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Quodlibet Studio

Filosofia e politica
Felicità e tramonto
Sul Frammento teologico-politico
di Walter Benjamin

A cura di Gabriele Guerra e Tamara Tagliacozzo

Quodlibet
Prima edizione: dicembre 2019
© 2019 Quodlibet srl
Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 - 62100 Macerata
www.quodlibet.it
Stampa a cura di nw srl presso lo stabilimento di LegoDigit srl, Lavis (tn)
isbn 978-88-229-0431-7

Filosofia e politica
Collana diretta da Elettra Stimilli

Comitato scientifico: Emanuele Coccia, Dario Gentili, Federica Giardini, Paolo Napoli,
Judith Revel, Massimiliano Tomba

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spet-


tacolo dell'Università degli Studi Roma Tre.
Indice

7 Gabriele Guerra e Tamara Tagliacozzo


Introduzione

17 Walter Benjamin
Frammento teologico-politico

19 Sami Khatib
Il Frammento teologico-politico di Walter Benjamin. Messiani-
co o Messia, mistica o apocalittica?

33 Julia Ng
La matematicità di un’esperienza transitoria: a proposito di
due espressioni del Frammento teologico-politico

55 Luigi Azzariti-Fumaroli
“Notte celeste senza resurrezione”. Sulla restitutio in integrum
nel Theologisch-politisches Fragment

67 Didier Alessio Contadini


Elementi di una pluralità temporale nello spazio urbano. Il
Frammento teologico-politico e gli scritti maturi

81 Damiano Roberi
La “natura messianica” come ricapitolazione

93 Antonio Roselli
Walter Benjamin e le politiche della passività

111 Stefano Marchesoni


Benjamin versus Bloch. Il Frammento teologico-politico come
critica dello Spirito dell’utopia
125 Stefania Ragaù
Tra utopia e teologia: il Frammento teologico-politico alla luce
delle due utopie del profano di Benjamin e Scholem

139 Federico Dal Bo


«L’immediata intensità messianica del cuore». Paolinismo nel
Frammento teologico-politico di Walter Benjamin

153 Emanuele Edilio Pelilli


Costellazioni pericolose. Friedrich Hölderlin all’interno del
Frammento teologico-politico di Walter Benjamin

169 Paolo Vernaglione Berardi


Né teologia né politica. Il taglio messianico nel Frammento di
Walter Benjamin
Federico Dal Bo

«L’immediata intensità messianica del cuore»


Paolinismo nel Frammento teologico-politico di Walter Benjamin

Il mio intervento parte dall’assunto che il Frammento accolga in


pieno il proprio carattere di incompiutezza, indirizzandosi al lettore
moderno non troppo diversamente da come le Lettere di Paolo furo-
no indirizzate ai loro contemporanei – uno scritto d’occasione, non
sistematico ma non per questo privo di fulminanti intuizioni teolo-
giche. In questo contesto il termine “Paolinismo” definirà proprio
l’adesione più o meno esplicita all’assunto per cui la Legge ebraica
non rappresenta più uno strumento di salvezza bensì un impedimen-
to – storico o metafisico – al compimento storico1.

1. Sul carattere ineludibile dell’avvento messianico

Il Frammento teologico-politico comincia dal presupposto del ca-


rattere ineludibile dell’avvento messianico:

Solo il Messia stesso compie [vollendet] ogni accadere storico [historisch] e


precisamente nel senso che egli soltanto redime, compie e produce la relazione
fra questo e il messianico stesso. Per questo nulla di storico può volersi da se
stesso riferire al messianico. Per questo il regno di Dio non è il telos della dyna-
mis storica; esso non può essere posto come scopo [Ziel]. Da un punto di vista
storico, esso non è scopo, ma termine [Ende]2.

1 Per una critica a questa lettura tradizionale di Paolo rispetto alla Legge ebraica, si

veda: F. Dal Bo, Paul’s Definition of “Circumcision of the Hearth”. A Trans-Cultural Read-
ing of Rom 2:28-29, in W.M. Schniedewind – J.M. Zurawski – G. Boccaccini (ed. by), To-
rah: Functions, Meanings, and Diverse Manifestations in Early Judaism and Christianity,
SBL Press, Atlanta 2019 (in corso di stampa).
2 Per questa e le citazioni seguenti, si veda: W. Benjamin, Frammento teologico-poli-

tico, in Id., Il concetto di critica nel Romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, Einaudi,
Torino, 1982, pp. 171-172.
140 federico dal bo

Benjamin nega che l’evento messianico possa venire interpretato


secondo i concetti metafisici tradizionali di potenzialità ed attualità.
L’evento messianico non rappresenta dunque la finalità della storia
– ciò che Benjamin chiama «il telos della dynamis storica» – bensì
si pone simultaneamente in essa ed al di là di essa, proprio perché
la porta a compimento. La complessa collocazione del messianico
in una dimensione storica ed extrastorica viene sostenuta da un tra-
sparente gioco linguistico nell’originale tedesco: ciò che «compie»
(vollendet) la storia è necessariamente ciò che la conduce al proprio
«termine» (Ende). Infine, questo compimento ha luogo precisamen-
te entro un orizzonte «storico» (historisch), sebbene però tenda a
trascenderlo. Se si volesse introdurre qui forzatamente un concet-
to heideggeriano, si potrebbe supporre che il messianico permette
alla storia concepita storiograficamente (historisch) di raggiungere la
propria fine, sublimandosi quindi in un avvenimento propriamente
“istoriale” (geschichtlich). In ogni caso, Benjamin concepisce l’even-
to messianico come ciò che porta la storia alla propria «fine» (Ende)
e quindi portandola «a compiersi» (vollenden) nel senso che il suo
termine è stato raggiungo “totalmente” (voll-enden).
A tutta prima, sembra un’ovvietà sostenere che la tradizione
ebraica ortodossa contempli una precisa dottrina messianica. Eppu-
re, il Talmud sembra solo vagamente interessato a temi messianici.3
Per quanto Benjamin e Scholem potessero protestare la necessità di
leggere il Talmud di fronte all’evento messianico, questa grande sum-
ma della Legge ebraica lo tratta in modo relativamente breve – se non
addirittura scostante: il messianismo appare solo come un elemen-
to marginale rispetto alla ben più massiccia costruzione dell’edificio
della Legge ebraica. Quali sono allora i referenti teologici del Fram-
mento teologico-politico che assume chiaramente come ineludibile
l’evento messianico?
Considerando la solida amicizia che lo legava a Gershom Scho-
lem, non dovrebbe stupire troppo che Benjamin sembri riferirsi più o
meno esplicitamente a lui e a letture comuni. Del resto, già negli anni
Dieci, Scholem escludeva che l’ebraismo ortodosso potesse trasmet-

3 Gli unici testi che effettivamente trattano temi messianici sono raccolti in poche

pagine del trattato Sanhedrin 96b-99a. Per una lettura particolarmente originale di queste
pagine, si veda: R.N. Levine, There is no Messiah and You are It. The Stunning Transfor-
mation of Judaism’s most Provocative Idea, Jewish Lights, Woodstock 2003.
«l’immediata intensità messianica del cuore» 141

tere un’autentica “tradizione” al popolo ebraico. In una pagina dei


suoi Diari, Scholem reclama la necessità di porre il Talmud di fronte
all’evento messianico:

Secondo questo principio, ogni legge ebraica è una “legge del tempo mes-
sianico” che va concepita come una delle idee più costitutive e profonde del
Talmud […] la Torah non può venire insegnata prima che sia realizzata – in
altre parole non può essere insegnata prima dei giorni del Messia4.

Questa formulazione di Scholem è inequivocabile e cade a ridos-


so degli anni Venti, quando Benjamin scriverà perlomeno la prima
stesura del suo Frammento teologico-politico. Non vi è quindi alcun
dubbio che Benjamin abbia ritenuto come ineludibile l’evento mes-
sianico sulla base delle medesime premesse teologiche per cui Scho-
lem intendeva sconfessare la “vitalità” della tradizione ebraica orto-
dossa. Sia Scholem che Benjamin sembrano quindi convergere su un
punto capitale – l’esaurimento della forza tradizionale dell’ebraismo
ortodosso di fronte all’evento messianico. Oppure, rovesciando i ter-
mini della questione, entrambi sembrano concordare sul fatto che
l’evento messianico viene ad esaurire la tradizione ebraica ortodossa
e, con essa, il senso storico tradizionale. La Legge ebraica sembra
quindi inattuale – in ritardo di fronte alla novità inaudita dell’evento
messianico. Si tratta, in altri termini, dell’indizio di un chiaro anti-
nomismo – il rigetto della Legge in quanto tale. Sorge quindi una
domanda: se l’evento messianico esaurisce ogni prospettiva storica,
che ne è del mondo?

2. Oltre l’ordine del profano

Il destino del mondo è tracciato esplicitamente nel seguito del


Frammento:

Per questo l’ordine del profano [Ordnung des Profanen] non può essere
costruito sul pensiero del regno di Dio, per questo la teocrazia non ha alcun
senso politico, ma solo un senso religioso. Aver negato con ogni intensità [mit

4 G. Scholem, Tagebücher: nebst Aufsätzen und Entwürfen bis 1923, Bd. 2, Jüdischer

Verlag, Frankfurt a. M. 1995, p. 411 (nota del 7/6/19).


142 federico dal bo

aller Intensität] il significato utopico della teocrazia è il merito più grande dello
Spirito dell’utopia di Bloch [trad. modificata].

Qui Benjamin porta ad espressione quella tensione gnostica – tra


sacro e mondo – che Scholem riteneva caratteristica del misticismo
ebraico. Se l’evento messianico esaurirà il corso della storia portan-
dola a compimento, allora del mondo attuale – quale dimensione del
Profano – non resterà più nulla. La presenza messianica consumerà
“senza residui” quel Profano che, come esplicita Benjamin più tardi,
è la cifra dell’approssimarsi del Regno, richiamandosi ad una nota
espressione evangelica.
Si è accennato alla divisione tra sacro e profano quale pilastro
fondamentale della Legge ebraica – il cui compito appunto è quel-
lo di regolare, sorvegliare e punire le trasgressioni che pregiudicano
questa distinzione ontologica. Eppure, è necessario puntualizzarlo
ancora, il rifermenti di Benjamin non sono nient’affatto rabbinici
bensì filosofici. L’orizzonte speculativo di Benjamin sembra richia-
marsi a Rosenzweig – la cui Stella della redenzione, pubblicata nel
1921, puntava alla unificazione di queste due dimensioni, secondo
il principio tipicamente biblico ed evangelico di «amare il prossimo
come se stessi» (Lev 19:18 e Matt 22:36-40). Sembra del tutto chiaro
che Benjamin puntasse qui a polarizzare la distanza tra mondo pro-
fano e mondo religioso – implicitamente rifiutando la Legge ebrai-
ca quale intermediario di questo rapporto. Questo antinomismo di
fondo emerge soprattutto quando Benjamin illustra l’idea di felicità
associata all’evento messianico.

3. Tra felicità e dramma

La felicità appare nel Frammento quasi come una idea regolativa


cui l’ordine del Profano deve indirizzarsi. Benjamin formula questa
concezione con parole molto chiare:

L’ordine del profano dev’essere orientato sull’idea di felicità. La relazione


di quest’ordine col messianismo è uno delle lezioni essenziali [wesentlichen
Lehrstücke] della filosofia della storia. E precisamente esso condiziona una
concezione mistica della storia, il cui problema si lascia esporre in un’immagi-
ne [trad. modificata].
«l’immediata intensità messianica del cuore» 143

Benjamin sembra alludere ad una serie di altri presupposti che


sembrano sfuggire ad una prima lettura e che è necessario invece
rimarcare, concentrando l’attenzione su alcune scelte lessicali pre-
cise. Benjamin qui sostiene che l’ordine del Profano intrattiene un
rapporto particolare con il messianismo. Anzi, Benjamin precisa che
questo costituisce eines der wesentlichen Lehrstücke der Geschichts-
philosophie. A prima vista, il senso di questa espressione sembra del
tutto chiaro. Agamben la traduce facilmente in questi termini: «la
relazione di quest’ordine del messianismo è uno dei punti dottrinali
essenziali della filosofia della storia». Quindi, sembra che Benjamin
voglia semplicemente rimarcare l’importanza dottrinale del rapporto
tra Profano e messianismo, tanto più che esso costituisce uno dei
problemi essenziali della filosofia della storia. Eppure, è possibile che
Benjamin qui alludesse a qualcosa di sensibilmente diverso – che la
pur meritevole, ormai classica traduzione di Agamben non riesce a
cogliere. Benjamin qui usa l’espressione tedesca Lehrstück, che è sta-
ta provvisoriamente corretta con un termine sensibilmente diverso:
«lezione». Eppure è possibile che Benjamin qui stesse implicitamente
riferendosi ad uno dei principi fondamentali del nuovo teatro epico
di Bertolt Brecht. Nei medesimi anni in cui Benjamin scriveva perlo-
meno la prima stesura del suo Frammento, Brecht andava sviluppan-
do la concezione di un teatro epico la cui funzione è quella di illustra-
re – ovvero mettere in scena – dei “drammi didattici” che appunto
egli chiama Lehrstücke. È possibile, quindi, che Benjamin intendesse
esprimere qualcosa di assai più preciso. Si può quindi tentare di pro-
porre una traduzione più ardita: «la relazione di quest’ordine col
messianismo è uno dei drammi didattici essenziali della filosofia della
storia».
Questa particolare traduzione permette di cogliere un tratto fon-
damentale della concezione della storia di Benjamin. Il rapporto tra
l’ordine del Profano e il messianismo sembra perdere una prima con-
notazione speculativa e teoretica ma si declina esattamente nei ter-
mini di un “dramma didattico” (Lehrstück), la cui finalità appunto è
quella di “esporre” (darlegen) il senso profondo della storia. Non si
tratta quindi di un contenuto dottrinale, come la traduzione classica
di Agamben lascerebbe intendere, bensì una sorta di “messa in sce-
na” di un dramma di cui il filosofo mistico è il supremo spettatore.
È esattamente in questi termini che va intesa la frase successiva: «il
144 federico dal bo

problema» di una concezione mistica della storia «si può esporre in


un’immagine». Nuovamente, è stato necessario correggere lievemen-
te la traduzione del testo, soprattutto per rimarcare un tratto para-
dossale di questa misteriosa “messa in scena”: non si tratta infatti
di “presentare” questo problema in un’immagine bensì proprio di
“esporlo” in immagini altrimenti che a parole.
La cifra paolina del testo di Benjamin si coglie già in questa insi-
stenza sull’immagine piuttosto che sulla Parola, fosse anch’essa una
Parola che danza scenograficamente nel cielo. La dialettica tra sacro
e profano offre una visione della storia ma a ben vedere è solo la
precondizione per una visione mistica della realtà. L’idea che la con-
cezione mistica della storia si concretizzi in un’immagine amplifica in
modo quasi esorbitante l’aspettativa platonica metafisica tradiziona-
le per cui il rapporto col divino è scandito da una figura piuttosto che
dal faticoso ruolo d’intermediario di una Scrittura. Si tratta nuova-
mente di un sottile antinomismo che tende a squalificare il ruolo della
Legge all’interno del rapporto tra l’uomo e Dio o, per estensione,
tra il mondo e Dio. Non c’è dunque alcun appello alla dimensione
profetica biblica e tantomeno alla concezione talmudica della media-
zione tra uomo e Dio. Al contrario, Benjamin amplifica suggestioni
tardo-romantiche che evidentemente riprende da Hölderlin e dallo
stesso Rosenzweig. Del resto, non potrebbe essere altrimenti. Una
concezione fondamentale del Talmud è che Mosè venga celebrato
simultaneamente quale sommo legislatore e sommo profeta. Di con-
seguenza, si ha una connessione speciale tra facoltà visiva e legislati-
va. In questo senso, la descrizione dei Dieci Comandamenti danzanti
nell’aria è solo una concretizzazione favolistica di un presupposto
teologico preciso: Mosè fu simultaneamente il legislatore e il visiona-
rio supremo nell’intera storia del popolo d’Israele5.
In questo senso, la concezione della storia di Benjamin ha un tono
paolino proprio perché risulta incapace di apprezzare questo ruolo
dell’immagine sia in termini visuali che legislativi mentre invece la
coglie solo in senso platonico tardo-romantico.

5 Per la trattazione dettagliata di questi temi, si veda: F. Dal Bo, La Legge e il Volto
di Dio. La Rivelazione sul Sinai nella letteratura ebraica e cristiana, La Giuntina, Firenze
2004.
«l’immediata intensità messianica del cuore» 145

4. Il profano come categoria storica

Il tratto paolino del Frammento si palesa ulteriormente quando


Benjamin definisce esattamente che cosa sia il Profano:

Il Profano non è, dunque, una categoria del Regno, ma una categoria – e


certamente una delle più pertinenti – del suo più facile approssimarsi [seines
leisesten Nahens]. Poiché nella felicità tutto ciò che è terreno aspira [erstreben]
al suo tramonto, solo nella felicità esso è determinato a trovare il tramonto
[trad. modificata].

Benjamin non offre qui alcuno spessore dottrinale particolare. La


dottrina messianica viene declinata qui in termini metafisici, per cui
il tono paolino è molto difficile da percepire immediatamente. È ne-
cessario rileggere il passo, prestando particolare attenzione a ciò che
Benjamin non dice, pur descrivendo un momento cruciale dell’avven-
to messianico.
Il Profano viene descritto qui in termini quasi nietzschiani, come
ciò che è destinato a tramontare di fronte all’emergenza dell’evento
messianico. Ma si noti, ancora, il profondo senso paolino di questa
concezione. Qui Benjamin chiaramente concepisce l’atto di appros-
simarsi quasi in termini cronologici, ma niente affatto in termini le-
gali o rituali. In questo modo, Benjamin offre qui una dimensione
dell’approssimarsi dell’evento messianico che esclude del tutto la di-
mensione rituale e sacrificale, anche questa apparisse solo in forma
sublimata come preghiera. Inoltre, è chiaro che l’agente dell’evento
messianico – il Messia stesso – entra nella storia come colui che porta
a compimento, ovvero conclude, consuma, usura o termina “tutto
ciò che è terreno”.
È particolarmente importante osservare che Benjamin non inqua-
dra questo approssimarsi in alcun preciso momento storico. Mentre
il Talmud riporta, tra le altre, l’opinione che il Messia verrà solo
quando si saranno esaurite tutte le scadenze, quasi ad implicare che
l’evento messianico comunque non si uniformerà ad alcun calendario
terreno, Benjamin sembra implicare che tutto ciò avverrà improvvi-
samente, ad un momento che non è dato (ancora) sapere. Tuttavia,
se si richiamano all’attenzione le osservazioni precedenti sul ruolo
della “felicità” che trattiene il mondo dal tramontare completamen-
te, ritorniamo ad un concetto di “storia” vincolato ad uno stato d’ec-
146 federico dal bo

cezione. Si tratta nuovamente di un principio solidamente paolino,


proprio perché si implica che il Profano concorra all’approssimarsi
del Regno senza tuttavia poter partecipare in esso, se non venendone
trascinato, si potrebbe quasi dire.
Da questo punto di vista, si può rivedere anche l’assunto iniziale,
per cui «il regno di Dio […] non può essere posto come scopo». Ciò
significa non solo che codesto Regno – e la nozione di giustizia che
esso implica – non possa servire come “scopo politico” della storia
ma soprattutto anche che, in quanto “fine” ma non “scopo,” il Re-
gno sfugge di principio alla intenzionalità. In altri termini, il Regno
accade come un evento che è «determinato» (bestimmt) quasi quale
voce media – priva di un’autentica soggettività storica. In questo si
ritrova nuovamente un sentimento antinomistico. Mentre la Legge
– nella sua declinazione sacrificale primitiva oppure nella sua trasfor-
mazione in preghiera – richiede che l’individuo partecipi attivamente
e coscientemente nell’atto di avvicinarsi a Dio, per Benjamin l’ap-
prossimarsi del Regno semplicemente avviene, trascinando il mondo
e la natura con sé. Si noti come questa approssimazione al tramon-
to – e quindi al Regno – venga descritta in termini ambigui come
una «aspirazione». Il verbo tedesco erstreben certamente qualifica
questa tensione al compimento come la realizzazione di un desiderio
che può contemplare una qualche forma di “sforzo” verso una meta
(streben) ma non sembra implicare una particolare partecipazione
attiva in questo processo. L’aspirazione al compimento sembra più
un desiderio di giungere ad una «fine» (Ende) piuttosto che il rag-
giungimento di uno «scopo» (Ziel) determinato. Del resto, Benjamin
aveva già iniziato il Frammento esattamente con l’assunto che «da
un punto di vista storico» il Regno «non è scopo, ma termine». Di
conseguenza, il Regno è fondamentalmente estraneo alla dimensione
politica ma manifesta una natura eminentemente religiosa – se non
addirittura una sorta di indipendenza categoriale. È chiaro come la
teologia quale dimensione del divino appaia qui strettamente con-
nessa alla nozione di “innocenza”, specialmente di innocenza di una
“lingua pura”, quale nozione categoriale del tutto distinta da quella
della violenza – e quindi distinta dal Profano in quanto tale. Tuttavia,
questa opposizione al Profano – oppure “a tutto ciò che è terreno”
quale alternativa specificazione del Profano – ha un sapore vagamen-
te gnostico ma soprattutto richiama anch’esso la enfatizzazione pao-
«l’immediata intensità messianica del cuore» 147

lina del precetto per cui siamo «stranieri e pellegrini su questa terra»
(Eb 11:3). Da quesito punto di vista il Teologico deve restare princi-
palmente scollegato da qualsiasi “incarnazione” particolare.
Benjamin sembra invece declinare un ebraismo che può fare a
meno di un rapporto creativo con la Legge – in favore di ciò che
in una lettera ad un amico, qualche anno prima della stesura del
Frammento, aveva chiamato «Sionismo dello spirito [Zionismus des
Geistes]». Questa adesione ad un ideale sionista spirituale richiedeva
una tale «intensità» da non tollerare alcuna forma di «esteriorità»
fosse anche quella di «uscire» dal perimetro del tedesco, la lingua di
un «ebreo nazionale [Nationaljude]», per addentrarsi nello studio
dell’ebraico, da padroneggiare in pochi anni per poter essere invitato
ad insegnare all’Università Ebraica di Gerusalemme. A questo pro-
posito, Scholem notò con penetrante acume a quale altezza Benjamin
avesse posto questo impegno, poi naufragato, ammettendo che l’a-
mico si sarebbe imbarcato nell’impresa «non come un filosofo ben-
sì come un metafisico». È singolare infatti che Benjamin abbandoni
presto lo studio dell’ebraico così come l’idea di trasferirsi in Palesti-
na, quasi a significare la necessità di declinare il proprio messianismo
in una dimensione assolutamente più interiore6.

5. L’intensità messianica del cuore

La dimensione messianica – seppure fattorialmente opposta alla


dimensione del Profano tutto proteso all’esteriorità – veniva quin-
di a cadere entro perimetro dell’interiorità, dove poteva finalmente
animarsi di quella «intensità» che era stata accennata all’inizio del
Frammento. Allora però Benjamin elogiava il valore storico dello
Spirito dell’utopia di Bloch, che aveva avuto il merito di negare «con
ogni intensità» il significato «utopico» della teocrazia, implicitamen-
te permettendo una comprensione in termini «religiosi». A questo
punto del Frammento, Benjamin allora compone Profano e Messiani-
co come una dinamica di forze che virtualmente dovrebbero opporsi,

6 Per la mancanza di conoscenza dell’ebraico da parte di Benjamin, la sua tendenza a

leggere i testi per la mediazione di terzi – ad esempio, Scholem – e il suo mancato trasfe-
rimento in Palestina, si veda: F. Dal Bo, Qabbalah e traduzione. Un saggio su Paul Celan,
Orthotes, Salerno 2019, pp. 136-137.
148 federico dal bo

muovendosi in direzioni opposte, ma che possono invece risolversi in


una sinergia molto singolare:

se una freccia indica lo scopo verso il quale opera la Dynamis del Profano
e un’altra la direzione dell’intensità messianica, allora la ricerca della felici-
tà dell’umanità libera diverge certamente da quella direzione messianica, ma,
come una forza, attraverso la sua traiettoria, può favorirne un’altra diretta in
senso opposto, così anche l’ordine profano del Profano può favorire l’avvento
del regno messianico […] Mentre l’immediata intensità messianica del cuore,
del singolo uomo interiore procede, invece attraverso l’infelicità, nel senso del
dolore.

Anche in questo caso, la dimensione paolina di questo passag-


gio si coglie in sfumature particolari, in allusioni; ma soprattutto,
nuovamente, in ciò che Benjamin non dice. Nel Frammento, infatti
manca qualsiasi richiamo al precetto religioso dell’obbedienza – ov-
vero, all’obbligatorietà di ottemperare ai precetti divini. Al contrario,
Benjamin accenna alla «ricerca della felicità dell’umanità libera», ri-
tenendo che essa diverga dalla «intensità messianica», senza ricorda-
re però che l’ebraismo rabbinico ha spesso celebrato la simultaneità
di “libertà” e “legalità” – proiettandola persino in una dimensione
messianica.
Nel Frammento Benjamin declina la partecipazione messianica
in termini paolini proprio perché esalta un sentimento piuttosto che
una partecipazione sociale e politica. L’affermazione di principio per
cui “la teocrazia non ha alcun senso politico” significa appunto che
la dimensione messianica si manifesta soprattutto quale interiorità
“del cuore”. In questa interiorità si attua una complessa relazione
tra obbligo ed infelicità. Benjamin sembra infatti stabilire una con-
nessione tra «infelicità» (Unglück) e «colpa» (Verschuldung) – un
termine che forse riprende da Nietzsche che non descrive, in astratto,
la situazione legale, quasi statica, di non essere innocente bensì la
condizione dinamica di essere “in debito” (Schulden) verso qualcosa
e quindi avere ancora qualcosa da ottemperare. Si tratta quindi di un
“indebitamento” che affligge anche il mondo naturale.
Ancora, Benjamin manifesta una sorta di negatività apocalittica,
proto-paolina. Poiché è implicito che nessuno sia in grado di ottem-
perarle alla Legge – allora la connessione tra uomo e legge non può
che essere “tragica”: per esprimerci in termini heideggeriani, si può
«l’immediata intensità messianica del cuore» 149

dire che il “destino di questa destinazione” sia fondamentalmente


associato alla infelicità rispetto al complesso di “colpe” – ovvero,
debiti – che l’uomo contrae rispetto a Dio. In questa prospettiva,
il ritorno ad uno stato di innocenza in seguito all’evento messiani-
co sarebbe essenzialmente antinomico, proprio perché scioglierebbe
l’individuo da qualunque voto o obbligazione legale. Diversamente
dallo scioglimento da ogni voto celebrato a Yom Kippur, l’evento
messianico non libererebbe l’uomo da quei voti che l’uomo può aver
contratto inavvertitamente – ovvero per il solo fatto d’esistere – ri-
spetto a Dio bensì da ogni tipo di voto, colpa, o debito in quanto
tale. Questo scioglimento da ogni tipo di voto assumerebbe quindi
la forma di un evento apocalittico nel senso più proprio del termine:
una Rivelazione di una dimensione interiore libera da ogni colpevo-
lezza, cioè da qualsiasi eventuale stipulazione di una nuova colpa o
debito. In altri termini, l’innocenza cui il mondo messianico tende-
rebbe sarebbe eminentemente libera da ogni vincolo legale e quindi
cadrebbe totalmente al di fuori, come nuova categoria, della dimen-
sione tragica del “dramma didattico” inscenato nella storia. Questa
innocenza sarebbe quindi il risultato del consegnarsi ad una forma
molto particolare di Redenzione.

6. Per una redenzione spirituale

Il Frammento si conclude infatti con il famoso richiamo alla Re-


denzione del mondo che viene immediatamente declinato in termini
spirituali:

Alla restitutio in integrum spirituale, che conduce all’immortalità, ne corri-


sponde una mondana, che porta all’eternità di un tramonto e il ritmo di questa
mondanità che eternamente trapassa, e trapassa [vergehend] nella sua totalità,
non solo spaziale, ma anche temporale, il ritmo della natura messianica è la
felicità. Poiché la natura è messianica per la sua eterna e totale tendenza a tra-
passare [Vergängnis]. Tendere a ciò, anche per quei gradi dell’uomo che sono
natura, è il compito della politica mondiale, il cui metodo deve essere chiamato
nichilismo [trad. modificata].

La natura squisitamente paolina del Frammento si manifesta qui


compiutamente, si potrebbe dire. Il Messianico viene rimosso dalla
150 federico dal bo

sua originaria dimensione politica e legale biblica, venendo conse-


gnata interamente a quella spirituale – ovvero ad una dimensione di
interiorità e immediatezza che non conosce né può conoscere alcun
intermediario legale.
Questo processo di “spiritualizzazione” emerge soprattutto dalla
scelta di definire la Redenzione finale come una «restitutio in inte-
grum spirituale» – un’espressione che non è affatto chiara ma che anzi
è percorsa da tensioni concettuali importanti. Come tale, è necessario
esaminarla con cura, soprattutto perché offre la cifra per compren-
dere quale tipo di Redenzione messianica Benjamin abbia davvero
in mente. È importante non liquidare come un vezzo, assai frequente
tra gli intellettuali, di chiamare qualcosa di semplice in modo molto
complicato. Può certamente essere che Benjamin non fosse immune
dalla vanità accademica e che talvolta si compiacesse di scrivere testi
deliberatamente difficili se non impenetrabili, come il notorio Dram-
ma barocco-tedesco. Eppure in questo caso, la scelta di chiamare la
Redenzione finale la «restitutio in integrum spirituale» riflette una
scelta teologica molto importante che è necessario esplicitare sino in
fondo. Il concetto di restitutio in integrum è a prima vista assai com-
prensibile: si tratta di un processo di “reintegrazione” che riporta alla
condizione originaria ciò che ha evidentemente sofferto dei danni o
delle perdite. È attestato il suo uso anche nella moderna giurispru-
denza per indicare appunto una serie di azioni legali che hanno lo
scopo di risarcire chi ha subito un danno per negligenza altrui. Il pre-
supposto di questa azione legale è di ipotizzare quale sarebbe stata la
condizione finale di colui che ha subito il danno se effettivamente non
ne avesse dovuto soffrire e quindi quantifica il risarcimento in modo
proporzionale. Si tratta, a prima vista, di una procedura che trova
ogni giustificazione sul piano morale ma anche di buon senso.
Eppure Benjamin non pensava qui all’istituzione moderna della
restitutio in integrum, ammesso che esistesse nel diritto civile tedesco
dell’epoca. Si sta piuttosto richiamando ad un passo dal già menzio-
nato Spirito dell’utopia di Bloch in cui si afferma che la «vita eterna»
appunto consiste nella «restitutio in integrum fuori dal labirinto del
mondo»7. Si notino in particolare le implicazioni quasi gnostiche di

7 Cfr. E. Bloch, Spirito dell’utopia, a cura di V. Bertolino e F. Coppellotti, La Nuova

Italia, Firenze 1980, p. 315.


«l’immediata intensità messianica del cuore» 151

quest’espressione: se per Bloch la Redenzione finale porta ad una


forma di «vita eterna» paradisiaca, ciò è possibile proprio perché
questa corrisponde alla «reintegrazione» alla condizione originaria
ma, come si deve concludere dal resto della frase, ciò implica una
fuoriuscita completa dal mondano. In altri termini, la Redenzione
finale che permette l’immortalità consiste in una fuori uscita «dal
labirinto del mondo» proprio perché il mondano si oppone, di prin-
cipio, all’esistenza paradisiaca. Quando Benjamin parla allora di
questa «restitutio in integrum spirituale» non fa che enfatizzare un
tratto già caratteristico in Bloch di opporre mondo e Redenzione.
È però chiaro che Bloch non è la fonte primaria per il concetto di
restitutio in integrum. Essa sembra invece derivare da un’altra fonte
– il misticismo ebraico in cui Bloch ha già cominciato ad attingere,
in modo indiretto ed eclettico. Ecco allora che il termine latino resti-
tutio in integrum sembra semplicemente tradurre il famoso concet-
to qabbalistico di tikkun ‘olam, per cui si potrebbe concludere che
Benjamin si stia appellando qui ad un concetto tradizionale ebraico
di Redenzione. In che termini, allora, si potrebbe sempre parlare di
“Paolinismo” nel Frammento, posto che il concetto di «restitutio in
integrum spirituale» si richiami effettivamente al misticismo ebraico?
Sembra quindi ragionevole ritenere che Benjamin volesse riferirsi
ad un concetto di Redenzione che accentuasse il distacco dal mon-
do piuttosto che lo complicasse. Ora, è chiaro che persino la nozio-
ne qabbalistica di tikkun ‘olam in quanto processo che riporta ad
integrità il mondo non potesse che essere ben più problematico di
reclamare una «restitutio in integrum spirituale». In fondo, si tratta-
va di seguire Bloch sino in fondo quando sanciva che l’immortalità
sarebbe stata raggiunta proprio uscendo «dal labirinto del mondo».
È chiaro allora che Benjamin depotenzi il concetto ebraico di Re-
denzione da qualsiasi velleità legale. Se il tikkun ‘olam ovviamente
contempla la salvezza del mondo attraverso un uso ragionevole e
compassionevole della Legge, è ovvio che questo non può concorrere
a trasportare la natura dalla sua condizione di infelicità alla sua Re-
denzione – ovvero facendola tramontare. Per Benjamin, il carattere
“sociale” di questa restitutio in integrum non avviene se non per la
singola partecipazione dell’individuo alla «intensità messianica del
cuore». Si tratta infatti di un atteggiamento «spirituale», come viene
rimarcato ancora. In questi termini, il percorso redentivo punta ad
152 federico dal bo

un dissolvimento degli errori storici in un nuovo intero che non ha


bisogno di alcuna “incarnazione” – né la democrazia borghese, né
un Regno di Dio sulla terra, né tantomeno uno Stato comunista dei
lavoratori. Non c’è un “corpo redento”, proprio perché tutto viene
“redento spiritualmente.”
La natura, del resto, è destinata a dissolversi in storia – ovvero
mutare in «tutto ciò che è terreno» ed essere finalmente soggetta alla
Redenzione messianica. Questo ritorno all’innocenza mostra che una
restitutio in integrum così intensa non ha più nulla di concretamente
mondano ed è davvero antimaterialista. A differenza di ciò che la
restitutio in integrum legale prevede in quanto “reintegrazione” e a
differenza di ciò che prevederebbe il suo presupposto omologo ebrai-
co quale tikkun ‘olam, la restitutio in integrum cui pensa Benjamin
punta alla dissoluzione della natura nella storia, come avrebbe osser-
vato Scholem nei suoi Diari. Questa dissoluzione però non va confu-
sa con mera distruzione bensì è un tramontare nietzschiano in virtù
della sua essenza totalmente transeunte. Alla fine di questo processo,
ciò che è profano viene sussunto nel tempo messianico, permettendo
la unione di sacro e profano. È ancora in questi termini che si può ul-
teriormente precisare l’antinomismo di Benjamin e soprattutto il suo
tono paolino. Se la Legge viene percepita come qualcosa di “innatu-
rale,” sia nel senso che evidentemente non è “natura” sia nel senso
che si oppone al desiderio di felicità dell’uomo, allora è lecito che
essa venga rimossa dal percorso redentivo, proprio perché non può
tramutarsi in storia – ma resta invece una sorta di inciampo perenne.
Del resto, Benjamin aveva proprio scritto nel 1913, in occasione di
un Festspiel di Gerhart Hauptmann: «coloro che non sono liberi sa-
ranno sempre in grado di esibirci il canone delle loro leggi [die Unfre-
ien werden stets den Kanon ihrer Gesetze uns vorweisen können]»8.

8 W. Benjamin, Frühe Arbeiten zur Bildungs- und Kulturkritik, in Id., Gesammelte

Schriften, vol. II/1, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1972, p. 60.

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