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La stanchezza come meccanismo di difesa

essereintegrale.com/stanchezza-difesa

Agostino Famlonga

Hai mai sentito frasi di questo tipo?

“Vorrei iniziare questo progetto creativo che mi esprime un sacco, ma non riesco perché
sono sempre stanca”.

“So che dovrei cercare un nuovo lavoro perché questo non mi realizza, ma non posso
perché sono esausto”.

Magari hai sentito dire frasi così da un amico che ha condiviso una sua lamentela, oppure
proprio tu hai detto questo in un momento di difficoltà.

Il mio lavoro a stretto contatto con le persone mi espone quotidianamente a frasi simili.
Ho imparato con l’esperienza che ciò che si vede in superficie spesso è solo
l’apparenza di qualcosa di più profondo.

Molte volte la stanchezza acquisisce un ruolo difensivo, ovvero viene usata dalla
persona come subdola strategia di difesa.

Quando avviene questo aggancio inconscio, la stanchezza appare e viene comunicata


come un problema, con una lamentela e presentandola come una difficoltà, ma al
contempo si rivela essere una utile giustificazione per non fare qualcosa che
inconsciamente non si vuole fare.

Questo crea una contrapposizione di forze che porta facilmente in uno stallo in cui
non si procede né da una parte, né dall’altra.

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Vediamo di comprendere meglio come funziona la stanchezza da questo punto di vista.

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Quando la stanchezza diventa una barriera


La stanchezza è un vissuto comune a tutti, fa parte dell’essere attivi e utilizzare le energie
in un ciclo di carica e scarica.

Semplificando: nel “fare” il corpo consuma energia e genera il vissuto della


stanchezza come segnale per indurci a riposare.

Ne ho parlato in modo approfondito qui: Come sciogliere la stanchezza con la


respirazione.

Questo è assolutamente normale, e se accogliamo e sentiamo la stanchezza con


consapevolezza, questa ci indica quando e come recuperare al meglio.

La stanchezza non è una barriera, ma qualcosa che incontriamo nel procedere verso
qualcosa, e che ci induce a riposare. Il recupero permette di recuperare e di
procedere. Il riposo non è vissuto come una interruzione o una barriera, ma come parte
integrante del percorso.

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Si è portati a credere che quando la stanchezza superi una certa soglia, allora diventi una
barriera. Non è così.

La stanchezza diventa una barriera quando interviene qualcosa nella tua


relazione con la destinazione. È questo rapporto alterato che rende la stanchezza una
barriera, non la sua entità, e accade proprio per intervento di meccanismi di difesa
psicologici.

Possono essere due i motivi che innescano questo evento:

1. Perdi la connessione con la destinazione (oppure non ne sei consapevole)


2. Intervengono delle resistenze e delle paure nei confronti della realizzazione
della destinazione.

Nel primo caso, la stanchezza può divenire una presenza costante che
semplicemente serve ad alimentare l’inconsapevolezza.

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Diventa un oggetto con cui ti tieni distratto per non rendere consapevole cosa vuoi
veramente. Non c’è tempo ed energia per esprimere chi sei, perché non lo sai, o non hai le
energie per scoprirlo (apparentemente).

In realtà le energie ci sarebbero, ma sono investite nel distrarsi, o nel tentare di


combattere la stanchezza o semplicemente nel “tirare avanti”, invece che essere
direzionate nel conoscere ed esprimere sé stessi.

Nel secondo caso, la stanchezza diventa una giustificazione per il non riuscire a procedere
verso la destinazione.

L’equazione che si viene a creare è questa:

[Non posso, non riesco] + [stanchezza]

Apparentemente è una giustificazione legittima, e per certi versi oggettiva. Ma


quando la situazione diventa cronica, indagando si scopre che dietro quel “non posso,
non riesco”, c’è molto altro.

Possiamo riscrivere l’equazione sopra in questo modo:

[Non voglio, ho paura di] (inconscio) + [Stanchezza]

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Ecco che la stanchezza diventa una protezione che la persona usa per non fare, per non
agire.

C’è ancora una connessione con la destinazione, ma con una contrapposizione di forze:
una parte vuole, l’altra rema contro (e la stanchezza serve proprio a questo).

Voglio e non voglio


Quanto più è forte la paura di realizzare la destinazione, e la resistenza ad essa
(non voglio), tanto più sarà forte la giustificazione agganciata alla stanchezza
(non posso, non riesco).

Il punto chiave è comprendere che una parte è consapevole, l’altra no. Il voglio è
consapevole, il non voglio è inconscio, ma entrambe queste forze sono auto-
generate.

Non sono forze esterne a noi, sono spinte contrapposte che abitano la nostra
interiorità.

La stanchezza diventa in questo modo una protezione che la persona usa per
“non fare”, per questo l’ho definita meccanismo difensivo. Non volendo fare, o avendo
paura di realizzare la meta, si aggrappa alla stanchezza, che diventa così una
protezione.

A parole si dice una cosa, ma nella concretezza si agisce al contrario.

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La stanchezza viene in questo modo sia subita che generata. Si sente di subire la
stanchezza, perché è un peso che si fatica a lasciare andare. Al contempo si è fortemente
aggrappati alla stanchezza, perché ha una utilità inconscia, un “guadagno
nascosto.”

L’esperienza dice che fintanto che non si svela il guadagno nascosto, il meccanismo resta
attivo.

Il falso guadagno
Finché non si svela il guadagno nascosto, la persona troverà sempre un motivo per
stancarsi e “non fare”, ovvero non procedere verso la destinazione.

Quando accompagno le persone a svelare il “guadagno nascosto”, la prima reazione è


sempre di stizza: “guadagno? Questa cosa mi crea difficoltà, non ci guadagno nulla!”

Questa è una reazione tipica e comprensibile, e in parte vera. Il “guadagno” è un


guadagno per la mente inconscia e i suoi meccanismi difensivi, che usano
questa dinamica per proteggersi.

Per la nostra parte consapevole è sempre un falso guadagno: ogni meccanismo


difensivo si rivela sempre essere una perdita.

È una realizzazione dura da digerire, ma indispensabile per uscire da questo circolo


vizioso.

La stanchezza ha questo “guadagno nascosto”: protegge la persona dall’esporsi nel


realizzare il suo autentico progetto di vita.

È paradossale, ma quando si va alla radice dei meccanismi di difesa, si trova questo.

Temere la luce
C’è una frase bellissima di una poesia di Marianne Williamson che adoro perché esprime
in poche parole una verità molto profonda:

La nostra paura più profonda


non è di essere inadeguati.
La nostra paura più profonda
è di essere potenti oltre ogni limite.
È la nostra luce, non la nostra ombra,
a spaventarci di più.

Se vuoi leggere l’intera poesia, la trovi qui.

Condivido questo punto di vista. Andando in profondità nell’inconscio e nei suoi


meccanismi di difesa, è proprio ciò che viene svelato.

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Quando la stanchezza si è cronicizzata ed è diventata un meccanismo difensivo, scavando
si scopre questo: la stanchezza viene usata come protezione per non esporsi
verso la propria auto-realizzazione.

La cosa particolare è che tendenzialmente per realizzare dei progetti auto-


realizzanti, è richiesto un grande impegno. La vita pone la nostra realizzazione
sempre fuori dalla zona di comfort.

Grande impegno significa che molto spesso si incontrerà la fatica nel percorso, per
cui se interviene il meccanismo inconscio che abbiamo visto, è molto facile usare la
stanchezza come giustificazione, perché è quella più accessibile, pronta e subito
a disposizione, servita su un piatto d’argento.

Associato alla paura di brillare e realizzarsi c’è quasi sempre un altro meccanismo
inconscio limitante: la percezione del non meritare.

Non meritare
Abbiamo in noi una percezione interiore soggettiva che ci indica quanto
sentiamo di meritare. Lo percepiamo come un senso di merito, opposto al senso
di colpa. Tanto più ti senti in colpa, tanto meno ti senti meritevole, e viceversa.

Immaginiamolo come un termometro che indica quanto sentiamo di essere


meritevoli di ricevere e di brillare nella vita. Questo termometro ti indica quando
fermarti nell’esprimere e realizzare te stesso, quanta luce sei in grado di tollerare prima di
entrare in allarme e bloccarti.

È una percezione soggettiva e prevalentemente inconscia, per questo a poco servono le


affermazioni positive come il ripetersi “io valgo” davanti allo specchio.
Essendo un parametro registrato nell’inconscio, verrà scalfito in minima parte da queste
affermazioni.

Non entriamo qui nel dettaglio di questo meccanismo, per questo ti rimando ai corsi
dedicati.

La cosa importante da comprendere è il collegamento tra il senso di merito e il


meccanismo di difesa della stanchezza.

Per lasciare andare la stanchezza cronicizzata serve abbandonare la paura di


realizzare sé stessi, ma non la lascerai andare se non senti di meritare di
realizzarti.

Il senso di colpa tiene tutto bloccato e ti impedisce di sciogliere la barriera della


stanchezza, per quanto tu lo voglia.

Il punto che tengo a sottolineare qui è che per abbandonare la stanchezza hai bisogno di
acquisire merito, di sentire non solo che puoi vivere senza stanchezza, ma che meriti
di vivere in questo modo e di realizzare le tue mete auto-realizzanti.

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Se manca il senso di merito, ovvero ti senti in colpa e senti interiormente di non meritare,
le azioni che farai per contrastare la stanchezza ti faranno fare un passo avanti e uno
indietro.

Ti sottolineo ancora che siamo sempre noi a fare tutto, solo che una parte è
consapevole, l’altra no. Per questo è fondamentale prendersi una responsabilità
sempre maggiore e uscire fuori dal vittimismo.

Responsabilità
Per uscire dalla dinamica della stanchezza come meccanismo di difesa, serve essere attivi
nei confronti di essa. Invece di subirla in modo passivo, serve prendere
posizione attivamente.

Essere attivi nei confronti della stanchezza vuol dire prendersi la responsabilità di
rispondere ad essa.

La stanchezza è un vissuto naturale e legittimo, non va considerata sbagliata. Quello che


va riconosciuto è il proprio ruolo attivo nell’usare il vissuto della stanchezza
come strategia, con un secondo fine, e prendersi la responsabilità di questo.

Come vivi la stanchezza? Come la tratti? E soprattutto… a cosa ti serve?

È necessario essere onesti con sé stessi, e svelare il guadagno nascosto. Solo


svelando il guadagno nascosto si può sciogliere il meccanismo.

Il guadagno nascosto svelato deve diventare poi una presa di posizione e una
assunzione di responsabilità.

Per approfondire >>> La scala della responsabilità

Come sciogliere il meccanismo difensivo della stanchezza


Vediamo di riassumere in uno schema semplice e in alcuni passaggi definiti quanto detto
per uscire fuori dal meccanismo difensivo della stanchezza come barriera.

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Il primo passo è avere un orientamento nella vita. Se non sai chi sei, non hai idea
di cosa è per te auto-realizzante, resti fermo nella condizione di distrazione, svago vuoto e
di falsi problemi.

Solo con la chiarezza di te stesso puoi dare una direzione alle tue azioni.

Ti invito quindi come primo passo a conoscere te stesso e a trovare il tuo orientamento
nella vita.

Il secondo step è riconoscere la barriera della stanchezza come tale, come una
strategia che tu hai usato con un secondo fine. Pur lamentandoti di essa, in fondo
è stata utile per uno scopo: ti ha protetto dall’esporti verso qualcosa che
temevi. Svela questo guadagno nascosto e prenditi la responsabilità di avere
agito in questo modo.

Sii disposto a lasciare andare la difesa della stanchezza: prendi posizione e scegli
di “giocare un altro gioco”.

Prendi atto che dietro il “non posso” c’è un “non voglio”, oppure un “ho
paura di…” (3)

Accogli questo timore e queste resistenze, sono parti di te, che vanno rese consapevoli
e accolte in piena accettazione. Sono emozioni messe in ombra importanti e la loro
accettazione con un pieno sentire è la chiave per andare oltre la stanchezza. Solo
accettando la paura e la resistenza, sentendole pienamente e prendendone la piena
responsabilità, puoi fare i passi per superare la barriera della stanchezza. (4)

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Una precisazione importante: superare la barriera della stanchezza non significa che
non ti stancherai mai più, che non incontrerai mai più questo vissuto. Significa che
quando lo incontri lo tratti non usandolo come scusante, e lo affronti recuperando,
con il riposo o con quello che serve per andare oltre.

Cambia come vivi e tratti la stanchezza: la percezione è di non essere ostacolato da


essa, ma che è qualcosa che incontri in modo del tutto naturale nel tuo cammino di auto-
realizzazione.

Stanchezza e fatica: energia investita che genera valore


Quando hai sciolto il meccanismo difensivo della stanchezza e hai un orientamento
consapevole, la fatica e la stanchezza che incontri diventano un segno positivo di
energie spese nella giusta direzione.

Quando cammini sul tuo sentiero, la fatica di camminare fa parte integrante del
percorso stesso. Nella meta c’è la risoluzione della fatica spesa durante il cammino, e
tanto più questo è stato impegnativo, tanto maggiore sarà la soddisfazione e la
gratificazione auto-realizzante.

La stanchezza che sei disposto ad affrontare dà il valore a ciò che vivi.

Te lo spiego con un esempio, derivato dalla mia esperienza in montagna. Vivo in un luogo
alpino, e l’arrampicata e l’alpinismo per me sono sia una passione che grandi insegnanti
per apprendere principi di vita da applicare anche a contesti completamente diversi.

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Per salire sulle cime bisogna camminare o arrampicare, spesso su percorsi impegnativi e
lunghi. Se hai già avuto esperienze di questo tipo ti puoi rendere conto facilmente che la
soddisfazione di arrivare in cima è proporzionale all’impegno che tu hai
messo nel tragitto.

Immagina questa scena: due persone si incontrano in vetta.

Uno ha preso l’elicottero, è arrivato in cima in 5 minuti, bello riposato e fresco come una
rosa.

L’altro ha camminato, sudato, scalato… e si trovano in cima assieme.

Vedono lo stesso panorama mozzafiato. Esteriormente il contesto non cambia, si trovano


nello stesso luogo.

Ma interiormente? Quale dei due sarà più soddisfatto? Quale assaporerà quello
sguardo come un momento magico, di apice e di coronamento? La risposta è
ovvia e non serve approfondire.

Questo esempio per darti un messaggio importante: se stai procedendo con chiarezza nel
cammino della tua vita, incontrerai la fatica e anche la stanchezza, ma non solo non
ti ostacoleranno, ma daranno valore al tuo impegno.

Supera la stanchezza
Sia in questo articolo che nel precedente ti ho dato una serie di spunti per comprendere
alcune dinamiche fondamentali legate alla stanchezza. Come vedi l’argomento è molto
vasto, e permettimi di dire che quello che abbiamo visto qui è solo la punta dell’iceberg.

Sappiamo bene che la comprensione e la consapevolezza sono il primo passo, ma


poi per tradurre questa comprensione in qualità di vita serve calare questa
comprensione nella propria realtà, comprendendo come funzioniamo noi,
prendere posizione e agire.

Ti invito ad agire concretamente in questa direzione, ad ambire ad una vita dove la


stanchezza che incontri non rappresenta un ostacolo, dove hai le abilità per
affrontarla e esserne libero.

Due sono gli strumenti che ti consiglio per passare dalla teoria alla pratica:

1. L’incontro dedicato alla “Stanchezza e malattia” del corso Abilità nella


vita, che si tiene nel weekend del 17-18 settembre (può essere frequentato
anche online).
2. Il corso di Respiro Circolare, che ha lo scopo di liberare il respiro dai suoi
condizionamenti e accendere l’energia vitale. I prossimi corsi di gruppo in
partenza sono il 12 e il 20 settembre, il calendario lo trovi qui. I percorsi individuali
invece sono sempre accessibili su appuntamento.

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La dissociazione di sé e l’integrazione dell’ombra
essereintegrale.com/dissociazione

Agostino
Famlonga

Siamo nati interi, uniti. Lo siamo ancora, tutti… eppure nel nostro campo percettivo
l’esperienza di unità e di integrità è spesso preclusa. Ci sentiamo divisi interiormente,
frammentati in tante parti in contrasto e in conflitto tra di loro, e ci sentiamo separati
dal mondo e dagli altri.

Perché accade? Come si verifica questa decadenza? E soprattutto… è possibile ritornare


a sperimentare l’integrità di sé, l’esperienza di unione completa con sé stessi, con la vita
e con gli altri?

Per rispondere a queste domande dobbiamo percorre la nostra “storia evolutiva” e


comprendere alcuni passaggi importanti. Per storia evolutiva intendo il nostro
“venire ad essere”.

Esiste una nascita biologica, fisica, ben conosciuta e documentata. Sappiamo quando
siamo nati, quanto pesavamo, come siamo stati accolti e tanti dettagli legati al venire al
mondo. Questa è la storia del nostro corpo biologico.

Esiste poi un’altra nascita, che accade sul piano interiore: il venire ad essere,
l’apparire di un io e tutti i processi evolutivi collegati a questi passaggi.

Generalmente quando si parla di “venire al mondo” l’attenzione è rivolta


esclusivamente alla nascita fisica, e lo sviluppo interiore non viene preso in
considerazione. Non ci si cura più di tanto di questo aspetto, dandolo per scontato o non
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riconoscendone l’importanza.

In questo articolo invece procediamo con un’intenzione opposta: come veniamo ad


essere?

Procediamo con ordine… partiamo dall’inizio.

Venire al mondo
Quando veniamo al mondo nasciamo con un campo di coscienza unificato. Sia
nella gestazione in pancia che nel primo periodo di vita il neonato sperimenta il
mondo senza sentire alcun tipo di separazione. Vive e sperimenta tutto ciò che
vede, odora, sente… con un senso di profonda unione. Non si sente separato da ciò
che percepisce e sente. Percepisce e sperimenta tutto ciò che vive con un senso di
profonda e intima connessione.

Psicologicamente non esiste un “io”, non esiste un centro percettivo differenziato che
gli permette di distinguere sé stesso da ciò che sta sperimentando. Tecnicamente
possiamo dire che è in tutto ciò che vive e sperimenta. Cosa significa in concreto?

Quando un adulto sente mal di pancia, il suo vissuto è “io sento il mal di pancia”. Un
neonato, non avendo un io ancora formato, sperimenta tutto essendo ciò che vive,
senza separazione. Il neonato con il mal di pancia vive l’esperienza di essere
quell’insieme di sensazioni spiacevoli chiamate mal di pancia. Tutto viene vissuto in
questo modo: direttamente.

È un’unione “grezza”, è una fusione esistenziale con tutto ciò che viene vissuto. Il
mondo sia esteriore che interiore è vissuto con questa particolare esperienza soggettiva.
Definisco quest’esperienza “grezza” perché il neonato è completamente aperto e
in unione, ma non avendo un centro individuato ma non può riconoscerlo.

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Possiamo definire questa prima stazione di sviluppo come “essere tutto, senza
saperlo”.

Da leggere » Primo respiro

La nascita di un io
Con la crescita del neonato lo sviluppo fisico prosegue, maturano nuove competenze, c’è
una crescita corporea notevole e una sempre maggiore maturazione del sistema
nervoso.

Ma cosa accade dal punto di vista interiore? Ad un certo punto accade un evento
straordinario, la nascita di un centro percettivo differenziato. Tecnicamente
viene definita: individuazione, la differenziazione interiore tra sé e ciò che è
altro da sé.

È certamente una maturazione progressiva, ma ha un inizio ben preciso nel tempo


psicologico vissuto soggettivamente. È l’inizio di ciò che cominciamo a definire
“io”, “me stesso”.

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La nascita di un “io”

Molti pensano che nasciamo già così, con un centro psicologico ben definito, ma in
realtà questa nascita psicologica è spostata nel tempo rispetto alla nascita fisica.
Generalmente accade intorno ai 5-6-7 mesi di vita, con chiare differenze individuali.

All’inizio questo “io” è un agglomerato di sensazioni e percezioni,


prevalentemente fisiche ed emotive. Poi si sviluppa sempre di più e arriva ad
includere anche la dimensione mentale, legata al linguaggio e alla definizione degli
oggetti del mondo e della causalità degli eventi.

Non c’è nulla di sbagliato in questa nascita interiore, fa parte della maturazione ed
evoluzione dell’essere umano su più piani esistenziali.

Eppure, quello che normalmente accade è che con la nascita dell’io nasce anche il
senso di separazione: la sensazione soggettiva di sentirsi separati.

L’avere un centro, essere individuato, tecnicamente non include la


separazione. Alla capacità di vivere direttamente, senza separazione, viene sommata
l’abilità di sperimentare e interagire con la vita tramite un centro unificato,
differenziato, completo e in relazione.

Ma questa configurazione è alquanto rara, perché quello che normalmente accade


è che la nascita di un io mette in ombra la capacità di sperimentare
l’unione.
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Riassumendo questi sono i passaggi:

1. Prima ero tutto


2. ora sono qualcosa di definito (un “io”)
3. e in questo essere definito mi sento separato da ciò che è “altro da me” (e
sento questa separazione spiacevole e dolorosa).

Perché accade questo?

La separazione: lo shock narcisistico


L’io nasce sentendosi separato, e percepisce questa separazione dolorosa, come
in una mancanza. L’evento viene chiamato “shock narcisistico”, e rappresenta la
presa di coscienza della propria separazione.

È uno shock perché è doloroso perdere la condizione di unione.

L’io potrebbe nascere semplicemente differenziandosi, mantenendo la


capacità di sperimentare l’unione. Ma invece di differenziarsi come un io
completo viene a differenziarsi come un io frammentato, diviso, dissociato.
Questo è ciò che rende la nascita dell’io dolorosa.

Questo è un concetto chiave da comprendere a fondo, perché è fonte di numerosi


fraintendimenti.

Non è la nascita dell’io ad essere sbagliata di per sé, ma il fatto che questo
sia diviso, ovvero che abbia delle parti dissociate (non sia completamente
integrato).

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Le parti di sé che risultano insostenibili perché troppo intense, o inaccettabili, o
non comprese, o che non sono accolte dalle figure che ci hanno accudito nella prima fase
di sviluppo, vengono spinte fuori dai confini dell’io.

L’io invece di nascere completo nasce diviso.

Nasce con una parte consapevole e con una parte inconsapevole, inconscia,
resistita, dove sono accumulate le parti di sé non integrate.

La nascita di un io diviso

È una parte della nostra psiche che agisce con dinamiche e spinte proprie, a cui non
abbiamo diretto accesso tramite la consapevolezza, e per questo viene spesso definita
come ombra psicologica.

Come vedremo più avanti, tutta la vita può essere vista come una ricerca della
condizione di unione perduta. Ogni cosa che facciamo implicitamente ha questa
spinta come fondamento: il tentativo di ricomporre l’unione.

Per approfondire » L’integrazione della coscienza

Da leggere » I 6 tipi di inconscio

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L’ombra
La spaccatura dell’io in una parte consapevole e una inconscia può essere vista come
un’ombra che cala sulla propria interiorità. Un’ombra che copre alcuni
aspetti di sé non accettabili, oppure troppo intensi da sostenere, oppure
incomprensibili.

Nella realtà fisica un’ombra non fa scomparire qualcosa, ma la cela oscurando la luce
del sole. Allo stesso modo quando qualcosa viene messo nella zona d’ombra della nostra
interiorità questo non scompare, viene solo nascosto. Continua ad agire e ad
emanare i suoi effetti, anche se non è direttamente visibile sotto il riflettore della
consapevolezza.

Si crea una zona cieca interiore che impedisce di agire direttamente su alcune parti
di sé.

Più sono intensi, dolorosi e inaccettabili gli eventi e gli impulsi spinti fuori
dai confini dell’io, più è forte la resistenza nei confronti di questi aspetti
rinnegati di sé, e più è intenso il senso di separazione vissuto.

Il sentirsi separati ha la sua origine nella dissociazione da parti di sé, non nella nascita
di un centro di coscienza differenziato.

L’unione stabile si realizza integrando le parti non integrate.

La mancata comprensione di questo principio è la fonte di due tranelli in cui molti


cadono:

1. Voler permanere nello stato di unione senza lavorare sulle proprie


ombre.

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2. Voler annientare il proprio io perché percepito come fonte di dolore e
separazione.

Da leggere » Il bypass spirituale

L’unione è sempre presente


L’ombra cela l’unità, la nasconde, ma non la può eliminare.

Il fondamento dell’esistenza è (e sempre sarà) un campo di coscienza unificato. Questa


è la natura profonda della realtà e questa è la natura profonda dell’individuo, ovvero di
ciò che sei. Ciò che sei è già intero e completo, è già uno: sei già in unione
profonda con tutto ciò che esiste.

Questa profonda verità può essere sperimentata, anche in modo spontaneo,


più volte nella vita. Determinate vissuti, stati meditativi profondi, eventi particolari o
sostanze possono aprire le porte all’esperienza di unione.

Quello che accade in queste esperienze (che siano spontanee o ricercate


intenzionalmente) è un contatto diretto con la nostra natura più profonda. Un
risveglio della coscienza alla sua natura fondamentale: l’unità, la
completezza e l’interezza.

Questa condizione è destinata a scemare nel tempo senza un adeguato


lavoro sull’ombra. Senza integrare le parti di sé non accettate e non riconosciute,
queste continueranno a proiettare la loro ombra e a celare l’esperienza di
unione.

Le ombre si possono scavalcare temporaneamente, ma scavalcandole non


vengono eliminate. C’è bisogno di un processo di integrazione, di portare la luce
della consapevolezza su queste parti non riconosciute. Allora l’ombra che cela l’unità

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soggiacente scompare e resta manifesta la verità fondamentale dell’esistenza.

Il fenomeno ricorda quello che accade durante un’eclisse: la luce del sole viene oscurata,
non viene eliminata. Durante l’eclisse viene semplicemente occultata, ma il sole
continua ad emanare la propria luce.

Allo stesso modo la dissociazione di parti di sé crea la quella spaccatura che nasconde
l’unione sottostante, come nell’eclisse.

Integrare la propria ombra è il processo che permette di spostare ciò che


occulta l’unione. La luce, che sempre è stata presente, torna visibile, torna ad
irradiare perché questa è la sua natura.

Per approfondire » Da stato di coscienza a stadio di coscienza

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Energia radiante – Energia del vuoto


Lo shock narcisistico, ovvero la nascita di un io diviso, cambia il rapporto con la
vita e la configurazione energetica dell’individuo.

Nasciamo con un’energia radiante, cioè che irradia. Così come un sole emette
luce partendo da sé e questa fa risplendere ciò che tocca, allo stesso modo l’individuo,
essendo completo e integro in sé, emana la sua energia e irradia ciò che incontra.

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Essere completi emana un’energia radiante

La separazione inverte questo processo energetico: l’individuo sentendosi incompleto


non può irradiare. Si genera una configurazione energetica (energia del vuoto) che
assorbe energia dall’esterno per cercare di colmare quella parte che si
sente mancante.

E questa configurazione è destinata a fallire in partenza, non può avere successo: non ci
sarà mai nulla fuori che può riempire il vuoto dentro.

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La separazione crea un’energia del vuoto che assorbe energia per sanare l’incompletezza

Come un buco nero attrae a sé e fagocita tutto ciò che gli orbita intorno, allo stesso
modo l’incompletezza si alimenta delle energie di ciò con cui entra in
contatto. Un buco nero cresce grazie a ciò che lo alimenta. Allo stesso modo
l’incompletezza alimentata tramite l’energia del vuoto non scompare, ma si
rinforza sempre di più. La separazione cresce e si rinforza invece che sanarsi.

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Proiezioni
La dissociazione è una mancata integrazione di parti di sé, non accettate, non
riconosciute o troppo intense per essere sostenute consapevolmente. Quando queste
parti di sé rinnegate vengono spinte fuori dal confine dell’io, ecco che si innesca un
processo psicologico particolare: la proiezione di queste parti di sé all’esterno,
su persone, cose ed eventi della vita.

Le parti di sé non integrate vengono proiettate all’esterno

Ciò che ci accade e le persone e gli eventi con cui interagiamo non vengono vissuti in
modo neutro, ma vengono distorti da questo meccanismo proiettivo. Non vediamo la
realtà per quella che è, ma la vediamo colorata dalle parti di noi stessi che
non riconosciamo come nostre.

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La proiezione agisce come un filtro che colora la realtà percepita

Cerchiamo di comprendere questo passaggio con un esempio: incontri una persona per
strada che ti guarda, magari per un tempo più lungo del “normale”. Di per sé è un
evento neutro, qualcosa che è accaduto e non ha un significato intrinseco. Se però è
attivo il meccanismo proiettivo ecco che potresti vivere questo sguardo in modo
tutt’altro che neutro. Potresti viverlo con l’interpretazione del tipo “mi sta giudicando”.
Oppure “mi sta sfidando”, oppure… “vuole farmi del male”. In realtà quello che è
accaduto è che stai vedendo su questo gesto una tua ombra proiettata: il tuo
giudicare, il tuo atteggiamento di sfida o il tuo impulso all’aggressione. Non
riconoscendoli in te li vedi fuori da te e li percepisci come reali.

Come vivrai questo evento dipende da cosa proietti sulla realtà che esperisci. Quello
che proietti è determinato da ciò che non hai integrato in te, dalle tue
ombre piscologiche.

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La realtà funge da specchio: mostra le parti di sé messe in ombra

L’aspetto difficile da superare è che questo meccanismo proiettivo è trasparente


per chi lo vive. Chi lo vive percepisce che quello sguardo minaccioso o sfidante è la
realtà fattuale delle cose, quando in verità è una costruzione dovuta dalla somma di
quello che viene vissuto più il colore delle proprie ombre proiettate.

Il falso sé compensatore

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Come abbiamo visto la dissociazione da parti di sé alienate e rinnegate genera un
senso di incompletezza: un sentire profondo e radicato di “non essere
completo”. Di riflesso, la dinamica che si viene a generare è quella di cercare fuori
da sé qualcosa che completi questa mancanza. Viene attivata una spinta
compensatrice.

Questa spinta alimenta costantemente una forza che cerca la completezza nel
raggiungimento di uno status, ovvero nell’ottenimento di un obiettivo. Una spinta
sempre orientata al futuro nel tentativo di compensare la parte mancante: viene definita
falso sé compensatore.

Viene chiamato in questo modo perché è contraddistinto da queste tre caratteristiche:

1. È intrinsecamente falso perché basato su un dato errato: la separazione


(falso)
2. È talmente radicato che le persone sentono che questa è la loro identità.
(Sé)
3. È una spinta che agisce per compensare una mancanza (compensatore).

Quanto più è dolorosa la separazione tanto più è forte la dissociazione, e questa


intensità si riflette nella forza propulsiva del falso sé compensatore.

Traducendo il tutto in un concetto sintetico: più ti senti separato più sarai spinto
a fare qualcosa per essere completo.

Ma partendo da un dato errato (sentirsi separati) questa spinta è destinata a non


raggiungere mai il suo scopo.

Ma non solo, ogni volta che raggiungi quello status che inizialmente aveva in
sé la promessa implicita della completezza ti senti ancora più incompleto,
perché hai confermato il dato di partenza errato.

Da una falsa premessa non può derivare una conclusione corretta.

Inautenticità
Ogni volta che qualcosa viene messo in ombra, si genera una falsatura della
propria espressione, si perde un frammento di autenticità. Perché accade
questo?

Perché per mettere qualcosa in ombra bisogna celarlo dalla luce della
consapevolezza, e quindi nascondere la verità. La conseguenza è una falsatura.
Celando parti di sé, si genera un senso di sé falsato, non autentico.

Questo si traduce con l’incapacità di sentirsi completamente veri e trasparenti,


sia nelle relazioni ma anche nei confronti di sé stessi.

Comprendere questo è importante, perché come vedremo uno dei passaggi chiave per
15/26
integrare le proprie parti dissociate è invertire questo processo: ripristinare la
verità.

Come integrare l’ombra


Abbiamo visto una dinamica importante: la genesi della dissociazione e abbiamo
compreso molte delle sue implicazioni.

Come possiamo intraprendere un percorso inverso, che porti verso l’integrazione delle
proprie parti messe in ombra?

Ci sono una serie di passaggi interiore da compiere.

A) Interrompi la proiezione e ferma il falso sé compensatore


Il falso sé compensatore agisce in modo automatico con una spinta a ricercare fuori da
sé qualcosa che ripristini la completezza. Questa spinta automatica sempre presente va
resa consapevole nel momento in cui agisce, va riconosciuta e interrotta. Serve
portare presenza e non agire questo impulso primordiale.

Allo stesso modo va reso consapevole il meccanismo proiettivo: serve accorgersi


del momento in cui stai colorando la realtà con qualche interpretazione reattiva. Di
nuovo è richiesta un’alta dose di presenza consapevole indirizzata nella giusta direzione.

La presenza in questo caso serve come un interruttore per interrompere l’azione.

Fermando la compensazione e la proiezione viene esposto il dolore della


separazione, che è proprio quello che vogliamo integrare.

Per approfondire » Lo stato di trance che le persone vivono

B) Contatta l’incompletezza
16/26
Se interrompi i meccanismi psicologici della compensazione e della proiezione viene
esposto il buco nero dell’incompletezza, quella sensazione sgradevole e
resistita del sentirsi separati. L’attenzione deve ripercorrere a ritroso la spinta
compensatrice e mettere a nudo questo insieme di sensazioni, emozioni,
impressioni.

Invece di allontanarti e compensare, come farebbe il meccanismo automatico reattivo,


c’è bisogno di avvicinarsi con attenzione e con apertura.

C) Integrare
Gli elementi messi in ombra sono carichi di resistenze. Resistere significa “dire
di no”.

Un no psicologico è una forza che invece di accogliere quello che stava emergendo alla
consapevolezza si è opposta. Proprio perché li hai resistiti sono finiti nell’ombra.

C’è bisogno ora di attuare un processo inverso: dire di sì, accogliere quell’insieme
di sensazioni, esperienze, vissuti, fare in modo che possano divenire consapevoli.
Significa stare in contatto con quelle sensazioni sgradevoli consumando le
resistenze nei loro confronti.

Un modo per farlo è quello di definire ciò che stai sentendo.

Definire significa differenziare qualcosa rispetto ad un insieme confuso di


sensazioni. Dove lo senti? Che forma ha? Che cosa fa? … in questo modo lo
differenzi e gli dai una forma.

Ciò che non definisci ti definisce, ovvero agisce senza che tu ne sia consapevole.

17/26
Definendo qualcosa lo rendi un oggetto della tua coscienza. Quello che prima
plasmava la tua identità, ora è divenuto un oggetto interiore con cui puoi relazionarti.
Ciò che è definito può essere integrato.

L’integrazione passa attraverso lo scioglimento di ogni resistenza, e per farlo c’è bisogno
di una identificazione consapevole con quell’oggetto di coscienza ora
definito.

Identificarsi significa diventarlo. Significa assumere quella forma che è stata


definita, sentendo completamente ciò che sente. Una identificazione completa permette
di sciogliere ogni resistenza.

D) Esponi la verità
L’ombra si dissolve sotto la luce della verità.

Integrare qualcosa significa esporla alla luce della consapevolezza essendo


completamente autentici a sé stessi.

Come abbiamo già visto, quando qualcosa è stato espulso dai confini dell’io la verità è
stata celata, e si è creato il falso sé con le sue dinamiche. La cura che permette
di invertire questo processo è la verità.

La verità agisce in due modi e in due tempi diversi nel processo di integrazione
dell’ombra.

1. All’inizio, per accogliere la verità rispetto a quella parte dissociata:


riconoscerla come parte di sé, come un elemento non riconosciuto di ciò che si è.
Possiamo definire questo passaggio come il riconoscere una verità relativa.

18/26
2. Alla fine, per riconoscere la Verità più profonda: la nostra natura di
individui consapevoli, interi e completi, intoccati da questo processo.
Riconoscere la verità dell’essere, ciò che siamo sempre stati e sempre saremo, ciò
che è oltre ogni apparente divisione. Questo è il riconoscimento della verità
assoluta di ciò che siamo nella nostra essenza.

L’essere umano vive questa “duplice natura”. Il processo di dissociazione avviene nel
piano relativo, e come abbiamo visto questo oscura il piano assoluto. Il processo di
integrazione dell’ombra si attua quindi portando la luce della verità sul piano relativo,
ma si conclude nel riconoscimento della Verità di sé (su un piano assoluto).

Il processo 3-2-1-0 di integrazione dell’ombra: riassunto


schematico

Dove c’era un esso, lì io devo divenire.

In questa frase di Freud è racchiusa l’essenza del processo di integrazione


dell’ombra: riappropriarsi di ogni parte di sé rinnegata, divenendola. A
questo aggiungiamo il passaggio conclusivo: riconoscere chi sei veramente,
ovvero la tua natura assoluta e indivisa.

La dissociazione si esplica in questi passaggi:

1. inizialmente qualcosa esiste in prima persona (io)


2. se questo viene resistito non viene riconosciuto come parte di sé ma viene scisso,
si crea con esso una relazione in seconda persona (tu).
3. se viene ulteriormente resistito viene spinto ancora oltre e viene proiettato sulla
realtà, sugli altri, sulla vita. Ci si relaziona con esso non direttamente (io-tu) ma in
un rapporto in terza persona (esso).

19/26
Il processo dissociativo procede da un “io” a un “tu” ad un “esso”.

Per integrare l’ombra serve fare il passaggio inverso, l’abbiamo visto nei paragrafi
precedenti. Qui lo riassumiamo brevemente e schematicamente: processo 3-2-1-0 di
integrazione dell’ombra.

20/26
L’integrazione dell’ombra procede all’inverso: da un “esso” a un “tu” ad un “io”

#3 – Stop
Serve innanzitutto fermare la spinta del falso sé compensatore e interrompere
la proiezione per recuperare un rapporto io-tu con l’oggetto resistito.

21/26
#2 – Definisci
Il passaggio seguente è sentire e definire bene l’oggetto da integrare. Da un
insieme senza forma di sensazioni, impressioni ed emozioni deve essere definito
all’interno dello spazio della tua consapevolezza.

Definire vuol dire differenziare rispetto al resto. In questo modo si crea un


rapporto io-tu con quel particolare vissuto, sensazione, emozione.

22/26
#1 – Identificati
Il passaggio seguente avviene tramite l’identificazione. Con un grande atto di
coraggio si diventa proprio quell’oggetto a lungo resistito. Si scivola dentro quella forma
che prima è stata definita assumendone la forma e le sembianze. Sentendo
pienamente cosa significa essere quell’oggetto. Questo atto di identificazione permette
di sciogliere ogni resistenza nei suoi confronti. L’oggetto che prima plasmava la
percezione soggettiva evapora, come una bolla di sapone che si dissolve.

23/26
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#0 – Disidentificati
Il passaggio conclusivo è il riconoscere l’essere che sei, ciò che sta oltre, la verità
indivisa della tua natura più profonda. Questo appare spontaneamente come
conseguenza di un atto integrativo ben riuscito, ma è buona prassi portarci
intenzionalmente l’attenzione.

Quindi, in conclusione del processo, porta l’attenzione a “chi sei tu” veramente.

Conclusioni
L’integrazione dell’ombra psicologica è un processo di crescita interiore
fondamentale che serve conoscere e padroneggiare per ricomporre la frattura
primordiale della dissociazione di sé. Molti ricercatori interiori si rivolgono alla
meditazione pensano di scavalcare questo passaggio. Sebbene sia possibile
sperimentare l’unione bypassando temporaneamente la separazione, senza un’adeguata
integrazione delle proprie parti dissociate, il permanere nella condizione di unione resta
un’esperienza transitoria.

L’articolo che hai appena letto è un articolo introduttivo all’argomento: ne seguiranno


altri di approfondimento su questo tema. Ti invito, se non l’hai ancora fatto, ad
iscriverti alla newsletterper rimanere aggiornato sui prossimi contenuti pubblicati.

Se ti fa piacere puoi lasciare la tua opinione, o condividere la tua esperienza in merito,


25/26
nei commenti qui sotto.

Bibliografia
Gianpaolo Sasso – La nascita della coscienza
Silvano Brunelli – Nel labirinto della mente
Stephen Wolinsky – La via dell’umano
Ken Wilber – Integral spirituality

26/26
Perché essere consapevole
essereintegrale.com/perche-essere-consapevole

Agostino
Famlonga

Una priorità trascurata


La consapevolezza è una sostanza invisibile che però ha effetti tangibili nella vita
della persona. Se si potesse misurare e quantificare la consapevolezza, potremmo
vedere che più se ne ha, migliore è la qualità di vita.

Eppure, proprio perché intangibile e invisibile, spesso viene trascurata a discapito


di altre priorità.

Perché una cosa di così primaria importanza scivola in secondo piano?

Perché ognuno conosce già sé stesso in una certa misura. Chi più, chi meno,
ognuno ha un certo grado di consapevolezza di sé. Questa viene allora data per scontata,
come se fosse un bene già acquisito e che non necessita di attenzione.

La conoscenza che hai di te stesso è un bene da riconoscere e da valorizzare. E tenendo


questo valore alto, va riconosciuto che questa può aumentare notevolmente,
potenzialmente all’infinito. E gli effetti non riguardano solo il benessere interiore,
ma come vedremo hanno implicazioni in tutte le aree della vita.

1/11
Un valore da coltivare
Quali sono le azioni che permettono di spostare qualcosa nella scala delle priorità?

La prima azione è il riconoscimento della sua importanza.

Questo avviene tenendo l’attenzione sulle implicazioni che la consapevolezza ha


nella tua vita, e l’articolo che stai leggendo ha proprio questo scopo.

La seconda azione è il riconoscere che la consapevolezza non è una proprietà


statica, ma qualcosa che può crescere.

L’essere consapevole non è statico, ma per sua natura dinamico. Non è un sasso inerte,
ma è più simile a una pianta viva, che se coltivata può crescere, fiorire e donare i
suoi frutti.

Vediamo alcuni dei frutti preziosi donati dalla consapevolezza.

2/11
Decisioni giuste per te
La vita presenta innumerevoli bivi e infinite possibilità di scelta. Essere consapevole ti
permette di scegliere ciò che è giusto per te, di scoprire la tua strada.

Dalla conoscenza di sé nasce la possibilità di sapere riconoscere quello che ti


rappresenta, ciò che ti esprime.

Ognuno è diverso e ognuno ha le sue peculiarità ed è chiamato ad esprimerle nella vita.


Se queste non vengono riconosciute e non vengono espresse la persona entrerà in una
condizione di sofferenza interiore molto particolare: una sofferenza esistenziale.

Una ghianda ha in sé la potenzialità di diventare quercia. Se non esprime questa sua


natura fondamentale sentirà che manca qualcosa. Allo stesso modo l’essere umano è
chiamato ad esprimere la sua natura nella vita.

Non è uguale fare il panettiere o fare il pittore o l’insegnante. Non è uguale vivere una
vita con una famiglia o una vita da single. Non è uguale sposare una persona o un’altra.

Come riconoscere ciò che è giusto per te? Solo se conosci te stesso sai ascoltare la tua
voce interiore profonda e riconoscere la tua strada.

Il risultato di questo processo è sentire di essere nel posto giusto e che stai facendo la
cosa giusta per te.

Per approfondire » Scegliere


Da leggere » La vita è mia – Silvano Brunelli

3/11
Riconoscimento dei valori
Un valore è il riconoscimento che qualcosa è importante.

È una “misura” soggettiva: ognuno è portatore di valori diversi dall’altro. E anche


nel tempo i valori personali sono soggetti al cambiamento.

Essere consapevole dei propri valori crea armonia interiore e coerenza nel
comportamento.

Se riconosco l’importanza del curare il mio corpo per la mia salute, ne avrò cura,
diventerà per me una priorità. Nel tempo libero farò attività fisica per mantenere attivo
il suo metabolismo, mangerò cibo che gli permette di funzionare bene, curerò il suo
bisogno di riposo… sono azioni che riflettono il valore che ha per me la cura del corpo.

Se non sono consapevole di questo valore, se non porto in me la sua importanza, le


azioni saranno diverse: nel tempo libero farò altro, mangerò cibo non sano, condurrò
una vita sedentaria…

Se non tengo in me il valore della salute e della cura del corpo ho bisogno di motivarmi
per fare qualcosa in quest’area. Ho bisogno di motivazione per fare attività fisica, devo
usare una volontà ferrea e forzosa per mettermi a dieta, e via di seguito con tutte le
conseguenze del caso.

La consapevolezza del valore mette in moto un’azione naturale e


spontanea, permette di guidare le azioni in modo fluido.

Così come l’acqua scorre naturalmente in discesa, così la consapevolezza del valore
di qualcosa fluisce in modo naturale verso un’azione che esprime quel
valore.
4/11
Per approfondire » Il guidatore e l’elefante

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Azioni finalizzate / Scopo / Perché


Fare qualcosa senza sapere perché lo stai facendo è il presupposto per rendere quello
che fai vuoto di significato. Il risultato è che quell’azione e il risultato che otterrai non
sarà appagante, anche se perfetto nella forma e nell’esecuzione.

Un’azione è finalizzata quando è connessa allo scopo, quello che vuoi


ottenere, e al significato che ha per te quel fine.

Con questi presupposti l’azione sarà appagante di per sé, diventa veicolo di auto-
realizzazione, anche se imperfetta nella sua esecuzione.

Come trovare lo scopo e il significato?

Questo non è intrinseco alle cose che fai, ma è in te, nella consapevolezza che hai di te
stesso.

Solo tenendo l’attenzione su di te puoi rendere evidente ciò che ti esprime e da


questa consapevolezza veicolare azioni che riflettono la tua natura.

Etica naturale
5/11
L’essere umano vive numerose spinte e bisogni.

Il nostro corpo fisico ha una forte spinta biologica legata alla sua sopravvivenza. La
mente e le emozioni veicolano questa spinta in azioni, sentimenti e strategie che
permettono all’essere umano di sopravvivere nell’ambiente in cui vive e all’interno delle
relazioni con cui interagisce.

Questa spinta alla sopravvivenza e le strategie messe in atto dal nostro corpo, dalle
nostre emozioni e dalla mente agiscono nella vita con una dinamica competitiva. In
questo scenario sono contemplate la slealtà, la falsità e l’inganno.

Fa parte della natura biologica e dell’istinto di sopravvivenza animale. La sogliola si


mimetizza tra la sabbia del fondale e aspetta che le passi vicino la sua preda per
cibarsene.

In questa lotta per la sopravvivenza il fine giustifica i mezzi, anche a


discapito degli altri.

Solo la consapevolezza è in grado di rompere questa dinamica, inserendo una


spinta diversa, quella all’inclusione e alla collaborazione.

L’essere consapevole infatti opera e interagisce nella vita con il principio di unione e
di inclusività.

Riconoscendosi in ciò con cui interagisce, l’essere consapevole permette l’emergere di


un’etica naturale, impersonale, in cui l’inganno e la slealtà non sono
contemplati.

Al tuo corpo fisico non importa se mangi un pasto rubato di nascosto ad un’altra
persona: secerne i succhi gastrici e lo digerisce per ricavarne nutrimento.

Se nel mangiare quel pasto rubato di nascosto sei consapevole di quello che hai fatto
sentirai una sensazione di disagio interiore, perché hai violato un ordine naturale,
sei andato contro dei principi etici intrinseci alla natura delle cose.

Non perché hai violato una legge o un codice morale, ma perché riconoscendo
nell’altro la tua medesima natura, con quell’azione hai ingannato te stesso.

L’essere consapevole permette di uscire dalla dinamica “il fine giustifica i mezzi” e
accende un’altra spinta: consapevole del fine trovo i mezzi che permettono di
realizzarlo rispettando gli altri e collaborando con chi ha lo stesso fine.

Un fine consapevole sommato ad un’azione etica rende la sua esecuzione forte di fronte
alla prova degli ostacoli per la sua realizzazione.

6/11
Risoluzione a molti problemi della vita
Le persone sperimentano nella loro vita una serie di vissuti che vengono percepiti
come “problematici“.

Quando un’intenzione incontra un ostacolo, questo intoppo può essere percepito


come un problema.

Alcuni problemi richiedono l’esecuzione di azioni concrete per essere risolti, mentre
altri si possono sciogliere solamente elevando la propria consapevolezza.

Mi spiego con due esempi.

Voglio andare da casa al lavoro e nel tragitto buco una gomma della mia auto. Se ho la
ruota di scorta e so cambiare la gomma, faccio quello che serve e supero questo
ostacolo. Se la ruota di scorta è sgonfia o se non sono capace di cambiare la gomma
bucata, può emergere il vissuto soggettivo chiamato “problema”.

Di fronte a questo problema ho due vie di risoluzione.

La prima è rinunciare all’intenzione di andare al lavoro. Rinunciare al fine fa


scomparire il vissuto del problema (anche se probabilmente ne creerà altri in
seguito).

Oppure trovo una soluzione pratica che mi permette di cambiare la gomma e di


procedere vero la mia meta: chiedo aiuto a qualcuno che sa cambiare la gomma o
prendo un taxi.

In altre situazioni intervenire con una risoluzione pratica senza avere un


aumento di consapevolezza peggiorerebbe solamente le cose.
7/11
Un ragazzo ha una dipendenza dal gioco d’azzardo e si indebita pesantemente. Questo
debito gli impedisce di pagare l’affitto e crea una situazione problematica. Va dal padre
e chiede aiuto economico per risolvere il problema, e il padre lo aiuta dandogli dei soldi
(intervento pratico per risolvere il problema).

In realtà non è stato risolto nulla, perché se la dipendenza resta attiva dopo poco la
situazione si ripresenterà nella medesima forma e probabilmente con una
maggiore gravità.

La risoluzione a questo tipo di problemi risiede solamente in aumento di


consapevolezza. Solo divenendo più consapevole il ragazzo può sciogliere alla
radice quello che ha generato il problema.

Intervenire con una risoluzione pratica aggraverebbe solamente la


situazione la volta successiva.

Questa dinamica la viviamo nelle singole aree della vita. Molti problemi nelle
relazioni e molti problemi personali si sciolgono solamente elevando la
propria consapevolezza, senza la necessità di fare qualcosa di concreto.

Amore incondizionato
La consapevolezza è qualcosa di invisibile, impalpabile. Non possiamo indicarla e dire
“ecco la consapevolezza”. Possiamo però, vivendola, riconoscerne le sue qualità
essenziali.

Tra queste spiccano l’apertura e l’inclusività. L’essere consapevole possiede queste


caratteristiche, ed essere consapevole permette di incarnarle nella propria
esperienza del momento presente.

8/11
L’esperienza dell’essere aperti e sentirci in unione è proprio quello che
chiamiamo amore.

Questo vissuto interiore può veicolare anche una serie di sentimenti e di emozioni, ma
la radice dell’amore è molto più profonda di un’emozione passeggera o di un
sentimento verso qualcuno o qualcosa: la sua radice è nella consapevolezza
stessa.

Fa parte della natura dell’essere consapevole vivere l’amore in modo


esistenziale, slegato da oggetti o persone come fonti di questo vissuto.

Essendo radicato nella natura stessa dell’individuo, l’amore ha una caratteristica che lo
distingue dalle emozioni e dai sentimenti: è incondizionato, ovvero non dipende
da condizioni esterne.

Fa parte di ciò che sei, è una qualità dell’essere.

Più sei consapevole, più puoi accedere a questo vissuto di apertura e unione e
sperimentare cosa significa “essere amore.”

Per approfondire » Amore perfetto, relazioni imperfette

Completezza esistenziale
L’incompletezza è un senso interiore che esprime questo sentire: non vai bene così
come sei.

Questo vissuto genera una spinta automatica ad essere diverso da come sei. Un
impulso a fare qualcosa per compensare quella parte mancante.

9/11
Le due parti non sono separabili tra di loro: sono una il rovescio della medaglia
dell’altra.

Tanto più il sentire di non andare bene così come sei è forte, tanto più è attiva e forte
la spinta compensatrice a fare qualcosa per essere diverso da ciò che sei.

L’incompletezza origina dal sentire di essere separarti da sé stessi, ovvero dal non
conoscersi completamente, dall’avere delle parti messe in ombra che oscurano la natura
dell’individuo.

Ciò che sei è completo in sé. Questa verità può solamente venire oscurata
ma mai intaccata.

Sei un individuo consapevole, e la parola stessa veicola questa verità. In-dividuo,


cioè indivisibile. Nella tua natura più intima e profonda sei un individuo, un
intero, completo in sé.

La via per la completezza allora non sta nel cercare di riempire la parte che senti
mancante con azioni compensatrici, ma sta nello svelare questa tua natura
essenziale, nel vivere direttamente l’essere che sei.

Conoscere sé stessi e conoscere direttamente la tua natura di individuo consapevole è la


porta di accesso alla completezza esistenziale.

Per approfondire » La completezza esistenziale e l’esperienza diretta di sé

Dal perché al come


Sono molti i frutti preziosi donati dal coltivare la consapevolezza, e in questo
articolo te ne ho elencato alcuni secondo me essenziali.

Riconosciuta l’importanza e il valore della consapevolezza nella propria vita emerge il


quesito: come divenire più consapevoli?

Una risposta pratica, concreta, quantomai efficace per questa esigenza è


l’Intensivo sull’Essere Consapevole, un corso residenziale della durata di tre
giorni interamente dedicato a conoscere di più sé stessi.

Essere più presenti, conoscere sé stessi e sperimentare in modo diretto le


verità essenziali su “chi sono io”, “che cos’è la vita” e “l’altro essere umano” sono i
fini di questo percorso di auto-indagine.

Il metodo di ricerca dell’Intensivo ha dimostrato sul campo la sua efficacia


nell’elevare la consapevolezza.

Nei 35 anni in cui è stato praticato in Italia, grazie all’impegno di Silvano e Silvana
Brunelli, ha accompagnato migliaia di persone nel compiere un viaggio dentro loro
stesse per trovare la loro verità più profonda.
10/11
Se senti in te la chiamata a intraprendere questo straordinario viaggio, ti invito col
cuore a partecipare al prossimo Intensivo sull’Essere Consapevole in partenza
a fine ottobre.

11/11
Essere consapevole: due significati essenziali
essereintegrale.com/essere-consapevole-significati

Agostino
Famlonga

Essere consapevole ha due significati: significa sia sviluppare la straordinaria dote


della presenza consapevole che anche conoscere sé stessi. Uno è il pre-requisito
dell’altro: senza la capacità di essere presenti a sé stessi, non possiamo dire
di conoscere veramente chi siamo.

Queste due funzioni si combinano e si rinforzano reciprocamente. Vediamole una alla


volta e poi capiamo come si intersecano tra di loro.

Presenza consapevole
Essere presente significa tenere l’attenzione su di sé.

Semplificando possiamo dire che l’attenzione ha due direzioni: può essere rivolta verso
l’esterno o verso l’interno.

Puoi tenere l’attenzione su un oggetto che vedi, che senti, che percepisci tramite
la percezione dei tuoi sensi.

1/7
Attenzione verso un oggetto

Oppure puoi tenere l’attenzione su Chi percepisce.

In ogni atto di percezione c’è un oggetto che viene percepito e un soggetto


che percepisce.

Essere presenti significa discriminare questi due poli e tenere parte


dell’attenzione su di di sé: su chi sente, chi vede, chi percepisce, su chi sei tu.

Attenzione su di sé

Puoi tenere il palmo della mano rivolto di fronte oppure voltato verso di te, queste sono
due posizioni diverse della mano. Allo stesso modo puoi invertire il flusso
2/7
dell’attenzione da fuori a dentro.

Da un oggetto su cui hai posato l’attenzione verso di te.

L’attenzione può posarsi su un oggetto fisico, una sedia come ho raffigurato


nell’immagine che vedi sopra; oppure su un’emozione, su un pensiero, su una
sensazione del tuo corpo.

Il principio non cambia: in ogni atto di percezione di “qualcosa” c’è la possibilità di


discriminare il soggetto che percepisce dall’oggetto percepito.

Questa capacità di essere presenti può essere qualcosa che accade in modo naturale:
spontaneamente parte dell’attenzione viene tenuta su di sé.

Ma non è così per tutti. Molti conoscono solo una direzione dell’attenzione,
quella estroflessa (rivolta verso l’esterno) e hanno bisogno di sviluppare la capacità di
invertire il flusso dell’attenzione su loro stessi.

Anche chi possiede questa elasticità dell’attenzione e ha la “scintilla della presenza


accesa” può aumentare questa capacità: puoi aumentare la durata, l’intensità, la
purezza dell’attenzione su di te.

Nell’esplorare la tua interiorità c’è un’enorme differenza tra l’avere in mano una
candela, una torcia o un faro da stadio. Cambia la portata di quello che puoi vedere e
riconoscere di te.

E qui entriamo nel territorio del secondo significato di “essere consapevole”, cioè
conoscere sé stessi.

Conoscere sé stessi
La presenza consapevole ci permette di osservare e di sentire ciò che si muove
dentro di noi, di riconoscere gli automatismi, gli schemi di comportamento
condizionato e di interromperli, di accogliere le emozioni, di portare ordine e
armonia tra i nostri bisogni e desideri e di riconoscere i nostri fini esistenziali.

Abbiamo bisogno di portare la luce della consapevolezza su tutte queste nostre spinte
interiori: di riconoscerle, di accoglierle e di integrare tutto questo in un insieme
armonico.

L’aspetto straordinario di questo passaggio è che più portiamo consapevolezza sulla


nostra interiorità, svelando ciò che è vero e ciò che è falso, più ci radichiamo nella verità
di noi stessi, più si accende la capacità di essere presenti.

Queste due azioni interiori si rinforzano reciprocamente. Essere presenti è il pre-


requisito per conoscere sé stessi e più conosci te stesso più sei presente in
modo “naturale”, spontaneo.

3/7
L’ordine interiore libera energia vitale e quest’energia liberata si trasforma in
presenza consapevole.

Perché accade? Perché la conoscenza di sé stessi libera energia vitale?

Disordine interiore
Immagina di muoverti al buio in una stanza disordinata, piena di oggetti
sparpagliati in modo caotico. Nel momento in cui vuoi andare da una parte ad un’altra
della stanza ti trovi a dover spostare ciò che ostacola il tuo percorso, a scavalcare
o aggirare qualcosa che non riesci a spostare, a inciampare in qualche oggetto di cui
nemmeno sapevi l’esistenza.

Il disordine impedisce il flusso lineare da un punto all’altro della stanza.

La medesima dinamica si manifesta a livello interiore.

Quando una persona non conosce sé stessa “abita” una stanza buia disordinata e
caotica, piena di oggetti sconosciuti e spesso ingombranti, che le impediscono di
allineare intenzioni, pensieri e azioni.

L’inconsapevolezza genera incoerenza proprio per questo motivo. La persona


pensa A e agisce in modo in modo opposto B. Vuole andare da un punto all’altro della
stanza ma inciampa su qualcosa che non conosce e si trova dalla parte opposta senza
averlo inizialmente voluto.

Oltre a deviare le proprie intenzioni, il disordine interiore spreca energia. Invece


di agire con coerenza e con il minimo sforzo necessario, la persona si trova a sprecare
un mare di energia nel gestire le spinte interiori discordanti e gli ostacoli e le
resistenze che incontra.
4/7
Consapevolezza e integrazione
Conoscere sé stessi significa accendere la luce della stanza, osservare quello che
c’è e creare ordine. Significa lasciare andare quello che non serve più e tenere
quello che è vero, utile e funzionale.

Più la luce della consapevolezza è forte, più posso vedere con chiarezza ciò che c’è nella
stanza, anche negli angoli più bui. È il processo dell’integrazione della coscienza che
mette in ordine ciò che c’è dentro di noi.

L’integrazione è il collegamento di elementi differenziati in un insieme coeso.

La capacità di essere presente permette di differenziare ciò che c’è nella stanza.
Conoscere sé stessi significa mettere ordine, unendo e collegando ciò che c’è nella
stanza nel creare un insieme coerente e funzionale.

Per approfondire » Il processo integrativo della coscienza

L’effetto di una stanza ordinata è duplice:

1. Puoi spostarti da un punto A ad un punto B in modo lineare, fluido, senza ostacoli.


2. Usando il minimo di energia necessaria.

Questo è l’effetto straordinario che ha la conoscenza di sé stessi: la capacità di


allineare intenzioni-pensieri-azioni in un movimento fluido e che impiega
la minima energia necessaria al risultato.

Conoscenza diretta di sé

5/7
Ma la conoscenza di sé stessi va anche oltre questo: può culminare con la conoscenza
diretta dell’essere che sei.

Non dimentichiamoci che la consapevolezza non è qualcosa che hai, è ciò che
sei.

Non hai la consapevolezza, ma tu SEI un individuo consapevole. Quindi essere


consapevole significa radicarsi nell’essere, semplicemente essere.

Conoscenza diretta dell’essere

La conoscenza diretta di sé integra la divisione tra soggetto che percepisce e


oggetto che viene percepito. Appare la condizione di unione sottostante: un
monopolo di coscienza indifferenziata.

Questa esperienza dona un senso profondo di completezza esistenziale perché va a


rinsaldare il senso di separazione, quella spaccatura fondamentale che fa sentire
separati da sé stessi e dalla vita.

La conoscenza di sé passa attraverso l’integrazione dei significati ma culmina in ciò che


sta oltre ogni significato: l’essere. E questa conoscenza apre le porte a un’infinità di
scoperte esistenziali.

Questo è lo scopo della ricerca interiore: essere consapevole, conoscere sé stessi e


conoscere direttamente le verità essenziali su chi sei tu, su che cos’è la vita
e sull’altro essere umano.

Per approfondire » Intensivo sull’Essere Consapevole

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Il processo integrativo della coscienza
essereintegrale.com

Agostino
Famlonga

Cosa significa integrare qualcosa?


Si sente parlare spesso di “processo di integrazione” dando per scontato il suo
significato, che a volte scontato non è.

E visto che l’integrazione – e i principi dell’integrazione – sta alla base del nostro
benessere psicologico, fisico e anche relazionale, ci è molto utile comprenderne
i concetti fondamentali.

Andiamo a comprendere in questo articolo cosa significa “integrare qualcosa” e


come riconoscere questo processo all’opera.

Il modo più semplice per farti comprendere cosa significa integrazione è partire dal
risultato finale e poi scomporre questo nei suoi elementi fondamentali.

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Watch Video At: https://youtu.be/TyqXLFIMhk8

Un esempio di integrazione: un coro di voci


Prendiamo un esempio di sistema integrato: immagina di ascoltare un coro. Un
coro è la somma di più voci che si uniscono per cantare assieme una canzone.

Ma un bel coro, o meglio, una bella canzone, non emerge semplicemente ammassando
casualmente un insieme di persone che cantano ognuna per conto suo. Il risultato sarà
gradevole e armonico se le voci si integrano tra di loro.

Un coro armonico è il risultato della corretta integrazione di singole voci.

Singole voci che messe assieme danno origine a qualcosa di più grande della voce
individuale. L’integrazione fa emergere qualcosa che prima non c’era, con
delle qualità e delle proprietà che a livello della singola voce non esistono.

Ecco che possiamo usare questo esempio per vedere i due principi fondamentali
dell’integrazione all’opera: sono la differenziazione e il collegamento.

Differenziare significa mantenere le peculiarità della singola voce. Le


caratteristiche uniche che contraddistinguono il singolo componente del sistema
sono conservate e valorizzate.

La singola voce mantiene il suo timbro e le sue caratteristiche peculiari, e mantenendo


questa sua differenziazione viene connessa alle altre voci in un insieme coeso.

È un collegamento coordinato, non caotico, e funzionale, nel senso che serve ad


uno scopo: “cantare la canzone” in questo esempio.

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Cosa significa integrazione


L’integrazione è -tecnicamente- il collegamento di parti differenziate in un
insieme funzionale.

Oppure, detto in modo meno tecnico: il collegamento di elementi differenziati in


un insieme coeso.

L’integrazione è un principio organizzativo fondamentale intrinseco alla vita:


la nostra mente, il nostro organismo e le nostre relazioni soggiacciono tutte a questo
processo. Ma non solo, è un principio pervasivo della realtà e dell’esistenza in
cui siamo immersi.

Laddove l’integrazione è favorita, il risultato sarà benessere, equilibrio e


armonia. Al contrario, quando l’integrazione è impedita, la risultante sarà una qualche
forma di sofferenza, disequilibrio e disarmonia, sia nella mente, nel corpo fisico o nelle
relazioni.

L’integrazione permette l’emergere di un sistema funzionale. Un sistema è


funzionale quando è coordinato ed equilibrato.

Coordinato significa che le parti sono in interazione tra di loro e agiscono


assieme, non in modo autonomo.

Equilibrato significa che gli elementi che costituiscono il sistema sono equivalenti,
ovvero hanno lo stesso valore. Laddove l’enfasi viene posta temporaneamente su
un elemento, si torna in breve tempo ad essere bilanciati.

Il coordinamento e l’equilibrio generano coerenza e armonia all’interno del


sistema.

All’interno di un sistema integrato infatti il flusso di energia e informazioni è


armonico e sinergico.

Tornando all’esempio del coro: ogni voce ha la sua particolare tonalità ma è in un


flusso armonico con le altre voci (è differenziata e connessa).

L’integrazione crea sinergia tra le parti differenziate e connesse. Sinergia


significa l’emergere di qualcosa di nuovo che è più della somma delle sue parti
costituenti -come nel coro- e potenziamento reciproco dei singoli elementi.

Per coerenza infine si intende lo stato del sistema in cui funzioni diverse vengono
attivate e collegate flessibilmente nel tempo.

Perché l’integrazione è così importante


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Il processo integrativo è il nucleo centrale della salute mentale, fisica e
relazionale. L’integrazione crea benessere, coerenza e armonia.

La capacità integrativa è fondamentale perché è alla base della resilienza, cioè la


capacità di adattamento agli eventi stressanti.

L’integrazione è centrale nella nostra vita emozionale: le emozioni che viviamo


infatti sono un riflesso del cambiamento nello stato di integrazione.

Quelle che vengono definite emozioni positive sono un riflesso dell’aumento dello
stato di integrazione. La gioia, l’apertura, l’espansione e l’entusiasmo si manifestano
in concomitanza con l’aumento dello stato di integrazione.

Viceversa una chiusura, che equivale a diminuzione della funzione integrativa, si


manifesta con l’emergere di emozioni cosiddette negative. Le due componenti,
emozioni e integrazione, sono una il riflesso dell’altra.

Un altro motivo per cui l’integrazione è così importante: l’integrazione è il processo


attraverso il quale evolve la coscienza.

La coscienza si sviluppa in strutture sempre più complesse, in stadi sequenziali di


sviluppo.

Massimizzare l’integrazione permette di salire la “scala” degli stadi di coscienza e di non


lasciare componenti non integrati nel tragitto verso l’alto.

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Per approfondire »
Strutture di coscienza

Differenziare
Abbiamo definito l’integrazione come la differenziazione e il collegamento di più
elementi in un insieme flessibile e coerente. Ma cosa vuol dire differenziare?

Differenziare vuol dire definire una parte rispetto al resto. Significa discriminare
qualcosa da un insieme indistinto.

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Da un mucchio, disordinato e confuso, estraggo e isolo un dato. Lo definisco nelle
sue caratteristiche.

Differenziare qualcosa vuol dire segregarlo, nel senso di isolarlo dal resto. Una volta
definito può poi essere collegato, e la somma di queste due azioni dà luogo
all’integrazione.

La differenziazione può essere di tipo funzionale, temporale, oppure spaziale. Ovvero


posso definire qualcosa in base a ciò che fa (la sua funzione), oppure in base al tempo o
lo spazio in cui si trova.

Collegare
Collegare significa connettere aree o funzioni separate e distinte, oppure
elementi differenti tra di loro.

Il collegamento mantiene la differenziazione, non la elimina. Non è una


omogeneizzazione, ma è una unione funzionale di più parti distinte.

Il collegamento avviene per risonanza, che è l’insieme delle interazioni tra due o più
entità differenziate (e relativamente indipendenti) che si influenzano a vicenda.

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Differenziare e collegare: un esempio
Immagina di aprire una scatola di un puzzle e di stendere i suoi pezzi su un tavolo. Ti
trovi davanti un mucchio di tessere confuso e caotico, indistinto.

Sono una serie di elementi non integrati tra di loro.

Fare un puzzle significa differenziare e collegare i suoi pezzi in un insieme armonico.

Significa prendere un singolo pezzo, e definirlo rispetto al resto


(Differenziazione).

Fa parte del bordo? Di che colore è? Come si relaziona rispetto alle altre tessere? ecc…

Quando l’ho differenziato posso unirlo al resto mettendolo al suo posto


(Collegamento).

L’insieme di tutti i pezzi differenziati e collegati tra di loro crea un insieme armonico
e coeso, il mio bel puzzle completo.

Il puzzle però non è un sistema integrato


L’esempio del puzzle è utile per comprendere la differenziazione e il collegamento, ma
risulta limitata per quanto riguarda l’integrazione, perché il puzzle non è un sistema
integrato.

Perché? Per almeno tre motivi.

Perché un puzzle completato è un sistema chiuso, fisso, rigido.


Un sistema integrato invece è aperto flessibile e si adatta ai cambiamenti di
stato.

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Perché l’esito di un puzzle è determinato a priori: qualcuno ha disegnato
per te il quadro finale prima che tu assembli i pezzi.
In un processo integrativo invece quello che emerge è completamente inedito: c’è
una transizione di stato; emerge una nuova configurazione con proprietà e
funzioni che prima dell’integrazione non esistevano.

Perché il puzzle necessita di un intervento esterno per essere realizzato.


Il processo integrativo invece è una funzione della vita, è una proprietà
intrinseca dei sistemi complessi. È come se le tessere del puzzle, mosse da una
forza auto-organizzante, si sistemassero in modo autonomo nella loro
configurazione ottimale. Questo è ciò che accade nel processo integrativo.

L’integrazione crea equilibrio e stabilità


L’integrazione permette ad un sistema di essere equilibrato e stabile. La stabilità è
garantita sia dalla continuità che dalla flessibilità.

Continuità significa che gli elementi acquisiti precedentemente hanno una forza che
li mantiene coesi nei vari cambiamenti di stato.

Flessibilità significa che il sistema è sensibile alle variazioni di stato e vi si


adatta in modo funzionale.

Continuità e flessibilità sono le due caratteristiche che massimizzano la capacità di


resilienza di un sistema. Un sistema correttamente integrato si adatta in modo
flessibile a ciò che accade ma mantiene la sua coerenza intera in un equilibrio
funzionale.

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La mancata integrazione genera caos o rigidità
Non integrare qualcosa significa non differenziarlo, oppure differenziarlo ma
isolarlo, senza connetterlo con il resto degli elementi che compongono il sistema di cui
fa parte.

Una mancata integrazione porta a una condizione di rigidità o caos. Rigidità significa
scarsa capacità di adattamento, fissità e poca elasticità nell’assorbire i
cambiamenti.

Mentre caos significa disorganizzazione, incongruenza interna e incoerenza.

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Il flusso dell’integrazione

Queste due configurazioni si possono manifestare anche in alternanza tra loro, in


modo oscillatorio (come a volte accade nelle malattie mentali).

L’integrazione è implicata in tutti i processi della vita. In particolare, qui stiamo


portando l’attenzione alle sue dinamiche che concernono la mente, l’organismo, le
relazioni e la coscienza. In questi ambiti esiste un processo psicologico importante da
conoscere: la dissociazione, ovvero la mancata integrazione di contenuti mentali
o di un evento vissuto.

La dissociazione
Quando un evento particolare, un forte vissuto emozionale o una parte di sé non
vengono integrati nella coscienza viene a crearsi una dissociazione rispetto a questa
parte. Una dissociazione è una mancata integrazione, qualcosa è mantenuto
isolato dal resto degli elementi mentali.

Possiamo definire la dissociazione come una dis-associazione. La parte dissociata


infatti è segregata e non connessa al resto.

Un elemento dissociato viene incapsulato, a livello psicologico, da un involucro di


resistenza e viene segregato in uno spazio mentale inconscio.

Per approfondire » Inconscio rimosso

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L’ombra e il falso sé
L’evento, il ricordo, oppure il vissuto emozionale vengono così occultati alla
consapevolezza ma non scompaiono. Restano attivi in una parte della mente
inconscia. L’individuo, pur non potendo accedere direttamente alla parte dissociata (a
causa dell’involucro di resistenza), ne subisce però gli effetti: è la cosiddetta ombra
psicologica.

Viene chiamata ombra sia perché segue costantemente la persona senza che possa
separarsene e anche perché incupisce la sua espressione che perde di brillantezza e
di veridicità.

Infatti, il materiale psicologico dissociato tende ad aggregarsi in modo autonomo e dare


forma ad una struttura inconscia complessa che agisce in modo autonomo e tramite una
serie di automatismi reattivi: viene definito falso sé. Ecco che allora la dissociazione di
più elementi diventa una frattura interiore tra una parte riconosciuta come sé
(quello che viene considerato “io” o “me”) e quello che non è posseduto, ovvero le parti
di sé rinnegate.

Queste parti tendono, tramite il meccanismo psicologico della proiezione, a venire


estroflesse all’esterno.

Altri individui o situazioni infatti possono diventare un “gancio” per poter incollare le
parti dissociate di sé. Ecco che allora quando è attivo questo meccanismo non
vediamo più l’altro per quello che è, ma entriamo in relazione con la nostra
ombra proiettata all’esterno.

Ma questo è certamente argomento per approfondimenti futuri. In questa sede mi


interessa definire solo gli elementi essenziali del processo dissociativo, che -è utile
sottolinearlo- non è altro che una mancata integrazione di qualcosa.
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Mantenere la dissociazione
Restando in tema con quanto detto finora, possiamo definire questo principio: a livello
psicologico quanto più sono numerose le parti di sé dissociate, tanto più persona
manifesterà le due caratteristiche di una mancata integrazione: rigidità o caos.

La rigidità serve a mantenere ben segregate queste parti inconsce, a impedire


che agiscano in modo incontrollato.

Il caos si manifesta invece quando la barriera di resistenza si allenta e i singoli


elementi non integrati agiscono in modo autonomo e non coordinato.

Come già detto, le due configurazioni non si escludono, possono manifestarsi in modo
alternato.

La rigidità infatti serve a mantenere attive le resistenze e consuma energia psichica.


Quando l’energia mentale a disposizione è consumata la barriera psicologica si allenta e
si manifesta la configurazione caotica, con tutte le conseguenze del caso.

Preso atto delle conseguenze del comportamento incontrollato, appena ritorna a


disposizione energia psichica, questa viene investita nel rinforzare ancora di più la
barriera psicologica con le sue resistenze. In questo modo si alimenta sempre di
più la rigidità e la fissità mentale.

Le implicazioni del processo integrativo


Il processo integrativo è implicato in tutti gli ambiti della nostra vita: come
abbiamo visto riguarda in modo peculiare il nostro mondo psicologico, il nostro
modo di vivere gli eventi e di vivere le emozioni, è legato ai traumi e alla
dissociazione mentale.

I principi dell’integrazione sono implicati nella vita relazionale, sia per quanto
riguarda il vissuto dei nostri primi anni di vita dove si viene a formare il nostro senso di
attaccamento (l’integrazione è messa in moto tramite processi diadici di risonanza e
di reciproca con chi si prende cura del bambino), e anche nella vita adulta, dove tramite
la relazione con l’altro possiamo accelerare il processo integrativo.

La relazione stessa inoltre può essere vista come l’incontro di due o più individui che
cercano di integrare loro stessi in un sistema sovraordinato. (vedi La diade relazionale)

L’integrazione è implicata nel processo di comunicazione: la comprensione può


essere vista come un processo integrativo che genera consapevolezza. (vedi il
Paradigma della comprensione)

Ancora: l’integrazione è legata al respiro e alla respirazione, le due cose sono


strettamente connesse e si influenzano reciprocamente. (vedi Respiro Circolare)
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Compresi i meccanismi dell’integrazione li vedrai all’opera ovunque, perché stanno
alla base di come funziona la vita stessa.

I 10 domini dell’integrazione
Vediamo ora brevemente i 10 domini dell’integrazione, ovvero le aree della vita in
cui agisce l’integrazione (saranno oggetto di approfondimenti futuri, qui mi interessa
solo definirli).

1. Integrazione della coscienza


L’essere coscienti di qualcosa implica il processo del conoscere un oggetto: questo
processo si compone di in un oggetto conosciuto, un soggetto che conosce, e il
processo del conoscere. Integrare la coscienza significa prima discriminare e poi
collegare flessibilmente queste tre parti: chi conosce (soggetto), il conoscere (il
processo) e ciò che è conosciuto (l’oggetto).

Per approfondire » Esperienza diretta

2. Integrazione bilaterale
I nostri due emisferi cerebrali si sono specializzati in funzioni e modalità di
elaborazione dell’esperienza diverse tra di loro. Un emisfero è più orientato al
ricevere i segnali interni, l’altro è più orientato all’analisi e al ricevere input dall’esterno
del corpo fisico, uno è specializzato nell’elaborare le emozioni e l’altro ha un
funzionamento prevalentemente lineare, logico e “razionale”… e così via.

Integrazione bilaterale significa differenziare e poi collegare tra di loro queste


diverse funzioni alimentando connessioni collaborative fra questi due modi di
conoscenza basilari ma distinti.

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3. Integrazione verticale
Il nostro sistema nervoso e in particolare il nostro cervello possiede una configurazione
a “strati”, dove vari livelli di complessità manifestano proprietà diverse.

Semplificando molto: possediamo un cervello “primitivo” che si occupa delle


funzioni vitali, un cervello “emotivo” che si occupa di elaborare le emozioni e di
creare il sistema di attaccamento e possediamo la neocorteccia che permette di
elaborare informazioni di secondo ordine.

Integrazione verticale significa differenziare e collegare queste diverse parti: cervello


viscerale, tronco encefalico, sistema limbico e neocorteccia. Viene definita
integrazione verticale perché queste strutture (e le loro funzioni) sono anatomicamente
poste in una gerarchia che va dal basso verso l’alto.

Per approfondire » I primi 3 stadi di sviluppo

4. Integrazione della memoria


Integrazione della memoria significa rendere manifesti i ricordi non consapevoli
e connetterli agli altri ricordi che danno forma alla memoria esplicita e
autobiografica.

5. Integrazione degli stati


Per “stato” si intende la condizione in cui ti trovi in un determinato momento. Puoi
trovarti per esempio in uno stato emotivo particolarmente aperto e su di giri o viceversa
in uno stato di down. Integrare gli stati significa riconoscere questi stati, accoglierli
connettendoli tra di loro. Per integrazione degli stati si intende anche la
differenziazione e la reciproca connessione dei diversi stati di coscienza che viviamo
come esseri umani.

Per approfondire » La straordinaria avventura tra gli stati di coscienza


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6. Integrazione narrativa
Integrazione narrativa significa creare una narrazione coerente della storia della
propria vita, integrando la spiegazione logica causa-effetto degli eventi con il
proprio vissuto emotivo e affettivo nei confronti di essi.

7. Integrazione interpersonale
Integrazione interpersonale significa passare da un senso di “me” a un “noi”.
Questo passaggio richiede la differenziazione di un sé individuale e la sua messa
in rete con altri individui, mantenendo e rispettando le differenze individuali e
creando il contesto per un reciproco riconoscimento.

Per approfondire » La diade relazionale

8. Integrazione temporale
Abbiamo la capacità di creare delle mappe temporali nella nostra mente, dove eventi
si configurano sull’asse del tempo passato-presente-futuro. Integrazione
temporale significa differenziare e connettere gli elementi o gli eventi sulla mappa
temporale.

9. Integrazione del processo integrativo


Sembra un giro di parole ma non lo è. L’integrazione del processo integrativo emerge
dopo che si hanno differenziato i vari domini dell’integrazione. Allora, proprio
grazie alla dinamica dell’integrazione emerge una struttura sovraordinata,
derivata dalla connessione di tutti i domini.

Emerge un processo integrativo che include tutti i domini in senso verticale e


orizzontale, includendo anche il senso di identità personale, che non risulta più
limitata a qualcosa di definito, ma si identifica con il processo stesso. Si scioglie così
il vincolo di una identità limitata e l’identità si apre ad una condizione illimitata
(dotata di infinite potenzialità di integrazione in quanto il processo è ora in grado di
integrare in modo indifferenziato ogni oggetto “altro da sé”).

Per approfondire » Spettro evolutivo

10. Integrazione dell’Individualità Consapevole


L’individualità è ciò che siamo a livello fondamentale, essenziale. È l’essenza di ciò che
siamo: un essere che è, e che sa di essere, e che non si riconosce come entità
separata, ma come entità integrata nell’esistenza stessa (individuata e in
relazione).

Integrare l’individualità consapevole passa attraverso il primo dominio che abbiamo


visto (l’integrazione della coscienza, in cui si discrimina il processo conoscitivo soggetto-
oggetto) e prosegue nell’oggettivizzare in modo ricorsivo il soggetto del conoscere. Detto
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in modo più semplice, significa rendere sempre più consapevole l’essere che sei,
discriminando “chi conosce” da ciò che è conosciuto.

Per approfondire » Intensivo sull’Essere Consapevole

Una vita integrata


In conclusione di questo importante articolo ti invito a riconoscere il processo
integrativo all’opera ovunque, attorno a te e in te. Ti invito ad aprirti a questo
processo e a farne parte sempre di più.

Più ti apri al processo integrativo più ti rendi conto che è fondamentale


all’esistenza stessa (fondamentale nel senso che ne è fondamento).

L’invito è quello di vivere sempre di più una vita integrata, in ogni sua
dimensione. Questo permette di vivere una vita più in armonia con come le cose sono.

Citando Daniel Siegel:

“l’esito finale di una vita integrata è imparare ad essere flessibili e pienamente presenti, e
a essere gentili e compassionevoli con gli altri e con noi stessi.”

Bibliografia

Daniel Siegel – Neurobiologia interpersonale


Gherardo Amadei – Come si ammala la mente
Silvano Brunelli – Teoria dell’essere I & II
Teoria dell’informazione integrata

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I 4 livelli dell’intuizione
essereintegrale.com

L'intelligenza intuitiva possiede quattro funzioni distinte e si sviluppa in modo


sequenziale seguendo questi quattro livelli.

L’intelligenza intuitiva
L’intuito è un linguaggio sottile che è utile imparare ad accogliere e decifrare.

Così come possediamo un’intelligenza che possiamo definire razionale, così siamo dotati
di un’intelligenza intuitiva.

L’intuizione ci parla attraverso un linguaggio non-razionale, e proprio per questo a


volte i messaggi dell’intuito collidono con la nostra componente logica e razionale.

L’intelligenza intuitiva spesso risulta sottosviluppata rispetto alla logica e la


ragione.

Come giustamente diceva Albert Einstein:

“La mente intuitiva è un dono sacro e la mente razionale è un servo fedele. Abbiamo
creato una società che onora il servo e ha dimenticato il dono”.

Raramente infatti riceviamo un’educazione che ci insegna a dare ascolto all’intuito.


Anzi, spesso riceviamo dei rinforzi in senso opposto: ovvero ci viene consigliato di essere
il più possibile razionali.

Tutto ciò che non rientra nei parametri logici della ragione tende a essere “degradato”
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ad un livello di importanza inferiore.

L’intuizione invece ha un ruolo complementare e fondamentale: è un sistema


di “guida” che ci assiste nello scegliere le esperienze della vita e ci assiste con profonda
saggezza. La difficoltà sta nel saper cogliere e decifrare i messaggi che la bussola
interiore dell’istinto ci invia.

Quando l’intelligenza intuitiva è ben sviluppata può darci una direzione verso le scelte
giuste per noi, può fornirci idee brillanti ed essere una fonte preziosa di creazioni
innovative.

Vediamo come si sviluppa l’intelligenza intuitiva in una scala a 4 livelli.

Livello 1 – Istinto di pancia


L’istinto di pancia è basilare, grezzo e binario: cioè tende a inviare i suoi
messaggi tramite sensazioni contrapposte. Sì o no, buono o cattivo, sicuro o
pericoloso…

L’istinto si manifesta come una spinta pre-verbale (cioè che viene prima delle parole) ad
agire in un certo modo o a compiere una determinata scelta.

È una dote naturale che possediamo come esseri umani e ne va riconosciuto il valore.

Alcune persone sono particolarmente ricettive nel cogliere i segnali dell’istinto, altre
meno. La mia esperienza è che questo va di pari passo allo sviluppo della capacità di
sentire.

I messaggi dell’istinto si ricevono tramite due azioni interiori: l’apertura e il sentire.


Ecco che chi ha ben sviluppato queste due abilità interiori si sintonizza più facilmente su
ciò che sente a livello istintivo.

Da leggere » Istinto e intuito, qual è la differenza?

I limiti dell’istinto
Pur essendo una fonte di preziose informazioni e di risposte rapide alle
situazioni, va riconosciuto che l’istinto ha anche due grossi limiti:

1. può essere facilmente condizionato


2. spesso associato a pulsioni primordiali “grezze” che garantiscono la
sopravvivenza ma non sempre sono costruttive e orientate verso una risposta
consapevole agli eventi.

I condizionamenti possono derivare da due fonti.

1. degli eventi significativi della tua storia passata che lasciano una traccia in
ciò che senti ora
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2. dei condizionamenti esterni mirati a modificare il tuo comportamento

Un esempio del primo tipo: immagina una donna che ha subito una violenza da parte di
un uomo. Facilmente il suo istinto la spingerà ad entrare in allerta quando
incontra una figura del sesso opposto, anche in assenza di pericolo oggettivo. È un
condizionamento limitante che risiede nella mente condizionata e agisce in
forma istintiva, reattiva e automatica e se questo residuo non viene pulito rischia
di dare una direzione ben precisa alla vita di questa persona. Senza nemmeno sapere il
perché, istintivamente potrebbe essere deviata da delle opportunità positive.

I condizionamenti in tempo reale invece sono degli stimoli esterni che agiscono a
livello istintivo per farti compiere un’azione. Pensa a tutte le strategie di
pubblicità e di neuromarketing che inviano messaggi mirati alla tua parte più
“primitiva” per fati acquistare istintivamente un prodotto.

Quando compiamo un acquisto spesso agiamo d’istinto, ovvero diamo ascolto alla
pancia o all’emotività, e solo dopo giustifichiamo razionalmente l’acquisto fatto (a
posteriori creiamo il motivo razionale dell’acquisto). Abbiamo l’illusione di
agire razionalmente, ma le ricerche mostrano che il processo agisce con una sequenza
opposta, partendo dall’impulso istintivo o quantomeno dall’emotività.

Attributi dell’Istinto di pancia


Sicurezza
Difesa
Sopravvivenza
Rapidità

Livello 2 – Intelligenza del cuore


Il cuore è dotato di una sua peculiare intelligenza e saggezza. Un tipo di intelligenza
intuitiva che apre alla compassione e alla cura dell’altro, ti spinge a connetterti alle
forme di vita dell’ambiente che ti circonda e a creare legami.

Ti spinge ad intraprendere le azioni che richiedono coraggio e a superare i limiti


della paura. L’intelligenza del cuore ti guida nel comunicare in modo adeguato un
messaggio agli altri, o a fare la cosa giusta tenendo in considerazione il contesto e le
relazioni coinvolte nelle esperienze in cui sei coinvolto.

L’intelligenza del cuore ti spinge alla ricerca della bellezza e alla scoperta della gioia
di fare ciò che ami fare.

L’intelligenza del cuore ti porta ad andare oltre i limiti personali allo scopo di fare
del bene nella tua vita e all’interno delle tue relazioni.

Blaise Pascal ha sintetizzato tutto questo nel famoso aforisma:

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Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce.

Può sembrare che questa citazione faccia riferimento ai sentimenti, ma invece punta
l’attenzione proprio a ciò di cui stiamo parlando: all’intelligenza intuitiva del
cuore.

La saggezza del cuore non è un sentimento, è una vera e propria forma di


intelligenza, e ha una componente non-razionale, intuitiva appunto.

È quella forza che ti dice di andare oltre una paura quando sai che quello che stai per
fare porta del bene nel mondo. Che ti fa agire con un moto di amore superando il
primordiale istinto di conservazione.

Attributi dell’intelligenza del cuore


Coraggio
Compassione
Comunicazione
Connessione

Livello 3 – Potere visionario


Questo è il livello di intuizione dove si originano nuove idee e schemi di
pensiero, dove vengono create soluzioni innovative e alternative per fare le cose.

Generalmente quando si pensa all’intuizione si fa riferimento proprio a questo livello,


che opera con un processo sintetico-intuitivo.

Sintetico perché mette in atto una sintesi (unione di più parti), e intuitivo nel
vero senso etimologico del termine: vedere dentro.

Questo tipo di intuizione è associata alla vista perché opera spesso sotto forma di
immagini e queste intuizioni vengono a volte percepite come “ visioni“, o come
“illuminazioni“.

La tradizionale lampadina che si accende nella mente associata allo scaturire di


un’idea geniale fa proprio riferimento a questo fenomeno. Non si tratta solo di una
caricatura fumettistica.

Nell’immaginario collettivo della lampadina c’è un riferimento all’esperienza


soggettiva del divenire consapevole del processo sintetico-intuitivo in cui
emergono immagini dense di significato che aprono a scoperte inedite, o
percezioni e previsioni di ciò che potenzialmente potrebbe accadere in determinati
contesti.

Si tratta di immagini mentali, cariche di energia vitale, che spesso vengono percepite
con spiccata lucidità e chiarezza (di qui l’associazione alla lampadina che si
accende).
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Per approfondire » Le 4 qualità dell’esperienza (chiarezza)

Questo livello di intuizione viene anche comunemente definito “ sesto senso“. Con
questa definizione si punta l’attenzione al fatto che si può intuire qualcosa senza che
questa sia collegata ad una percezione sensoriale derivante dai tradizionali
cinque organi di senso.

Quando questo canale intuitivo è aperto e ben sviluppato si integra spesso con la
facoltà di avere sogni lucidi, e permette di accedere tramite queste esperienze a
elaborazioni profonde dei contenuti dell’inconscio.

Attributi del potere visionario


Immaginazione
Certezza visionaria
Creatività

Livello 4 – Saggezza universale


Il quarto livello di intelligenza intuitiva permette di agire la forza impersonale
connessa al campo di coscienza condiviso.

È un livello di intuizione non-duale in cui non solo si è consapevoli delle


interconnessioni della rete della realtà, ma l’io individuale scioglie i suoi
confini divenendo la rete stessa e diventa agente di questo campo di forza,
allineandosi con la fonte universale di saggezza e intelligenza e accedendo ad una alta
forma di creatività e di intuizione impersonale.

Il vissuto soggettivo di questo tipo di intuizione è l’accesso ad una vasta rete di


informazioni, non legate allo spazio e al tempo, da cui emergono in modo autonomo e
sincronico le risorse, la conoscenza e la forza necessari per agire con certezza e
immediatezza nell’esperienza che si sta vivendo.

Attributi della saggezza universale


Consapevolezza universale
Coscienza dell’unità
Forza transpersonale

Le 4 qualità dell’intuizione si integrano tra di loro


I quattro livelli dell’intuizione sono come una scala: si percorrono e si sviluppano in
una sequenza progressiva.

A differenza di una scala però un gradino non esclude l’altro. Ogni gradino
include e trascende quello precedente; aggiunge proprietà e funzioni diverse, ma

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non spegne e non soffoca quello che viene prima: lo integra in un sistema più
ampio, in costante comunicazione bi-direzionale verso l’alto e verso il basso.

Ogni gradino infatti ha le sue peculiari funzioni, utili e indispensabili per garantire un
funzionamento armonico dell’intera scala.

Va riconosciuto che abbiamo la possibilità di accedere, in modo transitorio,


alle funzioni di tutti i livelli, anche se i canali o le funzioni “che precedono” non
sono completamente sviluppati e integrati.

Detto con un esempio: puoi essere tendenzialmente molto istintivo (una forte
connessione con il tuo istinto di pancia) ed avere comunque un accesso temporaneo ad
una intuizione creativa (potere visionario), anche se sei completamente sordo rispetto
all’intelligenza del tuo cuore.

Questo è piuttosto comune, ma va visto come uno sviluppo incompleto delle facoltà
intuitive.

Ti invito a concepire i quattro livelli come una scala, e ogni gradino-livello-funzione


quando è ben sviluppato diviene accessibile in modo stabile e permanente. Da stato
transitorio diventa una funzione integrata.

Per approfondire » Da stato di coscienza a stadio evolutivo

La tua capacità intuitiva


Ho delineato una sequenza di 4 livelli di intuizione cercando di definirne le
caratteristiche principali secondo la mia esperienza personale. Mi piacerebbe avere un
confronto con la tua esperienza in merito.

Qual è il tuo vissuto personale rispetto a queste 4 funzioni dell’intuito?

Qual è il tuo “baricentro”? Ovvero… quale funzione intuitiva senti che predomina nella
tua vita?

Se ti fa piacere lascia la tua risposta nei commenti qui sotto l’articolo.

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Agostino Famlonga

Agostino Famlonga è l'ideatore e il curatore di essereintegrale.com. Laureato in scienze


e tecniche psicologiche è appassionato di meditazione, scienza e non-dualità.
Conduttore del seminario Intensivo sull'essere consapevole e del corso Abilità nella vita.
Formazione Centro Studi Podresca. Per saperne di più...

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L’adolescenza, tra sfide e opportunità
essereintegrale.com/adolescenza

Agostino Famlonga

I miti dell’adolescenza
L’adolescenza è una fase della vita ricca di eventi significativi. È un periodo denso di
tappe evolutive che se affrontate in modo corretto diventano il trampolino di lancio
per tutto quello che verrà dopo. A volte però l’adolescenza diventa fonte di
disorientamento, sia per l’adolescente che la vive in prima persona che per l’adulto che
convive con le trasformazioni in atto ed è chiamato a trovare nuove modalità di
interazione.

Questa intensa fase evolutiva, caratterizzata da uno straordinario potenziale formativo, è


stata in passato interpretata e vissuta in modalità poco funzionali, sia da parte degli
adulti che degli adolescenti. Esistono una serie di falsi miti attorno a questi anni di vita,
che nel tempo sono stati smontati dalle ricerche scientifiche in questo campo. Sono false
credenze che possono indurre a comportamenti poco adatti o addirittura ostacolare un
corretto accompagnamento delle tappe di sviluppo. Vediamo alcuni questi miti.

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Mito #1: Gli ormoni fanno andare fuori di testa i ragazzi
Lo sviluppo ormonale in questa fase di vita subisce una profonda trasformazione. Una
credenza piuttosto diffusa è che siano proprio gli ormoni a creare le turbolenze
adolescenziali. Pur influenzando il manifestarsi di determinati tratti e specifici
comportamenti, è ormai noto che l’influenza ormonale è molto meno significativa
rispetto ai mutamenti che avvengono a livello cerebrale.

L’adolescenza è un periodo in cui il cervello attraversa un profondo processo di


cambiamento, ed è questo a determinare in modo significativo le modifiche
comportamentali, affettive e relazionali tipiche dell’età adolescenziale.

Gli ormoni si sommano alle modifiche cerebrali, ma sono secondari rispetto a queste
ultime.

Dan Siegel

Conoscere i cambiamenti cognitivi e neurologici che avvengono nell’età adolescenziale


permette di riconoscere determinati schemi e di intervenire in modo corretto per
favorire adattamenti integrativi e funzionali.

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Mito #2: L’adolescenza è solo questione di immaturità
Un altro mito diffuso è che l’adolescenza sia semplicemente una fase da attraversare, un
momento difficile da sopportare nell’attesa che arrivi la maturità a sistemare le
cose. I genitori di fronte a comportamenti sconcertanti o insensati attendono che i figli
crescano e sopravvivano a questa fase con meno cicatrici possibili. I figli adolescenti
non si sentono compresi dagli adulti e si trovano soli ad affrontare le loro sfide
evolutive.

Concepire l’adolescenza come “prova di resistenza” è una visione molto limitante di


quello che realmente rappresenta questa fase evolutiva.

In questo periodo formativo si gettano le basi di quello che verrà in seguito.

La capacità dell’adulto di esplorare e adattarsi in modo funzionale all’ambiente e alle


relazioni, di essere in contatto con il proprio mondo interiore, e la capacità di orientarsi
consapevolmente nella vita sono determinate in gran parte anche da come questa lunga
serie di tappe evolutive vengono affrontate.

L’adolescenza andrebbe concepita come un laboratorio in cui forgiare i tratti del


carattere che consentono di vivere una vita piena e realizzata da adulto. Vivere
questi anni con un atteggiamento di “aspetto che passino più velocemente possibile”
facilmente porta a perdere importanti occasioni di crescita e di sviluppo.

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Mito #3: L’adolescenza deve portare all’indipendenza
Una terza credenza errata riguardo l’adolescenza è la visione che l’adolescenza significhi
il passaggio dalla condizione di dipendenza dall’adulto a quella di indipendenza
totale. È un falso mito alimentato dal fatto che in questa fase di vita è presente una
naturale e sana spinta all’autonomia, un progressivo distacco dagli adulti che hanno
accompagnato le fasi precedenti.

Un’adolescenza vissuta correttamente non porta all’isolamento e alla totale indipendenza,


ma porta a una interdipendenza, ovvero alla interconnessione e scambio reciproco.

Nell’adolescenza i legami con le figure genitoriali subiscono un profondo cambiamento,


la ricerca di contatto e di supporto si orienta naturalmente verso il gruppo
amicale. Questa sana fase di sviluppo è determinante ma non conclusiva, perché
dovrebbe sfociare in un terzo step evolutivo, quello dell’interdipendenza.

In sostanza lo sviluppo passa da una fase infantile di dipendenza totale dalle cure
degli adulti, ad un allontanamento dalle figure genitoriali verso un avvicinamento ai
coetanei tipico dell’adolescenza, ad una fase di interdipendenza in cui sussiste uno
scambio reciproco tra sé e gli altri, adulti e non.

L’adolescenza andrebbe concepita come una fase in cui creare relazioni profonde e
legami affettivi di reciproco scambio e non come una fase autonomia spinta
all’estremo.

I miti influenzano gli atteggiamenti e i comportamenti


Ciò che crediamo rispetto a qualcuno o qualcosa è in grado di determinare il nostro
atteggiamento e il nostro comportamento nei suoi confronti. Vedere l’adolescenza

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indossando le lenti dei tre miti appena esposti predispone ad un atteggiamento passivo,
di sopravvivenza e di attesa, in cui l’adulto ha poco spazio di intervento e all’adolescente
viene lasciato il compito di attraversare la fase in modo autonomo. Riconoscere le false
credenze nei confronti dell’adolescenza permette di svelarne la sua vera natura.
L’adolescenza è una importantissima fase densa di opportunità di crescita, sia per i
ragazzi che la vivono che per gli adulti che li accompagnano.

Adolescenza, tra opportunità e sfide


Come abbiamo visto nel primo mito sfatato, i cambiamenti che avvengono
nell’adolescenza sono determinati in larga parte dai cambiamenti cerebrali che si
attivano nell’età compresa tra i 10 e i 24 anni, associati alla maturazione sessuale e
ormonale.

In questa fase di vita il cervello va incontro a numerose e importanti modifiche


strutturali. Sappiamo ormai da tempo che le esperienze che viviamo plasmano le nostre
connessioni neuronali (un fenomeno chiamato neuroplasticità). Sommando queste due
consapevolezze appare evidente che tutte le esperienze che si possono vivere
nell’adolescenza si presentano sia una sfida che come un’opportunità.

La sfida è quella di attraversare numerose nuove esperienze che espongono a


potenziali rischi di fallimento, l’opportunità è quella di sfruttare proprio questa
apertura a nuove esperienze per forgiare connessioni neuronali integrative e
apprendere nuove abilità, che influenzeranno direttamente il modo in cui si vivrà il
resto della vita.

Nel periodo tra l’infanzia e l’adolescenza sono quattro i circuiti cerebrali fondamentali
che subiscono profonde modifiche, e sono proprio quattro tratti distintivi tipici di questo
periodo.
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Nell’adolescenza infatti cerchiamo gratificazioni attraverso la sperimentazione della
novità, ci relazioniamo diversamente con i coetanei , proviamo emozioni più intense
e il punto di vista tradizionale assunto nella fase infantile viene messo in discussione alla
ricerca di punti di vista inediti e costruiti personalmente.

Ciascuno di questi cambiamenti è fondamentale per plasmare la propria identità e


sviluppare le proprie abilità. Tutti e quattro gli aspetti si sovrappongono
temporalmente e si intersecano nelle loro manifestazioni, e tutti e quattro
rappresentano sia un’opportunità di crescita che una sfida evolutiva che presenta una
intrinseca dose di rischio.

Vediamoli uno per uno cercando di comprenderne gli aspetti positivi e quelli
potenzialmente negativi.

La ricerca della novità


Il cervello adolescente matura una più intensa ricerca della gratificazione, una spinta
interiore che motiva l’adolescente a sperimentare esperienze nuove e a vivere la vita
con maggiore intensità.

L’aspetto negativo di questa importante modifica cerebrale è che viene posta maggiore
enfasi alle esperienze che portano eccitazione. I comportamenti rischiosi sono visti
come una possibile fonte di esperienze positive in quanto vengono minimizzate le
possibili conseguenze negative. Questo espone potenzialmente l’adolescente alla
ricerca di comportamenti dannosi e pericolosi. Le intenzioni possono venire
impulsivamente messe in atto senza che siano accompagnate da una riflessione sulle
possibili conseguenze.

L’aspetto positivo è che la ricerca della novità può tradursi in curiosità nei confronti
della vita, progettualità e spirito di avventura, apertura nei confronti del
cambiamento e passione di vivere.

Il coinvolgimento sociale
L’adolescenza è caratterizzata dall’intensificarsi dei legami con i coetanei e dalla
formazione di nuovi e intensi legami di amicizia.

L’aspetto negativo è che quando un adolescente si isola completamente dagli adulti e


si circonda soltanto di amici trovando in loro l’unica figura di riferimento, si trova
facilmente esposto a comportamenti a rischio. Lo spostamento dell’attenzione verso il
gruppo amicale può tradursi in un rifiuto totale del punto di vista degli adulti, della
loro esperienza e del loro modo di ragionare.

L’aspetto positivo di questo tratto tipico dell’adolescenza è che l’intensa socialità


favorisce la formazione di relazioni di sostegno che possono durare anche a lungo
termine. Come è ormai noto da tempo dagli studi a lungo termine sull’essere umano le

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relazioni sono uno dei fattori più importanti nel prevedere il benessere, la longevità e il
grado di soddisfazione nella vita.

Le emozioni intense
Il mutamento cerebrale che si manifesta nella fase adolescenziale favorisce un
intensificarsi della vita emotiva , spesso accompagnato da una scarsa capacità di
gestire consapevolmente tutto ciò che accade interiormente.

Il lato negativo di queste emozioni intense è che l’emotività può facilmente prendere
il sopravvento, causando impulsività, sbalzi d’umore e reattività accentuata. Tutto
può predisporre a vivere esperienze in cui l’aspetto emozionale deriva in modo
imprevedibile rendendo difficile gestire gli eventi e le risposte, sia per l’adolescente che
lo vive che per l’adulto che interagisce con la situazione.

L’aspetto positivo è che le emozioni intense sono fonte di energia e carica vitale,
donano entusiasmo e gusto per la vita.

Ricerca dell’identità e di nuovi punti di vista


L’adolescenza è accompagnata da un potenziale aumento della capacità di essere
consapevoli. Le nuove capacità di ragionamento astratto e di pensiero concettuale
permettono di mettere in discussione l’insieme dei punti di vista acquisiti
nell’infanzia.

Lo status quo viene messo in discussione e vengono generati nuovi schemi mentali e
punti di vista innovativi. I problemi vengono spesso affrontati con strategie creative
fuori dagli schemi tradizionali.

L’aspetto negativo di questa estrema rinegoziazione di ciò che è stato acquisito è che
può portare ad una crisi di identità personale ed esporre l’adolescente alle influenze
negative a volte derivanti dal gruppo degli amici. Se la crisi di identità non sfocia in una
profonda individuazione, in una definizione della propria identità e del proprio
orientamento nella vita facilmente può lasciare un senso di svuotamento e di
mancanza di senso, portando a nichilismo esistenziale potenzialmente
autodistruttivo.

Il rovescio positivo della medaglia è che questo ampliamento dei propri punti di vista
permette di immaginare e percepire il mondo da angolazioni inedite e di esplorarlo
con creatività. Se mantenuta nel tempo questa capacità creativa e innovativa
permette una transizione verso l’età adulta dove l’apertura a nuovi e creativi punti di
vista permane e dona all’esistenza un senso di continua scoperta e creatività.

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Dai limiti imposti agli accordi
Nell’adolescenza si verifica un miglioramento nella maggior parte degli aspetti misurabili
della vita, come la forza fisica, la funzione immunitaria, la prontezza dei riflessi ecc.

Eppure, nonostante questo, il rischio di morire per cause accidentali o di riportare


ferite gravi in questa fase di vita è tre volte maggiore rispetto alle altre fasi. La
ricerca della novità e la forte predisposizione alla gratificazione espone l’adolescente a
comportamenti rischiosi e imprudenti.

I maschi in particolare sono geneticamente predisposti a perseguire comportamenti


rischiosi rispetto alla controparte femminile.

Il periodo adolescenziale è un periodo di profonda ridefinizione dei confini e di messa


in discussione dello status quo acquisito in precedenza dalle figure formative. Questo
può creare problemi e avere esiti disastrosi, ma può, come tutte le cose, avere un risvolto
positivo.

Porre confini e limiti in modo forzato ai ragazzi a scopo preventivo, spesso ottiene
l’effetto opposto: un moto di ribellione che spinge ancora di più il ragazzo verso la
trasgressione e i comportamenti rischiosi.

Come agire dunque per minimizzare l’esposizione ai pericoli?


Agendo tramite tre punti:

1. Creando consapevolezza dei limiti,


2. Ponendo limiti tramite accordi,
3. Veicolando la propensione alla ricerca della novità in comportamenti costruttivi.

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Consapevolezza dei limiti
Un tratto caratteristico dell’adolescenza è quello della messa in discussione dei limiti
imposti da fuori, verso un’esplorazione dei limiti personali conquistati tramite la
sperimentazione in prima persona e tramite l’esplorazione creativa di nuovi modi di
fare le cose.

L’adulto che ha a che fare con l’adolescente dovrebbe riconoscere in questo movimento
rivoluzionario tutto il suo incredibile potenziale di crescita. Invece di vederlo come un
moto di ribellione, l’adulto può accogliere questo aspetto riconoscendolo come un
elemento positivo intrinseco all’adolescenza stessa. Invece di limitarsi ad osservare
sconcertato ciò che accade, o invece di tentare di porre limiti con la forza, può diventare
consapevole della natura dell’adolescenza e accompagnare il ragazzo verso la
definizione consapevole dei limiti.

La consapevolezza e la comprensione sono sempre ottimi punti da cui partire per


definire qualcosa. L’adulto può aiutare il ragazzo a portare in luce una differenza
fondamentale: quella tra i limiti da rispettare e i limiti da superare.

I limiti da rispettare sono quei limiti fisiologici e di buon senso e che preservano
l’integrità fisica di sé e delle persone che stanno attorno. Guidare a tutta velocità in
centro città espone a inutili rischi e mette a repentaglio l’incolumità di altri. Questo è un
limite da rispettare.

I limiti da superare invece si trovano al confine tra un’abilità acquisita e un’abilità


da conquistare. Se un’adolescente prova imbarazzo nel chiedere di uscire ad una
ragazza per cui trova attrazione, questo è un limite da superare per poter crescere nelle
relazioni.

Ciò che si è notato è che…


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…più una persona si orienta in modo consapevole verso il superamento dei propri limiti
per crescere, più rispetta in modo naturale i limiti da rispettare.

Silvana Tiani Brunelli

Questo principio è valido sia per gli adulti che per i giovani, ma assume nel contesto del
nostro discorso una valenza importantissima.

L’adulto che conosce questo principio può aiutare l’adolescente in due modi: può
aiutarlo a portare consapevolezza verso i limiti da rispettare e sostenerlo nel
superamento dei suoi limiti di crescita.

Invece di mettere limiti imponendoli all’adolescente con la forza, è possibile fare in


modo che sia l’adolescente stesso a orientarsi verso il superamento dei propri
limiti di crescita. Più sarà orientato in questo senso, meno sarà portato ad esporsi a
comportamenti potenzialmente rischiosi.

Prendere accordi tramite il dialogo e la comprensione


Tutto ciò che viene imposto tramite la forzatura generalmente viene resistito da chi lo
riceve. Questo è vero sia per gli adulti che per i ragazzi, ma nei ragazzi nel periodo
adolescenziale questa resistenza si manifesta in modo ancora più marcato.

L’adulto deve riconoscere che laddove impone forzatamente un limite al giovane, si trova
di fronte a un una serie di effetti: alcuni manifesti e altri nascosti.

Forse il limite viene rispettato da parte del ragazzo, ovvero l’adolescente segue
controvoglia le richieste dell’adulto. Questo è ciò che si vede.

Quello che non si vede è che questo va a discapito della relazione con l’adulto. La
relazione subisce uno strappo. La relazione è compromessa ed è sempre più difficile poi
prendere ulteriori accordi sui limiti. Questa spirale negativa più subire un’escalation
fino al punto di compromettere definitivamente la relazione adulto-ragazzo.

Un altro effetto che non si nota in modo esplicito è che, proprio perché il limite è stato
imposto in modo forzato, l’adolescente sarà portato a trasgredirlo appena ne avrà
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l’occasione. Quando l’adulto perderà il controllo della situazione, il ragazzo troverà
finalmente l’occasione di superare il limite imposto con la forza, trovandosi proprio a
fare quello che l’adulto non voleva in buonafede che facesse.

In sostanza, i limiti imposti con la forza ottengono a breve termine un comportamento


adeguato, ma a lungo termine generano l’effetto opposto.

Esiste un altro modo di trasmettere i limiti? Sì.

Oltre a quanto detto prima riguardo i limiti da rispettare e i limiti da superare, la strategia
più funzionale per definire i limiti è quella che rispetta la libertà di scelta del ragazzo.
Quando l’adolescente sente accolti i suoi bisogni da parte dell’adulto e sente
rispettato il suo punto di vista, può nascere in lui uno spazio per accogliere il punto di
vista dell’adulto. Questa comprensione reciproca è il terreno fertile da cui può nascere
un accordo consapevole riguardo un limite.

Gli adulti si mettono generalmente nella posizione di pretesa: pretendono che il ragazzo
segua le indicazioni in qualità del loro ruolo genitoriale. Tendono a mettersi in modalità
prevaricante: è l’adulto che dice cosa fare, il ragazzo segue. Questo atteggiamento di
partenza, quando è presente, pone le basi per il mancato rispetto della libertà di
scelta del ragazzo. Sentendo violato questo suo diritto fondamentale, la reazione di
conseguenza sarà calibrata su una risposta tendenzialmente opposta e equivalente: il
limite è imposto in modo forzoso, allora forzo il limite per superarlo, dimostrando nel
superamento del limite che sono indipendente e sono libero di scegliere cosa fare.

Un accordo preso reciprocamente per libera scelta invece non subisce questa
dinamica, viene facilmente rispettato perché se ne comprende il senso e si assume la
responsabilità di mantenere l’accordo.

Gli adulti generalmente pensano che sia il ragazzo a dovere accogliere per primo il punto
di vista dell’adulto. D’altronde è l’adulto nella posizione di definire i limiti e di dare
indicazioni. Se questa posizione può funzionare nella fase dell’infanzia,
nell’adolescenza trova un grosso limite , quello dell’individuazione del ragazzo.

Il giovane adolescente è all’interno di un processo in cui mette in discussione il punto di


vista dell’adulto. Come abbiamo visto è un processo utilissimo e positivo. Sapendo
questo, come può un adulto far sì che il suo punto di vista sia accolto dal ragazzo?

Tramite la comprensione del punto di vista del ragazzo.

L’adulto per primo dovrebbe porsi nella posizione di accogliere il punto di vista del
giovane. Quando l’adolescente si sente accolto e compreso nella relazione , quando il
suo punto di vista è recepito come equivalente e non calpestato come inferiore, in lui si
apre lo spazio necessario per accogliere il punto di vista dell’adulto. Da questo
reciproco scambio possono nascere accordi consapevoli che vengono rispettati con
fiducia reciproca.

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La difficoltà sta nel far sì che l’adulto si metta in una relazione in cui prima accoglie il
punto di vista del ragazzo e poi espone il suo punto di vista con un principio di
equivalenza.

Generalmente è difficile farlo perché l’adulto percepisce il suo ruolo con un valore
superiore. È certamente vero che l’adulto ha delle responsabilità nei confronti del
ragazzo, ma dal punto di vista umano la relazione si manifesta su un piano di
equivalenza.

Incanalare la spinta esplorativa


Come abbiamo visto il rifiuto dell’adolescente nei confronti di ciò che è conosciuto,
acquisito e familiare presenta un lato oscuro che è potenzialmente rischioso.

Ma oltre a questo c’è un risvolto positivo della medaglia, un lato costruttivo da


valorizzare. È possibile veicolare consapevolmente questa spinta verso esperienze e
comportamenti edificanti e costruttivi. Gli anni dell’adolescenza sono un periodo di
forte innovazione e si presentano come ricchi di potenzialità costruttiva. Dal rifiuto dei
modi di agire e pensare tradizionali possono nascere idee originali, fuori dagli schemi
acquisiti, che permettono di realizzare pratiche innovative e creative.

Accogliere la creatività di un adolescente e permettergli di esprimere punti di vista


rivoluzionari ha due aspetti positivi.

Da un lato permette al ragazzo di veicolare in modo costruttivo la sua spinta


naturale all’esplorazione creativa, sentendosi visto e riconosciuto in questo suo
bisogno. Più si sente accolto e valorizzato meno sarà propenso a spingersi in
comportamenti inutilmente rischiosi

Dall’altro lato gli adulti stessi possono beneficiare dei nuovi punti di vista scaturiti
dalla spinta dei ragazzi. Se è vero che il punto di vista tradizionale è stato utile e ciò che
funziona si mantiene, è altrettanto vero che il progresso avviene introducendo punti

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di vista inediti, e questi spesso vengono da giovani che hanno incanalato la loro spinta
creativa in modo costruttivo.

Pre-adolescenza
La fase di transizione dall’infanzia all’adolescenza è una delle più complesse e
affascinanti nell’arco della vita. Un momento di cambiamento accelerato, sia fisico che
psichico che sociale.

Questa fase di transizione è definita pre-adolescenza, ed è una fase evolutiva specifica


che funge da raccordo tra l’infanzia e la fase adolescenziale vera e propria.

A volte nel definire questa fase vengono impiegati termini diversi come se fossero tra
loro sinonimi, quando in realtà definiscono aspetti diversi che caratterizzano questa fase
di vita: pre-adolescenza e pubertà.

Questa fase è infatti caratterizzata dall’esordio della pubertà, cioè dall’insieme delle
trasformazioni fisiche che segnano l’uscita dall’infanzia.

Con il termine pre-adolescenza si definiscono invece l’insieme delle trasformazioni


psicologiche, relazionali e sociali che accompagnano la pubertà. È impossibile
separare questi due processi: si intrecciano e si sovrappongono in svariati modi.

Il substrato biologico e l’esperienza psicologica sono reciprocamente interdipendenti e


inseparabili.

Pubertà
La pubertà non è un singolo processo o stadio, ma è un processo di sviluppo continuo,
che implica una serie di cambiamenti ormonali e fisici interconnessi che si concludono
con lo sviluppo delle capacità riproduttive e nell’aspetto adulto.

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La pubertà copre generalmente un periodo di vita della durata di 5-6 anni e implica i
seguenti cambiamenti esterni e interni.

Cambiamento del sistema ormonale ed endocrino.


Accelerazione della crescita
Aumento e/o ridistribuzione del grasso corporeo e del tessuto muscolare
Sviluppo del sistema circolatorio e respiratorio.
Aumento della forza fisica e della resistenza.
Maturazione dei caratteri sessuali secondari e degli organi riproduttivi.

Queste modificazioni fisiche avvengono principalmente tra gli 11 e i 14 anni, con una
differenza di esordio tra maschi e femmine.

Le femmine tendenzialmente anticipano questi cambiamenti, sia somatici che


ormonali. Il seno è la prima caratteristica sessuale ad apparire, generalmente tra gli 8 e i
13 anni. Per i maschi l’inizio della pubertà è ritardato di uno o due anni, e lo sviluppo
sessuale in media esordisce dai 9 ai 14 anni.

Le trasformazioni psicologiche legate alla pubertà


Gli eventi corporei più intensi e significativi dal punto di vista emotivo che
accompagnano la maturazione puberale sono per i maschi la prima eiaculazione e per
le femmine il menarca, ovvero la comparsa della prima mestruazione. I due eventi
hanno generalmente un’accoglienza diversa: il primo tende ad essere celato e nascosto, il
secondo più conosciuto e collocabile nel tempo.

Tutte le trasformazioni fisiche del periodo puberale esercitano un profondo effetto sul
pre-adolescente, influiscono sulla sua identità e lo espongono a rinegoziare il
rapporto con il proprio corpo.

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L’aspetto fisico tende ad influenzare l’immagine di sé, l’autostima e lo status sociale.
Queste implicazioni sono una novità rispetto a come il corpo viene vissuto nell’infanzia.

Il ragazzo inizia a comprendere come i cambiamenti influenzino il suo rapporto con


l’ambiente esterno e gli altri ragazzi. La spiccata auto-osservazione, la riflessione su
di sé e l’auto-critica rispetto agli aspetti della propria fisicità sono la conseguenza di
questa consapevolezza.

La pubertà con le sue modificazioni mette in crisi gli equilibri interni raggiunti, apre alla
definizione della propria identità di genere e al possesso della propria fisicità
sessuata.

I compiti evolutivi della pre-adolescenza


La preadolescenza è caratterizzata da una serie di transizioni: dal corpo infantile a
quello adulto e sessuato, dalla famiglia al gruppo di coetanei, dal pensiero
concreto a quello astratto e formale, dal conformismo alla ricerca di valori propri,
dalla dipendenza all’indipendenza verso l’interdipendenza.

È possibile definire, riguardo questa fase evolutiva, dei compiti evolutivi (obiettivi specifici
di questa fase di vita).

Ristrutturazione dell’identità corporea.


Consolidamento e intensificazione delle condotte di genere.
Progressiva autonomia dalla famiglia di origine e apertura a nuove forme di
socialità.
Nuovi livelli di approfondimento e di riflessione su di sé e sulla realtà.
Trasformazione e ampliamento degli ambiti di interesse e degli orizzonti di
vita con il consolidamento di un atteggiamento di sperimentazione attiva.

Questi compiti formativi possono avere esito positivo o negativo. Va riconosciuto il


valore della conquista dei singoli punti: ciò è conquistato in questa fase di vita diviene il
trampolino di lancio per ciò che può avvenire nell’età adulta. Trascurare o non portare a
compimento questi step evolutivi indebolisce la struttura e le abilità della persona adulta.

È certamente vero che è possibile recuperare ciò che non è stato fatto in precedenza, ma
è altrettanto vero che esistono delle finestre temporali entro cui siamo chiamati a
compiere determinati step evolutivi. Farlo fuori da queste finestre temporali è
un’azione riparatrice fuori tempo. Oltre ad essere più difficile, va riconosciuto che
l’approccio ottimale è quello di affrontare e impegnarsi nel portare a compimento gli
step evolutivi proprio quando si presentano.

Conoscere i compiti evolutivi della pre-adolescenza, esserne consapevoli e impegnarsi


attivamente nel portarli a termine permette indirizzare le proprie attenzioni e le proprie
azioni con strumenti adeguati allo scopo.

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Lo sviluppo della sessualità
È possibile suddividere, all’interno del percorso di sviluppo psicosessuale, un insieme di
compiti evolutivi:

Riconoscimento e accettazione della propria sessualità biologica.


Accettazione e assunzione di responsabilità della propria capacità riproduttiva.
Definizione dell’identità di genere.
Scelta dell’oggetto sessuale a cui rivolgere il desiderio.
Capacità di sviluppare intimità sessuale e affettiva all’interno della coppia .
Capacità di assumere impegni nella relazione.

Un adolescente può trovarsi in difficoltà in ciascuno di questi aspetti dell’assunzione della


propria sessualità, dalla definizione della propria appartenenza di genere, al modo di
assumere il proprio ruolo, alla gestione della scelta del proprio oggetto d’amore o
desiderio, fino alla difficoltà nell’assumere impegni nella relazione di coppia.

Tra tutti questi assume un ruolo predominante per l’adolescente la formazione della
propria identità di genere.

L’identità di genere
Il concetto di genere è stato introdotto in tempi relativamente recenti nell’ambito della
riflessione psicologica, per definire il ruolo di un individuo nella società come
maschio o femmina.

L’identità di genere è un sistema complesso di credenze nei riguardi di sé stessi e


della propria mascolinità o femminilità. L’identità di genere può essere in accordo o
in disaccordo con il proprio sesso biologico: è uno stato psicologico, la percezione

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soggettiva riguardo il proprio genere. Il concetto di identità infatti si riferisce proprio a
questo aspetto soggettivo. Un’identità è uno stato assunto come una definizione di sé:
“io sono…”

Proprio perché è un qualcosa di assunto psicologicamente, può essere in accordo o in


disaccordo con il proprio sesso biologico. Un ragazzo può riconoscersi biologicamente
come uomo ma sentire e sapere dentro di sé di essere femmina. È un sentire e un
sapere soggettivo, e ci si riferisce a questo insieme di credenze e identità sul proprio
genere come all’identità di genere. È il convincimento persistente di essere maschio o
femmina, di appartenere a uno o all’altro sesso e si riferisce agli aspetti psicologici,
sociali e culturali della mascolinità e della femminilità.

La formazione dell’identità di genere è un passaggio cruciale per l’adolescente, e il più


complesso tra i compiti di sviluppo.

La mentalizzazione del corpo sessuato espone il giovane al rischio di processi di


dissociazione. L’integrazione tra i ruoli affettivi che lo sviluppo del ruolo sessuale
comporta richiedono notevoli capacità integrative.

Il ruolo sessuale attivato dalla maturazione sessuale e ormonale manifesta una serie di
stati psicofisici (eccitazione, desiderio sessuale ecc) che possono essere accettati o
rifiutati come inquietanti o come pericolose perdite di controllo. L’integrazione della
mascolinità e della femminilità nell’immagine di sé richiede anche una rielaborazione
dei rapporti interni fra i diversi ruoli affettivi, cioè le precedenti identificazioni e
introiezioni di madre e padre. Per mettere in atto un sano processo integrativo è
necessario un processo di dis-identificazione tra questi ruoli introiettati, e spesso questo
risulta difficile per il ragazzo: lo può esporre a una crisi d’identità, una vulnerabilità e
un’emancipazione che spesso viene resistita.

Attraverso un percorso di separazione e individuazione l’adolescente può separarsi


dall’immagine di sé interiorizzata nel corso dell’infanzia per costruire (o scoprire) la sua
reale identità. In un percorso di sviluppo sano in questa identità include la
consapevolezza e l’accettazione della propria identità di genere.

Vediamo alcuni percorsi di sviluppo.

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Percorsi di sviluppo dell’identità di genere
Possiamo delineare 3 livelli di complessità nello sviluppo dell’identità di genere, che
derivano dall’osservazione dei meccanismi messi in atto dall’energia vitale nell’essere
umano.

Un essere umano è dotato infatti di

una componente biologica, fisica;


di un sentire, cioè di sentimenti e di emozioni;
e infine di una mente pensante, che elabora pensieri e funzioni immaginative,
elabora ricordi e strategie.

L’essere umano possiede tutte queste funzioni, diverse tra di loro ma unite in una
complessità funzionale.

Lo sviluppo sessuale si esplica in questi livelli di complessità manifestando traiettorie di


sviluppo funzionali o disfunzionali.

Definiamo schematicamente questi livelli.

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Tre livelli di complessità del genere umano

Abbiamo il corpo fisico con la sua biologia: riconosco di essere biologicamente


maschio o femmina.

Abbiamo un sentire: sento di essere maschio o femmina.

Abbiamo un’identità di genere: so di essere maschio o femmina.

Le possibili traiettorie dello sviluppo dell’identità di genere

Il percorso di sviluppo più semplice è quello concordante su tutti i livelli: riconosco e


accetto di essere maschio, sento di essere maschio e so di essere maschio. (L’esempio
non cambia chiaramente se fatto al femminile).
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Quando lo sviluppo è concordante sui 3 livelli, l’orientamento del desiderio verso
l’esterno si aggancia naturalmente verso il sesso opposto.

Identità di genere concordante su tutti i livelli

Le cose si complicano quando ci sono discordanze sui livelli.

Identità di genere discordante derivata da un rifiuto della propria biologia

Ad esempio: mi guardo allo specchio e riconosco di essere maschio, ma non lo


accetto; sento di essere femmina, ma so di essere maschio perché l’immagine che lo
specchio mi riflette me lo dice in modo incontrovertibile. In questo caso c’è una

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discordanza tra quello che sento e quello che credo di me.

Questa discordanza crea una difficoltà nell’assumere appieno un’identità di genere


definita e anche l’orientamento verso l’esterno del proprio desiderio sarà vissuto
in modo conflittuale. L’elemento conflittuale in questo caso è rappresentato dal rifiuto
della propria sessualità biologica, discordante rispetto ciò che si sente e si crede di sé.

Un altro esempio: riconosco di possedere un corpo femminile, e lo accetto . Sento


però di essere maschio e anche la mia identità di genere è maschile: ovvero so di
essere maschio, seppure in un corpo femminile, e lo accetto, sento che va bene così.
In questo caso la traiettoria è discordante sui vari livelli ma l’orientamento verso
l’esterno non è vissuto in modo conflittuale. Una donna che ha questo sviluppo della
sessualità si orienterà naturalmente e in modo del tutto sereno e consapevole verso
una relazione omosessuale.

Esempio di identità di genere discordante ma fondata sull’accettazione della propria biologia

Appare evidente che le traiettorie dello sviluppo possono combinarsi in vario modo. Non
necessariamente sono vissute come disturbanti per chi le sperimenta.

Sono due gli aspetti importanti su cui portare l’attenzione per permettere un sano
sviluppo della sessualità e dell’identità di genere:

L’accettazione del proprio sesso biologico.


La concordanza tra il sentire e l’identità di genere.

Quando sussistono queste due condizioni la sessualità si può orientare con serenità
verso l’esterno nella costruzione di relazioni affettive.

Alcune statistiche riguardo l’omosessualità tra gli adolescenti:

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Circa il 10% degli adolescenti si considera gay, lesbica o bisessuale
Le ragazze con una leggera prevalenza sui maschi (2-3%) dichiarano relazioni
omosessuali.
La prima consapevolezza della propria omosessualità appare in genere attorno ai
13 anni per i maschi e a 16 per le femmine.

Ricerca della verità nell’adolescenza


Il contatto con i ragazzi e lo studio delle dinamiche dell’adolescenza porta alla luce una
conclusione apparentemente controintuitiva:

“L’adolescente, pur sembrando principalmente preoccupato della sessualità, in realtà è


soprattutto preoccupato della conoscenza e del capire”.

Donald Meltzer

L’adolescente è infatti affamato di verità, ha un intrinseco bisogno di comprensione e


di simbolizzazione di sé e del mondo.

Così come il corpo fisico ha bisogno di cibo per sopravvivere, così la mente
dell’adolescente necessità di verità. La mente dell’adolescente è protesa verso la verità
come un bisogno fondamentale.

Ne ha bisogno per emanciparsi, per uscire fuori dalla confusione, dalle illusioni
dell’infanzia e della pubertà.

L’adolescenza mette in discussione le figure genitoriali in un processo di disillusione


e de-idealizzazione.

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La rinuncia alle illusioni infantili lo espone a un vuoto da riempire. Da questo vuoto
emerge la spinta alla ricerca della propria verità.

La necessità di acquisire autonomia dai genitori e un processo psicologico sano e può


essere considerata una ripresa più consapevole del processo di separazione e
individuazione già compiuti nella prima infanzia.

La ridefinizione dell’identità: Chi sono io?


La domanda chiave dell’adolescenza è “Chi sono io?”

La costruzione e la scoperta dell’identità avviene all’incrocio fra la spinta biologica della


pubertà e quella sociale della cultura di appartenenza. Il compito dell’adolescente è
quello di elaborare i cambiamenti della biologia del corpo , della propria psicologia e
del mondo in cui vive ed attribuire significato emotivo della realtà interna, psichica e
biologica, e di quella esterna, relazionale e sociale.

Nelle società tradizionali la formazione dell’identità avveniva all’interno di celebrazioni


rituali collettive o riti iniziatici. Ora invece avviene tramite processi individuali di
elaborazione simbolica e attribuzione di significato.

Il vuoto lasciato dalla disillusione in cui incorrono le figure genitoriali può essere
destabilizzante, e portare a ciò che può essere definita crisi d’identità. La crisi d’identità
si può manifestare nella sua duplice valenza: la ricerca della verità di sé in un processo
di continuità e discontinuità, e anche con la sua accezione etimologica più profonda: la
rottura di un equilibrio precostituito alla ricerca di un equilibrio più funzionale.

La formazione dell’identità è centrale nella vita psichica dell’adolescente.

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L’identità corrisponde a un sentimento soggettivo di unità e continuità personale,
costruito attraverso processi d’integrazione di sentimenti e di rappresentazioni che
collegano il passato con il futuro.

L’identità è un’entità dinamica, è la percezione che si ha di sé stessi e si forma


progressivamente attraverso auto-rappresentazioni che si sviluppano nel corso della
propria storia di vita.

Il traguardo di questo processo di è la formazione di un’identità stabile, coerente e


individuata e si può dire completo quando la percezione di essere sé stessi, in
continuità nel tempo e nello spazio, si integra con la percezione del riconoscimento da
parte degli altri.

Il Respiro Circolare per Giovani (14-29 anni)


La tecnica del Respiro Circolare è uno strumento di crescita personale che
nell’adolescenza trova un ampio spettro di applicazioni.

La tecnica agisce nel mettere in moto un processo di purificazione fisica, emozionale e


mentale che predispone l’energia vitale a fluire in modo armonioso nella biologia,
nei propri sentimenti e portando consapevolezza a eventuali meccanismi mentali
disfunzionali.

Questo effetto è visibile a tutte le età, ma in adolescenza trova un riscontro


particolarmente positivo perché proprio in quell’età l’energia vitale, associata alla
sessualità, ha un risveglio naturale e spesso l’adolescente fatica ad incanalarla in
modo corretto.

Vediamo alcune aree su cui agisce il Respiro Circolare praticato in adolescenza e i suoi
effetti.

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Incanalare l’energia vitale
L’energia vitale in adolescenza tende a risvegliarsi naturalmente e a sommarsi alla
sessualità. I due processi tendono a intersecarsi e a creare effetti sovrapposti. In
adolescenza, proprio perché è la fase formativa in cui si accende in modo marcato la
sessualità e l’energia vitale, è utile imparare ad accettare e sostenere la propria
energia vitale senza entrare nel meccanismo oscillatorio della repressione e della
sfrenatezza.

Il Respiro Circolare in adolescenza è mirato proprio a questo: accompagna il giovane a


imparare come stare di fronte alla propria energia vitale e a incanalarla in modo
costruttivo in azioni di crescita.

Accogliere la propria sessualità e imparare a incanalarla


La pubertà e l’adolescenza sono fasi caratterizzate da intense trasformazioni fisiche,
ormonali e psicologiche. Uno degli aspetti predominanti è l’emergere della sessualità,
un evento che investe in toto il mondo dell’adolescente: non solo il suo corpo, ma anche i
suoi sentimenti, la sua mente, l’immagine che ha di sé stesso, le relazioni con gli altri.

Non è affatto scontato che il fiorire della sessualità sia accolto con apertura e positività
da parte del giovane. Un importante passo di crescita per il giovane è quello di
riconoscere ed accogliere la propria sessualità. Questo passo apre poi alla possibilità
di indirizzare la sessualità in una relazione affettiva, in cui la sessualità può
trasformarsi in coesione reciproca.

Nel Respiro Circolare dedicato agli adolescenti vengono affrontati dal punto di vista
teorico entrambi gli aspetti: l’accogliere la propria sessualità e come tradurla in relazione.

Il percorso di crescita è composto da tre elementi che lavorano in modo sinergico tra di
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loro.

1. Le spiegazioni teoriche indirizzano l’attenzione alle tematiche proposte.


2. Tramite il Respiro Circolare il ragazzo entra in contatto con i propri vissuti al
riguardo.
3. Con gli esercizi di comunicazione può renderli consapevoli, originare nuove
intenzioni e acquisire nuove abilità.

Ad ogni incontro il concatenarsi di questi passaggi permette al giovane di conoscersi


meglio, di comprendere i temi proposti e di maturare nuove scelte al riguardo.

Definire la propria identità di genere e possedere il corpo sessuato


Come abbiamo visto la maturazione della propria sessualità può incorrere in numerose
traiettorie con esito per niente scontato. Nel Respiro Circolare dedicato agli adolescenti è
prevista un’attenzione marcata sugli aspetti legati allo sviluppo della sessualità.

Il giovane è accompagnato a entrare in contatto con le sensazioni e le impressioni


legate alla sessualità: utilizzando la tecnica di respirazione specifica del Respiro
Circolare può aprirsi a queste sensazioni, riconoscerle, discriminarle dal resto di ciò
che sente e imparare l’arte di starci di fronte e incanalarle in modo corretto.

Inoltre, tramite gli esercizi di comunicazione appositi, può prendere consapevolezza


della propria identità di genere, creando concordanza tra quello che percepisce di
essere e il proprio sentire. Come abbiamo visto questa concordanza interiore è ciò che
permette di vivere la sessualità in modo sereno e di orientare le proprie azioni nel
costruire una relazione affettiva e non solo basata sulla sessualità .

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Vivere ed esprimere le emozioni
La fase adolescenziale è caratterizzata da una forte intensità emotiva. Le emozioni
possono prendere il sopravvento e se non vissute correttamente possono lasciare
strascichi, residui negativi; o anche possono causare ferite e strappi nelle relazioni se non
espresse in modo corretto.

La tecnica del Respiro Circolare permette all’adolescente sia di entrare in contatto con
il suo mondo emotivo, permettendosi di sentire pienamente ciò che sta sentendo, che
di imparare ad esprimere le proprie emozioni senza ledere gli altri e il contesto che
gli sta attorno.

Nelle sedute di Respiro Circolare dedicato agli adolescenti sono previsti, dopo la seduta
vera e propria di respiro, degli esercizi di comunicazione. Questi esercizi, quando
includono l’espressione di ciò che si sente, permettono di apprendere una importante
alfabetizzazione emotiva, un’abilità fondamentale che rientra tra le competenze di
base dell’intelligenza emotiva.

Superare i limiti per crescere


Come abbiamo visto nel paragrafo dedicato ai limiti, più l’adolescente supera i propri
limiti di crescita, più è orientato a rispettare naturalmente i limiti fisiologici. Il Respiro
Circolare porta in modo spontaneo il ragazzo ad incontrare e superare dei limiti di
crescita, che siano legati all’espressione delle proprie emozioni, al sostenere la
respirazione o l’intensa energia vitale, o ancora all’attraversare determinati vissuti.

In ogni caso giovane ne esce fortificato, imparando ad sviluppare la volontà e sentendo


che può superare i propri limiti in modo costruttivo, e questo è educativo perché
orienta spontaneamente le azioni verso i limiti da superare per crescere come persona.
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Imparare a creare coesione col gruppo
La tecnica del Respiro Circolare è una tecnica che viene applicata individualmente.
Ognuno respira “da solo” e porta l’attenzione su di sé.

Eppure, pur mantenendo l’attenzione rivolta dentro, il Respiro Circolare viene


generalmente praticato con una impostazione di gruppo. Respirare assieme ad altri è
utilissimo per vari motivi, soprattutto per un adolescente.

Innanzitutto permette di accedere a un sentire condiviso, in questo modo il ragazzo


non si sente isolato con ciò che sente.

Permette poi di comprendere che le dinamiche personali sono in realtà qualcosa di


universale e condiviso con altri.

Pur essendo ognuno diverso dall’altro, le dinamiche di crescita e le problematiche che si


possono incontrare sono comuni a tutti. Quando il giovane non condivide spazi di
crescita con i coetanei, può essere portato a credere che ciò che prova sia sbagliato e che
sia lui l’unico a vivere determinate difficoltà. Vedere che reciprocamente si
condividono i medesimi vissuti, seppure in forma diversa, apre ad una maggiore
accettazione dei vissuti personali.

Infine, praticare il Respiro Circolare e gli esercizi di comunicazione in gruppo, permette di


creare coesione tra pari.

Coesione significa sentirsi vicini agli altri, riconoscersi in un gruppo che condivide un
vissuto comune.

Il Respiro Circolare per i ragazzi è dedicato a loro, agli adolescenti e chi si trova nella
prima età adulta: l’età dei partecipanti è simile.

Questa vicinanza di età gli consente di avvicinarsi reciprocamente e di creare nuove


amicizie.

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Avere uno spazio in cui potersi mostrare reciprocamente nei propri vissuti personali
permette sentirsi visti e di instaurare rapporti autentici, un aspetto importantissimo
e spesso denso di difficoltà per l’adolescente.

Le nuove generazioni si sentono spesso separate dagli altri: pur condividendo i medesimi
spazi e passando del tempo in comune, a volte patiscono la mancanza di una vera e
profonda relazione.

Pur essendo una realtà presente da sempre, questa separazione è diventata sempre più
marcata con la complicità dei dispositivi elettronici: i giovani sono sempre connessi
elettronicamente e in rete tramite i social, ma spesso questo va a discapito della
connessione umana con l’amico con cui si condivide l’attività.

Avere uno spazio di condivisione reale, in cui poter entrare autenticamente in


relazione con gli altri permette ai giovani di riconoscerne il valore, di creare nuove
amicizie e di estendere questa predisposizione alla relazione anche al di fuori del
contesto del gruppo di condivisione del Respiro Circolare.

Acquisire maggiore consapevolezza


La tecnica del Respiro Circolare, oltre ad agire sull’energia vitale e sulle emozioni, è una
straordinaria tecnica di consapevolezza. Durante la seduta di respiro l’attenzione è
rivolta interiormente, con un atteggiamento di apertura e di inclusione rispetto a ciò
che si sente e si pensa.

Questo atteggiamento mindful è una vera e propria abilità introspettiva che in modo
trasversale si propaga in ogni area della vita. La medesima capacità di essere presenti a
sé stessi, messa in pratica mentre si respira in modo circolare, viene attivata mentre si
eseguono altre attività: mentre si studia, mentre si è in relazione, mentre si fa sport… con
immediati risvolti positivi.
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Le ricerche scientifiche sugli adolescenti ci mostrano molti dati su cui riflettere, e uno di
questi è il progressivo deperimento della capacità di sostenere l’attenzione.

Sembra che le nuove generazioni, cresciute con stimoli sempre più rapidi e immediati,
si siano adattate a queste richieste da parte dell’ambiente, diminuendo la loro capacità di
restare concentrati e focalizzati su una singola azione alla volta. Vista da una certa
angolazione la questione sembra avere dei risvolti positivi, come la capacità di
mantenere l’attenzione su più attività contemporaneamente; in realtà questo
deperimento dell’attenzione manifesta a cascata una serie di conseguenze negative, sia
dal punto di vista dell’efficienza e dei risultati che dal punto di vista della conoscenza di
sé.

Il Respiro Circolare permette di allenare l’abilità fondamentale della continuità


dell’attenzione, che come detto ha risvolti positivi su tutte le altre attività in cui ci si
coinvolge.

Scoprire la propria identità


Come dice Donald Meltzer, il giovane adolescente è “affamato di verità”.

L’intera adolescenza è infatti un processo di messa in discussione di ciò che è stato


acquisito prima, alla ricerca di una verità più profonda riguardo sé stessi. Il giovane
adolescente è alla ricerca del proprio posto nel mondo, in un processo in cui si somma

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la continuità con il proprio passato e la discontinuità rispetto alle innumerevoli
prospettive che il futuro propone.

A volte gli adulti vedono gli adolescenti come immaturi e quindi li giudicano incapaci di
prendere impegni a lungo termine. In realtà è proprio nell’adolescenza che il ragazzo
dovrebbe gettare le basi per ciò che verrà dopo. Riconoscendo il valore di questa
conoscenza possiamo sostenere gli adolescenti nel processo di divenire
maggiormente consapevoli di loro stessi.

Il Respiro Circolare mette in moto, anche in questo campo di ricerca, un efficace


processo di crescita. La scoperta della propria identità viene favorita in due modi:
portando consapevolezza a ciò che ha plasmato finora la percezione di sé stessi
(continuità con il passato) e rimuovendo ciò che impedisce di prendere consapevolezza
della propria verità.

La verità di sé infatti diventa autoevidente quando tutto quello che la cela viene tolto.

Il Respiro Circolare permette proprio di mettere in atto questo duplice processo: aiuta il
giovane adolescente a riconoscere il proprio posto nel mondo e gli fornisce
strumenti essenziali per esprimere con entusiasmo la propria identità.

Bibliografia
Dan Siegel – La mente adolescente
A. Maggiolini, G. Pietropolli Charmet – Manuale di psicologia dell’adolescenza: compiti e
conflitti
Alberto Pellai – L’età dello tsunami
Silvana Tiani Brunelli – L’arte di educare
Silvano Brunelli – Le abilità personali nell’educazione

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Corso di Respiro Circolare per Giovani 14-29 anni

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Osservare e sentire per divenire consapevoli
essereintegrale.com/osservare-sentire

Agostino Famlonga

Divenire consapevoli richiede due grandi abilità di introspezione: osservare e sentire.

Sono due processi interiori diversi tra di loro, che si intersecano e si sovrappongono nel
movimento necessario a rendere consapevole qualcosa.

Sommati tra loro rendono possibile il divenire consapevoli, se sono disgiunti invece
possono ostacolare il processo.

In questo articolo vediamo di comprendere la differenza tra osservare e sentire e di


capire come si combinano in modo ottimale.

Osservare
Osservare vuol dire essere presenti a quello che accade: è una condizione di
testimonianza consapevole.

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La funzione di osservare è una testimonianza muta, una condizione in cui il significato
o la narrazione associati a quello che si osserva vengono a cadere.

Osservare può generare, in sequenza, una attribuzione di significato e una narrazione


riguardo quello che si sta testimoniando.

L’importante è riconoscere che in sé la funzione della testimonianza è muta, silenziosa, è


pura presenza, il significato emerge a posteriori, così come l’eventuale narrazione.

Sentire
Sentire vuol dire essere aperti all’esperienza che si sta vivendo, accogliendola in sé.

È una condizione in cui ti apri all’esperienza lasciandoti attraversare, vivendola senza


alcun filtro, in contatto profondo con l’esperienza tramite il senso del sentire.

Il senso del sentire è una funzione pre-verbale, cioè che viene prima della parola.

Come l’osservare appena visto, anche il sentire è di per sé muto, e questo a volte rende le
due funzioni confuse tra di loro.

Eppure il sentire è diverso e va discriminato dell’osservare.

Il senso del sentire appare come una funzione biologica perché quando sentiamo
qualcosa lo sentiamo nel corpo.

È il corpo il trasduttore che emana le sensazioni che percepiamo tramite il senso del
sentire.

Più è forte il radicamento nel corpo maggiore è la quantità e la qualità di ciò che siamo in
grado di sentire, e questo non si limita al sentire solo quello che stiamo vivendo a livello
personale.

Il canale del sentire infatti apre le porte al sentire quello che sente l’altro, e anche alla
percezione energetica dell’esperienza che stai vivendo.

Immagina di fare una passeggiata nella natura: se ti apri a sentire l’esperienza che stai
vivendo, ti apri a sentire l’energia che ti circonda.

E non per niente a volte nel descrivere l’esperienza diciamo “un’immersione nella
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natura”.

La stessa esperienza è molto diversa se, invece di sentirla, la osservi.

Vediamo di capire meglio la differenza.

Condurre e costruire
Quando ti apri al sentire qualcosa sei in contatto con la sensazione allo stato puro.

Detto in un altro modo: quando apri la consapevolezza alla sensazione, diventi un


canale conduttore che convoglia il flusso di qualcosa verso la consapevolezza.

L’attenzione assomiglia in questo caso a un tubo di gomma che si lascia attraversare


dall’acqua, senza fermarla o resisterla in alcun modo.

L’osservare invece è una funzione di testimonianza che costruisce una percezione.

Osservare significa essere costruttori: costruire una percezione e poi anche un


significato e in seguito una storia riguardo quello che stai vivendo.

Osservare implica essere testimone e costruttore dell’esperienza, e apre poi la porta


alla narrazione o all’attribuzione di significato rispetto a quello che è reso consapevole.

Sentire invece equivale a essere conduttori: senti il flusso sensoriale e ti lasci


attraversare da esso come se fossi un canale conduttore dell’esperienza stessa.

Condurre e costruire l’esperienza

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Facciamo un paragone per comprendere: supponiamo che l’esperienza che stai vivendo
sia acqua saponata, e tu l’anello che serve per fare le bolle di sapone.

Quando sei conduttore (sentire) l’esperienza ti attraversa e semplicemente


emergono bolle di sapone.

Quando sei costruttore (osservare) l’esperienza genera bolle modellate


simbolicamente, dotate di significato.

Due modalità di vivere le esperienze: come conduttore e come costruttore

Le bolle sono sempre bolle, l’esperienza è sempre lei, ma quello che accade con le due
funzioni è diverso.

Da questo esempio possiamo estrapolare un principio utilissimo.

Per costruire serve prima condurre.

Ovvero, detto in un altro modo: per testimoniare un’esperienza serve prima sentirla
pienamente.

Senza il sentire l’osservare è falsato: le bolle costruite non sono le reali bolle
dell’esperienza, ma sono qualcos’altro, un’idea astratta lontana dalla realtà
dell’esperienza.

4/8
Un esempio: consapevolezza del respiro
Una pratica diffusa per avvicinare la persone alla pratica della consapevolezza è quella di
imparare ad essere consapevoli del respiro.

Applichiamo i due principi visti finora a questo esercizio.

Se sei in modalità conduttore, lasci che la sensazione dell’aria che entra ed esce dalle
narici fluisca alla consapevolezza.

Molto diversa è l’esperienza costruttrice di osservare il respiro, o esserne testimoni, o


ancora narrare a sé stessi l’esperienza di respirare: “l’aria entra e l’aria esce, l’aria
entra…”.

Sembra una differenza sottile, ma è importante cogliere la differenza tra la sensazione


in sé e l’osservazione.

In un esercizio introduttivo di questo tipo è importate imparare a porsi nella modalità di


conduzione, cioè lasciare che la sensazione del respiro sia al centro dell’attenzione e che
pervada la consapevolezza.

La costruzione, ovvero la testimonianza consapevole, arriva dopo.

Per costruire serve prima condurre.

[ Una precisazione: ho preso questo esercizio perché è molto diffuso e spesso viene dato come
allenamento iniziale per sviluppare l’abilità di attenzione focalizzata.

Ciò non toglie che respiro e consapevolezza possano combinarsi per altri scopi e in modalità
differenti da quelli usati qui come esempio. ]
5/8
Quando l’osservare diventa distanziarsi
Esiste un curioso tranello che a volte colpisce chi si avvicina alle pratiche di
consapevolezza.

L’istruzione di “essere testimoni di ciò che accade” può infatti essere utilizzata come
modo per distanziarsi ancora di più da qualcosa di spiacevole.

Osservare può diventare il rinforzo di un meccanismo di difesa psicologico che tiene la


persona dissociata e distaccata dell’esperienza che sta vivendo.

Oppure può funzionare da rinforzo nel mantenere attiva nell’inconscio una barriera che
trattiene elementi, percepiti come sgradevoli o minacciosi, dall’essere resi consapevoli.

Più la persona ha il canale del sentire congelato, più è portata a prendere questa strada,
in cui la funzione di costruzione ha preso il sopravvento su quella di conduzione.

Per ripristinare l’equilibrio serve sciogliere la capacità di sentire, ovvero imparare a


porsi in modalità conduzione.

Per approfondire » Il bypass spirituale

Quando il sentire diventa abbandonarsi dal caos


In modalità conduzione si è più in contatto con l’esperienza, e questo è assolutamente
positivo rispetto allo scenario appena visto.

Ma se non è bilanciato anche questo ha un rovescio della medaglia: quando la funzione


di conduzione non è associata a consapevolezza la persona abbandonandosi
completamente al proprio sentire è totalmente in balia di quello che sente.
6/8
Senza la consapevolezza il sentire è caotico, un ribollire di spinte e impulsi con
direzioni contrastanti.

La persona si trova in questo modo ad essere un fruscello al vento in balia delle


esperienze che le capitano.

In una società che spinge verso l’autocontrollo forzoso, sviluppare la capacità di


allentare il meccanismo del controllo e lasciarsi andare nel vivere le esperienze in
modalità di conduzione è certamente positivo, e la consapevolezza è il requisito che
permette di farlo in sicurezza.

Proprio per questo appare sempre più evidente come sia necessario integrare
entrambe queste due nostre funzioni: sentire e osservare.

Essere consapevole di qualcosa


Essere consapevoli di qualcosa richiede entrambe le funzioni: sentire e osservare.

Condurre e costruire.

Entrambe le modalità sono positive e si integrano tra di loro nel diventare consapevoli.

Essere consapevoli significa essere aperti e ricettivi nei confronti dell’esperienza


sentita (modalità conduzione) e esserne testimoni, cioè osservarla e se necessario
anche narrarla (modalità costruzione).

Possiamo, unendo le due funzioni descrivere la consapevolezza come una presenza


ricettiva, una testimonianza aperta, che sente ciò di cui è consapevole .

Essere consapevole della consapevolezza

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Cosa accade se, invece di indirizzare la consapevolezza verso un oggetto, poniamo
l’attenzione sulla consapevolezza stessa?

Ovvero, detto in un altro modo: cosa accade se la consapevolezza diventa l’oggetto su


cui poniamo consapevolezza?

Diveniamo consapevoli delle qualità intrinseche che appartengono alla


consapevolezza che abbiamo appena visto: presenza ricettiva e apertura.

Non solo ne diviniamo consapevoli, ma lo diventiamo.

Ricordati sempre che…

la consapevolezza non è qualcosa che hai, è qualcosa che sei.

Non hai la consapevolezza, sei un individuo consapevole.

La consapevolezza è la tua natura essenziale, e portare consapevolezza alla


consapevolezza permette di accedervi, conoscerla e abitarla, cioè risiedere in essa.

A tutti gli effetti, diventare ciò che sei veramente.

Uno spazio di pura coscienza che si manifesta con le sue qualità peculiari, infinita
apertura e ricettività, che sente e osserva ogni cosa.

Per approfondire » Esperienza Diretta

_________

Bibliografia

Dan Siegel – Diventare consapevoli


Silvano Brunelli – La teoria dell’essere I e II

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Le fasi di sviluppo della volontà e della resa
essereintegrale.com/sviluppo-volonta-resa

Agostino Famlonga

Noi esseri umani abbiamo tantissime doti.

Tra queste ne spicca una di straordinario valore: la volontà.

Abbiamo cioè la capacità di imprimere al corso degli eventi un direzione, di dare una
forma alla vita che stiamo vivendo.

Apparentemente questa dote è in contrasto con un’altra capacità che possediamo: quella
di vivere le cose così come sono, accettandole pienamente senza modificarle,
riconoscendo la perfezione intrinseca di tutto ciò che avviene.

Possediamo entrambe queste abilità, la volontà e la resa, e spesso se non sono


comprese e padroneggiate correttamente, vanno in conflitto.

Quello che ho potuto vedere nella mia esperienza di accompagnamento alla crescita in
consapevolezza con le persone è che c’è una tendenza a creare polarizzazioni
interiori: c’è chi usa solo la volontà, innescando a volte anche dei meccanismi di
forzatura della vita e delle relazioni.

Al contrario c’è chi si polarizza verso l’apertura e nell’accettazione passiva di ogni cosa.

Entrambi gli estremi non risolvono la questione , lasciano una potenzialità di sviluppo
inespressa e quindi innescano una frustrazione.

1/11
L’elemento che gioca a sfavore è che questa frustrazione manifesta i suoi effetti a lungo
termine. Nell’immediato sembra che schierarsi da una parte (volontà o resa), risolva la
questione.

Ognuno sceglie in base alla propria predisposizione “da che parte stare”, ovvero come
vuole vivere la propria vita, e si sente a posto così. In realtà nel lungo periodo questo
diventa controproducente, generando un senso di insoddisfazione radicale che a volte la
persona non riesce a comprendere.

Esiste una soluzione a questo apparente contrasto?

Sì, esiste.

Quello che va compreso è che la volontà e la resa non sono in antitesi, ma


vanno integrate tra di loro.

Come?

Assecondando il loro sviluppo naturale.

Procediamo per gradi, dando delle definizioni più specifiche di quello che sono la volontà
e la resa.

La volontà
Quando parlo di volontà mi riferisco all’intenzionalità che l’essere umano è in grado
originare e manifestare nelle sue azioni.

Un’intenzione è una spinta ad agire, una forza pre-verbale che crea un movimento.

La volontà è una facoltà dell’individuo consapevole, perché proprio dalla


consapevolezza di noi stessi siamo in grado di…
2/11
originare un’azione finalizzata a uno scopo.

Analizziamo i componenti di questa definizione.

Originare, nel senso di creare qualcosa. Questa creazione parte dalla nostra interiorità. È
l’essere consapevole che siamo che crea e origina un’intenzione.

Quest’intenzione diventa poi un’azione, cioè si manifesta in un qualcosa di definito.

Finalizzata: l’azione è connessa al fine, cioè alla cosa che vuoi ottenere.

In questo fine c’è uno scopo, cioè un perché.

L’azione è finalizzata e connessa allo scopo quando sai cosa vuoi ottenere e perché lo vuoi
ottenere.

Da leggere » La scelta

La resa
Alla parola resa spesso è associato un connotato negativo. In realtà l’atto di resa non è da
intendersi come una sconfitta rispetto a qualcosa.

La resa è un atto di accettazione radicale delle cose per come sono.

La resa è un atto di apertura e di accettazione profonda.

Questo implica un lasciarsi andare nell’esperienza che si sta vivendo nel momento
presente, e anche un lasciare andare l’esperienza vissuta nel passato e un aprirsi agli
eventi futuri riconoscendo che in gran parte non sono determinabili da noi.

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Nella resa semplicemente ci si apre a quello che c’è, nel flusso dinamico della vita.
In questa profonda apertura si scioglie l’attaccamento al risultato delle proprie azioni.

Potremmo riassumere il concetto con questa definizione:

la resa è l’apertura del cuore alla vita così com’è.

Da leggere » Meditazione: concentrarsi o lasciare andare?

Sequenza di sviluppo
La volontà e la resa sembrano in antitesi quando la sequenza di sviluppo di queste
nostre due facoltà incontra degli intoppi evolutivi, cioè quando le tappe non vengono
portate a termine nei tempi e nei modi idonei.

La sequenza di sviluppo naturale prevede che prima si sviluppi la volontà, poi l’atto di
apertura.

Quando questo accade in modo naturale, le due funzioni poi si integrano tra di loro,
senza alcuna contrapposizione, senza alcun contrasto percepito soggettivamente.

Purtroppo, spesso questo non accade. Vediamo perché e quali sono le conseguenze.

Intoppi evolutivi
Quando ci sono degli intoppi evolutivi, come ad esempio quando la volontà individuale
viene limitata da un’educazione repressiva, la persona cresce con questa funzione
“menomata”, limitata nella sua piena espressione.

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L’individuo che subisce una repressione della propria intenzionalità impara ad
arrendersi, nel senso che la sua volontà subisce una sconfitta e da qui nasce
l’accezione negativa associata al termine resa.

In questo caso l’arrendersi diventa negativo perché è la conseguenza della castrazione


del muscolo della volontà individuale, è un qualcosa di subìto dall’esterno verso l’interno,
mentre il vero atto di resa parte dall’interno, è un’apertura radicale che parte dal
cuore della persona, e in questo non c’è nulla di negativo.

Un altro intoppo evolutivo molto comune nello sviluppo delle due funzioni accade
quando, nell’aprirsi la persona subisce delle ferite.

Il dolore di una ferita provoca una chiusura, che è proprio quello che impedisce
l’apertura del cuore, e di conseguenza inibisce la resa.

Allora, in questo caso la persona si rifugia nell’uso forzoso della volontà. Il baricentro
delle due funzioni viene spostato sull’atto volitivo, spesso connesso ad una componente
di forzatura, che altro non è che la mancata integrazione dell’altra polarità, quella della
resa.

Possiamo riassumere in questo modo:

Se viene frustrato l’uso della volontà la persona si polarizza sull’arrendersi, con un


connotato negativo e di passività.

Se nell’aprirsi riceve delle ferite si polarizza sull’uso della volontà, con una componente
di forzatura.

Chiaramente la condizione individuale prevede un insieme di entrambe queste


dinamiche. La realtà della propria condizione su queste funzioni non è bianca-nero, ma
prevede un’infinità di sfumature.

Ciò nonostante è vero che le persone tendono a polarizzarsi su una funzione o


sull’altra, in base alla propria strategia di sopravvivenza.

Vediamo ora, indipendentemente dalla propria polarizzazione, quali sono le fasi di


sviluppo e di integrazione delle due funzioni, partendo dalla fase zero, in cui la
persona non riconosce né una né l’altra.

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Fase 0: Reazione
Il punto di partenza è la condizione in cui le due funzioni sono latenti, non sono ancora
sviluppate.

La persona in questo caso reagisce a quello che sta vivendo in base a degli automatismi
mentali, condizionati dalle esperienze passate.

Semplicemente ad uno stimolo la persona reagisce con una risposta automatica.

Questa risposta non può essere ricondotta al un atto di volontà, perché nella volontà,
per come l’abbiamo definita all’inizio dell’articolo, sono incluse la consapevolezza e
l’intenzionalità, che in questo caso sono assenti.

Non si tratta quindi di volontà ma di reazione. La persona reagisce agli stimoli.

La risposta non è nemmeno riconducibile all’apertura, perché essendo condizionata è


impregnata di forzatura e di resistenza rispetto all’esperienza.

Fase 1: Dicotomia
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Questa è la prima reale fase di sviluppo, quella precedente è una condizione in cui lo
sviluppo è fermo a livello zero.

In questa condizione la persona sente che ha due opzioni di fronte agli eventi: o usare
la volontà, oppure usare la resa.

L’aspetto è dicotomico: o una o l’altra opzione.

Questa fase è probabilmente il punto di partenza di molti lettori.

L’importante qui è portare consapevolezza su due aspetti:


-riconoscere qual è la tua polarizzazione primaria.
-essere consapevole che esiste anche la funzione complementare.

Cioè, se ad esempio nella vita ti accorgi che usi tantissimo la volontà, senza mai lasciarti
andare aprendoti a quello che potrebbe accadere fuori dalla sfera del tuo controllo,
porta l’attenzione a quest’ultima opzione. Riconoscila come possibile alternativa al tuo
naturale modo di essere nella vita.

Viceversa, se nella vita hai un atteggiamento passivo, in cui sei semplicemente in


apertura alle cose così come vengono, riconosci che esiste la possibilità che tu possa
imprimere al corso degli eventi una direzione manifestando un’intenzione consapevole.

Quello che conta in questa fase è attivare la funzione complementare.

Le funzioni poi vanno attivate, nel giusto ordine però.

Fase 2: Sequenza
La sequenza di sviluppo naturale prevede prima lo sviluppo della volontà poi quello
della resa. Per questo motivo, anche nell’azione di sviluppare intenzionalmente queste
due funzioni, l’ordine è il medesimo.

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Prima manifesti la volontà, con intensità esprimi la tua intenzione e agisci
nell’esperienza connettendoti al tuo scopo.

Quando senti che questa ha raggiunto l’apice di ciò che sei capace di fare in quel
determinato momento, scivoli nella resa, cioè nell’apertura incondizionata a quello
che sarà.

L’atteggiamento interiore è di sentire che hai fatto tutto quello che era in tuo potere per
dare una direzione al corso degli eventi, e ora puoi solo lasciare che le cose vadano e che
il risultato arrivi.

Si tratta di lasciare andare il tentativo di voler controllare quello che arriverà,


riconoscendo che trascende la tua possibilità di controllo.

L’elemento cruciale, per passare da questa fase a quella successiva, è quello di imparare
a sciogliere le forzature mentre eserciti la volontà.

La volontà nella sua essenza è priva di forzatura.

Forzare gli eventi vuol dire volerli rendere diversi da come sono.

Nella volontà c’è un’intenzionalità di voler cambiare le cose, ma c’è anche un


riconoscimento e un’accettazione di partenza di come le cose sono in questo
momento. Sembra un dettaglio insignificante, eppure fa una differenza enorme.

Sciogliere la forzatura è quello che ti permette di accedere alla fase seguente.

Fase 3: Unificazione
Quando le forzature nell’uso della volontà sono completamente sciolte, la volontà e la
resa si manifestano contemporaneamente, simultaneamente. Si unificano. Diventano la
manifestazione di una sola forza.

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È l’essere consapevole che sei che si manifesta con queste due caratteristiche che gli
appartengono: l’apertura e l’intenzionalità.

Origini intenzioni e le manifesti con intensità, con una forte volontà che imprime agli
eventi una direzione, ma anche al contempo sei completamente aperto e arreso a quello
che si manifesta, momento per momento.

In questa fase la volontà individuale viene inclusa e trascesa dall’apertura: si accede


a un altro tipo di volontà, che perde il connotato di essere personale.

Eppure, la volontà c’è, e si manifesta in una modalità forte e potente. Semplicemente


diventa non-personale, è una volontà che è connessa all’apertura all’esperienza che stai
vivendo.

Senti che è la vita stessa che agisce attraverso di te, manifestando le sue intenzioni e i suoi
scopi.

Da leggere » Il guidatore e l’elefante, una visione integrata

Errori nel gestire le fasi


Ci sono vari errori che si possono manifestare nel mettere in atto queste fasi di sviluppo.

Tre sono quelli più ricorrenti.

Un primo errore l’abbiamo già visto: è quello di confondere la forzatura con la


volontà.

Forzare gli eventi non è usare la volontà.

La forzatura è la conseguenza di una reazione negativa a qualcosa che stai vivendo.

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La forzatura va prima resa consapevole e poi sciolta.

Un altro errore è quello di volere invertire la sequenza di sviluppo: cercare di sviluppare


prima la resa rispetto alla volontà.

L’effetto è quello di rendere la resa una “sconfitta della volontà”, e quindi un’arresa,
alimentando uno dei possibili intoppi evolutivi che abbiamo visto precedentemente.

Un terzo errore molto comune è strettamente connesso a questo: è quello di voler


saltare completamente l’uso della volontà personale, negandola a priori o dandogli
un’accezione negativa, ad esempio “volontà egoica” o similari.

Per approfondire l’argomento leggi » Bypass spirituale

Perché è un errore? È vero che nella fase di unificazione la volontà personale diventa
qualcos’altro, diventa una volontà non-personale, ma in questa transizione la volontà
personale viene inclusa e trascesa in qualcosa di più grande, non viene negata o
repressa.

La volontà personale all’apice della sua espressione si trasforma.

Volerla negare a priori la soffoca, quindi impedisce anche di accedere all’apice


trasformativo e alla condizione di unificazione in modo stabile.

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La tua esperienza con la volontà e la resa
Nell’articolo ho delineato una sequenza di sviluppo di queste due facoltà in una
prospettiva integrativa. Certamente i punti possono essere approfonditi ulteriormente,
ma questo è a mio avviso uno schema sufficiente per comprendere molte delle
dinamiche che intercorrono tra lo sviluppo della volontà e della resa.

Ora passo la parola a te, ponendoti delle domande per riflettere su questi aspetti.

-Senti di essere polarizzato sull’uso della volontà o della resa?


-Quando usi la volontà, forzi la realtà ad essere diversa da come è?
-La resa per te è sinonimo di sconfitta?
-Ti è mai capitato di vivere l’esperienza in cui volontà e resa si unificano in un unico
movimento?

Se ti fa piacere, puoi lasciare le tue riflessioni o la tua esperienza su questi temi nei
commenti qui sotto.

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Il guidatore e l’elefante: una visione integrata
essereintegrale.com/guidatore-elefante

Agostino Famlonga

L’animo molteplice
È meraviglioso riconoscere come l’interiorità dell’essere umano sia composta da più
parti. Possediamo un insieme di funzioni con modalità di azione e scopi diversi tra di
loro, e questa è una nostra ricchezza. Il rovescio della medaglia è che a volte queste
funzioni possono essere in contrasto.

Pensa alla classica contrapposizione “mente e cuore“. La mente dice una cosa, e il cuore
ne dice un’altra. Si crea immediatamente una tensione interiore di non facile risoluzione.

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Spesso le persone, per risolvere la tensione, si polarizzano su una posizione dando
“vittoria” ad una parte e giustificando a posteriori la posizione presa.

Queste funzioni ci appartengono in quanto esseri umani. Possono essere divise tra di
loro, creando spinte contrastanti, o integrate in un insieme più grande. Non parlo solo
dell’esempio mente-cuore appena fatto, ma di tutte le innumerevoli spinte che
agiscono dentro di noi.

Da sempre l’uomo ha cercato di conoscere la sua interiorità e di conciliare i vari aspetti


della sua natura. La maturità di una persona e la sua saggezza del vivere una vita
armoniosa infatti è un riflesso di questa riuscita integrazione interiore.

Nel corso della storia, spesso chi ha compiuto questa conciliazione interiore ha tentato di
veicolare il suo insegnamento ad altri usando delle metafore. Queste hanno lo scopo di
veicolare un messaggio profondo e simbolico. Colpiscono perché agiscono con delle
immagini e degli archetipi, quindi restano più impresse rispetto ad un insegnamento
linguistico che si ferma al livello del significato semantico.

Vediamo due famose metafore storiche che tentano di dare una spiegazione di come
unire la divisione tra la parte razionale e quella emotiva-istintiva dell’essere umano.

L’auriga e i cavalli
La prima è la famosa metafora della coppia di cavalli e del carro guidato dall’auriga. È
stata ideata da Platone nel tentativo di descrivere la natura dell’anima.

Secondo questo mito le parti della nostra interiorità possono essere raffigurate come un
carro trainato da una coppia di cavalli. I due cavalli sono molto diversi tra di loro, e sono
raffigurati simbolicamente contrapponendo i colori bianco e nero.

Il cavallo bianco rappresenta la parte dell’anima dotata di sentimenti nobili ed elevati.

Quello nero raffigura la parte legata al mondo terreno, incline a lasciarsi trascinare dal
piacere e dei sensi.
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Il guidatore del carro (l’auriga) rappresenta l’intelletto e la ragione, che cerca di
indirizzare entrambi i cavalli verso il cielo, cioè verso il mondo delle idee, che secondo
Platone è la sede dell’essere autentico.

La ragione, in questa metafora, non si muove in modo autonomo ma ha solo il compito


di guidare il carro.

Nelle parole di Platone:

“Ebbene, dei due cavalli quello in posizione migliore è di figura eretta e ben costruita […]
amante di onore, ma con temperanza e pudore, e compagno dell’opinione veritiera, non
bisognoso di frusta, si lascia guidare solo con l’incitamento e la parola. L’altro, invece, è storto,
tozzo, conformato a caso […], compagno di tracotanza e vanteria, sordo, a mala pena
obbediente alla frusta coi pungoli.”

Per Platone, alcune delle emozioni e delle passioni sono di valore (per esempio, l’amore
per l’onore) e aiutano ad accompagnare l’io nella giusta direzione, mentre altre sono
sconvenienti (per esempio, gli appetiti e la lussuria).

La conciliazione delle spinte in direzioni opposte avviene quando l’auriga acquisisce la


maestria nel direzionare i due cavalli nella direzione voluta.

Questa di Platone è certamente una metafora che aiuta a comprendere le dinamiche


interiori umane. Ma un’altra, a mio avviso, rende meglio l’idea delle forze in gioco, quella
del portatore e dell’elefante.

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Il guidatore e l’elefante
Un’altra metafora che tenta di rappresentare la nostra interiorità a livello simbolico è
stata trasmessa da un altro grande saggio, il Buddha.

Il Buddha ha paragonato l’interiorità dell’essere umano alla coppia composta da un


elefante selvaggio e il suo portatore.

Questa metafora è per alcuni versi simile a quella di Platone, ma rappresenta in modo
simbolico le proporzioni diverse tra le parti in gioco. La parte emotiva-istintiva ha un
peso e una forza maggiore rispetto a quello della ragione.

Il guidatore tiene le redini, e tirandole in un modo o nell’altro dice all’elefante di voltarsi,


fermarsi o proseguire. Normalmente il portatore dirige le cose, ma solo finché l’elefante
non manifesta desideri propri: quando l’elefante davvero vuole fare qualcosa, il
portatore non può fare altro che essere portato a spasso dall’elefante.

Nella visione integrata proposta dal Buddha, il guidatore doma l’elefante.

Questa mia mente, che un tempo vagava a suo piacimento da un oggetto all’altro, in balia
di ogni capriccio e desiderio, la dominerò ora come il mahout guida l’elefante in calore
con la sua asta uncinata.

La metafora del guidatore e dell’elefante è stata largamente approfondita da un


ricercatore moderno, Jonathan Haidt, che nel suo famoso libro “Felicità, un’ipotesi” ha
analizzato molte implicazioni psicologiche e relazionali di questo binomio.
Vediamone alcune.

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L’elefante sente, il portatore giustifica
Nelle condizioni ordinarie il portatore dell’elefante è molto lontano dal domare il grosso
elefante su cui è seduto.
Le ricerche nel campo della psicologia ci dicono che al massimo può essere visto come
un consulente o un servitore, non un re, un presidente o un auriga con una presa salda
sulle redini.

Il pensiero cosciente e controllato ha spesso l’impressione di direzionare con la volontà


l’elefante, ma in realtà si è visto che la maggior parte delle volte avviene il contrario.

Ovvero, normalmente il guidatore giustifica a posteriori la direzione presa


dall’elefante, appropriandosi della scelta già fatta in modo istintivo e pre-verbale.

Significa che…

nelle condizioni ordinarie è l’elefante a tenere le redini e a guidare il portatore.

È l’elefante che decide cosa è buono o cattivo, bello o brutto. Sono le sensazioni
viscerali, le intuizioni e i giudizi avventati che ricorrono costantemente e
automaticamente.

Il portatore crea (dopo) dei ragionamenti e argomentazioni


per giustificarsi e anche li propone agli altri.
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Quando si tratta di affrontare questioni morali, il portatore va oltre il suo ruolo di
consulente nei confronti dell’elefante e diventa un avvocato che fa l’arringa di fronte alla
corte dell’opinione pubblica per persuadere gli altri del punto di vista dell’elefante.

L’avvocato è il portatore (la parte razionale) e prende ordini dall’elefante (la parte
automatica e inconscia).

Watch Video At: https://youtu.be/X9KP8uiGZTs

Il ruolo del guidatore


L’elefante e il guidatore vanno visti come un insieme inseparabile, sono una coppia che
viaggia assieme. Il portatore non può scendere dall’elefante, può solamente direzionarlo.

Il portatore, in questa coppia, è indispensabile perché ha la capacità di pianificare: ha


una visione a lungo termine, vede e analizza gli ostacoli, può riconoscere e gestire una
situazione da più punti di vista. La sua funzione è dunque fondamentale per mandare
l’elefante nella direzione corretta.

Al contempo ha la tendenza a perdersi nei dettagli, quindi potrebbe restare fermo e


non agire per molto tempo finché non ha una sufficiente chiarezza della situazione.

Inoltre ha un controllo limitato, può dare la direzione, ma per andare in quella direzione
deve muovere l’elefante.

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La funzione dell’elefante
L’elefante rappresenta i comportamenti automatici, istintivi, abitudinari. Sono molto
forti e resistenti al cambiamento.

Non sono necessariamente negativi.

Se l’elefante possiede delle sane abitudini e una serie di abilità funzionali apprese, il
portatore può dedicare la sua attenzione alla direzione a lungo termine sapendo che
l’elefante resterà ben saldo sulla strada scelta. È una forza che dà sicurezza al
portatore.

Viceversa, dal punto di vista negativo, quando l’elefante spinge in una direzione, è sordo
ai ragionamenti. Non è con la logica che si può direzionare l’elefante.

L’elefante è tremendamente attratto dalla gratificazione immediata: cerca di avere subito


un piacere da quello che sta facendo.

Quindi, di fronte ad una pianificazione a lungo termine da parte del portatore, dove sono
spesso implicate delle rinunce e dei sacrifici, tende ad andare in sofferenza e ad agire in
direzione discordante, cioè verso il piacere immediato.

Inoltre, l’elefante reagisce in modo sproporzionato agli elementi negativi.

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L’elefante non è attratto dagli elementi positivi, cerca piuttosto di evitare quelli negativi e
dolorosi.

Perché accade questo?

Perché l’elefante rappresenta la nostra parte evolutivamente più antica. Se vogliamo


possiamo chiamarla “primitiva”, istintuale.

Dal punto di vista della sopravvivenza è più importante riconoscere i potenziali


pericoli dell’ambiente e cercare di evitarli, piuttosto che perseguire un ipotetico (e
non garantito) piacere futuro.

Il piccolo piacere immediato è a disposizione immediatamente. Il pericolo da evitare


(reale o immaginario) è da affrontare subito perché potenzialmente può compromettere
la sopravvivenza.

Il grande piacere futuro è un’ipotesi, una promessa del portatore, non è certo che ci
sarà. L’elefante non ha questa connessione con il futuro, le sue reazioni sono immediate
e istintive.

In sostanza, riassumendo: l’elefante è attratto dal piacere immediato e cerca di fuggire il


dolore o gli elementi negativi presenti nella situazione attuale.

Il guidatore è attratto dai grandi e potenziali piaceri futuri ed è disposto ad affrontare dei
disagi momentanei per perseguire una strada di maggiore realizzazione. Cosa che
l’elefante non è disposto a fare.

In più, in questa metafora, dobbiamo inserire un altro elemento: l’ambiente esterno.

Un elefante condizionato
Nell’epoca in cui ci troviamo questi principi sono ben conosciuti e sono usati per
direzionare il comportamento delle persone, o per meglio dire, dei consumatori. Ci
troviamo ora nella situazione in cui l’elefante viene letteralmente addestrato a ripetere
determinati comportamenti.

L’ambiente è studiato meticolosamente per condizionare l’elefante con fini


commerciali e speculativi.

Il mondo digitale soprattutto ha aperto le porte ad un’infinità di potenti


condizionamenti.

Il mondo dei social network, per fare un facile esempio, è studiato e calibrato per dare
piccole gratificazioni immediate, utilizzando come innesco le relazioni. Un like su
facebook, una notifica di un tag da parte di un amico, è proprio quel piccolissimo

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condizionamento diretto all’elefante, che gli da la gratificazione immediata che
cerca, a costo forse del perdere di vista la strada che stava percorrendo assieme al
guidatore.

Con questa forma di condizionamento, portatore ed elefante si trovano in pochissimo


tempo letteralmente attaccati ad un telefonino alla ricerca di un piacere immediato. È
facile restare incollati ad uno schermo per più tempo di quello che in realtà si vorrebbe.
Il motivo è proprio questo: il condizionamento mirato all’elefante.

Chi addestra l’elefante è molto bravo nel


suo lavoro. Sa come addestrarlo
utilizzando dei metodi mirati ed efficaci. E
noi glielo lasciamo fare. Nell’epoca storica
in cui viviamo, serve essere consapevoli
che ci sono anche queste potenti forze
ambientali in gioco.

Potremmo ampliare la metafora in questo


modo: il guidatore, l’elefante e
l’ambiente condizionante.

Il guidatore, se vuole direzionare l’elefante,


deve esserne consapevole, riconoscerli e
proteggerlo dai condizionamenti esterni.
Schermarlo, letteralmente, con
consapevolezza da queste forze e
imparare a dirigere l’elefante.

Per approfondire » Digital mindfulness

La consapevolezza
Per come è stata tramandata la metafora nel corso della storia, c’è stata una
sovrapposizione tra la parte razionale della mente e l’auto-coscienza della persona.
Haidt nel suo famoso libro ha dato il via a questa interpretazione che poi è stata ripresa
praticamente da tutti coloro che hanno utilizzato la metafora in tempi recenti.

In realtà la ragione e l’autocoscienza sono due funzioni umane diverse da loro.

La mente razionale e la consapevolezza di sé non sono la stessa cosa.

Puoi essere consapevole di un pensiero, di un ragionamento o di un’immagine nella tua


mente. È evidente che “colui che vede il pensiero” ha qualità e funzioni diverse della
funzione pensante della mente.
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Chi che è consapevole del contenuto della mente non è il pensiero.

Un pensiero è un contenuto della mente.

La mente è un contenitore di pensieri.

La consapevolezza può essere consapevole dei pensieri e anche del contenitore dei
pensieri (la mente pensante).

La consapevolezza di sé ha natura e proprietà diverse, sia dal contenuto che dal


contenitore.

Da leggere » Coscienza e consapevolezza, qual è la differenza?

Ecco allora che dovremmo cambiare leggermente il modo di interpretare la metafora del
guidatore e dell’elefante, avvicinandoci di più al messaggio originario del Buddha.

Nella metafora originaria, il messaggio veicolato non era “la ragione dominerà
l’istinto.”

Il messaggio originario era: “porterò piena consapevolezza a istinto e ragione, e li metterò


assieme”.

Vorrei che, da qui in avanti, nella lettura tornassimo a questo intento di unificazione.

É la consapevolezza che fa il passaggio integrativo, non la ragione.

L’elefante da domare non è la parte istintuale ed emozionale, ma è l’insieme delle due


componenti umane, istinto e ragione.

Ma allora, chi doma l’elefante?

È l’individualità consapevole che doma l’elefante, prima differenziando e poi unificando


le sue parti.

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Domare l’elefante
Domare l’elefante, in entrambe le sue parti, significa accogliere le sue spinte e parlare
il suo linguaggio.

La parte emozionale e istintiva parla la lingua dei sensi, delle emozioni e dell’istinto,
non quella della ragione. Per addestrare questa parte dell’elefante serve dunque porsi su
questo piano, che è il livello del sentire, non del pensare.

Questo è il passaggio integrativo che manca all’uomo moderno, che ha spostato il


baricentro della sua attenzione dal corpo alla testa, lasciando indietro questo pezzo
fondamentale della sua umanità.

Invece di sentire, pensa. Ha scambiato il pensare con il sentire, lasciando indietro la


sua parte emozionale, istintuale, viscerale.

Recuperare il sentire è il primo passaggio da fare perché il pensiero logico e razionale


viene (evolutivamente parlando) dopo.

La mente è incorporata, nel senso di “radicata nel corpo”. E allora per integrare
entrambe queste due componenti dell’elefante, serve passare attraverso il corpo, la sua
biologia, il suo sentire.

Questo non significa che il sentire è più importante del pensare. Potremmo dire che
è più fondamentale, nel senso che viene prima e quindi fa da fondamento a quello che
viene dopo.

Da leggere » Fallacia pre-trans

Il sentire è il fondamento del pensare.

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Sono semplicemente due parti dell’animo umano che vanno messe assieme. L’essere
umano le possiede entrambe, e vanno integrate.

È la consapevolezza che si deve radicare nella componente istintuale e biologica umana.

Volendo usare un movimento simbolico, domare l’elefante non significa che l’individuo
si eleva sopra e domina l’elefante, ma che scende e si radica, prende pieno e
consapevole possesso dell’elefante.

Domare non è dominare. Domare è radicare l’essere nell’elefante.

In questo passaggio c’è un abbraccio unitario di ciò che è, c’è apertura e accoglienza a
tutto quello che il corpo sente. Allora, fatto questo, potremmo dire che l’individuo
doma l’elefante, non perché lo controlla, ma perché lo possiede come luogo di
identificazione.

Ovvero la parte istintuale, emotiva ed irrazionale, è ritornata ad essere un luogo di


identificazione della coscienza, così come lo era originariamente prima che si
sviluppassero le altre funzioni cognitive superiori dell’essere umano.

Da questo “gradino”, emerge quello seguente, la mente pensante, logica e razionale.


Senza separazione ma in una condizione di unione e integrazione tra le parti e
funzioni.

Allora il pensiero non è più distaccato dal sentire. Il pensare e il sentire sono integrati
nella consapevolezza.

Per approfondire » Consapevolezza multidimensionale

Domande per riflettere


La metafora del guidatore e dell’elefante è certamente stimolante da più punti di vista.

Ti invito a riflettere tramite alcune domande su degli elementi toccati nell’articolo.

Se hai piacere puoi condividere il tuo pensiero utilizzando i commenti qui sotto.

Senti che l’elefante e il guidatore viaggiano allineati, o che tirano in direzioni


opposte?
Quando ci sono direzioni discordanti, chi predomina, il portatore o l’elefante?
Quali strumenti usi abitualmente per direzionare l’elefante?

Bibliografia
Platone – Fedro
Jonathan Haidt – Felicità, un’ipotesi
Manuel Petrucci -Il cervello emotivo 2.0

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Divenire: quando il fare incontra l’essere
essereintegrale.com/divenire-fare-essere

Agostino Famlonga

La consapevolezza nella crescita della persona


Osservando il panorama della crescita vedo una forte contrapposizione fra due
orientamenti, apparentemente distanti tra di loro.

La crescita personale strettamente detta, incentrata sul miglioramento personale, e la


crescita orientata alla pura ricerca interiore, cioè all’aumento della consapevolezza
individuale.

Spesso leggo accesi dibattiti tra i due schieramenti, su cosa sia necessario fare per
vivere una vita piena e realizzata.

Ci sono apparentemente due strade: una è lasciare da parte la mondanità e le relazioni,


abbandonare la brama verso il possesso per cercare la felicità duratura, quella che
origina da dentro di sé.

L’altra opzione è quella della ricerca della conquista della vita. Quindi obiettivi concreti,
materiali e successo personale.

Esiste un modo di unire queste due visioni per avere una crescita personale
consapevole?

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La crescita orientata al fare
La crescita personale per come è concepita ordinariamente è incentrata sul
miglioramento di un aspetto della propria vita.

L’idea di fondo di questo approccio è che concentrando le proprie azioni su un’area


specifica è possibile migliorarla e portarla ad un nuovo livello. Questo è chiaramente
migliore della condizione attuale.

Esiste quindi la crescita finanziaria, la crescita delle proprie capacità di studio e di


memoria, la crescita nella capacità di comunicazione in pubblico, la crescita nelle abilità
nel lavoro di squadra, la crescita della capacità di seduzione, e avanti così per ogni area
della vita.

L’offerta odierna è incredibilmente variegata, c’è l’imbarazzo della scelta: il catalogo


dell’offerta formativa in ogni ambito della crescita è colmo di opportunità.

A volte la motivazione è originata da un disagio iniziale, anche se non è sempre così.


Cioè potresti renderti conto di essere in difficoltà, ad esempio economica, e cercare di
fare qualcosa per migliorare questo aspetto. Oppure potresti avere un tenore di vita che
ritieni adeguato, ma avere comunque l’impulso di volere di più.

Da questo punto di partenza orienti la tua attenzione e le tue azioni in quest’area della
vita per crescere e migliorare, per portarla ad un nuovo livello.

Ti faccio notare che non necessariamente si tratta di qualcosa di materiale. Potresti ad


esempio volere più conoscenze: 5 lauree diverse tra di loro. Il concetto di fondo non
cambia.

Questo modo di crescere riflette il modo in cui noi occidentali ci rivolgiamo alla vita: con
degli obiettivi.

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Vogliamo ottenere qualcosa dalla nostra vita. Vogliamo migliorare, e siamo disposti a
fare qualcosa per questo.

Definisco questo tipo di crescita “orientato al fare”.

La motivazione iniziale
La crescita orientata al fare origina spesso dal rendersi conto di qualcosa che manca
nella propria vita, o dall’impulso a volere di più.

In sostanza esiste un spinta interiore che emana dal sentire che “devo essere diverso
da come sono.”

Così come sono non vado bene, devo fare qualcosa. Oppure, allo stesso modo: quello
che ho non è sufficiente, voglio di più.

Si tratta di un movimento legato ad una mancanza, ad una carenza.

Spesso in questo orientamento alla crescita si viene invitati ad assumere un modo di


essere per ottenere uno scopo preciso.

Si viene invitati ad assumere dei modelli di pensiero: possono essere riferiti alla
mentalità vincente, alla mentalità dell’abbondanza, agli atteggiamenti del seduttore di
successo… insomma ci siamo capiti.

Nei casi più estremi ci si spinge al copiare comportamenti e atteggiamenti delle


persone prese come modello di riferimento.

Questo modo di crescere a volte si dimostra vincente dal punto di vista pratico: si
raggiungono gli obiettivi prefissati, spesso anche in breve tempo.

È un modello della crescita personale orientato all’efficienza, e l’efficienza sta


nell’ottenere quello che si desiderava inizialmente. Ad un prezzo elevato però.

Assumere un modello di pensiero, un modo di essere che non è tuo, ti allontana dalla
tua verità: ti allontani da chi sei tu. Questo alla lunga si paga dal punto di vista umano,
sempre.

Cioè si ottengono dei risultati anche importanti ma ci si sente vuoti, finti.

Quando c’è una sconnessione tra quello che fai e quello che sei, i risultati non appagano
fino in fondo.

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La crescita orientata all’essere
L’altro versante della crescita è quello orientato alla ricerca interiore: la crescita nella
consapevolezza.

Constatato l’insuccesso dal punto di vista della realizzazione umana del modello
precedente, ci si orienta verso l’interiorità, alla ricerca della completezza esistenziale.

Si tratta della via spirituale propriamente detta, che tradizionalmente abbandona la


mondanità per rivolgersi in modo esclusivo alla consapevolezza. Si ricerca di
un’esperienza, o una condizione, che è stabile, al di là dei continui mutamenti della vita.
La direzione è corretta, infatti…

nella consapevolezza di sé è custodita la completezza che cerchiamo fuori.

Chiamo questo tipo di crescita “orientata all’essere”.

Per approfondire » I 4 significati della parola spiritualità

Nell’essere (nella consapevolezza di sé) è possibile scoprire la perfezione della


dimensione soggettivamente assoluta, che giace intoccata al di là delle dualità della
vita.

Da questa condizione di assenza di definizione, propria della consapevolezza di sé,


osservando i mutamenti della vita li si vede per quello che sono: un gioco di apparenze,
effimero e transitorio. Un’illusione.

La crescita in questo campo allora si traduce nel restare sempre più aderenti a questa
condizione. Sempre più ritirati in sé stessi, sempre più distaccati dall’illusione della
vita.
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Sembra la soluzione definitiva all’errore della via orientata al fare. Finalmente, trovata la
completezza ricercata, è possibile direzionare lì i propri sforzi di crescita.

Sfuggendo dal narcisismo della crescita per obiettivi concreti si cade nel narcisismo della
crescita interiore.

Cercando di saltare oltre la volontà egoica individuale può innescarsi il subdolo


meccanismo del bypass spirituale.

Il ritirarsi nell’essere può rivelarsi una via di fuga dorata, originata dall’incapacità
individuale di vivere e di relazionarsi con gli altri.

Per questo motivo lo definisco narcisismo. Può essere abbellito da un alone di


misticismo e folklore, ma si tratta in molti casi di un atteggiamento spinto di
superiorità e individualismo estremo.

La crescita orientata al divenire


Esiste una sintesi tra i due orientamenti? Un approccio che elimini i difetti di entrambi e
che ne metta assieme i punti vincenti? Esiste, certamente.

A volte origina nella persona come moto spontaneo dopo aver esplorato entrambe le
polarità.

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Orientarsi in questo fin dall’inizio permette di risparmiare tempo e di agire fin da subito
nella direzione migliore. Io la definisco la crescita “orientata al divenire”.

In questa modalità di concepire la crescita l’integrità dell’essere non è il punto di arrivo,


ma diviene una tappa intermedia.

Sapere chi sei, e rimanere aderente alla tua verità, è il punto di origine per orientare la tua
esistenza.

L’intenzione non è quella di ritirarsi nell’essere e di abbandonare la vita, ma quella di


portare sempre più consapevolezza nella quotidianità.

Non una fuga all’indietro, ma un abbraccio consapevole della vita e delle relazioni .
Un abbraccio attivo, costruttivo. Un abbraccio che vuole…

costruire una vita ad immagine e somiglianza della propria verità.

Questa è la differenza sostanziale rispetto alla crescita focalizzata esclusivamente alla


consapevolezza. Si tratta di tradurre ciò che è custodito nella consapevolezza in
qualcosa di oggettivo.

Significa conoscere direttamente quello spazio neutro, indefinito, che è la nostra vera
natura, e riconoscere che seppur vuoto, tremendamente vuoto, contiene dei semi che
vogliono tradursi in qualcosa di reale.

Dal puro essere, indefinito, al divenire qualcosa di definito.

Dal non-manifesto al manifesto.

È la traduzione concreta della tensione evolutiva contenuta nella consapevolezza.

La consapevolezza è la fonte naturale della creatività e dell’innovazione, proprio perché


contiene al suo interno le infinite potenzialità di divenire qualcosa .

La tensione che inizialmente spinge verso l’auto-conoscenza, poi verso la conoscenza


dell’altro essere umano, si orienta infine nella traduzione delle infinite potenzialità della
consapevolezza di sé. Nei processi innovativi umani legati all’arte e alla scienza è
accaduto proprio questo.

Accade in modo spontaneo e naturale, è una diretta conseguenza di quello che accade a
livello interiore rimanendo aderenti alla propria consapevolezza e assecondando il moto
creativo che spontaneamente emerge da quello “spazio vuoto”, origine di tutto.

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Un nuovo significato alla crescita personale
L’approccio descritto propone una sintesi tra la crescita interiore e quella esteriore,
partendo dalla prima, partendo cioè dalla conoscenza di sé. L’esperienza ha reso
evidente che una senza l’altra non porta alla pienezza esistenziale tanto ricercata.

Esiste un percorso ideale, che permette di passare gli stadi della crescita in una
progressione ottimale. La crescita crescita descritta ha tre fasi, che andrebbero
conosciute e vissute pienamente senza scavalcarle.

Conoscere i condizionamenti
La prima è una fase di de-strutturazione, di conoscenza dei processi mentali che
hanno direzionato e condizionato la vita e le scelte fatte.

Questi contenuti mentali non si possono scavalcare, vanno conosciuti e integrati,


altrimenti continueranno a ripresentarsi e a sabotare ciò che verrà dopo.

Accedere alla piena consapevolezza di sé


Pulito a sufficienza la propria mente al punto di aver attenuato il disturbo del rumore di
fondo, ci si orienta alla ricerca interiore propriamente detta, cioè verso l’esplorare la
dimensione della consapevolezza.

Lo scopo è ottenere la piena consapevolezza di sé, cioè fare crollare l’impalcatura che
tiene in piedi la dualità, il sentire di essere separati, dagli altri, dalla vita, da sé stessi. Si
tratta di una condizione di unione diretta e consapevole con sé stessi, in grado di
donare una completezza esistenziale indescrivibile.

Per approfondire » Intensivo sull’Essere Consapevole


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Portare la consapevolezza nella vita
Tenendo l’attenzione sulla consapevolezza di sé per un tempo adeguato (un tempo che
ha chiaramente una durata soggettiva) emerge l’impulso a creare qualcosa, a tradurre e
manifestare i semi custoditi nella propria consapevolezza nella vita .

Dall’essere emerge l’impulso a divenire qualcosa.

Questa è la terza fase della crescita: il tradurre sé stessi nella vita tramite le abilità,
attraverso le relazioni, restando consapevoli di sé in ogni contesto.

Ora è possibile farlo nel modo ottimale perché si sono puliti a sufficienza i meccanismi
sabotanti della mente e perché si conosce sé stessi in profondità.

Per approfondire » Abilità nella vita

Questo è il vero significato del termine divenire: quando quello che fai è in stretto
contatto con quello che sei. Quando c’è questa unione, ecco che si attinge alla vera
motivazione, ad una fonte pressoché infinita di energia vitale.

La vera motivazione sta nell’essere che fa quello che è.

Non più una motivazione di carenza o di mancanza. Non più una lacuna da colmare, ma
una pienezza da donare.

Una sequenza naturale


Questo ordine progressivo nasce dall’esperienza sul campo, osservando l’ordine
naturale della crescita di moltissime persone. Si è notato cioè che chi affrontava le fasi in
ordine diverso è andato incontro a difficoltà maggiori, o semplicemente ha impiegato
un tempo più lungo a tradurre lo scopo di ogni fase.

Ogni fase ha i suoi scopi e suoi strumenti, non andrebbero confusi o sovrapposti tra di
loro.

Negli anni ho visto persone compiere i giri più articolati all’interno di questi tre passaggi,
partendo dalla terza fase e finendo nella prima, per poi tornare di nuovo alla fase di
costruzione.

Si tratta della storia individuale: ognuno ha il proprio percorso di vita e quindi ha il


proprio percorso di crescita. Le differenze individuali fanno parte della bellezza
dell’essere umano. Nonostante questo è possibile definire uno schema generale
funzionale allo scopo.

Conoscerlo permette di risparmiare tempo e fatica. Il mio invito dunque è quello a


riflettere sulla tua crescita in base al modello proposto e a fare un’analisi personale:
dove ti trovi? Qual è il tuo prossimo passo?

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A volte il prossimo passo significa tornare indietro a sistemare quello che non si è
portato a conclusione.

In realtà non si torna mai indietro, si va sempre avanti nel proprio percorso di crescita.
Non potrebbe essere altrimenti.

A volte il prossimo passo significa lasciare una fase ed entrare in quella seguente.

Ora conosci a grandi linee quelli che sono i passi da compiere. A te la scelta, come
sempre.

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La gioia di dare dura di più di quella di ricevere
essereintegrale.com/gioia-dare-ricevere

Agostino Famlonga

Lo scambio di regali a natale rappresenta un gesto simbolico di gratitudine nei confronti


delle persone a noi care.
Un dono ha lo scopo di rendere manifesta la nostra riconoscenza nei confronti dell’altro.

Lo scambio del dare e del ricevere doni rende l’atmosfera natalizia densa di gratitudine
e questo la rende speciale, per i bambini ovviamente, protagonisti di questo momento,
ma anche per gli adulti.

Il gesto del dare e del ricevere un dono è equivalente nel darci un senso di gioia.

Attraverso la gioia che l’altro sperimenta nel ricevere un nostro dono possiamo vivere il
medesimo sentire.

Chiaramente esistono un’infinità di vissuti individuali sul movimento del dare e del
ricevere, tanti quanti gli individui che popolano il pianeta.

Dal punto di vista teorico i due vissuti, il dare e il ricevere, si equivalgono.


Ma c’è un detto che dice: in teoria, tra la teoria e la pratica non c’è differenza… ma in pratica
c’è.

Così è anche in questo caso. Uno studio recentissimo (sarà pubblicato a breve) ha
provato ad indagare il vissuto personale di un centinaio di persone su questo aspetto.

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Quello che ha scoperto è che… la differenza in pratica c’è.
Vediamo qual è.

Lo studio sul dare e ricevere un dono


La gioia che proviamo dopo un evento o un’attività tende a diminuire ogni volta che
l’esperienza si ripete.

Anche il ricevere un dono è soggetto a quest’effetto, chiamato adattamento edonico,


ben noto nel campo della psicologia.

Uno studio recente ha indagato se questo adattamento si presentasse anche nel gesto
del donare qualcosa, e il risultato ha dimostrato che…

nel fare un dono ad un altro, la gioia soggettiva di chi dona non diminuisce, ma rimane
costante anche al ripetersi del gesto.

Invece nel ricevere più volte un dono, dopo un po’ la gioia cala.

Nel dare lo stesso dono più volte, la gioia percepita in chi dona resta costante.

Questo risultato ci mostra in modo evidente un aspetto che percepiamo anche


intuitivamente: la gioia di donare dura più a lungo di quella di ricevere.

Lo studio sarà pubblicato a breve sulla rivista Psychological Science, ma i dati sono già a
disposizione (vedi bibliografia).

Perché questo risultato?


I ricercatori hanno formulato delle ipotesi per spiegare questo risultato. Una di queste
mi ha colpito in modo particolare.

Nel ricevere un dono, l’attenzione di chi riceve è sul dono, cioè sull’oggetto che si ha
ricevuto.
Nell’atto di donare invece l’attenzione è sul gesto del donare.

Il cambio dell’attenzione da un oggetto ad un’azione, fa si che l’entusiasmo resti costante


(nel caso dell’azione).

Il gesto di donare dunque è sempre nuovo, ma soprattutto…

il donare è reso consapevole.

È la consapevolezza dell’azione che mantiene alto il senso della gioia di dare.

La consapevolezza sul dono ricevuto invece, dopo un po’ spegne l’entusiasmo.

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Il cambio del focus di attenzione rilevato nello studio è accaduto spontaneamente nei 96
soggetti che hanno partecipato alla ricerca.

Cosa accadrebbe invece se guidassimo intenzionalmente l’attenzione sul gesto (invece


che sul contenuto dello scambio), sia nel dare che nel ricevere?

La consapevolezza di dare sommata alla consapevolezza di


ricevere
L’esperienza dei corsi di studio riguardo l’abilità di dare e di ricevere ci dice che…

se resi consapevoli, il dare e il ricevere si alimentano reciprocamente, in movimenti


sempre più ampi di pienezza, di merito e di gratitudine.

Ecco allora che da questo studio possiamo trarre un utile spunto per il natale alle porte:
possiamo portare l’attenzione sul nostro gesto di donare e sul movimento del
ricevere, invece di concentrarci su cosa abbiamo donato e su cosa abbiamo ricevuto.

Sicuramente questo amplificherà la bellezza dei momenti passati assieme ai nostri cari
rendendo il natale ancora più caldo e interiormente appagante.

Il mio modo di augurarti un sereno natale


Questo è un modo un po’ strano di farti gli auguri, ma tra le righe di ciò che hai letto c’è
questa intenzione, caro lettore e cara lettrice.

L’intenzione è sia quella di darti uno spunto di riflessione in tema natalizio, che spero sia
stato gradito, e di darti assieme a questo un caloroso augurio di un sereno natale.

Agostino

Bibliografia
O’Brien, Ed, Samantha Kassirer – Repeated getting vs Repeated giving
The joy of giving last longer than the joy of getting

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Teoria, ipotesi o legge?
essereintegrale.com/teoria-ipotesi-legge

Agostino Famlonga

Esistono un’infinità di teorie costruite dall’uomo per spiegare la natura delle cose.

La teoria della selezione naturale, ad esempio, è una teoria che cerca di spiegare le
origini dell’uomo secondo un modello evoluzionistico.
La teoria del cambiamento climatico tenta di spiegare il perché del cambiamento in atto.
E potremmo proseguire con un’infinità di esempi.

Il fatto che siano solo teorie, agli occhi di qualcuno le rende deboli, come se fossero
prive di fondamenta. In fondo, essendo teorie, possono essere messe in discussione.
Chiunque ipoteticamente può inventare una sua teoria per spiegare le realtà delle cose.

Ed in effetti, questo è ciò che accade ai tempi nostri, in cui chiunque si sente legittimato a
dire la sua, mettendo in discussione qualunque cosa. Siamo infatti nell’epoca della post-
verità [LINK], in cui chiunque può mettere in dubbio tutto.

Da un lato questa libertà di pensiero ed espressione è una grande conquista, dall’altro è


un vero disastro perché erode alle fondamenta ogni verità consolidata, lasciandoci allo
sbando in una terra di nichilismo ideologico. Viviamo in un’epoca in cui la verità è una
parola che viene continuamente messa in discussione.

L’intenzione di questo articolo è quella di dare una panoramica e una distinzione su


quello che è una teoria, un’ipotesi, una legge e una verità.

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Queste parole non sono prive di significato, e non andrebbero confuse una con l’altra.
Solo comprendendo il significato dietro una parola possiamo recuperare un dialogo
comune che porti alla comprensione (sia tra gli individui che della realtà in cui viviamo).

Le 3 verità
Tutti abbiamo in noi una tensione alla ricerca della verità. In un certo senso la vita
stessa può essere vista come la ricerca continua di una verità assoluta, inconfutabile,
inamovibile.

La realtà delle cose ci pone però di fronte all’opposto: ci confrontiamo con una verità
relativa che è in continuo mutamento. Ciò che è considerato vero in un’epoca, non lo è
più in un’altra.

Verità oggettive
Un tempo era considerato vero che il sole girasse attorno alla terra, ora è considerato
vero il contrario.

Sono state cioè ideate nel tempo due diverse teorie per spiegare la realtà delle cose.
Sono equivalenti? No. Sono entrambe relative, ma non sono equivalenti.

Fra qualche anno potremmo mettere in discussione quello che oggi consideriamo vero.

Nella dimensione oggettiva ci sono verità più vere delle altre.

Perché questa affermazione? Per comprenderlo serve innanzitutto fare una prima
distinzione tra quella che è una dimensione oggettiva e quella soggettiva.

Nella dimensione oggettiva esistono cose materiali,


fisiche, concrete.
Nella dimensione soggettiva esistono pensieri,
sentimenti, punti di vista.

[Esistono anche una dimensione inter-soggettiva e una


inter-oggettiva, ma per semplificare le lasciamo fuori dal
nostro discorso. Per approfondire vedi i Quadranti ]

Una teoria che spiega una realtà oggettiva è


comunque relativa, ma può essere ordinata in un
asse di verificabilità e di verità rispetto ad altre
spiegazioni.

Il metodo di verifica che permette questo ordine è il metodo scientifico, che distingue
tra una teoria, una legge e un’ipotesi.

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La scienza, nella dimensione oggettiva, è alla continua ricerca di una teoria che spieghi in
modo sempre più vero la realtà delle cose. Cercando conferme e smentite delle ipotesi,
le varie teorie hanno nel tempo fornito una risposta sempre più adeguata
all’interpretazione della realtà.

Per approfondire » I grandi 3

Verità soggettive
Per la dimensione soggettiva invece abbiamo un’altra metodologia di indagine, che non
segue il metodo scientifico.

Le verità della dimensione soggettiva non possono essere verificate oggettivamente,


solo soggettivamente. Solo tu puoi dire se sei un tuo pensiero è vero o falso.

Esiste, nella dimensione soggettiva, un altro criterio per valutare la verità delle cose: è la
sincerità.

Una verità soggettiva è più vera di un’altra se chi la sperimenta è più sincero a sé stesso
nello sperimentare quella cosa.

Per approfondire » Criteri di validità

La verità soggettivamente assoluta


Sia la dimensione oggettiva che quella soggettiva ci pongono di fronte all’evidenza di una
verità in continuo slittamento. Esiste certamente una progressione e una direzione in
questo processo, ma non è visibile un punto di arrivo definitivo .

L’unica nostra dimensione esistenziale che prevede il


raggiungimento di un apice della ricerca della verità è
la dimensione della consapevolezza.

Nella consapevolezza la ricerca della verità può


trovare il suo compimento.

Trova il suo apice in una verità soggettivamente


assoluta, che altro non è che l’integrità dell’essere
consapevole.

Per approfondire » La completezza esistenziale e


l’Esperienza Diretta di sé

Equivalenza
Le tre dimensioni esistenziali sono equivalenti tra di loro.

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Anche trovando la completezza esistenziale nella dimensione della consapevolezza, non
si spegne la tensione alla ricerca di verità relative sempre più vere nelle dimensioni
oggettiva e soggettiva.

Quindi, compreso questo passaggio importante, come possiamo individuare un criterio


di validazione delle verità relative?
Innanzitutto specificando un linguaggio comune e un metodo di ricerca.

Un linguaggio comune
Per comprenderci maggiormente abbiamo bisogno di un usare dei termini che
permettano di definire bene a cosa ci stiamo riferendo.
Iniziamo dunque dal distinguere 4 elementi che a volte vengono confusi tra di loro:

Fatto
Ipotesi
Teoria
Legge

Sono quattro fattori determinanti nella nostra ricerca di un ordine nelle verità relative.
Tutti e quattro sono indispensabili, al loro posto, con un ordine una valenza precisa.

Fatto
Un fatto è un’osservazione che possiamo fare del mondo attorno a noi.

(…e dentro di noi, ma per semplificare restiamo nella dimensione oggettiva).

Osservare significa guardare qualcosa di specifico e per vedere qualcosa.

Un esempio banale: guardi alla finestra e vedi che fuori c’è la luce.
Hai osservato un fatto: fuori c’è luce.

L’osservazione è sia il punto di partenza che il punto di arrivo del metodo scientifico.

Si parte da un’osservazione per trarre delle ipotesi, e sempre tramite l’osservazione si


cerca di falsificare o confermare le ipotesi di partenza.

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Ipotesi
Un’ipotesi è una proposta di spiegazione di un fenomeno, che diventa il punto di partenza
per ulteriori indagini.

Continuando l’esempio di prima: fuori c’è la luce perché è sorto il sole.

Un’ipotesi non è qualcosa che puoi provare, è solo qualcosa da testare.

Ci sono molte ipotesi. Perché c’è luce fuori dalla finestra?

La luna è esplosa.
C’è un ufo che sta illuminando il giardino.
È sorto il sole.

Se esci fuori e c’è il sole, l’ipotesi del sole è confermata. Hai fatto un’osservazione
scientifica.

Test

Un test è una verifica delle ipotesi. Osservando elimini le ipotesi sbagliate e confermi
quella esatta.

Uscendo in giardino puoi vedere che non ci sono ufo, che la luna è al suo posto e che il
sole splende alto nel cielo.

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Confermi semplicemente un’ipotesi corretta. Non è una teoria o una legge o una verità
assoluta, è semplicemente una possibile spiegazione per qualcosa. Qualcosa che ti può
portare a una nuova ipotesi, che ti può confermare o disconfermare questa ipotesi, in un
ciclo potenzialmente infinito.

Quando si hanno una serie di ipotesi confermate su un fenomeno, possono essere


raggruppate in una teoria che tenta di spiegare il fenomeno.

Teoria
Una teoria è una spiegazione dettagliata di un fenomeno acquisita tramite il metodo
scientifico e ripetutamente testata e confermata tramite osservazione e sperimentazione.

Maggiori sono le ipotesi confermate, più la teoria è solida, regge cioè il test di realtà.

Questo è il punto centrale che permette di ordinare le teorie in un asse di verità. Si


tratta sempre di una gerarchia relativa: la teoria può comunque essere messa in
discussione e venire cambiata in futuro, ma sempre verso una direzione di maggiore
verità, cioè più aderenti alla realtà. Esistono teorie più vere di altre, perché poggiano su
una quantità maggiori di verifiche sul campo.

Una teoria è utile perché permette di fare previsioni.

Le teorie ci permettono non solo di vedere come sono le cose, ma anche di prevedere
come saranno in futuro. Più una teoria è esatta, più accurata sarà la previsione.

Il ciclo è questo:

Fatti > Ipotesi > Test > Teoria > Previsioni

In un ciclo potenzialmente infinito di previsioni e di verifiche, verso una completezza


sempre maggiore della teoria.

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Legge
Una legge è un’affermazione basata su ripetute osservazioni sperimentali che descrive un
fenomeno, spesso espressa tramite una modalità matematica.

Un esempio: la legge di gravità.

Osservando una mela che cade da un albero puoi descrivere il suo moto tramite delle
precise leggi matematiche (le leggi di Newton).

La gravità è sia una legge che una teoria. Perché?

È una legge perché descrive in modo preciso come accadono le cose, ma non spiega il
perché questo accade.

Dalla legge alla teoria


Con la legge di gravità puoi calcolare in modo esatto il moto dei pianeti, ma questo non ti
dice nulla sul motivo del moto. Ecco che entrano di nuovo in gioco le ipotesi.

In questo passaggio, la gravità, da legge diventa teoria.

Poi ipotizzare che la mela cada perché…

Ci sono delle forze che agiscono sulla mela


Per come è fatta la struttura dell’universo
Perché è attratta magneticamente dalla terra

Di nuovo, secondo il metodo scientifico, eliminando le ipotesi false puoi estrapolare


una teoria della gravità, come ad esempio ha fatto Einstein con la sua relatività generale.

È la teoria definitiva che spiega la gravità? Certamente no, perché ad esempio non
spiega alcuni fenomeni della meccanica quantistica, quindi anch’essa è una teoria
incompleta.

Significa che non ha valore? Assolutamente no, perché permette, ad oggi, una
spiegazione e una previsione accurata di moltissimi fenomeni. Significa semplicemente
che deve essere integrata in alcuni suoi aspetti fondamentali.

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Questo è valido per tutte le teorie.

Per quanto possano essere incomplete in alcune loro parti, le teorie basate su una
verifica secondo il metodo scientifico sono l’interfaccia migliore che abbiamo per
interagire con la realtà.

Possiamo utilizzare una teoria consapevoli dei suoi limiti e forti delle sue solide verifiche
empiriche.

Le fondamenta teoriche di Essere Integrale


Perché ho scritto un articolo su questo tema? Una spinta arriva sicuramente dal mio
essere particolarmente sensibile al tema della verità.

Quando vedo dilagare il nichilismo della post-verità, sento un moto interiore che mi
spinge a tentare di ridare un ordine di valore alle verità relative.

L’altro movente è quello di darti uno spaccato di quelle che sono le fondamenta
teoriche del sito che stai leggendo.

Quello che scrivo negli articoli che leggi su questo blog ha due riferimenti teorici
importanti: la Teoria Integrale di Ken Wilber e la Teoria dell’essere di Silvano
Brunelli.
Entrambe sono teorie che forniscono uno spaccato della realtà.

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La Teoria Integrale è un
modello teorico che fornisce
(ad oggi) il contenitore più
ampio e integrato possibile
per includere ogni campo di
ricerca della realtà, sia essa
oggettiva, soggettiva,
intersoggettiva o
interoggettiva.
Le sue fondamenta poggiano
sul pluralismo metodologico,
che altro non è che
l’integrazione di più metodi
di ricerca, differenziati a
seconda della dimensione di
indagine.

La Teoria dell’essere di Brunelli


fornisce un solido e
verificabile insieme di
conoscenze che permette sia
di indagare che di costruire
nella dimensione invisibile
della consapevolezza. La
teoria dell’essere è un corpus di conoscenze verificato sul campo in 30 anni di
esperienza nell’Intensivo sull’Essere Consapevole, e quindi si presenta ai giorni nostri con
maturità e solidità.

Uno dei punti di forza di questa teoria è che indaga una la dimensione della
consapevolezza da una prospettiva priva di mistificazioni.

Il mio tentativo, con gli articoli di questo blog, è quello di unire le due teorie e di darti
degli strumenti di conoscenza utili alla tua crescita, sia in consapevolezza che nella vita,
sia nella dimensione individuale che sociale.

L’altra spinta, è quella di far sì che la teoria diventi pratica.

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Dalla teoria alla pratica
Nel campo della crescita, sia essa interiore che esteriore, avere una conoscenza
maggiore di un tema non si tramuta necessariamente in qualità di vita. Conoscere di più
una teoria non significa avere fatto un passo di crescita.

Quello che ti fa crescere è la teoria messa in pratica.

La pratica senza teoria però può essere davvero frustrante e portarti fuori strada in un
processo continuo di prova ed errore.

Ecco allora che la teoria non è inutile, anzi. Ti da una direzione, ti da la mappa di un
territorio.

Sapendo benissimo che la mappa non è il territorio, possiamo utilizzare le mappe


migliori per la nostra crescita, affidandoci cioè alle teorie attuali più aderenti alla
realtà delle cose.

Bibliografia
Ken Wilber – Pluralismo Metodologico Integrale
Silvano Brunelli – La teoria dell’essere vol. 1 e vol. 2
Thomas Kuhn – La struttura delle rivoluzioni scientifiche
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Le emozioni e l’ombra
essereintegrale.com/emozioni-ombra

Agostino Famlonga

L’aspetto emozionale è un tassello fondamentale della crescita interiore. Rappresenta le


fondamenta sulle quali poggia l’integrazione successiva che si articola su più livelli, via via
più complessi e delicati.
Se queste fondamenta non sono saldamente costruite, quello che viene dopo risulta
potenzialmente compromesso.

Quando le emozioni non sono gestite correttamente, quello che emerge è un insieme di
emozioni che ristagnano: bussano ripetutamente alla porta della consapevolezza per
essere integrate. Spesso si ripresentano sotto forma di schemi emozionali, o anche
sotto forma di una singola emozione (spesso giudicata come negativa), che frenano e
ostacolano la crescita.

Quello che accade è che spesso, nonostante l’impegno personale nel cercare di andare
oltre questi schemi, essi si ripresentano.
Cambiano le situazioni, ma si ripresenta il medesimo schema emozionale.

Perché accade questo?

Uno dei possibili motivi è che si sta trattando un’emozione secondaria, senza attingere
alla sua fonte, cioè l’emozione primaria che l’ha originata.

Esistono delle emozioni stratificate, in cui una è il riflesso di un’altra messa in ombra.

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Quando le emozioni si stratificano, tu senti quella che sta sopra, e non hai accesso a
quella che sta sotto.

L’articolo che stai leggendo parla proprio di questo: di come svelare una falsa
emozione e di come attingere all’emozione primaria. Tramite il processo di
trasmutazione delle emozioni, puoi accedere all’energia libera trattenuta alla base di
questa emozione.

Prima di affrontare direttamente le emozioni, lascia che ti spieghi brevemente il concetto


psicologico di “ombra”.

Ombra
Il termine ombra, in campo psicologico, è usato per definire quella nostra parte mentale
ed emozionale che non è direttamente accessibile alla consapevolezza. È un’area
mentale inconscia che racchiude un vasto insieme di pensieri, sentimenti e dinamiche
che agiscono in modo autonomo.

Noi ne sentiamo il riflesso, a volte subendone le conseguenze.


Infatti questo insieme di dinamiche in ombra può agire sul comportamento deviando
l’intenzionalità dell’individuo.

L’ombra è per definizione il regno dell’oscurità e di ciò che rifiutiamo poiché non ci
piace o non ci fa essere a nostro agio con noi stessi o nei confronti degli altri. Spesso in
essa si racchiudono emozioni giudicate come fortemente negative.

Tramite una serie di meccanismi psicologici di difesa, invece di accedere in modo


completo alle emozioni, sentendole e vivendole pienamente, queste vengono segregate
in uno spazio psicologico inconscio.
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Le emozioni, quando vengono deviate in questo spazio psichico inconscio, non cessano
di esistere: semplicemente restano separate dall’accesso cosciente da uno strato di
resistenza.

Il sentire l’emozione può venire deviato in vari modi: può essere congelato, represso,
negato, distorto.
Quando questo accade,

non sentiamo più l’emozione originaria, ma ne subiamo l’emanazione.

Questa emanazione ha effetto sul pensiero, sul comportamento e a volte nella genesi di
emozioni secondarie, che definiamo in questo articolo come “false emozioni.”
È falsa perché è solo un effetto di un’emozione più profonda non sentita completamente.
Proprio su questo punto si commettono spesso molti errori.
Vediamo subito quello tipico.

Da leggere » I 6 tipi di inconscio

Un errore comune
Un errore comune nel cercare di affrontare il proprio mondo emozionale è quello di
cercare di fare qualcosa con l’emozione secondaria , cioè con la falsa emozione.
Questo è un sentire che va riconosciuto e validato completamente, con il solo scopo
di accedere a quello che sta sotto, l’emozione primaria.

L’errore piuttosto comune sta nel tentare di alterare il sentire.

Alterandolo mantieni in vita proprio la barriera che tiene l’emozione primaria in ombra,
quindi continui ad alimentare il meccanismo.

Facciamo un esempio: se senti tristezza immotivata per un lungo periodo di tempo,


potrebbe essere che questa sia un’emozione secondaria generata dal reprimere la
rabbia (vedi lo schema più avanti).
Tentare di modificare la tristezza, convincendosi di essere felici e gioiosi o cercando
alterare il pensiero in modo positivo per convincersi di non essere tristi, non fa altro
che mantenere in vita il meccanismo che ha generato questa tristezza pervasiva e
permanente.
Vedremo più avanti come questa situazione può essere affrontata integrando l’ombra
originaria.

Falsa Emozione
Cos’è dunque una falsa emozione?

Una falsa emozione è un’emozione che è emanazione di un’altra emozione messa in


ombra.
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Potenzialmente tutte le emozioni possono soggiacere a questo meccanismo, ma per
fortuna non tutte le nostre emozioni ricadono nella dinamica qui descritta.

Nello schema qui sotto, reso semplice per chiarezza espositiva, ti ho elencato alcuni
esempi di falsa emozione.

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Serve a questo punto fare una precisazione importante: la definizione “falsa emozione”
non dovrebbe farti cadere nell’errore di considerare quest’emozione irreale. Per chi la
sperimenta, che sia un’emozione secondaria o primaria, questa è altamente reale.

Il sentire è autentico.

Mantenendo l’esempio di prima: se stai vivendo tristezza come emozione secondaria,


questa è autentica, ti senti autenticamente triste. Non puoi etichettare quello che senti
come “falso” e risolvere la questione in questo modo. Quello che senti è vero. E va
riconosciuto come tale.

Semplicemente va svelato quello che sta sotto, la vera emozione, o l’emozione originaria
se preferisci chiamarla così.

Lavorare con le emozioni


Un autentico lavoro interiore sulle proprie emozioni avviene tramite lo svelamento
dell’ombra.
Portare alla luce le emozioni congelate, represse, negate o distorte permette di:

liberare la potenza del proprio sentire;


accedere ad un profondo radicamento corporeo;
attingere ad una autentica vitalità;
sviluppare a pieno la propria capacità di provare empatia;
Porre le basi per un processo integrativo sano.

Tutto questo si traduce in una profonda autenticità, non solo emozionale, ma che
coinvolge tutta la persona nella sua interezza.

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Possiamo riassumere il lavoro interiore sulle emozioni scomponendolo in una sequenza
in 3 stadi:

1. Svelamento dell’emozione messa in ombra


2. Trasmutazione dell’emozione primaria
3. Liberazione dell’energia trattenuta

Sono due i passaggi integrativi in sequenza.


Il primo apre la porta all’emozione primaria.
Il secondo ti permette di accedere all’energia grezza che è trattenuta nell’emozione
primaria.

Per comprendere come funziona il processo di integrazione dell’ombra serve


comprendere come questa si è generata. Compreso il processo dissociativo, è possibile
comprendere come fare il processo inverso.

La genesi dell’ombra
Quando un evento, un impulso personale, un’emozione, un pensiero va oltre la soglia di
tolleranza e di accettazione personale o sociale, questo viene messo “fuori dai confini
dell’io.”

In una personalità integrata questi impulsi o pensieri o emozioni sono posseduti e


riconosciuti come propri. Quando però sono troppo intensi, o non accettati per
qualsiasi motivo, vengono messi fuori dal confine psichico di identificazione, e vengono
riconosciuti come “non me”.

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Questi poi vengono proiettati su qualcosa, su una persona o sulle persone, su un
oggetto, su un evento, sulla vita in generale. L’oggetto viene “colorato” da questo vissuto
personale dissociato.

Il passaggio poi può proseguire oltre nel negare totalmente il vissuto originario,
perdendo il contatto con il sentire originale.

Il processo dissociativo ha dunque due passaggi: dapprima tramuta un vissuto in 1a


persona in uno in 2a persona, e poi in 3a persona (da un io, a un tu, ad un esso).

Facciamo un esempio per comprendere meglio questi concetti.

Un esempio: la dissociazione della rabbia

1. Identificazione in prima persona


La rabbia, prima di essere dissociata, è posseduta in prima persona: viene riconosciuta
come sé stessi o come una propria parte. Senti rabbia, ed è la tua rabbia. La possiedi,
è tua.
Se questo vissuto è accettato e sostenuto, il processo dissociativo non accade. Se però la
rabbia supera una soglia critica, o viene giudicata come pericolosa, viene messa fuori
dal confine dell’io, e viene messa su qualcosa o qualcuno “là fuori”.

2. Identificazione in 2a persona
Quando una parte di sé non è posseduta viene dissociata in una identificazione in 2a
persona. Si genera una relazione, con questa parte di sé, fuori da sé .

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In questa fase non senti più di essere arrabbiato, ma senti che gli altri sono arrabbiati
con te.
Potresti in questo stadio riconoscere che “Io non sono arrabbiato, sei tu che ce l’hai con
me”.

[ Al posto di arrabbiato puoi mettere qualsiasi cosa (geloso, invidioso…). ]

3.Identificazione in 3a persona
Se ancora il vissuto soggettivo è considerato sgradevole e insostenibile, questo viene
spinto ancora oltre: passa ad una identificazione in 3a persona, cioè diventa qualcosa
che non ti riguarda più. Diventa un oggetto esterno che non ha nessun legame con
te.

“Rabbia? Di cosa stai parlando?”

Ecco che a questo punto l’emozione originaria è messa completamente in ombra.


Continuerà ad agire, ma la sua azione sarà fuori dal tuo campo di consapevolezza.
Potrebbe manifestarsi come inquietudine, irritazione immotivata, senso di stanchezza…
le forme potrebbero essere molteplici e variabili.

Il processo dissociativo può essere descritto come il passaggio progressivo da un


vissuto in 1a persona (Io) ad uno in 2a persona (Tu) ad uno in 3a persona (Esso).

Per mettere in atto il processo integrativo, dobbiamo percorre il percorso inverso.

Riappropriarsi dell’ombra
Per accedere al vissuto messo in ombra bisogna invertire la rotta: l’elemento
dissociato, finito in una prospettiva in 3a persona deve diventare un qualcosa a cui è
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possibile relazionarsi (un tu, una prospettiva in 2a persona) e infine deve diventare
oggetto di identificazione (un Io, deve cioè essere vissuto in prima persona).

Freud riassumeva l’intero processo così:

“Dove c’è un esso, lì io devo diventare”. Freud *

Ovvero, devo trovare le parti alienate da me stesso – un esso – e riappropriarmene


facendole diventare un io.

Nel processo dissociativo un vissuto attraversa questa sequenza:

Da 1a persona >> a 2a persona >> a 3a persona.

Per riappropriarsi dell’ombra si percorre la sequenza inversa:

Da 3a persona >> a 2a persona >> a 1a persona.

Da qualcosa che mi irrita senza nemmeno rendermene conto a qualcosa a cui posso
relazionarmi, fino a diventare io stesso proprio quella cosa.

Vediamo come funziona il processo.

[ *Vedi “Integral Spirituality” di Ken Wilber pag. 123. ]

Processo di integrazione dell’ombra 3-2-1

3. Affrontalo

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Osserva il disturbo attentamente. Descrivilo. Chiarisci la situazione e il rapporto con le
persone interessate.

Nell’esempio della rabbia, questa non viene più riconosciuta, ma viene vissuta come
emozione secondaria, come tristezza, o come irritazione. Descrivi la situazione che
genera fastidio, con tutti gli elementi che concorrono a generare il tuo vissuto.

Non minimizzare il vissuto, prendi il tempo che ti serve per descriverlo il più
dettagliatamente possibile.

2. Parlaci
Entra in relazione con il vissuto, con l’esperienza in questione o con le persone
interessate.

Potresti simulare un dialogo con questo oggetto, creando in questo modo una
relazione più profonda.
Potresti chiedergli “Cosa sei? Chi sei? Da dove vieni? Cosa vuoi da me? Cosa mi stai
comunicando?…“
Permetti al disturbo di risponderti.

Immagina realisticamente la risposta e vivi intensamente il dialogo, lasciandoti stupire


dalla risposta soprattutto a livello emozionale ed energetico, aprendoti al sentire che
emerge.

1. Diventalo
Dopo avere esplorato questo oggetto, questa situazione o questa emozione è arrivato il
momento di identificarti con esso.
Vuol dire diventare completamente questo oggetto o questa immagine o sensazione.
Vuol dire metterti in prima persona nei panni di quell’oggetto che prima hai
descritto, entrando completamente nella sua prospettiva. Devi arrivare al punto di
vedere il mondo come lui lo vede, diventando l’oggetto stesso.

Questo è il passaggio più difficile, perché proprio da qui è partito il processo dissociativo.
Sembra impossibile, è difficile e crea disagio. Ricorda che

se non creasse disagio stare in quel vissuto, non sarebbe finito fuori dai tuoi confini.

Quindi, con un atto di coraggio, entra in questa prospettiva, aiutandoti anche con dei
bei respiri pieni profondi.

Il processo di identificazione va sperimentato prima di essere padroneggiato


completamente.

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Inizialmente ci si avvicina con il sentire. Si inizia con il sentire quello che sente l’oggetto,
poi si intensifica il sentire e ci si apre, letteralmente “scivolando dentro” l’oggetto fino
a prenderne le sembianze e la prospettiva.

Non si tratta di un processo immaginativo mentale, è un vero e proprio processo


identificativo della coscienza.

Quando lo fai correttamente avviene un cambiamento interiore. Può avvenire sotto


forma di un insight o di un cambiamento energetico: senti l’energia che si trasforma,
che cambia assetto. Ti senti più aperto e leggero: hai recuperato l’energia e l’emozione
primaria che stava sotto l’elemento messo in ombra.

Trasmutazione delle emozioni primarie


Quando hai accesso, tramite il processo 3-2-1 di integrazione dell’ombra, all’emozione
primaria, puoi mettere in atto il passo seguente, quello di trasmutazione delle
emozioni.

A questo livello di apertura del sentire le emozioni sono piuttosto intense, e si


manifestano anche emozioni giudicate spesso come negative: rabbia, paura,
tristezza…
Un pensiero comune è che queste debbano essere eliminate, modificate, alterate in
quanto sabotano la tua crescita. In realtà non è così: il tentativo di eliminarle è proprio
quello che le ha mantenute in ombra.
Serve fare qualcos’altro, cioè accedere all’energia sottostante, contenuta nell’emozione
stessa.

Ti propongo qui una sequenza che ha questo scopo.

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Sequenza di 5 passaggi per la trasmutazione delle emozioni
1. Osserva cosa senti e come si manifesta nel tuo corpo (sia dal punto di vista fisico
che energetico).
2. Sospendi ogni tendenza a giudicare quello che senti. Se ti accorgi che stai
giudicando quello che senti, riconoscilo con accettazione.
3. Se la tua emozione riguarda qualcosa o qualcuno, rilassa il tuo rapporto con questa
cosa o persona. Lascia che l’energia emozionale sia quello che è.
Nota che sta emergendo in te facendo un cambio di prospettiva: da “mi fai
sentire così”, a “questo sentire emerge in me“. Prenditi piena responsabilità in
prima persona di ciò che senti.
4. Senti pienamente l’energia della tua emozione. Respira in modo circolare,
facendo dei respiri pieni e permettendo all’emozione di esprimersi completamente.
Quando inspiri, lascia che l’emozione si intensifichi e che “venga a te”.
Quando espiri, lasciala andare.
Dopo qualche respiro inizierai a sentire che l’emozione cambia, si mette in
movimento.
5. Tieni l’attenzione sul processo di transizione dell’emozione. Riconosci la natura
mutevole dell’emozione e attingi all’energia grezza sottostante che si è liberata.

Il punto focale di tutto il processo è l’accettazione e il permesso all’emozione di essere


così com’è, qualsiasi essa sia: questo rilassa la tensione e la resistenza che la circonda.
Poi permetti all’emozione di venire a te, ti permetti di sentirla pienamente aiutandoti
con la respirazione.
Quando hai vissuto pienamente quest’emozione, emerge quello che sta sotto,
un’energia grezza e altamente vitale.

Energia liberata

L’energia sottostante si libera da sola.

Non è necessario fare qualcosa per attingere a questo serbatoio di energia grezza.
La definisco grezza non nel senso di rozza. Vuol dire primordiale, aderente alla tua
essenza. È pura energia vitale disponibile per la tua evoluzione.

Continuiamo con l’esempio della rabbia. Dietro questa emozione umana c’è moltissima
energia. Quando la rabbia entra nel processo di trasmutazione delle emozioni si
trasforma in pura essenza e diventa energia libera da impiegare nell’ottenere chiarezza,
nell’agire verso la situazione che ha generato la rabbia cercando di modificarla in modo
costruttivo e consapevole.
La rabbia non scompare nel nulla: diventa qualcos’altro, e diventa una grande risorsa
da impiegare nella tua crescita interiore e non.

Qualsiasi sia l’emozione di partenza, diventa energia al servizio della consapevolezza.

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Nello schema che segue ti ho riassunto in modo semplificato i principali effetti della
trasmutazione delle emozioni.

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Chiaramente lo schema serve a dare un’idea generale dei concetti: non è possibile
catturare l’intera fluidità delle emozioni in schemi rigidi.

Riassumendo l’intero processo: le emozioni secondarie (non autentiche) si


trasformano in emozioni primarie, e queste si trasmutano in energia trascendente
e risvegliata.

Come
In questo articolo ti ho dato uno spaccato generale dell’interazione tra le emozioni e
l’ombra, cercando di farti comprendere i concetti generali.
Mi auguro che questo sia uno stimolo teorico per iniziare un lavoro di tipo pratico su
questo aspetto importantissimo della tua crescita interiore.

Ma come mettere in pratica tutto questo?


Ti propongo 4 strumenti, che conosco personalmente e che quindi sento di consigliarti
senza remore.

1. La psicoterapia
Uno degli scopi della psicoterapia è proprio quello di svelare l’ombra e di integrarla.
Quando è fatta bene, raggiunge il suo scopo.

2. Il Respiro Circolare
La respirazione circolare è una tecnica che permette di innescare sia il processo di
svelamento dell’ombra che di integrazione delle emozioni che qui abbiamo chiamato
trasmutazione.
La tecnica è semplice, alla portata di chiunque. Si apprende tramite un insegnante
qualificato poi si può praticare in autonomia ogniqualvolta se ne senta il bisogno.

Vedi » Respiro Circolare

3. Il corso “La mente funzionale”


Questo corso ideato dal Centro Studi Podresca ha una prima parte interamente dedicata
allo svelamento dell’ombra (con una tecnica più articolata rispetto al processo 3-2-1 che
ti illustrato in questo articolo).

4. L’Intensivo sull’Essere consapevole


L’Intensivo è un corso residenziale della durata di 3 giorni interamente dedicato alla
ricerca interiore. Il processo di svelamento dell’ombra viene messo in atto come effetto
secondario dell’applicazione della tecnica di consapevolezza dell’Intensivo. Il processo
integrativo, sia delle false emozioni che delle emozioni primarie, viene messo in atto in

15/16
modo intenso e profondo dalla tecnica stessa. Per come è strutturato il corso, fornisce un
sostegno significativo che permette alla persona di andare a fondo nelle sue dinamiche
interiori.

Vedi » Intensivo sull’Essere Consapevole

Il tuo rapporto con le emozioni e l’ombra


Sono certo che questo articolo ti ha aperto una serie di riflessioni riguardo ciò che senti.
In futuro certamente questi argomenti saranno approfonditi con altri articoli, per cui ti
invito a restare in contatto con essereintegrale.com iscrivendoti alla newsletter.

Ti lascio con due domande per riflettere:

1. Qual è l’emozione che generalmente metti più in ombra?


2. Sai riconoscere il meccanismo per cui la reprimi?

NB: non mettiamo in ombra solo le emozioni spiacevoli, ma anche quelle assolutamente
positive. (Ma questo sarà argomento di un altro articolo)

Puoi lasciare, se ti va, le tue considerazioni nei commenti qui sotto ⤵️

Bibliografia:
Silvano Brunelli – Nel labirinto della mente
Ken Wilber – Integral Life Practice
Ken Wilber – Integral Spirituality

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Coscienza e consapevolezza: qual è la differenza?
essereintegrale.com/coscienza-consapevolezza-differenza

Agostino Famlonga

Coscienza e consapevolezza: su questo argomento sono state spese un’infinità di


parole. Il dibattito su cosa sia la coscienza, su cos’è la consapevolezza, da dove originano
e su quale sia la loro differenza va avanti da millenni, e ad oggi ancora non c’è una visione
univoca sulla questione (e non è detto che ci sarà in futuro).

Non è quindi mia pretesa, con questo breve articolo, fare un trattato su questo tema.

La mia opinione personale è che i vari punti di vista, anche se a volte apparentemente
discordanti, verranno inclusi in un sistema più ampio , che permetta cioè di includerli
tutti in un “contenitore” più grande. Un approccio multidisciplinare e integrato, come
quello che sta da anni proponendo Ken Wilber con i suoi studi in questo campo.

La mia intenzione con questo articolo è quella di portare la tua attenzione alla tua
prospettiva personale, soggettiva, dell’esperienza della coscienza e della
consapevolezza.

Un approccio pratico all’argomento


Mi concentrerò in questo articolo sull’aspetto esperienziale della questione.

Possiamo passare delle giornate intere a discutere della differenza tra coscienza e
consapevolezza, e certamente sarebbe un utile approfondimento, ma non è detto che
questo porti a qualcosa di spendibile. Per spendibile intendo qualcosa di applicabile
immediatamente nella vita.
1/8
In bibliografia ti lascio delle utili risorse di approfondimento riguardo questi temi, per cui,
se sei interessato ad andare più a fondo nella conoscenza teorica della questione,
consulta queste fonti per trovare quello che cerchi.

Difficoltà
Le difficoltà nell’affrontare la questione su quale sia la differenza tra coscienza e
consapevolezza sono due.

1. Da una parte entrambe non sono qualcosa di definibile oggettivamente. Non sono
“oggetti”, ovvero non puoi dire “questa è la coscienza, eccola qui.”
La coscienza non è qualcosa. Idem la consapevolezza.
Puoi definire da dove viene, puoi studiare i correlati neuronali della coscienza, puoi
anche misurare il grado di coscienza di una persona (vedi gli studi del ricercatore
italiano Giulio Tononi), ma anche riuscendo a misurarla, ti ritrovi con un dato, con
una “misura del grado di coscienza”, che non è la coscienza stessa.
2. L’oggetto di indagine è il soggetto che mette in atto l’indagine stessa.
Il tentativo di definire cos’è la coscienza e cos’è la consapevolezza è messo in atto
proprio da colui che è cosciente e consapevole . Così come l’occhio non può
vedere sé stesso, così il tentativo di osservare l’osservatore porta ad un processo
ricorsivo, cioè che si riavvolge su sé stesso.

Un approccio soggettivo
Non è compito di questo articolo cercare di superare difficoltà di cui sopra nell’andare a
studiare l’argomento coscienza e consapevolezza: semplicemente le riconosciamo e le
accettiamo.

È innegabile che ognuno di noi, in quando individuo cosciente dotato di consapevolezza


di sé, ha un’esperienza soggettiva di che cosa siano queste qualità della propria
esperienza. E proprio su questo aspetto desidero concentrarmi.

Quindi, da qui in avanti, ciò che leggi ha questo focus: pratico e soggettivo, cioè in prima
persona.

Questo ci permette di mettere in pausa gli ostacoli metodologici, filosofici, ontologici ed


epistemologici e di concentrarci su qualcosa di importante: la tua esperienza soggettiva.

Per approfondire » Le 3 prospettive fondamentali

2/8
Coscienza
Le varie branche del sapere umano hanno cercato di dare una definizione di cosa sia la
coscienza, e spesso quello che è fanno è contrapporlo a ciò che non è.

Ad esempio, secondo le neuroscienze, lo stato cosciente è contrapposto con lo stato


di coma, in cui la coscienza è in gran parte ridotta.

Nella psicologia si distingue ciò che è cosciente rispetto a ciò che è inconscio come
qualcosa di accessibile all’elaborazione consapevole.

Nella psichiatria si definisce la coscienza come quella proprietà che definisce i confini
dell’io, rispetto a ciò che è definibile come non-io.

Nello studio della morale la coscienza è la capacità di distinguere il bene dal male,
contrapposta alla mancanza di coscienza, ovvero all’ignoranza di ciò che è bene e ciò che
è male.

Dal nostro punto di vista, soggettivo e pratico,

la coscienza è quell’aspetto della tua esperienza umana che ti consente di essere qui, ora,
presente.

Se non sei cosciente non sei presente, non sei qui, non sei ora. Sei da un’altra parte, in un
altro tempo. O forse, più semplicemente, non sei.

Lo puoi tradurre, in modo esperienziale, con “io sono”.

“Io sono” non è un’affermazione mentale, ma è una qualità delle tua esperienza
cosciente.

Puoi anche dirti la frase mentalmente, ma questa dovrebbe essere un veicolo per
spostare la tua attenzione a questa qualità del tuo essere nel mondo. L’esserci. Qui.
Adesso.
3/8
Questo è il tuo vissuto personale dell’essere cosciente.

Consapevolezza

La consapevolezza si configura, a livello soggettivo, come il prendere atto dell’essere


coscienti.

Potremmo, volendo darle una definizione, chiamarla auto-coscienza.

La consapevolezza cioè è quell’aspetto dell’esperienza umana che ti consente di sapere


di essere qui, ora, presente.

Non solo sei qui, ora, presente (coscienza), ma lo sai, ovvero ne sei consapevole.

Oltre che essere (coscienza), sai di essere (consapevolezza).

Lo puoi quindi tradurre con “io so di essere”.

Quel “io so” è l’elemento fondamentale che contraddistingue la consapevolezza dalla


coscienza: il sapere di sapere dell’esistenza di qualcosa.

Puoi essere cosciente, in questo momento, di un’infinità di cose. Ma non tutte queste
sono consapevoli. Quando diventano consapevoli, sai di conoscerle.

Consapevole significa “so che qualcosa esiste.”

Ad un livello fondamentale è sapere della propria esistenza, cioè sapere di esistere.

Questo non è un ragionamento mentale, ma è il processo del divenire consapevoli.

Sapere di sapere è la proprietà intrinseca della consapevolezza.

4/8
Non solo qualcosa esiste nella tua coscienza, ma tu ne sei consapevole, cioè sai che
esiste.

In senso poetico: esiste in te qualcosa, e tu ne sei consapevole.

Portando la luce della consapevolezza su una cosa specifica, la fai esistere in te.

Coscienza e Consapevolezza a confronto

Proprietà diverse
La prima differenza tra coscienza e consapevolezza è questa:

L’essere coscienti accade (non puoi scegliere tu di essere cosciente o di essere in


coma), è cioè un processo che è fuori dal tuo controllo.

La consapevolezza invece può essere veicolata. Puoi cioè veicolare più o meno
consapevolezza nel tuo essere cosciente.

Quindi

non puoi scegliere se essere cosciente o no, ma puoi scegliere di essere più consapevole.

(A fine articolo vedremo perché e come).

Puoi essere cosciente senza essere consapevole.

Questo accade quando sei nell’esperienza, senza alcuna consapevolezza di quello che
stai facendo, senza alcuna intenzione, senza essere presente a te stesso.

Il contrario non può accadere: per essere consapevole devi essere cosciente.

5/8
Detto in un altro modo: non puoi essere consapevole se non tramite l’essere
cosciente.

[ Questo principio viene a cadere negli stati avanzati di meditazione, in cui coscienza e
consapevolezza si separano nelle loro proprietà fondamentali, per approfondire Gli stadi
della meditazione LINK ].

Funzioni diverse
L’essere cosciente ti permette di vivere e di interagire con la vita.

Tramite la coscienza vedi, senti, gusti (…), ovvero sei nell’esperienza della vita.

Non solo, tramite la coscienza agisci, o meglio interagisci, nella vita.

La consapevolezza aggiunge un colore diverso al tuo essere nella vita.

Tramite la consapevolezza puoi:

prendere posizione rispetto ad un’esperienza, cioè decidere cosa è giusto per te


assumere la responsabilità delle tue azioni
originare e mantenere un profondo senso etico in ciò che fai
amare in modo incondizionato
attingere alla completezza esistenziale, custodita nella pienezza della
consapevolezza di sé.

Aumentare la consapevolezza

Perché
Abbiamo delineato gli elementi essenziali di distinzione tra la coscienza e la
consapevolezza.

Quello che emerge è che non ci è dato più di tanto di intervenire sul nostro essere
6/8
coscienti, ma piuttosto diventa evidente l’esigenza su più livelli di divenire più
consapevoli.

Perché aumentare la consapevolezza? A cosa ci serve?

La risposta sintetica è “a vivere meglio.”

Più sei consapevole, più strumenti hai per vivere in armonia con come le cose sono, e
quindi per avere una vita meno dolorosa.

La risposta più approfondita è che è un’esigenza irrinunciabile, un nostro bisogno


fondamentale, intrinseco all’esistenza stessa. Uno degli scopi della vita è quello di
divenire consapevoli di sé e degli altri. La vita e l’esistenza stessa possono essere viste
proprio da questa prospettiva: come un grande meccanismo in cui reciprocamente
evolviamo verso una maggiore consapevolezza reciproca. Lo scopo del gioco è questo.

Inoltre non è un’esigenza solo personale, ma anche collettiva. Viviamo nell’epoca


dell’informazione: questa è accessibile pressoché a chiunque voglia riceverla.

Viviamo anche in un’epoca densa di problemi sociali, relazionali, di risorse… per risolvere
molti dei nostri attuali problemi, individuali e collettivi, non ci servono più informazioni,
ma più consapevolezza.

La specie umana, avendo superato l’emergenza della sopravvivenza fisica, affronta ora
una priorità evolutiva del tutto differente: divenire più consapevole.

Come
Come innescare il processo del divenire più consapevoli?

La consapevolezza è veicolata dall’attenzione: là dove porti la tua attenzione, divieni


consapevole di quella cosa su cui hai poggiato l’attenzione.

Ecco che per divenire più consapevoli di sé stessi, dell’altro essere umano e della vita
serve recuperare la nostra capacità di veicolare in modo intenzionale l’attenzione e
incanalarla nel modo giusto: verso sé, verso l’altro, verso la vita. Questa modalità di
conoscenza permette di esserci, in modo pienamente consapevole, nelle interazioni e di
costruire una vita migliore per sé stessi e per gli altri.

Da leggere » Meditazione: concentrarsi o lasciare andare?

Uno strumento
Nella nostra epoca storica abbiamo a disposizione uno strumento d’eccellenza che mette
in atto questo processo in modo efficace e diretto: si chiama Intensivo sull’Essere
Consapevole. Si tratta di un seminario residenziale interamente dedicato al conoscere sé
stessi e al divenire più consapevoli.
Ti invito ad approfondire il tema leggendo la pagina dedicata alla descrizione dello scopo
7/8
e del metodo del corso.

Concludo questa breve rassegna sulla differenza tra coscienza e consapevolezza con una
citazione che è sia di ispirazione che di incitamento a prendere azione:

Essere coscienti non è sufficiente, abbiamo bisogno di essere consapevoli.

Silvano Brunelli

Bibliografia
Silvano Brunelli – Teoria dell’essere vol I e II
Silvano Brunelli – Il paradigma della comprensione
Agostino Famlonga – Sistema Operativo non-duale
Gerald Edelman e Giulio Tononi – Un universo di coscienza. Come la materia diventa
immaginazione.
Giulio Tononi, Christof Koch – Consciousness: here, there and everywhere?
David Charlmers – Che cos’è la coscienza
Guido Brunetti – La coscienza come fenomeno biologico

8/8
Che differenza c’è tra istinto e intuito?
essereintegrale.com/istinto-intuito

Agostino Famlonga

2 processi distinti
Intuito e istinto possono apparire uguali, ma in realtà sono due processi distinti.

Quando segui l’istinto agisci guidato da un movimento irrazionale, che non sai
spiegare, che ti guida nel compiere una azione o nel fare una scelta.

Tutti abbiamo un istinto che ci guida. Quello che varia da persona a persona è il grado di
sintonizzazione rispetto a questo elemento.

L’intuito è un processo in cui si afferra, anche in questo caso irrazionalmente, l’essenza


di qualcosa.

L’intuito ti mette in connessione tramite un movimento sintetico (una sintesi di


elementi) con un evento, una situazione, un’idea, un progetto…

Queste funzioni sono a volte confuse perché agiscono entrambe fuori dagli schemi
della logica e del pensiero razionale, eppure sono molto diverse tra di loro.

Da leggere » I 6 tipi di inconscio

1/4
L’istinto
L’istinto è sempre presente e viene vissuto come un movimento che agisce “dal basso
verso l’alto”.

È una pulsione pre-verbale ad agire in un certo modo.

Si tratta di una componente innata, ereditata dalla nostra specie. Abbiamo un istinto di
sopravvivenza, di riproduzione, un istinto all’affermazione…

Quando sei sintonizzato con il tuo istinto, lo riconosci come qualcosa che era già
presente, un sentire non razionale che ti spinge ad agire.

C’è già, devi solo aprirti e connetterti tramite il sentire.

2/4
L’intuito
L’intuito invece viene percepito come un movimento che agisce “dall’alto verso il
basso”.

Se l’istinto agisce tramite il sentire, l’intuito agisce tramite la consapevolezza.

È la consapevolezza infatti che ti permette di intuire (letteralmente “vedere dentro“) gli


eventi e le situazioni.

Il processo dell’intuito è strettamente collegato a quello della creatività. Ciò che li unisce
è la consapevolezza.

Infatti quando hai un’intuizione metti in atto un processo creativo.

La creatività è movimento di sintesi (unione di più parti) ed è una scoperta di qualcosa


che prima non c’era.

L’azione della creatività viene vissuta con una fragranza di innovazione, a volte di
stupore e di meraviglia.

Non per niente la raffigurazione classica di questo processo è la lampadina che si


accende, a simboleggiare l’illuminazione di qualcosa che prima era sconosciuto.

Da leggere » Essere Consapevole


3/4
Perché servono entrambi?
Quante volte hai agito istintivamente e mentre agivi sentivi dentro di te qualcosa che ti
diceva che quello che stavi facendo era un errore?

Era l’intuito che ti stava mandando un messaggio.

Hai agito di istinto ma non hai ascoltato il tuo intuito.

Per questo serve mettere assieme questi processi.

Qualcuno ha la tendenza a considerare l’istinto come qualcosa da reprimere e da non


prendere in considerazione.

Essendo qualcosa di grezzo, primitivo, ancestrale, tende a non ascoltarlo e a dare più
peso alla ragione, alla funzione mentale razionale considerata più evoluta e funzionale.

Sebbene questo sia a volte utile e saggio (pensa ad un istinto omicida), quando ti
scolleghi dal tuo istinto perdi una parte importante della tua umanità.

Come essere umano sei dotato di entrambe le funzioni, e per la piena espressione della
tua umanità, hai bisogno di connetterle.

Gli elementi in comune


Istinto e intuito sono diversi, ma hanno tra loro degli elementi comuni: l’apertura e la
consapevolezza.

Sia per muoverti verso l’alto ad acquisire nuove intuizioni, sia nell’ascoltare verso il basso
quello che ti dice l’istinto, hai bisogno di essere aperto e consapevole di ciò che è.

Poca apertura e poca consapevolezza ti portano non essere in contatto con l’istinto e a
non poter accedere all’intuito.

Questo a cascata porta a confusione (non sapere cosa fare) e rigidità (poche opzioni tra
cui scegliere).

Dunque, se vuoi potenziare queste tue due doti naturali, lavora sugli elementi che hanno
in comune: la tua consapevolezza e la tua capacità di aprirti all’esperienza.

4/4
La completezza esistenziale e l’Esperienza Diretta di sé
essereintegrale.com/esperienza-diretta

Agostino Famlonga

In questo articolo affronteremo un tema importantissimo: la tua completezza.

Lo faremo con una intenzione chiara: delineare una strada verso una completezza
esistenziale duratura.

Definire un punto di arrivo e comprendere come arrivarci è un grande vantaggio perché


permette di non perdersi per strada.
Questa è una dichiarazione di intenti importante, a cui va aggiunta una precisazione
altrettanto significativa: conoscere un punto di arrivo e individuare una strada che ti
conduce lì non è sufficiente.

Serve intraprendere il cammino.

Un saggio disse che “un grammo di pratica vale di più di una tonnellata di teoria.”

Sono completamente d’accordo con questa affermazione.

In questo caso la comprensione vuole essere da stimolo ad affrontare in prima


persona il cammino. A capire determinati principi e a tradurli poi in esperienza vissuta
sulla tua pelle.
Solo allora la conoscenza potrà diventare vera conoscenza.

Consapevoli di tutte queste premesse, iniziamo!

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L’incompletezza
Per parlare della completezza esistenziale, è corretto partire descrivendo l’incompletezza.
Si tratta di una condizione nota, di un punto di partenza comune.

L’incompletezza è un senso interiore muto che emana questo sentire: non vai bene così
come sei.

La sua controparte attiva è una spinta ad esser diversi da come si è . Sentendo di non
andare bene così come sei, c’è una spinta ad “rimediare”, a fare qualcosa per
compensare questo sentire di essere mancanti di qualcosa.

Queste due parti non sono separabili tra di loro: sono una il rovescio della medaglia
dell’altra.

Tanto più il sentire di non andare bene così come sei è forte, tanto più è attiva e forte la
spinta compensatrice a fare qualcosa per essere diverso da ciò che sei.
Da dove deriva questo senso muto di incompletezza?

Dal sentire di essere separarti da sé stessi.

La separazione
Cosa significa sentirsi separati da sé stessi?

Significa che quando cerchi di portare l’attenzione su di te, invece di avere una
percezione unitaria del tuo esserci, percepisci un velo che ti preclude questo esperienza.
Un velo di separazione, che ti fa sentire di non potere accedere completamente alla
tua piena consapevolezza nel momento presente.

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Accade quando l’attenzione non ha accesso immediato a tutta l’informazione a sua
disposizione.

Per cui, non potendo l’attenzione appoggiarsi in modo completo su di sé (non


possedendolo integralmente), quello che emerge il sentire di essere separati da sé
stessi.

Questa condizione è ordinaria, alquanto comune.

Tanto comune da essere considerata per molti l’unico modo di stare nella vita.

In realtà la separazione da sé stessi è frutto di una serie di fenomeni psicologici


conosciuti che divide l’informazione in una parte accessibile alla consapevolezza e una
parte apparentemente inaccessibile.

Fenomeni psicologici che sono sì ordinari, ma non dovrebbero essere considerati come
l’unico modo di stare al mondo.

Dovremmo concepire uno stare nella vita in modo integro, completo, non separato.
Questa condizione dovrebbe essere la nostra condizione ordinaria, non il suo opposto.

Questo è dunque il punto di partenza su cui costruire il nostro percorso verso la


completezza: il sentirsi frammentati, separati da parti di noi stessi che non possediamo
completamente, e quindi, incompleti.

Se vuoi approfondire questi aspetti:

Il corpo e la mente
Muoviamo il primo passo riconoscendo questo binomio: il corpo e la mente.

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[ Per adesso mettiamo assieme alla mente anche le emozioni. Lo facciamo per
semplificare il discorso, poi approfondiremo meglio. ]

Questo binomio è conosciuto da tutti e riconosciuto universalmente, sebbene con


diverse interpretazioni al riguardo.

La prima cosa su cui porre l’attenzione è il fatto che, seppur distinguibili tra di loro, i due
poli “corpo” e “mente” si trovano lungo un continuum.

Non si sa bene dove inizi uno e dove finisca l’altro.

Alcuni autori l’hanno definita “mente incorporata”, cioè radicata biologicamente nel
corpo: una mente in stretta connessione con la biologia.

Per approfondire: L’errore di Cartesio – Damasio

Queste due componenti del tuo stare nel mondo sono dunque strettamente
interconnesse tra di loro, e hanno la capacità di influenzarsi reciprocamente.

Quello che accade a livello fisico influenza tuo stato mentale ed emozionale.

Un esempio: se bevi 5 caffè il tuo stato mentale/emotivo verrà in qualche modo alterato
da questo.

Quello che accade a livello mentale influenza ciò che accade a livello fisico.
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Ad esempio: se percepisci di essere in una condizione di pericolo il tuo corpo si mette in
allerta, aumenta il tuo battito cardiaco e tutto si predispone a reagire al pericolo (che
questo sia reale o meno).

La consapevolezza
Inseriamo ora nel nostro discorso la consapevolezza.

Innanzitutto: che cos’è la consapevolezza?

Consapevolezza è “sapere di sapere”.

Quando sei consapevole di qualcosa, sai di saperlo.

Facciamo un esempio: sei consapevole del colore del tuo divano.

Non solo lo conosci, ma sai di conoscerlo, ne sei consapevole.

Quel “sapere di conoscerlo” significa esserne consapevole.

Questo semplice esempio ci dice pone di fronte al fatto che conosciamo tante cose…
ma non tutto ciò che conosciamo è consapevole.

Qual è l’elemento che permette a ciò che conosciamo di divenire consapevole?

L’attenzione.

L’attenzione è l’elemento che rende un’informazione accessibile alla consapevolezza.

Appoggiando la tua attenzione su un oggetto, su un’emozione, su un pensiero ecc… ne


divieni consapevole. Lo vediamo meglio dopo, per ora restiamo con questo principio.

Per approfondire: Consapevolezza

La consapevolezza di sé
Abbiamo usato un esempio semplice, la consapevolezza del colore del tuo divano, cioè la
consapevolezza riferito qualcosa di specifico e definito.

Abbiamo compreso che l’attenzione è quella abilità umana che ti permette di rendere
un’informazione consapevole.

Facciamo un altro passo: cosa accade se vuoi divenire più consapevole di te stesso?
Non vuoi conoscere di più il colore del divano, ma vuoi conoscere di più te stesso.

Il principio è lo stesso, ma spesso nel fare questo passaggio si incontrano più difficoltà
rispetto a prima. È sempre il medesimo “sapere di sapere”, ma appare più sfuggente,
meno definito.

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Serve andare alla radice: che cos’è la consapevolezza di sé?

La consapevolezza di sé è conoscere sé stessi.

È sapere chi si è.

Passa anche attraverso dei significati che tu dai al tuo essere al mondo, ad esempio “io
sono padre, io sono un italiano, io sono onesto… ecc”, ma a livello fondamentale è quella
proprietà che resta quando tutti i significati sono stati conosciuti.

È un sapere di essere, neutro, privo di interpretazione.

Sta prima di ogni significato. O dopo che hai lasciato andare ogni significato, quello che
rimane non cambia.

È un sapere di essere pre-verbale.

Muto, silenzioso.

È semplicemente sapere che ci sei.

Tu esisti: sei. Questo è auto-evidente.

E non solo sei… ma sai di essere.

Tanto quanto tu riesci a mantenere l’attenzione su di te, tanto tu aumenti il tuo sapere di
essere, la consapevolezza che tu hai di te stesso.

Questo non è scontato né auto-evidente.

L’abilità di essere consapevoli dipende da diversi fattori.

Il primo fra tutti è l’attenzione, che come abbiamo visto è la porta di accesso alla
consapevolezza. Tanto più tu sei in grado di mantenere l’attenzione con intensità, durata
e purezza su di te, tanto tu puoi divenire consapevole.

Il secondo fattore che limita la consapevolezza è la separazione, così come l’abbiamo


vista ad inizio articolo.

Rispetto alla separazione possiamo definire questi principi:

Tanto più ampia è la parte separata e frammentata di te stesso che senti di non
possedere, tanto più sarà impedita la tua capacità di conoscerti in modo integrale.
Tanto più forte è la somma del dolore e della paura delle esperienze che non sono
state integrate, tanto più forte sarà la barriera che ti tiene separato dalla piena
consapevolezza di te stesso.

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Tanto più ampia e resistita è l’informazione inaccessibile alla consapevolezza, tanto
più l’integrità della consapevolezza è messa in ombra, e tanto più forte è il senso di
incompletezza esistenziale che abbiamo visto all’inizio, e tanto più forte sarà la
spinta compensatrice a cercare di colmare questa incompletezza.

Il corpo, la mente… e la consapevolezza di sé


Ora sommiamo la consapevolezza e le sue proprietà al binomio corpo-mente-emozioni
che abbiamo visto prima.

Appare evidente che…

la natura dell’Individuo Consapevole è diversa, per proprietà e funzioni, rispetto al corpo


e rispetto alla mente.

Qualcuno associa erroneamente la consapevolezza alla mente, credendo che siano la


stessa cosa.

Questo accade quando l’individuo non ha discriminato a sufficienza sé stesso rispetto al


suo corpo e rispetto alla sua mente ed emozioni.

Graficamente possiamo rappresentarlo in questo modo, in una figura triangolare.

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Una cosa importante da notare è che è un triangolo equilatero. Le tre dimensioni sono
equivalenti, cioè hanno pari valore tra di loro.

Equivalenti non significa uguali, infatti ogni dimensione ha delle funzioni diverse e delle
proprietà specifiche.

Le funzioni
Vediamo graficamente le funzioni del corpo, della mente e delle consapevolezza.

La funzione primaria della mente è quella di elaborare dati e di creare significati.

Una funzione del corpo è quella di garantire la sopravvivenza fisica alla persona. Serve
riconoscere anche che il corpo ha dei bisogni, che sono in stretta relazione con questa
sua funzione.

La funzione della consapevolezza è quella di acquisire queste informazioni, cioè


divenirne consapevole.

L’individuo consapevole sceglie e agisce in base a questi dati.

Un esempio per chiarire questo aspetto. Se devi scegliere tra più posti di lavoro, la tua
mente farà delle valutazioni di vario tipo (quale ha lo stipendio più alto, quale è il più
sicuro ecc). I dati consapevoli servono a valutare, ma poi la scelta è determinata dalla
consapevolezza che hai di te stesso. Potresti per esempio, scegliere un posto di lavoro
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semplicemente perché sai (sei consapevole) che quel posto di lavoro ti piace di più di un
altro.

La scelta è libera, ed è una funzione dalla consapevolezza.

Per approfondire: La scelta: 4 principi fondamentali

Un’altra funzione della consapevolezza è quella di originare ex novo.

La mente elabora dati e crea significati, ma poi è l’individuo consapevole che crea con
questi mattoni. La mente fornisce il materiale con cui costruire (i mattoni), l’individuo
consapevole crea delle creazioni inedite e innovative.

Mentre la mente può solo replicare quello che conosce, o al massimo combinare in
modo diverso i dati a sua disposizione, la consapevolezza è in grado di originare
qualcosa che prima non c’era.

Le dinamiche
Abbiamo visto le funzioni di queste 3 dimensioni, vediamone ora le 3 dinamiche
principali.

Il corpo agisce entro una dinamica di sopravvivenza primordiale, atavica, biologica. In


questa dinamica c’è una competitività cieca.

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La mente opera entro una dinamica di sopravvivenza orientata al massimizzare il
guadagno e a limitare la perdita. Soppesa la situazione e valuta calcolando quello che
conviene. Anche in questa dimensione umana è presente dinamica competitiva.

La consapevolezza è quella funzione umana in grado di integrare tutte le dinamiche in


una sintesi superiore ed uscire dalla dinamica competitiva.

Esiste, nella dimensione della consapevolezza, un’etica naturale, che ci appartiene in


quanto individui consapevoli.

Non è imposta dall’esterno verso l’interno. È connaturata alla nostra natura.

Tanto più sei consapevole di te, tanto più il tuo comportamento sarà orientato da un forte
senso etico.

Questo non significa che gli altri bisogni saranno azzerati. Saranno inclusi in un ordine
superiore.

Perché stiamo toccando questi argomenti, quando il nostro tema è la completezza


esistenziale?

Perché…

Tanto più la natura della consapevolezza è discriminata dal corpo e dalla mente, tanto più
il triangolo è in modo naturale equilatero: ogni dimensione umana risulta differenziata e
integrata in un funzionamento globale equilibrato.

Questo principio è importantissimo e va tenuto in considerazione.

Nella completezza esistenziale le dimensioni umane non sono spente, azzerate. Sono
incluse in modo equivalente in un adattamento funzionale integrato.

Per approfondire: La consapevolezza multidimensionale

Come di solito conosciamo il mondo


Compresi e discriminati i 3 vertici del triangolo, vediamo ora di concentrare l’attenzione
sulla consapevolezza.

Il nostro tema è quello della completezza esistenziale, per cui concentriamoci su questo
vertice del triangolo per comprendere qual è il nostro modo ordinario di conoscere il
mondo.

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Supponiamo, per comodità della nostra spiegazione, di posizionare la consapevolezza
nel punto di contatto tra una dimensione esteriore e una interiore.

In realtà la consapevolezza non è locata, cioè non puoi definire dove sia.

Così come i confini tra fuori e dentro, non sono così definibili come sembra ad un primo
sguardo.

Però è utile rappresentarla in questo modo, perché ci spiega molti principi utili.

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La conoscenza del mondo esteriore
Supponiamo che tu voglia conoscere una sedia. Che tu voglia divenire consapevole di
questo oggetto.

Quello che accade è che originerai un flusso di attenzione che origina da te e si dirige
verso la sedia.

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Una volta che hai toccato con l’attenzione la sedia, ne sei divenuto consapevole tramite
un processo di conoscenza indiretto.

Questo modo di conoscere la sedia è una modalità duale di conoscenza.

Conoscenza duale significa che esistono 2 poli di conoscenza: tu che conosci, e l’oggetto
conosciuto. Due estremità. Un punto di partenza e un punto di arrivo.

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Possiamo schematizzare questa modalità di conoscenza così:

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1. C’è un soggetto: tu che conosci la sedia.
2. C’è un oggetto conosciuto: la sedia.
3. C’è un processo di conoscenza.

Puoi conoscere la sedia guardandola, toccandola, odorandola… il principio non cambia:


si tratta di modalità di conoscenza duali, cioè mediate da un processo.

La conoscenza del nostro mondo interiore


Ora seguiamo gli stessi passaggi rispetto alla conoscenza del nostro mondo interiore.

Supponiamo che tu voglia conoscere una tua emozione, ad esempio, la gioia.

Da te partirà un flusso di attenzione verso questa emozione. L’attenzione sarà mediata,


ad esempio, dal sentire.

Quando senti l’emozione quello che accade è che ne divieni consapevole tramite il
processo del sentire, in una modalità di conoscenza mediata, di nuovo, duale.

Possiamo schematizzarla così:

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Il principio di conoscenza è lo stesso della sedia, non cambia.

È rivolto verso un oggetto interiore, un’emozione. Usi il sentire, invece della vista o del
tatto, ma la modalità con cui conosci l’emozione è sempre indiretta, mediata,
processuale.

Lo possiamo schematizzare in questo modo:

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Vediamo i 3 punti dell’esperienza.

1. C’è un soggetto: tu che conosci la gioia.


2. C’è un oggetto conosciuto: la gioia.
3. C’è un processo di conoscenza, ad esempio il sentire.

Di nuovo, una modalità di conoscenza processuale.

Come conosciamo noi stessi


Da dove origina questa modalità di conoscenza?

A livello fondamentale deriva dal modo in cui conosciamo noi stessi.

Mi spiego meglio.

Torniamo di nuovo ad occuparci della sola consapevolezza isolandola per un attimo dalle
altre nostre dimensioni.

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Abbiamo detto prima che divenire consapevoli significa conoscere di più sé stessi.

Cioè portare più attenzione su di sé.

Non su una sedia, non su un’emozione, ma sulla fonte stessa dell’attenzione. Su di te.

Lo possiamo raffigurare in questo modo:

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Tu che cerchi di divenire più consapevole di te significa che cerchi di mantenere
l’attenzione su di te, per conoscenti maggiormente.

L’attenzione ritorna su di sé, con l’intenzione di conoscersi di più.

Il punto di partenza e quello di arrivo coincidono.

Nel grafico sopra ti ho raffigurato questo processo di conoscenza con una linea
tratteggiata, perché?

Per indicarti che difficilmente le persone riescono a mantenere un flusso costante di


attenzione su loro stesse. Può essere per una mancanza di abitudine o per una
difficoltà a discriminare sé dal processo di percezione stesso.

Un punto importante da comprendere, fondamentale per capire tutto il discorso fatto fin
qui riguardo la completezza, è che, a causa della separazione…

la persona conosce sé stessa tramite un processo.

Invece di conoscersi direttamente, a causa della separazione la conoscenza di sé è


mediata, processuale.

Lo possiamo raffigurare in questo modo:

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C’è un bipolo di conoscenza: tu che tieni l’attenzione su di te per conoscerti di più.

Vediamo i 3 punti dell’esperienza, come abbiamo fatto per la sedia e per l’emozione

1. C’è un soggetto: tu che tieni l’attenzione su di te.


2. C’è un oggetto conosciuto: te stesso.
3. C’è un processo di conoscenza, ad esempio il sentire di esserci, o il testimoniare o
l’osservare…

Siamo alla radice dell’incompletezza esistenziale:

non ci conosciamo completamente, direttamente, ma tramite un processo indiretto.

È un effetto della separazione di cui abbiamo parlato all’inizio dell’articolo.

Ora, compresa che questa è la radice dell’incompletezza, abbiamo in mano un elemento


importantissimo per spingerci verso la completezza.

Ora immagino che in te siano sorte alcune domande, tipo…

È possibile un conoscenza di sé non mediata da alcun processo?

È possibile avere piena consapevolezza di sé?

Se sì… come posso accedervi?

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La risposta è sì per le prime due domande. Per la terza… continua a leggere.

Esperienza Diretta
Esiste una modalità di conoscenza che non è duale, ma diretta.

Ci appartiene in quanto individui dotati di consapevolezza.

È il modo in cui l’individuo conosce sé stesso quando il velo della separazione da sé stessi
viene tolto.

La chiamiamo Esperienza Diretta.

Riprendiamo il discorso da dove eravamo arrivati: tu che vuoi conoscerti di più,


mantenendo l’attenzione su te stesso.

Soggetto e oggetto di conoscenza coincidono, con un processo di conoscenza nel mezzo.

Il primo passaggio per accedere ad una conoscenza diretta di sé è questo: serve


mantenere una continuità dell’attenzione su di sé

L’attenzione deve diventare continua, priva di interruzioni.

Deve anche essere pura, cioè senza interferenze.

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Oltre ad essere pura e continua, l’attenzione deve essere intensa, forte, determinata.

Quando l’attenzione è tenuta con intensità su di sé, in modo continuo e senza


interferenze, per il tempo necessario a penetrare il velo della separazione si ha
accesso ad una conoscenza diretta di sé stessi.

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In questa condizione l’individuo non si conosce tramite un processo, bensì direttamente.

È in una condizione di unione consapevole con chi è lui.

La conoscenza di sé stesso, invece di avvenire tramite il bipolo di conoscenza soggetto-


oggetto, lascia spazio ad un monopolo in cui…

soggetto e oggetto non sono separati, sono nel loro stato naturale di unione.

L’Esperienza Diretta manifesta la natura essenziale dell’individuo consapevole: lo stato di


unione.

Il senso di unione è totale, completo.

La completezza esistenziale diviene manifesta. Il senso di pienezza interiore emana da


chi esperisce questa condizione esistenziale.

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La naturale condizione di unione è totalizzante e permette alla persona di esperire un
senso di intima unione con il mondo di cui è parte.

La separazione lascia lo spazio all’unione.

Unione con sé stessi. Unione con la vita. Unione con l’altro essere umano.

Tutto ciò che viene esperito viene vissuto con un profondo senso di unione essenziale.

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Le due modalità di conoscenza di sé – diretta e indiretta – sono radicalmente diverse tra
di loro, e hanno esisti altrettanto diversi.

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Una modalità di conoscenza indiretta permette di maturare uno stato che potremmo
definire “io so”.

Una modalità di conoscenza diretta permette di esperire lo stato “io sono”.

Sommandole raggiungiamo la consapevolezza “io so di essere”.

Questa non è una affermazione mentale, ma uno stato di coscienza.

A tal proposito, è necessario fare una precisazione importante.

Una esperienza senza esperienza


La parola Esperienza Diretta è una definizione imperfetta per questo stato, perché la
parola “esperienza” indica un processo.

Non esiste purtroppo in italiano una parola che descriva un’esperienza che avviene
senza alcun processo.

Dovremmo usare i termini “esperienza senza esperienza“.

Usiamo la parola Esperienza Diretta per indicare una meta, un punto di arrivo.

Per conoscere il suo vero significato serve viverla in prima persona, altrimenti resta solo
un nome privo di senso.

Chiarito questo punto importante, proseguiamo.

Perché è così importante acquisire l’abilità di conoscere direttamente?

Un motivo l’abbiamo già detto: perché è fonte di completezza esistenziale.

Ma non solo.

Gli effetti dell’Esperienza Diretta


Quando un individuo sperimenta lo stato diretto, percepisce uno stato di intima unione
con il mondo di cui la persona è parte.

Essere in unione significa non sentirsi separati a livello fondamentale, essenziale.

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Tutto ciò che l’individuo percepisce viene esperito mantenendo l’accesso all’unione
soggiacente.

Tutto appare ad essere in un campo di coscienza indifferenziata, e questo è


riconosciuto e assunto come propria natura essenziale.

Tutto viene intriso dalla propria natura consapevole, donando infinito valore e prezioso
significato a ciò che si conosce.

È una cosa naturale, spontanea. Non c’è bisogno di fare qualcosa di particolare. È il modo
nuovo che ha la persona di stare nel mondo dopo che ha vissuto l’Esperienza Diretta.

Un altro elemento importante da considerare nel discorso riguardo la completezza:


l’Esperienza Diretta pone l’individuo consapevole al centro della sua vita e delle sue
dimensioni esistenziali.

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Le dimensioni esistenziali, equivalenti tra di loro, si pongono in una condizione di
equilibrio, potremmo dire “in periferia” rispetto alla centralità dell’individualità
consapevole.

Porre l’individuo al centro significa che l’integrità dell’essere diventa il nuovo punto di
ricezione. Il centro di gravità e di ricezione degli stimoli che giungono a te da tutte le
dimensioni.

Questo non significa che in tutte le dimensioni umane magicamente si risolva tutto
ciò che non funziona.

Nel giardino continueranno a crescere le erbacce.

Nelle relazioni le dinamiche disfunzionali potranno ripresentarsi.

Nella tua mente gli irrisolti busseranno ancora per reclamare di essere integrati.

Quello che cambia è che in tutto questo movimento ci sarà un punto nuovo di
ricezione, chiaramente differenziato e integrato.

Un nuovo punto di inizio


Recuperare l”integrità di sé conoscendo direttamente sé stessi è un’esperienza in grado
di elevare la qualità della vita di chi la esperisce.

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Di per sé dona significato e valore ad una intera esistenza.

È un apice della vita della persona.

Uno straordinario punto di arrivo.

E si rivela anche…

un nuovo punto di partenza

verso una vita originata e posseduta partendo dalla centralità della consapevolezza di sé.

Emerge una spinta intenzionale e consapevole protesa verso il rendere la propria vita ad
immagine e somiglianza della propria verità.

Questo passaggio non è automatico né scontato e dipende da tanti fattori.

Può certamente volerci del tempo per rendere reale questa condizione.

E questo significa vivere la vita, in tutta la sua splendida molteplicità di variabili e di


situazioni.

Come accedere a questa esperienza


In questo lungo articolo ho cercato di delinearti un percorso. Da un punto in cui ti
separato da te stesso e ti conosci tramite un processo ad un punto di completezza
esistenziale, in cui ti conosci e sei integralmente, totalmente, te stesso.

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Come accedere a questa esperienza?

Teoricamente, una persona potrebbe percorrere l’intero processo qui descritto in


completa autonomia.

Nella pratica sono poche le persone in grado di farlo, a causa della difficoltà del percorso,
della disciplina e della costanza della pratica richieste.

Serve un contesto straordinario per sostenere una persona a compiere questo


percorso.

Per questo motivo è stato ideato l’Intensivo sull’Essere Consapevole.

È un seminario residenziale di 3 giorni e ha proprio questo scopo: creare il contesto


ottimale affinché la persona possa accedere alla piena consapevolezza di sé.

Viene infatti definito “Percorso per le Esperienze Dirette”, perché questo è il suo fine.

È un percorso esperienziale, completamente incentrato sull’aspetto pratico della


conoscenza.

Nei 35 anni in cui si è praticato in Italia si è rivelato uno strumento di eccellenza per
accedere a questa conoscenza.

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Ti invito a vivere questa esperienza in prima persona, per comprendere fino in fondo
quello che le parole non possono veicolare.

Bibliografia: Intensivo sull’Essere Consapevole – Silvano Brunelli

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Amore perfetto, relazioni imperfette – John Welwood
[Recensione Libro]
essereintegrale.com/amore-perfetto-relazioni-imperfette-john-welwood

Agostino Famlonga

L’amore è l’esperienza più ricercata dall’essere umano.

Il sentirsi amati e l’amare l’altro è un bisogno basilare, una spinta che ci porta a
instaurare rapporti in cui poter vivere questa esperienza.

Nella relazione con l’altro possiamo toccare l’esperienza dell’amore: è il legame iniziale
che dà origine alla relazione stessa.

Tramite l’altro riusciamo ad aprire il cuore e a sperimentare l’amore perfetto: la


disponibilità e il contatto che ci permette di essere vulnerabili e aperti.

Quest’esperienza ci porta in unione con l’altro e in unione con la nostra natura


essenziale: è l’amore perfetto, come lo definisce John Welwood nel suo libro “Amore
perfetto, relazioni imperfette.”

Chi ha vissuto l’esperienza dell’amore perfetto è probabilmente entrato in contatto


anche con la sua controparte problematica: le relazioni imperfette.

Nella relazione l’amore perfetto si mescola inevitabilmente con l’espressione della


personalità umana e con tutto quello che ne consegue.

La relazione sul piano della personalità umana, per sua natura limitata e imperfetta, è il
veicolo attraverso il quale si manifesta l’amore, che per sua natura è perfetto.
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Unire in una relazione la duplice natura dell’amore – la sua perfezione assoluta e il
suo veicolo, la relazione imperfetta – è una sfida che non tutte le coppie riescono
superare.

Quando nella coppia questa differenza non è riconosciuta e integrata, quello che emerge
è il reciproco risentimento. Tanto più la coppia sperimenta l’amore perfetto senza
riconoscere quale sia la sua vera origine, tanto più prova il dolore del vivere una
relazione imperfetta.

La relazione imperfetta fa emergere la sensazione del non sentirsi amati, con il


conseguente rancore nei confronti dell’altro che “non mi ama per come sono”.

La relazione imperfetta porta così ad allontanarsi sempre più dal contatto con l’amore
perfetto, che resta solo un ricordo.

Ciò che aveva unito – l’apertura, la vulnerabilità e la disponibilità – col tempo lascia spazio
al dolore e al risentimento.

Nel suo libro Welwood ci parla proprio di questo problema e di come poterlo superare.

Il libro “Amore perfetto, relazioni imperfette. Curare la ferita del


cuore.”
John Welwood ci offre una prospettiva matura su questo argomento.
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Unendo la sua esperienza trentennale come psicoterapeuta e il suo vissuto nel campo
della ricerca interiore fornisce una descrizione accurata della questione e offre consigli
ed esercizi molto utili (e pratici) per portare queste conoscenze nella relazione.

In questa recensione ti presento i concetti fondamentali dell’approccio di John Welwood,


che condivido pienamente.

L’intenzione è triplice.

Voglio portare alla tua attenzione la questione e dandoti degli spunti desidero invogliarti
ad approfondire l’argomento con la lettura del libro.

L’intenzione è che questo poi diventi un punto di partenza per innescare un


miglioramento nella tua relazione.

Dichiarate le intenzioni, possiamo iniziare con l’ardito tentativo di descrivere che cos’è
l’amore.

La natura dell’amore
Sono stati scritti innumerevoli trattati sull’amore. Puoi trovare interi testi filosofici,
psicologici, poesie, canzoni… ogni approccio veicola la sua importante prospettiva con il
suo mezzo.

L’approccio di questo testo è molto concreto e pragmatico.

L’amore è apertura, contatto, accoglienza.

L’amore è: apertura del cuore.

John Welwood lo descrive come l’unione di calore e di disponibilità che permette di


entrare in contatto e di essere tutt’uno con noi stessi, con gli altri e la vita stessa.

La disponibilità è l’essenza dell’amore: un sì puro e senza condizioni.

Il calore è l’espressione fondamentale dell’amore. Origina dal sì incondizionato e si


manifesta con il desiderio di essere in contatto, connessi a qualcosa di più grande del
nostro piccolo io.

Sentirsi amati richiama l’esperienza del sentirsi contenuti nell’amore, e infine di


essere amore.

Il contenimento ha due caratteristiche: il contatto e lo spazio.

Il contatto è il calore, è la relazione profonda con l’altro.

Lo spazio è la disponibilità incondizionata ad essere così come si è.

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L’unione del contatto e dell’accoglienza fa emergere l’esperienza del sentirsi contenuti
dall’amore.

Ad un livello più profondo questa esperienza ci mette in connessione con la nostra


natura essenziale.

Ciò che siamo veramente è amore

e aprirci all’amore permette di sperimentare le caratteristiche di purezza, disponibilità


incondizionata e calore che ci appartengono.

La ferita del cuore


Quando nella relazione vengono meno le due caratteristiche dell’amore – il contatto e
l’accoglienza – emerge il sentimento del “non amore”.

Emerge il sentimento di non sentirsi amati, che possiamo tradurre come il non sentirsi
amati per come si è. È una vera e propria ferita che fa emerge il dolore della
separazione e dal dolore il risentimento verso l’altro che non ci ha contenuti, visti e
riconosciuti come avremmo avuto bisogno.

Questa ferita e ciò che ne consegue è strettamente legata all’esperienza del


contenimento che abbiamo sperimentato durante la nostra infanzia.

Il modo in cui abbiamo vissuto il contenimento genera queste due possibili dinamiche.

Quando nel contenimento è mancato il contatto, si è generata la paura di essere soli


e abbandonati.

La conseguenza è che, per puro istinto di sopravvivenza, chi prova quest’esperienza è


portato ad attaccarsi eccessivamente all’altro, nel disperato tentativo di ricevere il
contatto che non ha ricevuto.

Viceversa, se nel contenimento è mancato lo spazio, cioè la disponibilità e


l’accoglienza ad essere chi si è, si è generata la spinta a ritirarsi dalla relazione perché
vissuta come invadente e soffocante.

In genere nella coppia adulta la ferita del cuore si manifesta con una dinamica
polarizzata: in chi è mancato il contatto c’è la spinta ad attaccarsi eccessivamente al
partner, cioè insegue.

Chi ha vissuto la mancanza di spazio e si è sentito invaso si ritrae, cioè fugge.

Nella relazione imperfetta il dolore della ferita del cuore crea in questo modo la dinamica
“inseguitore e fuggitivo.”

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L’incapacità di fermarsi e riconoscere l’amore, anche quando c’è ma non è manifesto,
porta al rancore nei confronti dell’altro. Reciprocamente si arriva a dire “So che mi ami,
ma non mi sento amata”.

Il sentimento del non amore è il sospetto radicato di non poter essere amati e di non essere
degni di amore solo per quello che siamo.

Risentimento
Il risentimento è un sentimento misto di rabbia e di desiderio di rivalsa nei confronti di
qualcuno.

Il risentimento viene agito non solo nel conflitto manifesto. A volte si insinua in maniera
più sottile nelle nostre azioni, come nella critica, nel giudizio, nel biasimo.

Ciò che accomuna ognuna di queste forme di risentimento è la tendenza a creare dei
nemici e ad attaccarli, in forme più o meno evidenti.

Il risentimento è la tendenza a costruire avversari da combattere, nemici su cui scaricare


la rabbia che deriva dal dolore che proviamo dal non sentirci amati per come siamo.

Il risentimento ci porta a generalizzare: “l’altro ha torto, io ho ragione.”

L’avere ragione è un modo per giudicare e rifiutare l’altro, un modo per punirlo.

Perché investiamo così tanta energia in questo sentimento auto-distruttivo?

Perché in questo modo ci sentiamo al sicuro.

È una forma di attacco preventivo che ci protegge dal sentirci vulnerabili, ci fa


sentire forti, ci fa sentire più a nostro agio con noi stessi.

Fermare il risentimento ci porta in contatto con il dolore del non sentirci amati per come
siamo, per questo motivo investiamo tantissima energia in esso..

Dissociazione
Riassumiamo per punti la genesi della ferita del cuore e la dinamica di risentimento che
ne consegue.

1. Il non ricevere l’amore incondizionato di cui abbiamo bisogno crea in noi un profondo
dolore.

2. Non accogliendo completamente il dolore proviamo risentimento nei confronti di chi


ha negato il contatto o la disponibilità.

3. Il mancato riconoscimento del dolore ci porta a chiuderci e a allontanare il nostro


bisogno fondamentale di amore.
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Tutta questa dinamica è tenuta in vita dal sentirsi separati dalla ferita del cuore e dal
dolore stesso. Il non volerlo vedere, riconoscere e sentire pienamente lo alimenta: lo
nutriamo con il nostro risentimento.

4. Separandoci dal dolore ci dissociamo da noi stessi, e questo ci impedisce di


riconoscere la nostra natura essenziale: l’amore.

L’amore assoluto è sempre disponibile, resta inalterato da ogni forma di dolore.

Pensa a questa metafora: a volte le nuvole coprono il cielo, e questo ci impedisce di


vedere la volta azzurra del cielo. Ciò non toglie che il cielo azzurro sia intoccato dalle
nuvole. È più grande, e le contiene.

La stessa cosa avviene per l’amore assoluto. Viene solo coperto e celato dal dolore
della ferita del cuore, ma è sempre presente, intoccato, inalterato.

L’amore perfetto: l’amore assoluto


Sperimentiamo l’amore assoluto quando siamo in contatto con la nostra natura
essenziale.

Quando ci apriamo ad essere chi siamo e quando l’essere che siamo entra in
contatto con l’altro.

Questo tipo di amore è assoluto, incondizionato. È un sì pieno ad essere così come


siamo.

Ciò che crea problemi nelle relazioni e il credere che la fonte di questo amore risieda
nell’altro.

L’amore assoluto è dentro di noi. È l’amore di essere. È la nostra pura essenza


consapevole.
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Tanto quanto siamo in contatto con la nostra natura consapevole, tanto siamo in
contatto con l’amore assoluto.

L’amore assoluto è l’amore di essere.

Amore relativo
Il cuore umano è il canale attraverso il quale l’amore assoluto si riversa nella vita.

La luce dell’amore assoluto emana attraverso la personalità umana. La sua luce


viene filtrata attraverso le nubi dei nostri condizionamenti e dai nostri meccanismi di
difesa.

Paura, sfiducia, chiusura, reattività rendono l’amore relativo incompleto, incostante,


imperfetto.

Amore relativo significa dipendente dal tempo e dalle circostanze.

L’amore umano ordinario è sempre relativo, non è mai costantemente assoluto. La


relazione è un flusso dinamico: un saliscendi in cui l’amore assoluto si fa intravedere in
modi e tempi variabili.

Il problema emerge quando immaginiamo che sia l’altro a dover essere una fonte di
amore perfetto amandoci sempre proprio nel modo in cui noi ci aspettiamo. È una
fantasia che viene inevitabilmente disattesa.

Visto che le nostre esperienze di amore avvengono in relazione, siamo portati in modo
spontaneo a considerare i rapporti come la fonte principale d’amore.

Il primo passo per liberarsi dal risentimento è proprio quello di rendersi conto della
differenza tra amore assoluto e relativo.

Al livello più profondo del nostro essere, siamo uniti, non c’è separazione alcuna.

Eppure, a livello relativo siamo separati e differenti.

Il nostro corpo è separato, la nostra mente è separata. Abbiamo valori, ideali, storie di
vita, prospettive diverse. E questo è stupendo se è riconosciuto e integrato nell’unità
sottostante.

Integrare la diversità nell’unità è quello che Welwood ci invita a fare quando indica di

metterci in contatto essere con essere, perché a livello del puro essere e della pura apertura
siamo una cosa sola.

Sperimentiamo l’amore assoluto quando ci connettiamo all’altro dall’essere che siamo,


riconoscendoci reciprocamente come individui consapevoli.

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L’amore relativo è invece lo scambio che avviene a livello della forma, persona con
persona, corpo con corpo, mente con mente.

Su questi piani l’incontro è sempre relativo e imperfetto.

Cercare l’unione assoluta con mezzi relativi porta inevitabilmente alla frustrazione
e al dolore. Nelle parole di Welwood:

L’unica fonte affidabile di amore perfetto è ciò che è perfetto: il cuore aperto e vivo in
fondo all’essere.

Solo questo ci permette di conoscere l’unione perfetta dove tutto ci appartiene perché
noi apparteniamo a tutto. Aspettarci questo dai rapporti ci porta inevitabilmente a
soffrire.

Quando ci sentiamo amati dall’altro, in realtà quello che accade è che l’apertura
dell’altro induce in noi la disponibilità ed entrare in contatto con l’amore assoluto.
L’apertura dell’altro induce il tuo cuore ad aprirti, rendendo disponibile l’amore come
personale esperienza.

Di nuovo, nelle parole di Welwood:

… siamo ossessionati dall’idea che sia l’altro a fornirci l’amore, quando in realtà il calore
che sentiamo viene dalla luce del grande amore che penetra in nostro cuore.

Da leggere » I 3 ingredienti dell’amore completo

Aprirsi all’amore
Prima di riuscire ad amare completamente l’altro è necessario riconoscere la fonte di
amore assoluto in noi. Welwood spiega molto bene questo passaggio dicendo che “non
possiamo dare quello che non riceviamo”. Cioè non possiamo amare l’altro se non ci
apriamo prima all’amore assoluto.

Il punto cardine di tutto il libro è in questo: riconoscere che non è l’altro la fonte
dell’amore, ma che l’amore è la tua natura.

La chiave per amare sta nel diventare più permeabili all’amore, lasciarlo entrare
completamente dentro di noi, in modo che possa vivere e respirare dall’interno verso
l’esterno.

Tutto ruota attorno alla capacità di ricevere amore. Non da una fonte esterna, non dal
tuo partner, ma dalla tua natura.

Welwood sostiene che è molto più spaventoso e minaccioso ricevere amore che
darlo. Nella sua esperienza clinica ha notato che la difficoltà maggiore sta nell’aprirsi
all’amore e lasciarlo entrare completamente.
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Quello che spesso accade nelle relazioni è che il risentimento porta a mettere in atto
delle strategie che evitano il rischio di aprirsi completamente all’amore.

Come fare questo passaggio?

Per aprirsi all’amore è necessario curare la ferita del cuore.

Curare la ferita del cuore


Il nostro cuore ferito trattiene il dolore. Questo crea del risentimento che ci porta a
chiuderci progressivamente nella relazione.

Come possiamo curare la ferita del cuore?

La cura è nel risentimento stesso.

La cura è nel sentire il dolore del non sentirsi amati per come si è, nell’accoglierlo
completamente in noi.

Welwood nel suo libro propone questi passaggi per accedere a quella che lui definisce
presenza incondizionata:

1. Riconoscimento
2. Ammissione
3. Apertura
4. Entrata

Si tratta di passaggi di progressiva apertura in cui si affronta, si sente – e infine si


diventa – il dolore del non sentirsi amati.

Si inizia con il riconoscere il risentimento, comprendendo che c’è e affrontandolo


direttamente senza ritirarsi, senza reagirvi, senza tentare di scaricarlo in alcun modo.

Si prosegue lasciandolo essere così come è restando in contatto con esso


(ammissione).

Il processo prosegue verso un grado ulteriore di apertura. Si apre il proprio cuore


concedendosi di sperimentare tutto quello che c’è senza opporsi minimamente.

Infine si conclude con quella che Welwood chiama entrata, che in termini dinamici
possiamo definire identificazione completa con l’oggetto prima separato da noi (il
dolore o qualsiasi cosa esso sia). Significa diventare quello che è percepito come
separato. Significa permettersi di esserlo completamente.

Questo processo porta a dissolvere il dolore del sentirsi non amati e ad aprirsi
progressivamente all’esperienza dell’amore.

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Quando incontrate voi stessi nel luogo dove vi sentite inappagati […] cominciate ad
abitare voi stessi. Tornate ad abitare il vostro cuore solitario e lo riportate alla vita.

Relazioni imperfette
Il processo di apertura alla nostra natura essenziale potrebbe apparire come sufficiente
a sperimentare l’amore assoluto e la completezza esistenziale che tutti noi desideriamo.

In fondo, se la fonte dell’amore non è l’altro, ma è in me… che bisogno ho delle relazioni
imperfette?

Non è sufficiente restare in contatto con l’amore perfetto che è in me?

Non sarebbe più facile ritirarsi dalle relazioni imperfette e restare nell’essere, fonte di
amore assoluto e perfetto?

Sì, certamente sarebbe più facile, ma non sarebbe sufficiente a darti la completezza che
desideri. [Sarebbe un bypass spirituale]

La realizzazione sul piano umano richiede di mettere la tua natura assoluta in


relazione con l’altro. L’altro è indispensabile in questo processo. Possiamo dire che la
piena maturità dell’essere umano è conquistata nel realizzare la sintesi tra l’amore
assoluto e l’amore relativo.

Welwood nel suo libro chiama questa sintesi unione tra il risveglio e l’individuazione.

Il risveglio è il passaggio del riconoscere e realizzare la propria autentica natura.

Il secondo passaggio è l’individuazione, che significa

diventare una persona vera, qualcuno capace di contatto genuino, trasparenza personale e
intimità con gli altri.
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Aprirsi all’amore assoluto e riconoscere l’essenza della nostra natura come amore è il
risveglio.

Impegnarsi a sviluppare rapporti consapevoli appartiene al cammino


dell’individuazione, perché…

è il mezzo per evolvere in una vera persona, qualcuno che può dar corpo all’amore in
modo intimo e personale.

Ecco l’importanza delle relazioni imperfette, fondamentali per mettere in atto questo
processo.

Per realizzare questa sintesi siamo chiamati a mettere la nostra natura essenziale in
relazione con un altro essere umano, unendo il piano relativo, imperfetto, con quello
assoluto di pura apertura e perfezione.

La mia opinione su Amore perfetto, relazioni imperfette


Ho trovato questo libro splendido da tanti punti di vista.

È un libro profondo che affronta in modo semplice e pratico un tema importante e


sentito da tutti: quello delle relazioni e dell’amore.

Se volessimo andare alla radice delle nostre azioni, tutto quello che facciamo può essere
ricondotto a questo.

Il libro tratta l’argomento da un punto di vista che per molti può essere inedito,
spostando l’attenzione sul piano della consapevolezza e della sintesi tra la relazione
sui due piani, quello relativo imperfetto e quello perfetto dell’amore assoluto.

Questo passaggio è importante e non è affatto scontato.

Alle persone a volte manca l’esperienza di che cosa sia l’amore assoluto. È
un’esperienza che è lontana dal loro vissuto. Conoscono solo l’amore relativo della
relazione imperfetta.

Riconoscere che non è questa la fonte di amore perfetto può essere per loro una svolta
importante. Poi certamente questo va sperimentato direttamente, altrimenti resta solo
una conoscenza mentale che non diventa crescita nella relazione.

A volte invece l’amore assoluto è conosciuto, è una condizione che appartiene alla
persona, ma cade nel tranello di pensare che questo sia sufficiente a fare
funzionare un rapporto.

Purtroppo non è così: oltre al reciproco riconoscimento sul piano della natura di individui
consapevoli è necessaria la sintesi tra le personalità, le emozioni, i corpi.

11/12
La completezza della relazione richiede dunque questo duplice compito: conoscere
l’amore perfetto e manifestarlo in una relazione imperfetta.

Il libro di Welwood è certamente utile per comprendere questi passaggi e per iniziare a
compiere i primi passi in questa direzione.

La tua opinione sull’argomento


Sono certo che il tema dell’amore e della relazione ha toccato in più punti il tuo vissuto.
Per questo avrei piacere di conoscere la tua opinione – o la tua esperienza – in
merito a questo argomento.

Alcune domande per stimolarti:

Riconosci la ferita del cuore che deriva dal non sentirti amato/a per come sei?
Riconosci che questo genera in te dolore e un moto di risentimento nei confronti
dell’altro?
Riconosci in te la fonte dell’amore perfetto, o hai l’impressione che questo derivi
costantemente dalla relazione con l’altro?
Oppure all’opposto hai l’impressione che l’altro sia superfluo visto che la fonte
dell’amore assoluto è custodito in te?
Qual è la difficoltà maggiore che incontri nel tentativo di unire l’amore assoluto in
una relazione imperfetta?

Ti invito a lasciare la tua opinione nei commenti qui sotto.

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I 3 ingredienti dell’amore completo: passione, intimità e…
essereintegrale.com/amore-completo

Agostino Famlonga

Esiste l’amore completo?

Se sì, da cosa è composto?

Secondo Sternberg, uno psicologo statunitense, sì, esiste. Non solo esiste, ma ha delle
caratteristiche definibili.

Nelle sue ricerche ha ideato un modello che è a mio avviso utilissimo nell’autoanalisi di
un rapporto di coppia.

Ti può essere utile per individuare i punti deboli e punti di forza del tuo rapporto.

Vediamo assieme quello che lui definisce “la scala triangolare dell’amore”.

Le 3 componenti di un rapporto amoroso: passione, intimità


e decisione.
Passione, intimità e decisione: da questi 3 componenti nasce l’alchimia dell’amore
completo.

Possiamo posizionare queste 3 componenti ai vertici di un ipotetico triangolo. Questa


rappresentazione ci è molto utile più avanti.

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Prima di mescolare gli ingredienti, vediamoli presi singolarmente.

Passione
L’aspetto passionale è l’elemento più istintivo, legato al desiderio romantico e sessuale.

È caratterizzato da una forte tendenza a cercare il contatto fisico con il partner.

Questo forte è spesso mescolato alla ricerca del contatto emotivo, cioè alla
condivisione del proprio vissuto emozionale.

Intimità
L’intimità è riferita al grado di affinità, di confidenza, di condivisione che si ha con il
partner.

L’intimità genera vicinanza interiore, un sentire condiviso con l’altro.

Decisione e Impegno
La decisione è la presa di posizione dell’individuo nei confronti della relazione .

L’impegno invece sono le azioni che seguono la decisione.

Ogni vera decisione è seguita da della azioni. Quando le azioni vengono mantenute nel
tempo, queste dimostrano un impegno duraturo.

È importante distinguere queste due componenti: decisione e impegno.


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Sono uno la conseguenza dell’altra, ma spesso non si manifestano in quest’ordine.
Ad esempio:

A volte la decisione non è mantenuta nel tempo » non c’è l’impegno.


Alla decisione non seguono le azioni » la decisione è sterile .
C’è un impegno superficiale, senza una vera e propria presa di posizione interiore »
si agisce per un senso di dovere, ma non c’è una responsabilità assunta.

Da leggere » La scelta, 4 principi fondamentali

Gli effetti dei singoli componenti


Cosa accade se un rapporto si fonda solo su uno di questi tre elementi?

Infatuazione
Se un rapporto di coppia si basa solo sulla passione, senza alcuna intimità e impegno, è
in atto un’infatuazione.

È un rapporto sentimentale caratterizzato da un fortissimo trasporto e da una intensa


passionalità.

L’infatuazione è il classico amore a prima vista.

Nasce improvvisamente, senza alcun motivo apparente.


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Ha una durata generalmente breve, proprio per la mancanza delle altre due componenti
dell’amore completo: l’intimità e la decisione.

Il più delle volte è basato su una forte idealizzazione del partner.

Per questo motivo generalmente si conclude con una disillusione, che significa appunto
dis-illusione, cioè la fine di un’illusione.

Quello che resta è il confronto con la realtà, e spesso è accompagnato da un senso di


delusione.

Simpatia
Quando non c’è passione e nemmeno un impegno formale, e il rapporto è basato
sull’intimità, si genera un rapporto di simpatia.

L’intimità è il grado di affinità e confidenza con il partner.

Quando c’è affinità e confidenza c’è simpatia.

Le componenti della simpatia sono il fondamento di partenza su cui si costruisce


un’amicizia, e sono chiaramente anche implicate nella costruzione di un rapporto di
coppia.

Amore vuoto
Se c’è solo la decisione e l’impegno, ma mancano la passione e l’intimità, quello che ne
consegue è un amore vuoto, freddo.

È questa la situazione tipica di chi sta insieme per dovere, per convenienza pratica, per
un qualche tipo di guadagno.

Le combinazioni
Abbiamo visto cosa accade se è presente uno solo di questi elementi.

Vediamo ora come si miscelano tra di loro 2 vertici del triangolo.

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Amore romantico
La passione e l’intimità generano un amore romantico.

È caratterizzato da una fortissima intesa e da una intensa condivisione sentimentale,


emozionale e sessuale.

Cosa manca? La decisione e l’impegno nel tempo.

Questa lacuna impedisce alla coppia di progettare il suo futuro e di restare salda di
fronte alle difficoltà.

Quando ci sono solo passione e intimità, la coppia non regge la prova delle avversità
della vita.

Amore amicale
In questo tipo di relazione c’è intimità, affinità, condivisione unita alla decisione e
all’impegno, ma manca la passione.

C’è una volontà di essere in reciproca compagnia, e questa genera piacere.

Manca il trasporto passionale e il desiderio sessuale reciproco.

Viene definito amore amicale proprio perché ricorda un tipico rapporto di amicizia.

Amore fatuo
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In questo tipologia di rapporti di coppia c’è una forte e intensa passione reciproca. Da
questa nasce la decisione di stare assieme e di mantenere l’impegno di coppia nel
tempo.

Quello che manca è l’intimità, cioè l’affiatamento, la condivisione, la confidenza.

È questo un legame tipico delle coppie dipendenti, in cui c’è un legame basato su
qualche tipo di dipendenza affettiva.

C’è un qualche tipo di guadagno nascosto che tiene salda una coppia di questo tipo.

Viene definito amore fatuo perché è vuoto, evanescente.

Non è necessariamente una relazione di breve durata come l’infatuazione.

Il legame di dipendenza infatti può fare durare questi rapporti anche per lunghi periodi
di tempo.

Cosa accade nei primi 6 mesi


Un grafico ci aiuta a capire cosa succede nei primi 6 mesi in cui nasce un rapporto.

Questi grafici non sono inventati ma sono derivati da uno studio su delle coppie
autentiche (vedi bibliografia).

L’aspetto passionale è quella componente che si accende nei primi incontri, ed è quello
che attrae enormemente le due persone una all’altra.
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È questo il grande magnete che mette in moto tutto quello viene dopo.

Come vedi dal grafico, questo picco di intensità passionale dopo qualche mese scende,
e tende verso un valore di equilibrio, molto più basso rispetto a quello iniziale.

Però c’è qualcosa che aumenta, in modo progressivo. L’amore amicale, composto dalla
decisione e l’impegno, sommati all’intimità reciproca.

Ci si conosce di più, si impara a stare assieme, c’è più confidenza. Questa cresce in modo
costante nel tempo. (Chiaramente per le coppie che superano i punti critici delle
montagne russe della passione iniziale.)

Cosa succede dopo 60 anni


Cosa accede alle coppie che stanno assieme a lungo: questo grafico ce lo mostra.

Come vedi aumenta sempre di più l’amore amicale, ma la passione tende a spegnersi
nel tempo.

Questo grafico ci mostra quello che accade nella realtà nelle coppie stabili nel tempo.

Ma è così che dovrebbe andare secondo te?

La vera alchimia: l’amore completo.


Un rapporto di coppia che esprime un amore completo ha una miscela di passione,
intimità, decisione e impegno.

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Tutti questi elementi sono necessari per una vita di coppia che sia fonte di pienezza e
realizzazione esistenziale.

I due grafici che abbiamo visto sopra ci danno delle indicazioni importanti.

Superata la fase iniziale, quello che generalmente manca alle coppie per avere un
amore completo è la passionalità espressa all’interno della coppia.

Questo lato del triangolo è il grande attrattore, il magnete, l’innesco di tutto. Ed è poi nel
tempo l’elemento che genera squilibrio rispetto agli altri.

Da leggere » Amore perfetto, relazioni imperfette

La coppia, un valore primario


La coppia è potenzialmente una fonte di indicibile pienezza esistenziale.

È il “luogo” dove potersi aprire e mostrare reciprocamente.

È il “luogo” dove questa apertura e comprensione reciproca può trovare la sua massima
espressione.

Pur essendo potenziale, questa piena espressione reciproca viene spesso vista come una
chimera, un ideale irrealizzabile.

È solo un sogno ideale?

A mio avviso, no.

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È un rapporto che si costruisce partendo da delle basi solide: una affinità di base, dei
valori di vita condivisi, dei fini comuni, una passione reciproca, la coesione.

Queste sono le fondamenta, ma da sole non sono sufficienti a reggere la prova del
tempo.

Serve riconoscere il valore della coppia. Riconoscere quanto è importante per te.

Essendo consapevole dentro di te di questo valore, puoi originare delle intenzioni:


comunicare di più, esprimerti di più, accogliere di più l’altro, esprimere di più la passione
nei suoi confronti, e molte altre.

Tutte queste intenzioni partono da una scelta consapevole: quella di impegnarti per
costruire un rapporto di coppia che esprima un amore completo.

È questa una conquista, non è un qualcosa che si trova già confezionato e pronto
all’uso.

E proprio perché viene modellata in base all’interazione di due individui, ogni coppia è
unica. Anche questa unicità è un valore da tenere nel cuore.

Non esiste la coppia modello , esiste l’equilibrio risultante dall’incontro di due individui.

Mi auguro, con questo articolo, di averti dato degli spunti su cui riflettere. Degli elementi
da prendere in considerazione nell’osservare la tua relazione di coppia o il tuo modo di
vedere l’amore completo espresso in coppia.

Se è così, ho raggiunto il mio scopo.

Ti invito, se hai piacere, di condividere nei tuoi commenti qui sotto cosa ne pensi.

Esiste secondo te un amore completo?

Se sì, da cosa è composto?

Bibliografia

– Sternberg R., Barnes M.L. (1990), La psicologia dell’amore.


– Sternberg R. (2014), La freccia di Cupido. Come cambia l’amore: teorie psicologiche.
– Jonathan Haidt (2006), The Happiness Hypothesis

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La scelta: 4 principi fondamentali
essereintegrale.com/scelta-4-principi-fondamentali

Agostino Famlonga

Alzi la mano chi non ha mai preso una decisione importante per l’anno entrante.

Tutti l’abbiamo fatto, certamente più di una volta nella vita.

E cosa è successo a queste decisioni? Sono diventate qualcosa, o sono solo rimasti buoni
propositi?

Le statistiche rispetto a queste risoluzioni di fine anno sono piuttosto deprimenti.

Una minima parte di queste decisioni viene mantenuta per un tempo sufficiente a
portare al risultato voluto.

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Gli ultimi dati riportano che solo il 12% va a buon fine, cioè raggiunge l’obiettivo
prefissato.

Il resto viene abbandonato lungo l’anno… la metà non passa nemmeno il primo mese.

Ma cosa ci dicono questi numeri?

Che dobbiamo rinunciare in partenza? Che queste intenzioni a migliorarsi non servono a
nulla?

A mio avviso no, tutt’altro.

Quello che vedo io è un gran numero di persone che tentano di migliorare loro
stesse, e questo è bellissimo!

Ma se questo tentativo non va a buon fine perché non si sa come fare, cioè mancano
delle conoscenze.

Oppure forse non hanno gli strumenti per farlo, mancano cioè le abilità necessarie.

Oppure non si ha abbastanza supporto, manca cioè il sostegno amorevole di qualcuno


che crede in loro.

Tramite un articolo non è possibile trasmettere le abilità e il sostegno, ma un po’ di


conoscenza certamente sì.

Da questa intenzione nasce l’articolo che stai leggendo.

Per cui, iniziamo!

2/10
Chi sceglie?
Determinare chi sceglie è il punto centrale attorno a cui ruota il successo o il fallimento di
un qualsiasi proposito, piccolo o grande che sia.

Se la scelta è autentica questa vince la prova del tempo e vince la prova delle avversità.

Una scelta autentica è originata dalla consapevolezza che hai di te stesso.

Più sei consapevole di te, più sei in grado di scegliere correttamente e di mantenere
questa scelta nel tempo.

Ti ho riassunto questo principio nello schema che vedi qui sotto:

3/10
Quello che appare, visibile a te e agli altri, è una conseguenza di ciò che fai (le tue azioni).

Ciò che fai è determinato da chi sei.

Le decisioni che non passano la prova del tempo si fermano ai due strati esterni, ciò che
si vede e quello che fai.

Sono decisioni prese dall’esterno verso l’interno e che non arrivano al punto di origine.

Le decisioni autentiche originano dall’interno verso l’esterno.

Sono originate da chi sei tu veramente.

Da questo punto di origine le azioni sono diretta conseguenza di ciò che sei.

Sono il riflesso nella realtà di ciò che sei nel profondo di te stesso.

Quando è la mente a scegliere al posto tuo entrano in gioco vari tipi di guadagno
personale: volere apparire in qualche modo, oppure avere qualcosa (i due strati esterni).

Quando scegli tu, in base alla consapevolezza che hai di te stesso, il guadagno
personale va in secondo piano.

Tu origini le scelte, e la tua mente diventa strumento per renderle concrete attraverso il
fare qualcosa.

Una sufficiente conoscenza di te stesso porta ad una transizione importante: il baricentro


delle decisioni si sposta all’interno di te.

Il fare diventa naturale conseguenza dell’essere.

Cioè che fai lo fai perché sei tu, e non puoi fare a meno di essere te stesso.

La tua identità si riversa verso l’esterno.

Quindi, chi sceglie?

La mente, o la consapevolezza?

Per approfondire » La consapevolezza

4/10
Perché
C’è un modo per spostare il baricentro della scelta verso l’interno?

Serve mantenere l’attenzione su di sé con intensità e purezza per un tempo adeguato.

Un modo per farlo è quello di mantenere l’attenzione al perché.

Ad ogni decisione autentica c’è un perché consapevole .

Tenere l’attenzione al perché permette di smontare le false decisioni, quelle che sono
fatte per apparire in qualche modo o per avere qualcosa.

Quando decidi, chiediti il perché di quello che stai decidendo.

Perché voglio questo? Perché lo faccio?

Non è tanto la risposta che conta, ma il modo in cui usi l’attenzione.

Puoi darti una risposta mentale, oppure puoi attingere alla consapevolezza.

Il perché ti connette a chi sei.

Se fai questo processo a lungo, si smontano tutte le false motivazioni, e arrivi ad un


punto in cui non c’è alcun perché.

Non è una assenza di significato nichilista, tutt’altro.

Il perché sei tu.

Le risposte mentali danno giustificazioni potenzialmente infinite.

Quando hai esaurito i perché mentali, quello che resta è l’infinitezza di ciò che sei, senza
alcun perché.

Cioè fai quello che fai perché è una conseguenza di chi sei.
5/10
Nell’essere ciò che sei… fai, agisci.

Posso girare la frase in vari modi, ma il concetto non cambia.

Hai spostato il baricentro al centro.

E visto che non puoi fare a meno di essere ciò che sei, la tua decisione permane nel
tempo in modo naturale.

Per approfondire » Intensivo sull’essere consapevole

Sai cosa perdi


Quando scegli sai per certo cosa perdi, ma non hai certezza di quello che otterrai. Silvano
Brunelli

Silvano Brunelli

Questo principio è duro da accettare, ma rappresenta una profonda verità.

Ricordo che quando l’ho sentito per la prima volta mi è apparso crudo, freddo.

Apparentemente toglie la magia al momento di decisione.

Ma è solo un’apparenza, vediamo perché.

Decidere vuol dire tagliare via, mozzare [etimo]

Tagliare via cosa?

Le altre possibilità.
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Quando decidi dai vittoria ad una parte.

Tra tante possibilità, tra innumerevoli alternative, ne prendi una.

Hai deciso, sai per certo che quella è la cosa giusta per te, e rinunci a tutte le altre.

E questo è certo.

È certo che rinunci a determinate cose.

Otterrai la cosa che hai scelto?

Forse. Di questo non hai certezza!

Dipenderà da te.

E proprio qui sta la potenza di questo principio legato alla scelta: dipende da te.

Tanto quanto la tua scelta è autentica, basata sulla conoscenza che hai di te stesso,
tanto sarai in grado di mantenerla nel tempo, semplicemente perché non puoi farne a
meno.

La otterrai?

Entrano in gioco qui gli altri due fattori, ricordi cosa ci siamo detti all’inizio?

Le abilità e il sostegno amorevole.

Le abilità vanno acquisite, facendo.

Il sostegno degli altri è una conquista, e non un diritto.

Vedi quanto tutto sia incerto?

L’unica certezza che hai sta nella tua scelta.

E visto che sei tu che scegli… la certezza risiede in te, non fuori da te, e questo è
meraviglioso e potente.

7/10
Comunica la tua scelta
Quante persone conoscono la tua scelta?

Più persone comprendono e sostengono amorevolmente la tua scelta, più questa


diventa forte.

Questo è vero per due motivi:

La comunicazione produce chiarezza in te.

Cioè comunicando la tua scelta chiarisci a te stesso se è vera o falsa per te.

Se la scelta è vera, questa si accende quando viene accolta da qualcuno che la


comprende, diventa sempre più forte.

Questo principio va ben oltre la tua chiarezza personale, perché comunicandola a chi la
comprende la rendi reale.

L’altro motivo è meramente pratico, ma non è per nulla secondario:

Se altri conoscono la tua decisione, possono aiutarti.

Aiutarti non significa necessariamente che faranno qualcosa di concreto.

Forse sì, a volte è utile.

L’aiuto a cui mi riferisco è un sostegno interiore, un sentire che non sei solo nella tua
decisione.

Questo è determinante quando arrivano le difficoltà.

Se stiamo parlando di scelte di crescita, è certo che prima o poi incontrerai sul tuo
percorso delle sfide.

Di fronte a un limite interiore il sentirsi sostenuti è un aiuto indispensabile.


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A volte abbiamo l’idea che mantenere una decisione privata, o segreta, sia una strategia
vincente, perché in fin dei conti siamo noi che in prima persona dobbiamo muoverci.

È vero, sarai sempre tu a fare i tuoi passi di crescita, ma il sentire che non sei solo ti
permette di tenere oltre la tua misura, e di superare un tuo limite.

Non sottovalutare la potenza di questo principio.

Quando vogliamo tenere una decisione nascosta, ci sono questi due ragionamenti attivi:

Se non lo sa nessuno, se fallisco lo so solo io e quindi non perdo la faccia.

Se lo dico a qualcuno, potrebbe ostacolarmi, deridermi se fallisco ecc.

Sono entrambe considerazioni valide.

Però… trattenendo la tua comunicazione con l’altro stai anche limitando il tuo
potere di azione, proprio per il principio visto prima.

Anche in questo caso sei chiamato a scegliere, a prendere una posizione.

Il consiglio che posso darti è quello di comunicare la tua scelta a chi ti sostiene
credendo in te.

Sono le persone che ti stanno vicino che possono sostenerti

Per approfondire » Il paradigma della comprensione

Conclusione
Ci sono tanti altri principi legati alla scelta, ma questi quattro a mio avviso sono
fondamentali.

1. Più sei consapevole di te, più le tue scelte sono autentiche.


2. Non esiste un perché, il perché sei tu.
3. L’unica cosa certa è ciò che non otterrai.
4. Comunicare la tua scelta a chi ti comprende e ti sostiene ti permette di renderla
reale.

Spero ti vengano in mente nel momento in cui deciderai qualcosa di importante, e che
diventino un tuo strumento acquisito, naturale.

In un prossimo articolo vedremo alcuni principi legati all’azione, al momento in cui la


scelta diventa operativa.

Nel frattempo, condividi le tue impressioni nei commenti qui sotto.

Quali sono i criteri con cui scegli abitualmente?

9/10
Conoscevi già questi 4 principi?

10/10
I 6 tipi di inconscio
essereintegrale.com/inconscio-6-tipi

Agostino Famlonga

Watch Video At: https://youtu.be/AlBDSc3BVpA

In ogni istante siamo consapevoli solo di una minima parte della nostra esperienza.

Gran parte di ciò che va a comporre la nostra esperienza soggettiva nel momento
presente opera al di fuori dal nostro accesso consapevole.

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Quello a cui abbiamo accesso tramite la consapevolezza è solo la punta di un
iceberg.

Un iceberg fatto di elaborazioni inconsce.

Da queste elaborazioni inconsce emerge l’esperienza cosciente, quella a cui abbiamo


accesso, quella di cui possiamo divenire consapevoli.

La punta dell’iceberg.

Tutto il resto dell’iceberg è inconscio.

Cos’è dunque l’inconscio?

Possiamo dare una definizione semplice dell’inconscio:

È inconscio tutto ciò che opera al di fuori della consapevolezza.

Questa definizione da una parte è utile, perché discrimina due qualità della nostra
esperienza: una consapevole, e l’altra no.

Dall’altra parte può essere fuorviante, perché raccoglie in un unico “contenitore” una
serie di processi inconsci completamente diversi tra di loro.

Questo non è utile.

È vero, sono inconsci, perché non sono consapevoli.

Ma alcuni processi sono inconsci per loro natura, e non diverranno mai accessibili
alla consapevolezza.

Ed è bene che sia così.

Questo li rende più rapidi e più efficienti.

Altre componenti della nostra psicologia invece sono inconsci ma non dovrebbero
esserlo.

Sono elementi che dovrebbero divenire consapevoli.

Il loro operare al di sotto della soglia della consapevolezza li rende condizionanti,


autosabotanti.

Consapevolmente decidi una cosa, e poi il tuo comportamento e le tue azioni remano
contro la decisione che hai preso.

Sono i meccanismi dell’inconscio che, operando sotto la soglia della consapevolezza,


emanano la loro influenza, a volte in opposizione diretta alla posizione presa
consapevolmente.

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Ti è già successo di trovarti in una situazione simile?

A me sì, parecchie volte.

Questo principio è espresso magistralmente da una massima di Jung, che riguardo


l’inconscio la sapeva lunga:

Rendi cosciente l’inconscio, altrimenti sarà l’inconscio a guidare la tua vita e tu lo


chiamerai destino.C. Jung

C. Jung

Sulla scia di questa citazione illustre, andiamo ad esplorare come la parte conscia e
quella inconscia della nostra psiche costruiscono la nostra esperienza soggettiva.

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I 6 tipi di inconscio – Infografica

Conscio vs inconscio
Abbiamo fatto una prima distinzione: esperienza cosciente in opposizione alla parte
inconscia della psiche.

Che cosa li rende diverse?

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Alla consapevolezza arrivano solo una parte degli stimoli che esistono in ogni momento.

L’inconscio elabora miliardi di bit di informazione, derivanti dai sensi, dall’ambiente, dalla
memoria, dalle emozioni, e da tutto questo emergono dei “dati” che divengono
consapevoli.

Alcuni elementi dell’esperienza affiorano e divengono la punta dell’iceberg.

Questo può essere un processo automatico, oppure volontario.

Diventa volontario quando porti l’attenzione su un determinato oggetto.

Posso decidere di portare l’attenzione – ad esempio – al computer con cui sto scrivendo
questo articolo.

Posso concentrare tutta l’attenzione sul tasto della lettera A della tastiera.

In questo modo divengo consapevole del tasto della lettera A.

Ho messo lì la mia attenzione, su un frammento dell’esperienza.

Per questo è corretto dire che l’attenzione è l’organo di senso della consapevolezza.

È l’organo di senso della consapevolezza perché diventi consapevole dell’oggetto su cui


poggi l’attenzione.

Questo è il processo del guidare volontariamente l’attenzione.

Un altro modo è mantenere l’attenzione libera, fluttuante, non concentrata


volontariamente su alcun oggetto.

Emergeranno in modo spontaneo sulla punta dell’iceberg dei dati, delle qualità
dell’esperienza che stai vivendo.

Questo processo è automatico.

Da leggere » Meditazione: concentrarsi o lasciare andare?

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Ti faccio notare che l’oggetto su cui puoi poggiare l’attenzione non è solamente un
oggetto fisico.

Puoi portare la tua attenzione su un’emozione.

Sul tuo corpo.

Su un pensiero.

Sull’altro essere umano.

Sulla consapevolezza stessa. (Questo lo vedremo meglio alla fine dell’articolo)

Queste due modalità di tenere l’attenzione ci rivelano una differenza sostanziale tra la
parte conscia e quella inconscia della psiche.

Alla consapevolezza arrivano solo una quantità limitata di informazioni.

E arrivano in modo seriale, cioè una alla volta.

L’inconscio invece elabora un’infinità di informazioni, tutte assieme.

Il cognitivismo ha ben studiato e documentato questi processi, definendo parallela la


modalità di elaborazione inconscia, e quella di accesso alla coscienza come seriale.

Riassumiamo il concetto:

Dall’insieme di elaborazioni parallele dell’inconscio emergono in modo sequenziale le


informazioni che raggiungono la consapevolezza.

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Abbiamo toccato con questa distinzione un primo tipo di inconscio: l’inconscio
cognitivo.

Inconscio cognitivo
Innanzitutto: cosa significa cognitivo?

Cognitivo si riferisce al modo in cui viene elaborata l’esperienza cosciente.

Nell’inconscio cognitivo ci sono tutte quelle funzioni che concorrono, senza l’intervento
dell’attenzione consapevole, alla costruzione della tua esperienza.

Sono processi di elaborazione non consapevoli.

Le informazioni che giungono ai tuoi sensi (visive, uditive, tattili, cinestetiche ecc) si
combinino tra di loro -e assieme alla memoria- per comporre quella che è la
tua esperienza.

Accade e divieni consapevole solo del risultato finale.

Osservi una mela e hai l’esperienza della mela.

Il processo per cui tutte le informazioni del momento si combinano tra di loro per darti
l’esperienza soggettiva della mela avviene nell’inconscio cognitivo.

La consapevolezza ha un accesso limitato a questo processo.

C’è un’azione di monitoraggio e uno scambio di informazioni.

I cognitivisti chiamano questo scambio elaborazione top-down.

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Ma è un processo limitato.

Non puoi modificare il modo in cui i tuoi circuiti cerebrali portano alla coscienza
l’informazione della mela che vedi.

Un esempio più chiaro per spiegarti come lavora l’inconscio cognitivo è l’azione del
parlare.

Quando parli non pensi nei termini di soggetto, verbo, coniugazioni ecc.

Non pensi alla grammatica, né alla sintassi.

Parli dando voce ad un pensiero.

Parli e le frasi escono comunque di senso compito.

Se dovessi pensare, oltre a cosa dire, anche a come costruire le frasi, saresti lentissimo
nel parlare.

E forse non sapresti nemmeno come fare.

Mia figlia ha 4 anni, e parla benissimo. Se le chiedessi: come hai articolato la sintassi della
frase che mi hai detto?

Che risposta mi darebbe secondo te? Non ne avrebbe la minima idea. Eppure lo fa, e lo
fa benissimo. Lo fa il suo inconscio cognitivo.

L’inconscio cognitivo comprende tutti quei processi che ti portano a dire: “so farlo, ma
non so dire come.”

Tornando all’esempio del parlare, noi adulti che abbiamo studiato grammatica e sintassi
a scuola, possiamo intervenire consapevolmente sul processo.

Ci può essere cioè uno scambio di informazioni dall’alto verso il basso (top-down).

Ma è limitato, e soprattutto lento.

Ho fatto l’esempio relativo al linguaggio, ma potrei prendere altre azioni che svolgiamo
inconsapevolmente.

Se sei adulto e guidi la macchina immagina questa scena: mentre guidi parli con la
persona che hai di fianco.

Ti “dimentichi” della guida e sei completamente immerso nel discorso con il tuo
passeggero. Eppure guidi.

Regoli l’acceleratore, cambi marcia, mantieni la distanza di sicurezza e fai migliaia di altre
piccole azioni senza che ci sia un’attenzione consapevole. Sono tutte azioni che
avvengono in modo inconscio.
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Vengono elaborate ed eseguite nell’inconscio cognitivo. Ed è bene che sia così!

Se avessimo accesso cosciente a tutte informazioni che in ogni istante sono a


nostra disposizione, saremmo sopraffatti. Paralizzati.

Infatti questa situazione è conosciuta come paralisi per analisi.

Troppi dati da analizzare consapevolmente bloccano l’azione.

Accade perché l’accesso cosciente all’informazione è limitato e perché i dati sono


processati in modo seriale, cioè sequenziale.

L’inconscio cognitivo è molto più veloce ed elabora tante informazioni in una volta
sola.

Questo ci è estremamente utile, non potremmo vivere senza.

E spesso, con la sua velocità di elaborazione, ci salva la vita.

Questo significa che è infallibile e sempre esatto? È questa la chiave per la felicità?
Dobbiamo lobotomizzare la nostra parte consapevole e affidarci totalmente a questi
processi inconsci?

No.

Risposta lapidaria, ma doverosa. Perché?

Continua a leggere e capirai, questo è solo l’inizio.

Inconscio rimosso
Entriamo ora nel territorio ombroso dell’inconscio rimosso.
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Nella storia della psicologia sono state elaborate una marea di teorie funzionali e di
mappe per definire questo tipo di inconscio.

Te lo spiegherò nel modo più semplice che conosca.

Esiste un principio psicologico:

quando un individuo cosciente non riesce a stare di fronte ad un’esperienza questa non
viene integrata nella consapevolezza.

Quest’esperienza invece di divenire di dominio della consapevolezza entra in uno spazio


della nostra psiche che non è accessibile in modo diretto.

L’esperienza -o una sua parte- viene rimossa, non è più accessibile in modo diretto.

Quella parte dell’esperienza a cui l’individuo non è stato di fronte.

Cosa vuol dire?

Stare di fronte vuol dire essere presente, senza forzare e senza resistere,
all’esperienza che sta accadendo.

Se degli elementi dell’esperienza sono troppo forti, intensi, pericolosi, l’individuo non
riesce a starci di fronte, e mette in atto una forzatura, o una resistenza.

La forzatura e la resistenza incapsulano quella parte dell’esperienza e la spostano


in un “deposito mentale” inconsapevole.

L’intento è quello di sbarazzarsi della parte sopraffacente dell’esperienza

Si tratta di un meccanismi difensivi che hanno come scopo la sopravvivenza


psicologica, e in alcuni casi anche fisica.

Cosa accade a questi elementi dell’esperienza non integrati?

Purtroppo non vengono cancellati.

Vengono congelati e resi inconsapevoli.

Vengono incapsulati da un involucro di forzatura e resistenza e spostati in un


“deposito mentale” inconscio.

Questo “deposito mentale” è l’inconscio rimosso .

In questo spazio mentale le varie impressioni si sommano tra di loro e si aggregano in


strutture articolate.

Non abbiamo accesso diretto ai singoli elementi che compongono queste strutture ma
ne sentiamo l’effetto: la loro emanazione.

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È un’ombra che ti segue e che colora le esperienze che vivi.

È un’ombra che ti allontana dal momento presente.

È un’ombra che viene proiettata sugli altri, dipingendoli di un colore che non è loro ma
è tuo.

E tutto questo accade senza che tu te ne accorga.

Fa parte del modo in cui la tua mente costruisce la percezione della realtà.

Da leggere » I trance che le persone vivono

Vedi la differenza tra questo spazio inconscio -rimosso- e quello di prima -cognitivo-?

Capisci perché la risposta lapidaria che ho dato prima?

Capisci perché Jung consigliava di rendere conscio l’inconscio?

Perché pur non essendo direttamente accessibile, questo ha un effetto


condizionante sulla tua vita.

Dai tempi di Jung c’è stato un grosso salto evolutivo in questo campo.

Sono state create delle tecniche efficacissime per pulire questo deposito di esperienze
rimosse.

Lo studio innovativo sulla mente del Centro Studi Podresca e il corso Abilità della persona:
La mente ha (anche) questo scopo: pulire l’inconscio rimosso.

L’inconscio rimosso non è infinito, è finito.

Ha un inizio ben definito nella storia della persona.

Ciò che ha un inizio ha anche una fine.

È possibile integrarlo.

È possibile cioè liberarsi dai condizionamenti dell’inconscio rimosso.

Da leggere » Le emozioni e l’ombra

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Da leggere 2 » Il sogno

I primi tre stadi evolutivi


Per proseguire nell’esplorazione delle altre parti dell’inconscio devo spiegarti un
argomento leggermente più tecnico. Cercherò di farlo nel modo più semplice che mi è
possibile.

Per esserci un inconscio rimosso deve esserci un io che rimuove delle parti
dell’esperienza tramite i suoi meccanismi di difesa.

La coscienza evolve in stadi di sviluppo sempre più complessi tramite l’integrazione e


la differenziazione.

Da una fase indifferenziata emerge un primo fulcro di differenziazione, che è il corpo.

Cioè nasce un “io corporeo” dalla differenziazione dall’ambiente fisico.

Poi nasce un “io emozionale” dalla differenziazione tra il corpo e le emozioni.

Poi nasce un “io mentale” dalla differenziazione tra le emozioni e il primo piano mentale.

Sono i primi tre stadi evolutivi.

Da leggere » Evoluzione della coscienza

Ogni stadio evolutivo ha i suoi processi di integrazione e di differenziazione.

I primi due stadi di sviluppo sono pre-verbali, per cui i meccanismi sono anch’essi pre-
verbali.

Tecnicamente quando si parla di meccanismi di difesa di parla di difesa dell’io.

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L’”io mentale” nella serie dei tre stadi che ti ho presentato.

Prima di questo stadio non c’è una rimozione vera e propria.

Ecco quindi che entra in scena un’altra parte dell’inconscio, quella più antica, l’inconscio
non rimosso.

Inconscio non rimosso


Tecnicamente palando, per rimuovere qualcosa, ci deve essere un io che rimuove
qualcosa dall’esperienza per difendere i suoi confini.

Nei primi due fulcri di sviluppo la rimozione propria dell’io, la classica rimozione
dinamica, non è ancora operativa, semplicemente perché non c’è ancora un io mentale
che la può mettere in atto.

Quello che accade in questi stadi di sviluppo pre-verbali viene archiviato


nell’inconscio non rimosso.

Si tratta di schemi di relazione che vengono memorizzati a livello implicito, pre-


verbale.

Nell’inconscio non-rimosso vengono memorizzati schemi di relazione a livello implicito,


pre-verbale.

Sono esperienze relazionali primarie, connesse agli aspetti non-verbali della


comunicazione materna, che vengono archiviate nella memoria implicita.

Implicita significa che è tacita, che non può essere ricordata.

Sono esperienze emozionali, fantasie e schemi che appartengono ad un’ epoca pre-
verbale dello sviluppo, dal concepimento fino ai primi due anni di vita.
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In questa parte dell’inconscio sono memorizzati i Modelli Operativi Interni, gli stili di
attaccamento, le Rappresentazioni di Interazioni Generalizzate.

Questi schemi agiscono in modo simile all’inconscio cognitivo: sono lenti mute
attraverso cui viene costruita la nostra interazione con il mondo, con l’altro, con
noi stessi.

Sono schemi pre-verbali, per cui non possono essere ricordati in modo diretto.

Tecnicamente non sono stati rimossi, ma sono incistati nel modo in cui percepiamo tutto
quanto, compreso noi stessi.

Modellano in modo affettivo e somatico il nostro essere nel mondo e il nostro essere
in relazione.

Da leggere » Il primo respiro

Ad ogni stadio di sviluppo ci sono dei meccanismi psichici in azione, dai più grossolani ai
più raffinati.

Le esperienze precoci vengono memorizzate schematicamente in questa parte pre-


verbale dell’inconscio, e costituiscono le fondamenta di tutto lo sviluppo psichico
che avviene dopo.

Le esperienze sopraffacenti precoci minano la costruzione degli stadi seguenti.

In termini evolutivi, più è precoce l’esperienza sopraffacente più grave l’effetto che ha
questa sulla psiche della persona (vedi il Continuum della psicopatologia nel paragrafo
Dissociazione).

Viceversa, il soddisfacimento dei bisogni fisiologici, relazionali e affettivi in questa fase


formativa costituiscono le fondamenta per un sano sviluppo psicologico.

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Ad ogni stadio la sua tecnica di integrazione
Ogni stadio evolutivo ha le sue funzioni di difesa.

Quindi, a seconda della parte da integrare, ci sono delle tecniche specifiche.

Sono le tecniche proprie dello stadio di sviluppo in cui è avvenuta la rimozione (o la


registrazione nell’inconscio non rimosso).

Qui ti ho presentato tre stadi di differenziazione: corpo – emozioni – mente, ma gli


stadi evolutivi sono molti di più.

Nell’articolo Spettro evolutivo ne ho elencati 9, partendo dagli stadi pre-personali,


passando per quelli personali, fino a quelli transpersonali.

Ad ogni stadio c’è la possibilità di rimuovere qualcosa dall’esperienza.

Tutta questa spiegazione tecnica per dirti due cose:

1) L’inconscio rimosso può essere integrato, ma serve una tecnica idonea allo
stadio evolutivo in cui è avvenuta la rimozione.

Un esempio pratico per capirci: è inefficace la psicoterapia per integrare rimozioni del
primo fulcro di sviluppo (l’io corporeo).

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Si tratta di processi pre-verbali, nati evolutivamente prima dello sviluppo del linguaggio.

Servono tecniche che agiscano a questo livello, ad esempio il Respiro Circolare.

È vero anche il contrario! Con le tecniche corporee difficilmente integri gli elementi
rimossi agli altri livelli.

Difficilmente integrerai elementi rimossi a livello mentale solo facendo (ad esempio)
rolfing.

Ad ogni livello serve un intervento specifico.

Dico questo sapendo benissimo che ci sono alcune tecniche che hanno uno spettro
più ampio, cioè che abbracciano più stadi di sviluppo.

Sapendo benissimo che spesso agendo dal basso si sblocca anche tutto quello che
sta sopra.

Però lo scrivo perché è giusto sapere che ad ogni stadio c’è una tecnica specifica.

Diffida da chi ti propone una sola tecnica che agisce su tutta la scala dello
sviluppo. Semplicemente non esiste.

2) L’evoluzione della coscienza non si ferma mai, per cui la rimozione è sempre
possibile.

Pur integrando l’inconscio rimosso passato, è possibile continuare a crearlo nel


presente, man mano che la coscienza prosegue nel suo percorso di integrazione e
differenziazione.

Pur integrando l’inconscio rimosso passato, è possibile continuare a crearlo nel presente.

Sarà un rimosso sempre più sottile e subdolo da individuare.

Purtroppo più si sale la scala dello sviluppo più sono le possibilità che qualcosa vada
storto.

Semplicemente perché ci sono più elementi in gioco.

Questo non deve essere un deterrente. Non puoi fare a meno di evolvere, è la tua spinta
evolutiva che agisce dal basso verso l’alto.

Semplicemente è importante che tu conosca questo principio e che tu intervenga in


tempo reale con le tecniche adeguate agli stadi di sviluppo che affronterai, siano essi
personali o trans-personali.

Libro consigliato » Le trasformazioni della coscienza di Ken Wilber

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Inconscio emergente
Questo discorso ci porta direttamente ad un altro tipo di inconscio: quello emergente

La spinta evolutiva preme verso l’alto verso una complessità sempre maggiore.

Pur essendo gli stadi di sviluppo conosciuti e universali, la forma individuale che la
coscienza acquista in ogni stadio è unica. È la tua forma.

La struttura di coscienza che sta emergendo è inconscia.

La struttura di coscienza dello stadio evolutivo emergente è inconscia.

Puoi riconoscerla proprio ora, è presente in qualsiasi stadio di sviluppo ti trovi.

La riconosci come un’attrazione verso una complessità maggiore.

È un’attrazione pre-verbale, non puoi dirla a parole, però c’è. Ti invito a sentirla.

Quando la spinta evolutiva che viene dal basso si incontra con l’attrazione
dell’inconscio emergente ecco che avviene il salto evolutivo.

Avviene il cambiamento della struttura della coscienza.

Hai salito il gradino evolutivo verso una configurazione più complessa.

Più facile a dirsi che a farsi, vero?

Il cambiamento implica una nuova configurazione, una transizione di fase.

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E ed ogni stadio evolutivo come abbiamo visto c’è la possibilità che vada storto qualcosa,
che qualcosa venga rimosso.

Per questo in maniera inconsapevole resistiamo questo processo.

Da una parte c’è un’attrazione fisiologica e dall’altra c’è una resistenza verso il
cambiamento dalla condizione attuale.

Oltre a questo c’è bisogno di una maturazione personale.

Si sale il gradino solo quando si è maturi, prima non sarebbe possibile, e anzi sarebbe
dannoso.

Da leggere » Bypass spirituale

Riguardo l’inconscio emergente c’è un principio importante da conoscere: la comunità


in cui ti trovi fa da attrattore verso lo stadio di sviluppo “medio” di quel gruppo di
persone.

Esiste un centro di gravità collettivo, in termini di stadio di sviluppo, e le persone


che sono inserite in quel contesto sociale maturano in modo spontaneo fino a quello
specifico stadio.

Per noi occidentali lo stadio “normale” è quello operatorio-formale individuato da Piaget.

Un adulto medio matura in modo spontaneo fino a questo livello evolutivo.

In altri contesti sociali ci si ferma molto prima, possiamo quindi ritenerci fortunati.

È come se ci fosse un solco collettivo, e la persona percorra in modo naturale il


solco evolutivo fino a quel livello.

L’evoluzione fino a questo punto sarà “facile”, naturale, spontanea.

Andare oltre questo stadio di sviluppo è possibile, ma sarà molto più difficile, perché per
far emergere le strutture di coscienza più elevate l’individuo deve andare oltre il
centro di gravità collettivo.

Questo genera una doppia resistenza:

1) nella persona che ha paura di perdere il gruppo di appartenenza.

2) nella collettività che tende a schiacciare queste “anomalie”.

Ho voluto fare questa precisazione per avvisarti che se deciderai di lasciare spazio
all’inconscio emergente dovrai scontrarti con queste resistenze, oltre alle tue.

Il processo di crescita naturale e spontaneo ti porta fino ad un certo punto: il “centro di


gravità” collettivo.
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Per andare oltre ci vuole una spinta intenzionale e consapevole: quella di unire la
tua spinta evolutiva all’inconscio emergente andando contro la resistenza collettiva.

Inconscio collettivo
Abbiamo toccato l’argomento collettività.

Anche un gruppo di persone ha una parte inconscia.

Questa parte dell’inconscio può assumere molti significati, e cercherò di elencarti tutti
quelli che conosco.

Non si tratta solo della somma della parte inconscia dei singoli.

L’inconscio collettivo è quello che la collettività non conosce, a livello interiore ma anche
esteriore.

Da leggere » Quadranti

Ti faccio un esempio: fino a 100 anni fa non sapevamo dell’esistenza dei


neurotrasmettitori.

C’erano, facevano il loro lavoro come lo fanno ora, ma noi come società non ne eravamo
consapevoli.

Questa è una definizione di inconscio collettivo applicata alla dimensione esteriore,


fisica.

Applicando lo stesso principio alla dimensione interiore emergono altre due definizioni.

Nel caso degli stadio di sviluppo, l’inconscio collettivo è la media dello sviluppo
collettivo: l’abbiamo chiamato “centro di gravità” parlando dell’inconscio emergente.
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Questo centro di gravità è reale, è collettivo, ed è inconscio.

Esiste poi nella dimensione interiore una parte emergente dall’incontro di più individui.

È la dimensione inter-soggettiva. L’intersezione di due o più soggettività.

È una dimensione sempre presente, anche se non viene riconosciuta, risulta inconscia.

È talmente radicata nella nostra coscienza da passare inosservata, come un alone


trasparente che modella la nostra percezione del mondo.

La nostra percezione soggettiva è impregnata da ciò che è presente nella


dimensione intersoggettiva.

Le quattro dimensioni esistenziali sono sempre presenti, che vengano riconosciute o


meno.

Da leggere » Stati di coscienza in 4 dimensioni

Archetipi di pensiero
L’inconscio collettivo è anche il terreno entro cui emergono gli archetipi del pensiero.

Gli archetipi sono quelle forme di pensiero che ereditiamo in quanto esseri umani.

Sono gli schemi di pensiero basilari, impersonali, innati, universali.

Agiscono come degli “stampini” entro cui prende forma il nostro pensiero.

Derivano da una sorta di memoria filogenetica, e rappresentano una forma


dell’esperienza che ha le sue radici nella biologia umana e nelle tradizioni culturali
stratificate nel tempo.

Secondo Jung, che ha compiuto un grande processo di divulgazione riguardo gli


archetipi, non sono soltanto impronte di esperienze tipiche sempre ripetute, ma si
comportano come forze o tendenze a ripetere le stesse esperienze.

Spesso si tende a sovrastimare il valore di queste immagini o tendenze inconsce.


Possiedono un alone mistico e sono caricate di energia psichica. Quindi, ad esempio
quando emerge un’immagine archetipica in sogno, si tende a darle un’importanza
maggiore rispetto ad altri contenuti.

Gli archetipi in realtà non hanno una valenza particolare, sono semplicemente universali.

Da leggere » La fallacia pre-trans

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Inconscio non-duale
Concludo la rassegna delle componenti dell’inconscio con un’affermazione
controintuitiva.

La parte più essenziale dell’inconscio è la coscienza stessa.

Sembra un gioco di parole, ma non lo è, e ti spiego perché.

L’esperienza ordinaria, per come la viviamo normalmente, viene esperita in una modalità
duale.

Cioè in ogni esperienza c’è un io che percepisce qualche oggetto.

Per oggetto intendo qualsiasi cosa: una penna, un pensiero, un’emozione, una fantasia,
l’altro essere umano, un ricordo…

C’è un oggetto che viene conosciuto da un soggetto.

Un soggetto, un io, che esperisce -che conosce- un oggetto.

È un controsenso parlare di un oggetto separato dal soggetto che lo esperisce.

In ogni esperienza, sia il soggetto che l’oggetto dell’esperienza sono mutevoli,


cambiano continuamente nella loro forma e nelle loro caratteristiche.

Ci illudiamo che il soggetto che esperisce (l’ io) sia permanente: in realtà anche lui è
transitorio, cambia continuamente.

L’unica cosa che non è mutevole in ogni esperienza è che sia il soggetto che l’oggetto
emergono in un campo indifferenziato di consapevolezza, detto non-duale perché
privo di separazione.

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Questa caratteristica non è mutevole, è permanente.

È l’essenza di come sono le cose.

Questa parte essenziale dell’esperienza, la sua natura non-duale, è generalmente


inconscia.

È inconscia perché non è conosciuta direttamente.

Nell’esperienza ordinaria l’individuo si identifica con gli oggetti che esperisce.

Il focus è generalmente sulla natura degli oggetti, anche se sporadicamente emerge la


consapevolezza di sé come soggetto.

L’individuo non è consapevole di ciò che è invariante nell’esperienza, la


consapevolezza.

Questa è la condizione ordinaria, in cui la coscienza è inconscia.

La coscienza è inconscia perché non è conosciuta in modo diretto e consapevole.

Quando l’attenzione viene mantenuta per un tempo sufficientemente lungo, con


intensità e purezza, sulla consapevolezza stessa, avviene il collasso di questa modalità di
conoscenza duale.

Esiste cioè una condizione in cui la parte essenziale dell’esperienza, generalmente


inconscia, viene conosciuta in modo diretto.

La chiamiamo appunto esperienza diretta.

Per approfondire » Esperienza diretta di sé

La coscienza diviene cosciente. Non è un gioco di parole.

È un processo di unione consapevole, di conoscenza diretta.

Per questo aspetto dell’inconscio non ti suggerisco di leggere libri o articoli.

Potrebbero addirittura essere controproducenti se letti prima di conoscere


esperenzialmente questo aspetto della realtà.

L’unico modo per conoscere davvero quest’esperienza è vivendola.

Per questo ti invito al prossimo Intensivo sull’Essere Consapevole, un ritiro


residenziale di tre giorni che ha quest’unica finalità: farti conoscere in modo diretto la tua
vera natura.

Bibliografia
22/23
Giampaolo Sasso – La nascita della coscienza
Silvano Brunelli – La mente reattiva
Eric Kandel – L’età dell’inconscio
Giuseppe Craparo – Inconscio non rimosso
Loredana Cena, Antonio Imbasciati – Neuroscienze e teoria psicanalitica
Ken Wilber – Le trasformazioni della coscienza
Paolo Migone – L’inconscio psicoanalitico e l’inconscio cognitivo

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La mindfulness nella diade relazionale
essereintegrale.com/la-mindfulness-nella-diade-relazionale

Agostino Famlonga

La parola diade ha un significato etimologico ben definito: significa


semplicemente “coppia“. In questo articolo quando ci si riferisce alla diade si va oltre il
suo significato letterale, applicandola alla relazione interpersonale. Nella sua essenza la
diade è composta da due individui in relazione.

Per “diade” si intende la formalizzazione della relazione diadica all’interno di un


setting specifico. Un’interazione tra una coppia di individui che avviene non in modo
causale ma che è gestita in modo definito e con finalità specifiche. Distinguerò due
finalità, quella comunicativa e quella relativa alla conoscenza di sé, sapendo bene che le
due modalità sono sovrapponibili.

Analizzeremo le componenti fondamentali di questa interazione inquadrandole nel


contesto della mindfulness e della neurobiologia interpersonale.

L’obiettivo è mettere in risalto il potenziale evolutivo della relazione tra due individui
consapevoli.

MINDFULNESS

Cos’è la mindfulness

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In occidente il concetto di mindfulness si è affermato solamente in tempi recenti: per la
prima il vocabolo appare nel 1921 (Davids and Stede, 1986/1921). Eppure proprio lo
stesso concetto di mindfulness fa parte di una tradizione millenaria.

Il termine mindfulness è stato tradotto in lingua italiana come presenza mentale,


consapevolezza, pienezza della consapevolezza.

La sua origine può essere ricondotta alla parola sati della lingua pali, che indica al
contempo consapevolezza, attenzione e ricordo (Didonna, 2012).

Si riferisce ad una condizione di consapevolezza non concettuale, non cognitiva,


legata alla modalità di essere attenti in modo non giudicante nei confronti del
momento presente.

Il ricordo è inteso come “ricordo di sé”, nel senso di ricordarsi di essere consapevoli e
di prestare attenzione: con questo si vuole sottolineare l’importanza dell’intenzione
sottesa al focalizzare l’attenzione al momento presente in una modalità non
categorizzante (Amadei, 2013).

Il termine sati esprime nella sua lingua originaria una sfumatura che connette la
presenza mentale alla consapevolezza del cuore, intesa come wholeheartedness nella
sua traduzione inglese, ovvero “pienezza del cuore”: la consapevolezza mindfulness è per
sua natura intrisa di compassione (Siegel, 2007b).

Bishop (2004), tentando di unificare le definizioni legate al termine mindfulness ha


proposto una definizione operazionale, indicando due componenti essenziali a cui
questo termine fa riferimento: l’auto-regolazione dell’attenzione, mantenuta
sull’esperienza immediata e orientata al riconoscimento degli eventi emergenti, e
l’atteggiamento nei riguardi dell’esperienza presente, caratterizzato da curiosità,
apertura e accettazione.

L’abilità di mantenere un focus attentivo per un tempo prolungato richiede lo sviluppo


della capacità di attenzione sostenuta (Parasuraman, 2000; Posner and Rothbart, 1992)
e di commutazione (switching), ovvero il riportare l’attenzione sull’oggetto su cui si è
concentrati dopo che si è riconosciuto che essa ne è stata deviata da un pensiero,
un’emozione o una sensazione (Posner, 1980), includendo quindi la flessibilità
dell’attenzione.

L’autoregolazione dell’attenzione promuove una consapevolezza non elaborativa dei


contenuti mentali emergenti, siano essi pensieri, emozioni o sensazioni. La mindfulness
genera in questo modo un’esperienza diretta degli eventi nella mente e nel corpo,
limitando le tendenze associative o ruminative nel flusso dei pensieri (Teasdale et al.,
1995).

La pratica della mindfulness non è una pratica di soppressione dei pensieri, ma piuttosto
considera ogni evento emergente nel flusso di consapevolezza come un oggetto da
osservare, non come una distrazione: riconosciuta la deviazione dell’attenzione il focus
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attentivo viene riportato all’oggetto originario, impedendo quindi elaborazioni
secondarie di pensieri, emozioni o sensazioni (Bishop, 2004).

Grazie al potenziamento di questa abilità, le pratiche di mindfulness sono associate ad


un miglioramento nell’inibizione cognitiva, in modo particolare a livello della selezione
dello stimolo (Williams et al., 1996). Dato che l’attenzione ha una capacità limitata
(Schneider and Shiffrin, 1977), limitando le richieste dell’elaborazione secondaria, si
liberano risorse che vengono impiegate nel processare informazioni legate all’esperienza
immediata, che passerebbero normalmente in secondo piano. Invece di osservare le
esperienze attraverso i filtri delle credenze, aspettative e desideri, la mindfulness implica
l’osservazione diretta dei vari oggetti come se si trattasse di un primo incontro: per
questo motivo viene spesso associata all’espressione “mente di principiante” (Epstein,
2003a, b).

La mindfulness può essere considerata una capacità metacognitiva, una riflessione


sulla natura dei propri processi mentali: si tratta di una cognizione dei propri
processi cognitivi (Flavell, 1979), ovvero di consapevolezza della consapevolezza
(Siegel, 2007b).

Le capacità metacognitive sono costituite da due processi interrelati: il monitoraggio e il


controllo (Nelson et al., 1999; Schraw and Moshman, 1995). Il controllo dei processi
cognitivi consiste nell’autoregolazione dell’attenzione, mentre il monitoraggio si
riferisce all’attitudine nei confronti dell’esperienza: non esistono intenzioni nel creare
un particolare stato, ad esempio di rilassamento, ma l’atteggiamento assunto rivela
curiosità e apertura nei confronti dei contenuti emergenti nel flusso di
consapevolezza. La posizione assunta è quella di accettazione nei confronti
dell’esperienza, così come si presenta. L’accettazione è stata definita come l’essere
esperienzialmente aperto alla realtà del momento presente (Roemer and Orsillo,
2002), e implica una decisione consapevole di abbandonare i propri propositi di avere
un’esperienza differente e un processo attivo rivolto al permettere ai propri pensieri,
emozioni o sensazioni di manifestarsi così come sono (Hayes et al., 1999).

È quindi possibile concepire la mindfulness come il processo di relazionarsi con


apertura e accettazione all’esperienza e di indagare con curiosa consapevolezza il
costante fluire del vissuto privato. Il monitoraggio effettuato in questa modalità del
proprio flusso di consapevolezza porta nel lungo periodo all’aumento della complessità
cognitiva, che si evidenzia nell’abilità di generare rappresentazioni differenziate e
integrate dell’esperienza cognitiva e affettiva; promuove inoltre la capacità di riconoscere
la natura transitoria e impermanente dei pensieri e delle sensazioni, riconoscendole
come eventi di passaggio nella propria interiorità piuttosto che aspetti legati al sé o come
valide rappresentazioni della realtà (Segal et al., 2012), promuovendo quindi una
prospettiva decentrata nei loro confronti (Safran, 1990).

Da leggere: Consapevolezza

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Il fattore comune tra le psicoterapie
In ambito psicoterapeutico si può rilevare, fin dai suoi esordi, un interesse particolare
verso la ricerca di quali fattori si rendano necessari per garantire un trattamento di
successo. La letteratura sulla psicoterapia abbonda di studi riguardo la ricerca di questi
fattori comuni, e i risultati delle analisi possono essere riassunti con la seguente
affermazione: “Sappiamo che molte forme di psicoterapia diverse tra di loro funzionano”
(Germer, 2005, p.4) o con il famoso “verdetto di Dodo”: tutti hanno vinto e tutti
meritano un premio (Luborsky and Singer, 1975). Questa sentenza fa proprio l’assunto
emergente dall’osservazione di svariate modalità terapeutiche diverse tra di loro, che ha
evidenziato pochissima differenza nel loro outcome, indipendentemente dal loro
orientamento teorico o dalle tecniche specifiche impiegate (Seligman, 2005).

La meta-analisi di un gran numero di ricerche dimostra che ci sono solamente poche


differenze nell’outcome terapeutico in un largo spettro di terapie e di clienti
(Luborsky, 2002).

La maggior proporzione di varianza nell’outcome terapeutico (circa il 40%) è associata a


fattori statici relativi alle caratteristiche del cliente, come l’età, il genere, precedenti
episodi depressivi, supporto sociale, e altri fattori extraterapeutici (Lambert, 1992). Il 15%
percento della varianza nel cambiamento è associata alle aspettative del paziente, o
all’effetto placebo, e un altro 15% è associato alla specificità della modalità del
trattamento. Questo lascia indietro circa il 30% della varianza, che è stata attribuita ad un
fattore comune presente nella maggior parte degli incontri terapeutici (Lambert, 1992).

Le concettualizzazioni recenti (Weinberger, 2002) identificano 5 importanti fattori


comuni:

1. variabili della relazione


2. aspettative
3. l’affrontare i problemi
4. l’esperienza del terapeuta
5. l’attribuzione di risultati previsti

Tra questi, quello più importante è la variabile relativa al fattore relazionale. Le


relazioni caratterizzate da empatia, considerazione incondizionata, e congruenza tra
terapista e cliente sono state indicate come maggiormente favorevoli (Bohart et al.,
2002).

È interessante notare che sia Carl Rogers (1957) e prima di lui Rosenzweig (1936)
credevano che le caratteristiche del terapeuta, quali l’empatia, la genuinità e la
considerazione positiva incondizionata (Rogers, 1961), non solo fossero necessarie,
ma fossero piuttosto fattori sufficienti per stimolare il cambiamento.

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Queste indicazioni mettono al centro del processo di cambiamento la relazione e
l’abilità del terapeuta di incarnare senza artifici le caratteristiche empatiche necessarie
ad incontrare il cliente nella seduta clinica.

Più recentemente, Lambert ha identificato come fattore comune la relazione terapeutica


caratterizzata da “fiducia, calore, comprensione, accettazione, gentilezza e saggezza
umana” (Lambert, 2005, p.856).

In queste caratteristiche è facile individuare un punto di incontro tra le tradizioni


psicoterapeutiche occidentali e le tradizioni di saggezza orientali, che pongono al centro
delle loro pratiche una modalità particolare di rivolgersi all’esperienza, definita con il
termine mindfulness: un atteggiamento di accettazione e viva curiosità rivolta al
momento presente, con una modalità attentiva focalizzata e non giudicante. Martin
(1997) individuò nel potenziale trasformativo della mindfulness il fattore comune a
cui ricorrono sia i terapeuti a orientamento psicodinamico che quelli cognitivo-
comportamentali, indicando come meccanismo per l’azione trasformativa la liberazione
dell’attenzione da essa veicolata.

In qualità di fattore comune, la mindfulness può essere vista sia come un ingrediente
determinante nelle relazioni terapeutiche, ma anche come una “tecnologia” rivolta
al clinico per coltivare le sue qualità terapeutiche personali (Germer et al., 2005,
p.9). Le tre modalità con la quale la mindfulness entra nel processo terapeutico sono le
seguenti:

La consapevolezza mindful del terapista e del cliente nel momento


dell’incontro clinico.
Le pratiche di mindfulness rivolte al terapista per incrementare la sua abilità di
essere mindful nel setting clinico.
L’obiettivo stesso della terapia: far aumentare la consapevolezza mindful del
cliente.

La constatazione della diffusione trasversale della mindfulness nel processo


psicoterapeutico ha portato allo sviluppo di una nuova generazione di trattamento, la
cosiddetta “terza generazione del cognitivismo” (Hayes et al., 2004). Questi interventi –
come la MBCT [1], la ACT [2] e la DBT [3] – pongono la mindfulness al centro dei loro
processi, e sono ormai sostenuti da numerosi riscontri empiricamente validati.

Come verrà esposto in seguito, la “diade” relazionale, oggetto di analisi di questo articolo,
possiede nella sua struttura tutte le caratteristiche sopra descritte. Anche se non viene
utilizzata in ambito clinico, i suoi meccanismi d’azione che, come vedremo, possono
essere ricondotti ai principi della mindfulness, si rivelano trasversali e potenzialmente
inseribili in ampi contesti.

[MBCT] Mindfulness-Based Cognitive Therapy (Willias, Teasdale, Segal, 2000)


[ACT] Acceptance and Commitment Therapy (Hayes, 2004)
[DBT] Dialectical Behavior Therapy (Linehan, 1993)
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INQUADRAMENTO TEORICO

La Neurobiologia interpersonale e Teoria sistemica


intersoggettiva
Questo articolo si basa sul paradigma recentemente sviluppatosi in ambito psicologico:
la teoria sistemica intersoggettiva (Atwood et al., 2002) che è stata definita da vari
autori con denominazioni differenti, ma tutte riconducibili ai medesimi principi. Mitchell
(1988) lo chiama modello relazionale, i ricercatori dell’Infant research (Beebe et al., 1992)
lo chiamano prospettiva sistemica diadica, Hoffman (1991) lo chiama costruttivismo
sociale.

La “teoria dei sistemi” (Thelen et al., 1994), o “teoria della complessità” (Witherington,
2007) nasce dall’indagine di fenomeni chiamati dinamici, non lineari, autorganizzanti,
complessi o caotici, e viene poi applicata ai sistemi biologici complessi quale l’essere
umano, in quanto rispondente ai medesimi principi. La prospettiva presa in esame
considera il sistema vivente:

aperto, in quanto in continuo scambio con l’ambiente in cui è inserito, ed in grado


di rispondere e di adattarsi ad esso;
organizzato a livello gerarchico, includendo cioè dei sottosistemi, o elementi, che
costituiscono un tutto che è più della somma delle sue componenti. Due o più
sottosistemi che interagiscono formano un metasistema, che a sua volta
interagisce ad un livello gerarchico più elevato con altri metasistemi;
dotato di una proprietà emergente: l’auto-organizzazione. Essa nasce dalle
interazioni tra le sue componenti (Kauffman, 1996) e crea ordine, coesione e
stabilità nel tempo (Robertson and Combs, 1995);

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non lineare: minime variazioni negli input possono portare a cambiamenti
notevoli e imprevedibili degli output (Guastello et al., 2009). Riportato ad un
organismo vivente, il principio della complessità si traduce in questa constatazione:
piccoli cambiamenti nelle microcomponenti del sistema possono portare a grossi
cambiamenti nel macrocomportamento dell’organismo.

I processi mentali sono visti come emergenti dalle funzioni neurali dell’intero
organismo (non solo del cervello) e da processi relazionali: la funzione auto-
organizzante del sistema è in parte diadica, cioè parte dell’interazione fra due
individui e non solo dell’integrazione neurale interna (Fogel, 1987, 1993).

La constatazione deriva dall’esame dello sviluppo psicologico e dall’osservazione


dell’attività mentale del bambino, che ha evidenziato la natura dipendente dal contesto
dei suoi processi autoregolatori, in quanto influenzano e sono influenzati dagli scambi
con le persone che ne hanno cura. Appare, a questo livello gerarchico, un metasistema
contraddistinto da un continuo processo di mutua regolazione all’interno della diade
composta dai due individui interagenti: da questa constatazione deriva la definizione
di sistema vivente aperto dinamico diadico (Guastello et al., 2009).

La mente è dunque vista come un processo incarnato e relazionale con una funzione
regolativa, nel senso che auto-organizza il movimento dei flussi di energia e
informazioni all’interno dell’organismo e nelle interazioni con gli altri (Siegel, 1999).

Lo sviluppo di ogni essere vivente può essere visto come un movimento dalla
semplicità alla complessità (Thelen et al., 1994), in un processo interattivo con
l’ambiente in cui è inserito.

Il movimento verso la massimizzazione della complessità permette la stabilità del


sistema vivente, ed è ottenuto tramite integrazione, cioè il collegamento di elementi
differenziati in un sistema coerente, dove per coerenza si intende lo stato del
sistema in cui funzioni diverse vengono attivate e collegate flessibilmente nel
tempo (Thagard, 2002).

Gli stati del sistema che massimizzano la complessità raggiungono maggiore stabilità
(Sporns, 2010).

L’integrazione consente coordinamento ed equilibrio: gli elementi del sistema sono allo
stesso tempo differenziati e collegati tra di loro.

Secondo l’approccio della neurobiologia interpersonale, i processi interpersonali


possono favorire integrazione e coerenza, alterando le modalità con cui la mente
si organizza. L’integrazione è vista come una forma di risonanza , intesa come
insieme delle interazioni fra due o più entità differenziate e relativamente indipendenti
che si influenzano a vicenda, che consente a sistemi distinti di amplificare e co-regolare
le loro attività.

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All’interno di stati diadici possono quindi svilupparsi complessi fenomeni di risonanza
che permettono a ciascuno dei membri della coppia di acquisire nuove capacità
integrative: la sintonizzazione condivisa è in grado di stimolare la crescita
neuronale in senso integrativo negli individui che la sperimentano.

L’integrazione interpersonale promuove in questo modo un’integrazione intrapersonale,


che a sua volta alimenta, in un circolo virtuoso, il processo integrativo verso una
complessità maggiore. Come verrà esposto più avanti, la sintonizzazione
intrapersonale è fortemente associata alla consapevolezza mindful: quest’ultima
promuove coerenza e integrazione neurale, che a loro volta rendono più probabile lo
sviluppo delle abilità empatiche necessarie per una sintonizzazione interpersonale. Si
delinea quindi un quadro di elementi interrelati che operano sinergicamente verso la
massimizzazione della complessità.

La teoria intersoggettiva abbraccia una epistemologia prospettivista, asserendo che la


comprensione avviene sempre da una prospettiva che prende forma dai principi
organizzatori (modelli mentali, strutture di significato, network associativi) di colui che
compie l’atto percettivo: non esiste una comprensione neutrale, né una percezione
immacolata. La relazione tra due individui emerge all’interno di uno specifico campo
psicologico formato dall’intersezione di due soggettività differentemente organizzate, in
un contesto intersoggettivo che rappresenta la cristallizzazione di questo incontro.

Pluralismo metodologico
L’analisi effettuata in questo articolo si propone di adottare in ogni componente
investigata un pluralismo metodologico, inteso ad unificare e connettere campi di
conoscenza tra di loro complementari, abbattendone l’apparente contrasto includendoli
in una prospettiva “integrale” (Marquis, 2008; Saiter, 2009).

La prospettiva della neurobiologia interpersonale prende atto del fenomeno definito


consilienza (Wilson, 1999): la convergenza di conoscenze provenienti da differenti campi
del sapere che indicano come la mente emerga dalla sostanza del cervello e sia plasmata
dalle comunicazioni che si stabiliscono all’interno delle relazioni interpersonali (Siegel,
1999). Si tratta quindi di un approccio multidisciplinare che fa proprie le
interpretazioni neuroscientifiche, gli studi della psicologia dello sviluppo,
dell’antropologia e della psichiatria, con l’obiettivo di creare una comprensione della
psiche che integri i processi mentali, i meccanismi neurobiologici e le relazioni
interpersonali.

Da leggere: Quadranti

LA DIADE RELAZIONALE

Cos’è la diade e a cosa si applica


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Recentemente in ambito terapeutico sono state proposte delle pratiche di mindfulness
che si discostano dalla visione tradizionale di pratiche formali e informali, in quanto
si è reso evidente che, per quanto efficaci esse siano, non coinvolgono l’aspetto
relazionale e a volte tendono a far permanere un senso di un sé isolato ed
autonomo (Kramer et al., 2008).

Queste pratiche rompono il paradigma dell’aumento della consapevolezza di sé come


fenomeno privato e individuale e si propongono di coltivare la consapevolezza
mindful mentre si è in relazione con altri individui (Lysack et al., 2008).

La “diade” relazionale, oggetto di analisi di questo articolo, rende operativa


questa finalità e introduce un peculiare aspetto formale nel training di mindfulness
fatto in coppia.

Con il termine “diade” mi riferisco ad una modalità specifica di interazione tra due
individui: sono predisposti un setting e un timing specifici che scandiscono, ad intervalli
regolari, degli scambi interattivi, generalmente di natura comunicativa, tra i due
individui partecipanti alla “diade”.

I due partner si posizionano uno di fronte all’altro, generalmente in postura seduta, ad


una distanza confortevole, che non crei disagio a nessuno dei due e che permetta una
vicinanza tale da garantire un contatto visivo.

I ruoli seguono uno scambio alternato: in un primo turno un individuo parla e l’altro
riceve la comunicazione, mentre nel secondo turno i ruoli si invertono: chi stava
parlando ora ascolta, e chi stava ascoltando ora comunica.

Lo scambio dei ruoli viene generalmente scandito da un timer, che segnala


acusticamente quando è concluso il turno.

Definiamo per semplicità i due turni come “attivo” e come “ricettivo”.

Attivo è colui che sta compiendo l’atto comunicativo, o che comunque sta
eseguendo un lavoro introspettivo alla ricerca di un contenuto da comunicare.

Ricettivo è colui che si pone in secondo piano e rimane in ascolto di quello che gli
viene comunicato o comunque in totale apertura nei confronti della persona che ha di
fronte a sé, anche se non sta comunicando nulla perché impegnata nell’elaborare una
comunicazione.

Il turno inizia con una richiesta da parte del partner ricettivo, che pone in forma
verbale un’istruzione al partner attivo. La richiesta varia a seconda dello scopo e del
setting all’interno del quale avviene la “diade”; possiamo suddividere per comodità in
due le modalità utilizzate: comunicazione e conoscenza di sé.

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La modalità comunicativa viene generalmente impiegata in percorsi di crescita ad
indirizzo specifico. Inizialmente viene eseguita una lezione didattica frontale dove
vengono esposte delle nozioni teoriche. Nella fase seguente ai partecipanti sono invitati
a svolgere delle “diadi” che permettono di mettere a fuoco i concetti appresi
contestualizzandoli nella propria realtà personale.

In questo ambito quindi la finalità della “diade” è di fare chiarezza su un


determinato contenuto: a tal fine ai partecipanti viene fornito un eserciziario con
delle domande specifiche; l’intenzione è di indagare le aree sulle quali il conduttore
vuole che la persona porti l’attenzione, secondo il percorso proposto dal corso. Il partner
ricettivo, attingendo all’eserciziario, rivolge le richieste al suo compagno di “diade”,
proseguendo in successione fino al completamento del compito assegnato.

Nell’impiego della “diade” con il fine di aumentare la conoscenza di sé, non cambiano i
tempi né le regole per gestire gli scambi comunicativi; quest’applicazione non prevede
un eserciziario con domande specifiche, ma la richiesta che viene rivolta al partner
attivo avviene sotto forma di quesito esistenziale.

Come verrà esposto in modo più approfondito più avanti, un quesito esistenziale
fondamentale è la domanda “chi sono io?” e viene posto in “diade” con l’espressione: “Vivi
direttamente chi sei tu.” L’istruzione non ha una risposta specifica che possa essere
considerata corretta, ma veicola la richiesta di compiere uno specifico compito cognitivo.

Il partner attivo, ricevuta l’istruzione, compie l’atto interiore richiesto, ovvero cerca di
vivere direttamente chi lui è in quel particolare momento, e poi comunica a chi ha di
fronte il contenuto che è emerso.

I principi nelle due applicazioni restano dunque i medesimi, ma quello che varia è il
contenuto comunicato, che non è più indirizzato ad argomenti specifici.

In entrambi gli utilizzi della “diade,” una volta effettuata la richiesta, il partner ricettivo
si pone in ascolto di quello che il partner attivo gli comunica nel tempo a sua
disposizione (turno di 5 minuti), senza intervenire in alcun modo. Non ci sono
interruzioni e interventi con domande chiarificatrici da parte di chi ascolta, né cenni di
assenso o dissenso nei confronti del contenuto della comunicazione.

Al partner attivo è riconosciuta piena libertà di espressione, sia con riferimento alla
lunghezza della risposta che alla profondità dell’indagine. La libertà di espressione ha
soltanto un vincolo di natura etica: il conduttore chiede espressamente di garantire che
la comunicazione avvenga in modo non lesivo, rispettando cioè colui che la riceve e i
partecipanti vicini che potrebbero udirla.

Finito il turno comunicativo, della durata di 5 minuti, scandito dal timer, i partner si
ringraziano reciprocamente e si invertono i ruoli.

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Mentre delle “diadi” a finalità di ricerca esistenziale il partner ricettivo rivolge sempre la
medesima domanda al partner attivo, nelle “diadi” a finalità comunicativa la domanda
cambia nella successione delineata dall’eserciziario. Può cambiare nell’arco dei 5 minuti o
vedere il partner attivo impegnato a rispondere in modo a sua avviso esauriente per due
o tre turni consecutivi. Come verrà esposto nel paragrafo relativo alle tempistiche,
questo scambio avviene 4 volte a testa, per un totale di 8 turni per la coppia . Finita la
“diade” si chiede di cambiare attività per 10-15 minuti prima di iniziare un nuovo ciclo,
allo scopo di evitare un decadimento della qualità dell’attenzione.

Di solito i partner sono intercambiabili tra una “diade” e la successiva, viene chiesto
espressamente di non ripetere la “diade” con la stessa persona per due volte di fila .
In questo modo si rompe la tendenza all’abituazione. Questa intercambiabilità viene
calibrata in base al contesto, non è una regola fissa.

L’utilizzo della “diade” come strumento di crescita avviene generalmente in gruppo, ma


anche questo non è un parametro vincolante: l’unità fondamentale è composta da
due individui.

I partecipanti ai percorsi sono esenti da psicopatologie conclamate: le finalità non sono


di tipo clinico.

Per la natura estremamente privata dei contenuti verbalizzati, si chiede espressamente


ai partecipanti di mantenere una totale riservatezza in merito a quanto ascoltato dal
proprio partner di “diade” o udito dalle persone vicine.

La garanzia della riservatezza non sussiste, si tratta di una presa di posizione personale
dei partecipanti. L’esperienza ha dimostrato che sensibilizzando i partecipanti in questo
senso, si ottiene un aumento immediato di assunzione di responsabilità individuale, tale
da garantire un accordo di fiducia reciproca che non viene violato.

Si chiede inoltre di non riferirsi in modo esplicito a persone che potrebbero, udendo il
loro nome, capire che ci si sta alludendo a loro: ognuno mantiene per questo la
comunicazione anonima, sostituendo il nome dell’interessato con una locuzione
neutra, come ad esempio “una persona”: in questo modo si assicura sia l’autenticità
dell’espressione che l’anonimato dell’individuo a cui ci si riferisce.

APPLICAZIONI PRATICHE DELLA “DIADE”

Comunicazione

Il setting con finalità comunicative

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Per poter svolgere l’esercizio in “diade” l’unità fondamentale è formata da due persone.
L’applicazione pratica di questa attività prevede generalmente un contesto di gruppo. Il
gruppo è guidato da un conduttore che svolge un’attività formativa specifica e che può
eventualmente essere accompagnato da assistenti che coordinano le attività dei
partecipanti.

La pratica della “diade” può essere impiegata in svariati contesti: il suo impiego è
trasversale e multidisciplinare.

Il luogo fisico dove si può svolgere non patisce particolari vincoli, se non quello di uno
spazio sufficiente per contenere i partecipanti disposti in coppie, seduti uno di fronte
all’altro.

La distanza tra i membri della singola coppia dipende dalla loro preferenze, i due
raggiungono un compromesso tra una vicinanza non invadente, e una distanza non
separante. Gli studi riguardo la prossemica (Hall, 1966) indicano che una distanza di 10-
15 cm tra le ginocchia di due persone sedute una di fronte all’altra pur rientrando
nella distanza intima (0-45cm) non risulta invasiva, in quanto la distanza tra i due volti
resta all’interno della distanza personale (45-120 cm), garantendo un’interazione
coinvolgente ma rispettosa.

Chi conduce chiede esplicitamente di evitare il contatto fisico tra i membri della
“diade”. Questo ha due scopi: evitare un possibile disagio in colui che è toccato, ed
evitare che colui che tocca si distragga dalla focalizzazione introspettiva richiesta dalla
pratica.

La distanza tra le coppie sedute in “diade” viene calibrata in base allo spazio a
disposizione: si cerca in questo caso un compromesso tra una lontananza che permetta
di non essere eccessivamente disturbati dalle comunicazioni dei vicini e una vicinanza
che consenta di percepire di fare parte del gruppo, e non di essere isolati dalle coppie
vicine.

Per mantenere un senso di ordine all’interno del gruppo generalmente si


distribuiscono le coppie in una o più file ordinate linearmente; inoltre si scandiscono
i turni, attivo e ricettivo, in modo uniforme dal punto di vista spaziale all’interno della
coppia, ovvero all’inizio dell’esercizio il conduttore dà indicazioni su quale “lato” della
coppia, all’interno della fila, ha ruolo attivo e quale ricettivo. Questa suddivisione spaziale
e temporale permette ai partecipanti di armonizzarsi all’interno del gruppo, facilitando il
senso di appartenenza aduna dimensione sovraordinata (gruppo di lavoro) mantenendo
un senso di privatezza nello scambio col partner (“diade”) e al contempo massimizzando
la possibilità introspettiva del singolo.

La tempistica
L’impostazione temporale della “diade” è settata per favorire il mantenimento
dell’attenzione ad un livello sempre massimale.
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È noto che la vigilanza ha un calo progressivo nelle attività che richiedono un’attenzione
sostenuta sul medesimo compito (Davies and Parasuraman, 1982). Storicamente si è
ritenuto che questo decremento fosse il riflesso dell’esaurimento delle risorse attentive
(Helton and Warm, 2008; MacLean et al., 2009). Recenti studi hanno invece dimostrato
che questo decremento è causato dall’assuefazione al compito (goal habituation), e che se
il sistema cognitivo di controllo è in grado di mantenere il task goal attivo per il tempo
richiesto, la performance non decrementa, anche se lo sforzo attentivo rimane di tipo
sostenuto (Ariga, Lleras, 2011). Per prevenire l’assuefazione al compito è sufficiente
un disimpegno temporaneo dal compito richiesto, anticipando la piena
abituazione: in questo modo il livello di attivazione del compito resta massimale nel
momento della ripresa.

Gli studi dimostrano che è possibile mantenere un alto livello di vigilanza per un lungo
periodo di tempo (40 minuti) tramite l’uso di brevi, rare e attivamente controllate
interruzioni dal compito (Ariga and Lleras, 2011). Nella pratica della “diade”, questo
principio è sfruttato nella sua configurazione temporale: un turno, sia esso attivo o
ricettivo, dura circa 5 minuti. Il numero di scambi è limitato a 8 consecutivi, per un totale
di 4 a testa di tipo attivo e 4 di tipo ricettivo alternati tra di loro. All’interno del turno di
5 minuti è dunque possibile mantenere un’attenzione sostenuta con intensità
massimale.

L’alternanza dei ruoli, da ricettivo ad attivo e viceversa, permette, grazie al cambio del
compito richiesto, di mantenere la “freschezza cognitiva” necessaria a garantire
l’impiego totale delle risorse attentive nel compito. L’ascoltare senza la richiesta di
rispondere e senza alcuna interpretazione permette al partner ricettivo di focalizzare
completamente la sua attenzione al contenuto esposto dal partner attivo e all’individuo
consapevole che sta comunicando con lui. Il compito cognitivo proprio del turno attivo
richiede invece una focalizzazione interiore volta a sentire cosa emerge in merito alla
richiesta ricevuta, e ad elaborare una comunicazione che possa esprimere in maniera
comprensibile il contenuto; si interrompe quindi la modalità cognitiva richiesta nel turno
ricettivo.

Come è risaputo da studi sulla qualità dell’attenzione (Davies and Parasuraman, 1982), la
prestazione ha una curva di decadimento con una flessione più o meno marcata a
seconda del soggetto e del compito, ma che raggiunge dopo 40-45 minuti un livello
minimo. Gli incontri di psicanalisi hanno una durata di circa 50’ anche per questo motivo
(Langs, 1998). Nella pratica della “diade”, nonostante il cambio di attività ostacoli il
decadimento, si interrompono comunque gli scambi dopo 8 turni (circa 40’) .

L’intervallo tra le “diadi” varia, con un minimo di 10’-15’ a un massimo che dipende
dall’impostazione del corso. In questo intervallo i partecipanti fanno altro: questo
permette di tornare alla “diade” seguente con un’energia e una motivazione rinnovata.
Inoltre, lo svolgere compiti diversi negli intervalli, permette una stabilizzazione del

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materiale emerso, che come abbiamo visto tramite l’integrazione trova una sistemazione
all’interno dei network associativi della persona (Siegel, 2007a). Da questo processo
possono emergere altri contenuti, che vengono poi comunicati nella “diade” seguente.

Il turno attivo della “diade”


Nei 5 minuti del suo turno attivo il soggetto anzitutto riceve l’istruzione dal partner
ricettivo: questi gli chiede, tramite una domanda esplicita, di portare l’attenzione su
un’area specifica e di rispondere alla richiesta.

Alla ricezione della domanda segue una fase introspettiva in cui l’individuo scansiona la
sua mente e le sue emozioni per sentire quello che emerge e per elaborarlo.

Alla fase introspettiva segue la verbalizzazione del proprio vissuto che il soggetto
comunica in modo completo e dettagliato al partner.

L’auto-ascolto richiede una capacità introspettiva che può essere vista come la somma di
svariate funzioni cognitive/affettive che in più parti si intrecciano e favoriscono la
consapevolezza mindful.

La competenza emotiva, definita da Salovey e Mayer (1989) come “la capacità di


monitorare le proprie e altrui emozioni, di differenziarle e di usare tali informazioni per
guidare il proprio pensiero e le proprie azioni,” nel contesto della “diade” si rivela come
un fattore ubiquitario: il processo di monitoraggio interiore è continuo, proprio
perché il focus è completamente rivolto in tal senso, e la differenziazione è facilitata
dalla verbalizzazione dei propri vissuti.

Dodge afferma che: “tutti i processi di elaborazione delle informazioni sono


emozionali, nel senso che l’emozione è l’energia che dirige, organizza, amplifica e
modula l’attività cognitiva, e a sua volta costituisce l’esperienza e l’espressione di tale
attività” (Dodge, 1991, p.159).

La verbalizzazione del proprio vissuto interiore riflette di conseguenza una presa


di contatto con la parte emotiva, e ne permette un’integrazione di ordine
superiore.

È stato infatti rilevato che in individui con tratti mindful nominare un’emozione può
ridurre attivazioni limbiche: possono cioè controllare un’emozione parlandone (Cresswell
et al., 2007, p.25).

Il termine controllo in questo caso non è da intendersi come un tentativo di soppressione


del vissuto emotivo, infatti la mindfulness è stata descritta come la tendenza a essere
consapevoli delle esperienze del momento, ad avere un atteggiamento aperto verso se
stessi e gli altri, ad avere equanimità emozionale e a essere in grado di descrivere il
mondo interno della mente (Baer et al., 2006, p.28).

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Il raggiungimento di tale stato di equanimità avviene appunto tramite l’integrazione
emozionale, favorita dal contenimento del partner di “diade”, che accoglie
empaticamente il vissuto del partner attivo manifestato tramite la sua
comunicazione (verbale e non).

Il nominare e definire un’emozione porta ad una defusione e a un decentramento del


soggetto, favorendo le caratteristiche proprie della consapevolezza mindful.

La pratica della “diade” ha un effetto di tipo circolare: l’aumento della propria


competenza emotiva comporta un aumento dei tratti mindful, che a loro volta
accrescono l’abilità di entrare in contatto con il proprio mondo emozionale in
modalità integrativa.

Scrive Amadei (2013): il termine intelligenza emotiva, introdotto da Daniel Goleman


(1995) è in sovrapposizione pressoché totale al concetto di mindfulness. Infatti un
elemento comune a molti trattamenti su mindfulness e accettazione (come la DBT [4],
ACT [5], MBCT [6], MBSR [7], ABBT [8]) è l’osservazione e la descrizione delle proprie
emozioni (Hayes et al., 1999; Kabat-Zinn, 2005; Linehan, 1993; Roemer et al., 2008; Segal
et al., 2002): i clienti sono incoraggiati ad osservare le proprie emozioni così come si
presentano al momento e a definirle in maniera oggettiva. Così facendo i clienti
migliorano il contatto con queste emozioni e dirigono l’attenzione sulle diverse
componenti delle loro risposte emozionali, cosa che si ritiene incrementi la loro
consapevolezza emozionale.

Il processo di descrizione delle emozioni favorisce la capacità di identificare, definire e


differenziare i diversi stati emozionali.

L’atteggiamento non valutante, in cui gli stimoli sono descritti semplicemente per quello
che sono, fa crescere la disponibilità a provare emozioni e diminuisce le reazioni
emotive secondarie, cioè i tentativi di controllare, sopprimere o evitare esperienze
interne indesiderate, che come è stato dimostrato provocano in realtà un effetto
paradosso, cioè l’incremento della frequenza, gravità e accessibilità di queste esperienze
(Salters-Pedneault et al., 2004).

In questo contesto, la pratica della “diade”, è perfettamente sovrapponibile ai trattamenti


sopra citati, tranne per la componente relazionale che è onnipresente in ogni sua fase,
mentre i trattamenti di cui sopra prevedono generalmente una pratica individuale. Il
risultato della pratica è quello di attenuare e spegnere l’evitamento emozionale,
riconoscendo la natura equivalente delle esperienze emotive interiori, siano esse
positive o negative, incrementandone la consapevolezza, la comprensione e
l’accettazione.

Inoltre, l’individuo impara a scindere l’emozione dal comportamento abituale ad essa


associato: il setting stesso vincola la risposta emozionale ad una presa di
consapevolezza senza un’azione conseguente. Questo training, nel lungo periodo,
insegna una competenza emotiva fondamentale, cioè l’entrare in contatto con le
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informazioni fornite dalle emozioni rispondendovi in modo adattivo, e non reattivo
(Brunelli, 2011a; Gratz and Gunderson, 2006; Linehan, 1993; Orsillo and Roemer, 2005;
Roemer and Orsillo, 2007).

Negli ultimi anni si è potuto rilevare un notevole interesse in ambito accademico e


terapeutico nei riguardi della funzione riflessiva, ossia la capacità di riconoscere stati
mentali propri e altrui, descritta inizialmente da Peter Fonagy e Mary Target (Fonagy et
al., 1991; Fonagy and Target, 1997) e successivamente inscritta nel concetto della
mentalizzazione (Fonagy et al., 2003; Fonagy and Target, 2003) che si riferisce alla
capacità dell’individuo di rappresentarsi i propri comportamenti e quelli degli altri come
frutto di intenzioni, desideri, scopi, più in generale come risultante di stati mentali
specifici; ovvero avere una “teoria della mente”.

La funzione riflessiva è una procedura automatica, evocata inconsapevolmente


nell’interpretare le azioni umane (Fonagy et al., 1998), ed è diversa dall’introspezione (o
autoriflessione) che invece attiene alla conoscenza dichiarativa del Sé ed è definibile
come coscienza introspettiva (Stern, 2004). La mindfulness (coscienza fenomenica) è stata
rilevata come un precursore della funzione riflessiva, cioè della conoscenza procedurale
delle menti (Amadei, 2013). La pratica della “diade”, ponendo gli individui in relazione e
permettendo loro di esprimere liberamente i propri pensieri, si mostra in questo
contesto come un vero e proprio training nei confronti della capacità dei
partecipanti di mentalizzare l’altro.

Si definisce decentramento (decentering) la capacità di guardare i propri pensieri e


sentimenti come eventi mentali transitori che non riflettono necessariamente la
realtà, la verità o un valore personale, non sono per forza importanti, né richiedono un
particolare comportamento come risposta (Moore and Fresco, 2007). Ciò comporta
l’assunzione di un atteggiamento centrato sul presente, non giudicante e accettante
nei confronti dei pensieri e degli stati d’animo (Fresco et al., 2007).

È lecito supporre che osservare in modo non reattivo i pensieri così come si presentano,
definendoli con precisione senza lasciarsi condizionare dal loro contenuto, così come
avviene in “diade”, favorisca la capacità di decentramento, nella quale i pensieri sono
colti e definiti come contenuti mentali transitori piuttosto che aspetti di sé o
importanti verità che devono dettare il modo di agire.

Il decentramento previene la ruminazione , una specifica modalità di pensare


presente in molti disturbi psicologici. La ruminazione è una forma di pensiero
ripetitivo che consiste nel pensare sintomi sgradevoli di esperienze interiori, ciò che ne
è causa, le conseguenze e le implicazioni in modo passivo e improduttivo (Nolen-
Hoeksema et al., 2008). La riduzione della ruminazione appare come un fondamentale
meccanismo di cambiamento nella terapia cognitiva basata sulla mindfulness, con
evidenze empiriche che dimostrano una riduzione del sintomo in chi si sottopone al
trattamento (Kingston et al., 2007; Ramel et al., 2004). I riscontri pratici confermano che

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la pratica della “diade”, che come abbiamo visto è equiparabile nei suoi elementi
fondamentali ai trattamenti basati su mindfulness e accettazione, porta nel tempo a
una modalità di pensiero decentrata e scevra da ruminazione.

Strettamente legato alla capacità di decentramento, è il processo di defusione, che


consiste nell’indebolimento dei processi linguistici che provocano la fusione (Hayes
et al., 1999; Strosahl et al., 2004).

La fusione cognitiva si verifica quando i processi verbali dell’individuo influenzano


marcatamente il comportamento manifesto in maniera inefficace, a causa di una
incapacità o fallimento a rendersi conto del processo del pensiero, o del contesto,
rispetto ai prodotti del pensiero, o al contenuto (Hayes et al., 2006; Pierson et al., 2004).
Quando questi processi dominano l’esperienza di un individuo, ne può risultare una
rigidità psicologica. La rigidità psicologica può essere definita come l’eccessivo
invischiamento nell’evitamento esperienziale e nella fusione cognitiva, e nell’avere
difficoltà a connettersi con il contesto di una situazione e scegliere un
comportamento in linea con valori o obiettivi identificati (Hayes et al., 1999). La rigidità
psicologica gioca un ruolo significativo nello sviluppo di una gran quantità di
psicopatologie (Kashdan and Breen, 2007; Kashdan et al., 2009; Marx and Sloan, 2002;
Masuda et al., 2009; Orcutt et al., 2005; Reddy et al., 2006; Rosenthal et al., 2005).

In un training di mindfulness le persone imparano a considerare i pensieri per quello che


sono realmente e non per ciò che esse affermano che siano (Hayes et al., 1999), come
rappresentazioni dell’esperienza individuale, piuttosto che descrizioni della realtà o
realtà vere e proprie. L’individuo apprende l’abilità di accorgersi dei suoi processi
linguistici così come si dispiegano e a osservare l’andare e venire dei pensieri dalla
prospettiva di un osservatore neutrale.

La defusione, in questo senso, implica un radicale cambiamento di contesto, facendo


divenire i pensieri degli eventi piuttosto che verità assolute che impongono un
comportamento.

Nei percorsi di studio proposti dal CSP viene posta una particolare attenzione ai processi
di decentramento e di defusione, al punto che in alcuni di essi (es: “Abilità della persona,
la mente”) viene offerto un training apposito: tramite esercizi mirati gli individui
procedono alla differenziazione del processo percettivo nelle sue tre componenti:
soggetto, oggetto e processo stesso (Brunelli, 2011a).

Dalle analisi fatte in questo contesto è stato rilevato che solamente il 9% dei partecipanti
è in grado di discriminare completamente i 3 elementi. Le evidenze pratiche
suggeriscono che un training dedicato a questa abilità incrementi notevolmente la
capacità di differenziazione. L’aumento della capacità di defusione è notoriamente
associata alla flessibilità psicologica (Ely, 2012), e quest’ultima è associata al benessere
psicologico, con una riduzione di sintomi clinici e un incremento dell’attività basata sui
valori (Brunelli, 2001).

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I processi di decentramento, defusione, regolazione emozionale sono facilitati e
amplificati dalla relazione diadica.

Dall’analisi del processo psicoterapico è noto che la relazione terapeutica e i processi di


autoregolazione diadici vengono in seguito “interiorizzati” attraverso la creazione di
un modello mentale del Sé con il terapeuta e l’acquisizione di nuove capacità di
regolazione autonoma delle emozioni. Il raggiungimento di questi nuovi livelli di auto-
organizzazione è facilitato da processi narrativi integrativi che consentono lo sviluppo di
un profondo senso di coerenza interna (Hesse, 2008; Mackenzie, 2009; Main et al., 2008;
Neimeyer et al., 2001; Siegel, 1999, 2010c).

La “diade”, nella sua strutturazione, predispone un setting mirato ad amplificare quelle


componenti che sono ritenute indispensabili per il processo integrativo, superando la
concezione classica del rapporto terapeuta-paziente, permettendo agli individui di
rapportarsi tra di loro ad un livello di equivalenza (Brunelli, 2011b).

La “diade” può catalizzare il processo integrativo facilitando lo sviluppo di stati di


risonanza diadica, in cui la mente dei due individui in relazione può immergersi in
intensi stati emozionali primari e concentrarsi simultaneamente su esplorazioni
narrative riflessive. Scrive Siegel (1999, p.345): è attraverso questi stati di attivazione
cooperativa, in cui i processi di sintonizzazione affettiva si mescolano a dialoghi
riflessivi, che la relazione può promuovere lo sviluppo di capacità di regolazione
delle emozioni più efficaci e di narrazioni più coerenti, consentendo alla mente di
acquisire una maggiore integrazione e quindi un’auto-organizzazione più stabile.

Appare evidente come la condivisione dei flussi di energia e di informazioni tra due
individui porti all’attivazione dei meccanismi di integrazione di energia e di informazioni
nel loro sistema nervoso.

I due individui in “diade” possono entrare in stati di risonanza che consentono


l’emergere di un vero e proprio sistema diadico dove i processi di sintonizzazione
affettiva favoriscono lo sviluppo di capacità di regolazione più efficaci e il
movimento verso una maggiore complessità.

Per fare in modo che questo avvenga, il ricevente deve essere in grado di percepire i
segnali verbali e non verbali che gli vengono trasmessi e di rispondere accordando i suoi
stati della mente con quelli del partner attivo; fra gli stati emozionali primari
psicobiologici dei due individui può così crearsi una risonanza diretta (Siegel, 1999).

A livello neurologico questi processi di risonanza avvengono fra gli emisferi destri delle
due persone coinvolte (dx media segnali non verbali). Le funzioni di interpretazione
dell’emisfero sinistro dei membri della “diade” svolgono un ruolo attivo e importante,
dato che sono implicati negli scambi verbali e nelle riflessioni logiche sulle domande
poste. Le funzioni di interprete dell’emisfero sinistro cercano di dare un senso alle
esperienze dell’individuo e di organizzare i suoi processi narrativi.

Lo sviluppo di narrazioni coerenti comporta una risonanza di processi mediati dai


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due emisferi cerebrali. La comprensione empatica delle comunicazioni tra i membri
della “diade” può essere intesa come il prodotto di una risonanza interemisferica
all’interno delle menti dei due individui. Il sistema diadico può raggiungere
progressivamente maggiori livelli di complessità con lo stabilirsi fra i due individui di stati
di risonanza interemisferica sempre più coerenti, attraverso processi di sintonizzazione
mediati da comunicazioni verbali (da emisfero sx a sx) e non verbali (da emisfero dx a
dx).

È noto che traumi, lutti, divorzi mettono a dura prova la capacità di coping, ma
anche che possono diventare importanti punti di forza quando vengono integrati nella
vita di una persona (Calhoun and Tedeschi, 2006; Nader, 2006). Il dato cruciale è se
questi eventi sono stati o meno incorporati in narrazioni coerenti della propria storia
(Main et al., 2008). La resilienza può emergere da autoriflessione e relazioni che
promuovono l’integrazione di memoria, emozioni e altri processi neurali (Siegel,
1999).

L’assenza di elaborazione produce un senso di incoerenza nella coscienza autonoetica


[9] la quale cerca di dare un senso al passato, di organizzare il presente e di pianificare il
futuro.

La pratica della “diade” può permettere alle persone con perdite o traumi non elaborati
di collegare questi aspetti della memoria alle loro passate esperienze e di comprendere
le cause dei loro disturbi.

Tali riflessioni avvengono in un contesto equivalente ad una relazione terapeutica di


attaccamento sicuro che consente alla mente del praticante di andare incontro a stati
fortemente disregolati e di imparare a tollerarli, a riflettere sulla loro natura e
infine a modularli in modo più adattivo, attraverso processi che allargano la
cosiddetta finestra di tolleranza, cioè i margini entro i quali stati emozionali di diversa
intensità possono essere processati senza che ciò comprometta il funzionamento del
sistema, e promuovendo la crescita di circuiti integrativi (Siegel, 2010a, c).

All’inizio questi processi si basano soprattutto su meccanismi di regolazione diadica non


verbali che probabilmente coinvolgono attività mediate dall’emisfero destro (di entrambi
i partner). La possibilità di riflettere consciamente sull’esperienza traumatica è
associata a un’attivazione della memoria esplicita che permette il consolidamento
dei ricordi correlati all’evento e la loro integrazione all’interno di narrative
autobiografiche. Ciò può consentire un processing cooperativo in entrambi gli emisferi
cerebrali di quelle che in precedenza erano rappresentazioni unilaterali; in questo modo
l’emisfero sinistro logico e verbale può percepire e interpretare le rappresentazioni
autobiografiche dell’emisfero destro. È probabile che tali processi integrativi abbiano
effetti diretti sulle capacità dell’emisfero destro di regolare stati emozionali primari:
possiamo così “nominare per dominare”.

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Lo sviluppo di funzioni mentalizzanti e coscienza autonoetica permette
all’individuo di dare un significato al passato, di comprendere il presente e di
programmare attivamente il futuro (Siegel, 1999).

Per integrazione si intende il collegamento di elementi differenziati, un processo che


crea coerenza all’interno della mente, e per coerenza lo stato del sistema in cui funzioni
diverse vengono attivate e collegate flessibilmente nel tempo (Thagard, 2002).

Secondo la teoria della complessità i processi di integrazione riflettono la seguente


proprietà: stati del sistema che massimizzano la complessità raggiungono una
maggiore stabilità (Sporns, 2010).

L’integrazione crea in questo modo l’esperienza del Sé che cambia nel tempo.
Mentre muove verso la complessità il sistema dei flussi di energia e informazioni
all’interno del corpo e del mondo sociale, la mente recluta processi distinti in stati unitari
e coesi.

Il termine coesione si riferisce alla caratteristica di uno stato in cui componenti diverse
vengono collegate fra di loro in un determinato momento. Queste associazioni funzionali
– in un dato momento (coesione) o nel corso del tempo (coerenza) – sono il risultato di
processi di integrazione che attraverso meccanismi di rientro connettono circuiti
differenziati in sistemi più ampi, in cui le attività delle varie componenti si influenzano
reciprocamente in uno stato di risonanza.

L’integrazione utilizza la risonanza fra sottosistemi diversi per raggiungere una coesione
degli stati della mente e un flusso coerente di stati nel tempo. Ciò permette la creazione
di sistemi funzionali più complessi, che a loro volta possono diventare componenti di
sistemi ancora più ampi e articolati. Il fenomeno del rientro è quel processo con cui
feedback positivi rinforzano pattern di attività iniziali, all’interno del cervello come
nelle comunicazioni interpersonali.

Il rientro stabilizza in modo ricorsivo un pattern di eccitazione neurale e permette al


processing di divenire parte dell’esperienza conscia (Edelman and Tononi, 2000; Tononi,
2000). In questo modo, il rientro porta ad integrazione tramite la creazione di un
processo coerente.

I processi interpersonali della “diade” possono quindi favorire integrazione e


coerenza alterando le modalità con cui la mente si organizza.

L’integrazione può essere vista come una forma di risonanza, intesa come l’insieme
delle interazioni fra due o più entità differenziate e relativamente indipendenti che si
influenzano a vicenda (Tucker et al., 2008), che consente a sistemi distinti di
amplificare e co-regolare le loro attività.

All’interno di stati diadici possono svilupparsi fenomeni di risonanza che permettono a


ciascuno dei membri della coppia di acquisire nuove capacità integrative. Lo
stabilirsi di connessioni dirette tra le menti di due individui coinvolge quindi una forma
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diadica di risonanza in cui energia e informazioni possono fluire liberamente da un
cervello all’altro.

I processi narrativi danno un contributo fondamentale all’integrazione , ma non


sono di per sé sufficienti a creare coerenza fra i diversi stati del sé nel tempo. Quello che
nella “diade” permette l’integrazione è la condivisione del contenuto verbale ed
emozionale tra i due individui; in questo processo gli interlocutori entrano in una
forma diadica di risonanza bilaterale: ciascuno dei membri della coppia entra in uno
stato di integrazione interemisferica che è reso possibile dalla comunicazione.

Queste comunicazioni integrative alimentano l’integrazione neurale e permettono alla


mente di sviluppare capacità di integrazione autonome.

Nei sistemi dinamici, la massimizzazione della complessità si riflette in un equilibrio tra


continuità e flessibilità ed è ottenuta modificando due fattori: i vincoli interni (la forza
delle connessioni sinaptiche) e i vincoli esterni (relazioni interpersonali).

L’attenzione focalizzata richiesta nella pratica della “diade” può attivare circuiti neurali di
autoregolazione mentre l’individuo usa la consapevolezza per modulare i vincoli interni
del cervello (Siegel, 2007a), e la relazione con il partner di “diade” può fornire il
vincolo esterno che contribuisce a modificare le sue capacità di auto-organizzazione. A
tutti gli effetti, come scrive Siegel (1999, p.219): il termine auto-organizzazione può
essere impreciso e fuorviante; i processi di auto-organizzazione sono legati a
interazioni con altri Sé – non sono monadici ma diadici.

Le capacità di integrazione, con tutte le funzioni della mente, sono costantemente create
fra processi neurofisiologici interni e relazioni interpersonali. Le capacità di regolazione
riflettono le capacità di integrazione, che consentono il collegamento delle funzioni
esecutive prefrontali con le reti neurali limbiche, bulbari e anche viscerali (Thayer et al.,
2009).

Dopo le esperienze di attaccamento dei primi anni di vita, successive relazioni diadiche
possono continuare a influenzare la maturazione di funzioni regolative (Cassidy et al.,
2008; Feeney and Van Vleet, 2010; Laurent and Powers, 2007). Forme di attaccamento
insicuro conferiscono vulnerabilità in quanto non alimentano processi di auto-
organizzazione integrativi.

Comunicazioni integrative favoriscono la crescita di circuiti cerebrali integrativi


promuovendo la resilienza individuale. La resilienza non è un tratto o una
caratteristica acquisita fissa, ma una funzione che continuamente emerge e dipende da
processi auto-organizzativi nel quadro delle connessioni sociali (Cicchetti and Rogosch,
1997; Flores et al., 2005).

Da tutte queste osservazioni empiriche si può ricavare un quadro complessivo


consiliente che indica come l’integrazione sia il nucleo centrale di salute e di benessere.
Come scrive Siegel (1999, p. 372-373): l’integrazione crea coerenza permettendo ai
flussi di energia ed informazioni all’interno della mente di raggiungere un equilibrio nel
21/39
loro movimento verso la massimizzazione della complessità. Questo movimento nei
flussi degli stati del sistema può coinvolgere sia le attività della singola mente, sia le sue
interazioni con le altre menti.

Equilibrio significa che il sistema acquista stabilità mantenendosi fra i due estremi:
continuità e rigidità da un lato, novità e caos dall’altro . In questo flusso ottimale di
stati vengono reclutati e collegati processi diversi, interni e interpersonali; l’integrazione
comporta meccanismi di co-regolazione reciproca in quella che abbiamo definito
“risonanza”. Con risonanza intendiamo la proprietà per cui le attività di sistemi che
interagiscono fra loro si influenzano a vicenda.

Fra due individui, forme di comunicazione collaborativa e processi di sintonizzazione


affettiva creano uno stato di risonanza interpersonale in cui ciascun membro della
coppia è influenzato dall’altro. A livello cerebrale, i fenomeni di rientro possono
aiutarci a capire come circuiti neurali distinti possono entrare in uno stato di risonanza
(Tucker et al., 2008). Il termine risonanza può essere usato per descrivere la natura delle
influenze contingenti, rientranti e co-regolatrici sugli elementi che interagiscono
all’interno di un sistema – che possono essere gruppi di neuroni, circuiti, aree, emisferi
cerebrali o anche interi cervelli e organismi: in uno stato di risonanza, singole
componenti vengono funzionalmente collegate in un sistema integrato.

[DBT] Dialectical Behavior Therapy


[ACT] Acceptance and Commitment Therapy
[MBCT] Mindfulness Based Cognitive Therapy
[MBSR] Mindfulness Based Stress Reduction
[ABBT] Acceptance Based Behavioral Therapy
[Coscienza autonoetica] Consapevolezza e conoscenza di sé associate alla memoria
episodica o autobiografica

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Il turno ricettivo della diade
Ho scelto consapevolmente di non chiamare “passivo” il turno in cui il partecipante alla
“diade” si ritrova a svolgere la funzione di ascolto, in quanto durante questi 5 minuti si
dispiegano una serie di processi che rendono questa modalità di relazione tutt’altro che
passiva. Innanzitutto, dopo aver posto la richiesta al suo compagno di “diade”, esso si
pone in “ascolto attivo”, inteso in questo contesto con l’accezione Rogersiana: un
massimo sforzo per entrare nella pelle della persona con cui sta comunicando,
cercando di vivere gli atteggiamenti espressi invece di osservarli, di cogliere ogni
sfumatura della loro natura mutevole (Rogers, 1951, p.60).

Un atteggiamento che non implica un’identificazione emotiva da parte di chi ascolta, ma


piuttosto una identificazione empatica, sempre nei termini di Rogers. Col termine
empatico non si intende uno stato emotivo controtransferale, ma uno stato emotivo
vissuto dall’ascoltatore al contatto con il paziente come soggetto (Berger, 1987), da
una prospettiva che si avvicina il più possibile al concetto teorico di neutralità.

Dal punto di vista dinamico questa abilità viene acquisita quando l’individuo non
proietta sull’altro i propri stati emotivi, soprattutto quando si tratta di condivisione di
stati negativi.

Ne deriva che per essere disponibili ad andare verso l’altro, risulta necessario non
essere assorbiti da problematiche affettive personali negative troppo forti, cioè da
qualcosa che, risultando spiacevole, tende ad essere proiettato, e che occlude la
possibilità di introiezione, in quanto è noto che la proiezione impedisce l’empatia
(Bolognini et al., 2002).

Come abbiamo visto precedentemente nella “diade” accadono una serie di processi che
promuovono un progressivo aumento di integrazione e l’individuo acquisisce una
consapevolezza mindful rispetto al proprio sentire: ciò consente al partner ricettivo di
aprire le porte ad un processo empatico di risonanza che non è di tipo fusionale, ma che
può essere ricondotto a, come lo definisce Bolognini, una fusionalità non confusiva, un
evento condizionato dal rilassarsi dell’Io difensivo in una apertura di confine
benigna (Bolognini, 1997).

Questo processo non è del tipo “tutto o nulla”, ma avviene in fasi progressive, in una
complessità che cresce da un livello primitivo di fusionalità (livello di indistinzione tra
soggetto e oggetto), passando per un livello di frammentaria separatezza per giungere
infine ad un livello di separazione definitiva con confini del sé sufficientemente stabili
(Fonda, 2000) che permettono all’individuo di arrivare a percepire che: ognuno di noi
era il sé che elaborava, insieme all’altro sé, la sua situazione così come la viveva
(Rogers, 1951, p.68).

Nella letteratura riguardante la psicoterapia sono state effettuate una serie di descrizioni
teoriche di quella che è stata definita con il termine presenza, andando a delinearne le
qualità fondamentali. Essa è stata descritta come il portare il proprio intero sé
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nell’impegno con l’altro e come l’essere pienamente nel presente con e per l’altro,
con nessuno scopo o obiettivo personale in mente (Craig, 1986; De Rosis, 1969;
Hycner and Jacobs, 1995; Robbins, 1998).

Rapportando questa definizione nel contesto “diadico”, è possibile evidenziare come il


setting specifico della pratica della “diade” faccia da amplificatore della presenza
reciproca. Il partner ricettivo non è tenuto a rispondere o a interpretare in alcun modo
la comunicazione che riceve, e può così allentare ogni tentativo di elaborazione
secondaria e concentrarsi sul ricevere ed accogliere l’altro dentro di sé per quello
che è (Amadei, 2013; Buber, 1955).

Lo scambio dei turni fa sì che il sentirsi compreso nel turno attivo susciti nell’animo di chi
riceve questo dono la spontanea tendenza a comprendere l’altro, in una spirale
ascendente di apertura reciproca: i cicli di dare-ricevere attenzione e
comprensione si sommano e si amplificano.

Il cambiare partner dopo 8 scambi permette di recepire aspetti diversi delle proprie
parti proiettate e di capire che l’altro, in senso universale, è impersonale: viene resa
evidente la relazione Io-Tu esposta in modo magistrale nell’approccio dialogico di Buber
(1966). Egli sosteneva che la guarigione avviene nell’incontro tra due individui divenuti
completamente presenti l’uno nei confronti dell’altro (Buber, 1958), in una relazione
implicante apertura, franchezza, mutualità e presenza. Le tradizioni dialogiche
descrivono la disponibilità, un aspetto della presenza, come modalità di ascoltare che
è anche un modo di offrire sé stessi all’altro (Hycner, 1991), avendo l’intenzionalità
di permettere a sé stessi di essere modificati dalla soggettività dell’altro (Wachtel,
1994). In questo ascolto c’è dunque una sospensione del giudizio (Craig, 1986) e una
presenza nel momento presente che, come asseriva Buber, dona spazio
all’emergere della dimensione numinosa e spirituale.

Le definizioni moderne della compassione possono essere ricondotte a quella della


psicologia buddhista, che considera sé stessi e gli altri interdipendenti e sostiene che, se
non si prova compassione per sé, non si può averla verso gli altri. Il termine compassione
comprende il riconoscere che gli errori e le manchevolezze sono esperienze umane
universali e l’essere sinceramente disponibili nei confronti delle sofferenze altrui invece
di negarle e sfuggirle (Goldstein and Kornfield, 1987). Esiste, nel contesto delle pratiche
meditative rivolte alla mindfulness, una pratica volta in modo specifico al coltivare lo
stato d’animo compassionevole: si tratta della meditazione di amorevole gentilezza, una
pratica buddhista della tradizione Theravada (Salzberg, 1995). Il suo scopo è quello di
coltivare sentimenti di calore e gentilezza prima verso sé stessi e poi verso gli altri.

La pratica della “diade”, in entrambi i contesti presi in esame, fa sì che questo training di
amorevole gentilezza diventi una modalità operativa concreta, e non solo di tipo
immaginativo individuale.

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L’alternanza dei turni permette da un lato di coltivare la compassione di sé,
dall’altro la compassione per il partner di “diade”, in un crescendo di vicendevole
apertura e risonanza empatica.

Una caratteristica della relazione “diadica” è l’adozione di un atteggiamento mindful


verso le esperienze del momento presente, siano esse quelle espresse dall’altro o le
proprie, e comprende quindi un contegno compassionevole nel loro confronti. Vari
autori hanno infatti sottolineato la stretta relazione tra la mindfulness e la
compassione, rimarcando che le parole asiatiche per definire la mente e il cuore sono le
medesime (Marlatt and Kristeller, 1999).

È stato dimostrato che la capacità individuale di essere mindful ha un impatto positivo


sull’abilità di relazionarsi agli altri (Bruce, Manber, Shapiro, Costantino, 2010). Questo
collegamento è stato spiegato da vari autori in modi diversi, ma quello che appare
evidente è che la mindfulness è una forma di auto-sintonizzazione che incrementa
la capacità di sintonizzazione con gli altri (Siegel, 2007a).

L’aspetto che in questo contesto appare cruciale è che tale abilità non solo è
auspicabile, ma può essere appresa. La struttura della “diade”, al riguardo, appare
come un laboratorio ideale dove i partecipanti allenano, in un setting protetto, le
proprie abilità di mindfulness toccando immediatamente dal punto di vista
relazionale l’aumento di abilità di risonanza. La capacità del partner ricettivo di
sintonizzarsi interiormente e nei confronti dell’altro, fa sì che il partner attivo acquisisca
un incremento della propria abilità di sintonizzarsi su di sé mentre elabora i propri
contenuti. Come scrive Siegel (2007a, p.260): la sintonizzazione interpersonale di tipo
sicuro crea uno stato di integrazione che promuove la risonanza interna e la mindfulness
di tratto.

Il risultato positivo dell’abilità del partner ricettivo di sintonizzarsi con chi ha di


fronte favorisce in quest’ultimo un incremento della capacità di sintonizzarsi su di
sé. Lo stato mindful e sintonizzato del partner ricettivo fornisce un ambiente
sicuro [assimilabile al contesto di holding di Winnicott (1986)] e un modello per un
nuovo modo di relazionarsi a sé stesso.

Portnoy (1999, p.23), sostenendo questo concetto in ambito terapeutico, asseriva che
quando il paziente internalizza l’empatia dello psicoterapeuta, sviluppa la capacità di
assumere un atteggiamento riflessivo, comprensivo, accettante, rassicurante nei
confronti delle proprie emozioni e bisogni.

Nel caso della “diade” il membro ricettivo della coppia non è uno psicoterapeuta, ma i
principi che sottostanno all’internalizzazione della relazione (Stolorow et al., 1987)
sono i medesimi.

Nell’esporre le funzioni implicate nella pratica della “diade” nel turno attivo, ho
menzionato la funzione riflessiva e la capacità di mentalizzazione. Quest’ultima è stata
denominata da Siegel (2010b) con il termine mindsight, a sottolineare la capacità di
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percepire la mente propria e altrui. Lo sviluppo della mindsight permette di identificare le
proprie aree personali affette da caos o rigidità e di promuovere in tali aree la crescita di
una maggiore integrazione.

Nella “diade” questa capacità diviene preponderante anche nel turno ricettivo.

L’ascolto consapevole è stato definito (Shafir et al., 2008) come l’insieme delle seguenti
abilità:

1. Sostenere l’attenzione nel tempo


2. Recepire l’intero messaggio
3. Far sentire l’interlocutore valorizzato e rispettato
4. Sentire sé stessi

Il setting della “diade” facilita il dispiegarsi di tutte le capacità sopracitate.

Per incrementare l’abilità al quarto punto, ovvero la capacità di sintonizzazione


intrapersonale, si è reso utile integrare la pratica in diade con una tecnica di
purificazione corporea, come la respirazione circolare cosciente, una pratica con
elementi comuni al rebirthing (Eigen, 2002; Soldati, 2000) e alla respirazione olotropica
(Grof et al., 2010). Questo lavoro transrespirazionale permette il rilascio di vissuti
emotivi repressi e una maggiore presa di contatto con il proprio sentire interiore
(Siegel, 2007b). Questa acquisita abilità si riflette di conseguenza in un incremento della
capacità di sintonizzazione interpersonale: è noto infatti che la consapevolezza del
corpo – introcezione – è correlata non solo a una maggiore comprensione di sé
stessi, ma anche a empatia e compassione (Craig, 2010; Uddin et al., 2007).

La profonda apertura all’altro è sostenibile solo se il partner ricettivo è presente nel


senso proposto dalla mindfulness, rivolgendo piena attenzione al partner. Più che un
fare attenzione si tratta in questo caso di essere attenti, coerentemente con quanto
affermato da Bion riguardo la psicoterapia, il quale sosteneva che il fattore fondamentale
non risiedeva in che cosa fare, ma “che cosa dobbiamo essere” (Bion, 1970).

Conoscenza di sé

L’intensivo sull’essere consapevole


La seconda modalità di impiego della “diade” è nell’ambito della pura ricerca esistenziale.
La diade è impiegata con successo nel seminario interamente dedicato
all’approfondimento della conoscenza di sé, cioè nell’Intensivo sull’essere
consapevole (Brunelli, 1992). Il nome ne sottolinea le due peculiarità, cioè la
caratteristica di essere continuativo (intensivo) e rivolto all’indagine della natura
della consapevolezza.

Anche in questo caso il contesto è di tipo gruppale, in quanto i partecipanti svolgono


l’attività introspettiva prevalentemente in “diade.”
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L’assetto standard del ritiro prevede la presenza di un conduttore affiancato da 3
assistenti, due dei quali con compiti prevalentemente pratici.

La tempistica
In un Intensivo sull’essere consapevole la giornata è lunga e intensa (di solito dalle 6 alle
23 circa), e l’attività di ricerca – svolta con apposita tecnica – è continua.

La tecnica di consapevolezza dell’intensivo (Berner, 1977) dà i suoi migliori risultati in


“diade”, pertanto l’orario giornaliero prevede dodici “diadi” alternate ai pasti, alla
ginnastica mattutina, a due passeggiate (mattina e sera), al discorso del conduttore e alla
meditazione “individuale” (cioè non in “diade”), a un’ora di lavoro fisico e una di riposo.

La “diade” è e resta comunque lo strumento principe e al contempo il “contenitore


formale” ideale della tecnica di consapevolezza, che avviene senza soluzione di
continuità sia in “diade” che fuori da essa.

I quesiti esistenziali
I quesiti esistenziali sono dei quesiti che corrispondono a delle domande-chiave
esistenziali, irresolubili sul piano logico. Questo permette di arrivare a
comprendere che la ragione non è in grado di risolvere il problema centrale della
conoscenza di sé (Lamparelli, 2010).

Nell’Intensivo sull’essere consapevole si usano generalmente quattro quesiti esistenziali:

Chi sono io?


La vita
L’altro essere umano
Che cosa sono io?

All’inizio del ritiro il partecipante decide, concordandolo con il conduttore, su quale


quesito esistenziale lavorerà nei tre giorni di ritiro poi mediterà su questo per tutto il
tempo necessario alla sua risoluzione, dopo di che, assieme al conduttore, valuterà se
cambiare il quesito esistenziale o se continuare il medesimo per conquistare nuovi livelli
di profondità.

Ai fini pratici non sussistono differenze sostanziali tra i quattro quesiti esistenziali, ma il
lavoro di ricerca su uno piuttosto che sull’altro fa emergere contenuti mentali ed
emozionali differenti, e permette un’integrazione più completa in aree specifiche
della vita del partecipante.

Vivi direttamente
L’intero intensivo ha un solo scopo: permettere ai partecipanti di avere la cosiddetta
esperienza diretta. Con questo termine si intende uno stato non-duale di
consapevolezza indifferenziata (Brunelli, 1992).
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È utile per chiarire questo termine distinguere quella che i cognitivisti chiamano
elaborazione top-down e bottom-up. La rappresentazione sensoriale contiene
informazioni riguardanti sensazioni legate ad input che provengono dal mondo esterno,
dal corpo (enterocezione) e dal cervello. I dati sensoriali che derivano dall’ambiente sono
legati a canali sensoriali specifici: immagini, suoni, odori, sensazioni gustative e tattili;
questi segnali, derivati dall’attivazione di recettori specifici, sono definiti dai cognitivisti
con il termine sensazione. La percezione invece si manifesta quando le aree sensoriali
della corteccia cerebrale ricevono questi segnali tramite le vie neurali specifiche (filtrate
dal talamo).

Le rappresentazioni sensoriali, direttamente correlate agli stimoli che la originano sono


le più vicine alle “cose in sé” e sono considerate come presimboliche. Le rappresentazioni
percettive sono unità di informazione più elaborate. Una percezione comporta un
processo di simbolizzazione che costruisce un’informazione attraverso la sintesi di
esperienze sensoriali presenti con memorie e generalizzazioni contenute in modelli
mentali derivati da esperienze del passato. Questa è l’essenza del top-down, dall’alto
verso il basso.

La consapevolezza mindful consiste nell’addestramento della mente a distinguere tra


flussi sensoriali e percettivi, imparando a non farsi travolgere dai filtri top-down ed
entrando in profondo contatto con l’elaborazione bottom-up (Farb et al., 2007).

Un elemento cardinale delle tecniche meditative è la differenziazione degli elementi che


compongono il processo della percezione: chi percepisce, il processo di percezione e
l’oggetto percepito.

Nella tecnica di consapevolezza dell’Intensivo sull’essere consapevole l’attenzione,


organo di senso dell’individuo consapevole (Brunelli, 2009), tenuta costantemente su
di sé, fa ritorno alla sua origine, sfondando in questo modo il limite della
percezione duale e rendendo manifesta la percezione non-duale della coscienza
indifferenziata, fusa nel percepire un’unica sostanza.

Nelle parole di Brunelli (2009, p.38), diviene evidente che chi cerca è l’oggetto cercato.
Chi cerca è il cercare, e il cercare è la sostanza di chi cerca.

Tenere l’attenzione puntata su sé stessi, permette all’individuo consapevole di


riappropriarsi della sua naturale integrità, lasciando apparire un mono-polo fatto di
completezza e di stabilità, un campo unificato indifferenziato di esperienza e di
conoscenza, che definiremo “diretta”, in quanto non viene mediata da alcun
processo fisico, emozionale o mentale (Brunelli, 2009, p.115).

La tecnica di consapevolezza dell’”intensivo” consta in tre componenti: l’intento,


l’apertura e la comunicazione senza censura al partner di “diade”.

Nell’intento l’individuo cerca di vivere direttamente quello che è definito in quel


momento dal quesito esistenziale: se sta indagando il quesito esistenziale Chi sono io,
cercherà di vivere direttamente, senza processi, chi è lui in quel momento.
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Questo intento si traduce in un atto interiore, e richiede un vero e proprio sforzo volto a
superare l’elaborazione sensoriale automatizzata top-down per “riprendere i sensi”
(Kabat-zinn, 2005). L’elaborazione bottom-up implica stabilire un nesso neurale tra
l’attività corticale sensoriale e la corteccia prefrontale laterale e dorsolaterale,
promuovendo in questo modo la consapevolezza del contenuto (Siegel, 2007b).

L’apertura include sia la disponibilità ad esperire quello che lui è in quel momento, sia il
contenuto emergente come conseguenza dell’intento: si tratta di una componente
essenziale della mindfulness. L’atto interiore di viversi direttamente fa emergere
elementi di varia natura: mentali, emozionali, associativi.

Il ricercatore li comunica senza riprensione al partner di “diade”: tramite la


comprensione dell’altro, diviene possibile l’integrazione neurale interemisferica e
l’emergere di stati coerenti (Siegel, 1999), come abbiamo approfondito nella sezione
relativa alla comunicazione diadica di questo articolo.

Il turno attivo nella diade


Il partner attivo riceve il comando, espresso verbalmente, da quello ricettivo, ad esempio:
vivi direttamente chi sei tu. Il ricevere il comando da un altro individuo dona una spinta
ulteriore all’intento: il fine viene continuamente rinnovato e condiviso tra i due
partecipanti, che in questo modo si sostengono a vicenda.

Il partner attivo esegue dunque tutti i passi della tecnica di consapevolezza: intento,
apertura e comunicazione.

Come abbiamo visto nella descrizione del processo “diadico” relativo alla comunicazione,
la comprensione reciproca mette in atto una serie di processi (defusione,
decentramento, integrazione) che permettono all’individuo di giungere all’esperienza
del “Sé come contesto”: avviene una dis-identificazione dai contenuti e una
liberazione dall’attaccamento ad un sé concettualizzato.

Il sé come contesto è indipendente dal contenuto: è il “luogo” nel quale il ricercatore


osserva il contenuto.

A prescindere da quante siano le autoaffermazioni generate su chi siamo, c’è un “io” che
può osservare queste autoaffermazioni. Questo “io” è vissuto come costante e stabile,
mentre le autovalutazioni come transienti (Hayes et al., 1999). Dalla prospettiva del sé
come contesto, le persone arrivano a rendersi conto che possono tralasciare le
autovalutazioni inutili pur mantenendo il proprio senso di sé integro (Pierson et al.,
2004).

Il senso di sé integro è la risultante del riappropriarsi del processo percettivo


dell’individuo consapevole (Brunelli, 2009).

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In questo ambito si rende necessaria una distinzione fondamentale: l’integrazione non è
una funzione del Sé, è ciò che il Sé è (Ogawa et al., 1997, p.9).

La risposta alla domanda “ chi sono io?” è il Sé integro (Brunelli, 2009), ma questo Sé
non è semplicemente la risultante del processo integrativo: è il processo stesso
(Siegel, 2007a).

Il turno ricettivo nella diade


Il partner che sostiene il ruolo ricettivo ha il compito di impartire il comando al partner
attivo, di sostenerlo nel suo intento con la sua piena attenzione e di accogliere la
sua comunicazione con completa accettazione. In questo ambito il ruolo non si
discosta molto dalla modalità comunicativa, se non per il fatto di utilizzare i quesiti
esistenziali invece di leggere le domande sulle dispense.

Come è stato esposto precedentemente, la presenza consapevole del partner permette


all’altro di superare gli ostacoli incontrati nella ricerca, accelerando il processo
integrativo (Siegel, 1999).

Il mantenere l’attenzione sull’altro, anche se non sta comunicando nulla, permette lo


stabilizzarsi di questa funzione cognitiva, e questo, come ci insegna lo yoga, permette
il dispiegarsi dei passi che portano all’unione, inizialmente di stato e successivamente di
tratto: concentrazione, meditazione e unione (Brown, 1977).

Lo stabilizzarsi dell’attenzione durante il turno ricettivo ha poi un risvolto pratico e


concreto nel turno seguente, dove si passa alla ricerca attiva: permette di indirizzare
l’intento con maggiore intensità e purezza.

La tecnica di consapevolezza fatta in “diade” si rivela, anche in questo aspetto, come un


amplificatore reciproco di attenzione concentrata, risonanza e di integrazione.

Il culmine di questo processo avviene quando tutti e due i partecipanti alla “diade”,
avendo preso atto della propria natura indifferenziata, entrano in relazione in
questa modalità, senza comunicare alcunché verbalmente, ma manifestandosi l’un
l’altro mostrando il Vero Sé.

Sia l’approccio intersoggettivo che quello dialogico riconoscono in questo incontro una
dimensione che trascende le esistenze personali: l’incontro accade nella sfera della
trascendenza e, così collocato, fonda nel loro essere – nell’incontro – la stessa
esistenza di coloro che si incontrano.

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39/39
Sviluppo: la porta è sempre aperta
essereintegrale.com/sviluppo-porta-sempre-aperta

Agostino Famlonga

Il percorso di sviluppo di un individuo volge sempre verso una maggiore complessità.

Guardati dentro: sei cambiato rispetto a dieci anni fa? Certo, è autoevidente. Ma cosa è
cambiato?

Esiste un senso di continuità, che non viene alterato dal tempo: è il tuo senso di esistere,
muto e e preverbale, immutabile.

La forma che questo assume invece cambia nel tempo, in un incessante divenire.

È il cosiddetto sviluppo delle strutture di coscienza, in questo caso individuale. Ad un


esame in prima persona questo cambiamento spesso sfugge, ma diviene invece evidente
quando l’osservazione si sposta ad una prospettiva in terza persona.

La scala evolutiva
Per comprendere cosa significhi sviluppo mi piace usare questa semplice metafora:
l’individuo sale una scala, partendo sempre dal piolo più basso, e ad ogni gradino ha a
disposizione una prospettiva diversa, sia sull’esteriorità che rispetto alla propria
interiorità.

Nel suo sviluppo l’individuo sale una scala evolutiva: ad ogni gradino ha a disposizione
una prospettiva diversa.

1/8
In questa metafora si possono individuare tre elementi:

La scala, cioè la progressione delle strutture di coscienza, dalla più semplice alla
più complessa.
Lo scalatore, l’individuo che sale i gradini.
La vista, cioè la prospettiva da ogni gradino.

L’ascesa non avviene in un unico


percorso, ma su più fronti:
esistono linee evolutive
multiple. Mantenendo la
metafora della scala, si può dire
che ci sono più scale da salire,
una diversa dall’altra.

Possiamo raccogliere le scale


in tre grosse categorie:

la linea cognitiva (di che


cosa sono consapevole?),
le linee legate al Sé (chi
sono io? Qual è il fine
ultimo? Come mi sento?
Come dovrei interagire con
l’altro? ecc ),
e i cosiddetti talenti
(capacità cinestetica,
musicale, ecc).

Ogni persona ha un grado di


sviluppo diverso in ognuna delle linee: questa è la meraviglia che rende unica la nostra
espressione individuale.

Le linee seguono un’evoluzione pressoché indipendente.

Tuttavia anni di studi hanno confermato che la linea cognitiva è il presupposto delle
altre.

Devo essere consapevole di qualcosa prima di poterlo integrare in un adattamento


funzionale.

Questa “gerarchia” tra le linee diviene evidente se si analizza ad esempio la catena


causale tra lo sviluppo su queste quattro linee:

la capacità cognitiva è necessaria (ma non sufficiente) per lo sviluppo della linea del
Sé,

2/8
la linea del Sé è necessaria (ma non sufficiente) per lo sviluppo della capacità
interpersonale,
la capacità interpersonale è necessaria (ma non sufficiente) per lo sviluppo morale.

La linea cognitiva è il presupposto per le altre: devo essere consapevole di qualcosa prima
di integrarlo.

Sviluppo: l’altezza sulla scala


Parlando di grado evolutivo mi riferisco al grado di consapevolezza raggiunto, alla
complessità conquistata nella linea cognitiva.

Tutte le scale condividono tra loro la misura dell’altezza, determinata dalla linea
cognitiva.

Possiamo definire più stadi evolutivi (sia individuali che collettivi). Essi non sono fissi e
rigidi ma flessibili: per questo li si può definire anche flussi, o di onde, di coscienza.

Prospettive in evoluzione
Lo sviluppo cognitivo comporta un ampliamento della capacità di prendere
prospettive:

ogni infante nasce in un campo indifferenziato privo di prospettive.

Gradualmente si differenzia con un centro unificatore


(egocentrico, narcisista, prospettiva in prima persona).

Acquisisce gradualmente la capacità di interagire con


il mondo (stadio operatorio concreto, prospettiva in
seconda persona).

3/8
In seguito conquista l’abilità di operare sui propri
pensieri (stadio operatorio formale, prospettiva in
terza persona).

Questo livello è raggiunto in modo quasi automatico


da ogni adulto occidentale sano e debitamente
istruito. Questo accade perché a livello collettivo
questa struttura di coscienza è sedimentata da
molto tempo, ed è quindi facilmente accessibile.

Da leggere: Evoluzione della coscienza

Gradini emergenti
Lo sviluppo seguente non è scontato nella nostra epoca: lo sarà in futuro quando più
persone avranno lasciato un solco nell’utilizzare queste strutture emergenti. Si tratta
della struttura relativista (prospettiva in quarta persona) emersa negli anni ’50-60.
Questa struttura è definita post-moderna, e riesce a cogliere la relazione tra sistemi:
riconosce il pluralismo di vedute.

4/8
Sottolineo la parola riconosce: il fatto che riconosca
la pluralità dei punti di vista, questi non sono
ancora integrati in un adattamento funzionale.

Il livello seguente può essere definito integrale


(prospettiva in quinta persona): integra ed unifica
tutti quelli precedenti in una cognizione trans-
paradigmatica, ovvero che connette meta-sistemi
con altri meta-sistemi creando campi di conoscenza
transdisciplinari.

L’importanza di questo stadio (oggi raggiunto dal 2-


4% della popolazione occidentale) è cruciale: è il
primo che permette a tutti gli altri livelli di
essere così come sono, riconoscendo l’importanza
di ogni stadio nella progressione evolutiva. Non
cerca di imporre la propria prospettiva su quella
degli altri, perché riconosce che l’altro si trova sul
suo percorso, in un gradino specifico della scala. E
va bene così, non è necessario combattere gli altri
punti di vista.

Lo sviluppo non si arresta qui: alcuni pionieri si sono


spinti oltre e hanno aperto la strada nello sviluppo
transpersonale: il Sé viene integrato completamente e
gradualmente trasceso verso una consapevolezza non-
duale e le capacità cognitive superiori (visione diretta,
intuizione, conoscenza per identità) diventano integrate
e funzionanti in modo automatico e costante nel tempo.

5/8
Da leggere: Spettro evolutivo

Gli strumenti
Quali strumenti abbiamo per salire la scala evolutiva?

Lo studio

Lo studio della progressione evolutiva è psicoattivo, cioè attiva la psiche.

Esercita una spinta psicologica a voler esplorare i livelli più elevati.

Aiuta inoltre ad inquadrare la propria situazione da prospettive inedite.

La conoscenza in sé può sembrare sterile e superflua, ma se il lato teorico incontra


l’esperienza personale, ecco che gli strumenti teorici acquisiscono un inestimabile valore.

Tutti gli argomenti trattati in questo sito hanno questo scopo. Ti invito, se non l’hai
ancora fatto, a leggere il Sistema Operativo non-duale per avere una conoscenza teorica
a 360° di quelle che sono le tue possibilità evolutive.

La comunicazione
La comunicazione con gli altri, tramite un ascolto attivo, cioè intenzionale e sostenuto
consapevolmente, ci permette di prendere una prospettiva diversa dalla nostra,
aumentando l’elasticità del sistema cognitivo eprospettico.
6/8
La meditazione
Lo strumento più efficace per favorire lo sviluppo è la meditazione. È l’unico strumento
che finora ha empiricamente dimostrato di promuovere lo sviluppo in modo sistematico.

La meditazione è intesa semplicemente come l’azione di rendere oggettiva la


soggettività.

Nel processo evolutivo spontaneo il soggetto di uno stadio diventa l’oggetto del soggetto
dello stadio seguente.

La meditazione fa esattamente questo, in modo intenzionale. Non stupisce il fatto che


favorisca tremendamente lo sviluppo individuale.

L’ombra
Una nota doverosa:

l’ombra cresce con te.

La meditazione potrebbe addirittura rinforzare la parte inconscia, reattiva,


dissociata della persona.

Per uno sviluppo sano e completo è necessario un lavoro di integrazione delle


dinamiche mentali inconsce e reattive, tramite introspezione, psicanalisi, pulizia
mentale, o una combinazione di questi con altri strumenti.

L’intensivo sull’essere consapevole


L’intensivo sull’essere consapevole sintetizza questi ultimi punti in modo magistrale.
La comunicazione e la meditazione vengono combinati sapientemente in un sistema di
crescita integrato: la ricerca interiore contemporanea raggiunge nell’intensivo un apice
di efficacia nello sviluppo individuale.

La porta è sempre aperta

Ognuno di noi è chiamato da una forza interiore verso una complessità sempre più elevata.

È una spinta insita nella nostra natura, è la forza evolutiva che preme verso l’alto e
verso l’altro.

Se questa forza non viene riconosciuta, conosciuta e liberata nella sua espressione, si
atrofizza, rimane al minimo dei giri. Direi che diventa un’energia di sussistenza:
mantiene, forse anche a fatica, l’equilibrio esistenziale raggiunto, senza procedere oltre.

7/8
Eppure, anche se dormiente, l’evoluzione individuale rimane latente e potenziale. Non
importa dove si trovi l’individuo nel suo percorso di vita, la porta è sempre aperta.
Puoi sempre salire di un gradino sulla scala evolutiva.

Riconoscendo dove sei ora, quale sarà il tuo prossimo passo?

Photo credit: Jed Sullivan via Visualhunt / CC BY-NC

8/8
Eye Contact Experiment: lo sguardo che unisce
essereintegrale.com/eye-contact-experiment

Agostino Famlonga

L’idea dell’Eye Contact Experiment è semplice: mettiamo due sconosciuti uno di fronte
all’altro che si guardano negli occhi. Facciamolo tutti assieme, riuniti localmente, e nello
stesso momento in tutto il mondo. Tramite la relazione diretta con l’altro ripristiniamo il
contatto umano e tramite il contatto umano costruiamo un’umanità migliore. Un’idea
semplice dunque, ma con una portata ampissima. Vediamo meglio come funziona
questo grandioso esperimento sociale.

Come funziona Eye Contact Experiment


Eye Contact Experiment è un raduno libero e gratuito, in cui i partecipanti hanno la
possibilità di porsi uno di fronte all’altro e di creare relazione tramite il contatto non
verbale.

All’interno di una zona delimitata, scelta dagli organizzatori dell’evento, i partecipanti si


siedono in coppia una di fronte all’altro.

Mantenendo il contatto visivo si cerca reciprocamente il contatto con l’altro.

La coppia si regola autonomamente riguardo la durata temporale del confronto, che non
è definita a priori. Le linee guida indicano come punto di partenza un minuto di
sguardo condiviso. In realtà questo si allunga spesso oltre il minuto. Il senso temporale
si dilata, mantenendo le persone in relazione per un tempo ben più lungo.

1/10
Alla fine dello scambio può esserci una condivisione verbale per esprimere a parole il
proprio vissuto. Dal contatto umano spontaneamente nascono abbracci, sorrisi,
commozione reciproca.

Il contatto visivo è il veicolo usato per mantenere la relazione. Generalmente non si


parla, si rimane silenziosamente in relazione sintonizzandosi con la persona che si ha di
fronte. Di solito si tratta di persone sconosciute, che si incontrano per la prima volta in
questo contesto. Ovviamente accade che anche persone che si conoscano partecipino a
questa iniziativa. Gli amici sono i primi ad essere invitati a questi raduni. Conoscere chi
ha di fronte non è un limite, anzi può essere un aiuto nell’apertura reciproca.

Queste poche indicazioni costituiscono l’essenza dell’Eye Contact Experiment. Non ci


sono regole fisse: il punto di partenza è il contatto visivo, il resto è lasciato al libero fluire
della relazione, nel pieno rispetto dell’altro. La semplicità e la spontaneità dell’Eye
Contact Experiment sono proprio i suoi punti di forza.

Lo scopo dell’Eye Contact Experiment


Qual è lo scopo che sta dietro questo esperimento sociale? Detto sinteticamente:
ripristinare la relazione tra le persone.

Eye Contact Experiment nasce in risposta all’isolamento sociale che affligge il nostro
tempo. Oggi la relazione con l’altro è divenuta secondaria rispetto a mille altre apparenti
priorità. E quando c’è interazione tra le persone, la relazione è generalmente superficiale,
non è nutriente dal punto di vista umano.

Eye Contact Experiment vuol fornire alle persone lo stimolo per capire quanto è
importante il contatto umano. Il fine è quello di accendere il desiderio di relazione,
così che le persone portino questa fiammella nella loro vita, nelle loro interazioni
quotidiane. Ripristinare il contatto umano è il modo per promuovere un
miglioramento sociale, costruito a partire dal singolo individuo.
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Eye Contact Experiment è organizzato per questo motivo in luoghi dove c’è passaggio di
molte persone: piazze e parchi sono la scelta preferenziale. Questo permette di accedere
all’Eye Contact Experiment non solo a chi ne conosce l’esistenza, ma anche al passante
che incuriosito da quello che accade si lascia coinvolgere. Il luogo è scelto per
intercettare più persone possibili con questa modalità.

Le origini dell’Eye Contact Experiment


Le origini dell’Eye Contact Experiment possono essere ricondotte alla performance
dell’artista Marina Abramovic al MoMA di New York nel 2010.

Watch Video At: https://youtu.be/OS0Tg0IjCp4

L’idea si è evoluta successivamente in Australia grazie a Peter Sharp che, a fine 2015 con
The Liberators International, ha diffuso in tutto il mondo il primo The World’s Biggest
Eye Contact Experiment. L’anniversario è stato replicato il 29 ottobre 2016 ed è stato
accolto in 42 Stati, con 193 città partecipanti, coinvolgendo milioni di persone in tutto il
mondo.

In questo video puoi vedere Peter Sharp presentare la sua visione.

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Watch Video At: https://youtu.be/vRex3RKcQdk

Perché funziona
Eye Contact Experiment raggiunge efficacemente il suo scopo, ripristinare la relazione
umana, perché lo fa in modo essenziale e diretto. Due persone, una di fronte all’altra,
che mantengono una connessione con lo sguardo. Questa è l’essenza della relazione. È
il punto di partenza per esplorare il rapporto con l’altro.

Da questa condizione inizia il sintonizzarsi con il proprio sentire, con il sentire dell’altro, e
l’apertura reciproca. Ognuno ha il proprio modo di fare questi passaggi. Ognuno ha un
suo limite di apertura e una certa capacità di empatia con l’altro. Da poche linee guida di
partenza ogni partecipante è in grado di fare in modo autonomo il passo che gli serve
per aprirsi un po’ di più nella relazione, con i tempi che gli servono. Non c’è nulla di
impostato a priori, nessuno che spiega cosa fare e come farlo. La scoperta dell’altro è
libera e spontanea. In questo senso l’Eye Contact Experiment diventa un grande
contesto di allenamento per le proprie capacità relazionali.

Proprio per queste sue caratteristiche piace alle persone. Il suo successo è dovuto a mio
avviso dall’unione di questi due fattori: risponde ad un bisogno umano fondamentale, e
lo fa con semplicità, immediatezza, spontaneità, accessibilità.

Eye Contact Experiment ha infatti un successo incredibile. Si parla di milioni di persone


che hanno partecipato a questo “esperimento”. Milioni di persone che entrano in
relazione in questo modo scavano un solco sociale con un impatto incredibile nella
coscienza collettiva.

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Il ponte della relazione
Vediamo meglio cosa accade quando due individui si mettono uno di fronte all’altro e si
danno attenzione reciproca. Questo approfondimento vuole essere uno spunto di
riflessione per i partecipanti all’Eye Contact Experiment. Conoscere i principi su cui
poggia la relazione è un modo per accelerare la costruzione di una relazione di
qualità.

Il punto di partenza per affrontare questo approfondimento è l’attenzione.

L’attenzione è l’organo di senso della consapevolezza . Appoggiando la mia attenzione


su un oggetto, ne divengo consapevole. Questo è vero per ogni tipo di oggetto. Può
essere una mela, una macchina, la mia gamba, un’emozione o il senso di sé (lo vediamo
meglio dopo).

Ognuno di noi si differenzia per la qualità della sua attenzione. L’attenzione cioè può
essere sostenuta per un tempo più o meno lungo, può essere intensa o superficiale, e
può essere più o meno disturbata. Le caratteristiche dell’attenzione – durata, intensità,
purezza – determinano quanto e come io sono in grado di relazionarmi
consapevolmente con l’altro creando un ponte della relazione saldo. Lo chiamiamo
ponte della relazione perché è il collegamento non fisico che unisce i due individui
in relazione. È il collegamento che va dalla mia consapevolezza alla consapevolezza
dell’altro.

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Questo ponte può crearsi in modo spontaneo, come spesso accade all’Eye Contact
Experiment, oppure può essere costruito in modo intenzionale e consapevole,
tramite i flussi di attenzione. Esiste cioè un modo per facilitare la relazione sul piano
della consapevolezza. Invece di lasciare questo evento accada in modo casuale, può
essere letteralmente costruito. Il fatto che sia fatto intenzionalmente non lo rende falso.
Semplicemente ne rende certa la sua riuscita. Quando il ponte della relazione c’è, è vero
per chi lo sperimenta, né più né meno di quando accade in modo spontaneo.

I flussi di attenzione
Analizziamo i primi quattro flussi di attenzione, che permettono di stabilire la base
per la relazione sul piano della consapevolezza. Lo studio è frutto di 30 anni di ricerca
applicata all’Intensivo sull’Essere Consapevole. Nel suo libro, La teoria dell’Essere I,
Silvano Brunelli analizza nel dettaglio i 12 flussi di attenzione: i quattro di base e gli otto
complessi. Per un approfondimento ti rimando a questo testo che trovi in bibliografia.

I flussi di attenzione sono atti di consapevolezza, sono vere e proprie posizioni


dell’attenzione. Così come l’attenzione può essere appoggiata su una mela, così può
essere tenuta in queste quattro posizioni.

Per acquisire la posizione non si devono ripetere mentalmente le parole (Ad esempio
nella prima posizione “Io sono, Io sono, Io sono…”). Si tratta di posizioni di
consapevolezza pre-verbali, che esistono cioè prima della parola stessa. Le parole
sono semplicemente un’indicazione su dove indirizzare l’attenzione.

Io sono
La prima posizione su cui poggiare l’attenzione è sulla consapevolezza di sé. È il fatto che
ci sei, qui, in questo momento. Io esisto.

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Io so di essere
Il secondo flusso di attenzione è rivolto al sapere che ci sei. Dallo io sono, si passa allo io
so che io sono. È il sapere di esserci: io sono consapevole del fatto che esisto. Io so di
esistere.

Tu sei
Il terzo flusso di attenzione si rivolge all’altro individuo riconoscendo che esiste. La
posizione acquisita è tu sei, cioè tu esisti.

Tu sai di essere
Nel quarto flusso di attenzione si poggia l’attenzione non solo al fatto che l’altro esiste,
ma al fatto che è consapevole di esistere. La posizione è tu sai che tu sei , cioè tu sai di
esistere.

Queste quattro posizioni della coscienza sono in grado di creare il ponte della relazione,
un canale di attenzione che va da te all’altro . Quanto il ponte sarà stabile dipenderà
dalle caratteristiche individuali dell’attenzione. Può essere solido e ininterrotto, o può
essere fragile e intermittente.

Il ponte della relazione può essere rafforzato ulteriormente aggiungendo a questi


quattro flussi di base gli altri otto complessi, ma per questo approfondimento è
sufficiente fermarsi qui.

Da leggere: Coscienza e consapevolezza, qual è la differenza?

Riconoscimento empatico

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Un ponte della relazione saldo permette di lasciare fluire il proprio sentire e di
sintonizzarsi empaticamente con il sentire dell’altro . Senza la stabilità dei flussi di
attenzione la persona si identifica con il proprio vissuto emozionale o mentale, o con
quello dell’altro. La conseguenza è che le emozioni o le interpretazioni mentali portano a
spasso l’individuo, rompendo la relazione consapevole.

La stabilità del ponte della relazione permette invece un pieno sentire emozionale,
senza che questo faccia decadere la qualità di attenzione consapevole a sé e all’altro. La
relazione diviene così l’àncora che tiene l’individuo nel momento presente,
permettendogli di liberare completamente il suo sentire emozionale.

L’àncora relazionale è quell’elemento che fa la differenza nel lasciare andare le proprie


difese. Per sintonizzarci con l’altro dobbiamo prima sbloccare il nostro sentire, spesso
limitato da meccanismi di difesa psicologici. Questo processo è graduale, e generalmente
vissuto soggettivamente come sgradevole. Per superare questo difficile passaggio, la
soluzione è àncorarsi al ponte della relazione. Mantenendo cioè l’attenzione stabile sui
quattro flussi di consapevolezza, è possibile aprirsi sempre di più al proprio sentire, e
dunque anche al sentire dell’altro.

Consapevolezza in relazione
Una proprietà fondamentale della consapevolezza è la seguente: quando un individuo è
riconosciuto sul piano della consapevolezza da parte di un altro individuo, la sua auto-
consapevolezza si accende. L’attenzione invece di decadere come fa normalmente, si
accende, e con essa anche l’energia vitale.

Nell’Eye Contact Experiment questa proprietà viene messa in risalto individualmente e


diviene anche evidente ad un osservatore esterno. Le persone in relazione si aprono, i
loro occhi brillano, le emozioni si liberano.

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Come usiamo questa attenzione ed energia risvegliata è una nostra scelta. All’Eye
Contact Experiment, il mio consiglio è quella di convogliarla nuovamente nei flussi di
attenzione, in modo da stabilizzare il ponte della relazione.

La dimensione della consapevolezza


Affrontiamo ora un approfondimento ulteriore riguardo la consapevolezza e la sua
dimensione. Lo farò molto sinteticamente, per saperne di più vai alla pagina
Consapevolezza del Sistema Operativo non-duale.

La relazione che si instaura tra gli individui sul piano della consapevolezza permette di
costruire la dimensione della consapevolezza . Vediamo brevemente cosa vuol dire.

Esistono una dimensione fisica ed una dimensione interiore.

Poi esiste la consapevolezza, priva di qualità e di attributi. È percepita soggettivamente


come una sostanza non fisica, indifferenziata, infinita ed assoluta.

Queste qualità si riflettono di conseguenza nella sua dimensione non fisica, non locata
nello spazio: è una dimensione che pervade e permea ogni cosa. La coscienza è dunque
la “sostanza” potenzialmente presente in ogni dimensione: esteriore e interiore, fisica e
mentale/emozionale/biologica.

L’elemento che spesso viene malinterpretato è che la dimensione della


consapevolezza non è data a priori, è un potenziale evolutivo. La dimensione appare
all’individuo quando, maturata una consapevolezza stabile della sua natura
indifferenziata instaura con gli altri individui una relazione di equivalenza su questo
piano, cioè quando li riconosce come individui consapevoli e si relaziona con loro in
modo equivalente.

Questa breve digressione ha lo scopo di sottolineare quanto questo modo di relazionarsi


con l’altro sia fondamentale. Il bisogno di relazione è un bisogno molto più profondo
di quanto apparentemente possa sembrare.

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Come partecipare
Partecipare all’Eye Contact Experiment è semplice, non serve nulla se non la curiosità
di provare. L’evento globale Eye Contact Experiment si svolge una volta all’anno, ma
localmente questo viene ripetuto nell’arco di tutto l’anno. Consulta la pagina Facebook
di Eye Contact Experiement Italy dove trovi il calendario dei raduni in tutta Italia.

Se senti la chiamata puoi organizzare tu stesso un evento nella tua città: sulla pagina
trovi tutte le indicazioni necessarie.

Eye Contact Experiment è un potenziale veicolo per costruire relazioni più autentiche e
per aprirci alla nostra umanità. Ti invito caldamente a provare questa esperienza, ne
sarai entusiasta. Soprattutto ti invito a tradurre il vissuto dell’evento in qualità di
relazione quotidiana, cioè a portare la tua umanità in ogni singolo incontro con l’altro.
In ogni incontro con l’altro c’è la possibilità di costruire un’umanità migliore. La
scelta è nostra, in ogni istante.

Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo.Gandhi

Gandhi

La tua esperienza
Hai partecipato in passato ad un raduno Eye Contact Experiment?

Che effetto ti ha fatto?

Sei riuscito a portare questo tipo di contatto umano nella tua vita?

Racconta la tua esperienza nei commenti qui sotto, sarà da stimolo per chi ancora non
ha partecipato!

Ringraziamenti

Ringrazio di cuore per la disponibilità Salvatore Di Maria e Francesca Corti dei Liberators
of Lecco.

Bibliografia

Silvano Brunelli – La teoria dell’essere vol I

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Il bypass spirituale: se lo conosci puoi superarlo
essereintegrale.com/bypass-spirituale-conoscerlo-superarlo

Agostino Famlonga

Il bypass spirituale può essere definito come trascendenza prematura: voler elevarsi
oltre il proprio lato umano senza averlo prima conosciuto e integrato completamente.

Il bypass spirituale è l’uso, consapevole o meno, di idee e pratiche spirituali per evitare di
affrontare problemi psicologici aperti, materiale emozionale irrisolto, ferite non
rimarginate o tappe di sviluppo non portate a termine.

È fin troppo facile cadere in questo meccanismo, tanto che è universalmente diffuso in
tutti i circoli spirituali o pseudo tali. Lo si deve ovunque, nelle sue varie forme. Come
sempre, conoscere i meccanismi di queste dinamiche è il primo passo per poter andare
oltre e spianare la strada alla propria evoluzione. Vediamo dunque come si genera, quali
sono le sue manifestazioni e come andare oltre questa trappola evolutiva.

L’inizio
L’inizio di un percorso di crescita spirituale muove generalmente da una motivazione di
carenza. Non è un principio matematico, ma di solito accade questo: senti che in te c’è
un qualche tipo di disagio e tenti di superarlo, o di attenuarlo, per stare meglio. Può
trattarsi di un disagio psicologico, relazionale, fisico o anche esistenziale e filosofico. Il
movimento può essere schematizzato così: un sentire che “così come sono non vado
bene” associato alla sua controparte “devo fare qualcosa per andare bene.”

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Il passo seguente diviene l’intraprendere una via di crescita interiore. Un seminario, un
ritiro, l’affidarsi a una relazione di aiuto. Questo ti da la possibilità di andare oltre, di
uscire dal disagio e toccare con mano la bellezza del liberarsi delle proprie limitazioni.
Nel migliore dei casi c’è un contatto con la dimensione soggettivamente assoluta, che
dona alla persona la completezza, prima ricercata in posti inadeguati. La perfezione
della realtà non-duale scioglie ogni tensione e imperfezione.

Da dove origina allora il bypass spirituale?

Il bypass spirituale accade quando la pratica spirituale, invece di aiutare ad integrare le


limitazioni umane, diviene un sostituto per evitare di affrontare le questioni psicologiche,
relazionali o concrete irrisolte.

La realtà è che il solo conoscere la dimensione della consapevolezza non risolve i


problemi pratici della vita, non sistema automaticamente le relazioni disfunzionali.

Detto in modo ancora più diretto: sapere chi sei veramente non paga le bollette.

Con questo non sto dicendo che la ricerca spirituale sia inutile, tutt’altro. Sapere chi sei è
l’origine per creare il tuo modo di pagare le bollette, il modo che ti rappresenta e ti
realizza. Questo è il passo fondamentale per avere la tua completezza esistenziale.

Quindi sì, la pratica spirituale è fondamentale, ma va integrata nella vita , affinché la


vita stessa divenga il terreno di pratica e di autorealizzazione.

Se di base hai la credenza che la consapevolezza sistemi da sola ogni cosa, la pratica
spirituale può diventare una via di fuga dalla realtà. Un seminario può diventare una
sorta di valium metafisico. Una vera e propria “dose” di verità assoluta.

Questo bisogno nasce quando nella vita quotidiana non sei in contatto con questa tua
verità. Allora devi riempire il serbatoio, devi prendere un’altra dose per tirare avanti nella
vita e nelle relazioni.

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Dissociazioni
Da dove origina questa tendenza alla trascendenza difensiva? La sua origine può
essere ricondotta alla dissociazione. Il bypass è in sostanza una scissione nelle
dimensioni esistenziali, quindi in realtà la dissociazione ne rappresenta sia la causa che
l’effetto.

Mi spiego meglio: la dissociazione è il fatto che abbiamo delle parti non integrate, delle
parti che nascondiamo a noi stessi e che non vogliamo o riusciamo a vedere. A livello
individuale questo si traduce nel fatto che abbiamo una parte conscia, un io,
contrapposto ad una parte inconscia, percepita come separata, o apparentemente
inaccessibile.

Da leggere: I 6 tipi di inconscio

La dissociazione crea il bypass spirituale, cioè crea scissioni nelle dimensioni


esistenziali mantenendo viva e operativa la dissociazione primaria alla base di tutto.

Il bypass spirituale è una frattura tra la realtà non-duale e la nostra natura umana .

È una contrapposizione tra una parte della vita ritenuta elevata e virtuosa rispetto al suo
opposto, ritenuto inferiore.

Il bypass spirituale si manifesta in queste e altre dicotomie, con un’enfasi difensiva


posta al primo elemento della lista:

Verità soggettivamente assoluta / Verità relativa


Impersonale / Personale
Vuoto / Forma
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Trascendenza / Incorporamento fisico
Testimoniare / Sentire pienamente

Invece di integrare tutte le dimensioni esistenziali, le loro funzioni e i loro bisogni in un


adattamento funzionale, vengono create pericolose fratture.

Da leggere: Evoluzione della coscienza

Sistema di credenze
Il bypass spirituale raggiunge il suo apice quando si manifesta in una pseudo-
spiritualità completamente scollegata dalla pratica. Nei casi estremi di questa
dinamica la persona non è mai venuta in contatto con la dimensione non-duale ma
assume semplicemente un sistema di credenze come modo di vivere . Lo fa perché
intuisce che dovrebbe essere così, perché è poeticamente affascinante, o perché
apparentemente lo eleva sopra gli altri, o ancora perché questo gli permette di
mantenere una relazione con un gruppo con cui sente appartenenza. Le motivazioni
possono essere molteplici.

Quando manca la conoscenza diretta della dimensione della consapevolezza la persona


emana una spiritualità di facciata, completamente mentale e disincarnata dalla sua
vita.

Il segnale di allarme per questa condizione è una mancanza di coerenza, con sé stessa
e con gli altri: dice una cosa e ne fa un’altra. Fa una cosa quando è in relazione con gli
altri, e l’esatto opposto quando è da sola.

A volte gli ideali spirituali sono messi in pratica nei confronti degli altri (ad esempio
gentilezza e compassione), ma verso sé stessi invece il trattamento è alquanto differente:
la persona manifesta rigidità e durezza.

Identità compensatoria
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Quando è in atto il bypass spirituale, essere eccellente nella pratica spirituale diviene una
identità compensatoria, che difende e nasconde una identità carente, quel senso di
“non vado bene” all’origine di tutto. Anche se la pratica è eseguita con diligenza, in realtà
è una negazione, un vero e proprio meccanismo di difesa. La pratica soggettivamente
diviene un dovere, un modo per cercare di sentirsi bene con sé.

Questa dinamica porta a una scissione nelle aree della vita: la pratica rimane segregata
dal resto. La pratica spirituale non è integrata nel funzionamento globale
dell’individuo, non penetra cioè nella sua vita. Un altro modo di dirlo: la vita non è a
immagine e somiglianza della verità di sé.

L’identità compensatoria si manifesta in modo differente in base alla struttura di


personalità. Quando l’effetto compensatorio si somma alla personalità narcisista,
l’acutezza nella pratica spirituale diviene mezzo per elevarsi al di sopra degli altri o per
usarli in modo manipolatorio: è la grandiosità narcisista. Invece di usare la pratica
per superare il proprio ego, questo viene inflazionato.

Nasce un ego spirituale. Un ego che usa la spiritualità a proprio favore.

All’opposto le persone tendenzialmente depresse usano gli insegnamenti spirituali,


come quello dell’inconsistenza del sé, come mezzo per rinforzare la loro mancanza di
amore per sé stesse. Si sentono male riguardo loro stesse, e l’insegnamento
dell’inconsistenza del sé diviene un giudizio supplementare, che rinforza la loro colpa o
vergogna alla base della tendenza depressiva. L’esito paradossale è proprio che
tentando di negare il sé rimangono inevitabilmente invischiate in questo processo.

Super-io spirituale
Quando gli insegnamenti spirituali vengono incorporati in un sistema di credenze si
cristallizza un’immagine idealizzata di sé. Invece di sentire che vai bene così come sei,
questo meccanismo ti fa sentire sempre in carenza di qualcosa. È un sorta di super-io

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spiritualizzato che riempie la testa di dovrei: dovrei pensare questo, dovrei fare quello,
dovrei sentirmi così e via dicendo.

Il meccanismo psicologico è attivo, come sempre, in duplice direzione: il senso del dovrei
è anche proiettato sull’altro. Allora l’altro non va bene così com’è, ma dovrebbe essere
in un certo modo, dovrebbe comportarsi e vivere secondo dei canoni idealizzati.

Vivere un ideale invece di essere chi sei veramente è una forma di violenza
interiore che ti divide in due parti, una contro l’altra. Ogni forma di idealizzazione è un
atto di violenza verso di sé.

L’attaccamento
Una parte fondamentale degli insegnamenti spirituali concerne l’attaccamento.
L’attaccamento è rifiutato e considerato un legame limitante, un vincolo alla natura
umana che impedisce di dimorare permanentemente nella libertà dell’essere.

In termini psicologici la parola attaccamento è invece del tutto positiva: l’attaccamento


sicuro rappresenta il legame emozionale positivo con le relazioni primarie e promuove
connessione con sé e con l’altro, incorporamento radicato e benessere della
persona. Esiste una mole impressionante di studi a tal proposito, tale da rendere
impensabile non tenere conto di questo fattore decisivo nella formazione psicologica
della persona.

Di nuovo le due nature umane, assoluta e relativa, sono in apparente in contrasto. In


realtà non lo sono, vediamo perché.

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L’attaccamento su cui gli insegnamenti spirituali pongono l’accento è l’afferrare, o
tenere, eccessivamente qualcosa. Può essere riferito a qualsiasi cosa: un oggetto,
un’emozione, un’idea, un sentire, una relazione. Per non confonderlo con l’attaccamento
psicologico lo possiamo definire grasping (dall’inglese grasp: afferrare).

Il bypass spirituale mette in atto questa dinamica subdola e pervasiva: invece di


consumare il grasping la persona evita l’attaccamento.

Negli studi psicologici sull’attaccamento è stato catalogato un tipo particolare di


attaccamento: l’attaccamento evitante. Si sviluppa nei bambini che non hanno avuto
genitori disponibili dal punto di vista emozionale e relazionale. I bambini crescono
imparando a prendersi cura di loro stessi senza creare un legame sicuro , senza
(apparentemente) il bisogno dell’altro.

È una strategia di adattamento: se i tuoi bisogni non sono soddisfatti, ed è troppo


doloroso sentirli, giri la testa dall’altra parte. Impari ad arrangiarti da solo. Si crea
un’identità compensatoria distaccata dalle relazioni e dalla vita stessa.

Il distacco (non-attaccamento) è una difesa per non sentire il dolore che sta sotto la
mancanza di relazione, quella che avrebbero dovuto ricevere e invece non hanno
ricevuto.

Questo tipo di struttura di personalità è molto attratta dagli insegnamenti spirituali


riguardo l’attaccamento, perché gli risuonano familiari. Un insegnamento spirituale
fondamentale, quello di consumare il grasping, viene usato come rinforzo
del meccanismo di difesa.

La persona mette in atto un evitamento dell’attaccamento invece di sciogliere il


grasping.

Evitare l’attaccamento non significa essere liberi dell’attaccamento, è solo un’altra forma
di grasping: l’aggrapparsi alla negazione dei proprio bisogni di attaccamento umani,
dovuti alla mancanza di fiducia che l’amore può essere affidabile e sicuro. [ Per
approfondire: La psicoterapia di Dio ]

Per la personalità con attaccamento evitante, il vero attaccamento umano è pericoloso e


crea paura.

In sostanza le persone con attaccamento insicuro confondono l’assenza di grasping


con la loro dinamica di attaccamento evitante.

Per consumare il grasping l’attaccamento va vissuto totalmente, in modo intenso. Si


scioglie in modo spontaneo e naturale quando la persona ha avuto modo di integrare
completamente quell’oggetto/esperienza/relazione.

Non puoi lasciare andare qualcosa che non possiedi.

Per questo motivo:


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È necessario soddisfare appieno l’attaccamento umano prima che l’autentico non-
attaccamento spirituale sia realmente possibile. Agostino Famlonga

Agostino Famlonga

La volontà e la resa
La volontà è un altro aspetto colpito in modo massiccio dal bypass spirituale. La dinamica
è simile a quello che abbiamo appena visto riguardo l’attaccamento.

La volontà è un aspetto naturale dell’essere umano. Ci appartiene in quanto individui


dotati di consapevolezza.

Vediamo brevemente alcune proprietà della consapevolezza.

La consapevolezza interagisce con la realtà tramite l’attenzione. Dove poggi l’attenzione,


divieni consapevole. Sia esso un oggetto fisico, o un’emozione, o un pensiero: poggiando
l’attenzione sull’oggetto, ne divieni consapevole.

Possiamo dire che l’attenzione è l’organo di senso della consapevolezza. Ci appartiene


ed è del tutto naturale.

Così come è del tutto naturale la scelta.

Infatti la scelta è l’organo di azione della consapevolezza.

Attenzione e scelta sono due organi della consapevolezza di sé. La prima è l’organo di
senso, la seconda è l’organo di azione.

L’individuo consapevole interagisce con la realtà tramite la scelta.

La scelta è lo strumento con cui l’individuo consapevole interagisce con tutto ciò che
esiste, sul piano fisico, emozionale, mentale e relazionale.

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Molti pensano che la scelta sia una proprietà mentale, ma si tratta di un dato errato: la
scelta appartiene all’essere consapevole.

Per approfondire » Consapevolezza

Quando è in atto un bypass spirituale la persona giustifica la sua mancanza di


volontà definendola resa.

La resa è riferita a un potere superiore, al destino, alla volontà divina.

Ancora una volta un profondo insegnamento spirituale viene acquisito come


meccanismo difensivo.

In realtà la volontà è atrofizzata perché manca l’integrità di sé a causa della dissociazione.


La volontà è castrata e impedita nella sua piena espressione, e questo viene giustificato
tramite l’insegnamento della resa.

Ogniqualvolta si manifesta la volontà individuale, viene vista come un’espressione


egoica, da condannare e reprimere. Di nuovo, un sistema di credenze interferisce con
l’espressione della nostra umana natura, generando circoli viziosi e frustrazione
continua.

Da leggere » La scelta: 4 principi fondamentali

Dov’è l’intoppo in questo meccanismo?

L’autentica resa si riferisce al risultato dell’azione, non alla scelta.

Una retta azione è guidata da una scelta consapevole, da una volontà posseduta e
incarnata pienamente, e priva di attaccamento al risultato. La vera resa è la resa del
risultato dell’azione, con un’attenzione concentrata in modo naturale sull’azione stessa,
in totale apertura al momento presente. L’azione è mossa da piena consapevolezza e
volontà. Essendo l’attenzione concentrata nel qui e ora, non è rivolta al risultato. Questa
è la resa.

Riassumendo:

Consapevolezza e volontà coincidono quando l’individuo recupera l’integrità di sé.

Quando manca la piena consapevolezza di sé la volontà è in qualche modo impedita, e


questo viene giustificato in modo difensivo acquisendo un sistema di credenze spirituali
legato alla resa della volontà.

Da leggere » Le fasi di sviluppo della volontà e della resa

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Il bypass spirituale del corpo
Il corpo è la prima dimensione umana ad essere colpita dal bypass spirituale. I motivi
sono due.

Dal corpo fisico emerge il senso somatico. Se il sentire è troppo forte o doloroso,
interviene un meccanismo psicologico che crea una distanza dal proprio sentire. Il corpo
è dunque la prima dimensione esistenziale ad essere “spenta” per non sentire qualcosa
di sopraffacente.

Inoltre il corpo eredita a livello culturale un giudizio negativo portato avanti dalle
tradizioni religiose, che hanno per secoli considerato il corpo come la prigione
dell’anima. Questo schema archetipico, seppur in via d’estinzione, è ancora attivo a livello
inconscio.

Il bypass spirituale trasforma i bisogni corporei in elementi da combattere per


elevarsi sopra la fisicità, per uscire dalla prigione corporea.

La fame diviene un bisogno da superare in virtù del valore della purezza dell’anima.

Il sesso è considerato peccaminoso, un bisogno da nascondere o reprimere.

Il sonno divine una forma di accidia, di inerzia all’azione, e acquisisce quindi una
colorazione negativa.

In sostanza mancando il contatto con il proprio corpo, con il proprio sentire, i bisogni
corporei sono o non sentiti completamente, oppure interpretati secondo degli schemi
mentali con impronta spirituale. In termini bioenergetici manca il grounding, il
radicamento nel proprio corpo e nel proprio sentire somatico.

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Quando il corpo è vissuto nella sua interezza e integrato con le altre dimensioni
esistenziali dell’individuo, i suoi bisogni sono ritenuti di primaria importanza, soddisfatti
senza eccessi e con tempistiche adeguate. Il corpo allora cessa di essere una prigione,
diviene un tempio.

Il bypass spirituale delle emozioni


Nella dimensione emozionale il bypass spirituale si manifesta con una repressione delle
emozioni negative.

In alcune forme di insegnamento spirituale le emozioni vengono catalogate e divise in


due categorie: le emozioni positive, da coltivare, e le emozioni negative, da attenuare.
Questo nel bypass spirituale viene portato all’estremo con un meccanismo repressivo.
Ogniqualvolta la persona sente un’emozione catalogata come “negativa”, tenta di
sopprimerla, smorzando nuovamente il proprio sentire emozionale in base a una serie di
credenze spirituali.

Manca il pieno sentire dell’emozione, che è proprio l’elemento che permette di far
evaporare ogni tipo di residuo emozionale. Non viene riconosciuto che ogni emozione è
di valore: interviene un’interpretazione mentale.

L’emozione più colpita da questo meccanismo è la rabbia. Le persone che agiscono il


bypass spirituale hanno letteralmente paura della rabbia. La rabbia è trattenuta e
controllata minuziosamente, con l’effetto di creare una pentola a pressione emotiva,
pronta ad esplodere verso l’esterno o a implodere verso di sé.

Da leggere: Le emozioni e l’ombra

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Il bypass spirituale della mente
La funzione della mente è quella di elaborare e interpretare gli input sensoriali, e di
generare forme di pensiero superiore, come ad esempio il linguaggio e la sintesi in
schemi cognitivi. Non c’è nulla di negativo in tutto questo. Eppure la dimensione mentale
viene spesso colpita pesantemente dal bypass spirituale.

La prima dinamica è la repressione della propria mente, o per meglio dire il tentativo di
reprimere la propria mente. Siamo all’estremo opposto del bypass del proprio corpo
visto prima.

Il sentire viene elevato sopra il pensare . Viene dato estremo valore a quello che si
sente, cercando di spegnere la pensiero. Generalmente si ottiene proprio l’effetto
opposto. Invece di integrare il sentire con il pensare, viene messa in atto una scissione.
Spesso questo meccanismo si manifesta con una forte oscillazione bipolare tra il
sentire e il pensare, con una serie di giudizi negativi associati a quest’ultima funzione.

Per approfondire » Osservare e sentire per divenire consapevoli

Un altro effetto, corollario del precedente, è quello del cercare di non giudicare, di non
interpretare. Si cerca di rinnegare proprio la funzione peculiare della mente. Detto con
un esempio banale: se vedo un’auto che mi sta investendo, ringrazio la mia funzione
mentale che mi permette di interpretare questo evento e mi permette di scansarmi. Di
nuovo, si cerca di sopprimere una dimensione esistenziale umana, chiaramente senza
successo.

Un’altra dinamica è quella di dare enfasi eccessiva al pensiero positivo. Questa


trascina la persona in un loop mentale infinito, in cui ogni pensiero è giudicato e
interpretato nuovamente secondo uno schema buono/cattivo, e con il seguente
tentativo di sopprimere tutto quello che “non avrebbe dovuto pensare” .
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Essendo le formazioni mentali duali per loro natura, ogniqualvolta si da enfasi ad una
polarità si accentua inevitabilmente anche la sua parte complementare. In sostanza
essendo le premesse di questo approccio fallaci, l’esito è una ulteriore disfunzione.

Ci tengo a sottolineare che in ognuna di queste dinamiche mentali c’è un tentativo


difensivo che però ha esito negativo o addirittura opposto al proposito iniziale. Mentre
nel bypass del corpo e delle emozioni avviene un vero e proprio smorzamento del sentire
somatico e delle emozioni, a livello mentale questo tentativo non ha successo, porta
semplicemente la persona in un circolo vizioso.

Il bypass spirituale nelle relazioni


Il bypass spirituale si manifesta in modo intenso nelle relazioni. È proprio nelle relazioni
che emerge il materiale psicologico non integrato e le ferite non rimarginate, proprio
perché queste sono spesso di tipo relazionale.

Quando è in atto il bypass spirituale la pratica spirituale è usata come mezzo per evitare
la relazione, per creare una distanza sociale. La persona in questo caso è fredda e
distante a livello relazionale. Si sente persa quando deve interagire direttamente con
l’altro o esprimere i propri sentimenti in modo trasparente.

L’essere solitari e ritirati è un modo di vivere che in alcuni ambiti spirituali è considerato
virtuoso, perché manifesta l’avvenuto distacco con il mondo della forma . In questo
caso l’isolamento diviene un meccanismo di difesa.

In realtà queste persone vorrebbero tantissimo la relazione, è proprio quello di cui


avrebbero maggiormente bisogno, hanno sete di connessione e di relazione autentica.
Come abbiamo visto sopra è il loro schema di attaccamento evitante che crea questa
dinamica tipica.

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Il bypass spirituale si manifesta anche in una versione opposta: quando la persona ha dei
confini dell’io labili si perde letteralmente nella relazione con l’altro.

Negli insegnamenti spirituali c’è generalmente un’enfasi sulla compassione, sulla


gentilezza e sull’empatia. Alcune persone in questo processo perdono completamente
il contatto con loro stesse, restando invischiate in quello che sente l’altro, facendosi
carico di dinamiche emozionali e relazionali non proprie.

Nelle relazioni viene poi agito il meccanismo di proiezione fondamentale: il leader


spirituale del gruppo di appartenenza diviene aggancio di proiezioni legate al
rapporto con madre e padre. La sua posizione lo rende un polo magnetico
preferenziale per incarnare gli schemi individuali di relazione con le figure genitoriali.
Purtroppo accade che spesso i leader spirituali sfruttino a loro vantaggio questa
dinamica. Se non riconosciuto il meccanismo di transfert (o traslazione) porta all’agire
dinamiche alquanto disfunzionali da ambo le parti.

Il bypass spirituale della realtà fisica


La realtà fisica è un’altra dimensione duramente colpita dal bypass spirituale. Alcuni
reputano il mondo della forma pura illusione, da abbandonare e trascendere. In questa
dimensione e in quella relazionale viene agita la dinamica che abbiamo visto relativa
all’attaccamento evitante.

In questo processo perdono ogni contatto con la realtà fisica, con le loro
responsabilità in quanto esseri umani. In realtà si tratta di una negazione, del loro
meccanismo difensivo in azione. Perdere il contatto significa non riconoscerne il valore e
trascurarla in virtù di valori spirituali ritenuti più elevati. Significa agire in modo
disfunzionale, fuori dal tempo e dalle relazioni.

L’essere umano funziona nella realtà fisica con un corpo fisico, e la dimensione fisica è
proprio quella dimensione che permette la piena realizzazione dei propri fini
esistenziali. Quando l’individuo integra le dimensioni esistenziali in un adattamento
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funzionale, la dimensione fisica diviene amica, terreno di gioco per la propria
autorealizzazione.

Scelta di un mentore
Come abbiamo visto i meccanismi del bypass spirituale sono numerosi e alquanto
pervasivi. È necessario, innanzitutto, che tu conosca queste dinamiche ed effettuando
un’autoanalisi riconoscere se stai agendo una di queste. La consapevolezza è sempre il
primo passo per poter uscire dagli automatismi difensivi.

Nondimeno è importante per la tua emancipazione che tu scelga un percorso


spirituale che operi per rompere il bypass spirituale. Sarà sicuramente una via più
impegnativa, ma sarà la cosa giusta a lungo termine, per te.

Anche il mentore che sceglierai è bene che conosca i meccanismi del bypass, e che operi
per disinnescarli alla loro radice, sia in sé stesso che nelle persone da lui seguite.

Esseri umani
La dimensione della consapevolezza è una dimensione esistenziale che ci appartiene in
quanto esseri umani. La sua bellezza e la libertà che essa dona non deve diventare
motivo per declassare le altre dimensioni dell’esistenza.

Ogni qualvolta interviene qualche tipo di bypass spirituale perdiamo contatto con una
dimensione esistenziale e quindi con una parte della nostra umanità. Rimaniamo
scollegati e frammentati da parti dell’esistenza che ci appartengono.

Come abbiamo visto nella rubrica sulla Consapevolezza Multidimensionale lo scopo della
pratica spirituale è quello di travasare la consapevolezza all’interno di tutte le
dimensioni, di integrarle in un adattamento funzionale con lo scopo di esprimere e
realizzare l’individualità consapevole che noi siamo. Superare il bypass spirituale è un
passo fondamentale per realizzare questo processo.

La tua opinione
Questo articolo vuole essere semplicemente una guida introduttiva. Ho toccato solo i
punti principali relativi al bypass spirituale, senza andare in profondità nei singoli
meccanismi. Ci sarà tempo in articoli futuri per approfondire i vari elementi.

Mi farebbe molto piacere di sapere la tua opinione in merito a quanto hai letto.

Riconosci di agire, o di avere agito in passato, qualcuna di queste dinamiche?

Ho dimenticato in questo articolo di citare degli elementi che ritieni entrino nella
definizione di bypass spirituale?

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Hai scelto una scuola spirituale e un mentore che agiscono per rompere questi
meccanismi di difesa?

Lascia la tua opinione nei commenti qui sotto.

Bibliografia
Robert Augustus Masters – Spiritual Bypassing: When Spirituality Disconnects Us from What
Really Matters
On Spiritual Bypassing, Relationship, and the Dharma An interview with John Welwood by Tina
Fossella

Photo credit

Scabeater via VisualHunt / CC BY-NC-ND

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Meditazione: concentrarsi o lasciare andare?
essereintegrale.com/meditazione-concentrarsi-lasciare-andare

Agostino Famlonga

Esistono tantissime istruzioni riguardo alla meditazione, e alcune sembrano in completo


contrasto. Alcuni tipi di meditazione richiedono la concentrazione dell’attenzione, e
questo implica una certa dose di sforzo da parte del praticante. Al contrario altre
istruzioni pongono l’accento sul lasciare andare ogni tipo di sforzo e sulla semplice
testimonianza consapevole dei pensieri, delle emozioni, di quello che accade nel
momento. Ho racchiuso questi due poli nel titolo di questo articolo: concentrarsi o
lasciare andare?

Sembrerebbe che da una parte ci sia impegno e fatica, e dall’altra scorrevolezza e


fluidità. Alcuni praticanti sono attratti in modo naturale verso il primo tipo. La loro
struttura psicologica li porta verso quelle pratiche che pongono sfide e richiedono
impegno. Altri sono più attratti dalla seconda modalità, che apparentemente sembra più
naturale e richiedere meno fatica.

In realtà queste istruzioni non sono in completo disaccordo. Si inseriscono in un


percorso meditativo a lungo termine in fasi diverse. Una costruisce il fondamento
dell’altra, e infine si compenetrano a vicenda. I problemi emergono quando non si ha un
panorama completo, o quando si vogliono saltare tappe fondamentali bruciando le
tappe. Vediamo di chiarire meglio.

I due tipi di meditazione

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Se spogliata da ogni aspetto superficiale la meditazione è il processo di
ristrutturazione dell’attività cognitiva, cioè del modo in cui la coscienza elabora e
costruisce la percezione soggettiva. La ristrutturazione avviene usando l’attenzione. Per
gli scopi di questo articolo è sufficiente comprendere il senso generale di questa
affermazione. Se vuoi approfondire questo aspetto ti invito a leggere introduzione alla
meditazione.

Il modo in cui l’attenzione viene usata può essere suddiviso in due modalità differenti.

La concentrazione dell’attenzione su un determinato oggetto oppure la concentrazione


dell’attenzione sull’accuratezza dell’osservazione.

La prima modalità viene usata nella meditazione di attenzione focalizzata.

La seconda nella meditazione di presenza aperta. Questa è detta anche analitica, o di


discernimento.

Le pratiche hanno effetti diversi in stadi diversi. Per fare chiarezza serve avere un quadro
d’insieme: ci viene in aiuto il modello delle pratiche meditative.

Da leggere » Tipi di meditazione

Un modello delle pratiche meditative


L’idea di fondo di questo modello è di mappare stili diversi di meditazione, e i diversi
stadi nella loro progressione, in uno spazio multidimensionale che li contenga tutti e
che permetta un confronto diretto e immediato. Il modello è stato ideato da un’equipe di
ricercatori: Lutz, Jha, Dunne e Saron. Lo trovo davvero utile e per questo te lo propongo, in
una versione leggermente semplificata. Se sei interessato a leggere come è stato
costruito puoi trovare l’articolo originale nella bibliografia in fondo a questa pagina.

La matrice di questo modello viene costruita usando uno spazio tridimensionale


fondato su tre dimensioni funzionali dell’esperienza. All’interno di questo spazio
vengono mappate quattro qualità dell’esperienza. Lo spazio tridimensionale assieme
ai quattro aspetti qualitativi permette di racchiudere in un unico modello praticamente
tutte le possibili configurazioni dell’esperienza.

Le tre dimensioni funzionali dell’esperienza

Orientamento all’oggetto

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Questa dimensione si riferisce al grado in cui l’attenzione dell’individuo è indirizzata
verso uno specifico oggetto, o verso una classe di oggetti. L’oggetto può emergere nel
campo di consapevolezza tramite la percezione, il ricordo o l’immaginazione.

L’attenzione può essere fortemente orientata verso un oggetto, in modo intenzionale o


meno. Questa condizione è indicata con il numero 1 nel fondo della scala. All’estremo
opposto (0 nella scala) c’è la condizione in cui l’orientamento all’oggetto è
completamente sospeso. Questo stato accade in particolari condizioni meditative.

Da notare che l’orientamento all’oggetto non dipende dal fatto che un particolare oggetto
sia selezionato. Ad esempio, nel tentare di riconoscere una singola persona nel mezzo di
una folla, le altre persone non sono selezionate direttamente, ma l’attenzione è
comunque fortemente orientata verso un oggetto, cioè la persona cercata.

Dis-identificazione

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Questa dimensione riflette il grado in cui i pensieri, le sensazioni, le emozioni e le
percezioni sono interpretati come processi mentali o come realtà vere e proprie.

Ad esempio, all’apparire di un pensiero del tipo “sono un fallito”, la persona lo percepisce


come reale e si identifica con esso. Questo è l’estremo della scala (1), cioè la completa
identificazione con l’oggetto. All’estremo opposto, lo 0 della scala, i pensieri e le
percezioni perdono la loro integrità rappresentazionale. Sono esperiti semplicemente
come eventi mentali, situati ed incorporati in un campo di tonalità sensoriali,
propriocettive, sensoriali e somatiche.

[Una precisazione: in termini tecnici la dis-identificazione riguarda il senso del sé. Questa
scala include tutto ciò che è compreso nel campo della consapevolezza . Il termine
esatto sarebbe de-reificazione. Ho preferito usare il termine più conosciuto dis-
identificazione perché più accessibile anche ai non addetti ai lavori.]

Consapevolezza

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Questa dimensione concerne il monitorare l’esperienza: l’attenzione è diretta verso il
notare i contenuti della coscienza per divenirne consapevoli. Si tratta della
consapevolezza riflessiva, cioè il processo che costituisce l’introspezione. Tecnicamente
è definita consapevolezza in posizione meta, cioè che sta sopra, che monitora
l’esperienza.

All’estremo inferiore della scala (0) troviamo una consapevolezza tipica di un principiante
che coinvolto in una pratica di attenzione focalizzata è in grado di rilevare solo le grosse
distrazioni. Perde l’oggetto di attenzione e si accorge dopo qualche tempo che è
intervenuta una distrazione. All’atro estremo della scala, l’1, troviamo un meditante
esperto che è in grado di mantenere la consapevolezza in posizione meta rilevando tutti
i dettagli che compongono l’esperienza. Divengono accessibili a livello fenomenologico
tutte le caratteristiche dell’esperienza: il contesto, lo sfondo, i singoli elementi che la
compongono. L’individuo è consapevole delle minime variazioni in ognuna di queste e
nel loro insieme. Con la maestria questa condizione è mantenuta senza alcun oggetto di
attenzione specifico.

Le quattro qualità dell’esperienza

Apertura

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Rappresenta quanto è concentrato o
diffuso il focus dell’attenzione. Può
essere ristretto su un singolo oggetto, come
nell’attenzione focalizzata, oppure
completamente aperto come durante la
presenza aperta.

Chiarezza

La chiarezza si riferisce al grado di


vividezza con cui accade l’esperienza.
Come nel caso di un’immagine visualizzata,
questa può essere chiara, vivida e brillante
oppure offuscata, ottusa e confusa. Questa
qualità non è relegata solamente alla
visualizzazione, ma è una vera e propria
caratteristica qualitativa dell’attenzione.

Stabilità

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La stabilità indica il grado di persistenza
nel tempo dell’esperienza. Può emergere
spontaneamente, come nel caso di un
umore depressivo che persiste nel tempo,
oppure come condizione interiore coltivata
intenzionalmente, come nel caso di
attenzione sostenuta verso un oggetto o
verso una qualità dell’esperienza.

Sforzo

Si riferisce all’impressione soggettiva


della difficoltà a mantenere lo stato di
coscienza in corso. Quando lo sforzo è
basso, lo stato pare accada da sé, senza che
ci sia un’intenzione deliberata al suo
mantenimento. Quando lo sforzo è alto,
all’individuo è richiesta un’intenzione
consapevole che può essere sostenuta ai
livelli massimi solamente per un certo
periodo di tempo.

Negli stadi iniziali della pratica meditativa è


richiesto un certo impegno da parte del
praticante. È normale e fisiologico. Se lo
sforzo persiste, negli stadi seguenti, diventa
un ostacolo. Per questo motivo è
importante calibrarlo accuratamente.

Gli stati mentali ordinari


Prima di affrontare l’argomento vero e proprio di quest’articolo, cioè la meditazione, è
utile definire il punto di partenza all’interno del modello qui proposto. Lo possiamo
definire distrazione mentale: lo stato mentale comune in cui la mente vaga per conto
suo da uno stimolo all’altro. È distratta: non è concentrata su niente. L’individuo
potrebbe anche avere delle finalità e perseguirle, ma nello stato ordinario la sua mente

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non è direzionata in modo univoco verso questi fini. Si inserisce in modo intrusivo e
spesso è percepita come un disturbo. Più spesso ancora la persona non si accorge
nemmeno di quanto sia distratta la sua condizione mentale.

Nei termini del modello qui proposto possiamo inquadrare questa condizione con una
consapevolezza molto bassa, una dis-identificazione molto bassa, cioè quello che è
percepito è considerato una rappresentazione accurata della realtà, e un orientamento
all’oggetto che è in modo variabile nel mezzo del continuum proposto.

a stabilità è bassa, ci sono continui cambi del contenuto. L’apertura è bassa, ovvero sono
elaborati solo pochi stimoli alla volta. La chiarezza è, nell’ipotesi ottimista, a un livello
medio. Infine lo sforzo è minimo. Non c’è sforzo consapevole perché la mente è lasciata
vagare in modo ordinario.

Questa che è stata descritta è una condizione piuttosto comune di funzionamento


mentale, non patologica e accettata a livello collettivo come ordinaria. Talmente
ordinaria che spesso non è nemmeno messa in discussione. La meditazione può
modificare in modo rilevante questo scenario, ampliando notevolmente la gamma degli
indici qui proposti e portando le capacità cognitive a un regime di funzionamento
ottimale.

Gli stati mentali disfunzionali


È utile vedere brevemente anche alcuni tipi di funzionamento mentale disfunzionale, per
comprendere come sono modificati gli indici qui proposti.

Ruminazione
Il primo che descriverò è la ruminazione. Il termine ruminazione è usato in campo
psicologico per descrivere la condizione in cui la persona rielabora continuamente
un pensiero. Il contenuto mentale si ripresenta continuamente e ripetutamente. La
persona percepisce una resistenza nei confronti di questo contenuto, e proprio
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questa resistenza fa sì che esso si ripresenti nuovamente. Questo è percepito come un
disturbo, perché tiene impegnata l’attività mentale della persona su un unico contenuto,
o comunque su un tema specifico. La condizione è definita ruminazione perché rende in
modo figurato l’idea di un riprendere più volte un contenuto e continuare a elaborarlo.

In questo stato mentale è presente un certo grado di meta-consapevolezza, cioè la


persona conosce ed è in grado di parlare consapevolmente del contenuto in questione.
L’orientamento all’oggetto è leggermente spostato verso l’oggetto stesso del contenuto
mentale e la dis-identificazione è molto bassa, cioè il contenuto mentale è visto come
una vera propria realtà.

A livello qualitativo è presente una certa chiarezza riguardo al contenuto. L’apertura è


bassa, cioè il focus di attenzione è ristretto sul contento ricorrente. La stabilità è alta: lo
stato mentale non si modifica facilmente. Proprio questo è percepito come disfunzionale.
È presente un grado di sforzo medio-alto, in base alla resistenza messa in atto dalla
persona nei confronti del contenuto mentale.

Dipendenza
Un’altra condizione disfunzionale è quella della dipendenza, da qualsiasi tipo di
sostanza. All’estremo troviamo le dipendenze da alcol e droghe, ma le qualità della
condizione descritta sono le stesse anche in caso di dipendenze minori: caffè, sigarette,
cibo ecc. Sono considerate dipendenze di minore entità, socialmente accettate, ma lo
schema è il medesimo.

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Qui lo stato mentale è fortemente orientato verso l’oggetto, l’identificazione è fortissima
e la consapevolezza dell’attrazione verso il contenuto è presente in maniera debole.

Il focus dell’attenzione è molto ristretto, concentrato sull’unico oggetto che pare in grado
di placare il fastidio dell’astinenza. La sostanza desiderata è tenuta a mente con una
chiarezza medio-bassa e con una stabilità altissima. Lo sforzo intenzionale è minimo,
perché tutto l’impianto è mantenuto attivo da un funzionamento automatico
disfunzionale fuori dal controllo cosciente della persona.

L’attenzione focalizzata del principiante


Vediamo ora come la meditazione si inserisce in questo scenario, modificando la qualità
dell’esperienza. Nelle fasi iniziali della meditazione al praticante è richiesto di
concentrare la sua attenzione su un oggetto specifico, convogliando le sue risorse
cognitive unicamente su quell’oggetto. L’attenzione può essere messa sul respiro, su un
oggetto fisico o su un oggetto mentale.

Al praticante è chiesto di rilevare quando l’attenzione si sposta dall’oggetto scelto e


di riposizionarla intenzionalmente su di esso. Questo procedimento continua
ininterrottamente per tutta la durata della seduta di meditazione di attenzione
focalizzata.

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Lo stato mentale è fortemente orientato all’oggetto. È presente un certo grado di
consapevolezza che monitora quando l’attenzione è distolta dall’oggetto e
l’identificazione cade circa a metà del continuum proposto.

Il focus di attenzione è molto ristretto, di conseguenza lo è l’apertura. Il fatto che si tratti


di un principiante rende la chiarezza dell’oggetto un po’ opaca, la stabilità della
condizione bassa e lo sforzo massimo. Lo sforzo è alto perché l’individuo non è abituato a
mantenere in modo intenzionale e continuato l’attenzione su un unico oggetto.

L’attenzione focalizzata dell’esperto

Con la pratica costante della meditazione di attenzione focalizzata si guadagna la


capacità orientare maggiormente la propria attenzione all’oggetto. Aumenta di molto la
consapevolezza delle distrazioni mentali e la dis-identificazione dall’oggetto.

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L’apertura è sempre bassa, perché il compito dell’esercizio è sempre quello di restringere
il focus di attenzione. L’oggetto è visto in modo sempre più chiaro e vivido. Quando il
praticante raggiunge la maestria di questo compito cognitivo, la stabilità è aumentata a
un livello alto e lo sforzo diventa minimo.

Si vede chiaramente il contrasto con la fase iniziale. Aumenta la capacità di essere


consapevoli delle distrazioni, si rinforza l’abilità di mantenere la condizione a lungo e
quindi lo sforzo, che inizialmente è percepito come elevato, gradualmente lascia spazio a
una condizione di naturalezza.

La presenza aperta del principiante


Il percorso meditativo in genere prosegue dando al praticante un nuovo compito.
Guadagnata la stabilità dell’attenzione, ora questa abilità può essere impegnata nella
meditazione di discernimento o, detto più semplicemente, di presenza aperta.
L’attenzione non è più focalizzata su un oggetto specifico, ma sull’esperienza stessa, nella
sua interezza.

Vediamo come cambia radicalmente l’orientamento all’oggetto. L’attenzione tende a


spostarsi verso la soggettività. La dis-identificazione conquistata nella fase precedente è
mantenuta così come il grado di consapevolezza dei processi mentali.

Quello che cambia è il grado di apertura. Il focus di attenzione si amplia proprio perché
è variato il compito cognitivo richiesto. La chiarezza dell’oggetto viene in qualche modo
offuscata perché il compito è nuovo, e quindi l’oggetto su cui si convoglia l’attenzione è
diverso e non visto in modo chiaro. La stabilità conquistata in precedenza tende a
retrocedere e assestarsi a un livello medio: s’inseriscono nuove distrazioni, nuovi
ostacoli. Si ripresenta nuovamente un certo grado di sforzo. Non è più uno sforzo
paragonabile alla fase del principiante nella meditazione di attenzione focalizzata. Al
praticante è richiesto di calibrare accuratamente lo sforzo in questa fase: troppo
sforzo non permette di proseguire nelle fasi seguenti, così come uno troppo blando.

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La presenza aperta dell’esperto
Vediamo ora la condizione di un praticante esperto che ha affrontato l’intero percorso e
ha raggiunto la maestria della meditazione di discernimento (presenza aperta).

Vediamo che c’è una completa dis-identificazione rispetto a ciò che è percepito. Il
termine esatto è la massima de-reificazione: la realtà viene “vista” come l’insieme dei
processi di elaborazione e costruzione soggettiva di ciò che viene percepito. Questo
spostamento verso la soggettività è indicato come lo spostamento verso lo zero nella
scala di orientamento all’oggetto. L’individuo è consapevole dell’insieme dei processi che
concorrono alla co-costruzione della realtà: la consapevolezza in posizione meta è
massima.

Vediamo in questa condizione la massima apertura all’esperienza possibile. La realtà


viene “toccata” nella sua interezza, in un tocco unificato. La chiarezza è massima:
nessuna impurità si frappone tra l’individuo e ciò che è. La condizione è stabile,
immutata e imperturbabile di fronte alle esperienze. Lo sforzo è assente, perché il
funzionamento è integrato. Non c’è più un fare, c’è solo un essere che irradia la sua
condizione, senza alcuno sforzo.

Per approfondire » Gli stadi della meditazione

Dunque: concentrarsi o lasciare andare?


Il percorso qui delineato ci da il panorama minimo indispensabile per dare una risposta a
questa domanda. Penso che il lettore, seguendo i vari passi, abbia già compreso la
risposta.

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Un certo grado di impegno e di sforzo è richiesto durante tutto il percorso , con
intensità variabile a seconda degli stadi in cui ci si trova. All’inizio lo sforzo è massimo
perché si sta cercando di apprendere una nuova abilità e non si sa come fare. Poi via via
questo diminuisce ed è calibrato dal praticante, scelto in modo consapevole. Né
troppo, né troppo poco. Quello che serve per progredire. Si acuisce la capacità di
riconoscere quando si sta spingendo troppo, andando a finire nella forzatura, così come
quando si sta facendo troppo poco, rimanendo inutilmente rallentati.

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Ora rivelerò il vero senso del titolo del post. Ho contrapposto le due condizioni, il

concentrarsi e il lasciar andare, perché generalmente sono percepite come in


antitesi. Se mi sto concentrando mi impegno, cioè percepisco soggettivante un certo

Negli stadi finali si ha la comprensione esperienziale che tutto va bene così com’è, non
c’è bisogno di cambiare nulla. Chi si impegna e si sforza sta tentando di alterare ciò che
è e quindi si sta allontanando dall’obiettivo, fluire con la vita.

Questa comprensione si intuisce, è toccata ad intermittenza anche dai praticanti in varie


fasi del percorso. Nasce allora l’apparente contrapposizione. La tensione è spesso
esacerbata da istruzioni che arrivano da individui che hanno raggiunto la condizione
di stabilità e che, dal loro punto di vista, hanno la visione della perfezione assoluta di
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ogni condizione umana. Perché impegnarsi? Tutto va bene così com’è, basta lasciarsi
andare. È vero, è davvero così. C’è un però, bello grosso anche.

Il pericolo di queste affermazioni è che spesso attirano e sono usate da strutture di


personalità che letteralmente le usano come scusa per non impegnarsi e per
rinforzare un edificio di difese reattive. La mancanza di impegno ha trovato la sua
giustificazione nella saggezza. Si chiama bypass spirituale.

Il problema è che non funziona. A lungo termine non funziona perché non può essere
mantenuta la stabilità della condizione. Si può tentare di toccare l’esperienza della
presenza aperta nella sua apertura totale, stabilità, chiarezza e assenza di sforzo, ma se
non ci sono le condizioni che hanno costruito le basi, la condizione non può essere
mantenuta a lungo. La condizione può essere toccata, certo. Svariate testimonianze ci
confermano questa possibilità. Si tratta però di una toccata e fuga. Un’esperienza che
poi è persa nel tempo.

Le basi si costruiscono con l’impegno, con la pratica quotidiana, sapendo in quale fase
ci si trova e facendo un passo alla volta, sforzandosi di andare oltre i propri limiti. Si,
andare oltre ai propri limiti richiede una certa dose di sforzo.

Impegnarsi e lasciare andare


Come conclusione ti propongo la sintesi di questa apparente contrapposizione: da una
parte c’è lo sforzarsi, l’impegnarsi, e dall’altra l’accettazione, il lasciare andare, il fluire.
Come uniamo queste apparenti polarità?

Impegnandoci, e lasciando andare.

L’impegno non è necessariamente contrapposto all’accettazione di ciò che è .


Tutt’altro! Accettare ciò che è, la nostra condizione attuale, è proprio quell’atto
interiore che permette di impegnarsi nel modo ottimale per raggiungere una
condizione migliore.

Prendi questa posizione: vado bene così come sono.

Prendi anche quest’altra posizione: mi impegno a fare meglio.

Quanta forza si genera da questa duplice presa di consapevolezza? Un’enormità. Proprio


quell’enormità di energia vitale che può essere riversata nella vita e nella pratica,
nell’impegno necessario per conquistare una condizione di consapevolezza superiore.

Bibliografia

Lutz, Jha, Dunne, Saron – Investigating the phenomenological matrix of mindfulness-related


practices from a neurocognitive perspective.

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Photo credit: Aperture Yogi via VisualHunt / CC BY-NC-SA

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I 4 significati della parola spiritualità
essereintegrale.com/4-significati-della-parola-spiritualita

Agostino Famlonga

Ognuno ha un senso personale riguardo ciò che per lui è spirituale o meno. Per la
maggior parte delle persone è considerato spirituale ciò che va oltre l’aspetto fisico
della realtà.

Di conseguenza la spiritualità potrebbe essere

quella parte della vita che si rivolge alla ricerca dell’essenza delle cose.

Quella parte dell’esistenza che va oltre ciò che è terreno.

Ho scritto potrebbe perché in realtà indagando a fondo il significato della parola


spiritualità emergono delle sfumature di significati che meritano di essere comprese a
fondo. Ecco quali sono.

La spiritualità come livello più elevato di ogni linea evolutiva


Il concetto di linee evolutive può essere facilmente compreso facendo riferimento al
principio delle intelligenze multiple. È riconosciuto ormai universalmente che ogni essere
umano possiede diversi tipi di intelligenze: logica, matematica, artistica, musicale
ecc. Lo sviluppo umano può essere dunque rappresentato come il dispiegarsi di più linee
evolutive, ognuna con un proprio sviluppo relativamente indipendente. In ogni linea
evolutiva è possibile individuare più stadi di sviluppo progressivi, dal più semplice al
più complesso.

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Possiamo tutti richiamare in mente degli individui che hanno una spiccata abilità in
un’area specifica della vita, ad esempio un atleta con uno sviluppo fuori dal comune nella
linea evolutiva cinestetica, ma aventi contemporaneamente una carenza di sviluppo in
un’altra linea evolutiva, ad esempio quella interpersonale.

Lo sviluppo non è né univoco né uniforme .

Da leggere: Psicografico

Ecco dunque che appare una prima possibile interpretazione di quella che potrebbe
essere considerata la spiritualità: lo sviluppo massimo possibile in ognuna delle linee
evolutive.

Pensa ad esempio alla linea interpersonale, che concerne la cognizione sociale e la


capacità prendere la prospettiva dell’altro. Ad uno sviluppo massimo questa linea
evolutiva mostra l’abilità di cambiare la propria prospettiva con quella dell’altro,
amplificando la compassione e l’amore universale.

La spiritualità può essere intesa proprio con queste peculiarità. A fasi di sviluppo minore
questa linea evolutiva mostra un atteggiamento egocentrico, centrato sui propri bisogni
e l’incapacità di prendere la prospettiva dell’altro. Difficilmente questa modalità di
interazione interpersonale è considerata spirituale.

Questo ragionamento vale per ognuna delle linee evolutive: emozionale, cognitiva,
morale, ecc.
2/7
Ai livelli di sviluppo massimo queste linee mostrano delle qualità e delle proprietà
che possono essere interpretate come spirituali.

La spiritualità come linea evolutiva a sé stante


Un’altra interpretazione della spiritualità è quella che suppone l’esistenza di una sorta di
“intelligenza spirituale“, che viaggia in parallelo alle altre linee evolutive. Parte allo
stadio più semplice alla nascita e poi si sviluppa in stadi progressivi in modo
indipendente rispetto alle altre.

La suddivisione in stadi può essere di tipo grossolano, del tipo pre-personale, personale
e transpersonale; oppure molto più dettagliata come ad esempio i 7 stadi della fede
individuati dagli studi di James Fowler, che ora non analizzeremo.

Il concetto di fondo non cambia: la linea alla nascita si trova a livello zero e nella vita,
come ogni altra abilità, trova il modo di aumentare la sua complessità in stadi
progressivi.

La spiritualità come particolare stato di coscienza (peak-


experience)
Un altro possibile approccio è il considerare dei particolari stati di coscienza come
spirituali, in confronto ad altri più accessibili e quindi classificati come ordinari.

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L’esperienza di unione, di espansione della coscienza o di completa dis-identificazione
dal corpo, o ancora l’esperienza meditativa di trascendenza dell’io… questi e molti altri
sono gli stati di coscienza che possono essere classificati come non-ordinari, e dunque,
secondo questa interpretazione, di tipo spirituale.

Da leggere: La straordinaria avventura negli stati di coscienza

La spiritualità come atteggiamento nei confronti della vita


Questa lettura considera la spiritualità come un approccio interiore alla vita.

4/7
L’atteggiamento della gentilezza, di compassione, di aiuto e di servizio all’altro sono
considerati spirituali, in contrapposizione all’egoismo, allo sfogo della rabbia, all’invidia e
a tutti quei sentimenti/atteggiamenti che in genere allontanano dall’esperienza di
comunione con l’altro.

Anche un atteggiamento interiore di apertura e di accoglienza nei confronti delle


esperienze della vita è considerato spirituale, al contrario dell’atteggiamento di rifiuto e
di chiusura alle esperienze.

Rientrano in questa categoria anche l’atteggiamento devozionale e la fede in un potere


superiore.

Si nota immediatamente che tutti questi atteggiamenti interiori esulano dai parametri
delle definizioni precedenti.

Si tratta semplicemente di una predisposizione interiore che può essere scelta dalla
persona ad ognuno degli stadi evolutivi, indipendentemente dallo stato di
coscienza in cui si trova.

In questo caso è la scelta dell’individuo che determina la traduzione nella sua vita di
questo tipo di atteggiamento, qualunque esso sia. Ad esempio scegliere di adottare un
codice etico di comportamento è una scelta di maturità interiore, perché permette di
costruire la propria vita in base ai propri valori.

All’opposto adottare schemi di comportamento rigidi, imposti e non scelti, applicati forse
per paura di punizioni di qualche tipo porta invece a una spiritualità di facciata, ma ad
una falsità di fondo che non è per nulla costruttiva.

Ogni significato ha valore


Qual è l’interpretazione migliore tra quelle proposte? Nessuna.
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Ovvero tutte hanno il medesimo valore.

Nessuna definizione ha il diritto di prevalere sulle altre.

Tutti questi approcci alla spiritualità hanno una propria validità e un legittimo diritto di
essere tenuti in considerazione.

I problemi emergono in due scenari:

Quando, non comprendendo queste quattro sfumature, una persona parla della
spiritualità intendendo un significato ad un’altra che invece ne sottintende un altro.
L’incomprensione è garantita.
Quando si considera un’unica interpretazione della spiritualità non considerando
valide le altre. Rimangono precluse notevoli possibilità di crescita.

Alla luce di queste conoscenze, le soluzioni sono semplici, speculari rispetto ai due
problemi appena esposti:

Specificare sempre a quale interpretazione ci si riferisce quando si parla di


spiritualità a qualcun altro.
Allargare i propri orizzonti e includere tutte e quattro le possibili
interpretazioni nel proprio panorama di crescita spirituale.

Il contatto con la propria umanità


Un possibile approccio alla spiritualità, che include tutti e quattro i significati qui
esposti, è questo:

La spiritualità è il contatto con la propria umanità.

Non il contatto con qualcosa di trascendente, che va oltre, ma con qualcosa che
appartiene all’essere umano in quanto individuo consapevole di esistere.

Che si consideri la spiritualità come lo sviluppo massimo delle linee evolutive, come linea
evolutiva a sé, come un particolare stato di coscienza o come un atteggiamento verso la
vita, in ogni caso si ha a che fare con aspetti che ci caratterizzano in quanto esseri umani
dotati di consapevolezza.

La crescita spirituale è il riappropriarsi completamente della propria umanità.

Non il trascendere ed abbandonare la vita, come nel Bypass spirituale, ma il vivere


pienamente la propria vita, in tutto lo spettro delle sue potenzialità, in relazione con gli
altri individui consapevoli.

La tua definizione di spiritualità

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Ho esposto qui varie interpretazioni, diversi possibili approcci a questa affascinante
tematica. Ognuno di noi ha una sua particolare concezione riguardo alla spiritualità. Si
tratta di una costruzione derivata dalla propria esperienza di vita, ed è affascinante
notare sia le differenze tra una e l’altra che l’elemento comune che soggiace a tutte.

Per questo ti chiedo, se ti va, di condividere qui nei commenti la tua opinione: che cos’è
per te la spiritualità?

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I trance che le persone vivono
essereintegrale.com/trance-persone-vivono-stephen-wolinsky

Agostino Famlonga

Imbambolati, persi nei nostri pensieri, oppure in balia di meccanismi reattivi fuori
controllo, letteralmente ipnotizzati. Auto-ipnotizzati. O per meglio dire, ipnotizzati dalla
nostra mente.

Sono i trance che viviamo quotidianamente.

Essere in trance: uno stato di perdita di contatto con il presente causato da meccanismi
psicologici automatici che portano la persona in uno spazio psicologico interpretato e
lontano dal contatto con la realtà.

Siamo in trance, senza saperlo


Questo articolo nasce sia come breve panoramica che come personale integrazione dello
splendido libro di Stephen Wolinsky, I trance che le persone vivono. Wolinsky, ricercatore
all’avanguardia nel campo della psicoterapia e profondo conoscitore delle filosofie
orientali, ha riassunto in questo testo di psicoterapia anni della sua esperienza in
entrambi i campi di studio.

Nella visione classica dell’ipnosi e dell’ipnoterapia un terapeuta induce il trance nel


paziente e fa in modo che avvenga un cambiamento di schemi e strutture automatiche a
livello inconscio, senza che il cliente ne sia necessariamente consapevole.

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La prospettiva qui proposta è capovolta, c’è un radicale cambio di paradigma: tutti noi
abbiamo, in misura variabile e con intensità differente, dei trance automatici già
operativi che ci allontanano dal contatto con il momento presente. La
consapevolezza è letteralmente portata a spasso da costruzioni, interpretazioni e
dinamiche mentali: sono i cosiddetti trance comuni quotidiani. Non necessariamente
questi sono di tipo patologico. Il funzionamento mentale “normale”, per come è
comunemente inteso, è caratterizzato da un’alternanza continua di questi stati di trance,
con poca o nessuna consapevolezza dell’automatismo che sta dietro queste distorsioni
della percezione/creazione della realtà soggettiva.

I trance automatici ci separano dal contatto con il presente e ci proiettano in uno spazio
psicologico interpretato.

Ogni qual volta l’individuo è rapito dal trance è succube di un automatismo psicologico,
emozionale o comportamentale. Dal punto di vista dell’emancipazione individuale, cioè
della progressiva liberazione della consapevolezza individuale dagli schemi automatici di
risposta, è dunque necessario de-ipnotizzare l’individuo fuori dagli stati di trance in cui
si trova già costantemente immerso.

La geniale intuizione di Wolinsky è questa: non è necessario un ipnotizzatore che


induca un trance dall’esterno, perché la persona ha già costruito i suoi trance mentali e
li ha messi in automatico, e l’individuo ne è inconsapevole. Imporre un altro trance
sarebbe come aggiungere un’altra mano di vernice: nasconderebbe ancora di più la
trasparenza cristallina della consapevolezza che sta dietro tutto questo.

Liberare la consapevolezza significa interrompere il trance automatico, cioè de-


ipnotizzare l’individuo. Non un trance in più, ma un trance in meno. Un trance
interrotto libera la consapevolezza dalla struttura prima automatizzata e libera anche le
risorse di sviluppo (intuizioni, comprensioni, energia vitale ecc) prima bloccate nel
trance automatico.

Liberare la consapevolezza significa interrompere il trance automatico, cioè de-


ipnotizzare l’individuo.

In sostanza per aumentare la nostra consapevolezza, per liberarsi dagli automatismi o


per togliere un sintomo patologico, non è necessario farsi ipnotizzare e indurre
cambiamenti dall’esterno, al contrario è necessario de-ipnotizzarsi dai trance già
contenuti nella nostra mente.

Vediamo ora come sono costruiti questi trance, quali sono, come è possibile riconoscerli
e, soprattutto, come disattivarli andando oltre ad essi. Nel linguaggio di Wolinsky: come
raggiungere la trascendenza del trance, il trance-end.

Che cos’è un trance


In termini tecnici il trance possiede queste tre caratteristiche fondamentali:
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Il trance è una condizione in cui il focus di attenzione è ristretto su determinati
elementi della realtà interiore o esteriore.
Il trance accade all’individuo, non c’è quindi consapevolezza di quello che sta
accadendo e quindi nemmeno la libertà di rispondere. L’automatismo va per
conto suo.
Il trance è caratterizzato dall’emergere spontaneo di vari fenomeni ipnotici .

Le nostre risposte automatizzate sono stati di trance che accadono fuori dal controllo
cosciente dell’individuo. Ogni risposta automatica ci pone dunque di fronte ad un trance
che sta accadendo dentro di noi. La nostra opportunità di crescita risiede nella
possibilità che abbiamo di divenirne consapevoli e di interrompere l’automatismo. Invece
di essere vittime inconsapevoli degli stati di trance che ci accadono, possiamo avere
l’esperienza di esserne creatori. La regola d’oro, come in ogni processo di crescita, è
quella di differenziare e integrare.

La genesi dei trance


Da dove derivano questi automatismi inconsapevoli? L’origine di questi trance può
essere ricondotta a esperienze infantili non integrate. Ogniqualvolta l’individuo non è in
grado di stare di fronte ad un’esperienza l’integrazione non avviene. L’esperienza è
messa “fuori” dai confini dell’esperienza consapevole, congelata da uno (o più)
fenomeni di trance che separano l’individuo da quelle che sono le sensazioni, e/o
emozioni, e/o interpretazioni mentali che al momento non è in grado di integrare.
L’individuo non sta di fronte all’esperienza perché in quel momento le sensazioni,
emozioni o interpretazioni hanno un’intensità troppo elevata per la sua capacità di
integrazione; in una parola: sono per lui sopraffacenti. Sono sopraffacenti per due
motivi:

Per la loro intensità


Per la mancanza di un contesto relazionale che riconosca la sua individualità
consapevole e che la ancori nel momento presente.

Questo meccanismo di scissione è automatico e serve a proteggere l’integrità


dell’individuo. È un meccanismo di protezione psicologico, e ha una sua utilità quando
accade originariamente. Purtroppo però questo meccanismo si rivela poi essere un’arma
a doppio taglio: prima adombra l’individuo consapevole e poi il suo funzionamento è
messo in automatico. Si crea un involucro di resistenza che protegge l’individuo
dall’esperire il contenuto non integrato.

Il trance è generato come meccanismo di protezione quando l’individuo non sta di fronte a
un’esperienza.

Vari episodi di questo tipo, cioè tante esperienze non integrate perché sopraffacenti, si
uniscono in cluster (associazioni di trance): ogni esperienza con la sua resistenza e con il
suo trance associato. Ne emerge una struttura psicologica che emana il profumo di
queste esperienze resistite (e delle sensazioni, emozioni, interpretazioni associate) con
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il quale la persona non è più in contatto.

Il meccanismo è alquanto lineare:

più è forte l’esperienza sopraffacente,


maggiore è la dissociazione,
maggiore è la resistenza e
maggiore è la forza del trance associato a essa.

Nei casi più gravi si sfocia in vere e proprie patologie psicologiche.

Mantenere in atto la dissociazione consuma energia. Viceversa togliere le barriere e


consumare la resistenza libera energia, entusiasmo e vitalità.

Da leggere: I 6 tipi di inconscio.

Da inter-personale a intra-personale
Nella fase di formazione della consapevolezza individuale, l’individuo riceve
riconoscimento consapevole da coloro che lo accudiscono (generalmente i genitori).

Che cosa significa riconoscimento consapevole?

Significa che il genitore che entra in relazione con il bambino lo riconosce non solo con
un corpo, con un piano emozionale e mentale, ma anche come individuo consapevole
di esistere. Significa che, avendo il genitore la consapevolezza di esserci, ed essendo
sufficientemente radicato nella propria auto-consapevolezza, è in grado di riconoscerla
nel suo bambino e di entrare in relazione anche da quel piano tramite i flussi di
attenzione consapevole (Per approfondire vedi La teoria dell’essere di Brunelli).

Proprio questo riconoscimento permette al bambino di acquisire la propria


autoconsapevolezza. Una relazione priva di questo ingrediente trasmette informazioni
mentali, emozionali ed energetiche al bambino, che le acquisirà in modo passivo.

Una relazione da individuo a individuo permette al bambino di integrare gli eventi ,


anche se sono, in quanto ad intensità, oltre la sua attuale portata. L’attenzione ricevuta
sull’essere cosciente permette al bambino di stare di fronte agli eventi e di attraversarli
senza essere distorto, cioè senza che la sua integrità sia alterata dall’evento.

Quando questo riconoscimento non avviene, accade che il bambino, di fronte agli eventi
di intensità oltre la sua portata, perda l’integrità dell’essere. Da questo processo ha
origine la dissociazione e la formazione dei trance.

I trance hanno un’origine nel contesto inter-personale (da sé verso l’altro), e poi sono
interiorizzati e messi in automatico, cioè funzionano fuori dal controllo cosciente
dell’individuo a livello intra-personale (da sé verso sé).

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Tutto questo ci fornisce una preziosa indicazione riguardo alle azioni necessarie per
invertire il processo.

Sarà approfondito verso la fine dell’articolo, ma qui è utile sottolineare che il processo
deve subire un’inversione: da automatismo intra-personale deve di nuovo diventare
inter-personale. Un altro individuo consapevole, che dona la sua attenzione
consapevole riconoscendo la nostra equivalenza sul piano dell’essere cosciente, ci ancora
nel presente e ci permette interrompere il trance, di ripristinare l’integrazione che si era
arrestata nella fase formativa. Lo riprenderemo verso la fine dell’articolo.

La con-fusione
Quando la consapevolezza è ancorata nel presente, elabora i dati in ingresso dagli organi
di senso in modo fluido. La consapevolezza è libera di toccare tutte le categorie
esistenziali:

Biologica (organica)
Emozionale
Mentale
Dimensione fisica (oggettiva)
Dimensione interpersonale

L’attenzione consapevole è libera di suddividersi su tutte queste, di concentrarsi


completamente su una in particolare, o su nessuna di queste dimensioni, cioè può
rivolgersi interamente a sé stessa e giacere nella sua dimensione esistenziale, in un
loop di auto-consapevolezza che si auto-alimenta.

Nella genesi del trance c’è una con-fusione tra le dimensioni esistenziali interessate
dall’evento sopraffacente. Queste possono venire sia unite (fuse) che invertite nelle
loro funzioni/bisogni originali. Finché è presente la con-fusione delle dimensioni
esistenziali è presente un qualche tipo di trance, e viceversa. I due fenomeni sono
collegati a livello profondo.

Da leggere: La consapevolezza multidimensionale per la stabilizzazione dell’unità

Enfasi al processo invece che al contenuto


Nell’approccio qui descritto non c’è un interesse particolare nel voler recuperare i
contenuti originali che hanno causato la genesi dei trance.

Si può dire che ogni problema, lamentela o patologia psicologica che l’adulto presenta sia
il sintomo di un trance messo in automatico (o più presumibilmente, una loro somma),
originato durante il suo processo di crescita in un contesto inter-personale e poi
interiorizzato a livello intra-personale.

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Per interrompere il trance non è vitale il totale riconoscimento dell’evento
originale.

I primi eventi dissociativi avvengono quando la memoria a lungo termine non è ancora
formata, per cui sono immagazzinati come impressioni pre-verbali.

Sarebbe impensabile recuperare l’evento.

Quello che è recuperato, in questo caso, sarebbe una ricostruzione a posteriori


(un’interpretazione) del ricordo pre-verbale dell’accaduto. Sebbene questa
elaborazione possa essere utile, non è fondamentale per interrompere il trance.
Soprattutto il recupero degli eventi perde la sua utilità quando diventa il centro
dell’attenzione da parte della persona o del terapeuta che aiuta la persona in
psicoterapia. Non è necessario dunque recuperare i contenuti, ma è necessario “stare di
fronte” e permettere il processo integrativo.

Per de-ipnotizzare l’individuo serve riconoscere il processo di costruzione del trance. Il


contenuto è secondario.

Per de-ipnotizzare la persona fuori dal trance non è fondamentale sapere cosa ha
originariamente generato il trance, ma serve sapere come la persona costruisce e
mantiene in vita il trance ora, come adulto.

Questo approccio sposta l’enfasi dal contenuto al processo.

Interrotto il trance ecco emergere associazioni, insight, ricordi e l’elaborazione


cognitiva che contestualizza l’origine del trance nel sia nel suo contesto inter-personale
sia in quello intra-personale.

Generalmente nel campo della psicoterapia si tende a ragionare al contrario: recuperare


i contenuti permette di “pulire” il processo cognitivo dai problemi attuali.

La bellezza del lavoro di crescita con i trance è di ribaltare anche in questo caso il
paradigma di riferimento: ci si concentra sul pulire il processo (interrompere i trance
automatici) e questo permette l’affiorare dei contenuti integrandoli in uno spazio
mentale funzionale.

La testimonianza consapevole
La maggior parte di noi ricrea automaticamente (o inconsciamente) stati di coscienza dal
passato come fenomeni di trance nel presente. Molti stati di mentali coinvolgono alcune
combinazioni di stati di trance; si può supporre che ogni stato problematico contenga
uno o più fenomeni di trance.

Il nostro compito diventa dunque quello di de-ipnotizzarci: “Risvegliare” la


consapevolezza dal trance che è stato ricreato dal contesto familiare originario e che
continua a funzionare, non riconosciuto, come colla invisibile del complesso di sintomi
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attuali.

Questo risvegliarsi equivale a contattare dell’individualità consapevole, la


consapevolezza che sta dietro il (prima del) trance e che originariamente ha creato il
trance come meccanismo protettivo.

La testimonianza del trance è il primo passo per rompere l’automatismo.

Nel momento in cui sono testimone di qualcosa, significa che sono dis-identificato da
essa.

Ed è proprio questo il processo di trascendenza (trance-end) che permette la crescita in


consapevolezza, sia in senso verticale (in complessità della struttura) che in senso
orizzontale (progredendo negli stadi-degli-stati di coscienza).

Da leggere: Gli effetti della meditazione, libertà e pienezza

La sequenza continua dei trance


Negli stati di trance noi restringiamo e costringiamo la nostra attenzione (e il nostro
senso del sé) identificandoci con i nostri pensieri, sensazioni, ed emozioni tanto da
dargli un funzionamento autonomo.

In effetti vaghiamo in uno stato di trance per tutto il giorno, molto più spesso di quello
che crediamo. Nell’esperienza quotidiana accadono una serie di stati di trance, alcuni
piacevoli, altri meno. Noi saltelliamo da un trance all’altro in una serie continua di
identificazioni e attaccamenti agli stati.

Quando avviene l’interruzione di un trance, tramite il riconoscimento consapevole


delle parti che lo compongono da parte dell’individuo che lo esperisce, si rompe la
continuità della sequenza.

Ogni trance ha un inizio, un apice, e una conclusione.

Identificando i vari stati di trance emerge in modo sempre più evidente il fattore
comune dei trance: l’individuo consapevole che sta dietro, o se vogliamo “oltre”, i
trance.

Per di più, diviene sempre più evidente anche il processo creativo messo in atto
dall’individuo consapevole. I trance hanno, nel tempo presente, un funzionamento
automatico. Eppure nel passato sono stati creati dall’individuo con lo scopo di auto-
protezione.

Se nel momento presente mantengono ancora il loro funzionamento autonomo,


significa che l’individuo ancora li sta usando per schermarsi dall’esperire qualche
contenuto spiacevole. Fortunatamente, quello che all’età di uno anno era sopraffacente,

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all’età di trenta (o più) non lo è più, perché le risorse di metabolizzazione sono
aumentate e perché è possibile avvalersi anche di una relazione di aiuto sotto richiesta
esplicita.

Permettersi di modificare gli stati di trance riconosciuti rende evidente come questi
siano stati, a tutti gli effetti, creati da noi stessi.

Più riesci a manipolare, modificare, alterare lo stato di trance, più ti riappropri


dell’atto creativo che a tutti gli effetti ti appartiene. Anche questo ulteriore passo aiuta ad
andare oltre, a trascendere (trance-end) gli stati di trance transitori.

Riconoscere i tuoi stati di trance


Il riconoscimento degli stati di trance può essere affrontato tramite un attento esame
dei propri processi mentali. Si tratta di osservare i propri processi cognitivi alla luce
delle conoscenze apprese riguardo ai trance comuni, e testimoniare quanto sta
avvenendo un trance.

Per esempio, se la tua mente sta tornando al passato, potrebbe essere una regressione
d’età. Se la tua mente sta andando nel futuro, potresti essere nel trance dello pseudo –
orientamento nel tempo. Quando ti senti spazioso, forse ti stai dissociando dall’evento.
Se stai sognando ad occhi aperti, forse stai avendo un sogno ipnotico. E via dicendo,
seguendo l’elenco presentato dopo. In questo modo inizi a differenziare fenomeni
specifici di trance profonda dalla massa diffusa degli stati di trance.

Una volta identificato il trance, il passo seguente è quello di intervenire alterandolo,


sfruttando l’effetto paradosso.

Non è necessario cercare di scacciarlo, reinquadrarlo, o bilanciarlo con un trance


contrario.
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L’obiettivo è di aumentare la sua intensità. Esatto, intensificare l’esperienza. Poiché a
tutti gli effetti stai già creando quello stato di trance, per riappropriarti del processo
creativo è necessario fare proprio quella cosa che ha creato il trance all’origine.

Creando consapevolmente e intenzionalmente la cosa resistita l’individuo si riappropria


del suo processo creativo.

Facciamo un esempio per chiarire: osservando la tua interiorità senti emergere il


pensiero “non ce la faccio” di fronte a un qualche tipo di attività che devi svolgere, con
tutto il bagaglio emozionale connesso.

Hai riconosciuto un trance.

Chiamalo suggestione post-ipnotica, questa è l’etichetta che puoi dare a questo pensiero
e al suo aspetto emotivo.

Il passo seguente è di ricrearlo più e più volte.

Lo stesso pensiero, non una credenza contraria.

Ricrea consapevolmente e intenzionalmente la suggestione post-ipnotica “non ce la


faccio.” Rifallo ancora. Intensifica le emozioni che senti. Non cercare di andare dalla
parte opposta inculcando affermazioni positive del tipo “ce la farò sicuramente”, sarebbe
un altro trance messo sopra quello originale, facendoti rimbalzare nel flipper perpetuo
del dualismo mentale.

Serve riappropriarsi del processo creativo, per questo il secondo step è quello di
intensificare, alterare o modificare l’esperienza che stai creando.

Riassumendo sinteticamente:

1. Osserva il contenuto mentale, notando l’andirivieni di pensieri, idee, ricordi,


immagini, dialoghi interiori ed emozioni associati.
2. Distaccati assumendo la posizione del testimone consapevole.
3. Inizia a etichettare ogni pensiero, immagine, emozione o idea come fenomeno di
trance (vedi l’elenco seguente).
4. Con questo processo di differenziazione (etichettamento) dalla massa diffusa degli
stati di trance emerge in modo evidente il fenomeno di trance principale.
5. Crea consapevolmente, consciamente, intenzionalmente il fenomeno di trance
profonda che sta già accadendo.
6. Ripeti l’atto creativo finché senti che hai pieno controllo del processo creativo.

Vediamo ora brevemente, uno per uno, quali sono i fenomeni di trance.

Regressione d’età

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La regressione d’età e probabilmente il fenomeno di trance più frequente. È
l’interpolazione di una esperienza passata congelata nel tempo con la realtà
presente. L’individuo non può avere una adeguata esperienza del tempo presente,
perché è distorto da questa proiezione di esperienze passate. Sono attuali riattivazioni
di stati mentali provati in precedenza e non influenzati dai pattern mentali acquisiti dopo
le esperienze originali.

Pseudo-orientamento nel tempo


Questo trance è l’opposto del precedente. Lo scopo di questo fenomeno di trance è la
proiezione di se stessi nel futuro, quando un ambiente immaginario più piacevole ci
proteggerà. Ci distrae dalla stressante e continua interazione presente. Tutti noi usiamo
lo pseudo-orientamento nel tempo per immaginare il nostro futuro in colori più brillanti
rispetto a quello che appare il nostro momento presente. Ogni qual volta entriamo in
questi tipi di fantasie, siamo in un fenomeno di trance, e di per sé non rappresenta un
problema. Diviene un problema quando impedisce la nostra abilità di affrontare le
questioni presenti, quando cioè la persona vive costantemente in un mondo di fantasia
separato dalla realtà presente.

Dissociazione
La dissociazione è usata per demarcare “comparti” della psiche della persona in unità
separate. La persona isola alcuni input sensoriali (interni o esterni) perché sono
troppo intensi. Il risultato a breve termine è che il processamento di quelle informazioni
è bloccato, con la conseguenza a lungo termine di avere quella specifica via di
elaborazione sensoriale bloccata dalla resistenza e isolata dalla mente funzionale. La
dissociazione può essere esperita in queste tre modalità:

La dissociazione da una sensazione, sentimento o emozione interiore.


La dissociazione da una parte del corpo (genitali, arti, voce, muscoli ecc)
La dissociazione da uno stimolo esterno.

Il caso estremo è quello della personalità multipla, dove si alternano al comando della
persona identità e vere e proprie strutture di personalità dissociate una dall’altra. In
questo caso le parti dissociate si uniscono a formare un’unità più grande con un
funzionamento autonomo. L’effetto della dissociazione può essere così profondo che il
corpo fisico della persona davvero subisce cambiamenti notevoli e misurabili quando la
personalità va e viene. Senza spingersi a questi estremi, l’ingrediente della dissociazione
è presente in forma minore in moltissimi stati di trance.

Suggestione post-ipnotica
Una suggestione è una credenza, un’identità, un modo di funzionamento
automatico che è acquisito dall’esterno, senza l’intervento consapevole di chi lo riceve.
In questo caso la suggestione è definita post-ipnotica perché avviene dopo che il trance è
messo in automatico. Nella sua fase formativa il bambino si adatta al suo ambiente
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familiare interiorizzando le suggestioni post-ipnotiche dei genitori. Queste sono
messe in automatico: significa che il bambino, adolescente e giovane adulto continua ad
auto-suggerirsi comportamenti limitanti fuori dal contesto.

Un esempio banale: un bambino che riceve una suggestione dai suoi genitori del tipo “sei
uno stupido”, la acquisisce e la mette in automatico, agendo e concretando questa
identità oppure resistendola e facendo di tutto per dimostrare a se stesso e al mondo
che non è uno stupido. Il secondo modo di reazione non è necessariamente migliore
dell’altro, perché anch’esso implica la necessità di mantenere viva e funzionante la parte
resistita, non voluta, cioè l’identità di stupido. La vera libertà è conquistata quando
l’individuo va oltre la suggestione e sceglie intenzionalmente e consapevolmente da
quale identità agire.

Amnesia
In termini psicologici questo trance è spesso definito come negazione. Significa negare
l’esistenza di qualcosa di evidente che sta accadendo ora oppure il non ricordare
eventi specifici che sono accaduti in passato (non necessariamente remoto). Un esempio
classico è quello di un marito che vive con una moglie che lo tradisce (o viceversa). La
cosa è sotto gli occhi di tutti, tutti lo sanno, la sua casa è piena di indizi che indicano,
eppure lui non li vede, o per meglio dire, non li vuole vedere. L’occhio vede gli indizi ma
la mente li nega. Un altro esempio è quello di una persona che ha subito una violenza in
passato e che isola i ricordi dell’evento dalla propria memoria consapevole.

Ipermnesia
È il trance opposto di quello precedente. Si tratta di uno stato di ipervigilanza in cui la
persona è costantemente allerta ed elabora in modo frenetico tutti gli input che riceve.
L’ambiente è percepito come minaccioso, per cui la persona si protegge aumentando il
suo grado di allerta. Per proteggersi dalla minaccia di un ambiente instabile, il bambino
sviluppa quella che è chiamata “dimenticanza resistita”, cioè resiste il dimenticarsi degli
eventi che gli sono accaduti. Sembrerebbe a prima vista come un funzionamento
cognitivo favorevole, costruttivo. In realtà non è così, è altamente disfunzionale. Si tratta
più subdolo trance che può sfociare, nei casi più estremi, in una patologia paranoide.

Allucinazione negativa
Negativa non è un giudizio di valore. Allucinazione negativa significa che si toglie
qualcosa all’elaborazione della realtà così com’è nel momento presente. Cerco sul
bancone di lavoro il cacciavite, che è proprio lì davanti al mio naso, ma non lo vedo. Il
segnale visivo che riceve l’informazione del cacciavite arriva in ingresso ai miei organi di
senso (cioè l’occhio vede il cacciavite), ma a livello mentale questa informazione non è
elaborata, non diviene consapevole. Questo trance può essere di tre tipi: visivo,
uditivo o cinestetico (o una combinazione di questi tre).

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Allucinazione positiva
Anche in questo caso, positiva non significa che è benefica. Significa che ai dati della
realtà presente sono sovrapposti elementi immaginati e percepiti come reali. Il
caso estremo è quello della psicosi, in cui la persona vede, ode e sente oggetti o persone
che non esistono e li percepisce come reali. Senza spingersi fino a questi estremi
patologici, il trance comune quotidiano dell’allucinazione positiva potrebbe essere quello
del fantasticare, cioè dell’immaginare la realtà diversa da quella che è. Quando si parla
di trance si parla di un continuum, cioè una scala di gradazione che sfuma da un
estremo all’altro. Il fantasticare può essere funzionale, come ad esempio fantasticare
per trovare la soluzione a un problema attuale. Diventa un problema (un trance) quando
l’individuo non è più in grado di interrompere il processo e inizia a confondere la sua
fantasia immaginata (allucinazione positiva) con la realtà del presente.

Confusione
La confusione è un trance in cui la persona perde il contatto con la realtà che lo circonda,
o con la sua realtà interiore. Il suo spazio percettivo diviene nebuloso, offuscato.
L’impressione soggettiva è quella di non riuscire a elaborare i dati in ingresso in quel
momento. Si potrebbe dire che il sistema va in tilt. Lo stato di trance della confusione è
originato, come tutti gli stati di trance, come uno schermo che bambino pone dal vivere
pienamente un’esperienza che per lui è sopraffacente. Inizialmente il bambino resiste
l’esperienza, e da questa resistenza generalizzata (quindi non specifica a un canale
sensoriale o a un elemento presente nella realtà) emerge uno stato globale di
confusione e disorientamento.

Si tratta in effetti di uno stato di transizione: da questa confusione il bambino


condenserà delle identità reattive, dei modi di risposta alla situazione contingente,
che saranno mantenute anche nella vita adulta (almeno fino a quando il trance non è
riconosciuto e smantellato).

Distorsione temporale
Il tempo dell’orologio e il tempo vissuto soggettivamente sono molto diversi; penso
che questa sia un’esperienza che è stata vissuta da chiunque. Quando ti trovi in una
situazione sgradevole, sembra che il tempo rallenti e che l’esperienza non finisca più.
Quando ti trovi in una condizione piacevole, il tempo vola. Quello che mette in moto il
meccanismo è la resistenza all’esperienza che sta accadendo. Maggiori sono le
resistenze messe in atto, maggiore è l’effetto di distorsione temporale nel verso del
rallentamento. Viceversa, più la persona è aperta e lascia fluire l’esperienza, più questa è
vissuta rapidamente (in senso soggettivo). È un effetto paradossale del meccanismo della
resistenza: chiudersi all’esperienza è proprio quell’elemento che fa sì che
l’esperienza diventi lunghissima soggettivamente. L’intenzione originale, resisto
l’esperienza perché non la voglio, desidero che cessi immediatamente, ottiene proprio
l’effetto contrario.
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Il meccanismo psico-fisiologico che mette in atto il rallentamento è in modo evidente e
reversibile legato al corpo della persona. Per resistere l’esperienza, la persona rallenta o
blocca il respiro e contrae i muscoli. Per invertire il processo, una volta riconosciuto il
trance, è possibile agire in senso opposto, partendo cioè dalla respirazione e dalle
contrazioni muscolari per togliere progressivamente queste resistenze in-corporate.

Sogno ipnotico
Il sogno ipnotico è il classico “sogno ad occhi aperti”. La persona fantastica riguardo
mondi e situazioni immaginari e questo “film” si frappone fra l’individuo e
l’esperienza della realtà attuale. Il sogno ipnotico procede in automatico e fuori dal
controllo cosciente dell’individuo.

Anche questo meccanismo cognitivo, come abbiamo visto parlando dell’allucinazione


positiva, non è necessariamente disfunzionale. Il fantasticare e immaginare situazioni
diverse da quelle attuali può essere parte di una intenzionalità progettuale; non per
niente i pionieri, in qualsiasi campo, sono chiamati visionari. Sono visionari perché
vedono una realtà che ancora non c’è e poi fanno di tutto per concretarla sul piano fisico
o relazionale. Questo è un meccanismo altamente funzionale e creativo. Dall’altra parte
del continuum c’è il trance vero e proprio: la persona è persa in questo sogno ipnotico,
che diventa uno schermo rispetto alla realtà presente, un rifugio, un mondo parallelo
fantasticato in cui finalmente tutto sarà risolto. I due elementi che lo contraddistinguono
dunque sono l’automatismo inconsapevole e il fatto che la persona non agisca per
concretare le sue fantasie, che rimangono appunto tali, completamente scollegate dalla
realtà.

Distorsione sensoriale
La distorsione sensoriale avviene quando un input sensoriale è attenuato
(desensibilizzazione) oppure accentuato nella sua intensità (sovra-
sensibilizzazione). Si tratta, come tutti gli altri trance, di un meccanismo protettivo che
serve a impedire il processamento di stimoli fuori portata. Il meccanismo psico-
fisiologico può seguire questi due andamenti:

Stimolo non voluto – resistenza – smorzamento del sentire, in quello specifico


canale sensoriale o parte corporea o ambiente fisico.
Stimolo doloroso – restringimento del focus di attenzione sullo stimolo –
amplificazione dello stimolo a discapito di tutto il resto del campo di coscienza.

13/18
I trance associati
Abbiamo visto con una sintetica carrellata le tipologie dei trance che avvengono
comunemente. È importante comprendere che raramente un trance è messo in atto per
conto suo, spesso si trovano associati in cluster, cioè assemblati in gruppi di più
trance.

I trance generalmente funzionano in associazione e in sovrapposizione reciproca.

Per esempio il sogno ipnotico può essere associato alla regressione di età.
L’allucinazione negativa all’amnesia. E via dicendo in una varietà infinita di
combinazioni e di sfumature di intensità. Per interrompere gli automatismi è
importante riconoscere anche queste associazioni lineari.

Si inizia differenziando un trance alla volta. Dalla massa indistinta dei trance si
riconosce e si interrompe quello più evidente. Avendo la chiarezza di uno poi emerge
quello sta sotto, o quello che l’ha preceduto temporalmente nella catena
associativa.

A volte anche il riconoscimento di un singolo trance è sufficiente a far crollare tutto


l’impianto. Se agli ingredienti di una torta togli la farina, cucinerai qualcosa che non sarà
una torta, sarà qualcos’altro. Hai cambiato la ricetta perché hai tolto un ingrediente, cioè
un trance. Nonostante questo cucinerai ancora qualcosa. Continui a togliere ingredienti
finché non cucini più nulla, cioè finché sei in completa aderenza al momento
presente e hai una operatività consapevole in tutti i meccanismi cognitivi funzionali.

Riconoscere gli inneschi


Tanto quanto è importante riconoscere e differenziare i vari tipi di trance che ti
accadono, è importante anche riconoscere quale evento, situazione o circostanza dà il
via al funzionamento automatico del trance.

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Lo chiameremo innesco. Si tratta dell’interruttore che avvia il meccanismo reattivo del
trance.

Originariamente l’evento innesco è molto specifico, legato alla situazione sopraffacente


non integrata. Man mano che l’automatismo comincia a funzionare in modo
indipendente, l’innesco diviene generalizzato sempre di più.

L’innesco del trance inizialmente è molto specifico, poi tende ad essere generalizzato a
varie circostanze e eventi.

Facciamo un esempio banale e altamente semplificato. Se una bambina subisce un


abuso da un uomo con la barba nera, quando entra poi in contatto con altri uomini con
la barba nera, dentro di lei sono riattivati tutti i meccanismi difensivi che lei ha creato
durante l’evento originale. Sono innescati i vari trance. Poi questo innesco può essere
generalizzato, per cui ogni uomo che la bambina / adulta funge da innesco per i trance.
La bambina non entra in relazione con gli uomini perché ogni uomo ormai è divenuto
simbolicamente la persona che l’ha fatta soffrire.

Il meccanismo di generalizzazione ha questa dinamica:

1. L’innesco è interiorizzato durante l’esperienza originale resistita.


2. L’innesco è resistito perché ha causato dolore o perché è minaccioso.
3. La resistenza tiene attivo l’innesco interiormente.
4. L’innesco resistito è proiettato esteriormente.
5. L’innesco è generalizzato su molteplici contesti.

È importante, nel riconoscere gli inneschi dei trance ti accadono ora, compiere il
percorso inverso di questo meccanismo di generalizzazione. Riconoscere l’innesco
generalizzato e ricondurlo a qualcosa di sempre più specifico.

Anche qui, quello che ci interessa è il processo, non il contento. Non importa tanto il
recupero globale dell’evento originale, bensì è importante riconoscere l’innesco specifico
che – ora – dà il via al trance (o ai trance).

Recuperare il contesto inter-relazionale: la diade


Come abbiamo visto i trance sono creati in un contesto di tipo relazionale e poi sono
interiorizzati: da inter-personali divengono intra-personali.

Quello che è mancato, nel momento della genesi del trance, è il riconoscimento
dell’individuo consapevole da parte degli altri che erano in relazione con lui.

Il riconoscimento dell’individualità consapevole da parte di un altro individuo mantiene


l’individuo nel presente della relazione. Di fronte ad un evento affrontato con questo
tipo di riconoscimento, non si creano trance, perché l’individuo è tenuto qui e ora
dalla consapevolezza dell’altro.

15/18
L’esperienza è vissuta e integrata, senza che lasci residui. L’ingrediente che sta
all’origine del trance è la mancata relazione da individuo a individuo. La colla che
tiene assieme i trance e li rende automatici è la mancanza di consapevolezza da parte di
chi ha subito un evento senza essere ancorato dalla consapevolezza dell’altro.

Questo meccanismo, che può a prima vista suonare astratto e metafisico, è invece
altamente concreto e operativo. È possibile utilizzarlo per integrare le esperienze
sospese e per divenire consapevoli dei trance.

Il contesto inter-relazionale che è mancato durante la formazione del trance è il solvente


che scioglie il trance nel presente.

Due individui in relazione, uno di fronte all’altro, che si donano attenzione


consapevole, da individuo a individuo. Uno parla e l’altro ascolta, con il fine di creare
comprensione. È la diade relazionale, un potente strumento per la crescita della
consapevolezza di sé e dell’altro.

Ricevere attenzione pura, in un ponte di relazione da individuo a individuo, ci ancora


nel presente e ci consente di stare di fronte a quel sentire resistito, e poi di integrare
il vissuto.

Comunicare il vissuto e sentirsi compresi dall’altro mette in atto il vero e proprio


processo di differenziazione e integrazione.

Da leggere: La mindfulness nella diade relazionale

Differenziare e integrare
Il lavoro con i trance è impegnativo ma molto efficace per l’emancipazione individuale.
Riconoscere e disinnescare il funzionamento automatico dei trance permette di
riacquisire pieno possesso delle funzioni cognitive funzionali, che stanno sul versante
“non patologico” del continuum dei trance.

16/18
La regola d’oro, come in ogni processo di crescita in consapevolezza, è quella di
differenziare e integrare. Detto in altro modo: trascendere e includere.

Il riconoscimento di un trance è il processo di differenziazione.

Da una massa indistinta di processi diviene evidente qualcosa di specifico. Finché è


indistinto, non lo posso conoscere, non ne posso divenire consapevole. Nel momento in
cui lo riconosco, lo vedo, e ne sono consapevole, non sono più io, ma è qualcosa che
posso osservare, conoscere e modificare.

Se è in atto un processo automatico significa che esiste una identificazione con il


processo. L’atto di riconoscere il processo e di divenirne consapevole ne smantella
l’identificazione.

Inoltre diviene evidente anche che il trance era creato da me . C’è un riappropriarsi di
quella funzione prima automatica. Questa è l’integrazione.

La funzione prima impiegata in modo inconsapevole e reattivo ora diviene operante


secondo la volontà dell’individuo, viene integrata.

Prima di integrarla è però necessario differenziarla.

Pensare di integrare una funzione senza prima rompere l’identificazione con il processo
automatico, significa mettere un altro strato di vernice: non funziona perché è una
compensazione, e perché quello che sta sotto è più forte, più antico.

Prima di integrare una funzione cognitiva è necessario differenziarla interrompendo i


processi automatizzati.

Come in tutti i processi di crescita, serve prima una parte de-costruttiva e poi una
costruttiva. Non serve distruggere, non serve fare battaglie con la propria mente. È
necessario però de-costruire.

L’atteggiamento più funzionale è quello di apertura e di curiosità nel ri-conoscere quali


sono i processi con cui costruiamo la nostra realtà soggettiva.

Il fine è di emanciparsi, cioè di interrompere i processi automatici e di giungere alla fine


dei trance (trance-end).

Proprio con questi due elementi, con la curiosità e con il fine di emanciparti, ti invito a
iniziare questo splendido processo di auto-conoscenza.

Ti invito a condividere le tue scoperte e le tue conquiste, qui nei commenti o tramite i
social. Sono fonti preziose di comprensione per tutti quelli che le leggono e anche per te
che le condividi.

Bibliografia
17/18
Stephen Wolinsky – Trances people live
Silvano Brunelli – Nel labirinto della mente

Photo credit

Lenti occhiali: Redd Angelo


Occhio in trance: Karl Birrane
Diade relazionale: Saul Mozzi [Model: Greta Perotti]

18/18
La consapevolezza multidimensionale per la realizzazione
dell’unità [Rubrica]
essereintegrale.com/consapevolezza-multidimensionale-realizzazione-unita

Agostino Famlonga

Questo articolo è il primo di una serie che affronterà un tema fondamentale della
ricerca: la multidimensionalità. Si tratta dell’aspetto fondamentale che può
consentire all’individuo di stabilizzare in modo permanente la consapevolezza non-duale.

La perdita dell’esperienza
Il primo passo della ricerca spirituale è scoprire chi sei tu, cioè avere la conoscenza
diretta e integrata della natura illimitata della consapevolezza. Il secondo passo è
stabilizzare quell’esperienza e renderla costante nel tempo. Il fine perseguito è
passare da una verità esperienziale a una verità esistenziale.

Mi azzardo a dire che il primo passo è relativamente semplice. Con gli strumenti oggi a
nostra disposizione, come l’intensivo sull’essere consapevole, questa conoscenza diviene
accessibile a chiunque sia realmente intenzionato ad affrontare questa ricerca e abbia il
coraggio per farlo. Il risultato non è scontato, certo non è una passeggiata, ma è
comunque accessibile.

Stabilizzare la consapevolezza non-duale significa passare dalla verità esperienziale a


quella esistenziale.

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Il secondo passo è molto più impegnativo di quello che sembra; il percorso non è lineare
ed è molto più lungo di quello necessario per toccare la singola esperienza non-duale. Le
vette di consapevolezza durano per un certo tempo poi si perdono quando entri in
contatto con la quotidianità. È un vissuto piuttosto comune. A una prima analisi pare
che per mantenere stabile quella chiarezza della consapevolezza sia necessario ritirarsi
dal mondo e rifugiarsi interamente nella dimensione della consapevolezza. In effetti, un
tempo questa era la soluzione che veniva proposta. Si trattava di una falsa soluzione.
Spesso, entrando in contatto con il mondo “vero”, anche coloro che si ritirano dalla vita e
sembrano aver stabilizzato la loro esperienza si scontrano con la loro parte non integrata
che torna prepotentemente a galla. È evidente che, tranne alcuni rari casi, si tratta di un
ritirarsi dal pericolo, uno scappare dal mondo vissuto soggettivamente come
sopraffacente. In sostanza, in questo frangente, mancano le conoscenze e le abilità per
vivere nel mondo mantenendo stabile la consapevolezza non-duale.

Soluzione: la consapevolezza funzionale


La vera soluzione a questo problema giace nello sviluppo della consapevolezza
funzionale.

Per consapevolezza funzionale si intende la modalità naturale di funzionamento della


consapevolezza, quando cioè è in grado di spostarsi liberamente in ognuna delle
dimensioni dell’esistenza. Su una in particolare, su tutte contemporaneamente,
oppure su nessuna, riassorbendo tutta l’attenzione nella sua stessa natura
consapevole. Userò in modo intercambiabile il termine consapevolezza funzionale e
consapevolezza multidimensionale, in quanto rappresentano il medesimo principio
operativo.

La consapevolezza è funzionale quando può posarsi liberamente in ogni dimensione


esistenziale.

Per realizzare la consapevolezza funzionale serve indagare sia dove la consapevolezza è


inibita, cioè dove ci sono le aree cieche, sia dove invece l’attenzione diviene fissata in
modo compulsivo, cioè dove rimane incollata senza che abbia possibilità muoversi. Il fine
di questa indagine è di avere accesso alle aree prima inviolabili e di liberare la
consapevolezza e l’energia intrappolate nelle aree che incollano l’attenzione.

Lo faremo tramite lo studio della multidimensionalità. Serve discernere una per una ogni
dimensione esistenziale indagando con curiosità entrambe le polarità: ciò che è inibito e
ciò che è fissato.

Per approfondire >> Libro “Nel labirinto della mente” di Silvano Brunelli

Perché? Il collasso delle dimensioni

2/9
Perché accade che le dimensioni non siano separate in modo netto e che al loro interno
ci siano delle zone oscure o delle fissazioni? L’origine di questo fenomeno è il collasso
delle dimensioni.

Per collasso delle dimensioni si intende la con-fusione di una dimensione con


un’altra (o di più dimensioni assieme) a causa di una mancata capacità dell’individuo
di stare di fronte ad un evento specifico.

Nella fase evolutiva, ogni qual volta l’individuo si trova a dover affrontare un evento che
non è in grado di sostenere, avvengono una dissociazione dalla parte insostenibile e
un collasso delle dimensioni interessate.

Ogni dimensione ha un funzionamento specifico e dei bisogni che richiedono essere


soddisfatti nella maniera corretta. Se questo non avviene, nel tempo e nella modalità
idonea, i livelli sono con-fusi, così come le loro funzioni e i loro bisogni specifici.

Il collasso delle dimensioni è la con-fusione di una dimensione esistenziale con un’altra.

Un semplice esempio può essere utile per chiarire. Un bambino sente una forte
emozione (dimensione emozionale) e ha bisogno che sua madre lo contenga e lo
riconosca in questo suo disagio. La madre non è in grado in quel momento di
riconoscere il suo bisogno, e aspetta. Il disagio emozionale cresce e va oltremisura. Il
bambino piange disperato e la madre si accorge che qualcosa non va. Lo prende in
braccio, e non riconoscendo il suo bisogno di essere semplicemente accolto nella sua
emozione andata fuori controllo, pensa erroneamente che il bambino abbia fame. Gli da
un biberon di latte che gli riempie lo stomaco (dimensione biologica). Le due dimensioni
vengono in questo modo con-fuse: quando il bambino crescendo sentirà disagio
emozionale, sarà portato a compensarlo mangiando in modo compulsivo per placare
l’emozione. Nella dimensione emozionale ci sarà una parte inaccessibile, e nella
dimensione biologica ci sarà un’attenzione fissa, incollata.

Si tratta di un esempio stringato e molto semplificato, lo scopo non è quello di essere


tecnicamente completo ma quello di far comprendere come sia facile che le dimensioni
collassino. Tutti abbiamo, chi più chi meno, delle dimensioni collassate o fuse tra di loro.

Serve ridare a ogni dimensione la sua piena funzionalità. Per farlo, il primo passo è
riconoscere l’esistenza di ogni dimensione. Il secondo passo è quello di conoscerla
completamente e infine di rispettarla nei suoi principi di funzionamento e nei suoi
bisogni.

Le dimensioni esistenziali
Le dimensioni che affronteremo in questa rubrica sono sei. Ognuna ha il diritto di essere
riconosciuta, differenziata e integrata con le altre nella consapevolezza funzionale. Non
esiste una dimensione che è più importante delle altre, sono equivalenti tra di loro.

3/9
Dimensione Esteriore
Dimensione Biologica
Dimensione Emozionale
Dimensione Mentale
Dimensione Collettiva
Dimensione dell’Essere consapevole

Vediamole ora brevemente, una per una. Saranno toccate in modo dettagliato nei
prossimi articoli della rubrica. Nel frattempo, se vuoi approfondire queste brevi
descrizioni, poi leggere, all’interno del Sistema Operativo non-duale, i moduli relativi ai
Quadranti e all’Essere consapevole.

Dimensione Esteriore

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La dimensione esteriore è quella fisica, oggettiva, materiale, tangibile. È quello che
tutti definiamo realtà concreta, misurabile con gli strumenti di misura e investigabile
tramite la scienza empirica. Apparentemente sembra scontata e “semplice” da capire, ma
vedremo come il meccanismo psicologico di proiezione e di co-costruzione della
realtà crei un vero e proprio velo di interpretazione soggettiva anche sulla
dimensione oggettiva.

Dimensione Biologica

La dimensione biologica è la parte animale dell’essere umano. Si compone del sentire


somatico-corporeo legato al sistema nervoso, delle sue funzioni biologiche come il
mangiare e il dormire, la sessualità, il defecare e orinare. Comprende anche il
meccanismo reattivo primordiale di attacco-fuga.

Dimensione Emozionale

L’aspetto emozionale dell’essere umano con i suoi stati emozionali quali rabbia, felicità,
tristezza, paura ecc… Ogni stato emozionale ha un correlato psico-energetico
specifico, che dirige l’energia integrativa. L’emozione è l’energia che dirige, organizza,

5/9
amplifica e modula l’attività cognitiva. Le emozioni possono essere considerate
cambiamenti nello stato di integrazione.

Dimensione Mentale

La dimensione mentale pensate, includendo nel concetto di pensiero anche le


immagini, i concetti, le associazioni, i ricordi, le credenze e i giudizi ecc…

Dimensione Collettiva

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La dimensione individuale ha una controparte collettiva. Non potrebbe essere altrimenti:
così come non può esserci un interiore senza un esteriore, così non può esserci un
singolare senza un collettivo. Questa dimensione comprende l’aspetto culturale e
sociale che plasma in modo invisibile la costruzione della realtà soggettiva
individuale.

Dimensione dell’Essere consapevole

L’ultima dimensione è quella della consapevolezza. Non ha forma, non ha


caratteristiche definibili. Si può dire che la sua unica caratteristica definibile sia
l’assenza di definizione. Essa permea tutte le dimensioni viste finora. Con la sua
sostanza intangibile compenetra e rende reale ogni aspetto dell’esistenza. La
consapevolezza opera tramite il principio di unione, di non-dualità. Si manifesta come
un campo indifferenziato (non-duale) privo di limiti e confini, percepito come
soggettivamente assoluto.

L’equivalenza delle dimensioni esistenziali


Il principio di equivalenza delle dimensioni esistenziali è fondamentale, e sarà ripreso
continuamente durante tutti gli articoli di questa rubrica. Supporre che una dimensione
sia gerarchicamente superiore a un’altra è un errore deleterio. È proprio questo tipo di
errore d’interpretazione che impedisce di avere una piena libertà dell’attenzione e di
stabilizzare la consapevolezza non-duale.

7/9
Le dimensioni esistenziali sono equivalenti: vanno differenziate ed integrate nella
consapevolezza funzionale.

Una mal interpretazione piuttosto diffusa è per esempio il confondere o porre


graduatorie nelle tre dimensioni interiori: biologica – emozionale – mentale. È vero che
queste tre dimensioni si sviluppano nell’essere umano in modo gerarchico. Dalla
biologia emergono la natura emozionale e il suo aspetto energetico integrativo, e tutto
questo sfocia nella complessità del pensiero. A tutti gli effetti, la mente è incarnata nel
corpo: le emozioni ne rappresentano l’aspetto integrativo e la sua componente somatica
corporea è il suo fondamento biologico. Ciò non significa però che il pensiero sia
superiore alle emozioni. In termini di complessità si trova sopra, ma queste due
dimensioni sono equivalenti. Così come quella biologica e quella emozionale tra di
loro. E così via con tutte le altre.

Il principio di non porre gerarchie è valido anche al contrario, non solo dall’alto verso il
basso. C’è un trend in continuo aumento negli ambienti di crescita che sostiene la
supremazia delle emozioni (o del sentire) rispetto al pensiero. “Non è come pensi, è come
senti.” Oppure “Segui le emozioni, non possono mai essere sbagliate.” Qui si vede
all’opera la gerarchia precedente al contrario. Essendo le emozioni più fondamentali
(stanno più in basso nella gerarchia) sono, in effetti, più semplici per quanto riguarda
la loro complessità strutturale. Possono essere più veritiere proprio per questa loro
intrinseca semplicità e per la loro spinta integrativa (vedremo più avanti questo
principio). Portato a un livello estremo questa visione vorrebbe togliere la dimensione
del pensiero all’essere umano e renderlo un animale (dimensione biologica) che sente e
prova emozioni (dimensione emozionale) e basta. Anche in questo caso, come nel
precedente, il principio dell’equivalenza delle dimensioni non è rispettato.

Questo esempio rappresenta una tipica fallacia pre-trans nelle due varianti, dal basso
verso l’alto e dall’alto verso il basso.

Ogni dimensione ha il diritto di esistere e di svolgere le sue funzioni. La


consapevolezza funzionale che stiamo cercando di conquistare permette alla
dimensione biologica di svolgere tutte le sue funzioni vitali, un pieno sentire delle
emozioni e alla dimensione mentale di svolgere la sua funzione di elaborazione e
integrazione delle informazioni. Tutto contemporaneamente, senza intoppi, intralci
o con-fusioni. L’attenzione è libera di spostarsi su ognuna delle dimensioni
singolarmente, su tutte contemporaneamente, oppure su nessuna di esse (l’attenzione
può rivolgersi su se stessa in un circuito chiuso che si autoalimenta).

Come sviluppare la consapevolezza multidimensionale


Questa rubrica passerà in rassegna una per una tutte le dimensioni. Per ognuna saranno
illustrati i principi operativi, le caratteristiche e i bisogni. La conoscenza teorica sarà il
fondamento per degli esercizi di tipo pratico. Ti saranno forniti, per ogni dimensione,
dei semplici esercizi per approfondire in modo esperienziale la conoscenza della

8/9
dimensione. Il tempo che intercorre tra un articolo e l’altro ti darà l’opportunità di poter
sperimentare e di iniziare a integrare la dimensione per poi passare a quella seguente.
Nel frattempo potrai sfruttare i commenti qui sotto per condividere la tua esperienza o
per chiedere chiarimenti e toglierti ogni dubbio. I commenti possono essere fonte di
scambio di opinioni tra tutti i lettori e fornire preziosi spunti per tutti.

Liberare e integrare ogni dimensione nella consapevolezza funzionale facilita la


stabilizzazione della consapevolezza non-duale. Questo è ciò che ti auguro. Non è solo un
augurio, è un’intenzione. La troverai travasata qui, su essere integrale, in ogni articolo e
in ogni commento. La troverai ai miei corsi, dove assieme potremo esplorare inediti spazi
di crescita. Ti attendo al prossimo articolo di questa rubrica, in cui affronteremo la prima
tappa per lo sviluppo della consapevolezza funzionale: la dimensione esteriore.

Bibliografia

Stephen Wolinsky – The way of the human vol I


Silvano Brunelli – Nel labirinto della mente

9/9
Gli effetti della meditazione: libertà e pienezza
essereintegrale.com/effetti-della-meditazione-liberta-pienezza

Agostino Famlonga

Quando ti sei avvicinato alla meditazione, l’hai fatto per un motivo. Oppure, se ancora
non hai iniziato a meditare, stai leggendo questo articolo per capire quali benefici ne
potresti ricavare.

Potrebbe essere semplice curiosità. Oppure potresti essere mosso da un disagio di


fondo, e senti che dalla meditazione potresti trarne sollievo.

Ancora: potresti cercare nella meditazione una via di fuga da una contesto di vita che
ti respinge.

Oppure potresti essere mosso da una autentica spinta alla ricerca interiore.

La spinta a conoscere la dimensione della consapevolezza è la motivazione più sana


che può iniziare il ricercatore nella sua pratica.

Quale che sia il motivatore iniziale, per proseguire con costanza nella pratica è
necessario avere bene in mente il fine della meditazione. Il fine visto in senso ampio
comprende anche gli effetti della meditazione.

Gli effetti della meditazione non sono il fine in sé, ma nemmeno effetti collaterali da
ignorare. Sono segnali che ti indicano se stai proseguendo nella giusta direzione.

Il fine della meditazione


1/8
La pratica della meditazione ha lo scopo di elevare la consapevolezza dell’individuo.

Cosa significa elevare la consapevolezza dell’individuo? Questa affermazione ha due


sfaccettature che si intersecano: una te la presenterò subito, l’altra sarà svelata più
avanti nell’articolo.

Elevare la consapevolezza significa liberare la consapevolezza dalla struttura di


coscienza nella quale è inserita. La coscienza, come è intesa ordinariamente, non è
pura consapevolezza, ma consapevolezza incarnata in una struttura
psicologica [vedi il modulo strutture di coscienza]. La struttura di coscienza dà forma al
contenuto fenomenico che appare alla coscienza. Consapevolezza e struttura sono un
sistema interagente, una gestalt. La meditazione consente alla consapevolezza di
uscire progressivamente da questa fusione, fino ad arrivare, nello stadio finale, a
recidere completamente questa connessione.

Elevare la consapevolezza significa liberarla dalla struttura di coscienza nella quale è


inserita.

La consapevolezza diviene nel percorso meditativo sia l’obiettivo da raggiungere che il


tramite con il quale è possibile conseguirlo. Rappresenta il fine ultimo e anche il mezzo: si
medita infatti con l’attenzione, che è l’organo di senso dell’individuo consapevole.

Da leggere: Gli stadi della meditazione

Un percorso tra gli stati di coscienza


La pratica meditativa consente all’individuo di portare consapevolezza tra gli stati di
coscienza. Il baricentro della vigilanza consapevole si sposta sull’asse degli stati.

Uso il termine vigilanza per non confonderlo con lo stato di veglia. Si tratta di due
elementi differenti.

Inizialmente c’è un risveglio della consapevolezza nello stato di veglia. Nella veglia
ordinaria la consapevolezza è carpita dalle impressioni sensoriali e dalla mente pensante.
La meditazione consente di accendere la consapevolezza testimoniante e di mantenerla
per un tempo prolungato durante le normali attività.

2/8
Quando questa viene rinforzata in modo adeguato, il baricentro si sposta nello stato di
sogno. Significa che la lucidità conquistata durante il giorno diventa accessibile anche
durante lo stato di sogno. La mente sogna, e la consapevolezza è lucida e risvegliata.
Non si tratta di due fenomeni che si escludono, anzi possono essere integrati. È proprio
quello che accade nella progressione degli stadi meditativi.

La progressione continua poi nello stato di sonno senza sogni . In questo stato non c’è
contenuto di coscienza, nessun sogno, niente che appare alla coscienza. Si entra nel
dominio causale. Eppure, anche qui, pur non essendoci un contenuto, la consapevolezza
può essere lucida e risvegliata. Il baricentro ha fatto un altro passo.

Quando la vigilanza ha attraversato in progressione tutti gli stati di coscienza,


rafforzando e stabilizzando la sua testimonianza ininterrotta, integra tutti gli stati in
un abbraccio non-duale. Non-duale significa privo di separazione. Ogni elemento che
emerge nello spazio di consapevolezza, viene riconosciuto in modo equanime.

Più stati: più libero


Finché la consapevolezza è interconnessa alla struttura psicologica, l’individuo è in
qualche modo sotto il dominio della struttura. La sua capacità di scelta è in qualche
modo limitata, condizionata.

Più sono gli stati di coscienza attraversati consapevolmente più la consapevolezza è


liberata dalla struttura. Più la consapevolezza è sciolta dal vincolo della struttura,
maggiore è la libertà percepita soggettivamente. La vera libertà dell’individuo è

3/8
custodita nella sua consapevolezza, al di là di quelle che possono essere le condizioni
esteriori. La libertà interiore di essere chi si è, e di scegliere in base a questo.
Questo è il primo effetto della meditazione.

Più la consapevolezza è sciolta dal vincolo della struttura, maggiore è la libertà percepita
soggettivamente.

Strutture di coscienza
La seconda sfaccettatura che concerne l’elevare la consapevolezza è la crescita
verticale nelle strutture di coscienza.

La complessità della struttura determina il modo in cui l’informazione viene


elaborata.

Un aumento in complessità produce due effetti principali:

il modo in cui si vede il mondo cambia. Da un luogo pericoloso in cui è


necessario proteggersi e difendersi ad un luogo in cui trovare realizzazione e
compimento per mezzo di relazioni basate sull’equivalenza e sulla collaborazione.
sono disponibili più punti di vista. Nella crescita delle strutture di coscienza la
capacità di prendere prospettive diviene più ampia. L’individuo non è più
vincolato al proprio punto di vista ego-centrato ma acquisisce la capacità di
prendere il punto di vista di un altro. Ad ogni salto evolutivo si inserisce una nuova
prospettiva su quella esistente, in una complessità sempre maggiore. Prima quella
di un altro, poi di altri nel loro insieme, poi di altri nei conftronti di altri, poi di
sistemi nei confronti di altri sistemi, in un crescendo di prospettive incluse.

Più strutture: più pieno


La crescita delle strutture di coscienza è associata ad un senso soggettivo di pienezza
esistenziale.

4/8
Più sono le prospettive incluse più sono ampi i confini di ciò in cui è possibile
identificarsi. Più sono ampi i confini, più sono pieno . Una struttura ancorata alla
prospettiva egocentica, in prima persona, ha un confine limitato. Se questa cresce in
complessità, può abbracciare nel suo punto di vista una prospettiva etnocentrica: non
esisto solo io, ma anche il mio gruppo, e posso prendere il punto di vista di questo. E così
via, da etnocentrico a mondocentrico, e poi cosmocentrico: i confini si allargano, i sistemi
con cui ci si identifica crescono.

Strutture più complesse danno la possibilità di allargare i confini della propria


identificazione.

Prima, nel paragrafo relativo agli stati di coscienza, ho scritto che se la consapevolezza è
sotto il dominio della struttura, ne è in qualche modo limitata, condizionata. Ora invece
sostengo che più la struttura è complessa maggiore è la completezza esistenziale che
dona. Come si integrano questi due elementi? Le strutture sono da includere o da
trascendere?

Profondità o altezza?
L’aver attraversato tutti gli stati di coscienza nella progressione degli stadi della
meditazione ci mette in contatto con la profondità dell’essere.

5/8
Un gradino sul sentiero contemplativo porta ad una maggiore profondità esistenziale.

Una struttura di coscienza più complessa dona la capacità di vedere il mondo in modo
differente, una prospettiva che le strutture più semplici non sono in grado di prendere.
Non possono, perché l’apparato cognitivo non ha la complessità per farlo.

Metaforicamente possiamo pensare ad una


crescita in altezza evolutiva. Non più in
profondità dunque, come nella crescita negli
stati, ma in altezza.

L’evoluzione individuale comprende


entrambe queste direzioni: in profondità e
in altezza.

L’evoluzione in un senso non preclude l’altra,


anzi. Generalmente un avanzamento sul
sentiero contemplativo (meditativo)
permette al sistema cognitivo di salire di
uno/due gradini evolutivi nelle strutture di
coscienza. L’associazione non è matematica,
e per nulla scontata. È possibile infatti
completare l’intero percorso degli stadi della
meditazione e rimanere ancorati ad una
struttura di coscienza. Per esempio, quella
etnocentrica. Storicamente è successo più
volte e questo ha portato a drammatiche
conseguenze.

Viceversa, un incremento in complessità delle strutture generalmente non fa progredire


nella sequenza orizzontale degli stadi-degli-stati, se non nelle strutture più elevate,
transpersonali, dove le modalità di percezione sintetiche hanno molti elementi in
comune con lo stato non-duale.

Alla domanda “profondità o altezza?” si può dunque rispondere: tutte e due. Una
evoluzione completa comporta una crescita orizzontale, con l’obiettivo finale di
raggiungere la liberazione della consapevolezza , e una crescita verticale, con
l’obiettivo di includere e trascendere tutte le strutture, tutti i punti di vista .

L’evoluzione completa dell’individuo


La progressione orizzontale porta allo stadio non-duale, mantenuto in modo stabile e
duraturo nel tempo. Eppure questo nella sua sostanza è vuoto, completamente
privo di contenuto. Si raggiunge la libertà totale.

6/8
La progressione verticale porta allo stadio transpersonale in cui il senso di identità si
apre alle totalità sistemiche e si identifica con esse. Le modalità di percezione che
emergono sono di tipo sintetico, la vasta totalità con cui ci si identifica appare unificata
già in origine. Si raggiunge la pienezza esistenziale.

In passato questa conoscenza non era acquisita. Si pensava che l’evoluzione individuale
comprendesse esclusivamente il completamento del sentiero contemplativo. Le nuove
conoscenze integrano questa visione aggiungendo un tassello ulteriore: la crescita nelle
strutture.

7/8
Integrare la profondità dell’essere con la complessità della struttura porta a libertà e
pienezza: questi sono gli effetti della meditazione e della crescita della consapevolezza.
Questa è la visione finale che tiene il praticante sul percorso.

Integrare la profondità dell’essere con la complessità della struttura dona libertà e


pienezza.

L’individuo è chiamato a compiere entrambi questi percorsi, sia in altezza che in


profondità: a toccare le profondità dell’essere e mettere questo niente a comando di una
struttura in grado di veicolarlo nel divenire della forma.

8/8
Qual è la differenza tra uno stato di coscienza e uno
stadio di coscienza?
essereintegrale.com/differenza-stato-stadio-coscienza

Agostino Famlonga

DOMANDA: Qual è la differenza tra uno stato di coscienza e


uno stadio di coscienza?
Per comprendere questa differenza è utile rappresentare l’essere umano come un
elaboratore di informazioni. Gli input in ingresso dagli organi sensoriali sono elaborati
dal sistema nervoso per costruire la percezione soggettiva della realtà , sia essa
concernente la dimensione esteriore che a quella interiore.

Questa elaborazione può avvenire in modi semplici oppure più complessi, con
un’infinità di gradazioni nel mezzo e senza alcun limite nella crescita in senso verticale.

Nel suo sviluppo, l’essere umano passa da modalità di elaborazione delle informazioni
molto grezze, poco differenziate, a modalità sempre più differenziate e articolate. Sono
stadi di coscienza.

Possono essere chiamati strutture, o livelli.

Per approfondire » Sviluppo: la porta è sempre aperta

Questa definizione ne evidenzia la direzione evolutiva: dal più semplice al più


complesso. La direzione è sempre verso una maggiore complessità, sempre che non
avvengano danni o malattie degenerative al sistema nervoso.
1/3
Uno stadio di coscienza rappresenta la complessità con cui le informazioni sono
elaborate e integrate.

Uno stato di coscienza invece è una configurazione temporanea dell’elaborazione


dell’informazione.

A ogni stadio di sviluppo la struttura può elaborare le informazioni in modalità


differenti, senza che la complessità della struttura cambi.

Ad esempio, nello stato di veglia, sono elaborati e interpretati gli input sensoriali
esteriori, così come quelli interiori.

Nello stato di sogno invece l’elaborazione recide il collegamento con la dimensione


esteriore ed elabora, in modalità e con finalità diverse rispetto alla veglia, le informazioni
della dimensione interiore (biologica-emozionale-mentale).

La struttura è sempre quella (lo stadio), ma gli stati cambiano.

Gli stati di coscienza sono esperiti da tutte le strutture di coscienza.

Lo stato di veglia, di sogno e di sonno senza sogni, che sono i tre stati di coscienza
naturali, sono toccati da tutti in tutte le fasi di sviluppo.

Mentre al contrario, non tutti gli stadi di sviluppo vengono esperiti da tutti , si tratta
di una progressione evolutiva sequenziale e per nulla scontata.

Interazione tra stati di coscienza e strutture di


coscienza (Reticolo di Wilber-Combs)

Nel tempo cambia la complessità (lo stadio), ma gli stati sono sempre quelli.

Cambiando la complessità dell’elaborazione dell’informazione, cambia il vissuto


soggettivo all’interno di quello stato di coscienza.
2/3
Un esempio: un sogno vissuto da un bambino, che si trova ad esempio ad uno stadio di
sviluppo magico, pur essendo sempre un sogno è vissuto diversamente rispetto ad un
adulto che si trova (ad esempio) ad uno stadio di sviluppo razionale.

Per approfondire leggi i moduli del Sistema Operativo non-duale relativi agli Stati di
coscienza e alle Strutture di coscienza.

3/3
I pilastri della pratica di consapevolezza
essereintegrale.com/5-pilastri-pratica

Agostino
Famlonga

Sebbene i passi sul percorso evolutivo abbiano una progressione comune, impersonale,
le nostre differenze individuali ci impongono una personalizzazione degli strumenti a
disposizione.

La pratica di consapevolezza va calibrata individualmente: non esiste la ricetta


pronta che vada bene a chiunque. Innanzitutto esistono una moltitudine di tecniche. In
secondo luogo spesso queste tecniche coprono più aree di vita, e a volte ne escludono
altre. Una crescita che sia veramente tale deve coprire l’orizzonte della persona a 360°.
Altrimenti sarà una crescita parziale e frammentata, con la conseguenza di generare,
prima o poi, uno stallo.

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Un ampio catalogo di possibilità


Quando entriamo nel mondo della crescita, è normale provare più percorsi. La sete di
conoscenza ci spinge ad aprire la porta a più esperienze. La nostra energia, fresca e
sprizzante entusiasmo, spalanca gli orizzonti.

Dal mio punto di vista questo è un bene. È positivo testare sulla propria pelle cosa ci
piace e cosa no.

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Un po’ come quando si sceglie il compagno di vita: sei proprio sicuro che il primo
fidanzato sia quello giusto? Apparentemente sembra di sì: il primo innamoramento ti fa
vedere quella persona come unica, perfetta. Eppure, senza avere sulla propria pelle
esperienze diverse, non è possibile avere un confronto realistico. Si viaggia
nell’idealizzazione continua.

La stessa cosa avviene nel mondo della crescita personale e ancor più in quella
spirituale. Sei certo che il primo corso o ritiro che hai frequentato fornisca gli strumenti
ideali, proprio adatti a te? Può essere, a volte questo succede. Ma non sempre è così.

La selezione
Dopo la fase perlustrativa, più o meno lunga, avviene di solito la selezione. L’affinità
guida la scelta del percorso da intraprendere. Cosa guida questa selezione? Con quali
parametri hai scelto il tuo percorso?

Quello che è più affine alla tua personalità?


Quello che ti da più risultati?
Il percorso che ti risulta più facile e spontaneo?
Il percorso che costa di meno? O quello che è sotto casa?
Il percorso che è frequentato dai tuoi amici?

Sono solo alcuni esempi dei criteri che potrebbero essere entrati in gioco nella selezione
di un percorso di crescita. Spesso la scelta scaturisce da una combinazione di questi
elementi.

Purtroppo in questa scelta entra in gioco, soprattutto all’inizio, un elemento che spesso
è fuorviante: il senso di benessere. Scelgo il percorso che mi fa stare meglio. Se
sto bene significa che sono sulla strada giusta.

In questa prospettiva ogni esperienza che mi manda in crisi e che mi mette in difficoltà
viene bandita. Viene messa in atto una censura, consapevole o meno, rispetto a ciò che
sta oltre i limiti della zona di comfort.

Si tratta di una gabbia. È un recinto autocostruito che limita la propria crescita. La


crescita avviene laddove l’individuo supera i suoi limiti. Nel superare il limite
incontra una crisi, è inevitabile. E una crisi, per definizione, è sconfortevole.

La crescita avviene quando l’individuo supera i suoi limiti. Nel superare il limite incontra
una crisi.

Con questo non sto dicendo che il percorso giusto per te è quello più doloroso.
Assolutamente no. Ho semplicemente sottolineato questo aspetto perché so che spesso
interviene e sposta le persone nel momento della scelta. E le sposta facendole entrare
nella gabbia della zona di comfort. A volte c’è solo una parvenza di progresso. Altre volte

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invece c’è semplicemente la stasi. La persona si concentra in quelle aree in cui
sa di avere vita facile, trascurando il resto. Il risultato è uno squilibrio, non è
crescita.

Per approfondire » Affrontare la crisi

I pilastri fondamentali
Come è possibile capire se quello che stai facendo copre tutte le aree indispensabili alla
crescita?

È possibile suddividere il panorama di crescita della persona in aree distinte.

Corpo
Mente ed emozioni
Consapevolezza
Integrazione dell’ombra
Relazioni

Ognuna di queste aree necessita attenzione consapevole e scelte


intenzionali finalizzate alla crescita.

Prova a inserire la tua pratica, quello che stai facendo ora, in questo quadro di
riferimento. Cosa stai facendo mantenere sano ed efficiente il tuo corpo? Con cosa nutri
la tua mente? Hai una pratica di consapevolezza? Hai delle tecniche che ti permetto di
accedere all’integrazione delle tue parti mentali reattive? Le tue relazioni hanno la
finalità di creare comprensione reciproca?

Dovrebbe apparire immediatamente se c’è uno squilibrio. Dov’é? Quanto è forte?


Oppure c’è un’armonia di fondo tra queste aree di crescita?

Questi sono i pilastri della pratica. Ognuno di noi ha un’area di forza, un settore in cui
eccelle. Può succedere di concentrarsi su quello che ci risulta facile e di trascurare il
resto. Per assurdo, in questo caso, proprio lì dove la persona non vuole mettere
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piede, c’è il suo gradino evolutivo. Tutti e 5 i pilastri sono indispensabili per creare
una completezza esistenziale.

Proprio dove la persona non vuole mettere piede c’è il suo prossimo gradino evolutivo.

Pensa a questi scenari squilibrati:

Una mente che è gonfia di conoscenze in un corpo gravemente malato che non riesce a
mettere i pratica le brillanti intuizioni.

Il corpo tonico e sano di una persona che vive in completa solitudine e isolamento.

Una spiccata consapevolezza di sé che si scontra con relazioni interpersonali di


conflitto e sopraffazione.

Potrei continuare, ma il concetto è chiaro.

Serve armonia tra questi pilastri fondamentali. Quando c’è armonia, si crea sinergia,
ovvero un potenziamento del singolo effetto. Vediamoli uno per uno.

L’armonia tra le aree della crescita crea sinergia: il potenziamento del singolo effetto.

Corpo
Ogni pratica che si focalizza sull’aspetto corporeo della tua vita rientra in questa
categoria. Potrebbe trattarsi di un‘attività sportiva, indipendentemente dalla sua
qualità specifica: corsa, nuoto, ciclismo, sollevamento pesi, hatha yoga, qigong, ecc.
Ognuna è adatta, purché sia praticata con equilibrio e armonizzata con il contesto di
crescita. Se l’attività sportiva occupa l’intera giornata andrà a inficiare le altre aree di
vita (a meno che tu non sia un atleta professionista).
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Anche la cura della nutrizione è un elemento imprescindibile che cade entro questa
categoria.

L’aspetto energetico spesso viene trascurato quando si affronta un’attività legata al


corpo. Invece è fondamentale, non va relegato in secondo piano. Mi sto riferendo
all’energia vitale, a come questa viene gestita durante l’attività.

È importante concentrarsi anche sul corpo sottile, energetico, non solo


sull’aspetto materiale e fisico del corpo. Ci sono alcuni esercizi che mirano in
modo specifico al lato energetico. Potenzialmente ogni attività può includere –
dovrebbe includere – entrambi gli aspetti.

Un altro aspetto importante della pratica, per quanto concerne il corpo, è il


radicamento nel corpo. Radicarsi vuol dire “abitare il corpo”, sentirlo e viverlo
completamente in ogni sua parte, quello che in inglese viene definito embodiment.

Spesso chi si avvicina alle pratiche di consapevolezza tende a considerare il proprio


corpo con inferiorità rispetto ad altri aspetti dell’esistenza; questo si rivela nel lungo
periodo un errore che inficia i progressi.

In passato il genere umano ha anche tentato la via di scavalcare l’aspetto fisico


dell’esistenza sottoponendo il proprio corpo a privazioni e limitazioni
estreme, allo scopo di rendere manifesto proprio ciò che trascende il corpo. Si tratta di
un tentativo patologico di reprimere un aspetto fondamentale dell’esistenza umana.

La vera trascendenza opera con il principio “includi e trascendi”, non con il principio
“nega e reprimi”. Andare oltre la fisicità passa attraverso l’inclusione dell’aspetto
fisico/biologico della propria esistenza.

Mente ed emozioni
Per il nostro scopo, ovvero quello di individuare una pratica di consapevolezza
integrale che copra ogni area dell’esistenza, ci è molto utile discriminare,
nell’interiorità dell’essere umano, la sua componente emotiva e quella mentale.
Sappiamo bene che queste operano in un continuum, non si può definire esattamente
dove inizia una e dove finisce l’altra, anche in relazione alla componente biologica/fisica
umana. Non per niente si definisce la mente incorporata, ovvero radicata nella biologia
e nella fisicità.

Consapevoli di questo, sappiamo bene che operare a livello emotivo/energetico è


molto diverso dal lavorare a livello razionale/mentale. Per questo motivo qui di
seguito separerò la pratica sulle emozioni dalla pratica mentale.

5/11
Le emozioni
Così come per l’aspetto corporeo della nostra umanità, anche le emozioni a volte
vengono considerate con un valore inferiore (o addirittura come un disturbo) da
chi si avvicina ad un percorso di consapevolezza. Il risultato è una battaglia interiore,
uno scontro di forze che crea tensione.

L’effetto è una repressione di determinate emozioni e l’origine di un pendolo


pericoloso: un’oscillazione tra la repressione e la sfrenatezza.

Anche per questo aspetto della nostra umanità serve operare con il principio “includi e
trascendi”. Le emozioni vanno incluse, non represse.

Quindi il primo compito in quest’area è quello di liberare e ampliare la capacità di


sentire le emozioni. Il senso del sentire è spesso limitato e bloccato da vissuti
emozionali repressi e congelati nella struttura psico-energetica della
persona.

La pratica sulle emozioni dovrebbe quindi iniziare dallo scongelare le emozioni


represse e sciogliere i blocchi energetici che limitano la capacità di sentire. Per
questo scopo uno strumento mirato e molto efficace è il Respiro Circolare.

Liberare il sentire permette di ampliare la gamma delle emozioni vissute. Questo


implica il permettersi di sentire e sperimentare anche le emozioni poco piacevoli.

La pratica quindi a questo punto dovrebbe concentrarsi sullo sviluppo della


competenza emotiva, ovvero sulla capacità di gestire consapevolmente tutte le
emozioni, comprese quelle (cosiddette) “negative”.

Un terzo elemento importante della pratica di consapevolezza a livello emozionale è lo


sviluppo dell’empatia, ovvero della capacità di sentire quello che sente l’altro.
Senza aver sviluppato adeguatamente i due punti precedenti questo passaggio si rivela
difficile e spesso ha un esito disastroso.
6/11
Per approfondire » Le emozioni e la respirazione

La mente
La pratica a livello mentale ha due finalità specifiche:

1. L’aumento della capacità di prendere prospettive diverse dalla propria.


2. L’incremento delle conoscenze teoriche che permettono di organizzare
queste prospettive in un contesto appropriato.

La capacità di prendere prospettive può essere allenata.

Cosa significa? Significa che il punto di vista che emana da sé e rimane vincolato in
prima persona non è vincolante, ma è un semplice stadio evolutivo. La capacità di
prendere prospettive è spesso atrofizzata, congelata in prima persona, quando a tutti gli
effetti potrebbe essere ampliata ed includere un numero maggiore di prospettive.

La semplice intenzione consapevole di prendere una prospettiva diversa


dalla propria è una pratica fondamentale della categoria mentale. Cerca di notare,
ogni volta che ti è possibile, ulteriori prospettive. Cerca di entrare nei panni
dell’altro quando ti viene comunicato un vissuto personale, quando leggi un racconto
o quando guardi un film. Pian piano questo cambio di prospettiva diverrà sempre più
spontaneo e naturale.

Il cambio di prospettive necessita di una struttura e di un contesto quale venire


incluso. È necessario avere come riferimento un modello che possa contenere e
spiegare ogni elemento. Il Sistema Operativo non-duale è una struttura che ti può
fornire il riferimento teorico completo che ti serve per strutturare tutte le
esperienze che incontri sul tuo percorso evolutivo.

7/11
Consapevolezza
In questa categoria rientrano tutte quella pratiche che hanno lo scopo di aumentare la
consapevolezza di sé. La consapevolezza è quell’elemento indicibile che emana dal
senso di esistere. La natura della consapevolezza è semplicemente sapere di esserci, in
modo preverbale, senza alcun attributo o connotato.

La consapevolezza tocca la realtà tramite il suo organo di senso: l’attenzione. Ogni


pratica che agisce su questa specifica funzione cognitiva rientra dunque in questa
categoria. Potrebbe essere ad esempio una pratica quotidiana di concentrazione
dell’attenzione.

L’organo di azione della consapevolezza è la scelta. Tramite la scelta consapevole


l’individuo si manifesta nell’esistenza. Ogni pratica che aumenta la capacità di scelta
consapevole rientra in questa categoria.

Potenzialmente ogni attività, dalla più semplice alla più complessa, può essere
concepita con la finalità di aumentare la consapevolezza. Ciò che fa da spartiacque è la
qualità dell’attenzione che metti nel fare una determinata azione. Se l’attenzione,
invece di essere completamente rivolta all’azione, è direzionata a chi compie l’azione,
ecco che la consapevolezza diviene parte fondante di quell’attività.

Potenzialmente ogni attività può essere concepita con la finalità di aumentare la


consapevolezza.

Da leggere » Essere consapevole, due significati fondamentali

Da leggere » Essere presente: una sequenza di sviluppo

8/11
Integrazione dell’ombra
Esistono meccanismi di difesa che ci impediscono di prendere consapevolezza delle
componenti dissociate della nostra psiche. Le parti insostenibili, sopraffacenti,
vengono segregate in un’area mentale inconsapevole. Seppur non accessibile
consapevolmente all’individuo, questa emana influenze continue sulla struttura
di personalità, condizionando la vita della persona. Nel peggiore dei casi
l’intera struttura della persona è edificata a sostegno di queste difese.

Si tratta della cosiddetta ombra psicologica: un’ombra che origina dalla persona e
che la segue costantemente. Un’altra definizione che rende in modo figurato il concetto
è la mente reattiva: quel bagaglio mentale che agisce in modo reattivo e non
intenzionalmente guidato dall’individuo.

Le pratiche di consapevolezza e quelle mentali appena viste non necessariamente


intaccano la mente reattiva. Anzi, purtroppo a volte portano a galla in modo violento le
impressioni reattive senza che l’individuo abbia su di esse il minimo controllo. Per avere
un panorama di crescita equilibrato e sinergico, è dunque necessario includere una
qualsiasi tecnica di svelamento dell’ombra.

Potrebbe essere incluso un percorso di psicoterapia. Oppure, un mezzo molto efficace, è


la tecnica di integrazione dell’ombra. La finalità è proprio quella di ridurre le
impressioni reattive e potenziare le abilità personali da impiegare nella crescita.

Da leggere » La dissociazione di sé e l’integrazione dell’ombra

Da leggere » Le emozioni e l’ombra

Da leggere » I 6 tipi di inconscio

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Relazioni
La nostra crescita coinvolge gli altri. Apparentemente è più facile proseguire in modo
individualistico, senza occuparsi di chi ci circonda, senza investire nelle relazioni. In
realtà si tratta solamente di un falso progresso.

Gli altri individui sono un territorio da esplorare e conoscere, da duplicare


nella sostanza equivalente della consapevolezza.

Nella direzione opposta, esiste in modo recondito e imprescindibile dentro di noi la


necessità di mostrarci ed essere visti dagli altri nella nostra verità.

Questi due flussi, conoscere gli altri e farci conoscere dagli altri, non possono essere
messi in secondo piano rispetto al resto, sono basilari.

Esiste in modo recondito e imprescindibile dentro di noi la necessità di mostrarci ed essere


visti dagli altri nella nostra verità.

Inoltre, l’altro individuo ci fa da specchio: ci mette di fronte alle nostre proiezioni


su di lui, alle nostre resistenze nei suoi confronti. Le relazioni, soprattutto quelle intime,
portano a galla un intero repertorio di impressioni reattive che, se non integrate,
rimangono latenti. Ecco dunque la preziosità di avere più relazioni, più verità espressa e
integrata.

La relazione con l’altro ci consente di andare oltre noi stessi, di rompere quella
dinamica identificativa con un ego separato e limitato. Il confine dell’ego individuale ha
la possibilità di allargare i propri orizzonti, in un’identificazione sempre più ampia: da
un io a un noi, cioè un gruppo o una famiglia, per poi proseguire in una dinamica
sempre più ampia: tutti noi, cioè tutta l’umanità indistintamente.

Queste rotture progressive dei confini dell’io rappresentano la crescita


fondamentale della coscienza. Ogni gradino non può essere saltato: è necessario vivere e
integrare tutte le dinamiche relazionali, dall’io al noi a tutti noi.

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Il riconoscimento dell’altro come individuo consapevole, dotato di libertà di scelta ed
equivalente nella dimensione della consapevolezza è il processo che ci consente di
creare la dimensione dell’essere.

Conoscere la natura indifferenziata della consapevolezza è il primo passo. Metterla in


rete con individui visti e riconosciuti in questa dimensione equivalente è il secondo
gradino.

Questo consente di creare una dimensione che condivide le medesime caratteristiche


della consapevolezza stessa: assenza di confini, di definizioni, di mediatori fisici e
mentali. Si tratta di una dimensione non fisica in cui individui non fisici possono
esistere. Non la creiamo da soli: la si crea assieme, in rete.

Questi sono alcuni dei motivi fondamentali per cui è necessario, nel nostro percorso di
crescita, prenderci cura dell’aspetto relazionale.

Da leggere » Il paradigma della comprensione

Da leggere » Amore perfetto, relazioni imperfette

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La tua pratica
In questo breve articolo ho toccato, anche se in modo superficiale, i punti cardinali della
pratica. Ogni paragrafo merita un approfondimento a sé. In futuro i singoli punti
verranno sviscerati in modo più dettagliato. La mia intenzione qui è quella di fornirti un
panorama, una visione d’insieme.

Porta l’attenzione alla tua pratica, a quello che stai facendo ora per crescere. Riesci a
riconoscere un equilibrio? Ci sono aree carenti? Hai scoperto delle zone di cui non eri a
conoscenza? Oppure secondo te ho tralasciato qualcosa di importante che merita
attenzione?

Lascia il tuo punto di vista nei commenti.

11/11
La scala della responsabilità
essereintegrale.com/responsabilita

Agostino Famlonga

Molti pensano che l’atteggiamento di vittima o responsabile siano semplicemente


due predisposizioni mentali, due modi diversi di leggere la vita e le esperienze.
Certamente lo sono, ma non nascono dal nulla: sono il prodotto finale di una serie di
passaggi interiori.

Va riconosciuta la genesi di questi atteggiamenti, altrimenti si cade facilmente nel


tentativo infruttuoso di tentare di passare da una parte all’altra solo tentando di “vedere le
cose diversamente”. Questo non funziona, perché non sono solo schemi di pensiero, ma
una sequenza di atteggiamenti interiori nei confronti di ciò che accade che si sommano
uno con l’altro producendo l’effetto finale che poi diviene evidente.

Nel momento in cui riconosciamo uno schema automatico, recuperiamo


potere di azione su di esso e possiamo agire per modificarlo, scegliere di agire in un
altro modo e imboccare l’altra via del bivio. Ritrovarsi da una parte o dall’altra di questo
bivio fa un’enorme differenza.

Essere vittima delle circostanze o responsabile della propria vita conduce a due stili di vita
completamente diversi. Non serve che ti dica qual è il migliore, è auto-evidente. Il
vittimismo conduce alla decadenza e l’azione responsabile conduce alla crescita e al
miglioramento.

1/7
I bivi della vita
La vita è un continuo susseguirsi di eventi ed esperienze. In ogni esperienza che vivi si
apre dinanzi a te una strada a due vie.

2/7
Una porta verso una risposta consapevole, utile, costruttiva, responsabile.

L’altra porta in una condizione di stallo, in ci si trova immobili e impotenti, vittime


delle circostanze.

Esiste una tua predisposizione naturale a pensare e agire in un certo modo di fronte agli
eventi, un riflesso istintivo frutto delle tue esperienze passate.

La prima cosa di cui divenire consapevole è proprio la tua modalità di pensiero


automatica, la tua “predisposizione naturale”.

Spesso la semplice consapevolezza è sufficiente a disinnescare un automatismo.

Poi divieni consapevole dell’esistenza di questo bivio, riconosci che esiste una
possibilità di scelta: puoi scegliere quale strada imboccare cambiando l’atteggiamento
messo in atto.

Vediamo prima la somma degli atteggiamenti che porta verso la condizione di vittima, per
poi poter comprendere come agire in senso inverso e riacquistare sempre più potere di
azione.

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1. Evitamento
Il primo atteggiamento che conduce verso il vittimismo è quello in cui si cerca di
togliere l’attenzione dall’evento stesso. Si evita di stare in relazione con
l’esperienza.

Tecnicamente, definiamo questa situazione come l’atto in cui l’Individuo


Consapevole non sta di fronte a ciò che è.

Stare di fronte vuol dire coinvolgere la propria attenzione con qualcosa. Sto di fronte a
qualcosa quando sono in relazione con esso e ci do attenzione.

Quando ciò verso cui si porta attenzione crea disagio (è sgradevole, o è troppo
intenso da sostenere), scatta il riflesso naturale a distogliere l’attenzione. È la
prima forma di evitamento, da cui derivano in cascata tutti gli step seguenti.

2. Resistenza e negazione
I primi due step sono spesso associati tra di loro. Oltre a togliere l’attenzione infatti, si
innesca il meccanismo della resistenza.

Resistere significa avere un atteggiamento interiore che dice di “no” a qualcosa.

É una chiusura, una condizione in cui si rifiuta ciò che è. La resistenza quando
diventa esplicita può addirittura manifestarsi come negazione: la persona resiste così
tanto da negare i fatti concreti quando qualcun altro glieli fa notare.

3/7
3. Proiezione
La proiezione è il meccanismo con cui si scarica la responsabilità fuori da sé,
incolpando gli altri (o le circostanze) per ciò che è accaduto. La responsabilità in
un attimo diventa colpa, accusa.

In tutta la scala viene perso potere di azione, ma è in questo è il gradino in cui decade
drammaticamente perché viene spostato esternamente a sé.

4. Giustificazione
A questo punto della scala il castello dell’impotenza ha delle solidissime fondamenta,
serve solo mettere un tetto e decorarlo.

Ecco che si trovano delle scusanti per giustificare il fatto che non si possa agire, che
non ci sia nulla da fare o che “non è compito mio”. É un rinforzo dei passaggi fatti prima.

La scusante è una razionalizzazione che spiega il perché è giusto fare o non fare una
determinata cosa.

5. Impotenza e vittimismo
L’opera è completa: sommando tutti i passaggi precedenti siamo giunti alla condizione in
cui si è creata la condizione di vittima, atteggiamento in cui si subisce impotenti ciò
che accade.

Questo diventa uno stallo in cui si resta in attesa che accada un evento magico, che
gli altri facciano qualcosa, che la vita si sistemi da sola nella direzione voluta.

La razionalizzazione della vittima spesso diventa un affidarsi passivamente agli


eventi del destino: “se deve accadere… accadrà”.

La parola chiave in questo caso è passivamente. Anche all’altro estremo della scala ci si
apre con fiducia all’imprevedibilità degli eventi, ma mettendo però in atto un’azione
responsabile.

4/7
Vediamo ora quali sono i passaggi interiori che permettono la genesi dell’atteggiamento
responsabile. Ti accorgerai che la scala si struttura in modo speculare e inverso:
sono l’esatto opposto di quelli appena visti.

5/7
1. Apertura e curiosità
L’attenzione viene coinvolta attivamente con l’evento, anche se questo è difficile
da sostenere.

Detto tecnicamente: l’Individuo Cosciente sta di fronte a ciò che è. Questa attenzione
direzionata permette di riconoscerlo, e quindi è il pre-requisito per poter agire su di esso.

L’attenzione è colorata dall’atteggiamento di apertura (dire di sì) e di curiosità,


ovvero di un interesse attivo all’esperienza.

2. Comprensione e conoscenza
L’attenzione e l’apertura permettono di riconoscere e comprendere ciò che accade. Si è
attivamente coinvolti nel cercare di capire cosa sta succedendo.

L’indagine porta ad acquisire informazioni, e una massa critica di comprensione


diventa sufficiente a innescare una risposta, un’azione consapevole che agisce con
“cognizione di causa”.

3. Volontà
Avendo compreso a sufficienza la questione, può innescarsi la parte attiva della
risposta.

L’assunzione di responsabilità mette in moto il potere di azione personale, con una


volontà direzionata ad agire sull’evento.

Nella discesa verso il vittimismo questo 3° gradino era quello più rilevante nel perdere
potere di azione. In modo speculare, ritroviamo qui l’evento significativo del recupero
della responsabilità individuale.

Invece di delegarla all’esterno (proiezione), prendendo atto di ciò che è possibile fare, si
assume la responsabilità di fare la propria parte.

4. Ricerca di soluzioni
Nel primo gradino della scala l’apertura era rivolta all’evento: “che cos’è?”. Ora il
medesimo atteggiamento di apertura e curiosità può essere rivolto alla ricerca di
soluzioni.

La volontà ad agire e coinvolgersi nel fare la propria parte cerca una forma: cosa
posso fare? Prima di assumere una forma concreta, nel gradino finale della scala della
responsabilità, ci si apre alle opzioni a disposizione indagando quale siano e qual è
la migliore in base al contesto.

5. Decisione e azione responsabile

6/7
La somma di tutti i passaggi porta ad agire con un’azione coerente e responsabile,
nel vero senso profondo del termine. Respons-abile, abile di rispondere, capace di
agire.

Una risposta concreta che porta con sé tutte le caratteristiche dei gradini precedenti,
mettendo in atto il proprio potere di azione sull’evento assumendosi la responsabilità sia
dell’azione che delle sue conseguenze.

La responsabilità della crescita


Per mutare la condizione di vittima in quella di responsabile non basta pensare
diversamente, non è sufficiente cambiare uno schema di pensiero.

Ci sono dei passaggi più profondi da mettere in atto, e la scala della responsabilità
permette di comprendere come farlo: ti permette di comprendere sia dove ti trovi (quali
sono i tuoi atteggiamenti attuali), sia come poter agire per invertire la rotta nella direzione
voluta.

Mi auguro di cuore di averti dato un riferimento utile per sentire che puoi agire per
portare un cambiamento positivo nella tua vita e in quella delle persone
attorno a te.

Spesso si crede che il proprio potere di azione sia limitato, e che ciò che si può fare non
faccia la differenza nel grande disegno delle cose. Ebbene, non è così.

Ognuno è chiamato a fare la sua parte nell’elevare la propria vita e nel creare un
mondo migliore. Per farlo serve sentire questo bisogno, e prendersi la
responsabilità di agire in questo senso.

Nell’agire per migliorare la propria vita il punto di partenza è questa intenzione


responsabile. Quando l’intenzione si somma alle conoscenze di come funziona la
vita e viene espressa tramite le abilità personali, ecco che abbiamo tutti gli
ingredienti per costruire una vita che ci rappresenta completamente.

Se senti questo impulso ad elevare la tua vita partendo dallo sviluppo delle tue
abilità personali, ti invito di cuore a partecipare al corso Abilità nella vita: un corso di
crescita in cui studiamo i principi che regolano le dinamiche della vita e sviluppiamo
le abilità fondamentali per vivere e realizzare la tua vita.

In presenza e Online

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Il potere del ritardo della gratificazione
essereintegrale.com/ritardo-gratificazione

Scopri come superare l'impulso primordiale che porta ad inseguire il piacere immediato e
la gratificazione istantanea sviluppando l'abilità di ritardare la gratificazione.

Nella quotidianità ci troviamo esposti costantemente ad una contrapposizione di


forze: qualcosa che dà immediatamente un piccolo piacere (ora) rispetto a qualcosa
che (forse) darà un grande piacere un domani.

Alcuni esempi per comprendere questo contrasto:

Guardare una serie tv (ora) – Studiare per superare l’esame (forse)


Mangiare una fetta di torta in più (ora) – Avere un corpo sano e magro (forse)
Chattare sui social (ora) – Scrivere il tuo primo grande libro di successo (forse)

Gli esempi potrebbero proseguire ma sono certo che hai compreso il concetto. Sono infatti
polarità che fanno parte della natura dell’essere umano e della vita e puoi riconoscerle
facilmente.

Una delle più grandi possibilità evolutive che come esseri umani ci troviamo ad affrontare
è proprio quella di superare un piacere istantaneo, una gratificazione
immediata, a vantaggio di un risultato futuro. È una vera e propria sfida evolutiva,
sia individuale che collettiva. Cerchiamo di comprendere come funzionano queste
dinamiche interiori e come possiamo superare questo nodo evolutivo in modo armonico.

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Piacere immediato
L’evoluzione della nostra specie è stata portata avanti per migliaia di anni da un
meccanismo preciso e funzionale al suo scopo: la ricerca del piacere. L’esperienza del
piacere è stata evolutivamente associata a quelle esperienze che permettevano
la sopravvivenza, di evolvere la specie tramandando i propri geni.

Questo meccanismo va compreso, sia per riconoscere la sua utilità ma soprattutto per
vederne i suoi limiti per l’evoluzione in atto (che agisce su un altro piano).

La parte istintiva dell’essere umano ha installato un programma molto


basilare:

[ vivi quelle esperienze che ti portano il massimo piacere ]


+
[ stai alla larga da ciò che ti crea dolore ]
→ (RIPETI).

L’uomo ha sviluppato funzioni che vanno oltre questo meccanismo animale, ma questo
programmino è ancora operativo in noi, ed è proprio alla base della contrapposizione di
forze che abbiamo visto prima.

Ha svolto la sua funzione per migliaia di anni di evoluzione e l’ha svolta egregiamente per
fare arrivare l’homo sapiens fin dove è arrivato.

Il meccanismo è semplice, e lo possiamo comprendere prendendo come esempio


l’esperienza a cui evolutivamente è stato incollato il massimo del piacere: la
riproduzione.

L’atto sessuale e l’esperienza dell’orgasmo sono associati ad un apice di piacere. Questo


rende l’esperienza dell’accoppiamento un’esperienza estremamente ricercata, e serve
all’evoluzione per assicurarsi la sopravvivenza della specie. Ed è proprio qui che
incontriamo le prime difficoltà legate a questo programma di base.

La complessità dell’essere umano e del mondo in cui viviamo oggi rende ora questo
programmino “animale” inadatto al suo scopo. Perché oggi non è affatto detto
che ciò che dà piacere sia collegato a qualcosa di evolutivamente vantaggioso.

Al contrario, perseguire esclusivamente il piacere istantaneo porta ad una vera e propria


involuzione.

Da leggere » Istinto e intuito

L’essere umano è stato hackerato


Il programmino base “insegui il piacere” e “allontanati dal dolore” è un programma
facilmente hackerabile, ed è quello che stiamo vivendo nella nostra epoca in una
escalation di intensità. Gli esempi sono infinti, ne prendo tre significativi come
riferimento, sono certo che puoi trovarne altri.

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Il cibo elaborato
Il cibo può essere elaborato aggiungendo additivi o ingredienti che lo rendono gustoso,
pur essendo povero dal punto di vista nutrizionale. Esistono ingredienti che
vengono intenzionalmente aggiunti in alcuni alimenti allo scopo di creare una vera e
propria dipendenza da quel particolare cibo/gusto.

Stimolando il meccanismo del piacere immediato creano un’associazione


positiva con un cibo non sano. Ecco che oggi seguire solo la gustosità del cibo, il
semplice piacere al palato e al gusto, è la premessa per sviluppare tutta una serie di
patologie e di danni da sovra-alimentazione e da cibo impoverito.

Questo problema si è reso manifesto solo recentemente nella storia umana e può essere
superato solo andando oltre questo meccanismo, ovvero con il superamento della
gratificazione immediata.

Per approfondire » Il cibo raffinato

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La pornografia
Pensa ad un altro meccanismo facilmente hackerabile: la sessualità e l’orgasmo. Come
abbiamo visto la forza dell’evoluzione ha associato all’orgasmo un apice di
piacere, per rendere questo evento un’esperienza altamente ricercata. Favorendo la
trasmissione del patrimonio genetico e la continuazione della specie, questo evento è
chiaramente in cima all’elenco delle esperienze piacevoli.

Tanto quanto è stato in passato un punto di forza a livello evolutivo per la nostra specie,
tanto diventa ora un punto debole perché offre una porta altamente vulnerabile, un
punto di accesso hackerabile ad una delle funzioni più importanti dell’essere umano: la
regolazione della sua energia vitale.

In questo meccanismo basilare si è inserita la pornografia, che offrendo un repertorio


infinito di stimoli diventa un innesco incredibilmente forte (e sempre
accessibile) per stimolare la sessualità e premere il “pulsante del benessere”
dell’orgasmo, in modo completamente slegato dalle loro reali funzioni.

E proprio perché associato all’orgasmo c’è un apice di piacere, si innesca facilmente una
dipendenza dalla pornografia come meccanismo di stimolazione e di
“benessere”.

Il ciclo pornografia-masturbazione-orgasmo (PMO) diventa molto


velocemente una dipendenza equiparabile a quella delle più pesanti sostanze
stupefacenti, con effetti profondi su tutta la psicologia e la fisiologia umana (per non
parlare degli effetti disfunzionali nelle relazioni, sulla motivazione e sulla
consapevolezza).

Per approfondire » Your brain on porn

I social media
Un’altra porta di accesso che ha permesso di hackerare l’essere umano è il suo bisogno
basilare di relazione. I social media hanno fatto leva su un bisogno umano
fondamentale, quello di essere in relazione, e stimolando in modo mirato il meccanismo

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del piacere immediato, hanno creato un aggancio che tiene l’attenzione incollata ai
dispositivi.

Il meccanismo è semplice: ad una notifica viene associata un’esperienza


piacevole, ad esempio leggere o guardare qualcosa di interessante, magari scritto da una
persona cara con cui si mantiene in questo modo una connessione. Ecco che quando ad
un evento viene associata una gratificazione immediata si crea una dipendenza
rispetto a quell’evento. Allora una semplice notifica diventa un innesco
incredibilmente forte nel deviare ogni attenzione verso il social di turno che è riuscito nel
suo scopo: tenerti incollato allo schermo in modo da poter vendere la tua attenzione agli
inserzionisti pubblicitari.

Per approfondire » The social dilemma

Inseguire la gratificazione immediata è la ricetta per un disastro


Mi auguro con questi esempi di averti fatto comprendere come ricercando esclusivamente
il piacere istantaneo della gratificazione immediata l’essere umano si espone a un alto
rischio di dipendenza e involuzione.

Se comprendi questo meccanismo e ti guardi intorno puoi vedere che interi settori della
società in cui viviamo sono costruiti facendo leva su questo punto di vulnerabilità.

Ciò che ha servito l’evoluzione ora sta diventando un punto di involuzione.

L’evoluzione si muove ora su un altro piano, sul piano della consapevolezza. Abbiamo
bisogno di introdurre nel sistema un programma più aggiornato, che agisce
con una logica operativa diversa: il ritardo della gratificazione.

Senza il potere del ritardo della gratificazione l’essere umano resta in balia dei suoi
programmi primordiali e istintivi, può essere hackerato, e non esprime il suo potenziale
limitando la sua straordinaria capacità creativa.

Gratificazione futura

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L’essere umano è dotato di un grande potere, il potere creativo. La capacità di vedere
ciò che ancora non esiste, di ideare e concepire ex-novo, nella sua mente,
qualcosa che non esiste concretamente. Questa capacità astratta di generare idee e
di elaborarle gli permette di creare, prima nella mente, poi nella materia.

Per agire questo impulso creativo abbiamo bisogno di introdurre il potere del ritardo della
gratificazione. Inseguendo il piacere della gratificazione immediata si soffoca la parte
creativa dell’essere umano.

Perché dico questo? Prendi come esempio l’articolo che stai leggendo: mi sta richiedendo
ore di impegno nello scriverlo. Mentre scrivo rinuncio a fare altro. Rinuncio ad una
passeggiata, a chattare sui social, a leggere un libro… a tante altre cose che potrebbero
darmi nell’immediato un piccolo frammento di piacere. È una rinuncia consapevole,
intenzionale, ad un piccolo piacere istantaneo, a favore di un piacere più
grande futuro, ovvero quello di dare vita ad una creazione (l’articolo che stai
leggendo) che serve ad uno scopo più grande e che realizza ed esprime una parte profonda
di ciò che sono.

È la gratificazione futura che incanala le azioni nel superare il richiamo degli


stimoli associati al piacere immediato.

Questo principio opera non solo per i creativi o per gli inventori. È una forza che può
essere attivata per dare una direzione alle tue azioni nella quotidianità, e alla tua vita nel
lungo periodo. Qualcuno sembra spontaneamente incline ad attivare il potere del ritardo
della gratificazione, mentre per altri si innesca una contrapposizione di forze che
crea tensione.

Cerchiamo perciò di comprendere come funziona il ritardo della gratificazione.

Il mito della motivazione


L’elemento che crea maggiore difficoltà alle persone nel fare qualcosa è in genere la fase
iniziale. La tendenza alla procrastinazione viene messa in atto proprio posticipando
l’inizio dell’azione. “Lo faccio domani” è la via d’uscita più semplice quando non ci si sente

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motivati ad agire ora.

Una credenza molto comune è che per dare avvio ad un’azione sia necessario sentirsi
motivati a fare quella cosa. Si attende il “sentirsi motivati” per agire. Se manca la
motivazione, si resta fermi.

La motivazione è un sentire, un sentirsi accesi e trascinati da quello che si sta


facendo. Ma come tutto ciò che sta nel reame del sentire e dei sentimenti, è
un qualcosa di transitorio e variabile. Fare affidamento esclusivamente alla
motivazione come supporto per agire è garanzia di oscillazioni: ora ti senti motivato, dopo
un po’ questa si consuma e non hai carburante per agire.

Per approfondire » Screw motivation


Da vedere » Dentro la mente di un maestro della procrastinazione
Da leggere » Il mito della motivazione – Jeff Haden

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La disciplina come forzatura
La maggior parte delle persone ha associato all’esperienza della disciplina un’esperienza
negativa. Infatti, per il modo in cui viene trasmessa socialmente e culturalmente la
disciplina, questa diviene per molti una forzatura, una forzatura a fare
qualcosa contro la propria volontà. Invece di apprendere come usare la volontà, si è
imparato a forzare sé stessi. Ma forzatura e volontà non sono la stessa cosa.

Un’azione forzata è un’azione che si muove contro ciò che si sente.

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Proprio perché opera “contro qualcosa”, crea una divergenza e una tensione.
Questa tensione consuma energia nello svolgimento dell’azione, che risulta stancante e
poco piacevole.

Reprimere il piacere
La forzatura ad agire contro ciò che si sente spegne l’esperienza del piacere. Non
solo allontana dalla gratificazione immediata, ma spegne il piacere
dell’azione stessa.

Smorzando il piacere intrinseco all’azione si crea in questo modo un’associazione


negativa con l’azione che si sta eseguendo. Questo agisce in una spirale negativa
limitando la motivazione futura a ripetere l’azione. Forzandosi nel fare qualcosa
“controvoglia”, l’azione risulta sempre di più spiacevole. Diventa sempre più
pesante e sgradevole farlo, richiedendo una forzatura sempre maggiore.

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Non solo: più si forza più si crea un’attrazione inconscia verso ciò che apparentemente
risolve la forzatura, ovvero la gratificazione istantanea.

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Si innesca in questo modo una spirale che oscilla sempre di più tra i due estremi.

Per molti esiste solo quest’opzione binaria: seguo la gratificazione immediata ↔ mi


forzo a fare qualcosa “controvoglia.“

Esiste un’altra via per superare questo nodo? Sì, ed è lo sviluppo della volontà.

La volontà: intenzione in azione


La volontà nella sua essenza è priva di forzatura, ed uno sviluppo corretto della
propria volontà è proprio ciò che permette di uscire fuori da questo nodo evolutivo.
Vediamo perciò ora alcuni elementi essenziali della volontà.

La volontà è la parte visibile di un’intenzione. Osservando un atto di volontà, la


volontà è ciò che si vede, l’intenzione invece è ciò che resta invisibile (ma che
agisce assieme alla volontà e ne determina la maggior parte dell’effetto).

Immagina di osservare un iceberg: la parte visibile che emerge dall’acqua è la volontà, e


tutta la parte sommersa (la maggior parte) è rappresentata dall’intenzione.

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Padroneggiare l’uso della volontà passa in primis attraverso la capacità di essere
consapevoli delle proprie intenzioni. Non solo esserne consapevoli, ma imparare
ad originarle ex-novo.

Un’intenzione origina direttamente dalla consapevolezza di sé. È l’Individuo


Consapevole che origina le intenzioni.

L’intenzione, come dice la parola stessa, è una tensione verso qualcosa. In-tensione:
ovvero un’energia diretta ad uno scopo. Quando quest’energia viene messa in
movimento, allora diventa volontà in azione.

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Il circuito della volontà va oltre il meccanismo della motivazione perché origina
direttamente dall’Individuo.

L’individuo Consapevole, in proporzione a quanto è consapevole di sé, è in grado di


originare vere e autentiche intenzioni, indipendentemente da ciò che sente
nel momento.

La volontà è direttamente connessa all’azione: è un’azione finalizzata priva di


forzatura perché porta con sé la piena consapevolezza dell’Individuo che ne origina
l’intenzione. Possedendo l’intenzione la rende manifesta in un atto di volontà.

Per approfondire » Le fasi di sviluppo della volontà


Per approfondire » Essere consapevole: due significati essenziali

Superare consapevolmente la gratificazione immediata


Come abbiamo visto, per superare un piacere immediato è necessario sviluppare un
corretto uso della volontà. La volontà e la capacità di originare intenzioni sono muscoli
che possono essere allenati. Come ogni abilità umana, più si utilizzano consapevolmente
più si sviluppano e diventano integrati.

Vediamo ora tre elementi che facilitano questo passaggio.

Per approfondire » I 3 livelli di abilità

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La consapevolezza del risultato futuro
La difficoltà nel superare un piacere immediato a scapito di un’azione costruttiva nel
lungo periodo sta nel fatto che il risultato ipotetico a cui aspiriamo è posizionato in un
tempo futuro. Se ci fosse un riscontro immediato rispetto a ciò che stiamo facendo, il
problema non esisterebbe. Un elemento che fa la differenza è quindi la consapevolezza
del risultato futuro e del suo valore.

Più sei consapevole di ciò a cui aspiri, più conosci l’importanza e il valore di
avere questo nella tua vita, più sei facilitato ad originare un’intenzione e un atto di volontà
che ti porta in quella direzione superando ogni gratificazione immediata.

Accorciare il feedback loop


Soprattutto quando il risultato è spostato molto in avanti nel tempo, è molto utile
portare consapevolezza ai progressi verso la direzione voluta, piuttosto che
al risultato stesso.

Il risultato di un pomeriggio intero passato a studiare per superare un esame che si terrà
dopo mesi non è direttamente tangibile. Per questo motivo portare consapevolmente
l’attenzione ai passi fatti nella direzione voluta permette di collegare l’azione al risultato
accorciando il feedback loop, ovvero il ciclo di verifica, che diventa più
immediato.

Rendere l’azione più piacevole

Il fatto di superare una gratificazione immediata a scapito di una gratificazione futura non
significa che l’azione debba essere sgradevole, anzi.

Esistono tanti modi per rendere una singola azione piacevole. L’aspetto è molto
soggettivo, quindi non mi dilungo molto su questo punto. L’importante è riconoscere che
l’azione volitiva non è per sua natura spiacevole o sgradevole, ma può essere strutturata
praticamente per viverla con piacere, aggiungendo degli elementi che la
rendono soggettivamente gradevole.

Esempio: nell’andare a correre, organizzare un’uscita con un compagno di corsa. O


ancora, nello studiare, aggiungere della musica di proprio gusto… e così via.

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In questo punto mi sono riferito principalmente al rendere piacevole un’azione in senso
pratico, nel suo aspetto logistico esteriore.

Esiste però un altro tipo di piacere, di origine interiore, che è importante


riconoscere e coltivare, perché è proprio quello che permette di sciogliere la compulsione
verso la gratificazione immediata.

Da leggere » Elogio all’azione

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Le molte forme di piacere
Non esiste uno solo tipo di piacere, ma ne esistono molti.

Esistono forme di piacere sensoriale, legate ai sensi e alla fisicità: il piacere di gustare
un cibo particolarmente buono, il piacere di riposare il corpo, il piacere di muovere il
corpo…

Esistono forme di piacere emotivo: il piacere di condividere esperienze con altri, il


piacere di sentirsi empaticamente compresi…

Esistono poi forme di piacere mentale/intellettuale: il piacere di comprendere


qualcosa di nuovo, il piacere di immergersi in una lettura…

Infine, il piacere può assumere anche la forma di piacere esistenziale, legato


all’auto-espressione e all’auto-realizzazione.

Più forme di piacere riesci a riconoscere e coltivare consapevolmente, più è facile andare
oltre quelle forme di piacere che danno gratificazione immediata.

Vediamo alcune delle forme di piacere implicate in questo processo.

Il piacere del realizzare qualcosa di significativo

C’è un piacere intrinseco nel realizzare qualcosa di significativo, che può essere
percepito non solo quando si raggiunge il traguardo, ma anche durante il tragitto.

Più è grande e ambizioso ciò che si intende realizzare, maggiore è l’impegno richiesto nel
tempo. È quindi importante fermarsi e riconoscere il valore di ciò che si sta perseguendo,
anche mentre si procede nella direzione voluta ma ancora non si è giunti al traguardo.
Questa consapevolezza permette di attingere al piacere del realizzare qualcosa di
significativo.

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Se l’azione coinvolge nei suoi esiti anche altre persone, rendere consapevole
l’impatto positivo di ciò che stiamo facendo nei confronti degli altri agisce
come rinforzo ulteriore nel sentire questo piacere.

Il piacere dello sviluppo personale

L’essere umano possiede un impulso evolutivo a crescere e migliorare sé stesso.


Fa parte della nostra natura la spinta ad evolvere sviluppando le nostre abilità. Se questa
spinta viene resa consapevole rende manifesto il piacere implicito nello sviluppo
personale.

Il piacere dell’atto di volontà


Ho una definizione personale della disciplina: agire allineando le proprie azioni ai
propri valori.

Per me disciplina significa coerenza, ed essere coerenti con sé stessi dona un


grande piacere, che si somma al piacere di esprimere sé stessi con un atto
volitivo direzionato.

Come abbiamo visto, il superamento del nodo del forzare sé stessi permette l’emergere
della vera volontà, e una caratteristica intrinseca dell’atto di volontà è che reca
piacere perché permette di esprimere la parte più autentica di sé stessi.

Il valore del sacrificio

Superare la gratificazione immediata richiede di comprendere il significato e il valore


del sacrificio, e di agirlo nel momento critico. Generalmente questa parola evoca
una risposta emozionale negativa: sono poche per mia esperienza le persone che hanno
un rapporto positivo con l’atto del sacrificio.

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Vorrei che ti liberassi per un attimo dal bagaglio culturale legato alle immagini del
sacrificio e dei riti sacrificali e portassi l’attenzione al vero significato di questa parola.

Sacrifico significa semplicemente lasciare andare qualcosa ora, per un bene


più grande che verrà dopo.

Lasciare andare un piccolo frammento di piacere immediato per un piacere


futuro più grande.

Il sacrificio fa parte della meccanica di come funziona la vita, è il prezzo da pagare per
avere qualcosa di valore. Ogni cosa vissuta tramite sacrificio diventa carica di valore e
significato per chi la ottiene.

Ne consegue che senza essere disposti a sacrificare qualcosa per qualcos’altro,


nulla ha valore. E in modo speculare: più sei consapevole dei tuoi valori più sei
disposto a compiere intenzionalmente dei sacrifici per rendere i tuoi valori
manifesti nella vita.

Nel superamento della gratificazione istantanea esiste un momento critico, un bivio:


avere subito un frammento di piacere – muoversi coerentemente con i propri
valori verso un obiettivo a lungo termine.

Per superare questo bivio è implicato come abbiamo visto un atto di volontà, e anche un
sacrificio, ovvero la necessità di lasciare andare qualcosa. Non si può superare
indenni questo bivio senza sacrificare qualcosa nel mentre. In questo “lasciare
andare” si esprime il valore del sacrificio, nel vero senso etimologico del termine:
“rendere sacro”.

Rendi sacro il gesto di imboccare il bivio nella direzione che esprime i tuoi valori
più elevati lasciando andare il piacere immediato.

Come accedere il potere del ritardo della gratificazione


Abbiamo visto in questo lungo articolo una serie di implicazioni su ciò che comporta il
perseguire il piacere istantaneo e sul potere insito nella capacità di ritardare la
gratificazione.

Vorrei in conclusione lasciarti una scaletta operativa sui punti essenziali da ricordare
per coltivare questo superpotere quando ti trovi in un momento critico, ovvero di
fronte a un bivio.

1. Rendi consapevole il valore del risultato futuro


2. Origina l’intenzione e agisci con un atto di volontà
3. Lascia andare qualcosa ora per un bene futuro (sacrificio)
4. Rendi l’azione piacevole (attingendo alle molte forme di piacere)
5. Focus sui passi del percorso e sull’incremento nella direzione voluta (accorcia il
feedback loop)
6. Costanza nell’azione (mantieni il momentum)

18/19
Mi auguro di cuore che questo articolo sia fonte di ispirazione e spunto di crescita per te.
Se hai piacere di condividere la tua esperienza, le tue riflessioni sull’argomento o se
hai domande da fare, puoi utilizzare i commenti qui sotto.

Agostino Famlonga

Agostino Famlonga è l'ideatore e il curatore di essereintegrale.com. Laureato in scienze e


tecniche psicologiche è appassionato di meditazione, scienza e tutto ciò che può portare
consapevolezza e crescita nella vita delle persone. Conduttore del seminario Intensivo
sull'essere consapevole, del corso Abilità nella vita e di Respiro Circolare. Formazione
Centro Studi Podresca.Per saperne di più...

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Elogio all’azione: Sufficiente Costante Strategica
essereintegrale.com/azione

Agostino
Famlonga

Essere → Fare → Avere

In quest’equazione è racchiusa una profonda verità: quello che abbiamo nella vita ha
un’origine in ciò che siamo.

Partire dalla consapevolezza di sé si rivela sempre la strategia corretta: portare


luce dentro e prendere coscienza di ciò che siamo e ciò che vogliamo manifestare nella
vita. Portare consapevolezza ai propri meccanismi sabotanti (ombre) che limitano
quest’espressione e scioglierli per rendere sempre più autentica la propria azione.

Questo punto di partenza spiana la strada a ciò che viene dopo. Avere chiarezza dei
propri fini e pulire la “meccanica interiore” affinché non ci siano sabotatori è il
prerequisito per manifestare nella vita i propri semi interiori.

L’elemento centrale dell’equazione però non può essere scavalcato, è fondamentale: ciò
che viene fatto. Il coinvolgimento con la vita e con l’azione, il fare.

Da leggere » Divenire, quando il fare incontra l’essere

Più consapevolezza, o più azione?

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Se non conosci te stesso, non troverai mai una reale soddisfazione in quello che fai. Non
ci sarà mai nulla fuori che può darti ciò che si trova dentro, ovvero la completezza
esistenziale.

Nella consapevolezza di sé risiedono fini esistenziali, una chiamata ad essere e


manifestare qualcosa nella vita.

Molti hanno bisogno di chiarezza, non si conoscono abbastanza e non conoscono i loro
fini esistenziali. In questo caso è fondamentale tenere l’attenzione su di sé per
conoscersi di più.

Ma non è così per tutti. Molti sanno cosa è giusto per loro, conoscono cosa li
realizzerebbe nella vita, ma sono ben lontani dal concretizzarlo.

In questo caso più consapevolezza non risolve la situazione, anzi addirittura potrebbe
essere una via di fuga.

La soluzione è fare di più, agire.

Poniti questo quesito: per realizzare i tuoi fini, ti serve più consapevolezza o più
coinvolgimento con l’azione?

Per approfondire » Orientamento

Fare la cosa giusta non è sufficiente


Conoscere qual è la cosa giusta che ti porta verso la realizzazione delle tue mete ti
permette di direzionare le tue azioni nella direzione corretta. Ma solo questo
non è sufficiente, c’è bisogno di dare struttura all’azione e di ripeterla per il
tempo che serve.

Te lo spiego con un esempio: senti di essere uno scrittore e sai che scrivere un libro è
una meta che ti esprime e realizzerebbe nella vita una tua parte profonda.

Sai che l’azione corretta per realizzare la tua meta è “scrivere”.

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Se scrivi 1 post al mese su facebook seguendo l’ispirazione del momento stai facendo la
cosa giusta ma in modo incostante e non direzionato. Difficilmente questa azione si
tradurrà nella realizzazione della tua meta, ovvero scrivere il tuo bellissimo libro.

C’è bisogno di fare l’azione corretta per il tempo che serve (con costanza) con un
impegno adeguato (sufficiente) e in modo non casuale ( strategico).

Per realizzare la tua meta hai bisogno di un’azione che va nella direzione giusta e
che è sufficiente-costante-strategica.

Da leggere » Quanto tempo serve per formare un’abitudine?

Farsi le giuste domande


Queste 4 semplici domande sono un utile riferimento di auto-analisi per
comprendere la qualità della tua azione.

Stai facendo la cosa giusta?


La stai facendo con un impegno sufficiente?
La stai facendo con costanza?
La stai facendo con una strategia?

Hai bisogno di tutte e quattro queste componenti per realizzare le tue mete, qualsiasi
esse siano, dalle più alte e nobili a quelle più terrene.
3/12
Esempio: fitness
Prendo un esempio forse banale ma certamente comprensibile da tutti.

Il tuo fine è quello di mettere in salute il tuo corpo, perdere peso e tonificarlo.

Se resta solo un’intenzione e non fai nulla al riguardo, tutto resta uguale.
Questo certamente non ci sorprende.

Decidi di iscriverti in palestra, ma ti presenti una volta al mese facendo esercizi a caso
seguendo quello che senti al momento.

4/12
Stai facendo un po’ di tutto, ma non abbastanza di qualcosa. La tua azione non
è sufficiente, la tua routine di esercizio non è strategica, e non hai la costanza necessaria
per ottenere un reale progresso nella direzione voluta.

Supponiamo ora che inizi a fare 5 minuti di esercizio al giorno, tutti i giorni. Non segui
una pianificazione, ma semplicemente tutti i giorni ti impegni nel fare 5 minuti di
attività motoria, un giorno fai flessioni, un giorno salti la corda, un giorno vai a
correre…

Hai costanza in quello che fai, ma avrai comunque dei risultati minimi. Certamente
è meglio che non fare nulla, ti fa uscire dalla pura sedentarietà, ma difficilmente
otterrai dei risultati consistenti nella tonificazione del corpo con soli 5 minuti al giorno
di esercizio fisico.

Proseguiamo…

5 minuti di esercizi ad alta intensità con una routine perfettamente ottimizzata.

5/12
Esercizio intenso per un’ora al giorno, ma senza una pianificazione dell’allenamento.

Esercizio intenso, 3 ore alla settimana usando una pianificazione dell’allenamento


personalizzata.

6/12
Ecco che abbiamo tutte e tre componenti dell’azione al loro posto e abbiamo la
situazione ottimale per ottenere il risultato voluto. Dai tempo al tempo, e l’azione
sufficiente-strategica-costante ti porterà alla realizzazione della tua meta.

L’esempio legato al fitness è di facile comprensione, e gli stessi identici principi si


possono applicare ad ogni meta che ti poni nella vita.

Torniamo all’esempio precedente: la meta del nostro autore di scrivere un libro.

Esempio: Essere un autore

Leggere, fare corsi


ed informarsi su
tutto quello che c’è
da sapere per essere
un buon scrittore,
senza implementare
le conoscenze.

7/12
Impegnarsi a fondo
per scrivere un libro
che non interessa a
nessuno.

Scrivere molto
seguendo una
pianificazione
adeguata, ma
cambiando
continuamente idea
sul soggetto e trama.

8/12
Una routine di
scrittura adeguata e
costante
implementata in
una pianificazione
strategica dei
contenuti.

Valutazione onesta delle proprie azioni


Questo modello è incredibilmente efficace nel mettere in luce i punti critici che non
ti permettono il raggiungimento dei tuoi fini tramite le tue azioni.

Usando questo modello, puoi avere una fotografia chiara di dove ti trovi e qual è il
punto su cui fare leva.

Prendi un foglio e disegna il diagramma, e dai una valutazione ai tre punti


riportando il tuo punteggio e segnando delle note di riflessione.

Sto facendo un’azione sufficiente? Quanto impegno serve per realizzare la mia
meta?
Sto seguendo una strategia? Sto misurando i miei progressi per poter
correggere il tiro?
Sono costante nelle mie azioni? Quanto tempo serve mediamente agli altri per
raggiungere la meta che mi sono posto?

Il beneficio principale di questo semplice esercizio è che ti permette di essere onesto


con te stesso. Se ti trovi a lamentarti sul fatto di non avere il risultato che ti sei
prefissato, puoi porti questa domanda: quello che faccio è sufficiente-strategico-
costante?

(La premessa chiaramente è che stai facendo la cosa giusta per te.)

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Trova il tuo auto-inganno
Tutti hanno la tendenza a raccontarsi storie riguardo il perché non ottengono dalla
vita quello che ritengono adeguato. Ricorda che ogni volta che deleghi a
circostanze esterne l’esito di quello che succede, stai delegando parte della
tua responsabilità ad altro, e stai sprecando potere di azione.

Riappropriarsi della propria responsabilità di fronte agli eventi è il primo passo


per recuperare la capacità di rispondere concretamente ed efficacemente alle
circostanze. Svelare i propri auto-inganni è un punto fondamentale di questo
processo.

Usa il modello sufficiente-strategico-costante per trovare il tuo auto-inganno.

Sufficiente
Magari ti stai raccontando che la tua azione è sufficiente basandoti su un tuo punto di
vista soggettivo. Non solo che è sufficiente ma addirittura senti che è eccessiva perché
ti impegni al 110% e magari soffri nel fare quello che fai privandoti di tutto il resto.

Ricorda che la sofferenza, l’impegno e le privazioni non sono un metro


adeguato per misurare le tue azioni. Viviamo in una cultura in cui vige il detto “no
pain-no gain”, ma è un grande inganno: se ti impegni senza una visione strategica di ciò
che stai facendo e in modo incostante non raggiungerai la meta che ti sei posto, anche se
soffri moltissimo e ti deprivi di tutto il resto.

Strategica
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Questo è il classico auto inganno del restare fermi ed immobili finché non si ha
la strategia perfetta, finché non si ha pianificato tutto alla perfezione. Chi si
racconta questo passa più tempo a studiare, pianificare e riflettere che a fare
concretamente quello che dovrebbe fare per proseguire verso la realizzazione della sua
meta.

Da leggere » Procrastinazione da perfezionismo

Costante
Per le grandi mete della vita generalmente è necessario un impegno prolungato nel
tempo. Raramente una meta viene raggiunta in un singolo sprint di eccellenza, anzi… il
più delle volte è proprio la costanza e la persistenza che ti portano alla realizzazione
di grandi cose sul lungo periodo.

Anche su questo parametro potresti incorrere in un auto-inganno. Quanto serve


essere costante per realizzare la tua meta? Magari per te essere costante
significa fare un’azione una volta alla settimana, quando in realtà serve farla una volta
al giorno. Cerca di valutare la costanza richiesta con un metro il più obiettivo
possibile.

La tua azione
Passo la parola a te: pensa a una meta importante e significativa per te e valuta le tue
azioni nei suoi confronti attraverso i tre parametri sufficiente-strategica-costante.

Cosa emerge?

Scrivilo nei commenti qui sotto!

11/12
Bibliografia
Sufficient, Strategic, Consistent: is This Why You Aren’t Reaching Your Goals?

21x’21: una serie per la tua crescita personale [CLICCA QUI PER VEDERE TUTTI I VIDEO]

12/12
Affrontare la crisi
essereintegrale.com/crisi

Agostino Famlonga

Voglio condividere con i lettori del sito alcuni spunti di crescita sulla situazione attuale.
Non su quello che sta accadendo, ma su come potere affrontare ciò che sta accadendo
con consapevolezza e nel modo migliore possibile.

Il periodo che collettivamente stiamo attraversando sta avendo un impatto sulla vita di
tutti.

Tutti veniamo coinvolti: qualcuno più direttamente e in modo più duro, altri in modo
indiretto e più blando, ma nessuno è escluso da quello che sta succedendo in Italia o nel
mondo. È sempre così, questa è una verità sempre presente.

Siamo interconnessi e interdipendenti. Nei momenti di crisi questa verità diventa


semplicemente più evidente.

Il primo effetto della situazione, immediato, è che c’è una modifica radicale della
quotidianità di tutti e delle nostre relazioni, e questo scuote le fondamenta della
nostra sicurezza di oggi e anche quella del domani. Quando i nostri riferimenti saltano
c’è una risposta di allerta, si accende un allarme.

Ecco allora che il primo punto su cui portare l’attenzione è la consapevolezza. Abbiamo
bisogno di essere maggiormente consapevoli della nostra risposta agli eventi.

1/11
L’ignoto
Quando tutti i riferimenti e le certezze sono messi in discussione la situazione si apre a
un grosso ignoto: non c’è certezza né di quanto durerà questa transizione
importante né di quello che sarà dopo.

L’ignoto tende a creare, per sua natura, una risposta viscerale legata alla conservazione,
alla sopravvivenza.

È una risposta legittima, addirittura fisiologica, legata al nostro istinto ancestrale di


auto-conservazione. Se senti questo scossone interiore, è assolutamente normale, va
riconosciuto e accolto. Se lo percepisci, non fare finta che non ci sia. Accoglilo
completamente perché ha molto da dirti. Accoglierlo vuol dire lasciargli spazio,
esserne consapevole.

Se lo prendi in te ti puoi accorgere che può diventare qualcos’altro, una risposta


consapevole. Una risposta che prende in considerazione anche il contesto, che vede
oltre quello che c’è nell’immediato.

Se l’istinto di sopravvivenza è l’unico agente delle nostre azioni, ecco che precipitiamo in
una condizione di allarmismo, di panico, come è successo inizialmente: tutti al
supermercato a riempire i carrelli, una cosa inutile perché non c’è un reale pericolo di
mancato rifornimento alimentare.

Quindi, il punto di partenza è renderti consapevole di cosa muove in te la


situazione attuale e agire con consapevolezza.

La risposta istintiva ed emotiva va accolta e inclusa in un’azione consapevole.

2/11
Esiste uno strumento che veicola l’apertura e l’accoglienza delle emozioni: il respiro.
Aiutati con una respirazione profonda e connessa nel gestire correttamente ciò che
provi.

Per approfondire: La respirazione e le emozioni

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La crisi
Tenere la consapevolezza su ciò che si muove in te e sulla tua risposta istintiva ed
emotiva è dunque la base corretta per affrontare in modo adeguato questa crisi
(perché di questo si tratta, chiamiamola con il suo nome).

La parola crisi tenda a spaventare, tendiamo a girarci intorno con spirito di


conservazione, ma si tratta nella sua essenza di una fase di transizione (crisi significa
appunto nella sua etimologia greca “scelta, decisione, discernimento”, e si manifesta
come una separazione o una rottura tra un prima e un dopo. )

Un passaggio di trasformazione dunque, da affrontare in modo consapevole per


veicolare la trasformazione in una direzione di crescita.

Mi sento darti alcuni elementi essenziali riguardo la crisi, a mio avviso utili a tutti in
questa fase.

3/11
2 tipi di crisi
Le crisi non sono tutte uguali. Esistono due tipi di crisi.

Una la possiamo definire “crisi di crescita”, e deriva da azioni e gesti compiuti in una
direzione ben precisa, in cui sei consapevole della direzione in cui stai andando
prima di entrare in crisi.

Esempio: ti metti a dieta e dopo una settimana entri in crisi perché fatichi a sostenere il
processo di restringimento calorico.

Un secondo tipo di crisi (ricordati…”trasformazione”) è la crisi imposta dall’esterno. È


un cambiamento non voluto, non desiderato. Non l’hai scelto inizialmente, non deriva
necessariamente da una tua scelta, ma c’è… accade.

Esempio: la ditta dove lavori fallisce e ti trovi disoccupato.

Entrambi gli eventi portano a una crisi, cioè a un cambiamento, a una trasformazione.

Apparentemente sembra che solo il primo tipo di crisi sia positivo, perché sappiamo
cosa l’ha innescato, un’intenzione al miglioramento, e sappiamo benissimo che se
superiamo la crisi della dieta ci troviamo con una condizione migliore di quella di
partenza.

Nel secondo caso invece non è così, ovvero non è scontato che di fronte a un evento di
questo tipo si aprano spiragli di crescita. Non essendo voluta, questo secondo tipo di
crisi può aprire a un decadimento della condizione iniziale.

Tutto dipende da come viene affrontata la trasformazione in atto.

4/11
In questo ci è di aiuto conoscere come funziona la crisi, che cos’è, da quali principi è
regolata.

Sono molte le dinamiche legate alla crisi, ma ci tengo a condividerne in questo articolo
alcune fondamentali e utili nella nostra situazione attuale.

Per approfondire: Superare la crisi

La natura della crisi


Un punto importante da cui partire è questo: riconoscere la natura della crisi. Che
cos’è una crisi? Abbiamo detto una trasformazione, certo, ma non è solo questo.

Una crisi è -per definizione- una situazione, un evento, in cui non hai certezza di riuscire.

Se non ci fosse questa sensazione viscerale di incertezza non la chiameremmo crisi, la


chiameremmo in un altro modo… semplicemente un evento ordinario.

Ciò che accade quando siamo in crisi è che, proprio perché sentiamo di non
riuscire, perdiamo di vista la nostra meta, quello che volevamo ottenere. Scompare
dalla nostra consapevolezza.

Nell’esempio della dieta… quando sono in crisi mi dimentico del perché inizialmente mi
ero messo a dieta, di cosa volevo ottenere, e apro il frigorifero.

Affrontare il primo tipo di crisi


Ecco che nel momento clou della crisi (il primo tipo di crisi, quella “scelta”) è
indispensabile fare due passaggi:

5/11
1. Riconoscere la difficoltà e ammettere di essere in crisi
2. Riconnettersi al fine, alla motivazione iniziale.
3. Questo permette di tenere in mezzo alla difficoltà perseguendo l’azione di
crescita iniziale fino ad ottenere l’esito desiderato.

In questo ci è di estremo aiuto un sostegno amorevole esterno di qualcuno che ci


ricorda quello che inizialmente volevamo ottenere quando abbiamo intrapreso quella
direzione.

Affrontare il secondo tipo di crisi


Nel secondo tipo di crisi, quelle imposte da eventi esterni, serve invece agire in modo
diverso. Perché quando la crisi arriva da fuori la meta inizialmente non c’è , oppure
c’era… ma era un’altra!

Non hai voluto quel cambiamento, ti è stato imposto dalla vita. Non volevi essere
licenziato, ma la ditta è fallita.

Allora l’approccio nell’affrontare la crisi in questi casi è diverso e si fonda su 4 cardini:

6/11
1) Accetta ciò che accade
Non l’hai voluto, ma è successo. Qualcosa c’è, esiste, anche se è indesiderato.

Negare, arrabbiarsi, incolpare, lamentarsi, mettere la testa sotto la sabbia… ecc.


non fa altro che farti perdere energia e potere di azione, cioè capacità di agire.

Accettare non vuol dire subire, ma vuol dire stare di fronte a quello che c’è, essere
disposti a interagire con questo (per il semplice fatto che esiste).

L’accettazione è apertura, accoglienza, ed è una forza attiva, non è passiva. È


un’attenzione direzionata ad interagire con quello che c’è, con la situazione in cui ti
trovi.

7/11
2) Trova la meta: cosa vuoi ottenere?
Nella situazione di crisi globale in cui ci troviamo, a tutti è imposto di ripianificare le
proprie intenzioni.

Non subire questo evento: origina altre intenzioni con quello che c’è.

Non puoi andare al lavoro? Prendi il tempo per stare in famiglia e per coltivare le tue
relazioni.

E te lo dico perché anche io in prima persona mi trovo coinvolto in questa situazione:


tutte le mie conferenze e i corsi pianificati sono stati annullati, e chissà quando potrò
riprenderli.

Lavora da casa, se puoi. Trova il tuo modo per rispondere a questa situazione.

Per molti potrebbe voler dire semplicemente fermarsi e prendere finalmente del
tempo per sé.

Non puoi andare alla lezione di yoga? Inizia a praticare a casa, connettiti via web con il
tuo insegnante e pratica a distanza.

Non puoi andare al corso di formazione a cui tenevi tanto? Studia da casa, guarda un
videocorso.

Le possibilità e le potenzialità del nostro tempo sono davvero enormi. Basta


allargare lo sguardo e possiamo trovare alternative costruttive e positive.

Questa indicazione, di trovare una meta, è valida sia nel riguardo delle piccole azioni, ma
soprattutto a livello più ampio per l’intera fase in cui ci troviamo:

Cosa vuoi ottenere da questa fase di trasformazione?

Come può questa crisi globale cambiare in meglio la tua vita?

La situazione ci sta mettendo di fronte, a livello collettivo, ad alcuni limiti del modello
sociale e culturale in cui abbiamo vissuto finora.

Ci sta imponendo di fermarci. Ci sta dicendo che dobbiamo stare uniti con un intento
comune. Ci apriamo a una trasformazione importante, ed è una sfida per l’umanità…
l’esito non è per nulla scontato.

A livello individuale, a mio avviso, è un invito al ritorno all’essenziale.

Ognuno è chiamato a scoprire il significato personale di questa crisi, così come il


significato globale.

Quello che possiamo fare è lasciarci guidare dai nostri valori, ovvero da ciò che
riteniamo importante.
8/11
Quando tutto il superfluo salta, cosa resta? Dove va la tua attenzione? Ecco che le cose
importanti della vita si svelano.

Questa crisi, questo stop forzato, ci permette di riconnetterci con ciò che è veramente
importante per noi.

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3) Fai il meglio che puoi con quello che hai


A volte sembra che quando abbiamo delle limitazioni non possiamo ottenere il meglio di
quello che vorremmo. Esistono numerose ricerche che dicono esattamente l’opposto,
tanto da portare le persone ad auto-imporsi delle limitazioni per poter essere più
creative e produttive.

Tieni in mente questo principio importante:

un limite non limita la tua creatività. Un limite è semplicemente una zona di


confine che definisce gli elementi in gioco.

Un limite non limita la tua creatività. Un limite è semplicemente una zona di confine che
definisce gli elementi in gioco.

9/11
Cosa puoi fare con quello che hai a disposizione?

Essere consapevole dei limiti permette di definire gli elementi in gioco e di


combinare questi elementi in modo creativo.

Non essere consapevole dei limiti apparentemente sembra un vantaggio… in realtà non
avendo definito quello che c’è, la creatività è depotenziata, perché non ha i “mattoncini”
da combinare.

Davvero, i limiti -imposti o autoimposti- sono una fucina per la creatività (che non
ha limiti, ma usa i limiti per creare).

4) Fiducia
La fiducia non può essere imposta dall’esterno, non si genera continuando a ripetersi
frasi mentali positive.

La fiducia la puoi solo trovare dentro di te, nella consapevolezza di te stesso.

Accogli quello che sta accadendo, sii consapevole di te e trova il tuo centro, quello
spazio intoccato da tutto, quel contenitore più grande che contiene tutto. Lì origina la
vera fiducia.

Con fiducia possiamo affrontare uniti questa trasformazione e trovare assieme una
strada verso una condizione migliore per tutti.

10/11
Rispondere con responsabilità
Un’ultima cosa, importantissima, riguardo il confronto con la crisi e le trasformazioni:
il recupero del proprio potere di azione.

Ricorda che…

ogni volta che proiettiamo la responsabilità di quello che ci accade a qualcosa di esterno, o
qualcun altro, stiamo perdendo potere di azione, cioè capacità di agire.

Proiettare vuol dire accusare, incolpare, lamentarsi, criticare… tutte queste azioni le
facciamo per scaricare una tensione, ma sono inutili, indeboliscono le tue azioni
nella situazione in cui ti trovi, già difficile di per sé.

Ecco che un punto fondamentale è il recupero della propria responsabilità, cioè della
capacità di agire e di rispondere.

Non hai scelto di trovarti di questa situazione, ma sei chiamato ora a scegliere. Scegliere
che cosa? Scegliere di rispondere in modo responsabile e consapevole.

Ognuno è chiamato a fare la sua parte. Se ognuno, in coscienza e con responsabilità,


agisce al meglio, abbiamo la possibilità di trasformare questa crisi proprio in quello di cui
avevamo bisogno: una transizione verso un mondo migliore.

Per approfondire: Scegliere

Bibliografia
Silvano Brunelli – La mia vita

11/11
Life Skills: competenze
per la vita


• Agostino Famlonga
• Ultimo aggiornamento: 19 Febbraio, 2020

Cosa sono le Life Skills? Sono competenze fondamentali per la


vita. Ecco le 10 abilità per la vita definite dall'OMS e il training per
poterle educare.

1
Life skills, cosa sono?
Le life skills sono competenze e capacità individuali, sociali e relazionali che
permettono agli individui di affrontare efficacemente le esigenze e i
cambiamenti della vita quotidiana.
Le life skills sono abilità personali che veicolano comportamenti positivi e di
adattamento che rendono l’individuo capace di fare fronte efficacemente alle
richieste e alle sfide della vita di tutti i giorni.
Le life skills sono dunque “competenze di vita” o “competenze per la vita”:
ovvero sono capacità di vivere la vita rispondendo in modo adeguato ai vari
eventi che si presentano.
Chiaramente sono tantissime le competenze richieste per vivere, e queste
variano in base al contesto e al periodo storico di riferimento.

Alcune abilità sono più fondamentali di altre, e sono state scelte dall’OMS come
obiettivo di sviluppo individuale.

Le 10 life skills definite dall’OMS


L’OMS (Organizzazioine Mondiale della Sanità) ha identificato un gruppo di life
skills ritenute fondamentali sia per il benessere individuale che sociale.
Queste 10 skills rappresentano il fulcro delle iniziative di promozione della salute
del benessere.

2
Queste sono le 10 life skills essenziali:
1. Consapevolezza di sé
2. Empatia
3. Gestione delle emozioni
4. Gestione dello stress
5. Comunicazione efficace
6. Abilità di relazioni interpersonali
7. Prendere decisioni (Decision Making)
8. Risolvere problemi (Problem Solving)
9. Creatività
10. Pensiero critico
11.

Le 10 life skills definite dall’OMS


3
Perché apprendere le life skills?
Possedere un’abilità significa essere competenti (sapere come fare)
e funzionali nelle azioni (cioè agire in modo corretto). Le azioni corrette
veicolano i risultati attesi.
Possedere adeguate competenze interpersonali, ad esempio, ti permette di
avere relazioni migliori perché basate sulle interazioni sicure e scambi basati sul
reciproco rispetto.

Detto in modo opposto: se non possiedi adeguate competenze relazionali molto


probabilmente incontrerai nelle relazioni una serie di difficoltà che genereranno
disagio e sofferenza in quest’area.

La vita moderna è diventata sempre più complessa, ovvero richiede di avere


sempre più competenze nei vari ambiti della vita.

Il sistema educativo si occupa dell’apprendimento di competenze specifiche per


i vari settori educativi, ma spesso le life skills vengono tralasciate.

Nelle scuole spesso vengono trasmesse competenze che riguardano le materie


di studio, ma l’arte di “imparare a vivere” è spesso relegata al “fai da te.”
Senza un’attenzione specifica in questo senso gli esiti per i giovani non sono per
nulla scontati.

Nelle parole dell’OMS:


”in ragione dei grandi cambiamenti culturali e nello stile di vita, molti giovani non
sono più sufficientemente equipaggiati delle skills necessarie per poter fare
fronte alle crescenti richieste e allo stress che si trovano ad affrontare. È come
se i meccanismi tradizionali per trasmettere le life skills non fossero più adeguati
a causa dei nuovi fattori che condizionano lo sviluppo dei giovani.”

4
L’utilità delle life skills per i giovani
Apprendere le competenze di vita in giovane età è certamente l’iter formativo
ideale, per più motivi.
I giovani sono alla ricerca del loro posto nel mondo e impostano nelle varie
fasi di sviluppo il loro personale e originale stile di vita.
Apprendere le life skills in questa finestra formativa permette di impostare fin da
subito uno stile di vita adeguato e funzionale.
Le life skills rendono la persona capace di trasformare le conoscenze, gli
atteggiamenti e i propri valori in capacità operative, cioè sapere come cosa fare
e come farlo.

Educare i giovani alle competenze di vita permette di aiutarli a essere


emancipati e funzionali nella vita, e a scegliere in autonomia stili di vita sani
e che sentono adeguati a loro.
Possedere adeguate competenze di vita permette ai giovani di elevare il
loro senso di auto-efficacia e di auto-stima, incrementando la fiducia in loro
stessi.
Apprendere le life skills si rivela inoltre un importante fattore di protezione nei
confronti dei comportamenti a rischio per la salute del giovane.

5
L’utilità delle life skills per gli adulti
Quello che è stato detto riguardo i giovani è valido in modo equivalente per gli
adulti.

Possedere adeguate competenze permette di elevare la propria qualità di


vita.
L’adulto possiede un suo particolare stile di vita, tende ad avere
delle abitudini impostate e delle competenze sviluppate in modo spontaneo.
A volte la configurazione risultante da questa somma è adeguata, a volte meno:
si generano situazioni spiacevoli, con presenza di dolore e un notevole carico di
stress.

In questi casi spesso si cerca di trovare una soluzione nel contesto,


intervenendo nel modificare la situazione.

A volte questo è un approccio corretto, ma spesso invece la situazione si è


presentata semplicemente a causa di insufficienti skills da parte della
persona.

6
Ecco allora che portare l’attenzione alle abilità personali e concentrare le
energie nel miglioramento personale si rileva essere una strategia
corretta per uscire fuori da situazioni disfunzionali.
Le life skills per gli adulti si rivelano quindi degli ottimi strumenti di risoluzione
dei problemi, sia a livello individuale che collettivo, e permettono di vivere una
vita più piena e realizzata.
In ogni caso, anche laddove non siano presenti condizioni problematiche, in ogni
individuo è presente una naturale spinta al miglioramento personale:
un’ambizione legittima a vivere una condizione di vita migliore, a conoscere
maggiormente sé stesso, ad esprimersi di più e ad avere relazioni migliori.
Le competenze di vita sono strumenti che permettono di tradurre in pratica la
spinta al miglioramento.

Le life skills complementari


Le life skills si sovrappongono tra di loro in innumerevoli aspetti.
Il miglioramento in una competenza specifica, ad esempio la capacità di gestire
le proprie emozioni, si riverbera anche nelle altre aree, come ad esempio
l’empatia, le abilità di comunicazione e le abilità di relazione.

7
Consapevoli di questa profonda interconnessione, è comunque utile dividere le
10 life skills in coppie complementari, individuando 5 aree su cui portare
l’attenzione per l’insegnamento delle competenze di vita.
Queste sono le 5 aree che emergono abbinando tra loro le life skills
complementari.
• Consapevolezza di sé
• Empatia

• Gestione delle emozioni
• Gestione dello stress

• Comunicazione efficace
• Abilità di relazioni interpersonali

• Prendere decisioni (Decision Making)
• Risolvere problemi (Problem Solving)

• Creatività
• Pensiero critico

8
Le 10 life skills definite dall’OMS divise per aree di sviluppo

Le competenze divise in aree di


sviluppo
Un altro modo per abbinare le life skills tra di loro è usare come criterio le aree
di sviluppo individuale.
Le aree sono quella cognitiva, quella emotiva e quella relazionale.
Le life skills cognitive si riferiscono sia alle capacità di pensare, in modo critico
e creativo, nei confronti delle situazioni, che all’abilità di scegliere
consapevolmente e di affrontare in modo funzionale la risoluzione dei problemi.
Le life skills emotive comprendono la capacità di essere consapevoli e di
gestione delle proprie emozioni e di affrontare lo stress.
9
Le life skills relazionali includono la capacità empatica, le abilità di
comunicazione e in generale l’area delle competenze interpersonali
Prima di vederle singolarmente, cerchiamo di comprendere l’abilità
fondamentale, trasversale a tutte le aree: la consapevolezza di sé.

Life Skill – Consapevolezza di sé

Consapevolezza di sé
La prima life skills su cui porre l’attenzione è la consapevolezza di sé stessi.
Tutto parte da qui, anche lo sviluppo delle altre abilità.

Senza questa funzione, tecnicamente non ci può essere lo sviluppo di alcuna


abilità.

Un’abilità infatti è una “conoscenza operativa”, ovvero qualcosa che si


conosce, una conoscenza consapevole.
Senza consapevolezza, non ci può essere sviluppo intenzionale di alcuna
capacità.

Essere consapevoli di sé ha un duplice significato: significa sia conoscere sé


stessi che sviluppare la dote della presenza consapevole.
La conoscenza di sé stessi è frutto della capacità di introspezione.

10
Si manifesta con il riconoscimento di ciò che è giusto per sé, dei propri valori,
dei propri bisogni, dei propri talenti, di quello che si desidera; così come dei
propri punti di forza e delle proprie debolezze.

La capacità di essere presenti è la capacità di veicolare consapevolmente


l’attenzione su un oggetto di interesse, così come di distoglierla in base alla
propria volontà.
Queste due caratteristiche della consapevolezza di sé sono complementari: per
conoscere sé stessi è necessario infatti mantenere su di sé l’attenzione per un
tempo adeguato.

Più una persona è in grado di sostenere intenzionalmente l’attenzione su un


oggetto, più sarà in grado, quando rivolge l’attenzione su di sé, di conoscere sé
stessa.

Le due qualità inoltre si rinforzano reciprocamente.

Come già detto, la capacità di essere consapevoli di sé è il prerequisito per lo


sviluppo di tutte le altre abilità personali, ma non solo: è anche il prerequisito per
lo sviluppo delle competenze interpersonali.

Consapevolezza di sé [Approfondimento teorico]


• Osservare e sentire per divenire consapevoli
• Coscienza e consapevolezza, qual è la differenza?
• I 6 tipi di inconscio
• Il guidatore e l’elefante, una visione integrata
• La completezza esistenziale e l’esperienza diretta di sé
• La consapevolezza multidimensionale

Consapevolezza di sé [Approfondimento pratico]


• Intensivo sull’Essere Consapevole
• Orientamento
11

Le competenze emotive

Life Skill – Gestione delle emozioni

Gestione delle emozioni


La competenza emotiva è basata sulla capacità di riconoscere le proprie
emozioni e quelle degli altri, di essere consapevoli di come le emozioni
influenzino il comportamento.

12
Gestire le emozioni non significa controllarle, ma dopo averle accolte con
consapevolezza essere in grado di veicolarle in modo appropriato al
contesto, esprimendole nel rispetto di sé stessi e degli altri.

Gestione delle emozioni [Approfondimento


teorico]
• Le emozioni e l’ombra
• Le emozioni e la respirazione [Webinar]
• Respiro Circolare

Gestione delle emozioni [Approfondimento


pratico]
• Respiro Circolare

Life Skill – Gestione dello stress

Gestione dello stress


Lo stress è una reazione intensa ad una serie di stimoli esterni o interni che
generano una risposta di adattamento.
Lo stress è generato dunque da una situazione specifica che richiede una
risposta.

13
Gestire lo stress significa avere la capacità di monitorare in tempo reale il
proprio stato di attivazione, e di modularlo intervenendo in due direzioni:
modificando ciò che ha generato la risposta di stress (intervenendo quindi
sull’ambiente esterno) oppure trovando strategie per modificare il proprio
stato interiore, modificando il proprio atteggiamento, il proprio vissuto
emotivo o le azioni in quel contesto.
Una corretta gestione dello stress permette di mantenere una risposta adeguata
e di non incorrere nel fenomeno del burnout (esaurimento delle risorse
psicofisiche).

Gestione delle stress [Approfondimento teorico]


• Lo Stress
• Migliorare la salute e il benessere con la respirazione [Webinar]

Gestione dello stress [Approfondimento pratico]


• La tensione e i conflitti
• La stanchezza e la malattia
• Superare la crisi
• Respiro Circolare

14
Le competenze cognitive

Life Skill – Prendere decisioni (Decision Making)

Prendere decisioni (Decision Making)


L’abilità di scegliere si compone della capacità di elaborare attivamente e
consapevolmente le fasi del processo decisionale, valutando tra le varie
opzioni quella più adatta a sé e al contesto in cui ci si trova.

15
Significa essere consapevoli delle conseguenze della decisione presa, sia per
sé che per gli altri, e anche assumersene la responsabilità.

Prendere decisioni [Approfondimento teorico]


• Scegliere [Webinar]
• La scelta: 4 principi fondamentali
• Lo sviluppo della volontà

Prendere decisioni [Approfondimento pratico]


• Orientamento

Life Skill – Risolvere problemi (Problem Solving)

Risolvere problemi (Problem Solving)


La skill di problem solving si manifesta come la capacità di individuare, di fronte
a una situazione problematica, soluzioni efficaci sia per sé che per il
contesto.
Avere l’abilità di risolvere i problemi significa anche approcciare in modo
costruttivo e positivo le sfide della vita, identificando, all’interno di una
specifica situazione problematica, qual è l’esito desiderato, indirizzando in
quella direzione le azioni.
L’abilità di problem solving è supportata delle altre due competenze cognitive: il
pensiero critico, che permette di osservare e comprendere in modo oggettivo

16
la situazione, e la creatività, che permette di espandere le possibilità di
risoluzione.

Problem solving [Approfondimento pratico]


• I problemi
• Sbagliare correttamente

Life Skill – Creatività

Creatività
La competenza creativa è la capacità di generare ex novo soluzioni e
creazioni inedite.
La creatività si manifesta come la capacità di introdurre, in un determinato
contesto, qualcosa che prima non c’era.

Il pensiero creativo esplora alternative possibili, genera idee originali nel


trovare soluzioni a situazioni difficili, ed è quindi determinante nell’abilità di
risoluzione dei problemi.

Creatività [Approfondimento pratico]


• La crescita

17
Life Skill – Pensiero Critico

Pensiero critico
Il senso critico è la capacità di esaminare una situazione e di assumere una
posizione personale in merito, mantenendo un atteggiamento
responsabile nei confronti delle esperienze e in autonomia rispetto alle
possibili influenze di punti di vista esterni.
La skill di pensare criticamente ha alla base la capacità di analizzare le
informazioni e le esperienze di maniera obiettiva, discriminando ciò che si
riferisce a eventi oggettivi da ciò che è generato dai propri vissuti soggettivi nei
confronti della situazione.

Pensiero critico [Approfondimento teorico]


• Assolutismi
• Fallacie
• Teoria, ipotesi o legge?

Pensiero critico [Approfondimento pratico]


• Vivere con una teoria

18
Le competenze relazionali

Life Skill – Comunicazione efficace

Comunicazione efficace
Le abilità di comunicazione sono molte, e si manifestano con la capacità
di creare comprensione reciproca, quindi sia di farsi comprendere dagli
altri che, viceversa, comprendere le comunicazioni degli altri.
Comunicare efficacemente significa farsi capire in ogni contesto e con qualsiasi
interlocutore, e anche saper ascoltare.

19
Una comunicazione efficace veicola coerenza tra ciò che viene detto
(comunicazione verbale) e la postura e la voce (comunicazione non verbale e
para-verbale).
L’abilità di comunicare efficacemente permette di manifestare il proprio punto
di vista, le proprie opinioni, i propri bisogni e desideri in modo costruttivo in
base al contesto.
La competenza comunicativa si manifesta inoltre con la capacità di chiedere
esplicitamente un aiuto o un consiglio laddove ne sia richiesta la necessità.

Comunicazione efficace [Apprendimento teorico]


• Le 3 spunte blu della comunicazione consapevole
• Il paradigma della comprensione
• La comunicazione

Comunicazione efficace [Approfondimento


pratico]
• Il potere della comunicazione
• Intensivo sull’Essere Consapevole

Life Skill – Empatia

Empatia
20
L’empatia è la capacità di mettersi nei panni degli altri, di condividerne e
riconoscerne le emozioni in un “sentire condiviso”.
La capacità empatica permette di comprendere come si sente emotivamente
l’altra persona, non interpretando mentalmente lo stato altrui, ma sentendo in
sé ciò che sente l’altro.

Empatia [Approfondimento teorico]


• La diade relazionale
• Eye Contact Experiment

Empatia [Approfondimento pratico]


• Intensivo sull’Essere Consapevole

Life Skill – Abilità di relazioni interpersonali

Abilità di relazioni interpersonali


Le abilità di relazione sono moltissime, e si manifestano con la capacità
di creare e mantenere relazioni significative con gli altri.
Le skills interpersonali stanno alla base di relazioni che funzionano.
Queste si manifestano in principio con una scelta: la scelta di investire il proprio
tempo e le proprie energie in una determinata relazione, e viceversa di
interrompere eventuali relazioni non adeguate.

21
Le abilità di relazione si manifestano con una componente di assertività, cioè
con l’abilità di affermare sé stessi all’interno della relazione nel pieno rispetto
degli altri, manifestando i propri punti di vista e dichiarando i propri bisogni,
senza prevaricazione o sottomissioni.
Le skill relazionali permettono di creare e mantenere relazioni in cui ogni
componente è riconosciuto e rispettato con le sue peculiarità, e in cui c’è
spazio per l’espressione individuale.
Con queste caratteristiche la relazione ha dei confini che permettono
di mantenere la propria individualità, senza alcun tipo di fusione o distacco, e
al contempo permette ad ognuno di sperimentare l’emergere del senso del
“noi”, fenomeno emergente dall’interazione e dallo scambio reciproco.
Sentire l’appartenenza ad un gruppo significa estendere il senso della propria
individualità ad un qualcosa di più grande.
È un passaggio che a volte emerge spontaneamente, ma anch’esso in realtà è
una abilità personale che può essere appresa

Un’altra abilità interpersonale fondamentale è la capacità di collaborare con


gli altri, individuando e perseguendo per libera scelta dei fini comuni.

Abilità di relazione [Approfondimento teorico]


• La diade relazionale
• Il paradigma della comprensione
• Insegnare le relazioni

Abilità di relazione [Approfondimento pratico]


• Intensivo sull’Essere Consapevole
• La tensione e i conflitti
• Costruire Relazioni

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Life skills training
Studio ed esercitazione
Una competenza viene acquisita tramite dei passaggi di apprendimento.

L’aspetto che permette di velocizzare l’apprendimento di una skill


è l’abbinamento di una conoscenza teorica ad una applicazione pratica,
così come indicato dall’OMS nelle sue linee guida per l’insegnamento delle life
skills.
Il training delle life skills inizia dunque con lo studio di come funzionano le
competenze.
La conoscenza permette di comprendere come funzionano le abilità e di avere
una visione più ampia ed esatta della realtà e di comprendere il proprio
funzionamento in quell’area specifica.
Il training della skill appresa teoricamente è poi il passaggio che permette di
acquisire concretamente, in modo progressivo, la competenza.
Questa sequenza operativa (studiare una skill ed esercitarla) ha un ordine
logico che permette di avere dei risultati.
Oltre a questi esistono altri due fattori che inseriti nella sequenza di training delle
life skills permettono di massimizzare l’efficacia dell’apprendimento e soprattutto
di velocizzare l’intero processo.

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Sono elementi derivati dallo studio sul campo del funzionamento dell’essere
umano e delle sue abilità.

La ricerca Scienze delle Abilità Umane, ideata dai ricercatori Silvano Brunelli e
Silvana Tiani Brunelli, è il frutto di più di 35 anni di ricerca in questo campo: lo
sviluppo delle abilità umane.
È un insieme ordinato di conoscenze e di percorsi innovativi che hanno lo
scopo di elevare le abilità umane nelle varie della vita.
Nell’apprendimento delle abilità questa ricerca applicata ha identificato altri due
passaggi fondamentali, oltre allo studio e al training delle skills.

Assumere una scelta


Oltre all’acquisizione di una conoscenza e la messa in pratica di una skill c’è un
passaggio fondamentale: la scelta da parte di chi riceve l’informazione di
assumere un determinato comportamento o di agire in modo diverso.
L’informazione è un ottimo punto di partenza, ma se manca il passaggio
fondamentale della scelta, l’informazione è solo un potenziale, non si traduce
in un comportamento attivo da parte di chi riceve la conoscenza.
L’individuo, una volta acquisita e resa consapevole un’informazione, è
chiamato a prendere posizione nei confronti di essa.
Non è tanto l’informazione a creare un cambiamento di atteggiamento nel
tempo, quanto la presa di posizione dell’individuo nei confronti di quella specifica
conoscenza.

Ecco allora che, consapevoli di questo elemento importante, nel training delle
life skills è utile inserire, tra l’acquisizione di una conoscenza e il passaggio di
esercitazione delle abilità, un ulteriore passaggio: un passaggio che favorisce
la scelta consapevole nel pieno rispetto della libertà individuale.
Scienze delle Abilità Umane ha identificato un metodo operativo per facilitare
questo passaggio: degli esercizi di comunicazione svolti in coppia che

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permettono a chi li esegue di assumere una scelta, nel rispetto della libertà di
scelta individuale.
Negli esercizi di comunicazione due individui in relazione reciprocamente si
comprendono in merito al tema di studio.
Un adeguato grado di comprensione e di consapevolezza permette
di maturare una scelta in autonomia.
La scelta, abbinata alla pratica dell’abilità, è l’elemento che permette di tradurre
la conoscenza teorica in un reale cambiamento visibile nella vita.

L’abilità è connessa al risultato


Un altro elemento innovativo introdotto nel training delle life skills da parte della
ricerca Scienze delle Abilità Umane è il riconoscimento del legame esistente
tra l’abilità e il risultato che l’abilità permette di ottenere.
Ecco un’utile definizione di abilità:

Un’abilità è una conoscenza applicata che permette di ottenere


un risultato.

Silvano Brunelli

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Definizione di Abilità – Scienze delle Abilità Umane

Concepire le abilità umane in questo modo permette di assumere un


utilissimo atteggiamento finalizzato che opera seguendo questa sequenza
logica:
Che cosa voglio ottenere? <-> Quali abilità ho bisogno di sviluppare per
ottenerlo?
Questa logica operativa permette sia di essere finalizzati nei propri intenti che di
essere proattivi nello sviluppo delle proprie competenze.

L’apprendimento delle abilità


Unendo tutti questi elementi, la ricerca Scienze delle Abilità Umane ha
strutturato una metodologia di apprendimento delle abilità che ha dimostrato sul
campo la sua efficacia.

La sequenza è questa:

1) Studio delle abilità


2) Allenare le abilità con gli esercizi di comunicazione
3) Assumere una scelta
4) Applicare le abilità
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5) Ottenere i risultati

Per i ragazzi: Scuola delle Abilità


La Scuola delle Abilità è un innovativo percorso di studio dedicato allo sviluppo
delle abilità personali per bambini e ragazzi. L’impegno e il piacere si
incontrano per compiere importanti passi nel conoscere sé stessi, gli altri e la
vita.
Vengono studiate le abilità: come sono fatte, come funzionano, quali risultati
producono e quali problemi risolvono.
Si praticano utili esercizi di comunicazione in cui si impara ad ascoltare gli altri e
a esprimersi.

Si creano progetti per applicare le abilità nella vita quotidiana e migliorare


così le esperienze in famiglia e a scuola.
Si sperimentano diversi tipi di laboratori all’insegna del divertimento intelligente.

Per gli adulti: Abilità nella vita


Abilità nella vita è percorso innovativo di studio della vita di crescita
personale in cui vengono studiate ed apprese le abilità fondamentali per
vivere una vita piena e realizzata.
Lezioni chiare e utili espongono i principi di base della crescita e aprono ad una
visione più ampia ed esatta della realtà.

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Il metodo di lavoro del corso ha una base semplice e subito operativa:
comprendere le abilità umane e metterle in pratica.

L’approccio pragmatico permette di ottimizzare il tempo e risorse.


La conoscenza permette di abbandonare dati errati, false credenze, pesi inutili
e obsoleti; stimola a prendere posizione, a scegliere, a usare la
propria volontà.
L’impegno nell’applicazione è la forza che realizza la vera crescita, consuma i
limiti dovuti al passato e conquista risultati di valore.

BIBLIOGRAFIA
OMS – Carta di Ottawa per la promozione della salute
Silvano Brunelli e Silvana Tiani Brunelli – Scienze delle Abilità Umane
Silvano Brunelli – Le abilità personali nell’educazione
Silvana Tiani Brunelli – I fini dell’educazione
Silvana Tiani Brunelli – Lo sviluppo della personalità

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La procrastinazione da perfezionismo
essereintegrale.com/procrastinazione-perfezionismo

Agostino Famlonga

Procrastinare humanum est


Tutti conosciamo l’esperienza del rimandare qualcosa che sappiamo andrebbe fatto ora.
È assolutamente umano e normale.

Sono innumerevoli le dinamiche che stanno dietro l’abitudine al procrastinare. Il


meccanismo più comune e pervasivo però è quello legato all’incapacità di sostenere il
ritardo della gratificazione.

Le cose che vengono rimandate sono spesso quelle che sappiamo ci faranno bene a
lungo termine, ma non ci danno gratificazione istantanea.

Fa parte della natura umana essere attratti da ciò che ci da piacere immediato. E in
questo non c’è nulla di sbagliato, se non quando va a sommarsi con l’incapacità di dire
di no e di connettersi ad un valore più grande, a qualcosa che va oltre la gratificazione
istantanea.

Ciò che a lungo termine veicola una crescita per la qualità di vita della persona, spesso è
scollegato dalla gratificazione immediata. Rappresenta, nell’immediato, un impegno che
richiede spesso di esercitare l’abilità della volontà. Per questo motivo sono le attività
che vengono rimandate per prime.

Un esempio classico: un sedentario sa benissimo che se facesse dello sport (supponiamo


la corsa), la sua salute ne trarrebbe giovamento.
1/13
Il risultato per questa azione è grande: una condizione di salute migliore. Questo
rappresenta certamente una crescita per la qualità della sua vita.

Ma la gratificazione è spostata in là nel tempo. È un piacere futuro. Nell’immediato c’è


solo un impegno e uno sforzo nel dover uscire di casa a correre, probabilmente con il
fiatone se sta iniziando da zero l’attività di fitness.

È facile procrastinare rimandando questa attività che richiede l’uso della volontà a
discapito di un’altra attività che da una gratificazione immediata: stare sul divano e
navigare sui social media, ad esempio.

Il meccanismo sotteso alla procrastinazione è semplice:

Barattiamo una grande gratificazione futura con una piccola gratificazione immediata.

Il grande inganno è che pensiamo che tante piccole gratificazioni equivalgano a una
grande.
In realtà non è così.

Per innalzare la qualità della tua vita, o della tua salute, o delle tue relazioni, è necessario
uscire fuori dal loop della gratificazione immediata e direzionare consapevolmente le
tue intenzioni, sapendo che la gratificazione che avrai come ricompensa dell’impegno
sarà molto più grande di quella che puoi trarre nell’immediato in una condizione di
indolenza o nel piccolo piacere di fare qualcosa di poco impegnativo.

Da leggere » Il guidatore e l’elefante

La vera gratificazione: essere sé stessi


Esiste un apparente paradosso: ciò che siamo è già intrinsecamente perfetto, così
com’è. In questa perfezione non c’è nulla da fare, non ci sono azioni da compiere. Non c’è
alcuna crescita personale se non quella di aprirsi alla propria profonda verità.

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Eppure c’è un altro aspetto, legato in modo indissolubile a questo: quello che siamo
necessita di rendersi manifesto, nella vita e nelle relazioni.

E tra questi due poli c’è spesso un gap, una differenza di potenziale tra quello che
intrinsecamente siamo e quello che manifestiamo di noi stessi nella vita. È una differenza
dovuta alle intrinseche limitazioni umane, o ad abilità inadeguate a manifestare la
propria profonda natura.

In questa differenza, tra ciò che siamo veramente e quello che manifestiamo nella nostra
vita, risiede il processo evolutivo personale. L’evoluzione personale consiste
nell’avvicinare i due poli, fino a farli coincidere.

Questo processo richiede impegno, richiede inizialmente l’uso della volontà.


L’attaccamento alla gratificazione immediata è un ostacolo a questo processo perché
ancòra la persona alla situazione attuale in cui si trova mantenendo viva la distanza tra i
due poli dell’equazione.

La differenza permane perché non c’è l’impegno attivo a colmare il gap tramite l’utilizzo
della volontà, stando in una situazione temporanea in cui non c’è gratificazione, ma che
richiede impegno.

Da leggere » Le fasi di sviluppo della volontà della resa

In questo apparente paradosso è custodita un’indicazione importante per il suo


superamento.

La gratificazione immediata deve lasciare il posto ad una gratificazione più grande, quella
di essere sé stessi e di esprimerlo in modo autentico, anche se questo richiede impegno.

Quando avviene questo passaggio interiore, la procrastinazione lascia spazio ad un


fluire naturale delle azioni necessarie per colmare la differenza di potenziale tra quello
che sei veramente e quello che manifesti nella tua vita. La procrastinazione si scioglie in
modo naturale.

Avremo certamente modo di tornare in modo più approfondito su questo argomento in


futuro.
In questo articolo ti voglio parlare di una versione evoluta della procrastinazione, quella
del perfezionista.

3/13
La versione evoluta della procrastinazione: la
procrastinazione da perfezionismo
La procrastinazione da perfezionismo è una versione avanzata della procrastinazione,
subdola e difficile da sradicare.

È ingannevole perché, agli occhi del mondo intero e anche della persona stessa, chi ne è
affetto non appare per nulla un procrastinatore.

Il procrastinatore classico tende alla pigrizia e all’indulgenza.

Il procrastinatore da perfezionismo è una persona che fa, che si impegna molto.

Può anche essere visto come un super-facente.

Eppure continua a rimandare (a procrastinare).


Che cosa rimanda? La conclusione di quello che sta facendo.

Il procrastinatore perfezionista continua a lavorare su qualcosa con l’intenzione di


renderla perfetta, senza mai darla alla luce, ovvero senza mai renderla visibile, senza
attuare quell’azione che rivela agli altri la sua creazione, non completa mai l’opera. La
tiene per sé, fintanto che sente in cuor suo che sarà perfetta.

Continua a fare, a cercare di migliorare quello che sta creando.

Perché è comunque un procrastinare?

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Perché l’azione che migliorerebbe la sua qualità di vita sarebbe dare alla luce la sua
creazione, o compiere la sua azione. E questa sarebbe in grado di migliorare la sua
vita anche se non fosse perfetta, per come intende lui la perfezione.

Nella differenza tra il tempo in cui potrebbe consegnare agli altri la sua creatura e il
tempo che invece impiega a renderla perfetta (ai suoi occhi), la persona entra nel
meccanismo della procrastinazione.

È un atteggiamento molto diverso rispetto al procrastinatore classico, perché in questo


lasso di tempo, la persona continua a fare, si impegna, è operosa .

In questo caso la gratificazione immediata che prova sta nel sollievo di sistemare
alla perfezione i dettagli di quello che sta facendo. Questa sistemazione è un sollievo
perché dietro la tendenza a inseguire un ideale di perfezione c’è l’ansia legata al sentire
di non essere adeguati.

Continuando a togliere gli apparenti difetti in quello che sta facendo, il procrastinatore
perfezionista allieva il suo disagio di non andare bene così com’è.

A questo si somma la paura del giudizio degli altri, radicata anch’essa nel timore di non
andare bene così come si è e quindi di essere giudicati per quello che si sta facendo.

Avere uno standard alto: i pro e i contro


La procrastinazione da perfezionismo è subdola, oltre ai motivi che abbiamo appena
visto, anche perché viene spesso scambiata e giustificata con l’avere uno standard
qualitativo alto.

Esiste anche un rinforzo sociale legato a questo meccanismo: viene a volte incentivato
dalle persone che gravitano attorno al perfezionista con lodi di stima per l’impegno
profuso nelle sue opere.

E viceversa, il procrastinatore da perfezionismo tende a intessere delle relazioni strette


proprio con coloro che lo sostengono in questo atteggiamento e che lo mantengono
in quella posizione conosciuta.

Avere cura nel fare le cose è certamente un bene. Chiedere a sé stessi di fare una cosa
al meglio delle proprie possibilità è certamente una cosa positiva.

Il mondo progredisce grazie alle persone che si impegnano e danno il massimo di quello
di cui sono capaci.

Diventa però una trappola se in questo atteggiamento c’è un giudizio severo nei
confronti delle proprie azioni e se c’è una continua rincorsa a voler perseguire
un’immagine idealizzata di sé.

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L’immagine idealizzata di sé è un ideale che la persona ha di sé stessa, spesso molto
distante dalla realtà dei fatti (per questo viene definita idealizzata, perché è un’ideale
irraggiungibile).

Con questi elementi in azione lo standard alto innesca il meccanismo della


procrastinazione da perfezionismo, e questo certamente è un atteggiamento negativo
perché è un freno alla crescita della persona.

Un esperimento illuminante: i vasi


C’è un esperimento incredibile che rivela a chi è affetto da procrastinazione da
perfezionismo un’indicazione preziosa per sciogliere questo meccanismo.

L’esperimento mette a confronto due gruppi di allievi di una scuola d’arte , nel dare
loro delle indicazioni diverse riguardo la realizzazione di vasi di argilla.

Al primo gruppo viene data l’indicazione di fare il vaso migliore che sono in grado di
fare. Senza avere limiti di tempo, possono dedicare tutti i loro sforzi nel creare il vaso
perfetto. Il gruppo verrà valutato da una giuria che gli darà un voto in base alla qualità
artistica del vaso realizzato.

Al secondo gruppo di studenti invece viene data semplicemente l’indicazione di fare


quanti più vasi possibili, senza curarsi della qualità. La loro valutazione sarà
proporzionale al numero di vasi realizzati.

Possiamo chiamare i due gruppi dell’esperimento come “gruppo qualità” all’opposto del
“gruppo quantità“.

I risultati dell’esperimento sono controintuitivi e sconcertanti, perché dopo aver


sottoposto i vasi alla valutazione di una giuria imparziale, è risultato che il gruppo che
aveva fatto più vasi, senza curarsi affatto della loro qualità, alla fine ha realizzato dei vasi
6/13
qualitativamente migliori rispetto all’altro gruppo, che aveva ricevuto l’istruzione di
realizzare il singolo vaso perfetto.

Chi ha valutato i vasi non sapeva da quale gruppo provenissero, e oggettivamente ha


valutato come migliori dal punto di vista estetico quelli del gruppo quantità, non
quelli del gruppo qualità.

Nel fare tanti più vasi possibili, in modo implicito il “gruppo quantità” ha acquisito le
abilità necessarie per fare dei vasi esteticamente appaganti, anche se non gli era richiesto
esplicitamente.

Il gruppo che ha cercato di realizzare un singolo vaso perfetto, non ha avuto modo di
acquisire le abilità necessarie per fare un vaso perfetto, semplicemente perché ha
fatto solo un vaso.

Una singola esecuzione non ha dato loro la possibilità di imparare al meglio delle loro
possibilità.

Cosa possiamo imparare dall’esperimento dei vasi


L’esperimento dei vasi ci mostra come la perfezione (qualsiasi cosa voglia dire questa
parola) derivi dall’esperienza, cioè dal fare le cose.

E l’esperienza si acquisisce facendo e ripetendo tante volte l’azione, o creando qualcosa


un numero elevato di volte.

Il messaggio da portare a casa è: concentrati sulla quantità della cosa che fai (o sulle
ripetizioni dell’azione che vuoi imparare) e non sull’avere la qualità perfetta in quello che
stai facendo.

La qualità è figlia della quantità.

Tante più volte farai quella cosa che vuoi fare perfettamente, tanto meglio ti riuscirà.

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L’eccellenza non si raggiunge con una singola ripetizione perfetta, o con una singola
creazione perfetta, ma è il frutto di un’infinità di ripetizioni apparentemente imperfette.

Rimandare la ripetizione di qualcosa perché si è costantemente impegnati nel rendere


perfetta una singola creazione, impedisce il progresso naturale verso la maestria di
un’abilità.

Da leggere » I 3 livelli di abilità

Un altro esempio: il disegno dei bambini


Il principio appena esposto può essere dedotto dalla nostra esperienza individuale,
anche senza scomodare gli esperimenti da laboratorio di psicologia.

Pensa a quando un bambino impara a disegnare. I primi tentativi si limitano a degli


scarabocchi. Li chiamiamo disegni perché sono fatti su un foglio, ma in realtà si tratta di
puri scarabocchi. Eppure, nel tempo, un bambino impara a disegnare sempre meglio,
cominciando a dare forma e significato a quelle righe sul foglio.

Più il bambino si esercita, migliore sarà la sua abilità nel disegno, chiaramente con
un limite personale dettato dalla sua predisposizione e talento artistico.

Nessuno si aspetta che un bambino realizzi, al suo primo disegno, un quadro


impressionista.
Arriverà a realizzarlo nel tempo, se si eserciterà con costanza producendo tanti e tanti
disegni.

Quindi, di nuovo, appare anche in questo caso il medesimo principio:

Concentrati sulla quantità, non sul realizzare una singola creazione perfetta.

Tradotto nella quotidianità di un adulto, con un esempio: se vuoi migliorare la tua


comunicazione, accetta di non essere perfetto nel comunicare le prime volte, e continua
8/13
a portarci attenzione e consapevolezza continuando a comunicare al meglio delle tue
possibilità.

Facendo correttamente, e continuando a fare, arriverà anche la maestria di quest’abilità.

Da leggere » Quanto tempo serve per formare un’abitudine?

Superare la paura del giudizio


Chi soffre di procrastinazione da perfezionismo, in modo consapevole o meno, tende ad
avere paura del giudizio degli altri.

È un timore che può trattenere una persona dall’esprimere le sue potenzialità anche per
una vita intera. Non c’è scadenza a questo timore, va affrontato e superato.

Come?
Per superare questa paura sono due aspetti su cui fare leva.

Innanzitutto riconoscendola, non serve fare finta che non ci sia. Va riconosciuta come
un qualcosa di naturale, non si tratta di un’anomalia. Fa parte della nostra natura
sociale, così come l’arte della procrastinazione fa parte della nostra natura animale.

In secondo luogo…

9/13
è necessario recuperare la motivazione intrinseca nel fare quello che stai facendo.

Se fai qualcosa per andare bene agli altri, sarai sempre soggetto a questo meccanismo.

Se stai facendo qualcosa perché è unatua espressione, perché esprime una verità
profonda che conosci di te stesso, quello che gli altri pensano di quello che fai passa in
secondo piano.

In primo piano va la tua espressione.

Da leggere » Divenire, quando il fare incontra l’essere

L’articolo che stai leggendo è una mia espressione, e mentre scrivo penso a darti un
messaggio nel modo migliore che io conosca. Non sono preoccupato del giudizio di chi
legge, sono concentrato unicamente sul cercare di farti arrivare un messaggio.

La motivazione è intrinseca, cioè è in me e in quello che sto facendo, ed è orientata e


concentrata sul processo comunicativo.

Al contrario, se scrivendo questo articolo cercassi di dimostrarti qualcosa, se volessi


apparire in un certo modo, questa sarebbe una motivazione estrinseca e chiaramente
ancorata alla paura del giudizio di chi legge.

Superare la procrastinazione da perfezionismo


Riassumiamo alcuni punti essenziali che abbiamo visto nell’articolo utili per superare la
procrastinazione da perfezionismo.

La vera motivazione
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Il primo e più importante spunto è quello di recuperare la motivazione intrinseca
passando in questo modo attraverso e oltre l’esperienza della paura del giudizio.

La qualità è figlia della quantità


Un’altra indicazione importante è quella di concentrarsi sul fare molte volte.
Fare tanto e al meglio delle proprie possibilità, confidando che la qualità, l’eccellenza
e la “perfezione” (qualsiasi cosa voglia dire questa parola) arriveranno con l’esperienza.

Focus sul processo, non sul risultato


Un’indicazione strettamente collegata alla precedente è questa: concentrati su quello
che stai facendo, più che su quello che vorresti ottenere.

In questo modo di agire c’è una connessione costante con lo scopo: l’azione è efficace
se è connessa a un fine e fecondata da un’intenzione consapevole, e quando
nell’esecuzione lo scopo e il fare coincidono .

C’è solo il processo del fare .

Quando il fare e l’essere coincidono, non c’è preoccupazione alcuna su quello che sarà
il risultato. Paradossalmente, questo è il modo migliore per ottenere proprio il risultato
ottimale.

Chi sta attendendo la tua espressione?


Un modo per sbloccare la situazione è quello di chiedersi chi o cosa sta aspettando la
tua espressione.

Quando rimandi qualcosa, qualcuno resta privo di quella cosa che vorresti fare. Quindi
puoi chiederti: non facendo questa cosa (perché credi che non sia adeguata), chi ne
subisce le conseguenze?

Ti accorgerai che quella cosa che vorresti fare avrebbe un impatto nella vita delle
persone. Un impatto positivo che, proprio perché tu ti stai trattenendo, non c’è.

Ad esempio: se avessi atteso la perfezione prima di pubblicare questo articolo, tu non lo


staresti leggendo, e non sarei riuscito a darti questi spunti di crescita.

Pensa a chi stai influenzando negativamente limitando la tua espressione, o al contrario


pensa chi, con un’espressione imperfetta ma ben intenzionata, potresti raggiungere
migliorando la qualità della sua vita. Solo tenere l’attenzione su questo aspetto a volte
è sufficiente a sbloccare una situazione di stallo.

Da leggere » La gioia di dare dura di più di quella di ricevere

Auto-imponiti delle limitazioni


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Un’altra indicazione utile è quella di darsi delle limitazioni.
Auto-imponiti delle restrizioni che limitano in anticipo il tuo standard di
perfezione. In questo modo sai già che non andrai avanti all’infinito.

Un esempio di questo principio applicato è ciò che stai leggendo. A volte impiego anche
una settimana a scrivere un articolo (chiaramente dipende dalla complessità
dell’argomento).

Per questo articolo mi sono dato come limite massimo 3 ore, che ho ormai raggiunto.

So che raggiunte le 3 ore, pubblicherò l’articolo così come sarà, lungi dall’essere
perfetto… ma comunque leggibile, e tu potrai leggerlo senza attendere e portare a casa
un messaggio di valore. Questo per me è più importante dello scrivere l’articolo del
secolo.

L’ho fatto come esperimento su me stesso e ti ho coinvolto per dimostrarti il potere


operativo di questo principio, che è facilmente applicabile in ogni cosa.

Non sarà questo l’articolo migliore che leggerai sul blog, ma comunque lo stai leggendo e
comprendendo, e questo è ciò che importa veramente.

La vera perfezione: l’autenticità


Sii consapevole che il grado massimo di perfezione risiede nell’essere sé stessi ed
esprimersi con autenticità.

Se ci sono questi due requisiti, l’integrità e l’autenticità, ogni azione manifesta un alto
grado di purezza e di perfezione, anche se oggettivamente resta perfettibile e
migliorabile all’infinito.

Se l’azione è autentica, è perfetta così com’è.

Domande per riflettere


Hai la tendenza a rimandare le cose impegnative a favore di piccole gratificazioni
immediate?
Ti poni degli standard alti in quello che fai, oppure stai cercando di raggiungere un
ideale irrealizzabile?
Quanto influisce la paura del giudizio degli altri su quello che fai? O su quello che
non fai?
Chi sta aspettando che tu ti esprima, anche se in modo “imperfetto”?

Puoi lasciare, se ti va, le tue riflessioni su questi aspetti nei commenti qui sotto.

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Bibliografia
L’esperimento dei vasi
The procrastination equation – Pier Steel

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I 3 livelli di abilità
essereintegrale.com/3-livelli-abilita

Agostino Famlonga

Quando impari qualcosa, qualsiasi cosa, attraversi una serie di passaggi di


apprendimento. Da una condizione in cui non sei capace di fare qualcosa, ad una in cui
possiedi una determinata abilità o conoscenza.

Ogni stadio di apprendimento ha delle caratteristiche peculiari. Portare consapevolezza


su questi aspetti è utile per due motivi:

1. Ti permette di comprendere a che punto sei nel percorso di apprendimento di


un’abilità.
2. Ti permette attraversare in modo consapevole il processo, sapendo che ogni
passaggio è indispensabile e non può essere saltato per arrivare alla maestria
di un’abilità.

Cominciamo dunque con il dare un ordine a questi step.

Il primo, e il più logico, è chiaramente una scala progressiva di livelli di abilità.

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Il punto di partenza
Il punto di partenza, il livello zero nel grafico, è la condizione iniziale in cui non si
possiede alcuna conoscenza dell’abilità che si vuole apprendere.

Non necessariamente il livello zero coincide con l’incapacità totale di eseguire un


compito, dipende da quello che si vuole imparare.

Due esempi per chiarire questo aspetto.

Se volessi imparare il cinese, partirei da una tabula rasa, perché non ho la minima idea
né di come si legge, né di come si scrive, né di come si pronuncia. Quindo lo zero
significa proprio una condizione di partenza senza precedenti.

Se volessi imparare l’abilità del salto in lungo, il livello zero non coincide con uno zero
assoluto. Qualche centimetro sono in grado di saltarlo, anche senza avere portato
l’attenzione e l’intenzione a questo aspetto.

Apparentemente la seconda condizione sembra migliore della prima: avere già una
conoscenza intuitiva di un’abilità, appresa in modo autonomo e spontaneo potrebbe
sembrare un vantaggio rispetto alla partenza a livello zero. Questo non è sempre vero.

A volte, quando si possiede già una conoscenza dell’abilità, bisogna attraversare un


periodo in cui dis-imparare ciò che si è appreso autonomamente per poter fare un
salto ad un livello qualitativo maggiore. Non è sempre vero, ma a volte succede ed è
giusto tenere in considerazione questo aspetto.

Un esempio personale di questo principio: io ho imparato a nuotare da solo da ragazzo.


In qualche maniera ho sempre nuotato e avevo appreso un mio “stile personale”,
chiaramente molto lontano dall’ottimale. Stavo a galla e nuotavo, ma mi stancavo
2/7
facilmente e avevo poca autonomia. Quando decisi di prendere delle lezioni di nuoto per
imparare a nuotare meglio, non è stato facile correggere l’abitudine appresa negli anni.
Sarebbe stato più facile, da un certo punto di vista, partire senza questa conoscenza.

Il primo livello di abilità: il principiante


Nel primo livello di abilità si inizia ad introdurre in un’azione specifica un’intenzione
all’apprendimento. Si studia come funziona un’abilità e si inizia a mettere in pratica
questa conoscenza.

Chiaramente l’azione sarà lenta e forse maldestra, perché è richiesto un impegno attivo e
consapevole nel modificare e indirizzare quel comportamento verso il risultato
desiderato.

Il principiante non possiede la garanzia del risultato. L’azione e la conoscenza non


sono state integrate.

Il secondo livello di abilità: il praticante


Il livello seguente è rappresentato da colui che ha compreso come funziona un’abilità
e la mette in atto in modo consapevole. L’abilità è posseduta e guidatain modo
intenzionale verso il risultato desiderato.

Il risultato è ottenuto veicolando le azioni con impegno e persistenza.

Sembrerebbe che questo sia un punto di arrivo, in realtà esiste un altro step di
apprendimento.

Il terzo livello di abilità: la maestria


Nell’ultimo livello di abilità, la conoscenza del funzionamento dell’abilità è integrata in
colui che esegue l’azione. Integrata significa che fa parte del modo di essere di quella
persona, per cui agisce per come è.

Nella maestria dell’abilità:

Il fare è una diretta conseguenza dell’essere.

Detto in un’altro modo: esprimendosi, l’essere manifesta l’abilità che è. O ancora:


l’essere è abilità in azione.

Inseriamo ora i quattro passaggi in una griglia che ci permette di comprenderli meglio.

I passaggi di stato nei livelli di abilità


La progressione dei passaggi nella maestria di un’abilità passa attraverso le quattro fasi
che abbiamo visto.
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Se rappresentiamo graficamente in una griglia capace-incapace e consapevole-
inconsapevole, la progressione sarebbe questa.

Il punto di partenza è una condizione in cui la persona è incapace, ed è anche


inconsapevole della mancanza di abilità.

Nel primo step – quello del principiante – la persona ancora non possiede l’abilità che
desidera, ma è consapevole di questo e consapevolmente inserisce un’intenzione e
una conoscenza mirati all’apprendimento.

Nello livello praticante, la persona possiede l’abilità, è quindi capace e guida le azioni in
modo intenzionale e consapevole.

Nella maestria dell’abilità, la persona è chiaramente capace, possiede completamente la


conoscenza diretta di quell’abilità. Questa viene manifestata come stato dell’essere. La
parola inconsapevole potrebbe apparire impropria, perché in realtà l’abilità è diventata
completamente consapevole, tanto da essere integrata nell’essere. Può essere
considerata inconsapevole perché non c’è un’intenzione e uno sforzo nel fare quella
determinata cosa, è semplicemente la manifestazione di ciò che si è.

Per approfondire » I 6 tipi di inconscio

L’impegno

4/7
L’impegno richiesto per integrare un’abilità non è lineare.

Innanzitutto, a livello di principiante, esiste una inerzia iniziale da vincere per uscire
fuori dalla condizione di partenza.
La resistenza iniziale da vincere è spesso quella più difficile da superare.

La curva di apprendimento di un’abilità

Il lato positivo della condizione iniziale è che, a parità di impegno, il miglioramento è


massimo.

In questa fase l’impegno appare soggettivamente come enorme, a causa dell’inerzia da


vincere, ma il risultato nel miglioramento dell’abilità è al massimo del suo potenziale,
rispetto a tutte le altre fasi.

Per approfondire » Quanto tempo serve per formare un’abitudine?

Più si avanza nel processo di apprendimento di un’abilità, più i miglioramenti a parità di


impegno si riducono, fino a rendersi quasi impercettibili.

Quando si raggiunge una condizione di eccellenza,per avere un minimo incremento serve


un impegno enorme.

5/7
Quando si raggiunge la maestria, l’abilità è integrata, e lo sforzo di apprendimento è
minimo. L’abilità si esprime da sé.

Possiamo raffigurare graficamente i passaggi in questo modo.

Alcuni ostacoli
Nel percorso dell’apprendimento di un’abilità si incontrano una serie di ostacoli che
possono impedire il raggiungimento della maestria.
Vediamone alcuni.

Come elemento fondante ci deve essere la consapevolezza della condizione iniziale. A


volte non ci si rende conto di come potrebbe migliorare la condizione della propria vita
se si acquisissero determinate abilità che consentirebbero per vivere in modo più
armonioso.

Il primo ostacolo quindi è la mancanza della consapevolezza della condizione di partenza,


e la mancata chiarezza di ciò che si potrebbe ottenere tramite una determinata abilità.

Per uscire dallo step zero e passare a livello principiante quindi serve una chiara
intenzione, motivata dalla comprensione autentica dell’utilità dell’abilità.

Un ostacolo iniziale quindi potrebbe essere la mancanza di intenzionalità.

La soluzione di questo ostacolo richiede due passaggi:

1. divenire consapevoli della condizione in cui ci si trova e


2. divenire consapevoli dei risvolti positivi dell’acquisire una determinata abilità.

6/7
Questi due passaggi vanno sommati e dovrebbero portare la persona a prendere
posizione, cioè ad originare un’intenzione.

Solo l’intenzione non è sufficiente ad introdurre un cambiamento. Il primo step richiede


la somma di un’intenzione e di una conoscenza.

Quindi, un altro ostacolo iniziale potrebbe essere la mancanza della conoscenza.

Vuoi apprendere un’abilità ma non sai come fare. La soluzione è lineare: serve acquisire
le conoscenze, studiando o imparando da qualcuno che può darti queste conoscenze.

L’intenzione e la conoscenza mettono in moto il processo di apprendimento,


ufficialmente si è entra nella fase del principiante. A questo livello interviene la barriera
dell’inerzia iniziale, che come abbiamo visto prima è massima in questa fase, e può
facilmente creare sconforto.

L’ostacolo è la mancanza di persistenza, cioè quello di mollare troppo presto.

In questo punto può essere risolutiva l’abilità di superare la crisi e quella di dare e
ricevere aiuto e sostegno.

Per approfondire » Abilità nella vita

Per il passaggio dall’eccellenza alla maestria serve superare la prova del tempo.
L’esperienza deve accumularsi e creare una transizione di fase: l’abilità integrata
nell’essere.

Il tuo livello di abilità


Abbiamo visto una sequenza di 3 possibili livelli di abilità. Riconoscendo che ognuno di
noi ha, nella sua vita, diversi gradi di abilità in ambiti diversi, possiamo riflettere su
alcuni elementi emersi in questo articolo.

C’è un campo in cui senti di avere raggiunto la maestria in un’abilità? Quale?


Di quale abilità avresti bisogno per crescere in un’area difficoltosa?
Quali ostacoli generalmente ti impediscono di acquisire la piena padronanza di
un’abilità?

Se hai piacere, puoi rispondere a queste domande nei commenti qui sotto.

Bibliografia

Silvana e Silvano Brunelli – Scienze delle abilità umane

7/7
Quanto tempo serve per formare un’abitudine?
essereintegrale.com/abitudine-quanto-tempo

Agostino Famlonga

Cos’è un’abitudine
Le abitudini sono comportamenti automatici, gesti che compi senza nemmeno
rendertene conto.

Con una definizione di questo tipo, potrebbero apparire come qualcosa di


completamente negativo. In fondo, la crescita passa attraverso lo sradicamento degli
automatismi ed è orientata verso una vita più consapevole, in cui sei sempre più
presente in ciò che fai, senza automatismi.

In questo scenario le abitudini sembrerebbero da bandire totalmente.

Ma è davvero così?
È possibile vivere senza abitudini?
È soprattutto, sarebbe utile?

1/15
I vantaggi delle abitudini
La nostra capacità di attenzione, e la nostra capacità di elaborare coscientemente le
azioni che compiamo è limitata. Abbiamo cioè delle risorse mentali circoscritte, che
possiamo impiegare per svolgere il compito che stiamo facendo.

È vero che queste capacità possono essere aumentate notevolmente, ma restano


comunque finite, non sono infinite.

Portare un gesto ad un livello inconsapevole permette di liberare l’attenzione dal


compito di elaborare quel gesto e di incanalarla consapevolmente verso un’azione che
tu scegli.

Nella vita ordinaria quasi metà delle azioni che compiamo viene svolta in questo modo.
Uno studio [1] di una decina di anni fa ha stimato che circa il 45% del nostro
comportamento è dettato dalle abitudini, da routine che svolgiamo in modo
automatico.
Se queste azioni fossero compiute consapevolmente, resterebbe ben poco spazio
cognitivo per fare fare altro.

Quando l’abitudine diventa automatizzata, si sposta in uno spazio mentale definito


“inconscio cognitivo”.

Per approfondire » I 6 tipi di inconscio

Vediamo alcuni esempi per comprendere meglio questo passaggio.

Lavare i denti
2/15
L’abitudine di lavare i denti è un comportamento che, una volta appreso, esegui senza
doverci pensare, senza doverti ricordare di farlo.

Non è un’azione radicata nella natura dell’essere umano. È stata appresa, o ci è stata
insegnata, da piccoli.

Per me lavare i denti è una sana abitudine, ma per mia figlia di 5 anni ancora non lo è. È
ancora in una fase di apprendimento di un’abitudine.

Per me non è assolutamente faticoso, e non me lo dimentico. È un gesto automatico che


compio dopo aver mangiato ai pasti. Non mi richiede alcuno sforzo.

Per mia figlia è diverso, non ha quest’abitudine. Se non glielo ricordo, se lo dimentica. E
mentre lo fa, lo fa pensando a lavare i denti davanti, i denti dietro ecc… Questo le
richiede un certo grado di impegno.

Scrivere alla tastiera


In questo momento sto scrivendo alla tastiera, e le mie mani corrono sui tasti senza che
io debba prestarci attenzione. In questo modo la mia mente è libera di pensare, e l’azione
del tradurre il mio pensiero in testo accade in modo automatico.

Questo è possibile perché ho appreso l’abitudine di scrivere alla tastiera senza guardare i
tasti. Il processo di traduzione del pensiero in testo digitale accade da sé, a livello
inconsapevole. La mia consapevolezza può così rivolgersi interamente
nell’elaborare il messaggio che voglio comunicarti.

Se dovessi prestare attenzione ad ogni tasto che premo, la mia capacità di elaborare il
pensiero che voglio comunicarti sarebbe notevolmente ridotta. Parte della mia
attenzione sarebbe impegnata nel battere i tasti uno ad uno, nel cercarli sulla tastiera e
nello stare attento a non sbagliare.

Alla guida
Quando guidi l’auto, pur essendo impegnato alla guida, hai la capacità di parlare con
qualcuno.

Se dovessi portare tutta la tua attenzione consapevole ai gesti necessari a mantenere la


macchina in strada senza fare incidenti, faresti davvero fatica a conversare con una
persona al tuo fianco.

E in effetti è proprio ciò che accade quando impari a guidare. Non puoi distrarti
minimamente perché stai apprendendo una nuova abitudine, l’impegno è massimo e
tutta la tua consapevolezza è rivolta nell’apprendimento.

E ti sei mai chiesto perché, quando parcheggi, ti viene spontaneo il gesto di abbassare il
volume della radio?
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Perché nella manovra di parcheggio hai bisogno di più concentrazione. Hai bisogno ciò di
recuperare la consapevolezza di un’azione che compi automaticamente, perché sai che è
richiesta più attenzione.

Allora in modo istintivo abbassi – o spegni – la radio. In questo modo recuperi nella tua
consapevolezza lo spazio di lavoro per elaborare i gesti precisi richiesti nel parcheggio.

Riassumendo
Il vantaggio di compiere un’azione sotto forma di abitudine, ciò come gesto automatico,
è che:

ti permette di avere attenzione libera da utilizzare consapevolmente.


ti permette di compiere in modo rapido e fluido le azioni che, se svolte
consapevolmente, sarebbero lente.

Gli svantaggi delle abitudini


Le azioni automatiche, se da una parte possono essere utili perché velocizzano l’azione e
lasciano libera la consapevolezza, dall’altra possono essere molto disfunzionali.

Automatismi dannosi
Pensa ad un esempio di questo tipo: l’abitudine che qualcuno ha di mordersi le unghie
quando si sente nervoso.

Nel momento in cui questa persona affronta una situazione stressante, innesca
l’automatismo di mangiarsi le unghie per cercare di placare il senso di disagio. È un
gesto fuori dal controllo consapevole della person a, che porta a delle conseguenze
negative. Non riesce a gestirlo, è un gesto (abitudine) automatico.

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Ho preso un esempio apparentemente banale, come mangiarsi le unghie, ma puoi
trasporre lo stesso principio a tutta una serie di abitudini disfunzionali: mangiare in
modo compulsivo davanti alla televisione, bere alcolici per cercare sollievo, guardare
costantemente il cellulare ad ogni notifica distraendoti costantemente, ecc.

Sono le cosiddette “cattive abitudini.”


Sono gesti automatizzati che recano un qualche tipo di conseguenza negativa.

Nel suo libro dedicato a questo argomento, lo psicologo Charles Duhigg chiama questo
processo “dittatura delle abitudini”.
Dittatura perché quel 45% di azioni abitudinarie, fuori dal controllo cosciente
dell’individuo, sembra apparentemente più forte della capacità di direzionare con la
volontà il comportamento.

Le cattive abitudini sono e restano comunque abitudini, e sottostanno agli stessi


principi di funzionamento delle “buone abitudini”.
Vedremo più avanti alcuni consigli utili per modificare un’abitudine.

Errori inconsapevoli
Le azioni automatizzate, proprio perché sono fuori dal controllo cosciente
dell’individuo, possono indurti all’errore.

Questo avviene a causa di due fattori: la troppa sicurezza nel processo automatico
porta facilmente alla distrazione.

Affidandoti ciecamente all’automatismo porti la tua attenzione da un’altra parte, e


questo limita la tua capacità di eseguire l’azione, che sebbene avvenga sotto la soglia
della consapevolezza, ha bisogno di ricevere imput dal qui e ora.

Un esempio: telefonare mentre stai guidando.


Sei certo di riuscire a guidare comunque, quindi ti permetti di telefonare comunque. E
sappiamo bene che la distrazione è fonte di grossi pericoli al volante. Addirittura è stato
stimato che 3 incidenti su 4 avvengono a causa della distrazione.

Riassumendo
Gli svantaggi del compiere azioni abitudinarie:

sono fuori dal controllo volontario, e quindi non ti possono portare a degli esiti
indesiderati e dannosi.
possono indurti in errore per troppa sicurezza e distrazione.
possono creare schemi di comportamento rigido dai quali non è difficile uscire.

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Scegli consapevolmente le tue abitudini
Abbiamo visto come le abitudini possono essere sia positive che negative.

In sé non hanno nulla di sbagliato, non sono un elemento da bandire dalla nostra vita,
anzi, sono un elemento su cui portare l’attenzione per crescere come persona.

Come?
Scegliendo consapevolmente le tue abitudini.

Quali sono quelle azioni che, ripetute nella tua quotidianità, possono creare a lungo
termine un beneficio?
Queste dovrebbero diventare abitudini da coltivare intenzionalmente.

Pensa semplicemente all’attività fisica: sappiamo benissimo quanto sia benefica, e


sappiamo anche che per avere delle reali conseguenze positive deve essere praticata con
costanza. Se possiedi l’abitudine di fare attività fisica con regolarità, questo diventa nel
tempo un automatismo che a lungo termine reca salute.

Quando diventa un’abitudine, non devi motivarti ogni giorno per fare l’attività fisica, la fai
in modo spontaneo, fa parte della tua quotidianità, non ti richiede sforzo o motivazione.

Quindi, un messaggio da portare a casa dalla lettura di questo articolo è:

scegli consapevolmente quali comportamenti virtuosi vorresti nella tua vita, e falli
diventare un’abitudine.

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Le cattive abitudini
In quel 45% di azioni che compiamo sotto forma di abitudini ci sono sia dei
comportamenti che ti sono utili, che altri che sono disfunzionali.

Sono le “cattive abitudini”.


Sono le routine quotidiane che alla lunga determinano un impoverimento della tua
qualità di vita.

Spesso è difficile abbandonare le cattive abitudini perché sono radicate in modo molto
forte in noi. Sono frutto di anni di ripetizioni e quindi hanno lasciato un solco importante
da cui spesso è difficile uscire.

Un principio importante nell’affrontare le abitudini disfunzionali è questo:

Le cattive abitudini non si eliminano, si sostituiscono.

L’invito è di non combattere i comportamenti automatici negativi, ma di far sì che delle


nuove abitudini sostituiscano quelle che non ritieni idonee.

La scelta e la volontà di apprendere una nuova abitudine sono un punto di partenza, ma


non hanno in sé la garanzia del risultato. Da sole non sono sufficienti, serve un sistema
che ti permetta di acquisire questo comportamento nella tua vita.

L’apprendimento di un’abitudine passa inevitabilmente attraverso la ripetizione del


comportamento che si vuole apprendere, per un tempo sufficiente a farlo diventare
una routine.

Ma quanto tempo serve per formare un’abitudine?

7/15
Il mito dei 21 giorni
Dagli anni 60 ha iniziato a diffondersi l’idea che bastasse ripetere un’azione tutti i
giorni per 21 giorni consecutivi per apprendere in modo definitivo un’abitudine.

L’idea ha avuto origine da quello che scrisse Maxwell Maltz nel suo libro
Psicocibernetica.
Maltz era un chirurgo plastico, e aveva rilevato, osservando i suoi pazienti, che in genere
necessitavano di 3 settimane per adattarsi ad un cambiamento fisico, come ad
esempio l’amputazione di un braccio.

Da allora 21 è diventato un numero magico, osannato come un traguardo che, una


volta raggiunto, permette di mantenere un’abitudine.

L’idea che a lungo è stata diffusa è che, per esempio, basta andare a correre 21 giorni di
fila per avere poi quest’abitudine a vita senza alcuno sforzo.

Si tratta di un principio che ha come fondamento l’osservazione di un singolo caso: i


pazienti del dott. Maltz.

Può essere vero per loro, ma la realtà delle cose è più complessa , perché:

ognuno di noi è diverso


ogni abitudine è diversa
la vita inserisce delle variabili imprevedibili

Possiamo quindi prendere questo numero magico e inserirlo nella categoria “leggende
metropolitane.”

Perché a volte funziona?


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Le abitudini semplici richiedono poco impegno e ripetizioni per essere apprese.

Avere una scadenza, come ad esempio le 3 settimane di Maltz, a cui è associata in


modo fermo la convinzione di riuscita, spesso ha un riscontro positivo. Facilita
l’apprendimento.

Raggiunto questo traguardo la persona si convince di avere innescato un cambiamento


permanente, e questo agisce da rinforzo positivo rispetto alla decisione iniziale di
mantenere una routine.

Raggiungere un obiettivo alimenta il senso di autoefficacia e di autostima della


persona.

Proprio per questi motivi il numero magico 21 sopravvive ancora ai giorni nostri.

Per osservare la questione da un punto di vista più concreto, vediamo cosa ci dicono le
ricerche contemporanee in questo campo.

Gli studi reali sull’apprendimento delle abitudini


Uno studio scientifico [2] ha studiato un campione di persone per determinare quanto
tempo fosse necessario per apprendere un’abitudine.

La conclusione è che non esiste un numero magico: c’è una grande variabilità
soggettiva.

Per alcune persone sono stati sufficienti 18 giorni per far passare un’azione a livello
automatico, per altri più di 8 mesi.

La media del gruppo di studio è stata di 66 giorni.

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66 non è un nuovo numero magico, è solo la media di questo gruppo di studio.

Per trarre una conclusione pratica da questa ricerca, possiamo dire che per apprendere
un’abitudine sono in genere necessari mesi di impegno.

L’ampia variabilità individuale deriva dalla complessità dell’abitudine da apprendere e


dalle nostre caratteristiche personali.

Ma qual è l’elemento che rende un’azione un’abitudine?


Quando possiamo dire che è diventata un comportamento appreso?

Dall’abitudine all’abilità
Il processo di apprendimento di un’abitudine scelta consapevolmente è equivalente a
quello dell’apprendimento di un’abilità.

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Si passa da una condizione iniziale in cui è richiesto un grande impegno per svolgere
un’attività (punto A sul grafico). Man mano che le ripetizioni del comportamento corretto
aumentano, cala anche lo sforzo nel compiere il gesto (punto B).

Il comportamento diventa un’abilità appresa quando viene eseguita in modo


spontaneo, con un impegno cognitivo minimo (punto C).

È diventata una tua abilità, un tuo modo di stare nella vita . Questo è equivalente
all’avere appreso in modo intenzionale un’abitudine.

Vediamo un esempio.

Non interrompere
Supponiamo che tu abbia l’abitudine di interrompere l’altro mentre sta parlando, e che
tu voglia cambiarla perché hai capito che questo gesto lede la comprensione. Scegli di
acquisire l’abilità di non interrompere (la nuova buona abitudine che vuoi acquisire).

Il processo non è istantaneo: le prime volte farai molta fatica a non interrompere, perché
l’abitudine radicata si farà sentire a gran voce.

11/15
Più volte ripeti l’azione corretta che vuoi apprendere (non interrompere), più
l’impegno richiesto diminuisce.

Questo va avanti fino al punto in cui acquisisci l’abilità di non interrompere l’altro
mentre parla. Semplicemente lo fai. È il tuo modo di interagire con l’altro, non ci devi
portare attenzione. Non interrompere è diventata una tua abitudine nel dialogo con
l’altro. Essendo un’abitudine, la fai senza nemmeno rendertene conto.

Questo libera la tua attenzione che ora può essere veicolata, ad esempio, nel cercare
di comprendere meglio il significato di quello che l’altro ti sta dicendo.

Fintanto che parte della tua attenzione è impegnata nel cercare di non interrompere,
non hai tutta la tua attenzione a tua disposizione nel comprendere completamente la
comunicazione.

Quando l’abilità è appresa, la consapevolezza è libera di dedicarsi completamente al


dialogo.

Comprendi la funzione delle abilità e delle abitudini scelte intenzionalmente?

Per approfondire » Scienze delle Abilità Umane

Watch Video At:

https://youtu.be/-BBIauClMsY

Non conta il tempo, contano le ripetizioni


Il tempo che passa non è l’ingrediente magico che forma un’abitudine, o che ti
permette di apprendere un’abilità.
Non importa se passano 21 giorni, 30 o 90.

12/15
Quello che fa la differenza è la frequenza e l’intenzione con cui ripeti il tuo
comportamento.
In 21 giorni puoi compiere la stessa azione per 10, 21, 100 volte.

È la frequenza che fa la differenza.

L’abilità non viene interiorizzata con il passare del tempo, ma viene appresa nel momento
dell’esecuzione.

Più esecuzioni fai, più questa abilità si assimila e diventa infine un’abitudine che possiedi
con maestria.

Le prime ripetizioni richiedono impegno, e più questa abilità viene interiorizzata più
lo sforzo nell’esecuzione si abbassa.

Invece di chiederti “quanto tempo ci vuole per formare un’abitudine?” prova a chiederti
“quante ripetizioni mi servono per imparare un’abilità?”

Le tue abitudini correnti, sane o cattive che siano, sono state interiorizzate dopo
centinaia, se non addirittura migliaia, di ripetizioni spesso quotidiane.

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Le nuove abilità che vuoi avere nella tua vita richiedono la stessa frequenza. Devi
mettere in sequenza una serie di comportamenti intenzionali, con costanza e
regolarità, fino a quando l’impegno volontario scende sotto la linea dell’abilità.

Quanto tempo ci vuole? Dipende dalla frequenza e dall’impegno consapevole con cui
ripeti quell’azione.

Non dipende dal tempo che passa, dipende da te.

In questi due grafici ho tramutato la linea in croci. Ogni crocetta rappresenta la


ripetizione dell’abilità che vuoi apprendere. Le crocette del primo grafico sono le stesse,
numericamente parlando, di quelle del secondo grafico.

Come vedi, più aumenti la frequenza dell’azione, più la curva di apprendimento si


abbassa e si accorcia, dal punto di sta temporale, che dal punto di vista dell’impegno
richiesto.

Il messaggio da portare a casa da questo articolo sulle è abitudini è questo: scegli le


nuove abilità che vuoi possedere e praticale con regolarità e costanza fintanto che
senti di possederle completamente come tuo modo abituale di stare nella vita.

14/15
Per approfondire » Abilità nella vita

Le tue abitudini
Avremo modo di approfondire in articoli futuri come implementare nuove abitudini e
come sostituire abitudini dannose. Ti invito ad iscriverti alla newsletter per restare
aggiornato su questo argomento.

Nel frattempo ti lascio con alcune domande per riflettere sulle tue abitudini.

Puoi usarle come spunto di riflessione e, se ti va, puoi lasciare un tuo pensiero su questi
argomenti nei commenti qui sotto.

Ritieni che le abitudini siano da bandire dalla vita, o ritieni che possano avere una
valenza positiva?
Senti di vivere sotto la dittatura delle abitudini, oppure hai appreso delle abilità in modo
intenzionale e consapevole che ti hanno liberato dalla dittatura?
Qual è l’ostacolo più grande che incontri quando tenti di apprendere una nuova abilità?
Quali abitudini senti che dovresti cambiare?
Quali abitudini ti piacerebbe avere nella tua vita?

Bibliografia

[1] David T. Neal, Wendy Wood, Jeffrey M. Quinn – Habits—A Repeat Performance
[2] Phillippa Lally Cornelia H. M. van Jaarsveld Henry W. W. Potts Jane Wardle – How are habits
formed: Modelling habit formation in the real world
Silvana e Silvano Brunelli – Scienze delle Abilità Umane
James Clear – Atomic habits
Charles Duhigg – La dittatura delle abitudini

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Le 5 forze della crescita personale
essereintegrale.com/crescita-personale-5-forze

Agostino Famlonga

In questo articolo ti presento un modello della crescita della persona che trovo utile e
immediato per comprendere il suo funzionamento.

L’idea mi è venuta mentre ero con la mia famiglia all’aeroporto, in partenza verso la
nostra vacanza estiva, mentre osservavo gli aerei decollare dalla pista.

Osservando questi blocchi pesantissimi di metallo, mi meravigliavo di come questi


riescano a staccarsi da terra e volare ad alta quota. Lo fanno utilizzando dei principi ben
precisi, che se messi in pratica permettono di vincere la forza di gravità e di decollare.

Penso che la crescita della persona sia simile. Ci sono delle forze universali che la
regolano, e se le conosci puoi intervenire in modo specifico e fare qualcosa che
apparentemente non è possibile, come fare volare un pezzo di metallo di 400 tonnellate
a 10.000metri di altezza.

Ma prima di parlarti di aerei, ti voglio presentare brevemente 3 diversi approcci alla


crescita personale.

Gli approcci alla crescita della persona


La crescita personale oggi è molto diffusa. Ciò è davvero positivo, perché in questo
campo viene espresso un bisogno umano fondamentale, quello di migliorare sé stesso e
di tendere verso una condizione di vita sempre migliore.

1/13
Così come esistono un’infinita variabilità di caratteristiche nell’essere umano, così
esistono un’infinità di approcci alla crescita. Potremmo dire che “ognuno ha il suo
approccio”, o il suo stile se preferisci.

Tutta questa variabilità a mio avviso può essere inserita in 3 grossi insiemi, o 3 categorie:
la crescita orientata al fare – all’essere – o al divenire.

Crescita orientata al fare


Lo stile di questo tipo di crescita personale è incentrato verso l’agire per avere di più ,
per ottenere qualcosa di migliore nella vita in generale, o in aree specifiche. Per cui
trovi sistemi o modelli di crescita per avere più denaro, per migliorare le capacità di
studio, per avere un fisico più sano, eccetera, nell’infinita variabilità e scopi dell’essere
umano.

Non mi soffermo più di tanto su questo aspetto perché sono certo che riesci a
ricondurre facilmente questo stile di crescita alla tua esperienza, passata o forse anche
presente.

Questo approccio in sostanza si riassume così:

Prendi un’area della tua vita,


Definisci cosa vuoi ottenere
Quantificalo / Misuralo
Agisci
Verifica periodicamente se quello che fai ti sta portando dove vuoi
Correggi se necessario la direzione

2/13
Crescita orientata all’essere
Se volessimo definire 2 estremi di un continuum, questo approccio sta sull’estremo
opposto del precedente. Nasce come conseguenza della realizzazione che un approccio
puramente incentrato sul fare, sull’ottenere sempre di più, sempre di più… se non è
connesso alla fonte del tuo essere, porta a lungo termine ad una frustrazione
esistenziale.

Nasce in sostanza dal riconoscere che il benessere materiale non è la soluzione al


benessere esistenziale. Puoi conquistare risultati enormi, ottenere un benessere
economico, ma se questi non ti rappresentano, non ti appagheranno. Raggiungerai i tuoi
obiettivi, ma dentro sentirai un vuoto esistenziale.

Come soluzione a questo problema nasce un filone della crescita personale


incentrato puramente sulla conoscenza di sé stessi. La chiave per la felicità sta
nell’abbandonare ogni desiderio mondano, ogni obiettivo materiale, ogni attaccamento,
e rivolgere l’attenzione alla consapevolezza di sé.

Dentro di sé risiede la chiave per la completezza esistenziale , non negli oggetti o nei
desideri.

In questo ultimo principio a mio avviso c’è una grande verità, ma incompleta. Manca
l’elemento del divenire.

3/13
Crescita orientata al divenire
È vero che la completezza deriva dal conoscere sé stessi, ma è altrettanto vero che
questa conoscenza non è statica, è dinamica.

È connessa con il mondo, non si ritira dal mondo.

È una conoscenza che porta l’essere che sei (senza forma) a divenire qualcosa, nel
mondo della forma.

È una forza, un impulso, una spinta… a divenire qualcosa.

Qualcosa che già sei, e che sente il desiderio di manifestarsi nella vita per trovare, nella
vita, un riflesso di sé.

La differenza rispetto alla crescita orientata al fare è che è una crescita che parte a
priori da una condizione di completezza, non di mancanza. Quando attivi questo stile
di crescita personale non fai qualcosa per ottenere la completezza, ma fai qualcosa
perché rappresenta una parte essenziale di te, che è già completa all’origine.

Il modello che ti presento ora fa riferimento a quest’ultimo stile di crescita personale,


quello orientato al divenire. Include una visione della vita come terreno di
manifestazione della verità di sé stessi.

Un modello
Nell’immagine vedi un riassunto schematico dei fattori (o delle forze) coinvolti nella
crescita personale, paragonate ad uno schema di volo di un aereo.

4/13
Vediamo uno per uno gli elementi che agiscono in questo modello.

Aereo
L’aereo è la tua vita. Fare decollare l’aereo rappresenta simbolicamente il momento in
cui la tua vita, rompendo l’inerzia, si muove. Vincendo la forza di gravità va nella
direzione da te voluta, sempre in quel movimento di divenire che abbiamo visto prima.

Pilota
Puoi essere sull’aereo della tua vita come passeggero: uno spettatore passivo. Puoi
osservare il panorama e goderne l’infinita bellezza.

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Oppure puoi pilotare l’aereo e portarlo in una direzione che ti rappresenta. Quindi il
pilota sei tu, consapevole che soprattutto in qualità di pilota puoi godere del viaggio,
ammirando il paesaggio da un punto di vista unico.

Consapevolezza
La consapevolezza è quella forza che dà la direzione all’aereo. Più sei consapevole di
te, dell’altro essere umano e della vita, più hai chiarezza di cosa fare nella vita e di qual è la
direzione dell’aereo.

Non solo, la consapevolezza determina la stazza dell’aereo .

Puoi avere poca consapevolezza di te, oppure una chiarezza inamovibile di chi sei e di
dove stai andando.

Cioè puoi volare, nel viaggio chiamato vita, su un cessna 172 o su un boeing 747. Nel
primo caso, quando entri in un temporale, verrai sballottato da tutte le parti, con il rischio
di precipitare. Se piloti il boeing, sentirai la turbolenza, ma questa non devierà la tua
rotta.

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Energia vitale
Senza spinta l’aereo non si muove, resta immobile nel suo hangar. Allo stesso modo per
fare decollare l’aereo della vita serve la spinta della tua energia vitale. Puoi avere
l’aereo perfetto, avere chiarezza di dove vuoi andare, ma se non hai energia vitale resti
inesorabilmente fermo. Così come gli aerei sono fatti per volare e non per restare
nell’hangar, così la vita è fatta per essere vissuta a pieno.

Ostacoli
Per decollare l’aereo deve vincere la forza di inerzia e quella di gravità, poi una volta in
volo deve contrastare l’attrito dell’aria e le turbolenze che incontra nel viaggio. È in un
movimento continuo di bilanciamento tra le forze che lo sostengono e quelle che
tendono a frenarlo.
7/13
Lo stesso accade per la vita. C’è un equilibrio dinamico di elementi e di forze che
spingono una verso l’immobilità e una verso il dinamismo.

Nella crescita c’è un confronto continuo tra le abilità personali e gli ostacoli che incontri
procedendo nella direzione che hai scelto.

Abilità
Le abilità rappresentano la portanza dell’aereo, quella forza che lo sostiene nella
direzione verso l’alto.

5 modi per innescare la crescita personale


Ogni fattore di questo modello può essere studiato e migliorato per accendere la crescita
personale.

Vediamoli uno per uno, con dei consigli su come intervenire dettati dalla mia esperienza
personale.

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1. Aereo e pilota
Prima di farlo decollare, serve costruire l’aereo. Più consapevolezza hai di te stesso,
della vita e dell’altro essere umano, più grossa è la stazza dell’aereo.

Per questo aspetto, lo strumento che sento di consigliarti è l’Intensivo sull’Essere


Consapevole.

L’Esperienza Diretta di sé mette il pilota al suo posto, cioè nella cabina di pilotaggio.

Non solo: più Esperienze Dirette la persona ha di sé stessa, più l’aereo acquisisce
tonnellaggio e portanza. Per questo motivo la ricerca dell’Intensivo può essere
mantenuta con continuità, per costruire un aereo sempre più robusto e resistente alle
turbolenze.

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2. Direzione
La direzione in cui far volare l’aereo emerge dal GPS interiore quindi, anche in questo
caso, uno strumento d’eccellenza è l’Intensivo.

Esiste inoltre, all’interno del corso Abilità nella vita del Centro Studi Podresca, un
incontro dedicato al definire la propria direzione.

Il primo incontro infatti è dedicato proprio a questo: a definire il proprio


Orientamento.

3. Energia Vitale

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Il grado di energia vitale di una persona è proporzionale alla consapevolezza che
ha di sé stessa. C’è un nesso molto profondo tra questi due aspetti dell’essere umano.

Quindi un modo per agire su questo aspetto è conoscersi di più ed esprimersi di più.

Più ti esprimi in qualcosa in cui ti rappresenta, più energia vitale hai a disposizione.

Un altro modo per agire su questo fattore è quello di togliere gli impedimenti al fluire
dell’energia vitale. Dal punto di vista fisico puoi seguire un programma di
detossificazione e fare attività sportiva.

Spesso però le tossine che ostruiscono il fluire dell’energia vitale non sono solo fisiche.
Serve quindi agire su più livelli. Il Respiro Circolare mette in moto una intensa
detossificazione sul piano fisico, emozionale e mentale aumentando notevolmente
l’energia vitale disponibile.

4. Ostacoli
Affrontare gli ostacoli significa rimuovere gli impedimenti alla crescita. Per questo
motivo nel corso Abilità nella vita ci sono una serie di strumenti che hanno questo scopo.

Gli incontri che affrontano gli ostacoli sono concentrati nella prima parte del corso.

I problemi
La tensione e i conflitti
La stanchezza e la malattia
Sbagliare correttamente

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5. Abilità
Tutto il corso Abilità nella vita ha lo scopo di elevare le abilità personali. Lo dice
chiaramente il nome stesso.

La seconda parte del corso però è incentrata in modo particolare su questo aspetto
specifico. Gli incontri che agiscono direttamente sulle abilità sono:

Il potere della comunicazione


Superare la crisi
La crescita
Agire nella vita
Vivere con una teoria

Il rapporto con gli ostacoli


Un aereo in volo non fa scomparire la gravità . La sua velocità e la portanza delle sue
ali gli consentono di volare, nonostante la gravità.

La stessa cosa accade con la crescita personale.

Gli ostacoli non scompaiono, ma cessano di essere un freno perché le abilità personali
hanno una forza maggiore.

Il modo corretto per affrontare ogni ostacolo è dunque dal punto di vista delle abilità
personali. Partendo da un impedimento, ci si ritrova in questo modo con la sua
controparte operativa: l’abilità corrispondente.

Tutto il corso Abilità nella vita agisce con questo principio operativo.

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La tua crescita
Ti ho presentato nei suoi elementi essenziali un semplice modello della crescita
personale orientata al divenire.

Certamente possono esserci profondità di analisi molto più articolate, ed elementi da


aggiungere, ma trovo che questo sia semplice e comprensibile e soprattutto subito
traducibile in azioni concrete.

Ti chiedo ora, in base a questo modello…

Hai un orientamento alla crescita incentrato sul fare, sull’essere o sul divenire?
Qual è l’area su cui potresti intervenire per dare uno slancio alla tua crescita?
Hai bisogno di un aereo più solido?
Oppure ti serve più energia vitale?
Ti serve rimuovere degli impedimenti, oppure hai bisogno di più abilità?
C’è qualche elemento che aggiungeresti a questo semplice modello?

Lascia, se ti va, la tua opinione nei commenti sotto.

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Il paradigma della comprensione di Silvano Brunelli
[Recensione libro]
essereintegrale.com/paradigma-comprensione-silvano-brunelli

Agostino Famlonga

Esiste una epidemia dilagante: la solitudine.

Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: sono l’isolamento e l’incomprensione.

È paradossale, ma nell’epoca in cui siamo costantemente connessi agli altri digitalmente,


ci sentiamo disconnessi umanamente. Pur stando in mezzo agli altri, pur avendo a
disposizione chiunque a distanza di un solo clic, ci sentiamo isolati.

Potremmo incolpare la digitalizzazione per questa epidemia, ma a mio avviso sarebbe un


errore superficiale. L’iper-connessione moderna ha solamente accelerato il manifestarsi
di questo fenomeno, non ne rappresenta la causa primaria.

Esiste una cura per l’isolamento e la solitudine? Sì, è la comprensione.

L’isolamento è un effetto che si manifesta quando l’incomprensione entra nelle


dinamiche umane. La cura – o l’antidoto – è l’esatto opposto, cioè la comprensione.

Una soluzione concreta


Silvano Brunelli, nell’introduzione di questo splendido saggio, ha descritto un principio
che mi ha colpito.

Il declino di una malattia inizia quando qualcuno scopre la sua cura.


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Ci vuole certamente del tempo prima di debellarla, serve applicare quella cura per un
tempo e in quantità sufficiente. Eppure, sebbene serva del tempo, si può dire che il
declino inizia in quel punto, quando l’antidoto viene scoperto.

Con il suo Paradigma della comprensione Brunelli ci presenta, in una affascinante visione,
una prospettiva inedita: la possibilità di invertire il trend dilagante dell’incomprensione e
dell’isolamento.

Il Paradigma della comprensione è una panoramica delle interconnessioni che la


comprensione compie in ogni aspetto dell’esistenza umana.

Dopo aver letto questo libro, non si può restare indifferenti alla questione. Brunelli ci
porta, con il suo stile, a prendere posizione: ad originare un’intenzione di crescita
verso una maggiore comprensione.

Ad applicare cioè, nella nostra fetta di mondo, l’antidoto all’incomprensione: la


comprensione e la consapevolezza.

Cos’è un paradigma
Un paradigma è un modello di riferimento. È un modello interpretativo della realtà .
Sono le lenti con cui interpretiamo ed entriamo in contatto con ciò che conosciamo.
Questo agisce ad un livello talmente primordiale che generalmente non ne siamo
consapevoli. Agisce silenzioso nel fornirci i riferimenti interpretativi della realtà.

Assumere un nuovo paradigma significa cambiare intenzionalmente il proprio modello


interpretativo della realtà. Questo è il fine di questo saggio: darci una nuova lente. Più
evoluta, più funzionale. Per noi e per le nostre relazioni.

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Watch Video At: https://youtu.be/tHHut-_h_JY

Il Paradigma della comprensione


Cos’è il Paradigma della comprensione?

Questo modello di funzionamento della realtà ha tre punti cardine:

1. Dare priorità alla comprensione


2. Usare la comprensione come modello di funzionamento per il singolo, per i
gruppi e per la società
3. Concepire la relazione come il luogo dove avviene la comprensione

Ognuno di questi tre punti si collega all’altro, ed ha un’infinità di implicazioni reciproche.

Tutto parte dal riconoscere che la comprensione è un nostro bisogno fondamentale.


Spesso ce ne dimentichiamo, e diamo priorità ad altre dinamiche di sopravvivenza. La
comprensione passa in secondo piano, come qualcosa di accessorio.

In ogni capitolo il libro ci spinge a riconoscere gli innumerevoli vantaggi derivanti dal
porre la comprensione al primo posto. Quella che istintivamente sembra una perdita
dal punto di vista delle altre spinte umane, si rivela come un grande vantaggio
evolutivo.

La comprensione e la consapevolezza
L’abilità di comprendere è proporzionale all’abilità di essere consapevole. E viceversa.

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Questo assunto, nella sua semplicità e bellezza, è un principio guida del paradigma della
comprensione.

Dal punto di vista logico è un lineare, suona bene, istintivamente appare corretto. Ma
perché è così?

Brunelli ha studiato questo principio nei suoi seminari di ricerca e nell’arco dei suoi 30
anni di carriera ha potuto testarne la sua veridicità e comprenderne le innumerevoli
implicazioni.

Per comprendere qualcosa, qualsiasi cosa, abbiamo bisogno di portarci attenzione.

L’attenzione è la base della comprensione.

L’attenzione è quella facoltà umana che permette di conoscere.

Là dove poggi l’attenzione, lì divieni consapevole.

Ma da dove origina l’attenzione? Dall’individuo consapevole di essere.

L’attenzione è l’organo di senso della consapevolezza. Detto altrimenti: l’attenzione è il


tramite attraverso il quale la consapevolezza interagisce con il mondo esteriore e
interiore.

Puoi poggiare l’attenzione su un oggetto fisico.


Sul tuo corpo.
Su un pensiero.
Su un’emozione.
Sull’altro essere umano.

Come una lampadina che emana luce, così l’attenzione, originata dalla consapevolezza,
irradia e conosce i mondo.

In questo processo sta l’interconnessione tra la consapevolezza e la comprensione.

Tanto quanto comprendi il tuo corpo, la tua mente, le tue emozioni, l’ambiente che ti
circonda, l’altro essere umano, tanto ne sei consapevole.

Se in queste dimensioni non hai comprensione, non ne sei consapevole.

Viceversa: per comprenderle, hai bisogno di portarci attenzione, e quindi


consapevolezza.

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La comprensione dell’individuo consapevole
C’è un tipo di comprensione particolare, inedita per molte persone: la comprensione
dell’individuo consapevole.

L’attenzione ha una proprietà particolare: così come può poggiarsi su un oggetto e


conoscerlo, così può poggiarsi sulla sua fonte. Ovvero l’individuo può invertire il flusso
dell’attenzione e poggiarla su di sé, su colui che origina l’attenzione.

Come se i raggi luminosi della lampadina tornassero all’origine: invece di andare verso gli
oggetti per conoscerli, tornano alla fonte per conoscere sé stessa.

Questa straordinaria capacità umana permette di accedere a un tipo di esperienza


completamente diversa rispetto alle esperienze ordinarie.

Quando l’attenzione è convogliata attraverso gli organi di senso e di conoscenza verso


qualche oggetto, avviene una conoscenza (o una comprensione) duale. C’è un soggetto
che conosce qualcosa e ne diviene consapevole.

Quando l’attenzione viene retroflessa verso la sua fonte, si aprono le porte alla
conoscenza diretta di sé, della fonte dell’attenzione. Ovvero dell’individuo consapevole
di essere.

Non è un processo immediato. Affinché questo avvenga serve che l’attenzione sia tenuta
su di sé per un tempo sufficientemente lungo, con intensità e purezza . Serve un
contesto adeguato, come l’Intensivo sull’essere consapevole, studiato appositamente per
accedere a questa conoscenza diretta di sé.

La piena integrità di sé apre le porte alla comprensione dell’individuo consapevole.

L’Individuo, riacquistando la piena consapevolezza, è in grado di riconoscere e


discriminare l’individualità consapevole nell’altro essere umano. È una qualità di
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comprensione raffinata e preziosa.

Dall’integrità di sé nascono la piena libertà di scelta, la motivazione ad agire verso i


propri fini, l’orientamento nella vita e nelle relazioni, la piena responsabilità delle
proprie azioni.

Quando la comprensione dell’individuo consapevole si travasa nella relazione, si


manifesta come la capacità di discriminare l’altro individuo rispetto al corpo e la mente, e
con l’intenzione di creare un ponte di relazione con esso.

Da questa comprensione nasce il rispetto dell’altro e della sua libertà di scelta.

Sommarsi all’altro in questo modo apre all’appartenenza: io e te formiamo un noi che ci


contiene. La collaborazione costruttiva diviene una naturale conseguenza.

Questa conoscenza si rivela come un vero e proprio salto evolutivo per colui che la
sperimenta e per le sue relazioni.

La conoscenza oggettiva e soggettiva


Quando l’individuo pone l’attenzione verso fuori, accede alla comprensione della
dimensione oggettiva, cioè capisce il mondo in cui vive: comprende come funziona e
le leggi che lo governano.

Quando l’individuo pone l’attenzione dentro si conosce, cioè diviene consapevole del
suo mondo interiore. Questa è una conoscenza soggettiva, completamente diversa da
quella precedente.

Questi due tipi di comprensione sono entrambi indispensabili all’essere umano e


vanno discriminate tra di loro.

Quando voglio comprendere il mondo fisico sto esplorando la dimensione oggettiva,


userò il m​​etodo scientifico.

Quando voglio conoscermi maggiormente userò l’introspezione e la comunicazione per


divenire consapevole del mio mondo interiore.

Da leggere » Quadranti

La conoscenza soggettivamente assoluta


Come abbiamo visto l’auto-consapevolezza può rivolgere l’attenzione su di sé. Se
l’attenzione viene introvertita verso l’origine dell’attenzione stessa, con intensità e
purezza per un tempo sufficientemente lungo, l’individuo accede alla conoscenza
diretta della sua singolarità.

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La conoscenza diretta dell’Individuo consapevole ha un’altra natura rispetto alle
precedenti: è soggettivamente assoluta.

Soggettiva perché è esperita dall’individuo.

Assoluta perché va oltre ogni dualismo: è la piena unione consapevole con sé stessi.

L’individuo, riacquista la sua integrità, va in unione con tutto ciò che percepisce.

Da questa conoscenza diretta di sé emerge un senso di libertà infinito. L’individuo


riacquista la sua naturale capacità di duplicare in sé il suo universo percepito.

La dualità, il sentirsi separati, lascia lo spazio all’ unione totalizzante. Riconoscendosi in


ogni cosa, sgorga un amore spontaneo incontenibile per tutto.

Da leggere » La dimensione della consapevolezza

I quozienti di comprensione
Brunelli ci accompagna nel prendere consapevolezza, in ogni dimensione esistenziale, di
quanto abbiamo compreso. Ovvero, di quanto siamo consapevoli in quell’area.

Per ogni dimensione vengono spiegate le dinamiche dell’inconsapevolezza, e viceversa


quelle della comprensione.

Quanto e cosa abbiamo compreso di una dimensione esistenziale è una misura


soggettiva, non è definibile dall’esterno. Brunelli lo definisce quoziente di
comprensione.

L’autoanalisi che è possibile fare leggendo questa parte del libro è utilissima: definisce
un punto di partenza (dove mi trovo ora) e una direzione evolutiva : cosa ho bisogno di
comprendere di più? Come farlo?

Queste sono le dimensioni esistenziali trattate:

Comprensione ambientale
Comprensione biologica (corporea)
Comprensione mentale
Comprensione emozionale
Comprensione dell’Individuo consapevole
Comprensione relazionale

Pur distinte tra di loro, tutte le aree si compenetrano tra di loro. Sono come dei vasi
comunicanti, e la consapevolezza è la sostanza che si travasa da un vaso all’altro.

Da leggere » La consapevolezza multidimensionale

Originare l’intenzione
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La conoscenza è utile solo quando chi la acquisisce prende posizione.

Ci sono saggi filosofici belli da leggere, ma che poi restano sterili.

Questo libro invece all’opposto è vivo e dinamico: lancia un’intenzione che arriva al
cuore del lettore.

Dopo aver visto quanto sia di valore impegnarsi per portare più comprensione nella
propria vita, il saggio conclude con uno slancio verso il prendere posizione.

Con lo stile tipico di Brunelli, i capitoli conclusivi ti portano a definirti: ora che hai
compreso tutte queste implicazioni, chi vuoi essere? Cosa vuoi fare?

Assumi una posizione chiara, consapevole e intenzionale e comunicala agli altri. Poi
agisci di conseguenza con piena responsabilità delle tue intenzioni.

Il primo passo per portare più comprensione e consapevolezza nella tua vita parte
proprio dalla tua intenzione a comprendere.

Solo tu puoi originarla. Non può essere imposta da fuori.

La scelta è tua.

Sul sito Podresca Edizioni puoi acquistare il libro di Silvano Brunelli – Il paradigma della
comprensione

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Le 3 spunte blu della comunicazione consapevole
essereintegrale.com/3-spunte-blu-comunicazione-consapevole

Agostino Famlonga

La comunicazione è uno strumento potentissimo.

Ti permette non solo di ottenere qualcosa chiedendola a qualcun altro. Questo è solo
uno dei suoi possibili impieghi.

È il mezzo con cui conosciamo l’altro e con cui ci esprimiamo.

La comunicazione è un potente mezzo evolutivo perché permette di divenire consapevoli.

Ma questo non è un risultato automatico. Puoi parlare per ore e non aver fatto un
singolo passo di crescita in consapevolezza.

Per rendere la comunicazione uno strumento evolutivo serve che sia comunicazione
consapevole.

Cos’è la comunicazione
La comunicazione è la trasmissione di un’informazione da un punto ad un altro . Ad
esempio: il mio pc comunica con il tuo pc tramite una rete di trasmissione dati.

Questa è una definizione ampia di comunicazione. Ci è utile come punto di partenza, ma


ora restringiamo il campo alla comunicazione umana. Il principio non cambia, ma ha
degli elementi in più.

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Nella comunicazione umana il punto di origine della comunicazione è l’individualità
consapevole. E così anche il punto di arrivo. Due (o più) individui consapevoli si
scambiano informazioni tramite un canale. Un mezzo di comunicazione.

Il mezzo con cui comunico può essere la voce, tramite le parole che dico. Può essere un
testo come questo che sto scrivendo e che tu stai leggendo. Può essere una mia
espressione facciale, muta, ma che ti informa di qualcosa. Ti trasmette cioè delle
informazioni.

Prerequisito allo scambio di informazioni è che ci sia un codice condiviso che permetta
ad entrambi di comprendere.

Se apro una pagina web scritta in arabo vedo sullo schermo dei segni strani ma non
comprendo quello che stanno cercando di comunicare. La comunicazione è interrotta,
perché non ho il codice per decifrare il messaggio. In questo esempio il codice è la
lingua. Ma non è l’unico codice, ce ne potrebbero essere altri.

Un codice potrebbe essere un gesto condiviso. Qualcuno ti guarda e ti strizza l’occhio.


Non ha detto nulla con le parole, ma a te è arrivato un messaggio: sta cercando la tua
complicità, vuole che stai al suo gioco, sta flirtando con te… le interpretazioni potrebbero
in questo caso essere molteplici.

Così come con l’arte. Anche tramite l’arte comunichiamo qualcosa. Sarà una
comunicazione sempre meno definita perché apre a una marea di interpretazioni
soggettive da parte di chi guarda.

Quali considerazioni possiamo trarre da questi esempi?

Comunichiamo costantemente qualcosa.


La comunicazione verbale permette di essere specifici nell’invio delle informazioni.

È impossibile non comunicare Paul Watzlawick

Paul Watzlawick

Cos’è la comunicazione consapevole


Dove si inserisce la consapevolezza in questo scenario?

Potenzialmente ovunque. Vediamo perché.

La consapevolezza è il risultato della comprensione reciproca.

Ti ho comunicato qualcosa, tu l’hai compreso, io so di essere stato compreso: siamo


consapevoli di quel qualcosa. L’informazione è divenuta consapevole.

Analizziamo un attimo la parola consapevole.

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Con-sapevole: quel con sta a significare che lo sappiamo assieme, io con te.
Nell’etimologia della parola consapevolezza è racchiusa questa sfumatura che spesso
resta celata.

Quando sai qualcosa sei “sapevole,” cioè “lo sai”. Per rendere questa cosa consapevole
devo condividerla con qualcuno che la comprenda. Ne diventi in questo modo con-
sapevole. “Sapevole” assieme a qualcun altro.

C’è l’illusione che la consapevolezza sia un fatto privato, individuale. Invece ha un


fondamento relazionale, condiviso.

Quando sai qualcosa hai “sapevolezza” di quello che conosci. Per renderlo con-sapevole
devi condividerlo con qualcuno che lo comprenda.Agostino Famlonga

Agostino Famlonga

Da questo punto di vista la comunicazione è il mezzo con cui raggiungere il fine di


essere consapevole di qualcosa.

Per far sì che questo avvenga serve che ci sia comprensione reciproca rispetto a quello
che è comunicato. E per creare comprensione reciproca serve portare attenzione
consapevole al processo comunicativo, per guidarlo fino all’avvenuta comprensione.

La consapevolezza è dunque sia

il fine della comunicazione


sia il mezzo per ottenere la comprensione reciproca

Da leggere » Il paradigma della comprensione

Le spunte blu
Per comprendere come avviene lo scambio di informazioni e la comprensione è utile
scomporre il processo comunicativo nei suoi passaggi fondamentali.

In un weekend di formazione del percorso di crescita Abilità nella vita, che tratta appunto
Il potere della comunicazione , simpaticamente un partecipante ha detto “ci vorrebbe la
terza spunta blu”. E proprio da questa sua idea è nato l’articolo che stai leggendo.

Chiaramente le spunte blu sono le notifiche delle app di messaggistica istantanea che
ci informano a che punto è il processo dello scambio di informazioni. Le usiamo
quotidianamente e sappiamo bene cosa significhino.

Bene, ora prendiamo questo modello comunicativo e usiamolo come modello per
studiare la comunicazione umana.

Quando comunichi porta l’attenzione ai vari passaggi seguendo i principi delle spunte
e rendi in questo modo la comunicazione consapevole.
3/8
Il modello è universale: può essere applicato a qualsiasi forma di comunicazione. Per
semplificare farò riferimento alla comunicazione verbale.

Premessa: cosa voglio comunicare?


Sembrerebbe che il primo passo della comunicazione sia l’invio di un messaggio.

Se si tratta di una comunicazione automatica in effetti è proprio così. Cos’è una


comunicazione automatica?

Scherzosamente si può definire questo modo di comunicare come l’interazione di due


segreterie telefoniche. Si parlano in modo automatico, senza un reale coinvolgimento
dell’individuo consapevole.

Nella comunicazione consapevole vogliamo rompere le risposte automatiche. Il processo


inizia con il portare l’attenzione a quello che voglio comunicare all’altro. Nel
delineare un messaggio che veicoli un mio significato.

Premessa due: perché voglio comunicarlo?


La seconda premessa va a braccetto con la prima. Qual è lo scopo del mio messaggio?
Uno scopo c’è comunque, che io ne sia consapevole o meno. Portarci l’attenzione
permette di chiarire le intenzioni.

Non necessariamente lo scopo della comunicazione deve essere qualcosa che voglio
ottenere dall’altro. La comunicazione potrebbe semplicemente servire ad esprimermi, a
conoscere l’altro, a fare chiarezza su ciò che è vero per me, o ancora per pulire un
contenuto mentale sospeso. L’importante è definire cosa voglio dire e chiarirmi il
perché voglio dirlo.

Tutto questo è un processo interiore, ancora non ho inviato nessun messaggio.

La prima spunta: messaggio inviato


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Inizia il processo di comunicazione consapevole vero e proprio. Il tuo messaggio viene
veicolato all’altro tramite un mezzo di comunicazione.

È utilissimo comunicare, oltre al messaggio stesso, anche l’intenzione, il perché stai


comunicando quella determinata cosa.

È utile per te: rende vive le intenzioni positive.

È utile per chi riceve la comunicazione: apre la strada al messaggio trasmesso.

Esiste un’intenzione che ingloba al suo interno tutte le altre possibili intenzioni:
l’intenzione di creare comprensione reciproca. Questa è il punto di arrivo della
comunicazione consapevole. Come fine ultimo, questa intenzione deve essere veicolata
in ogni passaggio del processo.

La prima spunta della comunicazione consapevole si accende quando ho comunicato


all’altro il mio messaggio e la mia intenzione, con l’intenzione di creare comprensione.

La seconda spunta: messaggio consegnato


Un messaggio inviato non è necessariamente consegnato. Chi ti ascolta potrebbe non
aver compreso quello che gli è stato detto. Oppure potrebbe aver bisogno di altre
informazioni per comprendere fino in fondo. Potrebbe essere distratto e aver perso dei
pezzi del tuo messaggio.

In questo passaggio è fondamentale tenere fino in fondo la responsabilità della


consegna del messaggio.

Spesso ho sentito dire: “io gliel’ho detto, se vuol capire… capisce“. In una affermazione di
questo tipo c’è una delega della responsabilità all’altro. È un errore.

Chi comunica ha la responsabilità di trovare il modo di fare arrivare il messaggio


all’altro. Serve trovare un linguaggio adatto, degli esempi di aiuto, e metodi che
permettono di creare comprensione reciproca.
5/8
La seconda spunta blu: messaggio compreso
C’è in questo passaggio una transizione di fase importantissima. Finora nella
comunicazione c’è stata una trasmissione di dati. Si è veicolata un’informazione di
qualche tipo.

Nella comprensione l’informazione viene integrata .

È un passaggio di stato fondamentale. I dati ricevuti vengono integrati con


quelli esistenti, in una nuova configurazione.

Per questo motivo la comprensione è un fatto raro.

Perché comprendere significa cambiare.

Se ti comprendo in qualche modo non sono più quello di prima, e questo spesso viene
visto come un pericolo. Sembra pericoloso quando ci si aggrappa ad un senso di sé
statico, rigido, immutabile. L’altro rimane esterno a me ed è bene che sia così. Lasciarlo
entrare è una minaccia, perché minaccia di cambiare chi sono.

Per questo motivo è giusto riconoscere la libertà di scelta dell’altro, che è libero
di comprenderti o meno.
La comprensione non può essere forzata, è un dono di sé che l’altro ti sta facendo.

Finisce qui il ciclo di comunicazione consapevole?

No. Resta ancora un passaggio. La terza spunta blu.

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La terza spunta blu: sono stato compreso
Se il messaggio che ho trasmesso è stato compreso dall’altro, ma io non ne sono
consapevole, dentro di me resta un ciclo aperto. (In realtà resta aperto in tutti e due.)

Riconoscere di essere stato compreso chiude il ciclo della comunicazione consapevole.


Ecco la terza spunta blu.

Questo passaggio di chiusura del ciclo della comunicazione può essere facilitato da ambo
le parti.

Se stai ascoltando puoi impegnarti attivamente nel dare un feedback a chi ti comunica.
Un cenno del capo o un semplice “ho compreso.” Questo può essere sufficiente.

Se stai comunicando puoi chiederlo: “hai compreso?”

Questo riconoscimento spesso è implicito, cioè non è comunicato verbalmente. È un click


interiore.

Lo senti che in te cambia qualcosa quando l’altro ti ha compreso.

Come allo stesso modo senti quando non sei stato compreso.

La comprensione ha un sapore inconfondibile.

Quando vieni compreso c’è una transizione dentro di te. L’informazione viene integrata.
C’è un cambiamento interiore, e lo senti.

Ti senti diverso.

E lo sei davvero.

Sei più consapevole.

7/8
Come applicare questi principi
Ognuno di noi ha appreso, durante la sua crescita, come comunicare con gli altri.

Spesso questo apprendimento avviene tramite l’osservazione e l’imitazione della figure


educative che ci sono state vicine. A volte invece ci viene insegnato intenzionalmente.

Quello che ho potuto notare, per esperienza personale e interagendo professionalmente


con le persone, è che spesso il modello appreso non è funzionale, cioè non porta ad
aumentare la consapevolezza e la comprensione reciproca.

Anzi, nella maggior parte dei casi è vero l’opposto.

Spesso la comunicazione è inconsapevole, automatica, e porta a sentire la frustrazione


e il dolore dell’incomprensione.

Mettere in pratica una comunicazione consapevole richiede tante abilità da mettere in


campo.

La conoscenza teorica è certamente utile, ma passare dalla teoria alla pratica è quello
che davvero evolve la persona e si tramuta in benessere, efficacia personale e relazioni
più profonde.

Per questo un intero weekend del corso Abilità nella vita è dedicato al potere
della comunicazione.

Sempre per lo stesso motivo nel seminario Intensivo sull’Essere Consapevole


pratichiamo la tecnica di consapevolezza abbinandola in una sua parte anche alla
comunicazione.

Entrambi gli strumenti sono in grado di elevare in modo incredibile l’abilità individuale di
comunicare in modo consapevole.

Bibliografia

8/8
Cambiare è più naturale di quel che credi
essereintegrale.com/cambiare-naturale-studio-70-anni

Agostino Famlonga

Quante volte ho sentito queste due frasi: “gli uomini non cambiano mai” e “sono fatto
così”.

Entrambe evidenziano una credenza radicata dentro di noi: il cambiamento non è


possibile. La prima credenza è riferita agli altri e la seconda a sé stessi, ma il principio
che sta alla base è il medesimo. Consideriamo il cambiamento della persona come
qualcosa di innaturale, artificioso o forzoso.

In realtà le cose sono esattamente l’opposto, e questa ricerca psicologica lo dimostra in


modo inequivocabile.

La ricerca durata quasi 70 anni


Sono pochi gli studi psicologici che hanno una portata così ampia: 63 anni di differenza
tra la prima analisi dei soggetti della ricerca e la seconda. Lo studio è stato
effettuato dai ricercatori della University of Edinburgh e ha analizzato la stabilità dei
tratti della personalità in un gruppo di persone, seguendone l’evoluzione partendo
dall’età di 14 anni fono a 77 anni.

I ricercatori avevano l’intenzione di dimostrare la stabilità dei tratti caratteriali delle


persone.

In realtà i risultati della loro ricerca hanno smentito clamorosamente la loro ipotesi. Non
c’è correlazione tra i dati iniziali e quelli verificati dopo 63 anni.
1/6
Come se avessero testato persone diverse. In realtà le persone sono le stesse, ma la loro
personalità è cambiata drasticamente con il corso degli anni.

Cosa significa cambiare personalità?


Una branca molto attiva della psicologia è quella che studia le caratteristiche della
struttura psicologica della persona. Attraverso dei test si determina quanto la persona
possegga delle caratteristiche psicologiche distinte tra di loro.

Un esempio moderno e molto valido di questa applicazione di ricerca è il modello Big 5 .


Si somministra un test alla persona e si ottengono dei risultati distinti su queste cinque
caratteristiche della personalità:

1. Estroversione
2. Amicalità
3. Coscienziosità
4. Stabilità emotiva
5. Apertura mentale

Questi sono veri e propri tratti della personalità. Una persona può essere più o meno
estroversa. Può avere un’apertura mentale più o meno spiccata, e così via per ogni tratto.
Attraverso il test questo diviene evidente e quantificabile in modo piuttosto preciso. I
risultati statistici di controllo nel corso degli anni hanno evidenziato l’alta affidabilità di
questo test. Esistono moltissimi modelli, diversi tra di loro, con i relativi test di misura.
Ogni modello analizza dei tratti di personalità specifici.

La personalità si struttura in modo unico per ognuno di noi. I test di personalità rendono
evidente e quantificabile questa struttura. Un cambiamento nella personalità si riflette
nel cambiamento dei fattori nei tratti testati. In questo modo è possibile monitorare il
cambiamento nel tempo della personalità della persona.

È proprio quello che hanno fatto i ricercatori della University of Edinburgh nel loro
studio di 63 anni, utilizzando un modello a 6 fattori, testando i seguenti tratti:

1. Sicurezza di sé
2. Perseveranza
3. Stabilità dell’umore
4. Coscienziosità
5. Originalità
6. Desiderio di eccellere

[Per approfondire i tratti della personalità leggi il modulo Tipi del Sistema Operativo non-
duale.]

I risultati dello studio

2/6
La ricerca ha dimostrato che i sei tratti testati non mostrano correlazione tra i valori
rilevati a 14 anni e quelli resi evidenti a 77 anni. L’unico fattore che ha mantenuto
una certa stabilità è la stabilità dell’umore, analizzandolo però con un modello di ricerca
più complesso. Gli altri tratti erano completamente diversi tra di loro.

Le 174 persone che hanno partecipato allo studio erano completamente diverse nei loro
tratti di personalità a 77 anni rispetto a quando ne avevano 14.

[Se sei interessato ad un’analisi più approfondita dello studio clicca sul link all’articolo
originale che trovi in bibliografia.]

Cambiare è naturale
Questo studio dimostra che il cambiamento avviene in modo più naturale di quello
che si pensi.

La frase “sono fatto così” si rivela per quel che è: un pregiudizio su di sé. È un
pregiudizio perché le sue basi sono infondate.

La credenza “gli uomini non cambiano mai” è semplicemente lo stesso pregiudizio


proiettato sugli altri.

Queste posizioni vengono usate come scusa, come giustificazione per un


comportamento o per un atteggiamento verso gli altri. Una giustificazione implica
sempre un guadagno nascosto. Quando ho bisogno di giustificarmi significa che da
qualche parte ho un interesse ad agire in questo modo. Mi difendo per il timore di
cambiare.

Questo articolo vuole essere uno spunto a lasciare andare le giustificazioni e i guadagni.
A prendere una posizione diversa:

Il cambiamento è la nostra predisposizione naturale.

Cambiare significa crescere, maturare. Non è possibile farne a meno.

Il principio è valido anche in senso inverso: crescere significa cambiare.

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Il cambiamento intenzionale e consapevole
Vedo subito un’obiezione: “sì, cambiare sarà anche possibile e naturale, ma per cambiare sé
stessi serve una vita intera.” Lo studio che ti ho proposto infatti affronta un lasso di tempo
di ben 63 anni.

È così, il cambiamento spontaneo richiede tempo .

È necessario coinvolgersi con le esperienze della vita, lasciarsi toccare da esse mettendo
in discussione le proprie credenze ed acquisendo nuove prospettive. Questo significa
crescere, maturare, diventare più saggi e apprendere dall’esperienza. Questa è la via
spontanea, che ognuno di noi è chiamato a compiere semplicemente vivendo la propria
vita.

Esiste una via preferenziale per il cambiamento: la crescita intenzionale e consapevole.

Il processo di crescita intenzionale implica l’essere disposto a guardarsi dentro, a


prendere consapevolezza di sé, delle proprie dinamiche, delle proprie parti oscure. A
mettere in discussione le proprie credenze e a integrare le parti non integrate. A
originare intenzioni di miglioramento in tutte le aree della vita.

Questo processo, fatto con gli strumenti idonei, è un acceleratore del cambiamento. I
cambiamenti che in modo spontaneo avvengono in una vita intera, possono in questo
modo avvenire in un arco temporale molto più breve di quel che si pensi.

Ho visto persone trasformarsi nell’arco dei tre giorni dell’intensivo sull’essere


consapevole. Ho visto persone originare scelte di crescita impensabili durante un
seminario di un solo weekend.

Sono tanti i fattori che concorrono a determinare la velocità del cambiamento, ma


in particolare sono tre quelli che fanno da fulcro essenziale:
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1. La consapevolezza
2. La decisione di cambiare
3. Il sostegno dell’altro

L’ordine dei tre fattori non è casuale. Se non so chi sono, dove sono e come sono non
posso originare un’autentica decisione di cambiamento. Posso farlo ma questa scelta
poggerà su basi instabili perché non consapevoli.

La decisione di cambiare emerge in modo spontaneo nel momento in cui prendo


consapevolezza dei meccanismi limitanti o del valore superiore che voglio concretizzare
nella vita. La decisione è sorretta da una forte motivazione: il perché farlo.

Chi sono, cosa sono e perché sono: ecco i tre vettori che determinano la spinta alla
crescita intenzionale e consapevole.

Queste tre forze sono coniugate al tempo presente.

Non cambio per diventare chi vorrei essere, o chi mi piacerebbe essere. Il cambiamento
origina dal sapere chi sono, ora. Il cambiamento è quella transizione che mi permette
di portare chi sono nella vita.

È il movimento spontaneo verso la vita che origina dal sapere chi sono .

Sembra un dettaglio insignificante, invece è una elemento determinante. I percorsi di


crescita che usano questo principio sono quelli che portano nella vita i risultati duraturi
che cerchiamo. Usare questo principio significa partire dalla consapevolezza di sé, non da
qualcosa di preimpostato o di esterno a sé.

Il terzo fattore, il sostegno dell’altro, è quell’elemento spesso trascurato che determina


l’esito dell’intenzione al cambiamento. Un’intenzione che rimane individuale, che non
viene comunicata a sufficienza e che non riceve adeguato supporto dalle relazioni, ha
generalmente vita breve.

L’altro essere umano è indispensabile.

Affronteremo l’argomento del cambiamento in modo più dettagliato con articoli di


approfondimento specifici. Ognuno dei fattori esposti sinteticamente in questo articolo
implica un’incredibile quantità di sfumature possibili.

Dalla teoria della crescita alla pratica della vita


La teoria è utile se entra in contatto con un mezzo che la traduce in risultati
concreti. Altrimenti resta solo teoria. Bella finché vuoi, ma sterile.

Il mezzo che traduce la teoria della crescita in risultati di vita sono le abilità umane.

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Esiste un percorso di crescita dove tutto quello che abbiamo toccato sinteticamente in
questo articolo viene coniugato con maestria per dare alla persona gli strumenti per
elevare la qualità della vita, per mettere in moto il cambiamento intenzionale e
consapevole partendo dalla consapevolezza di sé, rispettando la libertà di scelta
individuale e veicolando il sostegno reciproco. Questo corso innovativo si chiama
ABILITÀ NELLA VITA.

Clicca sull’immagine qui sotto per scoprire di cosa si tratta.

Bibliografia

Mathew A. Harris, Caroline E. Brett, Wendy Johnson and Ian J. Deary – “Personality Stability
From Age 14 to Age 77 Years”

Photo credit

6/6
L’Ipnopompico [Rubrica Stati di Coscienza]
essereintegrale.com/ipnopompico

Agostino Famlonga

Il risveglio
La sveglia suona, e interrompe il tuo dolce stato di sonno. Ti svegli e ti alzi dal letto, con
una mente e una consapevolezza più o meno rallentata, in uno stato di transizione che
può essere a volte impegnativo.

Per qualcuno uscire dal letto e attivarsi è difficile, per altri invece è più semplice, perché
hanno un processo di risveglio più veloce e sentono meno gli effetti di questa
transizione. In entrambi i casi, quello della sveglia “artificiale” è un rituale ormai
comune per l’uomo moderno.

I ricercatori (e anche l’intuito) ci dicono che l’abitudine di usare una sveglia per
interrompere il sonno, è segno che il sonno non è stato sufficiente.

Ogni volta che deleghiamo a un dispositivo esterno la decisione di interrompere il riposo,


stiamo accumulando un debito di sonno.

Un tempo residuo di sonno di cui avremmo bisogno, ma che non viene soddisfatto.

Più è alto il debito, più è difficile la transizione da uno stato all’altro. Non è questo
comunque l’unico elemento che incorre nel determinare la pesantezza o la leggerezza
del risveglio.

Se, invece di alzarti immediatamente dal letto e forzarti nel dare un risveglio accelerato al
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tuo corpo e alla tua mente, restassi semplicemente in osservazione del tuo stato
interiore, potresti conoscere le caratteristiche di questo stato di coscienza di
transizione: l’ipnopompico.

Questo articolo fa parte della Rubrica sugli Stati di coscienza di essereintegrale.


Qui puoi leggere l’introduzione » La straordinaria avventura negli stati di coscienza

Lo stato di coscienza ipnopompico


Lo stato di coscienza ipnopompico è la condizione che porta al risveglio.

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L’origine etimologica del termine sta a significare proprio questo: ipno (sonno) + pompē
(che porta via).

Lo stato ipnopompico è quello stato che ti fa uscire dal sonno.

Nel corso della storia dell’uomo questo stato di coscienza è stato associato alla sua
controparte speculare, la transizione verso l’addormentamento (definita stato
ipnagogico). Si è sempre ritenuto che fossero simili quindi sono stati associati.

Lo stato di coscienza ipnagogico: la transizione tra lo stato di veglia a quello di sogno

Lo stato di coscienza ipnopompico: la transizione tra lo stato di sogno a quello di veglia

La separazione di termini, che va a definire la prima differenziazione tra lo stato


ipnagogico e ipnopompico, è piuttosto recente, ed è attribuita al grande ipnotista
Frederic Myers, che a fine ‘800 conia il termine ipnopompico iniziando a sottolineare
le differenze rispetto alla condizione ipnagogica.

Qual è la differenza?

Nello stato ipnagogico possiamo assistere in diretta alla formazione delle immagini
oniriche, nelle 4 fasi che abbiamo visto nel precedente articolo.

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Le 4 fasi dello stato di coscienza ipnagogico

Nello stato ipnopompico invece le immagini oniriche appaiono già formate,


preconfezionate dalla mente. Ne diveniamo consapevoli senza scorgere la loro
formazione.

Da questo punto di vista lo stato ipnagogico assomiglia di più allo stato della Vigilia più
che allo stato ipnagogico.

Per approfondire » La vigilia

Anche dal punto di vista fisiologico l’ipnopompico è molto diverso dall’ipnagogico. I


processi tipici dell’addormentamento sono invertiti.

Nell’ipnopompico avviene un aumento del tono muscolare, e aumentano anche la


pressione arteriosa assieme alla frequenza respiratoria.

Il corpo si predispone all’attività diurna , mettendo in moto i suoi apparati e il


metabolismo. È esattamente l’opposto dell’ipnagogico.

Questa fase ha una durata variabile, ed è molto soggettiva: va da 20 minuti fino a un


paio d’ore.

Non solo il corpo “si accende”, anche la mente e la consapevolezza hanno i loro tempi di
transizione verso lo stato di veglia. In questo passaggio si verifica una condizione
“ibrida”, tipica dello stato ipnopompico.

Condizione mentale ibrida


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Nello stato ipnopompico si verifica una condizione in cui il corpo si sta attivando e la
mente trascina con sé alcuni elementi tipici della condizione di sogno.

Il cervello impiega del tempo per passare dalla modalità di elaborazione


dell’informazione del sogno a quella della veglia. La fisiologia non ha un interruttore on-
off, non è immediata nel compiere questa transizione.

Le caratteristiche dei 3 principali stati di coscienza

A livello soggettivo questa sovrapposizione viene percepita come

una condizione in cui gli elementi della percezione della realtà fisica si sommano a
modelli mentali tipici del sogno.

Per approfondire » Il sogno

Anche a livello fisiologico, avendo una condizione di sfasamento tra l’attivazione fisica e
quella mentale, può verificarsi una condizione in cui la consapevolezza si “sveglia”
prima della fisiologia del corpo, manifestando una condizione ibrida che può
caratterizzare l’ipnopompico: può accadere infatti di sperimentare coscientemente la
paralisi del sonno.

Il corpo durante il sonno REM innesca un processo inibitorio che immobilizza i muscoli,
allo scopo di permettere l’elaborazione del sogno senza che questa si traduca in
movimenti fisici reali.

Se il risveglio coincide con questa fase del sonno, può essere facilmente sperimentata la
condizione in cui, pur avendo l’intenzione di muoversi, questa non riceva risposta dal
corpo.

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È una condizione che generalmente passa nell’arco di pochi minuti. Per qualcuno
rappresenta una situazione spiacevole, perché percepire di non avere accesso
volontario al movimento intenzionale del proprio corpo è vissuto come terrifico.

Va riconosciuto innanzitutto come qualcosa di normale, che rientra all’interno del


funzionamento ordinario della nostra fisiologia .

La sovrapposizione tra queste due condizioni, il sogno e la veglia, può inoltre dare luogo
a dei fenomeni allucinatori definiti allucinazioni ipnopompiche.

Proprio perché sperimentate in una condizione ibrida, le percezioni dello stato di sogno,
mescolate alla percezione della condizione di veglia in fase di avviamento, possono
facilmente venire scambiate per veritiere e reali.

Nel corso della storia dell’uomo questi eventi sono stati interpretati in svariati modi.
Hanno dato origine a una variegata serie di miti e di leggende.

Confusione cognitiva

Generalmente al risveglio ci sentiamo rallentati, sia nella funzione del pensare che
nell’articolare i movimenti.

C’è un termine tecnico che definisce questa condizione: confusione cognitiva.

La sua causa fisiologica è che quella parte del cervello necessaria per compiere le azioni
intenzionali e i ragionamenti consapevoli impiega normalmente circa 20′ ad attivarsi
completamente e a connettere il suo funzionamento con quello delle altre aree
cerebrali.

La parta anatomica in questione è la corteccia prefrontale.

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La corteccia prefrontale

È una vera e propria inerzia da sonno ed è caratterizzata da un rallentamento


cognitivo, una ridotta attivazione generale e riflessi rallentati, una sonnolenza residua
e un uso limitato della memoria a breve termine .

Lo stato che si genera in questa transizione è simile a quello che può svilupparsi da un
eccesso di consumo di alcool. La sua durata può variare da 1 minuto fino anche a 2
ore nei casi estremi.

La cosa interessante di questa condizione è che non è determinata da fattori immutabili.

Un allenamento dell’attenzione e una pratica di consapevolezza mirata, così come è


proposto nei vari articoli della rubrica sugli stati di coscienza che stai leggendo, sono in
grado di attivare in modo più marcato proprio le funzioni e le aree cerebrali che riducono
il rallentamento cognitivo e l’inerzia da sonno, facilitando in questo modo il risveglio e
accelerando la transizione verso lo stato di veglia.

Perché ci svegliamo?

Cerchiamo di comprendere ora i meccanismi che stanno dietro la fisiologia del


risveglio.

Un risveglio artificiale è guidato da dei criteri non fisiologici , quindi non rispetta i
bisogni del nostro corpo e alla lunga va a incrementare il debito di sonno, che può
diventare cronico se non si provvede a riportare periodicamente a zero questo debito.

Il risveglio naturale invece è la risultante della somma di due processi opponenti che
interagiscono tra di loro per determinare lo stato di attivazione fisiologica e cognitiva.

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Il primo processo è il debito di sonno, che pesa da un lato della bilancia per determinare
la spinta a dormire.

Il secondo è l’attivazione circadiana, che segue un andamento a sinusoide con due


picchi, uno al mattino e uno al pomeriggio.

Due ore prima del risveglio il livello di cortisolo in circolo aumenta e una parte del tronco
encefalico del cervello, chiamata Sistema Attivatore Ascendente inizia a secernere dei
neurotrasmettitori che vanno ad attivare le aree superiori.

Questo processo pesa dall’altro lato della bilancia per spostare la risultante verso il
risveglio.

Processi opponenti che regolano il sonno

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È la sommatoria di queste due spinte a determinare se la persona, alla fine di un ciclo di
sonno di 1 ora e mezza, si sveglierà oppure continuerà a dormire.

Il risveglio naturale non è casuale, ma accade generalmente alla conclusione della


fase REM.

I cicli e gli stadi del sonno

Se accade in questa fase, la transizione è più veloce e più “morbida”, perché asseconda la
nostra fisiologia.

Se invece ci svegliamo con la sveglia e questa suona quando ci troviamo in uno stato di
sonno profondo, il passaggio allo stato di veglia sarà molto più rallentato e
impegnativo.

Vediamo quindi come poter unire questo bisogno fisiologico con l’esigenza moderna di
svegliarsi ad orari prefissati.

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Svegliarsi meglio
Abbiamo compreso che la condizione di risveglio ottimale sarebbe quella di non
delegare ad una sveglia il momento del risveglio, e lasciare che i processi opponenti
svolgano la loro funzione in modo ottimale così da avere un debito di sonno ridotto al
minimo.

Per molti questa condizione è un lusso che si possono permettere solo in vacanza o nei
weekend.

Abbiamo compreso anche che un risveglio artificiale in uno stadio del sonno profondo è
ancora più innaturale di un risveglio in una fase del sonno leggero.

Il minore dei mali, in caso di un risveglio artificiale, è rappresentato da una sveglia che
suona nel momento giusto, cioè nel momento in cui c’è il sonno più leggero, alla fine di
un ciclo di sonno REM.

Fare coincidere il momento di risveglio con la fine del sonno REM può alleggerire la
sveglia, velocizzare il processo di transizione e permettere di utilizzare al meglio questo
stato di coscienza (come vedremo tra un attimo).

È possibile, concretamente, mettere in atto questa sincronizzazione?

Recentemente sono state create varie applicazioni di sveglia progettate proprio a questo
scopo. Hanno la funzione di rilevare lo stato di sonno in cui ti trovi, e di scegliere
autonomamente di spostare il momento della sveglia più avanti o più indietro,
chiaramente entro un intervallo di tempo limitato da te.

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Paradossalmente per un risveglio più dolce potrebbe essere meglio svegliarsi 20 minuti
prima dell’orario impostato nella sveglia, se quest’ultimo coincide con un periodo di
sonno profondo.

Le applicazioni fanno esattamente questo: rilevano la fase del sonno in cui ti trovi e
scelgono quando svegliarti, per farti dormire il più a lungo possibile e per agevolarti
nella transizione verso la veglia.

Ti segnalo alcune di queste applicazioni, sapendo che ce ne sono molte altre di valide.

Per apple: Sleep Cycle alarm clock – Sleep Time+

Per android: Sleep Cycle alarm clock – Sleep as Android – Ciclo del Sonno Sveglia –

Svegliarsi in questo modo permette di poter interagire con questo stato di coscienza in
modo ottimale.

Usare consapevolmente lo stato ipnopompico

Lo stato di transizione tra il sonno e la veglia può essere usato, all’interno di un percorso
si consapevolezza, in tre modi.

Innanzitutto è un punto di accesso consapevole al ricordo dei contenuti dei sogni .

Se ti svegli e ti alzi immediatamente dal letto, facilmente il ricordo del sogno fatto
svanisce nell’oblio.

Se invece resti immobile e porti l’attenzione al sogno che hai appena fatto, o che si sta
sfaldando in diretta davanti agli occhi della tua mente, puoi ricordarlo di più e integrarne
il suo messaggio in modo più consapevole.

A volte basta un singolo frammento di sogno per una ricostruzione completa.


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Un accorgimento importante per facilitare questo processo è quello di non muovere il
corpo, ma mantenerlo il più possibile immobile.

Un altro modo di usare questo stato è quello di utilizzarlo per ritornare nel mondo
onirico, facilitando in questo modo il sogno lucido

Esistono delle tecniche apposite che permettono di scivolare nel sogno lucido da una
condizione di veglia. Nel caso di risveglio dunque è possibile, restando vigili, scivolare da
una condizione ipnopompica direttamente ad una ipnagogica, in transizione verso il
sogno lucido.

Questo passaggio è più facile se avviene nelle ultime fasi del sonno , quando i tempi
che intercorrono tra una fase REM e l’altra sono più ravvicinati.

Infine, un altro modo per utilizzare consapevolmente lo stato ipnagogico, è quello di


divenire consapevole dei processi di costruzione dell’elaborazione
dell’informazione, e quindi facilitare la progressione tra gli stadi degli stati di coscienza.

Per spiegarti questo prendiamo come schema di riferimento la progressione che trovi
nell’e-book “Gli stadi della meditazione” qui sotto.

La progressione tra gli stati di coscienza nella meditazione

Come puoi vedere dallo schema lo stato ipnopompico opera nella fase di transizione
tra pensiero e percezione.

Lo stato ipnagogico mette a nudo il processo di costruzione dei modelli mentali del sogno
e della veglia e della loro interazione nella costruzione della realtà percepita
soggettivamente.

Permette di osservare in diretta il processo, e quindi, nel tempo, di operarne la de-


costruzione.

Più riesci ad osservare queste transizioni, sia in un verso (ipnagogico) che nell’altro
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(ipnopompico), più inneschi il processo di smantellamento spostando il baricentro della
consapevolezza nello stadio seguente nella progressione tra gli stadi degli stati di
coscienza.

Per un approfondimento di questi passaggi ti rimando all’e-book gratuito Gli stadi della
meditazione (se non l’hai ancora scaricato lo trovi qui LINK)

La tua esperienza con lo stato ipnopompico


Alcune domande per riflettere:

Al risveglio riesci a destare velocemente la consapevolezza o percepisci un alto


grado di confusione cognitiva e di inerzia da sonno?
Che differenze noti tra quando ti risvegli usando una sveglia e quando ti risvegli
naturalmente?

Come puoi ottimizzare il tuo risveglio affinché diventi un momento di maggiore


consapevolezza?

Se ti fa piacere puoi lasciare la tua esperienza nel vissuto di questo stato di


coscienza nei commenti qui sotto.

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I Sogni Lucidi [Rubrica Stati di coscienza]
essereintegrale.com/sogno-lucido

Agostino Famlonga

La prima volta non si scorda mai.

Questo principio è valido per molte aree, non solo per quando si fa l’amore per la prima
volta.

Nel mio caso, è certamente valido anche per il mio primo sogno lucido.

Lo ricordo ora come se fosse accaduto stanotte.

Sono passati già una dozzina d’anni, eppure il ricordo è indelebile e mi ha ispirato nel
tempo ad esplorare il mondo affascinante dei sogni lucidi.

[ Questo articolo fa parte della rubrica sugli Stati di coscienza. Se non l’hai ancora letta, qui
trovi l’introduzione alla rubrica. ]

Come ho fatto il mio primo sogno lucido


Il mio primo sogno lucido l’ho avuto usando un espediente tecnologico.

In seguito ho imparato come fare senza, ma le prime volte ho usato un dispositivo


elettronico, chiamato REMDreamer.

Dovessi tornare indietro inizierei da zero senza alcun ausilio esterno .

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Ma ai tempi ho usato questo dispositivo, per cui te lo descrivo per completezza di
informazione (e non come consiglio). Ce ne sono varie marche, lo cito semplicemente
perché è quello che avevo.

Questo apparecchio è una mascherina da indossare la notte, dotata dei sensori che
rilevano i tuoi movimenti oculari.

Nel sonno REM gli occhi si muovono rapidamente, e un sensore elettronico su questa
mascherina è in grado di rivelare questi movimenti.

Oltre a questo, sul dispositivo ci sono dei led luminosi, in corrispondenza degli occhi.

Il sensore rileva tramite i tuoi movimenti oculari quando stai sognando, e emette tramite
dei led dei segnali luminosi.

Se riesci a impostare la luminosità e la frequenza di questi segnali in modo da riuscire a


vederli mentre stai sognando senza svegliarti , hai modo di riconoscere che sei dentro
un sogno, e quindi hai accesso al sogno lucido.

La difficoltà sta tutta nel trovare i settaggi giusti.

Le prime volte è stato davvero complicato: o la luce era troppo intensa e mi svegliavo,
oppure era troppo bassa e non succedeva nulla.

Finché un giorno ho centrato la miscela perfetta degli ingredienti, e ho avuto il mio primo
sogno lucido.

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Il mio primo sogno lucido
Ricordo che nel sogno ero dentro un grattacielo, e stavo visitando i vari piani assieme ad
un mio amico.

Salendo di piano in piano sono giunto in un grosso locale vuoto, con tutte le vetrate che
lasciavano vedere un bellissimo panorama su una città.

Mi sono fermato incantato a osservare questo panorama quando, con mio grande
stupore, ho visto un flash rosso.

Tutta la scena è diventata rossa per un attimo.

Mi sono stupito e anche un po’ spaventato, poi ho realizzato. Mi si è accesa la lampadina:


“è il REMdreamer, vuol dire che sto sognando!”

Difficile descrivere la sensazione di incredulità, di stupore e di meraviglia nel guardarsi


intorno e riconoscere che è tutto un sogno, eppure di riconoscere di esserci
completamente, sveglio e vigile come durante la veglia.

Restai allibito e mi girai verso il mio compagno di sogno, che con uno sguardo confermò
la mia intuizione.

Allora, guardandomi in giro, in quel piano immenso e vuoto del grattacielo, vidi tutto con
occhi nuovi.
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Con gioia estrema mi girai verso la vetrata, incantato ad osservare quello che vedevo.

“Questo è un sogno. È incredibile”. Mi dissi.

E poi, senza nemmeno pensarci, feci un gesto con la mano sulla vetrata. Come quando
tenti di pulire la condensa su un vetro appannato per vederci attraverso.

Il gesto della mano cambiò completamente il panorama.

Non stavo più vedendo il profilo di una città, ma ora ero davanti al Canal Grande di
Venezia al tramonto, con una sfumatura di evanescenza che rendeva il tutto
meraviglioso.

La cosa incredibile è che l’avevo creato io, intenzionalmente, con quel gesto.

Non avevo pensato razionalmente “ora creo il panorama del Canal Grande”, ma tutto è
accaduto in modo istantaneo, immediato.

L’intenzione è diventata, in tempo reale, qualcosa, cioè proprio quella cosa che volevo.

“È incredibile”, mi dissi.

Anche la vetrata era sparita. Mi sono poi messo a volteggiare sul canale sospeso a
mezz’aria esplorando questo mondo di sogno.

Il mio primo sogno lucido si è concluso dopo poco, preso dall’entusiasmo e


dall’eccitazione mi sono svegliato.

Una condizione delicata


Scoprii nel tempo che questa è la difficoltà più grande: riuscire a mantenere una
condizione di attivazione che sia sotto la soglia del risveglio.

Troppo poco, e non accade nulla, il sogno passa e a malapena te lo ricordi.

Troppo, e ti risvegli in un attimo.

A causa di questa loro condizione effimera il mio rapporto con i sogni lucidi è stato, per
i primi tempi, un approccio di odio-amore.

Da un lato li bramavo, dall’altro mi rovinavano il sonno con dei risvegli continui nei miei
vari esperimenti notturni.

Per imparare ad avere sogni lucidi serve tanta pazienza e tanta tolleranza alla
frustrazione.

Però certo ne vale la pena: il sogno lucido è una porta di accesso a stati di coscienza
molto profondi.

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Dopo vari esperimenti ho abbandonato i dispositivi elettronici e mi sono dedicato alle
classiche tecniche per il sogno lucido (le vedremo più avanti) e il rapporto è decisamente
cambiato.

La cosa che ha permesso di fare amicizia con questo stato di coscienza, sicuramente è
stata l’avere incluso il sogno lucido all’interno di un contesto più ampio.

L’aver cioè riconosciuto la loro utilità all’interno di un percorso di sviluppo della


coscienza.

Ma andiamo per gradi. Cominciamo il ponendoci la domanda: che cos’è un sogno lucido?

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I sogni lucidi

Quando stai sognando e ti rendi conto di stare sognando, stai avendo un sogno lucido.

Non quando ti svegli e ti ricordi il sogno che hai fatto, ma quando sei “sveglio”
all’interno del sogno.

Tecnicamente stai ancora sognando, ma la consapevolezza è desta, è risvegliata


all’interno del sogno.

Il sogno generalmente svolge la sua trama in modo confuso, opaco.

Nel sogno lucido invece l’auto-coscienza è presente in modo simile allo stato di veglia,
solo che il mondo con cui entra in contatto è quello onirico, non quello fisico.

La capacità di ragionamento, di ricordare, l’intenzionalità e la consapevolezza di sé sono


attive, così come lo sono nello stato di veglia.

Il mondo dei sogni è fatto della materia dei sogni, e non è limitato dalle leggi della fisica,
ma è aperto alla pura e infinita potenzialità della fantasia.

Questo rende il mondo dei sogni lucidi un territorio di grande fascino per chi decide di
esplorarlo consapevolmente.

La premessa a tutto quello che leggerai in questo articolo è che i sogni lucidi non sono
condizioni alterate di coscienza. Fanno parte del repertorio naturale degli stati di
coscienza dell’uomo.

I sogni lucidi infatti possono accadere naturalmente: dal 20-80% dei sogni lucidi
riportati dalle persone accadono in modo spontaneo, sebbene la loro manifestazione in
modo continuativo spontaneo sia piuttosto rara.

Inoltre la storia dei sogni lucidi è antichissima, segno che questo stato di coscienza
accompagna l’essere umano fin dagli albori del suo sviluppo.

Il primo a parlarne (in occidente) è nientemeno che Aristotele, che cita così:

“Spesso quando si dorme, accade qualcosa alla coscienza e questo manifesta come ciò che si
ha davanti agli occhi altro non è che un sogno.”
[ Aristotele ]

La parola “lucido” associata a quella di sogno invece è relativamente recente. Il primo a


coniare il termine sogno lucido è stato lo psichiatra Frederik van Eeden nel 1913.

A lui si attribuisce anche l’aver coniato il termine onironautica, ovvero lo studio e la


pratiche utili a destarsi all’interno del sogno.

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Così come l’aeronautica è la scienza che studia il volo, l’onironautica è la scienza che
studia il sogno (oniro = sogno) e come svegliarsi all’interno di questo stato di coscienza.

Cosa non è un sogno lucido


Per definire meglio che cos’è un sogno lucido, è utile dire cosa non è.

Non è un ricordo chiaro di un sogno fatto


Quando ti svegli e ti ricordi perfettamente del sogno che hai appena concluso, sei
sveglio.

Hai un ricordo chiaro di ciò che hai sognato, ma ti trovi nettamente nello stato di veglia.

Il sogno è passato. Seppur chiaro, è un ricordo.

Non è un sogno vivido


Puoi fare un sogno molto vivido, anche intenso da questo punto di vista, ed essere
comunque addormentato mentre lo stai facendo.

Vivido non vuol dire lucido, sebbene la maggior parte dei sogni lucidi sia anche molto
vivida.

Per approfondire » Le quattro qualità dell’esperienza

Non è essere mezzi svegli e mezzi addormentati


Negli stati di coscienza intermedi tra il il sonno e la veglia (e viceversa) sei in una
condizione particolare, ibrida da un certo punto di vista.

Questi due stati si chiamano ipnagogico (tra la veglia e il sonno) e ipnopompico (tra il
sonno e la veglia). Sono condizioni di confine, molto diversi rispetto al sogno lucido, che
accade completamente dentro lo stato di sogno.

7/37
Che cosa sono i sogni lucidi
Un sogno lucido è un sogno in cui tu sei consapevole del fatto che quello che stai
vivendo è un sogno.

Nella condizione ordinaria di coscienza quando una persona si addormenta perde la


continuità della consapevolezza. Durante la notte accadono svariate cose (vedi
Introduzione della rubrica sugli Stati di coscienza) e la persona al mattino si risveglia e
riprende consapevolezza di sé.

Questo accade generalmente al risveglio: ritorna l’auto-coscienza.

A volte c’è un ricordo di quello che è accaduto durante la notte di sonno, a volte il
ricordo svanisce e resta un black-out, un’interruzione nella vita della persona.

Allenando la capacità di mantenere la continuità della consapevolezza nelle transizioni di


fase tra uno stato e l’altro, si riesce ad avere

il “risveglio dell’auto-coscienza” all’interno del sogno stesso.

Così come al mattino ti svegli e prendi contatto con il tuo corpo, con la tua stanza da letto
e l’ambiente circostante, in un sogno lucido ti “svegli” e prendi contatto con il mondo
onirico, con tutte le sue bizzarrie.

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Sei consapevole di te all’interno del sogno, e sai che quello che stai vivendo è un sogno.

Nel sogno ordinario il sognatore si percepisce contenuto nel sogno. Nel sogno lucido il
sognatore è consapevole di essere un contenitore, e di contenere i contenuti del sogno.

Possiamo chiamare i sogni lucidi “sogni consapevoli”. Io preferisco questo termine, ma


mi adeguo al trend comune che associa la consapevolezza alla lucidità.

Lucidità è il contrario dell’opacità.

Mentre un sogno ordinario è opaco, nebuloso, un sogno consapevole è lucido.

Essendo un’abilità dell’essere umano, mantenersi consapevoli all’interno del sogno non
ha la caratteristica tutto-niente.

Si tratta di un continuum del grado di consapevolezza che si può avere nel sogno lucido.

Vediamo dunque lo spettro della lucidità.

Lo spettro della lucidità


Così come la capacità di essere consapevoli ha delle gradazioni di intensità, così anche la
capacità di avere sogni lucidi può essere padroneggiata in gradi diversi di maestria.

Possiamo definire quattro stadi di lucidità.

1- Prelucidità
Sei in una condizione di prelucidità quando, all’interno del sogno, inizi ad accorgerti
delle anomalie del mondo onirico, mettendo in discussione quello che stai vivendo.

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Come vedremo questa abilità indagatrice è un prerequisito per risvegliarsi all’interno del
sogno.

2- Semilucidità
In questo stadio mentre stai sognando hai dei momenti in cui diventi consapevole di te e
del sogno, ma sono intermittenti.

La consapevolezza si risveglia per un po’, ma poi viene nuovamente distratta e rapita dal
sogno.

3- Piena lucidità
È lo stato di piena consapevolezza nel sogno: sei in grado di pensare lucidamente e di
interagire intenzionalmente con lo scenario onirico e con i suoi personaggi.

Sei consapevole di sognare e puoi orientare il sogno a tuo piacimento, cambiando


scene o oggetti.

4- Superlucidità
Il termine è stato coniato da Robert Waggoner ed Ed Kellogg (due ricercatori onironauti) e
descrive la condizione in cui l’individuo interagisce consapevolmente e intenzionalmente
con il sogno, come nello stadio precedente, ma in aggiunta a questo è al contempo
consapevole che la realtà del sogno è una pura costruzione mentale.

Nello stadio di piena lucidità si interagisce con la realtà del sogno come se fosse la realtà
fisica dello stato di veglia.

Nella superlucidità in questa interazione sei anche consapevole che tutto quello che stai
vivendo è un sogno creato dalla mente.

Ti faccio un esempio per chiarire la differenza tra la piena lucidità e la super-lucidità.

Nel sogno ti trovi davanti a una porta. Nella condizione di superlucidità, sai che sei in un
sogno, che la porta è una rappresentazione mentale, e la apri per vedere cosa c’è
dall’altra parte. La apri come se fosse una vera porta, sebbene tu sei consapevole di
essere all’interno del sogno.

Nella superlucidità di fronte a quella porta sei consapevole di come la mente crea la
porta che stai vedendo. Sei consapevole dei processi che portano la porta ad essere lì
davanti a te, e quindi puoi interagire con questi e cambiare lo scenario.

Puoi, volendo, passare attraverso la porta senza aprirla, ad esempio. Oppure puoi farla
sparire.

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Insomma, puoi interagire con il mondo onirico in modo plastico, modellandolo con
l’intenzione, perché padroneggi i processi che lo sorreggono.

Progressione lineare o no?


Questi quattro stadi si manifestano come una progressione dell’abilità della persona
di essere consapevole durante il sogno.

Ciò non toglie che, in modo imprevedibile, una persona possa saltare temporaneamente
dalla condizione di prelucidità a quella di superlucidità, magari per un solo sogno.

Questi “salti” sono occasionali e imprevedibili, come è stato per me nel mio primo
sogno lucido che ho descritto nell’introduzione.

L’abilità si acquisisce e si consolida in modo lineare seguendo la progressione tra gli


stadi.

Uno si consolida sull’altro, non si saltano gli stadi.

Il primo stadio è quello in cui ti rendi conto che durante il sogno ci sono delle anomalie
rispetto allo stadio di veglia.

La capacità di mettere in discussione ciò che stai vivendo durante il sogno è un’abilità
che sviluppi durante la veglia.

Più lo fai da sveglio, più diventa automatico farlo mentre sogni.

Vediamo dunque in cosa consistono i test di realtà.

Test di realtà

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Nello stato di veglia sei in contatto con la realtà fisica, che sottostà (perlomeno a livello
macroscopico) alle leggi di causa effetto e ha una continuità temporale .

Se ad esempio guardi un tavolo, poi togli lo sguardo, e di nuovo lo riporti lo sguardo


dove era inizialmente, il tavolo è ancora lì, non è sparito e non è cambiato.

Nel sogno questo non è scontato.

Nel sogno ci sono delle anomalie rispetto a questi comportamenti lineari e continui.
Essendo una pura costruzione mentale, il mondo onirico non ha leggi fisiche che lo
vincolano, e anche può essere discontinuo.

Ecco allora che abituarsi, da svegli, a portare l’attenzione a certi elementi, “installa”
l’atteggiamento mentale e l’abitudine di fare queste verifiche anche nel sogno,
riconoscendone le anomalie.

Accorgersi di un’anomalia mentre stai sognando è un potenziale innesco di risveglio


all’interno del sogno.

Queste “verifiche” si chiamano “test di realtà”.

Sono dei test per svelare se quello che stai vivendo è all’interno di un sogno o se sei
sveglio e stai interagendo con il mondo fisico.

L’abitudine di fare “test di realtà” va praticata durante il giorno, mentre sei sveglio.

Quando l’abitudine è radicata, la praticherai automaticamente anche durante il sonno,


aumentando di molto le probabilità di risvegliarti dentro il sogno.

Fondamentalmente si tratta di mettere in discussione quello che stai vivendo, ponendoti


la domanda “sto sognando ora?”

La domanda deve essere seguita da un’intenzione indagatrice, da un’attenzione che


prende contatto con quello che stai vivendo con un atteggiamento di reale dubbio.

All’inizio sembra una cosa sciocca da fare. La risposta è scontata: “è ovvio che sono
sveglio”… questa è la prima risposta che viene automatica.

Serve però abituarsi a porsi la domanda più volte durante il giorno, per installare
l’abitudine e l’atteggiamento indagatore. Ti troverai durante il sogno ad accorgerti che la
risposta non è più così scontata, innescando la lucidità.

Un trucco che ho trovato molto funzionale è quello di associare il test di realtà ad un


evento specifico che ripeti più volte durante il giorno, come ad esempio il passare
attraverso una porta.

Se prendi l’abitudine di chiederti, ogni volta che passi una porta, “sto forse sognando?”, e
di verificare il risultato, questa abitudine viene facilmente trasferita nel sogno.
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Le anomalie del sogno
Ci sono alcuni elementi in particolare che si dimostrano utili per rilevare le anomalie nei i
test di realtà.
Vediamone alcuni.

Strumenti meccanici
Nel sogno tutto quello che è meccanico non segue i principi lineari della meccanica. A
volte vanno a volte no. A volte hanno comportamenti bizzarri e buffi.

(Per questo motivo i dispositivi per indurre i sogni lucidi come il NovaDreamer o il
REMDreamer hanno un pulsate che emette un segnale, serve proprio a fare un Test di
Realtà).

Interruttori della luce


Per lo stesso motivo nel sogno gli interruttori della luce sono inaffidabili. Spesso non
funzionano. Li premi e non accade niente.

Lettura
Anche la lettura è inaffidabile. Leggi una frase e tornando indietro a leggerla ti accorgi
che è cambiata.
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Mano ferma
Se nel sogno osservi la tua mano, ti accorgerai che farai fatica a mantenerla ferma.
Inizierà a tremare o ad assumere forme strane (con delle dita in più o in meno, oppure si
ingrandisce…).

Saltare
La gravità nel sogno assume caratteristiche bizzarre. Saltando in un sogno lucido ci si
trova facilmente a fluttuare, invece di ricadere come accadrebbe normalmente.

Ce ne sono molti altri, ma questi sono i più semplici e immediati da praticare per testare
la realtà che stai percependo e per svelare le anomalie.

Perché funzionano i test di realtà?


Il test di realtà innesca tre modifiche importanti al tuo stile di vita.

Ti abitua a mettere in discussione la realtà di quello che stai vivendo , installando un


atteggiamento indagatore e attento.

E proprio l’attenzione è l’elemento che fa la differenza nell’avere il sogno lucido.

Ricorda che il sogno lucido è un sogno consapevole.

Più sei consapevole durante la veglia, più probabilità hai di risvegliarti all’interno del
sogno.

Fare i test di realtà vuol dire mantenere l’attenzione vigile e rivolta all’indagine.

Il terzo modo in cui agiscono positivamente i test di realtà è che aumentano la capacità
della memoria prospettica.

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La memoria prospettica è quel processo mentale per il quale ricordiamo l’intenzione di
fare qualcosa in futuro.

Come quando dici a te stesso “quando passo davanti al bancomat devo ricordarmi di
prelevare” e tieni a mente quest’intenzione. Crei un’associazione mentale tra due eventi e
la mantieni in quell’area della memoria che, quando si verifica l’evento specifico, viene
attivata.

Quando passi davanti al bancomat, se la tua memoria prospettica è allenata, ti ricordi di


prelevare.

Allo stesso modo, se ogni volta che passi una porta ti abitui a fare un test di realtà,
questo verrà fatto anche quando nel sogno passerai attraverso una porta, aumentando
la probabilità di riconoscimento del sogno.

Perché è importante imparare a sognare lucidamente


L’idea di esplorare il mondo dei sogni lucidi a qualcuno può sembrare solo una
stravaganza ludica. Un giochino divertente e poco più.

Certamente è un’attività piacevole e divertente, ma non ha solo una finalità ricreativa.

Per avere più consapevolezza


L’abitudine di fare test di realtà è legata alla verifica dello stato interno momento per
momento. Questa abilità è strettamente connessa alla consapevolezza di sé.

Quindi, una risposta al “perché dovrei impegnarmi a sognare lucidamente?” è:


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perché ti aiuta ad essere più consapevole, anche quando sei sveglio.

Le due cose sono strettamente connesse:

il sogno lucido inizia a stabilizzarsi quando la persona acquisisce un alto grado di


consapevolezza durante la veglia.

Per sciogliere gli schemi mentali


Un altro motivo per impegnarsi a sognare lucidamente è che i sogni ordinari tendono a
consolidare i propri pregiudizi. L’elaborazione normale del sogno tende cioè a
convalidare la propria visione del mondo, di sé stessi e dell’altro essere umano.

Nel sogno lucido hai modo di indagare i tuoi schemi mentali e sciogliere così le tue
credenze limitanti e invalidanti.

Imparando a dirigere intenzionalmente gli eventi nel sogno hai modo di modificare
questi schemi, e di imparare così a riconoscerli e modificarli anche durate la veglia.

Perché è un gradino evolutivo


Infine, il sogno consapevole è una tappa evolutiva significativa nella progressione tra
gli stadi degli stati.

Riuscire a mantenere la consapevolezza in questo stato è una conquista importante,


significa che si è spostato il baricentro della vigilanza consapevole fuori dallo stato di
veglia in quello di sogno.

La progressione degli Stadi degli stati di cosceinza

Non è un punto di arrivo, è ancora uno step intermedio nella progressione, e lo vedremo
in seguito.

La materia dei sogni


Imparare a sognare lucidamente apre uno spiraglio alla possibilità di comprendere più
profondamente la realtà che vivi.

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Il sogno lucido tira fuori il filosofo che c’è in ognuno di noi.

Diviene evidente che quello di cui è fatto il mondo onirico ha degli elementi in comune
a quello che “costruisce” la tua esperienza del mondo da svegli.

Citando il pioniere negli studi sul sogno lucido, Stephen La Berge, possiamo dire che il
sogno è un tipo di percezione non limitato dai dati sensoriali.

Ovvero, quello che percepisci nel sogno è costituito da formazioni mentali, schemi e
associazioni.

Da sveglio il processo di percezione della realtà che vivi soggettivamente ha questa


componente, solo che la percezione è vincolata dai dati sensoriali.

C’è un vincolo in più, mai il processo è il medesimo.

I due stati sono equivalenti: dal punto di vista soggettivo tutto quello che percepisci – da
sveglio o in sogno – è una costruzione del tuo sistema nervoso. Cambiano solo le
modalità e i dati che vengono elaborati.

Durante lo stato di veglia, quello che vivi soggettivamente è una miscela tra
l’elaborazione dei dati sensoriali in ingresso e i tuoi schemi mentali associati agli
stimoli, e delle tue aspettative o ricordi.

Per schemi mentali si intendono assunzioni ben radicate su un evento, un oggetto o una
situazione.

Facciamo un esempio: se da sveglio stai osservando una mela, hai dei dati visivi in
ingresso nel tuo canale visivo, anche olfattivo se la annusi, tattile se la tocchi, e via
dicendo.

A questi dati si sommano, in modo inconsapevole e automatico, i tuoi schemi mentali, le


aspettative, i giudizi nei confronti delle mele. Per cui non solo osservi la mela, ma anche
hai una elaborazione delle associazioni mentali e dei ricordi.

Le due elaborazioni accadono in contemporanea.

Chi studia questi processi chiama le due vie di elaborazione bottom-up (quella dei dati
sensoriali) e top-down (quella degli schemi mentali, delle associazioni e dei ricordi).

Quello che vivi soggettivamente generalmente è una miscela di entrambi i canali.

Quello che accade è che in questa elaborazione soggettiva il canale delle elaborazioni
mentali di solito non viene riconosciuto, viene scambiato per qualcosa di reale, viene
reificato (termine tecnico che significa “preso per vero”).

Soggettivamente è reale, perché lo stai vivendo, lo stai percependo.

Ma è uno schema o un ricordo o un’associazione che può essere cambiata, perché è


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costruita in modo soggettivo dalla tua mente.

Mi spiego con un altro esempio, semplificando al massimo gli elementi in gioco (in realtà
le cose sono più complesse di così, ma mi interessa che tu comprenda il principio alla
base).

Supponiamo che una donna abbia subito una violenza da un uomo con la barba rossa.
Facilmente in lei resterà uno schema mentale che associa i capelli e la barba rossa di un
uomo ad una condizione di pericolo.

Le volte successive che incontrerà un uomo con la barba rossa sarà portata a starsene
alla larga, senza nemmeno sapere il perché. Addirittura potrebbe avere completamente
dimenticato il ricordo della violenza, ma questo schema memorizzato agirà sulla sua
percezione soggettiva sommando la barba rossa che sta vedendo in un uomo alla sua
associazione e allo schema mentale.

Per approfondire » I 6 tipi di incoscio

L’uomo che ha davanti magari è la persona più mansueta di questo mondo, ma lei lo
percepisce come minaccioso, senza nemmeno sapere perché.

E questa percezione, per lei che la vive, è assolutamente reale, tanto quanto la barba
rossa che sta vedendo.

Penso che sia chiaro come è importante svelare questo meccanismo e divenirne
consapevoli.

E il sogno lucido è una metodo incredibilmente efficace per smascherare questi schemi.

Perché?

Perché nel sogno lucido quello che vivi non è vincolato dai dati sensoriali, e tutto quello
che percepisci è guidato proprio da questi schemi.

Sono gli schemi che guidano il sogno.

Divenirne consapevoli dentro il sogno permette di:


-svelarli
-interrompere il loro automatismo
-esserne poi consapevoli mentre agiscono durante la veglia.

Con il sogno lucido metti in atto un vero e proprio lavoro di de-costruzione dei processi
descritti sopra.

Questo ti permette, durante la veglia, di essere consapevole delle due vie di


elaborazione, quella dei dati sensoriali, e quella delle tue elaborazioni mentali
(associazioni, schemi, ricordi…).

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Distinguerle consapevolmente ti consente di essere in contatto con il qui ed ora in
quello che stai vivendo, di rompere i condizionamenti mentali in tempo reale, proprio
mentre agiscono e quindi di essere libero di scegliere in base alla situazione reale.

Detto in modo semplice: ti permette di liberarti consapevolmente dai tuoi


condizionamenti.

La continuità della consapevolezza


La lucidità del sogno permette si svelare l’illusione della realtà, cioè di separare i due
canali di elaborazione delle informazioni.

Riconoscendo di essere presente durante il sogno sei più presente ai tuoi


condizionamenti durante la veglia, e questo permette di essere libero di scegliere.

Tutto questo non è fine a sé stesso. È uno step intermedio. Ha uno scopo ancora più
ampio.

La pratica del sogno lucido ha lo scopo di estendere la continuità della


consapevolezza di sé nell’arco delle 24 ore.

Invece di avere ogni notte un black-out di consapevolezza, cadendo nel sonno e


perdendo conoscenza, è possibile estendere questa nostra capacità nell’arco delle 24 ore.

Per questo ho scritto che è una tappa intermedia. Ancora, oltre lo stato di sogno, c’è uno
stadio da attraversare, che è quello del sonno senza sogni.

Per approfondire » Gli stadi della meditazione

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Punto di partenza: consapevolezza durante lo stato di veglia

Il sogno lucido sposta il baricentro della consapevolezza nello stato di sgono

Il passo seguente è quello di essere consapevoli durante anche urante il sonno senza sogni

Il processo culmina con l’unificazione di tutti gli stati

Tutto questo ha lo scopo di giungere a stabilizzare lo stato non duale, ovvero la


condizione di unità della consapevolezza.

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Le prove scientifiche sui sogni lucidi
Fino a pochi anni fa la comunità scientifica era molto scettica rispetto ai sogni lucidi.
Sembravano incompatibili rispetto al modello psicologico ordinario degli stati di
coscienza, in cui o sei sveglio o sei addormentato (con le due opzioni
dell’addormentamento: o stai sognando o sei nel sonno senza sogni).

Quello che non rientrava nel modello era visto con scetticismo. Poi un ricercatore è
riuscito in modo brillante e inconfutabile a creare un ponte bidirezionale tra i due
mondi (quello onirico di chi sta sognando lucidamente e quello di un osservatore
esterno) dimostrando in questo modo che i sogni consapevoli sono una realtà, non una
mal-interpretazione di qualche stato particolare.

Questo ricercatore si chiama Stephen LaBerge.

LaBerge, in una condizione sperimentale, ha registrato dei segnali inequivocabili di


un’attività cosciente all’interno del sogno.

Come ha fatto? Utilizzando l’organo che nel sogno non è vincolato dalla paralisi del
sonno, ovvero gli occhi.

Il sogno accade prevalentemente durante il sonno REM, che sta proprio ad indicare la
condizione di movimenti oculari rapidi (Rapid Eye Movement)

Durante il sonno REM, gli occhi sono liberi di muoversi, e lo fanno seguendo dei
movimenti rapidi e apparentemente caotici.

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In realtà gli occhi seguono quello che la persona sta vedendo durante il sogno. Se
stai sognando di guardare una partita di tennis, gli occhi si muoveranno da destra a
sinistra e viceversa in modo alternato, seguendo la pallina che stai osservando nella tua
mente.

Conoscendo bene questo principio, LaBerge ha chiesto a dei soggetti di entrare in un


sogno lucido e di mandare, tramite dei movimenti oculari concordati, un segnale al
ricercatore del sonno che stava monitorando il soggetto con un elettroencefalogramma
e un oculogramma (un apparecchio che registra i movimenti oculari).

I soggetti sono riusciti nel loro intento.

Appena sono entrati nella condizione di sogno lucido, hanno mandato il segnale: due
movimenti oculari da destra a sinistra. E poi si sono goduti il loro sogno fino al risveglio.

Ecco che il sogno lucido era stato dimostrato, in modo talmente inequivocabile che la
comunità scientifica da allora l’ha accettato come reale e ha promosso una serie di studi
per comprenderlo meglio.

Era l’anno 1981, e da allora tante cose sono state apprese sul questo affascinante stato di
coscienza.

Vediamo cosa hanno scoperto.

Le caratteristiche fisiologiche dei sogni lucidi


Mentre alcuni tipi di sogno accadono anche fuori dalla fase REM, pare che il sogno lucido
accada esclusivamente in questa fase.

Durante i sogni lucidi le persone tendono ad avere movimenti oculari più intensi
rispetto ai sogni ordinari, e anche la respirazione si fa più profonda. Spesso si verifica
anche un piccolo cambiamento del battito cardiaco.
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La maggior parte dei sogni lucidi si verifica verso le ore mattutine, e questa
informazione ci sarà utile come elemento di studio per comprendere come facilitare
l’apprendimento dell’abilità di sognare lucidamente.

I sogni lucidi hanno una durata variabile, dai 2 ai 50 minuti.

La cosa curiosa, rispetto alla percezione temporale, è che c’è una coincidenza tra la
percezione che la persona ha del tempo all’interno del sogno e l’effettivo trascorrere del
tempo fuori dal sogno.

L’attività cerebrale è un misto di onde tetha, alfa e beta. Anche in alcuni studi è stata
rilevata una componente di onde gamma, generalmente associate ad alti livelli di
meditazione.

Le frequenze e le onde EEG dei principali stati di coscienza

Per approfondire » Stati di coscienza

Durante i sogni lucidi è stata rilevato un forte rilascio del neurotrasmettitore


norepinefrina, che normalmente è assente nel sonno REM. Questo neurotrasmettitore
è generalmente associato all’attenzione focalizzata.

C’è anche una forte attivazione dell’amigdala, una ghiandola cerebrale che è implicata
nell’integrazione emozionale e nella memoria emozionale.

La cosa interessante dello studio del sogno lucido dal punto di vista neuroscientifico è
che, essendo la lucidità un’attivazione della funzione dell’autocoscienza, è possibile
studiare quali processi neuronali sono implicati nell’autocoscienza.

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Nel sogno lucido la consapevolezza, la capacità di ragionamento, la memoria sono
equiparabili alla condizione di veglia.

Ecco che studiando e comparando il sogno ordinario rispetto al sogno lucido è stato
dimostrato che in quest’ultimo c’è una attivazione maggiore della corteccia
prefrontale (dorsolaterale destra per essere precisi).

Quest’area anatomica già grazie ad altri studi è stata associata alle funzioni cognitive
superiori, e le ricerche sul sogno lucido hanno convalidato queste scoperte.

Queste sono le caratteristiche fisiologiche del sogno consapevole che possiamo definire
con certezza. Il campo di studio è ancora molto attivo, quindi ci possiamo aspettare altre
integrazioni in futuro.

La cosa che appare chiara, oltre a tutto questo, è che fare un sogno lucido per il cervello
è come agire nella vita ordinaria, nella condizione di veglia. L’unica differenza è che i
segnali elaborati vengono bloccati a livello spinale.

Tutto quello che vivi, lo vivi nella tua mente. Eppure è reale tanto quanto quello che
vivi da sveglio, tranne chiaramente che non sei vincolato dalle leggi fisiche.

Abbiamo visto il sogno lucido dall’esterno. Ora diamo un’occhiata al suo interno, ovvero
a cosa accade quando sei dentro un sogno lucido.

Come funzionano i sogni lucidi


Il mondo dei sogni lucidi ha delle caratteristiche peculiari.

Innanzitutto non esistono vincoli. La fantasia può creare infinite trame e infiniti
scenari.

Eppure, all’interno di quest’infinità di possibilità, ci sono dei tratti comuni, degli


elementi che accomunano un sogno all’altro e che possiamo definire “leggi del sogno
lucido“.
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Eccone alcune.

La legge del malfunzionamento meccanico


Questa l’abbiamo già vista nel test di realtà. I dispositivi meccanici non funzionano
correttamente all’interno del sogno.

La legge della confusione testuale


Anche questa rientra nei test di realtà. Quando appaiono delle scritte all’interno di un
sogno, di solito sono confuse e illeggibili, oppure si modificano in tempo reale mentre
le stai leggendo

La legge dell’inerzia narrativa


Il sogno è un flusso continuo, ininterrotto.

Se durante il sogno lucido ti fermi, facilmente questo porta al risveglio. Per questo
motivo un modo per stabilizzare la consapevolezza all’interno del sogno lucido, è quello
di continuare a muoversi all’interno del sogno.

La legge del ritardo delle relazioni causa-effetto


Quando accade qualcosa all’interno di un sogno, si manifesta un leggero ritardo tra la
causa e l’effetto generato. È un ritardo leggero, per cui non tutti lo notano, eppure
esiste.

Non esistono eventi simultanei nel sogno, semplicemente perché non accadono nel
mondo fisico, ma in una simulazione mentale del mondo fisico.

Da notare che questo ritardo di elaborazione esiste anche durante lo stato di veglia,
ed è stato misurato in 1/5 di secondo, equivalente al tempo che impieghiamo a
elaborare e divenire coscienti di uno stimolo. (E se misuriamo il tempo in cui attribuiamo
il significato allo stimolo, dobbiamo aggiungere un ulteriore mezzo secondo!)

La legge delle aspettative che si autoavverano


Qualsiasi sia la tua intenzione nel sogno, questa si manifesta. Quello che ti aspetti che
accada, accade veramente, diventa la tua realtà del sogno.

Sono gli schemi mentali che sono liberi di agire senza i vincoli degli stimoli fisici.

La legge dell’esperienza estrema


Ogni cosa su cui porti l’attenzione, viene esagerata, ingigantita.

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Se hai paura e ci porti l’attenzione, si ingrandisce. Se stai percorrendo una salita e ci porti
l’attenzione, diventa una salita ripidissima.

Quando tieni l’attenzione su qualcosa, questo diviene più attivo. Durante la veglia hai i
vincoli sensoriali che limitano questo aspetto, mentre durante il sogno l’attenzione entra
in una sorta di processo circolare che attiva sempre più associazioni rispetto
all’elemento sotto il focus dell’attenzione, ingrandendolo a dismisura.

A cosa servono i sogni lucidi


Se sei arrivato a leggere fino a questo punto l’articolo, certamente ho stimolato la tua
curiosità su questo tema. Ora approfondiamo l’argomento dei sogni lucidi indagando la
loro utilità.

A cosa serve sognare lucidamente? Possiamo raggruppare le funzioni del sogno lucido in
4 categorie.

Divertimento
Questa è la prima funzione che viene in mente, e anche la prima attività in cui ti
coinvolgerai quando imparerai a sognare lucidamente.

Sognare lucidamente è estremamente diverte, soprattutto all’inizio.

Non ci sono vincoli, per cui puoi spaziare nella più totale potenzialità e liberare le tue
fantasie di grandiosità infantili. Dopo un po’ questo entusiasmo si placa (dopo un bel
po’, a dire il vero).

Le fantasie sessuali qui diventano un campo di studio e di applicazione divertente. Una


ricerca sul contenuto di 3500 sogni ha rilevato che ben l’8% ha sfondo sessuale, quindi il
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tema è caldo, sia per gli uomini che per le donne.

Una particolarità curiosa su questo tema: nei sogni erotici delle donne è stata osservata
una percentuale notevole di fantasie associate alle celebrità, mentre per gli uomini pare
che la fantasia più ricorrente sia quella di avere rapporti sessuali con partner multipli.

Ecco che il sogno lucido offre il contesto sicuro in cui poter consumare queste fantasie.

Chiaramente c’è da fare attenzione all’aspetto della dipendenza. È vero che si tratta di
fantasie e di sogni, quindi lo scopo è quello di liberare e integrare queste fantasie, ma
anche è stato visto che questo può, in alcuni casi, creare dipendenza psicologica.

In sostanza qualcuno agisce come se il mondo onirico fosse la realtà della vita,
sovrapponendo le due realtà. Ed essendo privo di limitazioni, anche è facile innamorarsi
di questo mondo virtuale in cui tutto è possibile e tutto è a portata di mano con
estrema facilità.

Per approfondire » Bypass spirituale

Esercitazioni
Alcuni studi hanno dimostrato che il sogno lucido può essere impiegato in modo
funzionale come simulatore virtuale in cui apprendere determinate abilità,
soprattutto motorie.

Tramite il fenomeno della neuroplasticità è possibile, anche durante il sogno, cablare le


proprie connessioni neuronali in modo di incrementare le proprie capacità.

Creatività
Il mondo della fantasia, privo di vincoli, è un serbatoio incredibile di risorse creative e
di risoluzioni di problemi.

La capacità intuitiva, libera dal vincolo della mente razionale, può nel sogno lucido
accedere facilmente a creazioni brillanti.

Sono numerose le storie di artisti famosi che hanno preso spunto da un sogno per le
loro opere principali. Si pensi ad esempio classico dello scrittore Stephenson che ha
avuto l’intuizione della trama del suo libro più famoso, quello del Dr. Jekyll e Mr. Hyde,
durante un sogno.

Integrazione
“I sogni sono la via regia che porta alla conoscenza dell’inconscio nella vita psichica” Lo
diceva Freud a ragion veduta.

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Se a questo principio aggiungi la capacità di avere un sogno ed esserne
completamente consapevole, e anche di interagire intenzionalmente con esso in
tempo reale, la via regia diviene un’autostrada regia che ti può portare in contatto con
le tue parti inconsce.

Nel sogno lucido puoi affrontare e incontrare la tua ombra, in modo diretto,
consapevole, e integrarla. Infatti è proprio quello che dicono le ricerche: chi impara a
sognare lucidamente ha una netta diminuzione degli incubi notturni.

Conoscendo questo effetto il sogno lucido è usato come terapia per chi soffre di incubi
ricorrenti.

Integrare l’ombra significa integrare parti di sé, per questo il processo prosegue in una
direzione di individuazione sempre maggiore e di unificazione del proprio sé
dissociato.

Per approfondire » Esperienza Diretta di sé

Le tecniche di induzione dei sogni lucidi


Esistono davvero numerose tecniche di induzione del sogno lucido. Le vedremo in
articoli separati e probabilmente anche in un corso specifico.

Se sei interessato/a a questo argomento, segnalamelo nei commenti dell’articolo, potrebbe


diventare l’argomento di una nuova rubrica.

Come premessa a questo paragrafo, c’è una notizia molto positiva: è stato visto che
anche il solo venire a conoscenza che è possibile avere un sogno lucido incrementa
notevolmente la possibilità di averne uno in modo completamente spontaneo.

È come se si attivasse, in chi approfondisce l’argomento, una predisposizione mentale


che permette l’avvio della lucidità.

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Oppure, è semplicemente l’effetto di un’intenzione che si attiva portando l’attenzione
su qualcosa. Quale che sia la causa di questo effetto, è possibile che proprio stanotte,
per effetto di aver letto questo lungo articolo, tu riesca ad avere spontaneamente un
sogno lucido senza dovere apprendere alcuna tecnica.

Questa conoscenza ci rivela la prima tecnica in assoluto che devi apprendere: il potere
delle aspettative (o delle convinzioni, o delle intenzioni).

Per avere un sogno lucido devi concepire che sia reale per te svegliarti all’interno del
sogno, e mentre ti addormenti mantenere attiva quest’intenzione consapevole.

Invece di addormentarti crollando nell’incoscienza, addormentati consapevolmente


tenendo a mente la tua intenzione.

Questa è una e vera e propria tecnica di induzione: viene attuata passando in modo
consapevole attraverso lo stato ipnagogico.

La tecnica è particolarmente efficace nelle ultime ore della notte.

Dopo 4 ore e mezza dall’addormentamento, hai consumato la parte di sonno in cui è


preponderante il sonno profondo, e la durata della fase di sogno aumenta
notevolmente.

Per questo, se ti svegli durante la notte, un buon modo per avere un sogno lucido è
quello di annotare sul tuo diario dei sogni il sogno che hai appena fatto, e rimetterti poi a
dormire restando consapevole e tenendo a mente i particolari del sogno che hai appena
fatto.

Ricordati di attivare l’intenzione di essere lucido all’interno del sogno. In questo modo hai
buone probabilità di scivolare direttamente dentro il sogno lucido.

Altre tecniche hanno lo scopo di farti risvegliare direttamente dentro il sogno lucido.

In questo caso serve allenare di giorno la capacità di riconoscere lo stato in cui ti


trovi, l’abbiamo visto prima con i test di realtà e con le anomalie del sogno.

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Come avere sogni lucidi
Apro questo paragrafo con una citazione:

Il sogno lucido è una manifestazione naturale e spontanea della mente umana, non è una
forzatura eteroindotta.
Non bisogna imparare a fare sogni lucidi: basta ricordare come si fa. [ Charlie Morley ]

I bambini hanno un’abilità innata di sognare lucidamente. Da adulti in qualche modo


perdiamo questa abilità, che va quindi riconquistata.

Vediamo alcuni spunti utili per facilitare il sogno lucido.

Ricordare i sogni
Nell’articolo precedente, quello sul sogno, abbiamo visto sia l’importanza che come
riuscire a ricordare i sogni.

Questa è la capacità che ti permette di essere consapevole durante il sogno.

Più hai coscienza dei sogni, più è facile avere coscienza nei sogni.

Quindi, se non l’hai ancora fatto, ti consiglio di tenere un diario dei sogni e soprattutto
di imparare il potere dell’intenzione.
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Per ricordare i sogni devi volerli ricordare.

Per essere lucido dentro un sogno, abbi l’intenzione di essere consapevole all’interno del
sogno.

Riconoscere il territorio
Il mondo onirico ha una forma particolare, che devi allenarti a riconoscere.

Non si tratta solo delle anomalie che abbiamo già visto. Si tratta anche di
ambientazioni, dei temi ricorrenti, degli scenari surreali.

Impara a familiarizzare con questi, in modo da riconoscerli quando si presentano


all’interno del sogno.

Un esercizio utile è quello di analizzare il tuo diario dei sogni e vedere se ci sono dei temi
ricorrenti. Esserne consapevole ti aiuta a riconoscerli dentro il sogno.

Test di realtà
Abituati a fare durante il giorno numerosi test di realtà. Installerai così l’abitudine, e
soprattutto l’atteggiamento, di indagare. Questo facilita di molto la capacità di avere
sogni lucidi.

Fasi del sonno


La fase finale della notte di sonno è naturalmente predisposta ad avere sogni più
lunghi, rispetto alla prima parte del sonno in cui è predominante il sonno profondo.
Svegliarsi lungo la notte, e poi rimettersi a dormire secondo la tecnica che abbiamo visto
prima, può essere di aiuto.

La luna piena
Uno studio ha dimostrato che la luna piena modifica il sonno rendendo più difficoltoso
il riposo, ma spostando l’equilibrio verso il sonno con sogni rispetto a quello senza sogni.

In particolare si è visto che le persone impiegano mediamente 5 minuti in più ad


addormentarsi e dormono 20′ in meno, con un calo del 30% del sonno profondo.

Quindi, si dorme di meno con la luna piena, ma questo sonno è naturalmente


predisposto verso il sogno.

Puoi sfruttare questa facilitazione da parte della luna per avere sogni lucidi. L’effetto
dura per 3-4 giorni attorno alla luna piena.

Allenarsi nello stato ipnagogico

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Lo stato di transizione tra la veglia e il sonno è uno stato che permette di coltivare
l’abilità del mantenere la consapevolezza vigile, quindi di coltivare la lucidità nel
sogno seguente.

Oltre a tutti i consigli dati nell’articolo specifico sull’ipnagogico, ai fini della lucidità puoi
aggiungere delle affermazioni e delle intenzioni.

Ovvero puoi attivare l’intenzione di svegliarti nel sogno e ripetere l’affermazione


mentale “quando sognerò, mi accorgerò che sto sognando”. O qualcosa di simile che senti
efficace per te.

Non sono le parole esatte ad essere importanti, ma il potere evocativo. Devi sentire che
l’affermazione è vera per te ed evoca l’intenzione corretta. Trova le parole che in te
risuonano meglio per avere questo effetto.

Integratori per favorire i sogni lucidi


Sebbene assumere integratori senza avere padronanza del sogno lucido sia inutile, è da
notare che alcune sostanze facilitano l’accesso a questo stato di coscienza.

Per cui, se ad un allenamento specifico per la lucidità si abbina un’integrazione mirata, è


possibile massimizzarne l’efficacia di ciò che si sta facendo.

Il principio è simile all’allenamento in palestra. Quello che fa la differenza è l’allenamento.

Puoi prendere tutti gli integratori di questo mondo, ma se non ti alleni non metti in moto
la trasformazione fisica.

Ciò non toglie che se ad un ottimo programma di allenamento associ un’integrazione


mirata, puoi trarne degli utili benefici.

Stessa cosa per il sogno lucido.

Consapevoli di questo punto importante, vediamo alcuni integratori utili al nostro scopo.

Vitamina B6
La B6 aiuta a trasformare il triptofano (un aminoacido) in serotonina (un
neurotrasmettitore).

La serotonina è implicata nell’attivazione della corteccia durante la fase REM, per cui,
un’integrazione di vitamina B6 può aiutare ad avere sogni più vividi.

Calcio
Il calcio aiuta a sintetizzare la melatonina, un ormone secreto dalla ghiandola pineale
implicato nella regolazione del sonno.

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Magnesio
Il magnesio aiuta il rilassamento muscolare e quindi facilita l’addormentamento. Anche
lui come la vitamina B6 aiuta a produrre la serotonina.

Inoltre tende ad ridurre l’adrenalina in circolo (ormone dello stress). Tutte queste
caratteristiche lo rendono una valida integrazione al nostro scopo.

Profumo di rosmarino
L’essenza di rosmarino aiuta a potenziare la memoria prospettica, quella facoltà
mentale che ti permette di svegliarti all’interno del sogno.

Mettere l’essenza di rosmarino in un diffusore di aromi nella stanza in cui stai durante il
giorno può facilitare il risveglio all’interno del sogno.

Artemisia
Da secoli l’artemisia è usata come pianta che stimola il sogno. Spandendone il fumo
attorno al corpo e lasciando che un po’ ne venga inalato prima di andare a dormire si
può accrescere la vividezza e la memoria dei sogni.

Salvia
L’aroma di salvia è eccellente per rendere i sogni più vividi. Basta mettere alcune gocce
di essenza di salvia su un fazzoletto e annusarlo prima di addormentarsi.

Galantamina
Questo non è un integratore ma un vero e proprio farmaco.

In uno studio recente è stato dimostrato che un uso mirato di questo farmaco, associato
a tecniche di induzione, ha permesso a quasi il 60% dei partecipanti di avere un sogno
lucido nel giro di due notti di test.

Questo campo di studi è appena stato scoperto, per cui il mio invito è quello di avere
cautela nei confronti di questa sostanza.

È facile cadere in un entusiastico “lo provo e vedo cosa succede”, ma essendo un farmaco
certamente lascia degli strascichi sul sistema nervoso.

La via farmacologica, può essere quella più facile e veloce, ma non è mai gratuita
(un principio che può essere esteso a tante altre cose della vita).

Certamente imparare ad avere sogni lucidi può essere impegnativo e frustrante, ma con
una certa dose di impegno quasi tutti possono riuscire.

Quando si conquista un’abilità in modo naturale, è una tua conquista, è un’abilità che
possiedi.
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Quando conquisti un’esperienza assumendo una sostanza, è la sostanza che gestisce il
tuo stato, quindi tu non lo possiedi completamente.

Se concepisci il sogno lucido come una tappa evolutiva nel tuo percorso di
consapevolezza, appare chiaro che la via chimica è un inganno che fai a te stesso.

Ti può fare esplorare facilmente stati di coscienza, quindi da un certo punto di vista ti
apre a spazi inediti di consapevolezza, e questo è un bene perché allarga la tua
concezione di ciò che è possibile.

Ma dall’altra parte non ti da la padronanza dello stato che stai esplorando .

Se hai bisogno di una sostanza per accedere ad uno stato di coscienza particolare, vuol
dire che la tua coscienza non è ancora evoluta in quello stadio di coscienza.

Per approfondire » Da stato di coscienza a stadio di coscienza

Dieta
Per avere sogni lucidi il tuo organismo non deve essere eccessivamente impegnato
nella digestione. Questo principio è valido in generale per una corretta igiene del
sonno.

Se la tua energia è impegnata a digerire, il sonno sarà meno riposante.

Quindi, un semplice consiglio utile per avere sogni consapevoli, è quello di evitare di
mangiare prima di coricarsi.

Lascia passare qualche ora tra la cena e il momento in cui ti addormenti, dando il tempo
al tuo processo digestivo di fare il suo lavoro.

Dormi sul fianco


Per avere un sogno lucido serve che tu abbia una buona notte di sonno. Quindi, come
prima cosa, assicurati di essere comodo nella posizione in cui dormi.

Con questa premessa doverosa, va riconosciuto che dormire in una posizione piuttosto
che un’altra cambia la qualità del sonno e le caratteristiche del sogno.

Alcune scuole di pensiero sostengono che alcune posizioni facilitano il sogno lucido: le
indicazioni sono quelle di sdraiarsi sul fianco destro per gli uomini e sul sinistro per
le donne.

È un buon consiglio da seguire, ma senza fissarsi eccessivamente. Per esperienza


personale (e non solo mia) i sogni lucidi possono accadere in tutte le posizioni in cui
dormi, sebbene ci sia un leggero incremento nelle posizioni sopra descritte.

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Puoi sperimentare queste varianti e registrare sul tuo diario dei sogni se noti delle
differenze rilevanti.

Un consiglio utile per chi ha il sonno profondo, e tende quindi a perdere la


consapevolezza nel sonno, è quello di usare un cuscino più alto, sollevando
leggermente la testa.

Sostanze che inibiscono i sogni lucidi


Così come ci sono sostanze che facilitano la lucidità nel sogno, ce ne sono altre che la
inibiscono.

Essendo il sogno lucido un sogno consapevole, tutto quello che abbassa il tuo grado di
consapevolezza compromette la tua abilità di sognare lucidamente.

Quindi l’elenco di sostanze potenzialmente è lunghissimo, a te lascio il compito di


riconoscere ciò che, durante la veglia, abbassa la tua coscienza.

Se senti che quella sostanza ti intontisce, ti rende meno presente a te stesso,


chiaramente questo ha un effetto anche sulla tua lucidità all’interno del sogno.

Cito solamente due sostanze: l’ alcool e la cannabis. Entrambe queste sostanze


compromettono la piena potenzialità del sogno, e quindi del sogno lucido.

Se vuoi approfondire, guarda gli studi che ti metto in bibliografia.

Vivere lucidamente la propria vita


Nel sonno, per come è sperimentato ordinariamente, non sei consapevole. Questo
significa che per un terzo della tua vita hai un’interruzione, un vuoto, una discontinuità
nella consapevolezza.

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Prova a sommare le ore della tua vita che passi dormendo: sono un’enormità.

Supponendo che tu abbia 40 anni e che tu dorma mediamente 8 ore a notte, si tratta di
un buco di circa 13 anni.

13 anni in cui non ci sei stato, non sei stato presente a te stesso.

Può andarti bene così, ognuno è libero di scegliere come vivere. L’importante è che tu
sappia che non deve essere così per forza.

Non è l’unica opzione possibile.

Esiste la possibilità di estendere la consapevolezza oltre lo stato di veglia , all’interno


dello stato sogno e anche oltre, in quello del sonno senza sogni, con tutti i benefici che
ne conseguono.

Il beneficio principale dell’imparare a sognare consapevolmente è quello di avere una


vita lucida, ovvero di essere più presente. Sempre, non solo nel sonno.

Per risvegliarsi nel sogno bisogna coltivare proprio quelle abilità che ti rendono
consapevole durante la veglia.

Ecco allora che le tecniche per sognare lucidamente non sono fini a sé stesse.

Sono tecniche per avere una vita desta, consapevole , sempre più piena. Piena di te.

Il mio invito, in conclusione di questo lungo articolo, è proprio questo:

ti invito ad includere la pratica del sogno lucido nella pratica più ampia del vivere
lucidamente la tua vita.

Incluso in questo scopo, il sogno lucido acquisisce una finalità più alta e la profondità che
gli spetta.

Se ti fa piacere, condividi nei commenti qui sotto come procede la tua pratica del sogno
lucido.

Bibliografia
Stephen LaBerge – Sogni coscienti
Stephen LaBerge – Esplorando il mondo dei sogni lucidi
Charlie Morley – Sogni di risveglio
Charlie Morley – L’avventura del sogno lucido
Alan Wallace – Sognarsi svegli
Jeff Warren – Dove hai la testa?
William Dement – Il sonno e i suoi segreti

Onde gamma nei sogni lucidi


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Riduzione degli incubi in chi diviene lucido

Luna piena e sonno

Galantamina e sogno lucido

Rosmarino e sogno lucido

Cannabis e sogno lucido

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Il sogno [Rubrica Stati di Coscienza]
essereintegrale.com/sogno

Agostino Famlonga

Se sommiamo tutto il tempo che un essere umano passa, nell’arco della sua vita, nel
mondo dei sogni, raggiungiamo la strabiliante cifra di 6 anni.

Passiamo mediamente 6 anni della nostra vita sognando.

Per questo motivo è difficile concepire un percorso di crescita in consapevolezza che non
prenda in considerazione l’aspetto onirico. Sarebbe incompleto e non porterebbe
lontano.

Il contenuto dei sogni è materiale prezioso per divenire consapevoli di parti non
integrate della nostra psiche. Un’operazione di svelamento e di presa di coscienza di
queste parti permette di recuperare una integrità di sé sempre maggiore.

Ma non solo, i sogni sono anche molto di più di questo.

Da sempre i sogni hanno affascinato l’essere umano: sono stati fonte di ispirazione, di
creatività e per qualcuno sono stati determinanti nei bivi esistenziali. Grazie ad un
sogno dal forte impatto emotivo è possibile a volte prendere decisioni importanti in
grado di determinare una direzione di vita.

Quello che accade in una notte di sonno insomma non è secondario rispetto a quello che
accade di giorno nella condizione di veglia. Questi due mondi si possono incontrare e
possono comunicare tra di loro, se lo spettatore si mette in ascolto con un’attenzione
vigile e consapevole.
1/24
Cominciamo quindi il nostro viaggio alla scoperta del mondo dei sogni ponendoci una
domanda apparentemente semplice: perché dormiamo?

Questo articolo fa parte della rubrica La straordinaria avventura tra gli stati di coscienza. Se
non hai ancora letto l’introduzione, la trovi qui.

Perché dormiamo?
La risposta sembra scontata e banale: dormiamo per riposare.

In parte è un’affermazione vera, ma non dice tutta la verità sullo scopo del sonno.

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Non tutta la notte di sonno ha lo scopo di recuperare energia. Ci sono infatti dei periodi
in cui l’attività, sia del metabolismo che della mente, può essere equiparata a quella
diurna.

La fase di sonno in cui sogniamo infatti è chiamata “sonno paradosso”, proprio ad


indicare il paradosso di questa condizione particolare, in cui il consumo di ossigeno da
parte del cervello è addirittura maggiore di quello da svegli.

Quindi, la risposta “dormiamo per riposare e recuperare energia” può essere presa
valida, ma va estesa: perché durante il sonno sogniamo?

Perché sogniamo?
La risposta a questa domanda è sicuramente più complicata di quella precedente.

Lo stato di sogno è simile a quello della veglia, con la differenza che l’occhio della
consapevolezza è rivolto dentro. Gli stimoli sensoriali sono quasi completamente
esclusi dall’elaborazione mentale, e la mente ha la possibilità di elaborare
plasticamente i suoi contenuti.

Lo scopo di questa elaborazione è stato indagato nel corso della storia del genere
umano, e svariate risposte sono state date al significato – e al perché – dei sogni.

Abbiamo scoperto che tramite il sogno si consolidano i ricordi, si elaborano i contenuti


rimossi durante la veglia, si attingono informazioni in modo simbolico dall’inconscio
personale e collettivo, ci si prepara alle attività diurne in un ambiente virtuale e sicuro.

Tutti questi aspetti del sogno sono da prendere in considerazione. Li vedremo uno ad
uno in modo approfondito in questo articolo.

Sonno con sogni e Sonno senza sogni


Come abbiamo visto negli episodi precedenti della rubrica, in una notte di sonno
attraversiamo, in cicli della durata di circa 90 minuti, una serie di stadi del sonno, a
profondità variabile.

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I cicli e gli stadi del sonno

Nella prima parte della notte c’è una prevalenza del sonno profondo rispetto al sonno
leggero.

I sogni avvengono prevalentemente durante il sonno leggero, nella fase cosiddetta REM,
evidenziata in rosso nel grafico. (REM sta a significare “rapidi movimenti oculari”, lo
vedremo meglio dopo).

Quindi una prima distinzione importante che possiamo fare, nell’esaminare il nostro
vissuto di una notte di sonno, è quello di distinguere il sonno con sogni dal sonno
senza sogni.

Oppure, come preferisce chi studia il sonno: il sonno REM dal sonno non-REM (perché
alcuni tipi di sogni avvengono anche fuori dalla zona REM).

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La successione tra Sonno con sogni e sonno senza sogni nell’arco della notte di sonno

Mediamente un adulto, in una notte di 8 ore, passa da 1 ora e mezza a 2 ore nella
condizione di sogno, concentrando questa attività nella seconda parte della notte.

In una notte di riposo abbiamo quindi soddisfatto entrambi gli scopi del sonno: il riposo
e l’elaborazione-consolidamento dei contenuti mentali.
Le due condizioni sono davvero diverse tra di loro.

Nel sonno senza sogni abbiamo un cervello e una mente inattivi in un corpo mobile.

Nel sonno con sogni abbiamo un cervello e una mente attivi in un corpo paralizzato.

Nella tabella qui sotto ti riassumo le principali caratteristiche e differenze tra i tre
principali stati di coscienza: lo stato di veglia, lo stato di sogno e lo stato di sonno senza
sogni.

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Le caratteristiche dei tre stati di coscienza principali

Prima di addentrarci nella parte che ci interessa di più, quella relativa ai contenuti in
prima persona del sogno, vediamo cosa accade a livello fisiologico durante il sogno.

Cosa accade fuori


Lo studio del sogno da una prospettiva in terza persona è un grande campo di
indagine che ha permesso di scoprire molti dettagli sul funzionamento neurofisiologico
di questo stato di coscienza, e certamente ha ancora molto da dire.

Le onde cerebrali dello stato di sogno sono molto simili a quelle dello stato di veglia: un
misto di onde alfa e beta e theta. In cervello è nel pieno della sua attività.
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Le frequenze e le onde EEG dei principali stati di
coscienza

Il sonno REM è attivato un gruppo di neuroni del ponte che secernono il


neurotrasmettitore acetilcolina. Questa attivazione stimola la corteccia cerebrale e la
paralisi muscolare. L’attivazione del sistema visivo produce sia le immagini che i
movimenti oculari.

Il modello neurofisiologico più attendibile rispetto al funzionamento cerebrale nel sonno


è denominato modello di attivazione-sintesi.

I ricordi che vengono consolidati nel corso del sonno ad onde lente vengono riattivati
durante il sonno REM e vengono elaborati assieme ad altri ricordi.

L’attivazione di questi meccanismi cerebrali produce immagini frammentarie e caotiche.


Il cervello cerca di collegare queste immagini fra loro e di dare un senso creando o
sintetizzandole in una storia plausibile.

In sostanza durante la notte il cervello mette in atto un funzionamento caotico allo scopo
di mettere assieme i pezzi di quello che ha vissuto con quello che ha vissuto in passato.

La fase REM (il sogno) è una fase di attivazione, e quella di sonno profondo è una fase di
sintesi, che alternandosi tra di loro permettono di attivare e di sintetizzare i contenuti
mentali.

Il respiro si fa irregolare e il battito cardiaco segue l’andamento del sogno che stai
vivendo.

Durante il sogno viene messa in atto una paralisi muscolare, cioè il corpo si immobilizza
(atonia muscolare). Questo permette al cervello di elaborare nel sogno i movimenti fisici
evitando che il corpo si muova seguendo i movimenti.

Solo due parti fisiche vengono escluse dalla paralisi: gli occhi e i genitali.

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Gli occhi durante il sogno seguono il movimento della vista dentro il sogno, quindi si
muovono velocemente inseguendo lo sguardo nella mente. Questo movimento è
chiamato Rapid Eye Movement, cioè movimento oculare rapido, ed è un segnale
esteriore che indica con alta probabilità che la persona sta sognando.

L’altra parte che non viene toccata dalla paralisi del sonno sono gli organi genitali. Non
essendo muscoli, non sono inibiti. Negli uomini durante il sogno il pene facilmente ha
un’erezione. Nelle donne il clitoride viene irrorato da una maggiore quantità di sangue e
aumentano le secrezioni vaginali.

Questo fenomeno accade indipendentemente dal contenuto del sogno. Svegliarsi con
un’erezione quindi non è necessariamente segno di avere fatto un sogno erotico, ma
è semplicemente un effetto della fisiologia del corpo durante lo stato di sogno.

Abbiamo portato l’attenzione a ciò che accade fuori mentre sogniamo. Questo ci è utile
per comprendere meglio ciò che accade in prima persona durante il sogno, quindi ora
spostiamo l’attenzione dentro.

La teoria psicoanalitica dei sogni


Secondo molte teorie psicoanalitiche…

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I sogni sono lettere inviate a sé stessi.

Il significato di questa affermazione è che, all’interno del sogno, l’inconscio mandi dei
messaggi camuffati alla parte cosciente nel tentativo di rendere manifesto un
contenuto non pienamente consapevole. Il movimento apparentemente caotico che
emerge nel sogno dunque non sarebbe altro che una serie di contenuti espressi in
modo simbolico, immaginativo, emotivo, di ciò che durante lo stato di veglia è stato
bandito dalla consapevolezza.

Il sogno rappresenta in forma simbolica la realizzazione di un desiderio inconscio. Ciò


che, per ragioni morali, viene represso, si ripresenta sotto forma onirica nel tentativo di
trovare appagamento.

Il contenuto represso non viene manifestato apertamente nel sogno, ma viene in


qualche modo alterato.

Per approfondire » I 6 tipi di inconscio

Infatti anche durante il sogno è all’opera un meccanismo inconscio di censura: la storia


che viviamo nel sogno è il contenuto manifesto, ed è l’espressione inconscia, espressa
simbolicamente, di un contenuto latente.

Il significato della “lettera inviata a sé stessi” dunque non andrebbe ricercato nel
messaggio esplicito del sogno, ma nel contenuto latente.

Se si seguono le associazioni emotive tra i ricordi al di sotto delle immagini


manifeste, allora le trame narrative posso iniziare ad emergere (lo vedremo meglio più
avanti).

Freud nel suo saggio sui sogni ha cercato di delineare i meccanismi attraverso il quale
l’inconscio, attraverso il lavoro onirico mette in piedi il suo teatrino notturno. Ha
individuato una serie di principi operativi, utili nel risalire al contenuto latente e ad
elaborare il sogno.

Nel sogno innanzitutto è attiva la condensazione: in un’unica immagine sono


rappresentate diverse catene associative.

Il meccanismo dello spostamento poi, permette che gli elementi rilevanti del contenuto
latente vengano rappresentati da dettagli minimi costituiti da fatti recenti e può così
facilitare la traduzione in immagini dei pensieri del sogno. L’espressione immaginativa
spesso ha, per questo motivo, un contenuto simbolico rilevante.

Infine, l’ultimo dei quattro meccanismi del sogno, è l’elaborazione secondaria, che
opera soprattutto quando ci si trova vicini alla veglia e quando si racconta il sogno.
Tramite questa elaborazione il sogno perde la sua apparenza di assurdità e di
incoerenza.

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All’interno del sogno
Ogni sogno è unico e originale, ma tutti presentano delle caratteristiche comuni.
Vediamone alcune da una prospettiva in prima persona.

Come abbiamo visto l’elaborazione del sogno si presenta principalmente sotto forma di
immagini e di emozioni.
Un primo aspetto che possiamo rilevare è che…

le immagini sono accessibili come contenuto, e non come contesto.

Ovvero l’immagine è elaborata in modo indipendente dal contesto che l’ha generata.

Un esempio di questo principio: se durante la veglia hai vissuto l’esperienza di stupore di


fronte all’incontro inaspettato con dei delfini in viaggio in nave, in un sogno potresti
trovarti un delfino nella tua vasca da bagno, e percepire che questo è assolutamente
normale.

Questo esempio ci mette in luce un’altra caratteristica del mondo onirico:

nel sogno il pensiero critico viene meno.

Tutto quello che accade, per quanto sia strambo e surreale, è assolutamente normale o
verosimile.

Un appunto su questo particolare: dal punto di vista neurofisiologico questo effetto è


legato alla temporanea disattivazione della corteccia prefrontale (Questa
informazione ci verrà utile nel prossimo appuntamento della rubrica quando
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affronteremo il sogno lucido).

Vediamo altri aspetti del mondo onirico:

Nel sogno viene meno la continuità degli eventi.

Nel sogno potresti tranquillamente passare dallo stare seduto sul divano nel salotto di
casa tua alla cabina di pilotaggio di un aereo. Gli eventi e le immagini associate possono
non essere continui. Così come possono non essere continui il tempo e lo spazio.

Nel sogno l’orientamento nel tempo e nello spazio non è vincolante.

L’associazione nei sogni del tutto casuale, non è vincolata a continuità temporale o
spaziale. Cioè in un sogno può emergere il vissuto di un evento dell’infanzia e subito
dopo un’immagine della giornata appena trascorsa, o viceversa.

Gli eventi dei sogni, relativamente a questo aspetto, spesso presentano una successione
associativa estrema: se in una scena viene messo in primo piano un particolare, quello
diventa immediatamente il centro di gravità narrativo per la scena che segue.

Tutto quello che emerge viene preso per veritiero, non è messo in discussione.

Possiamo riassumete tutte queste caratteristiche dicendo che…

Nel sogno la mente opera “momento per momento” prendendo per verosimile tutto quello
che incontra , senza pensiero critico, senza vincoli temporali o spaziali o di continuità.

L’elaborazione durante il sogno

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Nel sogno frammenti di ricordi, di immagini, di materiale più o meno remoto vengono
riattivati e sintetizzati assieme a quello che già è presente nella banca dati della nostra
memoria.

In questa costruzione di associazioni si è potuto vedere che all’inizio della notte, cioè
nei primi sogni, vengono riattivati i ricordi più recenti, mentre nei sogno fatti verso la
fine della notte emerge il materiale più remoto.

Il sogno da questo punto di vista si presenta come uno strumento di apprendimento e di


consolidamento dei ricordi. I ricordi vengono integrati tramite la costruzione di
associazioni con quelli già consolidati.

In questo passaggio, non solo viene integrato il ricordo, ma viene elaborata anche
l’emozione ad esso associata.

Una funzione del sogno dunque è quella di facilitare e consolidare l’apprendimento.


Durante il sogno possiamo sedimentare le nuove conoscenze apprese durante la veglia.

In studi in laboratorio si è visto che gli studenti universitari presentano una quantità di
sonno REM maggiore durante gli esami proprio perché hanno più contenuti da
immagazzinare.

Viceversa, studi sulla deprivazione del sonno REM hanno dimostrato che quando a una
persona viene tolta questa fase del sonno, fa più fatica ad apprendere nuovi compiti.

L’elaborazione del sogno, oltre a consolidare le nuove esperienze e i ricordi, ha anche


una funzione preparatoria alla veglia.
Nel sogno infatti vengono consolidate attività importanti per la sopravvivenza. Secondo
una recente teoria evoluzionistica, il sogno si presenta come un gigantesco simulatore
virtuale in cui provare a vivere le esperienze potenzialmente pericolose. Si tratta di
esperienze codificate geneticamente che sono importanti per la sopravvivenza.

Il sogno permette di provare ad affrontare queste situazioni di vita e di morte in modo


simulato e protetto, così da essere più preparati durante la veglia nelle situazioni di
reale pericolo.

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Il sogno dei bambini
Possiamo trovare una sintesi delle due funzioni appena viste, apprendimento e
preparazione alla veglia, nel sonno dei bambini.

Un adulto mediamente passa da un’ora e mezza a due ore di sonno sognando, mentre

un neonato, che dorme mediamente 16 ore al giorno, passa nella fase di sogno la metà del
suo sonno.

Ben 8 ore del sonno di un neonato sono nella fase del sonno REM.

I bambini piccoli dormono tanto perché per loro tutto è nuovo e dunque ogni
esperienza ha bisogno di essere integrata ex novo.

Crescendo questo bisogno diminuisce: le esperienze plasmano sempre meno la struttura


della mente.

Crescendo i ricordi si consolidano, la mente si struttura ed è meno permeabile al


cambiamento in funzione delle nuove esperienze.

Il sogno dei bambini è diverso da quello degli adulti, non solo per la durata temporale.

Innanzitutto è più breve. Dura di più come quantità globale di sogno nell’arco della
giornata, ma dura di meno come durata del singolo sogno.

Oltre a questo, il sogno dei bambini è meno complesso, ed è composto


prevalentemente da immagini statiche. I sogni si presentano privi del sognatore, cioè
è assente un senso di sé vissuto in prima persona.

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Nei primi stadi evolutivi ancora il senso di sé non è ben differenziato nelle sue
componenti somatica ed emozionale, quindi i bambini vivono in una condizione
indifferenziata, sia nello stato di veglia che in quello di sogno.

Per lo stesso motivo spesso le emozioni sentite durante il sogno sono vissute da parte
del bambino in modo intenso e drammatico.

Per approfondire » Evoluzione della coscienza

Messaggi dall’inconscio
Che siano esperienze che si stanno registrando nella banca dati della tua memoria, o che
siano prove virtuali in preparazione a qualcosa che compirai nello stato di veglia, i
contenuti del sogno sono elementi inconsci su cui portare consapevolezza.

Sono contenuti inconsci che devono divenire consapevoli per essere integrati.

Per decodificare questi messaggi dall’inconscio serve avere innanzitutto un codice di


interpretazione.

Codice pre-verbale di interpretazione


Il codice per decifrare i sogni non va pensato come una codifica logica e lineare tra il
contenuto del sogno e il suo significato.

Il codice di accesso al significato del sogno è la comunicazione pre-verbale del sogno.

Non esiste un passaggio lineare e razionale di interpretazione.

Mi spiego con un esempio: supponiamo che tu abbia sognato di cavalcare un cavallo. Per
comprendere il messaggio di questo sogno non serve un codice esterno che ti dia il
significato di cavalcare il cavallo. “Ho sognato di cavalcare > allora significa che…”
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I punti essenziali per decodificare il sogno sono due.

Il primo è sintonizzarsi con il linguaggio del sogno.

Il sogno ha una forma istintuale, emotiva, immaginativa.

I messaggi del sogno arrivano da una coscienza pre-linguistica, cioè che precede
l’emergere del linguaggio verbale.

I messaggi del sogno hanno una forma primitiva, senza alcuna accezione negativa
relativa al termine.

Per comprenderli serve dunque che chi ha fatto il sogno si sintonizzi su queste modalità,
cercando di non razionalizzare il contenuto del sogno.

E qui entra in gioco il secondo elemento essenziale nel decodificare il sogno: colui che
sogna è l’unico che può accedere a questo livello di decodifica.

Decodifica personale e soggettiva


Non ha senso chiedere a qualcuno a qualcun altro: “ho sognato questo, cosa significa
secondo te?”

Solo tu che hai fatto il sogno puoi accedere al tuo livello istintuale e decodificare,
tramite quel linguaggio pre-verbale e immaginativo, il tuo personale significato del sogno.

Ciò non toglie che tu possa chiedere a qualcuno che ti aiuti, semplicemente
comprendendoti e facendoti delle domande, a elaborare il tuo sogno. Ma nessuno può
elaborare un significato al posto tuo, questo passaggio può essere fatto solo in prima
persona.

Tornando all’esempio del sogno di cavalcare un cavallo. Quale potrebbe essere il


messaggio? Potrebbe essere un desiderio di un senso di libertà, potrebbe essere un
segno di ricerca di potenza, di dominio dei propri istinti animali, il cavalcare la propria
sessualità, ancora potrebbe essere il desiderio di esprimere la propria fisicità… e così via.

Le interpretazioni verbali di un sogno sono infinite. Solo colui che ha fatto il sogno può
accedere al messaggio pre-verbale e istintivo che è contenuto nel sogno.

Sono tutte parti di te


Oltre a questi due aspetti, per decodificare il messaggio del sogno serve mettersi nella
posizione in cui…

ogni parte rappresentata nel sogno va vista come una parte di sé stessi.

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Se hai sognato di giocare assieme tuo fratello da bambino, dovresti accedere a questo
contenuto dalla posizione: tu che giochi con te stesso. Per cui ogni azione, gesto o
comunicazione non vanno interpretati come se ci fossero due o più individui in
interazione, ma come una sola entità che si manifesta in un gioco di ruolo.

Questo aspetto è importante e spesso sfugge nell’osservare il contenuto del sogno. La


forma che l’altro può assumere nel sogno può carpire l’attenzione facendoti credere che
ci siano due entità in gioco, in realtà non è così. Il sogno è una costruzione che tu fai, in
te stesso, con te stesso, tramite parti di te cercano di divenire consapevoli.

Tenere questo punto di vista è certamente utile per la decodifica del messaggio del
sogno.

La realtà del sogno


Nell’epoca in cui viviamo c’è una contrapposizione culturale tra ciò che è considerato
“reale” e ciò che è considerato “non reale.” Il sogno e il suo contenuto è visto come
irreale, inconsistente, mentre la realtà da svegli è considerata come l’unica cosa reale.

È una contrapposizione logica tra l’esperienza in due diversi stati di coscienza: nello stato
di veglia c’è continuità nello spazio e nel tempo, nello stato di sogno non esiste questa
continuità. La conseguenza logica è “il sogno non è reale.”

Per approfondire » Assolutismi

Ma è davvero così?

Dovremmo interrogarci su ciò che è reale e ciò che non lo è.

Potremmo dire che esiste una realtà fisica ed esiste una realtà non fisica.
16/24
Così come esiste il computer su cui sto scrivendo, così esiste l’immagine mentale che ora
sto pensando: un gatto che gioca con il gomitolo rosso. Esiste nella mia mente mentre lo
penso. Non è tangibile, non è concreta, ma esiste. Esiste nella mia mente.

Il sogno si manifesta, dal punto di vista soggettivo, nella realtà non fisica, cioè nella tua
interiorità.

Eppure, ha un correlato fisico: l’elaborazione cerebrale che compie il tuo sistema nervoso
durante il sogno. Può essere misurata e studiata, esiste oggettivamente. Entrambe
queste dimensioni sono esistenti. Sono qualitativamente diverse tra di loro, ma
entrambe esistono.

Per approfondire » Quadranti

Dal punto di vista dell’individualità consapevole (ciò che sei) il sogno è tanto reale
quanto la realtà da svegli. Entrambe queste dimensioni sono, dal punto di vista
soggettivo, costruzioni del tuo Sistema Nervoso. E come tali dovrebbero essere
considerate per evolvere la tua struttura di coscienza.

La veglia e il sogno sono due stati di coscienza diversi, quindi presentano caratteristiche
e modalità di elaborazione diverse, ma entrambe queste realtà sono, per te che le
sperimenti, ugualmente esistenti e reali .

Citando lo studioso Stephen LaBerge:

Il sogno è una forma di percezione non limitata dall’apporto sensoriale, e la percezione


[da svegli] è un sogno costretto nei limiti di ciò che perviene attraverso i sensi.

Lavorare con i sogni


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Ti ho presentato una serie di punti di vista differenti su quello che è il mondo dei sogni, le
sue funzioni e i suoi scopi. Tutti hanno qualcosa di valido da dirci a questo proposito.

Il passaggio da fare ora è quello di metterli tutti assieme e creare un tuo punto di vista
che sia utile alla tua crescita in consapevolezza, perché questo è lo scopo finale di
acquisire una nuova conoscenza in questo campo.

Analizzando il percorso verso una maggiore consapevolezza si è notato che il baricentro


della vigilanza consapevole tende progressivamente a spostarsi dal mondo della veglia al
mondo dei sogni. Significa che la persona, invece di cadere nell’oblio del sonno, tende a
mantenere una vigilanza consapevole attraverso i vari passaggi di stato.

Se ricordi abbiamo già incontrato questo aspetto quando abbiamo parlato dello stato
ipnagogico. Qui il tragitto prosegue, il baricentro si sposta ancora di più nel mondo
onirico.

Questo è il passaggio che ci interessa:

mantenere sempre di più vigilanza consapevole attraverso lo stato di sogno.

Sottolineo la parola attraverso, perché si tratta di un passaggio in una progressione.


Questo passaggio non è fine a sé stesso, è solo una delle tappe che incontrerai.

Lo stato di coscienza del sogno nella progressione tra gli stati.

Un altro aspetto importante del lavoro con i sogni è che hai bisogno di portare
attenzione ai contenuti dei sogni, per integrarli e divenire sempre più consapevole di
questi messaggi dall’inconscio, ma non è questo lo scopo primario.

Portare l’attenzione ai contenuti del sogno serve a spostare la consapevolezza nello


stato di coscienza del sogno.

Il contenuto dei sogni è secondario rispetto a questo scopo.

Il fine è quello di esplorare in modo consapevole lo stato di sogno, indipendentemente


dal suo contenuto. Per fare questo serve concepire lo stato di coscienza del sogno come
una realtà da conoscere , equivalente a quella dello stato di veglia. L’attenzione e la
curiosità deve rivolgersi ai contenuti del sogno per comprendere l’essenza dello stato.

18/24
Integrare i contenuti serve a integrare lo stato di coscienza.

Per ora questo è il passaggio da compiere: cerca di ricordare sempre meglio i tuoi sogni.

Nel prossimo appuntamento della rubrica affronteremo il sogno lucido, e quindi avremo
modo di approfondire questo aspetto. Se hai una buona capacità di ricordare i tuoi
sogni, l’accesso al sogno lucido sarà facilitato.

Perché ci dimentichiamo dei sogni


Ci sono vari motivi per cui il sogno non viene ricordato. Come sempre, prima osserviamo
la questione dal punto di vista fisiologico e funzionale, poi da questo andiamo ad
estrapolare le nostre conseguenze dal punto di vista soggettivo.

La fisiologia del ricordo del sogno


Analizzando le funzioni cerebrali, si nota che durante il sonno REM le funzioni che
determinano il ricordo consapevole generalmente non sono attive.

Per instaurare un ricordo l’ippocampo deve comunicare con la corteccia prefrontale,


ed è esattamente quello che avviene durante il sonno non-REM (generalmente privi di
sogni). Durante il sonno con sogni queste due strutture cerebrali non comunicano, per
questo la maggior parte dei sogni tende a svanire al risveglio.

Un altro motivo per cui non si ricordano i sogni è determinato dal momento del
risveglio: se ti svegli in una fase non-REM, è più difficile ricordarti il sogno.

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Questo si verifica di solito in caso di sveglia artificiale. Nel sonno indisturbato
generalmente è il contrario, il risveglio spontaneo avviene naturalmente appena dopo
la fase di sogno, perché è uno stadio del sonno più leggero e quindi più soggetto a
portare al risveglio. Se ti svegli subito dopo un sogno, è più facile ricordartelo , se ci porti
l’attenzione (vedi dopo).

Altro effetto legato al momento di risveglio: i sogni della prima parte del sonno sono più
soggetti ad essere dimenticati, mentre quelli più vicini alla veglia si ricordano più
facilmente.

Il motivo è legato alla durata temporale del sogno, che con il passare delle ore di sonno
sia allunga rispetto al sonno senza sogni.

È stato dimostrato che il ricordo del sogno è associato ad un’onda cerebrale lenta,
chiamata theta.

Quando è presente quest’onda nella corteccia frontale, assieme alle altre onde tipiche
del sogno, la persona è in grado di ricordare il sogno.

Questo è lo stesso meccanismo che si riscontra anche per la cosiddetta memoria


episodica durante lo stato di veglia.

Sono gli stessi meccanismi che ti consentono di essere consapevole durante la veglia che
ti consentono di ricordare il sogno.

La consapevolezza nel sogno


Tutti gli aspetti visti prima sono un riflesso fisiologico del grado di consapevolezza che tu
porti con te nello stato di sogno.

Il ricordo del sogno è legato alla qualità e alla quantità di attenzione consapevole che tu
sei in grado di sostenere nella veglia e nelle transizioni tra lo stato di veglia e quello di
sogno.

Tanto più sei consapevole durante la veglia, tanto più sei in grado di portare la
testimonianza consapevole nello stato di sogno, e di conseguenza anche di ricordare i
sogni.

Se la tua attenzione è frammentata, discontinua e poco sostenuta con l’intenzione,


fondamentalmente ti mancano le risorse cognitive per ricordare il sogno.

Per approfondire » I 4 stadi di sviluppo dell’attenzione

Interferenze chimiche

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Proprio perché la capacità di ricordare i sogni è legata alla capacità di essere consapevoli,
tutto ciò che interferisce con il grado di consapevolezza da sveglio interferisce anche con
la capacità di ricordare il sogno. Le sostanze che agiscono sul sistema nervoso
interferiscono con questo processo.

Alcool, droghe, caffè, eccitanti, sonniferi, psicofarmaci… sono tutte sostanze che in
qualche maniera alterano il delicato equilibrio del sistema nervoso e a volte impediscono
completamente l’accesso cosciente al sogno.

È vero anche che ci sono alcune sostanze che facilitano il processo, ma le vedremo nel
prossimo appuntamento, quando studieremo il sogno lucido.

Per fortuna, eliminando le interferenze chimiche e adottando i dovuti accorgimenti, tutti


siamo in grado aumentare il ricordo dei sogni.
Vediamo come.

Come ricordare i sogni


Per ricordare i sogni c’è bisogno di pazienza, di fiducia e di strategia. L’approccio “tutto
e subito” non funziona, anzi ha l’effetto opposto. L’invito è quello di affrontare la notte di
sonno con curiosità e apertura, essendo fiduciosi che tutti, salvo impedimenti
neurologici, possono ricordare i sogni.

Vediamo alcuni accorgimenti strategici per facilitare questo processo.

Prepararsi

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La preparazione al ricordo consiste nel creare una corretta impostazione mentale.
Sostanzialmente serve mettere in discussione le tue credenze limitanti riguardo la tua
capacità di ricordare i sogni.

Se ci sono convinzioni del tipo “non sono capace di ricordare i miei sogni”, queste vanno
comprese e lasciate andare, aprendosi con fiducia all’opposto. Serve ciò avere un
atteggiamento positivo sulla possibile riuscita del ricordo dei sogni. Con i dovuti
accorgimenti puoi ricordare i sogni, anche se non l’hai mai fatto.

Comunica a chi ti può comprendere tutte le tue credenze limitanti su questo aspetto e
lasciale andare. (Se vuoi, puoi scriverle anche nei commenti all’articolo qui sotto.)

Durante il giorno
Durante la giornata cerca di coltivare una qualità dell’attenzione sempre maggiore.
Cerca di evitare le attività in multitasking, le continue interruzioni e distrazioni mentre fai
qualcosa.

Cerca se ti è possibile di mantenere una parte di attenzione su di te, mentre fai le tue
faccende quotidiane. Mantieni l’attenzione non solo su quello che stai facendo, ma anche
su chi lo sta facendo.

Porta più consapevolezza in ogni gesto e in ogni interazione.

Evita il più possibile le interferenze chimiche.

Cura l’ambiente in cui dormirai con una corretta igiene del sonno e cerca di andare a
dormire quando non sei esausto o esausta.

Diario dei sogni


Tenere un diario dei sogni è un incredibile strumento per facilitare il ricordo dei sogni.
Anche semplicemente questo accorgimento incrementa tantissimo la capacità di ricordo.

Il diario dei sogni dovrebbe essere sempre pronto sul comodino, e mentre ti stai
addormentando dovresti sentire che al risveglio avrai qualcosa da scriverci sopra. È
un’intenzione (vedi dopo) che metti in atto associandola alla presenza del diario, che
agisce quindi come rinforzo positivo all’intenzione.

Il diario è meglio che sia cartaceo.

Ti sconsiglio ogni dispositivo elettronico perché questi interferiscono con il riposo


notturno. Se ti svegli a metà notte e scrivi su un tablet (ad esempio), poi fai più fatica ad
addormentarti. Meglio dunque un quaderno o un semplice notes.

Nel compilare il tuo diario, scrivi sempre in prima persona e utilizza il tempo
presente.

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È utile scrivere anche la data in cui hai fatto il sogno e, come appunto aggiuntivo, se il
sogno è collegato a qualche evento particolare della tua vita.

L’intenzione
Durante l’addormentamento cerca di mantenere alta la vigilanza consapevole.

Tutti gli accorgimenti che abbiamo visto per lo stato ipnagogico valgono anche in questo
caso, per cui ti invito a dare una rilettura a questo stato di coscienza per conoscerlo
meglio nelle sue quattro fasi.

Porta consapevolezza allo scopo del tuo sonno. Non ti stai addormentando solo per
riposare, ma stai andando ad esplorare il mondo del sonno anche per sognare e per
essere consapevole del contenuto del sogno.

Mentre ti addormenti, mantieni un’intenzione positiva sul fatto che ricorderai il sogno.

Se ti è utile potresti anche ripetere delle affermazioni, come ad esempio: “Sono certo/a
che al risveglio mi ricorderò quello che ho sognato”. L’importante, al di là dell’affermazione,
è l’intenzione. Se l’affermazione mentale è ripetuta meccanicamente, non produce alcun
effetto.

Quello che produce l’effetto è l’intenzione.

Quindi, se ti basta collegarti all’intenzione per attivarla, è sufficiente questa. Se non riesci
a collegarti con l’intenzione, puoi usare un’affermazione con lo scopo di generare
un’intenzione.

Al risveglio
Il risveglio, sia che avvenga durante la notte che al mattino, è un momento delicato. In un
attimo il ricordo del sogno svanisce.

L’invito è quello di non muoversi, fare meno movimenti fisici possibile, mantenendo gli
occhi chiusi. L’attenzione deve essere rivolta tutta al tentativo di ricordare i frammenti
del sogno.

A volte basta ricordare un solo elemento per mettere assieme tutta la catena associativa
del sogno.

Non portare l’attenzione a quello che ti attende nella giornata, tieni l’attenzione dentro
tentando di ricordare il sogno.

Solo quando hai la trama del sogno abbozzata nella mente, apri gli occhi e scrivila nel tuo
diario.

I tuoi sogni
23/24
Spero con questo articolo di averti dato degli spunti utili per comprendere meglio il
mondo onirico, e soprattutto di avere stimolato la tua curiosità ad esplorare in modo
intenzionale e consapevole questo importante aspetto della tua interiorità.

Come hai potuto vedere, c’è tanto da scoprire.

Il prossimo appuntamento sarà strettamente connesso a questo: affronteremo il sogno


lucido. Ti invito ad iscriverti alla newsletter per leggere l’articolo appena sarà pronto.

Nel frattempo, cerca di ricordare sempre di più i tuoi sogni con tutti gli accorgimenti
che abbiamo visto in questo lungo articolo. Questa preparazione sarà il terreno di
partenza per fare un buon lavoro con il sogno lucido.

Nel frattempo, se hai piacere, puoi condividere tramite i commenti dell’articolo la tua
esperienza. È un modo utile e costruttivo per mantenere attiva l’intenzione e per lavorare
insieme.

Bibliografia
Jeff Warren – Dove hai la testa
William Dement – Il sonno e suoi segreti

24/24
La vigilia [Rubrica Stati di Coscienza]
essereintegrale.com/vigilia

Agostino Famlonga

Nell’immaginario collettivo riguardo il sonno esiste un principio ripetuto talmente tante


volte da essere considerato assoluto: per stare in salute abbiamo bisogno di 7-8 ore di
sonno continuo per notte.

Se ti discosti da questo standard, dovresti preoccuparti e porti delle domande. Cosa c’è
che non va? Come posso tornare alla normalità?

In realtà la domanda che dovremmo farci è un’altra. Una domanda che mette in
discussione questo principio assoluto.

È veramente questo il modo naturale di dormire che appartiene alla specie umana?

Una serie di esperimenti sul sonno hanno indagato questo quesito, scoprendo in questa
ricerca altre modalità di riposo notturno che mettono seriamente in dubbio l’assunto
assoluto delle 8 ore di sonno continuativo.
Vediamo cosa hanno scoperto.

Da leggere: l’introduzione alla rubrica » La straordinaria avventura negli stati di


coscienza

1/18
Alla ricerca del sonno naturale
Il primo esperimento che ha indagato la modalità di sonno dell’essere umano è quello di
Thomas Wehr, un cronobiologo americano. In uno dei suoi esperimenti ha voluto
verificare quale fosse l’adattamento dell’uomo alle variazioni di luce stagionale.

È risaputo che le specie animali, quando aumenta il numero di ore di buio nelle stagioni
invernali, si adattano e si armonizzano a questa variazione. L’adattamento dell’essere
umano non era ancora stato studiato in modo adeguato.

Nel suo esperimento il gruppo di studio è stato posto per un mese in una condizione
priva di illuminazione artificiale.

L’inverno del Maryland, dove si è svolta la ricerca, dura circa 14 ore. Le persone alle
cinque di pomeriggio si presentavano al laboratorio ed erano invitate a stare a letto, a
riposare, dormire o riflettere, per tutto il tempo, senza alcuna luce artificiale per le 14 ore
notturne.

I primi giorni dell’esperimento i soggetti hanno dormito a lungo. Si è reso manifesto il


cosiddetto “debito di sonno“, ovvero il sonno arretrato non soddisfatto, che in una
condizione di questo tipo ha potuto trovare appagamento.

Quello che si è visto è che in questa condizione il debito di sonno viene recuperato nel
giro di 3-4 settimane, ed ammonta a circa 17 ore in più rispetto alla media del sonno
individuale. Il recupero non avviene in un’unica giornata, ma viene diluito nei giorni, fino
a portarsi a zero.

Quando si è recuperato il debito di sonno, ecco che la durata media del sonno del
gruppo di studio si è stabilizzata sulle 8 ore.
2/18
Detto così, sembra che questo esperimento validi l’assunto assoluto posto all’inizio
dell’articolo. In realtà no, perché le 8 ore di sonno naturale non sono le 8 ore continue a
cui siamo abituati a pensare, ma hanno una modalità diversa, divisa in due tranche.

Un’indagine storica sul sonno


Un’altra fonte di dati riguardo la modalità naturale del sonno dell’essere umano è la
ricerca storica.
In particolare, quella dello storico americano Roger Ekirch, che ha scritto un libro
sull’evoluzione del sonno degli occidentali partendo dal medioevo fino alla rivoluzione
industriale.

Nella sua indagine ha trovato dei riferimenti, in 14 culture diverse, al cosiddetto “primo
sonno“. Si trattava perlopiù di riferimenti casuali, non di approfondimenti specifici. Come
se la condizione di “primo sonno” fosse qualcosa di assodato e che non necessitasse
alcuna spiegazione. Trovò, nella sua ricerca durata quattro anni, più di 300 riferimenti a
questa modalità di sonno.

Brevi citazioni sono state ritrovate anche nell’Eneide e nell’Odissea, lasciando intravedere
che questa modalità di sonno, data per scontata in passato, ha radici antiche nella
storia dell’essere umano.

Ovviamente, associato al primo sonno, c’è la sua controparte: il “secondo sonno”, o il


“sonno del mattino“.

Questa interessante ricerca storica ha portato alla luce che

la modalità di sonno degli esseri umani, prima dell’avvento della luce artificiale, era
composta da due turni.

Un sonno serale, che durava dalle 9 di sera fino alla mezzanotte, e un sonno
mattutino, dalle 2 di notte fino all’alba.

Fra questi due turni, c’era un particolare stato di coscienza, chiamato “la vigilia“, o “la
vigilanza”.

Questo modo di dormire, estrapolato dalla ricerca storica di Ekirch, è completamente in


linea con i risultati delle ricerche del laboratorio del sonno in cui è stata tolta la luce
artificiale.

Da questi dati pare che il sonno frazionato in due turni sia qualcosa di naturale, e che

le canoniche 8 ore di sonno continuo sono un adattamento moderno allo stile di vita
costruito dall’uomo.

Ma vediamo meglio cos’è il sonno segmentato e la vigilia che sta nel mezzo dei due turni.

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Sonno segmentato
Il sonno in due turni viene chiamato “sonno bimodale“.
Nel sonno bimodale c’è il primo sonno, che è un turno di sonno della durata di 3-5 ore,
che ha inizio dopo circa 2 ore dal tramonto.

A questo segue una veglia riposante della durata di 1-3 ore.

La notte si conclude poi con un secondo sonno, che dura dalla metà della notte fino
all’alba.

Sonno monofasico e sonno bimodale

Questo modo di dormire è tipico delle scimmie e degli scimpanzé. È un mix tra il
dormiveglia e la vigilanza e parrebbe essere lo schema di sonno fisiologico anche
dell’essere umano.

Ma come mai siamo finiti a dormire 8 ore di fila e a considerarlo normale?

Si tratta dell’effetto cumulativo di una serie di adattamenti.

Adattamento
La specie umana ha avuto la sua nascita e la sua incubazione nella zona equatoriale. In
questa fascia terrestre la durata della notte e del giorno è equivalente: 12 ore di luce e
12 ore di buio.

Con questa impostazione il sonno segmentato appare come la soluzione ideale da


adottare in modo continuativo, per tutto l’anno.

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Quando l’essere umano è migrato, verso nord e verso sud, ha dovuto adattare il suo
orologio biologico alla variazione della durata di luce e buio dovuta ai cambiamenti
stagionali, spostando la sua preferenza verso la breve durata delle notti estive rispetto
alle lunghe notti d’inverno.

A questo adattamento si è poi sommata una forte influenza culturale: l’avvento di


locali pubblici, la disponibilità di tè e caffè che influiscono sul ciclo sonno veglia, la
modifica della percezione soggettiva del tempo (con l’invenzione dell’orologio), e
soprattutto con la scoperta della luce artificiale.
La luce artificiale ha dato all’uomo moderno il potere di stabilire la durata della sua
giornata, spostando la preferenza alla lunga giornata di luce rispetto al buio.

La somma di questi fattori ha fatto sì che il sonno bimodale sia stato compresso in un
unico sonno: le canoniche 8 ore continue che tutti diamo per scontato.

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La vigilia
Cosa accade nel periodo che separa i due turni del sonno bimodale?

Questo stato di coscienza, tra tutti quelli che fanno parte di questa rubrica, è l’unico che
non ho sperimentato personalmente, per cui te lo riporto in terza persona basandomi su
ciò che è stato descritto da chi l’ha vissuto e dai ricercatori che l’hanno studiato.

Quello che emerge, tra il primo e il secondo riposo è una condizione di quiete
tranquilla, di calma meditativa, di pacifica vigilanza.

6/18
Studiando questa condizione in laboratorio, si è scoperto che l’attività cerebrale è
predominata dalla produzione di onde alfa.

Gli stati di coscienza e le corrispondenti


frequenze e onde EEG.

A livello ormonale c’è una ricca produzione di prolattina, una sostanza prodotta
dall’ipofisi con noti effetti calmanti. È un ormone che tradizionalmente associamo alle
madri che allattano e ai bambini che dormono pacificamente, ma non è una loro
esclusiva.

Oltre a questa variazione ormonale, si è visto un incremento della produzione di


melatonina e una diminuzione dell’ormone della crescita .

Chi ha vissuto questa condizione la descrive come una situazione delicata, che ciò può
essere persa con un minimo disturbo. Questa quiete gentile è descritta come uno stato
meditativo piacevole in cui il tempo passa velocemente, come una sorta di
contemplazione pacifica.

Elaborazione del sogno


La vigilia emerge in sequenza dopo una fase REM (la fase del sonno caratterizzata dal
sogno).

Si è visto in laboratorio che

la vigilia dona la possibilità di uno spazio privilegiato di elaborazione del sogno.

Una sorta di zona di confine tra il sonno e la veglia, simile allo stato ipnagogico, ma più
prolungato e senza la spinta a scivolare nel sonno profondo tipica dell’ipnagogico.

Nella sua analisi storica sul sonno degli antichi, il ricercatore Wher propone questa
visione: per gli antichi il risveglio notturno ha fornito un canale di comunicazione
diretto fra i messaggi dei sogni e la vita da svegli.

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Con la perdita della vigilia nel nostro sonno continuato, questo canale si è chiuso, al
punto che molti, nella nostra epoca, faticano addirittura a ricordare i sogni fatti. Wher
specula che questo sia uno dei motivi per cui l’uomo moderno ha perso il contatto con le
origini profonde dei miti e delle fantasie.

Orologio biologico
Vediamo ora di comprendere meglio come l’uomo regola il suo bisogno di dormire e di
stare sveglio.

L’uomo possiede un meccanismo interno di regolazione delle sue fasi di sonno e di


veglia. È un orologio biologico che regola le funzioni corporee e fisiologiche in base alla
spinta allo stare svegli e al dormire.

Nell’orologio biologico non esiste un tempo universale. Ognuno ha un suo tipico ciclo
circadiano (cioè che si ripete ogni giorno). Questo viene ereditato geneticamente e viene
espresso individualmente in modo unico. Così come tutti ereditiamo 5 dita ma ognuno
ha delle impronte digitali diverse dall’altro.

Quello che si è potuto notare, studiando questo meccanismo di regolazione, è che è


possibile raggruppare i funzionamenti degli orologi individuali in tre categorie.

Chi ha un ritmo circadiano inferiore alle 24 ore tende a svegliarsi presto e ad andare
a letto presto, con un picco di vigilanza attorno a mezzogiorno.
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Chi ha un ciclo più lungo delle 24 ore tende a fare le ore piccole e a stare a letto fino
a tardi la mattina, con un picco di attività attorno alle 6 del pomeriggio.

Nel libro del cronobiologo Michael Smolensky, pioniere di questi studi, queste due
impostazioni dell’orologio biologico sono chiamate Allodole e Civette.

Le Civette prediligono la vita notturna e le Allodole il risveglio precoce.

Secondo il ricercatore nelle persone esiste una distribuzione di questo tipo: 1 su 10


ricade nel tipo puro Allodola, mentre 2 su 10 esprimono le caratteristiche pure della
Civetta.

I restanti 7 si trovano un una zona intermedia, definita, per restare in tema con i volatili,
Colibrì.

Gli esperimenti sull’orologio biologico


Negli anni 60 sono stati fatti degli esperimenti per comprendere meglio il funzionamento
dell’orologio biologico. In uno di questi un gruppo di persone è stato rinchiuso per mesi
in caverna, senza alcun contatto con la luce naturale . Il ritmo sonno veglia in questo
modo era regolato in modo esclusivo dall’orologio biologico interiore.

Quello che si è visto è che in questa libertà totale l’orologio portava la persona a sfasarsi
sempre di più rispetto alla reale durata della giornata solare.

Le allodole andavano a dormire sempre prima, e le civette sempre dopo, portandosi in


una condizione di sfasamento completo.

Uscendo dopo un lungo periodo di tempo dal laboratorio in caverna, le civette, convinte
di andare incontro al giorno, si sono trovate nel pieno della notte (e viceversa per le
allodole).

Nella quotidianità noi non viviamo questo sfasamento. Perché?

Perché l’orologio biologico ha la capacità di sincronizzarsi sulla durata temporale della


giornata in base alla luce solare.

La luce solare è il sincronizzatore dell’orologio biologico.

Almeno, lo è sempre stato, fintanto che è intervenuta la luce artificiale ad alterare


questo delicato equilibrio.

La luce artificiale
La luce artificiale ha la capacità di spostare la sincronizzazione dell’orologio biologico,
interferendo con il processo naturale dell’alternanza sonno veglia.

Ad esempio è noto che un’esposizione alla luce artificiale in determinate finestre


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temporali ritarda il rilascio di melatonina, e quindi dilata la durata della veglia
spostando il naturale insorgere della sonnolenza.

La stimolazione avviene attivando delle aree cerebrali che hanno la funzione di


sincronizzare l’orologio biologico. Queste aree sono situate sopra il chiasma ottico (dove i
nervi ottici si incrociano) e per questo viene chiamato Nucleo Sopra Chiasmatico.

Se questo nucleo viene stimolato da una luce sufficientemente intensa, trasmette


l’informazione al sistema nervoso di ritardare l’insorgere del sonno. Dal punto di vista
biologico, se c’è luce è ancora giorno, e non ha senso dormire. Viene perciò ritardata la
produzione di melatonina da parte della ghiandola pineale.

Nucleo Sopra Chiasmatico e Ghiandola Pineale

Esistono delle finestre di particolare sensibilità di questo processo: tra le 6 e le 9 di sera,


e tra le 4 e le 5 del mattino. In queste due finestre temporali la luce artificiale interferisce
in modo intenso sul processo biologico della regolazione sonno-veglia.

Alla luce di queste informazioni, per una corretta igiene del sonno, è consigliabile
ridurre al minimo l’esposizione alla luce artificiale in questi orari.

I processi opponenti
Osservando la situazione da un punto di vista globale, quello che appare è l’intersezione
di due processi che sono attivi contemporaneamente la cui sommatoria determina il
grado di attivazione dell’organismo, e di conseguenza la predisposizione alla veglia e al
sonno.
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Il primo processo è quello circadiano che abbiamo visto prima riguardo l’orologio
biologico. Questo processo non è lineare, ma prevede, all’interno della giornata, delle
variazioni significative.

All’interno della giornata ci sono due onde lente di attivazione, che regolano la
vigilanza e l’attivazione biologica. Sono due onde che hanno il loro picco tra le 7 e le 10
di mattina e le 7 e le 10 di sera (con le ovvie variabili individuali).

Onde di attivazione circadiane

Le attivazioni energetiche sono correlate ad un maggiore rilascio di ormoni attivanti


come l’oressina, una molecola che accelera il tasso metabolico.

L’atro processo implicato nella regolazione biologica del sonno-veglia è il debito di


sonno.

Semplificando molto le cose, ogni ora in cui sei sveglio corrisponde ad un’ora di
deprivazione di sonno. Questo “debito” si accumula e si somma nell’arco della giornata. Il
debito si estingue con il sonno. Idealmente, dormendo si porta il conto a zero.

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Debito di sonno

L’insieme dei due sistemi di regolazione è chiamato “modello dei processi opponenti”
dal suo ideatore: William Dement.

La risultante dei due processi determina il grado di attivazione e di regolazione del ciclo
sonno-veglia all’interno della giornata.
Il suo andamento è un’onda di questa forma.

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Processi opponenti che regolano il sonno

Questo modello è un derivato dallo studio del sonno dell’uomo moderno, per cui, come
puoi notare, manca la seconda onda di attivazione notturna, perché il sonno è continuo.

Quello che balza subito all’occhio è il calo di attivazione nelle prime ore del
pomeriggio.

Questo è un periodo ideale per inserire un momento di riposo. Assecondando


l’andamento fisiologico del ciclo di attivazione circadiano si può trarre il maggior
beneficio dal riposo. Il riposino pomeridiano, a volte visto come segno di pigrizia e di
svogliatezza, in realtà è del tutto naturale e legittimo.

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La vigilia come periodo di elaborazione del sogno
Torniamo all’argomento protagonista: la vigilia.

La vigilia si presenta dunque come un lungo sogno quasi ipnagogico caratterizzato da un


profondo rilassamento e dal ricordo vivido dei sogni. Questo permette di elaborare
in modo profondo, a livello non razionale, le emozioni e le fantasie del sogno.

Come abbiamo visto nelle parti precedenti della rubrica sugli stati di coscienza, il sonno
ha una duplice funzione: il recupero e la riparazione fisiologica e il recupero
psicologico. Nel sonno moderno, questa duplice funzione viene alternata all’interno di
cicli di 90 minuti, con una predominanza del recupero e riparazione fisica nella prima
parte della notte. Con il passare della notte questo equilibrio si sposta e predomina il
recupero psicologico tramite un tempo maggiore dedicato all’integrazione del materiale
onirico.

È probabile che l’uomo antico avesse questa duplice funzione separata in modo più
marcato, e che il fatto di averla oggi alternata nei cicli di un’ora e mezza derivi dall’aver
compresso il sonno in un unico periodo di 8 ore continuative.

Probabilmente quello che noi viviamo come sogno nel sonno REM era vissuto un tempo
in modo diverso. L’elaborazione avveniva in questo lungo periodo di vigilanza attiva.

Una prospettiva evolutiva


Perché l’uomo ha sviluppato questo intermezzo vigile notturno? Una possibile risposta
alla domanda arriva anche dalla prospettiva evolutiva della nostra specie.

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Se immaginiamo un villaggio di cacciatori-raccoglitori, il fatto di avere delle persone in
una condizione di dormiveglia garantisce al gruppo una protezione maggiore dai pericoli
notturni.
Avere un’alternanza di persone che “fanno la guardia” vigilando sugli altri è un fattore
di sicurezza che evolutivamente ha garantito la trasmissione genetica di questa
caratteristica.

Le ricerche antropologiche in questo campo di studio confermano questa ipotesi. Lo


studio delle tribù non modernizzate ha trovato un riscontro positivo di questo modello.

Oltre alla vigilanza quieta e alle fantasticherie del sogno, in questo intermezzo notturno il
villaggio era comunque attivo. Il sonno dei cacciatori-raccoglitori non era continuo e
monolitico (e lo è ancora per chi dorme in questo modo).

Nelle tribù dedite all’allevamento i pastori ad esempio utilizzano questo risveglio per
mungere il bestiame.

Nella sua ricerca storica Ekirch ha inoltre scoperto che il periodo notturno era il
preferito per gli accoppiamenti. Le coppie approfittavano della quiete e della
rilassatezza dello stato di veglia per l’intimità. Dopo il primo sonno, il corpo era più
riposato e l’accoppiamento era più appagante.

Qual è il vero sonno?


Abbiamo esplorato da più prospettive l’argomento del sonno, scoprendo che non esiste
un unico modo di dormire.

Il nostro modo comune di intendere il sonno, caratteristico dell’uomo occidentale


moderno, è chiamato monofasico. Comprende cioè un sonno continuo della durata di 7-
8 ore caratterizzato dall’alternanza di cicli di 90 minuti di varie profondità di sonno.

Abbiamo visto che la modalità storica di sonno dell’uomo pare sia stata quella
bimodale, caratterizzata da un intermezzo di vigilanza tra una prima e una seconda fase
di sonno.

Esiste poi una terza modalità, il cosiddetto sonno polifasico, in cui la persona dorme 20-
30 minuti ogni 3-4 ore, riducendo in questo modo la necessità di dormire a non più di
tre ore al giorno.

Si considera questa modalità di sonno come un tentativo di massimizzazione


dell’efficienza. Secondo alcuni ricercatori, personaggi come Leonardo da Vinci,
Napoleone, Edison e molti altri adottavano questo stile di sonno.

In tempi recenti sta rivivendo una specie di rinascimento, portato alla ribalta dal metodo
Uberman [ Vedi Uberman Sleep Schedule ].

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Nel grafico qui sotto puoi trovare degli esempi di come alcuni personaggi illustri hanno
vissuto il sonno.

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Le abitudini di sonno di alcuni personaggi illustri

Qui puoi trovare l’infografica originale.

Il sonno plastico
Come vedi il sonno è un elemento della nostra umanità che è altamente plastico. Viene
modificato dalla cultura, dalle variazioni stagionali, dal periodo storico in cui vivi, dalle tue
condizioni psicologiche della giornata, dal tuo bioritmo individuale.

Nella cultura e nell’epoca storica in cui ci troviamo, il sonno monofasico, continuo per le
7-8 ore notturne, è predominante.

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È giusto o sbagliato? Dovremmo dormire diversamente?

Difficile rispondere a questa domanda con una risposta netta.

Certo è che questo modo di dormire si presenta come un adattamento recente alla
nostra vita moderna, e che elimina l’accesso allo stato di coscienza della vigilia.

Nel repertorio degli stati di coscienza dell’uomo moderno manca un tassello: quello della
vigilia.

Quindi, dormendo in questo modo, limitiamo l’accesso all’elaborazione del sogno nella
modalità tipica della vigilia. Esistono però altri modi di esplorare e di integrare i sogni,
che si adattano bene con il nostro modo “moderno” di dormire. Li vedremo nei prossimi
due appuntamenti della rubrica, in cui esploreremo il sogno e il sogno lucido.

Per ricevere un aggiornamento sugli articoli futuri, puoi iscriverti alla newsletter di
essereintegrale.

Bibliografia
Thomas Wehr – In short photoperiods, human sleep is biphasic
Roger Ekirch – Segmented Sleep in Preindustrial Societies
Roger Ekirch – Sleep We Have Lost
Il nobel per gli ingranaggi dell’orologio biologico
Michael Smolensky – The Body Clock Guide to Better Health
Jeff Warren – Dove hai la testa?
William Dement – Il sonno e i suoi segreti

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Il sonno senza sogni [Rubrica Stati di Coscienza]
essereintegrale.com/sonno-senza-sogni

Agostino Famlonga

Questo articolo fa parte della rubrica La straordinaria avventura tra gli stati di
coscienza.

Qui trovi l’introduzione alla rubrica e gli articoli.

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Sonno profondo
Il processo dell’addormentamento è una fase di transizione: passi dalla condizione in cui
sei sveglio in una in cui sei addormentato. Questa fase è stata trattata in modo
approfondito nell’articolo sullo stato ipnagogico, che è appunto il nome di questo stato di
coscienza intermedio.

Conclusa la fase di transizione ipnagogica, come vedi dal grafico qui sotto, non entri
immediatamente nel mondo onirico, ma incontri invece la fase del sonno profondo,
o del sonno senza sogni.

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I sogni propriamente detti emergono dopo, quando risali progressivamente dal sonno
profondo ed entri nello stadio 1 del sonno dove si verifica la fase REM. Come vedi sono
inizialmente brevi, poi si allungano a discapito del sonno profondo.

I cicli e gli stadi del sonno

Nella notte, nei vari cicli di sonno della durata di circa 1 ora e mezza che incontri, c’è
prima un predominio temporale del sonno senza sogni. Poi pian piano questo lascia
più spazio alla fase REM (e quindi allo stato di sogno).

La transizione dalla fase di veglia alla fase del sonno profondo dura generalmente dai
30 ai 40 minuti. In questa fase il cervello chiude progressivamente le porte agli stimoli
sensoriali, riduce al minimo la sua attività ed emette le cosiddette onde lente, chiamate
delta.

Sei sceso nello stadio 3-4 del sonno.

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Cosa accade nel cervello durante il sonno senza sogni
Durante il sonno profondo il cervello “interrompe” l’ingresso
degli stimoli sensoriali. L’elaborazione degli input derivati dai
sensi è ridotta al minimo.

Il talamo è il filtro che scherma questa elaborazione. È la parte


del cervello che ha la funzione, durante il sonno, di sbarrare il Il talamo
flusso di dati verso l’elaborazione da parte della corteccia
cerebrale.

La fase di sonno profondo è anche chiamata sonno ad onda lenta .

Il motivo è che le onde cerebrali in questa fase del sonno hanno una frequenza molto
bassa, di circa 1 a 4 cicli al secondo (Onda delta). È un’attività elettrica a grande
ampiezza e a bassa frequenza.

Frequenze e Onde EEG

4/9
In questa fase le regioni cerebrali specializzate, che normalmente comunicano con le
altre aree per coordinare l’elaborazione cosciente, si isolano le une dalle altre. La
connettività tra le diverse aree del cervello viene limitata.

Non c’è un’interruzione vera e propria come avviene nel talamo verso gli stimoli esteriori.
Potremmo dire che la comunicazione tra le varie aree cerebrali viene inglobata nel
pervasivo pulsare delle onde lente. La comunicazione specializzata viene meno , e i
neuroni che si attivano in questa fase, si attivano in modo isolato dal resto.

L’elaborazione dell’informazione, a differenza dallo stato di veglia, non è integrata in


funzionamento coordinato.

Riposo fisiologico
Durante la fase del sonno profondo avviene una profonda rigenerazione fisica. Per
questo motivo è predominante nella prima parte del sonno.

Questo tratto si è affermato evolutivamente nel genere umano perché, dal punto di vista
della sopravvivenza, è più importante la rigenerazione fisica rispetto alla rigenerazione
psicologica. Quest’ultima infatti inizia ad emergere quando la rigenerazione fisica è stata
sufficiente. Allora la bilancia tra il sonno senza sogni e il sonno con sogni si sposta, fino
ad arrivare, prima del risveglio, ad avere un predominio pressoché totale della fase di
sogno rispetto a quella di sonno profondo.

Il riposo fisico è globale, coinvolge praticamente tutti i meccanismi fisiologici.

La temperatura si abbassa di 1 o 2 gradi. Anche il battito cardiaco rallenta, la


respirazione si fa lenta e circolare. Allo stesso modo si riduce la pressione arteriosa.
Anche il consumo energetico del cervello, che rappresenta una rilevante parte del
nostro dispendio energetico, diminuisce notevolmente rispetto alla condizione di veglia
(fino ad un 20% in meno).

A cosa serve il sonno profondo


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Il sonno senza sogni è una fase di riposo e di rigenerazione, sia per il corpo che per la
mente.

Nelle altre fasi del sonno, il riposo è minimo. Addirittura nel sonno REM l’attività è
equiparabile a quella della veglia dal punto di vista del dispendio energetico.

Nel sonno profondo il sistema immunitario viene rinforzato. Pur funzionando anche
senza dormire, si è riscontrato che una carenza di sonno porta ad un indebolimento
delle funzioni immunitarie.

In questa fase di riposo avviene anche una importante regolazione della temperatura
corporea.

Durante il sonno profondo vengono anche messe in atto delle importanti manutenzioni
del cervello. Vengono riparati i danni neurali causati dai radicali liberi. I radicali liberi
sono sostanze reattive prodotte dal metabolismo durante la veglia che provocano dei
danni alle cellule.

Un’altra manutenzione importante che avviene durante il sonno ad onda lenta è che il
cervello si rifornisce di proteine per potenziare le connessioni sinaptiche importanti,
e rimuove quelle connessioni che non sono più utili. In sostanza mette in atto una
rimozione selettiva dei ricordi e un potenziamento dei ricordi importanti.

L’altra funzione importantissima del sonno profondo è quella del rilascio dell’ormone
della crescita. In questa fase il cortisolo (un ormone collegato allo stress) è ridotto al
minimo. L’ormone della crescita permette al corpo di crescere, innesca la rigenerazione
dei tessuti danneggiati e permette di potenziare il sistema immunitario.

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Uno stato di coscienza senza un io
Questa fase viene generalmente vissuta come un balck-out della consapevolezza ,
un’interruzione, un’assenza. La riconosci quando ne esci fuori, per contrasto rispetto alla
fase di veglia. Ora ci sei, sei consapevole di te e dell’ambiente in cui sei immerso. Nel
sonno senza sogni non c’è alcun contenuto, e nemmeno la consapevolezza di te
stesso.

Il sonno profondo è uno stato di coscienza in cui l’identificazione con ciò che chiami te
stesso viene meno. I confini dell’io vengono dissolti, e ti trovi in una condizione di
incoscienza, o di inconsapevolezza.

Uscendo fuori dalla condizione di sonno profondo, riemerge l’identificazione con il tuo
corpo, con la tua mente, con le tue emozioni.

Questa è la condizione ordinaria dell’essere umano. Ma deve essere così per forza?

La risposta è no. Semplicemente questa interruzione dipende da dove risiede il tuo senso
di identità.

Essere senza forma


Fintanto che sei identificato con il tuo corpo, con la tua mente e con le tue emozioni,
quando l’elaborazione di questi dati viene meno, viene meno anche la tua identità .
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Quando queste identificazioni vengono integrate, il legame con il corpo, con la mente e
le emozioni si scioglie, il tuo senso di identità si sposta.

Non sei più identificato con i contenuti della coscienza, ma con la coscienza stessa, il
contenitore.

Ecco allora che quello che chiami “te stesso”, il senso di te, diviene ciò che contiene i
contenuti di coscienza. Non più qualcosa di limitato e definito, come il corpo, la mente e
le emozioni, ma “qualcosa” di illimitato e indefinito. (Qualcosa è messo tra virgolette
perché non è qualcosa di definibile, è semplicemente l’essere che sei, è l’essenza di
tutto ciò che è, che rappresenta la tua natura ultima.)

Quando il centro di gravità della tua identificazione si sposta qui ecco che, anche nel
sonno profondo, non perdi il senso di essere te stesso.

Semplicemente la consapevolezza risiede in sé stessa.

Per approfondire » Gli stadi della meditazione

Se hai accesso in modo continuo al dominio causale, ciò che causa gli altri domini (fisico
ed energetico), allora non c’è blackout, non c’è interruzione nella consapevolezza. Tu
sei questo, e quando dormi, non perdi la continuità di ciò che sei.

Attraversi coscientemente tutte le fasi del sonno: l’addormentamento, il sonno profondo


e anche i sogni, come vedremo con i prossimi articoli.

Il sonno profondo comunque non scompare, resta una fase di rigenerazione fisica
importante, ma viene integrato in una continuità di presenza consapevole.

Per questo motivo i saggi delle antiche tradizioni dicevano:

ciò che non è presente nel sonno senza sogni, non è la tua natura.

Riconoscevano la propria natura in questo dominio, in cui non c’è nulla.

E’ il puro Sé trascendente che è consapevole di tutti gli stati, il testimone , il puro


vuoto inqualificabile, ed è questo vuoto che diviene uno con tutti i domini nello stato che
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ne consegue.

Questo stadio nella progressione tra gli stadi degli stati di coscienza è la porta di accesso a
quello non duale, che integra questa identità trascendente in tutti gli altri gli altri stati e
domini in un abbraccio unitario.

Bibliografia

Jeff Warren – Dove hai la testa


Bear M.F – Neuroscienze. Esplorando il cervello
William C. Dement – Il sonno e i suoi segreti.

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newsletter gratuita di Essere Integrale.

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Lo stato di coscienza ipnagogico [Rubrica stati di
coscienza]
essereintegrale.com/ipnagogico-stati-coscienza-rubrica

Agostino Famlonga

Ogni sera ti addormenti, e ogni mattina ti svegli. Lo chiami semplicemente “dormire”.

Lo fai ogni notte, o almeno, dovresti farlo. È talmente naturale che lo dai per scontato.
Accade. Ė naturale e spontaneo.

Il dormire non lo vedi come un’azione. Anzi, generalmente lo vedi proprio come l’assenza
totale di azione. Il riposo per eccellenza, dove non fai nient’altro che abbandonarti alle
braccia di Morfeo.

E da un certo punto di vista è proprio così. Ma da un altro punta di vista, no.

Il sonno ha molti segreti da esplorare, e li vedremo nel dettaglio.

Accadono in una notte di sonno molte più cose di quel che si crede.

Ogni notte viaggi attraverso una serie di stati di coscienza diversi. La ruota degli stati di
coscienza gira e ti fa esplorare una serie di territori

Questo avviene spontaneamente, che tu ne sia consapevole o meno. Per questo è vero
che non c’è altro da fare che lasciare che accada.

Ma lasciare che accada e cadere nell’oblio significa lasciarsi scappare l’opportunità di


esplorare consapevolmente questi territori della coscienza.

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Quindi, in questo non fare nulla e lasciare che accada, ci sarebbe in realtà un’azione
interiore da compiere: restare consapevoli. O almeno provarci.

Il nostro viaggio attraverso i 12 stati di coscienza inizia esplorando proprio il mondo


notturno, affrontando lo stato ipnagogico, che è quel particolare stato di coscienza di
transizione tra la condizione di veglia e quella di sonno.

Generalmente questa transizione viene vissuta in modo inconsapevole. Spegni


l’interruttore della consapevolezza e lasci che il sonno faccia il suo corso.
Quando è vissuto in questo modo nella transizione c’è un’interruzione della continuità
della consapevolezza. C’è uno scivolare nell’oblio, intenso come dimenticanza di sé.

Uno scopo della pratica di consapevolezza è quello di stabilizzare la consapevolezza di sé.


Cioè restare consapevoli nelle condizioni di transizione di stato

Da leggere: l’introduzione alla rubrica » La straordinaria avventura negli stati di


coscienza

I molteplici aspetti del sonno


Prima di affrontare lo stato ipnagogico vero e proprio vediamo brevemente cosa
succede durante il sonno.

Il sonno non è uno solo . Nelle ore in cui dormi accadono una serie di cambiamenti
significativi negli stati di coscienza. Questi cambiamenti si alternano in modo ciclico.

Ti ho fatto un grafico per semplificarti la comprensione di ciò che accade.

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I cicli e gli stadi del sonno

Innanzitutto come vedi ci sono diversi gradi di profondità del sonno. Dal sonno
leggero, stadio 1, al sonno più profondo, che è chiamato stadio 4. Non ti serve conoscere
i dettagli dei 4 stadi, ti basta sapere che lo stadio 1 è un sonno leggero, e lo stadio 4 è il
sonno profondo.

Come vedi

appena ti addormenti precipiti direttamente nel sonno profondo.

In questo stadio l’attività cerebrale è minima, e il recupero fisiologico è massimo . La


priorità del sonno in questa fase è quella di riposare fisicamente.

Trascorso un periodo di tempo in questa fase lentamente risali verso un sonno più
leggero ed entri nel sonno REM, segnato in rosso nel grafico. Certamente hai già sentito
questo acronimo, che sta per Rapid Eye Moviment (significa: rapidi movimenti oculari). È
lo stadio del sonno in cui avvengono i sogni. Generalmente l’attività muscolare del
corpo è inibita, tranne quella degli occhi, che seguono il movimento di ciò che accade nel
sogno.

L’attività cerebrale in questa fase è molto simile alla veglia. La priorità non è riposare, ma
quella di integrare e consolidare le impressioni accumulate durante la veglia.(Lo
vedremo meglio quando tratteremo il sogno in questa rubrica).
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Il primo sogno dura poco, dieci-quindici minuti, poi il sonno ritorna ad una fase più
profonda, ritorna cioè allo stadio 4.

Dopo 15-20 minuti risale nuovamente nel sonno REM. Come vedi questa volta il sogno
dura di più rispetto al primo ciclo.

I cicli si susseguono, ma come puoi vedere dal grafico cambia ogni volta la durata di ogni
fase e la profondità del sonno.

Ogni ciclo di sonno ha una durata ben precisa: dura un’ora e mezza. All’interno di
questa ora e mezza le durate dei singoli stadi sono variabili.

Il primo ciclo ha un sonno profondo importante e un sogno breve. Ogni ciclo che segue
le priorità si invertono, il sonno va sempre meno in profondità e la durata del sogno
aumenta progressivamente.

Ogni notte attraversi una serie di questi cicli. Quanti? Dipende da quanto dormi. Se
dormi 8 ore come nel grafico ne attraversi 5, se dormi di più ne attraversi di più, in
proporzione.

Se ti svegli in modo spontaneo ti sveglierai nella fase appena seguente il sonno


REM. Non accade cioè di svegliarsi spontaneamente allo stadio di sonno profondo
(stadio 4).

Prova a dividere le tue ore di sonno per un’ora e mezza e vedrai che otterrai numeri
interi – se non ti svegli con la sveglia – che ti dicono quanti cicli di sonno hai passato
durante la notte.

L’addormentamento
La fase di addormentamento è simile a un tramonto: è un processo che ha una durata
temporale, in cui puoi certamente dire “il sole è tramontato quando è sotto l’orizzonte”,
ma la luce continua ad esserci anche dopo, in varie sfumature di intensità. Lo stesso è
per l’addormentamento.

Non esiste un interruttore ON-OFF: ora sono sveglio – ora sto dormendo. Si tratta di un
continuum, in cui si susseguono varie sottofasi. Varie gradazioni di luminosità, come nel
tramonto.

Innanzitutto, quanto dura? La durata è molto soggettiva, indicativamente dai due ai


trenta minuti.

In questa transizione il cervello passa attraverso un cambio di attività significativo:


chiude progressivamente le porte agli ingressi sensoriali.

Il talamo è la parte cerebrale che “interrompe” gli stimoli ambientali.

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Il talamo chiude le porte sensoriali e la mente si orienta verso gli stimoli interni. Quando
accade questo, sei ufficialmente addormentato.

Tramite un elettroencefalogramma questo è rilevabile in modo netto, perché questa


transizione è visibile tramite i fusi del sonno e i complessi K.

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I fusi del sonno e i complessi K sono particolari registrazioni che evidenziano che il
talamo ha chiuso gli ingressi sensoriali verso il mondo esterno.

Come vedi dall’immagine questo accade solamente nello stadio 2.

Nell’addormentamento attraversi lo stadio 1 del sonno , con una serie di sottofasi:

Stato alfa
Appiattimento delle onde alfa
Onde theta

Questo è ciò che accade dal punto di vista cerebrale. Non ci interessa entrare nel
dettaglio di ogni sottofase, ci interessa di più spostare l’attenzione a quello che accade a
livello interiore.

Da leggere: Stati di coscienza

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Lo stato di coscienza ipnagogico
Quando ti addormenti entri nello stato di coscienza ipnagogico.

Questo termine ha origini greche, e significa appunto hypnos (sonno) e agogos(che


porta a). Lo stato ipnagogico è appunto quello stato di coscienza che porta al sonno

È uno stato di coscienza particolare, ricco di sfumature e di opportunità da cogliere.

Durante questo stato si verifica una leggera condizione allucinatoria.

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Le ultime ricerche sul sonno associano questi fenomeni al sonno REM, la parte del sonno
in cui si sogna. Sostengono cioè che lo stato ipnagogico non sia uno stato di coscienza a
sé stante, ma che sia semplicemente un sonno REM “sotto copertura” (REM covert). Un
sogno semi-cosciente, o semi-lucido, spontaneo

Divenire consapevoli del contenuto di questo stato di coscienza si rivela utilissimo,


perché >essendo uno stato di transizione si rivela altamente permeabile.

Lo stato di sogno può incontrare quello di veglia e fecondarlo con idee brillanti, intuizioni
e comprensioni inedite.

Nella storia dell’essere umano molti artisti e inventori hanno usato intenzionalmente
questo stato di transizione per cogliere idee brillanti e creazioni innovative.

Come abbiamo visto prima lo stato ipnagogico è composto da varie sottofasi. Gli studi
sull’EEG ci rivelano cosa accade da una prospettiva oggettiva, in terza persona.

Vediamo ora cosa accade dal punto di vista soggettivo, ovvero cosa ti succede mentre
ti addormenti.

Le sottofasi dello stadio di coscienza ipnagogico


Lo stato ipnagogico, dal punto di vista soggettivo, si può scomporre in 4 stadi distinti. Ad
ogni passaggio di fase c’è un aumento progressivo del rilassamento fisico e del
rilassamento mentale.

1. Lampi di luce e di colore


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2. Attività immaginativa associata a distorsioni nello schema corporeo
3. Fenomeni autosimbolici
4. Sogni ipnagogici

Pur essendo ogni fase ben distinta dalle altre, anche in questo caso non esiste un
interruttore acceso-spento tra una fase e l’altra, esiste una continuità. Uno stadio sfuma
in quello seguente.

Vediamole nel dettaglio.

La prima fase ipnagogica: Lampi di luce e di colore


Durante la prima fase dell’addormentamento, dal punto di vista soggettivo, appaiono
dei lampi di luce e di colore. Sono macchie indistinte di luce colorata che si muovono,
anticipando i movimenti oculari.

Questo fenomeno è chiamato luce ideoretinica.

Chiudendo le palpebre si crea un campo sensoriale visivo omogeneo e privo di


variazioni. Su questa “tela neutra” divengono evidenti le variazioni di fondo.

Similmente al rumore bianco di un televisore non sintonizzato, appaiono questi


fenomeni luminosi, con intensità variabile. Alcune persone li percepiscono in modo più
intenso, altri in modo molto più flebile.

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La seconda fase ipnagogica: Attività immaginativa associata a
distorsioni nello schema corporeo
Man mano che il rilassamento aumenta, il modo in cui soggettivamente si percepisce il
proprio corpo inizia ad alterarsi. Lo schema corporeo viene modificato, e a questo si
associa un incremento dell’attività immaginativa.

Questo accoppiamento crea soggettivamente fenomeni caratteristici: si possono sentire


suoni amplificati, la sensazione di galleggiare o di andare alla deriva, sensazioni tattili,
sensazioni di espansione… ogni canale sensoriale può essere veicolo di questo tipo di
distorsione, ma principalmente emergono dal canale visivo.

Si tratta di una combinazione di sensazioni fisiche alterate e di immagini visive


statiche. Possono emergere immagini fisse di facce, figure, oggetti o scene particolari.

Tra un’immagine e l’altra potrebbe esserci un qualche tipo di associazione, in una sorta
di catena associativa. Ma non sempre è così, a volte le immagini sono
completamente scollegate tra di loro.

Un vissuto che spesso si verifica in questa fase è la sensazione di cadere nel vuoto. Se
l’esperienza è resistita può divenire un vissuto ansiogeno e portare ad un brusco
risveglio, con un improvviso scatto muscolare. Questa è chiamata contrazione
mioclonica, ed è generata dal tronco encefalico (la parte più primitiva del nostro cervello),
e ha lo scopo di rilasciare la tensione muscolare accumulata. Probabilmente ti è già
capitato di provare questa sensazione.

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La terza fase ipnagogica: Fenomeni autosimbolici
Superata la fase immaginativa lo stato ipnagogico sfocia in una fase in cui il pensiero si
presenta in una forma più “primitiva”. Il rilassamento mentale aumenta, e si allentano
le configurazioni classiche di pensiero, indebolite dal bisogno di dormire.

Inizia la transizione di fase in cui il pensiero logico, razionale e lineare tipico della veglia
tende ad allentarsi, lasciando spazio a forme di pensiero più arcaiche.

I fenomeni autosimbolici sono composti da immagini ipnagogiche che si rivelano come


rappresentazioni simboliche inerenti la vita della persona.

Ad esempio, la preoccupazione per un esame potrebbe in questa fase manifestarsi come


una immagine in cui ti vedi correre su un’auto senza il volante verso un posto di blocco,
senza aver la possibilità di fermarti o di controllare la direzione della macchina.

Se pensi che devi compiere un’azione, questa si manifesta in forma simbolica,


associativa.

Hai intenzione di comunicare qualcosa a una persona perché sei preoccupato per lei,
potrebbe emergere un’immagine in cui ti vedi mentre attraversi un ponte con un pacco
in mano.

Il principio che compone i fenomeni autosimbolici è associativo e simbolico. Le forme


assunte da questi contenuti sono le più svariate e fantasiose.

Proprio in questa fase di contatto tra il sogno e la veglia, dove si allentano le redini del
pensiero logico razionale, può emergere nella sua piena espressione la creatività non
lineare.

Lo vediamo meglio dopo.

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La quarta fase ipnagogica: I sogni ipnagogici
Come hai visto nel grafico dei cicli del sonno, nella fase di addormentamento si scende
direttamente nello stadio 4, si scivola cioè nel sonno profondo. Non si attraversa cioè
una fase REM vera e propria. Eppure emergono, nella quarta fase dello stadio
ipnagogico, dei fenomeni molto simili al sogno. Sono chiamati appunto sogni
ipnagogici.

Sono una continuazione e un’intensificazione dei fenomeni autosimbolici della terza fase.
Sono caratterizzati da una maggiore staticità.

Il sogno ordinario è dinamico, c’è del movimento, “una storia” che si articola, mentre
in questa fase le impressioni sono tendenzialmente più statiche, anche se questo
non è un principio assoluto.

Qualche ricercatore sostiene i sogni ipnagogici sono del tutto sovrapponibili al sogno
ordinario.

La cosa che certamente li differenzia è che, essendo questo tipo di sogno fatto in una
fase di transizione di stato, è presente in modo del tutto naturale una certa dose di
consapevolezza, che rende facilmente questo sogno “lucido”, o quantomeno “semi-
lucido”.

Un sogno lucido è un sogno in cui sei consapevole di stare sognando.

Nella fase di addormentamento è certamente più facile accedere a questa esperienza,


seppur brevemente perché si scivola in poco tempo nel sonno profondo. Riuscire a farlo
in questa fase favorisce certamente l’emergere del sogno lucido nelle fasi del sonno REM.

Lo stato ipnagogico è una “palestra” in cui allenare la capacità di sognare


lucidamente, cioè di mantenere la condizione di vigilanza consapevole anche nello stato
di sogno.

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Lo stato ipnagogico e la creatività
Molti artisti, scrittori e scienziati hanno fatto uso della condizione “alterata” dello stato
ipnagogico per immettere carburante innovativo alle loro creazioni.
Dickens, Goethe, Brahms, Poe, Twain, Klee, Stevenson, Wagner, Edison, Dalì e molti altri
hanno usato in modo esplicito l’ipnagogico per creare le loro opere.

Lo stato ipnagogico, nella terza e nella quarta fase, favorisce l’ innovazione creativa.

Proprio perché l’elaborazione cognitiva scivola in uno stato associativo e simbolico,


non è più limitata dai sistemi di riferimento convenzionali.

Come direbbe Kuhn, si esce fuori da quello che è il paradigma consolidato entro cui
si elaborano le informazioni. Emergono in modo spontaneo le idee più improbabili,
completamente irrazionali, innovative.

Sono, dal punto di vista della teoria della complessità, novità emergenti. Sono
innovazioni qualitative rispetto allo status convenzionale. Emergono quando una
massa critica di informazioni viene integrata in una sintesi innovativa.

Nella fase autosimbolica dello stato ipnagogico, nelle immagini che emergono c’è una
miscela sinestetica dei vari canali sensoriali e cognitivi. Possono emergere immagini
collegate a idee, formule matematiche associate a suoni, concetti combinati con
emozioni e con esperienze di pura fantasia… questo “mescolamento” è un terreno fertile
per il pensiero creativo.

Il principio sintetico e simbolico è lo stesso del sogno, ma nello stato di


addormentamento è più facile cogliere queste creazioni perché c’è una traccia di
consapevolezza legata allo stato di veglia che si trascina nella transizione.

Un grande inventore è famoso per aver sfruttato questa condizione per creare: Thomas
Edison.

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Si dice che Edison dormisse pochissimo, ma che faceva molti sonnellini durante il giorno.
Quando si trovava di fronte ad un problema che non riusciva a risolvere, si metteva in
poltrona e faceva un sonnellino, tenendo vicino a sé il suo blocco degli appunti e
tenendo nelle mani due palline di acciaio.

Scivolando nel sonno le mani gli si aprivano, facendo cadere le palle di acciaio su due
piatti messi esattamente di fianco alla sua poltrona, sotto la verticale delle mani.
Cadendo sui piatti, le palle di acciaio facevano un rumore tale da svegliare Edison
proprio nella transizione di fase tra la veglia e il sonno.

Destandosi in questa fase, poteva cogliere tutte le idee creative e associative dello
stato ipnagogico. Molte delle sue brillanti idee sono sono state colte proprio in questo
modo.

Come usare lo stato ipnagogico per il problem solving


Anche tu puoi sfruttare questo stato di transizione per essere più creativo. Forse non
inventerai la nuova lampadina, ma certamente puoi fare un salto innovativo personale
uscendo fuori dai tuoi schemi di ragionamento convenzionali.

Puoi usare questo metodo facendo un pisolino pomeridiano oppure nella fase di
addormentamento serale.

1. Prima di addormentarti impegnati attivamente sul problema che vuoi risolvere.


Cerca di impregnare la mente di idee e di informazioni che riguardano il
soggetto su cui vuoi portare l’attenzione. Leggi, studia, pensaci. Il tempo di
questa fase è soggettivo, mezz’ora potrebbe essere sufficiente.
2. Posiziona accanto al letto un block notes per prendere al volo le idee che coglierai.
3. Punta un timer a 20 minuti.
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4. Rilassa il corpo e la mente e scivola nel sonno restando consapevole.
Attraverserai le fasi dello stato ipnagogico, resta consapevole dei cambi di fase.
Quando sei nella fase autosimbolica, cogli tutte le associazioni e le idee
creative.
5. Svegliati e scrivi immediatamente tutte le idee e le associazioni. Scrivi tutti i
dettagli, senza cercare di elaborarli, giudicarli o analizzarli. In questa fase è
importante fissare i dettagli prima che svaniscano. Ti concentrerai sull’analisi in
una fase seguente.
6. Se ti sei addormentato ti sveglierai con il timer. Registra immediatamente tutto
quello che ricordi, senza elaborarlo o analizzarlo.
7. Riesamina quello che hai scritto, cercando spunti creativi e innovativi. Forse i
contenuti non sembrano direttamente connessi al problema. Cerca le connessioni,
trova i significati, analizza e scava nei contenuti.

Restare consapevoli durante l’addormentamento


Oltre alla stato di veglia, lo stato ipnagogico è il primo stato di coscienza da
conquistare per stabilizzare la consapevolezza di sé attraverso gli stati di
coscienza. Proprio per questo motivo la rubrica che stai leggendo parte da qui.

Stabilizzare la consapevolezza di sé vuol dire restare consapevoli durante i


cambiamenti di stato. Riuscendo a farlo, stabilizzi il mozzo della ruota degli stati.

Ogni stato di coscienza può ricondurti a te, individuo consapevole dello stato .
Quando, nel mezzo di uno stato di coscienza, divieni consapevole di “chi” lo esperisce,
stai uscendo fuori dal contenuto di quello stato particolare, facendo un passo verso la
transizione di fase successiva.

Per questo motivo ti invito ad impegnarti nel superare questo primo passaggio, cioè ti
invito a provare a restare consapevole mentre ti addormenti invece di scivolare
nell’oblio.

All’inizio può sembrarti uno sforzo innaturale, ma ti garantisco che con il tempo diventa
del tutto naturale e divertente. E soprattutto ne ricaverai moltissimi stimoli
creativi.
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Puoi condividere nei commenti qui sotto la tua esperienza o le intuizioni che hai
ricavato esplorando questo affascinante stato di coscienza.

Bibliografia

Jeff Warren – Dove hai la testa?


Andreas Mavromantis – Hypnagogia: The Unique State of Consciousness Between Wakefulness
and Sleep

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La straordinaria avventura negli stati di coscienza
[Rubrica]
essereintegrale.com/avventura-stati-di-coscienza-rubrica

Agostino Famlonga

Inizia con questo articolo una serie di approfondimenti legati agli stati di coscienza. Una
rubrica periodica in cui avremo modo di conoscere l’enorme varietà di stati di coscienza
che possiamo vivere. Sono molti di più di quel pensiamo. Impareremo a riconoscerli, a
distinguerli e a sfruttarli per la nostra evoluzione.

Stati di coscienza naturali


La nostra esperienza soggettiva è un flusso continuo , ma non è sempre uguale a sé.
Il modo in cui la coscienza elabora le informazioni cambia continuamente
all’interno del flusso ininterrotto dell’esperienza. Non siamo abituati però a distinguere e
riconoscere i cambiamenti di stato che viviamo quotidianamente.

L’esperienza ordinaria è legata alla condizione di veglia, con una consapevolezza


intermittente al suo interno. La notte ci addormentiamo e sogniamo. A volte ci
ricordiamo dei sogni fatti, a volte cadiamo semplicemente nell’oblio (inconsapevolezza) e
ci risvegliamo il mattino seguente. Questa è la condizione ordinaria, in cui possiamo già
riconoscere tre stati di coscienza fondamentali. La veglia, il sogno, e il sonno senza
sogni.

Lo stato di veglia è quello in cui ti trovi adesso, nel leggere questo articolo sul tuo
computer o smartphone.

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La notte quando ti addormenti vivi alternativamente due grossi stati di coscienza, diversi
tra di loro.

Lo stato di sonno senza sogni è generalmente associato all’oblio: ti addormenti e perdi


la cognizione del tempo, dello spazio e del corpo fisico.

Lo stato di sogno è quella condizione per cui durante il sonno ti trovi a vagare in un
mondo mentale in cui prendono vita le fantasie più disparate.

Questi due grossi stati si alternano tra di loro per tutta la notte, con una ciclicità che
vedremo meglio quando li affronteremo nello specifico.

Questi tre stati di coscienza sono detti stati naturali, o ordinari. Tutti li attraversiamo
quotidianamente, fin da quando siamo nati. Anche un neonato ciclicamente attraversa la
veglia, il sogno e il sonno senza sogni, seppur con ritmi e tempi molto diversi rispetto a
quelle degli adulti.

Cos’è uno stato di coscienza


Cerchiamo ora capire cos’è uno stato di coscienza e di dare una definizione che includa
tutti e tre. Abbiamo visto che si alternano tra di loro e che questa alternanza determina
un cambiamento nella nostra esperienza soggettiva. Proprio questo ci permette di
definire uno stato di coscienza: è una configurazione temporanea del modo in cui la
coscienza elabora le informazioni. Continuamente la coscienza si trova ad elaborare
delle informazioni. Il modo in cui lo fa determina lo stato di coscienza in cui ci troviamo.

Uno stato di coscienza è una configurazione temporanea del modo in cui la #coscienza
elabora le informazioni.

A sua volta lo stato di coscienza determina il contenuto della coscienza.

Se sono sveglio nella mia coscienza appariranno sedie, tavoli, monitor, automobili. Tutto
quello che è legato all’universo fisico, concreto.

Se sto sognando all’interno della coscienza potrebbe apparire un drago o un unicorno.

Se sono nel sonno senza sogni la coscienza giace in sé stessa nella vastità spaziosa priva
di contenuti.

Vedremo tutto questo in dettaglio nei vari episodi. Quello che mi interessa farti
comprendere ora sono questi tre punti:

in ogni stato di coscienza c’è un cambiamento significativo nel modo in cui la


coscienza elabora l’informazione.
questo modo determina il contenuto della coscienza.
uno stato di coscienza è transitorio . Emerge, perdura per un certo lasso di
tempo, poi ne emerge un altro. [nb questo punto si applica gli stati ordinari].
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Tanti altri stati di coscienza
I tre stati di coscienza naturali sono solo una parte della gamma degli stati che l’essere
umano può sperimentare.

Innanzitutto ci sono le transizioni di fase: il passaggio da uno stato all’altro non è netto e
definito, come se esistesse un interruttore. Ora sono sveglio, adesso dormo. Non accade
così alla coscienza, che si muove su un continuum molto fluido.

Ci sono una serie di stati intermedi che sono anch’essi degli stati di coscienza specifici
e definiti. Sono le transizioni di fase tra i tre stati naturali. E hanno una
configurazione diversa a seconda se il cambiamento di stato va in un verso o nell’altro.

Ovvero se stai passando dalla veglia al sonno avrai uno stato specifico. Se invece stai
emergendo dal sonno nella veglia, lo stato è diverso.

Semplicemente introducendo questa discriminazione abbiamo già ampliato la gamma


degli stati di coscienza da discriminare.

Oltre a questi ci sono gli stati di coscienza non ordinari, che sono ottenuti tramite un
qualche tipo di pratica che agisce sulla coscienza, come ad esempio lo stato di trance
ipnotico, oppure tramite l’uso di sostanze enteogene.

Ci sono poi gli stati di coscienza meditativi, che hanno una progressione ben definita,
si sviluppano cioè in stadi progressivi.

La pratica meditativa permette di rendere stabili gli stati di coscienza. Cioè quello che
è uno stato di coscienza (transitorio) si tramuta in stadio di coscienza (permanente).
Questa progressione è definita stadi degli stati per distinguerla dalla progressione degli
stadi delle strutture di coscienza.

La struttura di coscienza è la complessità con cui l’informazione viene elaborata .


Anche la complessità determina, assieme allo stato di coscienza, il contenuto della
coscienza.

Lo stato di coscienza e la struttura di coscienza determinano il contenuto.

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Partendo da tre semplici condizioni naturali abbiamo ampliato notevolmente lo spettro
degli stati di coscienza a nostra disposizione.

Tutti questi aspetti vengono spiegati nel dettaglio nell’ebook gratuito Sistema
Operativo non-duale.

Inserisci i tuoi dati nei campi qui sotto per scaricarlo subito [icon name=”level-down”
class=”” unprefixed_class=””]

La ruota degli stati di coscienza


Ecco la ruota degli stati di coscienza che ci accompagnerà in questa avventura. È divisa in
12 settori, perché 12 saranno gli stati di coscienza che approfondiremo. Ogni settore
è uno stato specifico, ben distinto dagli altri.

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L’idea mi è venuta prendendo spunto dal libro di Jeff Warren Dove hai la testa? Ho
adattato la ruota della coscienza da lui proposta al Sistema Operativo non-duale di
Essere Integrale.

Trovo questa rappresentazione grafica bella e funzionale.

Abbiamo 12 settori per 12 stati di coscienza.

I primi sei sono legati al mondo notturno.

1. L’ipnagogico, ovvero la transizione dalla veglia al sonno


2. Il sonno senza sogni
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3. La vigilia, una fase del sonno polifasico
4. Il sogno
5. Il sogno lucido
6. Le parasonnie, ovvero le anomalie nel sonno tradizionale

Gli altri sei sono legati al giorno, sono varianti dello stato di veglia.

1. L’ipnopompico, ovvero la transizione tra il sonno e la veglia


2. Il trance
3. Il sogno ad occhi aperti
4. L’SMR, ovvero il Ritmo SensoMotorio
5. La zona di flusso
6. Lo stato non-duale

In periferia vedi la circonferenza della ruota con delle increspature, diverse da un settore
all’altro. Queste sono delle rappresentazioni di massima del tracciato di un
elettroencefalogramma nello stato di coscienza corrispondente.

L’elettroecefalogramma è uno strumento di misura dell’attività della cervello. Ad ogni


stato di coscienza è associato un modo di elaborazione dell’informazione nel nostro
cervello, e viceversa. L’interazione è sempre bidirezionale.

Questa interazione bidirezionale è rilevabile con strumenti di vario tipo.


L’elettroencefalografia è il modo di analizzare il funzionamento che ha la più ampia
tradizione storica, sia per i suoi costi che per la sua semplicità di applicazione. Troverai
quindi spesso dei riferimenti a questi tipi di studio.

Nella rubrica affronteremo quindi l’analisi degli stati di coscienza sia dal punto di vista
interiore (cosa accade soggettivamente quando ti trovi in quello stato) che dal punto di
vista esteriore (cosa accade al corpo e al cervello mentre ti trovi in quello stato).
L’approccio è integrale, impiega cioè una serie diverse di metodologie e di punti di
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vista.

Da leggere » Stati di coscienza in 4 dimensioni

La consapevolezza
Se in periferia della ruota si trovano gli stati di coscienza, cosa si trova al centro? Al
centro ci sei tu, individuo consapevole dello stato di coscienza in cui ti trovi.
La rappresentazione grafica come ruota degli stati di coscienza è utile anche
simbolicamente perché ti riporta sempre al centro dello stato, all’individualità
consapevole che sei.

Al centro di ogni stato di coscienza ci sei tu, individuo consapevole dello stato.

Usiamo il cambiamento degli stati di coscienza, la periferia, per ricondurci a noi, per
essere consapevoli, al di là dello stato in cui ci troviamo. Esiste un “centro” che non
varia in ogni stato di coscienza. Sei tu.

Il fine dello studio degli stati di coscienza è proprio questo: portare consapevolezza
negli gli stati, anche quelli che apparentemente dovrebbero esserne privi.

Studiarli è il primo passo.

Imparare a riconoscerli è il secondo.

Il terzo è essere consapevoli al loro interno e stabilizzare la consapevolezza nel


cambiamento di stato, in quella progressione che abbiamo chiamato stadi degli stati.

Tutta questa avventura interiore per stabilizzare il centro della ruota degli stati di
coscienza, per rendere il fulcro della ruota sempre presente, indipendentemente da
quello che accade in periferia.

La fine del viaggio tra gli stati di coscienza è l’unione consapevole con tutto ciò che
emerge in ogni stato di coscienza.

La fine del viaggio tra gli stati di coscienza è l’unione consapevole con tutto ciò che
emerge in ogni stato.

Da leggere » Coscienza e consapevolezza, qual è la differenza?

Il punto di partenza
In questa straordinaria avventura negli stati di coscienza serve un punto di partenza
comune. Sebbene ognuno di noi abbia avuto nella sua vita esperienze di stati di
coscienza più o meno profondi, serve partire dalla condizione ordinaria.

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Partiremo dalla condizione in cui la persona è in grado di divenire consapevole di sé
solo nello stato di veglia, e con una consapevolezza intermittente. È la condizione a
cui giungiamo in modo spontaneo senza fare nulla di mirato nel campo della ricerca
interiore. Un adulto matura interiormente in modo naturale fino a questo punto.

Durante il giorno se vuole può rivolgere l’attenzione a sé, ma questa attenzione non è
sostenuta, dopo un po’ decade. L’attenzione viene carpita rapidamente dagli stimoli
sensoriali.

Di notte si addormenta, e decade la capacità di restare consapevoli di sé. Cade cioè


nell’inconsapevolezza.

Durante il sonno accade di sognare, e al risveglio capita di ricordare sporadicamente


alcuni sogni, ma non tutti. Il ricordo dei sogni sbiadisce velocemente , o è del tutto
assente.

Se ti riconosci in questa condizione, sappi che è del tutto normale. Normale non significa
che debba essere così per forza. Se decidi di partire per questa avventura negli stati di
coscienza imparerai ad ampliare la gamma di stati di coscienza in cui essere
consapevole. Trasformerai questa condizione normale e ordinaria in qualcosa di
diverso, che diventerà la tua normalità.

Se il tuo punto di partenza è diverso, cioè se hai una condizione interiore che ti permette
di mantenere la consapevolezza in più stati di coscienza, buon per te, è un bagaglio di
esperienza che ti verrà utile nell’integrare gli stati di coscienza che ancora ti mancano
per stabilizzare la consapevolezza.

In un caso o nell’altro, benvenuto a bordo in questa straordinaria avventura negli stati di


coscienza.

Per non perdere le prossime puntate di questa rubrica ti consiglio di iscriverti alla
newsletter gratuita di Essere Integrale.

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Stati di coscienza in 4 dimensioni
essereintegrale.com/stati-di-coscienza-in-4-dimensioni

Agostino Famlonga

Gli stati di coscienza sono un campo di studio complesso e affascinante, che suscita
spontaneamente interesse nella maggior parte delle persone. Tutti sperimentiamo nella
quotidianità dei naturali cambi di stato.

La notte dormi e sogni. La mattina ti svegli, ti alzi dal letto e fai quello che vuoi. Queste
due modalità di interagire con la realtà sono diverse. Che cosa cambia da una situazione
all’altra? Il tuo stato di coscienza. Apparentemente questo sembra essere un fatto
privato, appartenere alla sfera individuale, personale. Eppure questo fenomeno
coinvolge tutte le dimensioni. Vediamo come.

Uno stato è transitorio


Innanzitutto, che cos’è uno stato di coscienza? Uno stato di coscienza è una
configurazione della modalità di elaborazione dell’informazione. L’essere umano
elabora le informazioni in modo molto differente, a seconda dello stato di coscienza nel
quale si trova.

Uno stato di coscienza è per definizione transitorio: emerge, perdura per un


determinato periodo di tempo, poi scompare e ne appare un altro.

Questa loro caratteristica li differenzia dagli stadi di coscienza, che invece perdurano
nel tempo e seguono una progressione di sviluppo.

1/5
Quanti sono gli stati di coscienza?
Tutti conosciamo lo stato di veglia, in cui siamo vigili e svegli.

Tutti abbiamo, in misura diversa, accesso allo stato di sogno. C’è chi li ricorda tutti, chi
ne conserva solo un vago ricordo, e chi sostiene di non sognare affatto. In realtà tutti
sogniamo la notte quando ci addormentiamo, anche se a volte la consapevolezza
del sogno è talmente labile da sfuggire al ricordo cosciente.

Non tutta la notte la passiamo sognando. Lo stato di sogno si alterna a quello di sonno
profondo, in cui l’attività cerebrale si riduce al minimo.

Da leggere: stati di coscienza

2D: interiore-esteriore
Il cambio di stato è l’aspetto che riguarda la sfera personale, individuale. È la tua
esperienza soggettiva che cambia. Un osservatore esterno vede il tuo corpo che
dorme. Non ha accesso alla tua interiorità. Eppure qualcosa cambia anche a livello
esteriore quando tu cambi il tuo stato di coscienza.

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Quando sogni i tuoi occhi iniziano a muoversi
rapidamente. Se chi ti guarda da fuori vede
questo segnale, sa che tu stai sognando, anche
se non può sapere cosa. Potrebbe con degli
appositi strumenti vedere come la tua attività
cerebrale elabora il sogno.

Quando il sogno cessa e entri nel sonno senza


sogni, i movimenti oculari rapidi (REM) cessano.
L’osservatore esterno osservano la scansione
può vedere che l’attività è cambiata ancora.

Questa è la prima e più intuitiva interazione


tra le dimensioni dell’esistenza e gli stati di
coscienza.

La seconda interazione è quella che va dall’esteriore all’interiore. Gli stati di


coscienza possono essere indotti. Basta pensare a quello che possono fare le sostanze
psichedeliche. Un composto chimico, una molecola, altera il funzionamento cerebrale e
provoca nell’interiorità un cambiamento dello stato di coscienza.

Senza bisogno di spingersi a questi estremi, con


determinate traccie audio con frequenza sfasate
tra di loro è possibile alterare la frequenza di
funzionamento cerebrale, e quindi alterare lo
stato di coscienza ordinario. Si chiamano toni
binaurali e, a differenza delle sostanze
psicotrope, non hanno effetti collaterali.

Dunque l’interazione esteriore-interiore è


bidirezionale. Un cambiamento nella
dimensione interiore provoca un cambiamento
in quella esteriore, e viceversa.

Se a questa azione reciproca, che agisce a livello


individuale, sommiamo la dimensione collettiva, cosa accade?

4D: interiore-esteriore e individuale-collettivo


Se uniamo le dimensioni individuali (interiore ed esteriore) a quelle collettive (interiore ed
esteriore), otteniamo quattro dimensioni. Nel modello integrale, queste dimensioni sono
chiamate quadranti, e si rappresentano con un piano ortogonale.

Da leggere: Quadranti

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Come ogni elemento del modello integrale, anche gli
stati di coscienza accadono in ognuna delle quattro
dimensioni.

Gli stati di coscienza sono fenomeni che coinvolgono


tutti quadranti.

Il concetto di stati è visto qui in senso ampio.


Pensa ad esempio ad una azienda che subisce
una bancarotta (quadrante esteriore collettivo):
c’è un cambio di stato nel quadrante inferiore
destro che si riflette in tutti gli altri.

Oppure pensa alla paura generale (quadrante


interiore collettivo) che emerge dopo un attacco
terroristico (quadrante esteriore collettivo) che
può tramutarsi immediatamente in panico
individuale (interiore individuale).

È evidente l’interrelazione tra tutti e quattro i


quadranti.

I quadranti sono dimensioni inseparabili. Non è possibile isolarne una rispetto


all’altra. Ogni fenomeno coinvolge tutte le dimensioni. Anche gli stati di coscienza, che
apparentemente appartengono ad una sfera privata, individuale, sono in realtà
indissolubilmente legati a tutte le altre dimensioni esistenziali.

Lo stato non-duale
Oltre ai tre stati naturali (veglia, sogno, sonno senza sogni), è possibile descrivere
un ulteriore stato di coscienza, quello non-duale, accessibile sia come peak experience
(un’esperienza diretta transitoria) che come stadio evolutivo dopo aver attraversato la
progressione degli stadi-degli-stati. La consapevolezza testimoniante fa da ponte per il
conseguimento di questo stato.

Come si inquadra questo stato all’interno delle dimensioni esistenziali? In realtà lo stato
non-duale non è uno stato di coscienza vero e proprio, ma è il fondamento di tutto. È la
dimensione dell’essere. L’essere consapevole compenetra tutte le dimensioni con la
sua proprietà fondamentale, la non-dualità.

4/5
Si tratta del terreno comune entro cui gli stati di
coscienza emergono. La non-dualità è una
proprietà fondamentale dell’universo in tutte le sue
dimensioni, ed è accessibile da ognuno dei tre stati
naturali di coscienza.

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Come sciogliere la stanchezza con la respirazione
essereintegrale.com/stanchezza-respirazione

Agostino Famlonga

Il posto migliore per nascondere qualsiasi cosa è in piena vista.

In questo articolo ti parlo di un segreto che è nascosto in piena vista, qualcosa che è
sotto gli occhi di tutti, ma che solo pochi vedono e colgono a fondo.

Scopriremo come sciogliere la stanchezza usando un elemento che tutti hanno a


disposizione: il respiro. È l’elemento più naturale che esista, una parte del nostro essere
al mondo talmente costante che viene data per scontato.

Prova a pensare: l’ultima volta che ti sei sentito stanco, cosa hai fatto per affrontare la
stanchezza? Dove hai posto l’attenzione?

Ben pochi rivolgono lo sguardo al loro respiro.

Qualcuno prende un caffè, qualcuno prova a riposare, altri non fanno nulla e accumulano
la stanchezza fino a che diventa una stanchezza cronica, creando uno stile di vita
appesantito e rallentato, dove fare ogni cosa risulta uno sfinimento.

Scopriamo dunque il ruolo del respiro nel vivere una vita dove la stanchezza lascia il posto
alla vitalità.

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Il respiro ti carica di energia vitale

Tutti sanno che chi non respira è morto.


Pochi hanno capito che chi più si respira, più si è vivi.

Questa è una frase di Lowen che sottolinea un concetto per nulla scontato:

“più si respira, più si è vivi.”

Rileggi per cortesia questa frase, lentamente, e lasciala entrare in profondità dentro di te.

Il livello di vitalità che una persona vive è strettamente legato al suo modo di respirare e
all’intensità e profondità del suo respiro.

Ecco il segreto celato in piena vista. Respirando puoi accedere ad un alto livello di
vitalità, e di conseguenza contrastare la stanchezza.

Respirare di più non è inteso come quantità in senso assoluto, non è riferito alla
capacità polmonare o a una performance atletica. Uno sportivo che pratica una disciplina
aerobica potrebbe manifestare uno stesso livello di stanchezza di un sedentario.

Respirare di più è inteso come qualità della tua respirazione.

Puoi farti delle semplici domande qualitative per valutare la tua respirazione:

Quanto è profondo il tuo respiro?


Quanto è completo il tuo respiro?
Quanto è libero il tuo respiro?

La capacità di avere un respiro profondo, completo e libero ti permette di accedere


a un’alta quantità di energia vitale.

Anche se in senso assoluto respiri la metà della metà di un atleta, con una respirazione
libera, completa e profonda puoi accedere ad una vitalità che questo nemmeno si
immagina.

Questo è il primo principio da fissare, il legame diretto che esiste tra il respiro e
l’energia vitale.

Più respiro significa più energia vitale.

Ma c’è un secondo motivo per cui un respiro liberato contrasta la stanchezza alla radice, e
questo non è in piena vista, perché è subdolamente nascosto nei nostri meccanismi di
difesa psicologici.

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Tenere il respiro bloccato consuma energia
Nel corso della vita la respirazione subisce una serie di condizionamenti, dovuti alla
risposta ad eventi che restano impressi.

Te ne ho parlato in modo approfondito in questo articolo sui traumi e la respirazione.

Il punto che voglio sottolineare qui parlandoti della stanchezza è questo: i blocchi
emotivi, ovvero le emozioni represse che non ti sei permesso di vivere completamente,
alterano il respiro bloccando il pieno fluire dell’energia vitale nel corpo.

Il blocco del respiro permane, viene cioè tenuto attivo inconsciamente, come
meccanismo di difesa per non sentire appieno le emozioni congelate legate
all’evento scatenante.

Questo blocco del respiro viene vissuto come una tensione costante. Una tensione che
si manifesta su più piani: diventa tensione fisica (irrigidimento muscolare), tensione
emozionale (emozioni conflittuali) e infine anche tensione mentale.

Ebbene sì, tenere attivo un blocco richiede energia!

Oltre a non permettere il pieno fluire dell’energia vitale, il blocco del respiro
consuma energia.

Anche se la persona sente di subire il blocco del respiro, ovvero non lo fa coscientemente,
all’atto pratico è la persona stessa che tiene attiva in sé la tensione.

Certo, è una tensione parassita, subita, generata dall’inconscio e dai suoi


meccanismi di difesa.

Ma da dove prende energia l’inconscio? Sempre dalla stessa fonte di energia


vitale a cui attinge la parte consapevole.

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Siamo noi che facciamo tutto dentro noi stessi. Solo che una parte è consapevole,
l’altra no.

Ecco svelato il secondo meccanismo che lega la qualità del respiro alla stanchezza.

Un blocco del respiro non solo ti impedisce di ricaricarti pienamente di energia vitale, ma
consuma costantemente energia vitale sotto forma di tensioni parassite.

Viaggiare con il freno a mano tirato


La vita di molte persone che accusano vari gradi di stanchezza ricorda questa scena.

Immagina una persona in auto, con la spia della benzina accesa. Con l’auto in riserva,
viaggia alla ricerca del prossimo distributore di carburante, incerta di riuscire ad
arrivarci.

Mentre guida, afferra e tira con accanimento il freno a mano.

Ecco che l’auto non solo rallenta, ma consuma di più a parità di chilometri
percorsi.

Vedendo la lancetta del serbatoio che si abbassa velocemente, la persona ansiosa


accelera per arrivare prima al distributore, e con pari intensità tira ancora di più il
freno a mano.

Ecco innescato un meccanismo perverso che conduce nel tempo verso la stanchezza
cronica e l’esaurimento psicofisico.

Il blocco del respiro è come un freno a mano tirato: oltre a rallentare, consuma una quantità
incredibile di energia vitale sotto forma di tensioni parassite.

La prima presa di coscienza importante da fare per intervenire su questo meccanismo è


prendere atto che sei tu che tiri il freno a mano.

Non esiste un’altro passeggero seduto al tuo fianco che ti sabota mentre tu guidi.

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Sei tu che premi sull’acceleratore, e al contempo sei sempre tu che tieni tirato il
freno, solo che non ne sei consapevole (o se ne sei consapevole, non sai come mollarlo).

Vediamo più avanti come farlo, per ora è importante riconoscere che esiste solo un
guidatore, che ha consapevolezza dell’energia che mette nella guida, ma non è
consapevole di tirare il freno a mano (blocco) e seppur vuole mollarlo, non sa come fare.

Per comprendere a fondo come sciogliere la stanchezza con la respirazione, dobbiamo


prima fissare un altro punto importante: la differenza tra la stanchezza fisica e il
livello di energia vitale.

Per comprenderla prendiamo spunto dai nostri maestri in incognito: i bambini.

L’energia di quando eravamo bambini


Se hai avuto a che fare con i bambini, ti sarai accorto di un fenomeno particolare.

La sera, quando sono visibilmente stanchi fisicamente, spesso hanno


un’altissima carica di energia vitale.

Magari sono entusiasti e curiosi verso un nuovo gioco, e non vogliono andare a
dormire, negando addirittura di avere sonno.

Per un adulto che li osserva è inequivocabile che siano stanchi morti. Tant’è vero che
superata una certa soglia, crollano addormentandosi magari proprio mentre stanno
giocando.

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Com’è possibile?

È possibile perché loro hanno una cosa che gli adulti tendono a perdere. La loro
apertura alla vita rende evidente una distinzione ben precisa: stanchezza fisica e
energia vitale si muovono in modo indipendente.

Esprimendo loro stessi autenticamente, senza maschere e senza forzature o


resistenze, si caricano di energia vitale. Nel gioco si esprimono, si esprimono
autenticamente senza filtri, senza resistenze e forzature psicologiche.

Tradotto con l’analogia appena vista dell’auto: i bambini non hanno il freno a mano
tirato, e mentre guidano si caricano.

L’espressione di sé è infatti una fonte di energia vitale.

Quando ti esprimi autenticamente, non consumi energia vitale, ma la generi!

Per cortesia rileggi questa frase e lasciala entrare, perché è un punto chiave.

Giocando il corpo del bambino inevitabilmente si stanca, accumula stanchezza


fisica fino al punto di crollare, e nonostante questo loro sono pieni di energia ed
entusiasmo, sono carichi di energia vitale.

Purtroppo crescendo l’adulto perde questa distinzione. Inizia a perderla quando si


attivano i meccanismi psicologici del forzare e del resistere, quando si perde il
contatto con la verità di sé e si inizia a falsare l’espressione di sé stessi.

Allora si perde l’alto livello di vitalità ed entusiasmo che contraddistingue la fase


dell’infanzia.

L’adulto diventa ingrigito e spento, impostando il suo tenore di energia vitale su un


livello inferiore. Non solo, viene a crearsi questa subdola combinazione: la
stanchezza fisica viene associata al livello di energia vitale, come se fossero una

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cosa sola, quando in realtà sono e restano due cose ben distinte (anche per noi
adulti).

Vediamo meglio questo punto.

Stanchezza fisica e energia vitale


Il livello di prontezza fisica è una cosa diversa rispetto al livello di energia
vitale. Sono due “circuiti” distinti e separati. Questo è vero per i bambini, e altrettanto
per gli adulti.

Per comprenderlo possiamo immaginare questi “circuiti” come se fossero due


batterie distinte, con un livello di carica indipendente.

Come abbiamo visto, nell’adulto normalmente le cose sono associate, agiscono


con un legame stretto. Quando il corpo si stanca, di pari passo tende a diminuire il livello
di energia vitale.

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Quando il livello delle batterie è basso, sentiamo stanchezza e cerchiamo di contrastarla
riposando o cercando di ricaricarle.

Riposando il corpo, tendenzialmente ci si ricarica anche di energia vitale.


Questo è vero quando il riposo è di buona qualità (vedremo dopo perché questo a volte
non accade).

È importante che tu riesca a distinguere dentro di te questi due “circuiti”, ben distinti uno
dall’altro. Quello della prontezza fisica, e quello dell’energia vitale.

La “batteria” del corpo fisico, segue il ciclo dell’attività fisica: quando il corpo
consuma energia per un’attività fisica, necessita di ricaricarsi (generalmente riposando).

La “batteria” dell’energia vitale segue il medesimo ciclo quando l’energia vitale è


trattenuta da una serie di tensioni (fisiche, emozionali e mentali). Queste tensioni
parassite sono visibili in modo evidente in un respiro alterato e bloccato, logorano e
creano un impoverimento del livello di energia vitale.

Oltre a questo ci sono altri due fattori che tengono legate la prontezza fisica e il livello di
energia vitale: le tossine fisiche, e l’espressione di sé falsata.

Si scopre ben presto che tutti e tre questi elementi sono connessi uno con l’altro: il
blocco del respiro tiene attive una serie di tensioni parassite, innesca a cascata un
movimento interiore di forzatura e resistenza.

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Questa tendenza interiore a forzare e resistere non permette un’espressione autentica di
sé stessi. Le cose si rinforzano reciprocamente, in una spirale negativa.

Vedremo in un altro articolo come anche le tossine si inseriscono in questo processo.

Per sciogliere questo subdolo legame tra energia vitale e prontezza fisica, abbiamo
bisogno di intervenire su tutti e tre questi elementi: serve liberare il respiro sciogliendo i
suoi blocchi, innescare una purificazione del corpo dalle tossine e iniziare ad esprimersi
autenticamente.

Intervenendo su questi tre punti ecco che le due “batterie” tornano a operare in
modo indipendente, come è naturale che sia.

Due circuiti indipendenti


Il corpo seguirà i suoi cicli di attività e recupero, in modo molto spontaneo.

Questa “batteria” segue un ciclo di carica e scarica, simile a quella ben conosciuta dei
nostri smartphone.

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L’energia vitale liberata invece avrà un ciclo indipendente da questo.

Con un respiro libero, pieno e completo, un corpo sufficientemente purificato dalle


tossine e un’espressione autentica di te stesso, la batteria si ricarica mentre viene
usata.

L’energia vitale non viene consumata, si auto-alimenta e attinge ad una fonte


inesauribile: l’essere consapevole.

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Per comprendere a fondo questo ciclo di “ricarica continua” serve viverlo in prima
persona.

Alcuni esempi di ricarica continua


Puoi ricordarti l’esperienza di quando ti sei coinvolto in qualcosa che ti appassiona e che ti
esprime. Come ti sentivi? Com’era la tua energia?

Ricordo un partecipante a un workshop di Respiro Circolare che condivise questo suo


vissuto.

Un grande appassionato di musica, si esprimeva suonando la chitarra elettrica nella sua


band. Si chiedeva come mai normalmente, quando stava a casa la sera, stramazzava
stanco morto sul divano alle 21.00 appena dopo cena, accusando non solo la stanchezza
della giornata lavorativa, ma anche un senso di “spossatezza interiore”.

Al contrario, quando usciva a suonare con la sua band poteva andare avanti a
suonare fino notte fonda sentendo un’energia inesauribile, anche se aveva lavorato
tutto il giorno.

La risposta a questa sua domanda sta nel principio che abbiamo appena visto.

Esprimersi autenticamente carica l’energia vitale, proprio mentre ci si esprime.


La batteria non si consuma, si carica.

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Anche per comprendere l’altro ingranaggio del ciclo di ricarica, la respirazione libera,
serve sperimentarlo in prima persona.

Se conosci il Respiro Circolare, puoi facilmente richiamare alla memoria come ci si


sente durante la pratica. Respirando in questo modo si attinge a una enorme quantità
di energia vitale.

Se non conosci questa tecnica di consapevolezza, puoi ricordare l’esperienza del fare
l’amore. In una condizione di intimità, durante la sessualità, si sperimenta un
incremento di energia vitale. La batteria si ricarica.

Pur facendo delle azioni che fisicamente impegnano e stancano il corpo, a livello
energetico c’è una ricarica di energia vitale. La batteria si ricarica nel mentre
dell’azione.

La differenza rispetto all’esempio precedente è che normalmente la sessualità viene


conclusa con un orgasmo, e questo scarica gran parte dell’energia accumulata.

(Proprio per questo motivo, allo scopo di preservare un alto livello di energia vitale, in
molte tradizioni spirituali viene data l’indicazione del contenimento dell’orgasmo).

Ma questo è un altro tema, restiamo aderenti all’argomento dell’articolo, la respirazione e


la stanchezza.

Come la respirazione circolare scioglie le tensioni


Una respirazione libera è piena, completa, senza apnee involontarie. Abbiamo
visto come i blocchi del respiro alterano questo ciclo naturale con delle tensioni
parassite, rendendo la respirazione limitata. La tensione si manifesta come un
irrigidimento muscolare, e con un blocco del flusso dell’energia vitale nel corpo.

Proprio perché tutto questo è tenuto in piedi da un blocco del respiro, agendo in
senso opposto si può invertire la situazione. Respirando in modo profondo e
completo, e togliendo le micro-apnee del respiro che sono un riflesso del blocco, si

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innesca un rilascio delle tensioni e un ripristino della respirazione naturale, piena
e libera.

La respirazione rappresenta però solo la metà dell’equazione, l’altra parte fondamentale è


lo stato di coscienza dal quale si agisce nel respirare in questo modo.

Questo processo di liberazione non può accadere in una condizione ordinaria in cui la
mente è attiva e vigile, con i suoi meccanismi di difesa in allerta.

Serve accedere a una parte profonda dell’inconscio, sganciandosi dalla mente


analitica e razionale accedendo consapevolmente a una condizione in cui la mente si
mette in secondo piano e diventa silente.

Solo da questa profondità, tramite una respirazione circolare, si riesce a


sciogliere il blocco del respiro, rilasciando finalmente il freno a mano e rendendo le
due batterie indipendenti una dall’altra.

Perché spesso non basta riposare per recuperare


Di fronte alla stanchezza, l’approccio intuitivo e spontaneo è quello di riposare.

Riposando ricarichiamo le batterie.

Però se ci fai caso questo non è sempre vero.

Conosco persone che, dopo una notte di 9 ore di sonno, si alzano al mattino ancora
più stanche di quando sono andate a letto. Immagino che anche tu conosca questa
condizione, o perché ti è già accaduta, o forse l’hai osservata in altri.

Perché accade questo? Come accade che riposando non si recupera completamente?

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Accade a causa di due fattori: da una parte incide sicuramente la qualità del sonno.
Spesso manca una cura degli elementi essenziali di igiene del sonno, e questo rende
difficile il riposo profondo.

L’altro elemento che incide su un riposo incompleto, è che il riposo di per sé non
scioglie i blocchi e non rilascia le tensioni parassite.

Si scivola nel sonno portando con sé le tensioni, ovvero mantenendo il freno a


mano tirato e tenendolo in tensione per tutta la durata del riposo. Questo non consente un
recupero completo, e in più consuma energia anche durante il sonno. Invece di
recuperare e rigenerarsi, le tensioni inconsce tenute attive anche durante il
sonno (o addirittura amplificate nel sogno) inducono ulteriore stanchezza.

Per il primo fattore, ti consiglio di approfondire la tua conoscenza di come funziona il


sonno e di come puoi ottimizzarlo: puoi leggere i primi articoli della rubrica sugli Stati
di coscienza, in cui scoprire molti lati poco noti riguardo il sonno.

Per rilasciare le tensioni parassite, ti invito a liberare il respiro con il Respiro


Circolare. Questo strumento permette sia di agire in profondità nello sciogliere i
blocchi del respiro che di imparare l’arte del rilassamento consapevole,
fondamentale per scivolare nel sonno consapevolmente e attingere a un riposo veramente
rigenerante.

Rigenerarsi con il rilassamento profondo


Per la maggior parte delle persone il riposo e il sonno rappresentano un momento
di oblio, di annullamento e spegnimento.

Accade quando entrambe le batterie sono a un livello basso.

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Quando sia la prontezza fisica che l’energia vitale sono a un livello di sfinimento, ecco che
il sonno conduce alla condizione di oblio. Essendo questa la condizione ordinaria per
la maggior parte delle persone, questo è considerato (appunto) normale.

Quello che si scopre liberando il respiro e distinguendo il livello di prontezza fisica


dall’energia vitale, è che

si può riposare il corpo, mantenendo al contempo un alto grado di vigilanza, e questo


consente di recuperare più velocemente la stanchezza.

Durante le sedute di Respiro Circolare questo fenomeno viene reso evidente in modo
plateale. Molte volte le persone si stupiscono di quanto si sentano riposate dopo una
seduta. È molto comune sentire delle condivisioni con frasi come “mi sento riposato
come se avessi fatto una bella dormita”. Lo stupore deriva dal fatto che non hanno
dormito, anzi, hanno praticato per tutto il tempo il Respiro Circolare, che richiede
impegno ed energia.

L’esperienza ci ha mostrato questa corrispondenza: una seduta di Respiro Circolare


di 45 minuti in termini di recupero fisico equivale (mediamente) a una bella
dormita di 3 ore. Chiaramente è un dato soggettivo che dipende da tanti fattori. Forse
all’inizio questo non è così evidente, ma l’esperienza sul campo di chi pratica il Respiro
Circolare indica questo dato.

Combinando degli ingredienti semplici e naturali abbiamo una chiave per accedere ad un
alto livello di recupero sia fisico che energetico. La combinazione è quella del
rilassamento fisico profondo, associato alla respirazione circolare e all’alto
grado di vigilanza consapevole.

La padronanza di ognuno di questi ingredienti va a rinforzare l’altro in modo positivo.

Quando si apprendono queste abilità, divengono acquisite e si esprimono in modo


trasversale, diventano un modo di essere, non uno stato relegato al tempo di una
seduta di Respiro Circolare. Si impara ad essere rilassati, aperti alla vita e alle
emozioni, presenti e consapevoli.

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Sciogli la stanchezza e accendi la tua energia vitale
Ho voluto darti in questo articolo una serie di spunti per farti comprendere come si possa
vivere una vita in cui la stanchezza lascia lo spazio alla vitalità. Ancora prima
del “come”, la mia cura è nel farti arrivare un messaggio ancora più importante: si può
vivere in questo modo.

Molti infatti vivono una condizione di stanchezza costante e pervasiva,


considerandolo normale. Ebbene, detto senza mezzi termini: questa condizione non è
normale. Il fatto che in molti vivano così, non significa che sia il modo in cui si
dovremmo vivere.

L’invito è quello di essere attivo nell’affrontare la questione della stanchezza,


possibilmente prima che diventi cronica e diventi uno stile di vita acquisito.

Esistono dei meccanismi ben precisi dietro la stanchezza, che possono essere indagati,
affrontati e risolti. Per comprenderli a fondo ti invito ad approfondire il prossimo
modulo “Stanchezza e Malattia” del corso Abilità nella vita, che si terrà nel
weekend del 17-18 settembre (è possibile seguire il corso sia in presenza che online) .

Invece, se senti il bisogno di liberare finalmente il respiro, ricaricarti di energia


vitale e apprendere l’arte del rilassamento profondo, ti invito a partecipare ai prossimi
corsi di Respiro Circolare in partenza, che trovi elencati qui.

Hai mai partecipato a una seduta di Respiro Circolare? Mi farebbe molto piacere leggere
la tua esperienza nei commenti.

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Traumi, respirazione e stress cronico
essereintegrale.com

Agostino Famlonga

Prima di parlare di traumi, blocchi energetici e respirazione dobbiamo comprendere i


meccanismi che stanno alla base di questi processi. Dobbiamo comprendere innanzitutto
il nostro modo di reagire alle minacce o ai potenziali pericoli, e in generale alle
richieste stressanti della vita.

L’essere umano si è evoluto in milioni di anni con un meccanismo molto basilare, che
tutt’ora è attivo in noi e condiviso con gli altri esseri viventi: la risposta allo stress e
alle minacce.

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La risposta segue un ciclo, apparentemente molto semplice, che ha lo scopo di
mantenere un equilibrio interiore, e di tornare sempre a questa condizione di
partenza (il termine omeostasi indica proprio questa caratteristica che contraddistingue
gli esseri viventi).

Partendo da una condizione di equilibrio, quando si incontra un potenziale pericolo, si


attiva una risposta, che può prendere tre strade. Osserviamo ora le prime due possibili
vie, la risposta di attacco e fuga.

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Attacco o fuga
La risposta di attacco e fuga è una mobilitazione dell’organismo per rispondere al
pericolo, per spostarsi in una ambiente sicuro o per mettersi in sicurezza,
contrastando direttamente la minaccia oppure ritirandosi da essa (da qui il termine
attacco-fuga)

Questa risposta viene messa in moto attivando quella parte del Sistema Nervoso
Autonomo che rilascia i cosiddetti ormoni dello stress, e in generale provoca un
aumento dell’energia vitale disponibile proprio per dare una risposta che ripristina la
sicurezza e un equilibrio.

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Infatti, raggiunta la zona percepita come sicura (sconfiggendo la minaccia o
allontanandosi dal pericolo) ecco che si ripristina l’equilibrio iniziale.

L’energia prodotta viene dissipata e consumata proprio nel mettere in atto la


risposta. Gli ormoni dello stress e l’energia in eccesso “escono dal sistema”, e questo lo
sottolineo perché è l’aspetto che ci interessa.

Ora vediamo una terza risposta che può venire messa in atto nel tentativo di rispondere
ad uno stimolo che provoca un disequilibrio (ovvero una minaccia percepita): la risposta
di congelamento (freezing).

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Congelamento
A volte, di fronte ad una minaccia, il sistema nervoso reagisce immobilizzandosi, con
una paralisi e “congelamento“.

Quando lo stimolo è troppo minaccioso o sopraffacente non è utile rispondere con


un attacco, né con una fuga. La strategia più funzionale è quella di restare immobili e
paralizzati, congelati, sperando che la minaccia passi.

Questa chiaramente è una risposta automatica, messa in moto autonomamente,


programmata in noi da milioni di anni di evoluzione.

Il termine “congelamento” deriva dal fatto che quando si innesca questa risposta
l’energia vitale viene bloccata nel suo fluire, e questo genera una sensazione di
“freddo”.

Quando l’energia vitale fluisce nel corpo genera calore organico. Quando viene bloccata si
impedisce la produzione di questo calore, di conseguenza si genera la sensazione
interiore di freddo, localizzata nell’area fisica in cui avviene il congelamento, e
pervasiva se si tratta di un blocco generalizzato.

Condividiamo con gli altri animali questo meccanismo di sopravvivenza, questa terza
possibile risposta agli stimoli stressanti, con una differenza sostanziale: noi umani
abbiamo dimenticato la capacità spontanea di ripristinare l’equilibrio iniziale. Tendiamo
a inibire il rilascio dell’energia congelata e degli ormoni dello stress rilasciati nella
fase di congelamento.

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Normalmente, quando la minaccia è passata e si è tornati in una zona sicura, il sistema
nervoso mette in atto dei processi di scarica, in cui scongela l’energia vitale, la
sblocca, e rilascia dal sistema tutti gli ormoni prodotti e trattenuti. In questo
modo si ripristina l’equilibrio iniziale.

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Noi umani tendiamo a inibire questo rilascio. Con lo sviluppo delle funzioni
cognitive superiori infatti abbiamo sviluppato anche la capacità di bloccare questo
processo naturale di ripristino dell’omeostasi.

Il rilascio naturale del trauma


Ti invito a guardare questo video incredibile che ti mostra questi processi all’opera.

Watch Video At: https://youtu.be/lAtW7nJUcRA

Un impala mostra il processo naturale del rilascio del trauma dopo uno shock

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Nel video vedi un leopardo che ha catturato un impala e che lo tiene fermo addirittura
mordendogli il collo, pronto a mangiarlo.

L’impala sembra morto, ma attenzione, è tutt’altro che morto, ha messo in moto la


risposta di congelamento, portata al suo estremo, in una perdita di conoscenza.

Non può attaccare il leopardo, è una partita persa in partenza, così come non può
scappare. La risposta più funzionale è quella di bloccare tutto, in questo caso estremo
“spegnere tutto”, e sperare in un miracolo.

E nel nostro caso l’impala è fortunato, perché arrivano dei babbuini che scacciano il
leopardo, salvando l’impala dalla morte certa. [1:34]

Se osservi l’impala steso a terra dopo che il leopardo se ne è andato, sembra morto. [1:40]

In realtà è vivo, è semplicemente in condizione di shock, con il respiro sospeso. Se


osservi ecco che ti accorgerai che quando il pericolo è passato si rimette in moto la
respirazione, con un bel respiro circolare [2:15]

Poi l’impala si mette seduto e rilascia le tensioni e l’energia vitale che aveva
bloccato nel corpo durante lo shock, e lo fa con quelli che sono chiamati tremori
neurogeni. [3:12]

Quando ha rilasciato quello che doveva scaricare ecco che si alza in piedi e prosegue
la sua giornata nella savana. [4:06]

Inibire il rilascio
Noi umani condividiamo gli stessi meccanismi basilari di sopravvivenza, ma tendiamo a
inibire il rilascio delle tensioni che permetterebbe di ripristinare l’equilibrio
iniziale, lo blocchiamo.

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Lo blocchiamo tramite un meccanismo difensivo molto semplice: mettiamo in moto delle
resistenze interiori nei confronti di quel particolare vissuto. Resistendolo creiamo una
barriera psicologica protettiva, che evita di vivere determinati vissuti ritenuti
troppo intensi o spiacevoli, ma all’atto pratico stiamo mantenendo tutto “sospeso” e
congelato.

Qual è la conseguenza? Non sciogliendo il blocco non rilasciamo mai l’energia in


eccesso, le tensioni croniche e gli ormoni dello stress restano in circolo, e viaggiamo in
costante disequilibrio.

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Questa è una condizione di stress cronico, che se non viene trattata, nel tempo si
manifesta con somatizzazioni di vario tipo e con un esaurirsi delle risorse
psicofisiche.

Minacce invisibili
Tendiamo a innescare questo ciclo e la risposta di congelamento con una frequenza molto
più alta di ciò che si crede.

Accade perché per l’uomo moderno le minacce e i pericoli percepiti sono


minacce più sottili. Non abbiamo paura che un leone ci mangi vivi, ma è più facile
sentire la paura per non riuscire a pagare il mutuo, o il pericolo di una macchina che ci
taglia la strada mentre guidiamo, o la paura della fine di una relazione, la paura di non
riuscire a concludere il lavoro in tempo…

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Tutte queste minacce percepite creano un disequilibrio che innesca una risposta, e spesso
questa risposta è proprio quella di congelamento. È difficile dare una risposta concreta a
questi pericoli non concreti, per questo risulta più facile inibire e congelare tutto.

Oltre ad innescare spesso questo ciclo, tendiamo appunto ad inibire la capacità di


scarica e di rilascio dell’energia in eccesso.

Addirittura, molti nemmeno concepiscono che questo può essere fatto, al punto che la
condizione si cronicizza, diventa la condizione standard.

Stress cronico
La condizione stessa di disequilibrio nel tempo viene percepita come una
minaccia costante che va ad attivare una condizione di ipervigilanza, come se si fosse
costantemente in pericolo.

Questo alimenta a catena un tentativo di risposta con una escalation e un aggravarsi


di tutto quello che abbiamo appena visto.

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Una condizione di stress cronico che genera ancora più stress, fino ad arrivare a un vero e
proprio burnout, ovvero esaurimento delle risorse psicofisiche.

Dobbiamo comprendere ora come uscire da questo circolo.

Il primo passo è quello di comprenderne il meccanismo, e il secondo è ripristinare la


capacità di rilasciare le tensioni scongelando ciò che si è bloccato.

Per approfondire Lo stress

I blocchi

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Portiamo l’attenzione alla condizione di congelamento e di blocco.

Questa si manifesta con 4 caratteristiche principali:

1. il blocco del respiro


2. il blocco dell’energia vitale
3. l’irrigidimento muscolare
4. la conseguente sospensione delle impressioni legate a quell’evento.

Cosa significa il 4° punto? Fintanto che non si scongela il blocco, l’evento che l’ha
generato resta sospeso e non integrato nella coscienza, resta sospeso in quello che viene
definito l’inconscio rimosso.

La condizione di shock e di congelamento mantiene l’esperienza “sospesa”, ovvero


non elaborata. Ricorda che tutto ciò che resta in questo stato si manifesta sotto forma
di condizionamento.

Per approfondire I 6 processi dell’inconscio


Per approfondire Le emozioni e l’ombra

Sciogliere i blocchi
Come ripristinare l’equilibrio iniziale? Imparando a rilasciare l’energia trattenuta.

Proprio perché il congelamento è tenuto in piedi da una sospensione e da un blocco


del respiro, il modo per scioglierlo è quello di liberare il respiro e ripristinarne la sua
circolarità.

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Proprio come ha fatto l’impala nel video visto sopra, con una respirazione circolare
si può sciogliere il blocco e mettere in moto un profondo rilascio delle tensioni
accumulate e rilasciare gli ormoni dello stress, ripristinando una condizione di equilibrio
e uscendo fuori dal circolo vizioso dello stress cronico.

Un blocco scongelato tramite lo sblocco del respiro permette di liberare l’energia


vitale che era trattenuta, di sciogliere le tensioni muscolari e di elaborare
l’esperienza vissuta che inizialmente aveva generato la risposta di congelamento: resta
il ricordo dell’evento ma si scioglie il suo condizionamento.

Questo è il modo per ripristinare una condizione di benessere profondo su tutti i piani:
fisico, emotivo e mentale.

Per approfondire Salute e benessere con la respirazione


Per agire Il Respiro Circolare

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La somma di piccoli blocchi


Leggendo questo articolo potresti aver pensato che non hai avuto nella tua vita chissà
quali traumi o blocchi da elaborare. Questa certamente è una condizione che ti auguro di
cuore. Eppure, per mia esperienza, è raro trovare persone che non manifestino
queste dinamiche in qualche forma.

Il blocco del respiro e il congelamento dell’energia vitale è davvero una risposta


molto comune che può attivarsi anche come somma di piccoli eventi, che
singolarmente apparentemente non hanno rilevanza, ma sommandoli tra loro
creano un blocco.

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La domanda da porsi è molto semplice: il tuo respiro è libero?

Hai una respirazione libera, piena, completa, connessa… oppure senti che spesso
sospendi il respiro andando in apnea, che non riesci a respirare profondamente
e hai una respirazione contratta e limitata?

Se il respiro non è libero vuol dire che è condizionato e che in qualche modo è stato messo
in moto un blocco e un congelamento dell’energia vitale.

Liberare il respiro
Per liberare il respiro e l’energia vitale ti invito ad apprendere la tecnica del Respiro
Circolare da un professionista che te la può insegnare, partecipando a un corso, o un
workshop o con un percorso individuale.

Sul sito trovi molti approfondimenti sul Respiro Circolare e anche le date dei prossimi
incontri e i miei contatti per un percorso individuale.

Se hai domande o osservazioni in merito a questi argomenti, ti ricordo che puoi


usare i commenti qui sotto l’articolo.

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Alcalinizzare il corpo con la respirazione
essereintegrale.com/alcalinizzare-respirazione

Agostino Famlonga

Acido-alcalino: perché è così importante?


In questo articolo ti parlo di un argomento fondamentale per la tua salute: quello
dell’equilibrio tra l’alcalinità e l’acidità del tuo corpo e di come sia possibile intervenire
tramite la respirazione nello spostare l’ago della bilancia verso l’alcalinità.

Innanzitutto: perché è così importante questo argomento e cosa c’entra con la salute?

Te lo spiego citando due illustri medici.

Il primo è Alexis Carrel, premio Nobel per la medicina e la fisiologia:

La cellula è teoricamente immortale, è il fluido nel quale vive che si degrada.

La seconda citazione è del dott. George Washington Crile, un famoso chirurgo e fisiologo.

Le morti sono dovute ad una situazione progressiva di acidità organica.

Messe assieme, queste due affermazioni ci fanno riflettere sulle conseguenze


dell’acidità per la nostra salute.

Negli ultimi anni l’importanza di questo tema è venuta alla ribalta. Sono nate svariate
teorie e sistemi con l’intenzione di contrastare l’acidificazione fisica.

Alcuni di questi sistemi sono delle vere e proprie bufale, altri sono di dubbia efficacia.
1/17
Per contrastare un ambiente acido serve spostare l’equilibrio chimico verso il suo
opposto, la basicità, ovvero verso una condizione di maggiore alcalinità.

Nell’affrontare la questione generalmente si porta l’attenzione all’alimentazione,


cercando di limitare i cibi acidificanti e favorendo i cibi alcalinizzanti.

O ancora si prescrivono programmi detossificanti con l’intenzione di espellere le


tossine fisiche, che se accumulate generano acidità cronica.

Generalmente nelle modalità di intervento non viene preso in considerazione il potere


alcalinizzante della respirazione.

Questa è una grave mancanza perché, tra tutti i sistemi proposti per contrastare l’acidità
e alcalinizzare il sangue, la respirazione è il più rapido e ha dimostrato in modo
inequivocabile la sua efficacia.

Recenti studi scientifici infatti hanno confermato che…

“Già dopo due minuti di respirazione circolare il pH del sangue si sposta in modo
significativo verso l’alcalinità.”

Seguimi nei passaggi di questo articolo, ti spiegherò come e perché accade questo, e alla
fine vedremo anche i risultati dello studio in laboratorio.

Perché respiriamo?
La respirazione è una funzione fisiologica essenziale per la sopravvivenza: il suo scopo
è quello di garantire alle cellule l’ossigeno necessario per il metabolismo e di espellere
l’anidride carbonica prodotta dal metabolismo cellulare.

La respirazione può essere concepita e studiata su due livelli: la respirazione esterna e la


respirazione interna.

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Respirazione esterna
La respirazione esterna è quella visibile, percepibile e regolabile volontariamente. La
respirazione esterna riguarda il passaggio di aria tra l’ambiente e l’apparato respiratorio.
Nella respirazione esterna sono implicati la meccanica e il ritmo del respiro, l’immissione
di aria nei polmoni e lo scambio gassoso che avviene in essi.

Respirazione interna
La respirazione interna invece si riferisce all’aspetto biochimico, cellulare, che in
essenza è il motivo per cui respiriamo.

La respirazione esterna ha due fasi, l’inspirazione e l’espirazione con due scopi differenti
tra loro.

Nell’inspirazione immettiamo aria nei polmoni. Nell’aria, assieme ad altri gas, è


contenuto l’ossigeno, che è il gas interessato nel processo di scambio gassoso

Con l’espirazione espelliamo l’aria dai polmoni e con essa smaltiamo l’anidride carbonica
[CO2] in eccesso.

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La respirazione esterna soggiace generalmente alle richieste della respirazione interna.

Generalmente è l’attività metabolica delle cellule che regola la respirazione esterna,


anche se quest’ultima soggiace a molte altre influenze.

Questa si mette in moto per soddisfare i bisogni delle cellule regolando l’equilibrio tra
l’ossigeno immesso e l’anidride carbonica espulsa.

Oltre a questa regolazione autonoma, la respirazione esterna può essere modificata da


fattori psicologici (pensa allo stress o all’ansia e come questi agiscono nell’alterare il
ritmo respiratorio).

Inoltre, la respirazione esterna può essere modificata intenzionalmente. Ovvero, puoi


alterare consapevolmente la frequenza, il ritmo e l’ampiezza della tua respirazione.

Questo è l’aspetto che ci interessa di più per il nostro discorso, perché…

“Agendo tramite la respirazione esterna possiamo agire sulla respirazione interna, cioè
possiamo modificare il metabolismo cellulare e spostare l’equilibrio del sangue verso
l’alcalinità.”

Scambio gassoso
Lo scambio di gas da e verso il sangue avviene nei polmoni, e più precisamente negli
alveoli. Qui le molecole di ossigeno e di anidride carbonica vengono immesse ed
estratte dal sangue, che funge da mezzo di trasporto verso le cellule.

4/17
Negli alveoli polmonari avviene lo scambio gassoso con il sangue

Lo scambio gassoso garantisce il trasporto di ossigeno [O2] verso le cellule.

Il trasporto dell’ossigeno alle cellule è a carico dei globuli rossi (principalmente), che
contengono una molecola di trasporto dell’ossigeno, l’emoglobina.

Il trasporto dell’anidride carbonica [CO2] dalle cellule verso i polmoni invece ha tre
vie.

1.

1. Una minima parte della CO2 si diffonde liberamente nel sangue, circa il 7%.
2. Una percentuale maggiore, circa il 23%, si lega alle proteine del sangue, tra le
quali di nuovo l’emoglobina nei globuli rossi è la protagonista (anche se non è
l’unica proteina che interviene nel processo).

5/17
3. Il restante 70% dell’anidride carbonica reagisce chimicamente con l’acqua
contenuta nel sangue, e viene trasportata sotto forma di ione bicarbonato
verso gli alveoli per essere smaltita.

Quest’ultima reazione chimica ci interessa per comprendere come interviene la


respirazione nel regolare il pH del sangue, per cui studiamola in modo più dettagliato.

Il legame tra l’anidride carbonica e gli ioni idrogeno


Cerchiamo di comprendere questo passaggio importante (senza dover prendere una
laurea in chimica).

L’anidride carbonica [CO2] espulsa dalle cellule reagisce chimicamente con l’acqua
[H2O], formando acido carbonico [H2CO3].

L’acido carbonico [H2CO3] attraversa un altro passaggio chimico e si divide in uno ione
bicarbonato [HCO3-] e uno ione idrogeno [H+].

La reazione chimica è reversibile, può procedere sia verso destra che verso sinistra. È
quello che accade a livello degli alveoli, dove l’anidride carbonica viene rilasciata per
essere espulsa con la respirazione esterna.

6/17
Gli ioni idrogeno [H+] sono proprio le molecole che determinano l’acidità o l’alcalinità
della sostanza nella quale sono immersi, come vedremo nel prossimo paragrafo.

Il pH del sangue

L’acidità o la basicità del sangue è determinata dalla quantità di ioni idrogeno [H+]
contenuti in esso, e questi a loro volta sono legati alla quantità di anidride carbonica
[CO2] presente nel sangue che ha reagito per creare ioni bicarbonato [HCO3-].

L’equilibrio acido-base
Il pH di una sostanza è una misura del grado di acidità o di alcalinità di una sostanza.

Il pH è una misura matematica della concentrazione degli ioni idrogeno [H+].

La scala del pH varia da 0 a 14 e ha un rapporto inverso rispetto alla concentrazione di


ioni idrogeno:

un basso valore di pH indica una sostanza acida (alto valore di H+),


mentre un valore alto indica una sostanza basica (basso valore di H+).

Nel sangue dell’essere umano il valore del pH è leggermente spostato verso


l’alcalinità: ha un valore medio di 7,4.

Anche nel sangue, come in tutte le soluzioni, quando aumentano gli ioni idrogeno [H+] il
pH tende a diminuire e a spostarsi verso l’acidità.

Viceversa, quando gli ioni idrogeno [H+] diminuiscono, il pH si alza e il sangue tende a
diventare più alcalino.

Il controllo dell’equilibrio acido-base nel sangue


In condizioni fisiologiche normali il pH del sangue oscilla leggermente attorno il valore di
7,4. Ha un’escursione che varia da 7,35 a 7,45. Il margine di regolazione è molto stretto.
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Ogni qualvolta il valore del pH esce da questo range, viene ripristinato l’equilibrio
fisiologico.

Nel gestire quest’equilibrio delicato il nostro corpo utilizza tre meccanismi:

i tamponi chimici
il metabolismo dei reni
la respirazione.

1.

Il principale tra i tamponi chimici è rappresentato dal tampone dei bicarbonati, che
abbiamo appena visto.

La reazione chimica tende all’equilibrio, per cui un aumento di uno dei componenti della
reazione, sposta la reazione nel verso opposto.

Supponendo che ci sia un aumento dell’acidità del sangue (cioè che gli ioni idrogeno [H+]
aumentino) la reazione si sposta verso sinistra, si forma più acqua e anidride carbonica
che vengono eliminati dai polmoni e dai reni.

2.

Il secondo meccanismo tampone che interviene nella regolazione del pH sono i reni.

Il rene è in grado di espellere ioni idrogeno [H+] nelle urine. Questo tampone ha
un’azione lenta.

3.

Il meccanismo tampone più veloce è la ventilazione polmonare.

Ad un aumento degli ioni idrogeno corrisponde un aumento della frequenza degli atti
respiratori, allo scopo di espellere più anidride carbonica e ripristinare l’equilibrio del pH.

Quindi se il sangue tende ad acidificars i, aumenta come reazione la frequenza


respiratoria.

Viceversa, se il sangue tende all’alcalinità, gli atti respiratori diminuiscono.

I meccanismi e la velocità dei tamponi sono molto differenti tra loro.

“La capacità della respirazione nel tamponare le variazioni di pH nel sangue è doppia
rispetto a tutti gli altri sistemi tampone messi assieme.”

William D. Mcardle

Questo punto è importante, assieme alla considerazione che…

8/17
La concentrazione nel sangue di anidride carbonica [CO2] e di conseguenza il pH del
sangue sono legati alla frequenza del respiro.

Il controllo della frequenza respiratoria


La frequenza della respirazione è controllata da dei neuroni posti nel midollo spinale.

L’eccitazione o l’inibizione di questi neuroni innesca l’atto respiratorio movimentando i


muscoli interessati.

Il funzionamento dei neuroni del midollo spinale sottostà a numerose influenze.

Possono essere attivati dalla corteccia cerebrale, con influenze dirette discendenti, cioè
con un’intenzionalità consapevole.

Possono essere attivati anche da altre regioni cerebrali: dall’ipotalamo, dal ponte e dal
mesencefalo.

Oppure possono essere attivati da variazioni biochimiche. Un cambiamento della


fisiologia si riflette nell’attivazione o inibizione dei neuroni che innescano la catena
respiratoria.

La frequenza respiratoria a riposo


In condizioni di riposo l’influenza chimica prevale sulle altre.

La respirazione ha una frequenza e un’ampiezza idonea a regolare il pH del sangue


attorno al suo valore fisiologico, 7.4.

A livello del tronco encefalico esistono dei neuroni che sono sensibili alla quantità di
anidride carbonica [CO2] e di ioni idrogeno [H+].

Aumentano o diminuiscono la frequenza respiratoria per espellere più o meno CO2


e regolano in questo modo il pH del sangue, attraverso il meccanismo che abbiamo
visto nel paragrafo sull’equilibrio acido-base.

9/17
La frequenza respiratoria durante l’attività fisica
Durante un’attività fisica interviene un nuovo stimolo chimico: l’aumento del consumo
di ossigeno.

L’aumento dell’ossigeno richiesto dalle cellule si riflette in un aumento della CO2 da


smaltire. Sono queste alterazioni chimiche che fanno aumentare la frequenza
respiratoria.

Ma non solo, intervengono anche dei meccanismi legati al sistema nervoso.

Un primo stimolo è da parte della corteccia cerebrale, che in modo diretto va a


stimolare la respirazione.

Anche il movimento stesso dei muscoli, agisce a livello periferico e modifica la frequenza
respiratoria.

Infine, anche l’aumento della temperatura corporea si riflette in modo diretto in un


aumento della frequenza respiratoria.

Il controllo volontario della respirazione


I meccanismi appena visti sono spontanei e tendono, come già detto, a mantenere in
modo autonomo un equilibrio del pH del sangue entro un range fisiologico .

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La frequenza e l’ampiezza degli atti respiratori però soggiace anche al controllo
volontario, e questo ci permette di agire intenzionalmente per modificare la nostra
biochimica.

“Tramite la respirazione esterna possiamo modificare la respirazione interna, cellulare, e


il pH del sangue.”

Alcalinizzare il sangue con la respirazione circolare


Ora che abbiamo una comprensione teorica degli elementi in gioco analizziamo come la
tecnica della respirazione circolare agisce nell’alcalinizzare il sangue.

La condizione iniziale in cui si pratica il Respiro Circolare è assimilabile ad una


condizione di riposo.

In condizione di riposo la frequenza respiratoria è dettata principalmente da aspetti


biochimici.

Durante il Respiro Circolare utilizziamo una respirazione completa, profonda e


circolare.

Gli effetti della respirazione completa e profonda


Il primo effetto che possiamo rilevare, associato alla profondità del respiro, è quello di
un aumento della superficie di scambio polmonare.

Normalmente la superficie di scambio gassoso, tra aria e capillari sanguigni, è di 70-100


metri quadrati.

È un’area di per sé enorme, corrisponde circa all’area di un campo da tennis.

11/17
Una respirazione profonda e completa aumenta notevolmente quest’area, estendendola
anche fino a 150 metri quadrati.

L’effetto immediato della respirazione profonda e completa è che…

“Ad ogni atto di inspirazione-espirazione c’è un maggiore scambio di ossigeno e di


anidride carbonica a livello sanguigno.”

Gli effetti dell’aumento della frequenza


Nella respirazione circolare la frequenza del respiro viene aumentata rispetto allo
stato di riposo.

L’aumento del ritmo respiratorio non è dovuto a una richiesta del metabolismo cellulare,
è un atto volontario e intenzionale.

In questo modo andiamo ad alterare la nostra biochimica interiore a livello cellulare.

In particolare, agiamo su due fronti:

aumentiamo l’anidride carbonica [CO2] espulsa


aumentiamo la concentrazione di ossigeno disponibile ai mitocondri, le centrali
energetiche delle cellule.

Alcalosi respiratoria
Aumentando intenzionalmente la frequenza respiratoria aumentiamo l’espulsione di
anidride carbonica [CO2], creando una condizione fisiologica chiamata ipocapnia.

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La reazione chimica che regola il pH sanguigno si sbilancia verso sinistra, e nel tentativo
di ripristinare l’equilibrio aumenta la quantità di ioni idrogeno [H+] convertiti in
CO2.

Una diminuzione degli ioni idrogeno [H+] nel sangue corrisponde ad un aumento del
suo pH.

Il sangue si alcalinizza.

Ecco che abbiamo individuato il processo che ci permette di spostare il sangue verso
l’alcalinità: aumentando intenzionalmente la frequenza respiratoria aumentiamo la CO2
espulsa e di conseguenza abbassiamo anche gli ioni idrogeno [H+].

Questa condizione viene definita “alcalosi respiratoria“, perché è indotta dalla


respirazione.

Si tratta di una condizione temporanea, che in soggetti sani è assolutamente benefica


e regolata autonomamente entro parametri di totale sicurezza.

Specifico questo particolare perché esiste anche l’alcalosi respiratoria patologica, che
è causata da altri fattori. In questo caso l’effetto è dannoso, perché prolungato nel tempo
e non regolato entro un range di sicurezza.

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Nel caso dell’alcalosi respiratoria indotta intenzionalmente tramite la respirazione
circolare invece il processo è reversibile: l’alcalosi cessa tornando a una respirazione
ordinaria.

Questo squilibrio temporaneo verso l’alcalinità ha numerosi effetti salutari. Li


vedremo tra poco, prima vediamo cosa dicono le ricerche in laboratorio.

Esperimenti in laboratorio
Un recente esperimento medico ha indagato le modifiche biochimiche indotte dalla
respirazione circolare.

L’esperimento mostra come, già dopo un minuto e mezzo di respirazione circolare, il


pH del sangue passi da 7.4 (che è il suo valore normale) a 7.66, un valore notevolmente
più alcalino.

(Ti ricordo che il range entro cui il pH viene regolato autonomamente è molto stretto,
varia da 7.35 a 7.45.)

Il valore di sicurezza, entro cui il valore del pH è considerato fisiologico, è 7.8.

Negli esperimenti fatti con la respirazione circolare si è registrato un valore massimo di


7.75, un valore che conferma la sicurezza del metodo.

Esiste un meccanismo di autoregolazione fisiologica che impedisce al pH di spostarsi


oltre questo valore.

Sempre dopo solo un minuto e mezzo di respirazione circolare il valore di anidride


carbonica nel sangue è sceso da 4.49 a 2.11 (kPA), e il valore di ossigeno è passato da
16.5 a 22.0 (kPA).

Rispettivamente il valore di anidride carbonica è sceso del 47% e il valore di ossigeno


è aumentato del 33%. Variazioni enormi se si pensa che avvengono nel giro di pochi
minuti.

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Questi dati confermano in modo significativo tutti i processi che abbiamo descritto
nell’articolo.

Infine, un altro dato importante rilevato da questo esperimento medico: dopo 45 minuti
di respiro circolare (sebbene non continuo) il consumo di ossigeno cellulare è
raddoppiato.

Queste sono conferme importanti, che indicano in modo inequivocabile la capacità di


questa tecnica di respirazione di alterare la nostra fisiologia.

Se vuoi approfondire questa ricerca, trovi l’esperimento in bibliografia.

Effetti dell’alcalinità
La condizione di maggiore alcalinità del sangue indotti dalla respirazione circolare è
temporanea.

Al ritorno ad una respirazione ordinaria il pH si riporta in breve tempo ad un valore


ordinario di 7.4.

Eppure, sebbene transitoria, quest’escursione in condizione di alcalinità ha notevoli


effetti benefici sul corpo.

Innanzitutto, va a contro-bilanciare, laddove presente, una situazione di acidità.

Nell’epoca moderna la condizione fisica è generalmente squilibrata verso l’acidità: lo stile


di vita, lo stress, un’alimentazione acidificante, l’inquinamento, l’esercizio fisico strenuo…
tutti questi fattori si sommano nello squilibrare il fisico in condizione di leggera acidità.

Quando questa situazione diventa cronica, nel tempo può generare una decadenza
della condizione di salute e un invecchiamento prematuro.

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“Agendo tramite la respirazione circolare è possibilecompensare lo squilibrio verso
l’alcalinità e avere una condizione di salute migliore.”

L’alcalosi respiratoria temporanea indotta dalla respirazione circolare inoltre permette di


alleviare il carico degli altri sistemi tampone, come il tampone dei reni e quello dei
bicarbonati.

I reni si trovano ad avere un carico di lavoro minore nel compensare lo squilibrio del
pH sanguigno, perché il riequilibrio viene fatto tramite la respirazione nella sua
escursione temporanea verso l’alcalinità, che come abbiamo visto è un processo molto
più veloce ed efficace.

Il Respiro Circolare
L’alcalinizzazione del sangue è solo uno degli effetti del Respiro Circolare.

Questa tecnica ha numerose altre implicazioni: agisce in profondità nel rimuovere le


impurità fisiche, emozionali e mentali e favorisce un naturale riequilibrio delle
funzioni vitali e psicologiche.

L’effetto è quello di liberare un naturale flusso di energia vitale nel corpo, nei
sentimenti, nella mente e nella consapevolezza.

Se vuoi approfondire l’argomento, puoi scaricare l’ebook gratuito che parla proprio di
questa tecnica.

L’invito più importante comunque resta quello di sperimentare in prima persona gli
effetti del Respiro Circolare.

La comprensione teorica dei meccanismi che agiscono nell’applicarlo è secondaria:


quello che conta è imparare a respirare circolarmente e sperimentare su di sé gli
innumerevoli effetti benefici che questa tecnica di crescita personale può apportare.

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Bibliografia

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Il primo respiro: un imprinting che può durare tutta la vita
essereintegrale.com/primo-respiro

Agostino Famlonga

Siamo venuti al mondo con una prima inspirazione, e con un’ultima espirazione lo
lasceremo.

Dalla nascita in avanti il respiro rappresenta una connessione diretta con la vita.

Tra quella prima inspirazione e quell’ultima espirazione ci sono un’infinità di cicli di


respiro.

La connessione tra il respiro e la vita spesso viene messa in secondo piano rispetto ad
altre priorità, non ne siamo completamente consapevoli. Non siamo consapevoli che
respirando meglio possiamo connetterci maggiormente con l’energia vitale, con la vita
stessa, con la vitalità e la salute del corpo.

Così come non siamo completamente consapevoli di come gli eventi della nascita , e in
particolare il primo respiro, possano imprimere una forma a tutti gli altri respiri ,
quelli inclusi tra il primo e l’ultimo.

Il modo in cui viene vissuto soggettivamente l’evento della nascita e il primo respiro
possono segnare il corso di un’intera esistenza.

Vediamo perché questo accade.

1/13
L’importanza della nascita
La nascita è un evento universale: tutti siamo passati attraverso questo vissuto. Il modo
in cui viviamo questo importante passaggio di transizione spesso è determinante nel
dare una direzione a ciò che viene dopo, cioè al modo in cui ci relazioniamo con la
vita.

La vita inizia ben prima del parto fisiologico, la nascita è solo un passaggio. Un evento
che, seppur non ricordato in modo esplicito, lascia un segno in tutto ciò che viene dopo.

La nascita rappresenta il primo contatto che hai con il mondo fuori dal ventre materno.

In questo evento vengono registrate le prime impressioni, che lasciano un imprinting


importante.

È il primo contatto con il mondo esterno, e viene registrato non come ricordo esplicito,
ma sotto forma di un insieme di schemi pre-verbali, cioè di dinamiche di relazione
che plasmano ogni interazione: dal tuo pensiero al tuo rapporto con l’altro essere
umano, al tuo rapporto con il corpo e con la vita stessa.

La nascita viene vissuta come un vero e proprio evento drammatico. Infatti spesso si
sente parlare del trauma natale. Perché?

Perché, come dice lo psicologo Winnicott:

Nessun neonato è pronto per nascere.

Un cambiamento radicale
Tutto lo sviluppo fisiologico prima di questo evento è progressivo, graduale. Il bambino
2/13
ha avuto 9 mesi per dare forma e plasmare il corpo e il suo sentire, in modo continuo.

La nascita rappresenta un evento discontinuo in questa progressione.


Da una condizione uniforme di sviluppo lineare e progressivo, interviene un
cambiamento radicale, caratterizzato da un insieme di stimoli nuovi e intensi:
sensazioni tattili inedite, un drastico cambio della temperatura, l’esposizione alla luce e al
suono aereo.

E ancora: la separazione fisica rispetto alla madre e l’intervento della respirazione


polmonare. Questi due passaggi in modo particolare sono determinanti nel
condizionare tutta la struttura di personalità che si formerà nel tempo che seguirà.

Dal vissuto soggettivo di questi eventi vengono infatti registrate delle conclusioni
inconsce, ad esempio rispetto alla sicurezza o all’insicurezza dello stare nella vita.

Non si tratta di ragionamenti o di ricordi consapevoli, si tratta di schemi di relazione pre-


verbali, registrati nell’inconscio non rimosso.

Per approfondire » I 6 tipi di inconscio

Apparentemente non è possibile accedere a questi ricordi, perché siamo abituati a


concepire il ricordo solo attraverso l’utilizzo della memoria esplicita, dichiarativa. Questo
serbatoio di impressioni invece è registrato in un’altra parte della memoria, molto più
profonda. Anche questo ricordo è accessibile, ma non tramite la facoltà del ricordo
esplicito a cui normalmente facciamo riferimento.

Nulla si dimentica, e la nascita meno di tutto il resto. [ F. Leboyer ]

Vedremo più avanti le modalità attraverso le quali è possibile accedere intenzionalmente


a queste impressioni.

Per comprendere meglio l’evento della nascita e del primo respiro, è utile conoscere la
condizione iniziale in cui si trova il bambino prima di nascere. Diamo quindi uno sguardo
alla vita prenatale.

3/13
Vita prenatale

Lo sviluppo delle funzioni fisiche


Alcuni sensi del bambino si sviluppano in modo pressoché completo nella fase
prenatale: il gusto, l’udito e l’olfatto sono ben sviluppati e molto attivi.

Così anche il tatto, che si sviluppa fin dalle prime settimane di gravidanza.

Un senso invece poco sviluppato è quello della vista: la scarsa luce presente nell’utero e
l’assenza di oggetti da osservare fa sì che questo senso, rispetto agli altri, sia meno attivo.

Il sistema motorio si sviluppa gradualmente e si predispone al parto.

L’intestino è immobile, inattivo, non ha bisogno di funzionare.

Le vie urinarie invece sono attive e producono il liquido amniotico.

I polmoni non sono ventilati, sono infatti pieni di liquido.

La circolazione sanguigna polmonare non è attiva , se non in minima parte. Sarebbe


infatti uno spreco di risorse inutile. La circolazione polmonare è bypassata dal forame
ovale, un passaggio che unisce le camere del cuore evitando in questo modo che
pompino il sangue ai polmoni fintanto che non sarà necessario. Vedremo meglio questo
aspetto più avanti, quando affronteremo la fisiologia del primo respiro.

Lo sviluppo delle funzioni psichiche


Nel grembo materno il bambino si sente contenuto e protetto.
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I suoi bisogni sono immediatamente soddisfatti. Non esiste per il bambino lo stimolo
della fame e della sete: tutto il nutrimento gli viene fornito in tempo reale dalla madre,
ancora prima che lui ne avverta lo stimolo della mancanza.

Non ha la percezione della gravità. In galleggiamento nel liquido amniotico, non


percepisce il suo peso, non percepisce i confini del suo corpo in formazione.
Non percepisce alcuna separazione: né tra interno ed esterno, ne tra il suo corpo e ciò
che lo circonda. Si trova in una condizione di simbiosi totale.

Significa che

il bambino non ha una percezione di sé separata dal resto.

È, a tutti gli effetti, una entità psicosomatica in simbiosi con tutto ciò che lo circonda.

Non esiste nel bambino in questa fase una facoltà di pensiero comunemente intesa. Non
pensa cioè nella modalità con cui siamo abituati a concepire noi (da adulti) il pensiero.

Possiamo dire che:

il bambino “pensa” per emozioni e sentimento.

La dimensione cognitiva è corrispondente alla dimensione affettiva, che è in


simbiosi con quella materna.

Per approfondire » Evoluzione della coscienza

Da questa condizione psicofisica inizia il viaggio del bambino nel mondo, nell’evento di
transizione della nascita.

La nascita

Le sensazioni fisiche
Dalla condizione di galleggiamento nel liquido amniotico il bambino passa (nel caso di
un parto naturale) attraverso il restringimento progressivo del canale del parto. A livello
tattile, questa è un’esperienza intensa, di forte compressione che è completamente
diversa dalla condizione precedente di sospensione, galleggiamento, di contenimento e
di assenza di gravità.

Questa condizione crea un forte impatto emotivo: è il primo cambiamento discontinuo e


radicale che il bambino incontra nella sua fase formativa.

La pressione e le contrazioni creano sensazioni tattili fortissime, che associate alla


condizione precedente creano una miscela di piacere e dolore. È un sentire che il
dolore del parto e il piacere della vita embrionale sono intrinsecamente intrecciati.

5/13
Questo è un imprinting fortissimo che può lasciare un condizionamento nelle future
esperienze di ricerca del piacere.

La luce
Prima della nascita il bambino è protetto dall’esposizione alla luce: il corpo materno e il
liquido amniotico fanno da filtro. Al momento del parto, se non c’è una cura adeguata
rispetto a questo aspetto, la vista riceve uno stimolo intenso anche da una minima
quantità di luce.

Per gli occhi del neonato la luce diurna, utile a chi assiste il parto, può risultare uno
stimolo di notevole impatto. Se la luce è esagerata, può addirittura risultare
sopraffacente.

I suoni
Prima del parto i suoni che il bambino sente sono attutiti: sente il battito del cuore
materno e i rumori intestinali. I rumori e le conversazioni del mondo esterno sono
notevolmente schermati, e veicolati attraverso un liquido , non attraverso l’aria.

Nel momento del parto avviene il primo contatto con i suoni veicolati dall’aria e
questo rappresenta un cambiamento radicale nell’intensità del volume percepito. Ogni
rumore risulta per questo amplificato e vissuto in modo intenso dall’udito del neonato.

La temperatura
Nell’utero la temperatura ha un’escursione minima, oscilla tra i 37° e i 39°. La nascita
quindi è per il neonato la prima esperienza di un drastico cambio di temperatura.
Immaginando una temperatura della sala parto di 21°, c’è un’escursione termica
notevole, soprattutto perché è la prima volta che il bambino incontra uno sbalzo di
questo tipo.

L’incontro con l’altro


Dalla condizione di uniformità degli stimoli presente nell’utero, il neonato viene
proiettato in una situazione in cui sono presenti una quantità e una varietà incredibile
di stimoli sensoriali. La sensazione di contenimento e di protezione del grembo
materno viene meno e il bambino viene esposto all’incontro con l’altro essere umano.
Questo momento di accoglienza è significativo perché lascia impresso il primo
contatto che il bambino ha con il mondo e con ciò che è “altro da sé.”

Separazione fisica
Nella nascita avviene la prima separazione fisica del bambino dalla madre. Il contatto e il
contenimento che è durato per tutta la gestazione subisce un cambio di stato, dalla
condizione uterina a quella extrauterina.
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È un cambio di stato incredibilmente significativo. Pur essendo inevitabile, può essere
mitigato lasciando al neonato la possibilità di un contatto con la madre, di modo che
percepisca questa transizione come il più possibile graduale.

Se invece viene separato in modo brusco dalla madre, con un taglio prematuro del
cordone ombelicale e non consentendo il contatto fisico, questo cambiamento di stato
resterà registrato come una separazione improvvisa, inaspettata e dolorosa, e
rappresenta una vera e propria esperienza sopraffacente per il neonato.

Il primo respiro
In utero il bambino non ha bisogno di respirare. Riceve tutto l’ossigeno che gli serve
tramite il cordone ombelicale: la madre respira per entrambi.

Quando nasce si apre uno scenario a due vie: o il bambino impara a respirare per una
brusca mancanza di ossigeno, oppure al bambino viene lasciato il tempo per attivare la
respirazione polmonare e imparare gradualmente a respirare.

In entrambi i casi viene attivata la respirazione e la circolazione polmonare, ma le


impressioni registrate dal primo respiro saranno molto diverse tra il primo e il secondo
scenario.

Il primo respiro per mancanza di ossigeno


Se il cordone ombelicale viene tagliato prima che il neonato respiri pienamente e
liberamente, il bambino si trova costretto ad imparare a respirare in una situazione di
carenza di ossigeno: una vera e propria minaccia alla sua sopravvivenza.

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In questo caso al primo respiro viene associata la sensazione terrificante di poter
morire. Alla paura viene poi associato anche il dolore che proviene dall’immettere in
modo brusco l’aria nei polmoni. La prima inspirazione infatti genera una sensazione
polmonare di dolore bruciante.

Facilmente questa condizione porta all’associazione respirare=dolore, e al dolore viene


associata la paura. Il respiro da una parte risulta necessario a sopravvivere, dall’altra
viene resistito perché doloroso.

Questo imprinting può indurre uno schema respiratorio limitato nell’ampiezza, cioè
un respiro che rimane superficiale.

La paura del dolore associato alla piena respirazione riduce in questo modo la vitalità
fisica mantenendo il respiro superficiale.

Una pratica che può essere usata per facilitare lo svuotamento dei polmoni dal liquido
amniotico è quella di sospendere il neonato a testa in giù. In questo caso l’impressione
che viene registrata assieme al primo respiro è quella di vertigine. È un’associazione che
può permanere sotto forma di disorientamento, e venire attivata in seguito
ogniqualvolta la respirazione si fa più piena.

Il primo respiro spontaneo


Se si lascia il tempo al neonato di apprendere la respirazione polmonare, il primo respiro
avviene senza forzature e senza la sensazione di minaccia alla sopravvivenza.

Aspettando a tagliare il cordone ombelicale si rispettano i tempi fisiologici del


bambino.

Il neonato impara con i suoi tempi a respirare senza sentirsi impaurito. Non avendo
carenza di ossigeno brusca può approcciare la respirazione polmonare in modo
graduale. Inizia con dei primi sussulti respiratori che poi si trasformano nel giro di pochi
minuti in atti completi.

Il respiro diviene in questo modo una sua conquista progressiva, senza imprinting
negativi e condizionanti.

Per approfondire » Il rito della nascita [F. Leboyer]

La respirazione del neonato diviene, in modo del tutto spontaneo, circolare, cioè senza
pause tra inspirazione ed espirazione, e tra espirazione e inspirazione.

La fisiologia del primo respiro


Per compiere il primo respiro il neonato deve vincere una notevole resistenza dei
polmoni. Essi devono dilatarsi, e il primo atto inspiratorio deve vincere una tensione
supericiale maggiore di quella necessaria negli atti seguenti. Un po’ come quando si
8/13
gonfia un palloncino: all’inizio fai più fatica perché bisogna vincere la tensione
superficiale. Una volta superata la fase iniziale, poi il gonfiaggio incontra meno
resistenza.

Quindi i primi 2-3 atti necessitano di più pressione inspiratoria (3 o 4 volte maggiore
dell’ordinario).

I primi respiri consentono di spremere il liquido contenuto negli alveoli e di stabilizzare


la tensione polmonare per mezzo del surfactante, una sostanza tensioattiva che
mantiene aperti gli alveoli.

I primi respiri sono anche più intensi e profondi perché devono creare lo spazio morto
respiratorio, cioè devono riempire quella parte dei polmoni che nelle normali
inspirazioni-espirazioni non viene svuotata. Essendo il primo respiro, il polmone deve
creare e riempire questo spazio supplementare.

Nell’arco di pochi secondi gli alveoli risultano ventilati e occupati d’aria: ha inizio la
funzione respiratoria polmonare.

Per tutta la gestazione il feto vive in una condizione di bassissima concentrazione


sanguigna di ossigeno. Con i primi respiri aumenta tantissimo la concentrazione di
ossigeno nei polmoni. Si crea una condizione di iperossia polmonare: è come passare
dall’Everest al livello del mare in pochissimi istanti.

Questo cambio repentino di ossigenazione provoca una dilatazione improvvisa dei


vasi sanguigni polmonari. La dilatazione richiama dalla parte destra del cuore grandi
quantità di sangue. Si crea così il circolo polmonare, che associato alla respirazione
polmonare permette al sangue venoso di ossigenarsi e di essere pompato in tutto
l’organismo dalla parte sinistra del cuore.

9/13
La circolazione sanguigna fetale

10/13
La circolazione sanguigna neonatale

Rivivere il primo respiro


Come abbiamo visto nell’introduzione dell’articolo, le impressioni legate alla nascita, pur
non essendo accessibili in modo esplicito e verbale, restano registrate in modalità
implicite pre-verbali e pre-simboliche.

Sono i mattoni che danno forma a tutto ciò che viene costruito nella psiche nelle fasi
seguenti di sviluppo della persona.*

11/13
[ *Per un’analisi della struttura stratificata della coscienza, si veda Sasso a Pag. 92. ]

Se in questo nucleo fondamentale della psiche vengono registrate delle impressioni


disfunzionali, queste plasmano le connessioni e gli schemi relazionali di ciò che viene
dopo. La mente nelle sue funzioni cognitive superiori, partendo dalle sue fondamenta,
viene strutturata in modo alterato rispetto alla sua funzione ordinaria.

L’integrazione di queste esperienze si rivela dunque fondamentale per il benessere


mentale, emozionale e relazionale della persona.

Essendo radicate profondamente nell’inconscio non rimosso, sono impressioni


difficilmente accessibili con i metodi ordinari di analisi e di introspezione. Per accedere
a questi strati pre-verbali e pre-simbolici della mente, serve una tecnica di integrazione
che lavori anche a questo livello, una tecnica come il Respiro Circolare.

La liberazione del respiro


Tramite la respirazione connessa è infatti possibile accedere a questa profondità e
integrare gli schemi immagazzinati, sciogliendo l’imprinting condizionante della nascita
e lo schema respiratorio associato al primo respiro.

Pur non essendo un fine esplicito del Respiro Circolare, può accadere durante le sedute
di rivivere in modo consapevole gli eventi della nascita , integrandone in questo
modo le impressioni associate.

Questo evento viene spesso vissuto come uno sblocco energetico significativo, con una
scarica importante della tensione accumulata nel corpo e nello schema respiratorio
impresso dal primo respiro. Si scioglie in questo modo la costrizione nella
respirazione che aveva plasmato per una vita intera il modo di respirare e lo schema di
relazione nei confronti della vita, dell’altro e nei confronti di sé stessi.

La liberazione del respiro può accadere nelle sedute di Respiro Circolare in modo
indipendente rispetto al rivivere gli eventi della nascita. A volte accade come evento a sé
stante.
Viene vissuto con una sensazione interiore di profonda e radicale liberazione.

Le costrizioni della respirazione si sciolgono, e questo lascia spazio alla profondità e alla
pienezza del respiro, ad un sentire pieno dell’energia vitale e ad una sensazione di
libertà nell’interazione con la vita.

La libertà nella respirazione si traduce nel vissuto soggettivo di essere liberi di interagire
con la vita.

Per approfondire » Respiro Circolare

Bibliografia
12/13
Gianpaolo Sasso – La nascita della coscienza
Frederick Leboyer – Per una nascita senza violenza
Hayne, Harlene. “Infant Memory Development: Implications for childhood amnesia.” Elsevier.
2003. (April 21, 2008)
Simcock, Gabrielle and Hayne, Harlene. “Breaking the Barrier? Children Fail to Translate Their
Preverbal Memories Into Language.” Psychological Science. 2002. (April 21, 2008)
Can a person remember being born?
Roberta Spandrio, Anita Regalia, Giovanna Bestetti – Fisiologia della nascita

Photo credit: Katie80 on Visual hunt / CC BY-NC-SA

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Lo stress: le sue origini, gli effetti e le sue soluzioni
essereintegrale.com/stress

Agostino Famlonga

Alla radice di molti problemi, sia legati alla salute che non, spesso c’è lo stress.

La condizione di stress cronico è talmente comune che lo stress è stato definito come
“la malattia del secolo”.

Penso che chiunque, osservando la propria vita, abbia incontrato, almeno in modo
temporaneo, una condizione che l’ha portato a dire… “sono stressato”.

Dietro questa frase si celano un insieme di sistemi che interagiscono tra di loro: noi ne
percepiamo solamente l’effetto finale.

Ma cos’è lo stress?
Perché qualcuno regge meglio lo stress di qualcun altro?
Lo stress è sempre negativo?

Tuffiamoci in questo interessante argomento per scoprire come lo stress agisce nella
nostra vita.

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Cos’è lo stress
Lo stress è una risposta dell’organismo ad uno stimolo che ne altera temporaneamente
l’equilibrio.

Ovvero, ogniqualvolta intervenga uno stimolo a modificare l’equilibrio interno di un


organismo vivente, questa condizione può essere definita stressante, perché richiede di
ripristinare l’equilibrio alterato.
Cioè all’organismo è richiesta una risposta di adattamento.

Con una definizione di questo tipo, puoi riconoscere subito che in una giornata sei
sottoposto a una miriade di stimoli stressanti. Ovvero sei costantemente sollecitato ad
adattarti agli stimoli che incontri nella vita, siano essi interni (psicologici), esterni
(dell’ambiente in cui ti trovi), relazionali ecc.

Ma, per fortuna, a livello soggettivo non percepisci di essere sempre stressato.

Perché?

Percepisci di essere stressato quando la somma degli stimoli supera la tua capacità di
adattamento.

Ovvero quando il tuo organismo non riesce più a rispondere agli stimoli in modo
funzionale.

Ovvero, detto con un termine tecnico, quando hai alterato oltremisura l’equilibrio
omeostatico.

Vediamo dunque cos’è l’omeostasi.

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Omeostasi
L’omeostasi è la tendenza naturale degli organismi viventi al mantenimento della stabilità.

L’omeostasi è una caratteristica intrinseca alla natura degli esseri viventi, che tendono a
ripristinare un equilibrio funzionale laddove stimolati ad un cambiamento.

Esistono cioè dei meccanismi regolatori all’interno dei viventi che al variare delle
condizioni esterne tendono a mantenere un equilibrio fisiologico.

Pensa ad esempio all’autoregolazione della temperatura corporea. Se sei sottoposto ad


uno stimolo che altera lo scambio di calore del tuo organismo con l’ambiente, il corpo
reagisce con dei meccanismi specifici per mantenere costante la temperatura. Se sei
esposto al freddo, ad esempio, inizierai a tremare. Il tremolio produce, tramite la
contrazione muscolare, una quantità minima di calore che ha lo scopo di ripristinare
l’equilibrio omeostatico alterato dall’esposizione al freddo.
Raggiunto nuovamente l’equilibrio, il tremolio cessa.

Il principio dell’omeostasi è riscontrabile ovunque nell’essere umano. È una funzione


presente sia nella fisiologia (la singola cellula, l’organo, il corpo) che nella sua psicologia.
Ma non solo, anche a livello sociale e ambientale.
In tutte queste dimensioni esistono dei meccanismi di regolazione che tendono, in modo
dinamico, a ripristinare un equilibrio funzionale laddove intervenga un fattore
stressante.

Stress sano

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Spesso pensiamo che lo stress sia intrinsecamente negativo. Che sia qualcosa da
eliminare completamente dalla vita.
Ma non è così.

Hai bisogno di un certo grado di stress per restare in salute e per crescere nelle aree della
vita.

Una completa assenza di stress è nociva, tanto quanto uno stress eccessivo.

Pensa ad esempio all’attività fisica. Hai bisogno di un certo grado di sollecitazione fisica
per mantenere in salute il corpo. Se questa è insufficiente, i muscoli e le ossa si
indeboliscono e compromettono la loro funzione.

Gli astronauti nello spazio, in situazione di microgravità, sono chiamati a compensare la


mancanza dello stress della gravità terrestre compiendo regolarmente un’intensa attività
fisica, molta di più di quella necessaria sulla terra.

Sono due esempi che aiutano ad inquadrare la situazione dello stress da un punto di
vista più globale, riconoscendo che esiste uno stress positivo, e uno stress negativo, che
può dipendere sia dal tipo di stressor, che dalla quantità di stress a cui sei sottoposto.

Nello studio dello stress, questi hanno un nome specifico: eustress e distress.

Impariamo a conoscerli con “La curva dello stress”.

La curva dello stress

Curva dello stress

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Nel grafico vedi una tipica curva a campana, suddivisa in quattro zone colorate che
rappresentano il grado di stress a cui sei sottoposto.

Esiste una condizione di riposo, in cui gli stimoli sono minimi.

C’è poi una condizione di stimolazione ottimale, in cui la sollecitazione porta ad una
risposta efficiente, sia fisica che mentale.

Se la condizione permane nel tempo, o se gli stimoli aumentano di intensità, si entra


nella zona di sovraccarico, in cui ancora la risposta è ottimale, e l’organismo è chiamato
a crescere.

Se questa persiste troppo a lungo, o se ancora lo stimolo aumenta di intensità, si sfocia


nella parte rossa della curva, in cui c’è un vero e proprio esaurimento. Cioè si esaurisce
la capacità di risposta della persona allo stimolo.
Probabilmente, quando dici “sono stressato, ho bisogno di riposare”, sei finito nella zona
rossa.

Il riposo è utile e indispensabile per ripristinare l’omeostasi, ma non deve essere


considerato come la soluzione permanente al problema dello stress.

Perché? Dipende dallo stress positivo e dallo stress negativo.

Eustress e Distress
Nel grafico vedi che sia la zona verde che la zona rossa sono chiamate con il
nome distress.

Il termine distress rappresenta l’aspetto negativo dello stress.

Questo è valido sia in eccesso, quando gli stimoli esauriscono la capacità di risposta, che
in difetto, quando cioè gli stimoli non sono in grado di stimolare una risposta fisiologica.

Il termine eustress invece rappresenta l’aspetto positivo dello stress.

Lo stress in questa zona è positivo perché ti porta ad elevare la tua efficienza fisica e
mentale e a crescere in capacità di risposta.
È il sovraccarico giusto che ti permette, una volta recuperato, di avere una capacità di
risposta maggiore la volta seguente che affronti una situazione simile.

Come vedi la zona di eustress è quella centrale, all’apice della curva, in cui affronti una
quantità di stress adeguata alle tue capacità e che ti espone a una crescita, ad un leggero
sovraccarico.

Lo stress è positivo quando ti fa uscire fuori dalla tua zona di comfort e ti porta nella zona
in cui sei stimolato a crescere nelle tue abilità.

È il sovraccarico che ti porta a crescere nella tua capacità di risposta. L’omeostasi che si
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ripristina, durante il recupero, posiziona la tua capacità di risposta ad un livello
maggiore di capacità di adattamento rispetto a quella iniziale.

Ricorda che questi principi sono validi per qualsiasi ambito. L’approccio e gli esempi che
ho fatto finora sono legati all’aspetto fisico, ma puoi estenderli a tutti i contesti della vita.
Nella tua attività mentale, nelle tue relazioni, nell’ambiente in cui sei inserito. E anche a
livello sociale, questi principi agiscono nel medesimo modo.

Non solo, ma gli stimoli di tutte queste aree si sommano tra di loro nel determinare la
quantità di stress generale a cui sei sottoposto.

Vediamo ora i vari tipi di stressor a cui siamo esposti.

Gli stressor
Cos’è uno stressor?

Uno stressor è uno stimolo che genera stress, cioè che altera il tuo equilibrio.

Essendo la nostra natura immersa in più dimensioni, possiamo rilevare stressor di varia
natura: fisici, psichici, ambientali ecc.
Vediamo ora categoria per categoria quali sono gli stressor positivi e quelli negativi.

Ricorda che

uno stressor può essere positivo per sua natura, ma diventare negativo se ne rimani
esposto per un tempo maggiore della tua capacità di risposta.

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Un esempio: la luce solare.
L’irradiazione solare è uno stressor sano, ci è indispensabile per la vita, ma se ti esponi
troppo al sole rischi un’ustione o un’insolazione. Uno stressor positivo è diventato
negativo per quantità o intensità.

Esiste poi una seconda categoria di stressor:

ci sono stressor che sono intrinsecamente negativi, perché non sono fisiologici.

Non siamo predisposti a metabolizzare ogni tipo di stimolo. Alcuni, semplicemente, non
sono fisiologici, quindi sono e restano negativi, indipendentemente dalla quantità di
stimolo a cui sei esposto.

Un esempio: non siamo biologicamente predisposti a metabolizzare l’alcol. Bere alcol,


anche in quantità minime, significa esporsi ad uno stressor negativo.
Non esiste una dose oltre il quale diviene negativo. Anche in quantità minime, l’alcol è
neurotossico e cancerogeno.

Vediamo ora, categoria per categoria, alcuni tipi di stressor.

Stressor fisici
Stressor positivi

Lo stress fisico sotto forma di movimento o esercizio è altamente benefico.


Lo stress deriva dal caricare i muscoli e le ossa del nostro corpo sotto l’influenza della
gravità.
Un movimento fisico adeguato permette di mantenere un tasso metabolico ottimale (la
velocità con cui avvengono i processi fisici e chimici nel corpo).

Considerato che in Italia il 45 percento della popolazione è in sovrappeso e che solo il 25


percento pratica regolarmente un qualche tipo di esercizio fisico, appare evidente che
abbiamo bisogno di incrementare la nostra esposizione agli stressor fisici positivi.

Stressor negativi

Una quantità eccessiva di stimolo fisico può essere nociva, tanto quanto la
sedentarietà.
Chiaramente questo si manifesterà in forma diversa.
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Mentre il mancato movimento può portare al sovrappeso e all’abbassamento del tasso
metabolico, un’attività fisica eccessiva può portare a una soppressione del sistema
immunitario.

Questo può portare ad una maggiore predisposizione a contrarre infezioni alle vie
respiratorie, alla sindrome di affaticamento cronico e ad una serie di altri malanni.

Un’altra forma di stressor fisico negativo è una cattiva postura.


La postura ha un’influenza importante sulla respirazione, sul funzionamento muscolare,
sulla salute dei legamenti, sulla circolazione e sul supporto degli organi.

Stressor chimici
Stressor positivi

Il nostro corpo è pieno di sostanze chimiche, sostanze naturali che sono essenziali per la
salute. Il compito di produrre questi elementi chimici basilari è uno stress
fondamentale per il corpo. Per esempio, quando i sistemi del corpo lavorano
correttamente, l’esercizio fisico produce un adattamento chimico sotto forma di
cambiamenti ormonali che alterano la tua biochimica, incrementando la sintesi di
proteine, la produzione di energia, e una miriade di altre reazioni chimiche positive.

L’azione del sole sulla pelle innesca la sintesi di vitamina D e la regolazione degli ormoni
melatonina e cortisolo. Sono tutti stressor chimici positivi.

Il cibo (vero) è fatto di sostanze chimiche biologiche: carboidrati, proteine e grassi,


vitamine, enzimi ecc. Tutte le reazioni chimiche atte a metabolizzare queste sostanze
sono stressor positivi.

Stressor negativi

Al giorno d’oggi siamo bombardati da centinaia, se non migliaia, di sostanze chimiche


che non esistevano un centinaio di anni fa. Molte di queste sostanze sono sintetiche,
e il nostro corpo non ha i meccanismi per neutralizzarle.
Ogniqualvolta ingeriamo sostanze di questo tipo, sottoponiamo il corpo ad uno stressor
negativo.

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Un altro esempio di stressor chimici negativi sono le sostanze usate nell’agricoltura:
pesticidi, erbicidi e anche alcuni fertilizzanti.
Molti problemi di salute sono legati a questo tipo di stressor chimico negativo.

Stressor elettromagnetici
Stressor positivi

Una forma di stress elettromagnetico positivo è la luce solare. Senza il sole la vita non
esisterebbe nella forma a noi nota. Quindi, questa rientra certamente entro la categoria
degli stressor positivi.

Un’altra forma di stress positivo è il campo elettromagnetico della terra. Questo


campo invisibile ci aiuta a regolare il ritmo ormonale e altre funzioni fisiologiche.

Stressor negativi

La forma più ovvia di stress elettromagnetico negativo è la sovraesposizione alla luce


solare.

Un’altra forma di stressor negativo è l’esposizione ai raggi X.

Ancora, l’inquinamento elettromagnetico dei nostri dispositivi elettronici: computer,


cellulari, microonde, televisioni e scaldasonno. Sono tutte forme di stressor
elettromagnetici negativi.

Stressor psichici
Stressor positivi

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L’attività di pensare e di usare la mente in modo produttivo e funzionale rappresenta
uno stressor mentale positivo.

Avere dei fini della vita, e impiegare le risorse mentali sia nel pianificare strategie, che
nell’attuare le azioni necessarie per raggiungerli, sono tutti forme positive di stress
psichico.

Anche l’impiego delle risorse mentali per superare le avversità è uno stress psichico
positivo, perché ti permette di crescere come persona, di essere più forte e resiliente.

Stressor negativi

Una forma comune di stressor mentale negativo è la tendenza a restringere il campo di


attenzione su quello che non funziona, su quello che non vuoi, invece che mantenere
l’attenzione su quello che vorresti ottenere da una determinata situazione.

Altre forme di stress mentale negativo sono le comunicazioni che creano


incomprensione, le ferite nelle relazioni, l’imposizione di modi di pensare da parte di
altri, il prenderti responsabilità che non ti competono o che sono oltre la tua
capacità di azione.
Anche lo studio eccessivo, quando supera la soglia personale di assimilazione, produce
una diminuzione dell’efficienza mentale.

Stressor termici
Stressor positivi

Lo stressor termico ovviamente positivo è il mantenimento della temperatura


corporea entro il suo parametro fisiologico di base, cioè 37°.

Quando siamo esposti al caldo o al freddo, il corpo reagisce con i sui sistemi di
adattamento per mantenere la temperatura costante. Questo è uno stressor positivo
che permette al corpo di mantenere il suo adattamento dinamico alle variazioni di
temperatura.

Stressor negativi

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Un’ustione è un esempio di stressor negativo termico. Può essere localizzata, o diffusa
su tutto il corpo, ad esempio a causa di una prolungata esposizione alla luce solare.
All’opposto, una condizione che porta all’abbassamento della temperatura corporea
sotto la soglia fisiologica per un periodo prolungato di tempo può essere considerato
uno stressor negativo.

Stressor nutrizionali
Stressor positivi

Esempi di stressor positivi sono: mangiare in accordo con la tua costituzione, mangiare
cibo biologico, evitare l’eccesso di cibo o al contrario la carenza di nutrimenti.

Il corpo ha bisogno di questo tipo di stress per mantenere funzionali i processi di


digestione, assimilazione e metabolizzazione del cibo.

Mangiare cibo ricco di energia vitale è uno stressor positivo, perché fornisce al corpo,
oltre ai nutrimenti chimici, l’altro elemento indispensabile al suo funzionamento.

Stressor negativi

Mangiare troppo, o mangiare troppo poco, o mangiare cibi non in linea con la propria
costituzione sono tutte forme di stress nutrizionale negativo.

Anche il consumo di cibi carichi di tossine, pesticidi, conservanti e coloranti sottopone il


corpo ad un carico di stress non fisiologico.

Mangiare cibo deprivato della sua energia vitale (processato, conservato), pur
fornendo dal punto di vista nutrizionale i medesimi elementi di un cibo fresco, chiede
all’organismo una quantità di energia vitale, per il suo processamento, superiore a quella
che fornisce una volta assimilato. Dal punto di vista del bilancio dell’energia vitale
dunque, l’esito è negativo, si crea cioè un deficit. Questo è chiaramente uno stressor
nutrizionale negativo.

La somma di tutti gli stressor


Tutti gli stressor, siano essi positivi o negativi, si sommano tra di loro e vanno a
sollecitare la tua capacità di risposta.

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La somma di tutti gli stressor in relazione alla capacità di risposta dell’organismo

Nell’immagine vedi che, da ogni fonte di stress, partono due frecce: quella verde
rappresenta uno stressor positivo, quella rossa uno stressor negativo.
Tutti questi stimoli si sommano tra di loro e sollecitano la tua capacità di mantenere
l’omeostasi.

Puoi notare che sulla destra della figura c’è una scala in percentuale: indica la tua
capacità di risposta, ovvero la tua tolleranza allo stress (ne parleremo in conclusione
dell’articolo).

Se hai una piena capacità di tollerare lo stress, e gli stressor a cui sei sottoposto sono
positivi (palline verdi), resti entro la soglia degli stressor fisiologici. Sei in grado cioè di
rispondere in modo adeguato, di ripristinare l’omeostasi inziale e di innescare in questo
processo una crescita della tua capacità di adattamento.

Se però la tua tolleranza allo stress non è al massimo della sua capacità, oppure se gli
stressor a cui sei sottoposto sono negativi (palline rosse), ecco che l’omeostasi viene
compromessa, ed iniziano a manifestarsi vari tipi di sintomi (freccia gialla).

Si innesca in questo modo una spirale discendente negativa: la minore capacità di


risposta allo stress ti fa scivolare progressivamente dalla zona verde a quella gialla,
diminuendo ancora di più la finestra entro cui la risposta è adattiva. Questo fa
accumulare ancora più stress e fa diminuire ulteriormente la capacità di risposta (fascia
rossa del grafico).

Tutto questo porta ad acuire i sintomi, sia in numero che in intensità.


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Più la tolleranza allo stress è indebolita, più la capacità di ripristinare l’equilibrio iniziale è
ridotta e maggiori sono i sintomi che si manifestano a parità di stimoli stressanti.

Sistema Nervoso
Il Sistema Nervoso gioca un ruolo importantissimo nel metabolizzare lo stress.

Esso è composto dalla combinazione di due sistemi che lavorano assieme. Il sistema
nervoso periferico, che controlla i movimenti volontari, e quello il sistema nervoso
centrale, che contiene a sua volta il sistema nervoso autonomo, che è quello che ci
interessa per il tema dello stress.

Sistema Nervoso Autonomo


Il sistema nervoso autonomo è chiamato in questo modo perché regola
autonomamente delle funzioni fisiologiche che normalmente non sei in grado di
influenzare intenzionalmente: ad esempio la digestione e l’eliminazione del cibo, il
rilascio ormonale, la sudorazione e l’afflusso si sangue ai muscoli e agli organi.

A sua volta il Sistema Nervoso Autonomo è diviso in due branche: il Sistema Nervoso
Simpatico (SNS) e il Sistema Nervoso Parasimpatico (SNP).

Sistema Nervoso Simpatico


Il Sistema Nervoso Simpatico, quando viene attivato, produce una risposta del tipo
“attacco o fuga”.
Una situazione potenzialmente pericolosa è processata mettendo l’organismo in
condizione di combattere la minaccia o di scappare dal pericolo.
A livello fisico questa risposta si manifesta con
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il rilascio di ormoni che aumentano il battito cardiaco e la pressione sanguigna;
lo spostamento del sangue dal centro del corpo alle periferie (pelle e muscoli),
diminuendo in questo modo la funzione dei processi di digestione e di
eliminazione;
aumento della sudorazione.

Il SNS è un sistema catabolico (che distrugge i tessuti). Quando la risposta attacco o fuga
è attivata, aumentano la quantità di ormoni dello stress messi in circolo, come ad
esempio il cortisolo.
Quando il livello di cortisolo supera una certa soglia, il livello degli ormoni anabolici (di
ripristino e di riparazione) si riduce.
Un’esposizione prolungata agli ormoni dello stress porta al deterioramento dei tessuti e
all’affaticamento delle ghiandole surrenali. Quando queste sono affaticate, il corpo non
riesce a mantenere l’equilibrio tra lo stress e gli ormoni immunitari, il che porta sua volta
a delle disfunzioni del sistema immunitario. In cascata, questo rende la persona più
esposta alle malattie.

Sistema Nervoso Parasimpatico


Il Sistema Nervoso Parasimpatico è l’altro lato della bilancia del Sistema Nervoso
Autonomo. La sua funzione è anabolica, cioè di riparazione, crescita, di digestione e
assimilazione.
Il SNP stimola il metabolismo e il rilascio degli ormoni anabolici (ormone della crescita,
testosterone, estrogeni e altri).

Se il SNP è costantemente soppresso a causa della sovrastimolazione del SNS,


l’organismo non riesce a mettere in atto le funzioni di digestione e di riparazione in grado
di compensare l’omeostasi e l’adattamento.

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La sovra-stimolazione del SNS è una delle principali cause degli stati di affaticamento
cronico e di varie malattie degenerative.

La risposta allo stress


La risposta allo stress è un insieme di reazioni a catena che coinvolgono il Sistema
Nervoso, il sistema ormonale e il sistema immunitario in risposta agli agenti stressanti.
È una risposta ben studiata e conosciuta. Non entreremo nei dettagli, quello che ci
interessa è comprenderne le 3 fasi: quella di allarme, di resistenza e di esaurimento.

Risposta allo stress – Sindrome di Adattamento Generale

Fase di allarme
È la fase iniziale in cui l’organismo chiama a raccolta le sue risorse per agire nel
rispondere allo stimolo percepito come stressante.
Viene secreto l’ormone adrenalina e questo permette al battito cardiaco di accelerare.
Si attivano una serie di ormoni prodotti dall’ipotalamo, che tramite l’ipofisi entrano in
circolo e predispongono il corpo alla reazione “attacco o fuga”.
Aumenta la temperatura corporea, la respirazione si fa più intensa, aumenta la
pressione sanguigna ecc.

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Fase di resistenza
La fase di resistenza dura tanto quanto dura lo stimolo stressante. Fintanto che viene
percepito lo stressor, l’organismo resiste nella condizione di “attacco o fuga” per
contrastare lo squilibrio, reale o meno che sia.

Alcune persone restano invischiate in questa fase anche dopo che lo stimolo attivante è
concluso. Si crea una dipendenza dall’eccitazione, con la conseguente incapacità di
rilassarsi.

Nelle condizioni di attacco o fuga il corpo mette in circolo delle sostanze, chiamate
betaendorfine, che servono a far percepire meno la fatica e il dolore. È una droga
naturale che il corpo secerne per contrastare al meglio il pericolo.

L’effetto di queste sostanze può portare la persona a cercare costantemente l’iper-


stimolazione, per avere quella sensazione di benessere. Facilmente questo meccanismo
può portare al consumo di sostanze eccitanti come la caffeina o altre droghe, al fine di
prolungare la fase di resistenza.

Nella nostra società attuale, la fase della resistenza allo stress può diventare facilmente
un’abitudine quotidiana, sfociando quindi in una condizione di stress cronico.

Fase di esaurimento
Quando la situazione da fronteggiare cessa, oppure quando l’energia a disposizione cala,
inizia la fase conclusiva della risposta allo stress: la fase di esaurimento. Lo scopo
naturale di questa fase è quello di consentire all’organismo di riposare e di recuperare.

Se la fase di resistenza si conclude in una condizione in cui c’è ancora una riserva di
energia, la fase di esaurimento è associata a un calo di energia, sollievo e torpore.

Se invece la fase di resistenza si è prolungata oltremisura, la fase di esaurimento può


essere lunga e debilitante.
Questa condizione è vera soprattutto per le persone che sono dipendenti da stress (le
persone iper-stimolate di cui abbiamo accennato prima). Passando un lungo periodo di
tempo nella fase di resistenza, sottopongono il loro organismo a una condizione
innaturale, e a causa della loro perduta capacità di rilassarsi, spesso devono ricorrere a
sedativi artificiali per accedere alla fase di esaurimento e di recupero (come ad
esempio gli alcolici).

L’essere umano
Finora abbiamo affrontato lo stress dal punto di vista prevalentemente fisiologico. Ora
allarghiamo il nostro punto di vista considerando l’essere umano nella sua globalità.

Lo stress non coinvolge solo il nostro aspetto biologico, ma anche le nostre emozioni e
la nostra mente e influenza anche la nostra capacità di essere consapevoli.
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Tutti gli stressor, sommati tra di loro, vanno ad influenzare l’essere umano nel suo
equilibrio globale.

Il sentire emozionale viene compromesso e sbilanciato in una condizione di allerta,


smorzando la capacità di percepire la vulnerabilità e l’apertura emotiva, sia nei
confronti del proprio sentire che rispetto a quello dell’altro.
Lo stato di eccitazione può sfociare facilmente in ansia e nei suoi derivati.

A livello mentale il pensiero si accelera e si fa frammentato, non lineare. Se lo stress


supera delle soglie critiche, può compromettere il normale funzionamento psicologico
con una serie di patologie importanti. ( Vedi patologie psichiche legate allo stress )

La capacità di essere consapevoli, in una condizione di eustress positivo, non viene


compromessa. Anzi, da un certo punto di vista l’attenzione viene acuita e si fa più nitida.
Quando però lo stress è troppo o permane troppo a lungo, come abbiamo visto diventa
distress negativo. Allora anche la capacità di essere consapevoli viene pesantemente
alterata. C’è una decadenza nella capacità di sostenere l’attenzione, e una difficoltà
nel mantenere una condizione di apertura nei confronti dell’esperienza.

Prima di ripristinare la piena funzionalità della capacità di essere consapevoli, è


necessario rimettere in equilibrio l’asse Sistema Nervoso Simpatico-Parasimpatico, cioè
riposare e recuperare una condizione naturale priva di squilibri.

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Come affrontare lo stress
Ora abbiamo le idee più chiare su come agisce lo stress nel minare la qualità di vita.
Vediamo alcuni consigli utili per affrontare meglio questo aspetto importante.

Cura il riposo
Nella mia vita non ho mai incontrato persone con uno squilibrio verso il ramo
parasimpatico del sistema nervoso, quindi un primo consiglio generale che sento di
darti, con effetto sia a breve che a lungo termine, è quello di dare più attenzione al
riposo.
Ciò non significa necessariamente che si debba riposare per più ore. Forse sì, dipende dal
tuo stile di vita. Spesso quello che serve per portare equilibrio è una maggiore cura alla
qualità del riposo: andare a dormire entro le 22.00, dormire in una stanza buia, curare il
materasso entro cui si dorme, non usare dispositivi elettronici prima di dormire ecc. Si
tratta in sostanza di curare di più l’igiene del sonno e del recupero.

Identifica gli stressor negativi


Fai un’analisi del tuo stile di vita e identifica quali sono gli stressor negativi presenti.
Se ti è possibile, eliminali.
Altrimenti minimizza la tua esposizione a questa tipologia di stressor.

Ricordati che uno stressor può essere intrinsecamente negativo, oppure può essere
positivo ma diventare negativo se eccedi nella quantità o intensità.

Aumenta la tua tolleranza allo stress

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Abbiamo ripetuto più volte durante l’articolo che una certa dose di stress è
assolutamente fisiologica e sana.
Quindi ti invito a

non aspirare ad avere una vita priva di stress, ma mira ad incrementare la tua capacità di
gestire più stress.

Perché?

Per 2 motivi:

Se miri a crescere nella vita, hai bisogno di riuscire a gestire squilibri sempre più
significativi.

Che non significa avere una vita sempre più stressata, ma che sei in grado, laddove dovessi
incontrare un grande stress temporaneo, di reggerlo senza cadere nella fase di esaurimento.

Alcuni stressor non possono essere eliminati, puoi solo alzare la tua capacità di
gestirli.

Pensa ad esempio ad una madre che passa una notte insonne nell’accudire un bambino
malato; passare una notte senza dormire è uno stressor non fisiologico, ma la fonte non può
essere eliminata, fa parte della responsabilità dell’essere genitore.

Come fare dunque ad aumentare la tolleranza allo stress?

Come aumentare la tolleranza allo stress

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Il primo passo per estendere la capacità di tollerare lo stress è quello di recuperare una
sana condizione fisiologica di base.

Pulizia dalle tossine fisiche


Considerando l’essere umano nella sua globalità (corpo, emozioni, mente,
consapevolezza), il punto di partenza per ripristinare la condizione di base è quello
fisico.

Questo ti permette poi man mano di estendere la tua capacità di tollerare lo stress
utilizzando anche altre metodologie che operano su altri piani, ricavandone un’efficacia
maggiore.

Ti consiglio per questo motivo di intraprendere un programma di detossificazione che


ti permetta di eliminare le tossine accumulate nei tessuti, ripristinando in questo modo il
loro funzionamento ottimale.

Anche i protocolli mirati alla pulizia degli organi aiutano a creare questa condizione di
reset biologico.

Con una condizione fisica pulita, riportata alla sua condizione fisiologica, tutto quello che
farai con altri strumenti avrà certamente un’efficacia maggiore.

Pulizia delle tossine emozionali


Un altro modo per estendere la tua tolleranza allo stress è il lavoro sulle emozioni per
pulire le tossine emozionali.
Così come una tossina fisica si accumula nel corpo e impedisce all’organo di compiere la
sua normale funzione, così una tossina emozionale rimane sospesa nelle emozioni e
impedisce al sentire emozionale di svolgere la sua funzione.

Una tossina emozionale è un’emozione non sentita e vissuta pienamente.

Cioè un’emozione che è stata trattenuta nella sua espressione o che non è stata sentita
appieno quando è emersa.

Le tossine emozionali si accumulano e si sommano restringendo la tua capacità di


sentire gli estremi delle emozioni.
In questo modo si restringe anche la tua capacità di sostenere uno stress emotivo.

Per approfondire » Le emozioni e l’ombra

Per innescare un processo di pulizia dalle tossine emozionali, ti consiglio di seguire un


corso di Respiro Circolare, che agisce proprio in modo mirato su questo aspetto.

Pulizia delle tossine mentali

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Una mente sgombra è in contatto con la realtà nel tempo presente e ti permette di
elaborare significati e strategie funzionali ai tuoi scopi. Una mente pulita è messa a
servizio della consapevolezza ed è un suo strumento funzionale.

Le tossine mentali assumono varie forme: sono pensieri compulsivi e ricorrenti, sono
le credenze invalidanti su di te e sull’altro, sono gli attaccamenti rispetto agli eventi del
passato, sono anticipazioni ansiogene rispetto a quello che può accadere nel futuro…

In ogni caso, qualsiasi sia la loro forma,

le tossine mentali sono degli elementi presenti nella mente che impediscono alla mente di
operare in aderenza alla realtà e al servizio della consapevolezza.

Per approfondire » I trance che le persone vivono

Per sgombrare la mente da queste tossine mentali ti consiglio di intraprendere un


percorso di psicoterapia, o di affrontare il percorso Mente funzionale del Centro Studi
Podresca.

Maggiore consapevolezza
Più la consapevolezza che hai di te stesso è chiara e forte, più è ampia la tua capacità di
gestire lo stress.

Questo accade per tre motivi:

La risposta di “attacco e fuga” di fronte ad uno stimolo stressante viene


notevolmente mitigata.
Hai più sensibilità, in tempo reale, rispetto a quando lo stress ti porta fuori
equilibrio. Essendo consapevole del tuo stato interiore sei in grado di fermarti
prima di scivolare nella fase di esaurimento.
La consapevolezza di sé è una dimensione antropica (cioè che genera energia
vitale). Nella consapevolezza di sé è custodita una fonte infinita di energia vitale, e
questa è una grande risorsa per estendere la tua tolleranza agli stimoli stressanti.

Per approfondire » Consapevolezza

Per aumentare notevolmente la consapevolezza che hai di te stesso, ti consiglio di


partecipare al prossimo Intensivo sull’Essere Consapevole.

Respiro
C’è un elemento che accomuna il corpo fisico, le emozioni, la mente e la consapevolezza:
la respirazione.

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Agendo in modo mirato tramite la respirazione puoi innescare tutti e quattro i processi
che abbiamo appena visto: la pulizia dalle tossine fisiche, emozionali e mentali e puoi
aumentare la consapevolezza che hai di te stesso.

Il respiro è la funzione integrativa che unifica tutti questi sistemi in modo funzionale.

Per approfondire » Respiro Circolare

Domande per riflettere


Avremo modo di approfondire in articoli futuri altri aspetti legati allo stress, come ad
esempio lo stile di vita e le strategie per affrontarlo al meglio nei suoi vari ambiti. Ti invito
ad iscriverti alla newsletter per restare aggiornato su questo argomento.

Nel frattempo ti lascio con alcune domande per riflettere sulla tua capacità di gestire lo
stress.

Puoi usarle come spunto di riflessione e, se ti va, puoi lasciare un tuo pensiero su questi
argomenti nei commenti qui sotto.

Percepisci lo stress come un elemento da eliminare totalmente dalla vita, o sei


consapevole della sua funzione vitale?
Senti di avere una vita troppo stressata?
Con quale strategia affronti lo stress?

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Dove si manifesta maggiormente lo stress che accumuli? Nel corpo, nelle emozioni o
nella mente?
Qual è la tua fonte di stress principale?

Bibliografia
Paul Chek – How to eat, move and be healthy!

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Respiro Circolare
essereintegrale.com/respiro-circolare

Agostino Famlonga

Il respiro è un elemento del nostro stare nel mondo che spesso viene dato per scontato.
Il modo in cui respiriamo è in genere inconsapevole e spontaneo. La respirazione
naturale è libera, piena e fluente.

La respirazione può però deviare dal suo naturale fluire. Il respiro può
venire alterato: diviene contratto e limitato da blocchi energetici e da meccanismi
psicologici di difesa. Questi impediscono il flusso libero dell’energia all’interno del
corpo, limitando la nostra vitalità e spontaneità.

Il Respiro Circolare è una semplice tecnica che agendo sul respiro agisce in senso
inverso: libera il flusso energetico nel corpo e favorisce i processi integrativi della
coscienza. Vediamo come accade tutto questo.

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Cos’è il Respiro Circolare
Il Respiro Circolare è un potente strumento di purificazione psicofisica. La sua
azione inizia dalla componente fisica dell’essere umano, e coinvolge poi in cascata tutto
lo spettro delle sue dimensioni esistenziali: le emozioni, la mente e la consapevolezza.

La respirazione, effettuata in modo cosciente e circolare si riappropria della sua funzione


naturale: il respiro è infatti uno strumento integrativo.

Gli elementi caratteristici di questa tecnica sono riassunti nel suo nome:

Respiro – è una tecnica basata sulla respirazione


Circolare – senza pause tra inspirazione ed espirazione, e tra espirazione e
inspirazione

Oltre ad essere uno strumento di purificazione, il Respiro Circolare è una intensa


pratica di consapevolezza. Il modo in cui viene usata l’attenzione durante le sedute
implica un aumento della consapevolezza individuale.

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La respirazione
Con il termine respirazione si intendono due processi: la respirazione esterna e la
respirazione cellulare. Sono chiaramente collegate tra di loro ma si riferiscono a due
processi distinti.

Per respirazione esterna si intende l’atto inspiratorio ed espiratorio alternato:


l’immissione e l’espulsione meccanica dell’aria nei polmoni tramite la contrazione
muscolare.

La respirazione cellulare si riferisce invece ai processi fisiologici di scambio di


ossigeno tra i polmoni e le cellule, il consumo di ossigeno da parte delle cellule e la
seguente espulsione di anidride carbonica. Questo processo metabolico avviene nelle
cellule, da qui il termine respirazione cellulare.

La circolazione sanguina è il meccanismo di trasporto sia dell’ossigeno che dell’anidride


carbonica.

L’atto respiratorio è meccanico, e si avvale quindi di una serie di muscoli per espletare
la sua funzione. Il principale muscolo implicato nell’inspirazione è il diaframma, ma non
è l’unico. L’inspirazione è supportata anche dai muscoli intercostali e dai muscoli
sternocleidomastoidei.

L’espirazione è generalmente un fenomeno di tipo passivo. La gabbia toracica espansa


dalla contrazione dei muscoli inspiratori torna al suo volume a riposo, lasciando uscire
l’aria inspirata. Questa azione può anche essere supportata dall’azione dei muscoli
espiratori, come gli intercostali e gli addominali. Questi intervengono ad esempio
durante uno sforzo intenso, quando si rivela necessario uno scambio maggiore di aria
nei polmoni.

La respirazione è una funzione semi-automatica. Può accadere in modo


completamente automatico, regolata dai suoi meccanismi fisiologici autonomi. La sede di
questo controllo è il tronco encefalico nel cervello.
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La respirazione può anche essere diretta in modo volontario e consapevole. Cioè è
possibile intervenire intenzionalmente per modificare il suo funzionamento
spontaneo. È possibile accelerare il ritmo, la durata dell’inspirazione o dell’espirazione, o
addirittura sospendere la respirazione, chiaramente entro un certo limite.

La respirazione ha dunque una funzione biologica, legata alla sopravvivenza del corpo
fisico, e anche un forte intreccio con la psiche della persona . Proprio in questo
legame risiede il potenziale integrativo del Respiro Circolare.

La mente
La mente e le emozioni influenzano il modo in cui respiriamo. Mettendo in azione i suoi
meccanismi di difesa, la psiche modifica lo spontaneo fluire del respiro. Lo altera o
lo blocca, a seconda della funzione di difesa messa in atto.

Le emozioni sono direttamente connesse all’alterazione del ritmo e dell’intensità


della respirazione. La gioia rende il respiro profondo e rapido. La paura può bloccare o
sospendere la respirazione, e così via. Esiste uno schema specifico di respirazione legato
ad ogni vissuto emotivo.

Le emozioni
Le emozioni sono impulsi ad agire. La radice latina della parola emozione è il verbo
moveo, cioè muovere, a cui viene aggiunto il prefisso e- (muoversi da), per indicare che in
ogni emozione è implicita una tendenza ad agire. C’è un movimento energetico che
tende ad agire con una finalità precisa.

Queste finalità hanno per l’essere umano tre funzioni, spesso sovrapposte tra di loro.

Sopravvivenza
Questi movimenti energetici servono a guidare il comportamento. Il piacere e il
dolore sono associati ad emozioni corrispondenti.
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L’evoluzione ci ha adattato nel corso dei millenni a direzionare il comportamento
verso il piacere e ad allontanarci dal dolore. Ne andava della nostra sopravvivenza. In
misura minore rispetto al passato, questo principio è valido tutt’ora. Le emozioni ci
muovono verso dei comportamenti di avvicinamento o di allontanamento.

Comunicazione
La comunicazione non implica solamente l’aspetto verbale dello scambio di informazioni.
Tramite le emozioni comunichiamo con gli altri.

Condividiamo uno specifico stato emozionale.

Integrazione
L’elemento che più ci interessa dal punto di vista della respirazione è la funzione
integrativa delle emozioni.

L’interiorità dell’essere umano ha tre piani esistenziali interconnessi tra di loro in modo
gerarchico:

Il sentire corporeo (senso somatico / biologico)


Le emozioni
La mente

Si tratta a tutti gli effetti di un continuum, cioè non sussiste una reale separazione tra
questi aspetti. Gli ultimi studi in questo campo infatti fanno riferimento alla “mente
incorporata”, cioè al fatto che la mente sia fortemente radicata a livello corporeo.

Seppure continui, questi piani sono però qualitativamente distinti: hanno


caratteristiche diverse tra di loro. Per questo motivo è utile differenziarli.

A livello gerarchico le emozioni stanno nel mezzo tra il sentire somatico e il livello
mentale. Questa posizione mediana riflette la loro funzione integrativa.

La funzione delle emozioni è quella di guidare gli schemi di energia e di


informazioni all’interno della coscienza per essere integrati in una complessità
sempre più differenziata e interconnessa.

Questo accade in modo spontaneo quando il movimento energetico/emozionale fluisce


dal basso verso l’alto (bottom-up) nella scala gerarchica:

senso somatico → emozioni → mente

La mente può arrestare questo flusso spontaneo, intervenendo in senso inverso,


dall’alto verso il basso (top-down), bloccando o deviando il fluire del movimento
energetico all’interno del corpo:

senso somatico → emozioni ←mente


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Spinto all’estremo questo meccanismo si spinge fino al sentire corporeo:

senso somatico ← emozioni ← mente

La persona in questo caso è dissociata dal proprio corpo. Non lo sente più . Non sente
più la propria vitalità, e l’energia vitale viene soffocata sul nascere. La persona si trova in
una prigione mentale, sconnessa dal proprio sentire.

Perché accade questo? I motivi possono essere molti. Può accadere quando l’intensità
del movimento energetico è troppo elevata per essere sostenuta, cioè risulta
sopraffacente. Questo è vero sia per quanto riguarda il piacere che per quanto riguarda
il dolore. Soprattutto quest’ultimo viene generalmente resistito. La resistenza viene
messa in atto smorzando il flusso energetico all’interno del corpo.

Un altro motivo per cui interviene questo meccanismo repressivo emozionale è la


regolazione sociale delle emozioni.

Nel nostro processo educativo veniamo “istruiti” su quali impulsi è corretto manifestare e
quali reprimere. Ad esempio un bambino che prova l’impulso rabbioso di spaccare il
giocattolo viene generalmente bloccato. Può diventare una repressione imposta
dall’esterno di un’emozione (non è un processo lineare: dipende chiaramente da come
viene fermato). Il bambino impara poi ad interiorizzare questo meccanismo per
ottenere l’affetto dei genitori. Ben presto questo diventa uno schema emozionale.

Come viene messo in atto questo schema?

Tramite l’alterazione del respiro.

Questo è l’aspetto che ci interessa ai fini del Respiro Circolare. Bloccando il respiro si
blocca il flusso energetico all’interno del corpo. L’emozione viene contenuta. O per
meglio dire, viene congelata nel corpo. Con la conseguente mancata integrazione di
quel particolare vissuto.

Apprendimento emozionale
Avviene un vero e proprio apprendimento emozionale. Il Sistema Nervoso cabla i
suoi circuiti in base a degli schemi specifici.

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La gerarchia senso
corporeo → emozioni
→ mente è riflessa
nell’architettura del
sistema nervoso.
Senza entrare nel
dettaglio si può fare
riferimento alla
triplice gerarchia del
cervello:

tronco
encefalico
sistema limbico
neocorteccia

Come è risaputo dagli


studi sulla neuroplasticità, le scariche neurali ripetute si rinforzano. Gli schemi di
scarica diventano cioè una via preferenziale per le scariche successive.

Tradotto in pratica: il rapporto tra la mente, le emozioni e il corpo diviene incistato


in una struttura. Proprio perché l’alterazione delle emozioni avviene tramite la modifica
dello schema del respiro, il modo in cui respiriamo diviene il riflesso di questa
struttura.

Pur essendo ogni vissuto emotivo altamente soggettivo, gli schemi di respirazione sono
universali. Appartengono all’essere umano.

Sono stati evidenziati tre schemi generali di respirazione che deviano il flusso
respiratorio dal suo schema spontaneo.

Respirazione muscolare
È caratterizzata da rigidità nella parte superiore del dorso e del collo, con una
tendenza ad espandere il torace. Questo modo di respirare è generato da un
atteggiamento mentale di chi trattiene, di chi non lascia uscire, non si permette di
emozionarsi per la paura di perdere il controllo.

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Respirazione intestinale
Normalmente durante l’inspirazione l’addome si rilassa e si espande. In questo schema
di respirazione invece l’addome si contrae. Questo riflette il volere trattenere
sensazioni intestinali dolorose.

Respirazione uterina
Indica una modalità respiratoria minima, impercettibile. È segno di inibizione
generale sia della funzione biologica che di quella psicologica.

La persona che ha questa alterazione del respiro sente di non avere il diritto di
esistere, per questo riduce al minimo la funzione primaria della vita dell’organismo, il
respiro. Viene chiamata respirazione uterina perché esprime il desiderio di voler
tornare nell’utero materno.

Le emozioni primarie e la respirazione


I nostri vissuti emozionali hanno un ampio spettro. La nostra vita viene colorata dalla
gamma di emozioni che proviamo quotidianamente. Le emozioni possono essere
distinte in due grosse categorie: le emozioni primarie, basilari, e quelle complesse, che
risultano più articolate, plasmate da un’elaborazione cognitiva più strutturata.

Le emozioni primarie sono universali, cioè appartengono all’essere umano,


indipendentemente dal condizionamento culturale specifico. Le emozioni complesse
invece possono risentire dell’apprendimento sociale.

Ai fini del nostro studio ci concentreremo sulle emozioni primarie, e del loro legame con
la respirazione.

Rabbia
Quando siamo arrabbiati il sangue affluisce alle mani e questo rende più facile afferrare
sferrare un pugno e difenderci. La frequenza cardiaca aumenta e parte una scarica di
ormoni,tra cui l’adrenalina, per generare una quantità di energia sufficiente a permettere
un’azione di risposta. La rabbia provoca una accelerazione del respiro. Il respiro
diventa più rapido per mobilitare più energia da investire nell’azione.

Paura
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La paura fa confluire il sangue verso i grandi muscoli del corpo, Come quelli delle gambe.
Questo serve a rendere più facile la fuga. Il volto diventa pallido proprio perché non
riceve l’irrorazione sanguigna normale. Contemporaneamente il corpo si immobilizza, si
congela per valutare la situazione. Anche qui vengono rilasciati una quantità di ormoni
allo scopo di generare uno stato di allerta, di preparazione all’azione. L’attenzione si fissa
sulla minaccia per valutare quale sia la risposta migliore. La respirazione quando
abbiamo paura si blocca, proprio per sospendere l’azione e valutare.

Se la paura sfocia nel panico, il respiro si fa rapido e poco profondo.

Felicità
L’emozione della gioia aumenta la disponibilità di energia. Questa emozione fornisce
all’organismo un senso di riposo generalizzato, e lo rende disponibile ed entusiasta nei
riguardi di qualunque compito esso debba intraprendere. Il respiro è fluido,
spontaneo, pieno.

Sorpresa
L’espressione tipica della sorpresa innalzamento delle sopracciglia. Questo serve avere
una visuale più ampia per fare arrivare più luce negli occhi. Questo permette di fare
arrivare un maggior numero di informazioni all’apparato visivo, per comprendere meglio
l’evento inatteso.

Il respiro nell’emozione della sorpresa tende a compiere una forte inspirazione ,


sempre per fare entrare un numero elevato di informazioni, e poi a restare sospesa a
polmoni pieni, per valutare ciò che ha provocato la sorpresa.

Disgusto
L’espressione facciale del disgusto indica il tentativo primordiale di chiudere le narici
colpite da un odore nocivo o di sputare un cibo velenoso. La respirazione è spinta
verso un gesto deciso di espirazione, proprio per non immettere nei polmoni il gusto
sgradevole che si sta sentendo.

Tristezza
La tristezza ha la funzione di farci adeguare ad una perdita. Implica una caduta di energia
e di entusiasmo verso le attività della vita. Il metabolismo rallenta. La chiusura in sé stessi
che accompagna la tristezza ci dà la possibilità di elaborare e di comprendere le
conseguenze degli eventi che hanno scatenato questo vissuto emotivo. La respirazione
riflette la bassa attivazione energetica. I respiri diventano sospiri. L’inspirazione è
minima: si lascia entrare pochissima aria. È il riflesso dell’atteggiamento verso la vita:
non si lascia entrare la vitalità.

Amore
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Non si tratta di un’emozione primaria, ma merita di essere menzionato qui perché è
caratterizzato da degli schemi di respirazione specifici. I sentimenti di tenerezza e la
soddisfazione sessuale comportano il risveglio del sistema parasimpatico. Si tratta di
una risposta di rilassamento che interessa tutto l’organismo e induce uno stato generale
di calma e di soddisfazione.

Nello stato di piacere la respirazione è lenta e profonda. Se eccitazione diventa


godimento ed estasi, come nell’orgasmo, la respirazione diventa molto rapida ma
anche molto profonda. È la risposta alla piacevole eccitazione dell’intensa scarica
sessuale.

Da leggere » Le emozioni e l’ombra

Bioenergetica
Lo stretto legame tra l’energia vitale, il respiro e le emozioni è stato ampiamente studiato
dalla bioenergetica, una disciplina che pone come obiettivo quello di ripristinare il
normale flusso energetico all’interno dell’organismo umano.

La bioenergetica ha compreso chiaramente come avviene la repressione degli impulsi


emozionali.

L’irrigidimento muscolare porta a una desensibilizzazione della parte interessata.


Blocca l’impulso e congela il sentire. In questo modo l’irrigidimento contiene sia la
storia passata del blocco che il significato originale.

Gli esercizi bioenergetici hanno proprio il fine di sciogliere questi blocchi e ripristinare il
libero fluire dell’energia vitale. Sbloccando le contratture muscolari cronicizzate si
liberano anche i significati e le memorie originali.

Nel Respiro Cosciente Circolare non si agisce in modo mirato su blocchi specifici. La
tecnica di respirazione scioglie in modo naturale i blocchi e l’intelligenza corporea
guida il processo. Trovo comunque utile citare la bioenergetica in questo articolo perché
permette di comprendere la struttura delle resistenze.

Le resistenze hanno lo scopo di bloccare l’energia vitale. La somma delle resistenze porta
ad una alterazione dell’immagine corporea e della postura.

Sommando tutti blocchi e le resistenze si delinea quella che è definita armatura


caratteriale. Nel corpo si struttura una configurazione che riflette la struttura
psicologica della persona. È la cosiddetta corazza psicosomatica.

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Si è visto che l’essere umano ha dei segmenti
specifici in cui si manifestano i blocchi. Questi
sono sette e sono definiti anelli o segmenti.

Il segmento oculare. I muscoli oculari,


della palpebre e della fronte appaiono fissi
e bloccati, un’immobilità che reprime
l’espressività, la paura, la rabbia e il pianto.
Il segmento orale. In quest’area vengono
trattenuti e inibiti il pianto, le urla, il
desiderio e la richiesta di suzione e
nutrimento.
Il segmento cervicale. La contrazione
spastica di questo segmento che
comprende collo e lingua crea un distacco
dal resto del corpo. Controllo della testa-
mente su corpo-sensazioni.
Il segmento toracico. L’immobilità del
torace, delle spalle e delle braccia, il blocco
e la superficialità del respiro trattengono
dentro desideri, conflitti e frustrazioni,
inibiscono il protendersi e l’abbraccio.
Corrisponde caratterialmente
all’autocontrollo e al ritiro emozionale.
Il segmento diaframmatico. Sede di istinto e passione. Il blocco del diaframma
impedisce l’espansione e il movimento ondulatorio del respiro verso l’alto.
Il segmento addominale. Sede di emozioni viscerali e fonte di tenerezza,
apertura, desiderio, del piacere e del riso. L’addome e l’intestino subiscono ansia,
stress e somatizzazioni.
Il segmento pelvico. Il bacino rigido e senza vita impedisce il fluire dell’energia
sessuale e il percepire la sensualità e l’eccitazione. Le rigidità sono effetto e causa
dell’angoscia del piacere e di sentimenti rabbiosi.

Agire sulla respirazione si rivela la via più rapida per ripristinare il naturale flusso
dell’energia vitale nel corpo. Respirando in modo circolare e cosciente si riattivano i
vissuti emotivi collegati ai blocchi nei vari segmenti. Generalmente gli sblocchi
avvengono in ordine inverso rispetto alla loro formazione, anche se il processo non è
certamente lineare.

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Come funziona una seduta di Respiro Circolare
Vediamo ora come funziona in pratica una seduta di Respiro Circolare.

Specifico innanzitutto che è necessario essere seguiti da una persona adeguatamente


preparata che abbia innanzitutto una grande esperienza personale con il Respiro
Circolare. Come per ogni disciplina in cui ci si affida ad un conduttore, la pratica
personale è fondamentale.

Provare il Respiro Circolare da soli è sconsigliato, soprattutto all’inizio. Con anni di


esperienza alle spalle è possibile anche procedere per conto proprio. Questo è proprio
l’obiettivo di essere seguiti da una persona competente: fare in modo di diventare, nel
tempo, autonomi.

La seduta ha una fase preparatoria, la fase del respiro circolare vero e proprio, e una
fase conclusiva. Vediamole una per una.

Preparazione
La fase di preparazione consiste nell’introdurre il praticante alla seduta. Gli viene
spiegata la tecnica di respirazione e quello che potrebbe accadere. Nell’ottica di
intervenire il meno possibile durante la fase attiva, il conduttore cerca di dare tutte le
informazioni che servono per praticare al meglio.

Il Respiro Circolare Cosciente viene praticato generalmente in posizione supina, con gli
occhi chiusi. Su un comodo materassino, in un ambiente sufficientemente caldo e
protetto da possibili interferenze.

Il conduttore guida il partecipante (o i partecipanti se si tratta di una seduta di gruppo) in


un breve rilassamento. Si procede a rilassare il corpo per predisporlo al meglio alla
seduta di Respiro Circolare. Si segue un semplice e breve protocollo di training
autogeno.

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Nel complesso questa fase dura 10-15 minuti

Svolgimento
Dopo il rilassamento inizia la seduta vera e propria. Il partecipante inizia a respirare in
modo circolare e cosciente.

All’inizio viene data l’indicazione di prendere un grosso volume d’aria, proprio per
innescare fin da subito tutti i processi energetici/emotivi del Respiro Circolare. Si da
anche l’indicazione di respirare fino a riempire la parte alta dei polmoni , cioè fino ad
utilizzare la respirazione clavicolare.

Dopo una fase iniziale di questo tipo il respiro entra generalmente in un ritmo circolare
spontaneo. In sostanza si autoregola, sia per quanto riguarda il ritmo e il volume, e
anche la durata della seduta.

Questa può essere determinata in anticipo da chi conduce, oppure può essere
determinata in tempo reale in base all’andamento della seduta.

Il ciclo di una seduta si apre e si chiude in modo spontaneo. Il partecipante sente di aver
concluso. La modalità con tempistica fissa è chiaramente più adatta nel caso la seduta si
svolga in gruppo. La modalità libera invece è più indicata nel caso di seduta singola.

Generalmente la fase attiva di Respiro Circolare Cosciente dura dai 45 minuti all’ora e
mezza. Ci possono essere comunque eccezioni, i tempi non sono vincolanti.

Conclusione
Finita la fase attiva della seduta il partecipante entra generalmente in uno stato di
rilassamento spontaneo. Ritornando respirare in modo “normale” il corpo si acquieta e
si rilassa. C’è una piacevole sensazione di pulizia energetica. Le emozioni e l’energia sono
quiete.

Il rilassamento può essere facilitato dalla musica adatta al fine di rilassare.

Finita la fase di rilassamento si passa ad una breve e spontanea condivisione del


vissuto della seduta con il conduttore o con il gruppo. La comunicazione permette di
divenire consapevoli dell’esperienza appena vissuta e di integrarla al meglio.

Nell’insieme anche questa fase dura circa mezz’ora.

In totale dunque una seduta di Respiro Circolare dura circa un’ora e mezza-due

La tecnica del Respiro Circolare

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La tecnica del Respiro Circolare è semplice. Il fatto che sia semplice la rende accessibile
ad un ampio numero di persone. La sua semplicità non deve però trarre in inganno: è
altamente efficace e potente.

Il primo elemento della tecnica è la circolarità del respiro. Circolare significa senza
pause tra l’inspirazione e l’espirazione, e tra l’espirazione e l’inspirazione seguente.
Si crea uno schema di respirazione connesso, senza alcuna interruzione. Circolare
appunto.

L’accento viene posto sull’inspirazione volontaria. L’espirazione avviene in modo


spontaneo tramite il ritorno elastico dei muscoli inspiratori. Forzare l’uscita dell’aria
nella fase di espirazione è un errore della tecnica, e provoca dei fastidiosi effetti che
vedremo meglio dopo.

Il respiro è completo, non solo addominale o solo toracico.

Si respira generalmente dalla bocca, con la bocca socchiusa. Si inspira con la bocca e si
espira sempre con la bocca. Questo permette di immettere nei polmoni un grosso
volume d’aria.

Nella fasi più avanzate può accadere di respirare tramite il naso . Si tratta di un respiro
più sottile, più tenue e apre a stati di profondo raccoglimento in sé. Questo è consentito,
sempre mantenendo la circolarità del respiro e l’utilizzo del naso sia in fase di
inspirazione che di espirazione.

Il principio da seguire è: se si inspira con la bocca si espira con la bocca. Se si inspira con
il naso si espira con il naso. Non si alternano bocca e naso nello stesso ciclo respiratorio.

Il respiro deve essere fluido e spontaneo . Può variare per volume di aria immessa, per
la velocità dell’atto respiratorio, per la zona corporea interessata: polmoni inferiori, medi
o superiori. Non esistono schemi prefissati, il modo di respirare si autoregola in base
all’integrazione e al vissuto emotivo attivo in quel momento nel partecipante.

Come principio generico si può dire che la respirazione veloce aiuta a mantenere il
contatto con il corpo, mentre la respirazione profonda e lenta invece tende a dissolvere
la consapevolezza del corpo e a integrare antichi schemi energetici.

Ritmo pieno e lento


È il ritmo ideale per iniziare la seduta. Avviene spontaneamente quando si è integrato
uno schema energetico e inizia l’integrazione dello schema seguente. L’ampiezza
del volume d’aria permette di prendere una maggiore consapevolezza dello schema
energetico, mentre il ritmo lento agisce distendendo il soggetto e lo predispone al
rilassamento e alla concentrazione.

Ritmo veloce e superficiale


Si tratta di un ritmo che permette l’emergere di uno schema energetico e mentale .
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La respirazione superficiale e rapida permette di affrontare meglio l’afflusso intenso
dell’energia e delle relative cariche emotive che si liberano.

Ritmo veloce profondo


Avviene in modo spontaneo quando c’è la tendenza ad abbandonare la
consapevolezza del corpo. Oppure quando stanno sopraggiungendo stati di
sonnolenza.

Respiro cosciente
Oltre ad essere circolare, il respiro è cosciente, cioè consapevole. Significa che mentre
si respira l’attenzione viene posta a Chi respira.

Il respiro fa emergere una serie di stimoli, anche piuttosto forti. Di fronte a questi stimoli
l’attenzione viene direzionata solitamente verso quello che si sente: all’oggetto che
appare. Quello che viene richiesto dalla tecnica del respiro circolare cosciente è di porre
l’attenzione al soggetto percepente, all’io che percepisce.

In questo modo si attua un discriminazione tra lo stimolo, l’oggetto percepito, e il


soggetto che lo percepisce. È un processo importantissimo perché permette la reale
integrazione dei contenuti emergenti.

L’atteggiamento è quello di apertura a tutto ciò che arriva. Ci si ancora al respiro, si


tiene l’attenzione su di sé, e si lascia andare il controllo rispetto a quello che emerge,
piacevole o spiacevole che sia, senza alcun giudizio.

Difetti nella tecnica del respiro circolare


Quando la tecnica viene eseguita correttamente, il respiro è fluido naturale. Può
accadere che il praticante metta in atto delle distorsioni nel respiro circolare.

Potrebbe essere una inspirazione molto forzata, segno di una tensione eccessiva che
irrigidisce il corpo. Il respiro perde la sua spontaneità. La persona è impegnata
completamente nell’atto inspiratorio e non riesce ad arrendersi al respiro.

Al contrario potrebbe manifestare una inspirazione superficiale e poco profonda . Si


crea una condizione opposta a quella desiderata: vogliamo immettere tanta aria, e
invece in questo caso la persona espelle più aria di quella che immette. Il processo del
Respiro Circolare non si innesca in modo adeguato.

L’espirazione potrebbe essere trattenuta. Invece di lasciare uscire spontaneamente


l’aria la persona trattiene. È un segno di paura e di tensione.

Al contrario è l’espirazione forzata. C’è il tentativo di espellere le sensazioni che si


stanno provando. A livello energetico si vuole “buttare fuori” quel sentire percepito come
sgradevole. Una foratura nell’espirazione provoca uno scompenso respiratorio che
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genera fastidiose tetanie.

Se il praticante fa delle pause, sia a polmoni pieni che polmoni vuoti, non sta respirando
in modo circolare. Il processo del Respiro Circolare non si innesca. C’è una paura
generale legata al perdere il controllo.

Un altro difetto nella tecnica è quello dell’addormentamento. Spesso durante la fase di


rilassamento (ma non solo), la persona si addormenta. Potrebbe essere un semplice
bisogno fisiologico, dovuto ad una stanchezza arretrata. Oppure potrebbe essere un
meccanismo di difesa che tende a far scivolare la persona nell’incoscienza, sempre con
l’intenzione di scappare da sensazioni spiacevoli innescate dal Respiro Circolare.

Quante sedute di Respiro Circolare?


Generalmente un ciclo di Respiro Circolare ha una durata limitata nel tempo. Dura 10
sedute, individuali o di gruppo, con cadenza settimanale. Questo permette di integrare
gran parte degli schemi energetici e di purificare la struttura psicofisica.

Finito questo ciclo è bene per la persona orientare la sua crescita verso l’applicazione
pratica delle abilità.

Non più a pulire la struttura psicofisica, ma a costruire qualcosa con la struttura


sufficientemente purificata. Chiaramente a queste indicazioni si applicano un’infinità
di sfumature individuali. Ogni caso è specifico e va trattato come tale.

È prassi comune tenere nel tempo una pratica di mantenimento, di continuità. A


cadenza mensile o anche bimestrale. Generalmente viene regolata al bisogno e a volte
anche portata avanti in modo individuale.

Il ruolo del conduttore


Il ruolo di chi conduce potrebbe apparire ad un occhio inesperto come secondario. In
realtà è determinante per l’esito costruttivo della seduta. Il conduttore oltre a dare le
indicazioni iniziali verifica il corretto svolgimento della tecnica, dando eventualmente
indicazioni nella correzione in positivo. L’intenzione è quella di intervenire il meno
possibile, ma in caso di bisogno l’intervento è immediato e funzionale anche alla
salvaguardia del praticante.

L’attenzione del conduttore tiene il partecipante. Nell’affrontare il vissuto emergente


la persona non si trova da sola. Le due attenzioni si sommano, e permettono il reale
sfondamento delle resistenze. L’attenzione, pur essendo non fisica, ha un peso
specifico rilevante.

A fine seduta aiuta la persona la integrare il vissuto, ascoltando ed eventualmente


anche ponendo delle domande che tengono l’attenzione del partecipante su quanto
emerso.

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Come scegliere un buon conduttore di Respiro Circolare? Il consiglio che sento di dare è
quello di scegliere in base al proprio sentire iniziale, e poi verificare alla prima e seconda
seduta.

In una sessione di Respiro Circolare bisogna affidarsi. Ci vuole un buon feeling iniziale
con la persona che condurrà il respiro, altrimenti non riuscirai a lasciarti andare fino in
fondo.

Verifica che il conduttore intervenga il meno possibile, cioè solo in caso di reale
bisogno. Il suo ruolo dovrebbe essere non interventista. Esistono una serie di
conduttori che hanno la tendenza a guidare la seduta, a intervenire per portare il
praticante dove ritengono giusto.

La vera guida nel Respiro Circolare è il respiro. È il respiro che guida la seduta, che ti
porta esattamente dove dovresti andare per integrare quello che hai bisogno in quel
momento. Abbiamo un’intelligenza corporea/energetica altamente spiccata, dobbiamo
solamente attenerci alla tecnica e lasciare che il respiro faccia quello che deve.

È importante anche che il conduttore si impegni attivamente per rompere la relazione


transferale che viene generalmente a crearsi in questi tipi di setting. Cioè che si impegni
per renderti indipendente nella pratica. La relazione con il conduttore non deve essere di
dipendenza, ma di sostegno a tempo determinato. Specifico questo punto perché
purtroppo può accadere esattamente il contrario.

Cosa accade durante una seduta di Respiro Circolare?

Purificazione
Più del 70% delle tossine sono espulse dal nostro corpo tramite la respirazione. Il
restante viene espulso tramite il sudore, le feci e le urine. Il respiro si rivela dunque la via
preferenziale per la purificazione fisica.

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In una seduta di Respiro Cosciente Circolare inneschiamo un profondo processo di
purificazione corporea. Ma non solo. La tecnica di respirazione purifica la struttura
psicofisica nella sua globalità. Significa che purificheremo, oltre al corpo, anche le
emozioni e la mente.

Diamo innanzitutto una definizione: che cos’è una tossina? Che cosa vuole dire
purificare?

Una tossina è qualcosa che interferisce con il normale funzionamento dell’organo o


funzione a cui ci stiamo riferendo.

Una tossina fisica è una sostanza che si è accumulata nel corpo, perché esso non è stato
in grado di smaltirla quando è stata immessa nell’organismo.

Una tossina emozionale è un’emozione congelata, bloccata a livello energetico/somatico


secondo lo schema che abbiamo visto prima.

Una tossina mentale è un qualsiasi schema di pensiero rigido. La funzione mentale


umana è per sua natura flessibile. Uno schema di pensiero fisso è una tossina mentale,
perché ne ostacola il suo normale funzionamento.

Dalla definizione di tossina, si rivela in modo speculare quella di purezza. Una cosa è
pura nel grado in cui il suo funzionamento non riceve interferenze, è libero da ostruzioni.

Il Respiro Circolare si rivela una potente tecnica di purificazione fisica, emozionale


e mentale.

La purificazione avviene o tramite espulsione della tossina presente, oppure


nell’integrazione energetica di quella parte non integrata.

Tramite il respiro si espellono dall’organismo le tossine fisiche. Tramite il forte


movimento integrativo generato a livello emozionale si sciolgono le resistenze fisiche, i
blocchi energetici, si sciolgono le ansie e le paure, si integrano a livello mentale gli schemi
di pensiero fisso e le proprie parti non integrate.

La rapidità con cui queste tossine vengono espulse è stupefacente. Blocchi energetici
antichissimi si sciolgono nel giro di poche sedute. La persona si riappropria della propria
vitalità: tolte le tossine che impedivano il naturale fluire dell’energia vitale, questa
ricomincia a scorrere. Il corpo ritorna sano e vitale, il sentire emozionale si amplifica e la
mente torna ad essere libera da rigidità antiche aprendosi al nuovo.

La fisiologia del Respiro Circolare


Tramite la tecnica del Respiro Circolare a livello fisico andiamo a provocare una serie di
variazioni metaboliche significative. Queste perdurano per la durata della seduta, poi
l’organismo si riassetta sul suo funzionamento ordinario. Specifichiamo subito che si

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tratta di processi completamente sicuri. Non ci sono conseguenze fisiche negative,
sebbene l’intensità di ciò che accade a livello fisico, soprattutto le prime sedute, a volte
può far pensare il contrario.

Quello che accade in una seduta di Respiro Circolare va ben oltre questa modificazione
fisiologica, ma è utile avere un quadro generale di quello che accade a livello fisico. Una
maggior conoscenza dei processi in atto è utile per essere più sereni nel vivere la seduta.

Vediamo a grandi linee cosa accade durante il Respiro Circolare.

La frequenza degli atti respiratori è generalmente regolata in modo autonomo da dei


meccanismi che tendono a mantenere una quantità di anidride carbonica espulsa
tramite la respirazione tale da bilanciare il pH del sangue.

Il pH è una misura che si riferisce all’acidità o all’alcalinità del sangue.

Questa deve restare entro dei parametri molto stretti, per garantire la sopravvivenza
dell’organismo. Per essere precisi questo valore deve essere di 7,40. Il corpo umano
agisce tramite dei dispositivi tampone per mantenere costante questo valore, che è
leggermente spostato verso l’alcalinità.

Alterando la frequenza respiratoria aumentiamo la quantità di anidride carbonica


espulsa. Questo provoca una variazione del pH sanguino. Il sangue tende a diventare
più alcalino. Accade quella che viene definita alcalosi respiratoria.

Per approfondire: Alcalinizzare il corpo con la respirazione

A cascata l’alcalosi comporta una riduzione della concentrazione di calcio nel sangue ,
definita in termini tecnici ipocalcemia.

Il calcio ha un ruolo determinante nella trasmissione degli impulsi del sistema


nervoso. Una diminuzione della concentrazione del calcio provoca una ipereccitabilità
dei neuroni e delle fibre muscolari. Significa che si attivano anche in presenza di uno
stimolo che normalmente non viene registrato.

Questo è l’elemento che più ci interessa riguardo l’integrazione delle rigidità muscolari e
dei blocchi emotivi.

Al momento di “costruzione” dei blocchi, il Sistema Nervoso ha messo in atto una


resistenza nei confronti di un sentire, che in quel momento non era tollerabile.
Gradualmente il Sistema Nervoso si è abituato a mantenere attiva quella
resistenza. Si dice proprio così: l’abituazione è un fenomeno noto da tempo.

Il Sistema Nervoso in poche parole non rileva più che sta tenendo attivo quel
blocco. Lo tieniamo comunque attivo, e questo consuma energia, ma non ce ne
rendiamo conto perché questo è andato “sottosoglia”, ovvero sotto la soglia in cui ci si
può accorgere consapevolmente.

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L’ipereccitabilità del Sistema Nervoso provocata dall’ipocalcemia fa sì che tutti questi
stimoli sottosoglia vengano nuovamente a galla. Ecco spiegato il riaffiorare dei blocchi
fisici ed energetici. Si scioglie l’abituazione del Sistema Nervoso nei confronti dei
blocchi, ed emergono con tutta la resistenza ad essi associati. Emergono e vengono
finalmente integrati tramite il respiro.

L’ipereccitabilità del respiro fa emergere inizialmente una serie di sensazioni di


formicolio pervasivo. Si sente il corpo pervaso da una “corrente elettrica” a volte
piacevole e a volte talmente forte da essere spiacevole. Questo formicolio ha un termine
tecnico: si chiama parestesia. Per effetto della parestesia si può avvertire anche la
propria immagine corporea deformata, con dei segmenti corporei più grossi di altri, o
più sensibili o più doloranti.

Sempre per lo stesso fenomeno di ipereccitabilità può avvenire il fenomeno della


tetania muscolare. I muscoli che generalmente a riposo non sono contratti, si
contraggono anche in presenza dello stimolo a riposo, proprio perché sono più
facilmente eccitabili.

La tetania muscolare può essere fastidiosa e a volte anche dolorosa. Si sentono alcuni
muscoli contratti oltremisura e non si riesce ad intervenire per sciogliere questa
contrazione. Se dovesse verificarsi questo fenomeno, è utile ricordarsi che tutto torna
alla normalità nel momento in cui si smette di respirare in modo circolare. Dopo poco la
tetania scompare. Generalmente la tetania si concentra in alcuni specifici gruppi
muscolari: mani, bocca, gambe.

In questo paragrafo voglio concentrarmi sull’aspetto fisiologico del Respiro Circolare,


però è necessario specificare un fenomeno tipico del Respiro Cosciente Circolare, che va
oltre la biochimica fin qui esposta. La tetania scompare nel momento in cui la
persona integra la resistenza che la tiene attiva.

Sciolto il blocco energetico, integrata la resistenza verso quel particolare sentire,


localizzato in quell’arto specifico, la tetania si scioglie. Non solo per quella seduta, ma
anche per le sedute seguenti. Non torna più.

Questo fenomeno è peculiare e affascinante. Va oltre ogni spiegazione biochimica.

La fisiologia può spiegare come accade che il muscolo si contragga, ma non può spiegare
come, nelle medesime condizioni, non lo faccia più nel momento in cui la persona
integra la resistenza.

La riduzione della concentrazione di anidride carbonica provoca un ulteriore fenomeno:


le arterie cerebrali si restringono. Le arterie che portano il sangue al cervello
divengono più strette e di conseguenza il cervello riceve meno sangue, e quindi meno
ossigeno. Questo stato è detto ipossia, e rimane chiaramente entro limiti di totale
sicurezza per l’organismo.

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L’ipossia provoca un abbassamento dell’attività elettrica dei neuroni cerebrali. Il
cervello si mette in condizione di “riposo.”

L’ipossia e la variazione del pH sanguigno provocano il rilascio di beta-endorfine, che


servono principalmente a regolare l’atto respiratorio, ma intervengono nella persona
attivando in una cascata di effetti positivi.

Queste sostanze sono dette oppioidi endogeni: attenuano le sensazioni dolorose e


donano una piacevole sensazione di benessere e di rilassamento, spesso anche di
euforia. Stimolano anche una affettività positiva nei confronti degli altri e un fenomeno
che chi pratica il Respiro Circolare conosce bene: stimolano la fame.

Le endorfine, associate ad altri neurotrasmettitori, favoriscono lo sprofondare in uno


stato meditativo e di profonda concentrazione introspettiva.

Per cui, se dopo una seduta di Respiro Cosciente Circolare ti trovi in uno stato di “high”,
euforico, particolarmente socievole ed affamato, sappi che è del tutto normale: si tratta
dell’effetto di una maggior quantità di endorfine che hai messo in circolo.

A livello globale l’effetto del Respiro Circolare è paradossale: da una parte rilassa
profondamente, dall’altra energizza l’intera struttura psicofisica.

Rivivere la propria nascita con il Respiro Circolare


Può accadere durante le sedute di Respiro Circolare di rivivere l’esperienza della
propria nascita. Sebbene non sia questo uno scopo ricercato direttamente o
guidato intenzionalmente, può accadere. In questo aspetto il Respiro Circolare si discosta
da altre tecniche simili, come ad esempio il rebirthing, perché non c’è un’intenzione
specifica in questa direzione.

Rivivere l’esperienza della nascita vuol dire accedere ai vissuti di quell’esperienza:


alle sensazioni, e a volte a delle immagini molto vivide, ad essa associate.

Il modo in cui si viene al mondo ha delle conseguenze a lungo termine nella formazione
della struttura caratteriale della persona. Non serve in questa sede entrare nello
specifico. Studi durati anni hanno dimostrato una connessione tra quello che la persona
ha vissuto durante il parto e il carattere che poi ha acquisito da adulto.

Rivivere la propri nascita tramite il Respiro Circolare permette di integrare quel vissuto.
Permette di stare di fronte in modo consapevole a tutto quel sentire non
integrato. Questo viene vissuto come una rinascita vera e propria, una liberazione da
un peso portato dentro per tutta la vita.

Per approfondire: Il primo respiro

Stati di coscienza non ordinari

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La tecnica del Respiro Cosciente Circolare può portare a profondi stati di coscienza.
Provocando una riduzione dell’attività cerebrale porta in modo spontaneo in una
condizione di meditazione profonda.

Il fatto di introdurre la componente Cosciente nella tecnica serve proprio a dare lo


stimolo a restare consapevoli durante queste transizioni da stato a stato. È un
allenamento meditativo fenomenale proprio perché allena a riconoscere la transizione
tra gli stati.

Da leggere: Stati di coscienza

Applicazioni del Respiro Circolare


Il Respiro Circolare è un potente strumento di crescita. Può essere praticato da chiunque
sia interessato a integrare maggiormente la propria condizione psicofisica. A mio avviso,
tutti dovrebbero provare cosa significhi avere un respiro integrato e una condizione di
vitalità accesa e libera da blocchi.

Sebbene ad applicazione universale, il Respiro Circolare trova una collocazione clinica


entro quelle che vengono definite “terapie brevi”. La terapia breve è una forma di
terapia che solitamente si esplica in un numero limitato di sedute. Generalmente questa
definizione viene associata alle psicoterapie. Proprio per la sua rapida efficacia e per la
sua configurazione limitata nel tempo, il Respiro Circolare può essere classificato in
questo modo.

La sua applicazione clinica ha dimostrato la sua efficacia nel trattamento dell’ansia, della
depressione e degli attacchi di panico. Senza andare a toccare questi estremi, si è
rilevato un trattamento rapido per insegnare alle persone una corretta gestione dello
stress.

Viene utilizzato con risultati eccellenti anche nel trattamento delle tossicodipendenze,
in quanto gli stati di coscienza che possono venire indotti in modo naturale tramite la
respirazione possono ricordare al tossicodipendente l’esperienza che ha avuto in modo

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artificiale tramite le sostanze chimiche. Questa somiglianza permette alla persona una
transizione più rapida verso uno stile di vita libero dalla dipendenza.

Il Respiro Cosciente Circolare viene utilizzato in ambito clinico anche per trattare le
disfunzioni sessuali. Agendo a livello energetico si sciolgono i blocchi che impediscono
alla persona di vivere appieno la propria sessualità. Si apre il sentire verso questa
componente fondamentale dell’essere umano e si ripristina il fluire energetico
dell’energia sessuale all’interno del corpo.

Può essere praticato con degli accorgimenti particolari anche da donne in gravidanza,
dagli anziani e dai bambini.

Insomma, la sua applicazione è incredibilmente trasversale, e la sua efficacia è


comprovata da anni di applicazione sul campo con risultati eccellenti.

Le varianti del Respiro Circolare


La variante principale rispetto al Respiro Circolare è quella rispetto alla pratica in gruppo
o individuale. La tecnica in sé non cambia, è la stessa. Quello che cambia è il setting
della seduta. Ci sono i pro e i contro in ambedue le applicazioni.

Praticare individualmente, comunque sotto la supervisione di un conduttore, permette


di essere seguiti in modo più attento da chi conduce la seduta. Potrebbe essere di aiuto
a chi inizia per prendere confidenza con la tecnica, per poi passare a delle sedute in
gruppo.

Alcuni hanno difficoltà nella condivisione finale in gruppo, per cui lavorare in due
permette di non incorrere in questa limitazione. Chiaramente questa non è una
condizione necessaria: è possibile e consigliabile iniziare direttamente con le sedute in
gruppo.

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Respirare assieme ad altri è un’esperienza unica, perché apre il proprio sentire ad un
sentire collettivo, legato all’intero gruppo. Si scopre che, nonostante ognuno viva la
propria esperienza individuale, esiste un’energia del gruppo che segue una dinamica
collettiva.

A volte in momenti di difficoltà ci si sente sorretti dall’energia del gruppo, e a volte si


sente esattamente l’opposto: di sostenere gli altri. Si potrebbe scivolare tutti assieme in
profondità, così come vivere tutti assieme un’esperienza di forte sblocco energetico. Può
accadere, ma anche in questo caso non è qualcosa che viene ricercato intenzionalmente.

Confronti con tecniche simili


Dal punto di vista tecnico il Respiro Circolare si avvicina al Rebirthing, ma si discosta nella
sua finalità e nella sua applicazione: è un approccio neutro e privo di mistificazioni.

Negli anni si sono viste un’infinità di varianti della tecnica del Rebirthing. Con la musica,
con le luci psicoattive, con meditazione guidata, con ipnosi regressiva, nelle saune… la
fantasia certo non manca.

Ogni cosa che si aggiunge va a interferire con il decorso naturale della seduta .

La tecnica del Respiro Circolare di per sé, come è stata presentata in questo articolo, è
semplice, essenziale e potentissima. La sua potenza sta proprio nel fatto che va a
sfruttare il meccanismo integrativo spontaneo del respiro.

Il respiro guida tutto ciò che accade. Ogni cosa che interferisce con questa sua
spontaneità è, a mio avviso, un’interferenza.

A mero scopo informativo ritengo giusto completare questo articolo con un breve
excursus rispetto alle varianti del Rebirthing.

Una variante del Rebirthing è quella della pratica in acqua. La sensazione di


galleggiamento favorisce il rilassamento del corpo. Nel respiro in acqua ci sono due
opzioni: in acqua calda o in acqua fredda.

Il Rebirthing in acqua calda, cioè a temperatura corporea, può favorire il contatto con il
proprio corpo, e dalle esperienze fatte pare stimoli il rivivere l’esperienza della nascita.

L’acqua fredda invece potrebbe stimolare l’emergere delle paure e le sensazioni legate
al tema della morte. L’emergere di questi contenuti durante la seduta permette di
integrarli e di lasciarli andare.

Un’altra variante rispetto alla tecnica standard del Rebirthing, più avanzata, è quella di
respirare ad occhi aperti. Chiaramente questo è possibile solo se si è già affrontato e
integrato gran parte del materiale interiore. Tenere gli occhi aperti apre l’attenzione
all’ambiente in cui avviene la seduta, e sarebbe una distrazione fortissima per chi ha
appena iniziato a respirare.
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Altra variante è il respirare in coppia, mantenendo il contatto di sguardi con l’altro
praticante. È una variante avanzata della pratica del Rebirthing. Il contatto visivo con
l’altro ha degli effetti notevoli sulla coscienza della persona, vedi l’articolo Eye Contact
Experiment, e questo potrebbe essere, nelle fasi iniziali della pratica, una grossa
distrazione.

Il Respiro Circolare è mantenuto nella sua forma essenziale, ogni possibile forma di
interferenza viene eliminata.

Il fine del Respiro Circolare è di purificare il corpo fisico, l’aspetto emozionale e mentale
della persona che lo pratica per liberare l’energia vitale e accendere la
consapevolezza di sé.

Gli effetti del Respiro Circolare


In conclusione di questo lungo articolo, vorrei riassumere i numerosi effetti benefici che
derivano dalla pratica di questa tecnica.

Ciò che si sperimenta nell’immediato è una accensione della presenza consapevole. Ci


si sente più presenti, fin dalla prima seduta. La consapevolezza è più chiara, più
trasparente.

Per chiarezza mi riferisco al grado di vividezza con cui accade l’esperienza. Come nel
caso di un’immagine visualizzata, questa può essere chiara, vivida e brillante oppure
offuscata, ottusa e confusa. Questa qualità non è relegata solamente alla visualizzazione,
ma è una vera e propria caratteristica qualitativa dell’attenzione. La propria esperienza
cosciente diviene più vivida. È un effetto dello smaltimento delle tossine fisiche,
emozionali e mentali.

Da leggere: Le quattro qualità dell’esperienza

Un altro effetto legato alla purificazione è l’aumento della vitalità: c’è un forte aumento
dell’energia vitale. Quell’energia che era trattenuta nei blocchi energetici viene liberata e
diviene nuovamente disponibile. Ritorna a fluire nel corpo, che riacquista la sua
condizione naturale di salute e vitalità. C’è un forte aumento del metabolismo e
dell’efficienza della circolazione sanguigna.

Assieme alla liberazione dell’energia vitale si amplifica anche il proprio sentire. Si


sente maggiormente il proprio corpo e le proprie emozioni.

Questo apre il canale dell’empatia con l’altro. Più sono in contatto con il mio sentire,
più posso aprire questo sentire verso l’altro essere umano.

Si acquista una maggiore flessibilità, non solo fisica, ma anche mentale. Il corpo è più
sciolto, la mente è più adattabile e malleabile nei confronti delle esperienze e delle
prospettive dell’altro.

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Una maggiore presenza mentale apre il canale alle intuizioni profonde e ad una
creatività inedita. Avviene un cambiamento strutturale nella coscienza della persona.
L’esplorazione degli stati di coscienza apre le porte allo sviluppo verso l’alto, in strutture
sempre più complesse ed evolute.

Quanti effetti positivi derivano da una pratica così semplice! Sento di consigliare a
chiunque di provare un ciclo di Respiro Circolare. Senza la minima esitazione.

Da leggere: Sviluppo: la porta è sempre aperta

La tua esperienza
In questo lungo articolo ho voluto darti una descrizione di che cos’è il Respiro Cosciente
Circolare, basandomi sulla mia esperienza e sulle mie conoscenze in questo campo della
crescita. Sicuramente ci sono altri aspetti riguardo al Respiro Circolare che non sono stati
toccati e che meriterebbero ulteriori approfondimenti.

Ho dimenticato qualcosa che secondo te meritava di essere citato? Scrivilo qui sotto
nei commenti, sarà sicuramente di spunto per una integrazione.

Spero di aver acceso in te la curiosità di provare questa tecnica di consapevolezza. Se hai


già esperienza con il Respiro Circolare, condividi il tuo vissuto nei commenti qui
sotto!

Rendiamo vivo questo post.

Mi piacerebbe che non resti solo il frutto dell’esperienza di un singolo, ma che diventi un
punto di scambio costruttivo per tutti i lettori.

A te la parola!

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