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Letture:

+So 2,3 3,12-13


1Co 1,26-31
+Mt 5,1-12a

1. Chi sono i veri beati

"Tutti vogliono essere beati. Chi - però - è povero di spirito?" Nella festa di questa
vergine santa, che dette testimonianza a Cristo e la meritò da lui, uccisa pubblicamente e
coronata in segreto, ammaestriamo la Carità vostra con quella esortazione che il Signore
pronunciava nel suo Vangelo, annunziando molte cause della vita beata, che nessuno
dice di non volere. In verità, non esiste chi non voglia essere beato. Ma che gli uomini
non ricusino di sottostare alle condizioni richieste, così come desiderano ricevere la
pattuita mercede! Chi non correrebbe celermente, quando gli si dice: Sarai beato?
Ascolta volentieri, e quando vien detto: Se avrai fatto questo, non si ricusi l’impegno, se
si aspira al premio; e si accenda l’animo all’alacrità dell’opera con l’aiuto della
ricompensa. Ciò che vogliamo ciò che desideriamo, ciò che chiediamo, sarà dopo: ciò
che, al contrario, ci viene ordinato di fare, in vista di ciò che verrà dopo, sia ora. Ecco,
comincia a rimeditare i detti divini, ivi compresi i precetti e i pesi evangelici: "Beati i
poveri di spirito poiché di essi è il regno dei cieli" (Mt 5,3). Dopo, sarà tuo il regno dei
cieli; ora, sii povero di spirito . Vuoi che dopo sia tuo il regno dei cieli? Guarda di chi
sei tu ora. Sii povero di spirito. Chiedi forse di sapere che significa essere povero di
spirito? Chi è superbo non è povero di spirito: quindi l’umile è povero di spirito. Alto è
il regno dei cieli: "ma, chi si umilia sarà esaltato" (Lc 14,11).

"Chi è il mite?" Sta attento a qual che segue: "Beati", egli aggiunge, "i miti, perché
possederanno la terra" (Mt 5,5). Ora tu vuoi possedere la terra: bada, però, di non
essere posseduto dalla terra. Possederà il mite, sarà posseduto il non-mite. E, quando
ascolti del premio promesso e cioè che possederai la terra, non dilatare il grembo
dell’avarizia, con la quale vuoi possedere ora la terra, con esclusione persino del tuo
vicino: non ti inganni una tale opinione. Possederai la terra solo quando aderirai a colui
che ha fatto il cielo e la terra. Questo infatti significa essere mite: non resistere al tuo
Dio, affinché in ciò che fai di bene, ti piaccia egli e non te stesso; mentre in ciò che
giustamente soffri di male, non sia egli a dispiacerti, bensì te stesso. Infatti, non è
piccola cosa se cercherai di piacere a lui dispiacendoti; dispiaceresti a lui, per contro,
piacendo a te stesso.

"Coloro che piangono". Fa’ attenzione al terzo: "Beati coloro che piangono, perché
saranno consolati" (Mt 5,4). Nel lutto è l’impegno, nella consolazione la ricompensa.
Infatti, coloro che piangono carnalmente, quali consolazioni hanno? Temibili molestie.
Sarà consolato chi piange, se teme di non piangere ancora. Ad esempio, il figlio morto
contrista mentre dà gioia il nato: quello è tolto via, questo è accolto, in quello è tristezza
in questo timore: in nessuno quindi è consolazione. Dunque, vera consolazione sarà
quella che vien data e non può essere tolta; cosicché quelli che amano essere consolati
dopo, ora piangono da pellegrini.

"Gli affamati". Ed ecco il quarto, opera e servizio: "Beati coloro che hanno fame e
sete della giustizia, perché saranno saziati" (Mt 5,6). Tu vuoi essere saziato. Donde? Se
brami la sazietà di carne - una digerita sazietà -, tornerai ad aver fame. "E chi beve di
quest’acqua, tornerà ad avere sete" (Jn 4,13), egli dice. La medicina che si applica ad
una ferita, non fa più male, se è riuscita a risanarla; per contro, ciò che si applica alla
fame, quasi esca, si risolve a poco. Infatti, passata la sazietà, ritorna la fame. Arriva
perciò quotidianamente il rimedio di sazietà, ma non è risanata la ferita dell’infermità.
Abbiamo fame quindi, e saziamoci di giustizia, affinché dalla medesima giustizia
possiamo essere saziati, della quale ora abbiamo fame e sete. Saremo in effetti saziati di
quello di cui abbiamo fame e sete. Il nostro uomo interiore abbia fame e sete: egli ha in
effetti il suo cibo e la sua bevanda. "Io sono", spiega egli, "il pane che è disceso dal
cielo" (Jn 6,41). Ora che hai il pane dell’affamato, desidera anche la bevanda
dell’assetato: "Poiché presso di te è la fonte della vita" (Ps 35,10).

"I misericordiosi". Ora, attento al seguito che dice: "Beati i misericordiosi, poiché
di loro Dio avrà misericordia" (Mt 5,7). Fa’ e sarà fatto: fa’ con l’altro, perché sia fatto
a te. Infatti, tu abbondi e difetti: abbondi di cose temporali, difetti delle eterne. Ascolti il
mendicante e sei tu stesso mendico di Dio. Ti si chiede, e chiedi a tua volta. E come
avrai agito con il tuo richiedente, così Dio agirà con il suo. Sei pieno e vuoto ad un
tempo: riempi il vuoto della tua pienezza, affinché la tua vuotaggine sia riempita della
pienezza di Dio.

"I puri di cuore". Ascolta quel che segue: "Beati i puri di cuore, perché vedranno
Dio" (Mt 5,8). Questo è il fine del nostro amore, il fine per cui ci perfezioniamo, per cui
ci consumiamo. Si finisce il cibo, si finisce il vestito: il cibo, perché si consuma
mangiando; il vestito, perché si finisce [si porta a termine] tessendo. E di questo e di
quello si dice del pari che finisce: ma questa fine tende alla consumazione, quella alla
perfezione. Qualunque cosa facciamo, o facciamo bene, sosteniamo, lodevolmente ci
scaldiamo, incolpevolmente desideriamo, quando sarà pervenuto alla visione di Dio,
non lo ricercheremo più. Cosa cerca in effetti colui al quale si fa presente Dio? O cosa
potrà bastare a colui al quale non basta Dio? Noi vogliamo vedere Dio, chiediamo di
vedere Dio, ardiamo dal desiderio di vedere Dio. Chi mai non è d’accordo? Ma, osserva
quel che è detto: "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio". Questo prepara, affinché
tu veda. In effetti, per parlare secondo la carne, a che pro desideri il sorgere del sole con
occhi cisposi? Siano sani gli occhi, e quella luce sarà una gioia: non sono sani gli occhi,
quella luce risulterà un tormento. Non ti sarà permesso infatti di vedere con cuore non-
puro, poiché non si vede che con cuore puro. Sarai respinto, sarai allontanato, non
vedrai. "Beati", infatti, "i puri di cuore, perché vedranno Dio". Quanti beati ho già
enumerato? Quali cause di beatitudine, quali opere, quali doveri, quali meriti, quali
premi? Non è detto in alcun luogo. "Essi vedranno Dio. Beati i poveri di spirito, perché
di essi è il regno dei cieli. Beati i miti: possederanno la terra. Beati quelli che
piangono: saranno consolati. Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia:
saranno saziati. Beati i misericordiosi: troveranno misericordia". Da nessuna parte è
detto: Essi vedranno Dio. Arrivati però ai puri di cuore, ecco che qui si promette la
visione di Dio.

"In che senso la visione di Dio è promessa specificamente ai puri di cuore". Quindi,
non che tu debba intendere quei precetti e quei premi nel senso che ascoltando: "Beati i
puri di cuore, perché vedranno Dio", tu ritenga che i poveri di spirito non vedranno, o
non vedranno i miti, o coloro che piangono, o quelli che hanno fame e sete della
giustizia, oppure i misericordiosi. Non argomenterai che, visto che questi vedranno in
quanto puri di cuore, quelli siano separati dalla visione. Tutte queste cose sono infatti
comuni a tutti loro. Essi vedranno, però non vedranno specificamente per questo e cioè
perché poveri di spirito, perché miti, o perché piangono, hanno fame e sete della
giustizia, o perché sono misericordiosi: ma anche perché sono puri di cuore. Di modo
che, se determinate opere corporali si addicono a determinate membra del corpo, sì che
si può dire, ad esempio: Beati coloro che hanno i piedi, perché cammineranno; beati
coloro che hanno le mani, perché opereranno, beati coloro che hanno la voce, perché
grideranno; beati coloro che hanno bocca e lingua, perché parleranno; beati coloro che
hanno gli occhi, perché così potranno vedere? In tal modo, quasi componendo delle
membra spirituali, egli [Gesù] insegnò ciò che è pertinente ad uno in rapporto con
l’altro. Adatta è l’umiltà per avere il regno dei cieli; atta la mansuetudine per possedere
la terra; adatte fame e sete di giustizia per essere saziati; atta la misericordia per
implorare misericordia; adatto un cuore puro per vedere Dio.

Agostino, Sermo 53, 1-6.9

2. Le Beatitudini (Mt 5,1-12)

Sei salito a sederti sopra un alto monte


Come un tempo eri disceso sul Sinai;
Tra i nembi avevi esposto la Legge Antica,
Nel corpo tuo, o Verbo, hai insegnato la Nuova.

Hai aperto la tua divina bocca,


Hai beatificato gli uomini da bene;
In cambio delle Tavole dei Dieci Comandamenti
Hai dato le Nove Beatitudini della (Legge) Nuova.

Hai istallato una scala dalla terra al cielo


Con nove modi e gradini;
Per essa Tu hai fatto ascendere il genere umano;
Tu l’hai posta in mezzo ai nove Cori.

Ma io ho aderito talmente alla terra


A causa del peccato così grave da portare,
Che non ho salito neppure uno
Di tra i nove gradini.

Non mi son fatto povero di spirito riguardo al male,


Il che m’avrebbe fatto conquistare il Regno;
Epperò, resto sempre ricco di peccati,
E totalmente povero di bene.

L’anima mia non è entrata interiormente in lutto


Per pianger nelle lacrime la sua stessa morte,
Per esser consolato nell’altro mondo,
Grazie al nome gioioso del Verbo

Proprio al contrario, ho riso davanti alle cose vane di quaggiù,


E mi rallegro facendo torto alla (mia) anima,
Tra quei che son ripagati e con il «guai a voi»
E con il «pianto e lo stridor di denti».
E non è con dolci parole che con il mio simile
Ho conversato secondo il tuo comando,
Affinché con chi osserva la tua santa Legge
Della Terra Celeste fossi erede.

Non ho avuto fame del pane della Giustizia,


E per nulla è presente in me la sete del Verbo,
Alfine d’essere saziato dal tuo amore,
Dalla tua divina Bevanda.

Non ho usato misericordia al povero,


Figura per me della tua Speranza,
Per trovarti nel Gran Giorno del Giudizio
Misericordioso verso la misera mia anima.

Non ho lavato la lordura del male


Dal cuor mio e dal mio spirito impuri.
Perché di tua Vision divina
Io fossi degno, mentre rimango nel (mio) corpo.

Non sono stato artefice di pace tra me


E il mio avversario, né tantomeno verso lo straniero,
Per esser figlio del Padre tuo celeste
Come Te, imitando il tuo agire.

Sono stato perseguitato, ma sono scontento


Dei collaboratori del Perverso;
Se li (avessi sopportati) di buon grado,
Sarei erede del tuo celeste Regno.

Mi hanno oltraggiato con molte parole,


Con ripetuto biasimo mi hanno afflitto;
E ciò non a causa di Te, né che mentissero,
Ma semplicemente perché dicevano il vero.

Ora, in lacrime, ti supplico, Signore;


Abbraccio, Signore, i tuoi piedi;
Alleggeriscimi, io che sto in un corpo,
Del fardello sì grave dei peccati,

Per rendere possibile quaggiù alla mia anima


Di ascendere in spirito verso Te in cielo,
Seguendo le tue Parole come una scala,
(Salendo) almeno un gradino dopo l’altro.

Nerses Snorhali, Jesus, 351-366 (Lezionario "I Padri vivi" 44)


(1° novembre)

Già nel IV secolo, incontriamo in Oriente la commemorazione di tutti i martiri. In


Antiochia, essa veniva celebrata nella prima domenica dopo la Pentecoste, in Siria
orientale, il venerdì dopo la Pasqua; a Edessa, il 13 maggio. A Roma, troviamo le
tracce di queste celebrazioni, ma la solennità stessa assume importanza a partire dai
tempi di Bonifacio IV (+ 615). Col permesso dell’imperatore, il papa trasforma il
tempio pagano del Pantheon in chiesa dedicata alla Beatissima Vergine Maria e a tutti
i Martiri. La solenne consacrazione del tempio e il collocamento delle reliquie ebbero
luogo il 13 maggio 610. L’anniversario della consacrazione si celebrava ogni anno con
grande partecipazione dei fedeli e il papa stesso prendeva parte alla Messa della
stazione. Verso l’anno 800, la Commemorazione di Tutti i Santi viene celebrata in
Irlanda, in Baviera e in alcune Chiese della Gallia, però il giorno 1° novembre.
Durante il pontificato di Gregorio IV (828-844), il re Luigi IX estende la festa a tutto il
territorio del suo Stato. In questa maniera, la festa locale di Roma e di alcune altre
Chiese diventa una festa della Chiesa universale. Roma accoglie però, per i motivi che
non conosciamo, la data gallica delle celebrazioni, cioè il 1° novembre.

In questo giorno, la Chiesa venera tutti i santi, cioè i martiri e i confessori. Nei
primi secoli, si conosce il culto dei martiri, che hanno dato la loro vita per Cristo. Col
tempo, però, compare il culto dei confessori, coloro cioè la cui vita risultava una fedele
sequela delle parole di Cristo. Tra i confessori troviamo anzitutto i grandi vescovi, che
in modo particolare davano testimonianza della fede cristiana, l’insegnavano,
difendevano la sua purezza e la confermavano con l’esempio della loro vita. Si rendeva
culto agli asceti, alle vergini ed ai monaci, poiché essi davano testimonianza con una
vita eroicamente cristiana. La festa di un santo era originariamente festa della
comunità nella quale egli era vissuto, della Chiesa alla quale apparteneva. Col tempo,
il culto dei santi assume la portata universale. Attualmente, nel calendario di tutta la
Chiesa commemoriamo i santi, che hanno carattere universale, sono conosciuti in tutta
la Chiesa e indicano la sua universalità. Le Chiese particolari e le famiglie religiose
hanno i loro calendari particolari e così rendono culto ai santi che sono loro vicini in
modo speciale.

Celebrare la Solennità di Tutti i Santi vuol dire annunciare il mistero pasquale nei
santi, che soffrirono insieme con Cristo ed insieme con lui furono glorificati. La santità
cristiana consiste infatti nella imitazione e nella partecipazione a quell’unico amore
che aveva Cristo nell’offrire al Padre la sua vita per gli uomini. La santità cristiana
consiste nella vita paziente di ogni giorno nello spirito delle beatitudini; è nello stesso
tempo l’adempimento della perenne vocazione dell’uomo alla perfezione. La chiamata
alla santità riecheggiava nel Vecchio Testamento. Cristo dirà ai suoi: siate perfetti
come è perfetto il Padre vostro celeste (Mt 5,48). San Paolo ricorderà ai Tessalonicesi:
questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione (1Th 4,3).

Cambiano i tempi e le condizioni in cui vive la Chiesa, ma la chiamata alla santità


non viene meno. La santità si manifesta esteriormente in modi diversi, viene realizzata
dagli uomini secondo le doti della natura, i carismi, i tempi e le circostanze della vita. A
base però della santità sta un’unica cosa: l’amore. Il santo camminava per la vita
praticando il comandamento nuovo lasciato da Cristo. Oggi, la Chiesa contempla con
gli occhi di Giovanni apostolo «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare,
di ogni nazione, razza, popolo e lingua; tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti
all’Agnello» (Ap 7,9) ed esulta con grande gioia. Contempla la Città santa, la
Gerusalemme celeste dove un gran numero dei nostri fratelli glorifica già adesso il
nome del Signore. In questo giorno solenne, la Chiesa manifesta ai suoi figli ancora
pellegrinanti sulla terra il loro esempio di vita. Ai nostri fratelli, che sono già arrivati
alla patria celeste, la Chiesa chiede aiuto e sostegno per coloro che sono ancora in via.

Effondi, o Padre, la grazia del tuo Spirito sulla Chiesa,

che celebra il mistero pasquale nei santi

che hanno sofferto col Redentore e con lui sono stati glorificati,

perché tutti i tuoi figli raggiungano la salvezza,

e tu sia lodato in eterno.

Messale Ambrosiano, Milano 1976: Tutti i Santi, Orazione inizio assembl. lit.

1. L’amore dovuto ai santi

Bisogna rendere il dovuto onore ai santi, come amici di Cristo, come figli ed eredi
di Dio, secondo le parole di Giovanni teologo ed evangelista: A quanti però l’hanno
accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio (Jn 1,12). Quindi non sono più schiavi,
ma figli; e se figli, sono anche eredi (Ga 4,7). Eredi di Dio, coeredi di Cristo (Rm 8,17).
Anche il Signore nei santi Vangeli dice agli apostoli: Voi siete miei amici (Jn 15,14). E:
Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone (Jn 15). Per
questo se egli è chiamato Re dei re Signore dei signori, Dio degli dèi, Creatore e
Signore supremo di tutte le cose, ne consegue inevitabilmente che anche i santi sono
dèi, signori e re. Il loro Dio è il Dio che è ed è chiamato Signore e Re. Io infatti, disse a
Mosè, sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe (Ex 3,6). Che forse
Mosè da Dio non fu reso come un dio per il faraone? Inoltre li chiamo dèi, re e signori,
non per natura, ma per il fatto che comandando alle proprie passioni e dominandole,
conservarono immutata la somiglianza all’immagine divina, secondo la quale erano stati
creati (infatti si chiama anche re l’immagine che lo rappresenta), come anche perché per
libera volontà si sono uniti a Dio, e ospitandolo nel loro cuore, sono divenuti per mezzo
della grazia ciò che egli è per sua natura. Che cosa dunque ci spinge ad onorare coloro
che sono servi, amici e figli di Dio? In verità l’onore che si rende ai servi migliori è
prova di un animo affezionato al comune signore.

Essi sono divenuti le dimore pronte e pulite di Dio, poiché dice il Signore: Abiterò
in mezzo a loro e con loro camminerò e sarò il loro Dio (Lv 26,12). Ed ancora leggiamo
nella Sacra Scrittura: Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, e la morte non le
toccherà (Sg 3,1). Infatti la morte dei santi è sonno più che morte. Faticarono in questo
mondo e vivranno in eterno (Ps 18,9-10). E: Preziosa agli occhi del Signore è la morte
dei suoi santi (Ps 115,15). C’è forse una cosa più preziosa dell’essere nelle mani di
Dio? Dio infatti è la vita e la luce. E quindi coloro che sono nelle mani di Dio sono
anche nella vita e nella luce.
Che poi anche con lo Spirito Dio abbia abitato nei loro corpi lo afferma l’Apostolo:
Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge
il tempio di Dio, Dio distruggerà lui (1Co 3,16-17). Perché allora non bisognerebbe
rendere onore ai templi animati di Dio e ai suoi tabernacoli viventi? Questi finché
vissero furono con fiducia presso Dio...

I santi non sono da annoverare tra i morti. Essi sono i patroni di tutto il genere
umano. Secondo la legge chiunque toccava un morto era ritenuto immondo. Ma i santi
non si devono considerare nel numero dei morti. Da quando infatti colui che è la vita
stessa è stato considerato tra i morti anche l’artefice della vita, in nessun modo
chiamiamo morti coloro che si addormentarono con la speranza della resurrezione e con
la fede in lui. Come potrebbe infatti un morto operare miracoli? Come mai dunque per
opera loro i demoni vengono scacciati, le malattie debellate, i malati guariti, i ciechi
recuperano la vista, i lebbrosi sono mondati, le tentazioni e le afflizioni disperse, ogni
dono perfetto per mezzo loro discende dal Padre della luce a coloro che chiedono con
ferma fede? Che cosa non faresti per trovare un protettore che ti presentasse ad un re di
questo mondo ed intercedesse per te presso di lui? Perciò, non dobbiamo forse onorare
quelli che sono i patroni di tutto il genere umano e che supplicano Dio per noi?
Senz’altro bisogna onorarli, ed in verità in modo da erigere in loro onore templi a Dio,
fare offerte, venerarne la memoria e trovare in essa il diletto spirituale: in ogni caso
quella letizia di cui si compiacciono essi che ci invitano, mentre cerchiamo di
propiziarceli, a non offenderli piuttosto, né a muoverli a sdegno. Infatti Dio si onora con
ciò di cui anche i suoi servi si dilettano. E con le stesse cose con cui si offende Dio, si
offendono anche i [suoi] soldati. Per questo con i salmi, gli inni, i cantici spirituali,
anche con la contrizione, con la pietà verso i poveri, con cui si onora soprattutto Dio,
noi, che siamo fedeli, dobbiamo venerare i santi. Innalziamo a loro statue e simulacri
che siano in vista: anzi, imitando le loro virtù, cerchiamo di diventare i loto simulacri e
le loro immagini viventi. Onoriamo la Deipara come vera Madre di Dio; il profeta
Giovanni, come precursore e battista, apostolo e martire, poiché il Signore disse: tra i
nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista (Mt 11,11): in verità
egli fu il primo ad annunziare il Regno. Onoriamo anche gli Apostoli, come fratelli del
Signore, che lo videro con i loro occhi e lo sostennero nelle sue sofferenze, poiché
quelli che egli [il Padre] da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere
conformi all’immagine del Figlio suo (Rm 8,29); alcuni... li ha posti nella Chiesa in
primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come pastori
e maestri (1Co 12,28). Onoriamo anche i martiri scelti da ogni categoria di persone,
come soldati di Cristo, che bevvero il suo stesso calice e che furono battezzati col
battesimo della sua morte vivifica, come compagni della sua passione e gloria (di cui fu
l’antesignano l’apostolo e protomartire Stefano); così pure onoriamo i nostri santi padri
e i monaci ispirati da Dio, che sopportarono il martirio della coscienza, più lungo e più
penoso; che andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati,
maltrattati, vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra - di
loro il mondo non era degno! (He 11,37-38). Infine onoriamo coloro che vissero prima
del tempo della Grazia, i profeti, i patriarchi, i giusti che preannunziarono la venuta di
Cristo. Considerando il modo di vivere di tutti questi, imitiamone la fede, la carità, la
speranza, il fervore, la vita la tolleranza delle sofferenze, la pazienza fino al martirio,
per diventare noi stessi compagni e partecipi della medesima gloria.

Giovanni Damasceno, De fide orthod., 4, 15


2. Il «Discorso della montagna»

E, prendendo la parola, così li [i discepoli] ammaestrava (Mt 2,5).

Se si vuole sapere il significato [del nome] monte, si comprende bene che esso vuol
dire i precetti più importanti sulla giustizia, per il fatto che i più secondari erano già stati
dati ai Giudei.

Tuttavia, l’unico Dio, attraverso i santi profeti e i suoi servitori, distribuì, secondo i
tempi, in modo ordinato, i comandamenti meno importanti al suo popolo che aveva
bisogno ancora del timore per tenerselo unito, e per mezzo del suo Figlio dare al popolo
quelli più grandi che era conveniente che fosse liberato dall’amore.

Poiché, d’altra parte, s’impartiscono ai piccoli i precetti di minore gravità, ed ai più


grandi quelli di maggiore importanza, questi sono dati solo da Colui che ritiene
conveniente per i propri tempi offrire un rimedio al genere umano.

Né deve suscitare sorpresa il fatto che si diano precetti maggiori per il regno dei
cieli, e i minori siano dati per il regno temporale da quel medesimo unico Dio, che creò
il cielo e la terra.

Su questa giustizia, quindi, che è maggiore, è detto per mezzo del profeta: La tua
giustizia è simile ai monti di Dio (Ps 35,7); e questo significa bene quello che viene
insegnato sul monte dall’unico Maestro, solo capace di insegnarci così grandi verità.

Ma mentre sta seduto, egli insegna, poiché ciò si addice alla dignità del maestro.

E gli si avvicinano i suoi discepoli, affinché con l’ascoltare le sue parole, fossero
più vicini, anche fisicamente, coloro che si disponevano con l’animo ad adempiere i
precetti.

Prendendo la parola, li ammaestrava, dicendo (Mt 2,5).

Questo modo di dire, chiamato: prendendo la parola (aprendo la sua bocca), forse
nello stesso tempo fa valere che il suo discorso sarà piuttosto lungo, almeno che non si
applichi ora poiché fu detto che aveva aperto la bocca Colui che soleva aprire
nell’antica legge le bocche dei profeti. Che cosa, dunque, dice? Beati i poveri di spirito,
perché ad essi appartiene il regno dei Cieli (Mt 2,5).

Leggiamo che è stato scritto sul desiderio dei beni temporali: Tutte le cose sono
vanità e presunzione dello spirito (Si 1,14); d’altra parte e a presunzione dello spirito sta
ad indicare l’audacia e la superbia. Generalmente si dice che anche i superbi abbiano
grandi menti, e questo, [è detto] rettamente, dal momento che anche il vento è chiamato
spirito, per cui fu scritto: Fuoco, grandine, neve, ghiaccio, sono aria di burrasca (Ps
148,8).

Ma chi potrebbe ignorare che i superbi arroganti sono chiamati come gonfiati dal
vento?
Di qui anche quel detto dell’Apostolo: La scienza si vanta, la carità edifica (1Co
8,1).

Perciò, giustamente qui sono compresi per poveri di spirito, gli umili e i timorosi di
Dio, cioè quelli che non hanno lo spirito vanitoso.

Né d’altronde fu affatto conveniente iniziare con la beatitudine [il discorso] giacché


essa farà giungere alla più alta sapienza.

Il timore del Signore, al contrario, è l’inizio della sapienza, e, per contrario, è


scritto, l’inizio di ogni peccato è la superbia (Si 1,9).

I superbi, quindi, desiderino ed amino i regni della terra.

Beati, invece, i poveri in spirito, poiché ad essi appartiene il regno dei Cieli (Mt
5,3).

Beati i miti perché avranno la terra in eredità (Mt 5,4), quella terra, credo, di cui si
dice nei salmi: Tu sei la mia speranza, la parte di eredità nella terra dei viventi (Ps
141,6). Ha anche, infatti, il significato di una certa saldezza e stabilità, dell’eterna
eredità, dove l’anima a causa di un buon sentimento riposa come nella sua patria, come
il corpo sulla terra, ed ivi si nutre del cibo, adatto per lei come il corpo sulla terra.

Essa stessa è il riposo e la vita dei santi.

I miti, d’altra parte, sono coloro che cedono davanti alle iniquità e non sanno
resistere al male, ma prevalgono sul male col bene.

Siano, pure, rissosi e lottino i violenti per i beni terreni e temporali, ma: Beati sono
i miti perché avranno in eredità la terra dalla quale non possono essere cacciati.

Beati quelli che sono afflitti, perché saranno consolati (Mt 5,5)

Il lutto è la tristezza per la scomparsa dei propri cari.

Al contrario, indirizzati verso Dio perdono quelle cose che da loro venivano
preferite come care in questo mondo; infatti, non si rallegrano di queste cose di cui
prima gioivano, e finché in essi c’è l’attaccamento dei beni eterni, sono afflitti da non
poca tristezza.

Saranno consolati, quindi, dallo Spirito Santo, che, per eccellenza, è chiamato
appunto il Paraclito, cioè il Consolatore, affinché, mentre perdono la gioia temporale,
gioiscano del gaudio eterno.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati (Mt 5,6).

Già chiama questi affamati ed assetati, le vere ed autentiche persone probe. Essi
saranno, dunque, saziati di quel cibo del quale lo stesso Signore dice: Il mio cibo
consiste nel fare la volontà del mio Padre (Jn 4,34), poiché è la giustizia, e quella stessa
acqua della quale chiunque berrà, come egli stesso dice, sorgerà in lui una fonte di
acqua zampillante per la vita eterna (Jn 4,14).

Beati i misericordiosi perché riceveranno misericordia (Mt 5,7).

Dice che sono beati quelli che soccorrono i bisognosi, poiché saranno talmente
compensati, da essere liberati dalla loro necessità.

Beati quelli che hanno il cuore puro, perché vedranno Dio (Mt 5,8).

Quanto sono stolti, dunque, coloro che cercano Dio con questi occhi di carne,
mentre vedono col cuore, come altrove è stato scritto: Con cuore semplice cercatelo!
(Sg 1,1).

Il cuore puro, infatti, è il cuore semplice. E allo stesso modo questa luce non si può
vedere se non con occhi puri, così non si può vedere Dio, se non è limpido ciò col quale
si può vedere.

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio (Mt 5,9).

Nella pace è la perfezione, dove nessuna cosa ripugna; e, pertanto, i figli di Dio
sono operatori di pace, poiché niente resiste a Dio, e, senza dubbio, debbono avere la
rassomiglianza col Padre.

Operatori di pace, d’altra parte, sono in se stessi, tutti quelli che equilibrano i
movimenti del proprio animo e lo sottomettono alla ragione, vale a dire all’intelligenza
ed all’anima, e sottomettendo e domando i cattivi desideri della carne, diventano il
regno di Dio, nel quale sono talmente ordinate tutte le cose, che ciò che vi è nell’uomo
di importante e nobile, venga sottomesso alle rimanenti cose opposte che sono in noi e
ci accomunano agli animali, e ciò che è più nobile nell’uomo, cioè l’intelligenza e la
ragione, siano sottomesse alla parte migliore, cioè alla stessa verità, l’unigenito Figlio di
Dio.

Né, infatti, si può comandare alle cose inferiori se non si sottomette, egli stesso, alle
cose superiori.

E questa è la pace che è concessa in terra agli uomini di buona volontà, questa è la
vita del sapiente costante che ha raggiunto la perfezione.

Da questo particolare regno, molto tranquillo ed ordinato, fu espulso il principe di


questo mondo, che ha il dominio sugli uomini perversi e smodati.

Internamente con questa pace costituita e salda, qualsiasi persecuzione scatenerà dal
di fuori colui che ne fu espulso, aumenterà la gloria che è secondo Dio, non turbando
alcunché in quell’edificio, ma con le sue arti, a quelli che ne son privi, quanta saldezza
nell’interno sia stata edificata.

Per questo segue: Beati quelli che soffrono persecuzioni a causa della giustizia,
perché proprio ad essi, appartiene il Regno dei Cieli (Mt 5,10).
Esistono d’altronde queste otto beatitudini.

Per la qual cosa a questo loro numero occorre fare attenzione.

Ha inizio, in effetti, la beatitudine dell’umiltà: Beati i poveri in spirito... (Mt 5,4),


vale a dire i non superbi, mentre la [loro] anima si sottomette alla divina volontà, nel
timore che dopo questa vita non si diriga verso le pene anche nel caso che in questa vita
[l’anima] forse possa sembrare beata.

Quindi giunge alla conoscenza delle divine Scritture, nella quale è necessario che
essa si mostri mite per il suo sentimento religioso, affinché non osi biasimare ciò che
agli inesperti sembra contraddittorio e si renda indocile con le ostinate discussioni.

Quindi già comincia a sapere, con quali legami di questo secolo venga trattenuto
attraverso l’abitudine dei sensi e i peccati.

Pertanto, in questo terzo grado nel quale risiede la scienza, viene rimpianta la
perdita del sommo bene, poiché è attaccato alle cose ultime.

Nel quarto grado, poi, vi è la fatica, dove violentemente si cade, affinché l’animo si
sradichi attaccato [com’è] da quelle cose con una deleteria dolcezza.

Qui, dunque, ha fame e sete la giustizia, e la fortezza, estremamente necessaria, per


il fatto che non si lascia senza dolore ciò che col piacere viene attratto.

Col quinto grado, inoltre, viene offerto a quelli che perseverano nella fatica, il
consiglio di evadere, poiché se ognuno non viene aiutato dall’Essere superiore, in
nessuna maniera può essere adatto a liberarsi da impedimenti così grandi dalle miserie.

È, invero, un giusto consiglio, che colui che vuole essere aiutato da uno più forte,
aiuti il più debole, col quale egli stesso è più potente.

Perciò: Beati quelli che usano misericordia, poiché essi riceveranno la stessa
misericordia (Mt 5,7).

Col sesto grado è richiesta la purezza di cuore, avvalendosi della retta coscienza
delle buone opere, per contemplare quel sommo bene, il quale può essere visto col puro
e sereno intelletto.

Per ultimo c’è la stessa settima sapienza, cioè la contemplazione della verità
rendendo operatore di pace l’intero uomo e ricevendo la somiglianza di Dio, che, così si
esprime: Beati gli operatori di pace, poiché saranno chiamati figli di Dio (Mt 5,9).

L’ottava [beatitudine], per così dire, ritorna alla prima, perché mostra il bene
perfetto e raffinato e lo approva.

Per questo nella prima e nell’ottava è nominato il Regno dei Cieli: Beati i poveri in
spirito, perché ad essi appartiene il Regno dei Cieli e: Beati quelli che soffrono
persecuzione a causa della giustizia, poiché di essi è il Regno dei Cieli (Mt 5,3- Mt
5,10). Quando già si dice: Chi ci separerà dall’amor di Cristo? forse la sofferenza,
oppure l’angoscia, o la persecuzione, o la fame o la nudità, o il pericolo o la spada?
(Rm 8,35).

Sette sono, dunque, quelle che rendono perfetti; l’ottava, in effetti, rende esplicito e
rivela ciò che è perfetto.

Agostino, De sermone Christi in monte, 1, 2-10

3. Le relazioni tra Cristo e i santi

Crediamo poi anche che tutti, non solo gli apostoli, i martiri, ma anche tutti i santi e
servitori di Dio, abbiano in sé non solo lo Spirito di Dio, secondo quanto è detto (nella
Scrittura): Voi siete tempio del Dio vivente; come Dio disse, poiché io abiterò in essi
(2Co 6,16). E di nuovo: Non sapete che voi siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio
abita in voi? (1Co 3,16). E per questo tutti sono Teotochi [o figli di Dio]...

Ma lungi da noi tale empietà di respingere e aborrire l’errore, che il Creatore si


paragoni alla sua creatura, il Signore ai suoi servitori, Dio alla fragilità umana, Egli che
è il Signore delle potenze terrestri e celesti; e questa offesa possa essergli arrecata dai
suoi stessi benefici, affinché Colui che ha reso l’uomo degno della sua dimora, lo stesso
si dica, per questa ragione, ciò che l’uomo è...

Anzi, questo intercorre tra Lui e tutti i santi, [cioè] tra la dimora e colui che vi abita,
poiché senza dubbio non appartiene alla dimora che essa sia abitata, ma è proprio di chi
vi dimora, alla cui volontà appartiene e la costruzione della dimora e il suo uso; cioè, o
quando egli voglia fare la sua stessa dimora oppure quando l’abbia fatta, si degni di
abitarvi...

Dunque, tutti i patriarchi, o profeti, o apostoli, o martiri, o perfino tutti i santi,


ebbero, in effetti, Dio in sé, e tutti divennero figli di Dio, e tutti furono Teotochi (cioè
figli di Dio); ma, senza dubbio, in modo diverso e molto dissimile.

Infatti, tutti quelli che credono in Dio, sono figli di Dio per adozione, ma solo
l’Unigenito Figlio per natura; colui che è generato dal Padre non da qualche materia,
perché ogni cosa ed ogni elemento delle cose sussistono per l’Unigenito Figlio di Dio;
non dal nulla, poiché (è generato) dal Padre; non come se fosse stato quasi generato,
poiché niente in Dio vi è di vuoto e di mutabile; ma, in un modo inesprimibile ed
inestimabile. Dio Padre, generò il suo Figlio Unigenito, con elementi che non erano stati
mai generati; e così dal sommo ed eterno Padre, mai generato, è generato il sommo ed
eterno Unigenito Figlio, lo stesso che dovrà aversi nella carne e che si ha nello spirito,
l’identico che si dovrà credere nella maestà «poiché nascerà nella carne» [Lips, in
marg., lo stesso che deve credersi nel corpo è colui che è creduto nella maestà, poiché
nascerà nella carne].

Non operò alcuna divisione o separazione di se stesso, affinché non nascendo da


parte alcuna, qualche parte di se stesso nascesse; oppure, in seguito, qualcosa di divino
comparisse in lui, non fosse nato da Maria Vergine.
Infatti, secondo l’Apostolo, in Cristo abita corporalmente ogni pienezza della
divinità (Col 2,9)...

Vale l’umana debolezza, (pertanto) si umilino davanti a Dio, si sottomettano a Dio,


si rendano dimora di Dio, e meritino di avere, con la fede e con la pietà, come ospite ed
abitatore lo stesso Dio.

Poiché come colui che per dono di Dio, si rese idoneo, così è rimunerato dalla
divina grazia.

E se qualcuno si reputa degno di Dio, gode della venuta di Dio, secondo quella
promessa del Signore:

Se qualcuno mi ama, osserverà la mia Parola; ed io e il Padre mio verremo presso


di lui, e stabiliremo la nostra dimora presso di lui (Jn 14,23).

Sia lontana l’altra cosa riguardante il Cristo, e il motivo è che in lui abita ogni
pienezza della divinità fisicamente e chi ha in sé tale pienezza della divinità, della sua
pienezza elargisce a tutti tutte le cose; colui che con la pienezza della divinità che abita
in sé, abita in persona in ogni singolo santo, come se li reputasse degni di abitare nella
propria dimora, e così a tutti attribuì le proprie cose dalla pienezza affinché egli stesso
perseverasse ancora sulla sua pienezza; colui che senza dubbio era rimasto in terra col
suo corpo, era tuttavia nelle anime di tutti i santi, e riempiva con l’infinità della sua
potenza e maestà i cieli, le terre, i mari, e tutto l’universo; e così egli era tutto in se
stesso, talmente che tutto l’universo non lo contenesse.

Poiché, per quanto grandi ed ineffabili siano le cose da lui create, tuttavia nessuna è
così capace ed immensa che possa contenere lo stesso Creatore.

Cassiano Giovanni, De incarnat. Christi, 5, 3-4

4. Itinerario di virtù necessarie agli incipienti

La prima virtù degli incipienti è, in verità, la rinuncia al mondo, che ci rende poveri
di spirito; la seconda, la mansuetudine, per la quale ci sottomettiamo all’obbedienza e ci
abituiamo ad essa; poi, la contrizione, per la quale si piangono i peccati e si implorano
le virtù. A questo punto, cominciamo di certo a gustare la giustizia, il che accresce la
nostra fame e sete di quest’ultima, tanto per noi che per gli altri, e ci sentiamo presi
dallo zelo per i peccatori. Ma, affinché uno zelo smodato non degeneri in vizio, subentra
la misericordia a temperarlo. Quando dunque, con attività ed esercizi di questo genere,
si sarà imparato ad essere giusti e misericordiosi, si sarà forse in grado di attendere alla
contemplazione e di lavorare alla purificazione del cuore, che permette di vedere Dio.
Così esercitati e provati nell’azione e nella contemplazione; dopo aver ricevuto il nome
e la funzione di figli di Dio; divenuti ormai padri e servi degli altri, e quasi loro
mediatori e intermediari, si sarà finalmente diventati degni di mettere la pace tra essi e
Dio (Dt 5,5), la pace tra di loro, o anche la pace tra essi e quelli di fuori. Si realizzerà
così ciò che è scritto nell’elogio dei santi padri: Facevano regnare la pace nella loro
casa (Si 44,6). Colui che sarà stato fedele e perseverante nel compimento di questa
mansione otterrà spesso la virtù e il merito del martirio, soffrendo persecuzione per la
giustizia (Mt 5,3-10), talvolta anche da parte di coloro per i quali avrà combattuto, sì da
poter dire: I figli di mia madre hanno combattuto contro di me (Ct 1,5), e: Ero pacifico
verso coloro che odiavano la pace; mentre io parlavo loro, essi mi attaccavano senza
motivo (Ps 119,7).

Guerric d’Igny, Sermo de Omn. Sanct., 1, 2

5. Il peso dell’umanità e la grazia di Dio

I santi si sentono ogni giorno decadere, sotto il peso di terreni pensieri, dalle altezze
della contemplazione; contro la loro volontà, anzi senza saperlo, sono assoggettati alla
legge del peccato e della morte, e sono distratti dalla presenza di Dio da opere terrene,
per quanto buone e giuste. Hanno dunque delle buone ragioni per gemere
continuamente presso il Signore, hanno ben motivo per cui veramente umiliati e
compunti non solo a parole, ma di cuore, si dichiarino peccatori, chiedano sempre
perdono per tutte le debolezze in cui, battuti dalla debolezza della carne, incorrono ogni
giorno, e versano vere lagrime di penitenza, poiché vedono che fino alla fine della loro
vita essi saranno tormentati dalle pene che li affliggono e che neanche possono offrire le
loro suppliche senza il fastidio delle immaginazioni.

Resisi conto, quindi, ch’essi non riescono, per il peso della carne, a raggiungere con
le forze umane la meta desiderata e che non riescono a congiungersi, come desiderano,
al sommo bene, ma che invece sono travolti, come prigionieri, verso le cose mondane,
ricorrono alla grazia di Dio il quale fa giusti i malvagi (Rm 4,5) e gridano con
l’Apostolo: Oh, me infelice! chi mi libererà da questo corpo di morte? La grazia di Dio
per mezzo del signor nostro Gesù Cristo (Rm 7,24-25). Sentono che non possono
portare a termine il bene che vogliono e che invece ricadono sempre nel male che non
vogliono e odiano, cioè le immaginazioni e preoccupazioni delle cose terrene.

Cassiano Giovanni, Collationes, 18, 10

6. I santi si sforzano di liberarsi dai ceppi della corporeità

Nessuno è in grado, prima della morte, di lodare Dio perfettamente, come nessuno
può venir detto in questa vita certamente beato, perché il suo futuro è incerto. La morte
è dunque la separazione dell’anima dal corpo, e sappiamo che l’Apostolo preferiva
separarsi dal corpo ed essere con Cristo, e certo questo è meglio assai (Ph 1,23). Questa
separazione, poi, cosa produce, se non che il corpo si scioglie e riposa, mentre l’anima
entra nella sua pace, è libera, e, se devota, sta per sempre con Cristo? E che altro fanno
dunque i giusti in questa vita, se non liberarsi dalle macchie di questo corpo che ci
inceppano come vincoli, se non tentare di liberarsi dalle sue molestie, rinunciando alle
sue voluttà e alla sua lussuria, fuggendo le fiamme dei piaceri? Chi agisce così, traccia
in questa vita l’immagine della morte, se riesce ad agire in modo che muoiano in lui
tutti i piaceri del corpo ed egli stesso muoia a tutte le cupidigie e a tutte le lusinghe
mondane, come lo era Paolo quando diceva: Il mondo per me è crocifisso, ed io per il
mondo (Ga 6,14). E per ammaestrarci che in questa vita vi è la morte, anzi la buona
morte, ci esorta a portare attorno sempre nel corpo i patimenti di Gesù, affinché la vita
di Gesù si manifesti nel nostro, corpo (2Co 4,10).
Operi dunque in noi la morte, e produca la vita. È buona la vita dopo la morte, cioè
è buona la vita dopo la vittoria, è buona la vita alla conclusione della battaglia, quando
la legge della carne non si opporrà più alla legge dello spirito, quando non dovremo più
combattere con questo corpo di morte, ma saremo in esso vittoriosi. Non so perciò se sia
di maggior efficacia la morte o la vita. Certamente mi scuote l’autorità dell’Apostolo
che dice: Perciò la morte agisce in noi, in voi, invece, la vita (2Co 4,12). La morte di
uno, quanti popoli ha portato alla vita! L’Apostolo dunque ci insegna che chi è in questa
vita deve desiderare una tale morte, perché risplenda nel nostro corpo la morte di Cristo.
È beata la morte che dissolve l’uomo esteriore e rinnova l’uomo interiore, che abbatte la
nostra casa terrestre per prepararci un’abitazione in cielo. Attua questa morte chi si
scioglie dall’attaccamento a questa carne e spezza i vincoli di cui parla il Signore per
bocca di Isaia: Sciogli ogni legame di ingiustizia, spezza i legami delle mutazioni
violente, rimanda liberi i vinti e rompi ogni determinazione iniqua (Is 58,6).

Attua la morte in sé anche chi si spoglia dei piaceri e si eleva ai diletti eterni,
entrando in quella celeste abitazione in cui dimorava Paolo ancora in questa vita -
altrimenti non avrebbe detto: La nostra dimora è nei cieli (Ph 3,20), frase che ci fa
comprendere il suo merito ed è materia di meditazione -. Lassù dunque era fissa la sua
meditazione, lassù dimorava la sua anima, lassù era la sua sapienza. Il sapiente, infatti,
ricercando il bene divino, scioglie l’anima sua dal corpo; spezza il legame con questa
sua tenda, quando si dedica alla scienza del vero, che desidera gli appaia nuda e svelata:
perciò cerca di liberarsi dalle reti, dalle nebbie di questo corpo. Non con le mani, non
con gli occhi o le orecchie possiamo comprendere quella somma verità, perché ciò che
si vede è temporale, ciò che non si vede è eterno. Per questo, spesso la vista ci inganna e
non vediamo le cose come stanno; per questo ci inganna anche l’udito. Perciò
contempliamo non quello che si vede, ma quello che non si vede, se vogliamo evitare
l’inganno.

E quando l’anima nostra sfugge l’inganno, quando raggiunge il trono della verità,
se non quando si allontana da questo corpo, dai suoi inganni, dalle sue illusioni?
L’inganna la vista degli occhi, l’inganna l’udito delle orecchie: abbandoni dunque tutto
ciò e se ne allontani. Per questo l’Apostolo esclama: Non toccate, non palpate, non
gustate tutto ciò che porta alla corruzione (Col 2,21) . Porta la corruzione l’indulgenza
per il corpo. Perciò mostrando che non con l’indulgenza per il corpo ma con
l’elevazione dell’animo, con l’umiltà del cuore egli aveva trovato la verità, soggiunge:
«La nostra dimostra è nei cieli». Lassù dunque l’anima cerchi la verità che è e che
sempre rimane, lassù si raccolga in se stessa e raccolga tutta la forza della sua virtù.

Ambrogio, De bono mortis, 8 - 10

7. Tutti dobbiamo seguire il Cristo

Anche noi, dunque, fratelli, se amiamo sinceramente, imitiamo. Non potremo,


infatti, offrire una migliore prova di amore, che l’esempio dell’imitazione; Cristo,
infatti, patì per noi, lasciandoci un esempio, affinché seguiamo le sue orme (1P 2,21).
Sembra che l’apostolo Pietro abbia visto chiaro con questo pensiero, poiché il Cristo
soffrì tanto per questi che seguono i suoi passi, né la passione di Cristo giovò alcunché,
se non a quelli che seguono il suo esempio. Lo seguirono i santi martiri fino allo
spargimento di tutto il loro sangue, fino a rassomigliare a lui nella passione: lo
seguirono i martiri ma non soli. Infatti, non dopo che essi passarono, il ponte è stato
spezzato; e dopo che essi bevvero, la fonte si è esaurita.

Qual è infatti la speranza dei buoni fedeli che anche nel dovere coniugale ne
portano il peso in maniera concorde e casta, anche nello stato di continenza vedovile,
donano le attrattive della carne, oppure innalzandosi sempre più in alto verso le vette
della santità, floridi e fervorosi, seguono, in nuova verginità, l’Agnello dovunque andrà?

Qual è la speranza per noi tutti, dico, per costoro, se non versano il sangue per lui
stesso? La madre Chiesa lascerà perdere, dunque, quei figli che tanto più fecondamente
quanto più sicuramente ha generato in tempo di pace?

Per non perderli, occorre pregare per la persecuzione, per la tentazione?

Non sia mai, fratelli.

Come, infatti, può invocare la persecuzione, colui che ogni giorno grida: Non ci
indurre in tentazione (Mt 6,13)?

L’orto del Signore, o fratelli, ha non solo le rose dei martiri, ma anche i gigli dei
vergini, le edere dei coniugi e le viole delle vedove.

Per questo, o dilettissimi, nessuno tra gli uomini disperi della propria vocazione:
per tutti Cristo ha sofferto. Veramente di lui è stato scritto: Colui che vuole che tutti gli
uomini siano salvi, e che tutti giungano alla verità (1Tm 2,4).

In quali cose bisogna seguire Cristo, eccetto nel martirio? La sua umiltà occorre
imitarla. La vendetta, dietro l’esempio del Cristo, non è necessario richiederla. La sua
presenza è da non tenerne conto.

Capiamo, pertanto, all’infuori dello spargimento del sangue, all’infuori del pericolo
della passione, in che modo il cristiano debba seguire il Cristo.

L’Apostolo dice, parlando del Signore Gesù: Chi avendo la natura di Dio, non
stimò una rapina essere eguale a Dio?

Quale grande maestà!

Ma umiliò se stesso, prendendo la forma di un servo, diventando simile agli uomini,


e nella condizione, ritrovatosi come un uomo (Ph 2,7).

Quale grande umiltà! Il Cristo umiliò se stesso: «Tu hai, o cristiano, ciò che tieni».

Cristo si è fatto obbediente: Perché ti insuperbisci? Fin dove il Cristo si è fatto


obbediente? Fino all’incarnazione del Verbo, fino alla partecipazione dell’umanità
mortale, fino alla triplice tentazione del demonio, fino alla derisione del popolo dei
Giudei, fino agli sputi e ad essere ammanettato, fino agli schiaffeggi ed ai flagelli; se è
poco, fino alla morte; e se ancora c’è da aggiungere qualcosa al genere di morto, (si
umiliò) fino alla morte di croce (Ph 2,6-8).
Agostino, Sermo 304, 2 ss.

8. L’intercessione dei santi

Per la supplica della Madre di Dio,

Immacolata e sempre vergine,

E di Giovanni il Precursore,

Voce che grida nel deserto;

Per l’implorazione del Coro puro

Degli Apostoli che primi

Bevvero l’effusione dello Spirito

E ne fecero bere tutti noi;

Dei discepoli dell’Altissimo,

Dell’inamovibile Pietra della Fede,

E dello Strumento eletto dal Verbo,

E cose ineffabili ha udite;

Degli schietti figli di Zebedeo,

Che han tuonato dall’alto;

E di Andrea, tuo compagno di Croce,

E di Matteo, tuo Evangelista;

Di Filippo che veder volle il Padre,

Di Bartolomeo che ci ha chiamati [gli Armeni],

Di Jc d’Alfeo,

E di Tommaso Didimo;

Dello Zelota Simone,

E di Giuda, di Jc fratello,
Di colui che fu chiamato tuo fratello,

Nome da quel vescovo meritato;

Dei sette santi da loro prescelti

Quali Diaconi dello sparuto gregge;

E dei quali il corifeo del gruppo

Con essi porta il nome di «Corona»;

E dei settanta Discepoli,

Che Tu hai scelto per predicare il Verbo;

E di coloro che seguiti l’hanno;

Ognuno a tempo debito;

Dei Patriarchi di tutti i popoli,

Dei Dottori della veridica Parola,

Che insegnato ci hanno a confessarti

Figlio Unigenito del Padre;

Dei ministri del santo Mistero,

Dei nove ordini della Chiesa santa,

Simili a quelli delle celesti schiere

Che Te divinamente esaltano;

Ed anche di color che sono in cielo;

Per la domanda
degli esseri sublimi, abbi pietà di noi;

Essi che anche per noi ti supplicano

Di non rifiutare l’opera della tua mano.

Per le anime dei Martiri innumerevoli

Che per Te han versato il loro sangue,

Accordami dolorose lacrime


Per versarle in cambio del lor sangue.

Dal primo santo Martire,

Stefano che lassù ti vide,

Fino al Martire ultimo nel tempo

Che sarà dall’Anticristo giustiziato.

Per le sofferenze proprie a tutti loro

Liberami dai tormenti del Maligno

E per la loro morte volontaria,

[Salvami] dalla morte eterna.

Per le oscure loro carceri e prigioni

Illumina le tenebre dell’anima [mia],

E per gli occhi che hanno lor cavati

Agli occhi dell’anima fa’ brillar la luce...

In cambio delle minacce più terribili,

Che essi come inezia reputarono,

Liberami dalle minacce del Maligno

E sul suo capo degnati rivolgerle.

E in cambio della promessa degli effimeri [beni]

Ai quali immantinente rinunciarono,

Non sia io all’Astuto abbandonato

Da un materiale amore ingarbugliato...

In cambio di lor fame prolungata

Concedi a me il tuo celeste Pane

E per la loro inestinguibil sete


La sorgente immortale del tuo Petto...

Che dir di più? Non può enumerare

Lingua degli uomini i tormenti loro,

Che ora presso Te nascosti sono

Ma che, allora rivelati, avran compenso.

Grazie alle svariate lor torture

Risana le mie sofferenze personali:

Quelle del corpo, dell’anima e dello spirito,

E quelle dei pensieri, e di parole e d’atti.

E in cambio di loro teste mozze,

Per cui divenner membra tue, a Capo,

Con lor, Signor, incorpora me pure,

Sicché possa io crescere con tutti.

Per riguardo agli Eremiti del deserto,

Che han seguito la voce della vita,

E han portato la Croce con speranza,

Fa’ sì che anch’io possa morire al mondo;

Per le suppliche del grande Antonio,

Della santa Assemblea Fondatore,

E di quei che per lui si son votati a quello stato

Fino ad oggi, e di quei che seguiranno.

Attraverso le più svariate azioni

S’offrono a Te quali fiori multicolori;

La sterile alma fa’ che si trasformi

In pianta cui non manchi frutto.


La preghiera essi hanno ottenuto in grazia

E il rivolo abbondante delle lacrime;

Me pure attrai, per loro implorazione,

Benché negligente, verso un simil bene.

Essi con i digiuni hanno sconfitto

Il carnale vizio del Principe del Male;

Per essi accordami nella concupiscenza,

Di porre il freno alle passion del cuore.

Vittoria han conseguito sui pensieri

Nella tenzone contro la lussuria;

Al pigro spirto mio vittoria dona

Almen a non seguir l’opre del Malvagio.

Essi, persino in particelle minute di materia,

Han dominato l’avarizia;

Fa’ che dall’ingiustizia io m’allontani

E mi contenti di ciò che è sufficiente.

Con coloro che hanno avuto il coraggio di levarsi

in dispetto alla noia di mezzogiorno,

Rendimi coraggioso, me sì lento al bene

E sì pronto per il male.

Essi hanno vinto la collera

E arginato la tristezza

Argina entrambe in me, Signore, in grazia loro

Sì che vani siano i loro strali a me diretti.

Essi d’orgoglio e della sciocca gloria


Son stati vittoriosi sull’arena;

Liberami per loro intercessione

Nel duello ingaggiato per la parte destra [nel Giudizio].

Essi, per il comando che trascende la natura,

Si sono sottomessi a dura ascesi

Concedi a me almeno di portare

Il giogo tuo soave e il carico leggero.

E benché non abbia io posto tra i primi

Viaggiatori già pervenuti al cielo

Nondimeno sarò ultimo degli ultimi

Seguendo le lor tracce.

E se nella dimora degli esseri sublimi

Io non son degno del tetto di tuo Padre

Rendimi degno del più umil scanno

Sia pur fra gli ultimi.

Solo ti prego colloca me pure

Alla tua destra nel gruppo degli agnelli,

Fammi sentire l’annuncio tuo gioioso

Della voce tua che beatifica.

Nerses Snorhali, Jesus, nn. 807-821, 832-833, 839, 841-857

COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI


223 (2 novembre)

Benché la Chiesa ricordasse sempre nelle sue preghiere i defunti, il giorno di


Commemorazione compare nel calendario liturgico assai tardi. L’idea stessa proviene
dagli ambienti monastici. La regola di sant’Isidoro di Siviglia (+ 636) prescrive la
Messa per tutti i defunti il lunedì dopo la Pentecoste. Alcune Chiese conoscevano un
giorno simile di preghiera dopo l’Epifania del Signore. C’è la tendenza ad unire questo
giorno ad una delle grandi feste della Chiesa. Il giorno della Commemorazione di tutti i
defunti nella forma attuale viene introdotto da sant’Odilone, abbate del monastero a
Cluny (994-1048): il giorno 2 novembre venne scelto, visto che il giorno precedente si
celebrava la Solennità di Tutti i Santi. La Chiesa esulta per la gloria dei suoi santi, ma
non dimentica coloro che non sono ancora arrivati alla sua pienezza. L’abbazia di
Cluny, per lungo tempo, influisce molto sulla vita religiosa d’Europa e perciò il giorno
della Commemorazione viene accolto comunemente. La prima nota riguardante la
celebrazione di questa Commemorazione risale al 1311. In alcune diocesi, si
svolgevano in questo giorno processioni con le preghiere per i defunti. Alla fine del XV
secolo, in Spagna, sorge la pratica di celebrare tre Messe, prassi che si diffonde in
Portogallo ed in America latina. Nell’anno 1915 all’inizio della Prima Guerra
mondiale, Benedetto XV estende questo privilegio a tutta la Chiesa.

Il giorno di preghiera per i defunti è per molti l’occasione di porsi delle domande
di principio. Perché la morte, perché il nostro corpo torna in polvere, perché dobbiamo
sperimentare il dolore del distacco dai nostri prossimi? Chi può assicurarci
l’immortalità, chi ci può dire come sarà la vita futura, chi può consolarci nel tempo
della tristezza?

Abbiamo accolto le parole di Cristo e ne conosciamo le risposte, crediamo a ciò


che dicono i libri ispirati dalla Sacra Scrittura. Le molte risposte che abbiamo trovato,
le possiamo ridurre ad una: la morte si può comprendere solo alla luce della Morte e
della Risurrezione del Signore. Come Gesù è morto e risuscitato, così anche quelli che
sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui (1Th 4,14).

Come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo (1Co 15,22).
Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se morto, vivrà (Jn 11,25). La
fede nella Risurrezione del Signore sta alla base della nostra preghiera per coloro che
sono morti: affinché siano accolti nella gloria, affinché passino al luogo della luce e
della pace. Essi non solo credettero nel Signore, ma attraverso il Battesimo morirono
con lui e con lui passarono alla vita nuova: che il Signore compia adesso ciò che ha
iniziato nel Battesimo.

L’uomo di fronte a Dio: chi può dire di essere senza peccato? La Chiesa
raccomanda oggi alla divina misericordia coloro che sono morti: Dio, una volta li lavò
con le acque del Battesimo, che ora li lavi con la grazia del perdono. Celebrando
l’Eucaristia, la Chiesa non cessa di intercedere per i nostri fratelli, che sono morti
nella speranza della risurrezione. Prega per i defunti, dei quali solo Dio ha conosciuto
la fede e per tutti coloro che hanno lasciato questo mondo. Oggi, queste parole
assumono un particolare significato. Stiamo oggi presso le tombe dei nostri parenti,
vicini, conoscenti; passiamo vicino ai sepolcri di tanti nostri fratelli. Ci accompagnino
le parole della liturgia: «Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata».

Dio onnipotente ed eterno,


annualmente per le nostre preci
tu concedi le cose che ti chiediamo
e i doni per tutti coloro i cui corpi qui riposano:
il luogo del refrigerio, la beatitudine della quiete,
lo splendore della luce;
e quelli che son gravati dal peso dei loro peccati
ti affida la supplica della tua Chiesa.

Sacramentarium Gelasianum, ed. L.C. Mohlberg, Roma 1968, n. 1681

1. Dio è già qui, tanto bello!

Quali parole potranno mai esaurire la bellezza e l’utilità delle creature, che, per
divina misericordia, l’uomo, benché abbandonato e condannato a tante fatiche e miserie,
può contemplare e godere? La bellezza varia e molteplice della terra e del mare;
l’abbondanza e la meraviglia della stessa luce, nel sole, nella luna e nelle stelle; l’ombra
dei boschi; i colori e gli odori dei fiori, la varia moltitudine di uccelli garruli e
variopinti; le forme molteplici di tanti animali di cui i più piccoli sono i più ammirevoli
(ci meravigliano più le opere delle piccole formiche e delle piccole api, che i corpi
immensi delle balene); lo stesso spettacolo immenso del mare, quando si riveste di
diversi colori: ora verde, ora variegato, ora purpureo, ora ceruleo. Anzi, è uno spettacolo
dilettevole anche quando è agitato, ed è allora tanto più soave, quanto più chi lo
contempla è sicuro di non esser da esso scosso e travolto. E che dirò dell’abbondanza
enorme dei cibi per combattere la fame, e della molteplicità dei sapori, per combattere la
nausea, forniti senza posa dall’opulenta natura e non dall’arte e la fatica dei cuochi? E
tra essi, quanti rimedi per ricuperare e proteggere la salute! Che grata alternanza di
giorno e di notte! Che dolce spirar di venti! Dalle piante e dai greggi, quanto materiale
per confezionare abiti! Chi potrebbe ricordare tutto? Se uno si volesse dedicare ad
esaminar anche solo queste poche cose da me ridotte e condensate in queste poche linee,
quanto tempo dovrebbe impegnare per ciascuna di esse! E sono tante!

Tutto ciò è consolazione dei miseri e dei condannati, non premio dei beati. Come
sarà dunque il premio, se la consolazione è tale e tanta! Cosa darà Dio a coloro che ha
predestinato alla vita, se ha dato questo a coloro che ha predestinato alla morte! Di quali
beni ricolmerà nella vita beata quelli per i quali in questa miseria ha voluto che il suo
Figlio unigenito soffrisse tante pene, fino alla morte? Per questo l’Apostolo, parlando
dei predestinati al regno dei cieli, dice: Colui che non perdonò al suo proprio Figlio, ma
che lo sacrificò per noi, com’è possibile, che con lui, non ci doni tutto? (Rm 8,32).
Quando questa promessa si sarà adempiuta, come saremo? Quali saremo? Quali beni
riceveremo in quel regno, avendo già ricevuto un tale pegno: Cristo morto per noi?
Come sarà lo spirito dell’uomo, senza i vizi ai quali debba sottostare, a cui debba cedere
o contro i quali debba almeno strenuamente lottare, cioè perfetto per il pieno possesso
pacificante della virtù? Come sarà abbondante, come sarà bella, come sarà certa la
scienza di tutte le cose, pura da ogni errore e fatica, là dove la sapienza di Dio verrà
attinta alla sorgente, con somma felicità, senza nessuna difficoltà! Come sarà splendido
il corpo, soggetto in tutto allo spirito, da esso pienamente vivificato, libero dal bisogno
di qualsiasi alimento! Sarà corpo spirituale, non animale: avrà la sostanza della carne,
ma non certo la corruzione della carne.

Agostino, De civit. Dei, 22, 24


2. Perché esiste la morte

Ma sopporta a stento e si sdegna chi riflette sulla decomposizione del corpo, e


pensa che è terribile che la nostra vita si dissolva con la morte.
Poiché questa considerazione gli procura dolore e fastidio, esamini attentamente il
grande beneficio di Dio.
Per suo mezzo sarà maggiormente spinto ad ammirare la grazia della cura che Dio
ha dell’uomo.
Debbono scegliere di vivere coloro che partecipano della vita, perché godano di
quelle cose che sono gradite e piacevoli.
Giacché se qualcuno trascorresse la vita tra i dolori e le angosce, si ritiene che per
lui è di gran lunga meglio non essere soggetto al dolore che esserlo.
Esaminiamo, dunque, se colui che usufruisce della vita, miri a qualche altra cosa,
piuttosto che a trascorrere una vita in mezzo alle migliori e più belle cose.

Poiché, infatti, abbiamo attratto con l’impulso del libero arbitrio la società del male,
mescolando il male della natura per mezzo di un certo veleno, quasi miele nascosto, del
piacere; e, perciò, uscendo dalla beatitudine che si comprende con l’impassibilità, siamo
spinti al vizio, e da questo motivo l’uomo di nuovo è rivolto alla terra come un vaso di
creta (Gn 3,19); talmente che allontanate le impurità che ora sono in lui, attraverso la
risurrezione sia reintegrato nella originale condizione.
Questa verità, d’altra parte, ci espone senza dubbio Mosè, nella storia e attraverso
simboli.
Del resto anche queste immagini contengono una dottrina profonda e luminosa.
Disse, infatti, che dopo che erano state proibite quelle cose, ci furono i primi
uomini, i quali furono privati della felicità, e Dio impone per coprirsi delle tuniche di
pelle ad essi, che furono i primi colpevoli, non badando, come penso, a tali pelli.
Infatti, quali animali uccisi e privi di pelle, si inventa la loro veste?
Ma poiché ogni pelle è tolta e separata, priva di vita dagli animali, ritengo senza
dubbio che colui che guarisce il nostro peccato, in seguito infuse agli uomini
provvidenzialmente una forza tale per morire che non sempre perdurasse, la quale fu
tolta dalla natura priva della ragione.
La tunica, infatti, proviene da quegli elementi che ci sono imposti dall’esterno,
offrendo al corpo, temporaneamente, l’uso di sé, senza immedesimarsi affatto con la
natura.
Dunque, dalla natura dei bruti, con un certo criterio ed eccezione fu aggiunta la
mortalità a quella natura che fu creata per l’immortalità, e ciò è quanto riguarda il caso
all’esterno, non all’interno, e interessando la parte sensibile dell’uomo, ma non
toccando la sua stessa immagine divina.

Si dà una soluzione, d’altra parte, a ciò che è sensibile, ma non si abolisce né si


elude.
L’abolizione, in verità, riguarda ciò che non è transitorio.
Ma la soluzione è il dissolversi che di nuovo ritorna negli elementi del mondo, con i
quali formava un tutt’uno [una compagine].
Ciò che, in effetti, non era presente in essi, non scomparve, anche se sfugge alla
comprensione dei nostri sensi.
Resta aperta, però, la causa della soluzione attraverso l’esempio che è stato da noi
riferito.
Poiché, infatti, il senso ha una necessità ed è unito con ciò che è pesante e terrestre:
e questo è più eccellente e più sublime che il giudizio di quelli che si trovano nel bene e
nell’onestà, si allontanò nell’approvare i sensi, ma da esso poi ciò che di buono e di
onesto vi risultò aberrazione, tanto che diventò abitudine contraria; è inutile la nostra
parte restituita, si risolve con l’accettazione del contrario.
Ed ecco un esempio di quanto diciamo: Si conceda che qualcuno modelli un vaso
dal fango; e, poi, con inganno e tranello sia ripieno di piombo liquefatto: inoltre faccia
gonfiare il piombo fuso, che tale rimanga che non si possa rifondere; e il vaso poi voglia
vendicare il suo padrone: sia avendo la scienza del vasaio sia spaccando la sua testa col
piombo: e di nuovo, poi, ricostruisca il vaso distrutto nella sua primitiva figura e per il
proprio uso, esso che prima era stato materia eterogenea.
Così, dunque, anche il modellatore del nostro vaso di creta, col difetto mescolato
della parte sensitiva (parlo di quella che risiede nel corpo), una volta che la materia che
aveva contratto il vizio è stata dissolta, il vaso di nuovo è rimodellato, ma non,
viceversa, rimescolato, in virtù della risurrezione, e restituirà quella bellezza che aveva
avuto all’inizio.
Poiché, poi, appartiene al corpo una certa società e comunione di quegli affetti che
derivano dal peccato; anche una certa analogia e proporzione della morte del corpo con
la morte dell’anima: in che modo nella carne chiamiamo morte ciò che è separato dalla
vita sensibile; così anche nell’anima chiamiamo morte la separazione dalla vera vita;
poiché, dunque, unica è la comunione la associazione del male, come prima è stato
detto, considerata nell’anima e nel corpo, per l’una e per l’altra procede l’anima ad
agire: per la qual cosa non intacca l’anima la morte della separazione dal rivestimento
della pelle mortale.
In che modo, infatti, potrebbe disgregarsi ciò che non composto di parti?
D’altronde c’è bisogno che anche quelle cose di colui derivate dai peccati si
deposero in lui come macchie, siano tolte per mezzo di qualche medicina, perciò nella
presente vita fu adoperato il rimedio della virtù per curare queste ferite.
Giacché se non è possibile la cura, essa è rinviata alla vita futura.

Gregorio di Nissa, Oratio catech., 8

3. Non si devono scrutare gli avvenimenti e giudicarli senza attenderne la fine

E come un uomo inesperto vedendo il fonditore iniziare l’operazione di fonditura


dell’oro, mescolandolo a cenere e paglia, penserà, se non attende la fine del processo,
che il pezzettino d’oro è perduto, così del pari un uomo nato ed allevato sul mare, poi
trasportato in pieno ambiente di terraferma e assolutamente privo di nozioni circa il
modo di coltivare, se gli capitasse di vedere il grano messo da parte e custodito dietro le
porte e sottochiave, preservato dall’umidità, quindi portato via dal contadino, disperso,
gettato al vento, sparso sulla terra agli occhi di tutti i passanti e non solo senza la
precauzione di preservarlo dall’umidità, ma persino abbandonato al fango e
all’acquitrino, senza protezione alcuna, non crederebbe forse quel grano perduto e non
biasimerebbe il contadino che ha agito in tal modo?

Ora, un tal biasimo non deriva dalla natura dei fatti, bensì dall’inesperienza e dalla
stoltezza di colui che non giudica bene, esprimendo già dall’inizio un’opinione
prematura. Infatti, se aspettasse l’estate; se vedesse le messi ondeggiare e la falce che si
affila e quel grano, che era stato disperso, rimasto abbandonato, marcito, corrotto,
lasciato nel fango, quello stesso grano cresciuto, moltiplicato, rigoglioso nella sua
freschezza, sbarazzatosi della sua vecchia guaina ed ergentesi in tutta la sua forza, come
attorniato di satelliti e di guardie, protendente all’aria la sua spiga, che incanta lo
spettatore, lo nutre e gli procura un buon profitto, allora sarebbe ancora più preso da
stupore dal fatto che quel grano, attraverso tante avventure, è stato condotto a uno stato
sì florido e di tale bellezza.

E tu, o uomo, non porre soprattutto interrogativi al nostro padrone comune, ma se


sei tanto assetato di discussioni e tanto audace da folle di tale follia, aspetta almeno la
fine degli avvenimenti. In effetti se il lavoratore aspetta tutto l’inverno, senza
soffermarsi a considerare il trattamento imposto al grano durante la stagione del freddo,
bensì i vantaggi che si propone di trarne, a più forte ragione tu, davanti a colui che
lavora l’intera terra e le nostre anime, dovresti attendere la fine, e non dico solamente la
fine nella vita presente - poiché spesso essa si realizza fin da quaggiù - ma nella vita
futura. Il piano di Dio, infatti, è organizzato in funzione di ciascuna di queste due vite,
in funzione della nostra salvezza e della nostra gloria. Se è spezzettato nel tempo, il fine
gli restituisce la sua unità e, così come sia l’inverno sia la primavera e l’evoluzione di
ciascuna delle stagioni mira ad un unico risultato, la maturità dei frutti, analogamente
avviene in ciò che ci concerne.

Crisostomo Giovanni, De Provid., 9, 1-5

4. Come si manifesta la piena giustizia del giudice divino

Non sappiamo per quale giudizio di Dio quel buono sia povero, e questo cattivo sia
ricco; perché goda questi, che per i suoi costumi scellerati ci sembra dovrebbe meritare
di soffrire; e perché sia afflitto quegli, la cui vita onesta ci fa pensare che dovrebbe
godere. Parimenti, perché l’innocente esca dal giudizio non solo senza soddisfazione,
ma addirittura condannato, o per l’iniquità del giudice o per il peso delle testimonianze
false; e perché al contrario il suo iniquo avversario, non solo impunito ma anche
soddisfatto, esulti di gioia. E perché l’uomo empio ha buona salute, mentre l’uomo pio
marcisce nella malattia; perché giovani rapinatori stanno benissimo, mentre fanciulli,
che non hanno potuto offendere nessuno neppure a parole, sono afflitti da molteplici e
atroci malattie. E perché un uomo utile al genere umano, vien rapito da morte immatura
mentre chi sembra che non avrebbe dovuto neppur nascere, vive a lungo. Perché chi è
pieno di delitti, viene innalzato ai più alti onori, mentre un uomo senza macchia resta
nascosto nelle tenebre di una condizione oscura; e molti altri casi simili, ma chi li
raccoglie, chi li passa in rassegna? Se poi questa realtà, che sembra un assurdo, fosse
tanto costante che in questa vita - nella quale l’uomo, come dice il sacro salmo è simile
alla vanità e i cui giorni passano come ombra (Ps 143,4) - solo i cattivi ottenessero i
beni transitori e terreni e solo i buoni soffrissero tali mali, ciò potrebbe mettersi in
rapporto col divino giudizio, giusto o almeno benigno: coloro che non raggiungeranno i
beni eterni che rendono beati, vengono, per mezzo dei beni temporali, o ingannati per
malizia loro, o consolati per misericordia di Dio; mentre coloro che non soffriranno i
tormenti eterni, vengono afflitti mediante mali temporali, o per i loro peccati, quale ne
sia la natura e per quanto piccoli essi siano, o messi alla prova per perfezionare le loro
virtù. Ma ora, stanno nel male non solo i buoni e nel bene non solo i cattivi, che
sembrerebbe ingiusto, ma spesso anche ai cattivi cadono addosso mali e sui buoni si
riversano beni: tanto più imperscrutabili si fanno così i giudizi di Dio, e insondabili le
sue vie. Perciò, anche se non sappiamo per quale giudizio Dio così faccia o così
permetta che avvenga, lui presso il quale risiede somma virtù, somma sapienza e somma
giustizia, e nel quale non v’è nessuna debolezza, nessuna temerità e nessuna iniquità:
impariamo tuttavia - per la nostra salvezza - a non dar troppo peso a quei beni e a quei
mali che vediamo essere comuni ai buoni e ai cattivi, e d’altra parte a ricercare quei beni
che sono propri dei buoni e a fuggire quei mali che sono propri dei cattivi. E quando
giungeremo a quel giudizio di Dio, il cui tempo vien detto esattamente giorno del
giudizio e qualche volta giorno del Signore, riconosceremo la giustizia di ogni divino
giudizio, non solo di quelli che verranno emessi allora, ma di tutti quelli che furono
emessi dall’inizio e saranno stati emessi fino allora. E anche apparirà chiaro per quale
giusto giudizio di Dio, ora molti, anzi tutti i divini giudizi, siano nascosti al senso e alla
mente dei mortali, quantunque non sia celata alla fede dei buoni la giustizia di ciò che è
celato.

Agostino, De civit. Dei, 20, 2

5. Per quali anime dopo la morte sono di giovamento le messe le elemosine?

Durante il tempo posto tra la morte dell’uomo e l’ultima risurrezione, le anime


stanno in dimore nascoste, di riposo o afflizione, a seconda che ciascuna ne è degna per
ciò che ha meritato mentre viveva nella carne.

Non si può negare che le anime dei defunti vengano confortate dalla pietà dei loro
cari viventi, quando costoro per esse offrono il sacrificio del Mediatore o distribuiscono
in chiesa elemosine Ma questi suffragi giovano a coloro che durante la vita meritarono
di potersene poi giovare. Vi è infatti un genere di vita, né così buono, da non aver
bisogno di tali suffragi dopo la morte, né così cattivo, da non giovargli. Vi è poi un
genere di vita, così buono, da non abbisognarne; ed infine, uno così cattivo, da non
potersene avvantaggiare dopo il passaggio da questa vita. Perciò, già quaggiù, si
acquista ogni merito, in base al quale la situazione dopo la vita può essere o sollevata o
aggravata. Nessuno si illuda di meritare presso Dio, dopo la morte, ciò che qui ha
trascurato.

Questi suffragi, dunque, che la Chiesa celebra per i defunti, non sono affatto
contrari al detto dell’Apostolo: Tutti infatti staremo davanti al tribunale di Cristo,
perché ciascuno riceva secondo quel che ha fatto finché era nel corpo, sia in bene che
in male (2Co 5,10). Anche questo si è meritato ciascuno mentre viveva quaggiù: che i
suffragi gli possano essere di vantaggio. Non a tutti infatti giovano; e perché non a tutti
giovano se non per la differente vita condotta da ciascuno nel corpo? Quando poi per
tutti i battezzati defunti vengono offerti o il sacrificio dell’altare o i sacrifici
dell’elemosina, per i molto buoni sono rendimento di grazie; per i non molto cattivi
sono propiziazione; per i molto cattivi, pur non essendo aiuto per i defunti, sono una
qualche consolazione per i vivi. A coloro cui giovano, o ottengono che la loro
remissione sia piena, o certamente che la loro stessa condanna sia più sopportabile.

Agostino, Enchirid., 29, 109-110


6. Il tormento eterno

Dopo la risurrezione, quando il giudizio universale avrà avuto luogo e la sentenza


sarà stata eseguita, verranno posti confini precisi alle due città, a quella cioè di Cristo e
a quella del diavolo; una dei buoni, l’altra dei cattivi: ma l’una e l’altra composte di
angeli e di uomini. Gli uni non avranno più la volontà, gli altri non avranno più la
capacità di peccare. Inoltre, non vi sarà nessuna possibilità di morire: gli uni godranno
felici in perpetuo della vita eterna; gli altri, infelici, saranno immersi nella morte eterna
senza la possibilità di morire: per entrambi non esiste fine. Ma, nella beatitudine, un
beato sarà più glorioso dell’altro, e anche nella miseria (della dannazione), ad un
dannato la sua situazione sarà più tollerabile che all’altro.

Inutilmente perciò alcuni, anzi molti, commiserano con sentimento umano l’eterna
pena dei dannati e i loro tormenti perenni, ininterrotti, e non si sentono di ammettere
una simile realtà. Costoro non intendono opporsi alle divine Scritture, ma solo sono
portati ad intendere con maggior malleabilità e ad interpretare in senso più blando ciò
che nelle Scritture sarebbe espresso - essi pensano - più per incutere terrore che per
annunciare la verità. Dicono infatti: Dio non si dimenticherà di essere misericordioso, e
conterrà la sua ira per la sua grande clemenza (Ps 76,10). Sono parole che leggiamo in
un salrno; ma possiamo applicarle senza perplessità solo a coloro che vengono chiamati
vasi di misericordia (Rm 9,23), poiché anch’essi non grazie ai loro meriti, ma per la
bontà di Dio sono liberati dalla miseria. Ma se quelli pensano che tali parole si
riferiscano a tutti, non è necessario tuttavia dover ammettere che abbia fine la
dannazione di coloro dei quali è stato detto: Ed essi se ne andranno al supplizio eterno
(Mt 25,46), per non essere costretti ad ammettere che un giorno avrà fine anche la
felicità di coloro dei quali è stato detto, al contrario: «Ma i giusti se ne andranno alla
vita eterna».

Che invece la pena dei dannati talvolta sia un po’ mitigata, lo possono sempre
ammettere, se lo vogliono. Giacché il fatto che su di loro resta l’ira di Dio (Jn 3,36),
cioè la dannazione stessa - è questa infatti che vien detta ira di Dio, non una
perturbazione dell’animo divino - può essere interpretato nel senso che egli, nella sua
ira, ossia nel perdurare della sua ira, non ferma la sua misericordia: e ciò, non ponendo
fine al supplizio eterno, ma interrompendo talvolta o alleviandone le pene. Il salmo,
infatti, non dice «per por fine alla sua ira», oppure «dopo la sua ira», ma «nella sua ira».
Ammesso che questa resti anche nella misura minima possibile, perdere il regno di Dio,
essere esiliati dalla città di Dio, venir sottratti alla vita di Dio, mancare della immensa e
molteplice dolcezza di Dio, da lui riserbata a coloro che lo temono e da lui elargita a
quanti in lui sperano, è una pena tanto grande, che non ammette confronto con nessun
tormento conosciuto quaggiù, per quanti secoli dovesse durare, giacché quei tormenti
sono eterni.

Senza fine dunque durerà la morte eterna dei dannati, cioè la loro privazione della
vita di Dio; e precisamente in ciò consisterà la pena comune a tutti i dannati, per quanto
gli uomini, guidati dal loro sentimento di umanità, possano figurarsi che le pene siano
varie o che i dolori vengano interrotti o alleviati.

Agostino, Enchirid., 29, 111-113


7. La morte del giusto è un premio

Ma perché dev’essere così duro ciò che un giorno o l’altro bisognerà pur soffrire?
Ci rattristiamo per la morte di qualcuno: ma siamo forse nati per vivere eternamente
qui? Abramo, Mosè, Isaia, Pietro, Jc e Giovanni, Paolo - il vaso d’elezione - e perfino il
Figlio di Dio, tutti sono morti; e proprio noi restiamo indignati quando qualcuno lascia
il suo corpo? E pensare che probabilmente, proprio perché il male non riuscisse a
fuorviare la sua ragione, è stato portato via! La sua anima, infatti, era gradita a Dio;
per questo lui s’è affrettato a toglierla di mezzo all’iniquità (Sg 4,11-14), in modo che
durante il lungo viaggio della vita non si smarrisse in sentieri traversi.

Piangiamoli, sì, i morti; ma solo quelli che piombano nella Geenna, quelli divorati
dall’inferno, quelli per i quali è acceso un fuoco eterno! Ma se noi, quando lasciamo
questa vita, siamo accompagnati da una schiera di angeli, se Cristo ci viene incontro,
rattristiamoci piuttosto se ha da prolungarsi la nostra permanenza in questa residenza
sepolcrale. E poiché, effettivamente, per il tempo che qui ci attardiamo, siamo come
degli esiliati che camminano lontani dal Signore, il desiderio, l’unico, che ci deve
trascinare, è questo: Me infelice! il mio esilio si prolunga; abito fra i cittadini di Cedar,
e da troppo tempo l’anima mia è in esilio! (Ps 119,5-6). Ora, se dire Cedar è dire
tenebre, se questo mondo è tenebre - nelle tenebre, infatti, la luce risplende, ma le
tenebre non l’accolsero (Jn 1,5) -, rallegriamoci con la nostra Blesilla che è passata
dalle tenebre alla luce, e mentre ancora era lanciata nella fede appena accolta, ha
ricevuto la corona di un’opera compiuta!

Girolamo, Epist. 39, 3

8. Preghiera sulla tomba del fratello più giovane

O Signore e creatore di ogni cosa, e soprattutto della nostra creta! O Dio degli
uomini tuoi, o padre e guida, padrone della vita e della morte, custode e benefattore
delle nostre anime! Tu che fai tutto e a suo tempo tutto muti col tuo Verbo creatore
come ritieni bene nella profondità della tua saggezza del tuo governo, accogli ora
Cesario, primizia del nostro pellegrinaggio a te! Che l’ultimo nato sia stato il primo, lo
rimettiamo ai tuoi disegni, da cui tutto è retto; e anche noi accogli a suo tempo, dopo
averci guidato in questa carne fino a quando sarà bene; ed accoglici preparati nel tuo
timore, e non turbati; fa’ che non ci ritiriamo indietro l’ultimo giorno e a forza veniamo
strappati da quaggiù, come quelli che amano il mondo e la carne; ma che, con animo
pronto, ci affrettiamo per la vita di lassù, immortale e beata, che è in Cristo Gesù,
Signore nostro.

Gregorio Nazianzeno, Oratio in mort. Caesar., 7, 24

9. Tutta la terra loderà Dio

Alleluia: è la lode di Dio, per noi, affaticati; essa contrassegna quella che sarà la
nostra attività nel riposo. Quando infatti, dopo la fatica di quaggiù, giungeremo al
riposo di lassù, unico nostro ufficio sarà la lode di Dio, la nostra attività sarà un
alleluia...
Quasi un profumo della lode divina, della quiete celeste raggiunge anche noi, ma
molto più ci preme la nostra mortalità. Parlando infatti ci stanchiamo, e desideriamo
ristorare le membra; e se diciamo a lungo: alleluia, la lode di Dio ci è onerosa per il
peso del nostro corpo. La pienezza dell’alleluia incessante vi sarà solo dopo questo
mondo, dopo questa fatica. E con ciò fratelli? Diciamolo quanto possiamo, per meritare
di dirlo sempre! Lassù l’alleluia sarà nostro cibo; l’alleluia sarà nostra bevanda,
l’alleluia sarà l’attività del nostro riposo, tutta la nostra gioia sarà un alleluia, cioè lode
di Dio. E chi loda senza imperfezione, se non chi gioisce senza noia? Quanta forza vi
sarà nella mente, quanta fermezza immortale nel corpo, perché l’attenzione della mente
non venga mai meno nella divina contemplazione, né le membra soccombano nella
continua lode di Dio!

Agostino, Sermo 252, 9

SOLENNITÀ DI GESÙ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

(Ultima domenica dell’anno)

La festa di Cristo Re è stata costituita da Pio XI nell’anno 1925; con essa ha voluto
ricordare al mondo che solo riconoscendo la signoria di Cristo si può assicurare agli
uomini la pace e l’unità. Inoltre, proprio quest’anno ricorre il XVI centenario da
quando il Concilio di Nicea dichiarò che Cristo è consostanziale al Padre.

La data indicata per la festa era l’ultima domenica di ottobre, visto che sarebbe
stata seguita dalla Solennità di Tutti i Santi. Dopo gli ultimi cambiamenti liturgici, la
festa si chiama di Cristo Re dell’Universo - poiché Cristo non è re solo del nostro
mondo - e è stata trasferita all’ultima domenica dell’anno liturgico. Alla fine dell’anno
liturgico sta il Re della Gloria, colui al quale tutto si dirige.

Cristo è il Re dell’universo, poiché in lui, attraverso di lui e in vista di lui tutto è


stato creato. Diventò il Signore di tutto per la sua Morte e Risurrezione: il Padre lo
risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli e tutto ha sottomesso ai suoi
piedi (Ep 1,20-22). Nel cielo risuona il cantico nuovo: «l’Agnello che fu immolato è
degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione»
(Ap 5,12). Invece, sulla terra avviene il ritorno di tutto a Dio. Cristo ha costituito il suo
regno, «regno di verità e di vita, di santità e di grazia, di giustizia, di amore e di pace».

Il suo regno non è di questo mondo, ma si realizza nel mondo e lo deve abbracciare
tutto. La storia del mondo, gli affanni che l’umanità attraversa, gli avvenimenti
sconvolgenti della storia: tutto ciò è definitivamente una preparazione alla signoria di
Cristo, che conterrà tutto nel giorno del suo ritorno nella gloria. «Venga il tuo regno»,
dicono milioni di credenti nella preghiera quotidiana. L’uomo non chiede soltanto la
venuta del Regno di Dio sulla terra, ma contribuisce al suo sviluppo. Morire al peccato
e vivere per Dio, uscire dalla schiavitù del male e vivere nella libertà dei figli di Dio
vuol dire rafforzare il Regno di Gesù sulla terra. Siamo consapevoli della nostra
elezione per collaborare al rinnovamento di tutto in Cristo.

Fa’, o Signore, che i tuoi servi,

chiamati alla tua grazia, e rigenerati

dal tuo divino Battesimo, per tuo aiuto

incessante, mai siano sradicati

dalla potestà del tuo regno.

Missale Gothicum, ed. L.C. Mohlberg, Roma 1961, n. 283

COMUNE DELLA DEDICAZIONE DELLA CHIESA

Ottenuta la libertà, la Chiesa ha cominciato ad innalzare templi, così necessari visto il


crescente numero dei fedeli. La consacrazione del nuovo luogo di culto diventava una
festa per la comunità alla quale partecipavano i vescovi vicini ed i fedeli. Col tempo, si
è creato il rito della consacrazione della chiesa. A Roma, si celebrava all’inizio
semplicemente la prima Messa: la celebrazione dell’Eucaristia consacrava la chiesa.
Alla fine del IV secolo, comparve fuori Roma una nuova pratica accolta con
approvazione dai fedeli: il collocamento delle reliquie dei martiri sotto l’altare del
nuovo tempio. Roma, a lungo, fu contraria a intaccare le tombe dei martiri, ma
definitivamente nel VI secolo la deposizione delle reliquie sotto l’altare venne
introdotta nel rituale della consacrazione. In molti casi, i cristiani incettavano i templi
pagani trasformandoli in chiese, e allora veniva l’aspersione dell’edificio con l’acqua
appositamente benedetta. Mentre a Roma il collocamento delle reliquie legato alla
Messa costituiva il rito della consacrazione, in Gallia si consacrava in primo luogo
l’altare: il nuovo altare veniva unto in cinque posti. In breve, all’unzione dell’altare si è
aggiunta l’unzione delle pareti del tempio. Verso l’anno 950, venne redatto il
Pontificale (Libro delle benedizioni episcopali), che unì la tradizione romana a quella
gallica. Il rito della consacrazione del tempio consolidatosi allora durò, salvo piccoli
cambiamenti, fino all’ultima riforma.

Il rito attuale della consacrazione della chiesa contiene: l’entrata solenne del
vescovo nel nuovo tempio, la consegna della chiesa al vescovo, effettuata dai
rappresentanti della comunità locale, la benedizione dell’acqua e l’aspersione del
popolo nonché delle pareti del tempio. Durante la Messa, dopo la liturgia della parola
e delle litanie a tutti i santi, segue la deposizione delle reliquie sotto l’altare, il vescovo
pronuncia la grande preghiera della consacrazione, quindi unge l’altare e le pareti del
tempio in dodici posti. Poi, prosegue la celebrazione dell’Eucaristia.

È una tradizione della Chiesa festeggiare l’anniversario della consacrazione della


chiesa. La commemorazione della consacrazione della Basilica Lateranense, la
cattedrale di Roma, che ebbe luogo circa l’anno 324 e dal secolo XI si suol ricordare il
giorno 9 novembre, è celebrata da tutta la Chiesa cattolica. La diocesi celebra
l’anniversario della consacrazione della sua chiesa cattedrale, la parrocchia della
chiesa parrocchiale.

La Chiesa consacra solennemente il tempio costruito, poiché esso è il segno della


presenza di Dio in mezzo al suo popolo, ma non dimentica che il vero tempio di Dio
sulla terra è il popolo di Dio. «Voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione
di un edificio spirituale», leggiamo nella prima lettera di san Pietro (2,5). «Non sapete
che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Santo è il tempio di Dio, che
siete voi», scriverà san Paolo (1Co 3,16).

Il tempio di Dio nel mondo è la Chiesa, il tempio costruito dalle pietre vive sul
fondamento degli apostoli e del quale pietra angolare è lo stesso Cristo. Il tempio di
Dio nel mondo è ogni uomo credente, che con tutto il cuore serve il suo Signore.
Consacrando l’edificio visibile innalzato per la gloria di Dio, la Chiesa ben intende il
suo ruolo di servizio verso il vero tempio di Dio. In questo edificio visibile di Dio sarà
preparata per i credenti la mensa della Parola e la mensa dell’Eucaristia; qui Dio nella
sua misericordia purificherà gli uomini dalle loro colpe e li ripristinerà nella vita
perduta col peccato. Questo sarà il luogo di gloria e di lode, la casa di preghiera per la
salvezza di tutto il mondo. I poveri devono trovare qui la misericordia, gli oppressi la
libertà, l’uomo la dignità che gli spetta.

Il tempio, segno della presenza di Dio in mezzo al popolo, serve perché la santità
della nostra vita e delle opere, la preghiera continua e l’amore vicendevole siano il
segno reale della dimora di Dio presso gli uomini. In questo tempio ed attraverso di
esso, Dio innalza per sé il tempio dalle pietre vive. Ci sono tanti templi nel mondo, ci
sono cattedrali splendide, chiese parrocchiali ordinarie e cappelle povere. Ciascuna
adempie il suo compito, se serve alla costruzione del tempio spirituale.

O Dio, che dall’armoniosa partecipazione

dei santi edifichi per te un tempio eterno,

concedi i celesti aiuti della tua edificazione

e di coloro che qui si raccolgono,

con pio modo, le reliquie,

ci aiutino sempre i loro meriti.

Sacramentarium Gothicum, ed. L.C. Mohlberg, Roma 1968, n. 710

1. Il nuovo comandamento è un nuovo cantico

La celebrazione di questa assemblea è la consacrazione della casa della preghiera.


Questa è la casa delle nostre preghiere e noi stessi la casa di Dio.
Se noi siamo la casa di Dio, noi siamo edificati in questo mondo, affinché siamo
consacrati alla fine dei tempi.

L’edificio, anzi la costruzione, richiede lavoro, la consacrazione suppone gioia.

Ciò che qui avveniva, quando questa casa si innalzava, avviene nel modo in cui i
credenti si radunano nel Cristo.

Col credere, infatti, quasi si recidono dalle selve e dai monti, legna e pietre: quando
sono catechizzati, invero, quando sono battezzati e formati, vengono appianati, levigati
ed ordinati come [se fossero] tra le mani dei fabbri e degli artisti.

Tuttavia non edificano la casa del Signore se non quando sono armonizzati per
mezzo della carità.

Questa legna e queste pietre, se non fossero unite tra loro con la carità, se non
combaciassero facilmente, se non si amassero in qualche modo, aderendo tra di loro
vicendevolmente, nessuno entrerebbe qui.

Infine, quando tu vedi in qualche fabbrica pietre e legni tra di loro ben compatti, vi
entri sicuro, non temi pericolo.

Volendo, quindi, il Cristo Signore entrare, ed abitare in noi, come se dicesse


nell’edificare: Io vi do un nuovo comandamento, che vi amiate gli uni gli altri (Jn
13,34).

Vi do, disse, un comandamento.

Eravate, infatti, antichi, e non mi innalzavate, ancora una casa, e giacevate nel
vostro errore.

Dunque, per essere liberati dalla vostra antica rovina, amatevi vicendevolmente.

Consideri, quindi, la vostra Carità che questa casa sia ancora da edificarsi, come fu
predetto e promesso, sulla traccia della terra.

Edificandosi, infatti, la casa dopo la schiavitù, come contiene un altro Salmo,


veniva detto:

Cantate al Signore un cantico nuovo; cantate al Signore, tutta la terra! (Ps 95,1).

Ciò che qui ha detto - Cantico nuovo - lo disse al Signore, Comandamento nuovo...
Che cosa ha, infatti, il nuovo cantico, se non l’amore nuovo?

Il cantare è proprio di colui che ama. La voce di questo cantore, è il fervore del
santo amore.

Dio si deve amare per se stesso, e il prossimo per Dio.


Amiamo, amiamo gratuitamente: noi, infatti, amiamo Dio, di cui niente troviamo di
meglio.

Amiamolo per se stesso, e noi in Lui, tuttavia per se stesso.

Ama veramente l’amico, chi ama Dio nell’amico, o perché è in lui o perché sia in
lui.

Questo è il vero amore: se noi amiamo per un’altra cosa, odiamo piuttosto di
amare...

Dunque, finché attendiamo volentieri alla nuova costruzione di questa santa chiesa,
che oggi consacriamo al Nome Divino, troviamo che la più grande lode è dovuta da noi
anche al nostro Dio, e un discorso conveniente alla Santità vostra dalla consacrazione
della Divina casa.

Allora il nostro discorso sarà conveniente, se avrà in sé qualcosa di edificazione,


che giovi all’utilità delle vostre anime, mentre Dio edifica la sua casa dentro di voi.

Ciò che noi vediamo materialmente accaduto nelle pareti, avvenga spiritualmente
nelle vostre menti; e ciò che qui vediamo portato a compimento sulle pietre e sui legni,
venga perfezionato nei vostri cuori con l’aiuto della grazia di Dio.

Innalziamo, dunque, un ringraziamento al Signore, nostro Dio, in un modo


particolare, dal quale viene ogni dono ottimo, e ogni dono perfetto, e lodiamo la sua
bontà con tutto l’entusiasmo del cuore, poiché per costruire questa casa della preghiera
visitò l’animo dei suoi fedeli, risvegliò l’affetto, porse l’aiuto, ispirò perfino i
volenterosi affinché volessero; aiutò gli sforzi di , buona volontà affinché agissero; e per
questo Dio che opera nei suoi e il volere e il perfezionare a causa della buona volontà
(Ph 2,13) queste cose egli stesso iniziò, ed egli stesso le perfezionò.

E poiché non permette mai che siano vane le opere buone alla sua presenza,
concederà ai suoi fedeli, ai quali, mentre agiscono, offrì il favore della sua virtù, una
degna ricompensa per una così grande attività.

Agostino, Sermo 336, 11, 6

2. Glorificare il nome di Dio

Alzando un bastone splendente, mi dice: «Vedi una cosa grande?». Le dico:


«Signora, non vedo nulla». Mi dice: «Non vedi davanti a te una torre grande che è
costruita sulle acque con pietre quadrate luminose?».

In un quadrato una torre era costruita da sei giovani venuti con lei. Altre miriadi di
uomini trasportavano pietre dal fondo e dalla superficie e le porgevano ai sei giovani.
Essi le prendevano e costruivano.

Situavano tutte le pietre cavate dal fondo nella costruzione poiché erano squadrate e
combaciavano nella giuntura con le altre pietre. Erano così ben connesse che non
lasciavano apparire la congiunzione. Sembrava che l’edificio della torre fosse come
costruito con una sola pietra.

Delle pietre portate dalla superficie scartavano alcune ed altre mettevano in opera
nella costruzione. Ne spezzavano altre ancora buttandole lontano dalla torre.

Molte altre pietre giacevano intorno alla torre che non venivano utilizzate nella
costruzione. Alcune erano bozzute, altre avevano delle crepe, altre erano mutile, altre
bianche e sferiche e non si adattavano alla costruzione.

Vedevo che altre pietre venivano gettate lontano dalla torre. Cadevano sulla strada e
non si fermavano, ma rotolavano nelle parti impraticabili. Altre, invece, cadevano nel
fuoco e bruciavano; altre cadevano vicino all’acqua e non potevano rotolarvisi, sebbene
lo volessero, ed entrare nell’acqua...

«... La torre, che vedi costruire, sono io la Chiesa che ti sono apparsa ora e prima.
Domandami ciò che vuoi riguardo alla torre e te lo farò sapere perché tu gioisca con i
santi»...

Le domandai: «Signora, per qual motivo la torre viene innalzata sulle acque?». Essa
mi rispose: «Te lo dissi già che sei curioso e sollecitato dalla ricerca. Ricercando,
dunque, trovi il vero. Ascolta perché la torre viene costruita sulle acque: la nostra vita fu
salva e sarà salva mediante l’acqua. La torre è stata innalzata con la parola del nome
onnipotente e glorioso ed è retta dalla potenza invisibile e infinita».

Di rimando le dico: «Signora, la cosa è grande e mirabile. I sei giovani che


costruiscono chi sono?». «Sono i santi angeli di Dio creati per primi, cui il Signore
affidò tutta la sua creazione per accrescerla, farla progredire e governarla. Per mezzo
loro sarà mandata a termine la fabbricazione della torre».

«Chi sono gli altri che trasportano le pietre?». «Anch’essi sono angeli santi di Dio;
ma i sei sono superiori. La costruzione della torre sarà mandata a termine, e tutti
insieme vi gioiranno intorno e glorificheranno il Signore perché fu compiuta la
costruzione della torre».

Le domandai: «Signora, desidererei conoscere la sorte delle pietre e la loro forza»...

«Ascolta ora quanto concerne le pietre che entrano nella costruzione. Le pietre
quadrate, bianche e che combaciano con le loro congiunture sono gli apostoli, i vescovi,
i maestri e i diaconi che camminando nella santità di Dio hanno governato, insegnato e
servito con purezza e santità gli eletti di Dio, quelli che sono morti e quelli che sono
ancora vivi. Vissero sempre in armonia tra loro, stando in pace e l’uno ascoltando
l’altro. Per questo nella costruzione della torre le loro congiunture sono giuste».

«E quelle tratte dal fondo e poste nella costruzione, che combaciano con le
connessure delle altre pietre già ordinate chi sono?». «Sono quelli che hanno patito per
il nome del Signore».

«Le altre pietre che vengono portate dalla superficie della terra vorrei sapere chi
sono, Signora». Disse: «Quelle che si mettono nella costruzione, senza essere tagliate, le
ha valutate il Signore perché camminarono nella sua rettitudine e ubbidirono ai suoi
comandi».

«E quelle trasportate e messe in opera chi sono?». «I novizi della fede e i credenti.
Sono esortati dagli angeli a fare il bene e non ci fu in loro malizia».

«Quelle che venivano scartate e gettate, chi sono?». «Sono coloro che hanno
peccato e vogliono pentirsi; non furono gettati lontano dalla torre poiché saranno utili
alla costruzione se si pentiranno. Quelli che stanno per pentirsi, se faranno penitenza,
saranno forti nella fede, purché facciano penitenza ora che la torre è in costruzione.
Quando la costruzione è finita non avranno più posto e resteranno tagliati fuori.
Ottengono soltanto di rimanere vicino alla torre».

«Vuoi sapere chi sono le pietre tagliate e gettate lontano dalla torre? Sono i figli
della malizia. Credettero con ipocrisia e furono di ogni cattiveria. Per questo non hanno
salvezza: non sono adatte alla costruzione per la loro malvagità. Dall’ira del Signore,
perché lo disgustarono, furono tagliate e scaraventate lontano.

Le altre, che hai visto in gran numero giacenti senza essere adoperate nella
costruzione, sono le scabrose, quelli che hanno conosciuto la verità, senza permanere in
essa e senza unirsi ai santi, perciò inutili».

«Quelli che avevano le crepe, chi sono?». «Quelli che nel cuore sono gli uni contro
gli altri e non stanno in pace. Hanno un’apparenza di pace, gli uni sono lontani dagli
altri e le malvagità permangono nel loro cuore, le crepe che le pietre hanno.

Le pietre mozze sono quelli che hanno creduto tenendo la parte maggiore nella
giustizia e conservando qualche elemento di malvagità. Per questo sono mutili e non
interi».

«Le pietre bianche, sferiche e non adatte alla costruzione, chi sono, signora?». Mi
dice: «Sino a quando tu sarai stolto e senza senno? Vorrai tutto sapere senza nulla
capire? Sono quelli che conservano la fede, ma anche le ricchezze di questo mondo.
Quando sopraggiunge una tribolazione, per le loro ricchezze e i loro affari, rinnegano il
Signore».

Le dico: «Signora, quando saranno utili alla costruzione?». «Quando si elimina la


ricchezza che li domina, mi dice, allora saranno utili a Dio. Come la pietra sferica se
non viene ritagliata e non perde qualche cosa di sé non può diventare quadrata, così i
ricchi di questo mondo, se non perdono la ricchezza, non potranno essere utili al
Signore.

Sappilo da te: quando eri ricco eri inutile. Ora sei utile e fruttuoso alla vita.
Diventate utili a Dio! Anche tu sei stato utilizzato da queste pietre».

«Le altre pietre che hai visto lanciare lontano dalla torre e cadere sulla strada e dalla
strada rotolare per luoghi impraticabili, sono quelli che hanno fede, ma per la doppiezza
del loro animo si allontanano dalla via della verità. Essi, credendo di poter trovare una
strada migliore, si ingannano e da infelici vagano per luoghi impervi.
Quelle che cadono nel fuoco e ardono sono le persone che per sempre hanno
apostatato dal Dio vivente. Esse per le passioni e le scostumatezze e per le cattiverie
commesse non hanno mai in animo di pentirsi».

«Vuoi sapere chi sono quelle che cadono vicino all’acqua e non possono rotolare
nell’acqua? Sono quelli che hanno ascoltato la parola (Mc 4,18 Mt 13,20-22) e vogliono
essere battezzati nel nome del Signore (Ac 19,5). Ma quando risale alla mente la purezza
della verità cambiano parere e di nuovo corrono dietro alle loro turpi passioni».

Terminò la spiegazione simbolica della torre.

Erma, Pastor, Visioni III

3. Siamo noi il tempio di Dio

Abbiamo anche oggi, o fratelli, una festa e una festa speciale. E questo è facile da
dire; ma se insistete a chiedermi di quale santo essa sia, la risposta non è più così facile.
Quando, infatti, si celebra la memoria di un apostolo, di un martire, o di un confessore,
non è difficile dire di chi, come potrebbe essere di san Pietro, di Stefano glorioso, del
nostro santo Padre Benedetto, o di un altro dei grandi principi della corte celeste. Ma
oggi non si tratta di nessuno di questi; ma c’è una festa e non piccola. E, se volete
sentirlo, è la festa della casa di Dio, del tempio di Dio, della città del re eterno, della
sposa di Cristo...

Dov’è questa casa di Dio, tempio, città, sposa di Cristo? Lo dico con timore e
rispetto: Siamo noi. Noi, dico, ma nel cuore di Dio. Noi, ma per sua degnazione, non
per merito nostro. E non s’arroghi l’uomo, per magnificar se stesso, ciò ch’è di Dio;
perché Dio, reclamando il suo, umilierà l’orgoglioso. Perché, anche se per una certa
infantile pretesa vogliamo essere salvati gratuitamente, non è quella la via della
salvezza. La dissimulazione della propria miseria impedisce la misericordia di Dio, e
non c’è posto per divina degnazione, dov’è già presunzione di dignità; è l’umile
confessione della sofferenza che attira la compassione. Questa sola fa che il padre di
famiglia ci nutra col suo pane e viviamo in abbondanza nella sua casa. Eccoci, dunque,
casa di Dio, cui non manca mai il cibo della vita. E ricordati ch’egli chiama la sua casa,
casa di preghiera (Mt 21,13). E questo s’accorda con la parola del Profeta, il quale
afferma che dobbiamo essere nutriti, attraverso la preghiera, s’intende, col pane delle
lagrime e che nelle lagrime ci sarà dato da bere (Ps 79,6). Del resto secondo lo stesso
Profeta, come abbiamo già detto, questa casa vuole santità (Ps 92,5): cioè la purità della
continenza deve unirsi alle lagrime della penitenza e così quella che è casa diventa
anche tempio. Siate santi, perché io, il Signore vostro, sono santo (Lv 11,44) e: Non
sapete che i vostri corpi son tempio dello Spirito Santo, e che lo Spirito Santo abita in
voi? Se qualcuno oserà profanare il tempio di Dio, Dio lo disperderà (1Co 3,16-17).

Ma basta poi la sola santità? Secondo l’Apostolo ci vuole anche la pace. Cercate la
pace con tutti, e la santità, senza di cui nessuno vedrà Dio (He 12,14). È questa che
tiene i fratelli unanimemente insieme e costruisce al nostro re, vero e pacifico, la città
nuova, che sarà chiamata anch’essa Gerusalemme, che vuol dire visione di pace. Dov’è
raccolta, infatti, una moltitudine, senza un patto di pace, senza osservanza di legge,
acefala, senza disciplina e senza governo, lì non c’è un popolo, ma un’orda, non una
cittadinanza, ma una baraonda: ha tutte le caratteristiche di una Babilonia, ma di
Gerusalemme non ne ha niente...

È il re che dice anche: Ti ho fatta mia sposa sulla mia parola, deliberatamente e
legalmente, ti ho fatta mia sposa per la mia misericordia (Os 2,20). Se non si è
diportato da sposo, se non ti ha amato da sposo, se s’è dimostrato geloso di te, non
accettare d’essere chiamata sposa.

Dunque, fratelli, se è vero che siamo casa del gran padre di famiglia per
l’abbondanza del cibo, se siam tempio di Dio per la santificazione, se siamo il popolo
del gran re per l’armonia della vita comune, se siamo sposa dello sposo immortale per
l’amore ch’egli ha per noi, penso che non ci sia nulla che m’impedisca di dire che
questa è la nostra festa.

Bernardo di Chiarav., In dedicat. Eccl. sermo V, 1, 8-10

4. Cristo assegna le mansioni e i carismi nella Chiesa

«Sì, egli ha edificato in giustizia e ha diviso convenientemente le forze di tutto il


popolo. Si è limitato a circondare gli uni di un muro esterno, cioè li ha muniti di una
fede senza errori - questi formavano la stragrande maggioranza della popolazione
incapace di portare una edificazione più pregevole. Ad altri invece ha affidato gli
accessi della casa ed ha loro ordinato di invigilare le porte e di guidare quanti vi
entrano: è a ragione che costoro sono designati come propilei del tempio. Altri ha
appoggiati alle prime colonne esteriori, che sono disposte a quadrangolo nell’atrio,
introducendoli a superare le prime difficoltà del senso letterale dei Vangeli. Altri ancora
ha avvicinati ai due lati della Basilica: rappresentano i catecumeni, che sono ancora in
stato di crescimento e di progresso, sebbene non siano molto lontani e separati dallo
scrutamento dei misteri intimi e profondi, riservati ai fedeli.

Tra di essi sceglie le anime pure, che il lavacro divino ha deterso a guisa d’oro, e
applica le une alle colonne molto più solide di quelle esterne, ossia alle dottrine mistiche
più segrete della Scrittura, le altre rischiara a mezzo delle aperture orientate verso la
luce.

Tutto il tempio egli lo ha ornato con un grandissimo vestibolo, che è la dossologia


del solo e unico Dio, sovrano universale, e presenta a ciascun lato della potestà suprema
del Padre [i secondari splendori della luce], di Cristo e dello Spirito Santo. E infine egli
ha mostrato in tutta la Basilica la chiarezza e la lucentezza abbondante e molto distinta
della verità in ogni sua singola parte. Ha scelto sempre e da ogni dove le pietre viventi,
ferme e salde delle anime e si è servito di tutte queste per costruire l’edificio grande,
regale, splendido, pieno di luce di dentro e di fuori. Infatti non soltanto l’anima e
l’intelligenza, ma anche il corpo era in essi abbellito dalla fiorita venustà della purezza e
della modestia...

Questo è il vasto tempio, che il grande artefice dell’universo, il Verbo, si è


costituito su tutta la terra abitata sotto il sole e con cui sulla terra stessa si è formato una
immagine spirituale di ciò che è di là dalle volte celesti, onde il Padre sia onorato e
riverito da tutto il creato e dagli esseri razionali della terra.
Ma nessun mortale può adeguatamente magnificare la regione sopraceleste, gli
esemplari che ivi sono delle cose di quaggiù, quella ch’è chiamata la Gerusalemme
superna, il monte Sion celeste, la città sopraterrena del Dio vivente, in cui innumerevoli
schiere di angeli e la Chiesa dei primogeniti inscritti nei cieli celebrano il loro Creatore
e Sovrano dell’universo con teologie ineffabili e al nostro intelletto inaccessibili, perché
né l’occhio ha mai visto né l’orecchio ha inteso né mai è entrato nel cuore dell’uomo
ciò che Dio ha preparato a coloro che lo amano (1Co 2,9).

Delle quali cose sin d’ora per divino beneficio partecipi sotto un certo aspetto,
uomini, bambini e donne, piccoli e grandi, tutti insieme in un solo spirito e in una sola
anima, non tralasciamo di confessare e di lodare l’autore di tanti beni a noi largiti: Colui
che perdona tutte le nostre iniquità, che risana tutte le nostre malattie, Colui che libera
la nostra vita dalla corruzione, che ci corona nella misericordia e nella pietà, che
soddisfa nei beni il nostro desiderio, perché non ha agito con noi secondo i nostri
peccati e non ci ha chiesto il fio dei nostri misfatti, perché quanto è lontano l’oriente
dall’occidente, ha allontanato da noi le iniquità. Come un padre ha pietà verso i suoi
figli, il Signore ha pietà verso coloro che lo temono (Ps 102,3-5 Ps 102,10 Ps 102,12-
13).

Conserviamo queste cose vive nel ricordo adesso e per tutto il tempo avvenire!
Giorno e notte, in ogni ora e, per così dire, a ogni respiro vogliamo aver presente
davanti agli occhi dello spirito l’autore e preside di questa assemblea e di questa
giornata splendida e raggiante, amandolo e onorandolo con tutta la forza dell’anima.
Ora alziamoci e preghiamolo con voce alta, che parta dal cuore, che ci tenga nel suo
gregge sino alla fine (Jn 10,16), che ci salvi, che ci dia la Sua pace inviolabile,
inconcussa ed eterna in Gesù Cristo, Salvatore nostro, per il quale a Lui sia gloria nei
secoli. Così sia».

Eusebio di Cesarea, Hist. eccl., X, 4, 63-65; 69-72

5. «La Chiesa non è un luogo, ma una fede»

Alcuni giorni or sono fu assediata la chiesa; venne l’esercito, sprizzava fuoco dagli
occhi, ma non gettarono neanche un’oliva fradicia; furono tirate fuori le spade, ma
nessuno fu ferito; la casa imperiale era in angoscia, ma la chiesa stava al sicuro, anche
se la guerra era qui. Era cercato qui colui che qui s’era rifugiato; senza paura
contenemmo il furore di quelli. Come mai? Avevamo una garanzia solidissima: Tu sei
Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte dell’inferno non
prevarranno contro di essa (Mt 16,18).

Dico la Chiesa, non intendo soltanto un luogo, non le mura della chiesa, ma le leggi
della Chiesa. Se ti rifugi nella chiesa, non cercare un luogo, rifugiati col tuo animo. La
Chiesa non è una cinta di mura o un tetto, ma una fede, una norma di vita.

Non dire ch’egli fu tradito dalla Chiesa; se non avesse lasciato la chiesa, non
sarebbe stato preso. Non dire ch’egli si rifugiò nella chiesa e fu consegnato. Non fu la
Chiesa a metterlo fuori, fu lui a lasciare la Chiesa. Non fu consegnato dentro, ma fuori.
Perché lasciò la Chiesa? Volevi essere salvato? Dovevi abbracciarti all’altare. Non
queste mura, ma la provvidenza di Dio ti poteva salvare. Eri peccatore? Dio non ti
respinge per questo; non venne per i giusti, ma per condurre i peccatori alla penitenza
(Mt 9,13). Una meretrice ottenne la salvezza, perché gli abbracciò i piedi. Hai sentito la
lettura di oggi? E dico questo perché non esiti mai a rifugiarti nella Chiesa. Resta nella
Chiesa e non sarai mai consegnato dalla Chiesa. Ma se te ne fuggirai dalla Chiesa, la
Chiesa non è più in causa. Finché starai dentro, il lupo non entrerà; ma se uscirai, sarai
preso dalla belva; né dovrai incolparne il recinto, ma la tua pusillanimità. Non c’è niente
come la Chiesa. Non mi parlare di mura né di armi le mura col tempo si sgretolano, la
Chiesa non invecchia mai. I barbari possono demolire le mura, la Chiesa neanche i
demoni la possono vincere. E queste non son parole di vanto, lo dimostrano i fatti.
Quanti affrontarono la Chiesa e perirono? La Chiesa supera i cieli.

Questa è la grandezza della Chiesa: aggredita vince, insidiata si libera, insultata


diventa più bella, ferita non cade, agitata dalle onde non affoga, battuta dalla tempesta
non naufraga, nella lotta non è battuta, vien presa a pugni, ma non viene vinta.

Crisostomo Giovanni, Hom. de Eutropio capto, 1 s.

COMUNE DELLE FESTE DELLA B.V. MARIA

Maria, esaltata sopra tutti gli angeli e gli uomini quale santissima Madre di Dio, riceve
dalla Chiesa una venerazione particolare. Durante l’anno liturgico, la Chiesa riflette
prima di tutto sulla partecipazione di Maria al mistero della salvezza. Ma ci sono anche
diverse feste mariane, che indicano quanto Maria è vicina a coloro che camminano
lungo la via mostrata dal Figlio suo. La Chiesa celebra la Natività della Madonna; la
pietà secolare commemora la sua Presentazione al tempio, fatta da Gioacchino ed
Anna (21 settembre), nonché venera il suo Cuore Immacolato, totalmente dedito a Dio
(sabato dopo la Solennità del Sacro Cuore di Gesù).

Maria resta nell’ombra durante l’attività pubblica di Gesù ma «medita nel suo
cuore» le grandi opere di Dio: abbiamo davanti agli occhi il suo silenzio e la sua
contemplazione quando celebriamo il giorno della Beata Maria Vergine del Rosario (7
ottobre). La pietà non poteva fare a meno di Maria sotto la Croce e perciò subito dopo
la festa dell’Esaltazione della Croce ricordiamo nella liturgia la Beata Vergine Maria
Addolorata (15 settembre).

Nel calendario liturgico troviamo anche la commemorazione della Dedicazione


della Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, il tempio mariano più bello
dell’Occidente (5 agosto). I monaci del Monte Carmelo si affidano alla particolare
protezione di Maria Vergine, la venerano quale Madre di Dio sul Monte Carmelo (16
luglio), e questa commemorazione si diffonde in tutto il mondo. Le rivelazioni della
Madre di Dio a Lourdes (1858) rendono questa località uno dei centri principali dei
pellegrinaggi e ciò determinò Pio X a costituire una speciale festa (11 febbraio).

Quasi ogni Chiesa locale ha un suo santuario mariano dove si recano i pellegrini;
quasi in ogni calendario locale troviamo una festa mariana propria. E un’antica
tradizione della Chiesa che risale ai tempi carolingi glorificare Maria in ogni sabato
nel messale troviamo la Messa di «Santa Maria in sabato».

Una volta, Maria cantò nella casa di Elisabetta le parole profetiche: «Tutte le
generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente» (Lc 1,48-
49a). La Chiesa «in Maria ammira ed esalta il frutto più eccelso della Redenzione, ed
in lei contempla con gioia, come in una immagine purissima, ciò che essa, tutta,
desidera e spera di essere» (Sacrosanctum Concilium SC 103). Essa invita i fedeli a
venerare la Madre di Gesù, poiché ella è per tutti il modello del culto reso a Dio, è la
maestra della vera pietà.

Ave, regina dei cieli,

ave, signora degli angeli;

porta e radice di salvezza,

rechi nel mondo la luce.

Godi, vergine gloriosa,

bella fra tutte le donne;

salve, o tutta santa,

prega per noi Cristo Signore.

Liturgia Horarum, I: Ad Completorium, Antiph. fin. de B.V.M.

1. Le grandezze di Maria

Figlio della Vergine, fa’ che io parli della Genitrice tua,

sebbene io confessi che la parola su di lei è superiore a noi.

Un cantico di ammirazione ora a parlar mi muove,

e voi, prudenti, con l’orecchio dell’anima, con amore udite.

Il mistero di Maria si agita in me, perché lo mostri con

ammirazione,

voi, con prudenza, le vostre menti disponete.

La Vergine santissima oggi mi chiama a parlar di lei,

purifichiamo l’udito per il suo bel mistero, perché non sia


disonorato.

Cielo secondo, nel cui seno abita il Signor dei cieli

e da lei splendette per cacciar le tenebre dal mondo.

Benedetta fra le donne, per cui la maledizione della terra fu

sradicata,

e la pena di condanna già da lei ebbe fine e per l’avvenire.

Pudica e casta e di bellezze di santità ripiena,

e piccola (è) per lei la bocca mia perché di lei faccia parola.

Figliuola di poveri, che madre del Signor dei Re è divenuta,

e dette ricchezza al mondo povero perché di essa vivesse.

Nave che dalla casa del Padre tesori e beni ha portato,

e venne a diffondere la ricchezza sulla terra che n’era priva.

Campo buono che, senza seme, covoni dette,

da cui non arato grande provento crebbe.

Eva seconda che tra i mortali la vita ha generato,

e pagò e strappò il chirografo di Eva madre sua.

Fanciulla che all’ava prostrata ha offerto aiuto,

e dalla caduta, cui la spinse il serpente, ha sollevata...

È più facile dipingere il sole con la sua luce ed il suo calore,

che con onore parlare del mistero di Maria.

Si può forse in colori comprendere il disco dei raggi,

ma il discorso su di lei dagli oratori non si esaurisce...

Tutte le donne mirò, volendo il Signor nostro in terra scendere,

ed una si scelse che era fra tutte bella.

Quella scrutò ed umiltà e santità trovò in essa,


e bei pensieri ed un’anima della divinità innamorata,

ed un cuor puro e tutti pensieri di perfezione;

e perciò lei scelse pura e di bellezze piena.

Dal luogo suo discese ed abitò nella benedetta delle donne,

perché non v’era al mondo compagna a lei da paragonare.

Sola umile pura bella e immacolata,

ché lei d’esser la madre sua fu fatta degna ed altra no...

Era prudente e piena d’amor di Dio,

poiché non abita il Signor nostro dove non regna amore...

Beata, che lo Spirito Santo accolse e lei purificò, mondò,

e lei tempio fece ed il Signor dei cieli nella sua abitazione dimorò.

Beata, perché sussiste la bellezza grande della sua verginità,

ed il cui nome nei secoli grandemente splende.

Beata colei, per la cui opera, letizia avvenne ai figliuol di Adamo

e per lei i caduti, precipitati dalla casa del Padre, si levarono...

Beata, nel cui seno piccolo e disadorno abitò

il Grande di cui son ripieni i cieli, che per lui son piccoli.

Beata, che partorì l’Antico che generò Adamo,

per la quale si rinnovarono le creature già invecchiate.

Giacomo di Sarug, Hom., 1, passim

2. Nessuno si salva senza di te, o Santissima

Tu, o purissima e pietosissima Signora, aiuto dei cristiani, rifugio sempre pronto dei
peccatori, non ci lasciare senza il tuo soccorso. Abbandonati da te, dove ci rifugeremo?
Che sarà di noi, o santissima Madre di Dio, che sei lo spirito e il fiato dei cristiani?
Come infatti il respiro è certo segno di vita nel nostro corpo, così la presenza ininterrotta
del tuo nome sul nostro labbro, pronunziato in ogni circostanza e luogo e tempo, è
indizio di vita, di gioie e di soccorso; non solo indizio, ma causa anche Coprici con le
ali della tua bontà, sii il nostro presidio con la tua intercessione, assicuraci la vita eterna,
tu che sei la speranza infallibile dei cristiani. Lascia, dunque, che noi, che siamo spogli
di opere e virtù divine, al vedere la ricchezza di bontà, che Dio ci ha largito per tuo
mezzo, diciamo: La terra è piena di misericordia di Dio (Ps 32,5). Per te noi, lontani da
Dio a causa dei nostri peccati, abbiamo cercato Dio e, trovatolo, siamo stati salvati. Il
tuo aiuto, o Madre di Dio, è così potente, che non abbiamo bisogno di alcun altro
avvocato. Conoscendo tutto questo e avendo sperimentato nel pericolo l’abbondanza del
tuo soccorso a ogni nostra invocazione, noi tuo popolo, tua eredità, tuo gregge, detto
cristiano dal nome di tuo Figlio, ricorriamo a te. Certo, infatti, la tua magnificenza è
senza fine, il tuo soccorso è insaziabile. I tuoi doni son senza numero. Nessuno si salva
se non per te, o santissima. Nessuno è liberato dal male se non per te, o immacolata.
Nessuno riceve un favore se non per te castissima. Nessuno ottiene misericordia se non
per te, o benedettissima. Chi, dunque, non ti chiamerà beata? Chi non ti loderà? Chi non
ti glorificherà, anche se non quanto meriti, ma certo con tutto il suo impegno, o gloriosa,
o benedetta, che hai ricevuto da tuo Figlio Gesù Cristo cose tanto grandi, che tutte le
generazioni ti benedicono?

Chi come te, nel senso del tuo unico Figlio, ha cura del genere umano? Chi come te
ci difende nelle avversità? Chi ci strappa dalla violenza delle tentazioni con più
prontezza di te? Chi si preoccupa, come te, d’intercedere per i peccatori? Chi si
compromette tanto per coloro che non danno nessuna speranza di emendamento? Tu
sola, infatti, che godi di fiducia e autorità presso tuo Figlio, sebbene già quasi
condannati e incapaci di voltarci verso il cielo, ci salvi con le tue suppliche e ci liberi
dal supplizio eterno. Perciò, chi è afflitto, ricorre a te. Chi riceve un torto, si volge a te.
Chi è irretito nel male, chiede il tuo aiuto. In te, o Madre di Dio, è tutto incredibile e
meraviglioso; tutto supera i confini della natura e della nostra capacità e intelligenza. E
anche la tua protezione va al di là di quanto noi possiamo comprendere. Noi, infatti,
respinti e nemici di Dio, tu hai riconciliati, per mezzo di tuo Figlio; ci hai unito a Dio e
ci hai fatto suoi figli ed eredi. Tu offri ogni giorno la tua mano ai naufraghi del peccato
e li salvi dai flutti. Tu, alla sola invocazione del tuo nome, o santissima, respingi gli
assalti che il malvagio nemico fa contro i tuoi servi e li salvi e li assicuri. Tu liberi da
ogni tribolazione e da ogni specie di tentazione coloro che si volgono a te e li previeni
anche, o immacolatissima. Perciò accorriamo premurosi al tuo tempio, nel quale ci
sembra di stare in paradiso. In esso, infatti, mentre cantiamo le tue lodi, ci sembra di far
parte dei cori degli angeli. Quale stirpe di uomini ha mai avuto un tale splendore, una
tale difesa, una tale patrona fuori del solo popolo cristiano? Chi, fissando gli occhi sulla
venerabile tua cintura, o Madre di Dio, non si sente riempire di gioia? Chi s’è mai
inginocchiato innanzi ad essa e se n’è uscito senza aver ottenuto la grazia che chiedeva?
Chi, guardando la tua immagine, non s’è dimenticato subito d’ogni sua avversità? Ma
non si può dire a parole di quanta gioia, letizia e piacere sian pieni coloro che vengono a
venerare il tuo tempio, dove oggi celebriamo la reposizione della tua cintura e delle
fasce di tuo Figlio e nostro Dio.

O urna alla quale noi, bruciati dall’ardore del male, attingiamo la manna del
refrigerio! O mensa, grazie alla quale, noi, che morivamo di fame, sovrabbondiamo di
pane della vita! O candelabro, per i cui fulgori, noi, che sedevamo nelle tenebre, siamo
avvolti da un’immensa luce! Tu hai da Dio la lode che s’addice a te; ma non respingere
la nostra, perché indegna e inadeguata, essa è fatta almeno con tutto il nostro amore.
Non respingere, o benedettissima, la lode espressa dalle nostre labbra impure, perché
nasce da un animo che ti ama. Non disdegnare le parole di una lingua indegna, ma tieni
conto del nostro grande amore e ottienici da Dio il perdono dei peccati, la cancellazione
di ogni macchia e la gioia della vita eterna. Guarda dal tuo santo trono questa corona di
popolo che ti circonda e che ti venera come sua Signora e patrona, che è venuta
liberamente a celebrar le tue lodi, o Madre di Dio, e liberala da ogni male con la tua
materna attenzione; proteggila da ogni genere di malattia, da ogni genere d’impurità, da
ogni torto; colmala di ogni gioia, di salute, di ogni grazia; e al ritorno di tuo Figlio, il
clementissimo nostro Signore, quando saremo chiamati innanzi al giudice, col tuo
braccio potente - e lo puoi, perché sei sua Madre - fa’ in modo che possiamo evitare il
fuoco eterno e ottenere l’eternità del paradiso, per gentile dono di tuo Figlio, il Signor
nostro Gesù Cristo.

Germano di Costantinopoli, Oratio IX, n. 1829

3. La croce è la cattedra di Cristo

Dopo che il Signore fu crocifisso e dopo che i soldati si divisero le sue vesti tirando
a sorte la tunica, vediamo il seguito del racconto dell’evangelista Giovanni. Questo
dunque fecero i soldati. Presso la croce di Gesù stavano sua madre e la sorella di lei,
Maria di Cleofa e Maria Maddalena. Vedendo la madre, e accanto a lei il discepolo che
egli amava, Gesù disse a sua madre: Donna, ecco tuo figlio. Poi disse al discepolo:
Ecco tua madre. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa (Jn 19,24-27).
Questa è l’ora della quale Gesù, nel momento di mutare l’acqua in vino, aveva parlato
alla madre, dicendo: Che c’è tra me e te, o donna? La mia ora non è ancora venuta (Jn
2,4).

Egli aveva annunciato quest’ora, che non era ancora giunta, e nella quale, morendo,
avrebbe riconosciuto colei dalla quale aveva ricevuto questa vita mortale. Allora,
quando stava per compiere un’opera divina, sembrava allontanare da sé, come una
sconosciuta, la madre, non della divinità ma della sua debolezza umana; al contrario, ora
che stava sopportando sofferenze proprie della condizione umana, raccomandava con
affetto umano colei dalla quale si era fatto uomo. Allora colui che aveva creato Maria si
manifestava nella sua potenza; ora colui che Maria aveva partorito, pendeva dalla croce.

C’è qui un insegnamento morale. Egli stesso fa ciò che ordina di fare, e, come
maestro buono, col suo esempio insegna ai suoi che ogni buon figlio deve aver cura dei
suoi genitori. Il legno della croce al quale erano state confitte le membra del morente,
diventò la cattedra del maestro che insegna. È da questa sana dottrina che l’Apostolo
apprese ciò che insegnava, dicendo: Se qualcuno non ha cura dei suoi, soprattutto di
quelli di casa costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele (1Tm 5,8). Chi è
più di casa dei genitori per i figli, o dei figli per i genitori? Il maestro dei santi offrì
personalmente l’esempio di questo salutare precetto, quando, non come Dio ad una
serva da lui creata e governata, ma come uomo alla madre che lo aveva messo al mondo
e che egli lasciava, provvide lasciando il discepolo quasi come un altro figlio che
prendesse il suo posto. Perché lo abbia fatto viene spiegato da ciò che segue. Infatti
l’evangelista dice: e da quel momento il discepolo la prese in casa sua. E di sé che egli
parla. Egli è solito designare se stesso come il discepolo che Gesù amava. È certo che
Gesù voleva bene a tutti i suoi discepoli, ma per Giovanni nutriva un affetto tutto
particolare, tanto da permettergli di poggiare la testa sul suo petto durante la cena (Jn
13,23), allo scopo, credo, di raccomandare a noi più efficacemente la divina elevazione
di questo Vangelo che egli avrebbe dovuto proclamare.
Ma in che senso Giovanni prese con sé la madre del Signore? Non era egli forse
uno di coloro che avevano detto al Signore: Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti
abbiamo seguito (Mt 19,27)? Ma ad essi il Signore aveva anche risposto che qualunque
cosa avessero lasciato per seguirlo, avrebbero ricevuto, in questo stesso mondo, cento
volte tanto (Mt 19,29). Quel discepolo pertanto conseguiva il centuplo di quello che
aveva lasciato, fra cui anche il privilegio di accogliere la madre del donatore. Il beato
Giovanni aveva ricevuto il centuplo in quella società, nella quale nessuno diceva
proprio qualunque suo bene, in quanto tutto era comune a tutti; come appunto si legge
negli Atti degli Apostoli. E così gli Apostoli non avevano niente e possedevano tutto
(2Co 6,10). In che modo, dunque, il discepolo e servo ricevette la madre del suo
Maestro e Signore tra i suoi beni, in quella società dove nessuno poteva dire di avere
qualcosa di suo? Poco più avanti, nel medesimo libro, si legge: Quanti possedevano
terreni e case, li vendevano e ne portavano il ricavato e lo deponevano ai piedi degli
Apostoli; ed esso veniva man mano distribuito a ciascuno proporzionalmente al bisogno
(Ac 4,34-35). Da queste parole si può arguire che a questo discepolo venne assegnato
quanto personalmente egli aveva bisogno e in più quanto gli era necessario per il
mantenimento della beata Maria, considerata come sua madre. Non è forse il senso più
ovvio della frase: da quel momento il discepolo la prese in casa sua, che cioè egli prese
su di sé l’incarico di provvedere a lei in tutto? Egli se la prese con sé, non nei suoi
poderi, perché non possedeva nulla di proprio, ma tra i suoi impegni, ai quali attendeva
con dedizione.

Agostino, In Io. Ev. tract., 119, 1-3

4. Gesù ci affida la Madre sua

Ma le donne stavano là, osservando queste cose, stava là anche la Madre (Jn 19,25),
poiché essa, spinta dalla pietà, non si dava pensiero delle proprie sofferenze. Però anche
il Signore, sospeso alla croce, disprezzando le proprie sofferenze, con affettuosa
sensibilità raccomandava sua Madre (Jn 19,26). Non senza significato, Giovanni ne ha
trattato con ricchezza di particolari. Gli altri, infatti, hanno descritto che il mondo fu
squassato, che il cielo fu ricoperto di tenebre, che il sole sparì. Matteo e Marco, i quali
con maggiore dovizia hanno trattato gli aspetti umani e morali, hanno aggiunto: Dio,
Dio mio, guardami! Perché mi hai abbandonato? (Mc 15,34 Mt 27,46 Ps 21,2); affinché
noi credessimo che l’aver assunto sopra di sé la condizione umana voleva dire per
Cristo giungere fino alla croce. Luca poi sottolineò chiaramente come si accordasse
bene il fatto che con sacerdotale intercessione il perdono fu concesso al ladrone, e che,
con la stessa bontà, si implorava il perdono per i persecutori Giudei (Lc 23,34).

Giovanni, invece, il quale penetrò più a fondo nei divini misteri, non a torto ha
cercato di dimostrare che Colei, la quale aveva generato Dio, era rimasta vergine. Solo
lui, pertanto, mi insegna ciò che gli altri non mi hanno insegnato, che cioè il Crocifisso
l’ha chiamata Madre; e così ha ritenuto molto più significativo che il vincitore dei
tormenti e delle sofferenze, il vincitore del diavolo, compartisse le dimostrazioni del suo
affetto, non che donasse il Regno celeste. Effettivamente, che il ladrone riceva il
perdono dal Signore, è segno di profonda pietà; ma lo è molto, molto di più che la
Madre venga onorata dal Figlio.
Non si giudichi però che io abbia cambiato l’ordine, se ho scritto che ha assolto il
malfattore prima di nominare la Madre; Egli infatti era venuto per salvare i peccatori
(1Tm 1,15); e non trovo sconveniente se, nei miei scritti, ha adempiuto in primo luogo
l’incarico che si era assunto, procurando la salvezza ad un peccatore. Del resto è Lui
stesso che ha detto: Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? (Mt 12,48), perché non
era venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori (Lc 5,32). Là però era a proposito, ma qui,
non immemore della Madre neanche sulla croce, la interpella dicendo: Ecco tuo figlio, e
a Giovanni: Ecco tua madre (Jn 19,26-27). Dall’alto della croce Cristo dettava le ultime
volontà, e Giovanni, degno teste di un così grande testatore, suggellava il suo
testamento. Stupendo testamento, che lascia non il denaro ma la vita, che viene scritto
non con l’inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente (2Co 3,3)...

Mentre gli apostoli fuggivano, Maria, non certo impari ad un compito degno della
Madre di Cristo, stava ritta di fronte alla croce e mirava con occhi pietosi le piaghe del
Figlio, perché attendeva non la morte del pegno, ma la salvezza del mondo.

Ambrogio, Exp. Ev. Luc., 10, 129-132

5. Per la virtù di Cristo l’acqua rigenera il credente

Riconosca dunque la fede cattolica la propria nobiltà nell’umiltà del Signore e la


Chiesa, corpo di Cristo, trovi la propria gioia nei misteri della sua salvezza: in effetti, se
il Verbo di Dio non si fosse fatto carne e non avesse abitato in mezzo a noi (Jn 1,14); se
il Creatore in persona non fosse disceso verso la sua creatura per unirsi ad essa,
riconducendo, con la sua nascita, l’umanità invecchiata verso un nuovo inizio, la morte
regnerebbe da Adamo sino alla fine (Rm 5,14), e su tutti gli uomini peserebbe una
condanna senza appello, essendo la nascita di per sé e per tutti la causa comune della
loro rovina. Ecco perché, unico tra i figli degli uomini, il Signore Gesù è nato innocente,
essendo stato lui solo concepito senza la bruttura della concupiscenza della carne. Si è
fatto uomo della nostra razza affinché noi divenissimo partecipi della natura divina (2P
1,4). Lo zampillo di vita che ha preso nel seno della Vergine, egli lo ha trasfuso nel
fonte battesimale, egli ha dato all’acqua ciò che aveva dato a sua madre: infatti, la
potenza dell’Altissimo e l’ombra dello Spirito Santo (Lc 1,35), che hanno fatto sì che
Maria mettesse al mondo il Salvatore, fanno sì che anche l’acqua rigeneri il credente.

Leone Magno, Orat. 25, 5

6. La grazia adegua il peccato

Attraverso gli stessi passi, per i quali era caduta la natura umana, essa è stata
riparata dal Signore Gesù Cristo. Adamo superbo, Cristo umile; per una donna la morte,
per una donna la vita; per Eva la rovina, per Maria la salvezza. Quella ingannata seguì il
seduttore, questa integra generò il Salvatore. Quella volentieri accettò il veleno
propinatole dal serpente e lo passò al marito, e ambedue meritarono la morte; questa
ripiena di grazia celeste, generò la vita, che dà alla carne morta la forza della
resurrezione. Chi ha potuto far questo, se non il figlio d’una vergine e sposa di vergini?
Colui che poté dare fecondità alla madre, senza toglierle la verginità. Ciò che diede a
sua madre, lo donò anche alla sua sposa, la Chiesa. Perciò la santa Chiesa, che è unita a
lui, vergine a vergine, partorisce ogni giorno nuovi figli, ed è vergine.

Quodvultdeus, De Symbolo, 4, 4

7. Maria, la nuova Eva, è Madre dei viventi

Essa è Eva, la madre di tutti i viventi (Gn 3,20). In realtà, se puoi capire il senso di
quelle parole: Cercare il vivente tra i morti (Lc 24,5), comprenderai che i morti sono
coloro che sono senza Cristo, e non partecipano alla vita, cioè non partecipano a Cristo,
perché Cristo è la vita (Jn 14,6). Ecco perché la Chiesa è madre dei viventi (Ga 4,26), e
Dio l’ha edificata sullo stesso Cristo Gesù, quale pietra d’angolo nel quale tutta la
costruzione, ben compaginata, cresce fino a formare un tempio.

Venga allora Iddio, edifichi la donna: la prima, come collaboratrice di Adamo, e la


seconda, di Cristo; non perché Cristo cerchi un aiuto, ma perché noi cerchiamo e
desideriamo di giungere nella grazia di Cristo per mezzo della Chiesa. Essa viene tuttora
edificata, tuttora viene formata, tuttora la donna viene plasmata, e tuttora creata. Per
questo la Scrittura ha coniato una parola nuova, dicendo che noi siamo sopra-edificati
sul fondamento degli apostoli e dei profeti (Ep 2,20). E tuttora l’edificio spirituale si
innalza in un sacerdozio santo. Vieni, Signore Iddio, costruisci questa donna, costruisci
la città. Venga anche il tuo servo; a te infatti io credo, quando dici: Egli costruirà la mia
città (Is 45,13).

Ecco la donna, che è madre di tutti, ecco l’edificio spirituale, ecco la città che vive
per l’eternità, poiché ignora la morte.

Ambrogio, Exp. Ev. Luc., 2, 86-88

FESTA DEGLI ANGELI

(2 ottobre)

La Chiesa conosce il culto degli angeli sin dai primi secoli san Giustino lo
menziona nella sua «Apologia» (c. 155), Origene (+ 254) si oppone a coloro che nel
culto degli angeli vedono l’idolatria; san Clemente di Alessandria (+ c. 212) parla
della cura che gli angeli hanno di tutto il creato. Il culto reso agli angeli non assumeva
una particolare forma, ma la Chiesa, celebrando la liturgia, si univa spiritualmente alla
liturgia celeste dei cori degli angeli. Fino ad oggi, questo rimane vivissimo nella
coscienza della Chiesa orientale, come pure continua a essere vivo in Oriente il culto
degli angeli.

I libri della Sacra Scrittura trasmettono i nomi dei tre arcangeli - Michele, Raffaele
e Gabriele -; di qui il culto particolare che si cominciò a rendere loro. Il culto di san
Michele era diffuso in Oriente già nel IV secolo e di questa popolarità danno
testimonianza molte chiese dedicate all’arcangelo. In Occidente, e particolarmente in
Italia, il culto di san Michele è conosciuto fin dall’inizio del V secolo. A Roma, la festa
in suo onore veniva celebrata il 29 settembre, giorno della consacrazione della basilica
dedicata a san Michele, costruita presso la via Salaria. Nel calendario liturgico vi era
un altro giorno dedicato a san Michele, cioè l’8 maggio, che si riferiva alla rivelazione
di san Michele sul Monte Gargano (Italia meridionale). Il centro da cui irradiava il
culto di san Michele su tutta l’Europa era la famosa abbazia di Mont-Saint-Michel in
Normandia, fondata nell’anno 709. La Commemorazione di san Raffaele (21 ottobre) e
di san Gabriele (24 marzo) fu introdotta nel calendario liturgico da Benedetto XV
nell’anno 1921.

In Spagna, nel XV secolo, sorge la festa in onore degli Angeli Custodi, che nel XVI
secolo viene accolta in Francia e col tempo essa entra nel calendario di alcune
province. Paolo V, nell’anno 1608, concede che la festa sia celebrata in tutta la Chiesa
e Clemente X la proclama come festa di precetto. Venne scelto il giorno 2 ottobre, vista
la vicinanza della Solennità di san Michele. Il calendario liturgico attuale unisce la
Commemorazione di san Michele, di san Raffaele e di san Gabriele in un solo giorno -
il 29 settembre - e lascia al suo posto la Commemorazione degli Angeli Custodi.

Gli innumerevoli eserciti degli angeli stanno davanti al volto di Dio e


incessantemente gli rendono onore. Ogni volta che celebriamo l’Eucaristia e
glorifichiamo Dio nel prefazio per le sue grandi opere, noi radunati sulla terra
c’inseriamo nel perenne cantico di lode che risuona in Cielo. Con tutti gli angeli e gli
arcangeli, uniti a tutti i cori celesti esclamiamo: Santo, Santo, Santo il Signore Dio
degli eserciti. L’uomo di fede, riconoscente a Dio per la sua bontà, acclama con le
parole del salmo: «A te voglio cantare davanti agli angeli» (137, 1) e sapendo che da
solo non è capace di esprimere il cantico di gratitudine invoca gli angeli: «Benedite
[con me], angeli del Signore, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli» (Da 3,58).

La Chiesa crede che gli angeli non soltanto circondano il trono di Dio nel sacro
servizio, ma che Dio anche per loro, come per noi, in modo mirabile, ha stabilito dei
doveri. L’angelo fu mandato a Maria per annunciarle il mistero dell’Incarnazione.
L’angelo incoraggia Cristo prima della Passione; tramite l’angelo fu annunciata la
notizia della Risurrezione del Signore. Anche oggi, gli angeli sono presenti nella
Chiesa, perché essa possa annunciare a tutti l’Incarnazione, la Passione e la
Risurrezione del Signore. La Chiesa crede che gli angeli proteggono la nostra vita
terrena, hanno cura di noi, ci sostengono sulla via che porta alla salvezza. Nella loro
cura, troviamo la difesa e, grazie a loro, evitiamo i pericoli.

In comunione con tutta la Chiesa, benediciamo gli angeli del Signore e


glorifichiamo Dio perché ci permette di sperimentare la loro custodia. Poiché
attendiamo la nostra unione con loro, quando il Signore verrà nella sua gloria con tutti
i suoi angeli.

O Dio, che chiami gli angeli e gli uomini

a cooperare al tuo disegno di salvezza,

concedi a noi pellegrini sulla terra la protezione degli spiriti beati,


che in Cielo stanno davanti a te per servirti

e contemplano la gloria del tuo volto.

Missale Romanum: Missae Votivae, De sanctis Angelis, Collecta

1. Creazione e natura degli angeli

Dio è il fattore e creatore degli angeli; sicché quello stesso che li ha fatti dal nulla,
che li ha anche creati a sua immagine; cioè esseri incorporei, come alito, o fuoco
immateriale, come dice il profeta David, il quale con le parole «Dio fa i suoi angeli
spiriti e i suoi ministri li fa fiamme di fuoco» (Ps 103,4) descrive la loro leggerezza,
ardore, fervore, penetrabilità e l’amore con cui cercano Dio e lo servono, e vuol
significare anche che gli angeli son portati alle cose del cielo e sono esenti da ogni
pensiero materiale.

L’angelo, quindi, è una sostanza intelligente, dotata di libero arbitrio, in perpetuo


moto senza corpo a servizio di Dio, arricchito di immortalità per dono di Dio; ma solo il
Creatore sa in che cosa consista la sua sostanza e può definirla. Dire che non abbia
corpo, ha senso soltanto in rapporto a noi. Tutto ciò, infatti, che vien paragonato a Dio,
lo si trova sempre vile e materiale, perché Dio non è paragonabile a niente. La sola
natura divina è veramente priva di materia e corpo.

L’angelo è una natura razionale, intelligente, libera, accomodabile alle opinioni e


determinabile quanto a volontà. Tutto ciò che è creato, infatti, deve essere soggetto a
mutamento; solo ciò che è increato è fuori della sfera della mutabilità. E poi tutto ciò
che è razionale, è anche dotato di libero arbitrio. L’angelo perciò, poiché è dotato di
ragione ed è intelligente, ha libero arbitrio; essendo una natura creata, è mutevole,
perché può, liberamente, aderire al bene e progredire in esso, o piegarsi al male.

L’angelo è del tutto incapace di penitenza proprio perché è incorporeo. Infatti, se


l’uomo può far penitenza, questo è dovuto alla debolezza del corpo.

L’angelo è immortale, ma per dono e grazia di Dio, non per natura. Infatti tutto ciò
che ha principio, per sua natura, deve avere anche una fine. Solo Dio, dunque, è sempre.
Non può essere soggetto al tempo, ma gli sta sopra, colui che ha creato il tempo.

Gli angeli son luci riflesse spirituali, che ricevono splendore da quella luce
primaria, che non ha principio; non hanno bisogno di lingua né di orecchie; si
comunicano esperienze e idee senza alcun ausilio di voci. Gli angeli furono creati per
mezzo del Verbo e ricevettero la loro perfezione attraverso lo Spirito Santo, perché
ciascuno di essi, a seconda della sua dignità e ordine, riceva grazia e splendore.

Gli angeli sono circoscritti o delimitati, nel senso che, mentre sono in cielo, non
sono in terra e, se mandati da Dio sulla terra, non restano in cielo. Ma non sono
confinati in un certo luogo da mura, porte, sbarre, sigilli. Non sono rinchiusi in
determinati confini. Non sono vincolati a nessuna figura, in quanto appaiono, a coloro
dai quali Dio vuole che sian visti, non come sono, ma in quella forma che si confà alla
vista di quelli che li vedono. D’altra parte solo ciò che è increato, per natura rifiuta ogni
limite. Tutto ciò che è creato, è delimitato tra i termini fissati dal Creatore. Hanno poi
gli angeli non dalla loro natura, ma da un’altra fonte la loro santità, cioè dallo Spirito
Santo. Per illuminazione di Dio possono predire anche il futuro. Non hanno bisogno di
connubio, perché sono immortali.

Visto che son delle menti, gli angeli sono in luoghi che possano essere percepiti
dalla mente. Non sono circoscritti a modo dei corpi - neanche sono figurati, per quanto
riguarda la natura, a modo dei corpi e non hanno le tre dimensioni - e se si portano in
qualche luogo, sono ivi presenti e vi agiscono spiritualmente e non possono allo stesso
tempo essere ed operare in due posti diversi.

Se gli angeli abbiano tutti la stessa sostanza o sian diversi tra loro, non è chiaro; lo
sa soltanto Dio che li ha creati e vede tutto. Differiscono quanto al modo e al grado; sia
che lo splendore sia proporzionato al grado, sia che si adegui alla sede che occupano. Si
illuminano gli uni gli altri, a seconda dell’eccellenza dell’ordine e della natura. È chiaro
che quelli che sono più eccelsi, diffondono luce e scienza sugli ordini inferiori.

Gli angeli son forti e pronti a compiere la volontà di Dio e son dotati di tale velocità
che si trovano all’istante dove Dio li vuole. Ciascuno di essi ha anche in custodia una
certa parte della terra, presiede a una nazione o popolo, secondo le disposizioni del
Creatore: dirigono le nostre cose e ci aiutano, in quanto sono, per volontà di Dio, al di
sopra di noi e son sempre intorno a Dio.

È difficile che gli angeli per natura siano attratti dal male, ma non è impossibile; ora
però non possono più essere attratti dal male, non per loro natura, ma per grazia e per
quella costanza, per la quale aderiscono all’unico Bene.

Gli angeli vedono Dio, quanto permette la loro vista e di tal cibo si alimentano.
Sono a noi superiori, perché incorporei e immuni dalle passioni corporee; non son però
liberi di qualsiasi passione, poiché questo compete solo a Dio.

Gli angeli si trasformano in tutto ciò che Dio vuole, e così si rendono visibili agli
uomini e scoprono loro i misteri divini. Stanno in cielo e hanno questo solo compito di
lodare Dio ed eseguirne la volontà.

Come dice il santissimo ed eccellentissimo uomo, Dionigi l’Areopagita, tutta la


teologia, o Sacra Scrittura, conosce nove celesti sostanze. Sostanze che quel divino
maestro di cose sacre distinse in tre ordini: il primo è quello che sta più vicino a Dio e
gli si unisce, come dice la tradizione, direttamente, e questi sono i Serafini dalle sei ali, i
Cherubini pieni di occhi e i santissimi Troni; il secondo ordine comprende
Dominazioni, Virtù e Potestà; il terzo e ultimo i Principati, gli Arcangeli e gli Angeli.

Alcuni dicono che gli angeli furono fatti prima di ogni altra cosa. Così afferma
Gregorio il Teologo: «Concepisce per prima le potenze angeliche e celesti, e quel
pensiero le crea». Altri preferiscono dire che furono creati dopo la creazione del primo
cielo. Che siano stati creati prima dell’uomo è accettato da tutti. Ma io sto decisamente
con Gregorio il Teologo. Mi pare conveniente infatti che fosse creata prima la natura
intelligente, poi quella sensibile e finalmente l’uomo che consta di ambedue.

Giovanni Damasceno, De fide orthod., 2, 3


2. L’amore misericordioso dei santi angeli

Gli spiriti immortali e beati, che abitano le sedi dei cieli e godono della
partecipazione al loro Creatore - per la cui eternità sono saldi, nella cui verità sono certi,
per cui dono sono salvi - amano con grande misericordia noi, mortali e miseri,
desiderando che diventiamo beati e immortali; però non vogliono, e a buon diritto, che
noi a loro sacrifichiamo, ma solo a colui per il quale sanno che noi e loro siamo un
sacrificio. Con loro infatti, noi formiamo l’unica città di Dio, della quale si dice nel
salmo: Cose gloriose si sono dette di te, città di Dio (Ps 86,3) Di essa, noi siamo la
parte che è pellegrina, e loro la parte che ci soccorre. Da quella superna città, ove è
legge la volontà di Dio, immutabile e a tutti nota, da quella superna, per così dire, curia
(anche ivi infatti ci si prende cura di noi) discese a noi, per il ministero degli angeli, la
Sacra Scrittura, dove si legge: Chi sacrifica agli idoli, e non al Signore solo, sarà
distrutto (Ex 22,20)...

In nessun modo si deve aspirare alla benevolenza e alla beneficenza degli dèi, o per
dir meglio, degli angeli buoni, per una specie di mediazione dei demoni. La si ottiene
invece, imitando la loro buona volontà; è con questa, infatti, che noi siamo con loro, che
con loro viviamo, e con loro rendiamo a Dio il culto che essi gli rendono; e tutto ciò,
anche se non li possiamo vedere coi nostri occhi di carne. Quanto più invece siamo
miseri per la dissomiglianza della nostra volontà dalla loro e per la debolezza della
nostra fragilità, tanto più distiamo da loro per il merito della vita, non per il luogo fisico.
Se non siamo uniti a loro, non è perché abitiamo, per la nostra condizione corporea,
sulla terra, ma perché, per l’impurità del nostro cuore, amiamo le realtà terrene. Quando
poi guariamo da questo male, tanto da essere quali essi sono, subito ci avviciniamo a
loro nella fede, se crediamo che un giorno saremo resi beati da colui che ha reso beati
loro, e per loro intercessione...

La causa più vera della beatitudine degli angeli buoni la la riscontriamo nella loro
unione a colui che sommamente è. Se invece si cerca la causa della miseria degli angeli
cattivi, ci si presenta, ovviamente, il fatto che essi, allontanatisi da colui che
sommamente è, si ripiegarono su se stessi, che pur non hanno l’essere in grado sommo.
Questo vizio, come lo chiameremo se non superbia? Infatti l’inizio di ogni peccato è la
superbia (Si 10,15). Non vollero dunque custodire presso di lui la loro fortezza e, pur
potendo essere qualcosa di più se avessero aderito a colui che sommamente è, scelsero
di essere qualcosa di meno, preferendo a lui se stessi. Questo è il difetto principale, la
prima mancanza, il primo vizio di quella natura che è stata creata tale da non avere
l’essere sommo, ma da poter ottenere la beatitudine, poter cioè godere di colui che ha
l’essere sommo; se da lui invece si allontana, non cade nel nulla, ma il suo essere viene
diminuito, e perciò essa diventa ben misera...

Per gli angeli buoni tutta la conoscenza delle realtà corporali e temporanee, di cui
son tanto tronfi i demoni, è cosa ben vile: non perché sono all’oscuro di tali realtà, ma
perché loro interessa la carità di Dio che li santifica. Di fronte a questa bellezza non solo
incorporea, ma anche immutabile e ineffabile, nel santo amore ardono, disprezzano tutte
le cose inferiori, e con esse disprezzano anche se stessi; per poter così, nella loro bontà,
godere completamente di quel bene che li rende buoni. Ma, in tal modo, conoscono con
più certezza anche queste cose temporanee e mutevoli, perché ne vedono le cause
fondamentali nel Verbo di Dio, per mezzo di cui il mondo è stato fatto; per queste cause
alcune realtà sono approvate, altre riprovate, e tutte vengono ordinate.

I demoni invece non contemplano nella sapienza di Dio le cause eterne,


fondamentali, delle realtà temporanee; ma per una maggiore esperienza dei segni
esteriori, che a noi sfuggono, prevedono, molto più dell’uomo, il futuro. Ma una cosa è
far congetture sulle cose temporanee per mezzo di realtà temporanee e su cose mutevoli
per mezzo di realtà mutevoli e applicarle al modulo temporaneo e mutevole della
propria volontà e delle proprie facoltà - cosa concessa ai demoni per un fine ben preciso
-; altra cosa invece prevedere nelle leggi eterne e immutabili di Dio, che vivono nella
sua sapienza, le mutazioni delle realtà temporanee e conoscere insieme - per la
partecipazione allo Spirito divino - la volontà di Dio, che è più potente e più sicura di
ogni altra realtà. Questo è il dono che è stato concesso, con opportuna discrezione, ai
santi angeli. Essi perciò, non solo vivono in eterno, ma anche sono veramente beati. Il
bene, poi, che li rende beati è il loro Dio, da cui sono stati creati. Perciò essi godono
indefettibilmente della sua contemplazione e della partecipazione a lui.

Agostino, De civit. Dei, 10, 7; 8, 25; 12, 6; 9, 22

3. Gli angeli come spiriti servizievoli

Di comune accordo noi diciamo che gli angeli sono spiriti incaricati d’un
ministero, inviati in servizio per il bene di coloro che devono usufruire della salvezza
(He l,14). Essi salgono a recare le suppliche degli uomini nelle più pure regioni celesti.
Successivamente ne discendono per portare a ciascuno, secondo i suoi meriti, una delle
grazie che Dio incarica loro di dispensare a quanti ricevono i suoi favori. Essi dunque,
che noi abbiamo imparato a chiamare angeli a causa della loro funzione, noi li troviamo
talvolta, anche nelle sante Scritture, con la denominazione di dèi (Ps 49,l 81,l 85,8 95,4
135,2): essi sono infatti divini. Tuttavia, non lo sono al punto da esserci ordinato di
venerare ed adorare al posto di Dio coloro che ci dispensano e ci portano le sue grazie.
Ogni preghiera, infatti, ogni domanda, ogni supplica, ogni azione di grazie (1Tm 2,1) va
fatta risalire verso il Dio supremo, attraverso il Sommo Sacerdote che è al di sopra di
tutti gli angeli, Logos vivente e Dio. E noi potremo offrire al Logos stesso domande,
preghiere, azioni di grazie ed anche suppliche, se saremo stati capaci di discernere fra il
senso assoluto e quello relativo della parola supplica. Infatti, invocare gli angeli senza
aver ricevuto una scienza superiore a quella umana, non è ragionevole. Ma supponiamo,
per ipotesi, di aver ricevuto questa scienza meravigliosa e misteriosa: essa ci fa
conoscere la natura degli angeli e gli uffici ai quali ognuno di essi è preposto; essa non
permetterà che si osi pregare nessuno se non il Dio supremo che è perfettamente
sufficiente a tutto, attraverso il nostro Salvatore, il Figlio di Dio, lui che è Logos,
Saggezza, Verità e tutto ciò che dicono ancora di lui le Scritture dei profeti di Dio e
degli apostoli di Gesù.

Per propiziarci i santi angeli di Dio ed indurli a compiere ogni cosa per noi, è
sufficiente, per quanto è possibile alla natura umana, imitare, nella nostra attitudine
verso Dio, la loro disposizione personale grazie alla quale essi sono imitatori di Dio:
così facendo, la concezione che noi abbiamo di suo Figlio, il Logos, in luogo di
contraddire quella più chiara che ne hanno i santi angeli, si avvicinerà a questa di giorno
in giorno per quanto è possibile, in chiarità e nettezza.
Origene, Contra Celsum, 5, 4-5

4. Gli angeli, inviati per concorrere alla nostra salvezza

Chi sono dunque i figli di Dio, se non gli angeli fedeli? Dato è certo che essi
obbediscono ai cenni della Maestà divina, noi dobbiamo ricercare con attenzione donde
possono venire per presentarsi così davanti al Signore (cf. Jb 2,l). È di loro che la
Verità dice: I loro angeli in cielo vedono continuamente il volto del Padre mio che è nei
cieli (Mt 18,10), ed di essi che un profeta dichiara: Mille migliaia lo servivano, e una
miriade di miriadi stavano in piedi davanti a Lui (Da 7,10). Se dunque essi lo vedono
sempre, e sempre si tengono alla sua presenza, occorre cercare con attenzione diligente
donde essi vengono, essi che mai si allontanano. San Paolo dice a loro proposito: Non
sono forse tutti spiriti destinati a servire, inviati in missione per il bene di coloro che
ricevono l’eredità della salvezza? (He l,14).

Per il fatto stesso che li sappiamo inviati, noi scopriremo donde essi vengono. Ma
questo significa voler aggiungere un nuovo problema, e stringere il nodo mentre si vuol
disfare il ricciolo. Infatti come possono stare continuamente davanti a Dio e
contemplare sempre il volto del Padre, se sono inviati per la nostra salvezza in missioni
esterne? Ma noi troviamo assai presto la soluzione, se teniamo conto della grande
sottigliezza della natura angelica. Mai gli angeli si allontanano esteriormente dalla
visione di Dio, sì da essere privati delle gioie della contemplazione interiore. Se in
queste missioni essi perdessero la visione del loro Creatore, sarebbero incapaci di
rialzare coloro che sono caduti, e annunciare la verità a coloro che la ignorano; non
potrebbero minimamente offrire ai ciechi quella sorgente di luce che essi stessi
avrebbero perduta allontanandosi.

La natura angelica differisce attualmente dalla nostra per il fatto che noi siamo
circoscritti in un luogo e resi ottusi dalla nostra cieca ignoranza; gli spiriti angelici,
invece, pur essendo anch’essi circoscritti per la verità, in un luogo, la loro conoscenza.
Cosa possono ignorare di ciò che si deve conoscere, essi si può dire che essi sono
ingranditi interiormente ed esteriormente, perché contemplano la sorgente stessa di ogni
conoscenza. Cosa possono ignorare di ciò che si deve conoscere essi che conoscono
colui che sa tutte le cose? Così, la loro scienza, in paragone con la nostra, è immensa, in
paragone con la scienza divina, tuttavia, essa è molto piccola. Analogamente, per il
rapporto con i nostri corpi; essi sono puri spiriti, però in raffronto con lo Spirito
supremo e senza limite, essi non sono che dei corpi.

Essi sono dunque inviati, e nel contempo si tengono alla presenza di Dio. Limitati
nello spazio, essi vagano. Sempre interiormente alla sua presenza, non se ne allontanano
mai. Essi vedono dunque sempre il volto del Padre, e tuttavia vengono verso di noi:
vengono a noi con la loro presenza spirituale e nondimeno vigilano con la loro
contemplazione interiore nel luogo che avevano lasciato.

Gregorio Magno, Moralia in Iob, 2, 3

5. La presenza degli angeli


Quanto a me, non esito affatto a pensare che gli angeli siano presenti anche nella
nostra assemblea, in quanto essi vegliano non soltanto su tutta la Chiesa presa nel suo
insieme, ma anche su ciascuno di noi. È di essi che parla il Salvatore, quando dice: I
loro angeli vedono sempre il volto del Padre mio che è nei cieli (Mt 18,10). Ci sono qui
due Chiese: quella degli uomini e quella degli angeli. Se quanto noi diciamo è conforme
al pensiero divino e all’intenzione delle Scritture, gli angeli ne godono e pregano per
noi. Ed è perché gli angeli sono presenti nelle Chiese, in tutte, o almeno in quelle che lo
meritano e che appartengono a Cristo, che è prescritto alle donne, durante la preghiera,
di avere un velo sulla testa a causa degli angeli (1Co 11,10). Di quali angeli si tratta?
Senza alcun dubbio degli angeli che assistono i santi e si rallegrano nella Chiesa; angeli
che noi non vediamo perché il fango del peccato ci copre gli occhi, ma che vedono gli
apostoli di Gesù ai quali il Signore dice: In verità, in verità vi dico: voi vedrete i cieli
aperti e gli angeli di Dio che salgono e discendono sul Figlio dell’uomo (Jn 1,51).

Se io avessi la grazia di vederli come gli apostoli e di guardarli come li contemplò


Paolo, scorgerei senza dubbio ora la folla di angeli che vedeva Eliseo e che Gihezi, che
era al suo fianco, non vedeva affatto. Gihezi aveva paura di essere catturato dai nemici,
perché vedeva Eliseo tutto solo. Ma Eliseo, in quanto era profeta del Signore, si mise a
pregare e disse: O Signore, apri gli occhi di questo servo in modo che egli veda che ci
sono più con noi che con loro (2Re 6,17). E subito, alla preghiera di quel santo, Gihezi
vide gli angeli che non vedeva prima.

Origene, Comment. in Luc., 23, 8-9

6. Gli angeli e il governo della Chiesa

Se chi intende il senso delle Scritture può parlare con una certa audacia, ebbene dirò
che ci sono due vescovi per ogni Chiesa, uno visibile e l’altro invisibile, uno manifesto
agli occhi della carne, l’altro all’intelligenza. Come un uomo, se ha eseguito bene il
compito affidatogli, è lodato dal Signore, mentre, se si è comportato male, soggiace alla
colpa e al vizio, così ciò accade anche all’angelo. Sta scritto infatti nella Apocalisse di
Giovanni: Ma tu hai qui poche persone che non hanno sozzure (Ap 3,4); e, poco prima:
Tu hai qui chi insegna la dottrina dei Nicolaiti (Ap 2,15), e più avanti: tu ne hai altri che
fanno questo o quel peccato. Queste parole mettono in stato di accusa gli angeli ai quali
sono state affidate le Chiese.

Se dunque gli angeli vivono in trepidazione per il governo delle Chiese, occorre
forse spendere parole sul timore che gli uomini debbono provare per poter conseguire la
salvezza lavorando in collaborazione con gli angeli? Penso sia possibile trovare un
angelo e un uomo che siano ugualmente buoni vescovi della Chiesa e che partecipino in
qualche modo uniti alla stessa opera. Dato che è così, chiediamo a Dio onnipotente che i
vescovi delle Chiese, angeli e uomini, ci vengano in aiuto, e sappiamo che gli uni e gli
altri saranno giudicati per quanto avranno fatto per noi. E se, dopo il giudizio, non si
troveranno vizi e colpe da addebitare loro, ma solo alla nostra negligenza, saremo noi ad
essere accusati e condannati: anche se essi infatti compiono tutto quello che è in loro
potere e fanno ogni sforzo possibile per la nostra salvezza, non per questo noi saremo
esenti dai peccati. Accade tuttavia frequentemente che, mentre noi ci affatichiamo, essi
non compiano il loro dovere e siano in colpa.
Origene, Comment. in Luc., 13, 5-6

COMUNE DEGLI APOSTOLI E DEGLI EVANGELISTI

La Chiesa, sin dai tempi più antichi, onorava coloro che Gesù stesso ha scelto
all’inizio, e invocava il loro soccorso. Le feste in onore degli apostoli compariranno più
tardi e gradualmente saranno accolte in tutta la Chiesa. La tradizione ci ha lasciato
alcuni particolari riguardanti l’attività di alcuni apostoli; degli altri non abbiamo
informazioni. Non conosciamo neppure il giorno della loro «nascita al Cielo» e perciò
la commemorazione di un apostolo avviene generalmente nel giorno del trasloco delle
sue reliquie. Il culto di alcuni apostoli è diffuso di più rispetto agli altri; alcuni apostoli
sono venerati in modo particolare nella Chiesa che era nata dal loro lavoro. La
commemorazione dei Santi Pietro e Paolo, apostoli di Roma, risale al III secolo e viene
celebrata solennemente in tutta la Chiesa. La commemorazione di san Giovanni
apostolo la troviamo già nel IV secolo sia in Oriente che in Occidente. Sant’Andrea
apostolo è venerato in modo particolare in Oriente, benché il suo culto sia conosciuto a
Roma già nel V secolo. Il culto di Jc il Maggiore si è sviluppato in Europa a partire dal
X secolo, dopo la scoperta delle sue reliquie a Compostella in Spagna, dove, attraverso
i secoli, giungevano moltissimi pellegrini.

Accanto agli apostoli stanno gli evangelisti: essi ci hanno tramandato le parole di
Cristo, che durano sempre nella Chiesa. Due di loro appartenevano alla cerchia degli
apostoli, Marco e Luca invece erano loro molto vicini. Si è sviluppato di più il culto di
san Marco, le cui reliquie furono fatte venire da Alessandria a Venezia; san Marco è
ancor oggi il patrono di Venezia.

Gesù, dopo la notte passata in orazione, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse


dodici, ai quali diede il nome di apostoli (Lc 6,12). Ne costituì Dodici affinché stessero
con lui e anche per mandarli a predicare (Mc 3,14). Hanno ricevuto dal Signore il
potere di «legare e di sciogliere» sopra la terra (Mt 18,18). Tra di loro occupa il primo
posto Pietro: su di lui, come su una pietra, Cristo edificherà la sua Chiesa e a lui darà
le chiavi del regno dei cieli (Mt 16,18). Andando al Padre, Cristo dirà agli apostoli:
«Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). Gli
apostoli hanno adempiuto la disposizione di Cristo; sono andati fino ai confini della
terra annunziando la salvezza del Signore. La Chiesa primitiva era consapevole di
essere costruita sul fondamento degli apostoli. San Paolo scrisse agli Efesini: «Siete
concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e
dei profeti» (Ep 2,19).

Le mura della nuova Gerusalemme, contemplate nella visione di Giovanni hanno


«dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello»
(Ap 21,14). La Chiesa di tutti i secoli era consapevole di provenire dagli apostoli e
questa consapevolezza c’è l’ha anche la Chiesa di oggi. Essa loda Dio perché non
abbandona il suo ovile ma attraverso gli apostoli l’ha sempre nella sua protezione: i
vescovi sono i successori degli apostoli, e il papa, vescovo di Roma, è il successore di
san Pietro.

La Chiesa fondata sugli apostoli vive continuamente di nuovo la sua missione nel
mondo, assume il grande impegno missionario, si sente tenuta a predicare la Parola, sa
che deve incessantemente realizzare «l’andate» pronunciato da Cristo. La Chiesa
costruita sul fondamento degli apostoli si sente responsabile della purezza della
dottrina. Gli uomini, diverse volte nella storia, «non sopportavano la sana dottrina, ma,
per il prurito di udire qualcosa, si circondavano di maestri secondo le proprie voglie»,
rifiutando di dare ascolto alla verità. La Chiesa, in questi casi, si richiama
all’insegnamento degli apostoli, indica gli errori, rimprovera ed insegna.

Celebrare la commemorazione degli apostoli vuol dire prendere coscienza della


propria appartenenza alla Chiesa costruita da loro, approfondire l’intelligenza della
propria fede, ascoltare la voce di coloro che oggi esercitano l’ufficio apostolico nella
Chiesa, condividere la propria fede con gli altri.

Nella festa degli apostoli bisogna pregare, affinché la Parola di Dio sia annunziata
dappertutto e che la Chiesa di Cristo cresca nell’amore e nell’unità.

Esulti sempre, Signore, la tua Chiesa


radunata nella memoria gloriosa dei santi apostoli,
e fedele alla dottrina e all’esempio dei suoi primi pastori,
proceda sicura sotto la loro guida e protezione.

Missale Romanum: Missae Votivae, De omn. Sanct. Apostolis, Coll.

1. La Chiesa ha ricevuto il Vangelo dagli apostoli

In effetti, il Signore di tutte le cose ha conferito agli apostoli il potere di annunciare


il Vangelo (Mt 28,18-19), ed è per loro tramite che abbiamo conosciuto la verità, cioè
l’insegnamento del Figlio di Dio. È a loro, del pari, che il Signore ha detto: Chi ascolta
voi, ascolta me, e chi disprezza voi, disprezza me e colui che mi ha mandato (Lc 10,16).
In realtà, non è attraverso altri che abbiamo conosciuto l’«economia» della salvezza,
bensì ad opera di coloro per i quali il Vangelo ci è pervenuto. Quel Vangelo, essi lo
hanno anzitutto predicato; poi, per volere di Dio, ce lo hanno trasmesso attraverso le
Scritture, perché fosse fondamento e colonna (1Tm 3,15) della nostra fede.

Non è lecito dire, infatti, che essi hanno predicato prima di aver ricevuto una
conoscenza perfetta, come alcuni osano affermare, che si gloriano di correggere gli
apostoli. Difatti, dopo che nostro Signore fu risuscitato dai morti e gli apostoli, con la
venuta dello Spirito Santo (Ac 1,8), furono rivestiti di forza dall’alto (Lc 24,49), essi
ebbero la piena certezza su tutto e il possesso della perfetta conoscenza; ed è allora che
se ne andarono fino alle estremità della terra (Ps 18,5 Rm 10,18 Ac 1,8), proclamando la
buona novella dei beni che ci provengono da Dio (Is 52,7 Rm 10,15) e annunciando agli
uomini la pace celeste (Lc 2,13-14): essi possedevano, tutti insieme e ciascuno per suo
conto, il «Vangelo di Dio» (Rm 1,1 Rm 15,16 2Co 11,7 1Th 2,2 1Th 2,8 1Th 2,9 1P
4,17).
Così Matteo pubblicò tra gli Ebrei, nella loro lingua, una forma scritta di Vangelo,
nel momento in cui Pietro e Paolo evangelizzavano Roma e vi fondavano la Chiesa.
Dopo la morte di questi ultimi, Marco, discepolo e interprete di Pietro, ci ha anch’egli
trasmesso per iscritto ciò che Pietro predicava. Dal canto suo, Luca, compagno di Paolo,
affidò ad un libro il Vangelo che questi predicava (Ga 2,2 1Th 2,9). Poi Giovanni,
discepolo del Signore, quegli stesso che aveva posato la testa sul suo petto (cf. Jn 13,23
21,10), pubblicò del pari il Vangelo, durante il suo soggiorno ad Efeso, in Asia.

E tutti costoro ci hanno trasmesso il seguente insegnamento: un solo Dio, Creatore


del cielo e della terra, che fu predicato dalla Legge e dai Profeti, e un solo Cristo, Figlio
di Dio. Per cui, se qualcuno rifiuta loro il proprio assenso, disprezza coloro che hanno
avuto parte con il Signore (He 3,14), disprezza inoltre lo stesso Signore, e disprezza
infine il Padre (Lc 10,16); si condanna da solo (Tt 3,11), perché resiste (2Tm 2,25) e si
oppone alla propria salvezza - il che fanno precisamente tutti gli eretici.

Tale essendo la forza di queste prove, non occorre allora cercare presso altri la
verità che è facile ricevere dalla Chiesa, poiché gli apostoli, come fosse una ricca
cantina, hanno ammassato in lei, nella maniera più completa, tutto ciò che si riferisce
alla verità, affinché chiunque lo voglia vi possa attingere la bevanda della vita (Ap
22,17). È lei, in effetti, che costituisce l’accesso alla vita; tutti gli altri sono dei ladri e
dei briganti (Jn 10,8 1,9). Ecco perché occorre ricusarli, ed amare invece con uno zelo
estremo ciò che è della Chiesa e impadronirsi della Tradizione della verità. Come
questo? Se sorgesse una controversia su qualche questione di importanza minima, non si
dovrebbe allora richiedere l’aiuto delle Chiese più antiche, quelle in cui gli apostoli
hanno vissuto, per ricevere da esse la dottrina esatta sulla questione in discussione? E
anche supponendo che gli apostoli non ci avessero lasciato le Scritture, non si dovrebbe
allora seguire l’ordine della Tradizione che essi hanno tramandato a coloro ai quali
hanno affidato la Chiesa?

Ireneo di Lione, Adv. Haer., III, 1, 1. 4

2. L’ordine dei Vangeli e il Vangelo di Marco

Ora parliamo degli scritti, che incontestabilmente appartengono a Giovanni


l’Apostolo.

In primo luogo si deve riconoscere come autentico il suo Vangelo, notissimo a tutte
le Chiese che sono sotto il cielo. A ragione gli antichi gli hanno assegnato il quarto
posto fra gli Evangeli, ed eccone il motivo.

Quegli uomini ispirati e veramente degni di Dio che furono gli Apostoli di Cristo,
erano d’una squisita purezza di vita, e avevano l’anima adorna di ogni più bella virtù,
ma nel parlare erano incolti e rudi (Ac 4,13 2Co 11,6). Fidando solo nella divina virtù
taumaturgica concessa loro dal Salvatore, non sapevano né pretendevano esporre
gl’insegnamenti del Maestro con l’arte persuasiva dell’eloquenza; per questo, mentre
annunziavano al mondo intero il messaggio del regno celeste mediante la
manifestazione dello Spirito Santo che li assisteva, mediante la potenza di Cristo che per
mezzo di essi agiva e compiva prodigi (1Co 2,4), si davano ben poca cura di scrivere
libri.
Erano assorbiti nel loro ministero sovrumano e sublime. Basti dire che Paolo stesso,
che era il più destro nell’abilità della parola e nella facoltà intellettiva, non ci ha lasciato
in iscritto che brevissime lettere. E dire che poteva narrarci senza fine cose di ineffabile
grandezza, avendo contemplato le meraviglie persino del terzo cielo, quando fu rapito
nel Paradiso di Dio, dove meritò di ascoltare parole incantevoli (2Co 12,2-4).

Così pure quei che frequentavano il Salvatore, parlo dei dodici Apostoli, dei
settanta Discepoli e degli altri che non è possibile numerare, erano tutt’altro che ignari
dei fatti evangelici; tuttavia solamente Matteo e Giovanni fra tutti ci han lasciato le
memorie della vita del Signore, e, stando a quanto ci dice la tradizione, si decisero a
scriverle perché spinti dalla necessità.

Matteo, infatti, che predicò dapprima agli Ebrei, donò ad essi il suo Vangelo,
composto nell’idioma patrio, quando fu in procinto di recarsi in altri paesi, e con quello
supplì alla sua presenza personale presso coloro che lasciava.

Si dice che mentre Marco e Luca avevano già pubblicato i loro Vangeli, Giovanni
invece continuava ad annunziare a voce la parola di Dio, e si decise a scrivere da
ultimo; ed ecco per quale motivo. I tre primi Vangeli s’erano diffusi in tutta la
cristianità, quando capitarono anche in mano a Giovanni. Egli li approvò; dichiarò che
contenevano la pura verità, ma osservò che ci mancava la narrazione di quanto Gesù
fece ai primordi [della sua vita pubblica], all’inizio della Sua predicazione.

Ed è verissimo. È poi facile costatare che i tre primi Evangelisti descrissero le


azioni del Salvatore posteriori all’arresto e all’incarceramento di Giovanni Battista
abbracciando lo spazio di un anno, e lo affermano essi stessi all’inizio della loro
narrazione.

Difatti Matteo, dopo avere parlato del digiuno di quaranta giorni e della tentazione
che ne seguì, precisa il tempo della sua storia dicendo: Udito che Giovanni era stato
incarcerato, si ritirò dalla Giudea nella Galilea (Mt 4,12).

Mc dice lo stesso: Dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù venne nella
Galilea (Mc 1,14). Anche Luca, prima d’incominciare a narrare le gesta di Cristo, fa su
per giù la stessa osservazione dicendo che Erode, agli altri mali che aveva commessi,
aggiunse pur questo: che rinchiuse Giovanni in prigione (Lc 3,19-20).

Perciò si dice che l’Apostolo Giovanni, dietro preghiera di terzi, illustrò nel suo
Vangelo il periodo passato sotto silenzio dai tre Evangelisti precedenti e le opere
compiute dal Salvatore in questo tempo, prima, cioè, dell’imprigionamento di Giovanni
Battista; e lo dichiara da sé quando dice: Così Gesù diede principio ai miracoli (Jn
2,11), e quando sospeso il racconto delle azioni di Gesù, ci avverte che Giovanni
Battista battezzava ancora in Enon vicino a Salim. L’intento di Giovanni appare chiaro e
lampante anche da queste altre sue parole: Giovanni ancora non era stato gettato in
prigione (Jn 3,23-24).

Jn quindi, nel suo Vangelo ci descrive quel che Gesù fece prima che il Battista
venisse incarcerato, mentre gli altri Evangelisti ci riferiscono ciò che operò dopo
l’arresto e l’imprigionamento di lui.
Chi pone mente a questa differenza, non può pensare a un disaccordo tra i Vangeli,
poiché quello di Giovanni espone le opere iniziali dell’attività di Cristo, gli altri, invece,
rilevano gli avvenimenti dell’ultima parte della Sua vita. Con tutta ragione, dunque,
Giovanni tacque la genealogia di Cristo secondo la carne già descritta prima da Matteo e
da Luca, ed esordisce mettendo subito in rilievo la Sua divinità; e quest’onore gli era
stato riservato dallo Spirito Santo, perché ne era il più degno...

Lc poi, nel prologo mette in luce la ragione che lo ha determinato a dar mano a
quella sua opera: ivi ci fa sapere che molti s’erano accinti a narrare con temeraria
leggerezza le cose che egli ha esaminato a fondo. Era necessario liberarsi da
quell’incertezza di opinioni; e, mediante il suo Vangelo, ci ha trasmesso la narrazione
sicura degli avvenimenti di cui poté egli stesso cogliere la verità con certezza per la
convivenza e consuetudine che ebbe con Paolo e per le conversazioni con gli altri
Apostoli.

Questo è quanto si aveva da dire intorno ai Vangeli...

La Luce della Religione rifulgeva con sì affascinante splendore nelle menti di


coloro che udivano Pietro, che essi non si appagarono d’avere inteso solamente
l’esposizione orale di questa predicazione divina e, con ripetute istanze pregarono
Marco, l’autore del Vangelo e seguace di Pietro, a lasciar loro in iscritto un memoriale
di quell’insegnamento impartito a viva voce; e non desistettero sino a tanto che non lo
compose: così essi furono la causa della redazione del Vangelo secondo Marco.

Dicono che Pietro conobbe il fatto per rivelazione dello Spirito Santo e, rallegratosi
per lo zelo di quella gente, ratificò lo scritto da leggersi nelle chiese. Clemente ci dà
queste notizie nel libro sesto delle sue Ipotiposi e con lui s’accorda Papia, vescovo di
Gerapoli. Pietro accenna a Marco nella sua prima lettera, che si dice da lui composta a
Roma e l’indica lui stesso chiamando l’Urbe metaforicamente Babilonia: Vi saluta la
Chiesa che c’è in Babilonia e Marco mio figliuolo (1P 5,13).

Si riferisce che questo Marco, inviato nell’Egitto, fu il primo a predicarvi il


Vangelo da lui composto, e che fondò delle chiese dapprima in Alessandria.

Eusebio di Cesarea, Hist. eccl., III, 24, 1-13. 15 s.; II, 15-16. 1

3. Bibbia e tradizione

Dopo che uno di loro cadde, egli, nel salire al Padre dopo la risurrezione, intimò
agli altri undici di andare e ammaestrare le nazioni, battezzandole nel nome del Padre,
del Figlio e dello Spirito Santo.

Orbene, gli apostoli (che significa «inviati») subito dopo aver rimpiazzato Giuda
con Mattia, eletto a sorte come dodicesimo tra loro, sull’autorità della profezia
contenuta nel salmo davidico (Ps 108,8 Ac 1,20) e dopo aver ricevuta la promessa
potenza di miracoli e d’eloquio da parte dello Spirito Santo, sul principio affermarono la
fede in Gesù Cristo e stabilirono Chiese per la Giudea, e subito dopo, sparsi per il
mondo, annunziarono la medesima dottrina e una medesima fede alle nazioni e quindi
fondarono Chiese presso ogni città. Da queste poi le altre Chiese derivarono la
propaggine della loro fede e la semenza della dottrina, e tutt’ora la derivano per esser
appunto Chiese. In questa maniera anche esse son ritenute apostoliche, come
discendenza delle Chiese degli apostoli.

Ogni famiglia deve necessariamente valutarsi dalla sua origine.

Pertanto, le Chiese sono molte e grandi, ma unica è la Chiesa prima degli apostoli, e
da essa tutte derivano. Sì che tutte sono la prima Chiesa, tutte apostoliche, in quanto che
insieme tutte provano questa unità, avendo esse la comunione della pace, il nome della
fratellanza e il distintivo dell’ospitalità.

E questi titoli non si fondano su altra legge che sull’unica tradizione del medesimo
sacro deposito.

Da questi titoli moviamo la prescrizione: se il Signore Gesù Cristo mandò gli


apostoli a predicare, è evidente che non si debbano accogliere altri predicatori
all’infuori di quelli da lui istituiti. E questo perché nessun altro conosce il Padre
all’infuori del Figlio e di quelli a cui lo rivelò il Figlio (Mt 11,27). Ma si sa che il Figlio
non lo rivelò ad altri che agli apostoli, da lui inviati a predicare: a predicare, s’intende,
quanto da lui era stato rivelato.

Che cosa essi predicassero, vale a dire che cosa Cristo avesse loro rivelato, anche
questo, in forza della prescrizione, non si può provare se non mediante quelle medesime
Chiese, che gli apostoli fondarono predicando loro a viva voce e, più tardi, per iscritto.

Se la cosa sta così, ne consegue che si debba considerar vera solo quella dottrina la
quale concordi con la dottrina delle Chiese apostoliche, madri e sorgenti della fede;
perché senza dubbio essa comprende l’insegnamento che le Chiese ricevettero dagli
apostoli, gli apostoli da Cristo e Cristo da Dio; e ne consegue che ogni altra dottrina sia
da giudicarsi a priori falsa, perché impregnata d’uno spirito avverso alla verità delle
Chiese degli apostoli, di Cristo e di Dio.

Non resta quindi se non da dimostrare che la nostra dottrina il cui canone è stato
sopra riferito, risalga, in forza della tradizione, agli apostoli e che, per la stessa ragione,
le altre risalgano a una menzogna.

Noi siamo in comunione con le Chiese apostoliche, perché non abbiamo una
dottrina diversa: e questa è la prova della verità.

Tertulliano, De praescript. haeretic., 3, 20-21

4. Fiducia nella semplicità degli evangelisti

Noi ci fidiamo della sincerità di coloro che composero i Vangeli, perché ne


indoviniamo la pietà e la conoscenza dei fatti che si rivelano dai loro scritti, mentre non
vi si trova traccia di alterazione, di inganno, di invenzione o sofisticazione. Il loro
animo non aveva imparato ciò che insegna la scaltra arte sofistica dei Greci, con la sua
forza persuasiva e le sue sottigliezze, né l’oratoria che fa mostra di sé nei tribunali;
siamo persuasi perciò che non erano in grado di escogitare gli argomenti capaci per se
stessi di produrre la fede e la vita conforme alla fede. Io credo poi che Gesù proprio per
questo motivo volle che tali uomini fossero i maestri della sua dottrina, perché ciò non
vi fosse spazio per il sospetto di abilità sofistica nel persuadere e perché fosse chiaro,
per chi ha intelligenza, che la sincerità dei sacri scrittori - unita, per dir così, a tanta
semplicità - fu avvalorata da una forza divina che otteneva molto di più di quanto
sembra possano ottenere la ricchezza nel parlare, la struttura del discorso, la fedeltà alle
divisioni e alle regole dell’arte greca.

Origene, Contra Celsum, 3, 39

5. Gli apostoli testimoni del Risorto

I primi beati apostoli, pastori del santo gregge, videro lo stesso Signore Gesù
pendente [dalla croce] provarono dolore nel vederlo morire, si spaventarono
osservandolo risorto, lo amarono potente, ed effusero il proprio sangue per quello di cui
essi furono testimoni.

Pensate, fratelli, quale cosa grande fu che degli uomini fossero mandati per tutta la
terra, a predicare che un uomo morto era risorto, e che era salito al cielo; e che per
questa predicazione sopportarono tutti quei tormenti che il mondo folle scatenò contro
di loro, i danni, gli esilii, le catene, i tormenti, le fiamme, le belve, le croci, le morti.

Io non so questo per chi? Forse che, infatti, fratelli miei, Pietro moriva per la sua
gloria, oppure predicava se stesso? L’Uno moriva affinché l’altro fosse onorato; l’uno
veniva ucciso affinché l’altro venisse onorato.
Forse non avrebbe fatto questo, se non per l’ardore della carità, e per la
consapevolezza della verità?
Avevano visto ciò che vedevano: infatti, quando morivano per quella causa, che
essi non avevano visto?
Ciò che avevano visto non dovevano negare. E non negarono: predicavano un
Morto che essi sapevano vivo.
Sapevano per quale vita disprezzavano la vita: sapevano per quale felicità
sopportavano la infelicità passeggera, e per quali premi disprezzavano gli stessi danni.
La loro fede non sarebbe misurata con tutto il mondo. Avevano ascoltato: Che cosa
giova all’uomo, qualora guadagni tutto il mondo, se poi la sua anima ne soffra danno?
(Mt 16,26).
Non ritardo quelli che si affrettano (a seguire) le attrattive del mondo, quelli che si
allontanano dalle cose effimere, quantunque e in qualsiasi modo la splendida felicità [di
questa terra] sia da abbandonarsi, non trasferibile all’altra vita, allorquando la debbano
lasciare gli uomini viventi.

Agostino, Sermo 311, 2

6. L’identità degli apostoli e il Vangelo

Sta di fatto che essi scrivevano tenendosi in disparte dal mondo e non
nascondevano nessuna delle verità che scrivevano. Al contrario, essi giravano da ogni
parte, per terra e per mare, parlando a tutti; leggevano allora, come noi leggiamo oggi,
questi libri al cospetto dei loro nemici. Ebbene, nessuno si è mai scandalizzato della loro
dottrina. Ed a ragione si è verificato questo, dato che la forza e la virtù di Dio stesso li
accompagnava e faceva far loro tutto quanto compivano. Se non fosse stato così, come
avrebbero potuto un pubblicano, un pescatore e altri uomini illetterati annunziare verità
così elevate?

Essi parlavano e scrivevano, con meravigliosa sicurezza e con forza persuasiva, di


misteri di cui gli antichi filosofi non erano riusciti neppure a formarsi la più piccola
idea: e hanno chiarito questi misteri non soltanto durante la loro vita, ma anche dopo la
loro morte e non a due o a venti persone e neppure a cento o a mille o a diecimila, ma a
città, a popoli, a stirpi intere, ai Greci e ai barbari, sul mare e sulla terra, nei centri
abitati, come all’interno dei deserti. Non solo, ma essi annunziavano realtà che superano
del tutto la natura umana. Allontanandosi dalle cose terrestri, parlavano soltanto di cose
di cielo, riportando a noi un’altra vita e un altro modo di vivere. Essi annunziavano, sì,
una ricchezza e una povertà, una libertà e una servitù, una vita e una morte, un mondo e
una società: ma tutte queste realtà erano cambiate, rinnovate...

Il Vangelo, al contrario, è stato annunziato da pescatori, perseguitati, flagellati,


esposti a ogni pericolo: eppure è stato accolto con il massimo rispetto sia dai sapienti
come dagli ignoranti, dagli uomini liberi come dagli schiavi, dai soldati e dai principi,
dai Greci come dai popoli barbari...

I capi di questa santa istituzione sono pescatori, pubblicani, fabbricanti di tende, che
non sono vissuti soltanto un limitato numero di anni, ma che vivono in eterno e
possono, anche dopo la loro morte, aiutare ancora moltissimo i loro discepoli. In questa
società non si fa guerra contro gli uomini, ma contro i demoni e le potenze incorporee;
perciò essa non ha come condottiero, in questa invisibile battaglia, un uomo o un
angelo, ma Dio stesso, e le armi di questi soldati si adattano alla natura di tale guerra:
esse non sono fatte né di cuoio né di ferro, ma di verità, di fede, di giustizia e di ogni
sapienza.

Dato, dunque, che il libro che ci accingiamo a spiegare tratta di questo nuovo modo
di vivere, ascoltiamo con diligenza Matteo, che ne parla con estrema chiarezza o,
meglio, ascoltiamo Gesù Cristo, che ne è il legislatore e che parla egli stesso per la
bocca del suo evangelista. Accostiamoci a lui, in modo da poter essere un giorno nel
novero dei cittadini di questa nuova società, di coloro che sono divenuti illustri
seguendone le leggi e che hanno perciò ricevuto una immortale corona. Molti credono
che questo libro sia di facile comprensione e che soltanto i profeti siano difficili da
comprendere. Chi pensa così non conosce abbastanza le profondità dei misteri contenuti
nel Vangelo. E per questo io vi scongiuro di seguirmi con molto impegno e attenzione,
in modo da poter entrare insieme in questo vasto mare degli scritti evangelici, seguendo
Gesù Cristo che ci servirà da guida...

Voi procurate di erudirvi nella storia del mondo, cercando di conoscerne il presente
e il passato. Voi vi ricordate dei re ai cui ordini avete portato le armi, degli organizzatori
dei giochi pubblici, di coloro che hanno vinto i premi e di altre cose che non vi sono di
alcuna utilità, mentre non mettete la minima cura nel considerare chi è il capo di questa
città celeste, chi sono coloro che stanno in essa al primo, al secondo e al terzo posto nel
sapere in quanto tempo se lo sono conquistato, come ciascuno ha combattuto e per quali
azioni si è segnalato. Non solo, ma non vi date neppure la pena di stare a sentire chi vi
parla delle leggi di questa città celeste. Ebbene, dopo tutto questo, oserete ancora
sperare di gioire un giorno nel possesso di questi beni promessi, mentre oggi non vi
degnate nemmeno di stare a sentir coloro che ve ne parlano?

Facciamo, dunque, almeno oggi, cari fratelli, quanto prima abbiamo trascurato di
fare. Se Dio ci consente la speranza di entrare un giorno in questa città tutta d’oro, e che
in realtà è infinitamente più preziosa dell’oro, cerchiamo di apprendere ora quali sono le
sue fondamenta, quali sono le sue porte fatte di perle e di diamanti.

Noi abbiamo in Matteo una eccellente guida: entriamo perciò, ora, dalla porta che
egli ci apre. E raddoppiamo la nostra attenzione nel timore che egli, accorgendosi che
qualcuno lo ascolta con negligenza, lo bandisca da questa città celeste. Questa città,
infatti, è veramente regale e magnifica: non ha niente in comune con le città terrene, non
è divisa in piazza e reggia. Essa è tutta il palazzo del suo re. Ebbene, apriamo le porte
delle nostre anime, apriamo le orecchie dei nostri cuori e, mentre ne varchiamo le
soglie, adoriamo con rispettoso timore il re che in essa regna. Chi desidera
contemplarlo, può al primo contatto essere colto dallo spavento, perché le sue porte in
questo momento sono ancora chiuse per noi: ma quando le vedremo aperte, cioè quando
avremo dato la soluzione degli interrogativi che ci siamo proposti, vedremo allora il
grande splendore che dentro vi rifulge. Questo pubblicano vi condurrà lassù con gli
occhi dello spirito e - come promette - vi farà vedere tutto. Egli vi mostrerà dov’è il
trono del re, chi sono i soldati che lo circondano, dove sono gli angeli e gli arcangeli,
qual è il luogo destinato ai nuovi cittadini della città e quale è la strada che vi conduce,
quali onori spettano a chi occupa il primo, il secondo o il terzo posto, come vi siano
diverse dignità e vari ordini tra gli abitanti di quella città. Perciò noi non vi entriamo
tumultuosamente o facendo chiasso, ma con rispetto e in silenzio degni di questi grandi
misteri. Se si osserva un silenzio profondo quando si debbono leggere le lettere del re in
un’assemblea pubblica, tanto più voi tutti dovrete far silenzio e stare in piedi con
l’anima e la mente attente ora che si sta per leggere, non le ordinanze di un principe
qualunque, ma la rivelazione del re degli angeli. Se noi ci comportiamo così, lo Spirito
stesso ci condurrà, con la sua grazia, fino al trono del re, per godervi beni senza fine, per
la grazia e la misericordia di Gesù Cristo, nostro Signore.

Crisostomo Giovanni, In Matth., 1, 4. 6. 8

COMUNE DEI MARTIRI

Dopo il martirio subito dal vescovo di Smirne, Policarpo (+ 155), la comunità locale si
raduna ogni anno presso la tomba del loro pastore per celebrare l’anniversario della
sua morte. Questa la più antica testimonianza del culto dei martiri in Oriente
Testimonianze del genere sono reperibili in Roma al tempo delle cruente persecuzioni
che scoppiarono nel III secolo. I papi Callisto (+ 222) e Sisto (+ 258) danno la vita per
la fede e la venerazione che li circonda da parte della comunità esercita l’influsso
positivo nell’incrementare il culto dei martiri a Roma. Nel giorno della «nascita al
Cielo» di un martire, presso la sua tomba si raduna la comunità e vi celebra
l’Eucaristia; così si manifesta il culto. È il giorno solenne per una data comunità
locale. Con la libertà acquistata dalla Chiesa, il culto dei martiri si sviluppa
moltissimo. Le tombe dei martiri vengono messe in rilievo, vi si pongono delle iscrizioni
e spesso vi s’innalzano delle basiliche. Nelle orazioni della Chiesa compare la
preghiera per l’intercessione di coloro che soffrirono per il Signore; molte volte, il
culto di una Chiesa locale si diffonde nelle Chiese vicine o addirittura nelle province.

Prima in Oriente, poi anche a Roma si accoglie l’usanza di traslocare le reliquie


dei santi martiri nei templi in costruzione e così sorgono i nuovi luoghi del culto.
Spesso, il giorno del trasloco delle reliquie si identificava col giorno «della nascita al
cielo», particolarmente quando quest’ultimo non era noto. Più tardi, diverse Chiese e
città si scambiano le reliquie e perciò il culto di tanti martiri, una volta limitato alla
Chiesa locale, si diffonde in tutto il mondo.

Preziosa agli occhi del Signore è la morte dei suoi fedeli (Ps 115), così il Salmista
esprime il punto di vista del Vecchio Testamento riguardo alla morte per la fede. Cristo
dirà: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Jn
15,13). San Paolo scriverà: «Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la
tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?» (Rm
8,35). Dare la vita per Cristo vuol dire diventare suo testimone nel significato più
profondo di questa parola, vivere nel modo più pieno la partecipazione al mistero
pasquale del Redentore, offrire la propria vita volontariamente in sacrificio.

Deve esserci una grande fede ed un grande amore per spingere a ciò. La fede e
l’amore così grandi non sono opera dello spirito e dello sforzo umano. Lo Spirito
Santo, Spirito di Coraggio e di Fortezza, pervade l’uomo e gli permette di elevarsi fino
a questo punto. Colui che muore per Cristo viene talmente riempito dallo Spirito del
Signore che diventa veramente uomo «spirituale». Tutta la sua vita precedente doveva
essere una grande apertura a Dio, una continua disponibilità a compiere la sua
volontà. Lo Spirito Santo ancora prima del «giorno della nascita al cielo» ha reso
l’uomo un continuo dono, offerta viva al Padre in Cristo.

Venerando i martiri, la Chiesa ci presenta degli esempi da imitare: la costanza


nella fede, la perseveranza nel professare il nome del Signore, la totale adesione a
Cristo, la vittoria nel momento della prova, la resistenza alla tentazione di andarsene,
la carità senza limiti, la fermezza fino alla fine. La Chiesa implora Dio, per i meriti dei
martiri, di concedere i doni sopra elencati a coloro che sono ancora per via verso la
patria celeste. La Chiesa crede che il sacrificio dei martiri porti frutto: fa nascere nuovi
seguaci del Signore, e coloro che già credono li introduce nella più profonda
conoscenza del mistero di Cristo.

Dio, al cui cospetto è preziosa la morte dei santi,


concedi che conferisca a noi una vita fedele
ciò che procurò ad essi una morte devota.

Missale Gothicum, ed. L.C. Mohlberg, Roma 1961, n. 458

1. Lode del martirio


Cosa mai di più glorioso, cosa mai di più felice può toccare a un uomo, dalla divina
degnazione, che confessare intrepido il Signore Iddio tra gli stessi carnefici? Che
professare fedeltà a Cristo, Figlio di Dio con lo spirito libero, anche se sul punto di
andarsene, tra i tormenti vari e ricercati della crudele potestà secolare, col corpo slogato,
tribolato e scarnificato? Che abbandonare il mondo e dirigersi verso il cielo, che lasciare
gli uomini e abitare tra gli angeli, che rompere tutti i legami del mondo e stare ormai
libero al cospetto di Dio, che possedere ormai senza dubbio alcuno il regno dei cieli?
Che essere divenuto socio di Cristo nella passione per il nome di Cristo, che essersi
reso, per divina degnazione, giudice dei propri giudici, che aver mantenuto la coscienza
immacolata nella professione del nome cristiano che aver rifiutato obbedienza a leggi
umane, sacrileghe e contrarie alla fede, che aver attestato a gran voce, in pubblico, la
verità, che aver sottomesso, morendo, la morte stessa da tutti temuta, che aver con essa
acquistato l’immortalità? Che aver superato i tormenti con gli stessi tormenti, cioè
tribolati e lacerati da tutti gli strumenti di tortura, che aver resistito con la forza
dell’animo a tutti i dolori del corpo dilaniato, che non essersi terrorizzati vedendo
scorrere il proprio sangue, che aver sentito amore, dopo la confessione di fede, per i
propri supplizi, che aver considerato ormai detrimento della vita lo stesso sopravvivere?

A questa battaglia quasi con la tromba del suo Vangelo ci eccita il Signore dicendo:
Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me, e chi ama l’anima sua più di
me non è degno di me, e chi non prende la sua croce e mi segue non è degno di me (Mt
10,37s); e ancora: Beati coloro che sopporteranno persecuzione per la giustizia, perché
di essi è il regno dei cieli. Beati siete voi quando gli uomini vi avranno perseguitato e vi
avranno odiato. Godete ed esultate. In questo modo infatti perseguitarono i profeti che
furono prima di voi (Mt 5,10ss). E: Starete di fronte ai re e ai presidi, e il fratello
consegnerà a morte il fratello, e il padre il figlio, e chi avrà perseverato sino alla fine,
costui sarà salvo (Mt 10,8 21s Mt ). E: A chi vincerà concederò di sedere sopra il mio
trono, come io ho vinto e siedo sopra il trono del Padre mio (Ap 3,21). Ma anche
l’Apostolo: Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Il tormento, o l’angustia, o la
persecuzione, o la fame, o la nudità, o il pericolo, o la spada? Sta scritto infatti: Per te
veniamo uccisi tutto il giorno, siamo considerati pecore da macello, ma tutto ciò noi
superiamo per colui che ci ha amato (Rm 8,35ss).

Cipriano di Cartagine, Epist. 31, 1

2. I martiri sono testimoni della verità

Nel salmo abbiamo detto al nostro Signore Dio: È preziosa innanzi al Signore la
morte dei suoi fedeli (Ps 115,15). È preziosa la morte dei santi martiri; perché il loro
valore è il sangue del loro Signore. Lui volle la sua passione, in grazia di quelli che,
dopo di lui, avrebbero avuta la loro. Lui andò avanti e tanti lo seguirono. La via era
molto aspra, ma divenne dolce, perché lui andò innanzi a tutti. Gli altri non ebbero
paura di percorrerla, perché l’aveva già percorsa lui. Quando morì, i discepoli ebbero
paura; ma risuscitò e portò via ogni paura e li riempì d’amore. Vedete la grazia di Dio
proprio nell’atto del seguirlo. Un ladro credette in lui, proprio nel momento in cui i
discepoli ebbero paura. Ma quel ladro stava in croce con lui e perciò poté credere fino al
punto da dirgli: Signore, ricordati di me quando sarai nel tuo regno (Lc 23,42). Chi lo
illuminò in quel momento, se non colui che pendeva al suo fianco? Sembrava che gli
stesse crocifisso a fianco, ma in realtà gli stava già nel cuore.
In questo salmo in cui abbiamo detto: È preziosa innanzi al Signore la morte dei
suoi fedeli, troviamo anche scritto: Ho detto con sgomento: Ogni uomo è inganno (Ps
115,11).

Che diciamo, fratelli? Ogni uomo è inganno? Allora anche i martiri sono stati
bugiardi. E se diciamo che i martiri son veritieri, come può esser vera la Scrittura,
quando afferma che tutti gli uomini sono bugiardi? Se son veritieri i martiri è bugiarda
la Scrittura; e se è veritiera la Scrittura, i martiri son bugiardi. Come possiamo mettere
insieme la veracità della Scrittura e la veracità dei martiri? Forse i martiri non son da
dire uomini? Perché, se sono uomini, come può essere vero che tutti gli uomini sian
bugiardi? Che faremo? Cercheremo di farvi vedere che la Scrittura dice giusto, quando
afferma che ogni uomo è bugiardo, e che i martiri son veritieri, perché son morti per la
verità. Per questo son chiamati martiri, perché hanno accettato di morire per rendere
testimonianza alla verità. Martire è parola greca e in latino vuol dire testimone. Se
furono testimoni veraci, dissero la verità; e furono coronati, perché dissero la verità. Se
furono testimoni falsi, il che è assurdo, non ebbero una corona, ma una condanna perché
sta scritto: Non resterà impunito il testimone falso (Pr 19,5). Vediamone allora la
veracità. Vollero morire per la verità. Ma come si può accordar questo con la Scrittura
che dice che ogni uomo è bugiardo? Preghiamo il Signore Gesù Cristo ed egli ci
risolverà il problema. A che cosa si rivolgerà per risolverlo? Si rivolgerà al Vangelo, del
quale stavamo parlando.

I martiri son veraci, perché in essi parlava lo Spirito di Dio. Avete sentito, infatti,
durante la lettura del Vangelo, che Gesù diceva ai martiri: Non vi preoccupate, quando
vi consegneranno ai carnefici, di quello che dovrete pensare o dire, in quel momento vi
sarà dato tutto quello che dovrete dire. Non siete voi infatti, che parlate, ma è lo Spirito
del Padre vostro che parla in voi (Mt 10,19-20). Poiché se parlate voi, dite bugie:
infatti, ogni uomo è inganno. Il Signore sapeva che ogni uomo è inganno e diede ai
martiri il suo Spirito, perché non fossero loro a parlare, ma il suo Spirito; così non
sarebbero stati un inganno, ma la verità. Ecco perché furono veritieri, perché non erano
essi che parlavano, ma lo Spirito del Signore. E anche ora, ciò che vi diciamo se lo
diciamo da noi, diciamo bugie. Se però quello che vi diciamo è Spirito di Dio, è una
verità. Imparate anche voi. Non parlate da voi stessi, se volete dire la verità. Dite quello
che dice lo Spirito del Padre, per non essere uomini d’inganno ma autentici figli di Dio.

Agostino, Sermo 328, 1-3

3. Esortazione ai martiri

Prima di tutto, benedetti, non contristate lo Spirito Santo (Ep 4,30), che è entrato
con voi in carcere. Se, infatti, egli non fosse entrato con voi, neanche voi sareste stati lì
oggi. Perciò impegnatevi a farlo restare con voi, perché di là vi conduca dal Signore...

Tutte le altre pastoie dell’animo, compresi i vostri congiunti, vi accompagnino fino


alla porta del carcere. Lì venite separati dalla vita quanto più dai pericoli profani. E non
vi rattristi questo venire separati dai pericoli profani. Se, infatti, ci rendiamo conto che
questo mondo profano è esso stesso piuttosto un carcere, ci sarà facile comprendere che
voi siete usciti dal carcere, più che entrarvi. Il mondo profano ha maggiori tenebre, che
accecano i cuori degli uomini; mette più pesanti catene, che stringono le anime degli
uomini, spira peggiori immondizie, che formano la concupiscenza degli uomini. Questo
mondo profano poi ha un maggior numero di delinquenti, o meglio tutto il genere
umano. E questo dovrà affrontare non il giudizio di un proconsole, ma di Dio. Perciò, o
benedetti, consideratevi, semmai, trasferiti da un carcere in una custodia. Vi son delle
tenebre, ma voi stessi siete luce; vi son delle catene, ma siete sciolti per Dio. C’è un
cattivo odore, ma voi siete odore di soavità. Dovete essere giudicati da un giudice, ma
un giorno voi giudicherete i giudici...

Il carcere è per un cristiano ciò che era la solitudine per i profeti. Lo stesso Signore
Gesù Cristo spesso si ritirava nella solitudine, per pregare più liberamente, per
allontanarsi dal mondo profano. Nella solitudine palesò la sua gloria ai discepoli. Non lo
chiamiamo più carcere, chiamiamolo ritiro. Anche se il corpo è legato, anche se la carne
è tenuta stretta, tutto è aperto allo spirito. Spazia con lo spirito, vola con lo spirito, non
pensare a stadi ricoperti o a lunghi porticati, ma alla via che mena fino a Dio. Tutte le
volte che ti fermerai a pensare a quella, ti sentirai fuori dal carcere. Le gambe non
sentono alcuna difficoltà, se l’anima è in cielo. L’anima porta con sé tutto l’uomo e lo
porta dove vuole. Dov’è il tuo cuore, ivi è il tuo tesoro (Mt 6,21). Mettiamo, dunque, il
nostro cuore dove vogliamo avere il tesoro.

Tertulliano, Ad martyras, 1, 3; 2, 1-4. 8-10

4. «Sono il frumento di Dio»

Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio, se voi
non me lo impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna.
Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio.
Sono il frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di
Cristo.

Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio
corpo ed io morto non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo,
quando il mondo non vedrà il mio corpo. Pregate il Signore per me perché con quei
mezzi sia vittima per Dio.

Non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato; essi
erano liberi io a tuttora uno schiavo (1Co 9,1). Ma se soffro sarò affrancato in Gesù
Cristo (1Co 7,22) e risorgerò libero in lui. Ora incatenato imparo a non desiderare nulla.

Dalla Siria sino a Roma combatto con le fiere, per terra e per mare, di notte e di
giorno, legato a dieci leopardi, il manipolo dei soldati. Beneficati diventano peggiori.
Per le loro malvagità mi alleno di più ma non per questo sono giustificato (1Co 4,4).

Potessi gioire delle bestie per me preparate e m’auguro che mi si avventino subito.
Le alletterò perché presto mi divorino e non succeda, come per alcuni, che intimorite
non li toccarono. Se incerte non volessero, le costringerò. Perdonatemi, so quello che mi
conviene.
Ora incomincio ad essere un discepolo. Nulla di visibile e di invisibile abbia invidia
perché io raggiungo Gesù Cristo. Il fuoco, la croce, le belve, le lacerazioni, gli strappi,
le slogature delle ossa, le mutilazioni delle membra, il pestaggio di tutto il corpo, i
malvagi tormenti del diavolo vengano su di me, perché voglio solo trovare Gesù Cristo.

Nulla mi gioverebbero le lusinghe del mondo e tutti i regni di questo secolo. È bello
per me morire in Gesù Cristo più che regnare sino ai confini della terra. Cerco quello
che è morto per noi; voglio quello che è risorto per noi. Il mio rinascere è vicino.

Perdonatemi, fratelli. Non impedite che io viva, non vogliate che io muoia. Non
abbandonate al mondo né seducete con la materia chi vuol essere di Dio. Lasciate che
riceva la luce pura; là giunto sarò uomo.

Lasciate che io sia imitatore della passione del mio Dio. Se qualcuno l’ha in sé,
comprenda quanto desidero e mi compatisca conoscendo ciò che mi opprime.

Il principe di questo mondo vuole rovinare e distruggere il mio proposito verso Dio.
Nessuno di voi qui presenti lo assecondi. Siate piuttosto per me, cioè di Dio. Non
parlate di Gesù Cristo, mentre desiderate il mondo. Non ci sia in voi gelosia.

Anche se vicino a voi vi supplico non ubbiditemi. Obbedite a quanto vi scrivo.


Vivendo vi scrivo che bramo di morire. La mia passione umana è stata crocifissa, e non
è in me un fuoco materiale. Un’acqua viva mi parla dentro e mi dice: qui al Padre (Jn
14,22).

Non mi attirano il nutrimento della corruzione e i piaceri di questa vita. Voglio il


pane di Dio che è la carne di Gesù Cristo, della stirpe di David e come bevanda voglio il
suo sangue che è l’amore incorruttibile.

Non voglio più vivere secondo gli uomini. Questo sarà se voi lo volete. Vogliatelo
perché anche voi potreste essere voluti [da Lui]. Ve lo chiedo con poche parole.

Credetemi, Gesù Cristo vi farà vedere che io parlo sinceramente; egli è la bocca
infallibile con la quale il Padre ha veramente parlato.

Chiedete per me che lo raggiunga. Non ho scritto secondo la carne, ma secondo la


mente di Dio. Se soffro mi avete amato, se sono ricusato, mi avete odiato.

Ignazio di Antiochia, Ad Romanos, 4-8

5. Combattere per il bene dei popoli

Voi, dunque, da veri discepoli del Signore, considerate vostre le nostre afflizioni.
Non facciamo guerre per denaro, né per gloria, né per alcun’altra cosa temporale: ma ci
battiamo per la comune eredità, patrio tesoro della retta fede. Vi affliggete per il nostro
dolore, voi che amate i fratelli, poiché davanti a noi è stata chiusa la bocca dei pii ed è
stata sciolta, in verità, la lingua arrogante e blasfema di coloro che dicono iniquità
contro Dio (Ps 74,6). Le colonne e il fondamento della verità vengono abbattuti; noi,
invero, che fummo disprezzati a causa della povertà, veniamo privati della libertà di
parola. Combattete per il bene dei popoli, non preoccupatevi solo del vostro stato cioè di
stare in porti tranquilli con la grazia di Dio che vi protegge sempre dal turbine dei venti
contrari. Ma porgete la mano anche alle Chiese agitate dalla tempesta, perché un giorno,
abbandonate non abbiano a soffrire profondamente a causa del naufragio della fede.

Basilio di Cesarea, Epist. 243, 4

6. I martiri danno testimonianza a favore della fede nella risurrezione

A che cosa danno testimonianza tali miracoli (avvenuti nei luoghi destinati al culto
dei martiri), se non a questa fede che predica la risurrezione di Cristo nella carne e la
sua ascensione al cielo con la carne? Gli stessi martiri infatti furono «martiri» di questa
fede, cioè suoi testimoni: a questa fede dettero testimonianza davanti al mondo
inimicissimo e crudelissimo, che vinsero non combattendo, ma morendo. Per questa
fede sono morti, e ora possono impetrarla al Signore, per il cui nome furono uccisi. E
per questa fede che essi hanno anzitutto sofferto con una ammirevole pazienza affinché
in seguito potessero manifestare questa grande potenza. Poiché, se la risurrezione della
carne per l’eternità non ha avuto già luogo nel Cristo, o non deve aver luogo in futuro
come l’ha predetto il Cristo e come l’hanno predetto i profeti che hanno annunziato il
Cristo, perché tanto potere è stato concesso a dei morti che hanno gettato via la loro vita
per una fede che proclama questa risurrezione? Infatti, sia che Dio stesso operi da sé in
quel modo mirabile con cui egli, eterno, agisce nelle cose temporali, sia che operi per
mezzo dei suoi ministri; e in questo caso, sia che agisca per mezzo dello spirito dei
martiri come fa per mezzo degli uomini ancora viventi in questa carne, sia per mezzo
degli angeli, in cui opera in modo invisibile, immutabile e incorporeo - e di conseguenza
i miracoli che si dicono compiuti dai martiri avverrebbero solo per le loro preghiere e
impetrazioni, non per la loro opera - sia che egli li compia alcuni in un modo, altri in un
altro modo che a noi mortali non è possibile comprendere: tuttavia è certo che questi
prodigi sono una testimonianza in favore di quella fede che annuncia la risurrezione
della carne per l’eternità.

Agostino, De civit. Dei., 22, 9

7. I martiri testimoniano Cristo più da morti che da vivi

Quasi dal seme del loro sangue è ripiena la terra coi martiri, e dal loro seme è sorta
la messe della Chiesa.

Testimoniarono il Cristo più da morti che da vivi. Oggi testimoniano, oggi


predicano: tace la loro lingua, risuonano i loro fatti. Erano impediti, venivano legati,
erano rinchiusi, venivano condotti [davanti ai tribunali], erano torturati, arsi vivi,
lapidati, percossi, e dati in pasto alle belve. In tutte le loro morti venivano irrisi come
vili: ma preziosa davanti al Signore è la morte dei suoi santi (Ps 115,15). E davanti al
Signore è così preziosa, come ora davanti a noi.

Quando allora era un disonore esser cristiano, vile era la morte dei santi davanti agli
uomini: venivano detestati, maledetti; ed erano messi a morte in segno di maledizione:
«Così tu possa morire!».
Così tu sia crocifisso, così tu sia arso vivo. Quale fedele non desidera ora queste
maledizioni?

Agostino, Sermo 286, 3

8. I libri dei miracoli attribuiti ai martiri

Molti, dunque, sopportano il martirio nel letto: molti, proprio.

Vi è una certa persecuzione di Satana più occulta ed insidiosa di quella che vi fu un


tempo.

Giace un fedele nel letto, è tormentato dai dolori, prega, ma non è esaudito: anzi è
esaudito, ma è provato, ma è tenuto in esercizio, viene flagellato affinché venga accolto
come figlio.

Dunque, quando è tormentato dai dolori, giunge la tentazione della lingua. Diventa
martire nel letto, mentre lo corona colui che pende dalla croce per lui.

Agostino, Sermo 286, 7

COMUNE DELLE VERGINI

Al tempo delle persecuzioni, si rendeva il culto ai martiri, cioè a coloro che hanno reso
la più alta testimonianza a Cristo offrendo per lui la loro vita. Quando cessarono le
persecuzioni anche la testimonianza Cristiana assunse una nuova forma. Il posto dei
martiri venne occupato dagli asceti: la lunga vita piena di mortificazioni «sostituisce»
la testimonianza del sangue. Scrive san Giovanni Crisostomo (+ 407): «Mortificate e
crocifiggete i vostri corpi, e riceverete la corona del martirio». La forma più sublime di
ascesi è costituita dalla verginità dedicata a Dio. Metodio da Olimpo, alla fine del III
secolo, paragonò la verginità cristiana al martirio ed aggiunse che quest’ultimo dura
brevemente invece la vita verginale esige un sacrificio continuo.

Il culto delle vergini nella Chiesa cominciò dal culto delle vergini-martiri:
sant’Agnese (Roma), sant’Agata (Catania), santa Lucia (Siracusa).

La Chiesa sanzionava la decisione riguardante la vita nello stato di verginità


attraverso uno speciale rito: papa Liberio (+ 336) consacra nella basilica di San Pietro
Marcellina, sorella di sant’Ambrogio. Dalla lettera di papa Sirizio (+ 339) risulta che
al rito assisteva sempre il vescovo, che dà alla vergine un velo simile a quello usato
nelle nozze. I padri della Chiesa scrivono tanto sull’argomento della verginità
consacrata a Dio e nei loro scritti si ripete spesso il termine «la sposa di Cristo» per
indicare la vergine. Il Sacramentario Veronese contiene il rito della consacrazione
delle vergini nel V secolo e le preghiere di questo Sacramentario, con alcuni
cambiamenti, vennero usate per molti secoli.

Anche oggi, la Chiesa conosce il rito della «consacrazione delle vergini», che non è
la stessa cosa dell’emissione del voto solenne di castità.

Celebrando la commemorazione di una santa vergine, la Chiesa vuole che


prendiamo coscienza di che cos’è la vita di verginità. L’uomo chiamato a questa forma
di vita nella Chiesa sta in un certo senso tra ciò che «era all’inizio» e ciò «che sarà alla
fine».

Nella vocazione dell’uomo alla castità, Dio ripristina nella natura umana la santità
originaria e permette di sperimentare fin da ora il tempo ultimo, quando cioè «non si
prende né moglie né marito» (Mt 22,30).

In tal modo, la vita consacrata a Dio nella verginità diventa un segno nella Chiesa,
un segno del rinnovamento di tutto, un segno della venuta dei tempi ultimi. I chiamati a
questa forma di vita, in Cielo «seguono l’Agnello dovunque va» e cantano un cantico,
che «nessuno può comprendere» (Ap 14,3). Ecco perché la Chiesa sempre, e
particolarmente oggi, ha bisogno della testimonianza della castità.

L’uomo si decide a vivere nella castità «per il regno dei cieli» (Mt 19,12), ma è
consapevole che sta di fronte al mistero. La chiamata alla vita nella castità è un dono
proveniente da Dio, è una grazia.

Il cuore umano viene spinto con grande amore dalla forza dello Spirito Santo e
l’uomo ispirato da Dio pronuncia il suo «sì». La vita nella castità consacrata a Dio si
può capire e spiegare soltanto con le ragioni dell’amore. L’uomo, mosso dall’amore,
vuole rispondere con amore e desidera dare un segno di questo amore. Dicendo «sì»,
diventa libero, e adesso «si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al
Signore» (1Co 7,32); prepara nel suo cuore l’abitazione per il Signore e come «la
vergine prudente» esce ogni giorno con la lampada accesa per attendere l’arrivo dello
Sposo.

Nel giorno della commemorazione di una vergine, la Chiesa implora per la sua
intercessione affinché noi possiamo crescere sempre nell’amore, viviamo nella castità
evangelica, vinciamo il peccato e portiamo nel nostro corpo mortale la Passione di
Cristo. Affinché siamo sempre accesi nella fede, aspettando il ritorno del Signore.

O Dio, nostra salvezza,

accogli le preghiere di questa tua famiglia

che si rallegra nel ricordo di santa N.,

e fa che profondamente rinnovata nello spirito,

si consacri per sempre al tuo servizio.

Missale Romanum: Missae Votivae. Com. Virginum I. Coll.


1. Vera grandezza della verginità

Buona cosa è il matrimonio: ma non posso dire che cosa ci sia di più grande della
verginità. La verginità, infatti, non sarebbe una cosa grande, se non fosse migliore e più
nobile di una cosa buona. Non ve la prendete a male voi che siete sottomesse al giogo
del matrimonio. Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (Ac 5,29). Del resto
fate in modo da essere tra voi strette quasi da una catena, vergini e mogli, ed essere una
sola cosa nel Signore e mutuo ornamento le une alle altre. Non ci sarebbe il celibato, se
non ci fosse il matrimonio. Infatti come potrebbe esserci verginità in questo mondo?
Non ci sarebbe matrimonio onorato e rispettabile, se non mostrasse la verginità sia a
Dio, sia al mondo. Anche tu onora tua madre da cui nascesti. Onora anche colei che
nacque da madre ed è madre. In verità non è solo madre, ma sposa di Cristo. Infatti la
bellezza che cade sotto gli occhi non si tiene celata; ma quella che gli occhi non vedono
è vista da Dio. Tutta la gloria della figlia del Re è dall’interno, circondata di auree
frange (Ps 45,14), resa manifesta dalle azioni e dalle contemplazioni. Colei che è sotto
il giogo [del matrimonio] sia almeno in parte di Cristo: colei che ha abbracciato la
verginità sia tutta di Cristo. Quella non sia completamente legata al mondo: questa in
nessun modo abbandoni l’animo al mondo.

Infatti, ciò che per la coniugata è una parte, per la vergine è tutto. Hai scelto la vita
degli angeli? Ti sei unita alla schiera di quelli che non conoscono il giogo? Non cedere
alla carne, non abbassarti verso la materia, non congiungerti in matrimonio
materialmente, anche se per altri aspetti persisti nel celibato. L’occhio lascivo ed
impudico non conserva affatto la verginità: la lingua impudica si dà al diavolo: i piedi
vacillanti rivelano la malattia o il pericolo di malattia incombente. Anche la mente
stessa rispetti la verginità: non rimugini, non vada vagando, non rechi in sé immagini di
meretricio (infatti nella mente è impressa anche una certa forma di libidine), non lasci
che l’anima venga plasmata da simulacri che bisogna aborrire.

Ed egli disse loro: Non tutti intendono questo discorso, ma solo coloro ai quali è
stato concesso (Mt 19,11). Vedete la sublimità di questa espressione? Essa è perfino tale
da non potersi, in un certo qual modo, concepire e comprendere. O forse non è più
grande, rispetto alla fragilità della carne, ciò che, pur essendo stato creato dalla carne,
non genera nella carne? Non è forse cosa veramente angelica che colei, che è stata
legata dai vincoli della carne, viva non secondo la carne, ma sia più in alto della natura
stessa? La carne legò al mondo, ma la ragione condusse verso Dio. La carne oppresse, la
ragione innalzò e diede quasi le ali. La carne sottomise con le sue catene, ma l’amore
liberò. O vergine, la tua anima si volga tutta a Dio (e questa stessa cosa la dico sia per
gli uomini, sia per le donne), e non ti sembri bella nessun’altra cosa tra tutte quelle che
di solito sembrano belle alla gente: non la nobiltà dei natali, non le ricchezze, non il
trono, non l’autorità e la potenza, non quella bellezza cui si pensa nell’eleganza
dell’aspetto e nella giusta conformazione delle membra, ed è in ogni caso soggetta al
tempo e alle malattie. Se hai effuso tutta la forza dell’amore in Dio, se tu non ardi
d’amore per ciò che ha duplice natura, è instabile e saldo, visibile ed invisibile,
certamente fino a tal punto sei stata ferita da un dardo scelto e hai conosciuto la bellezza
dello sposo così da poter dire anche quelle famose parole del dramma e del cantico
nuziale: Sei la dolcezza e tutto desiderabile (Ct 5,16).
Gregorio Nazianzeno, Oratio 37, 10-11

2. Quanto gran cosa è la verginità

È così grande la verginità e vuol tanta fatica che Cristo, disceso dal cielo, per far gli
uomini angeli e disegnare una celeste maniera di vita, non osò comandarla né
prescriverla per legge però volle morire. E che cosa si può pensare più grave di questa?
Si fece mettere in croce, comandò di colmare i nemici di benefici, ma lasciò la verginità
alla scelta di quelli che lo ascoltavano, dicendo: Chi può comprenderla, la comprenda
(Mt 19,12). È grande, infatti, la mole di questa cosa, grande la difficoltà di queste lotte e
sudor di guerre e il campo di questa virtù e ripido e scivoloso, il che appare anche dalla
vita di coloro che risplendettero di molte virtù nel Vecchio Testamento.

Come quel grande Mosè, principe dei profeti, vero amico di Dio, che aveva tanta
fiducia e autorità presso di lui, che poté strappare seicentomila uomini, esposti al
supplizio a una piaga mandata dal cielo; un uomo, dico, che comandò al mare e lo
spaccò in due, spezzò le rocce, trasformò l’atmosfera, mutò l’acqua del Nilo in sangue,
oppose al Faraone un esercito di rane e di locuste, cambiò la natura delle cose create,
fece infiniti miracoli e diede molti esempi di virtù, pure neanche volse lo sguardo alla
lotta per la verginità, ma ebbe bisogno del sostegno del matrimonio e non osò affidarsi
al mare della verginità, di cui temeva i flutti.

Ma anche l’altro santissimo patriarca, che era pronto a sacrificar suo figlio, poté
dominare gli affetti naturali; quel suo figlio Isacco, giovane, caro, unico, avuto contro
ogni speranza, pieno di virtù, unico suo appoggio era pronto a sacrificarlo, lo condusse
anche sul monte e costruì l’altare, v’accomodò la legna e vi pose la vittima e prese il
coltello; fu più forte del diamante, ma tuttavia non osò affrontare la lotta della verginità
e abbracciò il conforto del matrimonio.

Così grande è la difficoltà della verginità, così alte le lotte, così gravi le fatiche e
vogliono una enorme fortezza d’animo. Eppure molte di quelle che si sono accinte a
questa lotta, neanche hanno superato il desiderio di un abbigliamento elegante e
smodato, anzi sono schiave di quel desiderio più delle donne che si dedicano al mondo.
E non mi venir a dire che esse non portano oro, nè seta, né gemme. Perché ciò che è più
grave e mostra la loro malattia e tirannico affetto è che in ogni modo, proprio per mezzo
dei loro indumenti di nessun prezzo, s’ingegnano di superare l’eleganza e l’amabilità di
quelle che si vestono d’oro e di seta; così volendo apparire indifferenti, diventano
pestifere e ingannatrici. Perciò trovo tanto più degna di lode te. Non mi sorprende,
infatti, in te una povertà di vestito che magari gareggi con quella dei mendicanti, ma il
fatto che nel tuo vestito, calzatura, e modo di camminare non c’è niente di artificioso e
sofisticato, e questi sono i colori della virtù, per cui la sapienza che è nell’animo vien
dipinta all’esterno. Il vestito del corpo, dice la Scrittura, e il riso dei denti e il
portamento dell’uomo, lo dipingono (Si 19,27). Se infatti non avessi buttato al suolo con
incredibile decisione tutti i pensieri delle vanità terrene, non ne avresti potuto
raggiungere tanto disprezzo e non ne avresti superato lo scoglio.

E nessuno mi accusi di esagerare se dico che questo sarebbe un gravissimo peccato.


Se infatti con le donne mondane degli Ebrei, in quel tempo, questo peccato fu così
gravemente punito, quale indulgenza possono sperare coloro la cui conversazione deve
essere nei cieli e che devono imitare le maniere degli angeli quando commettono lo
stesso peccato in circostanze molto più gravi? Quando vedi, infatti, una donna in veste
ondeggiante, che il profeta chiama delitto, che passeggia lascivamente e che dalla
bocca, dagli occhi, dagli abiti, versa una bevanda avvelenata a coloro che la guardano
con occhio impudico ed essa continua a scavar la fossa e a gettar lacci, come fai a
chiamarla vergine e non la chiami piuttosto meretrice? Le meretrici, anzi, non gettano
tanti richiami, quanti codeste che spiegano tutt’intorno le penne della voluttà.

Ti benediciamo perciò e ti colmiamo di lodi, perché liberata da queste vanità, anche


in questo hai dato esempio di mortificazione, non mostrando eleganza, ma diportandoti
con fortezza, non cercando femminili attrattive, ma procurandoti delle armi.

Crisostomo Giovanni, Epist. ad Olymp., II, 7, 9

3. Essere solleciti nel servizio di Dio

Poiché se nella Sacra Scrittura frequentemente e dovunque è prescritta la disciplina,


e ogni fondamento ha inizio e dall’osservanza e dal timore della religione e dalla fede,
che cosa conviene più ardentemente desiderare, che cosa volere e possedere
maggiormente, che di rimanere incrollabili verso le tempeste e gli sconvolgimenti del
mondo, tenendo molto fortemente salde fondamenta, e le nostre dimore sulla roccia con
la mole robusta della solidità in tal modo, secondo gli ordini divini, potremo venire ai
doni divini considerando parimenti e sapendo che le nostre membra sono tempio di Dio,
purificate da ogni legame dell’antica colpa, purificate dalla santificazione del lavacro
battesimale che dà la vita, né sia lecito che quelle cose siano violate o macchiate, dal
momento che colui che viola è egli stesso violato.

Noi siamo i cultori e i capi dei loro templi.

Prestiamo servizio a colui cui già abbiamo cominciato ad appartenere.

Paolo nelle sue lettere dice a quelle alle quali formò noi per il divino magistero nel
modo di vivere: Non appartenete a voi. Siete stati riscattati a grande prezzo. Glorificate
e portate Cristo nel vostro corpo (1Co 6,19-20).

Glorifichiamo e portiamo Dio con cuore puro e mondo e con un’osservanza


migliore, e quelli che sono stati riscattati col sangue di Cristo, obbediamo al comando
del Redentore attraverso tutti gli omaggi di sottomissione, adoperiamoli affinché niente
di immondo e di profano sia arrecato al tempio di Dio affinché, offeso [dal peccato] non
abbandoni la dimora dove Egli abita.

Del Signore ospite e maestro, sono le parole, [del Signore] medico e nel medesimo
tempo, ammonitore, sono le parole: Ecco, disse, sei stato guarito, non peccare più,
affinché non ti accada di peggio (Jn 5,14)

Egli dà il modo di vivere, dà la legge dell’innocenza, dopo che apportò la


guarigione; né sopportò che a briglie sciolte e libere in seguito si vada errando. Egli
minaccia più gravemente chi, dopo essere stato sanato, abbandona, piuttosto che colui
che abbandona prima di aver conosciuto il modo di procedere di Dio: questi ha minore
colpa, mentre nel primo non vi è scusa. È, invero,

sia gli uomini che le donne sia i fanciulli che le fanciulle, ogni sesso, ed ogni età
osservi, e curi per la religione e la fede che deve a Dio, venga trattenuto da un timore
meno sollecito affinché non sia imposto quanto di santo e di puro riguarda la dignità di
Dio.

Cipriano di Cartagine, De Habitu verginum, 2

4. Matrimonio e verginità

So bene che esiste un matrimonio degno di onore e un letto immacolato (He 13,4).
Ho letto ciò che Dio da principio ha comandato: Crescete, moltiplicatevi e propagatevi
su tutta la terra (Gn 1,28). Allora? Il matrimonio l’accetto, ma in questo senso: gli
preferisco la verginità, che da esso nasce. L’argento non sarà più argento, solo perché
l’oro è più prezioso dell’argento? o si fa ingiuria all’albero o ai cereali, quando alla
radice ed alle foglie, ai culmi ed alle spighe si preferiscono i frutti o i chicchi? Ora, la
verginità sta al matrimonio come i frutti all’albero e il frumento alla paglia...

Il numero sessanta invece si riferisce alle vedove, proprio perché si trovano in


posizione di angoscia e di tribolazione (anche per questo motivo esse vengono comprese
dal dito superiore) e quanto più grande è la difficoltà di astenersi dalle dolcezze d’una
voluttà già provata, tanto maggiore, in proporzione, ne è la ricompensa. Venendo al
numero cento (sta’ bene attento, lettore, mi raccomando!), esso viene indicato passando
dalla mano sinistra a quella destra: con le medesime dita di questa (non con la mano
sinistra nella quale sono raffigurate le sposate e le vedove), si forma un cerchio che
rappresenta la corona della verginità...

Ci può essere un lettore malvagio, al punto da giudicarmi non da quanto ho scritto


ma in base all’idea fattasi personalmente? Non c’è dubbio: io sono stato, verso il
matrimonio, molto più benevolo di quasi tutti i trattatisti latini e greci. Essi fanno
coincidere il numero cento col martirio, il sessanta con la verginità, il trenta con la
vedovanza. Ne risulta, stando a loro, l’esclusione degli sposati dai frutti della terra
buona e della semente del Padre di famiglia (Mt 13,27)...

Ancora: nel passo dove ho chiarito il motivo che ha fatto dire all’Apostolo: Ma
quanto alle vergini, non ho comandamento del Signore; do tuttavia il mio parere come
uno che ha ricevuto dal Signore la grazia d’essere fedele (1Co 7,25), ho esaltato sì, a
verginità, ma in modo da conservare al matrimonio il suo posto gerarchico. «Se il
Signore - ho detto - avesse fatto un obbligo di restare vergini, si sarebbe potuto pensare
che avesse condannato il matrimonio, togliendo in tal modo all’umanità il vivaio da cui
sboccia anche la verginità. Se avesse tagliato le radici, come potrebbe cercarne i frutti?
Senza aver prima gettato le fondamenta, potrebbe lui logicamente costruire un edificio e
poi porvi sopra un tetto che tutto ricopra?».

Girolamo, Epist. 49, 2. 3. 7


5. Per Maria, Madre della vita, tutti conseguono la purezza

Vieni, adunque, sincero ascoltatore: percorri tutto l’Egitto e Alessandria, nostra pia
città. Apprendi quanto ivi fiorisca la purezza. Alcuni si rivestono di purezza, simili ad
angeli per probità: non gustarono i coniugali commerci, conservandosi invece vergini
dalla nascita. Altri si fanno eunuchi per il regno dei cieli, obbligando se stessi alla
continenza e possedendo mogli come se non le avessero. Altri ancora vagano per
deserti, monti, valli, caverne, deboli nel ventre perché digiunano e si astengono da ogni
alimento e da ogni piacere. Se vedono dell’acqua, di cui si saziano i loro cani, essi non
si saziano, vivendo come angeli dei quali ambiscono imitare la conversazione e
desiderano attingere la purezza. O Vergine pura di corpo e di spirito! Per te è stato
inventato questo prezioso dono. Tu hai soffocato la morte alla gola, essa che aveva
posto il suo impero nell’utero della donna e la dominava! La purezza è infatti il vestito
degli angeli, la corona degli arcangeli, lo slancio dei cherubini, l’ornamento dei serafini.

Donde deriva ai nati di donna un tal dono, se non da colei che si veste di purezza?
Donde? I figli degli uomini, infatti, che poco dopo si dissolvono e diventano polvere nel
sepolcro, si vestiranno in terra della gloria degli angeli.

Da te, appunto, o Madre della vita, proviene a noi questo aiuto.

Atanasio, Contra Arian., «Corpus Marian. Patr.», II, n. 559

6. Ricchezza della verginità di Maria

O ricchezza della verginità di Maria! Bollì come una pentola e come una nube
lasciò cader sulla terra la grazia di Cristo; di lei, infatti, è stato scritto: Ecco il Signore
arriva seduto sopra una leggera nuvola (Is 19,1). Proprio leggera, perché non conobbe
il peso del connubio; proprio leggera, perché alleggerì questo mondo del gran peso del
peccato... Accogliete, dunque, accogliete, vergini consacrate, la pioggia spirituale di
questa nuvola moderatrice delle fiamme del corpo, perché possiate spegnere tutti gli
ardori corporali e irrigare le vostre menti.

Ambrogio, De institut. virginis, 13, 81

7. Vergini stolte e vergini prudenti

Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade andarono
incontro allo sposo e alla sposa (Mt 25,1-13).

Lo sposo è Cristo, e chi è suo amico, alla sua voce, sta attento, lo sente ed è
contento, perché è la voce dello sposo. A lui ci ha promessi l’Apostolo che dice: Vi ho
promessi a un uomo solo, come vergine pura da offrire a Cristo (2Co 11,2). Vedi chi è
lo sposo. Ma chi è la sposa? La sposa è la tua anima, che l’Apostolo ha promesso di
offrire pura a Cristo. Temo però che l’Apostolo non possa fare ciò che ha promesso,
offrire cioè a Cristo la tua anima vergine e vergine casta. Aggiunse casta, perché ci sono
delle vergini nel corpo, che sono deplorate da pensieri di fornicazione e contaminano il
profumato fiore della verginità col puzzo di affetti libidinosi. E queste sono indicate da
quelle vergini stolte, che son fatte stolte da intenzioni impure. Cristo è vergine, figlio di
vergine e vuole una sposa vergine. Tu se hai questa verginità angelica e più che
angelica, una verginità simile a quella di Cristo e di sua madre, sii felice, esulta, gettati
subito tra le braccia di Cristo e gridagli il tuo sospiro: Mi baci col bacio della sua bocca
(Ct 1,1).

Giuliano di Vezelay, Sermo 4, vv. 1-24

8. La verginità, immagine della santità degli angeli

Il Figlio di Dio, nostro Signore e Salvatore, Gesù Cristo, fattosi uomo per noi, ha
distrutto la morte e liberato il nostro genere umano dalla corruzione. Oltre a tutte le
grazie, ci ha concesso di possedere sulla terra un’immagine della stessa santità degli
angeli, la verginità.

Quelli che fanno professione di questa virtù, la Chiesa cattolica ha l’abitudine di


chiamarli i fidanzati del Cristo. I pagani stessi, che li osservano li ammirano come
templi del Verbo; in nessun luogo, infatti è vero, non si trova in vigore questa
venerabile e celeste istituzione se non in mezzo a noi, cristiani. È qui, soprattutto, la
grande prova che tra i cristiani è professato realmente il vero culto di Dio.

Atanasio, Apologia ad Constant., 33

9. La Chiesa è vergine e madre

Così la Chiesa santa, immacolata da accoppiamento, feconda nel parto, è vergine


per la castità, è madre per la prole. E partorisce noi - vergine - non gravida di un uomo
ma dello Spirito. Partorisce noi - vergine - non con il dolore delle membra, ma con il
gaudio degli angeli. Nutre noi - vergine - non con il latte del corpo, ma dell’Apostolo,
con il quale ha allattato l’età ancora debole del popolo che cresce (1Co 3,2 1P 2,2).
Qual sposa mai ha più figli della Chiesa santa, che è vergine per i sacramenti, madre per
i popoli, la cui fecondità anche la Scrittura attesta dicendo: Poiché più sono i figli della
abbandonata di quella che ha marito (Is 54,1)? La nostra non ha marito, ma ha uno
sposo: poiché sia la Chiesa fra i popoli, sia l’anima nei singoli va sposa al Verbo di Dio,
senza alcuna flessione del pudore, come a Sposo eterno, infeconda nel peccato, feconda
nell’intelligenza.

Ambrogio, De virginibus, 1, 6, 31

EPILOGO DELL’INTERA OPERA

Importanza dell’istruzione religiosa


Chiunque avrà in mano questo libretto lo prego e umilmente lo supplico che lo
legga più volte e lo faccia leggere e trascrivere e si persuada che avrà un doppio premio
dal Signore, quello del progresso proprio e quello del progresso altrui. E questo lo dico
perché c’è tanta gente, e forse anche alcuni religiosi, che amano avere molti libri, ben
puliti e ben rilegati, ma li tengono chiusi negli armadi, e non li leggono né li lasciano
leggere agli altri; e non capiscono che non val niente aver dei libri e non leggerli. Il
libro, infatti, ben foderato e nitido, se non è letto, non fa l’anima nitida; il libro, invece,
che è letto spesso - per il fatto che sta spesso tra le mani, non può essere bello di fuori -
fa l’anima bella.

Introduzione al libro dei Sermoni

Spinti dall’amore paterno e dalla preoccupazione pastorale, abbiamo scritto in


questo libretto delle raccomandazioni semplici ma utili ai pastori, perché nelle feste più
grandi i presbiteri o i diaconi le leggano al loro gregge. Facendo questo con buona
volontà, io ho fatto il mio dovere innanzi a Dio. Se però qualche presbitero o diacono,
mosso da negligenza, trascurerà di leggere al popolo questi sermoni, sappia che dovrà
rispondere con me innanzi a Cristo, quando dovremo render conto al giudice eterno, del
gregge che ci è stato affidato. Perciò questo libretto rileggetelo ogni anno con molta
cura, per giustificarvi innanzi a Dio e innanzi agli uomini. E poiché fu necessario fare
parecchi libretti di queste semplici raccomandazioni, se non vi dispiaceranno, potete e
dovete trascriverli e in bella scrittura e pergamena, per quanto potrete, e darli da
trascrivere ad altre parrocchie, perché possiate avere il merito del vostro e dell’altrui
progresso. E poiché è necessario decisamente che non solo i chierici ma anche i laici
conoscano la fede cattolica, prima di tutto abbiamo esposto la fede cattolica, come la
definirono i santi Padri; e queste definizioni noi dobbiamo rileggere spesso e le
dobbiamo suggerire agli altri.

E perché i nostri amanuensi sono ancora dei principianti, se troverete nelle lettere o
nelle proposizioni qualche cosa in meno o in sovrappiù, siate indulgenti con carità,
correggete, com’è giusto, e fate ricopiare in più accorta scrittura. (Lezionario "I Padri
vivi" 221)

Eminencia,
excelencias y queridos hermanos:

Para mí es una gran alegría estar con vosotros —el clero de Roma— cada año, al inicio
de la Cuaresma, y comenzar con vosotros el camino pascual de la Iglesia. Quiero dar las
gracias a su eminencia por las hermosas palabras que me ha dirigido, agradeceros a
todos el trabajo que realizáis por esta Iglesia de Roma que —según san Ignacio—
preside en la caridad y debería ser siempre también ejemplar en su fe. Hagamos juntos
todo lo posible para que esta Iglesia de Roma responda a su vocación y para que
nosotros, en esta «viña del Señor», seamos obreros fieles.

Hemos escuchado el pasaje de los Hechos de los Apóstoles (20, 17-38) en el que san
Pablo habla a los presbíteros de Éfeso, narrado expresamente por san Lucas como
testamento del Apóstol, como discurso destinado no sólo a los presbíteros de Éfeso sino
también a los presbíteros de todos los tiempos. San Pablo no sólo habla a quienes
estaban presentes en aquel lugar, sino que también nos habla realmente a nosotros. Por
tanto, tratemos de comprender lo que nos dice a nosotros en esta hora.

Comienzo: «Vosotros habéis comprobado cómo he procedido con vosotros todo el


tiempo que he estado aquí» (v. 18); y sobre su comportamiento durante todo el tiempo
san Pablo dice, al final: «De día y de noche, no he cesado de aconsejar (…) a cada uno»
(v. 31). Esto quiere decir que durante todo ese tiempo era anunciador, mensajero y
embajador de Cristo para ellos; era sacerdote para ellos. En cierto sentido, se podría
decir que era un sacerdote trabajador, porque —como dice también en este pasaje—,
trabajó con sus manos como tejedor de tiendas para no pesar sobre sus bienes, para ser
libre, para dejarlos libres. Pero aunque trabajaba con las manos, durante todo este
tiempo fue sacerdote, todo el tiempo aconsejó. En otras palabras, aunque exteriormente
no estuvo todo el tiempo a disposición de la predicación, su corazón y su alma
estuvieron siempre presentes para ellos; estaba animado por la Palabra de Dios, por su
misión. Me parece que este es un aspecto muy importante: no se es sacerdote sólo por
un tiempo; se es siempre, con toda el alma, con todo el corazón. Este ser con Cristo y
ser embajador de Cristo, este ser para los demás, es una misión que penetra nuestro ser y
debe penetrar cada vez más en la totalidad de nuestro ser.

San Pablo, además, dice: «He servido al Señor con toda humildad» (v. 19). «Servido»
es una palabra clave de todo el Evangelio. Cristo mismo dice: no he venido a ser servido
sino a servir (cf. Mt MT 20,28). Él es el Servidor de Dios, y Pablo y los Apóstoles son
también «servidores»; no señores de la fe, sino servidores de vuestra alegría, dice san
Pablo en la segunda carta a los Corintios (cf. 1, 24). «Servir» debe ser determinante
también para nosotros: somos servidores. Y «servir» quiere decir no hacer lo que yo me
propongo, lo que para mí sería más agradable; «servir» quiere decir dejarme imponer el
peso del Señor, el yugo del Señor; «servir» quiere decir no buscar mis preferencias, mis
prioridades, sino realmente «ponerme al servicio del otro». Esto quiere decir que
también nosotros a menudo debemos hacer cosas que no parecen inmediatamente
espirituales y no responden siempre a nuestras elecciones. Todos, desde el Papa hasta el
último vicario parroquial, debemos realizar trabajos de administración, trabajos
temporales; sin embargo, los hacemos como servicio, como parte de lo que el Señor nos
impone en la Iglesia, y hacemos lo que la Iglesia nos dice y espera de nosotros. Es
importante este aspecto concreto del servicio, porque no elegimos nosotros qué hacer,
sino que somos servidores de Cristo en la Iglesia y trabajamos como la Iglesia nos dice,
donde la Iglesia nos llama, y tratamos de ser precisamente así: servidores que no hacen
su voluntad, sino la voluntad del Señor. En la Iglesia somos realmente embajadores de
Cristo y servidores del Evangelio.

«He servido al Señor con toda humildad». También «humildad» es una palabra clave
del Evangelio, de todo el Nuevo Testamento. En la humildad nos precede el Señor. En
la carta a los Filipenses, san Pablo nos recuerda que Cristo, que estaba sobre todos
nosotros, que era realmente divino en la gloria de Dios, se humilló, se despojó de su
rango haciéndose hombre, aceptando toda la fragilidad del ser humano, llegando hasta
la obediencia última de la cruz (cf. 2, 5-8). «Humildad» no quiere decir falsa modestia
—agradecemos los dones que el Señor nos ha concedido—, sino que indica que somos
conscientes de que todo lo que podemos hacer es don de Dios, se nos concede para el
reino de Dios. Trabajamos con esta «humildad», sin tratar de aparecer. No buscamos
alabanzas, no buscamos que nos vean; para nosotros no es un criterio decisivo pensar
qué dirán de nosotros en los diarios o en otros sitios, sino qué dice Dios. Esta es la
verdadera humildad: no aparecer ante los hombres, sino estar en la presencia de Dios y
trabajar con humildad por Dios, y de esta manera servir realmente también a la
humanidad y a los hombres.

«No he omitido por miedo nada de cuanto os pudiera aprovechar, predicando y


enseñando» (v. 20). San Pablo, después de algunas frases, vuelve sobre este aspecto y
afirma: «No tuve miedo de anunciaros enteramente el plan de Dios» (v. 27). Esto es
importante: el Apóstol no predica un cristianismo «a la carta», según sus gustos; no
predica un Evangelio según sus ideas teológicas preferidas; no se sustrae al compromiso
de anunciar toda la voluntad de Dios, también la voluntad incómoda, incluidos los
temas que personalmente no le agradan tanto. Nuestra misión es anunciar toda la
voluntad de Dios, en su totalidad y sencillez última. Pero es importante el hecho de que
debemos predicar y enseñar —como dice san Pablo—, y proponer realmente toda la
voluntad de Dios. Y pienso que si el mundo de hoy tiene curiosidad de conocer todo,
mucho más nosotros deberemos tener la curiosidad de conocer la voluntad de Dios:
¿qué podría ser más interesante, más importante, más esencial para nosotros que
conocer lo que Dios quiere, conocer la voluntad de Dios, el rostro de Dios? Esta
curiosidad interior debería ser también nuestra curiosidad por conocer mejor, de modo
más completo, la voluntad de Dios. Debemos responder y despertar esta curiosidad en
los demás, curiosidad por conocer verdaderamente toda la voluntad de Dios, y así
conocer cómo podemos y cómo debemos vivir, cuál es el camino de nuestra vida. Así
pues, deberíamos dar a conocer y comprender —en la medida de lo posible— el
contenido del Credo de la Iglesia, desde la creación hasta la vuelta del Señor, hasta el
mundo nuevo. La doctrina, la liturgia, la moral y la oración —las cuatro partes del
Catecismo de la Iglesia católica— indican esta totalidad de la voluntad de Dios.
También es importante no perdernos en los detalles, no dar la idea de que el
cristianismo es un paquete inmenso de cosas por aprender. En resumidas cuentas, es
algo sencillo: Dios se ha revelado en Cristo. Pero entrar en esta sencillez —creo en Dios
que se revela en Cristo y quiero ver y realizar su voluntad— tiene contenidos y, según
las situaciones, entramos en detalles o no, pero es esencial hacer comprender por una
parte la sencillez última de la fe. Creer en Dios como se ha revelado en Cristo es
también la riqueza interior de esta fe, las respuestas que da a nuestras preguntas,
también las respuestas que en un primer momento no nos gustan y que, sin embargo,
son el camino de la vida, el verdadero camino; en cuanto afrontamos estas cosas,
aunque no nos resulten tan agradables, podemos comprender, comenzamos a
comprender lo que es realmente la verdad. Y la verdad es bella. La voluntad de Dios es
buena, es la bondad misma.

Después, el Apóstol afirma: «He predicado en público y en privado, dando solemne


testimonio tanto a judíos como a griegos, para que se convirtieran a Dios y creyeran en
nuestro Señor Jesucristo» (v. 20-21). Aquí hay una síntesis de lo esencial: conversión a
Dios, fe en Jesús. Pero fijemos por un momento la atención en la palabra «conversión»,
que es la palabra central o una de las palabras centrales del Nuevo Testamento. Aquí,
para conocer las dimensiones de esta palabra, es interesante estar atentos a las diversas
palabras bíblicas: en hebreo, «šub» quiere decir «invertir la ruta», comenzar con una
nueva dirección de vida; en griego, «metánoia», «cambio de manera de pensar»; en
latín, «poenitentia», «acción mía para dejarme transformar»; en italiano, «conversione»,
que coincide más bien con la palabra hebrea que significa «nueva dirección de la vida».
Tal vez podemos ver de manera particular el porqué de la palabra del Nuevo
Testamento, la palabra griega «metánoia», «cambio de manera de pensar». En un
primer momento el pensamiento parece típicamente griego, pero, profundizando, vemos
que expresa realmente lo esencial de lo que dicen también las otras lenguas: cambio de
pensamiento, o sea, cambio real de nuestra visión de la realidad. Como hemos nacido en
el pecado original, para nosotros «realidad» son las cosas que podemos tocar, el dinero,
mi posición; son las cosas de todos los días que vemos en el telediario: esta es la
realidad. Y las cosas espirituales se encuentran «detrás» de la realidad: «Metánoia»,
cambio de manera de pensar, quiere decir invertir esta impresión. Lo esencial, la
realidad, no son las cosas materiales, ni el dinero, ni el edificio, ni lo que puedo tener.
La realidad de las realidades es Dios. Esta realidad invisible, aparentemente lejana de
nosotros, es la realidad. Aprender esto, y así invertir nuestro pensamiento, juzgar
verdaderamente que lo real que debe orientar todo es Dios, son las palabras, la Palabra
de Dios. Este es el criterio, el criterio de todo lo que hago: Dios. Esto es realmente
conversión, si mi concepto de realidad ha cambiado, si mi pensamiento ha cambiado. Y
esto debe impregnar luego todos los ámbitos de mi vida: en el juicio sobre cada cosa
debo tener como criterio lo que Dios dice sobre eso. Esto es lo esencial, no cuánto
obtengo ahora, no el beneficio o el perjuicio que obtendré, sino la verdadera realidad,
orientarnos hacia esta realidad. Me parece que en la Cuaresma, que es camino de
conversión, debemos volver a realizar cada año esta inversión del concepto de realidad,
es decir, que Dios es la realidad, Cristo es la realidad y el criterio de mi acción y de mi
pensamiento; realizar esta nueva orientación de nuestra vida. Y de igual modo la palabra
latina «poenitentia», que nos parece algo demasiado exterior y quizá una forma de
activismo, se transforma en real: ejercitar esto quiere decir ejercitar el dominio de mí
mismo, dejarme transformar, con toda mi vida, por la Palabra de Dios, por el
pensamiento nuevo que viene del Señor y me muestra la verdadera realidad. De este
modo, no sólo se trata de pensamiento, de intelecto, sino de la totalidad de mi ser, de mi
visión de la realidad. Este cambio de pensamiento, que es conversión, llega a mi
corazón y une intelecto y corazón, y pone fin a esta separación entre intelecto y corazón,
integra mi personalidad en el corazón, que es abierto por Dios y se abre a Dios. Y así
encuentro el camino, el pensamiento se convierte en fe, esto es, tener confianza en el
Señor, confiar en el Señor, vivir con él y emprender su camino en un verdadero
seguimiento de Cristo.

24 San Pablo continúa: «Y ahora, mirad, me dirijo a Jerusalén, encadenado por el


Espíritu. No sé lo que me pasará allí, salvo que el Espíritu Santo, de ciudad en ciudad,
me da testimonio de que me aguardan cadenas y tribulaciones. Pero a mí no me importa
la vida, sino completar mi carrera y consumar el ministerio que recibí del Señor Jesús:
ser testigo del Evangelio de la gracia de Dios» (vv. 22-24). San Pablo sabe que
probablemente este viaje a Jerusalén le costará la vida: será un viaje hacia el martirio.
Aquí debemos tener presente el porqué de su viaje. Va a Jerusalén para entregar a esa
comunidad, a la Iglesia de Jerusalén, la suma de dinero recogida para los pobres en el
mundo de los gentiles. Por tanto, es un viaje de caridad, pero es algo más: es una
expresión del reconocimiento de la unidad de la Iglesia entre judíos y gentiles, un
reconocimiento formal del primado de Jerusalén en ese tiempo, del primado de los
primeros Apóstoles, un reconocimiento de la unidad y de la universalidad de la Iglesia.
En este sentido, el viaje tiene un significado eclesiológico y también cristológico,
porque así tiene mucho valor para él este reconocimiento, esta expresión visible de la
unicidad y de la universalidad de la Iglesia, que tiene en cuenta también el martirio. La
unidad de la Iglesia vale el martirio. Así dice san Pablo: «Pero a mí no me importa la
vida, sino completar mi carrera y consumar el ministerio que recibí del Señor» (v. 24).
El mero sobrevivir biológico —dice san Pablo— no es el primer valor para mí; el
primer valor para mí es consumar el ministerio; el primer valor para mí es estar con
Cristo; vivir con Cristo es la verdadera vida. Aunque perdiera la vida biológica, no
perdería la verdadera vida. En cambio, si perdiera la comunión con Cristo para
conservar la vida biológica, perdería precisamente la vida misma, lo esencial de su ser.
También esto me parece importante: tener las prioridades justas. Ciertamente debemos
estar atentos a nuestra salud, a trabajar con racionabilidad, pero también debemos saber
que el valor último es estar en comunión con Cristo; vivir nuestro servicio y
perfeccionarlo lleva a completar la carrera. Tal vez podemos reflexionar un poco más
sobre esta expresión: «completar mi carrera». Hasta el final el Apóstol quiere ser
servidor de Jesús, embajador de Jesús para el Evangelio de Dios. Es importante que
también en la vejez, aunque pasen los años, no perdamos el celo, la alegría de haber
sido llamados por el Señor. Yo diría que, en cierto sentido, al inicio del camino
sacerdotal es fácil estar llenos de celo, de esperanza, de valor, de actividad, pero al ver
cómo van las cosas, al ver que el mundo sigue igual, al ver que el servicio se hace
pesado, se puede perder fácilmente un poco este entusiasmo. Volvamos siempre a la
Palabra de Dios, a la oración, a la comunión con Cristo en el Sacramento —esta
intimidad con Cristo— y dejémonos renovar nuestra juventud espiritual, renovar el celo,
la alegría de poder ir con Cristo hasta el final, de «completar la carrera», siempre con el
entusiasmo de haber sido llamados por Cristo para este gran servicio, para el Evangelio
de la gracia de Dios. Y esto es importante. Hemos hablado de humildad, de esta
voluntad de Dios, que puede ser dura. Al final, el título de todo el Evangelio de la gracia
de Dios es «Evangelio», es «Buena Nueva» que Dios nos conoce, que Dios me ama, y
que el Evangelio, la voluntad última de Dios es gracia. Recordemos que la carrera del
Evangelio comienza en Nazaret, en la habitación de María, con las palabras «Dios te
salve María», que en griego se dice: «Chaire kecharitomene»: «Alégrate, porque estás
llena de gracia». Estas palabras constituyen el hilo conductor: el Evangelio es invitación
a la alegría porque estamos en la gracia, y la última palabra de Dios es la gracia.

A continuación viene el pasaje sobre el martirio inminente. Aquí hay una frase muy
importante, que quiero meditar un poco con vosotros: «Velad por vosotros mismos y
por todo el rebaño sobre el que el Espíritu Santo os ha puesto como guardianes para
pastorear la Iglesia de Dios, que él se adquirió con la sangre de su propio Hijo» (v. 28).
Comienzo por la palabra «Velad». Hace algunos días tuve la catequesis sobre san Pedro
Canisio, apóstol de Alemania en la época de la Reforma, y se me quedó grabada una
palabra de este santo, una palabra que era para él un grito de angustia en su momento
histórico. Dice: «Ved, Pedro duerme; Judas, en cambio, está despierto». Esto nos hace
pensar: la somnolencia de los buenos. El Papa Pío xi dijo: «El gran problema de nuestro
tiempo no son las fuerzas negativas, sino la somnolencia de los buenos». «Velad»:
meditemos esto, y pensemos que el Señor en el Huerto de los Olivos repite dos veces a
sus discípulos: «Velad», y ellos duermen. «Velad», nos dice a nosotros; tratemos de no
dormir en este tiempo, sino de estar realmente dispuestos para la voluntad de Dios y
para la presencia de su Palabra, de su Reino.
«Velad por vosotros mismos» (v. 28): estas palabras también valen para los presbíteros
de todos los tiempos. Hay un activismo con buenas intenciones, pero en el que uno
descuida la propia alma, la propia vida espiritual, el propio estar con Cristo. San Carlos
Borromeo, en la lectura del breviario de su memoria litúrgica, nos dice cada año: no
puedes ser un buen servidor de los demás si descuidas tu alma. «Velad por vosotros
mismos»: estemos atentos también a nuestra vida espiritual, a nuestro estar con Cristo.
Como he dicho en muchas ocasiones: orar y meditar la Palabra de Dios no es tiempo
perdido para la atención a las almas, sino que es condición para que podamos estar
realmente en contacto con el Señor y así hablar de primera mano del Señor a los demás.
«Velad por vosotros mismos y por todo el rebaño sobre el que el Espíritu Santo os ha
puesto como guardianes para pastorear la Iglesia de Dios» (v. 28). Aquí son importantes
dos palabras. En primer lugar: «el Espíritu Santo os ha puesto»; es decir, el sacerdocio
no es una realidad en la que uno encuentra una ocupación, una profesión útil, hermosa,
que le agrada y se elige. ¡No! Nos ha constituido el Espíritu Santo. Sólo Dios nos puede
hacer sacerdotes; sólo Dios puede elegir a sus sacerdotes; y, si somos elegidos, somos
elegidos por él. Aquí aparece claramente el carácter sacramental del presbiterado y del
sacerdocio, que no es una profesión que debe desempeñarse porque alguien debe
administrar las cosas, y también debe predicar. No es algo que hagamos nosotros
solamente. Es una elección del Espíritu Santo, y en esta voluntad del Espíritu Santo,
voluntad de Dios, vivimos y buscamos cada vez más dejarnos llevar de la mano por el
Espíritu Santo, por el Señor mismo. En segundo lugar: «os ha puesto como guardianes
para pastorear». La palabra que el texto español traduce por «guardianes» en griego es
«epískopos». San Pablo habla a los presbíteros, pero aquí los llama «epískopoi».
Podemos decir que, en la evolución de la realidad de la Iglesia, los dos ministerios aún
no estaban divididos claramente, no eran distintos; evidentemente son el único
sacerdocio de Cristo y ellos, los presbíteros, son también «epískopoi». La palabra
«presbítero» viene sobre todo de la tradición judía, donde estaba vigente el sistema de
los «ancianos», de los «presbíteros», mientras que la palabra «epískopos» fue creada —
o encontrada— en el ámbito de la Iglesia por los paganos, y proviene del lenguaje de la
administración romana. «Epískopoi» son los que vigilan, los que tienen una
responsabilidad administrativa para vigilar cómo van las cosas. Los cristianos eligieron
esta palabra en el ámbito pagano-cristiano para expresar el oficio del presbítero, del
sacerdote, pero como es obvio cambió inmediatamente el significado de la palabra. La
palabra «epískopoi» se identificó de inmediato con la palabra «pastores». O sea, vigilar
es «apacentar», desempeñar la misión de pastor: en realidad de inmediato se convirtió
en «poimainein», «apacentar» a la Iglesia de Dios; está pensado en el sentido de esta
responsabilidad respecto de los demás, de este amor por el rebaño de Dios. Y no
olvidemos que en el antiguo Oriente «pastor» era el título de los reyes: son los pastores
del rebaño, que es el pueblo. Seguidamente, el rey-Cristo, al ser el verdadero rey,
transforma interiormente este concepto. Es el Pastor que se hace cordero, el pastor que
se deja matar por los demás, para defenderlos del lobo; el pastor cuyo primer
significado es amar a este rebaño y así dar vida, alimentar, proteger. Tal vez estos son
los dos conceptos centrales para este oficio del «pastor»: alimentar dando a conocer la
Palabra de Dios, no sólo con las palabras, sino testimoniándola por voluntad de Dios; y
proteger con la oración, con todo el compromiso de la propia vida. Pastores, el otro
significado que percibieron los Padres en la palabra cristiana «epískopoi», es: quien
vigila no como un burócrata, sino como quien ve desde el punto de vista de Dios,
camina hacia la altura de Dios y a la luz de Dios ve a esta pequeña comunidad de la
Iglesia. Para un pastor de la Iglesia, para un sacerdote, un «epískopos», es importante
también que vea desde el punto de vista de Dios, que trate de ver desde lo alto, con el
criterio de Dios y no según sus propias preferencias, sino como juzga Dios. Ver desde
esta altura de Dios y así amar con Dios y por Dios.

«Pastorear la Iglesia de Dios, que él se adquirió con la sangre de su propio Hijo» (v.
28). Aquí encontramos una palabra central sobre la Iglesia. La Iglesia no es una
organización que se ha formado poco a poco; la Iglesia nació en la cruz. El Hijo
adquirió la Iglesia en la cruz y no sólo la Iglesia de ese momento, sino la Iglesia de
todos los tiempos. Con su sangre adquirió esta porción del pueblo, del mundo, para
Dios. Y creo que esto nos debe hacer pensar. Cristo, Dios creó la Iglesia, la nueva Eva,
con su sangre. Así nos ama y nos ha amado, y esto es verdad en todo momento. Y esto
nos debe llevar también a comprender que la Iglesia es un don, a sentirnos felices por
haber sido llamados a ser Iglesia de Dios, a alegrarnos de pertenecer a la Iglesia.
Ciertamente, siempre hay aspectos negativos, difíciles, pero en el fondo debe quedar
esto: es un don bellísimo el poder vivir en la Iglesia de Dios, en la Iglesia que el Señor
se adquirió con su sangre. Estar llamados a conocer realmente el rostro de Dios, conocer
su voluntad, conocer su gracia, conocer este amor supremo, esta gracia que nos guía y
nos lleva de la mano. Felicidad por ser Iglesia, alegría por ser Iglesia. Me parece que
debemos volver a aprender esto. El miedo al triunfalismo tal vez nos ha hecho olvidar
un poco que es hermoso estar en la Iglesia y que esto no es triunfalismo, sino humildad,
agradecer el don del Señor.

Sigue inmediatamente que esta Iglesia no siempre es sólo don de Dios y divina, sino
también muy humana: «Se meterán entre vosotros lobos feroces» (v. 29). La Iglesia
siempre está amenazada; siempre existe el peligro, la oposición del diablo, que no
acepta que en la humanidad se encuentre presente este nuevo pueblo de Dios, que esté la
presencia de Dios en una comunidad viva. Así pues, no debe sorprendernos que siempre
haya dificultades, que siempre haya hierba mala en el campo de la Iglesia. Siempre ha
sido así y siempre será así. Pero debemos ser conscientes, con alegría, de que la verdad
es más fuerte que la mentira, de que el amor es más fuerte que el odio, de que Dios es
más fuerte que todas las fuerzas contrarias a él. Y con esta alegría, con esta certeza
interior emprendemos nuestro camino inter consolationes Dei et persecutiones mundi,
dice el concilio Vaticano II (cf. Lumen gentium LG 8): entre las consolaciones de Dios
y las persecuciones del mundo.

Y ahora el penúltimo versículo. En este punto no deseo entrar en detalles: al final


aparece un elemento importante de la Iglesia, del ser cristianos. «Siempre os he
enseñado que es trabajando como se debe socorrer a los necesitados, recordando las
palabras del Señor Jesús, que dijo: “Hay más dicha en dar que en recibir”» (v. 35). La
opción preferencial por los pobres, el amor por los débiles es fundamental para la
Iglesia, es fundamental para el servicio de cada uno de nosotros: estar atentos con gran
amor a los débiles, aunque tal vez no sean simpáticos, sino difíciles. Pero ellos esperan
nuestra caridad, nuestro amor, y Dios espera este amor nuestro. En comunión con Cristo
estamos llamados a socorrer a los débiles con nuestro amor, con nuestras obras.

Y el último versículo: «Cuando terminó de hablar, se puso de rodillas y oró con todos
ellos» (v. 36). Al final, el discurso se transforma en oración y san Pablo se arrodilla. San
Lucas nos recuerda que también el Señor en el Huerto de los Olivos oró de rodillas, y
nos dice que del mismo modo san Esteban, en el momento del martirio, se arrodilló para
orar. Orar de rodillas quiere decir adorar la grandeza de Dios en nuestra debilidad,
dando gracias al Señor porque nos ama precisamente en nuestra debilidad. Detrás de
esto aparece la palabra de san Pablo en la carta a los Filipenses, que es la
transformación cristológica de una palabra del profeta Isaías, el cual, en el capítulo 45,
dice que todo el mundo, el cielo, la tierra y el abismo, se arrodillará ante el Dios de
Israel (cf. Is IS 45,23). Y san Pablo precisa: Cristo bajó del cielo a la cruz, la obediencia
última. Y en este momento se realiza esta palabra del Profeta: ante Cristo crucificado
todo el cosmos, el cielo, la tierra y el abismo, se arrodilla (cf. Flp PH 2,10-11). Él es
realmente expresión de la verdadera grandeza de Dios. La humildad de Dios, el amor
hasta la cruz, nos demuestra quién es Dios. Ante él nos ponemos de rodillas, adorando.
Estar de rodillas ya no es expresión de servidumbre, sino precisamente de la libertad
que nos da el amor de Dios, la alegría de estar redimidos, de unirnos con el cielo y la
tierra, con todo el cosmos, para adorar a Cristo, de estar unidos a Cristo y así ser
redimidos.

El discurso de san Pablo termina con la oración. También nuestros discursos deben
terminar con la oración. Oremos al Señor para que nos ayude a estar cada vez más
impregnados de su Palabra, a ser cada vez más testigos y no sólo maestros, a ser cada
vez más sacerdotes, pastores, «epískopoi», es decir, los que ven con Dios y desempeñan
el servicio del Evangelio de Dios, el servicio del Evangelio de la gracia. (Discursos
2011 23)

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