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L’autore

Michel Onfray, filosofo francese fra i più popolari e controversi, autore di oltre
ottanta libri fra cui il fortunato Trattato di ateologia (2005), decostruisce ormai
da oltre trent’anni mitologie religiose, filosofiche, sociali e politiche. Ponte alle
Grazie pubblica dal 2009 i suoi libri principali: fra questi ricordiamo il suo opus
magnum contro Freud, Crepuscolo di un idolo (2011), Pensare l’islam (2016),
Filosofia del viaggio (n. ed. 2017), Thoreau. Vivere una vita filosofica (2019).
Cosmos (2015), Decadenza (2017) e Saggezza (2019) compongono la trilogia
Breve enciclopedia del mondo. I più recenti titoli apparsi da Ponte alle Grazie
sono: Teoria della dittatura (2020), Il coccodrillo di Aristotele (2020), I
freudiani eretici (2020), Coscienze ribelli (2021), Le ragioni dell’arte (2022),
Vivere secondo Lucrezio (2023).
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Titolo originale:
Anima
© 2023 Michel Onfray e Éditions Albin Michel – Parigi
© 2023 Adriano Salani Editore – Milano

ISBN 979-12-5582-013-0

Traduzione: Michele Zaffarano


Redazione e impaginazione: Scribedit - Servizi per l’editoria

Progetto grafico di copertina: ushadesign

Ponte alle Grazie è un marchio


di Adriano Salani Editore s.u.r.l.
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Prima edizione digitale: ottobre 2023


Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Anima
Sommario

Introduzione
La magnifica desolazione

Rovesciare le prospettive: dalla Luna alla Terra. Nuovo paradigma ontologico e


metafisico. Dalla mitologia alla cosmologia. Il grigio della Luna, il blu del mare,
il nero del cosmo. Poetica dei multiversi. Il colore del nulla è il colore del tutto.
Imperialismo lunare. La conquista della Luna, il nazismo, il bolscevismo e il
capitalismo. Appuntamento mancato con la filosofia. Dall’universo finito ai
pluriversi infiniti. Marcatura del territorio lunare. Conquistare, imporsi,
profanare. La nuova civiltà. Smagnetizzazione della bussola cristiana.
Desolazione ontologica. Monadi in movimento browniano. Né centro, né bordo,
né finito, né infinito. Vortice quantico. Espulsione dal mondo terrestre. L’uomo
smontato. Conquista della Luna e fine dell’uomo. Morte dell’uomo e nichilismo.
Fine dell’umanesimo, avvento del transumanesimo. Inumanesimo. Ritorno
dell’orda primitiva. Verso l’arte digitale.

Parte prima
COSTRUIRE L’ANIMA
Sotto il segno del serpente

1.
Anticorpi, non-corpi e controcorpi
Smaterializzare il corpo

I calendari lunari preistorici. Pensare con la testa alzata. La lezione delle stelle.
Sottomissione della natura ai pluriversi. Variazioni climatologiche cosmiche. I
cicli e l’eterno ritorno. L’anima: la vita che vuole la vita nella vita. Osservare il
cosmo e obbedirgli. La sapienza del cielo. Non esiste preistoria. Il rumore
sibilante del silenzio. Mangiare l’occhio di una foca. Le lezioni dei cirenaici.
Radici egizie dell’episteme greca. Inventare l’anima per ottenere la vita dopo la
morte. Il corpo, tomba dell’anima. Purificare l’anima dalla carne. I pitagorici, gli
orfici, i neoplatonici e la smaterializzazione del corpo. Anticorpi, non-corpi e
controcorpi.

2.
Scheletro con anima
Sopraffare la materia

La passione cristica di Platone. Praticare la filosofia significa salvarsi l’anima.


Preferire la morte alla vita. Il platonismo come metodo per disincarnarsi.
Scheletro con anima. Morire quaggiù per vivere lassù. Le anime sono in numero
finito. Come sapere che abbiamo un’anima? Ricordo, reminiscenza ed esistenza
dell’anima. Asini, lupi e api. Platone non era platonico. Socrate nemmeno…

3.
Il divenire riccio della pianta
Purificare la carne

Vergognarsi di stare in un corpo… ma continuare a poppare dal seno fino a otto


anni. La morte superiore alla vita con il corpo. Gli esercizi spirituali e la
purificazione. Liberarsi del proprio corpo come di un vestito. Reincarnarsi in una
pianta. Come può una pianta divenire un riccio? Fuggire il corpo quaggiù per
guadagnare l’eternità lassù. Dall’anima bianca pagana all’anima nera cristiana.

4.
Corpi di carta e vita testuale
Creare un anticorpo

Spirito devoto e spirito critico. Gesù, una finzione di carta. Il Nuovo Testamento,
collage dell’Antico. Il neotestamentario, ventriloquio veterotestamentario. Gesù,
anima senza corpo. Corpi di carta e vita testuale. Il genere allegorico. Il Verbo si
è fatto carne, il corpo è quindi di carta. Gesù Cristo, costruzione storica.
Corporeizzare un testo. Genealogia di un corpo ossimorico. Nutrimenti
esclusivamente spirituali. Meraviglioso vs miracoloso. Delucidare la parabola
attraverso la parabola. Contro il positivismo. Inesistenza della parola «anima»
nei Vangeli. Imitare una finzione: un’etica inumana. Mettere l’uomo a nudo.

5.
Le lingue di fuoco dello Spirito Santo
Dannare la carne
San Paolo tradisce Gesù. Il paolinismo: timore e tremore. La civiltà giudaico-
cristiana, poco cristica e molto paoliniana. Evangelizzare a colpi di spada. Il
criminale Saulo diventa san Paolo. Amore dell’odio di sé del tredicesimo
apostolo. Di che scheggia nella carne si tratta? Una «carne molto malata». Che si
deve imitare il feto abortito. «Morire [è] un guadagno». Il corpus paoliniano? Il
corpo di Paolo. Antisemitismo, omofobia, misoginia, odio dell’intelligenza,
cesaropapismo. Lo Spirito Santo salva il corpo. Il corpo mistico sostituisce il
corpo terrestre. Svilire il corpo per elevare l’anima. Creare un Uomo Nuovo.
Freccia del tempo e Parusia. Imitare la Passione di Cristo vuole dire creare
l’Uomo Nuovo. Voler morire in vita. Il modello del corpo glorioso. Creare
un’anima nera come l’inferno.

6.
Niente erezioni nel giardino dell’Eden
Sessualizzare il peccato

Il peccato originale: preferire il sapere al credere. Paolo di Tarso e Seneca a


Roma. Solidarietà tra stoicismo e cristianesimo. L’antico stoicismo ispira il
giudaismo paoliniano. Dolorismo stoico e il perinde ac cadaver dei cristiani. La
gamba rotta di Epitteto. Il dolore, prodotto della volontà. Il diavolo vive già in
paradiso. Il senso del peccato originale: per sapere, Eva rifiuta di obbedire.
Sant’Agostino sessualizza il peccato della prima donna. Come la nevrosi di
Paolo diventa civiltà. Che l’anima muore quando Dio l’abbandona. Il peccato è il
potere della carne sull’anima. I guai di Adamo cominciano con Eva. La carne
diventa cattiva se si vive assecondandola. Impiego carnale della carne contro
impiego spirituale. Vivere secondo l’uomo significa vivere secondo il diavolo.
Adamo ingannato dall’«affetto coniugale». Niente erezioni nel giardino
dell’Eden.

7.
Il sangue, semente dei cristiani
Suppliziare i corpi

Le ferite della passiflora. Il pastore contro il martire crocifisso. Niente


crocifissioni nelle catacombe. Il divenire imperiale del cristianesimo. Avvento
della Croce. Invenzione imperiale del corpo di Cristo. La vera incarnazione
attraverso l’arte. Credere per vedere, e poi vedere per credere. Le invenzioni di
Costantino e della madre Elena. Rigatteria cristica. Eva e la colpa, Maria e la
redenzione, Elena e la finzione. Culto del corpo crocefisso contro ermeneutica
del Verbo Incarnato. Nascita della tanatofilia cristiana. Bisogna imitare i martiri.
Suppliziare il corpo purifica l’anima. Vita di sant’Ignazio secondo Iacopo da
Varazze. Origene si castra. Patristica e retorica dei dervisci rotanti. Odiare la vita
per amare meglio Dio. La morte quaggiù significa la vita lassù. Il dolore porta
alla salvezza. Il sangue purifica l’anima. Il godimento nella sofferenza.

8.
L’amore per la santa abiezione
Imitare il cadavere

Nell’attesa della Parusia. Eccellenza numerologica dei Padri della Chiesa. Età
d’angoscia. Donne, dragoni, bambini neri, rettili, ecc. L’ascesi, antidoto al
diavolo, l’altro nome della libido. La vita filosofica cristiana. Filosofie antiche e
vita cristica. Monachesimo contro cristianesimo di Stato. Sant’Antonio e i
mercanti del Tempio. Vite di asceti. La vita secondo il corpo, poi secondo il
Logos, poi secondo lo Spirito. Il corpo mi uccide, io lo uccido. L’Uomo Nuovo:
il monaco del deserto. Spossare la carne. Morire in vita. Raffinare e moltiplicare
le sofferenze. Condurre la propria vita verso il niente. Ìpetri, stiliti, girovaghi,
stazionari, muti, dendriti e altri atleti del deserto.

9.
L’arte di educare i corpi
Ingabbiare il desiderio

I concili, una macchina per produrre ortodossia. Spingere il negativo per ottenere
il positivo. L’orgia come preghiera. La sessualità è comunione, l’incesto,
orazione. Spermatofagi e fetofagi. Pneuma e hyle. Il comunismo delle donne.
Barbelognostici, carpocraziani, valentiniani, ecc. I concili e la formazione del
cristianesimo di Stato. L’educazione dei corpi e la costruzione dell’uomo
occidentale. Origine evangelica dei sinodi. Lo Spirito Santo scende sui concili.
La libido perseguitata. Dal più serio al più futile: legiferare su tutto. Il
matrimonio come macchina per ingabbiare il desiderio. La tabella di marcia del
corpo occidentale. L’anima, un affare conciliare. Dicotomia contro tricotomia.
Emanazione della legge sessuale occidentale. Concili e fiera della qualunque. Il
concilio cadaverico. La pornocrazia papale.

Parte seconda
DECOSTRUIRE L’ANIMA
Sotto il segno del cane

1.
Il luogo del filo dell’ascia
Deplatonizzare l’anima

La Scuola di Atene: l’indice di Platone, e il palmo rivolto a terra di Aristotele.


L’anima secondo l’ordine delle ragioni. Fisica contro metafisica. Il principe
degli animali. Scienza della natura ed esperienza. Potenza, atto, entelechia.
Materia, potenza, forza. L’anima, principio vitale. Vegetativa, sensitiva,
intellettiva. L’anima delle piante e degli insetti. Anima = forza + materia, quindi
il vivente. L’anima è forma e atto del corpo. Averroè e l’introduzione della
scolastica medievale. San Tommaso d’Aquino ingabbia Aristotele dentro le
proprie cattedrali concettuali. Lo sperma piccolo degli obesi. Traducianesimo e
creazionismo. Infusione immediata dell’anima o infusione mediata? L’aborto
benedetto dalla Chiesa. Tentennamenti in Vaticano.

2.
I sofismi della volpe
Riabilitare l’animale

La bestia biblicamente sottomessa all’uomo. Gli animali assenti dal paradiso.


L’arca di Noè nei Saggi. Montaigne abbatte la scolastica. Contro i falsi filosofi,
gente da biblioteca. Raccontarsi significa raccontare il mondo. Al di là della
corporazione dei filosofi filosofeggianti. Interrogare il mondo e non i libri.
Genio di Montaigne. Lezioni da un incidente di cavallo. Un vero finto paté di
gatto. Su una cucitura stretta. Psicosomatismo. Fideismo, quindi immortalità
dell’anima. All’anima si accede attraverso il corpo. Cugini delle bestie. Una
differenza di grado e non di natura. Arringare a favore degli animali. Bruttezza
dell’uomo nudo.

3.
Lezioni dalle lezioni di anatomia
Cancellare l’anima

Disprezzo per i medici e la medicina. Elogio dei chirurghi e della loro disciplina.
La lente dell’infinitamente grande. Il microscopio dell’infinitamente piccolo. Il
bisturi di questa parte di mondo. Che cosa provoca nell’anima il fatto di aprire i
corpi. Nelle pieghe del cervello. Laicizzazione dell’anima. L’anima sfugge a Dio
e al diavolo. Medico vs chirurgo. Il teatro della lezione di anatomia: dire,
mostrare, toccare. Vesalio: dissezionare, osservare, maneggiare. L’odore del
corpo reale. Vesalio e il De humani corporis fabrica. Il suo frontespizio, un
discorso sul metodo. Il morto mostrato come vivo. Scristianizzare il corpo
dell’uomo. L’utero, verità dell’essere. Uno stesso cervello per la scimmia, per il
cane e per l’uomo. Il bisturi ignora le anime. Vesalio, circospetto per prudenza,
cieco per precauzione, innocente per timore.

4.
Una certa ghiandola assai piccola
Localizzare l’anima

Dissezionare il re. La prudenza di Ambroise Paré. Il momento in cui l’anima


viene infusa. Aprire il cranio del buffone di corte. Sotto il bisturi, Paré vede
Aristotele. «Io l’ho medicato, Dio l’ha guarito». Descartes pensa e disseziona. Il
filosofo soffocato dai cartesianesimi. Pensare il mondo e scrivere per le donne.
Un progetto enciclopedico. I capelli bianchi di Descartes. La scienza si
preoccupa di farci vivere bene. Mettere da parte i libri e cominciare a osservarsi.
Dissezioni e vivisezioni. Gli occhi di un uomo appena morto. Un decennio di
vivisezioni. La ghiandola pineale, detta conarium. Sostanza estesa e sostanza
pensante; corpo e anima. Io sono una cosa che pensa. La teoria dell’uomo-
macchina. Conta-ore, orologi, fontane, tubi, molle. La ghiandola pineale, unico
organo che non conosce la simmetria. Estrema prudenza. Che cosa pensare di un
luogo materiale che sia sede di un’anima immateriale? Morte della giovane
figlia. La piccola bambola automa del filosofo. Il pensatore princeps del
transumanesimo.

5.
Il cartesianesimo contro Descartes
Circoscrivere lo spirito

Descartes, pensatore cattolico, quindi prudente. La querelle di Utrecht. Regius


ricaccia Descartes dietro le sue linee trincerate. Regius, un cartesiano tra
dualismo idealista e monismo materialista. L’atomismo, macchina da guerra
contro il cristianesimo. Descartes prende spunto dai concili per pensare.
Un’anima, non tre. Un’unione naturale e non accidentale di anima e corpo. La
disputa con lo scolastico Voetius. Descartes strumentalizza Regius. Il
cartesianesimo contro Descartes. La Philosophia naturalis di Regius scontro il
cogito. Fisica vs metafisica. Osservazione vs introspezione.

6.
Pensare senza pensare che si pensa
Umanizzare l’animale

La cagna di Malebranche. La questione dell’anima delle bestie. Teoria degli


animali-macchina. L’uomo pensa, l’animale non ha un’anima. Due cani
copulano e si riproducono, due orologi no. Jean de La Fontaine, amico delle
bestie. Gli animali hanno una ragione. Animale umanizzato e uomo angelicato.
Comparsa degli atomisti. Un cane felice e un gesuita contro Descartes. La
conoscenza virtuale. Un principio vitale interiore. I movimenti riflessi. Vitalismo
gesuita vs meccanicismo cartesiano. Solo Dio può dare l’anima alla macchina.
Le forme sostanziali sono materiali e corporee.

7.
Il fiore degli atomi
Atomizzare l’anima

Ragioni politiche della cattiva reputazione degli epicurei. Incompatibilità


dell’atomismo con le finzioni cristiane. Rimozione completa dell’opera di
Epicuro da parte del cristianesimo. Riabilitazione da parte di Gassendi, canonico
di Digne. Entrata del lupo atomista nell’ovile cristiano. Restituire a Epicuro la
sua dignità. Epicureismo à la carte. Rifiuto della teoria dell’anima. «Una
parvenza di empietà». Le maschere del libertino erudito. Motivi di disaccordo: la
Provvidenza, il suicidio, il libero arbitrio. Gassendi vs Descartes. Un incredibile
incontro di pugilato. Stroncatura delle Meditazioni metafisiche. Critica della
teoria della ghiandola pineale: mancano i nervi che fanno da collegamento.
Descartes, ultimo degli scolastici. Gassendi rende possibili i primi moderni. I
simulacri dell’osso per un cane. La sostanza estesa e la sostanza pensante sono
atomiche. L’uomo fa parte degli animali. Nascita del materialismo vitalista.

8.
Come la fiamma di una candela
Meccanizzare l’anima

Il curato Meslier, primo ateo, comunista, materialista e anticlericale. Cartesiano


di estrema sinistra? Discepolo di Montaigne più di Descartes. «Senza Dio» non
significa «contro Dio». Il suo Testamento. Nascita dell’ateismo. Punto di svolta
della civiltà. Tutto è materia. Le leggi naturali. La vita, perpetuo fermento. Per
un materialismo vitalista. Un cogito senza dubbi. Ontologia dell’essere. Contro i
filosofi deicoli. Anima e corpo sono una sola materia. L’anima è estesa,
corporea, atomica. La materia percepisce, sente, conosce. Una leggera
esalazione, la fiamma di candela. Una materia sottile e mossa. Coincidenza di
anima animale e anima umana. Contro la tesi dell’animale-macchina. Elogio
delle bestie. Provare ripugnanza a uccidere i polli. Ribellarsi contro il massacro
dei gatti. Osservare la natura. Celebrazione del contadino.

9.
Il cuore della rana su un piatto riscaldato
Elettrizzare i corpi

I filosofi saccheggiano il Testamento di Meslier. Un best seller della letteratura


clandestina. Il tradimento di Voltaire: un Meslier deista che smette di essere
rivoluzionario. La Mettrie, lettore di Meslier. La Mettrie, radicale oltre gli
illuministi. Tragico, elitista, cinico. Un medico filosofo contro i filosofi.
Strategie libertine di dissimulazione. L’uomo-macchina. L’uomo ha «più
cervello». Il corpo calloso, sede dell’anima. Quantità di materia e qualità
dell’anima. Rifiuto del cane di Malebranche: insegnare a una scimmia a parlare.
Il linguaggio dei sordomuti: avere le orecchie negli occhi. Dare un’anima
attraverso l’educazione. Ineguaglianza delle anime. «Un grado di
fermentazione». Parenchima e tela midollare. Abolizione della metafisica. Una
macchina governata dalla fatalità. Devastare l’ontologia cristiana. «Una sola
sostanza diversamente modificata». Il criminale, il prete e l’acaro. Inesistenza
del libero arbitrio. Abolizione della colpa. Meno giudici, più medicine. L’anima
innocente. Nascita dell’amoralismo. Obbedire alla propria natura. Invito a darsi
riposo nel crimine. Sade, ultimo pensatore feudale. Un filosofo materialista. Un
po’ di fluido elettrico. «Sguazzare nella sporcizia come dei maiali».

Parte terza
DISTRUGGERE L’ANIMA
Sotto il segno della scimmia

1.
Vita e morte dell’ostrica
Animalizzare l’uomo
Finché dura Dio: la Bibbia. Quando Dio non c’è più. La statua di Condillac.
Diderot vuole ridurre l’uomo a un’ostrica, ed educare l’ostrica come un uomo.
L’Enciclopedia rimpiazza l’«anima» delle bestie con l’«istinto». Rigenerazione
e Uomo Nuovo. Eugenetica ed educazione. Entrata in scena della scimmia. Il
«satiro indiano». Copule tra la scimmia e l’uomo. Le scuderie umane di
Maupertuis. Produrre nuove specie. Come si creano nuove razze di canarini.
Eugenetica di Stato. I serragli dei principi. Elogio degli animali nuovi.
Sperimentazione sull’uomo e modificazioni dell’anima. Le copule teratologiche
dell’abate Sieyès. Scimmie antropomorfe come schiavi. Le chimere di Cornelius
de Pauw, canonico. Il progressismo zoofilo di Restif de La Bretonne. Mirabeau
progressista zoofilo, anche lui. Buffon salva l’uomo, e quindi l’anima.
L’ottentotto, nuovo paradigma.

2.
Costruire l’emulo di un capriolo
Rigenerare l’Homo sapiens

Rousseau, teorico della rigenerazione. Odio per la civiltà. Elogio dell’uomo


naturale. Educazione e patto sociale. Sofismi e retorica. Il metodo: «escludere
tutti i dati di fatto». Idealizzazione della Natura. Passato meraviglioso, presente
terribile, futuro spaventoso. Essenzializzare l’uomo. Contro l’uomo che pecca,
l’uomo naturalmente buono. Una visione irenica. Le virtù dell’uomo selvaggio.
La finzione dello stato di natura. Postulato di un’anima immateriale.
Perfettibilità dell’uomo, non dell’animale. Nuova finzione: l’uguaglianza degli
uomini in natura. La proprietà, peccato originale. Pedagogo innovatore ma
autoritario. Costruire un allievo docile e sottomesso. Un tutore fino alla morte.
«Emulo di un capriolo, piuttosto che […] ballerino». La matrice dell’Uomo
Nuovo. Diluire l’individuo nella comunità. Forzare a essere liberi. L’educazione
e il contratto sociale rigenerano. Mobilitare la trascendenza per fondare
l’immanenza. Rousseau postula sempre, ma non dimostra mai. La pena di morte
per l’ateo sociale. Ghigliottina e fette di cervello.

3.
Genealogia dell’eugenetica repubblicana
Decapitare l’anima

L’abate Grégoire e la rigenerazione: gli ebrei degenerati. Eliminare l’ebreo per


realizzarlo. Antisemitismo dell’abate, panteonizzato nel 1989. Invenzione
dell’ebreo che si vergogna. Meno sono ebrei, più lo sono. L’ossessione del
sangue. I provinciali degenerati. Lingua unica vs lingue regionali. Idioma
feudale vs lingua della Repubblica. Filosofo emblematico dei Lumi. Amalgama
politico giacobino. Abbozzo di una società totalitaria. Migliorare il destino della
specie umana. Condorcet e l’eugenetica rivoluzionaria. Perfezionare la specie
biologica. Accrescere l’intensità e la performatività dell’anima. Infinita
perfettibilità dell’uomo. Puntare all’immortalità. Cabanis e il miglioramento
della specie umana. Pesche, tulipani e uomini. Costruire cittadini saggi e buoni.
«Rivedere e correggere l’opera della natura». Rousseau vuole cambiare la natura
umana, Robespierre si mette al lavoro. Uomo Nuovo giacobino e
transumanesimo. L’Incorruttibile, bigotto del deismo. Sotto gli auspici
dell’Essere Supremo. La Rivoluzione francese, effetto della Provvidenza per
«rigenerare». Contro atei, materialisti, epicurei ed enciclopedisti. Postulare Dio e
l’immortalità dell’anima. «Formare dei cittadini». La legge decreta l’immortalità
dell’anima. Il Terrore giacobino al servizio della rigenerazione individuale:
Luigi XVII. Lento infanticidio e doppio regicidio. Soffocare l’anima per
uccidere il corpo. L’assassinio del Vecchio Uomo. Uomo Nuovo tra cani,
ostriche e scimmie.

4.
Una ghiandola pineale postmoderna
Metapsicologizzare la psiche

Gli Idéologues, sequel dei giacobini. Kant, meno filosofo dei Lumi e più
pensatore reazionario. Sapere aude, ma solo dentro di te. La Critica della ragion
pura risponde alle spinte atee, deiste e materialiste del secolo dei Lumi.
Postulare il noumenico, quindi Dio, il libero arbitrio e l’immortalità dell’anima.
Anche Freud postula per salvare la psiche dal pericolo scientista. La
metapsicologia è una parapsicologia. Una «sovrastruttura speculativa». La
superstizione di Freud. Le prove della verità dell’occultismo. Un altro medico di
Molière. Psicroforo vs psicoanalisi. Erranze terapeutiche e dottrinali. Teoria
della seduzione. «Merdologia» freudiana. Invenzione del complesso di Edipo.
Teologia negativa e inconscia. L’ipotesi è una prova. Allegoria e plasma
germinale. Salvare l’anima con la psiche. Creare l’inconscio a seconda delle
necessità. Immortalità del plasma germinale. Il biologico, una roccia su cui
costruire il castello allegorico. Topiche, metafore e connessioni neuronali.
Autonomia dell’allegorico.

5.
Il tempo del Corpo senza Organi
Strutturalizzare l’essere

Le oscure chimere di Deleuze. Stili e toni scolastici. Psittacismi e glossolalie.


Una lingua (davvero) fascista. La metafora primeggia sul reale. Strutturalismo e
religione della lingua. Il ritorno del platonismo. Il reale come produzione del
linguaggio. Il simbolico è tutto, però non ne sappiamo nulla. Una nuova teologia
medievale. La struttura: un’anima postmoderna? Affumicare con gli ossimori.
Lo strutturalismo come scienza! Una «topologia trascendentale». Il Padre: un
luogo all’interno di una struttura senza luogo. Rivendicare l’antiumanesimo.
L’immaterialità fonda un nuovo materialismo. Abolizione del reale empirico e
smaterializzazione del mondo. La doppia invisibilità delle strutture. Il regno del
performativo. Il «Corpo senza Organi» (CsO), espressione di Artaud. Un corpo
fatto di sangue e ossa. Versi parassiti e resti di escrementi. Fluidi ideali e potenze
malefiche. Il nuovo paradigma dello schizofrenico. Il non-corpo dell’Uomo
Nuovo. Il normale diventa patologico, e viceversa.

6.
Un volto di sabbia cancellato dal mare
Uccidere l’uomo

Annunciare la morte dell’uomo per farsi una risata. Un esercizio da normaliani.


Il nome del filosofo mascherato. Le parole e le cose rinnegato dall’ultimo
Foucault. Celebrazione della patologia per scuotere la ragione occidentale.
Dandismo teorico. Un’estetica datata. Vortice poetico, non verità storica.
Paradossi vs evidenza. Nichilismo e formalismo. Foucault non cita mai Darwin.
Cancellazione del reale e della Storia. L’Uomo, una «chimera empirico-
trascendentale». Radicalità del platonismo di Foucault. Crede più all’archivio
che racconta il mondo che non al mondo. Una nevrosi del testo. Le parole sono
le cose. Vagabondaggi del nietzschianesimo francese. Morte di Dio, morte
dell’uomo, avvento del superumano. Malintesi a proposito del superuomo.
L’Uomo, semplice figura del sapere. Essere uomini solo grazie al lavoro, alla
vita e alla lingua. E il disoccupato muto? Cercare l’uomo e trovare solo libri.
Preferire le parole alle cose. Sono la biologia, l’economia e la filologia che fanno
l’Uomo. La linguistica, l’etnologia e la psicoanalisi permettono alle scienze
dell’Uomo di esistere. Autobiografia di un pezzo di notte. Annuncio di un
pensiero futuro – Foucault ci rinuncia. Pura insensatezza vs ragione ragionevole
e ragionante. Foucault sostiene di non-essere mai stato strutturalista… Le
metastasi della French Theory. Cancellare l’uomo per costruire un Uomo
decostruito. La Luna è la Terra dei transumanisti.

CONCLUSIONE
Sotto il segno della medusa

Verso le chimere transumaniste


Digitalizzare l’anima

Spostamento dello Spirito. A proposito della Tigre in California. L’Europa dai


parapetti antichi. La velocità di un carro funebre in panne. Questo ha sostituito
quest’altro. La reificazione, segno del XXI secolo. Comprare tutto, affittare
tutto, vendere tutto. Liquidare le intersoggettività. Sequel dell’Uomo Nuovo:
esseri senza volto. L’Uomo totale di Marx. Il divenire Homo sovieticus. L’uomo
fascista come rilancio e risposta. Marinetti e Gazurmah. Figli incestuosi che
mangiano meduse. Il fascismo, un progressismo. Quando il bacio della morte
vivifica. Ectogenesi e razza di schiavi. Creolizzazione delle meduse. Progetti
fascisti. Filosofia dell’idra d’acqua. L’uomo e i suoi polpi. Manipolazioni
genetiche e «cartocci di puttane». L’anima come polpo segmentabile e
riproducibile. L’identità grazie alla traccia digitale. Gertrude ed Elon Musk.
L’intelligenza artificiale. Lo strato digitale terziario. Il divenire drosofila
dell’uomo. Telepatia digitale. Curare le ferite del cervello. Dall’ostrica alla
medusa passando per l’uomo. Una macchina da guerra fiammeggiante per la
barbarie. Chi vuole fare l’angelo fa la bestia. Quale forza del bene possiamo
usare contro questo progetto?

Epilogo
L’eterno silenzio degli spazi infiniti

Dopo Neuralink, SpaceX. Far uscire l’uomo dal suo biotopo. Creare un biotopo
extraterrestre. La Luna periferica. La morte programmata del Sole. Combustione
della Terra. Cancellazione del vivente. Morte degli uomini. Lezioni di saggezza
dalla geologia. Eliosfera e riscaldamento del pianeta. Il mito del capitalismo
verde. Il pericolo degli asteroidi near-Earth. Pensare sulla lunga distanza.
Fantascienza e filosofia. La vera Grande Sostituzione. L’ultima civiltà. È
arrivato il tempo delle anime digitali. Download ed esoscheletri. Vita virtuale in
ambiente ostile. Casta di eletti e matrice totale. Suicidarsi sulla Luna. Gli uomini
acefali. Un mondo di morti viventi?
Alla memoria del mio caro vecchio maestro…

«Caro Onfray, Lei che si dice tanto materialista, Lei che così tante cose sa dell’anima, di quello
che in lei non guarisce mai… Che sia perché, diversamente da quel platonico del Suo vecchio
Maestro, ha una diversa conoscenza delle anime e vede meglio i loro corpi… Questi corpi che Lei
vorrebbe vedere appagati, però, qualche volta si ritrova a dipingerli come fa Matthias Grünewald
con il suo Cristo sull’altare di Issenheim; o a scolpirli come fa Ligier Richier sul suo Sepolcro, a
Saint-Mihiel. Ci tornerò su, un giorno di questi, perché il vero Onfray sta tutto qui, in questa
distorsione». La vita non gli ha permesso di tornarci sopra; lo faccio io per lui.

Ligier Richier, Il sepolcro, ovvero la sepoltura di Saint-Mihiel, 1554-1564,


chiesa di Saint-Étienne, Saint-Mihiel.
Introduzione
La magnifica desolazione

Sono passati alcuni milioni di anni, sette per la precisione, prima che l’uomo, o
almeno due dei suoi rappresentanti, Neil Armstrong e Buzz Aldrin, potesse
passare dal guardare la Luna dalla Terra al guardare invece la Terra dalla Luna,
affondando i propri piedi nella grigia e fredda polvere del piccolo pianeta.
Questo rovesciamento di prospettiva, ce lo ricordiamo tutti, è avvenuto molto
precisamente lunedì 21 luglio 1969 – io avevo dieci anni. I due uomini passano
ventuno ore e trentasette minuti sul suolo lunare, mentre il povero Michael
Collins rimane a gestire gli affari correnti sul modulo di comando, tenendolo in
orbita nell’attesa che i suoi due più fortunati colleghi tornino a bordo. Qualcuno
si dovrà pure occupare del vascello spaziale che permetterà a tutti quanti di
tornare sulla Terra…
Armstrong e Aldrin scattano delle foto straordinarie, tra cui una famosa della
Terra vista dalla Luna: in primo piano, il mare della Tranquillità, ovvero il luogo
in cui la nave spaziale alluna – il neologismo è necessario per sottolineare la
prodezza non solo tecnica, ma anche ontologico-metafisica nel senso letterale
del termine, cioè oltre la fisica.
La Luna sembra una specie di Terra morta e grigia, sfigurata dagli impatti dei
meteoriti precipitati, che hanno colpito lo strato superiore di polvere creando dei
crateri dai diametri tutti diversi. La superficie rovinata da questa grandine
racconta la sua storia geologica e geomorfologica. Da notare che stiamo
parlando della Luna usando termini che rimandano ancora alla dimensione
terrestre – in effetti, per correttezza dovremmo dire: lunologica e
lunomorfologica… Per la prima volta, insomma, non si guarda più questo astro
come un oggetto mitologico e fantasmatico, ma come una realtà cosmologica.
Questo primo piano sembra una foto in bianco e nero su cui sia stata montata
un’altra foto a colori. Nel 1929, cioè cinquant’anni prima dello scatto, nel suo
libro L’Amour la Poésie, Paul Éluard scrive che «la terra è blu come
un’arancia». E la Terra è effettivamente blu, e pure rotonda come un’arancia. La
parte inferiore è immersa nella notte creata dalla Luna che blocca la luce del
Sole. Il blu della Terra, invece, è il mare, che ricopre il 71% del nostro pianeta.
Sulla foto, assieme al grigio della Luna e al blu della Terra, troviamo in realtà
un terzo attore cromatico di cui tenere conto, ed è il nero del cosmo, il cui senso
etimologico, ricordiamolo, è proprio quello di «ordine». Nel nostro universo, a
sua volta collocato dentro un’incredibile abbondanza di pluriversi (multiversi
infiniti, infinità dei multiversi), i pianeti si muovono e si dispongono a velocità
impressionante, in mezzo a un silenzio che rimane impercettibile alle orecchie
degli uomini, e che solo i poeti, i musicisti e i filosofi riescono a intercettare.
Non aveva torto, Pitagora, quando duemila e cinquecento anni fa parlava di
musica e di sfere, e nemmeno Gérard Grisey, musicista spettrale, quando
componeva opere inserendo il suono delle pulsar (pensiamo a Le Noir de
l’étoile, 1989-1990). Noi viviamo nel silenzio di un frastuono che non siamo
nemmeno in grado di percepire.
Questo nero profondo e pascaliano è il nero dei gorghi e degli abissi, il nero
degli infiniti e delle vertigini, il nero dei vortici che inghiottono e della materia
che ci rimane completamente sconosciuta. È un nero che sembra il colore del
Nulla e potrebbe invece essere il colore di Tutto, un nero che porta come in eco
la memoria di ogni cosa che è stata, la memoria del Big Bang, un nero da cui
impariamo quale sia la natura del nostro universo, e come questo nostro universo
si espanda, ma, sia detto en passant, in misura sempre inferiore. Questo nero è
insomma il nero del nulla che è tutto, il nero del tutto che è nulla. È il colore di
una delle ipotesi del Parmenide di Platone: il non-essere è…
Questa foto famosa mostra però allo stesso tempo anche un mondo che è vivo:
il carattere immutabile del blu degli oceani, del grigio della polvere lunare e del
nero dello scrigno cosmico che contiene tutto quello che esiste e
contemporaneamente tutto quello che non esiste, questo carattere immutabile
viene con delicatezza animato dal movimento in apparenza immobile delle
nuvole che avvolgono il pianeta. Sappiamo che la Terra gira su sé stessa attorno
al Sole, e che la Luna è il suo satellite e non gira affatto, e alla contemplazione
degli esseri umani offre sempre la stessa e identica faccia. I cumulonembi, i cirri,
gli strati, i cirrostrati, gli altocumuli e le altre masse di vapore acqueo che
circondano il pianeta Terra costituiscono una specie di respiro del cosmo, ed è
proprio studiando questo ritmo che i climatologi arrivano a formalizzare i propri
oracoli. In quest’oceano cosmico di nero e di blu, sopra questo scatto
fotografico, ecco dunque la vita che si affaccia su lunghi filamenti bianchi, come
su tante tracce spermatiche che esprimono la vitalità di questo pianeta precario e
sublime.
*
La conquista della Luna da parte degli americani è stata naturalmente una
questione più politica che scientifica. La mitologia di quest’avventura mette
soprattutto in mostra tutto quello che gli Stati Uniti devono ai ricercatori nazisti
che avevano lavorato al programma nucleare e spaziale del Terzo Reich.
E sono in effetti proprio gli ex scienziati del Terzo Reich, tra cui il più famoso
è sicuramente il comandante nazista Wernher von Braun, che, nel dopoguerra,
offrono agli Stati Uniti in guerra fredda con l’Unione Sovietica la possibilità di
portare a compimento il progetto di conquista lunare annunciato da Kennedy nel
1962. Gli ingegneri che avevano concepito la V2, la famosa arma che avrebbe
dovuto consentire a Hitler di vincere la Seconda guerra mondiale, avevano
costruito non solo degli aerei a reazione stemmati con la croce uncinata, ma
anche un vero e proprio progetto di bomba atomica, e per farlo avevano sfruttato
e schiavizzato la manodopera ebraica nelle fabbriche sotterranee del campo di
Dora.
Si parla poco dell’operazione Paperclip, con cui lo stato maggiore americano è
riuscito a salvare millecinquecento scienziati tedeschi che avevano sviluppato i
progetti del Terzo Reich. Alcuni di questi avevano contribuito alla creazione
dello Zyklon B, il famoso gas usato per la Soluzione finale, mentre altri a
Dachau avevano torturato i prigionieri ebrei con l’acqua ghiacciata per testare la
loro resistenza, e ora mettevano a punto le tute dei piloti da caccia statunitensi.
Collaborando con gli Stati Uniti, gli scienziati tedeschi sfuggono alle condanne
del Tribunale militare internazionale, e finiscono per rappresentare un bottino di
guerra molto gradito agli americani, perché i nazisti erano anticomunisti
esattamente come loro, e si potevano rivelare molto utili ai piani bellici contro
l’URSS. Insomma, è stata una guerra fredda con conquista dello spazio
interposta…
Per amore di giustizia, dobbiamo però ricordare che anche l’URSS ha
intercettato ex scienziati nazisti per inserirli nel proprio programma atomico –
l’equivalente sovietico dell’operazione Paperclip era conosciuto con il nome di
Dipartimento 7. Aggiungiamo a questo quadro che nemmeno la Francia si è
troppo astenuta, perché a Vernon, nella regione dell’Eure, ha riciclato alcuni
scienziati tedeschi per sfruttarli nelle gallerie del vento e mettere a punto i propri
aerei da caccia, i propri missili e i propri elicotteri, e realizzare il programma
Airbus…
Gli Stati Uniti trasformano quello della conquista dello spazio in un terreno di
gioco su cui portare avanti una guerra simbolica contro i sovietici. Ognuno cerca
di imporre la propria supremazia tecnica sul mondo intero.
I sovietici sembrano cominciare a prendere una certa distanza quando mettono
in orbita lo Sputnik 1, il 4 ottobre del 1957. Per lo Zio Sam, sorpreso dal
successo bolscevico, è un affronto su scala planetaria. A questo successo va
anche aggiunto il primo viaggio di un essere vivente nello spazio, la cagnolina
Laika, nel corso dello stesso anno; la prima sonda lunare, Luna 1, nel 1959; il
primo uomo nello spazio, Jurij Gagarin, il 12 aprile del 1961, seguito dalla prima
donna, Valentina Tereškova, il 16 giugno del 1963; la prima passeggiata
extraveicolare nel 1965; e il primo allunaggio, il 3 febbraio del 1966. Gli Stati
Uniti non possono lasciare che questa serie di affronti rimanga impunita, e
decidono quindi di mandare degli uomini sulla Luna.
Quando si tratta di decidere il nome da dare ai moduli con cui viaggiare nello
spazio, gli astronauti dell’equipaggio dell’Apollo 10 scelgono Charlie Brown e
Snoopy, che sono due personaggi della serie di fumetti Peanuts, creati nel 1950
da Charles M. Schulz. Avrebbero potuto scegliere i nomi di Galileo, di Keplero
o di Copernico, addirittura quelli di Leonardo da Vinci o di Albert Einstein, però
questi nomi indicavano tutti un patrocinio europeo, ed erano quindi impensabili.
È stato allora con gli eroi di un fumetto che gli americani hanno scelto di
rappresentare la propria identità. Ognuno ha le caravelle di Colombo che si
merita.
*
I filosofi non hanno pensato alla possibilità che gli uomini hanno di lasciare la
Terra. Com’è loro abitudine, piuttosto che guardare il mondo, preferiscono
muoversi in un retromondo, in un alter-mondo, in un aldilà del mondo.
Nell’ambito del pensiero francese ai tempi di cui stiamo parlando, pur di uscire
dall’esistenzialismo e sottrarsi all’egemonia di Sartre, i filosofi cominciano a
esultare degli effetti retorici e sofistici prodotti dallo strutturalismo. E mettono in
piedi una nuova scolastica che trasforma la Struttura (la maiuscola è d’obbligo)
in una specie di Dio, presente dappertutto e allo stesso tempo invisibile da
nessuna parte, indicibile e ineffabile e però contemporaneamente causa di tutto,
compresa sé stessa.
Il decennio filosofico successivo non riesce a ricavare alcun insegnamento da
quell’evento ontologico di primaria importanza che è stato il primo passo sulla
Luna. Pensiamo solo al L’anti-Edipo (1972) di Deleuze e Guattari, a Glas (1974)
di Derrida, a Sorvegliare e punire (1975) di Foucault, a Mille piani (1980)
sempre di Deleuze e Guattari: non troviamo nessuna speculazione sul fatto che
alcuni uomini sono riusciti a lasciare la Terra per andare a camminare sulla Luna
e tornare poi di nuovo indietro. Pensiamo solo che, ancora nel 1974, Sartre
pubblica un libro come Ribellarsi è giusto, in cui esalta il maoismo e la
Rivoluzione culturale, che aveva provocato qualcosa come venti milioni di
morti. Ecco la cecità dei filosofi francesi del Novecento in tutta la loro superbia!
Mi pare che vedere la Terra come un pianeta perduto all’interno di un
universo dalle dimensioni infinite non possa non produrre angosce, paure,
timori, e addirittura tremori sul piano ontologico. Sappiamo che quella che Jurij
Gagarin, cioè il primo uomo mandato nello spazio, al suo ritorno sulla Terra,
dispensa è una lezione di metafisica marxista-leninista, di cui non possiamo non
misurare tutta la povertà: «Sono stato in cielo e Dio non l’ho visto». Quanta
miseria anche in questo materialismo volgare!
Non è difficile immaginarci come questo genere di frase destinata a essere
scolpita nel marmo della propaganda sia stata elaborata dalla matura riflessione
degli esperti di comunicazione di Stato per essere imparata e recitata a memoria
a scopi ideologici. La stessa cosa vale per Neil Armstrong (ce lo ricordiamo
tutti) che assesta il proprio colpo dichiarando, in mezzo al gracchiare
impolverato della trasmissione: «Un piccolo passo per l’uomo e un grande passo
per l’umanità». Andando nello spazio, la preoccupazione dei sovietici è di
verificare che il marxismo-leninismo si fonda su verità scientifiche ed empiriche;
gli americani vogliono invece assicurarsi del carattere universale e imperialista
della propria tecnica.
La pubblicità americana crea e alimenta una dimensione mitologica:
Armstrong scende dal modulo spaziale e salta dall’ultimo gradino della scaletta
che si trova a un metro dal suolo – gli ingegneri della NASA avevano previsto che
il LEM sarebbe affondato nella polvere del suolo, solo che il tranquillo allunaggio
del comandante è riuscito a evitare l’inconveniente. Nove minuti più tardi,
Aldrin posa a sua volta il piede sulla Luna ed esclama: «Bella vista». Anche
questa frase ce la immaginiamo elaborata da linguisti esperti di comunicazione.
Poi, dopo qualche momento di silenzio: «Magnifica desolazione». Di sicuro non
sapeva fino a che punto aveva ragione…
In effetti, che cosa fanno gli americani una volta che hanno portato a
compimento una prodezza tecnica come quella? Qual è il primo gesto del primo
uomo che cammina sul suolo lunare? Ancora prima di effettuare il primo passo,
Aldrin consegna ad Armstrong attraverso il portellone di uscita dal modulo un
sacco di spazzatura da trenta chili e Armstrong lo lancia sul pianeta. Il primo
gesto del primo uomo che per la prima volta lascia il suo pianeta e per la prima
volta mette i piedi su un altro pianeta del sistema solare consiste in una
profanazione assolutamente in linea con la mentalità americana: tutta questa
intelligenza per ritrovare il gesto primitivo del mammifero che marca il territorio
con i propri detriti, i propri rifiuti e i propri sacchetti pieni di urina, escrementi e
vomito! A inaugurare il contatto con il suolo lunare non è quindi un uomo, ma la
sua spazzatura, assieme a quella dei due suoi compagni di viaggio.
Anche Buzz Aldrin, che, nella storia della conquista dello spazio, sarà sempre
ricordato come secondo, potrà comunque vantarsi di essere stato il primo
cosmonauta a ostentare in maniera consapevole la propria umana, umanissima
volgarità. È lui stesso infatti a scrivere, nelle proprie memorie: «Armstrong può
anche essere stato il primo uomo a camminare sulla Luna, io però sono stato il
primo a farci pipì». Questo è stato il primo gesto di Aldrin: bagnare il proprio
pannolino di urina, come un bambino tradito dal proprio sfintere… Avrebbe
potuto comportarsi in questa maniera per necessità, lo si poteva anche capire,
avrebbe potuto tenersi l’informazione per sé, un segreto, e invece no: quando,
per la prima volta nella storia dell’uomo, un uomo arriva su un altro pianeta, è
solo per sporcarlo con la propria materia fecale, la propria urina e la propria
spazzatura, ci piscia sopra come un maschio alfa quando vuole marcare il
territorio…
E non si sono comportati così una volta soltanto. Al momento in cui sto
scrivendo queste righe, duecento tonnellate di porcherie si trovano ammassate
sul suolo lunare, abbandonate dai dodici uomini che, tra il 1969 e il 1972, data
dell’ultimo passaggio di un essere umano, sono andati sulla Luna…
Passando in rassegna questo mucchio di spazzatura umana, elenchiamo quello
che troviamo, come se fosse uno degli inventari di Prévert: uno stemmino della
missione Apollo 1; due medaglie commemorative dei sovietici Gagarin e
Komarov; un disco di silicio con i messaggi di Eisenhower, Kennedy, Johnson e
Nixon, assieme ai messaggi dei dirigenti di sessantatré paesi da tutto il mondo; la
penosa lista delle vanità dei nomi dei membri del Congresso americano, delle
quattro commissioni della Camera del Senato e dei dirigenti della NASA, passati e
presenti; due palline da golf di Alan Shepard, il primo uomo ad aver volato nello
spazio dopo Gagarin, e il quinto ad aver camminato sulla Luna; un ramo d’ulivo,
ovviamente dorato, perché è a nome dell’umanità intera e della pace che gli
americani piantano la loro bandiera – per inciso, ce ne sono cinque, di bandiere
americane, sulla Luna, la prima ironicamente ributtata a terra dai movimenti
d’aria emessi dal razzo di ritorno; alcune telecamere, e una macchina fotografica
Hasselblad; un certo numero di strumenti di misurazione scientifica, vari
telescopi e vari riflettori; un martello; una piuma di falco; un rover, cioè il
modulo per spostarsi sul suolo lunare; dodici paia di stivali; alcuni tagliaunghie;
un giavellotto; un fermacravatte (vai a capire come ci è finito); un’etichetta di
Nuits-Saint-Georges, cuvée Terra-Luna 1969; ovviamente, una Bibbia; e poi un
migliaio di altri oggetti di piccole dimensioni; ah, dimenticavo, in mezzo a tutto
questo cumulo d’immondizia lunare troviamo persino le ceneri di un geologo
della NASA che aveva espresso il desiderio di riposare in pace sulla Luna – in
pace, ma sempre circondato da novantacinque sacchetti di urina e di vomito…
Poco tempo fa, nel marzo del 2022, uno stadio di razzo abbandonato da anni è
andato a ingrossare la discarica più lontana dalla Terra. A 384.400 chilometri
dagli Stati Uniti, questo paese che si appresta a prendere il posto dell’Europa nel
ruolo di civiltà guida per il resto dell’umanità, ha trovato il modo di far sapere al
mondo intero di cosa fosse capace: conquistare, imporsi e profanare.
Tutte le nuove civiltà cominciano con la barbarie.
È a questo punto che ci troviamo ora…
*
Una lettura politica e demitizzante della conquista dello spazio in generale, e del
primo passo dell’uomo sulla Luna in particolare, non impedisce una lettura
anche filosofica, addirittura ontologica o metafisica. Un po’ sul principio
dell’astuzia della ragione, gli uomini credono di fare una cosa, cioè posare il
piede sulla Luna, e in realtà non sanno che ne stanno compiendo un’altra, cioè
mettere ontologicamente fuori asse il mondo e perderselo in un pluriverso privo
di centro. Ecco la radice del nichilismo contemporaneo.
Quando, dopo aver toccato il suolo lunare, il pisciatore cosmico Buzz Aldrin
si bagna il pannolino e aggiunge: «Magnifica desolazione» all’ingenuo: «Bella
vista», non sa che le sue parole oltrepassano probabilmente la sua stessa capacità
di pensiero… Perché la conquista della Luna determina una terribile
smagnetizzazione della bussola della civiltà giudaico-cristiana, e finisce per
rappresentare una vera e propria magnifica desolazione ontologica. Dio è morto,
gli universi sono infiniti e l’uomo si è ormai perso in mezzo a questa notte
dell’essere.
Una volta, nel suo libro Du monde clos à l’univers infini (1957) [Dal mondo
chiuso all’universo infinito], Alexandre Koyré ha riflettuto sulla rivoluzione
ontologica prodotta dal passaggio dal geocentrismo, in cui la Terra sta al centro
di un mondo finito, all’eliocentrismo, in cui il Sole si trova al cuore di un
universo aperto, un passaggio in seguito al quale l’uomo non si trova più in
posizione centrale ma periferica. Una ferita narcisistica, avrebbe detto Freud.
Con la prova empirica della Terra blu vista dalla Luna grigia in un cosmo
nero, è un altro mondo che si apre al grande pubblico, del tutto all’oscuro delle
più recenti scoperte in ambito astrofisico. Lontano dai dibattiti più specialistici
sulla relatività ristretta e generale, sulla teoria delle stringhe e sulla meccanica
quantistica, quello che, grazie a questa famosa fotografia, diventava conoscenza
attraverso quello che veniva visto da miliardi di uomini era il fatto che ci
troviamo ormai a essere delle monadi erranti, senza porte o finestre, come
avrebbe scritto Leibniz, trasportati senza fine in un continuo movimento
browniano, ai bordi del nulla, come affacciati su un buco nero che assorbe tutto,
luce compresa…
L’uomo è già passato una volta dal geocentrismo, che presupponeva un
mondo finito e un suo centro indubitabile, all’eliocentrismo, che scopriva un
mondo infinito e il suo centro infuocato che bruciava ontologicamente l’umanità.
Adesso è il momento di spostarsi un’altra volta, e di passare dall’eliocentrismo ai
pluriversi che cancellano qualsiasi nozione non solo di centro, ma anche di
finitezza, d’infinità e di confini.
I materialisti dell’Antichità, gli epicurei in particolare, difendevano l’esistenza
della pluralità dei mondi e contemporaneamente l’infinità del mondo stesso.
Lucrezio, per esempio, si domandava che cosa dobbiamo pensare del giavellotto
lanciato nell’universo quando arriva ai confini del finito.
Come per l’atomo dedotto dalla danza dei granelli di polvere in un raggio di
luce, la possibilità di molteplici universi, mondi e intermondi (questi ultimi sono
i luoghi composti di materia sottile destinati agli dèi) è la diretta conseguenza
della dinamica atomista. A causa del clinamen, cioè della tendenza naturale del
mondo a deviare, gli atomi aggregati per costituire l’essere, e poi gli aggregati
degli aggregati, e poi ancora gli aggregati degli aggregati degli aggregati, e così
all’infinito, strutturano un tipo di ragionamento che obbliga ad ammettere
l’infinità di mondi.
Un’intelligenza finita, una ragione limitata, una coscienza ristretta non sono in
grado di concepire l’infinito – ma nemmeno il chiliagono di Descartes. Solo
l’immaginazione può farlo, e oltretutto in maniera vaga, ricorrendo a delle
immagini.
Prendiamo allora una spiaggia immensa, per esempio la duna di Pilat, nella
Gironda, che, con i suoi quasi tre chilometri di lunghezza, i suoi oltre cento metri
di altezza e gli oltre seicento di larghezza, in totale circa seicento milioni di metri
cubi di sabbia, è la più alta d’Europa. Immaginiamoci che ogni granello di
sabbia corrisponda a un universo delle dimensioni del nostro, di cui riusciamo a
toccare i limiti solo dopo viaggi di milioni di anni-luce. Questo nostro universo
si troverebbe così collocato accanto a un numero infinito di altri universi,
ognuno retto da leggi fisiche proprie. Il nostro sistema solare corrisponde a uno
dei granelli di sabbia di questa duna. La fisica quantistica sostiene che se si
moltiplicasse l’immagine per ottenere tanti granelli di sabbia quanti ne esistono
sul pianeta e ciascuno di questi granelli rappresentasse un universo, saremmo
ancora molto lontani dalla realtà. Un pensiero così vertiginoso non può non
seminare angoscia nell’animo e nel cuore degli uomini…
Inebriato dal passaggio dal mondo chiuso all’universo infinito prima, e
all’infinità dei mondi poi, l’uomo contemporaneo si trova in equilibrio precario,
in imbarazzo, fuori asse, scombussolato, disorientato, scomposto, smembrato,
sconcertato, spaesato, fuori strada, sconvolto, disorganizzato, in una parola:
smontato – in altri termini, magnificamente desolato… Passare dal mondo finito
all’infinità dei mondi, attraverso il mondo infinito, è qualcosa di paragonabile a
una serie ininterrotta di sismi ontologici, repliche di una stessa catastrofe. È una
specie di tettonica delle placche ontologiche che divide gli uomini da quello che
sono stati: all’inizio si trovano al centro del mondo, poi alla sua periferia, e in
ultimo si scoprono persi nel bel mezzo dell’universo. La storia dell’uomo è,
insomma, quella della sua espulsione dal centro del mondo terrestre.
Nella sua ingenuità spirituale, da quel buon soldatino del materialismo
sommario, addirittura per principianti, che era, quello che Jurij Gagarin avrebbe
potuto vedere, affacciandosi il 12 aprile del 1961 all’oblò del suo Sputnik 1, non
era tanto che Dio in cielo non ci stava, ma che non esisteva nemmeno il cielo
allegorico; mossa ancora più intelligente sarebbe stata quella di prevedere che,
da quell’esperienza spaziale, era solo la fine dell’uomo che derivava.
Nietzsche lo aveva già proclamato nel 1882, nella Gaia scienza, che «Dio è
morto». Non c’era nessun bisogno di andare nello spazio per rendersene conto.
Quello che alla luce nera del cosmo diventava ora chiaro e visibile era che
l’Uomo avrebbe presto seguito Dio nella tomba – il che è anche logico, visto che
non è Dio che ha creato gli uomini, ma il contrario.
Michel Foucault annuncia la morte dell’uomo nel 1966, nel suo libro Le
parole e le cose. Tutto preso dai suoi riflessi condizionati strutturalisti, però, più
che dissertare sulla morte concreta dell’uomo concreto, per lui si tratta di parlare
in maniera un po’ contorta della morte di quella cosa che si è potuto chiamare
«Uomo» solo dopo una serie di particolari processi discorsivi, distribuiti su una
linea cronologico-temporale ben indicata dal filosofo, e delimitata da una data di
nascita e da un’altra, appunto, di decesso.
Quello che muore quel 21 luglio del 1969, alle ore 3, 56 minuti e 20 secondi,
ora francese, non è una variazione platonica dell’Idea di uomo, per quanto
incarnata unicamente nella storia delle idee, ma proprio la realtà dell’uomo: da
quel momento, viviamo quest’agonia in un tempo direttamente ed
evidentissimamente contaminato da essa. Ecco perché oggi il nichilismo appare
come la verità di un tempo ormai privo di verità (il nostro). L’uomo muore
davvero, e questa è l’unica Grande Sostituzione di cui dobbiamo avere paura. Il
transumanesimo lavora a tutto quello che verrà dopo. Etimologicamente, sarà
inumano.
*
Sulla mia scrivania, c’è il libro che mi è servito per stendere queste poche righe
su quello che l’uomo ha inflitto alla Luna dal momento del suo primo passo fino
all’ultimo transito del nostro predatore sul pianeta freddo. Dall’Apollo 11, nel
luglio del 1969, all’Apollo 17, nel dicembre del 1972, i mucchi di spazzatura
lasciati dall’Homo sapiens sono andati ingrossandosi, come abbiamo visto.
Esattamente come fa la scimmia, che orina e defeca per marcare il territorio, i
dodici uomini che hanno calpestato il suolo lunare, tutti americani, hanno
sporcato, insudiciato e insozzato con le loro tracce un luogo magico, mitico,
spirituale e poetico. Urina, escrementi e vomito, come abbiamo appena letto. E
poi naturalmente troviamo anche le tracce delle ruote del veicolo lunare, e il
veicolo stesso, abbandonato come se fosse dallo sfasciacarrozze – un’automobile
come prova del genio della scimmia evoluta…
Oltre che dalle secrezioni corporee degli astronauti, il suolo lunare è stato
infangato e inquinato dalle loro secrezioni mentali, spirituali e intellettuali.
Lasciamo per un attimo da parte le ceneri del morto, la Bibbia, e le palline da
golf, tutte cose che, in verità, ci raccontano molto di quello che occupa la psiche
di un americano. Focalizziamoci invece sulla foto.
C’è in effetti, abbandonata, anche una foto di famiglia dell’astronauta Charles
Duke, che faceva parte della missione Apollo 16 nell’aprile del 1972.
Ottantasettenne nato nel 1935 e ancora vivente al momento in cui sto scrivendo
(solstizio d’estate del 2022), ex militare di carriera, è stato l’uomo più giovane a
camminare sulla Luna. Per ironia della storia, quando ha posato il piede sul
suolo lunare, è stato sull’altopiano… Descartes. È lì che ha lasciato una foto a
colori della propria famiglia, avvolta in una confezione di plastica, su cui lui
stesso è ritratto con la moglie e i due figli, incravattato al pari del bambino più
grande. C’è anche un testo che accompagna questo scarto abbandonato: «Questa
è la famiglia dell’astronauta Duke, venuto dal pianeta Terra, e atterrato sulla
Luna il 20 aprile del 1972». Non sappiamo se abbia lasciato anche il numero di
telefono o l’indirizzo postale. O la mail.
Sulla Luna, ha anche cercato di battere il record di salto in alto, riuscendo a
toccare l’altezza di «circa 0,81 m», come viene dottamente e senza ironia
ricordato sull’enciclopedia-universale-multilingue-partecipativa, precisando
persino il centimetro: è un exploit, di quelli che solo gli americani sono capaci di
portare a termine. L’unica cosa che non aveva previsto era che, non essendo la
forza di gravità la stessa della Terra, sarebbe tutto finito con un ruzzolone: infatti
perde l’equilibrio, cade di schiena e danneggia il dispositivo di sopravvivenza.
La pompa dell’ossigeno, per un attimo, si ferma… poi però riparte! La tuta si
sarebbe potuta strappare, il dispositivo di sopravvivenza rompersi e la pompa
non ripartire più; avrebbe così finito per infrangere un altro record yankee,
quello del primo morto sulla Luna. Non è toccato a lui. Peccato.
Tornato sulla Terra, Duke si dedica alla distribuzione della birra e alla vendita
di case. È un cristiano evangelico, e crede alla rigenerazione. Probabilmente è
per questo motivo che, nel 2012, l’Università di Clemson gli ha conferito la
laurea honoris causa in… filosofia.
È anche successo che questo militare abbia scritto la prefazione del libro che
sta ora appoggiato sulla mia scrivania. Qui afferma: «Da allora, mi sento
ambasciatore di un mondo nuovo». E purtroppo ha ragione…

Possiamo apprezzare, come capita a me, la lezione dei calendari lunari degli
uomini preistorici. Si tratta di un altro atteggiamento nei confronti della Luna.
Devo precisare che è quello che incontra le mie simpatie?
Al Museo Nazionale dell’Aria e dello Spazio di Washington, vedere la
capsula Apollo che ha riportato sulla Terra i primi uomini che hanno camminato
sulla Luna mi ha emozionato. Ho avuto l’impressione di trovarmi in presenza del
corrispettivo di una delle caravelle di Cristoforo Colombo, ai suoi tempi in
viaggio per il Nuovo Mondo, ora invece in viaggio verso il mondo infinito che ci
si apre davanti: quello dell’inevitabile esplorazione del sistema solare e di molte
altre e più stupefacenti odissee interstellari. L’estinzione del Sole è una cosa già
scritta, sono gli astrofisici a insegnarcelo, però gli uomini non moriranno bruciati
dai suoi raggi sempre più incandescenti, perché si sposteranno prima per
raggiungere gli esopianeti. Ovviamente.
Ecco tornare l’orda primitiva di cui ci ha parlato Darwin nell’Origine
dell’uomo quando spiegava l’evoluzione della nostra umanità: l’uomo è partito
da pochi esemplari, a quanto pare disparati in natura, per arrivare a diffondersi a
miliardi. Sono questi miliardi che s’invagineranno in un pugno di umanoidi, i
quali avranno preliminarmente organizzato il corpo dell’uomo e la sua anima
ormai digitale in modo da riuscire a sopravvivere in ambienti ancora più ostili
rispetto a quello delle origini. Conosciamo la linea che porta dal Sahelanthropus
all’Homo sapiens passando dall’Homo abilis, dall’Homo ergaster, dall’Homo
erectus, dal neandertaliano e dal denisoviano. L’Homo sapiens sta passando il
testimone a un Homo ancora senza nome. Sarà, con tutta evidenza, un Homo
cyber.
Questo libro, Anima, propone di fare la storia dell’Homo sapiens attraverso
quella della sua anima.
Parte prima
COSTRUIRE L’ANIMA
Sotto il segno del serpente

Dove assistiamo alla morte del serpente egizio Apophis, ucciso con un coltello da un gatto.
Dove scopriamo un serpente che simboleggia il male già presente in un paradiso in cui teoricamente il male
non esiste ancora.
Dove sorprendiamo l’anima di Plotino che scompare in forma di serpente sotto il letto.
Dove vediamo san Paolo di notte, a Malta, accanto a un fuoco, morso da una vipera senza che il veleno lo
uccida.
Dove constatiamo che sant’Antonio e altri monaci del deserto riuscivano a mettere in fuga dei serpenti
facendo il segno della croce.
Dove impariamo grazie a sant’Agostino che il serpente sa benissimo come parlare alla prima donna.
Dove incontriamo alcuni gnostici licenziosi, chiamati ofiti o perati, che al serpente dedicano un culto vero e
proprio.
Capitolo primo
Anticorpi, non-corpi e controcorpi
Smaterializzare il corpo

In una vetrina di un oscuro museo perso in mezzo alla campagna


dell’Azerbaigian, troviamo esposti parecchi calendari lunari, teoricamente datati
all’epoca preistorica, incisi su ossa animali. Questi calendari testimoniano
l’intimo legame esistente tra l’astro lunare e l’uomo, un legame antico quanto la
stessa umanità. Senza dover per forza condividere tutte quante le ipotesi
dell’archeoastronomia, che in realtà tende a risolvere qualsiasi questione
riguardante la preistoria basandosi sul cielo di oggi e ancora più fragilmente su
costellazioni zodiacali che sono solo convenzioni tardive, trovo comunque
seducenti un certo numero di ipotesi che partono dall’idea che il pensiero sia
consustanziale all’uomo e non al linguaggio. Basta osservare come vive un
bambino prima che cominci a parlare, nei suoi primi due o tre anni di vita: solo
gli sciocchi, i lacaniani e gli altri strutturalisti possono arrivare a pensare che non
siano, e che non pensino. Noi non siamo strutturati dal linguaggio ma dalla
percezione, dalla sensazione e dall’emozione. Il linguaggio arriva dopo. Nelle
persone mute non arriva mai, eppure non sono per questo meno uomini. Sento,
quindi sono. Il fatto di pensare arriva solo in seguito, e, a quel punto, se uno è in
grado di sentire, non ha nemmeno più bisogno di pensare…
Il pensatore di Rodin è un pensatore di città. Pensa nudo e libero di fronte a sé
stesso, però è come seduto su una sedia che si trasforma in roccia. Ha la mano
rovesciata – un gesto che anatomicamente si produce di rado, perché è doloroso
per il polso, impossibile da tenere a lungo e costringe a fare pensieri brevi – e il
mento appoggiato sul dorso della mano destra. Dà l’impressione che stia per
cadere da un momento all’altro dalla sedia, trasportato dal peso del proprio
cervello o dei propri pensieri, una delle due. Guarda per terra, come se quello
che sta cercando si trovasse lì. È seduto da parecchio tempo, ma non sembra aver
trovato granché. È ovvio: che cosa vuoi trovare da pensare in quella posizione?
In compenso, m’immagino il pensatore di campagna, o meglio il pensatore
della natura originaria: ritto in piedi, con la testa rivolta in alto verso il cielo, lo
sguardo girato verso la Via Lattea, e i piedi ben saldi, anzi radicati al suolo. Non
è nudo come un verme seduto sulla sua roccia, ma coperto dalle pelli degli
animali che lui stesso e i suoi compagni hanno cacciato, lavorate e cucite dalle
donne rimaste al focolare assieme ai bambini.
Non guarda per terra, dove vedrà solo le sue stesse tracce, oppure l’erba e il
terreno che ha calpestato, oppure ancora i resti dei pasti e i rifiuti degli animali
già addomesticati; osserva invece il cielo, dove le cose che succedono sono
sempre tantissime. La corsa del Sole nell’arco di una giornata, per esempio, o di
un anno intero. Oppure i movimenti della Luna, e la sua forma, se è crescente o
calante, se è luminosa o se è chiara, e poi le sue macchie, ancora tutte da
spiegare. Il fatto di osservarla, sempre che non sia un’operazione saltuaria e
avvenga invece costantemente e su lunghi periodi, gli permette di comprendere
l’esistenza di un ordine, che poi si scopre anche essere l’etimologia dello stesso
termine «cosmo».
E la comprende perché ha constatato, perché ha visto (senza nessun bisogno di
linguaggio) che le notti sono più lunghe in un certo periodo e più brevi in un
altro; che sugli alberi prima crescono delle morbide gemme, dei fiori profumati e
dei frutti saporiti, e poi questi stessi frutti marciscono e cadono a terra; e che più
tardi anche le foglie cadono a terra, dopo aver cambiato colore ed essere passate
da un verde vivo e tenero a uno più screziato, e successivamente a un altro
ancora più bruno, per poi alla fine seccare.
Conoscere i movimenti che la Luna e il Sole compiono nel cielo significa
padroneggiare il tempo e, di conseguenza, controllare le condizioni della propria
vita e della propria sopravvivenza. Questi calendari permettono a tutti gli effetti
di sapere quando migreranno gli animali che ci sfameranno; quando i salmoni
risaliranno la corrente; quando le renne si muoveranno per raggiungere altre
terre; in che momento possiamo seminare, piantare o raccogliere; in che periodo
possiamo ricavare roba da mangiare, o temere una carestia; quando possiamo
andare a raccogliere le bacche e i frutti selvatici; quali sono i periodi di
riproduzione, gestazione e nascita degli animali, e quindi quando potremo avere
un po’ di latte e vari altri prodotti fermentati; in che stagione l’orso si risveglia,
esce dalla tana e va a sua volta in giro a cercarsi da mangiare; quando sarà più
facile cacciare determinate prede, e quando invece dovremo stare alla larga da
certi altri predatori; in che momento dell’anno il fiume è in piena o in secca, e
così via. La Luna e il Sole possono aiutarci a sapere tutte queste cose, e quindi
possono aiutarci a sapere in senso assoluto.
Questo sapere pagano ci permette di vivere in armonia con una natura essa
stessa inclusa all’interno di un cosmo. Il concetto di natura è stato inventato da
persone che hanno dimenticato l’esistenza del cosmo. Solo dei mentecatti si
possono credere tanto sapienti per il semplice fatto che s’illudono di sapere come
invocarla, dimenticando invece che essa non vuole ma è a sua volta voluta da
tutto ciò al cui interno si trova inserita, cioè le miriadi dei mondi plurali. Cieca,
essa subisce la legge dei pluriversi.
Il riscaldamento climatico è solo il lieve prurito egocentrico di una Terra
antropomorfizzata, di un pianeta offeso che si vendica della cattiveria degli
uomini. La Terra procede seguendo cicli cosmici che l’uomo, con tutto il suo
camminare sulla Luna, dimostra di conoscere pochissimo. La loro alternanza è in
realtà un fatto estremamente testimoniato: nel corso dei milioni di anni in cui
l’uomo non esisteva ancora, i periodi di riscaldamento e quelli di raffreddamento
si sono avvicendati senza sosta. Ci siamo davvero scordati delle glaciazioni?
È invece proprio questo, probabilmente, il sapere dei primi uomini: la
regolarità dell’eterno ritorno dell’identico, la verità del carattere ciclico delle
cose, la concezione del tempo come circolo che rassicura, e non come freccia
che inquieta. All’interno di questa visione monista delle cose, l’uomo non si
trova nel mondo separato dal mondo, ma esterno al mondo, perché lui e il mondo
costituiscono le parti di un identico tutto, esattamente come l’uro e il bisonte,
come la renna e il salmone, come la quercia e la felce, tutti esseri sottomessi alla
legge dell’eterno ritorno dell’identico. L’«Io» e il «Me» arrivano solo
successivamente, introdotti dal dualismo che accompagna il monoteismo.
All’epoca dei calendari lunari e solari incisi sulle corna delle renne, non esistono
dèi, ma solo uno spirito che si diffonde per ogni dove, e da questo spirito diffuso
derivano l’animismo e il totemismo, possibili chiavi per decifrare le pitture
parietali.
A quei tempi, non si dà un’anima immateriale in un corpo materiale: tutto è
materia, e quindi anche lo spirito è, con ogni probabilità, materia. A meno di non
provare a sostenere, e forse meglio, il contrario, e cioè che tutto è spirito, e che
anche la materia è spirito. Una materia spirituale, o uno spirito materiale, però
sempre sotto forma di respiro, che corrisponde a tutto quello che nella vita vuole
la vita, e nella vita non si trova più quando la morte sopraggiunge.
Di fronte al cadavere, non è difficile immaginarci lo stupore dell’uomo
preistorico confrontato all’immobilità, lì dove fino a poco tempo prima la vita
era tutta un flusso, tutta un dinamismo, tutta sguardo e parola, gesto e
movimento. Il morto guardava, e ora non vede più; parlava, e ora nessun suono
gli esce più dalla bocca; girava la testa e lo sguardo per osservare, e ora la sua
testa è rigida, i suoi occhi spalancati, fissi e persi su un punto cieco; si muoveva
ed era flessibile, e ora è rigido e statico; era caldo e la sua carne era malleabile,
ora è freddo e ghiacciato come il gelo. Tutto quello che prima animava ora non
c’è più, tutto quello che rendeva vivo se n’è andato via; però tutto quello che se
n’è andato è comunque in qualche modo rimasto, e si trova lì, da qualche parte,
da qualche altra parte, nel respiro degli alberi, nel rumore che fa il torrente, nel
crepitare del fuoco, nel canto degli uccelli, nei versi che gli animali fanno di
notte. La morte non è morte, è vita che continua da qualche altra parte, e in
maniera diversa. Come Spinoza nella sua Etica (V: 23), anche questi uomini
avrebbero potuto dire: «Sentiamo e sperimentiamo che siamo eterni». Perché
erano tutti già spinoziani prima ancora che Spinoza venisse al mondo.
Esattamente come i lupi, le felci e i ciliegi, che nascono, vivono, crescono,
decrescono, invecchiano, muoiono e scompaiono, anche il compagno o la
compagna che abbiamo al nostro fianco davanti al focolare o nella caverna vive,
cresce, decresce, muore e scompare. Finché un altro lupo, un’altra felce o un
altro ciliegio non compaiono di nuovo, per nascere, vivere, e così via. Quindi
basta guardare il cosmo e obbedirgli. Lo sciamano, il prete, il mago e l’anziano
portano con sé la memoria di questo sapere. Annunciano il ritorno dell’orso e il
passaggio degli uccelli, i salmoni che risalgono la corrente e il momento del
parto dell’uro, e tutto s’inserisce in un movimento che è eterno.
Questa sapienza si trova scritta nel cielo, da dove le stelle mandano i loro
bagliori: alcune s’illuminano, altre si spengono, ma tutte si muovono all’interno
della Via Lattea, e persistono e durano, veri e propri modelli ontologici ed
esistenziali. La stella del pastore è il punto fisso attorno al quale gira l’universo.
Saperlo ed esserne coscienti è qualcosa che appartiene alla saggezza. Non c’è né
inferno né paradiso, si sta solo sulla Terra. E la Luna sta sempre dove deve stare.
Non è ancora stata sporcata dai rifiuti degli uomini.

Non sono uno di quelli che pensano che un popolo senza scrittura sia per questo
stesso motivo fuori dalla storia, e appartenga a quella che chiamiamo pre-istoria.
La preistoria non è quello che precede la storia, ma è la prima storia, quella di
cui rimangono solo alcune tracce enigmatiche. Di questo, sono convinto.
Occorre saper ascoltare per intendere il silenzio di quelle tracce, e questo
silenzio racconta molto più di quanto racconterebbe qualsiasi frivolo cicaleccio.
Il silenzio produce un rumore, una specie di fuga d’aria, un piccolo getto lineare.
Per millenni, alcuni esseri umani sono riusciti a riconoscere il rumore di
questo zampillo, attraverso un aldilà dei propri cinque sensi oggi perduto (e noi
chiamiamo «istinto» quanto rimane di questa capacità). La materia era
consustanziale all’anima, e l’anima era consustanziale alla materia. Una sola
sostanza diversamente modificata: carne di pesce, quindi anima di pesce; scorza
di acacia, quindi anima di acacia.
Al polo nord, ho visto degli inuit che, dopo aver pescato un salmone, e dopo
averlo tirato fuori dall’acqua e appoggiato sulla spiaggia di ciottoli, gli
chiedevano perdono per averlo strappato in quel modo al suo mondo, lo
ringraziavano per l’offerta vitale della carne, e poi lo tagliavano e se lo
mangiavano crudo. Li ho visti fare la stessa cosa con una foca, con il loro
sciamano che si divorava l’occhio della foca tagliato in due. È la vita che compie
il proprio ciclo: il salmone morto alimenta i vivi, e a loro volta, un giorno, i vivi
moriranno e andranno ad alimentare il grande tutto. Noi stiamo all’interno di
questo ciclo: questo ciclo è tutto, e noi non siamo niente.

Comincio qui la storia dell’anima, per come la raccontano le tracce che ci


rimangono. Canne spezzate e papiri aperti, che offrono la superficie su cui gli
scribi tracciano con il calamo segni che attraverseranno quaranta secoli. La
nostra civiltà giudaico-cristiana deriva in parte dalla civiltà greco-romana che, a
sua volta, discende in parte dalla civiltà egizia, che, a sua volta… e così via.
Permettetemi un inciso di natura biografica. Quando sono andato in Cirenaica
sulle tracce di Aristippo di Cirene, l’inventore dell’edonismo filosofico, mi sono
ritrovato sull’agorà dell’antica città libica a camminare in mezzo alle rovine,
sorvegliato dagli sbirri della polizia politica di Gheddafi, che vedeva spie
dappertutto. Il gestore del sito mi aveva aperto il suo ufficio con i vetri rotti, e mi
aveva mostrato una biblioteca di libri ricoperti di polvere e sporcizia. Poi, dopo
aver vagamente scambiato con me qualche battuta, senza una vera e propria
lingua comune, aveva finito per accettare l’idea che in effetti potevo davvero
aver fatto tutto quel viaggio verso un paese allora colpito dall’embargo e su cui
non atterrava nessun aereo (ero in effetti passato dalla Tunisia e avevo raggiunto
Cirene in macchina seguendo la costa mediterranea e facendomi centinaia di
chilometri), con il solo scopo, bizzarro ai suoi occhi, di ricalcare con i miei passi
quelli di Aristippo, di cui lui non sapeva nulla.
La strada stava sul livello del mare, ed era un lungo nastro diritto; ogni due o
trecento chilometri c’era un cartello che indicava un bivio, ovviamente in lingua
araba… Poi, arrivando in Cirenaica, la strada cominciava a salire, perché, in
effetti, la regione è un promontorio sulla costa, una specie di piccola montagna
che esce dalla terra. Questa sporgenza geomorfologica accumula la pioggia
prodotta dall’incontro del Mar Mediterraneo con la terra africana. E la pioggia
spiegava perché la Cirenaica era diventata il granaio della Grecia e come le
ricchezze così accumulate fossero riuscite a produrre la filosofia edonista e il suo
fondatore… La geologia, mi pareva allora di aver capito, offre una geografia che
a sua volta produce una storia, che a sua volta crea una filosofia, una metafisica,
addirittura una spiritualità.
Quest’uomo, che custodiva quel sito antico e sublime con lo stesso entusiasmo
che avrebbe avuto se si fosse trattato di uno sfasciacarrozze, ha pronunciato
qualche frase che non ho ovviamente capito, mi ha fatto segno di seguirlo e mi
ha portato davanti alle porte di un immenso hangar. Ha aperto l’edificio, che
sembrava pronto a crollare da un momento all’altro. E lì, ho scoperto un enorme
museo fatto di pezzi posati direttamente a terra: capolavori e pietre appena
intagliate o ancora allo stato grezzo, statue complete e semplici frammenti di
monumenti, volti di pietra che mi guardavano e gambe abbandonate; cumuli di
sassi e corpi di marmo mutilati: tutto giaceva come perso dentro questo cafarnao
smisurato. Ho camminato attraverso resti che avrebbero potuto riempire parecchi
musei. C’era per esempio un’impressionante statua di Artemide, la dea della
natura, con, infilate sopra il petto, le sacche magiche di cuoio d’Anatolia, ma
anche, e soprattutto, cosa che turbava molto di più al primo approccio, una
mummia dentro il suo sarcofago…
La Cirenaica era per me la Grecia, al massimo la Grecia romanizzata. E il
sarcofago rappresentava invece un altro mondo, un mondo assolutamente
separato, quello dell’Egitto… Poi ho realizzato che da Djerba, dove l’aereo era
atterrato, fino a Cirene, si passava attraverso i magnifici siti di Leptis Magna e di
Apollonia, e si passava da Sirte e dal suo deserto, e, proseguendo il tracciato
stradale che filava da ovest a est, si arrivava direttamente in Alto Egitto, ad
Alessandria.
E quando gli uomini circolano, assieme a loro viaggiano le loro idee. Se il
grano, la lana, l’olio, il vino e il bestiame prendono le vie commerciali, anche i
pensieri di quelli che trasportano questi prodotti tendono a diffondersi in mezzo
a tutti quelli che incontrano. È così che il pensiero greco nasce, almeno in parte,
a partire da quello che l’ha preceduto, cioè il pensiero egizio.
Ed ecco perché non è privo di interesse leggere sotto la piuma di Diogene
Laerzio che Pitagora di Samo «fu in Egitto»1 e che, secondo Isocrate, nel suo
Busiride, «andato in Egitto e fattosi loro discepolo, portò in Grecia per primo lo
studio di ogni genere di filosofia».2 O che, ancora in Egitto, Pitagora ricevette
l’insegnamento dei sacerdoti, e che a Babilonia venne iniziato ai misteri barbari.
Addirittura, secondo Porfirio, «egli apprese degli Egiziani, dai Caldei e dai
Fenici i principi delle scienze dette matematiche: ché fin dai tempi antichi gli
Egiziani si erano occupati di geometria, i Fenici della scienza relativa ai numeri
e al calcolo, i Caldei dell’osservazione degli astri. Quanto poi al culto degli dèi e
alle altre maniere di comportarsi nella vita, dicono che li ascoltò e li ricevette dai
Magi».3
L’anima immateriale, immortale, per come la pensano Pitagora e, dopo di lui,
Platone, e poi i cristiani, è in realtà un’idea nata in Egitto. È quello che sembra
confermare Erodoto nelle sue Storie, quando parla dei costumi di questo popolo:
«Gli egiziani sono stati i primi a esporre questa teoria, che l’anima dell’uomo è
immortale».4

A cosa assomigliava l’anima secondo gli egiziani incontrati dal filosofo di


Samo?
Nel corpus dei testi egizi, quantomeno in quelli che sono giunti fino a noi,
parecchi passaggi potrebbero essere stati scritti dai primi cristiani: dagli gnostici
o dagli esseni, dai sabbatiani o dagli ofiti, o dai valentiniani, e così via. Proprio
come sarebbe difficile per gli archeologi che, dopo una guerra atomica,
volessero ricostruire il cristianesimo partendo unicamente dal Vangelo di
Giovanni, o da un’Annunciazione del Beato Angelico, o dalle rovine parigine di
Notre-Dame, per cercare di capire cosa fosse la transustanziazione, cosa
significasse mangiare il corpo di Cristo, e poi anche per afferrare il mistero della
Santa Trinità, il Filioque, la resurrezione dei morti in forma di corpo glorioso il
giorno del Giudizio universale; esattamente allo stesso modo è per noi difficile
farci un’idea dell’episteme egiziana a proposito dell’anima partendo unicamente
dai testi spesso poetici e lirici che ci rimangono.
Ciò nonostante, non ci si trova completamente spaesati in un mondo in cui
esiste un quaggiù con i suoi uomini e un lassù con i suoi dèi: un mondo spaziale
e temporale di fronte all’universo atemporale e illimitato dell’intelligenza divina;
un mondo in cui la morte permette il passaggio tra questi due mondi; in cui
l’anima del defunto «assurge in cielo», come recita la formula usuale; in cui il
traghettatore conduce il morto verso la propria vita eterna che si trova dall’altra
parte del cielo, nella parte orientale, da dove rinascerà – proprio come per i
cristiani; un mondo in cui si passa in cielo muovendosi da Occidente, e si
compie tutto il percorso di purificazione che porta verso Levante; in cui si riesce
a parlare delle quattro corna di un toro e dei quattro punti cardinali (è in uno
degli Inni di salvezza) – e di cos’altro si tratta se non del tetramorfo cristiano? un
mondo in cui la carne non muore e in cui la «vera giovinetta» assomiglia
enormemente alla Vergine, priva com’è di un padre e di una madre che l’abbiano
messa al mondo in maniera normale e naturale; in cui il morto che passa
nell’altro mondo si trasforma in qualcosa di divino; in cui il corpo del morto che
vive nell’aldilà possiede ossa di bronzo e membra d’oro, cioè si trova a essere
costituito da materie preziose e inalterabili; un mondo in cui si insegna che
«Vivrai come gli astri viventi nella loro stagione di vita», come sta scritto in uno
dei Testi delle Piramidi, il Defunto imperituro; in cui, come nel Vangelo di
Giovanni, il pensiero è anteriore alla materia – e di cosa stiamo parlando se non
della preminenza del Logos e del Verbo su ogni altra elemento? un mondo in cui
ci sono due città che si fronteggiano, una Eliopoli terrestre e una Eliopoli celeste
che funziona da specchio della prima, e che prefigurano la Città di Dio e la Città
degli Uomini di sant’Agostino; un mondo in cui, come sta scritto in un altro
scritto egiziano, la Teodicea ovvero l’origine del male, Dio dice: «Ho fatto gli
uomini uguali, e non ho ordinato loro di commettere crimini, è la loro coscienza
che ha distorto quanto ho detto», il che fa subito pensare al peccato originale,
tanto più che, nel luogo in cui gli uomini scelgono il Male contro il Bene, ad
accompagnare il creatore c’è sempre un serpente, che qui si chiama Apophis, ed
esiste persino una preghiera per Ricacciare Apophis – e il Padre nostro non è
forse un’invocazione a Dio perché ci liberi dal male e non ci sottoponga alla
tentazione? un mondo in cui, come si afferma nel Defunto beato, un altro dei
Testi delle Piramidi, il morto riposa, rinnovato, ringiovanito e tramutatosi in
spirito, e si ricostruisce facendosi portare le membra staccate dal suo proprio
corpo per vivere un’altra vita, questa volta eterna, in cui può sedersi, alzarsi, e
scuotersi la polvere di dosso – ennesima variazione sul tema del corpo glorioso;
un mondo in cui l’anima del morto appare davanti a Osiride, che la pesa, la
giudica, e ne esamina le colpe commesse, e in cui l’anima colpevole si trova
precipitata, un inferno di cui assai poco sappiamo, mentre le anime salvate si
trasformano in altrettanti nuovi Osiride.

Gli egizi hanno le loro parole per indicare l’anima (Ba), lo spirito (Akh),
l’eternità (Neheh). Si sono costruiti tutta una mitologia in cui, per esempio, gli
dèi possono nascere da rapporti incestuosi: Iside che si fa mettere incinta dal
fratello, cioè il re Osiride; oppure Horus che sodomizza Seth, perché è un
serpente; e poi tante altre storie e favole che hanno come unico scopo quello di
tenere il popolo soggiogato al nocciolo duro di una religione, vale a dire
l’impossibilità di accettare la morte. In presenza del cadavere di un essere caro,
la reazione naturale consiste nell’inventarsi una vita per il morto dopo la sua
scomparsa, in modo da riuscire a sopravvivere al suo decesso. È questa la
finalità ultima di tutte le religioni: inventare una vita dopo la vita allo scopo di
dare la morte alla morte.
Ma parlare di religione egizia significa spesso dimenticare che si è sviluppata
lungo un arco temporale di più di tremila anni e che, per forza di cose, ha
assunto forme diverse nel corso dei secoli, e anche in relazione allo spazio, a
seconda delle regioni in cui si è sviluppata. Per il resto, se Ba può essere tradotto
con «anima», occorre comunque scristianizzare la parola per cercare di percepire
la natura di una forza che non ha nulla a che vedere con la forma che le darà
l’Occidente cristiano nel corso dei secoli successivi.
In quello che siamo soliti chiamare il Libro dei morti, altre volte indicato con il
titolo di Libro per uscire nel giorno, scritto un millennio e mezzo prima di
Cristo, ritroviamo parecchi elementi che, attraverso la Grecia, sono finiti ad
alimentare la civiltà giudaico-cristiana. Troviamo per esempio un dio, Thot,
autore del testo nel momento stesso in cui sta creando il mondo; si tratta di un
dio che assomma in sé tutti gli attributi della triade divina: Ptah, Sokaris e
Osiride; quest’ultimo, Osiride, è di origine divina, ma vive sulla Terra in un
corpo mortale; viene poi ucciso, smembrato, e finisce per resuscitare dentro un
altro corpo, accedendo all’immortalità, diventando giudice nella Sala delle due
Verità, e partecipando all’operazione di pesatura dei cuori sulla bilancia. Questo
per dire che chi vive un’esistenza conforme agli insegnamenti divini conosce
l’immortalità nel paradiso indicato con il nome di Campi dei giunchi, o Campi
della felicità – tutta una geografia assimilabile a quella edenica.
Come non pensare alla coppia formata da Dio creatore del mondo e Gesù vivo
in un corpo umano, che finisce a sua volta per morire e resuscitare in una specie
di immortale corpo glorioso? Questo primo schema (la divinità trinitaria, la
nascita divina, la morte violenta, la rinascita in un corpo che sfugge alla morte e
l’accesso alla vita eterna) si rivela archetipale per la futura religione cristiana. E
cosa pensare del percorso ontologico compiuto dal morto, che gli permette, nel
caso di una vita retta, di guadagnare il proprio paradiso dopo un giudizio che
possiamo tranquillamente assimilare all’operazione della pesatura? Nel Libro dei
morti, il defunto ha «dato pane all’affamato, acqua all’assetato, vesti
all’ignudo»;5 nel Vangelo di Matteo, Gesù si rivolge ai giusti con queste parole:
«ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da
bere, ero […] nudo e mi avete vestito» (Mt 25, 35-36).
Questo stesso Libro dei morti offre un secondo schema, e cioè quello del
corpo duale su cui l’Occidente andrà poi a costruire tutto il proprio edificio
ontologico. Troviamo il Corpo Materiale, Khat, sottoposto al ciclo di
generazione e corruzione, e che solo il processo di mummificazione può salvare;
il Doppio, Ka, entità astratta che può contare sugli attributi dell’uomo cui rimane
attaccato persino quando quest’ultimo è stato trasformato in mummia e si trova
nella tomba, da dove può entrare e uscire a suo piacimento; l’Anima, Ba, legata
alla Ka, che accompagna nella tomba e che può assumere una forma materiale o
immateriale, a seconda; il Cuore, Ib, associato all’anima, fonte della vita animale
ma anche del bene e del male nell’uomo; l’Ombra, Khaibit, anch’essa associata
all’anima, che può andare e venire a proprio piacimento; lo Spirito, Kus, parte
raggiante e translucida dell’anima umana che risiede nel suo Corpo Spirituale, il
Sahu; la Potenza, Sekhem, incarnazione della forza vitale dell’uomo. Sono,
questi, gli elementi che animano il corpo materiale e il corpo spirituale, con il
primo che deve sottoporsi ai trattamenti della mummificazione per permettere al
secondo di sopravvivere.
Facciamo notare che il Libro dei morti propone un terzo schema, destinato ad
avere lo sviluppo biblico che sappiamo: quello del serpente che incarna il male.
Il serpente ha un nome, Apophis, ed è nemico di Ra, il Sole. Quindi, da una parte
abbiamo il serpente malefico, e dall’altra il Sole benefico. Da una parte, tenebre
e negatività; e dall’altra, luce e positività. Apophis è il simbolo delle forze del
male, della notte, del caos e dell’oscurità, che si oppongono a quelle del bene.
Ogni giorno Apophis si attacca alla barca di Ra sull’oceano primordiale Nun per
cercare di annientare l’ordine divino e mettere fine alla corsa del Sole. Ogni
giorno, però, il gatto di Ra, personificazione della dea Bastet, lo uccide con un
coltello. Ogni volta che sorge il Sole, quindi, è una vittoria di Ra su Apophis: la
luce vince sempre sull’oscurità.
In ultimo, la Supplica a Osiride ci offre un quarto schema che si rivelerà utile
alla nostra civiltà, con una morale che anticipa la filosofia greco-romana, vale a
dire platonica, aristotelica, cinica, stoica, epicurea, pirroniana, e che prefigura
persino, sul terreno religioso, il monoteismo giudaico, quello della civiltà
giudaico-cristiana e quello del cristianesimo, invitando tutti quanti a praticare il
bene e ad allontanarsi dal male, e a fare tutto questo per ottenere la vita dopo la
morte, e la felicità eterna in un corpo sottratto e salvato da ogni ciclo di
generazione e corruzione grazie alla purificazione attraverso l’ascesi esistenziale.
Voglio citare un po’ più per esteso questo testo per dimostrare come, un
millennio e mezzo prima della nascita di Gesù, un’etica e una morale universali
esistevano già in Egitto, un’etica e una morale che si ritroveranno nel
cristianesimo romano. Giudichiamo direttamente dalle parole:
Io sono venuto a te, ti ho portato la giustizia, ho respinto per te l’iniquità. // (Prima dichiarazione
di innocenza) / Non ho commesso iniquità contro gli uomini, / non ho maltrattato le bestie, / non
ho commesso iniquità nella Sede di Matt, / non ho (voluto) conoscere ciò che ancora non c’era, /
non ho tollerato di vedere il male, / non ho cominciato nessuna giornata / chiedendo un donativo
da quelli che dovevano lavorare per me, / il mio nome non è arrivato al Capitano della Barca, /
non ho bestemmiato dio, / non ho impoverito un misero, / non ho fatto ciò che è tabù divino, / non
ho danneggiato un servo presso il suo padrone, / non ho avvelenato, / non ho fatto piangere, / non
ho ucciso, / non ho dato ordine di assassinio, / non ho causato pena a nessuno, / non ho diminuito
le rendite alimentari nei templi, / non ho sciupato i pani degli dei, / non ho rubato le gallette dei
glorificati, / non sono stato pederasta, / non ho compiuto atto impuro nel luogo santo del dio della
mia città, / non ho aggiunto e non ho tolto allo staio, / non ho alterato la misura dell’arura, / non
ho barato di una mezza arura, / non ho aggiunto al peso della bilancia, / non ho falsificato il peso,
/ non ho tolto il latte dalla bocca degli infanti, / non ho privato il bestiame minuto della sua erba, /
non ho catturato gli uccelli dei boschetti degli dei, / non ho pescato i pesci dei loro stagni, / non
ho fatto deviare l’acqua nella sua stagione, / non ho costruito una diga per (deviare) l’acqua
corrente, / non ho spinto un fuoco nel suo momento (di ardere), / non ho trascurato i giorni di
offerta di pezzi di carne, / non ho arrestato il bestiame dei beni del dio, / non ho impedito dio nella
sua uscita (processionale). / Io sono puro.6

Questa lunga preghiera, che mi si scuserà di aver citato senza moderazione, la


voglio riassumere in un’unica frase che contiene tutta l’etica e tutta la morale del
mondo: «non ho fatto piangere».

Ci possiamo immaginare quanto Pitagora abbia potuto imparare da questi


insegnamenti, i più antichi dei quali lo precedevano di duemila anni: una potenza
dell’essere esiste, e questa potenza dell’essere ignora la morte e, una volta
liberata dal ciclo dell’incarnazione, accede a uno statuto intelligibile in un
universo in cui la vita continua, ma in cui il tempo viene sostituito dall’eternità,
la morte dall’immortalità, la carne dall’anima e il quaggiù dal lassù.
Per quello che ci insegnano i testi (non i suoi, che non ci sono giunti, ma i
commenti redatti da altri), Pitagora pensava che l’anima fosse il doppio del
corpo visibile e delle sue energie, e che si trovasse rinchiusa in quest’ultimo
dopo la sua caduta dal cielo. La tematica del corpo come tomba dell’anima la
ritroveremo in Platone, ma trova la sua origine proprio qui, in Pitagora. L’anima
è immortale, sempre in movimento e d’origine sovraterrestre. Fintanto che
l’uomo è vivo, l’anima si trova prigioniera nel corpo; quando muore, se ne
separa, si purifica per un certo periodo nell’Ade e poi torna nel mondo superiore,
dove volteggia in mezzo alle altre anime attorno alle persone vive: l’aria è satura
di anime. Psiche significa anche «farfalla»; in altre parole l’aria è il respiro
dell’anima.
Tornata sulla Terra, l’anima deve trovare un corpo in cui reincarnarsi. Il luogo
di questa reincarnazione dipende dalla vita precedentemente condotta dal morto.
Scopo della vita filosofica è di preservare l’anima da qualsiasi contatto che la
possa rendere impura. L’anima è eterna e immortale. E può uscire dalla
maledizione del ciclo delle reincarnazioni diventando sufficientemente pura
grazie agli esercizi spirituali della filosofia, che le insegnano a non aver più
bisogno di cercarsi un posto in mezzo alla carne. Ritroviamo i princìpi induisti e
buddhisti, cioè quelli dei famosi gimnosofisti dell’Antichità.
Il filosofo neoplatonico del II secolo della nostra era, Massimo di Tiro, scrive
in una delle sue Dissertazioni: «Pitagora di Samo per primo tra i Greci ebbe il
coraggio di dire che a morire sarebbe stato il suo corpo, mentre l’anima,
sollevandosi in volo, se ne sarebbe andata via immortale ed esente da vecchiaia;
e anche che ella esisteva prima di giungere qui».7 Se ne ricorderà Plotino nelle
sue Enneadi, quando racconterà di questo metodo per purificare l’essere.
Solo la vita filosofica condotta secondo i princìpi pitagorici, quelli che, nella
Repubblica, Platone indica con l’espressione «modo di vita pitagorico»,8
assicura il percorso di quest’anima verso la propria salvezza. Solo i rituali, il
regime alimentare, i vestiti, la vita comunitaria e la pratica della matematica e
della musica, derivate entrambe dalla scienza delle cifre e dei numeri che dà
conto dell’ordine delle cose, contribuiscono a questa purificazione e permettono
di liberare l’anima dalla carne in cui si trova imprigionata.

Oggi come oggi, è di buon gusto affermare che di Pitagora non si sa niente, che
non ha scritto niente, che per lui il segreto stava tutto nella vita, e che noi lo
conosciamo soltanto attraverso i suoi seguaci più tardi, tutti glossatori, se non
addirittura glossatori di altri glossatori, e poi che è stato sfruttato per tutto,
compreso il peggio, in particolare con l’occultismo. Probabilmente, sostenere
l’impossibilità di affermare qualcosa di positivo sulla sua dottrina è eccessivo,
però permette pur sempre di creare una nicchia in cui il ricercatore universitario
che ha scoperto che non c’è niente da trovare riesce a trasformare in commercio
tutto questo nichilismo.
Evitando il luogo comune che paragona tutto quello che ci resta di Pitagora
alle rovine di un tempio greco impossibile da ricostruire nella sua integrità
iniziale, quella che posso intravedere a partire dagli orfici, filosofi che hanno
probabilmente influenzato il pensatore di Samo, è una linea di forza che arriva
dall’Oriente e alimenta la filosofia greca prima di andare, a sua volta, a
inseminare la filosofia occidentale, e quindi europea.
Quest’opera di fecondazione passa attraverso Platone, e non stupisce affatto
vedere come la nostra civiltà, che da lì discende, abbia fatto di lui e Socrate una
coppia assimilabile a quella che tiene assieme Dio e Gesù. Con Platone,
l’Occidente cristiano si ritrova finalmente a disposizione una filosofia
emblematica. Non sorprende che l’integralità delle trecento opere di Democrito
sia scomparsa e che, al contrario, la quasi integralità dell’opera di Platone, quasi
duemila pagine su carta India, sia sopravvissuta…

È sempre alle Vite e dottrine dei più celebri filosofi che dobbiamo tornare.
Diogene Laerzio ci insegna, in effetti, che la nascita di Platone è avvolta in
un’atmosfera divina: «ad Atene circolava la storia che [il padre] Aristone
avrebbe voluto fare violenza a Perittione, la quale era nell’età opportuna per
l’unione nuziale, ma non vi riuscì. Dopo avere desistito dai tentativi di violenza,
vide l’apparizione di Apollo: e da quel momento egli la lasciò pura dal
congiungimento fino al parto».9 Come descrivere meglio il fatto che anche la
nascita di Platone, come quella di Gesù, è stata miracolosa? Aristone, come
Giuseppe, viene messo da parte perché Perittione, come Maria l’immacolata,
possa concepire senza l’ausilio di un genitore, ma solo grazie all’opera di
Apollo, che assume a sé il ruolo spermatico dello Spirito Santo! Dopodiché,
quale «presocratico» avrebbe osato rivendicare una genealogia più eccelsa?
C’è anche un’altra storia che convalida la tesi della divinità della coppia
Socrate/Platone. Continuiamo a leggere Diogene Laerzio: «Si racconta che
Socrate abbia sognato di tenere sulle ginocchia un piccolo cigno, il quale mise
subito le ali e si levò in volo cantando dolcemente, e che il giorno successivo si
presentò a lui Platone e Socrate abbia dichiarato che il cigno era proprio lui».10
Platone, che, nella vera vita, e non nella mitologia, discende da una famiglia
aristocratica, comincia la propria carriera come lottatore e attore teatrale. Solo un
aneddoto? Non è detto. La verità è che Platone rimane lottatore e attore per tutta
la propria carriera di filosofo e, quando scrive i suoi dialoghi, s’inventa dei
personaggi facili da sconfiggere. Il sofista Gorgia o l’edonista Filebo, che, come
sappiamo, danno entrambi il proprio nome a un dialogo, sono stati creati da
Platone unicamente a questo scopo: fare da avversari su cui poter trionfare in
scioltezza, senza ostacolare la figura di Socrate, che infatti li polverizza.
Facciamo soltanto notare, en passant, che l’idea esposta da Deleuze in Che
cos’è la filosofia?, secondo la quale un filosofo è un creatore di concetti e di
personaggi concettuali, si rivela essere un’idea eminentemente platonica! È, in
effetti, proprio Platone che per primo crea concetti e personaggi concettuali,
destinati peraltro a una certa fama. Il che fa supporre a qualche altro studioso
universitario che, in mezzo a tutto questo teatro, non si riesce mai a sapere dove
si trovi davvero il pensiero del filosofo, e che un pensiero di Platone, o un
platonismo, potrebbero persino non esistere. Siamo di fronte a un altro effetto
del nichilismo epistemologico della nostra epoca – o del desiderio di attirare
l’attenzione escogitando tesi paradossali, che andranno comunque a illuminare
sulle intenzioni di chi le ha elaborate…
Quella che Pitagora e i suoi ottengono è la smaterializzazione del corpo, che
non è più visto come puro e semplice composto di atomi materiali, come
continuano a pensare Leucippo e Democrito, e come più tardi faranno Epicuro,
Lucrezio e tutti gli epicurei, ma un accidente in cui ritroviamo ciò che salva il
corpo e ciò che funziona come anticorpo, come controcorpo, come non-corpo:
un’anima increata, eterna e immortale, una materia immateriale, un’idea più vera
della realtà, un’istanza più certa del tangibile, una finzione che si sostituisce alla
realtà di un corpo concreto e palpabile.
L’invenzione dell’anima immateriale è ciò che permette di costruire la finzione
di una vita dopo la morte. Si tratta in effetti dell’anello di congiunzione che, nel
mondo sensibile, permette di collegare quest’ultimo al mondo intelligibile. Sulla
Terra, l’anima immateriale è un frammento celeste che permette di ritrovarsi
legati a un retromondo. Quaggiù, significa promessa dell’aldilà. Salvare il corpo
dalla morte promettendogli la compagnia degli dèi, o addirittura che diventerà a
sua volta dio sotto forma di anima unita al principio dell’universo.
Capitolo secondo
Scheletro con anima
Sopraffare la materia

Proprio come è esistito un Pitagora e un pitagorismo, è esistito anche un Platone


e un platonismo, persino semplici da identificare. È il Platone e il platonismo in
cui si sono immersi venti secoli di pensiero occidentale. Già da solo, il Fedone,
sottotitolato Dell’anima, fornisce per esempio materiale concettuale per tutta la
psiche europea. Giudichiamo noi stessi.
Siamo nel 399 a.C. e Socrate, condannato a morte, beve la cicuta e muore.
All’evento sono presenti alcuni amici e, paradossalmente, uno degli assenti è
proprio Platone, non sappiamo per quali motivi. È malato, dice Echecrate nel
corso del dialogo; altri pensano che invece stia facendo il suo famoso viaggio in
Egitto.
La scena fa pensare all’Ultima Cena dei Vangeli: c’è un uomo che sta per
morire e confessa ai propri amici in lacrime che non bisogna temere la morte,
perché praticare la filosofia significa occuparsi della purificazione dell’anima,
vale a dire lavorare alla sua separazione dal corpo, e che morire significa
semplicemente avere la consapevolezza di questa separazione. In un certo senso,
per Platone, praticare la filosofia implica, da una parte, il fatto di morire al
mondo mentre si è ancora in vita, allo scopo di nascere a questo stesso mondo
dopo la morte; e, dall’altra, il prendere coscienza della felicità e della beatitudine
dell’anima che si reincarna in senso etimologico, senza più bisogno di tornare a
rivivere in corpi sempre nuovi per ottenere un grado di purificazione sempre più
alto.
Agli amici che ascoltano le sue parole come fossero tanti aforismi enunciati
per l’eternità, Socrate insegna che occorre rimanere sereni, calmi, risoluti e
determinati, quando, come lui, ci si è consacrati per tutta la vita a un genere di
esercizio filosofico che consiste nel non concedere nulla al corpo, alla carne, ai
desideri, alle passioni e alle pulsioni, in modo da riuscire a offrire tutto quanto
all’anima. La filosofia non è un’attività da retori, da sofisti, o da professori, ma
una saggezza esistenziale destinata alla pratica. È una saggezza di tipo
soteriologico, cioè che permette di salvare la propria anima separandola dal
corpo in cui marcisce come un prigioniero nella sua cella. Nel testo c’è il famoso
gioco di parole sull’omofonia tra la parola che indica il corpo e la parola che
indica la tomba: «noi, attualmente, siamo morti e nostra tomba [sèma] è il corpo
[sòma]».11
L’immagine si ritrova in realtà già negli orfici e nei pitagorici. E non solo
l’immagine, anche la teoria, l’escatologia e il dualismo. A proposito di quello
che succede dopo la morte, Socrate afferma: «io sono pieno di fede che per i
morti qualche cosa ci sia, e, come anche si dice da tempo, assai migliore per i
buoni che per i cattivi».12 «Qualche cosa», ecco la questione, il problema: che
cosa?
Proprio per sperimentare un giorno l’esistenza di questo «qualche cosa»,
Socrate elabora un metodo. Innanzitutto, la prima preoccupazione è l’esercizio
esistenziale della negatività: rifiutare i piaceri del bere e del mangiare, non
possedere nessun vestito stravagante, rinunciare ai godimenti dell’amore carnale,
rifiutare il potere delle sensazioni, delle emozioni e delle percezioni sensibili,
staccare l’anima dal corpo. È in base a tutto questo che Socrate può affermare
«che noi uomini siamo una delle cose in possesso degli dèi»,13 cioè, in sostanza,
che siamo un’anima. Da qui, la seconda preoccupazione, che è quella
dell’esercizio esistenziale della positività: «liberare quanto più [si] può l’anima
da ogni comunanza col corpo»,14 in altre parole, smaterializzarsi, angelizzarsi,
etereizzarsi, insomma, disincarnarsi, in senso etimologico. Il corpo filosofico
cui Socrate aspira è uno scheletro composto d’anima. Non stupisce che la morte
non gli faccia paura: l’ideale verso cui la sua filosofia tende è quello di morire al
mondo terrestre per poter rinascere nel retromondo.
Socrate sostiene che l’anima, per riuscire a conoscere, deve staccarsi dal
corpo. Ma se l’anima non è composta di materia o di atomi, come pensano gli
abderitani, allora qual è la sostanza immateriale che può permetterle di
conoscere? E in che modo? Se occorre sbarazzarsi di tutto quello che consente di
conoscere in maniera empirica, cioè dei cinque sensi, delle sensazioni, delle
emozioni, delle percezioni e del loro governo attraverso l’uso di una sana
ragione resa materialmente possibile da un supporto fisiologico, cioè il cervello,
allora com’è possibile conoscere? E grazie a che cosa?
Per quanto riguarda il funzionamento dell’anima, Socrate afferma che «se
mediante il corpo ella tenta qualche indagine, è chiaro che da quello è tratta in
inganno»,15 e anche che «è nel puro ragionamento, se mai in qualche modo, che
si rivela all’anima la verità».16 E poi ancora che «l’anima ragiona appunto con la
sua migliore purezza quando non la conturba nessuna di cotali sensazioni, né
vista né udito né dolore, e nemmeno piacere; ma tutta sola si raccoglie in sé
stessa dicendo addio al corpo; e, nulla più partecipando del corpo né avendo
contatto con esso, intende con ogni suo sforzo alla verità».17
È questo che, per Socrate, potrebbe conoscere un’anima morta? Continua però
a non dirci come un’anima sorda, o un’anima cieca, o un’anima impassibile, o
un’anima ascetica, o un’anima apatica, o un’anima insensibile possa conoscere,
e in che modo.
Occorre un tipo di purificazione in grado di liberare dal corpo, come quando
ci si lascia cadere i vestiti di dosso per mettere l’anima a nudo, per fare in modo
che quest’anima possa trovarsi «tutta sola raccolta in sé stessa».18 Nonostante
tutto, però, il problema persiste: come può arrivare un’anima a toccare questo
stato d’integrale disincarnazione? Ovviamente, ragionando nei termini di una
logica assolutamente empirica, vale a dire rispettando l’ordine delle cose dettato
dal buon senso e dalla sana ragione, in pratica questa disincarnazione si
ridurrebbe a una vera e propria disintegrazione… Socrate cerca quindi una
ragione che possa fare a meno della persona stessa che ragiona; e di questo
individuo ragionante vorrebbe anzi cancellare d’un tratto tutta la realtà concreta
e tangibile, per sostenere quello che, secondo lui, è veramente il reale, vale a dire
la finzione delle Idee pure e del mondo intelligibile. Giunti a questo punto,
allora, come possiamo provare l’esistenza del mondo immateriale? Ma è ovvio,
attraverso la constatazione empirica della reminiscenza.
Come afferma Platone nella Repubblica (X, 611a), le anime, che sono
immortali ed eterne, esistono in numero finito. Potremmo richiamarci alla
scienza demografica e porre la questione: tra i duecentocinquantamila
contemporanei di Socrate e gli otto miliardi di esseri umani che si contendono il
pianeta oggi, qual è lo statuto ontologico delle anime dell’era atomica prima
dell’era cristiana?
Dato che non ci arriva dall’esperienza, che presuppone il corpo, l’idea
dell’anima può venire solo da una conoscenza empirica. Socrate sembra
insomma continuare a rimandare all’empirico per provare l’esistenza non
empirica dell’anima.
Non si impara mai niente, sostiene, ma ci si rimembra, e rimembrarsi significa
sperimentare quanto si è già imparato nelle vite precedenti. Si tratta di un sapere
che l’anima trova già presente dentro di sé. Interrogato da Menone nel dialogo
omonimo, Socrate chiede a quest’ultimo di trovargli qualcuno perché possa
provargli l’esistenza dell’anima – non si può dare dimostrazione più empirica!
Scelto un servo che parla greco, Socrate comincia a parlargli, e parte con una
dimostrazione matematica: un quadrato è costituito da quattro linee rette uguali
tra loro e, se si taglia in due questo quadrato passando dal centro, si ottengono
delle linee uguali. Il servo annuisce a ogni tappa della dimostrazione, il che
permette di arguire l’ottima qualità degli studi matematici compiuti. Le quattro
pagine del dialogo che seguono (82b-84a) ci mostrano quanto Socrate fosse
altrettanto dotato in geometria. Qui si vede come la vera intenzione di Platone,
che ha mosso i suoi primi passi nel teatro e nella lotta, sia quella di vincere senza
rischiare nulla, e di trionfare quindi senza gloria, mettendo in scena un Socrate
onnisciente e un servo che sta lì solo per i bisogni della dimostrazione, con
l’unico ruolo di dire sì a ogni asserzione socratica. Alza e abbassa di continuo la
testa, come fa il cavallo, in maniera compulsiva…
Permettetemi una confidenza personale: io, che non sono uno dei servi di casa
Menone, ho mollato la dimostrazione di Socrate da subito. Certo, non ho mai
brillato in matematica, però se Platone avesse ragione, mi sarei dovuto
rimembrare anch’io senza difficoltà e mi sarei dovuto trovare conquistato da
questa retorica, convinto della validità della teoria della reminiscenza e, di
conseguenza, della verità dell’esistenza di almeno un’anima immateriale, cioè la
mia, preesistente alla mia incarnazione. In realtà, Platone con me sembra aver
fatto proprio un buco nell’acqua…
Il Menone ci insegna in realtà che il servo, da Socrate, non ha imparato nulla,
e che il suo interrogatorio gli ha semplicemente permesso di rimembrarsi delle
cose che già sapeva, cose che, in una vita anteriore, aveva già imparato.
Comunque stiano le cose, possiamo obiettare a Platone che proprio questo
ragionamento implica che un giorno al servo è comunque sempre toccato
imparare qualcosa, e che, in virtù delle reincarnazioni anteriori vissute dopo le
sue svariate morti, la sua anima ha conservato il ricordo di quello che gli era
stato a suo tempo concesso di sapere, comprendere e imparare.
Oltretutto, il fatto che Socrate abbia bisogno di un servo in carne e ossa per
provare l’esistenza dell’immaterialità dell’anima non può non vedersi come un
paradosso… Perché è proprio grazie a quello che sarà stato ascoltato e visto
dalle sue orecchie e dai suoi occhi che l’intelligenza dello schiavo, incarnata nel
suo cervello, avrà potuto accedere a quello che Socrate presenta come una prova.
È questa la teoria dell’anima che accompagna la dottrina della metempsicosi e
della metensomatosi – tutte tesi che ritroviamo in Oriente, e che fanno subito
pensare agli induisti e a quei gimnosofisti così spesso associati alla saggezza
dell’Antichità.
Morte significa separazione tra anima e corpo. Dopo il trapasso del defunto,
l’anima viene pesata, come già succedeva presso gli egizi. A seconda del
risultato di questo giudizio, l’anima viene reindirizzata a un corpo. Se si è
impegnata attivamente nella separazione dal vecchio corpo, si ritrova salvata,
altrimenti viene condannata a una serie di reincarnazioni svalorizzanti: asini per
quanti hanno passato la vita a gozzovigliare e a bere, in mezzo alla lussuria e
all’eccesso; lupi, falchi o nibbi per quanti hanno commesso ingiustizie, tirannie o
rapine; api, vespe o formiche per i temperamenti naturalmente giusti ma senza
virtù pratiche (Fedone, 81e-82b).
Il filosofo che ha passato la vita a maltrattare il proprio corpo e a preoccuparsi
unicamente della propria anima sfugge invece al ciclo di incarnazioni perché la
sua anima sarà riuscita a spogliarsi da qualsiasi obbligo nei confronti della
materia. La vita filosofica permette di cancellare la carne in modo da poter
realizzare l’avvento dell’anima purificata, senza alcun bisogno di corpi che si
trasformino in altrettanti carceri. Se si è passata la vita in una tomba, allora, dopo
la morte, l’anima ottiene la propria beatitudine unendosi al principio del mondo.

Giova ricordarsi, o meglio rimembrarsi, che Platone, dopo aver consacrato tutta
la propria opera a contrapporre il mondo sensibile al mondo intelligibile,
fustigando il primo e celebrando il secondo; dopo aver diviso l’essere in due
parti distinte, una detestabile, cioè il corpo, la carne e la materia, e l’altra da
adorare, cioè l’anima; dopo aver gettato l’anatema sui desideri, sui piaceri, sulle
passioni e sulle emozioni; dopo aver denunciato lo stallo prodotto dai godimenti
carnali, è stato sorpreso dalla morte, come ci insegna Diogene Laerzio (tocca
sempre tornare al nostro storico), nel corso di un banchetto di nozze (III, 3).
Ovviamente, Tertulliano, uno dei primi filosofi cristiani, non può condividere
quest’aneddoto così triviale e così poco… platonico! Per il pensatore che ha
aperto la via filosofica del cristianesimo, Platone deve per forza morire in
maniera più nobile: e quindi trapassa nel sonno.
Questo senza contare quello che, sempre nelle Vite e dottrine dei più celebri
filosofi, Diogene Laerzio ci racconta nel capitolo intitolato Presunti amori di
Platone (III, 29-33). Questo Savonarola della carne ha in verità conosciuto
parecchi(e) amanti tra cui, giusto per citare alcun(e) il cui nome ha attraversato
la storia: Astro, Dione, Alessi, Fedro, Archeanassa e Agatone.
Anche Socrate, sfortunatamente platonizzato da Platone (evito di dire
socratizzato), passa per essere un padre del pudore e un nemico dichiarato della
carne, quando in verità ha collezionato lui stesso tutta una serie di giovanotti
(Carmide, figlio di Glaucone; Eutidemo, figlio di Diocle; Fedro; Agatone;
Alcibiade) che hanno finito per dare il titolo a parecchi dei dialoghi platonici, o
per comparirci come interlocutori. Nel Simposio (VIII, 2), Senofonte afferma di
non ricordarsi nessun periodo in cui Socrate fosse stato senza innamorati. La
bellezza di Carmide lo infiammava e lo metteva fuori di sé; si esaltava per
Alcibiade; sosteneva che quando vedeva Autolico passava dalle tenebre alla
luce; e confessava che il solo contatto con la spalla nuda di Critobulo gli
provocava una scossa elettrica (I, 9 e IV, 27).
Ecco perché, nel Fedone, Platone fa dire a Socrate che «l’anima di chi è vero
filosofo […] perciò appunto si astiene, quanto più ella può, da piaceri e desideri
e dolori» [corsivo mio].19 Magari vuole dire che né Socrate né Platone erano dei
veri filosofi.
Capitolo terzo
Il divenire riccio della pianta
Purificare la carne

Si tratta di un rimprovero che non si potrà fare a Plotino, il quale, da parte sua,
sembra aver vissuto in coerenza con tutte le cose che insegnava. O almeno così
pare, se vogliamo dar credito alla Vita di Plotino, scritta dal discepolo Porfirio,
che infatti comincia la sua presentazione proprio affermando che «Plotino, il
filosofo della nostra epoca, sembrava si vergognasse di essere in un corpo».20
Plotino è uno che nasconde la propria data di nascita per evitare di festeggiare il
compleanno; che mantiene il silenzio sulle origini della propria famiglia, e non
parla mai né del padre né della madre; che rimane attaccato al seno della nutrice
fino all’età di otto anni, quando gli viene imposto di smettere; che detesta così
tanto il proprio involucro carnale e corporeo da rifiutare qualsiasi ritratto o
qualsiasi busto. Il suo corpo versa in cattivo stato, ha problemi digestivi, in
particolare intestinali, però si rifiuta di farsi curare; il suo stomaco è parecchio
malandato e la vista debole; vive in uno stato di perenne tensione nervosa ed è
vegetariano, mangia pochissime cose; non si fa mai il bagno, ma si friziona;
soffre di tonsillite e ha la gola infiammata; ha le gambe e i piedi coperti di
ulcere; quando parla, fa un sacco di errori e, quando scrive, si prende gioco
dell’ortografia; lascia Roma e si ritira in Campania per evitare che gli amici lo
vengano a trovare e lo abbraccino per salutarlo, entrando in contatto con questo
suo corpo che sembra essere un’unica e grandissima piaga, quasi stesse
fermentando, dentro e fuori.
Quando muore, a settant’anni, spiega all’amico Eustochio, l’unico a essergli
rimasto accanto: «‘Io mi sforzo di ricondurre il divino ch’è in me al divino che è
nell’universo’; e mentre un serpente passava sotto il letto sul quale egli giaceva,
scomparendo poi dentro un buco della parete, Plotino rese lo spirito».21 Nell’ora
della propria morte, quindi, Plotino non fa come Socrate, non si mette a dare
lezioni di filosofia, una filosofia che, per anacronismo, potremmo chiamare
stoica, ma continua a vivere da filosofo, e continua il proprio esercizio filosofico,
la processione. È la quintessenza della sua vita filosofica.
Ripartiamo dall’inizio. Ad Alessandria, Plotino si converte alla filosofia grazie
al proprio maestro Ammonio, di cui segue l’insegnamento per undici anni:
«giunse a possedere la filosofia così bene che si propose di conoscere
direttamente quella che si professa fra i Persiani e quella che viene onorata
presso gli Indiani».22 Per realizzare questo programma, decide di mettersi al
seguito dell’esercito di Gordiano, che stava allora progettando una campagna in
Persia; sennonché l’imperatore viene sconfitto in Mesopotamia e il periplo di
Plotino subisce una battuta d’arresto. All’età di quarantun anni, sbarca a Roma, e
qui, senza ancora aver scritto nulla, si mette a insegnare il pensiero di Ammonio
per un decennio. Solo più tardi comincia a redigere i propri trattati, che Porfirio
raggrupperà in seguito sotto il titolo di Enneadi, cioè, etimologicamente, «gruppi
di nove».
Che tecnica utilizzava Plotino per arrivare alle sue unioni mistiche pagane?
Ovviamente, il disprezzo del corpo. Fin dalla prima Enneade, Plotino afferma:
«È necessario che [l’uomo], come tirato in senso opposto, verso il Bene, da un
contropeso, diminuisca e indebolisca il suo corpo, così da mostrare che l’uomo
vero è ben diverso dalle cose esteriori. […] non vorrà essere del tutto ignaro
delle malattie né dei dolori, e se non li ha provati, vorrà esperimentarli».23 Il
filosofo confessa di desiderare il dolore. Però, secondo lui, «dovrebbe avere
questa dottrina che la morte è migliore della vita col corpo».24 La felicità si
acquista con la diminuzione e l’indebolimento del corpo. Occorre realizzare
l’atarassia mentale, perché «Non è possibile vivere felicemente in società col
corpo»:25 bisogna saperlo «lascia[re] a terra, […] guarda[re] con disprezzo».26
Ma in cosa consiste la purificazione? «La purificazione consiste nell’isolare
l’anima affinché non si unisca ad altro e non guardi ad altro e non abbia più
opinioni estranee, siano queste, opinioni o passioni, come s’è detto, e non guardi
quei fantasmi né produca con essi le passioni. Come non sarà purificazione se
essa procede così dal basso verso l’altra parte, cioè verso l’alto?»27 Nel testo,
Plotino si spinge lontano tanto quanto Platone, ma nella pratica della teoria va di
sicuro oltre. Platone insegna la necessità dell’ascesi, ma, amante dei banchetti e
dei giovanotti, non mette in pratica gli insegnamenti che va professando; al
contrario, Plotino, con la sua dieta corporea e la sua tensione mistica, conduce
una vera e propria vita filosofica radicale.
Per Plotino, esistono tre ipostasi nel mondo intelligibile. Partiamo dalla terza,
quella più vicina al mondo sensibile, quella che tocca il corpo e la materia.
La terza ipostasi è l’anima. L’anima universale, in altre parole: l’anima senza
il corpo. L’anima individuale che, pur partecipando dell’anima universale, si
trova unita al corpo. L’anima individuale che esiste contemporaneamente
all’anima dell’universo e all’anima divina.
La seconda ipostasi, l’intelligenza, deriva dall’atto di conversione verso il
Bene, e permette di vedere le essenze multiple. È il luogo degli intelligibili.
L’intelligenza si contempla, e facendo questo si rivela moltiplicata in sé stessa. Il
suo atto, il pensiero, è il mondo universale, ed è l’insieme degli Intellegibili o
Idee.
La prima ipostasi, invece, è l’Uno-Bene, cioè il Bene che causa la visione
dell’essenza. Può essere indicato solo negativamente, perché ogni asserzione
positiva priverebbe della possibilità di affermare il contrario, e questo tipo di
incompletezza non può mai convenire alla perfezione. Ma neppure, per le stesse
ragioni, lo si può esprimere positivamente. La terza ipostasi è insomma uno
sforzo di ascesi; la seconda, uno sforzo di astrazione; la prima è la purificazione
totale che permette di produrre l’estasi.
Gli esercizi spirituali che servono a lottare contro i desideri e contro i piaceri,
contro la carne e contro la pancia, contro i desideri e contro le passioni, sono resi
possibili da un volere che contraddice l’insegnamento platonico e neoplatonico:
se, in effetti, il ciclo delle reincarnazioni si appoggia alla necessità, e se sono gli
astri a determinare il percorso di una vita,28 come può la libertà avere un qualche
ruolo?
Plotino cita Platone, secondo il quale alcuni uomini, a causa di una vita
assolutamente non all’altezza, si reincarnano addirittura in una pianta.29 In che
modo, però, ci chiediamo, una pianta può possedere la volontà di condurre
un’esistenza che gli permetta di purificarsi e di liberarsi dalla propria prigione
materiale? E cosa dobbiamo pensare del povero cerbiatto che, a causa di una vita
passata in balia del destino, della fatalità e della volontà degli dèi, sarà costretto,
dopo il giorno del giudizio, a reincarnarsi in un albero? Di quale purificazione
potrà mai essere capace l’ulivo per permettere all’anima che si trova
imprigionata nel proprio tronco di compiere il percorso che riuscirà e staccarsi
da quella sua tomba di scorza, per trasformarsi nel famoso riccio capace, a sua
volta, un giorno, di diventare filosofo plotiniano?
Plotino ha consacrato una quarantina d’anni della propria esistenza a praticare
questa purificazione con terribili esercizi di ascesi fisica, e meditazione
intellettuale e spirituale. Nella sua Vita di Plotino, Porfirio ci racconta che il suo
maestro ha conosciuto solo quattro estasi,30 in pratica una ogni dieci anni…
Plotino muore attorno alla seconda metà del III secolo della nostra era, e più
precisamente nel 270. I cristiani stanno già conquistando intellettualmente e
spiritualmente il mondo, e i testi che Plotino consacra agli gnostici sono a tutti
gli effetti diretti contro i devoti di Cristo, allora ancora dispersi qua e là e divisi
in sette gnostiche diverse, ma destinati a essere ben presto politicamente
recuperati e raccolti dall’imperatore Costantino, che, nel 313, con l’editto di
Milano, concede la libertà di culto.
Questa saggezza esistenziale neoplatonica riduce a essenza quello che, dagli
egiziani prima, e dagli orfici e dai pitagorici poi, fino a Plotino e passando da
Platone, contribuisce a definire la genealogia del corpo occidentale.
Il corpo prodotto su questa linea è un corpo tagliuzzato, smembrato e
mutilato: da una parte, c’è l’anima immateriale composta della stessa sostanza
eterea degli dèi, una specie di anima bianca; dall’altra, la carne materiale,
composta invece come quella degli animali. Qui, l’anima, che ci unisce al
mondo intelligibile, che è quello vero; di là, il corpo, che ci blocca nel mondo
sensibile, mondo di illusioni, mondo falso. L’anima funziona da tramite tra
l’uomo e gli dèi, e permette di unirsi a loro e di vivere nel loro mondo,
conoscendo la beatitudine della vita eterna. Il corpo, invece, riporta alla trivialità
del reale, ed è corruttibile, sottoposto al fluire del tempo e destinato alla morte.
La nostra materia ci uccide, ma la nostra anima ci salva.
Da questo mondo, possiamo accedere al retromondo (che è quello che assicura
di fatto che noi ci troviamo all’interno di una concezione religiosa delle cose)
attraverso la fuga. E questa fuga è, a sua volta, resa possibile da un particolare
uso del corpo e dell’anima: occorre disprezzare il primo e celebrare la seconda –
è questo il senso della purificazione. Il disprezzo del corpo apre le porte di un
cielo senza materia, popolato di sole anime eterne e immortali. A questo cielo
possiamo accedere morendo su questa Terra e ottenendo la vita eterna
nell’aldilà. L’anima bianca è uno strumento soteriologico. Permette di salvarsi
grazie al suo impiego filosofico corretto. Essa è ciò che se ne fa: se la si usa
male, porta alla dispersione; se è utilizzata bene, invece, cioè se è utilizzata
contro la carne e contro il corpo, contro la materia e contro il reale, è in grado di
aprire le porte del paradiso.
Il cristianesimo mette assieme come in un collage tutte queste saggezze
antiche e pagane. Conserva il dualismo che divide il corpo: da una parte l’anima
e dall’altra la carne; deduce da questa divisione la separazione tra mondo
intelligibile in alto, in cielo, e mondo sensibile in basso, sulla Terra; connota
positivamente ciò che è celeste e negativamente ciò che è terrestre; oppone la
magnifica città di Dio alla terribile città degli uomini; manda alla gogna desideri,
passioni, pulsioni ed emozioni, in breve tutto quello che appartiene al mondo
della carne, e porta invece alle stelle l’anima, lo spirito, il celeste, l’ineffabile,
l’indicibile, quel «qualche cosa» di cui parlava Socrate. La sua originalità, in
realtà, si trova nella metamorfosi dell’anima bianca dei platonici nell’anima nera
dei cristiani.
Capitolo quarto
Corpi di carta e vita testuale
Creare un anticorpo

I fedeli sono generalmente tutti critici nei confronti delle fedi altrui: le
considerano come un insieme di finzioni e di illusioni, come mitologie da cui
vanno fieri di non-essere stati abbindolati. Allo stesso tempo, però, i fedeli sono
loro stessi devoti di quella particolare fede che condividono, e di conseguenza
delle sue finzioni, delle sue illusioni e delle sue mitologie, tutte cose che gli altri
invece continueranno a valutare con incredulità… Uno crede che il proprio Dio
divida il mare in due per lasciar passare il suo popolo, poi però guarda con
occhio sbalordito il proprio simile che gli spiega come il suo profeta abbia
percorso la distanza tra Gerusalemme e la Mecca in cielo e su un cavallo, mentre
un terzo arriva a sostenere che il suo Dio è nato da una vergine e si è fatto un
uomo, per morire crocifisso e resuscitare il terzo giorno, prima di assurgere in
cielo e sedere alla destra del padre – cerchiamo di apprezzare la precisione di
questo atto di lateralizzazione, perché è il luogo in cui vive tuttora, mentre noi
stiamo qui a parlare…
Per quanto mi riguarda, sono del tutto privo di quella pulsione alla devozione
che potrebbe spingermi a dirmi d’accordo con una o l’altra di queste tre belle
storielle, e tendo invece a osservare le religioni della mia civiltà da filosofo, vale
a dire come una serie di mitologie da cui si può trarre un certo piacere
intellettuale, senza però doverne condividere per forza le credenze. Insomma,
leggo la Bibbia come se fosse una prima versione della Divina Commedia.
Per me, Gesù rimane una delle tante finzioni, quella su cui è stata costruita la
civiltà giudaico-cristiana. E ho grandissimo rispetto per chi, cercando di far
crollare la tesi mitista secondo cui Gesù non ha alcun fondamento storico, arriva
a dedurre da una frase che non si tratta di una cosa seria. In realtà, quello che
non è serio è il fatto di voler ignorare tutte queste cose, e di volerle cassare senza
argomentazioni.

Secondo la tesi mitista, la figura di Gesù è costruita partendo da un collage di


frammenti sparpagliati nell’Antico Testamento, che rappresenta sostanzialmente
la chiave della sua biografia. Basta leggere la Bibbia e incrociare l’Antico con il
Nuovo Testamento. Il lavoro è già quasi stato fatto tutto nell’apparato critico
della traduzione di Émile Osty e di Joseph Trinquet, che rimanda la maggior
parte dei versetti del Nuovo a questo o a quell’altro versetto dell’Antico. Non
serve particolare intelligenza, basta rimboccarsi le maniche con pazienza.
E questo è il risultato.
Quando, sulla strada di Emmaus, Gesù riappare agli apostoli dopo la sua
morte, le sue parole sono: «‘Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che
hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per
entrare nella sua gloria?’ E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro
in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24, 25-27). Ci sarebbe piaciuto
ascoltarlo mentre annunciava il proprio futuro, un futuro che non aveva ancora
vissuto: avremmo avuto la prova che il futuro rivelato nel Nuovo Testamento si
trova già inscritto nel passato dell’Antico. Quello neotestamentario è un
ventriloquio che trionfa partendo dal veterotestamentario – del resto, è questo
l’asse portante della tesi mitista.
In sostanza, ecco che cosa avrebbe potuto raccontare: nei Vangeli (Mt 2, 2), la
sua nascita viene annunciata ai re Magi da una stella; e ricordiamo che la nascita
del Messia è stata presentata come accompagnata da un astro anche nel libro dei
Numeri: «una stella spunta da Giacobbe / e uno scettro sorge da Israele» (Nm
24, 17).
Quando vogliamo sapere dove è nato Gesù, bisogna leggere il libro biblico di
Michea (5, 1): «E tu, Betlemme di Èfrata, / così piccola per essere fra i villaggi
di Giuda, / da te uscirà per me / colui che deve essere il dominatore in Israele; /
le sue origini sono dall’antichità, / dai giorni più remoti» – testo citato dal
vangelo di Matteo (2, 4-6).
Quando vogliamo invece sapere perché Gesù è proprio di Nazareth, il libro
dei Giudici ci insegna che un uomo nascerà da una donna sterile e senza figli e
che un angelo glielo annuncerà in questi termini: «il fanciullo sarà un nazireo di
Dio fin dal seno materno; egli comincerà a salvare Israele dalle mani dei
Filistei» (Gdc 13, 5). Matteo ricalca: «ecco, gli apparve in sogno un angelo del
Signore e gli disse: ‘Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te
Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito
Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il
suo popolo dai suoi peccati’» (Mt 1, 20-21). In verità, nella religione ebraica, il
nazireo indica un uomo consacrato a Dio, un uomo che obbedisce a certi voti, tra
cui quello di rispettare le proibizioni bibliche. Nazireo viene in seguito sostituito
da nazareno e, per omofonia, avvicinato al nome del villaggio di Nazareth. In
realtà, all’epoca in cui Gesù dovrebbe essere nato, di Nazareth non esiste ancora
traccia…
Se si dice che Gesù nasce tra l’asino e il bue – l’informazione si trova solo nel
Vangelo di Luca (2, 7) –, è perché il dettaglio riecheggia la profezia di Isaia:
Così parla il Signore: / «Ho allevato e fatto crescere figli, / ma essi si sono ribellati contro di me. /
Il bue conosce il suo proprietario / e l’asino la greppia del suo padrone, / ma Israele non conosce, /
il mio popolo non comprende». / Guai, gente peccatrice, / popolo carico d’iniquità! / Razza di
scellerati, / figli corrotti! / Hanno abbandonato il Signore, / hanno disprezzato il Santo d’Israele, /
si sono voltati indietro (Is 1, 2-4).

La presenza del bue e dell’agnello funziona da testimone: Gesù, da parte sua,


salverà Israele portando a compimento la venuta del Messia atteso dagli ebrei.
Quando Gesù rischia la morte nel corso del massacro degli innocenti, non fa
nient’altro che subire il compimento della profezia rivelata nel libro di Geremia
(31, 15). Sfugge allo sterminio perché la Sacra Famiglia si rifugia in Egitto, ed è
per questo che Matteo può affermare che non fu massacrato «perché si compisse
ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: / Dall’Egitto ho
chiamato mio figlio» (Mt 2, 15). È una citazione dal libro di Osea: «e dall’Egitto
ho chiamato mio figlio» (Os 11, 1).
Quando Gesù comincia il proprio ministero, Luca ci racconta che ha
trent’anni (Lc 3, 23). Nel secondo libro di Samuele, leggiamo: «Davide aveva
trent’anni quando fu fatto re» (2Sam 5, 4). Gesù insegna perché le Scritture lo
annunciano: «Lo spirito del Signore Dio è su di me, / perché il Signore mi ha
consacrato con l’unzione; / mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, /
a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, / a proclamare la libertà degli schiavi»
dice Isaia (61, 1).
Quando Gesù compie dei miracoli, e guarisce sordi, muti, ciechi, paralitici e
idropici, o malati di emorragie varie o di dermatosi, quando resuscita addirittura
i morti, sta compiendo quanto sta scritto nel libro di Isaia: «Allora si apriranno
gli occhi dei ciechi / e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. / Allora lo zoppo
salterà come un cervo» (Is 35, 5-6).
Quando Gesù viene tradito da Giuda, l’apostolo rinnegato si fa pagare trenta
pezzi d’argento, come ci rivela Matteo; dopo aver consegnato Gesù, colto dai
rimorsi, riporta i soldi ai sommi sacerdoti: «E presero trenta monete d’argento, il
prezzo di colui che a tal prezzo fu valutato dai figli d’Israele» (Mt 27, 9). È
quello il prezzo della transazione anche nel libro di Zaccaria (11, 12-13).
Quando Simon Pietro vuole impedire l’arresto di Gesù, taglia l’orecchio
destro di Malco, il servitore del sommo sacerdote. Gesù però lo ferma subito
dicendo: «credi che io non possa pregare il Padre mio, che metterebbe subito a
mia disposizione più di dodici legioni di angeli? Ma allora come si compirebbero
le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?» (Mt 26, 53-54). Oppure:
«Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?»
(Gv 18, 11).
Quando Pilato non vuole prendere partito tra i sommi sacerdoti ebrei, la folla
e Gesù, sappiamo che «prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla,
dicendo: ‘Non sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi’» (Mt 27, 24).
È un rimando al libro dei Salmi: «Lavo nell’innocenza le mie mani» (Sal 6, 16 e
73, 13).
Quando, nel Vangelo di Luca (23, 9), Gesù rimane in silenzio davanti alle
domande di Erode, sta compiendo quanto scritto nel libro di Isaia: «Maltrattato,
si lasciò umiliare / e non aprì la sua bocca; / era come agnello condotto al
macello, / come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, / e non aprì la sua bocca»
(Is 53, 7).
Quando Gesù lascia che gli sputino addosso nei locali della pretura del
governatore (Mt 27, 30), il rimando fa eco al libro di Isaia: «non ho sottratto la
faccia / agli insulti e agli sputi» (Is 50, 6).
Quando Gesù pronuncia le sue ultime parole: «Dio mio, Dio mio, perché mi
hai abbandonato?» (Mc 15, 34), prova di essere, persino in una situazione tesa
come quella, colto e capace di recuperare citazioni, nel caso particolare
rimandando al libro dei Salmi, dove troviamo un versetto della preghiera per Le
sofferenze e la gloria del giusto che suona testualmente: «Dio mio, Dio mio,
perché mi hai abbandonato?» (Sal 22, 2).
Quando Giovanni racconta che i soldati romani sono pronti a spezzare le
gambe di Gesù sulla croce, però alla fine decidono di non farlo, scrive: «Questo
infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso.
E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che
hanno trafitto» (Gv 19, 36-37). Si tratta di altrettanti rimandi al libro dell’Esodo
(12, 46) e a quello dei Numeri (9, 12), dove si parla dei sacrifici, ed è, appunto,
un modo per associare il sacrificio dell’agnello pasquale previsto dalla legge
ebraica a quello di Gesù. Il quale è in effetti definito: «l’agnello di Dio, colui che
toglie il peccato del mondo» (Gv 1, 29). E la sua morte coincide naturalmente
proprio con la Pasqua.
Quando, durante la crocifissione, i soldati romani inchiodano i piedi e le mani
di Gesù sul legno della croce, tutto avviene facendo eco ai Salmi: «mi accerchia
una banda di malfattori; / hanno scavato le mie mani e i miei piedi» (Sal 22, 17).
Quando, nel corso del supplizio, Gesù viene umiliato sulla croce: le teste che
si scuotono, gli scherni e i vari «Ha salvato altri e non può salvare sé stesso! È il
re d’Israele» (Mt 27, 42) sono quelli che già si trovano nel libro dei Salmi: «lo
porti in salvo, se davvero lo ama» (Sal 22, 9).
Quando gli trafiggono il costato con una lancia, le sue parole rimandano al
Lutto per colui che è stato trafitto, nel libro di Zaccaria: «guarderanno a me,
colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico,
lo piangeranno come si piange il primogenito» (Zacc 12, 10).
Quando Gesù muore, «la terra tremò, le rocce si spezzarono» (Mt 27, 51), «il
sole si era eclissato» (Lc 23, 45), «si fece buio su tutta la terra» (Mc 15, 33);
leggiamo il libro di Amos: «In quel giorno / – oracolo del Signore Dio – / farò
tramontare il sole a mezzogiorno / e oscurerò la terra in pieno giorno» (Am 8, 9).
Oppure Isaia: «le stelle del cielo e le loro costellazioni / non daranno più la loro
luce; / il sole si oscurerà al suo sorgere / e la luna non diffonderà la sua luce. /
[…] Allora farò tremare i cieli / e la terra si scuoterà dalle fondamenta / per lo
sdegno del Signore degli eserciti, / nel giorno della sua ira ardente» (Is 13, 10-
13). O anche Gioele: «viene il giorno del Signore, / perché è vicino / […].
Davanti a lui la terra trema, / il cielo si scuote, / il sole, la luna si oscurano / e le
stelle cessano di brillare» (Gioe 2, 1-10).
Quando i soldati romani si dividono i vestiti di Gesù (Lc 23, 34), la cosa si
ritrova anche nei Salmi: «si dividono le mie vesti, / sulla mia tunica gettano la
sorte» (Sal 22, 19).
Anche quando il corpo di Gesù viene deposto nella tomba di una persona
ricca, come ci ricorda Matteo (27, 57-60), siamo di fronte a una citazione da
Isaia: «con il ricco fu il suo tumulo» (Is 53, 9).
Quando il terzo giorno Gesù resuscita, sale in cielo e si siede alla destra del
Padre, come non pensare al passo del libro dei Salmi in cui si dice: «non
abbandonerai la mia vita negli inferi, / né lascerai che il tuo fedele veda la fossa.
/ Mi indicherai il sentiero della vita, / gioia piena alla tua presenza, / dolcezza
senza fine alla tua destra» (Sal 16, 10-11). O a quell’altro passo, sempre dei
Salmi: «Oracolo del Signore al mio signore: / ‘Siedi alla mia destra / finché io
ponga i tuoi nemici / a sgabello dei tuoi piedi’» (Sal 110, 1). E per quanto
riguarda la salita al Cielo, pensiamo al libro di Daniele: «Guardando ancora nelle
visioni notturne, / ecco venire con le nubi del cielo / uno simile a un figlio
d’uomo; / giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui» (Dan 7, 13).
La vita di Gesù si rivela una vera e propria vita di carta: il suo corpo è fatto
più di parole e verbo che di carne e ossa; il suo sangue non è liquido, ma è
Logos; non è composto da scheletro, muscoli e nervi, ma da parabole, allegorie e
simboli; non vive una vita corporea ma un’esistenza concettuale; non ha
un’anima separata dal corpo, perché è un’anima senza corpo, uno spirito
costituito unicamente di discorsi.
Questo corpo di carta richiama una vita testuale priva di reale vita. Basta leggere
i Vangeli per capire che, per quanto prodotti del I secolo della nostra era,
appartengono comunque al mito. Chi può davvero permettersi di credere che la
lepre e la tartaruga di La Fontaine siano concretamente esistite, siano state
concretamente dotate di parola, e si siano concretamente messe a parlare tra loro,
con la tartaruga che, uscita vincitrice nella corsa, rilascia al mondo le sue famose
dichiarazioni moraleggianti? Per chi scrive favole, la volpe e il corvo, il lupo e il
cane, ma anche la quercia e il giunco parlano, ma è solo per convenzione
poetica, per licenza letteraria: nella vita di tutti giorni, a nessuno verrebbe mai in
mente di credere davvero che un giunco possa scambiare quattro parole con una
quercia.
La stessa cosa vale per la letteratura dei Vangeli, che occorre leggere come si
legge l’Odissea di Omero (le sirene e i lotofagi non esistono), o come si legge la
Vita di Apollonio di Tiana, in cui Filostrato ci racconta di quest’uomo che, pur
essendo un semplice filosofo neopitagorico, resuscitava anche lui i morti; o
ancora come si leggono le tragedie greche (il fegato di Prometeo non è mai stato
divorato da un’aquila)… La realtà di tutte queste storie è solo allegorica:
significano una cosa diversa da quella che sembrano apparentemente raccontare.

Prendiamo il Vangelo di Luca: basta leggerlo per capire come funzionano le


cose. Innanzitutto è nel testo stesso che troviamo tutte le chiavi destinate ad
aprire le serrature delle parabole.
La prima cosa che ci viene detta è che Gesù vive e muore per compiere quello
che è stato annunciato nell’Antico Testamento. Gli ebrei stanno in effetti
aspettando un Messia; e Gesù, che è ebreo, spiega loro che non c’è più bisogno
di aspettarlo, perché la persona annunciata è in realtà proprio lui; quasi per caso,
la sua vita si trova a provare esattamente che tutto quello che è stato predetto
dalle pagine veterotestamentarie si sta compiendo a livello neotestamentario.
Quello che è e quello che sarà è esattamente quello che è stato annunciato: la sua
biografia non fa altro che dare corpo all’annuncio. Durante la presentazione al
Tempio per la circoncisione, Simeone prende il bambino Gesù in braccio e
dichiara che da lui «aspettava la consolazione d’Israele» (Lc 2, 25). L’arrivo di
Gesù lo colma di gioia, perché annuncia la nascita della civiltà giudaico-
cristiana: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e
come segno di contraddizione» (Lc 2, 34). Rovina della Torah, e nascita del
Nuovo Testamento: Gesù va a insegnare nelle sinagoghe la realtà di questo
compimento proprio il giorno dello shabbat (Lc 4, 31), come a dire che comincia
subito trasgredendo da cristiano la tradizione giudaica che impedisce di svolgere
qualsiasi attività in quel particolare giorno.
Dall’Annunciazione alla Crocifissione, è questo il messaggio che trionfa.
Ancora prima che Gesù venga al mondo, l’Angelo che annuncia la sua venuta
spiega che tutto quello che sta avvenendo si compie «ricordandosi della sua [di
Dio] misericordia, / come aveva detto ai nostri padri, / per Abramo e la sua
discendenza, per sempre» (Lc 1, 54-55). Più tardi, in cammino verso il luogo
della propria morte, è Gesù stesso che dice: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme,
e si compirà tutto ciò che fu scritto dai profeti riguardo al Figlio dell’uomo» (Lc
18, 31).
Quest’uomo annunciato sulla carta e dalla carta, è in realtà anche lui un uomo
di carta. Lo percepiamo chiaramente leggendo il Vangelo di Giovanni, il
Vangelo più cerebrale, quello più concettuale e meno aneddotico, quello più
intellettualmente esigente, e che infatti comincia affermando che: «il Verbo si
fece carne / e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14). C’è già tutto…

Da qui, deriva la seconda cosa che dobbiamo tenere a mente, e cioè che Gesù è
un personaggio concettuale che non ha altra carne se non quella che la civiltà
cristiana gli ha cucito addosso nel corso dei primi dieci secoli della nostra era
grazie all’opera dei suoi pensatori e dei suoi filosofi, in particolare dei Padri
della Chiesa. A questi filosofi, aggiungiamo tutti i concili che hanno contribuito
a costruire il corpo occidentale e, più in particolare, la sua anima, e poi però
anche la scolastica successiva, e i vari artisti, architetti, pittori e scultori che
hanno costruito una visibilità globale a livello di civiltà per questo personaggio-
concetto.
Se il Verbo si fa carne non è tanto grazie a una misteriosa Incarnazione
teologica, che ha bisogno di tutte le categorie della metafisica aristotelica per
apparire come credibile, quanto per mezzo di una corporeizzazione intellettuale,
artistica, spirituale, filosofica, politica ed estetica: è questo il foglio di via della
cosiddetta civiltà giudaico-cristiana.
Perché l’ossimoro di questa carne, presentata come umana e divina allo stesso
tempo, possa essere intellettualmente costruita, occorre che, in virtù della propria
umanità, assomigli a quella di tutti gli altri esseri umani, e quindi preveda una
nascita, un’infanzia, una vita e una morte, e poi la possibilità di bere e di
mangiare, di dormire e di soffrire, di parlare agli amici e alle donne. Allo stesso
tempo, però, c’è anche bisogno che non abbia niente di umano: la nascita deve
essere miracolosa, l’infanzia straordinaria, i talenti precoci, la potenza
taumaturgica, l’alimentazione simbolica, e la sottomissione alla morte
impossibile. È questa la sfida da raccogliere! Gesù dispone insomma di un corpo
ossimorico.
La sua stravagante biografia la conosciamo tutti: il momento della nascita
mette in scena Maria, una vergine che dà alla luce un bambino, e Giuseppe, un
padre che non è il vero genitore; il concepimento non avviene secondo vie
naturali, come per qualsiasi altro uomo sul pianeta, ma per il tramite dello
Spirito Santo – il testo di Luca precisa che, a Maria, l’angelo Gabriele dice che
«la potenza dell’Altissimo [la] coprirà con la sua ombra» (Lc 1, 35), e che però il
bambino sarà comunque «il frutto del [s]uo grembo» (Lc 1, 42); poi arriva
Gabriele, accompagnato da «una moltitudine dell’esercito celeste» (Lc 2, 11-13),
ad annunciare la nascita (Lc 2, 11-13); l’ottavo giorno, il bambino viene
circonciso e chiamato Gesù (Yehoshua), che in ebraico significa «Dio salva»; a
dodici anni scappa dai genitori, i quali si accorgono della sua assenza dopo una
giornata di marcia; tre giorni più tardi, lo ritrovano che ascolta e interroga i
dottori della Legge al Tempio di Gerusalemme; stupito dallo stupore del padre,
Gesù dice: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle
cose del Padre mio?» (Lc 2, 49). E qui l’evangelista precisa: «Ma essi non
compresero ciò che aveva detto loro» (Lc 2, 50). Quando ha ormai una trentina
d’anni, Gesù si fa battezzare da Giovanni, e qui il cielo si aprì «e discese sopra di
lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal
cielo: ‘Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento’» (Lc
3, 22) – uno potrebbe anche domandarsi perché Gesù, che è senza peccato, senta
il bisogno di farsi battezzare, visto che il succo di tutta la cerimonia consiste
precisamente nel cancellare i peccati; a un certo punto, prende e se ne va nel
deserto, «per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei
giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame» (Lc 4, 2-3) – e qui vediamo una
commistione tra il divino che ignora la fame e l’umano che scopre l’appetito; si
mette allora a parlare con il diavolo e resiste alle sue tentazioni; compie tutta una
quantità di guarigioni tramite imposizione delle mani o grazie alla pura e
semplice potenza del proprio verbo (a volte, per guarire, gli basta toccare i lembi
inferiori dei vestiti): la suocera di Simone, il lebbroso, il paralitico, i ciechi,
l’uomo con la mano paralizzata, la donna che ha perdite di sangue da dodici
anni, il servo del centurione, il muto, l’idropico, l’uomo con l’orecchio tagliato;
Gesù poi resuscita i morti e placa gli elementi della natura, ferma il vento e la
tempesta; provoca pesche miracolose e dal corpo di Maria di Magdala fa uscire
sette demoni; la stessa cosa, la compie altrove: «Da molti uscivano anche
demòni, gridando: ‘Tu sei il Figlio di Dio’» (Lc 4, 41); muore e poi, il terzo
giorno, resuscita dopo aver spostato da solo l’enorme pietra che chiudeva la
tomba (ci si domanda il perché di tanto sforzo, quando avrebbe semplicemente
potuto passare attraverso i muri); riappare ai propri discepoli e si rimette a
mangiare con loro, anzi partecipa a parecchi dei loro pranzi, cibandosi di
alimenti dal forte valore simbolico: pesce, vino e miele. Il pesce perché la parola
greca che lo indica (ichthýs) è l’acronimo di Iesùs CHristòs THeù HYiòs Sotèr,
vale a dire «Gesù Cristo, figlio di Dio salvatore»; il vino perché annuncia il
sangue versato; il pane per via del processo di lievitazione, che corrisponde a
quello che fa la Chiesa grazie alla parola di Dio; il pane e il vino annunciano il
mistero dell’eucaristia e della comunione sotto le due specie, e al miele viene
associata la parola di Dio nell’Antico Testamento, confrontiamo per esempio
Ezechiele (3, 3) o i Salmi (19, 11; 119, 103); alla fine sale in cielo dove, al
momento attuale, ancora sembra risiedere…
In apertura del proprio Vangelo, Luca si preoccupa di segnalare che, per tutte
le cose che racconta, ha incontrato i testimoni, e questo fatto dovrebbe
convalidare dal punto di vista storico tutte le sue storie. Non sappiamo bene
esattamente chi abbia incontrato, né che cosa gli abbiano raccontato. Quando
Luca scrive il suo testo, tra l’80 e l’85 della nostra era, gli eventi che racconta
sono ormai vecchi di mezzo secolo. Quindi, se Luca ha sentito dei testimoni
diretti, al momento della crocifissione dovevano essere molto giovani e, quando
l’evangelista li incontra, invece, avere certo più di cinquant’anni… Non si
capisce bene perché Luca non fornisca le generalità di questi testimoni; magari è
solo perché se li è inventati nel tentativo di far passare il proprio meraviglioso
racconto come testo storico.

Diciamocelo subito, il corpo di Gesù, chiamato a servire da modello per milioni


di uomini all’interno della civiltà giudaico-cristiana, si rivela essere un
controcorpo, un anticorpo: nessun essere umano può nascere davvero da una
madre vergine e da un padre senza che quest’ultimo abbia avuto una relazione
sessuale con la partoriente; a nessun angelo è permesso di scendere dal cielo,
oltretutto accompagnato da legioni, per annunciare che Dio prenderà la forma di
un’ombra per fecondare la sposa di Giuseppe; nessun bambino di dodici anni, di
cui non si è mai nemmeno detto che abbia imparato qualche cosa a scuola o in
sinagoga (dalla nascita fino a quest’episodio, raccontato unicamente da Luca, la
sua biografia è inesistente), è in grado di tenere intellettualmente testa ai dottori
della Legge, che hanno passato anni a studiare la Torah; nessuna voce venuta dal
cielo può parlare una lingua comprensibile a qualcuno che si trova dentro il
fiume Giordano e vede arrivarsi sopra la testa una colomba; nessun uomo può
sopravvivere quaranta giorni nel deserto senza bere e senza mangiare; ancora di
più, nessun uomo riuscirebbe a sopravvivere trent’anni, sempre che questa sia
l’età della sua morte, ingerendo solo simboli (mai un lokum, mai un agnello alla
griglia, mai una tajine, mai un po’ di tè alla menta, mai niente da espellere);
nessun diavolo può entrare in contatto con un essere umano sottoponendolo a
prove terribili da cui quest’ultimo può uscire vincitore; nessun uomo è in grado
di restituire la vista ai ciechi, la salute ai malati, la deambulazione ai paralitici,
l’udito ai sordi o la vita ai morti semplicemente imponendo le mani o proferendo
qualche parola; nessun uomo può morire, resuscitare e mettersi tranquillamente a
cenare con gli amici prima di prendere la strada del cielo in senso ascensionale e
andare a vivere per l’eternità a fianco del padre…
A meno di non voler davvero credere che la vita partecipa del miracoloso
(cioè intrusione divina del disordine poetico nella legge naturale) e non del
meraviglioso (cioè una modalità lirica dell’espressione letteraria), questa storia
non va presa alla lettera. Brulica di aneddoti da spiegare, di parabole da chiarire,
e di significati da esplicitare. Come possiamo capire la parabola del cammello
chiamato a passare per la cruna di un ago, o quella del grano di senape, o ancora
quella del buon samaritano, o quella del figliol prodigo, o quella della porta
stretta, o ancora quella della dracma perduta, e tante altre? A me pare che
un’intelligenza normalmente costituita non potrà fare a meno di concludere che
un’esegesi si rende necessaria.
Solo chi crede insiste a prendere le cose alla lettera; per lui, la ragione non può
più fare granché…

Ed ecco la terza cosa da tenere a mente di questo vangelo: il testo deve essere
interpretato, perché è enigmatico, e il suo senso è nascosto, e solo la relazione
con Gesù, con gli apostoli o con i loro discendenti, cioè gli uomini di Chiesa, è
in grado di disporre del senso.
La relazione del maestro con il proprio discepolo, per come esiste nella
filosofia antica, ritrova qui i suoi titoli di nobiltà: la parabola è una parola
esoterica che diventa essoterica dopo essere stata spiegata dal maestro che
domina il sapere, o da uno dei suoi discepoli iniziati. Se nessuno è in grado di
resuscitare i morti, vale a dire di rendere la vita a chi l’ha persa, occorrerà per
forza di cose che vita e morte significhino una cosa diversa rispetto a quella
anatomica, e liberino tutto il loro significato sul piano allegorico. E Luca ci aiuta
in effetti a leggere le cose in questo modo.
Racconta per esempio la Parabola del seminatore (Lc 8, 5-8) che il contadino
lancia i propri semi; una parte di questi semi finisce nel fossato e viene mangiata
dagli uccelli; un’altra parte finisce sulla pietra e, in mancanza di terra e di
umidità, cresce per un po’ ma poi si secca; un’altra parte ancora cade in mezzo ai
rovi, e questi rovi le impediscono di svilupparsi; un’ultima parte finisce su terra
buona, al punto giusto e con la giusta umidità, e così riesce a produrre cento
volte tanto…
Lo spirito meschino non riuscirà a vedere più lontano di quello che racconta la
storiella, e ne trarrà una specie di lezione agronomica… Ne tirerà fuori la morale
del buon contadino che si preoccupa di guardare bene dove cadono i semi
quando li distribuisce, in modo da non sprecarli! Punto a capo.
Gesù però ci avverte: «Chi ha orecchi[e] per ascoltare, ascolti» (Lc 8, 8), il
che significa, propriamente parlando, delucidare l’enigma di una parabola
attraverso un’altra parabola! Perché, che cosa vuol dire avere delle orecchie in
grado di ascoltare i due livelli della storia? I suoi interlocutori glielo chiedono e
lui risponde: «A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri
solo con parabole, affinché / vedendo non vedano / e ascoltando non
comprendano» (Lc 8, 10).
Poi, rompendo il mistero, aggiunge:
Il significato della parabola è questo: il seme è la parola di Dio. I semi caduti lungo la strada sono
coloro che l’hanno ascoltata, ma poi viene il diavolo e porta via la Parola dal loro cuore, perché
non avvenga che, credendo, siano salvati. Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano,
ricevono la Parola con gioia, ma non hanno radici; credono per un certo tempo, ma nel tempo
della prova vengono meno. Quello caduto in mezzo ai rovi sono coloro che, dopo aver ascoltato,
strada facendo si lasciano soffocare da preoccupazioni, ricchezze e piaceri della vita e non
giungono a maturazione. Quello sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola
con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza (Lc 8, 11-15).

Dove si vede che la pista agronomica è accolta solo dallo stupido che guarda il
dito quando il saggio indica la Luna! Nella logica dell’allegoria, invece, questa
cosa non è questa cosa ma un’altra cosa, e anche quello che crediamo è un’altra
cosa, e a rivelarcela è il maestro, l’iniziato, il discepolo, che la trasmette a chi
non la conosce.
Mettiamo questa storia in relazione con un’altra storia.
Entrando a Gerico, un cieco, seduto sul ciglio della strada, sta mendicando e
chiede di poter vedere questo Gesù annunciato dal rumoreggiare della folla.
Gesù si avvicina e gli dice: «‘Che cosa vuoi che io faccia per te?’ Egli rispose:
‘Signore, che io veda di nuovo!’ E Gesù gli disse: ‘Abbi di nuovo la vista! La
tua fede ti ha salvato’. Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo glorificando
Dio» (Lc 18, 41-43).
Una lettura semplicemente oftalmologica finirebbe per sbattere subito contro
il muro, esattamente come una lettura agronomica della parabola dei semi.
Qualsiasi lettura positivista di un testo allegorico si inoltra su una strada senza
uscita. Il Nuovo Testamento è un catalogo di enigmi che l’iniziato deve
decifrare. L’Ecclesia, la Chiesa, indica la comunità degli iniziati desiderosi di
allargare le proprie possibilità. Perché, in fondo, la vocazione di questo sapere
nascosto non è di rimanere tale, ma di diffondersi a più persone possibili.
Il mendicante di Gerico riceve una parola che è la chiave dell’enigma: è la
fede che salva e non gli ipotetici poteri taumaturgici di Gesù. Non è la mano
imposta sul malato o appoggiata sulla piaga che cura, è la parola, il famoso
Verbo di cui Giovanni ci dice che salva. Gesù è il Verbo che cura e guarisce
attraverso il Verbo.
In questo modo, la vita e la morte non devono essere intese come categorie
anatomiche, fisiologiche, o medico-legali, ma come stati spirituali. La donna che
soffre di emorragie, il cieco, il sordo, il paralitico non sono malati di emorragie
nei termini del ginecologo, o ciechi nei termini dell’oftalmologo, o sordi nei
termini dell’otorinolaringoiatra, o paralitici nei termini del neurologo, ma sono
tutte queste cose perché sono malati nell’anima e nell’essere, nella psiche e nello
spirito, nel cuore – che non è ovviamente quello del cardiologo…
In altre parole, la lezione di Gesù che i Vangeli ci trasmettono non è quella di
uno sciamano, di un guaritore, di un taumaturgo, o di uno stregone dotato di
poteri sovrannaturali, ma quella di un uomo saggio, di un filosofo, o di un
maestro di verità e di saggezza esistenziale. Non troviamo, in questi versetti di
Luca, nessuna minaccia di inferno, di purgatorio o di paradiso, nessun ricatto di
dannazione. Per quanto paradossale possa sembrare, la parola «anima» non
appare mai nei Vangeli, ma nemmeno quella di «inferno» o di «paradiso».
Nei Vangeli, si contrappongono i vivi ai defunti, e la vita alla morte, ma non si
parla mai di salvare le anime o di condannare i corpi. E sono quelle le parole che
entrano nella dialettica allegorica del Nuovo Testamento: la morte, che è vita
senza Dio, e la vita, che è vita assieme a lui. La vita con Dio è la vita etica che
Luca ci indica.
Un esempio. La figlia di Giàiro, dodici anni, è morta. A quest’ultimo, Gesù
dice: «Non temere, soltanto abbi fede e sarà salvata» (Lc 8, 50). Entra nella
camera mortuaria con tre dei suoi discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, e i
genitori della bambina che piangono e si battono il petto. «Gesù disse: ‘Non
piangete. Non è morta, ma dorme’. Essi lo deridevano, sapendo bene che era
morta; ma egli le prese la mano e disse ad alta voce: ‘Fanciulla, àlzati!’ La vita
ritornò in lei e si alzò all’istante» (Lc 18, 52-55). A salvare, lo dice il testo, è
l’atto di fede, non il gesto che fa Gesù.
Nella parabola del figliol prodigo, il padre uccide il vitello grasso non per
celebrare e onorare il figlio migliore, ma l’altro, il figlio peccatore. Il figlio
offeso domanda le ragioni di questa ingiustizia. E la risposta del padre è: «ma
bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato
in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15, 32).
Morto al mondo è chi non vive secondo i princìpi dettati da Dio; vivo per
l’eternità chi, al contrario, regola la sua vita proprio su questi princìpi.
La quarta cosa da tenere a mente di questo Vangelo è l’idea che vivere
secondo le proprie passioni, secondo le proprie emozioni o secondo le proprie
sensazioni significa condurre la vita di un cieco o di un paralitico, di un sordo o
di un muto, se non addirittura quella di un morto.

Abbiamo visto che, dal punto di vista anatomico, il corpo di Gesù si rivela essere
un anticorpo: non ha un padre umano ed è concepito da una forza estranea,
indifferente alla genetica; è accompagnato dagli angeli e non gli si conoscono
passioni; non ha una donna, non pratica sesso e non si lascia andare a risate,
anche se ogni tanto qualche lacrima gli scappa (due volte piange per
compassione e una per paura); non ha desideri, non si ciba di alimenti terrestri e
non si sa se e quanto espella; resiste alle tentazioni ed è superiormente dotato già
all’età in cui i bambini di solito giocano a nascondino; muore, ma solo per tre
giorni, dopodiché resuscita e si rimette a vivere una vita in cui sembra
dimenticare che, in virtù della Parusia, il suo ritorno è sempre atteso sulla Terra,
annunciato prima della morte di coloro che lo stanno ad ascoltare da due
millenni… Davvero: imitare un simile uomo è una vera sfida!
L’etica proposta da Gesù è, etimologicamente parlando, inumana, cioè
davvero oltre ogni umanità. Esige, in effetti, un uomo che sia simile a un
cadavere, un uomo insensibile ai colpi della sorte e distaccato da tutti i beni del
mondo. Un uomo privo di amici, nel senso latino del termine, senza una moglie,
senza figli, senza un padre e senza una madre degni di questo nome, insomma
senza famiglia. A sentire il figlio di Giuseppe e Maria, l’ideale è un uomo nudo.
Gesù propone delle incredibili prodezze etiche e morali: amare il proprio
prossimo qualunque esso sia, e quindi amare anche i propri nemici, i propri
avversari e tutti quelli che ci detestano e ci vogliono o ci fanno del male; tendere
l’altra guancia a chi ci sta colpendo il viso; offrire ancora di più al ladro che ci
sta derubando dei nostri beni; prestare senza pensare alla restituzione; essere
buoni con i cattivi; non giudicare e non condannare; dimostrarsi misericordiosi;
dare tutto quello che si ha; fare l’elemosina e invitare alla propria tavola poveri,
storpi, zoppi e ciechi.
A un ricco che gli stava chiedendo come potesse fare per ottenere la vita
eterna, Gesù risponde: «Tu conosci i comandamenti: Non commettere adulterio,
non uccidere, non rubare, non testimoniare il falso, onora tuo padre e tua
madre» (Lc 18, 20). Qui, peraltro, i dieci comandamenti si sono ridotti a cinque.
Gesù aggiunge: «vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un
tesoro nei cieli; e vieni! Seguimi» (Lc 18, 22). Non è difficile capire come
possano esserci stati dei punti di contatto tra il cinismo greco e il cristianesimo
dei primi tempi. Non sappiamo che cosa abbia poi deciso di fare il ricco…
Imitare un uomo simile poteva rendere possibile una civiltà? Ovviamente
no…
Questo anticorpo angelico e virginale offriva un modello ideale per un
cristianesimo radicale, quale fu vissuto dai primi cristiani, eremiti o cenobiti.
Monaci atleti del deserto, come si disse, questi fedeli hanno condotto una vita
secondo gli insegnamenti di Gesù: frugalità, ascesi, povertà, austerità e
astinenza, fino all’eccesso – vivere tutta una vita in una tomba murata, oppure
sopra una colonna alta venti metri, oppure nudi sopra dei mattoni in attesa che il
sudore li sciolga, oppure ancora avvolti nudi dal miele per essere punti dalle
zanzare e puniti per il semplice fatto di averne uccisa una. Il cristianesimo di
questa specie poteva portare solo a una serie di vite individuali, non a una civiltà.
È un altro Gesù quello che rende possibile la civiltà: è il Cristo, in altre parole
il Gesù crocifisso, suppliziato e morto sulla croce e infine resuscitato,
trasformato nel simbolo di questa nuova religione. Che uno strumento di tortura
abbia potuto diventare il segno sotto cui riunificare tutti i devoti di questa
religione ci insegna molto sul fatto di come essa sia riuscita a rovesciare sul
corpo etereo di Gesù quello suppliziato e sanguinolento di Cristo. L’invito a
imitare l’angelo, che presuppone la cancellazione del corpo, è accompagnato
dall’invito a imitare allo stesso tempo il cadavere, mentre alle donne veniva
offerta la possibilità di imitare una vergine madre…
Come si sia passati dal Gesù vivo al Cristo sanguinolento, figura della morte,
e poi al Gesù Cristo angelo mortificato e modello esistenziale per un migliaio di
anni, è la storia del paolinismo…
Capitolo quinto
Le lingue di fuoco dello Spirito Santo
Dannare la carne

Lo ripeto, se i Vangeli non si preoccupano assolutamente di anime da punire


all’inferno o da ricompensare in paradiso, né di corpi divisi in due, con, da una
parte, la carne da detestare e, dall’altra, l’anima da venerare, la stessa cosa non
succede a san Paolo, che è colui che compie il passaggio dalla cancellazione dei
corpi alla condanna della carne.
Gesù e san Paolo insegnano cose radicalmente opposte! Di fronte alla
peccatrice incontrata a casa del fariseo Simone che l’ha invitato a pranzo, Gesù
lascia che lei lo profumi e versi lacrime ai suoi piedi, lacrime che poi lei stessa
va ad asciugare con i suoi capelli. Gesù difende l’idea che non bisogna
giudicare, e infatti non la giudica; anche Paolo dice che non si deve giudicare,
però, invece, lui alla fine giudica. Non è alla peccatrice che Gesù impartisce una
lezione, ma a Simone, che la sta giudicando. E non c’è dubbio che a san Paolo,
che si comporta allo stesso modo di Simone, avrebbe ripetuto le parole che ha
rivolto al suo ospite: «sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto
amato» (Lc 7, 47). È altrettanto certo che, da parte sua, Paolo tornerebbe a
sostenere quello che ha insegnato ai Filippesi: «dedicatevi alla vostra salvezza
con rispetto e timore» (Fil 2,12). Rispetto e timore: eccoli, i pilastri del
paolinismo! E sono l’esatto contrario di quello che andava insegnando Gesù, il
quale praticava dolcezza e tenerezza, pietà e compassione, bontà e misericordia.
Nel paradiso di Gesù, Paolo non troverebbe mai posto…
La civiltà giudaico-cristiana è in sostanza meno cristica di quanto non sia
paoliniana.
Nell’arte cristiana, l’attributo principale di san Paolo è la spada, e non senza
motivo. I suoi sostenitori spiegano che quella spada simboleggia il martirio per
decapitazione. Ma, allora, perché san Pietro, crocifisso a testa in giù (pensava di
non-essere degno di una crocifissione con la testa in alto come Gesù), è invece
raffigurato con le chiavi del paradiso e non con lo strumento della propria
morte? La verità è che Paolo è proprio l’uomo che ha evangelizzato con la spada
in mano, e per convincersene basta leggere la letteratura paoliniana.
La storia di Paolo di Tarso la conosciamo, ce la raccontano gli Atti degli
apostoli: all’inizio c’è Saulo, ebreo, che comincia perseguitando i cristiani.
Confessa lui stesso:
Molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con il potere avuto dai capi dei sacerdoti e, quando
venivano messi a morte, anche io ho dato il mio voto. In tutte le sinagoghe cercavo spesso di
costringerli con le torture a bestemmiare e, nel colmo del mio furore contro di loro, davo loro la
caccia perfino nelle città straniere (At 26, 10-11; corsivo mio).

«Molti dei fedeli» significa che non c’è stato soltanto il martirio di Stefano
(At 7, 54-60), a cui viene ridotto, nella maggior parte dei casi, il passato
cristianofobo di Paolo. In quel caso, avrebbe partecipato semplicemente tenendo
in mano i vestiti del primo martire della Chiesa, come viene spesso ricordato. Gli
Atti ci raccontano però anche che «Saulo intanto cercava di distruggere la
Chiesa» (At 8, 3). E la Chiesa, uno non la distrugge standosene semplicemente
con in mano i vestiti di una persona che altri stanno lapidando…
Poi, sulla strada per Damasco, dove contava di poter organizzare nuove
spedizioni punitive di morte contro i cristiani, ha la rivelazione: l’iconografia
cristiana ce lo rappresenta mentre cade da cavallo. Nel testo neotestamentario, in
realtà, il destriero non viene affatto menzionato, però la descrizione è
ugualmente precisa: c’è un bagliore che illumina il cielo e una voce che gli si
rivolge, una voce che sentono persino i suoi compagni di viaggio, ed è quella di
Gesù che gli chiede perché lo stia perseguitando. Saulo avrebbe potuto iniziare
un dialogo ad alto tenore teologico con Cristo, che gli stava concedendo il
privilegio di apparirgli e l’elemosina di una conversazione; Saulo avrebbe potuto
cercare di convincerlo che lui, Cristo, era solo un impostore che pretendeva di
essere il Messia annunciato dalle Scritture. Però il dibattito non c’è stato: Saulo
si rialza da terra, come ci hanno raccontato (il che significa che è caduto da una
posizione in piedi), e ha perduto la vista. Entra a Damasco tenendo la mano di
uno dei suoi compagni. Resta tre giorni senza riuscire a vedere niente, senza
mangiare e senza bere. Giusto il tempo che serve a Gesù per resuscitare: di
giorni, non ne poteva certo fare di meno; giusto il tempo che l’ebreo Saulo si
trasformi nel Paolo della civiltà giudaico-cristiana.
L’opera di evangelizzazione che conduce nel corso dei suoi tre grandi viaggi
nel bacino mediterraneo è considerevole: Giudea, Asia minore e Grecia; questa
sua opera la paragona al «pugilato» (1Cor 9, 26).31 Da fanatico cristiano, si
comporta con i pagani come l’ebreo che era stato si era comportato con i
cristiani: Paolo è davvero l’uomo che, nella storia dell’arte, viene non senza
ragione associato alla spada.
Lo vediamo anche presenziare a un autodafé di libri definiti di «magia», e che
in realtà erano tutte opere di teologia pagana, e non, come precisano spesso gli
apparati critici, di «scienze occulte»! «Ne fu calcolato il valore complessivo e si
trovò che era di cinquantamila monete d’argento» (At 19, 19) – una fortuna, in
effetti. Si trattava di libri preziosi delle religioni combattute da Paolo, cioè
paganesimo e giudaismo. E niente impedisce che sulle braci siano finiti anche
dei rotoli della Torah.
La volontà di evangelizzare con la violenza e attraverso il combattimento
fisico è straordinariamente persistente. Giudichiamo noi stessi: «Io dunque
corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte
l’aria». E poi ancora, sulla scia: «tratto duramente il mio corpo e lo riduco in
schiavitù, perché non succeda che, dopo avere predicato agli altri, io stesso
venga squalificato» (1Cor 9, 26-27). Che cosa ci rappresenta questo pugile che
pratica il pugilato anche contro sé stesso? Che cosa dobbiamo pensare di questo
personaggio che mena colpi agli altri, ma non dimentica di infliggersene pure da
solo?
È lo stesso Paolo a fornire i dettagli autobiografici. Nelle sue Confessioni,
sant’Agostino si ricorderà di questa particolare procedura apologetica. Leggiamo
la seconda lettera ai Corinzi:
Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; tre volte sono stato battuto con le
verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una
notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai
miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare,
pericoli da parte di falsi fratelli; disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete, frequenti
digiuni, freddo e nudità (2Cor 11, 24-27).

Non si possono meglio confessare i riflessi condizionati che ci portano a


metterci in pericolo da soli.
Che «il più piccolo tra gli apostoli» (1Cor 15, 9), come si definisce lui stesso,
non ami la propria persona è il meno che si possa dire. Ai Corinzi, si presenta
come un «aborto» (1Cor 15, 8), il che non sarebbe grave, se non si arrivasse a
trasformare questo amore dell’odio di sé nel principio stesso del paolinismo, e
nell’imperativo categorico della civiltà giudaico-cristiana, quasi ne fosse la
matrice.
Confessa di soffrire per il fatto che gli «è stata data alla [sua] carne una spina»
(2Cor 12, 7), senza che si venga mai davvero a sapere di che cosa si tratti… Su
questo argomento, è stato scritto di tutto, ma senza mai riuscire a trovare
qualcosa di effettivamente convincente. C’è addirittura un libro che propone
tutta una lista di possibilità:
Artrite, colica nefritica, tendinite, sciatica, gotta, tachicardia, angina pectoris, prurito, antrace,
foruncoli, emorroidi, ragadi, eczema, lebbra, herpes zoster, rabbia, erisipola, gastralgia, colica,
malattia della pietra, otite cronica, sinusite, tracheo-bronchite, ritenzione urinaria, uretrite, febbri
maltesi, filariosi, paludismo, pilariosi, tigna, cefalea, cancrena, suppurazioni, ascessi, singhiozzo
cronico (!), convulsioni, epilessia.32

Nel mio Trattato di ateologia, avevo anche proposto un’altra malattia, meno
fisica, meno fisiologica, meno anatomo-patologica, e invece più psichica:
un’omosessualità rimossa, oppure più semplicemente un’impotenza sessuale, o
l’una come causa dell’altra. Una lettura probabilmente un po’ azzardata, tenendo
soprattutto presente un’altra informazione che riguarda il corpo di Paolo e che ci
viene fornita nella lettera ai Galati: «Sapete che durante una malattia del corpo vi
annunciai il Vangelo la prima volta; quella che, nella mia carne, era per voi una
prova, non l’avete disprezzata né respinta» (Gal 4, 13-14).
Se questa malattia del corpo si presentava come capace di provocare disprezzo
o repulsione da parte degli altri, significa che era visibile, e questo esclude tutta
una serie di patologie che potremmo definire, in un certo senso, silenziose. Non
riusciamo a immaginarci bene come una fistola anale, o delle emorroidi possano
essere invocate a risolvere l’enigma allegorico di quella spina. Si tratta bene o
male di parti anatomiche non utili all’opera di evangelizzazione. E nemmeno
possono sembrare verosimili otiti, sinusiti o calcolosi, o problemi vari di
ritenzione urinaria, o altre affezioni da cui i nostri interlocutori potrebbero
rimanere colpiti soltanto se qualcuno gliele confessasse. Restano le malattie
invasive della pelle, dermatosi giganti o cose del genere, che funzionano a cicli e
che, nei momenti di remissione, possono anche lasciar credere di essere
scomparse.
Comunque stiano le cose riguardo a questa spina nella carne dell’aborto, la
cosa davvero problematica è che quest’uomo, affrontando la questione dell’uso
del proprio corpo, abbia potuto rivolgersi all’intera assemblea riunita dei
cristiani con queste parole: «Diventate miei imitatori» (1Cor 11, 1); e: «morire
[è] un guadagno» (Fil 1, 21). Imitare una persona che soffre di una patologia
invalidante e preferire la morte alla vita è una specie di programma ontologico
ed esistenziale che non dovrebbe mai portare alla costruzione di una civiltà, a
meno di non voler fondare una civiltà di nevrotici…
Il corpus paoliniano è il corpo di Paolo, e questo corpus fonda la civiltà
giudaico-cristiana.
Il paolinismo (non voglio dilungarmi sull’argomento)33 è composto da un
insieme di tesi: l’opprimente antisemitismo nei confronti degli ebrei, i quali, non
avendo accettato il fatto che Gesù è il Messia annunciato dalle Scritture (At 3,
20; Rom 10, 21), vengono ritenuti responsabili della morte del Figlio di Dio
fattosi uomo (At 3, 15) – Paolo descrive a lungo la capacità d’intrigo propria
degli ebrei (At 25, 8-12); quella che oggi chiameremmo omofobia, e che è
sostanzialmente persecuzione di quanti allora venivano definiti sodomiti (Rom 1,
27); la misoginia e il dominio maschile, conseguenze del peccato originale di
Eva, e di fatto responsabili di una situazione in cui le donne si ritrovano a subire
totalmente l’autorità degli uomini, senza poter per esempio insegnare, costrette a
chiedere sempre quello che vogliono sapere, a mantenere il silenzio e a
occuparsi unicamente della casa, del focolare e della famiglia, con l’unica
possibilità di redenzione offerta dalla procreazione – «lei sarà salvata partorendo
figli» (1Tm 2, 15); l’anti-intellettualismo, che presuppone la celebrazione
dell’innocenza e dell’ignoranza e che si trova sempre accompagnato da un
profondo disprezzo nei confronti della filosofia (1Col 1, 19-20 e 3, 18): «Fate
attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri
ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo
Cristo» (Col 2, 8); il cesaropapismo, che, in virtù del principio secondo il quale
«tutto il potere proviene da Dio» («Ciascuno sia sottomesso alle autorità
costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono
stabilite da Dio», Rom 13, 1) e, di conseguenza, qualsiasi atto di disobbedienza
dal demonio, invita a obbedire ai potenti che esercitano il potere perché è Dio
che li ha resi così come sono – che è anche la ragione per cui, assieme all’opera
di evangelizzazione portata avanti a forza di fendenti e autodafé, a furia di colpi
inferti e mosse da pugilato, il cristianesimo, nella sua forma paoliniana, riesce a
trionfare con Costantino all’inizio del IV secolo, e a fondare una civiltà.

Quello che vorrei invece qui precisare riguarda la condanna della carne da parte
di quest’uomo che sembrava vedere la propria (carne) condannata, e che,
nonostante tutto, si ostinava a proporsi come modello, invitando tutti quanti a
prendere esempio da lui. La verità è che universalizzare la propria nevrosi non
ha mai eliminato nessuna nevrosi, di certo non quella di chi crede di poterla
cancellare grazie a sotterfugi come questo. Opprimere il mondo non dà nessun
sollievo a chi decide di opprimere. Far impazzire il prossimo per farla finita con
la propria pazzia porta soltanto a moltiplicarla.
Come fa allora Paolo per condannare la carne?
Innanzitutto, si mette a discutere con costanza dello Spirito Santo, il cui altro
nome è Paracleto. Ovviamente, nel Nuovo Testamento, non esiste nessuna
definizione soddisfacente di questa nozione, semplicemente lo Spirito Santo
esiste e produce degli effetti, tutto qui: assume la forma di una colomba al
momento dell’Annunciazione; è responsabile dello stato interessante di Maria;
sempre sotto forma di colomba, viene visto da Gesù scendere sopra di sé al
momento del proprio battesimo; guida lo stesso Gesù nel deserto e ne fa più tardi
il proprio prescelto; si occupa delle conversioni, ed è anche quella cosa che, in
forma di lingue di fuoco, scende sulla testa degli apostoli il giorno della
Pentecoste: «Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si
posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e
cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il
potere di esprimersi. / Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di
ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase
turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» (At 2, 3-6). In altre
parole, lo Spirito Santo è l’opposto della torre di Babele, cioè di quella torre in
cui gli uomini che parlavano tutti una stessa lingua furono puniti da Dio, che
decise di far scendere sopra di loro la confusione linguistica per punirli di averlo
sfidato e di voler raggiungere il cielo costruendo quella loro opera di pietra. È il
Cristo immateriale che porta dunque a compimento quello che gli uomini,
invischiati come sono nella materia, non riescono a ottenere: un luogo in cui tutti
gli uomini si comprendono parlando la stessa lingua – solo che questo può
avvenire unicamente in lui, attraverso di lui e in suo nome. Ecco annunciato il
corpo mistico della Chiesa a sostituzione dei corpi terrestri.
Scrive, in seguito, Paolo ai Corinzi: «Non sapete che il vostro corpo è tempio
dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete
a voi stessi» (1Cor 6, 19). Esiste quindi del divino nell’uomo? È quello che, in
effetti, occorre cercare e ottenere. Capiamo come Platone e il platonismo
abbiano potuto accompagnare e assecondare simili iniziative.
Paolo non fa altro che allargare la frattura tra corpo materiale e anima
immateriale. L’odio della carne è in effetti una delle tematiche principali del
paolinismo, il quale si propone di convalidare una vera e propria dinamica
esistenziale: svilire il proprio corpo per elevare la propria anima! Maltrattare la
carne significa celebrare lo spirito, e celebrare lo spirito significa maltrattare la
carne.
Sempre ai Corinzi: «siamo diventati come la spazzatura del mondo» (1Cor 4,
13). E ai Romani:
Sappiamo infatti che la Legge è spirituale, mentre io sono carnale, venduto come schiavo del
peccato. Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che
detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; quindi non sono
più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita
il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il
bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io
a farlo, ma il peccato che abita in me. Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il
bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie
membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo
della legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di
morte? (Rom 7, 14-24).

Paolo gode della tensione tra potere e volere, tra volontà e compimento, tra
volizione e azione. Nel corpo si trovano due forze antagoniste, che sono allo
stesso tempo due istanze contraddittorie: l’intelligenza immateriale e le parti del
corpo. Chi è che vuole, e che cosa vuole? E poi ancora: quando? E come? In che
modo si articolano volontà della Legge attraverso l’intelligenza e corporeità
peccaminosa che, nello stesso corpo, le resiste all’interno? Qual è l’«intimo» che
abita questo «corpo di morte»? Lo Spirito Santo abita anche nella carne
adamica. In che modo, allora, risolvere l’aporia?
Vantando l’«uomo nuovo» creato da Cristo (l’espressione si trova nella lettera
agli Efesini, 2, 15), san Paolo cancella il vecchio uomo, vale a dire l’ebreo e il
pagano.34 Mina lo schema greco del tempo circolare fondato sull’eterno ritorno,
per inaugurare l’idea della freccia in cui il passato si trova dietro di noi, il
presente qui e ora nel punto in cui siamo, e il futuro di fronte.
Per Paolo, il passato è il tempo della Torah, il tempo del Pentateuco, se
vogliamo usare il nome con cui gli ebrei d’Alessandria la indicavano, nome che
poi fu ripreso anche dai cristiani; ed è il tempo, ebraico, della Legge di Mosè e di
Abramo, della colpa di Adamo e dell’annuncio del Messia venuto a salvare
l’uomo dal peccato. Il presente è invece il tempo dei Vangeli, il tempo di Gesù,
Figlio di Dio fatto Uomo, ed è anche il tempo della venuta del Messia
annunciato dagli ebrei e incarnato, come dicono i cristiani, per riscattare i peccati
del mondo attraverso la sua Passione, la sua morte e la sua Resurrezione. Il
futuro è infine il tempo dell’uomo nuovo, ed è anche quello, giudaico e cristiano,
della Parusia annunciata nel Vangelo di Giovanni. Precisiamo, a questo punto,
che l’Occidente cristiano si fonda tutto su questa freccia che, proprio grazie alla
promessa della Parusia e del Giorno del giudizio, produce lo schema progressista
del secolo dei Lumi.
Nell’iconografia occidentale, succede che, ai piedi della croce di Cristo morto
sul Golgotha (che, secondo l’etimologia aramaica, non a caso, significa «luogo
del cranio»), il pittore raffiguri… un cranio! È il cranio di Adamo, il primo
uomo, quello dalla cui colpa Gesù redime attraverso la propria morte sulla croce.
Il vecchio uomo è Adamo il peccatore e la sua discendenza; l’«uomo nuovo»
è l’uomo cristiano.
Ma voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui
siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima,
l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della
vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità (Ef
4, 20-24).

Stesso discorso ai Colossesi:


Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e
quella cupidigia che è idolatria; a motivo di queste cose l’ira di Dio viene su coloro che gli
disobbediscono. Anche voi un tempo eravate così, quando vivevate in questi vizi. Ora invece
gettate via anche voi tutte queste cose: ira, animosità, cattiveria, insulti e discorsi osceni, che
escono dalla vostra bocca. Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio
con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine
di Colui che lo ha creato. Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro,
Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti (Col 3, 5-11).

E perché l’uomo nuovo possa finalmente apparire, il fedele deve puntare


all’imitazione di Gesù Cristo. In altre parole, deve imitare Gesù, e volersi senza
corpo, senza carne, senza passioni, senza pulsioni, senza desideri, senza voglie e
senza piacere; deve tendere verso l’angelo e uccidere dentro di sé quello che gli
resta di peccato. Se di sesso maschile, non deve nascere da genitori reali e
concreti, ma farsi Figlio del Verbo e basta; per quanto riguarda la donna, invece,
dovrà imitare la vergine Maria, concepire e mettere al mondo senza l’aiuto di un
genitore, e per tutta la vita riservare l’uso del proprio corpo unicamente al
marito, al quale obbedirà in tutto e per tutto. Per quanto riguarda il resto, quando
quest’uomo nuovo imiterà Cristo, dovrà cercare la sofferenza e il dolore per il
loro potere salvifico, dalla penitenza fino al martirio, per chi è più radicale.
Quello che san Paolo promette all’uomo nuovo che ha ucciso il vecchio dentro
di sé, è di rivestire un giorno, e per l’eternità, un «corpo glorioso». Ai Filippesi
dice che Cristo «trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo
glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose» (Fil 3,
21). Che cosa possiamo pensare di questo corpo glorioso?
Anche se qualcuno cerca di presentarle come storicamente accurate, le
Scritture sono in realtà molto contraddittorie. Andando ad analizzare i singoli
episodi della vita di Gesù sulla Terra dopo la sua resurrezione (un periodo di
tempo che potrebbe fornirci preziose informazioni sulla natura di questo corpo
glorioso), quelli che ritroviamo sono tutta una serie di racconti assolutamente
divergenti tra loro. A proposito delle reazioni delle donne che scoprono la tomba
vuota, a proposito della quantità di persone a cui Cristo appare, a proposito dei
luoghi delle sue apparizioni e delle parole che proferisce, a proposito del numero
stesso di queste sue manifestazioni, a proposito della loro natura e a proposito
della cronologia degli eventi, a proposito dell’Ascensione, ignorata da Matteo,
solo spirituale per Luca, e fisica e corporea nel racconto degli Atti (1, 9),
troviamo detto tutto e il contrario di tutto.
Persino a proposito della natura del corpo resuscitato, le versioni discordano: è
spirituale per Paolo (1Cor 15, 44), ed è invece carnale per gli evangelisti (Lc 24,
37)… E poi parlano della storicità di Gesù Cristo! La conclusione è che ci si
guadagna sempre a leggere i testi di cui si parla quando si prendono in giro le
tesi mitiste.
Sarà quindi abbastanza complicato ricavare da un testo neotestamentario
apparentemente chiaro la natura di questo corpo glorioso. Quello che sappiamo è
che, quando comincia a evangelizzare gli ateniesi, Paolo insegna la resurrezione
della carne. Incontra dei filosofi stoici ed epicurei che lo assediano di domande
per cercare di capire a che cosa potrà mai assomigliare un corpo morto che
resuscita in forma di corpo glorioso. E Paolo comincia con lo spiegare che ha
visto in città un altare dedicato a un Dio sconosciuto – è un segno della
tolleranza dei politeisti, che si dimostrano empatici e non insofferenti verso gli
dèi degli altri. Sempre pensando alla boxe, al combattimento, al pugilato, sempre
con la sua spada in mano, Paolo vuole fare crollare questa tolleranza pagana
affermando che quel Dio sconosciuto è il suo Dio, è Cristo, e gli altri sono tutti
idoli.
Paolo insegna che Gesù Cristo, Figlio di Dio, resuscitato, giudicherà gli
uomini. E fa così entrare nel mondo pagano un’ontologia nuova segnata
dall’errore, dal senso di colpa e dal peccato. L’anima deve sopportare tutta
questa oscura dinamica. Paolo pone la vita sopra una bilancia: un piatto pende
verso la salvezza eterna, l’altro verso la condanna eterna; da una parte il
paradiso, dall’altra l’inferno. In entrambi i casi, i corpi continuano a sussistere
anche dopo la vita, anche nella morte, e questo per sempre, per l’eternità. Gli
epicurei e gli stoici di Atene cominciano a prendere in giro il discorso di Paolo,
che a loro sembra incomprensibile. E, in effetti, per un greco, questo genere di
tesi lo è, incomprensibile.
Mezzo secolo dopo la morte presunta di Gesù, ad Atene, la ragione ancora
resiste a questa favola. Però quando, nel 313, con Costantino, l’impero diventa
cristiano, e quando, per dieci secoli, una coorte di Padri della Chiesa mette
l’intelligenza al servizio di quella che apparentemente è solo una sciocchezza
filosofeggiante, ma che viene fatta passare per verità filosofica, non sono più i
filosofi che si prendono gioco del paolinismo, è il cristianesimo che piega la
filosofia. L’anima degli uomini nati da Adamo si rivela nera come l’inferno.
Capitolo sesto
Niente erezioni nel giardino dell’Eden
Sessualizzare il peccato

Citando i Salmi (94, 11), Paolo spiega ai Corinzi: «Il Signore sa che i progetti
dei sapienti sono vani» (1Cor 3,20). Il tredicesimo apostolo non nasconde il
proprio disprezzo per la filosofia e, come abbiamo visto, gli epicurei e gli stoici
ateniesi gli rendono pan per focaccia. Dio, comunque, ha più a che fare con la
fede e la grazia che non con la ragione e l’intelligenza. Il peccato originale non è
forse, per l’uomo, o meglio per la donna, quello di aver preferito il sapere
all’obbedire, andando ad assaggiare il frutto dell’albero della conoscenza del
bene e del male che Dio aveva proibito di consumare?
Una cosa che ci stupisce è l’idea di una possibile corrispondenza tra san Paolo
e Seneca. Tra il filosofo storico e l’evangelista si dice esserci stato uno scambio
epistolare di quattordici lettere, otto scritte dall’autore delle Lettere a Lucilio, e
sei da quello delle lettere del Nuovo Testamento. In realtà, il vero nocciolo di
tutta la questione non è tanto lo scambio reale tra i due, quanto piuttosto
l’esercizio di stile messo in piedi dall’apologetica cristiana.
Il testo è in effetti un falso composto attorno al IV secolo della nostra era.
Sant’Agostino certifica la sua validità in una lettera (153, 14), ma alcuni autori
del Rinascimento, Lorenzo Valla e Leonello d’Este, provano filologicamente la
sua natura contraffatta, probabilmente realizzata sotto i Valentiniani.
In attesa del processo, Paolo si stabilisce per due anni a Roma, dove lo stesso
Seneca già si trova. La situazione, ce la illustrano gli Atti degli apostoli (28, 30):
l’evangelista è ai domiciliari e può ricevere visite, quindi potrebbe teoricamente
accogliere anche il filosofo romano. L’incontro in realtà non è mai avvenuto, e
parte di questa breve corrispondenza sembra attestarcelo esplicitamente, quando
entrambi gli autori si mettono a deplorare il fatto di non essersi mai incontrati.
La verità è che, se si abita nella stessa città, due anni sono un termine di tempo
ampiamente sufficiente per riuscire a vedersi, e già solo questa possibilità basta a
creare i presupposti di una finzione.
Il testo circola parecchio nel corso dei secoli, lo provano il numero di
manoscritti, più di trecento. Si apre con un Prologo di san Girolamo, secondo il
quale Seneca avrebbe voluto «essere tenuto presso i suoi nello stesso conto in
cui è tenuto Paolo presso i Cristiani».35 Non si capisce molto bene come il ricco
e potente precettore dell’imperatore Nerone, una persona che vive a corte di
quest’ultimo, possa aspirare a «essere Paolo» senza mai riuscire a diventarlo!
Tanto più che, in questi anni, Paolo è solo un ebreo sconosciuto che si è
convertito al cristianesimo, e che il cristianesimo stesso esiste solo in forma
dispersa e settaria. A questo, aggiungiamo che Paolo vive nell’attesa di essere
processato dalle autorità romane.
Non c’è bisogno di particolari studi filologici per convincersi della natura
fittizia di tutta questa storia. Basta invocare il carattere inverosimile di una simile
relazione apologetica, inventata da un anonimo solo dopo che Paolo si è
trasformato in uno dei pilastri della Chiesa cattolica, apostolica e romana. È, del
resto, proprio a partire dal IV secolo che si comincia a credere che la sua tomba
si trovi proprio nella basilica di San Pietro a Roma.
Per quanto inventato, che cosa ci può comunque insegnare questo epistolario?
Che Seneca ha studiato le lettere di Paolo, ne ha discusso con altri cristiani e le
ha trovate molto interessanti (Lettera I); che a Paolo questo fa piacere (Lettera
II); che il filosofo s’immagina un incontro tra l’apostolo e l’imperatore Nerone
(Lettera III); che Paolo approva questo progetto (Lettera IV); che il romano si
preoccupa del silenzio dell’interlocutore, con il quale, sia detto en passant, si
congratula per il percorso che lo ha portato dal giudaismo a quello che ancora
non si chiama cristianesimo (Lettera V); che Paolo ha paura che le lettere
vengano intercettate e finiscano per danneggiare il suo corrispondente (Lettera
VI); che, secondo il filosofo, le idee paoliniane sono belle e buone, ma espresse
male (Lettera VII); che Paolo disapprova il fatto che Seneca abbia voluto parlare
a Nerone di tutte queste idee, e gli chiede di non riprovarci più (Lettera VIII);
che il filosofo stoico si rende conto di aver commesso un errore e chiede scusa
(Lettera IX); che Paolo si ritiene colpevole di non associare il nome del proprio
interlocutore con le alte funzioni che svolge nel contesto dell’Impero – il
discepolo di Gesù pensa al filosofo come a un «devotissimo maestro»36 (Lettera
X); che l’autore del libro Sulla felicità racconta quant’è contento di vedere i loro
due nomi associati nella storia (Lettera XI); che Paolo invita il proprio
corrispondente a convertirsi alla fede in Gesù Cristo (Lettera XIV); che l’autore
latino impartisce lezioni all’autore greco e lo invita a non usare troppe allegorie
o troppe parabole – trova che l’inadeguatezza della forma ostacoli la verità di
fondo del discorso e lo invita a scrivere nella lingua di Cicerone (Lettera XIII);
che lo stesso si lamenta che si vogliano perseguitare i cristiani accusandoli degli
incendi nella capitale dell’Impero, solo perché sono dei colpevoli ideali e di
conseguenza delle vittime facili da punire (Lettera XII).
Niente di teologico, nessuna discussione sulla resurrezione della carne, per
esempio. Quello che percepiamo nettamente è, invece, l’intenzionalità
apologetica dell’anonimo autore di questo documento falso.
Non riusciamo nemmeno per un secondo a immaginare che Seneca si sarebbe
potuto convertire alla religione di Paolo! Il personaggio dell’epistolario invece
non ha nessuna paura a compiere questo passo. Scrive a Paolo: «Confesso di
aver letto con piacere le lettere che hai mandato ai Galati, ai Corinzi e agli
Achei, e possiamo noi vivere insieme in quel timor di Dio che tu mostri
presentando le tue lettere (?). Infatti, lo Spirito Santo che è in te e al di sopra dei
più alti ingegni umani esprime con parole sublimi pensieri degni di venerazione»
(Lettera VII).37 Sembrerebbe quasi a un passo dalla conversione…
È probabilmente a proposito di questa affermazione che, qualche lettera dopo,
Paolo gli risponde: «ti sono state rivelate cose che la divinità ha concesso di
conoscere a pochi. Dunque, sono certo che io sto seminando un seme
vigorosissimo in un terreno fertile, non una qualche sostanza che sembra
corrompersi, ma la salda Parola di Dio, emanazione di Colui che cresce e rimane
in eterno. Ciò che la tua saggezza ha conseguito, cioè la decisione di evitare le
manifestazioni di culto dei pagani e degli Ebrei, non dovrà venire mai meno».38
E poi, in maniera inaspettata: «Tu ti farai il nuovo fautore di Gesù Cristo,
mostrando con proclamazioni retoriche quella sapienza irreprensibile che hai
ormai raggiunto e la farai penetrare nel sovrano temporale, nei membri della sua
corte e nei suoi amici fidati» (Lettera XIV).39 Cioè Paolo non si tira indietro di
fronte a niente, e chiede addirittura a Seneca di convertire Nerone con tutta la
corte, moglie Poppea compresa.
La verità è che lo stoicismo si rivela assai compatibile con il cristianesimo, al
contrario dell’epicureismo che, con la sua teoria atomista in virtù della quale
nulla esiste al di fuori degli atomi fluttuanti nel vuoto e raggruppati a costituire
tutti i tipi di materia del reale, del mondo e dell’universo, impedisce la
possibilità stessa dell’anima immateriale, dello Spirito Santo, della resurrezione
della carne in forma di corpo glorioso, e dell’eucaristia.
In compenso, per Seneca, la Provvidenza esiste; e Dio pure; l’anima è
immateriale, e il cosmo manifesta un ordine divino; la bontà trionfa con
l’esigenza morale di perdonare gli offesi; e la bontà è imitazione degli dèi; le
passioni sono tutte cose detestabili, il corpo va disprezzato, e l’ascesi invece
desiderata. Il filosofo romano invita a non bere più vino, ad astenersi dai piaceri
carnali, a scegliere la castità, ad allontanarsi dal mondo e a rifiutare tentazioni
come gli onori e le ricchezze, uccidendo dentro di sé le passioni dell’orgoglio,
della vanità e dell’invidia. E promuove una vita filosofica in cui la materia venga
sottomessa alla volontà – il che permette una lunga relazione amicale tra lo
stoicismo e il paolinismo…
Chi, tra Paolo e Seneca, scrive: «verrà il giorno che ti staccherà a forza e ti
trarrà fuori dalla convivenza con questo repellente e fetido ventre. Innalzati da
qui, per quanto ti è possibile, già fin d’ora, e non curarti dei piaceri […] medita
fin d’ora su qualcosa di più elevato e nobile»?40 Chi è che insegna: «ridesta in te
ciò che langue, rafforza ciò che è rilassato, doma ciò che si ribella, perseguita
per quanto puoi le tue passioni e quelle degli altri; e a quelli che vanno dicendo:
‘Fino a quando continuerai a ripetere sempre le stesse cose?’, rispondi: ‘Sono io
che dovrei dire: Fino a quando commetterete sempre gli stessi errori’»?41 Chi è
che scrive: «Perciò, se vorrai star bene, cura soprattutto la salute dell’anima, e
poi quella del corpo […]. È, infatti, da stolto […] l’attività di esercitare i muscoli
[…]. Quindi, per quanto ti è possibile, dà stretto posto al corpo e lascia spazio
all’anima»?42 O ancora: «concedete al corpo solo quanto basta perché goda di
buona salute […]: il cibo plachi la fame e la bevanda spenga la sete, le vesti
proteggano dal freddo»?43 E chi è che dice: «Con quale altro nome lo potresti
chiamare, se non un Dio che dimora nel corpo umano?» 44 E chi è che afferma:
«l’animo è, invece, per sua natura sacro, eterno ed esente da qualunque
violenza»?45 O: «nessuno conosce Dio»46, o anche: «Ma se [l’anima] non è pura
e santa, non può accogliere Dio»?47 È il tredicesimo apostolo o il filosofo
stoico? In realtà, tutti questi pensieri sono di Seneca! E li troviamo nelle Lettere
a Lucilio e nella Consolazione alla madre Elvia.
Possiamo solo stupirci leggendo queste parole: «[Il suo spirito] si è soffermato
brevemente in un luogo superiore, per purificarsi e scuotersi di dosso i difetti e
tutte le patine che ineriscono alla vita mortale, poi si è innalzato nel più alto del
cielo e colà si muove liberamente, tra le anime felici. Lo ha accolto una
compagnia sacra, gli Scipioni ed i Catoni, e, tra coloro che hanno disprezzato la
vita e si sono dati da sé la libertà, tuo padre, o Marcia».48 È un testo estratto
dalla Consolazione a Marcia e fa ovviamente pensare al purgatorio dei cristiani!
Oppure ricordiamoci di questa stupefacente frase delle Lettere a Lucilio: «Verrà
nuovamente il giorno che ci riporterà alla luce».49
Oppure di questo ritratto dell’«uomo perfetto»: «Non poteva, perciò, non
apparire grande colui che non pianse mai sui propri mali e non si lamentò mai
del suo destino; si è reso noto a molti, ha brillato come una luce nelle tenebre e
ha attirato su di sé la benevolenza di tutti con la sua calma e la sua dolcezza, con
il suo animo ugualmente giusto nelle cose umane e in quelle divine. Egli aveva
un’anima perfetta, che aveva raggiunto quel livello al di sopra del quale c’è solo
l’intelligenza di Dio, una parte della quale è discesa anche in questo petto
mortale».50 Come non pensare alla vita di Gesù, e a quella dell’«uomo nuovo» di
san Paolo?
Non la finiremmo più di mettere in rapporto la filosofia stoica e il pensiero
paoliniano, e non la finiremmo più di stupirci delle loro convergenze
ontologiche, spirituali, etiche e morali.
Non dobbiamo comunque dimenticare che, se Seneca è manifestamente un
contemporaneo di Paolo, le prime fasi greche dello stoicismo, con Zenone di
Cizio, Cleante di Asso e Crisippo di Soli, risalgono a parecchi secoli prima!
Quindi, evitando di ragionare da essenzialisti e di voler piegare la realtà storica,
possiamo affermare che il cristianesimo si forma nel I secolo della nostra era
contando su una tradizione filosofica anteriore che comprende, tra le altre cose,
anche lo stoicismo di Zenone, nato quattro secoli prima dell’inizio della nostra
era. Non è quindi lo stoicismo romano che prepara il cristianesimo, o addirittura
Seneca che sarebbe stato un cristiano suo malgrado, un cristiano mascherato o
un cristiano ante litteram; ma è Paolo di Tarso che ha alimentato il proprio
pensiero ebraico con una certa dose di filosofia pagana, che comprendeva anche
lo stoicismo dei suoi anni, quindi la sua versione romana.

Ciò che permette di avvicinare l’ebreo Paolo diventato cristiano al filosofo


stoico romano Seneca è un identico odio nei confronti della carne. Entrambi
credono che il corpo sia composto da uno spirito immateriale e da una carne
materiale. Ed entrambi ritengono che sia necessario maltrattare il proprio corpo
terrestre per riuscire a trattare bene la propria anima; che si possa elevare la
propria parte divina svilendo la propria parte carnale. Morire in questo mondo
per vivere in eterno nel retromondo: è questo l’imperativo categorico di tutti
questi sostenitori dell’ideale ascetico. Tanto Paolo che Seneca bagnano nello
stesso dolorismo.
Ma, allora, che cosa può giustificare il fatto di prendersela con il proprio
corpo quando questo stesso corpo è l’unico nostro bene? In nome di che cosa
considerare il desiderio cattivo, i piaceri vili, la carne colpevole, il corpo degno
di biasimo e il godimento qualcosa da detestare? Da nessuna parte negli scritti,
nei fatti e nelle gesta di Gesù, troviamo un minimo cenno che vada in questo
senso. Gesù non invita a maltrattare il proprio corpo, non ritiene che più lo si
umilia e lo si svilisce, più lo si sporca, lo si abbassa e lo si disprezza, più si fa un
favore alla propria anima, aumentando la velocità con cui viaggia verso il cielo.
Gesù ci invita invece ad amare il nostro prossimo, soprattutto quando ci detesta,
ci disprezza, ci odia e ci offende; ci chiede di perdonare i peccati, di rendere il
bene per il male, di tendere l’altra guancia quando ci colpiscono; e vorrebbe che
nessuno mai venisse giudicato. Al contrario di Paolo, non emana leggi contro la
carne, contro le donne, contro la sessualità, contro il desiderio, o contro il
piacere. Non arriverò fino a fare di Gesù un edonista, però è vero che non si
dimostra mai avversario del piacere. Da dove nasce allora quest’odio della carne
che accompagna sempre il riflesso condizionato dell’amore dell’odio di sé, con
la scusa che quest’animosità sarebbe amore di Dio?
Abbiamo visto che, con quella sua spina nella carne, con quella sua malattia
cronica, con quella sua patologia tanto palese, Paolo non solo non ama sé stesso,
ma vorrebbe anche che tutti quanti gli assomigliassero, e che quindi nessuno
amasse sé stesso… Non è senza motivo che lo stoicismo è stato considerato un
pensiero molto solidale e vicino a quello di Paolo. Esiste, in effetti, nei discepoli
del Portico, una teoria del dolore del tutto simile a quella presente nella
riflessione di Paolo, una teoria che invita ogni persona a farsi simile a Cristo, che
ha sofferto prima di morire sulla croce.
Nella storia della filosofia, lo stoicismo ha lasciato il proprio nome
identificato a una dottrina dell’impassibilità di fronte al dolore. La costruzione di
questo topos, più che dalla lettura dei trattati stoici penna in mano, deriva da un
aneddoto associato alla vita del filosofo Epitteto. Lo troviamo raccontato da
Origene, nel suo Contra Celsum. Epitteto era schiavo in casa di Epafrodito, un
liberto che era diventato segretario imperiale di Nerone. Non si sa per quale
ragione Epafrodito si mette a torturare Epitteto torcendogli la gamba. Ma
lasciamo parlare Celso, citato da Origene: «quando il padrone suo gli storceva la
gamba, [Epitteto] diceva sorridendo, senza scomporsi: Guarda che la spezzi!; e
quando quegli l’ebbe spezzata: Non te l’avevo detto – disse – che l’avresti
spezzata?»51 Sappiamo, perché è lui stesso a raccontarcelo a più riprese nelle sue
Diatribe, che Epitteto era zoppo. Non sappiamo se fosse in conseguenza di
questa storia, o se questa storia sia stata scritta proprio tenendo presente la sua
infermità! I romani, che non condividevano con i greci il gusto per le teorie
filosofeggianti, ma che hanno sempre preferito gli aneddoti edificanti,52 possono
benissimo essersi inventati questa storiella semplicemente per trasmettere una
lezione di saggezza, e cioè che il saggio sopporta la sofferenza e il dolore senza
lamentarsi, e che, anzi, proprio questa sopportazione è il segno e la prova della
sua saggezza.
Non posso fare a meno di mettere in relazione le parole del filosofo stoico,
«sereno e radioso», con quelle di Gesù sulla croce che grida «a gran voce», come
ci racconta l’evangelista, «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc
15, 34). Perché questo grido si rivela il punto cieco di tutto il cristianesimo, che
fa stranamente silenzio attorno a questa confessione, uscita dalla bocca stessa di
Gesù, il quale, nel corso della propria crocifissione, dubita di Dio, quindi di sé
stesso… I casuisti rispondono che è proprio lì che mostra la sua umanità; l’ateo
che è in me, invece, avrebbe preferito che in quella circostanza avesse mostrato
la propria divinità. In quel momento o mai più…
Non vogliamo sostenere che Epitteto amasse il dolore, o che considerasse
preziosa la sofferenza, però questo modo di trasformare il dolore da realtà
oggettiva a decisione della propria volontà, a effetto della propria decisione, apre
la strada all’idea che, nella sofferenza, esista un aspetto positivo, e con questo
anche il fatto di permettere al saggio, e quindi anche al cristiano, di dimostrare di
essere tale.
Volontà, volere, volizione, scelta, decisione e risoluzione: ecco cosa permette
all’anima di domare il corpo. La carne svilisce l’uomo, l’anima lo eleva. Il
fondamento di questo corpo peccaminoso si trova nella lettura che i cristiani
fanno di quello che siamo tutti quanti d’accordo di indicare con il termine di
peccato originale.

Crediamo di conoscere la storia raccontata nella Genesi, ma ci sbagliamo: nella


maggior parte dei casi, troppe cose vengono raccontate per sentito dire, senza
tornare alla lettera del testo. Il quale ci racconta delle cose ben precise.
Ricordiamo che la Genesi è il primo libro della Torah degli ebrei, il Pentateuco
dei cristiani. Vediamo allora quali sono queste cose, perché gli ebrei e i cristiani
non ne danno la stessa lettura. I primi, attraverso la loro tradizione rabbinica,
arrivano alla conclusione della necessità dell’ermeneutica, cosa che fonda tutto
il genio della loro cultura e della loro civiltà; i secondi, attraverso i Padri della
Chiesa in generale, e sant’Agostino in particolare, arrivano alla condanna della
carne che determina tutta la nevrosi della civiltà e della cultura cristiane.
Il testo, dunque. Lo sappiamo, questo primo libro è quello delle genealogie e
delle fondazioni: la Terra, l’acqua, la vegetazione, il Sole, la Luna, gli astri, gli
uccelli, i mostri marini, il bestiame, gli animali più piccoli, e infine l’uomo,
creato a immagine di Dio, come ci viene spiegato, e poi, a partire dalla costola di
Adamo, Eva, la prima donna.
Questo paradiso delle origini è un paradiso terrestre. In effetti, la Genesi ci
spiega che si trova geograficamente situato tra il Tigri e l’Eufrate e non, quindi,
fuori dal mondo: è un luogo preciso in Oriente, là dove nasce il Sole, quindi là
dove nasce la vita. Dio ci pianta tutto, compreso «l’albero della vita» e «l’albero
della conoscenza del bene e del male» (Gen 2, 9). Facile immaginare che non si
tratti tanto qui di orticultura, quanto di simboli! Quello che Dio offre è quindi la
vita e la conoscenza. Poi aggiunge, perché Adamo intenda: «Tu potrai mangiare
di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del
male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente
dovrai morire» (Gen 2, 16-17). Come a dire che offre la conoscenza, ma
assolutamente non vuole che gli esseri umani cerchino e scoprano da soli cosa
sia il bene e cosa sia il male. La morale non è qualcosa che spetta a loro, ma solo
a Dio. È questo che ci viene detto nelle prime pagine del Libro dei primi tempi.
La cosa strana è che, in questo Eden, cioè in questo luogo che, in tempi
normali, dovrebbe essere un luogo di felicità e di beatitudine, Dio abbia
comunque piazzato un serpente, quindi la tentazione, il diavolo. Possiamo
ancora parlare di paradiso per qualificare un luogo in cui, di default, il male già
si trova acquattato?
Torniamo al testo:
Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È
vero che Dio ha detto: ‘Non dovete mangiare di alcun albero del giardino’?» Rispose la donna al
serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che
sta in mezzo al giardino Dio ha detto: ‘Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti
morirete’». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in
cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il
male» (Gen 3, 1-5).

La donna scorge l’albero e ne soppesa il frutto, che è «desiderabile per


acquistare saggezza» (Gen 3, 6). Lo prende, ne mangia e ne passa un po’ anche
ad Adamo. È a quel punto che si rendono conto della propria nudità e si
costruiscono delle cinture con le foglie di fico – e non è vite… Dio sta
passeggiando nel giardino; Adamo e la moglie sentono «il rumore dei [suoi]
passi» (!), e si nascondono. Se fanno così è perché si sentono in colpa per avere
disubbidito. Adamo nasconde la propria nudità, cioè la propria umanità. E Dio
gli dice: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di
cui ti avevo comandato di non mangiare?» (Gen 3, 11). Ennesima occasione di
stupirci: Dio sente il bisogno di fare domande quindi Dio non sa tutto. Adamo
denuncia la compagna… Dio passa a chiedere. E lei scarica sul serpente, a cui
Dio allora si rivolge: maledice l’animale, e condanna l’uomo a lavorare con il
sudore della sua fronte una terra dura da coltivare, e annuncia la donna che
partorirà nel dolore, che dovrà sottomettersi all’uomo e che l’inimicizia regnerà
tra i sessi e tra gli esseri umani. È solo a questo punto che Adamo dà un nome
alla compagna: Eva, «perché ella fu la madre di tutti i viventi» (Gen 3, 20). Dio
fa delle «tuniche di pelli» al primo uomo e alla compagna, poi si dice: «Ecco,
l’uomo è diventato come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male.
Che ora egli non stenda la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne
mangi e viva per sempre» (Gen 3, 22) – che è il progetto transumanista! Dio
esclude Adamo ed Eva dal Paradiso. Poi, «Scacciò l’uomo e pose a oriente del
giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante, per custodire la
via all’albero della vita» (Gen 3, 24).
Il testo non dice che assaggiare il frutto dell’albero della conoscenza sia un
peccato, o che Adamo ed Eva siano colpevoli: l’espressione peccato originale
non si trova scritta da nessuna parte. In ogni caso, nessuno dei due si è reso
colpevole di un peccato carnale: non si tratta assolutamente di lussuria, di
fornicazione o di stupro. Non c’è niente di sessuale in tutta quest’avventura,
anzi, è tutto teologico, addirittura etico: gli uomini non creano la morale, perché
è solo Dio che la decide. Voler sapere porta a scoprire la natura miserabile
dell’uomo senza Dio. In queste pagine inaugurali, è solo invano che
cercheremmo un corpo terrestre colpevole e un’anima immateriale, al contrario,
pura, o una punizione del sesso, una condanna della carne. Del resto, Adamo ed
Eva avranno dei figli, a cominciare da Caino e da Abele, i quali, a loro volta,
metteranno al mondo una numerosa discendenza. La Genesi è una poetica
dell’immanenza; sant’Agostino, invece, la trasforma in una tragedia della carne.

Prima di diventare il santo che tutti conosciamo, Agostino è stato il prototipo del
libertino: donne, alcol, feste, una compagna e un figlio fuori dal matrimonio. Il
padre era pagano, e la madre cattolica. Quando si converte alla religione
materna, non fa altro che dimostrare la famosa tesi secondo la quale i libertini
stanchi si trasformano nei devoti più accesi.
Nelle Confessioni, non smette di piangere. Afferma di essere un peccatore, un
uomo vanitoso, orgoglioso e ladro (conosciamo tutti il famoso episodio del furto
delle pere nel giardino del vicino); riconosce di essere anche irascibile, bugiardo,
presupponente e pretenzioso, e poi fornicatore, licenzioso, e desideroso di
collezionare le conquiste di una sera, insomma un dandy preoccupato dallo
sguardo altrui. Confessa di aver amato la propria degradazione: «Ma allora io
infelice amavo soffrire e cercavo pretesti di sofferenza».53 La sua conversione
gli permette di trasformare la sofferenza nell’epicentro della sua visione del
mondo. San Paolo non poteva non ispirarlo…
La madre, Monica, continua a lamentarsi della «superba abiezione»54 del
figlio, e prega per la sua conversione. Chiede persino l’aiuto di un vescovo per
riportare il figlio sulla retta via: il vescovo ritiene però che il caso sia disperato e
si rifiuta di aiutarlo (III, 21). Agostino parte allora per Roma. Qui c’è la
descrizione di un’incredibile scena isterica da parte di Monica, che lo segue fino
al porto, gli si avvinghia addosso in lacrime, lo strattona, e strilla perché vuole
riportarselo a casa o partire assieme a lui. Agostino mente alla madre e scappa
per raggiungere la capitale imperiale (V, 8).
Lui che collezionava le donne assieme ai suoi compagni di bisboccia, lui che,
sempre con gli stessi compagni, aveva provato piacere a rubare per rubare, lui
che scriveva «d’ogni parte intorno mi strepitava il calderone degli amori
peccaminosi. Non amavo ancora, ma amavo l’amore»,55 lui che si divertiva ad
assistere agli spettacoli dei combattimenti e alla morte dei gladiatori; ecco che
ora trova materia per la propria redenzione, innanzitutto leggendo Cicerone, e
poi scoprendo le Scritture. Le lacrime che scorrono sulle guance di Monica sono,
questa volta, di gioia. Agostino si compiace di fare così contenta la propria
madre grazie a quest’amore condiviso per uno stesso uomo, cioè Gesù, il Figlio
di Dio fatto Uomo. Madre e figlio decidono allora di andare a vivere assieme,
sotto lo stesso tetto…
La città di Dio teorizza il percorso esistenziale di Agostino. Quando Agostino
parla del corpo, dei desideri, dei piaceri e della carne, è ovviamente di sé che sta
parlando: sulla carta, brucia tutto quello che una volta gli ha dato felicità. Il
vescovo di Ippona dà la caccia all’ex libertino, e offre alla madre Monica
l’occasione di versare tutte le sue lacrime, questa volta di gioia. Il figlio regala
così alla madre estasi assolutamente nella decenza.

Nell’analisi serrata che fa del peccato originale (è a lui che dobbiamo


l’espressione), Agostino parte dal testo per arrivare al sesso. Parte dalla nozione
di «cattiva volontà» all’origine del peccato originale e arriva a concupisce o
libido, come traduce il gruppo di lavoro del mio vecchio insegnante Lucien
Jerphagnon, per la Pléiade. Ma come può Agostino compiere questo slittamento
di senso su cui tutto l’Occidente si costruisce, quando all’interno della Genesi
non si parla assolutamente mai di sesso? In che modo, una nevrosi personale,
che va a sommarsi a quella di san Paolo, può far nascere una civiltà
inevitabilmente toccata da tutte queste patologie?
Agostino comincia dissertando sull’anima e sul corpo, e distinguendoli,
ovviamente sempre con l’idea paoliniana che il corpo è peccaminoso, e lo
spirito, purché se ne faccia buon uso, è ciò che salva la carne. Anche l’anima può
morire, per esempio quando si trova abbandonata da Dio. E Agostino non dice
quando l’uomo l’abbandona contro Dio, ma quando Dio l’abbandona: «La
morte dell’anima […] avviene quando Dio l’abbandona, così come la morte del
corpo avviene quando l’abbandona l’anima».56 E l’anima abbandona il corpo
quando Dio abbandona l’anima: «Si ha poi la morte del corpo e dell’anima, cioè
dell’uomo intero, quando l’anima, abbandonata da Dio, abbandona a sua volta il
corpo. In questo modo infatti l’anima non vive di Dio, né il corpo vive
dell’anima».57
E qui ritroviamo addirittura le radici del giansenismo: Dio può anche decidere
di abbandonare un’anima! I gesuiti del Seicento ovviamente si opporranno a
quest’idea, perché riterranno che una simile tesi elimina il libero arbitrio e la
scelta individuale, la responsabilità e la colpevolezza, e quindi anche la
punibilità dell’uomo, lasciando come aperte a Satana tutte le porte della Terra!
Quando l’anima è rivolta a Dio, essa prende, custodisce e conserva il controllo
sul corpo, che, da parte sua, è mosso dal desiderio, e ricerca il piacere. Agostino
lega il peccato al corpo introducendo l’idea che la nudità si fa problematica solo
dopo la colpa. Prima della colpa, non esiste nessun tipo di problema nel
ritrovarsi nudi in paradiso; dopo, proprio la colpa costringe Adamo ed Eva a
nascondersi, e poi a nascondere le «parti intime»58 con delle foglie di fico
intrecciate a mo’ di cintura. Agostino crea quindi una carne cristiana della
vergogna, là dove prima c’era solo disobbedienza alla legge giudaica – non
assaggiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male,
ricordiamolo. Adamo ed Eva «Avvertirono dunque un nuovo impulso di
ribellione nella propria carne, come una pena che si ritorce contro quella
ribellione. Ormai l’anima, compiaciuta dell’uso perverso della propria libertà ed
avendo ricusato la sottomissione a Dio, veniva privata dell’originaria
sottomissione del corpo» [corsivo mio].59 Ci piacerebbe rispondere ad Agostino
che quel suo «dunque» non va da sé, e avrebbe meritato lunghi sviluppi, perché,
in effetti, con quella semplice parolina, fa prendere a quella che diventerà ben
presto una civiltà una strana direzione!
In altre parole, quando l’anima non controlla il corpo, è il corpo a controllare
l’anima e a ucciderla. Il peccato consiste nella mancanza di controllo dell’anima
sul corpo, della volizione sulla carne. L’anima deve rimanere sottomessa a Dio,
scrive Agostino, ma anche, lo abbiamo appena visto, Dio può risolversi a
perdere un’anima, e in questo processo la volontà dell’uomo non conta
assolutamente nulla. Come si potrebbe rimproverare all’uomo quello che Dio ha
potuto volere per lui, al suo posto? È dal movimento di disobbedienza del corpo
nei confronti dell’anima, indotto dall’uomo e tuttavia voluto da Dio, che ha
inizio il principio della fine: «Allora quindi la carne cominciò ad avere desideri
contrari allo spirito; noi siamo nati in mezzo a questa lotta, traendovi l’origine
della morte e portando delle nostre membra e della nostra natura corrotta il
soprassalto e la vittoria della carne, a partire dalla prima prevaricazione».60
Dio ha creato l’uomo libero e puro, ma l’uomo ha scelto e deciso di
disobbedire, cioè di essere impuro. Dio ha creato l’uomo libero; però che cosa
significa la libertà se il suo libero uso deve essere punito? Creare un uomo libero
perché si sottometta alla proibizione di fare libero uso della propria libertà è
un’astuzia della ragione di chi vuole essere obbedito facendo credere che la
servitù debba essere volontaria. Agostino può cercare di trasformare il peccato
originale in una storia della volizione libera, però preferisce spostare le cose sul
piano sessuale. Potrebbe essere un filosofo, e invece si trasforma in un moralista.
L’autore della Città di Dio lo afferma con chiarezza: quando Dio crea l’uomo,
in giro ci sono solo lui e Adamo, tutto va bene. Quando arriva la donna,
comincia il disordine. La donna nasce dall’uomo, dalla sua costola, come
sappiamo, in un momento in cui il peccato non esiste ancora. Prima di Eva,
Adamo vive in un corpo che sfugge alla degenerazione, alla vecchiaia, alla
sofferenza, alla malattia e alla morte. Il suo corpo terrestre e materiale si
alimenta dei frutti raccolti sugli alberi e si abbevera all’acqua delle sorgenti.
Agostino spinge a interpretare simbolicamente il paradiso, «purché […] si creda
alla verità di quella storia che si fonda sulla narrazione, assolutamente degna di
fede, degli avvenimenti».61
Dio ha creato la carne, e la carne non è cattiva in sé: lo è se, e soltanto se,
l’uomo vive unicamente assecondandola; in altre parole, sarà buona o cattiva a
seconda del risultato di una certa dialettica, o di una certa dinamica: sarà decisa
solo come risoluzione di una particolare tensione. La carne può e deve vivere
secondo lo spirito, e per fare questo basta che l’uomo lo voglia. È dunque la
volizione che, prima della carne, viene messa in gioco: il valore della carne
dipende dall’uso che l’anima ne fa. C’è peccato quando si fa un uso carnale della
carne, ma anche quando la volontà rifiuta di usarla in senso spirituale. Non è la
carne che è colpevole, ma solo l’uso che ne fa lo spirito, che dovrebbe volere la
sottomissione e la soggezione della carne… negandola! L’uso spirituale della
carne è quello che ci salva. «Quando perciò l’uomo vive secondo l’uomo e non
secondo Dio, assomiglia al diavolo».62
Satana si è servito del serpente. Leggiamo Agostino:
[L’angelo orgoglioso] scelse un serpente, cioè un animale viscido e che si muove attorcigliandosi
sinuosamente, come mezzo per parlare adatto al suo disegno, nel paradiso corporale, dove
assieme al primo uomo e alla prima donna vivevano gli altri animali terrestri, docili e innocui.
Avendolo sottomesso a sé con perfidia tutta spirituale, grazie alla sua presenza angelica ed alla
superiorità della sua natura, servendosene come di un mezzo, rivolse alla donna parole
ingannatrici; ovviamente si rivolse anzitutto alla parte più debole di quella coppia umana, per
raggiungerla gradatamente nella sua pienezza, pensando che l’uomo sarebbe stato piuttosto
incredulo e che avrebbe potuto essere ingannato non direttamente, ma attraverso l’errore dell’altra
[corsivo mio].63

Adamo è stato preso in giro dai legami affettivi coniugali – in un certo senso,
è una pasta d’uomo ma diventa vittima di un’arpia…
A proposito della proibizione decretata da Dio di assaggiare i frutti dell’albero
della conoscenza, Agostino scrive: «In quel precetto si raccomandava
l’obbedienza».64 Adamo ed Eva peccano d’orgoglio, di «superbia»,65 come
viene detto con una bella parola. Perché, allora, convocare la donna, tutte le
donne, e poi la «libido», se non per parassitare autobiograficamente la propria
dottrina? Dio già prevede il peccato,66 e strumentalizza quindi un serpente che
seduce una donna, che a sua volta convince Adamo a peccare, il quale poi
trasmette il peccato a tutti gli esseri umani del pianeta. Però, nonostante il fatto
che sia stato Dio a volete tutto quanto, è solo la donna a essere colpevole.
Da qui gli sviluppi sulla libido. La parola latina ha abbastanza significati
anche oggi. Per Agostino,
quando si parla di passione [libido] senza aggiungere altro, quasi sempre viene in mente quella
relativa all’eccitazione di parti intime del corpo. Questa passione non reclama per sé solamente il
corpo tutto intero, interiore ed esteriore, ma turba tutto l’uomo, congiungendo e mescolando
assieme la voglia della carne con il sentimento dell’anima e provocando quel piacere che è il più
grande fra quelli del corpo; così, nel momento preciso in cui quella passione raggiunge il culmine,
si annebbia quasi completamente tutta la forza vigile, per così dire, del pensiero. Ebbene, qual è
quell’amico della sapienza e delle sante gioie, che viva la vita coniugale, ma che, secondo
l’avvertimento dell’Apostolo, sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non come
oggetto di passioni e libidine, come i pagani che non conoscono Dio; chi è che non preferirebbe,
se fosse possibile, procreare figli senza questa passione? Così, in questa missione di procreazione,
le membra create a tal fine, come tutte le altre che hanno funzioni specifiche, sarebbero
sottomesse ad un cenno della volontà e non eccitate dal fuoco della passione. Del resto, neppure
gli uomini che amano questi piaceri sono spinti alle unioni coniugali o ad impurità vergognose
quando vogliono; talora quell’impulso è inopportuno e non desiderato; talvolta invece pianta in
asso chi sta spasimando e così nell’anima si brucia dal desiderio mentre il corpo è gelido. In tal
modo, cosa davvero sorprendente, la passione non soltanto non si pone al servizio della volontà di
generare, ma neanche della passione più sfrenata; e mentre il più delle volte resiste
completamente allo spirito che cerca di frenarla, qualche volta entra in contrasto con sé stessa e
dopo aver turbato l’anima non arriva da sola a turbare anche il corpo.67

Eccoci al punto. Dal termine latino poma, che traduce il «frutto» ebraico nella
Vulgata e che finirà per dare il nostro «pomo» (assente nella Genesi), si passa
alle pudenda, come si diceva una volta per evitare di usare l’espressione «parti
genitali». Ecco una singolare e inverosimile storiella filosofica che, da
meditazione sulla relazione tra volizione umana e volizione divina (dibattito
teologico quant’altri mai), scivola impercettibilmente alla relazione tra peccato
originale ed erezione, attenta solo a sé stessa! Il frutto dell’albero della
conoscenza del bene e del male è diventato un po’ alla volta un elemento fallico
e turgido – o detumescente, a seconda…
E Agostino a continuare la propria inchiesta sulla libido degli uomini: in
paradiso, ci spiega tutto serio, «la passione [libido] non turbava ancora quelle
membra contro la volontà, e la carne, in certo senso, non costituiva ancora
un’accusa, nella sua disobbedienza, nei confronti della disobbedienza
dell’uomo».68 La vergogna del corpo nudo che segue il peccato originale
testimonia che il peccato originale è proprio l’erezione, il palesarsi carnale della
libido.
La libido, essendo una pulsione dentro l’anima, costringe la carne a
commettere il peccato, che non si trova quindi dentro di lei a priori. Il corpo è
peccaminoso quando, dentro di sé, lo spirito vive secondo la carne. La volontà
può negare il corpo, e lo spirito può domare la carne. Ecco perché, dopo Paolo e
Agostino, e il loro status di santi, il martirio verrà presentato come la via regina
per passare tutta la potenza all’anima, allo spirito e alla volontà, non lasciando
nulla al corpo, alla carne, alla libido, solo la morte. A quel punto, toccherà
semplicemente puntare allo stato di cadavere per realizzare l’Uomo Nuovo.
Capitolo settimo
Il sangue, semente dei cristiani
Suppliziare i corpi

È lo spagnolo Nicolás Monardes, contemporaneo di Montaigne, a chiamare per


primo la passiflora con questo nome, cioè il «fiore della Passione», perché ci
vedeva riuniti tutti gli elementi che compongono la Passione di Cristo: i dieci
petali e sepali, come i dodici fedeli apostoli, meno Pietro che ha dubitato e Giuda
che ha tradito; i cinque stami colorati di rosso, come le cinque piaghe di Cristo, e
cioè le mani e i piedi con i chiodi, la testa ferita dalla corona di spine, il costato
destro trafitto dalla lancia, e la schiena lacerata dai colpi di frusta; il pistillo con i
suoi tre stili, come i tre chiodi, due per le mani, e uno per i piedi sovrapposti; i
settantadue filamenti che circondano la parte centrale, come le settantadue spine
della corona; la cupola centrale del fiore, come il Santo Graal, il calice
dell’Ultima Cena che ha contenuto il sangue di Cristo; la trentina di macchie
tonde all’interno del fiore, come i denari del tradimento di Giuda; le foglie a
punta, come la lancia del centurione che ha trafitto il fianco di Cristo; i colori
bianco e blu, come il cielo e la purezza; le brattee, come la Trinità; l’ovario
voluminoso, come la spugna intrisa di aceto; i viticci della pianta, come le
corregge della frusta; altri proseguono, e ci vedono persino un martello, e una
canna, come la colonna del supplizio…
Da tutto questo si ricava che la passione di Cristo è una scena del crimine con
tanto di indizi della tortura che vi è stata consumata. Come stigmate
supplementare, possiamo aggiungere la ferita provocata sulla spalla dal trasporto
della croce di legno per tutto il percorso del calvario, fino alla cima del
Golgotha. Il corpo di Cristo suppliziato si trova macchiato di sangue, di linfa, di
sudore e di lacrime. Prima di morire, che è una cosa, soffre, che è un’altra cosa.
Nella storia dell’arte occidentale, la rappresentazione di Cristo sulla croce
appare tardi. Per molto tempo, l’arte paleocristiana mette in scena solo pastori
che si portano le pecore in spalla, nessun Cristo sulla croce. È il tema del Buon
Pastore che alimenta il suo gregge, leggi: i fedeli, e che recupera le pecorelle
smarrite, per finire in ultimo sacrificato anche lui come capro espiatorio, come
l’agnello pasquale che ripara i peccati del mondo. Sopra alcuni sarcofagi,
destinati alle anime dei defunti, troviamo dei paesaggi paradisiaci. In queste
opere, la spiritualità pagana si mescola al cattolicesimo in embrione e ancora
disperso nello spazio dell’Impero. Il ricorso a paesaggi bucolici in cui il defunto
vive affrancato dalle sofferenze terrestri fornisce un’immagine di serenità, calma
e pace. Questo modo di rappresentare Cristo cita l’Ermete crioforo dei greci, la
divinità che porta il capro. La visione paleocristiana non si preoccupa tanto di
Cristo morto sulla croce per la salvezza del mondo, o della imitazione del
cadavere di Gesù, quanto delle immagini del battesimo e della salvezza mediante
immersione. Insomma, nelle catacombe di Roma, non troviamo nessuna
crocifissione.
È ovviamente nel IV secolo, con Costantino, che l’arte paleocristiana lascia
posto all’arte cristiana propriamente detta, con grande sfoggio di supplizi e
crocifissioni. A quest’altezza temporale, il cattolicesimo arcipelagico e disperso
si trasforma in continentale e imperiale. E perché questo possa succedere,
l’imperatore si dà da fare per creare, assieme alla madre Elena, una mitologia
propriamente cristica. Entrambi s’impegnano a rendere visibile l’incarnazione di
Cristo. Lui che disponeva di un anticorpo di parole, lui che proveniva dal
Concetto, dal Logos e dal Verbo, lui che altro non era se non la realizzazione
della promessa delle Scritture ebraiche, eccolo ora che, grazie alla cultura, può
cominciare a disporre di una biografia dalle apparenze storiche. I racconti, le
pitture, le sculture, i mosaici e gli edifici con tutte le loro decorazioni
cominciano a costruire la vera e propria incarnazione di Gesù.
Non sorprende quindi scoprire che la prima crocifissione conosciuta nel
mondo dell’arte risalga all’inizio del V secolo. Prima del III secolo, c’è solo il
graffito di Alessameno a raffigurare una crocifissione umana, e si tratta
comunque verosimilmente di una caricatura pagana, lo si capisce da come il
protagonista si ritrova munito di testa d’asino. Lo ricordiamo anche per mostrare
in quale considerazione i non cristiani tenevano, in quel periodo storico, i fedeli
di Cristo, assimilandoli a tanti asini – esattamente come aveva fatto Celso, nel II
secolo, quando, nel suo Contro i cristiani, aveva stigmatizzato la stupidità dei
primi discepoli di Cristo, descrivendoli come «storditi […] in balia […] dei loro
pregiudizi, vuote ciance e null’altro».69
Nell’intento di dare un corpo e una carne a Cristo, Elena, la madre di
Costantino, si organizza un viaggio a Gerusalemme. Gelasio di Cesarea
raccoglie le testimonianze orali che riguardano questo viaggio dell’imperatrice
in Terrasanta. In seguito, Rufino di Aquileia, Socrate di Costantinopoli,
Sozomeno e Teodoreto di Cirro, continuatori, come Gelasio, della Storia
ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, riprendono tutti questa serie d’informazioni,
che oggi non esiteremmo a classificare come fake news…
Prima di Elena, per vedere, bisognava credere; dopo Elena, si vede solo quello
che non può non portare a credere. La madre dell’imperatore sostiene, in effetti,
di aver scoperto, dopo aver interrogato gli abitanti del luogo quattro secoli dopo
la morte di Gesù, il punto esatto della crocifissione, indicatole da un segno
celeste (Dio è il miglior aiuto in questi casi). Sul luogo segnalato dall’Altissimo,
gli uomini hanno costruito, nel frattempo, un tempio in onore di Venere – tanto
per sottolineare quanti bei ricordi abbia lasciato Cristo in quattrocento anni! Dal
momento che tutto il materiale della Passione sembra essere rimasto in loco,
Elena ha anche il grandissimo onore di scoprire la croce di Cristo e, già che ci
siamo, anche quella dei due ladroni! Da questa specie di rigatteria cristica, salta
poi fuori anche il titulus, vale a dire il pezzo di legno attaccato per ordine di
Pilato in alto sulla croce, e sul quale si trova la scritta INRI, vale a dire Iesus
Nazarenus Rex Iudæorum («Gesù Nazareno, re dei Giudei»). Mentre Elena sta
giocando all’archeologa, si fa portare una moribonda sulla lettiga. Macario, il
vescovo di Gerusalemme che l’accompagna, racconta che alla donna sono state
fatte toccare le tre croci ed è rimasta insensibile a due di loro, mentre la terza
l’ha rimessa in piedi: è il segno che era quella buona! È proprio grazie a questo
modo tutto particolare di procedere con gli scavi e di praticare la medicina, che
possiamo parlare della «vera croce», di cui dappertutto sul pianeta sembrano
esistere dei frammenti. Non bastassero tutte queste cose, Elena ha anche scovato
da qualche parte i tre chiodi della crocifissione – che finiranno incorporati
nell’elmo e nel morso del cavallo di Costantino grazie all’opera del suo fabbro, e
che oggi sono conservati nella chiesa di Saint-Siffrein a Carpentras! In seguito a
questi ritrovamenti, Elena, destinata a diventare santa (è il meno che la Chiesa
possa fare per qualcuno che ha reso tutti questi servizi), ordina la costruzione
della chiesa della Natività a Betlemme (perché è riuscita a ritrovare anche il
luogo della nascita di Gesù), e di un altro edificio sul Monte degli ulivi.
Nell’orazione funebre sulla Morte di Teodosio, Ambrogio di Milano mette in
bocca a Elena sul Golgotha queste parole: «Ecco il luogo del combattimento:
dov’è la vittoria? Io cerco il vessillo della salvezza, ma non lo trovo. Io […] tra il
fasto regale, e la croce del Signore tra la polvere? Io, in mezzo all’oro, e il trofeo
di Cristo in mezzo alle rovine? Egli è tuttora nascosto, e nascosta è la palma
della vita eterna? Come posso ritenermi redenta, se non si vede la redenzione?»
70
Segue un’invettiva contro il demonio, il serpente:
O diavolo, hai voluto coprire di terra la spada che ti ha distrutto. […] Si asportino dunque le
rovine, affinché venga alla luce la vita […]: si squarci la terra, affinché rifulga la salvezza. Che
cosa hai ottenuto, o diavolo, nascondendo il legno, se non farti di nuovo sconfiggere? Ti vinse
Maria, la quale partorì il trionfatore, e, senza offuscare la sua verginità, diede alla luce Colui che,
con la crocefissione, ti doveva sconfiggere e soggiogare con la sua morte. Sarai sconfitto anche
oggi, e una donna sventerà le tue insidie. Colei portò il Signore nel suo seno perché era santa; io
andrò in cerca della sua croce. Essa ci insegnò la realtà della sua nascita, io dimostrerò quella
della sua risurrezione. Essa fece sì che Dio apparisse in mezzo agli uomini, io innalzerò dalle
rovine il divino vessillo, a rimedio dei nostri peccati.71

Eva si è resa colpevole del peccato originale che ha provocato la cacciata


dell’uomo dal paradiso; Maria ha invece redento questa colpa mettendo al
mondo Gesù, che lava il peccato con la propria morte sulla Croce; Elena,
femminista indemoniata, approfitta dell’ispirazione mistica per mettersi in terza
posizione. Ecco formata una nuova Trinità che riunisce Eva, Maria ed Elena, in
altre parole i tre tempi mistici della nuova storia proposta da Costantino: la
Torah, i Vangeli e le lettere di Paolo. Inventando la Croce, sant’Elena fa pendere
la dolcezza di Gesù verso la spada di Paolo, cui Costantino offre il proprio
braccio. Il culto del corpo crocifisso rimpiazza ormai il «Verbo incarnato», per
parlare come l’apostolo Giovanni.
La croce, strumento di tortura caratteristico di quegli anni, diventa il simbolo
della nuova religione. L’uomo nuovo di san Paolo ha quindi per proprio modello
genealogico un cadavere suppliziato… Sull’orizzonte storico della civiltà
giudaico-cristiana inizia a stagliarsi un’incredibile tanatofilia.
Per spingere verso questa etica, l’arte comincerà a produrre una quantità
astronomica di opere. A Bisanzio, i pittori rappresentano Cristo sulla croce in un
modo tutto particolare: è il Christus patiens, il Cristo che soffre e che si è
rassegnato. Più che la resurrezione, a essere mostrati sono gli effetti della morte
sul corpo, come se si dovesse scegliere non tanto l’ottimismo della salvezza
quanto la tragedia della crocifissione, che termina con le grida di Gesù che
chiede al cielo perché Dio l’abbia abbandonato!
Questo Gesù morto piega la testa sulla spalla destra perché la vita si sta
esaurendo e non riesce più a sostenerla; il volto mostra una smorfia di dolore; gli
occhi sono vuoti, cavi, estinti; il cranio sembra svuotato: è, nel vero senso della
parola, la testa di un morto; la bocca ricasca; il sangue scorre dalle mani, dai
piedi e dal fianco destro; il corpo è sfiancato e non si regge più in piedi, si
appoggia al legno della croce e noi possiamo vedere i muscoli tesi, quasi rigidi,
rattrappiti dalla morte. Tutto sembra ricadere verso terra, e non c’è niente che si
arrampica verso il cielo. È un Cristo bloccato nel momento in cui pronuncia
quelle sue famose parole di disperazione. Ecco quello che bisogna imitare: un
cadavere della cui resurrezione nessuno può dirsi sicuro…
Come possiamo imitare questo cadavere?
Lezione pratica.
Dal punto di vista dello spirito, il martirio sembra essere il grado massimo
della vita. Nella sua Apologia del cristianesimo, Tertulliano scrive rivolgendosi
ai persecutori dei cristiani: «Noi diveniamo più numerosi tutte le volte che siamo
falciati da voi: il sangue è semente di cristiani!»72

All’inizio del II secolo, sotto il regno di Traiano, il vescovo di Antiochia


Ignazio, probabilmente discepolo di Paolo o di Pietro, viene arrestato e portato a
Roma per subire il martirio, senza dubbio al Colosseo. Nel corso del viaggio,
scrive delle lettere destinate ai propri discepoli Efesini, Magnesiaci, Tralliani,
Filadelfiesi e Smirnesi.
Per lui, i cristiani sono dei «cristofori», cioè dei portatori di Cristo. La loro
dottrina è l’insegnamento di Cristo e prende il nome di «cristomazia», e la loro
vita è «cristianesimo», una parola che non si è probabilmente inventato da solo,
ma che sembra comunque essere uno dei primi a usare. Deplora il carattere
arcipelagico delle sette cristiane e lavora alla loro unificazione. Secondo lui, la
grande differenza con gli ebrei sta tutta nell’«incarnazione». Forte di questa
convinzione, combatte il docetismo, cioè la teoria difesa da Serapione, altro
vescovo di Antiochia, che sostiene che Gesù non ha avuto né un corpo fisico né
una realtà materiale, e che quindi non è mai nato e non ha mai sofferto. La
grande conseguenza di questa posizione è che la crocifissione è un’illusione, e
che nemmeno l’eucaristia è più possibile, o anche solo pensabile.
Nella sua lettera Ai romani, Ignazio racconta il proprio entusiasmo per il
martirio: «Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile
raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per
diventare pane puro di Cristo. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la
mia tomba e nulla lascino del mio corpo ed io morto non pesi su nessuno. Allora
sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio
corpo. Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia vittima per Dio».73 E
poi: «se soffro sarò affiancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui».74 E
anche: «Potessi gioire delle bestie per me preparate e m’auguro che mi si
avventino subito. Le alletterò perché presto mi divorino e non succeda, come per
alcuni, che intimorite non li toccarono. Se incerte non volessero, le costringerò».
75 E infine: «Nulla di visibile e di invisibile abbia invidia perché io raggiungo
Gesù Cristo. Il fuoco, la croce, le belve, le lacerazioni, gli strappi, le slogature
delle ossa, le mutilazioni delle membra, il pestaggio di tutto il corpo, i malvagi
tormenti del diavolo vengano su di me, perché voglio solo trovare Gesù Cristo».
76 Spiega ai propri discepoli: «Lasciate che io sia imitatore della passione del
mio Dio».77 Ignazio di Antiochia sostiene di non avere nessuna predilezione per
questo mondo e per i vani piaceri dell’esistenza, e di disprezzare la «materia» e
la «vita umana», e riprende l’immagine di san Paolo, definendosi «aborto» egli
stesso. La sua unica preoccupazione è lo «spirito». Nella sua lettera ai Filippesi,
Paolo aveva scritto che «morire [è] un guadagno» (Fil 1, 21).
Sappiamo che Ignazio è morto per la propria fede, anche se ignoriamo le
circostanze, perché non è rimasto nessun documento a raccontarci quello che è
successo. Nella sua Legenda aurea, best seller medievale del Duecento che
serviva ai parroci per preparare i sermoni, Iacopo da Varazze non perde troppo
tempo con la verità e preferisce muoversi direttamente in mezzo al meraviglioso.
S’inventa delle storie edificanti, come quella dell’imperatore Traiano che chiede
personalmente a Ignazio di abiurare la propria fede e mettere le proprie capacità
al servizio della religione pagana, promettendogli un posto d’elezione nella
gerarchia dello Stato romano. Ignazio, ovviamente, rifiuta e gli restituisce la
gentilezza: perché non dovrebbe essere invece l’imperatore a convertirsi?
Traiano, ovviamente, rifiuta, e l’affronto scatena il martirio: frustate sulle spalle,
fianchi scorticati con uncini di ferro, ferite strofinate con pietre abrasive, e poi,
come se non bastasse, Ignazio viene costretto a camminare sui carboni ardenti, a
sopportare una nuova raffica di frustate sulla schiena, e a farsi ricoprire le piaghe
con il sale. Alla fine, viene incatenato e attaccato a un palo e rinchiuso in una
segreta senza bere e senza mangiare per tre giorni; dopodiché viene lasciato alle
belve feroci in presenza di Traiano, del Senato e di una folla numerosissima.
Ovviamente, in tutte queste cose non c’è niente di vero! Iacopo da Varazze mette
in bocca a Ignazio delle frasi che ha ricavato dalla sua lettera Ai romani, in
particolare la storia del frumento macinato dai denti degli animali. Traiano viene
convinto dalla capacità di sopportazione del vescovo di Antiochia e dubita che
un greco avrebbe mai potuto dimostrarsi tanto all’altezza. Ignazio che tocca il
cuore dell’imperatore di Roma: ecco, a suo modo, un miracolo! Iacopo da
Varazze precisa che Traiano «andò via pieno di stupore»78 e «ordinò che nessun
cristiano fosse perseguitato e che fosse punito solo se fosse capitato sotto mano».
79 La Legenda aurea s’inventa il peplum…
Ovviamente, per tutta la durata del martirio, Ignazio continua a invocare il
nome di Gesù Cristo. Ai carnefici che gli chiedono conto, risponde: «Ho quel
nome inciso nel mio cuore e perciò non posso smettere di invocarlo».80 Alcuni
antesignani dell’Union rationaliste hanno voluto sgombrare, per così dire, ogni
dubbio: «Dopo la sua morte quelli che gli avevano sentito dire questo, mossi
dalla curiosità di sapere se era vero, gli estrassero il cuore dal corpo e, dopo
averlo tagliato a metà trovarono che in tutto il cuore era inciso il nome ‘Gesù
Cristo’ in lettere d’oro. Così moltissimi credettero».81 Ci si può convertire con
molto meno…

Origene nasce in una famiglia cristiana alla fine dello stesso II secolo. In
gioventù, assiste alle persecuzioni dei suoi correligionari, sotto l’imperatore
Settimio Severo. Leonida d’Alessandria, il padre, muore martire attorno al 202 e
qualcuno dice che Origene abbia assistito alla sua decapitazione. Anche il figlio
vorrebbe morire da martire, ma la madre lo blocca in tempo nascondendogli i
vestiti e impedendogli di uscire… A diciott’anni, il vescovo Demetrio lo incarica
di formare i catecumeni, il che attesta quanto fossero fuori della norma le sue
qualità intellettuali. Abbandona i libri profani e s’impone una vita di
mortificazioni. Si mette a studiare filosofia e assiste probabilmente alle lezioni di
Ammonio Sacca, il futuro maestro di Plotino. Pensa a come mettere assieme
medio-platonismo e neoplatonismo. E scopre Filone di Alessandria.
Passa per essere il padre dell’esegesi cristiana. E, in effetti, è proprio a lui che
viene attribuita la creazione della scuola teologica di Alessandria, in cui gli
studenti lavorano tutti quanti assieme a produrre una pletora di commenti sui
testi biblici.
E a lui si deve anche una voluminosa stroncatura del libro di Celso Contro i
cristiani, un testo per noi scomparso. Possiamo capire che i cristiani giunti al
potere non abbiano avuto alcuna intenzione di lasciar traccia di quest’opera di
Celso, però, astuzia della storia, criticandolo, Origene lo ha talmente citato che la
somma di queste sue citazioni corrisponde alla quasi totalità dell’opera. La
stroncatura è quindi servita a salvare il testo che voleva affossare.
Nel 250, le persecuzioni di Decio fanno parecchi martiri. Origene viene
arrestato, messo in prigione, torturato, però sopravvive. Muore all’età di
sessantanove anni, tra il 253 e il 254. Tre secoli dopo la sua morte, viene
accusato di eresia. Il secondo concilio di Costantinopoli condanna le sue tesi nel
553. Sic transit gloria mundi.
A preoccupare moltissimo quest’uomo è il passaggio dalla teoria alla pratica.
L’iniziatore della critica testuale sembra però capire quello che legge solo a
metà… Per esempio, quando medita sul Vangelo di Matteo, si sofferma su
questa frase di Gesù: «vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della
madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri
ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca» (Mt 19,
12). Detto fatto, Origene mette da parte il lavoro esegetico fondato sul
neoplatonismo e si taglia i genitali. Nella sua Storia ecclesiastica, Eusebio di
Cesarea ci racconta che Origene avrebbe spiegato a Demetrio, il vescovo di
Alessandria, il significato di quest’azione e che quest’ultimo se ne sarebbe
addirittura congratulato! Verso la fine della sua vita, lavorando a un Commento
al Vangelo di Matteo, Origene critica una lettura letterale di questo passo (Mt
19,12), ritenendo che solo un idiota penserebbe a castrarsi dopo averlo letto. A
Origene non gliela si fa! Ci stupisce solo che il papa dell’esegesi cattolica non
abbia capito la dimensione allegorica e simbolica del testo che stava studiando.
E insegnando!
Origene ha scritto parecchio, duemila titoli, si dice. All’interno di quest’opera
monumentale, c’è un’Esortazione al martirio che si rivela emblematica del
pensiero della scrittura della patristica. E non ci stupisce il fatto che Celso sia
stato salvato da Origene, visto il numero di citazioni da lui riportate!
Le pagine di Origene che legittimano il martirio non sfuggono a questa regola:
è quasi invano che cercheremmo una frase scritta interamente da lui, o in cui non
fosse presente una qualche citazione di un passaggio del Vecchio o del Nuovo
Testamento. Di fatto, una cosa non è vera perché la si dimostra secondo l’ordine
della ragione, o perché si riflette con metodo, usando le regole classiche della
filosofia. No. Una cosa è vera solo se un versetto della Bibbia l’attesta. Dopo
Paolo, che si è scagliato contro la filosofia, il pensiero dei Padri della Chiesa
sembra trasformarsi in una retorica da derviscio rotante in cui le idee spariscono,
nascoste dal vortice di citazioni, e a tutto profitto del catechismo.
Origene cita quindi abbondantemente le Scritture per dimostrare che chiunque
uccida il proprio corpo salva l’anima; che ogni uomo che si spogli quaggiù della
propria vita ritrova centuplicato, in una vita al di là, tutto quello che ha
sacrificato; che Gesù non è venuto per portare la pace ma la discordia, e che
occorre rinunciare alla serenità; che lo stesso Gesù ha invitato a seguirlo e a
rinunciare a tutto per mettersi sulla retta via della cristianità, e che occorre
sbarazzarsi di tutto senza preoccuparsi di niente. Origene scrive anche: «Odiate
la vostra vita, in modo tale che con questo disprezzo la possediate per la vita
eterna. Chi odia, dice infatti la Scrittura, la sua vita in questo mondo, la possiede
nella vita eterna (Gv 12,26). Con la prospettiva della vita eterna abbiate dunque
in odio questa vita, persuasi che lodevole e vantaggioso è l’odio da Gesù
insegnato. E come dobbiamo odiare la vita onde possederla per l’eternità, così
prova odio per la moglie, per i figli, i fratelli e le sorelle, tu che ne hai, perché il
tuo odio torni a vantaggio di quelli odiati. Proprio in virtù di quest’odio sei
diventato amico di Dio, ricevendo il potere di far loro del bene».82
Come Cristo, che, diciamolo in questo modo, si è bevuto il calice fino
all’ultima goccia, così anche il cristiano dovrà essere pronto al martirio e
accettare con gioia, letizia e gratitudine il disprezzo, le calunnie, gli scherni, e
anche i colpi e i maltrattamenti. Citando l’Antico Testamento, Origene ci spiega
che quello che è stato dovrà essere di nuovo.
Leggiamo:
I sette fratelli di cui è scritto nel Libro dei Maccabei che Antioco torturò con frustate e nerbate,
ma che perseverarono nella pietà, potranno ancora essere un ammirevole esempio di forte martirio
[…]. Che bisogno c’è di dire quali tormenti patirono, nel fuoco delle caldaie e delle padelle
(2Mac 7, 3), ond’esservi torturati dopo aver sofferto ciascuno differenti supplizi? Quello che la
Scrittura chiama il loro interprete, ebbe dapprima la lingua mozzata, poi gli fu strappata la pelle
del capo e sopportò questo supplizio come altri soffrirono la circoncisione secondo la legge
divina, pensando di adempiere anche in ciò la parola del patto con Dio. Antioco, non pago di
questo, gli fece troncare le estremità delle mani e dei piedi, in presenza degli altri fratelli e della
madre (2Mac 7, 3): volendo punire, con questo spettacolo, i fratelli e la madre; e pensando che
avrebbero mutato i loro propositi per mezzo di tormenti considerati così crudeli. Non contento di
ciò, Antioco, siccome il fanciullo era diventato nell’insieme del suo corpo inservibile a causa dei
patimenti di prima, comandò che ancora boccheggiante fosse accostato al fuoco delle padelle e
delle caldaie e lo arrostissero (2Mac 7, 5). Ma quando un vapore emanava dalle carni del
nobilissimo atleta della pietà, abbrustolite dalle crudeltà del tiranno, gli altri si esortavano
vicendevolmente con la madre a morire da forti (2Mac 7, 5) e si consolavano al pensiero che Dio
vedeva tutto questo. Per sopportare bastava, infatti, a loro la persuasione dello sguardo di Dio
presente a chi soffre.83

Origene ci parla del «lieve peso momentaneo della nostra tribolazione».84 Si


tratta, qui, di una citazione da san Paolo ai Corinzi: «il momentaneo, leggero
peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di
gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili,
perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne»
(2Cor 4, 17-18).
In altre parole, soffrire il martirio e morire è solo un brutto momento da
passare, ed è assolutamente a buon prezzo che paghiamo il fatto di poterci
sbarazzare del nostro corpo peccaminoso, liberando l’anima che, a partire da
quel momento, potrà viaggiare senza problemi verso la vita eterna e le eterne
beatitudini del cielo! Origene ce lo spiega: «Le anime di coloro che furono
decapitati a cagione della testimonianza resa a Gesù (Apoc 20, 4; 6, 9) non
assistono invano all’altare del cielo, ma procurano a quelli che li pregano la
remissione dei peccati».85 Da qualche altra parte, parla del battesimo con il
sangue che imita la Passione di Cristo. La morte su questa Terra significa vita
nell’aldilà. Non c’è quindi motivo di lamentarsi; al contrario, tutto ci spinge a
rallegrarci e a stare in letizia.
Da qui nasce la predilezione cristiana per lo stoicismo: Origene invita il
martire a non svelare ai suoi carnefici che sta soffrendo, che sta dubitando, o che
sta esitando e che potrebbe peccare di apostasia e tornare al culto degli dèi del
paganesimo o a quello di altre divinità – e qui pensiamo ovviamente al
giudaismo originario. Non c’è alcun bisogno di esternare la propria emozione o
il proprio eventuale scoraggiamento. Dobbiamo al contrario mostrare serenità,
tranquillità, saggezza e determinazione. Mai come in questa occasione pensare il
dolore come effetto della volontà ci può offrire l’aiuto della potenza del volere!

La prima generazione di martiri produce una serie di testimonianze e di


narrazioni in cui il lato meraviglioso occupa tanto spazio quanto quello della
ragione. I testi raccolgono testimonianze dirette: ci raccontano gli interrogatori e
ci restituiscono gli scambi tra i rappresentanti dell’ordine costituito romano e i
prigionieri cristiani. Tutto si mescola: il vero, il verosimile e i sogni, presentati
come assolutamente premonitori. E poi ci sono le narrazioni allegoriche, come il
racconto del martirio di san Policarpo, che sembra scritto tenendo a fronte lo
schema narrativo della Passione di Cristo: prima dell’arresto, Policarpo si ritira
con un piccolo numero di discepoli a pregare su un terreno appena fuori città –
proprio come Gesù nel giardino del Getsemani; viene tradito da alcune persone
prezzolate – esattamente come Giuda, che si fa pagare trenta pezzi d’argento; il
proconsole si chiama Erode – e ricorda ovviamente il re Erode Antipa; viene
portato su un asino – proprio come Gesù quando entra a Gerusalemme; in
compenso, però, si muove incontro alla morte non da disperato, come Gesù che
chiede al padre perché lo abbia abbandonato, ma sorridendo, con gioia, felice di
vivere questa passione che spalanca le porte della vita eterna alla sua anima
finalmente salva.
Nella logica del martirio, il dolore porta la salvezza: ce lo si augura, e viene
desiderato, voluto, amato e tenuto per caro, perché il dolore conduce
direttamente alla redenzione. La sofferenza del corpo su questa Terra redime il
peccatore, la cui anima, salvata, accede alla felicità della vita eterna in paradiso.
Il sangue della carne lustra l’anima. Collocare il corpo materiale al di sotto di
tutto significa elevare l’anima al di sopra di tutto. Parecchi dei martiri sorridono,
e sono radiosi, felici, colmi di gioia, e quando si trovano alle porte della morte
hanno il volto illuminato dalla grazia, perché queste porte sono per loro anche
quelle della vita eterna.
Policarpo viene frustato con tale violenza che la carne, messa a nudo e
lacerata, lascia intravedere le vene e le arterie; nonostante tutto, ringrazia Dio di
avergli inviato questa prova che gli assicura «la vita eterna di anima e corpo
nell’incorruttibilità dello Spirito Santo»;86 in seguito viene bruciato vivo. I
suppliziati vengono distesi sopra un letto di conchiglie taglienti come lame di
rasoio. Carpo è appeso e dilaniato da uncini di ferro, poi inchiodato a un palo e
bruciato vivo; però «sorrise».87 Papilo subisce lo stesso trattamento, cioè viene
appeso e dilaniato, e la sua resistenza stanca addirittura tre carnefici, che si
vedono obbligati ad avvicendarsi per riuscire a portare a termine il proprio
compito; Papilo, però, «resse la furia dell’avversario da valoroso campione».88
Agatonice esce dalla folla e si denuncia; teniamo presente che
autodenunciandosi come cristiana si condannava direttamente a morte: la donna
quindi si spoglia e sale sul rogo «esultante».89 Anche Giustino, Caritone, Carito,
Evelpisto, Ierace, Peone e Liberiano subiscono il martirio; Giustino dichiara: «È
nei nostri voti d’essere salvati, una volta giustiziati».90 Blandina, appesa a una
croce, viene prima torturata e dilaniata, poi abbandonata ai leoni, che la
risparmiano, e infine legata con una rete e buttata sotto le zampe di un toro, che
la calpesta parecchie volte, lasciandole «tutto il corpo brutalizzato e lacerato».91
Santo viene bruciato da lamelle di bronzo scaldate fino a diventare
incandescenti: «La sua povera carne […] portava testimonianza di quel che le
veniva inflitto: era tutt’una piaga, tutt’un coagulo, tutta aggrinzita e
irriconoscibile nella sua forma umana».92 A Biblide, una donna che marcisce in
una segreta oscura e sovrappopolata, vengono squartati i piedi con dei
frantumatori di legno. Potino, vescovo novantenne di Lione, «rinvigorito
dall’impeto dell’animo suo che ardentemente bramava il martirio»,93 si ritrova in
mezzo a prigionieri di diritto comune, da cui i martiri cristiani si distinguono
sempre perché i discepoli di Cristo «procedevano con allegrezza»94 ed
«emanavano la soave fragranza di Cristo, sì che qualcuno poteva credere fossero
materialmente cosparsi di un unguento profumato».95 Maturo e Attalo vengono
frustati, costretti a sedersi su sedie di ferro roventi e infine abbandonati alle
bestie feroci, mentre tutt’attorno si spande un odore di grasso bruciato.96 I corpi
di tutti questi martiri vengono esposti alle intemperie per sei giorni, senza
sepoltura, e alla fine bruciati; le loro ceneri sono disperse nel Rodano.
La Lettera dalle chiese di Lione e Vienna entra nel dettaglio delle
persecuzioni: i cristiani sono squartati sulla pubblica piazza, nei bagni e nei fori;
la folla li aggredisce, li insulta, li colpisce e li butta a terra, poi li trascina, li
spoglia e li lapida. Le autorità romane li interpellano, li imprigionano e li
sottopongono a interrogatori in luoghi pubblici, di fronte a tutti; poi li
condannano e li torturano, trovando modi sempre più raffinati di farli morire. Li
si accusa di antropofagia e di incesto. Ma questo non serve a niente: i cristiani
sono assolutamente persuasi che, abbracciando la morte qui e ora, avranno
sicuramente diritto alla vita eterna. E proprio questa certezza è la fonte di quella
beatitudine che li accompagna nel corso di tutto il loro martirio.
Sembra che questa serenità, questa calma, questa tranquillità e questa
saggezza, che stupiscono anche i più agguerriti dei loro nemici, non li abbandoni
mai; in effetti, i martiri cristiani stanno lottando contro il serpente tortuoso che si
trova all’origine del peccato originale. E sanno come fare per riscattarsi: basta
mortificare il corpo terrestre per liberare l’anima celeste che, proprio grazie a
questa mortificazione effettuata in nome di Dio, se ne andrà in paradiso. Del
resto l’etimologia di «martirio» rimanda proprio a «testimonianza».
Nel Martirio di Policarpo, leggiamo anche che la dura strada del martirio non
è consigliata a tutti, ma solo agli apostoli, a quelli cioè che vogliono insegnare la
parola di Cristo.
Galvanizzato dallo spettacolo del martirio di Germanico, che risponde alla
richiesta di abiura rivoltagli dal proconsole cominciando «ad attirare contro sé la
fiera»,97 un uomo frigio di nome Quinto spinge alcuni cristiani a scegliere questa
strada che lui stesso non può percorrere. E Policarpo risponde: «È perciò,
fratelli, che non lodiamo quanti si consegnano di propria iniziativa: non è questo
che insegna il Vangelo».98 Policarpo si fonda, per questa risposta, su un versetto
di Matteo che dice: «Quando sarete perseguitati in una città, fuggite in un’altra;
in verità io vi dico: non avrete finito di percorrere le città d’Israele, prima che
venga il Figlio dell’uomo» (Mt 10, 23). In altre parole, la Parusia è prossima, e
non c’è quindi bisogno di affrettare i tempi della morte. Possiamo fare tante altre
cose: possiamo diventare anacoreti o cenobiti, e lasciare il mondo per vivere nel
deserto in compagnia di demoni e serpenti, in mezzo a temperature da forno e
ascetismi vari.
Capitolo ottavo
L’amore per la santa abiezione
Imitare il cadavere

Quando pensiamo al cristianesimo dei primi tempi, non dobbiamo dimenticarci


che il suo sviluppo è tutto interno alla dimensione della Parusia: Gesù annuncia
che, mentre ancora quelli che lo ascoltano sono in vita, lui tornerà e darà inizio
al Giudizio universale, nel corso del quale i morti risorgeranno; è questa, del
resto, la ragione per cui una volta i morti venivano sepolti con il volto girato
verso Oriente, in direzione del sol levante, in modo che, in quel momento,
avessero la possibilità di vedere Dio.
Il calcolo è presto fatto. Attribuendo a Gesù un decorso di vita normale, e
lasciando perdere l’evento in sé della resurrezione, sarebbe dovuto tornare prima
degli anni Ottanta o Novanta di quel I secolo. Invece, siamo ancora qui ad
aspettarlo… Questo dovrebbe fornire sufficiente materia di riflessione a ogni
cristiano che si rivendichi come tale…
I testi parlano chiaro: «come la folgore viene da oriente e brilla fino a
occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo» (Mt 24, 27). E anche: «il
sole si oscurerà, / la luna non darà più la sua luce, / le stelle cadranno dal cielo
/ e le potenze dei cieli saranno sconvolte. / Allora comparirà in cielo il segno del
Figlio dell’uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della Terra, e
vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e
gloria. Egli manderà i suoi angeli, con una grande tromba, ed essi raduneranno i
suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli» (Mt 24, 29-31).
Luca puntualizza: «Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi
e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (Lc 21, 28).
Ammettiamolo, stiamo parlando di qualcosa che avrebbe dovuto suscitare un
certo effetto! Invece, è passato tutto sotto silenzio, e continua a esserlo anche
oggi.
San Paolo parla ai Corinzi di questa «venuta» (1Cor 15, 23) attorno all’anno
55, quindi poco più di una ventina d’anni dopo la morte di Cristo… Ai
Tessalonicesi scrive: «Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce
dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima
risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in
vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in
alto» (1Ts 4, 16-17). Noi, che viviamo e che saremo ancora in vita: difficile
essere più espliciti per spiegare che il ritorno di Cristo sulla Terra è imminente!
Sono stati necessari tutti i talenti e tutta l’ingegnosità dei Padri della Chiesa
per riuscire a giustificare il fatto che quello che doveva succedere con Paolo
ancora in vita, e quindi entro il 67, non è successo né nel 167, né nel 267, né nel
367, né nel 467, né nel 567, e così via, e neppure nel 1967. Con l’aiuto
dell’Antico Testamento, sant’Agostino mette a punto diversi sotterfugi
numerologici per spiegare che un secolo non è un secolo ma, simbolicamente, è
costituito da diversi secoli…99 E questo spiega come, ancora oggi, si possa
aspettare una cosa che era stata annunciata come imminente già duemila anni fa.
Ma non importa… Quello che importa è che i discepoli di Cristo ci abbiano
creduto nel I secolo della nostra era, lasciandosi incontestabilmente travolgere da
uno stato psichico di angoscia. Se, quando siamo vivi, siamo convinti che Cristo
tornerà per giudicarci e per spedire la nostra anima all’inferno o in paradiso, è
assolutamente verosimile che cominciamo a vivere la nostra vita quotidiana in
mezzo all’inquietudine, al timore e allo spavento, ossessionati dall’idea di morire
in uno stato di peccato tale da compromettere il raggiungimento della salvezza.
La patristica trabocca di testi che parlano di demoni. Le tentazioni di
sant’Antonio forniscono il modello di tutto questo universo satanico. Atanasio di
Alessandria, nella lettera che racconta la vita del monaco del deserto, fa del
demonio un essere «che odia il bene»,100 e gli fornisce molteplici forme: «di
notte assumeva […] l’aspetto di una donna e ne imitava il comportamento in
tutte le maniere»;101 oppure si mostrava come un drago che digrignava i denti,102
o come un «ragazzo nero»,103 oppure ancora «sotto forma di belve e di serpenti
[…] di leoni, di orsi, di leopardi, di tori, di serpenti, di vipere, di scorpioni e di
lupi»;104 e poi strillava e strepitava come un animale,105 prendeva la forma di
«corpi giganteschi ed eserciti di nemici»,106 oppure quella di un branco di iene
che sembra riassumere tutti gli animali del deserto.107 A volte, questi demoni si
mettono a ripetere in eco un testo delle Scritture che è stato appena letto.108 In
ogni caso, Satana è colui che si dice «amico dell’impurità»,109 il seduttore, il
tentatore, il serpente della Genesi.
I demoni possono spaventare tutti ma non il credente, perché quest’ultimo sa
che un semplice segno della croce è sufficiente a farli sparire. «Bisogna invece
disprezzare i demoni e non averne alcun timore. Quanto più ci importunano,
tanto più dobbiamo intensificare la nostra ascesi contro di loro. Una vita retta e
la fede in Dio sono un’arma potente contro di loro. Essi temono il digiuno degli
asceti, le veglie, le preghiere, la mitezza, la quiete, il disinteresse per il denaro e
per la vanagloria, l’umiltà, l’amore per i poveri, le opere di misericordia, la
dolcezza e specialmente la fede nel Cristo».110 Antonio racconta di aver
incontrato Satana. Gli è apparso come «un tale straordinariamente alto»111 che
non capiva come mai gli anacoreti lo stessero insultando! È questo che confida
al monaco del deserto, il quale, a sua volta, gli risponde che la sua potenza
sarebbe stata annientata dalla venuta del Signore, una parola, quest’ultima, che
lo mette immediatamente in fuga. Un’altra volta, il demone prende la forma di
«una bestia simile a un uomo fino alle cosce e simile a un asino nelle gambe e
nei piedi».112 In sua presenza, Antonio si fa il segno della croce ed esclama:
«‘Sono servo di Cristo. Se sei stato inviato contro di me, eccomi.’ Ma la bestia
se ne fuggì via con i suoi demoni con tanta furia che cadde e morì. La morte
della bestia era la disfatta dei demoni».113 Tuttavia, da buon doppio negativo di
Cristo, anche Satana prima muore e poi risorge… E continua senza sosta a
tornare nella vita di Antonio, come in quella di tutti i monaci del deserto, e in
quella degli uomini dacché sono uomini e finché lo rimangono.
Questa età di angoscia si ritrova colma di demoni e di diavoli, ed è visitata da
Satana in persona. Per resistere a tutto quello che quest’ultimo rappresenta
(quindi: desideri, piaceri, tentazioni, godimenti, menzogne, vizi; in una parola: la
carne che si rivolta contro lo spirito, e il corpo in guerra contro l’anima), la
strada è una sola, ed è quella dell’ascesi e della lotta contro… i desideri, i
piaceri, le tentazioni, i godimenti, le menzogne e i vizi. L’ascesi è quindi il vero
antidoto al demonio.

In quest’età d’angoscia consustanziale al dispiegarsi di una civiltà, tra la fine del


paganesimo greco-romano e l’avvento dell’Impero giudaico-cristiano, i martiri
testimoni della propria fede cattolica in un mondo pagano che li perseguita
lasciano il posto agli anacoreti e ai cenobiti, interpreti di questa stessa fede, ma
secondo altre strade. I primi vanno in battaglia passando dalle arene, dove
muoiono sotto le zanne di animali feroci assolutamente reali; i secondi si
organizzano per dare l’assalto ai demoni e a Satana, spegnendo il corpo per
liberare l’anima e fare in modo che possa essere salvata il giorno, prossimo, del
ritorno di Gesù Cristo sulla Terra. Al momento della Parusia, il corpo deve
essere pronto per la vita eterna, e quindi deve essere il più morto possibile, in
modo tale che l’anima possa a sua volta essere la più viva possibile.
La vita di sant’Antonio serve da modello per parecchi anacoreti e cenobiti, ma
anche, al di là di quanti offrono radicalmente la loro vita a Dio, ai cristiani cui
l’eremita non propone teorie, dottrine o sottili analisi teologiche sulla natura
dell’escatologia, ma l’occasione di mettere in pratica una vita cristiana.
Questa saggezza esistenziale prosegue quella dei filosofi dell’Antichità il cui
obiettivo non era tanto di teorizzare il mondo, quanto di offrire la possibilità di
condurre un’esistenza filosofica per guarirsi dal mondo così com’è e così come
funziona.
Ricordiamolo ancora una volta, il platonismo è utile al cristianesimo per via di
parecchie delle teorie di Platone, alcune delle quali sono a loro volta derivate dal
pitagorismo: il dualismo che divide l’anima dal corpo; l’opposizione tra mondo
intelligibile e mondo sensibile; la verità del quaggiù sensibile determinata da un
aldilà intelligibile; la radicalità antiedonista; la mediazione del sapere esoterico
attraverso il sotterfugio di una figura mitica, quella di Socrate, condannato a
morte per le sue idee; l’ontologia dell’essere; il doppio movimento di
processioni ascendenti verso il Bene e verità discendenti verso gli uomini; e poi
anche e soprattutto la sopravvivenza dell’anima dopo la morte, e il suo destino
post mortem deciso dal modo in cui è stata impiegata quaggiù.
Il neoplatonismo di Plotino affonda il chiodo mistico attraverso l’odio nei
confronti del corpo reale e il lavoro quotidiano su di sé per riuscire a purificare
la carne e creare una tensione in grado di condurre all’estasi. La Vita di Plotino,
scritta da Porfirio, ce lo insegna: la filosofia è una saggezza esistenziale che
riguarda il qui e ora e si trova in relazione con l’escatologia – cioè la salvezza
eterna.
Il buon uso della filosofia antica da parte dei primi cristiani si precisa con lo
stoicismo e la sua teoria della sofferenza come occasione per mostrare la potenza
della volontà del saggio: il dolore, sostengono gli stoici, sta tutto nel grado di
accettazione con cui lo si accoglie, basta non volerlo perché il dolore in quanto
tale non esista. Tale pensiero porta a un dolorismo che conferisce alla sofferenza
fisica un ruolo soteriologico: più l’uomo sopporta la sofferenza (il motto degli
stoici è, ricordiamolo, «sopporta e astieniti»), più mostra la propria saggezza.
Stessa osservazione vale per la morte, presentata come una vera e propria
salvezza, che permette al filosofo di sperimentare quanto abbia fatto bene a
passare la propria vita ad addomesticarla – ricordiamoci del famoso «praticare la
filosofia significa imparare a morire» di Cicerone. La sofferenza non è niente; il
giusto impiego del dolore porta alla salvezza; e la morte è auspicabile, per il
saggio, perché gli permette di sperimentare e di dimostrare la propria saggezza.
Questi piccoli ruscelli filosofici dell’Antichità vanno tutti a confluire nel grande
fiume della cristianità.
L’aristotelismo non ha nessun rilievo in questi tempi di fede pura in cui non
c’è alcuna necessità di dover dimostrare Dio con l’arte dei sillogismi, o con la
retorica, o con la sofistica, o la dialettica. La Metafisica non è uno strumento
utile per i contemporanei di Gesù, o per chi lo ha conosciuto o ha cercato di
raccogliere le sue tracce andando a trovare quelli che raccontavano di essergli
passati accanto. È quando la fede comincia a vacillare che nasce l’esigenza di
appoggiarsi a discorsi giustificativi: è durante il medioevo. È in quel momento
che Aristotele prende servizio. Aristotele è uno dei grandi uomini, se non il vero
e proprio grande uomo del pensiero scolastico – prima che, a girare la pagina di
questo millenario pensiero magico, non arrivi Montaigne.
A queste scuole filosofiche antiche, aggiungiamo l’apporto del cinismo, una
scuola tanto criticata, tanto fraintesa, e anche tanto messa alla berlina. Nella
maggior parte dei casi, la si riduce ad alcuni aneddoti: Diogene di Sinope che si
masturba sulla pubblica piazza, o che vive in un barile (un’invenzione dei Galli),
o che mangia polpi crudi e addirittura carne umana, o che morde la mano che gli
offre il cibo, che urina per strada, che copula in pubblico, che prende in giro
l’imperatore Alessandro, o che in pieno giorno se ne va in giro per la città con in
mano una lanterna accesa spiegando che sta cercando un uomo. Diogene lo si
vede anche mentre si porta in giro per strada un’acciuga attaccata a un filo, o
difende la necessità di prendere come modello di vita gli animali, quindi i topi, le
rane, i pesci e, soprattutto, i cani! Ma cosa farà di tanto diverso l’asceta copto
Paolo di Tammah quando si deciderà a passare cinquantaquattro anni nel deserto
e a vivere come un bufalo in mezzo ai bufali?
In realtà, dietro tutte queste piccole storie create per provocare (cioè,
etimologicamente, per far nascere qualche cosa…), esiste una filosofia
consegnata dagli stessi cinici a scritti che, per quanto perduti o distrutti dal
potere cristiano, sappiamo nascondevano una vera e propria saggezza fondata su
alcune precise tesi: la cultura che distrugge la parte migliore dell’uomo, cioè
quella legata alla natura; la saggezza che consiste nel ritrovare questa parte
migliore attraverso un ritorno allo stato selvaggio, cioè l’arte di lasciar parlare
dentro di sé non l’anima immateriale, ma ciò che dentro di noi, nella vita, vuole
la vita. Da qui il materialismo vitalista ed edonista, terribile antidoto ai poteri,
alle favole e alle mitologie. Come ricorda Diogene Laerzio nelle sue Vite e
dottrine dei più celebri filosofi, Antistene sosteneva che «la virtù è propria delle
azioni e non necessita di moltissimi ragionamenti, né di insegnamenti».114 E poi
Diogene di Sinope «Soleva dire […] che, senza esercizio, proprio nulla nella vita
va come deve andare».115 E cosa dice di diverso Antonio quando cita Paolo che
invita a vivere «non secondo la carne ma secondo lo spirito»?116
L’ascesi esistenziale come prova della vita filosofica costituisce la colonna
vertebrale dell’impegno dei monaci del deserto. Solamente, per l’anacoreta, o
per i cenobiti che vivono in comunità, questi «atleti del deserto», per riprendere
la metafora di Nestorio, ritengono che il cristianesimo non sia un corpo
dottrinale, una teologia complessa, una filosofia astrusa, o ancora meno un
discorso che permette di sedersi su un trono terrestre, ma una saggezza pratica
che rende visibile la vita filosofica cristiana.
Quando, nel IV secolo, Costantino comincia a rivestire Gesù d’oro e di
broccato, a ricoprirlo di diamanti e a intagliare il suo corpo nel marmo o nel
bronzo; quando decide di collocare la sua immagine all’interno di palazzi
grandiosi in cui preti sontuosamente vestiti e imperlati celebrano l’eucaristia con
servizi d’argento dorato, mentre tutto scompare in mezzo ai vapori di profumi
costosi come l’incenso e la mirra; i monaci del deserto, invece, stanno ancora
seppellendo Cristo sotto san Paolo, di cui però rifiutano la spada, preferendogli il
Gesù povero e semplice, bisognoso e sobrio, l’asceta che tende a Dio. Ce lo vedo
bene, sant’Antonio a Roma, brandire la frusta di Gesù per scacciare i mercanti
dal Tempio!

Nella sua Vita di Antonio, Atanasio, vescovo di Alessandria, scrive che «la vita
di Antonio per dei monaci è sufficiente quale modello di vita ascetica».117 Poi
spiega che cosa significa l’ascesi: porre attenzione a sé stessi, mantenere una
«dura disciplina»,118 manifestare uno zelo pieno di tensione, vietarsi qualsiasi
negligenza, vivere come se si dovesse morire da un momento all’altro, abituarsi
all’austerità, sopportare gli sforzi, crearsi abitudini sane, puntare sempre più in
alto e cose sempre migliori, rifiutare di lasciarsi andare. L’essenziale è vivere
secondo lo spirito e in opposizione alla carne, castigare il proprio corpo e ridurlo
in schiavitù, in quanto peccatore. Più si maltratta la carne, più si sublima
l’anima; meglio si mortifica il corpo, meglio si magnifica lo spirito: tutto quello
che viene strappato alla materia finisce per alimentare il Paracleto. Scrive
Atanasio: «Diceva, infatti, che il cuore acquista la forza quando si indeboliscono
i piaceri del corpo».119 La vita deve essere consacrata alla soppressione del
corpo per ottenere la vita eterna – cioè quando, in maniera imminente, Cristo
tornerà in tutta la sua maestà per la Parusia. Antonio vive recluso per vent’anni,
senza mangiare, bere o dormire, rifiutandosi a qualsiasi piacere: «deposto il
corpo corruttibile, ne riceveremo uno incorruttibile».120 E poi: «E così, figli
miei, non scoraggiamoci e non pensiamo di dar prova di perseveranza o di fare
grandi cose. Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria
futura che dovrà essere rivelata in noi [Rom 8, 18]. Non crediamo, guardando al
mondo, di aver rinunciato a grandi cose: la Terra intera è piccolissima a
confronto di tutto il cielo. Se anche fossimo padroni di tutta la Terra e vi
avessimo rinunciato, neppur questo sarebbe degno del regno dei cieli».121
L’asceta trasforma il piombo della carne in oro spirituale, trasfigura la vita e
sottopone a metamorfosi l’essere. Insomma, qui si realizza l’uomo nuovo,
l’ideale di Paolo.
E quest’uomo nuovo può anche essere una donna! Gira una storia edificante:
Atanasia, donna bella e felice, vive un’esistenza laica assieme al marito
Andronico, e gli dà due bei bambini. A un certo momento, però, i bambini
muoiono e i genitori decidono di rinunciare al mondo e di andarsene nel deserto
dove, separati, conducono le loro pratiche ascetiche per più di un decennio.
Atanasia si è tagliata i capelli e porta abiti maschili, cambia nome e diventa
Atanasio. Vivono entrambi da reclusi nel deserto di Nitria. Un giorno,
Andronico chiede ospitalità a un altro monaco, e questi gliela concede. Vivono
assieme da asceti per un periodo di dodici anni. Al momento di morire, l’ospite,
che aveva la pelle annerita come l’ebano dal Sole e il corpo scolpito dalle
mortificazioni, confessa al proprio compagno di essere una donna e di chiamarsi
Atanasia…
Ma l’uomo nuovo può ovviamente essere anche… un uomo! Seguiamo questa
storia siriana del V secolo a cui si continuano ad agglomerare diverse versioni
fino al IX secolo. Iacopo da Varazze sviluppa il racconto, come al solito, senza
documenti che ne comprovino la storicità. Nato nel IV secolo, Alessio proviene
da una nobilissima famiglia di Roma. Il padre, il prefetto Eufemiano, «aveva al
suo servizio tremila servi vestiti di cinture d’oro e abiti di seta»122 ed è un uomo
generoso, accoglie ogni giorno poveri, stranieri, vedove e orfani, che è lui stesso
a servire. Il suo pasto è frugale e lo consuma in compagnia di altri uomini pii. La
moglie manifesta la stessa pietà cattolica. Alessio compie degli studi molto
severi e viene fatto sposare con una giovane donna di buona famiglia, della
casata dell’imperatore. La notte delle nozze, Alessio esorta la moglie a praticare
la castità cristiana, e poi, senza dire niente a nessuno, parte per la Siria per
andare a vedere la Sacra Sindone. Arrivato sul posto, distribuisce tutto quello
che ha e vive assieme ai poveri. Il padre lo fa cercare dappertutto, e manda servi
negli angoli più reconditi del mondo. Alcuni di loro lo raggiungono, ma non lo
riconoscono, e gli fanno anzi l’elemosina. Ironicamente, Alessio li ringrazia
dicendo: «Grazie, Signore, perché mi hai fatto ricevere l’elemosina dai miei
servitori».123 Rientrati a casa del padrone, i servi rendono conto delle loro
ricerche e del fatto che Alessio rimane introvabile. La madre e la moglie si
affliggono ancora di più. Dopo diciassette anni di ascesi, un’immagine della
Vergine parla al custode della chiesa davanti alla quale Alessio mendica,
intimandogli di fare entrare quest’ultimo nel santuario. L’evento lo rende
famoso, e, per ritrovare l’anonimato, Alessio decide d’imbarcarsi. I venti però
non assecondano i suoi desideri e, anziché arrivare a Tarso, sbarca a Roma. Qui
incrocia naturalmente il padre, accompagnato da parecchi servi; gli chiede
ospitalità, la ottiene senza essere riconosciuto e rientra quindi nella casa paterna
con il servo che gli è stato messo a disposizione. Prega, veglia e digiuna. I
domestici lo prendono in giro, gli versano acqua sporca sulla testa e lo insultano.
«Per diciassette anni dunque rimase in casa del padre senza essere riconosciuto».
124 Ormai vicino alla morte, chiede un pezzetto di carta, su cui riassume la
propria vita. La domenica seguente, durante la messa, una voce annuncia che
occorre «Cerca[r]e l’uomo di Dio, perché preghi per Roma».125 Alessio viene
ritrovato morto con il pezzetto di carta stretto nella mano, però ci vuole un po’ di
tempo prima che tutti quanti, compresi due imperatori e il papa, capiscano di chi
si tratta. Ed è solo il papa che riesce ad aprirgli la mano, scoprendo il biglietto e
rivelando al popolo riunito l’identità del figlio di Eufemiano, il quale perde
conoscenza e crolla a terra, poi torna in sé, si strappa le vesti, si strappa i capelli,
si ferisce, si mutila e si getta sul corpo del figlio deplorando tutto quello che è
successo. La madre e la moglie fanno la stessa cosa, ma intanto il corpo morto
comincia a guarire i malati. La tomba che gli viene preparata è splendida, ed
emana odori soavi.
Le storie di Atanasia e di Alessio dimostrano come una vita d’ascesi permetta
la morte dell’essere di prima a tutto profitto della nascita dell’essere di poi. È il
senso, come ho detto, dell’insegnamento di Gesù, secondo Giovanni: esiste una
vita mondana secondo la carne; l’incontro con il Verbo spezza questa vita
favorendo una vita spirituale secondo lo spirito; ne consegue la rinascita di un
essere nuovo talmente in rottura con quello precedente che nemmeno il marito
riconosce più la moglie, nemmeno il padre e la madre riconoscono più il figlio
trasformato, e nemmeno la moglie riconosce più il marito. Ecco una vita terrestre
secondo il Corpo, una morte simbolica secondo il Logos, e una risurrezione
secondo lo Spirito. L’anima vive nella materia e nel tempo; incontra il Paracleto;
e rinasce nell’immateriale per l’eternità. Ecco il semplice messaggio originale di
Gesù, ricoperto in seguito da così tante scorie patristiche, teologiche, scolastiche
e filosofiche che non riusciamo più ad ascoltare queste parole dell’evangelista
Giovanni Evangelista, che l’aveva in realtà annunciato: il Verbo si è fatto Carne.

L’ascesi, che è, per i cinici, la «via breve per la virtù»,126 si rivela anche essere
per i Padri del deserto l’arduo cammino che a quella conduce. San Doroteo
risponde a Palladio di Galazia che gli domanda perché imponga tali
mortificazioni al proprio corpo: «Mi uccide, e io uccido lui».127 Sta tutto qui, il
progetto dei monaci del deserto: uccidere il corpo per liberare l’anima dalla
prigione in cui si trova ingabbiata.
Il progetto paoliniano sorge allora in tutta la sua superbia: a cosa assomiglia
l’uomo nuovo proposto da san Paolo come modello? Agli Efesini, ha spiegato
come fare, l’abbiamo visto qualche pagina sopra. Ma la verità è che quest’uomo
nuovo assomiglia a un uomo che rimane in vita. L’anacoreta e il cenobita
praticano un suicidio lento che permette loro di sopravvivere a lungo e di far
durare il supplizio spesso fino a età molto avanzata. Non è raro che questi
individui che si alimentano di pane una volta all’anno, che si accontentano di un
pizzico di sale e di un po’ d’acqua stantia, che dormono il meno possibile,
arrivino a campare otto, nove o addirittura dieci decenni! Basandosi su queste
cifre, l’agiografia vorrebbe farci capire che l’ascesi non solo conserva la salute,
ma addirittura la favorisce!
Eccolo, allora, il ritratto dell’uomo nuovo, non come ce l’ha descritto Paolo,
ma come si è costruito e come è apparso nei deserti egiziani, palestinesi, siriani,
cappadoci, armeni e persiani del IV secolo della nostra era.
L’asceta annulla le proprie funzioni vitali – come quando si abbassano le luci
di una stanza per stare con meno illuminazione possibile. Per vivere, bisogna
mangiare, bere e dormire correttamente, in modo da evitare di guastare il proprio
corpo, che, in caso contrario, comincerebbe a dimagrire, a mancare di sostanze
essenziali come vitamine e sali minerali, a disidratarsi e a degenerare a livello
neuronale. Portare il proprio corpo a questo stato di totale carenza, significa
assicurarsi visioni, deliri e stravaganze – una preparazione fisica per stati
ulteriori condivisa, per esempio, anche dalle culture sciamaniche. Non stupisce
quindi che tutte queste carni spossate siano in grado di vedere demoni, sentire
voci, parlare ad animali che rispondono, e discutere con Mosè, Davide o Gesù.
Paolo di Tebe vive con cinque fichi al giorno e muore centenario; due volte
all’anno, ad Antonio viene passata una pagnotta sopra il muro che lo divide dal
mondo; Pacomio mangia solo pane, sale ed erbe cotte e ci mescola un po’ di
cenere per trovare il giusto cattivo gusto; per sessant’anni, Macario, essendo
venuto a sapere che un altro asceta si sgranocchiava una libbra di pane al giorno,
rompe la sua pagnotta, la mette dentro una bottiglia e decide di ingerirne soltanto
quello che le dita riescono a recuperare; Doroteo riduce la propria porzione a
cento grammi al giorno; Paolo di Tarso vive per sessant’anni con quello che gli
porta un corvo tutti i giorni (è quello che si intende con l’espressione francese
essere riforniti dai corvi); Arsenio si accontenta di due prugne e un fico al
giorno accompagnati da un pezzo di pane, ma, per consumarli, aspetta che i frutti
siano belli marci; a sedici anni, Scenute mangia solo una volta alla settimana, la
domenica, e soltanto legumi e bacche bollite; Sabino rifiuta il pane preferendo
una farina mescolata con acqua rancida, in attesa che tutto quanto si sia
putrefatto per fare bisboccia; Isidoro va matto per le briciole cadute a terra e per i
resti nei piatti; Maria Egiziaca detiene il record: due pagnotte e mezza in
diciassette anni – più anoressica di così, si muore. Altri, che chiamano i
pascolanti, brucano erba e mangiano radici per tutta la vita. Alcuni eremiti
etiopi, troppo numerosi nel sacrificarsi a questa gastronomia vegana del deserto,
vengono scacciati dai contadini perché le loro vacche non hanno più niente da
mangiare e tornano alle loro grotte a morire di fame…
Nel deserto, dove le temperature possono superare i cinquanta gradi al sole,
non ci si può permettere di non bere. Il vino, ovviamente, viene bandito e
l’acqua è l’unica bevanda consentita. A patto però che non sia né fresca né pura.
Stantia e salmastra è la cosa migliore. Moltissimi, per esempio, sono quelli che
vanno a stare nel deserto di Nitria, perché la fonte locale permette di raccogliere
solo acqua dal cattivo gusto di catrame e il posto si rivela assolutamente ideale…
Il sonno è un piacere, e per questo stesso motivo viene ridotto il più possibile.
Di sicuro, non deve essere riparatore. Giovanni di Sardi sceglie di rimanere in
piedi per tutta la vita e dorme con una corda attaccata sotto le ascelle. Nello
stesso spirito, Tito si fa appendere per aria con delle funi, in modo che i piedi
non tocchino mai il suolo, corrotto dal peccato originale. Antonio s’infligge
regolarmente notti insonni, oppure dorme due o tre ore, non di più. Dormire
significa sognare e, nei sogni, non si lavora più alla propria salvezza, perché le
immagini più folli invadono lo spirito e i desideri più libidinosi occupano tutto lo
spazio. Allora, Dio viene allontanato, ed è Satana a dettare legge. Pacomio
s’impone una lunga serie di veglie. Non dorme allungato, perché sarebbe
qualcosa di troppo voluttuoso, ma seduto, accovacciato, in piedi oppure
addossato a un muro. Per quindici anni, riesce a prendere sonno in piedi, in
mezzo alla sua cella, tra sofferenze che però lui benedice. Palemone, il suo
maestro, gli ordina di camminare nel deserto senza fermarsi, e di portare pesi
sulle spalle in modo da combattere la tentazione di dormire. Macario entra, un
giorno, in un cimitero e si distende in una tomba. Trova un corpo ormai
raggrinzito e lo usa come cuscino, addormentandosi. Arriva un demone e chiede
al cadavere di alzarsi e di raggiungerlo; il cadavere declina l’invito, rispondendo
che è impossibile, perché c’è qualcuno che gli sta sopra la pancia. «E chi è
quest’uomo? chiede il demone. — Il grande Macario, risponde il cadavere. —
Ma mi volete lasciare un po’ tranquillo? risponde a sua volta Macario perdendo
la pazienza». A quel punto, Macario si fa il segno della croce, il demone fugge
via e lui può finalmente riaddormentarsi. Simeone Stilita, invece, vive in cima a
una colonna alta venti metri e risolve il problema non dormendo mai e pregando:
non c’è tempo da perdere, la vita è troppo breve.
L’asceta cerca di annullare le proprie relazioni con gli altri. Lui e Dio, da
soli! In questa esistenza totalmente rivolta alla salvezza della propria anima e
resa pura dall’estinzione della carne, non c’è posto per nessun altro. Per
realizzare questa alterità alterata, basta non parlare. È, per esempio, la regola di
Pacomio che insegnava infatti: «Impara a tacere». Scenute proibisce ai propri
monaci di usare aggettivi possessivi: in nessun caso dovranno dire: la «mia»
camera, il «mio» letto, il «mio» piatto. Sant’Acepsima si rinchiude dentro una
casettina di pietra, non vede nessuno, e ovviamente non parla con anima viva.
Gli portano un piatto di lenticchie ogni settimana, facendogliela passare da un
foro realizzato di sbieco in modo che non possa scorgere nessuno. Solo di notte,
esce per raccogliere un po’ d’acqua alla fontana. Ovviamente, niente donne e
niente sesso. Macario, obbligato dai genitori, si era dovuto sposare contro la sua
volontà, ma aveva vissuto con la moglie un’unione «apotattica», ossia priva di
contatti sessuali. Non c’è ovviamente bisogno di precisare che questi uomini non
intendono assolutamente piegarsi agli automatismi riproduttivi: impossibile
immaginarsi un monaco del deserto sposato e padre di famiglia…
L’asceta cerca anche di annullare la propria sensibilità. L’abbiamo visto, non
ci si deve mai abbandonare ad assaggiare o a sentire odori gradevoli: solo quelli
dei defunti morti già in stato di perfezione sono da considerarsi uno spettacolo
dolce e soave. Il profumo, quando non è diretta emanazione celeste o divina,
rimane sempre una seduzione, un peccato. Stessa cosa con l’udito, gli unici
suoni piacevoli sono quelli che provengono dal cielo. Non si assaggia, non si
sente, non si ascolta e non si tocca. Che cosa rimane allora? Guardare, vedere?
Nemmeno…
Perché l’asceta si vieta qualsiasi spettacolo di bellezza. Sant’Elpidio, per
esempio, viveva in Palestina di fronte a un paesaggio sublime, però non si girava
mai dalla parte dell’Occidente, anche se l’entrata della caverna si trovava in cima
alla montagna. E nemmeno guardava mai il Sole, o le stelle che spuntavano
appena quello tramontava, e in vent’anni non ne aveva vista nemmeno una.
Era assolutamente fuori questione il fatto di produrre qualche cosa di bello,
perché avrebbe significato mostrare il proprio desiderio di misurarsi con il
creatore. Quando Pacomio porta a termine il colonnato del suo monastero a
Moncose, valuta la buona riuscita e si sente soddisfatto. Questo sentimento,
però, è il sintomo di un peccato d’orgoglio, e il santo decide allora di punirsi
ricostruendo la colonnata in modo da farla pendere e cancellare così l’equilibrio
armonioso che aveva ottenuto.
L’asceta si astiene anche dal ridere, e persino dal semplice sorridere, perché
anche questo è appannaggio dei demoni. Un abbozzo di sorriso può far crollare
anni di ascesi e di mortificazioni nel deserto. Ridere significa lasciarsi andare,
rilassarsi, mostrare i denti come gli animali, perdere il contegno e la padronanza
di sé, lasciare parlare la bestia che ci alberghiamo dentro. Il volto dell’anacoreta
o del cenobita deve essere permanentemente impassibile.
Quella di non muoversi era l’ossessione degli stazionari. Si trattava, come
indica il loro nome, di restare il più a lungo possibile in piedi, in preghiera con le
braccia alzate a croce e la testa rivolta al cielo. San Marone, per esempio, decide
di vivere dentro un albero con le pareti interne tappezzate di spine. In quella
situazione, muoversi significava farsi lacerare dalle spine di legno. In monastero,
la regola consiste nel praticare un esercizio da ‘stazionario’ da un rintocco di
campane all’altro: il monaco addetto al forno viene sorpreso dal primo rintocco
mentre sta mettendo legna nel fuoco, e aspetta il secondo rintocco per ritirare le
mani, che saranno, a quel punto, ormai completamente ustionate. Al contrario,
invece, muoversi continuamente era l’ossessione dei girovaghi, che infatti non si
fermavano mai…
Infine, l’asceta decide di annullare la propria dignità. Questi uomini e queste
donne passano la loro vita sotto il sole incandescente del deserto però non si
lavano mai. Alcuni rimangono nudi, altri si coprono con pelli di animali, di
pecore o di cammelli, giusto per sudare ancora di più. Non si tagliano mai i
capelli, o le unghie, in modo da potersi avvolgere completamente nella propria
chioma, che non conosce il sapone. Atanasio dice di Antonio che «Non si lavava
né il corpo né i piedi con l’acqua, l’immergeva nell’acqua solo se vi era
necessità»,128 ossia, per esempio, quando doveva attraversare un fiume…
Ovviamente, l’asceta non abita in una casa in cui si potrebbe lavare (anche se
Gesù non ha mai esortato a puzzare, o a mangiare e a bere in maniera
necessariamente sobria) e in cui potrebbe dormire per ristorare le proprie forze.
No, l’asceta vive dentro degli alberi cavi (come i monaci dendriti), oppure
dentro delle tombe, oppure in zone fluviali infestate dai coccodrilli che lo
attaccano di continuo, oppure dentro gabbie in cui non può stare né in piedi né
seduto, oppure ancora dentro delle grotte, o dentro delle capanne con le porte
murate, oppure in deserti di salnitro con il Sole che taglia come una lama, oppure
ancora in buche scavate nel terreno come tane, a volte direttamente dentro le
tane, oppure immerso nel fango fino al petto, oppure ancora in capanne fatte di
rami, oppure dentro delle cisterne, oppure (gli stiliti) in cima a delle colonne che
possono, come nel caso di Simeone, raggiungere venticinque metri di altezza –
Alipio, per esempio, ci ha passato ventinove anni della sua vita.
Per l’asceta, qualsiasi occasione è buona per rinunciare alla propria dignità:
mangiare cibi avariati, bere acqua sporca, o rovinare la propria bevanda fresca
con un po’ d’acqua rancida; accettare, in monastero, che un monaco annunci la
falsa notizia dell’agonia di un congiunto; innaffiare un bastone morto piantato
nel deserto con un po’ d’acqua che si va a raccogliere lontano dal luogo
dell’ascesi, ovviamente per farlo fiorire; fare e disfare continuamente lo stesso
paniere o le stesse reti sotto il sole d’Egitto; lasciarsi seppellire dalla neve
rimanendo immobili; far aspettare per due o tre anni alle porte del monastero un
discepolo che chiede di essere accolto; rompere un barattolo di miele nella
sabbia e raccoglierlo con una conchiglia finché non ne rimanga più nemmeno un
granello; mangiare sette olive al giorno, perché sei è peccato d’orgoglio e otto di
golosità; andare a prendere l’acqua al pozzo più lontano e andarci a piccoli passi;
vivere in fondo a un pozzo; restare per anni nudi su un mattone, in attesa che il
sudore e le lacrime finiscano per scioglierlo; aiutare dei ladri sorpresi in casa a
portare a termine il loro furto, passandogli il sandalo che si sono dimenticati; non
rispondere quando si sente chiamare il proprio nome per evitare il peccato
d’orgoglio; esporsi, in pieno sole, coperti di miele, in attesa che arrivino gli
insetti a pungere e si sconti così la colpa di averne ucciso uno d’istinto solo
perché ci ha inoculato il suo veleno; passare la propria vita a vagare nel deserto
senza mai smettere di piangere sulle conseguenze del peccato originale; simulare
la pazzia per passione di umiltà; crocifiggersi per una settimana in pieno sole;
mangiare pane a quattro zampe direttamente per terra; lasciare che i vermi
arrivino su una piaga e, quando cadono a terra, rimetterli nella carne.
Va bene, basta… Ci siamo capiti.
Questa è la logica dei monaci e delle monache che scelgono di vivere il
proprio destino nel deserto. Per salvare la loro anima, decidono di morire
continuando a restare in vita. Credono che bevendo acqua ristagnante e
mangiando fichi marci, non lavandosi mai e dormendo in piedi, non rivolgendo
più la parola a nessuno o rifiutandosi di guardare la bellezza della Via Lattea,
considerando le donne come diavole che appartengono alla famiglia dei demoni,
mangiando erba e dormendo nelle tane delle iene, smettendo di ridere e non
tagliandosi più i capelli, la loro anima si trovi automaticamente purificata!
Se si fosse trattato solo di scelte individuali e volontarie, sarebbe stato soltanto
farsesco. Dopotutto, ognuno ha il diritto, come ha fatto san Sisoes, secondo il
racconto di Palladio, di manifestare il proprio «amore per la santa abiezione»! Il
fatto, però, è che il cristianesimo, una volta diventato religione ufficiale
dell’Impero, non si è limitato a questo. E ha voluto estendere questa morte della
parte vivente degli esseri umani alla totalità dell’umanità. Per farlo, si è forgiato
una spada, quella di Paolo: e ci sono stati gli ukase dei concili. La sofferenza che
alcuni si imponevano volontariamente per paura di non-essere pronti al momento
del ritorno di Cristo sulla Terra è diventata, diciamo così, parola di vangelo per
tutti. Preoccupandosi dell’anima, non si è mai arrivati a tanto nella tortura dei
corpi.
Ma è questo il prezzo che si paga quando si compiono cose divine, ossia cose
inumane: camminare sull’acqua del Nilo o del Giordano; guarire i malati o
resuscitare i morti (anche per errore, come nel caso di Bessarione, che aveva
scambiato il corpo di un moribondo per un cadavere – non si sarebbe mai
permesso, altrimenti, di riportare un morto in vita, peccato di orgoglio); volare
per aria con la sola forza della preghiera; inventarsi una lingua per parlare con
gli angeli; passare la propria vita con un leone di cui ci si è presi cura una volta;
discutere con Gesù passando da un argomento all’altro; oppure, come Scenute,
fermare il corso del Sole; oppure ancora farsi mordere da un serpente, e però
aspettare la fine della preghiera per ucciderlo dopo che ha inoculato il suo
veleno. E soprattutto attirare, in pieno deserto, in una vera e propria foresta di
stiliti con tanto di leader, folle incredibili, persone a migliaia, tutte ammaliate da
queste orge di ascesi.
Capitolo nono
L’arte di educare i corpi
Ingabbiare il desiderio

San Giovanni Crisostomo racconta che questi anacoreti non dicono: «il tale è
morto; ma è giunto alla sua perfezione».129
Prima di diventare una religione, il cristianesimo è innanzitutto un arcipelago di
sette in cui troviamo tutto e il contrario di tutto. Nel suo monumentale Contro le
eresie, Ireneo di Lione compila una vera e propria enciclopedia di quelle che lui
chiama «eterodossie». Ma a fronte di chi e di che cosa si possono definire tali?
Dov’è l’ortodossia in questo II secolo della nostra era? Chi è che stabilisce le
regole, e in nome di quali prospettive? L’opera di Ireneo ha come sottotitolo
Smascheramento e confutazione della falsa gnosi. La domanda rimane: chi è che
stabilisce che la gnosi sia irricevibile?
Il dubbio che ormai, nella basilica, qualcuno abbia già appiccato l’incendio
viene quando si cominciano a sentire gli gnostici affermare che il mondo è
cattivo perché è stato creato da un cattivo demiurgo, e che a questa creazione è
seguita una deplorevole rovina nella dimensione del tempo e una non meno
deprecabile caduta nel regno della materia; e che la società è tutta una bugia,
tutta un inganno. E poi ne arrivano altri convinti che sia necessario attraversare
tutto il negativo fino in fondo per far sorgere, dalla negazione della negatività,
una qualche positività assimilabile alla redenzione.
Cerchiamo di capire meglio i sottili movimenti di questa dialettica. Il mondo è
cattivo? Va bene, allora proviamo ad assecondare fino in fondo tutta questa
cattiveria: teoricamente dovrebbe venirne fuori solo del bene, solo qualcosa di
buono. Mettiamo quindi in piedi il programma: rifiutare la famiglia, abolire il
matrimonio, rinunciare alla procreazione, e poi disobbedire al potere costituito,
sia esso pagano o cristiano. L’anima non è naturalmente immortale: lo diventa se
e soltanto nella misura in cui riesce a costruirsi in quanto anima. E per farlo deve
essere capace di non lasciarsi abbindolare da questo mondo, che è solo una
finzione orchestrata da un falso Dio. Tutti ci portiamo dentro una scintilla di
luce: sta a ognuno di noi trasformarla in un incendio.
Diamo qualche dettaglio. Per Simon Mago e la compagna Elena, gnostici, si
deve poter copulare liberamente: la sessualità non deve essere monogama o
imbrigliata dalla fedeltà, e deve soprattutto evitare di mettere al mondo dei figli
che vadano, a loro volta, a formare delle famiglie. Simone sostiene i «rapporti
sessuali promiscui […]: ‘Ogni terra è terra, e non c’è differenza dove uno
semina, a condizione di seminare’».130 L’uomo può scoprire la propria parte
divina sfinendosi nelle orge, e questa rivelazione lo può salvare dal mondo
prodotto da un cattivo demiurgo. Ascoltiamo le parole del vescovo Epifanio di
Salamina, santo:
E gli sventurati si uniscono tra loro. Per quanto in realtà mi vergogni a riferire le loro turpitudini
(secondo il santo Apostolo delle cose fatte da loro è vergognoso perfino parlare, Ef 5, 12),
parimenti non mi vergogno di dire ciò che essi non si vergognano di fare, per suscitare in ogni
modo errori in coloro che odono gli atti osceni da loro praticati senza ritegno. Effettivamente,
dopo che si sono uniti in una passione adulterina, come se ciò non bastasse, innalzano la loro
blasfemia al cielo: la donna e l’uomo raccolgono l’emissione del maschio nelle proprie mani e si
alzano sollevando la testa al cielo; e con quell’impurità in mano naturalmente pregano, i
cosiddetti stratiotici e gli gnostici, il Padre di tutto, come lo chiamano, offrendo di ciò che hanno
in mano, e dicono: «Ti offriamo questo dono, il corpo di Cristo». E così lo mangiano,
condividendo quella schifezza, e dicono: «Questo è il corpo di Cristo e questa è la Pasqua, per cui
i nostri corpi soffrono e sono costretti a riconoscere la passione di Cristo». E allo stesso modo
fanno con ciò che viene emesso dalla donna, quando lei si trova a essere nel periodo del flusso del
sangue: parimenti prendono il suo impuro sangue mestruale raccolto da lei e lo mangiano insieme.
E dicono: «Questo è il sangue di Cristo» […]. Ma pur unendosi tra loro, vietano la procreazione.
Infatti la corruzione presso di loro è perseguita non per generare figli ma per godimento […].
Soddisfano il piacere ma raccolgono in sé stessi i semi della loro impurità, non depositandoli in
vista della generazione, ma mangiando essi stessi quella schifezza.131

L’uomo nuovo vagheggiato da san Paolo diventa l’«uomo pneumatico». Nella


sua opera Contro le eresie, Ireneo di Lione ci descrive il pensiero di Tolomeo,
discepolo dello gnostico Valentino, e scrive: «Come infatti non è possibile per
l’elemento terreno partecipare della salvezza, perché non è capace di accoglierla,
così a sua volta l’elemento spirituale – cioè essi stessi, a quanto pretendono –
non può accogliere corruzione, quali che siano le opere nelle quali si trova
implicato».132 Ecco per quali motivi gli gnostici cosiddetti licenziosi mangiano
cibo destinato alle divinità, assistono alle feste pagane e praticano una sessualità
totalmente libera: la scusa è di dover assicurare carne alla carne e spirito allo
spirito. Non si fanno mancare nulla, nemmeno l’incesto. I barbelognostici, per
esempio, organizzano orge con tutti i propri seguaci. Se una delle loro donne
rimane incinta, recuperano il feto con le dita, lo pestano in un mortaio, lo
mescolano con varie erbe e ci tirano fuori dei pasticcini con cui fanno la
comunione.
I carpocrati, invece, aboliscono la proprietà privata e militano per il
comunismo delle persone e delle cose. Secondo il figlio di Carpocrate, Epifanio,
morto a soli diciassette anni: «Dio ha ingenerato per la conservazione delle
specie la concupiscenza, possente e più violenta nei maschi: non c’è né legge, né
costume, né altro al mondo che la possa annullare. Essa è decreto di Dio […].
Onde il precetto espresso dal legislatore: ‘non desiderare’ va inteso come cosa
ridicola; oltreché è ancor più ridicola l’aggiunta: ‘le cose del vicino’. Infatti colui
che ha dato la concupiscenza come mezzo per conservare la generazione,
comanda… che sia tolta, senza toglierla a nessun animale. Con il dire poi: ‘la
donna del vicino’, vuole costringere ciò che è comune a diventare privato: cosa
più ridicola ancora».133 Bel pensiero, però non si costruisce una civiltà su un
programma comune di questo genere…
Le sensibilità gnostiche si dimostrano molto diverse e le comunità numerose:
carpocrati, valentiniani, nicolaiti, fibioniti, stratiotici, zacchei, barbelognostici,
borboriani, coddiani, ofiti e perati. Questi ultimi, per esempio, adorano la
costellazione del Serpente, perché è quella che brilla di più e, proprio per questo
motivo, può essere assimilata a Gesù Cristo e al Verbo… Gli euchiti, invece,
rifiutano il lavoro, vagano mendicando, e vivono da radicali indomiti, mettendo
in comune le donne e i beni.
Nel II secolo, cioè all’epoca in cui scrive Ireneo, assieme alle pratiche
libertine degli gnostici licenziosi, i dibattiti più accesi sono quelli che vertono
sulla consustanzialità del Padre e del Figlio, sulla negazione della divinità dello
Spirito Santo, sulla natura di Maria madre di Dio e sull’Unità delle tre ipostasi.
Assieme a molte altre, queste controversie pian piano spariscono quando, da
setta, il cristianesimo si trasforma in religione vera e propria, ossia quando, da
arcipelago di gruppuscoli perseguitati dal potere romano, il discepoli di Chrīstos
prendono il controllo dell’Impero, e diventano a loro volta persecutori dei
pagani.
L’editto di Costantino, emanato a Milano nel 313, consente ai cristiani di
professare liberamente la propria fede; nel 392, l’8 novembre per la precisione,
l’imperatore Teodosio proclama il cristianesimo cattolico religione ufficiale
dell’Impero, e vieta i culti pagani. È a quel punto che i cristiani si trasformano in
fanatici e cominciano a incendiare templi, distruggere statue e bruciare
biblioteche, a perseguitare, massacrare e torturare, e tutto il resto. La vulgata
pompa il numero dei martiri cristiani, però su quelli pagani stende il proprio
silenzio…

I concili rappresentano un formidabile strumento in mano al potere teocratico


cristiano che, con la scusa di regolare le sottigliezze dei punti di dottrina
teologica, arriva a fissare un’ideologia con cui educare i corpi, ingabbiare la
libido e costruire l’uomo occidentale, che infatti comincia proprio a quel punto a
morire sotto i nostri occhi.
Jean Hermant è molto preciso e puntuale quando, nei quattro volumi della sua
Histoire des conciles [Storia dei concili] (1695), consacra un capitolo agli
gnostici seguaci di Carpocrate e agli adamiti, prendendosela con tutti questi
cristiani edonisti, nemici dei cristiani paoliniani ormai al potere:
La più pericolosa di tutte le eresie sorte nel II secolo fu quella di Carpocrate e dei suoi seguaci,
che presero a chiamarsi gnostici perché pretendevano di avere, riguardo alle cose divine, delle
conoscenze che il resto degli uomini non aveva. Per la Chiesa, produsse mali incresciosi; perché i
Pagani, che conoscevano le sconcezze e le abominazioni di cui questi eretici venivano accusati
pur continuando a gloriarsi del nome di Cristiani, sfruttavano l’occasione per calunniare in
generale tutti quelli che facevano professione di Cristianesimo. Quest’ultimo veniva considerato
una Setta di persone detestabili, da cui si sarebbe dovuto ripulire il mondo con ogni sorta di
supplizio. Di modo che per la nostra Religione, per quanto Augusta fosse, provavano solo un
sentimento d’orrore estremo. Sant’Epifanio, che conosceva tutti i segreti di questi abominevoli
eretici grazie a certe donne perdute che avevano cercato di trascinarlo nelle loro nefandezze e
sconcezze, e da cui si trovò garantito in forza d’una grazia tutta singolare, ce ne ha lasciato, per
quanto a controcuore, un ritratto terribile. Seppelliamoli sotto il velo dell’eterno oblio, piuttosto
che insozzare l’immaginazione dei lettori, esponendoli ai loro occhi.134

Scrive Vincenzo di Lérins in una Digressione sull’eresia di Fotino, Apollinare


e Nestorio del suo Commonitorio, composto nel V secolo: «Affermo questo: la
Chiesa cattolica con i decreti dei suoi concili – sempre e solo quando è stata
provocata dalle innovazioni introdotte dagli eretici – non ha fatto altro che
consegnare ai posteri, anche attraverso il chirografo della scrittura, quanto aveva
ricevuto dai Padri per sola tradizione».135 Il concilio funziona quindi davvero
come una macchina da guerra appositamente costruita per annientare l’eretico in
nome di un’ortodossia prodotta per l’occasione.

Questo strumento teologico nasce dando corpo ad alcuni particolari passi dei
Vangeli. Innanzitutto, quello in cui Gesù dice: «Perché dove sono due o tre
riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18, 20). Poi, ci sono gli Atti
degli apostoli, che mettono in scena, ad Antiochia, alcuni fedeli convenuti dalla
Giudea, tra cui Paolo di Tarso e Barnaba di Cipro, a chiedersi se sia possibile
salvarsi senza essere circoncisi – semplicemente un altro modo di porsi la
domanda se ci si possa salvare senza più essere ebrei nel senso antico del
termine, cioè avendo deciso di appartenere alla nuova civiltà giudaico-cristiana.
Ne nasce una controversia, subito trasformatasi in discussione accesa. E «fu
stabilito che Paolo e Barnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli
apostoli e dagli anziani per tale questione» (At 15,2). Una frase che viene subito
dopo («Allora si riunirono gli apostoli e gli anziani per esaminare questo
problema», At 15, 6) richiama proprio l’origine dei sinodi, altrimenti detti
concili. Si tratta allora di «una grande discussione» (At 15, 7) al termine della
quale la questione si trova definitivamente stabilita. Il problema non è tanto di
avere o non avere il prepuzio, ma di astenersi da quattro cose, chiare e semplici:
«dalla contaminazione con gli idoli, dalle unioni illegittime, dagli animali
soffocati e dal sangue» (At 15, 20). Questo concilio, il cosiddetto concilio di
Gerusalemme, è il primo di una lunga serie e pone le basi di quello che, nel
corso di mille anni, diventerà il concetto occidentale di corpo. Insomma, il
divieto della fornicazione si trasforma in uno dei pilastri della legge cristiana!
Il primissimo concilio si svolge sotto il segno dello Spirito Santo: «È parso
bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di
queste cose necessarie» (At 15, 28), come scrive Paolo nella lettera indirizzata a
quanti si interrogano sulle cose da fare per ottenere la salvezza. Seguono le
proibizioni su cui erano rimasti convenuti. Nel 252, san Cipriano scrive a papa
Cornelio che l’assemblea del concilio è posta sotto il segno dello Spirito Santo.
Atanasio, Agostino e persino Gregorio Magno convalidano questa tesi. La parola
del concilio è quindi una parola evangelica, se così posso esprimermi, cioè nasce
dalla stessa fonte.

Quale corpo costruiscono i concili? E soprattutto, quale anima? Tra i due, che
rapporto c’è? Dopo il martire, convinto che la salvezza della propria anima si
ottenga con il sangue della propria morte, e dopo l’anacoreta e il cenobita, che
se l’immaginano invece nella negazione di sé qui e ora, la coppia paoliniana
corpo/anima abbozza un sapiente mix di morte al mondo e annullamento di sé.
Si presuppone l’educazione della carne, l’ingabbiamento del desiderio e la
persecuzione della libido.
I concili legiferano su tutto, dai soggetti più seri (per esempio, risolvono le
questioni aperte dal donatismo, dall’arianesimo, dall’anomeismo, dal
modalismo, dal montanismo, dal monofisismo, dal monotelismo, e quelle
riguardanti il Filioque e la Trinità), a quelli più futili, come il modo di portare i
capelli.
Per esempio, il concilio in Trullo, il sesto concilio ecumenico (691-692),
stabilisce centodue canoni. Ecco il novantaseiesimo nella sua integralità:
Che l’uomo non debba trasformare i propri capelli in una tentazione al peccato. Quelli che hanno
accolto Cristo con il battesimo hanno promesso di imitare la sua vita nella loro stessa carne.
Dunque, quelli che, per la rovina delle anime, si curano i capelli e se li acconciano in trecce ben
sistemate, e offrono così tentazione alle anime più deboli, quelli noi vogliamo guarire
spiritualmente con pene canoniche appropriate, in modo da educarli e da insegnargli a vivere
saggiamente lasciando da parte la frode e la vanità della materia: perché elevino continuamente il
proprio spirito percorrendo una via imperitura e felice, e nel timore del Signore conducano una
vita casta, e si avvicinino a Dio nei limiti del possibile mediante un’esistenza di purezza, e
abbelliscano l’uomo dentro di loro piuttosto che quello fuori, con la virtù e con costumi onesti e
irreprensibili: solo così non recheranno più traccia della sciatteria del nemico. Se qualcuno agisce
contro il presente canone, che sia scomunicato.

Lo stesso concilio, decisamente attento a tutte le questioni riguardanti i


capelli, stabilisce anche: «Che coloro che vogliono assumere il titolo di eremiti e
portare i capelli lunghi non rimangano in città. Quelli che chiamiamo eremiti, e
che, però, vestiti di nero e con i capelli lunghi, percorrono le città, e vivono nel
mondo in mezzo agli uomini e alle donne e insultano così facendo la loro stessa
professione di vita, a loro ordiniamo, se vogliono, di farsi rasare i capelli e di
vestire l’abito degli altri monaci, entrando in un monastero e prendendo posto tra
i fratelli; se non vogliono fare queste cose, che vengano espulsi dalle città, e
vadano ad abitare nei deserti, da dove derivano a tutti gli effetti il loro nome»
(canone 42). È comprensibile che per legiferare su questa materia si sia dovuti
ricorrere all’aiuto dello Spirito Santo.
In tono meno aneddotico, i concili offrono la loro soluzione per risolvere il
problema del desiderio, vera chiave di volta del cristianesimo. Per Paolo di
Tarso, il tabù più importante è quello della «fornicazione». Il tredicesimo
apostolo propone un ideale fatto di castità, verginità e continenza, però sa lui per
primo quanto questa esigenza possa essere ardua da realizzare. Ecco perché
sostiene l’istituto del matrimonio, cioè un dispositivo di monogamia e di fedeltà
che mescola sapientemente un certo gusto per il martirio e una certa
predisposizione alla rinuncia di sé. Scrive Paolo:
È cosa buona per l’uomo non toccare donna, ma, a motivo dei casi di immoralità, ciascuno abbia
la propria moglie e ogni donna il proprio marito. Il marito dia alla moglie ciò che le è dovuto;
ugualmente anche la moglie al marito. La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il
marito; allo stesso modo anche il marito non è padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie. Non
rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera.
Poi tornate insieme, perché Satana non vi tenti mediante la vostra incontinenza. Questo lo dico
per condiscendenza, non per comando. Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno riceve da
Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro. Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa
buona per loro rimanere come sono io; ma se non sanno dominarsi, si sposino: è meglio sposarsi
che bruciare» (1Cor 7, 1-9).

Ci si dimentica spesso che Paolo, in questo suo diario di viaggio del corpo
occidentale, precisa che: «Agli altri dico io, non il Signore» (1Cor 7, 12). E che:
«non ho alcun comando dal Signore, ma do un consiglio, come uno che ha
ottenuto misericordia dal Signore e merita fiducia» (1Cor 7, 25). In altre parole,
di fronte al silenzio di Gesù, e in presenza di un vuoto dottrinale, Paolo impone
la propria volontà come se si trattasse della parola di Dio. E si definisce degno di
confidenza per via del suo rapporto con il Signore: questo basta. La verità è che
se Gesù non si è mai espresso a proposito di tali questioni, è probabilmente
perché riteneva che non fossero essenziali per ottenere la salvezza.
Non fa più giurisprudenza l’episodio evangelico a casa del fariseo, quando
Gesù in persona rimette i peccati della peccatrice perché ha «molto amato» (Lc
7, 47). Quello che ormai importa al cristianesimo ufficiale, al cristianesimo di
Paolo, è l’odio del corpo, un odio che si muove addirittura in controtendenza a
tutto quello che sosteneva Gesù. L’uomo senza moglie e senza sessualità che è
Paolo lo afferma chiaramente: tutti quanti dovremmo essere come lui. Non
conosciamo le ragioni del suo celibato e della sua asessualità, e non sappiamo
che cosa fosse esattamente quella sua spina nella carne; però quello che vediamo
è che, tra martirio e anacoresi, l’ossessione ascetica di Paolo finisce per
alimentare la sua dottrina, cristallizzata in seguito dai concili.
La questione dell’anima e della sua natura e la questione delle modalità che
legano la carne allo spirito non rientrano tra i dibattiti discussi in nessuno dei
concili prima del IX secolo, cioè prima dell’ottavo concilio ecumenico, che è il
quarto concilio di Costantinopoli (869-870). È in occasione della decima
sessione che viene decretato il canone 11: «Anatema su chiunque sostenga che
nell’uomo esistono due anime». E qui, i vescovi stanno pensando in particolare a
Fozio, patriarca di Costantinopoli che distingueva tra spirito, corpo e anima
(tricotomia). Il concilio condanna questa tesi e sostiene invece la dicotomia: da
una parte c’è l’anima e dall’altra c’è il corpo. Su questo argomento, non ci
dovranno più essere discussioni. Il platonismo si porta a casa tutto il piatto
dell’avventura cristiana. Ad Aristotele toccherà più tardi…
In compenso, i concili che affrontano le questioni riguardanti il corpo
abbondano: celibato, ubriachezza, sodomia, astinenza, verginità, zoofilia, aborto,
pederastia, bigamia, cortigianeria, fidanzamento, gravidanza, trigamia,
castrazione, prostituzione, matrimonio e matrimoni successivi, circoncisione;
però anche, come abbiamo visto, i capelli, il cibo, l’alimentazione e tutti i piaceri
che potremmo voler condividere (i giochi, gli spettacoli, il teatro e la deprecabile
attività recitativa): tutto viene codificato, normato, legiferato e regolamentato. Il
problema non sembra essere tanto la salvezza dell’anima quanto la persecuzione
del corpo.
Perché, ad esempio, il concilio di Elvira, nel 305, legifera sul matrimonio dei
cristiani e sul celibato dei preti, proibisce il matrimonio con gli ebrei, arrivando a
proibire anche la condivisione della stessa tavola con questi ultimi, e, canone 54,
scomunica le donne che hanno abortito, peraltro assieme agli attori? Perché
quello di Arles nel 314 vieta ogni relazione di natura sessuale tra preti e donne?
Perché il primo concilio di Nicea decreta, nel 325, sotto gli auspici
dell’imperatore Costantino: «Se qualcuno, malato, ha subito dai medici
un’operazione chirurgica, o è stato mutilato dai barbari, può far parte ancora del
clero. Ma se qualcuno, pur essendo sano, si è castrato da sé, costui, appartenendo
al clero, sia sospeso, e in seguito nessuno che si trovi in tali condizioni sia
promosso allo stato ecclesiastico. È evidente, che quello che è stato detto
riguarda coloro che deliberatamente compiono una cosa simile e osano mutilare
se stessi ma se qualcuno, fosse stato castrato dai barbari o dai propri padroni, ma
fosse degno sotto ogni aspetto, i canoni lo ammettono nel clero».136 Perché il
concilio di Ancira, nel 314, legifera sulla zoofilia e diversifica in maniera
sorprendente le pene a seconda che il colpevole sia o meno sposato, o sia sposato
da più di vent’anni, o da più di cinquant’anni, con le pene più pesanti da
comminare ai più anziani? Perché questo stesso concilio condanna i lebbrosi che
hanno avuto rapporti sessuali con delle lebbrose? Stessa cosa per i lebbrosi che
copulano con degli animali? Perché il concilio di Cartagine del 407 proibisce ai
divorziati di risposarsi? Perché quello di Orange, nel 441, obbliga a fare
penitenza chi è venuto meno al voto di continenza? Perché quello di Laodicea,
attorno al 364, stabilisce che le donne non possano prendere il sacerdozio, che i
chierici non possano entrare nelle taverne, che gli uomini non si debbano lavare
assieme alle donne, che il pane azzimo non debba essere mangiato, e che ai
cristiani non sia concesso di ballare durante i pranzi di matrimonio? Su quali
parole di Gesù si fondano tutte queste proibizioni? San Paolo prende in giro i
testi ebraici che legiferano su tutto, però, siamo seri, che cosa fanno i concili
cristiani se non moltiplicare per duemila anni ogni tipo di divieto, ogni tipo di
proibizione e ogni tipo di condanna? Il tutto con la minaccia della penitenza, del
castigo, della punizione, della sanzione, della correzione e, a volte, addirittura,
della condanna eterna della carne.
I concili distruggono l’eterodossia, ossia il libero pensiero. E lo fanno in nome
di un’ortodossia che viene di fatto costruita solo in corso d’opera. La battaglia
contro quelli che passano per eretici o scismatici traccia una linea che diventa la
linea della Chiesa: contro Ariano e gli ariani, contro Valentino e gli gnostici,
contro Mani e i manichei, contro Montano e i montanisti, ecco che la Chiesa
definisce la propria dottrina sulla Santa Trinità, sull’ideale ascetico, sull’origine
del male, sulla necessità di un clero gerarchicamente organizzato, e così via.
Le questioni trattate nel corso di un concilio possono rivelarsi estremamente
complesse. Per esempio, il nestorianesimo afferma la compresenza, in Gesù, di
due ipostasi, una divina e l’altra umana, e viene condannato dal concilio di Efeso
(430); il monofisismo gli risponde affermando che Cristo possiede invece una
sola e unica natura, e viene attaccato dal concilio di Calcedonia (451); da non
confondere con il monotelismo, dottrina secondo la quale Gesù compie le proprie
azioni unicamente per volontà teandrica (ossia allo stesso tempo umana e
divina), e opinione censurata dal concilio di Laterano (649)…
L’idea che ci facciamo è che i vescovi che andavano ai concili fossero tutti
bardati di diplomi in filosofia, in retorica o in teologia, e che solo con questi
studi potessero permettersi di volare a tali altezze. Che avessero letto Platone e
Plotino, Aristotele e Porfirio, e sempre con il calamo per gli appunti in mano. E
invece no! Una ricerca sociologica sui vescovi di questi primi tempi del
cristianesimo ci fa scoprire una corte dei miracoli in cui, accanto a gente
semianalfabeta, troviamo tutta una schiera di bugiardi, ladri, prevaricatori e
falsari! Ovviamente, troviamo anche delle cime intellettuali come sant’Agostino.
Però basta leggere Gregorio Nazianzeno, che si improvvisa giornalista con i
vescovi incrociati a Costantinopoli negli anni Ottanta del IV secolo: «Tra loro,
alcuni sono figli di contabili dell’erario, e non hanno altra prospettiva che quella
di frodare; altri sono venuti direttamente dal loro ufficio […]; altri hanno lasciato
l’aratro e sono bruciati dal sole; altri hanno lasciato la zappa e il piccone che
usavano ogni giorno; altri ancora, che hanno lasciato i remi o l’esercito,
emanano puzza di sentina o sono pieni di cicatrici […] e altri hanno ancora sulla
pelle il sudore per il lavoro fatto accanto al fuoco. Questa gentaccia da frusta o
macina […] si gonfia e, prendendosi gioco del popolo con la persuasione o con
la paura, punta in alto come certi scarabei che si dirigono verso il cielo volando
[…] e preferiscono sciocchezze, non sanno neppure quanti piedi e quante mani
hanno».137 Alcuni non sanno nemmeno firmare con il proprio nome.
Immaginiamoceli davanti alla questione del giorno: «Quando è incarnato, Cristo
è uno quanto alle proprietà, ai nomi e alle operazioni?»
Il risultato è che, su questioni tipo: «Lo Spirito-Pneuma è pari al Padre o al
Figlio?», «Il soggetto ipostatico è la stessa cosa dell’essere sussistente o della
persona?», o ancora: «Il venire all’essere del Figlio corrisponde al processo
stesso della creazione?», o anche: «Dio, in quanto monade, contiene la diade o la
triade?», le argomentazioni usate per dibattere non sono tanto citazioni
recuperate dal Parmenide di Platone o dalle Categorie di Aristotele, quanto
battutacce, insulti e spergiuri. A volte, addirittura si tratta di bustarelle – diciamo
borse piene di monete d’oro, sinecure o posti da occupare. Per strada, non è raro
trovare manifestazioni e tafferugli che lasciano a terra pure qualche morto.
Facendo tutti i conti del caso, si può anzi dire che ci siano più vittime collaterali
nei concili che defunti martiri nelle arene – stiamo parlando di una cifra attorno
alle venticinquemila vittime…
Cascano le braccia a immaginare tutta questa gente prontissima ad attaccar
briga, gente ignorante, semianalfabeta e alcolizzata, gente dedita alla
compravendita di voti e sempre pronta a picchiare colleghi, tutta riunita a
disquisire e a pontificare su questioni teologiche destinate a far prendere a
un’intera civiltà una strada piuttosto che un’altra! Anche se va pure sottolineato
che, per alcuni concili, i religiosi riuniti sono stati davvero pochi: sessantasei a
Cartagine nel 253, trentuno nella stessa città nel 255, diciotto ad Ancira nel 314,
venti a Neocesarea tra il 314 e il 320, cinquanta a Roma nel 353. Nonostante
tutte le Bibbie messe sugli altari nelle varie sale dei concili perché lo Spirito
Santo potesse arrivare e diffondere il proprio respiro sopra gli astanti, non è poi
tanto sicuro che la cosa sia bastata!

Chiudiamo con un concilio tutto particolare, un concilio soprannominato il


«Sinodo del cadavere» (synodus horrenda)! Ha luogo a Roma nell’anno 896.
Alcune dispute partigiane hanno portato all’elezione di papa Formoso, ma dopo
la sua morte, il partito vinto si vendica sul suo cadavere, costringendo il nuovo
papa, Stefano VI, a organizzare un processo postumo. La spoglia del defunto
papa viene riesumata già in stato di decomposizione; in mezzo al tanfo, la
spogliano e le rimettono gli abiti sacerdotali propri della funzione che aveva
ricoperto in precedenza; la fanno sedere sul trono pontificale, e alcuni giudici
cominciano a interrogarla. Ovviamente risponde, ma è solo per via del trucchetto
del prete messo a leggere un foglio per rispettare i diritti della difesa. Molto
stranamente, nonostante la difesa sia tagliata su misura dall’accusa, Formoso
viene condannato! Lo rispogliano delle insegne pontificali con cui lo avevano
vestito poco prima, gli tagliano il pollice, l’indice e il medio della mano destra,
cioè le dita che usava per benedire, dichiarano non valida la sua elezione e
annullati i suoi atti pontificali, e alla fine lo sistemano nella tomba di uno
sconosciuto. La collera, però, è un piatto che si serve freddo, lo sappiamo, e a
volte può essere seguito dal dessert: papa Stefano VI, in effetti, lo tira fuori dalla
nuova tomba e fa gettare il cadavere nel Tevere – bella e interessante versione
del principio dell’amore per il prossimo e del perdono delle offese subite offerta
dal rappresentante di Cristo in Terra, teniamocela a mente. Sembra proprio che
Gesù sia partito per fare un viaggio molto lontano…
Dal 904 al 963 si apre un nuovo periodo, quello della cosiddetta «pornocrazia
papale», che vede dodici papi avvicendarsi uno dopo l’altro. Teodora mette sul
trono il proprio amante, Giovanni X; papa Sergio III fa bella mostra di sé
accanto alla propria giovane amante, Marozia, figlia di Teodora; più tardi, è
proprio quest’ultima a tessere nell’ombra per fare eleggere altri due papi,
Anastasio III e Lando; poi fa anche assassinare Giovanni X, amante della madre,
e al suo posto sul trono sistema il figlio; Giovanni XII, figlio illegittimo di un
bambino a sua volta abbandonato da Marozia, diventa il più giovane papa della
storia, ha soltanto diciott’anni – è lui che, come si dice, ha portato la pornocrazia
al suo più alto punto di incandescenza; la sorella di Marozia, Teodora II, intriga
a sua volta perché il proprio figlio possa diventare sovrano pontefice – prenderà
il nome di Giovanni XIII. Decisamente, Gesù è diventato irreperibile…
Il secondo millennio cristiano sragiona: crede, però lo fa nel terrore e nel
timore dell’inferno. La scolastica non può fare niente, solo produrre effetti
debolissimi, certo più deboli di quelli che produce la Legenda aurea di Iacopo da
Varazze, con tutte le sue storie edificanti. Per esempio, quella di san Dionigi. Il
fatto di essere torturato, martirizzato, flagellato, incatenato e messo su una rete
incandescente non gli fa passare la voglia di cantare; viene dato in pasto a belve
lasciate appositamente a digiuno, però lui riesce a calmarle con un semplice
segno della croce; viene quindi buttato in una fornace, ma per empatia le fiamme
si spengono; viene crocifisso ma, ovviamente, sopravvive anche a questo. Alla
fine, lo decapitano con un’ascia, lui e i suoi due compagni di sventura: «Subito
dopo, però, il corpo di san Dionigi si alzò in piedi e, con un angelo che lo
guidava e una luce divina che lo precedeva, portò il suo capo mozzato in braccio
per due miglia, dal luogo che viene giustamente chiamato Monte dei Martiri fino
a quello in cui ora riposa per sua scelta e per divina provvidenza».138
Parte seconda
DECOSTRUIRE L’ANIMA
Sotto il segno del cane

Dove si scopre che, per Aristotele, il cane ha un’anima.


Dove si impara, grazie a Montaigne, che, quando un cane arrabbiato morde Socrate trasmette la rabbia
anche al suo pensiero.
Dove si scopre con Vesalio che il cervello di un cane rimanda a quello dell’uomo.
Dove Descartes disquisisce sul cane che seppellisce i propri escrementi.
Dove Regius toglie la materia al proprio cane per ottenerne la forma.
Dove Fontenelle sorprende Malebranche che sta prendendo a calci la sua cagna incinta.
Dove Arnauld, a Port-Royal, scopre i due cani che stanno facendo girare lo spiedo a casa del Signore di
Liancourt.
Dove Fontenelle spiega che due cani copulano, ma che due orologi non lo possono fare.
Dove La Fontaine confessa di preferire il lupo al cane.
Dove il gesuita Pardies dice tutto il bene possibile di un cane che muove la coda.
Dove Gassendi lancia un osso e una pietra al cane di Descartes.
Capitolo primo
Il luogo del filo dell’ascia
Deplatonizzare l’anima

La Scuola di Atene di Raffaello fa coesistere in uno stesso tempo e in uno stesso


spazio estetico uomini che, nella vita reale, non sono stati affatto contemporanei.
Per esempio, Pitagora, vissuto nel VI secolo prima di Gesù Cristo, sta
passeggiando assieme a Boezio, autore di una Consolazione della filosofia
risalente al VI secolo della nostra era, e da cui lo separano quindi dodici secoli.
Diogene di Sinope si trascina la sua aringa in mezzo alle strade dell’Atene del IV
secolo prima della nostra era, ma in questo affresco coabita con Plotino che
insegna il suo neoplatonismo a Roma nel II secolo d.C. E poi ci sono pensatori
dell’Antichità greca come Eraclito e Zenone che condividono lo stesso momento
pittorico con personaggi contemporanei al pittore stesso, come Federico II di
Mantova e il Sodoma. L’opera di Raffaello propone una specie di banchetto
astorico del pensiero occidentale, il cui cuore pulsante si trova nella coppia
Platone-Aristotele. Perché, filosoficamente parlando, è da loro che tutto deriva
ed è su di loro che tutto converge.
Collocati uno a fianco dell’altro, i due filosofi occupano il punto focale della
composizione. Platone di Atene sta alla sinistra dell’osservatore, e Aristotele di
Stagira alla sua destra. Il primo si tiene una copia del Timeo in mano e osserva
l’altro, che a sua volta gli ricambia lo sguardo mettendo in mostra la propria
Etica Nicomachea. Da notare, in ogni caso, che quelli che sfoggiano sono dei
libri, cioè degli oggetti che ai tempi dei filosofi in questione ancora non
esistevano, perché la tecnica era di scrivere con un calamo su rotoli di papiro…
E, ovviamente, di chi si trova davvero rappresentato su quei volti non sappiamo
nulla. Qualcuno ha sostenuto che la fisionomia di Platone potrebbe in realtà
essere quella di Leonardo da Vinci. Di Epicuro e di Diogene di Sinope, invece,
non possiamo dire assolutamente nulla, probabilmente il pittore si sarà ispirato a
qualcuno dei suoi amici…
La verità, però, è che, colpo di genio di Raffaello, i due filosofi vedono il
proprio pensiero riassunto in un unico gesto. Per Platone, si tratta dell’indice
rivolto verso il cielo, e per Aristotele della mano tesa con il palmo verso il basso.
E noi capiamo: per l’autore del Parmenide, la verità si trova nel cielo del mondo
intelligibile, mentre per l’autore delle Ricerche sugli animali nel quaggiù
sensibile.
Raffaello sceglie, da una parte, il Timeo, cioè il dialogo platonico sull’origine
dell’esistente, e, dall’altra, l’Etica Nicomachea, cioè la morale che il filosofo
stagirita scrive per il figlio, e non la Metafisica. In questo modo, il pittore, più
che un’opposizione, sta suggerendo una complementarità: non si tratta di
scegliere tra il mondo intelligibile o il mondo sensibile, ma di poter pensare una
cosmogonia platonica idealista assieme a un’etica aristotelica pragmatica,
addirittura pratica. È la lettura neoplatonica del mondo, è lo spirito del
Rinascimento, sostenuto da una morale della misura – il Grand Siècle si sta già
annunciando. La cosmogonia e l’antropologia sono dalla parte di Platone, l’etica
e la morale, da quella di Aristotele.
Ciò non toglie che questo palmo teso verso il terreno e questo indice rivolto al
cielo raccontino con molta semplicità una cosa sola: che Platone è un filosofo
idealista per cui l’Idea primeggia sulla realtà sensibile e le fornisce un’esistenza
per partecipazione; e che invece Aristotele è un filosofo dell’empirismo che,
senza essere materialista nel senso pieno del termine, rende comunque possibile
il materialismo in quanto tale. Il primo parla di Intellegibile e di Sensibile, il
secondo di Atto e di Potenza.
Leggere L’anima di Aristotele permette di aprirsi a un paesaggio filosofico
interessante, proprio perché quel pensiero inaugura un percorso che, attraverso le
polemiche sull’averroismo, emancipa l’intero Occidente dall’onnipotenza della
tutela platonica… Non è un caso se, sull’affresco di Raffaello, troviamo
raffigurato anche Ibn Rušd di Cordova, meglio conosciuto con il nome di
Averroè, con il suo turbante e la sua aria ossequiosa.
Nel suo trattato su L’anima, Aristotele comincia sostenendo che il proprio
soggetto non è cosa facile da afferrare: «in ogni senso ed in ogni maniera è tra le
cose più difficili ottenere una convinzione riguardo all’anima».1 Noi gli diamo
volentieri ragione; e, in effetti, sulla questione, la lettura del suo libro confonde
più di quanto non rassicuri.
Come abbiamo visto, Platone si serve della reminiscenza e della capacità di
uno schiavo di risolvere un problema di geometria senza aver mai studiato
matematica per provare che l’anima esiste. Aristotele, invece, non ricorre a
questo genere di semplificazione retorica e sofistica. A nulla serve evocare un
cielo delle Idee in cui l’anima del servo avrebbe acquisito le proprie conoscenze
matematiche prima di vagare di corpo in corpo fino a capitare in quello presente.
Quello che vuole fare Aristotele è pensare il proprio soggetto rispettando
l’ordine delle ragioni.
Aristotele mette in relazione l’anima, la verità e la «ricerca sulla natura»2 e
ritiene che conoscere una sola di queste significhi conoscere tutte le altre. Però
implica anche porre la propria ricerca non tanto sul terreno della metafisica,
quanto su quello di una doppia disciplina: la fisica, per quanto riguarda la
materia, e la dialettica, per quanto riguarda la forma.3 Non è affatto un caso che
la sua analisi dell’anima non trovi posto all’interno della Metafisica, ma venga
sviluppata in un trattato a sé. Non c’entra, insomma, niente con la metafisica, il
cui nome, secondo la vulgata, nasce con Teofrasto, o addirittura con Andronico
di Rodi, il quale, sembra, classificando i libri di Aristotele in rubriche (logica,
etica, politica, storia degli animali, poetica, retorica, e così via), si sarebbe
domandato dove sistemare quell’opera e l’avrebbe alla fine collocata dopo la
fisica (in greco, etimologicamente: metá ta Physiká).
Per lo Stagirita, quindi, l’anima non è una questione che si pone «dopo la
fisica», ma una questione propriamente di fisica. Qualsiasi analisi, qualsiasi
commento e qualsiasi riflessione che non tengano conto di questa precauzione
metodologica di Aristotele all’inizio della propria analisi portano a una lettura
del pensiero del filosofo falsata dal prisma di tutto quello che il medioevo
cristiano ne ha fatto dopo. Dimenticare che il testo rimanda alla ricerca sulla
natura per collocarne a tutti i costi l’intenzionalità nel cielo delle Idee platoniche
o nella rigatteria scolastica medievale corrisponde, in pratica, a profanare tombe.
Subito, fin dalle prime pagine di quella che si trasforma ben presto in
un’analisi serrata dell’anima, Aristotele ci fornisce una chiave: «l’anima è come
il principio degli animali».4 A partire da questa ammirevole certezza, segue una
serie di considerazioni di metodo che fanno quasi girare la testa: dell’anima, si
tratta di decifrarne la natura, la sostanza e le proprietà, le determinazioni,
l’essenza, le parti e il genere. Bisogna domandarsi a quali categorie appartiene:
oltre all’essenza e alla sostanza, alla quantità, alla qualità, alla relazione, al
luogo, al momento, alla posizione, al possesso, all’azione e alla passione.
Aristotele innaffia il terreno filosofico con una pioggia di domande: l’anima è
una sostanza o è una cosa individuale? È un’entelechia (cioè l’essere stesso in
quanto essere reale fonte di azione) o una potenza? La si può dividere o è senza
parti? Le anime sono tutte della stessa specie? Sono diverse per specie o per
genere? Già che ci si trova, Aristotele afferma anche che non esiste solo l’anima
umana… E si domanda: ma gli animali hanno un’anima sola, unica per tutti, dal
serpente alla giraffa, dalla medusa all’elefante? Leggiamo: «Si deve invece fare
attenzione a che non sfugga se ci sia un’unica definizione di anima, com’è unica
la definizione di animale, o se sia diversa per ciascun anima, com’è diversa la
definizione di cavallo, cane, uomo e dio».5 L’animale viene prima o dopo la
propria anima? Esiste una pluralità di anime o una pluralità di parti? Bisogna
esaminare l’anima intera o le sue parti? O le sue funzioni?
E, pur rendendo giustizia a Platone, in un certo modo ne prende anche le
distanze: «Sembra che non solo la conoscenza di che cos’è una cosa sia utile a
cogliere le cause degli accidenti delle sostanze […], ma anche, viceversa, che gli
accidenti contribuiscano in larga misura a conoscere che cos’è una cosa. Quando
infatti siamo in grado di dar conto, in conformità all’esperienza, di tutti (o della
maggior parte) gli accidenti, allora potremmo parlare anche dell’essenza nel
modo più corretto».6
Certo, Platone ha ragione, però, «viceversa»: la verità si trova anche altrove.
Ed è proprio attraverso una rivoluzione epistemologica di metodo, attraverso la
considerazione «della maggior parte [de]gli accidenti», che si può arrivare alla
vera conoscenza, la quale, proprio perché vera, non potrà mai fare a meno
dell’«esperienza». Siamo, insomma, di fronte a un cambio radicale di paradigma,
un cambio che non esclude le scienze, e che suggerisce, anzi, che il fatto di
prendere in esame il reale e di considerare tutto ciò che è concreto, di
preoccuparsi delle cose che sono presenti qui e ora e convalidate dall’esperienza,
sia la base per una conoscenza capace di superare i limiti dell’idealismo
platonico. È un vero e proprio discorso sul metodo quello che Aristotele offre
iniziando la propria ricerca sulla definizione dell’anima.

La quale viene cominciata procedendo negativamente, cioè mediante


l’esposizione di tutto quello che l’anima non è. Spesso Aristotele, prima di
presentare nuove teorie che superano quelle vecchie, tira un bilancio di quanto è
stato elaborato prima di lui. E proprio il fatto che le sue opere siano state
conservate rende possibile ricostruire, anche se volte solo a frammenti, il
pensiero di autori le cui opere sono invece scomparse. Le sue citazioni, i suoi
rimandi e i suoi riferimenti costituiscono una specie di enciclopedia di un sapere
perduto che però siamo riusciti parzialmente a recuperare proprio grazie a questo
modo di procedere.
Cose a cui non crede Aristotele: a un’anima che muove sé stessa, come negli
orfici; a un’anima intesa come armonia di proporzioni tra cose costituite da
«polvere d’aria», come in Pitagora; a un’anima materiale composta di atomi,
come in Democrito e in Leucippo; a un’anima intesa come «motore immoto» in
relazione con le Idee e i Numeri, come in Platone; a un’anima assimilabile
all’intelligenza, come in Anassagora; a un’anima costituita da elementi diversi,
come in Empedocle; a un’anima intesa come numero che si muove da sola, come
in Senocrate; a un’anima che è fatta d’aria e che è il più sottile di tutti i corpi,
come in Diogene di Sinope; a un’anima intesa come principio incorporeo e
immobile all’interno di un flusso in continuo divenire, come in Eraclito; a
un’anima immortale catturata all’interno di un eterno movimento circolare, come
in Alcmeone; a un’anima-acqua il cui seme è umido, come in Ippone; a
un’anima-sangue, come in Crizia…

Qual è allora la definizione di Aristotele?


Prima di darla, meglio chiarire un po’ il suo vocabolario. Perché, in effetti,
termini come «ecceità», «sostanza», «accidente», «quantità», «qualità»,
«modalità», «quiddità», «in atto», «in potenza», «entelechia», e molti altri
ancora, fanno ormai tutti parte del bagaglio filosofico classico e hanno fatto la
fortuna di dieci secoli di pensiero scolastico, così come l’infelicità dei suoi
lettori. Però, è vero, sono stati tutti inventati da Aristotele.
Relativamente al discorso che stiamo seguendo qui, ci soffermeremo in
particolare su «potenza», «atto» ed «entelechia». C’è un esempio che viene
spesso usato per far capire più facilmente di che cosa si tratti: la quercia è in
potenza nella ghianda, cioè è sul punto di realizzarsi come quercia; l’entelechia
indica lo stato di perfezione di ciò che si trova realizzato come doveva esserlo. Il
virtuale è ciò che è in potenza; il reale ciò che è in atto; l’entelechia è ciò che è
pienamente realizzato. Per Aristotele, la sostanza è materia, figura e forma, la
materia è potenza e la forza è entelechia: «Necessariamente dunque l’anima è
sostanza nel senso che è forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza».7
L’anima è quindi l’entelechia di un corpo che ha la vita in potenza: «essa è l’atto
primo di un corpo naturale dotato di organi».8 L’anima rappresenta per il corpo
quello che la forma del calco rappresenta per la cera. È la quiddità (l’essenza, la
qualità essenziale) di un corpo di qualità determinata.
Quella di Aristotele è quindi una definizione vitalista dell’anima: l’anima è
forma e principio dinamico del corpo e mette in forma la materia e l’anima. Qui
nasce il riferimento agli animali di cui possiamo sezionare i corpi e che però
continuano a vivere nei loro pezzi separati.9 La verità è che non ci sono tante
anime in un corpo, ma una sola.
Quanto al resto, l’anima non si muove in maniera autonoma, il movimento
non le appartiene. Il movimento è traslazione, alterazione, diminuzione,
accrescimento, e tutto questo presuppone un luogo di consistenza. L’anima
appartiene a un corpo che è, lui sì, in movimento. È soltanto in questo senso che
si può parlare di movimento dell’anima. Però, quando c’è movimento, è l’anima
che muove il corpo. L’anima non si muove da sola, ma muove ciò che la muove.
Nel corpo, non esiste un posto specifico per l’anima, una sua ubicazione
particolare, perché l’anima, nel corpo, sta dappertutto. Non proviene da un prima
senza materia, e non si muove in direzione di un dopo senza materia. Quando il
corpo non c’è, non c’è nemmeno l’anima; quando il corpo non c’è più, nemmeno
l’anima esiste più. Non si tratta di concepirla come compimento di un percorso
di vite anteriori o come destinata a nuovi tragitti dopo la morte del corpo; non si
tratta nemmeno di prendere in considerazione dei meriti che le farebbero
guadagnare il paradiso o delle mancanze che la porterebbero direttamente
all’inferno. Non si tratta nemmeno di immaginare che possa trovar posto nel
corpo di un animale rozzo e volgare o in quello di uomo saggio a seconda di
come si sia comportata nella vita terrena del corpo in cui si è trovata di volta in
volta prigioniera. Qui vediamo chiaramente che l’indice di Platone puntato al
cielo e il palmo di Aristotele rivolto a terra riassumono abbastanza bene il
pensiero dell’uno e dell’altro.
L’anima è un principio vitale che dispone di diverse facoltà: c’è un’anima
vegetativa, cioè nutrizionale e comune, che permette a tutti gli esseri viventi,
vegetali, animali ed umani, di nutrirsi e riprodursi; c’è un’anima sensitiva,
specificamente associata agli animali, e che a questi ultimi conferisce desideri e
mobilità; e poi c’è un’anima razionale, caratteristica peculiare dell’uomo, e che
all’uomo permette di pensare. Questi tre gradi dell’anima non sono separati, e si
trovano integrati al livello superiore dell’anima intellettiva. Gli esseri viventi
possono avere una, due o anche tre di queste facoltà. Quindi anche le piante
possiedono un’anima, allo stesso titolo degli insetti: «Come a proposito delle
piante si nota che alcune continuano a vivere anche se vengono divise e se le
loro parti vengono separate le une dalle altre (e ciò perché l’anima che si trova in
esse è unica in atto in ciascuna pianta, ma molteplice in potenza), la stessa cosa
vediamo che accade anche per altre specie di anima, ad esempio negli insetti,
quando vengono sezionati. E infatti ciascun segmento ha la sensazione e il
movimento locale, e se ha la sensazione possiede pure l’immaginazione e la
tendenza, poiché dov’è la sensazione ci sono pure il dolore e il piacere, e dove si
trovano questi necessariamente c’è anche il desiderio».10 L’anima non si trova
quindi in un punto preciso del corpo, ma ovunque si dà corpo.
Per rendere il proprio pensiero più comprensibile, Aristotele usa l’immagine
della scure, in rapporto alla quale la lama rappresenta quello che l’anima
rappresenta per il corpo: «Così se uno strumento, ad esempio una scure, fosse un
corpo naturale, la sua essenza sarebbe di essere scure, e quest’essenza sarebbe la
sua anima. Tolta questa essenza, la scure non esisterebbe più se non per
omonimia».11 La lama di questo strumento è in effetti inseparabile dal suo
materiale, è la sua anima, ma se il ferro scompare, anche l’anima della scure, la
sua lama, immediatamente scompare.
L’anima è quindi una sostanza fatta di forma e di materia, e la loro
associazione costituisce l’essere vivente. Non esistono, come in Platone, un
corpo e un’anima separati, ma un corpo e un’anima legati in una vita che,
quando scompare, fa scomparire lo stesso dispositivo, senza che, però, l’anima
debba volarsene via – per esempio, verso un cielo delle idee. L’anima è forma
del corpo, atto del corpo: «è esatta l’opinione di coloro i quali ritengono che
l’anima non esista senza il corpo né sia un corpo. In realtà non s’identifica col
corpo, ma è una proprietà del corpo».12 Qualcuno potrà sostenere che è proprio
questa proprietà a spiegare quanto il filosofo esponeva nelle prime pagine del
trattato,13 e cioè che è parecchio complicato ottenere una definizione precisa
dell’anima…

È proprio su questa difficoltà che parte del medioevo finirà per inciampare
commentando il trattato di Aristotele. Pensiamo, in particolare, al caso di
Averroè, che, nel suo grande commento al libro aristotelico su L’anima, riprende
la questione dell’intellezione discussa alla fine del terzo libro. Averroè procede
interrogando e facendo lunghe analisi per spiegare le differenze tra gli intelletti
umani in potenza e suscettibili di ricevere la forma degli oggetti, e l’Intelletto
sempre in atto che permette di realizzare in ciascuno il passaggio dalla potenza
all’atto, un’operazione intellettuale senza la quale nessuna conoscenza è mai
possibile. Ma se esiste un solo Intelletto agente, che cosa possiamo affermare
allora dell’anima umana creata da Dio e, dopo il peccato originale, da lui
riscattata? E ancora: in un mondo creato da Dio, com’è quello pensato dai
cristiani e dai musulmani come Averroè, in che modo possiamo considerare un
Intelletto agente che non assomiglia in niente al Dio creatore dei monoteisti?
Sull’Intelletto agente, scrive Averroè: «Secondo la ragione, sono obbligato a
concludere che ce ne sia solo uno (e che serva a tutti); secondo la fede, invece, è
il contrario che sostengo con fermezza». A questo proposito, hanno parlato della
teoria della doppia verità nell’Islam. E noi lo capiamo benissimo, è una
questione che oggi appartiene ormai all’ambito del politicamente corretto: intriso
dall’ideologia del momento, il dibattito tecnico e specialistico di teologia ha
assunto un vero e proprio rilievo politico. Molto fortunatamente, qui stiamo
parlando di altro.
Quello che deduco è che la filosofia di Averroè si rivela essere un pensiero del
commento. Proprio come la patristica può essere interamente ridotta al
commento della Bibbia, la glossa infinita sui libri di Aristotele imprime una
nuova direzione alla filosofia, che porterà alla scolastica. Averroè commenta
Aristotele, poi viene a sua volta commentato da Tommaso d’Aquino, il quale a
sua volta ancora verrà commentato da altri, e via di seguito…
La verità è che il vitalismo di Aristotele è interessante perché fa in qualche
modo tornare il pensiero platonico con i piedi per terra. Il fatto di definire
l’anima come potenza che informa la materia nei limiti di quest’ultima, limiti
fisici, limiti anatomici e limiti biologici, rappresenta un’attraente alternativa
filosofica al platonismo. L’unico problema è che il vocabolario dello stagirita
appartiene sempre al genere delle glossolalie. E, quando, nel trattato su L’anima,
analizza la nozione di acuto, di inodore, di insipido, di sapido, di silenzio, di
invisibile, di aspro, di amaro, di astringente, di acido, di diafano e di bagnato,
Aristotele si muove nella materia del mondo, manifestando un vero e proprio
partito preso per le cose più di quanto non faccia quando disserta sulla quiddità e
sulla quoddità, sull’atto e sulla potenza, sulla forma e sulla materia, sulla
sostanza e sull’attributo, sul numero e sull’essenza, sull’accidente e sul genere,
sull’entelechia e sull’idea, e su molte altre categorie ancora, impiegando un
linguaggio che non fa altro che girare su sé stesso e trasformarsi in un fine in sé.
Il problema con i maestri è l’uso che ne fanno i discepoli. I discepoli, o i loro
commentatori, i loro glossatori, i loro analisti. Anche per quanto riguarda
Aristotele, il peggio sono sempre gli aristotelici. Quelli che pensano a partire da
Aristotele senza mai davvero pensare un po’ più in alto, senza mai andare oltre.
Le promesse del suo metodo si bloccano, si fissano, si cristallizzano, si
solidificano, si pietrificano nella scolastica, che è, come indica la sua radice
etimologica, il pensiero della scuola, ossia di quel luogo dove, più che inventarsi
un futuro, s’impara ciò che è vecchio.
Che cosa aggiunge Tommaso d’Aquino al pensiero dell’anima di Aristotele
quando lo ingabbia in dispositivi verbali, per non dire verbosi, che in qualche
modo riecheggiano le grandi architetture delle cattedrali gotiche? L’autore della
Somma Teologica definisce in effetti l’anima come un «atto della materia» che
porta a tre specie d’anima, quella razionale, quella sensibile e quella vegetale, le
quali conducono a cinque generi di potenza, quella vegetativa, quella sensitiva,
quella appetitiva, quella locomotiva e quella intellettiva, da cui derivano diciotto
potenze. Quella razionale, attraverso l’intellettiva, forma l’intelletto agente e
l’intelletto possibile; quella sensibile, tra la razionale e la sensitiva, attraverso
l’appetitiva porta alla volontà; poi ci sono quella combattiva e quella
desiderativa. La potenza sensibile, attraverso la sensitiva, ne forma una interna e
una esterna: quella interna comprende la cogitativa, la memorativa,
l’immaginativa e il senso comune; quella esterna comprende la vista, l’udito,
l’odorato, il gusto e il tatto. Quella sensibile, attraverso la locomotiva, equivale
al dispositivo locomotore. Quella vegetale, attraverso la vegetativa, porta alla
facoltà di procreazione, alla facoltà di crescita e alla facoltà nutritiva.
Aggiungiamo a questo che tutto si separa tra organico (tutto quello che
appartiene all’anima razionale) e inorganico (tutto quello che appartiene alle
altre due anime).
L’esposizione del pensiero tomista procede per tagli sistematici: una
domanda, seguita da alcuni articoli composti da obiezioni numerate, seguite a
loro volta da una rubrica di argomenti «in contrario», poi da una risposta in cui,
a furia di «perché», di «ma», di «ora», di «dunque», di «oppure», di «è così», il
Dottore della Chiesa è in grado di provare, per esempio, che «gli uomini pingui
sono scarsi di seme».14

San Tommaso affronta la questione del legame tra anima e corpo attraverso
quella dell’insorgere o meno dell’anima nell’embrione. L’anima si trova già nel
corpo? O interviene nella carne a un momento dato? E, se sì, qual è questo
momento? Il dibattito agita alcuni Padri della Chiesa come san Girolamo nelle
sue Lettere (CXXVI) e sant’Agostino ne L’anima e la sua origine (CLXVI): i
due hanno un carteggio sull’argomento.
La questione prende il nome di traducianesimo e la si deve, in quanto dottrina,
a Tertulliano, per il quale l’anima dei bambini viene trasmessa a partire da quella
dei genitori. Al contrario, i creazionisti come Tommaso d’Aquino, Alberto
Magno, san Bonaventura e Calvino ritengono che l’anima dei bambini venga
creata direttamente da Dio. Il medioevo si appropria della questione e i dibattiti
infuriano tra chi sostiene l’animazione immediata, ossia fin dal momento della
concezione (era anche la tesi di Gregorio di Nissa e di Basilio il Grande), e chi si
schiera a favore dell’animazione ritardata, considerando che l’anima venga
conferita da Dio solo quando il feto è abbastanza sviluppato da poter accogliere
un’anima spirituale (è la tesi di Teodoreto di Cirro nel V secolo).
L’arrivo in Occidente, nel XII e XIII secolo, dei testi del medico e filosofo
Avicenna consente di affrontare l’argomento fondandosi non più su categorie
metafisiche ma sulle osservazioni empiriche di chi studia sul campo il
funzionamento del corpo umano. Sappiamo che Aristotele distingue tre anime:
quella vegetativa, quella sensitiva e quella razionale. La medicina ci insegna che
queste tre anime indicano più che altro tre stati dell’anima in uno stesso
embrione, un embrione che evolve passando dal vegetativo al sensitivo fino al
razionale. Sarà questa la tesi tomista: «nella generazione per primo il feto vive la
vita della pianta, poi vive la vita dell’animale e finalmente la vita dell’uomo.
Dopo quest’ultima forma non si riscontra negli esseri generabili e corruttibili una
forma ulteriore e più nobile. Perciò l’ultimo fine di tutto il generare è l’anima
umana, e a questa la materia tende come all’ultima sua forma».15
In effetti, per Tommaso, Dio conferisce l’anima all’essere e la passa al
bambino. L’anima intellettiva viene dunque creata da Dio e messa nell’embrione
dopo che quest’ultimo ha passato la fase del tempo vegetativo, cioè del tempo
sensitivo e motore, che corrisponde al momento in cui la madre sente il bambino
che si muove in pancia, ossia a partire dai quaranta giorni.
Aristotele, che condivideva questa teoria dinamica, evolutiva e vitalista,
spiegava (Ricerche sugli animali, VII, 3) che il processo era più lento e lungo
nelle bambine che nei bambini – quaranta giorni per i bambini e novanta per le
bambine!
Precisiamo anche che, per i cristiani, tale teoria (cioè che l’embrione non è un
essere umano, ma un essere vivente che non appartiene alla specie animale)
giustifica l’aborto, a patto che venga praticato prima di questa soglia temporale
ontologica e fisiologica. Il medioevo, in fondo, non è stato così oscuro come lo
si dipinge! La Chiesa fa sua la teoria tomista per sei secoli: l’embrione è quindi
all’inizio un piccolo-uomo-pianta, poi si trasforma in un piccolo-uomo-animale,
e poi diventa un piccolo-uomo-razionale. Lo schema ritorna in auge nel
Settecento con l’anima dell’uomo-macchina, o meglio con l’anima-macchina
dell’uomo-anche-lui-macchina, per poi essere abbandonato dalla Chiesa nel
1869 – probabilmente perché si è cominciato a pensare che, dentro questa logica
postaristotelica, si annidava il positivismo e che, grazie a lui, il lupo materialista
sarebbe entrato nell’ovile idealista e spiritualista!
Occorre anche dire che, sull’argomento, la Chiesa ha ballato per un po’ il
valzer dell’esitazione. Il 29 ottobre del 1588, sul monte Quirinale, papa Sisto V
pubblica una Bolla intitolata Effraenatam (Senza ritegno). Il testo abolisce la tesi
dell’animazione ritardata, che permetteva di abortire entro la quarantesima
settimana, e quindi permetteva così vita debosciata e lussuria, stupro e
fornicazione, prostituzione e libertinaggio, accettando la tesi opposta
dell’animazione immediata: l’anima è consustanziale all’embrione, quindi
sbarazzarsene significa attentare all’anima stessa – peccato mortale gravissimo!
Sulla scia, il papa condanna qualsiasi velleità contraccettiva.
Partigiano dell’animazione ritardata, il papa successivo, Gregorio XIV, abroga
nel 1591 la bolla del predecessore e restaura la pena di scomunica soltanto
quando l’interruzione volontaria di gravidanza ha luogo oltre il quarantesimo
giorno. Il che significa non considerare più l’aborto come un omicidio. Ultimo
voltafaccia nel 1869, quando papa Pio IX, con la bolla Apostolicae Sedis
moderationi, riporta a validità la tesi dell’animazione immediata! Che è poi
quella che ancora oggi trionfa nella Chiesa cattolica, apostolica e romana…
Precisiamo che la bolla Effraenatam non è mai stata pubblicata per intero, ma
solo amputata dei paragrafi otto, dieci e undici, visibili unicamente
sull’originale, il quale, andate a capire per quali bizzarre ragioni, è consultabile
negli archivi del Vaticano solo dietro autorizzazione speciale. Ci piacerebbe
essere dei topolini…
Capitolo secondo
I sofismi della volpe
Riabilitare l’animale

La Genesi, ce lo ricordiamo, considera gli animali come esseri sottomessi


all’uomo e destinati al suo servizio: lavorare, mangiare e vestirsi. È evidente che
gli animali, un’anima, non ce l’hanno e che, nel regno di Dio, non c’è posto per i
cammelli, per quanto possano essere capaci di passare per la cruna di un ago, e
non c’è posto per i colombi, malgrado tutti i servizi resi dal Diluvio fino
all’Annunciazione, e non c’è posto nemmeno per gli asini, per quanto si siano
potuti portare Gesù in groppa al momento di entrare a Gerusalemme e lo abbiano
potuto riscaldare nella greppia assieme al bue; ed è anche chiaro che nemmeno
all’inferno riusciremo a trovare i galli che hanno accompagnato con il proprio
canto il tre volte rinnegante san Pietro.
La riabilitazione degli animali la dobbiamo a Montaigne, che, nella sua
Apologia di Raymond Sebond, costruisce una specie di arca di Noè filosofica con
la precisa intenzione di salvare la totalità degli animali, invitandoci a osservarli
essere e vivere, e a ricavarne insegnamenti a proposito di noi stessi. Nessun
dubbio che, attraverso una simile tesi, Montaigne si rifiuti di convalidare la
vecchia opposizione tra corpo e anima, e intenda, al contrario, rivoluzionare
l’edificio globale della filosofia, rompendo il maleficio che la riduceva ad arte e
disciplina di commento dei testi antichi.
Gli autori che la storiografia dominante ricorda con il termine di presocratici
alimentano le grandi figure di Platone, Aristotele ed Epicuro, che saranno poi
commentati da discepoli del calibro di Plotino, Teofrasto e Lucrezio, prima che,
con l’avvento del mondo cristiano, la Bibbia non si trasformi nel libro di
riferimento per dieci secoli di patristica e di scolastica. Il medioevo crolla sotto
le figure sillogistiche che, a furia di premesse maggiori e di premesse minori,
portano a conclusioni talvolta prive di senno, anche se prodotte secondo l’ordine
delle ragioni logiche. È questo lo splendore della scienza universitaria.
Con estrema disinvoltura, scrivendo i Saggi, Montaigne fa saltare mille anni
di filosofia, e lo fa raccontandosi, o meglio raccontando l’ordine del mondo.
Nelle università, dove si pretende di parlare in nome della scienza, a trionfare è
sempre il sillogismo. Montaigne invece carica il moschetto, spara e miete
vittime. Scrive: «Il prosciutto fa bere, il bere disseta, dunque il prosciutto
disseta».16 Confessa di preferire Democrito, che ride, a Eraclito, che piange. I
motivi, li possiamo immaginare.
Attacca l’insegnamento della dialettica perché ritiene che, nella vita, non serva
a niente. Serve molto di più imparare a vivere seguendo le regole della saggezza
pratica piuttosto che non compiacersi delle sottigliezze della retorica e della
sofistica: «Cento scolari hanno preso la sifilide prima di essere arrivati alla
lezione di Aristotele sulla temperanza».17
In un formidabile capitolo dedicato ai pedanti, il venticinquesimo del primo
libro, Montaigne fa i conti con tutti quei falsi filosofi che sono in realtà soltanto
dei bibliotecari. Critica il sapere libresco dei professori piegati sui loro vecchi
scritti illeggibili, e confessa di preferire il sapere che si acquista osservando il
funzionamento del mondo e il modo in cui vive la gente, o studiando come se ne
vanno in giro gli animali, o come fluiscono le stelle dentro quella Via Lattea che
è molto più ricca di insegnamenti di qualsiasi commento di commento di
commento. Aristotele ha scritto un trattato sull’anima, che è stato commentato
da Averroè, che a sua volta è stato commentato da san Tommaso d’Aquino, e
che a sua volta arriveranno altri professori di filosofia dell’università a
commentare ancora… E con questo? Montaigne preferisce trascurare i mucchi di
carte e studiare il funzionamento dell’anima dentro la vita.

Scrive: «non sono filosofo».18 Ed è proprio questa convinzione a spingere i


parrucconi dell’università a non lasciarlo nemmeno entrare nei loro anfiteatri,
dove l’arte del commento viene praticata in catena! D’altra parte, però, dandogli
retta sul serio, faremmo solo torto alla sua ironia, perché quello che, in realtà, ci
sta dicendo è che, se mai la filosofia si dovesse ridurre alla retorica, alla
sofistica, al sillogismo, alla glossa e alla glossa della glossa, allora, in questo
caso, e soltanto in questo caso, lui non sarebbe un filosofo. Scrive: «Un retore
del tempo passato diceva che il suo mestiere era di far apparire e far giudicare
grandi le cose piccole. È un calzolaio che sa fare scarpe grandi per un piede
piccolo. A Sparta lo avrebbero fatto fustigare, in quanto professava un’arte
ingannatrice e menzognera».19 In altre parole: truffare, camuffare e mentire.
Dalla sua penna, esce anche un pensiero come questo: «E certo la filosofia
non è che una poesia sofisticata. Da dove traggono tutte le loro citazioni quegli
autori antichi, se non dai poeti? E i primi furono essi stessi poeti e la trattarono
secondo la loro arte. Platone non è che un poeta scucito. Timone lo chiama, per
disprezzo, gran fabbricatore di miracoli».20 Accidenti! Platone, «un poeta
scucito»? Sono affermazioni come questa che, nel Rinascimento, consentono di
progredire e di lasciarsi finalmente i professionisti della filosofia alle spalle!
E non è certo più tenero con Aristotele: «essermi logorato sui libri studiando
Aristotele, sovrano della scienza moderna, o essermi intestato su qualche
scienza, questo non l’ho mai fatto; e non c’è arte di cui saprei tratteggiare
nemmeno i primi lineamenti».21 Altre volte, evoca lo Stagirita come il «dio della
scienza scolastica».22 Oppure ancora, criticando l’arte del filosofo
nell’imbrogliare le carte con il pretesto di semplificarle:
Le scienze trattano le cose troppo finemente, in modo troppo artificiale e differente da quello
comune e naturale. Il mio paggio fa l’amore e lo capisce. Leggetegli Leone Ebreo e Ficino: si
parla di lui, dei suoi pensieri e delle sue azioni, eppure non ci capisce nulla. Io non riconosco in
Aristotele la maggior parte dei miei moti abituali: sono stati coperti e rivestiti di altri panni ad uso
della scuola. Dio faccia loro ragione! Se fossi del mestiere, renderei naturale l’arte quanto essi
rendono artificiale la natura. Lasciamo da parte Bembo ed Equicola. Quando scrivo, faccio a
meno della compagnia e del ricordo dei libri, per paura che ostacolino la mia forma. Anche
perché, in verità, i buoni autori mi abbattono del tutto e mi spezzano il coraggio. Mi servo
volentieri dell’astuzia di quel pittore che avendo miserabilmente dipinto dei galli, proibiva ai suoi
garzoni di lasciar entrare in bottega un gallo vero.23

Montaigne non si preoccupa per niente dei galli dipinti, a lui interessano solo i
galli veri!
Possiamo quindi capire come né la «poesia sofisticata»24 di Platone, né la
«scienza moderna»25 della scolastica aristotelica siano in grado di nutrire
Montaigne sotto il profilo filosofico. Il quale infatti confessa di preferire le Vite
parallele di Plutarco e le opere di Seneca. O, meglio ancora, quelle di filosofi
veri che, di Platone e di Aristotele, ignorano tutto, persino il nome, perché per
loro la filosofia non è l’arte di tagliare il capello in quattro o di commentare i
commenti facendo i giocolieri con l’astruso vocabolario della scolastica, ma
un’arte di vivere, una saggezza pratica, qualcosa che la gente semplice e modesta
conosce molto bene. In un capitolo dedicato alla presunzione, Montaigne scrive:
«La condizione meno disprezzabile della gente mi sembra quella che per
semplicità occupa l’ultimo posto, e ci offre rapporti più equilibrati. I costumi e i
discorsi dei contadini, li trovo in generale più conformi alla norma della vera
filosofia di quanto siano quelli dei nostri filosofi».26
Da questa convinzione, nascono gli attacchi che Montaigne sferra contro il
ricorso pedante e sistematico al greco e al latino: recrimina parecchio sulla forma
dei dialoghi di Platone e relativizza in maniera assoluta lo stile di Cicerone, che
sappiamo aveva imparato a conoscere fin dalla culla, molto prima del francese. E
sempre da questa sua posizione, nasce anche il suo elogio del guascone: «Il
linguaggio che mi piace, è un linguaggio semplice e spontaneo, tale sulla carta
quale sulle labbra. Un linguaggio succoso e nervoso, breve e serrato, non tanto
delicato e leccato quanto veemente e brusco».27 Quello che vorrebbe è un
linguaggio «Non pedantesco, non fratesco, non avvocatesco, ma piuttosto
soldatesco».28
Sono, questi, i motivi per cui rifiuta il vocabolario della corporazione dei
filosofi che filosofeggiano. Anche se conosce tutta la terminologia tecnica della
scolastica, non la usa mai. Aggrava il proprio caso scrivendo che «nel
linguaggio, la ricerca di frasi nuove e di parole poco conosciute deriva da
un’ambizione puerile e pedantesca. Potessi io non servirmi che di quelle che si
usano al mercato a Parigi!»29 C’è di che morire soffocati al Collège de France,
istituito cinquant’anni prima da Francesco I…
Montaigne ritiene anche che la filosofia non sia destinata soltanto a persone
adulte che sfoggiano parrucconi e consumano il culo dei pantaloni sui banchi
degli anfiteatri universitari, ma che anche i bambini non dovrebbero sentirsene
respinti: «È molto strano che al nostro tempo le cose siano giunte al punto che la
filosofia è, anche per le persone d’ingegno, un nome vano e fantastico, che non
serve a nulla e non ha alcun pregio, sia in teoria sia in pratica. Credo che ne
siano causa quei cavilli che hanno invaso i suoi accessi. Si ha gran torto a
descriverla inaccessibile ai fanciulli, e con un viso arcigno, accigliato e terribile.
Chi me l’ha camuffata sotto questa maschera, esangue e ripugnante? Non c’è
nulla di più gaio, di più vivace, di più giocondo e, direi quasi, burlone».30
Non è difficile capire come, alla Sorbona, dove da sempre le belle pettinature
sono tenute in gran valore, un simile discorso possa essere percepito come
sovversivo e rivoluzionario. Strappare la filosofia alle tristi figure che, negli
anfiteatri, parlano in latino chiosando san Tommaso d’Aquino a suon di
sillogismi, affondi retorici e trucchetti da sofistica, è in effetti un vero e proprio
sacrilegio! Peggio: preferire a questa gentaglia i poveri, i semplici, i contadini, i
giardinieri, i bambini, i paggetti, e tutta la fauna che gravita attorno ai mercati di
Parigi, è un’offesa imperdonabile per i dotti dell’università!

Montaigne non cerca la verità nei libri che raccontano il mondo, o nella Bibbia,
o in Platone, o in Aristotele, ma nel mondo stesso. Per la filosofia, si tratta di una
vera e propria rivoluzione epistemologica. Il suo invito è a lasciar perdere le
biblioteche e a guardare direttamente il mondo per pensarlo davvero. Su un tono
scherzoso, scrive: «Conosco uno che quando gli domando che cosa sa, mi chiede
un libro per mostrarmelo; e non oserebbe dirmi che ha il deretano rognoso, senza
andare immediatamente a studiar sul suo lessico che cos’è rognoso e che cos’è
deretano».31
Ecco per quale motivo Montaigne parla di sé e racconta la propria vita privata.
Non per esibizionismo, non per narcisismo, non per egotismo o amore smisurato
per la propria persona, ma perché il libro deve cedere il posto all’esame del
mondo: per riuscire a pensare l’uomo in tutta indipendenza dal cristianesimo,
non c’è miglior soggetto da cui partire se non la propria persona. Montaigne si
osserva, ed è l’«uomo» che vede: un uomo nudo, un uomo finalmente libero dai
testi, dai libri, dai commenti, dalle parole, dai verbi, dalle biblioteche e dalle
chiose che da secoli ne nascondono la verità. È l’Uomo vitruviano di Leonardo,
nudo, appunto, e senza Dio: non contro Dio, ma semplicemente indipendente da
lui, disinteressato.
Da qui anche le sue considerazioni sull’educazione ricevuta durante l’infanzia,
sulle qualità del padre, sulla sua propria svogliatezza, sulle sue letture, sulla sua
bassa statura, sul suo amico perduto, Étienne de La Boétie, sulla moglie, sul fatto
di dimenticare quanti figli gli sono morti, sui suoi gusti alimentari (ostriche,
chiaretto e carni con la salsa), su come i suoi baffi gli conservano il ricordo di
tutto quello che mangia, sulla sua mancanza di grazia in ogni cosa che fa, sui
buchi della sua memoria, sull’incapacità di rispondere a tono, sul suo amore per i
viaggi a cavallo, sul suo incarico di sindaco di Bordeaux, sul mal di pietra, sulla
piccolezza del proprio sesso, sui suoi problemi libidinali, sugli effetti della
vecchiaia sulla memoria e in generale sul corpo, sulla sua tarda e misteriosa
amicizia per la propria «figlia spirituale»,32 Marie de Gournay, sul suo
progredire verso la morte, e su tantissimi altri argomenti.
Montaigne ci offre anche dettagli sul suo rapporto con la religione. Crede in
Dio, dice le sue preghiere tutte le sere e assiste alla messa, anche rintanato a letto
al piano superiore della sua famosa torre, da cui è ancora possibile vedere il buco
che gli permetteva di ascoltare le funzioni; fa un pellegrinaggio alla Basilica
della Santa Chiesa di Loreto, incontra papa Gregorio XIII, manifesta in maniera
inequivocabile il proprio cattolicesimo e rifiuta la Riforma; addirittura, quando si
rende conto di essere arrivato alla fine, chiede, e ottiene, l’estrema unzione. Parte
per il Vaticano per sottoporre i propri Saggi al papa, che lo invita a correggere
alcune pagine, cosa che il filosofo si rifiuterà di fare. Questo è tutto il suo
rapporto con la religione cattolica. Montaigne crede al Dio dei cattolici perché è
francese, e confessa che, se fosse nato in Germania, sarebbe stato protestante;
rispetta il sommo pontefice, ma pone la verità al di sopra di tutto, papa
compreso. Scrive: «Presento le fantasie umane e mie semplicemente come
umane fantasie, e considerate per sé stesse […]. Materia di opinione, non
materia di fede […]. In maniera laica, non clericale, ma sempre molto religiosa».
33 Di fatto, Montaigne è fideista: crede nel Dio del proprio paese, ma non può
condividere l’antiedonismo e il dolorismo del cristianesimo, e neanche il suo
fasto e la sua idea di decoro.

Montaigne è un uomo che rifiuta i sofismi della filosofia e il gergo della


scolastica, un uomo che rinuncia non solo alla loro retorica, alla loro dialettica e
alle loro pretese scientifiche, ma anche ai suoi rappresentanti ufficiali, ai
commenti, ai commenti dei commenti e alla predilezione per il greco e per il
latino; è un uomo che preferisce il francese semplice della gente semplice,
addirittura il dialetto guascone, un uomo che preferisce il modo di parlare di
quelli che lavorano al mercato e che si fida della gente che lavora la terra; un
uomo che ha scelto di ridere del mondo piuttosto che piangere a causa sua; un
uomo che rivoluziona la filosofia facendo crollare tutto il sistema dei sillogismi
con una fetta di prosciutto e un bicchiere di chiaretto. Un po’ di affettati e un
bicchiere di vino locale: eccole, le armi di distruzione di massa con cui muove
battaglia a mille anni di filosofia.
È probabilmente per questo motivo che non affronta la questione dell’anima
discettando su san Tommaso che scriveva contro Averroè che scriveva contro
Aristotele sulla questione dell’Intelletto agente! Quando interroga
l’immaginazione, Montaigne racconta aneddoti che insegnano qualcosa sul
modo in cui l’anima si lega al corpo.
Una prima storiella. Montaigne è a cavallo in una foresta quando uno di quelli
che lo accompagnava (confessa di averne un centinaio al suo servizio) gli finisce
addosso come un forsennato, lo urta e lo fa cadere lontano dal cavallo,
rovesciando a terra pure quest’ultimo. La cintura si strappa e la spada finisce
lontano: Montaigne ha il volto tutto graffiato e perde i sensi. Lo riportano a casa,
ma, per strada, torna in sé e rimette parecchio sangue, e poi ancora, e poi ancora.
Per due ore, lo credono morto. Torna cosciente, ma resta totalmente in preda alla
confusione: «Quanto alle funzioni dell’anima, rinascevano progressivamente con
quelle del corpo».34 S’immagina di aver preso un colpo di archibugio in testa e si
sente come sul punto di morire: «Era un’idea che galleggiava soltanto alla
superficie della mia anima, tenue e debole come tutto il resto».35 Gli sembra di
scivolare nella morte, dolcemente e piacevolmente, senza soffrire, addirittura
con una certa leggerezza, come quando uno si sta addormentando. Si muove, ma
solo in maniera disordinata. Avanza strane richieste, come quella di far portare
un cavallo alla moglie. E si fa domande su cosa lo spinga ad avanzare questo
genere di richieste. Sperimenta uno stato di languore e un’estrema spossatezza,
però non soffre. Si mette disteso e percepisce una dolcezza infinita. Dopo due o
tre ore, torna definitivamente in sé e comincia invece un martirio che dura tre
giorni di fila. È a quel punto che pensa di morire. E comincia a capire che il vero
problema non è tanto la morte, perché morire significa semplicemente scivolare
verso il nulla senza soffrire. Nella maggior parte dei casi, la cosa di cui si ha più
paura è proprio il fatto in quanto tale di dover morire. La morte è solo il
momento in cui il legame tra anima e corpo si scioglie, ed è un momento che
passa con dolcezza.
Scopre così in prima persona quelli che oggi chiameremmo i meccanismi
psicosomatici che legano strettamente il corpo all’anima. Scrive: «la minima
puntura di spillo e la minima passione dell’anima è sufficiente a toglierci il
piacere della sovranità del mondo».36
Una seconda storiella conferma questa logica dello psicosomatico, e viene
raccontata con la precisa intenzione di mostrare come funziona quel particolare
legame tra anima e corpo. Un gentiluomo informa alcuni suoi ospiti che qualche
giorno prima ha fatto mangiare loro un pasticcio confezionato con carne di gatto:
«del che una damigella della compagnia ebbe tale orrore che fu colta da un
grande travaglio di stomaco e febbre e fu impossibile salvarla. Le bestie stesse si
vedono come noi soggette alla forza dell’immaginazione. Testimoni i cani, che
si lasciano morire di dolore per la perdita dei loro padroni. Li vediamo anche
guaire e dimenarsi in sogno, e i cavalli nitrire e agitarsi».37 Ovviamente, il
pasticcio non era assolutamente fatto con la carne di gatto…
Quindi, tra anima e corpo, esiste un legame tale che può essere addirittura
spezzato anche solo dall’immaginazione, da alcune suggestioni. Spiegando
questi fenomeni, Montaigne scrive: «tutto questo può attribuirsi alla stretta
congiunzione dello spirito e del corpo, che si comunicano reciprocamente le loro
condizioni».38 Il nostro filosofo non si preoccupa in effetti di comprendere le
modalità di questo rapporto strettissimo, semplicemente constata che esiste e ne
mostra il funzionamento: lo vede, lo studia e lo racconta. È qualcosa che ai
filosofi di professione di certo non piace, loro che preferirebbero di gran lunga
leggere un trattato di Montaigne intitolato Del rapporto strettissimo in cui
l’autore si mettesse a commentare, penna in mano, il trattato su L’anima di
Aristotele!
Quello che Montaigne constata è il fatto che le irregolarità dell’anima a volte
creano un genio e a volte un pazzo, a volte un grande poeta e a volte un infame
brigante; oppure possono portare all’estasi di un grande mistico o alle smanie di
un tagliaborse. Ma perché «l’agitazione dell’anima turba la […] forza fisica, la
fiacca e la stanca»?39 Per effetto delle passioni in generale e dell’immaginazione
in particolare. È proprio quest’ultima, in effetti, a trasformare un succulento
pasticcio di maiale in un disgustoso pasticcio di gatto – disgustoso e soprattutto
mortale: come a dire che non è la materia in quanto tale a essere tossica, ma solo
l’idea che noi ce ne facciamo.
Nell’Apologia di Raymond Sebond, scritta per il padre che gli ha chiesto un
riassunto del pensiero di questo teologo, Montaigne cerca di spiegare come la
questione dell’anima venisse affrontata dagli egizi e dai caldei, e poi dai filosofi
e dai medici dell’Antichità, da Stratone di Lampsaco, che la colloca tra le due
sopracciglia, e ovviamente da Aristotele, a cui non perde l’occasione di dare un
buffetto filosofico: «Non dimentichiamo Aristotele: ciò che per sua natura fa
muovere il corpo, che egli chiama entelecheia; con un’idea sciocca quant’altre
mai, poiché non parla né dell’essenza, né dell’origine, né della natura
dell’anima, ma ne nota soltanto l’effetto».40 Da questa lista di teorie tutte
diverse, spesso addirittura contraddittorie tra loro, Montaigne trae solo motivi di
scetticismo: se esistono tante definizioni o riconoscimenti dell’anima quanti
sono i filosofi e i medici, allora forse la cosa migliore è proprio evitare di
aggiungere un altro mattone a questo ridicolo edificio.
E ci racconta di come il morso di un cane malato può arrivare a infettare
l’anima della persona morsa:
si vedeva la saliva di un vile mastino, colata sulla mano di Socrate, sconvolgere tutta la sua
saggezza, e tutti i suoi grandi e tanto ordinati pensieri annientarli in modo che non rimanesse
alcuna traccia della sua conoscenza precedente […]. E questo veleno non trovar maggior
resistenza in quest’anima che in quella di un bambino di quattro anni; veleno capace di far
diventare tutta la filosofia, se fosse incarnata, furiosa e insensata: tanto che Catone, che si metteva
sotto i piedi perfino la morte e la fortuna, non avrebbe potuto sopportare la vista d’uno specchio o
dell’acqua, oppresso da spavento e da terrore, quando fosse stato colto, per il contagio d’un cane
arrabbiato, dalla malattia che i medici chiamano idrofobia.41

Sulla questione della mortalità o dell’immortalità dell’anima, Montaigne stila


una lista di tutto quello che è stato pensato. Di Aristotele, dice che, in effetti, non
si conosce il suo punto di vista: «Egli si è celato sotto il velame di parole e
significati difficili e non intelligibili, e ha lasciato ai suoi seguaci da discutere
tanto sul suo giudizio quanto sulla materia».42 E qui è a tutto il dibattito
dell’averroismo che, sotto traccia, Montaigne rimanda.
Che cosa ne pensa, lui? Quello che pensa lui è che la molteplicità delle
opinioni filosofiche e il carattere contraddittorio delle loro conclusioni farebbe
piuttosto propendere per la necessità della sospensione del giudizio filosofico.
La ragione non sembra essere in grado di risolvere il problema senza l’aiuto di
Dio: «Tutto quello che intraprendiamo senza il suo aiuto, tutto quello che
vediamo senza la lampada della sua grazia, non è che vanità e follia».43 La
favola di Babele ce lo racconta in maniera esemplare: quando gli uomini
vogliono ottenere lo stesso sapere di Dio (è in effetti questo il senso del peccato
originale), l’unica cosa che ottengono è la confusione. Già questo basterebbe per
non trasformare l’Apologia di Raymond Sebond in un momento di scetticismo
pirroniano nel pensiero di Montaigne, perché dimostrerebbe, al contrario, che,
dall’inizio alla fine della propria vita, quindi dall’inizio fino al completamento
dei Saggi, Montaigne si è sempre mantenuto fedele alle scelte del proprio
fideismo.
L’anima è immortale, e la prova sta nel fatto che è Dio stesso a dirlo!
Era veramente molto giusto che fossimo debitori a Dio soltanto, e al beneficio della sua grazia,
della verità di una così nobile credenza, poiché dalla sua sola liberalità riceviamo il frutto
dell’immortalità, che consiste nel godimento della beatitudine eterna. Confessiamo sinceramente
che Dio solo ce lo ha detto, e la fede: poiché non è lezione della natura né della nostra ragione. E
chi riconsidererà il suo essere e le sue forze, e dentro e fuori, senza questo privilegio divino; chi
guarderà l’uomo senza lusinghe, non vi vedrà efficacia né facoltà che sappia d’altro se non di
morte e di terra [corsivo mio].44

Non andiamo oltre…


O invece magari sì! Montaigne crede all’immortalità dell’anima, e i cristiani
ne trarranno sicuramente motivo di giubilo. Però, a differenza di questi ultimi, il
nostro filosofo non riesce a condividere le favole della vita dopo la morte.
Rifiuta l’idea dell’Eden di Maometto come «paradiso pavesato di tappeti, ornato
d’oro e di gemme, popolato di ragazze di rara bellezza, di vini e di vivande
squisite».45 E aggiunge: «vedo bene che sono burloni i quali secondano la nostra
stoltezza per lusingarci e attrarci con queste credenze e speranze, confacenti al
nostro desiderio mortale. Eppure alcuni dei nostri sono caduti in un errore simile,
ripromettendosi dopo la resurrezione una vita terrestre e temporale,
accompagnata da ogni sorta di piaceri e agi mondani».46 Il fatto è che non esiste
nessuna ragione che possa convincerlo a concepire una vita dopo la morte, o
anche solo a immaginarla. Il paradiso è una caramella ontologica. Montaigne
non ne ha bisogno perché preferisce il salato: «Quello che una volta ha cessato di
essere, non è più».47
Un’ultima parola.
Con Montaigne, si accede all’anima attraverso il corpo, invertendo così la
tradizionale prospettiva dei due o tre millenni precedenti. Per questa tradizione,
prima c’è l’anima, e solo in seguito arriva il corpo. E l’anima è ovviamente
eterna e immortale, e vive parecchie vite prima di tornare al proprio luogo di
origine, che è il Logos, il Cielo delle Idee, il Verbo, il Pleroma, in altre parole,
un mondo che non esiste o che, se esiste, esiste solo in quanto finzione, favola,
mito, allegoria o metafora.
Nella riflessione del nostro autore, invece, è il corpo a dover disciplinare
l’anima:
Il corpo ha grande importanza nella nostra esistenza, vi tiene un gran posto: così la sua struttura e
la sua costituzione sono giustamente tenute in gran conto. Quelli che vogliono dividere le nostre
due parti principali e separarle l’una dall’altra, hanno torto. Al contrario, bisogna riaccoppiarle e
ricongiungerle. Bisogna ordinare all’anima non di isolarsi, di coltivarsi in disparte, di disprezzare
e abbandonare il corpo (del resto non potrebbe farlo se non per un’artificiosa impostura), ma di
tenerglisi stretta, di abbracciarlo, vezzeggiarlo, assisterlo, controllarlo, consigliarlo, raddrizzarlo e
correggerlo quando si fuorvia. Sposarlo insomma, e fargli da marito: affinché le loro azioni non
appaiano diverse e contrastanti, ma concordi e uniformi.48

E, a questo punto, Montaigne si mette a esporre le teorie aristoteliche e


cristiane sulla salvezza, per approdare alla presentazione della propria etica
edonista e della propria morale eudemonista: in pratica, la propria arte di vivere
– ma qui si cambia decisamente argomento49…

Montaigne rivoluziona la filosofia voltando le spalle ai libri e preferendo


l’«esperienza del mondo»50 alla «filosofia ostentatrice e chiacchierona»51 e alle
«scuole di parlantina».52 Lo fa togliendo qualsiasi credito agli specialisti, ai
professionisti della disciplina e a tutti quegli universitari che credono di stare
dalla parte della scienza, mentre tutto quello che fanno è camminare mascherati
dai cappelli di moda in quel momento. Lo fa credendo in Dio, ma in maniera
discreta, tenendolo da parte per riuscire a pensare da «laico», è questa la parola
che usa. Lo fa lasciando che i propri inediti pensieri aprano un incredibile spazio
di libertà al pensiero europeo. E lo fa soprattutto pensando in maniera originale
l’uomo a partire dall’animale.
Il pensiero di Montaigne è un pensiero radicalmente nuovo, un pensiero che
rompe con il medioevo, inaugura la modernità e fa scivolare la civiltà
dell’Occidente giudaico-cristiano verso un’altra fase. Prima di Montaigne,
l’animale si trova, in natura, al di sotto dell’uomo: è fatto per servirlo e per
essergli utile. Con Montaigne, invece, l’animale si trasforma in un compagno:
c’è una «parentela fra noi e le bestie».53
San Tommaso d’Aquino colloca l’uomo tra l’angelo, che si trova sopra di lui e
rappresenta il modello verso cui tendere, e la bestia, che si trova sotto di lui ed è
la posizione da cui si deve allontanare. Sappiamo che Pascal considerava che
«chi vuol fare l’angelo fa la bestia»54 – è un’idea di Port-Royal, come molte altre
che spesso all’autore dei Pensieri capita di rielaborare. Montaigne però avrebbe
trovato questo ragionamento sciocco: l’uomo non deve fare la bestia perché
l’uomo è cugino della bestia. L’uomo è una specie di bestia, una variazione sul
tema della bestia. Tre secoli prima di Darwin, troviamo in queste pagine una
vera e propria rivoluzione ontologica.
Se, come pensa Montaigne, tra l’uomo e l’animale «C’è qualche differenza, ci
sono ordini e gradi; ma sotto la forma di una stessa natura»;55 se «c’è più
differenza fra un uomo e un altro uomo, che non fra un animale e un uomo»;56 o
ancora se gli animali rappresentano per gli uomini i «suoi fratelli e compagni»;57
allora dobbiamo per forza voltare le spalle a quello che la Genesi ci insegna da
più di tremila anni! In realtà, bisognerà aspettare L’origine delle specie (1859), e
soprattutto L’origine dell’uomo e la selezione sessuale (1871) di Darwin perché
questo pensiero del nostro filosofo possa trasformarsi in una verità scientifica –
una verità scientifica che, come vedremo, continuiamo comunque ad avere
difficoltà a digerire.
Il passo dell’Apologia di Raymond Sebond sugli animali è una perla filosofica,
l’asse su cui tutto il pensiero occidentale comincia a vacillare. Montaigne rimette
l’uomo al suo posto, o, per meglio dire, ce lo mette per la prima volta (era ora!);
e questo posto non è esattamente il centro del mondo. La definizione dell’anima
si trova considerabilmente modificata: cambiano la sua descrizione, la sua
essenza, la sua natura, le sue proprietà, i suoi meccanismi, e via di seguito. A
partire dalle considerazioni sulle talpe e sulle «arondelles» (antico nome delle
rondini), come le trascrive graficamente, a partire dagli uccelli migratori e dai
pesci pilota che nuotano sulla scia dei cetacei, a partire dall’alcione o dalla
remora, Montaigne taglia il mondo filosofico in due.
E cosa ci racconta su questo argomento? Che le bestie non sono bestie; che gli
uomini si sbagliano e, sul loro conto, raccontano un sacco di falsità; che tra noi e
le bestie c’è un malinteso; che sottostimiamo le possibilità dei loro sensi; che tra
di loro comunicano molto meglio di quanto non riusciamo a fare noi con loro;
che con noi condividono un linguaggio non verbale, quello del corpo; che hanno
a loro disposizione un linguaggio e che quindi avere un linguaggio non è più la
cosa che caratterizza solo l’uomo. Ci racconta che a volte hanno organizzazioni
sociali impressionanti; basti pensare alle «mosche da miele», cioè alle api; o alle
rondini, che tante prove ci danno della loro grande memoria, della loro capacità
di giudizio e della loro capacità di previsione, o di quanto sappiano riconoscere i
venti e valutare la consistenza dei materiali che usano per costruire e orientare i
propri nidi; o ai ragni, che pensano, soppesano e prendono decisioni sul fatto di
tessere la propria tela in un modo piuttosto che in un altro. Gli animali
manifestano un’evidente superiorità su di noi in parecchi ambiti; nascono con
tutto quello che serve a proteggerli: gusci, peli, lane, cuoio, piume, scaglie,
zanne, denti, artigli, corna; sanno volare, nuotare, correre e scappare di fronte al
pericolo fin dalla nascita, mentre l’uomo deve imparare tutto quanto per riuscire
a vivere e a sopravvivere; certo, l’uomo è capace di usare il proprio pensiero,
però spesso lo usa causando a sé stesso grandi sventure e accrescendo la propria
sofferenza, le proprie paure e le proprie angosce; la volpe si muove sul fiume
gelato ascoltando il rumore dell’acqua sotto lo strato di ghiaccio, e da questo
rumore deduce se può procedere senza rischi («è un’argomentazione e una
conclusione tratta dal buon senso naturale»);58 al contrario degli esseri umani,
gli animali non schiavizzano mai uno di loro; noi manifestiamo ingegnosità nella
caccia, ma anche i nostri cugini a quattro zampe lo fanno; gli esseri umani non
hanno bisogno di farsi attaccare dai coccodrilli, dagli elefanti o dalle balene per
essere sconfitti: basta una colonia di pulci a far crollare la dittatura di Silla; la
tartaruga, quando ha mangiato una vipera, cerca subito un po’ di origano per
purgarsi, e le cicogne si fanno dei clisteri con l’acqua di mare per recuperare la
salute. Montaigne cita parecchi altri esempi a testimonianza di quanto gli animali
sappiano prendersi cura di sé stessi: grazie al proprio fiuto, il cane riesce a
ritrovare la strada in maniera molto più sicura di quanto non faccia il suo
padrone; i merli, i corvi, le gazze e i pappagalli imparano la lingua degli uomini;
alcuni cani si sostituiscono agli occhi dei ciechi e gli permettono di spostarsi
senza troppe difficoltà; altri cani sono invece addestrati a ballare in modo da far
guadagnare qualche soldo ai loro padroni; altri ancora recitano parti nelle opere
teatrali; nei circhi, gli elefanti imparano a muoversi all’interno di determinate
coreografie; i buoi sono talmente abituati a far girare una ruota cento volte al
giorno che non fanno mai un giro in più; gli animali potrebbero dare lezione agli
uomini: di canto, di tessitura, di farmacia; un cane, consapevole del fatto che non
riuscirà mai a raggiungere l’olio in fondo a un barattolo, lo riempie di sassi per
poterlo leccare; le murene e le anguille riconoscono la voce di chi gli dà da
mangiare; gli elefanti salutano il Sole con la loro proboscide, poi meditano e si
mettono in contemplazione; le formiche si preoccupano dei propri morti; un
branco di remore può fermare una nave da guerra attaccandosi alla carena; il
camaleonte cambia colore come l’uomo che arrossisce o diventa giallo a seconda
delle passioni che lo divorano; gli animali migratori dispongono di una «facoltà
divinatrice»;59 i cani si suicidano per accompagnare la morte del proprio
padrone; i cavalli danno prova di empatia e di simpatia tra loro; girano aneddoti
su storie d’amore tra umani e animali: per esempio quella dell’elefante del
grammatico Aristofane che si era innamorato di una venditrice di fiori, e la
seguiva dappertutto, le offriva la frutta prendendola con la proboscide sui banchi
del mercato e «le metteva talvolta la proboscide in seno passandola sotto il
colletto e le tastava le poppe»;60 stessa cosa per le «bertucce prese da amor
furioso per le donne».61 Gli animali conoscono l’omosessualità e l’incesto; le
formiche raccolgono provviste per quando farà più freddo; i cani sono
estremamente fedeli e non sanno cosa sia l’ingratitudine; gli animali sono anche
solidali tra loro: uno di loro si trova in difficoltà, e tutti accorrono per salvarlo;
ad accompagnare i grandi animali ci sono sempre altri animali più piccoli che
tornano utili: per esempio, il pesce pilota con le balene; oppure gli scriccioli con
i coccodrilli, da cui sono inseparabili e di cui puliscono i denti; oppure ancora le
madreperle che collaborano con i pinotteri; i tonni sanno riconoscere i solstizi e
gli equinozi, e i loro branchi sono organizzati con matematica e geometrica
precisione. Le bestie sono magnanime, riconoscono le proprie colpe, e mostrano
sentimenti di pentimento e di clemenza; l’alcione è monogamo e passa tutta la
vita ad assistere fedelmente la propria compagna. Gli animali sognano; per
esempio, il levriero si agita durante il sonno perché, sicuramente, sogna una
«lepre senza pelo e senz’ossa».62 Non è questa un’idea platonica? La levrierità?
Perdonatemi, la battuta è mia… E fermiamoci qui: di testimonianze che provano
«questa somiglianza e corrispondenza fra noi e le bestie», ce ne sono anche
troppe.63
Aggiunge semplicemente Montaigne che, una volta nudo, l’uomo non è
proprio un bello spettacolo, e fa quindi bene a nascondere tutto quanto sotto i
vestiti; non mi pare che da qualche altra parte abbia mai parlato della bruttezza
di un animale qualunque.
Con i Saggi di Montaigne, la trascendenza smette di condurre le danze del
pensiero occidentale.
Capitolo terzo
Lezioni dalle lezioni di anatomia
Cancellare l’anima

Della medicina, Montaigne scrive peste e corna. Il filosofo ricorda come lui e il
padre soffrissero del mal della pietra, e come i calcoli alla vescica gli avessero
provocato moltissime sofferenze. L’incapacità dimostrata dalla corporazione
medica nel curare «questa […] infusione e infiltrazione fatale»64 che aveva
toccato lui, il padre, e parecchi altri membri della sua famiglia, colpita da
«questa caratteristica del mal della pietra»65 da almeno due secoli, ha prodotto,
come scrive, l’«odio e [il] disprezzo per la loro dottrina».66 E aggiunge:
«Quest’antipatia che ho per la loro arte è in me ereditaria».67
Il filosofo fa della salute il bene senza il quale nessun altro bene è possibile; la
salute è il più prezioso dei tesori. Da qui l’importanza dei medici. Platone viene
colpito da un attacco di epilessia o da un colpo apoplettico e, di colpo, non c’è
più nessuno che sia in grado di elaborare le ipotesi del Parmenide!
Al contrario delle rondini e dei lucci, noi abbiamo perduto il contatto reale con
la natura. E l’artificio non è sempre meglio rispetto alla natura. Capita, anzi, che,
per esempio, la prescrizione di alcuni regimi alimentari acceleri il peggioramento
definitivo delle condizioni delle persone a cui avrebbero dovuto allungare la vita.
La verità è che «I medici non si accontentano di avere il governo della malattia,
rendono malata la salute, per impedire che uno possa mai sfuggire alla loro
autorità».68 Trasformano quella che qui e ora è buona salute in inarrestabile
malattia. Montaigne fa della sofferenza l’occasione per esercitare il proprio
stoico pragmatismo. Sostiene di non aver mai perso un’occasione per verificare
la validità della formula dei filosofi del Portico: «Sopporta e astieniti», e di non
aver mai avuto bisogno dei medici. E nota come, dal punto di vista sociologico,
all’interno di questa categoria professionale, non si trovino molti centenari o
molta gente in forma olimpionica. I popoli che ignorano i medici e la medicina
sono sicuramente quelli più vigorosi e sani, quelli più resistenti e felici.
Montaigne, quindi, non ama né le medicine né le purghe. E considera che «tutto
quello che si rivela salutare alla nostra vita si può chiamare medicina».69
Esprimendo il concetto in altri termini: l’edonismo e l’eudemonismo valgono più
di qualsiasi clistere o presa di sangue! Ascoltiamo quest’altro magnifico invito:
«Fate ordinare una purga al vostro cervello».70 Per riparare i disordini, la natura
si organizza molto meglio di qualsiasi medico. Tanto più che i discepoli di
Esculapio non sono nemmeno in grado di spiegare da dove arrivano le malattie e
vessano i malati ritenendoli responsabili dei loro stessi mali. La malattia? È
colpa dei malati. La guarigione? Merito dei medici. Testa, vince il medico;
croce, perde il malato.
Quelli che praticano questa sedicente arte usano un vocabolario astruso. Per
esempio, prescrivono «di prendere una figlia della terra, che cammina nell’erba,
porta con sé la propria casa, non ha sangue»,71 semplicemente per indicare la
bava di lumaca. E, se ottengono qualche risultato, è solo perché il paziente è
pienamente convinto di tutte le loro stramberie e condivide tutte le loro
scempiaggini. Se il medico, con fare pedante e perentorio, decide di infliggere la
secrezione delle lumache a dei babbei che sono convinti della sua assoluta
efficacia, allora di sicuro gli effetti non tarderanno ad arrivare! In pieno
Cinquecento, insomma, Montaigne scopre i principi della psicosomatica.
Stesso atteggiamento nei confronti di quest’altra ricetta, che non ottiene il
consenso del filosofo: «Il piede sinistro d’una tartaruga, l’urina d’una lucertola,
lo sterco d’un elefante, il fegato d’una talpa, un po’ di sangue tratto da sotto l’ala
destra d’un piccione bianco; e per noialtri affetti da mal della pietra (tanto
sprezzantemente abusano della nostra miseria), cacherelli di topo polverizzati, e
altre simili stranezze che hanno piuttosto l’aspetto d’un incantesimo magico che
di solida scienza. Tralascio il numero dispari delle loro pillole, la designazione di
certi giorni e feste dell’anno, la distinzione delle ore per cogliere le erbe dei loro
ingredienti, e quella grinta arcigna e austera del loro atteggiamento e contegno».
72 La medicina è l’attività di ciarlatani che ricorrono a ricette degne della
stregoneria e però vogliono comunque continuare a essere considerati uomini di
scienza. Naturalmente, a coprire tutte queste imposture c’è sempre, come al
solito, l’università.
Montaigne si diverte a elencare le differenti diagnosi e i diversi trattamenti
affibbiati a una stessa malattia. Esistono tante eziologie, tante posologie e tanti
trattamenti sanitari quanti sono i medici! Questo, per dire il carattere scientifico
della loro attività. E magari tutte queste stravaganze fossero inoffensive! La
verità è che invece causano proprio le malattie che avrebbero dovuto curare. E
qui il filosofo continua il proprio processo alla medicina, e soprattutto ai medici.
Al proprio disprezzo nei confronti dei medici di bassa lega, accompagna un
elogio dei chirurghi. Un tizio si è visto diagnosticare il male della pietra da parte
di alcuni medici, ma un’operazione condotta da un barbiere ha rivelato che non
si trattava assolutamente di questo: «È per questo che la chirurgia mi sembra
molto più sicura, in quanto vede e tocca quello che fa; c’è meno da congetturare
e da indovinare, mentre i medici non hanno alcuno speculum matricis che scopra
loro il nostro cervello, il nostro polmone e il nostro fegato».73 Montaigne
continua le proprie riflessioni sulle cure termali, sui regimi alimentari, sulle diete
in generale, sui bagni quotidiani, sulle prese di sangue… Ricordiamocela, però,
quest’idea geniale, come spesso quelle sue, che abbiamo più da imparare dai
chirurghi che non dai medici.

Abbiamo riflettuto molto sul fatto che passare dal geocentrismo di Tolomeo
all’eliocentrismo di Copernico ha demolito una visione del mondo a profitto di
un’altra. E su questo sono ovviamente d’accordo. È una vertigine astronomica
non priva di conseguenze epistemologiche, etiche, teologiche, spirituali,
filosofiche, e via dicendo. Non è la stessa cosa trovarsi in un mondo al centro di
tutto oppure in un universo in cui il centro non sta da nessuna parte e la
circonferenza dappertutto. Tocca trovare un altro posto per Dio, e un altro posto
pure per l’uomo.
Si è molto discusso dell’accesso all’infinitamente piccolo reso possibile, nel
Seicento, dall’invenzione del microscopio, e del contemporaneo accesso
all’infinitamente grande permesso dalla lente astronomica. L’aldilà del mondo
presenta altrettanto interesse del quaggiù terreno, peraltro nettamente più
accessibile. La scoperta della pluralità dei mondi va di pari passo con quella
della composizione atomica del mondo. È in questo periodo che Paracelso
elabora un pensiero del microcosmo e del macrocosmo come il diritto e il
rovescio di una stessa medaglia.
Il Rinascimento riscopre la potenza mai sfruttata della filosofia abderitana,
materialista, atomista ed epicurea. Democrito ha l’intuizione dell’atomo
osservando delle particelle di polvere che si muovono come in una danza in un
raggio di luce. Se però tutto è atomi che cadono nel vuoto, che cosa possiamo
pensare di Dio, e del suo rappresentante sulla Terra, cioè l’anima?
Quello che Montaigne fa con l’anima dell’uomo, partendo dall’analisi della
propria e costruendo la ricerca come un romanzo dell’Io, Vesalio lo realizza con
il corpo. In fondo, i Saggi sono una lezione di anatomia dell’anima che non
prevede alcun ricorso a Dio. Il filosofo si piazza davanti a uno specchio,
racconta quello che vede di sé e, dalla propria singolarità, deduce l’universale.
Questo speculum matricis, di cui Montaigne rimpiange che non esistano
equivalenti per gli altri organi, dispone comunque almeno di un analogo nel suo
genere, cioè il bisturi. Non abbiamo mai davvero valutato tutte le conseguenze
prodotte nell’anima dal fatto di aprire i corpi.
Il bisturi non uccide l’anima, piuttosto ne precisa i contorni e questi, un po’
alla volta, si fanno materiali. La si cerca nelle pieghe del corpo e in quelle del
cervello, si crede di scoprirla in una ghiandola e la si insegue con un rasoio;
l’anima si presenta dappertutto ma senza essere mai veramente visibile da
nessuna parte; si laicizza e sfugge a Dio, agli dèi, e quindi anche al diavolo.
Facciamo finta di non occuparcene, ma è solo perché è invisibile e perché ce la
immaginiamo diversa da come ce la raccontano da tanto tempo. Vogliamo dire
immateriale? Certo, perché no? Niente ci impedisce di pensarla così. Però, un
chirurgo non opera mai l’immateriale. Montaigne lo dice, lo pensa e lo scrive: il
chirurgo «vede e tocca».74 In realtà, dell’anima, che cosa c’è da vedere e da
toccare? Solo la teoria di Epicuro permette di risolvere questo enigma ricorrendo
all’atomo. Però, il momento non è ancora giunto, e il Cinquecento lo prepara e
basta. In effetti, Montaigne ritiene che gli Atomi di Epicuro siano delle
costruzioni intellettuali allo stesso titolo delle Idee di Platone e dei Numeri di
Pitagora. Quindi, niente di reale.

Il medico ha una reputazione diversa rispetto a quella del chirurgo: il primo parla
latino, passa per essere un intellettuale che legge i grandi testi della medicina
antica e proviene da una famiglia bella e buona; il secondo, invece, parla
francese (per esempio, Ambroise Paré, il latino, non lo conosce nemmeno),
proviene dalle classi popolari e si indirizza da subito al lavoro manuale: incide
ascessi, amputa, cauterizza con ferri incandescenti oppure con olio bollente,
riallaccia vasi, riduce ernie, opera calcoli alla vescica, trapana, ripulisce fistole
anali, toglie cristallini, strappa e reimpianta denti, e poi, con gli stessi strumenti,
taglia anche barba e capelli. Il chirurgo viene insomma assimilato al barbiere! Il
primo, cioè il medico, rientra nell’ambito delle arti liberali, il secondo di quelle
meccaniche. Il medico prescrive prese di sangue e clisteri; il chirurgo
addormenta il paziente con l’oppio e spesso lo perde per le conseguenze delle
infezioni e delle cancrene. Il primo fa scorrere il sangue, il secondo il pus.
Prima di Vesalio, la lezione di anatomia è qualcosa che appartiene più al
mondo del teatro che non a quello della scienza. Si fa finta di conoscere quello
che in realtà si ignora e si «spettacolarizza» l’apertura dei corpi secondo rituali
apparentabili all’arte della messa in scena. Il magister, o lector, se ne sta sotto il
baldacchino della cattedra professorale a leggere un trattato di anatomia di
Galeno che descrive gli organi, mentre un altro personaggio, il sector, in pratica
l’assistente, procede con la dissezione vera e propria. Nel frattempo, un ultimo
attore, l’ostensor, o demostrator, mostra al pubblico con il dito o con una
bacchetta l’organo in questione. Attraverso questa tripartizione delle funzioni,
c’è un maestro che parla, qualcun altro che mostra e qualcun altro ancora che
tocca. Dire, mostrare e toccare: distinguere tra queste funzioni permette di
continuare a considerare il libro come la verità, delegando qualcun altro
all’ostensione di quanto c’è da vedere e di quanto è stato detto, e lasciando che
un’ultima persona si sobbarchi il contatto diretto con la materia, una materia
detestabilissima proprio perché materia di cadavere.
Vesalio si ribella a questo modo di procedere. E mette in piedi una rivoluzione
metodologica. È convinto che Galeno non sia onnisciente e che, descrivendo
come sono assemblate alcune parti del corpo e come vengono usate, abbia
accumulato parecchi errori, più di duecento, scrive; e sostiene, inoltre, che, se è
riuscito a farlo, è solo perché la sua pratica di dissezione anatomica era basata
sull’esperienza con le scimmie, non su quella diretta con gli esseri umani.
All’epoca, affermare cose simili era un’eresia.
In opposizione alle chiose di tipo universitario, Vesalio propone chiaramente
«la dissezione accurata e l’osservazione diretta delle cose». In altre parole,
secondo lui, il reale non si trova più nei libri che raccontano il mondo ma
direttamente nel mondo. La natura e il funzionamento di un organo hanno poco a
che vedere con le letture commentate dei testi che parlano dell’argomento e che
sono stati scritti millequattrocento anni prima; piuttosto, si deve passare
all’esame e all’analisi di tutto quello che può essere visto e toccato, per utilizzare
la formula di Montaigne. La memoria e gli psittacismi devono lasciare il posto
all’analisi e all’intelligenza.
Vesalio non intende più segare cani, tagliuzzare gatti e dissezionare scimmie.
Sono i cadaveri dei propri simili che vuole aprire. Ecco perché va nei cimiteri o
ai piedi dei patiboli su cui gli impiccati si stanno già decomponendo all’aria
aperta, lanciando ogni tanto dei pezzetti di carne ai cani che arrivano a
disputarseli e a divorarseli. La polizia controlla la situazione e non vuole che i
morti vengano tirati giù dal patibolo di Montfaucon. I profanatori rischiano di
essere perseguiti dalla giustizia e cacciati dalle facoltà.
Quando, nonostante tutto, si riesce a sottrarre un cadavere, la dissezione viene
eseguita su un arco di parecchi giorni, in una cantina, meglio se d’inverno, per
evitare la decomposizione accelerata delle stagioni canicolari. Si comincia
incidendo il ventre ed estraendo le interiora, che è la parte che si corrompe
prima. Il corpo viene innaffiato di aceto per combattere l’insopportabile fetore.
Vesalio manipola, osserva e disegna. Non c’è più nessun bisogno di andare a
chiedere a Galeno che cosa ne pensa, o di domandare ai professori universitari la
loro opinione su quello che pensava Galeno, che è poi la stessa cosa che pensa
lui; ormai ci si deve concentrare su quello che c’è da vedere. È un sapere che
puzza di carogna e di marcio, di aceto e di escrementi; è ancora lontano l’odore
del trattato. Per il momento, l’anima si rivela incolore, inodore e insapore, e non
ha ancora diritto di cittadinanza: sfugge alla lama del rasoio e a quella della
scure di Aristotele.
Vesalio si ribella che è ancora studente. Ai suoi professori, spiega che bisogna
passare direttamente alla vivisezione e che bisogna buttare a mare tutto quel loro
circo teatrale. Uno che legge Galeno, un altro che stacca la milza e la tira fuori
dalla pancia, e l’ultimo che la mostra al pubblico con una bacchettina: è tutto
inutile, tutto privo di efficacia. Se non si manipola, se non si osserva nulla, se si
continua a voler restare nell’atmosfera ovattata della lettura tenuta dal professore
con tanto di berretto, non impariamo nulla. E se non impariamo nulla, quando
andiamo a operare, il paziente che vorremmo curare, finisce che lo mandiamo ad
patres.
Lo studente Vesalio chiede di prendere le cose in mano: vuole essere lui
stesso a manipolare, e a far vedere, quindi a far conoscere. Inoltra la richiesta,
ma, naturalmente, il decano della facoltà non è d’accordo. Il prosector Jean
Gonthier d’Andernach, però, crede nel proprio allievo e riesce a convincere le
autorità. Vesalio tiene così la sua lezione di anatomia in pubblico. La storia non
ha conservato la data esatta, però, sapendo che è nato nel 1514, e sapendo che i
suoi studi li ha compiuti attorno ai vent’anni, diciamo che siamo negli anni
Trenta del Cinquecento. Sono gli anni in cui Descartes scrive le sue Regole per
la guida dell’intelligenza. In quest’occasione, è Vesalio a condurre le operazioni:
lui stesso ad aprire il corpo, lui stesso a mostrare gli organi, lui stesso a
esaminarli e a commentarli. Certo, ha letto Galeno e tutti gli altri, però, tra sé e il
reale, non mette più nessuna biblioteca. Sta di fatto che conquista il pubblico e,
quindi, lo si lascia continuare.
Vesalio critica la medicina libresca e mette in causa la maniera in cui i testi
del corpus medico vengono composti partendo dalla tradizione medievale araba;
denuncia il ruolo di Paolo di Egina, l’autore che, nel VII secolo, aveva riunito
vari testi di Galeno compilati nel corso del tempo nei sette libri del suo Trattato
di medicina; e punta il dito sul ruolo nefasto svolto dall’autorità medievale di
Avicenna nella propagazione di tutto questo materiale didattico scorretto.
Parallelamente, mentre lavora alle edizioni critiche dei testi della medicina
antica e medievale, continua a dissezionare corpi all’università di Padova, dove
viene nominato professore.
Dietro richiesta degli studenti di Bologna, il 15 gennaio del 1540, Andrea
Vesalio si misura con il proprio rivale Matteo Corti. Ognuno deve praticare delle
dissezioni; e, come in un duello, saranno gli studenti a fare da arbitri. Lo scontro
si svolge, appunto, a Bologna, nella chiesa di San Francesco. Attorno alla tavola
su cui Vesalio opera, vengono sistemate quattro file di gradini. A sua
disposizione ha una scimmia, sei cani, alcuni animali più piccoli e tre cadaveri
umani. Con tutto questo materiale sotto mano, si mette a illustrare le differenze
più notevoli tra la scimmia e l’uomo. E anche a spiegare come Galeno non abbia
probabilmente lavorato su esseri umani, ma si sia probabilmente accontentato di
bertucce.
Vesalio chiama Corti direttamente in causa di fronte ai suoi studenti. Descrive
l’inserzione di un muscolo addominale e interroga il proprio avversario, il quale
risponde ricorrendo all’autorità di Galeno. Vesalio l’umilia con una lezione che
fa crollare tanto Galeno che Corti, obbligando quest’ultimo ad abbandonare la
chiesa, seguìto dalla propria combriccola. Applausi degli studenti, strepiti e grida
di giubilo nella casa di Dio trasformata in una sala operatoria per cadaveri. Gli
studenti, per ringraziarlo, vanno al cimitero a recuperare il corpo di un prete
appena inumato, approfittandone per mettere assieme un carico d’ossa: quelle di
un neonato, quelle di un novantenne e quelle di un uomo nel fiore degli anni.
Vesalio usa questo cumulo d’ossa per fare delle comparazioni, e porre le basi di
una pratica allora ancora sconosciuta: l’osteologia comparata. Mette uno accanto
all’altro lo scheletro del prete e quello di una scimmia – non so se Darwin fosse
a conoscenza di questo episodio, sembra davvero una battuta…

Nel 1543, cioè nello stesso anno in cui Copernico firma il suo De revolutionibus
orbium coelestium, Vesalio pubblica il De humani corporis fabrica. Già il
frontespizio è una dichiarazione filosofica, il discorso sul metodo di Vesalio. La
scena si svolge in un anfiteatro circolare di cui scorgiamo sette colonne corinzie.
Dobbiamo vedere un riferimento alle sette colonne della casa della saggezza
ricordate nel libro dei Proverbi (9, 1), e corrispondenti, a loro volta, alle sette
qualità della saggezza celeste («pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di
misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera», Giac 3, 17), riportate in
questo caso a un soggetto tutto terreno? A inquadrare il nome dell’autore e il
titolo del libro, sotto lo scudo con tre donnole che rappresenta lo stemma di
Vesalio, c’è un cartiglio barocco fiancheggiato da alcune decorazioni grottesche.
Sono presenti parecchie persone, più di una sessantina. I volti, ai tempi,
dovevano essere sicuramente conosciuti. L’incisore propone una specie di
Scuola di Atene della materia medica. In mezzo al brulicare di tutti questi esseri
viventi, ecco il cadavere di una donna con il ventre aperto. Vesalio ne indica con
l’indice le interiora e più precisamente l’utero. Giusto dietro il corpo della
donna, che giace distesa come una specie di Eva squartata, c’è uno scheletro che
guarda verso il cielo e tiene in mano un bastone. Sembra invocare il cielo, come
faceva Platone nel quadro di Raffaello, mentre Vesalio, come Aristotele, indica
qualcosa che appartiene al qui e ora, ossia gli organi genitali della donna, ossia
ancora ciò che rende possibile la generazione, e che la morte, un giorno, arriverà
sempre e comunque a cancellare. Tutto quello che nasce in quel ventre è
destinato a essere contenuto dentro lo scheletro, il quale, quasi implorando,
sembra ora osservare il cielo sgombro, o, meglio, svuotato.
Alla domanda «Da dove viene l’uomo?» o «Che cosa possiamo dire della
fabbrica dell’uomo?», Vesalio risponde indicando con il dito l’utero di una
donna. Questo gesto, che non ricorda tanto l’indice di Platone teso verso il cielo
quanto il palmo della mano di Aristotele girato verso terra, scongiura
probabilmente nel modo migliore possibile e in silenzio la trascendenza, a tutto
profitto dell’immanenza. Qui e ora, ecco che l’anatomia sostituisce la teologia.
Su questo frontespizio, gli storici della medicina riescono a identificare alcuni
anatomisti dell’epoca. Sono presenti detrattori di Galeno come Colombo,
Falloppio (il medico che ha dato il nome alle famose trombe), Rondelet e
Ingrassia, e ci sono suoi sostenitori come Paracelso, Sylvius e l’ex insegnante di
Vesalio, Gonthier d’Andernach. Da qualche parte troviamo anche Avicenna e al-
Rāzī, accanto a editori come Aldo Manuzio e Johannes Oporinus, cui si deve la
pubblicazione del libro stesso. Aggiungiamo, in questa piccola folla, anche
Tiziano e il sindaco di Padova.
La scena si compone, a sua volta, di altre scene. Dei due uomini che occupano
gli angoli inferiori dell’opera, quello a sinistra ha una scimmia sulla spalla e
quello a destra tiene fermo un cane per il collo, e sono probabilmente i
prosectores che stanno prendendo gli animali per la vivisezione. Ai piedi della
tavola, altri due uomini stanno preparando gli strumenti chirurgici: uno affila il
bisturi, e l’altro gli sta parlando. A sinistra, nella parte centrale dell’incisione, ci
sono un biondino che legge un libro e un monaco avvolto dal saio nero;
immaginiamo che questo sia il gruppo dei difensori di Galeno, perché,
ovviamente, non stanno guardando quello che Vesalio sta mostrando, cioè
l’utero della donna (cioè ancora il luogo immanente della fabbrica dell’uomo
che cancella ogni genealogia trascendente), ma stanno leggendo i libri attraverso
la cui lente osservano il mondo.
Nelle quasi settecento pagine che formano questo grosso volume e nelle
duecentosettantasette tavole silografiche incise probabilmente dall’allievo di
Tiziano Jan Stephan van Calcar che lo accompagnano, il morto viene mostrato
come se fosse vivo. Il morto si ritrova come vestito dallo scheletro e viene
rappresentato appoggiato sopra un piedistallo, come si usava in Antichità, in
mezzo a un paesaggio di rovine romane, insomma uno scenario classico. Una
volta è appeso davanti a un muro, un’altra volta se ne sta davanti al proprio
sarcofago, un’altra volta ancora è in meditazione a cospetto di… un cranio,
mentre, nel frattempo, un altro gli sta di fronte apparentemente in lacrime per il
dolore; c’è una serie di écorchés: uno con tutti i muscoli, un altro con tutti i
nervi, un altro ancora con tutti i vasi sanguigni e le vene, un altro ancora che si
porta dietro la sua pelle flaccida e cadente.
In questo libro importantissimo per l’Occidente, Vesalio ci parla del corpo
umano: ossa, cartilagini, articolazioni, vertebre, denti, mandibole, sterni,
clavicole, muscoli, sistema circolatorio, vene, aorte, arterie, unghie, cartilagini
del volto, midollo spinale, organi digestivi, organi addominali, organi genitali,
organi intratoracici, cervelli, «corpi pineali», organi sensoriali, cuori e
movimenti cardiaci. Non una parola sull’anima o su qualche cosa che le si
avvicina… Vesalio laicizza con innocenza il corpo degli uomini, lo scristianizza
senza alzare troppo la voce, e lo materializza abbozzandone le forme.
Nel sesto capitolo, Vesalio parla della vivisezione: «Non è difficile prendere
una tavola qualunque, su cui siano stati realizzati dei buchi in modo da poter
tenere legati gli arti, oppure, se non ci sono buchi, mettere rapidamente sotto la
tavola due bastoni e attaccarceli. Per il resto, bisogna soprattutto tener conto
della mascella superiore e stare attenti che sia saldamente fissata sulla tavola,
cosa che riuscirete a fare fissando una piccola catena o una solida corda sulla
parte anteriore dei canini e attaccando l’altro capo a un anello qualsiasi sulla
tavola, o a un piccolo buco o altrove, come giudicherete più comodo, in maniera
che il collo sia tirato indietro e la testa tenuta immobile». Preferiva aprire delle
femmine di maiale piuttosto che dei cani, perché questi ultimi urlavano più di
tutti gli altri animali.
In questa boccata d’aria per la vivisezione, scrive: «Nell’esame del cervello e
delle sue parti, non c’è veramente nulla da vedere per il tramite della
vivisezione, dal momento che qui, lo vogliamo o no, per rispetto nei confronti
dei teologi del nostro paese, noi dobbiamo rifiutare agli animali privi di ragione
la memoria, il ragionamento e la riflessione, anche se la struttura del loro
cervello è la stessa di quella dell’uomo» [corsivi miei].
E poi: «Ma come il cervello compia la propria funzione nel campo
dell’immaginazione, del ragionamento, del pensiero e della memoria (o in
qualunque maniera desideriate suddividere o nominare i poteri dell’anima
sovrana in funzione di questa o quell’altra dottrina), io non lo posso
comprendere in maniera per me soddisfacente» (VII). In altre parole, per rispetto
nei confronti dei teologi del proprio paese, Vesalio preferisce non dire niente.
Prudenza ammirevole. Però è fin troppo facile capire che se fosse stato
d’accordo con le favole cristiane dell’anima immateriale, eterna e immortale,
non avrebbe certo mancato di farcelo sapere. Il credente Ambroise Paré, per
esempio, consacra un lungo passaggio della propria opera proprio a discutere
dell’anima e ad associarla a Dio.
Capitolo quarto
Una certa ghiandola assai piccola
Localizzare l’anima

Con la stessa prudenza, Vesalio affronta il problema dell’uomo come creatura


da attribuire a Dio, al Creatore o… alla Natura! L’utero inciso della donna tiene
il posto di Dio nella genealogia dell’uomo. Meno prudente, o, diciamo, più
imprudente, Vesalio poteva concludere, rischiando di urtare i teologi del suo
paese, che l’anima non era suscettibile di essere mostrata o vista. Ai suoi
studenti, era solito raccomandare: «Toccate voi stessi, con le vostre mani, e
abbiate fiducia in loro» [corsivo mio]. Chi avrebbe mai potuto immaginare che
un giorno l’anima la si sarebbe potuta toccare con mano? In questo momento,
nessuno.
Dobbiamo a Pierre Dionis, chirurgo di Luigi XIV che insegna la propria arte ai
Giardini del Re, la descrizione di una lezione di anatomia e tutta una serie di
dettagli sull’apertura di un cranio. Per uno che fa il filosofo, si tratta di una
specie di visita guidata alla sua azienda privata. Leggiamo in extenso come se
stessimo assistendo a tutta la scena:
L’operatore sceglierà la lama a forma di coltello oppure quella a forma di bisturi, e praticherà
un’incisione longitudinale sulla testa partendo dalla radice del naso e arrivando alla nuca del
collo; una seconda incisione trasversale verrà effettuata da un orecchio all’altro, in modo da
tagliare il cuoio capelluto e il pericranio, perché è necessario che la lama dello strumento risalga
fino al cranio e formi con le due incisioni una croce sulla sommità del capo. In seguito l’operatore
solleverà le quattro parti ottenute e le staccherà dal cranio, e queste, ricadendo verso il basso,
lasceranno il suddetto cranio scoperto. A questo punto, appoggerà la sega sull’osso frontale in una
zona molto vicina all’arcata sopracciliare e comincerà a tagliarlo, facendo tener ferma la testa da
un inserviente perché non si muova. Nel corso dell’intervento, l’operatore sposterà un po’ alla
volta la sega prima verso uno dei lobi temporali e successivamente verso l’altro. Terminato il
taglio, si farà rigirare il corpo per compiere la stessa operazione sull’osso occipitale.

Dionis continua:
Una volta tagliata l’intera circonferenza del cranio, si prenderà lo strumento elevatore e s’infilerà
uno dei suoi capi nel solco aperto dalla sega, allo scopo di staccare eventuali escrescenze ossee
che la sega non sarà riuscita a eliminare del tutto. Se non ci si riesce con l’elevatore, se ne verrà a
capo con l’altro strumento a forma di punta, che ha più forza. Trattasi di strumento realizzato
appositamente per questo scopo, perché permette di inserire la parte piatta nell’apertura creata
dalla sega e, sforzando con la mano a destra e a sinistra, di staccare quello che prima non si
riusciva a staccare. Il successo dell’operazione è accompagnato dal rumore che fa l’osso quando
si spezza. A questo punto, si fa scivolare lo strumento a forma di grande spatola con il manico tra
il cranio e la duramadre, e si procede a separare i filamenti che lo tengono attaccato ai punti di
sutura.

E alla fine:
Una volta tolto il cranio, lo si sistema a fianco della testa per metterci dentro i pezzi di cervello
mano a mano che li si taglia. […] Esaminata per bene la parete interna, si rimette tutta la materia
al suo posto e, dopo averla richiusa nel cranio, si prendono ago e filo e si ricuciono i quattro
angoli del cuoio capelluto che erano stati sollevati, per ricoprire la calotta cranica e risistemare
tutto nel suo luogo ordinario.75

S’incide, si taglia, si trancia, si scarta, si sega e si fende l’osso che rimane


attaccato e scricchiola; poi si comincia a rompere e a separare, e si estrae la
calotta cranica, si seziona la materia cerebrale in parti, la si osserva, si rimettono
dentro al loro posto i pezzi, si ricuce e si ottiene un’exploded view della testa,
«vista» e «toccata», sempre per rimanere alle parole di Montaigne. Dionis non
parla degli odori, perché la materia grigia non emana nessun odore: se qualche
volta puzza, è solo a causa delle sue secrezioni mentali e intellettuali.
E cosa si vede?
Ambroise Paré vede le opere complete di Aristotele e i commenti che si sono
aggiunti nel corso dei secoli! In effetti, quando parla dell’anima, Paré non è
come Vesalio, ossia circospetto per prudenza, cieco per precauzione e innocente
per timore. Vede chiaramente con il proprio bisturi che «l’anima è uno spirito
divino, invisibile e immortale che si diffonde in tutte le parti del corpo, uno
spirito infuso, senza nessuna qualità procreatice genitale, dalla potenza di Dio
Creatore quando le membra del bambino sono già formate nell’utero materno:
quindi al quarantesimo giorno per il maschio e al cinquantesimo per la femmina,
a volte prima e a volte dopo». E così i teologi non vanno a fare le pulci alle idee
di Ambroise. Precisa, il nostro: «Tuttavia, nel momento in cui l’anima viene
infusa, non può produrre o espletare le proprie funzioni e operazioni perché gli
organi o strumenti non sono ancora in grado di servirle. Con il tempo, man mano
che questi organi si perfezionano e man mano che il corpo si sviluppa, anche
l’anima comincia a manifestarsi. Capita, però, che a volte gli organi possano
essere malformati fin dall’inizio, come, per esempio, quando la testa si presenta
a punta; è il caso di Triboulet e di Tenin che erano naturalmente pazzi perché i
ventricoli del cervello e gli altri organi si trovavano così compressi che l’anima
non poteva muoversi». L’anima e il corpo intrattengono tra loro un rapporto
intimo nello spazio e nel tempo. Se un organo si ritrova compresso nello spazio,
l’anima che vi alloggia non potrà esercitare le proprie funzioni nel tempo. Il
cranio appuntito di Triboulet, di professione giullare di corte, spiega la
sregolatezza della sua anima. Se qualcuno mangia male, beve troppo, soffre di
febbre o patisce qualche azione brutale da parte dell’ostetrica, della madre o
della nutrice, eccolo pronto a trasformarsi in Triboulet.
Ovviamente, a distribuire i talenti, oltre all’ostetrica, alla madre e alla nutrice,
Ambroise Paré convoca l’Altissimo. Dio produce dei Triboulet quando vuole,
come vuole e se vuole. E non ha bisogno di dare dei colpi veri e propri alla testa.
È lui a creare il contadino o l’uomo di fatica, il signore o il manovale,
l’individuo raffinato o il personaggio volgare. Cercare di sapere quello che vuole
Dio significa cacciarsi nei guai. Il chirurgo ha letto la Genesi, e sa che voler
sapere significa peccare, e peccare porta all’inferno. Si accontenta quindi di
osservare e di raccontare quello che vede, sostiene.
Solo che quello che vede è soprattutto quello che gli hanno detto di vedere:
«L’anima fornisce al corpo vita e movimento quando è a lui unita; diventa il
ricettacolo dell’illuminazione divina, perché, grazie alla sua presenza, il corpo
viene creato dalla potenza di Dio, che non è corporale, e non muore; l’anima è
uno spirito invisibile, diffuso in tutte le parti del corpo, e, in ciascuna di queste
sue parti, si trova intera. Quest’anima infinita non può essere un corpo. Proprio
come in lei si trovano luoghi diversi senza che occupino alcuno spazio, allo
stesso modo, senza cambiare dislocazione, lei stessa si trova in mille posti
diversi, e non nella successione temporale o degli intervalli, ma spesso nello
stesso momento». A seconda che serva a questo o a quel proposito, l’anima
viene chiamata ragione, spirito, pensiero, coraggio nell’azione, sensibilità…
Permette di sentire, di muoversi, di vivere, di volere e di intendere. Quando
disserta sull’anima vegetativa, sull’anima sensitiva, sull’anima razionale e
intellettuale, Ambroise Paré si smarca da Aristotele, ma continua comunque a
rientrare nel numero di quelle autorità che Vesalio intende superare. I suoi
ragionamenti sul senso comune, sull’immaginazione, sulla ragione e sulla
memoria non hanno nulla a che vedere con le osservazioni di un chirurgo, solo
con le sue letture.
Nella sua analisi, Ambroise Paré, che ha visto tanti corpi squartati sui campi
di battaglia e tanti uomini morire per il sangue perso a causa delle ferite
provocate dalle armi, richiama il legame tra anima e corpo, la loro «unione». La
vita è l’instaurazione di questo legame e la morte, il suo scioglimento; Dio è
padrone di questa operazione di unione, e il chirurgo fa solo quello che può.
Ambroise Paré è famoso per aver detto, a proposito di un malato che aveva
salvato: «Io l’ho curato, ma Dio l’ha guarito».
Più di qualsiasi altra persona, il chirurgo deve poter porre la domanda sulla
modalità di questo legame che unisce l’anima al corpo: quando e in che modo si
dà unione e poi scioglimento nel corpo? Per prudenza, Andrea Vesalio evita il
problema; Ambroise Paré, invece, lo risolve cristianamente. Occorrerà uscire
dalle facoltà di medicina per affrontare la questione con gli strumenti concettuali
e materiali del chirurgo e del filosofo, e convocare René Descartes, il quale
viviseziona e pensa allo stesso tempo.

Descartes soffre per il fatto di essere schiacciato dalla sua stessa reputazione.
Esiste il Descartes degli esami di maturità, ridotto al Discorso sul metodo, un
testo di cui ci si dimentica sempre in che condizioni è stato scritto e il cui ruolo
viene sempre limitato a quello di manifesto prerivoluzionario che inventa la
ragione laica e traghetta direttamente al 1789. Così facendo, però, si confonde
Descartes con i cartesianesimi, che sono stati numerosi e, ovviamente,
contraddittori. Basti pensare alla radicalità materialista di Regius,
all’occasionalismo dell’oratoriano Malebranche, al panteismo del marrano
Spinoza, all’ateismo antispecista dell’abate Meslier, e via di seguito.
Descartes non è solo l’epistemologo della ragione moderna, ma è anche un
filosofo esistenziale che pensa per vivere, cioè per vivere bene e per vivere
meglio. Vorrebbe poter svolgere il proprio lavoro non contro Dio, ma senza di
lui, dopo aver stabilito con chiarezza e una volta per tutte che occorre sempre e
comunque obbedire «alla religione del proprio re e della propria balia» – cioè,
chiaramente, al cattolicesimo romano. Fornisce prove dell’esistenza di Dio,
legge gli atti dei concili per conoscere i dogmi della Chiesa e non infrangerli, e
cerca di mantenere assieme la dottrina della transustanziazione e la propria
filosofia.
Il suo Discorso sul metodo è, di fatto, l’esposizione del metodo da lui stesso
impiegato, e non gli sarebbe mai venuto in mente di pensare che sarebbe potuto
diventare il metodo impiegato da tutti gli altri, addirittura a livello nazionale! È
un semplice testo introduttivo ai suoi altri libri della Diottrica, delle Meteore e
della Geometria, tutte opere scientifiche. All’epoca, il Discorso non è niente di
più.
Descartes scrive in francese come Montaigne. Questo suo carattere di
emulazione nei confronti dell’autore dei Saggi viene fin troppo spesso
trascurato. Il suo progetto è di essere letto da tutti quanti, non solo dagli
intellettuali che giurano in latino. Quindi non esclusivamente all’indirizzo dei
dottori della Sorbona, ma, come scrive il 22 febbraio del 1638 a padre Antoine
Vatier, perché «anche le donne potessero intendere qualcosa»76 del suo pensiero.
La sua intenzione non è di bruciare Aristotele e di rinnegare la scolastica;
semplicemente vuole mostrare come si possa pensare il mondo senza dover per
forza ricorrere alla loro autorità. È il mondo, l’oggetto che Descartes si mette in
testa di pensare. Leggendo la sua corrispondenza, che è il cantiere in cui il suo
pensiero, giorno dopo giorno, lettera dopo lettera, si forma, vediamo che a
preoccuparlo non è il cogito, che fa tanto (o faceva tanto…) soffrire gli studenti
all’ultimo anno di liceo, ma una intera folla di soggetti. Come impedire ai camini
di fumare? Perché, una volta che il pesce è cotto, possiamo toccare il fondo del
paiolo senza scottarci? Dopo la transustanziazione, il peso dell’ostia cambia? Per
quale ragione la neve è tanto chiara di notte? Come ci spieghiamo la corona che
circonda la fiamma di una candela? Che cosa possiamo dire delle macchie
solari? Cosa possiamo dire del suono che fa la pallottola di un moschetto? E
della forma dei cristalli di neve? E della vita delle piante in giardino? E come
galleggia una fetta di pane sull’acqua? Cosa possiamo pensare dei flussi marini?
E della luminosità delle stelle? E della velocità con cui si ghiaccia l’acqua
salata? Come si propaga l’eco? Come possiamo spiegare la forza d’attrazione
degli astri? Come possiamo spiegare la luminescenza delle lucciole? E i colori
dell’arcobaleno? E cosa possiamo dire della relazione tra caldo e luce? Che cosa
succede quando l’acqua viene filtrata attraverso un pezzo di stoffa? Il pensatore
si adopera alla sperimentazione. E si domanda, per esempio, come si possa
spiegare la «fecondità d’un chicco di grano, dopo che è stato immerso nel sangue
o nel letame».77 Pesa l’aria… E fa la stessa cosa con il midollo del sambuco,
constatando che è quattro o cinque volte meno pesante dell’oro. Batte colpi su
dei pezzi di legno di sambuco e su dei pezzi di legno di abete per scoprire se
conducono il suono meglio del rame… Descartes trionfa da vero e proprio uomo
della libido sciendi: i meccanismi della ragione gli interessano tanto quanto
quelli delle maree…
A padre Marin Mersenne, che è stato suo compagno di studi al collegio di La
Flèche, scrive: «a proposito di qualsiasi cosa che riguardi la natura, ma
principalmente di ciò che è universale e che tutti possono sperimentare: di ciò
soltanto ho iniziato a trattare. Infatti, per quanto riguarda le esperienze particolari
che si basano sulla testimonianza di qualcuno, non la farei mai finita e sono
deciso a non parlarne affatto».78 E qual è il suo soggetto? L’universale che
ognuno di noi può sperimentare.
E l’universale che esprime in primo luogo è la vecchiaia. Non l’idea platonica
della vecchiaia, non la categoria aristotelica della vecchiaia, e neppure il discorso
ciceroniano sulla vecchiaia. La vecchiaia non è un soggetto di disputa filosofica,
ma una preoccupazione pratica, esistenziale. In Descartes questa preoccupazione
si manifesta in maniera assolutamente particolare. Lo riporta anche il suo primo
biografo, padre Adrien Baillet, nella sua Vita di monsieur Descartes (1691),
raccontando della comparsa di alcuni capelli bianchi sulle tempie del filosofo,
all’età di quarantatré anni! A Costantin Huygens, Descartes scrive: «I peli
bianchi che si affrettano a spuntarmi mi avvertono che non devo più occuparmi
di altro che dei modi per ritardarli. È ciò di cui mi occupo ora, e cerco di supplire
con l’ingegnosità il difetto delle esperienze che mi mancano, per la qual cosa ho
tanto bisogno di tutto il mio tempo che ho preso la decisione di impiegarlo tutto,
e ho perfino relegato il mio Mondo ben lontano da qui, per non avere la
tentazione di finire di metterlo in bella copia».79
Descartes ha avuto una figlia da una domestica di casa, ma Francine muore a
cinque anni, dopo che la madre se n’era già andata tredici mesi dopo la sua
nascita. Da bambino, Descartes era gracile e magrolino, ed essendo di salute
malferma, ottiene dalle autorità del collegio gesuita di poter restare a letto sotto
le coperte per tutta la mattina, un’abitudine che conserverà per il resto della sua
vita – lavora quindi sdraiato e certi giorni può arrivare a passare a letto anche
dodici ore di fila. Porta una parrucca per ragioni di salute e, alla carne, confessa
di preferire la verdura. È questo insomma l’uomo che decide di occuparsi della
«scienza del vivere bene», come scrive Baillet.
Descartes lo sa, lo ha vissuto in prima persona, lo vive in prima persona e lo
pensa: la salute è il più grande dei tesori, e lui, a questo progetto, intende
consacrarsi. A Mersenne, che gli racconta della patologia dermatologica che lo
affligge, una erisipela, Descartes scrive il 15 gennaio del 1630 spiegando in cosa
consista il proprio oggetto principale di studio: «una medicina che sia fondata su
dimostrazioni infallibili, cosa che sto cercando attualmente».80
Sette anni più tardi, nelle ultime righe del Discorso, troppo spesso
dimenticate, scrive: «non voglio parlare qui in modo particolare dei progressi
che spero di fare in futuro nelle scienze, né impegnarmi verso il pubblico con
alcuna promessa che non sono sicuro di poter soddisfare: ma dirò solo che ho
stabilito di impiegare il tempo che mi resta da vivere solo a tentare di acquisire
una conoscenza della natura che sia tale da poterne trarre delle regole per la
medicina più sicure di quelle avute sinora; e che la mia inclinazione mi allontana
talmente da ogni altro proposito, principalmente da quelli che riuscirebbero utili
ad alcuni solo nuocendo ad altri, che, se qualche circostanza mi costringesse ad
impegnarmi in essi, non credo riuscirei a venirne a capo».81 Siamo nel 1637, e
Descartes morirà nel 1650: gli restano quindi tredici anni per portare a termine il
proprio progetto.
Come arrivare a queste «regole per la medicina»? Ovviamente, attraverso
l’osservazione. Il Discorso sul metodo spiega come Descartes sia giunto a delle
prime verità che non abbiano niente a che fare con la fede e con la religione e
c’entrino invece unicamente con la ragione e con la filosofia. Dubbio metodico,
quindi, e successivo scioglimento di questo stesso dubbio grazie alla
constatazione che non si può dubitare di tutto, in particolare del fatto che si
dubiti (una cosa che, per parte mia, mi lascia assolutamente nel dubbio, ma
questa è un’altra storia…). Eccola, la prima certezza ottenuta: si pensa; e la
seconda, che ne discende direttamente: si è. Riconosciamo qui tutti quanti il
famoso cogito ergo sum, «penso, dunque sono».
Si tratta di uno sguardo su di sé, di uno sguardo dentro di sé, di un’operazione
introspettiva che mette fuori gioco tutto il sapere libresco. Non c’è più bisogno
della Bibbia o della Città di Dio di Agostino, non c’è più bisogno del libro delle
Categorie di Aristotele o della Somma Teologica di Tommaso d’Aquino per
sapere che cosa pensare del mondo, delle cose, del reale e dell’uomo: una
ragione ben guidata all’interno dei meandri più profondi dell’essere riesce a far
venire a galla questa prima verità, e cioè che l’uomo è perché pensa. Siamo alla
fondazione dell’ontologia cartesiana.
Ma per fondare la medicina cartesiana, invece, come fare? Semplicemente,
osservando non più delle anime che pensano, come nella tradizione ontologica
precedente, ma dei corpi che vivono, che sono infatti quelli descritti nel trattato
su L’uomo. E per osservare bene, che cosa c’è di meglio se non aprire corpi?
Nella sua biografia, Baillet racconta che Descartes viviseziona animali morti
ma anche animali vivi. Il filosofo lo spiega a Mersenne: ha vivisezionato la testa
di un montone,82 l’occhio di un bue,83 alcuni giovani vitelli,84 delle rane,85 delle
mucche e dei polli.86
Al corrispondente, scrive: «una volta, infatti, ho fatto uccidere una vacca,
della quale sapevo che aveva concepito poco tempo prima, proprio per vederne il
frutto. Ed essendo venuto a conoscenza, in seguito, che i macellai di questo
paese spesso ne uccidono di gravide, sono riuscito a farmi consegnare più di una
dozzina di ventri nei quali c’erano dei vitellini, alcuni grandi come sorci, altri
come ratti, altri come cagnolini, nei quali ho potuto osservare molte più cose che
nei pulcini, dato che gli organi sono più grandi e più visibili».87 Viviseziona non
solo pesci e conigli vivi, ma anche cani, e lo scopo è di esaminare come funziona
la circolazione cardiaca.88
A proposito della vivisezione di un cane di cui voleva osservare il mesentere,
Descartes scrive a padre Mersenne: «ho osservato che le budella dei cani aperti
da vivi hanno un movimento regolato quasi come quello della respirazione».89
Nel quinto discorso della Diottrica, Descartes analizza la questione della
formazione delle immagini sul fondo dell’occhio. Rimanda alle osservazioni
fatte sull’«occhio di un uomo morto da poco, o, in mancanza, quello di un bue o
di qualche altro grosso animale»90 – seguono i dettagli pratici dell’esame
autoptico. Un’altra volta, il filosofo racconta di una lezione di anatomia tenutasi
a Leida tre anni prima, cioè nel 1637, l’anno stesso della pubblicazione del
Discorso, in cui si era messo a cercare la ghiandola pineale, ossia il luogo
deputato al legame tra anima e corpo nel cervello. Descartes lavora quindi su
corpi umani, e non si accontenta di leggere Vesalio, cosa attestata da una lettera
a Mersenne (Lettera 65).
Sulle vivisezioni, Descartes scrive a Mersenne il 20 febbraio del 1639 che si
tratta di «un esercizio in cui, da undici anni, [si è] cimentato spesso»;91 e
aggiunge: «credo non vi sia medico che vi abbia guardato così da vicino come
me».92 Poi scrive anche queste parole, non prive di un certo interesse per la
questione dell’anima: «Ma non vi ho trovato nessuna cosa di cui non pensi di
poter spiegare in dettaglio la formazione per mezzo delle cause naturali, allo
stesso modo in cui ho spiegato quella di un grano di sale o quella di una piccola
stella di neve nelle mie Meteore. E se mi accingessi a ricominciare il mio
Mondo, dove ho supposto il corpo di un animale tutto formato e mi sono
accontentato di mostrarne le funzioni, indicherei anche le cause della sua
formazione e della sua nascita. Ma, pur sapendo questo, non so ancora
abbastanza da poter guarire anche solamente una febbre. Penso, infatti, di
conoscere l’animale in generale, che non vi è affatto soggetto, e non ancora
l’uomo in particolare, che vi è soggetto».93 Quello che vuole dire è che più di un
decennio di vivisezioni su animali morti e vivi non gli ha consentito di dedurre
l’uomo dall’animale, e ancora meno di arrivare a delle certezze dal punto di vista
medico e farmaceutico. Come per dire che aprire corpi non basta a svelare il
mistero, il funzionamento e le anomalie del vivente. Nonostante questo, però, il
bisturi può raccontare molto sul corpo dell’uomo, e può permetterci di ricavare
qualche informazione anche sull’anima.
In occasione della dissezione del cadavere di una donna a Leida, Descartes
mette in relazione la ghiandola pineale, detta anche conarium, con la fisiologia
del cervello:
Non troverei strano che dissezionando i letargici si trovasse che la ghiandola conarium è corrotta,
giacché essa si corrompe con la stessa grandissima velocità in tutti gli altri. Tre anni fa, a Leida,
volendola vedere in una donna che veniva dissezionata, nonostante la cercassi molto
accuratamente e sapessi molto bene dove dovesse essere, abituato com’ero a trovarla negli
animali appena uccisi senza nessuna difficoltà, mi è stato tuttavia impossibile riconoscerla. Un
vecchio professore che eseguiva la dissezione, di nome Valcher, mi confessava che non aveva
mai potuto vederla in un corpo umano. Ciò credo dipenda dal fatto che comunemente impiegano
qualche giorno a vedere gli intestini e le altre parti, prima di aprire la testa.94

E qui supponiamo che il filosofo, che sembra essersi dato spesso da fare per
cercare la ghiandola pineale tra le pieghe del cervello, sia costretto a constatare
la difficoltà di reperirla a causa del tempo che intercorre tra il momento della
morte e quello dell’operazione di analisi autoptica. Questa ghiandola sarebbe
quindi particolarmente corruttibile per ragioni d’ordine fisiologico. Descartes si
rende in effetti conto che la ghiandola pineale, altrimenti detta epifisi, è irrigata
soltanto da piccole arterie ed è fragile, altamente deteriorabile.
In questa ghiandola, Descartes colloca ciò che sembra necessario alla
memoria, «specialmente negli animali bruti, e in coloro che hanno la mente
rozza».95 E continua:
Quanto agli altri, mi sembra, infatti, che non avrebbero la facilità che hanno a immaginare
un’infinità di cose che non hanno mai visto, se la loro anima non fosse unita a qualche parte del
cervello più adatta a ricevere ogni tipo di nuove impressioni e, conseguentemente, molto inadatta
a conservarle. Ora, non c’è che questa sola ghiandola cui l’anima possa essere così unita; perché
non v’è che essa solamente, in tutta la testa, a non-essere doppia. Credo, però, che sia tutto il resto
del cervello a servire di più alla memoria, principalmente le sue parti interne, così come a ciò
possono servire tutti i nervi e i muscoli; di modo che, per esempio, un suonatore di liuto ha una
parte della sua memoria nelle mani; infatti, la facilità nel piegare e nel disporre le dita in maniere
diverse, che ha acquisito per abitudine, aiuta a fargli ricordare i passaggi per la cui esecuzione
deve disporle in un certo modo.96

Per Descartes ci sono quindi due tipi di memoria: una che dipende dal corpo, e
un’altra, intellettuale, che dipende solo dall’anima.
Il filosofo oppone una sostanza estesa a una sostanza pensante. Dalla parte
della sostanza estesa c’è il corpo divisibile, corruttibile e mortale, e la materia
comune all’uomo e all’animale; dalla parte della sostanza pensante c’è invece
l’anima indivisibile, incorruttibile e immortale, e comune solo a Dio e agli esseri
umani. «Che cosa sono io, allora?» si chiede nella seconda delle Meditazioni.
Risposta: «una cosa pensante».97
Fin dalle prime righe del trattato su L’uomo, Descartes scrive: «Suppongo che
il corpo non sia altra cosa se non una statua o una macchina di terra, che Dio
forma di proposito per renderla quanto più possibile simile a noi, di modo che
non solo le dia all’esterno il colore e la figura delle nostre membra, ma anche
che ponga all’interno tutti i pezzi che sono richiesti per far sì che cammini,
mangi, respiri e, infine, imiti tutte le nostre funzioni che si immagina possano
procedere dalla materia e dipendere dalla sola disposizione degli organi».98 Sono
righe, queste, che costituiscono quasi l’origine filologica della teoria dell’uomo-
macchina, che così tanto affascina i sostenitori contemporanei del
transumanesimo.
Aggiunge il nostro filosofo: «Vediamo orologi, fontane artificiali, mulini e
altre macchine simili che, pur essendo fatte da uomini, non per questo non hanno
la forza di muoversi da sé stesse in molti diversi modi; e mi sembra che non
saprei immaginare tante specie di movimenti in questa che suppongo essere fatta
dalle mani di Dio, né attribuirle tanti artifici, che voi non abbiate motivo di
pensare che ne possa avere ancora di più».99
Descartes comincia allora a descrivere il corpo umano come se si trattasse di
una macchina: una macchina per mangiare, una macchina per digerire, una
macchina per respirare, una macchina per sentire, una macchina per gustare, una
macchina per toccare, una macchina per vedere, una macchina per desiderare,
ma anche una macchina per pensare, per memorizzare, per giudicare e per
produrre delle idee. A un certo punto, ricorre alla metafora della fontana: gli
spiriti animali circolano nei nervi e i muscoli li azionano come fa l’acqua che
passa nei tubi e aziona le molle e i meccanismi della fontana; in altri passi,
paragona la macchina del corpo a un organo.
Ci sarebbe piaciuto leggere quello che Descartes aveva da dire sulla questione,
annunciata fin dalle prime righe, dell’anima e del corpo, e soprattutto, sulle
modalità del loro legame. Il trattato è però rimasto incompiuto. A noi, quindi,
sono rimaste solo la statua di terra, la fontana idraulica, le macchine intese come
macchine di macchine, gli organi, i tubi e le molle: un’immagine del corpo nata
da tutte le ore passate dal filosofo a compiere le proprie ricerche autoptiche.
Il corpo aperto ci fornisce informazioni sulla sostanza estesa, su questo siamo
d’accordo. Che cosa dire però della sostanza pensante? Apriamo le Passioni
dell’anima per scoprire cosa pensa Descartes delle modalità con cui corpo e
anima sono legati tra loro:
Benché l’anima sia unita a tutto il corpo, c’è nondimeno in esso una qualche parte nella quale
esercita le sue funzioni più particolarmente che in tutte le altre. E si crede in genere che questa
parte sia il cervello, o forse il cuore: il cervello in quanto è a esso che si riferiscono gli organi di
senso, e il cuore in quanto è come se in esso si sentissero le passioni. Ma, esaminando
accuratamente la cosa, mi sembra di aver riconosciuto con evidenza che la parte del corpo nella
quale l’anima esercita immediatamente le sue funzioni non è affatto il cuore, e neppure l’intero
cervello, ma solamente la sua parte più interna, che è una certa ghiandola assai piccola, situata nel
mezzo della sostanza cerebrale e sospesa al di sopra del condotto attraverso il quale gli spiriti
delle cavità anteriori entrano in comunicazione con quelli della cavità posteriore, in modo tale che
i più piccoli movimenti che avvengono in essa possono cambiare molto il corso di questi spiriti, e
reciprocamente i più piccoli cambiamenti che accadono nel corso degli spiriti possono fare molto
per cambiare i movimenti di tale ghiandola [corsivo mio].100

L’analisi di questa «certa ghiandola assai piccola»,101 presentata come «la


sede principale dell’anima»,102 apre una nuova era nella filosofia occidentale: è
il demonio materialista che entra nel castello idealista passando dal camino!
Descartes lo dichiara con chiarezza: «l’anima non può avere in tutto il corpo
altro luogo al di fuori di questa ghiandola dove esercitare immediatamente le sue
funzioni» [corsivo mio].103 Il filosofo crede di poter portare le prove di quello
che sostiene presentando le osservazioni accumulate nel corso delle proprie
vivisezioni: quando si taglia un cervello, ma anche quando si osserva un corpo
nella sua interezza, si vede che la simmetria detta legge dappertutto, tranne che
in quest’unico luogo. Due emisferi dell’encefalo, due occhi, due orecchie, due
narici, due gambe, due mani, e così via: però una sola ghiandola pineale. Se i
due occhi che permettono la percezione danno un’unica immagine, è grazie alla
ghiandola pineale che mette in ordine i dati che le giungono. Quello che i due
organi fanno pervenire al cervello diventa una sola percezione grazie alla
mediazione di questa famosa ghiandola, il luogo dell’anima.
Ecco perché Descartes può scrivere:
Concepiamo dunque qui che l’anima ha la sua sede principale nella piccola ghiandola posta nel
mezzo del cervello, da dove essa si irradia in tutto il resto del corpo per il tramite degli spiriti, dei
nervi e dello stesso sangue il quale, partecipando alle impressioni degli spiriti, li può portare
attraverso le arterie verso tutte le membra. Ricordandoci poi di quello che è stato detto sopra a
proposito della macchina del nostro corpo, e cioè che i piccoli filamenti dei nervi sono distribuiti
in tutte le parti del corpo in maniera tale che, in occasione dei diversi movimenti che vi sono
suscitati dagli oggetti sensibili, aprono diversamente i pori del cervello, cosa che fa sì che gli
spiriti animali contenuti nelle sue cavità entrino diversamente nei muscoli, e in questo modo
possono muovere le membra in tutte le diverse maniere in cui è possibile che siano mosse, e
ricordandoci anche che tutte le altre cause che possono muovere diversamente gli spiriti bastano a
condurli nei diversi muscoli, aggiungiamo qui che la piccola ghiandola che è la principale sede
dell’anima è sospesa tra le cavità che contengono questi spiriti in modo tale che può essere mossa
da essi in tanti modi diversi quante sono le differenze sensibili tra gli oggetti. Essa tuttavia può
anche essere mossa diversamente dall’anima, la quale ha una natura tale che può ricevere in sé
stessa tante diverse impressioni, cioè essa ha tante percezioni diverse quanti movimenti diversi si
verificano in tale ghiandola. Come anche, reciprocamente, la macchina del corpo è composta in
maniera tale che, per il solo fatto che questa ghiandola è mossa in modi diversi dall’anima, o da
qualsiasi altra causa vi possa essere, essa spinge gli spiriti che la circondano verso i pori del
cervello che li conducono attraverso i nervi nei muscoli, e per mezzo di ciò essa fa loro muovere
le membra [corsivo mio].104

Dove si scopre che la macchina del corpo è un misto di materia ed energia, di


slanci vitali e dispositivi organici, di sostanza estesa e sostanza pensante, il tutto
legato principalmente, come tiene a sottolineare lo stesso filosofo, all’interno, e
attraverso, la ghiandola pineale.
Uno spirito vivo e curioso, attento e malizioso si fermerebbe probabilmente a
interrogare questo principale e a chiedere a quale accessorio si voglia
rimandare! Se la ghiandola pineale è la sede principale dell’anima, quali sono le
sedi secondarie?
Qui sede «principale» dell’anima, là «unico» luogo dell’anima, e tutto in uno
stesso testo, cioè le Passioni dell’anima. Decisamente, la ghiandola pineale
sembra creare più problemi di quanti non ne risolva! È comprensibile che un
uomo che crede in Dio e si preoccupa di fornire prove della sua esistenza; un
uomo che conduce una vita solitaria fuori dalla Francia e lontana da Parigi,
lontana da tutto, in modo da evitare persecuzioni e condanne dalla Chiesa come
era successo a Galileo ai suoi tempi; un uomo che non dava mai il proprio
indirizzo e che cambiava casa spesso e con regolarità; un uomo che ha scelto
come proprio motto l’espressione: Larvatus prodeo, «avanzo mascherato»;105 un
uomo che legge i documenti dei concili per evitare di pensare infrangendo i
capisaldi del cattolicesimo e che infarcisce le proprie lettere di segnali di
sottomissione all’ordine costituito, Sorbona e gesuiti compresi; un uomo che fa
tutte queste cose pur cercando di non mollare mai la preda sul piano filosofico;
un uomo che pubblica anonimamente e che prende in considerazione il fatto di
farsi pubblicare solo dopo la morte; è comprensibile, insomma, che un uomo del
genere si possa voler muovere con estrema prudenza: affermare che l’anima
immateriale si trovi in un luogo materiale, oltre al fatto di essere una
contraddizione, significa aprire la porta a un monismo di stampo abderitano,
atomista, materialista ed epicureo, e porterebbe sicuramente a passare qualche
guaio con il Vaticano! L’anima immateriale, se è davvero immateriale, non può
trovarsi in un luogo materiale, non può essere localizzabile, non la si può
staccare dal corpo con un bisturi. Ma allora, a cosa potrebbe assomigliare
l’anima immateriale, vista dal punto di vista della lama del chirurgo intento alla
vivisezione?
La questione alimenta parecchie polemiche su Descartes e sul cartesianesimo.
Si tratta, in effetti, di una posta in gioco della massima importanza, non tanto per
la storia della filosofia in generale, idealista e spiritualista, quanto per la
religione cattolica, che ha bisogno di un’anima immateriale totalmente
indipendente dalla materia, opposta addirittura alla materia, per giustificare il
proprio dispositivo di punizione e ricompensa delle anime dopo la morte, in
occasione del Giudizio universale.

Ai suoi tempi, Descartes ha parecchi nemici: si scrive molto contro di lui, e si


pubblicano tutta una quantità di libri che lo trattano male quando lui è ancora in
vita. L’attacco ad hominem fa parte dei sistemi usati da quel tipo di persone.
Viene ricordata la storia d’amore con la domestica, Helena, da cui ha avuto una
bambina, Francine, e ci si scandalizza che abbiano vissuto tutti e tre assieme
finché anche la bambina non è morta, probabilmente a causa della scarlattina,
all’età di cinque anni, il 7 settembre del 1640. Descartes soffre molto per questa
scomparsa.
È stato facile utilizzare questa parte della sua vita privata per presentarlo come
un libertino, tanto più che anche la sua gioventù andava in quel senso. Il suo
biografo, Adrien Baillet, di professione parroco, sostiene la tesi della debolezza
della carne redenta dalla morte della bambina… E oltretutto, incredibili dicerie
corrono sul fatto che Descartes fosse talmente ossessionato dalla vivisezione che
avrebbe approfittato persino della morte di Francine per sottoporla al lavoro del
bisturi – una cosa che, per raddoppiamento dell’infamia, il nonno del filosofo,
Pierre Descartes, avrebbe lui stesso praticato a suo tempo su suo padre!
Attorno a questo lutto, si crea una leggenda: Descartes si sarebbe costruito una
piccola bambola meccanica che gli ricordava l’esistenza della figlia perduta.
Alcuni trasformano addirittura questo automa in un oggetto sessuale. Nel 1699,
nei suoi Mélanges d’histoire et de littérature, Bonaventure d’Argonne sostiene
che questo automa è un’invenzione dei detrattori del filosofo. E perché il
giocattolo non è mai stato ritrovato? Perché, alcuni hanno sostenuto, il capitano
di una nave che attraversava il mare d’Olanda, incuriosito dalle dicerie a
proposito del baule in cui si trovava l’automa, l’avrebbe aperto e, spaventato
dall’aspetto diabolico di quello che aveva davanti, l’avrebbe buttato a mare!
Anche padre Poisson, oratoriano, evitando la polemica e l’attacco personale,
afferma che Descartes si sarebbe costruito da solo degli automi: «Volendo
verificare per esperienza quello che pensava dell’anima delle bestie, si era
inventato una piccola macchina a forma di uomo che ballava sulla corda e che,
con cento piccoli gesti, imitava con relativa naturalezza tutte le mosse che fanno
le persone che volteggiano in aria. Concepisce anche una colomba capace di
volare. Però, sicuramente, la più ingegnosa delle sue macchine rimane una
pernice artificiale che uno spaniel fa alzare in volo. Non so se si sia poi dato la
pena di investire soldi per realizzare il disegno, che ho visto, però la descrizione
che fa di questo piccolo automa non sembra così complicata da escluderlo».106
Non sappiamo se Descartes abbia voluto costruire questi automi con le proprie
mani… Di sicuro, dimostra di esserne grandemente affascinato. Abbiamo già
visto come abbia tirato in ballo la «statua o […] macchina di terra»,107 o come
abbia più volte paragonato il funzionamento del corpo umano a quello di un
organo, o di un orologio, o di un meccanismo idraulico. In una lettera a
Mersenne, scrive: «Si può certo fare una macchina che si sostiene in aria come
un uccello, metafisicamente parlando; infatti gli stessi uccelli, almeno secondo
me, sono macchine simili; ma non fisicamente o moralmente parlando, poiché
servirebbero dei congegni così sottili e insieme così forti che non potrebbero
essere fabbricati da uomini».108
Ricordiamo anche quello che sostiene nella seconda Meditazione: «Se non
fosse che ho appena volto lo sguardo, dalla finestra, su degli uomini che
camminano per strada, ed anche essi dico di vederli, come abitualmente dico di
vedere la cera. Che cosa vedo, però, oltre i cappelli e i vestiti sotto cui
potrebbero nascondersi automi? Eppure, giudico che sono uomini. E così quel
che ritenevo di vedere con gli occhi lo comprendo con la sola facoltà di
giudicare, la quale è nella mia mente».109 Il che non gli impedisce di proseguire
nella stessa direzione. Questa predilezione sembra molto antica, se già, come ci
informa Baillet, in un testo giovanile intitolato Spiegazione dei congegni, il
nostro autore si trova a dissertare sull’anima delle bestie e sugli automi.
Capitolo quinto
Il cartesianesimo contro Descartes
Circoscrivere lo spirito

Descartes apre la porta a una rivoluzione antropologica. Anche se lo fa senza


immaginarselo, rende comunque possibile una rivoluzione ontologica e
filosofica. Lui che, nel Discorso sul metodo, ci invita a «renderci in tal modo
come signori e possessori della natura»110 non poteva immaginarsi che la sua
ipotesi di ghiandola pineale apriva l’orizzonte del postumano e del
transumanesimo e perimetrava il dominio più che millenario del pensiero
cristiano.
La prudenza di Descartes è rimasta leggendaria. Ma era davvero fondata? O non
era forse eccessiva e un po’ patologica? Difficile rispondere in maniera netta,
visto come si sono ingarbugliate le diverse vicende. Vale forse la pena di
ricordare che, per le loro idee, Giordano Bruno sale sul rogo a Campo de’ Fiori,
a Roma, nell’anno 1600, Vanini si fa strappare la lingua, strangolare e bruciare a
Tolosa nel 1619, e Galileo viene condannato dall’Inquisizione e assegnato a
soggiorno coatto nel 1633. C’è di che temperare gli ardori più accesi.
Nella sua corrispondenza con Mersenne, Descartes torna molte volte sulla
condanna di Galileo. Ed è tenendo conto dei guai passati dall’autore del Dialogo
sopra i due massimi sistemi del mondo che decide di rinunciare alla
pubblicazione dei propri lavori scientifici. Riflettendo sulle sfortune
dell’astronomo italiano, scrive: «mi sono quasi deciso a bruciare tutte le mie
carte o, almeno, a non lasciarle vedere a nessuno».111 E continua: «per niente al
mondo, vorrei che da me uscisse un discorso in cui si trovasse la minima parola
che fosse disapprovata dalla Chiesa, preferisco allora sopprimere il mio trattato
piuttosto che farlo uscire storpiato».112 Insomma, coraggioso, ma non temerario.
Nelle lettere che scrive a Henricus Regius, Descartes non fa altro che invitare
il proprio interlocutore alla prudenza: bisogna tenersi buoni gli uomini che
gestiscono il potere, la Sorbona, i teologi, i cristiani, il Vaticano. Per come la
vede, si dovrebbero persino evitare gli screzi con le autorità della città di
Utrecht. Ovviamente, non al prezzo di affermare il contrario di quello che uno
pensa, ma semplicemente formulando le cose con sufficiente circospezione e
precauzione da fare in modo che gli uomini che gestiscono il potere non ci
trovino niente da ridire. Se Descartes rappresenta la Francia, come si è parecchio
sostenuto da Victor Cousin in poi, va anche sottolineato come spessissimo sia
stato anche l’uomo dell’inerzia, cosa che non va mai disgiunta da una certa dose
di codardia. Al contrario, per esempio, di Montaigne che, un secolo prima, nel
bel mezzo delle guerre di religione, non si lascia mai andare a ipocrisie di questo
genere.

Affrontiamo ora il dibattito che normalmente viene ricordato come querelle di


Utrecht.
Henricus Regius è un medico olandese nato e morto a Utrecht – lo
conosciamo anche sotto il nome francesizzato di Henri Le Roy. È medico, ma
insegna anche medicina e botanica all’università della sua città. Corrisponde con
Descartes e comincia la propria carriera da alleato del filosofo; la prosegue però
da avversario, e la termina da vero e proprio nemico. Duella in effetti contro di
lui su questioni riguardanti la natura sostanziale dell’anima, le idee innate e il
legame accidentale dell’anima con il corpo. Nella Sacra famiglia, Marx ed
Engels scrivono che è questo sconosciuto pensatore a fondare la filosofia
materialista francese. E questo già ci permette di capire come sia potuto accadere
che la tradizione filosofica riuscisse a trascurare un uomo comunque importante
per la storia della filosofia francese, una specie di anello mancante tra la filosofia
cartesiana, idealista e compatibile con il cristianesimo, e la filosofia materialista,
i cui assunti atomisti si rivelano inconciliabili con gli insegnamenti della Chiesa
cattolica. E, in effetti, che cosa possiamo pensare della possibilità di un qualche
rapporto tra anima immateriale, quindi suscettibile di castigo o di salvezza, e
dottrina atomista, secondo la quale esistono solo atomi? Che cosa possiamo
pensare dell’eucaristia se, nel pane dell’ostia e nel vino del calice, finiamo per
ritrovarci solo particelle atomiche? Che cosa dobbiamo pensare della Parusia e
del Giudizio universale, che vedono come protagonisti corpi gloriosi, ossia
smaterializzati per principio? Che cosa dobbiamo pensare del paradiso e
dell’inferno, governati da leggi che sfuggono alla filosofia abderitana?
All’epoca di Descartes, dissertare sulla natura dell’anima e sull’anima degli
animali, sulle modalità di unione tra anima e corpo, sul carattere sostanziale
dell’anima o accidentale dell’unione, e farlo giostrandosi con il vocabolario
della scolastica zavorrato da (mettiamola così) mille anni di onesti e leali servigi,
significa parlare di qualcosa di più della schiuma delle cose: significa voler
orientare in maniera diversa la lama di fondo dell’ontologia dominante, significa
voler deviare il flusso idealista e spiritualista, significa voler cambiare il corso
del fiume cristiano. La verità, però, è che il Vaticano veglia sulla continuità
dell’Azienda.
Regius, olandese di formazione e protestante, insegna il pensiero del cattolico
Descartes; i Paesi Bassi sono calvinisti, e il pastore Gisbertus Voetius attacca
Regius, Descartes e il cartesianesimo. Quello che viene detto, raccontato,
riportato e pubblicato fa nascere una polemica meglio conosciuta come la
querelle di Utrecht.
Adrien Baillet, nella sua biografia del filosofo francese, ci descrive Descartes
come un ottimo spadaccino, addirittura autore in gioventù di un Trattato di
scherma, perfettamente in grado insomma di sguainare la spada quando, su una
nave, due malviventi si mettono d’accordo in olandese, lingua che Descartes
conosce, per spogliarlo dei suoi beni e buttarlo a mare. Ecco, nonostante tutto,
ciò che il nostro filosofo più di ogni altra cosa ama è il non farsi notare, e per
riuscire nell’intento è pronto a qualsiasi sacrificio, persino a trattenere il proprio
pensiero per paura che possa essere male accolto. Preferisce la tranquillità del
proprio essere vivo all’audacia di un pensiero che gli sopravvivrebbe di sicuro
ma gli costerebbe la morte. Così, non potendo sondare il cuore e il fegato
dell’autore del Discorso sul metodo, non sappiamo fin dove sarebbe stato pronto
a pensare. Quello che invece sappiamo è che Regius si spinge oltre.

La corrispondenza tra Descartes e Regius ci mostra l’evoluzione della loro


relazione. All’inizio, lavorano a stretto contatto sulla correzione dei manoscritti
(punti, virgole, errori d’ortografia), sugli aggiustamenti delle formule e sulle
ricerche sperimentali. Per esempio, durante uno scambio a proposito della
circolazione sanguigna, e più in particolare su quello che distingue le vene lattee
da quelle mesenteriche, Descartes scrive a Regius: «Alla prima occasione le
cercheremo insieme in un cane vivo».113
Ma già all’inizio di questi loro scambi, Descartes si rende conto di dover
frenare il proprio pupillo: «Tutta la nostra controversia sull’anima triplice è più
sui nomi che sulle cose. Ma innanzitutto, poiché ad un cattolico romano non è
lecito affermare che l’anima nell’uomo è triplice e poiché temo si imputi a me
quel che ponete nelle vostre tesi, preferirei vi asteneste da questo modo di
parlare» [corsivi miei].114 È chiaro che qui non si tratta solo di una questione di
nomi, che non sono tanto la forma o la formulazione a essere messe in
discussione, ma proprio i fondamenti stessi. Descartes si legge scrupolosamente
e si studia per bene gli atti dei concili, per capire quello che può e quello che non
può dire, quello che è autorizzato a pensare e quello che invece non è autorizzato
a pensare. Regius, invece, non si fa di questi problemi: è protestante, e non si
sente tenuto a chiedere ai papisti quello che pensano loro per sapere quello che
lui può a sua volta pensare.
Regius pubblica le proprie tesi e ci mette anche il nome di Descartes.
Reazione del filosofo:
Di certo non posso lamentarmi della benevolenza vostra […] perché avete voluto premettere il
mio nome alle vostre Tesi; ma neppure so come debba ringraziarvi. Vedo soltanto che mi si
impone una nuova fatica, giacché si crederà che le mie opinioni non differiscano dalle vostre e
soprattutto che in futuro non potrò sottrarmi con scuse al dovere di difendere con tutte le forze
quel che avete asserito; perciò dovrò esaminare ancor più diligentemente quel che mi avete
inviato da leggere, affinché non mi sfugga qualcosa che non condivido [corsivo mio].115

E riprende la questione dell’anima tripla: «questa proposizione nella mia


religione è un’eresia».116 Descartes difende la posizione dell’anima una e unica:
«Nell’uomo vi è un’unica anima, quella razionale».117
Descartes afferma che la sede delle passioni si trova nel cuore, mentre Regius
la colloca nel cervello: «sono tra coloro che negano che l’uomo intenda con il
corpo».118 L’olandese è convinto del contrario e sostiene che il corpo e l’anima
si trovano legati accidentalmente. Descartes controbatte che la loro unione è
naturale, che la natura del corpo è proprio quella di essere legata all’anima e che
il corpo umano non si può dire tale senza l’anima. Gli scambi ci mostrano come,
in effetti, Descartes si muova all’interno di un idealismo pienamente dualista e
spiritualista: per conoscere le cose immateriali, il corpo non serve a nulla, serve
solo l’immaterialità stessa dell’anima. Regius, invece, non crede assolutamente
di poter fare a meno del corpo per conoscere qualsiasi cosa, anima compresa.
Descartes guarda indietro, Regius in avanti.
I toni si alzano in una lettera datata fine gennaio del 1642. Descartes riceve un
ospite che gli racconta tutta la storia dell’affare di Utrecht. E a Regius scrive
quanto quelle cose gli diano fastidio: «vi dovete astenere per qualche tempo da
dispute pubbliche e […] dovete prestare la massima attenzione a non irritare
nessuno contro di voi pronunciando parole troppo dure. Vorrei anche e
soprattutto che non proponeste nessuna nuova opinione ma che, mantenute solo
nominalmente le vecchie, vi apportaste solo nuove ragioni: nessuno potrebbe
biasimarvi per questo; e coloro che le capissero correttamente, automaticamente
concluderebbero quel che volete sia inteso».119
Descartes suggerisce la prudenza intellettuale:
Così, ad esempio, quale necessità avete di respingere apertamente le forme sostanziali e le qualità
reali? Non ricordate forse che io nelle Meteore […] ho dichiarato nel modo più esplicito che esse
in nessun modo erano respinte o negate, ma solo non richieste per spiegare le mie ragioni? Se
aveste seguìto la medesima via, nessuno dei vostri allievi le avrebbe accettate, essendosi resi
conto che sono inutili, e non sareste incorso in tanta invidia da parte dei vostri colleghi. Ma quel
che è fatto non può esser disfatto. Ora si deve aver cura di difendere, il più pacatamente possibile,
tutto quel che avete proposto di vero e, se vi è sfuggito qualcosa di meno vero o anche solo
qualcosa detto in maniera meno appropriata, di correggerlo senza nessuna ostinazione, stimando
che non vi è nulla di più lodevole, in un filosofo, che la spontanea confessione dei propri errori.
120

Descartes rimprovera a Regius di sostenere che «l’uomo è un essere per


accidente», un’affermazione incomprensibile per chi non disponga di
conoscenze scolastiche adeguate. E si mette, allora, a correggere davvero le
bozze al proprio discepolo:
È molto meglio […] riconoscere apertamente di non aver inteso correttamente questo termine
della scuola, piuttosto che dissimulare malamente; sicché, per quanto abbiate di fatto la stessa
opinione degli altri, ve ne siete allontanato solo nelle parole. Ovunque se ne presenti l’occasione,
sia in privato sia in pubblico, dovete dichiarare di credere che l’uomo è un vero ente per sé e non
per accidente, e che la mente è unita al corpo realmente e sostanzialmente: non per situazione o
disposizione, come affermate nel vostro ultimo scritto (questo è daccapo soggetto a biasimo e, a
mio giudizio, non vero), bensì per vera unione, quale comunemente tutti riconoscono, benché
nessuno spieghi quale essa sia e, quindi, non siate neppure voi tenuto a farlo. Potete tuttavia
spiegarla, come ho fatto io nella Metafisica, in questo modo: percepiamo che la sensazione del
dolore, e tutte le altre, non sono puri pensieri della mente distinta dal corpo, bensì confuse
percezioni di essa che al corpo è realmente unita.121

Descartes accusa il proprio interlocutore di essere confuso, poco preciso e


radicale. Lo invita a rispondere all’appendice ai Corollari teologico-filosofici
che Voetius gli ha consacrato, anche perché crede che, di rimando, colpisca
anche lui. Il filosofo si augura che il proprio allievo voglia esporsi, sostenere i
colpi e deviare in questo modo le frecce ormai scagliate che, altrimenti, finiranno
per colpire lui.
L’Appendice si presenta sotto forma di relazione in nove tesi. Innanzitutto,
l’occasione è ghiotta per mettere in piedi un festival delle categorie scolastiche:
cause prime e cause seconde, sostanza e attributo, forma informante e forma
assistente, essenza, eidos, entelechia – non ci viene risparmiato nulla.
Il processo contro i cartesiani sembra qui trasformarsi in una specie di
battaglia degli Antichi contro i Moderni, combattuta tra chi chiede ai libri, e più
in particolare alle Scritture e ai testi dei Padri della Chiesa, di raccontare il
mondo e chi si richiama invece all’esperienza per cercare di afferrarne la natura.
La questione di Voetius è la seguente: i propositi dei moderni sono compatibili
con quello che insegnano le Scritture? Perché, e qui apprezziamo il rigore
epistemologico della dimostrazione, «il vero si accorda al vero»!122
Per Voetius, le forme sostanziali attualizzano il corpo umano e formano
assieme a lui un unico composto; per Regius, invece, e dietro Regius dobbiamo
leggere Descartes, l’uomo è composto da una sostanza estesa, il corpo, e da una
sostanza pensante, l’anima, e queste due sostanze sono collegate tra loro dalla
ghiandola pineale, la cui funzione intermediaria è comprovata dal fatto di essere
l’unico organo non duplice del cervello – un bell’ostacolo epistemologico per la
conoscenza scientifica, detto per inciso… Comunque, Voetius scrive: «L’uomo
costituisce un’unica specie di sostanza e di animale, essendo creato a partire da
un’anima e da un corpo, in modo da formare una sola essenza o natura» (Settima
Tesi).123 Seguono citazioni dalla Genesi e dalla prima lettera ai Corinzi. Per
l’autore del Discorso sul metodo, l’uomo è «uno» per accidente, mentre per
Voetius lo è per essenza, per natura, per creazione e quindi per definizione – è
questa la punta di diamante della sua Ottava Tesi. Eccola, la posta in gioco!
Ed è una posta in gioco importantissima, perché è tutto il seguito
dell’avventura filosofica occidentale che ci si sta giocando qui. Voetius può
certo scrivere che, se si cancella l’essenza del cane, la materia di cui è composto
non smette per questo motivo di essere, perché è la sua forma a costituire il suo
essere, e la sua forma non può né nascere né perire, e senza di essa diventerebbe
un non-essere (Terza Tesi). Descartes sta, però, già su un altro pianeta, e la sua
preoccupazione non riguarda nemmeno più l’essenza o l’essere del cane, quanto
il modo per portarlo su una tavola di legno e condurre a buon fine la vivisezione,
che è l’unica cosa che gli può parlare dell’essere del cane.
Lottare contro le forme sostanziali significa aprire la porta alla materia delle
cose e del mondo, cioè al carattere tangibile del reale. E significa inoltrarsi su
una strada in cui l’anima finisce anche lei per diventare materiale: in fondo a
questo percorso, la sostanza pensante diventa una sola e unica sostanza estesa, e
la ghiandola pineale si trasforma semplicemente nell’epifisi. Regius ci mette
poco a passare il Rubicone, e se lo fa è ovviamente contro lo stesso Descartes,
che continua a lavorare sotto lo sguardo non del Dio dei filosofi, ma del Dio di
Abramo e di Giacobbe. Può benissimo continuare a rovistare nel ventre di una
scrofa gravida, ma continuerà a non trovarci niente che possa dispiacere al Dio
del suo re e della sua nutrice. È probabile che, se, per caso, il suo bisturi
scoprisse un giorno un qualche organo incompatibile con la serie delle finzioni
cattoliche, di sicuro non direbbe nulla della scoperta, per la propria tranquillità.
Non si sbaglia, Voetius, quando scrive: «Se i giovani, con tutta la loro
imprudenza, si ostineranno a voler sbagliare strada e seguire questo cattivo e
vizioso pifferaio nel sovvertire e deridere tutta la filosofia sana e modesta, il
risultato sarà certamente che finiranno come animali o come atei» (Quarta Tesi)
124. Dietro questi «giovani» che si sbagliano di strada ci sono naturalmente
proprio gli studenti di Regius, e, menzionando il «cattivo e vizioso pifferaio», si
allude con ogni evidenza a Regius stesso, senza peraltro cancellare il sospetto
che l’epiteto possa riferirsi anche a Descartes; infine, «la filosofia sana e
modesta» qui citata non può essere altro che la scolastica medievale – la quale,
in questa occasione, sembra comunque perdere un pochino della sua tradizionale
stabilità, dopo mille anni di servizio…
Nella sua perorazione, Voetius scrive:
Ecco, a mo’ di supplemento, alcune note sull’invenzione, sulla costituzione e sull’accrescimento
delle scienze. a) Il fatto di non voler beneficiare delle cose già inventate e costituite, e, al loro
posto, di volerle inventare di nuovo o di cercarne delle altre, porta solo a moltiplicare gli esseri
senza necessità e a fare ingiuria al proprio intelletto e alla scienza. Perché l’arte è lunga, la vita
breve e l’esperienza ingannevole. b) Nei corsi all’Accademia, gli studenti non si occupano
dell’osservazione e delle esperienze, ma sono affascinati soprattutto dalle novità. Come
Aristotele, preferirei uno studente istruito ma che non ha fatto mai esperienza a uno studente che
tale esperienza l’ha fatta, ma non sia istruito. Invero, se l’esperienza potesse essere aggiunta come
supplemento alla dottrina, che è la cosa principale (come succede da noi), giudicherei questa
Accademia come un luogo dove si riunisce tutto ciò che è meglio. Ingannevole e inutile è quel
metodo che, volendo inventare e costituire le scienze, porta, al contrario, a disimparare,
dimenticare, ricusare e, per così dire, sconfessare tutti i dogmi che da tanti secoli sono stati
esaminati e comprovati dal coro universale degli scienziati attraverso esperienze nuove e ripetute
e scambi acutissimi di argomentazioni. E tutto nella speranza di trovare da soli (o nella speranza
che altri troveranno) una filosofia nuova e migliore (Nona Tesi).125

In cauda venenum.

Descartes invita Regius a rispondere pubblicamente per evitare di passare per


sconfitto in questa disputa. Gli consiglia però di essere moderato e modesto: non
bisogna correre il rischio di ferire chi l’ha ferito. Allo stesso tempo, però, lo
sprona a essere saldo e definitivo sul piano della teoria e a scegliere
argomentazioni a cui nessuno potrà controbattere. E, siccome chi fa da sé fa per
tre, annuncia: «Presento qui immediatamente il contenuto della risposta, quale io
redigerei se fossi al vostro posto; scriverò in parte in francese ed in parte in
latino, a seconda di come più in fretta mi verranno le parole. Forse se scrivessi
soltanto in latino, voi non vi preoccupereste di cambiare le mie parole e sarebbe
attribuito a voi uno stile troppo incolto».126 Questo «più o meno» viene
argomentato su quasi una decina di pagine…
Il testo scritto da Descartes si rivela essere un modello di servilismo, piaggeria
e ipocrisia, e trasuda prudenza e circonlocuzioni da ogni poro. In pratica,
bisogna difendere le forme sostanziali, e però, allo stesso tempo, sostenere che le
si rispetta senza che di esse ci sia un vero e proprio bisogno, e sapendo che
persino le Scritture le ignorano. Regius fa notare che rispondere all’attacco gli
costerebbe il posto all’università; Descartes si dice consapevole di questa
obiezione: Regius deve in effetti la propria cattedra a Voetius e si trova quindi
nell’obbligo di insegnare quello che vuole il suo padrone – è una maniera
neanche troppo dissimulata di sbarazzarsi del proprio imbarazzante discepolo
per trasformarlo in un turiferario della persona stessa che lo attacca.
Più tardi, nel luglio del 1645, Descartes gli scrive a proposito dei suoi
Fundamenta physices (Fondamenti della fisica):
Ma giunto al capitolo sull’uomo, vi ho trovato quel che pensate della mente umana e di Dio, e non
solo sono stato confermato nel primo convincimento, ma sono rammaricato di aver trasecolato,
sia perché sembrate credere tali cose, sia perché non potete astenervi dallo scriverle e
dall’insegnarle, benché non possano procurarvi nessuna lode bensì sommi pericoli e vituperio.
[…] Se questi scritti cadono nelle mani dei malevoli (come facilmente avverrà, atteso che sono
posseduti da alcuni vostri discepoli), in base ad essi costoro potranno provare, e persino, me
giudice, dimostrare che fate il paio con Voetius, ecc. Inoltre, per non patire le conseguenze, sarò
costretto a dichiarare dappertutto di dissentire da voi quant’altri mai sulle cose metafisiche, ed
anche a testimoniarlo in pubblico per qualche scritto edito.127

La cosa verrà fatta due anni più tardi, nella prefazione alla traduzione francese
dei propri Principi della filosofia. In quelle righe, in pratica, Descartes
abbandona Regius a sé stesso, arrivando a sostenere che se mai era stato un suo
allievo, ora non lo è di certo più. Regius è colpevole, horresco referens, di non
aver fondato la propria fisica su principi metafisici, in altre parole, di non avere
lasciato nessun appiglio ai poteri costituiti – «sono obbligato a sconfessarlo
interamente»…128 Insomma, il cartesianesimo è una filosofia rivoluzionaria, ma
indipendentemente dalla volontà di Descartes!
È così che, basando l’eucaristia su principi di metafisica che fondano la sua
stessa fisica, a furia di superficie del pane e di superficie dell’aria, a furia di aria
che circonda il pane, di pane che non si modifica e di superficie media tra il pane
e l’aria, a furia di corpi che durano, di corpi che cambiano, di corpi tagliati e di
corpi integri, a furia di «corp[i] di Gesù Cristo che si metto[no] al posto del pane
e che occupa[no] lo spazio dell’aria che circonda il pane», a furia di particelle di
pane e di vino che vengono digerite nello stomaco e poi passano nelle vene, il
filosofo arriva a elaborare una specie di transustanziazione naturale; non senza
aggiungere un pizzico di concilio di Trento e una citazione dei propri lavori;
insomma, grande impegno a «evitare le calunnie degli eretici». Al gesuita padre
Mesland vuole spiegare per bene quanto si trovi in accordo con la teoria cattolica
della transustanziazione, ma stando anche bene attento ad aggiungere: «Ma ciò a
condizione che, se lo doveste comunicare ad altri, lo facciate, se non vi dispiace,
senza attribuirmene la paternità, e che anzi non lo comunicherete a nessuno se
riterrete che non sia del tutto conforme a quel che è stato stabilito dalla Chiesa».
129 In queste righe, c’è tutto Descartes. Aggiunge: «Ora, questa
transustanziazione avviene non miracolosamente»130 – ma di certo non senza un
miracolo di sofistica e retorica…

Il potenziale rivoluzionario del cartesianesimo non viene da Descartes, ma da


chi, come Regius, si spinge oltre i pudori teorici e i timori patologici. Per
rendersene conto, basta leggere la Philosophia naturalis di Regius, un’opera che,
già dal 1687 (Descartes è morto da ormai trentasette anni) abbandona la carcassa
della scolastica in cui Descartes si trova ancora costretto.
La Philosophia naturalis enuclea un certo numero di tesi, tra cui questa: «I
sensi, non il cogito ergo sum, sono i principi di ogni conoscenza». Il che
significa propriamente riportare i fondamenti dell’edificio cartesiano sulla Terra,
preferendo una filiazione dal contemporaneo Francis Bacon che fonda quello che
in seguito diventerà il sensualismo filosofico. La verità non è una questione che
riguarda la metafisica o l’ontologia, ma la fisica e la sperimentazione. Descartes
continuava a voler tenere assieme due mondi, quello antico che si fondava su
Dio e quello moderno costruito sul soggetto; i suoi discepoli abbandonano il
mondo vecchio e scelgono risolutamente quello moderno.
Tra le altre tesi di Regius, troviamo: che l’estensione e il pensiero non sono
cose opposte; che lo spirito può essere una modalità del corpo; che lo spirito non
può essere concepito come necessariamente e realmente distinto dal corpo; che
lo spirito dell’uomo è una sostanza; che l’anima ha bisogno degli organi del
corpo per tutto il tempo in cui si trova unita a quest’ultimo; che l’anima si trova
nel cervello e se ne serve; che, appena nati, l’anima è come un pezzo di cera
pronta da modellare; che le idee innate non esistono perché sono tutte formate
dall’osservazione; che il pensiero procede dalle sensazioni, le quali costituiscono
il principio di ogni conoscenza; che questa conoscenza ha bisogno di un cervello
in cui possano essere memorizzate un certo numero di cose necessarie al
pensiero stesso; che non esiste alcuna idea di Dio che Dio ci abbia instillato
dentro, perché le idee in quanto tali ci arrivano per il tramite dell’osservazione.
Siamo costretti a prendere atto che la scolastica non è più tanto necessaria, che la
prudenza non è più tanto d’obbligo e che i compromessi filosofici non hanno o
non hanno più alcun motivo di esistere.
Capitolo sesto
Pensare senza pensare che si pensa
Umanizzare l’animale

C’è una frase della Philosophia naturalis che apre un nuovo mondo nella
storia delle idee: «L’animale, o è un bestia o è un uomo». Se gli animali hanno
un’anima, significa che non c’è più niente che li distingue davvero dagli uomini.
Un animale-macchina ha ormai soltanto bisogno di un’anima per essere un
uomo. L’automa pone domande tanto all’animale che all’uomo. In Regius,
«l’uomo è un animale composto da un corpo e da un’anima», e non più, come in
Descartes, un «essere che pensa». Quando anche l’anima sarà diventata
corporea, allora non ci sarà davvero più niente a tenere separato l’uomo dalla
scimmia.
In virtù del principio che un aneddoto rivela spesso l’essenziale, facciamo anche
noi un bel fischio alla cagna di padre Nicolas de Malebranche, oratoriano,
venerabile autore de La ricerca della verità: ci porteremo a casa una lezione di
filosofia, come ai bei tempi di Diogene il cinico.
La lezione ci arriva tramite Trublet, che, nelle sue Mémoires pour servir à
l’histoire de la vie et des ouvrages de M. de Fontenelle [Memorie per la storia
della vita e delle opere del signore di Fontenelle], pubblicate nel 1759, ci riporta
questa storiella:
Il signore di Fontenelle raccontava che, essendo un giorno andato […] a trovare [Malebranche]
dai padri oratoriani che stavano in rue Saint-Honoré, a un certo punto, una grossa cagna che
viveva in quella casa e che era gravida, entrò nella stanza dove stava passeggiando, e venne ad
accarezzare padre Malebranche, facendo tutta una serie di moine ai suoi piedi. Dopo alcuni
movimenti inutili per cacciarla, il filosofo finì per darle una pedata, facendo strillare lei per il
dolore, e il signore di Fontenelle per la compassione. «Eh, ma come! gli risponde freddo padre
Malebranche, non lo sa che non sente niente?» «Questo racconto, dissi io al signor di Fontenelle
la prima volta che glielo sentii narrare, dipinge in maniera assai precisa padre Malebranche e il
suo intrepido cartesianesimo; ma, aggiunsi io come per una battuta, dipinge allo stesso tempo
anche lei, e prova la sua naturale tendenza alla bontà. È per me fonte di edificazione vedere la
pena che avete provato per la pedata inflitta a quella povera cagna: e come da quel grido di dolore
lei abbia ragionevolmente concluso che quell’animale sentiva, allo stesso modo io concludo dal
suo grido di compassione che anche lei sente. Si dica quel che si vuole: le bestie hanno un’anima,
e anche lei ha un’anima. I fatti lo dimostrano». Al signore di Fontenelle piacque moltissimo
questa battuta e ne rise parecchio.131
Ma una risata è tutto quello che ne possiamo tirare fuori?
La questione dell’anima degli animali è stata centrale nel Seicento, il secolo di
Descartes; e torna ad esserlo oggi per via delle domande che pone all’uomo sulla
propria natura, in tempi in cui la sua stessa definizione tende a vacillare.
L’animale offre uno specchio in cui gli uomini possono vedere riflesso il proprio
volto e interrogare i propri tratti, cercando di rispondere alla domanda: «Che
specie di animale sono io?», oppure: «Che genere di uomo è l’animale?», e
allargando a: «Che cos’è l’uomo?», e: «Che genere di animale è?»
Ricordiamoci di come, nella seconda delle sue Meditazioni, Descartes si
domanda se gli uomini che vede per strada non siano delle macchine, dei
congegni su cui sarebbero stati semplicemente messi dei cappelli! Ora possiamo
cercare di immaginarci come, di fronte agli automi, il filosofo possa rovesciare il
proprio dubbio, o quantomeno prolungarlo, e chiedersi se, dentro tutte queste
macchine con i vari ingranaggi bene in vista, non esista qualcosa che possa
essere definito anima!
Nel ragionamento di quella Meditazione, il problema viene risolto: «Ma che
cosa sono, allora? Una cosa pensante. Ma che cosa è ciò? È una cosa che dubita,
intende, afferma, nega, vuole, non vuole, immagina, inoltre, e sente».132
Qualcuno pronto a questionare (e di questi non ne sono mancati e certo non ne
mancheranno mai), potrebbe ribattere che anche gli animali sono capaci di
pensare, dubitare, concepire, affermare, negare, volere e non volere, immaginare
e sentire! Una cosa che, almeno al momento, gli automi non sanno fare… Tesi
già sostenuta da Montaigne, ricordiamoci l’Apologia di Raymond Sebond.
Per Descartes, l’uomo è composto da un’anima e da un corpo, separati ma
uniti nella e dalla ghiandola pineale, e ha a propria disposizione il linguaggio, la
ragione, l’intelletto e la libertà. L’animale, invece, è un corpo senz’anima, una
sostanza estesa priva di sostanza pensante, senza pensieri, che reagisce solo
istintivamente e dietro stimoli, totalmente determinata. In ultimo, l’automa è un
puro meccanismo privo dell’elemento vivente. L’uomo è più vicino a Dio degli
animali, però gli automi sono per principio esclusi da questa competizione
ontologica.
In una lettera a William Cavendish, marchese di Newcastle, Descartes
assimila gli animali a delle macchine:
Agiscono naturalmente o meccanicamente, come un orologio, il quale indica l’ora molto meglio
di quanto non ce lo insegni il nostro giudizio. E forse quando le rondini arrivano in primavera
agiscono come un orologio. Tutto quello che fanno le api è della stessa natura, così anche l’ordine
che le gru tengono in volo, e quello che osservano le scimmie quando si battono, se è poi vero che
ne osservano uno; e infine l’istinto di seppellire i loro morti non è più strano di quello dei cani e
dei gatti, che grattano la terra per seppellire i loro escrementi, benché non li seppelliscano quasi
mai: il che mostra che lo fanno solo per istinto, senza pensarci.133

Chi potrebbe allora formalizzarsi per un calcio dato a una pendola quando
suona per darci l’ora?
Quindi, se Malebranche si può permettere di riempire di lividi i fianchi della
sua cagna incinta, è perché la letteratura di Descartes lo autorizza a farlo! E non
può essere considerato moralmente responsabile per il fatto di maltrattare gli
animali, non più di quanto lo sarebbe se distruggesse a scarpate un negozio di
orologi della Franca Contea!

Gli attacchi contro Descartes vanno quindi a tutto vantaggio degli animali.
Montaigne, che, un secolo prima, si era spinto molto oltre Descartes, trova post
mortem in questa querelle sull’anima degli animali alcuni inaspettati discepoli.
Per esempio, nel salotto del duca di Liancourt, a rue de Seine, le discussioni
sull’argomento sono vivaci. La filosofia e la teologia sono all’ordine del giorno,
e si discute di Bacon, di Descartes e di Gassendi. Si battaglia attorno agli
averroisti, ai libertini e ai materialisti. Si racconta che il padrone di casa,
giansenista, riceva a volte addirittura La Fontaine e Bossuet. E Clerselier,
l’editore nonché traduttore di Descartes. Di questo libertino passato al campo dei
devoti, gira una storiella edificante sull’argomento che qui ci preoccupa.
Arnauld, il grande personaggio di Port-Royal, «si era convinto del sistema di
Descartes sugli animali, e sosteneva che essi fossero solo degli orologi e che,
quando si lamentavano, erano solo una rotella dell’ingranaggio che faceva un
po’ di rumore. Il signore di Liancourt, gli diceva: ‘Guardi, là ci sono due cani
che girano lo spiedo, alternandosi nei giorni. Una volta, uno dei due si è trovato
indisposto e quando lo vanno a prendere si nasconde. Cercano allora l’altro per
fargli girare la ruota al suo posto. Il compagno si mette allora a fare un sacco di
versi e a muovere la coda perché lo seguissero: e se ne va a stanare l’altro che se
ne sta nascosto in granaio, e lo rimprovera. Secondo lei, sono degli orologi,
questi?’ Il signor Arnauld trovò l’aneddoto molto divertente e non poté fare altro
che riderne».134 Il che, trattandosi dell’austero autore della Logica di Port-Royal,
era già di per sé un’impresa…
Il normanno Fontenelle, che era presente alla famosa scena della pedata data
dall’oratoriano Malebranche, quando se ne ricorda, in una lettera inviata al
signor C., cartesiano, e ripresa nelle sue Lettere galanti, la racconta anche lui in
toni ironici: «Dite voi, che le bestie sono macchine né più, né meno come gli
orologi? Ma mettete una macchina d’un cane, ed una d’una cagna l’una appresso
l’altra, e ne potrà risultare una terza piccola macchinetta: all’incontro due orologi
staranno l’uno appresso l’altro tutta la lor vita senza produr giammai un terzo
orologio. Ora noi, la signora di B… ed io, troviamo che tutte le cose, le quali
essendo due, hanno virtù di farsi tre, sono assai più nobili della pura macchina».
135
I cani che girano lo spiedo per arrostire la carne e gli orologi che vivono uno
accanto all’altro senza procreare avrebbero potuto forse suggerire qualche idea a
Jean de La Fontaine, il quale, comunque, di sue ne aveva già abbastanza. Anche
lui, sovrintendente non zelantissimo alle acque e alle foreste, quando è in abiti
civili, prende parte alla querelle e, ovviamente, si schiera contro il filosofo degli
animali-macchine. Come avrebbe potuto essere altrimenti?
Nel Sermone alla signora de La Sablière che apre il decimo libro della sua
seconda raccolta di Favole, il poeta scrive:
Non vi spiaccia se anch’io, dietro l’esempio,
vado meschiando alle innocenti fiabe
un rigo di sottil filosofia
oggi di moda, molto ardita e piena
di una nuova attrattiva. O forse un suono
ne venne al vostro orecchio?
È la profonda
dottrina che a una macchina riduce
la vita umana e che d’arbitrio sfronda
e di giudizio gli uomini, e non lascia
che un corpo vuoto senza affetto e cuore.
Tal sen vive e con passo egual, ma cieco,
e senza scopo l’oriol cammina,
di ruota in ruota, fin che squilla l’ora
come vuole il congegno. A ciò la Scienza
lo spirito del mondo oggi riduce.
E come l’oriol, dicono i saggi,
l’animal si commuove e va diritto
ove lo spinge l’impression del senso,
non per libero arbitrio, ohibò, ma tratto
dalla necessità dura e impassibile,
che senza voglia pei diversi stati
dell’amor lo trascina e dell’affanno,
della tristezza, del piacer, dei forti
dolori e per le varie altre vicende,
che affetti chiama la volgar sentenza.
Ma voi, gentil, fra l’oriolo e il vostro
cuore assai ben distinguere sapete,
e non vi allaccia dei moderni sofi
la facile dottrina. A noi maestro
è il divino Cartesio, a cui gli antichi
siccome a Nume avrian sacrata un’ara;
Cartesio, che fra gli uomini e i celesti
siede nel mezzo, come stanno in mezzo
tra gli uomini e gli allocchi altri sublimi
e grossi ingegni. A voi così ragiona
quest’alto mio maestro e mio autore…136

Eccellente riassunto della filosofia di René Descartes, eccellente e ironico:


Descartes, descritto come a metà tra un’ostrica e un uomo, con relativa
simpatia…
Poi però si passa alla critica. Ai ragionamenti del filosofo, il favolista oppone
il comportamento di un cervo che, inseguito e messo alle strette, realizza la
situazione di pericolo per la propria vita e s’inventa uno stratagemma riuscendo
a sfuggire alla morte: se proprio non possiamo chiamare questo sforzo una vera e
propria pratica della filosofia, di sicuro potrà essere paragonato all’atto del
pensare. La Fontaine aggiunge poi l’esempio di una pernice che, vedendo i
piccoli in pericolo a causa di un cacciatore, riesce in qualche modo a distogliere
l’attenzione di quest’ultimo; messi al sicuro gli uccellini, vola sotto il naso
dell’uomo e lo umilia. Un altro esempio è quello dei castori che, nel Grande
Nord dove gli uomini vivono ancora in maniera primitiva (come recenti racconti
di viaggio testimoniano), rivelano un talento da impareggiabili ingegneri
costruendo ponti che gli consentono di passare i torrenti in tutta scioltezza. E
infine, cita quegli animali che, come gli fece sapere il re di Polonia (sorridiamo
su questa punta ironica aggiunta a convalida della veridicità di tutta la storia: «un
re non mente mai»), si fanno la guerra alla frontiera con una maestria da far
impallidire gli uomini!
È qual è la lezione di questa favola? Si tratta di una lezione propriamente
filosofica: gli uomini hanno un’anima, gli animali non ce l’hanno, però in
compenso dispongono di un istinto che, a sua volta, presuppone una memoria
materiale, «la memoria [che] al corpo si collega»,137 come scrive La Fontaine.
L’uomo dispone di una «Volontà».138 Un agente («lo Spirito che regge»)139 lo
guida: «un poter dal corpo mio distinto»,140 un «comando arbitro e duce»141 che
guida la macchina. Dio pilota tutto quanto, però non sappiamo come!
La «fiaba» di cui parla il Sermone che apre il decimo libro delle Favole è
intitolata I due Topi, la Volpe e l’Uovo. Si tratta ancora una volta di un esempio
d’intelligenza animale e illustra la tesi indicata nella dedica: due topi trovano un
uovo per la loro cena, solo che a quest’uovo sembra puntare anche una volpe.
Allora «Che fanno i Topi?»142 Uno si mette sulla schiena e si carica l’uovo sulla
pancia, l’altro lo tira per la coda fino a portare il cibo fuori dalla portata della
volpe. «Or voi ditemi adesso / che queste bestie spirito non hanno».143 Per La
Fontaine, i topi dimostrano di possedere le stesse capacità di un bambino,
un’idea propriamente rivoluzionaria perché inserisce il neonato su un percorso
che dall’animale porta all’uomo. E questa dinamica è quella che, nell’Ottocento,
sarà propria di gente del calibro di Ernst Haeckel, che penserà di ricapitolare
tutta la filogenesi nell’ontogenesi. Gli animali possiedono una ragione che, pur
non essendo la nostra, sembra essere qualcosa di più di una «cieca molla».
Con un solo verso («non vediam che pensano e non sanno pur di pensar?»)144
La Fontaine, che non ha mai nascosto di preferire il lupo al cane, regola i conti
con Descartes, il filosofo del cogito, il filosofo per cui solo l’uomo pensa e sa di
pensare: la verità è che possiamo, dice il favolista, pensare senza sapere di
pensare che stiamo pensando. La favola dei due topi, la cui trama riprende quella
delle marmotte della Storia naturale di Plinio, ne dà la prova e la dimostrazione.
E, sotto il segno del condizionale, La Fontaine ricorre anche lui alla creazione di
un automa:
Per me, distillerei qualche sottile
sostanza, assai difficile, Signora,
a concepirsi dalla mente umana,
un’essenza di mònadi, un estratto
di luce pura, un non so che più vivo,
più rapido del foco.
Se dal tronco
nasce la fiamma, e non potrìa la fiamma
chiarificata ancor dare un’idea
dell’anima immortal? E non si vede
splender l’or tra le viscere del piombo?
Con questa essenza io renderei la bestia
atta molto a sentir e un poco ancora
a giudicar, ma non di più, né sempre
questo giudizio in lei, come dimostra
la più dotta bertuccia, è a fil di piombo.
All’Uomo, all’Uomo solo io la potente
forza darei che da ragion deriva,
due volte assai preziosa ove la guardi
sotto duplice aspetto.
Èvvi nell’Uomo
un’anima comune a tutti quanti
sian pazzi o savi, sian fanciulli o vecchi,
tutti animali graziosi e benigni
che con tal nome son ospiti in terra.
Ed èvvi una seconda anima santa
nata a crear l’angelica farfalla,
un divino tesor che Dio dispensa
con parsimonia e che ci porta in cielo
tra le sfere rotanti. Entra e si snoda
senz’angustie quest’anima nei corpi,
e per quanto principio abbia nel tempo,
eterna vive, e non mi sembra assurdo.
Fin che questa del ciel candida figlia
danza nel corpo tenerello, è lume
che poco spande di sua luce intorno;
ma quando è la ragion forte al giudizio,
entra questo divin raggio di mente
per l’universo e la materia penetra,
che sempre involgerà l’altra più rude
anima sensual serva a natura.145

Insomma, lo scrittore di favole mette in piedi, attraverso questa finzione, una


storia demiurgica da cui esce un animale umanizzato e un uomo angelizzato, se
mi si passa il neologismo. Opera una specie di traslazione della relazione
animali-uomini su un altro paradigma, ontologicamente innovatore, quello degli
uomini-angeli.
L’anima è qui «quintessenza di atomi», in altre parole, chiaramente, materia.
Non c’è niente di male a percepire l’influenza di Pierre Gassendi, che, con opere
come Vita e costumi di Epicuro e il Traité de la philosophie d’Épicure [Trattato
della filosofia di Epicuro] (1658), contribuisce a riabilitare Epicuro e
l’epicureismo in pieno Grand Siècle, quando ad andare per la maggiore e a
spartirsi il mercato delle idee cristiane ci sono giansenisti, gesuiti, quietisti e altri
mistici sulla scorta di Pascal. Su Gassendi, torneremo, perché si trova
filosoficamente al punto di svolta tra l’idealismo cristiano (è pur sempre un
canonico di Digne) e il materialismo francese del secolo dei Lumi.
Continuando a non preoccuparsi delle cagne incinte prese a ciabattate dai
parroci, o dei cani che discorrono amabilmente vicino a delle specie di barbecue,
o dei topi che snobbano le volpi, o dei cervi e delle pernici che si fanno beffe dei
cacciatori, o dei castori che dimostrano tutto il loro valore come architetti, o di
vari altri animali che battagliano come persone umane, il rischio è di costruire
un’opera filosofica poco divertente, o almeno di farlo in maniera poco
divertente.
Per esempio, il padre gesuita Ignace Gaston Pardies, con il suo trattato
intitolato Dell’anima delle bestie, e sue funzioni (1672), difende, nell’ambito
della scolastica, l’idea che gli animali abbiano una «cognizione sensibile» e
siano invece privi di «cognizione spirituale».146 Possiedono «un’anima
materiale, capace di cognizione, e sentimento»147 che si trova a metà tra la
materia pura e il pensiero, in altre parole tra la sostanza estesa e la sostanza
pensante.
Pardies rifiuta l’idea che gli animali siano solo delle macchine, o degli
orologi, per riprendere il famoso paragone di Descartes. Contro i cartesiani, dopo
averne esposto gli assunti, scrive:
Qualsivoglia inquietudine, che osserviamo in un Cane, che ha perduto il Padrone, e qualunque
allegrezza, ch’egli faccia apparire, dopo averlo trovato, egli non di meno non ha né contento, né
dispiacere, e non conosce pure il suo padrone, ha gli occhi, e non lo vede, obbedisce la sua voce, e
non la ode, di modo che al veder tutti questi suoi moti, queste sue andate, e venute sì inquiete, i
salti, le carezze, con cui pare, che spiegar voglia la sua allegrezza, non perciò potiamo loro
attribuire maggior passione, o sentimento di quello facciamo a un ago calamitato, quando pare,
che con ansietà ei vada cercando il suo polo, e trovi il suo contento in esso. Di più dicono, che
quando un Cane è ferito, ei non sente dolore, e per quanto miserabili gridi egli faccia, non sono
questi, che un rumore fatto naturalmente dalla macchina del suo corpo, che non dà argomento di
senso, o dolore, più di quello faccia il rumore d’un Tamburo, o d’una Carretta mal unta, onde
male a proposito sono accusati di crudeltà quei, che amazzano le Bestie. Ma per vero dire, egli è
bensì un gran danno a guastar macchine sì meravigliose; ma finalmente non v’è in ciò fare
maggior crudeltà di quella fusse a stracciare una pittura di Raffaele, o a mandare in pezzi
spietatamente qualche altro bel lavoro, o anticaglia. Così quando dopo haver battuta una Bestia,
ella si rivolta, e ci morde, onde noi pensiamo, che ella faccia per colera, o per vendetta ciò, come
erano que’ buoni Popoli di Gnido, che volendo forare il loro istmo, e mettendosi già co’ picconi
all’opera per rompere a gran colpi il masso, o sia la rupe, che separava i due mari, si fermarono
ben tosto, vedendo che i rottami del sasso gli saltavano al viso, e fermamente credendo, che
dispiacesse a quel monte la loro risoluzione, onde cercasse di cavar loro gli occhi per vendetta,
ricorsero all’Oracolo per sapere il modo d’haver la pace da quella pietra, la quale certamente nulla
contra di loro machinava [corsivo mio].148

Un effetto da pensiero magico, diremmo oggi…


Ci stupiamo del fatto che qualcuno come Descartes, qualcuno cioè che
riteneva che «Il buon senso è al mondo la cosa meglio distribuita»,149 tenesse in
così bassa considerazione tutta la questione dell’anima degli animali. Almeno
Pardies, pur essendo un membro della compagnia di Gesù, e pur essendo allo
stesso tempo anche un aristotelico, sembra riuscire ad attivare il buon senso e
pensare il reale per come si presenta, senza dissertare su categorie o su concetti,
solo su quello che vede: un cane è triste perché il suo padrone è lontano, poi lo
ritrova e si rasserena in letizia. In cose di questo genere, un cane che scalpita
ottiene più effetto di qualsiasi dimostrazione filosofeggiante.
In compenso, Pardies è contento di vedere come altri filosofi riconoscano agli
animali, alle piante e anche alle pietre un’attività propria. Perché, a noi uomini,
capita di fare cose senza pensarci, per esempio quando digeriamo quello che
mangiamo, oppure quando respiriamo, oppure ancora quando il sangue circola
nel nostro corpo. Stessa cosa con i riflessi, quando tiriamo via la mano da una
piastra che scotta, o quando chiudiamo gli occhi davanti a un oggetto che
minaccia di entrarci dentro, o quando compiamo un movimento del corpo per
compensare il disequilibrio. Sono tutti comportamenti che non hanno niente a
che fare con la conoscenza o con la volontà. Perché allora dovrebbe essere
necessario, o dovremmo semplicemente volere, che gli animali siano mossi dalla
conoscenza e dalla volontà?
Del resto, basta pensare al fatto che parliamo. Per riuscire a parlare, dobbiamo
controllare tutta una serie di movimenti fisiologici da fare con la lingua, con i
denti, con il palato e con la bocca, e questi movimenti non richiedono nessun
tipo di conoscenza o di volontà da parte nostra. Facciamo fatica a immaginarci
un oratore che stia attento alla posizione della lingua nella propria bocca ogni
volta che pronuncia una sillaba e che contemporaneamente pensi anche a quello
che sta dicendo!
Il gesuita si congratula per tutto l’insieme di cose che permette al suonatore di
liuto di eseguire un brano in maniera corretta: l’incredibile numero di movimenti
precisi che fa con le dita, con le mani e con il polso al momento opportuno e
secondo una successione logica appropriata, è ciò che consente di arrivare a
concatenare gli accordi. La stessa cosa vale per l’usignolo, di cui in primavera
apprezziamo tutti il canto. La verità è che entrambi suonano senza pensare a
quello che stanno suonando. Il concertista non riuscirebbe di sicuro a tenere un
concerto continuando a pensare che sta tenendo un concerto, gli verrebbe male,
sarebbe turbato da tutti questi pensieri parassiti. È, a questo punto, che Pardies
tira in ballo la «cognizione virtuale»150 (un’espressione sconcertante per la sua
attualità, soprattutto se a parlarne è un autore del Grand Siècle), ottenuta grazie a
tutto il tempo passato a imparare la musica. Ovviamente, questa virtualità
appartiene al vocabolario della scolastica aristotelica, e vuole semplicemente
indicare il fatto che la conoscenza è in potenza prima di essere in atto.
Nel musicista, la conoscenza virtuale nasce dalla lunga esperienza, dalla
ripetizione della pratica, e dalla persistenza nell’apprendimento. Nulla vieta che
lo stesso Dio possa essere comunque ritenuto responsabile anche delle
«habituazioni infuse»;151 sembra una cosa assolutamente possibile per chi è in
grado di far parlare agli apostoli delle lingue che non conoscono. A un Dio
capace di tanto, non dovrebbe essere impraticabile la possibilità d’infondere
un’anima anche agli animali. Quelle cose che gli ingegneri dell’Antichità
realizzavano, per esempio la «Colomba artificiale, che volava per l’aria»,152 o la
statua che cantava al sorgere del Sole, o l’automa del satiro che suona il flauto a
una ninfa che ascolta con l’orecchio teso, o ancora quei piccoli uccelli che se ne
stanno tranquilli finché non appare l’automa del granduca e li fa strepitare, Dio,
ovviamente, saprebbe benissimo come ricrearle. Ma, tra la ricostruzione
meccanica di un animale e l’animale vero e proprio, c’è una differenza
fondamentale. Il presupposto è sicuramente che Dio ha tutte le capacità e tutte le
possibilità di creare e riprodurre in maniera perfetta un cane, giusto per fare un
esempio: pelle, pelo, ossa, carne, muscoli, sangue, vene, arterie, cuore,
circolazione, spirito e calore. Fino a qui, però, nessun bisogno di anima o di altre
conoscenze ulteriori perché le varie funzioni della respirazione, della digestione,
e della circolazione sanguigna possano espletarsi. Dio è assolutamente in grado
di costruire una macchina in ogni punto simile all’animale che vuole copiare. La
macchina da lui costruita, però, dovrà essere animata da un «principio vitale, &
interiore»153 senza il quale i tubi e i mantici a nulla servono! Quando tagliamo in
due alcuni animali, certi rettili o certi insetti per esempio, vediamo che le due
metà continuano a esistere separatamente. Pardies confessa di aver lui stesso
praticato questo genere di esperimenti di vivisezione – «né senza dilettazione»,
154 confessa. E sono proprio questi esperimenti che lo portano a concludere che
il vitalismo riguarda non solo gli uomini ma anche gli animali. Riflettiamo. Che
cosa dobbiamo pensare dell’anima in un animale tagliato in due? Si trova in uno
dei due pezzi? In entrambi? Di sicuro, non possiamo dire che non si trova da
nessuna parte, perché il movimento testimonia del contrario, e anima in maniera
simile i diversi tronconi. Si trova quindi da qualche altra parte, altrove rispetto a
ciascuna delle parti tagliate, perché quello che muove queste parti è un riflesso e,
come tale, non presuppone nessuna conoscenza, nessun sentimento, nessuna
percezione.
La stessa cosa, scrive il gesuita, succede negli uomini. Per esempio, è stata
vista la testa tagliata dal corpo di un individuo, che girava lo sguardo, muoveva
le labbra e mordeva la terra dov’era caduta, mostrando collera, dolore o rabbia. E
in tutto questo tempo, il cuore continuava a battere. Pardies avalla queste storie,
ma non quella del viaggiatore che racconta di aver visto in India un ragazzo che
veniva sacrificato e che ha continuato a parlare anche con il petto aperto e il
cuore strappato: «ciò che mi sembra un po’ difficile»,155 tiene a precisare… Eh
no, non gliela si fa.
Contro i libertini che, dopo aver lavorato a rendere sostanziale l’anima, si
occupano ora della sua materializzazione, Pardies combatte il principio
dell’«anima materiale».156 Anticipa le argomentazioni dei libertini e immagina
che cosa potrebbe rispondergli:
Se voi ammetterete una volta, che le Bestie senz’alcun’Anima spirituale siano capaci di pensare,
d’operare per un fine, di ricordarsi il passato, di prevedere il futuro, di profittar dell’esperienza
per la riflessione particolare, che elle vi fanno, perché non direte voi, che gli huomini sono capaci
di esercitar le loro funzioni senz’alcun’Anima spirituale? Le operazioni degli huomini non sono
già altro, che quelle stesse, che voi attribuite alle Bestie, o se pure v’è differenza, non è questa,
che del più, e del meno, onde al più più voi potrete dire, che l’Anima dell’huomo è più perfetta di
quella delle Bestie, perché egli si risovvien meglio del passato, pensa con più riflessione, prevede
con più sicurezza; ma finalmente non potrete mai dire, che l’Anima loro non sia sempre materiale.
157
Notiamo come questo eminente membro della Compagnia di Gesù riesca a
insinuarsi a meraviglia nel cervello e nell’anima di un libertino! È da cose come
questa che si riconosce un perfetto gesuita.
Che cosa risponde, dunque, al libertino che non gli sta domandando niente, se
non per puro esercizio retorico? «Che le Bestie habbiano de’ veri pensieri, e
sentimenti, come noi»158 e che Aristotele, che a questo punto comincia a essere
citato abbondantemente, ci permette di risolvere il problema: al contrario degli
animali, che dispongono solo di una cognizione sensibile e non di una
cognizione spirituale, dato che manca loro l’anima spirituale conferita da Dio,
l’uomo dispone proprio di questa cognizione intellettuale. Diciamolo in altri
termini: solo l’uomo pensa Dio perché ha in sé qualcosa che gli permette di
pensarlo; questa cosa che, nella sua parte più intima, gli permette di pensare a
Dio gli viene in realtà proprio da Dio, ed è ciò che lo costituisce come uomo, e
lo separa dall’animale.
Il vitalismo del gesuita si oppone al meccanicismo di Descartes. La verità è
che la finzione dell’animale-macchina cancella proprio ciò che non può ridursi a
pura concatenazione di dispositivi macchinali. La somma dei pezzi che
costituiscono un orologio non vale nulla senza la concatenazione messa in atto
dal volere dell’orologiaio. Esiste nell’uomo, ma anche nell’animale e nelle
piante, un «principio vitale»,159 per riprendere l’espressione di Pardies, che
anima il tutto dell’essere e non potrebbe procedere dagli uomini, che sono
incapaci di produrlo. Solo Dio è in grado di infondere un’anima alla macchina.
Dio è colui che dà vita alla materia vivente della macchina. L’anima è l’anima
della macchina, e senza Dio, o meglio, in termini aristotelici, senza la causa
incausata, senza il primo motore immobile, nessun’anima è possibile.
Questo «principio vitale», Pardies lo individua e lo delimita con prudenza
grazie al vocabolario della propria professione. Se il totale vale più della somma
delle sue parti, e se la somma degli organi di un essere non basta a costituire la
materia vivente e la vitalità di quest’essere, che cos’è allora che infonde il
proprio movimento al tutto? Risposta: «bisogna dir dunque, che oltre tutto
questo vi sia un altro principio, che noi chiamiamo forma, e già che queste
operazioni non superano la potenza corporale, non fa di mestieri dir, che questa
forma sia un puro spirito, ma ch’ella può essere una forma materiale».160 E
altrove: «per la stessa evidenza siamo sforzati a riconoscere altre cose, da noi
chiamate Forme sostanziali, le quali non essendo né corpi, né modi, o accidenti
de i corpi, siano nulladimeno qualche cosa di corporeo».161 Sì, abbiamo letto
bene… Il gesuita non si lascia menare per il naso, ed è ovviamente ben
consapevole della posta religiosa in gioco in tutto questo tentativo di risolvere il
problema. Non si deve dare una definizione dell’anima che permetta ai propri
avversari di eliminarla semplicemente e definitivamente, perché questo
significherebbe togliere tutta l’impalcatura ontologica del dispositivo cristiano
della salvezza e della dannazione: «Dubitano alcuni, che quest’opinione, che
nega le Anime ne gli Animali sia pericolosa, e favorisca l’empietà de’ cervelli
troppo licenziosi, che negano l’immortalità dell’Anima nostra, perché
dicon’eglino, se una volta si ammette, che tutte le operazioni delle Bestie
possano farsi senz’Anima, e per la sola machina del corpo, arriveremo ben
presto a far l’ultimo passo, e dire, che tutte le operazioni de gli huomini ponno
farsi per una simile disposizione della machina del loro corpo».162 Padre Pardies
non poteva sperare di dire meglio.
Il passo fu compiuto probabilmente più in fretta di quanto non ci si sarebbe
immaginato. E ad animare questa falcata filosofica che apre a un nuovo mondo è
Pierre Gassendi. Per lui, la questione dell’anima degli animali non si risolve né
con gli antichi, cioè con Aristotele in particolare, né con i moderni, Descartes
ovviamente, ma nemmeno con Epicuro, un antico che si rivela eminentemente
moderno. Non sono le forme sostanziali, non è la ghiandola pineale, ma sono gli
atomi sottili, il «fiore degli atomi», ciò che permetterà di uscire da questa
problematica che attraversa tutto il Seicento. I Lumi li comincia ad accendere un
prete.
Capitolo settimo
Il fiore degli atomi
Atomizzare l’anima

Se vogliamo dare credito a Diogene Laerzio e alle Vite e dottrine dei più celebri
filosofi (X, 26), l’opera completa di Epicuro era costituita da più di trecento
titoli. A noi, in verità, rimangono solo tre lettere, oltretutto sintetiche, destinate
ad alcuni discepoli: una a Pitocle sull’astronomia, un’altra a Erodoto sulla fisica
e la natura, e l’ultima a Meneceo sull’etica e la morale. Il pensiero di Epicuro,
per come lo conosciamo, ha dunque come base testuale una manciata scarsa di
foglietti, a fronte delle duemila pagine delle opere di Platone.
Gli epicurei subiscono gli strali dei filosofi romani che, per ragioni di bassa
politica politicante (Cesare era epicureo), s’inventano questa contrapposizione
tra la scuola del Giardino e la scuola degli stoici, cioè il Portico; e tutto solo
perché Epicuro considerava il piacere come il sommo bene. Cicerone, per
esempio, assieme ad altri, una volta diventato nemico di Cesare, arriva a
paragonare gli epicurei a dei maiali. Anche se personalmente si era limitato ad
assimilare questo famoso piacere all’assenza di turbamenti e ad auspicare una
sobrietà relativamente radicale (cose del tipo: spegnere la sete con un po’
d’acqua e smorzare la fame con un pezzo di pane, cose a suo avviso largamente
sufficienti per raggiungere la felicità), contro Epicuro alcuni imbecilli hanno
montato una congiura durata per più di un millennio, una congiura costruita sulla
base di calunnie e di attacchi ad hominem, con l’unico scopo di macchiare la sua
memoria e rendere impraticabile il suo pensiero.
Abbiamo visto come i Padri della Chiesa abbiano attaccato con violenza
l’uomo Epicuro, la sua opera e la sua dottrina, solo perché quel pensiero
radicalmente materialista ostacolava le loro costruzioni finzionali: se esistono
solo atomi che cadono nel vuoto e che, in virtù di una particolare declinazione
denominata clinamen, si aggregano e fanno aggregare gli aggregati già aggregati
fino a formare la materia del mondo e costituire la totalità di ciò che esiste, allora
tutto è atomico.
E se tutto è atomico, allora, che cosa possiamo davvero pensare del Dio dei
monoteisti, creatore del mondo, onnipresente, onnipotente e onnisciente? Che
cosa possiamo davvero pensare del concepimento di Gesù senza genitori e da
una madre vergine? O dell’anima eterna, immortale e immateriale? O della
morte e della risurrezione che, tre giorni più tardi, permette al fortunato
beneficiario di incassare la grossa vincita della vita eterna? E del mistero
dell’eucaristia, a dar retta al quale, tutte le volte che un prete celebra messa, il
corpo e il sangue di Cristo finiscono per ritrovarsi nell’ostia fatta di farina e nel
calice di vino bianco? E della resurrezione della carne in forma di corpo
glorioso? Tutte queste storie diventano ovviamente impossibili nel momento
stesso in cui il reale si rivela essere esclusivamente costituito di atomi.
Lanciamo quindi l’ipotesi che se le opere di Epicuro sono quasi tutte
scomparse, è sicuramente perché i supporti vegetali su cui erano state vergate si
sono dissolti con il tempo, ma anche perché la loro riproduzione su pergamena
non è stata assicurata dai monaci copisti che consideravano come loro compito
prioritario quello di non conservare le idee avverse all’ideologia dominante. Le
tre lettere di Epicuro si sono salvate solo perché si trovavano inserite all’interno
del libro di Diogene Laerzio, che bisognava comunque prima aver letto per
poterle trovare! E lo sappiamo: da che mondo è mondo, i veri lettori, quelli
mossi dal bisogno e dalla determinazione, quelli coscienziosi e pronti alla fatica,
sono sempre stati una specie rara…

È a Gassendi che dobbiamo l’encomiabile lavoro della riabilitazione di Epicuro


e della sua opera. Il canonico di Digne fa entrare la lente atomica nell’ovile
cristiano. Vie et mœurs d’Épicure [Vita e costumi di Epicuro] viene pubblicato
nel 1647, e nel 1658, nell’edizione postuma delle sue opere, appare anche un
Traité de la philosophie d’Épicure [Trattato sulla filosofia di Epicuro]. Si tratta
di due opere in cui l’autore, per quanto cristiano, riabilita Epicuro in un
momento storico in cui la parte del leone la fanno l’aristotelismo, lo stoicismo, il
neoplatonismo, addirittura il pirronismo, ma di sicuro non l’epicureismo.
Traduce anche il decimo libro delle Vite di Diogene Laerzio, cioè quello
interamente dedicato a Epicuro, in cui si trovano le tre lettere sfuggite alla
distruzione del tempo.
Comunque, già nel 1624, in un testo giovanile scritto a trentun’anni e
intitolato Dissertations en forme de paradoxes contre les aristotéliciens
[Dissertazioni in forma di paradosso contro gli aristotelici], Gassendi attacca la
filosofia scolastica in nome dell’epicureismo e annuncia una «filosofia morale» a
venire in un ipotetico settimo libro che avrebbe dovuto avere come programma:
«Il Sommo Bene si trova nella Voluttà: come la ricompensa delle Virtù e delle
azioni umane deriva da questo principio». Il libro non viene portato a termine e
l’annuncio rimane così lettera morta.
È chiaro che il canonico Gassendi non può accogliere tutto quello che ritrova
nel filosofo materialista, perché, facendolo, metterebbe in pericolo buona parte
delle idee su cui la sua stessa professione si fonda. Fin dalla dedica a François
Luillier, un «libertino erudito» presentato come il suo migliore amico, il filosofo
avverte che il proprio proposito sarà di riabilitare l’epicureismo «a condizione
che se ne cancellino un piccolo numero di errori».163 Per reintegrare la persona e
l’uomo nella loro dignità, Gassendi s’impegna a smontare le favole messe in
circolazione su Epicuro al solo fine di macchiarne la reputazione. Lontano
dall’immagine sulfurea del personaggio rozzo, ingordo, volgare, opportunista,
ipocrita, calcolatore, effeminato, depravato, pederasta, pigro, tirchio, alcolizzato,
simulatore, plagiatore, maldicente, ambizioso e vanitoso, cose che sono già tante
per una sola persona, Gassendi traccia al contrario il ritratto di un Epicuro
onesto, sobrio, frugale, casto, corretto, innocente, puro, morigerato, capace di
manifestare intelligenza, senno, perspicacia, tolleranza e indulgenza. Il canonico
studia la biografia del filosofo: genitori, contesto della nascita, infanzia,
formazione, Giardino, salute, testamento, morte e discepoli. E in tutto questo
materiale vede solo elementi per disegnare un bel ritratto.
Gassendi analizza i motivi per cui si è andata costruendo la cattiva reputazione
di Epicuro. E punta il dito contro gli stoici, che rivendicano il monopolio della
saggezza. Zenone, Cleante e Crisippo lo calunniano, Diotimo lo stoico scrive un
falso documento di cinquanta lettere licenziose. Persino Plutarco si dà alla
contraffazione. Epitteto rincara la dose delle maldicenze e Cleomene scrive un
discorso perfido e oltraggioso. Cicerone si butta sulla demagogia e Galeno è
geloso del medico Asclepiade solo perché è un discepolo di Epicuro. La
macchina per la distruzione funziona a pieno regime. Epicuro spera, con la sua
filosofia, di consegnare degli esercizi spirituali di saggezza pratica al proprio
ipotetico discepolo che potrà così «viv[ere] come un dio fra gli uomini»?164
Eccolo dunque accusato di scambiarsi per un dio e di organizzare, nel Giardino,
il proprio culto.
Per Gassendi, la controversia riguarda alcune questioni molto semplici:
Epicuro non crede né alla Provvidenza né all’immortalità dell’anima, ed è,
questo, un segnale di «apparenza di empietà»165 (sono io che sottolineo la scelta
del termine «apparenza», con cui misuriamo tutta la potenza della sottigliezza).
Dovendo scegliere tra fede cattolica ed epicureismo, evidentemente il canonico
opta per la propria religione. Nel dibattito che oppone Ragione, Verità,
Correttezza, Giustizia e Fede, è la fede a farla da padrone. Ma solo in caso di
dissidio.
Gassendi restituisce a Epicuro tutta la sua onorabilità e all’epicureismo tutta la
sua verità. Ovviamente, siamo d’accordo sul fatto che il filosofo greco non è
stato toccato dalla grazia di Dio, del resto come avrebbe potuto, tre secoli prima
dell’apparizione del famoso Gesù nel deserto mediorientale? Gassendi smussa
gli angoli aggiungendo che, se Dio non gli ha accordato la grazia, la sua retta
ragione lo ha comunque portato a una pietà naturale.
Epicuro critica il paganesimo, le superstizioni, i sacrifici, i culti, i rituali per
preparare, in un certo senso, la strada al «culto della vera divinità». Dobbiamo
allora pensare che, solo per il fatto di annunciare l’avvento del cristianesimo,
questo filosofo precristiano che non si è potuto fare discepolo di Cristo
unicamente per delle ragioni di natura cronologica possa essere perdonato? In
realtà, «essendo un uomo e in mancanza della stessa illuminazione di cui
possiamo godere noi oggi, non è riuscito nel proprio intento».166
A Gassendi, rispondiamo semplicemente che un contemporaneo di Alessandro
Magno e dei Diadochi deve aver sicuramente incontrato qualche difficoltà a
immaginarsi di poter insegnare il pensiero di un dio che sarebbe apparso solo tre
secoli più tardi! Sappiamo tutti quanti che Dio è onnipotente: è del resto proprio
da questo fatto che lo riconosciamo. Però, mettere le cose in modo che gli
uomini possano credere a qualcosa che non è ancora stato inventato si rivela una
mossa molto superficiale dal punto di vista intellettuale, anche se non priva di
una sua dose di prudenza, utilissima soprattutto in un secolo in cui i roghi
venivano accesi con estrema facilità in onore dei filosofi più audaci. La cosa
dovrebbe essere un ossimoro, ma ahimè non lo è così spesso.
Aggiungiamo che l’intento di Epicuro non potrà ovviamente mai essere lo
stesso di un pensatore cristiano, e che quindi, già solo per questo motivo, si può
dire non avrà mai successo! Epicuro insegna che gli dèi esistono e sono
composti, come tutto il resto, di atomi, atomi che però, nel loro caso, sono sottili,
cioè di una natura specifica più fine, più eterea, più… immateriale. Gassendi se
ne ricorderà quando si tratterà di affrontare la questione dell’anima. Questi dèi,
che sono diversi e molteplici (Epicuro è a tutti gli effetti un politeista), vivono
impassibili, inaccessibili e senza alcun tipo di preoccupazione materiale nei loro
intermondi, ossia negli intervalli tra gli universi, perché sì, gli epicurei credono
alla pluralità dei mondi. La natura sottile dei loro corpi fornisce il modello
dell’atarassia, dell’assenza di turbamenti a cui punta la filosofia del Giardino.
Essere simili a un dio fra gli uomini significa vivere nella serenità esistenziale
che solo gli dèi sperimentano, una serenità che corrisponde al puro piacere di
esistere.
Nel suo Traité de la philosophie d’Épicure [Trattato sulla filosofia di Epicuro]
(1658), Gassendi lascia la parola al filosofo greco. E non è un modo di dire,
perché il canonico di Digne, scrive proprio che «è Epicuro che parla». Segue una
lunga arringa di una generosità e di un’onestà senza pari nella storia della
filosofia. In quest’arringa, troviamo l’esposizione classica del pensiero epicureo,
quindi non ci dilungheremo. Facciamo solo notare che la vita epicurea, una vita
fatta di saggezza, temperanza, sobrietà, austerità, rigore, frugalità e amicizia,
ricorda da molto vicino quelle che i monaci praticano nei loro monasteri!
Gassendi espone la filosofia di Epicuro come se a parlare fosse quest’ultimo.
Ogni tanto, però, non resiste a manifestare il proprio dissenso. La prima volta è
quando Epicuro sostiene di rifiutare l’esistenza della Provvidenza, e il canonico
non può evidentemente dirsi d’accordo. La seconda volta è quando Epicuro
giustifica il suicidio di qualcuno che preferisce morire piuttosto che vivere in
mezzo a troppo dolore, e anche qui l’uomo di religione non può fare altro che
opporsi. La terza volta è sulla questione dell’articolazione tra libero arbitrio e
necessità, quando Gassendi descrive il clinamen e spiega che occorre «suggerire
come la fortuna possa intervenire nelle cose umane senza che in noi il libero
arbitrio scompaia del tutto». Tutto sommato, si tratta di poca roba…
In fine, facendo quasi il ventriloquo di Epicuro, Gassendi afferma che
possedere dei beni immateriali significa essere di per sé stessi immortali. Quali
siano questi beni immateriali, è presto detto: tranquillità dell’anima, serenità del
saggio, atarassia del filosofo, puro piacere dell’esistere, vita filosofica collegata
con la vita felice degli dèi. Il che, diciamolo sottovoce, ricorda la soluzione
esistenziale suggerita dai materialisti! Insomma, Gassendi ed Epicuro, una
combinazione che funziona.

Il canonico si mostra molto più severo con René Descartes che non con Epicuro.
Nel 1644, pubblica, in effetti, le Recherches métaphysiques ou doutes et
instances contre la métaphysique de René Descartes et ses réponses [Ricerche
metafisiche, ovvero dubbi e istanze contro la metafisica di René Descartes e sue
risposte], un testo che, con la sua analisi densa e serrata, costituisce
un’incredibile stroncatura dell’autore del Discorso sul metodo.
I loro scambi sono in effetti violenti. Gassendi tratta Descartes come un
«dittatore»167 e picchia duro sulle sue tesi più importanti, il che non contribuisce
certo a creare un clima di distensione e di elegante cortesia. Rifiuta l’idea che i
sensi ingannino, perché questo presupporrebbe che le sensazioni stesse siano
false; critica il metodo e dubita persino del dubbio metodico: sa bene che è
impossibile liberarsi dei propri pregiudizi semplicemente decidendo di
sbarazzarsene; attacca il cogito, facendo ironicamente notare che, sulla stessa
stregua, si possa tranquillamente arrivare a sostenere che: «Passeggio, dunque
sono»; fustiga l’ipotesi di Dio ingannatore, quindi del «genio maligno»168 e
respinge non solo le idee innate ma anche l’opposizione tra sostanza estesa e
sostanza pensante; mette in questione la natura del legame tra anima e corpo e si
lamenta del ruolo magico attribuito alla ghiandola pineale. Insomma,
bombardamento a tappeto delle posizioni cartesiane…
Ecco come risponde Gassendi a una delle obiezioni che Descartes indirizzava
alle sue ricuse:
Qui senza dubbio Lei parla da Maestro, o piuttosto da Dittatore, quando fissa con tanto rigore
quello che conviene fare, standosene peraltro tranquillo sulle alture o, ancora meglio, dentro la
cittadella della Filosofia. La verità è che io invece chiedo sempre delle ragioni, e che capisco
anche come questo possa crearLe qualche imbarazzo; solo, penso anche di essere assolutamente
nel mio diritto di farlo, tanto più che Lei si vanta di poter dimostrare, vale a dire di poter provare
con ragioni estremamente approfondite, quanto va sostenendo; e che, d’altra parte, io continuo a
non vedere alcuna ragione rispondente a queste caratteristiche. Lei sembra comportarsi come un
giudice a Scuola; sopporti allora che anche le persone che Lei vuole istruire si comportino come
un pubblico provvisto di spirito libero. In caso contrario, cioè se si comportassero come gli
animali di un gregge, e credessero a Lei solo perché è Lei che lo dice, Lei stesso correrebbe il
rischio di essere scambiato per una guida non di uomini, ma di greggi. E di ripetere, oh carne, oh
carne; e, adombrandosi ancora, e sempre di più, di dire tutto quello che Le possa venire in mente
di dire, finché il Suo stesso cuore non smetta di gonfiarsi; e così finalmente potremmo sapere qual
è il sentimento nascosto che esso conteneva.169

Un professore dell’École normale riassumerebbe tutto lo scambio spiegando


che Gassendi sta rimproverando a Descartes di essere assertorico anziché
apodittico!
Le formule di cortesia che aprono e chiudono questo dialogo tra sordi lasciano
intuire il contorno di un albero che, a sua volta, sta nascondendo una foresta di
insulti:
Capisco bene quale sia la causa di questa Sua durezza, e che cosa L’abbia fin dall’inizio spinta a
credere che fosse meglio trattarmi come una persona di carne. Visto che La stavo trattando come
Anima e come Spirito fin dal cominciamento del libro, Lei ha pensato bene che fosse cosa degna
del Suo essere spirito, e della Sua finezza, chiamarmi invece a sua volta di carne. Prenderò la
cosa senza offendermi, e farò anzi proprio finta che sia divertente, essendo già mia abitudine
rimproverarmi molte più cose di quelle che qualsiasi altra persona potrebbe fare; però mi sia
permesso aggiungere che, chiamandoLa anima o spirito, non ho mai in nessun modo inteso fare
della Prosopopea o della finzione; nulla ho detto che fosse ironico o affettato; la qual cosa Le
avrebbe sicuramente dato il diritto, al di là delle leggi della buona creanza e dell’amicizia, di
lamentarsi, dando libero corso alle Sue invettive.170

E Gassendi prosegue il proprio discorso senza porsi alcun limite, come


verbigerando in totale solitudine, libero dalla preoccupazione che Descartes
leggesse veramente.
Ci si potrebbe stupire del fatto che, nella storia della filosofia occidentale,
questo libro di Gassendi non l’abbia avuta vinta sulle Meditazioni di filosofia
prima, che escono dissanguate da questa lezione di anatomia condotta dal
compagno di strada di Epicuro! Perché, diciamola tutta, Descartes non è così
filosoficamente rivoluzionario come si dice. Certo, sembra esserlo in Francia per
via del metodo formulato nella maniera che sappiamo; ma non lo è
assolutamente se pensiamo alla sua filosofia dualista, alla sua ontologia idealista
o alla sua metafisica spiritualista, per non parlare dell’agio con cui si muove nel
giardino delle categorie scolastiche, tutte cose perfettamente compatibili con la
civiltà giudaico-cristiana, cosa che non è assolutamente il caso dell’epicureismo.
Precisiamo che questo suo metodo colpisce più facilmente un francese di un
anglosassone, perché quest’ultimo potrebbe non ignorare che, con il Novum
Organum (1620) di Francis Bacon, l’essenziale di quanto andava annunciando
Descartes, cioè la laicizzazione del metodo e la sua stretta dipendenza
dall’osservazione, viene esposto diciassette anni prima del Discorso sul metodo
del filosofo turingio. Ma questa è un’altra storia…
Gassendi scrive molto per, l’abbiamo visto con Epicuro, e anche molto
contro, in particolare contro Aristotele e la scolastica, o contro Descartes e il
cartesianesimo. Non è sempre facile però scoprire quello che pensa su alcuni
soggetti sensibili. Sull’anima degli animali, è abbastanza chiaro; sulla natura
dell’anima invece il discorso si fa un po’ più complicato, perché politicamente
più pericoloso. Descartes rivendica il fatto di portare la maschera, ce lo
ricordiamo il suo motto: Larvatus prodeo. Nelle sue lettere, mostra tutta la sua
vigliaccheria: ha paura del re, ha paura dei professorucoli della Sorbona e ha
paura del Vaticano, tutte cose che, ieri come oggi, fanno il mondo. Gassendi non
lo dice, però anche lui scrive sotto lo sguardo dell’Inquisizione e sotto la
minaccia dell’Indice.
Gassendi, lo sappiamo perché lo ripete ad nauseam nella sua corrispondenza
con Descartes, non è soddisfatto dall’opposizione classica tra «sostanza estesa»,
che, come indica il nome, presuppone l’estensione nello spazio, e «sostanza
pensante», che, anche in questo caso il nome non nasconde nulla, presenta come
caratteristica specifica quella di pensare. Se pensare è un atto che compete a una
sostanza non estesa, che cosa possiamo allora dire della maniera in cui si
producono i pensieri, le idee e i giudizi? E del legame tra una cosa che non ha
estensione e una cosa che invece è solo estensione? E del legame tra una cosa
che pensa e una cosa che non pensa? La ghiandola pineale, per esempio, è una
cosa che non soddisfa Gassendi. Da anatomista (pure lui), constata che mancano
i nervi capaci di assicurare i collegamenti necessari. E l’unica cosa che possiamo
dire di questi nervi è che si dovrebbero invece poter localizzare a occhio nudo
nella zona isolata dal bisturi dell’anatomista. Magari dunque è il caso di
cominciare a considerare Descartes non tanto come il primo dei moderni quanto
come l’ultimo degli scolastici, e Gassendi, con il suo attivo scetticismo, non
come il primo dei moderni ma come colui che rende possibili i moderni. Il primo
di questi moderni potrebbe essere, per esempio, un altro membro del clero, e
cioè il curato Jean Meslier.
Se vogliamo sapere che cosa pensa Gassendi, dobbiamo spesso indurlo, o
dedurlo, ed è questa probabilmente una delle ragioni per cui Descartes ha avuto
la meglio su di lui nell’evoluzione della storia delle idee. A volte si esprime su
un soggetto parlando d’altro, altre volte occorre capire quello che sta dicendo da
come viene sottinteso nelle pieghe delle parole.
Un esempio sta in queste righe in cui Gassendi risponde a Descartes in merito
alla sua teoria degli animali-macchine assimilati a orologi: «Un osso fa passare
nell’occhio di un cane una specie a quello analoga, e questa specie, aprendosi un
cammino fino al cervello, aderisce all’anima come per mezzo di artigli
minuscoli; in seguito, l’anima stessa e tutto il corpo che le è attaccato vengono
attirati verso l’osso da alcune specie di catene sottilissime. Anche il sasso che gli
lanciamo contro fa partire delle specie a quello analoghe, e queste, come una
leva, vanno a esercitare sull’anima una spinta, costringendo il corpo a muoversi,
ossia a fuggire. Non è forse esatto dire che tutto questo succede anche
nell’uomo? C’è un’altra strada con cui Lei immagina possano compiersi queste
operazioni? In tal caso, se ce la volesse insegnare, Le saremmo profondamente
grati».171
In questo passaggio, vediamo riassunta tutta la tecnica libertina della
dissimulazione. Il nome di Epicuro non compare mai, però tra le righe troviamo
tutta la dottrina epicurea. Per capire, dobbiamo evidentemente già conoscere il
pensiero del filosofo greco. Quindi, Gassendi, sotto traccia, si sta rivolgendo a
chi queste cose già le conosce, come sottintendendole. Perché, ammettiamolo,
parlare di una «specie analoga all’osso» che passa attraverso l’occhio per
arrivare al cervello del cane significa citare in maniera quasi esplicita la teoria
epicurea dei simulacri, termine che viene semplicemente e prudentemente
evitato per evitare di allertare l’attenzione del lettore medio. Anche gli «artigli
minuscoli» rimandano alla dottrina del Giardino, è chiaro che si sta parlando
degli atomi, che possono avere forme diverse: uncinate per esprimere l’affinità o
lisce per spiegare il rifiuto. L’anima di cui qui si sta disquisendo sembra
insomma possedere la stessa natura del simulacro, ossia sembra essere anche lei
materiale, costituita da atomi e legata al resto del corpo grazie a delle «catene
sottilissime», a loro volta formate da atomi. Non c’è, come nei cartesiani, alcuna
separazione tra sostanza estesa e sostanza pensante, che sono concepite come
due sostanze eterogenee: si tratta invece di diverse modalità di un’unica sostanza
materiale, tenuta assieme dagli atomi. Passando dall’osso che viene offerto al
sasso che viene lanciato, Gassendi segue passo passo la metafora epicurea: come
potrebbero mai funzionare da leva i simulacri del sasso che raggiungono il
cervello del cane, e come potrebbero mai esercitare una spinta sull’anima, se
quest’anima non appartenesse lei stessa alla sostanza estesa, e quindi alla
materia? In effetti, verrebbe logico considerare che applicare una spinta a una
sostanza pensante non abbia alcun senso. Sono quindi le dinamiche basate sugli
atomi e i flussi materiali spiegati dalla fisica che permettono a Gassendi di
spiegare perché il cane scappi quando vede, o anche solo intravede, il sasso che
gli stiamo lanciando contro. Giunto a questo punto, ecco il canonico concludere,
in forma interrogativa, altra strategia libertina: ma non potrebbe valere la stessa
cosa per gli uomini? Noi, però, intuiamo benissimo che sta facendo finta di porre
domande a Descartes per ottenere una qualche risposta, e che tutte queste cose
non rappresentano alcun dubbio.
In ogni caso, l’ironia con cui questo passaggio si conclude non convince
Descartes a uscire dalla propria tana, e il filosofo se ne continua a restare chiuso
nel proprio nascondiglio e a rispondere solo in maniera trasversale. Diciamo che,
quantomeno, si prende la briga di rispondere. Scrive Gassendi: «Questi Suoi qui
sono solo dei mormorii, e a questi mormorii, non più che ai precedenti, serve
nemmeno rispondere».172 Descartes, come dappertutto in questo scambio, tratta
Gassendi sempre dall’alto. Chiede una discussione pubblica sulle sue
Meditazioni, però quando gli vengono sottoposte delle argomentazioni vere e
proprie, risponde con tracotanza: Gassendi non è un filosofo, non ci capisce
niente, deforma tutto quello che il suo interlocutore dice, gli presta delle idee che
non sono le sue, con lui non si può avere uno scambio degno di questo nome, e
così via.
Ci sarebbe invece piaciuto avere, come risposta a questa obiezione, un
ragionamento filato di Descartes sul cane, sull’osso e sul sasso; ci avrebbe
permesso di sapere quello che pensava dei simulacri, degli atomi e dei loro
artigli, delle immagini, dell’azione materiale delle particelle su un’anima
materiale, della possibilità di applicare una spinta a una sostanza priva di
estensione, della reazione appropriata del cane che, comprendendo come il sasso
lanciato possa ferirlo, manifesta una memoria del tempo passato (si ricorda del
dolore provocatogli una volta da un sasso), una comprensione del tempo
presente (il proiettile effettua un percorso al termine del quale si trova il corpo
del cane stesso, che mantiene la memoria della sofferenza) e una capacità di
futurizione (il passato del sasso messo in relazione con il suo presente produce
un futuro che il cane è capace di prevedere, visto com’è in grado di scappare).
Certo, questo cane che pensa non pensa che sta pensando: questo è un talento
che, secondo Descartes, definisce solo l’uomo. Però, non possiamo davvero
rimproverare a un animale il fatto che stia pensando come un animale. Sarebbe
come affermare che l’uomo che non riesce a ritrovare la strada usando
unicamente il proprio olfatto testimonia dell’assenza di intelligenza umana! Del
resto, lo stesso Gassendi lo scrive in maniera esplicita: «L’uomo, anche se è il
più perfetto degli animali, non si trova però escluso dal novero di questi».173
Ecco una linea netta di demarcazione tra l’idealismo cartesiano, il suo
spiritualismo dualista, e l’epicureismo gassendiano, che rappresenta una fase del
materialismo cristiano verso la conquista della nozione di anima materiale
autonoma.
Perché, per Gassendi, il clinamen, ossia questa tendenza alla declinazione che
sta all’origine dell’aggregarsi degli atomi, atomi che prima cadevano paralleli
nel vuoto senza mai incontrarsi, e quindi senza che mai si desse la possibilità di
formare un mondo; ecco, per Gassendi, questa tendenza alla declinazione non è
assolutamente pensabile: il clinamen rischierebbe di prendere il posto
ontologico, quindi teologico, del Dio creatore del mondo. Il Dio di Gassendi crea
invece il mondo materiale a partire dagli atomi già mobili e pesanti da lui creati
proprio al fine di produrre materia immediatamente attiva. Esistono delle
correnti di materia sottile che procedono, dixit Gassendi, dal «fiore della
materia»174 e che muovono i corpi come fossero anime vegetative. Il suo
materialismo non è meccanicista: diciamo che è deista, e questo, probabilmente
suo malgrado, si rivela essere un passo in avanti in direzione del materialismo
meccanicista. Un materialismo, osiamola dire, questa parola: vitalista.
Capitolo ottavo
Come la fiamma di una candela
Meccanizzare l’anima

La vera e propria rivoluzione filosofica non è quella portata avanti da Descartes,


ma quella progettata da un filosofo che viene troppo spesso presentato come
cartesiano, ossia Jean Meslier, parroco di Étrépigny, un piccolo comune delle
Ardenne. Può sembrare una cosa strana quella di trasformare questo nemico di
Descartes in un suo discepolo, come se bisognasse sempre e comunque prendere
come punto di riferimento l’autore del Discorso sul metodo, come si faceva una
volta con l’autore del Parmenide, per classificare, ordinare, sistemare,
incasellare e, diciamola tutta, neutralizzare.
La verità è che mentre René Descartes dimostra di essere deista, monarchico,
dualista, spiritualista, cattolico e, nei fatti, conservatore, Jean Meslier scrive un
memoriale che sarà ritrovato alla morte, nel 1729, e di cui Voltaire farà
pubblicare alcuni passi nel 1762 con il titolo di Extrait des sentiments de Jean
Meslier [Estratto dei sentimenti di Jean Meslier],175 in cui si proclama ateo,
comunista, monista, materialista, anticlericale e rivoluzionario radicale. Meslier
rifiuta il Dio di Descartes, rifiuta il cogito e le idee innate, rifiuta l’opposizione
tra sostanza estesa e sostanza pensante, rifiuta la finzione della ghiandola pineale
e il Dio ingannatore mascherato da genio maligno, rifiuta la teoria degli animali
come macchine, e rifiuta soprattutto la prudenza politica e il conservatorismo
religioso: come può essere dunque cartesiano? «Cartesiano di estrema sinistra»,
ha suggerito qualcuno in qualche colloquio universitario. Per quello che mi
riguarda, in queste strane etichette vedo semplicemente l’incapacità di
riconoscere in lui, all’interno della storia della filosofia dominata da posizioni
idealiste, il primo filosofo materialista ateo degno di questo nome.
Alla fine, comunque, è sempre Montaigne che rende possibile questa
rivoluzione, molto più di Descartes. L’autore dei Saggi ha posizioni
autenticamente radicali su parecchi argomenti fondamentali: Montaigne descrive
l’uomo nudo, come esce dalle mani della natura, e, seguendo questa intuizione,
inaugura il relativismo culturale celebrando, per esempio, usi e costumi di popoli
cannibali; s’inventa un corpo pagano finalmente sgombro dalla presenza di Dio;
promuove una pedagogia non autoritaria ispirata all’educazione ricevuta dal
padre; pone le basi di un femminismo universalista e spiega come la
disuguaglianza tra gli uomini e le donne non abbia ragioni naturali ma culturali;
affronta il pensiero partendo da basi ontologiche antispeciste; crea ex nihilo un
metodo fondato sull’osservazione del mondo reale; propone, senza darlo troppo
a intendere, un’etica della sobrietà felice; libera il pensiero dalla tutela della
teologia e, così facendo, inventa la religione della razionalità e il suo corollario,
la laicità; inizia a costruire il soggetto moderno; e tutto senza parlare del
supplemento d’anima sublime, cioè del fatto che rende possibile l’amicizia
liberandola finalmente da qualsiasi intermediazione divina.
Montaigne, però, avanza senza Dio e senza la religione cristiana, non contro
Dio e contro la religione cristiana, come fa invece Meslier. Il primo si comporta
come se la Bibbia, i Padri della Chiesa e la scolastica non esistessero, e sembra
quasi passare fischiettando davanti ai Vangeli, alle opere complete di
sant’Agostino e alla Somma Teologica di Tommaso d’Aquino. Al contrario, il
secondo fa a pezzi i libri del Nuovo Testamento, attacca con il coltello in mano
la letteratura religiosa, e demolisce la filosofia cristiana, l’idealismo spiritualista
di Descartes, il quietismo di Fénelon e l’occasionalismo di Malebranche,
combattendo con estrema fermezza.
Meslier scrive il voluminoso testo del suo Testamento in tutto segreto, e fa in
modo che sia reso noto solo dopo la sua morte. I suoi parrocchiani dovranno
sapere quello che pensava davvero: non crede né a Dio né al demonio, ed è
diventato prete solo per compiacere i suoi; ha sempre detestato il fatto di dire
messa e amministrare sacramenti; non ha mai amato le persone potenti, i re e i
nobili e ha sempre preferito gli ultimi e i dimenticati, i contadini; ritiene che la
religione cattolica sia tutta un’impostura creata per permettere ai potenti di
imporre il proprio giogo sui miseri, già deprivati di tutto, ovviamente con l’attiva
complicità del clero; afferma che Gesù era un «uomo da nulla, vile e
spregevole»,176 che san Paolo era un «grande mirmillantatore»,177 che i
cosiddetti testi sacri devono essere letti come fossero delle opere pagane, per
scoprire tutte le loro contraddizioni e quindi tutta la loro inutilità; per lui, i
Vangeli sono falsi, e la loro selezione e compilazione è responsabilità dei
concili, quindi degli uomini, non di Dio; non esiste nessun’anima immateriale, e
quindi non esiste nessuna punizione e nessuna ricompensa dopo la morte; non
esiste alcuna ragione di soffrire qui e ora per guadagnare una vita felice
nell’aldilà, perché, dopo la morte, non c’è niente, solo la decomposizione della
materia di cui siamo fatti; si prende gioco di quello che penseranno di lui dopo la
sua morte e arriva persino ad affermare che, per quello che gli interessa, lo
potranno anche bruciare, grigliare e mangiare, se vogliono. La sua unica
preoccupazione è che i suoi genitori non debbano soffrire dell’odio che potrebbe
nascere con la pubblicazione del Testamento.
Meslier è particolarmente feroce con la religione, ma sposta anche il campo di
battaglia sul terreno politico: attacca re e potenti, nobili e latifondisti, tutta gente
che, a braccetto con il papa, i vescovi, i preti, i parroci, i canonici, i monaci e le
«monachesse», sfrutta la religione per affamare i poveri e consolidare il proprio
potere su di loro. Accusa anche gli scagnozzi del potere costituito: notai,
sergenti, procuratori, avvocati, cancellieri, controllori, giudici, intendenti di
polizia, riscossori statali, esattori e altra «gente d’ingiustizia».178 È a Jean
Meslier che dobbiamo una formula che avrebbe fatto fortuna nel maggio del
Sessantotto. Leggiamo:
A questo proposito, mi ricordo di un augurio espresso una volta da un uomo che non aveva né
scienza né studi alle spalle, ma che, in tutta evidenza, non mancava di buon senso per giudicare in
maniera sana tutti i detestabili abusi e tutte le deprecabili tirannie che sto condannando qui; e
questo suo augurio, assieme alla maniera con cui esprimeva il proprio pensiero, dimostravano che
vedeva abbastanza lontano, e che era in grado di sviscerare tutto il detestabile mistero d’iniquità
di cui ho appena parlato, perché ne conosceva molto bene autori e fautori. Si augurava, insomma,
che tutti i grandi della Terra, e tutti i nobili, fossero impiccati e strangolati con le interiora dei
preti. L’espressione è sconcertante e non manca certo di rudezza e grossolanità, però dobbiamo
riconoscere la sua onestà e spontaneità; ed è formulata in maniera concisa, ma comunque
espressiva e riesce a comunicare in poche parole tutto quello che quella gentaglia merita.179

Il concetto, sui muri del Quartiere latino, è diventato: «L’umanità sarà felice
soltanto il giorno in cui l’ultimo capitalista sarà impiccato con le budella
dell’ultimo burocrate» – un’altra versione varia con l’«ultimo estremista»…
Questa negatività si accompagna sempre a una positività: se Meslier attacca la
religione, è solo per restituire alla filosofia la sua potenza. Vuole insegnare «i
soli lumi della ragione umana»,180 in modo da lavorare all’abolizione, sul
terreno spirituale, della religione cattolica, del potere del clero e dei re, del
regno delle fiabe, dei miti, delle allegorie e delle altre storielle per bambini che
sono le religioni, e, sul terreno politico, dell’ingiustizia, della miseria, della
povertà, dello sfruttamento e della proprietà, che avrebbe dovuto essere sostituita
da un comunalismo rurale, cioè da una forma di comunismo di prima della
rivoluzione industriale, che non escludeva però un certo internazionalismo degli
interessi comuni e del bene pubblico. Meslier punta alla felicità di tutti, in
opposizione al godimento di pochi che confiscano tutto.
Scrive: «La ragione naturale è l’unica strada che mi sono sempre proposto di
seguire nel mio pensiero».181 E noi gli crediamo. Ecco il metodo con cui questo
anticartesiano radicale avanza proposte che sono rivoluzionarie anche sul
terreno ontologico. Per esempio: «Dio non esiste»,182 un’idea che trascina tutte
le altre. La formula viene ripetuta negli stessi identici termini una seconda volta
a mille pagine di distanza.183
Il Testamento viene scoperto alla morte di Meslier, vale a dire nel 1729. Ed è
lui stesso a confessare di scrivere «nella fretta e nella precipitazione»,184 senza
che si capisca davvero a cosa si riferisca. Una malattia? Desiderio di suicidio?
Quale altra urgenza può esserci per un ateo se non la prossimità della morte?
Qualunque sia questa contingenza, possiamo presumibilmente immaginarci che
il testo sia stato redatto verso la fine del primo quarto del Settecento. E, a
quest’altezza cronologica, chi altri ha il coraggio di dichiarare in maniera così
chiara e netta che «Dio non esiste»? Nessuno, ovviamente…
Per più di mille anni, la Chiesa accusa di ateismo chiunque non crede al suo
Dio! I politeisti Epicuro e Lucrezio, Montaigne il fideista, Descartes il teista,
Spinoza il panteista, Bayle il protestante, Voltaire e Rousseau i deisti: tutti
vengono accusati di ateismo, e quindi messi all’Indice o condannati al rogo dal
Vaticano. Eppure nessuno di loro nega l’esistenza di Dio.
La verità è che l’ateo autentico non si accontenta di dire che «gli dèi sono
molti; bisogna credere al Dio del proprio paese, nelle forme che prende nella
regione in cui si abita; il Dio di Abramo può essere in questo modo assimilato al
Dio dei filosofi, al Grande Tutto, o ancora al Dio riformato di Lutero e di
Calvino, se non addirittura al Grande Orologiaio»; l’autentico ateo afferma in
maniera chiara che: «Dio non esiste». E, fino a prova contraria, non sembra che
ce ne sia stato nemmeno uno, prima dell’abate Meslier.
Nella storia delle idee, del pensiero, della filosofia e dell’umanità, l’ateismo
autentico costituisce un preciso spartiacque, soprattutto in una civiltà come
quella giudaico-cristiana. Il Dio monoteista della Bibbia garantisce l’esistenza
dell’edificio della civiltà. L’uomo creato da Dio a propria immagine, quindi
l’uomo inteso come finalità ultima, come sommità e coronamento della
creazione; l’anima immateriale suscettibile di ricompensa o di punizione e, di
conseguenza, l’assenza di anima negli animali; il corpo peccaminoso; ecco, tutte
queste cose si tengono assieme solo perché Dio le giustifica ontologicamente. Se
Dio non esiste, su cosa si potrà mai fondare il reale? Sulla materia, ovviamente,
solo sulla materia.
Ecco perché l’ontologia del curato Jean Meslier costituisce un punto di rottura
per la nostra civiltà.

Dunque, Dio non esiste perché è tutto materia, e il mondo non è stato creato.
Contro il creazionismo cristiano, Meslier propone una lettura totalmente
materialista del mondo: la materia non è affatto creata e voluta da una causa
esterna a sé stessa e preesistente (in altre parole: Dio), ma è eterna e causa di sé,
e rende possibili i movimenti del mondo; è divisibile e basta una semplice
osservazione per riscontrare che si muove.
Partendo da questa semplice posizione, tutto quello che esiste in natura può
essere spiegato in maniera naturale e fisica attraverso il materialismo. «Solo
l’idea di una materia universale che si muove in diverse direzioni, e che
attraverso le diverse configurazioni delle sue parti può modificarsi ogni giorno,
in mille e mille maniere differenti, solo questa idea ci permette di vedere con
chiarezza che tutto quello che esiste in natura può realizzarsi attraverso le leggi
naturali del movimento, unicamente configurando, combinando e modificando
parti della materia».185
Meslier confessa di non poter dire che cosa muove la materia dentro la
materia, però osserva il movimento al suo epicentro: «La nostra ignoranza sulla
natura delle cose non impedisce affatto che queste cose ci siano».186 Per
esempio, non sappiamo come facciamo a vedere e non conosciamo i meccanismi
con cui l’occhio funziona, però non abbiamo dubbi sul fatto che noi vediamo
proprio grazie all’occhio.

Esattamente allo stesso modo, noi ignoriamo i meccanismi decisionali della


volontà che presiedono a questo o a quell’altro gesto, piuttosto che a un altro
gesto ancora; però notiamo senza alcuna difficoltà che, dentro di noi, la volontà
vuole quello che noi vogliamo. Meglio allora confessare di non sapere perché le
cose sono come sono quando è oltremodo evidente che sono come sono,
piuttosto che inventarsi delle causalità magiche come quelle del Dio primo,
motore immobile di ogni movimento.
Precisiamo, già che siamo a questo punto, che, nel momento stesso in cui
confessa di non sapere che cosa muova la materia, Meslier avanza comunque
un’ipotesi, un’ipotesi che sfortunatamente decide di non approfondire…
«Dobbiamo necessariamente dire la stessa cosa della vita corporea, ossia della
vita degli uomini, delle bestie o delle piante: la loro vita è solo una specie di
modificazione e fermentazione continua del loro essere, cioè della materia di cui
sono composti, e tutte le conoscenze, tutti i pensieri e tutte le sensazioni che
possono avere non sono altro che nuovi modi, particolari e passeggeri, in cui
questa modificazione e questa fermentazione continua che costituisce la loro vita
si manifesta».187 Meslier avanza dinamicamente in direzione di un materialismo
di marca vitalista, senza tuttavia arrivare a incarnare il materialismo
meccanicista di stretta osservanza. Sulla questione del vitalismo, ci tornerò…
Un po’ come Diogene quando, volendo contrastare i ragionamenti idealisti di
Platone, decide di provare il movimento mettendosi a camminare, anche Meslier
contrappone il proprio cogito materialista al cogito cartesiano ottenuto attraverso
il dubbio metodico:
Seguiamo le luci più intense della ragione, e queste ci mostrano con evidenza l’esistenza
dell’essere, perché è chiaro ed evidente, perlomeno a noi, che l’essere è; e che noi non saremmo, e
che non potremmo nemmeno avere il pensiero di essere, se l’essere non fosse affatto. In realtà,
noi sappiamo e sentiamo con grande certezza che noi siamo, e che pensiamo, e di questo non
possiamo assolutamente dubitare; quindi è certo ed evidente che l’essere è. Se l’essere non fosse,
di sicuro non saremmo nemmeno noi, e se noi non fossimo, non potremmo nemmeno pensare;
non c’è niente di più chiaro e di più evidente di questo.188

Questa ontologia dell’essere si rivela un’ontologia materialista radicale: in un


mondo di materia satura di essere, o in un mondo di essere saturo di materia (è la
stessa cosa, perché l’essere è la materia e la materia è l’essere), l’uomo, nella sua
integralità, non potrebbe essere una cosa diversa da questa materia che
rappresenta la totalità dell’essere. Contro Descartes che definisce l’uomo come
l’essere che pensa di pensare grazie alla propria sostanza pensante
presuntivamente indipendente dalla propria sostanza estesa, Meslier afferma che
chi pensa non può dubitare del fatto che pensa se non negando ciò stesso che gli
permette di pensare, ossia il suo essere materiale. I cartesiani, scrive Meslier,
sono dei «filosofi deicoli».189 Non si può dire che il nostro sia uno che la manda
a dire…

Dio non esiste perché esiste solo la materia, oppure esiste solo la materia quindi
Dio non esiste. La conseguenza di questo ragionamento è che il problema
dell’anima e del suo legame con il corpo si trova risolto in partenza. Per Meslier
il corpo e l’anima sono costituiti da un’unica e sola materia:
Per quanto riguarda la pretesa spiritualità dell’anima, se davvero quest’anima fosse spirituale
come i nostri cristicoli la intendono, non avrebbe né corpo, né parti, né materia, né forma, né
figura, né estensione alcuna, e di conseguenza non sarebbe niente di reale e di sostanziale, perché,
come ho già detto qualche riga sopra, ciò che non ha né corpo, né materia, né forma, né figura, né
estensione non è né reale né sostanziale. La verità invece è che l’anima è qualcosa di reale e di
sostanziale, dato che anima il corpo e gli infonde forza e movimento. E noi non vogliamo certo
sostenere che un niente o un nulla possa animare un corpo, e infondergli forza e movimento;
quindi, ecco, l’anima è qualcosa di reale e di sostanziale, e di conseguenza occorre
necessariamente che sia corporea e materiale, e che abbia estensione, dato che niente di reale e di
sostanziale può esistere senza corpo e senza estensione. La prova evidente di tutto questo sta nel
fatto che è impossibile formarsi un’idea qualsiasi di un essere o di una sostanza che sia senza
corpo e senza forma, senza figura e senza alcuna estensione.190
Un’anima materiale, estesa, corporea e atomica: alla fine ci siamo arrivati!
La materia può quindi percepire, sentire, conoscere, amare, odiare, desiderare
e subire le passioni dell’anima. Tutte queste operazioni si riducono a
modificazioni della materia. I cartesiani affermano che l’anima è immortale,
mentre, al contrario, Meslier ritiene che, in quanto anima, si muova con il corpo:
«Essa si dissolve e si dissipa nell’aria in un istante, come un vapore sottile, o
come un’esalazione leggera simile alla fiamma di una candela, quando la
spegniamo di colpo, o si spegne insensibilmente da sola, quando viene a
mancare la materia combustibile che l’alimenta».191 Meslier, a questo punto,
cita… Montaigne! Noi siamo fatti, dice, per quanto riguarda l’anima, di una
«materia sottile e agitata che ci dà la vita»,192 e, per quanto riguarda il corpo, di
una «materia grossolana e pesante».193 Si tratta però sempre e comunque di
un’unica materia diversamente modificata. Di conseguenza, «la nostra anima è
materiale e mortale come il nostro corpo».194
Ricapitoliamo: Dio non esiste ed esiste solo la materia; per questo motivo, la
nostra anima è materiale; come il nostro corpo, anche quest’anima è mortale e
deperibile. Non esiste alcuna obiezione possibile al fatto che questa legge che
riguarda gli esseri umani valga anche per gli animali. Sempre in opposizione con
Descartes (cosa decisiva per definire un cartesiano, anche se di estrema sinistra),
il parroco Meslier attacca la teoria dell’animale-macchina e diventa il primo
filosofo a difendere l’idea di un’anima animale ontologicamente simile a quella
degli uomini.
In una lunga tirata contro i sacrifici animali teoricamente commissionati da
Dio, in cui cita con abbondanza i testi sacri che li supportano, il filosofo prende
le difese degli animali e sistematizza tutto il problema della loro anima:
È una crudeltà e una barbarie ucciderli, ammazzarli e sgozzarli come facciamo, questi animali che
non fanno alcun male e che sono sensibili al male e al dolore tanto quanto noi, nonostante tutto
quello che ne dicono in maniera vana, falsa e ridicola i nostri nuovi cartesiani, che li considerano
delle pure macchine senz’anima e senza sentimento, e che, per questa ragione, basandosi su un
illusorio ragionamento quanto alla natura del pensiero, di cui pretendono che le cose materiali non
siano capaci, li credono completamente privi di qualsiasi tipo di conoscenza, e di qualsiasi tipo di
sentimento, piacere o dolore. Opinione ridicola, massima perniciosa e dottrina detestabile, dal
momento che tende manifestamente a soffocare nel cuore degli uomini qualsiasi sentimento di
bontà, dolcezza e umanità che in quanto uomini potremmo provare nei confronti di questi poveri
animali, e che dà loro modo e luogo di trasformare tutto quanto in un gioco, godendo del piacere
di tormentarli e tirannizzarli senza pietà, con la scusa che non provano alcun sentimento del male
che gli si infligge, non più di quanto proverebbero se fossero tante macchine buttate nel fuoco o
ridotte in mille pezzi. È invece qualcosa di manifestamente crudele e detestabile nei confronti di
questi poveri animali, i quali, essendo vivi e mortali come noi, ed essendo fatti come noi di carne,
sangue e ossa, e avendo, come noi, tutti gli organi atti alla vita e ai sentimenti, cioè gli occhi per
vedere, le orecchie per sentire, le narici per annusare e distinguere gli odori, la lingua e il palato in
bocca per differenziare i gusti delle carni e del cibo, se va bene o se non va bene, e i piedi per
camminare; e vedendo anche in loro tutti i segni e gli effetti delle passioni che noi stessi sentiamo,
dobbiamo senza dubbio credere che siano anch’essi sensibili proprio come noi al bene e al male,
ossia al piacere e al dolore; sono i nostri domestici e i nostri fedeli compagni di vita e di lavoro, e
per questo motivo dobbiamo trattarli con dolcezza. Benedette siano le nazioni che li trattano con
favore e benevolenza, e che compatiscono le loro miserie e i loro dolori. E maledette siano invece
le nazioni che li trattano con crudeltà, e che li tirannizzano, e che amano spandere il loro sangue e
sono avide di mangiare la loro carne [corsivi miei].195

Un testo incredibile, anche in considerazione del fatto che è stato scritto


all’inizio del Settecento, un testo che, con l’insistita ripetizione della formula
«come noi», con la preferenza accordata alla parola «piedi» anziché «zampe»,
con l’idea che, accanto agli animali da fatica, esistano anche degli animali da
compagnia, dà, a questi animali, che all’epoca venivano anche definiti «bruti»
(così scrive per esempio Descartes),196 una dignità pari a quella degli uomini!
Meslier prosegue la propria analisi nella stessa maniera del resto di questo
Testamento, e, come un pittore barocco, o manierista, ripete, riprende, replica,
ricomincia e ostinatamente insiste a sviluppare sempre la stessa analisi, a volte
con le stesse parole, gli stessi periodi, la stessa concatenazione di frasi, e
ovviamente le stesse idee. In una di queste pagine che rallentano la progressione
del testo, ma che testimoniano allo stesso tempo della passione con cui dice e
ridice le cose, Meslier confessa:
Non ho mai fatto nulla con così tanta repulsione come quando in alcune occasioni mi vedevo
costretto a tagliare o a far tagliare la gola a qualche pollo o a qualche piccione, o dovevo fare
ammazzare qualche maiale. Protesto di non averlo mai fatto se non con moltissima ripugnanza ed
estrema avversione, e se fossi stato un po’ più superstizioso, o incline alla bigotteria religiosa, mi
sarei senza dubbio schierato dalla parte di quelli che professano la religione di non uccidere mai
bestie innocenti, o non mangiare mai la loro carne. Detesto anche soltanto vedere le macellerie e i
macellai. 197

Ecco un ragionamento che basterebbe a far smettere di parlare di Meslier


come di un cartesiano, per quanto associabile a complementi come «di estrema
sinistra» – ricordiamoci che Descartes pratica la vivisezione sui cani senza
particolari stati d’animo, tagliandogli il torace per rovistare in mezzo agli organi
ed esaminare il funzionamento del cuore. L’autore del trattato su L’uomo è in
effetti solo una sostanza pensante, e Gassendi non ha torto a soprannominarlo
«Spirito»; invano cercheremmo in lui la compassione, la dolcezza, l’affetto e la
tenerezza che Meslier vorrebbe fosse riservata agli animali. E Meslier incrocia il
proprio ferro molte volte anche con Malebranche, di cui ci ricordiamo la facilità
con cui, Fontenelle testimone, prende a pedate la propria cagna gravida,
giustificandosi con il fatto che non sente niente.
Un’altra volta, Meslier rimette in circolo i propri argomenti per spiegare come
la teoria cartesiana dell’animale-macchina giustifichi i trattamenti crudeli inflitti
agli animali durante alcune feste, in cui, sulla pubblica piazza, vengono, per
esempio, torturati e massacrati dei gatti. Strapazza «questi stupidi, questi bruti
dissennati che non solo nei loro divertimenti privati, ma anche nei
festeggiamenti pubblici, arrivano a legare e attaccare dei gatti vivi in cima a dei
pali cui appiccano fuoco per bruciarli vivi e avere il piacere di vederne tutti i
movimenti violenti, e sentire le spaventose grida che questi poveri e disgraziati
animali sono costretti a lanciare per la durezza e la violenza dei tormenti, il che è
di sicuro un brutale, crudele e detestabile piacere, e una folle e deprecabile
gioia».198 E prosegue: «Se esistesse un tribunale che si occupasse di punire
simili crudeltà, per rendere giustizia a queste povere bestie denuncerei subito la
dottrina dei nostri cartesiani, così perversa, detestabile e piena di pregiudizi, e ne
perseguirei volentieri la condanna, fino a che non venisse bandita interamente
dallo spirito e dall’educazione degli uomini, e fino a che gli stessi cartesiani che
ora la sostengono non venissero condannati a fare onorevole ammenda e a
condannare essi stessi la loro propria dottrina».199 Ecco quello che si dice un
cartesiano ribelle!
In altri passaggi, Meslier confuta i ragionamenti che portano Descartes a
sostenere che gli animali non pensano perché pensare significa innanzitutto
pensare di pensare, sapere di sapere. In verità, gli animali non pensano di
pensare, però pensano comunque. Abbiamo per forza bisogno di vedere i nostri
occhi per vedere? Certo, l’animale non pensa sapendo di pensare, e non conosce
le modalità con cui sta pensando, però nonostante tutte le categorie di estensione
e di movimento, di profondità e di forma, di figura e di materia che Descartes
mette in campo per cercare di provare che gli animali sono macchine
esattamente come macchine sono gli orologi, tutto quanto si rivela contrario
all’evidenza!
Meslier si richiama, per esempio, al buon senso e all’osservazione della vita
nei cortili, dove tutto sembra indicare chiaramente ai cartesiani quanto si stanno
sbagliando! Non c’è bisogno di legare i cani sulle tavole e aprirgli la pancia per
sapere come funzionano: basta osservare come si comportano quando sono vivi
accanto ai polli e ai maiali. «I nostri cartesiani»,200 come scrive spesso e senza
mai una nota di ironia, ricaverebbero delle lezioni utili e imparerebbero a non
sostenere tante fesserie:
Andate un po’ a raccontare ai contadini che il loro bestiame non ha vita e non ha sentimento, che
le loro vacche e i loro cavalli, le loro pecore e i loro montoni sono solo congegni ciechi e
insensibili al bene come al male, e camminano solo in virtù del movimento degli ingranaggi,
come tante macchine, come tante marionette, senza vedere e senza sapere dove stanno andando.
Vi prenderanno sicuramente in giro. Andate a raccontare a questi contadini, o ad altra gente
simile, che i loro cani non hanno vita né sentimento, che non riconoscono i loro padroni, che li
seguono senza vederli, che gli si strusciano addosso senza amarli, che inseguono lepri e cervi e li
raggiungono correndo senza vederli e senza sentirli. Andate a raccontargli che bevono e
mangiano senza provare piacere, senza neanche avere fame, sete o appetito. Raccontategli che
strillano senza provare dolore quando vengono picchiati, e che fuggono davanti ai lupi senza
provare nessun timore. Vedrete come si metteranno a ridere di voi! E se si mettono a ridere di voi
è perché sono lontanissimi dal credere e dal farsi persuasi che le bestie viventi come quelle di cui
vi ho appena parlato siano senz’anima e senza vita, senza conoscenza e senza sentimento, tanto da
non riuscire a evitare di guardare tutti quelli che venissero a raccontare seri che gli animali sono
tutti privi di vita, conoscenza e sentimento, come gente assolutamente ridicola.201
Capitolo nono
Il cuore della rana su un piatto riscaldato
Elettrizzare i corpi

Accidenti! Richiamarsi al buon senso, alla ragione, all’osservazione,


all’esperienza e alla realtà; chiedere ai pensatori di uscire dalle biblioteche e
dagli scriptorium e invocare il sapere dei contadini contro l’autorità dei
parrucconi; preferire le lezioni del cortile, della stalla, della scuderia e del porcile
ai discorsi insensati degli anfiteatri delle università; tutte queste cose non
potevano non urtare i filosofi di scuola! Meslier alla corte dei grandi? La
corporazione filosofeggiante ha vegliato, veglia e veglierà che questo non si
debba mai verificare…
Il Testamento dell’abate Meslier non è certo stato redatto per fare un favore alla
corporazione dei filosofi filosofeggianti che hanno sempre trattato male questo
fuorilegge della tribù! Abbondantemente saccheggiato ma raramente ricordato, e
anche in questo caso sempre male o in maniera distorta, Meslier allarga la
propria sfera d’influenza su tutto il pensiero materialista del Settecento, e oltre.
Torna, per esempio, utile persino ai deisti, nella cui schiera non era di certo da
annoverare – in questo caso, è Voltaire a comportarsi da grande profanatore
dell’anima materiale dell’abate Meslier.
Il filosofo ardennese appronta tre copie del proprio lunghissimo memoriale,
forse addirittura quattro, preoccupandosi di tenerle separate in luoghi diversi.
Una volta morto, e una volta caduta nelle mani del nemico, una sola copia del
testo sarebbe risultata troppo semplice da distruggere, magari buttata dentro il
fuoco di un camino. E lo sappiamo, agli atei autentici, i nemici non mancano
mai.
Già verso il 1732, ossia a soli tre anni di distanza dalla morte del parroco, a
Parigi circolano più di un centinaio di copie, vendute sottobanco a prezzi
d’oro… Tutti quelli che nella capitale vogliono farsi passare per pensatori
devono leggere l’opera, e parecchie riproduzioni girano anche in provincia.
Nel 1762, Voltaire pubblica un testo che influirà parecchio, anche se
negativamente, sulla fortuna dello stesso Meslier, di cui tesse un falso ritratto:
Extraits des sentiments de Jean Meslier [Estratto dei sentimenti di Jean Meslier].
In effetti, Voltaire, monarchico deista e amico dei potenti, non può certo amare
quest’uomo che difende il materialismo, l’ateismo, gli strati più bassi della
popolazione, i contadini, la rivoluzione, il tirannicidio, il comunismo e
l’internazionalismo! Quindi, ecco che tutto quello che nell’opera di Meslier lo
imbarazza scompare, e tutto quello che invece può servire ad alimentare la sua
propria battaglia anticlericale viene evidentemente portato in primo piano. E,
come se questa macelleria non bastasse, dopo aver censurato il Meslier ateo e
rivoluzionario, Voltaire aggiunge dei passaggi di natura deista scritti di propria
mano, allo scopo di meglio arruolare il parroco di Étrépigny sotto le proprie
bandiere! E fa poi circolare questi suoi misfatti a tappe forzate. Quello che però
è sicuro è che non si tratta di un’opera di Meslier. È un’opera di Voltaire, lo
stesso Voltaire che scrive che «se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarlo»,
lo stesso Voltaire che pensa che la plebaglia abbia bisogno della religione perché
il mondo possa continuare a girare attorno alla monarchia e al suo sistema
feudale, sistema che infatti non viene mai messo in discussione. Per esempio,
ecco cosa scrive a Sua Altezza il Monsignore Principe di ***:
Dovremmo riflettere sulle bizzarrie spirituali di questo malinconico prete che voleva liberare i
propri parrocchiani dal giogo di una religione che lui stesso aveva predicato per vent’anni. Perché
scrivere questo testamento per contadinotti che non sanno leggere? E, anche potessero farlo,
perché togliere loro un giogo salutare, un timore necessario che da solo può prevenire i crimini
più segreti? La fiducia nel sistema delle pene e delle ricompense dopo la morte è un freno di cui il
popolo ha bisogno. Una religione ben emendata può essere il primo legante di una società.202

Se ne ricorderà Robespierre, quando s’immaginerà il culto dell’Essere


Supremo… Ed è sempre a Voltaire che dobbiamo alcune tesi molto singolari
sulla religione. Ecco, per esempio, cosa scrive all’amico enciclopedista
d’Amilaville: «È una cosa molto opportuna che il popolo venga guidato e non
istruito: non è degno di esserlo».203 Oppure, qualche giorno più tardi, sempre
allo stesso destinatario: «Mi pare essenziale che esistano dei miserabili ignoranti.
Quando la plebaglia si picca di ragionare, tutto è perduto».204 Stiamo parlando
dello stesso Voltaire che si fa sistemare in casa un cappellano e che si fa
costruire una chiesa, preoccupandosi di chiedere a papa Benedetto XIV alcune
reliquie per l’altare della propria cappella privata.
I filosofi del Settecento leggono quindi tutti Voltaire anziché Meslier:
d’Alembert, Diderot, d’Holbach, Rousseau, Mably, Morelly, Maréchal,
Helvétius, Condillac, solo per citare i più conosciuti. È soltanto dal 1864, grazie
all’opera di Rudolf Charles (vero nome: Rudolf Charles d’Ablaing Van
Giessenburg), massone ateo olandese, che possiamo leggere un’edizione
completa del Testamento di Meslier, ripulita da tutti gli imbrogli e da tutte le
bugie di Voltaire. Intanto, tra la morte del parroco e la pubblicazione in tre
volumi ad Amsterdam della sua opera completa di più di tremila pagine, c’è
stato il tempo di fare la Rivoluzione francese…
Per quello che qui ci riguarda, ossia per quello che riguarda l’odissea
occidentale dell’anima, il punto essenziale è capire se e come Julien Offroy de la
Mettrie conoscesse il testo di Meslier. La Mettrie è un contemporaneo di
Meslier, anche se ha vent’anni quando quest’ultimo muore e cinquantatré
quando esce la falsa edizione di Voltaire. L’autore de L’uomo macchina muore
nel 1751 e ha probabilmente sentito parlare di quell’opera nei salotti che
frequenta e in cui è molto d’attualità. Comunque stiano le cose, esiste una copia
intera del Testamento alla corte di Federico di Prussia, dove La Mettrie vive tra
il 1747 e il 1751, anno in cui muore, ma anche in cui viene pubblicata la sua Arte
di godere – un trapasso filosofico e coerente per questo edonista, se è vero, come
si dice, che sia stato dovuto a un’indigestione di pasticcio di fagiano.
Sappiamo che La Mettrie conosce Meslier, perché ne L’Ouvrage de Pénélope,
ou Machiavel en médecine [L’opera di Penelope, ovvero Machiavelli in
medicina], pubblicato nel 1748, scrive: «Spinoza non dice mai quello che pensa:
lo si scopre dalle sue carte dopo la morte, come è successo anche per quel
parroco della Champagne, di cui parecchia gente già conosce la storia, uomo
della più grande virtù, in casa del quale sono state trovate tre copie della sua
professione di fede atea».205
La Mettrie passa spesso per ateo, anche se in realtà non lo è affatto, e deista
sarebbe la definizione più corretta.206 Si rivela invece radicalmente materialista,
capace di spingere il sistema epicureo fino alle sue estreme conseguenze. Lo si
cita poco, o non lo si cita per niente, non perché sia ateo, ma a causa del suo
edonismo, così profondamente rivendicato: scrive L’arte di godere (1751), come
ho già segnalato, ma anche L’École de la volupté [La scuola della voluttà]
(1746), l’Antiseneca ossia Discorso sulla felicità (1748), dove afferma che «lo
stoico non ha maggior sensibilità di un lebbroso»,207 e una Vénus métaphysique
ou De l’origine de l’âme humaine [Venere metafisica, ovvero Dell’origine
dell’anima umana] (1752). Tutte opere che non possono incontrare il favore dei
signori Lumi, i quali, certo, criticano il cristianesimo, però continuano a
difendere un ideale ascetico severo e austero. Aggiungiamo a queste
considerazioni il fatto che, con il suo determinismo radicale, La Mettrie non
condivide affatto l’ottimismo di questi stessi Lumi.
Non crede, per esempio, che un cambiamento della società possa indurre una
metamorfosi dell’uomo. Da medico e da autore di due libri sulle malattie
veneree, non pensa di poter sperare niente da quest’uomo nuovo che si profila
nel corso del Settecento. Nel suo Discorso sulla felicità, scrive chiaramente: «In
generale gli uomini sono nati cattivi; senza l’educazione, i buoni sarebbero
pochi».208 Ci muoviamo qui agli antipodi del discorso ingenuo, irenista, e
tossico, di Rousseau!
Nel Discours préliminaire [Discorso preliminare], si rivolge a una élite, a
un’aristocrazia del pensiero, senza manifestare alcuna preoccupazione per la
povera gente o per i miseri. Al popolo e al contenimento delle sue furie, riserva
la severità delle leggi civili e religiose. A proposito di questo popolo, afferma:
«Sappiamo quanto sia difficile far muovere un animale che non vuole lasciarsi
condurre; applaudiamo dunque alle vostre leggi, alla vostra morale e persino alla
vostra religione, quasi quanto alle vostre forche e ai vostri patiboli».209
La Mettrie è molto pesante nei confronti dei filosofi illuministi che vogliono
educare le folle e le masse; è convinto che «Il popolo non vive con i filosofi e
non legge i libri di filosofia. Se per caso gliene capita uno tra le mani, o non ci
capisce niente, o, se riesce a tirarci fuori qualche pensiero, non crede a una sola
parola; tratta senza mezzi termini i filosofi, e i poeti, come fossero tanti pazzi, e
li trova degni dei manicomi».210 La Mettrie prosegue il proprio attacco con un
entusiasmo molto sentito! Come avrebbe mai potuto ottenere il consenso e il
sostegno della casta dei filosofi filosofeggianti?
La sua opera è molteplice e, come tutte le opere ad alto contenuto ideologico
anticristiano, è scritta secondo le logiche libertine della dissimulazione. Per
esempio, ci si rifiuta di assumere la responsabilità di un testo a proprio nome e la
pubblicazione esce anonima e viene stampata all’estero; poi, vengono preparati
una serie di controtesti che difendono una serie di controtesi con cui l’accusato
stesso attacca le tesi del libro, facendo finta che non siano sue. Ce ne sono
tantissime, di strategie! Nel suo Abrégé des systèmes [Riassunto dei sistemi], La
Mettrie punta l’indice contro la dissimulazione di Descartes e di Spinoza, però
resta difficile distinguere anche in lui tutto quello che ne deriva.

L’uomo macchina (1747) è l’opera con cui La Mettrie viene ricordato nella
storia delle idee. Che cosa ci racconta questo libro pubblicato a quasi vent’anni
dalla morte di Jean Meslier? Questo libro ci mostra come in filosofia esistano
due correnti: quella più antica del materialismo e quella successiva dello
spiritualismo. I materialisti sperimentano e osservano (e qui La Mettrie predica
per la propria parrocchia, tessendo le lodi dei medici filosofi), mentre gli altri
raccolgono le informazioni prendendole dalle Scritture e si accontentano di
metafisica o di teologia.
Il medico La Mettrie afferma che qualsiasi malfunzionamento del corpo
(febbre, malattia, fatica, ubriachezza, colpo apoplettico, sincope, oppio, sonno,
caffè, fame, sazietà, gravidanza, continenza, vecchiaia…) produce effetti
sull’anima: «I diversi stati dell’anima sono sempre correlati a quelli del corpo.
Per meglio dimostrare tutta questa dipendenza, e queste cause, serviamoci qui
dell’anatomia comparata e apriamo le interiora dell’uomo e quelle degli animali.
È il mezzo per conoscere la natura umana, se non si è già illuminati da un giusto
parallelismo della struttura degli uni e degli altri».211 Quindi, in sostanza,
aprendo il corpo si scoprono i meccanismi dell’anima. Il corpo, e più in
particolare il cervello, è, con poche differenze, lo stesso nell’uomo e in certi
animali: «L’uomo, di tutti gli animali, è quello che ha più cervello, e che ha il
cervello più labirintico, in ragione della propria massa corporea: seguono la
scimmia, il castoro, l’elefante, il cane, la volpe, il gatto, e così via. Questi sono
gli animali che maggiormente assomigliano all’uomo».212
La Mettrie parla del «corpo calloso» come della sede dell’anima e mette in
relazione la quantità di materia con la qualità dell’anima: più c’è materia grigia e
materia che connette i due emisferi del cervello, più è presente l’uomo e
l’umano; meno ce n’è, come «nei pesci [che] hanno la testa grossa, ma […]
vuota di sensazioni, come quella di parecchi uomini»,213 meno troviamo
l’umano. I pesci sono privi di corpo calloso e hanno poco cervello, mentre gli
insetti ne sono sostanzialmente privi.
La Mettrie fornisce quindi una gerarchia della molteplicità del vivente,
mettendo in cima l’uomo, alla base gli insetti, e in seconda posizione la scimmia.
La Mettrie rifiuta la logica del dualismo giudaico-cristiano, soprattutto quella di
Descartes, che separa gli uomini dagli animali concedendo l’anima ai primi ma
non ai secondi; e difende invece l’esistenza di un’anima materiale e corporea
collocata nel cervello, e più in particolare nel corpo calloso. Ne L’uomo pianta,
scrive: «un niente di più o di meno nel cervello, dov’è l’anima di tutti gli uomini
eccettuati i leibniziani, potrebbe immediatamente precipitarci in fondo: non
disprezziamo quindi esseri che hanno la nostra stessa origine. In verità non sono
che al secondo posto, ma la loro posizione è più stabile e più ferma».214
Tirando fuori l’idea di insegnare a una scimmia a parlare, il filosofo ci sta in
pratica proponendo qualcosa d’incredibile, qualcosa che lo trasporta
direttamente nella più attuale modernità. Ce la immaginiamo, la confusione
ontologica che un’idea come questa può aver prodotto all’interno del
microcosmo giudaico-cristiano! Se la scimmia parla, cosa ormai può più
distinguerla dall’uomo? È il suo modo tutto ironico di rispondere al Descartes
che, con la sua idea degli animali-macchina, sosteneva che solo l’uomo poteva
pensare e parlare. La scimmia di La Mettrie scongiura insomma la cagna
cartesiana di Malebranche.
«Questo animale ci somiglia tanto, che i naturalisti l’hanno chiamato uomo
selvatico o uomo dei boschi».215 Per il suo esperimento, sceglie una scimmia non
troppo giovane e non troppo vecchia, con un’andatura sciolta e vivace, e la porta
in una scuola per sordomuti, quella di Amman, dove si insegna il linguaggio dei
segni, linguaggio attraverso il quale si pensa sia possibile farla parlare. Johann
Conrad Amman aveva pubblicato nel 1692 un’opera intitolata Surdus loquens
seu Methodus qua, qui surdus natus est, loqui discere possit [La dissertazione
sulla loquela]. Le Quatre lettres sur l’éducation des sourds [Quattro lettere
sull’educazione dei sordi] dell’abate de L’Épée saranno pubblicate nel 1774 e il
suo Institution des sourds et muets par la voie des signes méthodiques
[Educazione dei sordi e dei muti attraverso il metodo dei segni] nel 1776, quindi
solo dopo la morte di La Mettrie, il quale infatti consacra parecchie pagine del
suo Traité de l’âme [Trattato sull’anima]216 proprio al metodo di Amman.
Il filosofo parte dal principio che tale metodo permette ai sordomuti di vedere
i segni: di avere le orecchie negli occhi, per riprendere la sua immagine. Anche
la scimmia vede e intende, e capisce quello che vede e intende. Per questo
motivo, il metodo potrebbe funzionare, e forse ancora meglio che con i bambini
sordi e muti. La Mettrie esalta il genio di Amman, che «ha liberato gli uomini
dall’istinto cui sembravano condannati, ha dato loro delle idee, dell’intelligenza,
insomma, un’anima, che non avrebbero mai avuto».217
Vediamo qui che, per La Mettrie, l’anima è materiale, mortale, sostanziale,
localizzata (nel corpo calloso del cervello, come abbiamo visto) e, notizia
incredibile, suscettibile di essere acquisita! Perché «dare un’anima» per mezzo
di un metodo d’insegnamento della parola a chi, altrimenti, ne sarebbe sfornito
rappresenta una rivoluzione ontologica. La Mettrie inaugura l’era postcristiana in
fatto di anima – un’era in cui ci troviamo ancora oggi e in cui il transumanesimo
inscrive il proprio orizzonte.
Proiettandosi al momento in cui il lavoro di acquisizione sarà terminato e la
sua scimmia avrà cominciato a parlare, La Mettrie è portato a concludere:
«Allora non sarebbe più né un uomo selvaggio né un uomo mancato: sarebbe un
uomo perfetto, un piccolo uomo di campagna, con altrettanta stoffa e muscoli
che noi per pensare a trar profitto dalla sua educazione» [corsivo mio].218 E
prosegue: «dagli animali all’uomo non c’è un passaggio brusco: i veri filosofi ne
converranno. Che cos’era l’uomo prima dell’invenzione delle parole e della
conoscenza delle lingue? Un animale della sua specie, che aveva molto meno
istinto naturale degli altri, di cui allora non si credeva re, e che si distingueva
dalla scimmia e dagli altri animali soltanto come se ne distingue la scimmia
stessa, voglio dire per una fisionomia che prometteva un maggiore
discernimento».219
L’anima è dunque materiale, cerebrale nel caso specifico, e si definisce
attraverso tutti gli engrammi che accoglie. È costituita dagli atomi del corpo
calloso, che è il luogo dove si trovano le informazioni acquisite tramite
l’educazione e l’esperienza. E siamo ovviamente d’accordo sul fatto che, se
esiste un’uguaglianza formale, sostanziale e naturale (perché tutti quanti
possiedono un corpo calloso), esiste anche un’ineguaglianza qualitativa, che
dipende da quello che si trova dentro l’anima stessa e dalla casualità degli
incontri e delle esperienze avute. Da qui l’affermazione della disuguaglianza
ontologica tra gli uomini, che colloca La Mettrie nel campo dei pensatori
inaccessibili all’ottimismo dei Lumi. Certo, un’educazione simile dovrebbe
produrre anime uguali, ma immaginare che una finzione come questa possa solo
essere possibile significa semplicemente sognare. Ciò non toglie che, però, parte
dei protagonisti della Rivoluzione francese proprio a questo aspira, a costruire un
Uomo Rigenerato…
Come spiegare allora il fatto che, da una parte, esistono gli uomini e,
dall’altra, gli animali, se è vero che «la natura ha usato una sola e medesima
pasta, di cui ha variato soltanto i lieviti»?220 L’immagine del lievito è
interessante, perché introduce l’idea di una dinamica, di un’attività della materia.
Quello che separa La Mettrie, autore de L’uomo macchina, dalla piccola
scimmia che balla su un ponte, «non è […] altro che un grado di fermentazione».
221
In un altro passaggio, il filosofo rimanda ancora una volta alla fisiologia: «Se
ora mi si domanda quale sia la sede di questa forza innata nei nostri corpi,
rispondo che essa evidentissimamente risiede in ciò che gli Antichi hanno
chiamato il parenchyma, cioè nella sostanza propria delle parti, prescindendo
dalle vene, dalle arterie, dai nervi, insomma dall’organizzazione di tutto il corpo;
e che di conseguenza ogni parte contiene in sé delle molle più o meno vivaci,
secondo il bisogno che ne hanno le parti stesse».222
«Cervello», «corpo calloso», «parenchyma», altrove «tessuto midollare»,223 o
anche «forza innata nei nostri corpi»,224 «principio eccitante e impetuoso»225
nell’encefalo: La Mettrie cancella la metafisica del teologo cristiano in nome
della fisica del medico materialista. Sa che tutto discende dall’organizzazione
della materia, anche se alla fine ammette di essere incapace di dirne di più: «Mi
si conceda soltanto che la materia organizzata è dotata di un principio motore, il
quale solo la differenzia dalla materia non organizzata (si può negare qualcosa
all’osservazione più incontestabile?) e che negli animali tutto dipende dalla
diversità di questa organizzazione».226 E, come abbiamo visto, mette questo
principio motore in relazione con il «grado di fermentazione»; da qui l’accenno
ai «lieviti».
Ricordiamoci di come, posto di fronte allo stesso arduo compito di rispondere
a domande come: «In che modo si trova organizzata la materia?», «In che modo
si passa dalla materia all’idea?», o: «Quali sono i processi che fanno sì che la
materia pensi?», anche Jean Meslier, nel suo Testamento, invoca «una specie di
modificazione, e di fermentazione continua»227 per spiegare ciò che, nella vita,
vuole la vita come essa si manifesta.
Precisiamo che, a queste domande su cui inciampano Meslier e La Mettrie,
non siamo riusciti a dare una risposta nemmeno oggi, nonostante tutta
l’ingegneria contemporanea delle risonanze mediche! «Incomprensibili
meraviglie della natura»,228 si accontenta di scrivere La Mettrie, e oggi non
potremmo fare o dire di meglio!
La fisica lamettriana impedisce dunque qualsiasi possibilità di metafisica e
spinge verso un’etica radicalmente postcristiana. Scrivendo che «L’uomo è un
macchina governata da un fatalismo assoluto»,229 l’autore de L’uomo macchina
non si pone tanto all’origine di una tesi meccanicista (abbiamo visto che l’ipotesi
della fermentazione impedisce questo tipo di lettura), quanto alla base di una tesi
fatalista, che comunque manda anch’essa in frantumi l’ontologia cristiana.
Perché dire, da una parte, che non esiste altro che materia, visto che l’anima è
materiale e dunque mortale, e, dall’altra, che il libero arbitrio non esiste e che a
dettare legge è il puro determinismo significa distruggere l’edificio cristiano.
Scrivere che «in tutto l’universo c’è una sola sostanza diversamente
modificata»,230 oltre al fatto di essere una tesi apertamente spinoziana, significa
anche affermare che il corpo e l’anima, la scimmia e l’uomo, il criminale e il
prete, l’acaro e il Sole costituiscono tutti delle semplici variazioni di un solo e
identico tema, quello della materia. Non più di quanto l’acaro sia responsabile di
essere acaro piuttosto che Sole, o di quanto il Sole lo sia di essere astro piuttosto
che insetto, anche l’assassino non ha scelto di commettere il proprio crimine o il
santo di condurre la propria vita virtuosa. Si tratta semplicemente di
un’organizzazione diversa della materia di cui sono costituiti, senza che si sappia
troppo bene che cosa sia che decide, e non chi.
L’uomo macchina è un inno al fatalismo che cancella la responsabilità e
quindi il senso di colpa. Se l’anima è materiale allo stesso titolo della vescica, e
se la materia che la costituisce nel cervello è simile a quella che compone la
prostata, allora punire un criminale (come, per esempio, quella fille sauvage di
Châlons-en-Champagne che si è mangiata la sorella) o punire una persona per la
sua incontinenza urinaria si rivelano imprese parimenti sciocche.
Penso lo stesso di tutti coloro che commettono dei delitti, anche involontari, oppure dovuti al
temperamento: di Gastone di Orléans che non poteva trattenersi dal rubare; di una certa donna che
durante la gravidanza andava soggetta allo stesso vizio, che poi i suoi figli ereditarono; di quella
che, nello stesso stato, mangiò suo marito; di quell’altra che ammazzava i bambini, ne salava le
carni, e ne mangiava tutti i giorni un po’ come prosciutto; di quella figlia di un ladro antropofago,
che lo divenne a dodici anni, sebbene, avendo perduto padre e madre quando aveva un anno,
fosse stata allevata da persone per bene; per non parlare di altri esempi di cui sono pieni i libri dei
nostri osservatori, e che provano tutti l’esistenza di mille vizi e virtù ereditari, che passano dai
genitori ai figli, come altri che passano dalla balia a coloro che essa allatta. Dico dunque e
sostengo che la maggior parte di quei disgraziati non sentono immediatamente l’enormità della
loro azione. Per esempio, la bulimia, o fame canina, può spegnere ogni sentimento: è una mania
di stomaco che occorre soddisfare. Ma una volta ritornate in sé e come disinebbriate, quali rimorsi
per quelle donne che si ricordano l’assassinio commesso contro ciò che avevano di più caro!
Quale punizione per un male involontario, al quale non hanno potuto resistere, del quale non
hanno avuto coscienza alcuna.231

Conclude il filosofo sostenendo che i giudici mancano di saggezza quando


condannano a morte persone già vittime della conformazione particolare della
loro materia corporea, prima ancora di essere colpevoli di qualsiasi altra cosa. E
che a dirimere questo genere di affari dovrebbero essere i medici più che i
magistrati.
La fine dell’anima immateriale, immortale, responsabile e quindi punibile
apre la strada, moderna, a un’anima materiale, mortale e innocente. Con il suo
Dio e il suo demonio, ma soprattutto con la sua anima immateriale ed eterna, la
morale cristiana sfruttava la minaccia dell’inferno e la promessa del paradiso per
costruire l’ordine sociale e ottenere la sottomissione ai poteri costituiti – Meslier
ha già analizzato tutto questo alla perfezione. Senza Dio e senza demonio, con
un’anima collocata nel corpo calloso di un cervello e sottoposta a generazione e
corruzione, ecco che riappare l’amoralità. La Chiesa la chiama immoralità, ma è
solo perché regola il giudizio sulla propria, di morale, e quest’anomia produce
crepe nell’edificio della civiltà.
Ne L’uomo macchina, La Mettrie spinge tutti a obbedire alla propria natura,
dal momento che non si può fare altro! «Il corpo umano è una macchina che
monta da sé le sue molle, immagine vivente del moto perpetuo».232 Che il
delinquente conduca la propria vita di dissolutezza, che il libertino passi la
propria tra stupri e fornicazioni, che il santo viva la propria esistenza in mezzo
alla preghiera e alla contemplazione, è sempre al di là del bene e del male che si
gioca tutto: «Non mi si dica che invito al delitto, perché io invito soltanto alla
tranquillità nel delitto».233

C’è stato un filosofo che ha preso La Mettrie alla lettera e non si è accontentato
di questa «tranquillità nel delitto», un filosofo che si aspettava qualcosa di più e
qualcosa di meglio, e che si aspettava il godimento nel crimine. Ma cosa dico?
Non solo se lo aspettava, ma addirittura lo sperava, lo desiderava, lo voleva,
trasformandolo, da uomo forsennato che era, nella ragione d’essere di tutta la sua
vita e di tutta la sua opera. Quest’uomo è il marchese de Sade.
Parlando dell’opera, esistono due marchesi, che sono poi in verità uno solo: il
primo scrive le pagine pornografiche, con tutte le combinazioni sessuali
possibili (stupri, sevizie e torture comprese, e poi le pratiche di necrofilia,
zoofilia, pedofilia, coprofilia, scatologia e incesto, e poi ancora gli omicidi, e
tutti gli altri crimini amati dai libertini); il secondo, invece, infarcisce (tramite un
procedimento visibilissimo perché realizzato in maniera molto grossolana,
soprattutto nella Filosofia nel boudoir) delle lezioni di filosofia tra due scariche,
tre orge, dieci orgasmi e trenta eiaculazioni – e parlo ovviamente delle
performance di una sola mezza giornata…
Queste lezioni di filosofia, l’eroe sadiano, maestro libertino per eccellenza, le
impartisce in piena azione, cioè mentre con una mano stringe un grande membro
virile e con l’altra rovista l’ano di un vescovo, mentre sodomizza una capra e si
fa lui stesso socratizzare da una donna dotata di strap-on (il quadro l’ho
ricostruito io); mentre fa tutte queste cose, trova il tempo di sciorinare senza
perdere l’erezione pagine intere dei filosofi materialisti a giustificazione delle
proprie pratiche: Helvétius, d’Holbach, Diderot e La Mettrie vengono tutti
convocati, senza virgolette, nelle opere complete del marchese, ultimo pensatore
feudale e non primo dei moderni, femminista, libertario, solare e alfiere del sesso
liberato e del genere umano, come pretende invece certa vulgata molto diffusa
dalle parti di Saint-Germain-des-Prés, rimasta a rimasticare senza sosta gli
elementi linguistici raccolti da Apollinaire in un’antologia compilata su
commissione nel 1909! E poi, cos’altro? Ricordiamoci di come Pasolini abbia
molto opportunamente accostato Le 120 giornate di Sodoma ai campi di morte
nazisti… Qui però entriamo in un altro discorso…
Si passa spesso sotto silenzio il Sade filosofo, o quantomeno l’autore che crea
i suoi collage filosofici raccogliendo materiali dalla coeva letteratura
anticristiana, atea e materialista, clandestina e non clandestina, per giustificare la
propria vita di delinquente sessuale patentato.234
Non facciamo molta fatica a immaginare quanto il nuovo paradigma
formulato da La Mettrie nel suo testo su L’uomo macchina, cioè quello di un
mondo senza Dio e governato dal fatalismo della materia, che esclude qualsiasi
responsabilità e quindi qualsiasi colpevolezza, un mondo de facto senz’anima,
convenisse benissimo a un uomo come Sade, che una certa fermentazione della
materia, per utilizzare le formule di Meslier e di La Mettrie, faceva di lui quello
che era. Ecco una creatura che, se non si apparteneva alla nobiltà o al clero, era
meglio non incontrare nel corso della propria esistenza. Credo del libertino Sade:
«Che m’importa del crimine […] purché mi dia diletto».235 È l’imperativo
categorico di un uomo feudale.
Quello che voglio prendere in considerazione in quest’ultima opera del
marchese è qualcosa che sembra appartenerle profondamente sul terreno delle
idee, e cioè l’introduzione dell’elettricità nel pensiero materialista. In questo
romanzo dove si catalogano tutte le possibili perversioni, Sade ci parla in effetti
del «fluido elettrico che circola nelle cavità dei nostri nervi».236 Di che si tratta?
In Juliette ovvero le prosperità del vizio, la strega Durand, uno dei personaggi
di Sade, si esprime in questi termini:
L’anima dell’uomo […] non è altro che una parte di quel fluido etereo, di quella materia
infinitamente sottile la cui origine è nel sole. Tale anima, che ritengo essere l’anima collettiva del
mondo, è il fuoco più puro che arda nell’universo, non brucia per sé stesso ma, introducendosi
nella cavità dei nostri nervi, dove risiede, imprime tale movimento al meccanismo animale da
renderlo capace di tutti i sentimenti e di tutte le reazioni chimiche. È in sostanza uno degli effetti
dell’energia, che conosciamo ancora troppo poco, ma di certo non è un’altra cosa.237

Non stupisce che Sade faccia formulare questa teoria radicalmente


anticristiana, pagana e, in un certo senso, panteista e spinoziana, come si sarebbe
detto all’epoca, da una strega.
Questo testo, seguendo il principio operativo del saccheggio delle opere
libertine messo in pratica anche dal marchese, si fonda sul Trattato dei tre
impostori, un’opera anonima il cui quinto capitolo sull’anima riprende i
Discours anatomiques [Discorsi anatomici] di Guillaume Lamy, che, a loro
volta, mescolano un po’ di teoria stoica del fuoco dinamico come anima del
mondo nella materia (il famoso pneuma), uno spruzzo di teoria dell’anima ignea
di Telesio e un trattato di teoria cosmologica copernicana.
Sade spiega tutto per mezzo della materia e, più in particolare, tirando in ballo
il fatalismo degli atomi portatori di elettricità. Al di là del bene e del male, i
flussi animano la materia per produrre a volte un carnefice e a volte una vittima.
C’è un personaggio di Juliette che proclama: «il celebre La Mettrie aveva
ragione, quando diceva che bisogna avvoltolarsi nella sporcizia, come i porci e
che si deve trovare, come loro, il piacere negli estremi livelli della corruzione».
238
Nessuno sceglie mai niente: è la costituzione atomica, nervosa ed elettrica,
peculiare a ciascun essere a fare di quest’essere un uomo feroce come una tigre o
dolce come un agnellino. A seconda dello spessore degli organi, della velocità di
trasmissione delle informazioni nervose, della quantità di fluidi in gioco e del
vortice delle particelle, uno si ritrova a divorare il proprio prossimo, mentre un
altro a lavargli i piedi. Di modo che «la sollecitazione provocata nel fluido
elettrico dai rapporti degli oggetti esterni, operazione i cui effetti definiamo
passioni, stabilisce la tendenza al bene o al male».239
Sade parla di «fluido elettrico», di «globuli elettrizzati», di «fluido nervino»,
di «atomi elettrici», e dà così ragione a La Mettrie che, ne Les Animaux plus que
machines [Gli animali più che macchine], s’interroga sull’
agente dei corpi animati, quell’Archè a cui il sentimento deve la propria esistenza, come il
pensiero la deve al sentimento, e intendo il movimento. Di sicuro, l’uno senza l’altro non avrebbe
potuto produrre un effetto così grande, soprattutto quello del parenchyma, che è il più debole di
tutti. E, in effetti, che cos’è questa contrazione spontanea, senza i soccorsi vitali? E questi, a loro
volta, riuscirebbero a spostare in maniera così potente simili macchine, se non le trovassero
sempre pronte a essere messe in movimento da questa forza motrice, da questo meccanismo
innato, così universalmente diffuso e dappertutto, che diventa persino difficile dire dove non sia
presente e anche dove non si manifesti con effetti sensibili, anche dopo la morte, anche in parti
staccate del corpo, tagliate a pezzi. Il fuoco che fa durare più a lungo la contrazione del cuore
della rana, sistemato sopra un piatto riscaldato sarebbe il principio motore di cui stiamo parlando?
L’elettricità non renderebbe più plausibile questa nuova congettura?240

Il piacere, il godimento, l’orgasmo, la voluttà, allo stesso titolo della


generosità, dell’amore per il prossimo, della bontà e dell’altruismo sono quindi,
in La Mettrie come in Sade, suo discepolo, solo una questione di atomi, e
nient’affatto di morale. Tutti quelli che si mettono a giudicare sbagliano: né il
vizio né la virtù sono volontari. Sono piuttosto loro a decidere: il vizio
s’impadronisce di questa persona, e la virtù prende quell’altra. Il sadismo
definisce un giansenismo della carne. Anche l’anima atomica.
Parte terza
DISTRUGGERE L’ANIMA
Sotto il segno della scimmia

Dove La Mettrie si mette in testa d’insegnare a una scimmia a parlare con il linguaggio dei segni inventato
da poco.
Dove, nella sua demonologia, Jean Bodin trasforma
la scimmia nella figura lubrica per eccellenza.
Dove il naturalista Buffon distingue la scimmia dall’uomo facendo leva sull’anima immateriale e invisibile.
Dove il marchese de Sade trasforma la scimmia
in un partner sessuale ideale perché non parla
né durante l’orgia né dopo.
Dove l’accademico Maupertuis sostiene che la scimmia
si riproduce senza difficoltà con i neri.
Dove Restif de La Bretonne ci insegna che la scimmia
preferisce le donne che hanno odori forti alle femmine
della propria specie.
Dove l’abate Sieyès ipotizza l’incrocio tra scimmie
e uomini per produrre una razza di domestici efficienti.
Dove Rousseau organizza in ordine gerarchico
l’uomo selvaggio, l’uomo naturale, la scimmia e l’uomo.
Dove Darwin ci insegna che Dio ha creato l’uomo a propria immagine, ma discende comunque da una
scimmia.
Capitolo primo
Vita e morte dell’ostrica
Animalizzare l’uomo

Finché c’è Dio, sembra facile regolare il problema dei rapporti tra uomini e
animali, e quindi anche rispondere alla domanda sulla natura dell’anima. Basta
richiamarsi alla Genesi, dove, in effetti, ci viene insegnato, ce lo ricordiamo
bene, che Dio crea il mondo seguendo un ordine ben preciso: prima la luce, il
giorno, la notte, il cielo, la Terra e il mare, i vegetali, le stelle, il Sole, la Luna, e
poi gli esseri viventi, partendo dagli animali marini e dagli uccelli, per poi
arrivare agli abitanti della terraferma, ai capi di bestiame, agli animali più piccoli
e, subito dopo, all’uomo, perfezionando in ultimo la propria creazione con… la
donna! Il creatore, lettore ante litteram del Discorso sul metodo, insegna alla
propria creatura come addomesticare e padroneggiare gli animali per nutrirsi,
lavorare e vestirsi. Dio crea l’animale erbivoro (Gen 1, 30); ma poi anche il
leone? E crea l’uomo carnivoro; e allora il vegano? La storia, la conosciamo. In
verità, il re della giungla e il piccolo marchese del bulgur mettono in crisi la
verità di questo racconto mitologico.
E cosa succede quando Dio non c’è più? Quando, a partire dal Rinascimento,
comincia a perdere colpi? Quando si rammollisce e s’indebolisce sotto gli assalti
non tanto di Descartes quanto dei cartesiani? Quando addirittura vacilla e poi
crolla sotto il peso degli atomi dei materialisti e degli altri sensualisti, utilitaristi
ed empiristi, e si frantuma in mille pezzi? Oppure quando, a Lisbona, dopo il
disastro marino che segue il terremoto in cui muoiono annegati moltissimi
innocenti, viene mandato dai filosofi deisti a vivere la sua vita altrove, lontano
dagli uomini, dalle cose e dal mondo? E cosa succede all’anima immortale,
eterna e immateriale, quando alcuni di quei filosofi che chiamano Lumi
cominciano a definirla invece mortale, temporale e materiale? E quando questi
stessi filosofi si mettono a far circolare voci sulla breve distanza che separa la
scimmia dall’uomo, una distanza non così grande, e più sottile del soffio
dell’anima?
Nell’articolo alla voce «Innato» dell’Enciclopedia, Diderot lega la conoscenza
ai sensi. Innata è la facoltà di conoscere e quindi, in quanto tale, lo è fin dalla
nascita – da dimostrare comunque anche questo… I sensi rendono possibile
l’atto dell’astrazione e il sensibile permette di passare all’azione dell’intelletto.
Seguiamo la dimostrazione: «Togliete i nasi, e toglierete contemporaneamente
anche tutte le idee che appartengono all’odorato; stessa cosa vale per il gusto,
l’udito e il tatto. La verità è che, una volta eliminate tutte queste idee e tutti
questi sensi, non rimane nessuna nozione astratta; perché è attraverso il sensibile
che noi siamo portati all’astratto». Riconosciamo qui la teoria della statua
popolarizzata da Condillac nel suo Trattato delle sensazioni (1754), un’idea che
gli era stata passata a sua volta da… Diderot in persona, basta leggere la sua
Lettera sui ciechi.
La dimostrazione continua: «E dopo aver avanzato per via di eliminazione,
seguiamo il metodo opposto. Supponiamo una massa informe ma sensibile;
questa massa avrà tutte le idee che possiamo ottenere dal tatto. Perfezioniamo
poi la sua organizzazione e sviluppiamola: ecco che avremo aperto la porta alle
sensazioni e alle conoscenze. È attraverso questi procedimenti che possiamo
ridurre l’uomo alla condizione dell’ostrica, o elevare l’ostrica alla condizione
dell’uomo».
È assolutamente evidente che questa «massa informe ma sensibile» è qualcosa
che sta sotto il livello dell’animale, perché, per esempio, il cane o la scimmia
non possono essere definiti «masse informi», dato che sono, e su questo anche
Descartes sarebbe d’accordo (è del resto proprio il senso dell’ipotesi dei suoi
animali-macchine), delle forme eminentemente organizzate, semplicemente
prive di anima. Per le necessità della propria dimostrazione, e non senza
sacrificarsi alle delizie dell’ironia, Diderot chiama in causa il vivente ben al di là
della cagna presa a ciabattate da Malebranche e della scimmia di La Mettrie,
minacciata di essere messa in internato assieme ai sordomuti per imparare a
parlare, e riesce a far entrare nella storia della filosofia persino l’ostrica…
Nell’articolo dedicato alla voce «Anima» nelle Questioni sull’Enciclopedia,
tra scetticismo e professione di fede deista, Voltaire, che mette l’«Essere
supremo» nella cabina di pilotaggio dell’anima, risponde al testo redatto
dall’abate Yvon sullo stesso argomento per l’Enciclopedia. Per risolvere la
questione dell’anima degli animali, l’abate rimandava, cosa nient’affatto sciocca,
all’istinto. Voltaire, invece, non crede che gli animali siano privi di anima, ma
non per questo motivo è portato a credere che, per esempio, le rane, gli insetti o
le pulci ne abbiano una! Scrive: «Prima del bizzarro sistema che considera gli
animali come mere macchine prive di qualunque sensazione, gli uomini non
avevano mai attribuito alle bestie un’anima immateriale; e nessuno era mai stato
tanto temerario da dire che un’ostrica possiede un’anima spirituale».1 Con
Diderot, quindi, oltrepassiamo una soglia. Torniamo alle sue considerazioni.
Dal mollusco fino all’uomo, quello che constatiamo è solo l’intervento di un
non so che, di un nonnulla: ci vuole poco, si comincia con un bivalve e si finisce
con un filosofo. Per passare dall’uno all’altro, basta perfezionare
l’organizzazione della materia sensibile. E come? Attraverso l’educazione, per
quanto riguarda l’individuo – grazie Helvétius; attraverso l’eugenismo, per
quanto riguarda la specie – grazie Maupertuis; attraverso la politica, in tutte e
due i casi – grazie Rousseau. L’insieme di questo dispositivo di rieducazione, i
rivoluzionari francesi, e più in particolare i giacobini, lo chiamano
«rigenerazione» – grazie abate Grégoire. L’ideologia dell’Uomo Nuovo, un
prestito che i rivoluzionari hanno mutuato da san Paolo, permette di affrontare il
problema della produzione artificiale dell’uomo; la questione, ormai non
possiamo più fare finta di niente, si trova tuttora al cuore del transumanesimo.
Per portare a compimento questo progetto di rigenerazione, la scimmia
rappresenta la chiave di volta dell’avvenire dell’uomo.

Alcuni autori dell’Antichità raccontano di rapporti sessuali tra uomini e animali.


Per esempio Eliano, Plinio e Pausania. Quando gli europei scoprono il resto del
mondo, i loro resoconti di viaggio trasportano i lettori in America, in Oceania, in
Africa e in Asia, e descrivono nascite apparentemente sostenibili, frutto di
relazioni sessuali tra oranghi e donne; Montaigne ricorda i rapporti amorosi tra
una donna e un elefante e tra alcune scimmie e alcune donne; ci si mettono
anche gli autori devozionali, ma non più per segnalare dei fatti curiosi, o per
spiegare come gli uomini non siano poi così distanti dagli animali, ma per
insegnare, al contrario, che in questo genere di accoppiamenti si trova proprio il
diavolo; i demonologhi come Jean Bodin nella sua Demonomania de gli stregoni
(1580) si mettono a ripetere questo ritornello e spiegano fin nei dettagli come il
maligno assuma la forma che vuole, quindi anche quella degli animali, allo
scopo d’indurre gli uomini al peccato. In quest’ordine di idee, la scimmia è per
eccellenza la figura della tentazione: sembra l’animale più vicino agli uomini,
ma, in realtà, nella prospettiva cattolica, è quello più lontano.
La scimmia funziona da tempo come figura di carta: noi non l’abbiamo vista,
ma abbiamo letto le sue scappatelle in parecchi autori: naturalisti, storici,
viaggiatori, demonologhi, teologi e filosofi.
Nel Seicento, la scimmia sbarca in Europa in carne ed ossa, ancora
senz’anima. All’Aia, nel 1630, un esemplare viene dissezionato da Nicolas Tulp,
il famoso anatomista dipinto da Rembrandt nella Lezione di anatomia, che
l’aveva soprannominato il «Satiro indiano». Nelle sue Observationes medicae
[Osservazioni mediche] (1641), Tulp, collega di Vesalio, scrive dei maschi delle
scimmie che hanno «così tanta audacia e potenza nei muscoli da attaccare non
solo uomini armati ma anche donne e bambine. E che il desiderio che provano
nei confronti di queste ultime si rivela tanto forte da spingerli a rapirle e a
violentarle. Sono talmente portati agli incontri d’amore (anche tra loro, come lo
erano i satiri libidinosi degli Antichi) che sembrano continuamente carichi di
desiderio e pronti a praticare ogni sconcezza; al punto che le donne indiane, più
ancora che per i serpenti e i cani, evitano di passare per i boschi e le foreste
perché abitate da questi impudichi animali».2 Descartes conosce il barbiere-
chirurgo Tulp: di più, sulle loro relazioni, non è dato sapere. Anche La Mettrie
cita questa storia nel suo Traité de l’âme [Trattato sull’anima].3 Per il momento,
vale a dire in questo inizio Seicento, la scimmia di carta si trova immersa nel suo
stesso sangue, versato nel corso di una specie di battesimo della modernità
anatomica. Quindi della modernità tout court.
Il sesso praticato dagli uomini con le scimmie provoca due generi di reazione,
a seconda che si tratti di un esemplare maschio o di un esemplare femmina. Il
maschio viene associato alla potenza, alla lubricità e alla selvatichezza del sesso
primitivo: offre un modello ai libertini come Sade, e si rivela proprio per questo
motivo il partner ideale per le orge, cioè disponibile, efficiente, sterile, amorale e
immorale, rispettoso del proprio ruolo. Tra tacchini decapitati, capre, montoni,
cani, cigni, cavalli, tori, mucche e serpenti addomesticati, tocca proprio al
maschio della scimmia interpretare una bella parte ne Le 120 giornate di
Sodoma. La femmina, invece, viene descritta come una madre dolce e tenera
verso i figli. Entrambi comunque, maschio e femmina, giocano una parte
armonica, come l’uomo nomade che parte per la caccia, uccide le prede e torna a
scaricare il proprio surplus, e la donna sedentaria che rimane invece al focolare a
occuparsi dei piccoli.

Maupertuis, che, fin dal 1749, con il suo Saggio di filosofia morale, propone
un’etica utilitarista in grado di contrastare la morale deontologica cristiana, si
addentra ancora di più nel postcristianesimo, tessendo, nella Venere fisica
(1745), le lodi dei princìpi dell’eugenetica. Parla di Federico II di Prussia, alla
cui corte berlinese vive per parecchi anni: «Un Re del Settentrione venne a capo
di rendere poderosa e polita la sua nazione. Avea egli un gusto eccessivo per gli
uomini d’alta statura e di bell’aspetto: chiamavali nel suo regno da tutt’i paesi; la
fortuna rendeva felici tutti quelli ch’erano stati dalla natura formati d’eccedente
grandezza. Ammirati al dì d’oggi un singolar esempio della possanza de’ Re.
Questa nazione si distingue per le taglie più vantaggiose, e per le figure più
regolari; come distinguerebbe una foresta fra tutte le piante che la circondano, se
l’occhio attento del padrone s’applicasse a coltivarvi degli arbori diritti e ben
cerniti».4 Ma questa selezione degli uomini ha un valore semplicemente
introduttivo rispetto ad altre selezioni ben più audaci.
L’autore, in effetti, prosegue con un’arringa in difesa di qualcosa che
assomiglia a una stazione di monta umana, in cui si possono condurre esperienze
di incroci tra razze umane, ma anche, e la cosa viene detta tra mille precauzioni
di linguaggio, tra uomini e animali. Il terzo capitolo del libro s’intitola in
maniera molto eloquente: Produzioni di nuove spezie. Il filosofo, che
ovviamente ignora le logiche del recessivo e del dominante scoperte da Mendel
un secolo più tardi, discorre delle diverse carnagioni che possono avere i
bambini con genitori di colore. Laddove alcuni si limitano a creare «razze di
cani, di colombi, di canarini, che non erano avanti in natura»,5 Maupertuis si
spinge fino a pensare a quello che potrebbe succedere tra uomini e animali:
«Perché quest’arte si ristring’ella a’ soli animali? perché que’ Sultani smagriti in
serragli che non rinchiudono che donne di tutte le spezie conosciute, non fanno
nascere nuove spezie? Se io fossi ridotto come loro all’unico piacere, che dar
possono il sembiante e le fattezze, ricorrerei incontanente a queste varietà. Ma
per quanto belle fosser le donne, che nascesser da loro, eglino non
conoscerebbero giammai che la più picciola parte de’ piaceri d’amore, e
ignorerebbero quelli che possono far gustare lo spirito e il cuore».6
In un passaggio della Lettera sul progresso delle scienze (1752), l’autore
descrive alcune spaventose prospettive politiche per l’eugenetica:
Una tale fatica non sarebbe interamente di quelle, che non potessero essere intraprese senza la
protezione, e senza i benefizj di un Sovrano, poiché molte di queste esperienze non sarebbero
superiori alla possibilità di un semplice particolare, e noi abbiamo alcune opere, le quali ce
l’hanno fatto vedere. Pure vi sono alcune di tali esperienze, le quali richiederebbero spese grandi,
e forse tutte avrebbero bisogno di una tal direzione, che non lasciasse i Fisici in un certo vuoto,
che è l’ostacolo maggiore alle scoperte. I serragli delle fiere dei Principi, nei quali si trovano
Animali di molte spezie, sarebbero per questo genere di scienza fondi, dai quali potrebbonsi
facilmente ritrarre non piccioli vantaggi. Basterebbe darne la direzione ad esperti Naturalisti, e
loro perscrivere l’esperienza.7

Proseguiamo:
Si potrebbe provare in questi serragli ciò, che si racconta delle truppe dei differenti Animali, i
quali raccolti, a cagion della sete, sulle rive de’ fiumi dell’Africa, si dice vi facciano quelle
bizzarre unioni, da cui provengono frequentemente dei mostri. Non vi sarebbe nulla di più
curioso, che tali esperienze: Pure la negligenza, riguardo a questo, ella è così grande, che siamo
ancora dubbiosi se il toro si sia mai congiunto con un’Asina, malgrado tuttociò, che si dice dei
Giumenti. Le premure di un Naturalista industrioso, e illuminato farebbero scappar fuori non
poche curiosità in questo genere, togliendo coll’educazione, coll’uso, e col bisogno fra gli
Animali la repugnanza, che le differenti spezie hanno per ordinario l’una per l’altra. Potrebbe
darsi, che si arrivasse a render possibili delle generazioni forzate, le quali facessero veder
maraviglie. Si potrebbe sul bel principio tentare sopra una medesima spezie queste unioni
artifiziali, e forse al primo passo si renderebbe in qualche maniera la fecondità a degli Individui, i
quali per ordinario sembrano sterili. Nè sarebbe vietato protraere ancor più lontano l’esperienze, e
fino sulle spezie, le quali sono per loro natura meno inclinate ad unirsi. Forse da ciò si vedrebbero
nascer de’ mostri, dei nuovi Animali, ed anche forse delle nuove intere spezie non per anche dalla
Natura prodotte.8

Maupertuis consacra un capitolo anche alle Esperienze metafisiche.9 Si chiede


come si possano modificare gli stati di coscienza attraverso l’oppio o altre
sostanze, in modo, se possibile, di pilotare volontariamente i propri sogni. Alla
fine, si pone la questione se «Non vi sarebbero forse altre guise di modificar
l’Anima nostra».10 E risponde chiamando in causa il cervello, i nervi e le ferite
dell’encefalo che, a suo avviso, i medici non hanno abbastanza studiato. Il
filosofo trova un buon mezzo per «modificar l’Anima»: «Si avrebbero molti più
mezzi per avanzare l’esperienze, servendosi di quegli Uomini condannati a una
morte dolorosa, e certa, per i quali sarebbero esse una spezie di grazia»!11
Mescolare razze e colori, mescolare specie e talenti, sperimentare harem e
stazioni di monta, educare animali come fossero esseri umani, e, nei casi più
spregiudicati, in quelli più audaci, mescolare tra loro specie eterogenee che la
natura stessa si rifiuta di unire. In altre parole, impossibile non intuirlo:
mescolare uomini e animali. Maupertuis incarna un aspetto normalmente
nascosto dei Lumi, e, tra odio nei confronti del popolino, odio nei confronti dei
selvaggi, odio nei confronti delle donne e odio nei confronti degli ebrei (con
Voltaire si spuntano tutte quante queste caselle), il nostro filosofo reclama con
ardore un Uomo Nuovo, un uomo rigenerato, come viene esplicitato senza tante
remore dagli storiografi della Rivoluzione francese. Il che, anche se lo si
sottolinea sempre poco, presuppone comunque a monte… un uomo degenerato!

Il famoso abate Sieyès, che nel suo libro Che cosa è il Terzo Stato? (1789) si
lamenta che quest’ultimo non sia niente e si augura che possa diventare tutto, è
la stessa persona cui si deve quest’altra bella idea, concepita nello spirito di
Maupertuis:
Non sarebbe forse cosa desiderabile, soprattutto nei paesi molto caldi e molto freddi, che ci fosse
una specie intermedia tra gli uomini e gli animali, una specie capace di servire l’uomo per i suoi
bisogni di consumo e di produzione? Abbiamo degli oranghi piccoli e grandi, cioè i pongo, i
jocko e i pitechi, tre specie di scimmia che lavorano già benissimo assieme alle nostre e assieme
ai neri, e che sono specie prontissime a essere addomesticate e ammansite. L’incrocio tra queste
razze potrebbe fornirci: 1o una razza forte (dai sei agli otto piedi di altezza), da destinare alle
opere di fatica, sia in campagna che in città, e sarebbero i pongo; 2o una razza intermedia (dai tre
ai quattro piedi di altezza), destinata a tutte le faccende domestiche, i jocko; 3o una specie più
piccola (dai dodici ai quindici pollici), per i piccoli lavori domestici e il divertimento; 4o i neri,
che dovrebbero controllare, vestire e rispondere di tutte le azioni degli altri. Potremo così avere
dei bianchi a ricoprire il ruolo di cittadini e di responsabili della produzione, i neri come strumenti
ausiliari da destinare alle varie fatiche, e le nuove razze di scimmie antropomorfe come schiavi. 12

Un altro cattolico, il canonico Cornelius de Pauw, autore di alcune Recherches


philosophiques sur les Américains, ou mémoires intéressants pour servir à
l’histoire de l’espèce humaine [Ricerche filosofiche sugli americani, ovvero
Memorie utili alla redazione di una storia della specie umana] (1770), nonché
redattore di articoli finiti sul Supplemento all’Enciclopedia, avanza qualche
ipotesi sulla stessa lunghezza d’onda. L’Assemblea legislativa nazionale
proclama questo fuoriuscito olandese cittadino francese il 26 agosto del 1792.
Che sia per le sue ipotesi eugeniste? Il novello cittadino francese, riguardo la
sperimentazione sessuale tra esseri umani e animali, scrive: «Alcuni moralisti,
ostentando eccessiva severità, hanno condannato per principio qualsiasi tentativo
di seguire questa strada, dichiarandola criminale o lesiva nei confronti delle leggi
che ciascun genere deve rispettare in quanto limiti fissati dalla Provvidenza.
Abbiamo risposto loro che la nostra mancanza d’informazioni a proposito
dell’orango può scusare i mezzi che usiamo per indagarne il carattere generico, e
che fintanto ci porremo riguardo a questo stesso carattere generico dei
ragionevoli dubbi, non violeremo nessuna convenzione naturale, dato che solo
l’esperienza ci insegnerà dove si trova la soglia che marca la separazione tra la
sua razza e la nostra».13 In altre parole, niente può ostacolare il corso di questi
esperimenti sulla copula tra scimmie ed esseri umani, perché solo il risultato di
questi accoppiamenti ci dirà se sarà stata una cosa buona o cattiva portarli a
termine…
Restif de La Bretonne ritiene che la fornicazione tra uomini e scimmie
testimoni a favore di una tendenza che mi piace qui definire come
«progressista», ma dalla parte della scimmia! Ecco, in effetti, cosa leggiamo nel
Monsieur Nicolas, ou Le Cœur humain dévoilé [Il signor Nicolas, ovvero Il
cuore umano svelato] (1796): «La cosa che segna la grande prossimità della
specie delle scimmie con la nostra è il desiderio di coito con la donna, un
desiderio innato e così potente che la scimmia, in questo differente da tutti gli
altri animali, alle femmine della sua stessa specie preferisce le donne, soprattutto
quelle che hanno un odore un po’ forte. È quindi un desiderio di
perfezionamento, un desiderio senza dubbio cieco e perfettamente istintivo, che
la Natura ha instillato nella scimmia e la spinge a migliorarsi» [corsivo mio].14
Dove vediamo che il progressismo ha più di una freccia al proprio arco quando
si tratta di farsi il furiere del nichilismo!
A questo proposito, sempre nella stessa opera, Restif de La Bretonne, riporta
alcuni singolari aneddoti su Federico II, probabilmente raccolti se non da
Maupertuis stesso, almeno da quelli che raccontavano le cose che lui aveva
detto: «Sappiamo che il re di Prussia Federico II ha cercato con vari esperimenti
di accoppiare l’uomo con tutti gli animali; episodi di cui lui stesso, nei suoi
ultimi giorni, e poi il suo successore, hanno cercato di far sparire ogni traccia».15
Avrebbe avuto successo con il maiale, però «la scimmia maschio non ha
prodotto nulla con la donna umana, e le scimmie femmine, con gli uomini,
hanno prodotto solo aborti».16 Ovviamente, niente di questo è vero.

Mirabeau è stato uno strano personaggio, e non solo durante la Rivoluzione


francese. Militare disertore, giocatore indebitato, famoso per la bruttezza, con i
piedi storti e i denti enormi, con la testa sproporzionata e il volto rovinato dal
vaiolo, Mirabeau è un libertino che conosce Sade e con quest’ultimo ha
addirittura una lite nel torrione del castello di Vincennes, dove è tenuto
prigioniero per aver sedotto e rapito una donna sposata. Diventa deputato
rivoluzionario, ma è molto probabilmente un agente che fa il doppio gioco al
soldo della corte. Pantheonizzato nel 1791, nel 1794 viene riconosciuto
colpevole di tradimento e buttato nella fossa comune. A lui dobbiamo un certo
numero di libri pornografici, nei quali troviamo tratteggiata la sua visione del
mondo.
Anche il qui citato conte Mirabeau parteggia per la produttività dell’incrocio
tra uomini e animali. Nel suo famoso Erotika biblion (1770), scrive:
Sarebbe quindi curioso, interessante e utile poter determinare il minore o il maggior grado di
ragionevolezza di un essere umano, a tal punto corrotto da voler copulare con una bestia. È forse
l’unico modo d’investigare la natura che possa strappargli almeno in parte il suo segreto; ma per
esserne capaci occorrerebbe in primo luogo saperne valutare gli effetti, adoperarsi a
un’educazione adeguata, analizzare sotto ogni possibile punto di vista l’origine di quello stesso
fenomeno. Potremmo certo trarre da questi tentativi un’utilità per il progredire delle umane
conoscenze decisamente superiore all’utilità che possiamo invece ricavare, per esempio,
insegnando ai sordomuti a parlare o insegnando la matematica a un cieco… Infatti, mentre questi
ultimi si presentano alla nostra osservazione come partecipi di un’identica natura, anche se in
origine resa imperfetta dall’assenza dell’uno o dell’altro senso, ma poi perfezionata
dall’educazione, i frutti di una copula bestiale ci offrirebbero invece, per così dire, l’esempio di
un’altra natura, per quanto innestata sulla prima, e ci aiuterebbero in tal modo a rispondere
almeno in parte agli innumerevoli interrogativi in cui, da sempre, sembra dibattersi il raziocinio
dell’uomo [corsivo mio].17

Esattamente come il marchese de Sade, che infarcisce le proprie finzioni


pornografiche con riflessioni filosofiche, anche Mirabeau, nei suoi ragionamenti
didattici, sostiene che la produzione sperimentale di chimere attraverso incroci
tra bruti, come si indicavano allora gli animali (che però tanto bestie non erano),
ed esseri umani, anche depravati, permetterebbe di avanzare sul piano della
conoscenza.
Se l’uomo non ha più anima dell’animale, se la sua anima non è né eterna, né
immortale, né immateriale, né divina, ma, al contrario, precaria, materiale,
mortale e terrestre, allora non ci può essere alcun male nel voler unire queste due
materie, per esempio la scimmia e la donna; in fondo, si tratta soltanto di
organizzazioni diverse di atomi che sono sempre gli stessi, percorsi dallo stesso
flusso elettrico, e riconosciuti nella stessa e identica maniera, cioè attraverso le
percezioni e le sensazioni organizzate da un cervello verso cui confluiscono le
informazioni prodotte dai sensi per il tramite dei filamenti nervosi, quindi i
nervi.
Buffon vede bene che l’unica maniera per impedire che l’uomo anneghi
definitivamente in questo oceano di animali animati, in cui l’ostrica vale tanto
quanto il papa e, nonostante qualche sottile variazione materiale, ogni cosa ha lo
stesso peso, è quella di salvare l’anima. Lui, il naturalista cui dobbiamo la
monumentale Storia naturale, generale, e particolare (quindici tomi apparsi tra
il 1749 e il 1767), scrive dell’orango che è «un animale […] singolarissimo; e
l’uomo non può vederlo senza rientrare in sé stesso, senza riconoscersi, e senza
convincersi che il suo corpo non è la parte più essenziale della sua natura».18 In
altre parole, a prima vista, sotto il profilo dell’anatomia, della fisiologia e della
scienza naturale, la scimmia e l’uomo sembrano davvero una sola e identica
cosa; però, questo approccio è fin troppo legato alle apparenze. La differenza si
gioca invece tutta con l’anima, che Buffon descrive in filigrana come quella cosa
che, nell’uomo, non appartiene al visibile.
Certo, Buffon scrive per rispondere a Rousseau che, nel suo Discorso
sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, pone la questione
dell’accoppiamento della scimmia con l’uomo per stabilire cosa li unisca e cosa
li separi. La questione della differenza tra l’uomo e la scimmia può essere risolta
solo partendo dall’osservazione dell’uomo selvaggio, identificato, nel caso
specifico, in quegli ottentotti dell’Africa del Sud che erano stati scoperti dai
marinai olandesi nel corso del Seicento e che, all’epoca di Rousseau, si
trasformano a tutti gli effetti in un nuovo paradigma filosofico.
Capelli crespi, barbuti, pelosi, labbra tumide, fronti basse, occhi affossati, nasi
piatti, sguardi ebeti e spaventati, pelle dura e abbronzata, unghie lunghe, spesse e
ritorte, seni lunghi e penduli per le donne, pance affondate fino alle ginocchia,
bambini sporchi che strisciano per terra; gli ottentotti sono tutti sudici e
puzzolenti: eccolo, il ritratto del selvaggio. Non facciamo fatica a immaginarci
tutto quello che li separa dall’accademico, dall’intendente dei Giardini del re, dal
profumato, incipriato e imparruccato Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon,
evidentemente ben dotato, invece, quanto a sé, di un’anima immateriale e
immortale!
Il naturalista stabilisce una gerarchia che va dalla scimmia all’uomo, passando
dal selvaggio ottentotto e dall’uomo allo stato di natura. Risultato, dal basso
verso l’alto: la scimmia, come quello scimpanzé dissezionato da Edward Tyson a
Londra nel 1698; l’uomo naturale, come quello descritto da Rousseau nel suo
Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini;
l’ottentotto, come quelli scoperti dai viaggiatori e dai marinai olandesi del Grand
Siècle; e l’uomo, il cui prototipo è, ovviamente, lo stesso conte di Buffon, il
quale appunto scrive: «Vi ha maggior distanza dall’uomo nello stato di Natura
pura all’Ottentotto, che dall’Ottentotto a noi».19 Sulla questione del
mescolamento delle specie, Buffon racconta di «miscugli forzati o volontarj
delle donne nere colle scimie, la cui produzione è rientrata nell’una e nell’altra
specie; e vedete, supposto ch’esse non siano la medesima specie, quanto sia
difficile l’afferrare l’intervallo che le separa».20 E il naturalista non dubita affatto
di queste informazioni.
È, naturalmente, all’interno di questo intervallo ultrasottile che si colloca
l’anima:
Io confesso che, se non si dovesse giudicare che dalla forma, la specie della scimia potrebbe esser
presa per una varietà nella specie umana. Il Creatore non ha voluto fare pel corpo dell’uomo un
modello assolutamente diverso da quello dell’animale: ha compresa la sua forma, come quella di
tutti gli animali, in un piano generale, ma nel tempo stesso gli ha data a parte una forma materiale
simile a quella della scimia, e ha penetrato questo corpo animale col suo divin soffio: s’egli
avesse compartito lo stesso favore, non dico alla scimia, ma alla specie più vile e all’animale, che
ci sembra il peggio organizzato, siffatta specie sarebbe ben tosto divenuta la rivale dell’uomo;
vivificata dallo spirito ella avrebbe pensato e parlato, e avrebbe il primato sulle altre. Sebbene
adunque vi sia molta rassomiglianza tra l’Ottentotto e la scimia, non di meno l’intervallo, che li
separa, è immenso, poiché interiormente egli è dottato del pensiero, e esteriormente della parola.
Chi potrà mai dire in che cosa l’organizzazione di un fatuo sia diversa da quella d’un altr’uomo?
Il difetto è certamente negli organi materiali, poiché il fatuo ha la sua anima com’un altro. Ora
poiché da uomo a uomo, ove il tutto è interamente conforme e perfettamente simile, una
differenza sì piccola, che non si può neppure afferrarla, basta per distruggere il pensiero o
impedire che esso nasca, dee recar maraviglia ch’esso non sia giammai nato nelle scimie, che non
ne hanno nemmeno i principi? L’anima in generale ha la sua funzione propria e indipendente
dalla materia: ma siccome è piaciuto al suo divino Autore d’unirla al corpo, così l’esercizio de’
suoi atti particolari dipende dalla costituzione degli organi materiali: e questa dipendenza è
provata non solamente dall’esempio del fatuo, ma anche dimostrata da quelli dell’ammalato in
delirio, dell’uomo sano che dorme, del fanciullo appena nato, che non pensa ancora, e del vecchio
decrepito che non pensa più. Sembra altresì che l’effetto principale dell’educazione sia meno
d’instruir l’anima o di perfezionar le sue operazioni spirituali, che di modificar gli organi
materiali e di procurar loro lo Stato più acconcio all’esercizio del principio pensante.21
Buffon tiene a precisare che, al contrario degli animali, gli uomini sono capaci
di riflettere, pensare, parlare, comunicare, perfezionarsi e inventare. L’anima
separa l’uomo dall’animale, e niente li potrà mai riunire, perché l’uno condivide
sé stesso con Dio e l’altro no.
Questo non impedisce al naturalista, come scrive il perfido Mirabeau, il sopra
menzionato Honoré-Gabriel Riqueti de Mirabeau, anche lui conte per stato di
nascita, di fare esperimenti sulla commistione di specie e di razze: «Ma
quest’uomo ingegnoso non ha invece voluto esporre i frutti delle sue esperienze
circa gli accoppiamenti degli uomini con gli animali; i suoi risultati andrebbero
invece divulgati, non solo per poter poi seguire meglio i suoi orientamenti, ma
anche per evitare che, avendo già dovuto rinunciare a un così bel talento, non ci
si trovi adesso a dover fare a meno anche della testimonianza delle sue idee».22
Si tratta naturalmente di pure calunnie, di semplici maldicenze, di cattiverie
gratuite, di snobberie intellettuali e di mancanza di onestà, come ne ritroviamo
anche in parecchi degli attori della Rivoluzione francese, in particolare in quei
giacobini che non facevano altro che parlare di «rigenerazione» e di uomini
nuovi. Probabilmente, grazie a un minimo d’introspezione, gli era venuta l’idea
di risolvere una volta per tutte il problema del numero eccessivo di uomini
degenerati nella loro epoca.
Capitolo secondo
Costruire l’emulo di un capriolo
Rigenerare l’Homo sapiens

Il termine «rigenerazione» pervade tutta l’ideologia rivoluzionaria dal 1789 al


1793, però non si trova in Rousseau, anche se la nozione rappresenta il nucleo
centrale della sua opera. Il filosofo teorizza tre momenti filosofici che saranno
chiamati a fondare l’impresa giacobina: la degenerazione dell’uomo a causa
della civiltà – è la tesi del suo Discorso sulle scienze e sulle arti (1750);
l’eccellenza dell’uomo naturale – idea cardine del suo Discorso sull’origine e i
fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini (1755); la rigenerazione ottenuta
attraverso l’educazione dei bambini – vedere l’Emilio (1762); e poi c’è il patto
sociale – idea al cuore Del contratto sociale (1762). Si tratta di un trittico:
Abbasso la civiltà, Viva l’uomo naturale e Viva la città rigenerata e gli uomini
rigenerati!

Abbasso la civiltà: il Discorso sulle scienze e sulle arti risponde al quesito


proposto in un concorso dell’Accademia di Digione ed è quindi un esercizio
retorico, se non addirittura sofistico: Rousseau cerca di ottenere i favori della
giuria per portarsi a casa i soldi del premio, una medaglia d’oro del valore di
trecento lire francesi dell’epoca! Impossibile quindi stabilire quanto fosse
effettivamente sincero in questa prova scritta per conquistare la fiducia di un
cenacolo di provincia. La tesi del candidato è questa: «La depravazione è reale; e
le nostre anime si sono corrotte a misura che le nostre scienze e le nostre arti
sono progredite verso la perfezione».23 Depravazione, corruzione: già ci siamo;
il passo successivo è la rigenerazione.
Il filosofo Rousseau scrive dei libri, però ne legge parecchi altri, e poi
compone opere, elabora nuovi metodi di annotazione musicale, si fa mantenere
da ricche nobildonne, dichiara guerra ai soldi, agli effeminati e ai rammolliti, alla
cultura del commercio, alla corruzione dei costumi, al lusso, ai lavori
intellettuali, alla cultura, alla metafisica, alla stampa, ai libri stessi, alla musica,
alle belle arti, all’opera, all’educazione, alla filosofia, alle lettere e agli
scrittori… A questi attacchi, però, fa sempre accompagnare un certo numero di
elogi: alla disciplina militare, alla povertà, allo spirito di conquista, all’esercito,
ai soldati, ai guerrieri, alla virtù, alla rustichezza, all’agricoltura, al buon senso,
alla fede, alla religione e alle leggi. Al filosofo preferisce l’uomo che fatica,
senza tuttavia mai impedirsi di celebrare il filosofo come consigliere del
principe. Modesto, come sempre, Rousseau dichiara di non scrivere per il
proprio tempo ma per l’eternità! In una lettera all’abate Raynal, annota: «Ho
assegnato il primo grado di decadenza dei costumi al momento iniziale della
cultura delle Lettere in ogni paese del mondo, e ho trovato che il progresso di
queste due cose va sempre di pari passo».24

Viva l’uomo naturale: anche il Discorso sull’origine e i fondamenti della


disuguaglianza risponde a un quesito posto dall’Accademia di Digione.
Rousseau non può saperlo, però questa sua risposta finirà, ahimè, per fondare
l’antropologia moderna; né può ovviamente sapere che nel 1789 queste sue
stesse «ipotesi» si trasformeranno in altrettante verità politiche che i giacobini
vorranno imporre a suon di ghigliottinate. Rousseau non può nemmeno
immaginarsi che il suo metodo, che in realtà è tutto tranne che un metodo,
s’imporrà in Occidente, fino ai giorni nostri, nella testa degli intellettuali, dei
filosofi, dei sociologi e di tutte le altre persone che lavorano con le idee. Scrive:
«Cominciamo dunque dall’escludere tutti i dati di fatto, perché essi non
concernono punto la questione».25 È da Platone, cioè da duemila e cinquecento
anni, che i filosofi più influenti cominciano con l’«escludere tutti i dati di fatto»
solo per meglio piazzare sul mercato le proprie idee riguardo allo spirito,
presentandole come altrettante verità! Al posto dei fatti, Rousseau rivendica dei
«ragionamenti ipotetici e condizionali», o anche delle «congetture» [corsivi
miei].26 Il filosofo ginevrino, sempre modestissimo (è un basso continuo nelle
sue pagine), s’immagina di essere al Liceo di Atene, alla Scuola di Aristotele,
con Senocrate e Platone chiamati a giudicare i suoi ragionamenti «e il genere
umano ad ascolta[re]».27 Per il momento, però, è a un gruppetto di borghesi di
Digione che si limita a parlare, ed è a loro che tende il piattino per portarsi a casa
il premio.
Mette quindi da parte i libri, le biblioteche e le idee che già esistono, e cerca di
far credere che sta interrogando la «natura, che non mente mai».28 È vero, la
natura non mente mai, ma è soprattutto perché lui non le lascia mai la possibilità
di difendersi da tutte le affermazioni pseudo-filosofiche che le rivolge. Se la
natura non mente, Rousseau, invece, pretende di parlare in suo nome e può
mentire, lui, eccome… E capita spesso…
Rousseau esalta la natura e si lamenta sempre che l’uomo si riduce a pagare il
prezzo della depravazione – «depravare» è un termine suo. L’uomo può sperare
di «retrocedere»,29 perché il suo passato è meraviglioso, il suo presente terribile
e il suo futuro spaventoso. Ecco posto il nuovo schema ontologico dei Lumi, una
finzione che, nei fatti, produrrà il 1789 e poi il 1793.
Per lui, è da escludere che si possa pensare l’uomo sotto il profilo storico, cioè
in evoluzione e in mezzo ai cambiamenti, nella realtà delle cose. Da vero
platonico qual è, Rousseau pensa questa realtà in generale e l’uomo in
particolare, attribuendo loro un’essenza che lui stesso si era preventivamente
creato. Contro ogni evidenza, il suo uomo naturale viene posto come
naturalmente buono, esattamente agli antipodi del peccaminoso uomo dei
cristiani!
Ecco come comincia l’esposizione della sua visione dell’uomo: «Lo veggo
saziarsi sotto una quercia, dissetarsi al primo ruscello, trovar il suo giaciglio ai
piedi dello stesso albero che gli ha fornito il suo pasto; ed ecco i suoi bisogni
soddisfatti» [corsivo mio].30 Nessuno riuscirebbe a esprimersi meglio, e nessuno
ci è in effetti riuscito fin dai tempi della favola del giardino dell’Eden… Il
filosofo prosegue il proprio romanzo lirico e bucolico: la natura è generosa e
provvede a nutrire l’uomo che vive in armonia con i suoi compagni animali,
dominati grazie alla propria superiore sagacità; robusto, abituato ai rigori del
freddo, l’uomo è forte e la sua costituzione praticamente intaccabile; anche i suoi
figli sono degli esemplari magnifici, perché se non sono all’altezza, la natura si
occupa subito di eliminarli; agile, differente dagli uomini dei suoi tempi che si
rivelano tutti deboli e maldestri, l’«uomo selvaggio»31 si trova provvisto di tutte
le virtù ed è l’antitesi dell’uomo depravato contemporaneo del filosofo.
Rousseau parla di «stato di natura»,32 non senza aver scritto, qualche pagina
prima, che «bisogna negare che, anche prima del diluvio, gli uomini si sian
trovati mai nel puro stato di natura».33 Nel giro di poche righe, ecco dispiegata
tutta la coerenza del filosofo: lo stato di natura non esiste, però lui può
raccontare che cosa sia questo stato di natura – con il termine «natura» che passa
tra l’altro dalla minuscola alla maiuscola (nell’originale). Eccolo insomma
intento a trasformare la sua ipotesi in certezza. Prestidigitazione epistemologica!
Allo stato di natura, l’uomo non conosce le malattie, che sono invece dei
prodotti perversi e nocivi della civiltà. In natura, non vede nessun animale
malato, nessuno che abbia bisogno del medico o del chirurgo: è quindi nello
stato di cultura che le ritroviamo, tutte queste malattie e infermità. Nello spirito
di Montaigne, Rousseau afferma che è spesso il medico stesso a provocare la
malattia o la morte, con i suoi farmaci, le sue incisioni, i suoi digiuni e i suoi
avvelenamenti.
Il filosofo celebra la condizione selvaggia contro quella civilizzata, indicata
con il termine «domestica»: «nel passaggio dalla condizione selvaggia alla
domestica, la differenza fra uomo e uomo deve essere più grande ancora che
quella fra bestia e bestia».34 Non si potrebbe spiegare meglio quale
corrispondenza ci sia tra la condizione selvaggia e quella civilizzata! L’uomo,
semplicemente nudo, prende le pelli degli animali e si prepara dei vestiti.
Sull’argomento, Rousseau scrive: «A meno che si supponga quei concorsi
singolari e fortuiti di circostanze, di cui parlerò in seguito, che avrebbero potuto
benissimo non presentarsi mai, è chiaro, come che sia, che il primo che si fece
abiti e una casa diede con ciò a sé stesso cose poco necessarie, poiché ne aveva
fatto a meno sino allora, e non si vede perché non avrebbe potuto sopportare,
uomo fatto, un genere di vita che sopportava sin dalla infanzia» [corsivi miei]35.
Poi passa a parlare della proprietà, di come sia stata inventata dal primo uomo
che si è allontanato dallo stato di natura. In pratica (è uno dei miracoli del
metodo rousseauiano!), la sua ipotesi si trasforma in realtà, una realtà che
diventa tanto più reale quanto più avrebbe potuto anche benissimo essere
diversa! Ci sembra di sognare… Alle ipotesi, Rousseau aggiunge altre ipotesi, al
preciso scopo di consolidare la propria finzione e conferirle uno statuto di
oggettività. E per convalidare tutte queste invenzioni pensa bene di ricorrere ad
alcuni resoconti di viaggio, di cui, solo qualche pagina prima, aveva decretato la
mancanza di autorevolezza.
Rousseau distingue la macchina-uomo dalla macchina-animale grazie alla
coscienza, di cui solo l’uomo è provvisto. Non stiamo parlando dell’intelletto o
del giudizio, ma dell’«agente libero».36 E aggiunge: «nella coscienza di questa
libertà, sopra tutto, si mostra la spiritualità della sua anima».37 Il fatto che
l’uomo disponga, al contrario dell’animale, di un libero arbitrio non basta a
dimostrare il carattere spirituale dell’anima! Si tratta di un postulato… Il
piccione che muore di fame davanti a un mucchio di carne, o il gatto che fa la
stessa fine pur avendo di fronte un po’ di frutta, testimoniano di quanto l’animale
sia soggetto alla natura; l’uomo invece, che a questa natura comanda, per non
morire, è capace di cambiare il proprio regime alimentare. Niente però permette
di dedurre o di concludere da queste cose che l’anima è spirituale, e non
materiale. A spiegare tutto, basta un cervello, non c’è bisogno di un’anima, a
meno che a quello non la vogliamo ridurre.
Rousseau ritiene quindi che l’uomo, al contrario dell’animale, sia un essere
perfettibile. Ed è proprio questa perfettibilità a costituire il nocciolo ontologico
della funesta impresa della rigenerazione. Perché l’uomo naturale finisce per
trasformarsi in un uomo degenerato, e produce la civiltà, di cui Rousseau non sta
a specificare se sia o meno giudaico-cristiana, e che invece qui definirei civiltà
della tecnica; il filosofo non attacca né il cristianesimo né la cristianità, ma il
progresso e, per quanto la parola ancora non esista (al contrario della cosa,
vecchia come il mondo), il «progressismo», cioè la religione, la fede e la fiducia
nel progresso. Il profeta di questa nuova confessione è il Condorcet autore del
Saggio di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, un testo a cui il
filosofo stava lavorando quando, perseguitato dal progresso, si suicida per
sfuggire alla ghigliottina dei giacobini progressisti. L’opera verrà pubblicata solo
postuma nel 1795.
Il filosofo ginevrino non crede al progresso tecnico, ma alla regressione etica
che rappresenta l’intima essenza di questo progresso: il passaggio da uomo
naturale a uomo civilizzato è un passaggio di decadenza e di degenerazione. Allo
stato di natura, afferma, la disuguaglianza non esiste, perché gli uomini sono
naturalmente uguali, e quindi, come disuguaglianza, è un puro prodotto della
società. A questo nuovo postulato si accompagna una pseudo-dimostrazione,
tutta nello spirito di Rousseau: ed è una nuova finzione.
La frase è rimasta famosa: «Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di
affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza semplici per crederlo, fu il
vero fondatore della società civile».38 Ci stupisce che, allo stato di natura, dove
tutti sono uguali, alcuni sembrano in realtà esserlo più di altri: chi recinta un
terreno e chi è così stupido da lasciarglielo fare non sono uguali, diciamo così,
sul piano della presenza del sale in zucca! Uno dei due, cioè quello che possiede,
domina l’altro, che è invece posseduto. Questa distinzione mostra bene come, in
natura, esistano persone furbe, smaliziate e sveglie, persone che sono intelligenti,
scaltre, astute e abili, capaci, prima di arrivare all’estremo della recinzione, di
creare dei beni che ritengono in seguito necessari di recinzione! Nel caso
specifico, delle case! Prima della proprietà, quindi, c’è già… la proprietà, come
annota lo stesso Rousseau, senza vederci nessuna contraddizione.
Questo «primo» uomo diventa il capro espiatorio da sacrificare per rigenerare
la società: è l’Adamo socialista, o comunista. Rousseau scrive in effetti:
«Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; siete perduti se dimenticate che i
frutti sono di tutti, e che la terra non è di nessuno».39 Definire questo «primo»
uomo come «impostore» appicca un incendio che finisce per illuminare tutto il
Terrore. Il primo proprietario, un «impostore» (la parola è volutamente forte),
viene dichiarato nemico dell’uomo naturale: ecco il tema della guerra iniziata da
Rousseau grazie a un semplice esercizio di retorica. Non ne siamo ancora
usciti…

E allora, viva la società rigenerata! Se diamo ascolto a quello che ci dice


Rousseau, possiamo rigenerare la società in due modi: in primo luogo, attraverso
l’educazione dell’uomo in quanto individuo, in secondo luogo istruendolo come
cittadino. Usciti nello stesso anno, il 1762, Emilio e Del contratto sociale
forniscono i due fogli di via per quest’impresa ontologica e politica.
Nell’Emilio, Rousseau propone una pedagogia innovatrice: il bambino va
considerato come entità autonoma; pannolini, pappette e punizioni sono da
bandire e invece allattare, insegnare con gli esempi e accettare le crisi e i pianti
sono tutte cose buone, perché naturali; balie, precettori, collegi e pensionati sono
esclusi; più della memoria, nel bambino occorre sollecitare la riflessione, e
anche l’igiene deve diventare una preoccupazione prioritaria; si sosterranno le
diete vegetariane e i vestiti dovranno essere larghi e comodi; meglio scegliere di
stare in campagna piuttosto che in città, perché quest’ultima è fonte di patologie;
la culla deve essere grande e imbottita; l’educazione comincia molto prima che il
bambino cominci a parlare, e determina l’adulto in maniera totale: un nonnulla
capitato nella prima gioventù può causare un trauma irreparabile; l’abitudine
uccide l’immaginazione e il bambino non va forzato, deve imparare da solo a
controllare la parola, a leggere e a camminare; gli si dovranno insegnare le cose
senza ricorrere a metodi coercitivi, ed evitando di annoiarlo; il corpo conta tanto
quanto lo spirito, perché sono entrambi da educare, al pari dei sensi; tutto questo
riguarda le bambine e i bambini allo stesso titolo. Oggi diamo queste cose per
scontate e normali, ma ai suoi tempi erano assolutamente rivoluzionarie. E
Rousseau sapeva benissimo come comportarsi con i bambini, visto che lui stesso
ne aveva abbandonati cinque…
Quello che si dice meno è come Rousseau proponga nello stesso momento una
pedagogia falsamente libertaria, una pedagogia, in realtà, assolutamente
autoritaria, intenzionalmente rivolta a sottomettere in maniera drastica l’allievo
al maestro, esattamente come succede al cittadino nei confronti della
collettività… Tra le altre cose, Rousseau vuole: trasporre l’io in un’unità
comune; insegnare la resistenza, la rudezza, la capacità di sopportare il freddo e
le cose ripugnanti, la sofferenza, la mancanza di sonno e le vicissitudini della
vita; guidare, più che istruire; sottomettere interamente l’allievo al precettore,
onnipresente, onnipotente e onnisciente («egli è necessariamente alla vostra
mercé»);40 perché si parte dal presupposto che l’indipendenza sia una cosa
cattiva: occorre quindi che l’allievo «creda sempre di essere il padrone. Non vi è
soggezione tanto perfetta quanto quella che conserva l’apparenza della libertà»;
41 o ancora: «non deve volere che ciò che voi volete ch’egli faccia»;42 le lezioni
vanno date senza che l’allievo abbia l’impressione di riceverne; bisogna usare la
forza, l’astuzia, gli stratagemmi, il fascino, le lusinghe, la costrizione e
l’inganno, tutto torna utile per circuire Emilio; soffocare la sua libido, ritardare
le sue passioni, regolamentare i suoi affetti, prolungare la sua innocenza, dirigere
i movimenti della sua anima, reprimere l’attività dei suoi sensi e scegliere i suoi
piaceri; coltivare la sua ignoranza e sopprimere i desideri attraverso il lavoro, lo
sforzo fisico, oppure la caccia, che abitua alla vista del sangue e della crudeltà;
scegliergli la compagna migliore e fargliela sposare; renderlo docile; non
lasciarlo mai da solo e, per esempio, dormire nella sua stessa stanza («Non lo
lasciate solo né giorno né notte»);43 formargli un gusto sano e sicuro; quando
Emilio compie venticinque anni, il precettore si separa da lui, però il giovanotto
continua a conservare ugualmente un tutore fino alla propria morte. E, in fine:
«Ne farei l’emulo di un capriolo, piuttosto che un ballerino dell’Opéra».44 Non
si potrebbe esprimere meglio come Rousseau cerchi di insegnare al proprio
discepolo… a diventare un animale! Il Saint-Just dei Frammenti sulle Istituzioni
repubblicane ha fatto tutti i suoi compiti su Rousseau. Ed entrambi amavano
Sparta più di Atene.
L’esercizio teorico partito escludendo tutti i dati di fatto permette al filosofo di
produrre un Emilio perfetto, l’impeccabile matrice di quell’Uomo Nuovo che i
giacobini si riprometteranno di creare attraverso l’opera di rigenerazione del
1793. Emilio non ha genitori e parla un francese puro; è capace di sopportare
forti dolori e nuota alla perfezione; è sempre contento ed è buono perché ignora
il male; non mente mai e sa perfettamente leggere e scrivere; eccelle addirittura
in geometria, finendo per insegnarla al suo stesso educatore (qui c’è una
reminiscenza platonica); si mostra sempre padrone di sé e non è affatto un
«fabbricante di libri»;45 conduce una vita semplice e rustica; è rispettato dalle
donne anche se queste ultime sanno che è una persona rude; mostra animo e
sensibilità e ispira considerazione e fiducia, insomma è amato; è senza
pregiudizi, nemico giurato della vanità e dei poteri fittizi, ed è una persona
saggia in un mondo di pazzi; è dotato di buon senso, detesta la violenza e parla
solo quando parlare serve a qualcosa; prova sentimenti sublimi e riconosce
l’unica autorità della ragione; è «l’uomo della natura»46 e, contrariamente ai
giovani della sua età, che pensano solo a divertirsi, Emilio è intelligente e puro
(quest’ultima cosa viene ripetuta regolarmente); non ha in grande stima gli
uomini, però allo stesso tempo non li disprezza, ed «è troppo istruito per essere
ciarliero»;47 non prende mai seriamente quello che pensano di lui e pratica in
maniera volontaria l’umiltà; è modesto e vuole piacere alle donne e a tutti gli
altri; ama leggere gli autori Antichi e considera preziosi i veri beni, quindi
frugalità, semplicità, generosità, disinteresse, disprezzo del lusso e delle
ricchezze; nelle questioni di agricoltura, si dimostra più avanti degli stessi
agricoltori; sa tutto e può fare tutto: potrebbe esercitare la professione di medico,
o di giurista, oppure quella dell’imprenditore o del muratore; è il futuro «Uomo
Totale» di cui parla Marx nei Manoscritti del 1844; è il più veloce a correre e
trionfa come «migliore operaio del paese»;48 ha una compagna perfetta, Sofia, di
cui Rousseau abbozza il ritratto: a parte il fatto di cucinare, cucire, lavare i piatti
e i vestiti, Sofia è una ragazza pulita, meticolosa e anche lei pura, allegra,
modesta, riservata e religiosa, e si dimostra casta, virtuosa e onesta… Alla fine,
ciliegina politica sulla torta dell’etica, ci viene fatto sapere che Emilio ha tutte le
carte in regola per governare gli altri perché «primeggerà ovunque e diventerà
dappertutto il [loro] capo […]; essi sentiranno sempre la sua superiorità su di
loro; senza voler comandare egli sarà il padrone; senza credere di obbedire, essi
obbediranno».49

La formattazione radicale dell’essere individuale prescritta nell’Emilio si


accompagna alla formattazione del cittadino esposta nel Contratto sociale. Già
nell’Emilio, si trovano considerazioni di ordine politico, soprattutto l’idea che il
destino dell’uomo costruito dalla pedagogia rousseauiana trovi la sua più vera
vocazione nel fondersi, nel diluirsi e nello scomparire in un corpo politico che
prende il passo sul corpo individuale: «In una legislazione perfetta la volontà
particolare e individuale deve essere quasi nulla; la volontà di corpo, che è
propria del governo, molto subordinata; e perciò la volontà generale e sovrana è
la regola di tutte le altre».50 La volontà generale non è, insomma, la somma delle
volontà particolari, ma la volontà di tutti nella misura in cui si manifesta non
secondo il capriccio individuale ma tenendo come punto fermo finale la
realizzazione dell’interesse generale e del bene comune. Aggiunge Rousseau:
«chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il
corpo; ciò non significa altro, se non che lo si costringerà ad esser libero».51
Questa frase da sola giustifica e legittima varie cose; per esempio, la legge sui
sospetti che condanna chiunque venga segnalato come non ottemperante allo
zelo giacobino, e l’istituzione del Tribunale rivoluzionario, che priva questi
stessi sospetti di qualsiasi diritto alla difesa; oppure il regime fondato sulla
ghigliottina, che, dixit Robespierre, materializza il progetto rousseauiano del
governo attraverso la virtù; oppure ancora il genocidio del popolo della Vandea.

Paradossalmente, è proprio qui che l’anima entra in scena. Nel capitolo Del
contratto sociale consacrato alla «Religione civile»,52 Rousseau non si fa alcuno
scrupolo di ricorrere alla trascendenza per fondare la propria politica immanente.
Ricapitoliamo: allo stato di natura, l’uomo conosce una felicità di tipo
virgiliano; allo stato di cultura, segnato dall’avvento della nozione di proprietà,
conosce la disuguaglianza, la civiltà e la sofferenza; allo stato politico, per il
tramite del contratto sociale, riscopre la propria felicità perduta attraverso
l’istituto della legge, che gli assicura il ripristino dell’uguaglianza. Questo patto
sociale, però, sembra essere più una finzione politica che non una realtà
concreta, più un’ipotesi di lavoro che non una verità sociologica o politica. Ecco
perché il filosofo invoca Dio e la religione per ottenere dagli uomini quello che
l’immanenza non riesce a ottenere da sola.
La Professione di fede del vicario savoiardo costituisce una specie di libro
all’interno del libro, ed è consacrata all’educazione religiosa di Emilio. Questo
nostro vicario si richiama al sentimento e alla ragione, e riconosce l’esistenza di
un motore che mette in movimento tutto l’universo; non si tratta però del Dio
cristiano creatore del mondo, quanto, più verosimilmente, del Dio aristotelico,
agente primo immobile e causa prima incausata; il ricorso alla metafora
dell’orologio e dell’orologiaio rimette oltretutto in circolo il luogo comune dei
deisti; contro il materialismo, che riduce tutto quanto alla materia, il vicario
rousseauiano raccomanda di usare il buon senso, il pensiero, la riflessione,
l’intelligenza e la libertà, tutte facoltà che distinguono l’uomo dall’animale e
provano l’esistenza nell’uomo di qualcosa di più rispetto alla materia, qualcosa
che va al di là. In effetti, secondo Rousseau, l’uomo è «animato da una sostanza
immateriale»:53 e quest’anima, ovviamente, noi possiamo conoscerla attraverso
l’intuizione, e sempre attraverso l’intuizione noi possiamo sapere che sopravvive
alla nostra morte e al deperire della materia. Il che porta al seguente
ragionamento: «Se l’anima è immateriale, essa può sopravvivere al corpo; e se
gli sopravvive, la Provvidenza è giustificata».54 Il problema è che, però,
Rousseau sta partendo da una supposizione, non da una verità dimostrata! La
ripetizione dei «se» dimostra che Rousseau manca di prove concrete e si vede
costretto ad avanzare ipotesi. La Chiesa non è così stupida, e capisce bene cosa
si stia tramando dietro tutti questi discorsi; ecco perché mette l’Emilio
all’Indice…
Rousseau attacca la religione cristiana non perché è una religione, ma perché è
cristiana; perché essa, vendendo il suo retromondo e il suo aldilà, si adatta alle
miserie del mondo quaggiù e collabora con chi mantiene l’ingiustizia sociale e,
in virtù della giurisprudenza paoliniana secondo cui tutto il potere proviene da
Dio, celebra la sottomissione ai poteri costituiti come mezzo per guadagnare la
salvezza.
Quella che occorre è, invece, una religione civica, una religione patriottica:
Vi è dunque una professione di fede puramente civile, della quale spetta al sovrano fissar gli
articoli, non precisamente come dogmi di religione, ma come sentimenti di socievolezza, senza i
quali è impossibile essere buon cittadino o suddito fedele. Senza poter obbligare nessuno a
crederli, può bandire dallo Stato chiunque non li creda; può esiliarlo, non in quanto empio, ma in
quanto insocievole e incapace di amare sinceramente le leggi, la giustizia, e d’immolare, in caso
di bisogno, la sua vita al suo dovere. Che se qualcuno, dopo aver riconosciuto pubblicamente
questi stessi dogmi, si conduca come se non vi credesse, sia punito con la morte; egli ha
commesso il maggiore dei delitti, ha mentito dinanzi alle leggi.55

Capiamo allora che cosa intende Jean-Jacques Rousseau quando scrive di


«costringer[e qualcuno] ad esser libero». Un decennio più tardi, il dottor
Guillotin inventa il modo di esaudire il desiderio del filosofo scomparso nel
1778, e Robespierre e i giacobini porteranno avanti la politica dell’Uomo Nuovo
piazzando una ghigliottina su moltissime delle piazze pubbliche. Se ne
ricorderanno poi i bolscevichi, e poi anche i fascisti, metastasi di quelli. L’anima
prende ormai la forma che gli dà il Rasoio nazionale, cioè quella di un cervello
sanguinante spiccato dal resto del corpo.
Capitolo terzo
Genealogia dell’eugenetica repubblicana
Decapitare l’anima

L’abate Grégoire inaugura la nozione di «rigenerazione» e ne spiega il


funzionamento nel suo Essai sur la régénération physique, morale et politique
des Juifs [Saggio sulla rigenerazione fisica, morale e politica degli ebrei] scritto
nel 1788 e pubblicato nel 1789. L’opera è famosa per dei motivi un po’ strani,
perché l’autore, pur esponendo tutta una serie di tematiche antisemite, riesce a
sfuggire alle accuse di antisemitismo trasponendo i sedicenti vizi degli ebrei sul
piano culturale, cioè su un piano artificiale e non essenziale, e considerandoli,
per questo stesso motivo, salvabili dalla degenerazione attraverso la
rigenerazione della figura del cittadino.
Detto in altre parole, gli ebrei sono degenerati, ma se smettono di essere ebrei,
se diventano dei cittadini francesi, se rinnegano i propri riti, i propri costumi e le
proprie tradizioni, allora, in quel caso, possono rigenerarsi. Asociali in quanto
ebrei, riusciranno a socializzare dimenticando di essere quello che sono, o
almeno dimenticando di essere stati quello che sono stati… Questa rieducazione
degli ebrei che punta a trasformare il loro giudaismo in qualcosa di accettabile,
questa idea che un buon ebreo è un ebreo prima cristianizzato e poi convertito
alle idee giacobine della religione di Stato dei preti bestemmiatori sono tutte tesi
che mi sono sempre sembrate indifendibili.
L’abate Grégoire ritiene che l’apporto degli ebrei alla cultura europea sia
assolutamente trascurabile; che la crescita rapida della loro popolazione sia
pericolosa; che la loro fede li obblighi a credere a tutte le sciocchezze dei
rabbini; che la loro pratica dell’usura si riveli perniciosa per i contadini; che tutte
le critiche che sono loro rivolte sull’argomento siano fondate; che abbiano fatto
malissimo a non accogliere il messaggio cristiano del compimento dell’ebraismo
nel cristianesimo; che il Talmud brulichi di stupidate; che il rabbinismo nasca
dal delirio. Con degli amici così, non c’è nemmeno bisogno di nemici! L’abate
Grégoire s’inventa l’ebreo pieno di vergogna, esattamente come, da lì a
cent’anni, Lessing s’inventerà l’ebreo che odia sé stesso.
Per quest’abate pantheonizzato nel 1989 da un presidente della Repubblica
decorato dall’Ordine della Francisca, la rigenerazione passa attraverso la
conversione: «Concedendo agli ebrei tutta la libertà di cui hanno bisogno,
avremo fatto un grande passo in avanti verso la loro riforma e, se mi è consentito
dirlo, verso la loro conversione».56 E poi: «A furia di incoraggiarli, gli ebrei si
adatteranno insensibilmente al nostro modo di pensare e di agire, alle nostre
leggi, ai nostri usi e ai nostri costumi».57 Meno saranno loro stessi, e più saranno
noi, e più ancora saranno rigenerati!
L’abate Grégoire ritiene che gli ebrei siano sessualmente degenerati e debbano
correggersi sul piano fisico: i ragazzi sono troppo precoci e le ragazze troppo
soggette a ninfomania, fintanto che rimangono nubili. Dai discorsi fatti con
Johann Caspar Lavater, l’inventore della fisiognomica, riprende l’idea che gli
ebrei abbiano «il volto pallido, il naso aquilino, gli occhi affossati, il mento
prominente e i muscoli costrittori della bocca alquanto pronunciati».58 Rilancia il
luogo comune antisemita del loro cattivo odore e ritiene che i loro tratti fisici
esprimano altrettanti tratti psichici negativi.
Per rigenerare la razza ebraica, l’abate propone di eliminare tutte le leggi
kasher che costringono a lavare la carne da qualsiasi traccia di sangue per
renderla adatta alla consumazione. Privarsi del sangue significa rinunciare alle
forze che offre. Parlando di sangue, l’abate Grégoire invita anche a combattere i
matrimoni tra consanguinei, e promuove invece i matrimoni misti con i cristiani,
cosa che presenta tra l’altro l’indubbio vantaggio di accelerare le conversioni.
Il fatto che questo Essai sur la régénération physique, morale et politique des
Juifs passi per essere uno scritto progressista e filosemita è qualcosa che
continua a stupire, perché è al prezzo della scomparsa di sé stessi, al prezzo
dell’abbandono di tutto quello che sono, ed è, invece, a tutto profitto di un’altra
modalità di essere, anche sotto il profilo fisico, insomma a tutto profitto di
un’altra identità che gli ebrei possono non essere più degenerati. Ed è ovvio, ma
meglio precisarlo ancora: l’idea della rigenerazione presuppone implicitamente
che a monte ci sia un processo degenerativo.

E, degenerati, lo sono anche gli abitanti delle province, con le loro lingue
regionali che l’abate Grégoire intende combattere per imporre il francese, che ha
il vantaggio di essere una lingua unica e facilitare la rigenerazione, vale a dire
l’ideologizzazione, la politicizzazione e l’indottrinamento dei cittadini.
Assecondando sempre lo stesso spirito di sradicamento, redige il Rapport sur
la nécessité et les moyens d’anéantir le patois et d’universaliser l’usage de la
langue française [Rapporto sulla necessità e i mezzi per annientare il dialetto e
universalizzare l’uso della lingua francese], detto Rapporto Grégoire, ed esposto
alla Convenzione il 4 giugno del 1794. Si parla della necessità di «annientare» (il
termine viene scelto appositamente forte) trenta lingue, definite «dialetti»
dall’abate:
Il basso bretone, il normanno, il piccardo, il rouchi o vallone, il fiammingo, lo champenois, il
metzino, il lorenese, il franc-comtois, il borgognone, il bressano, il lionese, il delfinese,
l’alverniate, il pittavino, il limosino, il piccardo, il provenzale, il linguadociano, il velayen, il
catalano, il bearnese, il basco, il rouergat e il guascone; quest’ultimo da solo è parlato su una
superficie che si estende per sessanta leghe in ogni direzione. Nel numero dei dialetti, dobbiamo
inserire anche l’italiano della Corsica e delle Alpi marittime e il tedesco parlato nell’Alto e Basso
Reno, perché sono due idiomi molto degenerati. Infine, i neri delle nostre colonie, che voi avete
trasformato in uomini, hanno una specie di idioma povero come quello degli ottentotti, un idioma
che, come la lingua franca, conosce solo i verbi all’infinito.59

Degenerati, quindi, i piccardi e i bretoni, i bearnesi e i guasconi, i neri e gli


ottentotti. I dialetti, in altre parole le lingue regionali, rappresentano un idioma di
natura feudale, mentre il francese insegnato dai maestri in tutte le scuole di
Francia è unico e rappresenta la vera e propria lingua della Repubblica. Da un
lato, il dialetto limitato e rozzo, dall’altro la lingua colta e universale della
nazione. «L’idioma è un ostacolo alla propagazione dei Lumi».60 In effetti, si
tratta davvero di opporre alle molteplici e diversificate lingue del popolo la
lingua unica, centralizzata e parigina dei giacobini: «[I dialetti] impediscono
l’amalgama politico e fanno di un solo popolo trenta popoli».61 L’abate Grégoire
vende i propri miracoli cristiani perché li ritiene degni dei Lumi, e fustiga invece
le credenze popolari: è ovvio che non ama il popolo, che lo ritiene degenerato e
che pensa che debba essere rigenerato. Sta in questo proposito, tutto il progetto
giacobino.
Per portare a compimento questo progetto, l’abate Grégoire conta sullo zelo
dei maestri di scuola, sulla pubblicazione di dispense in francese con cui
inondare le campagne, sull’aiuto dei giornali, sulla diffusione di poesie e di
canzoni edificanti e sul cambiamento della segnaletica: si sta già abbozzando
una società totalitaria, capace di indottrinare con ogni mezzo, e con gli
insegnanti e i giornalisti a guidare la milizia. Grégoire s’immagina addirittura di
accordare la possibilità di sposarsi solo a chi sa leggere, scrivere e parlare in
francese. E dichiara guerra agli accenti regionali, invitando a riformare
l’ortografia, a scrivere un dizionario, a realizzare una «nuova grammatica»62 e a
prendere in prestito le parole delle lingue straniere – più dall’inglese
commerciale che non dall’occitano dei poeti, ovviamente… L’abate Grégoire
conclude il proprio discorso celebrando la «rivoluzione che deve migliorare le
sorti della specie umana».63

Anche Condorcet condivide questo progetto di miglioramento delle sorti della


specie umana, e non si tira indietro di fronte all’invenzione dell’eugenetica
rivoluzionaria. Scrive, in effetti, nei ragionamenti ultimi del suo fulminante
Saggio di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, che occorre
puntare al perfezionamento biologico della specie. In questa «decima epoca»,64
dove si esaminano i «progressi futuri dello spirito umano»,65 Condorcet pretende
di appoggiarsi su regole scientifiche per spiegare che quello che succederà non
può non succedere. S’inventa la predizione progressista. Tra le sue previsioni,
c’è ovviamente «il perfezionamento reale dell’uomo».66
Se esiste un grande antenato del transumanesimo, è proprio in Condorcet che
lo troviamo, cioè in un autore capace di scrivere che «il perfezionamento reale
delle facoltà intellettuali, morali e fisiche»67 può derivare dall’invenzione «degli
strumenti che aumentano l’intensità e guidano l’impiego di queste facoltà, o
anche di quello dell’organizzazione naturale dell’uomo».68 Un’anima con
l’intensità e le performance aumentate da strumenti inediti? Ecco, ci siamo…
Condorcet parte dal principio che «la natura non ha posto alcun termine alle
nostre speranze».69 È il motivo per cui, quando ci aggiungiamo la cultura,
sorridiamo un po’, e otteniamo performance incredibili: considerato il
perfezionamento degli «strumenti», dell’«industria» e delle «macchine», il
filosofo arriva a concludere la «perfettibilità […] indefinita»70 dell’uomo.
A proposito di quello che siamo ormai tutti quanti d’accordo nel considerare
come il transumanesimo, Condorcet elabora questa ipotesi: «Sarebbe assurdo,
ora, supporre che questo perfezionamento della specie umana deve essere
considerato suscettibile di un progresso indefinito, che deve giungere un tempo
in cui la morte potrà essere solamente l’effetto o di casi straordinari o della
distruzione sempre più lenta delle forze vitali, e che infine la stessa durata
dell’intervallo medio tra la nascita e questa distruzione non ha alcun termine
assegnabile?» 71 La ricerca dell’immortalità attraverso la tecnologia, così cara a
Elon Musk e compagnia, trova qui un chiaro precedente.
Comunque, nelle ultime righe del suo Saggio, Condorcet propone il
perfezionamento biologico della specie: «le facoltà fisiche, la forza, l’abilità,
l’acutezza dei sensi, non sono forse tra quelle qualità il cui perfezionamento
individuale può trasmettersi da un uomo all’altro? L’osservazione delle diverse
specie di animali domestici deve convincerci di ciò, e potremmo avvalorarlo con
osservazioni dirette compiute sulla specie umana».72 Il filosofo aggiunge che
anche le facoltà intellettuali e morali possono ricevere un simile trattamento.
Intelligenza, potenza di pensiero, energia dell’anima o sensibilità morale si
trovano così a poter essere prodotte dall’uomo grazie al perfezionamento delle
tecniche, degli strumenti e delle macchine.

Ci pare che anche Cabanis, medico e filosofo, sviluppi le idee dell’amico


Condorcet, incontrato spesso nel salotto di Madame Helvétius. Per esempio, nei
suoi Rapporti del fisico e del morale dell’uomo, scrive:
Dopo di esserci occupati curiosamente dei mezzi onde rendere più belle e migliori le razze degli
animali, e delle piante utili e piacevoli; dopo di avere rimaneggiate cento volte quelle dei cavalli,
e dei cani; dopo di avere traspiantati nei stati, coltivati in tutte le maniere i frutti, ed i fiori, quanto
non è vergognoso di trascurare totalmente la razza dell’uomo! Come se essa ci toccasse men da
vicino! Come se fosse più essenziale di avere buoi grandi e forti, che uomini vigorosi e sani;
persiche molto odorose, e tulipani molto colorati, che cittadini sani e bravi! È tempo, a questo
riguardo come per molti altri, di seguire un sistema di veduta, più degno di un’epoca di
rigenerazione: è tempo di osare di fare su di noi stessi ciò che noi abbiam fatto sì felicemente
sopra vari de’ nostri compagni di esistenza, di usare di rivedere e correggere l’opera della natura.
73

Cabanis aiuta Condorcet a sfuggire alla furia dei giacobini terroristi del 1793,
e gli avrebbe addirittura procurato il veleno con cui ha messo fine ai suoi giorni.
Il progresso aveva ancora dei progressi da fare per essere veramente progresso…

In attesa dell’ora della rigenerazione per mezzo della scienza (e già c’è il
nazismo in fila), Robespierre tallona Rousseau su tutta questa storia della
rigenerazione attraverso l’educazione e la politica, questa volta però sul terreno
concreto della politica. Conosciamo la predilezione del giacobino per l’autore
Del contratto sociale, che, nel capitolo intitolato Del legislatore, scriveva:
Colui che sa intraprendere l’istituzione di un popolo, deve sentirsi in grado di cambiare, per così
dire, la natura umana, di trasformare ogni individuo, che per sé stesso è un tutto perfetto e
solitario, in parte di un tutto più grande, dal quale quest’individuo riceva, in certo qual modo, la
sua vita e il suo essere; d’alterare la costituzione dell’uomo per rafforzarla; di sostituire
un’esistenza parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che abbiamo ricevuta tutti dalla
natura. Bisogna, in una parola, che egli tolga all’uomo forze che gli son proprie, per dargliene
altre che gli siano estranee, delle quali non possa far uso senza il soccorso altrui. Più tali forze
naturali sono morte e annientate, più quelle acquisite sono grandi e durevoli, e più anche
l’istituzione è solida e perfetta: di modo che, se ogni cittadino non è nulla, non può nulla se non
per mezzo di tutti gli altri, e se la forza acquisita dal tutto sia uguale o superiore alla somma delle
forze naturali di tutti gli individui, si può dire che la legislazione ha toccato il più alto grado di
perfezione che possa raggiungere.74
È esattamente quello che pensano Maximilien Robespierre e i giacobini. Il
filosofo e il politico vogliono un Uomo Nuovo, e quest’uomo nuovo sarà quello
dei giacobini; ma sarà anche quello dei fascisti e dei bolscevichi; e oggi quello
dei transumanisti.

Qual è l’anima di questo Uomo Nuovo?

L’aneddoto, lo conosciamo. Robespierre sostiene di aver incontrato Rousseau


quand’era giovane. In effetti, al momento della morte del filosofo, ha vent’anni.
Non sappiamo però che cosa sia successo davvero. Un incontro sui testi? Un
incontro fisico a Parigi o a Ermenonville? Un incontro con una figura lontana
che il giovane avvocato non ha il coraggio di avvicinare? Un incontro vero e
proprio durato qualche minuto e una conversazione informale del tipo: «Mi
piacciono molto le sue cose»? Un incontro vero, ma magari più lungo? È
Robespierre a creare il mito, non aspettiamoci che ci fornisca anche le chiavi per
decifrarlo…
Il piccolo avvocato appartenente alla nobiltà di toga, sceso a Parigi e habitué
dei salotti del quartiere attorno a rue Arras, dove partecipa ai premi letterari
locali, si è trasformato in Maximilien Robespierre. La particola nobiliare è
ovviamente scomparsa, anche se il suo proprietario ha mantenuto la parrucca
incipriata degli aristocratici, che manda peraltro in massa sotto il rasoio
nazionale solo per il fatto… di essere aristocratici!
Da buon allievo di Rousseau, Robespierre crede in Dio: è deista e condivide
l’idea di un’anima immortale. Detesta l’ateismo, un vizio a suo avviso
aristocratico che favorisce il libertinaggio; detesta Hébert, il grande
scristianizzatore di fronte a Dio, che non esiste, e detesta anche quei miscredenti
dei suoi seguaci, che manda tutti alla ghigliottina – una ventina, sul carretto del
24 marzo del 1794. Insomma, il suo intento è diventare il braccio armato del
catechismo della Professione di fede del vicario savoiardo.
Non dimentichiamoci che, nel preambolo della Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino del 1789, possiamo leggere questa frase: «l’Assemblea
Nazionale riconosce e dichiara, in presenza e sotto gli auspici dell’Essere
Supremo, i seguenti diritti dell’uomo e del cittadino».75 In presenza e sotto gli
auspici, dunque. Quest’ultimo termine, recuperato dalla religione antica,
rimanda al favore degli dèi, di cui si interpretano i presagi attraverso l’esame del
volo degli uccelli e delle loro interiora. Certo, non c’era niente di più
immanente! Eccoli, nonostante tutto, quelli che chiamano i Lumi…
Il 21 novembre del 1793, in un discorso tenuto davanti alla Società popolare
dei giacobini, Robespierre discute di questo famoso Essere Supremo e cita senza
nominarlo Voltaire: «Se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarlo». Ritiene, in
effetti, che l’ateismo sia una postura da aristocratico libertino, e che occorra
smarcarsi da questi degenerati dal sangue impuro. Difende invece la
Provvidenza; solo che, proprio come Rousseau, è capace di avanzare unicamente
a forza di postulati: parte rivendicando il sentimento, da completare con la
ragione, e, come per una felice coincidenza, finisce a scoprire Dio!
Abracadabra… Certo, sostiene che: «La Convenzione non fa libri, non è un
autore di sistemi metafisici». Ciò non toglie che questa stessa Convenzione
difende una metafisica deista e riprende tutto quello che troviamo in Kant sotto
forma di postulati: libero arbitrio, esistenza di Dio, immortalità dell’anima. In
altre parole, il treppiedi ontologico, teologico e metafisico della cristianità.
Nel discorso del 5 febbraio del 1794, Sui princìpi di morale politica che
devono guidare la Convenzione nazionale nell’amministrazione interna della
Repubblica, Robespierre propone paradossalmente la stessa lettura della
Rivoluzione francese del pensatore controrivoluzionario Joseph de Maistre. Per
entrambi, questa rivoluzione è uno strumento della Provvidenza inteso a
rigenerare l’uomo corrotto; la sola differenza è che ciò che secondo il
controrivoluzionario è vizio, per il rivoluzionario si trasforma in virtù.
Robespierre continua però a dirsi contrario alla superstizione cattolica, al
fanatismo del cattolicesimo monarchico e al «filosofismo», termine con cui
indica il materialismo ateo.
Il 7 maggio del 1794, il discorso intitolato Sui rapporti delle idee religiose e
morali con i princìpi repubblicani e sulle feste nazionali permette a Robespierre
di creare, né più né meno, una nuova religione: il culto dell’Essere Supremo e
della Ragione. Attacca l’epicureismo e tesse le lodi dell’immortalità dell’anima.
Contro Danton proclama:
E chi dunque ti ha dato la missione di annunciare al popolo che la divinità non esiste, o tu, che ti
appassioni per questa dottrina arida e che non ti appassioni mai per la patria? Che vantaggio trovi
nel persuadere l’uomo che una forza cieca presiede ai suoi destini e colpisce a caso il crimine e la
virtù; che la sua anima non è che è un soffio leggero che si spegne alla porta della tomba? Gli
ispirerà forse più rispetto per i suoi simili e per sé stesso, più devozione per la patria, più audacia
nello sfidare il tiranno, più disprezzo per la morte o per la voluttà? Voi che rimpiangete un amico
virtuoso, non preferite forse pensare che la parte migliore di lui sia sfuggita al trapasso? Voi, che
piangete sulla bara di un figlio o di una sposa, siete forse consolata da colui che vi dice che di loro
non resta più che vile polvere? Infelici che spirate sotto i colpi di un assassino, il vostro ultimo
sospiro è un appello alla giustizia eterna! L’innocenza sul patibolo fa impallidire il tiranno sul suo
carro di trionfo: avrebbe essa forse questo ascendente se la tomba uguagliasse l’oppressore e
l’oppresso? Disgraziato sofista! Con quale diritto vieni tu a strappare all’innocente lo scettro della
ragione per rimetterlo nelle mani del crimine, a gettare un velo funebre sulla natura, ad esasperare
la sfortuna, a rallegrare il vizio, a rattristare la virtù, a degradare l’umanità? Più un uomo è dotato
di sensibilità e di ingegno, più si lega alle idee che ingrandiscono il suo essere ed innalzano il suo
cuore; e la dottrina degli uomini di questa tempra diviene quella dell’universo. E come! Quelle
idee non sarebbero forse verità? Anche se ciò fosse, io non arrivo tuttavia a comprendere come la
natura avrebbe potuto suggerire all’uomo finzioni più utili di qualsiasi realtà; e se l’esistenza di
Dio e se l’immortalità dell’anima fossero anche solo dei sogni, tuttavia essi sarebbero ancora la
più bella di tutte le concezioni dello spirito umano.76

E prosegue:
L’idea dell’Essere supremo e dell’immortalità dell’anima è un richiamo continuo alla giustizia;
essa è dunque sociale e repubblicana. [Applausi] La natura ha messo nell’uomo il sentimento del
piacere e del dolore, che lo costringe a fuggire gli oggetti fisici che gli sono nocivi, ed a cercare
quelli che gli sono convenienti. Il capolavoro della società sarebbe di creare in lui, riguardo alle
cose morali, un istinto rapido, che, senza il soccorso tardivo del ragionamento, lo portasse a fare il
bene e ad evitare il male; poiché la ragione individuale di ciascun uomo, sviato dalle sue passioni,
spesso non è che un sofista il quale difende la loro causa, e l’autorità dell’uomo. Ora, ciò che
produce o sostituisce questo istinto prezioso, ciò che supplisce all’insufficienza dell’autorità
umana, è il sentimento religioso che imprime nelle anime l’idea della sanzione data ai precetti
della morale da una potenza superiore all’uomo. Per questa ragione non ricordo che sia mai
venuto in mente a nessun legislatore di nazionalizzare l’ateismo.77

Attacca anche gli enciclopedisti, opponendo loro senza nominarlo Rousseau:


Tra quelli che, nel tempo di cui parlo, si segnalarono nella carriera delle lettere e della filosofia,
un uomo si dimostrò degno, per l’elevatezza della sua anima e per la grandezza del suo carattere,
del ministero di precettore del genere umano. Attaccò la tirannia con tutta franchezza; parlò con
entusiasmo della divinità; la sua eloquenza virile ed onesta dipinse con tratti infuocati il fascino
della virtù, e difese quei dogmi consolatori che la ragione dà come appoggio al cuore umano. La
purezza della sua dottrina, attenta al profondo della natura e all’odio profondo verso il vizio, e il
suo disprezzo invincibile verso i sofisti intriganti che usurpano il nome di filosofi, gli attirarono
l’odio e la persecuzione dei suoi rivali e dei suoi falsi amici. Ah, se egli fosse stato testimone di
questa rivoluzione di cui egli fu il precursore, e che l’ha portato al Pantheon, chi potrebbe mai
dubitare che la sua anima generosa avrebbe abbracciato con trasporto la causa della giustizia e
dell’uguaglianza? Ma che cosa hanno fatto per essa i suoi dissoluti avversari? Essi hanno
combattuto la rivoluzione, da quando hanno temuto che essa potesse elevare il popolo al di sopra
di tutte le vanità particolari.78

Robespierre propone la «religione universale della Natura»,79 in cui tutto


quello che costituiva l’essenza della religione cristiana, la sua superstizione e,
osa dirlo, il suo ateismo complice dei re e della miseria, scompare a profitto della
natura, della virtù, e di un Essere Supremo completamente liberato dagli orpelli
antropomorfi. Afferma: «Non si tratta più di formare dei ‘signori’, ma dei
cittadini»,80 attraverso le istituzioni, il governo, l’educazione pubblica e le «feste
nazionali»,81 che permettono agli uomini di ritrovarsi e quindi sperimentare la
fraternità. «Un sistema [di feste nazionali] ben impostato, costituirebbe al tempo
stesso il più dolce legame di fraternità ed il mezzo più potente per una
rigenerazione» [corsivo mio].82 Nel corso di queste feste, vengono celebrate le
leggi, ma anche la fraternità, l’uguaglianza, la libertà, la costituzione e la patria,
senza dimenticarsi il cemento basilare, bestiale, brutale, efficace, primitivo e
frenetico dell’odio nei confronti della «memoria dei tiranni e dei traditori»,83 ai
quali è riservata l’«esecrazione»84 – ricordiamoci anche che Robespierre
conosceva il suo catechismo a memoria e non ignorava che il termine
esecrazione avesse anche un senso ecclesiastico; come dice Littré: «Quando un
luogo santo viene contaminato da qualche incidente, si dice che c’è esecrazione,
vale a dire perdita della consacrazione; occorre dunque consacrarlo di nuovo».
In altre parole: rigenerare ciò che è degenerato.
Robespierre esalta i bambini che si sacrificano per la patria, esalta le madri di
famiglia e le donne francesi che offrono la loro prole all’indottrinamento, ed
esalta i padri che le educano in ottemperanza a questo spirito. Ed esalta
ovviamente l’amore e il rispetto della terra, così, alla cieca… Sembra quasi un
discorso del maresciallo Pétain…
Contro la «depravazione», che è ovviamente qualcosa di controrivoluzionario,
Robespierre celebra la divinità, l’immortalità dell’anima e la morale, che sono
invece assolutamente rivoluzionarie! E poi decreta, fin dall’«articolo primo»: «Il
popolo Francese riconosce l’esistenza dell’Essere Supremo e l’immortalità
dell’anima».85 Ma si è mai visto un testo di legge che dispone che l’immortalità
dell’anima debba essere riconosciuta dal popolo francese? Che cosa significa
«riconoscere» qualcosa la cui esistenza non è stata provata, né da Rousseau, né
da Robespierre, né da nessun altro, con lo stesso Kant che si deve accontentare
di postulati, dopo aver invano cercato, nelle seicento pagine della Critica della
ragion pura, di trasformare la propria metafisica in una scienza?
L’articolo due è della stessa pasta: «[Il popolo Francese] riconosce che il culto
degno dell’Essere Supremo è la pratica dei doveri dell’uomo».86 Segue una
litania del catechismo appiccicoso di tutte queste persone animate e mosse dal
rancore: detestare la cattiva fede, odiare la tirannia, punire i tiranni e i traditori,
soccorrere gli sfortunati, rispettare i deboli, difendere gli oppressi, praticare il
bene, non essere ingiusti verso nessuno. Manca solo: mandare alla ghigliottina
chiunque prenda in giro tutti questi sproloqui! Perché è così, quasi ventimila
teste vengono tagliate in tutto il paese per portare a termine questo progetto di
fraternità rivoluzionaria, senza parlare dei duecentomila vandeani, donne e
bambini compresi, torturati, massacrati, condannati a morte e sterminati secondo
un piano preparato dai giacobini. Rigenerazione oblige…

Il Terrore non ha niente a che fare con le controverità divulgate dalla storiografia
marxista sulla Rivoluzione francese, che continua comunque a fare la parte del
leone anche al momento in cui sto scrivendo. Il bagno di sangue non è
l’inevitabile risposta alla Vandea che minaccia il potere giacobino a Parigi o al
pericolo di guerra delle monarchie coalizzate, ma il mezzo con cui i giacobini
cercano di realizzare il proprio progetto di Uomo Nuovo. Del resto, in che modo
tagliare teste in così grandi quantità per tutto il paese avrebbe mai potuto fermare
la ribellione della Vandea o bloccare gli eserciti dei realisti europei? Il Terrore
impoverisce la nazione, dissangua il paese, devitalizza la Francia, mutila il
popolo, insanguina la storia e affossa l’umanità. E oltretutto continua a rimanere
senza effetti positivi sul fronte interno, cioè in Vandea, ma anche su quello
esterno, cioè alle frontiere.
Questa rigenerazione organizzata dal Terrore, l’abate Grégoire la vuole, e
assieme a lui, la vogliono anche Robespierre, Marat, Saint-Just, Babeuf, Rabaut-
Saint-Étienne, Billaud-Varenne, Le Peltier de Saint-Fargeau, Barère e Pétion de
Villeneuve, insomma i giacobini. Il deputato robespierrista Barère, relatore per il
Comitato di salute pubblica, organismo a cui dobbiamo l’istituzione del Terrore
all’ordine del giorno e l’inizio della politica di profanazione delle tombe reali,
afferma: «Il Comitato si occupa di un vasto piano di rigenerazione, il cui
risultato deve essere quello di bandire dalla Repubblica tanto l’immoralità che i
pregiudizi, tanto la superstizione che l’ateismo».87 Questo significava obbedire a
Robespierre, il quale, nel suo discorso del 29 luglio del 1793 ai giacobini, aveva
avvallato l’idea della creazione di «una razza rinnovata, forte, laboriosa,
regolata, disciplinata e che una barriera impenetrabile avrà separato dal contatto
impuro dei pregiudizi della nostra epoca invecchiata».88
Per parecchi anni, i giacobini hanno a propria disposizione tutto il territorio
nazionale per realizzare il loro Uomo Nuovo, ma riescono solo ad aggravare la
parte peggiore del Vecchio: la cattiveria, la bassezza, la selvatichezza, la
stupidità, l’odio e le passioni tristi. L’uomo dei Lumi: un meccanismo senza
libero arbitrio, e quindi non responsabile, non colpevole, non punibile, parente
stretto della scimmia e portatore di un’anima materiale, mosso dall’interesse
personale al di là del bene e del male, pezzo di cera vergine da formare, e quindi
da rigenerare, frutto partorito da un mostro. È questo, l’Uomo Nuovo dei
giacobini.
Cambiando misura e passando dalla Francia come terreno di sperimentazione dei
fanatici giacobini alla produzione di un solo esemplare di questo Uomo Nuovo
da parte degli stessi, un punto di riferimento ce l’abbiamo, perché quest’Emilio
nelle mani di un precettore rousseauiano è esistito davvero, e si chiamava Luigi
Carlo di Francia, meglio conosciuto sotto il nome di Luigi XVII, secondogenito
maschio ed erede del re Luigi XVI, decapitato il 21 gennaio del 1793 all’età di
38 anni, e della regina Maria Antonietta.
Cominciamo dunque dal non escludere tutti i dati di fatto.
Per creare il proprio uomo rigenerato, Rousseau non voleva forse un bambino
senza genitori? Un bambino abituato al freddo e al rigore, allo sforzo e alle cose
ripugnanti, alla rassegnazione e alla mancanza di sonno? Un bambino in balìa
del proprio maestro, che non lo molla di un centimetro, al punto da dormire nella
stessa stanza? Non voleva, forse, il filosofo, che il precettore coltivasse
l’ignoranza del proprio allievo, e che questo fosse docile, in suo potere? Che
fosse più animale che uomo? Del resto, non era Rousseau che parlava di un
capriolo come modello? Il suo amico Robespierre lo ascolta e realizza i suoi
desideri ben oltre ogni limite di ragionevolezza.
Il figlio del re viene strappato con violenza ai propri genitori, che finiscono
sulla ghigliottina, e separato anche dalla sorella, imprigionata come lui al
Tempio; il Comitato di salute pubblica gli assegna come carceriere un calzolaio,
Antoine Simon, membro dei Cordiglieri, assieme alla moglie, di professione
domestica, e tutti quanti vivono nella stessa cella con l’incarico di educarlo. In
verità, lo maltrattano, lo umiliano e lo disprezzano – del resto, non lo si deve
abituare alla rassegnazione? Viene fatto vivere in mezzo alla sporcizia, ai topi,
alle zecche, ai ragni e ai vermi; gli tagliano i capelli, e poi se ne dimenticano, e i
capelli gli ricrescono come i peli degli animali, assieme alle unghie – tanto si
deve evitare che sia portato a curarsi il corpo come fanno gli esseri urbani e
civilizzati. Non deve forse prendere esempio dal capriolo, che di certo non va dal
parrucchiere, non va dal pedicure, e non si fa incipriare la parrucca? Simon lo
sveglia di notte e lo fa venire dove sta dormendo per prenderlo a pedate, e poi lo
rimanda a letto; non bisogna forse educarlo a dormire poco? Il giacobino gli
regala uno scacciapensieri, strumento musicale popolare della Savoia, con l’idea
di fargli passare la voglia di suonare il clavicembalo; non bisogna forse preferire
i divertimenti del topo di campagna a quelli del topo di città? «Io sono il tuo
maestro, dice il giacobino Simon, e non ti devo lasciare marcire nella tua
ignoranza. Ti devi abituare al progresso e alle idee nuove»… Non sembra una
lezione del precettore di Emilio?
La regina fa mandare al figlio libri, quaderni e giochi, però i giacobini li
intercettano tutti. Al figlio di Luigi XVI Simon impone il lutto di Marat; gli
tolgono i vestiti e lo addobbano come un sanculotto, con tanto di berretto frigio.
Viene sfruttato come domestico per gli stessi carcerieri, pulisce e passa la cera
alle scarpe della moglie di Simon, e le porta anche lo scaldino quando si sveglia.
Lo costringono a bere vino e acquavite fino a ubriacarsi, e poi gli fanno cantare
delle canzoni rivoluzionarie scurrili e inneggianti al regicidio. Lo svegliano in
piena notte per obbligarlo a gridare «Viva la Repubblica!» e lo tirano per i
capelli, lo insultano, lo picchiano, lo umiliano, lo prendono a schiaffi e a pedate;
insomma, lo martirizzano. Un giorno, Simon lo colpisce addirittura in testa con
gli alari del camino. Dopo averlo fatto ubriacare, viene costretto a confessare che
partecipava con la madre e con la zia a delle orge incestuose, e che la madre
addirittura lo masturbava (al processo contro Maria Antonietta, questi deliri
furono presi seriamente in considerazione). Una notte, il carceriere lo sorprende
a pregare in ginocchio ai piedi del letto e gli rovescia in testa il contenuto
ghiacciato di una brocca. E così via…
Quando Simon deve lasciare il posto perché la legge gli impedisce di
cumulare l’impiego pubblico con la nuova carica di eletto municipale, il piccolo
Capeto eredita dei carnefici ancora più perversi. Lo murano nella sua cella e non
gli rivolgono più la parola, gli passano da mangiare attraverso le sbarre, lo
privano del riscaldamento e della luce, gli lasciano le lenzuola umide e le coperte
marce, lo fanno dormire tutto vestito senza mai cambiargli o lavargli i vestiti, o i
brandelli che ne rimangono, e lo costringono a vivere in mezzo alla sporcizia più
ripugnante. Per sei mesi, sperimenta quella stessa privazione sensoriale che
imperverserà nelle celle dei paesi totalitari nel corso del Novecento. Non riesce
più a rimanere in piedi ma neanche seduto, ed è consumato dalla scabbia e dalla
tubercolosi. I giacobini capiscono che uccidere il corpo è facile e che bisogna
invece raffinare le tecniche puntando a soffocare l’anima per arrivare solo in
seguito alla morte del corpo.
Arriva Termidoro e Robespierre finisce per assaporare in prima persona quel
rasoio nazionale a cui aveva destinato migliaia di vittime. Ovviamente è sempre
in nome della virtù, della libertà, dell’uguaglianza e, soprattutto, della fraternità
che ha sfruttato quel patibolo in maniera tanto ipnotica. Sul carretto che porta
questo malato mentale alla morte, si trova anche Antoine Simon, la prima
guardia di Luigi XVII. La morte di Robespierre frutterà al piccolo re dei nuovi
carcerieri: non avranno certo la ferocia dei giacobini, ma il male è ormai già
compiuto. Durante i suoi anni di prigionia, il bambino rifiuta tutto e non
proferisce parola; quando lo fa, è solo per proclamare aforismi ben cesellati, che
dimostrano la sua incredibile qualità umana e la sua grandezza d’animo,
impensabili per un bambino della sua età – ricordiamoci che ha otto anni quando
entra in prigione e dieci anni e due mesi quando muore. Simon gli aveva chiesto
che cosa avrebbe fatto se i vandeani fossero arrivati a Parigi per salvarlo e lui
aveva risposto: «Vi perdonerei». Al che il giacobino risponde giurando che, se
questo fosse mai successo, lo avrebbe strozzato lui stesso. Quest’aneddoto è la
perfetta illustrazione della rottura tra i due mondi, quello del Vecchio Uomo e
quello dell’Uomo Nuovo, e delle direzioni opposte che ormai hanno preso.
Quando il bambino diventato re con la morte del padre muore a sua volta l’8
giugno del 1795, è sicuramente un bambino che passa a miglior vita, ma è anche
e soprattutto l’Uomo, con la maiuscola, che entra nella tomba. I giacobini
volevano uccidere il Vecchio Uomo e realizzare l’Uomo Nuovo: sono invece
riusciti soltanto a uccidere l’uomo tout court. L’Uomo Nuovo non ha un’anima:
è un cane secondo Descartes, un’ostrica secondo Diderot, un orango per La
Mettrie, un pezzo di carne da decapitare per i giacobini. L’anima torturata di
Luigi XVII è stata quella dell’ultimo uomo.
Capitolo quarto
Una ghiandola pineale postmoderna
Metapsicologizzare la psiche

I Lumi sono stati deisti, materialisti, edonisti, empiristi e sensualisti. E la


Rivoluzione francese è stata più il frutto del materialismo che non dell’idealismo
e dello spiritualismo, più verosimilmente compagni di strada del cristianesimo,
allora vilipeso. Il pensiero che segue Termidoro, cioè quello degli Idéologues, i
vari Cabanis, Volney e Destutt de Tracy, solo per citare alcuni dei nomi,
continua la particolare strada filosofica materialista aperta dai Lumi. E parliamo
infatti di anti-Lumi, proprio per indicare quanto si oppongano a quel
razionalismo freddo che abbiamo visto essere servito ai giacobini per costruire la
propria ideologia in generale e quella dell’Uomo Nuovo in particolare.
Kant, che si entusiasma per la Rivoluzione francese ai suoi inizi, ma che ha
poi ben presente tutte le funeste vicende che conducono al Terrore del 1793,
contrariamente a quanti leggono Che cos’è l’Illuminismo? in maniera un po’
rapida e pregiudiziale, non è un filosofo guerrafondaio e non vuole inaugurare
nessuna nuova era. È anzi un pensatore reazionario, un filosofo che restaura Dio
e l’immortalità dell’anima in un momento in cui queste figure si trovano a mal
partito. Perché proprio in Che cos’è l’Illuminismo? Kant invita a fare un uso
libero e audace della propria ragione (il famoso «Sapere aude»), ma solo
relativamente alla propria persona, nell’ambito del proprio cuore, all’interno del
registro dell’intimità, escludendo formalmente che si debba davvero trasformare
il sapere in potere, la teoria in pratica e il pensiero in azione.
La Critica della ragion pura esce nel 1781. L’uomo macchina di La Mettrie
nel 1747, Dello spirito e L’uomo di Helvétius rispettivamente nel 1758 e nel
1773, l’Extrait des sentiments de Jean Meslier [Estratto dei sentimenti di Jean
Meslier] viene pubblicato da Voltaire nel 1762, e Il buon senso, ovvero Idee
naturali contrapposte alle idee soprannaturali del barone d’Holbach nel 1772.
Sappiamo che le copie del Testamento dell’abate Meslier circolavano sottobanco
e si vedevano a caro prezzo già dal 1729. È insomma a tutto questo secolo di
materialismo che va a rispondere la Critica della ragion pura.
Che è un’opera che separa il fenomenico, oggetto dei sensi e quindi
dell’esperienza possibile, dal noumenico, oggetto al di là di qualsiasi esperienza.
Di conseguenza, la ragione non può conoscere se non ciò che si trova accessibile
attraverso l’esperienza, secondo delle modalità che Kant s’impegna a definire in
dettaglio e ad nauseam. Se l’intelligibile si rivela essere etimologicamente
l’inconoscibile, che cosa possiamo dire allora di Dio e dell’anima? La teoria del
noumeno restringe le pretese della sensibilità e trasforma Dio e l’anima in
altrettanti oggetti impossibili da conoscere. Quindi, se ci vogliamo porre
l’obiettivo di salvarli dal pericolo materialista, come possiamo fare? Ma è ovvio:
affermandoli comunque, costi quel che costi…
È questo il senso dei tre postulati della ragion pura esposti nella seconda parte
della Critica, intitolata Dialettica trascendentale: la libertà, postulato
cosmologico; l’immortalità dell’anima, postulato psicologico; l’esistenza di Dio,
postulato teologico. Kant li ammette a titolo di ipotesi perché si trova
nell’impossibilità di dimostrarli. Occorre però che l’anima esista per forza,
perché solo così l’uomo può voler progredire verso la santità, la cui morale,
esposta nella Metafisica dei costumi, viene declinata in versione laica. Un libro
grosso come questo e così denso, che partorisce solo tre postulati… Un bottino
tutto sommato un po’ magro… L’anima è veramente appesa a un filo, però per
chi ha la fede questo filo è un cavo d’acciaio.

Anche Freud, pur continuando ovviamente a definirsi scienziato, vuole salvare


l’anima dal pericolo scientista e decide così di percorrere la stessa strada
epistemologica: quella del postulato. In effetti, il suo inconscio non viene mai
provato, ma solo presentato dappertutto come tale, cioè, appunto, come
postulato. La psicoanalisi costituisce quella che Freud definisce una
«metapsicologia», ma che in realtà è semplicemente una parapsicologia – ed
etimologicamente si tratta assolutamente della stessa cosa!
Chiariamo. Cosa significa «metapsicologia»? Il Dictionnaire historique de la
langue française [Dizionario storico della lingua francese] di Alain Rey fa
nascere la parola nel 1896 e gli attribuisce appunto Freud come autore. È
composta dal prefisso polisemico «meta», che va inteso nel senso della
successione, o della trascendenza, e da «psicologia», un termine di cui nella
stessa opera si spiega come già le prime occorrenze alla fine del Cinquecento
indicassero il significato di «scienza dell’apparizione degli spiriti». Il termine
«psicologia» ha oggigiorno il senso di «conoscenza dell’animo umano, dello
spirito, considerato come parte della metafisica». Si tratta in sostanza di una
parola e di un’attività che appartengono appunto al campo della metafisica, e
non certo a quello della scienza. Il positivismo ottocentesco vuole dare a tutte le
attività dello spirito una dimensione scientifica, però, nella metapsicologia
freudiana, non esiste niente che ricordi la sperimentazione, niente che si fondi
sulla presenza di esperienze capaci di produrre risultati ripetibili, e ripetuti, utili
a creare un corpus di leggi scientifiche.
E cosa significa invece «parapsicologia»? Ce lo spiega lo stesso dizionario:
«Studio dei fenomeni parapsichici, metapsichici». La virgola è stata scelta con
cognizione di causa, perché il lessicografo preferisce non dire «o». La voce
stabilisce insomma l’equivalenza tra la metapsicologia del metapsichico e la
parapsicologia del parapsichico. Prendiamone atto.
È in una lettera a Fliess del 13 febbraio del 1896 che Freud usa il termine
«metapsicologia» per la prima volta. Vi ricorrerà poi anche in alcune lettere a
Carl Gustav Jung e a Karl Abraham. Viene finalmente portato alla luce del
giorno nel 1915, in un capitolo della Metapsicologia intitolato L’inconscio.
Freud ritiene che la metapsicologia rappresenti il compimento dei suoi lavori di
psicoanalisi. Nella sua Autobiografia del 1925, descrive la metapsicologia come
la «sovrastruttura speculativa della psicoanalisi»89 «che però non implica un
riferimento all’anatomia cerebrale vera e propria».90 Nella Psicopatologia della
vita quotidiana, parla di «una realtà sovrasensibile»91 – e qui avrebbe potuto
scrivere: noumenica. Dal concetto, insomma, non salta mai fuori nulla di
sperimentale, sembra trattarsi solo di una variazione sul tema del postulato… La
metapsicologia trionfa nella sua qualità di teoria della psicoanalisi; in quanto
tale, è una branca della parapsicologia.

Freud era anche superstizioso, e lo testimoniano diversi episodi della sua vita.
Sulle lettere, mette crocette per scongiurare la cattiva sorte; crede alla
numerologia e la usa nel proprio sistema per fare esercizi incredibili, e
dimostrare che se, in matematica, 2 + 2 = 4, il risultato diventa diverso se si
rispettano i princìpi della metapsicologia – del tipo: invidia del pene + timore
della castrazione; in una lettera dell’8 maggio del 1932 allo psicoanalista italiano
Edoardo Weiss, scrive che con la figlia Anna, psicoanalista come loro, sta
sperimentando la telepatia; e crede ai sogni premonitori.
Sull’occultismo, scrive, sempre a Weiss, il 24 aprile del 1932: «Mi dichiaro
disposto a credere che dietro ai cosiddetti fenomeni occulti ci sia qualcosa di
nuovo e di molto importante: la trasmissione del pensiero, cioè il passaggio di
processi psichici attraverso lo spazio ad altre persone. Ne ho delle prove tratte da
osservazioni fatte alla luce del giorno, e penso di esprimere pubblicamente le
mie opinioni in proposito. Sarebbe invece controindicato per la Sua posizione di
pioniere della psicoanalisi in Italia che Lei si proclamasse contemporaneamente
sostenitore dell’occultismo»92 – così leggiamo nella biografia che Ernest Jones
consacra a Freud. Sappiamo che teorizza la possibilità che l’inconscio del
terapeuta e del paziente comunichino tra loro… anche quando lo psicoanalista
sta sonnecchiando! Freud stesso confessa che, a volte, durante le sedute, gli
capita di dormicchiare…
Sempre allo psicoanalista italiano, l’8 maggio del 1932: «Desidero dissipare
un malinteso. Che uno psicoanalista rinunci a partecipare pubblicamente a
ricerche di occultismo è una misura di ordine puramente pratico, solo
temporanea, che non vuole esprimere alcun principio. Ripudiare sdegnosamente
tali studi senza averne fatto esperienza, significa imitare il pietoso esempio dei
nostri avversari».93 Da quel momento, solo finte e astuzie, solo cinismo e
opportunismo: gli psicoanalisti non confesseranno mai la propria predilezione
per l’occultismo, però in realtà lo apprezzano e lo condividono – psicoanalisti e
occultisti commerciano in effetti assieme con una stessa «realtà sovrasensibile»!
Lo confermano scritti come Psicoanalisi e telepatia (1921) e Sogno e telepatia
(1922).

Prima di diventare il Freud che conosciamo, l’autore dell’Introduzione alla


psicoanalisi s’impegna in vari tentativi… Comincia lavorando sulla sessualità
delle anguille, poi passa a studiare il potere anestetizzante della cocaina in
ambito oftalmologico, non senza provare la sostanza, oltre che sugli occhi,
direttamente su sé stesso, a volte ben oltre ogni ragionevolezza. Apre uno studio
in cui si propone di curare con l’acqua, con l’elettricità, con l’imposizione delle
mani, con la pressione sul volto, con l’ipnosi, però né la balneoterapia, né
l’elettroterapia, né il magnetismo gli permettono di guadagnare quello che gli
serve. Sembra il medico di Molière, e arriva persino a vantare i benefici del
messaggio all’utero praticato a una paziente distesa sul divano per curare
l’isteria…
Per, presumibilmente, curare quella che è solo una banale pratica sessuale,
cioè la masturbazione, Freud preconizza l’impiego dello psicroforo, una sonda
uretrale che permette di far passare direttamente dentro la vescica acqua
ghiacciata (lettera del 9 aprile del 1910 a Ludwig Binswanger). Questa delirante
ricetta stupisce ancora di più se pensiamo che in questo stesso periodo Freud sta
vantando l’efficacia della psicoanalisi per curare e guarire: Il metodo
psicoanalitico freudiano risale al 1904, Psicoterapia al 1905, Le prospettive
future della terapia psicoanalitica e Psicoanalisi «selvaggia» sono pubblicate
nel 1910. L’anno in cui consiglia questo stravagante tipo di cura è lo stesso anno
in cui pubblica le Cinque conferenze sulla psicoanalisi…
Questa confusione riguarda anche la teoria. Freud comincia la propria vita di
teorico da materialista e manda all’amico Fliess il manoscritto del Progetto di
una psicologia, dove lo si vede percorrere una strada fisiologica, biologica,
anatomica e istologica, con l’evidente intenzione di mettere in piedi un sistema
psicologico sul quale persino l’Ideologo Cabanis, autore dei Rapporti tra il fisico
e il morale dell’uomo (1802), non avrebbe avuto praticamente niente da ridire.
In effetti, Freud comincia con queste parole: «L’intenzione di questo progetto
è di dare una psicologia che sia una scienza naturale, ossia di rappresentare i
processi psichici come stati quantitativamente determinati di particelle materiali
identificabili, al fine di renderli chiari e incontestabili».94 Quella che propone è
un’analisi materialista della psiche che chiama in causa i «neuroni come […]
particelle materiali»,95 l’eccitamento e l’inerzia neuronale, i neuroni motori e i
neuroni sensitivi, i movimenti riflessi, e poi «il sistema nervoso (come erede
dell’eccitabilità generale del protoplasma) alla superficie esterna irritabile di un
organismo, la quale si alterna a strati considerevoli di superficie non irritabile»;
96 e poi ancora gli stimoli, l’istologia, i cilindrassi, la memoria del tessuto
nervoso, le cellule permeabili e le cellule impermeabili, il movimento
ondulatorio, il processo della facilitazione neuronale, la sostanza grigia spinale,
la sostanza grigia cerebrale, il cervello primario, i gangli simpatici, la
conduzione intratissutale e le terminazioni nervose. A un certo punto, si parla
anche di una «corrente, che si dirig[e] dalle ramificazioni cellulari o
prolungamenti (dendriti) verso il cilindrasse. Ogni singolo neurone costituisce
così un modello del sistema nervoso nel suo insieme, con la sua dicotomia
strutturale, essendo il cilindrasse l’organo di scarica».97 Ma è la prosa di un
appassionato di occultismo o quella di un aspirante parapsicologo?
Siamo nel 1895 e Freud abbandona questa teoria per accoglierne un’altra, e a
questa altre ne seguiranno ancora. S’inventa la teoria della seduzione. In una
lettera a Fliess datata 8 febbraio del 1897, dopo avergli raccontato il sogno
incestuoso che ha fatto qualche giorno prima, vorrebbe dargli a intendere che il
proprio padre, morto da appena sedici settimane, abbia violentato uno dei figli.
La cosa è naturalmente falsa, però Freud ne approfitta per arrivare alla
conclusione che tutti i padri abusano dei figli, finendo per scoprire l’eziologia
traumatica delle nevrosi! Sostiene di appoggiarsi su diciotto casi, nessuno dei
quali è però mai veramente esistito. E afferma che il metodo di cura da lui usato
a studio si basa su questa teoria, quando in realtà non fa altro che costringere i
pazienti a ricordarsi di traumi che non hanno mai vissuto. A Vienna sorgono
proteste generalizzate e Freud passa dei guai; lo studio si svuota e decide di
rinunciare alla teoria, senza però abbandonare l’idea che le nevrosi nascano da
un trauma sessuale infantile di natura fantasmatica. Il 29 dicembre, spiega a
Fliess questa sua «merdologia» – è il termine che usa per parlare del proprio
lavoro. Ogni tanto anche Freud ha dei momenti di lucidità.
Alla fine del 1897, s’inventa il complesso di Non-essere. Il 3 ottobre scrive a
Fliess: «più tardi (tra i due e i due anni e mezzo di età) si risvegliò in me la
libido verso matrem [sic]; l’occasione deve essere stata un viaggio che feci con
lei da Lipsia a Vienna, durante il quale dormimmo assieme e in cui io ebbi
certamente l’opportunità di vederla nudam [sic]».98 Quella che nella versione
epistolare era solo una probabilità si trasforma ora, nell’opera, grazie alle
capacità performative freudiane, in una verità universale: quello che ha vissuto
lui, lo hanno vissuto tutti in virtù di questa affermazione gratuita: «Mi è nata
solo una idea di valore generale»99 (12 ottobre 1897). L’ipotesi di Freud diventa
verità fin dalla prima biografia di Freud, quella di Ernest Jones, perché è proprio
in quell’opera che si forma il modello di tutte quelle che seguiranno. Jones scrive
in effetti, nel 1957, nella sua Vita e opere di Freud: «Durante il viaggio da
Lipsia a Vienna […] Freud ebbe occasione di vedere sua madre nuda» [corsivo
mio].100 L’ipotesi è quindi già diventata una verità scientifica e il desiderio
solipsista di Freud, una realtà universale…
C’è la prima topica, nell’Interpretazione dei sogni, uscita nel 1900, e la
seconda topica, nel 1920, in Al di là del principio di piacere. Nel 1938, però,
poco tempo prima di morire, quando non ha più niente da provare e il suo nome
si trova già scritto sul libro della storia, ecco quello dichiara nel suo Compendio
di psicoanalisi, redatto nel 1938 e pubblicato incompiuto nel 1940: «può darsi
che in futuro qualcuno ci insegnerà come influenzare direttamente, con speciali
sostanze chimiche, le quantità energetiche e la loro ripartizione nell’apparato
psichico. E forse verranno alla luce altre potenzialità della terapia che adesso
non possiamo neppure sospettare».101
Freud consacra un capitolo della Metapsicologia alla questione dell’inconscio.
Che cosa ci insegna questo capitolo? Ispirato per principio alla teologia negativa,
quello che ci insegna è che l’inconscio non è visibile per la semplicissima
ragione che coincide con una parte dell’invisibile del rimosso. Riusciamo a
renderlo visibile solo attraverso la psicoanalisi, perché quest’ultima riesce a far
tornare alla superficie del conscio quello che la censura che rimuove il trauma ci
ha seppellito. L’inconscio è quindi come il vento: non lo si vede mai, però
deduciamo che è presente dal fatto che le foglie si muovono. Non sappiamo mai
con certezza di cosa si tratti, perché lo possiamo conoscere solo quando è
diventato cosciente, cioè quando si è modificato con il lavoro di rivelazione (nel
senso fotografico del termine, ma probabilmente anche nel senso religioso)
permesso dal passaggio sul divano.
Scrive Freud: «Il diritto di ammettere l’esistenza di una psiche inconscia e di
lavorare scientificamente a questa ipotesi ci viene contestato da più parti».102 Si
tratta quindi di una ipotesi, e la cosa viene specificata fin da subito: un castello
allegorico fondato sulla roccia di un «plasma germinale»103 somatico! Per
rispondere a chi gli nega il diritto di formulare questa ipotesi, a chi gli nega cioè
la possibilità di postulare seguendo le regole della giurisprudenza kantiana,
confessa: «a nostra volta possiamo replicare che l’ipotesi è necessaria e
legittima, e che abbiamo parecchie prove dell’esistenza dell’inconscio».104 Non
sembra il modo di parlare di un teologo che sta discorrendo dell’anima
affermando che è invisibile ma allo stesso tempo presente, perché necessaria a
riempire un vuoto che, altrimenti, avrebbe delle vertiginose conseguenze
ontologiche? Se l’inconscio non esistesse, parecchie cose rimarrebbero prive di
una spiegazione, scrive Freud: per questo motivo deve per forza esistere!
Riconosciamo, in questo modo di procedere, il modo kantiano per accreditare
Dio, l’anima e la libertà di un’esistenza, perché, senza questi postulati, un certo
numero di cose non potrebbero nemmeno esistere – il senso del mondo, la
speranza edificante e la responsabilità che va di pari passo con la punizione e la
ricompensa.
«Guadagnare in significato e in connessione è una ragione perfettamente
legittima per andare al di là dell’esperienza immediata»,105 scrive Freud: la
metapsicologia non ha nulla a che fare con la psicologia, l’unica cosa che
importa è ciò che sta al di là, e questo per quanto riguarda le aperture significanti
permesse. Freud rimpiange spesso di non aver scelto la strada della filosofia: con
la metapsicologia, ci entra in realtà da kantiano desideroso di salvare l’anima.
Altrimenti, per quale motivo, nell’insieme generale del testo inaugurale della
metapsicologia, ricorrere a un registro semantico che prevede espressioni come:
«stati latenti»,106 «vita psichica»,107 «attività psichica inconscia»,108 «processi
psichici latenti»,109 «vita psichica inconscia»,110 «atti psichici»,111 «sistemi
psichici»,112 e così via.
È quindi chiaramente sotto il segno della Critica della ragion pura che Freud
colloca la propria metapsicologia: «Come Kant ci ha messo in guardia contro il
duplice errore di trascurare il condizionamento soggettivo della nostra
percezione e di identificare quest’ultima con il suo oggetto inconoscibile, così la
psicoanalisi ci avverte che non è lecito porre la percezione della coscienza al
posto del processo psichico inconscio che ne è l’oggetto. Allo stesso modo della
realtà fisica, anche la realtà psichica non è necessariamente tale quale ci appare».
113 Lo psichico corrisponde quindi esattamente a quello che si pensa debba
essere, e già pensarlo significa postularlo come si desidera che sia, cioè
esattamente nel modo in cui se ne ha bisogno. Freud vuole l’inconscio di cui ha
bisogno e lo crea conseguentemente a propria immagine. È la cosa più semplice
per qualcuno di così modesto.
A prova di questo ritorno dello psichico, e quindi dell’anima, Freud scrive:
«La ricerca ha provato in modo incontestabile che l’attività psichica è legata al
funzionamento del cervello più che ad ogni altro organo. Un tratto più avanti
(non sappiamo quanto) porta la scoperta dell’importanza disuguale delle diverse
aree del cervello e del loro particolare rapporto con determinate parti del corpo e
attività mentali. Ma tutti i tentativi di scoprire, su questa base, una localizzazione
dei processi psichici, tutti gli sforzi intesi a stabilire che le rappresentazioni sono
accumulate in cellule nervose e gli eccitamenti viaggiano lungo le fibre nervose
sono completamente falliti».114 Non troveremo niente nella corteccia cerebrale o
nelle zone sottocorticali dove poter collocare l’inconscio. Diciamola in altri
termini: non riusciremo mai a trovare la ghiandola pineale postmoderna! «Per il
momento la nostra topica psichica non è niente da spartire con l’anatomia; non si
riferisce a località anatomiche, bensì a regioni dell’apparato psichico, a
prescindere dalle parti dell’organismo in cui dette regioni possano esser situate».
115 E Freud aggiunge, non senza un certo compiacimento: «Da questo punto di
vista il nostro lavoro è dunque libero, e può procedere secondo i propri bisogni.
Sarà anche opportuno rammentare che per il momento le nostre ipotesi non
pretendono di possedere altro valore che quello di rappresentazioni illustrative»
[corsivo mio].116 Peccato non essere stato letto e meditato dai grandi guru della
corporazione del Divano!

Nel labirinto freudiano, esiste un filo d’Arianna, e questo filo è il plasma


germinale. Freud raccoglie questa nozione dal biologo August Weismann.
L’espressione continua a riapparire un po’ dappertutto nella sua opera, dove però
la cosa si trova come rimossa. Esisterebbero delle cellule germinali, che
trasmettono le informazioni ereditarie, e delle cellule somatiche, che assicurano
invece le funzioni vitali. A favore o contro le prime, la formazione,
l’apprendimento non possono cambiare nulla. Nella Metapsicologia, Freud
scrive: «l’individuo è l’appendice provvisoria e transeunte del pressoché
immortale plasma germinale che gli è stato affidato dalla generazione».117 Il
viennese riprende la tesi di Schopenhauer secondo la quale ciascuno di noi esiste
allo stesso tempo come individuo mortale separato e come anello della catena
della specie immortale. Le pulsioni di autoconservazione assicurano la
sopravvivenza e la permanenza dell’individuo, mentre le pulsioni sessuali, quelle
del frammento della specie che questo stesso individuo rappresenta. Il plasma
germinale mortale scompare con la nostra morte, mentre il plasma germinale
immortale viene sfruttato ai fini della riproduzione della specie e dura in eterno.
Ne L’Io e l’Es, scrive: «L’espulsione della materia sessuale, nell’atto sessuale,
corrisponde in certo modo alla separazione del plasma germinale dal soma».118
Certo, esistono l’inconscio, le pulsioni, la libido, gli istinti e tutti gli altri
elementi dell’apparato psichico, cioè il conscio, il preconscio, l’inconscio, l’Es,
l’Io e il Super-io. Però, in ultima analisi, quello che esiste è solo il plasma
germinale, come si evince dalle ultime righe dell’ultima pagina dell’Analisi
terminabile e interminabile: «per il campo psichico, quello biologico svolge
veramente la funzione di una roccia basilare sottostante».119 In altre parole,
dobbiamo rappresentarci l’inconscio come una metafora che sta appoggiata
sopra un blocco biologico somatico. In fine, nel suo Compendio di psicoanalisi,
Freud confessa: «di ciò che chiamiamo la nostra psiche (o vita psichica) ci sono
note due cose: innanzitutto l’organo fisico e il suo scenario, il cervello (o sistema
nervoso) e, in secondo luogo, i nostri atti di coscienza che sono dati
immediatamente».120 Freud ha dunque passato la propria vita a discutere di
allegorie per riuscire ad afferrare una materialità misteriosa, che, per quello che
mi riguarda, definirei vitalista; e tutto attraverso delle topiche che lui stesso
definisce legate a determinate connessioni neuronali nell’encefalo.121

Su questa tensione freudiana tra topica e materia, e tra allegoria e plasma, lo


strutturalismo decide di tagliare la testa al toro e di mettere da parte tutto ciò che
è somatico: annunciandone la caducità e l’obsolescenza, e permettendo
all’allegoria di essere più vera del plasma germinale. Anzi, non più vera, ma
l’unica vera! La cancellazione totale della materia a tutto profitto della topica,
trionfante sotto forma di struttura, rappresenta un po’ il ritorno del rimosso
dell’anima. Cosa pensare allora di un’anima ridotta al solo statuto di significato?
È arrivato il tempo dei corpi senza organo. Ed è anche il tempo degli assassini.
Capitolo quinto
Il tempo del Corpo senza Organi
Strutturalizzare l’essere

Dietro domanda del suo amico François Châtelet, che cura una Storia della
filosofia in otto volumi, Gilles Deleuze scrive un testo intitolato Da che cosa si
riconosce lo strutturalismo? In realtà, non è così scontato che, una volta
terminata la lettura, si riesca davvero a rispondere alla domanda. In compenso,
scopriamo uno stile e un tono che non possono non ricordare la scolastica del più
oscuro medioevo.
Il 26 febbraio del 1966, Gilles Deleuze scrive a Clément Rosset, un maestro
della scrittura elegante e divertente in filosofia: «Inseguo oscuri sogni sulla
necessità di un nuovo stile o di una nuova forma in filosofia». Siamo tutti
d’accordo che, ahimè, Deleuze ha bruciato le tappe, e raggiunto e prodotto
questo nuovo stile in filosofia: nata dal gergo sartriano, a sua volta figlio naturale
del gergo heideggeriano, quella di Deleuze è una lingua che rinuncia a
comunicare perché obbliga allo psittacismo e alla glossolalia.
Non è comunque a questa lingua che pensa Roland Barthes quando, nel 1977,
nella sua lezione inaugurale al Collège de France proclama: «Ma la lingua, come
performance di ogni linguaggio, non è né reazionaria, né progressista: è
semplicemente fascista, perché il fascismo non è impedire di dire, è obbligare a
dire».122 Teniamo a sottolineare che si tratta dello stesso autore che, in un libro
intitolato Sade, Fourier, Loyola (1971), ci descrive il marchese de Sade, uno che
non ha mai smesso di tessere le lodi del piacere nel crimine, del godimento
nell’omicidio, della gioia nella tortura e dell’estasi nella violenza, e questo non
solo nella propria opera ma anche nella propria vita, ci descrive insomma
quest’uomo come un perfetto ambasciatore del «principio di delicatezza»!123 Sì,
abbiamo letto bene…
La lingua di Deleuze costringe a diventare deleuziani, cioè a destreggiarsi con
una manciata di concetti. È lui, in effetti, ad affermare che la copiosa creazione
di concetti è ciò che contraddistingue la figura del filosofo. Seguendo questo
ragionamento, quindi, qualsiasi psicopatico minimamente afflitto da problemi di
glossolalia potrebbe trasformarsi in un principe della filosofia!
Deleuze non dimentica di essere un professore agrégé, e va a prendere in
prestito dal vocabolario della scolastica buona parte del proprio arsenale
concettuale, al quale mescola qualche invenzione nell’aria dei tempi. Questo suo
testo breve è ampiamente farcito di specie, di parti, di figure, di modi, di
attualizzazioni, di virtuali, di accidenti, di qualità, di singolari, ma anche di
differenzianti, di differenziazioni, di produzioni, di rapporti, di seriali e,
ovviamente, diamo a Cesare quel che è di Cesare: di strutture.
All’origine dello strutturalismo, troviamo la linguistica di Ferdinand de
Saussure. E non è difficile capire quale possa essere stata l’utilità dell’autore del
Corso di linguistica generale per chi, sulla scia di Freud, si è abituato ad
accordare più importanza all’allegoria, alla metafora, all’immagine e al
simbolico piuttosto che non al reale, la cui natura viene anzi spesso messa in
causa.
Che Sade abbia potuto essere un mostro nel corso della propria esistenza, che
abbia potuto drogare, violentare e torturare in più occasioni, che si siano potute
ritrovare delle ossa umane sepolte nel suo giardino, ecco, tutte queste cose non
contano nulla, perché tutte queste cose appartengono semplicemente al reale, e la
verità vera è che Sade è autore di un’opera di architettura letteraria, un
monumento di segni sadici, un monumento che lo rende appunto grande!
L’uomo che, in vita, ricava piacere dall’infliggere il male finisce per essere
considerato un gentiluomo del principio di delicatezza: e Saint-Germain-de-Prés
lo consacra grande sacerdote della religione testuale.
In maniera simile, il fatto che Freud abbia potuto mettere da parte con un
colpo di mano il plasma germinale, l’anatomia neuronale e il corpo concreto, a
tutto profitto delle varie topiche della psiche, che, in fondo, altro non sono che
metafore spaziali di un’astrazione la cui esistenza al di là dei segni rimane
comunque e sempre da provare, rivela un modus operandi che si ritrova con
estrema facilità nel mondo degli strutturalisti. Tutto il lavoro di Lacan, per
esempio, si sforza precisamente di mettere da parte il reale in modo da conferire
pieni poteri al linguaggio, un linguaggio che arriva in questo modo a strutturare
persino l’inconscio. Il mondo esiste solo attraverso la lingua che lo dice. Anzi, il
mondo coincide con il suo dire. Platone avrebbe adorato…
E così, nello strutturalismo, troviamo una lunga serie di significati, di segni, di
fonemi e di morfemi, troviamo la lingua, il linguaggio e la parola, troviamo le
differenze e i valori, troviamo la semiologia, la semiotica e la semantica! Il reale
si trasforma sempre di più in un effetto di linguaggio. A questo aggiungiamo
l’inconscio, che resta da dire, ma che continua comunque ad esistere prima del
dire, anche se è proprio grazie al dire che recupera visibilità.
Deleuze risponde alla domanda «Da che cosa si riconosce lo strutturalismo?»
esponendo sei criteri.
«Primo criterio: il simbolico».124 Deleuze apre subito, senza batter ciglio:
«Non sappiamo ancora completamente in che cosa consista quest’elemento
simbolico»!125 È il primo criterio, quello fondamentale, però non sappiamo
ancora quale sia! Continuiamo a leggere e sforziamoci di apprezzare il rigore del
ragionamento: non sappiamo cos’è la struttura, però sappiamo che cosa non è, e
questo, secondo la buona e vecchia logica, dovrebbe comunque permettere di
arrivare a una definizione positiva! Dunque: la struttura non è una forma
sensibile, non è una figura dell’immaginazione, non è un’essenza intelligibile,
non è un’idea platonica e non è qualcosa di reale; non è nemmeno qualcosa di
dicibile o d’indicibile, qualcosa di attuale, di fittizio, di possibile o di visibile,
qualcosa che appartiene all’essere o al non-essere.
Tutto questo fa pensare ai giochi di prestigio della teologia negativa: di Dio
non si può dire niente, perché qualsiasi affermazione positiva a suo riguardo
verrebbe a negare l’affermazione negativa corrispondente, e questo,
sottraendogli una qualità, per quanto negativa possa essere, finirebbe per
intaccare la sua perfezione – e un Dio imperfetto non può essere Dio.
Dell’anima, anche i teologi del medioevo potrebbero arrivare a dire, per come la
concepiscono, che la sua struttura non è una forma sensibile, non è una figura
dell’immaginazione, non è un’essenza intelligibile, non è un’idea platonica e non
è qualcosa di reale; che non è nemmeno qualcosa di dicibile o d’indicibile,
qualcosa di attuale, di fittizio, di possibile o di visibile, qualcosa che appartiene
all’essere o al non-essere. Ecco, la struttura degli strutturalisti assomiglia
stranamente all’anima vista da uno scolastico! Comunque stiano le cose, che sia
dicibile o indicibile, che appartenga all’essere o al non-essere, quello che è
sicuro è che ci troviamo di fronte a una vera e propria performance ontologica.
In seguito, Deleuze entra direttamente nel paradosso e produce ossimori a
profusione. Per esempio: la struttura si trova in «uno spazio inesteso»126 – nuova
performance ontologica! In pieno Novecento, parlare di uno spazio, cioè di
qualcosa che per definizione dovrebbe essere considerato esteso, e
caratterizzarlo invece con la qualità dell’inestensione, è un bell’esempio di cosa
si produceva in quel momento alla Sorbona! Ci si chiede come abbia fatto
Deleuze a fallire il concorso d’entrata all’École normale supériore: i numeri per
brillare, ce li aveva tutti! Ma continuiamo. Eccolo a un certo punto che ci spiega
come questo gioco di prestigio derivi da una «topologia trascendentale».127
Quest’ossimoro lo possiamo capire soltanto se abbiamo letto Kant, perché è sulle
pagine di questo filosofo che scopriamo come il trascendentale che qualifica la
condizione di possibilità possa anche qualificare un luogo, una topica.
Traduciamo in lingua quotidiana, partendo da lontano: la struttura è un luogo che
è e che interroga la possibilità di un luogo da essere; ma come potrebbe mai, il
luogo che è, funzionare da luogo che si domanda anche come potrebbe essere?
Questo luogo non ha un luogo, proprio come la superficie non ha estensione. Da
tutto questo non-essere, però, non possiamo dedurre l’essere del non-essere –
questo rimane qualcosa di indicibile, ci avverte Gilles.

«Secondo criterio: locale o di posizione»,128 magister dixit… Il dotto Deleuze ci


ricorda l’«ambizione scientifica dello strutturalismo».129 Con quello che
abbiamo appena letto, e con quello che stiamo per leggere, fa bene a mettere in
chiaro le pretese di questa nuova scuola!
L’anima, l’inconscio e la struttura sono entità che sembrano condividere
strane parentele: sono invisibili, e però anche onnipotenti e onnipresenti; sono
inafferrabili, però non si trovano da nessuna parte e stanno dappertutto allo
stesso tempo; sono inconoscibili, però sono anche causa di tutto ciò che è; sono
immateriali, però anche topiche, in maniera simbolica; trascendentali, però anche
inscritte in una logica immanente; sono inestese, però anche presenti nel reale
più concreto! Senza luogo, senza estensione e appartenenti a una «topologia
trascendentale».130 L’ossimoro, lo abbiamo visto, è già stato portato in tavola.
Il reale non ha più alcuna ragion d’essere, Deleuze ci fa entrare in un mondo
di pure idee, in un mondo di idee pure. È solo per questo motivo che può
scrivere senza vederci alcuna apparente difficoltà: «Padre, madre ecc. sono
dapprima luoghi in una struttura».131 Qui scopriamo che possiamo stare
«dentro» qualcosa che non ha estensione e che non si trova in nessuno spazio. In
questa fase dell’analisi, stiamo ancora ignorando che cosa sia la struttura, però il
filosofo ci spiega che possiamo comunque dire che cosa ci sia dentro questo
qualcosa che continua a rimanere indicibile. Aggiungiamo che, se qualcuno
crede di sapere cosa sia un padre, ormai è chiaro che si sta sbagliando, perché il
padre è un luogo dentro una struttura senza luogo. In caso non avessimo ancora
capito, Deleuze tira fuori un altro esempio, quello del fallo. È ovvio che
dobbiamo tutti quanti liberarci dei nostri pregiudizi, perché chiunque crede di
sapere cosa sia il fallo in realtà è il primo a ignorarlo: «Questo fallo non è […]
né l’organo reale né la serie delle immagini associate o associabili: è il fallo
simbolico».132 Volendo chiarire ulteriormente, diremo che il fallo è un luogo
dentro una struttura. Tutti quelli che stupidamente credevano di avere un padre e
un fallo saranno costretti a ricredersi, perché in loro c’era, senza che fosse in
nessun modo soggetto alla categoria dell’estensione, un padre indicibile e un
fallo ancora meno dicibile – ma sul quale naturalmente non ci si asterrà di
discutere e di glossare a lungo…
A chi pensa di essere in grado di rimproverare a Deleuze e ai suoi, convertiti a
questa nuova religione filosofeggiante, di virare verso la teologia negativa, se
non addirittura verso la teologia tout court, il nostro filosofo cerca di fornire
rassicurazioni: «lo strutturalismo non è separabile da un nuovo materialismo, da
un nuovo ateismo, da un nuovo antiumanesimo».133 Per l’antiumanesimo, è
sicuro. Per il resto, resta tutto da dimostrare… E ovviamente non lo sarà mai…
In effetti, è difficile che l’immaterialità della struttura possa fondare un nuovo
materialismo. Di che materia è fatta un’entità svuotata da ogni materialità al
punto di diventare «immateria» (mi si permetta questo neologismo), cioè una
categoria impossibile? Ma pure se materia o immateria ci fosse, tutto resterebbe
comunque indicibile… E in questo non c’è materia per atei, solo di che
alimentare un nuovo dio. Quanto all’inumanesimo, è qualcosa di fondato:
quando la struttura, che non è niente, viene presentata come fosse tutto, non c’è
più posto per l’uomo old school. Michel Foucault lo ha del resto già assassinato
qualche tempo prima.
Deleuze si dice d’accordo con questa morte dell’uomo e offre anzi una
collocazione dialettica a questo trapasso, che avviene «in favore, speriamo, di
qualche cosa a venire, che però non può venire se non nella struttura e attraverso
il suo mutamento».134 Puntando alla speranza, all’avvenire, o a qualche cosa, il
teologo continua la propria questua intellettuale, ma sempre, naturalmente,
dentro una struttura. Quale struttura? In verità, ve lo sto dicendo: fitto mistero…

«Terzo criterio: il differenziale e il singolare».135 Deleuze disquisisce sul


fonema, la più piccola unità linguistica, quella che permette, ad esempio, di
distinguere tra biliardo e miliardo: «È chiaro che il fonema si incarna in lettere,
sillabe e suoni senza però ridursi a essi».136 Che rapporto c’è con la struttura, mi
chiederete voi? Nessuno, per il momento… In virtù di uno slittamento nella
dimostrazione, il filosofo comincia a parlare di relazioni di ogni genere, senza
che ci sia nessun legame apparente con il fonema, per esempio le relazioni
familiari. Deleuze afferma che Lévi-Strauss «non considera solo padri reali in
una società, né le immagini di padre che hanno corso nei miti di tale società. Egli
pretende di scoprire veri fonemi di parentela, ossia parentemi, unità di posizione
che non esistono indipendentemente dai rapporti differenziali in cui entrano e in
cui si determinano reciprocamente».137 Non abbiamo quindi solo un padre reale
e concreto, il nostro genitore per esempio, ma anche un fonema di parentela, un
parentema. Parente-tema, avrebbe sottolineato Lacan. O parte in tema.
Cerchiamo di vederci un po’ più chiaro. Quelli che esistono non sono soltanto
dei parenti identificabili, un padre e un figlio in carne e ossa, per esempio, ma
soprattutto relazioni tra istanze. Può forse stupire il fatto di parlare di relazioni
mettendo da parte gli elementi che si trovano legati e congiunti! Il proletario
appare praticamente attaccato alla sua macchina, però poco contano il proletario
e la macchina, quelle che contano sono le relazioni tra il salariato sfruttato e il
padrone capitalista. Che importano l’operaio e il caporeparto, due entità che
esistono appena, perché l’unica cosa che conta è la loro relazione strutturale. «I
rapporti di produzione vi sono determinati come rapporti differenziali che si
stabiliscono non fra uomini reali o individui concreti bensì tra oggetti e agenti
che hanno dapprima un valore simbolico».138 Il marxismo di Althusser volta le
spalle al proletariato concreto e reale, cioè quello che soffre, per preoccuparsi
delle strutture invisibili in cui i lavoratori si trovano catturati (produzione,
salariato, sfruttamento e alienazione), ma solo in qualità di modalità concettuali,
mai come relazioni esistenziali. L’abolizione del reale empirico si compie a tutto
profitto della struttura trascendentale. Non si potrebbe smaterializzare meglio il
mondo!
In una relazione sessuale, per esempio, non ci sono dei corpi che si mettono in
gioco, ma solo una relazione strutturale. È questo il senso dell’antiumanesimo
strutturalista: l’uomo viene messo da parte a profitto del mondo delle strutture in
cui si muove. In quest’ordine di idee, Barthes e Foucault annunciano la morte
dell’autore, perché l’unica cosa che importa è la relazione tra il lettore e quegli
insiemi di segni che sono i testi – prodotti poi da chi, gli si potrebbe chiedere? A
pensarci bene, l’affermazione che l’autore è morto non ha mai portato nessuno di
questi istrioni del pensiero a rinunciare ai propri diritti… d’autore! Perché, in
linea teorica, se non c’è autore, non ci dovrebbero nemmeno essere i diritti
d’autore. Sarebbe stato consequenziale, coerente e avrebbe portato la prova
irrefutabile che questi dervisci rotanti credevano a quello che insegnavano:
l’autore è solo un fonema! Ma se parlo di coerenza, è solo perché sto già
sognando…

«Quarto criterio: il differenziante (différenciant), la differenziazione


(différenciation)».139 Citiamo: «Le strutture sono necessariamente inconsce, in
virtù degli elementi, dei rapporti e dei punti che le compongono».140
Convocando in questo modo l’inconscio freudiano, tutto diventa possibile! Non
facciamo altro che aggiungere indicibile a indicibile, ineffabile a ineffabile,
invisibile a invisibile, incomunicabile a incomunicabile, indescrivibile a
indescrivibile; e questo, il dubbio viene, non facilita il compito di dire, di vedere,
di comunicare e di descrivere la struttura! Al posto della luce, stiamo facendo un
passo di più dentro le tenebre.
Deleuze scrive: «Della struttura si dirà: reale senza essere attuale, ideale
senza essere astratta»141 – i corsivi sono suoi. Sembra di ascoltare un monaco
benedettino in pieno XII secolo! «Reale», «attuale», «ideale», «astratto»:
l’armamentario del perfetto scolastico. Aggiungiamo un certo e sicuro talento
per i sofismi e la retorica, che permettono, sulla carta, di parlare del reale
escludendo la sua attualità, quindi come fosse un’idea, e di parlare dell’ideale
senza astrazione, quindi come fosse un’idea senza idea. È una vera e propria
prodezza d’anfiteatro, anche se non è in grado di far avanzare di un solo
centimetro il carro della filosofia! A meno di non voler credere che il principio
del suo movimento non sia, appunto, l’immobilità. E siamo davvero a un passo
da questo…
Proseguiamo: le strutture «s’incarnano»142 nelle «forme» e, in questo modo, si
differenziano. Per differenziarsi, devono allora «attualizzarsi». Stiamo proprio
navigando nelle acque della scolastica… Dato che le strutture sono inconsce, la
loro esistenza diventa visibile solo attraverso le loro stesse produzioni. In questo
modo, si assicurano una doppia invisibilità. In caso stessimo ancora sperando di
avanzare verso la conoscenza della struttura, non illudiamoci: si tratta di un
ennesimo passo verso l’intelligibilità. Chi non pensa a Dio in tutte queste
furberie da teologia negativa? O all’anima?…

«Quinto criterio: seriale».143 Deleuze dimostra molto poco: è affermativo e


performativo. Magister dixit, quindi è vero. Occupa la posizione del maestro
dell’arte sofistica, di cui bisogna bere ogni parola e assaporare il pensiero. È un
oracolo. Mai l’idea di una lingua fascista, nel senso di Barthes, è stata tanto
attuale! Perché, in effetti, è proprio del gergo filosofeggiante contemporaneo di
cui parla Barthes che si tratta! Scrive Deleuze: «ogni struttura è seriale, multi-
seriale, e non funzionerebbe in assenza di questa condizione»;144 o anche: «gli
elementi simbolici che abbiamo definito in precedenza, presi nei loro rapporti
differenziali, si organizzano necessariamente in serie» [corsivi miei].145 Se lo
dice lui. Quindi, da una parte «seriale», poi, come se questo non bastasse, anche
«multi-seriale»! E «necessariamente»! Ma dove sono le prove? Niente, da
nessuna parte…
Anche se a questo stadio avanzato dell’analisi continuiamo ancora a ignorare
che cosa sia la struttura, l’autore si sente autorizzato a dilungarsi sulla
spiegazione del suo funzionamento! La necessità che qui viene richiamata
segnala il punto d’incandescenza del performativo. Allo stesso modo in cui Dio,
l’anima e il libero arbitrio erano necessari per Kant, allo stesso modo in cui
l’inconscio e le topiche erano necessarie per Freud, anche la natura seriale e
multi-seriale della struttura si rivela qualcosa di necessario per Deleuze.
All’interno delle serie, gli spostamenti si compiono seguendo il principio della
metafora o della metonimia. Siamo in piena religione del linguaggio, e la
smaterializzazione e la derealizzazione stanno toccando il loro culmine. Deleuze
s’inventa un mondo di parole e ce lo presenta come se fosse più vero del mondo
reale e concreto. Questo reale, lo cancella e lo sostituisce con il virtuale. Non si
può essere più platonici di così. In fondo, l’ontologia di Gilles Deleuze si rivela
semplice: l’essere non è, perché solo il non-essere è. Deleuze fonda un
nichilismo e lo piazza al cuore della realtà. Il suo essere è il nulla, e la struttura è
il suo profeta.

«Sesto criterio: la casella vuota».146 Per chi, come Deleuze, non ha mai
nascosto la propria predilezione per i matti e gli schizofrenici, la casella vuota si
rivela un insieme pieno della massima importanza! Nella confusione di name
dropping, in cui, facciamoci pure qualche risata, Sollers sta a fianco di
Shakespeare e Jacques-Alain Miller accanto a Mallarmé, Deleuze mette a punto
un fuoco d’artificio il cui colpo finale è un petardo umido. Ed è questo: «È bene,
infine, che la domanda ‘da che cosa si riconosce lo strutturalismo?’ conduca alla
posizione di qualche cosa che non sia riconoscibile o identificabile».147 Ecco, la
cosa è detta. Dobbiamo ridere o piangere? Provare invidia o pietà? Non ho il
coraggio di dirlo…
C’è un ulteriore sviluppo, presentato sotto il titolo di «Ultimi criteri: dal
soggetto alla pratica».148 Ma a cosa serve spingersi oltre quando sappiamo che
non sapremo mai niente di più o di meglio…

Dopo aver letto questo testo, non dovremmo più ignorare che cosa sia lo
strutturalismo! La verità invece è un’altra. Mettiamola in questi termini: il lettore
un po’ ingenuo che consulta la Storia della filosofia curata da François Châtelet
perché vuole sapere che cosa sia lo strutturalismo, cioè la filosofia di moda in
quel particolare momento, lungi dall’aumentare il proprio sapere, trova la
propria confusione parecchio ingigantita! Ma questo «qualche cosa»
(l’espressione è di Deleuze, di norma più ispirato, soprattutto quando si tratta di
coniare neologismi) che viene presentato come invisibile, impercettibile,
indicibile, ineffabile, inesprimibile, incomunicabile, indescrivibile, ma
onnipotente, non sembra forse il Dio di Dionigi Areopagita, il pensatore
neoplatonico simbolo della teologia negativa detta anche apofatica?
Per esempio: «Diciamo, dunque, che la Causa di tutte le cose e che sta al di
sopra di tutte le cose non è né senza sostanza né senza vita né senza ragione né
senza intelligenza; tuttavia, non è né un corpo né una figura né una forma, e non
ha quantità o qualità o peso; non è in un luogo; non vede, non ha un tatto
sensibile, non sente né cade sotto la sensibilità; non conosce disordine e
perturbazione per essere agitata dalle passioni materiali».149 Chi è l’autore di
questo passaggio? Dionigi Areopagita o Deleuze? In verità, il brano è tratto dalla
Teologia mistica del primo. E siamo d’accordo sul fatto che ci si può sbagliare.

Passiamo agli esercizi, che ci permettono di arrivare alla questione dell’anima ed


esaminiamo in particolare quello che, in Deleuze e Guattari, viene indicato con
l’espressione di «Corpo senza Organi», abbreviato in «CsO» – uno dei culmini
nell’arte della teologia apofatica pagana di Deleuze!
Possiamo scegliere la soluzione più facile e richiamare un’opera intitolata Le
Vocabulaire de Deleuze [Il vocabolario di Deleuze], curata da due eminenti
professori di filosofia all’università, Robert Sasso e Arnaud Villani. Ecco la
definizione: «Limite di deterritorializzazione del corpo schizofrenico, concepito
per contrastare il corpo in frammenti e i cattivi oggetti parziali, funziona più
generalmente come superficie virtuale e liscia, indissociabile dai flussi che la
percorrono e vi si intersecano». Seguono cinque pagine dello stesso tenore… In
queste pagine, constatiamo che quello di lingua fascista descritto da Roland
Barthes, cioè di una lingua che obbliga a dire nel registro della glossolalia e
senza possibilità di emancipazione, si rivela un concetto adattissimo a
caratterizzare la fioritura dei linguaggi autistici nei filosofi del Novecento, che
infatti gareggiano nel creare neologismi, convinti come sono che più ne creano,
più profondo diventi il loro pensiero. La prosa di Lacan, per esempio, ha ispirato
un’opera intitolata 789 néologismes de Jacques Lacan [789 neologismi di
Jacques Lacan], redatta da un collettivo che riunisce gli allievi fanatici
dell’École lacanienne de psychanalyse che hanno curato il dizionario
dell’autismo lacaniano.
In Che cos’è la filosofia?, Gilles Deleuze scrive che un filosofo è una persona
che crea concetti. Esaminiamolo, allora, questo Corpo senza Organi, o CsO.
Deleuze lo recupera da Artaud, il quale scrive: «Senza bocca Senza lingua Senza
denti Senza laringe Senza esofago Senza stomaco Senza ventre Senza ano. Io
ricostruirò l’uomo che sono»150 – come si vede, anche senza punteggiatura,
nonostante le maiuscole… Deleuze cita le parole del poeta in Logica del senso e
aggiunge in nota, ma il diavolo è sempre nei dettagli: «(Il corpo senza organi è
fatto soltanto di ossa e di sangue)».151 Immaginiamoci il risultato a livello
anatomico!
Sul corpo senza organi, Deleuze prosegue: «Non si è dunque mai sicuri che i
fluidi ideali di un organismo senza parti non trasportino vermi parassiti,
frammenti di organi e di alimenti solidi, resti di escrementi; e si è persino sicuri
che le potenze malefiche si servano effettivamente dei fluidi e delle insufflazioni
per far passare nel corpo i pezzi della passione».152
Che cosa possiamo dire di questi «fluidi ideali»? Nuova variazione sul tema
della teologia apofatica, perché questo ossimoro non può in effetti bastare a
risolvere la tensione, se non addirittura la contraddizione esistente tra la nozione
di fluido, che presuppone lo scorrere nel tempo e nello spazio, e quella di ideale,
che invece non si sposta né nel tempo né nello spazio.
E cosa possiamo invece dire di questi «vermi parassiti», o di questi «resti di
escrementi» che si muovono all’interno di un «organismo senza parti» in cui
continuano comunque a galleggiare dei frammenti di organo e soprattutto i
«fluidi ideali»?
E, ancora più strano, che cosa possiamo pensare di queste strane «potenze
malefiche» all’opera in questo corpo fatto unicamente di ossa e di sangue, come
viene precisato dallo stesso filosofo, un corpo in cui troviamo delle rimanenze di
materia fecale (perché poi soltanto dei resti? dove sta tutta la merda scomparsa
da cui si è staccata quella che galleggia?) e dei vermi (tipo tenie, i cosiddetti
vermi solitari)?
Fluidi ideali, ossa e sangue, vermi parassiti, rimanenze di escrementi e
potenze malefiche: insomma, quello che costituisce un CsO sembra essere molto
lontano dalla definizione che gli universitari lessicografi del filosofo ne
ricavano! Uno strano corpo senza organi che sa d’infetto e che macchia come
sangue sul tavolo del macellaio.
Quindi, perché Gilles Deleuze ci invita a fare di questo corpo malato, di
questo corpo da schizofrenico, il paradigma stesso del corpo, il modello per
l’Uomo Nuovo che ha in mente come risultato finale? In effetti, se già ne L’anti-
Edipo (1972), consacra un lungo capitolo al CsO, in Mille piani (1980), secondo
volume di Capitalismo e schizofrenia, non è nemmeno più della semplice
topografia del CsO che discute, ma direttamente della sua prescrittibilità. Perché
altrimenti scegliere d’intitolare un capitolo: Come farsi un Corpo senza Organi?
L’anti-Edipo riprende la descrizione gore del CsO: «Sotto gli organi sente
larve e vermi ripugnanti, e l’azione di un Dio che lo sconcia o lo strangola
organizzandolo».153 In Mille piani, Deleuze uccide l’uomo, concepito e pensato
dalla ragione occidentale, a tutto profitto dei nuovi modelli. Propone dei
paradigmi che più tardi verranno definiti come sessantottini: per esempio, cerca
di produrre il proprio Uomo Nuovo celebrando il corpo paranoico, il corpo
ipocondriaco, il corpo schizofrenico e il corpo drogato («schizo sperimentale»154
) – insomma, il corpo masochista. Si tratta di farla finita con il corpo normale,
come aveva fatto anche Georges Canguilhem, professore agrégé di filosofia e
medico, sempre in maniera performativa, quando aveva decretato la morte del
normale e del patologico in un’opera falsamente scientifica e invece davvero
funesta intitolata Il normale e il patologico (1966).
Scrive Deleuze: «Il CsO è quel che resta quando si è tolto tutto».155 Non è
vero. Quando si toglie tutto, non resta niente, ed è una cosa diversa dal dire che
resta il niente. E su questo niente, Deleuze e i decostruzionisti francesi a seguito
hanno fondato la loro chiesa. Foucault per primo.
Capitolo sesto
Un volto di sabbia cancellato dal mare
Uccidere l’uomo

Quando, nel 1966, scrivendo Le parole e le cose, Michel Foucault annuncia la


«morte dell’uomo», lo fa ovviamente in termini scherzosi, per ridere come se ne
ride all’École cosiddetta Normale e sedicentemente Supérieure, ricordando la
battuta di Paul Nizan, che sapeva di cosa stava parlando, in quanto lui stesso era
uscito da lì… Per riderne come avrebbero potuto riderne da Democrito a
Bataille, passando per Nietzsche, rivendicando il rispetto dovuto ai grandi
antenati, ma ridendone comunque. All’ENS piace molto la sovversione, a patto
però che rimanga istituzionale. E Foucault era un normaliano e non ha mai
smesso di essere un sovversivo istituzionale. Questo, giusto per far capire la
profondità e la qualità della sua operazione sovversiva.
In un mondo in cui si preferisce brillare senza leggere piuttosto che essere
profondi, e anche cattivi, ma solo dopo aver letto, si tende a risparmiare sullo
sforzo e sull’umiltà, due virtù che, pur essendo ormai passate di moda,
rimangono comunque e sempre necessarie per la lettura. In questo mondo, la
reputazione di un libro si costruisce, nella maggior parte dei casi, sommando i
malintesi accumulati sul titolo e sul nome dell’autore.
Consapevole di quanto queste strade senza uscita siano consustanziali alla
«società dello spettacolo», il 6 aprile del 1980 Foucault fa uscire su «Le Monde»
un’intervista con Christian Delacampagne. L’intervista viene pubblicata
anonima proprio perché la volontà è deliberatamente quella di far leggere quello
che c’è scritto, senza dover ricorrere all’idea pregiudiziale che si ha dell’autore.
Per tutto l’arco temporale della lettura di questo testo, l’autore è quindi
semplicemente un «filosofo mascherato», qualcuno che può essere assaporato e
apprezzato alla cieca e liberamente, lontano dai pregiudizi del piccolo giro che
ruota attorno a Saint-Germain-des-Prés, un giro che, in quell’epoca ormai
trascorsa, detta legge a Parigi, quindi a tutta la Francia, quindi a tutto il
pianeta…
Al fischio pavloviano suggerito da Le parole e le cose, il cane parigino
comincia a salivare: «morte dell’uomo»! Non che, oltre a questo, ci si possa
trovare molto altro, giusto una serie di concetti facili, da usare come fa il
giocoliere con le sue palle, solo che qui vengono abbandonati in mano a gente
imbevuta di cultura filosofeggiante: episteme, archeologia, dispositivi, archivi,
regimi di verità, eterotopia… Ai tempi, per sembrare profondi, bastava
inanellare lunghi discorsi infarcendoli con tutto questo vocabolario astruso.
L’intimidazione ha contribuito parecchio alla reputazione di questi creatori di
glossolalie.

Il libro evento di Michel Foucault, Le parole e le cose, è un mattone di


quattrocento pagine. Più di mezzo secolo dopo la sua pubblicazione, questo testo
tanto denso manifesta tutta la sua prossimità formale e intellettuale con gli artisti
e le opere dell’epoca: con i manifesti strappati di Raymond Hains, con le Nanas
di Niki de Saint Phalle, con le macchine penzolanti di Jean Tinguely, con le
compressioni di César, con le accumulazioni di Arman, con i pasti in rilievo di
Spoerri… Tutto sembra datato… Del resto, sarà lo stesso Michel Foucault a
notare quanto l’insieme fosse complessivamente vintage e a valutare con il
senno di poi questa sua opera emblematica dello strutturalismo, arrivando a
sostenere senza alcun ritegno di non essere mai stato strutturalista, e
impegnandosi subito a mettere in piedi un altro cantiere destinato a contraddire
quello con cui aveva formulato la morte dell’uomo – e studiare la formazione del
soggetto greco-romano all’origine del soggetto moderno, cioè appunto del
sopracitato… uomo.
Qualche parola su Le parole e le cose. Foucault non scrive da filosofo ma da
letterato e, più che richiamarsi a Descartes o a Kant, pietre miliari della
razionalità moderna, è a Hölderlin, a Sade, a Nietzsche, ad Artaud, a Bataille, a
Roussel e a Genet che si rivolge, cioè a scrittori che, come lui, hanno avuto
qualcosa a che fare con la mancanza di ragione, con la follia e con la
trasgressione. Foucault ritiene che la psicosi, la paranoia e la schizofrenia siano
dei contromodelli positivi in grado di scuotere la razionalità occidentale.
Quando, in questo libro, Foucault afferma l’impossibilità del cogito,
sottolineando come l’abisso che separa l’«io penso» dall’«io sono» impedisca
ovviamente qualsiasi rapporto di causalità tra loro, lo fa in nome di una falla, di
un’incrinatura, di una frattura, di una crepa nell’essere, vale a dire in nome di ciò
di cui si occupa la psicoanalisi, in onore della quale infatti intreccia corone di
alloro. Questa frattura ossessiona il filosofo, che le gira continuamente attorno
quasi fosse il bordo di un precipizio ontologico che minaccia di inghiottirlo e
che, per questo stesso motivo, contemporaneamente lo affascina. Quando parla
dell’uomo, è in effetti di sé stesso che sta parlando…
Sotto il discorso del filosofo, sorprendiamo lo scrittore: la sua scrittura è
quella di un esteta, se non addirittura di un dandy, capace di imporre un proprio
ritmo. Si preoccupa degli effetti di linguaggio e di stile e cerca di conquistare il
lettore sfruttando il vortice poetico che riesce a creare, non grazie alle
dimostrazioni analitiche o alle verità storiche dispiegate. Foucault continua a
operare digressioni e a passare da un oggetto filosofico all’altro, proprio come
farebbe lo spettatore di una camera delle meraviglie barocca o manierista.

È così che Foucault scrive, senza paura di farsi facilmente sconfessare:


Nessuna filosofia, nessuna opzione politica o morale, nessuna scienza empirica quale che fosse,
nessuna osservazione del corpo umano, nessun’analisi della sensazione, dell’immaginazione o
delle passioni trovò mai, nel XVII e nel XVIII secolo, alcunché di simile all’uomo; l’uomo infatti
non esisteva proprio come non esistevano la vita, il linguaggio e il lavoro; e le scienze umane non
comparvero quando, per effetto di qualche razionalismo urgente, di qualche problema scientifico
non risolto, di qualche interesse pratico, fu deciso di far passare l’uomo (volente, nolente, e con
maggiore o minore successo) dalla parte degli oggetti scientifici, nel numero dei quali non è forse
ancor dimostrato che lo si possa interamente situare; esse comparvero il giorno in cui l’uomo si
costituì nella cultura occidentale come ciò che occorre pensare e, insieme, come ciò che vi è da
sapere.156

Ma di cos’altro ci si sta occupando, se non dell’uomo, quando, nel Seicento,


giusto per limitarci ai classici francesi, Descartes pubblica le Passioni
dell’anima (1649)? O quando scrive il trattato su L’uomo (uscito postumo nel
1662)? O quando Racine e Corneille mettono in scena le loro tragedie? O La
Fontaine pubblica le sue Favole (1668-1694)? O La Rochefoucauld le sue
Sentenze e massime morali (1665)? O La Bruyère i suoi Caratteri (1688)? Non
c’è davvero niente che riguardi l’uomo? Niente sulla sensazione? O
sull’immaginazione? O sulle passioni?
E che dire, nel secolo successivo, del progetto dell’Enciclopedia (1751-1772)
di Diderot e di d’Alembert? E delle opere che l’accompagnano: Dello spirito
(1758) e L’uomo (1773) di Helvétius? L’uomo macchina (1747) e L’uomo pianta
(1748) di La Mettrie? Il Trattato delle sensazioni (1754) di Condillac? Il buon
senso (1772) e il Sistema della natura (1770) del barone d’Holbach? Senza
dimenticarci dello stesso Diderot, della sua Lettera sui ciechi a uso di coloro che
vedono (1749) e dei suoi Elementi di fisiologia (redatti tra il 1773 e il 1774, ma
pubblicati per la prima volta solo nel 1875)?
Ne Le parole e le cose, un libro che, ricordiamolo, s’interroga sulla comparsa
dell’uomo a cavallo tra Settecento e Ottocento, non troviamo menzionata da
nessuna parte L’origine delle specie (1859) di Darwin, né ancor meno troviamo
una minima analisi de L’origine dell’uomo e la selezione sessuale (1871), che
invece proprio alla domanda: «Che cos’è l’uomo?» risponde in maniera
scientifica, cioè tenendosi lontano da tutte le sciocchezze scolastiche dello
strutturalismo.
Misuriamo quanto fosse audace questo filosofo che insegnava all’università e
allo stesso tempo scriveva che, nel secolo di Descartes e in quello di Voltaire,
l’uomo non esisteva, la vita non esisteva, il linguaggio non esisteva e nemmeno
il lavoro esisteva! La conseguenza è che, giusto per sceglierne uno su tutti,
nemmeno Descartes esisteva, o era vivo, o parlava, o lavorava – ossia, detto in
altre parole, il Discorso sul metodo non è mai stato scritto. Tutti questi giochini
di prestigio dovevano per forza portare all’elaborazione del concetto di morte
dell’autore, finalmente proclamata alla Société française de philosophie il 22
febbraio del 1969!
Questo genere di assurdità può passare per pensiero profondo solo in mezzo ai
prestigiatori formati alla scuola circense della rue d’Ulm e ai dilettanti buggerati
dal gioco delle tre carte della filosofia filosofeggiante. Se Foucault riesce a
brillare grazie a simili controverità, è perché non vive nella storia e di
quest’ultima non si preoccupa assolutamente – cosa che Sartre gli rimprovera a
ragione.
Di fronte a tanta disinvoltura, finta o, cosa ancora più grave, rivendicata,
possiamo solo pensare alle disavventure di Talete che, guardando le stelle, non
vede il pozzo che si trova davanti e ci cade dentro, provocando le risate della
serva trace… Questa storiella ci racconta che, da che mondo è mondo, ci sono
sempre stati dei filosofi che si disconnettono dal mondo con la scusa di doverlo
pensare meglio e che ritengono più vere le illusioni celesti delle realtà terrestri.
Avremo ovviamente riconosciuto il vecchio tropismo platonico che funziona
come passaporto per ogni filosofia ufficiale: che nessuno oltrepassi i propilei
dell’Accademia se non è platonico!
Quando Diogene il cinico circola per le strade di Atene alla ricerca di un
uomo, non è una persona qualsiasi quella che sta cercando, ma un esemplare del
famoso «bipede senza piume e con le unghie piatte» di Platone, esemplare che sa
benissimo, ironicamente, che non riuscirà mai a trovare e che corrisponde alla
famosa Idea di uomo secondo Platone. Perché, se dobbiamo credere all’autore
del Timeo, l’uomo concreto, reale, sensibile, tangibile ed empirico possiede
verità solo nella misura in cui partecipa all’Idea di uomo, un’idea che è più vera
dell’uomo stesso e di tutti gli esseri umani.
Foucault dichiara di aver scoperto l’uomo di Platone nel momento stesso in
cui sta morendo. È una chimera «empirico-trascendentale», scrive, di cui lui
stesso si lancia a fornire la data di nascita e quella della probabile morte, non
senza esitare per un attimo: la piazza, una prima volta, tra la metà del Seicento e
l’inizio dell’Ottocento, un’altra tra il Rinascimento e i nostri giorni, una terza
volta tra la fine del Rinascimento e il periodo a cavallo tra Ottocento e
Novecento, un’altra volta ancora la individua già operativa dal Cinquecento, ma
poi riesce anche a sostenere che «i punti estremi sono gli anni 1775 e 1825»…157
Foucault si rivela filosoficamente reazionario nel senso etimologico del
termine: in un contesto intellettuale dominato dal marxismo sartriano, Foucault
restaura la vecchia figura platonica dell’uomo, indifferente a qualsiasi
dimensione storica. Che l’uomo possa essere nato milioni di anni fa direttamente
dalla scimmia, se posso esprimermi in questi termini, non gli passa nemmeno per
l’anticamera del cervello e questa versione dei fatti non si trova affatto tra le
stelle contemplate da questo Talete del Novecento…
Come parecchi filosofi in generale, e come tutti gli strutturalisti in particolare,
anche Foucault non crede alla verità del mondo, ma solo a quella degli archivi
che dicono il mondo. Per lui, esiste solo quello che si trova attestato da un testo.
Una pagina di Borges come quella lungamente analizzata in apertura del libro
diventa più vera di qualsiasi realtà che manchi di questo statuto di archivio,
esattamente come la vita di un semplice uomo.
Non è quindi un’archeologia quella che Foucault realizza, contrariamente a
quanto da lui annunciato, ma una genealogia. E più in particolare una genealogia
nietzschiana, praticata da un topo di biblioteca che non alza mai il naso dal
librone appoggiato sul leggio. Se il testo lo dice, allora il reale esiste; se il testo
non dice niente, allora il reale non esiste. Foucault non affronta mai l’uomo nella
sua realtà concreta e tangibile, cioè quella anatomica, fisiologica e corporea, ma
solo la sua epifania su carta stampata. «Uomo» è qui il significante di un
significato di carta. Il filosofo gode unicamente delle relazioni testuali. Per lui, le
parole sono le cose e le cose non hanno altra realtà se non quella semantica.

La genealogia del genealogista è nietzschiana e l’influenza nietzschiana, in Le


parole e le cose, si sente. Nei mesi successivi alla pubblicazione di quest’opera
nel 1966, Foucault e Deleuze sono chiamati a lavorare alla curatela dell’edizione
Gallimard delle opere complete di Nietzsche. In questa edizione, ritroviamo i
testi compiutamente stabiliti e approvati dal filosofo tedesco prima della
pubblicazione in volume, ma anche tutta una serie di frammenti postumi,
falsamente presentati come definitivi, in verità solo note di lettura, citazioni da
altri autori il cui nome è andato perduto, tentativi di pensieri, come quando si
testa un’idea prima di lasciarla perdere o, al contrario, di accoglierla per
svilupparla ulteriormente; e poi formule, intuizioni, idee vaghe o vaghe idee. Il
nietzschianesimo francese ha divagato parecchio in quegli anni, fornendo a
questi testi destoricizzati uno statuto di completezza, e correndo il rischio di
presentare il pensiero di Nietzsche come contraddittorio! Sono ovviamente i
limiti dell’approccio platonico al testo.
La tematica della morte dell’uomo affrontata da Foucault trova chiaramente la
propria origine nell’opera di Nietzsche, il quale, nei passaggi in cui si parla della
morte di Dio, annuncia anche quella dell’uomo. In Così parlò Zarathustra, però,
è l’uomo definito dalla civiltà giudaico-cristiana a essere chiamato a morire dopo
l’avvento del sovrumano.
Il superuomo è stato poi deturpato dai recuperi fascisti e nazisti, quelli che la
sorella, antisemita, ha preparato per Mussolini e Hitler. In seguito, un altro
tradimento: il superuomo è stato offuscato anche dall’assimilazione a una figura
di uomo onnipotente concepito secondo le categorie americane dell’eroe da
fumetti – una specie di Superman, che infatti viene chiamato con una pura e
semplice traduzione dell’Übermensch nietzschiano…
La verità è che Nietzsche si colloca su un terreno ontologico e morale, e
nient’affatto su uno politico, sociologico o ideologico. Il superuomo è colui che
conosce la natura tragica del reale perché è consapevole dell’eterno ritorno
dell’identico, e questo in maniera infinita; di fronte a tale consapevolezza, non si
ribella ma, al contrario, secondo il principio dell’amor fati, ama e vuole tutto
quello che gli succede: la sua vita è ripetizione dello stesso all’infinito; solo in
questo desiderio di ciò che è, l’uomo supera la propria condizione e può
raggiungere quella di superuomo. La morte dell’uomo a tutto vantaggio del
superuomo è sempre e solo il consenso che l’uomo stesso dà al proprio destino.
Se ci si accontenta di leggere i testi pubblicati dallo stesso Nietzsche, le cose
sono chiare. Si complicano solo quando aggiungiamo al suo corpus quei
frammenti dubbi, falsi, incerti, problematici e discutibili di cui sopra. Sull’eterno
ritorno, se ci si limita ai libri pubblicati da Nietzsche, risulta evidente che l’idea
del filosofo sia quella dell’eterno ritorno dell’identico, e non, come afferma
Deleuze nel suo libro Nietzsche e la filosofia (1962), appoggiandosi sui testi
messi assieme di sana pianta dalla sorella di Nietzsche, l’eterno ritorno di ciò che
noi vorremmo che succedesse – perché non c’è libera volontà in Nietzsche …
Quando Foucault lega la sorte dell’uomo a quella di Dio, destinandole
entrambe a una stessa morte, sta facendo un esercizio di stile filosofeggiante su
un punto di storia della filosofia; semplicemente, non sa che farsene dell’uomo
reale concreto, quello che, trentatremila anni fa, incideva sulle corna dei cervi o
su altre ossa i suoi calendari lunari dopo aver guardato il cielo non per trovarci
delle idee, ma per comprendere le ragioni del cosmo, nel senso etimologico del
termine, cioè le ragioni dell’ordine dell’universo.
Questo interrogare il cielo da parte dei primi uomini segna per me, lo abbiamo
visto, la loro data di nascita, una data che deriva dalla Luna come astro e non
come forma nel cielo delle Idee.

Le parole e le cose lo afferma con chiarezza: l’uomo è una «strana figura del
sapere».158 Per Foucault, si tratta solo di questo… Non esiste carne, non esistono
nervi, non esistono muscoli o sangue, non esiste lingua e non esistono ossa, non
esistono cervello e pelle, non esistono peli, non esistono unghie e non esistono
capelli. Non esiste nessuna di queste quintessenze di materie che per Platone
sono degradate: nessuna di queste materie va a costituire il corpo di un uomo,
vale a dire dunque l’uomo stesso.
Per Foucault, l’uomo (con la minuscola, mai con la maiuscola) viene
costituito da una triade, prima della quale non esiste, e questa triade è composta
dall’economia, dalla biologia e dalla filologia. L’uomo nasce quindi con il
lavoro, con la vita e con la lingua. Dobbiamo dedurne che un disoccupato, un
uomo senza lavoro, un uomo privo di vita, un muto o un uomo che non parla non
siano più uomini quando sono morti? E che cosa dobbiamo pensare del
lavoratore muto e che, proprio per questa sua disabilità, testimonia doppiamente
della propria disumanità? O, peggio ancora, quando questo personaggio mutilato
passa dalla vita alla morte…
Il lavoro non ha niente a che fare con il lavoratore alienato, sottomesso al
capitalismo e schiavo di un padrone, di un caporeparto o di un capo-officina; non
ha alcuna relazione con il salario, con lo sfruttamento, con la busta paga, con le
condizioni miserabili o con l’iscrizione nella produzione delle ricchezze, come
descritto da Marx nel Capitale. No. Il lavoro è ciò che rende possibile un
discorso di Cantillon, un’analisi di Quesnay, un capitolo di Condillac, un libro di
Lemercier de la Rivière, un volume di Adam Smith, un in folio di Ricardo.
Nient’altro.
Foucault ha il gusto degli autori sconosciuti, ai quali conferisce un’importanza
capitale, mentre in realtà, ai loro tempi, sono stati dei semplici glossatori: hanno
prodotto un testo celeste che Foucault separa dal suo contesto terrestre. Lo
strutturalista crede che l’universo si sia interamente rifugiato sugli scaffali di una
biblioteca stracolma di volumi antichi. Un mondo di morti e di polvere, di pelle e
di carta, di rilegature e di colla secca.
Le analisi sono interminabili e costantemente sottoposte a mise-en-abyme
quasi osservandosi nell’atto stesso di analizzarsi; e, come quadri in un museo,
vediamo susseguirsi una dopo l’altra le considerazioni di Bonnet sulla
palingenesi, quelle di Tournefort sulla storia naturale, quelle di Beauzée sulla
grammatica generale, quelle di Véron de Forbonnais sull’economia, quelle di
Davanzati o di Scipion de Gramont sulla ricchezza, o quelle di Dutot sul
commercio… Ed ecco perché vostra figlia è muta, avrebbe detto Molière…
Questo libro cerca l’uomo, ma alla fine trova soltanto i libri, e gli uomini li
mette da parte. Lo strutturalismo elimina la storia, la cancella e la abolisce: la
verità del proletariato non si trova più nelle fabbriche, ma in Leggere il Capitale
(1965) di Althusser, che interroga le cesure epistemologiche tra il giovane Marx
e quello del Capitale; la verità della psiche non si trova più nelle sofferenze
patite da un paziente, ma negli Scritti (1966) di Lacan, che offre al gioco di
parole un ruolo teorico di fondamentale importanza; la verità della lingua non si
trova nella parola di un bambino che comincia a esprimersi, ma nella differenza
tra semiotica e semantica esposta nei Problemi di linguistica generale (1966) di
Benveniste; la verità dell’inconscio non si trova in una lunga memoria
filogenetica, ma nei meccanismi della macchina desiderante smontata da
Deleuze e Guattari ne L’anti-Edipo (1972); la verità dell’antropologia o
dell’etnologia non si nasconde nella vita quotidiana di una tribù, ma nella teoria
generale dello scambio esposta con parecchi schemi nell’Antropologia
strutturale (1958) di Lévi-Strauss; a questo punto, nemmeno la verità dell’uomo
si trova più nella cristallizzazione di una biografia, ma ne Le parole e le cose
(1966) di Foucault…
Nella dialettica tra parole e cose, Foucault ha evidentissimamente scelto le
parole a scapito delle cose. In fondo, non c’è niente di così originale: è il destino
di tutta la filosofia idealista. L’uomo è, prima di ogni altra cosa, una realtà
semantica, e in questo senso può apparire anche molto tempo dopo aver già
lasciato una prima traccia nella storia dell’umanità. L’Homo sapiens che, nel
periodo Aurignaziano, incide un osso per realizzare un calendario lunare non è
un uomo, perché non ha coscienza di esserlo. Giudicando con questo metro,
però, nemmeno parecchi degli esseri umani della nostra epoca lo sono…
Scrive Foucault:
Quando la storia naturale diviene biologia, quando l’analisi delle ricchezze diviene economia,
quando soprattutto la riflessione sul linguaggio si fa filologia e viene meno il discorso classico in
cui l’essere e la rappresentazione trovavano il proprio luogo comune, allora, nel movimento
profondo d’una tale mutazione archeologica, l’uomo appare con la sua posizione ambigua di
oggetto nei riguardi di un sapere e di soggetto che conosce: sovrano sottomesso, spettatore
guardato, sorge là, nel posto del re, assegnatogli anticipatamente dalle Meninas, ma dal quale a
lungo la sua presenza reale fu esclusa. 159

Foucault pensa a partire da sé stesso. Nietzsche ha già detto tutto quello che
c’era da sapere sulla genealogia autobiografica di ogni pensiero – quello di
Foucault compreso, il quale comunque non ignorava il ragionamento, avendo
letto la prefazione della Gaia scienza… Ecco perché il registro del filosofo si fa
così cupo: sotto la sua penna appaiono espressioni come «panorama d’ombra» e
«parte di notte», «zona oscura» e «regione abissale», «fortezza singolarmente
sprangata» e «macchia cieca»… Questa parte maledetta rappresenta il punto di
origine del suo pensiero. È parecchio evidente che la ragione occidentale gli stia
ormai fin troppo stretta e che il «mormorio indefinito» dell’inconscio lo attiri più
potentemente di qualsiasi altra cosa.
Questo spiega perché, sulla scia della morte di Dio e della consustanziale
morte dell’uomo, Foucault annunci, tematica quanto mai hegeliana, la morte
della filosofia e l’avvento di un «pensiero futuro».160 Descartes e Kant lasciano
il posto a Freud e a Lacan, i quali non si preoccupano più della ragione
ragionevole e ragionante, ma solo della pura sragione. Le 120 giornate di
Sodoma ed Eliogabalo o l’anarchico incoronato di Artaud, o ancora La parte
maledetta di Bataille piuttosto che il Discorso sul metodo o la Critica della
ragion pura. Foucault è affascinato dalla finitezza, dalla morte, dalla follia, dalla
psicosi, dalla schizofrenia, dal desiderio, tutte cose assenti dalla filosofia
classica.
La triade biologia-economia-filologia, che rendeva possibile l’avvento
dell’uomo nella storia delle idee, lascia ora il posto a una seconda topica che
abolisce la prima: linguistica-etnologia-psicoanalisi, tutte scienze umane che
non parlano dell’uomo.
La storia della filosofia viene tagliata in due: la ragione classica, da una parte,
e il pensiero strutturalista, dall’altra, con quest’ultimo sempre alla ricerca delle
invarianti formali di ogni realtà, visibili da nessuna parte ma presenti
dappertutto. Quello che Foucault propone con Le parole e le cose non è tanto
una nuova filosofia quanto una variazione sulla scolastica più antica.
Reazionario quando restaura il primato platonico dell’Idea sulla realtà, della
parola sulla cosa, diventa ancora più reazionario quando ristabilisce le categorie
della scolastica medievale. Quando propone, per esempio, «una seconda critica
della ragion-pura a partire da nuove forme all’a priori matematico»,161 allo
scopo di fondare scientificamente la psicoanalisi, chiamata a cancellare la
filosofia occidentale dalla cartina. Una scienza fondata su un a priori formale e
direttamente dipendente da categorie trascendentali è, però, qualcosa di più
vicino a una teologia, per quanto senza Dio possa essere, che non a una filosofia.

L’ultima pagina de Le parole e le cose ha parecchio contribuito a stabilire la


reputazione di Foucault: «L’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia del
nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima».162
Foucault descrive l’uomo che scompare, come un volto di sabbia disegnato sulla
sabbia e cancellato dal mare… Lo strutturalismo, attraverso il suo
antiumanesimo, si proponeva di portare a termine questo compito, ma ha vissuto
giusto il tempo che dura una moda a Parigi.
Gli attori di questa corrente filosofica sono in effetti tutti quanti arrivati alla
conclusione di essersi messi su una strada senza uscita, tagliata all’interno della
giungla delle parole. Foucault finisce per scrivere di non essere mai stato
strutturalista, il che gli permette, tra l’altro, di non dover spiegare perché non lo
è più; Lacan non ne ha avuto il tempo, perché è morto prima che gli fosse
richiesto; Althusser nemmeno, perché ha concluso i propri giorni scrivendo le
memorie de L’avvenire dura a lungo (non gliela si manda a dire), dopo aver
strangolato la moglie; Barthes sognava di scrivere un romanzo proustiano e
gongolava in segreto leggendo le Memorie d’oltretomba; Deleuze è diventato
bergsoniano per analizzare il cinema; in Razza e cultura (1971), Claude Lévi-
Strauss legittimava l’autodifesa di tutte le civiltà minacciate dai flussi migratori;
e l’ultimo Foucault chiedeva ai greci e ai romani consigli per costruire una
morale postcristiana…
Però, tutto quello che gli strutturalisti bruciavano una volta adorato, cioè il
corpus intellettuale accumulato nei loro scritti di quegli anni, si trasformava in
nettare e in ambrosia per gli intellettuali americani, che riciclavano quanto, in
Francia, veniva scartato dagli stessi autori. Quella che si sarebbe poi chiamata la
French Theory (la «teoria francese») riprendeva la fiaccola dell’antiumanesimo
strutturalista e più in particolare del suo platonismo: questi nuovi strutturalisti
credono che le parole siano più importanti delle cose, che i libri che ci
raccontano il reale siano più veri del reale stesso, e che le biblioteche e gli
anfiteatri dove vengono vivisezionati i libri siano più utili del mondo stesso.
Per questi autori, l’uomo è una costruzione sociale, un archivio, un palinsesto,
qualcosa che si può, anzi che si deve cancellare, per arrivare a scrivere una
nuova pagina della storia. È un progetto, e noi possiamo cambiare progetto
quando vogliamo, come vogliamo, e se vogliamo. Non ci sono più né uomini né
donne, né maschi né femmine, solo delle volontà libere che scelgono o non
scelgono il proprio genere, o che scelgono qualsiasi altra cosa.
Questo tipo di nichilismo lavora al progetto che Foucault annunciava alla fine
del suo libro del 1966: alimenta una nuova episteme capace di uccidere l’uomo
per poterlo rimpiazzare con il postumano. L’umanesimo di ieri sta crollando a
pezzi e il transumanesimo di domani sta già aspettando fuori il proprio turno. Il
futuro è dell’uomo decostruito e la Luna sarà la sua Terra.
Conclusione
SOTTO IL SEGNO DELLA MEDUSA
Verso le chimere transumaniste
Digitalizzare l’anima

L’affondamento dell’Europa giudaico-cristiana va di pari passo con la


scomparsa di una filosofia degna di questo nome – e naturalmente in questa
constatazione includo anche la mia… Il tempo del dominio del vecchio
continente sul resto del mondo è passato. Lo spirito ha compiuto il viaggio
dall’Eden, tra il Tigri e l’Eufrate, fino alla costa ovest degli Stati Uniti, fino in
California, per essere più precisi, passando per l’Europa, che ha fatto ormai il
suo tempo. La Storia si scrive ormai nella parte occidentale dell’America, che
vede «l’Europa dai parapetti antichi», per chiamarla con le parole di Rimbaud,
allontanarsi sempre di più, alla velocità di un carro funebre che ha perso il
controllo.
Le cattedrali, che davano un seguito all’allineamento dei megaliti, alle
proporzioni perfette delle piramidi e al verbo delle agorà, sono sostituite dai
centri commerciali, immersi giorno e notte nella luce elettrica; l’odore della carta
dei libri è sostituito dalla materia liscia degli schermi, il baluginare del reale
dalle bugie del virtuale, la potenza dell’intelligenza dal potere dei soldi, la
cultura raffinata dal divertimento sfibrato, la tenuta dello scritto dalla logorrea
dell’oralità, l’eccellenza del ragionamento dal prurito dell’impulsività, lo
spettacolo della politica dalla politica spettacolare.
La reificazione, marchio del XXI secolo, sta già avanzando e, con la scusa del
progresso, fa già in modo che tutto possa venire affittato, comprato o venduto:
ovociti di donne povere, uteri di madri surrogate proletarie, figli di coppie di
genere fluido, bambini programmati come bambolotti, bambolotti sessuali
programmati come bambini, relazioni libidinali (ma questa è storia vecchia
quanto il mondo) e relazioni affettive (qui invece è tutto nuovo come il neo-
mondo). E ancora: intersoggettività a buon mercato per coppie e famiglie in
attesa, corsi scontati per imparare a sedurre in poche sedute di speed dating (una
specie di eiaculazione oratoria in tempi ridotti), traffico di vedovi e di vedove, di
divorziati e di celibi, sempre e tutto per arrivare a scongiurare la solitudine ormai
dilagante; e poi montagne di solidarietà digitale, tanto più viva quanto più
praticata con persone senza volto, robot, macchine, bambole di silicone, e così
via.
L’Uomo Nuovo prosegue la sua strada: oggi è decostruito, vale a dire
ecoresponsabile, ecofemminista, ecopolitico, ecocittadino, ecodurevole, ma
soprattutto: prodotto di mercato. L’Uomo Nuovo che il 1793 ha cercato di
fondare porta direttamente all’«Uomo Totale» di Karl Marx, il quale, nei
Manoscritti economico-filosofici del 1844, da bravo discepolo di Rousseau,
prospetta la figura teorica di un uomo che recupera la propria natura buona di
prima dell’avvento del capitalismo, che lo ha invece alienato, disfatto, e infine
separato dalla propria sostanza. Il comunismo libera l’uomo dalle miserie della
proprietà privata (grazie al Discorso sull’origine e i fondamenti della
disuguaglianza fra gli uomini) e della divisione del lavoro (grazie al Discorso
sulle scienze e sulle arti), e permette a tutti quanti di realizzare la globalità delle
proprie potenzialità (grazie all’Emilio).
Con l’aiuto di Hegel e di Feuerbach, Marx critica il capitalismo, la religione e
la filosofia che producono quest’uomo sfruttato e alienato dal capitale, dal lavoro
e dal salariato, dallo Stato, dal Diritto, dai Soldi, ma anche da Dio, dai preti,
dall’ideale ascetico, dalla sottomissione ai potenti, dalle ipotesi di un retromondo
felice, e infine dallo spiritualismo, dall’idealismo, dalla speculazione, dalla teoria
e dalla teoretica. L’uomo è diventato un’astrazione pura, una pura astrazione.
Marx vuole sostituirlo con questo Uomo Totale che, attraverso l’abolizione della
proprietà privata, il superamento della religione e l’instaurazione del
comunismo, può smettere di vivere circondato da ogni parte dall’alienazione e
infine cominciare a vivere riconciliato con sé stesso e la propria essenza.
Scrivono Marx ed Engels nell’Ideologia tedesca:
Invece, nella società comunista, nella quale ognuno non ha un ambito di attività esclusivo, bensì
può progredire in qualsivoglia settore secondo il suo capriccio, la società amministra la
produzione generale e, proprio in questa maniera, mi dà la possibilità di fare oggi questa
determinata cosa, domani quell’altra, di andare a caccia di mattina, di pescare di pomeriggio, di
allevare il bestiame di sera, di fare il critico dopo pranzo, così come ho voglia di fare; senza che io
divenga né un cacciatore, né un pescatore, né un pastore, né un critico.163

Sappiamo che cosa è diventato il teorico Uomo Totale con la pratica del
marxismo-leninismo. Lungi dall’aver prodotto l’Uomo Nuovo giacobino, il
regime comunista di Marx e di Lenin ha generato quell’Homo sovieticus di cui
lo scrittore Aleksandr Zinov’ev ci ha ben tratteggiato i contorni, cioè un uomo
colpito da un oblomovismo costituito in pari misura da fannullaggine e
fatalismo, un uomo che si barcamena tra piccoli furti e grandi accomodamenti,
un uomo della fuga e delle vigliaccherie, un uomo della denuncia e
dell’assoggettamento, in una parola: l’uomo della servitù volontaria. Si doveva
liberare e si è dimostrato invece sottomesso; doveva essere totale e si è rivelato
parziale; forte e si è rivelato debole; grande e si è rivelato piccolo; esemplare e si
è rivelato mediocre; doveva cacciare la mattina, pescare il pomeriggio, occuparsi
delle bestie la sera e darsi alla critica letteraria dopo cena, e invece è diventato
l’uomo che fa le code ai supermercati per comprarsi prodotti scadenti, l’uomo
che mangia i cetriolini sottaceto e beve vodka, l’uomo che guarda la televisione
di propaganda e legge i giornali che lo indottrinano. È in reazione a quest’uomo
giacobino dei marxisti che il fascismo mussoliniano, e poi il nazismo, lanciano il
loro proprio Uomo Nuovo.164

Nel 1909, Filippo Tommaso Marinetti scrive, in francese, un romanzo intitolato


Mafarka le futuriste. Roman africain [Mafarka il futurista]. Il protagonista,
Mafarka, vittorioso in epiche battaglie contro degli africani di cartapesta,
rinuncia al potere per consacrarsi alla costruzione del proprio figlio Gazurmah,
una specie di robot alato semidivino. Mafarka offre alla madre questa creatura
che si trasforma, subito, in una specie di prodotto incestuoso, pensato per
sostituire l’altro suo figlio morto in guerra. Questo Uomo Nuovo ha la
particolarità di essere immortale. Mafarka vuole naturalmente procreare un
Uomo Nuovo «senza il concorso e la puzzolente complicità della matrice della
donna».165 Il fatto che un figlio voglia offrire un bambino alla propria madre e
cerchi di costruirsi un nuovo fratello immortale ricorrendo all’ectogenesi è un
perfetto esempio di una situazione che potremmo definire come propria degli
albori del transumanesimo.
Mafarka dice: «ho trovato una mistura che trasforma le fibre vegetali in carne
viva e in muscoli robusti».166 Questa sostanza è l’anima futurista. L’Uomo
Nuovo è intagliato nel legno di una quercia giovane e possiede ali confezionate
con una tela indistruttibile, intessuta di fibre di palma e capace di assumere
sfumature di rosso, o dorate, o color ruggine, o color sangue, a seconda della
luce che riceve; i suoi pettorali sono come degli scudi di cuoio di ippopotamo; i
suoi fianchi sono di ferro e non dimentichiamoci il suo «membro formidabile e
bronzato, che saprà sfondare il pube umido e ardente delle vergini».167 Un uomo
del genere corrisponde perfettamente agli auspici di Mafarka: «non sudditi,
vorrei, ma schiavi».168 Contro la «razza di cani e di schiavi bastonati».169 Il
desiderio di Marinetti è di produrre questa specie di uomo rigenerato…
L’Uomo Nuovo rinuncia all’amore, ai sentimenti e alle emozioni; detesta il
passato e celebra il futuro; è pronto a mettere in gioco la propria vita per un’idea,
perché un’idea non vale niente se non viene santificata dalla morte; la guerra è
per lui igiene della vita, e l’eroismo, ebrezza; è completamente intriso di volontà
(e) di potenza, di energia e di velocità, di forza e di crudeltà. «La nostra volontà
deve uscire da noi, per impossessarsi della materia e modificarla a nostro
capriccio. Così noi possiamo plasmare tutto ciò che ci circonda e rinnovare
senza fine la faccia del mondo… Presto, se pregherete la vostra volontà, farete
figli, anche voi, senza ricorrere alla vulva della donna» [corsivo mio].170 E poi
ancora: «È così, che io trasfonderò la mia volontà nel corpo nuovo di mio figlio!
Egli sarà forte di tutta la sua bellezza, che non fu mai torturata dallo spettacolo
della morte!… Gli trasmetterò la mia anima in un bacio; abiterò nel suo cuore,
nei suoi polmoni e dietro ai vetri dei suoi occhi».171
Mafarka crea dunque Gazurmah e lo presenta alla mummia della madre, che
dà vita a una litania oscena e proclama: «Sono sua madre e sua amante… È mio
figlio, come tuo!… Mafarka! Mafarka! parlami del nostro figliuolo».172 Mafarka
risponde: «Oh! la gioia di averti generato così, bello e puro di tutti i difetti che
provengono dalla vulva malefica e predispongono alla decrepitezza e alla
morte!… Sì! tu sei immortale, figlio mio, eroe senza sonno».173 La mummia
della madre di Mafarka gli parla e lo invita a baciare la creatura sulla bocca per
infondergli l’anima e la vita. In ricordo della madre morta, Mafarka bacia il
figlio sulla bocca con «un bacio torturante e soave in cui si eternizzava una
tenerezza senza limiti».174 A questo punto, però, Gazurmah decide di uccidere il
proprio padre Mafarka e di spiccare il volo verso il Sole, per sfidarlo. Allegoria
del transumanesimo: il bacio incestuoso è quello che dà vita all’Uomo Nuovo
del XXI secolo…
Odio dell’uomo di prima, culto dell’uomo a venire, aspirazione alla
rigenerazione, anima insufflata in un corpo immortale, pietra filosofale del
nuovo millennio, creazione di una razza di schiavi per ectogenesi, abolizione
della famiglia e genealogia di una razza nuova attraverso l’incesto, culto della
morte: insomma, c’è tutto quello che serve…
Gazurmah non ha bisogno di dormire e possiede degli organi di presa che si
muovono «automaticamente, come le mani delle scimmie bradipe e le zampe dei
chiròtteri, che tanto più s’aggrappano al ramo quanto più il sonno li prende…»;
175 si nutre di serpenti «perché questi contengono i fermenti di una vita
lunghissima»176 (qui ovviamente pensiamo subito al serpente del giardino
dell’Eden) e «d’idre acquatiche, perché la loro carne ha uno stupefacente potere
d’autoriproduzione».177 Ecco, rimane solo da sottolineare che l’idra d’acqua è
l’animale emblematico della civiltà a venire: la medusa.

È Édouard Glissant, poeta e pensatore dell’esperienza creola, a trasformare la


medusa in un modello di civiltà. Un aneddoto ci spiega il progetto di società di
Glissant, che aspira evidentemente a creolizzare il mondo intero. Un’estate, il
poeta è in vacanza in Italia, sta nuotando nel mar Mediterraneo e viene colpito
da «una medusa velenosa». A fatti compiuti, un bambino gli fa alcune domande,
e il suo biografo François Noudelmann ci spiega che Glissant si mette a
«spiega[re] la geografia delle meduse, questi esseri che nuotano passando dalla
superficie all’abisso, senza patria, privi di qualsiasi legame o di qualsiasi
relazione di parentela, e che si muovono in mezzo alle correnti di tutti mari,
senza avere un’origine identificabile. Le meduse annunciano un altro mondo, un
mondo in cui il centro e la periferia scompaiono e lasciano il posto a movimenti
di circolazione più labili». La creolizzazione è un miscuglio di civiltà
considerate come tutte uguali e sullo stesso piano. Il poeta martinicano ci dice
che questo miscuglio potrebbe formarsi senza violenza, ma che nella storia non
si è mai dato un movimento di creolizzazione senza violenza.
Per il momento, la creolizzazione del mondo produce una società di meduse,
cioè di esseri apolidi che vagano nuotando privi di legami e privi di relazioni
familiari, in un mondo svuotato di senso. Le connessioni tra questi animali
velenosi, alcuni dei quali possono risultare addirittura mortali, si compiono
attraverso fili tossici, filamenti avvelenati, tentacoli nocivi. In questo universo, è
la violenza a dettar legge: il più velenoso uccide il più inoffensivo. È il progetto
fascista per eccellenza.

In questa giungla di bestie primitive in cui domina l’invaginazione, la scimmia si


è evoluta fino all’uomo, ma ora regredisce fino alla medusa, cioè fino allo stadio
di un animale che, nonostante tutto, grazie all’Enciclopedia, grazie ai vari
Diderot, Maupertuis, Rousseau, Voltaire e La Mettrie, e grazie persino ad
Aristotele, può vantare delle incontestabili lettere di nobiltà filosofica!
Ce lo insegna l’Enciclopedia che il polpo d’acqua dolce, altrimenti chiamato
idra, lo si può tagliare, affettare, decapitare, rivoltare, affamare, alimentare con
la sua stessa carne o con la carne di un altro, ma subisce tutto senza mai esserne
veramente toccato. Nei suoi Elementi di fisiologia, Diderot constata che l’idra
può ricostruirsi partendo da uno solo dei suoi pezzi tagliati nella carne viva, ed è
per questo motivo che il filosofo francese è indotto a parlare di nisus formativus
per qualificare quella forza vitale e quella plasticità del vivente che permette alle
cellule e ai tessuti di rigenerarsi. In un certo modo, il nisus, oggetto di ricerca da
parte dei vitalisti, è il nome di ciò che, nella vita, vuole, costituisce e fa durare la
vita stessa. Le idee di divisione cellulare, ma soprattutto di clonazione, le
ritroviamo già tutte qui, in germe.
Nel Sogno di D’Alembert, facendo parlare mademoiselle de Lespinasse,
Diderot mette in scena una storiella fittizia, che oggi si sta quasi per trasformare
in realtà: «L’uomo che si scompone in un’infinità di uomini atomici, che si
possono racchiudere tra fogli di carta come uova d’insetti che filano i loro
bozzoli, restano un po’ di tempo allo stato di crisalidi, rompono i bozzoli e
volano via in farfalle, una società di uomini formata, un’intera provincia
popolata con le vestigie di uno solo; tutto questo è veramente piacevole da
immaginare».178 E continua: «Se da qualche parte l’uomo si scompone in
un’infinità di uomini animaluncoli, si deve provar meno ripugnanza a morire; si
rimedia così facilmente alla perdita di un uomo, che questa deve causare ben
pochi rimpianti».179 L’unica differenza è che oggi queste «uova» non vengono
conservate tra fogli di carta, ma immerse nell’azoto liquido a quasi -200 °C di
temperatura, e la possibilità della loro duplicazione si rivela quasi consolatoria di
fronte alla finitezza dell’essere. Il sogno continua con la stessa mademoiselle che
s’immagina una «stanza calda tappezzata di piccoli cartocci; e su ciascuno di
questi cartocci un’etichetta: guerrieri, magistrati, filosofi, poeti, cartocci di
cortigiani, cartocci di puttane, cartocci di re».180 Adoro quei «cartocci di
puttane»…
Quindi: «uomini polpo»? Va bene, ci siamo…

Questo progetto fittizio è diventato realtà sotto molti aspetti. Basti pensare alla
clonazione delle cellule staminali o alla clonazione dei nuclei di DNA, ma anche
alle diverse manipolazioni auspicate dal transumanesimo. L’anima come polpo
divisibile e riproducibile in maniera identica: è questo il sogno di Elon Musk,
che definisce l’anima come la traccia digitale lasciata da un essere umano e
riducibile a dati scaricabili e trasferibili, prima su una specie di chiave USB e poi
direttamente nella materia cerebrale di un altro essere umano, nel suo encefalo. È
questo il senso del suo progetto: installare sull’essere umano microchip con tanto
di dati digitali che andranno a costituire la sua identità.
Musk, insomma, porta a compimento il tempo della scimmia inaugurato dalle
lezioni di anatomia di Vesalio e inaugura il tempo della medusa. Una scimmia
chiamata Pager è stata «programmata» dalla società di Elon Musk, la Neuralink,
con base a San Francisco, per giocare al videogioco Pong solo con il pensiero,
utilizzando cioè soltanto i poteri del proprio cervello, aumentato dalle
informazioni impiantate nel suo stesso tessuto cerebrale. Tre maiali, di cui uno
femmina, Gertrude, sono stati impiegati per preparare la tecnologia d’interfaccia
tra il cervello e la macchina che permette al mammifero di comunicare attraverso
una specie di telepatia fondata sugli impulsi neuronali. Dopo il maiale e dopo la
scimmia, lo scopo è evidentemente di poter equipaggiare il cervello dell’uomo in
modo che possa essere collegato a un computer allo scopo di aumentare
l’intelligenza naturale grazie all’intelligenza artificiale (AI).
Nel suo laboratorio, OpenAI, Elon Musk cerca di produrre delle intelligenze
artificiali che siano superiori alle intelligenze naturali, puntando sul fatto che,
naturalmente, le prime soppianteranno le seconde. Musk parte dal principio che
gli esseri umani dispongono già di uno «strato digitale terziario», grazie ai loro
telefonini, ai loro computer, alle loro applicazioni e ai loro dati, e che occorre
semplicemente connetterlo alla corteccia, cioè a quella parte del cervello che si
occupa della memoria, dell’attenzione, della percezione, del pensiero,
dell’intelligenza, del linguaggio e della coscienza. Musk punta all’avvento di una
telepatia tra l’uomo e la macchina. E precisa: «Con un’interfaccia neuronale
diretta, possiamo migliorare il collegamento che passa tra la corteccia cerebrale e
lo strato digitale terziario, di parecchie unità di misura. Direi probabilmente
almeno mille, forse diecimila, forse anche di più». Tutto sta nel valore che diamo
a questo «più»… Riassumiamo il progetto transumanista: materia della corteccia
cerebrale + dati digitali su Twitter = identità di un essere.
Il microchip può ovviamente arricchire, ma può anche essere destinato a un
impoverimento programmato. Gli scienziati sanno oggi come fornire a delle
mosche dei ricordi di cose che non hanno vissuto. Però, a furia di introdurre
acido piruvico nei mitocondri dei neuroni dei corpi peduncolati, a furia di
alimentare cellule gliali, a furia di mettere in evidenza l’azione neuronale con
elementi fluorescenti, possiamo finire anche con il cancellare ricordi di cose
realmente vissute dalle drosofile. Le loro ricerche puntano ovviamente a
combattere l’Alzheimer o il Parkinson…
Neuralink si impegna a far diventare realtà qualcosa che per il momento
sembra appartenere soltanto al regno della fantascienza: stiamo parlando del
Neural Lace, che permetterebbe di collegare il cervello umano a dei computer in
maniera del tutto indipendente da qualsiasi tipo di connessione, una specie di
Bluetooth neuronale. L’intelligenza naturale verrebbe allora sostituita
dall’intelligenza artificiale, la memoria diventerebbe infinita e le capacità
cognitive si rivelerebbero del tutto inedite. «Le persone potrebbero usare la
telepatia e in una certa misura potrebbero diventare capaci di conversare tra di
loro non soltanto senza parlare, ma anche addirittura senza usare le parole. E
diventerebbe possibile accedere ai pensieri degli altri a livello direttamente
concettuale. Non soltanto si potrebbero comunicare da un cervello all’altro i
pensieri, ma anche le esperienze sensoriali».
Aggiunge Musk: «Altre cose abbastanza folli potrebbero essere fatte. Si potrà
probabilmente salvare lo stato del cervello. Così, se doveste morire, il vostro
stato potrebbe essere ricaricato su un altro corpo umano, o addirittura sul corpo
di un robot […]. Si potrà decidere, per esempio, se volete essere un robot o una
persona, o anche un’altra cosa» [corsivo mio]. Ma solo se si dovesse morire…
In base alle ultime notizie, si sta già cercando di fare camminare dei
paraplegici, e di trovare delle cure per il morbo di Parkinson. Musk annuncia che
allargherà il programma di rieducazione delle nostre sinapsi ai casi di
depressione nervosa, alle dipendenze e ad altre «lesioni cerebrali». Ma se, per
tutta questa gentaglia, il semplice fatto di avere un cervello umano fosse già di
per sé una lesione? Un cavallo di Troia, ancora e sempre… Il progetto di Diderot
che porta dall’ostrica alla medusa passando dall’uomo è già operativo.
Elon Musk ci spiega in termini chiari il proprio programma: «riparare tutto
quello che nel cervello non funziona».181 Per quest’uomo che confessa di
soffrire di sindrome di Asperger e che, per il resto, è semplicemente la persona
più ricca del mondo, un simile disegno non rappresenta il capriccio di uno
squilibrato, ma un progetto esistenziale vero e proprio, un progetto che potrebbe
trasformarsi in un progetto di civiltà. Ha tutti i mezzi per sostenere la propria
follia. Chi potrà opporsi? E soprattutto in nome di che cosa? Di quale morale? Di
quale etica? Di quale Super-io? Di quali divieti? Di quali tabù? Di quali valori?
Di quale spiritualità? Di quale religione? Di quale istanza trascendentale? Di
quale forza del bene?
La barbarie sta arrivando alle nostre porte, equipaggiata come una macchina
da guerra inedita e scintillante. Quest’uomo che vuole fare l’angelo sicuramente
farà la bestia: dopo il serpente, dopo il cane e dopo la scimmia, l’evoluzione
continuerà probabilmente sotto il segno della medusa, animale decostruibile e
ricostruito. Del resto, la decostruzione è già cominciata…
Epilogo
L’eterno silenzio degli spazi infiniti

Per lavorare al suo progetto transumanista, Elon Musk non ha creato solo la
società Neuralink, ma ha anche fondato SpaceX, di cui si conosce vagamente la
storia perché, sui nostri schermi televisivi, assistiamo regolarmente ai lanci dei
missili per il suo programma di vita nello spazio. Sul lungo termine, si tratta, per
Musk, di far uscire l’uomo dal suo biotopo terrestre naturale e di installarlo in
maniera durevole in un biotopo extraterrestre artificiale. In questa prospettiva, la
Luna è destinata a diventare una stazione spaziale in muratura, la prima tappa
per i viaggi più lunghi verso Marte. Passerà, insomma, dallo status di pattumiera
delle immondizie americane a quello di anticamera per i viaggi americani su
Marte.
Chi pensa che questi suoi obiettivi siano poco ragionevoli dovrebbe leggere
quello che scrivono gli astrofisici quando ci parlano del Sole che, nel giro di
quattro miliardi di anni, esaurirà tutto il suo combustibile e morirà. Quattro
miliardi di anni, è tanto tempo, siamo d’accordo, però rimane pur sempre
qualcosa di ineluttabile, e comunque ci fa riflettere sulla certezza che la vita sulla
Terra si troverà compromessa molto prima, e che gli uomini sono destinati a
scomparire se da qui ad allora non avranno trovato un modo per defilarsi!
Le previsioni ci spiegano che il Sole si dilaterà e che il suo volume si
moltiplicherà di duecento volte. L’espansione trascinerà la scomparsa di
Mercurio e di Venere. Però, già prima dell’esplosione, la Terra non avrà più né
acqua né vita sulla sua superficie, e si trasformerà in una palla di roccia fusa. Il
nucleo solare si riscalderà fino ad arrivare a cento milioni di gradi, poi la stella di
gas caldo si espanderà fino ad arrivare all’orbita di Marte: quindi, chi pensa che
rifugiarsi sul pianeta rosso potrebbe rappresentare una soluzione in realtà sta
solo posticipando il problema! L’elio rilasciato dal Sole finirà per esaurirsi e
l’involucro del Sole sarà espulso sotto forma di nebulosa, e finirà per diluirsi
nello spazio interstellare. Poi il nucleo solare si ridurrà progressivamente, si
contrarrà, si trasformerà in una nana bianca e si raffredderà nel corso di decine di
miliardi di anni, prima di diventare una nana nera. Il Sole morirà come il 90%
delle stelle dell’universo. Perché, banalità di base che però ci si dimentica quasi
sempre di ricordare, tutto quello che è nato, vive e poi muore.
Il fatto che la morte naturale del Sole trascinerà con sé anche quella della
Terra, non esclude l’esistenza di altri modi di morire prima che quel momento
arrivi! Se un astrofisico cominciasse a spiegare che, tenendo presente tutto
quello che, da milioni di anni, ci insegna la scienza della vita della Terra, i cicli
di riscaldamento e di raffreddamento sono da mettere prioritariamente in
relazione con l’attività magnetica dell’eliosfera, vale a dire della bolla gassosa
formata dai venti solari, questo astrofisico si vedrebbe bandito dalla comunità
internazionale degli «scienziati» e bollato come climatoscettico, perderebbe il
posto di lavoro e il salario, perderebbe le sovvenzioni accordate al suo
laboratorio, perderebbe i suoi studenti e la possibilità di dirigere tesi e
perderebbe la reputazione, pagando la propria audacia con la morte sociale. Ecco
perché ci si limita a insegnare che il riscaldamento climatico è essenzialmente
dovuto all’attività umana. Questo permette alla mitologia del capitalismo verde
di oggi di funzionare vendendo dei prodotti che, per quanto molto inquinanti,182
passano per essere rispettosi delle risorse del pianeta. Ciò non toglie che
l’eliosfera che protegge il sistema solare interno sia bucata, e che attraverso
questi buchi passino pericolosi raggi cosmici che viaggiano quasi alla velocità
della luce e bombardano la Terra, andandone ovviamente a intaccare la
temperatura e il clima.
La Terra può scomparire prima del tempo anche a causa degli asteroidi near-
Earth, questi corpi solidi lanciati a tutta velocità nello spazio che potrebbero
schiantarsi sulla crosta terrestre, distruggendo ogni forma di vita sulla Terra, o
addirittura polverizzando l’intero pianeta azzurro, di cui resterebbero solo
polveri fluttuanti nel cosmo.
Nel corso di un recente esperimento condotto il 22 settembre del 2022 dalla
NASA, una sonda di cinquecento chilogrammi è stata mandata dalla Terra a
schiantarsi su un piccolo asteroide di centosessanta metri di diametro chiamato
Dimorphos, a più di undici milioni di chilometri, al fine di deviarne la corsa.
L’operazione era stata denominata DART (Double Asteroid Redirection Test),
facendo riferimento alla parola «dart», che in inglese significa «freccetta». La
collisione ha prodotto parecchie decine di tonnellate di polvere e modificato la
traiettoria dell’asteroide. Al momento in cui scrivo, inizio di ottobre del 2022,
non sappiamo però di quanto, i calcoli sono ancora in corso…
Ed è probabilmente un asteroide di dodici chilometri di diametro che,
sessantasei milioni di anni fa, si è schiantato sulla Terra, in un punto
corrispondente all’attuale Yucatán (Messico), provocando, tra le altre cose, la
scomparsa dei dinosauri. La collisione è stata seguita da un considerevole
abbassamento della temperatura sul pianeta, anche perché il Sole si è trovato
almeno in parte coperto dalle tonnellate di polveri prodotte. Paradossalmente,
però, è questa stessa situazione che ha reso possibile lo sviluppo dei vari
mammiferi, tra cui l’uomo, che avrebbe potuto benissimo non esistere,
altrimenti… Un altro asteroide, invece, e l’uomo potrebbe non esistere più.
Pensando in termini di lunghissima durata, Elon Musk disorienta e sconcerta
chi fa già fatica a proiettarsi sull’effimero orizzonte del futuro della propria
stessa esistenza! Nella misura in cui ragionare in termini di millenni, come fanno
gli storici e i filosofi degni di questo nome (Gioacchino da Fiore e Vico, Hegel e
Spengler, Toynbee, Keyserling e Frobenius, e poi Malraux, per citare quelli più
vicini a noi…), si rivela essere una disciplina raramente praticata, anche
ragionare tenendo in considerazione l’avvenire dell’uomo nel caso (nonostante
tutto) previsto della scomparsa del pianeta Terra è un esercizio che fin troppo
spesso viene trascurato. Solo la fantascienza si occupa di queste cose: la filosofia
no di sicuro.

Il progetto di Elon Musk ha una sua coerenza, che coincide con quella del
transumanesimo: tenendo conto della durata limitata della vita dell’uomo sulla
Terra, la prima cosa da fare è cambiare l’uomo e cercargli un altro biotopo. Da
questa esigenza di modificare l’elemento umano e di allargarlo, di aumentarlo,
nasce l’Uomo Nuovo scolpito dal transumanesimo, di cui Neuralink rappresenta
un po’ il braccio armato.
La seconda cosa è, invece, cambiare l’ambiente dell’uomo, e trovare un luogo
sostitutivo adatto a questo umanoide. Da qui le sperimentazioni di SpaceX,
l’altra società di Musk, che si occupa di mettere a punto viaggi spaziali e
interstellari, cercando, per esempio, di inventare nuovi carburanti in grado di
risolvere il problema della durata e della velocità degli spostamenti in ordine di
anni luce. Valutando sulla misura della lunga durata, è questa l’unica «grande
sostituzione» che valga la pena di accettare, l’unica che sarà in grado di far
nascere un’altra civiltà, l’ultima.
Il progetto di colonizzare Marte preoccupa la NASA tanto quanto Musk.
L’agenzia spaziale americana recluta volontari per una missione di un anno che
consiste nel vivere dentro una base in Texas, a condizioni di vita extraterrestre,
in uno spazio di 158 metri quadri, costruito con una stampante 3D. Per il
momento, le condizioni di reclutamento sono molto restrittive: bisogna
innanzitutto essere americani, poi godere di buona salute, non fumare, avere più
di trent’anni ma meno di cinquantacinque, parlare inglese, padroneggiare
l’ingegneria, la matematica, la fisica, la biologia e l’informatica, avere
un’esperienza professionale di almeno due anni in uno di questi ambiti, oppure
avere un carnet di volo di più di mille ore. I prescelti effettueranno delle ricerche
scientifiche e si familiarizzeranno con la realtà virtuale e con i comandi dei
robot, simulando, per esempio, delle passeggiate nello spazio ricostruito. Si tratta
di preparare un volo verso Marte con una sosta sulla Luna, trasformata, per
l’occasione, in una specie di sala d’attesa. Al progetto hanno già partecipato
russi, europei e cinesi.
Giunta l’ora, questo postumano presupporrà probabilmente delle anime
digitali caricate su encefali umani, magari clonati, in ogni caso assimilati a
esoscheletri. Altrimenti, a cosa serve lavorare in tutte queste direzioni? Gli
uomini vivranno una vita virtuale in un universo ostile. E queste vite, a cui
potranno accedere soltanto alcuni eletti, scelti oltretutto da gente ancora più
eletta (ma chi?), saranno collegate a una matrice globale che piloterà tutto
l’insieme. E tutto questo per cosa? Malraux diceva: «A cosa serve conquistare la
Luna se è per andarci a suicidarsi?»183 Oggi siamo privi di anima, ma chi ci dice
che gli uomini acefali che siamo diventati non siano già morti?
Bibliografia

Pensare la Luna. Stranamente il primo passo sulla Luna non ha smobilitato i


filosofi. Con una sola eccezione, quella di Günther Anders, che personalmente
ritengo il più grande filosofo del Novecento, autore di Der Blick vom Mond.
Reflexionen über Weltraumflüge [La vista dalla Luna. Riflessioni sui voli
spaziali], Beck, Monaco di Baviera 1970. Ma è una lettura politico-critica più
che propriamente filosofica.
A suo tempo, nel 1957, Alexandre Koyré aveva pubblicato in inglese Dal mondo
del pressappoco all’universo della precisione (Einaudi, Torino 1967). Il libro,
ripubblicato nel 1973 da Gallimard nella collana «Idées», illustra la cesura
epistemologica provocata dal passaggio dal geocentrismo all’eliocentrismo.
Manca un’opera della stessa natura sulla rivoluzione epistemologica indotta
dalla prima volta in cui gli uomini hanno vissuto fuori dalla Terra, prima di
tornarci.
La storia di quest’avventura viene raccontata in toni giornalistici da Lukas
Viglietti nel suo Apollo Confidential (Morgan James, NYC 2019), con una
prefazione di Charlie Duke che partecipò alla missione di Apollo 16 nel 1972. È
in quest’opera che scopriamo come l’uomo rimanga disperatamente un animale
che marca il territorio.
*

La storia prima della storia. La letteratura sulla preistoria è abbondante ma


anche deludente. Le diverse epoche proiettano spesso i propri fantasmi su quello
che resta delle tracce dei primi uomini, in particolare sulle cosiddette tracce
artistiche. Preistoria neocristiana nel pensiero sacro dell’abate Breuil, patologica
per l’associazione di sesso e morte con Georges Bataille, strutturalista con i
segni di Leroi-Gourhan, neo-baba-cool con lo sciamanesimo di Jean Clottes.
Un’eccellente sintesi in Gwenn Rigal, Le Temps sacré des cavernes, Éditions
Corti. Parigi 2016 (tr. it.: Gwenn Rigal, Il tempo sacro delle caverne. Da
Chauvet a Lascaux, le ipotesi della scienza, Adelphi, Milano 2022).
Lettura interessante, quella dell’archeoastronomia: Chantal Jègues-Wolkiewiez,
L’Ethnoastronomie, nouvelle appréhension de l’art préhistorique. Comment
l’art paléolithique révèle l’ordre caché de l’Univers [L’etnoastronomia, un
nuovo modo per comprendere l’arte preistorica. Come l’arte paleolitica rivela
l’ordine nascosto dell’Universo], Éditions du Puits de Roulle, Nîmes 2012, e Les
Calendriers paléolithiques de Sergeac et de Lartet décryptés. Révélation de la
vie collective des premiers Cro-magnons [I calendari paleolitici di Sargeac e di
Lartet decifrati. Rivelazione della vita collettiva dei primi Cro-Magnon], presso
l’autrice, 2014. Intuizioni a stretto contatto con i fatti.
Un formidabile volume di quasi novecento pagine è stato pubblicato dopo il
punto finale del mio libro: Jean-Loïc Le Quellec, La Caverne originelle. Art,
mythes et premières humanités [La caverna originaria. Arte, miti e prime
umanità], La Découverte, Parigi 2022. Si tratta di una nuova ipotesi, quella di un
grande mito originario che racconta di animali che vivono sottoterra, in una
grotta, e che risalgono sulla terra sotto lo sguardo degli uomini, un mito che
sarebbe all’origine dell’arte preistorica. Idea molto seducente di un grande
racconto genealogico ricostituito…
*
Il genio egizio… Gli studi di filosofia fanno classicamente risalire il pensiero
occidentale ai greci. Quando ho cominciato i miei studi di filosofia, negli anni
Ottanta, la bibliografia era quasi inesistente e, quindi, per tutto il corso dei miei
studi, non ho ovviamente mai sentito parlare del pensiero egizio.
È un libro di Élisabeth Laffont pubblicato nel 1979 da Gallimard, nella collana
«Idées», e intitolato Les Livres de sagesses des pharaons (tr. it.: Élisabeth
Laffont, a cura di, I libri di sapienza dei faraoni, Mondadori, Milano 1985) che
mi ha aperto gli occhi sull’evidente parentela tra la saggezza egizia e la saggezza
greca. In seguito, Pascal Vernus ha pubblicato Sagesses de l’Égypte pharaonique
[Saggezze dell’Egitto faraonico], Imprimerie nationale, Parigi 2001. Più di
recente, nel 2021, Les Belles Lettres hanno distribuito il lavoro di Bernard
Mathieu, La Littérature de l’Égypte ancienne [La letteratura dell’antico Egitto],
in due volumi: Ancien Empire et première période intermédiaire [Antico Regno
e primo periodo intermedio]; e Moyen Empire et deuxième période intermédiaire
[Medio Regno e secondo periodo intermedio]. Dentro, troviamo vere e proprie
pepite.
Da consultare anche Il libro dei morti degli antichi egiziani, curato da Ernest
Alfred Wallis Budge (Ceschina, Milano 1956).

… contro il miracolo greco. È a Ernest Renan che dobbiamo invece


l’espressione di «miracolo greco» (Ernest Renan, Ricordi d’infanzia e di
giovinezza, UTET, Torino 1954). Non esiste ovviamente nessun miracolo greco,
solo un’eredità orientale spesso dimenticata.
È un peccato che questa pista sia esplorata solo dai militanti della causa della
decolonizzazione, che considerano la Grecia come un semplice prodotto
dell’Egitto nero. Secondo loro, il pensiero egizio che influenza la Grecia
dimostrerebbe come sia il popolo nero ad aver inventato l’Occidente!
Ritroviamo questo delirio nel libro di Cheikh Anta Diop, Civilisation ou
barbarie [Civiltà o barbarie], Présence africaine, Parigi 1981, e, negli Stati Uniti,
in un libro del 1987 di Martin Bernal, Atena nera. Le radici afroasiatiche della
civiltà classica (Il Saggiatore, Milano 2011). È a p. 90 di questo libro che
possiamo leggere: «Lo scopo politico di Atena nera è, inutile dirlo [sic],
sminuire [sic] l’arroganza culturale europea».
Ed è sempre in quest’opera, presentata come scientifica, che il suo autore ci
propone un’inedita genealogia dell’impressionismo. Nel 1883, l’eruzione di
Krakatoa, un vulcano indonesiano, sarebbe all’origine di quel movimento
estetico: «La polvere che diffuse attorno al mondo contribuì allo sviluppo
dell’Impressionismo e influì sul clima dell’intero emisfero occidentale» (p. 64).
Un bianco in effetti non ci sarebbe mai arrivato…
*
Il mistero Pitagora. Gli scritti di Pitagora sono scomparsi. Quello che della sua
vita e del suo pensiero sappiamo lo dobbiamo essenzialmente alle Vite e dottrine
dei più celebri filosofi di Diogene Laerzio (Bompiani, Milano 2005). Per
accompagnare l’apparato critico di Diogene Laerzio, ci si rifarà all’edizione dei
Presocratici nella collana della Pléiade (1988), curata da Jean-Paul Dumont. Su
questi primi filosofi, consultare anche il volume intitolato Lire le présocratiques
[Leggere i presocratici], PUF, Parigi 2016, curato da Luc Brisson, Arnaud Macé e
Anne-Laure Therme. È proprio in quest’opera che Luc Brisson spiega che, su
Pitagora, non si può dire niente di sicuro o di certo, e che è stato utilizzato per
dire tutto e il contrario di tutto (pp. 97-107).
Possiamo constatare quanto Luc Brisson abbia torto leggendo il libro di Ivan
Gobry, Pythagore, Éditions Universitaires, Parigi 1992. L’opera comprende
anche le «Paroles d’or des pythagoriciens» [Versi d’oro dei pitagorici], pp. 101-
121.

Platone il Padrino. Nel suo Platon (Gallimard, Folio Biographie, Parigi 2019),
Bernard Fauconnier scrive molto opportunamente: «Il Fedone, che si cita meno
spesso dell’Apologia di Socrate, è un dialogo d’immensa portata. Ha alimentato
tutto il pensiero occidentale della morte, dagli stoici fino agli umanisti, persino
oltre. Il pensiero cristiano della morte e dell’immortalità gli è grandemente
debitore» (p. 228; corsivo mio).
Leggiamo allora il Fedone e gli altri testi, come, per esempio, il Menone o
l’Apologia di Socrate, nella traduzione di Léon Robin per le Œuvres complètes
in due tomi della Biblioteca della Pléiade (Gallimard, Parigi 1977).
Sulla questione dell’anima, vedere Jean Ithurriague, La Croyance de Platon à
l’Immortalité et à la Survie de l’Âme Humaine [La Credenza di Platone
nell’Immortalità e nella Sopravvivenza dell’Anima Umana], Librairie
Universitaire J. Gamber, Parigi 1931 (le maiuscole sono dell’autore). Vedere
anche Friedrich Nietzsche, Plato amicus sed. Introduzione ai dialoghi platonici
(Mimesis, Udine-Milano 2020). In particolare il ragionamento intitolato Come
può darsi κακία dell’anima? (§ 25).
In Dieu, l’homme et la vie d’après Platon [Dio, l’uomo e la vita secondo
Platone], Éditions de la Baconnière, Neuchâtel 1944, René Schaerer elabora un
interessante ragionamento sui rapporti tra platonismo e cristianesimo.
Sull’anima, vedere il primo e il secondo capitolo.
*
Plotino il Discepolo. L’opera completa delle Enneadi è pubblicate in Francia in
sette volumi da Les Belles Lettres, nella Collection des Universités de France,
con, in apertura, la Vie de Plotin [Vita di Plotino], scritta da Porfirio (tr. it.:
Plotino, Enneadi, Bompiani, Milano 2018). All’Università di Caen, Lucien
Jerphagnon tenne un corso affascinante di un anno solo su questa Vita.
Due brevi testi chiari e illuminanti di introduzione: Pierre Hadot, Plotino, o La
semplicità dello sguardo (1973), Einaudi, Torino 1999, e Maurice de Gandillac,
La Sagesse de Plotin [La saggezza di Plotino], Vrin, Parigi 1966. Due
interpretazioni dell’austera filosofia di Platone in un’ottica esistenziale. Perché,
in effetti, è possibile vivere secondo Plotino. Era il caso di Lucien Jerphagnon…

Orfeo senza inferi. A casa degli orfici, si mangia e si beve. Quella che di loro ci
resta è una poesia molto ermetica, frammentaria, senza istruzioni per l’uso,
definitivamente perdute. L’orfismo permette ogni tipo di proiezione, anche
quelli più stravaganti, come succede per i fanatici dell’occultismo.
I testi: Hymnes. Discours sacrés [Inni, discorsi sacri], presentati, tradotti e
annotati dal compianto Jacques Lacarrière, Imprimerie nationale, Parigi 1995.
Vedere anche le analisi di Marcel Detienne, Les Dieux d’Orphée [Gli dèi di
Orfeo], Folio Histoire, Parigi 2007, e La scrittura di Orfeo (Laterza, Roma
1990). Soffocate però da un’erudizione che impedisce spesso di vedere con
chiarezza le linee di sviluppo del discorso.
Breve sintesi in Essam Safty, La Psyché humaine. Conceptions populaires,
religieuses et philosophiques en Grèce, des origines à l’ancien stoïcisme [La
psiche umana. Concezioni popolari, religiose e filosofiche in Grecia, dalle
origini allo stoicismo antico], L’Harmattan, Parigi 2003.
Un’opera monumentale è quella di Erwin Rohde, l’amico di Nietzsche: Psiche.
Culto delle anime e fede nell’immortalità presso i greci (1890-1894), Laterza,
Bari 1970; si tratta di una summa sul soggetto dell’anima greca – Omero,
presocratici, tragici, Platone, Aristotele, Plotino, orfici, e così via. Difficilmente
superabile.
*
La favola di Gesù. La tesi mitista secondo cui Gesù non è mai esistito
storicamente, ma solo come cristallizzazione intellettuale, viene trattata con
disprezzo da celebri universitari che sono anche, nella maggior parte dei casi, dei
veri credenti. Meriterebbe comunque una confutazione degna di questo nome, il
disprezzo non può bastare.
Leggiamo allora Prosper Alfaric, Jésus a-t-il existé? [È esistito Gesù?], Éditions
Coda, Parigi 2005. E, sempre dello stesso autore: Origines sociales du
Christianisme (1959) [Origini sociali del cristianesimo], À l’école de la raison.
Études sur les origines chrétiennes (1959) [A scuola della ragione. Studi sulle
origini cristiane], e De la foi à la raison (1932) [Dalla fede alla ragione], tutti e
tre usciti per le Publications de l’Union Rationaliste. Sono opere scritte da un
seminarista che, studiando approfonditamente i testi, si è reso conto che si
trattava di una favola.
Leggere, di Paul-Louis Couchoud, Le Dieu Jésus [Il Dio Gesù], Gallimard,
Parigi 1951, ma anche, sempre dello stesso autore, Il mistero di Gesù (1923),
Bocca, Milano 1945. Vedere anche, di Maurice Goguel, Le Problème historique
de Jésus. Examen de la thèse de P.-L. Couchoud sur la non-historicité de Jésus
[Il problema storico di Gesù. Esame della tesi di P.-L. Couchoud sulla non-
storicità di Gesù], Union pour la vérité, Parigi 1925. E il collettaneo Jésus a-t-il
vécu? Controverse religieuse sur le «mythe du Christ» [Gesù è esistito?
Controversia religiosa sul «mito di Cristo»], Albert Messein, Parigi 1912.
Coraggiosa ma non temeraria, l’editoria non s’inoltra mai su questo terreno.
Quelli che lavorano all’interpretazione mitista sono spesso costretti a pubblicare
a proprie spese. Ringrazio dunque gli autori che mi hanno fatto avere i loro libri:
Patrick Boistier, Jésus-Christ & consorts. Dernières nouvelles [Gesù Cristo &
consorti. Ultime notizie], Les Éditions du Net, Saint-Ouen 2012, e Jésus.
Anatomie d’un mythe [Gesù. Anatomia di un mito], À l’Orient, 2004; Nicolas
Bourgeois, Une invention nommée Jésus [Un’invenzione chiamata Gesù]
(Uneinventionnommeejesus.com); Guy Fau, La Fable de Jésus Christ [La favola
di Gesù Cristo], L’Union Rationaliste, Parigi 1963; René Pommier, grande
demolitore di miti, tra gli altri di quelli di Roland Barthes e di René Girard: Une
croix sur le Christ. Cantate iconoclastique [Una croce su Cristo. Cantata
iconoclasta], Éditions Roblot, Parigi 1976.
Si leggerà con profitto Maurice Halbwachs, Memorie di Terrasanta (1941),
Arsenale, Venezia 1988; Louis Rougier, La Genèse des dogmes chrétiens, [La
genesi dei dogmi cristiani], Albin Michel, Parigi 1972; e André Neyton, Les Clés
païennes du christianisme [Le chiavi pagane del cristianesimo], Les Belles
Lettres, Parigi 1980. Quest’ultimo libro mi era stato addirittura consigliato da
Lucien Jerphagnon, che ha fatto molto per indirizzarmi sulla strada mitista, per
quanto lui stesso non condividesse quelle tesi.
*
Thanatos nel deserto. Il cristianesimo, più che essere la dottrina di Gesù, è quella
di san Paolo. È a quest’ultimo che dobbiamo la definizione della dottrina della
Chiesa, vale a dire l’avversione nei confronti del corpo, dei desideri, delle
pulsioni, delle passioni, della sessualità e dell’intelligenza, e l’esaltazione della
macerazione, dell’ideale ascetico, del celibato, della verginità e della castità. È
ancora a lui che dobbiamo l’associazione della spada (il suo attributo
nell’iconografia artistica) alla Chiesa e i primi autodafé. Da leggere le sue
Epistole e gli Atti degli apostoli.
È questa dottrina del corpo da punire per ottenere la salvezza che anima i monaci
del deserto. Un libro introduttivo ben fatto e piacevole da leggere è quello di
Jacques Lacarrière, Les Hommes ivres de Dieu [Gli uomini ubriachi di Dio],
Arthaud, Parigi 1961. Di suo, consultare anche Les Gnostiques [Gli gnostici],
nella collana «Idées» di Gallimard, Parigi 1973. È una buona sintesi di quello
che troviamo in Ireneo di Lione, Contro le eresie. Smascheramento e
confutazione della falsa gnosi, Città Nuova, Roma 2009. Paradossalmente,
esponendo le tesi gnostiche che voleva combattere, Ireneo le ha salvate, perché è
proprio grazie a lui che oggi le conosciamo.
Vedere anche Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio (Paoline, Milano 2007);
Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci (2 voll., Città Nuova, Roma 2000);
San Girolamo, Vite di Paolo, Ilarione e Malco (Adelphi, Milano 1988); Palladio,
La Storia Lausiaca (Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano 1974).
*
Dio nel testo. Parallelamente ai monaci del deserto che credono di arrivare a Dio
maltrattando il proprio corpo, i Padri della Chiesa ritengono che la strada giusta
sia quella di trattare invece bene il proprio spirito e la propria intelligenza
attraverso il pensiero e la scrittura.
Introduzioni generali alla patristica: Jacques Liébaert e Michel Spanneut,
Introduzione generale allo studio dei Padri della Chiesa, Queriniana, Brescia
1998. Nello stesso spirito, destinato ai futuri sacerdoti: Fulbert Cayré, Patrologia
e storia della teologia, Società di S. Giovanni Evangelista-Desclee, Roma 1948.
La patristica è il punto cieco della storia della filosofia europea. La s’insegna in
effetti solo nei seminari, eppure sono i dieci secoli nel corso dei quali si
costruisce il pensiero giudaico-cristiano all’origine della cristianità e della civiltà
che l’accompagna.
Nelle facoltà di Filosofia, nella maggior parte dei casi si conosce solo un Padre
della Chiesa, cioè sant’Agostino. Consultare allora i tre volumi (1998, 2000 e
2002) di una scelta delle sue opere pubblicata nella collana della Pléiade, con la
curatela di Lucien Jerphagnon, in cui troviamo anche le Confessioni e la Città di
Dio, opere importanti per capire l’Occidente. Bella biografia e piacevole da
leggere di Peter Brown, Agostino d’Ippona (Einaudi, Torino 1971).
Anche Tertulliano gioca un ruolo importante: le sue Œuvres complètes sono
state ripubblicate in un volume per le Belles Lettres nel 2017.
Un titolo prezioso di monsignor Charles Lagier, in due volumi, per
contestualizzare tutti questi pensieri. Il titolo generale è L’Orient chrétien
[L’Oriente cristiano], Au Bureau de l’œuvre d’Orient, Parigi 1935 e 1950; tomo
1: Des apôtres jusqu’à Photius (De l’an 33 à l’an 850) [Dagli apostoli fino a
Fozio (Dall’anno 33 all’anno 850)]; tomo 2: De Photius à l’Empire latin de
Constantinople (De l’an 850 à l’an 1204) [Da Fozio all’Impero latino di
Costantinopoli (Dall’anno 850 all’anno 1204)].
*
Stoici cinici e cristiani. I filosofi stoici e cinici sono stati spesso accostati ai
cristiani. È stato addirittura composto e pubblicato un falso Epistolario tra
Seneca e san Paolo (Rusconi Libri, Milano 1995). Ovviamente, si tratta di una
contraffazione. Non la pensa così, però, Amédée Fleury, che esamina il
documento in un libro in due volumi intitolato: Saint Paul et Sénèque.
Recherches sur les rapports du philosophe avec l’apôtre et sur l’infiltration du
christianisme naissant à travers le paganisme [San Paolo e Seneca. Ricerca sui
rapporti del filosofo con l’apostolo e sull’infiltrazione del nascente cristianesimo
attraverso il paganesimo], Librairie philosophique de Ladrange, Parigi 1853.
Già in Antichità, l’accostamento tra il dolorismo stoico e quello del
cristianesimo paoliniano dà luogo alla figura di un Epitteto cristiano. Un esame
dei documenti lo troviamo nel Commentaire sur la Paraphrase chrétienne du
Manuel d’Épictète [Commento sulla parafrasi cristiana del Manuale di Epitteto],
Le Cerf, Sources chrétiennes, Parigi 2007. Leggere, in parallelo: Origene,
Esortazione al martirio, Pontificia Universitas Urbaniana, Roma 1985.
Sull’altro versante, l’accostamento tra la trasandatezza cinica e quella dei monaci
del deserto ha prodotto invece la figura di un Diogene cristiano. Marie-Odile
Goulet-Cazé è la specialista della questione cinica. Tra le sue pubblicazioni:
L’Ascèse cynique [L’ascesi cinica], 1986, Le Cynisme, une philosophie antique
[Il cinismo, una filosofia antica], 2017, e Cynisme et christianisme dans
l’Antiquité [Cinismo e cristianesimo nell’Antichità], 2014, tutti e tre pubblicati a
Parigi, da Vrin.
*
L’imperatore Thénardier. La costruzione del cristianesimo la si deve molto
all’imperatore Costantino e alla madre Elena. Sul primo, si consultino: Robert
Turcan, Constantin en son temps. Le baptême ou la pourpre? [Costantino ai suoi
tempi. Il battesimo o la porpora?], Éditions Faton, Digione 2006. Sulla seconda,
più che una biografia, che in verità manca, troviamo un’agiografia: Hélène
Yvert-Jalu, L’Impératrice sainte Hélène. À la croisée de l’Orient et de
l’Occident [L’imperatrice santa Elena. All’incrocio tra Oriente e Occidente], per
le cattolicissime edizioni Téqui, Parigi 2013. Compenseremo con le
considerazioni su questa donna poco raccomandabile avanzate da Lucien
Jerphagnon in L’Absolue Simplicité [L’assoluta semplicità], Bouquins-Laffont,
Parigi 2019.
L’imperatore e sua madre s’inventano la biografia di Gesù. Elena pretende
addirittura di aver trovato, nel corso di un soggiorno a Gerusalemme, la croce, i
chiodi, la corona di spine, il titulus e il luogo stesso della crocifissione! Iacopo
da Varazze arricchisce tutta questa favola con un best seller medievale, la
Legenda aurea (Sismel Edizioni del Galluzzo-Biblioteca Ambrosiana, Firenze-
Milano 2007), che è il libro dove i parroci vanno a recuperare i materiali per i
loro sermoni. È con questo testo che infonde a tutta la storia sacra un carattere
propriamente meraviglioso che si costruisce un cristianesimo da favola, ben
lontano da quello della teologia.

La contraffazione conciliare. Si lavora poco anche sui concili, che invece così
tanto contribuiscono a scolpire la nostra civiltà. In Voting about God in early
church councils [Votare per Dio nei concili della Chiesa ai suoi inizi], Yale
University Press, New Haven 2006, Ramsay MacMullen ci racconta in maniera
straordinaria come interi tratti della nostra cultura siano stati costruiti da vescovi
che spesso erano dei personaggi estremamente festaioli, alcolizzati, avidi, rissosi
e violenti!
Nella mia biblioteca, occupano un buon metro di scaffale i venti volumi della
traduzione francese della Conciliengeschichte di Carl Joseph von Hefele
(Herder’sche Verlagshandlung, Friburgo 1855-1874; tr. fr.: Charles-Joseph
Hefele, Histoire des conciles d’après des documents originaux, Éditions Le
Touzey et Ané, Parigi 1907-1949). Poi ci sono anche i quattro volumi della
Histoire des conciles [Storia dei concili] di Jean Hermant, pubblicato a Rouen,
presso Jean-Baptiste Besogne nel 1730. Tutti testi che, assieme ai ventisei
volumi della Bibliothèque choisie des Pères de l’Église grecque et latine
[Biblioteca scelta dei Padri della Chiesa greca e latina] (1824) di Marie-Nicolas-
Sylvestre Guillon (un altro metro di scaffale), offrono materiali incredibili per
ricostruire l’evoluzione della civiltà giudaico-cristiana.
*
La scolastica e oltre. Raffaello lo illustra bene nel suo affresco della Scuola di
Atene: Platone è il pensatore idealista per eccellenza, mentre Aristotele è l’esatto
opposto, cioè un filosofo che cerca di afferrare il reale senza preoccuparsi
minimamente della trascendenza. Il suo vocabolario immanente produce, nel
corso del medioevo, una scolastica perniciosa, e perniciosa in primis per lo
stesso stagirita, che perde potenza concettuale. Il suo scritto sull’anima
(Aristotele, L’anima, Loffredo, Napoli 1979) è una grande opera concettuale
postplatonica. Vedere anche Dominique Demange, La ‘définition’
aristotélicienne de l’âme [La ‘definizione’ aristotelica dell’anima], in «Le
Philosophoire», n. 21, 2003/3, p. 65-85.
Non si sottolineerà mai abbastanza quanto i Saggi di Montaigne contribuiscano a
far crollare in un colpo solo, come un castello di carte, secoli di filosofia
scolastica. Con il suo ironico ragionamento sul prosciutto («Il prosciutto fa bere,
il bere disseta, dunque il prosciutto disseta»), mette a mal partito tutto un
dispositivo di esposizione del pensiero che, dopo di lui, diventa impossibile.
Leggere la versione «rattoppata» (la definizione è di Bernard Combeaud)
pubblicata da Laffont-Mollat, nella collana «Bouquins», Parigi 2019 (tr. it.:
Michel de Montaigne, Saggi, Bompiani, Milano 2012).
*
Lezioni di anatomia. Montaigne sta alla filosofia come Vesalio o Ambroise Paré
stanno all’anatomia: aprono e dissezionano il reale e i corpi come si fa con la
frutta. Una biografia del primo: Robert Delavault, André Vésale (1514-1564), Le
Cri, Bruxelles 1999; un testo letterario elegante e informatissimo sul secondo:
Jean-Michel Delacomptée, Ambroise Paré. La main savante [Ambroise Paré. La
mano dello scienziato], Gallimard, Parigi 2007. In francese, l’Œuvre di
Ambroise Paré è pubblicata in tre volumi, più un quarto di indici, dall’Union
Latine d’Édition, nel 1983. Interessanti i capitoli sull’anima.
Leggere il capitolo Le contexte historique et philosophique de l’ouverture des
corps, avant et au moment de la Révolution française [Il contesto storico e
filosofico dell’apertura dei corpi, prima e al momento della Rivoluzione
francese], di Philippe Charlier, in un collettaneo intitolato Quand les aliénistes
ouvraient les corps [Quando gli alienisti aprivano i corpi], Éditions Glyphe,
Parigi 2020, a cura di Jean-Pierre Luauté.
Su Vesalio, vedere Georges Canguilhem, L’Homme de Vésale dans le monde de
Copernic [L’uomo di Vesalio nel mondo di Copernico], Les Empêcheurs de
penser en rond, Parigi 1991. Di Vesalio, in francese:
https://www.biusante.parisdescartes.fr/vesale/debut.htm.
*
Un Descartes sconosciuto. Descartes crolla sotto le glosse alle proprie opere
filosofiche. Ci si occupa invece poco del Descartes esistenziale, quello che cerca
di praticare la filosofia per vivere meglio, per vivere in maniera diversa, per
allungare la durata della vita e migliorare la salute. Questo Descartes dimenticato
ma appassionante pensa a partire dalla propria vita: ecco allora Francine, la
figlioletta morta in tenera età; ecco i primi capelli bianchi; ecco il desiderio di
lasciar perdere la metafisica e l’ontologia per approfondire invece la medicina,
come annunciato alla fine del Discorso sul metodo; ecco i vari corrispondenti; ed
ecco il proprio carattere, il proprio temperamento, ecco la prudenza, ecco il lato
patologico della discrezione.
Come sempre, è la corrispondenza che permette di rivelare la verità di un
pensatore; si tratta di una vecchia idea nietzschiana, sempre rifiutata dagli
universitari, o perlomeno da quelli che restano, e cioè che una filosofia è sempre
l’autobiografia del corpo del filosofo. Leggere quindi i due tomi della
corrispondenza: René Descartes, Tutte le lettere (1619-1650) (Bompiani, Milano
2005), e René Descartes, Isaac Beeckman e Marin Mersenne, Lettere (1619-
1648) (Bompiani, Milano 2015).
È ad Adrien Baillet che dobbiamo la prima biografia del filosofo, scritta a
quarant’anni dalla morte, un lavoro abbastanza agiografico che passa comunque
sotto silenzio la vita privata: Vita di monsieur Descartes (Adelphi, Milano
1996). Per qualcosa di più affidabile, consultare: Geneviève Rodis-Lewis,
Cartesio. Una biografia (Editori Riuniti, Roma 1997). Un romanzo presentato
come un racconto su Francine e il padre, è quello scritto da Jean-Luc Quoy-
Bodin, Un amour de Descartes [Un amore di Descartes], Gallimard, Parigi 2013.
Il Descartes della morale pratica è meno conosciuto del pensatore della morale
provvisoria. Ed è normale, perché la prima appare nella corrispondenza, mentre
la seconda è quella che si trova nel Discorso sul metodo. Vedere René Descartes,
Le passioni dell’anima. Lettere sulla morale, con un’appendice di frammenti
giovanili (Laterza, Bari 1966). Nello stesso spirito, leggere Marguerite Néel,
Descartes et la princesse Élisabeth [Descartes e la principessa Elisabeth],
Elzévir, Parigi 1946, e Jean-François de Raymond, La Reine et le Philosophe.
Descartes et Christine de Suède [La regina e il filosofo. Descartes e Cristina di
Svezia], Les Lettres modernes, Parigi 1993.
L’estrema prudenza di Descartes non gli ha comunque evitato di passare dei guai
in Olanda, a causa soprattutto dell’imprudenza del proprio corrispondente,
Regius, o Le Roy, cui dobbiamo la Philosophia naturalis, pubblicata in francese
nel 1686, quindi quando ormai Descartes era già morto. Su questi guai, leggere
un collettaneo intitolato Descartes et le cartésianisme hollandais [Descartes e il
cartesianesimo olandese], PUF, Parigi 1951, e René Descartes e Martin Schoock,
La Querelle d’Utrecht, Les Impressions nouvelles, Parigi 1988.
*
Grandi figure del Grand Siècle. Esiste una filosofia di La Fontaine, ed è una
filosofia epicurea e vagamente cristiana, capace di trasformare gli animali in
altrettanti eroi letterari e filosofici per meglio raccontare l’uomo. È Fontenelle
che ci racconta la storia della cagna di Malebranche, picchiata solo perché
considerata una macchina. Leggiamo allora Descartes, La Fontaine e
Malebranche nelle edizioni della Biblioteca della Pléiade. E Fontenelle nei nove
volumi delle Œuvres complètes pubblicati nel «Corpus des œuvres de
philosophie en langue française», per Fayard. Sul numero speciale della rivista
consacrata al filosofo normanno con il titolo di Les Philosophies de Fontenelle
[Le filosofie di Fontenelle], leggiamo: Qui était Fontenelle? [Chi era
Fontenelle?] di Alexis Philonenko, «Corpus», n. 44, 2003, pp. 129-139, articolo
in cui questo professore di storia della filosofia, che è stato anche mio insegnante
a Caen, distribuisce i voti e le pagelle. Conclusione: Fontenelle non è un
filosofo. Meglio, perché è il pensatore libero che preferisco in lui!
La questione dell’anima degli animali attraversa per intero il secolo di Luigi XIV
e impazza nei salotti dell’epoca. Vedere, per esempio: Marin Cureau de La
Chambre, Traité de la connaissance des animaux [Trattato della conoscenza
degli animali], del 1648, e, sempre suo, il Discours de l’amitié et de la haine qui
se trouvent entre les animaux [Discorso dell’amicizia e dell’odio che si trovano
tra gli animali], del 1667, entrambi pubblicati nella serie del «Corpus» di Fayard,
rispettivamente nel 1989 e nel 2011. La Fontaine si serve di Cureau de La
Chambre per mettere in ridicolo la teoria degli animali-macchine di Descartes.
Un ritratto di Cureau realizzato da Condorcet lo troviamo negli Éloges des
académiciens de l’Académie royale des sciences depuis l’an 1666 jusqu’en 1699
[Elogi degli accademici dell’Accademia reale delle scienze dall’anno 1666 fino
al 1699], consultabile in francese all’indirizzo:
https://books.google.fr/books/about/Eloges_de_académiciens_de_l_Academie_ro.html?
id=VlwVAAAAQAAJ&redir_esc=y
Vedere anche Pierre Chanet, De l’instinct et de la connaissance des animaux,
avec l’examen de ce que M. de La Chambre a écrit sur cette matière
[Dell’istinto e della conoscenza degli animali, con l’esame di ciò che M. de La
Chambre ha scritto in materia], del 1646, consultabile in francese all’indirizzo:
https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k95608f/f1.image. Sulle Observationes
medicae di Nicolaas Tulp (Nicolai Tulpii Amstelredamensis Observationum
medicarum. Libri tres, presso Ludovicum Elzevirium, Amsterdam 1641),
consultare Raphaële Andrault, Stefanie Buchenau, Claire Crignon e Anne-Lise
Rey (a cura di), Médecine et philosophie de la nature humaine, de l’âge
classique aux Lumières [Medicina e filosofia della natura umana, dall’età
classica agli illuministi], Classiques Garnier, Parigi 2014; e Ignace Gaston
Pardies (SJ), Discours de la connaissance des bestes, presso Sebastien Mabre-
Cramoisy, Parigi 1672 (tr. it.: Dell’anima delle bestie, e sue funzioni, Andrea
Poletti, Venezia 1696).
*
*
Conosciamo però poco l’opposizione tra Gassendi, canonico epicureo, e
Descartes, spiritualista dualista. Il fatto è che Descartes ha schiacciato ogni cosa
sul suo passaggio e, ormai, di Gassendi, non si parla quasi più. Eppure è stato un
pensatore importante. A lui dobbiamo la riabilitazione di Epicuro in Vita e
costumi di Epicuro (Ventura, Senigallia 2022) e una critica serrata a Descartes
nella Disquisitio metaphysica. Seu dubitationes, et instantiae: adversus Renati
Cartesii Metaphysicam, & Responsa (presso Iohannem Blaeu, Amsterdam 1644;
tr. fr.: Recherches métaphysiques ou doutes et instances contre la métaphysique
de René Descartes et ses réponses, Vrin, Parigi 1962). Gassendi scrive a volte in
latino, spesso prende tempo e tergiversa, oppure si ripete, e poi attacca, attacca, a
volte diventa persino violento e polemizza ad hominem; peccato, perché il suo
pensiero, una volta estratte le pepite dal fango, è interessante e notevole. Nella
sua polemica contro Descartes, punta spesso il dito su quello che trova debole
nei ragionamenti del proprio avversario. Leggere, di lui, le Lettres familières à
François Luillier pendant l’hiver 1632-1633 [Lettere familiari a François
Luillier nell’inverno 1632-1633], Vrin, Parigi 1944. E su di lui gli Actes du
Congrès Tricentenaire de Pierre Gassendi.1655-1955 [Atti del Congresso del
Tricentenario di Pierre Gassendi. 1655-1955], PUF, Parigi 1957, che
comprendono un articolo di François Meyer intitolato Gassendi et Descartes, pp.
217-226. Vedere anche, su Gassendi et l’Europe, a cura di Sylvia Murr (Vrin,
Parigi 1997), l’articolo Volonté divine et vérité mathématique: le conflit entre
Descartes et Gassendi sur le statut des vérités éternelles [Volontà divina e verità
matematica: il conflitto tra Descartes e Gassendi sullo statuto delle verità eterne],
pp. 31-42.

Pensare gli animali. Diversamente da quanto sostiene la vulgata filosofica, e


cioè che sia stato Bentham il primo a pensare gli animali in senso moderno,
dobbiamo dare a Cesare quel che è di Cesare. E ricordare che a porre le basi di
quello che oggi chiamiamo antispecismo non è Bentham, nell’Ottocento, ma il
curato Meslier agli inizi del Settecento, nel Testamento scoperto alla sua morte
nel 1729. Su Meslier: Maurice Dommanget, Le Curé Meslier. Athée, communiste
et révolutionnaire sous Louis XIV [Il curato Meslier. Ateo, comunista e
rivoluzionario sotto Luigi XIV], Julliard, Parigi 1965. In Francia, le sue opere
complete sono state pubblicate in tre volumi dalle Éditions Anthropos, tra il
1970 e il 1971 e con il titolo di Testament (tr. it.: Jean Meslier, Memorie
intellettuali e sentimentali, 3 voll., Diderotiana, Torino 2019).
Vedere Élisabeth de Fontenay per Le Silence des bêtes. La philosophie à
l’épreuve de l’animalité [Il silenzio degli animali. La filosofia alla prova
dell’animalità], Fayard, Parigi 1998. Si fa fatica a intravedere il piano generale di
questo libro, perché è un miscuglio confuso di riferimenti senza ordine; però
possiamo ricavare qualche cosa per la nostra erudizione sfogliando l’indice.
Sui rapporti tra uomo e animale, è già stato praticamente detto tutto da Darwin,
L’origine delle specie, del 1859 (Bollati Boringhieri, Torino 1960), e soprattutto
L’origine dell’uomo e la scelta sessuale, del 1871 (Rizzoli, Milano 1982). Le
lezioni di Darwin aspettano ancora di essere prese seriamente in considerazione
dal mondo filosofico, che si ostina a perseverare in una specie di platonismo in
cui le Idee prendono tutto lo spazio.
I pensatori del materialismo francese, La Mettrie, Helvétius, d’Holbach, sono
tutti pubblicati nella serie del «Corpus des œuvres de philosophie en langue
française», per Fayard: vedere in particolare La Mettrie, Œuvres philosophiques
[Opere filosofiche], 2 voll., 1987 (in parte recuperabili sull’edizione italiana di
Julien Offroy de La Mettrie, L’uomo macchina e altri scritti, Feltrinelli, Milano
1955), e Ouvrage de Pénélope ou Machiavel en médecine [L’opera di Penelope,
ovvero Machiavelli in medicina], 2002.
L’opera di Diderot è stata pubblicata in quattro volumi da Laffont-Bouquins, tra
il 1994 e il 1997. Quella di Sade da Gallimard, in tre volumi, nella Biblioteca
della Pléiade, tra il 1990 e il 1998. Stessa cosa per Rousseau, cinque volumi per
la Pléiade tra il 1959 e il 1995. Non dimentichiamoci del Traité des animaux
[Trattato degli animali] di Condillac, filosofo sensualista (Vrin, Parigi 2004).
Aggiungiamo François Dagognet, L’Animal selon Condillac [L’animale secondo
Condillac], Vrin, Parigi 2004.
Su Sade: Jean Deprun, De Descartes au romantisme: études historiques et
thématiques [Da Descartes al romanticismo: studi storici e tematici], in
particolare il capitolo Sade et la philosophie biologique de son temps [«Sade e la
filosofia biologica dei suoi tempi»], Vrin, Parigi 1987, pp. 133-147. Armelle St-
Martin, De la médecine chez Sade. Disséquer la vie, narrer la mort [Della
medicina in Sade. Dissezionare la vita, raccontare la morte], Honoré Champion,
Parigi 2010. Daniel Wanderson Ferreira, L’énergie chez Sade [L’energia in
Sade], in «Modernités», n. 42, (Écritures de l’énergie) [Scritture dell’energia],
2017, pp. 31-45. Clara Carnicero de Castro, Le fluide électrique chez Sade [Il
fluido elettrico in Sade], in «Dix-huitième siècle», n. 46, 2014/1, pp. 561-577.
Su Diderot: May Spangler, Science, philosophie et littérature: le polype de
Diderot [Scienza, filosofia e letteratura: il polpo di Diderot], in «Recherches sur
Diderot et sur l’Encyclopédie», n. 23, ottobre 1997, pp. 89-107.
Sulla prossimità tra scimmia e uomo molto prima di Darwin: Alain Mothu,
Rêves de singe au XVIIIe siècle [Sogni da scimmia nel Settecento], consultabile
in francese su https://hal.science/hal-02276114/document. Vincent Jolivet,
L’imaginaire érotique du singe au siècle des Lumières [L’immaginario erotico
della scimmia nel secolo dei Lumi], in Le Singe aux XVIIe et XVIIIe siècles.
Figure de l’art, personnage littéraire et curiosité scientifique [La scimmia nel
Seicento e nel Settecento. Figura artistica, personaggio letterario e curiosità
scientifica], a cura di Florence Boulerie e Katalin Bartha-Kovács, Hermann,
Parigi 2019.
Vedere anche Buffon (Georges-Louis Leclerc, conte di), Histoire naturelle,
générale et particulière [Storia naturale, generale e particolare], tomo XIV
dell’edizione dell’Imprimerie royale, Parigi 1766; Cornelius de Pauw,
Recherches philosophiques sur les Américains, ou mémoires intéressants pour
servir à l’histoire de l’espèce humaine [Ricerche filosofiche sugli americani,
ovvero Memorie utili alla storia della specie umana], Baestecher, Clève 1772;
Restif de La Bretonne, Monsieur Nicolas (tr. it.: Restif de La Bretonne,
Monsieur Nicolas, o Il cuore umano svelato, Longanesi, Milano 1971), la prima
parte: Fisica; Honoré-Gabriel Riqueti, conte di Mirabeau, Erotika biblion
(Guanda, Milano 1983).
Vedere anche, di Maupertuis, le Lettere filosofiche e scientifiche; Lettera sul
progresso delle scienze (Pavia University Press, Pavia 2014). E nel suo libro del
1745, Vénus physique (tr. it.: Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, La venere
fisica, per Antonio Graziosi, Venezia 1767) già ci s’immagina l’ibridazione tra
uomini e scimmie, in particolare nel capitolo intitolato Produzioni di nuove
spezie.
Jean-Luc Guichet cura un’opera collettiva intitolata De l’animal-machine à
l’âme des machines. Querelles biomécaniques de l’âme (XVIIe-XXIe siècle)
[Dall’animale-macchina all’anima delle macchine. Querelles biomeccaniche
sull’anima (XVII-XXI secolo)], Publications de la Sorbonne, Parigi 2010. In
quest’opera seguiamo lo sviluppo dell’idea che porta dall’animale-macchina fino
all’uomo-macchina. Frankenstein non è tanto lontano… E nemmeno il
transumanesimo…

Giacobinismo, bolscevismo e fascismo. La Rivoluzione francese produce una


teoria dell’Uomo Nuovo grazie ai giacobini, che ci provano nel 1793.
Nell’eugenismo repubblicano si trova radicato il pensiero di Condorcet; leggere
il suo Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain, del 1794
(tr. it.: Jean-Antoine-Nicolas Caritat de Condorcet, Saggio di un quadro storico
dei progressi dello spirito umano, Editori Riuniti, Roma 1974). Leggere anche
Léon Cahen, Un fragment inédit de Condorcet. Notes manuscrites déposées à la
Bibliothèque nationale [Un frammento inedito di Condorcet. Note manoscritte
depositate alla Biblioteca nazionale], sulla «Revue de métaphysique et de
morale», t. 22, n. 5, settembre 1914, pp. 581-594.
Marylin Maeso, Réformer le peuple français: la création du citoyen
révolutionnaire et le rôle des institutions dans les œuvres de Saint-Just
[Riformare il popolo francese: la creazione del cittadino rivoluzionario e il ruolo
delle istituzioni nelle opere di Saint-Just],
https://journals.openedition.org/lrf/1093.
Luc Monnin, De la genèse naturelle à la régénération sociale: fictions de
l’origine chez Rousseau [«Dalla genesi naturale alla rigenerazione sociale:
finzioni dell’origine in Rousseau»], in «MLN», vol. 124, n. 4, 2009, pp. 970-985.
Troviamo anche un progetto di chimera, il capripede, nel Colloquio fra
d’Alembert e Diderot, in cui la storia di un uomo aumentato con parti di animali,
o di un animale aumentato con parti di uomo, prende corpo nel corso di un
dialogo tra mademoiselle de Lespinasse e Bordeu. Vedere anche Cabanis,
l’amico di Condorcet, che come lui frequentava il salotto di Mme Helvétius:
Rapports du physique et du moral de l’homme, 2 voll., Firmin-Didot, Parigi
1823-1825 (tr. it.: Rapporti del fisico e del morale dell’uomo, Marotta e
Vaspandoch, Napoli 1820); vedere più in particolare la sesta memoria.
Su questo Uomo Nuovo, consultare L’Homme Nouveau dans l’Europe fasciste
(1922-1945). Entre dictature et totalitarisme [L’Uomo Nuovo nell’Europa
fascista (1922-1945). Tra dittatura e totalitarismo], a cura di Marie-Anne
Matard-Bonucci e Pierre Milza, Fayard, Parigi 2004.
Ai margini dei circuiti mediatici, Xavier Martin, storico del diritto e professore
universitario, pubblica, per le edizioni di Dominique Martin Morin, una serie di
opere molto critiche nei confronti dei Lumi: nel 2001, L’homme des droits de
l’homme et sa compagne (1750-1850) [L’uomo dei diritti dell’uomo e la sua
compagna (1750-1850)]; nel 2002, Nature humaine et Révolution française: du
siècle des Lumières au Code Napoléon [Natura umana e Rivoluzione francese:
dal secolo dei Lumi al Codice napoleonico]; nel 2006, Voltaire méconnu:
aspects cachés de l’humanisme des Lumières (1750-1800) [Voltaire sconosciuto:
aspetti nascosti dell’umanesimo dei Lumi (1750-1800)]; nel 2013, S’approprier
l’homme: un thème obsessionnel de la Révolution (1760-1800) [Appropriarsi
dell’uomo: un tema ossessivo della Rivoluzione (1760-1800)]; nel 2014,
Naissance du sous-homme au cœur des Lumières: les races, les femmes, le
peuple [Nascita del sotto-uomo nel cuore dell’Illuminismo: le razze, le donne, il
popolo], e, nel 2020, L’homme rétréci par les Lumières. Anatomie d’une illusion
républicaine [L’uomo rimpicciolito dai Lumi. Anatomia di un’illusione
repubblicana]. Ripetizioni da un libro all’altro, cosa che è normale, grande
erudizione, letture molto attaccate al testo, a volte persino troppo, abbondanti
citazioni e spesso stupefacenti rivelazioni che aiutano a mettere in luce il lato
oscuro della scena illuminista. Politicamente scorretto quanto basta!
Sulla questione della rigenerazione della «razza» nel periodo illuminista: abate
Grégoire, Essai sur la régénération physique, morale et politique des Juifs
[Saggio sulla rigenerazione fisica, morale e politica degli ebrei], Lamort, Metz
1789 (consultabile, in francese, all’indirizzo:
https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k1056775j), dove si spiega che meno gli
ebrei saranno ebrei, meglio sarà per la Repubblica; dello stesso autore, il
Rapport sur la nécessité et les moyens d’anéantir les patois et d’universaliser
l’usage de la langue française, séance du 16 prairial de l’an deuxième (4 juin
1794) [Rapporto sulla necessità e i mezzi per annientare i dialetti e
universalizzare l’uso della lingua francese, seduta del 16 pratile dell’anno
secondo (4 giugno 1794)], dove invece viene illustrato che meno quei bifolchi
dei provinciali saranno provinciali, meglio sarà per la Repubblica. Leggere
Alyssa Goldstein Sepinwall, Les paradoxes de la régénération révolutionnaire.
Le cas de l’abbé Grégoire [I paradossi della rigenerazione rivoluzionaria. Il caso
dell’abate Grégoire], in «Annales historiques de la Révolution française», n. 321,
luglio-settembre 2000.
Faiguet de Villeneuve, Économie politique. Projet pour enrichir et perfectionner
l’espèce humaine [Economia politica. Progetto per arricchire e perfezionare la
specie umana], del 1763. Consultabile in francese all’indirizzo:
https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k6508w.image. E poi: Vandermonde, Essai
sur la manière de perfectionner l’espèce humaine [Saggio sul modo di
perfezionare la specie umana], del 1766:
https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k6481542r?rk=21459;2.
L’abate de Mably, Observations sur l’Histoire de la Grèce [Osservazioni sulla
storia della Grecia], del 1766; il conte di Vauréal, Plan ou essai d’éducation
général et national, ou la meilleure éducation à donner aux hommes de toutes
les nations [Piano o saggio di educazione generale e nazionale, ovvero la
migliore educazione da dare agli uomini di tutte le nazioni], del 1783 (Hachette
BnF, Parigi 2023).
Di Robespierre, sulla questione religiosa: Discours pour la liberté des cultes
[Discorso per la libertà dei culti] (t. X, p. 196; tr. it.: Maximilien Robespierre,
Sulla religione e sulla morale (Sui rapporti delle idee religiose e morali con i
princìpi repubblicani e sulle feste nazionali), in La rivoluzione giacobina,
Editori Riuniti, Roma 1967); Discours sur les principes de la morale politique
qui doivent guider la Convention nationale dans l’administration intérieure de
la république, del 5 febbraio del 1794 (t. X, p. 350; tr. it.: Maximilien
Robespierre, Sui princìpi di morale politica (che devono guidare la Convenzione
nazionale nell’amministrazione interna della Repubblica), in La rivoluzione
giacobina, Editori Riuniti, Roma 1967); Discours sur les rapports des idées
religieuses et morales avec les principes républicains sur les fêtes nationales,
del 7 maggio del 1794 (tr. it.: Maximilien Robespierre, Rapporto fatto in nome
del Comitato di Salvezza pubblica, intorno ai rapporti delle idee religiose e
morali, coi princìpi repubblicani, ed intorno alle Feste nazionali, Stamperia
nazionale esecutiva del Louvre, Parigi, 1793); Discours pour la déportation des
prêtres réfractaires à la Guyane [Discorso per la deportazione dei preti refrattari
in Guyana] (t. IX, pp. 626-627); La fête de l’Être suprême [La festa dell’Essere
supremo] (20 pratile dell’Anno secondo).
Jacques-Nicolas Billaud-Varenne, Principes régénérateurs du système social
[Princìpi rigeneratori del sistema sociale], del 1795 (Éditions de la Sorbonne
1993).
Joseph-Emmanuel Sieyès, Opere e testimonianze politiche, 2 voll. (Giuffrè
Editore, Milano 1993).
Jean-François Bacot, L’idéologie de la régénération: ce legs délétère de la
Révolution [L’ideologia nella rigenerazione: il lascito deleterio della
Rivoluzione], in «Le Philosophoire», n. 45, 2016/1, pp. 143-168.
Lucien Jaume, Le religieux et le politique dans la Révolution française. L’idée
de régénération [Il religioso e il politico nella Rivoluzione francese. L’idea di
rigenerazione], PUF, Parigi 2015.
Mona Ozouf, L’Homme régénéré. Essai sur la Révolution française [L’uomo
rigenerato. Saggio sulla Rivoluzione francese], Gallimard, Parigi 1989.
Tutta questa letteratura si rivela edificante nel senso che mostra i meccanismi di
funzionamento di quel totalitarismo che prende oggi la forma del
transumanesimo.
*
La parapsicologia freudiana. Freud salva l’anima dal pericolo scientista e, per
farlo, propone, se non una filosofia reazionaria, quantomeno una filosofia
conservatrice, capace cioè di conservare il carattere immateriale della psiche.
Vedere quindi l’opera completa (Sigmund Freud, Opere, 12 voll., Bollati
Boringhieri, Torino 1989), e in particolare un testo del 1915, la Metapsicologia
(sull’ottavo volume dell’edizione Bollati Boringhieri).
In verità, agli inizi della propria carriera, Freud era stato molto scientista. Lo
attesta il Progetto di una psicologia, testo iper-scientista del 1895, stranamente
assente dall’opera completa dell’edizione francese PUF, ma pubblicato
successivamente assieme alla corrispondenza con Fliess, sempre per le edizioni
PUF, nel 2015.
Per i dettagli, mi si permetterà di rimandare al mio Crepuscolo di un idolo.
Smantellare le favole freudiane (Ponte alle Grazie, Milano 2011).
*
L’occultismo decostruzionista. È di buon gusto citare Deleuze senza averlo letto:
per gli universitari, è garanzia di scientificità (sic). Leggere il suo Da che cosa si
riconosce lo strutturalismo? (in Gilles Deleuze, L’isola deserta e altri scritti,
Einaudi, Torino 2007), modello del genere scolastico postmoderno… Per il
famoso Corpo senza Organi, o CsO, concetto rubato ad Antonin Artaud, vedere
(assieme a Félix Guattari) L’anti-Edipo, del 1972 (tr. it.: Einaudi, Torino 1975),
e Mille piani, del 1980 (tr. it.: Cooper & Castelvecchi, Roma 2003). Alain
Badiou, «professore emerito all’École normale supérieure», parla di Deleuze
come di un platonico; leggiamo allora: Deleuze. Il clamore dell’essere (Einaudi,
Torino 2004). Io, più che a platonico, penserei allo scotista nel senso
rabelaisiano del termine: «inutilmente sofisticato, oscuro» – cosa che finisce
inevitabilmente per qualificare lo stesso Badiou…
Per Foucault non può non valere la stessa critica. L’autore della Storia della
follia, ex gollista, simpatizzante comunista, estremista di sinistra, maoista,
socialista mitterandiano e infine liberale, a seconda dell’utilità mondana del
momento, è stato per un certo periodo anche strutturalista. Suo è il concetto di
«morte dell’uomo», che troviamo ne Le parole e le cose, pubblicato da
Gallimard nel 1966 (tr. it.: Rizzoli, Milano 1967). Ovviamente, Foucault sosterrà
di non essere mai stato strutturalista, e cercherà di cancellare tutte le riedizioni
dei suoi lavori più vecchi sulla clinica, in modo da poterne dare l’illusione.
Sono stati in pochi, ai tempi, a criticare lo strutturalismo che ha portato, oggi,
attraverso gli Stati Uniti, al decostruzionismo. Tanto di cappello, quindi, a Pierre
Fougeyrollas e al suo L’Obscurantisme contemporain: Lacan, Lévi-Strauss,
Althusser [L’oscurantismo contemporaneo: Lacan, Lévi-Strauss, Althusser],
Savelli, Roma 1983, e a Mikel Dufrenne e al suo Pour l’homme [Per l’uomo],
Seuil, Parigi 1968.
*
L’orizzonte transumanista. Dobbiamo ormai fare i conti con il transumanesimo,
che si enuncia essere l’orizzonte della prossima civiltà totale.
Una biografia del personaggio che con maggiore ardore lavora a questo progetto:
Ashlee Vance, Elon Musk. Tesla, SpaceX e la sfida per un futuro fantastico
(Hoepli, Milano 2017).
Genealogia di questo progetto: oltre all’Uomo Nuovo dei giacobini, ripreso e
corretto dai bolscevichi, dai fascisti e poi anche dai nazisti, leggiamo qualcosa
dei futuristi italiani, compagni di strada del fascismo mussoliniano. Da
consultare: Filippo Tommaso Marinetti, Mafarka il futurista, prima edizione in
francese del 1909 (tr. it.: Edizioni futuriste di poesia, Milano 1910) e, sempre di
Marinetti, gli scritti e i manifesti di questo movimento estetico raccolti da
Giovanni Lista in Le Futurisme (L’Âge d’homme, Losanna 1979). Una biografia
del personaggio, sempre scritta in francese da Giovanni Lista: F.T. Marinetti.
Biographie (Séguier, Parigi 1995). Per quanto riguarda il pensiero futurista, la
sua filosofia e la sua visione del mondo, vedere Serge Milan, L’Antiphilosophie
du futurisme. Propagande, idéologie et concepts dans les manifestes de l’avant-
garde italienne [L’antifilosofia del futurismo. Propaganda, ideologia e concetti
nei manifesti dell’avanguardia italiana], L’Âge d’homme, Losanna 2009. Sul
prototipo dell’uomo-medusa, leggiamo la biografia che François Noudelmann
dedica a Édouard Glissant. L’identité généreuse [Édouard Glissant. L’identità
generosa] (Flammarion, Parigi 2018). Dello stesso Édouard Glissant, Tutto-
mondo (Lavoro, Roma 2009) e, in dialogo con Alexandre Leupin, Les Entretiens
de Baton Rouge [Le conversazioni di Baton Rouge] (Gallimard, Parigi 2008). E
anche Philosophie de la relation [Filosofia della relazione] (Gallimard, Parigi
2009).
Note

Parte prima. Costruire l’anima

1. Anticorpi, non-corpi e controcorpi


1. Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi (VIII, 3),
Bompiani, Milano 2005.
2. Isocrate, Il Busiride (II, 28), Vallecchi, Firenze 1955.
3. Porfirio, Vita di Pitagora (6), Rusconi, Milano 1998, p. 137.
4. Erodoto, Storie (II, 123), Rizzoli, Milano 1984.
5. Libro dei morti (CXXV), in Testi religiosi dell’Antico Egitto,
Mondadori, Milano 2001, p. 641.
6. Ivi, pp. 636-637.
7. Massimo di Tiro, Dissertazioni (10, 2), Bompiani, Milano 2019.
8. Platone, La Repubblica (X, 600b), Bompiani, Milano 2009.
9. Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi (III, 2), cit.
10. Ivi (III, 5).

2. Scheletro con anima


11. Platone, Gorgia (493a), in Opere complete, vol. 5, Laterza, Roma-Bari
1996.
12. Platone, Fedone (63c), in Opere complete, vol. 1, Laterza, Roma-Bari
1982.
13. Ivi (62b).
14. Ivi (65a).
15. Ivi (65b-c).
16. Ivi (65c).
17. Ibidem.
18. Ibidem.
19. Ivi (83b).

3. Il divenire riccio della pianta


20. Porfirio, Vita di Plotino (1), in Plotino, Enneadi, Rusconi, Milano 1992.
21. Ivi (2).
22. Ivi (3).
23. Plotino, Enneadi (I, 4, 14), Rusconi, Milano 1992.
24. Ivi (I, 4, 7).
25. Ibidem.
26. Ibidem.
27. Ivi (III, 6, 5).
28. Ivi (III, 1, 6).
29. Ivi (III, 4, 2).
30. Porfirio, Vita di Plotino (23), in Plotino, Enneadi, cit.

5. Le lingue di fuoco dello Spirito Santo


31. Una «lutte» [lotta], come traducono Grosjean e Léturmy; «donner des
coups» [menare colpi], traduce invece Sacy; Segond parla, a sua volta, di
«boxe». L’opera di evangelizzazione è quindi decisamente uno sport da
combattimento…
32. Michel Onfray, Trattato di ateologia, Fazi, Roma 2005, pp. 127-128.
33. Ho già sviluppato il ragionamento nel mio Trattato di ateologia, cit., e
in Decadenza. Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana (Ponte alle Grazie,
Milano 2017).
34. Il principio dell’uomo nuovo, che si appoggia a quello di rigenerazione
(Ef 4, 24), si ritrova nelle furibonde follie dei giacobini, dei fascisti, dei
nazisti, dei bolscevichi, degli strutturalisti e, ormai, anche dei transumanisti.
Sarà in effetti l’argomento del prossimo volume, che avrà come titolo
Barbarie.

6. Niente erezioni nel giardino dell’Eden


35. Anonimo, Epistolario tra Seneca e san Paolo (Prologo di san
Girolamo), Rusconi, Milano 1995, p. 127.
36. Ivi (Lettera X), p. 147.
37. Ivi (Lettera VII), p. 141.
38. Ivi (Lettera XIV), p. 155.
39. Ibidem.
40. Seneca, Lettere a Lucilio (102, 27-28), in Tutte le opere. Dialoghi,
trattati, lettere e opere in poesia, Bompiani, Milano 2000.
41. Ivi (89, 18-19).
42. Ivi (15, 2).
43. Ivi (8, 5).
44. Ivi (31, 11).
45. Seneca, Consolazione alla madre Elvia (11, 7), in Tutte le opere, cit.
46. Seneca, Lettere a Lucilio (31, 10), cit.
47. Ivi (87, 21).
48. Seneca, Consolazione a Marcia (25, 1), in Tutte le opere, cit.
49. Seneca, Lettere a Lucilio (36, 10), cit.
50. Ivi (120, 13-14).
51. Origene, Contro Celso (VII, 53), in Contro Celso. Opere scelte, UTET,
Torino 1971.
52. Vedi il mio Saggezza. Saper vivere ai piedi di un vulcano, Ponte alle
Grazie, Milano 2019.
53. Sant’Agostino, Confessioni Libri I-III (III, 4), Valla-Mondadori, Milano
1992.
54. Ivi (II, 2).
55. Ivi (III, 1).
56. Sant’Agostino, La città di Dio (XIII, 2), Bompiani, Milano 2001.
57. Ibidem.
58. Ivi (XIII, 13).
59. Ibidem.
60. Ibidem.
61. Ivi (XIII, 21).
62. Ivi (XIV, 4).
63. Ivi (XIV, 11, 2).
64. Ivi (XIV, 12).
65. Ivi (XIV, 11).
66. Ivi (XIV, 12).
67. Ivi (XIV, 16).
68. Ivi (XIV, 17).

7. Il sangue, semente dei cristiani


69. Celso, Il discorso della verità. Contro i cristiani (III, 55), Rizzoli,
Milano 1989.
70. Ambrogio, La morte di Teodosio (43), in Opere, UTET, Torino 1969.
71. Ivi (44).
72. Quinto Settimio Fiorente Tertulliano, Apologia del cristianesimo (L,
13), Rizzoli, Milano 2000.
73. Ignazio di Antiochia, Ai Romani (IV, 1-2), in Lettere di Ignazio di
Antiochia / Lettere e Martirio di Policarpo di Smirne, Città Nuova, Roma
2009.
74. Ivi (IV, 3).
75. Ivi (V, 2).
76. Ivi (V, 3).
77. Ivi (VI, 3).
78. Iacopo da Varazze, Legenda aurea con le miniature del codice
Ambrosiano C 240 inf. (XXXVI), SISMEL - Edizioni del Galluzzo - Biblioteca
Ambrosiana, Firenze-Milano 2007.
79. Ibidem.
80. Ibidem.
81. Ibidem.
82. Origene, Esortazione al martirio (37), Rusconi, Milano 1985, pp. 152-
153.
83. Ivi (23), pp. 132.133.
84. Ivi (2), p. 108.
85. Ivi (30), p. 141.
86. Martirio di Policarpo (14, 2), in Atti e passioni dei martiri, Valla-
Mondadori, Milano 1987.
87. Martirio dei santi Carpo, Papilo e Agatonice (38), in Atti e passioni dei
martiri, cit.
88. Ivi (35).
89. Ivi (44).
90. Martirio dei santi Giustino, Caritone, Carito, Evelpisto, Ierace, Peone,
Liberiano e della loro comunità (5, 5), in Atti e passioni dei martiri, cit.
91. Atti dei martiri di Lione (18), in Atti e passioni dei martiri, cit.
92. Ivi (23).
93. Ivi (29).
94. Ivi (35).
95. Ibidem.
96. Ivi (38).
97. Martirio di Policarpo (3, 1), in Atti e passioni dei martiri, cit.
98. Ivi (4).
8. L’amore per la santa abiezione
99. Per il dettaglio di questo calcolo, vedi il mio Decadenza. Vita e morte
della civiltà giudaico-cristiana, seconda tappa della Breve enciclopedia del
mondo, Ponte alle Grazie, Milano 2017.
100. Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio (5, 1), Paoline, Milano, 2007.
101. Ivi (5, 5).
102. Ivi (6, 1).
103. Ibidem.
104. Ivi (9, 5-6).
105. Ivi (13, 1).
106. Ivi (23, 3).
107. Ivi (52, 2).
108. Ivi (25, 2).
109. Ivi (6, 2).
110. Ivi (30, 1-2).
111. Ivi (41, 1).
112. Ivi (53, 1).
113. Ivi (53, 2-3).
114. Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi (VI, 11), cit.
115. Ivi (VI, 71).
116. Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio (7, 1), cit.
117. Ivi (Prologo 3).
118. Ivi (3, 1).
119. Ivi (7, 9).
120. Ivi (16, 8).
121. Ivi (17, 1-3).
122. Iacopo da Varazze, Legenda aurea (XC), cit.
123. Ibidem.
124. Ibidem.
125. Ibidem.
126. Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi (VII, 121), cit.
127. Palladio, La Storia Lausiaca (2, 2), Valla-Mondadori, Milano 1974.
128. Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio (47, 2), cit.
129. Marie-Nicolas-Silvestre Guillon, Bibliothèque choisie des Pères de
l’Église grecque et latine, ou Cours d’éloquence sacrée, vol. 15 (Saint Jean
Chrysostome), t. VI, Librairie Maquignon-Havard, Parigi 1826, p. 169.

9. L’arte di educare i corpi


130. Pseudo Ippolito, Confutazione di tutte le eresie (VI, 19, 5), Città Nuova,
Roma 2017.
131. Epifanio di Salamina, Panarion. Eresie 1-29 (II, 26.4.4-26.5.4), Città
Nuova, Roma 2017, pp. 186-187.
132. Ireneo di Lione, Contro le eresie (I, 6.2), Jaca Book, Milano 1981, p.
61.
133. Clemente Alessandrino, Gli Stromati. Note di vera filosofia (III, 2, 3,
8,3-9,3), Edizioni Paoline, Roma 1985.
134. Jean Hermant, Histoire des conciles (I, 21), presso Jean-Baptiste
Besongne, Rouen 1698.
135. Vincenzo di Lérins, Commonitorio. Estratti (XXIII), Edizioni Paoline,
Roma 2008, p. 205.
136. Canone I del Concilio Niceno I, in Decisioni dei concili ecumenici,
UTET, Torino 1978, p. 105-106.

137. Gregorio Nazianzeno, Carmen II (1.12), cit. in Jean Bernardi, Gregorio


di Nazianzio, Città Nuova, Roma 1995, pp. 219-220.
138. Iacopo da Varazze, Legenda aurea (CIL), cit.
Parte seconda. Decostruire l’anima

1. Il luogo del filo dell’ascia


1. Aristotele, L’anima (I, 402a, 11), Loffredo, Napoli 1979.
2. Ivi (I, 402a, 6).
3. Ivi (I, 403a, 29-30).
4. Ivi (I, 402a, 6).
5. Ivi (I, 402b, 6-7).
6. Ivi (I, 402b, 17-25).
7. Ivi (II, 412a, 19-21).
8. Ivi (II, 412b, 5-6).
9. Ivi (II, 413b, 20-21).
10. Ivi (II, 413b, 16-24).
11. Ivi (II, 412b, 12-15).
12. Ivi (II, 414a, 19-21).
13. Ivi (I, 402a).
14. San Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, vol. 1 (Iª q. 119 a. 2
co.), Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1996.
15. San Tommaso d’Aquino, La Somma contro i gentili (III, 22, 7), UTET,
Torino 1975.

2. I sofismi della volpe


16. Michel de Montaigne, Saggi (I, 26), Bompiani, Milano 2012, p. 311.
17. Ivi (I, 26), p. 295.
18. Ivi (III, 9), p. 1763.
19. Ivi (I, 51), p. 543.
20. Ivi (II, 12), p. 981.
21. Ivi (I, 26), p. 261.
22. Ivi (II, 12), p. 985.
23. Ivi (III, 5), p. 1621.
24. Ivi (II, 12), p. 981.
25. Ivi (I, 26), p. 261.
26. Ivi (II, 18), p. 1227.
27. Ivi (I, 26), p. 311.
28. Ibidem.
29. Ivi (I, 26), p. 313.
30. Ivi (I, 26), p. 289.
31. Ivi (I, 25), p. 247.
32. Ivi (II, 27), p. 1227.
33. Ivi (I, 56), p. 575.
34. Ivi (II, 6), p. 663.
35. Ivi (II, 6), p. 663.
36. Ivi (I, 42), p. 471.
37. Ivi (I, 21), p. 183.
38. Ibidem.
39. Ivi (II, 12), p. 887.
40. Ivi (II, 12), p. 993.
41. Ivi (II, 12), p. 1007-1009.
42. Ivi (II, 12), 2012, p. 1013.
43. Ivi (II, 12), p. 1015.
44. Ibidem.
45. Ivi (II, 12).
46. Ibidem.
47. Ivi (II, 12), p. 943.
48. Ivi (II, 17), p. 1185.
49. Sull’argomento della morale di Montaigne, vedere all’interno del
secondo tomo della mia Controstoria della filosofia, il capitolo Montaigne e
l’«uso dei piaceri» (Michel Onfray, Controstoria della filosofia, t. II, Il
cristianesimo edonista, Fazi, Roma 2007, pp. 160-259). Vedere anche la mia
prefazione a Michel de Montaigne, Les Essais, Laffont, Parigi 2019, intitolata
«Savoir vivre loyalement de son être». Lire, lire encore et relire Montaigne.
50. Michel de Montaigne, Saggi (III, 11), cit., p. 1909.
51. Ivi (I, 39), p. 447.
52. Ivi (III, 8), p. 1719.
53. Ivi (II, 11), p. 775.
54. Blaise Pascal, Pensieri (558), in Opere complete, Bompiani, Milano
2020, p. 2563.
55. Michel de Montaigne, Saggi (II, 12), cit., p. 821.
56. Ivi (II, 12), p. 835.
57. Ivi (II, 12), p. 807.
58. Ivi (II, 12), p. 823.
59. Ivi (II, 12), p. 843.
60. Ivi (II, 12), p. 847.
61. Ibidem.
62. Ivi (II, 12), p. 867.
63. Ivi (II, 12), p. 865.

3. Lezioni dalle lezioni di anatomia


64. Ivi (II, 37), p. 1411.
65. Ibidem.
66. Ibidem.
67. Ibidem.
68. Ivi (II, 37), p. 1415.
69. Ivi (II, 37), p. 1417.
70. Ivi (II, 37), p. 1419.
71. Ivi (II, 37), p. 1423.
72. Ibidem.
73. Ivi (II, 37), p. 1431.
74. Ibidem.

4. Una certa ghiandola assai piccola


75. Philippe Charlier, Danielle Gourevitch, Un procès-verbal d’autopsie
inédit (Saint-Nectaire,1765). Étude technique et diagnostic rétrospectif, in
«Histoire des sciences médicales», XLIII 3, 2009, pp. 307-318.
76. René Descartes, Lettera 3, in Tutte le lettere 1619-1650, Bompiani
Milano 2005, p. 549.
77. René Descartes, Lettera 74 (a Mersenne), in René Descartes, Isaac
Beeckman, Marin Mersenne, Lettere 1619-1648, Bompiani, Milano 2015, p.
995.
78. Descartes, Lettera 7 (a Mersenne), in Lettere 1619-1648, cit., p. 197.
79. Descartes, Lettera 29 (a Constantin Huygens), in Tutte le lettere 1619-
1650, cit., p. 443.
80. Descartes, Lettera 81 (a Mersenne), in Lettere 1619-1648, cit., p. 219.
81. René Descartes, Discorso sul metodo (VI, 78), in Opere 1637-1649,
Bompiani, Milano 2009, p. 115.
82. Descartes, Lettera 42 (a Mersenne), in Lettere 1619-1648, cit., pp. 409-
411.
83. Ivi, Lettera 50 (a Mersenne), pp. 459-467.
84. Ibidem.
85. Ivi, Lettera 36 (a Mersenne), pp. 373-379.
86. Ivi, Lettera 127 (a Mersenne), pp. 1305-1311.
87. Ivi, Lettera 158 (a Mersenne), p. 1501.
88. Descartes, Lettera 5 (a Vopiscus Plempius), in Tutte le lettere 1619-
1650, cit.
89. Descartes, Lettera 78 (a Mersenne), in Lettere 1619-1648, cit., p. 1053.
90. Descartes, Diottrica (V, 115), in Opere 1637-1649, cit., p. 167.
91. Descartes, Lettera 65 (a Mersenne), in Lettere 1619-1648, cit., p. 891.
92. Ibidem.
93. Ibidem.
94. Ivi, Lettera 74 (a Mersenne), p. 995.
95. Ivi, Lettera 64 (a Mersenne), p. 993.
96. Ibidem.
97. Descartes, Meditazioni (II, 27), in Opere 1637-1649, cit., p. 717.
98. René Descartes, L’Uomo (I, 1), in Opere postume 1650-2009,
Bompiani, Milano 2009, p. 363.
99. Ivi (I, 1), pp. 363-365.
100. Descartes, Passioni dell’anima (I, art. 31), in Opere 1637-1649, cit., pp.
2361-2363.
101. Ivi (I, art. 31), p. 2361.
102. Ivi (I, art. 32), p. 2363.
103. Ibidem.
104. Ivi (I, art. 34), p. 2365.
105. Descartes, Pensieri privati (213), in Opere postume 1650-2009, cit., p.
1061.
106. Nicolas-Joseph Poisson, Commentaire ou remarques sur la méthode de
René Descartes, Sébastien Hip, Vendôme 1670, p. 156.
107. Descartes, L’Uomo (I, 1), in Opere postume 1650-2009, cit., p. 363.
108. Descartes, Lettera 80 (a Mersenne), in Lettere 1619-1648, cit., p. 1067.
109. Descartes, Meditazioni (II, 32) in Opere 1637-1649, cit., p. 723.
110. Descartes, Discorso sul metodo (VI, 62), in Opere 1637-1649, cit., p.
97.
5. Il cartesianesimo contro Descartes
111. Descartes, Lettera 28 (a Mersenne), in Lettere 1619-1648, cit., p. 413.
112. Ivi, Lettera 28 (a Mersenne), p. 415.
113. Descartes, Lettera 253 (a Regius), in Tutte le lettere 1619-1650, cit., p.
1189.
114. Descartes, Lettera 312 (a Regius), in Tutte le lettere 1619-1650, cit., p.
1457.
115. Descartes, Lettera 313 (a Regius), in Tutte le lettere 1619-1650, cit., p.
1459.
116. Ibidem.
117. Ibidem.
118. Descartes, Lettera 313 (a Regius), in Tutte le lettere 1619-1650, cit., p.
1463.
119. Lettera 343 (a Regius), in Tutte le lettere 1619-1650, cit., p. 1587.
120. Ivi, pp. 1587-1589.
121. Ibidem.
122. René Descartes e Martin Schoock, La Querelle d’Utrecht, Les
Impressions nouvelles, Parigi 1988, p. 105.
123. Ivi, p. 113.
124. Ivi, p. 109.
125. Ivi, p. 115.
126. René Descartes, Lettera 343 (a Regius), in Tutte le lettere 1619-1650,
cit., p. 1589.
127. Ivi, Lettera 506 (a Regius), p. 2038.
128. René Descartes, Principi della filosofia (Appendice, lettera dell’autore,
19), in Opere 1637-1649, cit., p. 2237.
129. René Descartes, Lettera 482 (a Mesland), in Tutte le lettere 1619-1650,
cit., p. 1965.
130. Ivi, Lettera 482 (a Mesland), p. 1967.
6. Pensare senza pensare che si pensa
131. NicolasCharles Joseph Trublet, Mémoires pour servir à l’histoire de la
vie et des ouvrages de Mr. de Fontenelle tirés du Mercure de France 1756,
1757 et 1758, Marc Michel Rey, Amsterdam 1759, p. 115.
132. René Descartes, Meditazioni di filosofia prima (II, 28), in Opere 1637-
1649, cit., p. 719.
133. René Descartes, Lettera 587 (a Cavendish), in Tutte le lettere 1619-
1650, cit., p. 2353.
134. Nicolas Fontaine, Mémoires pour servir à l’histoire de Port-Royal,
Utrecht, 1736, II, p. 470.
135. Fontenelle, Lettera 11 (Al Signor C…), in Lettere galanti del Signor
Cavalier d’Er***, t. III, Venezia 1759, pp. 27-28.
136. Jean de La Fontaine, I due Topi, la Volpe e l’Uovo (Sermone alla
signora de La Sablière), in Le favole (X, 1, vv. 27-63), Sonzogno, Milano
1886.
137. Ivi (X, 1, v. 162).
138. Ivi (X, 1, v. 173).
139. Ivi (X, 1, v. 175).
140. Ivi (X, 1, v. 177).
141. Ivi (X, 1, v. 180).
142. Ivi (X, 1, v. 214).
143. Ivi (X, 1, vv. 221-222).
144. Ivi (X, 1, v. 225).
145. Ivi (X, 1, vv. 229-269).
146. Ignace Gaston Pardies, Discours de la connaissance des bestes, chez
Sebastien Mabre-Cramoisy, Parigi 1672; tr. it. Dell’anima delle bestie, e sue
funzioni, Andrea Poletti, Venezia 1696, pp. 108.
147. Ivi, pp. 155-156.
148. Ivi, pp. 11-14.
149. René Descartes, Discorso sul metodo (I, 1), in Opere 1637-1649, cit., p.
25.
150. Ignace Gaston Pardies, Discours de la connaissance des bestes, cit., p.
31.
151. Ivi, p. 34.
152. Ivi, p. 36.
153. Ivi, p. 48.
154. Ivi, p. 58.
155. Ivi, p. 63.
156. Ivi, p. 72.
157. Ivi, pp. 73-74.
158. Ivi, p. 99.
159. Ivi, p. 48.
160. Ivi, pp. 141-142.
161. Ivi, pp. 145-146.
162. Ivi, pp. 71-72.

7. Il fiore degli atomi


163. Pierre Gassendi, Vie et mœurs d’Épicure, Éditions Alive, Parigi 2001, p.
5.
164. Epicuro, Epistula ad Menœceum, in Opere, Einaudi, Torino 1960, p.
116.
165. Pierre Gassendi, Vie et mœurs d’Épicure, cit., p. 25.
166. Ivi, p. 21.
167. Pierre Gassendi, Recherches métaphysiques ou doutes et instances
contre la métaphysique de René Descartes et ses réponses (295b), Vrin, Parigi
1962, p. 112.
168. Ivi, p. 56.
169. Ivi, p. 112.
170. Ivi, p. 92.
171. Ivi, p. 150.
172. Ivi, p. 152.
173. Ivi, p. 150.
174. Ivi, p. 124.

8. Come la fiamma di una candela


175. Jean Meslier, Extrait des sentiments de Jean Meslier adressés à ses
paroissiens sur une partie des abus et des erreurs en général et en particulier,
presso Marc-Michel Rey, Amsterdam 1762.
176. Jean Meslier, Œuvres complètes. Mémoire des pensées et sentiments de
Jean Meslier (1), Éditions Anthropos, Parigi 1970, p. 414.
177. Ivi, p. 416.
178. Ivi, p. 58.
179. Ivi, pp. 23-24.
180. Ivi, p. 34.
181. Ivi, p. 336.
182. Ivi, p. 150.
183. Ivi, p. 120.
184. Ivi, p. 39.
185. Ivi, p. 180.
186. Ibidem.
187. Ivi, p. 89.
188. Ivi, p. 187.
189. Ivi, p. 471.
190. Ivi, pp. 13-14.
191. Ivi, p. 45.
192. Ibidem.
193. Ibidem.
194. Ivi, p. 47.
195. Ivi, p. 216.
196. René Descartes, Meditazioni (III, sesta obiezione, 182), in Opere 1637-
1649, cit., p. 923.
197. Ivi, pp. 217-218.
198. Ivi, p. 104.
199. Ibidem.
200. Ivi, p. 78.
201. Ivi, pp. 99-100.

9. Il cuore della rana su un piatto riscaldato


202. Voltaire, Du curé Meslier, in Œuvres complètes de Voltaire, t. XXVI
(Mélanges), Garnier, Parigi 1879, pp. 511-512.
203. Voltaire, À M. Damilaville (19 marzo 1766), in Œuvres complètes de
Voltaire, t. XLIV (Correspondance, XII, 1765-1766), Garnier, Parigi 1881, p.
248.
204. Ivi, À M. Damilaville (1 aprile 1766), p. 256.
205. Julien Offroy de La Mettrie, Ouvrage de Pénélope ou Machiavel en
médecine, t. II, presso Her. de Cramer e Ph. Philibert, Lione 1748, p. 105.
206. V. Michel Onfray, Controstoria della filosofia, t. IV, Illuminismo
estremo, Ponte alle Grazie, Milano 2010.
207. Julien Offroy de La Mettrie [Lamettrie], Antiseneca, ossia Discorso
sulla felicità, in L’uomo macchina e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1955, p.
121.
208. Ivi, p. 128.
209. Julien Offroy de La Mettrie, Discours préliminaire, in Œuvres
philosophiques de Mr. de La Mettrie, t. I, Amsterdam 1753, p. 25.
210. Ivi, p. 24.
211. Ivi, p. 73.
212. Ibidem.
213. Ivi, p. 74.
214. Julien Offroy de La Mettrie, L’uomo pianta, in L’uomo macchina e altri
scritti, cit., p. 104.
215. Ivi, p. 30.
216. Julien Offroy de La Mettrie, Traité de l’âme, in Œuvres philosophiques
de Mr. de la Mettrie, t. II, Amsterdam 1753, pp. 229-235.
217. Julien Offroy de La Mettrie, L’uomo macchina, cit., p. 32.
218. Ibidem.
219. Ivi, pp. 32-33.
220. Ivi, p. 48.
221. Ivi, p. 49.
222. Ivi, p. 64.
223. Ivi, p. 37.
224. Ivi, p. 64.
225. Ivi, p. 65.
226. Ivi, p. 75.
227. Jean Meslier, Œuvres complètes, cit., p. 389.
228. Julien Offroy de La Mettrie, L’uomo macchina, cit., p. 75.
229. Julien Offroy de La Mettrie, Discours préliminaire, cit., p. 16.
230. Julien Offroy de La Mettrie, L’uomo macchina, cit., p. 86.
231. Ivi, pp. 49-50.
232. Ivi, p. 20.
233. Julien Offroy de La Mettrie, Antiseneca, cit., p. 176.
234. Per i dettagli di questa vita da delinquente sessuale, vedere Michel
Onfray, La Passion de la méchanceté. Sur un prétendu divin marquis [La
passione della cattiveria. Su un preteso divino marchese], Éditions Autrement,
Parigi 2014. Per quanto riguarda il pensiero di Sade, vedere anche Michel
Onfray, Controstoria della filosofia, t. IV, Illuminismo estremo, Ponte alle
Grazie, Milano 2010. La sadofilia di moda a Saint-Germain-des-Prés
testimonia del grado di decomposizione del pensiero francese nel Novecento,
con la sola eccezione di alcune individualità, come Albert Camus e Raymond
Queneau.
235. Donatien-Alphonse-François de Sade, Le 120 giornate di Sodoma,
Newton Compton, Roma 1993, pp. 194-195.
236. Donatien-Alphonse-François de Sade, Aline e Valcour, Newton
Compton, Roma 1993, p. 176, n. 25.
237. Donatien-Alphonse-François de Sade, Juliette ovvero le prosperità del
vizio, in I romanzi maledetti, Newton Compton, Roma 1993, p. 63.
238. Ivi, p. 97.
239. Ivi, p. 86.
240. Julien Offroy de La Mettrie, Les Animaux plus que machines, in
Œuvres philosophiques, t. II, cit., p. 59.
Parte terza. Distruggere l’anima

1. Vita e morte dell’ostrica


1. Voltaire, Dizionario filosofico (voce Anima, sezione III), Bompiani,
Milano 2013, p. 171.
2. Nicolaas Tulp, Observationes medicae (III, 56), Amsterdam 1641, pp.
276-277.
3. Julien Offroy de La Mettrie, Traité de l’âme, cit., p. 238.
4. Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, La venere fisica, presso Antonio
Graziosi, Venezia 1767, p. 121.
5. Ivi, p. 119.
6. Ivi, p. 120.
7. Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, Lettere filosofiche e scientifiche;
Lettera sul progresso delle scienze, Pavia University Press, Pavia 2014, p. 53.
8. Ivi, pp. 53-54.
9. Ivi, p. 55.
10. Ivi, p. 56.
11. Ibidem.
12. Joseph-Emmanuel Sieyès, Écrits politiques, Édition des archives
contemporaines, Parigi 1985, p. 75.
13. Cornelius de Pauw, Recherches philosophiques sur les Américains, ou
mémoires intéressants pour servir à l’histoire de l’espèce humaine, t. II,
Baestecher, Clève 1772, p. 50.
14. Restif de La Bretonne, Monsieur Nicolas, ou Le Cœur humain dévoilé,
t. II, De l’imprimerie du Cercle social, 1796, p. 114.
15. Restif de La Bretonne, Monsieur Nicolas, ou Le Cœur humain dévoilé,
t. I, De l’imprimerie du Cercle social, 1796, p. 148.
16. Ibidem.
17. Honoré-Gabriel Riqueti, conte de Mirabeau, Erotika biblion, Guanda,
Milano 1983, p. 113.
18. Georges-Louis Leclerc, conte de Buffon, Storia naturale, generale, e
particolare, presso Giuseppe Galeazzi, Milano 1773, p. 6.
19. Ivi, p. 37.
20. Ibidem.
21. Ivi, p. 39.
22. Mirabeau, Erotika biblion, cit., p. 115.

2. Costruire l’emulo di un capriolo


23. Jean-Jacques Rousseau, Discorso sulle scienze e sulle arti, in Opere,
Sansoni, Firenze 1972, p. 6.
24. Jean-Jacques Rousseau, Lettre à l’abbé Raynal, in Œuvres, t. III,
Gallimard, coll. Pléiade, Parigi 1964, p. 32.
25. Jean-Jacques Rousseau, Discorso sull’origine della disuguaglianza, in
Opere, cit., p. 43.
26. Ibidem.
27. Ibidem.
28. Ibidem.
29. Ibidem.
30. Ivi, p. 44.
31. Ivi, p. 43.
32. Ivi, p. 42.
33. Ivi, p. 43.
34. Ivi, pp. 46-47.
35. Ivi, p. 47.
36. Ibidem.
37. Ivi, p. 48.
38. Ivi, p. 60.
39. Ibidem.
40. Jean-Jacques Rousseau, Emilio, in Opere, cit., p. 394.
41. Ivi, p. 419.
42. Ibidem.
43. Ivi, p. 594.
44. Ivi, p. 435.
45. Ivi, p. 483.
46. Ivi, p. 528.
47. Ivi, p. 596.
48. Ivi, p. 678.
49. Ivi, p. 454.
50. Ivi, pp. 699-700.
51. Jean-Jacques Rousseau, Del contratto sociale, in Opere, cit., p. 286.
52. Ivi, p. 339.
53. Jean-Jacques Rousseau, Emilio, cit., p. 550.
54. Ivi, p. 551.
55. Jean-Jacques Rousseau, Del contratto sociale, cit., p. 296.

3. Genealogia dell’eugenetica repubblicana


56. Henri Grégoire, Essai sur la régénération physique, morale et politique
des Juifs, Lamort, Metz 1789, p. 132.
57. Ivi, p. 139.
58. Ivi, p. 45.
59. Henri Grégoire, Rapport sur la nécessité et les moyens d’anéantir le
patois et d’universaliser l’usage de la langue française, Convention nationale,
Parigi 1794, p. 3.
60. Ivi, p. 6.
61. Ibidem.
62. Ivi, p. 17.
63. Ivi, p. 19.
64. Marie-Jean-Antoine-Nicolas Caritat de Condorcet, Saggio di un quadro
storico dei progressi dello spirito umano, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 187.
65. Ibidem.
66. Ibidem.
67. Ivi, p. 188.
68. Ibidem.
69. Ibidem.
70. Ivi, p. 210.
71. Ivi, p. 209.
72. Ivi, p. 210.
73. Pierre-Jean-Georges Cabanis, Rapporti del fisico e del morale
dell’uomo, Marotta e Vanspandoch, Napoli 1820, pp. 283-284.
74. Jean-Jacques Rousseau, Del contratto sociale, cit., p. 296.
75. Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789,
in Paolo Biscaretti di Ruffìa, Le Costituzioni di dieci Stati di «democrazia
stabilizzata», Giuffrè, Milano 1994, p. 167.
76. Maximilien Robespierre, Sulla religione e sulla morale, in La
rivoluzione giacobina, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 194-195.
77. Ivi, p. 195.
78. Ivi, p. 199.
79. Ivi, p. 202.
80. Ivi, pp. 203-204.
81. Ivi, p. 204.
82. Ibidem.
83. Ivi, p. 205.
84. Ibidem.
85. Maximilien Robespierre, Rapporto fatto in nome del Comitato di
Salvezza pubblica, intorno ai rapporti delle idee religiose e morali, coi
princìpi repubblicani, ed intorno alle Feste nazionali, Stamperia nazionale
esecutiva del Louvre, Parigi 1793, p. 23.
86. Ibidem.
87. Journal des débats et des décrets (seduta di décadi 10 germinale, anno
II della Repubblica francese), Baudoin, Parigi 1793, p. 169.
88. Maximilien Robespierre, Œuvres, Leroux, Parigi 1913, p. 32.
89. Sigmund Freud, Autobiografia, in Opere, vol. X, Bollati Boringhieri,
Torino 1989, p. 101.
90. Ibidem.

4. Una ghiandola pineale postmoderna


91. Sigmund Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, in Opere, vol. IV,
Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 280.
92. Ernest Jones, Vita e opere di Freud, t. III, Il Saggiatore, Milano 1962, p.
530.
93. Ivi, p. 531.
94. Sigmund Freud, Progetto di una psicologia, in Opere, vol. II, Bollati
Boringhieri, Torino 1989, p. 201.
95. Ibidem.
96. Ivi, p. 202.
97. Ivi, p. 203.
98. Sigmund Freud, Lettera 141, in Lettere a Wilhelm Fliess (1887-1904),
Bollati Boringhieri, Torino 1986, p. 302.
99. Ivi, Lettera 142, p. 304.
100. Ernest Jones, Vita e opere di Freud, t. I, Il Saggiatore, Milano, 1962, p.
36.
101. Sigmund Freud, Compendio di psicoanalisi (1938), in Opere, vol. XI,
Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 609.
102. Sigmund Freud, Metapsicologia, in Opere, vol. VIII, Bollati
Boringhieri, Torino, 1989, p. 50.
103. Ivi, p. 21.
104. Ivi, p. 50.
105. Ibidem.
106. Ivi, p. 51.
107. Ibidem.
108. Ivi, p. 52.
109. Ivi, p. 53.
110. Ibidem.
111. Ivi, p. 54.
112. Ivi, p. 55.
113. Ivi, p. 54.
114. Ivi, p. 57.
115. Ivi, pp. 57-58.
116. Ivi, p. 58.
117. Ivi, p. 21.
118. Sigmund Freud, L’Io e l’Es, in Opere, vol. IX, Bollati Boringhieri,
Torino 1989, p. 509.
119. Sigmund Freud, Analisi terminabile e interminabile, in Opere, vol. XI,
cit., p. 535.
120. Sigmund Freud, Compendio di psicoanalisi (1938), in Opere, vol. XI,
cit., p. 572.
121. Per seguire il dettaglio dell’articolazione del plasma germinale con le
topiche psichiche in Freud, vedere, nel mio libro Crepuscolo di un idolo
(Ponte alle Grazie, Milano 2011), il capitolo intitolato Come voltare le spalle
al corpo?

5. Il tempo del Corpo senza Organi


122. Roland Barthes, Leçon, Stampa alternativa, Roma 1979, p. 9.
123. Roland Barthes, Sade, Fourier, Loyola, Einaudi, Torino 1977, p. 157.
124. Gilles Deleuze, Da che cosa si riconosce lo strutturalismo?, in L’isola
deserta e altri scritti, Einaudi, Torino 2007, p. 215.
125. Ivi, p. 217.
126. Ivi, p. 219.
127. Ivi, p. 220.
128. Ivi, p. 218.
129. Ivi, p. 219.
130. Ivi, p. 220.
131. Ivi, p. 219.
132. Ivi, p. 237.
133. Ivi, p. 221.
134. Ibidem.
135. Ibidem.
136. Ibidem.
137. Ivi, p. 223.
138. Ivi, p. 224.
139. Ibidem.
140. Ibidem.
141. Ivi, p. 225.
142. Ivi, p. 226.
143. Ivi, p. 230.
144. Ibidem.
145. Ibidem.
146. Ivi, p. 233.
147. Ivi, p. 237.
148. Ivi, p. 239.
149. Dionigi Areopagita, Teologia mistica (IV), in Tutte le opere, Bompiani,
Milano 2009, p. 613.
150. Antonin Artaud, J’étais vivant, cit. in Gilles Deleuze, Logica del senso,
Einaudi, Torino 1975, p. 84 (nota 64).
151. Gilles Deleuze, Logica del senso, cit., p. 84 (nota 64).
152. Ivi, p. 84.
153. Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Edipo, Einaudi, Torino 1975, p.
10.
154. Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille piani, Cooper & Castelvecchi,
Roma 2003, p. 228.
155. Ivi, p. 229.

6. Un volto di sabbia cancellato dal mare


156. Michel Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1998, pp. 369-
370.
157. Ivi, p. 239.
158. Ivi, p. 14.
159. Ivi, pp. 336-337.
160. Ivi, p. 368.
161. Ivi, p. 409.
162. Ivi, p. 414.

Conclusione. Sotto il segno della medusa


Verso le chimere transumaniste
163. Karl Marx e Friedrich Engels, Ideologia tedesca, Bompiani, Milano
2011, p. 359.
164. Il prossimo volume di questa Breve enciclopedia del mondo s’intitolerà
Barbarie e tornerà sulla questione dell’uomo nuovo, della sua genealogia,
della sua attualità e del suo avvenire all’interno del transumanesimo. Esporrà i
primi vagiti di quella che potrebbe tranquillamente diventare una nuova
civiltà, l’ultima a svilupparsi sulla Terra prima di quelle che apparterranno al
post-terrestre. Il progetto di civiltà totale, il progetto transumanista che incarna
la vera «Grande sostituzione».
165. Filippo Tommaso Marinetti, Mafarka il futurista (1910), Mondadori,
Milano 2003, p. 163.
166. Ivi, p. 160.
167. Ivi, p. 209.
168. Ivi, p. 160.
169. Ivi, p. 158.
170. Ivi, p. 163.
171. Ivi, p. 162.
172. Ivi, p. 210.
173. Ivi, p. 208.
174. Ivi, p. 221.
175. Ivi, p. 208.
176. Ibidem.
177. Ibidem.
178. Denis Diderot, Opere filosofiche, romanzi e racconti, Bompiani, Milano
2019, p. 559.
179. Ibidem.
180. Ibidem.
181. https://intelligence-artificielle.developpez.com/actu/307121/… e
https://intelligence-artificielle.developpez.com/actu/….

Epilogo. L’eterno silenzio degli spazi infiniti


182. Guillaume Pitron, La Guerre des métaux rares. La face cachée de la
transition énergétique et numérique, Les liens qui libèrent, Parigi 2018 (tr. it:
Guillaume Pitron, La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione
energetica e digitale, LUISS University Press, Roma 2019).
183. Intervista con Paul-Marie de La Gorce, in «L’Actualité» (maggio 1970).
Indice

Sommario

Introduzione. La magnifica desolazione

Parte prima
COSTRUIRE L’ANIMA. Sotto il segno del serpente

1. Anticorpi, non-corpi e controcorpi. Smaterializzare il corpo

2. Scheletro con anima. Sopraffare la materia

3. Il divenire riccio della pianta. Purificare la carne

4. Corpi di carta e vita testuale. Creare un anticorpo

5. Le lingue di fuoco dello Spirito Santo. Dannare la carne

6. Niente erezioni nel giardino dell’Eden. Sessualizzare il peccato

7. Il sangue, semente dei cristiani. Suppliziare i corpi

8. L’amore per la santa abiezione. Imitare il cadavere

9. L’arte di educare i corpi. Ingabbiare il desiderio

Parte seconda
DECOSTRUIRE L’ANIMA. Sotto il segno del cane

1. Il luogo del filo dell’ascia. Deplatonizzare l’anima

2. I sofismi della volpe. Riabilitare l’animale

3. Lezioni dalle lezioni di anatomia. Cancellare l’anima


4. Una certa ghiandola assai piccola. Localizzare l’anima

5. Il cartesianesimo contro Descartes. Circoscrivere lo spirito

6. Pensare senza pensare che si pensa. Umanizzare l’animale

7. Il fiore degli atomi. Atomizzare l’anima

8. Come la fiamma di una candela. Meccanizzare l’anima

9. Il cuore della rana su un piatto riscaldato. Elettrizzare i corpi

Parte terza
DISTRUGGERE L’ANIMA. Sotto il segno della scimmia

1. Vita e morte dell’ostrica. Animalizzare l’uomo

2. Costruire l’emulo di un capriolo Rigenerare l’Homo sapiens

3. Genealogia dell’eugenetica repubblicana. Decapitare l’anima

4. Una ghiandola pineale postmoderna. Metapsicologizzare la psiche

5. Il tempo del Corpo senza Organi. Strutturalizzare l’essere

6. Un volto di sabbia cancellato dal mare. Uccidere l’uomo

Conclusione. SOTTO IL SEGNO DELLA MEDUSA

Verso le chimere transumaniste. Digitalizzare l’anima

Epilogo. L’eterno silenzio degli spazi infiniti

Bibliografia

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