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1.

Prove di reportage, tra turismo, cultura del territorio e


letteratura. I dintorni di Trieste.
Per arrivare a Trieste con l’automobile, provenendo da Sud, dal nodo di Bologna, verso Venezia (da Roma anche
la Orte-Cesena, senza pedaggio, attraverso l’Umbria), il consiglio è di uscire a Sistiana-Trieste per godere
immediatamente del panorama lungo il mare, con la roccia carsica incombente direttamente sulle limpide acque,
subito profonde.
Si incontrano due celebri castelli, nelle cui suggestive mura si fondono varie memorie: l’immaginazione mitica,
la letteratura, il cinema, per formare un singolare intreccio, nella sequenza interdisciplinare della Letteratura di
viaggio.
Miramare spunta dopo pochi chilometri, ad una decina
scarsa da Trieste, per Duino bisogna avere la disponibilità
per una brevissima deviazione, immediatamente dopo
Sistiana.
Castello di Miramare - Museo Storico, castello-miramare.it.
Tra le meraviglie naturali, la roccia che sale dal mare con i
resti del primo nucleo, ormai splendido rudere quasi
continuazione della forgia pietrosa, emergono indizi della
storia più tragica del secolo.
Il bunker sotto al castello è stato usato dai tedeschi nel
1943: aspettavano un attacco degli alleati a Nord, da quel mare. Fecero arrivare i famosi sottomarini Molk.
Nel Bunker sotto Duino, in pannelli giganti illustrativi, con le foto d’epoca, riportano le testimonianze del
maggiore studioso di questo luogo, in equilibrio tra memorie tragiche e bellezze naturali. Si tratta di Claudio
Pristavec, che ricostruendo la storia del presidio di Sistiana ci avverte che i Molk restarono inutilizzati, si può
accedere direttamente al sito internet curato da Pristavec da cui si traggono le notizie riportate subito sotto.
“Ci sono voci, però, che non limitano questa base a delle semplici strutture di superficie, ma indicano la
presenza di un bacino sotterraneo un tempo collegato al mare. In questo bacino, attraverso una galleria,
entravano i sommergibili che potevano trovare un sicuro ricovero presso queste banchine protette. Quando si
parla di questa caverna, emergono particolari addirittura inquietanti (come il fatto che vi siano ancora due
sommergibili ancorati al suo interno), ma nessuno riesce a indicare esattamente il suo accesso. C’è chi indica il
paretone posto sotto quello che viene chiamato “l’occhio del diavolo” (si tratta di un posto di vedetta
strapiombante sul mare, appartenente al retrostante sistema fortificato), ma centinaia di subacquei hanno
perlustrato l’area - per altro ricca di acque dolci sorgive - senza trovare nulla. Altri hanno puntato l’attenzione su
un tratto intermedio delle falesie fra Sistiana e Duino, ed altri hanno addirittura fatto riferimento all’area subito
sottostante la cosiddetta “galleria naturale” presente lungo la strada costiera. Tante indicazioni, ma nessun
riscontro positivo. Si è parlato di frane, di esplosioni che hanno occluso la bocca originale di accesso. Alcuni
hanno anche avanzato l’ipotesi che l’ingresso sia stato realizzato molto più al largo rispetto alla linea di costa ed
è per questo che non è stato ancora ritrovato. Tante sono state anche le ricerche fatte a terra. Nel corso degli anni,
intere generazioni di giovani ardimentosi hanno esplorato minuziosamente ogni palmo della parete
strapiombante, visitando i vari cunicoli praticati nella roccia a pochi metri di altezza rispetto al piazzale. In
alcuni è stato rilevata la presenza di cisterne piene d'acqua, in altri i cunicoli piegano ad angolo e si
interrompono improvvisamente. Non è chiaro quale utilizzo abbiano avuto questi passaggi scavati nel calcare,
ma è certo che non conducono a nessuna ampia caverna facente parte dell’approdo ipogeo. Anche il complesso
sotterraneo posto nell’angolo ovest della vecchia cava è stato accuratamente analizzato. Sono state visitate le
gallerie dotate di più ingressi, la postazione in caverna per il cannone da 88 mm, il ricovero chiuso
originariamente da porte corazzate e la postazione per la mitragliera.
Si tratta di un interessantissimo complesso, che non presenta però ulteriori sviluppi sconosciuti. Una decina di
anni fa, era emersa la notizia che nel camping realizzato sopra il bordo della cava sia stato rinvenuto un sistema
di scale in muratura che scendeva in profondità, ma ogni ulteriore ricerca in tale direzione non ha portato a
risultati concreti. Altre presunte testimonianze (sempre indirette e lacunose) ricordavano come la grande frana
presente lungo la parete della cava non fosse altro che un accumulo di materiali provocato con un’apposita
esplosione a chiusura dell’ingresso della caverna. Nonostante alcuni sondaggi, le ingenti dimensioni della frana
non hanno permesso di rintracciare nulla di nuovo. Nel corso delle ricerche, ognuno ha cercato di seguire le
tracce che riteneva più importanti. C’è chi ha seguito l’aria, percorrendo un breve cunicolo che, effettivamente,
presenta un’anomala corrente ascensionale, ma per il momento senza alcun risultato. C’è poi chi ha seguito
l’acqua, constatando come - durante i grandi acquazzoni - l’intero piazzale si allagasse in seguito ad una
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massiccia fuoriusciva idrica dai materiali posti alla base della parete verticale, ma anche questo indizio non ha
portato ad alcun ritrovamento.
Esiste, quindi, la base dei sommergibili? Come sopra affermato la base è effettivamente esistita, con uno
sviluppo in superficie di cui sono reperibili documenti e fotografie. Molto più difficile credere nella presenza di
una grande caverna allagata all’interno della quale si attraccavano i sommergibili, in quanto nonostante le
ricerche, nessun indizio della sua presenza è mai stato rintracciato. Personalmente, penso che la base sotterranea
sia una leggenda, la convinzione di alcuni ricercatori basata più sulle speranze di un eccezionale ritrovamento
che su elementi oggettivi e concreti.
Certo, nel caso qualcuno riesca a forzare una fessura e trovare il bacino sotterraneo con due sommergibili
ancorati alle banchine, mi chiami pure”.

Gli scogli naturali e il vecchio castello di fronte al nuovo dei conti Torre e Tasso, amanti dell’arte e dei poeti,
rimane suggestivo nella memoria. La mano della natura e quella dell’uomo qui si incontrano, come dentro le
mura bianche, per volere dei principi, amici degli austriaci come dei francesi, con la musica a farla da padrone
con quella incredibile esposizioni di cimeli e strumenti musicali, specie del Settecento. La curiosità della
contessa, la sua vocazione letteraria ha portato qui la grande cultura dell’epoca. La storia della contessa si legge
nei pannelli e nelle suggestive foto all’interno del castello, dove sono stati oltre Rilke anche D’Annunzio e
Hoffmansthal.

I dintorni di Trieste sono ricolmi di memorie dei momenti più tragici della storia del Novecento. Dalla Risiera di
San Sabba, alle Foibe di Basovizza, dentro i nascosti anfratti del Carso. Echi di tutte le guerre, nel terreno che si
sgretola e si apre continuamente a mostrare ferite e i suoi percorsi sotterranei, continui, di pianto e di tenue
speranza. Più in là verso Gorizia, una trentina di chilometri da Trieste, il monte dove è morto Scipio Slataper, il
Calvario-Podgora, l’ossario di Oslavia, il ricordo di un altro scrittore irredentista morto in guerra, Carlo
Stuparich, con quello di migliaia e migliaia di soldati con o senza nome.
Solo dopo la permanenza a Trieste, ho letto un altro testo sui lager, stavolta da parte slovena, il capolavoro di
Boris Pahor Necropoli, tradotto in italiano da Fazi, da mettere accanto a opere come Se questo è un uomo di
Primo Levi. Pahor, sia pur nato e vissuto a Trieste, incarna nella sua storia il rovescio della medaglia del dramma
dell’Istria e della Dalmazia, con l’esodo degli italiani fuori dalle loro case quando i due territori passano alla
Iugoslavia. Sotto il fascismo, gli sloveni di Trieste e del Carso furono duramente perseguitati e repressi, con
l’impedimento di parlare nella loro lingua.
Conviene allora, prima di continuare la visita, visitare i due luoghi emblematici (direi per tutto il nostro Paese) di
due opposti orrori, esattamente simili negli effetti, da versanti ideologici egualmente criminali: la Risiera di San
Sabba e le foibe di Basovizza. Traggo la citazione da Trieste sottosopra di Mauro Covavich della collana
Contromano di Laterza che si propone, in modo quasi sempre originale (contromano appunto) di raccontare
luoghi e città, affidando il racconto a scrittori più o meno noti.

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1.1. La Risiera di San Sabba. Visita a un forno crematorio
La Risiera di San Sabba. Luogo tristemente famoso a
Trieste e in Italia per essere propriamente l’unico Lager
nazista in territorio italiano.
II 10 si spinge fino a un centinaio di metri dalla cicatrice. Il
rione si chiama San Sabba - la solita beffarda magia dei
nomi destinali. Ci sono "i fumi dell'acciaieria e delle altre
industrie, sullo sfondo. La muraglia cinese dei condomini.
Le strutture arancioni dello stadio nuovo che arrembano il
ciclo. Un parcheggio dove di solito si ferma il circo,
quando passa. E poi altre forme grigie di urbanità
marginale, povere concrezioni di periferia che paiono
concepite per mimetizzare la cicatrice. La fermata più
vicina è quella dell'ipermercato Famila, con le bocche numerate per lo scarico merci dei tir e il piazzale con le
macchine a spina di pesce. Appena scesi, ci si trova di fronte a un'enorme quercia, ammorbata in basso da
cartacce e merde di cane, ma maestosa e libera in alto, svettante con la sua mongolfiera di foglie sugli edifici
nani circostanti. A sinistra c'è la sala del bingo. A destra, la palestra Muscle Gym e il negozio di arredo bagni
Idra, entrambi senza vetrine né finestre.
Hanno tentato in tutti i modi di nasconderla con altre cose di pari bruttezza, ma la cicatrice non si è fatta
intimidire. Eccola lì che sporge sulla strada, coi mattoni rossi e l'apertura - splendida, insuturabile - del corridoio
di cemento."
Monumentalizzare la cicatrice, è stata questa l'idea che ha reso la Risiera di San Sabba, prima ancora che scrigno
sacro del dolore e della memoria, la più bella opera d'arte della città.
La Risiera era nata nel 1913 come stabilimento per la pilatura - trattavano il riso, qui dentro, prima di bruciare le
persone. Con i nazisti diventò inizialmente campo di prigionia per i soldati italiani catturati dopo l'8 settembre,
poi campo di detenzione e polizia (Polizeihaftlager) destinato allo smistamento degli ebrei deportati in Germania
e in Polonia, infine vero e proprio campo di sterminio di partigiani e detenuti politici italiani, sloveni e croati.
Nel forno crematorio di San Sabba sono finiti tra i quattro e i cinquemila esseri umani. Pochi, rispetto alle
capacità produttive di Auschwitz, ma abbastanza per fare di questo posto l'unico campo di sterminio in territorio
italiano. I tedeschi scelsero Trieste perché sapevano di poter contare su una regione, quella della Venezia Giulia,
dove meglio avevano attecchito gli ideali fascisti e le leggi razziali.
Trieste diventa una prima volta italiana nel 1918, insieme all'Istria e a un bel pezzo di entroterra. La presenza
cospicua di comunità slovene e croate, la mescolanza reale, concreta di cittadini italiani e cittadini alloglotti,
come diceva Mussolini, ha sempre reso difficile la determinazione di un confine naturale. Durante il Ventennio
questa «confusione» ha alimentato in molti italiani una specie di slavofobia, rendendo questa parte d'Italia più
fanaticamente italiana e fascista di tutte le altre. Squadre di gente zelante come la Banda Collotti si erano
allenate per anni su irredentisti e partigiani sloveni ed erano quindi pronte a lavorare con solerzia nelle camere di
tortora dei nazisti. Bisogna tener pre sente che, dopo l'invasione tedesca della Jugoslavia nell'aprile del '41, il
confine italiano salì fino a comprendere Lubiana (attuale capitale della Slovenia). Bisogna tener presente che per
resistere alla pesante opera di italianizzazione avviata dal governo fascista morirono migliaia e migliaia di
sloveni. Lo dico non certo per giustificare a mo' di compensazione la tragedia mostruosa — sottolineo mostruosa
- e però negli ultimi anni troppo bassamente strumentalizzata delle foibe titine, ma solo per spiegare come mai
alla fine del '43 i nazisti non hanno avuto dubbi su quale fosse la zona più idonea per costruire il loro lager
italiano. Commissionarono a un'azienda triestina un bel forno, trovarono il gerarca giusto (Lotario Globocnik,
ottimo dirigente SS a Treblinka, nato a Trieste secondo un'altra simpatica coincidenza del destino), e il campo
assunse in breve l'aspetto efficiente e carbonifero che il Reich si attendeva da esso.
Questo posto è di una purezza da far male agli occhi. La scelta degli architetti e dei restauratori è stata toccata
come da una specie di benedizione, di incanto. Nel 1975, al momento dell'inaugurazione, Romano Boico
giustificò così il suo progetto: «La Risiera semidistrutta dai nazisti in fuga era squallida come i dintorni; pensai
allora che questo squallore totale potesse assurgere a simbolo e monumentalizzarsi. Mi sono proposto di togliere
e restituire, più che di aggiungere». In effetti Boico ha tolto e restituito. Gli edifici in rovina sono stati eliminati,
il sito è stato chiuso con un perimetro di muri di cemento alto undici metri che si prolunga in due pareti parallele
distanti non più di un paio di metri, atte a diventare il terribile corridoio d'ingresso, l'anticamera grezza,
scarnificata dell'orrore. È stato lasciato tutto a cielo aperto, «come una basilica laica». Nel cortile, là dove c'era il
forno crematorio ora ci sono solo la sua impronta e il percorso della canna fumaria, ricalcati con lastroni di
acciaio, sempre soltanto evocati dalla luminescenza del metallo. È questa assenza presente che sgomenta.Ci
fosse ancora il forno non sarebbe la stessa cosa. Il suo fantasma si staglia invisibile e chiarissimo davanti ai
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nostri occhi con dentro tutte le persone che ha divorato. Nell'angolo del camino si leva una massiccia scultura in
ferro, dalle forme astratte eppure facilmente riconducibili ai contorni del fumo,spurgo nero alitato contro lo
sfondo delle recenti fortezze Iacp.
Ero un po' titubante mentre venivo qua, temevo che al mattino mi sarei trovato nel chiasso delle gite scolastiche,
e invece ad aggirarci per il cortile siamo solo io e una timida scolaresca di Gemona. I ragazzi si muovono dietro
la guida con le facce consapevoli, quasi eccessivamente funeree. Mi chiedo se un tale senso di responsabilità sia
dovuto alla bravura dei loro insegnanti oppure provenga per qualche via insondabile dal tragico passato della
loro comunità. È come se anche loro, allo stesso modo dei bambini di genitori separati, fossero cresciuti più in
fretta. È come se il terremoto, le macerie, i morti del loro piccolo paese friulano avessero trovato il modo di
perpetuarsi da quella lontana sera di maggio del 1976, non tanto come flagello, bensì come patrimonio genetico
collettivo.
Aspetto che escano tutti dalla stanza della morte per entrarci da solo. Non ci sono finestre, la luce filtra da sotto
la porta. Le scritte dei prigionieri sono state cancellate da una mano di cementino stesa senza un motivo
apparente dalle truppe alleate. In questi dodici metri quadri venivano rinchiusi i condannati per direttissima, di
solito partigiani catturati nei rastrellamenti e giustiziati nel giro di poche ore. Nella Risiera, a causa delle sue
ridotte dimensioni, gli ambienti destinati al lavoro e al riposo erano a ridosso di quelli destinati alla tortura e alla
morte, sicché la minaccia incombente della fine era una compagna se possibile ancora più inseparabile di quanto
non fosse ad Auschwitz. I testimoni raccontano di un flusso pressoché costante di urla che faceva loro da
colonna sonora mentre incollavano suole in quella che adesso viene chiamata la Sala delle Croci - per la
splendida travatura a vista che traccia nel vuoto le separazioni originarie dei tre piani dell'edificio - e che
all'epoca fungeva da calzoleria. Accanto si trova la Sala delle Diciassette Celle, uno dei pochi luoghi rimasti
indenni dalla furia distruttrice dei nazisti in fuga.
I ragazzi di Gemona ascoltano la guida in silenzio, sporgono le teste verso le bocche nere delle celle badando
bene a non oltrepassare il cordone del limite consentito. Nessuno si azzarda a fare ciò che a me invece è apparso
irresistibile, non appena sono entrato.
Due metri per due metri per un metro. La porta in legno, con una fessura che veniva aperta mezzora al giorno.
Due tavolazzi che occupano tre quarti dello spazio e che di fatto costringevano i detenuti a stare sempre distesi.
Scavalco il cordone, mi chiudo dentro il loculo, reagendo all'impennata del cuore con un bel respiro. Annuso
l'umidità, il buio. Vinco l'istinto e mi stendo sul tavolazzo di sotto, appoggio la schiena sopra le schiene dei
suppliziati. Conto fino a dieci cercando di non pensare ad altro che alla fidata successione dei numeri e poi
sguscio fuori con la gioia della luce che mi scoppia nel cervello. Sulla porta della sala - solo ora me ne accorgo -
c'è un custode che mi osserva. Non mi sgri da, non mi dice niente, mi guarda superarlo come se avesse capito. Io
continuo a camminare, con il sole che è tornato a carezzarmi, ad abbracciarmi. Cammino oltre la sala museo,
oltre i disegni di Music, oltre la comitiva di Gemona, metto un piede davanti all'altro semplicemente godendomi
la consistenza di ogni appoggio e il movimento propulsore che ne deriva. Chi entrava in quelle cellette sapeva
che non sarebbe partito per nessun'altra destinazione - niente Auschwitz, niente Dachau -, sapeva che lo
avrebbero finito con un colpo di mazza di ferro e buttato nel fuoco. Era un sapere difficile da sostenere, eppure
poteva passare anche molto tempo prima di potersene liberare. C'è gente che è rimasta per sei mesi lì dentro, con
la morte seduta sul petto. Ma io non penso a niente di tutto questo, io sto solo aspettando il momento in cui
supererò le strette pareti dell'uscita, raggiungerò quell'enorme quercia assediata da cartacce e merde di cane e mi
siederò sul muretto ad ascoltarla.

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1.2. Basovizza. Un boschetto nel Carso
Parcheggio, scendo dalla macchina, allaccio bene le scarpette, chiudo.
Basovizza è un piccolo paese dell'altopiano carsico noto a tutti
per le foibe omonime. Sui campi scoscesi che danno a est - una
brughiera di sassi e cespugli che scende fino alle grandi
fabbriche della zona industriale - troneggia il monumento
nazionale. La lapide copre un pozzo minerario scavato ai primi
del Novecento e presto abbandonato per la sua improduttività. Lì
dentro, nel maggio del 1945, i soldati di Tito gettarono i corpi di
circa duemila prigionieri tra militari e civili, inizialmente
destinati ai campi d'internamento sloveni.
Quando parliamo della gaiezza dei triestini, della loro esuberante
gioia di vivere, dobbiamo sempre ricordare la Risiera e
Basovizza, dobbiamo ricordare che è gente cresciuta in un posto
zeppo di rabbia, dolore e morte. Insomma, non è solo con lo spirito aperto del mare che si spiega la volontà di
godersi le cose della vita, ma anche con una sottile, inconsapevole angoscia, l'insopprimibile desiderio di
superare e rimuovere. Trieste è destinata a rimanere terra di passaggio, corridoio, dove i flussi continuano a
transitare, a me scolarsi, a confligere. Anche di recente questi paesi del Carso, popolati dalla minoranza slovena,
vicinissimi alla città eppure già esotici, già lontani, sono stati il filtro di transumanze disperate.
Sistemo il micropile nei pantaloncini, tiro su la lampo del collo e mi avvio al piccolo trotto verso l'inizio del
percorso.
Dietro la chiesa del paese, sul lato opposto alla foiba, inizia un bosco di conifere, prima rado, poi via via più
fitto, steso come una coperta sulla morbida vallata che unisce la minuscola provincia triestina alla Slovenia.
Questa coltre verde-bruna rappresenta da sempre il valico meno rischioso per chi voglia entrare
clandestinamente nel nostro dorato Occidente. Nel 1999, durante la guerra nel Kosovo, molti profughi scelsero
Basovizza per scivolare dall'altra parte dell'Europa. Adesso la Slovenia appartiene all'Unione Europea, e il
dedalo dei sentieri che si dipana nel bosco è accessibile da chiunque senza bisogno di passaporto. Fino a qualche
anno fa, però, il trattato di Schengen aveva attribuito a questi confini orientali la responsabilità di difendere dagli
ingressi indesiderati non solo l'Italia ma l'intera comunità dei ricchi che comincia qui e sale fino alla punta
settentrionale della Norvegia e si spinge fino alle coste atlantiche del Portogallo e a quelle depressive e
subacquee dell'Olanda. Il grande giardino dell'Europa - la sua erbetta inglese - dipendeva tutta dalla sicurezza di
questo cancello. Ricordo le code estenuanti per andare al mare in Croazia, i controlli meticolosi, al limite
dell'ostruzionismo anti-vacanza. Di notte però le cose cambiavano. I passeur arrivavano coi loro furgoncini fino
ai margini del bosco, a non più di un paio di chilometri dalla sbarra della dogana slovena. Di là c'era Lipizza, con
i suoi maneggi, i suoi stalloni bianchi, le scuole per cavallerizzi nostalgici degli Asburgo. Di qua c'era il bel
mondo. In mezzo, niente reticolati, né muretti, solo la coperta nera del bosco. I profughi si tiravano in spalla le
loro borse sformate, incassavano la testa nelle tutone riciclate, prendevano i figli per mano e cominciavano a
correre. Una volta ho trascorso la notte in un bosco simile a questo - la notte di San Lorenzo, a Cherso, una vera
e propria pioggia di stelle - e non vi dico quanto sa essere buio il buio. Per quanto possano adattarsi gli occhi,
l'oscurità sotto gli alberi resta intatta. I profughi non avevano torce elettriche, venivano orientati verso l'Italia con
due dritte e uno spintone, molti si perdevano e diventavano la prima scocciatura delle guardie del mattino.
Indugio ancora un poco, provo qualche saltello di riscaldamento tenendo d'occhio i passaggi degli altri tra le due
grandi querce, il convenzionale punto di partenza dell'allenamento vero e proprio.
La cosa suggestiva di questo posto è che si sia affermato nelle abitudini dei triestini come palestra naturale per il
running. Gli stessi sentieri che qualche anno fa vedevano gruppi di fuggiaschi in preda al panico ora assistono ad
altre corse, ad altre fughe. A tutte le ore del giorno, ma soprattutto nelle mattine dei festivi e prefestivi - oggi è
sabato - il muretto a secco che separa i prati dal piazzale del parcheggio è tutto pieno di gambe tese nella
massima estensione. Uomini e donne azzimati nelle loro tutine in lycra indugiano, prima e dopo la corsa, in
lunghe sedute di stretching. I percorsi interni sono ben segnati, coi numeri e le macchie di pittura sulle rocce,
come nelle passeggiate di montagna. Mi chiedo spesso, quando vengo a correre da queste parti, se qualcuno dei
runner abbia mai incrociato un esponente dell'al tra categoria di corridori, se muovendosi veloce come un lupo
in perlustrazione si sia mai imbattuto in quelle facce sconvolte e mangiate dal freddo che poi si vedono nei
telegiornali.
Può sembrare una domanda sciocca ma è difficile non pensare alla sovrapposizione di due gesti così simili e così
diversi nello stesso campo di azione. Fino a poco tempo fa in questo bosco vigeva davvero una specie di doppio
turno. Di giorno, campo di atletica. Di notte, guado della speranza. Di giorno, uomini liberi, in fuga da niente e
da nessuno, assorbivano la loro dose di ossigeno per tenersi in forma, sudavano per migliorarsi. Di notte, uomini
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con le scarpe da ginnastica scalcagnate si nascondevano ai fari dei poliziotti, ingannavano come potevano il fiuto
dei cani lupo. Una sovrapposizione involontariamente oscena, qualcosa di simile ai boat people cubani sulle
spiagge dei bronzei surfisti della Florida. Gli ultimi otto kosovari sono stati presi proprio a ridosso del muretto
dello stretching. Era una notte di gennaio del 1999. Dalle villette ai margini del bosco li hanno visti andare
incontro alla pattuglia dei carabinieri con il sollievo di chi ha attraversato a tentoni il freddo polare della pineta e
pensa alla cattura e al campo profughi come alla fine di un brutto sogno.
Anche stamattina fa freddo, seguo a distanza un gruppetto, tre ragazzi e una ragazza. Lei si è spalmata la crema
bianca da alta quota sulle labbra, loro sono troppo massicci, sembrano dei canoisti venuti a ossigenarsi, molto
meno intonati all'ambiente. Comunque il ritmo è buono. Li colgo a sprazzi nelle curve, prima che gli alberi li
inghiottano di nuovo. Colpi di colore, caviglie, nuche luccicanti. Quando scompaiono nelle conche profonde del
terreno resta nell'a ria il fiato di bestie, il battito sordo delle scarpe sugli aghi di pino, il loro sforzo mescolato al
mio. Ricordo una conversazione recente con un manager di una ditta basca, sulla pista del Lingotto a Torino,
lassù, sul tetto, dove un tempo collaudavano le vecchie Fiat e adesso puoi salirci a correre. «Ma perché
corriamo?» ha chiesto il tizio, quasi a se stesso, mentre ci riprendevamo con le mani sulle ginocchia, la bavetta
bianca appiccicata alla guancia, il Monviso che ci guardava sprezzante. «Forse scappiamo» mi è venuto
spontaneo rispondere. È da tanto che pratico la corsa in questa forma, diciamo, ai limiti del fanatismo, è da tanto
che ne scrivo. L'ho chiamata disperazione del benessere, l'ho chiamata arte marziale. Certo è che sui sentieri
dove ci fu anche chi scappava da un nemico vero l'inanità criptoborghese di questo gesto risalta in modo
particolarmente imbarazzante. A rendere il tutto ancora più beffardo c'è poi l'urbanizzazione del bosco ad opera
del comune, che spiana dislivelli, stende ghiaino, mette panchine in un luogo i cui unici legittimi abitanti
dovrebbero essere cervi e lupi (peraltro moderatamente presenti). All'ingresso del bosco, sulla passeggiata
principale, è stato anche allestito un itinerario di attrezzi ecologici (ciocchi, sezioni di tronchi, eccetera) per chi
voglia dedicarsi alla ginnastica. Indovinate come viene chiamata questa serie di postazioni? Percorso Vita. Già,
Percorso Vita, non è divertente? Ci sono le foibe con i loro giacimenti umani, ci sono le presenze
ectoplasmatiche dei kosovari, ci sono gli sloveni di questo e altri paesi vicini, i cui avi sapevano a memoria il
discorso che Mussolini tenne a Pola nel 1920 - «Per realizzare il sogno mediterraneo bisogna che l'Adriatico sia
in mani nostre, di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara» -, qui c'è gente che per vent'anni ha perso
il diritto che aveva ancora sotto gli Asburgo di servirsi della propria lingua a scuola, sui giornali, in chiesa e
persine sulle lapidi dei cimiteri. Eppure... Eppure Percorso Vita non è un brutto nome, non ci sta male. Se lo si
guarda senza malizia, anche lui a sua volta smette di essere beffardo. La vita bella, comoda di chi frequenta oggi
il bosco di Basovizza può essere anche una commemorazione discreta, silenziosa, puramente gestuale di chi la
vita qui l'ha persa, o l'ha totalmente messa in gioco.
Questo penso, in stato di incipiente anossia, mentre un cartello nascosto tra le foglie mi dice CONFINE DI
STATO 250 m, e sotto, DRZANA MEJA PO 250 m. Fatico a star dietro alla ragazza coi canoisti.
Evidentemente sono molto meno improvvisati di quanto credessi. Li intravedo al galoppo in una stretta galleria
di pini. Superano una macchia di sole e poi scompaiono dentro una dolina - resto stupefatto ogni volta dalla
perfetta simmetria di queste conche naturali, di quanto geometrico sappia essere il Carso quando
imprevedibilmente smette di essere imprevedibile. Vedendoli già ricomparire sull'altra sponda decido di
rinunciare alla rimonta. Restituisco così al cuore un ritmo umano attraversando piano, pianissimo il confine,
ormai solo una pennellata bianca sul bordo del sentiero.
Prima di tornare alla macchina mi aggiungo anch'io al muretto dello stretching. Trovo giusto uno spazio per
metterci la gamba. A mezzogiorno c'è più gente qui che a prendersi l'aperitivo in piazza dell'Unità. Piegato in
due - il piede a martello, le spalle parallele, la testa tra le braccia - penso al fatto che a Trieste questa è la gita
fuori porta meno fuori porta che ci sia. Penso al fatto che i sentieri dentro il bosco di Basovizza, nel loro cucire
l'ex confine tra mondo libero e mangiabambini, possiedono il codice cifrato per aprire il cuore della mia città.

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1.3. Piazza Oberdan, due innamorati
La visita continua, prima di arrivare in città, ma mai ci potremo sottrarre dalle memorie di guerra, di violenze, di
eroismi e di carità che connotano, più di altre regioni, questi territori dove la convivenza tra i vari popoli ha
scatenato odio e gelosia, la aberrante sete di guadagni.
Un altro brano di Covacich trova spunto dalla visita della Piazza Oberdan, dove parte il treno per Opicina e da
dove comincia la città in salita, verso il Carso. Una storia struggente, che chi visita la Risiera può toccare con
mano, con tanto di foto e lettera autografa del protagonista di questo episodio:

Piazza Oberdan, due innamorati


La voce di Carducci declama roboante sulla targa di Guglielmo Oberdan: «Morto santamente per l'Italia, terrore
e ammonimento rimprovero ai tiranni di fuori, ai vigliacchi di dentro». A Oberdan è stata dedicata una delle
piazze più belle di Trieste, ariosa, rotonda, protetta alle spalle dai portici che salgono verso il Palazzo di
Giustizia, offerta sul davanti alle vie di maggior scorrimento. Al centro della piazza però non c'è un monumento
del giovane irredentista, bensì il bronzo intitolato Cantico dei cantici, opera di Marcello Mascherini.
Recentemente la giunta comunale, di decisa ispirazione nazionalista, aveva pensato di sostituire la scultura di
Mascherini con quella realizzata negli anni '30 da Attilio Selva, scultore di regime e autore del monumento ai
Caduti di San Giusto, collocata da sempre nei pressi della Casa del Combattente, a pochi passi dalla piazza. Ne
era nata una disputa pubblica. Gli oppositori della giunta criticavano la retorica e l'ampollosità dell'Oberdan di
Selva, ma soprattutto lo spirito con il quale veniva richiesta la sostituzione; i sostenitori della giunta mettevano
in discussione la pertinenza te malica dell'opera di Mascherini - perché un Cantico dei cantici?
Guglielmo Oberdan torna a casa il 16 settembre del 1882, in occasione dei festeggiamenti per il quinto
centenario della «dedizione» di Trieste all'Austria e della visita in pompa magna di Francesco Giuseppe alla
«sua» città di mare. Ha ventiquattro anni. Da quattro studia al politecnico di Roma ed è uno dei giovani più attivi
del movimento irredentistico. In saccoccia nasconde due belle bombe per l'imperatore. Né loro né lui, però,
arrivano a destinazione. Una spia fa arrestare Oberdan alla stazione e il 20 dicembre la storia di questo ragazzo -
eroe per noi, kamikaze per gli austriaci - si conclude sul patibolo della Caserma Grande.
Dalla sua storia però ne sboccia un'altra, ancora più bella, che forse i nazionalisti della giunta non conoscono e
che invece Marcello Mascherini doveva avere in mente - o almeno a me piace pensare così - quando decise di
realizzare le figure esili di quei due innamorati e il loro struggente abbraccio al centro della piazza.
Pino Robusti ha ventidue anni quando, la mattina del 19 marzo del 1945, sta aspettando la fidanzata sul lato
esposto al sole di piazza Oberdan. È il primo sole di primavera. I profili degli alberi sono sbalzati nella
trasparenza dell'aria in un modo che fa venir voglia di saltare, di ballare. Chissà, magari Pino sta fischiettando.
Dal tram lì di fronte - il celebre tram di Opicina - scende un sacco di gente, ma Laura non c'è ancora. Intanto
sfila lenta una pattuglia della polizia te-desca, nota un giovane sfaccendato in piazza e, senza una particolare
convinzione, assecondando l'automatismo di certi processi mentali, si ferma a perquisirlo. Nel portafogli gli
trovano la tessera dell'Organizzazione Todt, un'agenzia governativa tedesca per il lavoro coatto nei paesi
occupati. Perché non sei al lavoro, ragazzo? Oggi avevo turno di riposo, sono uno studente, studio architettura a
Venezia. Ah sì? Be', sali con noi, che verifichiamo. Pino Robusti non è un partigiano quando viene arrestato. Lo
diventa in quei venti giorni di detenzione alla Risiera, prima di finire nel forno crematorio. Le sue lettere
clandestine ai genitori e alla fidanzata sono tra le testimonianze più preziose sulle condizioni di vita dei
prigionieri al lager di San Sabba. Per una serie di equivoci viene rinchiuso con i detenuti «politici» e presto si
stringe a loro, condividendone lo spirito e gli ideali antifascisti. Il giorno di Pasqua insieme ai trentadue
compagni viene portato in chiesa. Dopo, in cortile, davanti alla faccia attonita del maresciallo SS, canterà con
loro l'inno partigiano. Nella sua giacca, rinvenuta dalla madre tra i vestiti dei prigionieri eliminati, ci sono tre
fogli di bloc-notes datati 5 aprile 1945.
Laura mia,
[...] da due giorni partono a decine uomini e donne per ignota destinazione. Può anche essere la mia ora. In tale
eventualità io trovo il dovere di lasciarti come mio unico ricordo queste righe.
Tu sai, Laura mia, se m'è stato doloroso il distaccarmi, sia pure forzatamente, da te. [...] Se quanto temo dovrà
accadere sarò una delle centinaia di migliaia di vittime che con sommaria giustizia in un campo e nell'altro sono
state mietute. Per voi sarà cosa tremenda, per la massa sarà il nulla, un 'unità in più ad una cifra seguita da molti
zeri. Ormai l'umanità s'è abituata a vivere nel sangue.
lo credo che tutto ciò che tra noi v'è stato non sia altro che normale e conseguente alla nostra età, e son certo che
con me non avrai imparato nulla che possa nuocerti né dal lato morale né da quello fisico.
Ti raccomando perciò, come mio ultimo desiderio, che tu non voglia, o per debolezza o per dolore, sbandarti e
uscire da quella via che con tanto amore, cura e passione ti ho modestamente insegnato.
Mi pare strano, mentre ti scrivo, che tra poche ore una scarica potrebbe stendermi per sempre, mi sento calmo,
direi quasi sereno, solo l'animo mi duole di non aver potuto cogliere degnamente, come avrei voluto, il fiore /
della tua giovinezza, l'unico e il più ambito premio di questa mia esistenza.
Credimi, Laura mia, anche se io non dovessi esserci più, ti seguirò sempre. [...]
Ora, con te sono stato in dovere di mandarti un ultimo saluto, ma con i miei me ne manca l'animo, quello che
dovrei dire loro è troppo atroce perché io possa trovare la forza di dare loro un dolore di tale misura.
Comprenderanno, è l'unica cosa che io spero.
Comprenderanno.
Addio, Laura adorata, io vado verso l'ignoto, la gloria o l'o¬blio, sii forte, onesta, generosa, inflessibile. Laura
santa.
Il mio ultimo bacio a te che comprende tutti gli affetti miei, la famiglia, la casa, la patria, i figli.
Addio, Vino.

Ecco, io mi immagino che Marcello Mascherini conoscesse bene questa storia e queste parole prima che Mimmo
Franzinelli le raccogliesse nel suo Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza. Io le ho
scoperte in quello splendido libro, ma mi piace immaginare che Mascherini le conoscesse già così bene da trame
ispirazione per il suo Cantico dei cantici. Se penso alla frase «son certo che con me non avrai imparato nulla che
possa nuocerti né dal lato morale né da quello fisico», vedo tutta la delicatezza, il tatto, la precoce maturità di un
ventenne che a un passo dalla morte sospinge la propria ragazza verso una nuova vita, una nuova possibilità, la
solleva dalla contrizione, fino a rassicurarla a nome del futuro marito per la mancata illibatezza. Vedo l'amore
perfetto di Laura e Pino, i loro baci, l'incontro che non c'è stato sul marciapiede assolato di piazza Oberdan.
Vedo ciò che deve aver visto Mascherini, ne sono sicuro, e mi chiedo se non sia giusto che i due amanti se ne
restino abbracciati lì in mezzo alle panchine, al posto del loro coetaneo Guglielmo.

/
1.4. In giro per «osmizze»
Torniamo allora, con il peso tragico di questa storia, alle mura
bianche della aristocrazia austriaca, del castello di Miramare e da
queste, avanzando verso nord di pochissimi chilometri, entriamo
nel centro di Trieste. La storia e i ricordi si concentrano a San
Giusto, la splendida cattedrale nel cuore alto della città. Da qui,
di fronte al Carso, i resti romanici e sotto l’anfiteatro, in pieno
centro, alla spalle di Piazza Grande, ora, poco originalmente,
Piazza dell’Unità d’Italia, splendida con i suoi palazzi suntuosi.
A San Giusto, una lapide riporta le parole del vincitore generale
Armando Diaz e segna icasticamente il momento di quella fine:

“I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in
disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”.

Ho presente da sempre quei momenti nei quadri opposti d’abbracci di Egon Schiele, di Kokoska, di Klimt,
presenza di paura e splendore, polvere da sparo e amori di attimi irrepetibili.
Un’altra lapide poco lontana, nella piazza di San Giusto, sotto il monumento ai caduti, ricorda le vittime
triestine. Scorrono gli occhi alla S. e trovano, con tutti gli altri altrettanto importanti di vita spezzata, dei due
giovani scrittori: Scpio Slataper e Carlo Stuparich. Le lacrime diventate bronzo, in non bellissimi monumenti per
turisti per lo più indifferenti.
Come scrive Donatella Schürzel citando insigni docenti dell’Università di Trieste, nonchè firme prestigiose sui
quotidiani Il Piccolo (da sempre il giornale della città) e Il Corriere della sera. Il saggio della Schürzel verrà
pubblicato da Marsilio nel volume a cura di Sergio Campailla di Atti del Convegno per il centenario di Carlo
Michelstaedter svoltosi a Roma nel novembre 2011:

Di Trieste, senza dubbio, va detto che sicuramente è stata ed è ricca di contrasti e di differenze culturali in
genere, anche in riferimento al resto d’Italia, ma ha cercato e cerca proprio in questi contrasti la sua identità e la
sua italianità. Come dichiara Claudio Magris in Trieste :

Gli scrittori che hanno vissuto a fondo la sua eterogeneità, la sua molteplicità di elementi irriducibili a risolversi in un’unità, hanno
capito che Trieste – come l’impero asburgico di cui faceva parte – era un modello della eterogeneità e della contraddittorietà di
tutta la civiltà moderna, priva di un fondamento centrale e d’una unità di valori .
Del resto, come sostiene anche Elvio Guagnini, la cosiddetta ‘triestinità’, come ogni definizione di un’identità culturale, è
certamente una categoria «indifferenziata e indebita», che viene proiettata oltre i termini storici e culturali di momenti ed elementi
distinti.
Tale concetto di Mitteleuropa, dunque, ha fatto di Trieste una stazione sismografica dei terremoti spirituali che si apprestavano a
sconvolgere il mondo. Questo fenomeno era particolarmente evidente nella città giuliana per cui, mentre nel resto d’Italia gli ambiti
culturali erano prevalentemente sensibili agli influssi francesi, qui si sentivano chiaramente i modi della cultura tedesca (austriaca e
non germanica) che si estendeva non solo alla letteratura, ma all’abito di vita originario, sovrapponendovisi, a volte.

A lato però lo sguardo al mare coglie la lanterna, e quello strano stabilimento che ne porta il nome. Due sono gli
stabilimenti balneari nel cuore di Trieste, appena dopo il porto, entrambi dalla caratteristiche uniche e
memorabili. La Lanterna, voluta dai regnanti austriaci, dal 1890, conserva ancora, incredibilmente, delimitato da
un muro che finisce per qualche metro dentro l’acqua, la divisione tra uomini e donne. Si entra pagando solo un
euro, è comunale: orgogliosi i bagnanti, in un largo spazio praticamente dentro il porto, ce ne illustrano la
tradizione: qui i soldati austriaci, lasciando le trincee venivano a spulciarsi, da cui il nome in dialetto con cui è
conosciuto a Trieste: el Pedocin. Praticamente accanto, se ne vedono le impalcature, come di una grande
petroliera incagliata di cui rimane lo scheletro, i pontili, il bagno Ausonia, con le suggestive piattaforme in
cemento, ottime per un solarium senza sporcarsi di sabbia e per i tuffi, la gioia degli atletici ragazzi che sfruttano
la distanza di ben sei metri dalla linea del mare, con grandi acrobazie. Esiste poi una piscina d’acqua di mare,
dove i Topolini, così si chiamano i giovanissimi tuffatori del circondario di Trieste, hanno la possibilità di
provarsi anche con due trampolini di diversa altezza e con un pupazzone da scalare per buttarsi in acqua in varie
posizioni, di spalle o acrobaticamente girandosi rispetto alla arrampicata.

Avevo una idea mitica del Carso, come una terra non situabile, di cui non si può dire è vicina a… Una
sensazione da un certo punto di vista esatta, dall’altra smentita clamorosamente dalla realtà geografica. Esatta
perché il Carso è estremamente esteso, in buona parte Sloveno, incrocio di varie nazionalità, come già sottolinea
/
Slataper in Il mio Carso, in altra parte italiano, in genere distinto tra quello triestino e quello friulano di
Monfalcone.
D’altra parte però è proprio vicino a Trieste, è Trieste, ancora più limitrofo rispetto alla distanza tra la Capitale e
i Castelli romani, paragone non impossibile. Consiglio, come tutte le guide, di salire al Carso per la suggestiva
linea tranviaria da Piazza Oberdan a Opicina, il cuore del Carso triestino, da dove parte il ben noto sentiero
vicentino, conosciuto come napoleonico, che digrada suggestivamente verso il mare, dandovi l’idea del
panorama dell’altopiano, proprio sopra il lungomare, affascinante, pendente sulle acque, in mancanza totale di
spiaggia sabbiosa. Non ci sono, oltre Opicina e forse Basovizza e Prosecco (dove è nato, ma anche stranamente
esauritasi la famosa uva ora lavorata in Veneto) altri paesi degni di questo nome, ma piccoli agglomerati, nel
verde e nei fitti boschi, in cui cercare la genuinità delle Osmizze. Ecco spiegato in un bel capitolo dello scrittore
più triestino di quelli di una generazione recente, Mauro Covacich di cosa si tratta.
In giro per «osmizze»
C'è anche un altro vin de casa a Trieste. La qualità non è detto che sia sempre migliore di quella del vinaio di via
Umago, ma la tradizione e l'ambiente nei quali nasce sono ben diversi. Si tratta del vino delle osmizze.

Immagini delle

famose Osmizze, Osterie all’aperto tipiche del Carso. Il nome deriva da ottavo-
ottavine, visto che avevano il permesso di aprire solo otto giorni all’anno,
essendo la loro principale attività agricola.
Su tutto l'arco del Carso è facile notare, anche stando sul mare o viaggiando sulla
Costiera, una quantità di piccoli vigneti aggrappati alle pendenze appena appena
meno ripide. Ancora più facile, gironzolando in macchina per le stradine nascoste
tra quelle vigne, è imbattersi in una frasca, posta in bella vista sulla facciata di
una casa contadina. La frasca segnala un’ osmizza - non a caso in Veneto e in
Friuli vengono chiamati frasche locali sostanzialmente dello stesso tipo, luoghi spesso adulterati in banali
agriturismi ma talvolta ancora fedeli alla loro originaria natura di punti di mescita temporanea. Nelle osmizze,
come nelle frasche, il vino viene venduto e consumato direttamente nella cantina del produttore per un periodo
limitato a un paio di mesi. Osmizza è una traslitterazione della parola slovena osmica, ovvero ottavina, e
indicava appunto gli otto giorni di apertura consentiti in passato dal magistrato civico. Nel 1784 un decreto
imperiale permise la vendita durante tutto l'anno di generi alimentari, vino e mosto di frutta a chiunque ne
producesse, lasciando totale libertà anche sui prezzi e la stagione di attività e ponendo la sola condizione -
pensata già all'epoca, viene da credere, come misura contro il reddito «sommerso» - di esporre una frasca
davanti alla cantina.
Le osmizze sono tante sia sull'altopiano sia nelle vie che dal centro s'impennano in direzione Opicina, come via
Commerciale o Strada del Friuli. Aprono in periodi diversi, spesso segnalati su internet e dalle guide
gastronomiche, però è più divertente procedere per tentativi ed errori, approfittando della ricerca per farsi un giro
in macchina attraverso i paesi del Carso. Io ovviamente ho le mie preferite, ma non ha senso che ve le dica, visto
che anche l’ osmizza meno appariscente si trova comunque in una posizione fantastica: o a picco sul mare o nel
cuore di una campagna talmente suggestiva da non far sentire la mancanza delle onde. L'ambiente di solito è
molto spartano: due-tré tavolazzi con le panche, stuzzicadenti scolpiti con l'accetta, niente tovaglie. Le pietanze
servite di accompagnamento al vino sono in prevalenza formaggio stagionato, prosciutto crudo, uova sode,
sottaceti, quasi sempre genuine e molto fresche. Quanto al vino, se siete fortunati potete assaggiare le due glorie
locali: il terrano, un rosso asprigno che lascia la lingua colorata per giorni, e la vitosca, un bianco leggero e
profumato. Ma se non siete fortunati ve la godrete lo stesso, perché le osmizze sono ancora fuori dal circuito
«in» del turismo mangereccio e ci troverete solo la gente giusta: studenti, compagnie di amici, coppiette, vecchi
intenti a passare un'oretta in un bel posto senza pretese. E ora mi costringo a un'excusatio non petita.
A Trieste ci sono parecchi locali dove si mangia molto bene, ristoranti soprattutto di fascia medio-alta
specializzati nel pesce o nella gastronomia giuliana. Io qui non ne parlo fondamentalmente per due ragioni:
primo, perché qualsiasi guida in commercio saprà darvi tutte le indicazioni che cercate in modo, a mio avviso,
rispondente agli attuali valori in campo; secondo, perché io mi sono un po' stufato di tutta questa mania per il
cibo. Dappertutto rubriche sul gusto, tutti gourmet, tutti enologi. Trovo davvero inquietante l'enfasi nevrotica
/
sulla buona tavola che modelli sempre immancabilmente mediatici dettano alla nostra coscienza, alterandone la
percezione quanto alle cose importanti della vita. Trovo eccessivo il peso che viene dato alla creatività - sempre
più bizzarra, e confusa - dell'alta cucina. Mi disturba questa fame di ricette trendy, questa rincorsa di forchette e
stelle Michelin per un appagamento della propria autostima e della propria posizione sociale, prima che del
palato. Il che, intendiamoci, non significa che mi piacciono le schifezze. Significa che per me è sempre più
importante il posto dove mangio - e le persone con cui mangio - rispetto a ciò che mi verrà messo nel piatto.
Così, quella volta che io, Flavio e altri amici free-lance siamo saliti a Contovello - era una mattinata quasi estiva
di maggio - e ci siamo ficcati nell'ultimo tavolo disponibile sotto la pergola e ci siamo rimessi il pullover per
resistere alla brezza e poter continuare ad ammirare il mare blu di Prussia, con la città raccolta tutta in un solo
sguardo sotto di noi, quella volta che abbiamo aspettato l'imbrunire lì all'aperto, con le lampo tirate su fino al
collo, parlando di un viaggio in Giappone che non saremmo mai riusciti a fare, ecco, quella volta nella brocca,
anzi nelle brocche, c'era un normalissimo merlot e sul vassoio della comunissima mortadella col pistacchio.
L’osmizza però è anche un'esperienza esotica a un passo da casa. È l'estrema propaggine della civiltà contadina
spintasi fino ai margini di una città che, proprio come Venezia, è cresciuta «senza arare né vendemmiare». Salire
tra le vigne dell'altopiano, entrare nella cantina di un agricoltore di San Dorligo o di Santa Croce, è anche un
modo per capire cos'è Trieste, per identificarla attraverso il suo contrario. Basta allontanarsi di qualche
chilometro su per i tornanti del Carso e si vede, come dentro un telescopio virtuale, una fettuccia di palazzi
antichi e vie massacrate dal traffico, stretta tra il vin de casa istriano e il vin de casa sloveno. Quando decidete di
andare per osmizze, tenete presente che non sono posti da pranzo e cena. Partite con l'idea di una gita e un
piccolo spuntino (anche se quasi sempre finisce con uno spuntino e una piccola gita).

/
1.5. La Pirano di Carlo Michelstaedter
Per una bella passeggiata slovena consiglio, subito dopo il confine, la trattoriola con la spiaggia dentro il
camping prima di arrivare ad Ancarano, dopo la bella veneziana cittadina di Muggia. O la trattoria di Mhuca,
dopo il confine del Carso, passata Ipica, uno dei più antichi e celebri circoli di Ippica d’Europa,.
Il mare della Slovenia vale il viaggio. Del resto, inizia subito dopo Muggia, una manciata di chilometri. Dal
Carso, o con l’autostrada si raggiunge facilmente Capodistria e anche con il battello Pirano e Portorose. Per chi
avesse più tempo, poco più avanti, il mare della Croazia offre altre località incantevoli, tra le quali consiglio,
Umago.
Pirano, alla partenza, sia pur accanto ad altre meravigliose scoperte, alcune non prevedibili, deve essere il luogo,
centro sentimentale del viaggio. Non delude, benché siano passati cento e più anni da quando ci veniva Carlo
Michelstaedter a sognare un’altra vita, senza pressioni, libera. Un altro mare, dove rinascere autenticamente se
stessi. Ecco alcune liriche scritte a Pirano:
34
In Amico - mi circonda il vasto mare , quest’ultimo è sempre più protagonista quasi esclusivo.

Amico - mi circonda il vasto mare


con mille luci - io guardo all'orizzonte
dove il cielo ed il mare
lor vita fondon infinitamente.
Ma altrove la natura aneddotizza
la terra spiega le sue lunghe dita
ed il sole racconta a forti tratti
le coste cui il mare rode ai piedi
ed i verdi vigneti su coronano.
E giù: alle coste in seno accende il sole
bianchi paesi intorno ai campanili
e giù nel mare bianche vele erranti
alla ventura.

A me d'accanto, sullo stesso scoglio


sta la fanciulla e vibra come un'alga,
siccome un'alga all'onda varia e infida
philobatheía.
S'avviva al sole il bronzo dei capelli
ed i suoi occhi di colomba tremuli
guardano il mare e guardano la costa
illuminata.
Ma sotto il velo dell'aria serena
sente il mistero eterno d'ogni cosa
costretta a divenire senza posa
nell'infinito.
Sente nel sol la voce dolorosa
dell'universo, e l'abisso l'attira
l'agita con un brivido d'orrore
siccome l'onda suol l'alga marina
che le tenaci aggrappa
radici nell'abisso e ride al sole.

Amico io guardo ancora all'orizzonte


dove il cielo ed il mare
la vita fondon infinitamente.
Guardo e chiedo la vita
la vita della mia forza selvaggia
perch'io plasmi il mio mondo e perché il sole
di me possa narrar l'ombra e le luci -
la vita che mia dia pace sicura
nella pienezza dell'essere.
/
E gli occhi tremuli della colomba
vedranno nella gioia e nella pace
l'abisso della mia forza selvaggia -
e le onde varie della mia esistenza
l'agiteranno or lievi or tempestose
come l'onda del mar l'alga marina
che le tenaci aggrappa
radici nell'abisso e ride al sole.

Pirano, agosto 1908 35


Onda per onda batte sullo scoglio :
Onda per onda batte sullo scoglio.
Passan le vele bianche all’orizzonte.
Monta rimonta or dolce or tempestosa
l’agitata marea senza riposo.
Ma onda e sole e vento e vele e scogli,
questa è la terra, quello l’orizzonte
del mar lontano, il mar senza confini.
Non è il libero mare senza sponde,
il mare dove l’onda non arriva,
il mare che da sé genera il vento,
manda la luce e in seno la riprende,
il mar che di sua vita mille vite
suscita e cresce in una sola vita.

Ahi, non c’è mare cui presso o lontano


varia sponda non gravi, e vario vento
non tolga dalla solitaria pace,
mare non è che non sia un dei mari.
Anche il mare è un deserto senza vita,
arido tristo fermo affaticato;
ed il giro del giorni e delle lune,
il variar dei venti e delle coste,
il vario giogo sì lo lega e preme
- il mar che non è mare s’anche è mare.
Ritrova il vento l’onda affaticata,
e la mia chiglia solca il vecchio solco.
E se tra il vento e il mare la mia mano
regge il timone e dirizza la vela,
non é più la mia mano che la mano
di quel vento e quell’onda che non posa....
Ché senza posa come batte l’onde,
ché senza posa come vola il nembo,
sì la travaglia l’anima solitaria
a varcar nuove onde, e senza fine
nuovi confini sotto nuove stelle
fingere all’occhio fisso all’orizzonte,
dove per tramontar pur sorga il sole.
Al mio sole, al mio mar per queste strade
della terra o del mar mi volgo invano.
Vana è la pena, vana è la speranza.
Tutta è la vita arida e deserta,
finché in un punto si raccolga in porto,
di sé stessa in un punto faccia fiamma.

Pirano, agosto 1910, FIGLI DEL MARE:

Ancora più espressiva una lettera a Gaetano Chiavacci:


/
10 giorni di libertà in compagnia di mia sorella e di due signorine. Di quelle 2 signorine di cui ti parlavo e ti
dicevo che sono innamorato di tutte e due e anche della mamma loro e della loro casa e del loro cane. Eravamo
noi quattro soli con le stesse tendenze, gli stessi gusti a goderci il mare e i colli, a vibrare allo stesso modo a ogni
impressione senza bisogno di comunicarcele. Io non so se tu sai che cos’è la costa dell’Istria. – Io certo non lo
sapevo. Io credevo che si trattasse d’una specie di deserto di pietra con una miserevole vegetazione e un mare
basso e sudicio contaminato da acque dolci. Invece è tutta un altipiano fecondo, tagliato a picco dal mare che lo
rode violentemente ai piedi - come Marinelli insegna.
Quando uno lo percorre in alto, vede le prospettive delle punte che scendono in mare con la testa verde e la base
rocciosa, una dietro l’altra, sempre più chiare e in mezzo le insenature profonde e il mare scuro come un lago fra
i monti, poi più lontano a Nord il nostro litorale, il Carso e la linea delle lagune che si perde verso occidente, e
più in fondo la linea delle Alpi e davanti l’ampio mare sonante.

[…]. In mare non c’erano limiti alle nostre nuotate né di tempo né di spazio: eravamo celebri in tutto il paese; io
solo ho fatto dei bei viaggetti per mare a nuoto. Si mangiava su una terrazza sul mare e dopo i pasti ballavamo
come indemoniati. – In dieci giorni c’eravamo acquistata la simpatia di tutti i Piranesi (già – non t’avevo detto
ancora che abitavamo a Pirano) specialmente della gente di mare con cui parlavamo sempre al porto.
Io davo la scalata a tutte le barche a vela che vedevo rientrare in porto quand’ero in acqua, conversavo coi
pescatori, poi mi precipitavo a testa dai coraggi. – Quando uscivamo e dovevamo fare anche forza di remi li
aiutavo a remare. –
[…] – Anche un altro m’aveva offerto un ingaggio. E davvero io penso che sarebbe per me la miglior cosa.
Anche Pirano è una città deliziosa, tutta affollata su una lunga lingua di terra completamente veneta, - e le case
hanno i piedi nell’acqua; al principio della punta più in alto la chiesa che domina lontano su tutto il golfo, più in
alto le fortificazioni fra il verde degli ulivi. E gli abitanti sono tutti belli, donne uomini, giovani vecchi – un tipo
delicato, intellettuale quasi – veramente veneto.
Le donne vanno tutte avvolte nel zendàl nero come a Venezia, con le belle capigliature pettinate in modo come le
Fiorentine non sognano, e tutte senza cappello, borghesi e popolane. – Evviva l’Istria, l’Istria verde!

(La sua barca, con gli amici fedeli, le due sorelle Argìa, certo non incrociava i motoscafi di adesso, quelli che
gettano veleno nelle limpide acque, mentre la musica, verso sera, impazza nelle strade).
36
Altamente significativa, infine, la lettera all’amato cugino Emilio, scritta da Pirano tra il 2 e il 3 settembre .

A Emilio Michelstaedter [Pirano], 2-3 sett. 1910

[…] In questa notte ch'io passo ultima nel porto della pace, mi sei così vicino, Emilio, che non mi basta pensare
a te e alla tua vita ma ho bisogno di parlarti a parole che tu possa udire. La mia solitudine qui non è quella della
vita a Gorizia che tu conosci - non è il deserto - la voce del mare non è qui per me la lontana voce sognata, che la
passione fa vicina - ma è qui presente in tutta la sua forza e mi fa partecipe della sua vita. Le onde battono e
ribattono sugli scogli della costa deserta che finisce a Salvore - accanto a me sicura nel piccolo porto
abbandonato è la mia barca; io ti scrivo disteso sulla stuoia d'una piccola capanna di pietra che un tempo deve
aver servito di ricovero ai minatori che, ora abbandonata da tutti, a me è riuscito ad aprire ed occupare come mia
proprietà. La bora che soffia ancora con uguale violenza m'ha impedito ieri sera di partire, […]. Così anche
domani sera partirò per Gorizia abbandonando questa vita che m'è stata un porto di pace. Domani si ricomincia a
navigare - con tutti i venti.
*****
L'antica città marinara di Pirano si estende all'estremo margine dell'omonima penisola, che si restringe
gradualmente tra il golfo di Strugnano e quello di Pirano. La penisola termina con punta Madonna, estrema
propaggine nord occidentale dell'Istria.
L'etimologia del nome Pirano è controversa: alcuni studiosi propendono per la derivazione dal celtico bior-dun,
che significa località sul colle, mentre altri la fanno risalire al greco pyr - fuoco, in quanto nell'antichità venivano
accesi sul promontorio dei fuochi per indicare la rotta ai naviganti che si dirigevano all'attigua colonia di Aegida,
vicino all'odierna Capodistria.
La cittadina è molto pittoresca: le mura con le torri le fanno da corona e, dalle pendici, i tetti rossi degradano,
esposti a mezzogiorno, fino a punta Madonna, La città vecchia è costituita da un complesso di costruzioni
venete, nelle strette calli lastricate, fra scalinate e portici, nei campielli e nelle piazzette, le case barocche e
gotiche sono numerose, con finestre ad archi acuti, e si inseriscono fra le basse case che furono dei pescatori e
dei salinai.

/
Dall'alto di questa propaggine arenacea, dal fianco settentrionale spaccato, rigido e spoglio per l'impeto della
bora, irrobustito alla base da una muratura poderosa e da arcate sostenute da piloni appoggiati alla pendice,
spicca e signoreggia il Duomo di Pirano, il cui campanile, come un faro, si vede in tutto l'arco del golfo di
Trieste.

Oggi la città è il centro amministrativo del comune e, assieme alla vicina Portorose, importante località di
villeggiatura marittima, con numerose istituzioni culturali, case di riposo, alberghi e ristoranti, nonchè sede di
importanti manifestazioni cultrali.
Pirano sorprende, Pirano ha due volti, a destra e a sinistra del corpo centrale, le due navate o meglio le due
fiancate poco gemelle. Da un lato, a sinistra per chi guarda da sopra le mura o dal centro della larga piazza
dedicata al musicista istriano, eroe locale, …. il porto turistico, il lungomare signorile, dall’altra la riva
popolare, proprio lungo le mura antiche fino a quelle più alte intatte nel tempo che si possono visitare. Lì sotto
sputano allegri nudisti, su un lungo corrimano senza transenne, che appare d’incanto dietro San Giorgio.
Immagino i colori meno forti d’autunno, il respiro sensuale dei bagnanti in cerca di libertà solitaria, un poco
selvaggia: quasi sospesa nel cielo digrada verso un'altra incantevole baia, ormai alle spalle di Pirano. La
persuasione e la retorica si confondono tra l’una e l’altra, gli slavi ricchissimi, qualche veneziano, il popolo
allegro disteso (come a Barcola) sulla riva di cemento che entra nell’acqua con la tipica piattaforma gigante,
sull’orlo della gioia risata dei bambini.
Volti in cui cerco quello di Carlo, in questa piccola felice Malta veneziana, a pochi passi dalla mondana,
deludente, ciarliera Porto Rose, tutta commercio e modernità, simbolo della crescita slovena alla caduta del
muro, frenata ora dalla lentezza dell’euro. Pirano, magari non di sabato e non di agosto, rimane più fedele a se
stessa, o almeno così voglio immaginarla.
Allora il mare è quello di Carlo, limpido con quel golfo aperto, quasi lanciato dalle rocce della penisola, ad
aspettare l’infinito. Solo, all’improvviso, nel vagabondo solitario, la barba lunghissima che lo rende vecchio, più
vecchio del tempo un uomo di quaranta, ma forse anche molto meno, vedo Carlo cento anni dopo. Sporco,
libero, affaticato come non può essere di lui, eppure libero così anche nel dolore che non ci può essere di lui
qualcosa dentro nessun altro.
Lo scanso, con un gesto meccanico di repulsione, e non so avvicinarlo. Così il dramma di Carlo, diventato solo
letteratura? Parole arbitrarie di riunioni e convegni?
Il mare parla da molto lontano. Incontro un ubriaco, la letteratura che ho sgualcita nel sangue lo farebbe
epilettico, creatura da romanzo russo. Passo avanti, torno alle mura, orizzonte più tranquillo, pensieri inespressi
di facile solitudine. Passo avanti, ad ogni timore di perdere la bella certezza conquistata con il ricatto della
società. Ci vediamo ancora, appuntamento sul Valentin.
Trieste al confine dei popolo, rifiuto e rifiutati ha vissuto per questo, tutto questo. Il viaggio è anche vivere altre
vite, in uno specchio. Trieste, caffè degli specchi, un giornale sotto mano, tornare a casa. Naturalmente . Come
essere qui, di sempre, da sempre. Eppure dura solo una settimana, poco per tutti i luoghi visti, da vedere, per cui
ci prende la mano l’enorme tempo di non avere tempo. La vita è così, di certo, e non si sfugge: tutto ha esistenza
di tempo, iniziare e finire dentro questa pagoda, sotto una cupola maestosa.
E il ritorno, forse anche il viaggio, è strappo, lacerazione. Trovare a casa il tempo passato in fretta sul volto di
amici, o semplici conoscenti che passano per via. Lasciati sani, vigorosi, sono invecchiati di colpo, non reggono
il ritmo del cuore, delle loro gambe e si appoggiano, da una settimana all’altra, alla posa dolorosa di un bastone.

Abitare il centro umido della terra. La Grotta Gigante del Carso, immensa unica grande camera a 120 metri di
profondità. Il viaggio è la geodetica della letteratura, il più elementare linguaggio del raccontare. Proprio a
questa profondità mi spiegano casa è la geodetica, e devo dare ragione al grande critico, come si pone al centro
di tutte le altre scienze lo studio della formazione della terra, così il viaggio è la sceneggiatura più semplice su
cui si costruisce tutto il resto.
Fresco (fuori sono 35 gradi, qui 11) di nuova nascita, figure come di un vasto presepe, dove tutto porta alla
concrezione disegnata al volto di Maria. Altre caverne, quasi duemila, scavano il dolore dell’altipiano del Carso,
come quelle del Sabotino e del Podgora. Le foibe sono qui, e nel ventre della terra buttavano l’orrore dei
cadaveri, come oggi ancora, in Africa e in Libia.

La Slovenia, appena passato il confine, è gioia di verde. Non è lontana Gorizia, i prati di Tolmino, il verde
dell’Isonzo, la linea della guerra, San Martino del Carso.
La trattoria di Muha, dopo la tradizionale sosta nel maneggio inaugurato nel XVI secolo da di Ipica, valgano il
passaggio nel Carso dall’Italia allo Slovenia. A Postumia centinaia di turisti viaggiano nel trenino della pace,
grazie alle guide che riuniscono in un grappolo la babele degli idiomi, grazie a nastri registrati e a voci slave
pronte a modellarsi con destrezza. Cinque chilometri di gallerie scavate nella parte slovena del Carso. Mi pare
/
di capire che una parte è stata scavata da prigionieri russi. Qui è la giusta misura che placa il tempo in una attesa
di pazienza. Stalattiti e stalagmiti crescono di un millimetro ogni quarant’anni. Pochissime spiegazioni per
questo incanto della natura, per questi strabilianti pittori anonimi, scultori classici e d’avanguardie. La terra
madre non distingue nomi, partecipa corale alle acque rigeneranti nella conca del primo giorno.

Il tempo è breve, ma ci godiamo una sera mozartiana nella splendida Lubiana: vale una visita questa piccola
Venezia-Vienna-Praga slovena, una autentica sorpresa, di gioia nel lungo fiume, di raffinatezza nei locali, di
bellezze femminili e di autorità dall’alto del castello.
Sulla strada del ritorno, la deviazione verso
Gorizia, una ventina di chilometri da Trieste.
Ci arriviamo da Duino, passiamo da Carso
non lontano dal San Martino della celebre
poesia di Ungaretti.
Il San Valentin, oggi con questo nome si
designa una parte del Monte Sabotino,
rimane difficile, urgente. Quasi
impenetrabile. Seguo le istruzioni di Sergio
Campailla, sul catalogo della bellissima
mostra di un anno fa. Carlo Michelstaedter,
far di se stesso fiamma.
Oltre ai ruderi medievali sulla cima [del San
Valentin], lungo la mulattiera che sale da
Gorizia, per Piuma-San Mauro, si incontrava
un masso a due cuspidi, testa da cavallo e
cavaliera, che veniva chiamata la dona a caval e che contribuì a ispirare a Carlo la “leggenda” del monte. Poco
lontano era una “casa” con “cucina”, ossia un anfratto di Roccia, dove la comitiva faceva sosta. La sorella Paula,
in occasione di un compleanno del fratello, che si trovava a Firenze, gli spedì il dono di un sasso del monte
amato, senza imballaggio, con una semplice fascetta. Su una parte levigata,
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di un rosso cupo, Carlo vi incise le
prime note, in un’edizione per pianoforte, di una sinfonia di Beethoven .

La strada deve essere giusta, passo il Ponte di Piuma, verso San Mauro. La strada dei vini. Non voglio capire che
sono passati più di cento anni e io sono con la macchina. Non comprendo neanche di salire dal Monte Calvario,
quando ho di fronte l’ossario di Oslava. Passo il confine, sembra finalmente arrivato il momento di arrivare
sulla vetta. E invece un cartello mi blocca. Possono salire, oltre San Mauro, solo militari e autorizzati (solo a
sera capisco dove porta quella strada). Sono tentato, ma non ho il coraggio di entrare in quella che sembrerebbe
zona militare. Scendo, sperando di trovare da altra parte l’accesso al Valentin. Il paesaggio è straordinario, la
strada costeggia vigneti, verde a non finire. Chiedo. Capirò dopo di essere proprio vicinissimo al punto dove è
morto Scipio. Così unisco ancora più fraternamente i destini dei due giovani, che si incontrarono ma che non si
capirono, non scattò nulla di speciale in anni in cui, del resto, Carlo non era nessuno e Scipio stava ancora sul
crinale della vita pubblica.
Nulla da fare, notizie vaghe. Dovevo arrivare a piedi, come lui, come la sua comitiva. E’ chiaro che la strada
indicata da Campailla non è per le macchine. Eppure mi avevano informato che si arrivava alla cima
comodamente in auto. San Martino del Carso non è lontana. Arrivando da Trieste, dalla costa (da Sistiana e
Duino per intenderci) verso Gorizia, si passa il cartello con l’indicazione. Dovrò tornare, a piedi, in bicicletta,
quando troverò la persuasione. Docile fibra dell’universo, nelle sue acque, sopra il ponte di Salcano, sotto la
pietraia del Valentin.
Farò un bagno rigenerante nell’Isonzo, proprio sotto il Collio e il Calvario, suggeriscono al bel ristorante del
Castello di Gorizia. Tu devi chiedere di più, mi suggerisce Francesco. Ha ragione. Finalmente il giovane oste mi
spiega che per arrivare in cima con l’auto bisogna passare il confine oltre San Mauro e oltre San Floriano,
aggirare tutto il monte, e risalire dalla parte opposta. Lì si entra nel parco. Carlo, è evidentemente tagliava da
Gorizia per i boschi, magari nel sentiero indicato ora anche su internet, cliccando semplicemente Sabotino,
ovvero dal cimitero si San Mauro. Perché non ho guardato nulla, sono solo andato dietro al profumo delle
parole, ad un sentimento predominante. Difficilmente preparo un viaggio, perdo molte cose, appuntamenti
importanti, come in questo caso. Forse però acquisto qualcosa in questo romanticismo di conquista, inetto e
spesso inefficace.
Qui abitano gli slavi, forse simili a quelli della prima ora selvaggia del Mio Carso di Slataper.
Bisogna passare dalla slovenia, dai fratelli slavi per incontrare oggi Carlo.
Accompagno Palma e Francesco ad un centro commerciale di Nuova Gorica. Non hanno nessuna voglia di salire
con un caldo allucinante nella pietraia del Sabotino, verso la cima ancora oggi chiamata del San Valentin.
/
Impressionante la differenza tra Gorizia e Nuova Gorica, in qualche modo simile a quella tra Pirano e Porto
Rose.
L’una moderna e appariscente, l’altra elegante, preziosa, a difesa di un nucleo antico, in bianco e nero rispetto
alla svafillante multicolare, sebbene ordinata gemella dall’altra parte della casa rossa. Proprio qui, dal cento
commerciale, si vede benissimo la sagoma del Valentin, accanto a quella del Monte Santo, con il suo Monastero.
Del resto, oltrepassata la casa rossa, sotto un moderno cavalcavia, riposa Carlo Michelstaedter, nel cimitero di
Valdirose, in territorio sloveno.

Tomba di Carlo Michelstaedter. Si trova nel cimitero israelitico di Valdirose, in territorio sloveno, poco oltre il
confine. Il cimitero è detto in ebraico Beth Ha Chajim, cioè La Casa dei Viventi. Chiuso dal 1947, introduce in
un’atmosfera senza tempo. Le tombe sono rivolte a oriente, in direzione di Gerusalemme. Sotto due 38
alti cipressi
il cippo funerario con il nome “Carlo Michelstaedter” e la nuda annotazione “suicida/senza lapide .

*****
Bisogna passare attraverso la Slovenia per abbracciare Carlo, come prima l’Austria. Il Podgora non è lontano da
qui. Scipio Slataper guardava con ansia entrambi i monti, dalla calma irreale dell’attesa della battaglia, dai
vigneti del Coglio.
Si sale proprio sulla strada dei vini, bellissima,
luminosa. Prima Oslavia e il suo sacrario, poi San
Mauro, ma non si deve girare, ma guidare ancora
verso l’alto, per la strada larga, asfaltata, senza
urtare i colori della collina, vicina a diventare
montagna. Si passa anche San Floriano del Collio
e, salendo sempre diritti, passato il confine di deve
attraversare Hum e poi Koisko e ancora Gonjace.
Tra questi due paesetti sloveni, si deve svoltare a destra, una curva secca, a gomito e poi ancora, finalmente
indicato, a destra per il Sabotino. Ancora due o tre chilometri (saranno una quindicina da Gorizia), bellissimi,
non difficili per un ciclista allenato, per un buon camminatore che taglia nel bosco.
E’ un luogo desolato, per falchi non per cornacchie. La docilità della salita in macchina è perfetta metafora
dell’essere di Carlo, e qui tramutata nel suo opposto. Il sentiero sulla cresta oggi è luminoso nel silenzio, rotto
solo dal frusciare delle vipere nel caldo torrido del primo pomeriggio. L’Isonzo, lì sotto, è di un verde unico,
splendido, ma così a picco da dare le vertigini a chi non sa di montagna e di altezza. Ecco il segreto di Carlo e
dei suoi amici. Soltanto 609 metri la cima del Valentin, ma di una pendenza e ripidità da incutere rispetto, se non
timore, nel mezzo delle memorie della guerra, caverne e fortini.

Racconta Paula Michelstaedter:

Non fece alpinismo, ma conosceva bene i nostri monti attorno a Gorizia, e non ci andava per sport, in compagnia, ma per bisogno di
movimento, per amore alla natura, per ricerca della solitudine. In una delle ultime vacanze d’estate, passò alcuni giorni sulle Alpi
Giulie, ci andò da solo, senza meta prefissa, senza carte, senza sacco di provviste, senza saper nemmeno quando sarebbe tornato. E
si fermò alcuni giorni camminando molto, passò tutto un giorno nella nebbia fitta, nutrendosi soltanto di latte che trovava nelle
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malghe dei pastori. E ritornò più dimagrito, ma con una faccia illuminata come chi ha vissuto intensamente d’una vita interiore .

Durante le cosiddette seconda e terza battaglia dell’Isonzo nel luglio fino al novembre del 1915, il San Valentin,
poi ribattezzato Monte Sabotino, fu il teatro dell’attacco italiano alle roccaforti austriache lì insediate, proseguito
in direzione di un altro luogo di villeggiatura ben conosciuto da Carlo: Tolmino. Da parte italiana, si dovette
aspettare, per il sopraggiungere dell’inverno, fino all’agosto successivo per sferrare l’attacco finale il cui
obiettivo era proprio Gorizia, città fortificata e importante snodo ferroviario. Il monte Sabotino fu conquistato il
6 di agosto 1916. Facile intuire cosa sarebbe rimasto dopo la cruenta battaglia corpo a corpo, di trincee nemiche
ravvicinate, dei luoghi così cari a Carlo. Lo racconta, tra gli altri Lucio Fabi, nella sua ricostruzione delle
vicende della Grande Guerra sui colli di Gorizia: «Assieme agli uomini, muore la natura. Con il susseguirsi delle
operazioni, le granate incendiarie ed i proiettili dei grossi calibri cancellano il verde dei prati, dei frutteti, delle
vigne, dei boschi.
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Le quote più battute sono gialle: il giallo dello zolfo, della polvere da sparo, della pietra inerte
e sbriciolata» . Le pietre di Carlo, del suo San Valentin, dove resistono furiosamente i dalmati, con più di mille
perdite, fino alla pausa delle operazioni belliche che riprendono con l’autunno, quando nella terza battaglia
dell’Isonzo, contro sette chilometri di trincea e 25 mila uomini contro i centomila italiani, il Sabotino subisce
tredici assalti e due irruzioni, senza centrare l’obiettivo. Dopo alterne vicende, con l’apertura di altri fronti,
nell’agosto del 1916, con una enorme sproporzione di forze, circa di dodici a uno per gli attaccanti, e
/
nell’attacco alle trincee 100 mila contro 18 mila, gli italiani conquistano Gorizia. La battaglia del Sabotino viene
ricordata per la inaudita violenza, scatenata dalla determinazione dei Dalmati che non si arrendono, con una
sanguinosa e feroce rissa tra le caverne e le voragini di terra di quel suolo friabile, che guadagnano al monte di
Michelstaedter la sinistra fama di cima terribile e difficile da conquistare. Per alcuni fonti, la crudeltà delle forze
italiane è eccessiva nello snidare con il fuoco i nemici ormai in trappola. Tra le testimonianze di semplici soldati
raccolte da Fabi, quella di Mario Rizzati riferisce di aver sentito di quella terribile guerra a corpo a corpo nel San
Valentin (la propaggine più vicina a Gorizia del Sabotino, come ora si chiama l’altura nel suo complesso), da un
certo Slataper triestino: si tratta del fratello dello scrittore, morto in quei giorni sul Podgora in una missione a cui
aveva partecipato come volontario. Si tenga anche conto che molti goriziani dovettero rispondere alla chiamata
alle armi dell’impero, ed alcuni furono chiamati a combattere una crudele guerra civile alle porte di Gorizia.
Come è ben noto, l’anno seguente le sorti della guerra si capovolsero, con gli italiani impreparati all’assalto
austriaco a Caporetto: e ironia della sorte proprio a Caporetto, «si trovò a combattere un giovane ufficiale
tedesco di nome Erwin Rommel, lo stesso che venticinque anni dopo – la notte tra l’8 e il 9 settembre del 1943 –
guidò le truppe germaniche41dal confine del Brennero verso l’Italia, catturando in pochi giorni centinaia di
migliaia di soldati italiani» . Evento, quest’ultimo, nella sue tragiche conseguenze, appena due mesi dopo,
portato a sconvolgere ulteriormente il destino della famiglia Michelstaedter: furono deportate insieme agli altri
ebrei la madre e la sorella maggiore di Carlo. La storia devatasta quasi subito quel luogo di consuetudine di una
speciale amicizia, alle cui fondamenta si trovano42 il desiderio di una vita non conforme alle regole della
rassegnazione. Scrive ancora Paula Michelstaedeter :
Ma il suo monte preferito era il San Valentin (quello che dopo la guerra si chiamò Sabotino). Ci andava spesso
con i suoi due compagni di Gorizia, Mreule e Paternolli e anche solo, trattenendosi su tutta la giornata. Non era
un’ascensione quella (il monte è soltanto di 600 metri) lo considerava come un rifugio dalla città. Lassù scrisse
parecchie delle sue ultime poesie: Risveglio, Giugno. Mi par ancora di vederlo ritornar a casa verso mezzogiorno
il 1 marzo del ‘910. Era una giornata luminosa e ventosa; rientrò a casa coi capelli arruffati, proprio come una
folata di vento e si mise a scrivere di getto la poesia: “Marzo ventoso….”. La leggenda del San Valentin l’aveva
scritta prima, nel 1908, e difatti essa risente nello stile delle sue letture di allora, specialmente delle opere
dannunziane, non ha la spontaneità, quell’impronta viva e la forza della Bora, scritta nell’ultimo anno.
Scendendo con l’auto scopro la via alternativa, quella che in discesa, tenendo sempre la destra, arriva al ponte di
Salcano, il più grande del mondo in pietra, capace di sostenere la ferrovia, sopra le splendide acque dell’Isonzo.
E’ la strada che a ottobre dello scorso anno avevo cominciato in bicicletta, che non era , quindi, errata. Ma
bisognava scendere e poi risalire, dalla parte slovena o salire a piedi, lasciando la bici, su per i boschi, con solo
una oretta di cammino per la cima ancora oggi detta di San Valentin. In discesa si supera Podsabatin e si
rincontra la strada che arriva da San Floriano. Sempre e comunque si deve girare lentamente attorno al monte di
quiete, per arrivare alla tempesta della cresta, all’aria aperta e libera, ardua e solitaria. La strada vietata da San
Mauro è difatti chiusa qui dalla rete attaccata alla roccia, forse per il pericolo di frane. Un tempo, forse, era zona
militare.
Tornati al centro commerciale di Nuova Gorica il nostro tempo è scaduto. Si riparte, da qui, dal monte di Carlo
Michelstaedter, arduo e docile.
_________________
34
C. MICHELSTAEDTER , Poesie, Milano, Adelphi 20057, pp.52-53
35
C. MICHELSTAEDTER , Poesie, Milano, Adelphi 20057, pp.73-74
36
C. MICHELSTAEDTER , Epistolario, Milano, Adelphi 20102, pp.470-472
37
Ibidem.
38
SERGIO CAMPAILLA, Carlo Michelstaedter Far di se stesso fiamma, cit., p. 181.
39
PAULA MICHELSTAEDTER WINTELER, Appunti per un biografia di Carlo Michelstaedter, in SERGIO CAMPAILLA,
Pensiero e poesia di Carlo Michelstaedter, Bologna Patron, 1973, p.155.
40
LUCIO FABI, Sul Collio della Grande Guerra, Gorizia, Edizioni della Laguna, 1992, p.33. Dello stesso autore la più ampia
monografia Lucio Fabio, Gente di Trincea. La Grande Guerra sul Carso e sull’Isonzo, Milano, Mursia, 1994.
41
LORENZO BARATTER, Dagli Altipiani a Caporetto, Luserna, Centro Documentazione Luserna Onlus, 2007, p. 164.
42
PAULA MICHELSTAEDTER, Appunti per un biografia di Carlo Michelstaedter, cit., pag.155.

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