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Intelligenti si nasce o si diventa?

Domanda sbagliata
Nemmeno tu sai di che cosa sei veramente capace — e di cosa no — finché
non provi

Di Daria Bernardoni

Carol Dweck, professoressa alla Stanford University, è ormai una celebrità nel
campo della psicologia sociale grazie al successo delle sue ricerche sulla personalità
umana.

Il più grande passo in avanti lo ha compiuto quando è finalmente riuscita a lasciarsi


alle spalle una gloriosa tradizione accademica, abituata a porsi domande come
“Intelligenti si nasce o si diventa?”, per concentrarsi, invece, sul potere delle nostre
convinzioni: il potere che hanno su di noi e il potere che esercitano sulla realtà che ci
circonda.

Molto spesso nemmeno siamo consapevoli di queste convinzioni o credenze, eppure


sono loro a condizionare pesantemente quello che vogliamo dalla vita e le nostre
chance di ottenerlo, formando la nostra mentalità e definendo il modo in cui
affrontiamo le più disparate situazioni, dal lavoro alle relazioni, dallo sport
all’educazione dei figli.

Carol Dweck ha dimostrato con una serie di esperimenti e ricerche che (1) esistono
due mentalità opposte che possono plasmare la personalità individuale e (2) è
possibile cambiare la propria mentalità.

Queste due scoperte sono per certi aspetti illuminanti e hanno reso Dweck una specie
di guru nell’ambito della formazione aziendale e sportiva in particolare. Sono raccolte
nel suo libro Mindset. Cambiare forma mentis per raggiungere il successo,
pubblicato da Robinson in inglese (2006) e da Franco Angeli in italiano (2013).

Prima di approfondirle brevemente, un piccolo inciso.

Allora intelligenti si nasce o si diventa?


Dimmelo tu. Sul serio, pensaci: come risponderesti, di pancia, a questa domanda?
Se non è così facile, proviamo in un altro modo: pensa a una persona che conosci e
che reputi stupida. C’è qualche speranza, secondo te, che possa diventare
intelligente?

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A questo punto ti sarei chiesto che cosa si intende per intelligenza. Qui si apre un
mondo, ma in realtà potrei riformulare la domanda sostituendo l’intelligenza con
qualunque altra qualità umana.

Riformuliamo ancora questo piccolo test: secondo te, Muhammad Alì era un
campione nato?

Non voglio però schivare la domanda: di tutto quello che ho letto in vita mia, la
definizione di intelligenza che ho trovato più affascinante è quella di Jean Piaget. Cito
a memoria, non ricordo in quale opera è riportato questo passaggio, probabilmente in
più di una. Jean Piaget ha definito l’intelligenza come l’equilibrio dinamico tra
assimilazione e accomodamento, ossia come la continua ricerca di equilibrio tra la
capacità dell’individuo di adattare se stesso all’ambiente e quella di adattare
l’ambiente a se stesso.
Una delle lezioni che ho imparato da adolescente scontrandomi con la scuola cattolica.

Torniamo allora alla prima domanda: queste capacità sono innate o acquisite?

Le più recenti scoperte delle neuroscienze hanno sì dimostrato l’importanza della


componente genetica di molte qualità umane, ma anche che gli stimoli ambientali
sono altrettanto deteminanti, proprio perché necessari per permettere alle potenzialità
genetiche di realizzarsi e svilupparsi. Si tratta quindi di una partita aperta.

Non è questa, però, la partita di Carol Dweck. La sua tesi può essere così espressa:
Aldilà del fatto che le qualità umane siano innate o acquisite, la convinzione implicita o
esplicita che ogni individuo ha in merito — che esse siano innate o, al contrario, la
convinzione che siano acquisite — è sufficiente a condizionare in modo decisivo il suo
comportamento, le sue performance, la sua vita.

Nel primo caso, si parla di fixed mindset (mentalità statica), nel secondo caso
di growth mindset (mentalità dinamica).

Mentalità statica
Le persone con il cosiddetto fixed mindset (mentalità statica) tendono a credere nel
concetto di talento, definito come una dote innata, una qualità straordinaria che o si
ha o non si ha, qualcosa che si eredita alla nascita o al massimo che si può acquisire
una volta per tutte nei primissimi anni dell’infanzia.
Chi ha questa convinzione tende a vivere ogni competizione, ogni performance, ogni
caso della vita in cui è richiesta una prestazione specifica — dalla partita di calcetto con
gli amici al colloquio di lavoro — come una prova del fuoco, un’occasione in cui deve
dimostrare di avere talento.

La pressione sociale, reale o presunta, è molto sentita dal soggetto che adotta questa
mentalità, e ogni situazione è vissuta come un’esposizione al giudizio altrui: avrò
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successo o fallirò? Farò la figura dello scemo o riuscirò a sembrare intelligente? Verrò
accettato o rifiutato? Vincerò o perderò?
Del resto, sono svariati i contesti sociali in cui vengono premiate le supposte doti
naturali — contesti sociali che premiano la cultura fixed mindset. Mai sentito parlare di
università che “selezionano talenti”, o di aziende che “assumono talenti”? Il sistema
formativo americano fa rabbrividire sotto questo aspetto: bambini molto piccoli
vengono divisi in gruppi in base a punteggi ottenuti da test intellettivi che aprono o
precludono loro, una volta per sempre, determinati percorsi scolastici.

Che cosa succede, allora, quando qualcosa va storto per chi ha una “mentalità statica”?
Quando una performance non riesce, quando si commette un errore, quando si perde
una partita?

Se il talento è innato e ogni performance è una prova in cui dimostrare di avere


talento, il fallimento è lo scenario peggiore che gli individui con il fixed
mindset possano immaginare. Se fallisci la prova, dimostri di non avere talento — se
non hai talento, non ci puoi fare niente. Ricordi? Il talento o ce l’hai o non ce l’hai. Se
sbagli, non ce l’hai.

Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, perché una delle più evidenti conseguenze di
questa mentalità è la tendenza a evitare le sfide. In particolare, chi è già stato
riconosciuto come un talento — magari da genitori che hanno insistito molto su un
certo tipo di giudizio nei suoi confronti già da molto piccolo — si barricherà sul podio,
facendo di tutto per non esporsi a un nuovo giudizio che potrebbe falsificare il
precedente.
Davanti agli ostacoli, le persone con una “mentalità statica” tendono a fuggire, a
mettersi sulla difensiva, a rinunciare facilmente: tutto fuorché mettersi alla prova, se
mettersi alla prova può voler dire rischiare di dimostrare di non avere talento.

Un’altra importante conseguenza si manifesta nel modo in cui viene valutato lo sforzo,
la fatica che si deve fare per raggiungere un obiettivo. Se devi impegnarti molto in
qualcosa, significa che non hai talento. Più ti sforzi di fare bene, più dimostri di non
essere capace. Per la stessa ragione, chi ha un fixed mindset è in genere impermeabile
alle critiche, anche quando sono costruttive: se hai bisogno di aiuto, vuol dire che non
hai talento. E se non hai talento, non puoi acquisirlo.

Questo è vero anche nell’ambito delle relazioni: se crediamo di essere “fatti per stare
insieme”, spesso ci rifiutiamo di impegnarci per migliorare il rapporto e superare le
difficoltà. Se ci sono difficoltà, significa che non siamo fatti per stare insieme…

Se basta una critica, anche costruttiva, per mettere in discussione il talento, proviamo
a immaginare come si pone l’individuo con il fixed mindset davanti ai successi altrui:
non possono essere altro che una pericolosa minaccia.

Non stupisce quindi che le persone con questa mentalità tendano a stabilizzarsi
precocemente e rischiano quindi di non realizzare a pieno il proprio potenziale.

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Mentalità dinamica
Agli antipodi del fixed mindset, Carol Dweck ha individuato le caratteristiche che
definiscono il growth mindset (mentalità dinamica), ossia una forma mentis orientata
al miglioramento, alla crescita e allo sviluppo personale.

Chi crede che le qualità personali possano essere coltivate attraverso l’esperienza, in
genere, ritiene che nessuno possa conoscere a priori il potenziale umano di ciascun
individuo, potenziale che può essere esplorato soltanto attraverso la pratica. Secondo
il growth mindset, tutti noi possiamo cambiare e migliorare se lo vogliamo davvero.

Perché sprecare tempo cercando di dimostrare di essere il migliore, quando puoi


investirlo migliorando te stesso?

Questa tipologia di individui non comprende “talenti”, bensì profili fortemente


orientato all’apprendimento. Not a genius, but a learner. Il desiderio di imparare è
infatti la caratteristica più evidente del growth mindset, anzi possiamo dire che è il
suo significato principale.

Le sfide non sono viste come rischiose prove che possono svelare la propria
inadeguatezza, ma occasioni di apprendimento. Sbagliare significa scoprire qualcosa
di nuovo, che prima si ignorava. La fatica e lo sforzo sono necessari nella continua
tensione verso il miglioramento. Le critiche sono consigli preziosi. Il successo altrui è
un esempio da seguire.

Capiamoci: il fallimento è sempre una dura realtà con cui fare i conti. Ma in un caso —
 fixed mindset — gli individui lasciano che il fallimento li definisca una volta per tutte.
“Fallito” è un’etichetta di cui si vergognano e che si porteranno dietro per sempre,
perché fallire significa essere un fallimento.
Nell’altro caso — growth mindset — fallire significa avere fallito, si tratta di un episodio
da gestire, da cui imparare, da superare. Non è qualcosa che ti segna per sempre, ma
qualcosa di cui devi assumere il controllo.

In questa mentalità, il concetto di “perfezione” non solo non si dà a priori, ma non si


raggiunge davvero mai, resta un’idea regolativa che ci sprona a fare sempre meglio.

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Si può cambiare mentalità?
I fixed mindset ti risponderanno di no. I growth mindset ti risponderanno di sì. Tu
che cosa rispondi?

Capiamoci, nessuno incarna in modo esclusivo una mentalità o l’altra, ma tutti noi ci
troviamo in un punto tra questi due estremi. I diversi contesti in cui ci muoviamo tutti
i giorni e che noi stessi contribuiamo a costruire, come la famiglia e il lavoro, sono
decisivi nella formazione di una cultura fixed o growth.

L’arte di dare e ricevere feedback è cruciale per favorire una


cultura growth. Hint: premiare lo sforzo, non il risultato. Affrontare con
lucidità e spirito collaborativo il fallimento, non negarlo.
Qualunque sia la tua mentalità dominante, nemmeno tu sai di che cosa sei veramente
capace — e di cosa no — finché non provi.

Sperimentare è l’unico modo che hai per conoscere te stesso. Vuoi davvero rinunciarci
per paura di quello che pensano gli altri? Nah…

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