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Michel Onfray, filosofo francese fra i più popolari e controversi, autore di oltre
ottanta libri fra cui il fortunato Trattato di ateologia (2005), decostruisce ormai
da oltre trent’anni mitologie religiose, filosofiche, sociali e politiche. Ponte alle
Grazie pubblica dal 2009 i suoi libri principali: fra questi ricordiamo il suo opus
magnum contro Freud, Crepuscolo di un idolo (2011), Pensare l’islam (2016),
Filosofia del viaggio (n. ed. 2017), Thoreau. Vivere una vita filosofica (2019).
Cosmos (2015), Decadenza (2017) e Saggezza (2019) compongono la trilogia
Breve enciclopedia del mondo. I più recenti titoli apparsi da Ponte alle Grazie
sono: Teoria della dittatura (2020), Il coccodrillo di Aristotele (2020), I
freudiani eretici (2020), Coscienze ribelli (2021), Le ragioni dell’arte (2022),
Vivere secondo Lucrezio (2023).
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Titolo originale:
Anima
© 2023 Michel Onfray e Éditions Albin Michel – Parigi
© 2023 Adriano Salani Editore – Milano
ISBN 979-12-5582-013-0
Introduzione
La magnifica desolazione
Parte prima
COSTRUIRE L’ANIMA
Sotto il segno del serpente
1.
Anticorpi, non-corpi e controcorpi
Smaterializzare il corpo
I calendari lunari preistorici. Pensare con la testa alzata. La lezione delle stelle.
Sottomissione della natura ai pluriversi. Variazioni climatologiche cosmiche. I
cicli e l’eterno ritorno. L’anima: la vita che vuole la vita nella vita. Osservare il
cosmo e obbedirgli. La sapienza del cielo. Non esiste preistoria. Il rumore
sibilante del silenzio. Mangiare l’occhio di una foca. Le lezioni dei cirenaici.
Radici egizie dell’episteme greca. Inventare l’anima per ottenere la vita dopo la
morte. Il corpo, tomba dell’anima. Purificare l’anima dalla carne. I pitagorici, gli
orfici, i neoplatonici e la smaterializzazione del corpo. Anticorpi, non-corpi e
controcorpi.
2.
Scheletro con anima
Sopraffare la materia
3.
Il divenire riccio della pianta
Purificare la carne
4.
Corpi di carta e vita testuale
Creare un anticorpo
Spirito devoto e spirito critico. Gesù, una finzione di carta. Il Nuovo Testamento,
collage dell’Antico. Il neotestamentario, ventriloquio veterotestamentario. Gesù,
anima senza corpo. Corpi di carta e vita testuale. Il genere allegorico. Il Verbo si
è fatto carne, il corpo è quindi di carta. Gesù Cristo, costruzione storica.
Corporeizzare un testo. Genealogia di un corpo ossimorico. Nutrimenti
esclusivamente spirituali. Meraviglioso vs miracoloso. Delucidare la parabola
attraverso la parabola. Contro il positivismo. Inesistenza della parola «anima»
nei Vangeli. Imitare una finzione: un’etica inumana. Mettere l’uomo a nudo.
5.
Le lingue di fuoco dello Spirito Santo
Dannare la carne
San Paolo tradisce Gesù. Il paolinismo: timore e tremore. La civiltà giudaico-
cristiana, poco cristica e molto paoliniana. Evangelizzare a colpi di spada. Il
criminale Saulo diventa san Paolo. Amore dell’odio di sé del tredicesimo
apostolo. Di che scheggia nella carne si tratta? Una «carne molto malata». Che si
deve imitare il feto abortito. «Morire [è] un guadagno». Il corpus paoliniano? Il
corpo di Paolo. Antisemitismo, omofobia, misoginia, odio dell’intelligenza,
cesaropapismo. Lo Spirito Santo salva il corpo. Il corpo mistico sostituisce il
corpo terrestre. Svilire il corpo per elevare l’anima. Creare un Uomo Nuovo.
Freccia del tempo e Parusia. Imitare la Passione di Cristo vuole dire creare
l’Uomo Nuovo. Voler morire in vita. Il modello del corpo glorioso. Creare
un’anima nera come l’inferno.
6.
Niente erezioni nel giardino dell’Eden
Sessualizzare il peccato
7.
Il sangue, semente dei cristiani
Suppliziare i corpi
8.
L’amore per la santa abiezione
Imitare il cadavere
Nell’attesa della Parusia. Eccellenza numerologica dei Padri della Chiesa. Età
d’angoscia. Donne, dragoni, bambini neri, rettili, ecc. L’ascesi, antidoto al
diavolo, l’altro nome della libido. La vita filosofica cristiana. Filosofie antiche e
vita cristica. Monachesimo contro cristianesimo di Stato. Sant’Antonio e i
mercanti del Tempio. Vite di asceti. La vita secondo il corpo, poi secondo il
Logos, poi secondo lo Spirito. Il corpo mi uccide, io lo uccido. L’Uomo Nuovo:
il monaco del deserto. Spossare la carne. Morire in vita. Raffinare e moltiplicare
le sofferenze. Condurre la propria vita verso il niente. Ìpetri, stiliti, girovaghi,
stazionari, muti, dendriti e altri atleti del deserto.
9.
L’arte di educare i corpi
Ingabbiare il desiderio
I concili, una macchina per produrre ortodossia. Spingere il negativo per ottenere
il positivo. L’orgia come preghiera. La sessualità è comunione, l’incesto,
orazione. Spermatofagi e fetofagi. Pneuma e hyle. Il comunismo delle donne.
Barbelognostici, carpocraziani, valentiniani, ecc. I concili e la formazione del
cristianesimo di Stato. L’educazione dei corpi e la costruzione dell’uomo
occidentale. Origine evangelica dei sinodi. Lo Spirito Santo scende sui concili.
La libido perseguitata. Dal più serio al più futile: legiferare su tutto. Il
matrimonio come macchina per ingabbiare il desiderio. La tabella di marcia del
corpo occidentale. L’anima, un affare conciliare. Dicotomia contro tricotomia.
Emanazione della legge sessuale occidentale. Concili e fiera della qualunque. Il
concilio cadaverico. La pornocrazia papale.
Parte seconda
DECOSTRUIRE L’ANIMA
Sotto il segno del cane
1.
Il luogo del filo dell’ascia
Deplatonizzare l’anima
2.
I sofismi della volpe
Riabilitare l’animale
3.
Lezioni dalle lezioni di anatomia
Cancellare l’anima
Disprezzo per i medici e la medicina. Elogio dei chirurghi e della loro disciplina.
La lente dell’infinitamente grande. Il microscopio dell’infinitamente piccolo. Il
bisturi di questa parte di mondo. Che cosa provoca nell’anima il fatto di aprire i
corpi. Nelle pieghe del cervello. Laicizzazione dell’anima. L’anima sfugge a Dio
e al diavolo. Medico vs chirurgo. Il teatro della lezione di anatomia: dire,
mostrare, toccare. Vesalio: dissezionare, osservare, maneggiare. L’odore del
corpo reale. Vesalio e il De humani corporis fabrica. Il suo frontespizio, un
discorso sul metodo. Il morto mostrato come vivo. Scristianizzare il corpo
dell’uomo. L’utero, verità dell’essere. Uno stesso cervello per la scimmia, per il
cane e per l’uomo. Il bisturi ignora le anime. Vesalio, circospetto per prudenza,
cieco per precauzione, innocente per timore.
4.
Una certa ghiandola assai piccola
Localizzare l’anima
5.
Il cartesianesimo contro Descartes
Circoscrivere lo spirito
6.
Pensare senza pensare che si pensa
Umanizzare l’animale
7.
Il fiore degli atomi
Atomizzare l’anima
8.
Come la fiamma di una candela
Meccanizzare l’anima
9.
Il cuore della rana su un piatto riscaldato
Elettrizzare i corpi
Parte terza
DISTRUGGERE L’ANIMA
Sotto il segno della scimmia
1.
Vita e morte dell’ostrica
Animalizzare l’uomo
Finché dura Dio: la Bibbia. Quando Dio non c’è più. La statua di Condillac.
Diderot vuole ridurre l’uomo a un’ostrica, ed educare l’ostrica come un uomo.
L’Enciclopedia rimpiazza l’«anima» delle bestie con l’«istinto». Rigenerazione
e Uomo Nuovo. Eugenetica ed educazione. Entrata in scena della scimmia. Il
«satiro indiano». Copule tra la scimmia e l’uomo. Le scuderie umane di
Maupertuis. Produrre nuove specie. Come si creano nuove razze di canarini.
Eugenetica di Stato. I serragli dei principi. Elogio degli animali nuovi.
Sperimentazione sull’uomo e modificazioni dell’anima. Le copule teratologiche
dell’abate Sieyès. Scimmie antropomorfe come schiavi. Le chimere di Cornelius
de Pauw, canonico. Il progressismo zoofilo di Restif de La Bretonne. Mirabeau
progressista zoofilo, anche lui. Buffon salva l’uomo, e quindi l’anima.
L’ottentotto, nuovo paradigma.
2.
Costruire l’emulo di un capriolo
Rigenerare l’Homo sapiens
3.
Genealogia dell’eugenetica repubblicana
Decapitare l’anima
4.
Una ghiandola pineale postmoderna
Metapsicologizzare la psiche
Gli Idéologues, sequel dei giacobini. Kant, meno filosofo dei Lumi e più
pensatore reazionario. Sapere aude, ma solo dentro di te. La Critica della ragion
pura risponde alle spinte atee, deiste e materialiste del secolo dei Lumi.
Postulare il noumenico, quindi Dio, il libero arbitrio e l’immortalità dell’anima.
Anche Freud postula per salvare la psiche dal pericolo scientista. La
metapsicologia è una parapsicologia. Una «sovrastruttura speculativa». La
superstizione di Freud. Le prove della verità dell’occultismo. Un altro medico di
Molière. Psicroforo vs psicoanalisi. Erranze terapeutiche e dottrinali. Teoria
della seduzione. «Merdologia» freudiana. Invenzione del complesso di Edipo.
Teologia negativa e inconscia. L’ipotesi è una prova. Allegoria e plasma
germinale. Salvare l’anima con la psiche. Creare l’inconscio a seconda delle
necessità. Immortalità del plasma germinale. Il biologico, una roccia su cui
costruire il castello allegorico. Topiche, metafore e connessioni neuronali.
Autonomia dell’allegorico.
5.
Il tempo del Corpo senza Organi
Strutturalizzare l’essere
6.
Un volto di sabbia cancellato dal mare
Uccidere l’uomo
CONCLUSIONE
Sotto il segno della medusa
Epilogo
L’eterno silenzio degli spazi infiniti
Dopo Neuralink, SpaceX. Far uscire l’uomo dal suo biotopo. Creare un biotopo
extraterrestre. La Luna periferica. La morte programmata del Sole. Combustione
della Terra. Cancellazione del vivente. Morte degli uomini. Lezioni di saggezza
dalla geologia. Eliosfera e riscaldamento del pianeta. Il mito del capitalismo
verde. Il pericolo degli asteroidi near-Earth. Pensare sulla lunga distanza.
Fantascienza e filosofia. La vera Grande Sostituzione. L’ultima civiltà. È
arrivato il tempo delle anime digitali. Download ed esoscheletri. Vita virtuale in
ambiente ostile. Casta di eletti e matrice totale. Suicidarsi sulla Luna. Gli uomini
acefali. Un mondo di morti viventi?
Alla memoria del mio caro vecchio maestro…
«Caro Onfray, Lei che si dice tanto materialista, Lei che così tante cose sa dell’anima, di quello
che in lei non guarisce mai… Che sia perché, diversamente da quel platonico del Suo vecchio
Maestro, ha una diversa conoscenza delle anime e vede meglio i loro corpi… Questi corpi che Lei
vorrebbe vedere appagati, però, qualche volta si ritrova a dipingerli come fa Matthias Grünewald
con il suo Cristo sull’altare di Issenheim; o a scolpirli come fa Ligier Richier sul suo Sepolcro, a
Saint-Mihiel. Ci tornerò su, un giorno di questi, perché il vero Onfray sta tutto qui, in questa
distorsione». La vita non gli ha permesso di tornarci sopra; lo faccio io per lui.
Sono passati alcuni milioni di anni, sette per la precisione, prima che l’uomo, o
almeno due dei suoi rappresentanti, Neil Armstrong e Buzz Aldrin, potesse
passare dal guardare la Luna dalla Terra al guardare invece la Terra dalla Luna,
affondando i propri piedi nella grigia e fredda polvere del piccolo pianeta.
Questo rovesciamento di prospettiva, ce lo ricordiamo tutti, è avvenuto molto
precisamente lunedì 21 luglio 1969 – io avevo dieci anni. I due uomini passano
ventuno ore e trentasette minuti sul suolo lunare, mentre il povero Michael
Collins rimane a gestire gli affari correnti sul modulo di comando, tenendolo in
orbita nell’attesa che i suoi due più fortunati colleghi tornino a bordo. Qualcuno
si dovrà pure occupare del vascello spaziale che permetterà a tutti quanti di
tornare sulla Terra…
Armstrong e Aldrin scattano delle foto straordinarie, tra cui una famosa della
Terra vista dalla Luna: in primo piano, il mare della Tranquillità, ovvero il luogo
in cui la nave spaziale alluna – il neologismo è necessario per sottolineare la
prodezza non solo tecnica, ma anche ontologico-metafisica nel senso letterale
del termine, cioè oltre la fisica.
La Luna sembra una specie di Terra morta e grigia, sfigurata dagli impatti dei
meteoriti precipitati, che hanno colpito lo strato superiore di polvere creando dei
crateri dai diametri tutti diversi. La superficie rovinata da questa grandine
racconta la sua storia geologica e geomorfologica. Da notare che stiamo
parlando della Luna usando termini che rimandano ancora alla dimensione
terrestre – in effetti, per correttezza dovremmo dire: lunologica e
lunomorfologica… Per la prima volta, insomma, non si guarda più questo astro
come un oggetto mitologico e fantasmatico, ma come una realtà cosmologica.
Questo primo piano sembra una foto in bianco e nero su cui sia stata montata
un’altra foto a colori. Nel 1929, cioè cinquant’anni prima dello scatto, nel suo
libro L’Amour la Poésie, Paul Éluard scrive che «la terra è blu come
un’arancia». E la Terra è effettivamente blu, e pure rotonda come un’arancia. La
parte inferiore è immersa nella notte creata dalla Luna che blocca la luce del
Sole. Il blu della Terra, invece, è il mare, che ricopre il 71% del nostro pianeta.
Sulla foto, assieme al grigio della Luna e al blu della Terra, troviamo in realtà
un terzo attore cromatico di cui tenere conto, ed è il nero del cosmo, il cui senso
etimologico, ricordiamolo, è proprio quello di «ordine». Nel nostro universo, a
sua volta collocato dentro un’incredibile abbondanza di pluriversi (multiversi
infiniti, infinità dei multiversi), i pianeti si muovono e si dispongono a velocità
impressionante, in mezzo a un silenzio che rimane impercettibile alle orecchie
degli uomini, e che solo i poeti, i musicisti e i filosofi riescono a intercettare.
Non aveva torto, Pitagora, quando duemila e cinquecento anni fa parlava di
musica e di sfere, e nemmeno Gérard Grisey, musicista spettrale, quando
componeva opere inserendo il suono delle pulsar (pensiamo a Le Noir de
l’étoile, 1989-1990). Noi viviamo nel silenzio di un frastuono che non siamo
nemmeno in grado di percepire.
Questo nero profondo e pascaliano è il nero dei gorghi e degli abissi, il nero
degli infiniti e delle vertigini, il nero dei vortici che inghiottono e della materia
che ci rimane completamente sconosciuta. È un nero che sembra il colore del
Nulla e potrebbe invece essere il colore di Tutto, un nero che porta come in eco
la memoria di ogni cosa che è stata, la memoria del Big Bang, un nero da cui
impariamo quale sia la natura del nostro universo, e come questo nostro universo
si espanda, ma, sia detto en passant, in misura sempre inferiore. Questo nero è
insomma il nero del nulla che è tutto, il nero del tutto che è nulla. È il colore di
una delle ipotesi del Parmenide di Platone: il non-essere è…
Questa foto famosa mostra però allo stesso tempo anche un mondo che è vivo:
il carattere immutabile del blu degli oceani, del grigio della polvere lunare e del
nero dello scrigno cosmico che contiene tutto quello che esiste e
contemporaneamente tutto quello che non esiste, questo carattere immutabile
viene con delicatezza animato dal movimento in apparenza immobile delle
nuvole che avvolgono il pianeta. Sappiamo che la Terra gira su sé stessa attorno
al Sole, e che la Luna è il suo satellite e non gira affatto, e alla contemplazione
degli esseri umani offre sempre la stessa e identica faccia. I cumulonembi, i cirri,
gli strati, i cirrostrati, gli altocumuli e le altre masse di vapore acqueo che
circondano il pianeta Terra costituiscono una specie di respiro del cosmo, ed è
proprio studiando questo ritmo che i climatologi arrivano a formalizzare i propri
oracoli. In quest’oceano cosmico di nero e di blu, sopra questo scatto
fotografico, ecco dunque la vita che si affaccia su lunghi filamenti bianchi, come
su tante tracce spermatiche che esprimono la vitalità di questo pianeta precario e
sublime.
*
La conquista della Luna da parte degli americani è stata naturalmente una
questione più politica che scientifica. La mitologia di quest’avventura mette
soprattutto in mostra tutto quello che gli Stati Uniti devono ai ricercatori nazisti
che avevano lavorato al programma nucleare e spaziale del Terzo Reich.
E sono in effetti proprio gli ex scienziati del Terzo Reich, tra cui il più famoso
è sicuramente il comandante nazista Wernher von Braun, che, nel dopoguerra,
offrono agli Stati Uniti in guerra fredda con l’Unione Sovietica la possibilità di
portare a compimento il progetto di conquista lunare annunciato da Kennedy nel
1962. Gli ingegneri che avevano concepito la V2, la famosa arma che avrebbe
dovuto consentire a Hitler di vincere la Seconda guerra mondiale, avevano
costruito non solo degli aerei a reazione stemmati con la croce uncinata, ma
anche un vero e proprio progetto di bomba atomica, e per farlo avevano sfruttato
e schiavizzato la manodopera ebraica nelle fabbriche sotterranee del campo di
Dora.
Si parla poco dell’operazione Paperclip, con cui lo stato maggiore americano è
riuscito a salvare millecinquecento scienziati tedeschi che avevano sviluppato i
progetti del Terzo Reich. Alcuni di questi avevano contribuito alla creazione
dello Zyklon B, il famoso gas usato per la Soluzione finale, mentre altri a
Dachau avevano torturato i prigionieri ebrei con l’acqua ghiacciata per testare la
loro resistenza, e ora mettevano a punto le tute dei piloti da caccia statunitensi.
Collaborando con gli Stati Uniti, gli scienziati tedeschi sfuggono alle condanne
del Tribunale militare internazionale, e finiscono per rappresentare un bottino di
guerra molto gradito agli americani, perché i nazisti erano anticomunisti
esattamente come loro, e si potevano rivelare molto utili ai piani bellici contro
l’URSS. Insomma, è stata una guerra fredda con conquista dello spazio
interposta…
Per amore di giustizia, dobbiamo però ricordare che anche l’URSS ha
intercettato ex scienziati nazisti per inserirli nel proprio programma atomico –
l’equivalente sovietico dell’operazione Paperclip era conosciuto con il nome di
Dipartimento 7. Aggiungiamo a questo quadro che nemmeno la Francia si è
troppo astenuta, perché a Vernon, nella regione dell’Eure, ha riciclato alcuni
scienziati tedeschi per sfruttarli nelle gallerie del vento e mettere a punto i propri
aerei da caccia, i propri missili e i propri elicotteri, e realizzare il programma
Airbus…
Gli Stati Uniti trasformano quello della conquista dello spazio in un terreno di
gioco su cui portare avanti una guerra simbolica contro i sovietici. Ognuno cerca
di imporre la propria supremazia tecnica sul mondo intero.
I sovietici sembrano cominciare a prendere una certa distanza quando mettono
in orbita lo Sputnik 1, il 4 ottobre del 1957. Per lo Zio Sam, sorpreso dal
successo bolscevico, è un affronto su scala planetaria. A questo successo va
anche aggiunto il primo viaggio di un essere vivente nello spazio, la cagnolina
Laika, nel corso dello stesso anno; la prima sonda lunare, Luna 1, nel 1959; il
primo uomo nello spazio, Jurij Gagarin, il 12 aprile del 1961, seguito dalla prima
donna, Valentina Tereškova, il 16 giugno del 1963; la prima passeggiata
extraveicolare nel 1965; e il primo allunaggio, il 3 febbraio del 1966. Gli Stati
Uniti non possono lasciare che questa serie di affronti rimanga impunita, e
decidono quindi di mandare degli uomini sulla Luna.
Quando si tratta di decidere il nome da dare ai moduli con cui viaggiare nello
spazio, gli astronauti dell’equipaggio dell’Apollo 10 scelgono Charlie Brown e
Snoopy, che sono due personaggi della serie di fumetti Peanuts, creati nel 1950
da Charles M. Schulz. Avrebbero potuto scegliere i nomi di Galileo, di Keplero
o di Copernico, addirittura quelli di Leonardo da Vinci o di Albert Einstein, però
questi nomi indicavano tutti un patrocinio europeo, ed erano quindi impensabili.
È stato allora con gli eroi di un fumetto che gli americani hanno scelto di
rappresentare la propria identità. Ognuno ha le caravelle di Colombo che si
merita.
*
I filosofi non hanno pensato alla possibilità che gli uomini hanno di lasciare la
Terra. Com’è loro abitudine, piuttosto che guardare il mondo, preferiscono
muoversi in un retromondo, in un alter-mondo, in un aldilà del mondo.
Nell’ambito del pensiero francese ai tempi di cui stiamo parlando, pur di uscire
dall’esistenzialismo e sottrarsi all’egemonia di Sartre, i filosofi cominciano a
esultare degli effetti retorici e sofistici prodotti dallo strutturalismo. E mettono in
piedi una nuova scolastica che trasforma la Struttura (la maiuscola è d’obbligo)
in una specie di Dio, presente dappertutto e allo stesso tempo invisibile da
nessuna parte, indicibile e ineffabile e però contemporaneamente causa di tutto,
compresa sé stessa.
Il decennio filosofico successivo non riesce a ricavare alcun insegnamento da
quell’evento ontologico di primaria importanza che è stato il primo passo sulla
Luna. Pensiamo solo al L’anti-Edipo (1972) di Deleuze e Guattari, a Glas (1974)
di Derrida, a Sorvegliare e punire (1975) di Foucault, a Mille piani (1980)
sempre di Deleuze e Guattari: non troviamo nessuna speculazione sul fatto che
alcuni uomini sono riusciti a lasciare la Terra per andare a camminare sulla Luna
e tornare poi di nuovo indietro. Pensiamo solo che, ancora nel 1974, Sartre
pubblica un libro come Ribellarsi è giusto, in cui esalta il maoismo e la
Rivoluzione culturale, che aveva provocato qualcosa come venti milioni di
morti. Ecco la cecità dei filosofi francesi del Novecento in tutta la loro superbia!
Mi pare che vedere la Terra come un pianeta perduto all’interno di un
universo dalle dimensioni infinite non possa non produrre angosce, paure,
timori, e addirittura tremori sul piano ontologico. Sappiamo che quella che Jurij
Gagarin, cioè il primo uomo mandato nello spazio, al suo ritorno sulla Terra,
dispensa è una lezione di metafisica marxista-leninista, di cui non possiamo non
misurare tutta la povertà: «Sono stato in cielo e Dio non l’ho visto». Quanta
miseria anche in questo materialismo volgare!
Non è difficile immaginarci come questo genere di frase destinata a essere
scolpita nel marmo della propaganda sia stata elaborata dalla matura riflessione
degli esperti di comunicazione di Stato per essere imparata e recitata a memoria
a scopi ideologici. La stessa cosa vale per Neil Armstrong (ce lo ricordiamo
tutti) che assesta il proprio colpo dichiarando, in mezzo al gracchiare
impolverato della trasmissione: «Un piccolo passo per l’uomo e un grande passo
per l’umanità». Andando nello spazio, la preoccupazione dei sovietici è di
verificare che il marxismo-leninismo si fonda su verità scientifiche ed empiriche;
gli americani vogliono invece assicurarsi del carattere universale e imperialista
della propria tecnica.
La pubblicità americana crea e alimenta una dimensione mitologica:
Armstrong scende dal modulo spaziale e salta dall’ultimo gradino della scaletta
che si trova a un metro dal suolo – gli ingegneri della NASA avevano previsto che
il LEM sarebbe affondato nella polvere del suolo, solo che il tranquillo allunaggio
del comandante è riuscito a evitare l’inconveniente. Nove minuti più tardi,
Aldrin posa a sua volta il piede sulla Luna ed esclama: «Bella vista». Anche
questa frase ce la immaginiamo elaborata da linguisti esperti di comunicazione.
Poi, dopo qualche momento di silenzio: «Magnifica desolazione». Di sicuro non
sapeva fino a che punto aveva ragione…
In effetti, che cosa fanno gli americani una volta che hanno portato a
compimento una prodezza tecnica come quella? Qual è il primo gesto del primo
uomo che cammina sul suolo lunare? Ancora prima di effettuare il primo passo,
Aldrin consegna ad Armstrong attraverso il portellone di uscita dal modulo un
sacco di spazzatura da trenta chili e Armstrong lo lancia sul pianeta. Il primo
gesto del primo uomo che per la prima volta lascia il suo pianeta e per la prima
volta mette i piedi su un altro pianeta del sistema solare consiste in una
profanazione assolutamente in linea con la mentalità americana: tutta questa
intelligenza per ritrovare il gesto primitivo del mammifero che marca il territorio
con i propri detriti, i propri rifiuti e i propri sacchetti pieni di urina, escrementi e
vomito! A inaugurare il contatto con il suolo lunare non è quindi un uomo, ma la
sua spazzatura, assieme a quella dei due suoi compagni di viaggio.
Anche Buzz Aldrin, che, nella storia della conquista dello spazio, sarà sempre
ricordato come secondo, potrà comunque vantarsi di essere stato il primo
cosmonauta a ostentare in maniera consapevole la propria umana, umanissima
volgarità. È lui stesso infatti a scrivere, nelle proprie memorie: «Armstrong può
anche essere stato il primo uomo a camminare sulla Luna, io però sono stato il
primo a farci pipì». Questo è stato il primo gesto di Aldrin: bagnare il proprio
pannolino di urina, come un bambino tradito dal proprio sfintere… Avrebbe
potuto comportarsi in questa maniera per necessità, lo si poteva anche capire,
avrebbe potuto tenersi l’informazione per sé, un segreto, e invece no: quando,
per la prima volta nella storia dell’uomo, un uomo arriva su un altro pianeta, è
solo per sporcarlo con la propria materia fecale, la propria urina e la propria
spazzatura, ci piscia sopra come un maschio alfa quando vuole marcare il
territorio…
E non si sono comportati così una volta soltanto. Al momento in cui sto
scrivendo queste righe, duecento tonnellate di porcherie si trovano ammassate
sul suolo lunare, abbandonate dai dodici uomini che, tra il 1969 e il 1972, data
dell’ultimo passaggio di un essere umano, sono andati sulla Luna…
Passando in rassegna questo mucchio di spazzatura umana, elenchiamo quello
che troviamo, come se fosse uno degli inventari di Prévert: uno stemmino della
missione Apollo 1; due medaglie commemorative dei sovietici Gagarin e
Komarov; un disco di silicio con i messaggi di Eisenhower, Kennedy, Johnson e
Nixon, assieme ai messaggi dei dirigenti di sessantatré paesi da tutto il mondo; la
penosa lista delle vanità dei nomi dei membri del Congresso americano, delle
quattro commissioni della Camera del Senato e dei dirigenti della NASA, passati e
presenti; due palline da golf di Alan Shepard, il primo uomo ad aver volato nello
spazio dopo Gagarin, e il quinto ad aver camminato sulla Luna; un ramo d’ulivo,
ovviamente dorato, perché è a nome dell’umanità intera e della pace che gli
americani piantano la loro bandiera – per inciso, ce ne sono cinque, di bandiere
americane, sulla Luna, la prima ironicamente ributtata a terra dai movimenti
d’aria emessi dal razzo di ritorno; alcune telecamere, e una macchina fotografica
Hasselblad; un certo numero di strumenti di misurazione scientifica, vari
telescopi e vari riflettori; un martello; una piuma di falco; un rover, cioè il
modulo per spostarsi sul suolo lunare; dodici paia di stivali; alcuni tagliaunghie;
un giavellotto; un fermacravatte (vai a capire come ci è finito); un’etichetta di
Nuits-Saint-Georges, cuvée Terra-Luna 1969; ovviamente, una Bibbia; e poi un
migliaio di altri oggetti di piccole dimensioni; ah, dimenticavo, in mezzo a tutto
questo cumulo d’immondizia lunare troviamo persino le ceneri di un geologo
della NASA che aveva espresso il desiderio di riposare in pace sulla Luna – in
pace, ma sempre circondato da novantacinque sacchetti di urina e di vomito…
Poco tempo fa, nel marzo del 2022, uno stadio di razzo abbandonato da anni è
andato a ingrossare la discarica più lontana dalla Terra. A 384.400 chilometri
dagli Stati Uniti, questo paese che si appresta a prendere il posto dell’Europa nel
ruolo di civiltà guida per il resto dell’umanità, ha trovato il modo di far sapere al
mondo intero di cosa fosse capace: conquistare, imporsi e profanare.
Tutte le nuove civiltà cominciano con la barbarie.
È a questo punto che ci troviamo ora…
*
Una lettura politica e demitizzante della conquista dello spazio in generale, e del
primo passo dell’uomo sulla Luna in particolare, non impedisce una lettura
anche filosofica, addirittura ontologica o metafisica. Un po’ sul principio
dell’astuzia della ragione, gli uomini credono di fare una cosa, cioè posare il
piede sulla Luna, e in realtà non sanno che ne stanno compiendo un’altra, cioè
mettere ontologicamente fuori asse il mondo e perderselo in un pluriverso privo
di centro. Ecco la radice del nichilismo contemporaneo.
Quando, dopo aver toccato il suolo lunare, il pisciatore cosmico Buzz Aldrin
si bagna il pannolino e aggiunge: «Magnifica desolazione» all’ingenuo: «Bella
vista», non sa che le sue parole oltrepassano probabilmente la sua stessa capacità
di pensiero… Perché la conquista della Luna determina una terribile
smagnetizzazione della bussola della civiltà giudaico-cristiana, e finisce per
rappresentare una vera e propria magnifica desolazione ontologica. Dio è morto,
gli universi sono infiniti e l’uomo si è ormai perso in mezzo a questa notte
dell’essere.
Una volta, nel suo libro Du monde clos à l’univers infini (1957) [Dal mondo
chiuso all’universo infinito], Alexandre Koyré ha riflettuto sulla rivoluzione
ontologica prodotta dal passaggio dal geocentrismo, in cui la Terra sta al centro
di un mondo finito, all’eliocentrismo, in cui il Sole si trova al cuore di un
universo aperto, un passaggio in seguito al quale l’uomo non si trova più in
posizione centrale ma periferica. Una ferita narcisistica, avrebbe detto Freud.
Con la prova empirica della Terra blu vista dalla Luna grigia in un cosmo
nero, è un altro mondo che si apre al grande pubblico, del tutto all’oscuro delle
più recenti scoperte in ambito astrofisico. Lontano dai dibattiti più specialistici
sulla relatività ristretta e generale, sulla teoria delle stringhe e sulla meccanica
quantistica, quello che, grazie a questa famosa fotografia, diventava conoscenza
attraverso quello che veniva visto da miliardi di uomini era il fatto che ci
troviamo ormai a essere delle monadi erranti, senza porte o finestre, come
avrebbe scritto Leibniz, trasportati senza fine in un continuo movimento
browniano, ai bordi del nulla, come affacciati su un buco nero che assorbe tutto,
luce compresa…
L’uomo è già passato una volta dal geocentrismo, che presupponeva un
mondo finito e un suo centro indubitabile, all’eliocentrismo, che scopriva un
mondo infinito e il suo centro infuocato che bruciava ontologicamente l’umanità.
Adesso è il momento di spostarsi un’altra volta, e di passare dall’eliocentrismo ai
pluriversi che cancellano qualsiasi nozione non solo di centro, ma anche di
finitezza, d’infinità e di confini.
I materialisti dell’Antichità, gli epicurei in particolare, difendevano l’esistenza
della pluralità dei mondi e contemporaneamente l’infinità del mondo stesso.
Lucrezio, per esempio, si domandava che cosa dobbiamo pensare del giavellotto
lanciato nell’universo quando arriva ai confini del finito.
Come per l’atomo dedotto dalla danza dei granelli di polvere in un raggio di
luce, la possibilità di molteplici universi, mondi e intermondi (questi ultimi sono
i luoghi composti di materia sottile destinati agli dèi) è la diretta conseguenza
della dinamica atomista. A causa del clinamen, cioè della tendenza naturale del
mondo a deviare, gli atomi aggregati per costituire l’essere, e poi gli aggregati
degli aggregati, e poi ancora gli aggregati degli aggregati degli aggregati, e così
all’infinito, strutturano un tipo di ragionamento che obbliga ad ammettere
l’infinità di mondi.
Un’intelligenza finita, una ragione limitata, una coscienza ristretta non sono in
grado di concepire l’infinito – ma nemmeno il chiliagono di Descartes. Solo
l’immaginazione può farlo, e oltretutto in maniera vaga, ricorrendo a delle
immagini.
Prendiamo allora una spiaggia immensa, per esempio la duna di Pilat, nella
Gironda, che, con i suoi quasi tre chilometri di lunghezza, i suoi oltre cento metri
di altezza e gli oltre seicento di larghezza, in totale circa seicento milioni di metri
cubi di sabbia, è la più alta d’Europa. Immaginiamoci che ogni granello di
sabbia corrisponda a un universo delle dimensioni del nostro, di cui riusciamo a
toccare i limiti solo dopo viaggi di milioni di anni-luce. Questo nostro universo
si troverebbe così collocato accanto a un numero infinito di altri universi,
ognuno retto da leggi fisiche proprie. Il nostro sistema solare corrisponde a uno
dei granelli di sabbia di questa duna. La fisica quantistica sostiene che se si
moltiplicasse l’immagine per ottenere tanti granelli di sabbia quanti ne esistono
sul pianeta e ciascuno di questi granelli rappresentasse un universo, saremmo
ancora molto lontani dalla realtà. Un pensiero così vertiginoso non può non
seminare angoscia nell’animo e nel cuore degli uomini…
Inebriato dal passaggio dal mondo chiuso all’universo infinito prima, e
all’infinità dei mondi poi, l’uomo contemporaneo si trova in equilibrio precario,
in imbarazzo, fuori asse, scombussolato, disorientato, scomposto, smembrato,
sconcertato, spaesato, fuori strada, sconvolto, disorganizzato, in una parola:
smontato – in altri termini, magnificamente desolato… Passare dal mondo finito
all’infinità dei mondi, attraverso il mondo infinito, è qualcosa di paragonabile a
una serie ininterrotta di sismi ontologici, repliche di una stessa catastrofe. È una
specie di tettonica delle placche ontologiche che divide gli uomini da quello che
sono stati: all’inizio si trovano al centro del mondo, poi alla sua periferia, e in
ultimo si scoprono persi nel bel mezzo dell’universo. La storia dell’uomo è,
insomma, quella della sua espulsione dal centro del mondo terrestre.
Nella sua ingenuità spirituale, da quel buon soldatino del materialismo
sommario, addirittura per principianti, che era, quello che Jurij Gagarin avrebbe
potuto vedere, affacciandosi il 12 aprile del 1961 all’oblò del suo Sputnik 1, non
era tanto che Dio in cielo non ci stava, ma che non esisteva nemmeno il cielo
allegorico; mossa ancora più intelligente sarebbe stata quella di prevedere che,
da quell’esperienza spaziale, era solo la fine dell’uomo che derivava.
Nietzsche lo aveva già proclamato nel 1882, nella Gaia scienza, che «Dio è
morto». Non c’era nessun bisogno di andare nello spazio per rendersene conto.
Quello che alla luce nera del cosmo diventava ora chiaro e visibile era che
l’Uomo avrebbe presto seguito Dio nella tomba – il che è anche logico, visto che
non è Dio che ha creato gli uomini, ma il contrario.
Michel Foucault annuncia la morte dell’uomo nel 1966, nel suo libro Le
parole e le cose. Tutto preso dai suoi riflessi condizionati strutturalisti, però, più
che dissertare sulla morte concreta dell’uomo concreto, per lui si tratta di parlare
in maniera un po’ contorta della morte di quella cosa che si è potuto chiamare
«Uomo» solo dopo una serie di particolari processi discorsivi, distribuiti su una
linea cronologico-temporale ben indicata dal filosofo, e delimitata da una data di
nascita e da un’altra, appunto, di decesso.
Quello che muore quel 21 luglio del 1969, alle ore 3, 56 minuti e 20 secondi,
ora francese, non è una variazione platonica dell’Idea di uomo, per quanto
incarnata unicamente nella storia delle idee, ma proprio la realtà dell’uomo: da
quel momento, viviamo quest’agonia in un tempo direttamente ed
evidentissimamente contaminato da essa. Ecco perché oggi il nichilismo appare
come la verità di un tempo ormai privo di verità (il nostro). L’uomo muore
davvero, e questa è l’unica Grande Sostituzione di cui dobbiamo avere paura. Il
transumanesimo lavora a tutto quello che verrà dopo. Etimologicamente, sarà
inumano.
*
Sulla mia scrivania, c’è il libro che mi è servito per stendere queste poche righe
su quello che l’uomo ha inflitto alla Luna dal momento del suo primo passo fino
all’ultimo transito del nostro predatore sul pianeta freddo. Dall’Apollo 11, nel
luglio del 1969, all’Apollo 17, nel dicembre del 1972, i mucchi di spazzatura
lasciati dall’Homo sapiens sono andati ingrossandosi, come abbiamo visto.
Esattamente come fa la scimmia, che orina e defeca per marcare il territorio, i
dodici uomini che hanno calpestato il suolo lunare, tutti americani, hanno
sporcato, insudiciato e insozzato con le loro tracce un luogo magico, mitico,
spirituale e poetico. Urina, escrementi e vomito, come abbiamo appena letto. E
poi naturalmente troviamo anche le tracce delle ruote del veicolo lunare, e il
veicolo stesso, abbandonato come se fosse dallo sfasciacarrozze – un’automobile
come prova del genio della scimmia evoluta…
Oltre che dalle secrezioni corporee degli astronauti, il suolo lunare è stato
infangato e inquinato dalle loro secrezioni mentali, spirituali e intellettuali.
Lasciamo per un attimo da parte le ceneri del morto, la Bibbia, e le palline da
golf, tutte cose che, in verità, ci raccontano molto di quello che occupa la psiche
di un americano. Focalizziamoci invece sulla foto.
C’è in effetti, abbandonata, anche una foto di famiglia dell’astronauta Charles
Duke, che faceva parte della missione Apollo 16 nell’aprile del 1972.
Ottantasettenne nato nel 1935 e ancora vivente al momento in cui sto scrivendo
(solstizio d’estate del 2022), ex militare di carriera, è stato l’uomo più giovane a
camminare sulla Luna. Per ironia della storia, quando ha posato il piede sul
suolo lunare, è stato sull’altopiano… Descartes. È lì che ha lasciato una foto a
colori della propria famiglia, avvolta in una confezione di plastica, su cui lui
stesso è ritratto con la moglie e i due figli, incravattato al pari del bambino più
grande. C’è anche un testo che accompagna questo scarto abbandonato: «Questa
è la famiglia dell’astronauta Duke, venuto dal pianeta Terra, e atterrato sulla
Luna il 20 aprile del 1972». Non sappiamo se abbia lasciato anche il numero di
telefono o l’indirizzo postale. O la mail.
Sulla Luna, ha anche cercato di battere il record di salto in alto, riuscendo a
toccare l’altezza di «circa 0,81 m», come viene dottamente e senza ironia
ricordato sull’enciclopedia-universale-multilingue-partecipativa, precisando
persino il centimetro: è un exploit, di quelli che solo gli americani sono capaci di
portare a termine. L’unica cosa che non aveva previsto era che, non essendo la
forza di gravità la stessa della Terra, sarebbe tutto finito con un ruzzolone: infatti
perde l’equilibrio, cade di schiena e danneggia il dispositivo di sopravvivenza.
La pompa dell’ossigeno, per un attimo, si ferma… poi però riparte! La tuta si
sarebbe potuta strappare, il dispositivo di sopravvivenza rompersi e la pompa
non ripartire più; avrebbe così finito per infrangere un altro record yankee,
quello del primo morto sulla Luna. Non è toccato a lui. Peccato.
Tornato sulla Terra, Duke si dedica alla distribuzione della birra e alla vendita
di case. È un cristiano evangelico, e crede alla rigenerazione. Probabilmente è
per questo motivo che, nel 2012, l’Università di Clemson gli ha conferito la
laurea honoris causa in… filosofia.
È anche successo che questo militare abbia scritto la prefazione del libro che
sta ora appoggiato sulla mia scrivania. Qui afferma: «Da allora, mi sento
ambasciatore di un mondo nuovo». E purtroppo ha ragione…
Possiamo apprezzare, come capita a me, la lezione dei calendari lunari degli
uomini preistorici. Si tratta di un altro atteggiamento nei confronti della Luna.
Devo precisare che è quello che incontra le mie simpatie?
Al Museo Nazionale dell’Aria e dello Spazio di Washington, vedere la
capsula Apollo che ha riportato sulla Terra i primi uomini che hanno camminato
sulla Luna mi ha emozionato. Ho avuto l’impressione di trovarmi in presenza del
corrispettivo di una delle caravelle di Cristoforo Colombo, ai suoi tempi in
viaggio per il Nuovo Mondo, ora invece in viaggio verso il mondo infinito che ci
si apre davanti: quello dell’inevitabile esplorazione del sistema solare e di molte
altre e più stupefacenti odissee interstellari. L’estinzione del Sole è una cosa già
scritta, sono gli astrofisici a insegnarcelo, però gli uomini non moriranno bruciati
dai suoi raggi sempre più incandescenti, perché si sposteranno prima per
raggiungere gli esopianeti. Ovviamente.
Ecco tornare l’orda primitiva di cui ci ha parlato Darwin nell’Origine
dell’uomo quando spiegava l’evoluzione della nostra umanità: l’uomo è partito
da pochi esemplari, a quanto pare disparati in natura, per arrivare a diffondersi a
miliardi. Sono questi miliardi che s’invagineranno in un pugno di umanoidi, i
quali avranno preliminarmente organizzato il corpo dell’uomo e la sua anima
ormai digitale in modo da riuscire a sopravvivere in ambienti ancora più ostili
rispetto a quello delle origini. Conosciamo la linea che porta dal Sahelanthropus
all’Homo sapiens passando dall’Homo abilis, dall’Homo ergaster, dall’Homo
erectus, dal neandertaliano e dal denisoviano. L’Homo sapiens sta passando il
testimone a un Homo ancora senza nome. Sarà, con tutta evidenza, un Homo
cyber.
Questo libro, Anima, propone di fare la storia dell’Homo sapiens attraverso
quella della sua anima.
Parte prima
COSTRUIRE L’ANIMA
Sotto il segno del serpente
Dove assistiamo alla morte del serpente egizio Apophis, ucciso con un coltello da un gatto.
Dove scopriamo un serpente che simboleggia il male già presente in un paradiso in cui teoricamente il male
non esiste ancora.
Dove sorprendiamo l’anima di Plotino che scompare in forma di serpente sotto il letto.
Dove vediamo san Paolo di notte, a Malta, accanto a un fuoco, morso da una vipera senza che il veleno lo
uccida.
Dove constatiamo che sant’Antonio e altri monaci del deserto riuscivano a mettere in fuga dei serpenti
facendo il segno della croce.
Dove impariamo grazie a sant’Agostino che il serpente sa benissimo come parlare alla prima donna.
Dove incontriamo alcuni gnostici licenziosi, chiamati ofiti o perati, che al serpente dedicano un culto vero e
proprio.
Capitolo primo
Anticorpi, non-corpi e controcorpi
Smaterializzare il corpo
Non sono uno di quelli che pensano che un popolo senza scrittura sia per questo
stesso motivo fuori dalla storia, e appartenga a quella che chiamiamo pre-istoria.
La preistoria non è quello che precede la storia, ma è la prima storia, quella di
cui rimangono solo alcune tracce enigmatiche. Di questo, sono convinto.
Occorre saper ascoltare per intendere il silenzio di quelle tracce, e questo
silenzio racconta molto più di quanto racconterebbe qualsiasi frivolo cicaleccio.
Il silenzio produce un rumore, una specie di fuga d’aria, un piccolo getto lineare.
Per millenni, alcuni esseri umani sono riusciti a riconoscere il rumore di
questo zampillo, attraverso un aldilà dei propri cinque sensi oggi perduto (e noi
chiamiamo «istinto» quanto rimane di questa capacità). La materia era
consustanziale all’anima, e l’anima era consustanziale alla materia. Una sola
sostanza diversamente modificata: carne di pesce, quindi anima di pesce; scorza
di acacia, quindi anima di acacia.
Al polo nord, ho visto degli inuit che, dopo aver pescato un salmone, e dopo
averlo tirato fuori dall’acqua e appoggiato sulla spiaggia di ciottoli, gli
chiedevano perdono per averlo strappato in quel modo al suo mondo, lo
ringraziavano per l’offerta vitale della carne, e poi lo tagliavano e se lo
mangiavano crudo. Li ho visti fare la stessa cosa con una foca, con il loro
sciamano che si divorava l’occhio della foca tagliato in due. È la vita che compie
il proprio ciclo: il salmone morto alimenta i vivi, e a loro volta, un giorno, i vivi
moriranno e andranno ad alimentare il grande tutto. Noi stiamo all’interno di
questo ciclo: questo ciclo è tutto, e noi non siamo niente.
Gli egizi hanno le loro parole per indicare l’anima (Ba), lo spirito (Akh),
l’eternità (Neheh). Si sono costruiti tutta una mitologia in cui, per esempio, gli
dèi possono nascere da rapporti incestuosi: Iside che si fa mettere incinta dal
fratello, cioè il re Osiride; oppure Horus che sodomizza Seth, perché è un
serpente; e poi tante altre storie e favole che hanno come unico scopo quello di
tenere il popolo soggiogato al nocciolo duro di una religione, vale a dire
l’impossibilità di accettare la morte. In presenza del cadavere di un essere caro,
la reazione naturale consiste nell’inventarsi una vita per il morto dopo la sua
scomparsa, in modo da riuscire a sopravvivere al suo decesso. È questa la
finalità ultima di tutte le religioni: inventare una vita dopo la vita allo scopo di
dare la morte alla morte.
Ma parlare di religione egizia significa spesso dimenticare che si è sviluppata
lungo un arco temporale di più di tremila anni e che, per forza di cose, ha
assunto forme diverse nel corso dei secoli, e anche in relazione allo spazio, a
seconda delle regioni in cui si è sviluppata. Per il resto, se Ba può essere tradotto
con «anima», occorre comunque scristianizzare la parola per cercare di percepire
la natura di una forza che non ha nulla a che vedere con la forma che le darà
l’Occidente cristiano nel corso dei secoli successivi.
In quello che siamo soliti chiamare il Libro dei morti, altre volte indicato con il
titolo di Libro per uscire nel giorno, scritto un millennio e mezzo prima di
Cristo, ritroviamo parecchi elementi che, attraverso la Grecia, sono finiti ad
alimentare la civiltà giudaico-cristiana. Troviamo per esempio un dio, Thot,
autore del testo nel momento stesso in cui sta creando il mondo; si tratta di un
dio che assomma in sé tutti gli attributi della triade divina: Ptah, Sokaris e
Osiride; quest’ultimo, Osiride, è di origine divina, ma vive sulla Terra in un
corpo mortale; viene poi ucciso, smembrato, e finisce per resuscitare dentro un
altro corpo, accedendo all’immortalità, diventando giudice nella Sala delle due
Verità, e partecipando all’operazione di pesatura dei cuori sulla bilancia. Questo
per dire che chi vive un’esistenza conforme agli insegnamenti divini conosce
l’immortalità nel paradiso indicato con il nome di Campi dei giunchi, o Campi
della felicità – tutta una geografia assimilabile a quella edenica.
Come non pensare alla coppia formata da Dio creatore del mondo e Gesù vivo
in un corpo umano, che finisce a sua volta per morire e resuscitare in una specie
di immortale corpo glorioso? Questo primo schema (la divinità trinitaria, la
nascita divina, la morte violenta, la rinascita in un corpo che sfugge alla morte e
l’accesso alla vita eterna) si rivela archetipale per la futura religione cristiana. E
cosa pensare del percorso ontologico compiuto dal morto, che gli permette, nel
caso di una vita retta, di guadagnare il proprio paradiso dopo un giudizio che
possiamo tranquillamente assimilare all’operazione della pesatura? Nel Libro dei
morti, il defunto ha «dato pane all’affamato, acqua all’assetato, vesti
all’ignudo»;5 nel Vangelo di Matteo, Gesù si rivolge ai giusti con queste parole:
«ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da
bere, ero […] nudo e mi avete vestito» (Mt 25, 35-36).
Questo stesso Libro dei morti offre un secondo schema, e cioè quello del
corpo duale su cui l’Occidente andrà poi a costruire tutto il proprio edificio
ontologico. Troviamo il Corpo Materiale, Khat, sottoposto al ciclo di
generazione e corruzione, e che solo il processo di mummificazione può salvare;
il Doppio, Ka, entità astratta che può contare sugli attributi dell’uomo cui rimane
attaccato persino quando quest’ultimo è stato trasformato in mummia e si trova
nella tomba, da dove può entrare e uscire a suo piacimento; l’Anima, Ba, legata
alla Ka, che accompagna nella tomba e che può assumere una forma materiale o
immateriale, a seconda; il Cuore, Ib, associato all’anima, fonte della vita animale
ma anche del bene e del male nell’uomo; l’Ombra, Khaibit, anch’essa associata
all’anima, che può andare e venire a proprio piacimento; lo Spirito, Kus, parte
raggiante e translucida dell’anima umana che risiede nel suo Corpo Spirituale, il
Sahu; la Potenza, Sekhem, incarnazione della forza vitale dell’uomo. Sono,
questi, gli elementi che animano il corpo materiale e il corpo spirituale, con il
primo che deve sottoporsi ai trattamenti della mummificazione per permettere al
secondo di sopravvivere.
Facciamo notare che il Libro dei morti propone un terzo schema, destinato ad
avere lo sviluppo biblico che sappiamo: quello del serpente che incarna il male.
Il serpente ha un nome, Apophis, ed è nemico di Ra, il Sole. Quindi, da una parte
abbiamo il serpente malefico, e dall’altra il Sole benefico. Da una parte, tenebre
e negatività; e dall’altra, luce e positività. Apophis è il simbolo delle forze del
male, della notte, del caos e dell’oscurità, che si oppongono a quelle del bene.
Ogni giorno Apophis si attacca alla barca di Ra sull’oceano primordiale Nun per
cercare di annientare l’ordine divino e mettere fine alla corsa del Sole. Ogni
giorno, però, il gatto di Ra, personificazione della dea Bastet, lo uccide con un
coltello. Ogni volta che sorge il Sole, quindi, è una vittoria di Ra su Apophis: la
luce vince sempre sull’oscurità.
In ultimo, la Supplica a Osiride ci offre un quarto schema che si rivelerà utile
alla nostra civiltà, con una morale che anticipa la filosofia greco-romana, vale a
dire platonica, aristotelica, cinica, stoica, epicurea, pirroniana, e che prefigura
persino, sul terreno religioso, il monoteismo giudaico, quello della civiltà
giudaico-cristiana e quello del cristianesimo, invitando tutti quanti a praticare il
bene e ad allontanarsi dal male, e a fare tutto questo per ottenere la vita dopo la
morte, e la felicità eterna in un corpo sottratto e salvato da ogni ciclo di
generazione e corruzione grazie alla purificazione attraverso l’ascesi esistenziale.
Voglio citare un po’ più per esteso questo testo per dimostrare come, un
millennio e mezzo prima della nascita di Gesù, un’etica e una morale universali
esistevano già in Egitto, un’etica e una morale che si ritroveranno nel
cristianesimo romano. Giudichiamo direttamente dalle parole:
Io sono venuto a te, ti ho portato la giustizia, ho respinto per te l’iniquità. // (Prima dichiarazione
di innocenza) / Non ho commesso iniquità contro gli uomini, / non ho maltrattato le bestie, / non
ho commesso iniquità nella Sede di Matt, / non ho (voluto) conoscere ciò che ancora non c’era, /
non ho tollerato di vedere il male, / non ho cominciato nessuna giornata / chiedendo un donativo
da quelli che dovevano lavorare per me, / il mio nome non è arrivato al Capitano della Barca, /
non ho bestemmiato dio, / non ho impoverito un misero, / non ho fatto ciò che è tabù divino, / non
ho danneggiato un servo presso il suo padrone, / non ho avvelenato, / non ho fatto piangere, / non
ho ucciso, / non ho dato ordine di assassinio, / non ho causato pena a nessuno, / non ho diminuito
le rendite alimentari nei templi, / non ho sciupato i pani degli dei, / non ho rubato le gallette dei
glorificati, / non sono stato pederasta, / non ho compiuto atto impuro nel luogo santo del dio della
mia città, / non ho aggiunto e non ho tolto allo staio, / non ho alterato la misura dell’arura, / non
ho barato di una mezza arura, / non ho aggiunto al peso della bilancia, / non ho falsificato il peso,
/ non ho tolto il latte dalla bocca degli infanti, / non ho privato il bestiame minuto della sua erba, /
non ho catturato gli uccelli dei boschetti degli dei, / non ho pescato i pesci dei loro stagni, / non
ho fatto deviare l’acqua nella sua stagione, / non ho costruito una diga per (deviare) l’acqua
corrente, / non ho spinto un fuoco nel suo momento (di ardere), / non ho trascurato i giorni di
offerta di pezzi di carne, / non ho arrestato il bestiame dei beni del dio, / non ho impedito dio nella
sua uscita (processionale). / Io sono puro.6
Oggi come oggi, è di buon gusto affermare che di Pitagora non si sa niente, che
non ha scritto niente, che per lui il segreto stava tutto nella vita, e che noi lo
conosciamo soltanto attraverso i suoi seguaci più tardi, tutti glossatori, se non
addirittura glossatori di altri glossatori, e poi che è stato sfruttato per tutto,
compreso il peggio, in particolare con l’occultismo. Probabilmente, sostenere
l’impossibilità di affermare qualcosa di positivo sulla sua dottrina è eccessivo,
però permette pur sempre di creare una nicchia in cui il ricercatore universitario
che ha scoperto che non c’è niente da trovare riesce a trasformare in commercio
tutto questo nichilismo.
Evitando il luogo comune che paragona tutto quello che ci resta di Pitagora
alle rovine di un tempio greco impossibile da ricostruire nella sua integrità
iniziale, quella che posso intravedere a partire dagli orfici, filosofi che hanno
probabilmente influenzato il pensatore di Samo, è una linea di forza che arriva
dall’Oriente e alimenta la filosofia greca prima di andare, a sua volta, a
inseminare la filosofia occidentale, e quindi europea.
Quest’opera di fecondazione passa attraverso Platone, e non stupisce affatto
vedere come la nostra civiltà, che da lì discende, abbia fatto di lui e Socrate una
coppia assimilabile a quella che tiene assieme Dio e Gesù. Con Platone,
l’Occidente cristiano si ritrova finalmente a disposizione una filosofia
emblematica. Non sorprende che l’integralità delle trecento opere di Democrito
sia scomparsa e che, al contrario, la quasi integralità dell’opera di Platone, quasi
duemila pagine su carta India, sia sopravvissuta…
È sempre alle Vite e dottrine dei più celebri filosofi che dobbiamo tornare.
Diogene Laerzio ci insegna, in effetti, che la nascita di Platone è avvolta in
un’atmosfera divina: «ad Atene circolava la storia che [il padre] Aristone
avrebbe voluto fare violenza a Perittione, la quale era nell’età opportuna per
l’unione nuziale, ma non vi riuscì. Dopo avere desistito dai tentativi di violenza,
vide l’apparizione di Apollo: e da quel momento egli la lasciò pura dal
congiungimento fino al parto».9 Come descrivere meglio il fatto che anche la
nascita di Platone, come quella di Gesù, è stata miracolosa? Aristone, come
Giuseppe, viene messo da parte perché Perittione, come Maria l’immacolata,
possa concepire senza l’ausilio di un genitore, ma solo grazie all’opera di
Apollo, che assume a sé il ruolo spermatico dello Spirito Santo! Dopodiché,
quale «presocratico» avrebbe osato rivendicare una genealogia più eccelsa?
C’è anche un’altra storia che convalida la tesi della divinità della coppia
Socrate/Platone. Continuiamo a leggere Diogene Laerzio: «Si racconta che
Socrate abbia sognato di tenere sulle ginocchia un piccolo cigno, il quale mise
subito le ali e si levò in volo cantando dolcemente, e che il giorno successivo si
presentò a lui Platone e Socrate abbia dichiarato che il cigno era proprio lui».10
Platone, che, nella vera vita, e non nella mitologia, discende da una famiglia
aristocratica, comincia la propria carriera come lottatore e attore teatrale. Solo un
aneddoto? Non è detto. La verità è che Platone rimane lottatore e attore per tutta
la propria carriera di filosofo e, quando scrive i suoi dialoghi, s’inventa dei
personaggi facili da sconfiggere. Il sofista Gorgia o l’edonista Filebo, che, come
sappiamo, danno entrambi il proprio nome a un dialogo, sono stati creati da
Platone unicamente a questo scopo: fare da avversari su cui poter trionfare in
scioltezza, senza ostacolare la figura di Socrate, che infatti li polverizza.
Facciamo soltanto notare, en passant, che l’idea esposta da Deleuze in Che
cos’è la filosofia?, secondo la quale un filosofo è un creatore di concetti e di
personaggi concettuali, si rivela essere un’idea eminentemente platonica! È, in
effetti, proprio Platone che per primo crea concetti e personaggi concettuali,
destinati peraltro a una certa fama. Il che fa supporre a qualche altro studioso
universitario che, in mezzo a tutto questo teatro, non si riesce mai a sapere dove
si trovi davvero il pensiero del filosofo, e che un pensiero di Platone, o un
platonismo, potrebbero persino non esistere. Siamo di fronte a un altro effetto
del nichilismo epistemologico della nostra epoca – o del desiderio di attirare
l’attenzione escogitando tesi paradossali, che andranno comunque a illuminare
sulle intenzioni di chi le ha elaborate…
Quella che Pitagora e i suoi ottengono è la smaterializzazione del corpo, che
non è più visto come puro e semplice composto di atomi materiali, come
continuano a pensare Leucippo e Democrito, e come più tardi faranno Epicuro,
Lucrezio e tutti gli epicurei, ma un accidente in cui ritroviamo ciò che salva il
corpo e ciò che funziona come anticorpo, come controcorpo, come non-corpo:
un’anima increata, eterna e immortale, una materia immateriale, un’idea più vera
della realtà, un’istanza più certa del tangibile, una finzione che si sostituisce alla
realtà di un corpo concreto e palpabile.
L’invenzione dell’anima immateriale è ciò che permette di costruire la finzione
di una vita dopo la morte. Si tratta in effetti dell’anello di congiunzione che, nel
mondo sensibile, permette di collegare quest’ultimo al mondo intelligibile. Sulla
Terra, l’anima immateriale è un frammento celeste che permette di ritrovarsi
legati a un retromondo. Quaggiù, significa promessa dell’aldilà. Salvare il corpo
dalla morte promettendogli la compagnia degli dèi, o addirittura che diventerà a
sua volta dio sotto forma di anima unita al principio dell’universo.
Capitolo secondo
Scheletro con anima
Sopraffare la materia
Giova ricordarsi, o meglio rimembrarsi, che Platone, dopo aver consacrato tutta
la propria opera a contrapporre il mondo sensibile al mondo intelligibile,
fustigando il primo e celebrando il secondo; dopo aver diviso l’essere in due
parti distinte, una detestabile, cioè il corpo, la carne e la materia, e l’altra da
adorare, cioè l’anima; dopo aver gettato l’anatema sui desideri, sui piaceri, sulle
passioni e sulle emozioni; dopo aver denunciato lo stallo prodotto dai godimenti
carnali, è stato sorpreso dalla morte, come ci insegna Diogene Laerzio (tocca
sempre tornare al nostro storico), nel corso di un banchetto di nozze (III, 3).
Ovviamente, Tertulliano, uno dei primi filosofi cristiani, non può condividere
quest’aneddoto così triviale e così poco… platonico! Per il pensatore che ha
aperto la via filosofica del cristianesimo, Platone deve per forza morire in
maniera più nobile: e quindi trapassa nel sonno.
Questo senza contare quello che, sempre nelle Vite e dottrine dei più celebri
filosofi, Diogene Laerzio ci racconta nel capitolo intitolato Presunti amori di
Platone (III, 29-33). Questo Savonarola della carne ha in verità conosciuto
parecchi(e) amanti tra cui, giusto per citare alcun(e) il cui nome ha attraversato
la storia: Astro, Dione, Alessi, Fedro, Archeanassa e Agatone.
Anche Socrate, sfortunatamente platonizzato da Platone (evito di dire
socratizzato), passa per essere un padre del pudore e un nemico dichiarato della
carne, quando in verità ha collezionato lui stesso tutta una serie di giovanotti
(Carmide, figlio di Glaucone; Eutidemo, figlio di Diocle; Fedro; Agatone;
Alcibiade) che hanno finito per dare il titolo a parecchi dei dialoghi platonici, o
per comparirci come interlocutori. Nel Simposio (VIII, 2), Senofonte afferma di
non ricordarsi nessun periodo in cui Socrate fosse stato senza innamorati. La
bellezza di Carmide lo infiammava e lo metteva fuori di sé; si esaltava per
Alcibiade; sosteneva che quando vedeva Autolico passava dalle tenebre alla
luce; e confessava che il solo contatto con la spalla nuda di Critobulo gli
provocava una scossa elettrica (I, 9 e IV, 27).
Ecco perché, nel Fedone, Platone fa dire a Socrate che «l’anima di chi è vero
filosofo […] perciò appunto si astiene, quanto più ella può, da piaceri e desideri
e dolori» [corsivo mio].19 Magari vuole dire che né Socrate né Platone erano dei
veri filosofi.
Capitolo terzo
Il divenire riccio della pianta
Purificare la carne
Si tratta di un rimprovero che non si potrà fare a Plotino, il quale, da parte sua,
sembra aver vissuto in coerenza con tutte le cose che insegnava. O almeno così
pare, se vogliamo dar credito alla Vita di Plotino, scritta dal discepolo Porfirio,
che infatti comincia la sua presentazione proprio affermando che «Plotino, il
filosofo della nostra epoca, sembrava si vergognasse di essere in un corpo».20
Plotino è uno che nasconde la propria data di nascita per evitare di festeggiare il
compleanno; che mantiene il silenzio sulle origini della propria famiglia, e non
parla mai né del padre né della madre; che rimane attaccato al seno della nutrice
fino all’età di otto anni, quando gli viene imposto di smettere; che detesta così
tanto il proprio involucro carnale e corporeo da rifiutare qualsiasi ritratto o
qualsiasi busto. Il suo corpo versa in cattivo stato, ha problemi digestivi, in
particolare intestinali, però si rifiuta di farsi curare; il suo stomaco è parecchio
malandato e la vista debole; vive in uno stato di perenne tensione nervosa ed è
vegetariano, mangia pochissime cose; non si fa mai il bagno, ma si friziona;
soffre di tonsillite e ha la gola infiammata; ha le gambe e i piedi coperti di
ulcere; quando parla, fa un sacco di errori e, quando scrive, si prende gioco
dell’ortografia; lascia Roma e si ritira in Campania per evitare che gli amici lo
vengano a trovare e lo abbraccino per salutarlo, entrando in contatto con questo
suo corpo che sembra essere un’unica e grandissima piaga, quasi stesse
fermentando, dentro e fuori.
Quando muore, a settant’anni, spiega all’amico Eustochio, l’unico a essergli
rimasto accanto: «‘Io mi sforzo di ricondurre il divino ch’è in me al divino che è
nell’universo’; e mentre un serpente passava sotto il letto sul quale egli giaceva,
scomparendo poi dentro un buco della parete, Plotino rese lo spirito».21 Nell’ora
della propria morte, quindi, Plotino non fa come Socrate, non si mette a dare
lezioni di filosofia, una filosofia che, per anacronismo, potremmo chiamare
stoica, ma continua a vivere da filosofo, e continua il proprio esercizio filosofico,
la processione. È la quintessenza della sua vita filosofica.
Ripartiamo dall’inizio. Ad Alessandria, Plotino si converte alla filosofia grazie
al proprio maestro Ammonio, di cui segue l’insegnamento per undici anni:
«giunse a possedere la filosofia così bene che si propose di conoscere
direttamente quella che si professa fra i Persiani e quella che viene onorata
presso gli Indiani».22 Per realizzare questo programma, decide di mettersi al
seguito dell’esercito di Gordiano, che stava allora progettando una campagna in
Persia; sennonché l’imperatore viene sconfitto in Mesopotamia e il periplo di
Plotino subisce una battuta d’arresto. All’età di quarantun anni, sbarca a Roma, e
qui, senza ancora aver scritto nulla, si mette a insegnare il pensiero di Ammonio
per un decennio. Solo più tardi comincia a redigere i propri trattati, che Porfirio
raggrupperà in seguito sotto il titolo di Enneadi, cioè, etimologicamente, «gruppi
di nove».
Che tecnica utilizzava Plotino per arrivare alle sue unioni mistiche pagane?
Ovviamente, il disprezzo del corpo. Fin dalla prima Enneade, Plotino afferma:
«È necessario che [l’uomo], come tirato in senso opposto, verso il Bene, da un
contropeso, diminuisca e indebolisca il suo corpo, così da mostrare che l’uomo
vero è ben diverso dalle cose esteriori. […] non vorrà essere del tutto ignaro
delle malattie né dei dolori, e se non li ha provati, vorrà esperimentarli».23 Il
filosofo confessa di desiderare il dolore. Però, secondo lui, «dovrebbe avere
questa dottrina che la morte è migliore della vita col corpo».24 La felicità si
acquista con la diminuzione e l’indebolimento del corpo. Occorre realizzare
l’atarassia mentale, perché «Non è possibile vivere felicemente in società col
corpo»:25 bisogna saperlo «lascia[re] a terra, […] guarda[re] con disprezzo».26
Ma in cosa consiste la purificazione? «La purificazione consiste nell’isolare
l’anima affinché non si unisca ad altro e non guardi ad altro e non abbia più
opinioni estranee, siano queste, opinioni o passioni, come s’è detto, e non guardi
quei fantasmi né produca con essi le passioni. Come non sarà purificazione se
essa procede così dal basso verso l’altra parte, cioè verso l’alto?»27 Nel testo,
Plotino si spinge lontano tanto quanto Platone, ma nella pratica della teoria va di
sicuro oltre. Platone insegna la necessità dell’ascesi, ma, amante dei banchetti e
dei giovanotti, non mette in pratica gli insegnamenti che va professando; al
contrario, Plotino, con la sua dieta corporea e la sua tensione mistica, conduce
una vera e propria vita filosofica radicale.
Per Plotino, esistono tre ipostasi nel mondo intelligibile. Partiamo dalla terza,
quella più vicina al mondo sensibile, quella che tocca il corpo e la materia.
La terza ipostasi è l’anima. L’anima universale, in altre parole: l’anima senza
il corpo. L’anima individuale che, pur partecipando dell’anima universale, si
trova unita al corpo. L’anima individuale che esiste contemporaneamente
all’anima dell’universo e all’anima divina.
La seconda ipostasi, l’intelligenza, deriva dall’atto di conversione verso il
Bene, e permette di vedere le essenze multiple. È il luogo degli intelligibili.
L’intelligenza si contempla, e facendo questo si rivela moltiplicata in sé stessa. Il
suo atto, il pensiero, è il mondo universale, ed è l’insieme degli Intellegibili o
Idee.
La prima ipostasi, invece, è l’Uno-Bene, cioè il Bene che causa la visione
dell’essenza. Può essere indicato solo negativamente, perché ogni asserzione
positiva priverebbe della possibilità di affermare il contrario, e questo tipo di
incompletezza non può mai convenire alla perfezione. Ma neppure, per le stesse
ragioni, lo si può esprimere positivamente. La terza ipostasi è insomma uno
sforzo di ascesi; la seconda, uno sforzo di astrazione; la prima è la purificazione
totale che permette di produrre l’estasi.
Gli esercizi spirituali che servono a lottare contro i desideri e contro i piaceri,
contro la carne e contro la pancia, contro i desideri e contro le passioni, sono resi
possibili da un volere che contraddice l’insegnamento platonico e neoplatonico:
se, in effetti, il ciclo delle reincarnazioni si appoggia alla necessità, e se sono gli
astri a determinare il percorso di una vita,28 come può la libertà avere un qualche
ruolo?
Plotino cita Platone, secondo il quale alcuni uomini, a causa di una vita
assolutamente non all’altezza, si reincarnano addirittura in una pianta.29 In che
modo, però, ci chiediamo, una pianta può possedere la volontà di condurre
un’esistenza che gli permetta di purificarsi e di liberarsi dalla propria prigione
materiale? E cosa dobbiamo pensare del povero cerbiatto che, a causa di una vita
passata in balia del destino, della fatalità e della volontà degli dèi, sarà costretto,
dopo il giorno del giudizio, a reincarnarsi in un albero? Di quale purificazione
potrà mai essere capace l’ulivo per permettere all’anima che si trova
imprigionata nel proprio tronco di compiere il percorso che riuscirà e staccarsi
da quella sua tomba di scorza, per trasformarsi nel famoso riccio capace, a sua
volta, un giorno, di diventare filosofo plotiniano?
Plotino ha consacrato una quarantina d’anni della propria esistenza a praticare
questa purificazione con terribili esercizi di ascesi fisica, e meditazione
intellettuale e spirituale. Nella sua Vita di Plotino, Porfirio ci racconta che il suo
maestro ha conosciuto solo quattro estasi,30 in pratica una ogni dieci anni…
Plotino muore attorno alla seconda metà del III secolo della nostra era, e più
precisamente nel 270. I cristiani stanno già conquistando intellettualmente e
spiritualmente il mondo, e i testi che Plotino consacra agli gnostici sono a tutti
gli effetti diretti contro i devoti di Cristo, allora ancora dispersi qua e là e divisi
in sette gnostiche diverse, ma destinati a essere ben presto politicamente
recuperati e raccolti dall’imperatore Costantino, che, nel 313, con l’editto di
Milano, concede la libertà di culto.
Questa saggezza esistenziale neoplatonica riduce a essenza quello che, dagli
egiziani prima, e dagli orfici e dai pitagorici poi, fino a Plotino e passando da
Platone, contribuisce a definire la genealogia del corpo occidentale.
Il corpo prodotto su questa linea è un corpo tagliuzzato, smembrato e
mutilato: da una parte, c’è l’anima immateriale composta della stessa sostanza
eterea degli dèi, una specie di anima bianca; dall’altra, la carne materiale,
composta invece come quella degli animali. Qui, l’anima, che ci unisce al
mondo intelligibile, che è quello vero; di là, il corpo, che ci blocca nel mondo
sensibile, mondo di illusioni, mondo falso. L’anima funziona da tramite tra
l’uomo e gli dèi, e permette di unirsi a loro e di vivere nel loro mondo,
conoscendo la beatitudine della vita eterna. Il corpo, invece, riporta alla trivialità
del reale, ed è corruttibile, sottoposto al fluire del tempo e destinato alla morte.
La nostra materia ci uccide, ma la nostra anima ci salva.
Da questo mondo, possiamo accedere al retromondo (che è quello che assicura
di fatto che noi ci troviamo all’interno di una concezione religiosa delle cose)
attraverso la fuga. E questa fuga è, a sua volta, resa possibile da un particolare
uso del corpo e dell’anima: occorre disprezzare il primo e celebrare la seconda –
è questo il senso della purificazione. Il disprezzo del corpo apre le porte di un
cielo senza materia, popolato di sole anime eterne e immortali. A questo cielo
possiamo accedere morendo su questa Terra e ottenendo la vita eterna
nell’aldilà. L’anima bianca è uno strumento soteriologico. Permette di salvarsi
grazie al suo impiego filosofico corretto. Essa è ciò che se ne fa: se la si usa
male, porta alla dispersione; se è utilizzata bene, invece, cioè se è utilizzata
contro la carne e contro il corpo, contro la materia e contro il reale, è in grado di
aprire le porte del paradiso.
Il cristianesimo mette assieme come in un collage tutte queste saggezze
antiche e pagane. Conserva il dualismo che divide il corpo: da una parte l’anima
e dall’altra la carne; deduce da questa divisione la separazione tra mondo
intelligibile in alto, in cielo, e mondo sensibile in basso, sulla Terra; connota
positivamente ciò che è celeste e negativamente ciò che è terrestre; oppone la
magnifica città di Dio alla terribile città degli uomini; manda alla gogna desideri,
passioni, pulsioni ed emozioni, in breve tutto quello che appartiene al mondo
della carne, e porta invece alle stelle l’anima, lo spirito, il celeste, l’ineffabile,
l’indicibile, quel «qualche cosa» di cui parlava Socrate. La sua originalità, in
realtà, si trova nella metamorfosi dell’anima bianca dei platonici nell’anima nera
dei cristiani.
Capitolo quarto
Corpi di carta e vita testuale
Creare un anticorpo
I fedeli sono generalmente tutti critici nei confronti delle fedi altrui: le
considerano come un insieme di finzioni e di illusioni, come mitologie da cui
vanno fieri di non-essere stati abbindolati. Allo stesso tempo, però, i fedeli sono
loro stessi devoti di quella particolare fede che condividono, e di conseguenza
delle sue finzioni, delle sue illusioni e delle sue mitologie, tutte cose che gli altri
invece continueranno a valutare con incredulità… Uno crede che il proprio Dio
divida il mare in due per lasciar passare il suo popolo, poi però guarda con
occhio sbalordito il proprio simile che gli spiega come il suo profeta abbia
percorso la distanza tra Gerusalemme e la Mecca in cielo e su un cavallo, mentre
un terzo arriva a sostenere che il suo Dio è nato da una vergine e si è fatto un
uomo, per morire crocifisso e resuscitare il terzo giorno, prima di assurgere in
cielo e sedere alla destra del padre – cerchiamo di apprezzare la precisione di
questo atto di lateralizzazione, perché è il luogo in cui vive tuttora, mentre noi
stiamo qui a parlare…
Per quanto mi riguarda, sono del tutto privo di quella pulsione alla devozione
che potrebbe spingermi a dirmi d’accordo con una o l’altra di queste tre belle
storielle, e tendo invece a osservare le religioni della mia civiltà da filosofo, vale
a dire come una serie di mitologie da cui si può trarre un certo piacere
intellettuale, senza però doverne condividere per forza le credenze. Insomma,
leggo la Bibbia come se fosse una prima versione della Divina Commedia.
Per me, Gesù rimane una delle tante finzioni, quella su cui è stata costruita la
civiltà giudaico-cristiana. E ho grandissimo rispetto per chi, cercando di far
crollare la tesi mitista secondo cui Gesù non ha alcun fondamento storico, arriva
a dedurre da una frase che non si tratta di una cosa seria. In realtà, quello che
non è serio è il fatto di voler ignorare tutte queste cose, e di volerle cassare senza
argomentazioni.
Da qui, deriva la seconda cosa che dobbiamo tenere a mente, e cioè che Gesù è
un personaggio concettuale che non ha altra carne se non quella che la civiltà
cristiana gli ha cucito addosso nel corso dei primi dieci secoli della nostra era
grazie all’opera dei suoi pensatori e dei suoi filosofi, in particolare dei Padri
della Chiesa. A questi filosofi, aggiungiamo tutti i concili che hanno contribuito
a costruire il corpo occidentale e, più in particolare, la sua anima, e poi però
anche la scolastica successiva, e i vari artisti, architetti, pittori e scultori che
hanno costruito una visibilità globale a livello di civiltà per questo personaggio-
concetto.
Se il Verbo si fa carne non è tanto grazie a una misteriosa Incarnazione
teologica, che ha bisogno di tutte le categorie della metafisica aristotelica per
apparire come credibile, quanto per mezzo di una corporeizzazione intellettuale,
artistica, spirituale, filosofica, politica ed estetica: è questo il foglio di via della
cosiddetta civiltà giudaico-cristiana.
Perché l’ossimoro di questa carne, presentata come umana e divina allo stesso
tempo, possa essere intellettualmente costruita, occorre che, in virtù della propria
umanità, assomigli a quella di tutti gli altri esseri umani, e quindi preveda una
nascita, un’infanzia, una vita e una morte, e poi la possibilità di bere e di
mangiare, di dormire e di soffrire, di parlare agli amici e alle donne. Allo stesso
tempo, però, c’è anche bisogno che non abbia niente di umano: la nascita deve
essere miracolosa, l’infanzia straordinaria, i talenti precoci, la potenza
taumaturgica, l’alimentazione simbolica, e la sottomissione alla morte
impossibile. È questa la sfida da raccogliere! Gesù dispone insomma di un corpo
ossimorico.
La sua stravagante biografia la conosciamo tutti: il momento della nascita
mette in scena Maria, una vergine che dà alla luce un bambino, e Giuseppe, un
padre che non è il vero genitore; il concepimento non avviene secondo vie
naturali, come per qualsiasi altro uomo sul pianeta, ma per il tramite dello
Spirito Santo – il testo di Luca precisa che, a Maria, l’angelo Gabriele dice che
«la potenza dell’Altissimo [la] coprirà con la sua ombra» (Lc 1, 35), e che però il
bambino sarà comunque «il frutto del [s]uo grembo» (Lc 1, 42); poi arriva
Gabriele, accompagnato da «una moltitudine dell’esercito celeste» (Lc 2, 11-13),
ad annunciare la nascita (Lc 2, 11-13); l’ottavo giorno, il bambino viene
circonciso e chiamato Gesù (Yehoshua), che in ebraico significa «Dio salva»; a
dodici anni scappa dai genitori, i quali si accorgono della sua assenza dopo una
giornata di marcia; tre giorni più tardi, lo ritrovano che ascolta e interroga i
dottori della Legge al Tempio di Gerusalemme; stupito dallo stupore del padre,
Gesù dice: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle
cose del Padre mio?» (Lc 2, 49). E qui l’evangelista precisa: «Ma essi non
compresero ciò che aveva detto loro» (Lc 2, 50). Quando ha ormai una trentina
d’anni, Gesù si fa battezzare da Giovanni, e qui il cielo si aprì «e discese sopra di
lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal
cielo: ‘Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento’» (Lc
3, 22) – uno potrebbe anche domandarsi perché Gesù, che è senza peccato, senta
il bisogno di farsi battezzare, visto che il succo di tutta la cerimonia consiste
precisamente nel cancellare i peccati; a un certo punto, prende e se ne va nel
deserto, «per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei
giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame» (Lc 4, 2-3) – e qui vediamo una
commistione tra il divino che ignora la fame e l’umano che scopre l’appetito; si
mette allora a parlare con il diavolo e resiste alle sue tentazioni; compie tutta una
quantità di guarigioni tramite imposizione delle mani o grazie alla pura e
semplice potenza del proprio verbo (a volte, per guarire, gli basta toccare i lembi
inferiori dei vestiti): la suocera di Simone, il lebbroso, il paralitico, i ciechi,
l’uomo con la mano paralizzata, la donna che ha perdite di sangue da dodici
anni, il servo del centurione, il muto, l’idropico, l’uomo con l’orecchio tagliato;
Gesù poi resuscita i morti e placa gli elementi della natura, ferma il vento e la
tempesta; provoca pesche miracolose e dal corpo di Maria di Magdala fa uscire
sette demoni; la stessa cosa, la compie altrove: «Da molti uscivano anche
demòni, gridando: ‘Tu sei il Figlio di Dio’» (Lc 4, 41); muore e poi, il terzo
giorno, resuscita dopo aver spostato da solo l’enorme pietra che chiudeva la
tomba (ci si domanda il perché di tanto sforzo, quando avrebbe semplicemente
potuto passare attraverso i muri); riappare ai propri discepoli e si rimette a
mangiare con loro, anzi partecipa a parecchi dei loro pranzi, cibandosi di
alimenti dal forte valore simbolico: pesce, vino e miele. Il pesce perché la parola
greca che lo indica (ichthýs) è l’acronimo di Iesùs CHristòs THeù HYiòs Sotèr,
vale a dire «Gesù Cristo, figlio di Dio salvatore»; il vino perché annuncia il
sangue versato; il pane per via del processo di lievitazione, che corrisponde a
quello che fa la Chiesa grazie alla parola di Dio; il pane e il vino annunciano il
mistero dell’eucaristia e della comunione sotto le due specie, e al miele viene
associata la parola di Dio nell’Antico Testamento, confrontiamo per esempio
Ezechiele (3, 3) o i Salmi (19, 11; 119, 103); alla fine sale in cielo dove, al
momento attuale, ancora sembra risiedere…
In apertura del proprio Vangelo, Luca si preoccupa di segnalare che, per tutte
le cose che racconta, ha incontrato i testimoni, e questo fatto dovrebbe
convalidare dal punto di vista storico tutte le sue storie. Non sappiamo bene
esattamente chi abbia incontrato, né che cosa gli abbiano raccontato. Quando
Luca scrive il suo testo, tra l’80 e l’85 della nostra era, gli eventi che racconta
sono ormai vecchi di mezzo secolo. Quindi, se Luca ha sentito dei testimoni
diretti, al momento della crocifissione dovevano essere molto giovani e, quando
l’evangelista li incontra, invece, avere certo più di cinquant’anni… Non si
capisce bene perché Luca non fornisca le generalità di questi testimoni; magari è
solo perché se li è inventati nel tentativo di far passare il proprio meraviglioso
racconto come testo storico.
Ed ecco la terza cosa da tenere a mente di questo vangelo: il testo deve essere
interpretato, perché è enigmatico, e il suo senso è nascosto, e solo la relazione
con Gesù, con gli apostoli o con i loro discendenti, cioè gli uomini di Chiesa, è
in grado di disporre del senso.
La relazione del maestro con il proprio discepolo, per come esiste nella
filosofia antica, ritrova qui i suoi titoli di nobiltà: la parabola è una parola
esoterica che diventa essoterica dopo essere stata spiegata dal maestro che
domina il sapere, o da uno dei suoi discepoli iniziati. Se nessuno è in grado di
resuscitare i morti, vale a dire di rendere la vita a chi l’ha persa, occorrerà per
forza di cose che vita e morte significhino una cosa diversa rispetto a quella
anatomica, e liberino tutto il loro significato sul piano allegorico. E Luca ci aiuta
in effetti a leggere le cose in questo modo.
Racconta per esempio la Parabola del seminatore (Lc 8, 5-8) che il contadino
lancia i propri semi; una parte di questi semi finisce nel fossato e viene mangiata
dagli uccelli; un’altra parte finisce sulla pietra e, in mancanza di terra e di
umidità, cresce per un po’ ma poi si secca; un’altra parte ancora cade in mezzo ai
rovi, e questi rovi le impediscono di svilupparsi; un’ultima parte finisce su terra
buona, al punto giusto e con la giusta umidità, e così riesce a produrre cento
volte tanto…
Lo spirito meschino non riuscirà a vedere più lontano di quello che racconta la
storiella, e ne trarrà una specie di lezione agronomica… Ne tirerà fuori la morale
del buon contadino che si preoccupa di guardare bene dove cadono i semi
quando li distribuisce, in modo da non sprecarli! Punto a capo.
Gesù però ci avverte: «Chi ha orecchi[e] per ascoltare, ascolti» (Lc 8, 8), il
che significa, propriamente parlando, delucidare l’enigma di una parabola
attraverso un’altra parabola! Perché, che cosa vuol dire avere delle orecchie in
grado di ascoltare i due livelli della storia? I suoi interlocutori glielo chiedono e
lui risponde: «A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri
solo con parabole, affinché / vedendo non vedano / e ascoltando non
comprendano» (Lc 8, 10).
Poi, rompendo il mistero, aggiunge:
Il significato della parabola è questo: il seme è la parola di Dio. I semi caduti lungo la strada sono
coloro che l’hanno ascoltata, ma poi viene il diavolo e porta via la Parola dal loro cuore, perché
non avvenga che, credendo, siano salvati. Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano,
ricevono la Parola con gioia, ma non hanno radici; credono per un certo tempo, ma nel tempo
della prova vengono meno. Quello caduto in mezzo ai rovi sono coloro che, dopo aver ascoltato,
strada facendo si lasciano soffocare da preoccupazioni, ricchezze e piaceri della vita e non
giungono a maturazione. Quello sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola
con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza (Lc 8, 11-15).
Dove si vede che la pista agronomica è accolta solo dallo stupido che guarda il
dito quando il saggio indica la Luna! Nella logica dell’allegoria, invece, questa
cosa non è questa cosa ma un’altra cosa, e anche quello che crediamo è un’altra
cosa, e a rivelarcela è il maestro, l’iniziato, il discepolo, che la trasmette a chi
non la conosce.
Mettiamo questa storia in relazione con un’altra storia.
Entrando a Gerico, un cieco, seduto sul ciglio della strada, sta mendicando e
chiede di poter vedere questo Gesù annunciato dal rumoreggiare della folla.
Gesù si avvicina e gli dice: «‘Che cosa vuoi che io faccia per te?’ Egli rispose:
‘Signore, che io veda di nuovo!’ E Gesù gli disse: ‘Abbi di nuovo la vista! La
tua fede ti ha salvato’. Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo glorificando
Dio» (Lc 18, 41-43).
Una lettura semplicemente oftalmologica finirebbe per sbattere subito contro
il muro, esattamente come una lettura agronomica della parabola dei semi.
Qualsiasi lettura positivista di un testo allegorico si inoltra su una strada senza
uscita. Il Nuovo Testamento è un catalogo di enigmi che l’iniziato deve
decifrare. L’Ecclesia, la Chiesa, indica la comunità degli iniziati desiderosi di
allargare le proprie possibilità. Perché, in fondo, la vocazione di questo sapere
nascosto non è di rimanere tale, ma di diffondersi a più persone possibili.
Il mendicante di Gerico riceve una parola che è la chiave dell’enigma: è la
fede che salva e non gli ipotetici poteri taumaturgici di Gesù. Non è la mano
imposta sul malato o appoggiata sulla piaga che cura, è la parola, il famoso
Verbo di cui Giovanni ci dice che salva. Gesù è il Verbo che cura e guarisce
attraverso il Verbo.
In questo modo, la vita e la morte non devono essere intese come categorie
anatomiche, fisiologiche, o medico-legali, ma come stati spirituali. La donna che
soffre di emorragie, il cieco, il sordo, il paralitico non sono malati di emorragie
nei termini del ginecologo, o ciechi nei termini dell’oftalmologo, o sordi nei
termini dell’otorinolaringoiatra, o paralitici nei termini del neurologo, ma sono
tutte queste cose perché sono malati nell’anima e nell’essere, nella psiche e nello
spirito, nel cuore – che non è ovviamente quello del cardiologo…
In altre parole, la lezione di Gesù che i Vangeli ci trasmettono non è quella di
uno sciamano, di un guaritore, di un taumaturgo, o di uno stregone dotato di
poteri sovrannaturali, ma quella di un uomo saggio, di un filosofo, o di un
maestro di verità e di saggezza esistenziale. Non troviamo, in questi versetti di
Luca, nessuna minaccia di inferno, di purgatorio o di paradiso, nessun ricatto di
dannazione. Per quanto paradossale possa sembrare, la parola «anima» non
appare mai nei Vangeli, ma nemmeno quella di «inferno» o di «paradiso».
Nei Vangeli, si contrappongono i vivi ai defunti, e la vita alla morte, ma non si
parla mai di salvare le anime o di condannare i corpi. E sono quelle le parole che
entrano nella dialettica allegorica del Nuovo Testamento: la morte, che è vita
senza Dio, e la vita, che è vita assieme a lui. La vita con Dio è la vita etica che
Luca ci indica.
Un esempio. La figlia di Giàiro, dodici anni, è morta. A quest’ultimo, Gesù
dice: «Non temere, soltanto abbi fede e sarà salvata» (Lc 8, 50). Entra nella
camera mortuaria con tre dei suoi discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, e i
genitori della bambina che piangono e si battono il petto. «Gesù disse: ‘Non
piangete. Non è morta, ma dorme’. Essi lo deridevano, sapendo bene che era
morta; ma egli le prese la mano e disse ad alta voce: ‘Fanciulla, àlzati!’ La vita
ritornò in lei e si alzò all’istante» (Lc 18, 52-55). A salvare, lo dice il testo, è
l’atto di fede, non il gesto che fa Gesù.
Nella parabola del figliol prodigo, il padre uccide il vitello grasso non per
celebrare e onorare il figlio migliore, ma l’altro, il figlio peccatore. Il figlio
offeso domanda le ragioni di questa ingiustizia. E la risposta del padre è: «ma
bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato
in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15, 32).
Morto al mondo è chi non vive secondo i princìpi dettati da Dio; vivo per
l’eternità chi, al contrario, regola la sua vita proprio su questi princìpi.
La quarta cosa da tenere a mente di questo Vangelo è l’idea che vivere
secondo le proprie passioni, secondo le proprie emozioni o secondo le proprie
sensazioni significa condurre la vita di un cieco o di un paralitico, di un sordo o
di un muto, se non addirittura quella di un morto.
Abbiamo visto che, dal punto di vista anatomico, il corpo di Gesù si rivela essere
un anticorpo: non ha un padre umano ed è concepito da una forza estranea,
indifferente alla genetica; è accompagnato dagli angeli e non gli si conoscono
passioni; non ha una donna, non pratica sesso e non si lascia andare a risate,
anche se ogni tanto qualche lacrima gli scappa (due volte piange per
compassione e una per paura); non ha desideri, non si ciba di alimenti terrestri e
non si sa se e quanto espella; resiste alle tentazioni ed è superiormente dotato già
all’età in cui i bambini di solito giocano a nascondino; muore, ma solo per tre
giorni, dopodiché resuscita e si rimette a vivere una vita in cui sembra
dimenticare che, in virtù della Parusia, il suo ritorno è sempre atteso sulla Terra,
annunciato prima della morte di coloro che lo stanno ad ascoltare da due
millenni… Davvero: imitare un simile uomo è una vera sfida!
L’etica proposta da Gesù è, etimologicamente parlando, inumana, cioè
davvero oltre ogni umanità. Esige, in effetti, un uomo che sia simile a un
cadavere, un uomo insensibile ai colpi della sorte e distaccato da tutti i beni del
mondo. Un uomo privo di amici, nel senso latino del termine, senza una moglie,
senza figli, senza un padre e senza una madre degni di questo nome, insomma
senza famiglia. A sentire il figlio di Giuseppe e Maria, l’ideale è un uomo nudo.
Gesù propone delle incredibili prodezze etiche e morali: amare il proprio
prossimo qualunque esso sia, e quindi amare anche i propri nemici, i propri
avversari e tutti quelli che ci detestano e ci vogliono o ci fanno del male; tendere
l’altra guancia a chi ci sta colpendo il viso; offrire ancora di più al ladro che ci
sta derubando dei nostri beni; prestare senza pensare alla restituzione; essere
buoni con i cattivi; non giudicare e non condannare; dimostrarsi misericordiosi;
dare tutto quello che si ha; fare l’elemosina e invitare alla propria tavola poveri,
storpi, zoppi e ciechi.
A un ricco che gli stava chiedendo come potesse fare per ottenere la vita
eterna, Gesù risponde: «Tu conosci i comandamenti: Non commettere adulterio,
non uccidere, non rubare, non testimoniare il falso, onora tuo padre e tua
madre» (Lc 18, 20). Qui, peraltro, i dieci comandamenti si sono ridotti a cinque.
Gesù aggiunge: «vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un
tesoro nei cieli; e vieni! Seguimi» (Lc 18, 22). Non è difficile capire come
possano esserci stati dei punti di contatto tra il cinismo greco e il cristianesimo
dei primi tempi. Non sappiamo che cosa abbia poi deciso di fare il ricco…
Imitare un uomo simile poteva rendere possibile una civiltà? Ovviamente
no…
Questo anticorpo angelico e virginale offriva un modello ideale per un
cristianesimo radicale, quale fu vissuto dai primi cristiani, eremiti o cenobiti.
Monaci atleti del deserto, come si disse, questi fedeli hanno condotto una vita
secondo gli insegnamenti di Gesù: frugalità, ascesi, povertà, austerità e
astinenza, fino all’eccesso – vivere tutta una vita in una tomba murata, oppure
sopra una colonna alta venti metri, oppure nudi sopra dei mattoni in attesa che il
sudore li sciolga, oppure ancora avvolti nudi dal miele per essere punti dalle
zanzare e puniti per il semplice fatto di averne uccisa una. Il cristianesimo di
questa specie poteva portare solo a una serie di vite individuali, non a una civiltà.
È un altro Gesù quello che rende possibile la civiltà: è il Cristo, in altre parole
il Gesù crocifisso, suppliziato e morto sulla croce e infine resuscitato,
trasformato nel simbolo di questa nuova religione. Che uno strumento di tortura
abbia potuto diventare il segno sotto cui riunificare tutti i devoti di questa
religione ci insegna molto sul fatto di come essa sia riuscita a rovesciare sul
corpo etereo di Gesù quello suppliziato e sanguinolento di Cristo. L’invito a
imitare l’angelo, che presuppone la cancellazione del corpo, è accompagnato
dall’invito a imitare allo stesso tempo il cadavere, mentre alle donne veniva
offerta la possibilità di imitare una vergine madre…
Come si sia passati dal Gesù vivo al Cristo sanguinolento, figura della morte,
e poi al Gesù Cristo angelo mortificato e modello esistenziale per un migliaio di
anni, è la storia del paolinismo…
Capitolo quinto
Le lingue di fuoco dello Spirito Santo
Dannare la carne
«Molti dei fedeli» significa che non c’è stato soltanto il martirio di Stefano
(At 7, 54-60), a cui viene ridotto, nella maggior parte dei casi, il passato
cristianofobo di Paolo. In quel caso, avrebbe partecipato semplicemente tenendo
in mano i vestiti del primo martire della Chiesa, come viene spesso ricordato. Gli
Atti ci raccontano però anche che «Saulo intanto cercava di distruggere la
Chiesa» (At 8, 3). E la Chiesa, uno non la distrugge standosene semplicemente
con in mano i vestiti di una persona che altri stanno lapidando…
Poi, sulla strada per Damasco, dove contava di poter organizzare nuove
spedizioni punitive di morte contro i cristiani, ha la rivelazione: l’iconografia
cristiana ce lo rappresenta mentre cade da cavallo. Nel testo neotestamentario, in
realtà, il destriero non viene affatto menzionato, però la descrizione è
ugualmente precisa: c’è un bagliore che illumina il cielo e una voce che gli si
rivolge, una voce che sentono persino i suoi compagni di viaggio, ed è quella di
Gesù che gli chiede perché lo stia perseguitando. Saulo avrebbe potuto iniziare
un dialogo ad alto tenore teologico con Cristo, che gli stava concedendo il
privilegio di apparirgli e l’elemosina di una conversazione; Saulo avrebbe potuto
cercare di convincerlo che lui, Cristo, era solo un impostore che pretendeva di
essere il Messia annunciato dalle Scritture. Però il dibattito non c’è stato: Saulo
si rialza da terra, come ci hanno raccontato (il che significa che è caduto da una
posizione in piedi), e ha perduto la vista. Entra a Damasco tenendo la mano di
uno dei suoi compagni. Resta tre giorni senza riuscire a vedere niente, senza
mangiare e senza bere. Giusto il tempo che serve a Gesù per resuscitare: di
giorni, non ne poteva certo fare di meno; giusto il tempo che l’ebreo Saulo si
trasformi nel Paolo della civiltà giudaico-cristiana.
L’opera di evangelizzazione che conduce nel corso dei suoi tre grandi viaggi
nel bacino mediterraneo è considerevole: Giudea, Asia minore e Grecia; questa
sua opera la paragona al «pugilato» (1Cor 9, 26).31 Da fanatico cristiano, si
comporta con i pagani come l’ebreo che era stato si era comportato con i
cristiani: Paolo è davvero l’uomo che, nella storia dell’arte, viene non senza
ragione associato alla spada.
Lo vediamo anche presenziare a un autodafé di libri definiti di «magia», e che
in realtà erano tutte opere di teologia pagana, e non, come precisano spesso gli
apparati critici, di «scienze occulte»! «Ne fu calcolato il valore complessivo e si
trovò che era di cinquantamila monete d’argento» (At 19, 19) – una fortuna, in
effetti. Si trattava di libri preziosi delle religioni combattute da Paolo, cioè
paganesimo e giudaismo. E niente impedisce che sulle braci siano finiti anche
dei rotoli della Torah.
La volontà di evangelizzare con la violenza e attraverso il combattimento
fisico è straordinariamente persistente. Giudichiamo noi stessi: «Io dunque
corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte
l’aria». E poi ancora, sulla scia: «tratto duramente il mio corpo e lo riduco in
schiavitù, perché non succeda che, dopo avere predicato agli altri, io stesso
venga squalificato» (1Cor 9, 26-27). Che cosa ci rappresenta questo pugile che
pratica il pugilato anche contro sé stesso? Che cosa dobbiamo pensare di questo
personaggio che mena colpi agli altri, ma non dimentica di infliggersene pure da
solo?
È lo stesso Paolo a fornire i dettagli autobiografici. Nelle sue Confessioni,
sant’Agostino si ricorderà di questa particolare procedura apologetica. Leggiamo
la seconda lettera ai Corinzi:
Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; tre volte sono stato battuto con le
verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una
notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai
miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare,
pericoli da parte di falsi fratelli; disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete, frequenti
digiuni, freddo e nudità (2Cor 11, 24-27).
Nel mio Trattato di ateologia, avevo anche proposto un’altra malattia, meno
fisica, meno fisiologica, meno anatomo-patologica, e invece più psichica:
un’omosessualità rimossa, oppure più semplicemente un’impotenza sessuale, o
l’una come causa dell’altra. Una lettura probabilmente un po’ azzardata, tenendo
soprattutto presente un’altra informazione che riguarda il corpo di Paolo e che ci
viene fornita nella lettera ai Galati: «Sapete che durante una malattia del corpo vi
annunciai il Vangelo la prima volta; quella che, nella mia carne, era per voi una
prova, non l’avete disprezzata né respinta» (Gal 4, 13-14).
Se questa malattia del corpo si presentava come capace di provocare disprezzo
o repulsione da parte degli altri, significa che era visibile, e questo esclude tutta
una serie di patologie che potremmo definire, in un certo senso, silenziose. Non
riusciamo a immaginarci bene come una fistola anale, o delle emorroidi possano
essere invocate a risolvere l’enigma allegorico di quella spina. Si tratta bene o
male di parti anatomiche non utili all’opera di evangelizzazione. E nemmeno
possono sembrare verosimili otiti, sinusiti o calcolosi, o problemi vari di
ritenzione urinaria, o altre affezioni da cui i nostri interlocutori potrebbero
rimanere colpiti soltanto se qualcuno gliele confessasse. Restano le malattie
invasive della pelle, dermatosi giganti o cose del genere, che funzionano a cicli e
che, nei momenti di remissione, possono anche lasciar credere di essere
scomparse.
Comunque stiano le cose riguardo a questa spina nella carne dell’aborto, la
cosa davvero problematica è che quest’uomo, affrontando la questione dell’uso
del proprio corpo, abbia potuto rivolgersi all’intera assemblea riunita dei
cristiani con queste parole: «Diventate miei imitatori» (1Cor 11, 1); e: «morire
[è] un guadagno» (Fil 1, 21). Imitare una persona che soffre di una patologia
invalidante e preferire la morte alla vita è una specie di programma ontologico
ed esistenziale che non dovrebbe mai portare alla costruzione di una civiltà, a
meno di non voler fondare una civiltà di nevrotici…
Il corpus paoliniano è il corpo di Paolo, e questo corpus fonda la civiltà
giudaico-cristiana.
Il paolinismo (non voglio dilungarmi sull’argomento)33 è composto da un
insieme di tesi: l’opprimente antisemitismo nei confronti degli ebrei, i quali, non
avendo accettato il fatto che Gesù è il Messia annunciato dalle Scritture (At 3,
20; Rom 10, 21), vengono ritenuti responsabili della morte del Figlio di Dio
fattosi uomo (At 3, 15) – Paolo descrive a lungo la capacità d’intrigo propria
degli ebrei (At 25, 8-12); quella che oggi chiameremmo omofobia, e che è
sostanzialmente persecuzione di quanti allora venivano definiti sodomiti (Rom 1,
27); la misoginia e il dominio maschile, conseguenze del peccato originale di
Eva, e di fatto responsabili di una situazione in cui le donne si ritrovano a subire
totalmente l’autorità degli uomini, senza poter per esempio insegnare, costrette a
chiedere sempre quello che vogliono sapere, a mantenere il silenzio e a
occuparsi unicamente della casa, del focolare e della famiglia, con l’unica
possibilità di redenzione offerta dalla procreazione – «lei sarà salvata partorendo
figli» (1Tm 2, 15); l’anti-intellettualismo, che presuppone la celebrazione
dell’innocenza e dell’ignoranza e che si trova sempre accompagnato da un
profondo disprezzo nei confronti della filosofia (1Col 1, 19-20 e 3, 18): «Fate
attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri
ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo
Cristo» (Col 2, 8); il cesaropapismo, che, in virtù del principio secondo il quale
«tutto il potere proviene da Dio» («Ciascuno sia sottomesso alle autorità
costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono
stabilite da Dio», Rom 13, 1) e, di conseguenza, qualsiasi atto di disobbedienza
dal demonio, invita a obbedire ai potenti che esercitano il potere perché è Dio
che li ha resi così come sono – che è anche la ragione per cui, assieme all’opera
di evangelizzazione portata avanti a forza di fendenti e autodafé, a furia di colpi
inferti e mosse da pugilato, il cristianesimo, nella sua forma paoliniana, riesce a
trionfare con Costantino all’inizio del IV secolo, e a fondare una civiltà.
Quello che vorrei invece qui precisare riguarda la condanna della carne da parte
di quest’uomo che sembrava vedere la propria (carne) condannata, e che,
nonostante tutto, si ostinava a proporsi come modello, invitando tutti quanti a
prendere esempio da lui. La verità è che universalizzare la propria nevrosi non
ha mai eliminato nessuna nevrosi, di certo non quella di chi crede di poterla
cancellare grazie a sotterfugi come questo. Opprimere il mondo non dà nessun
sollievo a chi decide di opprimere. Far impazzire il prossimo per farla finita con
la propria pazzia porta soltanto a moltiplicarla.
Come fa allora Paolo per condannare la carne?
Innanzitutto, si mette a discutere con costanza dello Spirito Santo, il cui altro
nome è Paracleto. Ovviamente, nel Nuovo Testamento, non esiste nessuna
definizione soddisfacente di questa nozione, semplicemente lo Spirito Santo
esiste e produce degli effetti, tutto qui: assume la forma di una colomba al
momento dell’Annunciazione; è responsabile dello stato interessante di Maria;
sempre sotto forma di colomba, viene visto da Gesù scendere sopra di sé al
momento del proprio battesimo; guida lo stesso Gesù nel deserto e ne fa più tardi
il proprio prescelto; si occupa delle conversioni, ed è anche quella cosa che, in
forma di lingue di fuoco, scende sulla testa degli apostoli il giorno della
Pentecoste: «Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si
posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e
cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il
potere di esprimersi. / Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di
ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase
turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» (At 2, 3-6). In altre
parole, lo Spirito Santo è l’opposto della torre di Babele, cioè di quella torre in
cui gli uomini che parlavano tutti una stessa lingua furono puniti da Dio, che
decise di far scendere sopra di loro la confusione linguistica per punirli di averlo
sfidato e di voler raggiungere il cielo costruendo quella loro opera di pietra. È il
Cristo immateriale che porta dunque a compimento quello che gli uomini,
invischiati come sono nella materia, non riescono a ottenere: un luogo in cui tutti
gli uomini si comprendono parlando la stessa lingua – solo che questo può
avvenire unicamente in lui, attraverso di lui e in suo nome. Ecco annunciato il
corpo mistico della Chiesa a sostituzione dei corpi terrestri.
Scrive, in seguito, Paolo ai Corinzi: «Non sapete che il vostro corpo è tempio
dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete
a voi stessi» (1Cor 6, 19). Esiste quindi del divino nell’uomo? È quello che, in
effetti, occorre cercare e ottenere. Capiamo come Platone e il platonismo
abbiano potuto accompagnare e assecondare simili iniziative.
Paolo non fa altro che allargare la frattura tra corpo materiale e anima
immateriale. L’odio della carne è in effetti una delle tematiche principali del
paolinismo, il quale si propone di convalidare una vera e propria dinamica
esistenziale: svilire il proprio corpo per elevare la propria anima! Maltrattare la
carne significa celebrare lo spirito, e celebrare lo spirito significa maltrattare la
carne.
Sempre ai Corinzi: «siamo diventati come la spazzatura del mondo» (1Cor 4,
13). E ai Romani:
Sappiamo infatti che la Legge è spirituale, mentre io sono carnale, venduto come schiavo del
peccato. Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che
detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; quindi non sono
più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita
il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il
bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io
a farlo, ma il peccato che abita in me. Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il
bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie
membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo
della legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di
morte? (Rom 7, 14-24).
Paolo gode della tensione tra potere e volere, tra volontà e compimento, tra
volizione e azione. Nel corpo si trovano due forze antagoniste, che sono allo
stesso tempo due istanze contraddittorie: l’intelligenza immateriale e le parti del
corpo. Chi è che vuole, e che cosa vuole? E poi ancora: quando? E come? In che
modo si articolano volontà della Legge attraverso l’intelligenza e corporeità
peccaminosa che, nello stesso corpo, le resiste all’interno? Qual è l’«intimo» che
abita questo «corpo di morte»? Lo Spirito Santo abita anche nella carne
adamica. In che modo, allora, risolvere l’aporia?
Vantando l’«uomo nuovo» creato da Cristo (l’espressione si trova nella lettera
agli Efesini, 2, 15), san Paolo cancella il vecchio uomo, vale a dire l’ebreo e il
pagano.34 Mina lo schema greco del tempo circolare fondato sull’eterno ritorno,
per inaugurare l’idea della freccia in cui il passato si trova dietro di noi, il
presente qui e ora nel punto in cui siamo, e il futuro di fronte.
Per Paolo, il passato è il tempo della Torah, il tempo del Pentateuco, se
vogliamo usare il nome con cui gli ebrei d’Alessandria la indicavano, nome che
poi fu ripreso anche dai cristiani; ed è il tempo, ebraico, della Legge di Mosè e di
Abramo, della colpa di Adamo e dell’annuncio del Messia venuto a salvare
l’uomo dal peccato. Il presente è invece il tempo dei Vangeli, il tempo di Gesù,
Figlio di Dio fatto Uomo, ed è anche il tempo della venuta del Messia
annunciato dagli ebrei e incarnato, come dicono i cristiani, per riscattare i peccati
del mondo attraverso la sua Passione, la sua morte e la sua Resurrezione. Il
futuro è infine il tempo dell’uomo nuovo, ed è anche quello, giudaico e cristiano,
della Parusia annunciata nel Vangelo di Giovanni. Precisiamo, a questo punto,
che l’Occidente cristiano si fonda tutto su questa freccia che, proprio grazie alla
promessa della Parusia e del Giorno del giudizio, produce lo schema progressista
del secolo dei Lumi.
Nell’iconografia occidentale, succede che, ai piedi della croce di Cristo morto
sul Golgotha (che, secondo l’etimologia aramaica, non a caso, significa «luogo
del cranio»), il pittore raffiguri… un cranio! È il cranio di Adamo, il primo
uomo, quello dalla cui colpa Gesù redime attraverso la propria morte sulla croce.
Il vecchio uomo è Adamo il peccatore e la sua discendenza; l’«uomo nuovo»
è l’uomo cristiano.
Ma voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui
siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima,
l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della
vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità (Ef
4, 20-24).
Citando i Salmi (94, 11), Paolo spiega ai Corinzi: «Il Signore sa che i progetti
dei sapienti sono vani» (1Cor 3,20). Il tredicesimo apostolo non nasconde il
proprio disprezzo per la filosofia e, come abbiamo visto, gli epicurei e gli stoici
ateniesi gli rendono pan per focaccia. Dio, comunque, ha più a che fare con la
fede e la grazia che non con la ragione e l’intelligenza. Il peccato originale non è
forse, per l’uomo, o meglio per la donna, quello di aver preferito il sapere
all’obbedire, andando ad assaggiare il frutto dell’albero della conoscenza del
bene e del male che Dio aveva proibito di consumare?
Una cosa che ci stupisce è l’idea di una possibile corrispondenza tra san Paolo
e Seneca. Tra il filosofo storico e l’evangelista si dice esserci stato uno scambio
epistolare di quattordici lettere, otto scritte dall’autore delle Lettere a Lucilio, e
sei da quello delle lettere del Nuovo Testamento. In realtà, il vero nocciolo di
tutta la questione non è tanto lo scambio reale tra i due, quanto piuttosto
l’esercizio di stile messo in piedi dall’apologetica cristiana.
Il testo è in effetti un falso composto attorno al IV secolo della nostra era.
Sant’Agostino certifica la sua validità in una lettera (153, 14), ma alcuni autori
del Rinascimento, Lorenzo Valla e Leonello d’Este, provano filologicamente la
sua natura contraffatta, probabilmente realizzata sotto i Valentiniani.
In attesa del processo, Paolo si stabilisce per due anni a Roma, dove lo stesso
Seneca già si trova. La situazione, ce la illustrano gli Atti degli apostoli (28, 30):
l’evangelista è ai domiciliari e può ricevere visite, quindi potrebbe teoricamente
accogliere anche il filosofo romano. L’incontro in realtà non è mai avvenuto, e
parte di questa breve corrispondenza sembra attestarcelo esplicitamente, quando
entrambi gli autori si mettono a deplorare il fatto di non essersi mai incontrati.
La verità è che, se si abita nella stessa città, due anni sono un termine di tempo
ampiamente sufficiente per riuscire a vedersi, e già solo questa possibilità basta a
creare i presupposti di una finzione.
Il testo circola parecchio nel corso dei secoli, lo provano il numero di
manoscritti, più di trecento. Si apre con un Prologo di san Girolamo, secondo il
quale Seneca avrebbe voluto «essere tenuto presso i suoi nello stesso conto in
cui è tenuto Paolo presso i Cristiani».35 Non si capisce molto bene come il ricco
e potente precettore dell’imperatore Nerone, una persona che vive a corte di
quest’ultimo, possa aspirare a «essere Paolo» senza mai riuscire a diventarlo!
Tanto più che, in questi anni, Paolo è solo un ebreo sconosciuto che si è
convertito al cristianesimo, e che il cristianesimo stesso esiste solo in forma
dispersa e settaria. A questo, aggiungiamo che Paolo vive nell’attesa di essere
processato dalle autorità romane.
Non c’è bisogno di particolari studi filologici per convincersi della natura
fittizia di tutta questa storia. Basta invocare il carattere inverosimile di una simile
relazione apologetica, inventata da un anonimo solo dopo che Paolo si è
trasformato in uno dei pilastri della Chiesa cattolica, apostolica e romana. È, del
resto, proprio a partire dal IV secolo che si comincia a credere che la sua tomba
si trovi proprio nella basilica di San Pietro a Roma.
Per quanto inventato, che cosa ci può comunque insegnare questo epistolario?
Che Seneca ha studiato le lettere di Paolo, ne ha discusso con altri cristiani e le
ha trovate molto interessanti (Lettera I); che a Paolo questo fa piacere (Lettera
II); che il filosofo s’immagina un incontro tra l’apostolo e l’imperatore Nerone
(Lettera III); che Paolo approva questo progetto (Lettera IV); che il romano si
preoccupa del silenzio dell’interlocutore, con il quale, sia detto en passant, si
congratula per il percorso che lo ha portato dal giudaismo a quello che ancora
non si chiama cristianesimo (Lettera V); che Paolo ha paura che le lettere
vengano intercettate e finiscano per danneggiare il suo corrispondente (Lettera
VI); che, secondo il filosofo, le idee paoliniane sono belle e buone, ma espresse
male (Lettera VII); che Paolo disapprova il fatto che Seneca abbia voluto parlare
a Nerone di tutte queste idee, e gli chiede di non riprovarci più (Lettera VIII);
che il filosofo stoico si rende conto di aver commesso un errore e chiede scusa
(Lettera IX); che Paolo si ritiene colpevole di non associare il nome del proprio
interlocutore con le alte funzioni che svolge nel contesto dell’Impero – il
discepolo di Gesù pensa al filosofo come a un «devotissimo maestro»36 (Lettera
X); che l’autore del libro Sulla felicità racconta quant’è contento di vedere i loro
due nomi associati nella storia (Lettera XI); che Paolo invita il proprio
corrispondente a convertirsi alla fede in Gesù Cristo (Lettera XIV); che l’autore
latino impartisce lezioni all’autore greco e lo invita a non usare troppe allegorie
o troppe parabole – trova che l’inadeguatezza della forma ostacoli la verità di
fondo del discorso e lo invita a scrivere nella lingua di Cicerone (Lettera XIII);
che lo stesso si lamenta che si vogliano perseguitare i cristiani accusandoli degli
incendi nella capitale dell’Impero, solo perché sono dei colpevoli ideali e di
conseguenza delle vittime facili da punire (Lettera XII).
Niente di teologico, nessuna discussione sulla resurrezione della carne, per
esempio. Quello che percepiamo nettamente è, invece, l’intenzionalità
apologetica dell’anonimo autore di questo documento falso.
Non riusciamo nemmeno per un secondo a immaginare che Seneca si sarebbe
potuto convertire alla religione di Paolo! Il personaggio dell’epistolario invece
non ha nessuna paura a compiere questo passo. Scrive a Paolo: «Confesso di
aver letto con piacere le lettere che hai mandato ai Galati, ai Corinzi e agli
Achei, e possiamo noi vivere insieme in quel timor di Dio che tu mostri
presentando le tue lettere (?). Infatti, lo Spirito Santo che è in te e al di sopra dei
più alti ingegni umani esprime con parole sublimi pensieri degni di venerazione»
(Lettera VII).37 Sembrerebbe quasi a un passo dalla conversione…
È probabilmente a proposito di questa affermazione che, qualche lettera dopo,
Paolo gli risponde: «ti sono state rivelate cose che la divinità ha concesso di
conoscere a pochi. Dunque, sono certo che io sto seminando un seme
vigorosissimo in un terreno fertile, non una qualche sostanza che sembra
corrompersi, ma la salda Parola di Dio, emanazione di Colui che cresce e rimane
in eterno. Ciò che la tua saggezza ha conseguito, cioè la decisione di evitare le
manifestazioni di culto dei pagani e degli Ebrei, non dovrà venire mai meno».38
E poi, in maniera inaspettata: «Tu ti farai il nuovo fautore di Gesù Cristo,
mostrando con proclamazioni retoriche quella sapienza irreprensibile che hai
ormai raggiunto e la farai penetrare nel sovrano temporale, nei membri della sua
corte e nei suoi amici fidati» (Lettera XIV).39 Cioè Paolo non si tira indietro di
fronte a niente, e chiede addirittura a Seneca di convertire Nerone con tutta la
corte, moglie Poppea compresa.
La verità è che lo stoicismo si rivela assai compatibile con il cristianesimo, al
contrario dell’epicureismo che, con la sua teoria atomista in virtù della quale
nulla esiste al di fuori degli atomi fluttuanti nel vuoto e raggruppati a costituire
tutti i tipi di materia del reale, del mondo e dell’universo, impedisce la
possibilità stessa dell’anima immateriale, dello Spirito Santo, della resurrezione
della carne in forma di corpo glorioso, e dell’eucaristia.
In compenso, per Seneca, la Provvidenza esiste; e Dio pure; l’anima è
immateriale, e il cosmo manifesta un ordine divino; la bontà trionfa con
l’esigenza morale di perdonare gli offesi; e la bontà è imitazione degli dèi; le
passioni sono tutte cose detestabili, il corpo va disprezzato, e l’ascesi invece
desiderata. Il filosofo romano invita a non bere più vino, ad astenersi dai piaceri
carnali, a scegliere la castità, ad allontanarsi dal mondo e a rifiutare tentazioni
come gli onori e le ricchezze, uccidendo dentro di sé le passioni dell’orgoglio,
della vanità e dell’invidia. E promuove una vita filosofica in cui la materia venga
sottomessa alla volontà – il che permette una lunga relazione amicale tra lo
stoicismo e il paolinismo…
Chi, tra Paolo e Seneca, scrive: «verrà il giorno che ti staccherà a forza e ti
trarrà fuori dalla convivenza con questo repellente e fetido ventre. Innalzati da
qui, per quanto ti è possibile, già fin d’ora, e non curarti dei piaceri […] medita
fin d’ora su qualcosa di più elevato e nobile»?40 Chi è che insegna: «ridesta in te
ciò che langue, rafforza ciò che è rilassato, doma ciò che si ribella, perseguita
per quanto puoi le tue passioni e quelle degli altri; e a quelli che vanno dicendo:
‘Fino a quando continuerai a ripetere sempre le stesse cose?’, rispondi: ‘Sono io
che dovrei dire: Fino a quando commetterete sempre gli stessi errori’»?41 Chi è
che scrive: «Perciò, se vorrai star bene, cura soprattutto la salute dell’anima, e
poi quella del corpo […]. È, infatti, da stolto […] l’attività di esercitare i muscoli
[…]. Quindi, per quanto ti è possibile, dà stretto posto al corpo e lascia spazio
all’anima»?42 O ancora: «concedete al corpo solo quanto basta perché goda di
buona salute […]: il cibo plachi la fame e la bevanda spenga la sete, le vesti
proteggano dal freddo»?43 E chi è che dice: «Con quale altro nome lo potresti
chiamare, se non un Dio che dimora nel corpo umano?» 44 E chi è che afferma:
«l’animo è, invece, per sua natura sacro, eterno ed esente da qualunque
violenza»?45 O: «nessuno conosce Dio»46, o anche: «Ma se [l’anima] non è pura
e santa, non può accogliere Dio»?47 È il tredicesimo apostolo o il filosofo
stoico? In realtà, tutti questi pensieri sono di Seneca! E li troviamo nelle Lettere
a Lucilio e nella Consolazione alla madre Elvia.
Possiamo solo stupirci leggendo queste parole: «[Il suo spirito] si è soffermato
brevemente in un luogo superiore, per purificarsi e scuotersi di dosso i difetti e
tutte le patine che ineriscono alla vita mortale, poi si è innalzato nel più alto del
cielo e colà si muove liberamente, tra le anime felici. Lo ha accolto una
compagnia sacra, gli Scipioni ed i Catoni, e, tra coloro che hanno disprezzato la
vita e si sono dati da sé la libertà, tuo padre, o Marcia».48 È un testo estratto
dalla Consolazione a Marcia e fa ovviamente pensare al purgatorio dei cristiani!
Oppure ricordiamoci di questa stupefacente frase delle Lettere a Lucilio: «Verrà
nuovamente il giorno che ci riporterà alla luce».49
Oppure di questo ritratto dell’«uomo perfetto»: «Non poteva, perciò, non
apparire grande colui che non pianse mai sui propri mali e non si lamentò mai
del suo destino; si è reso noto a molti, ha brillato come una luce nelle tenebre e
ha attirato su di sé la benevolenza di tutti con la sua calma e la sua dolcezza, con
il suo animo ugualmente giusto nelle cose umane e in quelle divine. Egli aveva
un’anima perfetta, che aveva raggiunto quel livello al di sopra del quale c’è solo
l’intelligenza di Dio, una parte della quale è discesa anche in questo petto
mortale».50 Come non pensare alla vita di Gesù, e a quella dell’«uomo nuovo» di
san Paolo?
Non la finiremmo più di mettere in rapporto la filosofia stoica e il pensiero
paoliniano, e non la finiremmo più di stupirci delle loro convergenze
ontologiche, spirituali, etiche e morali.
Non dobbiamo comunque dimenticare che, se Seneca è manifestamente un
contemporaneo di Paolo, le prime fasi greche dello stoicismo, con Zenone di
Cizio, Cleante di Asso e Crisippo di Soli, risalgono a parecchi secoli prima!
Quindi, evitando di ragionare da essenzialisti e di voler piegare la realtà storica,
possiamo affermare che il cristianesimo si forma nel I secolo della nostra era
contando su una tradizione filosofica anteriore che comprende, tra le altre cose,
anche lo stoicismo di Zenone, nato quattro secoli prima dell’inizio della nostra
era. Non è quindi lo stoicismo romano che prepara il cristianesimo, o addirittura
Seneca che sarebbe stato un cristiano suo malgrado, un cristiano mascherato o
un cristiano ante litteram; ma è Paolo di Tarso che ha alimentato il proprio
pensiero ebraico con una certa dose di filosofia pagana, che comprendeva anche
lo stoicismo dei suoi anni, quindi la sua versione romana.
Prima di diventare il santo che tutti conosciamo, Agostino è stato il prototipo del
libertino: donne, alcol, feste, una compagna e un figlio fuori dal matrimonio. Il
padre era pagano, e la madre cattolica. Quando si converte alla religione
materna, non fa altro che dimostrare la famosa tesi secondo la quale i libertini
stanchi si trasformano nei devoti più accesi.
Nelle Confessioni, non smette di piangere. Afferma di essere un peccatore, un
uomo vanitoso, orgoglioso e ladro (conosciamo tutti il famoso episodio del furto
delle pere nel giardino del vicino); riconosce di essere anche irascibile, bugiardo,
presupponente e pretenzioso, e poi fornicatore, licenzioso, e desideroso di
collezionare le conquiste di una sera, insomma un dandy preoccupato dallo
sguardo altrui. Confessa di aver amato la propria degradazione: «Ma allora io
infelice amavo soffrire e cercavo pretesti di sofferenza».53 La sua conversione
gli permette di trasformare la sofferenza nell’epicentro della sua visione del
mondo. San Paolo non poteva non ispirarlo…
La madre, Monica, continua a lamentarsi della «superba abiezione»54 del
figlio, e prega per la sua conversione. Chiede persino l’aiuto di un vescovo per
riportare il figlio sulla retta via: il vescovo ritiene però che il caso sia disperato e
si rifiuta di aiutarlo (III, 21). Agostino parte allora per Roma. Qui c’è la
descrizione di un’incredibile scena isterica da parte di Monica, che lo segue fino
al porto, gli si avvinghia addosso in lacrime, lo strattona, e strilla perché vuole
riportarselo a casa o partire assieme a lui. Agostino mente alla madre e scappa
per raggiungere la capitale imperiale (V, 8).
Lui che collezionava le donne assieme ai suoi compagni di bisboccia, lui che,
sempre con gli stessi compagni, aveva provato piacere a rubare per rubare, lui
che scriveva «d’ogni parte intorno mi strepitava il calderone degli amori
peccaminosi. Non amavo ancora, ma amavo l’amore»,55 lui che si divertiva ad
assistere agli spettacoli dei combattimenti e alla morte dei gladiatori; ecco che
ora trova materia per la propria redenzione, innanzitutto leggendo Cicerone, e
poi scoprendo le Scritture. Le lacrime che scorrono sulle guance di Monica sono,
questa volta, di gioia. Agostino si compiace di fare così contenta la propria
madre grazie a quest’amore condiviso per uno stesso uomo, cioè Gesù, il Figlio
di Dio fatto Uomo. Madre e figlio decidono allora di andare a vivere assieme,
sotto lo stesso tetto…
La città di Dio teorizza il percorso esistenziale di Agostino. Quando Agostino
parla del corpo, dei desideri, dei piaceri e della carne, è ovviamente di sé che sta
parlando: sulla carta, brucia tutto quello che una volta gli ha dato felicità. Il
vescovo di Ippona dà la caccia all’ex libertino, e offre alla madre Monica
l’occasione di versare tutte le sue lacrime, questa volta di gioia. Il figlio regala
così alla madre estasi assolutamente nella decenza.
Adamo è stato preso in giro dai legami affettivi coniugali – in un certo senso,
è una pasta d’uomo ma diventa vittima di un’arpia…
A proposito della proibizione decretata da Dio di assaggiare i frutti dell’albero
della conoscenza, Agostino scrive: «In quel precetto si raccomandava
l’obbedienza».64 Adamo ed Eva peccano d’orgoglio, di «superbia»,65 come
viene detto con una bella parola. Perché, allora, convocare la donna, tutte le
donne, e poi la «libido», se non per parassitare autobiograficamente la propria
dottrina? Dio già prevede il peccato,66 e strumentalizza quindi un serpente che
seduce una donna, che a sua volta convince Adamo a peccare, il quale poi
trasmette il peccato a tutti gli esseri umani del pianeta. Però, nonostante il fatto
che sia stato Dio a volete tutto quanto, è solo la donna a essere colpevole.
Da qui gli sviluppi sulla libido. La parola latina ha abbastanza significati
anche oggi. Per Agostino,
quando si parla di passione [libido] senza aggiungere altro, quasi sempre viene in mente quella
relativa all’eccitazione di parti intime del corpo. Questa passione non reclama per sé solamente il
corpo tutto intero, interiore ed esteriore, ma turba tutto l’uomo, congiungendo e mescolando
assieme la voglia della carne con il sentimento dell’anima e provocando quel piacere che è il più
grande fra quelli del corpo; così, nel momento preciso in cui quella passione raggiunge il culmine,
si annebbia quasi completamente tutta la forza vigile, per così dire, del pensiero. Ebbene, qual è
quell’amico della sapienza e delle sante gioie, che viva la vita coniugale, ma che, secondo
l’avvertimento dell’Apostolo, sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non come
oggetto di passioni e libidine, come i pagani che non conoscono Dio; chi è che non preferirebbe,
se fosse possibile, procreare figli senza questa passione? Così, in questa missione di procreazione,
le membra create a tal fine, come tutte le altre che hanno funzioni specifiche, sarebbero
sottomesse ad un cenno della volontà e non eccitate dal fuoco della passione. Del resto, neppure
gli uomini che amano questi piaceri sono spinti alle unioni coniugali o ad impurità vergognose
quando vogliono; talora quell’impulso è inopportuno e non desiderato; talvolta invece pianta in
asso chi sta spasimando e così nell’anima si brucia dal desiderio mentre il corpo è gelido. In tal
modo, cosa davvero sorprendente, la passione non soltanto non si pone al servizio della volontà di
generare, ma neanche della passione più sfrenata; e mentre il più delle volte resiste
completamente allo spirito che cerca di frenarla, qualche volta entra in contrasto con sé stessa e
dopo aver turbato l’anima non arriva da sola a turbare anche il corpo.67
Eccoci al punto. Dal termine latino poma, che traduce il «frutto» ebraico nella
Vulgata e che finirà per dare il nostro «pomo» (assente nella Genesi), si passa
alle pudenda, come si diceva una volta per evitare di usare l’espressione «parti
genitali». Ecco una singolare e inverosimile storiella filosofica che, da
meditazione sulla relazione tra volizione umana e volizione divina (dibattito
teologico quant’altri mai), scivola impercettibilmente alla relazione tra peccato
originale ed erezione, attenta solo a sé stessa! Il frutto dell’albero della
conoscenza del bene e del male è diventato un po’ alla volta un elemento fallico
e turgido – o detumescente, a seconda…
E Agostino a continuare la propria inchiesta sulla libido degli uomini: in
paradiso, ci spiega tutto serio, «la passione [libido] non turbava ancora quelle
membra contro la volontà, e la carne, in certo senso, non costituiva ancora
un’accusa, nella sua disobbedienza, nei confronti della disobbedienza
dell’uomo».68 La vergogna del corpo nudo che segue il peccato originale
testimonia che il peccato originale è proprio l’erezione, il palesarsi carnale della
libido.
La libido, essendo una pulsione dentro l’anima, costringe la carne a
commettere il peccato, che non si trova quindi dentro di lei a priori. Il corpo è
peccaminoso quando, dentro di sé, lo spirito vive secondo la carne. La volontà
può negare il corpo, e lo spirito può domare la carne. Ecco perché, dopo Paolo e
Agostino, e il loro status di santi, il martirio verrà presentato come la via regina
per passare tutta la potenza all’anima, allo spirito e alla volontà, non lasciando
nulla al corpo, alla carne, alla libido, solo la morte. A quel punto, toccherà
semplicemente puntare allo stato di cadavere per realizzare l’Uomo Nuovo.
Capitolo settimo
Il sangue, semente dei cristiani
Suppliziare i corpi
Origene nasce in una famiglia cristiana alla fine dello stesso II secolo. In
gioventù, assiste alle persecuzioni dei suoi correligionari, sotto l’imperatore
Settimio Severo. Leonida d’Alessandria, il padre, muore martire attorno al 202 e
qualcuno dice che Origene abbia assistito alla sua decapitazione. Anche il figlio
vorrebbe morire da martire, ma la madre lo blocca in tempo nascondendogli i
vestiti e impedendogli di uscire… A diciott’anni, il vescovo Demetrio lo incarica
di formare i catecumeni, il che attesta quanto fossero fuori della norma le sue
qualità intellettuali. Abbandona i libri profani e s’impone una vita di
mortificazioni. Si mette a studiare filosofia e assiste probabilmente alle lezioni di
Ammonio Sacca, il futuro maestro di Plotino. Pensa a come mettere assieme
medio-platonismo e neoplatonismo. E scopre Filone di Alessandria.
Passa per essere il padre dell’esegesi cristiana. E, in effetti, è proprio a lui che
viene attribuita la creazione della scuola teologica di Alessandria, in cui gli
studenti lavorano tutti quanti assieme a produrre una pletora di commenti sui
testi biblici.
E a lui si deve anche una voluminosa stroncatura del libro di Celso Contro i
cristiani, un testo per noi scomparso. Possiamo capire che i cristiani giunti al
potere non abbiano avuto alcuna intenzione di lasciar traccia di quest’opera di
Celso, però, astuzia della storia, criticandolo, Origene lo ha talmente citato che la
somma di queste sue citazioni corrisponde alla quasi totalità dell’opera. La
stroncatura è quindi servita a salvare il testo che voleva affossare.
Nel 250, le persecuzioni di Decio fanno parecchi martiri. Origene viene
arrestato, messo in prigione, torturato, però sopravvive. Muore all’età di
sessantanove anni, tra il 253 e il 254. Tre secoli dopo la sua morte, viene
accusato di eresia. Il secondo concilio di Costantinopoli condanna le sue tesi nel
553. Sic transit gloria mundi.
A preoccupare moltissimo quest’uomo è il passaggio dalla teoria alla pratica.
L’iniziatore della critica testuale sembra però capire quello che legge solo a
metà… Per esempio, quando medita sul Vangelo di Matteo, si sofferma su
questa frase di Gesù: «vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della
madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri
ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca» (Mt 19,
12). Detto fatto, Origene mette da parte il lavoro esegetico fondato sul
neoplatonismo e si taglia i genitali. Nella sua Storia ecclesiastica, Eusebio di
Cesarea ci racconta che Origene avrebbe spiegato a Demetrio, il vescovo di
Alessandria, il significato di quest’azione e che quest’ultimo se ne sarebbe
addirittura congratulato! Verso la fine della sua vita, lavorando a un Commento
al Vangelo di Matteo, Origene critica una lettura letterale di questo passo (Mt
19,12), ritenendo che solo un idiota penserebbe a castrarsi dopo averlo letto. A
Origene non gliela si fa! Ci stupisce solo che il papa dell’esegesi cattolica non
abbia capito la dimensione allegorica e simbolica del testo che stava studiando.
E insegnando!
Origene ha scritto parecchio, duemila titoli, si dice. All’interno di quest’opera
monumentale, c’è un’Esortazione al martirio che si rivela emblematica del
pensiero della scrittura della patristica. E non ci stupisce il fatto che Celso sia
stato salvato da Origene, visto il numero di citazioni da lui riportate!
Le pagine di Origene che legittimano il martirio non sfuggono a questa regola:
è quasi invano che cercheremmo una frase scritta interamente da lui, o in cui non
fosse presente una qualche citazione di un passaggio del Vecchio o del Nuovo
Testamento. Di fatto, una cosa non è vera perché la si dimostra secondo l’ordine
della ragione, o perché si riflette con metodo, usando le regole classiche della
filosofia. No. Una cosa è vera solo se un versetto della Bibbia l’attesta. Dopo
Paolo, che si è scagliato contro la filosofia, il pensiero dei Padri della Chiesa
sembra trasformarsi in una retorica da derviscio rotante in cui le idee spariscono,
nascoste dal vortice di citazioni, e a tutto profitto del catechismo.
Origene cita quindi abbondantemente le Scritture per dimostrare che chiunque
uccida il proprio corpo salva l’anima; che ogni uomo che si spogli quaggiù della
propria vita ritrova centuplicato, in una vita al di là, tutto quello che ha
sacrificato; che Gesù non è venuto per portare la pace ma la discordia, e che
occorre rinunciare alla serenità; che lo stesso Gesù ha invitato a seguirlo e a
rinunciare a tutto per mettersi sulla retta via della cristianità, e che occorre
sbarazzarsi di tutto senza preoccuparsi di niente. Origene scrive anche: «Odiate
la vostra vita, in modo tale che con questo disprezzo la possediate per la vita
eterna. Chi odia, dice infatti la Scrittura, la sua vita in questo mondo, la possiede
nella vita eterna (Gv 12,26). Con la prospettiva della vita eterna abbiate dunque
in odio questa vita, persuasi che lodevole e vantaggioso è l’odio da Gesù
insegnato. E come dobbiamo odiare la vita onde possederla per l’eternità, così
prova odio per la moglie, per i figli, i fratelli e le sorelle, tu che ne hai, perché il
tuo odio torni a vantaggio di quelli odiati. Proprio in virtù di quest’odio sei
diventato amico di Dio, ricevendo il potere di far loro del bene».82
Come Cristo, che, diciamolo in questo modo, si è bevuto il calice fino
all’ultima goccia, così anche il cristiano dovrà essere pronto al martirio e
accettare con gioia, letizia e gratitudine il disprezzo, le calunnie, gli scherni, e
anche i colpi e i maltrattamenti. Citando l’Antico Testamento, Origene ci spiega
che quello che è stato dovrà essere di nuovo.
Leggiamo:
I sette fratelli di cui è scritto nel Libro dei Maccabei che Antioco torturò con frustate e nerbate,
ma che perseverarono nella pietà, potranno ancora essere un ammirevole esempio di forte martirio
[…]. Che bisogno c’è di dire quali tormenti patirono, nel fuoco delle caldaie e delle padelle
(2Mac 7, 3), ond’esservi torturati dopo aver sofferto ciascuno differenti supplizi? Quello che la
Scrittura chiama il loro interprete, ebbe dapprima la lingua mozzata, poi gli fu strappata la pelle
del capo e sopportò questo supplizio come altri soffrirono la circoncisione secondo la legge
divina, pensando di adempiere anche in ciò la parola del patto con Dio. Antioco, non pago di
questo, gli fece troncare le estremità delle mani e dei piedi, in presenza degli altri fratelli e della
madre (2Mac 7, 3): volendo punire, con questo spettacolo, i fratelli e la madre; e pensando che
avrebbero mutato i loro propositi per mezzo di tormenti considerati così crudeli. Non contento di
ciò, Antioco, siccome il fanciullo era diventato nell’insieme del suo corpo inservibile a causa dei
patimenti di prima, comandò che ancora boccheggiante fosse accostato al fuoco delle padelle e
delle caldaie e lo arrostissero (2Mac 7, 5). Ma quando un vapore emanava dalle carni del
nobilissimo atleta della pietà, abbrustolite dalle crudeltà del tiranno, gli altri si esortavano
vicendevolmente con la madre a morire da forti (2Mac 7, 5) e si consolavano al pensiero che Dio
vedeva tutto questo. Per sopportare bastava, infatti, a loro la persuasione dello sguardo di Dio
presente a chi soffre.83
Nella sua Vita di Antonio, Atanasio, vescovo di Alessandria, scrive che «la vita
di Antonio per dei monaci è sufficiente quale modello di vita ascetica».117 Poi
spiega che cosa significa l’ascesi: porre attenzione a sé stessi, mantenere una
«dura disciplina»,118 manifestare uno zelo pieno di tensione, vietarsi qualsiasi
negligenza, vivere come se si dovesse morire da un momento all’altro, abituarsi
all’austerità, sopportare gli sforzi, crearsi abitudini sane, puntare sempre più in
alto e cose sempre migliori, rifiutare di lasciarsi andare. L’essenziale è vivere
secondo lo spirito e in opposizione alla carne, castigare il proprio corpo e ridurlo
in schiavitù, in quanto peccatore. Più si maltratta la carne, più si sublima
l’anima; meglio si mortifica il corpo, meglio si magnifica lo spirito: tutto quello
che viene strappato alla materia finisce per alimentare il Paracleto. Scrive
Atanasio: «Diceva, infatti, che il cuore acquista la forza quando si indeboliscono
i piaceri del corpo».119 La vita deve essere consacrata alla soppressione del
corpo per ottenere la vita eterna – cioè quando, in maniera imminente, Cristo
tornerà in tutta la sua maestà per la Parusia. Antonio vive recluso per vent’anni,
senza mangiare, bere o dormire, rifiutandosi a qualsiasi piacere: «deposto il
corpo corruttibile, ne riceveremo uno incorruttibile».120 E poi: «E così, figli
miei, non scoraggiamoci e non pensiamo di dar prova di perseveranza o di fare
grandi cose. Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria
futura che dovrà essere rivelata in noi [Rom 8, 18]. Non crediamo, guardando al
mondo, di aver rinunciato a grandi cose: la Terra intera è piccolissima a
confronto di tutto il cielo. Se anche fossimo padroni di tutta la Terra e vi
avessimo rinunciato, neppur questo sarebbe degno del regno dei cieli».121
L’asceta trasforma il piombo della carne in oro spirituale, trasfigura la vita e
sottopone a metamorfosi l’essere. Insomma, qui si realizza l’uomo nuovo,
l’ideale di Paolo.
E quest’uomo nuovo può anche essere una donna! Gira una storia edificante:
Atanasia, donna bella e felice, vive un’esistenza laica assieme al marito
Andronico, e gli dà due bei bambini. A un certo momento, però, i bambini
muoiono e i genitori decidono di rinunciare al mondo e di andarsene nel deserto
dove, separati, conducono le loro pratiche ascetiche per più di un decennio.
Atanasia si è tagliata i capelli e porta abiti maschili, cambia nome e diventa
Atanasio. Vivono entrambi da reclusi nel deserto di Nitria. Un giorno,
Andronico chiede ospitalità a un altro monaco, e questi gliela concede. Vivono
assieme da asceti per un periodo di dodici anni. Al momento di morire, l’ospite,
che aveva la pelle annerita come l’ebano dal Sole e il corpo scolpito dalle
mortificazioni, confessa al proprio compagno di essere una donna e di chiamarsi
Atanasia…
Ma l’uomo nuovo può ovviamente essere anche… un uomo! Seguiamo questa
storia siriana del V secolo a cui si continuano ad agglomerare diverse versioni
fino al IX secolo. Iacopo da Varazze sviluppa il racconto, come al solito, senza
documenti che ne comprovino la storicità. Nato nel IV secolo, Alessio proviene
da una nobilissima famiglia di Roma. Il padre, il prefetto Eufemiano, «aveva al
suo servizio tremila servi vestiti di cinture d’oro e abiti di seta»122 ed è un uomo
generoso, accoglie ogni giorno poveri, stranieri, vedove e orfani, che è lui stesso
a servire. Il suo pasto è frugale e lo consuma in compagnia di altri uomini pii. La
moglie manifesta la stessa pietà cattolica. Alessio compie degli studi molto
severi e viene fatto sposare con una giovane donna di buona famiglia, della
casata dell’imperatore. La notte delle nozze, Alessio esorta la moglie a praticare
la castità cristiana, e poi, senza dire niente a nessuno, parte per la Siria per
andare a vedere la Sacra Sindone. Arrivato sul posto, distribuisce tutto quello
che ha e vive assieme ai poveri. Il padre lo fa cercare dappertutto, e manda servi
negli angoli più reconditi del mondo. Alcuni di loro lo raggiungono, ma non lo
riconoscono, e gli fanno anzi l’elemosina. Ironicamente, Alessio li ringrazia
dicendo: «Grazie, Signore, perché mi hai fatto ricevere l’elemosina dai miei
servitori».123 Rientrati a casa del padrone, i servi rendono conto delle loro
ricerche e del fatto che Alessio rimane introvabile. La madre e la moglie si
affliggono ancora di più. Dopo diciassette anni di ascesi, un’immagine della
Vergine parla al custode della chiesa davanti alla quale Alessio mendica,
intimandogli di fare entrare quest’ultimo nel santuario. L’evento lo rende
famoso, e, per ritrovare l’anonimato, Alessio decide d’imbarcarsi. I venti però
non assecondano i suoi desideri e, anziché arrivare a Tarso, sbarca a Roma. Qui
incrocia naturalmente il padre, accompagnato da parecchi servi; gli chiede
ospitalità, la ottiene senza essere riconosciuto e rientra quindi nella casa paterna
con il servo che gli è stato messo a disposizione. Prega, veglia e digiuna. I
domestici lo prendono in giro, gli versano acqua sporca sulla testa e lo insultano.
«Per diciassette anni dunque rimase in casa del padre senza essere riconosciuto».
124 Ormai vicino alla morte, chiede un pezzetto di carta, su cui riassume la
propria vita. La domenica seguente, durante la messa, una voce annuncia che
occorre «Cerca[r]e l’uomo di Dio, perché preghi per Roma».125 Alessio viene
ritrovato morto con il pezzetto di carta stretto nella mano, però ci vuole un po’ di
tempo prima che tutti quanti, compresi due imperatori e il papa, capiscano di chi
si tratta. Ed è solo il papa che riesce ad aprirgli la mano, scoprendo il biglietto e
rivelando al popolo riunito l’identità del figlio di Eufemiano, il quale perde
conoscenza e crolla a terra, poi torna in sé, si strappa le vesti, si strappa i capelli,
si ferisce, si mutila e si getta sul corpo del figlio deplorando tutto quello che è
successo. La madre e la moglie fanno la stessa cosa, ma intanto il corpo morto
comincia a guarire i malati. La tomba che gli viene preparata è splendida, ed
emana odori soavi.
Le storie di Atanasia e di Alessio dimostrano come una vita d’ascesi permetta
la morte dell’essere di prima a tutto profitto della nascita dell’essere di poi. È il
senso, come ho detto, dell’insegnamento di Gesù, secondo Giovanni: esiste una
vita mondana secondo la carne; l’incontro con il Verbo spezza questa vita
favorendo una vita spirituale secondo lo spirito; ne consegue la rinascita di un
essere nuovo talmente in rottura con quello precedente che nemmeno il marito
riconosce più la moglie, nemmeno il padre e la madre riconoscono più il figlio
trasformato, e nemmeno la moglie riconosce più il marito. Ecco una vita terrestre
secondo il Corpo, una morte simbolica secondo il Logos, e una risurrezione
secondo lo Spirito. L’anima vive nella materia e nel tempo; incontra il Paracleto;
e rinasce nell’immateriale per l’eternità. Ecco il semplice messaggio originale di
Gesù, ricoperto in seguito da così tante scorie patristiche, teologiche, scolastiche
e filosofiche che non riusciamo più ad ascoltare queste parole dell’evangelista
Giovanni Evangelista, che l’aveva in realtà annunciato: il Verbo si è fatto Carne.
L’ascesi, che è, per i cinici, la «via breve per la virtù»,126 si rivela anche essere
per i Padri del deserto l’arduo cammino che a quella conduce. San Doroteo
risponde a Palladio di Galazia che gli domanda perché imponga tali
mortificazioni al proprio corpo: «Mi uccide, e io uccido lui».127 Sta tutto qui, il
progetto dei monaci del deserto: uccidere il corpo per liberare l’anima dalla
prigione in cui si trova ingabbiata.
Il progetto paoliniano sorge allora in tutta la sua superbia: a cosa assomiglia
l’uomo nuovo proposto da san Paolo come modello? Agli Efesini, ha spiegato
come fare, l’abbiamo visto qualche pagina sopra. Ma la verità è che quest’uomo
nuovo assomiglia a un uomo che rimane in vita. L’anacoreta e il cenobita
praticano un suicidio lento che permette loro di sopravvivere a lungo e di far
durare il supplizio spesso fino a età molto avanzata. Non è raro che questi
individui che si alimentano di pane una volta all’anno, che si accontentano di un
pizzico di sale e di un po’ d’acqua stantia, che dormono il meno possibile,
arrivino a campare otto, nove o addirittura dieci decenni! Basandosi su queste
cifre, l’agiografia vorrebbe farci capire che l’ascesi non solo conserva la salute,
ma addirittura la favorisce!
Eccolo, allora, il ritratto dell’uomo nuovo, non come ce l’ha descritto Paolo,
ma come si è costruito e come è apparso nei deserti egiziani, palestinesi, siriani,
cappadoci, armeni e persiani del IV secolo della nostra era.
L’asceta annulla le proprie funzioni vitali – come quando si abbassano le luci
di una stanza per stare con meno illuminazione possibile. Per vivere, bisogna
mangiare, bere e dormire correttamente, in modo da evitare di guastare il proprio
corpo, che, in caso contrario, comincerebbe a dimagrire, a mancare di sostanze
essenziali come vitamine e sali minerali, a disidratarsi e a degenerare a livello
neuronale. Portare il proprio corpo a questo stato di totale carenza, significa
assicurarsi visioni, deliri e stravaganze – una preparazione fisica per stati
ulteriori condivisa, per esempio, anche dalle culture sciamaniche. Non stupisce
quindi che tutte queste carni spossate siano in grado di vedere demoni, sentire
voci, parlare ad animali che rispondono, e discutere con Mosè, Davide o Gesù.
Paolo di Tebe vive con cinque fichi al giorno e muore centenario; due volte
all’anno, ad Antonio viene passata una pagnotta sopra il muro che lo divide dal
mondo; Pacomio mangia solo pane, sale ed erbe cotte e ci mescola un po’ di
cenere per trovare il giusto cattivo gusto; per sessant’anni, Macario, essendo
venuto a sapere che un altro asceta si sgranocchiava una libbra di pane al giorno,
rompe la sua pagnotta, la mette dentro una bottiglia e decide di ingerirne soltanto
quello che le dita riescono a recuperare; Doroteo riduce la propria porzione a
cento grammi al giorno; Paolo di Tarso vive per sessant’anni con quello che gli
porta un corvo tutti i giorni (è quello che si intende con l’espressione francese
essere riforniti dai corvi); Arsenio si accontenta di due prugne e un fico al
giorno accompagnati da un pezzo di pane, ma, per consumarli, aspetta che i frutti
siano belli marci; a sedici anni, Scenute mangia solo una volta alla settimana, la
domenica, e soltanto legumi e bacche bollite; Sabino rifiuta il pane preferendo
una farina mescolata con acqua rancida, in attesa che tutto quanto si sia
putrefatto per fare bisboccia; Isidoro va matto per le briciole cadute a terra e per i
resti nei piatti; Maria Egiziaca detiene il record: due pagnotte e mezza in
diciassette anni – più anoressica di così, si muore. Altri, che chiamano i
pascolanti, brucano erba e mangiano radici per tutta la vita. Alcuni eremiti
etiopi, troppo numerosi nel sacrificarsi a questa gastronomia vegana del deserto,
vengono scacciati dai contadini perché le loro vacche non hanno più niente da
mangiare e tornano alle loro grotte a morire di fame…
Nel deserto, dove le temperature possono superare i cinquanta gradi al sole,
non ci si può permettere di non bere. Il vino, ovviamente, viene bandito e
l’acqua è l’unica bevanda consentita. A patto però che non sia né fresca né pura.
Stantia e salmastra è la cosa migliore. Moltissimi, per esempio, sono quelli che
vanno a stare nel deserto di Nitria, perché la fonte locale permette di raccogliere
solo acqua dal cattivo gusto di catrame e il posto si rivela assolutamente ideale…
Il sonno è un piacere, e per questo stesso motivo viene ridotto il più possibile.
Di sicuro, non deve essere riparatore. Giovanni di Sardi sceglie di rimanere in
piedi per tutta la vita e dorme con una corda attaccata sotto le ascelle. Nello
stesso spirito, Tito si fa appendere per aria con delle funi, in modo che i piedi
non tocchino mai il suolo, corrotto dal peccato originale. Antonio s’infligge
regolarmente notti insonni, oppure dorme due o tre ore, non di più. Dormire
significa sognare e, nei sogni, non si lavora più alla propria salvezza, perché le
immagini più folli invadono lo spirito e i desideri più libidinosi occupano tutto lo
spazio. Allora, Dio viene allontanato, ed è Satana a dettare legge. Pacomio
s’impone una lunga serie di veglie. Non dorme allungato, perché sarebbe
qualcosa di troppo voluttuoso, ma seduto, accovacciato, in piedi oppure
addossato a un muro. Per quindici anni, riesce a prendere sonno in piedi, in
mezzo alla sua cella, tra sofferenze che però lui benedice. Palemone, il suo
maestro, gli ordina di camminare nel deserto senza fermarsi, e di portare pesi
sulle spalle in modo da combattere la tentazione di dormire. Macario entra, un
giorno, in un cimitero e si distende in una tomba. Trova un corpo ormai
raggrinzito e lo usa come cuscino, addormentandosi. Arriva un demone e chiede
al cadavere di alzarsi e di raggiungerlo; il cadavere declina l’invito, rispondendo
che è impossibile, perché c’è qualcuno che gli sta sopra la pancia. «E chi è
quest’uomo? chiede il demone. — Il grande Macario, risponde il cadavere. —
Ma mi volete lasciare un po’ tranquillo? risponde a sua volta Macario perdendo
la pazienza». A quel punto, Macario si fa il segno della croce, il demone fugge
via e lui può finalmente riaddormentarsi. Simeone Stilita, invece, vive in cima a
una colonna alta venti metri e risolve il problema non dormendo mai e pregando:
non c’è tempo da perdere, la vita è troppo breve.
L’asceta cerca di annullare le proprie relazioni con gli altri. Lui e Dio, da
soli! In questa esistenza totalmente rivolta alla salvezza della propria anima e
resa pura dall’estinzione della carne, non c’è posto per nessun altro. Per
realizzare questa alterità alterata, basta non parlare. È, per esempio, la regola di
Pacomio che insegnava infatti: «Impara a tacere». Scenute proibisce ai propri
monaci di usare aggettivi possessivi: in nessun caso dovranno dire: la «mia»
camera, il «mio» letto, il «mio» piatto. Sant’Acepsima si rinchiude dentro una
casettina di pietra, non vede nessuno, e ovviamente non parla con anima viva.
Gli portano un piatto di lenticchie ogni settimana, facendogliela passare da un
foro realizzato di sbieco in modo che non possa scorgere nessuno. Solo di notte,
esce per raccogliere un po’ d’acqua alla fontana. Ovviamente, niente donne e
niente sesso. Macario, obbligato dai genitori, si era dovuto sposare contro la sua
volontà, ma aveva vissuto con la moglie un’unione «apotattica», ossia priva di
contatti sessuali. Non c’è ovviamente bisogno di precisare che questi uomini non
intendono assolutamente piegarsi agli automatismi riproduttivi: impossibile
immaginarsi un monaco del deserto sposato e padre di famiglia…
L’asceta cerca anche di annullare la propria sensibilità. L’abbiamo visto, non
ci si deve mai abbandonare ad assaggiare o a sentire odori gradevoli: solo quelli
dei defunti morti già in stato di perfezione sono da considerarsi uno spettacolo
dolce e soave. Il profumo, quando non è diretta emanazione celeste o divina,
rimane sempre una seduzione, un peccato. Stessa cosa con l’udito, gli unici
suoni piacevoli sono quelli che provengono dal cielo. Non si assaggia, non si
sente, non si ascolta e non si tocca. Che cosa rimane allora? Guardare, vedere?
Nemmeno…
Perché l’asceta si vieta qualsiasi spettacolo di bellezza. Sant’Elpidio, per
esempio, viveva in Palestina di fronte a un paesaggio sublime, però non si girava
mai dalla parte dell’Occidente, anche se l’entrata della caverna si trovava in cima
alla montagna. E nemmeno guardava mai il Sole, o le stelle che spuntavano
appena quello tramontava, e in vent’anni non ne aveva vista nemmeno una.
Era assolutamente fuori questione il fatto di produrre qualche cosa di bello,
perché avrebbe significato mostrare il proprio desiderio di misurarsi con il
creatore. Quando Pacomio porta a termine il colonnato del suo monastero a
Moncose, valuta la buona riuscita e si sente soddisfatto. Questo sentimento,
però, è il sintomo di un peccato d’orgoglio, e il santo decide allora di punirsi
ricostruendo la colonnata in modo da farla pendere e cancellare così l’equilibrio
armonioso che aveva ottenuto.
L’asceta si astiene anche dal ridere, e persino dal semplice sorridere, perché
anche questo è appannaggio dei demoni. Un abbozzo di sorriso può far crollare
anni di ascesi e di mortificazioni nel deserto. Ridere significa lasciarsi andare,
rilassarsi, mostrare i denti come gli animali, perdere il contegno e la padronanza
di sé, lasciare parlare la bestia che ci alberghiamo dentro. Il volto dell’anacoreta
o del cenobita deve essere permanentemente impassibile.
Quella di non muoversi era l’ossessione degli stazionari. Si trattava, come
indica il loro nome, di restare il più a lungo possibile in piedi, in preghiera con le
braccia alzate a croce e la testa rivolta al cielo. San Marone, per esempio, decide
di vivere dentro un albero con le pareti interne tappezzate di spine. In quella
situazione, muoversi significava farsi lacerare dalle spine di legno. In monastero,
la regola consiste nel praticare un esercizio da ‘stazionario’ da un rintocco di
campane all’altro: il monaco addetto al forno viene sorpreso dal primo rintocco
mentre sta mettendo legna nel fuoco, e aspetta il secondo rintocco per ritirare le
mani, che saranno, a quel punto, ormai completamente ustionate. Al contrario,
invece, muoversi continuamente era l’ossessione dei girovaghi, che infatti non si
fermavano mai…
Infine, l’asceta decide di annullare la propria dignità. Questi uomini e queste
donne passano la loro vita sotto il sole incandescente del deserto però non si
lavano mai. Alcuni rimangono nudi, altri si coprono con pelli di animali, di
pecore o di cammelli, giusto per sudare ancora di più. Non si tagliano mai i
capelli, o le unghie, in modo da potersi avvolgere completamente nella propria
chioma, che non conosce il sapone. Atanasio dice di Antonio che «Non si lavava
né il corpo né i piedi con l’acqua, l’immergeva nell’acqua solo se vi era
necessità»,128 ossia, per esempio, quando doveva attraversare un fiume…
Ovviamente, l’asceta non abita in una casa in cui si potrebbe lavare (anche se
Gesù non ha mai esortato a puzzare, o a mangiare e a bere in maniera
necessariamente sobria) e in cui potrebbe dormire per ristorare le proprie forze.
No, l’asceta vive dentro degli alberi cavi (come i monaci dendriti), oppure
dentro delle tombe, oppure in zone fluviali infestate dai coccodrilli che lo
attaccano di continuo, oppure dentro gabbie in cui non può stare né in piedi né
seduto, oppure ancora dentro delle grotte, o dentro delle capanne con le porte
murate, oppure in deserti di salnitro con il Sole che taglia come una lama, oppure
ancora in buche scavate nel terreno come tane, a volte direttamente dentro le
tane, oppure immerso nel fango fino al petto, oppure ancora in capanne fatte di
rami, oppure dentro delle cisterne, oppure (gli stiliti) in cima a delle colonne che
possono, come nel caso di Simeone, raggiungere venticinque metri di altezza –
Alipio, per esempio, ci ha passato ventinove anni della sua vita.
Per l’asceta, qualsiasi occasione è buona per rinunciare alla propria dignità:
mangiare cibi avariati, bere acqua sporca, o rovinare la propria bevanda fresca
con un po’ d’acqua rancida; accettare, in monastero, che un monaco annunci la
falsa notizia dell’agonia di un congiunto; innaffiare un bastone morto piantato
nel deserto con un po’ d’acqua che si va a raccogliere lontano dal luogo
dell’ascesi, ovviamente per farlo fiorire; fare e disfare continuamente lo stesso
paniere o le stesse reti sotto il sole d’Egitto; lasciarsi seppellire dalla neve
rimanendo immobili; far aspettare per due o tre anni alle porte del monastero un
discepolo che chiede di essere accolto; rompere un barattolo di miele nella
sabbia e raccoglierlo con una conchiglia finché non ne rimanga più nemmeno un
granello; mangiare sette olive al giorno, perché sei è peccato d’orgoglio e otto di
golosità; andare a prendere l’acqua al pozzo più lontano e andarci a piccoli passi;
vivere in fondo a un pozzo; restare per anni nudi su un mattone, in attesa che il
sudore e le lacrime finiscano per scioglierlo; aiutare dei ladri sorpresi in casa a
portare a termine il loro furto, passandogli il sandalo che si sono dimenticati; non
rispondere quando si sente chiamare il proprio nome per evitare il peccato
d’orgoglio; esporsi, in pieno sole, coperti di miele, in attesa che arrivino gli
insetti a pungere e si sconti così la colpa di averne ucciso uno d’istinto solo
perché ci ha inoculato il suo veleno; passare la propria vita a vagare nel deserto
senza mai smettere di piangere sulle conseguenze del peccato originale; simulare
la pazzia per passione di umiltà; crocifiggersi per una settimana in pieno sole;
mangiare pane a quattro zampe direttamente per terra; lasciare che i vermi
arrivino su una piaga e, quando cadono a terra, rimetterli nella carne.
Va bene, basta… Ci siamo capiti.
Questa è la logica dei monaci e delle monache che scelgono di vivere il
proprio destino nel deserto. Per salvare la loro anima, decidono di morire
continuando a restare in vita. Credono che bevendo acqua ristagnante e
mangiando fichi marci, non lavandosi mai e dormendo in piedi, non rivolgendo
più la parola a nessuno o rifiutandosi di guardare la bellezza della Via Lattea,
considerando le donne come diavole che appartengono alla famiglia dei demoni,
mangiando erba e dormendo nelle tane delle iene, smettendo di ridere e non
tagliandosi più i capelli, la loro anima si trovi automaticamente purificata!
Se si fosse trattato solo di scelte individuali e volontarie, sarebbe stato soltanto
farsesco. Dopotutto, ognuno ha il diritto, come ha fatto san Sisoes, secondo il
racconto di Palladio, di manifestare il proprio «amore per la santa abiezione»! Il
fatto, però, è che il cristianesimo, una volta diventato religione ufficiale
dell’Impero, non si è limitato a questo. E ha voluto estendere questa morte della
parte vivente degli esseri umani alla totalità dell’umanità. Per farlo, si è forgiato
una spada, quella di Paolo: e ci sono stati gli ukase dei concili. La sofferenza che
alcuni si imponevano volontariamente per paura di non-essere pronti al momento
del ritorno di Cristo sulla Terra è diventata, diciamo così, parola di vangelo per
tutti. Preoccupandosi dell’anima, non si è mai arrivati a tanto nella tortura dei
corpi.
Ma è questo il prezzo che si paga quando si compiono cose divine, ossia cose
inumane: camminare sull’acqua del Nilo o del Giordano; guarire i malati o
resuscitare i morti (anche per errore, come nel caso di Bessarione, che aveva
scambiato il corpo di un moribondo per un cadavere – non si sarebbe mai
permesso, altrimenti, di riportare un morto in vita, peccato di orgoglio); volare
per aria con la sola forza della preghiera; inventarsi una lingua per parlare con
gli angeli; passare la propria vita con un leone di cui ci si è presi cura una volta;
discutere con Gesù passando da un argomento all’altro; oppure, come Scenute,
fermare il corso del Sole; oppure ancora farsi mordere da un serpente, e però
aspettare la fine della preghiera per ucciderlo dopo che ha inoculato il suo
veleno. E soprattutto attirare, in pieno deserto, in una vera e propria foresta di
stiliti con tanto di leader, folle incredibili, persone a migliaia, tutte ammaliate da
queste orge di ascesi.
Capitolo nono
L’arte di educare i corpi
Ingabbiare il desiderio
San Giovanni Crisostomo racconta che questi anacoreti non dicono: «il tale è
morto; ma è giunto alla sua perfezione».129
Prima di diventare una religione, il cristianesimo è innanzitutto un arcipelago di
sette in cui troviamo tutto e il contrario di tutto. Nel suo monumentale Contro le
eresie, Ireneo di Lione compila una vera e propria enciclopedia di quelle che lui
chiama «eterodossie». Ma a fronte di chi e di che cosa si possono definire tali?
Dov’è l’ortodossia in questo II secolo della nostra era? Chi è che stabilisce le
regole, e in nome di quali prospettive? L’opera di Ireneo ha come sottotitolo
Smascheramento e confutazione della falsa gnosi. La domanda rimane: chi è che
stabilisce che la gnosi sia irricevibile?
Il dubbio che ormai, nella basilica, qualcuno abbia già appiccato l’incendio
viene quando si cominciano a sentire gli gnostici affermare che il mondo è
cattivo perché è stato creato da un cattivo demiurgo, e che a questa creazione è
seguita una deplorevole rovina nella dimensione del tempo e una non meno
deprecabile caduta nel regno della materia; e che la società è tutta una bugia,
tutta un inganno. E poi ne arrivano altri convinti che sia necessario attraversare
tutto il negativo fino in fondo per far sorgere, dalla negazione della negatività,
una qualche positività assimilabile alla redenzione.
Cerchiamo di capire meglio i sottili movimenti di questa dialettica. Il mondo è
cattivo? Va bene, allora proviamo ad assecondare fino in fondo tutta questa
cattiveria: teoricamente dovrebbe venirne fuori solo del bene, solo qualcosa di
buono. Mettiamo quindi in piedi il programma: rifiutare la famiglia, abolire il
matrimonio, rinunciare alla procreazione, e poi disobbedire al potere costituito,
sia esso pagano o cristiano. L’anima non è naturalmente immortale: lo diventa se
e soltanto nella misura in cui riesce a costruirsi in quanto anima. E per farlo deve
essere capace di non lasciarsi abbindolare da questo mondo, che è solo una
finzione orchestrata da un falso Dio. Tutti ci portiamo dentro una scintilla di
luce: sta a ognuno di noi trasformarla in un incendio.
Diamo qualche dettaglio. Per Simon Mago e la compagna Elena, gnostici, si
deve poter copulare liberamente: la sessualità non deve essere monogama o
imbrigliata dalla fedeltà, e deve soprattutto evitare di mettere al mondo dei figli
che vadano, a loro volta, a formare delle famiglie. Simone sostiene i «rapporti
sessuali promiscui […]: ‘Ogni terra è terra, e non c’è differenza dove uno
semina, a condizione di seminare’».130 L’uomo può scoprire la propria parte
divina sfinendosi nelle orge, e questa rivelazione lo può salvare dal mondo
prodotto da un cattivo demiurgo. Ascoltiamo le parole del vescovo Epifanio di
Salamina, santo:
E gli sventurati si uniscono tra loro. Per quanto in realtà mi vergogni a riferire le loro turpitudini
(secondo il santo Apostolo delle cose fatte da loro è vergognoso perfino parlare, Ef 5, 12),
parimenti non mi vergogno di dire ciò che essi non si vergognano di fare, per suscitare in ogni
modo errori in coloro che odono gli atti osceni da loro praticati senza ritegno. Effettivamente,
dopo che si sono uniti in una passione adulterina, come se ciò non bastasse, innalzano la loro
blasfemia al cielo: la donna e l’uomo raccolgono l’emissione del maschio nelle proprie mani e si
alzano sollevando la testa al cielo; e con quell’impurità in mano naturalmente pregano, i
cosiddetti stratiotici e gli gnostici, il Padre di tutto, come lo chiamano, offrendo di ciò che hanno
in mano, e dicono: «Ti offriamo questo dono, il corpo di Cristo». E così lo mangiano,
condividendo quella schifezza, e dicono: «Questo è il corpo di Cristo e questa è la Pasqua, per cui
i nostri corpi soffrono e sono costretti a riconoscere la passione di Cristo». E allo stesso modo
fanno con ciò che viene emesso dalla donna, quando lei si trova a essere nel periodo del flusso del
sangue: parimenti prendono il suo impuro sangue mestruale raccolto da lei e lo mangiano insieme.
E dicono: «Questo è il sangue di Cristo» […]. Ma pur unendosi tra loro, vietano la procreazione.
Infatti la corruzione presso di loro è perseguita non per generare figli ma per godimento […].
Soddisfano il piacere ma raccolgono in sé stessi i semi della loro impurità, non depositandoli in
vista della generazione, ma mangiando essi stessi quella schifezza.131
Questo strumento teologico nasce dando corpo ad alcuni particolari passi dei
Vangeli. Innanzitutto, quello in cui Gesù dice: «Perché dove sono due o tre
riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18, 20). Poi, ci sono gli Atti
degli apostoli, che mettono in scena, ad Antiochia, alcuni fedeli convenuti dalla
Giudea, tra cui Paolo di Tarso e Barnaba di Cipro, a chiedersi se sia possibile
salvarsi senza essere circoncisi – semplicemente un altro modo di porsi la
domanda se ci si possa salvare senza più essere ebrei nel senso antico del
termine, cioè avendo deciso di appartenere alla nuova civiltà giudaico-cristiana.
Ne nasce una controversia, subito trasformatasi in discussione accesa. E «fu
stabilito che Paolo e Barnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli
apostoli e dagli anziani per tale questione» (At 15,2). Una frase che viene subito
dopo («Allora si riunirono gli apostoli e gli anziani per esaminare questo
problema», At 15, 6) richiama proprio l’origine dei sinodi, altrimenti detti
concili. Si tratta allora di «una grande discussione» (At 15, 7) al termine della
quale la questione si trova definitivamente stabilita. Il problema non è tanto di
avere o non avere il prepuzio, ma di astenersi da quattro cose, chiare e semplici:
«dalla contaminazione con gli idoli, dalle unioni illegittime, dagli animali
soffocati e dal sangue» (At 15, 20). Questo concilio, il cosiddetto concilio di
Gerusalemme, è il primo di una lunga serie e pone le basi di quello che, nel
corso di mille anni, diventerà il concetto occidentale di corpo. Insomma, il
divieto della fornicazione si trasforma in uno dei pilastri della legge cristiana!
Il primissimo concilio si svolge sotto il segno dello Spirito Santo: «È parso
bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di
queste cose necessarie» (At 15, 28), come scrive Paolo nella lettera indirizzata a
quanti si interrogano sulle cose da fare per ottenere la salvezza. Seguono le
proibizioni su cui erano rimasti convenuti. Nel 252, san Cipriano scrive a papa
Cornelio che l’assemblea del concilio è posta sotto il segno dello Spirito Santo.
Atanasio, Agostino e persino Gregorio Magno convalidano questa tesi. La parola
del concilio è quindi una parola evangelica, se così posso esprimermi, cioè nasce
dalla stessa fonte.
Quale corpo costruiscono i concili? E soprattutto, quale anima? Tra i due, che
rapporto c’è? Dopo il martire, convinto che la salvezza della propria anima si
ottenga con il sangue della propria morte, e dopo l’anacoreta e il cenobita, che
se l’immaginano invece nella negazione di sé qui e ora, la coppia paoliniana
corpo/anima abbozza un sapiente mix di morte al mondo e annullamento di sé.
Si presuppone l’educazione della carne, l’ingabbiamento del desiderio e la
persecuzione della libido.
I concili legiferano su tutto, dai soggetti più seri (per esempio, risolvono le
questioni aperte dal donatismo, dall’arianesimo, dall’anomeismo, dal
modalismo, dal montanismo, dal monofisismo, dal monotelismo, e quelle
riguardanti il Filioque e la Trinità), a quelli più futili, come il modo di portare i
capelli.
Per esempio, il concilio in Trullo, il sesto concilio ecumenico (691-692),
stabilisce centodue canoni. Ecco il novantaseiesimo nella sua integralità:
Che l’uomo non debba trasformare i propri capelli in una tentazione al peccato. Quelli che hanno
accolto Cristo con il battesimo hanno promesso di imitare la sua vita nella loro stessa carne.
Dunque, quelli che, per la rovina delle anime, si curano i capelli e se li acconciano in trecce ben
sistemate, e offrono così tentazione alle anime più deboli, quelli noi vogliamo guarire
spiritualmente con pene canoniche appropriate, in modo da educarli e da insegnargli a vivere
saggiamente lasciando da parte la frode e la vanità della materia: perché elevino continuamente il
proprio spirito percorrendo una via imperitura e felice, e nel timore del Signore conducano una
vita casta, e si avvicinino a Dio nei limiti del possibile mediante un’esistenza di purezza, e
abbelliscano l’uomo dentro di loro piuttosto che quello fuori, con la virtù e con costumi onesti e
irreprensibili: solo così non recheranno più traccia della sciatteria del nemico. Se qualcuno agisce
contro il presente canone, che sia scomunicato.
Ci si dimentica spesso che Paolo, in questo suo diario di viaggio del corpo
occidentale, precisa che: «Agli altri dico io, non il Signore» (1Cor 7, 12). E che:
«non ho alcun comando dal Signore, ma do un consiglio, come uno che ha
ottenuto misericordia dal Signore e merita fiducia» (1Cor 7, 25). In altre parole,
di fronte al silenzio di Gesù, e in presenza di un vuoto dottrinale, Paolo impone
la propria volontà come se si trattasse della parola di Dio. E si definisce degno di
confidenza per via del suo rapporto con il Signore: questo basta. La verità è che
se Gesù non si è mai espresso a proposito di tali questioni, è probabilmente
perché riteneva che non fossero essenziali per ottenere la salvezza.
Non fa più giurisprudenza l’episodio evangelico a casa del fariseo, quando
Gesù in persona rimette i peccati della peccatrice perché ha «molto amato» (Lc
7, 47). Quello che ormai importa al cristianesimo ufficiale, al cristianesimo di
Paolo, è l’odio del corpo, un odio che si muove addirittura in controtendenza a
tutto quello che sosteneva Gesù. L’uomo senza moglie e senza sessualità che è
Paolo lo afferma chiaramente: tutti quanti dovremmo essere come lui. Non
conosciamo le ragioni del suo celibato e della sua asessualità, e non sappiamo
che cosa fosse esattamente quella sua spina nella carne; però quello che vediamo
è che, tra martirio e anacoresi, l’ossessione ascetica di Paolo finisce per
alimentare la sua dottrina, cristallizzata in seguito dai concili.
La questione dell’anima e della sua natura e la questione delle modalità che
legano la carne allo spirito non rientrano tra i dibattiti discussi in nessuno dei
concili prima del IX secolo, cioè prima dell’ottavo concilio ecumenico, che è il
quarto concilio di Costantinopoli (869-870). È in occasione della decima
sessione che viene decretato il canone 11: «Anatema su chiunque sostenga che
nell’uomo esistono due anime». E qui, i vescovi stanno pensando in particolare a
Fozio, patriarca di Costantinopoli che distingueva tra spirito, corpo e anima
(tricotomia). Il concilio condanna questa tesi e sostiene invece la dicotomia: da
una parte c’è l’anima e dall’altra c’è il corpo. Su questo argomento, non ci
dovranno più essere discussioni. Il platonismo si porta a casa tutto il piatto
dell’avventura cristiana. Ad Aristotele toccherà più tardi…
In compenso, i concili che affrontano le questioni riguardanti il corpo
abbondano: celibato, ubriachezza, sodomia, astinenza, verginità, zoofilia, aborto,
pederastia, bigamia, cortigianeria, fidanzamento, gravidanza, trigamia,
castrazione, prostituzione, matrimonio e matrimoni successivi, circoncisione;
però anche, come abbiamo visto, i capelli, il cibo, l’alimentazione e tutti i piaceri
che potremmo voler condividere (i giochi, gli spettacoli, il teatro e la deprecabile
attività recitativa): tutto viene codificato, normato, legiferato e regolamentato. Il
problema non sembra essere tanto la salvezza dell’anima quanto la persecuzione
del corpo.
Perché, ad esempio, il concilio di Elvira, nel 305, legifera sul matrimonio dei
cristiani e sul celibato dei preti, proibisce il matrimonio con gli ebrei, arrivando a
proibire anche la condivisione della stessa tavola con questi ultimi, e, canone 54,
scomunica le donne che hanno abortito, peraltro assieme agli attori? Perché
quello di Arles nel 314 vieta ogni relazione di natura sessuale tra preti e donne?
Perché il primo concilio di Nicea decreta, nel 325, sotto gli auspici
dell’imperatore Costantino: «Se qualcuno, malato, ha subito dai medici
un’operazione chirurgica, o è stato mutilato dai barbari, può far parte ancora del
clero. Ma se qualcuno, pur essendo sano, si è castrato da sé, costui, appartenendo
al clero, sia sospeso, e in seguito nessuno che si trovi in tali condizioni sia
promosso allo stato ecclesiastico. È evidente, che quello che è stato detto
riguarda coloro che deliberatamente compiono una cosa simile e osano mutilare
se stessi ma se qualcuno, fosse stato castrato dai barbari o dai propri padroni, ma
fosse degno sotto ogni aspetto, i canoni lo ammettono nel clero».136 Perché il
concilio di Ancira, nel 314, legifera sulla zoofilia e diversifica in maniera
sorprendente le pene a seconda che il colpevole sia o meno sposato, o sia sposato
da più di vent’anni, o da più di cinquant’anni, con le pene più pesanti da
comminare ai più anziani? Perché questo stesso concilio condanna i lebbrosi che
hanno avuto rapporti sessuali con delle lebbrose? Stessa cosa per i lebbrosi che
copulano con degli animali? Perché il concilio di Cartagine del 407 proibisce ai
divorziati di risposarsi? Perché quello di Orange, nel 441, obbliga a fare
penitenza chi è venuto meno al voto di continenza? Perché quello di Laodicea,
attorno al 364, stabilisce che le donne non possano prendere il sacerdozio, che i
chierici non possano entrare nelle taverne, che gli uomini non si debbano lavare
assieme alle donne, che il pane azzimo non debba essere mangiato, e che ai
cristiani non sia concesso di ballare durante i pranzi di matrimonio? Su quali
parole di Gesù si fondano tutte queste proibizioni? San Paolo prende in giro i
testi ebraici che legiferano su tutto, però, siamo seri, che cosa fanno i concili
cristiani se non moltiplicare per duemila anni ogni tipo di divieto, ogni tipo di
proibizione e ogni tipo di condanna? Il tutto con la minaccia della penitenza, del
castigo, della punizione, della sanzione, della correzione e, a volte, addirittura,
della condanna eterna della carne.
I concili distruggono l’eterodossia, ossia il libero pensiero. E lo fanno in nome
di un’ortodossia che viene di fatto costruita solo in corso d’opera. La battaglia
contro quelli che passano per eretici o scismatici traccia una linea che diventa la
linea della Chiesa: contro Ariano e gli ariani, contro Valentino e gli gnostici,
contro Mani e i manichei, contro Montano e i montanisti, ecco che la Chiesa
definisce la propria dottrina sulla Santa Trinità, sull’ideale ascetico, sull’origine
del male, sulla necessità di un clero gerarchicamente organizzato, e così via.
Le questioni trattate nel corso di un concilio possono rivelarsi estremamente
complesse. Per esempio, il nestorianesimo afferma la compresenza, in Gesù, di
due ipostasi, una divina e l’altra umana, e viene condannato dal concilio di Efeso
(430); il monofisismo gli risponde affermando che Cristo possiede invece una
sola e unica natura, e viene attaccato dal concilio di Calcedonia (451); da non
confondere con il monotelismo, dottrina secondo la quale Gesù compie le proprie
azioni unicamente per volontà teandrica (ossia allo stesso tempo umana e
divina), e opinione censurata dal concilio di Laterano (649)…
L’idea che ci facciamo è che i vescovi che andavano ai concili fossero tutti
bardati di diplomi in filosofia, in retorica o in teologia, e che solo con questi
studi potessero permettersi di volare a tali altezze. Che avessero letto Platone e
Plotino, Aristotele e Porfirio, e sempre con il calamo per gli appunti in mano. E
invece no! Una ricerca sociologica sui vescovi di questi primi tempi del
cristianesimo ci fa scoprire una corte dei miracoli in cui, accanto a gente
semianalfabeta, troviamo tutta una schiera di bugiardi, ladri, prevaricatori e
falsari! Ovviamente, troviamo anche delle cime intellettuali come sant’Agostino.
Però basta leggere Gregorio Nazianzeno, che si improvvisa giornalista con i
vescovi incrociati a Costantinopoli negli anni Ottanta del IV secolo: «Tra loro,
alcuni sono figli di contabili dell’erario, e non hanno altra prospettiva che quella
di frodare; altri sono venuti direttamente dal loro ufficio […]; altri hanno lasciato
l’aratro e sono bruciati dal sole; altri hanno lasciato la zappa e il piccone che
usavano ogni giorno; altri ancora, che hanno lasciato i remi o l’esercito,
emanano puzza di sentina o sono pieni di cicatrici […] e altri hanno ancora sulla
pelle il sudore per il lavoro fatto accanto al fuoco. Questa gentaccia da frusta o
macina […] si gonfia e, prendendosi gioco del popolo con la persuasione o con
la paura, punta in alto come certi scarabei che si dirigono verso il cielo volando
[…] e preferiscono sciocchezze, non sanno neppure quanti piedi e quante mani
hanno».137 Alcuni non sanno nemmeno firmare con il proprio nome.
Immaginiamoceli davanti alla questione del giorno: «Quando è incarnato, Cristo
è uno quanto alle proprietà, ai nomi e alle operazioni?»
Il risultato è che, su questioni tipo: «Lo Spirito-Pneuma è pari al Padre o al
Figlio?», «Il soggetto ipostatico è la stessa cosa dell’essere sussistente o della
persona?», o ancora: «Il venire all’essere del Figlio corrisponde al processo
stesso della creazione?», o anche: «Dio, in quanto monade, contiene la diade o la
triade?», le argomentazioni usate per dibattere non sono tanto citazioni
recuperate dal Parmenide di Platone o dalle Categorie di Aristotele, quanto
battutacce, insulti e spergiuri. A volte, addirittura si tratta di bustarelle – diciamo
borse piene di monete d’oro, sinecure o posti da occupare. Per strada, non è raro
trovare manifestazioni e tafferugli che lasciano a terra pure qualche morto.
Facendo tutti i conti del caso, si può anzi dire che ci siano più vittime collaterali
nei concili che defunti martiri nelle arene – stiamo parlando di una cifra attorno
alle venticinquemila vittime…
Cascano le braccia a immaginare tutta questa gente prontissima ad attaccar
briga, gente ignorante, semianalfabeta e alcolizzata, gente dedita alla
compravendita di voti e sempre pronta a picchiare colleghi, tutta riunita a
disquisire e a pontificare su questioni teologiche destinate a far prendere a
un’intera civiltà una strada piuttosto che un’altra! Anche se va pure sottolineato
che, per alcuni concili, i religiosi riuniti sono stati davvero pochi: sessantasei a
Cartagine nel 253, trentuno nella stessa città nel 255, diciotto ad Ancira nel 314,
venti a Neocesarea tra il 314 e il 320, cinquanta a Roma nel 353. Nonostante
tutte le Bibbie messe sugli altari nelle varie sale dei concili perché lo Spirito
Santo potesse arrivare e diffondere il proprio respiro sopra gli astanti, non è poi
tanto sicuro che la cosa sia bastata!
È proprio su questa difficoltà che parte del medioevo finirà per inciampare
commentando il trattato di Aristotele. Pensiamo, in particolare, al caso di
Averroè, che, nel suo grande commento al libro aristotelico su L’anima, riprende
la questione dell’intellezione discussa alla fine del terzo libro. Averroè procede
interrogando e facendo lunghe analisi per spiegare le differenze tra gli intelletti
umani in potenza e suscettibili di ricevere la forma degli oggetti, e l’Intelletto
sempre in atto che permette di realizzare in ciascuno il passaggio dalla potenza
all’atto, un’operazione intellettuale senza la quale nessuna conoscenza è mai
possibile. Ma se esiste un solo Intelletto agente, che cosa possiamo affermare
allora dell’anima umana creata da Dio e, dopo il peccato originale, da lui
riscattata? E ancora: in un mondo creato da Dio, com’è quello pensato dai
cristiani e dai musulmani come Averroè, in che modo possiamo considerare un
Intelletto agente che non assomiglia in niente al Dio creatore dei monoteisti?
Sull’Intelletto agente, scrive Averroè: «Secondo la ragione, sono obbligato a
concludere che ce ne sia solo uno (e che serva a tutti); secondo la fede, invece, è
il contrario che sostengo con fermezza». A questo proposito, hanno parlato della
teoria della doppia verità nell’Islam. E noi lo capiamo benissimo, è una
questione che oggi appartiene ormai all’ambito del politicamente corretto: intriso
dall’ideologia del momento, il dibattito tecnico e specialistico di teologia ha
assunto un vero e proprio rilievo politico. Molto fortunatamente, qui stiamo
parlando di altro.
Quello che deduco è che la filosofia di Averroè si rivela essere un pensiero del
commento. Proprio come la patristica può essere interamente ridotta al
commento della Bibbia, la glossa infinita sui libri di Aristotele imprime una
nuova direzione alla filosofia, che porterà alla scolastica. Averroè commenta
Aristotele, poi viene a sua volta commentato da Tommaso d’Aquino, il quale a
sua volta ancora verrà commentato da altri, e via di seguito…
La verità è che il vitalismo di Aristotele è interessante perché fa in qualche
modo tornare il pensiero platonico con i piedi per terra. Il fatto di definire
l’anima come potenza che informa la materia nei limiti di quest’ultima, limiti
fisici, limiti anatomici e limiti biologici, rappresenta un’attraente alternativa
filosofica al platonismo. L’unico problema è che il vocabolario dello stagirita
appartiene sempre al genere delle glossolalie. E, quando, nel trattato su L’anima,
analizza la nozione di acuto, di inodore, di insipido, di sapido, di silenzio, di
invisibile, di aspro, di amaro, di astringente, di acido, di diafano e di bagnato,
Aristotele si muove nella materia del mondo, manifestando un vero e proprio
partito preso per le cose più di quanto non faccia quando disserta sulla quiddità e
sulla quoddità, sull’atto e sulla potenza, sulla forma e sulla materia, sulla
sostanza e sull’attributo, sul numero e sull’essenza, sull’accidente e sul genere,
sull’entelechia e sull’idea, e su molte altre categorie ancora, impiegando un
linguaggio che non fa altro che girare su sé stesso e trasformarsi in un fine in sé.
Il problema con i maestri è l’uso che ne fanno i discepoli. I discepoli, o i loro
commentatori, i loro glossatori, i loro analisti. Anche per quanto riguarda
Aristotele, il peggio sono sempre gli aristotelici. Quelli che pensano a partire da
Aristotele senza mai davvero pensare un po’ più in alto, senza mai andare oltre.
Le promesse del suo metodo si bloccano, si fissano, si cristallizzano, si
solidificano, si pietrificano nella scolastica, che è, come indica la sua radice
etimologica, il pensiero della scuola, ossia di quel luogo dove, più che inventarsi
un futuro, s’impara ciò che è vecchio.
Che cosa aggiunge Tommaso d’Aquino al pensiero dell’anima di Aristotele
quando lo ingabbia in dispositivi verbali, per non dire verbosi, che in qualche
modo riecheggiano le grandi architetture delle cattedrali gotiche? L’autore della
Somma Teologica definisce in effetti l’anima come un «atto della materia» che
porta a tre specie d’anima, quella razionale, quella sensibile e quella vegetale, le
quali conducono a cinque generi di potenza, quella vegetativa, quella sensitiva,
quella appetitiva, quella locomotiva e quella intellettiva, da cui derivano diciotto
potenze. Quella razionale, attraverso l’intellettiva, forma l’intelletto agente e
l’intelletto possibile; quella sensibile, tra la razionale e la sensitiva, attraverso
l’appetitiva porta alla volontà; poi ci sono quella combattiva e quella
desiderativa. La potenza sensibile, attraverso la sensitiva, ne forma una interna e
una esterna: quella interna comprende la cogitativa, la memorativa,
l’immaginativa e il senso comune; quella esterna comprende la vista, l’udito,
l’odorato, il gusto e il tatto. Quella sensibile, attraverso la locomotiva, equivale
al dispositivo locomotore. Quella vegetale, attraverso la vegetativa, porta alla
facoltà di procreazione, alla facoltà di crescita e alla facoltà nutritiva.
Aggiungiamo a questo che tutto si separa tra organico (tutto quello che
appartiene all’anima razionale) e inorganico (tutto quello che appartiene alle
altre due anime).
L’esposizione del pensiero tomista procede per tagli sistematici: una
domanda, seguita da alcuni articoli composti da obiezioni numerate, seguite a
loro volta da una rubrica di argomenti «in contrario», poi da una risposta in cui,
a furia di «perché», di «ma», di «ora», di «dunque», di «oppure», di «è così», il
Dottore della Chiesa è in grado di provare, per esempio, che «gli uomini pingui
sono scarsi di seme».14
San Tommaso affronta la questione del legame tra anima e corpo attraverso
quella dell’insorgere o meno dell’anima nell’embrione. L’anima si trova già nel
corpo? O interviene nella carne a un momento dato? E, se sì, qual è questo
momento? Il dibattito agita alcuni Padri della Chiesa come san Girolamo nelle
sue Lettere (CXXVI) e sant’Agostino ne L’anima e la sua origine (CLXVI): i
due hanno un carteggio sull’argomento.
La questione prende il nome di traducianesimo e la si deve, in quanto dottrina,
a Tertulliano, per il quale l’anima dei bambini viene trasmessa a partire da quella
dei genitori. Al contrario, i creazionisti come Tommaso d’Aquino, Alberto
Magno, san Bonaventura e Calvino ritengono che l’anima dei bambini venga
creata direttamente da Dio. Il medioevo si appropria della questione e i dibattiti
infuriano tra chi sostiene l’animazione immediata, ossia fin dal momento della
concezione (era anche la tesi di Gregorio di Nissa e di Basilio il Grande), e chi si
schiera a favore dell’animazione ritardata, considerando che l’anima venga
conferita da Dio solo quando il feto è abbastanza sviluppato da poter accogliere
un’anima spirituale (è la tesi di Teodoreto di Cirro nel V secolo).
L’arrivo in Occidente, nel XII e XIII secolo, dei testi del medico e filosofo
Avicenna consente di affrontare l’argomento fondandosi non più su categorie
metafisiche ma sulle osservazioni empiriche di chi studia sul campo il
funzionamento del corpo umano. Sappiamo che Aristotele distingue tre anime:
quella vegetativa, quella sensitiva e quella razionale. La medicina ci insegna che
queste tre anime indicano più che altro tre stati dell’anima in uno stesso
embrione, un embrione che evolve passando dal vegetativo al sensitivo fino al
razionale. Sarà questa la tesi tomista: «nella generazione per primo il feto vive la
vita della pianta, poi vive la vita dell’animale e finalmente la vita dell’uomo.
Dopo quest’ultima forma non si riscontra negli esseri generabili e corruttibili una
forma ulteriore e più nobile. Perciò l’ultimo fine di tutto il generare è l’anima
umana, e a questa la materia tende come all’ultima sua forma».15
In effetti, per Tommaso, Dio conferisce l’anima all’essere e la passa al
bambino. L’anima intellettiva viene dunque creata da Dio e messa nell’embrione
dopo che quest’ultimo ha passato la fase del tempo vegetativo, cioè del tempo
sensitivo e motore, che corrisponde al momento in cui la madre sente il bambino
che si muove in pancia, ossia a partire dai quaranta giorni.
Aristotele, che condivideva questa teoria dinamica, evolutiva e vitalista,
spiegava (Ricerche sugli animali, VII, 3) che il processo era più lento e lungo
nelle bambine che nei bambini – quaranta giorni per i bambini e novanta per le
bambine!
Precisiamo anche che, per i cristiani, tale teoria (cioè che l’embrione non è un
essere umano, ma un essere vivente che non appartiene alla specie animale)
giustifica l’aborto, a patto che venga praticato prima di questa soglia temporale
ontologica e fisiologica. Il medioevo, in fondo, non è stato così oscuro come lo
si dipinge! La Chiesa fa sua la teoria tomista per sei secoli: l’embrione è quindi
all’inizio un piccolo-uomo-pianta, poi si trasforma in un piccolo-uomo-animale,
e poi diventa un piccolo-uomo-razionale. Lo schema ritorna in auge nel
Settecento con l’anima dell’uomo-macchina, o meglio con l’anima-macchina
dell’uomo-anche-lui-macchina, per poi essere abbandonato dalla Chiesa nel
1869 – probabilmente perché si è cominciato a pensare che, dentro questa logica
postaristotelica, si annidava il positivismo e che, grazie a lui, il lupo materialista
sarebbe entrato nell’ovile idealista e spiritualista!
Occorre anche dire che, sull’argomento, la Chiesa ha ballato per un po’ il
valzer dell’esitazione. Il 29 ottobre del 1588, sul monte Quirinale, papa Sisto V
pubblica una Bolla intitolata Effraenatam (Senza ritegno). Il testo abolisce la tesi
dell’animazione ritardata, che permetteva di abortire entro la quarantesima
settimana, e quindi permetteva così vita debosciata e lussuria, stupro e
fornicazione, prostituzione e libertinaggio, accettando la tesi opposta
dell’animazione immediata: l’anima è consustanziale all’embrione, quindi
sbarazzarsene significa attentare all’anima stessa – peccato mortale gravissimo!
Sulla scia, il papa condanna qualsiasi velleità contraccettiva.
Partigiano dell’animazione ritardata, il papa successivo, Gregorio XIV, abroga
nel 1591 la bolla del predecessore e restaura la pena di scomunica soltanto
quando l’interruzione volontaria di gravidanza ha luogo oltre il quarantesimo
giorno. Il che significa non considerare più l’aborto come un omicidio. Ultimo
voltafaccia nel 1869, quando papa Pio IX, con la bolla Apostolicae Sedis
moderationi, riporta a validità la tesi dell’animazione immediata! Che è poi
quella che ancora oggi trionfa nella Chiesa cattolica, apostolica e romana…
Precisiamo che la bolla Effraenatam non è mai stata pubblicata per intero, ma
solo amputata dei paragrafi otto, dieci e undici, visibili unicamente
sull’originale, il quale, andate a capire per quali bizzarre ragioni, è consultabile
negli archivi del Vaticano solo dietro autorizzazione speciale. Ci piacerebbe
essere dei topolini…
Capitolo secondo
I sofismi della volpe
Riabilitare l’animale
Montaigne non si preoccupa per niente dei galli dipinti, a lui interessano solo i
galli veri!
Possiamo quindi capire come né la «poesia sofisticata»24 di Platone, né la
«scienza moderna»25 della scolastica aristotelica siano in grado di nutrire
Montaigne sotto il profilo filosofico. Il quale infatti confessa di preferire le Vite
parallele di Plutarco e le opere di Seneca. O, meglio ancora, quelle di filosofi
veri che, di Platone e di Aristotele, ignorano tutto, persino il nome, perché per
loro la filosofia non è l’arte di tagliare il capello in quattro o di commentare i
commenti facendo i giocolieri con l’astruso vocabolario della scolastica, ma
un’arte di vivere, una saggezza pratica, qualcosa che la gente semplice e modesta
conosce molto bene. In un capitolo dedicato alla presunzione, Montaigne scrive:
«La condizione meno disprezzabile della gente mi sembra quella che per
semplicità occupa l’ultimo posto, e ci offre rapporti più equilibrati. I costumi e i
discorsi dei contadini, li trovo in generale più conformi alla norma della vera
filosofia di quanto siano quelli dei nostri filosofi».26
Da questa convinzione, nascono gli attacchi che Montaigne sferra contro il
ricorso pedante e sistematico al greco e al latino: recrimina parecchio sulla forma
dei dialoghi di Platone e relativizza in maniera assoluta lo stile di Cicerone, che
sappiamo aveva imparato a conoscere fin dalla culla, molto prima del francese. E
sempre da questa sua posizione, nasce anche il suo elogio del guascone: «Il
linguaggio che mi piace, è un linguaggio semplice e spontaneo, tale sulla carta
quale sulle labbra. Un linguaggio succoso e nervoso, breve e serrato, non tanto
delicato e leccato quanto veemente e brusco».27 Quello che vorrebbe è un
linguaggio «Non pedantesco, non fratesco, non avvocatesco, ma piuttosto
soldatesco».28
Sono, questi, i motivi per cui rifiuta il vocabolario della corporazione dei
filosofi che filosofeggiano. Anche se conosce tutta la terminologia tecnica della
scolastica, non la usa mai. Aggrava il proprio caso scrivendo che «nel
linguaggio, la ricerca di frasi nuove e di parole poco conosciute deriva da
un’ambizione puerile e pedantesca. Potessi io non servirmi che di quelle che si
usano al mercato a Parigi!»29 C’è di che morire soffocati al Collège de France,
istituito cinquant’anni prima da Francesco I…
Montaigne ritiene anche che la filosofia non sia destinata soltanto a persone
adulte che sfoggiano parrucconi e consumano il culo dei pantaloni sui banchi
degli anfiteatri universitari, ma che anche i bambini non dovrebbero sentirsene
respinti: «È molto strano che al nostro tempo le cose siano giunte al punto che la
filosofia è, anche per le persone d’ingegno, un nome vano e fantastico, che non
serve a nulla e non ha alcun pregio, sia in teoria sia in pratica. Credo che ne
siano causa quei cavilli che hanno invaso i suoi accessi. Si ha gran torto a
descriverla inaccessibile ai fanciulli, e con un viso arcigno, accigliato e terribile.
Chi me l’ha camuffata sotto questa maschera, esangue e ripugnante? Non c’è
nulla di più gaio, di più vivace, di più giocondo e, direi quasi, burlone».30
Non è difficile capire come, alla Sorbona, dove da sempre le belle pettinature
sono tenute in gran valore, un simile discorso possa essere percepito come
sovversivo e rivoluzionario. Strappare la filosofia alle tristi figure che, negli
anfiteatri, parlano in latino chiosando san Tommaso d’Aquino a suon di
sillogismi, affondi retorici e trucchetti da sofistica, è in effetti un vero e proprio
sacrilegio! Peggio: preferire a questa gentaglia i poveri, i semplici, i contadini, i
giardinieri, i bambini, i paggetti, e tutta la fauna che gravita attorno ai mercati di
Parigi, è un’offesa imperdonabile per i dotti dell’università!
Montaigne non cerca la verità nei libri che raccontano il mondo, o nella Bibbia,
o in Platone, o in Aristotele, ma nel mondo stesso. Per la filosofia, si tratta di una
vera e propria rivoluzione epistemologica. Il suo invito è a lasciar perdere le
biblioteche e a guardare direttamente il mondo per pensarlo davvero. Su un tono
scherzoso, scrive: «Conosco uno che quando gli domando che cosa sa, mi chiede
un libro per mostrarmelo; e non oserebbe dirmi che ha il deretano rognoso, senza
andare immediatamente a studiar sul suo lessico che cos’è rognoso e che cos’è
deretano».31
Ecco per quale motivo Montaigne parla di sé e racconta la propria vita privata.
Non per esibizionismo, non per narcisismo, non per egotismo o amore smisurato
per la propria persona, ma perché il libro deve cedere il posto all’esame del
mondo: per riuscire a pensare l’uomo in tutta indipendenza dal cristianesimo,
non c’è miglior soggetto da cui partire se non la propria persona. Montaigne si
osserva, ed è l’«uomo» che vede: un uomo nudo, un uomo finalmente libero dai
testi, dai libri, dai commenti, dalle parole, dai verbi, dalle biblioteche e dalle
chiose che da secoli ne nascondono la verità. È l’Uomo vitruviano di Leonardo,
nudo, appunto, e senza Dio: non contro Dio, ma semplicemente indipendente da
lui, disinteressato.
Da qui anche le sue considerazioni sull’educazione ricevuta durante l’infanzia,
sulle qualità del padre, sulla sua propria svogliatezza, sulle sue letture, sulla sua
bassa statura, sul suo amico perduto, Étienne de La Boétie, sulla moglie, sul fatto
di dimenticare quanti figli gli sono morti, sui suoi gusti alimentari (ostriche,
chiaretto e carni con la salsa), su come i suoi baffi gli conservano il ricordo di
tutto quello che mangia, sulla sua mancanza di grazia in ogni cosa che fa, sui
buchi della sua memoria, sull’incapacità di rispondere a tono, sul suo amore per i
viaggi a cavallo, sul suo incarico di sindaco di Bordeaux, sul mal di pietra, sulla
piccolezza del proprio sesso, sui suoi problemi libidinali, sugli effetti della
vecchiaia sulla memoria e in generale sul corpo, sulla sua tarda e misteriosa
amicizia per la propria «figlia spirituale»,32 Marie de Gournay, sul suo
progredire verso la morte, e su tantissimi altri argomenti.
Montaigne ci offre anche dettagli sul suo rapporto con la religione. Crede in
Dio, dice le sue preghiere tutte le sere e assiste alla messa, anche rintanato a letto
al piano superiore della sua famosa torre, da cui è ancora possibile vedere il buco
che gli permetteva di ascoltare le funzioni; fa un pellegrinaggio alla Basilica
della Santa Chiesa di Loreto, incontra papa Gregorio XIII, manifesta in maniera
inequivocabile il proprio cattolicesimo e rifiuta la Riforma; addirittura, quando si
rende conto di essere arrivato alla fine, chiede, e ottiene, l’estrema unzione. Parte
per il Vaticano per sottoporre i propri Saggi al papa, che lo invita a correggere
alcune pagine, cosa che il filosofo si rifiuterà di fare. Questo è tutto il suo
rapporto con la religione cattolica. Montaigne crede al Dio dei cattolici perché è
francese, e confessa che, se fosse nato in Germania, sarebbe stato protestante;
rispetta il sommo pontefice, ma pone la verità al di sopra di tutto, papa
compreso. Scrive: «Presento le fantasie umane e mie semplicemente come
umane fantasie, e considerate per sé stesse […]. Materia di opinione, non
materia di fede […]. In maniera laica, non clericale, ma sempre molto religiosa».
33 Di fatto, Montaigne è fideista: crede nel Dio del proprio paese, ma non può
condividere l’antiedonismo e il dolorismo del cristianesimo, e neanche il suo
fasto e la sua idea di decoro.
Della medicina, Montaigne scrive peste e corna. Il filosofo ricorda come lui e il
padre soffrissero del mal della pietra, e come i calcoli alla vescica gli avessero
provocato moltissime sofferenze. L’incapacità dimostrata dalla corporazione
medica nel curare «questa […] infusione e infiltrazione fatale»64 che aveva
toccato lui, il padre, e parecchi altri membri della sua famiglia, colpita da
«questa caratteristica del mal della pietra»65 da almeno due secoli, ha prodotto,
come scrive, l’«odio e [il] disprezzo per la loro dottrina».66 E aggiunge:
«Quest’antipatia che ho per la loro arte è in me ereditaria».67
Il filosofo fa della salute il bene senza il quale nessun altro bene è possibile; la
salute è il più prezioso dei tesori. Da qui l’importanza dei medici. Platone viene
colpito da un attacco di epilessia o da un colpo apoplettico e, di colpo, non c’è
più nessuno che sia in grado di elaborare le ipotesi del Parmenide!
Al contrario delle rondini e dei lucci, noi abbiamo perduto il contatto reale con
la natura. E l’artificio non è sempre meglio rispetto alla natura. Capita, anzi, che,
per esempio, la prescrizione di alcuni regimi alimentari acceleri il peggioramento
definitivo delle condizioni delle persone a cui avrebbero dovuto allungare la vita.
La verità è che «I medici non si accontentano di avere il governo della malattia,
rendono malata la salute, per impedire che uno possa mai sfuggire alla loro
autorità».68 Trasformano quella che qui e ora è buona salute in inarrestabile
malattia. Montaigne fa della sofferenza l’occasione per esercitare il proprio
stoico pragmatismo. Sostiene di non aver mai perso un’occasione per verificare
la validità della formula dei filosofi del Portico: «Sopporta e astieniti», e di non
aver mai avuto bisogno dei medici. E nota come, dal punto di vista sociologico,
all’interno di questa categoria professionale, non si trovino molti centenari o
molta gente in forma olimpionica. I popoli che ignorano i medici e la medicina
sono sicuramente quelli più vigorosi e sani, quelli più resistenti e felici.
Montaigne, quindi, non ama né le medicine né le purghe. E considera che «tutto
quello che si rivela salutare alla nostra vita si può chiamare medicina».69
Esprimendo il concetto in altri termini: l’edonismo e l’eudemonismo valgono più
di qualsiasi clistere o presa di sangue! Ascoltiamo quest’altro magnifico invito:
«Fate ordinare una purga al vostro cervello».70 Per riparare i disordini, la natura
si organizza molto meglio di qualsiasi medico. Tanto più che i discepoli di
Esculapio non sono nemmeno in grado di spiegare da dove arrivano le malattie e
vessano i malati ritenendoli responsabili dei loro stessi mali. La malattia? È
colpa dei malati. La guarigione? Merito dei medici. Testa, vince il medico;
croce, perde il malato.
Quelli che praticano questa sedicente arte usano un vocabolario astruso. Per
esempio, prescrivono «di prendere una figlia della terra, che cammina nell’erba,
porta con sé la propria casa, non ha sangue»,71 semplicemente per indicare la
bava di lumaca. E, se ottengono qualche risultato, è solo perché il paziente è
pienamente convinto di tutte le loro stramberie e condivide tutte le loro
scempiaggini. Se il medico, con fare pedante e perentorio, decide di infliggere la
secrezione delle lumache a dei babbei che sono convinti della sua assoluta
efficacia, allora di sicuro gli effetti non tarderanno ad arrivare! In pieno
Cinquecento, insomma, Montaigne scopre i principi della psicosomatica.
Stesso atteggiamento nei confronti di quest’altra ricetta, che non ottiene il
consenso del filosofo: «Il piede sinistro d’una tartaruga, l’urina d’una lucertola,
lo sterco d’un elefante, il fegato d’una talpa, un po’ di sangue tratto da sotto l’ala
destra d’un piccione bianco; e per noialtri affetti da mal della pietra (tanto
sprezzantemente abusano della nostra miseria), cacherelli di topo polverizzati, e
altre simili stranezze che hanno piuttosto l’aspetto d’un incantesimo magico che
di solida scienza. Tralascio il numero dispari delle loro pillole, la designazione di
certi giorni e feste dell’anno, la distinzione delle ore per cogliere le erbe dei loro
ingredienti, e quella grinta arcigna e austera del loro atteggiamento e contegno».
72 La medicina è l’attività di ciarlatani che ricorrono a ricette degne della
stregoneria e però vogliono comunque continuare a essere considerati uomini di
scienza. Naturalmente, a coprire tutte queste imposture c’è sempre, come al
solito, l’università.
Montaigne si diverte a elencare le differenti diagnosi e i diversi trattamenti
affibbiati a una stessa malattia. Esistono tante eziologie, tante posologie e tanti
trattamenti sanitari quanti sono i medici! Questo, per dire il carattere scientifico
della loro attività. E magari tutte queste stravaganze fossero inoffensive! La
verità è che invece causano proprio le malattie che avrebbero dovuto curare. E
qui il filosofo continua il proprio processo alla medicina, e soprattutto ai medici.
Al proprio disprezzo nei confronti dei medici di bassa lega, accompagna un
elogio dei chirurghi. Un tizio si è visto diagnosticare il male della pietra da parte
di alcuni medici, ma un’operazione condotta da un barbiere ha rivelato che non
si trattava assolutamente di questo: «È per questo che la chirurgia mi sembra
molto più sicura, in quanto vede e tocca quello che fa; c’è meno da congetturare
e da indovinare, mentre i medici non hanno alcuno speculum matricis che scopra
loro il nostro cervello, il nostro polmone e il nostro fegato».73 Montaigne
continua le proprie riflessioni sulle cure termali, sui regimi alimentari, sulle diete
in generale, sui bagni quotidiani, sulle prese di sangue… Ricordiamocela, però,
quest’idea geniale, come spesso quelle sue, che abbiamo più da imparare dai
chirurghi che non dai medici.
Abbiamo riflettuto molto sul fatto che passare dal geocentrismo di Tolomeo
all’eliocentrismo di Copernico ha demolito una visione del mondo a profitto di
un’altra. E su questo sono ovviamente d’accordo. È una vertigine astronomica
non priva di conseguenze epistemologiche, etiche, teologiche, spirituali,
filosofiche, e via dicendo. Non è la stessa cosa trovarsi in un mondo al centro di
tutto oppure in un universo in cui il centro non sta da nessuna parte e la
circonferenza dappertutto. Tocca trovare un altro posto per Dio, e un altro posto
pure per l’uomo.
Si è molto discusso dell’accesso all’infinitamente piccolo reso possibile, nel
Seicento, dall’invenzione del microscopio, e del contemporaneo accesso
all’infinitamente grande permesso dalla lente astronomica. L’aldilà del mondo
presenta altrettanto interesse del quaggiù terreno, peraltro nettamente più
accessibile. La scoperta della pluralità dei mondi va di pari passo con quella
della composizione atomica del mondo. È in questo periodo che Paracelso
elabora un pensiero del microcosmo e del macrocosmo come il diritto e il
rovescio di una stessa medaglia.
Il Rinascimento riscopre la potenza mai sfruttata della filosofia abderitana,
materialista, atomista ed epicurea. Democrito ha l’intuizione dell’atomo
osservando delle particelle di polvere che si muovono come in una danza in un
raggio di luce. Se però tutto è atomi che cadono nel vuoto, che cosa possiamo
pensare di Dio, e del suo rappresentante sulla Terra, cioè l’anima?
Quello che Montaigne fa con l’anima dell’uomo, partendo dall’analisi della
propria e costruendo la ricerca come un romanzo dell’Io, Vesalio lo realizza con
il corpo. In fondo, i Saggi sono una lezione di anatomia dell’anima che non
prevede alcun ricorso a Dio. Il filosofo si piazza davanti a uno specchio,
racconta quello che vede di sé e, dalla propria singolarità, deduce l’universale.
Questo speculum matricis, di cui Montaigne rimpiange che non esistano
equivalenti per gli altri organi, dispone comunque almeno di un analogo nel suo
genere, cioè il bisturi. Non abbiamo mai davvero valutato tutte le conseguenze
prodotte nell’anima dal fatto di aprire i corpi.
Il bisturi non uccide l’anima, piuttosto ne precisa i contorni e questi, un po’
alla volta, si fanno materiali. La si cerca nelle pieghe del corpo e in quelle del
cervello, si crede di scoprirla in una ghiandola e la si insegue con un rasoio;
l’anima si presenta dappertutto ma senza essere mai veramente visibile da
nessuna parte; si laicizza e sfugge a Dio, agli dèi, e quindi anche al diavolo.
Facciamo finta di non occuparcene, ma è solo perché è invisibile e perché ce la
immaginiamo diversa da come ce la raccontano da tanto tempo. Vogliamo dire
immateriale? Certo, perché no? Niente ci impedisce di pensarla così. Però, un
chirurgo non opera mai l’immateriale. Montaigne lo dice, lo pensa e lo scrive: il
chirurgo «vede e tocca».74 In realtà, dell’anima, che cosa c’è da vedere e da
toccare? Solo la teoria di Epicuro permette di risolvere questo enigma ricorrendo
all’atomo. Però, il momento non è ancora giunto, e il Cinquecento lo prepara e
basta. In effetti, Montaigne ritiene che gli Atomi di Epicuro siano delle
costruzioni intellettuali allo stesso titolo delle Idee di Platone e dei Numeri di
Pitagora. Quindi, niente di reale.
Il medico ha una reputazione diversa rispetto a quella del chirurgo: il primo parla
latino, passa per essere un intellettuale che legge i grandi testi della medicina
antica e proviene da una famiglia bella e buona; il secondo, invece, parla
francese (per esempio, Ambroise Paré, il latino, non lo conosce nemmeno),
proviene dalle classi popolari e si indirizza da subito al lavoro manuale: incide
ascessi, amputa, cauterizza con ferri incandescenti oppure con olio bollente,
riallaccia vasi, riduce ernie, opera calcoli alla vescica, trapana, ripulisce fistole
anali, toglie cristallini, strappa e reimpianta denti, e poi, con gli stessi strumenti,
taglia anche barba e capelli. Il chirurgo viene insomma assimilato al barbiere! Il
primo, cioè il medico, rientra nell’ambito delle arti liberali, il secondo di quelle
meccaniche. Il medico prescrive prese di sangue e clisteri; il chirurgo
addormenta il paziente con l’oppio e spesso lo perde per le conseguenze delle
infezioni e delle cancrene. Il primo fa scorrere il sangue, il secondo il pus.
Prima di Vesalio, la lezione di anatomia è qualcosa che appartiene più al
mondo del teatro che non a quello della scienza. Si fa finta di conoscere quello
che in realtà si ignora e si «spettacolarizza» l’apertura dei corpi secondo rituali
apparentabili all’arte della messa in scena. Il magister, o lector, se ne sta sotto il
baldacchino della cattedra professorale a leggere un trattato di anatomia di
Galeno che descrive gli organi, mentre un altro personaggio, il sector, in pratica
l’assistente, procede con la dissezione vera e propria. Nel frattempo, un ultimo
attore, l’ostensor, o demostrator, mostra al pubblico con il dito o con una
bacchetta l’organo in questione. Attraverso questa tripartizione delle funzioni,
c’è un maestro che parla, qualcun altro che mostra e qualcun altro ancora che
tocca. Dire, mostrare e toccare: distinguere tra queste funzioni permette di
continuare a considerare il libro come la verità, delegando qualcun altro
all’ostensione di quanto c’è da vedere e di quanto è stato detto, e lasciando che
un’ultima persona si sobbarchi il contatto diretto con la materia, una materia
detestabilissima proprio perché materia di cadavere.
Vesalio si ribella a questo modo di procedere. E mette in piedi una rivoluzione
metodologica. È convinto che Galeno non sia onnisciente e che, descrivendo
come sono assemblate alcune parti del corpo e come vengono usate, abbia
accumulato parecchi errori, più di duecento, scrive; e sostiene, inoltre, che, se è
riuscito a farlo, è solo perché la sua pratica di dissezione anatomica era basata
sull’esperienza con le scimmie, non su quella diretta con gli esseri umani.
All’epoca, affermare cose simili era un’eresia.
In opposizione alle chiose di tipo universitario, Vesalio propone chiaramente
«la dissezione accurata e l’osservazione diretta delle cose». In altre parole,
secondo lui, il reale non si trova più nei libri che raccontano il mondo ma
direttamente nel mondo. La natura e il funzionamento di un organo hanno poco a
che vedere con le letture commentate dei testi che parlano dell’argomento e che
sono stati scritti millequattrocento anni prima; piuttosto, si deve passare
all’esame e all’analisi di tutto quello che può essere visto e toccato, per utilizzare
la formula di Montaigne. La memoria e gli psittacismi devono lasciare il posto
all’analisi e all’intelligenza.
Vesalio non intende più segare cani, tagliuzzare gatti e dissezionare scimmie.
Sono i cadaveri dei propri simili che vuole aprire. Ecco perché va nei cimiteri o
ai piedi dei patiboli su cui gli impiccati si stanno già decomponendo all’aria
aperta, lanciando ogni tanto dei pezzetti di carne ai cani che arrivano a
disputarseli e a divorarseli. La polizia controlla la situazione e non vuole che i
morti vengano tirati giù dal patibolo di Montfaucon. I profanatori rischiano di
essere perseguiti dalla giustizia e cacciati dalle facoltà.
Quando, nonostante tutto, si riesce a sottrarre un cadavere, la dissezione viene
eseguita su un arco di parecchi giorni, in una cantina, meglio se d’inverno, per
evitare la decomposizione accelerata delle stagioni canicolari. Si comincia
incidendo il ventre ed estraendo le interiora, che è la parte che si corrompe
prima. Il corpo viene innaffiato di aceto per combattere l’insopportabile fetore.
Vesalio manipola, osserva e disegna. Non c’è più nessun bisogno di andare a
chiedere a Galeno che cosa ne pensa, o di domandare ai professori universitari la
loro opinione su quello che pensava Galeno, che è poi la stessa cosa che pensa
lui; ormai ci si deve concentrare su quello che c’è da vedere. È un sapere che
puzza di carogna e di marcio, di aceto e di escrementi; è ancora lontano l’odore
del trattato. Per il momento, l’anima si rivela incolore, inodore e insapore, e non
ha ancora diritto di cittadinanza: sfugge alla lama del rasoio e a quella della
scure di Aristotele.
Vesalio si ribella che è ancora studente. Ai suoi professori, spiega che bisogna
passare direttamente alla vivisezione e che bisogna buttare a mare tutto quel loro
circo teatrale. Uno che legge Galeno, un altro che stacca la milza e la tira fuori
dalla pancia, e l’ultimo che la mostra al pubblico con una bacchettina: è tutto
inutile, tutto privo di efficacia. Se non si manipola, se non si osserva nulla, se si
continua a voler restare nell’atmosfera ovattata della lettura tenuta dal professore
con tanto di berretto, non impariamo nulla. E se non impariamo nulla, quando
andiamo a operare, il paziente che vorremmo curare, finisce che lo mandiamo ad
patres.
Lo studente Vesalio chiede di prendere le cose in mano: vuole essere lui
stesso a manipolare, e a far vedere, quindi a far conoscere. Inoltra la richiesta,
ma, naturalmente, il decano della facoltà non è d’accordo. Il prosector Jean
Gonthier d’Andernach, però, crede nel proprio allievo e riesce a convincere le
autorità. Vesalio tiene così la sua lezione di anatomia in pubblico. La storia non
ha conservato la data esatta, però, sapendo che è nato nel 1514, e sapendo che i
suoi studi li ha compiuti attorno ai vent’anni, diciamo che siamo negli anni
Trenta del Cinquecento. Sono gli anni in cui Descartes scrive le sue Regole per
la guida dell’intelligenza. In quest’occasione, è Vesalio a condurre le operazioni:
lui stesso ad aprire il corpo, lui stesso a mostrare gli organi, lui stesso a
esaminarli e a commentarli. Certo, ha letto Galeno e tutti gli altri, però, tra sé e il
reale, non mette più nessuna biblioteca. Sta di fatto che conquista il pubblico e,
quindi, lo si lascia continuare.
Vesalio critica la medicina libresca e mette in causa la maniera in cui i testi
del corpus medico vengono composti partendo dalla tradizione medievale araba;
denuncia il ruolo di Paolo di Egina, l’autore che, nel VII secolo, aveva riunito
vari testi di Galeno compilati nel corso del tempo nei sette libri del suo Trattato
di medicina; e punta il dito sul ruolo nefasto svolto dall’autorità medievale di
Avicenna nella propagazione di tutto questo materiale didattico scorretto.
Parallelamente, mentre lavora alle edizioni critiche dei testi della medicina
antica e medievale, continua a dissezionare corpi all’università di Padova, dove
viene nominato professore.
Dietro richiesta degli studenti di Bologna, il 15 gennaio del 1540, Andrea
Vesalio si misura con il proprio rivale Matteo Corti. Ognuno deve praticare delle
dissezioni; e, come in un duello, saranno gli studenti a fare da arbitri. Lo scontro
si svolge, appunto, a Bologna, nella chiesa di San Francesco. Attorno alla tavola
su cui Vesalio opera, vengono sistemate quattro file di gradini. A sua
disposizione ha una scimmia, sei cani, alcuni animali più piccoli e tre cadaveri
umani. Con tutto questo materiale sotto mano, si mette a illustrare le differenze
più notevoli tra la scimmia e l’uomo. E anche a spiegare come Galeno non abbia
probabilmente lavorato su esseri umani, ma si sia probabilmente accontentato di
bertucce.
Vesalio chiama Corti direttamente in causa di fronte ai suoi studenti. Descrive
l’inserzione di un muscolo addominale e interroga il proprio avversario, il quale
risponde ricorrendo all’autorità di Galeno. Vesalio l’umilia con una lezione che
fa crollare tanto Galeno che Corti, obbligando quest’ultimo ad abbandonare la
chiesa, seguìto dalla propria combriccola. Applausi degli studenti, strepiti e grida
di giubilo nella casa di Dio trasformata in una sala operatoria per cadaveri. Gli
studenti, per ringraziarlo, vanno al cimitero a recuperare il corpo di un prete
appena inumato, approfittandone per mettere assieme un carico d’ossa: quelle di
un neonato, quelle di un novantenne e quelle di un uomo nel fiore degli anni.
Vesalio usa questo cumulo d’ossa per fare delle comparazioni, e porre le basi di
una pratica allora ancora sconosciuta: l’osteologia comparata. Mette uno accanto
all’altro lo scheletro del prete e quello di una scimmia – non so se Darwin fosse
a conoscenza di questo episodio, sembra davvero una battuta…
Nel 1543, cioè nello stesso anno in cui Copernico firma il suo De revolutionibus
orbium coelestium, Vesalio pubblica il De humani corporis fabrica. Già il
frontespizio è una dichiarazione filosofica, il discorso sul metodo di Vesalio. La
scena si svolge in un anfiteatro circolare di cui scorgiamo sette colonne corinzie.
Dobbiamo vedere un riferimento alle sette colonne della casa della saggezza
ricordate nel libro dei Proverbi (9, 1), e corrispondenti, a loro volta, alle sette
qualità della saggezza celeste («pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di
misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera», Giac 3, 17), riportate in
questo caso a un soggetto tutto terreno? A inquadrare il nome dell’autore e il
titolo del libro, sotto lo scudo con tre donnole che rappresenta lo stemma di
Vesalio, c’è un cartiglio barocco fiancheggiato da alcune decorazioni grottesche.
Sono presenti parecchie persone, più di una sessantina. I volti, ai tempi,
dovevano essere sicuramente conosciuti. L’incisore propone una specie di
Scuola di Atene della materia medica. In mezzo al brulicare di tutti questi esseri
viventi, ecco il cadavere di una donna con il ventre aperto. Vesalio ne indica con
l’indice le interiora e più precisamente l’utero. Giusto dietro il corpo della
donna, che giace distesa come una specie di Eva squartata, c’è uno scheletro che
guarda verso il cielo e tiene in mano un bastone. Sembra invocare il cielo, come
faceva Platone nel quadro di Raffaello, mentre Vesalio, come Aristotele, indica
qualcosa che appartiene al qui e ora, ossia gli organi genitali della donna, ossia
ancora ciò che rende possibile la generazione, e che la morte, un giorno, arriverà
sempre e comunque a cancellare. Tutto quello che nasce in quel ventre è
destinato a essere contenuto dentro lo scheletro, il quale, quasi implorando,
sembra ora osservare il cielo sgombro, o, meglio, svuotato.
Alla domanda «Da dove viene l’uomo?» o «Che cosa possiamo dire della
fabbrica dell’uomo?», Vesalio risponde indicando con il dito l’utero di una
donna. Questo gesto, che non ricorda tanto l’indice di Platone teso verso il cielo
quanto il palmo della mano di Aristotele girato verso terra, scongiura
probabilmente nel modo migliore possibile e in silenzio la trascendenza, a tutto
profitto dell’immanenza. Qui e ora, ecco che l’anatomia sostituisce la teologia.
Su questo frontespizio, gli storici della medicina riescono a identificare alcuni
anatomisti dell’epoca. Sono presenti detrattori di Galeno come Colombo,
Falloppio (il medico che ha dato il nome alle famose trombe), Rondelet e
Ingrassia, e ci sono suoi sostenitori come Paracelso, Sylvius e l’ex insegnante di
Vesalio, Gonthier d’Andernach. Da qualche parte troviamo anche Avicenna e al-
Rāzī, accanto a editori come Aldo Manuzio e Johannes Oporinus, cui si deve la
pubblicazione del libro stesso. Aggiungiamo, in questa piccola folla, anche
Tiziano e il sindaco di Padova.
La scena si compone, a sua volta, di altre scene. Dei due uomini che occupano
gli angoli inferiori dell’opera, quello a sinistra ha una scimmia sulla spalla e
quello a destra tiene fermo un cane per il collo, e sono probabilmente i
prosectores che stanno prendendo gli animali per la vivisezione. Ai piedi della
tavola, altri due uomini stanno preparando gli strumenti chirurgici: uno affila il
bisturi, e l’altro gli sta parlando. A sinistra, nella parte centrale dell’incisione, ci
sono un biondino che legge un libro e un monaco avvolto dal saio nero;
immaginiamo che questo sia il gruppo dei difensori di Galeno, perché,
ovviamente, non stanno guardando quello che Vesalio sta mostrando, cioè
l’utero della donna (cioè ancora il luogo immanente della fabbrica dell’uomo
che cancella ogni genealogia trascendente), ma stanno leggendo i libri attraverso
la cui lente osservano il mondo.
Nelle quasi settecento pagine che formano questo grosso volume e nelle
duecentosettantasette tavole silografiche incise probabilmente dall’allievo di
Tiziano Jan Stephan van Calcar che lo accompagnano, il morto viene mostrato
come se fosse vivo. Il morto si ritrova come vestito dallo scheletro e viene
rappresentato appoggiato sopra un piedistallo, come si usava in Antichità, in
mezzo a un paesaggio di rovine romane, insomma uno scenario classico. Una
volta è appeso davanti a un muro, un’altra volta se ne sta davanti al proprio
sarcofago, un’altra volta ancora è in meditazione a cospetto di… un cranio,
mentre, nel frattempo, un altro gli sta di fronte apparentemente in lacrime per il
dolore; c’è una serie di écorchés: uno con tutti i muscoli, un altro con tutti i
nervi, un altro ancora con tutti i vasi sanguigni e le vene, un altro ancora che si
porta dietro la sua pelle flaccida e cadente.
In questo libro importantissimo per l’Occidente, Vesalio ci parla del corpo
umano: ossa, cartilagini, articolazioni, vertebre, denti, mandibole, sterni,
clavicole, muscoli, sistema circolatorio, vene, aorte, arterie, unghie, cartilagini
del volto, midollo spinale, organi digestivi, organi addominali, organi genitali,
organi intratoracici, cervelli, «corpi pineali», organi sensoriali, cuori e
movimenti cardiaci. Non una parola sull’anima o su qualche cosa che le si
avvicina… Vesalio laicizza con innocenza il corpo degli uomini, lo scristianizza
senza alzare troppo la voce, e lo materializza abbozzandone le forme.
Nel sesto capitolo, Vesalio parla della vivisezione: «Non è difficile prendere
una tavola qualunque, su cui siano stati realizzati dei buchi in modo da poter
tenere legati gli arti, oppure, se non ci sono buchi, mettere rapidamente sotto la
tavola due bastoni e attaccarceli. Per il resto, bisogna soprattutto tener conto
della mascella superiore e stare attenti che sia saldamente fissata sulla tavola,
cosa che riuscirete a fare fissando una piccola catena o una solida corda sulla
parte anteriore dei canini e attaccando l’altro capo a un anello qualsiasi sulla
tavola, o a un piccolo buco o altrove, come giudicherete più comodo, in maniera
che il collo sia tirato indietro e la testa tenuta immobile». Preferiva aprire delle
femmine di maiale piuttosto che dei cani, perché questi ultimi urlavano più di
tutti gli altri animali.
In questa boccata d’aria per la vivisezione, scrive: «Nell’esame del cervello e
delle sue parti, non c’è veramente nulla da vedere per il tramite della
vivisezione, dal momento che qui, lo vogliamo o no, per rispetto nei confronti
dei teologi del nostro paese, noi dobbiamo rifiutare agli animali privi di ragione
la memoria, il ragionamento e la riflessione, anche se la struttura del loro
cervello è la stessa di quella dell’uomo» [corsivi miei].
E poi: «Ma come il cervello compia la propria funzione nel campo
dell’immaginazione, del ragionamento, del pensiero e della memoria (o in
qualunque maniera desideriate suddividere o nominare i poteri dell’anima
sovrana in funzione di questa o quell’altra dottrina), io non lo posso
comprendere in maniera per me soddisfacente» (VII). In altre parole, per rispetto
nei confronti dei teologi del proprio paese, Vesalio preferisce non dire niente.
Prudenza ammirevole. Però è fin troppo facile capire che se fosse stato
d’accordo con le favole cristiane dell’anima immateriale, eterna e immortale,
non avrebbe certo mancato di farcelo sapere. Il credente Ambroise Paré, per
esempio, consacra un lungo passaggio della propria opera proprio a discutere
dell’anima e ad associarla a Dio.
Capitolo quarto
Una certa ghiandola assai piccola
Localizzare l’anima
Dionis continua:
Una volta tagliata l’intera circonferenza del cranio, si prenderà lo strumento elevatore e s’infilerà
uno dei suoi capi nel solco aperto dalla sega, allo scopo di staccare eventuali escrescenze ossee
che la sega non sarà riuscita a eliminare del tutto. Se non ci si riesce con l’elevatore, se ne verrà a
capo con l’altro strumento a forma di punta, che ha più forza. Trattasi di strumento realizzato
appositamente per questo scopo, perché permette di inserire la parte piatta nell’apertura creata
dalla sega e, sforzando con la mano a destra e a sinistra, di staccare quello che prima non si
riusciva a staccare. Il successo dell’operazione è accompagnato dal rumore che fa l’osso quando
si spezza. A questo punto, si fa scivolare lo strumento a forma di grande spatola con il manico tra
il cranio e la duramadre, e si procede a separare i filamenti che lo tengono attaccato ai punti di
sutura.
E alla fine:
Una volta tolto il cranio, lo si sistema a fianco della testa per metterci dentro i pezzi di cervello
mano a mano che li si taglia. […] Esaminata per bene la parete interna, si rimette tutta la materia
al suo posto e, dopo averla richiusa nel cranio, si prendono ago e filo e si ricuciono i quattro
angoli del cuoio capelluto che erano stati sollevati, per ricoprire la calotta cranica e risistemare
tutto nel suo luogo ordinario.75
Descartes soffre per il fatto di essere schiacciato dalla sua stessa reputazione.
Esiste il Descartes degli esami di maturità, ridotto al Discorso sul metodo, un
testo di cui ci si dimentica sempre in che condizioni è stato scritto e il cui ruolo
viene sempre limitato a quello di manifesto prerivoluzionario che inventa la
ragione laica e traghetta direttamente al 1789. Così facendo, però, si confonde
Descartes con i cartesianesimi, che sono stati numerosi e, ovviamente,
contraddittori. Basti pensare alla radicalità materialista di Regius,
all’occasionalismo dell’oratoriano Malebranche, al panteismo del marrano
Spinoza, all’ateismo antispecista dell’abate Meslier, e via di seguito.
Descartes non è solo l’epistemologo della ragione moderna, ma è anche un
filosofo esistenziale che pensa per vivere, cioè per vivere bene e per vivere
meglio. Vorrebbe poter svolgere il proprio lavoro non contro Dio, ma senza di
lui, dopo aver stabilito con chiarezza e una volta per tutte che occorre sempre e
comunque obbedire «alla religione del proprio re e della propria balia» – cioè,
chiaramente, al cattolicesimo romano. Fornisce prove dell’esistenza di Dio,
legge gli atti dei concili per conoscere i dogmi della Chiesa e non infrangerli, e
cerca di mantenere assieme la dottrina della transustanziazione e la propria
filosofia.
Il suo Discorso sul metodo è, di fatto, l’esposizione del metodo da lui stesso
impiegato, e non gli sarebbe mai venuto in mente di pensare che sarebbe potuto
diventare il metodo impiegato da tutti gli altri, addirittura a livello nazionale! È
un semplice testo introduttivo ai suoi altri libri della Diottrica, delle Meteore e
della Geometria, tutte opere scientifiche. All’epoca, il Discorso non è niente di
più.
Descartes scrive in francese come Montaigne. Questo suo carattere di
emulazione nei confronti dell’autore dei Saggi viene fin troppo spesso
trascurato. Il suo progetto è di essere letto da tutti quanti, non solo dagli
intellettuali che giurano in latino. Quindi non esclusivamente all’indirizzo dei
dottori della Sorbona, ma, come scrive il 22 febbraio del 1638 a padre Antoine
Vatier, perché «anche le donne potessero intendere qualcosa»76 del suo pensiero.
La sua intenzione non è di bruciare Aristotele e di rinnegare la scolastica;
semplicemente vuole mostrare come si possa pensare il mondo senza dover per
forza ricorrere alla loro autorità. È il mondo, l’oggetto che Descartes si mette in
testa di pensare. Leggendo la sua corrispondenza, che è il cantiere in cui il suo
pensiero, giorno dopo giorno, lettera dopo lettera, si forma, vediamo che a
preoccuparlo non è il cogito, che fa tanto (o faceva tanto…) soffrire gli studenti
all’ultimo anno di liceo, ma una intera folla di soggetti. Come impedire ai camini
di fumare? Perché, una volta che il pesce è cotto, possiamo toccare il fondo del
paiolo senza scottarci? Dopo la transustanziazione, il peso dell’ostia cambia? Per
quale ragione la neve è tanto chiara di notte? Come ci spieghiamo la corona che
circonda la fiamma di una candela? Che cosa possiamo dire delle macchie
solari? Cosa possiamo dire del suono che fa la pallottola di un moschetto? E
della forma dei cristalli di neve? E della vita delle piante in giardino? E come
galleggia una fetta di pane sull’acqua? Cosa possiamo pensare dei flussi marini?
E della luminosità delle stelle? E della velocità con cui si ghiaccia l’acqua
salata? Come si propaga l’eco? Come possiamo spiegare la forza d’attrazione
degli astri? Come possiamo spiegare la luminescenza delle lucciole? E i colori
dell’arcobaleno? E cosa possiamo dire della relazione tra caldo e luce? Che cosa
succede quando l’acqua viene filtrata attraverso un pezzo di stoffa? Il pensatore
si adopera alla sperimentazione. E si domanda, per esempio, come si possa
spiegare la «fecondità d’un chicco di grano, dopo che è stato immerso nel sangue
o nel letame».77 Pesa l’aria… E fa la stessa cosa con il midollo del sambuco,
constatando che è quattro o cinque volte meno pesante dell’oro. Batte colpi su
dei pezzi di legno di sambuco e su dei pezzi di legno di abete per scoprire se
conducono il suono meglio del rame… Descartes trionfa da vero e proprio uomo
della libido sciendi: i meccanismi della ragione gli interessano tanto quanto
quelli delle maree…
A padre Marin Mersenne, che è stato suo compagno di studi al collegio di La
Flèche, scrive: «a proposito di qualsiasi cosa che riguardi la natura, ma
principalmente di ciò che è universale e che tutti possono sperimentare: di ciò
soltanto ho iniziato a trattare. Infatti, per quanto riguarda le esperienze particolari
che si basano sulla testimonianza di qualcuno, non la farei mai finita e sono
deciso a non parlarne affatto».78 E qual è il suo soggetto? L’universale che
ognuno di noi può sperimentare.
E l’universale che esprime in primo luogo è la vecchiaia. Non l’idea platonica
della vecchiaia, non la categoria aristotelica della vecchiaia, e neppure il discorso
ciceroniano sulla vecchiaia. La vecchiaia non è un soggetto di disputa filosofica,
ma una preoccupazione pratica, esistenziale. In Descartes questa preoccupazione
si manifesta in maniera assolutamente particolare. Lo riporta anche il suo primo
biografo, padre Adrien Baillet, nella sua Vita di monsieur Descartes (1691),
raccontando della comparsa di alcuni capelli bianchi sulle tempie del filosofo,
all’età di quarantatré anni! A Costantin Huygens, Descartes scrive: «I peli
bianchi che si affrettano a spuntarmi mi avvertono che non devo più occuparmi
di altro che dei modi per ritardarli. È ciò di cui mi occupo ora, e cerco di supplire
con l’ingegnosità il difetto delle esperienze che mi mancano, per la qual cosa ho
tanto bisogno di tutto il mio tempo che ho preso la decisione di impiegarlo tutto,
e ho perfino relegato il mio Mondo ben lontano da qui, per non avere la
tentazione di finire di metterlo in bella copia».79
Descartes ha avuto una figlia da una domestica di casa, ma Francine muore a
cinque anni, dopo che la madre se n’era già andata tredici mesi dopo la sua
nascita. Da bambino, Descartes era gracile e magrolino, ed essendo di salute
malferma, ottiene dalle autorità del collegio gesuita di poter restare a letto sotto
le coperte per tutta la mattina, un’abitudine che conserverà per il resto della sua
vita – lavora quindi sdraiato e certi giorni può arrivare a passare a letto anche
dodici ore di fila. Porta una parrucca per ragioni di salute e, alla carne, confessa
di preferire la verdura. È questo insomma l’uomo che decide di occuparsi della
«scienza del vivere bene», come scrive Baillet.
Descartes lo sa, lo ha vissuto in prima persona, lo vive in prima persona e lo
pensa: la salute è il più grande dei tesori, e lui, a questo progetto, intende
consacrarsi. A Mersenne, che gli racconta della patologia dermatologica che lo
affligge, una erisipela, Descartes scrive il 15 gennaio del 1630 spiegando in cosa
consista il proprio oggetto principale di studio: «una medicina che sia fondata su
dimostrazioni infallibili, cosa che sto cercando attualmente».80
Sette anni più tardi, nelle ultime righe del Discorso, troppo spesso
dimenticate, scrive: «non voglio parlare qui in modo particolare dei progressi
che spero di fare in futuro nelle scienze, né impegnarmi verso il pubblico con
alcuna promessa che non sono sicuro di poter soddisfare: ma dirò solo che ho
stabilito di impiegare il tempo che mi resta da vivere solo a tentare di acquisire
una conoscenza della natura che sia tale da poterne trarre delle regole per la
medicina più sicure di quelle avute sinora; e che la mia inclinazione mi allontana
talmente da ogni altro proposito, principalmente da quelli che riuscirebbero utili
ad alcuni solo nuocendo ad altri, che, se qualche circostanza mi costringesse ad
impegnarmi in essi, non credo riuscirei a venirne a capo».81 Siamo nel 1637, e
Descartes morirà nel 1650: gli restano quindi tredici anni per portare a termine il
proprio progetto.
Come arrivare a queste «regole per la medicina»? Ovviamente, attraverso
l’osservazione. Il Discorso sul metodo spiega come Descartes sia giunto a delle
prime verità che non abbiano niente a che fare con la fede e con la religione e
c’entrino invece unicamente con la ragione e con la filosofia. Dubbio metodico,
quindi, e successivo scioglimento di questo stesso dubbio grazie alla
constatazione che non si può dubitare di tutto, in particolare del fatto che si
dubiti (una cosa che, per parte mia, mi lascia assolutamente nel dubbio, ma
questa è un’altra storia…). Eccola, la prima certezza ottenuta: si pensa; e la
seconda, che ne discende direttamente: si è. Riconosciamo qui tutti quanti il
famoso cogito ergo sum, «penso, dunque sono».
Si tratta di uno sguardo su di sé, di uno sguardo dentro di sé, di un’operazione
introspettiva che mette fuori gioco tutto il sapere libresco. Non c’è più bisogno
della Bibbia o della Città di Dio di Agostino, non c’è più bisogno del libro delle
Categorie di Aristotele o della Somma Teologica di Tommaso d’Aquino per
sapere che cosa pensare del mondo, delle cose, del reale e dell’uomo: una
ragione ben guidata all’interno dei meandri più profondi dell’essere riesce a far
venire a galla questa prima verità, e cioè che l’uomo è perché pensa. Siamo alla
fondazione dell’ontologia cartesiana.
Ma per fondare la medicina cartesiana, invece, come fare? Semplicemente,
osservando non più delle anime che pensano, come nella tradizione ontologica
precedente, ma dei corpi che vivono, che sono infatti quelli descritti nel trattato
su L’uomo. E per osservare bene, che cosa c’è di meglio se non aprire corpi?
Nella sua biografia, Baillet racconta che Descartes viviseziona animali morti
ma anche animali vivi. Il filosofo lo spiega a Mersenne: ha vivisezionato la testa
di un montone,82 l’occhio di un bue,83 alcuni giovani vitelli,84 delle rane,85 delle
mucche e dei polli.86
Al corrispondente, scrive: «una volta, infatti, ho fatto uccidere una vacca,
della quale sapevo che aveva concepito poco tempo prima, proprio per vederne il
frutto. Ed essendo venuto a conoscenza, in seguito, che i macellai di questo
paese spesso ne uccidono di gravide, sono riuscito a farmi consegnare più di una
dozzina di ventri nei quali c’erano dei vitellini, alcuni grandi come sorci, altri
come ratti, altri come cagnolini, nei quali ho potuto osservare molte più cose che
nei pulcini, dato che gli organi sono più grandi e più visibili».87 Viviseziona non
solo pesci e conigli vivi, ma anche cani, e lo scopo è di esaminare come funziona
la circolazione cardiaca.88
A proposito della vivisezione di un cane di cui voleva osservare il mesentere,
Descartes scrive a padre Mersenne: «ho osservato che le budella dei cani aperti
da vivi hanno un movimento regolato quasi come quello della respirazione».89
Nel quinto discorso della Diottrica, Descartes analizza la questione della
formazione delle immagini sul fondo dell’occhio. Rimanda alle osservazioni
fatte sull’«occhio di un uomo morto da poco, o, in mancanza, quello di un bue o
di qualche altro grosso animale»90 – seguono i dettagli pratici dell’esame
autoptico. Un’altra volta, il filosofo racconta di una lezione di anatomia tenutasi
a Leida tre anni prima, cioè nel 1637, l’anno stesso della pubblicazione del
Discorso, in cui si era messo a cercare la ghiandola pineale, ossia il luogo
deputato al legame tra anima e corpo nel cervello. Descartes lavora quindi su
corpi umani, e non si accontenta di leggere Vesalio, cosa attestata da una lettera
a Mersenne (Lettera 65).
Sulle vivisezioni, Descartes scrive a Mersenne il 20 febbraio del 1639 che si
tratta di «un esercizio in cui, da undici anni, [si è] cimentato spesso»;91 e
aggiunge: «credo non vi sia medico che vi abbia guardato così da vicino come
me».92 Poi scrive anche queste parole, non prive di un certo interesse per la
questione dell’anima: «Ma non vi ho trovato nessuna cosa di cui non pensi di
poter spiegare in dettaglio la formazione per mezzo delle cause naturali, allo
stesso modo in cui ho spiegato quella di un grano di sale o quella di una piccola
stella di neve nelle mie Meteore. E se mi accingessi a ricominciare il mio
Mondo, dove ho supposto il corpo di un animale tutto formato e mi sono
accontentato di mostrarne le funzioni, indicherei anche le cause della sua
formazione e della sua nascita. Ma, pur sapendo questo, non so ancora
abbastanza da poter guarire anche solamente una febbre. Penso, infatti, di
conoscere l’animale in generale, che non vi è affatto soggetto, e non ancora
l’uomo in particolare, che vi è soggetto».93 Quello che vuole dire è che più di un
decennio di vivisezioni su animali morti e vivi non gli ha consentito di dedurre
l’uomo dall’animale, e ancora meno di arrivare a delle certezze dal punto di vista
medico e farmaceutico. Come per dire che aprire corpi non basta a svelare il
mistero, il funzionamento e le anomalie del vivente. Nonostante questo, però, il
bisturi può raccontare molto sul corpo dell’uomo, e può permetterci di ricavare
qualche informazione anche sull’anima.
In occasione della dissezione del cadavere di una donna a Leida, Descartes
mette in relazione la ghiandola pineale, detta anche conarium, con la fisiologia
del cervello:
Non troverei strano che dissezionando i letargici si trovasse che la ghiandola conarium è corrotta,
giacché essa si corrompe con la stessa grandissima velocità in tutti gli altri. Tre anni fa, a Leida,
volendola vedere in una donna che veniva dissezionata, nonostante la cercassi molto
accuratamente e sapessi molto bene dove dovesse essere, abituato com’ero a trovarla negli
animali appena uccisi senza nessuna difficoltà, mi è stato tuttavia impossibile riconoscerla. Un
vecchio professore che eseguiva la dissezione, di nome Valcher, mi confessava che non aveva
mai potuto vederla in un corpo umano. Ciò credo dipenda dal fatto che comunemente impiegano
qualche giorno a vedere gli intestini e le altre parti, prima di aprire la testa.94
E qui supponiamo che il filosofo, che sembra essersi dato spesso da fare per
cercare la ghiandola pineale tra le pieghe del cervello, sia costretto a constatare
la difficoltà di reperirla a causa del tempo che intercorre tra il momento della
morte e quello dell’operazione di analisi autoptica. Questa ghiandola sarebbe
quindi particolarmente corruttibile per ragioni d’ordine fisiologico. Descartes si
rende in effetti conto che la ghiandola pineale, altrimenti detta epifisi, è irrigata
soltanto da piccole arterie ed è fragile, altamente deteriorabile.
In questa ghiandola, Descartes colloca ciò che sembra necessario alla
memoria, «specialmente negli animali bruti, e in coloro che hanno la mente
rozza».95 E continua:
Quanto agli altri, mi sembra, infatti, che non avrebbero la facilità che hanno a immaginare
un’infinità di cose che non hanno mai visto, se la loro anima non fosse unita a qualche parte del
cervello più adatta a ricevere ogni tipo di nuove impressioni e, conseguentemente, molto inadatta
a conservarle. Ora, non c’è che questa sola ghiandola cui l’anima possa essere così unita; perché
non v’è che essa solamente, in tutta la testa, a non-essere doppia. Credo, però, che sia tutto il resto
del cervello a servire di più alla memoria, principalmente le sue parti interne, così come a ciò
possono servire tutti i nervi e i muscoli; di modo che, per esempio, un suonatore di liuto ha una
parte della sua memoria nelle mani; infatti, la facilità nel piegare e nel disporre le dita in maniere
diverse, che ha acquisito per abitudine, aiuta a fargli ricordare i passaggi per la cui esecuzione
deve disporle in un certo modo.96
Per Descartes ci sono quindi due tipi di memoria: una che dipende dal corpo, e
un’altra, intellettuale, che dipende solo dall’anima.
Il filosofo oppone una sostanza estesa a una sostanza pensante. Dalla parte
della sostanza estesa c’è il corpo divisibile, corruttibile e mortale, e la materia
comune all’uomo e all’animale; dalla parte della sostanza pensante c’è invece
l’anima indivisibile, incorruttibile e immortale, e comune solo a Dio e agli esseri
umani. «Che cosa sono io, allora?» si chiede nella seconda delle Meditazioni.
Risposta: «una cosa pensante».97
Fin dalle prime righe del trattato su L’uomo, Descartes scrive: «Suppongo che
il corpo non sia altra cosa se non una statua o una macchina di terra, che Dio
forma di proposito per renderla quanto più possibile simile a noi, di modo che
non solo le dia all’esterno il colore e la figura delle nostre membra, ma anche
che ponga all’interno tutti i pezzi che sono richiesti per far sì che cammini,
mangi, respiri e, infine, imiti tutte le nostre funzioni che si immagina possano
procedere dalla materia e dipendere dalla sola disposizione degli organi».98 Sono
righe, queste, che costituiscono quasi l’origine filologica della teoria dell’uomo-
macchina, che così tanto affascina i sostenitori contemporanei del
transumanesimo.
Aggiunge il nostro filosofo: «Vediamo orologi, fontane artificiali, mulini e
altre macchine simili che, pur essendo fatte da uomini, non per questo non hanno
la forza di muoversi da sé stesse in molti diversi modi; e mi sembra che non
saprei immaginare tante specie di movimenti in questa che suppongo essere fatta
dalle mani di Dio, né attribuirle tanti artifici, che voi non abbiate motivo di
pensare che ne possa avere ancora di più».99
Descartes comincia allora a descrivere il corpo umano come se si trattasse di
una macchina: una macchina per mangiare, una macchina per digerire, una
macchina per respirare, una macchina per sentire, una macchina per gustare, una
macchina per toccare, una macchina per vedere, una macchina per desiderare,
ma anche una macchina per pensare, per memorizzare, per giudicare e per
produrre delle idee. A un certo punto, ricorre alla metafora della fontana: gli
spiriti animali circolano nei nervi e i muscoli li azionano come fa l’acqua che
passa nei tubi e aziona le molle e i meccanismi della fontana; in altri passi,
paragona la macchina del corpo a un organo.
Ci sarebbe piaciuto leggere quello che Descartes aveva da dire sulla questione,
annunciata fin dalle prime righe, dell’anima e del corpo, e soprattutto, sulle
modalità del loro legame. Il trattato è però rimasto incompiuto. A noi, quindi,
sono rimaste solo la statua di terra, la fontana idraulica, le macchine intese come
macchine di macchine, gli organi, i tubi e le molle: un’immagine del corpo nata
da tutte le ore passate dal filosofo a compiere le proprie ricerche autoptiche.
Il corpo aperto ci fornisce informazioni sulla sostanza estesa, su questo siamo
d’accordo. Che cosa dire però della sostanza pensante? Apriamo le Passioni
dell’anima per scoprire cosa pensa Descartes delle modalità con cui corpo e
anima sono legati tra loro:
Benché l’anima sia unita a tutto il corpo, c’è nondimeno in esso una qualche parte nella quale
esercita le sue funzioni più particolarmente che in tutte le altre. E si crede in genere che questa
parte sia il cervello, o forse il cuore: il cervello in quanto è a esso che si riferiscono gli organi di
senso, e il cuore in quanto è come se in esso si sentissero le passioni. Ma, esaminando
accuratamente la cosa, mi sembra di aver riconosciuto con evidenza che la parte del corpo nella
quale l’anima esercita immediatamente le sue funzioni non è affatto il cuore, e neppure l’intero
cervello, ma solamente la sua parte più interna, che è una certa ghiandola assai piccola, situata nel
mezzo della sostanza cerebrale e sospesa al di sopra del condotto attraverso il quale gli spiriti
delle cavità anteriori entrano in comunicazione con quelli della cavità posteriore, in modo tale che
i più piccoli movimenti che avvengono in essa possono cambiare molto il corso di questi spiriti, e
reciprocamente i più piccoli cambiamenti che accadono nel corso degli spiriti possono fare molto
per cambiare i movimenti di tale ghiandola [corsivo mio].100
In cauda venenum.
La cosa verrà fatta due anni più tardi, nella prefazione alla traduzione francese
dei propri Principi della filosofia. In quelle righe, in pratica, Descartes
abbandona Regius a sé stesso, arrivando a sostenere che se mai era stato un suo
allievo, ora non lo è di certo più. Regius è colpevole, horresco referens, di non
aver fondato la propria fisica su principi metafisici, in altre parole, di non avere
lasciato nessun appiglio ai poteri costituiti – «sono obbligato a sconfessarlo
interamente»…128 Insomma, il cartesianesimo è una filosofia rivoluzionaria, ma
indipendentemente dalla volontà di Descartes!
È così che, basando l’eucaristia su principi di metafisica che fondano la sua
stessa fisica, a furia di superficie del pane e di superficie dell’aria, a furia di aria
che circonda il pane, di pane che non si modifica e di superficie media tra il pane
e l’aria, a furia di corpi che durano, di corpi che cambiano, di corpi tagliati e di
corpi integri, a furia di «corp[i] di Gesù Cristo che si metto[no] al posto del pane
e che occupa[no] lo spazio dell’aria che circonda il pane», a furia di particelle di
pane e di vino che vengono digerite nello stomaco e poi passano nelle vene, il
filosofo arriva a elaborare una specie di transustanziazione naturale; non senza
aggiungere un pizzico di concilio di Trento e una citazione dei propri lavori;
insomma, grande impegno a «evitare le calunnie degli eretici». Al gesuita padre
Mesland vuole spiegare per bene quanto si trovi in accordo con la teoria cattolica
della transustanziazione, ma stando anche bene attento ad aggiungere: «Ma ciò a
condizione che, se lo doveste comunicare ad altri, lo facciate, se non vi dispiace,
senza attribuirmene la paternità, e che anzi non lo comunicherete a nessuno se
riterrete che non sia del tutto conforme a quel che è stato stabilito dalla Chiesa».
129 In queste righe, c’è tutto Descartes. Aggiunge: «Ora, questa
transustanziazione avviene non miracolosamente»130 – ma di certo non senza un
miracolo di sofistica e retorica…
C’è una frase della Philosophia naturalis che apre un nuovo mondo nella
storia delle idee: «L’animale, o è un bestia o è un uomo». Se gli animali hanno
un’anima, significa che non c’è più niente che li distingue davvero dagli uomini.
Un animale-macchina ha ormai soltanto bisogno di un’anima per essere un
uomo. L’automa pone domande tanto all’animale che all’uomo. In Regius,
«l’uomo è un animale composto da un corpo e da un’anima», e non più, come in
Descartes, un «essere che pensa». Quando anche l’anima sarà diventata
corporea, allora non ci sarà davvero più niente a tenere separato l’uomo dalla
scimmia.
In virtù del principio che un aneddoto rivela spesso l’essenziale, facciamo anche
noi un bel fischio alla cagna di padre Nicolas de Malebranche, oratoriano,
venerabile autore de La ricerca della verità: ci porteremo a casa una lezione di
filosofia, come ai bei tempi di Diogene il cinico.
La lezione ci arriva tramite Trublet, che, nelle sue Mémoires pour servir à
l’histoire de la vie et des ouvrages de M. de Fontenelle [Memorie per la storia
della vita e delle opere del signore di Fontenelle], pubblicate nel 1759, ci riporta
questa storiella:
Il signore di Fontenelle raccontava che, essendo un giorno andato […] a trovare [Malebranche]
dai padri oratoriani che stavano in rue Saint-Honoré, a un certo punto, una grossa cagna che
viveva in quella casa e che era gravida, entrò nella stanza dove stava passeggiando, e venne ad
accarezzare padre Malebranche, facendo tutta una serie di moine ai suoi piedi. Dopo alcuni
movimenti inutili per cacciarla, il filosofo finì per darle una pedata, facendo strillare lei per il
dolore, e il signore di Fontenelle per la compassione. «Eh, ma come! gli risponde freddo padre
Malebranche, non lo sa che non sente niente?» «Questo racconto, dissi io al signor di Fontenelle
la prima volta che glielo sentii narrare, dipinge in maniera assai precisa padre Malebranche e il
suo intrepido cartesianesimo; ma, aggiunsi io come per una battuta, dipinge allo stesso tempo
anche lei, e prova la sua naturale tendenza alla bontà. È per me fonte di edificazione vedere la
pena che avete provato per la pedata inflitta a quella povera cagna: e come da quel grido di dolore
lei abbia ragionevolmente concluso che quell’animale sentiva, allo stesso modo io concludo dal
suo grido di compassione che anche lei sente. Si dica quel che si vuole: le bestie hanno un’anima,
e anche lei ha un’anima. I fatti lo dimostrano». Al signore di Fontenelle piacque moltissimo
questa battuta e ne rise parecchio.131
Ma una risata è tutto quello che ne possiamo tirare fuori?
La questione dell’anima degli animali è stata centrale nel Seicento, il secolo di
Descartes; e torna ad esserlo oggi per via delle domande che pone all’uomo sulla
propria natura, in tempi in cui la sua stessa definizione tende a vacillare.
L’animale offre uno specchio in cui gli uomini possono vedere riflesso il proprio
volto e interrogare i propri tratti, cercando di rispondere alla domanda: «Che
specie di animale sono io?», oppure: «Che genere di uomo è l’animale?», e
allargando a: «Che cos’è l’uomo?», e: «Che genere di animale è?»
Ricordiamoci di come, nella seconda delle sue Meditazioni, Descartes si
domanda se gli uomini che vede per strada non siano delle macchine, dei
congegni su cui sarebbero stati semplicemente messi dei cappelli! Ora possiamo
cercare di immaginarci come, di fronte agli automi, il filosofo possa rovesciare il
proprio dubbio, o quantomeno prolungarlo, e chiedersi se, dentro tutte queste
macchine con i vari ingranaggi bene in vista, non esista qualcosa che possa
essere definito anima!
Nel ragionamento di quella Meditazione, il problema viene risolto: «Ma che
cosa sono, allora? Una cosa pensante. Ma che cosa è ciò? È una cosa che dubita,
intende, afferma, nega, vuole, non vuole, immagina, inoltre, e sente».132
Qualcuno pronto a questionare (e di questi non ne sono mancati e certo non ne
mancheranno mai), potrebbe ribattere che anche gli animali sono capaci di
pensare, dubitare, concepire, affermare, negare, volere e non volere, immaginare
e sentire! Una cosa che, almeno al momento, gli automi non sanno fare… Tesi
già sostenuta da Montaigne, ricordiamoci l’Apologia di Raymond Sebond.
Per Descartes, l’uomo è composto da un’anima e da un corpo, separati ma
uniti nella e dalla ghiandola pineale, e ha a propria disposizione il linguaggio, la
ragione, l’intelletto e la libertà. L’animale, invece, è un corpo senz’anima, una
sostanza estesa priva di sostanza pensante, senza pensieri, che reagisce solo
istintivamente e dietro stimoli, totalmente determinata. In ultimo, l’automa è un
puro meccanismo privo dell’elemento vivente. L’uomo è più vicino a Dio degli
animali, però gli automi sono per principio esclusi da questa competizione
ontologica.
In una lettera a William Cavendish, marchese di Newcastle, Descartes
assimila gli animali a delle macchine:
Agiscono naturalmente o meccanicamente, come un orologio, il quale indica l’ora molto meglio
di quanto non ce lo insegni il nostro giudizio. E forse quando le rondini arrivano in primavera
agiscono come un orologio. Tutto quello che fanno le api è della stessa natura, così anche l’ordine
che le gru tengono in volo, e quello che osservano le scimmie quando si battono, se è poi vero che
ne osservano uno; e infine l’istinto di seppellire i loro morti non è più strano di quello dei cani e
dei gatti, che grattano la terra per seppellire i loro escrementi, benché non li seppelliscano quasi
mai: il che mostra che lo fanno solo per istinto, senza pensarci.133
Chi potrebbe allora formalizzarsi per un calcio dato a una pendola quando
suona per darci l’ora?
Quindi, se Malebranche si può permettere di riempire di lividi i fianchi della
sua cagna incinta, è perché la letteratura di Descartes lo autorizza a farlo! E non
può essere considerato moralmente responsabile per il fatto di maltrattare gli
animali, non più di quanto lo sarebbe se distruggesse a scarpate un negozio di
orologi della Franca Contea!
Gli attacchi contro Descartes vanno quindi a tutto vantaggio degli animali.
Montaigne, che, un secolo prima, si era spinto molto oltre Descartes, trova post
mortem in questa querelle sull’anima degli animali alcuni inaspettati discepoli.
Per esempio, nel salotto del duca di Liancourt, a rue de Seine, le discussioni
sull’argomento sono vivaci. La filosofia e la teologia sono all’ordine del giorno,
e si discute di Bacon, di Descartes e di Gassendi. Si battaglia attorno agli
averroisti, ai libertini e ai materialisti. Si racconta che il padrone di casa,
giansenista, riceva a volte addirittura La Fontaine e Bossuet. E Clerselier,
l’editore nonché traduttore di Descartes. Di questo libertino passato al campo dei
devoti, gira una storiella edificante sull’argomento che qui ci preoccupa.
Arnauld, il grande personaggio di Port-Royal, «si era convinto del sistema di
Descartes sugli animali, e sosteneva che essi fossero solo degli orologi e che,
quando si lamentavano, erano solo una rotella dell’ingranaggio che faceva un
po’ di rumore. Il signore di Liancourt, gli diceva: ‘Guardi, là ci sono due cani
che girano lo spiedo, alternandosi nei giorni. Una volta, uno dei due si è trovato
indisposto e quando lo vanno a prendere si nasconde. Cercano allora l’altro per
fargli girare la ruota al suo posto. Il compagno si mette allora a fare un sacco di
versi e a muovere la coda perché lo seguissero: e se ne va a stanare l’altro che se
ne sta nascosto in granaio, e lo rimprovera. Secondo lei, sono degli orologi,
questi?’ Il signor Arnauld trovò l’aneddoto molto divertente e non poté fare altro
che riderne».134 Il che, trattandosi dell’austero autore della Logica di Port-Royal,
era già di per sé un’impresa…
Il normanno Fontenelle, che era presente alla famosa scena della pedata data
dall’oratoriano Malebranche, quando se ne ricorda, in una lettera inviata al
signor C., cartesiano, e ripresa nelle sue Lettere galanti, la racconta anche lui in
toni ironici: «Dite voi, che le bestie sono macchine né più, né meno come gli
orologi? Ma mettete una macchina d’un cane, ed una d’una cagna l’una appresso
l’altra, e ne potrà risultare una terza piccola macchinetta: all’incontro due orologi
staranno l’uno appresso l’altro tutta la lor vita senza produr giammai un terzo
orologio. Ora noi, la signora di B… ed io, troviamo che tutte le cose, le quali
essendo due, hanno virtù di farsi tre, sono assai più nobili della pura macchina».
135
I cani che girano lo spiedo per arrostire la carne e gli orologi che vivono uno
accanto all’altro senza procreare avrebbero potuto forse suggerire qualche idea a
Jean de La Fontaine, il quale, comunque, di sue ne aveva già abbastanza. Anche
lui, sovrintendente non zelantissimo alle acque e alle foreste, quando è in abiti
civili, prende parte alla querelle e, ovviamente, si schiera contro il filosofo degli
animali-macchine. Come avrebbe potuto essere altrimenti?
Nel Sermone alla signora de La Sablière che apre il decimo libro della sua
seconda raccolta di Favole, il poeta scrive:
Non vi spiaccia se anch’io, dietro l’esempio,
vado meschiando alle innocenti fiabe
un rigo di sottil filosofia
oggi di moda, molto ardita e piena
di una nuova attrattiva. O forse un suono
ne venne al vostro orecchio?
È la profonda
dottrina che a una macchina riduce
la vita umana e che d’arbitrio sfronda
e di giudizio gli uomini, e non lascia
che un corpo vuoto senza affetto e cuore.
Tal sen vive e con passo egual, ma cieco,
e senza scopo l’oriol cammina,
di ruota in ruota, fin che squilla l’ora
come vuole il congegno. A ciò la Scienza
lo spirito del mondo oggi riduce.
E come l’oriol, dicono i saggi,
l’animal si commuove e va diritto
ove lo spinge l’impression del senso,
non per libero arbitrio, ohibò, ma tratto
dalla necessità dura e impassibile,
che senza voglia pei diversi stati
dell’amor lo trascina e dell’affanno,
della tristezza, del piacer, dei forti
dolori e per le varie altre vicende,
che affetti chiama la volgar sentenza.
Ma voi, gentil, fra l’oriolo e il vostro
cuore assai ben distinguere sapete,
e non vi allaccia dei moderni sofi
la facile dottrina. A noi maestro
è il divino Cartesio, a cui gli antichi
siccome a Nume avrian sacrata un’ara;
Cartesio, che fra gli uomini e i celesti
siede nel mezzo, come stanno in mezzo
tra gli uomini e gli allocchi altri sublimi
e grossi ingegni. A voi così ragiona
quest’alto mio maestro e mio autore…136
Se vogliamo dare credito a Diogene Laerzio e alle Vite e dottrine dei più celebri
filosofi (X, 26), l’opera completa di Epicuro era costituita da più di trecento
titoli. A noi, in verità, rimangono solo tre lettere, oltretutto sintetiche, destinate
ad alcuni discepoli: una a Pitocle sull’astronomia, un’altra a Erodoto sulla fisica
e la natura, e l’ultima a Meneceo sull’etica e la morale. Il pensiero di Epicuro,
per come lo conosciamo, ha dunque come base testuale una manciata scarsa di
foglietti, a fronte delle duemila pagine delle opere di Platone.
Gli epicurei subiscono gli strali dei filosofi romani che, per ragioni di bassa
politica politicante (Cesare era epicureo), s’inventano questa contrapposizione
tra la scuola del Giardino e la scuola degli stoici, cioè il Portico; e tutto solo
perché Epicuro considerava il piacere come il sommo bene. Cicerone, per
esempio, assieme ad altri, una volta diventato nemico di Cesare, arriva a
paragonare gli epicurei a dei maiali. Anche se personalmente si era limitato ad
assimilare questo famoso piacere all’assenza di turbamenti e ad auspicare una
sobrietà relativamente radicale (cose del tipo: spegnere la sete con un po’
d’acqua e smorzare la fame con un pezzo di pane, cose a suo avviso largamente
sufficienti per raggiungere la felicità), contro Epicuro alcuni imbecilli hanno
montato una congiura durata per più di un millennio, una congiura costruita sulla
base di calunnie e di attacchi ad hominem, con l’unico scopo di macchiare la sua
memoria e rendere impraticabile il suo pensiero.
Abbiamo visto come i Padri della Chiesa abbiano attaccato con violenza
l’uomo Epicuro, la sua opera e la sua dottrina, solo perché quel pensiero
radicalmente materialista ostacolava le loro costruzioni finzionali: se esistono
solo atomi che cadono nel vuoto e che, in virtù di una particolare declinazione
denominata clinamen, si aggregano e fanno aggregare gli aggregati già aggregati
fino a formare la materia del mondo e costituire la totalità di ciò che esiste, allora
tutto è atomico.
E se tutto è atomico, allora, che cosa possiamo davvero pensare del Dio dei
monoteisti, creatore del mondo, onnipresente, onnipotente e onnisciente? Che
cosa possiamo davvero pensare del concepimento di Gesù senza genitori e da
una madre vergine? O dell’anima eterna, immortale e immateriale? O della
morte e della risurrezione che, tre giorni più tardi, permette al fortunato
beneficiario di incassare la grossa vincita della vita eterna? E del mistero
dell’eucaristia, a dar retta al quale, tutte le volte che un prete celebra messa, il
corpo e il sangue di Cristo finiscono per ritrovarsi nell’ostia fatta di farina e nel
calice di vino bianco? E della resurrezione della carne in forma di corpo
glorioso? Tutte queste storie diventano ovviamente impossibili nel momento
stesso in cui il reale si rivela essere esclusivamente costituito di atomi.
Lanciamo quindi l’ipotesi che se le opere di Epicuro sono quasi tutte
scomparse, è sicuramente perché i supporti vegetali su cui erano state vergate si
sono dissolti con il tempo, ma anche perché la loro riproduzione su pergamena
non è stata assicurata dai monaci copisti che consideravano come loro compito
prioritario quello di non conservare le idee avverse all’ideologia dominante. Le
tre lettere di Epicuro si sono salvate solo perché si trovavano inserite all’interno
del libro di Diogene Laerzio, che bisognava comunque prima aver letto per
poterle trovare! E lo sappiamo: da che mondo è mondo, i veri lettori, quelli
mossi dal bisogno e dalla determinazione, quelli coscienziosi e pronti alla fatica,
sono sempre stati una specie rara…
Il canonico si mostra molto più severo con René Descartes che non con Epicuro.
Nel 1644, pubblica, in effetti, le Recherches métaphysiques ou doutes et
instances contre la métaphysique de René Descartes et ses réponses [Ricerche
metafisiche, ovvero dubbi e istanze contro la metafisica di René Descartes e sue
risposte], un testo che, con la sua analisi densa e serrata, costituisce
un’incredibile stroncatura dell’autore del Discorso sul metodo.
I loro scambi sono in effetti violenti. Gassendi tratta Descartes come un
«dittatore»167 e picchia duro sulle sue tesi più importanti, il che non contribuisce
certo a creare un clima di distensione e di elegante cortesia. Rifiuta l’idea che i
sensi ingannino, perché questo presupporrebbe che le sensazioni stesse siano
false; critica il metodo e dubita persino del dubbio metodico: sa bene che è
impossibile liberarsi dei propri pregiudizi semplicemente decidendo di
sbarazzarsene; attacca il cogito, facendo ironicamente notare che, sulla stessa
stregua, si possa tranquillamente arrivare a sostenere che: «Passeggio, dunque
sono»; fustiga l’ipotesi di Dio ingannatore, quindi del «genio maligno»168 e
respinge non solo le idee innate ma anche l’opposizione tra sostanza estesa e
sostanza pensante; mette in questione la natura del legame tra anima e corpo e si
lamenta del ruolo magico attribuito alla ghiandola pineale. Insomma,
bombardamento a tappeto delle posizioni cartesiane…
Ecco come risponde Gassendi a una delle obiezioni che Descartes indirizzava
alle sue ricuse:
Qui senza dubbio Lei parla da Maestro, o piuttosto da Dittatore, quando fissa con tanto rigore
quello che conviene fare, standosene peraltro tranquillo sulle alture o, ancora meglio, dentro la
cittadella della Filosofia. La verità è che io invece chiedo sempre delle ragioni, e che capisco
anche come questo possa crearLe qualche imbarazzo; solo, penso anche di essere assolutamente
nel mio diritto di farlo, tanto più che Lei si vanta di poter dimostrare, vale a dire di poter provare
con ragioni estremamente approfondite, quanto va sostenendo; e che, d’altra parte, io continuo a
non vedere alcuna ragione rispondente a queste caratteristiche. Lei sembra comportarsi come un
giudice a Scuola; sopporti allora che anche le persone che Lei vuole istruire si comportino come
un pubblico provvisto di spirito libero. In caso contrario, cioè se si comportassero come gli
animali di un gregge, e credessero a Lei solo perché è Lei che lo dice, Lei stesso correrebbe il
rischio di essere scambiato per una guida non di uomini, ma di greggi. E di ripetere, oh carne, oh
carne; e, adombrandosi ancora, e sempre di più, di dire tutto quello che Le possa venire in mente
di dire, finché il Suo stesso cuore non smetta di gonfiarsi; e così finalmente potremmo sapere qual
è il sentimento nascosto che esso conteneva.169
Il concetto, sui muri del Quartiere latino, è diventato: «L’umanità sarà felice
soltanto il giorno in cui l’ultimo capitalista sarà impiccato con le budella
dell’ultimo burocrate» – un’altra versione varia con l’«ultimo estremista»…
Questa negatività si accompagna sempre a una positività: se Meslier attacca la
religione, è solo per restituire alla filosofia la sua potenza. Vuole insegnare «i
soli lumi della ragione umana»,180 in modo da lavorare all’abolizione, sul
terreno spirituale, della religione cattolica, del potere del clero e dei re, del
regno delle fiabe, dei miti, delle allegorie e delle altre storielle per bambini che
sono le religioni, e, sul terreno politico, dell’ingiustizia, della miseria, della
povertà, dello sfruttamento e della proprietà, che avrebbe dovuto essere sostituita
da un comunalismo rurale, cioè da una forma di comunismo di prima della
rivoluzione industriale, che non escludeva però un certo internazionalismo degli
interessi comuni e del bene pubblico. Meslier punta alla felicità di tutti, in
opposizione al godimento di pochi che confiscano tutto.
Scrive: «La ragione naturale è l’unica strada che mi sono sempre proposto di
seguire nel mio pensiero».181 E noi gli crediamo. Ecco il metodo con cui questo
anticartesiano radicale avanza proposte che sono rivoluzionarie anche sul
terreno ontologico. Per esempio: «Dio non esiste»,182 un’idea che trascina tutte
le altre. La formula viene ripetuta negli stessi identici termini una seconda volta
a mille pagine di distanza.183
Il Testamento viene scoperto alla morte di Meslier, vale a dire nel 1729. Ed è
lui stesso a confessare di scrivere «nella fretta e nella precipitazione»,184 senza
che si capisca davvero a cosa si riferisca. Una malattia? Desiderio di suicidio?
Quale altra urgenza può esserci per un ateo se non la prossimità della morte?
Qualunque sia questa contingenza, possiamo presumibilmente immaginarci che
il testo sia stato redatto verso la fine del primo quarto del Settecento. E, a
quest’altezza cronologica, chi altri ha il coraggio di dichiarare in maniera così
chiara e netta che «Dio non esiste»? Nessuno, ovviamente…
Per più di mille anni, la Chiesa accusa di ateismo chiunque non crede al suo
Dio! I politeisti Epicuro e Lucrezio, Montaigne il fideista, Descartes il teista,
Spinoza il panteista, Bayle il protestante, Voltaire e Rousseau i deisti: tutti
vengono accusati di ateismo, e quindi messi all’Indice o condannati al rogo dal
Vaticano. Eppure nessuno di loro nega l’esistenza di Dio.
La verità è che l’ateo autentico non si accontenta di dire che «gli dèi sono
molti; bisogna credere al Dio del proprio paese, nelle forme che prende nella
regione in cui si abita; il Dio di Abramo può essere in questo modo assimilato al
Dio dei filosofi, al Grande Tutto, o ancora al Dio riformato di Lutero e di
Calvino, se non addirittura al Grande Orologiaio»; l’autentico ateo afferma in
maniera chiara che: «Dio non esiste». E, fino a prova contraria, non sembra che
ce ne sia stato nemmeno uno, prima dell’abate Meslier.
Nella storia delle idee, del pensiero, della filosofia e dell’umanità, l’ateismo
autentico costituisce un preciso spartiacque, soprattutto in una civiltà come
quella giudaico-cristiana. Il Dio monoteista della Bibbia garantisce l’esistenza
dell’edificio della civiltà. L’uomo creato da Dio a propria immagine, quindi
l’uomo inteso come finalità ultima, come sommità e coronamento della
creazione; l’anima immateriale suscettibile di ricompensa o di punizione e, di
conseguenza, l’assenza di anima negli animali; il corpo peccaminoso; ecco, tutte
queste cose si tengono assieme solo perché Dio le giustifica ontologicamente. Se
Dio non esiste, su cosa si potrà mai fondare il reale? Sulla materia, ovviamente,
solo sulla materia.
Ecco perché l’ontologia del curato Jean Meslier costituisce un punto di rottura
per la nostra civiltà.
Dunque, Dio non esiste perché è tutto materia, e il mondo non è stato creato.
Contro il creazionismo cristiano, Meslier propone una lettura totalmente
materialista del mondo: la materia non è affatto creata e voluta da una causa
esterna a sé stessa e preesistente (in altre parole: Dio), ma è eterna e causa di sé,
e rende possibili i movimenti del mondo; è divisibile e basta una semplice
osservazione per riscontrare che si muove.
Partendo da questa semplice posizione, tutto quello che esiste in natura può
essere spiegato in maniera naturale e fisica attraverso il materialismo. «Solo
l’idea di una materia universale che si muove in diverse direzioni, e che
attraverso le diverse configurazioni delle sue parti può modificarsi ogni giorno,
in mille e mille maniere differenti, solo questa idea ci permette di vedere con
chiarezza che tutto quello che esiste in natura può realizzarsi attraverso le leggi
naturali del movimento, unicamente configurando, combinando e modificando
parti della materia».185
Meslier confessa di non poter dire che cosa muove la materia dentro la
materia, però osserva il movimento al suo epicentro: «La nostra ignoranza sulla
natura delle cose non impedisce affatto che queste cose ci siano».186 Per
esempio, non sappiamo come facciamo a vedere e non conosciamo i meccanismi
con cui l’occhio funziona, però non abbiamo dubbi sul fatto che noi vediamo
proprio grazie all’occhio.
Dio non esiste perché esiste solo la materia, oppure esiste solo la materia quindi
Dio non esiste. La conseguenza di questo ragionamento è che il problema
dell’anima e del suo legame con il corpo si trova risolto in partenza. Per Meslier
il corpo e l’anima sono costituiti da un’unica e sola materia:
Per quanto riguarda la pretesa spiritualità dell’anima, se davvero quest’anima fosse spirituale
come i nostri cristicoli la intendono, non avrebbe né corpo, né parti, né materia, né forma, né
figura, né estensione alcuna, e di conseguenza non sarebbe niente di reale e di sostanziale, perché,
come ho già detto qualche riga sopra, ciò che non ha né corpo, né materia, né forma, né figura, né
estensione non è né reale né sostanziale. La verità invece è che l’anima è qualcosa di reale e di
sostanziale, dato che anima il corpo e gli infonde forza e movimento. E noi non vogliamo certo
sostenere che un niente o un nulla possa animare un corpo, e infondergli forza e movimento;
quindi, ecco, l’anima è qualcosa di reale e di sostanziale, e di conseguenza occorre
necessariamente che sia corporea e materiale, e che abbia estensione, dato che niente di reale e di
sostanziale può esistere senza corpo e senza estensione. La prova evidente di tutto questo sta nel
fatto che è impossibile formarsi un’idea qualsiasi di un essere o di una sostanza che sia senza
corpo e senza forma, senza figura e senza alcuna estensione.190
Un’anima materiale, estesa, corporea e atomica: alla fine ci siamo arrivati!
La materia può quindi percepire, sentire, conoscere, amare, odiare, desiderare
e subire le passioni dell’anima. Tutte queste operazioni si riducono a
modificazioni della materia. I cartesiani affermano che l’anima è immortale,
mentre, al contrario, Meslier ritiene che, in quanto anima, si muova con il corpo:
«Essa si dissolve e si dissipa nell’aria in un istante, come un vapore sottile, o
come un’esalazione leggera simile alla fiamma di una candela, quando la
spegniamo di colpo, o si spegne insensibilmente da sola, quando viene a
mancare la materia combustibile che l’alimenta».191 Meslier, a questo punto,
cita… Montaigne! Noi siamo fatti, dice, per quanto riguarda l’anima, di una
«materia sottile e agitata che ci dà la vita»,192 e, per quanto riguarda il corpo, di
una «materia grossolana e pesante».193 Si tratta però sempre e comunque di
un’unica materia diversamente modificata. Di conseguenza, «la nostra anima è
materiale e mortale come il nostro corpo».194
Ricapitoliamo: Dio non esiste ed esiste solo la materia; per questo motivo, la
nostra anima è materiale; come il nostro corpo, anche quest’anima è mortale e
deperibile. Non esiste alcuna obiezione possibile al fatto che questa legge che
riguarda gli esseri umani valga anche per gli animali. Sempre in opposizione con
Descartes (cosa decisiva per definire un cartesiano, anche se di estrema sinistra),
il parroco Meslier attacca la teoria dell’animale-macchina e diventa il primo
filosofo a difendere l’idea di un’anima animale ontologicamente simile a quella
degli uomini.
In una lunga tirata contro i sacrifici animali teoricamente commissionati da
Dio, in cui cita con abbondanza i testi sacri che li supportano, il filosofo prende
le difese degli animali e sistematizza tutto il problema della loro anima:
È una crudeltà e una barbarie ucciderli, ammazzarli e sgozzarli come facciamo, questi animali che
non fanno alcun male e che sono sensibili al male e al dolore tanto quanto noi, nonostante tutto
quello che ne dicono in maniera vana, falsa e ridicola i nostri nuovi cartesiani, che li considerano
delle pure macchine senz’anima e senza sentimento, e che, per questa ragione, basandosi su un
illusorio ragionamento quanto alla natura del pensiero, di cui pretendono che le cose materiali non
siano capaci, li credono completamente privi di qualsiasi tipo di conoscenza, e di qualsiasi tipo di
sentimento, piacere o dolore. Opinione ridicola, massima perniciosa e dottrina detestabile, dal
momento che tende manifestamente a soffocare nel cuore degli uomini qualsiasi sentimento di
bontà, dolcezza e umanità che in quanto uomini potremmo provare nei confronti di questi poveri
animali, e che dà loro modo e luogo di trasformare tutto quanto in un gioco, godendo del piacere
di tormentarli e tirannizzarli senza pietà, con la scusa che non provano alcun sentimento del male
che gli si infligge, non più di quanto proverebbero se fossero tante macchine buttate nel fuoco o
ridotte in mille pezzi. È invece qualcosa di manifestamente crudele e detestabile nei confronti di
questi poveri animali, i quali, essendo vivi e mortali come noi, ed essendo fatti come noi di carne,
sangue e ossa, e avendo, come noi, tutti gli organi atti alla vita e ai sentimenti, cioè gli occhi per
vedere, le orecchie per sentire, le narici per annusare e distinguere gli odori, la lingua e il palato in
bocca per differenziare i gusti delle carni e del cibo, se va bene o se non va bene, e i piedi per
camminare; e vedendo anche in loro tutti i segni e gli effetti delle passioni che noi stessi sentiamo,
dobbiamo senza dubbio credere che siano anch’essi sensibili proprio come noi al bene e al male,
ossia al piacere e al dolore; sono i nostri domestici e i nostri fedeli compagni di vita e di lavoro, e
per questo motivo dobbiamo trattarli con dolcezza. Benedette siano le nazioni che li trattano con
favore e benevolenza, e che compatiscono le loro miserie e i loro dolori. E maledette siano invece
le nazioni che li trattano con crudeltà, e che li tirannizzano, e che amano spandere il loro sangue e
sono avide di mangiare la loro carne [corsivi miei].195
L’uomo macchina (1747) è l’opera con cui La Mettrie viene ricordato nella
storia delle idee. Che cosa ci racconta questo libro pubblicato a quasi vent’anni
dalla morte di Jean Meslier? Questo libro ci mostra come in filosofia esistano
due correnti: quella più antica del materialismo e quella successiva dello
spiritualismo. I materialisti sperimentano e osservano (e qui La Mettrie predica
per la propria parrocchia, tessendo le lodi dei medici filosofi), mentre gli altri
raccolgono le informazioni prendendole dalle Scritture e si accontentano di
metafisica o di teologia.
Il medico La Mettrie afferma che qualsiasi malfunzionamento del corpo
(febbre, malattia, fatica, ubriachezza, colpo apoplettico, sincope, oppio, sonno,
caffè, fame, sazietà, gravidanza, continenza, vecchiaia…) produce effetti
sull’anima: «I diversi stati dell’anima sono sempre correlati a quelli del corpo.
Per meglio dimostrare tutta questa dipendenza, e queste cause, serviamoci qui
dell’anatomia comparata e apriamo le interiora dell’uomo e quelle degli animali.
È il mezzo per conoscere la natura umana, se non si è già illuminati da un giusto
parallelismo della struttura degli uni e degli altri».211 Quindi, in sostanza,
aprendo il corpo si scoprono i meccanismi dell’anima. Il corpo, e più in
particolare il cervello, è, con poche differenze, lo stesso nell’uomo e in certi
animali: «L’uomo, di tutti gli animali, è quello che ha più cervello, e che ha il
cervello più labirintico, in ragione della propria massa corporea: seguono la
scimmia, il castoro, l’elefante, il cane, la volpe, il gatto, e così via. Questi sono
gli animali che maggiormente assomigliano all’uomo».212
La Mettrie parla del «corpo calloso» come della sede dell’anima e mette in
relazione la quantità di materia con la qualità dell’anima: più c’è materia grigia e
materia che connette i due emisferi del cervello, più è presente l’uomo e
l’umano; meno ce n’è, come «nei pesci [che] hanno la testa grossa, ma […]
vuota di sensazioni, come quella di parecchi uomini»,213 meno troviamo
l’umano. I pesci sono privi di corpo calloso e hanno poco cervello, mentre gli
insetti ne sono sostanzialmente privi.
La Mettrie fornisce quindi una gerarchia della molteplicità del vivente,
mettendo in cima l’uomo, alla base gli insetti, e in seconda posizione la scimmia.
La Mettrie rifiuta la logica del dualismo giudaico-cristiano, soprattutto quella di
Descartes, che separa gli uomini dagli animali concedendo l’anima ai primi ma
non ai secondi; e difende invece l’esistenza di un’anima materiale e corporea
collocata nel cervello, e più in particolare nel corpo calloso. Ne L’uomo pianta,
scrive: «un niente di più o di meno nel cervello, dov’è l’anima di tutti gli uomini
eccettuati i leibniziani, potrebbe immediatamente precipitarci in fondo: non
disprezziamo quindi esseri che hanno la nostra stessa origine. In verità non sono
che al secondo posto, ma la loro posizione è più stabile e più ferma».214
Tirando fuori l’idea di insegnare a una scimmia a parlare, il filosofo ci sta in
pratica proponendo qualcosa d’incredibile, qualcosa che lo trasporta
direttamente nella più attuale modernità. Ce la immaginiamo, la confusione
ontologica che un’idea come questa può aver prodotto all’interno del
microcosmo giudaico-cristiano! Se la scimmia parla, cosa ormai può più
distinguerla dall’uomo? È il suo modo tutto ironico di rispondere al Descartes
che, con la sua idea degli animali-macchina, sosteneva che solo l’uomo poteva
pensare e parlare. La scimmia di La Mettrie scongiura insomma la cagna
cartesiana di Malebranche.
«Questo animale ci somiglia tanto, che i naturalisti l’hanno chiamato uomo
selvatico o uomo dei boschi».215 Per il suo esperimento, sceglie una scimmia non
troppo giovane e non troppo vecchia, con un’andatura sciolta e vivace, e la porta
in una scuola per sordomuti, quella di Amman, dove si insegna il linguaggio dei
segni, linguaggio attraverso il quale si pensa sia possibile farla parlare. Johann
Conrad Amman aveva pubblicato nel 1692 un’opera intitolata Surdus loquens
seu Methodus qua, qui surdus natus est, loqui discere possit [La dissertazione
sulla loquela]. Le Quatre lettres sur l’éducation des sourds [Quattro lettere
sull’educazione dei sordi] dell’abate de L’Épée saranno pubblicate nel 1774 e il
suo Institution des sourds et muets par la voie des signes méthodiques
[Educazione dei sordi e dei muti attraverso il metodo dei segni] nel 1776, quindi
solo dopo la morte di La Mettrie, il quale infatti consacra parecchie pagine del
suo Traité de l’âme [Trattato sull’anima]216 proprio al metodo di Amman.
Il filosofo parte dal principio che tale metodo permette ai sordomuti di vedere
i segni: di avere le orecchie negli occhi, per riprendere la sua immagine. Anche
la scimmia vede e intende, e capisce quello che vede e intende. Per questo
motivo, il metodo potrebbe funzionare, e forse ancora meglio che con i bambini
sordi e muti. La Mettrie esalta il genio di Amman, che «ha liberato gli uomini
dall’istinto cui sembravano condannati, ha dato loro delle idee, dell’intelligenza,
insomma, un’anima, che non avrebbero mai avuto».217
Vediamo qui che, per La Mettrie, l’anima è materiale, mortale, sostanziale,
localizzata (nel corpo calloso del cervello, come abbiamo visto) e, notizia
incredibile, suscettibile di essere acquisita! Perché «dare un’anima» per mezzo
di un metodo d’insegnamento della parola a chi, altrimenti, ne sarebbe sfornito
rappresenta una rivoluzione ontologica. La Mettrie inaugura l’era postcristiana in
fatto di anima – un’era in cui ci troviamo ancora oggi e in cui il transumanesimo
inscrive il proprio orizzonte.
Proiettandosi al momento in cui il lavoro di acquisizione sarà terminato e la
sua scimmia avrà cominciato a parlare, La Mettrie è portato a concludere:
«Allora non sarebbe più né un uomo selvaggio né un uomo mancato: sarebbe un
uomo perfetto, un piccolo uomo di campagna, con altrettanta stoffa e muscoli
che noi per pensare a trar profitto dalla sua educazione» [corsivo mio].218 E
prosegue: «dagli animali all’uomo non c’è un passaggio brusco: i veri filosofi ne
converranno. Che cos’era l’uomo prima dell’invenzione delle parole e della
conoscenza delle lingue? Un animale della sua specie, che aveva molto meno
istinto naturale degli altri, di cui allora non si credeva re, e che si distingueva
dalla scimmia e dagli altri animali soltanto come se ne distingue la scimmia
stessa, voglio dire per una fisionomia che prometteva un maggiore
discernimento».219
L’anima è dunque materiale, cerebrale nel caso specifico, e si definisce
attraverso tutti gli engrammi che accoglie. È costituita dagli atomi del corpo
calloso, che è il luogo dove si trovano le informazioni acquisite tramite
l’educazione e l’esperienza. E siamo ovviamente d’accordo sul fatto che, se
esiste un’uguaglianza formale, sostanziale e naturale (perché tutti quanti
possiedono un corpo calloso), esiste anche un’ineguaglianza qualitativa, che
dipende da quello che si trova dentro l’anima stessa e dalla casualità degli
incontri e delle esperienze avute. Da qui l’affermazione della disuguaglianza
ontologica tra gli uomini, che colloca La Mettrie nel campo dei pensatori
inaccessibili all’ottimismo dei Lumi. Certo, un’educazione simile dovrebbe
produrre anime uguali, ma immaginare che una finzione come questa possa solo
essere possibile significa semplicemente sognare. Ciò non toglie che, però, parte
dei protagonisti della Rivoluzione francese proprio a questo aspira, a costruire un
Uomo Rigenerato…
Come spiegare allora il fatto che, da una parte, esistono gli uomini e,
dall’altra, gli animali, se è vero che «la natura ha usato una sola e medesima
pasta, di cui ha variato soltanto i lieviti»?220 L’immagine del lievito è
interessante, perché introduce l’idea di una dinamica, di un’attività della materia.
Quello che separa La Mettrie, autore de L’uomo macchina, dalla piccola
scimmia che balla su un ponte, «non è […] altro che un grado di fermentazione».
221
In un altro passaggio, il filosofo rimanda ancora una volta alla fisiologia: «Se
ora mi si domanda quale sia la sede di questa forza innata nei nostri corpi,
rispondo che essa evidentissimamente risiede in ciò che gli Antichi hanno
chiamato il parenchyma, cioè nella sostanza propria delle parti, prescindendo
dalle vene, dalle arterie, dai nervi, insomma dall’organizzazione di tutto il corpo;
e che di conseguenza ogni parte contiene in sé delle molle più o meno vivaci,
secondo il bisogno che ne hanno le parti stesse».222
«Cervello», «corpo calloso», «parenchyma», altrove «tessuto midollare»,223 o
anche «forza innata nei nostri corpi»,224 «principio eccitante e impetuoso»225
nell’encefalo: La Mettrie cancella la metafisica del teologo cristiano in nome
della fisica del medico materialista. Sa che tutto discende dall’organizzazione
della materia, anche se alla fine ammette di essere incapace di dirne di più: «Mi
si conceda soltanto che la materia organizzata è dotata di un principio motore, il
quale solo la differenzia dalla materia non organizzata (si può negare qualcosa
all’osservazione più incontestabile?) e che negli animali tutto dipende dalla
diversità di questa organizzazione».226 E, come abbiamo visto, mette questo
principio motore in relazione con il «grado di fermentazione»; da qui l’accenno
ai «lieviti».
Ricordiamoci di come, posto di fronte allo stesso arduo compito di rispondere
a domande come: «In che modo si trova organizzata la materia?», «In che modo
si passa dalla materia all’idea?», o: «Quali sono i processi che fanno sì che la
materia pensi?», anche Jean Meslier, nel suo Testamento, invoca «una specie di
modificazione, e di fermentazione continua»227 per spiegare ciò che, nella vita,
vuole la vita come essa si manifesta.
Precisiamo che, a queste domande su cui inciampano Meslier e La Mettrie,
non siamo riusciti a dare una risposta nemmeno oggi, nonostante tutta
l’ingegneria contemporanea delle risonanze mediche! «Incomprensibili
meraviglie della natura»,228 si accontenta di scrivere La Mettrie, e oggi non
potremmo fare o dire di meglio!
La fisica lamettriana impedisce dunque qualsiasi possibilità di metafisica e
spinge verso un’etica radicalmente postcristiana. Scrivendo che «L’uomo è un
macchina governata da un fatalismo assoluto»,229 l’autore de L’uomo macchina
non si pone tanto all’origine di una tesi meccanicista (abbiamo visto che l’ipotesi
della fermentazione impedisce questo tipo di lettura), quanto alla base di una tesi
fatalista, che comunque manda anch’essa in frantumi l’ontologia cristiana.
Perché dire, da una parte, che non esiste altro che materia, visto che l’anima è
materiale e dunque mortale, e, dall’altra, che il libero arbitrio non esiste e che a
dettare legge è il puro determinismo significa distruggere l’edificio cristiano.
Scrivere che «in tutto l’universo c’è una sola sostanza diversamente
modificata»,230 oltre al fatto di essere una tesi apertamente spinoziana, significa
anche affermare che il corpo e l’anima, la scimmia e l’uomo, il criminale e il
prete, l’acaro e il Sole costituiscono tutti delle semplici variazioni di un solo e
identico tema, quello della materia. Non più di quanto l’acaro sia responsabile di
essere acaro piuttosto che Sole, o di quanto il Sole lo sia di essere astro piuttosto
che insetto, anche l’assassino non ha scelto di commettere il proprio crimine o il
santo di condurre la propria vita virtuosa. Si tratta semplicemente di
un’organizzazione diversa della materia di cui sono costituiti, senza che si sappia
troppo bene che cosa sia che decide, e non chi.
L’uomo macchina è un inno al fatalismo che cancella la responsabilità e
quindi il senso di colpa. Se l’anima è materiale allo stesso titolo della vescica, e
se la materia che la costituisce nel cervello è simile a quella che compone la
prostata, allora punire un criminale (come, per esempio, quella fille sauvage di
Châlons-en-Champagne che si è mangiata la sorella) o punire una persona per la
sua incontinenza urinaria si rivelano imprese parimenti sciocche.
Penso lo stesso di tutti coloro che commettono dei delitti, anche involontari, oppure dovuti al
temperamento: di Gastone di Orléans che non poteva trattenersi dal rubare; di una certa donna che
durante la gravidanza andava soggetta allo stesso vizio, che poi i suoi figli ereditarono; di quella
che, nello stesso stato, mangiò suo marito; di quell’altra che ammazzava i bambini, ne salava le
carni, e ne mangiava tutti i giorni un po’ come prosciutto; di quella figlia di un ladro antropofago,
che lo divenne a dodici anni, sebbene, avendo perduto padre e madre quando aveva un anno,
fosse stata allevata da persone per bene; per non parlare di altri esempi di cui sono pieni i libri dei
nostri osservatori, e che provano tutti l’esistenza di mille vizi e virtù ereditari, che passano dai
genitori ai figli, come altri che passano dalla balia a coloro che essa allatta. Dico dunque e
sostengo che la maggior parte di quei disgraziati non sentono immediatamente l’enormità della
loro azione. Per esempio, la bulimia, o fame canina, può spegnere ogni sentimento: è una mania
di stomaco che occorre soddisfare. Ma una volta ritornate in sé e come disinebbriate, quali rimorsi
per quelle donne che si ricordano l’assassinio commesso contro ciò che avevano di più caro!
Quale punizione per un male involontario, al quale non hanno potuto resistere, del quale non
hanno avuto coscienza alcuna.231
C’è stato un filosofo che ha preso La Mettrie alla lettera e non si è accontentato
di questa «tranquillità nel delitto», un filosofo che si aspettava qualcosa di più e
qualcosa di meglio, e che si aspettava il godimento nel crimine. Ma cosa dico?
Non solo se lo aspettava, ma addirittura lo sperava, lo desiderava, lo voleva,
trasformandolo, da uomo forsennato che era, nella ragione d’essere di tutta la sua
vita e di tutta la sua opera. Quest’uomo è il marchese de Sade.
Parlando dell’opera, esistono due marchesi, che sono poi in verità uno solo: il
primo scrive le pagine pornografiche, con tutte le combinazioni sessuali
possibili (stupri, sevizie e torture comprese, e poi le pratiche di necrofilia,
zoofilia, pedofilia, coprofilia, scatologia e incesto, e poi ancora gli omicidi, e
tutti gli altri crimini amati dai libertini); il secondo, invece, infarcisce (tramite un
procedimento visibilissimo perché realizzato in maniera molto grossolana,
soprattutto nella Filosofia nel boudoir) delle lezioni di filosofia tra due scariche,
tre orge, dieci orgasmi e trenta eiaculazioni – e parlo ovviamente delle
performance di una sola mezza giornata…
Queste lezioni di filosofia, l’eroe sadiano, maestro libertino per eccellenza, le
impartisce in piena azione, cioè mentre con una mano stringe un grande membro
virile e con l’altra rovista l’ano di un vescovo, mentre sodomizza una capra e si
fa lui stesso socratizzare da una donna dotata di strap-on (il quadro l’ho
ricostruito io); mentre fa tutte queste cose, trova il tempo di sciorinare senza
perdere l’erezione pagine intere dei filosofi materialisti a giustificazione delle
proprie pratiche: Helvétius, d’Holbach, Diderot e La Mettrie vengono tutti
convocati, senza virgolette, nelle opere complete del marchese, ultimo pensatore
feudale e non primo dei moderni, femminista, libertario, solare e alfiere del sesso
liberato e del genere umano, come pretende invece certa vulgata molto diffusa
dalle parti di Saint-Germain-des-Prés, rimasta a rimasticare senza sosta gli
elementi linguistici raccolti da Apollinaire in un’antologia compilata su
commissione nel 1909! E poi, cos’altro? Ricordiamoci di come Pasolini abbia
molto opportunamente accostato Le 120 giornate di Sodoma ai campi di morte
nazisti… Qui però entriamo in un altro discorso…
Si passa spesso sotto silenzio il Sade filosofo, o quantomeno l’autore che crea
i suoi collage filosofici raccogliendo materiali dalla coeva letteratura
anticristiana, atea e materialista, clandestina e non clandestina, per giustificare la
propria vita di delinquente sessuale patentato.234
Non facciamo molta fatica a immaginare quanto il nuovo paradigma
formulato da La Mettrie nel suo testo su L’uomo macchina, cioè quello di un
mondo senza Dio e governato dal fatalismo della materia, che esclude qualsiasi
responsabilità e quindi qualsiasi colpevolezza, un mondo de facto senz’anima,
convenisse benissimo a un uomo come Sade, che una certa fermentazione della
materia, per utilizzare le formule di Meslier e di La Mettrie, faceva di lui quello
che era. Ecco una creatura che, se non si apparteneva alla nobiltà o al clero, era
meglio non incontrare nel corso della propria esistenza. Credo del libertino Sade:
«Che m’importa del crimine […] purché mi dia diletto».235 È l’imperativo
categorico di un uomo feudale.
Quello che voglio prendere in considerazione in quest’ultima opera del
marchese è qualcosa che sembra appartenerle profondamente sul terreno delle
idee, e cioè l’introduzione dell’elettricità nel pensiero materialista. In questo
romanzo dove si catalogano tutte le possibili perversioni, Sade ci parla in effetti
del «fluido elettrico che circola nelle cavità dei nostri nervi».236 Di che si tratta?
In Juliette ovvero le prosperità del vizio, la strega Durand, uno dei personaggi
di Sade, si esprime in questi termini:
L’anima dell’uomo […] non è altro che una parte di quel fluido etereo, di quella materia
infinitamente sottile la cui origine è nel sole. Tale anima, che ritengo essere l’anima collettiva del
mondo, è il fuoco più puro che arda nell’universo, non brucia per sé stesso ma, introducendosi
nella cavità dei nostri nervi, dove risiede, imprime tale movimento al meccanismo animale da
renderlo capace di tutti i sentimenti e di tutte le reazioni chimiche. È in sostanza uno degli effetti
dell’energia, che conosciamo ancora troppo poco, ma di certo non è un’altra cosa.237
Dove La Mettrie si mette in testa d’insegnare a una scimmia a parlare con il linguaggio dei segni inventato
da poco.
Dove, nella sua demonologia, Jean Bodin trasforma
la scimmia nella figura lubrica per eccellenza.
Dove il naturalista Buffon distingue la scimmia dall’uomo facendo leva sull’anima immateriale e invisibile.
Dove il marchese de Sade trasforma la scimmia
in un partner sessuale ideale perché non parla
né durante l’orgia né dopo.
Dove l’accademico Maupertuis sostiene che la scimmia
si riproduce senza difficoltà con i neri.
Dove Restif de La Bretonne ci insegna che la scimmia
preferisce le donne che hanno odori forti alle femmine
della propria specie.
Dove l’abate Sieyès ipotizza l’incrocio tra scimmie
e uomini per produrre una razza di domestici efficienti.
Dove Rousseau organizza in ordine gerarchico
l’uomo selvaggio, l’uomo naturale, la scimmia e l’uomo.
Dove Darwin ci insegna che Dio ha creato l’uomo a propria immagine, ma discende comunque da una
scimmia.
Capitolo primo
Vita e morte dell’ostrica
Animalizzare l’uomo
Finché c’è Dio, sembra facile regolare il problema dei rapporti tra uomini e
animali, e quindi anche rispondere alla domanda sulla natura dell’anima. Basta
richiamarsi alla Genesi, dove, in effetti, ci viene insegnato, ce lo ricordiamo
bene, che Dio crea il mondo seguendo un ordine ben preciso: prima la luce, il
giorno, la notte, il cielo, la Terra e il mare, i vegetali, le stelle, il Sole, la Luna, e
poi gli esseri viventi, partendo dagli animali marini e dagli uccelli, per poi
arrivare agli abitanti della terraferma, ai capi di bestiame, agli animali più piccoli
e, subito dopo, all’uomo, perfezionando in ultimo la propria creazione con… la
donna! Il creatore, lettore ante litteram del Discorso sul metodo, insegna alla
propria creatura come addomesticare e padroneggiare gli animali per nutrirsi,
lavorare e vestirsi. Dio crea l’animale erbivoro (Gen 1, 30); ma poi anche il
leone? E crea l’uomo carnivoro; e allora il vegano? La storia, la conosciamo. In
verità, il re della giungla e il piccolo marchese del bulgur mettono in crisi la
verità di questo racconto mitologico.
E cosa succede quando Dio non c’è più? Quando, a partire dal Rinascimento,
comincia a perdere colpi? Quando si rammollisce e s’indebolisce sotto gli assalti
non tanto di Descartes quanto dei cartesiani? Quando addirittura vacilla e poi
crolla sotto il peso degli atomi dei materialisti e degli altri sensualisti, utilitaristi
ed empiristi, e si frantuma in mille pezzi? Oppure quando, a Lisbona, dopo il
disastro marino che segue il terremoto in cui muoiono annegati moltissimi
innocenti, viene mandato dai filosofi deisti a vivere la sua vita altrove, lontano
dagli uomini, dalle cose e dal mondo? E cosa succede all’anima immortale,
eterna e immateriale, quando alcuni di quei filosofi che chiamano Lumi
cominciano a definirla invece mortale, temporale e materiale? E quando questi
stessi filosofi si mettono a far circolare voci sulla breve distanza che separa la
scimmia dall’uomo, una distanza non così grande, e più sottile del soffio
dell’anima?
Nell’articolo alla voce «Innato» dell’Enciclopedia, Diderot lega la conoscenza
ai sensi. Innata è la facoltà di conoscere e quindi, in quanto tale, lo è fin dalla
nascita – da dimostrare comunque anche questo… I sensi rendono possibile
l’atto dell’astrazione e il sensibile permette di passare all’azione dell’intelletto.
Seguiamo la dimostrazione: «Togliete i nasi, e toglierete contemporaneamente
anche tutte le idee che appartengono all’odorato; stessa cosa vale per il gusto,
l’udito e il tatto. La verità è che, una volta eliminate tutte queste idee e tutti
questi sensi, non rimane nessuna nozione astratta; perché è attraverso il sensibile
che noi siamo portati all’astratto». Riconosciamo qui la teoria della statua
popolarizzata da Condillac nel suo Trattato delle sensazioni (1754), un’idea che
gli era stata passata a sua volta da… Diderot in persona, basta leggere la sua
Lettera sui ciechi.
La dimostrazione continua: «E dopo aver avanzato per via di eliminazione,
seguiamo il metodo opposto. Supponiamo una massa informe ma sensibile;
questa massa avrà tutte le idee che possiamo ottenere dal tatto. Perfezioniamo
poi la sua organizzazione e sviluppiamola: ecco che avremo aperto la porta alle
sensazioni e alle conoscenze. È attraverso questi procedimenti che possiamo
ridurre l’uomo alla condizione dell’ostrica, o elevare l’ostrica alla condizione
dell’uomo».
È assolutamente evidente che questa «massa informe ma sensibile» è qualcosa
che sta sotto il livello dell’animale, perché, per esempio, il cane o la scimmia
non possono essere definiti «masse informi», dato che sono, e su questo anche
Descartes sarebbe d’accordo (è del resto proprio il senso dell’ipotesi dei suoi
animali-macchine), delle forme eminentemente organizzate, semplicemente
prive di anima. Per le necessità della propria dimostrazione, e non senza
sacrificarsi alle delizie dell’ironia, Diderot chiama in causa il vivente ben al di là
della cagna presa a ciabattate da Malebranche e della scimmia di La Mettrie,
minacciata di essere messa in internato assieme ai sordomuti per imparare a
parlare, e riesce a far entrare nella storia della filosofia persino l’ostrica…
Nell’articolo dedicato alla voce «Anima» nelle Questioni sull’Enciclopedia,
tra scetticismo e professione di fede deista, Voltaire, che mette l’«Essere
supremo» nella cabina di pilotaggio dell’anima, risponde al testo redatto
dall’abate Yvon sullo stesso argomento per l’Enciclopedia. Per risolvere la
questione dell’anima degli animali, l’abate rimandava, cosa nient’affatto sciocca,
all’istinto. Voltaire, invece, non crede che gli animali siano privi di anima, ma
non per questo motivo è portato a credere che, per esempio, le rane, gli insetti o
le pulci ne abbiano una! Scrive: «Prima del bizzarro sistema che considera gli
animali come mere macchine prive di qualunque sensazione, gli uomini non
avevano mai attribuito alle bestie un’anima immateriale; e nessuno era mai stato
tanto temerario da dire che un’ostrica possiede un’anima spirituale».1 Con
Diderot, quindi, oltrepassiamo una soglia. Torniamo alle sue considerazioni.
Dal mollusco fino all’uomo, quello che constatiamo è solo l’intervento di un
non so che, di un nonnulla: ci vuole poco, si comincia con un bivalve e si finisce
con un filosofo. Per passare dall’uno all’altro, basta perfezionare
l’organizzazione della materia sensibile. E come? Attraverso l’educazione, per
quanto riguarda l’individuo – grazie Helvétius; attraverso l’eugenismo, per
quanto riguarda la specie – grazie Maupertuis; attraverso la politica, in tutte e
due i casi – grazie Rousseau. L’insieme di questo dispositivo di rieducazione, i
rivoluzionari francesi, e più in particolare i giacobini, lo chiamano
«rigenerazione» – grazie abate Grégoire. L’ideologia dell’Uomo Nuovo, un
prestito che i rivoluzionari hanno mutuato da san Paolo, permette di affrontare il
problema della produzione artificiale dell’uomo; la questione, ormai non
possiamo più fare finta di niente, si trova tuttora al cuore del transumanesimo.
Per portare a compimento questo progetto di rigenerazione, la scimmia
rappresenta la chiave di volta dell’avvenire dell’uomo.
Maupertuis, che, fin dal 1749, con il suo Saggio di filosofia morale, propone
un’etica utilitarista in grado di contrastare la morale deontologica cristiana, si
addentra ancora di più nel postcristianesimo, tessendo, nella Venere fisica
(1745), le lodi dei princìpi dell’eugenetica. Parla di Federico II di Prussia, alla
cui corte berlinese vive per parecchi anni: «Un Re del Settentrione venne a capo
di rendere poderosa e polita la sua nazione. Avea egli un gusto eccessivo per gli
uomini d’alta statura e di bell’aspetto: chiamavali nel suo regno da tutt’i paesi; la
fortuna rendeva felici tutti quelli ch’erano stati dalla natura formati d’eccedente
grandezza. Ammirati al dì d’oggi un singolar esempio della possanza de’ Re.
Questa nazione si distingue per le taglie più vantaggiose, e per le figure più
regolari; come distinguerebbe una foresta fra tutte le piante che la circondano, se
l’occhio attento del padrone s’applicasse a coltivarvi degli arbori diritti e ben
cerniti».4 Ma questa selezione degli uomini ha un valore semplicemente
introduttivo rispetto ad altre selezioni ben più audaci.
L’autore, in effetti, prosegue con un’arringa in difesa di qualcosa che
assomiglia a una stazione di monta umana, in cui si possono condurre esperienze
di incroci tra razze umane, ma anche, e la cosa viene detta tra mille precauzioni
di linguaggio, tra uomini e animali. Il terzo capitolo del libro s’intitola in
maniera molto eloquente: Produzioni di nuove spezie. Il filosofo, che
ovviamente ignora le logiche del recessivo e del dominante scoperte da Mendel
un secolo più tardi, discorre delle diverse carnagioni che possono avere i
bambini con genitori di colore. Laddove alcuni si limitano a creare «razze di
cani, di colombi, di canarini, che non erano avanti in natura»,5 Maupertuis si
spinge fino a pensare a quello che potrebbe succedere tra uomini e animali:
«Perché quest’arte si ristring’ella a’ soli animali? perché que’ Sultani smagriti in
serragli che non rinchiudono che donne di tutte le spezie conosciute, non fanno
nascere nuove spezie? Se io fossi ridotto come loro all’unico piacere, che dar
possono il sembiante e le fattezze, ricorrerei incontanente a queste varietà. Ma
per quanto belle fosser le donne, che nascesser da loro, eglino non
conoscerebbero giammai che la più picciola parte de’ piaceri d’amore, e
ignorerebbero quelli che possono far gustare lo spirito e il cuore».6
In un passaggio della Lettera sul progresso delle scienze (1752), l’autore
descrive alcune spaventose prospettive politiche per l’eugenetica:
Una tale fatica non sarebbe interamente di quelle, che non potessero essere intraprese senza la
protezione, e senza i benefizj di un Sovrano, poiché molte di queste esperienze non sarebbero
superiori alla possibilità di un semplice particolare, e noi abbiamo alcune opere, le quali ce
l’hanno fatto vedere. Pure vi sono alcune di tali esperienze, le quali richiederebbero spese grandi,
e forse tutte avrebbero bisogno di una tal direzione, che non lasciasse i Fisici in un certo vuoto,
che è l’ostacolo maggiore alle scoperte. I serragli delle fiere dei Principi, nei quali si trovano
Animali di molte spezie, sarebbero per questo genere di scienza fondi, dai quali potrebbonsi
facilmente ritrarre non piccioli vantaggi. Basterebbe darne la direzione ad esperti Naturalisti, e
loro perscrivere l’esperienza.7
Proseguiamo:
Si potrebbe provare in questi serragli ciò, che si racconta delle truppe dei differenti Animali, i
quali raccolti, a cagion della sete, sulle rive de’ fiumi dell’Africa, si dice vi facciano quelle
bizzarre unioni, da cui provengono frequentemente dei mostri. Non vi sarebbe nulla di più
curioso, che tali esperienze: Pure la negligenza, riguardo a questo, ella è così grande, che siamo
ancora dubbiosi se il toro si sia mai congiunto con un’Asina, malgrado tuttociò, che si dice dei
Giumenti. Le premure di un Naturalista industrioso, e illuminato farebbero scappar fuori non
poche curiosità in questo genere, togliendo coll’educazione, coll’uso, e col bisogno fra gli
Animali la repugnanza, che le differenti spezie hanno per ordinario l’una per l’altra. Potrebbe
darsi, che si arrivasse a render possibili delle generazioni forzate, le quali facessero veder
maraviglie. Si potrebbe sul bel principio tentare sopra una medesima spezie queste unioni
artifiziali, e forse al primo passo si renderebbe in qualche maniera la fecondità a degli Individui, i
quali per ordinario sembrano sterili. Nè sarebbe vietato protraere ancor più lontano l’esperienze, e
fino sulle spezie, le quali sono per loro natura meno inclinate ad unirsi. Forse da ciò si vedrebbero
nascer de’ mostri, dei nuovi Animali, ed anche forse delle nuove intere spezie non per anche dalla
Natura prodotte.8
Il famoso abate Sieyès, che nel suo libro Che cosa è il Terzo Stato? (1789) si
lamenta che quest’ultimo non sia niente e si augura che possa diventare tutto, è
la stessa persona cui si deve quest’altra bella idea, concepita nello spirito di
Maupertuis:
Non sarebbe forse cosa desiderabile, soprattutto nei paesi molto caldi e molto freddi, che ci fosse
una specie intermedia tra gli uomini e gli animali, una specie capace di servire l’uomo per i suoi
bisogni di consumo e di produzione? Abbiamo degli oranghi piccoli e grandi, cioè i pongo, i
jocko e i pitechi, tre specie di scimmia che lavorano già benissimo assieme alle nostre e assieme
ai neri, e che sono specie prontissime a essere addomesticate e ammansite. L’incrocio tra queste
razze potrebbe fornirci: 1o una razza forte (dai sei agli otto piedi di altezza), da destinare alle
opere di fatica, sia in campagna che in città, e sarebbero i pongo; 2o una razza intermedia (dai tre
ai quattro piedi di altezza), destinata a tutte le faccende domestiche, i jocko; 3o una specie più
piccola (dai dodici ai quindici pollici), per i piccoli lavori domestici e il divertimento; 4o i neri,
che dovrebbero controllare, vestire e rispondere di tutte le azioni degli altri. Potremo così avere
dei bianchi a ricoprire il ruolo di cittadini e di responsabili della produzione, i neri come strumenti
ausiliari da destinare alle varie fatiche, e le nuove razze di scimmie antropomorfe come schiavi. 12
Paradossalmente, è proprio qui che l’anima entra in scena. Nel capitolo Del
contratto sociale consacrato alla «Religione civile»,52 Rousseau non si fa alcuno
scrupolo di ricorrere alla trascendenza per fondare la propria politica immanente.
Ricapitoliamo: allo stato di natura, l’uomo conosce una felicità di tipo
virgiliano; allo stato di cultura, segnato dall’avvento della nozione di proprietà,
conosce la disuguaglianza, la civiltà e la sofferenza; allo stato politico, per il
tramite del contratto sociale, riscopre la propria felicità perduta attraverso
l’istituto della legge, che gli assicura il ripristino dell’uguaglianza. Questo patto
sociale, però, sembra essere più una finzione politica che non una realtà
concreta, più un’ipotesi di lavoro che non una verità sociologica o politica. Ecco
perché il filosofo invoca Dio e la religione per ottenere dagli uomini quello che
l’immanenza non riesce a ottenere da sola.
La Professione di fede del vicario savoiardo costituisce una specie di libro
all’interno del libro, ed è consacrata all’educazione religiosa di Emilio. Questo
nostro vicario si richiama al sentimento e alla ragione, e riconosce l’esistenza di
un motore che mette in movimento tutto l’universo; non si tratta però del Dio
cristiano creatore del mondo, quanto, più verosimilmente, del Dio aristotelico,
agente primo immobile e causa prima incausata; il ricorso alla metafora
dell’orologio e dell’orologiaio rimette oltretutto in circolo il luogo comune dei
deisti; contro il materialismo, che riduce tutto quanto alla materia, il vicario
rousseauiano raccomanda di usare il buon senso, il pensiero, la riflessione,
l’intelligenza e la libertà, tutte facoltà che distinguono l’uomo dall’animale e
provano l’esistenza nell’uomo di qualcosa di più rispetto alla materia, qualcosa
che va al di là. In effetti, secondo Rousseau, l’uomo è «animato da una sostanza
immateriale»:53 e quest’anima, ovviamente, noi possiamo conoscerla attraverso
l’intuizione, e sempre attraverso l’intuizione noi possiamo sapere che sopravvive
alla nostra morte e al deperire della materia. Il che porta al seguente
ragionamento: «Se l’anima è immateriale, essa può sopravvivere al corpo; e se
gli sopravvive, la Provvidenza è giustificata».54 Il problema è che, però,
Rousseau sta partendo da una supposizione, non da una verità dimostrata! La
ripetizione dei «se» dimostra che Rousseau manca di prove concrete e si vede
costretto ad avanzare ipotesi. La Chiesa non è così stupida, e capisce bene cosa
si stia tramando dietro tutti questi discorsi; ecco perché mette l’Emilio
all’Indice…
Rousseau attacca la religione cristiana non perché è una religione, ma perché è
cristiana; perché essa, vendendo il suo retromondo e il suo aldilà, si adatta alle
miserie del mondo quaggiù e collabora con chi mantiene l’ingiustizia sociale e,
in virtù della giurisprudenza paoliniana secondo cui tutto il potere proviene da
Dio, celebra la sottomissione ai poteri costituiti come mezzo per guadagnare la
salvezza.
Quella che occorre è, invece, una religione civica, una religione patriottica:
Vi è dunque una professione di fede puramente civile, della quale spetta al sovrano fissar gli
articoli, non precisamente come dogmi di religione, ma come sentimenti di socievolezza, senza i
quali è impossibile essere buon cittadino o suddito fedele. Senza poter obbligare nessuno a
crederli, può bandire dallo Stato chiunque non li creda; può esiliarlo, non in quanto empio, ma in
quanto insocievole e incapace di amare sinceramente le leggi, la giustizia, e d’immolare, in caso
di bisogno, la sua vita al suo dovere. Che se qualcuno, dopo aver riconosciuto pubblicamente
questi stessi dogmi, si conduca come se non vi credesse, sia punito con la morte; egli ha
commesso il maggiore dei delitti, ha mentito dinanzi alle leggi.55
E, degenerati, lo sono anche gli abitanti delle province, con le loro lingue
regionali che l’abate Grégoire intende combattere per imporre il francese, che ha
il vantaggio di essere una lingua unica e facilitare la rigenerazione, vale a dire
l’ideologizzazione, la politicizzazione e l’indottrinamento dei cittadini.
Assecondando sempre lo stesso spirito di sradicamento, redige il Rapport sur
la nécessité et les moyens d’anéantir le patois et d’universaliser l’usage de la
langue française [Rapporto sulla necessità e i mezzi per annientare il dialetto e
universalizzare l’uso della lingua francese], detto Rapporto Grégoire, ed esposto
alla Convenzione il 4 giugno del 1794. Si parla della necessità di «annientare» (il
termine viene scelto appositamente forte) trenta lingue, definite «dialetti»
dall’abate:
Il basso bretone, il normanno, il piccardo, il rouchi o vallone, il fiammingo, lo champenois, il
metzino, il lorenese, il franc-comtois, il borgognone, il bressano, il lionese, il delfinese,
l’alverniate, il pittavino, il limosino, il piccardo, il provenzale, il linguadociano, il velayen, il
catalano, il bearnese, il basco, il rouergat e il guascone; quest’ultimo da solo è parlato su una
superficie che si estende per sessanta leghe in ogni direzione. Nel numero dei dialetti, dobbiamo
inserire anche l’italiano della Corsica e delle Alpi marittime e il tedesco parlato nell’Alto e Basso
Reno, perché sono due idiomi molto degenerati. Infine, i neri delle nostre colonie, che voi avete
trasformato in uomini, hanno una specie di idioma povero come quello degli ottentotti, un idioma
che, come la lingua franca, conosce solo i verbi all’infinito.59
Cabanis aiuta Condorcet a sfuggire alla furia dei giacobini terroristi del 1793,
e gli avrebbe addirittura procurato il veleno con cui ha messo fine ai suoi giorni.
Il progresso aveva ancora dei progressi da fare per essere veramente progresso…
In attesa dell’ora della rigenerazione per mezzo della scienza (e già c’è il
nazismo in fila), Robespierre tallona Rousseau su tutta questa storia della
rigenerazione attraverso l’educazione e la politica, questa volta però sul terreno
concreto della politica. Conosciamo la predilezione del giacobino per l’autore
Del contratto sociale, che, nel capitolo intitolato Del legislatore, scriveva:
Colui che sa intraprendere l’istituzione di un popolo, deve sentirsi in grado di cambiare, per così
dire, la natura umana, di trasformare ogni individuo, che per sé stesso è un tutto perfetto e
solitario, in parte di un tutto più grande, dal quale quest’individuo riceva, in certo qual modo, la
sua vita e il suo essere; d’alterare la costituzione dell’uomo per rafforzarla; di sostituire
un’esistenza parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che abbiamo ricevuta tutti dalla
natura. Bisogna, in una parola, che egli tolga all’uomo forze che gli son proprie, per dargliene
altre che gli siano estranee, delle quali non possa far uso senza il soccorso altrui. Più tali forze
naturali sono morte e annientate, più quelle acquisite sono grandi e durevoli, e più anche
l’istituzione è solida e perfetta: di modo che, se ogni cittadino non è nulla, non può nulla se non
per mezzo di tutti gli altri, e se la forza acquisita dal tutto sia uguale o superiore alla somma delle
forze naturali di tutti gli individui, si può dire che la legislazione ha toccato il più alto grado di
perfezione che possa raggiungere.74
È esattamente quello che pensano Maximilien Robespierre e i giacobini. Il
filosofo e il politico vogliono un Uomo Nuovo, e quest’uomo nuovo sarà quello
dei giacobini; ma sarà anche quello dei fascisti e dei bolscevichi; e oggi quello
dei transumanisti.
E prosegue:
L’idea dell’Essere supremo e dell’immortalità dell’anima è un richiamo continuo alla giustizia;
essa è dunque sociale e repubblicana. [Applausi] La natura ha messo nell’uomo il sentimento del
piacere e del dolore, che lo costringe a fuggire gli oggetti fisici che gli sono nocivi, ed a cercare
quelli che gli sono convenienti. Il capolavoro della società sarebbe di creare in lui, riguardo alle
cose morali, un istinto rapido, che, senza il soccorso tardivo del ragionamento, lo portasse a fare il
bene e ad evitare il male; poiché la ragione individuale di ciascun uomo, sviato dalle sue passioni,
spesso non è che un sofista il quale difende la loro causa, e l’autorità dell’uomo. Ora, ciò che
produce o sostituisce questo istinto prezioso, ciò che supplisce all’insufficienza dell’autorità
umana, è il sentimento religioso che imprime nelle anime l’idea della sanzione data ai precetti
della morale da una potenza superiore all’uomo. Per questa ragione non ricordo che sia mai
venuto in mente a nessun legislatore di nazionalizzare l’ateismo.77
Il Terrore non ha niente a che fare con le controverità divulgate dalla storiografia
marxista sulla Rivoluzione francese, che continua comunque a fare la parte del
leone anche al momento in cui sto scrivendo. Il bagno di sangue non è
l’inevitabile risposta alla Vandea che minaccia il potere giacobino a Parigi o al
pericolo di guerra delle monarchie coalizzate, ma il mezzo con cui i giacobini
cercano di realizzare il proprio progetto di Uomo Nuovo. Del resto, in che modo
tagliare teste in così grandi quantità per tutto il paese avrebbe mai potuto fermare
la ribellione della Vandea o bloccare gli eserciti dei realisti europei? Il Terrore
impoverisce la nazione, dissangua il paese, devitalizza la Francia, mutila il
popolo, insanguina la storia e affossa l’umanità. E oltretutto continua a rimanere
senza effetti positivi sul fronte interno, cioè in Vandea, ma anche su quello
esterno, cioè alle frontiere.
Questa rigenerazione organizzata dal Terrore, l’abate Grégoire la vuole, e
assieme a lui, la vogliono anche Robespierre, Marat, Saint-Just, Babeuf, Rabaut-
Saint-Étienne, Billaud-Varenne, Le Peltier de Saint-Fargeau, Barère e Pétion de
Villeneuve, insomma i giacobini. Il deputato robespierrista Barère, relatore per il
Comitato di salute pubblica, organismo a cui dobbiamo l’istituzione del Terrore
all’ordine del giorno e l’inizio della politica di profanazione delle tombe reali,
afferma: «Il Comitato si occupa di un vasto piano di rigenerazione, il cui
risultato deve essere quello di bandire dalla Repubblica tanto l’immoralità che i
pregiudizi, tanto la superstizione che l’ateismo».87 Questo significava obbedire a
Robespierre, il quale, nel suo discorso del 29 luglio del 1793 ai giacobini, aveva
avvallato l’idea della creazione di «una razza rinnovata, forte, laboriosa,
regolata, disciplinata e che una barriera impenetrabile avrà separato dal contatto
impuro dei pregiudizi della nostra epoca invecchiata».88
Per parecchi anni, i giacobini hanno a propria disposizione tutto il territorio
nazionale per realizzare il loro Uomo Nuovo, ma riescono solo ad aggravare la
parte peggiore del Vecchio: la cattiveria, la bassezza, la selvatichezza, la
stupidità, l’odio e le passioni tristi. L’uomo dei Lumi: un meccanismo senza
libero arbitrio, e quindi non responsabile, non colpevole, non punibile, parente
stretto della scimmia e portatore di un’anima materiale, mosso dall’interesse
personale al di là del bene e del male, pezzo di cera vergine da formare, e quindi
da rigenerare, frutto partorito da un mostro. È questo, l’Uomo Nuovo dei
giacobini.
Cambiando misura e passando dalla Francia come terreno di sperimentazione dei
fanatici giacobini alla produzione di un solo esemplare di questo Uomo Nuovo
da parte degli stessi, un punto di riferimento ce l’abbiamo, perché quest’Emilio
nelle mani di un precettore rousseauiano è esistito davvero, e si chiamava Luigi
Carlo di Francia, meglio conosciuto sotto il nome di Luigi XVII, secondogenito
maschio ed erede del re Luigi XVI, decapitato il 21 gennaio del 1793 all’età di
38 anni, e della regina Maria Antonietta.
Cominciamo dunque dal non escludere tutti i dati di fatto.
Per creare il proprio uomo rigenerato, Rousseau non voleva forse un bambino
senza genitori? Un bambino abituato al freddo e al rigore, allo sforzo e alle cose
ripugnanti, alla rassegnazione e alla mancanza di sonno? Un bambino in balìa
del proprio maestro, che non lo molla di un centimetro, al punto da dormire nella
stessa stanza? Non voleva, forse, il filosofo, che il precettore coltivasse
l’ignoranza del proprio allievo, e che questo fosse docile, in suo potere? Che
fosse più animale che uomo? Del resto, non era Rousseau che parlava di un
capriolo come modello? Il suo amico Robespierre lo ascolta e realizza i suoi
desideri ben oltre ogni limite di ragionevolezza.
Il figlio del re viene strappato con violenza ai propri genitori, che finiscono
sulla ghigliottina, e separato anche dalla sorella, imprigionata come lui al
Tempio; il Comitato di salute pubblica gli assegna come carceriere un calzolaio,
Antoine Simon, membro dei Cordiglieri, assieme alla moglie, di professione
domestica, e tutti quanti vivono nella stessa cella con l’incarico di educarlo. In
verità, lo maltrattano, lo umiliano e lo disprezzano – del resto, non lo si deve
abituare alla rassegnazione? Viene fatto vivere in mezzo alla sporcizia, ai topi,
alle zecche, ai ragni e ai vermi; gli tagliano i capelli, e poi se ne dimenticano, e i
capelli gli ricrescono come i peli degli animali, assieme alle unghie – tanto si
deve evitare che sia portato a curarsi il corpo come fanno gli esseri urbani e
civilizzati. Non deve forse prendere esempio dal capriolo, che di certo non va dal
parrucchiere, non va dal pedicure, e non si fa incipriare la parrucca? Simon lo
sveglia di notte e lo fa venire dove sta dormendo per prenderlo a pedate, e poi lo
rimanda a letto; non bisogna forse educarlo a dormire poco? Il giacobino gli
regala uno scacciapensieri, strumento musicale popolare della Savoia, con l’idea
di fargli passare la voglia di suonare il clavicembalo; non bisogna forse preferire
i divertimenti del topo di campagna a quelli del topo di città? «Io sono il tuo
maestro, dice il giacobino Simon, e non ti devo lasciare marcire nella tua
ignoranza. Ti devi abituare al progresso e alle idee nuove»… Non sembra una
lezione del precettore di Emilio?
La regina fa mandare al figlio libri, quaderni e giochi, però i giacobini li
intercettano tutti. Al figlio di Luigi XVI Simon impone il lutto di Marat; gli
tolgono i vestiti e lo addobbano come un sanculotto, con tanto di berretto frigio.
Viene sfruttato come domestico per gli stessi carcerieri, pulisce e passa la cera
alle scarpe della moglie di Simon, e le porta anche lo scaldino quando si sveglia.
Lo costringono a bere vino e acquavite fino a ubriacarsi, e poi gli fanno cantare
delle canzoni rivoluzionarie scurrili e inneggianti al regicidio. Lo svegliano in
piena notte per obbligarlo a gridare «Viva la Repubblica!» e lo tirano per i
capelli, lo insultano, lo picchiano, lo umiliano, lo prendono a schiaffi e a pedate;
insomma, lo martirizzano. Un giorno, Simon lo colpisce addirittura in testa con
gli alari del camino. Dopo averlo fatto ubriacare, viene costretto a confessare che
partecipava con la madre e con la zia a delle orge incestuose, e che la madre
addirittura lo masturbava (al processo contro Maria Antonietta, questi deliri
furono presi seriamente in considerazione). Una notte, il carceriere lo sorprende
a pregare in ginocchio ai piedi del letto e gli rovescia in testa il contenuto
ghiacciato di una brocca. E così via…
Quando Simon deve lasciare il posto perché la legge gli impedisce di
cumulare l’impiego pubblico con la nuova carica di eletto municipale, il piccolo
Capeto eredita dei carnefici ancora più perversi. Lo murano nella sua cella e non
gli rivolgono più la parola, gli passano da mangiare attraverso le sbarre, lo
privano del riscaldamento e della luce, gli lasciano le lenzuola umide e le coperte
marce, lo fanno dormire tutto vestito senza mai cambiargli o lavargli i vestiti, o i
brandelli che ne rimangono, e lo costringono a vivere in mezzo alla sporcizia più
ripugnante. Per sei mesi, sperimenta quella stessa privazione sensoriale che
imperverserà nelle celle dei paesi totalitari nel corso del Novecento. Non riesce
più a rimanere in piedi ma neanche seduto, ed è consumato dalla scabbia e dalla
tubercolosi. I giacobini capiscono che uccidere il corpo è facile e che bisogna
invece raffinare le tecniche puntando a soffocare l’anima per arrivare solo in
seguito alla morte del corpo.
Arriva Termidoro e Robespierre finisce per assaporare in prima persona quel
rasoio nazionale a cui aveva destinato migliaia di vittime. Ovviamente è sempre
in nome della virtù, della libertà, dell’uguaglianza e, soprattutto, della fraternità
che ha sfruttato quel patibolo in maniera tanto ipnotica. Sul carretto che porta
questo malato mentale alla morte, si trova anche Antoine Simon, la prima
guardia di Luigi XVII. La morte di Robespierre frutterà al piccolo re dei nuovi
carcerieri: non avranno certo la ferocia dei giacobini, ma il male è ormai già
compiuto. Durante i suoi anni di prigionia, il bambino rifiuta tutto e non
proferisce parola; quando lo fa, è solo per proclamare aforismi ben cesellati, che
dimostrano la sua incredibile qualità umana e la sua grandezza d’animo,
impensabili per un bambino della sua età – ricordiamoci che ha otto anni quando
entra in prigione e dieci anni e due mesi quando muore. Simon gli aveva chiesto
che cosa avrebbe fatto se i vandeani fossero arrivati a Parigi per salvarlo e lui
aveva risposto: «Vi perdonerei». Al che il giacobino risponde giurando che, se
questo fosse mai successo, lo avrebbe strozzato lui stesso. Quest’aneddoto è la
perfetta illustrazione della rottura tra i due mondi, quello del Vecchio Uomo e
quello dell’Uomo Nuovo, e delle direzioni opposte che ormai hanno preso.
Quando il bambino diventato re con la morte del padre muore a sua volta l’8
giugno del 1795, è sicuramente un bambino che passa a miglior vita, ma è anche
e soprattutto l’Uomo, con la maiuscola, che entra nella tomba. I giacobini
volevano uccidere il Vecchio Uomo e realizzare l’Uomo Nuovo: sono invece
riusciti soltanto a uccidere l’uomo tout court. L’Uomo Nuovo non ha un’anima:
è un cane secondo Descartes, un’ostrica secondo Diderot, un orango per La
Mettrie, un pezzo di carne da decapitare per i giacobini. L’anima torturata di
Luigi XVII è stata quella dell’ultimo uomo.
Capitolo quarto
Una ghiandola pineale postmoderna
Metapsicologizzare la psiche
Freud era anche superstizioso, e lo testimoniano diversi episodi della sua vita.
Sulle lettere, mette crocette per scongiurare la cattiva sorte; crede alla
numerologia e la usa nel proprio sistema per fare esercizi incredibili, e
dimostrare che se, in matematica, 2 + 2 = 4, il risultato diventa diverso se si
rispettano i princìpi della metapsicologia – del tipo: invidia del pene + timore
della castrazione; in una lettera dell’8 maggio del 1932 allo psicoanalista italiano
Edoardo Weiss, scrive che con la figlia Anna, psicoanalista come loro, sta
sperimentando la telepatia; e crede ai sogni premonitori.
Sull’occultismo, scrive, sempre a Weiss, il 24 aprile del 1932: «Mi dichiaro
disposto a credere che dietro ai cosiddetti fenomeni occulti ci sia qualcosa di
nuovo e di molto importante: la trasmissione del pensiero, cioè il passaggio di
processi psichici attraverso lo spazio ad altre persone. Ne ho delle prove tratte da
osservazioni fatte alla luce del giorno, e penso di esprimere pubblicamente le
mie opinioni in proposito. Sarebbe invece controindicato per la Sua posizione di
pioniere della psicoanalisi in Italia che Lei si proclamasse contemporaneamente
sostenitore dell’occultismo»92 – così leggiamo nella biografia che Ernest Jones
consacra a Freud. Sappiamo che teorizza la possibilità che l’inconscio del
terapeuta e del paziente comunichino tra loro… anche quando lo psicoanalista
sta sonnecchiando! Freud stesso confessa che, a volte, durante le sedute, gli
capita di dormicchiare…
Sempre allo psicoanalista italiano, l’8 maggio del 1932: «Desidero dissipare
un malinteso. Che uno psicoanalista rinunci a partecipare pubblicamente a
ricerche di occultismo è una misura di ordine puramente pratico, solo
temporanea, che non vuole esprimere alcun principio. Ripudiare sdegnosamente
tali studi senza averne fatto esperienza, significa imitare il pietoso esempio dei
nostri avversari».93 Da quel momento, solo finte e astuzie, solo cinismo e
opportunismo: gli psicoanalisti non confesseranno mai la propria predilezione
per l’occultismo, però in realtà lo apprezzano e lo condividono – psicoanalisti e
occultisti commerciano in effetti assieme con una stessa «realtà sovrasensibile»!
Lo confermano scritti come Psicoanalisi e telepatia (1921) e Sogno e telepatia
(1922).
Dietro domanda del suo amico François Châtelet, che cura una Storia della
filosofia in otto volumi, Gilles Deleuze scrive un testo intitolato Da che cosa si
riconosce lo strutturalismo? In realtà, non è così scontato che, una volta
terminata la lettura, si riesca davvero a rispondere alla domanda. In compenso,
scopriamo uno stile e un tono che non possono non ricordare la scolastica del più
oscuro medioevo.
Il 26 febbraio del 1966, Gilles Deleuze scrive a Clément Rosset, un maestro
della scrittura elegante e divertente in filosofia: «Inseguo oscuri sogni sulla
necessità di un nuovo stile o di una nuova forma in filosofia». Siamo tutti
d’accordo che, ahimè, Deleuze ha bruciato le tappe, e raggiunto e prodotto
questo nuovo stile in filosofia: nata dal gergo sartriano, a sua volta figlio naturale
del gergo heideggeriano, quella di Deleuze è una lingua che rinuncia a
comunicare perché obbliga allo psittacismo e alla glossolalia.
Non è comunque a questa lingua che pensa Roland Barthes quando, nel 1977,
nella sua lezione inaugurale al Collège de France proclama: «Ma la lingua, come
performance di ogni linguaggio, non è né reazionaria, né progressista: è
semplicemente fascista, perché il fascismo non è impedire di dire, è obbligare a
dire».122 Teniamo a sottolineare che si tratta dello stesso autore che, in un libro
intitolato Sade, Fourier, Loyola (1971), ci descrive il marchese de Sade, uno che
non ha mai smesso di tessere le lodi del piacere nel crimine, del godimento
nell’omicidio, della gioia nella tortura e dell’estasi nella violenza, e questo non
solo nella propria opera ma anche nella propria vita, ci descrive insomma
quest’uomo come un perfetto ambasciatore del «principio di delicatezza»!123 Sì,
abbiamo letto bene…
La lingua di Deleuze costringe a diventare deleuziani, cioè a destreggiarsi con
una manciata di concetti. È lui, in effetti, ad affermare che la copiosa creazione
di concetti è ciò che contraddistingue la figura del filosofo. Seguendo questo
ragionamento, quindi, qualsiasi psicopatico minimamente afflitto da problemi di
glossolalia potrebbe trasformarsi in un principe della filosofia!
Deleuze non dimentica di essere un professore agrégé, e va a prendere in
prestito dal vocabolario della scolastica buona parte del proprio arsenale
concettuale, al quale mescola qualche invenzione nell’aria dei tempi. Questo suo
testo breve è ampiamente farcito di specie, di parti, di figure, di modi, di
attualizzazioni, di virtuali, di accidenti, di qualità, di singolari, ma anche di
differenzianti, di differenziazioni, di produzioni, di rapporti, di seriali e,
ovviamente, diamo a Cesare quel che è di Cesare: di strutture.
All’origine dello strutturalismo, troviamo la linguistica di Ferdinand de
Saussure. E non è difficile capire quale possa essere stata l’utilità dell’autore del
Corso di linguistica generale per chi, sulla scia di Freud, si è abituato ad
accordare più importanza all’allegoria, alla metafora, all’immagine e al
simbolico piuttosto che non al reale, la cui natura viene anzi spesso messa in
causa.
Che Sade abbia potuto essere un mostro nel corso della propria esistenza, che
abbia potuto drogare, violentare e torturare in più occasioni, che si siano potute
ritrovare delle ossa umane sepolte nel suo giardino, ecco, tutte queste cose non
contano nulla, perché tutte queste cose appartengono semplicemente al reale, e la
verità vera è che Sade è autore di un’opera di architettura letteraria, un
monumento di segni sadici, un monumento che lo rende appunto grande!
L’uomo che, in vita, ricava piacere dall’infliggere il male finisce per essere
considerato un gentiluomo del principio di delicatezza: e Saint-Germain-de-Prés
lo consacra grande sacerdote della religione testuale.
In maniera simile, il fatto che Freud abbia potuto mettere da parte con un
colpo di mano il plasma germinale, l’anatomia neuronale e il corpo concreto, a
tutto profitto delle varie topiche della psiche, che, in fondo, altro non sono che
metafore spaziali di un’astrazione la cui esistenza al di là dei segni rimane
comunque e sempre da provare, rivela un modus operandi che si ritrova con
estrema facilità nel mondo degli strutturalisti. Tutto il lavoro di Lacan, per
esempio, si sforza precisamente di mettere da parte il reale in modo da conferire
pieni poteri al linguaggio, un linguaggio che arriva in questo modo a strutturare
persino l’inconscio. Il mondo esiste solo attraverso la lingua che lo dice. Anzi, il
mondo coincide con il suo dire. Platone avrebbe adorato…
E così, nello strutturalismo, troviamo una lunga serie di significati, di segni, di
fonemi e di morfemi, troviamo la lingua, il linguaggio e la parola, troviamo le
differenze e i valori, troviamo la semiologia, la semiotica e la semantica! Il reale
si trasforma sempre di più in un effetto di linguaggio. A questo aggiungiamo
l’inconscio, che resta da dire, ma che continua comunque ad esistere prima del
dire, anche se è proprio grazie al dire che recupera visibilità.
Deleuze risponde alla domanda «Da che cosa si riconosce lo strutturalismo?»
esponendo sei criteri.
«Primo criterio: il simbolico».124 Deleuze apre subito, senza batter ciglio:
«Non sappiamo ancora completamente in che cosa consista quest’elemento
simbolico»!125 È il primo criterio, quello fondamentale, però non sappiamo
ancora quale sia! Continuiamo a leggere e sforziamoci di apprezzare il rigore del
ragionamento: non sappiamo cos’è la struttura, però sappiamo che cosa non è, e
questo, secondo la buona e vecchia logica, dovrebbe comunque permettere di
arrivare a una definizione positiva! Dunque: la struttura non è una forma
sensibile, non è una figura dell’immaginazione, non è un’essenza intelligibile,
non è un’idea platonica e non è qualcosa di reale; non è nemmeno qualcosa di
dicibile o d’indicibile, qualcosa di attuale, di fittizio, di possibile o di visibile,
qualcosa che appartiene all’essere o al non-essere.
Tutto questo fa pensare ai giochi di prestigio della teologia negativa: di Dio
non si può dire niente, perché qualsiasi affermazione positiva a suo riguardo
verrebbe a negare l’affermazione negativa corrispondente, e questo,
sottraendogli una qualità, per quanto negativa possa essere, finirebbe per
intaccare la sua perfezione – e un Dio imperfetto non può essere Dio.
Dell’anima, anche i teologi del medioevo potrebbero arrivare a dire, per come la
concepiscono, che la sua struttura non è una forma sensibile, non è una figura
dell’immaginazione, non è un’essenza intelligibile, non è un’idea platonica e non
è qualcosa di reale; che non è nemmeno qualcosa di dicibile o d’indicibile,
qualcosa di attuale, di fittizio, di possibile o di visibile, qualcosa che appartiene
all’essere o al non-essere. Ecco, la struttura degli strutturalisti assomiglia
stranamente all’anima vista da uno scolastico! Comunque stiano le cose, che sia
dicibile o indicibile, che appartenga all’essere o al non-essere, quello che è
sicuro è che ci troviamo di fronte a una vera e propria performance ontologica.
In seguito, Deleuze entra direttamente nel paradosso e produce ossimori a
profusione. Per esempio: la struttura si trova in «uno spazio inesteso»126 – nuova
performance ontologica! In pieno Novecento, parlare di uno spazio, cioè di
qualcosa che per definizione dovrebbe essere considerato esteso, e
caratterizzarlo invece con la qualità dell’inestensione, è un bell’esempio di cosa
si produceva in quel momento alla Sorbona! Ci si chiede come abbia fatto
Deleuze a fallire il concorso d’entrata all’École normale supériore: i numeri per
brillare, ce li aveva tutti! Ma continuiamo. Eccolo a un certo punto che ci spiega
come questo gioco di prestigio derivi da una «topologia trascendentale».127
Quest’ossimoro lo possiamo capire soltanto se abbiamo letto Kant, perché è sulle
pagine di questo filosofo che scopriamo come il trascendentale che qualifica la
condizione di possibilità possa anche qualificare un luogo, una topica.
Traduciamo in lingua quotidiana, partendo da lontano: la struttura è un luogo che
è e che interroga la possibilità di un luogo da essere; ma come potrebbe mai, il
luogo che è, funzionare da luogo che si domanda anche come potrebbe essere?
Questo luogo non ha un luogo, proprio come la superficie non ha estensione. Da
tutto questo non-essere, però, non possiamo dedurre l’essere del non-essere –
questo rimane qualcosa di indicibile, ci avverte Gilles.
«Sesto criterio: la casella vuota».146 Per chi, come Deleuze, non ha mai
nascosto la propria predilezione per i matti e gli schizofrenici, la casella vuota si
rivela un insieme pieno della massima importanza! Nella confusione di name
dropping, in cui, facciamoci pure qualche risata, Sollers sta a fianco di
Shakespeare e Jacques-Alain Miller accanto a Mallarmé, Deleuze mette a punto
un fuoco d’artificio il cui colpo finale è un petardo umido. Ed è questo: «È bene,
infine, che la domanda ‘da che cosa si riconosce lo strutturalismo?’ conduca alla
posizione di qualche cosa che non sia riconoscibile o identificabile».147 Ecco, la
cosa è detta. Dobbiamo ridere o piangere? Provare invidia o pietà? Non ho il
coraggio di dirlo…
C’è un ulteriore sviluppo, presentato sotto il titolo di «Ultimi criteri: dal
soggetto alla pratica».148 Ma a cosa serve spingersi oltre quando sappiamo che
non sapremo mai niente di più o di meglio…
Dopo aver letto questo testo, non dovremmo più ignorare che cosa sia lo
strutturalismo! La verità invece è un’altra. Mettiamola in questi termini: il lettore
un po’ ingenuo che consulta la Storia della filosofia curata da François Châtelet
perché vuole sapere che cosa sia lo strutturalismo, cioè la filosofia di moda in
quel particolare momento, lungi dall’aumentare il proprio sapere, trova la
propria confusione parecchio ingigantita! Ma questo «qualche cosa»
(l’espressione è di Deleuze, di norma più ispirato, soprattutto quando si tratta di
coniare neologismi) che viene presentato come invisibile, impercettibile,
indicibile, ineffabile, inesprimibile, incomunicabile, indescrivibile, ma
onnipotente, non sembra forse il Dio di Dionigi Areopagita, il pensatore
neoplatonico simbolo della teologia negativa detta anche apofatica?
Per esempio: «Diciamo, dunque, che la Causa di tutte le cose e che sta al di
sopra di tutte le cose non è né senza sostanza né senza vita né senza ragione né
senza intelligenza; tuttavia, non è né un corpo né una figura né una forma, e non
ha quantità o qualità o peso; non è in un luogo; non vede, non ha un tatto
sensibile, non sente né cade sotto la sensibilità; non conosce disordine e
perturbazione per essere agitata dalle passioni materiali».149 Chi è l’autore di
questo passaggio? Dionigi Areopagita o Deleuze? In verità, il brano è tratto dalla
Teologia mistica del primo. E siamo d’accordo sul fatto che ci si può sbagliare.
Le parole e le cose lo afferma con chiarezza: l’uomo è una «strana figura del
sapere».158 Per Foucault, si tratta solo di questo… Non esiste carne, non esistono
nervi, non esistono muscoli o sangue, non esiste lingua e non esistono ossa, non
esistono cervello e pelle, non esistono peli, non esistono unghie e non esistono
capelli. Non esiste nessuna di queste quintessenze di materie che per Platone
sono degradate: nessuna di queste materie va a costituire il corpo di un uomo,
vale a dire dunque l’uomo stesso.
Per Foucault, l’uomo (con la minuscola, mai con la maiuscola) viene
costituito da una triade, prima della quale non esiste, e questa triade è composta
dall’economia, dalla biologia e dalla filologia. L’uomo nasce quindi con il
lavoro, con la vita e con la lingua. Dobbiamo dedurne che un disoccupato, un
uomo senza lavoro, un uomo privo di vita, un muto o un uomo che non parla non
siano più uomini quando sono morti? E che cosa dobbiamo pensare del
lavoratore muto e che, proprio per questa sua disabilità, testimonia doppiamente
della propria disumanità? O, peggio ancora, quando questo personaggio mutilato
passa dalla vita alla morte…
Il lavoro non ha niente a che fare con il lavoratore alienato, sottomesso al
capitalismo e schiavo di un padrone, di un caporeparto o di un capo-officina; non
ha alcuna relazione con il salario, con lo sfruttamento, con la busta paga, con le
condizioni miserabili o con l’iscrizione nella produzione delle ricchezze, come
descritto da Marx nel Capitale. No. Il lavoro è ciò che rende possibile un
discorso di Cantillon, un’analisi di Quesnay, un capitolo di Condillac, un libro di
Lemercier de la Rivière, un volume di Adam Smith, un in folio di Ricardo.
Nient’altro.
Foucault ha il gusto degli autori sconosciuti, ai quali conferisce un’importanza
capitale, mentre in realtà, ai loro tempi, sono stati dei semplici glossatori: hanno
prodotto un testo celeste che Foucault separa dal suo contesto terrestre. Lo
strutturalista crede che l’universo si sia interamente rifugiato sugli scaffali di una
biblioteca stracolma di volumi antichi. Un mondo di morti e di polvere, di pelle e
di carta, di rilegature e di colla secca.
Le analisi sono interminabili e costantemente sottoposte a mise-en-abyme
quasi osservandosi nell’atto stesso di analizzarsi; e, come quadri in un museo,
vediamo susseguirsi una dopo l’altra le considerazioni di Bonnet sulla
palingenesi, quelle di Tournefort sulla storia naturale, quelle di Beauzée sulla
grammatica generale, quelle di Véron de Forbonnais sull’economia, quelle di
Davanzati o di Scipion de Gramont sulla ricchezza, o quelle di Dutot sul
commercio… Ed ecco perché vostra figlia è muta, avrebbe detto Molière…
Questo libro cerca l’uomo, ma alla fine trova soltanto i libri, e gli uomini li
mette da parte. Lo strutturalismo elimina la storia, la cancella e la abolisce: la
verità del proletariato non si trova più nelle fabbriche, ma in Leggere il Capitale
(1965) di Althusser, che interroga le cesure epistemologiche tra il giovane Marx
e quello del Capitale; la verità della psiche non si trova più nelle sofferenze
patite da un paziente, ma negli Scritti (1966) di Lacan, che offre al gioco di
parole un ruolo teorico di fondamentale importanza; la verità della lingua non si
trova nella parola di un bambino che comincia a esprimersi, ma nella differenza
tra semiotica e semantica esposta nei Problemi di linguistica generale (1966) di
Benveniste; la verità dell’inconscio non si trova in una lunga memoria
filogenetica, ma nei meccanismi della macchina desiderante smontata da
Deleuze e Guattari ne L’anti-Edipo (1972); la verità dell’antropologia o
dell’etnologia non si nasconde nella vita quotidiana di una tribù, ma nella teoria
generale dello scambio esposta con parecchi schemi nell’Antropologia
strutturale (1958) di Lévi-Strauss; a questo punto, nemmeno la verità dell’uomo
si trova più nella cristallizzazione di una biografia, ma ne Le parole e le cose
(1966) di Foucault…
Nella dialettica tra parole e cose, Foucault ha evidentissimamente scelto le
parole a scapito delle cose. In fondo, non c’è niente di così originale: è il destino
di tutta la filosofia idealista. L’uomo è, prima di ogni altra cosa, una realtà
semantica, e in questo senso può apparire anche molto tempo dopo aver già
lasciato una prima traccia nella storia dell’umanità. L’Homo sapiens che, nel
periodo Aurignaziano, incide un osso per realizzare un calendario lunare non è
un uomo, perché non ha coscienza di esserlo. Giudicando con questo metro,
però, nemmeno parecchi degli esseri umani della nostra epoca lo sono…
Scrive Foucault:
Quando la storia naturale diviene biologia, quando l’analisi delle ricchezze diviene economia,
quando soprattutto la riflessione sul linguaggio si fa filologia e viene meno il discorso classico in
cui l’essere e la rappresentazione trovavano il proprio luogo comune, allora, nel movimento
profondo d’una tale mutazione archeologica, l’uomo appare con la sua posizione ambigua di
oggetto nei riguardi di un sapere e di soggetto che conosce: sovrano sottomesso, spettatore
guardato, sorge là, nel posto del re, assegnatogli anticipatamente dalle Meninas, ma dal quale a
lungo la sua presenza reale fu esclusa. 159
Foucault pensa a partire da sé stesso. Nietzsche ha già detto tutto quello che
c’era da sapere sulla genealogia autobiografica di ogni pensiero – quello di
Foucault compreso, il quale comunque non ignorava il ragionamento, avendo
letto la prefazione della Gaia scienza… Ecco perché il registro del filosofo si fa
così cupo: sotto la sua penna appaiono espressioni come «panorama d’ombra» e
«parte di notte», «zona oscura» e «regione abissale», «fortezza singolarmente
sprangata» e «macchia cieca»… Questa parte maledetta rappresenta il punto di
origine del suo pensiero. È parecchio evidente che la ragione occidentale gli stia
ormai fin troppo stretta e che il «mormorio indefinito» dell’inconscio lo attiri più
potentemente di qualsiasi altra cosa.
Questo spiega perché, sulla scia della morte di Dio e della consustanziale
morte dell’uomo, Foucault annunci, tematica quanto mai hegeliana, la morte
della filosofia e l’avvento di un «pensiero futuro».160 Descartes e Kant lasciano
il posto a Freud e a Lacan, i quali non si preoccupano più della ragione
ragionevole e ragionante, ma solo della pura sragione. Le 120 giornate di
Sodoma ed Eliogabalo o l’anarchico incoronato di Artaud, o ancora La parte
maledetta di Bataille piuttosto che il Discorso sul metodo o la Critica della
ragion pura. Foucault è affascinato dalla finitezza, dalla morte, dalla follia, dalla
psicosi, dalla schizofrenia, dal desiderio, tutte cose assenti dalla filosofia
classica.
La triade biologia-economia-filologia, che rendeva possibile l’avvento
dell’uomo nella storia delle idee, lascia ora il posto a una seconda topica che
abolisce la prima: linguistica-etnologia-psicoanalisi, tutte scienze umane che
non parlano dell’uomo.
La storia della filosofia viene tagliata in due: la ragione classica, da una parte,
e il pensiero strutturalista, dall’altra, con quest’ultimo sempre alla ricerca delle
invarianti formali di ogni realtà, visibili da nessuna parte ma presenti
dappertutto. Quello che Foucault propone con Le parole e le cose non è tanto
una nuova filosofia quanto una variazione sulla scolastica più antica.
Reazionario quando restaura il primato platonico dell’Idea sulla realtà, della
parola sulla cosa, diventa ancora più reazionario quando ristabilisce le categorie
della scolastica medievale. Quando propone, per esempio, «una seconda critica
della ragion-pura a partire da nuove forme all’a priori matematico»,161 allo
scopo di fondare scientificamente la psicoanalisi, chiamata a cancellare la
filosofia occidentale dalla cartina. Una scienza fondata su un a priori formale e
direttamente dipendente da categorie trascendentali è, però, qualcosa di più
vicino a una teologia, per quanto senza Dio possa essere, che non a una filosofia.
Sappiamo che cosa è diventato il teorico Uomo Totale con la pratica del
marxismo-leninismo. Lungi dall’aver prodotto l’Uomo Nuovo giacobino, il
regime comunista di Marx e di Lenin ha generato quell’Homo sovieticus di cui
lo scrittore Aleksandr Zinov’ev ci ha ben tratteggiato i contorni, cioè un uomo
colpito da un oblomovismo costituito in pari misura da fannullaggine e
fatalismo, un uomo che si barcamena tra piccoli furti e grandi accomodamenti,
un uomo della fuga e delle vigliaccherie, un uomo della denuncia e
dell’assoggettamento, in una parola: l’uomo della servitù volontaria. Si doveva
liberare e si è dimostrato invece sottomesso; doveva essere totale e si è rivelato
parziale; forte e si è rivelato debole; grande e si è rivelato piccolo; esemplare e si
è rivelato mediocre; doveva cacciare la mattina, pescare il pomeriggio, occuparsi
delle bestie la sera e darsi alla critica letteraria dopo cena, e invece è diventato
l’uomo che fa le code ai supermercati per comprarsi prodotti scadenti, l’uomo
che mangia i cetriolini sottaceto e beve vodka, l’uomo che guarda la televisione
di propaganda e legge i giornali che lo indottrinano. È in reazione a quest’uomo
giacobino dei marxisti che il fascismo mussoliniano, e poi il nazismo, lanciano il
loro proprio Uomo Nuovo.164
Questo progetto fittizio è diventato realtà sotto molti aspetti. Basti pensare alla
clonazione delle cellule staminali o alla clonazione dei nuclei di DNA, ma anche
alle diverse manipolazioni auspicate dal transumanesimo. L’anima come polpo
divisibile e riproducibile in maniera identica: è questo il sogno di Elon Musk,
che definisce l’anima come la traccia digitale lasciata da un essere umano e
riducibile a dati scaricabili e trasferibili, prima su una specie di chiave USB e poi
direttamente nella materia cerebrale di un altro essere umano, nel suo encefalo. È
questo il senso del suo progetto: installare sull’essere umano microchip con tanto
di dati digitali che andranno a costituire la sua identità.
Musk, insomma, porta a compimento il tempo della scimmia inaugurato dalle
lezioni di anatomia di Vesalio e inaugura il tempo della medusa. Una scimmia
chiamata Pager è stata «programmata» dalla società di Elon Musk, la Neuralink,
con base a San Francisco, per giocare al videogioco Pong solo con il pensiero,
utilizzando cioè soltanto i poteri del proprio cervello, aumentato dalle
informazioni impiantate nel suo stesso tessuto cerebrale. Tre maiali, di cui uno
femmina, Gertrude, sono stati impiegati per preparare la tecnologia d’interfaccia
tra il cervello e la macchina che permette al mammifero di comunicare attraverso
una specie di telepatia fondata sugli impulsi neuronali. Dopo il maiale e dopo la
scimmia, lo scopo è evidentemente di poter equipaggiare il cervello dell’uomo in
modo che possa essere collegato a un computer allo scopo di aumentare
l’intelligenza naturale grazie all’intelligenza artificiale (AI).
Nel suo laboratorio, OpenAI, Elon Musk cerca di produrre delle intelligenze
artificiali che siano superiori alle intelligenze naturali, puntando sul fatto che,
naturalmente, le prime soppianteranno le seconde. Musk parte dal principio che
gli esseri umani dispongono già di uno «strato digitale terziario», grazie ai loro
telefonini, ai loro computer, alle loro applicazioni e ai loro dati, e che occorre
semplicemente connetterlo alla corteccia, cioè a quella parte del cervello che si
occupa della memoria, dell’attenzione, della percezione, del pensiero,
dell’intelligenza, del linguaggio e della coscienza. Musk punta all’avvento di una
telepatia tra l’uomo e la macchina. E precisa: «Con un’interfaccia neuronale
diretta, possiamo migliorare il collegamento che passa tra la corteccia cerebrale e
lo strato digitale terziario, di parecchie unità di misura. Direi probabilmente
almeno mille, forse diecimila, forse anche di più». Tutto sta nel valore che diamo
a questo «più»… Riassumiamo il progetto transumanista: materia della corteccia
cerebrale + dati digitali su Twitter = identità di un essere.
Il microchip può ovviamente arricchire, ma può anche essere destinato a un
impoverimento programmato. Gli scienziati sanno oggi come fornire a delle
mosche dei ricordi di cose che non hanno vissuto. Però, a furia di introdurre
acido piruvico nei mitocondri dei neuroni dei corpi peduncolati, a furia di
alimentare cellule gliali, a furia di mettere in evidenza l’azione neuronale con
elementi fluorescenti, possiamo finire anche con il cancellare ricordi di cose
realmente vissute dalle drosofile. Le loro ricerche puntano ovviamente a
combattere l’Alzheimer o il Parkinson…
Neuralink si impegna a far diventare realtà qualcosa che per il momento
sembra appartenere soltanto al regno della fantascienza: stiamo parlando del
Neural Lace, che permetterebbe di collegare il cervello umano a dei computer in
maniera del tutto indipendente da qualsiasi tipo di connessione, una specie di
Bluetooth neuronale. L’intelligenza naturale verrebbe allora sostituita
dall’intelligenza artificiale, la memoria diventerebbe infinita e le capacità
cognitive si rivelerebbero del tutto inedite. «Le persone potrebbero usare la
telepatia e in una certa misura potrebbero diventare capaci di conversare tra di
loro non soltanto senza parlare, ma anche addirittura senza usare le parole. E
diventerebbe possibile accedere ai pensieri degli altri a livello direttamente
concettuale. Non soltanto si potrebbero comunicare da un cervello all’altro i
pensieri, ma anche le esperienze sensoriali».
Aggiunge Musk: «Altre cose abbastanza folli potrebbero essere fatte. Si potrà
probabilmente salvare lo stato del cervello. Così, se doveste morire, il vostro
stato potrebbe essere ricaricato su un altro corpo umano, o addirittura sul corpo
di un robot […]. Si potrà decidere, per esempio, se volete essere un robot o una
persona, o anche un’altra cosa» [corsivo mio]. Ma solo se si dovesse morire…
In base alle ultime notizie, si sta già cercando di fare camminare dei
paraplegici, e di trovare delle cure per il morbo di Parkinson. Musk annuncia che
allargherà il programma di rieducazione delle nostre sinapsi ai casi di
depressione nervosa, alle dipendenze e ad altre «lesioni cerebrali». Ma se, per
tutta questa gentaglia, il semplice fatto di avere un cervello umano fosse già di
per sé una lesione? Un cavallo di Troia, ancora e sempre… Il progetto di Diderot
che porta dall’ostrica alla medusa passando dall’uomo è già operativo.
Elon Musk ci spiega in termini chiari il proprio programma: «riparare tutto
quello che nel cervello non funziona».181 Per quest’uomo che confessa di
soffrire di sindrome di Asperger e che, per il resto, è semplicemente la persona
più ricca del mondo, un simile disegno non rappresenta il capriccio di uno
squilibrato, ma un progetto esistenziale vero e proprio, un progetto che potrebbe
trasformarsi in un progetto di civiltà. Ha tutti i mezzi per sostenere la propria
follia. Chi potrà opporsi? E soprattutto in nome di che cosa? Di quale morale? Di
quale etica? Di quale Super-io? Di quali divieti? Di quali tabù? Di quali valori?
Di quale spiritualità? Di quale religione? Di quale istanza trascendentale? Di
quale forza del bene?
La barbarie sta arrivando alle nostre porte, equipaggiata come una macchina
da guerra inedita e scintillante. Quest’uomo che vuole fare l’angelo sicuramente
farà la bestia: dopo il serpente, dopo il cane e dopo la scimmia, l’evoluzione
continuerà probabilmente sotto il segno della medusa, animale decostruibile e
ricostruito. Del resto, la decostruzione è già cominciata…
Epilogo
L’eterno silenzio degli spazi infiniti
Per lavorare al suo progetto transumanista, Elon Musk non ha creato solo la
società Neuralink, ma ha anche fondato SpaceX, di cui si conosce vagamente la
storia perché, sui nostri schermi televisivi, assistiamo regolarmente ai lanci dei
missili per il suo programma di vita nello spazio. Sul lungo termine, si tratta, per
Musk, di far uscire l’uomo dal suo biotopo terrestre naturale e di installarlo in
maniera durevole in un biotopo extraterrestre artificiale. In questa prospettiva, la
Luna è destinata a diventare una stazione spaziale in muratura, la prima tappa
per i viaggi più lunghi verso Marte. Passerà, insomma, dallo status di pattumiera
delle immondizie americane a quello di anticamera per i viaggi americani su
Marte.
Chi pensa che questi suoi obiettivi siano poco ragionevoli dovrebbe leggere
quello che scrivono gli astrofisici quando ci parlano del Sole che, nel giro di
quattro miliardi di anni, esaurirà tutto il suo combustibile e morirà. Quattro
miliardi di anni, è tanto tempo, siamo d’accordo, però rimane pur sempre
qualcosa di ineluttabile, e comunque ci fa riflettere sulla certezza che la vita sulla
Terra si troverà compromessa molto prima, e che gli uomini sono destinati a
scomparire se da qui ad allora non avranno trovato un modo per defilarsi!
Le previsioni ci spiegano che il Sole si dilaterà e che il suo volume si
moltiplicherà di duecento volte. L’espansione trascinerà la scomparsa di
Mercurio e di Venere. Però, già prima dell’esplosione, la Terra non avrà più né
acqua né vita sulla sua superficie, e si trasformerà in una palla di roccia fusa. Il
nucleo solare si riscalderà fino ad arrivare a cento milioni di gradi, poi la stella di
gas caldo si espanderà fino ad arrivare all’orbita di Marte: quindi, chi pensa che
rifugiarsi sul pianeta rosso potrebbe rappresentare una soluzione in realtà sta
solo posticipando il problema! L’elio rilasciato dal Sole finirà per esaurirsi e
l’involucro del Sole sarà espulso sotto forma di nebulosa, e finirà per diluirsi
nello spazio interstellare. Poi il nucleo solare si ridurrà progressivamente, si
contrarrà, si trasformerà in una nana bianca e si raffredderà nel corso di decine di
miliardi di anni, prima di diventare una nana nera. Il Sole morirà come il 90%
delle stelle dell’universo. Perché, banalità di base che però ci si dimentica quasi
sempre di ricordare, tutto quello che è nato, vive e poi muore.
Il fatto che la morte naturale del Sole trascinerà con sé anche quella della
Terra, non esclude l’esistenza di altri modi di morire prima che quel momento
arrivi! Se un astrofisico cominciasse a spiegare che, tenendo presente tutto
quello che, da milioni di anni, ci insegna la scienza della vita della Terra, i cicli
di riscaldamento e di raffreddamento sono da mettere prioritariamente in
relazione con l’attività magnetica dell’eliosfera, vale a dire della bolla gassosa
formata dai venti solari, questo astrofisico si vedrebbe bandito dalla comunità
internazionale degli «scienziati» e bollato come climatoscettico, perderebbe il
posto di lavoro e il salario, perderebbe le sovvenzioni accordate al suo
laboratorio, perderebbe i suoi studenti e la possibilità di dirigere tesi e
perderebbe la reputazione, pagando la propria audacia con la morte sociale. Ecco
perché ci si limita a insegnare che il riscaldamento climatico è essenzialmente
dovuto all’attività umana. Questo permette alla mitologia del capitalismo verde
di oggi di funzionare vendendo dei prodotti che, per quanto molto inquinanti,182
passano per essere rispettosi delle risorse del pianeta. Ciò non toglie che
l’eliosfera che protegge il sistema solare interno sia bucata, e che attraverso
questi buchi passino pericolosi raggi cosmici che viaggiano quasi alla velocità
della luce e bombardano la Terra, andandone ovviamente a intaccare la
temperatura e il clima.
La Terra può scomparire prima del tempo anche a causa degli asteroidi near-
Earth, questi corpi solidi lanciati a tutta velocità nello spazio che potrebbero
schiantarsi sulla crosta terrestre, distruggendo ogni forma di vita sulla Terra, o
addirittura polverizzando l’intero pianeta azzurro, di cui resterebbero solo
polveri fluttuanti nel cosmo.
Nel corso di un recente esperimento condotto il 22 settembre del 2022 dalla
NASA, una sonda di cinquecento chilogrammi è stata mandata dalla Terra a
schiantarsi su un piccolo asteroide di centosessanta metri di diametro chiamato
Dimorphos, a più di undici milioni di chilometri, al fine di deviarne la corsa.
L’operazione era stata denominata DART (Double Asteroid Redirection Test),
facendo riferimento alla parola «dart», che in inglese significa «freccetta». La
collisione ha prodotto parecchie decine di tonnellate di polvere e modificato la
traiettoria dell’asteroide. Al momento in cui scrivo, inizio di ottobre del 2022,
non sappiamo però di quanto, i calcoli sono ancora in corso…
Ed è probabilmente un asteroide di dodici chilometri di diametro che,
sessantasei milioni di anni fa, si è schiantato sulla Terra, in un punto
corrispondente all’attuale Yucatán (Messico), provocando, tra le altre cose, la
scomparsa dei dinosauri. La collisione è stata seguita da un considerevole
abbassamento della temperatura sul pianeta, anche perché il Sole si è trovato
almeno in parte coperto dalle tonnellate di polveri prodotte. Paradossalmente,
però, è questa stessa situazione che ha reso possibile lo sviluppo dei vari
mammiferi, tra cui l’uomo, che avrebbe potuto benissimo non esistere,
altrimenti… Un altro asteroide, invece, e l’uomo potrebbe non esistere più.
Pensando in termini di lunghissima durata, Elon Musk disorienta e sconcerta
chi fa già fatica a proiettarsi sull’effimero orizzonte del futuro della propria
stessa esistenza! Nella misura in cui ragionare in termini di millenni, come fanno
gli storici e i filosofi degni di questo nome (Gioacchino da Fiore e Vico, Hegel e
Spengler, Toynbee, Keyserling e Frobenius, e poi Malraux, per citare quelli più
vicini a noi…), si rivela essere una disciplina raramente praticata, anche
ragionare tenendo in considerazione l’avvenire dell’uomo nel caso (nonostante
tutto) previsto della scomparsa del pianeta Terra è un esercizio che fin troppo
spesso viene trascurato. Solo la fantascienza si occupa di queste cose: la filosofia
no di sicuro.
Il progetto di Elon Musk ha una sua coerenza, che coincide con quella del
transumanesimo: tenendo conto della durata limitata della vita dell’uomo sulla
Terra, la prima cosa da fare è cambiare l’uomo e cercargli un altro biotopo. Da
questa esigenza di modificare l’elemento umano e di allargarlo, di aumentarlo,
nasce l’Uomo Nuovo scolpito dal transumanesimo, di cui Neuralink rappresenta
un po’ il braccio armato.
La seconda cosa è, invece, cambiare l’ambiente dell’uomo, e trovare un luogo
sostitutivo adatto a questo umanoide. Da qui le sperimentazioni di SpaceX,
l’altra società di Musk, che si occupa di mettere a punto viaggi spaziali e
interstellari, cercando, per esempio, di inventare nuovi carburanti in grado di
risolvere il problema della durata e della velocità degli spostamenti in ordine di
anni luce. Valutando sulla misura della lunga durata, è questa l’unica «grande
sostituzione» che valga la pena di accettare, l’unica che sarà in grado di far
nascere un’altra civiltà, l’ultima.
Il progetto di colonizzare Marte preoccupa la NASA tanto quanto Musk.
L’agenzia spaziale americana recluta volontari per una missione di un anno che
consiste nel vivere dentro una base in Texas, a condizioni di vita extraterrestre,
in uno spazio di 158 metri quadri, costruito con una stampante 3D. Per il
momento, le condizioni di reclutamento sono molto restrittive: bisogna
innanzitutto essere americani, poi godere di buona salute, non fumare, avere più
di trent’anni ma meno di cinquantacinque, parlare inglese, padroneggiare
l’ingegneria, la matematica, la fisica, la biologia e l’informatica, avere
un’esperienza professionale di almeno due anni in uno di questi ambiti, oppure
avere un carnet di volo di più di mille ore. I prescelti effettueranno delle ricerche
scientifiche e si familiarizzeranno con la realtà virtuale e con i comandi dei
robot, simulando, per esempio, delle passeggiate nello spazio ricostruito. Si tratta
di preparare un volo verso Marte con una sosta sulla Luna, trasformata, per
l’occasione, in una specie di sala d’attesa. Al progetto hanno già partecipato
russi, europei e cinesi.
Giunta l’ora, questo postumano presupporrà probabilmente delle anime
digitali caricate su encefali umani, magari clonati, in ogni caso assimilati a
esoscheletri. Altrimenti, a cosa serve lavorare in tutte queste direzioni? Gli
uomini vivranno una vita virtuale in un universo ostile. E queste vite, a cui
potranno accedere soltanto alcuni eletti, scelti oltretutto da gente ancora più
eletta (ma chi?), saranno collegate a una matrice globale che piloterà tutto
l’insieme. E tutto questo per cosa? Malraux diceva: «A cosa serve conquistare la
Luna se è per andarci a suicidarsi?»183 Oggi siamo privi di anima, ma chi ci dice
che gli uomini acefali che siamo diventati non siano già morti?
Bibliografia
Platone il Padrino. Nel suo Platon (Gallimard, Folio Biographie, Parigi 2019),
Bernard Fauconnier scrive molto opportunamente: «Il Fedone, che si cita meno
spesso dell’Apologia di Socrate, è un dialogo d’immensa portata. Ha alimentato
tutto il pensiero occidentale della morte, dagli stoici fino agli umanisti, persino
oltre. Il pensiero cristiano della morte e dell’immortalità gli è grandemente
debitore» (p. 228; corsivo mio).
Leggiamo allora il Fedone e gli altri testi, come, per esempio, il Menone o
l’Apologia di Socrate, nella traduzione di Léon Robin per le Œuvres complètes
in due tomi della Biblioteca della Pléiade (Gallimard, Parigi 1977).
Sulla questione dell’anima, vedere Jean Ithurriague, La Croyance de Platon à
l’Immortalité et à la Survie de l’Âme Humaine [La Credenza di Platone
nell’Immortalità e nella Sopravvivenza dell’Anima Umana], Librairie
Universitaire J. Gamber, Parigi 1931 (le maiuscole sono dell’autore). Vedere
anche Friedrich Nietzsche, Plato amicus sed. Introduzione ai dialoghi platonici
(Mimesis, Udine-Milano 2020). In particolare il ragionamento intitolato Come
può darsi κακία dell’anima? (§ 25).
In Dieu, l’homme et la vie d’après Platon [Dio, l’uomo e la vita secondo
Platone], Éditions de la Baconnière, Neuchâtel 1944, René Schaerer elabora un
interessante ragionamento sui rapporti tra platonismo e cristianesimo.
Sull’anima, vedere il primo e il secondo capitolo.
*
Plotino il Discepolo. L’opera completa delle Enneadi è pubblicate in Francia in
sette volumi da Les Belles Lettres, nella Collection des Universités de France,
con, in apertura, la Vie de Plotin [Vita di Plotino], scritta da Porfirio (tr. it.:
Plotino, Enneadi, Bompiani, Milano 2018). All’Università di Caen, Lucien
Jerphagnon tenne un corso affascinante di un anno solo su questa Vita.
Due brevi testi chiari e illuminanti di introduzione: Pierre Hadot, Plotino, o La
semplicità dello sguardo (1973), Einaudi, Torino 1999, e Maurice de Gandillac,
La Sagesse de Plotin [La saggezza di Plotino], Vrin, Parigi 1966. Due
interpretazioni dell’austera filosofia di Platone in un’ottica esistenziale. Perché,
in effetti, è possibile vivere secondo Plotino. Era il caso di Lucien Jerphagnon…
Orfeo senza inferi. A casa degli orfici, si mangia e si beve. Quella che di loro ci
resta è una poesia molto ermetica, frammentaria, senza istruzioni per l’uso,
definitivamente perdute. L’orfismo permette ogni tipo di proiezione, anche
quelli più stravaganti, come succede per i fanatici dell’occultismo.
I testi: Hymnes. Discours sacrés [Inni, discorsi sacri], presentati, tradotti e
annotati dal compianto Jacques Lacarrière, Imprimerie nationale, Parigi 1995.
Vedere anche le analisi di Marcel Detienne, Les Dieux d’Orphée [Gli dèi di
Orfeo], Folio Histoire, Parigi 2007, e La scrittura di Orfeo (Laterza, Roma
1990). Soffocate però da un’erudizione che impedisce spesso di vedere con
chiarezza le linee di sviluppo del discorso.
Breve sintesi in Essam Safty, La Psyché humaine. Conceptions populaires,
religieuses et philosophiques en Grèce, des origines à l’ancien stoïcisme [La
psiche umana. Concezioni popolari, religiose e filosofiche in Grecia, dalle
origini allo stoicismo antico], L’Harmattan, Parigi 2003.
Un’opera monumentale è quella di Erwin Rohde, l’amico di Nietzsche: Psiche.
Culto delle anime e fede nell’immortalità presso i greci (1890-1894), Laterza,
Bari 1970; si tratta di una summa sul soggetto dell’anima greca – Omero,
presocratici, tragici, Platone, Aristotele, Plotino, orfici, e così via. Difficilmente
superabile.
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La favola di Gesù. La tesi mitista secondo cui Gesù non è mai esistito
storicamente, ma solo come cristallizzazione intellettuale, viene trattata con
disprezzo da celebri universitari che sono anche, nella maggior parte dei casi, dei
veri credenti. Meriterebbe comunque una confutazione degna di questo nome, il
disprezzo non può bastare.
Leggiamo allora Prosper Alfaric, Jésus a-t-il existé? [È esistito Gesù?], Éditions
Coda, Parigi 2005. E, sempre dello stesso autore: Origines sociales du
Christianisme (1959) [Origini sociali del cristianesimo], À l’école de la raison.
Études sur les origines chrétiennes (1959) [A scuola della ragione. Studi sulle
origini cristiane], e De la foi à la raison (1932) [Dalla fede alla ragione], tutti e
tre usciti per le Publications de l’Union Rationaliste. Sono opere scritte da un
seminarista che, studiando approfonditamente i testi, si è reso conto che si
trattava di una favola.
Leggere, di Paul-Louis Couchoud, Le Dieu Jésus [Il Dio Gesù], Gallimard,
Parigi 1951, ma anche, sempre dello stesso autore, Il mistero di Gesù (1923),
Bocca, Milano 1945. Vedere anche, di Maurice Goguel, Le Problème historique
de Jésus. Examen de la thèse de P.-L. Couchoud sur la non-historicité de Jésus
[Il problema storico di Gesù. Esame della tesi di P.-L. Couchoud sulla non-
storicità di Gesù], Union pour la vérité, Parigi 1925. E il collettaneo Jésus a-t-il
vécu? Controverse religieuse sur le «mythe du Christ» [Gesù è esistito?
Controversia religiosa sul «mito di Cristo»], Albert Messein, Parigi 1912.
Coraggiosa ma non temeraria, l’editoria non s’inoltra mai su questo terreno.
Quelli che lavorano all’interpretazione mitista sono spesso costretti a pubblicare
a proprie spese. Ringrazio dunque gli autori che mi hanno fatto avere i loro libri:
Patrick Boistier, Jésus-Christ & consorts. Dernières nouvelles [Gesù Cristo &
consorti. Ultime notizie], Les Éditions du Net, Saint-Ouen 2012, e Jésus.
Anatomie d’un mythe [Gesù. Anatomia di un mito], À l’Orient, 2004; Nicolas
Bourgeois, Une invention nommée Jésus [Un’invenzione chiamata Gesù]
(Uneinventionnommeejesus.com); Guy Fau, La Fable de Jésus Christ [La favola
di Gesù Cristo], L’Union Rationaliste, Parigi 1963; René Pommier, grande
demolitore di miti, tra gli altri di quelli di Roland Barthes e di René Girard: Une
croix sur le Christ. Cantate iconoclastique [Una croce su Cristo. Cantata
iconoclasta], Éditions Roblot, Parigi 1976.
Si leggerà con profitto Maurice Halbwachs, Memorie di Terrasanta (1941),
Arsenale, Venezia 1988; Louis Rougier, La Genèse des dogmes chrétiens, [La
genesi dei dogmi cristiani], Albin Michel, Parigi 1972; e André Neyton, Les Clés
païennes du christianisme [Le chiavi pagane del cristianesimo], Les Belles
Lettres, Parigi 1980. Quest’ultimo libro mi era stato addirittura consigliato da
Lucien Jerphagnon, che ha fatto molto per indirizzarmi sulla strada mitista, per
quanto lui stesso non condividesse quelle tesi.
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Thanatos nel deserto. Il cristianesimo, più che essere la dottrina di Gesù, è quella
di san Paolo. È a quest’ultimo che dobbiamo la definizione della dottrina della
Chiesa, vale a dire l’avversione nei confronti del corpo, dei desideri, delle
pulsioni, delle passioni, della sessualità e dell’intelligenza, e l’esaltazione della
macerazione, dell’ideale ascetico, del celibato, della verginità e della castità. È
ancora a lui che dobbiamo l’associazione della spada (il suo attributo
nell’iconografia artistica) alla Chiesa e i primi autodafé. Da leggere le sue
Epistole e gli Atti degli apostoli.
È questa dottrina del corpo da punire per ottenere la salvezza che anima i monaci
del deserto. Un libro introduttivo ben fatto e piacevole da leggere è quello di
Jacques Lacarrière, Les Hommes ivres de Dieu [Gli uomini ubriachi di Dio],
Arthaud, Parigi 1961. Di suo, consultare anche Les Gnostiques [Gli gnostici],
nella collana «Idées» di Gallimard, Parigi 1973. È una buona sintesi di quello
che troviamo in Ireneo di Lione, Contro le eresie. Smascheramento e
confutazione della falsa gnosi, Città Nuova, Roma 2009. Paradossalmente,
esponendo le tesi gnostiche che voleva combattere, Ireneo le ha salvate, perché è
proprio grazie a lui che oggi le conosciamo.
Vedere anche Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio (Paoline, Milano 2007);
Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci (2 voll., Città Nuova, Roma 2000);
San Girolamo, Vite di Paolo, Ilarione e Malco (Adelphi, Milano 1988); Palladio,
La Storia Lausiaca (Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano 1974).
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Dio nel testo. Parallelamente ai monaci del deserto che credono di arrivare a Dio
maltrattando il proprio corpo, i Padri della Chiesa ritengono che la strada giusta
sia quella di trattare invece bene il proprio spirito e la propria intelligenza
attraverso il pensiero e la scrittura.
Introduzioni generali alla patristica: Jacques Liébaert e Michel Spanneut,
Introduzione generale allo studio dei Padri della Chiesa, Queriniana, Brescia
1998. Nello stesso spirito, destinato ai futuri sacerdoti: Fulbert Cayré, Patrologia
e storia della teologia, Società di S. Giovanni Evangelista-Desclee, Roma 1948.
La patristica è il punto cieco della storia della filosofia europea. La s’insegna in
effetti solo nei seminari, eppure sono i dieci secoli nel corso dei quali si
costruisce il pensiero giudaico-cristiano all’origine della cristianità e della civiltà
che l’accompagna.
Nelle facoltà di Filosofia, nella maggior parte dei casi si conosce solo un Padre
della Chiesa, cioè sant’Agostino. Consultare allora i tre volumi (1998, 2000 e
2002) di una scelta delle sue opere pubblicata nella collana della Pléiade, con la
curatela di Lucien Jerphagnon, in cui troviamo anche le Confessioni e la Città di
Dio, opere importanti per capire l’Occidente. Bella biografia e piacevole da
leggere di Peter Brown, Agostino d’Ippona (Einaudi, Torino 1971).
Anche Tertulliano gioca un ruolo importante: le sue Œuvres complètes sono
state ripubblicate in un volume per le Belles Lettres nel 2017.
Un titolo prezioso di monsignor Charles Lagier, in due volumi, per
contestualizzare tutti questi pensieri. Il titolo generale è L’Orient chrétien
[L’Oriente cristiano], Au Bureau de l’œuvre d’Orient, Parigi 1935 e 1950; tomo
1: Des apôtres jusqu’à Photius (De l’an 33 à l’an 850) [Dagli apostoli fino a
Fozio (Dall’anno 33 all’anno 850)]; tomo 2: De Photius à l’Empire latin de
Constantinople (De l’an 850 à l’an 1204) [Da Fozio all’Impero latino di
Costantinopoli (Dall’anno 850 all’anno 1204)].
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Stoici cinici e cristiani. I filosofi stoici e cinici sono stati spesso accostati ai
cristiani. È stato addirittura composto e pubblicato un falso Epistolario tra
Seneca e san Paolo (Rusconi Libri, Milano 1995). Ovviamente, si tratta di una
contraffazione. Non la pensa così, però, Amédée Fleury, che esamina il
documento in un libro in due volumi intitolato: Saint Paul et Sénèque.
Recherches sur les rapports du philosophe avec l’apôtre et sur l’infiltration du
christianisme naissant à travers le paganisme [San Paolo e Seneca. Ricerca sui
rapporti del filosofo con l’apostolo e sull’infiltrazione del nascente cristianesimo
attraverso il paganesimo], Librairie philosophique de Ladrange, Parigi 1853.
Già in Antichità, l’accostamento tra il dolorismo stoico e quello del
cristianesimo paoliniano dà luogo alla figura di un Epitteto cristiano. Un esame
dei documenti lo troviamo nel Commentaire sur la Paraphrase chrétienne du
Manuel d’Épictète [Commento sulla parafrasi cristiana del Manuale di Epitteto],
Le Cerf, Sources chrétiennes, Parigi 2007. Leggere, in parallelo: Origene,
Esortazione al martirio, Pontificia Universitas Urbaniana, Roma 1985.
Sull’altro versante, l’accostamento tra la trasandatezza cinica e quella dei monaci
del deserto ha prodotto invece la figura di un Diogene cristiano. Marie-Odile
Goulet-Cazé è la specialista della questione cinica. Tra le sue pubblicazioni:
L’Ascèse cynique [L’ascesi cinica], 1986, Le Cynisme, une philosophie antique
[Il cinismo, una filosofia antica], 2017, e Cynisme et christianisme dans
l’Antiquité [Cinismo e cristianesimo nell’Antichità], 2014, tutti e tre pubblicati a
Parigi, da Vrin.
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L’imperatore Thénardier. La costruzione del cristianesimo la si deve molto
all’imperatore Costantino e alla madre Elena. Sul primo, si consultino: Robert
Turcan, Constantin en son temps. Le baptême ou la pourpre? [Costantino ai suoi
tempi. Il battesimo o la porpora?], Éditions Faton, Digione 2006. Sulla seconda,
più che una biografia, che in verità manca, troviamo un’agiografia: Hélène
Yvert-Jalu, L’Impératrice sainte Hélène. À la croisée de l’Orient et de
l’Occident [L’imperatrice santa Elena. All’incrocio tra Oriente e Occidente], per
le cattolicissime edizioni Téqui, Parigi 2013. Compenseremo con le
considerazioni su questa donna poco raccomandabile avanzate da Lucien
Jerphagnon in L’Absolue Simplicité [L’assoluta semplicità], Bouquins-Laffont,
Parigi 2019.
L’imperatore e sua madre s’inventano la biografia di Gesù. Elena pretende
addirittura di aver trovato, nel corso di un soggiorno a Gerusalemme, la croce, i
chiodi, la corona di spine, il titulus e il luogo stesso della crocifissione! Iacopo
da Varazze arricchisce tutta questa favola con un best seller medievale, la
Legenda aurea (Sismel Edizioni del Galluzzo-Biblioteca Ambrosiana, Firenze-
Milano 2007), che è il libro dove i parroci vanno a recuperare i materiali per i
loro sermoni. È con questo testo che infonde a tutta la storia sacra un carattere
propriamente meraviglioso che si costruisce un cristianesimo da favola, ben
lontano da quello della teologia.
La contraffazione conciliare. Si lavora poco anche sui concili, che invece così
tanto contribuiscono a scolpire la nostra civiltà. In Voting about God in early
church councils [Votare per Dio nei concili della Chiesa ai suoi inizi], Yale
University Press, New Haven 2006, Ramsay MacMullen ci racconta in maniera
straordinaria come interi tratti della nostra cultura siano stati costruiti da vescovi
che spesso erano dei personaggi estremamente festaioli, alcolizzati, avidi, rissosi
e violenti!
Nella mia biblioteca, occupano un buon metro di scaffale i venti volumi della
traduzione francese della Conciliengeschichte di Carl Joseph von Hefele
(Herder’sche Verlagshandlung, Friburgo 1855-1874; tr. fr.: Charles-Joseph
Hefele, Histoire des conciles d’après des documents originaux, Éditions Le
Touzey et Ané, Parigi 1907-1949). Poi ci sono anche i quattro volumi della
Histoire des conciles [Storia dei concili] di Jean Hermant, pubblicato a Rouen,
presso Jean-Baptiste Besogne nel 1730. Tutti testi che, assieme ai ventisei
volumi della Bibliothèque choisie des Pères de l’Église grecque et latine
[Biblioteca scelta dei Padri della Chiesa greca e latina] (1824) di Marie-Nicolas-
Sylvestre Guillon (un altro metro di scaffale), offrono materiali incredibili per
ricostruire l’evoluzione della civiltà giudaico-cristiana.
*
La scolastica e oltre. Raffaello lo illustra bene nel suo affresco della Scuola di
Atene: Platone è il pensatore idealista per eccellenza, mentre Aristotele è l’esatto
opposto, cioè un filosofo che cerca di afferrare il reale senza preoccuparsi
minimamente della trascendenza. Il suo vocabolario immanente produce, nel
corso del medioevo, una scolastica perniciosa, e perniciosa in primis per lo
stesso stagirita, che perde potenza concettuale. Il suo scritto sull’anima
(Aristotele, L’anima, Loffredo, Napoli 1979) è una grande opera concettuale
postplatonica. Vedere anche Dominique Demange, La ‘définition’
aristotélicienne de l’âme [La ‘definizione’ aristotelica dell’anima], in «Le
Philosophoire», n. 21, 2003/3, p. 65-85.
Non si sottolineerà mai abbastanza quanto i Saggi di Montaigne contribuiscano a
far crollare in un colpo solo, come un castello di carte, secoli di filosofia
scolastica. Con il suo ironico ragionamento sul prosciutto («Il prosciutto fa bere,
il bere disseta, dunque il prosciutto disseta»), mette a mal partito tutto un
dispositivo di esposizione del pensiero che, dopo di lui, diventa impossibile.
Leggere la versione «rattoppata» (la definizione è di Bernard Combeaud)
pubblicata da Laffont-Mollat, nella collana «Bouquins», Parigi 2019 (tr. it.:
Michel de Montaigne, Saggi, Bompiani, Milano 2012).
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Lezioni di anatomia. Montaigne sta alla filosofia come Vesalio o Ambroise Paré
stanno all’anatomia: aprono e dissezionano il reale e i corpi come si fa con la
frutta. Una biografia del primo: Robert Delavault, André Vésale (1514-1564), Le
Cri, Bruxelles 1999; un testo letterario elegante e informatissimo sul secondo:
Jean-Michel Delacomptée, Ambroise Paré. La main savante [Ambroise Paré. La
mano dello scienziato], Gallimard, Parigi 2007. In francese, l’Œuvre di
Ambroise Paré è pubblicata in tre volumi, più un quarto di indici, dall’Union
Latine d’Édition, nel 1983. Interessanti i capitoli sull’anima.
Leggere il capitolo Le contexte historique et philosophique de l’ouverture des
corps, avant et au moment de la Révolution française [Il contesto storico e
filosofico dell’apertura dei corpi, prima e al momento della Rivoluzione
francese], di Philippe Charlier, in un collettaneo intitolato Quand les aliénistes
ouvraient les corps [Quando gli alienisti aprivano i corpi], Éditions Glyphe,
Parigi 2020, a cura di Jean-Pierre Luauté.
Su Vesalio, vedere Georges Canguilhem, L’Homme de Vésale dans le monde de
Copernic [L’uomo di Vesalio nel mondo di Copernico], Les Empêcheurs de
penser en rond, Parigi 1991. Di Vesalio, in francese:
https://www.biusante.parisdescartes.fr/vesale/debut.htm.
*
Un Descartes sconosciuto. Descartes crolla sotto le glosse alle proprie opere
filosofiche. Ci si occupa invece poco del Descartes esistenziale, quello che cerca
di praticare la filosofia per vivere meglio, per vivere in maniera diversa, per
allungare la durata della vita e migliorare la salute. Questo Descartes dimenticato
ma appassionante pensa a partire dalla propria vita: ecco allora Francine, la
figlioletta morta in tenera età; ecco i primi capelli bianchi; ecco il desiderio di
lasciar perdere la metafisica e l’ontologia per approfondire invece la medicina,
come annunciato alla fine del Discorso sul metodo; ecco i vari corrispondenti; ed
ecco il proprio carattere, il proprio temperamento, ecco la prudenza, ecco il lato
patologico della discrezione.
Come sempre, è la corrispondenza che permette di rivelare la verità di un
pensatore; si tratta di una vecchia idea nietzschiana, sempre rifiutata dagli
universitari, o perlomeno da quelli che restano, e cioè che una filosofia è sempre
l’autobiografia del corpo del filosofo. Leggere quindi i due tomi della
corrispondenza: René Descartes, Tutte le lettere (1619-1650) (Bompiani, Milano
2005), e René Descartes, Isaac Beeckman e Marin Mersenne, Lettere (1619-
1648) (Bompiani, Milano 2015).
È ad Adrien Baillet che dobbiamo la prima biografia del filosofo, scritta a
quarant’anni dalla morte, un lavoro abbastanza agiografico che passa comunque
sotto silenzio la vita privata: Vita di monsieur Descartes (Adelphi, Milano
1996). Per qualcosa di più affidabile, consultare: Geneviève Rodis-Lewis,
Cartesio. Una biografia (Editori Riuniti, Roma 1997). Un romanzo presentato
come un racconto su Francine e il padre, è quello scritto da Jean-Luc Quoy-
Bodin, Un amour de Descartes [Un amore di Descartes], Gallimard, Parigi 2013.
Il Descartes della morale pratica è meno conosciuto del pensatore della morale
provvisoria. Ed è normale, perché la prima appare nella corrispondenza, mentre
la seconda è quella che si trova nel Discorso sul metodo. Vedere René Descartes,
Le passioni dell’anima. Lettere sulla morale, con un’appendice di frammenti
giovanili (Laterza, Bari 1966). Nello stesso spirito, leggere Marguerite Néel,
Descartes et la princesse Élisabeth [Descartes e la principessa Elisabeth],
Elzévir, Parigi 1946, e Jean-François de Raymond, La Reine et le Philosophe.
Descartes et Christine de Suède [La regina e il filosofo. Descartes e Cristina di
Svezia], Les Lettres modernes, Parigi 1993.
L’estrema prudenza di Descartes non gli ha comunque evitato di passare dei guai
in Olanda, a causa soprattutto dell’imprudenza del proprio corrispondente,
Regius, o Le Roy, cui dobbiamo la Philosophia naturalis, pubblicata in francese
nel 1686, quindi quando ormai Descartes era già morto. Su questi guai, leggere
un collettaneo intitolato Descartes et le cartésianisme hollandais [Descartes e il
cartesianesimo olandese], PUF, Parigi 1951, e René Descartes e Martin Schoock,
La Querelle d’Utrecht, Les Impressions nouvelles, Parigi 1988.
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Grandi figure del Grand Siècle. Esiste una filosofia di La Fontaine, ed è una
filosofia epicurea e vagamente cristiana, capace di trasformare gli animali in
altrettanti eroi letterari e filosofici per meglio raccontare l’uomo. È Fontenelle
che ci racconta la storia della cagna di Malebranche, picchiata solo perché
considerata una macchina. Leggiamo allora Descartes, La Fontaine e
Malebranche nelle edizioni della Biblioteca della Pléiade. E Fontenelle nei nove
volumi delle Œuvres complètes pubblicati nel «Corpus des œuvres de
philosophie en langue française», per Fayard. Sul numero speciale della rivista
consacrata al filosofo normanno con il titolo di Les Philosophies de Fontenelle
[Le filosofie di Fontenelle], leggiamo: Qui était Fontenelle? [Chi era
Fontenelle?] di Alexis Philonenko, «Corpus», n. 44, 2003, pp. 129-139, articolo
in cui questo professore di storia della filosofia, che è stato anche mio insegnante
a Caen, distribuisce i voti e le pagelle. Conclusione: Fontenelle non è un
filosofo. Meglio, perché è il pensatore libero che preferisco in lui!
La questione dell’anima degli animali attraversa per intero il secolo di Luigi XIV
e impazza nei salotti dell’epoca. Vedere, per esempio: Marin Cureau de La
Chambre, Traité de la connaissance des animaux [Trattato della conoscenza
degli animali], del 1648, e, sempre suo, il Discours de l’amitié et de la haine qui
se trouvent entre les animaux [Discorso dell’amicizia e dell’odio che si trovano
tra gli animali], del 1667, entrambi pubblicati nella serie del «Corpus» di Fayard,
rispettivamente nel 1989 e nel 2011. La Fontaine si serve di Cureau de La
Chambre per mettere in ridicolo la teoria degli animali-macchine di Descartes.
Un ritratto di Cureau realizzato da Condorcet lo troviamo negli Éloges des
académiciens de l’Académie royale des sciences depuis l’an 1666 jusqu’en 1699
[Elogi degli accademici dell’Accademia reale delle scienze dall’anno 1666 fino
al 1699], consultabile in francese all’indirizzo:
https://books.google.fr/books/about/Eloges_de_académiciens_de_l_Academie_ro.html?
id=VlwVAAAAQAAJ&redir_esc=y
Vedere anche Pierre Chanet, De l’instinct et de la connaissance des animaux,
avec l’examen de ce que M. de La Chambre a écrit sur cette matière
[Dell’istinto e della conoscenza degli animali, con l’esame di ciò che M. de La
Chambre ha scritto in materia], del 1646, consultabile in francese all’indirizzo:
https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k95608f/f1.image. Sulle Observationes
medicae di Nicolaas Tulp (Nicolai Tulpii Amstelredamensis Observationum
medicarum. Libri tres, presso Ludovicum Elzevirium, Amsterdam 1641),
consultare Raphaële Andrault, Stefanie Buchenau, Claire Crignon e Anne-Lise
Rey (a cura di), Médecine et philosophie de la nature humaine, de l’âge
classique aux Lumières [Medicina e filosofia della natura umana, dall’età
classica agli illuministi], Classiques Garnier, Parigi 2014; e Ignace Gaston
Pardies (SJ), Discours de la connaissance des bestes, presso Sebastien Mabre-
Cramoisy, Parigi 1672 (tr. it.: Dell’anima delle bestie, e sue funzioni, Andrea
Poletti, Venezia 1696).
*
*
Conosciamo però poco l’opposizione tra Gassendi, canonico epicureo, e
Descartes, spiritualista dualista. Il fatto è che Descartes ha schiacciato ogni cosa
sul suo passaggio e, ormai, di Gassendi, non si parla quasi più. Eppure è stato un
pensatore importante. A lui dobbiamo la riabilitazione di Epicuro in Vita e
costumi di Epicuro (Ventura, Senigallia 2022) e una critica serrata a Descartes
nella Disquisitio metaphysica. Seu dubitationes, et instantiae: adversus Renati
Cartesii Metaphysicam, & Responsa (presso Iohannem Blaeu, Amsterdam 1644;
tr. fr.: Recherches métaphysiques ou doutes et instances contre la métaphysique
de René Descartes et ses réponses, Vrin, Parigi 1962). Gassendi scrive a volte in
latino, spesso prende tempo e tergiversa, oppure si ripete, e poi attacca, attacca, a
volte diventa persino violento e polemizza ad hominem; peccato, perché il suo
pensiero, una volta estratte le pepite dal fango, è interessante e notevole. Nella
sua polemica contro Descartes, punta spesso il dito su quello che trova debole
nei ragionamenti del proprio avversario. Leggere, di lui, le Lettres familières à
François Luillier pendant l’hiver 1632-1633 [Lettere familiari a François
Luillier nell’inverno 1632-1633], Vrin, Parigi 1944. E su di lui gli Actes du
Congrès Tricentenaire de Pierre Gassendi.1655-1955 [Atti del Congresso del
Tricentenario di Pierre Gassendi. 1655-1955], PUF, Parigi 1957, che
comprendono un articolo di François Meyer intitolato Gassendi et Descartes, pp.
217-226. Vedere anche, su Gassendi et l’Europe, a cura di Sylvia Murr (Vrin,
Parigi 1997), l’articolo Volonté divine et vérité mathématique: le conflit entre
Descartes et Gassendi sur le statut des vérités éternelles [Volontà divina e verità
matematica: il conflitto tra Descartes e Gassendi sullo statuto delle verità eterne],
pp. 31-42.
Sommario
Parte prima
COSTRUIRE L’ANIMA. Sotto il segno del serpente
Parte seconda
DECOSTRUIRE L’ANIMA. Sotto il segno del cane
Parte terza
DISTRUGGERE L’ANIMA. Sotto il segno della scimmia
Bibliografia
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