e affrontando molte avventure lungo la via, volarono attraverso sette
valli – l’aspirazione, l’amore, la conoscenza, l’indipendenza, l’unità, lo
smarrimento e l’estinzione – prima di giungere finalmente alla meta.
Altri sufi hanno contato gli stati del viaggio in dieci, quaranta, cento,
trecento, o addirittura mille. Il meglio che io possa fare qui per
descrivere il viaggio è offrire un barlume dell’effetto che il suo vino ha
provocato su coloro che l’hanno bevuto. Prima di tutto un ghazal di
‘Aṭṭār:

Questa notte uscirò mezzo ubriaco,


con i piedi traballanti, una coppa di feccia in mano.
Volgerò la testa verso il mercato dei furfanti
e in un’ora perderò tutto quello che c’è.
Per quanto tempo mi mostrerò sotto falsa luce?
Per quanto tempo adorerò l’ego con la fantasia?
Il velo della fantasia deve essere strappato,
il pentimento degli asceti deve essere mandato in frantumi!
O Coppiere, dammi il vino che apre il cuore adesso,
il cuore mi ha abbandonato, il dolore ha preso posto nella mia testa!
Passa la coppa in modo che noi, come Uomini,
possiamo portare la ruota del paradiso sotto i nostri piedi.
Strapperemo il mantello di Giove
e inebrieremo Venere fino alla resurrezione.
Come ‘Aṭṭār, noi lasceremo tutte le direzioni
e incominceremo a danzare senza direzione a causa di alast 53.

Rūmī parla dello stesso dominio «senza direzione» come un «Non-


luogo» – la vera «utopia» dell’anima. «Vino» può essere un simbolo
adeguato per suggerire l’ebbrezza che pervade i viandanti quando
entrano nell’abbraccio dell’Amato ma, come Rūmī suggerisce qui, per
l’esperienza dell’estinzione e della permanenza c’è molto di piú che
non la mera ebbrezza.

Non so nulla di quel vino: mi sono estinto.


Mi sono inoltrato troppo nel Non-luogo per sapere dove sono.
A volte cado nelle profondità dell’oceano,
poi sorgo ancora come il sole.
A volte rendo gravido un mondo,
a volte do vita a un mondo di creazione.
Come un pappagallo, la mia anima becca lo zucchero,
poi divento ebbro e becco il pappagallo.
Non posso essere trattenuto in nessuna parte del mondo,
non conosco nulla se non quell’Amico senza luogo.
Sono un furfante ebbro, completamente pazzo;
tra tutti i furfanti, faccio piú rumore.
Tu mi dici: «Perché non ritorni in te?»
Mostrami me stesso, ritornerò in esso.
L’ombra della Fenice mi ha accarezzato cosí tanto
che diresti che io sono la Fenice, ed egli l’ombra.
Vidi la bellezza ebbra, ed essa continuò a dire:
«Sono dolore, sono dolore, sono dolore».
Un centinaio di anime le risposero da ogni direzione:
«Sono tua, sono tua, sono tua!»
Tu sei quella luce che continuò a dire a Mosé:
«Io sono Dio, Io sono Dio, Io sono Dio».
Dissi: «Shams al-Tabrīz, chi sei?»
Rispose: «Sono te, sono te, sono te» 54.

Se questo è ciò che i sufi trovano quando bevono il vino di Dio, c’è
da meravigliarsi che essi non possano far altro che danzare? Rūmī
descrive lo scompiglio che provocano:

Di nuovo siamo tornati ebbri dalla taverna,


di nuovo ci siamo liberati dagli alti e dai bassi.
Tutti gli ubriaconi stanno danzando felici.
Battete le mani, belle ragazze, battete, battete!
Il pesce e il mare sono entrambi ebbri,
l’amo è la punta dei tuoi riccioli adorabili.
Hanno messo sottosopra la taverna,
rovesciati i tini, spaccato le giare.
Quando lo shaykh della taverna ha visto lo sconquasso,
è salito sul tetto e ha fatto un salto.
Del vino cominciò a gorgogliare,
e l’essere divenne non-essere e il non-essere divenne essere.
Il bicchiere si ruppe e i pezzi si sparsero,
guarda gli ubriaconi che si sono feriti i piedi!
Dove sono quelli che non sanno distinguere i loro piedi dalla testa?
Sono caduti ubriachi nel vicolo di alast.
Gli adoratori del vino sono tutti intenti a far baldoria,
Ascoltate il tan-tan-i tan tan, voi adoratori del corpo! 55.

L’anima umana inizia il suo viaggio nel mondo di quaggiú come


collegamento tra il corpo senza vita e lo spirito luminoso. Essa realizza
la pienezza della sua natura quando fa ritorno alla fonte divina da cui
è provenuta. Avendo iniziato come una potenzialità infinita, cresce
assumendo come propri tutti i tratti dei nomi divini. I viandanti lungo il
sentiero di Dio vengono per conoscere tutta la creazione che è dentro
la loro anima, perché essi viaggiano in un microcosmo che abbraccia
tutte le cose e tutti i mondi. Essi iniziano a elevarsi in gradi spirituali,
finché, avendo raggiunto Dio, cominciano il viaggio senza fine in Dio e
con Dio.
Ibn ‘Arabī ci ricorda che il Corano dice: «Egli è con voi ovunque voi
siate» (57:4), non che noi siamo con Lui ovunque Egli sia. Ciò che
distingue gli esseri umani perfetti è proprio che essi sono sempre con
Dio. «Gli esseri umani perfetti… viaggiano con il loro Signore
attraverso uno svelamento divino e una compiuta vicinanza per mezzo
della quale essi sono con il Vero, proprio come Dio è con noi ovunque
noi siamo» 56. Essendo entrati negli sconfinati oceani dei loro sé, essi
viaggiano con Dio, ovunque Egli vada.

Essi accompagnano i nomi divini nel viaggio dei nomi nell’essere.


Accompagnano il reame dell’essere nel suo viaggio dalla non-esistenza
all’esistenza. Accompagnano i profeti nei loro viaggi: come accompagnano Adamo
nel suo viaggio dal Giardino alla terra… allo stesso modo [accompagnano] ogni
profeta e angelo, come il viaggio di Gabriele verso ogni profeta e messaggero… e
il viaggio dell’autosvelamento [divino] nelle sue forme, finché non diventano
consapevoli della realtà di tutto ciò, e tutto attraverso un’esperienza diretta
dentro loro stessi 57.

Essi rimangono con Dio e con tutte le cose in questo mondo e in


quello futuro, liberi dalle limitazioni del tempo e dello spazio, gioendo
del flusso costante delle rivelazioni della conoscenza e della
beatitudine mai raccontate da alcuno. Quando raggiungono il limite
estremo del sentiero, essi entrano nell’oceano della conoscenza divina,
dove tutto è smarrimento: non lo smarrimento di essersi persi, ma lo
smarrimento per aver trovato tutto e ogni cosa in una profusione
senza fine 58. La «guida», dice Ibn ‘Arabī, «consiste nell’essere portati
allo smarrimento. Poi si comprenderà che tutto quanto è smarrimento;
quello smarrimento è agitazione e movimento, e il movimento è vita.
Non c’è nient’altro, nessuna morte, solo esistenza, niente della non-
esistenza» 59.
Cosí continua per tutta l’eternità. In realtà è questo smarrimento
che permette ai sufi di assaggiare già in questo mondo la beatitudine
senza fine del paradiso.

In paradiso, in ogni istante c’è una nuova creazione e una nuova beatitudine,
quindi non c’è mai tedio. Dopotutto, quando qualcosa avviene in un dominio
naturale continuamente e senza cambiamenti, gli uomini si annoiano, perché
questa è la loro caratteristica essenziale. Se Dio non li nutrisse rinnovandoli, in
ogni momento in modo che essi possano riceverne beatitudine, la noia li
opprimerebbe. Cosí, con ogni sguardo che essi gettano verso i loro regni, la gente
del paradiso percepisce cose e forme che non aveva mai visto prima, e cosí
cresce la loro beatitudine. Ogni volta che mangiano o bevono scoprono nuovi
deliziosi sapori, che non avevano mai provato prima 60.

Già in questo mondo i sufi perfetti vivono con Dio. Essi viaggiano
nell’Infinito, ascoltando la musica dell’ordine creativo di Dio. In ogni
momento Dio dice «Sii» e un nuovo svelamento, piú perfetto e
glorioso di quello precedente, allieta l’occhio. Con le parole di ‘Irāqī:

La canzone non cesserà mai, né la danza avrà fine, per tutta l’eternità,
perché l’Amato è infinito. Qui l’amato canta fra sé e sé:

Nel momento in cui apro i miei occhi


Vedo il Tuo volto,
nel momento in cui tendo un orecchio,
ascolto la Tua voce.

Quindi, l’amante continua a danzare e a muoversi, anche se potrebbe apparire


immobile. E vedrai i monti che credevi solidi e fermi passare via come passan
leggere le nubi [27:88]. Come potrebbe egli rimanere immobile? Ogni atomo
dell’universo lo sprona a muoversi: ogni atomo è una parola, ogni parola
pronuncia un nome, ogni nome ha una lingua differente, e ogni lingua ha una
canzone. Per ogni canzone l’amante ha un orecchio. Fa’ attenzione, il cantore e
chi l’ascolta sono la stessa cosa. Il samā’ è un uccello che vola da Dio verso
Dio 61.
Capitolo ottavo
Immagini di beatitudine

È attraverso la poesia che il piú delle volte i sufi hanno cantato la


presenza di Dio, ma molti hanno utilizzato allo stesso fine anche la
prosa. Fra questi, ben pochi sono riusciti a eguagliare Bahā’ Walad (m.
1230), un nome in cui si sarà imbattuto, pur senza ricordarlo,
chiunque abbia letto una biografia del suo celebre figlio, Rūmī. Di
Bahā’ Walad sappiamo, da quanto ci è stato riportato, che era un
predicatore e un dotto di Balkh. Alla notizia dell’imminente invasione
mongola, insieme con la famiglia si era messo in viaggio per Mecca,
finendo con lo stabilirsi a Konya, dove divenne noto come «il sultano
dei dotti». Scrisse un libro intitolato Ma’ārif («Scienze Gnostiche»), al
quale pochi hanno dedicato una particolare attenzione. Tra gli
orientalisti, A. J. Arberry lo ha definito un «prezioso resoconto» di
«esperienze mistiche… descritte in una lingua persiana
straordinariamente chiara ed elegante», e ne tradusse i primi venti
capitoli in inglese, circa il cinque per cento del testo completo 1. Ciò
che risulta particolarmente singolare nei Ma’ārif è il modo intimo e
personale con cui Bahā’ Walad ci parla della vita spirituale. L’unica
opera che io conosca alla quale possa essere paragonato è il testo in
lingua araba Kāshif al-asrār («Lo Svelatore dei Misteri») 2 del suo
contemporaneo Rūzbihān Baqlī, un trattato piuttosto breve, oggi
disponibile in traduzione inglese 3. Rūzbihān utilizza tuttavia nel suo
libro uno stile piú letterario, e descrive un reame visionario di
apparizioni straordinarie. Nel lettore rimane una forte sensazione della
diversità e dell’inaccessibilità di Dio, e pochi si sentirebbero chiamati a
seguire Rūzbihān sul suo sentiero. Egli ricorda di continuo ai suoi
lettori che a lui sono stati concessi dei privilegi realmente straordinari.
Al contrario, Bahā’ Walad invita i propri lettori a condividere la sua
visione della sacralità e della luminosità di tutta la creazione.
Il libro di Bahā’ Walad, nonostante ciò che il titolo lascerebbe
supporre, non è certamente uno studio sistematico della sapienza sufi.
Esso consiste piuttosto in una serie di meditazioni, ciascuna delle quali
inizia con una frase o un versetto del Corano, un ḥadīth, un detto o un
ricordo. Ma piú di ogni altra cosa, il libro è una testimonianza degli
incontri con Dio nei minimi dettagli della vita di ogni giorno. Forse può
giustamente essere paragonato all’opera in prosa di Rūmī, Fīhi ma fīhi
(«C’è quel che c’è»), anch’essa un’antologia di pensieri sparsi su una
grande varietà di argomenti. Tuttavia, mentre Fīhi ma fīhi è costituito
dalle conversazioni riunite dai discepoli di Rūmī, i Ma’ārif sono una
raccolta di pensieri che lo stesso Bahā’ Walad mise per iscritto.
Nella sua introduzione all’edizione critica del testo, l’incomparabile
studioso di Rūmī Badī’ az-Zamān Furūzānfar descrive in dettaglio le
analogie tra la prosa di Bahā’ Walad e la poesia di Rūmī. Uno studio
approfondito di tali analogie potrebbe facilmente riempire un libro.
Non c’è alcun dubbio che i Ma’ārif siano l’unica opera letteraria ad
aver esercitato un’influenza rilevante su Rūmī, dopo il Corano e il
Ḥadīth. I racconti agiografici ci dicono che Rūmī era solito leggerlo con
assiduità prima del suo incontro con Shams-i Tabrīzī, e che solo dopo
la scomparsa di quest’ultimo egli incominciò a comporre dei versi. Fu
come se la separazione da Shams avesse scatenato un oceano
d’immaginazione, in gran parte già formatosi nei Ma’ārif di Bahā’
Walad, lanciandolo nell’agitazione, nel ritmo e nella metrica.

1. La visione di Dio.

Gli esperti del Kalām sostengono che la visione (ru’ya) di Dio non
sarà concessa agli uomini fino a che essi non raggiungeranno il
paradiso, ma Bahā’ Walad ci dice che coloro che hanno fede Lo stanno
già vedendo, che Lo riconoscano o meno. In un brano egli spiega che
la formula «Sia Gloria a Dio», solitamente ritenuta come
l’affermazione della trascendenza di Dio e dell’impossibilità di vederLo,
significa in realtà che Dio è visto dovunque.

Stavo dicendo Sia gloria a Te [2:32]. Questo significa: Tu sei puro e lontano
dall’imperfezione – l’imperfezione che le creature immaginano, che ogni parte di
me immagina, e che tutte le parti del mondo immaginano. [Essi immaginano che]
Tu non sei potente, che Tu non possiedi la conoscenza, e che Tu non eserciti il
controllo su di loro. Essi dicono che queste parti non ti vedono, poiché essi non
vedono come Tu dai l’esistenza a queste parti, rendendole basse e rendendole
alte. Essi dicono che Tu crei le parti della luce degli occhi, ma queste non Ti
vedono. Tu dai l’esistenza alle parti dell’intelletto, della consapevolezza e della
percezione, ma queste non Ti vedono.
No, no, Sia gloria a Te significa che Tu sei puro e di gran lunga al di sopra
dell’imperfezione di parole come queste che essi pronunciano, che cioè ogni parte
non Ti vede. Come possono conoscerTi se non Ti hanno visto? Senza vederti,
conoscerTi è impossibile. Quelli che negano la visione di Te non Ti hanno
conosciuto. Come può qualcuno essere incline a servire se la visione di Te non è
davanti a lui? Questa è la «vicinanza» di Ed Egli è con te ovunque tu sia [57:4]. O
parti, senza che ci sia la visione, la vicinanza è impossibile! Sembra che
miscredenza sia non vederTi, e Islam sia vederTi 4.

Bahā’ Walad ci dice continuamente che ogni cosa dolce e


desiderabile in entrambi i mondi nasce dall’esperienza della presenza
di Dio, nonostante che gli uomini siano confusi dalla molteplicità dei
nomi e pensino che le cose siano le realtà stesse. Egli contesta la
famosa affermazione secondo la quale il paradiso è la prigione dei
sufi, i quali desiderano solo Dio.

Stavo descrivendo le urì e stavo parlando dei giardini e dei paradisi. Uno
shaykh che faceva parte della Gente della Gnosi disse: «Coloro che in questo
mondo si tengono occupati con queste cose lo saranno anche nell’altro mondo.
Quando ritorneranno a Dio? Quando lo vedranno?»
Risposi: «È corretto pensare che le “urì, i palazzi, i giardini, le fontane, e lo
zenzero” siano parte degli stadi della visione di Dio. Ogni volta che vedi, provi un
gusto differente. Quindi, rifletti sui significati, come Dio ti tiene costantemente nel
palmo della Sua mano e nel Suo petto. Appartieni a Dio e al Suo compagno! Sii
uno straniero per le altre cose e per gli altri stadi. Mantieni il tuo sguardo sul tuo
Sovrano. Qualunque cosa tu voglia, chiedila a Lui. Strofinati contro di Lui.
Mescolati a Lui come latte al miele. Quindi troverai tutte le urì, i palazzi e dolcezze
del paradiso in moneta sonante. Troverai Dio. La tua felicità dipende dall’apertura
di questa porta, perché tu sai che Egli è con te ovunque tu sia 5.

Per Bahā’ Walad, come per Rūmī, la visione di Dio in tutta la


creazione ha luogo in un’immensa varietà e in una gioia senza fine.
Entrambi cercano di descrivere la diversità delle forme sotto le quali
percepiscono lo svelamento del Sé divino, ed è qui che nasce
l’immaginario poetico. La visione di Dio ha luogo al livello del
«pensiero» (andisha) – che, come chiarisce Rūmī, è identico
all’«immaginazione» (khayāl ) 6 – cosí la mente del visionario diventa
una fonte di fresche immagini in continuo rinnovamento, che si
riversano nella lingua. Bahā’ Walad descrive in molti passaggi il modo
in cui i suoi pensieri assumono una forma immaginale. Si intuisce
subito che ogni cosa che dice si inserisce in un arazzo raggiante,
intessuto con le immagini incessanti dello svelamento del proprio Sé
da parte di Dio.

Il pensiero è come una sorgente che Dio fa sgorgare. Se scaturisce l’acqua


dolce, io vedo che spuntano erba, frutti generosi e fiori nel santuario del corpo e
che l’acqua si riversa in ogni direzione nel corpo della terra. Ma se scaturisce
acqua salata, il corpo della terra diviene salato e improduttivo. Continuo a
guardare Dio per vedere che tipo di acqua Egli darà al corpo della terra 7.

Stavo pensando che queste mie parti hanno trovato diverse migliaia di vicini.
Queste parole che danno voce ai miei pensieri, come erba verde e zafferano, da
quale petto sono uscite? O, sulle guance colorite di chi si sono arrampicate come
formiche, inciampando l’una sull’altra nel mio petto? Poi ho visto che Dio agisce
da solo dietro la cortina dell’Invisibile. Egli trattiene ciascuno secondo il Suo
volere. Non dà a nessuno un sentiero che conduce a Lui, sia che si tratti di un
angelo, di un profeta, di un santo, di un peccatore o di qualcuno che abbia subito
un torto. Nessuno è a conoscenza del modo in cui Egli agisce. Da lí Egli invia
ordini a tutti. Egli giudica e stabilisce. Non permette a nessuno di agire secondo il
proprio volere. Egli ha reso impenetrabile il muro di Alessandro, cosí che nessuno
possa oltrepassarlo. Ha stretto un nodo finale alla concettualizzazione e
all’immaginazione di ognuno, in modo che nessuno possa venirne fuori. Chiunque
muova un passo al di fuori di quel confine viene depredato a tal punto da cessare
di esistere. Un freddo intenso lo assale e lo gela, oppure un vento torrido soffia su
di lui e lo brucia.
Poi vidi che il mondo è come una casa e un padiglione che Dio ha fatto
comparire. Egli vi ha inviato i miei pensieri, come individualità consapevoli, come
se i servi di un re se ne stessero seduti nei padiglioni e sotto i porticati. Le mie
parti materiali sono come muri di case in cui camminano i pensieri. Il mondo è
dolce per coloro che lo trovano come Eden. Dopo tutto, come potrei non essere
felice? Dio compie tutti i miei atti. Egli Stesso crea e dà esistenza alla mia terra,
alla mia aria e a tutti i miei atomi. Vedo che tutte queste parti di me fanno
affidamento felici sull’azione di Dio, i loro corpi a proprio agio 8.

Osservai con attenzione il mio stato. Vidi che le parti dei miei pensieri, le mie
linee di condotta e le mie percezioni sono come uccelli, passeri e moscerini che si
alzano ritti di fronte a Dio. È come se Egli avesse messo una catena intorno al
collo di ognuno, o come se avesse legato ognuno di loro con una corda in modo
da farli rimanere tutti sotto il Suo controllo. È Lui che concede loro la vita, è Lui
che concede loro un gusto 9, in modo che ciascuno di essi potrebbe aprire
agevolmente le ali. Questi uccelli stanno fermi a guardare per vedere cosa Dio
ordinerà loro e su chi di loro Egli eserciterà il Suo controllo.
Guardai ancora e vidi che Dio stava aprendo ogni parte di me. Mi mostrò
centomila fiori multicolori. Poi aprí le parti dei fiori e mi mostrò centomila fili
d’erba verde e acque che scorrevano e brezze che soffiavano, poi aprí i venti e mi
mostrò centomila fragranze 10.

2. Ricordare Dio.

Forse il lettore avrà notato quante volte Bahā’ Walad adoperi il


nome Dio. Contrariamente all’abituale uso persiano, egli utilizza la
parola araba Allāh piuttosto che quella persiana Khudā. Ciò è
probabilmente dovuto al fatto che le sue meditazioni e le sue visioni si
realizzano nel contesto del ricordo del nome di Dio. Alcuni passaggi
del libro lo spiegano chiaramente, come il seguente, che corrisponde
all’intero capitolo 98. Esso inizia come una riflessione sui due nomi
divini Misericordioso (Raḥmān) e Compassionevole (Raḥīm), entrambi
derivati dalla parola raḥma, misericordia. Bahā’ Walad li traduce in
persiano come Concessore (Bakhshayānda) e Benevolo (Mihrbān).
Quindi ritorna alla formula, «Dio è il piú grande», e si focalizza sul
ricordo del nome Allāh.

Dissi: «Dio è Misericordioso, Compassionevole». Immaginai il dono di Dio sotto


l’aspetto di purezza e nella forma di un’essenza costituita da perle bianche. Fissai
l’essenza del dono. Il mio spirito venne a riposare in esso e vi si strofinò contro.
«Che dolce cosa è il dono, perché vi ho trovato ogni beneficio!» Ho trovato ogni
sollievo dal dolore e ogni cura dalla sofferenza. Sono scivolato dentro di esso e
non vi ho trovato alcuna idea di stanchezza.
Guardai fissamente la compassione e l’essenza della benevolenza. Vi trovai
tutto ciò che riscalda il cuore, ogni cosa dolce e ogni amore. Piú scivolavo dentro,
piú diventavo felice e piú mi era cara l’essenza della benevolenza. È un dono
quando cadi e un uomo nobile e capace arriva e ti presta le cure di cui hai
bisogno. Oppure quando sei a pezzi e a corto di denaro, vai da un benefico
protettore e quello ti elargisce doni e trova un rimedio per il tuo lavoro.
La persona gentile è quella che scova chi è derelitto e, volente o nolente, lo
tira a sé in modo da prendersi cura del suo lavoro. Lo protegge dalla sofferenza,
lo vuole tenere sempre vicino a sé e gli manifesta continuamente amicizia.
Ora io dico: «Dio è il piú grande». Se guardo la bellezza, dico: «Dio è il piú
grande». Se guardo qualsiasi genere di potere, dico: «Dio è il piú grande». Se
vedo qualsiasi genere di conoscenza, dico: «Dio è il piú grande». Continuo a
entrare nel ricordo di Dio e nel significato di Dio, perché il significato di Dio
supera ogni altra cosa. La lingua è la chiave del cuore. Piú la lingua si muove
nell’articolazione del ricordo di Dio, piú il cuore si apre e piú quelle cose preziose
vi appaiono. È come se il ricordo di Dio fosse il vento dell’oriente, che porta
notizie dell’Amato. Esso allieta la terra del corpo morto riempiendola di giardini e
di frutteti. L’acqua scorre davanti alla porta di ogni casa del corpo, e una pioggia
di fiori cade sui prati di ogni organo e di ogni parte.
Un uomo intelligente ed esperto potrebbe diventare sazio e annoiato del
ricordo di Dio, e quindi languire. Quando egli vede queste meraviglie, e quando
queste cose straordinarie appaiono davanti ai suoi occhi, ogni sua parte si fa
pronta e allegra ed entra nel ricordo di Dio. È come se quella vita meravigliosa
provocasse danno alle sue parti, per poi riportarla in vita. O come se lo
straordinario soffio della tromba di Serafiele 11 facesse di nuovo vivere le parti
addormentate della sua terra.
Questa è una metafora, di come Dio porta in vita le parti avvizzite e le conduce
nel paradiso della felicità. Per il Monte! [52:1]. In altre parole, quando il sé
interiore del monte Sinai divenne consapevole dell’amore, andò in pezzi. Se anche
il tuo sé interiore guarderà in modo chiaro e distinto, diverrà consapevole e
turbato e troverà quella gioia autentica.
Adesso, pronuncia il ricordo di Dio fino al punto di vedere Dio. Proprio come fu
sollevato il velo dal Monte, allo stesso modo, quando i tuoi veli saranno lacerati
dal ricordo di Dio, tu vedrai 12.

Qui Bahā’ Walad allude al racconto coranico della richiesta di Mosè


di vedere Dio. «E quando Dio rivelò Se Stesso al monte, Egli lo ridusse
in polvere, e Mosè cadde fulminato» (7:143). Questo versetto è
all’origine del termine manifestazione di sé (tajallī ), che svolge un
ruolo di primo piano negli insegnamenti sufi riguardanti la natura della
presenza di Dio nella creazione. Molti sufi interpretano questo versetto
nel senso che la creazione è già ridotta in polvere, perché solo Dio è
realmente vero e soltanto i suoi attributi sono presenti nell’universo.
Come Mosè, tutti noi siamo caduti fulminati, perché non abbiamo una
nostra consapevolezza. In verità Dio è «le nostre orecchie quando
ascoltiamo e i nostri occhi quando vediamo».
Bahā’ Walad disserta frequentemente sul versetto dell’amore
reciproco. Nel brano che segue, egli inizia riferendosi a un detto del
Profeta: «Questo mondo è la prigione del credente».

Essi chiesero: «Il credente è in prigione. Come può avere il cuore felice?»
Dissi: «Quando egli è sincero, egli avrà il cuore felice, proprio come Giuseppe il
Sincero in prigione. A volte un credente compie un atto di disobbedienza e la sua
bocca diventa amara: «Con una simile disobbedienza, come posso implorare
perdono a Dio? Come potrò parlare con Dio quando ne avrò bisogno, come posso
rivolgermi a Lui?» Devi essere felice per questa amarezza e per questa
lacerazione del corpo. Devi essere contento per questa distribuzione per ciò che
Dio ti ha assegnato, tu che hai la bocca amara per il timore della separazione da
Lui. A meno che ti manchi la fede, perché dovresti temere la punizione? Se,
nonostante l’impudenza e l’audacia nei peccati, tu sei felice nel ricordare il
paradiso e i suoi doni, la generosità e il perdono, ciò può già essere considerato
una fede, un amore e un credo, a qualunque genere essi appartengano. Da
questo punto di vista, l’afflizione, la gioia, la corruzione del peccato e l’audacia nel
trasgredire sono la prova del tuo amore e della tua fede in Dio. Il tuo amore per
Dio è la prova dell’amore di Dio per te, perché Egli li ama, ed essi Lo amano.
Ovunque vi siano pianto e riso, la risata è causata dall’unione con i doni di Dio
e il pianto è causato dalla separazione dai Suoi doni. Quando un bambino cresce
è felice a causa dei doni di Dio; nella vecchiaia è triste per la separazione dai Suoi
doni: egli ride in Lui e piange nella separazione da Lui.
Adesso, se vuoi che la tua felicità sia eterna, servi l’Eterno. Intendo dire che se
tu giungi al ricordo di Dio, il frutteto di ogni parte di te fiorirà, il giardino della tua
anima inizierà a ridere e il vento orientale del tuo stato comincerà a soffiare.
Guarda e osserva come Dio soffia col Suo respiro benedetto, inducendo al riso
ogni parte di te 13.

Se gli uomini amano le cose di questo mondo è perché Dio ha reso


il mondo desiderabile, riempiendolo con la Propria bellezza. Ma il
mondo in se stesso è non esistente, anche se ai nostri occhi appare
come una serie di cose che esistono per se stesse. Amare Dio richiede
vedere il Suo volto in tutte le cose, senza confondere la doratura con
l’oro. Bisogna precipitare nell’estinzione, che è in realtà la pienezza
dell’Essere. Come ci ricorda Rūmī: «Noi e le nostre esistenze siamo
tutti non esistenze | ma Tu sei Esistenza assoluta, che appare come
estinzione» 14. Nel capitolo 88 Bahā’ Walad spiega come Dio rende la
non-esistenza desiderabile:

Il mio spirito fu completamente preso dalla preoccupazione del mio corpo: «Mi
fa male la testa», e cose del genere. Stava scivolando fuori, da sotto il mio corpo,
mentre osservavo. Vidi i fiori dell’intelletto e della percezione, e per tutto il tempo
lo spirito continuò a sbattere contro l’albero. I fiori si sparsero e rimasero
schiacciati sotto i piedi come spighe di grano. Una volta uscito dalla pelle del
corpo, non importa cosa mi succedesse, mi trascinai fuori. Stavo entrando nel
mondo di Dio e del senza-come, stavo entrando negli attributi di Dio. Mi sono
sentito sollevato: «Sono stato liberato da ogni sofferenza».
All’improvviso vidi Dio, che si ergeva dietro la non-esistenza e che faceva sí che
questa racchiudesse ogni cosa. Egli stava portando le cose fuori dalla non-
esistenza, e io stavo assistendo all’esito di tutto questo. Ritornai verso gli attributi
e le tracce di Dio – i verdi prati, l’acqua che scorreva, le splendide urì. Dissi:
«Lascia che apra tutte queste dolci, dolci cose l’una all’altra. Distruggerò e
metterò da parte tutto ciò che è forma e afferrerò il sapore dei significati assoluti.
Tale è la realtà dello spirito, e tale è Dio perché Egli non ha il come».
Dio ha trasformato questa infinita non-esistenza in un amato. Centomila
bellezze, desideri, passioni, amori, opinioni, comportamenti, scelte,
innamoramenti, carezze di amanti, capacità, modi di vita, astuzie, inganni,
abbracci, baci, dolci incontri. Dio ha disteso tutto ciò sulla faccia della non-
esistenza. C’è bisogno di qualcuno che possa fissare la non-esistenza, con le
lacrime che gli scendono lungo le guance a causa del suo amore per essa. Tale
non-esistenza contiene e racchiude ogni parte di me da tutte e sei le direzioni.
Alla fine, come potranno le parti di me stare da sole, senza un amico intimo? 15.

3. Gli svelamenti di Dio.

Gli esperti del Kalām sottolinearono a tal punto la trascendenza di


Dio che spesso si spinsero a negare che gli esseri umani possano
amarLo. I sufi concordavano, in quanto Dio è certamente
trascendente, e un Dio trascendente non può essere conosciuto o
amato. Ma, essi aggiungevano, Egli è anche immanente. È il Dio
immanente che svela Se Stesso di continuo per essere
ininterrottamente oggetto dell’amore. L’amore per ogni cosa può solo
essere amore per Lui: questo è il tema del capitolo 89. Bahā’ Walad
inizia discutendo dell’esistenza che è ascritta a Dio nella realtà e
metaforicamente alle Sue creature. Nella seconda parte, egli riflette
sull’inizio del famoso brano coranico detto «Versetto del Trono»: «Dio,
non vi è altro Dio che Lui, il Vivente, che di Sé vive: non Lo prende
mai né sopore né sonno, a Lui appartiene tutto ciò che è nei cieli e
sulla terra» (2:255).

Stavo pensando: dal momento che le cose create non hanno affinità con Dio,
come possono esse giungere a essere intime, felici, in pace con Dio? Dio mi
ispirò: «Dal momento che le cose create provengono da Colui che dona
l’esistenza, cioè da Me, come non dovrei essere loro vicino? Dopo tutto, se
l’esistenza non è in pace con ciò che le dà esistenza, come può diventare
esistente? Come può l’una far del male all’altro? Se l’esistenza non è in pace con
ciò che dà esistenza, con cosa sarà in pace? Dal momento che il Mio desiderio, il
Mio atto, il Mio attributo, il Mio creare e la Mia misericordia sono collegati alle
creature, se esse non sono intimamente a Me vicine, a chi saranno vicine? Dopo
tutto, non provengono da Me tutti questi desideri, amori e intimità? Non sono essi
una mia creazione? Come non dovrebbe esserci intimità con me? L’intimità è un
Mio atto. Tutte le parole tra gli amanti, i loro segreti sussurrati, le loro carezze, le
loro relazioni, sono Io a portarle tutte all’esistenza. Come può la cosa esistente
non essere a suo agio con Colui che dona l’esistenza? A chi essa desidera
rimanere intimamente vicino se non a Me?
Quindi, pronuncia il ricordo e sii intimo con Dio e con i Suoi attributi. Leggi il
Corano e attesta la realtà dell’intima vicinanza: Dio, non vi è dio, all’infuori di Dio.
Dal momento che nessuna volontà ha effetto se non quella di Dio, e dal momento
che io sono l’oggetto di quella volontà che è desiderato, come può l’oggetto del
volere non aver intimità con Colui che vuole? Il Vivente. Dal momento che Egli
vive in eterno, come non dovrebbe Egli essere intimamente vicino alle cose
viventi? Colui che di Sé vive. Egli crea tutte le tue giornate, e mette a posto tutte
le tue attività di controllo. Come non dovresti avere parole, segreti e intimità con
Lui? Non lo prende mai né sopore né sonno. In nessun momento Egli è
inconsapevole, quindi come puoi non essere in grado di mostrarGli la tua
condizione? Lascia che gli amanti siano svegli! Sei tu allora l’amato che adesso
dovrebbe stare a dormire?
La tua esistenza è come un rametto di dolce basilico nella mano di Dio: tutti i
fiori dei tuoi desideri e tutte le foglie dei tuoi segreti devono essere con Dio! 16.

Affinché le foglie e i fiori degli iniziati siano con Dio, essi devono
ricordarLo assiduamente menzionando il Suo nome. L’immagine di Dio
deve far ritorno a ciò che l’ha proiettata, il raggio di luce deve fare
ritorno al sole. Il sentiero del ritorno è quello della consapevolezza e
della conoscenza della natura delle cose, della realtà del mondo,
dell’identità del sé, della presenza di Dio in tutte le cose e in tutti i
pensieri. Il dhikr è un’alchimia che trasforma la percezione e la
consapevolezza in gioia assoluta. Nel capitolo successivo, Bahā’ Walad
prende spunto da un versetto coranico e analizza due nomi divini,
Colui che dà la vita (al-Muḥyī) e Colui che dà la morte (al-Mumīt),
mostrando come essi siano da riferirsi al «piú ancora» che il Corano
promette nel versetto: «E Dio chiama alla Dimora della Pace e guida
chi vuole sul retto sentiero. A chi avrà fatto il bene, supremo bene
sarà dato e piú ancora» (10:25-26). Di seguito esamina il versetto:
«La lode appartiene a Dio» (1:2), una formula di ricordo che asserisce
la presenza delle benedizioni e dei doni generosi di Dio in ogni cosa
buona e lodevole.

Dissi: Dio, Tu hai promesso: Non c’è animale sulla terra cui Dio non si curi di
provvedere il cibo [11:6]. Tu mi hai tirato fuori da porte manifeste, sii Tu a darmi
il mio pane quotidiano. Dal momento che non mi hai permesso di agire senza le
cause seconde, io voglio bellezze, voglio benedizioni, voglio l’Ascolto, voglio stima,
voglio potere, voglio volontà. Dio mi ispirò: «Dio e Egli è Dio consistono delle
gioie, degli oggetti del desiderio e delle volontà di tutte le creature. E piú ancora è
bere da me senza fine, come un’ape dai fiori, affinché ogni tua parte possa
trasformarsi in miele. Perché Noi siamo Colui che dà la vita, e “dare la vita” ha
luogo solo attraverso la felicità e gli oggetti del desiderio. Noi siamo Colui che dà
la morte, e “dare la morte” ha luogo solo attraverso la separazione dalla felicità e
dagli oggetti del desiderio. Quanto piú sopraggiunge la felicità, tanto piú compare
l’esistenza. Quanto piú la felicità va via, tanto piú compare l’estinzione.
Tutte le forme del paradiso, come le urì e le fanciulle dai grandi occhi,
pascolano su di Noi. Le anime sono gocce del nostro sudore. Le cause di ogni
felicità e di tutti gli oggetti del desiderio sono come mestoli davanti a Noi. Quanto
piú puoi, bevi da Noi con la coppa del ricordo di Dio. Quando il Nostro vino ti avrà
reso ubriaco e barcollante, Noi ti daremo la dolcezza del sonno, come i Sette
Dormienti [18:9 sgg.]. Bevi da Noi e ringrazia per la Nostra ebbrezza. Dà la
notizia della Nostra felicità alle creature che Noi possiamo darti piú ancora».
Dissi: La lode appartiene a Dio. In altre parole, da quando Dio esercita il Suo
controllo e agisce in ogni parte di me questa elevazione non è ancora completa
per me. Mi ha tratto dalla non-esistenza e mi ha dato l’esistenza. Egli esercita il
controllo su ogni mia parte, e io so che Egli sta esercitando il suo controllo su di
me. Questo stadio ai miei occhi è il piú elevato degli stadi, perché con questo
attributo io vado verso Dio.
Ora sto pronunciando parole di lode, con ogni respiro mi riempio di questo
stato. Divento ignaro delle creature e degli altri stati, mi isolo da ogni familiarità.
È come se pronunciassi lodi per le cose che Dio predilige, perché gli uomini
dicono queste parole d’amore e tutte queste lodi per un assaggio delle cose
predilette da Dio. Adesso piango, come una sposa innamorata: «O Dio, non
privarmi delle tue predilezioni! Non ho nessuno all’infuori di Te. Non lasciarmi
solo! Pur se Tu sei degli eredi il migliore! [21:89]».
Quando la compagnia di ogni cosa con Dio diminuisce, la perfezione del suo
stato è trasformata in imperfezione. Cosí, allo stesso modo, quando uno sposo
allontana il proprio sguardo da un’amabile sposa, quella appassisce.
Dio è in amicizia con l’intelletto, e la predilezione per le cose intelligibili deriva
da questo. Lo stesso vale per il senso della percezione. Il fatto che Dio esercita il
Suo controllo e agisce su ogni parte di me non ha luogo senza i Suoi attributi,
come la misericordia e la generosità. Questi attributi sono pura luce e lasciano
tracce di luce nei colori che io vedo. Fasci di luce inondano ogni parte di me,
come oro fuso. Essi si irradiano dagli attributi di Dio.
Dal momento che Dio lavora in ciascuna parte di me e che tutti i pensieri e
tutte le predilezioni nascono da Dio, tutte hanno girato il proprio viso verso Dio,
che è come uno sposo attraente seduto fra nuove spose. Una lo mordicchia sulla
schiena, un’altra gli bacia la spalla, un’altra ancora si struscia contro di lui. Oppure
come dei bambini, come tante perle che si riuniscono intorno al loro giovane
padre e giocano con lui. Oppure ancora come piccioni e passeri, che scendono
tutt’intorno a colui che dà loro da mangiare e gli si posano addosso ovunque
possano. Proprio come tutti i granelli di polvere dell’universo girano attorno alla
Bellezza di Dio, cosí tutte le mie azioni e tutti i pensieri girano attorno a Dio,
proferendo parole di lode e di glorificazione 17.

Se «La lode appartiene a Dio» è la formula di affermazione della


vicinanza e della similarità, «Sia Gloria a Dio» è generalmente intesa
come la formula che asserisce la sua distanza e la sua trascendenza.
Per Bahā’ Walad, l’espressione significa che nulla è vero se non il
Vero, nulla è bello se non il Bello e che la gioia si trova solo in Dio.
Egli scorge lo stesso significato nel famoso ḥadīth: «Dio ha settanta
veli di luce e di oscurità; se li rimuovesse, la gloria del Suo volto
brucerebbe tutto ciò che lo sguardo delle Sue creature percepisce» 18.
Giuseppe, menzionato alla fine del seguente brano, è considerato il
piú bello tra gli esseri umani e lo specchio perfetto della bellezza
divina. Rūmī parla spesso di lui in questo contesto, come quando
racconta di come l’amore di Giuseppe pervase a tal punto Zulaykhā
che ogni cosa che lei diceva era in realtà un ricordo di lui 19.

Stavo dicendo Sia gloria a Dio. Dissi: il significato di Sia gloria a Dio è questo:
se il tuo cuore si volge verso la bellezza, Egli sta dicendo: «La bellezza senza
difetti è qui». Se si volge verso la proprietà, Egli sta dicendo: «Le ricchezze senza
difetti sono qui». Se si volge a una posizione, Egli sta dicendo: «La posizione
senza difetti è qui». Se si volge verso l’Ascolto e i discorsi degli altri uomini, «Il
discorso senza difetti è qui». «La misericordia e la gentilezza senza difetti sono
qui». E cosí via con tutti gli attributi, fino a dove Egli dice: «Io sono il Custode
[59:23], una chioccia non bada ai propri pulcini come Io tengo i Miei amici sotto
la Mia ala». Tutto questo affinché tu non perda la speranza e dica: «Dio non è del
mio genere, non mi darà intimità con la dolcezza della Sua bellezza». Non troverai
in nessun altro genere la dolcezza che viene da Dio.
Sia Gloria a Te, Dio dice: «Qualunque cosa tu possa amare e cercare non è
senza difetti. Dal momento che Io sono puro e senza difetti, dirigi qui l’amore!»
«Le glorie del Suo volto si consumerebbero nel fuoco […]». Questo è tutto ciò
che sono «le glorie del volto». Dissi: «O Dio, il difetto è il mio stesso essere. La
mia immaginazione e il mio sguardo sono il velo che Ti ricopre quando Ti guardo.
O Dio, la veste della mia esistenza e dei miei sensi è stata distesa sopra la mia
testa, ma le glorie del Tuo volto sono al di là della veste dell’esistenza. Voglio
rimuovere il mantello dell’esistenza del sé che mi copre il viso e la testa perché
vederTi è solo diletto e gioia. Essere velati da questo amore e privati di questa
vista sono i gradi discendenti dell’inferno, ai quali è data una forma sensoriale».
Mi si mostravano l’attributo di non avere difetti e il sigillo di purezza in modo
da poter subito diventare innamorato. «Venerare» significa offrire amore.
L’obiettivo è essere incessantemente in quella Bellezza e cercarLa, nient’altro.
Cosí, O Dio, quando divento stanco di cercarTi nella veste della mia esistenza, che
è il Tuo velo, e quando divento pigro nella ricerca, mostro le mie parti davanti a
Te come calici: «O Dio, in questi calici porta in esistenza il potere e il gusto di
cercarTi, perché io vivo il gusto di questa ricerca. Se non fosse per il gusto di
cercare, sarei morto».
L’amore per i vari tipi di bellezza, per l’Ascolto e per le verdi erbe è come la
brezza del mattino che fa conoscere la bellezza di Giuseppe: «O Giacobbe, sii
soddisfatto della Presenza di Dio nella brezza del mattino. Vieni dal tuo Giuseppe,
e vedi ciò che sarà» 20.

Bahā’ Walad cita spesso le persone chiamandole per nome, ma piú


spesso la loro identità è sconosciuta. Il suo libro è piú un diario che
una dissertazione convenzionale, perciò egli non vedeva alcuna
necessità di spiegare ai lettori a chi si stesse riferendo. Nel seguente
capitolo, egli menziona due persone. La prima è Bibi ‘Alawī, forse sua
moglie, sebbene l’appetito sessuale che ella risveglia in Bahā’ Walad lo
faccia riflettere su quanto spesso gli esseri umani siano fuorviati da
esso. La seconda persona è Hajjī Ṣiddīq, che dal contesto
sembrerebbe essere un uomo pio, osservante la sharī’a e che non ha
provato la presenza di Dio nelle cose. Il capitolo tratta di parecchi
argomenti, riassumendo il punto di vista sufi sul potere di
trasformazione dell’amore, sulla differenza tra il sapere convenzionale
e la vera conoscenza e sul ruolo dei profeti nell’esistenza umana.

Raggiunsi un posto dove c’erano dei forni per la cottura di mattoni. Vidi che il
lato interno era bianco, il centro rosso e brillante e l’esterno nero. Il mio cuore
percepí che qualunque cosa che raggiunge il fuoco prima diventa nera, poi rossa
e infine rimane bianca, senza cambiare di colore. Lo stesso accade con il fuoco
dell’amore per Dio. In principio il figlio di Adamo è pieno di angoscia e scuro in
volto; poi egli entra negli stati spirituali e nell’estasi, e cosí è rosso e illuminato;
infine resta bianco e splendente, come la luce di Mosè, la luce di Muḥammad e di
altri ancora tra i profeti.
Qualcuno ha detto: «Voglio studiare per acquisire la conoscenza». Ho risposto:
«La conoscenza è di due tipi. Una è convenzionale e di compromesso; l’altra è la
conoscenza della realtà. Quella convenzionale è come la teoria, la retorica e le
regole che seguono i giudici o i predicatori: tutte sono tagliate fuori a metà
strada. La conoscenza della realtà consiste nel fatto che tieni in conto l’obiettivo
del lavoro, che lotti per esso e che lo fai prosperare. Quando Dio dà a qualcuno
questa conoscenza e questa dottrina, quegli viene prescelto e gode del dolce
gusto. Ogniqualvolta questa dottrina gli viene tolta, egli perde il dolce gusto. È
come se gli spiriti di queste persone fossero incoscienti nel Mondo dell’Invisibile,
oppure ne fossero ebbri, o ne assorbissero la forza a loro misura. Essi hanno
anche altri stadi, ma nessuno conosce se non Lui [6:59]. Essi diventano
consapevoli di questo mondo solo quando Dio li rende consapevoli e dà loro
notizia di esso». Stavo parlando di questo quando improvvisamente il cane abbaiò
e mi disturbò.
Bibi ‘Alawī si svegliò e venne da me allo spuntare del giorno. Il desiderio si
risvegliò in me. Il mio cuore percepí che anche ciò è una manifestazione del moto
che viene messo in atto da Dio. Perché dovrebbe essere motivo di punizione e di
dispersione? Dio mi ispirò: «Quando Io metto le cose in movimento, ciò avviene
abbassando e innalzando 21. Con un movimento esalto, con un altro umilio.
Adesso, quando qualsiasi percezione raggiunge il tuo spirito, per prima cosa
ricorda Dio. Ricorda che Dio l’ha messa in movimento. Riflettici. Se questo
mettere in movimento è causa di punizione, di bassezza e sofferenza, allora chiedi
aiuto a Dio, in modo che Egli non ti muova piú in quel modo. Se è causa di
esaltazione e di fortuna, prega Dio affinché ti trattenga in quel movimento in ogni
respiro. Ogniqualvolta Egli dà uno di questi due stati al tuo spirito, ricorda che tu
sei stato scelto per la luce della profezia.
Ero in piedi accanto a Hajjī Ṣiddīq durante la preghiera, e queste percezioni
stavano pervadendo il mio spirito. Stavo dicendo: mi stupisco che gli uomini non
riconoscano Dio, dal momento che Egli esercita il controllo sullo spirito e su
queste percezioni sensoriali. Queste percezioni che girovagano intorno allo spirito
provengono da Dio. Cosí, Dio può essere visto in modo sensoriale con l’occhio
dello spirito. Come si può negare Dio?
Poi pensavo che se ognuno avesse questa conformazione mentale e questa
consapevolezza, tutti sarebbero profeti. Come potrebbe essere cosí? Per loro
costituzione i profeti si sono allontanati dal cibo, dagli abiti, dai divertimenti, dal
mangiare carne e il loro sguardo è fisso solo su Dio. Dio ha dato questi stati allo
spirito dei profeti ma non ad altri. È come se Dio mantenesse i profeti, uno per
uno, in questa costituzione. Dà loro la dignità regale e fa del loro impero un
paradiso. Quanto a coloro che non hanno questa costituzione, che esercitano i
loro capricci e appetiti e che trovano gusto nei cibi di questo mondo, quando essi
amano il Profeta e lo seguono, Dio li colloca, grazie alla benedizione del Profeta,
tra la gente del tawḥīd, della gnosi e del paradiso 22.

Un ultimo capitolo può riassumere la visione di Bahā’ Walad


riguardo all’universo trasfigurato dalla presenza divina. Si noti l’uso
insolito del termine «Tu» (tu’i). Nonostante i sufi ricordino il nome di
Dio in terza persona come se Egli fosse assente (ghā’ib), in effetti essi
stanno lottando per trovarLo presente. L’«Io» che ricorda Dio Lo
incontra faccia a faccia nel Suo nome, e, come Bahā’ Walad, vede
l’universo come una schiera senza fine di nomi che danno voce alla
realtà divina.

Quando mi svegliai dal sonno, vidi l’intero mondo come Tu di Dio. Quando
incomincio a muovermi prendo il Tu di Dio nel mio abbraccio per vedere quel che
da esso mi arriverà e penetrerà nei miei sensi da esso. Allo stesso modo accade a
uno sposo, si sveglia dal sonno e immagina di essere solo; e quando i riccioli, il
viso e le parti del corpo della sposa lo urtano, egli capisce che la sposa è lí, in
intimità con lui. Cosí si ferma e incomincia a parlarle.
Anch’io incomincio a parlare con il Tu di Dio di qualunque cosa. Entro nelle
dolci, buone e belle cose di Dio. In ogni istante mi mescolo con il Tu di Dio e
guardo fisso le sue meraviglie non manifeste. Vedo le sue meraviglie e di ciascuna
ne gusto il vino, tanto da rimanere a lungo senza sensi, proprio come il dolcissimo
stato di Mosè: Mostrati a me, che io possa rimirarTi [7:143]. A ogni istante
abbraccio il Tu di Dio, perché Quando i Miei servi chiedono di Me, Io sono vicino
[2:186]. A ogni istante ho il passo ardente di Gesú, l’estasi di Mosè, l’infallibilità di
Muḥammad (su tutti loro la pace!), gli svelamenti e la fermezza dei santi, la
bellezza degli amanti insieme allo stato e alla dolce prosperità dei loro amati.
Mi sono stati dati due piedi per correre da queste loro dolci cose. Fisso queste
meraviglie e dico: «O Dio, dammi di queste cose, perché Tu dall’Invisibile le hai
tratte all’esistenza ed esse sono diventate tali attraverso il Tuo dono. Da’ anche a
me! Sii ed essa è [16:40], e che cosí possa essere anche per me. O Dio, Tu hai
dato il passo ardente ai profeti, alle sfere e ai pianeti. Dammi la stabilità, il sonno
e l’agio della felicità».
La felicità del regno manifesto trae alimento dalla felicità del regno non
manifesto, il regno non manifesto trae alimento dall’esercizio del controllo di Dio e
l’esercizio del controllo di Dio trae alimento dagli attributi di Dio. Quindi le porte
del giardino eterno chiamato «paradiso» sono gli attributi di Dio, e in ogni genere
di felicità del mondo, una porta – l’attributo di Dio – è aperta, in modo che Egli
possa soffiarvi dentro e accrescerla. Adesso vieni, lascia che mi offra a queste
porte degli attributi di Dio, e lasciami entrare in quel paradiso, cosí che non debba
piú ricordare il mondo ma ricordare Dio e appartenere a Lui.
Stavo ricordando Dio. Dissi: Fin quando Dio non mi ama, come posso amarLo?
L’amore da una parte sola è impossibile. Una sola mano non batterà mai 23. Allo
stesso modo la disposizione delle urì del paradiso verso i suoi abitanti è l’amore di
Dio. È come se Dio facesse l’abbraccio, come quando due forme si abbracciano
l’un l’altra, come l’amore di due spiriti. Ma a livello della realtà dello spirito e del
significato della forma non vi può essere abbraccio 24.
Capitolo nono
La caduta di Adamo

La ricca e varia letteratura teoretica del sufismo si occupa di ogni


livello della pratica e della fede dell’Islam. I teologi sufi riconoscono
l’importanza primaria della presenza e della vicinanza di Dio, a
differenza degli esperti del Kalām, che insistono sull’alterità,
sull’incomparabilità e sulla trascendenza divine. Gran parte degli
studiosi occidentali ha preso in considerazione soltanto il Kalām, come
se quest’ultimo definisse le posizioni normative della teologia islamica,
per cui non sorprende che papa Giovanni Paolo II, nel suo libro
Varcare la soglia della speranza, abbia scritto: «[Il] Dio del Corano…
in definitiva è un Dio al di fuori del mondo, un Dio che è soltanto
Maestà, mai Emmanuele, Dio-con-noi [sottolineatura dell’autore]» 1.
Difatti pochi musulmani approverebbero la descrizione del Dio del
Corano fatta dal Papa. La disciplina accademica del Kalām ha prodotto
un effetto minimo sul modo in cui la stragrande maggioranza dei
musulmani ha vissuto e praticato la propria religione. Al contrario, il
sufismo ha interessato la società islamica a ogni livello, non
rimanendo confinato alla sola cerchia degli studiosi. Di conseguenza,
le espressioni sufi della teologia islamica hanno esercitato nella
formazione del comune atteggiamento musulmano verso Dio
un’influenza molto piú incisiva.
Il diverso rilievo attribuito dal sufismo e dal Kalām non emerge
tanto negli argomenti discussi, quanto piuttosto nel discorso e nel
linguaggio utilizzato. La metodologia razionale del Kalām astrae Dio
dal mondo, mentre la retorica immaginale dei sufi descrive il mondo
come gli svelamenti del volto misericordioso di Dio. La ragione
conosce l’assenza, ma l’immaginazione assapora la presenza.
Il ricorso dei sufi all’immaginazione spiega la popolarità della loro
visione teologica nei tempi premoderni. Le categorie astratte non
alimentano la fiamma dell’amore. Gli amanti vogliono essere vicini al
loro amato. Se non possono avere l’amato tra le braccia, almeno
vogliono tenerlo nella propria mente. L’immagine mentale deve essere
bella, attraente e accattivante per poter essere amata. Deve
incoraggiare l’intimità e il ricordo costante. In breve, se il discorso su
Dio fosse stato lasciato ai soli giuristi ed esperti del Kalām, i
musulmani sarebbero rimasti legati a un Dio che era «soltanto Maestà,
mai Emmanuele».
Molti sufi leggono il Corano come se fosse una lettera d’amore da
parte del loro Amato, e pertanto lo interpretano nella miglior luce
possibile, anche se il loro Amato a volte proferisce parole aspre
nell’intento di risvegliare i loro cuori. Un esempio significativo è
rappresentato dal racconto coranico della caduta di Adamo.
Particolarmente interessante è l’interpretazione offerta da Aḥmad
Sam’ānī, che morí nel 1140, cinque anni prima della nascita di Bahā’
Walad e venticinque prima di quella di Ibn ‘Arabī. Sam’ānī interpreta la
storia della caduta di Adamo come la prova della misericordia
amorevole di Dio per gli esseri umani. Naturalmente i musulmani non
hanno mai, in genere, sottolineato le conseguenze negative della
caduta di Adamo quanto i cristiani, e questo aiuta a spiegare perché
l’Islam non ha elaborato il concetto di peccato originale.
Ciononostante, molte autorità videro la caduta come la manifestazione
dell’ira di Dio nei confronti di Adamo, enfatizzando pertanto la rottura
dell’equilibrio con la Realtà divina che ne conseguiva. Sam’ānī non
avrebbe mai sottolineato con tanta enfasi gli aspetti positivi della
caduta se non ci fossero state diffuse opinioni opposte.

1. Aḥmad Sam’ānī.

La letteratura sufi è ancora largamente inesplorata. Molti testi sono


da tempo riconosciuti come classici e molti altri sono stati portati alla
luce dagli studiosi contemporanei, ma altri ancora giacciono
dimenticati nelle raccolte di manoscritti o in collezioni private. Il fatto
che queste opere siano sconosciute non significa che siano irrilevanti.
Un esempio perfetto è fornito da Rawḥ al-arwāḥ fī sharḥ asmā’ al-
malik al-fattāḥ («Il sollievo degli spiriti: spiegare i nomi del Re che
tutto apre») di Aḥmad Sam’ānī. Di quest’opera in lingua persiana di
oltre seicento pagine esistono alcuni manoscritti, conservati in diverse
biblioteche. Pochi studiosi moderni della letteratura persiana l’hanno
notata, ma nessuno le ha prestato particolare attenzione finché non
venne pubblicata nel 1989 2. Ora che il testo è facilmente disponibile,
chiunque può vedere che merita di essere annoverato tra i maggiori
classici della letteratura sufi.
Sebbene Sam’ānī sia rimasto sconosciuto perfino a molti studiosi,
non è difficile reperire informazioni sulla sua vita. Egli apparteneva a
un’illustre famiglia di giuristi shāfi’iti di Marv, e suo padre fu autore di
un commento coranico e di diversi libri sul Ḥadīth, sulla giurisprudenza
e sul Kalām. Il suo parente piú noto fu il nipote, ‘Abd al-Karīm ibn
Muḥammad (m. 1166-67), autore della famosa opera genealogica al-
Ansāb, nella quale descrive suo zio come predicatore eloquente, buon
polemista ed eccellente poeta – qualità che risultano evidenti nel
Rawḥ al-arwāḥ 3.
I commentari sui nomi divini erano comuni in lingua araba. Lo
studioso francese Daniel Gimaret ha contato ventitre opere di questo
genere fino all’epoca di al-Ghazālī 4. Ma il Rawḥ al-arwāḥ sembra
essere la prima opera particolareggiata di questo tipo in lingua
persiana. Sam’ānī vi tratta di centouno nomi, suddivisi in
settantaquattro capitoli, ciascuno dei quali si apre con la spiegazione
del significato letterale del o dei nomi presi in esame.
Successivamente lascia che l’ispirazione del momento gli prenda la
mano. Il risultato è una serie di straordinarie riflessioni sui temi
fondamentali del sufismo.
Il Rawḥ al-arwāḥ ci mostra un Sam’ānī maestro in tutte le scienze
religiose. Ma è la dimensione sufi che emerge piú chiaramente nella
forma e nel contenuto della sua opera. Egli cita frequentemente la
poesia sufi (inclusi versi del suo contemporaneo Sanā’ī) e lui stesso è
autore di molti versi e ghazal. Ciononostante, la sua prosa è spesso
piú poetica della sua poesia ed egli deve quindi essere annoverato tra
i piú grandi autori in prosa della letteratura persiana. Sam’ānī scrive
con gioia e naturalezza, pur facendo ricorso alle tecniche di uno
scrittore di prim’ordine: le qualità musicali e la bellezza del testo sono
sorprendenti. Senza dubbio egli scrisse il libro affinché venisse letto ad
alta voce. Quando suo nipote ci dice che lo zio era un eloquente
predicatore, lo si può immaginare mentre legge brani della sua opera
producendo negli ascoltatori stati d’estasi, simili a quelli che vengono
spesso descritti nella letteratura agiografica.
La storia di Adamo rappresenta il tema unificante dei vari capitoli
del libro. Sam’ānī sostiene che ogni evento della vita di Adamo fu
segnato dalla misericordia e dal perdono di Dio. Piú specificamente,
egli vede la misericordia di Dio nei confronti della stirpe umana
raggiungere la sua apoteosi mitica quando viene mangiato il frutto
proibito, una felix culpa che illustra l’unicità dell’amore di Dio per gli
esseri umani rispetto a tutte le altre creature. Si potrebbe obiettare
che egli sta trasformando un peccato in virtú, ma questo
significherebbe dimenticare che Sam’ānī viveva in una società in cui
l’osservanza della sharī’a era data per scontata. Egli non sta
suggerendo che dovremmo peccare ed esserne felici, ma ci chiede di
guardare attentamente alle nostre motivazioni prima di agire. È
corretto seguire la sharī’a semplicemente perché Dio ci dice di farlo, o
perché si vuole evitare la punizione, oppure perché si spera di andare
in paradiso? No, dice Sam’ānī: l’azione umana deve essere motivata
dall’amore per Dio, proprio come l’azione di Dio è motivata dall’amore
per gli esseri umani.
Nella spiegazione del significato del mito, Sam’ānī illustra come
l’antropologia e la psicologia islamiche sono radicate negli attributi
divini. Un obiettivo primario dei sufi, dopo tutto, è quello di assumere i
tratti caratteristici di Dio, o di realizzare la forma divina secondo la
quale gli uomini sono stati creati. Tutte le discussioni sulle «stazioni»
che devono essere attraversate lungo il sentiero che conduce a Dio
fanno riferimento ai tratti caratteristici che è necessario far emergere
da una condizione di latenza. I modelli di una forma divina perfetta
sono i profeti, e il padre di tutti i profeti è lo stesso Adamo. Tutte le
perfezioni, le qualità virtuose e le stazioni che devono essere
realizzate dagli esseri umani erano già presenti in Adamo. La
comprensione della storia di Adamo ci consente di vedere come la
reciprocità fra l’amore divino e quello umano permetta la piena
espressione delle potenzialità umane e realizzi l’obiettivo di Dio nella
sua creazione dell’universo.

2. La caduta nel Corano.

Quando Sam’ānī dice «Adamo», intende riferirsi al primo uomo o


all’archetipo dell’essere umano, le cui qualità fondamentali sono
condivise da tutti gli altri uomini (questa accezione si trova anche nel
Corano, in 7:11). Quasi mai egli fa esplicito riferimento a Eva, non
perché le donne siano prive di importanza, ma perché non è
interessato a quelle parti del mito che sostengono una differenziazione
dei ruoli sulla base del genere. Visto che sta trattando del significato
dell’essere umano, egli può ignorare la questione di cosa significhi
essere uomo oppure donna. La caduta di Adamo è la caduta di
ciascuno, ed Eva non svolge un ruolo particolare. Il «peccato» della
caduta non può certamente essere addossato a lei soltanto. Se ciò
fosse possibile, senza dubbio Sam’ānī le assegnerebbe una posizione
molto piú elevata di quella che già possiede, perché è il peccare che
rende gli esseri umani cosí unici e speciali.
Il punto di vista di Sam’ānī sulla caduta di Adamo deve essere
compreso nel contesto della storia coranica. Mi sia consentito di
riassumere gli eventi che egli ritiene particolarmente importanti.
Dio decise di porre un vicario sulla terra. Prima di crearlo, informò
gli angeli della sua decisione. Questi la disapprovarono e dissero:
«Vuoi mettere sulla terra chi vi porterà la corruzione e spargerà il
sangue, mentre noi cantiamo le Tue lodi ed esaltiamo la Tua santità?»
(2:30). Dio rispose semplicemente che Egli sapeva qualcosa che essi
ignoravano.
Avendo creato Adamo, Dio gli insegnò tutti i nomi, che sono i nomi
delle creature in quanto segni e tracce degli attributi di Dio o i nomi di
Dio Stesso. Egli chiese agli angeli i nomi, ma tutti loro ammisero la
loro ignoranza. Dio disse ad Adamo di insegnar loro i nomi, e ricordò
agli angeli che Egli aveva detto di sapere qualcosa che essi
ignoravano. Poi ordinò agli angeli di prostrarsi di fronte ad Adamo, e
tutti lo fecero, eccetto Iblīs, ovvero Satana. Quando Dio chiese a Iblīs
perché si fosse rifiutato, quegli rispose che era stato creato di fuoco, il
che lo rendeva migliore di Adamo, fatto d’argilla.
Secondo un ḥadīth, Dio modellò con le Sue stesse mani l’argilla di
Adamo per quaranta giorni. Naturalmente, questo gesto rappresenta
una grandissima attenzione da parte di Dio verso una singola
creatura, perché nel creare le altre cose Egli semplicemente disse
«Sii», e impiegò solo sei giorni per creare l’intero universo. Dopo aver
modellato l’argilla di Adamo, Dio gli insufflò il Suo spirito. Forse fu a
questo punto che Egli offrí il Patto ai cieli, alla terra e ai monti, ma
tutti loro rifiutarono. L’essere umano – qui è utilizzato il termine insān
piuttosto che adam – accettò il Patto, e il Corano ci dice in conclusione
che «l’uomo è ingiusto e d’ogni legge ignaro» (33:72). Nella stessa
cornice mitica della storia Dio estrasse tutti i figli di Adamo dai suoi
lombi e parlò loro nel Patto di alast.
A quel punto Dio aveva creato Eva come compagna di Adamo e li
aveva posti nel Giardino per muoversi liberamente a proprio
piacimento. Tuttavia, venne loro ordinato di non accostarsi a
«quest’albero», che la tradizione identifica con la spiga 5. Quando
Adamo ed Eva mangiarono il frutto proibito, si levò il grido: «Adamo
ha disobbedito» (20:121). Questo è l’evento chiave, il «peccato» di
Adamo se si preferisce, sebbene Sam’ānī, rimanendo nel solco della
tradizione islamica, si riferisca di solito ad esso con il termine piú
blando di «errore» (zillat). Avendo sbagliato, Adamo ed Eva si
pentirono, dicendo all’unisono a Dio: «O Signore nostro! Abbiam fatto
torto a noi stessi» (7:23). Dio li perdonò, e in seguito «il Suo Signore
lo prescelse» (20:122), il che significa che Dio fece di Adamo un
profeta. Nello stesso modo il Corano ci dice che «Dio ha eletto
Adamo» (3:33) insieme a Noé e ad altri profeti. Infine fu detto ad
Adamo ed Eva: «Via tutti dal Giardino» (2:38). Questa è la caduta
propriamente detta, con la quale Adamo ed Eva discesero sulla terra.

3. La creazione.

Nello spiegare perché Dio ha creato Adamo Sam’ānī tiene presenti


le due categorie fondamentali dei nomi divini: il Gentile e il
Misericordioso, opposti al Severo e al Vendicativo. Quando Adamo era
in paradiso, non aveva ancora pienamente compreso i significati di
tutti i nomi che Dio gli aveva insegnato. Egli conosceva i nomi della
bellezza e della misericordia, ma non quelli della maestà e della
collera. Per ottenere questa comprensione, egli doveva prima cadere
sulla terra, la casa della severità di Dio.

Adamo era ancora un bambino, cosí Dio lo portò lungo il sentiero


dell’amorevolezza. Il sentiero del bambino è una cosa, la fornace degli eroi è
qualcosa di diverso. Adamo fu portato in paradiso sulle spalle dei grandi angeli del
regno di Dio. Il paradiso fu fatto culla per la sua grandezza e pilastro per il suo
comando, perché Adamo non era ancora abbastanza resistente per la corte della
severità 6.

Dio portò Adamo nel giardino della gentilezza e lo fece sedere sul trono della
felicità. Gli diede coppe di gioia, una dopo l’altra. Poi lo mandò via, piangente,
bruciante, gemente. Proprio come all’inizio gli aveva fatto assaporare la coppa
della gentilezza, cosí alla fine gli fece assaporare un sorso della severità pura,
assoluta e senza causa prima 7.

Dal momento che Dio è infinito, anche i possibili modi attraverso i


quali la conoscenza dei Suoi nomi può essere raggiunta sono infiniti.
Questo significa che per il primo essere umano non è sufficiente
conoscere i nomi di Dio. Anche ciascuno dei suoi figli deve conoscere i
nomi nella sua maniera unica e peculiare. Solo allora si potrà
realizzare tutto il potenziale della disposizione umana originale. Una
delle implicazioni di questo fatto è che l’inferno richiede l’esistenza
umana nel mondo. L’inferno non è altro che un dominio governato
esclusivamente dai nomi della collera e della severità, proprio come il
paradiso è governato dai nomi della misericordia e della gentilezza. Il
fatto che Dio sia Misericordioso e allo stesso tempo Vendicatore
richiede l’esistenza sia del paradiso sia dell’inferno. Quindi, ci dice
Sam’ānī, Dio si rivolse con le seguenti parole ad Adamo quando volle
spiegargli perché doveva mandarlo via dal paradiso:

Nel vaso della tua esistenza ci sono splendidi gioielli e pietre nere lucenti.
Nascoste dentro l’oceano della tua costituzione ci sono perle e frammenti di vaso.
E quanto a Noi, abbiamo due case: in una stendiamo la tovaglia del
compiacimento, affidandolo a [l’angelo] Riḍwān. Nell’altra accendiamo la luce
della collera, affidandola a [l’angelo] Malik. Se avessimo dovuto farti rimanere nel
Giardino, il Nostro attributo della severità non sarebbe stato soddisfatto. Cosí,
lascia questo luogo e scendi nella fornace dell’afflizione e della dura prova della
distanza. Quindi Noi porteremo allo scoperto i sedimenti, i manufatti, le
sottigliezze e i doveri che sono nascosti nel tuo cuore.

La severità e la gentilezza di Dio sono riflesse nelle due facce della


natura di Adamo: «spirito» e «argilla». Senza la severità dell’argilla,
Adamo sarebbe stato un angelo, non un essere umano, e non avrebbe
mai potuto essere vicario di Dio sulla terra.

Se fosse stato solo uno spirito, i giorni di Adamo sarebbero stati privi di
vergogna e le sue azioni sarebbero rimaste senza corruzione. Ma azioni senza
macchia non sono appropriate a questo mondo, e sin dal principio egli fu creato
come vicario per questo mondo.

Quest’ultimo punto è importante e Sam’ānī vi fa spesso riferimento.


Il Corano afferma esplicitamente che Dio creò Adamo perché Egli
voleva mettere un vicario sulla terra. Adamo non avrebbe potuto
essere vicario se fosse rimasto in paradiso.

Adamo non fu portato dal paradiso sulla terra a causa del suo errore. Se anche
supponessimo che non avesse sbagliato, sarebbe stato ugualmente portato in
questo mondo. La ragione di ciò consiste nel fatto che la mano del vicariato e il
tappeto della regalità stavano aspettando l’arrivo del suo piede. Ibn ‘Abbās disse:
«Dio lo aveva tolto dal Giardino prima ancora di mettervelo».

Una delle molte virtú della caduta di Adamo è che essa aprí la
strada ai suoi discendenti per entrare in paradiso. Sam’ānī ci dice che
Dio scacciò Adamo dal paradiso con la promessa che ve lo avrebbe
riportato con tutti i suoi figli.

Adamo ha due esistenze, la prima e la seconda. La prima appartiene a questo


mondo, non al paradiso, e la seconda appartiene al paradiso.
«O Adamo, esci dal paradiso ed entra in questo mondo. Perdi la tua corona, la
cintura e il cappello nella via dell’amore! Sopporta dolore e sofferenza. Poi,
domani, ti riporteremo in questa patria preziosa, questo domicilio di sussistenza,
con centomila vesti di gentilezza e con ogni sorta di onore, come il primo dei
testimoni e in presenza dei centoventimila profeti, detentori della purezza e fonti
dell’elezione. Quindi le creature sapranno che proprio come Noi possiamo portare
la forma di Adamo fuori dal paradiso attraverso l’attributo della severità, cosí lo
possiamo riportare indietro attraverso l’attributo della gentilezza».
Domani Adamo andrà in paradiso con i suoi figli. Un grido si leverà dalle
particelle del paradiso a causa dell’affollamento. Gli angeli del Mondo della
Sovranità guarderanno con stupore e diranno: «È questo lo stesso uomo che
pochi giorni fa se ne andò dal paradiso in uno stato di povertà e indigenza?»
«Adamo, portarti fuori dal paradiso era un sipario sul mio lavoro e una
copertura sui miei misteri, perché i lombi della tua buona sorte erano l’oceano
delle centoventimila perle della profezia. Patisci un po’ di sofferenza, e poi, tra
pochi giorni, prendi il tesoro!»

4. L’amore.

Il ḥadīth del Tesoro Nascosto ci insegna che Dio ha creato


l’universo a causa dell’amore per gli esseri umani. Sam’ānī ritorna
spesso sul concetto secondo cui l’unicità della natura umana è
radicata in questo specifico attributo divino. Nella costituzione
dell’uomo, è il «cuore» (dil) ad attrarre l’amore di Dio, non l’«argilla»
(gil ), che è comune a molte altre creature. In un passaggio, Sam’ānī
mostra come il Corano presenta l’opposizione tra Creatore e creature
in molti modi diversi, asserendo continuamente la grandezza divina e
l’insignificanza umana. Soltanto a proposito dell’amore il Corano parla
di reciprocità.

Dio ha fatto conoscere l’attributo della Sua conoscenza: In verità Dio è di tutte
le cose sapiente [29:62]. Egli ha fatto anche conoscere l’attributo della nostra
ignoranza: E l’uomo è ingiusto e d’ogni legge ignaro! [33:72].
Egli ha fatto conoscere l’attributo del Suo potere: Dio è, in verità, onnipotente
[2:109]. Egli ha fatto anche conoscere l’attributo della nostra incapacità: Iddio vi
pone questa similitudine, la similitudine d’un servo, posseduto, che non ha potere
su nulla [16:75].
Egli ha fatto conoscere l’attributo della Sua gloria: Ma la gloria è tutta di Dio
[4:139]. Egli ha fatto anche conoscere la nostra umiliazione: Umili saranno gli
sguardi di fronte al Vivente, Colui che di per Sé esiste [20:111].
Egli ha fatto conoscere l’attributo della Sua incomparabilità e santità: Gloria al
tuo Signore, il Signore della Gloria, oltre le loro empie descrizioni! [37:180]. Egli
ha fatto anche conoscere l’attributo della nostra corruzione: Non v’abbiam Noi
creato d’acqua sozza? [77:20].
Egli ha fatto conoscere l’attributo della Sua permanenza: E solo resta il Volto
del Signore, pieno di Potenza e di Gloria [55:27]. Egli ha fatto anche conoscere
l’attributo della nostra caducità: E tutto quel che vaga sulla terra perisce [55:27].
Egli ha fatto conoscere l’attributo della Sua vita: Tu confida nel Vivo che mai
non muore [25: 58]. Egli ha fatto anche conoscere l’attributo della nostra morte:
Ecco: morrai, ecco: morranno [39:30].
Dal momento che la Signoria è un Suo attributo – È il Signore vostro, il Signore
dei vostri padri [26:26] – la servitú è un nostro attributo – E Io non ho creato i
geni e gli uomini altro che perché M’adorassero [51:56].
Dal momento che l’unità è un Suo attributo – Il vostro dio è un Dio solo
[16:22] – l’accoppiare e l’associare sono nostre qualità – E di tutte le cose
creammo una coppia [51:49].
Tuttavia, quando Egli ha fatto conoscere l’amore, proprio come ha affermato
l’amore per Se Stesso, cosí ha affermato anche l’amore per noi: Egli amerà come
essi ameranno Lui [5:54].
Qui ci deve essere un segreto che accrescerà il sollievo dello spirito degli
amanti: conoscenza, potere, vita, santità, permanenza e unità sono l’attributo
della Sua Essenza, e la Sua Essenza è sacra e incomparabile. Questi attributi sono
appropriati a Lui. Gloria a Lui che è incline alla gloria e ad essa appropriato!
Quando si osserva l’essenza umana, essa è corrotta e confusa: è melma, acqua
scura, argilla. Quindi in essa sono comparsi tutti quegli attributi. Tuttavia, la sede
dell’amore è il cuore, e il cuore è oro puro, la perla dell’oceano del petto, il rubino
della miniera del mistero piú profondo. Non l’ha toccato la mano di nessun altro, e
l’occhio di nessun altro che non sia un intimo vi si è posato sopra. La
testimonianza della maestà di Dio l’ha pulito e il brunitore dell’Invisibile vi ha
posto il suo sigillo, rendendolo lucido e splendente. Dal momento che il lavoro del
cuore comprende tutto questo, la Presenza della Gloria ha amore per ciò. Egli
tenne la bellezza di quell’amore davanti ai cuori dei grandi, e le tracce di luce
della bellezza dell’amore assoluto apparvero nello specchio dei loro cuori. Perciò, il
nostro amore vive attraverso il Suo amore, non il Suo amore attraverso il nostro.

L’amore per Dio risponde a tutti i Suoi nomi. Gli angeli sono esclusi
dall’amore perché non possono assaporare la collera, la severità e la
distanza, e le bestie sono lontane dall’amore perché non possono
sperimentare la bellezza, la gentilezza e la vicinanza. Gli esseri umani
sono un miscuglio di vicinanza e di lontananza, di gentilezza e di
severità. Tutti i contrastanti attributi divini sono racchiusi in loro.
Soltanto loro possono realmente amare Dio, nel quale gli opposti
coincidono. «Nei diciottomila mondi, nessuno bevve fino in fondo dalla
coppa che contiene il patto di Essi Lo amano, fatta eccezione per gli
esseri umani».

Dio ha creato ogni creatura conformemente a ciò che la sua potenza esigeva,
ma ha creato Adamo e i suoi figli in conformità con l’amore. Egli ha creato le altre
in quanto è il Forte, ma ti ha creato in quanto è l’Amico.

Dal trono fin giú alla terra, l’amore viene smerciato soltanto nella casa umana
del dolore e della gioia. Molti angeli puri e senza peccato erano nella Corte, ma
solo questa manciata di polvere era in grado di sopportare il fardello di questo
versetto che scioglie il corpo e che fa bruciare il cuore: Egli li ama, ed essi Lo
amano.

Prima che Adamo fosse portato nell’esistenza, vi era un mondo pieno di cose
esistenti, creature, cose formate, cose determinate, ma tutto ciò era una zuppa
insapore; mancava il sale del dolore. Quando quel grand’uomo mosse i suoi passi
dal nascondiglio della non-esistenza nell’immenso deserto dell’esistenza, la stella
dell’amore iniziò a brillare nel paradiso del petto dell’argilla di Adamo. Il sole di chi
ama iniziò a risplendere nel cielo del suo piú profondo mistero.

Adamo disobbedí a Dio istigato da Dio, perché Dio sapeva che


senza la disobbedienza egli non avrebbe realizzato gli attributi della
distanza, che gli permettono di diventare un amante. L’essenza
dell’amore è struggimento e angoscia.
Quel Dio che fu in grado di proteggere Giuseppe dal compiere un’azione empia,
avrebbe potuto impedire ad Adamo di assaggiare il frutto dell’albero. Ma dal
momento che il mondo deve essere pieno di tumulto e di afflizione cos’altro
poteva essere fatto?

Quegli occhi ebbri, languidi


continuano a riempire i miei occhi di sangue.
Sono attonito: come mai gli occhi della luna
sono diventati ebbri senza aver bevuto vino?
Come mai essa può tirare frecce al cuore
senza mano, arco, pugno e pollice?
Cercando giustizia per i cuori degli amanti
tutti gli orizzonti si girano sulle punte delle sue trecce.
Essa sapeva che la discordia era stata seminata,
cosí si nascose e si sedette nella casa.
Tutta la città piangeva per lei,
questo non sorprende, accade spesso.
I loro piedi sono legati con le sue catene,
essi alzano le proprie mani a causa sua.

Adamo fu portato in paradiso, fatto cadere nell’errore, e poi portato via.


«Adamo, questo non è un affare di cui avresti potuto occuparti da solo. Il giorno
che gli angeli si prostrarono, tu non eri solo. Il giorno in cui fu stipulato il patto,
non eri solo. Non c’era nessun accordo che tu dovessi essere solo in paradiso. “Il
peggiore tra gli uomini è colui che mangia da solo”. Non è arte di un nobile
giovane mangiare tutto solo. Venite in questo mondo, che è il laboratorio della
ricerca. Il maestro, che è la povertà, scriverà per voi l’alfabeto dell’amore».

Quando Dio offrí il Patto ai cieli, alla terra e alle montagne, tutti si
rifiutarono, giacché non conoscevano il segreto dell’amore. Adamo
invece pensò solo al suo Amato. Perciò non si preoccupò di guardare
alla propria incapacità, anche se il Pegno era un duro fardello, temuto
da tutta la creazione.

La povera palla da polo nel campo! Presa con la curva della mazza, rotola sulla
propria testa, lanciata dalle mani e dai piedi dei giocatori. Ovunque vada, trova
una mazza ad aspettarla. Una fragile manciata di polvere fu posta sulla curva
della mazza da polo: la severità della Sua Gloria. La palla sfreccia dall’inizio del
campo – il volere divino senza inizio – fino alla fine del campo – il desiderio divino
senza fine. Davanti al campo è issato uno stendardo: A Dio non si chiede conto di
quello che fa, mentre a loro sarà chiesto conto [21:23]. Dietro al campo c’è un
secondo stendardo: Fa quel ch’Ei vuole [85:16].
Ma la palla ne ottiene anche un guadagno: «Tu hai gli occhi fissi sullo sguardo
del sultano, non sul colpo della mazza». Coloro che guardarono il colpo della
mazza abbandonarono la corte. Ed essi rifiutaron di portarlo [33:72]. Poi Adamo,
con il fegato di un leone, raccolse quel fardello. Come conseguenza inevitabile
colse il frutto.
Dopo tutto, essi erano bambini di soli sei giorni: E Dio che ha creato i cieli e la
terra e quel che v’è frammezzo in sei giorni [32:4]. Un bambino non può portare
un fardello. Ma Adamo fu messo nella culla del Patto per quaranta giorni, e gli fu
dato il latte della sovranità dal petto del premuroso favore. «Egli modellò l’argilla
di Adamo per quaranta giorni con le Sue stesse mani».
Il cielo e la terra videro il fardello [bār] di oggi. Ma Adamo vide la corte reale
[bār] di domani. Egli disse: «Se non porto questo fardello non sarò introdotto
domani nella corte della Maestà». Da uomo, si precipitò verso l’incarico, e cosí
divenne il punto cardinale della bussola del mistero. In verità, in verità, i sette
cieli e la terra non hanno aspirato neppure un soffio di queste parole.

5. Aspirazione e discernimento.

La caratteristica degli amanti è l’elevata aspirazione (himma). Essi


si battono solo per l’Amato. Per raggiungerLo, devono distogliere il
proprio sguardo da tutte le cose del mondo creato, perfino dal
paradiso.

Adamo aveva l’aspirazione nella testa. Egli prese e diede attraverso la propria
aspirazione. Ogniqualvolta gli uomini raggiungono qualcosa, lo fanno con
l’aspirazione, perché con ciò che hanno in proprio nella loro costituzione non
otterrebbero mai nulla.
Quando Adamo fu portato per la prima volta in esistenza, era vestito con gli
abiti della munificenza e della gloria e col mantello dell’incoronazione, e gli angeli
si prostrarono di fronte a lui. Il nome della regalità e del vicariato fu registrato
nella proclamazione del suo patto. Gli otto paradisi furono concessi a lui soltanto.
O Adamo, abita, tu e la tua compagna, questo Giardino [2:35]. «O Adamo il
prescelto, agisci liberamente nella Casa della Permanenza e nella Dimora
dell’Eternità, secondo i tuoi desideri e il tuo volere. Nella vita dell’agiatezza, sii
pronto per il giorno della promessa».
L’instancabile aspirazione di Adamo lo pose come un sultano sul cavallo
dell’amore. Prese il dardo della solitudine dalla faretra della separazione e tese
l’arco fino al limite. Colpí il bel pavone del paradiso, che incedeva tronfio nel
giardino della Dimora. Egli sapeva che questo era il sentiero di coloro che si sono
separati, il lavoro di quelli che hanno una grande aspirazione, la corte di coloro
che sono portati vicini a Dio. Tempo, spazio, entità, tracce, vestigia, forme, cose
esistenti e oggetti della conoscenza devono essere completamente cancellati
davanti a te. Se uno qualunque di questi si aggrappa alla tua veste, il nome della
libertà non si applicherà a te. Fintanto che il nome libero non farà parte di te, non
potrai mai essere un vero servo di Dio.

Amore, quindi, significa essere liberi da ogni cosa del mondo creato
e scegliere Dio. Significa servire Dio, e niente altro. Solo gli esseri
umani furono creati in modo tale da poter amare Dio nella Sua realtà
infinita, onnicomprensiva, abbracciando sia gli attribuiti della bellezza
che della maestà, sia della gentilezza che della severità. Quando essi
si concentrano su Dio, realizzando il tawḥīd, superano la limitazione di
possedere certi attributi piuttosto che altri. Secondo Sam’ānī, Dio si
rivolge alle Sue creature cosí:

«O Riḍwān, il paradiso appartiene a te! O Malik, l’inferno appartiene a te! O


Cherubino, il Trono appartiene a te! O tu con il cuore in fiamme, tu che porti il
sigillo del Mio amore! Tu appartieni a Me, e Io appartengo a te».

«O maledetto, sei fiero del fuoco? Tu appartieni al fuoco e il fuoco appartiene a


te. O Core, sei fiero dei tesori? Tu appartieni ai tuoi tesori ed essi appartengono a
te. O Faraone, sei fiero del Nilo? Tu appartieni al Nilo, e il Nilo appartiene a te. O
tu che testimoni la Mia unità [tawḥīd], sei fiero di me? Tu appartieni a Me, e Io
appartengo a te.
Se gli esseri umani vogliono aspirare a Dio, debbono essere in
grado di distinguere tra Dio e tutto il resto. La chiave per l’amore e la
perfezione umana è un cuore dotato di discernimento, che vede Dio al
centro della fuorviante molteplicità della creazione. Adamo fornisce il
modello per gli amanti.

In realtà l’amore ha portato via lo splendore da entrambi i mondi. Paradiso e


inferno hanno valore nel mondo della servitú, ma nel mondo dell’amore non
valgono un granello di polvere. Adamo, il prescelto, si vide offrire gli otto paradisi,
ma li vendette per un chicco di grano. Mise le merci dell’aspirazione sul cammello
della buona sorte e scese nel mondo dell’afflizione.
La radice di ogni affare è nel discernimento del valore. Il sultano
dell’aspirazione di Adamo si sedette sul cavallo del suo augusto stato. Poi cavalcò
nel Giardino per misurare il suo valore. [Nel diritto] vi è divergenza di opinioni sul
fatto che una persona possa o meno acquistare ciò che non ha visto. Ma tutti
sono d’accordo sul fatto che non si può giudicare il valore di qualcosa senza
averla vista.
«O Adamo, cosa sta entrando in paradiso che sia degno di te?»
Rispose: «Per chi ha paura dell’inferno, il paradiso vale mille vite. Ma per chi
teme Te, il paradiso non è degno di un granello». Quindi la saggezza nel mettere
Adamo in paradiso era quella di rendere manifesta la sua aspirazione.

Ciò che rese grande Adamo fu il fatto che portò il fardello della
Fiducia, che è l’amore per Dio. Solo lui conosceva il segreto
dell’amore, perché esso era il motivo fondamentale della sua
esistenza. Egli sapeva che il suo amore poteva essere nutrito e
rafforzato solo quando avesse assaporato il dolore della separazione e
della severità. Quindi, mangiò il frutto proibito.

Il grand’uomo fu adornato di buoni auspici, di generosità, delle luci della


perfezione e della bellezza e poi fu inviato in paradiso. Egli girovagò, ma non
trovò nulla che gli si confacesse. Raggiunse quello che viene chiamato l’albero
dell’afflizione [balā’], ma che in realtà è l’albero della devozione [walā’], e lo vide
come un destriero affidabile. Non esitò un momento. Quando lo raggiunse, gli
diede un calcio, e quel calcio dispettoso fu descritto con le parole Adamo
disobbedí [20:121]. Possedeva una buona vista, e nell’albero intravide il mistero
di un compagno per il viaggio. Anche l’albero vide la stessa cosa: sollevò il velo
dal suo volto e gli si mostrò: «Non puoi percorrere questa strada senza di me…»
Per migliaia di anni i glorificatori e i testimoni dell’unicità del paradiso erano
stati ritti, al limite delle loro capacità, ai piedi dell’obbedienza nella corte della
Gloria. Quando apparve il cappello con visiera della buona sorte del prescelto
Adamo, essi si smarrirono nel cappello.
E quando dicemmo agli Angeli: «Prostratevi avanti ad Adamo!» [2:34]. Colui
che si oppose, sebbene la sua obbedienza riempisse il mondo, fu gettato
nell’eterna separazione.
Munificenza e generosità portarono Adamo in paradiso, dove fu messo sul
cuscino della gloria. L’intero paradiso fu sottoposto ai suoi comandi. Egli esaminò
tutto, ma non vide un solo granello del dolore o della realtà dell’amore. Disse:
«L’olio e l’acqua non si mescolano».

Quando Adamo vide che il paradiso non aveva alcun valore, decise
di partire. Ma Dio glielo aveva concesso come dominio suo proprio, e
cosí l’unico modo per uscirne velocemente consisteva nel trasgredire
l’ordine divino.

Per Dio il Tremendo! Misero il valore del paradiso nel palmo della mano di
Adamo. Non c’era sposa piú bella del paradiso fra tutte le cose esistenti: qual bel
viso e quali perfetti ornamenti! Ma il potere dominante dell’aspirazione di Adamo
entrò dal mondo della Gelosia Invisibile. Egli pesò l’importanza del paradiso con la
mano e il suo valore sul piatto della bilancia. Il paradiso cominciò a gridare: «Non
riesco a sopportare quest’uomo sfrontato!»
O nobile giovane! Se domani andrai in paradiso e lo guarderai dall’angolo
dell’occhio del tuo cuore, in verità, in verità non avrai raggiunto l’aspirazione di
Adamo. Qualcosa che tuo padre ha venduto per un chicco di grano, perché mai
vorresti stabilirti lí?

6. Povertà e necessità.

L’amore umano si sviluppa dal bisogno (niyāz). Sam’ānī definisce il


bisogno «un fuoco nel cuore, un dolore nel petto e polvere sul viso».
Quelli che hanno qualcosa non ne sentono il bisogno. Dio possiede
tutto in Se Stesso e non ha necessità. Solo coloro che non hanno
assolutamente alcuna perfezione possono realmente amare Dio,
perché essi soltanto hanno un’assoluta, totale necessità. Nella misura
in cui gli uomini trovano in se stessi benessere e indipendenza e si
vedono come persone buone e positive, saranno privi di amore per
Dio. Il segreto dell’amore di Adamo era che egli vedeva se stesso
come un niente. Questa è la comprensione di sé che i sufi chiamano
«povertà», rimanendo in linea con il versetto coranico: «O uomini! Voi
siete poveri di Dio, e Dio è il Ricco, il Sempre Degno di Lode!»
(35:15). Sul tema della povertà e della necessità Sam’ānī cita un
grande sufi:

Sahl ibn ‘Abd Allāh Tustarī ha detto: «Fissai questo sentiero e posai lo sguardo
interiore sulla realtà. Non ho visto nessun cammino che porti piú vicino se non il
bisogno, e nessun velo piú spesso che l’avanzare delle pretese».
Guarda il sentiero di Iblīs e non vedrai altro che l’avanzare delle pretese. Poi
guarda il sentiero di Adamo e non vedrai nient’altro che il bisogno. O Iblīs, cosa
dici? Io sono migliore di lui [7:12]. O Adamo cosa dici? O Signor nostro! Abbiam
fatto torto a noi stessi [7:23].
Dio portò fuori tutte le cose esistenti dalla veste della non-esistenza alla
pianura del Suo comando, ma la pianta del bisogno cresce solo sulla terra.
Quando venne data forma a questa manciata di terra, essa fu modellata con
l’acqua del bisogno. Comprendeva ogni cosa ma doveva contenere anche il
bisogno, cosí non avrebbe mai cessato di piangere davanti alla corte di Dio.
La costituzione di Adamo fu modellata con il bisogno e ricevette l’aiuto del
bisogno. Gli angeli dovettero prostrarsi davanti a lui. Fu posto sul trono della
regalità e del vicariato e gli angeli vicini a Dio furono collocati accanto a lui. Ma il
suo bisogno non diminuí di un solo granello di polvere. Fu portato in paradiso, e
fu fatta questa proclamazione: «O Adamo, abita, tu e la tua compagna, questo
giardino, e mangiatene abbondantemente e dove volete [2:35]. Gli otto paradisi ti
appartengono: gira liberamente a tuo piacimento». Ma la sua povertà non
scomparve.

Il bisogno di Adamo lo distingue nettamente da tutte le altre


creature, che sono soddisfatte di ciò che hanno. Adamo non può mai
essere soddisfatto, perché ha bisogno di Dio, e Dio è infinito.
Dicono che nella Tavola Custodita è scritto: «Adamo non mangiare il grano». E
ancora è scritto che egli lo mangiò: Davvero l’uomo fu creato avido [70:19].
L’avidità dei figli di Adamo risale ai tempi dello stesso Adamo. Chiunque non sia
avido non è un essere umano. Quanto piú una persona mangia, tanto piú ne deve
avere. Se qualcuno mangia qualcosa e dice: «Sono pieno» sta mentendo, perché
ha ancora spazio entro di sé.

Il bisogno di Dio nasce in Adamo dalla coscienza della propria


nullità e non realtà. Questa coscienza lo distingue dagli angeli, che
pensano a se stessi come a qualcosa.

Prima di Adamo, era l’era dei ricchi e dei possessori di beni. Non appena giunse
il turno di Adamo, il sole della povertà e del bisogno sorse e l’indigenza fece la
sua comparsa. C’era un gruppo di creature sedute sul tesoro della glorificazione
che chiamavano Dio santo. Stavano mettendo all’asta i loro beni: Noi cantiamo le
Tue lodi [2:30]. Ma Adamo era un uomo povero, che usciva dalla capanna del
bisogno e dall’angolo della preghiera interiore. Si era vestito poveramente e non
possedeva alcun bene. Essere indigente era la sua condizione, cosí con
rammarico levò un grido nella corte della Gloria: O Signore nostro! Abbiam fatto
torto a noi stessi [7:23].
O derviscio! Dai mendicanti essi prendono monete di scarto al posto di quelle
di valore. Chiudono gli occhi durante la transazione. Ma quando la cosa arriva ai
ricchi essi sono attenti e cauti. Senza dubbio, gli angeli della Sovranità avevano
molti beni, ma tra questi c’era una certa dose di presunzione. Avevano scritto sui
manufatti delle loro azioni ossequienti l’annotazione «noi-ità». Adamo non aveva
alcun bene, ma il suo petto era una miniera dei gioielli della necessità e un’ostrica
per la perla della povertà.
Quando la moneta è contraffatta deve essere messa nella fornace, in modo
che la sua contraffazione scompaia e divenga pura. Adamo possedeva il fuoco
della ricerca. Il suo petto era il focolare dell’amore e nell’esistenza non vi era nulla
che avesse la capacità di una scintilla di quella fiamma vivida. «Un solo respiro di
coloro che desiderano ardentemente incendia le azioni degli uomini e dei geni ed
estingue il fuoco di tutte le cose». Quando egli mise a soqquadro il paradiso, fu a
causa dell’impeto del suo desiderio. Il grano era al suo posto e il sussurro di Iblīs
fu solo un pretesto. La ricerca dei misteri era il suo tratto caratteristico.
«O angeli della Sovranità, o abitanti dei quartieri della Sacralità e dei giardini
dell’Intimità! Siete tutti ricchi e possessori di ricchezze, ma Adamo è un uomo
povero, e guarda se stesso con disprezzo. La vostra moneta è contraffatta, dal
momento che volgete lo sguardo e l’attenzione su voi stessi. Adesso dovete
mettere la moneta delle vostre azioni nella fornace del bisogno di Adamo. Egli è il
saggiatore della Presenza: «Prostratevi avanti ad Adamo!» [2:34].
La prima linea che la povertà tracciò sul volto dei giorni di Adamo fu questa:
L’uomo è ingiusto e d’ogni legge ignaro [33:72]. La povertà è oscurità del volto in
entrambi i mondi.

Quindi, l’amore per la Bellezza


è miscredenza?

O nobile giovane! L’aloe ha un mistero. Se l’annusi per mille anni non emetterà
mai un aroma. Vuole il fuoco per mostrare il suo mistero. Il suo volto è nero e il
suo colore è scuro. Il suo sapore è amaro ed è un tipo di legno. Vuole un fuoco
vivo per rivelare il segreto del suo cuore. Nel petto di Adamo c’era il fuoco della
ricerca, e le sue scintille consideravano un nonnulla tutti gli atti di culto e di
obbedienza e tutti i beni degli angeli della Sovranità. Egli era ingiusto e d’ogni
legge ignaro. Era un incenso che doveva essere gettato nel fuoco. Da
quell’incenso spuntò una brezza. Cos’era? Egli li ama, ed essi Lo amano.

Le tribolazioni del giovane uomo fanno conoscere la sua nobiltà,


come il fuoco che fa conoscere il valore dell’ambra grigia.

Per Dio, Egli li ama ti cosparge di polvere, ma essi Lo amano non ha polvere.
Egli li ama significa: «Raccoglili tutti». Essi Lo amano significa «Lasciali andare
tutti». Quando dici, Egli li ama, il tuo colletto dice: «Non sei superiore a me».
Quando dici, essi Lo amano, il Trono ti si fa incontro dicendo: «Sono il tuo
schiavo».
Dissero a un derviscio: «Chi sei?» Egli rispose: «Sono il sultano. Egli è il mio
rappresentante».

Alzati, schiavo, e versa il vino,


Porta le coppe per noi bevitori.
Esteriormente ti chiamo mio schiavo,
ma nel segreto sono io il tuo schiavo.
7. Umiltà.

Il bisogno di Adamo implica che egli riconoscesse la propria


incapacità e inutilità. Il bisogno si basa sull’umiltà, cioè sulla coscienza
della propria debolezza e nullità di fronte alla Realtà divina. L’umiltà
vede provenire da Dio tutto il bene, e tutto il male dal sé.

L’elemosina è data ai meritevoli, e siamo noi i meritevoli. Il nostro «bene» è


infatti sbagliare, mentre il male è il nostro attributo. Al nostro padre Adamo fu
dato il copricapo dell’elezione e la corona dell’essere prescelto. Poi cadde
prigioniero di un chicco di grano. Qual è dunque la condizione di noi figli che
siamo stati abbandonati nella comunità di questo mondo? Quando l’inizio della
bottiglia è feccia, come pensi che ne sarà il fondo?

Se il nostro vino è tutto feccia, questo non è per noi una perdita,
ma un guadagno. Sam’ānī non si stanca mai di dire che sono il
peccato e la dimenticanza a rendere la condizione umana cosí elevata,
non la pietà e la virtú.

Questo è uno strano affare. Quando Adamo sollevò il fardello del Patto, ci fu il
discorso: Egli era ingiusto e d’ogni legge ignaro. Ma quando gli angeli dissero:
Vuoi metter sulla terra chi vi porterà la corruzione e spargerà il sangue? [2:30],
Egli inviò un fuoco che bruciò migliaia di loro. È vero, gli amici dicono cose a
proposito degli amici, ma non sono contenti di sentire estranei guardarli con occhi
taglienti. «Sparlerò di mio fratello, ma non permetterò a nessun altro di farlo».
Quando Dio creò Adamo disse: Io creerò un uomo d’argilla. [38:71]. Gli angeli
dicevano: Vuoi metter sulla terra chi vi porterà la corruzione? Iblīs diceva: Io sono
migliore di lui: me Tu creasti di fuoco e lui creasti di fango! [7:12]. Il Signore
della Gloria rispose: Io so ciò che voi non sapete [2:30]. «Non sbattere la porta
sul fortunato, per non danneggiare il capitale del vostro spirito! O fuoco, tu hai la
forza, ma la terra ha la buona sorte. Come può la forza accidentale contrastare
una degna buona sorte?»
O derviscio, quando arrivarono queste parole [che offrivano il Patto], esse
arrivarono per la gente di Adamo. Se un qualche splendore proveniente da queste
parole avesse brillato sulle altre cose esistenti e se la gente di Adamo ne fosse
stata privata, sarebbe stata una grande perdita.
Dovresti sapere per certo che il chicco di grano che Adamo si mise in bocca era
la fortezza della durata della sua vita. La natura umana mortale richiede di
osservare, e chiunque osserva se stesso non sarà liberato. Questo è il motivo per
cui i grandi scrivono lettere ai loro fratelli dicendo: «Possa Dio non darti alcun
assaggio del tuo sé, perché se tu lo assaporerai, non sarai mai liberato».
Quel chicco di grano fu trasformato nella fortezza di Adamo. Ogniqualvolta
Adamo guarda se stesso, lo fa con imbarazzo. Si fa avanti chiedendo perdono,
senza superbia. Se qualcuno vuole essere un viandante lungo il cammino che
conduce a Dio, ogni volta che guarda la concessione del successo da parte di Dio,
deve dire: «La lode appartiene a Dio». Ogni volta che guarda alle proprie azioni,
deve dire: «Chiedo perdono a Dio».

A causa del suo errore, Adamo si rende conto che i suoi difetti sono
la realtà dominante della sua esistenza. Egli non è che sporcizia. Ogni
altra cosa proviene dalla provvidenza divina. Quindi, la caduta di
Adamo è la fonte della sua conoscenza di sé e il fatto che egli è
«ingiusto e d’ogni legge ignaro» è la sua salvezza e la sua gloria.

Se un palazzo non ha accanto una fossa per l’immondizia, è incompleto. Ci


deve essere una fossa per l’immondizia accanto a un palazzo signorile, in modo
che tutta la spazzatura e i rifiuti raccolti nel palazzo possano esservi gettati. Allo
stesso modo, ogniqualvolta Dio forgia un cuore mediante la luce della purezza,
Egli vi pone accanto questo basso sé come un immondezzaio. La macchia nera
dell’ignoranza vola sulle stesse ali del gioiello della purezza. È necessario che vi
sia un po’ di corruzione, in modo da costruirci sopra la purezza. Una freccia dritta
ha bisogno di un arco ricurvo. O cuore, sii come una freccia dritta! O sé, prendi la
forma di un arco ricurvo! Prendono un po’ di rame o di ferro e vi attaccano
l’argento, in modo che possa ricevere un sigillo.
Quando mettono la veste della purezza sul cuore mostrano al cuore quella
macchia nera di cattivo comportamento e di ignoranza, in modo tale che ricorderà
se stesso e saprà chi è. Quando un pavone dispiega tutte le sue piume, riceve
una gioia diversa da ogni piuma. Ma non appena guarda le proprie zampe, rimane
imbarazzato. Quella macchia nera dell’ignoranza è la zampa del pavone che è
sempre con te.
La lezione che gli uomini dovrebbero apprendere da tutto questo è
che l’imperfezione è parte della natura umana, che Dio conosce
perfettamente, e che nessuno dovrebbe disperare della misericordia di
Dio. Nello stesso tempo, essi devono imparare dagli angeli e non
essere mai superbi delle proprie buone azioni, perché vedere se stessi
come buoni è sbagliato, dal momento che tutto il bene proviene da
Dio.

Gli angeli erano privi di errori, sia per quanto riguarda il passato, sia per il
futuro. Ma ci sarebbe stato un errore da parte di Adamo in futuro, perché Dio
disse: Adamo si ribellò [20:121]. Tuttavia qui c’è un mistero nascosto, perché gli
angeli videro che essi erano puri, ma Adamo vide che era povero. Gli angeli
dicevano: Ti chiamiamo santo, cioè noi ci conserviamo puri per amor Tuo. Adamo
disse: Nostro Signore, abbiamo corrotto noi stessi. Dio mostrò ad Adamo che
l’errore di colui che vede il proprio errore è migliore ai Suoi occhi della purezza di
colui che vede la purezza. Ecco perché Egli diede ad Adamo l’onore di essere
l’oggetto della prostrazione, mentre diede agli angeli l’attributo di esseri prostrati.
Quindi nessuna persona obbediente dovrebbe ritenersi soddisfatta di sé e nessun
disobbediente dovrebbe perdere la speranza.

8. Perdono.

L’imperfezione umana porta alla perfezione dell’amore. La


consapevolezza dell’imperfezione impedisce alle persone di fissare
l’attenzione su se stesse e permette di rivolgere ogni loro aspirazione
verso l’Amato. Nello stesso tempo, l’imperfezione permette a Dio di
manifestare le Sue perfezioni. Senza peccatori, come potrebbe Egli
essere il Perdonatore? Il perdono di Dio richiedeva la caduta di
Adamo.

Gli angeli erano i grandi della presenza divina. Ciascuno di loro adorava senza
alcuna afflizione, indossando una veste di purezza e un orecchino di obbedienza.
Ma non appena giunse il turno della terra, gridarono dall’alto della loro purezza e
cominciarono a vantarsi nel bazar dell’«io e nessun altro». Dicevano: Noi
cantiamo le Tue lodi.
«O angeli del dominio celeste! Nonostante voi siate obbedienti, non avete
alcun appetito in voi stessi, né avete alcuna macchia nella vostra costituzione. Se
gli esseri umani disobbediscono, hanno appetiti dentro di sé e oscurità nella loro
costituzione. La vostra obbedienza insieme con la vostra forza non vale un
granello di polvere in confronto alla Mia maestà e alla Mia Severità. E la loro
disobbedienza insieme con tutta la loro corruzione e bruttura non diminuisce la
perfezione del Mio reame. Voi vi tenete stretti alla vostra purezza, ma gli uomini si
tengono stretti alla Mia misericordia. Attraverso la vostra obbedienza, evidenziate
la vostra purezza e grandezza, ma attraverso la loro disobbedienza, essi
manifestano la Mia bontà e la Mia misericordia».

In un lungo passaggio Sam’ānī cita le storie di diversi grandi profeti


per dimostrare che ciascuno di essi ha compiuto qualche azione
biasimevole. Questo non è un indice della loro imperfezione, ma
piuttosto della misericordia di Dio, perché Egli ha voluto fornire agli
esseri umani delle giustificazioni per la loro debolezza. Inizia con
Adamo:

La perfezione della divina gentilezza fece cadere un granello di polvere


nell’occhio dei giorni di ogni grande essere umano, in modo che coloro che
vengono dopo avranno qualcosa a cui appigliarsi. Adamo cadde a testa in giú
nella Dimora della Purezza. Il Signore della Gloria aveva decretato un errore fin
dall’inizio, in modo che la casa fosse una casa di peccatori. Poi, se una persona
debole dovesse cadere, non perderà la speranza. Dirà: «Nella casa della
permanenza, nella dimora della concessione, nella stazione della sicurezza e nel
luogo dell’onore, Adamo cadde e il Signore della Gloria accettò il suo pentimento.
Nella casa dell’estinzione, nella dimora della sofferenza e nel mondo del dolore e
delle difficoltà, non sarà strano se una persona debole cade e il Signore della
Gloria non lo rimprovera, ma al contrario accetta le sue scuse».
O piú grande dei grandi! Fa’ ancora conoscere questo stato. [Il Profeta] disse:
«Se voi non peccaste, Dio porterebbe qualcuno che pecca, cosicché Egli possa
perdonarlo. Di certo non vi è peccato troppo grande che Dio non perdoni».

Chi sono io con Dio quando pecco


che Egli non mi perdonerebbe?
Io spero nel perdono dei figli di Adamo:
come non potrei sperare in quello del mio Signore?

Per Sam’ānī l’intero dramma dell’esistenza umana si svolge nel


contesto della gentilezza e della misericordia di Dio. Egli desidera
rendere gli esseri umani consapevoli della loro nullità, in modo da far
mettere loro da parte le pretese e da farli aprire alla Sua gentilezza, al
Suo amore e al Suo perdono. Gli uomini non dovrebbero mai
dimenticare che la caduta dal paradiso era diretta dietro le quinte
dalla compassione divina.

«O albero, innalza la tua testa accanto al trono di Adamo!


O appetito per il frutto, entra nel cuore di Adamo!
O maledetto, allenta le redini del tuo sussurro!
O Eva, mostra la via!
O Adamo non mangiare il frutto, abbi autocontrollo!
O autocontrollo, non avvicinarti ad Adamo!»
O Dio, Dio, cos’è tutto questo? «Vogliamo portare Adamo giú
dal trono dell’indifferenza alla terra della necessità. Vogliamo rendere manifesto il
segreto dell’amore».
«O servo, evita la disobbedienza e sta’ lontano dal capriccio!
O capriccio, prendi le sue redini!
O mondo, mostrati a lui!
O servo, mostra autocontrollo!
O autocontrollo, non avvicinarti a lui!»
O Dio, Dio, cos’è tutto questo? «Vogliamo che il servo interceda presso di Noi.
Vogliamo rendere manifesto il Nostro attributo del perdono».

La realtà di Dio è misericordia e compassione. L’esistenza che Egli


diffonde nell’universo non è altro che misericordia per tutte le cose
create. La Sua misericordia e il suo amore rendono manifesto il Tesoro
Nascosto in modo che possa essere conosciuto. Quando i servi di Dio,
creati secondo la Sua forma, giungono a conoscere il Tesoro, provano
un bene allo stato puro e una gioia assoluta. Dio ha allestito il
dramma in modo che le Sue creature potessero raccogliere il frutto
dell’esistenza, della consapevolezza e della felicità. Anche gli angeli,
con la loro intelligenza superiore dei fatti, non furono capaci di
sondare questo mistero.

Gli angeli dissero: Vuoi metter sulla terra chi vi porterà la corruzione e spargerà
il sangue? Dio non negò che lo stesse facendo, ma disse: Io so ciò che voi non
sapete. In altre parole: «Io so che li perdonerò. Voi conoscete la loro
disobbedienza, ma Io conosco il Mio perdono. Nel vostro glorificare, voi rendete
manifesta la vostra azione, ma nel Mio perdono Io rendo manifeste la Mia bontà e
la Mia generosità. Io so ciò che voi non sapete, cioè il Mio amore per loro e la
purezza della loro fede nel loro amore per Me. Sebbene apparentemente le loro
buone azioni siano misere, interiormente il loro amore per Me è puro. Io so ciò
che voi non sapete, cioè il Mio amore per loro. Non importa cosa essi siano, Io li
amo».

«La relazione amorosa è veramente strana:


viene gettata su di loro senza ragione.
Sii felice nella tua purezza,
essi sono stati accolti dalla Mia misericordia».

«Nonostante la vostra felicità risieda nella vostra purezza, Io desidero mostrar


loro misericordia. Voi indossate la veste della purezza, ma loro sono coperti con la
misericordia. Voi siete uniti alla purezza nello stato dell’esistenza, ma la Mia
misericordia è legata a loro nell’eternità senza inizio. Voi mostrate la vostra
bellezza e agite con falsa modestia nelle vostre azioni di ossequio obbediente, ma
loro stanno nella corruzione e nella bruttura testimoniando se stessi».
Il giorno in cui Egli creò Adamo dalla terra, la Sua generosità fece sí che la
misericordia fosse incombente su di Lui. Disse: il Tuo Signore s’è prescritta la
misericordia [6:12]. Egli prescrisse l’errore di Adamo attraverso intermediari, ma
si prescrisse la misericordia senza intermediari. Dopo tutto, la terra è la capitale
dell’incapacità e della debolezza. Cosa può essere mostrato alla debolezza se non
la misericordia?
Eccetto quelli di cui Egli avrà pietà; per questo li ha creati [11:119]. Alcuni
commentatori sostengono che ciò significa «per misericordia li creò». Egli vi ha
creato al fine di avere misericordia nei vostri riguardi. Per sua natura la terra è
umile e sottomessa, e gli uomini la calpestano e la guardano dall’alto in basso. Al
contrario, il fuoco per sua natura si considera nobile e grande e cerca sempre di
portarsi in alto.
L’acqua possiede un’indiscutibile limpidezza innata e una naturale umiltà; la
terra non ha quella limpidezza, ma comunque possiede umiltà. Quando Adamo fu
portato in esistenza, vi fu portato dalla terra e dall’acqua, quindi le fondamenta
del suo lavoro furono costruite sulla purezza e sulla sottomissione. Poi
quest’insieme di acqua e terra che era diventato fango nero impastato [15:26] e
argilla rappresa [37:11] fu onorato dall’attributo della mano. Perché Dio disse:
Che cosa t’ha impedito di prostrarti a quel che creai di Mia mano? [38:75]. Ma il
fuoco che si considerava grande fu reso oggetto della severità attraverso
l’attributo del «piede». [Il Profeta ha detto:] «Colui che tutto comprende metterà
il Suo piede nel fuoco ed esso dirà: “Basta, basta”»…
Dio onorò la terra con l’attributo della mano e poi impose loro la Parola della
Pietà [48:26]. Ma mostrò severità nei confronti del fuoco attraverso l’attributo del
suo piede.
L’attributo della mano conferisce il senso dell’innalzamento, mentre l’attributo
del piede dà quello dell’abbassamento. La terra fu abbassata dal proprio attributo,
ma innalzata dall’attributo di Dio. Il fuoco fu innalzato dal proprio attributo, ma
abbassato dal Suo attributo.
«O terra! O tu che sei abbassata dal tuo attributo e innalzata dal Mio attributo!
O fuoco! O tu che sei innalzato dal tuo attributo e abbassato dal Mio attributo!»
Iblīs eseguí molti atti d’obbedienza e di devozione, ma tutti occasionali. Il suo
attributo innato era la disobbedienza, perché fu creato dal fuoco e il fuoco
possiede l’attributo di aver pretese di grandezza. Avere pretese di grandezza è il
vizio capitale del disobbediente.
Adamo sbagliò e noi disubbidimmo. Ma l’attributo della disobbedienza è
occasionale mentre l’attributo dell’obbedienza è originale. Dopo tutto fummo
creati dalla terra, e l’attributo della terra è l’umiltà e la sottomissione. L’umiltà e la
sottomissione sono il capitale dell’obbediente. Dio guarda alla base degli eventi e
al punto intorno al quale gira la bussola. Non guarda alle eccezioni e alle
casualità.
O derviscio! Nel giorno in cui Adamo sbagliò, suonarono i tamburi della buona
sorte per tutto il genere umano. Dio pose insieme con Adamo le fondamenta
dell’inizio del lavoro. Gli diede un capitale dai Suoi stessi beni.
Il primo esempio di dono che Egli fece ad Adamo fu quello di metterlo in
paradiso senza che egli avesse alcun merito e senza che lo avesse chiesto. E il
primo esempio che Adamo diede del suo capitale fu il suo errore.
Dio stipulò un contratto con Adamo all’inizio della faccenda. Esso stabiliva che
ogniqualvolta qualcuno compra o vende qualcosa deve darne prova. Adamo diede
prova del suo capitale quando disubbidí all’ordine e mangiò il grano. Dio gli diede
prova della coppa della bontà quando perdonò il suo errore.
Nessun errore è tanto grande quanto il primo errore. Ciò è particolarmente
vero quando la persona è stata nutrita per beneficenza e allevata con amore. Gli
angeli dovettero prostrarsi davanti a lui; il trono della sua buona sorte fu posto
sulle spalle di quelli portati vicino a Dio. Fu portato in paradiso senza alcun
merito. Dio gli diede una dimora nei pressi della Sua gentilezza. Dal momento che
Egli perdonò il suo primo errore, questa è la prova che Egli perdonerà tutti i
peccati.
Dopotutto noi abbiamo mille volte piú scuse di quante ne avesse Adamo. Se
l’oscurità dell’argilla è necessaria, noi l’abbiamo. Se la debolezza della terra è
necessaria, noi l’abbiamo. Se l’impurità del fango nero impastato è necessaria, noi
l’abbiamo. Se alcuni confusi bocconi di cibo sono necessari, noi li abbiamo. Se i
tempi dovessero diventare bui per l’ingiustizia e la corruzione, noi abbiamo tutto
ciò. Se Iblīs il maledetto deve star lí ad aspettarci, noi lo abbiamo. Se il capriccio e
l’appetito devono dominarci, noi li abbiamo. Al primo errore, Adamo fu scusato
senza alcuna giustificazione. Dal momento che possediamo tutte queste opacità,
perché non dovrebbe Egli perdonarci? In verità, Egli ci perdonerà.
O derviscio! Derubarono la carovana umana il giorno in cui Adamo sbagliò. «La
carovana è sicura una volta che le è stata tesa l’imboscata».
Un vecchio cieco era seduto nel Ḥijāz sotto il sole cocente, mangiando noci e
datteri. Qualcuno gli chiese: «Perché con questo terribile calore mangi due cibi
cosí calorici?»
Rispose: «Bene, hanno teso un’imboscata alla mia carovana, e tutto quello che
temevo è successo. Ora sono al sicuro».

Le argomentazioni utilizzate da Sam’ānī per dimostrare che il


peccato di Adamo è stato l’evento piú felice dell’esistenza umana sono
di vario genere. Nel capitolo sul nome divino «Il Generoso» egli ne
presenta alcune, mettendo in particolare evidenza il ruolo che Satana
assume nel dramma. Il passaggio è un ampio commento del versetto
citato all’inizio, un versetto che ha suscitato parecchie perplessità agli
esperti del Kalām e ai giuristi.
O Miei servi che avete prevaricato contro l’anime vostre, non disperate della
Misericordia di Dio, poiché Iddio tutti i peccati perdona [39:53]. È stato riportato
che qualcuno stava recitando questo versetto davanti al Messaggero di Dio;
quando egli giunse alle parole: poiché Iddio tutti i peccati perdona, il Profeta
disse: «In verità, lo farà ed Egli non ci bada». Poi disse per tre volte: «Dio
maledice coloro che alienano», ovvero coloro che fanno disperare gli uomini della
misericordia di Dio.
Si riferisce che Mosè abbia detto: «Dio mio, Tu desideri la disobbedienza dei
tuoi servi, ma non ami la disobbedienza». Dio rispose: «È per suscitare il Mio
perdono».
Qui si potrebbe sollevare una buona obiezione: «Con tutto l’onore e l’eminenza
che sono stati concessi agli esseri umani, perché Dio ha decretato che dovessero
essere messi alla prova attraverso la disobbedienza?»
Diverse sono le risposte possibili a questa domanda. Per prima cosa, si può
dire che la saggezza sta qui nel fatto che il servo non dovrebbe insuperbirsi,
perché la superbia rimuove il velo. Non vedi che quando Balaam si insuperbí per il
piú grande fra i nomi di Dio, divenne un cane? E la similitudine sua è quella del
cane [7:176]. Egli era il maestro del suo tempo e del cuore, ma attraverso la
superbia divenne piú impuro di un cane.
Un’altra risposta: l’abilità, la perizia e la maestria del vetraio si vedono coi vetri
infranti. Il tuo cuore è come vetro. La pietra della disobbedienza l’ha colpito e l’ha
infranto. Il Signore della Gloria, attraverso il fuoco del pentimento, lo riporta alla
sua integrità. Ma io sono, per chi si converte a Me, e crede, e opera il Bene e si
lascia guidare, indulgentissimo [20: 82]. Pur avendo detto a Mosè nella maestà
del suo stato: In verità Io, Io sono Dio [20:14], Egli ci ha detto anche Io sono
indulgentissimo.
Un’altra risposta è questa: Dio ha due miniere, una piena di ricompense e
un’altra piena di perdono e di misericordia. «Se Mi obbedisci, riceverai ricompense
e doni generosi, ma se Mi disobbedisci, riceverai misericordia e perdono. Cosí le
mie miniere non andranno sprecate».
È stato anche detto: Egli ti affligge con la disobbedienza, cosí che l’occhio
malvagio di Iblīs non cadrà su di te. Non sai che quando un frutteto è bello, vi
appendono la testa di un asino in modo che nessun occhio malvagio lo
raggiunga?
È stato detto: Egli decretò il peccato per il servo, cosí che esso possa essere
una prova della purezza del Signore.
È stato detto: Egli voleva solo far dispetto a Iblīs, che sia maledetto! Nella
caccia è molto piú facile che nessuna preda cada nella trappola piuttosto che la
preda vi cada e poi ne sfugga.
E ancora: In qualsiasi luogo si trovi una bella donna, non sarà protetta dagli
sguardi altrui. Egli ha stabilito le cose in modo tale che se tu fossi adorno del bello
della purezza e fossi privo della ruggine della disobbedienza, Satana poserebbe il
suo sguardo intenso su di te. Dio ti ha gettato nella disobbedienza, in modo che
tu possa essere spezzato e lo sguardo di Satana non rimanga su di te. Dopo, la
Sua misericordia discenderà sul tuo cuore infranto, perché «Io sono con coloro
che hanno i cuori spezzati».
Un’altra risposta: quando qualcuno è puro e purificato dai difetti, sia gli amici
che i nemici gli mettono gli occhi addosso, e ognuno lo invidia. La saggezza di
affliggerti con la disobbedienza è che ognuno ti rifiuterà e tu sarai scelto da Lui.
Non ricordi cosa disse Khidr quando distrusse la nave? Disse: «E io volli guastarla,
perché li inseguiva un re corsaro che prendeva tutte le navi a forza» [18:79]. Allo
stesso modo, Giuseppe pose il marchio del ladro sul fratello Beniamino perché
voleva portarlo via e sceglierlo per sé [12:70]. Il Vero ha voluto scegliere il
proprio servo per Sé, e cosí ha decretato che commettesse degli errori. Quando
questi confessa il suo peccato, Egli dice: «Se permetto che si disperi, la sua
mancanza ricadrà sulla Mia generosità, e ciò non è consentito».
Dio dice: «Perdonerò tutti loro». Ha detto: «Li perdonerò» e non: «Li ho
perdonati», per paura che il servo si trattenesse dall’implorare, dal piangere, dal
temere e dallo sperare. Il servo deve rimanere tra speranza e paura, implorando,
piangendo, lamentandosi e supplicando. Volgetevi tutti a Dio [24:31]. Poiché
Iddio tutti i peccati perdona [39:53]. «Tutti voi venite a Me, perché vi comprerò
tutti»…
O Miei servi! Quali servi? Non «quelli che hanno obbedito», non «quelli che
hanno risposto», non «quelli che hanno compiuto il pellegrinaggio», non «quelli
che lottano», non «quelli che danno l’elemosina». Quindi quali? Quelli che sono
stati smodati, coloro che hanno superato i limiti.
Giuseppe il Sincero disse: Egli fu buono con me [12:100]. Questa è la massima
generosità. I fratelli non lasciarono intentata nessuna crudeltà: lo gettarono nel
pozzo e si proposero di ucciderlo; non gli diedero da mangiare e lo percossero
violentemente; fu venduto come un reietto per pochi dirham. Quando il Signore
della Gloria lo liberò, nel giorno in cui suo padre e i suoi fratelli si riunirono, egli
disse: Egli fu buono con me quando mi trasse fuori dalla prigione. Non fece
menzione del pozzo, né della prigione, né della vendita. Disse: Egli fu buono con
me. Poi aggiunse: Dopo che Satana ebbe seminato discordia fra me e i miei
fratelli. Li chiamò «fratelli», anche dopo che avevano fatto ciò che fecero.
Domani i libri dei vostri peccati e i rotoli dei vostri errori saranno appesi attorno
al collo del Maledetto. Nella storia di Adamo cosa dice Dio? Li trascinò cosí in
errore [7:22], cosí Satana li fece scivolar di lí [2:36].
Quelli che sono stati smodati. Non strappò il velo. Non disse: «Commisero
adulterio, uccisero». Egli menzionò soltanto: quelli che sono stati smodati. Essi
erano smodati. Dal momento che Egli lo vuole, perdona. Non strappa il velo.
Egli non ha detto al Trono: «O Mio Trono», né alla Penna: «O Mia Penna», né
alla Tavola: «O Mia Tavola», né al Giardino: «O Mio Giardino», né al Fuoco: «O
Mio Fuoco». Egli ha detto ai disobbedienti: «O Miei servi». Questo è motivo
sufficiente di orgoglio per te: O Miei servi!
Nel giorno della resurrezione dirai: «Il mio corpo, il mio corpo»! Muḥammad
dirà: «La mia comunità, la mia comunità»! Il Paradiso dirà: «La mia porzione, la
mia porzione»! L’Inferno dirà: «La mia parte, la mia parte»! Il Signore della Gloria
dirà: «Il Mio servo, il Mio servo»!
«Non disperare della misericordia di Dio. Sii attento a non perdere la speranza
nella Mia misericordia, e a non cessare di sperare nel Mio perdono. Anche se i
tuoi peccati sono incalcolabili, i tuoi difetti innumerevoli e i tuoi errori illimitati, è
bene che la Mia misericordia sia senza limiti, il Mio perdono incommensurabile e
la Mia generosità sconfinata».
Satana colpí Adamo dicendo che era fatto di argilla. «O maledetto, tu vedi la
superficie esteriore, adorna d’argilla. Non vedi il centro nascosto adorno del
cuore. Dio v’ha fatto amare la Fede e ve l’ha resa adorna nel cuore [49:7].
O angeli, voi avete l’obbedienza! O messaggeri, voi avete il dono del
messaggio! O pii asceti, voi avete l’ascetismo! O fedeli, voi avete il culto! O servi
disobbedienti, voi avete il Signore! Di sicuro sapete che il Profeta ha detto:
«Chiunque compia azioni empie o inganni se stesso e poi chieda perdono a Dio,
troverà Dio. Chiunque trovi Dio e veda la propria parte con Lui, non desidererà
altro che Dio».
Nobile giovane! Quando Dio volle ornarti con una veste d’onore, Egli disse: il
Tuo Signore, ascrivendo quindi Se Stesso a te. Quando Egli volle liberarti dal
castigo, Egli ascrisse te a Se Stesso, O Miei servi.
Guarda il Trono per vedere l’eccezionalità, guarda lo Sgabello per vedere
l’ampiezza, guarda la Tavola per vedere le iscrizioni, guarda i cieli per vedere
l’elevazione, guarda il cuore per vedere la conoscenza, guarda la conoscenza per
vedere l’amore e guarda l’amore per vedere l’Amato.
All’inizio del versetto, Egli dice: O Miei servi! Alla fine del versetto: Volgetevi al
vostro Signore [39:54]. «O tu a cui Io appartengo, e tu che appartieni a Me! Non
disperare! Non perdere la speranza nella mia misericordia, perché il servo non è
senza peccato e il Signore non è senza misericordia»…
Mosè disse: «O Dio, perché ti curi dello stupido e togli all’intelligente?» Egli
rispose: «Affinché l’intelligente possa sapere che l’approvvigionare dipende dallo
spartire, non dall’intelligenza». Nel Giorno della Resurrezione Egli perdonerà il
disobbediente, cosí che tutte le creature possano sapere che la misericordia è un
dono, non una cosa guadagnata. Essa arriva attraverso la sollecitudine di Dio,
non attraverso la venerazione del servo».

Un altro passaggio da «Il Sollievo degli Spiriti» può aiutare a


riassumere l’analisi introspettiva della vera natura della condizione
umana operata da Sam’ānī:

O derviscio, lascia che ti riveli un segreto. Ascoltando questo segreto, lo spirito


e il mondo grideranno per essere stati depredati. È un segreto a proposito del
quale il discorso grida: «Non è affar mio dirlo»; la penna si lamenta: «Il
martellamento dell’amore mi ha già catturato, non è affar mio scriverlo»;
l’inchiostro dice: «Il nostro tappeto nero non può coprire la sua manifestazione
nella realtà»; lo spazio bianco della pagina dice: «La palla da polo dell’amore non
ha posto qui». Ma io non parlerò apertamente, se non stringi il tuo cuore. Il
mistero è questo:
Tra le fila dei candidati all’elezione il Prescelto fu Adamo, cui diedero una
coppa del limpido vino dell’amore. Dalle lontane Pleiadi fino alla fine della terra
prepararono il copricapo della buona sorte e lo specchio della sua grandezza. Poi
ordinarono agli angeli della Sovranità di prostrarsi davanti a lui. Ma la sua
grandezza, il suo onore, la sua eminenza, la sua buona sorte, il suo alto livello e
la sua elezione non si mostrarono tanto nella prostrazione degli angeli, quanto
piuttosto in quel: Adamo si ribellò [20:121]. Di certo e in verità, la vetta di queste
parole giace dietro al Trono della maestà di Dio. Perché? Perché le carezze nel
tempo dell’ossequio non sono una prova d’onore. La prova d’onore sono le
carezze nel tempo dell’opposizione.
Il prescelto e bell’Adamo sedeva sul trono della maestà e della perfezione, con
la corona della prosperità sul capo e la veste della bontà sul petto. Il monte della
beneficenza era alla porta, i pilastri della sua buona sorte erano piú alti del Trono,
l’ombrello della regalità era aperto sopra il suo capo e lui stesso aveva sollevato
l’alta barriera della conoscenza nel mondo. Se gli angeli e le sfere celesti
dovessero baciare la terra davanti a lui, la cosa non sorprenderebbe. Ciò che
sorprende è che egli sprofondò nella fossa di quell’errore. La sua alta statura, che
era stata aumentata da: Iddio ha eletto Adamo [3:33], si piegò perché: Adamo si
ribellò. Poi dal cielo dell’eterna gentilezza la corona di: Ma poi il Signore lo
prescelse [20:122] prese il volo. O derviscio, se Dio non avesse voluto accettarlo
con tutti i suoi difetti, non l’avrebbe creato con tutti quei difetti…
O derviscio! Non credere che Adamo sia stato portato fuori dal paradiso per
aver mangiato del grano. Era Dio che voleva portarlo fuori. Non infranse alcun
comandamento, perché i comandamenti di Dio rimasero intatti. Domani Dio
porterà mille e mille persone che hanno commesso grandi peccati in paradiso:
perché dovrebbe tenere Adamo fuori dal paradiso per un singolo atto di
disobbedienza?
Capitolo decimo
Il paradosso del velo

La caduta di Adamo è il velo sul volto dell’amore. L’universo, come


anche tutte le cose che ne fanno parte, è esso stesso un velo. Il volto
di Dio è nascosto dietro ciascuno di questi veli, proprio come la Sua
bellezza pervade ogni forma, ogni oggetto d’amore, ogni desiderio. Se
potessimo scorgere attraverso i veli vedremmo che non vi è forza
causale se non la misericordia, e che non vi è alcun oggetto d’amore
se non Dio, perché: «Non c’è nulla di vero all’infuori del Vero». Tutti i
veli sono come mestoli che versano gli attributi e la bellezza di Dio
nelle nostre coppe. Tutti manifestano i segni di Dio secondo il proprio
grado dell’esistenza. Essi ci appaiono come l’orizzonte occidentale, ma
in realtà l’occidente è l’oriente.
In ultima analisi, «tutti i veli sono Lui», eppure, «nessuno è Lui». il
paradosso sta nella concomitanza tra identità e diversità. Il velo, la
cosa, la creatura, non è Dio eppure, nello stesso tempo, è Dio. Quel
che conta maggiormente è che non vi è alcun modo per trovare Dio,
alcun modo per vederLo, se non nel velo, che sempre Lo nasconderà.
Il vero sole sorgerà sempre esattamente dove è tramontato. Dio non
può mai essere trovato, eppure Egli viene trovato in ogni cosa, perché
non c’è nulla che non sia un Suo svelamento. Jāmī scrive:

Dissi alla mia amata dalle guance di rosa: «O tu con la bocca simile a un
germoglio,
perché continui a nascondere il tuo volto come le ragazze che civettano»?
Lei rise e disse: «A differenza delle bellezze del tuo mondo,
nel velo sono visibile, ma senza di esso sono nascosta» 1.

Il paradosso del velo è semplicemente che le cose non sono Dio,


ma che Dio è presente in tutte le cose. Per coloro che vedono, il velo
è il volto. La dialettica che caratterizza gli insegnamenti sufi –
l’affermare e il negare, il clamore ebbro e la sobria circospezione, lo
strappare i veli e il dispiegarne di nuovi, l’esprimere ciò che non può
essere espresso – tutto questo è il volto che appare nei veli. Tutto
questo ci dice che il nome non è null’altro che la realtà, ma che la
realtà si trova infinitamente oltre il nome. Per trovare la realtà dietro
al nome abbiamo bisogno di parlare del nome con consapevolezza.
Per essere consapevoli, dobbiamo conoscere noi stessi e il nostro
Signore. Sé e Signore sono intrecciati inscindibilmente, come nome e
realtà, velo e volto.
Il sufismo, nel ritenere che la vera comprensione consiste nella
rimozione dei veli che ottenebrano il volto del cuore, si differenzia
dalle altre prospettive del pensiero islamico. Come è stato già detto, il
termine piú comune e diffuso per questo tipo di comprensione è
kashf, la cui traduzione piú appropriata è «svelamento». La parola che
dunque svolge un ruolo cosí centrale negli insegnamenti sufi implica
l’esistenza dei veli.
Il termine kashf deriva dal Corano, dove è utilizzato quattordici
volte come verbo, e può essere tradotto nel significato piú proprio di
«rimuovere». Di solito il soggetto del verbo è Dio, ed Egli rimuove il
«male» (in sette versetti), il «castigo» (in quattro versetti) e le cose
dolorose in generale. Per quanto riguarda l’uso sufi del termine, nel
piú significativo di questi passaggi Dio si rivolge all’anima che è
appena morta: «Di questo eri disattenta e perciò Noi ti abbiamo
rimosso la copertura, e ora la tua vista è acuta!» (50:22). La
«copertura» (ghiṭā’) – termine che viene inteso come uno dei tanti
sinonimi di «velo» (ḥijāb) – sarà sollevata al momento della morte.
Dopo di che gli uomini vedranno in modo chiaro.
Questo versetto è da solo sufficiente a indicare perché la ricerca di
una morte volontaria sia uno dei temi principali della letteratura sufi. I
sufi suffragano questa ricerca non solo con le interpretazioni
coraniche, che dedicano particolare attenzione a sfumature e allusioni,
ma anche con il presunto ḥadīth: «Morite prima di morire» e con il
detto del Vangelo che nella versione araba suona: «Nessuno entrerà
nel regno dei cieli finché non sarà nato due volte» (Giovanni, 3:3). La
morte volontaria è chiamata anche con diversi altri nomi, il piú
comune dei quali è «estinzione», della quale abbiamo già
diffusamente trattato.

1. La barriera.

Parlare di un velo significa parlare di una barriera, che impedisce a


colui che guarda di vedere cosa c’è al di là di essa. Una delle prime
definizioni di velo come termine tecnico sufi è fornita da Abū Naṣr al-
Sarrāj: «Il velo è qualsiasi barriera che trattiene l’iniziato dall’obiettivo
che egli si prefigge e persegue» 2. Ciò che egli si prefigge e persegue è
Dio, o il volto di Dio.
La discussione sul velo è strettamente legata a quella sulla visione
di Dio. Gli esperti di Kalām convengono sul fatto che Dio non può
essere visto con l’occhio esteriore in questo mondo, sebbene egli
possa essere compreso in una certa misura con la mente razionale. I
teologi asha’riti aggiunsero, tuttavia, che Egli può essere visto con
l’occhio fisico nell’altro mondo, mentre i loro rivali, i teologi mu’taziliti,
esclusero qualsivoglia visione. Come regola generale, quanto piú
rigorosamente i pensatori musulmani applicarono i principî razionali,
tanto piú fermamente negarono la possibilità di vedere Dio.
Quanto ai sufi, nonostante parlassero della visione di Dio sia in
questo mondo che nell’altro, la maggior parte di loro era d’accordo
con quei teologi e filosofi per i quali Dio stesso non può essere visto
con gli occhi o compreso con la mente razionale. Nondimeno essi
insistevano sul fatto che Egli può essere visto dal cuore liberato dal
velo e che questo svelamento ha luogo, come suggerisce il Corano, al
momento della morte. Perciò, quando i sufi raggiungono la morte e
l’estinzione del piú basso sé già in questa vita, essi raggiungono anche
la visione di Dio, qui e ora. Questo è il comune punto di vista sufi ma,
non appena analizziamo piú attentamente i testi, capiamo che i sufi ci
presentano una discussione molto piú sottile, e che per suggerire la
sua sottigliezza fanno spesso ricorso al paradosso del velo.
Degli otto riferimenti coranici alla parola velo, due si riferiscono al
velo che separa gli esseri umani da Dio. Il primo è spesso citato dai
teologi per provare che Dio non può essere visto in questo mondo: «A
nessun uomo Dio può parlare altro che per Rivelazione, o dietro un
velame, o invia un Messaggero» (42:51). Il secondo passaggio, che
usa il participio passato del verbo, associa il velo alla visione di Dio
nell’altro mondo, e implica che le genti del paradiso, al contrario di
quelle dell’inferno, vedranno Dio: «No! per certo sarà velato ai loro
occhi [delle genti dell’inferno] quel giorno il Signore» (83:15).
Il detto del Profeta piú comunemente citato a questo riguardo è
quello che inizia con le parole: «Dio ha settanta veli di luce e di
oscurità». Un’altra versione, considerata piú attendibile dagli esperti di
ḥadīth, inizia con: «Il velo di Dio è luce». Entrambe le versioni
continuano dicendo: «Se Egli li rimovesse [il o i veli], lo splendore del
Suo volto brucerebbe ogni cosa percepita dallo sguardo delle Sue
creature» 3. Di nuovo il verbo tradotto qui con «rimuovere» è kashf o
«svelare», ed è Dio che rimuove il velo, non la creatura.
Particolarmente degno di nota in questo ḥadīth è che la luce è un
velo. Qui abbiamo già un paradosso, perché la luce è ciò che ci
consente di vedere. Ma la luce può anche brillare tanto da accecarci, e
questo è evidente nel caso di Dio; e luce, bisogna ricordarlo, è un
nome coranico di Dio. Come recita il famoso «versetto della luce»:
«Dio è la Luce dei cieli e della terra» (24:35). Questo versetto può
significare che la luce di Dio si fa conoscere attraverso ogni luminosità
che appare nei cieli e nella terra, ma implica anche che la luce di Dio
ci impedisce di vederLo, dal momento che le sole cose che noi
vediamo attraverso la luce di Dio sono proprio i cieli e la terra e non
Dio Stesso. Quando gli venne chiesto se avesse visto Dio al momento
della sua ascensione (mi’rāj) verso di Lui, il Profeta rispose: «È luce.
Come avrei potuto vederLo?» Cosí, nei testi piú antichi, insieme con
l’idea che il velo sia qualcosa che impedisce la visione di Dio, abbiamo
l’idea che il velo principale sia proprio la sovrabbondanza della luce di
Dio.
Poiché si suppone che i veri «sufi» abbiano sperimentato la
rimozione dei veli, i riferimenti ai veli sono comuni soprattutto nei detti
e scritti sufi piú antichi. Per esempio, una delle prime esposizioni
sistematiche del sufismo si trova nel testo arabo al-Ta’arruf li
madhhab ahl at-taṣawwuf («Far conoscere la scuola della gente del
sufismo») 4 di Abū Bakr Kalābādhī (m. 990). Nell’introduzione, dopo
aver lodato Dio e il Profeta, l’autore passa a elogiare quei grandi
musulmani che hanno seguito appieno l’esempio del Profeta, non
soltanto imitando le sue azioni esteriori, ma anche comprendendo le
sue parole e realizzando i suoi stati interiori. In tal modo essi
condivisero con il Profeta lo svelamento che gli fu dato in risposta alla
sua preghiera: «O Dio, mostraci le cose come esse sono». Si osservi
che Kalābādhī sta già alludendo alle implicazioni di alcuni dei
paradossi del simultaneo velare e svelare, negare e affermare. Egli
scrive:

Dio collocò tra [i discepoli di Muḥammad] il puro e il prescelto, il nobile e il pio.


Ma quelli che destinammo alla dimora piú bella saranno allontanati di là [21:101].
Impose loro la Parola della Pietà [48:26], e allontanò le loro anime da questo
mondo. I loro sforzi erano sinceri, cosí acquisirono la tecnica dello studio. Le loro
azioni erano schiette, cosí Egli concesse loro le scienze del retaggio [dei profeti]. I
loro cuori segreti erano limpidi, cosí Egli li nobilitò con la perspicacia veritiera. I
loro piedi furono resi fermi, le loro comprensioni furono purificate e i loro vessilli
scintillarono. Essi trassero la loro comprensione da Dio, viaggiarono incontro a Dio
e si allontanarono da tutte le cose diverse da Dio. Le loro luci rimossero i veli e i
loro cuori segreti vagarono attorno al Trono. Erano corpi spirituali, cose
paradisiache sulla terra, esseri magnifici con la creazione – spettatori silenziosi,
assenti e presenti, re vestiti di stracci. Erano banditi da tutte le tribú,
possedevano ogni virtú, erano luci che orientavano. Le loro orecchie erano tese
all’ascolto, i loro cuori segreti puri, i loro attributi nascosti. Erano prescelti,
luminosi, limpidi sufi 5.

In un antico commento persiano a quest’opera, scritto da Abū


Ibrāḥīm Bukharī Mustamlī (m. 1042-43), troviamo un tema che ricorre
frequentemente nei testi successivi, e cioè la classificazione dei veli in
diverse tipologie. Nello spiegare il passo «le loro luci rimossero i veli»,
Mustamlī descrive i veli principali che devono essere sollevati prima
che ci si possa considerare un vero discepolo del Profeta. Si noti
l’importanza della «gnosi» (ma’arifa) in questo brano. È questa la
conoscenza di sé che produce la conoscenza del Signore.

I veli sono quattro: questo mondo, il sé, gli uomini e Satana.


Questo mondo è il velo dell’altro mondo. Chiunque sia a proprio agio in questo
mondo ha lasciato perdere l’altro mondo.
Gli uomini sono il velo dell’obbedienza. Chiunque si affaccendi ai piedi degli
uomini ha lasciato perdere l’obbedienza.
Satana è il velo della religione. Chiunque si conformi a Satana ha lasciato
perdere la religione.
Il sé è il velo del Vero. Chiunque assecondi le passioni del sé ha lasciato
perdere Dio. Dio dice: Hai visto colui che s’è preso come dio la propria passione?
[45:23]. Chiunque proceda con le passioni del proprio sé, Egli dice, ha preso la
propria passione come dio.
Fino a quando questi quattro veli non saranno rimossi dal cuore, la luce della
gnosi non troverà una via per accedervi.
Il significato può anche essere che la luce del cuore intimo degli gnostici ha
oltrepassato i veli del Trono, dal momento che essi oggi vedono nel loro cuore
intimo esattamente ciò che domani vedranno faccia a faccia. Se al momento della
resurrezione gli gnostici dovessero tenersi occupati a guardare i veli, non
sarebbero in grado di sopportarlo. Allo stesso modo, se i loro cuori dovessero
oggi occuparsi di altro che il Vero, non sarebbero in grado di sopportarlo e
urlerebbero. Si racconta che Abū Yazīd al-Biṣṭāmī disse: «Se in paradiso il Vero mi
velasse dalla Sua visione per un batter d’occhio, griderei e mi lamenterei cosí
tanto che gli abitanti dell’inferno proverebbero compassione per me».
L’insieme di quanto è stato detto a proposito del velo è che ogni cosa che tiene
occupato il servo con altro all’infuori del Vero è un velo, e ogni cosa che porta il
servo verso il Vero non è un velo. La luce della gnosi è la piú forte di tutte le luci
e ogni cosa che cerca di velare gli gnostici dal Vero viene bruciata e messa da
parte dalla luce della gnosi. Se la luce della gnosi apparisse e non rimanesse
nascosta nel segreto del cuore, i cieli e la terra non sarebbero in grado di
sopportarla 6.

Un’altra tipica discussione sul velo è fornita da Hujwirī (m. 1072-


73), autore del manuale classico sufi in lingua persiana Kashf al-
maḥjūb («Lo svelamento del Velato»). Hujwirī spiega che ci sono due
tipi principali di veli. Il primo è essenziale e non può essere rimosso,
perché costituisce l’inadeguatezza basilare del servo, mentre il
secondo è accidentale e può essere rimosso. Il primo viene chiamato
«il velo della ruggine» e il secondo «il velo dell’annuvolamento»,
termini desunti dal Corano e dal Ḥadīth.

I veli sono due: il primo deriva dalla ruggine – cerchiamo da essa rifugio in
Dio! – e non sarà mai rimosso. Il secondo deriva dall’annuvolamento e può essere
rimosso velocemente.
La spiegazione di ciò è la seguente: ci sono alcuni servi la cui reale «essenza»
vela il Vero, in modo tale che il Vero e il non-vero sono dal loro punto di vista la
stessa cosa. Ci sono altri servi i cui «attributi» velano il Vero, ma la loro natura e
il loro cuore intimo cercano continuamente il Vero e fuggono dal non-vero.
Il velo dell’essenza, che deriva dalla ruggine, non sarà mai rimosso. Qui il
significato di «ruggine», «sigillo» e «marchio» è identico. Dio dice: No per certo!
Che quel che iniquamente operano devasta loro il cuore come un velo di ruggine
[83:14]; in seguito Egli chiarisce la caratteristica dominante di questo fatto e
aggiunge: Ché in verità, quanto a coloro che non credono, è per loro indifferente
che tu li ammonisca o non li ammonisca: mai crederanno [2:6]. Poi ne spiega la
ragione: Iddio ha suggellato il loro cuore e l’udito [2:7]. Dice anche: Sono essi
coloro cui Dio ha stampato un suggello sul cuore [16:108].
Il velo degli attributi, che deriva dall’annuvolamento, di quando in quando può
essere rimosso. Dopo tutto alterare l’essenza di una cosa sarebbe strano e
meraviglioso, e impossibile nell’entità stessa; ma è invece ammissibile per
l’attributo essere alterato rispetto a ciò che è…
Junayd dice: «La ruggine è una delle patrie, ma la nuvolosità è una delle cose
passeggere». La patria rimane, mentre la cosa passeggera scompare.
Nessuna pietra può essere trasformata in uno specchio, anche se molte
persone si mettono insieme per lucidarla, ma quando uno specchio [d’acciaio] si
arrugginisce può essere reso lucente con una lima. L’oscurità è intrinseca alla
pietra e la lucentezza è intrinseca allo specchio. L’intrinseco rimane, ma l’attributo
preso in prestito non ha sussistenza 7.

Uno studioso sufi di poco successivo, Rashīd ad-Dīn Maybudī, che


nel 1126 terminò il suo commento persiano in dieci volumi al Corano,
Kashf al-asrār («Lo svelatore dei segreti») 8, descrive i sette veli che
impediscono agli esseri umani di «vedere le sottigliezze e trovare le
realtà». Essi sono la ragione, la conoscenza, il cuore, il sé, la
percezione sensoriale, il desiderio e la volontà.
La ragione tiene gli uomini occupati con le cose di questo mondo e con le cure
della vita, cosí da distoglierli dal Vero.
La conoscenza li trascina insieme ai loro pari nel campo da gioco della
vanagloria, cosí da farli rimanere nella valle della millanteria e della rivalità.
Il cuore li colloca nella stazione del coraggio e della risolutezza, e cosí essi
cadono in tentazione nelle arene dei campioni, bramando la fama in questo
mondo, cosí che non tengono in nessun conto la religione né si curano di farla
trionfare. Il sé è esso stesso il velo piú grande e il nemico della religione. [Il
Profeta ha detto:] «Il tuo peggiore nemico è il sé che sta ai tuoi fianchi. Se lo
afferri, vincerai, ma altrimenti cadrai cosí in basso che non ti rialzerai mai piú».
Qui la «percezione sensoriale» è l’appetito, il «desiderio» è la disobbedienza e
la «volontà» è l’apatia. L’appetito e la disobbedienza sono i veli della gente
comune, e l’apatia è il velo che tiene lontani gli eletti della Presenza dalla via della
Realtà. [Sanā’ī ha scritto:]
Qualsiasi cosa ti trattenga dalla via,
lascia che sia miscredenza o fede!
Qualsiasi cosa ti distolga dall’Amico,
lascia che sia brutta o bella 9!

Al-Ghazālī contemporaneo di Maybudī, ritiene particolarmente


importante spiegare come la conoscenza diventi un velo sul sentiero
che conduce a Dio, anche se, come disse il Profeta: «La ricerca della
conoscenza incombe su ogni musulmano». Ecco cosa egli scrive nella
sua opera in persiano Kimiyā-yi sa’adāt («L’alchimia della felicità»):

Potresti aver sentito i sufi dire che «la conoscenza vela da questo sentiero» e
potresti averlo negato. Ma non negare queste parole, perché sono vere. Dopo
tutto, quando occupi te stesso e ti immergi nelle cose sensoriali e in ogni genere
di conoscenza che si ottiene attraverso di essi, questo è un velo.
Il cuore è come uno stagno e i sensi sono come cinque ruscelli attraverso i
quali l’acqua vi penetra dall’esterno. Se vuoi che dell’acqua limpida sorga dal
fondo dello stagno, il modo per ottenerlo è rimuovere tutta l’acqua insieme con la
melma nera che è il suo deposito. I sentieri di tutti i ruscelli devono essere
bloccati, in modo che l’acqua non arrivi. Il fondo dello stagno deve essere scavato
finché acqua limpida non sgorghi dall’interno dello stagno. Fin quando lo stagno è
occupato dall’acqua che viene dall’esterno, l’acqua non potrà sgorgare
dall’interno. Allo stesso modo la conoscenza che viene dal profondo del cuore non
sarà acquisita finché il cuore non sarà svuotato di tutto ciò che proviene
dall’esterno.
Tuttavia, se una persona dotata di conoscenza dovesse svuotarsi delle nozioni
che ha appreso e non curarsene piú nel proprio cuore, la sua conoscenza passata
non costituirà per lui un velo; è possibile che in lui si verifichi «l’apertura» [della
porta allo svelamento]. Allo stesso modo, se svuota il cuore dalle fantasie e dagli
oggetti sensoriali, le fantasie passate non gli faranno da velo.
Causa di velo è che qualcuno apprende il credo dei sunniti e ne impara le
prove, cosí come sono espresse nella dialettica e nella discussione. Poi vi si dedica
con tutto il cuore e crede che non vi è altra conoscenza oltre a questa. Se
qualcos’altro entra nel suo cuore, dirà: «Questo è in contraddizione con ciò che
ho sentito, e qualunque cosa lo contraddica è falsa». È impossibile per una simile
persona conoscere la realtà delle cose, perché la fede appresa dalle persone
comuni è la forma della realtà, non la realtà stessa. Nel caso delle realtà, la
conoscenza perfetta è che esse vengano svelate dall’interno della forma, come
una noce dall’interno del guscio 10.

2. Il velo secondo Niffarī e Ibn ‘Arabī.

Si è detto a sufficienza che i testi sufi solitamente utilizzano la


parola velo come termine generico per indicare gli impedimenti che
ostacolano il sentiero verso Dio. Ma i testi appena citati sono piuttosto
semplici e non ci sono di grande aiuto per chiarire la natura
paradossale del velo. Per comprenderla, abbiamo bisogno di guardare
agli autori sufi che si riferiscono direttamente a questo tema. Intendo
considerare due tra i piú ragguardevoli: il primo è Niffarī, che morí
intorno al 970, il che ne fa uno dei primi autori di testi sul sufismo; il
secondo è Ibn ‘Arabī, che morí circa trecento anni piú tardi, nel 1240.
Benché nel 1935 A. J. Arberry abbia tradotto due delle sue opere
arabe in inglese, Niffarī non ha ricevuto l’attenzione che merita,
principalmente, ritengo, a causa dell’estrema densità e oscurità di
quanto egli sostiene. Egli presenta molti dei suoi scritti come dirette
citazioni da Dio, e le parole di Dio non sono sempre semplici da
comprendere. Ibn ‘Arabī chiama questo tipo di colloquio visionario il
«luogo d’incontro intermedio» (munāzala) 11. In esso il servo ascende
verso Dio e Dio discende verso il servo. I due si incontrano in un
qualche dominio a mezza strada e Dio parla al servo. Ibn ‘Arabī ci dice
che questo tipo di svelamento si riferisce specificamente al discorso
fatto da Dio dietro un velo, come è detto nel già citato versetto
coranico: «A nessun uomo Dio può parlare altro che per Rivelazione, o
dietro un velame». Egli dedica settantotto capitoli delle sue
monumentali Futūḥāt al-makkiya a fornire delucidazioni sulle stazioni
comuni in cui Dio gli ha rivolto delle parole enigmatiche, molto simili
per stile a quelle riportate da Niffarī. Tuttavia, per ogni esempio Ibn
‘Arabī riferisce soltanto un singolo e breve detto. Tutti questi detti
messi assieme costituirebbero non piú del cinque per cento delle
duecentocinquanta pagine scritte da Niffarī. La restante parte della
trattazione di Ibn ‘Arabī è occupata da ampie spiegazioni sul
significato delle parole di Dio. Ciò suggerisce che per comprendere
bene le parole di Niffarī è necessaria una certa riflessione. Nelle
pagine seguenti citerò alcune affermazioni di Niffarī a proposito del
velo, accostandole, dove riterrò opportuno, ad alcune osservazioni di
Ibn ‘Arabī sugli stessi argomenti 12.
Entrambi gli autori affrontano due questioni principali: cosa sono i
veli? Come li superiamo? Si tratta di un altro aspetto della questione
che ci ha occupato sin dall’inizio: che cos’è il lato occidentale di una
cosa, e come arriviamo dall’occidente all’oriente? Cos’è il sé, e come
possiamo conoscerlo? Cos’è il canto di Dio e come possiamo imparare
a danzare? Cos’è il nome e come possiamo raggiungere la realtà?
Cos’è il dito che indica la luna e come possiamo trovarla?
Per rispondere alla domanda su cosa siano i veli abbiamo bisogno
di rapportarli a Dio. La risposta preliminare è che un velo è qualunque
cosa diversa da Dio. Abbiamo o Dio o un velo, o il Volto divino o una
cortina che ce Lo nasconde, o la Realtà assoluta o uno dei Suoi infiniti
nomi. In altre parole, tutto ciò che percepiamo e tutti i nostri atti di
percezione sono dei veli, incluse tutta la nostra conoscenza di Dio,
tutti gli svelamenti che Dio concede agli iniziati e le rivelazioni fatte ai
profeti. Tutte queste cose non sono nient’altro che veli perché
nessuna di esse è Dio nel Suo proprio Sé. In un passo Niffarī chiarisce
questi punti nel momento seguente:
Egli mi disse: il tuo velo è tutto ciò che Io rendo manifesto, il tuo velo è tutto
ciò che io mantengo segreto, il tuo velo è tutto ciò che Io affermo, il tuo velo è
tutto ciò che Io annullo e il tuo velo è ciò che Io svelo, proprio come il tuo velo è
ciò che Io nascondo alla vista.

Egli mi disse: il tuo velo è te stesso ed è il velo dei veli. Se te ne libererai, ti


libererai dai veli, e se ne rimarrai velato i veli ti ricopriranno.
Egli mi disse: non ti libererai dai tuoi veli se non attraverso la Mia luce. Cosí la
Mia luce trapasserà il velo e tu vedrai come e per mezzo di cosa esso vela 13.

In questo passaggio Niffarī stabilisce tre punti principali: primo,


ogni cosa, incluso lo svelamento, è un velo; secondo, il sé è il piú
grande dei veli; terzo, la guida di Dio è l’unico modo per emergere
fuori dai veli. Ibn ‘Arabī affronta spesso questi stessi punti. Mi si lasci
prenderli in considerazione uno alla volta.
Primo, ogni cosa è un velo. Ibn ‘Arabī scrive:

Non vi è nulla nell’esistenza se non veli sospesi. Gli atti della percezione si
afferrano solo ai veli, che lasciano tracce in colui che li percepisce con il suo
occhio 14.

I veli, secondo Ibn ‘Arabī, sono semplicemente le cose, nel senso


piú ampio della parola. Dio in Se Stesso non è nessuna «cosa»,
perché Egli è uno e indifferenziato. Egli è, nel linguaggio della filosofia
islamica utilizzato da Ibn ‘Arabī, Essere puro e assoluto (wujūd).
Vedere Dio come Egli è in Se Stesso significherebbe vedere Dio
precisamente come Dio si vede, e questo è assolutamente impossibile
per qualsiasi cosa che non sia Dio stesso. La distinzione tra Dio e ogni
cosa «diversa» rimane fissata per sempre, perché la realtà della cosa
– quella che rende una cosa ciò che è – richiede che sia diversa da
Dio e, come Ibn ‘Arabī ama ricordarci, le realtà non cambiano mai. Se
le realtà cambiassero, non sarebbero realtà. Ciò non significa negare
che da un certo punto di vista non vi siano cose «diverse», ma questa
è un’altra questione sulla quale torneremo fra breve. Per il momento,
dobbiamo comprendere il concetto dell’incomparabilità di Dio (tanzīh),
il fatto che nulla è Dio all’infuori di Dio. Questa è l’ottica della
negazione della shahāda: «non vi è dio».
Il fatto che tutte le cose sono veli può essere spiegato secondo il
principio filosofico in base al quale Dio solo è l’Essere Necessario e
tutto ciò che è diverso da Lui è il possibile (mumkin). La «possibilità»
è il fatto che le cose si trovino a metà strada tra la necessità e
l’impossibilità. In se stesse non hanno alcun diritto all’esistenza: sono
cose non-esistenti che hanno la potenzialità di esistere, e possono
arrivare a farlo solo se Dio concede loro l’esistenza. Nessuna cosa può
sfuggire alla sua possibilità di esistere, perché quella possibilità è
insita nella sua stessa essenza. Ibn ‘Arabī si rifà a questa nozione
quando ci fornisce uno dei suoi numerosi commenti al detto: «Dio ha
settanta veli di luce e di oscurità».

I veli oscuri e luminosi attraverso i quali il Vero è velato dal cosmo sono solo la
luce e l’oscurità: è grazie ad esse che il possibile si qualifica nella sua realtà, in
quanto esso è un termine mediano. Il possibile guarda solo se stesso, e quindi
guarda solo il velo. Se i veli dovessero essere rimossi dal possibile, la stessa
possibilità verrebbe rimossa e con questa rimozione anche il Necessario e
l’impossibile verrebbero a sparire. Quindi i veli rimarranno distesi per sempre,
perché è impossibile che avvenga diversamente… I veli non verranno rimossi al
momento della visione [di Dio]. Quindi la visione avviene attraverso il velo, e
unicamente in questo modo 15.

Il principio secondo cui «la visione avviene attraverso il velo» si


applica non solo alla visione di Dio, ma anche a quella di sé e di ogni
altra cosa. In ultima analisi, ogni cosa rimane per sempre velata da
tutte le cose. Lo svelamento perfetto è un attributo esclusivamente
divino. Questo perché la vera dimora delle realtà è la conoscenza di
Dio, «miniera» di tutte le cose. Nessuno può conoscere le realtà
esattamente come le conosce Dio. Le realtà sono ciò che Ibn ‘Arabī
chiama spesso gli «oggetti della conoscenza [di Dio]» (ma’lumāt), o le
«entità fisse» (a’yān thabita), fisse perché la conoscenza che Dio ha di
loro non cambia mai.
Se gli uomini non possono mai vedere le realtà, possono vedere
soltanto i veli o i nomi delle realtà. Ibn ‘Arabī esprime spesso questo
concetto dicendo che gli uomini non possono mai vedere nient’altro
che immagini. L’intero universo, in tutta la sua estensione temporale e
spaziale, non è nient’altro che un’immagine inspiegabilmente immensa
della conoscenza di Dio, un singolo velo infinito sull’unico Volto divino.
Oppure, esso è il Respiro del Misericordioso, nel quale le parole
infinite di Dio si articolano per tutta l’eternità. In uno dei tanti
passaggi in cui parla dell’universo come se fosse intessuto di
immagini, Ibn ‘Arabī scrive:

Le forme viste dagli occhi e percepite dalle facoltà razionali, nonché le forme
immaginate dalla facoltà dell’immaginazione, sono veli, dietro i quali viene visto il
Vero… Quindi il Vero rimane per sempre assente dietro le forme manifeste
dell’esistenza. Le entità delle cose possibili nella loro materialità fissa e con tutte
le variazioni dei loro stati testimoniati dal Vero rimangono anch’esse assenti…
Le entità delle forme che sono manifeste nell’Essere – che è identico al Vero –
sono le proprietà delle entità possibili in quanto agli stati, alle variazioni, ai
cambiamenti e alle alterazioni che esse hanno nella loro fissità. Diventano
manifeste nel Vero Essere Stesso. Ma il Vero non cambia rispetto a ciò che è in Se
Stesso. I veli rimangono per sempre distesi, perché sono le entità di queste
forme… Tutto questo – la lode appartiene a Dio! – è in effetti immaginazione, dal
momento che non è mai fissato in un singolo stato. Ma [come disse il Profeta]
«gli uomini sono addormentati» – benché il dormiente possa riconoscere ogni
cosa che vede e la presenza in cui la vede – «e quando moriranno, si
sveglieranno» da questo sogno nel sogno. Essi non cesseranno mai di dormire,
come non cesseranno mai di sognare. Perciò non cesseranno mai di passare
attraverso un costante cambiamento interiore, né ciò che percepiscono con i loro
occhi cesserà mai il suo continuo cambiamento. La situazione è sempre stata
questa, e tale sarà sempre, in questo mondo e nel prossimo 16.

Il secondo punto fissato da Niffarī è che il velo piú grande è il sé


che vede, perché dà esistenza a tutti gli altri veli. Quando parliamo
della visione di Dio, stiamo discutendo sia della visione di Se Stesso da
parte di Dio sia della visione di Dio da parte degli altri. Fintanto che
l’«altro» – la cosa, il sé – è parte della discussione, la visione non può
essere sotto ogni aspetto identica alla visione di Se Stesso che ha Dio.
Naturalmente, vi sono gradi di visione e diverse intensità di
svelamento, in una scala che, secondo Ibn ‘Arabī, è infinita. Ma
l’«altro» rimane sempre se stesso, e l’«altro» è finito. Il finito non può
mai comprendere l’Infinito nella Sua infinità, e per questo non può
mai vedere l’Infinito come l’Infinito vede Se Stesso. Ibn ‘Arabī scrive:

Dio ti ha fatto identico al Suo velo su di te. Se non fosse per questo velo, tu
non cercheresti di accrescere la conoscenza che hai di Lui. Egli parla e si rivolge a
te da dietro il velo della forma.
Considera la tua umanità mortale. La troverai identica al velo dietro il quale
Egli ti parla. Egli dice: A nessun uomo Dio può parlare altro che per Rivelazione, o
dietro un velame [42:51]. Perciò, Egli può parlare a te da te, dal momento che tu
veli te stesso da te, e tu sei il Suo velo su di te.
È impossibile per te cessare di essere un essere umano mortale, perché sei
mortale nella tua propria essenza. Anche se ti assenti da te stesso o vieni estinto
da uno stato che ti sorpassa, la tua umanità mortale si atterrà alla sua entità.
Perciò il velo è disteso e l’occhio non fisserà nient’altro se non un velo, dal
momento che non cade altro che su una forma… Non c’è fuga dal velo, perché
non c’è fuga da te stesso 17.

Il terzo punto di Niffarī è che solo la guida di Dio può liberare gli
uomini dai veli. Gli iniziati non possono mai lacerare i veli, ma Dio ne
può rimuovere alcuni o molti. Ogni volta che un velo è sollevato, gli
iniziati si avvicinano all’oggetto della loro ricerca. Il risultato dello
svelamento può essere un’estasi inesprimibile o straordinari influssi di
conoscenza visionaria, ma ancora, in ultima analisi, uscir fuori da un
velo significa entrare in un altro. Nel seguente passo Ibn ‘Arabī parla
dei veli come «occasioni» o «cause seconde» (asbāb), attraverso le
quali Dio stabilisce l’ordine dell’universo.

Dal momento che è stato Dio a stabilire le cause seconde, Egli non le svela a
chiunque. Ciò che Egli fa è di dare ad alcuni dei Suoi servi una luce sufficiente a
guidarli, affinché essi possano camminare nell’oscurità delle cause seconde. Non
fa nient’altro. Poi attraverso quella luce vedono faccia a faccia, nella misura della
propria luce.
I veli – che sono le cause seconde – sono distesi e non saranno mai sollevati,
quindi non desiderarlo! Se il Vero ti conduce via da un’occasione, è soltanto per
condurti verso un’altra. Inoltre, Egli non ti farà mai perdere completamente
l’occasione.
Dopo tutto, la corda di Dio [3:103] alla quale Egli ha ordinato di afferrarti è
una causa seconda, ed è la shar’īa. Fra le cause seconde, essa è la piú forte e
veritiera. Nella sua mano è la luce dalla quale possiamo essere guidati nelle
tenebre della terra e del mare [6:97] di queste cause seconde. Chiunque faccia
questo e quest’altro – che è la causa seconda – sarà ricompensato con questo e
quest’altro. Quindi non desiderare ciò che non può essere desiderato! Piuttosto
chiedi a Dio di spargere un po’ di quella luce sulla tua essenza 18.

Ibn ‘Arabī disserta nuovamente sulla saggezza divina che ha


ordinato i veli in un capitolo sull’«annullamento» (mahw), uno stato
lungo il sentiero sufi grazie al quale tutta la consapevolezza del sé
individuale è cancellata dall’intensità dello svelamento. Egli spiega che
ciò non significa che tutti i veli siano stati rimossi, come hanno
sostenuto alcuni sufi. Se cosí fosse, non vi sarebbe alcuna acquisizione
di conoscenza, ma le cose non stanno cosí.

Quando qualcuno raggiunge l’annullamento, è la sua fede nelle cause seconde


a essere annullata, non le cause stesse. Dio non renderà mai inutile la saggezza
nelle cose. Le cause seconde sono veli decretati da Dio, che non verranno mai
rimossi. Il piú grande di questi veli è la tua stessa entità. La tua entità è la causa
seconda dell’esistenza della tua conoscenza di Dio, dal momento che tale
conoscenza non può esistere se non nella tua entità. È impossibile per te essere
svelato, dal momento che Dio desidera che tu Lo conosca. Perciò Egli «ti annulla»
da te stesso, e allora tu non sei in dubbio sull’esistenza della tua stessa entità e
sulla manifestazione delle sue proprietà 19.

Nel brano citato da Niffarī, Dio dice: «Tu non uscirai dal tuo velo se
non attraverso la Mia luce». Ciò potrebbe essere inteso nel significato
che la luce di Dio può concedere la totale liberazione dai veli. Ma molti
altri passi suggeriscono che per Niffarī la rimozione di un singolo velo
significa semplicemente stenderne un altro. Scrive per esempio:

Egli mi disse: «Rendere manifesto è il Mio velo, e rendere manifesto ha dei


domini non-manifesti, che sono il Mio velo; i domini non-manifesti hanno dei
gradi, che sono i Miei veli; i gradi hanno dei termini, che sono i Miei veli; i termini
hanno degli ulteriori limiti, che sono i Miei veli; gli ulteriori limiti hanno dei
risultati, che sono Miei veli; i risultati hanno delle conoscenze, che sono i Miei veli;
le conoscenze hanno delle tipologie, che sono i Miei veli; le tipologie hanno dei
giudizi, che sono i Miei veli; i giudizi hanno dei verdetti, che sono i Miei veli; i
verdetti hanno dei capovolgimenti, che sono i Miei veli; i capovolgimenti hanno
degli avvenimenti successivi, che sono i Miei veli; dietro agli avvenimenti
successivi vi è il Comando, che è il Mio velo».
Egli mi disse: «I Miei veli che possono essere comunicati sono soltanto una
minuscola parte dei Miei veli che non possono essere comunicati» 20.

In breve, i veli sono infiniti e inevitabili, ma la luce della guida di


Dio permette all’iniziato di afferrare ciò che essi sono e di capire come
utilizzarli opportunamente per raggiungere la liberazione da tutto ciò
che non è Dio. Niffarī scrive:

Egli mi disse: «Se ti chiamo, non aspettarti che i veli siano rimossi dal fatto che
Mi segui, perché tu non puoi calcolarne il numero e non sarai mai in grado di
rimuoverli».
Egli mi disse: «Se fossi in grado di rimuovere i veli, dove li rimuoveresti? L’atto
di rimuovere è esso stesso un velo e il “dove” in cui è rimosso è a sua volta un
velo. Quindi seguimi. Io rimuoverò i tuoi veli e ciò che rimuoverò non ritornerà. Ti
guiderò lungo il tuo sentiero e ciò che Io guido non si smarrirà» 21.

Solo la luce di Dio può disperdere l’oscurità provocata dal piú


grande dei veli, il sé. Questa oscurità può essere chiamata
«ignoranza» e il suo opposto «conoscenza» ma, come abbiamo visto,
la stessa conoscenza può essere, e in ultima analisi non può che
essere, un velo, giacché anch’essa è altro rispetto a Dio. Ancora,
dobbiamo distinguere tra la conoscenza che blocca il sentiero che
porta a Dio e la conoscenza che aiuta nel viaggio lungo il sentiero.
Come Dio disse a Niffarī: «O Mio servo! Una conoscenza in cui tu Mi
vedi è il sentiero che conduce a Me, e la conoscenza in cui non Mi vedi
è il velo che inganna» 22. Affinché sia un velo liberatorio, la conoscenza
deve vedere Dio nei veli e attraverso di essi. Altrimenti la maggior
parte delle conoscenze inganna e imprigiona. Ci si deve svuotare di
ogni conoscenza, di ogni consapevolezza di sé e degli altri, di ogni
cosa, per poter vedere Dio. Questa è la vera conoscenza, il velo
liberatorio. Niffarī scrive:

Egli mi disse: «Ti sto guardando fisso e amo che tu Mi guardi fisso, ma ogni
apparenza ti vela da Me. Il tuo sé è il tuo velo, la tua conoscenza è il tuo velo, la
tua gnosi è il tuo velo, i tuoi nomi sono il tuo velo e il Mio renderMi manifesto a te
è il tuo velo. Quindi, scaccia ogni cosa dal tuo cuore e scaccia da esso la
conoscenza di ogni cosa e il ricordo di ogni cosa. Ogniqualvolta farò apparire
qualcosa davanti al tuo cuore, rimandala alla sua apparenza e svuota il tuo cuore
per Me, in modo che tu possa guardarMi e non superarMi» 23.

Guidando gli uomini sul sentiero, Dio non elimina i veli, giacché ciò
è impossibile. Quello che secondo Niffarī Egli fa è portare gli uomini
dal «velo lontano», che è l’ignoranza o il vedere il lato occidentale, al
«velo vicino», che è il riconoscimento della fulgida luce di Dio che
brilla attraverso i veli, o la visione della faccia orientale delle cose.

O servo Mio! Se la conoscenza non ti allontana dalla conoscenza e se dalla


conoscenza entri soltanto nella conoscenza, allora sei velato dalla conoscenza.
O servo Mio! Vela te stesso dalla conoscenza attraverso la conoscenza e sarai
velato da un velo vicino. Non velare te stesso dalla conoscenza attraverso
l’ignoranza, affinché non tu sia velato da un velo lontano.
O servo Mio! Scaglia la tua conoscenza e la tua ignoranza nel mare. Ti
prenderò come servo e ti scriverò come salvo 24.

In breve, questi brani ci dicono che i veli non saranno mai rimossi,
ma che la guida di Dio può dare agli uomini la sicurezza e la salvezza
dai pericoli dell’essere velati. Ne consegue che la vera conoscenza non
è realmente «svelare», ma è piuttosto la rimozione dei veli lontani,
affinché essi possano essere sostituiti da quelli vicini; oppure, essa è il
riconoscimento dei veli per ciò che sono.

3. Il velo come volto.


Questo ci porta di nuovo alla questione della realtà dei veli. Che
cosa sono esattamente? Sebbene da un certo punto di vista non si
possa vedere altro che un velo, da un secondo punto di vista
complementare – al quale ho alluso in precedenza – ogni velo è
semplicemente un’ulteriore forma del volto di Dio. È da questa
prospettiva che si vede la somiglianza di tutte le cose con Dio
(tashbīh): è la prospettiva della parte affermativa della shahāda,
«all’infuori di Dio».
Secondo i dizionari arabi, il «volto» (wajh) di una cosa può essere
la sua realtà, la sua essenza e il suo sé. Il volto di Dio è la realtà di
fondo che dà origine a ogni altra realtà. Gli altri volti sono veli sul
volto divino, ma il volto divino ha dato loro origine e perciò essi non
sono nulla se non sue manifestazioni o suoi svelamenti. Ogni realtà
manifesta il volto di Dio. In quanto è veramente realtà, è veramente il
volto di Dio. «Tutti sono Lui». Qui, dunque, abbiamo il paradosso: Dio
è nascosto esattamente da ciò che Lo rende visibile. Ibn ‘Arabī scrive:

Egli è l’Essere perpetuo e le entità delle cose possibili si manifestano attraverso


le loro proprietà da dietro un velo del Suo Essere a causa della Sua sottigliezza.
Noi vediamo le entità delle cose possibili – che sono le nostre entità – da dietro il
velo del Suo Essere, ma non vediamo Lui… Sottile è Iddio coi Suoi servi [42:19].
Parte della sua sottigliezza è che Egli arriva a loro in ogni cosa in cui si trovano,
ma gli occhi dei servi cadono solo sulle cause seconde di cui sono testimoni, e
cosí attribuiscono alle cause seconde ciò di cui si occupano. Quindi, il Vero
diventa manifesto attraverso l’essere velato, cosí Egli è il Manifesto/il Velato…
Nessun occhio testimonia altra cosa se non Lui, e nessun velo è da Lui rimosso 25.

Un aspetto di questa situazione paradossale consiste nel fatto che il


cercare di rimuovere il velo è a sua volta un velo. Niffarī ci racconta
che Dio gli ha detto: «O servo Mio! Ho affidato al Mio velo il tuo
cercarMi» 26. O ancora:

O servo Mio! Che cosa cerchi da Me? Se stai cercando ciò che già conosci,
allora sei soddisfatto del velo. Ma se stai cercando ciò che non conosci, allora stai
cercando il velo 27.
Cercare il volto di Dio nasce dal sé, e il sé è il velo dei veli. La vera
visione delle cose come esse sono realmente permette di vedere che
non vi è sé e che quindi non vi è alcun velo. Dal punto di vista del
«Tutti sono Lui» c’è solo lo svelamento che Dio fa di Se Stesso, quindi
non vi è nulla se non il volto divino.
Questo sembra essere ciò che Ibn ‘Arabī sottintende nel seguente
passo:

Non c’è alcun velo e non c’è alcuna cortina. Nulla Lo nasconde se non la Sua
manifestazione. Se i sé si dovessero arrestare davanti a ciò che è divenuto
manifesto, conoscerebbero la situazione com’è in se stessa. Ma essi cercano
qualcosa che è assente da loro, cosicché la loro ricerca è identica al loro velo.
Quindi non apprezzano cosa è diventato manifesto nella giusta misura [6:91],
perché sono occupati da ciò che essi immaginano sia per loro non-manifesto.
Nulla è non-manifesto: è la mancanza di conoscenza a renderlo tale. Non vi è
nulla di non-manifesto nel caso del Vero, perché Egli si è rivolto a noi dicendo che
Egli è il Manifesto e il Non-manifesto, il Primo e l’Ultimo [57:3]. In altre parole, ciò
che cerchi nel dominio del non-manifesto è manifesto, quindi non stare a
logorarti 28.

Gli uomini sono velati solo a causa della loro mancanza di


conoscenza. Dio non ha mostrato loro le cose come esse sono.
Quando Egli lo farà, essi saranno liberati dall’ignoranza di pensare che
possono conoscere Dio in Se Stesso, e riconosceranno che
«l’incapacità di percepire è percezione». Capiranno che il non sapere è
conoscenza, e che il velo è il volto. Niffarī chiarisce piú volte questo
punto.

Egli mi disse: «Quando Mi avrai visto, svelamento e velo saranno uguali» 29.

Egli disse: «Non giungerai alla visione fino a che non vedrai il Mio velo come
visione e la Mia visione come velo» 30.

Egli disse: «O servo Mio! C’è un velo che non è svelato e uno svelamento che
non è velato. Il velo che non è svelato è la conoscenza di Me, e lo svelamento che
non è velato è la conoscenza di Me» 31.
Mi fece stare nel velo. Poi vidi che Egli si è velato da un gruppo attraverso Se
Stesso e da un altro attraverso la Sua creazione.
Egli mi disse: «Non rimane alcun velo. Poi vidi tutti gli occhi guardare fissi il
Suo volto. Lo vedono in ogni cosa attraverso cui Egli vela Se Stesso, e quando
abbassano lo sguardo Lo vedono in se stessi».
Mi disse: «Mi vedono e Io li velo da Me attraverso la loro visione di Me» 32.

L’ignoranza è sia il velo che lo svelamento. Questo è costantemente


il reale stato di tutte le cose create. Gli uomini rimarranno per sempre
ignoranti della realtà e conosceranno sempre soltanto il nome.
Eppure, il velo è lo stesso che il volto e il nome è identico alla realtà.
La negazione è l’affermazione. La ilāha illà Allāh. questo è il paradosso
del velo ed è anche il paradosso della descrizione che Būshanjī dà del
sufismo: Oggi il sufismo è un nome senza una realtà. Eccoci a parlare
della realtà citando dei nomi, e la realtà continua a sfuggirci. Eppure il
sufismo era un tempo una realtà senza un nome, perché ci trovavamo
nell’abbraccio dell’Amato, ebbri con alast. Būshanjī indica i nomi che
velando ostacolano il sentiero di tutti gli iniziati, ma indica anche
l’unione passata e futura con l’Amato, che è la realtà del sufismo.
Vorrei concludere con le parole di Ḥāfeẓ (m. 1389), forse il migliore
fra i poeti persiani. Tradizionalmente gli viene attribuito il titolo di lisān
al-ghayb, «la lingua dell’invisibile», perché dimostra un’incomparabile
maestria nel nominare le realtà e nello svelare i misteri.

O Signore, chi è degno di sentire questo sottile segreto?


Di lei v’è testimonianza dappertutto, ma non ha mai mostrato il suo volto 33.
Il sentiero sufi

1. C. W. ERNST, The Shambhala Guide to Sufism, Shambala, Boston 1997 [trad. it. Il grande
libro della sapienza sufi, Mondadori, Milano 2000].
2. H. A. R. GIBB, The Structure of Religious Thought in Islam (1948), ristampato in ID. , Studies
on the Civilization of Islam, Beacon Press, Boston 1962, p. 218.
3. Per una valida raccolta di queste definizioni, si veda J. NURBAKHSH, Sufism: Meaning,
Knowledge, and Unity, Khaniqahi-Nimatullahi Publications, New York 1981, pp. 16-41.
4. Per uno studio dettagliato della tradizione islamica basata su questa antica divisione in tre
dimensioni, si veda S. MURATA e W. C. CHITTICK, The Vision of Islam, Paragon House, New
York 1994.
5. Per un’analisi dei principî della teologia islamica si faccia riferimento a J. VAN ESS, L’alba
della teologia musulmana, a cura di I. Zilio Grandi, Einaudi, Torino 2008 [N. d. C.].
6. La sunna può essere definita la «tradizione», ovvero l’insieme di tutto ciò che è stato
tramandato a proposito dei detti e dei fatti attribuiti a Muḥammad. Sul concetto di sunna e
per la traduzione di una delle raccolte piú popolari di aḥādīth, i racconti veri e propri
riguardanti il Profeta dell’Islam, cfr. AL-NAWAWĪ , Il giardino dei Devoti. Detti e fatti del
Profeta, a cura di A. Scarabel, Società Italiana Testi Islamici, Trieste 1990 [N. d. C.].
7. Il testo arabo recita al-taṣdīq bī ‘l-janān wa ‘l-qawl bī ‘l-lisān wa ‘l-’amal bī ‘l-arkān.
8. R. A. NICHOLSON, The Mathnawi of Jalálu’ddín Rúmí, 8 voll., Luzac, London 1925-40, vol. VI,
v. 1890.
9. GIBB , The Structure of Religious Thought in Islam cit., p. 211.
10. La formula completa della shahāda recita: «Attesto che non vi è dio all’infuori di Dio e
attesto che Muḥammad è l’Inviato di Dio» [N. d. C.].
11. ‘IZZ AL-DĪN KĀSHĀNĪ (m. 1334-35), Miṣbāḥ al-hidāyah, a cura di J. al-Din Huma’ī,
Chāpkhāna-yi Majlis, Teheran 1325/1946, p. 22.
12. W. C. CHITTICK, The Sufi Path of Knowledge: Ibn al-’Arabī’s Metaphysics of Imagination,
Suny Press, Albany 1989, p. 392, nota 13. In seguito, l’opera sarà citata come SPK.
13. La faccia «occidentale» e quella «orientale» delle cose sono citate da Shabistarī nel suo
famoso poema Gulsan-i rāz («Il Roseto del Mistero») e discusse approfonditamente da
Lāhijī (m. 1506) nel suo commentario, Sharh-i Gulsan-i rāz, a cura di M. R. B. Khāliqī e ‘I.
Karbāsī, Intishārāt-i Zuwwār, Teheran 1371/1992, pp. 117-18.
14. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. II, vv. 3067-68, 3071, 3073. Per alcuni dei temi
trattati da Rūmī, si veda W. C. CHITTICK, The Sufi Path of Love: The Spiritual Teachings of
Rumi, Suny Press, Albany 1983, pp. 113-18. In seguito, l’opera sarà citata come SPL.
15. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. I, v. 772.
16. Ibid., vv. 277-78; SPL, p. 96.
17. Sul «martire dell’Islam» cfr. AL-ḥUSAYN IBN MANṣ ūR AL-ḥALLĀJ , Al-Ḥusayn ibn Manṣūr al-
Ḥallāj. Il Cristo dell’Islam. Scritti mistici, a cura di A. Ventura, Mondadori, Milano 2007 [N.
d. C.].
18. RŪMĪ , Fīhi mā fīhi, a cura di B. Furūzānfar, Amir Kabir, Teheran 1348/1969, p. 193; SPL,
pp. 191-92.

La tradizione sufi

1. R. A. NICHOLSON, The Mathnawi of Jalálu’ddín Rúmí, 8 voll., Luzac, London 1925-40, vol. II,
v. 1022; SPL 20.
2. Per alcune critiche sufi al sufismo popolare, si vedano le osservazioni di ‘Abd al-Wahhāb
Sha’rānī cosí come sono descritte in M. WINTER, Society and Religion in Early Ottoman
Egypt: Studies in the Writings of ‘Abd al-Wahhāb al Sha’rānī, Transaction Books, New
Brunswick 1982, pp. 102 sg.
3. SPK, p. 283.
4. H. A. R. GIBB, Mohammedanism: an Historical Survey, Oxford University Press, London
1953, p. 127 [trad. it. L’islamismo: un’introduzione storica, il Mulino, Bologna 1970].
5. Su questo tema cfr. A. SCARABEL, Preghiera sui Nomi piú belli. I novantanove nomi di Dio
nella tradizione islamica, Marietti, Genova 1996 [N. d. C.].
6. Per un’analisi dettagliata della tradizione intellettuale islamica rispetto alla tensione creativa
fra tanzīh e tashbīh, si veda S. MURATA e W. C. CHITTICK, The Vision of Islam, Paragon
House, New York 1994, parte II.
7. Come valido studio analitico di un esempio concreto di questo fenomeno, si veda M.
WOODWARD , Islam in Java, University of Arizona Press, Tucson 1989, in particolare le pp.
234 sg.
8. Per una raccolta di testi sufi sulla sobrietà e l’ebbrezza, e anche su coppie di termini in
correlazione tra loro, si veda J. NURBAKHSH, Sufism: Fear and Hope, Contraction and
Expansion, Gathering and Dispersion, Intoxication and Sobriety, Annihilation and
Subsistence, Khaniqah-i Nimatullahi, New York 1982.
9. Per il modo in cui la poesia e la musica sono utilizzate nel sufismo contemporaneo, si veda
E. H. WAUGH, The Munshidin of Egypt: Their World and Their Song, University of South
Carolina Press, Columbus 1989.
10. H. CORBIN, Creative Imagination in the Sufism of Ibn ‘Arabi, Princeton University Press,
Princeton 1969, pp. 70-71 [trad. it. L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo,
Laterza, Roma-Bari 2005].
11. Si veda, come esempio, J. BERKEY, The Transmission of Knowledge in Medieval Cairo,
Princeton University Press, Princeton 1992, in special modo il capitolo III , che evidenzia
come figure di sufi e giuristi siano state a volte indistinguibili le une dalle altre.

L’autorealizzazione

1. Per la traduzione italiana si veda L. VECCIA VAGLIERI e R. RUBINACCI, La Nicchia delle Luci, in
Scritti scelti di al-Ghazālī, Utet, Torino 1970, pp. 561-639 [N. d. C.].
2. Mishkāt al-anwār, a cura di e tradotto da David Buchman come The Niche of Lights,
Brigham Young University Press, Provo 1998, pp. 17-18. Per un approfondimento sul volto
che non perisce cfr. W. C. CHITTIK, The Self-Disclosure of God: Principles of Ibn al-’Arabī’s
Cosmology, Suny Press, Albany 1998, pp. 92 sgg. (in seguito l’opera sarà citata come
SDG).
3. Si veda ID ., Imaginal Worlds: Ibn al-’Arabī and the Problem of Religious Diversity, Suny
Press, Albany 1994, p. 117.
4. MUḥYĪ AL-DĪN IBN ‘ARABĪ , Al-Futūḥāt al-makkiya, ristampa, Dar Sadir, Beirut s. d., vol. III, p.
412, riga 26; per il brano preso in esame, si veda SDG, p. 134.

Il ricordo di Dio

1. Si vedano l’introduzione di Louis Gardet all’Encyclopedia of Islam, nuova edizione, Brill,


Leiden 1960-, e J. S. TRIMINGHAM, The Sufi Orders in Islam, Clarendon Press, Oxford 1971,
pp. 194-217, che si occupano entrambi principalmente delle tecniche. Un’analisi piú
approfondita è offerta da A. SCHIMMEL, Mystical Dimension of Islam, University of North
Carolina, Chapel Hill 1975, pp. 167-78. Per una descrizione delle varie forme di dhikr nel
contesto del sufismo egiziano contemporaneo, si veda M. GILSENAN, Saint and Sufi in
Modern Egypt, Clarendon Press, Oxford 1973, pp. 156-87.
2. IBN ‘AṭĀ’ ALLĀH AL-ISKANDARĪ , Miftāḥ al-falāh, Muṣṭafā al-Bābī al-Ḥalabī, Cairo 1961, p. 31. Si
veda la traduzione di M. Danner di quest’opera, The Key to Salvation, Islamic Text Society,
Cambridge 1994, p. 74.
3. AL-ISKANDARĪ , Miftāḥ cit., p. 46, cfr. ID ., The Key cit., p. 96.
4. Si tratta di una citazione dal Profeta secondo fonti sciite. Si veda ‘ABBĀS QUMMĪ, Mafātīḥ al-
jinān, Jawidan-i Ilmi, Teheran 1962, pp. 179-207. Per un campione rappresentativo degli
aḥādīth sul dhikr si veda MUḥAMMAD IBN ‘ABD ALLĀH AL-TABRĪZĪ , Mishkāt al-maṣābiḥ, tradotto
da J. Robson, Ashraf, Lahore 1963-65, pp. 476-92. Ghazālī raccoglie versetti del Corano,
aḥādīth, detti dei pii antenati e i punti di vista di teologi e sufi a lui contemporanei, nel
capitolo sul dhikr e du’ā’ nel suo Ihyā’ ‘ulūm al-dīn, tradotto da K. Nakamura in Invocations
and Supplications, Islamic Text Society, Cambridge 1990.
5. KHWĀJA MUḥAMMAD PĀRSĀ , Qudsiyya, a cura di A. Ṭāhiri ‘Irāqī, Tahuri, Teheran 1974, p. 30.
6. Per esempio IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt al-makkiya, ristampa, Dār Ṣādir, Beirut s. d., vol. III, p.
248, riga 17, p. 438, riga 21.
7. AL-ISKANDARĪ , Miftāḥ cit., p. 28; cfr. ID ., The Key cit., p. 70.
8. NAJM AL-DĪN RĀZĪ, Mirṣād al-’ibad, a cura di M. A. Riyahi, Bungh-ā Tarjama wa Nashr-i
Kitāb, Teheran 1352/1973, p. 269; cfr. ID., The Path of God’s Bondsmen from Origin to
Return, tradotto da H. Algar, Delmar, Caravan 1982, p. 270.
9. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. I, p. 392, riga 2; vol. II, p. 110, riga 21; p. 224, riga 34.
10. Tradotto da D. B. Burrell e N. Daher come Al-Ghazālī: The Ninety-Nine Beautiful Names of
God, Islamic Text Society, Cambridge 1992, p. 270.
11. AL-ISKANDARĪ , Miftāḥ cit., pp. 35, 37; cfr. ID ., The Key cit., pp. 81, 83.
12. FARĪD AL-DĪN ‘AṭṭĀR , Tadhkirāt al-awliyā’, a cura di M. Isti’lami, Zuwwar, Teheran 1967, p.
87 [trad. it. Parole di Ṣufī. Memoriale degli intimi di Allāh, Luni, Milano 1994]; cfr. la
traduzione ridotta di J. Arberry di quest’opera, Muslim, Saints and Mystics, University of
Chicago Press, Chicago 1966, p. 51. Si veda anche M. SMITH, Rabi’a the Mystic and Her
Fellow-Saints in Islam, Cambridge University Press, Cambridge 1928.
13. RŪZBIHĀN BAQLĪ, Mashrab al-arwāḥ, a cura di N. H. Hoca, Edebiyat Fakültesi Matbaasi,
Istanbul 1974, p. 139.
14. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 245, riga 21.
15. ṣADR AL-DĪN QŪNAWĪ , Risālat al-hādiyat al murshidiyya, manoscritto.
16. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 229, riga 24.
La via dell’amore

1. Ascrivergli l’idea risulta comunque problematico. Si veda W. C. CHITTICK, Rūmī and Waḥdat
al-wujūd, in A. BANANI, R. HOVANNISIAN e G. SABAGH (a cura di), Poetry and Mysticism in
Islam: the Heritage of Rūmī, Cambridge University Press, Cambridge 1994, pp. 70-111.
2. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt al-makkiya, ristampa, Dār Ṣādir, Beirut s. d., vol. II, p. 111, riga 12;
cfr. vol. II, p. 325, riga 12 tradotto in W. C. CHITTICK, The Divine Roots of Human Love, in
«Journal of Muhyiddîn Ibn ‘Arabî Society», XVII (1995), pp. 55-78 (p. 57).
3. RŪMĪ , Kulliyyāt-i Shams, a cura di B. Furūzānfar, Danishgah, Teheran 1336-46/1957-67, vv.
29 050-51; per un approfondimento su questi temi, si veda SPL, pp. 194-95.
4. RŪMĪ , Kulliyyāt, v. 17 361.
5. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 167, riga 12.
6. Ibid., 329.5; SDG, p. 22.
7. RŪMĪ , Fīhi mā fīhi, a cura di B. Furūzānfar, Amir Kabir, Teheran 1348/1969, pp. 176-77;
SPL, p. 48.
8. R. A. NICHOLSON, The Mathnawi of Jalálu’ddín Rúmí, 8 voll., Luzac, London 1925-40, vol. V,
vv. 2735-40; SPL, p. 198.
9. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 114, riga 8; per una traduzione dall’arabo del brano
preso in esame, si veda M. CHODKIEWICZ, Les Illuminations de La Mecque/The Meccan
Illumination, Sindbad, Paris 1988, p. 97.
10. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. III, vv. 4400-1, 14-15; SPL, pp. 198-99.
11. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 113, riga 2.
12. Ibid., p. 114, riga 14; CHODKIEWICZ , Les Illuminations de La Mecque/The Meccan
Illumination cit., p. 98.
13. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 331, riga 17.
14. Il ghazal è un componimento poetico breve, generalmente di non meno di cinque e di non
di piú di dodici versi, molto comune nella lirica tradizionale persiana [N. d. C.].
15. Una caratteristica della poesia di Rūmī è l’utilizzo di giochi di parole. Qui la parola kū è
impiegata sia nel significato di «dove?» sia come suono onomatopeico indicante il tubare
della colomba che simboleggia il desiderio di Dio [N. d. C.].
16. RŪMĪ , Kulliyyāt cit., ghazal n. 442.
17. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 326, riga 19; cfr. SPK, p. 181. Sulla lettura
«ontologica» dei versetti coranici, si veda ibid., pp. 342-43.
18. RŪMĪ , Fīhi mā fīhi cit., p. 35; SPL, p. 201.
19. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. VI, vv. 971-80; cfr. SPL, pp. 202-3.
20. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. II, vv. 1529-35.
21. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 113, riga 6.
22. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. V, vv. 586-91; SPL, p. 215.
23. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. I, v. 629.
24. RŪMĪ , Kulliyyāt cit., v. 35 477; SPL, p. 209.
25. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 600, riga 32.
26. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. II, v. 3497.
27. RŪMĪ , Kulliyyāt cit., 29 753.
28. Rustam è l’eroe piú celebre dell’epica iranica. Questo personaggio compare anche nello
Shā-nāme, «Epica dei Re» del poeta persiano Firdawsī (940/41-1020 [N. d. C.].
29. Ibid., ghazal n. 1138.
30. Ibid., ghazal n. 920.
31. Ibid., ghazal n. 244.
32. Sulla figura di Giuseppe nel Corano cfr. M. CAMPANINI, Il profeta Giuseppe. Monoteismo e
storia nel Corano, Morcelliana, Brescia 2007, e R. TOTTOLI, I profeti biblici nelle tradizione
islamica, Paideia, Brescia 1999, pp. 52-57 [N. d. C.].
33. Ibid., ghazal n. 1826.

La danza senza fine

1. RŪMĪ , Kulliyyāt-i Shams, a cura di B. Fūruzānfar, Danishgah, Teheran 1336-46/1957-67, v.


13 685; SPL, p. 328.
2. ‘ABD AL-RAḥMĀN JĀMĪ , Lāw’aiḥ; S. MURATA, Chinese Gleams of Sufi Light, Suny Press, Albany
2000. Per la traduzione italiana si veda il volume di S. FOTI, Frammenti di luce. Lāw’aiḥ,
Libreria Editrice Psiche, Torino 1998 [N. d. C.].
3. R. A. NICHOLSON, The Mathnawi of Jalálu’ddín Rúmí, 8 voll., Luzac, London 1925-40, vol. VI,
v. 3172; SPL, p. 43.
4. RŪMĪ , Kulliyyāt cit., v. 9695.
5. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt al-makkiya, ristampa, Dār Ṣādir, Beirut s. d., vol. II, p. 34, riga 3;
SPK, pp. 48-49.
6. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 303, riga 13; SPK, p. 44.
7. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. I, p. 279, riga 6; SPK, p. 94.
8. ‘ABD AL-RAḥMĀN JĀMĪ , Naqd al-nuṣūṣ fī sharḥ naqs al-fuṣūṣ, a cura di W. C. Chittick,
Imperial Iranian Academy of Philosophy, Teheran 1977, p. 72.
9. RŪMĪ , Kulliyyāt cit., v. 18 177-8; SPL, p. 326.
10. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 281, riga 27; SPK, p. 130.
11. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 310, riga 21.
12. Ibid., p. 459, riga 5; c’è un riferimento al Corano 18:109 e 31:27. Per un approfondimento
sul Respiro del Misericordioso si veda SPK, pp. 130 sg.
13. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 366, riga 29; SPK, p. 213.
14. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 352, riga 14.
15. RŪMĪ , Kulliyyāt cit., v. 5001; SPL, p. 197.
16. Laylā e Majnūn rappresentano nell’Oriente islamico l’archetipo dell’amour fou, come
Romeo e Giulietta lo sono nell’immaginario occidentale. La versione piú celebre della loro
storia è quella narrata nel romanzo in versi del poeta persiano Neẓāmī (1141-1204). Per la
traduzione italiana cfr. NEẓĀMĪ , Laylā e Majnūn, a cura di G. Calasso, Adelphi, Milano 1985
[N. d. C.].
17. Wāmiq e ‘Adhrā’ («l’Amante e la Vergine»), al pari di Laylā e Majnūn, simboleggiano nella
letteratura islamica gli amanti esemplari [N. d. C.].
18. ‘ABD AL-RAḥMĀN JĀMĪ, Dīwān, a cura di H. Radi, Piruz, Teheran 1962, p. 301.
19. FAKHR AL-DĪN ‘IRĀQĪ, Lama’āt, a cura di M. Khwajawi, Intisharat-i Mawla, Teheran
1363/1964, p. 105. Si veda anche W. C. CHITTICK e P. L. WILSON, Fakhruddin ‘Iraqi: Divine
Flashes, Paulist Press, New York 1982, p. 108. Sull’estasi (wajd) e il suo rapporto con
l’esistenza (wujūd) si veda SPK, pp. 212-13.
20. ‘AṭṭĀR , Tadhkirāt al-’awliyā, a cura di M. Isti’lami, Zuwwar, Teheran 1967, p. 446.
21. RŪMĪ , Kulliyyāt cit., ghazal n. 3067.
22. Ibid., 24 182.
23. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. III, p. 393, riga 23; SDG, p. 285.
24. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. I, v. 3279.
25. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 170, riga 6; SPK, p. 276.
26. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 124, riga 5.
27. Ibid., vol. I, p. 216, riga 12; SPK, p. 276.
28. D. BUCHMAN, The Niche of Lights, Brigham Young University Press, Provo 1998, p. 31.
29. IBN ‘ARABī, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 396, riga 2.
30. Ibid., vol. III, 398.16; SDG, p. 249.
31. Secondo certe tradizioni sufi cosí come Muḥammad rappresenta il sigillo della profezia,
Ibn ‘Arabī rappresenta il sigillo della santità muḥammadiana. Cfr. M. CHODKIEWICZ, Le
Sceau des saints: prophétie et sainteté dans la doctrine d’Ibn ‘Arabī, Gallimard, Paris 1986
[N. d. C.].
32. ṣADR AL-DĪN QŪNAWĪ , Mir’āt al-’ārifīn fī multamas Zayn al-’Ābidīn. Questo testo ha avuto
una traduzione e un’edizione critica piuttosto lacunosa: S. H. ASKARI, Reflection of the
Awakened, Zahra Trust, London 1983. Questo brano corrisponde alle pp. 25-27 della
traduzione di Askari. La mia traduzione segue un testo che ho stabilito vent’anni fa da venti
manoscritti in buono stato trovati nella biblioteca Süleymaniye di Istanbul. Anche in questo
brano il testo di Askari riporta alcuni errori significativi; tra questi egli omette la poesia di
Ibn ‘Arabī.
33. RŪMĪ , Kulliyyāt cit., v. 22 561; SPL, p. 78.
34. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 93, riga 19; SPK, p. 55.
35. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. III, vv. 3901-906; SPL, p. 79.
36. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. I, vv. 3052-54; SPL, p. 182.
37. QŪNAWĪ , Miftāḥ al-ghayb a margine di MUḥAMMAD IBN ḥAMZA AL-FANĀRĪ, Miftāḥ al-ins,
Teheran 1905-906, p. 296; cfr. W. C. CHITTICK, The Circle of Spiritual Ascent According to
al-Qūnawī, in Neoplatonism and Islamic Thought, a cura di P. Morewedge, Suny Press,
Albany 1992, pp. 179-209; in particolare le pp. 188 sg.
38. I’jāz al-bayān fī tafsīr al-Qur’ān, Osmania Oriental Publications Bureau, Hyderbad-Deccan
1949, p. 300; cfr. CHITTICK , The Circle of Spiritual Ascent According to al-Qūnawī cit.
39. RŪMĪ , Kulliyyāt cit., vv. 31 222-3.
40. ID. , Fīhi mā fīhi, a cura di B. Fūruzānfar, Amir Kabir, Teheran 1348/1969, p. 77; SPL, p.
212.
41. RŪMĪ , Kulliyyāt cit., v. 9778; SPL, p. 159.
42. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. IV, vv. 733-34, 36-37, 42; SPL, pp. 325-26.
43. NAJM AL-DĪN RĀZĪ, Mirṣād al-’ibad, a cura di M. A. Riyahi, Bungh-i Tarjama wa Nashr-i
Kutab, Teheran 1352/1973, pp. 364-65; cfr. ID ., The Path of God’s Bondsmen from Origin
to Return, tradotto da H. Algar, Delmar, Caravan 1982, pp. 354-55.
44. RŪZBIHĀN BAQLĪ, Mashrab al-arwāḥ, a cura di N. H. Hoca, Edebiyat Fakültesi Matbaasi,
Istanbul 1974, pp. 86-87.
45. RĀZĪ , Mirṣād al-’ibad cit., p. 365; cfr. ID ., The Path of God’s Bondsmen from Origin to
Return cit., p. 355.
46. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. III, vv. 96-98; SPL, p. 327.
47. ‘AṭṭĀR , Tadhkirt al-awliyā’ cit., p. 153.
48. RŪZBIHĀN BAQLĪ, Risālat al-quds, a cura di J. Nurbaksh, Khanaqa-i Nimatullahi, Teheran
1972, p. 50.
49. ID ., Ghalaṭāt al-sālikīn, stampato insieme a Risālat al-quds, p. 99.
50. JĀMĪ , Mathnawi-yi haft awrang, a cura di M. Mudarris-i Giliani, Sa’di, Teheran 1958, pp.
24-25.
51. RŪMĪ , Kulliyyāt cit., vv. 13 681-2.
52. Per la traduzione italiana FAR īD AD-D īN ‘AṭṭāR , Il verbo degli uccelli, a cura di C. Sacconi,
Studio Editoriale, Milano 1986 [N. d. C.].
53. ‘AṭṭĀR , Dīwān cit., p. 41.
54. RŪMĪ , Kulliyyāt cit., ghazal n. 1526.
55. Ibid., ghazal n. 515; SPL, pp. 332-33. «Tan-tan-i tan tan» è una forma onomatopeica per
indicare il battere dei tamburi. C’è un gioco di parole in quanto la parola usata per indicare
il «corpo» è tan.
56. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 384, riga 2.
57. Ibid., p. 384, riga 7.
58. Sul concetto di smarrimento, si veda SPK, passim, e in particolar modo SDG, pp. 79 sg.
59. IBN ‘ARABĪ, Fusūs al-ḥikam, a cura di A. ‘Afīfī, Dār al-Kutub al-’Arabī, Beirut 1946, pp. 199-
200.
60. ID. , Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 280, riga 27.
61. FAKHR AL-DĪN ‘IRĀQĪ, Lama’āt cit., pp. 105-6; cfr. CHITTICK e WILSON , Fakhruddin ‘Iraqi:
Divine Flashes cit., pp. 109-9.

Immagini di beatitudine

1. A. J. ARBERRY, Aspects of Islamic Civilazation, A. S. Barnes, New York 1964, pp. 227-55. Piú
recentemente Fritz Meier ha scritto un dettagliato studio storico del testo: F. MEIER, Bahā’-i
Walad: Gründzuge seines Lebens und seiner Mystik, Brill, Leiden 1989.
2. Per la traduzione francese cfr. RŪZBEHĀN BAQLĪ, Le Dévoilement des secrets: Journal
spirituel, a cura di P. Ballanfat, Seuil, Paris 1998 [N. d. C.].
3. RŪZBIHĀN BAQLĪ, The Unveiling of Secrets, Diary of a Sufi Master, tradotto da C. W. Ernst,
NC Parvadigar Press, Durham 1997.
4. BAHĀ’ WALAD, Ma’ārif, a cura di B. Furūzānfar, Majlis, Teheran 1333-1338/1954-59, vol. I, p.
91.
5. Ibid., p. 131.
6. Cfr. SPL, pp. 248 sg.
7. BAHĀ’ WALAD, Ma’ārif cit., vol. I, p. 33.
8. Ibid., pp. 31-32.
9. Nel linguaggio del sufismo il termine «gusto» (dhawq) rappresenta la capacità di
assaporare e sperimentare direttamente le realtà spirituali [N. d. C.].
10. Ibid., p. 34.
11. Angelo della morte [N. d. C.]
12. BAHĀ’ WALAD, Ma’ārif cit., cap. 98, vol. I, pp. 139-40.
13. Ibid., p. 130.
14. R. A. NICHOLSON, The Mathnawi of Jalálu’ddín Rúmí, 8 voll., Luzac, London 1925-40, vol. I,
v. 602.
15. BAHĀ’ WALAD, Ma’ārif cit., cap. 88, vol. I, p. 128.
16. Ibid., pp. 128-29.
17. Ibid., cap. 94, pp. 133-35.
18. Sul ḥadīth si veda SPK, p. 401, nota 19; SDG, pp. 155-63.
19. NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. VI, vv. 4010 sg; SPL, pp. 234-36.
20. BAHĀ’ WALAD, Ma’ārif cit., cap. 96, vol. I, p. 137.
21. I due termini che Bahā’ Walad impiega qui sono gli attributi divini khafd e raf’. Per l’uso
che fa Rūmī dei due stessi attributi per spiegare la natura dei movimenti cosmici, si veda
NICHOLSON , The Mathnawi cit., vol. VI, vv. 187 sg; SPL , p. 50.
22. BAHĀ’ WALAD, Ma’ārif cit., cap. 240, vol. I, pp. 381-82.
23. Si confronti l’utilizzo di Rūmī dello stesso «koan» nei due passaggi. SPL, p. 209.
24. BAHĀ’ WALAD, Ma’ārif cit., cap. 104, vol. I, pp. 147-48.

La caduta di Adamo

1. GIOVANNI PAOLO II, Varcare la soglia della speranza, Arnoldo Mondadori Editore, Milano
1994, p. 104.
2. AḥMAD SAM’ĀNĪ , Rawḥ al-arwāḥ fī sharḥ asmā’ al-malik al-fattāḥ, a cura di N. Māyil Harawī,
Shirkat-i Intishārāt-i ‘Ilmī wa Farhangī, Teheran 1368/1989.
3. Ibid., pp. XXVII-XXVIII .
4. D. GIMARET, Le noms Divins en Islam, Cerf, Paris 1988.
5. La tradizione islamica non è unanime su quale fosse il frutto proibito colto da Adamo.
Mentre alcuni lo individuano nella mela o nel fico, per altri ancora tale frutto sarebbe il
grano [N. d. C.].
6. AḥMAD SAM’ĀNĪ , Rawḥ al-arwāḥ fī sharḥ asmā’ al-malik al-fattāḥ cit., p. 262.
7. Ibid., p. 199.

Il paradosso del velo


1. ‘ABD AL-RAḥMĀN JĀMĪ , Lāw’aiḥ; S. MURATA, Chinese Gleams of Sufi Light, Suny Press, Albany
2000, p. 16.
2. R. A. NICHOLSON, Kitab Al-Luma Fi L-Tasawwuf, Brill, Leiden 1914, p. 352.
3. Per la traduzione italiana di alcune opere di al-Ghazālī si vedano L. VECCIA VAGLIERI e R.
RUBINACCI , Scritti scelti di al-Ghazālī, Utet, Torino 1970 e al-Ghazālī, La bilancia dell’azione
e altri scritti, a cura di M. Campanini, Utet, Torino 2008 [N. d. C.].
4. Per una traduzione italiana dell’opera cfr. KALĀBĀDHĪ , Il sufismo nelle parole degli antichi, a
cura di P. Urizzi, Officina di Studi Medievali, Palermo 2002 [N. d. C.].
5. ID ., At-Ta’arruf li-madhhab ahl at-taṣawwuf, a cura di A. Mahmud e T. A. Surur, Cairo
1960, p. 19. Quest’opera è stata tradotta in inglese: A. J. ARBERRY, The Doctrine of the
Sufis, Ashraf, Lahore 1966; questo brano è a p. 2 del suo testo.
6. ABU IBRĀḥĪM BUKHARĪ MUSTAMLĪ, Sharḥ-i ta’arruf, Nawal Kishore, Lucknow, vol. I, pp. 26-27.
7. HUJWIRĪ , Kashf al-Maḥjūb, a cura di V. Zukovsky, Amir Kabir, Teheran 1336/1957, p. 5. Il
libro fu tradotto da R. A. NICHOLSON, The Oldest Persian Treatise on Sufism, Luzac, London
1911.
8. Per il primo studio critico in lingua occidentale di questa opera si veda A. KEELER, Sufi
Hermeneutics: The Qur’an Commentary of Rashīd al-Dīn Maybudī, Oxford University Press -
Institut of Ismaili Studies, Oxford 2007 [N. d. C.].
9. MAYBUDĪ , Kashf al-asrār wa ‘uddat al-abrār, a cura di A. A. Hikmat, Danishgah, Teheran,
1331-39/1953-60, vol. VI, p. 440. Maybudī cita la poesia di SANA’Ī , Dīwān, a cura di
Mudarris Raḍawī, Ibn Sinā, Teheran, 1329/1950, p. 51.
10. ABŪ ḥĀMID AL-GHAZĀLĪ , Kimiyā-yi sa’adāt, a cura di H. Khadīw-jam, Jībī, Teheran
1354/1975, pp. 36-7. Per una dettagliata disamina del Ḥadīth dei veli da parte di Ghazālī si
veda D. BUCHMAN, The Niche of Lights, Brigham Young University Press, Provo 1998.
11. Per una loro breve disamina, si veda SPK, pp. 278-79; per maggiori dettagli cfr. SDG, pp.
112-20.
12. Per un’analisi dettagliata degli insegnamenti di Ibn ‘Arabī sui veli e sul volto divino, si veda
SDG, capp. III-IV .
13. P. NWYIA, Trois œuvres inédites de mystiques Musulmans, Dar al-Machreq, Beirut 1973, p.
306.
14. MUḥYĪ AL-DĪN IBN ‘ARABĪ , Al-Futūḥāt al-makkiya, ristampa, Dār Ṣādir, Beirut s. d., vol. II, p.
214, riga 25. Per il brano nel contesto, si veda SDG, pp. 110-11.
15. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. III, p. 276, riga 18; SDG, p. 156.
16. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. IV, p. 19, righe 5, 34; per maggiori approfondimenti, si
veda SPK, p. 231. Sul cosmo come immaginazione, si vedano ibid., in particolare i capp.
VII-VIII ; SDG, in particolare i capp. II e X e W. C. CHITTICK, Imaginal Worlds, Suny Press,
Albany 1994, in particolare i capp. I e IX .
17. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 554, righe 4, 21; si veda SDG, p. 109.
18. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. III, p. 249, riga 22; SPK, p. 179.
19. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. II, p. 553, riga 5; SPK, p. 176.
20. NWYIA , Trois oeuvres inédites de mystiques Musulmans cit., pp. 240-41.
21. ABD AL-JABBĀR AL-NIFFARĪ , Mawāqif, detto 18, righi 8-9, testo in A. J. ARBERRY (curatore e
traduttore), The Mawāqif and Mukhāṭabāt of Muḥammad ibn ‘Abdi ‘l-Jabbār al-Niffarī,
Cambridge University Press, Cambridge 1935. Tutti i successivi riferimenti ai Mawāqif e alle
Mukhāṭabāt sono tratte da questa edizione.
22. NIFFARĪ , Mukhāṭabāt cit., detto 47, riga 1.
23. ID ., Mawāqif cit., detto 14, riga 14.
24. ID. , Mukhāṭabāt cit., detto 16, righe 2-4.
25. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. III, p. 547, riga 8; SDG, p. 129.
26. NIFFARĪ , Mukhāṭabāt cit., detto 28, riga 9.
27. Ibid., detto 33, riga 3.
28. IBN ‘ARABĪ, Al-Futūḥāt cit., vol. IV, p. 407, riga 22; SDG, p. 129.
29. NIFFARĪ , Mawāqif cit., detto 31, righe 1-3.
30. Ibid., detto 55, riga 30.
31. ID ., Mukhāṭabāt cit., detto 14, riga 9.
32. NIFFARĪ , Mawāqif cit., detto 47, righe 1-2.
33. ḤĀFEZ , Dīwān, edito da M. Qazwīnī e Q. Ghanī, Zuwwār, Teheran 1320/1941, p. 352.
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italiana de La nicchia delle Luci (pp. 561-639); parte del
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Tottoli, Morcelliana, Brescia 2000.
Elenco degli aḥādīt e dei detti

Assumete i tratti distintivi…


Chiunque compia azioni empie…
Coloro che mi ricordano…
Colui che conosce se stesso…
Colui che tutto comprende porrà il Suoi piedi…
Dio creò Adamo a Sua immagine
Dio è bello…
Dio è, e nient’altro è con lui
Dio era, e nient’altro era con lui
Dio ha settanta veli…
Dio maledice coloro che alienano
Dio siede con coloro…
Egli modellò l’argilla di Adamo...
Ero un Tesoro Nascosto…
Gli uomini sono addormentati…
Iḥsān significa adorare Dio come se…
… il nome attraverso cui, se Dio viene chiamato…
Il peggiore degli uomini è colui che...
Il sufi è il figlio del momento
Il tuo peggiore nemico…
Il velo di Dio è luce
Io sono con coloro che hanno i cuori spezzati…
Io sono con il Mio servo…
Io sono il Libro parlante…
La carovana è sicura…
La fede è attestare…
La fede è una luce…
La misericordia di Dio ha la precedenza…
La povertà è oscurità…
La ricerca della conoscenza…
Lascia che la tua lingua sia inumidita…
L’ultima ora non arriverà…
Morite prima di morire
Mostraci le cose…
Non adorerei un Signore che non vedo
Quando amo il Mio servo, Io sono l’udito…
Questo mondo è la prigione…
Questo mondo è maledetto…
Se non fosse stato per te, non avrei creato…
Se voi non peccaste...
Un solo respiro di coloro che anelano…
Elenco dei nomi e dei termini

‘Abbās Qummī, Al-Haaj Sheikh


‘Abd al-Wahhāb Sha’rānī
Abū al-’Ala al-Afifi
Abū Alī al-Usayn ibn ‘Abd Allāh ibn Sīnā (Avicenna)
Abū Bakr Sirāj al-Dīn, pseudonimo di Lings, Marti
Abū Yazīd al-Biṣṭāmī
acqua e argilla
e olio
e terra
adāb
Adamo
caduta di
e gli angeli
e il grano
e i nomi
e Satana
Vedi anche esseri umani.
affermazione (ithbāt) e negazione (nafy)
Afghanista
agiografia
ahl al-nafas
aḥwāl
aḥzāb
Ā’isha
alast, Patto di
Albania
Alessandro III di Macedonia, detto Magno
Algar, Hamid
‘Alī ibn Abī Ṭālib
Allāh, come dhikr
come nome
altra vita
Vedi anche paradiso.
altro (ghayr) da Dio
Amato (Dio)
amore (ḥubb, ‘ishq)
di Dio
e conoscenza
per il Profeta
reciprocità
‘amr bī ‘l-ma’rūf
andisha
angeli
Vedi anche Adamo.
anima (nafs), coltivare la
inconoscibilità dell’
intermediazione dell’
purificazione dell’
svelamento dell’
Vedi anche corpo
animali
Ansarī, ‘Abd Allāh
antropologia
islamica
antropomorfismo
appetito (shahawa)
‘aql
arabo
Arberry, Arthur John
argilla (ṭīn, gil)
e spirito (cuore)
asbāb
ascetismo
ascolto (samā’)
asha’rita
Askari, Sayyid Hasan
asmā’
aspirazione (himma)
‘Aṭṭār, Farīd ad-Dīn
atti (af’āl) di Dio
attributi (ṣifāt)
Vedi anche nomi.
Avicenna, vedi Abū Alī al-Usayn ibn ‘Abd Allāh ibn Sīnā.
awrād
a’yan thabita
ayāt

Bahā’ Walad
Balaam
Ballanfat, Paul
bambini
Banani, Amin
baqā’
baraka
bay’at al-riḍwā
bellezza (jamāl ) del cosmo
di Dio
e maestà
bene, praticare il (iḥsān)
Beniamino
Berkey, Jonathan
Buchman, David
buono e malvagio
Burrell, David B.
Būshanjī, ‘Alī ibn Aḥmad

cabala
Calasso, Giovanna
cambiamento (trasformazione)
Vedi anche creazione.
capriccio (hawa)
carattere, tratti (khuluq)
cattolica, Chiesa
cerrahi, confraternita
Chittick, William C.
Chodkiewicz, Michel
Cina
collera (ghaḍab), vedi misericordia e collera.
Compassionevole (Raḥim)
confraternita (ṭarīqa)
conoscenza (‘ilm)
dei nomi
di Dio
di sé
due tipi di
infinita
Vedi anche amore.
consapevolezza
Corano
Corbin, Henry
Core
corpo
e anima (spirito)
cosmo (‘alam)
Vedi anche creazione.
creazione
obiettivo
rinnovamento
Vedi anche Tesoro Nascosto.
cristiani
misticismo cristiano
culto (‘ibāda)
cuore (qalb, dīl)
e argilla
maestro del
purezza del
ricordo nel

Daher, Nazih
Danner, Mary Ann Koury
danza
dervisci (darwīsh)
roteanti
dhikr (ricordo)
autorizzazione a praticare il
individuale
Dhū ’l-Nūn al-Miṣrī
digiunare
dimenticanza (nisiyan), vedi ghafla
dī.
Dio, non vi è dio all’infuori di
Vedi anche atti, Allāh, creazione, nomi, shahāda.
discepoli e maestro
discernimento
discorso, divino
di tutte le cose
umano
disposizione originale (fiṭra)
donna
dotti (‘ulamā’)
du’ā’

ebbrezza (sukr)
e sobrietà
ebrei
Ede
ego (nafs)
Vedi anche anima.
elemosina
Ernst, Carl W.
errore (zillat)
escatologia
esistenza (wujūd)
e non-esistenza
circolo dell’
Vedi anche Essere.
esoterismo
essenza (dhāt)
di Dio
Essere (wujūd)
del mondo (kawn)
unicità dell’
Vedi anche esistenza.
esseri umani (insān)
immagine divina (forma)
obiettivi degli
perfetti
potenziale degli
unicità degli
Vedi anche Adamo, disposizione, perfezione.
estasi (wajd)
estinzione (fanā’)
e permanenza
Eva

fachiro (faqīr)
fanā’, vedi estinzione.
faqr
Faraone
fede (īmān)
approcci alla
oggetti di
principî della
Vedi anche iḥsā.
felicità (sa’āda)
e infelicità
Fenice
filosofia (falsafa)
greca
Firdawsī, pseudonimo di Abu al-Qasem Mansur
fiṭra
fondamentalismo
forma (ṣūra) vedi esseri umani.
Foti, Sergio
fuoco vedi terra, paradiso.
Furūzānfar, Badī’ az-Zamān
fuqahā’

Gabriele
ḥadīth di
Gardet, Louis
gentilezza (lutf) e severità
Vedi anche misericordia.
Gesú
ghafla (dimenticanza)
Ghani, Qasim
al-Ghanī
al-Ghazālī, Abū Ḥāmid
al-Ghazālī, Aḥmad
Giacobbe
Giardino, vedi paradiso.
Gibb, Hamilton Alexander Rosskeen
Gilsenan, Michael
Gimaret, Daniel
Giovanni Paolo II, vedi Wojtyła, Karol Józef.
giurisprudenza (fiqh), giuristi (fuqahā’)
e sufismo
Giuseppe
glorificazione (tasbīḥ)
gnosi (ma’arifa)
Guénon, René Jean-Marie-Joseph
guida (huda)
gustare, gusto (dhawq), sapore

Ḥadīth
Hāfez-e Sīrāzī, Khwāja Samsu d-Dīn Muḥammad (detto anche Ḥāfeẓ)
al-Ḥallāj, al-Ḥusayn ibn Manṣūr
Hamadānī, Ayn al-Quḍāt
Ḥamza al-Fanārī, Muḥammad Ibn
ḥaqīqa
ḥaqq
Hikmat, Ali Asghar
ḥijāb
himma
Hoca, Nazif H
Hovannisian, Richard
Ḥudaybiyya
Ḥujwīrī
Huma’j, Jalal al-Din

Iblīs, vedi Satana.


Ibn ‘Abbās
Ibn al-Farīḍ
ibn al-waqt
Ibn ‘Arabī
citazioni
Ibn ‘Aṭā’ Allāh al-Iskandarī
idoli
ignoranza
Vedi anche dimenticanza.
iḥsā
e islām e īmā
‘ilm
īmān, vedi iḥsā.
immaginazione (khayāl)
Vedi anche ragione.
immagine, vedi esseri umani.
incomparabilità (tanzīh)
e somiglianza
induismo
inferno, vedi paradiso.
insā
kāmil
intelletto, intelligenza (‘aql)
Vedi anche ragione.
intimità (uns)
inviato (rasūl)
invisibile (ghayb)
invocazione
Vedi anche dhikr.
‘Irāqī, Fakhr al-Dīn
‘irfā
Islam, la parola
dimensioni dell’
diversità dell’
miscredenza
ortodossia
pilastri dell’
stereotipi
tre principî dell’
ism
al-ism al-a’ẓām
al-ism al-jāmi’
asmā’
Isti’lami, Muḥammad

Jāmī, ‘Abd al-Raḥmān


al-Jazā’irī, ‘Abd al-Qādir
Junayd ibn Muḥammad Abu al-Qasim al-Khazzaz al-Baghdadi

Kalābādhī, Abū Bakr


Kalām
e sufismo
Karbāsī, ‘Iffat
Kāshānī, ‘Izz al-Dīn
kashf
kaw
Keeler, Annabel
Khadiw-jam, H.
Khāliqī, Muḥammad Rida Barzgar
Khan, Hazrat Inayat
khayāl
Khidr
Khudā
Khwajawi, Muḥammad

Lāhaijī, Muḥammad Bin Yahya


lā ilāha illa Allāh
libro, cosmo (e anima)
Lings, Martin, vedi Abū Bakr Sirāj al-Dī.
lingua, linguaggio
luce (nūr)
di Dio
e i colori
e l’oscurità

maestà (jalāl), vedi bellezza.


maestro (shaykh)
mahw
majāz
Maḥmud, ‘Abdul Haleem
Malik, angelo
manifestazione di sé (tajalli), di Dio
manifesto e non-manifesto
maqamāt
ma’rifa
Marv
Mawlāwiyya, confraternita
Maybudī, Rashid ad-Dīn
Māyil Hirawī, Najib-i
Mecca
Meier, Fritz
Messia, vedi Gesú.
metafora (majāz)
microcosmo
mir’āj
miscredenza (kufr)
misericordia (raḥma)
e collera
Vedi anche nomi.
Misericordioso (Raḥmān)
Respiro del
misticismo
modernità
molteplicità, vedi unità.
mondi, due
Morewedge, Parviz
Mosè
Mudarris-i Giliani, Murtaza
Mudarris Radawi, Muḥammad Taqi
Muhaiyyaddeen, Guru Bawa
Muḥammad
come modello
e l’amore
Vedi anche Ḥadīth, sunna.
mumki
munāzala
Murata, Sachiko
musica
status ambiguo della
Mustamlī, Abū Ibrāḥīm Bukharī
mutakallimū
mu’taziliti

nafs
ammāra, lawwāma, muṭma’inna
nahī an al-munkar
Naqshbandiyya (confraternita)
Nasr, Sayyed Hossei
al-Nawawi, Cheikh Muhyi al-Din
necessità (niyāz)
Neẓāmī Ganjavī
Nicholson, Reynold Alleyne
al-Niffarī, ‘Abdi ‘l-Jabbār
Ni’matallahi (confraternita)
Noé
nomi, attributi di Dio
due categorie di
onnicomprensivo
piú bei
Vedi anche Adamo, realizzazione.
non-esistenza (adam), vedi esistenza.
Nurbakhsh, Javad
al-Nūrī, Al-Mathnawi
Nwyia, Paul

obbedienza (ṭā’a) e disobbedienza (ma’siya)


opposti, coincidenza degli
orientalismo
oriente e occidente delle cose
Ozak, Muzaffer

panteismo
paradiso
come velo
e Adamo
e l’inferno
paradosso
parola di Dio
Vedi anche discorso.
Pārsā, Khwāja Muḥammad
paura (dard)
Patto, vedi alast, Patto di.
peccato
originale
Vedi anche disobbedienza, errore.
Pegno (amāna)
pellegrinaggio (ḥajj)
pentimento (tawba)
Percy, Walker
perdono (maghfira)
perfezione (kamāl)
due tipi di
essere umano perfetto
permanenza (baqā’), vedi estinzione.
perplessità, vedi smarrimento.
persiano
persianizzato
Pir Vilayat Kha
Platone di Atene
poesia
e prosa
possibilità (imkān)
pratica (‘amal), vedi sufismo.
preghiera giornaliera (ṣalāt)
litanie
supplica
Vedi anche dhikr.
presenza (ḥuḍūr) di Dio
principî della fede
profezia (nubuwwa), profeti
il Profeta vedi Muḥammad.
purificazione
del cuore
dell’anima

Qazwini, Muḥammad
Qūnawī, Ṣadr al-Dīn
Qushayrī

Rābi’a al-’Adawiyya al-Qaysiyya (Rābi’a al-Baṣrī)


Radi, H.
ragione (‘aql)
e immaginazione
e svelamento
raḥma.
Vedi anche misericordia.
ramaḍā
Rāzī, Najm al-Dīn
realizzazione (taḥaqquq)
dei nomi.
realtà (ḥaqīqa)
Vedi anche sufismo.
religione (dīn)
respiro, respiri (nafas)
del Misericordioso
di Dio
gente dei
responsabilità
resurrezione
Giorno del Giudizio
ricordo, vedi dhikr.
Riḍwā
ritorno a Dio (ma’ad)
obbligatorio e volontario
rituali
rivelazione (waḥy)
rivendicare
Riyahi, Muḥammad Amin
Robson, James
Rubinacci, Roberto
Rūmī, Jalāl al-Dī
Fīhi mā fīhi
Kulliyāt
Mathnawi
Rustam
ru’ya
Rūzbihān Baqlī

Sabagh, George
Sacconi, Carlo
Sa’dī
ṣaḥw
ṣalāt
samā’
Sam’ānī, ‘Abd al-Karīm
Sam’ānī, Aḥmad
Sanā’ī, Ḥakīm
santo (walī)
al-Sarrāj, Abū Naṣr
Satana (Iblīs)
satanico
Scarabel, Angelo
Schimmel, Annemarie
Schuon, Frithjof, filosofo
scienza
sciismo
sé, vedi anima.
segni (ayāt)
e veli
Senegal
sensi percettivi (ḥiss)
sentiero (verso Dio)
stazioni del
Vedi anche viaggio.
separazione, vedi unione.
Serafiele, angelo
servo (‘abd), servitú (‘ubudiyya)
settarismo
severità (qahr)
Sgabello
Shabistarī, Sa’d Ud Din Mahmud
Shādhiliyya ‘Alawiyya, confraternita
shafi’ita
shahāda
come dhikr
come discernimento
Vedi anche Dio.
Shams al-Dīn Tabrīz
sharī’a
shaykh
ṣifāt
significato (ma’nà)
e forma
sii (kūn)
silsila
sincerità (ikhlāṣ)
Siria
sirr
smarrimento (hayra)
Smith, Margaret
Smith, Wilfred Cantwell
sobrietà (ṣaḥw), vedi ebbrezza.
sociale
istituzioni
sottomissione (islām)
Sovranità (malakūt)
speranza e paura
spirito (rūḥ)
divino
Vedi anche corpo, argilla.
spiritualità
stati (aḥwāl)
stazioni (maqamāt)
sufismo
ai giorni nostri
attrazione degli occidentali per il
definizioni
distorsioni
e Islam
il termine
istituzioni del
letteratura del
nome e realtà
obiettivi
ostilità verso il
specificità.
teoria e pratica del
teorie sul
Suhrawardī, Abu ‘l-Najīb
Suhrawardī, Shihāb al-Dīn ‘Umar
sukr
Sulamī
sunna
Vedi anche Muḥammad.
sunnismo
Surur, Tana ‘Abdul
svelamento (kashf), vedi ragione, anima.

ta’alluh
al-Tabrīzī, Muḥammad Ibn ‘Abd Allāh
tadhkīr
taḥaqquq
Tahiri Iraqi, Ahmad
tajallī
tajrīd
takhalluq
talqīn
tanzīh
taqlīd
taqwa
ṭarīqa
taṣawwuf
tashbīh
Tavola
tawḥīd
ta’wīl
tazkiyat
an-nafs
tecnologia
teologia
Vedi anche Kalām.
terra (di Adamo)
contrapposta a fuoco
Tesoro Nascosto
testimonianza (mushāhada)
timore (taqwā)
Tottoli, Roberto
tradizione cumulativa
trascendenza e immanenza
Trimingham, J. Spencer
Trono (di Dio, ‘arsh)
versetto del
Turchia
turco
Tustarī, Sahl ‘Abd Allāh

‘ulamā’
Vedi anche dotti.
umiltà
unicità
attestazione, affermazione dell’unicità di Dio (tawḥīd)
dell’Essere (waḥdat al-wujūd)
e molteplicità
unione (wišāl)
e separazione
unione sessuale
uomo
urì
Urizzi, Paolo
‘Uryabī, Abū ‘l-Abbās

Van Ess, Josef


Veccia Vaglieri, Laura
velo (ḥijāb)
conoscenza come
e segni
sé come
Ventura, Alberto
viaggio verso Dio
stazioni del
Vedi anche sentiero.
vicario (khalīfa)
vicinanza a Dio
e lontananza
virtú (fāņila)
visione (ru’ya) di Dio
delle cose come esse sono
volto (wajh)
di Dio
due
Vedi anche oriente.

waḥdat al-wujūd
wajd
wajh
Waugh, Earle H.
Wilson, Peter L.
Winter, Michael
Wojtyła, Karol Józef (Giovanni Paolo II), papa
Woodward, Mark R.
wujūd, vedi Essere, esistenza.

Yā Sīn, sūra
yoga
Yunus Emre

zen
zillāt, vedi errore.
Zukovsky, V. A.
Zulaykhā
Il libro

I
L SUFISMO, LA CORRENTE MISTICA DELLA RELIGIONE ISLAMICA, È CELEBRE PER LA SUA

associazione con la danza sufi, rituale praticato in molte confraternite e


famoso in Occidente grazie agli spettacoli dei «dervisci roteanti», e con gli
scritti del poeta e mistico sufi Jalal al-Din Rumi. Obiettivo principale di William
C. Chittick, tra i piú importanti studiosi della materia, è dare un contributo alla
corretta conoscenza del sufismo, troppo spesso assimilato a una generica
spiritualità di stampo New Age. Ricorrendo a numerose citazioni dai testi dei
maggiori autori sufi del periodo classico, l’autore fa «parlare la tradizione da
sé», poiché «ogni tentativo di comprendere il sufismo nel suo contesto richiede
di considerare le modalità attraverso cui esso si è espresso, e non
semplicemente le interpretazioni formulate secondo una prospettiva
contemporanea».
Il libro si caratterizza per la rigorosa impostazione scientifica e i numerosi
riferimenti a fonti arabe e persiane e intende offrire al lettore un’esposizione
chiara e attendibile delle origini di questo movimento religioso, dei suoi principî
basilari e dei suoi insegnamenti, nonché del suo ruolo nel mondo
contemporaneo. Facendo frequente riferimento alle opere dei massimi
esponenti della tradizione classica sufi, il volume si rivela uno strumento
indispensabile per chiunque si interessi al sufismo, dal pubblico piú generale
agli studenti e agli specialisti.
L’autore

WILLIAM C. CHITTICK insegna Scienze religiose alla Stony Brook University di


New York ed è uno dei massimi studiosi di sufismo a livello internazionale. È
autore o curatore di venticinque libri e centinaia di saggi sul pensiero islamico,
il sufismo e la letteratura persiana.
Titolo originale Sufism. A Beginner’s Guide
© 2000 William C. Chittick
All rights reserved
© 2009 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
In copertina: Aldo Mondino, Dervisci, olio su linoleum, 2003.
Collezione Matteo Maria Rondanelli, courtesy Archivio Mondino.
Progetto grafico di Fabrizio Farina.

Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato,
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utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente
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diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente
dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

www.einaudi.it

Ebook ISBN 9788858432808

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