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Lo Sciamano
Titolo originale:
Shaman
Traduzione di: Maria Magrini
Noah Gordon vive nel Massachusetts con la moglie Lorraine e i tre figli Lise,
Jamie Beth e Michael Seay Gordon. Lo Sciamano fa parte di una trilogia, di
cui il primo volume, Medicus (Rizzoli), è stato un best-seller internazionale.
Attualmente lo scrittore sta lavorando al terzo romanzo della serie.
In sovraccoperta: illustrazione di Giorgio Parmigiani grafica di Raffaella Curci
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Noah Gordon
LO SCIAMANO
(Shaman 1992)
PARTE PRIMA
Ritorno a casa
(22 aprile 1864)
Jiggety-jig
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dati e non lavati, e il fumo rancido di sigari e pipe. Il finestrino pareva un mec-
canismo intrattabile, ma Sciamano era alto e forte e infine riuscì ad alzarlo.
Risultò subito che era stato un errore. Tre vagoni davanti al suo, l'alto fumaiolo
della locomotiva vomitava, insieme con il fumo, un miscuglio di cenere e
fuliggine, minuscole scorie spente o ancora accese, che la velocità del treno
spingeva violentemente all'indietro e che entrarono in parte dal finestrino aper-
to. Di colpo un frammento di brace si posò sulla giacca nuova di Sciamano e ne
uscì un sottile filo di fumo. Tossendo e imprecando esasperato, sbatté giù il
finestrino e picchiò con la mano sulla giacca finché la minuscola scintilla fu
spenta.
Dall'altra parte del corridoio una donna gli gettò un'occhiata e sorrise. Do-
veva avere una decina d'anni più di lui, portava un abito elegante ma adatto al
viaggio, di lana grigia con la gonna liscia, guarnito di lino azzurro che faceva
risaltare i capelli biondi. I loro sguardi si incontrarono un attimo, poi lei
riabbassò la testa sul lavoro all'uncinetto che aveva in mano. Sciamano si
affrettò a distogliere gli occhi da lei: il lutto non era il momento più adatto per
gustare i giochi amorosi fra uomo e donna.
Si era portato un libro nuovo da leggere, ma, ogni volta che cercava di
concentrarsi nella lettura, i suoi pensieri tornavano al padre.
Il controllore stava passando per il vagone e gli era arrivato alle spalle, ma
Sciamano si accorse della sua presenza solo quando una mano lo scosse per la
spalla. Trasalì e, alzando la testa, incontrò una florida faccia con due baffi
imponenti dalla punta impomatata e una barbetta rossiccia che tirava ormai al
grigio, e gli piacque perché lasciava libera e ben visibile la bocca. «Dev'essere
sordo!» esclamò l'uomo giovialmente. «Le ho chiesto tre volte il suo biglietto,
signore.»
Sciamano gli sorrise: si sentiva a suo agio, perché questa era una situazione
abituale, che si era ripetuta per tutta la sua vita. «Sì, sono sordo» rispose, e
porse il suo biglietto.
L'eredità
* Testa di rame: persona del Nord che simpatizza per i sudisti. [N.d.T.]
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tranquilla conversazione con Mrs. Pratt, le cui terre confinavano con quelle dei
Geiger.
Verso sera Sciamano riempì un piatto di cibo e lo portò alla casetta di
tronchi di Alden Kimball, che sempre odorava di buon fumo di legna. Il
bracciante, in maglia e mutande, era seduto sul letto e stava bevendo da una
caraffa. I suoi piedi erano puliti, aveva fatto il bagno in occasione del funerale.
L'altro suo cambio di biancheria di lana, più grigio che bianco, pendeva ad
asciugare nel mezzo della stanza, appeso a una corda tesa fra due travi.
Sciamano fece segno di no con la testa quando Alden gli offrì la caraffa.
Sedette sull'unica sedia di legno e osservò il bracciante mentre mangiava.
«Fosse stato per me, avrei sepolto mio padre sulla nostra terra, vicino al
fiume.»
Alden scosse la testa. «Lei non avrebbe voluto. Era troppo vicino alla tomba
dell'indiana. Prima che fosse... uccisa» aggiunse scegliendo con cura le parole
«la gente parlava molto di loro due. E tua madre era terribilmente gelosa.»
Sciamano bruciava dalla voglia di fargli domande su Makwa e sua madre e
suo padre, ma non gli pareva giusto fare pettegolezzi sui suoi genitori con
Alden. Invece lo salutò con un cenno della mano e uscì. Era già il crepuscolo
quando scese lungo il fiume, fino alle rovine dell'hedonoso-te di Makwa-ikwa.
Una metà della grande casa indiana di legno era ancora intatta ma l'altra metà
era crollata, con le travi e le tavole imputridite, asilo senza dubbio di serpenti e
roditori.
«Sono tornato» disse a voce alta.
Gli pareva di percepire la presenza di Makwa. Era ormai morta da lungo
tempo: quello che ora provava per lei era rimpianto, che impallidiva di fronte al
dolore per la perdita del padre. Aveva bisogno di conforto, ma poteva sentire
solo la terribile collera della donna, con tale immediatezza che gli si rizzarono i
capelli sulla nuca. Non lontano c'era la sua tomba, senza lapide, ma attenta-
mente curata, l'erba tagliata, i bordi piantati a gigli gialli, fiori silvestri presi in
un prato vicino, lungo la riva del fiume. I virgulti verdi già spuntavano dalla
terra umida. Sciamano sapeva che doveva essere stato suo padre a prendersi
cura della tomba; si inginocchiò e strappò un paio di erbacce fra gli steli dei
gigli.
Era quasi buio. Immaginò di sentire Makwa che cercava di dirgli qualcosa.
Era già capitato altre volte e quasi gli pareva di percepire la rabbia della donna,
perché non poteva dirgli chi l'aveva uccisa. Voleva chiederle che cosa doveva
fare, ora che suo padre non c'era più. Il vento increspava le acque del fiume, in
cielo spuntavano le prime pallide stelle. Rabbrividì: c'era ancora nell'aria il
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freddo dell'inverno, pensò mentre tornava verso la casa.
Il giorno dopo sapeva che sarebbe dovuto restare a casa, se mai fosse venuto
qualche visitatore in ritardo; ma si accorse che non poteva. Si infilò degli abiti
da lavoro e passò la mattinata con Alden a dare il disinfettante alle pecore.
C'erano nuovi agnelli e cominciò a castrare i maschi, con Alden che reclamava
le "ostriche della prateria" per friggerle insieme con le uova a cena.
Nel pomeriggio, dopo aver fatto il bagno e indossato nuovamente l'abito
nero, Sciamano sedette nel salotto con sua madre. «Sarà meglio esaminare le
cose di tuo padre e decidere come dividerle» affermò lei.
Anche se i suoi capelli biondi stavano diventando grigi, sua madre era anco-
ra una delle donne più attraenti che conoscesse, con il suo bel naso pronunciato
e la bocca sensuale. C'era sempre stato fra loro qualcosa che li divideva, una
difficoltà di comunicare, ma ora lei sentì la riluttanza del figlio. «Si deve fare,
prima o poi, Robert» insistette.
Si preparava a raccogliere i piatti e i vassoi vuoti per portarli in chiesa, dove
i visitatori che avevano offerto i cibi per il funerale sarebbero andati a ripren-
derli. Sciamano si offrì di portarli lui, ma lei voleva far visita personalmente al
reverendo Blackmer. «Vieni anche tu» propose, ma Sciamano scosse la testa:
sapeva che questo significava affrontare una lunga predica sul come e perché
doveva finalmente decidersi a ricevere lo Spirito Santo. La fede assoluta della
madre nel paradiso e nell'inferno continuava a stupirlo. Ricordando le discus-
sioni del passato fra sua madre e suo padre, pensava che ora doveva essere
particolarmente angosciata, perché si era sempre tormentata al pensiero che suo
marito, avendo rifiutato il battesimo, non sarebbe stato ad attenderla in para-
diso.
La vedova alzò la mano e additò la finestra aperta. «Arriva qualcuno a
cavallo.»
Tese l'orecchio per qualche momento, ed ebbe un sorriso triste. «Una donna
ha chiesto ad Alden se c'è il dottore, dice che suo marito si è fatto male. Alden
le ha detto che il dottore è morto. "E il giovane dottore?" ha chiesto la donna. E
Alden: "Oh, lui no, lui è qui".»
Che cosa strana, pensò Sciamano. Sua madre si era già diretta verso la
porta, dov'era, al solito posto, la valigetta medica di Robert J.; la porse al figlio.
«Prendi il calesse, è già attaccato. Io andrò in chiesa più tardi.»
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PARTE SECONDA
Tela fresca, pittura nuova
(11 marzo 1839)
L'emigrante
Rob J. Cole vide per la prima volta il Nuovo Mondo in un nebbioso mattino
di primavera, quando il Cormorant - una goffa nave con tre tozzi alberi e una
vela di mezzana, che era però l'orgoglio della Black Bal Line - fu spinto in un
comodo porto dalla marea montante e calò l'ancora tra le onde increspate. East
Boston non era un gran che, due file di sbilenche case di legno, ma da uno dei
moli, per tre pence, Rob poté prendere un piccolo traghetto a vapore che si
infilò attraverso un'impressionante congerie di imbarcazioni di ogni genere e lo
portò fino alla banchina centrale. Qui si trovò in mezzo a una massa disordinata
di case e negozi, con un rassicurante fetore di pesce marcio, di sentina e
cordame incatramato, come qualsiasi porto scozzese.
Era un giovane alto e robusto, dalle larghe spalle. Camminare per le tortuo-
se stradette acciottolate gli costava fatica, perché si sentiva le ossa rotte dal
lungo viaggio. Portava sulla spalla sinistra una pesante valigia e sotto il braccio
destro, come se stringesse una donna per la vita, reggeva un grande strumento a
corda. Assorbiva l'aria dell'America con tutti i pori. Strade strette, che lascia-
vano a malapena spazio per il passaggio di carri e carrozze. Case di legno, o di
mattoni rossi. Negozi ben forniti di merci che sbandieravano insegne a vivaci
colori con iscrizioni a lettere dorate. Rob J. Cole faceva uno sforzo per non
guardare le donne che entravano o uscivano dai negozi anche se provava un
bisogno esasperato di sentire odore di femmina.
Gettò un'occhiata in un albergo, l'American House, ma restò intimidito dai
lampadari e dai tappeti orientali e pensò che i suoi prezzi dovevano essere trop-
po alti. In una trattoria in Union Street ordinò una scodella di zuppa di pesce e
chiese ai due camerieri di indicargli una pensione che fosse pulita e a buon
mercato.
«Devi deciderti, giovanotto, puoi avere o l'una o l'altra cosa» gli rispose uno
di loro. Ma l'altro scosse la testa e gli diede l'indirizzo di Mrs. Burton, in Spring
Lane.
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L'unica stanza ancora disponibile era stata in origine costruita come alloggio
della servitù: si trovava nel sottotetto, accanto alle stanze dell'uomo di fatica e
della domestica. Era piccola, in cima a tre rampe di scale, in un angolo sotto la
grondaia: doveva essere calda e soffocante d'estate, gelida d'inverno. Con-
teneva un letto piuttosto stretto, un tavolino con una catinella piena di crepe e
un vaso da notte bianco, coperto da un panno ricamato a fiori blu. Nel prezzo
della stanza, un dollaro e cinquanta la settimana, era compresa la colazione, gli
spiegò Louise Burton: porridge, pane biscottato, un uovo di gallina. Era una ve-
dova giallastra sui sessant'anni, con uno sguardo duro. «Che cos'è quell'og-
getto?»
«Si chiama viola da gamba.»
«Lei si guadagna la vita suonando?»
«Suono per mio piacere. Per vivere faccio il medico.»
La donna scosse la testa, dubbiosa. Chiese il pagamento della stanza in anti-
cipo e gli indicò una locanda in Beacon Street, dove avrebbe potuto prendere i
suoi pasti per un altro dollaro la settimana.
Rob J. Cole si lasciò cadere sul letto appena la donna se ne fu andata. Dormì
tutto quel pomeriggio e tutta la notte, senza sognare, tranne che gli pareva in
qualche modo di sentire ancora il rollìo e il beccheggio della nave. Ma il
mattino si svegliò fresco e allegro. Quando scese a fare colazione si trovò a
sedere accanto a un altro pensionante, Stanley Finch, che lavorava da un
cappellaio in Summer Street. Da lui apprese due fatti estremamente interes-
santi: che si poteva ottenere un secchio d'acqua calda, portata fino in camera
dal facchino, Lem Raskin, per venticinque cent; e che Boston aveva tre ospe-
dali, il Massachusetts General, la Clinica di Maternità e l'Ambulatorio oftal-
mico e di otoiatria. Dopo colazione si immerse beatamente in un bagno caldo,
uscendone soltanto quando l'acqua cominciò a raffreddarsi, poi si diede da fare
per rendere un po' presentabile il suo vestiario. Quando scese le scale, la dome-
stica era inginocchiata a lavare il pavimento. Le sue braccia nude erano coperte
di lentiggini e le sue rotondità posteriori sobbalzavano piacevolmente a quel
suo vigoroso sfregare. Una faccia da gatta imbronciata si voltò verso di lui
mentre passava e Rob J. vide che, sotto la cuffia, i suoi capelli rossi avevano il
colore che meno gli piaceva, quello delle carote bollite.
Al Massachusetts General Hospital dovette aspettare per mezza mattina e
finalmente fu ricevuto dal dottor Walter Channing, che non perse tempo a dir-
gli chiaro e tondo che l'ospedale non aveva bisogno di un altro medico. Questa
esperienza si ripeté tosto negli altri due ospedali. Alla Clinica di Maternità un
giovane dottore, di nome David Humphreys Storer, scosse la testa con sim-
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patia. «La facoltà di medicina di Harvard sforna ogni anno dei medici che de-
vono mettersi in coda per trovare un posto, dottor Cole. La verità è che un
nuovo venuto ha scarse possibilità.»
Rob J. comprese quel che il dottor Storer non aveva detto: alcuni dei lau-
reati locali avevano l'appoggio del prestigio di famiglia e di relazioni sociali,
proprio come a Edimburgo anche lui aveva goduto il vantaggio di essere uno
dei Cole, medici da generazioni.
«Io proverei in un'altra città,» soggiunse il dottor Storer «magari Providence
o New Haven.» Rob J. borbottò un grazie e si avviò alla porta, ma subito dopo
Storer lo raggiunse. «Forse c'è una lontana possibilità. Dovrebbe parlare con il
dottor Walter Aldrich.»
Il dottor Aldrich aveva lo studio nella sua abitazione, una bella casa bianca
ben tenuta, sul lato sud di una larga zona a verde che chiamavano il Common.
Era ora di visite, e Rob J. dovette aspettare a lungo. Il dottor Aldrich era un uo-
mo corpulento e dignitoso, con una gran barba grigia sotto la quale si intra-
vedeva una bocca sottile come un taglio. Ascoltò cortesemente Rob J., inter-
rompendolo di quando in quando con qualche domanda. «Clinica universitaria
di Edimburgo? Sotto il chirurgo William Fergusson? E come mai ha lasciato un
assistentato come quello?»
«Mi avrebbero deportato in Australia se non fossi fuggito.» Si rendeva con-
to che la sua unica speranza stava nella verità. «Avevo scritto un manifesto che
ha portato a una rivolta operaia contro la Corona inglese, che da anni dissangua
la Scozia. Ci sono stati scontri a fuoco e alcuni morti.»
«Mi piace il parlare schietto» commentò il dottor Aldrich. «Un uomo deve
combattere per la sua terra. Mio padre e mio nonno lottarono entrambi contro
gli inglesi.» Osservò Rob J. con occhio critico. «C'è una possibilità. Un ente
assistenziale che manda dei medici a visitare gli indigenti della nostra città.»
Aveva tutta l'aria di un lavoro meschino e senza prospettive: il dottor Aldri-
ch aggiunse che la maggior parte dei medici incaricati delle visite a domicilio
erano pagati cinquanta dollari l'anno ed erano ben felici di fare esperienza, e
Rob J. si chiese che cosa mai poteva imparare un medico di Edimburgo nei
quartieri poveri di una cittadina di provincia.
«Se accetta il posto al Dispensario di Boston, le farò avere un incarico di
docente serale al laboratorio di anatomia della Tremont Medical School. Que-
sto le porterà altri duecentocinquanta dollari l'anno.»
«Dubito di poter vivere con trecento dollari, signore. Al momento sono
quasi al verde.»
«Non ho nient'altro da offrirle. In realtà il suo introito annuale sarebbe di
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trecentocinquanta dollari. Il suo lavoro dovrebbe svolgersi nel Distretto Otto
per il quale il consiglio di amministrazione del Dispensario ha recentemente
deliberato di pagare al medico cento dollari invece di cinquanta.»
«Perché il Distretto Otto paga il doppio delle altre zone?»
Ora fu il dottor Aldrich che parlò schietto. «È perché ci vivono gli irlande-
si» rispose in un tono secco e incolore come le sue labbra.
La mattina dopo Rob J. saliva per le scale scricchiolanti del numero 109 di
Washington Street ed entrava nell'angusto spaccio farmaceutico che era l'unico
ufficio del Dispensario di Boston. Era già stipato di medici che aspettavano
l'assegnazione dei loro compiti per quel giorno. Charles K. Wilson, l'ammi-
nistratore, accolse Rob J. con brusca efficienza, quando venne il suo turno.
«Vediamo. Un nuovo dottore per il Distretto Otto, vero? Bene, il quartiere è
tuttora senza assistenza medica. Questi pazienti la aspettano.» Gli porse un
mazzetto di tagliandi, ognuno con un nome e un indirizzo.
Wilson gli spiegò le norme da seguire e gli descrisse brevemente l'ottavo
distretto. Broad Street passava fra i dock e la collina di Fort Hill. Quando la
città era appena sorta, il quartiere era stato fondato da mercanti che vi avevano
costruito le loro grandi e belle palazzine, per essere più vicini ai loro magazzini
e agli affari del porto. In seguito i commercianti si erano trasferiti in altre zone
più eleganti e le loro case erano state occupate prima da yankee della classe
operaia, poi da inquilini più poveri, originari del luogo, quando le palazzine
erano state suddivise in diversi alloggi, e infine dagli emigranti irlandesi che si
riversavano dalle stive delle navi. Ma a quel tempo le eleganti palazzine erano
già malconce e cadenti, suddivise e subaffittate a settimana e a prezzi disone-
stamente alti. I magazzini erano stati trasformati in alveari di minuscole stanze,
senza una fonte di luce e d'aria; e la disponibilità di alloggi era così scarsa che,
accanto e dietro a ogni edificio preesistente, erano sorte orrende baracche. Il
risultato era una distesa di tuguri, dove in un'unica stanza vivevano fino a dodi-
ci persone, mogli, mariti, fratelli, sorelle, bambini, che talvolta dormivano tutti
nello stesso letto.
Seguendo le indicazioni di Wilson, Rob J. trovò il Distretto Otto. Il lezzo di
Broad Street, il miasma emanato dalle troppo poche latrine usate da troppe
persone: c'era l'odore della miseria, che è lo stesso in ogni città del mondo.
Qualcosa in lui, stanco di sentirsi straniero, lo spingeva a guardare con simpatia
le facce irlandesi perché avevano in comune con lui l'antica origine celtica. Il
suo primo tagliando era intestato a un certo Patrick Geoghegan, in Half Moon
Place: l'indirizzo avrebbe potuto benissimo trovarsi sulla Luna, perché quasi
immediatamente Rob J. si smarrì nel dedalo di viuzze e stradette che si
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diramavano da Broad Street. Infine diede un penny a un ragazzetto dalla faccia
sporca che lo guidò a un piccolo rione sovraffollato; e qui, a furia di chiedere,
arrivò all'ultimo piano di una casa malandata e dovette attraversare stanze abi-
tate da due altre famiglie prima di arrivare all'angusto alloggio dei Geoghegan.
Una donna seduta a terra spidocchiava la testa di un bambino alla luce di una
candela.
«Patrick Geoghegan?»
Rob J. dovette ripetere due volte il nome prima di ottenere un rauco
mormorìo. «Morto cinque giorni fa, di febbre al cervello.»
Era così che i popolani, anche in Scozia, chiamavano qualunque febbre alta
che portasse alla morte. «Mi spiace, signora, le mie condoglianze» mormorò
Rob J. con voce sommessa, ma la donna non alzò neanche la testa.
Scese in strada e si fermò a guardare. Sapeva che ogni Paese aveva strade
come queste, dove l'iniquità e la miseria erano così schiaccianti da creare scene
e suoni e odori particolari: un bambino smunto seduto su uno scalino che rosic-
chiava una nuda cotenna come un cane rosicchia un osso; tre scarpe spaiate,
troppo rotte per essere riparate, gettate nella polvere del vicolo; la voce di un
ubriaco che cantava a squarciagola una lacrimosa canzone sulle verdi colline
della patria lontana; imprecazioni urlate appassionatamente come preghiere;
odore di cavoli bolliti sopraffatto ovunque dal fetore delle fognature traboccate
e immondizie di ogni genere. Rob J. conosceva bene i quartieri poveri di Edim-
burgo e di Paisley, e le casette di pietra a schiera di una dozzina di altre città
dove gli adulti e i bambini uscivano di casa all'alba arrancando verso gli opifici
dove si lavorava il cotone e la lana, per trascinarsi di nuovo a casa dopo che era
calata la notte. Lo colpì l'ironia della sua situazione: era fuggito dalla Scozia
perché aveva lottato contro le forze che creavano tuguri come questi e ora, in
un Paese nuovo, era costretto a rimetterci piede.
Il tagliando successivo era per Martin O'Hara di Humphrey Place, un rione
di stamberghe e baracche aggrappato al pendio di Fort Hill, a cui si arrivava per
mezzo di una scala di legno di quindici metri, così ripida da sembrare una scala
a pioli. Lungo la scala c'era un canale di legno, scoperto, in cui le maleodoranti
acque di scolo di Humphrey Place scendevano ad aggiungersi agli orrori di
Half Moon Place. Malgrado la desolazione del luogo, Rob J. si arrampicò a
passo lesto, cominciando a familiarizzare con la sua attività.
Era una fatica logorante eppure alla fine della giornata non poteva aspettarsi
che un magro pasto fra tristi pensieri, per dedicare poi la serata al suo secondo
lavoro. Nessuno dei due impieghi gli avrebbe fornito denaro sufficiente per un
mese, e con il poco denaro che gli era rimasto non avrebbe potuto pagarsi molti
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pasti.
Il laboratorio di dissezione, che era anche aula scolastica per le lezioni della
Tremont Medical School, era un unico grande stanzone sopra la farmacia di
Thomas Metcalfe, al numero 35 di Tremont Place. Era diretto da un gruppo di
professori usciti da Harvard, che, delusi dell'insufficiente e incoerente insegna-
mento impartito dalla loro università, avevano progettato e organizzato un pro-
gramma di corsi triennali che, speravano, avrebbe dovuto formare medici
migliori.
Il professore di patologia sotto la cui direzione Rob J. Doveva svolgere il
suo lavoro come docente di dissezione era un tipo basso di statura e con le
gambe storte, che aveva circa dieci anni più di lui. Lo accolse in modo molto
sbrigativo. «Io sono Holmes. Lei ha qualche esperienza di insegnamento, dottor
Cole?»
«No, non ho mai insegnato. Ma ho una certa esperienza in chirurgia e
dissezione.»
Il professor Holmes annuì freddamente, come a dire "vedremo". Gli indicò
brevemente i preparativi da compiere prima della sua lezione. Tranne per pochi
particolari, era una procedura di routine, ormai familiare a Rob J. Lui e
Fergusson usavano fare autopsie ogni mattina prima del giro per i reparti, a
scopo di ricerca e per acquistare una pratica che consentisse di operare con
maggiore rapidità sui pazienti. Tolse il lenzuolo che copriva il magro cadavere
di un ragazzo, poi indossò un lungo grembiule grigio da dissezione e dispose in
bell'ordine gli strumenti, mentre gli studenti cominciavano ad arrivare.
C'erano solo sette studenti di medicina. Il dottor Holmes era ritto accanto a
un leggio, a un'estremità del tavolo da dissezione. «Quando studiavo anatomia
a Parigi,» cominciò «ogni studente poteva comprarsi un cadavere intero per
cinquanta soldi, in un posto che li vendeva ogni giorno a mezzodì. Ma oggi i
cadaveri destinati allo studio dell'anatomia sono scarsi. Questo, un ragazzo di
sedici anni morto stamattina per congestione polmonare, ci viene dall'Ente
Assistenziale di Stato. Questa sera voi non farete nessuna dissezione. Alla pros-
sima lezione il corpo sarà diviso fra di voi: due si prenderanno le braccia, due
le gambe, e il resto del tronco sarà diviso fra gli altri.»
Mentre il dottor Holmes descriveva quello che il docente stava facendo,
Rob J. aprì il torace del ragazzo e cominciò ad asportare gli organi e a pesarli,
annunciando ogni peso a voce alta perché il professore potesse annotarlo. Dopo
di ciò, il suo lavoro consisteva nell'additare i vari punti del corpo per illustrare
ciò che il professore stava dicendo. Holmes parlava lentamente, a voce alta, ma
Rob J. si rese ben presto conto che gli studenti consideravano le sue lezioni un
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vero divertimento. Il professore usava volentieri un linguaggio piuttosto salace.
Illustrando i movimenti del braccio, vibrò un violento uppercut in aria. Quando
spiegò la meccanica della gamba, sferrò un gran calcio, e per mostrare come
lavoravano le anche sfoderò una danza del ventre. Gli studenti si bevevano le
sue parole. Alla fine della lezione si affollarono intorno al professore con
svariate domande. Mentre rispondeva, Holmes osservava come il suo nuovo
assistente riponeva il corpo e i pezzi anatomici nella soluzione del contenitore
in cui dovevano essere conservati, lavava il tavolo, quindi lavava e asciugava
gli strumenti e li riponeva. Rob J. stava lavandosi energicamente le mani e le
braccia, quando l'ultimo studente uscì.
«Bene, lei si è mostrato idoneo.»
Perché no? voleva ribattere Rob J., visto che un lavoro così qualsiasi stu-
dente un po' sveglio avrebbe potuto svolgerlo. Invece si sorprese a domandare
umilmente se era possibile essere pagato in anticipo.
«Mi hanno detto che lei lavora per il Dispensario. Anch'io una volta ho la-
vorato per il Dispensario. Un lavoro maledettamente duro, e miseria garantita,
ma anche istruttivo.» Holmes trasse due biglietti da cinque dollari dalla borsa.
«Le basta il salario del primo mezzo mese?»
Rob J. cercò di nascondere il suo sollievo quando rispose che si, era abba-
stanza. Spensero insieme le lampade e si salutarono in fondo alle scale, an-
dando ciascuno per la sua strada. Rob J. provava una sottile ebrezza palpando
le banconote nella sua tasca. Passando davanti al Panificio Allen vide un com-
messo che ritirava i vassoi di pasticceria dalla vetrina, poiché era l'ora di chiu-
sura, ed entrò a comprarsi due tartine alla marmellata di more: un vero festino.
Voleva mangiarsele in camera sua, ma nella casa di Spring Street la dome-
stica era ancora alzata e stava finendo di lavare i piatti. Rob J. entrò in cucina e
le mostrò le tartine. «Una è per te se mi aiuti a rubare un bicchiere di latte.»
La ragazza rise: «Non c'è bisogno di bisbigliare così. Sta dormendo». Ad-
ditò la stanza di Mrs. Burton, al secondo piano. «E niente la sveglia quando è
addormentata.» Si asciugò le mani e tirò fuori la bottiglia del latte e due tazze
pulite. Entrambi si godettero la complicità del furto. La ragazza si chiamava
Margaret Holland: tutti la chiamavano Meg, gli confidò. Finito il festino, una
traccia di latte le era rimasta all'angolo della bocca e Rob J. sporse la mano
attraverso il tavolo, eliminando con il gesto preciso del chirurgo, con la punta
del dito, la prova del reato.
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La lezione di anatomia
Quasi subito Rob J. si accorse di una grave pecca nel sistema seguito dal
Dispensario. I nomi sui tagliandi che gli venivano passati ogni mattina non
corrispondevano ai malati più gravi del quartiere di Fort Hill. Il programma di
assistenza sanitaria non era né giusto né democratico: i tagliandi per le cure
mediche erano divisi tra i ricchi patroni e donatori dell'Ente, i quali li pas-
savano a persone di loro gradimento, perlopiù ai loro stessi domestici, a titolo
di compenso. Spesso Rob J. doveva recarsi da un paziente con un disturbo
lieve, mentre al piano di sotto un povero disoccupato moriva per mancanza di
cure. Il giuramento che aveva prestato quando era diventato medico gli vietava
di abbandonare il posto, era costretto a espletare un gran numero di tagliandi e
a riferire di aver visitato i pazienti di cui ogni tagliando portava il nome.
Una sera alla Medical School discusse il problema con il dottor Holmes.
«Quando lavoravo per il Dispensario, mi facevo dare i tagliandi dai miei amici
di famiglia, che facevano donazioni in denaro all'Ente» gli disse il professore.
«Bene, tornerò a farmi dare i tagliandi e li passerò a lei.»
Rob J. gliene fu grato, ma questo non migliorava molto la situazione. Sape-
va che non sarebbe riuscito a raccogliere abbastanza tagliandi in bianco da
poter curare tutti i malati indigenti del Distretto Otto. Ci sarebbe voluto un
esercito di medici.
Il momento migliore della giornata di solito era quando tornava a Spring
Street la sera tardi e passava qualche minuto a mangiare di contrabbando qual-
che cibo avanzato con Meg Holland. Prese l'abitudine di portarle piccoli doni,
un cartoccio di castagne arrosto, una tavoletta di zucchero d'acero, un paio di
mele gialle. La giovane irlandese gli raccontava i pettegolezzi della casa: come
Mr. Stanley Finch, secondo piano prima porta - che si dava tante arie, figurarsi!
- aveva messo incinta una ragazza a Gardner e poi era scappato; come Mrs.
Burton poteva essere, imprevedibilmente, o una cara persona o una vera strega,
e come l'uomo di fatica, Lemuel Raskin, che occupava la stanza contigua a
quella di Rob J., beveva come una spugna.
Dopo una settimana che Rob J. alloggiava alla pensione, la ragazza gli con-
fidò, come per caso, che Lem, se gli davano una mezza pinta di brandy, se la
trincava subito tutta e poi dormiva come un ghiro.
La sera dopo Rob J. portò a Lem in regalo una bottiglia di brandy.
Era duro aspettare, e più di una volta si disse che era proprio uno sciocco,
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che la ragazza aveva solo spettegolato. La vecchia casa di notte era piena di
rumori: scricchiolii delle travi, il rauco russare di Lem, misteriosi fruscìi nelle
pareti di legno. Infine vi fu un sommesso colpetto alla porta, non più che
l'ombra di un bussare, e quando la aprì, Margaret Holland scivolò nella sua
stanzetta, portandovi un debole odore di femmina e di acqua dei piatti, e mor-
morò che la notte era tanto fredda e gli portava, come scusa, una logora coperta
in più.
Circa tre settimane dopo la dissezione del cadavere del ragazzo, la Tremont
Medical School ebbe un altro colpo di fortuna: il corpo di una giovane donna
che era morta in prigione di febbre puerperale dopo il parto. Quella sera il
dottor Holmes era di guardia al Massachusetts General Hospital e fu sostituito
dal dottor David Storer, della Clinica di Maternità. Prima che Rob J. si accin-
gesse alla dissezione, il dottor Storer insistette per fare una scrupolosa ispe-
zione delle mani del docente. «Niente pipite alle unghie o taglietti nella pelle?»
«No, signore» rispose Rob J., un po' risentito, senza capire la ragione di
tutto quell'interesse per le sue mani.
Al termine della lezione di anatomia, Storer invitò gli studenti a raggrup-
parsi nell'altra parte dell'aula, dove avrebbe spiegato come condurre una visita
ginecologica su donne incinte, o affette da malattie femminili. «Voi troverete
forse che le virtuose donne del New England si vergogneranno di sottoporsi a
una tale visita, o anche la rifiuteranno» spiegava. «Ma è vostra responsabilità
guadagnarvi la loro fiducia per poterle aiutare.»
Il dottor Storer era accompagnato da una donna goffa e pesante, in avanzato
stato di gravidanza, forse una prostituta assoldata per la dimostrazione. Il pro-
fessor Holmes arrivò nel momento in cui Rob J. stava ripulendo e mettendo in
ordine la zona della dissezione. Quando ebbe finito, e si preparava a raggiun-
gere gli studenti che esaminavano la donna, il dottor Holmes tutto agitato gli
sbarrò la strada. «No, no,» esclamò «lei deve lavarsi e andarsene di qui. Subito,
dottor Cole! Vada all'Essex Tavern e mi aspetti mentre raccolgo le mie carte.»
Rob J. obbedì, perplesso e un po' seccato. La taverna era giusto dietro l'an-
golo. Ordinò una birra perché si sentiva nervoso, anche se gli era venuto in
mente che forse stava per essere licenziato e non conveniva spendere quel
denaro. Aveva bevuto solo un mezzo bicchiere quando uno studente del secon-
do anno, un tale Harry Loomis, comparve nel locale con due taccuini e diverse
ristampe di articoli medici.
«Il poeta le manda questi.»
«Chi?»
«Non lo sa? Si è laureato a Boston e quando Dickens è venuto in visita in
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America, Oliver Wendell Holmes ha avuto l'incarico di scrivere il discorso di
benvenuto. Ma non si preoccupi, è molto meglio come dottore che come poeta.
Uno splendido conferenziere, vero?» Loomis si ordinò allegramente una birra.
«Però è un po' fissato sul fatto di lavarsi le mani. Crede che lo sporco faccia
infettare le ferite!»
Loomis aveva portato anche un appunto scribacchiato sul retro di una
vecchia ricetta di laudano per la farmacia Weeks & Potter: Dottor Cole, legga
tutto questo prima di tornare domani sera alla Tremont Med. Sch. Senza fallo,
per favore. Sinc. suo Holmes.
Cominciò a leggere appena tornato nella sua stanza, dapprima un po' sec-
cato, poi con sempre maggiore interesse. Erano fatti esposti da Holmes in un
articolo pubblicato sul New England Quarterly Journal of Medicine e riportati
nell'American Journal of the Medical Sciences. Dapprima apparvero familiari a
Rob J. perché rispondevano esattamente a quanto egli sapeva che accadeva in
Scozia: una larga percentuale di donne gravide che si ammalavano con febbre
altissima, arrivando ben presto a uno stato d'infezione generale e poi alla morte.
Ma l'articolo del dottor Holmes raccontava che un medico di Newton, Mas-
sachusetts, di nome Whitney, assistito da due studenti di medicina, aveva ese-
guito l'autopsia di una donna morta di febbre puerperale. Il dottor Whitney ave-
va una pipita a un'unghia e uno degli studenti aveva una piccola escoriazione
su una mano. Credevano entrambi che fossero cose senza importanza. Ma dopo
pochi giorni il medico sentì un prurito al braccio. Scoprì poco sopra il polso
una macchia rossa delle dimensioni di un pisello, da cui una sottile linea rossa
si estendeva fino all'unghia con la pipita. Il braccio rapidamente si gonfiò fino a
raggiungere il doppio della grandezza normale e il medico fu assalito da febbre
altissima e vomito incontrollabile. Intanto lo studente con la mano escoriata fu
anche lui colpito da febbre alta e in pochi giorni le sue condizioni precipita-
rono. Diventò violaceo, gli si gonfiò il ventre e infine morì. Il dottor Whitney
arrivò molto vicino alla morte, ma lentamente migliorò e finì per guarire. L'al-
tro studente, che non aveva né tagli né escoriazioni sulle mani quando avevano
eseguito l'autopsia, non manifestò alcun sintomo di malattia.
Il caso fu reso noto e i medici di Boston discussero sull'evidente connessio-
ne tra le ferite aperte e l'infezione da febbre puerperale, ma senza arrivare a una
conclusione. Tuttavia, diversi mesi dopo, un medico di Lynn esaminò un caso
di febbre puerperale mentre aveva delle ferite alle mani e in pochi giorni morì
per infezione diffusa. A un congresso della Society for Medical Improvement
di Boston fu sollevato un problema interessante: che cosa sarebbe avvenuto se
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il defunto medico non avesse avuto ferite sulle mani? Anche se non si fosse
infettato personalmente, non avrebbe forse portato in giro il materiale infet-
tante, diffondendo il male ogni volta che toccava le ferite di un altro paziente, o
la vagina di una donna incinta?
Oliver Wendell Holmes non riusciva a scacciare dalla sua mente il pro-
blema. Per diverse settimane aveva fatto ricerche sull'argomento, visitando bi-
blioteche, consultando i propri appunti e chiedendo ai colleghi ginecologi di
comunicargli le loro storie cliniche. Come lavorando a un complesso rompi-
capo, aveva raccolto una collezione imponente di testimonianze e documenti,
che comprendevano un secolo di pratica medica su due continenti. I casi erano
comparsi sporadicamente e non erano stati registrati nella letteratura medica.
Solo quando furono espressamente cercati e messi a confronto si confermarono
reciprocamente e ne risultò una conclusione sorprendente e terribile: la febbre
puerperale era causata da medici, infermiere, levatrici e assistenti ospedalieri
che, dopo aver toccato una paziente contagiosa, passavano a esaminare donne
non ancora contaminate e le condannavano alla febbre e alla morte.
La febbre puerperale era una sciagura causata dalla classe medica, scriveva
Holmes. Una volta che un medico si rendeva conto di questo fatto, doveva es-
sere considerato da parte sua un crimine - un omicidio - infettare una donna.
Rob J. lesse quei fogli due volte, poi rimase sdraiato sul letto attonito e
incredulo.
Avrebbe voluto reagire, respingere e schernire quelle parole. Ma nessun uo-
mo di mente aperta poteva rifiutarsi di prendere in considerazione i casi clinici
e le statistiche riportate da Holmes. Come poteva questo oscuro medico del
Nuovo Mondo saperne di più di sir William Fergusson? In qualche occasione
Rob J. aveva assistito sir William durante l'autopsia di pazienti morte di febbre
puerperale. Subito dopo avevano esaminato donne gravide. E ora si sforzava di
ricordare quali donne erano morte dopo quelle visite.
Pareva che, dopotutto, questi medici provinciali avessero qualcosa da inse-
gnargli sull'arte e la scienza della medicina.
Si alzò per regolare lo stoppino della lampada così da poter leggere ancora
una volta il materiale di Holmes, ma ci fu un colpetto alla porta e Margaret
Holland scivolò nella stanza. Si vergognava un po' di svestirsi davanti a lui, ma
nell'angusta cameretta non c'era un angolo per proteggere il suo pudore, e co-
munque anche Rob J. si stava già spogliando. Meg piegò i suoi abiti e si tolse il
crocifisso. Il suo corpo era paffuto ma muscoloso. Rob J. palpò i segni che le
stecche del busto avevano lasciato nella sua morbida carne e stava spingendosi
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a più audaci carezze quando si arrestò d'un tratto, colpito da un improvviso e
terrificante pensiero.
Lasciandola nel letto, corse alla catinella, la riempì d'acqua e, mentre la
ragazza lo guardava come se fosse improvvisamente ammattito, si insaponò e
si sfregò energicamente le mani. Una volta, due, tre volte. Poi le asciugò con
cura e tornò a letto a riprendere il gioco amoroso. Suo malgrado, Margaret
Holland cominciò a ridacchiare.
«Tu sei il più strano giovanotto che io abbia mai incontrato» gli mormorò
all'orecchio.
A sera, quando tornava nella sua stanza, era così stanco che non aveva la
forza di suonare la viola da gamba se non molto raramente. Il suo archeggio era
un po' arrugginito ma la musica era un balsamo per lui, che purtroppo gli era
spesso negato perché Lem Raskin cominciava a picchiare contro la parete per
dirgli di fare silenzio. Non poteva permettersi di fornire brandy a Lem tanto per
la musica quanto per il sesso, e così doveva sacrificare la musica. Una rivista
che aveva trovato nella biblioteca della Medical School raccomandava che
dopo il rapporto la donna, per evitare di restare incinta, facesse irrigazioni con
un infuso di allume e cortecce di Quercus alba; ma Rob J. sapeva dì non poter-
si fidare che Meg facesse regolarmente le irrigazioni. Quando chiese consiglio
a Harry Loomis, questi prese la cosa molto sul serio e lo mandò a una bella
casa grigia, sul versante sud di Cornhill. Mrs. Cynthia Worth, capelli bianchi e
aspetto matronale, sorrise e annuì sentendo fare il nome di Harry. «Io faccio
buoni prezzi ai medici.»
L'articolo da lei fabbricato era tratto dall'intestino cieco delle pecore, un
viscere aperto a una estremità e quindi mirabilmente adatto alle manipolazioni
di Mrs. Worth. La signora era orgogliosa di mostrare i suoi prodotti e li espone-
va come se fosse al mercato del pesce e si trattasse di creature marine con gli
occhi lucenti di freschezza. Rob J. sospirò quando sentì il prezzo, ma Mrs.
Worth fu irremovibile. «Il lavoro è considerevole» replicò, e gli spiegò come i
visceri dovevano essere immersi per ore in acqua, quindi rovesciati, macerati
ancora in una debole soluzione alcalina che si doveva cambiare ogni dodici ore,
raschiati con somma cura fino a liberarli da ogni membrana mucosa, lasciando
la tunica peritoneale e muscolare esposta ai vapori di zolfo; poi lavati in acqua
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e sapone, ventilati e asciugati; tagliati all'estremità aperta nella lunghezza di
venti centimetri e muniti di nastrini rossi o blu per poterli chiudere strettamente
in modo che offrissero sufficiente protezione. La maggior parte dei gentiluo-
mini suoi clienti li compravano in confezioni da tre pezzi, perché così risulta-
vano meno costosi.
Rob J. ne comprò uno. Non espresse preferenza per il colore, ma il nastrino
era blu.
«Con un po' di cura, uno potrà bastare.» Mrs. Worth gli spiegò che si poteva
usare più volte, purché dopo l'uso venisse lavato, asciugato e cosparso di talco.
Quando Rob J. si accomiatò con il suo acquisto, la signora gli augurò cordial-
mente buona fortuna e gli chiese di raccomandarla ai suoi colleghi e ai suoi
pazienti.
Meg detestò subito quella guaina. Apprezzò invece un dono che Harry
Loomis aveva fatto a Rob J. augurandogli una bella nottata: una bottiglietta di
un liquido incolore, protossido di azoto, chiamato anche gas esilarante dagli
studenti di medicina e dai giovani dottori che lo usavano per divertimento. Rob
J. ne versò un poco su un panno e lui e Meg lo fiutarono prima di fare l'amore.
Questa esperienza fu un successo straordinario: mai i loro corpi erano parsi più
buffi o l'atto fisico più comicamente assurdo.
Oltre i piaceri del letto non vi era nulla fra loro. Quando l'atto era lento,
c'era un po' di tenerezza e, quando era furiosamente fisico, c'era più disperazio-
ne che passione. Quando parlavano, lei tendeva o a spettegolare sugli altri pen-
sionanti, il che lo annoiava, o ad abbandonarsi ai ricordi del suo paese lontano,
cosa che lui cercava di evitare perché i suoi ricordi lo facevano soffrire. Non
c'era comunione tra le loro menti o le loro anime. Quella ilarità di origine
chimica che avevano provato una sola volta con l'uso del protossido di azoto
non fu più ripetuta, perché la loro ebrezza sessuale era stata troppo rumorosa;
anche se Lem, ubriaco, non si era mosso, sapevano di essere stati fortunati a
non farsi scoprire. Risero insieme solo un'altra volta, quando Meg maligna-
mente osservò che la guaina doveva venire da un montone, e la battezzò
Vecchio Corno. Rob J. si rese conto con un certo sgomento di abusare un po'
troppo delle grazie della ragazza. Osservando che la sua gonna era molto ram-
mendata, gliene comprò una nuova, un'offerta propiziatrice per tacitare il suo
senso di colpa. La gonna le piacque enormemente e Rob J. nel suo diario la
ritrasse in un rapido schizzo, sdraiata sul letto, una ragazza paffuta con un
musetto di gattina sorridente.
Rob J. vide molte altre cose, che avrebbe ritratto nei suoi schizzi se il
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pesante lavoro professionale gliene avesse lasciato la forza. A Edimburgo
aveva cominciato a frequentare l'Accademia di Belle Arti, ribellandosi alla
tradizione medica dei Cole e sognando di diventare pittore, per cui la famiglia
aveva pensato che fosse un po' tocco. Al suo terzo anno di accademia gli
avevano detto che aveva un certo talento artistico, ma non abbastanza. La sua
esecuzione era precisa e corretta, ma gli mancava l'immaginazione palpitante,
l'arcana visione. «Tu hai la fiamma ma non hai il calore» gli disse il suo
professore di ritrattistica, non sgarbatamente ma in modo fin troppo chiaro.
Rob J. ne rimase profondamente avvilito, finché si verificarono due fatti. Nei
polverosi archivi della biblioteca dell'accademia gli capitò di trovare un
disegno anatomico. Era molto vecchio, forse era precedente allo stesso
Leonardo, un nudo maschile aperto in due per rivelare gli organi e i vasi
sanguigni. Era intitolato Il secondo uomo trasparente, e con viva sorpresa Rob
J. vide che era stato disegnato da uno dei suoi antenati, e la firma era perfetta-
mente leggibile: "Robert Jeffrey Cole, secondo la maniera di Robert Jeremy
Cole". Era una prova che molti dei suoi antenati erano stati degli artisti, oltre
che dei medici. E due giorni dopo, entrando in una sala operatoria, vide
all'opera William Fergusson, un genio della chirurgia che eseguiva le sue
operazioni con assoluta sicurezza, alla velocità del lampo, per ridurre al mini-
mo le sofferenze del paziente. Per la prima volta Rob J. comprese il significato
della lunga tradizione dei medici Cole. Ebbe la profonda certezza che il più mi-
rabile dei dipinti non poteva mai essere così prezioso come un'unica vita
umana. In quel momento la medicina lo volle suo adepto.
Fin dall'inizio del suo addestramento scoprì di avere ciò che suo zio Ranald,
che esercitava la professione di medico nelle vicinanze di Glasgow, usava
chiamare «il Dono dei Cole»: la facoltà di intuire, tenendo le mani di un
paziente, se sarebbe vissuto o sarebbe morto. Era una sensibilità da guaritore,
come un sesto senso diagnostico, in parte istinto e in parte intuito, in parte un
misterioso potere di sensori ereditari che nessuno poteva identificare o capire,
ma che operava finché non era ottenebrato dall'uso eccessivo di alcol. Per un
medico era un vero dono, ma ora, trapiantato in un lontano Paese, diventava un
tormento per l'animo di Rob J., perché il Distretto Otto aveva una quota
altissima di pazienti destinati a morire.
Il distretto maledetto da Dio, come aveva finito per chiamarlo, dominava la
sua esistenza. Gli irlandesi erano arrivati pieni di speranze. Nel vecchio paese il
salario giornaliero di un operaio era di sei pence, quando c'era lavoro. A
Boston c'era meno disoccupazione e gli operai guadagnavano di più, ma
lavoravano quindici ore al giorno per sette giorni la settimana. Pagavano affitti
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molto alti per le loro stamberghe, i viveri erano più cari e non c'erano orticelli
né minuscoli pezzi di terra per coltivarvi le farinose mele di palude, non c'erano
vacche per il latte né maiali per la pancetta. Il distretto lo ossessionava con la
sua miseria e il suo sudiciume e i suoi bisogni che avrebbero dovuto paraliz-
zarlo e invece lo spronavano a lavorare con tutte le sue forze, come uno scara-
beo che tentasse di smuovere una montagna di sterco di pecora. Le domeniche
sarebbero dovute essere tutte sue, come breve periodo di riposo per riprendersi
dal logorante lavoro della terribile settimana. La mattina di domenica anche
Meg aveva qualche ora di permesso, e così poteva andare a messa. Ma ogni
domenica ritrovava Rob J. nel distretto, libero dalla necessità di seguire il
programma stabilito dai tagliandi e libero di donare ai pazienti poveri le ore che
erano sue, che non doveva rubare al Dispensario. Non gli ci volle molto tempo
per instaurare una vera e propria prassi domenicale, anche se perlopiù non
pagata, perché ovunque volgeva lo sguardo non vedeva che miseria e malattia.
Ben presto si sparse voce che c'era un medico capace di parlare in "erse",
l'antico idioma gaelico comune agli scozzesi e agli irlandesi. Quando lo senti-
vano pronunciare i suoni della patria lontana, anche i più arcigni, i più amareg-
giati si aprivano a un sorriso. Beannacht De ort, dochtuir oig, Dio ti benedica,
giovane dottore, esclamavano per le strade al suo passaggio. Gli uni parlavano
agli altri del giovane medico che «aveva la loro lingua» e ben presto Rob J. si
trovò a parlare "erse" tutto il giorno. Ma se a Fort Hill era adorato, godeva assai
meno simpatia nell'ufficio del Dispensario di Boston, perché ogni genere di
pazienti imprevisti cominciarono a comparire con ricette del dottor Robert J.
Cole per medicine o stampelle o anche cibo prescritto per curare la denutrizio-
ne.
«Ma che succede? E che? Non sono sulla lista presentata dai nostri patroni e
donatori!» si lagnava Mr. Wilson.
«Sono quelli che hanno più bisogno di assistenza nel Distretto Otto.»
«Questo non c'entra. Non mettiamo il carro davanti ai buoi. Se lei vuole
restare al Dispensario, dottor Cole, deve conformarsi alle regole» lo ammoniva
severamente Mr. Wilson.
Uno dei pazienti domenicali era Peter Finn di Half Moon Place, che aveva
riportato una lacerazione al polpaccio destro per una cassa caduta da un carro
mentre si guadagnava la giornata come scaricatore di porto. La ferita, bendata
con uno straccio sudicio, era già gonfia e dolente quando la mostrò al medico.
Rob J. lavò e suturò gli orli slabbrati, ma subito cominciò a formarsi il pus e il
giorno dopo fu costretto a togliere i punti e a drenare la ferita. L'infezione
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procedette a ritmo galoppante e dopo pochi giorni il suo Dono gli disse che, se
voleva salvare la vita di Peter Finn, doveva amputare la gamba.
Era un martedì, e non era possibile rimandare l'operazione fino alla dome-
nica: così Rob J. si vide costretto a rubare altro tempo al Dispensario. Non solo
dovette usare uno dei preziosi tagliandi in bianco passatigli da Holmes, ma die-
de il proprio scarso e duramente guadagnato denaro a Rose Finn perché potesse
procurarsi all'osteria una bottiglia di whisky, che, per quanto di pessima
qualità, era necessario all'operazione non meno del bisturi.
Joseph Finn, fratello di Peter, e Michael Bodie, suo cognato, pur riluttanti
acconsentirono ad assisterlo. Rob J. attese finché Peter non fu intontito dal-
l'intruglio di whisky e morfina e steso sul tavolo di cucina, come una vittima
sacrificale. Ma al primo taglio del bisturi il paziente strabuzzò gli occhi, le
corde del suo collo si tesero e ne uscì un urlo terribile che fece impallidire
Joseph Finn e tremare e ansimare Bodie. Rob J. aveva legato la gamba ferita al
tavolo, ma con Peter che si dibatteva e urlava come una bestia in agonia, gridò
ai due uomini: «Tenetelo! Tenetelo giù, presto!».
Tagliò come aveva imparato da Fergusson, con mano rapida e ferma. Gli
urli cessarono mentre incideva la carne e i muscoli, ma il digrignare dei denti
del paziente era più terribile delle grida. Quando recise l'arteria femorale ne
zampillò il chiaro sangue arterioso ed egli cercò di prendere la mano di Bodie
per mostrargli come bloccare l'emorragia. Ma il cognato balzò indietro.
«Torna qui! Bastardo!»
Ma Bodie correva a precipizio giù per le scale, piangendo. Rob J. cercava di
lavorare come se avesse sei mani. Con la sua statura e la sua forza poté aiutare
Joseph a tenere fermo Peter che si dibatteva disperatamente, nello stesso tempo
riusciva abilmente a stringere l'estremità scivolosa dell'arteria, fermando il
sangue. Ma, quando dovette lasciarla andare per prendere la sega, l'emorragia
ricominciò.
«Mi faccia vedere come si deve fare.» Rose Finn era comparsa silenziosa-
mente accanto a lui. Aveva il volto bianco come la cera, ma riuscì ad afferrare
l'arteria e a controllare la fuoriuscita di sangue. Rob J. segò l'osso, diede pochi
altri rapidi tagli e la gamba si staccò. Ora poté legare l'arteria per pareggiare e
suturare i labbri della ferita. Peter aveva gli occhi vitrei per lo shock ed emet-
teva solo un rauco e interrotto ansimare.
Rob J. portò via la gamba avvolta in uno straccio logoro e bisunto per
poterla studiare più tardi nell'aula di dissezione. Era stravolto, più per la
consapevolezza della tortura subita da Peter che per l'estenuante fatica del-
l'amputazione. Non poteva fare nulla per i propri abiti macchiati di sangue, ma
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a una fontana pubblica di Broad Street si lavò accuratamente le mani e le
braccia, finché scomparve ogni traccia di sangue, prima di andare a visitare il
suo successivo paziente, una donna di ventidue anni che - Rob J. lo sapeva
bene - stava morendo di consunzione.
Quando erano a casa loro, nei loro quartieri, gli irlandesi vivevano in mise-
ria. Fuori del loro ambiente, erano diffamati. Rob J. continuava a vedere mani-
festi per le strade: Tutti i cattolici e tutti quelli che sostengono la Chiesa
cattolica sono vili impostori, bugiardi, canaglie e codardi tagliagole. UN
VERO AMERICANO.
Una volta la settimana Rob J. andava a sentire una conferenza di medicina,
nell'anfiteatro dell'Ateneo, al secondo piano di un edificio che era stato formato
congiungendo due stabili di Pearl Street. Talvolta dopo la conferenza andava a
sedersi in biblioteca e leggeva il Boston Evening Transcript, nei cui articoli si
rifletteva l'odio che divideva la comunità. Eminenti religiosi come il reverendo
Lyman Beecher, pastore della Chiesa congregazionalista di Hanover Street,
scrivevano un articolo dopo l'altro sul «meretricio di Babilonia» e sulla «sozza
bestia del cattolicesimo romano». I partiti politici esaltavano gli americani nati
in America e parlavano di «sporchi, ignoranti emigrati irlandesi e tedeschi».
Leggendo le notizie nazionali per imparare a conoscere l'America, Rob J. si
rendeva conto che era un Paese avido di possesso, sempre pronto ad
accaparrarsi terra senza alcuno scrupolo. Recentemente si era annesso il Texas,
aveva acquistato il territorio dell'Oregon mediante un trattato con la Gran
Bretagna, era entrato in guerra con il Messico per la California e le regioni
sudoccidentali del continente americano. La frontiera era segnata dal fiume
Mississippi, che divideva la civiltà dei bianchi dalle terre barbare in cui erano
stati cacciati gli indiani delle grandi praterie. Rob J., che nella sua adolescenza
aveva divorato i romanzi di James Fenimore Cooper, era affascinato dagli
indiani. Lesse tutto quello che la biblioteca dell'Ateneo aveva sull'argomento,
poi si volse alle opere poetiche di Oliver Wendell Holmes. Gli piacevano, e gli
piaceva soprattutto il ritratto del duro vecchio sopravvissuto in L'ultima foglia;
ma Harry Loomis aveva ragione, Holmes era meglio come medico che come
poeta. Era un medico straordinario.
Harry e Rob J. presero l'abitudine di terminare la loro lunga giornata con un
bicchiere di birra alla Essex Tavern, e spesso Holmes si univa a loro.
Evidentemente Harry era lo studente favorito del professore, e Rob J. faceva
fatica a non invidiarlo. La famiglia Loomis godeva di eccellenti relazioni
sociali: quando fosse venuto il momento, Harry avrebbe ottenuto i posti
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migliori all'ospedale, che gli avrebbero assicurato una brillante carriera medica.
Una sera, mentre bevevano le loro birre, Holmes osservò che, facendo certe
ricerche in biblioteca, aveva trovato riferimenti al "gozzo di Cole" e al "Colera
maligno di Cole". Incuriosito, aveva consultato la bibliografia e aveva trovato
ampie testimonianze dei contributi della famiglia Cole alla scienza medica,
compresa la "gotta di Cole" e la "sindrome di Cole e Palmer", una malattia in
cui l'edema era accompagnato da abbondanti sudorazioni e respirazione sterto-
rosa. «E inoltre» aggiunse «ho trovato che più di una dozzina di Cole sono stati
professori universitari di medicina o a Edimburgo o a Glasgow. Sono parenti
suoi?»
Rob J. sorrise, imbarazzato ma compiaciuto. «Tutti parenti. Ma per la mag-
gior parte i Cole, attraverso i secoli, sono stati semplici medici di provincia tra
le colline delle Lowlands, come mio padre.» Non disse nulla del Dono dei
Cole: non era cosa da discutere con altri medici, che lo avrebbero giudicato o
un po' tocco o bugiardo.
«Suo padre c'è ancora?» chiese Holmes.
«No. Ucciso da cavalli imbizzarriti quando io avevo dodici anni.»
«Ah!» Questo fu il momento in cui Holmes, malgrado la piccola differenza
di età fra loro, decise di assumersi un ruolo paterno, introducendo Rob J. nella
cerchia privilegiata delle grandi famiglie di Boston mediante un vantaggioso
matrimonio.
Ben presto, dopo quella serata, Rob J. fu invitato un paio di volte in casa di
Holmes, in Montgomery Street, dove ebbe la visione di uno stile di vita simile
a quello che un tempo aveva sperato per sé a Edimburgo. Al primo invito
Amelia, la vivace moglie del professore, che aveva la passione di combinare
matrimoni, lo presentò a Paula Storrow, la cui famiglia era antica e ricca, ma
che era una ragazza goffa e penosamente stupida. Ma al secondo invito a
pranzo Rob J. si trovò seduto accanto a Lydia Parkman. Era un po' troppo
magra e aveva il seno quasi piatto, ma sotto i morbidi capelli castani il suo viso
e i suoi occhi brillavano di beffarda malizia, e i due passarono la serata in una
conversazione spesso sarcastica su una vasta gamma di argomenti. Lydia
conosceva diverse cose sugli indiani, ma soprattutto parlarono di musica perché
lei suonava la spinetta.
Quella notte, quando Rob J. tornò alla sua stanza in Spring Street, sedette
sul suo giaciglio sotto il tetto riflettendo a quel che sarebbe stata la vita a
Boston per lui, collega e amico di Harry Loo-mis e Oliver Wendell Holmes,
sposato a una signora che incantava gli ospiti con la sua brillante conversazio-
ne.
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A un tratto vi fu alla porta il colpetto che ben conosceva e Meg Holland
entrò. Lei non era troppo magra, notò Rob J. salutandola con un sorriso e
cominciando a sbottonarsi la camicia, ma per una volta Meg rimase seduta sul
bordo del letto senza rispondere alle sue carezze.
Quando parlò, fu come un sussurro aspro, che lo colpì ancor più delle
parole. La sua voce era tesa e sorda, come il suono delle foglie secche spinte
dal vento su un duro terreno gelato.
«Beccata» annunciò.
Sogni
Rob J. non seppe trovar parole. La ragazza era già esperta quando era
venuta da lui, e lui aveva preso le sue precauzioni. Come poteva sapere che il
bambino era suo? Ho sempre messo il preservativo, protestò in silenzio fra sé.
Ma onestamente sapeva di non aver usato nessuna protezione le prime volte, e
neppure la notte in cui avevano provato il gas esilarante.
Rob J. si sentiva obbligato da tutta la sua educazione a condannare l'aborto,
e ora ebbe abbastanza sensibilità da non proporlo nemmeno, poiché sapeva che
la ragazza era profondamente religiosa.
Infine le disse che non l'avrebbe abbandonata. Lui non era Stanley Finch.
Meg non parve molto sollevata da questa sua dichiarazione. Rob J. si co-
strinse a prenderla fra le braccia e stringerla a sé. Voleva essere affettuoso, vo-
leva confortarla. E questo era proprio il momento meno opportuno per accor-
gersi che quel visetto da gatta in pochi anni sarebbe diventato decisamente
bovino. Non proprio il viso dei suoi sogni.
«Tu sei protestante.» Non era una domanda, perché Meg conosceva la
risposta.
«Sono stato educato così.»
Meg era una ragazza coraggiosa. I suoi occhi si riempirono per la prima
volta di lacrime solo quando Rob J. le disse che dubitava dell'esistenza di Dio.
Prime ore del mattino. Tempo grigio ma con una promessa di sole. È in
piedi fra migliaia di uomini fuori dei cancelli delle Acciaierie Canon, che
fabbricano cannoni di grosso calibro per la Marina da guerra inglese. Un
uomo ritto su una cassa legge il manifesto che Rob J., restando anonimo, ha
scritto per spingere gli uomini alla dimostrazione. «Amici e compatrioti. Esa-
sperati dalle condizioni in cui siamo stati tenuti per tanti anni, noi siamo
costretti, dall'estrema miseria della nostra situazione e dal disprezzo con cui
le nostre richieste sono state accolte, ad affermare i nostri diritti a costo della
nostra vita.» L'uomo parla a voce alta, che talvolta si incrina rivelando la sua
paura. Quando finisce tutti applaudono. Tre cornamuse suonano. Gli uomini
riuniti cantano allegramente, dapprima degli inni, poi canzoni più gagliarde
che terminano con «Scots Wha' Hae Wi' Wallace Bled». Le autorità hanno
visto il manifesto di Rob e sono in stato di all'erta. Ci sono poliziotti armati, la
milizia civica, il primo battaglione della Brigata Fucilieri e ben addestrati
soldati di cavalleria del 7° e del 10° Ussari, veterani delle guerre europee. I
soldati portano uniformi sgargianti, gli stivali lucidissimi degli ussari brillano
come specchi. I soldati sono più giovani dei poliziotti, ma le loro facce espri-
mono un identico duro disprezzo. Il tumulto scoppia quando l'amico di Rob,
Andrew Gerould di Lamark, tiene un discorso sulla distruzione delle fattorie e
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l'impossibilità di vivere con il misero compenso dato per il loro lavoro, che
arricchisce l'Inghilterra e rende sempre più povera la Scozia. Via via che la
voce di Andrew si accalora, gli uomini cominciano a ruggire la loro rabbia e
a gridare «Libertà o morte!». I dragoni spronano in avanti i loro cavalli, re-
spingendo i dimostranti dalla cancellata che circonda le Acciaierie. Qualcuno
scaglia un sasso. Colpisce un ussaro, che cade di sella. Immediatamente gli
altri ussari sguainano le spade con un sinistro lampeggiare e una pioggia di
pietre cade sui soldati, macchiando di sangue le uniformi blu, rosse e dorate.
La milizia civica apre il fuoco sulla folla. Gli squadroni di cavalleria
caricano. Gli uomini urlano e piangono. Rob è bloccato in mezzo alla calca.
Non può fuggire. Può solo lasciarsi trascinare fuori della mischia, lottando
per restare in piedi, sapendo che, se cade, sarà calpestato dalla turba
terrorizzata, che corre...
Talvolta, quando Rob J. usciva dall'incubo, restava sdraiato sul suo stretto
giaciglio sotto il tetto, toccandosi e tremando di sollievo al pensiero di essere
vivo. Fissando il buio, si domandava quanti uomini non erano più vivi perché
lui aveva scritto quel manifesto. Quanti destini erano cambiati, quante vite
erano state troncate perché lui aveva inculcato le sue convinzioni in tanti suoi
simili? La morale corrente diceva che per i principi valeva la pena di lottare,
valeva la pena di morire. Ma se si teneva conto di tutto il resto, la vita non era
forse l'unico prezioso bene che ogni essere umano possedeva? E, come medico,
non era egli forse impegnato a proteggere e salvare la vita sopra ogni cosa? E
giurava a se stesso e a Esculapio, padre della medicina, che mai più avrebbe
causato la morte di un essere umano per una divergenza di idee, né mai più
avrebbe percosso un altro in un impeto di collera e per la millesima volta si
domandava come aveva potuto quel Bruce guadagnarsi in quel modo orrendo
le sue quindici sterline.
Non è denaro suo quello che spende!» lo investi Mr. Wilson una mattina,
consegnandogli il solito mazzetto di tagliandi. «È denaro donato al Dispensario
dai nostri primi cittadini. I fondi dell'Ente Assistenziale non devono essere
sprecati secondo il capriccio di ogni medico alle nostre dipendenze!»
«Non ho mai sprecato il denaro dell'Ente. Non ho mai scritto una ricetta
inutilmente né curato un paziente che non avesse un disperato bisogno del
nostro aiuto. Il vostro sistema è male impostato. Talvolta mi manda ad assistere
qualcuno che ha solo uno stiramento muscolare, mentre altri muoiono per man-
canza di cure.»
«Lei passa i limiti, signor mio!» Gli occhi e la voce di Mr. Wilson erano
calmi, ma la mano che teneva i tagliandi tremava. «La vuol capire che in futuro
deve limitare le sue visite ai nomi dei tagliandi che io le assegno ogni mat-
tina?»
Rob J. provò una voglia disperata di dire a Mr. Wilson che cosa capiva e
dove poteva mettersi i suoi tagliandi. Ma, pensando alla sua difficile situazione,
non osò. Si costrinse invece ad annuire e ad allontanarsi. Si infilò il mazzetto
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dei tagliandi in tasca e si avviò verso il Distretto.
Quella sera ogni cosa cambiò. Margaret Holland venne nella sua stanza e si
sedette sull'orlo del letto, il suo posto per gli annunci.
«Perdo sangue.»
Rob J. si costrinse a pensare anzitutto come medico. «È un'emorragia? Perdi
molto sangue?»
Lei scosse la testa. «In principio, un po' più del solito, poi come tutte le mie
mestruazioni normali. Quasi finito, adesso.»
«Quando è incominciato?»
«Quattro giorni fa.»
«Quattro giorni!» Perché aveva aspettato tanto a dirglielo? Meg non lo
guardava, sedeva perfettamente immobile, come per sottrarsi alla sua collera, e
Rob J. capì che in quei quattro giorni la ragazza non aveva fatto che lottare con
se stessa. «A momenti neanche me lo dicevi, vero?»
Lei non rispose, ma Rob J. comprese. Pur essendo uno straniero, un prote-
stante che si lavava le mani, lui era stato per la ragazza un'occasione per sfug-
gire infine alla prigione della sua miseria. Poiché era stato costretto a vedere da
vicino quella prigione e quella miseria, si meravigliava anzi che Meg avesse
avuto il coraggio di dirgli la verità; sicché, invece di andare in collera per quel
ritardo, provò un senso di ammirazione e di travolgente gratitudine. Le andò
vicino, la fece alzare, la baciò sugli occhi rossi di pianto. Poi la abbracciò e la
tenne stretta, battendole gentilmente sulle spalle, come a confortare un bam-
bino spaventato.
La mattina dopo si trovò a camminare spensierato, pervaso da un senso di
sollievo. Gli uomini e le donne sorridevano al suo saluto. Era un mondo nuovo,
un sole più radioso e un'aria più dolce da respirare.
Si dedicò ai suoi pazienti con il solito impegno, ma fra un caso e l'altro la
sua mente volava. Infine si sedette su una panchina di Broad Street a riflettere
sul passato, il presente e l'avvenire.
Per la seconda volta era sfuggito a una sorte terribile. Sentì che quello era
stato un avvertimento perché considerasse con più cura, con più rispetto la
propria esistenza.
Immaginava la sua vita come un grande quadro in lavorazione. Qualunque
cosa dovesse accadere, il quadro finito sarebbe stato quello di un medico; ma
sentiva che, se restava a Boston, quel quadro avrebbe mostrato solo sfumature
di grigio.
Amelia Holmes poteva combinare per lui quello che chiamava «un brillante
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connubio»; ma, essendo appena sfuggito a un matrimonio povero e senza
amore, Rob J. non aveva nessuna voglia di cercarne a sangue freddo uno ricco
e senza amore, né di lasciarsi vendere sul mercato matrimoniale di Boston,
carne di medico a un tanto il chilo.
Voleva che la sua vita fosse dipinta con i colori più brillanti che si potevano
trovare.
Quel pomeriggio, quando ebbe portato a termine il lavoro della giornata, si
recò alla biblioteca dell'Ateneo a rileggere i libri che lo avevano così profonda-
mente interessato. Molto prima di terminare la lettura, sapeva dove voleva
andare e che cosa voleva fare.
Quella notte, mentre era già sdraiato a letto, ci fu il piccolo segnale fami-
liare alla porta. Rob J. non si mosse e restò a fissare il buio in silenzio. Il
colpetto si ripeté una seconda volta, poi una terza.
Per diverse ragioni Rob J. avrebbe voluto alzarsi, andare alla porta e aprirla.
Ma rimase immobile, irrigidito in un momento non meno penoso di quelli dei
suoi incubi, e alla fine Margaret Holland se ne andò.
Gli ci volle più di un mese per fare i suoi preparativi e dimettersi dal
Dispensario di Boston. A mo' di pranzo d'addio, in una rigida sera di dicembre
lui, Holmes e Harry Loomis sezionarono il corpo di una schiava negra. Aveva
faticato nei campi per tutta la vita e il suo corpo aveva sviluppato una
considerevole muscolatura. Harry aveva dimostrato un vivo interesse e un vero
talento per l'anatomia e avrebbe sostituito Rob J. come docente alla Medical
School. Holmes teneva lezione mentre i due tagliavano e spiegava che l'orlo
fimbriato della tuba di Falloppio era «come la frangia dello scialle eli una
mendicante». Ogni organo, ogni muscolo ricordava a qualcuno di loro una
storiella, una poesia, un gioco di parole anatomico, uno scherzo scatologico.
Era un serio lavoro scientifico, lavoravano meticolosamente a ogni dettaglio,
eppure scoppiavano ogni tanto in allegre risate. Dopo la dissezione si rifugia-
rono tutti e tre alla Essex Tavern e bevvero vino caldo fino alla chiusura. Rob J.
promise di tenersi in contatto con Holmes e Harry quando fosse arrivato a una
stabile destinazione e di rivolgersi a loro se fosse sorto qualche problema. Si
separarono con tanta cordialità che Rob J. si pentì per un attimo della sua
decisione.
La mattina dopo scese in Washington Street e comprò una manciata di
castagne arrosto, avvolte in un cartoccio fatto con un foglio del Boston Tran-
script. Si infilò furtivamente nella stanza di Meg Holland e le lasciò sotto il suo
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guanciale.
Subito dopo mezzogiorno saliva su un treno e abbandonava la città di
Boston al fischio della locomotiva a vapore. Il controllore che venne a bucare i
biglietti gettò uno sguardo di sbieco al suo bagaglio, perché Rob si era rifiutato
di depositare la sua viola da gamba e la sua valigia nel bagagliaio. Oltre agli
abiti e agli strumenti chirurgici, la valigia ora conteneva il Vecchio Corno e
una mezza dozzina di pezzi di sapone da bucato, dello stesso tipo che usava
Holmes. Così, benché avesse poco denaro in tasca, lasciava Boston più ricco di
quando era arrivato.
Mancavano quattro giorni a Natale. Il treno correva tra file di case dalle por-
te decorate di ghirlande, dietro le cui finestre si intravedevano gli alberi di
Natale. Ben presto si lasciarono alle spalle la città e in meno di tre ore arriva-
rono a Worcester, dove terminava la ferrovia di Boston. I passeggeri dovevano
cambiare e prendere il treno della Ferrovia Occidentale. Nel nuovo vagone Rob
J. si trovò seduto vicino a un uomo corpulento, che subito gli offrì una bottiglia
di brandy.
«No, grazie» fece Rob J., ma accettò di conversare con lui perché il rifiuto
non risultasse offensivo. L'uomo era un viaggiatore di commercio e trattava
chiodi di ferro - ganci, ribattini, bulloni, chiodi a diamante e borchie, in misure
che andavano dai sottili chiodi ad ago fino ai grossi chiodi da barca - e mostrò
a Rob J. il suo campionario, un buon modo per far passare il tempo durante il
lungo viaggio.
«Io vado all'Ovest! Io vado all'Ovest!» annunciò il commerciante. «E lei?»
Rob J. annuì. «Fin dove va?»
«Fin quasi ai confini dello Stato. A Pittsfield. E lei, signore?»
Gli diede un'insolita soddisfazione rispondere, tanto che sorrise e si tratten-
ne dal gridarlo a tutti, e gli parve che le parole suonassero una loro musica e
diffondessero una sottile, romantica luce in ogni angolo del traballante vagone.
«Nella terra degli indiani.»
Musica
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L'Illinois risultò una regione interessante fin dall'inizio. Si era sul finire
dell'estate e il manto erboso della prateria era secco e scolorito per le lunghe
giornate di sole. A Danville Rob osservò uomini che bollivano l'acqua delle
fonti salate in grandi caldaie nere, e quando ripartì portava con sé un sacchetto
di sale purissimo. L'immensa prateria ondulata si alzava di tratto in tratto in
modeste colline. La regione era ricca di acqua dolce. Rob J. incontrò solo pochi
laghi, ma numerosi acquitrini alimentavano ruscelli che poi si immettevano in
grandi fiumi. Apprese che, quando nell'Illinois la gente parlava della «terra tra i
fiumi», perlopiù intendeva quella regione meridionale che stava tra il Missis-
sippi e l'Ohio: un ricco e profondo terreno alluvionale fra i due grandi corsi
d'acqua. La chiamava anche «Egitto» pensando che fosse fertile come il leg-
gendario suolo del delta del Nilo. Studiando la carta geografica di Jay Geiger,
Rob J. constatò che nell'Illinois vi era un gran numero di "piccoli Egitti", terre
tra i fiumi. Durante il loro breve incontro Geiger si era guadagnato tutta la sua
fiducia, e così Rob J. continuava a viaggiare verso la regione che, secondo il
farmacista, offriva le più favorevoli condizioni di insediamento.
Gli occorsero due settimane di viaggio per attraversare l'Illinois. Il quattor-
dicesimo giorno la pista che stava seguendo entrò in una zona boscosa, che gli
offrì una gradevole frescura e l'aroma di erbe umide. Seguendo lo stretto
sentiero, udì un rumore d'acque, e infine sboccò sulla riva orientale di un largo
fiume, che pensò fosse il Rock.
Era la stagione secca, ma la corrente era forte e i grandi scogli che davano al
fiume il suo nome la facevano biancheggiare di schiuma. Guidando Monica a
passo lento lungo la sponda, Rob J. cercava di scoprire un punto che fosse
guadabile quando arrivò a un tratto dove il fiume era più profondo e più lento.
Fra due enormi tronchi d'albero, sulle due rive del fiume, era tesa una grossa
fune. Da un ramo pendeva un triangolo di ferro e un batacchio d'acciaio, ac-
canto a un'insegna che diceva:
HOLDEN'S CROSSING
Suonare per il traghetto
Rob J. batté sul triangolo vigorosamente e, gli parve, a lungo prima di scor-
gere un uomo che se ne veniva tranquillamente lungo la riva opposta, dirigen-
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dosi là dove era ormeggiata una chiatta. Due robusti pali verticali fissati sulla
chiatta terminavano in due grossi anelli di ferro, attraverso i quali passava la
fune sospesa, consentendo così alla chiatta spinta da una lunga pertica, di
scivolare lungo la fune da una riva all'altra. Quando la chiatta arrivò verso il
centro del fiume, la corrente aveva spinto la fune a valle, sicché il traghettatore
dovette percorrere un arco invece che una linea diritta. Al centro le acque,
scure e lisce, erano troppo profonde perché l'uomo potesse spingere con la
pertica, ed egli quindi fece avanzare lentamente la zattera tirando la fune a
forza di braccia. Cantava con voce baritonale che arrivava chiaramente all'orec-
chio di Rob J.
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Rob J. gli strinse la mano e si presentò. Holden aveva tirato fuori della tasca
della camicia una scura tavoletta di tabacco da masticare. Ne tagliò un pezzo
con il coltello per sé, quindi ne offrì a Rob J., che scosse la testa. «Quanto per
la traversata?»
«Tre cent per lei, dieci per il cavallo.»
Rob J. pagò i tredici cent in anticipo e legò Monica ad alcuni anelli fissati al
pavimento per questo scopo. Holden gli diede una seconda pertica e i due si
diedero la voce e piegarono la schiena al lavoro.
«Pensa di sistemarsi da queste parti?»
«Forse» fece Rob J. cautamente.
«Lei non è un maniscalco, per caso?» Holden aveva gli occhi più azzurri
che Rob J. avesse mai visto in un uomo, e che sarebbero parsi effeminati se non
fosse stato per lo sguardo penetrante e un po' sarcastico, e come segretamente
divertito. Non parve sorpreso quando Rob J. scosse la testa. «Peccato, mi pia-
cerebbe trovare un buon maniscalco. Un coltivatore, allora?»
Mostrò un rumoroso entusiasmo quando Rob J. gli disse che era medico.
«Tre volte benvenuto, e ancora benvenuto. Abbiamo un gran bisogno di un me-
dico qui nella città di Holden's Crossing. Un medico può fare la traversata
gratis!»
Cessò di manovrare la pertica per tirar fuori di tasca tre cent e contarli
solennemente nella palma di Rob J.
Rob J. guardò le monetine. «E gli altri dieci?»
«Merda, non credo che il cavallo sia un medico!» Sogghignò, e il sogghigno
lo fece sembrare brutto.
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Ben presto si diffuse la notizia della presenza di un medico. Tre giorni dopo
essere arrivato a Holden's Crossing, Kob J. fu chiamato dal suo primo paziente,
a venticinque chilometri di li, dopodiché non cessò mai di lavorare. Diversa-
mente dai coloni dell'Illinois meridionale e centrale, che provenivano per la
maggior parte dagli Stati del Sud, gli agricoltori che colonizzavano l'Illinois
settentrionale arrivavano dallo Stato di New York e dal New England, sempre
più numerosi di mese in mese, a piedi, a cavallo, sui carri, spingendo talvolta
davanti a sé una vacca, qualche maiale, un gruppetto di pecore. La sua attività
di medico doveva coprire un vasto territorio: praterie che si stendevano fra
grandi fiumi, attraversate da torrenti e ruscelli, interrotte da tratti boscosi,
guastate spesso da profonde paludi fangose. Se i pazienti venivano da lui, fa-
ceva pagare settantacinque cent per visita; se doveva fare una visita a domi-
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cilio, chiedeva un dollaro, e, se era di notte, uno e cinquanta. Trascorreva la sua
giornata di lavoro per la maggior parte in sella, perché le fattorie erano molto
lontane l'una dall'altra, in quello strano Paese. Talvolta, al calar della sera, era
così sfinito da tutto quel cavalcare che non poteva far altro che gettarsi sul
pavimento e sprofondare nel sonno.
Disse a Holden che alla fine del mese avrebbe potuto pagargli una parte del
debito, ma Nick sorrise e scosse la testa. «Non c'è fretta. Anzi, farei meglio a
prestarle un altro po' di denaro. Gli inverni sono rigidi e le occorrerà un ani-
male più robusto di quello che cavalca ora. E con tutti i suoi impegni di medico
non ha tempo di costruirsi una casetta di tronchi prima che venga la neve.
Cercherò qualcuno che la costruisca per lei, a pagamento, si intende.»
Nick trovò un uomo capace di fare quel lavoro, tale Alden Kimball, un tipo
magro e infaticabile, con i denti giallastri per il gran fumare una sua puzzolente
pipa di pannocchia di mais. Cresciuto in un fattoria a Hubbardton, nel Ver-
mont, recentemente era stato allontanato come reprobo dai mormoni di Nau-
voo, Illinois, i cui abitanti erano conosciuti come Santi dell'Ultimo giorno, e
girava voce che potessero avere quante mogli volevano. Quando Rob J. lo in-
contrò, Kimball gli disse che aveva avuto uno scontro con gli anziani della
Chiesa ed era fuggito. Rob J. non ebbe voglia di interrogarlo più a fondo; gli
bastava il fatto che Kimball maneggiava l'ascia e la scure come se fossero
membra del suo stesso corpo. L'uomo abbatté e sfrondò i tronchi e li spianò su
due lati mentre giacevano al suolo, e un giorno Rob J. noleggiò un bue da un
fattore vicino, di nome Grueber. Gli parve di capire che Grueber non gli avreb-
be affidato il suo prezioso animale se non ci fosse stato Kimball a lavorare con
lui. Il reprobo Santo pazientemente riuscì a piegare il bue alla sua volontà, e
insieme i due uomini e l'animale in un solo giorno trascinarono i tronchi già
preparati fino al terreno che Rob J. aveva scelto sulla riva del fiume per
costruirvi la sua capanna. Mentre Kimball incastrava fra loro i tronchi maestri
con cavicchi di legno, Rob J. si accorse che il grande tronco unico che doveva
sostenere la parete nord presentava a metà altezza, una brutta incurvatura, e la
fece osservare ad Alden.
«Va bene così» replicò Kimball laconico, e Rob J. lo lasciò al suo lavoro.
Visitando il posto un paio di giorni dopo, Rob J. vide che le pareti della
capanna erano già in piedi. Alden aveva riempito gli interstizi tra i tronchi con
argilla ricavata dalla riva del fiume e stava intonacando di bianco le strisce di
argilla. Sulla parete nord tutti i tronchi presentavano una curvatura che
accompagnava quasi esattamente quella del tronco maestro, dando così
all'intera parete una leggera inclinazione. L'abile carpentiere aveva dovuto
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impiegare un mucchio di tempo per trovare tronchi che avessero precisamente
lo stesso difetto, e infatti due dei tronchi erano stati lavorati con l'ascia per
adattarsi.
Fu lo stesso Alden che gli parlò di una robusta cavalla che Grueber voleva
vendere. Quando Rob J. confessò che non si intendeva molto di cavalli, Kim-
ball alzò le spalle. «Quattro anni, sta ancora crescendo in altezza. Sana, nessun
difetto.»
Così Rob J. comprò la cavalla. Era ciò che Grueber chiamava un baio san-
guigno, più rosso che marrone, con le zampe, la criniera e la coda nere, e mac-
chie nere come lentiggini sulla fronte. Era alta quindici palmi, e aveva un corpo
robusto e uno sguardo intelligente. Poiché le lentiggini gli ricordavano la
ragazza che aveva conosciuto a Boston, Rob J. la chiamò Margaret Holland,
abbreviato in Meg.
Aveva notato che Alden aveva occhio per gli animali, e un mattino gli
chiese se voleva restare con lui come bracciante, dopo aver terminato la casetta
di tronchi, e lavorare alla fattoria.
«Be', che tipo di fattoria?»
«Pecore.»
Alden fece una smorfia. «Non so niente di pecore. Ho sempre lavorato con
vacche da latte.»
«Io sono cresciuto con le pecore» ribatté Rob J. «Non ci vuole molto per
sorvegliarle. Le pecore tendono a restare ammassate, e basta un uomo solo con
un cane per condurle al pascolo nella prateria. Per quel che riguarda gli altri
lavori, castratura, tosatura e simili, io potrei insegnarteli.»
Parve che Alden riflettesse sulla proposta, ma cercava solo di non essere
scortese. «A dire la verità, non mi attirano molto le pecore. No» rispose infine.
«Grazie di cuore, ma credo proprio di no.» Forse per cambiare argomento,
chiese a Rob J. che cosa intendeva fare della vecchia giumenta. Monica Gren-
ville lo aveva portato all'Ovest, ma come cavalcatura era ormai sfinita. «Non
creda di cavarne molto se la vende così, senza rimetterla un po' in forma. C'è
molta erba nella prateria, ma dovrà comprare il fieno per l'inverno.»
Questo problema fu risolto pochi giorni dopo quando un fattore che era a
corto di denaro gli pagò con un carico di fieno la sua assistenza al parto della
moglie. Alden, consultato al riguardo, propose di prolungare il tetto della
capanna sul lato sud, formando una tettoia, sostenuta agli angoli da alcuni pali,
in modo da avere una stalla aperta per le due cavalle. Pochi giorni dopo che il
lavoro era finito, Nick Holden fece una capatina a trovare Rob. Sorrise osser-
vando la stalla addossata alla casa, ed evitò gli occhi di Alden Kimball. «È una
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costruzione piuttosto curiosa, dovete ammetterlo.» E alzando con disapprova-
zione le sopracciglia davanti alla parete nord: «Quella dannata parete è storta».
Rob J. sfiorò con le dita la curva dei tronchi, con un gesto di ammirazione.
«No, è stata costruita apposta così, e a noi piace così. È questo che distingue la
mia dalle altre case di tronchi che si possono vedere dappertutto.»
Dopo che Nick se ne andò, Alden lavorò in silenzio per circa un'ora, poi
smise di martellare sui cavicchi e si diresse là dove Rob J. stava strigliando
Meg. Batté la pipa contro il calcagno per farne cadere i residui di tabacco.
«Credo che potrò anche imparare a curare le pecore» borbottò a mezza, voce.
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La reclusa
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Il grande indiano
Le lotti si fecero gelide e limpide come il cristallo, con enormi stelle; poi
per diverse settimane il cielo si andò coprendo di nuvole sempre più dense e
più basse. Prima della fine di novembre venne la neve, splendida e terribile, e
poi il vento scavò il profondo mantello bianco accumulando banchi che met-
tevano a dura prova la cavalla, ma non la fermavano. Vedendo con che tenacia
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e con che coraggio Meg affrontava la neve, Rob J. realmente cominciò ad
amarla.
Il gelo regnò sulla pianura per tutto dicembre e gran parte di gennaio. Una
mattina all'alba, tornando a casa dopo una notte passata in una baracca fumosa
con cinque bambini, tre dei quali avevano una brutta laringite, incontrò due
indiani che erano in grossi guai. Riconobbe subito gli uomini che lo avevano
ascoltato quando suonava la viola da gamba fuori della casetta di Nick Holden.
Le carcasse di tre lepri delle nevi indicavano che erano andati a caccia. Uno dei
loro pony si era azzoppato, spezzandosi una delle zampe anteriori al nodello e
inchiodando a terra il suo cavaliere, il sauk con il grande naso adunco. Il suo
compagno, l'indiano alto e robusto, aveva subito ucciso il cavallo e gli aveva
aperto il ventre, poi aveva cercato di tirare fuori l'uomo ferito da sotto la car-
cassa e di spingerlo dentro la cavità fumante del cavallo, per evitare che mo-
risse congelato.
«Sono un medico, e forse posso essere d'aiuto.»
I due non capivano l'inglese, ma il grande indiano non gli impedì di esami-
nare il compagno ferito. Appena tastò sotto la lacera veste di pelliccia Rob J.
riconobbe che il cacciatore aveva sofferto di una dislocazione posteriore del-
l'anca destra e soffriva atrocemente. Il nervo sciatico era stato leso, perché il
piede pendeva inanimato e, quando Rob J. gli tolse il mocassino di pelle e lo
punse con la punta del coltello, l'uomo non riuscì a muovere le dita. I muscoli
flessori erano divenuti intrattabili come legno per il dolore e per il freddo, e
non c'era nessun modo di ridurre l'anca subito sul posto.
All'improvviso, con viva sorpresa di Rob J., il grande indiano balzò in sella
al suo cavallo e li abbandonò, dirigendosi attraverso la prateria verso il margine
del bosco. Forse, pensò Rob J., andava a cercare aiuto. Aveva addosso un vec-
chio mantello di pelli di pecora, tutto tarmato, che aveva vinto giocando a
poker con un tagliaboschi l'inverno precedente. Se lo tolse e coprì il paziente,
poi trasse dalla sua borsa dei panni e delle bende che usò per fasciare le gambe
dell'indiano, in modo da immobilizzare l'anca lussata. Nel frattempo era tornato
il grande indiano, trascinando due lunghi rami d'albero sfrondati, due pali
robusti ma flessibili. Li legò ai fianchi del suo cavallo come stanghe, poi li
congiunse con alcuni dei suoi indumenti di pelle, formando una specie di
lettiga a traino. I due vi collocarono il ferito, che soffrì terribilmente mentre
veniva così trascinato, benché la neve gli offrisse un fondo più morbido di
quanto avrebbe fatto il terreno nudo.
Un leggero nevischio cominciò a mulinare mentre Rob J. cavalcava dietro i
due indiani. Procedevano lungo il margine della foresta che fiancheggiava il
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fiume. Infine l'indiano voltò il cavallo verso una radura fra gli alberi ed
entrarono nel campo dei Sauk.
Era un gruppetto di tepee conici di pelli di animali - risultarono diciassette
quando Rob J. ebbe occasione di contarli - annidati fra gli alberi che li proteg-
gevano dal vento. I Sauk indossavano indumenti caldi e pesanti. Ovunque
erano visibili le tracce della riserva, perché molti portavano abiti scartati dai
bianchi, insieme con le pelli e le pellicce di animali, e in diverse tende si scor-
gevano vecchie cassette di munizioni dell'esercito americano. C'era abbon-
danza di legna da ardere e grigie spirali di fumo si alzavano dall'apertura fu-
maria dei tepee. Ma non sfuggi a Rob J. l'avidità con cui le mani si tendevano
verso le tre magre lepri, né lo sguardo smarrito che scorgeva su tutti i volti,
perché aveva già visto uomini che morivano di fame.
Il ferito fu portato in uno dei tepee e Rob J. lo segui. «C'è qualcuno che
parla inglese?»
«Io so la vostra lingua.»
Era difficile riconoscerne l'età, perché chi parlava portava lo stesso informe
mucchio di indumenti degli altri e la testa era coperta da un cappuccio di pelli
di scoiattolo cucite insieme, ma la voce era di una donna.
«Io so come sistemare l'anca di quell'uomo. Sono un medico. Sai che cos'è
un medico?»
«Lo so.» I suoi occhi castani lo guardavano calmi da sotto le pelli di scoiat-
tolo. Parlò brevemente nella sua lingua e gli altri nella tenda restarono in attesa,
osservando.
Rob J. tolse alcuni stecchi dal mucchio della legna e accese il fuoco.
Quando liberò l'uomo dagli indumenti, vide che l'anca era ruotata all'interno.
Sollevò le ginocchia dell'indiano finché furono interamente flesse e poi,
parlando attraverso la donna, si assicurò che alcuni dei presenti tenessero fermo
l'uomo sul giaciglio. Si inginocchiò e infilò la sua spalla destra sotto il ginoc-
chio del lato offeso, poi spinse con tutta la sua forza e si udì chiaramente lo
schiocco secco quando il condilo rientrò nella cavità articolare.
L'indiano giaceva come morto. Per tutto quel tempo aveva appena mugolato
e Rob J. capì che un sorso di whisky e laudano gli avrebbe fatto bene. Ma i due
medicinali erano nella sua sacca da sella e, prima che potesse andarli a
prendere, la donna aveva versato dell'acqua in un guscio di zucca, vi aveva
aggiunto una polvere tratta da un suo sacchetto di pelle e la porgeva al ferito,
che bevve avidamente. Poi poggiò una mano su ognuna delle anche dell'uomo
e lo guardò negli occhi, canticchiando sommessamente qualcosa nella loro lin-
gua. Mentre osservava e ascoltava, Rob J. sentì che i capelli gli si rizzavano
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sulla nuca. Intuiva che la donna era il loro medico. O forse una sorta di
sciamana.
Infine la notte insonne e la lotta contro la neve delle ultime ventiquattr'ore
ebbero la meglio su di lui, e stordito, come in una nebbia, uscì dall'angusto
tepee tra la folla dei Sauk che attendeva fuori. Un vecchio con gli occhi cisposi
lo toccò con reverenza. «Cawso wabeskiou!» mormorò, e gli altri ripresero in
coro: «Cawso wabeskiou, Cawso wabeskiou».
La guaritrice-sacerdotessa uscì dal tepee, e, quando il cappuccio le scivolò
dal capo, Rob J. vide che era una giovane donna. «Che cosa stanno dicendo?»
«Ti chiamano lo Sciamano Bianco» rispose.
La sciamana gli disse che, per ragioni abbastanza evidenti, l'uomo ferito si
chiamava Waucau-che, Naso d'Aquila. L'indiano alto e robusto si chiamava
Pyawanegawa, Vien Cantando. Mentre Rob J. tornava verso casa sua, incontrò
Vien Cantando e altri due Sauk, che dovevano essere tornati alla carcassa del
cavallo per prelevare la carne prima dell'arrivo dei lupi. Avevano tagliato il
pony morto in tanti pezzi e li riportavano al campo su due cavalli da soma. Gli
passarono accanto in fila, senza guardarlo, come se stessero passando vicino a
un albero.
Arrivato a casa, Rob J. scrisse nel suo diario e cercò di abbozzare a memo-
ria un ritratto della donna; ma, per quanto provasse, tutto quel che gli usciva
era una generica faccia indiana, senza sesso e smunta per la fame. Aveva
bisogno di sonno, ma il suo materasso di paglia non lo attirava. Sapeva che Gus
Schroeder aveva dei cereali da vendere e Alden gli aveva detto che anche Paul
Grueber aveva messo da parte un po' di grano allo stesso scopo. Quel pome-
riggio, cavalcando Meg e conducendo Monica per le redini, tornò al campo dei
Sauk e vi depose due sacchi di mais, uno di rape e uno di frumento.
La sciamana non lo ringraziò. Guardò i sacchi dì cibo e gridò qualche or-
dine, e mani avide li trascinarono dentro i tepee, al riparo dal freddo e dal-
l'umido. Il vento le fece cadere il cappuccio: era veramente una pellerossa, con
il viso di un vivo color rossiccio tendente al marrone. Il suo naso presentava
una netta protuberanza sul dorso e narici quasi negroidi; i grandi occhi avevano
uno sguardo franco e diretto. Quando Rob J. le chiese il suo nome rispose che
si chiamava Makwa-ikwa.
«Che significa in inglese?»
«Donna Orsa.»
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La stagione fredda
Alla fine dell'inverno la sua casetta di tronchi cominciò ad avere un'aria più
accogliente. Ovunque andava, si acquistava qualche oggetto casalingo, una
brocca di ferro, due bicchieri di stagno, una bottiglia colorata, una ciotola di
terracotta, cucchiai di legno. Ne comprava alcuni, ne riceveva altri in pagamen-
to, come un paio di vecchie ma ancora utili trapunte a patchwork: ne appese
una alla parete nord, per ripararsi dagli spifferi di aria fredda, e pose l'altra sul
letto che Alden Kimball aveva fatto per lui. Alden gli fabbricò anche uno
sgabello a tre gambe e una bassa panca da porre davanti al fuoco. Poco prima
che venisse la neve il buon carpentiere aveva fatto rotolare dentro la capanna
un ceppo di sicomoro alto circa un metro, ponendolo ritto, e sopra aveva in-
chiodato alcune assi su cui Rob J. stese un vecchio tappeto di lana. A questa
tavola sedeva come un re, assise sul miglior mobile della casa, una sedia con il
sedile di corteccia di hickory intrecciata. Qui prendeva i suoi pasti o leggeva i
suoi libri e le sue riviste prima di coricarsi, alla luce incerta di uno stoppino
acceso in una ciotola di lardo fuso. Il camino, fatto di pietre del fiume cemen-
tate con argilla, teneva calda la piccola casa. Sopra il camino erano appesi i
suoi fucili e dalle travi pendevano mazzi di erbe officinali, trecce di cipolla e
aglio, collane di fette di mele seccate e anche salsicce stagionate e un pro-
sciutto affumicato. In un angolo erano accumulati diversi utensili: una zappa,
una scure, una vanga, un forcone di legno, lavorati con diversi gradi di abilità
artigianale.
Ogni tanto suonava la sua viola da gamba. Perlopiù era troppo stanco per
dedicarsi alla musica, così da solo. Il 2 marzo arrivò all'ufficio postale di Rock
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Island una lettera di Jay Geiger, assieme a un pacco di zolfo. Giger diceva che
la terra descritta da Rob J. a Holden's Crossing era più di quanto lui e sua mo-
glie avessero sperato. Aveva mandato a Nick Holden una cambiale per l'impor-
to della caparra e si assumeva l'impegno di fare i futuri versamenti all'Ufficio
Demaniale dello Stato. Sfortunatamente i Geiger per il momento non conta-
vano ancora di trasferirsi nell'Illinois: Lillian era di nuovo incinta. «Un evento
inaspettato che, per quanto ci riempia di gioia, ci costringe a rinviare la par-
tenza.» Pensavano di aspettare finché il nuovo piccino fosse nato e fosse in
grado di resistere ai disagi e agli scossoni del viaggio attraverso la prateria.
Rob J. lesse la lettera con un misto di gioia e delusione. Era felice che Jay si
fidasse del suo giudizio e accogliesse il suo consiglio a proposito della terra,
sicché un giorno sarebbe divenuto suo vicino. Ma era avvilito che quel giorno
fosse ancora lontano. Avrebbe dato chissà che cosa per poter sedere con Jason
e Lillian e suonare quella musica che lo confortava ed elevava la sua anima. La
prateria era un'immensa, silenziosa prigione, e per la maggior parte del tempo
si sentiva solo.
Si disse che doveva trovarsi un buon cane.
A metà inverno i Sauk erano di nuovo magri e affamati. Gus Schroeder do-
mandò meravigliato come mai Rob J. volesse comprare altri due sacchi di
granturco, ma non insisté oltre quando Rob J. non gli diede alcuna spiegazione.
Gli indiani accettarono da lui quest'altro dono di grano in silenzio e senza emo-
zione visibile, come la volta precedente. Rob J. portò a Makwa-ikwa mezzo
chilo di caffè e prese l'abitudine di passare qualche ora accanto al suo fuoco.
Lei aggiungeva al caffè tante radici selvatiche secche che la bevanda risultava
diversa da ogni altro caffè che Rob J. avesse mai bevuto. Lo prendevano nero,
senza zucchero né latte: non era buono al gusto, ma era caldo e in qualche
modo aveva sapore di terra indiana. A poco a poco cominciarono a conoscersi
a vicenda: lei era stata per quattro anni a scuola in una missione per bambini
indiani vicino a Fort Crawford. Sapeva leggere un po' e aveva sentito parlare
della Scozia: ma quando Rob J. le disse: «Allora sei cristiana», lei lo corresse
subito. Il suo popolo adorava Se-wanna - il loro dio supremo - e altri manitou e
lei insegnava alla sua gente a venerarli secondo l'antico costume. Rob J. capì
che la donna era una specie di sciamana, e questo la aiutava a essere un'ef-
ficiente guaritrice. Sapeva tutto sulle erbe medicinali del posto e ne teneva dei
mazzi secchi appesi ai pali del suo tepee. Rob J. la osservò parecchie volte
mentre curava un sauk malato: sedeva a gambe incrociate al suo fianco e
cominciava a suonare sommessamente un tamburo fatto con un vaso di
terracotta pieno per tre quarti d'acqua e coperto da una sottile pelle di daino.
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Passava e ripassava sul tamburo un bastoncino ricurvo: ne usciva un basso
ronzìo che alla fine aveva un effetto soporifico. Dopo qualche tempo poggiava
le mani su quella parte del corpo che aveva bisogno di cure e parlava al malato
nella sua lingua. Rob J. la vide alleviare i dolori di un giovane con una vertebra
incrinata e di una vecchia con le ossa torturate dall'artrite.
«Come fanno le tue mani a togliere il dolore?»
Lei scosse la testa. «Non so spiegare.»
Rob J. prese le mani della vecchia nelle sue. Benché il dolore si fosse sopi-
to, sentì che le sue forze declinavano e disse a Makwa-ikwa che la vecchia
aveva solo pochi giorni da vivere. Quando tornò al campo dei Sauk, cinque
giorni dopo, la donna era morta.
«Come facevi a saperlo?» gli chiese Makwa-ikwa.
«La morte che si avvicina... alcuni della mia famiglia possono sentirlo. Una
specie di dono. Non so spiegarlo.»
Così l'uno credette alle parole dell'altra. Rob J. la trovava estremamente
interessante, del tutto diversa da qualsiasi altra persona che conoscesse. Fin da
allora erano acutamente consci della presenza fisica dell'altro. Perlopiù sede-
vano accanto al piccolo fuoco nel tepee di Makwa e bevevano caffè o chiac-
chieravano. Un giorno Rob J. cercò di spiegarle com'era la Scozia e non riuscì
a riconoscere fin dove lei lo capisse, ma Makwa-ikwa ascoltava attentamente e
ogni tanto faceva una domanda sugli animali selvatici e sui raccolti. A sua
volta gli spiegò la struttura tribale dei Sauk, e dovette impiegare tutta la sua
pazienza perché Rob J. la trovò assai complicata. La popolazione sauk era
divisa in dodici gruppi, simili ai clan scozzesi, ma, anziché McDonald o Bruce
o Stewart, si chiamavano: Na-tnawuck, Storione; Muc-kissou, Aquila dalla
testa bianca; Pucca-hummowuck, Persico degli anelli; Macco Pennyack, Patata
Orsina; Kiche Camme, Grande Lago; Payshake-issewuck, Cervo; Pesshe-
peshewuck, Pantera; Waymeco-uck, Tuono; Muck-wuck, Orso; Me-seco, Tiglio
nero; Aha-wuck, Cigno; e Muhwha-wuck, Lupo. I clan vivevano insieme paci-
ficamente: ma ogni maschio sauk apparteneva a una di due Metà, o fazioni
rivali, molto combattive: i Kee-so-qui, Lunghi Capelli, e gli Osh-cush, Uomini
Valenti. Ogni primogenito maschio veniva dichiarato alla nascita membro della
fazione del padre; ogni secondogenito era membro dell'altra fazione, e così via,
alternativamente, in modo che le due fazioni erano rappresentate più o meno
ugualmente in seno a ogni famiglia e a ogni clan. Gareggiavano tra loro nei
giochi, nella caccia, nel generare figli, nel sopportare il dolore e in altri atti di
coraggio - in ogni aspetto della loro vita. Questa fiera competizione manteneva
i Sauk forti e coraggiosi, ma non c'erano faide cruente fra le due Metà. Rob J.
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pensò che questo era un sistema più ragionevole di quello scozzese a lui
familiare, ed era in un certo senso più civile, poiché migliaia di scozzesi erano
morti per mano dei membri di clan rivali, durante molti secoli di selvaggi
conflitti fratricidi.
A causa della scarsità di cibo che riscontrava tra i Sauk, e anche per una
certa diffidenza verso il modo di cucinare indiano, Rob J. evitò in un primo
tempo di condividere i pasti di Makwa-ikwa. Poi, in diverse occasioni, quando
i cacciatori erano stati particolarmente fortunati, mangiò i cibi da lei preparati e
li trovò gustosi. Osservò che gli indiani cucinavano più stufati che arrosti e,
potendo scegliere, preferivano la carne rossa o il pollame al pesce. Makwa-
ikwa gli parlò delle Feste del Cane, banchetti religiosi perché i manitou ap-
prezzavano la carne canina. Gli spiegò che più un cane era amato come ani-
male domestico, più efficace era il sacrificio alla Festa del Cane e più valido il
suo effetto magico come rimedio alle malattie. Rob J. non poté celare il suo
disgusto. «Ma voi non trovate strano mangiare un cane, che è vostro amico?»
«Non così strano come mangiare il sangue e il corpo di Cristo.»
Rob J. era un giovane sano e normale e talvolta, benché entrambi per
difendersi dal freddo fossero avvolti in diversi strati di vesti e di pelli, accanto a
lei aveva una penosa erezione. Se le loro dita si sfioravano quando lei gli
porgeva il caffè, sentiva una reazione ghiandolare. Una volta prese le fredde
mani della donna nelle sue e fu scosso dalla vitalità che sentì palpitare in lei.
Esaminò le sue dita corte, la ruvida pelle rossiccia, le callosità rosee delle
palme. Le chiese se voleva andare qualche volta nella sua casetta a trovarlo.
Lei lo guardò in silenzio e ritirò le mani. Non disse che non voleva fargli visita,
ma non ci andò mai.
All'inizio della primavera, la stagione del fango, Rob J. cavalcò fino al cam-
po degli indiani, cercando di evitare i pantani che si erano formati ovunque,
poiché la prateria, inzuppata come una spugna, non riusciva più ad assorbire la
quantità d'acqua del disgelo. Trovò i Sauk che smontavano il loro campo inver-
nale e li seguì fino a una radura, a una decina di chilometri di distanza, dove, al
posto degli angusti tepee invernali, stavano costruendosi i loro hedonoso-te,
lunghe baracche di rami intrecciati attraverso i quali potevano spirare le miti
brezze dell'estate. C'era una buona ragione per cambiar sito: i Sauk non cono-
scevano norme igieniche e il campo invernale era ammorbato dal fetore dei
loro escrementi. Il fatto di essere sopravvissuti al duro inverno e di potersi
finalmente trasferire al campo estivo aveva rianimato gli indiani, e Rob J. vede-
va ovunque giovani che si cimentavano nella lotta o correvano o giocavano a
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mazza-e-palla, un gioco che non aveva mai visto prima. I giocatori usavano
una palla ricoperta di pelle di daino e robusti bastoni che portavano appeso in
cima un sacchetto di strisce di cuoio intrecciate. Correndo a gran velocità un
giocatore scagliava la palla fuori del suo sacchetto e un altro la prendeva
destramente nel suo. Passandosi la palla dall'uno all'altro la lanciavano a
considerevoli distanze. Il gioco era veloce e molto violento. Quando un gio-
catore aveva la palla, gli altri si sentivano in diritto di farla uscire dal suo sac-
chetto menando gran colpi di bastone, che spesso finivano sul corpo del-
l'avversario mentre gli altri incespicavano e gli cadevano addosso. Vedendo
che Rob J. seguiva il gioco come affascinato, uno dei quattro giocatori gli fece
cenno e gli porse il suo bastone.
Gli altri sogghignarono e subito lo accolsero nella partita, che a lui sembrò
più uno sfogo di violenza che un gioco. Era più robusto e muscoloso della
maggior parte degli altri giocatori. Alla prima occasione l'uomo che aveva la
palla ruotò il polso e scagliò la dura sfera contro Rob J. Questi menò senza
successo il suo bastone e dovette correre a riprendere la palla, solo per trovarsi
nel mezzo di una mischia selvaggia di lunghi bastoni che parevano picchiare
tutti sulla sua povera carne. Smarrito, dolorante, benché pieno di ammirazione
per quella destrezza che non possedeva, dovette ben presto restituire il bastone
al suo proprietario.
Mentre mangiava uno stufato di coniglio nella baracca, di Makwa-ikwa, la
donna gli disse con voce pacata che i Sauk gli volevano chiedere un favore. Per
tutto quel duro inverno avevano preso una quantità di animali da pelliccia nelle
loro trappole. Ora avevano due grosse balle di ottime pelli di visone, volpe,
castoro e ratmusqué. Volevano scambiare le pelli con semi da piantare per il
primo raccolto estivo.
Rob J. rimase sorpreso perché non aveva pensato che gli indiani coltivas-
sero la terra.
«Se portassimo noi stessi le pelli a un mercante bianco, ci imbroglierebbe»
soggiunse Makwa-ikwa. Lo disse senza rancore, come constatando un fatto.
Così una mattina lui e Alden Kimball condussero due cavalli carichi di
pelli, e un altro senza carico, fino a Rock Island. Rob J. mercanteggiò a lungo
con il padrone dell'emporio e in cambio delle pelli se ne tornò con cinque sac-
chi di granturco da semina: un sacco di piccolo granturco primaticcio, due sac-
chi di granturco più grosso e duro per farina grossa e due sacchi di granturco
tenero, dalle pannocchie grandi, per farina fine; inoltre tre sacchi di semi di
fagioli, tre di semi di zucca e tre di semi di popone. In più aveva ricevuto tre
monete d'oro da venti dollari degli Stati Uniti da dare ai Sauk come piccolo
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fondo d'emergenza, nel caso avessero dovuto comprare qualche altra cosa dai
bianchi. Alden era pieno di ammirazione per la scaltrezza del suo padrone,
convinto che avesse condotto la complicata operazione per proprio profitto. La
notte rimasero a Rock Island e in un saloon Rob J. si offrì due bicchieri di
birra, ascoltando i ricordi pieni di fanfaronate di vecchi coloni che avevano
combattuto contro gli indiani. «Tutta la terra qui apparteneva ai Sauk o ai Fox»
diceva il barista dagli occhi cisposi. «I Sauk chiamavano se stessi Osaukie e i
Fox chiamavano se stessi Mesquakie. Insieme occupavano tutta la terra fra il
Mississippi a ovest, il lago Michigan a est; il Wisconsin a nord e il fiume
Illinois a sud. Più di 20 dannati milioni di ettari della miglior terra da semina! Il
loro villaggio più grosso era Sauk-e-nuk, una vera e propria città con le sue
strade e la sua piazza. Qui vivevano undicimila Sauk che coltivavano mille
ettari fra il Rock River e il Mississippi. Bene, non ci abbiamo messo molto,
noi, a cacciare via a calci quei bastardi rossi e a mettere a frutto questa buona
terra!»
Intorno si raccontavano aneddoti di sanguinosi conflitti con Falco Nero e i
suoi guerrieri, in cui gli indiani erano sempre malvagi e i bianchi nobili e co-
raggiosi. C'erano i racconti dei veterani delle Grandi Campagne, perlopiù evi-
denti menzogne, inventate da spacconi che volevano fare gli eroi. Rob J. si rese
conto che per la maggior parte gli uomini bianchi non vedevano negli indiani
quello che vedeva lui. Parlavano come se i Sauk fossero animali selvaggi a cui
si era data giustamente la caccia finché erano fuggiti, lasciando la regione più
sicura per la popolazione umana. Rob J. aveva cercato per tutta la vita la libertà
spirituale che riconosceva nei Sauk. Era quello che sognava quando aveva
scritto il manifesto in Scozia, era quello che aveva pensato di veder morire
quando Andrew Gerould era stato impiccato. E ora lo aveva scoperto in uno
scarno manipolo di stranieri dalla pelle rossa. Non si faceva illusioni roman-
tiche: riconosceva lo squallore del campo dei Sauk, l'arretratezza della loro
cultura in un mondo che li aveva sorpassati. Ma, mentre sorseggiava la sua
birra e fingeva di prestare interesse a quelle storie di ubriachi che si vantavano
di avere sventrato, scotennato e saccheggiato, era convinto che Makwa-ikwa e i
suoi Sauk fossero la cosa migliore che avesse incontrato nel Nuovo Mondo.
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Mazza-e-palla
Un giorno Rob J. sorprese Sarah Bledsoe e il suo bambino nel modo in cui
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si sorprendono le creature selvatiche in rari momenti di riposo. Aveva visto
assaporare lo stesso oblioso piacere da un gruppo di uccelli assopiti al sole,
dopo essersi spolverati e lisciati le penne con il becco. La donna e il bambino
sedevano a terra fuori della capanna. Ma lei non si era allisciata le penne. I suoi
lunghi capelli biondi erano opachi e arruffati, e la veste stazzonata che le
copriva il magro corpo era sudicia. La sua faccia pallida e tirata, con la pelle
cascante, rifletteva la sua malattia. Il bambino, biondo come la madre e altret-
tanto arruffato e trascurato, dormiva accanto a lei.
Quando Sarah aprì gli occhi azzurri e si trovò a fissare Rob J., ritto accanto
a lei, una vampata di collera e sorpresa e paura le salì al viso; senza dire una
parola afferrò il bambino e scomparve con un balzo nella capanna. Rob J. corse
alla porta: era arrivato a detestare i suoi ripetuti tentativi di parlare con lei
attraverso quella tavola di legno.
«Mrs. Bledsoe, la prego, io voglio aiutarla.» Ma l'unica risposta furono un
grugnito e il rumore della pesante sbarra spinta a chiudere la porta.
Gli indiani non dissodavano le zolle con l'aratro come facevano i coloni
bianchi. Invece cercavano nel mantello erboso le zone dove l'erba era più rada
e con i loro appuntiti bastoni da scavo vi praticavano dei solchi, in cui lascia-
vano cadere i semi. Le zone d'erba più dura venivano coperte con mucchi di
foglie e di rami, che in un anno avrebbero fatto marcire le zolle erbose, gua-
dagnando così altro terreno da semina per la prossima primavera.
Quando Rob J. visitò il campo estivo dei Sauk, la semina del granturco era
già stata portata a termine e intorno regnava un'aria di festa. Makwa-ikwa gli
disse che dopo la semina veniva la Danza della Gru, la festa più allegra
dell'anno. Il primo atto della celebrazione era un grande gioco a mazza-e-palla,
a cui ogni maschio partecipava. Non c'era bisogno di reclutare le squadre: era
una Metà contro l'altra Metà. I Lunghi Capelli avevano una mezza dozzina di
giocatori in meno degli Uomini Valenti. Fu il grande indiano Vien Cantando
all'origine dei guai di Rob J., perché, mentre questi stava conversando con
Makwa-ikwa, arrivò e parlò alla sciamana nella sua lingua.
«Ti invita a giocare a mazza-e-palla con i Lunghi Capelli» riferì la donna a
Rob J.
«Ah, bene.» Rob J. sorrise scioccamente. Era l'ultima cosa che voleva fare,
ricordando l'abilità degli indiani e la sua goffaggine. Aveva già un rifiuto sulla
punta della lingua, ma l'uomo e la donna lo guardavano con particolare inte-
resse ed egli intuì che l'invito aveva un significato che gli era ancora oscuro.
Così, invece di declinarlo come avrebbe fatto un uomo ragionevole, ringraziò
educatamente e disse che sarebbe stato lieto di giocare con i Lunghi Capelli.
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Nel suo inglese preciso e scolastico, così strano da ascoltare, lei spiegò che
la partita avrebbe avuto inizio nel campo estivo. La Metà vincente era quella
che riusciva a infilare la palla in una piccola cavità sull'opposta riva del fiume,
a quasi 10 chilometri di distanza.
«Dieci chilometri» Rob J. fu ancora più stupito nell'apprendere che non
c'erano linee laterali. Makwa-ikwa cercò di spiegargli che chi prendesse la fuga
di lato per evitare gli avversari si sarebbe acquistato il disprezzo degli altri.
Per Rob J. era un ambiente strano, un gioco sconosciuto, la manifestazione
di una cultura primitiva. E allora, perché lo faceva? Se lo chiese decine di volte
quella notte, perché dormì nell'hedonoso-te di Vien Cantando, dato che il gioco
doveva cominciare subito dopo l'alba. La baracca era lunga circa quindici metri
e larga sei, ed era costruita di rami intrecciati coperti all'esterno da fogli di
corteccia d'olmo. Non vi erano finestre e le aperture alle due estremità erano
protette da pelli di bufalo, ma la costruzione di rami lasciava entrare l'aria in
abbondanza. Vi erano otto scompartimenti, quattro su ciascun lato di un corri-
doio centrale. Vien Cantando e sua moglie Luna dormivano in uno, gli anziani
genitori di Luna in un altro, e un altro ancora era occupato dai loro due bam-
bini. Gli altri scompartimenti erano destinati a magazzino o dispensa, e in uno
di essi Rob J. trascorse una notte insonne, studiando le stelle attraverso l'aper-
tura fumaria del soffitto e ascoltando i sospiri, i mugolìi dei cattivi sogni, le
raffiche del vento e, in diverse occasioni, ciò che poteva essere solo il rumore
di una vigorosa ed entusiastica copulazione, anche se il suo ospite non emise né
canti né gemiti.
Al mattino, dopo una colazione di farina di mais bollita in cui sentì grumi di
cenere e pietosamente non volle riconoscere altro, Rob J. dovette sottomettersi
a un inaspettato onore. Non tutti i Lunghi Capelli portavano le chiome davvero
lunghe: quello che doveva distinguere tra loro le due squadre era il colore. I
Lunghi Capelli si dipingevano di nero, una miscela di grasso animale e carbo-
ne. Gli Uomini Valenti si spalmavano di argilla bianca. Per tutto il campo si
vedevano i giovani maschi intingere le dita nelle ciotole di pittura e decorarsi la
pelle. Vien Cantando si applicò larghe strisce di nero sul viso, sul petto e sulle
braccia, poi offrì la ciotola di pittura a Rob J.
Perché no? si chiese lui un po' stordito, pescando con due dita la nera mate-
ria colorante come uno che mangiasse porridge di piselli senza cucchiaio.
Lasciò cadere a terra la sua camicia, come una nervosa farfalla maschio che si
scuotesse di dosso la crisalide, e si spalmò il torace. Vien Cantando diede
un'occhiata alle sue pesanti scarpe scozzesi e sparì, per ricomparire subito dopo
con un paio di leggeri mocassini di pelle di daino come quelli portati da tutti i
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Sauk; ma, benché Rob se ne provasse diverse paia, il suo piede era assai più
grande di quello dell'indiano. Ne risero insieme e Vien Cantando abbandonò
l'impresa, lasciando il medico con le sue pesanti calzature.
Quindi l'indiano gli porse un bastone di hickory che era più grosso e robusto
di una clava e gli fece cenno di seguirlo. Le squadre rivali erano raggruppate in
uno spiazzo aperto, circondato tutt'attorno dalle baracche. Makwa-ikwa pro-
nunciò qualche frase nella sua lingua, senza dubbio una benedizione, quindi
piegò il braccio all'indietro e lanciò la palla. La piccola sfera volò verso i
guerrieri in attesa, descrivendo un'ampia parabola che terminò in un violento
scontrarsi di bastoni fra grida selvagge e urla di dolore. Con vivo disappunto di
Rob J., gli Uomini Valenti si impadronirono della palla, che fu catturata e rapi-
ta nella rete di un giovane dalle lunghe gambe, poco più di un ragazzo, ma con
la muscolatura di un corridore adulto. Questi balzò di corsa via dallo spiazzo e
gli altri lo seguirono come un branco di cani dietro a una lepre. Era chiaramen-
te il momento degli scattisti, perché la palla passò di mano diverse volte duran-
te quella corsa disperata e ben presto fu molto lontana da Rob J.
Vien Cantando era rimasto al suo fianco. Parecchie volte riuscirono ad avvi-
cinarsi ai primi, quando si attaccava la mischia, rallentando il movimento in
avanti. L'indiano grugnì di soddisfazione quando la palla fu afferrata dalla rete
di uno dei Lunghi Capelli, ma non parve sorpreso quando un momento dopo fu
ricatturata dagli Uomini Valenti. Mentre il gruppo correva lungo il margine
della boscaglia che fiancheggiava il fiume, l'indiano fece cenno a Rob J. di se-
guirlo e i due si scostarono dalla direzione presa dagli altri e si lanciarono attra-
verso l'aperta prateria, dove i loro piedi sollevavano spruzzi di rugiada dal gio-
vane tappeto erboso, come sciami di insetti d'argento che li inseguissero.
Ma dove lo conduceva l'indiano? E poteva fidarsi? Era troppo tardi per porsi
tali domande, poiché ormai si era impegnato. Concentrò la sua energia nel ten-
tativo di tener dietro al compagno, che correva bene per essere così grande e
grosso. E ben presto comprese le sue intenzioni: stavano tagliando la prateria in
linea retta per intercettare gli altri che si muovevano su un percorso più lungo,
seguendo l'ansa del fiume. Quando lui e l'indiano poterono rallentare il passo,
Rob J. aveva i piedi pesanti come piombo, ansimava e sentiva un dolore lanci-
nante al costato. Ma arrivarono al termine dell'ansa prima del gruppo.
In realtà il gruppo era rimasto molto indietro in confronto ai velocisti della
prima linea. Mentre Rob J. e Vien Cantando con il fiato grosso aspettavano in
un folto di querce e hickory, tre corridori dipinti di bianco irruppero nella
radura. Il primo non aveva la palla: reggeva negligentemente il suo bastone con
il sacchetto vuoto, come se fosse una lancia. Aveva i piedi nudi e portava un
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paio di laceri calzoni che erano nati come mutandoni di uomo bianco fatti in
casa. Era più piccolo dei due uomini celati tra gli alberi, ma muscoloso, e il suo
aspetto era reso ancora più feroce dal fatto che il suo orecchio sinistro era stato
strappato molto tempo prima, lasciando su quel lato della testa una larga cica-
trice. Rob J. si tese, pronto a balzare, ma Vien Cantando lo trattenne, toccan-
dogli il braccio, e lasciarono passare il corridore d'avanguardia. Poco dietro di
lui arrivava la palla, nella rete del giovane membro degli Uomini Valenti che
l'aveva afferrata quando Makwa-ikwa l'aveva lanciata in gioco. Accanto gli
correva un sauk basso e tarchiato con un paio di pantaloni tagliati a metà, che
un tempo erano stati confezionati per la cavalleria degli Stati Uniti, blu con una
larga striscia giallo sporco su entrambi i lati.
Vien Cantando puntò un dito su Rob J. e poi sul giovane, e Rob J. annuì:
quel giovane costituiva il suo compito. Sapeva che dovevano muoversi sfrut-
tando l'effetto sorpresa, perché, se questo Uomo Valente gli sfuggiva, non lo
avrebbero più ripreso.
Così si lanciarono rapidi come il fulmine, e ora Rob J. comprese uno degli
scopi delle strisce di cuoio che gli avevano avvolto intorno alle braccia: con la
stessa destrezza con cui un buon pastore avrebbe catturato un ariete e gli avreb-
be legato le zampe, Vien Cantando gettò a terra l'indiano e gli legò strettamente
i polsi e le caviglie. Ed era tempo, perché il corridore d'avanguardia stava già
tornando indietro. Rob J. fu più lento nel legare il giovane sauk, e così Vien
Cantando dovette affrontare da solo l'avversario dall'orecchio mozzo. Questi
vibrò il suo bastone come una clava, ma Vien Cantando eluse il colpo quasi
con disprezzo. Era alto una volta e mezzo quell'altro, e assai più forte: lo
inchiodò al suolo e lo legò prima ancora che Rob J. avesse finito con il suo
prigioniero.
Vien Cantando prese la palla e la infilò nella rete di Rob J. Senza una parola
né uno sguardo ai tre Sauk legati, spiccò la corsa. Reggendo la palla nella rete
come fosse una bomba con la miccia accesa, Rob J. si lanciò dietro di lui.
Erano corsi avanti senza incontrare ostacoli quando Vien Cantando si fermò
e gli indicò che avevano raggiunto il punto dove dovevano attraversare il
fiume. Un altro degli scopi delle corregge risultò chiaro quando l'indiano legò
il bastone di Rob J. alla sua cintura, lasciandogli le braccia libere per nuotare.
Quindi legò anche il proprio bastone al perizoma e scalciò via i mocassini di
pelle, abbandonandoli sulla riva. Rob J. sapeva che i suoi piedi erano troppo
delicati per correre senza le scarpe, così le legò per le cinghie e se le appese al
collo. Gli restava la palla, e se la infilò nei calzoni.
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Vien Cantando sogghignò e alzò tre dita.
Benché non fosse la più brillante delle trovate, tuttavia servì a rilassare la
tensione di Rob J., che alzò la testa e fece una gran risata. Fu un errore, perché
l'acqua portò lontano il suono, a cui risposero le grida degli inseguitori che li
avevano scoperti. Quindi non persero tempo a gettarsi entrambi nella fredda
corrente del fiume.
Nuotarono a fianco a fianco, benché Rob J. usasse lo stile europeo a rana e
Vien Cantando si spingesse avanti muovendo le mani come fanno gli animali.
Rob J. si divertiva immensamente; non si sentiva esattamente come un nobile
selvaggio, ma non ci sarebbe voluto molto per convincerlo che era
Calzadicuoio*. Quando raggiunsero l'altra riva, l'indiano grugnì di impazienza
mentre Rob J. si infilava le scarpe. Si potevano vedere le teste dei loro inse-
guitori galleggiare ballonzolando sul fiume come tante mele in una vasca.
Quando infine Rob J. fu pronto ed ebbe rimesso la palla nel sacchetto, il primo
dei nuotatori era quasi arrivato a riva.
Spiccarono la corsa e Vien Cantando gli additò la bocca della piccola cavità
che era la loro meta. Questo gli diede le ali ai piedi e un grido d'esultanza nel
suo nativo gaelico gli uscì dalle labbra; ma era prematuro. Una mezza dozzina
di Sauk irruppe sul percorso fra loro e la cavità; benché l'acqua avesse aspor-
tato gran parte del colore, sui loro corpi restavano tracce di bianco. Quasi
immediatamente una coppia di Lunghi Capelli balzò dai boschi e attaccò gli
Uomini Valenti. Nel XV secolo uno degli antenati di Rob J., Brian Cullen,
aveva tenuto a bada con una sola mano un'intera squadra dei McLaughlins
roteando la sua grande spada scozzese in un micidiale cerchio di morte. Con
due cerchi un po' meno micidiali, e tuttavia abbastanza paurosi, i due Lunghi
Capelli ora trattennero tre degli avversari, roteando i loro bastoni. Questo la-
sciava tre degli Uomini Valenti liberi di gettarsi sulla palla. Vien Cantando
parò abilmente un gran colpo di randello con il suo bastone, quindi liquidò
l'avversario con un calcio ben calcolato del suo piede nudo.
«Bene, così, nel culo, un calcio nel suo dannato culo!» urlò Rob J., dimen-
ticando che nessuno poteva capire le sue parole. Un indiano si gettò su di lui
come un indemoniato. Rob J. fece uno scarto di lato e, quando i piedi nudi
dell'uomo arrivarono a tiro, gli menò un gran calcio negli stinchi con la sua
pesante scarpa scozzese. Scattò oltre la sua vittima che gemeva e in pochi passi
fu abbastanza vicino alla cavità, anche per la sua limitata perizia. Con uno
scatto del polso la palla arrivò alla meta anche se, invece che con un tiro netto e
* Il protagonista dei Racconti di Calzadicuoio, la serie di cinque romanzi di James
Fenimore Cooper, in cui è compreso il notissimo L'ultimo dei Moicani. [N.d.T.]
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preciso, giunse rimbalzando un po' a fatica nella buia bocca della tana. L'im-
portante fu che tutti la videro entrare.
Rob J. scagliò il suo bastone in aria e urlò: «VITTORIA! AL CLAN DEI
NERI!».
Udì, più che sentirlo, il colpo del bastone che gli arrivò in testa, vibrato
dall'uomo che gli stava alle spalle. Fu un suono secco e duro, come quello che
aveva imparato a riconoscere nel campo dei tagliaboschi, il tonfo di un'ascia
calata su un tronco di quercia. Con suo sommo stupore gli parve che la terra si
aprisse. Cadde in un abisso nero dove tutto finì e il mondo si spense.
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16
A caccia di cerbiatte
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La Stephenson House rifletteva il carattere di una città rivierasca sul
Mississippi, dove annualmente approdavano millecinquecento battelli a vapore
e dove spesso si vedevano passare zattere di tronchi lunghe fino a mezzo chilo-
metro. Ogni volta che i marinai e i tagliaboschi avevano denaro, l'hotel era
rumorosamente allegro, e talvolta violento. Nick Holden aveva provveduto a
una sistemazione che era costosa ma offriva una piacevole intimità: una suite di
due camere da letto separate da un salotto-stanza da pranzo. Le due donne era-
no cugine, entrambe di cognome Dawber, incantate dal fatto che i loro cavalieri
fossero dei professionisti. Nick scelse Lettie, Rob J. ebbe Virginia. Erano mi-
nute e vivaci come passerotti, ma avevano un'aria maliziosa e un po' impudente
che spiacque subito a Rob. Lettie era vedova. Virginia gli disse che non era mai
stata sposata; ma quella notte, quando conobbe intimamente il suo corpo, Rob
J. si accorse che aveva partorito figli.
La mattina dopo, quando i quattro si incontrarono a colazione, le due ragaz-
ze bisbigliavano e ridacchiavano fra loro. Virginia doveva aver raccontato a
Lettie del preservativo che Rob J. chiamava Vecchio Corno e Lettie dovette
parlarne a Nick, perché, mentre cavalcavano verso casa, Nick ne accennò ri-
dendo. «Perché poi prendersi la briga di usare quelle cose disgustose!»
«Be', le malattie» rispose Rob J. pacato. «E per evitare le gravidanze.»
«Rovina il piacere.»
Ma tutta la faccenda era stata davvero un piacere? Rob J. dovette ammettere
che il suo corpo e il suo spirito ne avevano tratto un certo sollievo e, quando
Nick disse che se l'era proprio goduta, Rob J. si trovò a rispondere che se l'era
goduta anche lui, e che, sicuro, dovevano andare a caccia di cerbiatte qualche
altra volta.
Pochi giorni dopo, passando a cavallo accanto alla tenuta degli Schroeder,
Rob J. vide Gus in un prato che manovrava la falce, malgrado le dita amputate,
e si scambiarono un saluto. Fu tentato di passare oltre la capanna di Sarah sen-
za fermarsi, perché la donna gli aveva detto chiaramente che lo considerava un
intruso, e questo modo di fare lo rendeva furioso. Ma all'ultimo momento girò
il cavallo, entrò nella radura e smontò.
Davanti alla porta trattenne la mano prima che le sue nocche potessero
bussare, perché sentiva all'interno il piagnucolio del bambino e rauche grida
della madre. Suoni di cattivo auspicio. Tentò di aprire la porta: questa volta non
era chiusa. Dentro, il tanfo lo colpì come un pugno e la luce era scarsa, ma poté
vedere Sarah Bledsoe gettata sul pavimento. Accanto a lei sedeva il bambino,
con la faccia bagnata di lacrime, e il suo terrore fu così grande all'entrata
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dell'alto e grosso sconosciuto che si immobilizzò e nessun suono uscì dalla sua
bocca. Rob J. voleva prenderlo in braccio e confortarlo, ma, poiché la donna
gridò di nuovo, egli seppe che doveva dedicare a lei la sua attenzione.
Si inginocchiò e le toccò la guancia. Sudore freddo. «Che le succede,
signora?»
«Il cancro. Ahi!»
«Dove le fa male, Mrs. Bledsoe?»
Le sue mani con le lunghe dita tese passarono come ragni bianchi sul suo
addome, da entrambi i lati della pelvi.
«Dolore acuto o sordo?»
«Lancinante! Straziante! Signore... è terribile!»
Egli temeva che l'urina fuoriuscisse da una fistola causata dal parto; se era
effettivamente così, non c'era niente che potesse fare per lei.
La donna chiuse gli occhi, perché la prova evidente della sua continua in-
continenza penetrava nel naso e nei polmoni a ogni respiro.
«Io devo visitarla.»
Senza dubbio lei si sarebbe rifiutata, ma quando aprì la bocca fu per emette-
re un altro grido di dolore. Era rigida per la tensione, ma si adeguò docilmente
quando Rob J. la mise in posizione semiprona sul fianco sinistro, con il ginoc-
chio e la coscia destra sollevati. Poté così constatare che non c'era nessuna
fistola.
Aveva nella borsa una scatoletta di lardo fresco, che usò come lubrificante.
«Non deve impressionarsi, io sono un medico» le disse, ma lei pianse più di
umiliazione che di dolore quando sentì il dito medio della sua mano sinistra che
si insinuava nella vagina mentre la destra le palpava l'addome. Rob J. cercava
di vedere con la punta del dito come con un occhio: dapprima non poté vedere
nulla mentre toccava e tentava, ma quando arrivò vicino all'osso pubico trovò
la cosa che si era aspettato. E poi un'altra.
Ritrasse piano il dito e le diede un cencio per asciugarsi; poi andò al ru-
scello a lavarsi le mani.
Per parlare con lei, la condusse fuori alla luce del sole e la fece sedere su un
tronco, con il bambino in braccio.
«Lei non ha un cancro.» Avrebbe desiderato non dover aggiungere altro.
«Lei soffre di calcoli alla vescica.»
«E non morirò?»
Era tenuto a dire la verità. «Con il cancro non avrebbe avuto nessuna
speranza. Con i calcoli alla vescica, una buona speranza c'è.» Le spiegò come
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potevano formarsi corpuscoli minerali nella vescica, causati probabilmente da
dieta poco variata e da prolungata diarrea.
«Si, ho avuto diarrea per lungo tempo dopo il parto. C'è una cura?»
«No. Nessuna medicina può sciogliere i calcoli. Quelli piccoli talvolta fuo-
riescono con l'urina e spesso hanno spigoli taglienti che possono lacerare i
tessuti. Per questo, credo, lei ha visto sangue nelle urine. Ma lei ha due calcoli
grossi. Troppo grossi per passare.»
«E allora? Lei mi taglierà? Per amor di Dio!» chiese la donna con voce
tremante.
«No.» Rob J. esitò, non sapendo quanto dovesse dirle. Una voce del Giura-
mento di Ippocrate che aveva prestato diceva: Io non taglierò una persona che
soffre di un calcolo. Alcuni macellai ignoravano il giuramento e tagliavano lo
stesso, penetrando con il bisturi nel perineo fra l'ano e la vulva, o lo scroto, per
aprire la vescica e asportare i calcoli; ma si lasciavano alle spalle pochi pazienti
che alla fine guarivano e molte vittime che morivano di peritonite o restavano
menomate per tutta la vita perché un muscolo dell'intestino o della vescica era
stato reciso. «Io dovrei penetrare nella vescica con uno strumento chirurgico
attraverso l'uretra, lo stretto canale per cui passa l'urina. Lo strumento si chiama
litotritore. Ha due piccole pinze d'acciaio, come chele, con cui asportare o
frantumare i calcoli.»
«Sarà doloroso?»
«Sì, soprattutto quando si inserisce e quando si estrae il litotritore. Ma il
dolore sarebbe sempre minore di quello che lei soffre ora. Se l'intervento aves-
se successo, lei guarirebbe completamente.» Era difficile per lui ammettere che
il rischio più grande stava nella sua insufficiente capacità di medico. «Se io,
cercando di afferrare la pietruzza nelle pinze del litotritore, dovessi pungere la
vescica e lacerarla, o se dovessi ferire il peritoneo, penso che lei morirebbe per
infezione.» Studiando il suo viso contratto, vide baluginare i lineamenti di una
donna più giovane e più carina. «Tocca a lei decidere se devo tentare.»
Nella sua agitazione la donna stringeva troppo il bambino, che cominciò a
strillare. Per questo ci volle qualche momento perché Rob J. capisse qual era la
parola che aveva mormorato. «La prego.»
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Le canoe erano ormai cariche: Falco Nero, il Profeta e Neosho, uno stre-
gone sauk, si imbarcarono nella canoa di testa, gli altri li seguirono reman-do
vigorosamente contro l'impetuosa corrente del Masesibowi. Falco Nero aveva
ordinato che nessuno distruggesse o uccidesse finché le sue forze non erano
attaccate. Durante la navigazione, quando si avvicinavano a una fattoria di
mookamonik, ordinava ai suoi di suonare i tamburi e cantare. Con le donne, i
bambini e i vecchi aveva circa milletrecento voci e i coloni fuggivano al terri-
bile suono. In alcune fattorie si procurarono del cibo, ma avevano molte bocche
da nutrire e non avevano tempo di cacciare o pescare.
Falco Nero aveva mandato messaggeri a una dozzina di tribù, e in Canada
agli inglesi, per chiedere aiuto. I messaggeri riportarono cattive notizie. Non
c'era da sorprendersi che vecchi nemici come i Sioux e i Chippewa e gli Osage
rifiutassero di allearsi con i Sauk contro i visi pallidi: ma non rispose all'appel-
lo neppure il fraterno popolo dei Mesquakie, né alcun'altra tribù amica. E, cosa
ancora peggiore, il Padre Inglese mandò ai Sauk solo parole di incoraggia-
mento e auguri di buona fortuna in guerra.
Ricordando i cannoni delle navi da guerra, Falco Nero condusse il suo
popolo lontano dalla riva del fiume, dopo aver tirato in secco le canoe sulla
sponda est dalla quale erano stati esiliati. Poiché ogni minima quantità di cibo
era preziosa, ognuno divenne un portatore, anche le squaw che erano gravide di
un figlio, come Unione-di-Fiumi. Passarono oltre Rock Island e risalirono la
valle del Rock River per incontrarsi con i Potawatomi da cui speravano di
avere in prestito un po' di terreno per coltivarvi il loro mais. Appunto dai Pota-
watomi Falco Nero venne a sapere che il Grande Padre di Washington aveva
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venduto le terre dei Sauk a investitori bianchi. Il terreno su cui sorgeva Sauk-e-
nuk e quasi tutti i loro campi erano stati comprati da George Davenport, il mer-
cante che, pretendendo di essere loro amico, li aveva insistentemente consi-
gliati ad abbandonare il paese.
Falco Nero ordinò una Festa del Cane, perché sapeva che il Popolo aveva
bisogno dell'aiuto dei manitou. Il Profeta sorvegliò l'uccisione dei cani, la
pulitura e la purificazione delle carni. Mentre stavano cuocendo, Falco Nero
pose le sue borse degli amuleti davanti ai suoi uomini. «Miei bravi, miei guer-
rieri,» disse «Sauk-e-nuk non esiste più. Le nostre terre sono state rubate. I
soldati dei visi pallidi hanno bruciato i nostri hedonoso-te. Hanno abbattuto gli
steccati dei nostri campi. Hanno passato l'aratro sul nostro Sito dei Morti e
piantato grano in mezzo alle nostre sacre ossa. Queste sono le borse degli
amuleti di nostro padre Muk-ataquet, che fu l'origine del popolo sauk. Furono
trasmesse al grande capo guerriero del nostro popolo, Na-namakee, che fu in
guerra con tutti i popoli dei laghi e con tutti i popoli delle pianure e non fu mai
sconfitto. Mi aspetto da voi tutti che sappiate difenderle.»
I guerrieri mangiarono le sacre carni e ne trassero forza e coraggio. Era
necessario, perché Falco Nero sapeva che i Lunghi Coltelli si preparavano ad
attaccarli. Forse furono i manitou che consentirono a Unione-di-Fiumi di parto-
rire il figlio in questo accampamento, piuttosto che durante la marcia. Era un
maschio, e la sua nascita contribuì a rianimare lo spirito dei guerrieri non meno
che la Festa del Cane, perché Bisonte Verde diede a suo figlio il nome di Wato-
kimita, Colui-Che-Possiede-Terra.
Le voci che Falco Nero e i suoi Sauk erano sul sentiero di guerra susci-
tarono una tale isterica agitazione nel Paese che il governatore Reynolds
dell'Illinois lanciò un appello per arruolare mille volontari a cavallo. Si
presentò un numero più che doppio di aspiranti sterminatori di indiani e 1.935
uomini completamente impreparati furono riuniti a Beardstown, mischiati con
342 soldati regolari e rapidamente organizzati in quattro reggimenti e due
battaglioni di ricognitori. Samuel Whiteside di St. Clair County fu nominato
generale di brigata e posto al comando delle truppe.
Dai rapporti dei coloni Whiteside venne a conoscere la posizione del campo
sauk e fece avanzare la sua brigata. Era stata una primavera insolitamente
piovosa e dovettero passare a nuoto anche i torrenti minori, mentre i comuni
acquitrini rivieraschi diventavano paludi in cui si dibattevano a fatica. Ci
vollero cinque giorni di duro cammino attraverso regioni senza strade perché la
brigata raggiungesse Oquawka, dove avrebbero dovuto trovare i rifornimenti.
Ma l'esercito aveva fatto un grossolano errore: non c'erano rifornimenti ad
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attenderli, e i militari avevano da tempo consumato i viveri che avevano porta-
to nelle loro sacche da sella. Indisciplinati e rissosi, gli uomini, che erano pur
sempre dei civili, tumultuarono contro i loro ufficiali, chiedendo cibo. White-
side spedì un dispaccio al generale Henry Atkinson a Fort Armstrong, e
Atkinson immediatamente mandò il piroscafo Chieftain con un carico di vetto-
vaglie. Whiteside fece avanzare i due battaglioni di soldati regolari, mentre per
almeno una settimana la massa dei volontari si riempì il ventre e rimase a
riposo.
Gli uomini erano penosamente consapevoli di trovarsi in un ambiente ostile
e sinistro. In un mite mattino di maggio il grosso della brigata, circa 1.600
uomini a cavallo, mosse contro Città del Profeta, il villaggio abbandonato di
Nuvola Bianca, e la diede alle fiamme. Ma dopo il fatto gli uomini divennero
inspiegabilmente nervosi e a poco a poco si convinsero che dietro a ogni colli-
na erano in agguato indiani assetati di vendetta. Questo nervosismo divenne
paura, e il panico portò alla disfatta. Abbandonando armi, munizioni e riserve
di cibo, si diedero a una fuga disperata davanti a un nemico inesistente, preci-
pitandosi per prati, boscaglie e foreste, da soli o in piccoli gruppi, senza fer-
marsi, finché, coperti di vergogna, non arrivarono nei dintorni della città di
Dixon, a 16 chilometri dal luogo dove avevano incominciato a correre.
Il primo vero scontro ebbe luogo non molto dopo. Falco Nero e circa qua-
ranta guerrieri erano in viaggio per incontrarsi con alcuni Potawatomi, da cui
cercavano di ottenere in affitto un campo di granturco. Si erano accampati sulle
rive del Rock River quando un esploratore riferì che una numerosa squadra di
Lunghi Coltelli marciava nella loro direzione. Falco Nero legò immedia-
tamente una bandiera bianca a un palo e mandò tre Sauk disarmati incontro ai
bianchi per chiedere un colloquio con il loro comandante. Dietro di loro mandò
altri cinque uomini a cavallo come osservatori.
I soldati non avevano alcuna esperienza di lotta con gli indiani e furono
terrorizzati alla vista dei Sauk. Catturarono immediatamente i tre messaggeri
con la loro bandiera di tregua e li fecero prigionieri; poi si gettarono all'in-
seguimento degli altri cinque osservatori due dei quali furono raggiunti e uc-
cisi. Gli altri riuscirono ad arrivare al campo, sempre inseguiti dai soldati.
Quando le truppe bianche sopraggiunsero, furono attaccate da circa trenta-
cinque guerrieri guidati dalla fredda furia di Falco Nero, disposto ad affrontare
la morte del valoroso per vendicare il tradimento dei visi pallidi. I soldati
dell'avanguardia immaginarono che gli indiani avessero alle spalle un esercito
sterminato di guerrieri: gettarono un primo sguardo ai Sauk che li attaccavano,
voltarono i cavalli e si diedero alla fuga.
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Nulla è così contagioso come il panico in battaglia e in pochi minuti le
truppe bianche furono in pieno caos. Nella confusione due dei tre Sauk che
erano stati catturati con la bandiera di tregua riuscirono a fuggire. Il terzo fu
ucciso a fucilate. I 275 soldati regolari, a cavallo e bene armati, furono presi dal
terrore e fuggirono non meno precipitosamente del grosso dei volontari; ma
questa volta il pericolo non era immaginario. Le poche decine di guerrieri di
Falco Nero li incalzarono, catturarono gli sbandati e se ne tornarono con undici
scalpi. Alcuni dei 264 bianchi in fuga non si fermarono finché non raggiunsero
le loro case, ma la maggior parte dei soldati si raggrupparono infine nella città
di Dixon.
Per tutto il resto della sua vita la fanciulla che era chiamata Due Cieli dove-
va ricordare la gioia che seguì quella battaglia. Giovane com'era, sentiva intor-
no la speranza. La notizia della vittoria si diffuse rapidamente nel mondo dei
pellirosse e ben presto 92 Winnebago vennero a unirsi a loro. Falco Nero
andava in giro con una camicia bianca guarnita di increspature e un trattato di
giurisprudenza rilegato in pelle sotto il braccio - entrambi trovati in una sacca
da sella abbandonata da un ufficiale fuggiasco. La sua eloquenza infiammava
gli uomini. Avevano dimostrato che i mookamonik potevano essere sconfitti,
diceva, e ora altre tribù avrebbero mandato i loro guerrieri a formare quell'al-
leanza che era il suo sogno.
Ma i giorni passarono e nessun guerriero arrivò. Le riserve di cibo dimi-
nuivano e la cacciagione era scarsa. Infine Falco Nero mandò i Winnebago in
una direzione e condusse il Popolo nell'altra. Contro i suoi ordini, i Winnebago
attaccarono insediamenti bianchi rimasti indifesi e riportarono gli scalpi delle
vittime, compreso quello di St. Vrain, l'Indian Agent. Per due giorni di seguito
il cielo divenne verde e nero e il manitou Shagwa scosse l'aria e la terra. Wa-
bokieshiek ammoni Falco Nero a non mettersi mai in marcia se non dopo aver
mandato molto avanti degli esploratori e il padre di Due Cieli borbottò che non
era necessario un profeta per capire che si stavano preparando brutti giorni.
Il carro arrivò a una postazione militare che, come seppero più tardi, si
chiamava Fort Crawford, ma non entrò e portò le giovani sauk cinque chilo-
metri oltre il forte, a una fattoria di bianchi circondata da baracche e palizzate.
Due Cieli vide campi arati e coltivati e diverse specie di animali al pascolo e di
pollame. Dentro la casa non riusciva neppure a respirare perché l'aria le appa-
riva estranea, satura com'era di odore di sapone e di cera per pavimenti, un
odore di inviolabile intimità mookamon che detestò poi per tutta la vita. Alla
Scuola Evangelica per Ragazze Indiane dovette sopportarlo per quattro anni.
La scuola era diretta dal reverendo Edvard Bronsun e da Miss Eva, fratello e
sorella di mezza età. Nove anni prima, con il patrocinio della Società Missio-
naria di New York City, si erano accinti a penetrare nel territorio sconosciuto
degli indiani per portare quei selvaggi pagani a Gesù. Avevano cominciato la
loro scuola con due ragazze Winnebago, una delle quali debole di mente. Con
perversa ostinazione le femmine indiane rifiutarono i ripetuti inviti dei due
Bronsun di andare a coltivare i loro campi, curare il loro bestiame, imbiancare i
loro edifici e fare le pulizie della loro casa. Solo con l'intervento delle autorità e
dell'esercito fu possibile obbligarne qualcuna al lavoro, finché con l'arrivo delle
ragazze sauk i due missionari ebbero ventun imbronciate ma obbedienti allieve
che lavoravano in una delle fattorie meglio tenute della regione.
Il reverendo Edvard, alto e magro, con il cranio calvo e lentigginoso, istrui-
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va le ragazze in agricoltura e religione, mentre Miss Eva, corpulenta matrona
dagli occhi gelidi, insegnava come i bianchi si aspettassero che i pavimenti
fossero lavati, i mobili spolverati e il legno lucidato. Gli studi delle allieve con-
sistevano in lavori domestici e nell'incessante, pesante lavoro nei campi, nel-
l'imparare a parlare inglese, dimenticare la lingua e la cultura natie e pregare
divinità straniere. Miss Eva, sempre con il suo freddo sorriso, somministrava i
castighi per le diverse colpe, come pigrizia o insolenza o l'uso di una parola
indiana, utilizzando flessibili bacchette tagliate dal prugno della fattoria.
Le altre allieve erano delle tribù dei Winnebago, Chippewa, Illinois, Kicka-
poo, Irochesi e Potawatomi. Tutte guardarono le nuove venute con ostilità, ma
le Sauk non le temevano: arrivando insieme, formavano una maggioranza
tribale, anche se il sistema del posto cercava di annullare questo vantaggio. La
prima cosa che ogni nuova ragazza perdeva era il suo nome indiano. I Bronsun
erano convinti che solo sei nomi biblici fossero capaci di ispirare pietà in una
neofita: Rachel, Ruth, Matu, Martha, Sarah o Anna. Poiché a causa di questo
numero così limitato diverse ragazze avevano lo stesso nome, per evitare
confusione assegnavano a ogni allieva un numero, che restava disponibile
quando l'assegnataria lasciava la scuola. Così Luna divenne Ruth Tre; Donna
Alta, Mary Quattro; Uccello Giallo, Rachel Due; e Donna Fumo, Martha Tre.
Due Cieli fu Sarah Due.
Non fu difficile adattarsi. Le prime parole che le ragazze impararono furono
"per favore" e "grazie". A tavola tutti i cibi e le bevande venivano identificati
una prima volta in inglese. Da quel momento quelle che non li chiedevano in
inglese restavano senza cibo. Le ragazze sauk impararono l'inglese molto rapi-
damente. I due pasti giornalieri erano composti da farina di mais e pane di
granturco e varie radici commestibili tritate. La carne, molto rara, era lardo o
selvaggina minuta. Le ragazze, che avevano provato la fame, mangiavano avi-
damente. Malgrado il duro lavoro, misero un po' di carne sulle ossa. L'espres-
sione apatica sparì dal viso di Donna Alta; ma delle cinque ragazze sauk lei era
quella che più facilmente si distraeva e si metteva a parlare nella lingua del
Popolo, e così veniva picchiata più spesso delle altre. Nel secondo mese di
scuola, Miss Eva la sentì mormorare in lingua sauk e la frustò duramente, men-
tre il reverendo Edvard stava a guardarla. Quella notte il reverendo venne nel
buio dormitorio del solaio e sussurrò che aveva un unguento da spalmare sulla
schiena di Mary Quattro per lenire il dolore e la condusse fuori del dormitorio.
Il giorno dopo Mr. Edvard diede a Donna Alta un sacchetto di pane di mais,
che la fanciulla divise con le altre Sauk. Dopo di ciò egli venne spesso al
dormitorio di notte a prendere Donna Alta, e le ragazze Sauk si abituarono alla
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gradita aggiunta di cibo.
Dopo quattro mesi Donna Alta cominciò a sentirsi male al mattino e lei e
Due Cieli capirono, prima ancora che si vedesse dal rigonfiamento del ventre,
che aspettava un bambino.
Poche settimane dopo Mr. Edvard attaccò il cavallo al calesse e Miss Eva
prese con sé Donna Alta nel calesse e la condusse via. Tornò sola e riferì a Due
Cieli che sua sorella era stata fortunata: da ora in poi sarebbe rimasta a lavorare
in una bella fattoria cristiana, dall'altra parte di Fort Crawford. Due Cieli non
rivide più Donna Alta.
Ogniqualvolta Due Cieli era sicura che fossero sole, parlava alle altre
ragazze nella loro lingua. Mentre mondavano le patate dagli insetti, raccontava
loro le antiche leggende che Unione-di-Fiumi aveva raccontato a lei. Mentre
ripulivano le barbabietole dalle erbacce, cantava le canzoni dei Sauk. E mentre
tagliavano la legna parlava loro di Sauk-e-nuk e del campo invernale, ricordan-
do le danze e le feste e gli uomini del loro Popolo, morti o vivi. E se non le
rispondevano nella loro lingua, minacciava di batterle più aspramente di quanto
facesse Miss Eva. Anche se due delle ragazze erano maggiori di età, e più alte e
più forti di lei, nessuna osava disobbedire e le fanciulle conservarono la loro
lingua.
Trascorsero così circa tre anni. Un giorno arrivò una nuova allieva, una
ragazza sioux. Penna d'Ala era maggiore di Donna Alta, come età; era della
tribù dei Wabashaw e di notte tormentava le fanciulle sauk raccontando come
suo padre e i suoi fratelli avevano aspettato i Sauk sull'altra sponda del Masesi-
bowi e avevano ucciso e scotennato a uno a uno tutti i loro nemici sauk che
erano riusciti ad attraversare il fiume durante il massacro alla foce del Bad
Axe. Penna d'Ala ebbe il nome di Donna Alta, Mary Cinque. Fin dal principio
Mr. Edvard l'aveva adocchiata. Due Cieli sognava di ucciderla, ma la presenza
di Penna d'Ala risultò una fortuna, perché due mesi dopo anche lei era incinta:
forse Mary era un nome propiziatore di fecondità.
Due Cieli osservò gonfiarsi il ventre di Penna d'Ala, e fece progetti e prepa-
rativi. Un caldo, tranquillo giorno d'estate Miss Eva condusse via Penna d'Ala
con il calesse; Mr. Edvard rimase solo e non poteva controllare tutto. Appena
Miss Eva si fu allontanata, Due Cieli gettò a terra la zappa con cui stava
lavorando nel campo di bietole e strisciò via furtivamente finché arrivò dietro il
fienile. Accumulò resinose ramaglie di pino contro le pareti di legno secco e le
accese con gli zolfanelli che aveva rubato e messo da parte per l'occasione.
Quando si accorsero del fuoco, il fienile era già in fiamme. Mr. Edvard si
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precipitò come un pazzo dal campo di patate, urlando con gli occhi fuori delle
orbite, e mise le ragazze in fila con i secchi d'acqua.
Due Cieli rimase fredda nel trambusto generale. Andò a cercare Luna,
Uccello Giallo e Donna Fumo. Poi ebbe un'altra idea: prese una delle chiavi di
Miss Eva e se ne servì per far uscire il grosso maiale maschio dal fetido fango
del porcile. Lo spinse nella lustra e ordinata casa di Miss Eva, odorosa di pietà,
e chiuse la porta. Poi guidò le altre ragazze verso i boschi, lontano dalla fattoria
dei mookamonik.
Evitarono le strade e camminarono nei boschi finché raggiunsero il fiume.
Un grosso tronco di quercia era arenato sulla spiaggia e le ragazze lo spinsero
nell'acqua. La calda corrente del fiume conteneva le ossa e gli spiriti dei loro
cari e abbracciò le ragazze che si stringevano al tronco; così il Masesibowi le
portò verso sud.
Lasciarono il fiume quando cominciò a far buio. Quella notte dormirono nei
boschi, con lo stomaco vuoto. La mattina, mentre raccoglievano bacche lungo
la riva, trovarono nascosta fra le canne una canoa sioux e immediatamente la
rubarono, sperando che appartenesse a un parente di Penna d'Ala. Era già
pomeriggio quando, girando un'ansa, arrivarono alla Città del Profeta. Sulla
riva un pellerossa stava pulendo del pesce. Quando videro che era un me-
squakie risero di sollievo e spinsero la canoa come una freccia verso di lui.
Appena gli fu possibile dopo la guerra, Nuvola Bianca tornò alla Città del
Profeta. I visi pallidi avevano bruciato la sua baracca insieme alle altre, ma egli
si costruì un nuovo hedonoso-te. Quando corse voce che lo sciamano era
tornato, numerose famiglie cominciarono ad arrivare come prima da diverse
tribù e alzarono nei dintorni le loro tende, per poter vivere vicino a lui. Altri
discepoli venivano di tanto in tanto, ma ora egli osservava con speciale
interesse le quattro ragazzine che erano fuggite dai bianchi e si erano così fa-
ticosamente aperta la via fino a lui. Per diversi giorni le studiò attentamente
mentre riposavano e mangiavano nella sua capanna, notando che tre di loro si
rivolgevano alla quarta per guida e aiuto in ogni cosa. Le interrogò separata-
mente e a lungo, e ognuna gli parlava di Due Cieli.
Sempre Due Cieli. Cominciò a osservarla con crescente speranza.
Infine prese due pony e disse a Due Cieli di accompagnarlo. La fanciulla
montò in sella dietro di lui e cavalcarono per la maggior parte della giornata,
finché il terreno cominciò a salire. Tutte le montagne sono sacre, ma in pianura
anche una collina è un posto santo: sulla cima boscosa la condusse in una
radura, piena dell'odore muschioso degli orsi, dove il terreno era sparso di ossa
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di animali e di ceneri di fuochi spenti.
Quando smontarono da cavallo, Wabokieshiek si tolse la coperta dalle
spalle e ordinò a Due Cieli di svestirsi e sdraiarsi sopra. Due Cieli non osò
rifiutare, benché fosse certa che il vecchio sciamano intendeva abusare sessual-
mente di lei. Ma quando Wabokieshiek la toccò, non era la mano di un amante.
La esaminò finché fu certo che la fanciulla era intatta.
Quando il sole tramontò, entrarono nei boschi vicini e lo sciamano collocò
tre trappole. Poi fece un fuoco nella radura e vi sedette accanto, salmodiando
mentre Due Cieli si sdraiava a terra e dormiva.
Quando la ragazza si svegliò, vide che Nuvola Bianca aveva preso un coni-
glio da una delle trappole e gli stava tagliando il ventre. Due Cieli era affamata,
ma il vecchio non diede segno di voler cuocere il coniglio, invece frugava nelle
sue viscere e le studiava più attentamente e più a lungo di quanto avesse fatto
per il corpo della fanciulla. Quando ebbe finito, grugni di soddisfazione e la
fissò con uno sguardo cauto e meravigliato.
Allorché lui e Falco Nero avevano avuto notizia del massacro del loro
popolo al fiume Bad Axe, erano stati presi da un profondo abbattimento. Non
volevano che altri Sauk morissero sotto il loro comando e perciò si conse-
gnarono all'Indian Agent, a Prairie du Chien. A Fort Crawford furono affidati a
un giovane luogotenente dell'esercito, Jefferson Davis, che portò i suoi prigio-
nieri, navigando sul Masesibowi, fino a St. Louis. Per tutto l'inverno rimasero
confinati nelle caserme di Jefferson, soffrendo l'umiliazione delle catene e della
palla al piede. In primavera, per dimostrare ai visi pallidi come il loro esercito
avesse definitivamente sconfitto il Popolo, il Grande Padre di Washington
ordinò che i due prigionieri fossero portati in giro per le città d'America. I due
indiani videro per la prima volta la ferrovia e viaggiarono in treno fino a
Washington e poi a New York, Albany e Detroit. Ovunque, come mandrie di
bisonti, le folle si accalcavano per vedere le due rarità, gli sconfitti «capi
indiani».
Nuvola Bianca vide così enormi città, magnifici edifici, macchine terribili.
Innumerevoli, infiniti americani. Quando gli consentirono di tornare alla Città
del Profeta, dovette ammettere l'amara verità: mai più sarebbe stato possibile
scacciare i mookamonik dalle terre dei Sauk. I pellirosse sarebbero stati conti-
nuamente scacciati e scacciati, sempre più lontano dai migliori terreni di caccia
e di coltivazione. Quelli che erano i suoi figli, i Sauk e i Mesquakie e i Win-
nebago, dovevano rassegnarsi a un mondo crudele dominato dai bianchi. Il
problema non era più quello di scacciare i bianchi. Ora lo sciamano rifletteva
su come il suo popolo potesse cambiare per sopravvivere, e insieme conservare
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i suoi manitou, le sue sacre pratiche mediche tradizionali. Era vecchio, presto
sarebbe morto: e cominciò a guardarsi intorno per trovare qualcuno a cui
potesse trasmettere la sua eredità, qualcuno in cui, come in un sacro vaso,
potesse riversare l'anima delle tribù algonchine. Ma non aveva trovato nessuno,
tranne questa ragazza.
Tutto questo Nuvola Bianca spiegò a Due Cieli, mentre stava seduto nel
luogo sacro sulla sommità della collina, frugando in cerca degli auspici favo-
revoli nel ventre del coniglio, che ora cominciava a puzzare. Quando finì, le
chiese se era disposta a consentire che lui la istruisse per farla diventare una
sciamana.
Due Cieli era ancora una fanciulla, ma ne sapeva abbastanza da restarne
spaventata. C'erano molte cose al di là della sua comprensione, ma capiva ciò
che era importante.
«Proverò» mormorò al Profeta.
Nuvola Bianca mandò Luna, Uccello Giallo e Donna Fumo a vivere con i
Sauk di Keokuk, ma Due Cieli rimase alla Città del Profeta e visse nella
capanna di Wabokieshiek come una figlia prediletta. Nuvola Bianca le mostrò
foglie e radici e cortecce, e le insegnò quali potevano sollevare lo spirito fuori
del corpo e consentirgli di conversare con i manitou, quali servivano a conciare
le pelli di daino o a preparare i colori di guerra, quali dovevano essere seccate e
quali messe in infusione, quali dovevano essere bollite e quali ridotte in
poltiglia e in unguento, quali dovevano essere raschiate con colpi verso l'alto e
quali con colpi verso il basso, quali potevano aprire le viscere e quali chiuderle,
quali potevano mitigare la febbre o il dolore, quali potevano guarire e quali
uccidere.
Due Cieli ascoltava. Alla fine di quattro stagioni, quando il Profeta la
esaminò, ne fu compiaciuto. Le disse che l'aveva guidata attraverso la prima
Tenda della Saggezza.
Prima che fosse condotta alla seconda Tenda della Saggezza, la sua
femminilità sbocciò in lei per la prima volta. Una delle nipoti di Nuvola Bianca
le mostrò come prendersi cura di se stessa e ogni mese Due Cieli andava a
soggiornare nella capanna delle donne finché la sua vagina sanguinava. Il
Profeta le spiegò che non avrebbe mai dovuto celebrare un rito o curare una
malattia o una ferita prima di essere passata nella capanna del bagno di sudore,
per purificarsi dopo il flusso mensile.
Nei successivi quattro anni Due Cieli imparò come invocare i manitou con
canti e tamburi, come sacrificare i cani con diversi riti cerimoniali e cuocere le
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loro carni per una Festa del Cane, come insegnare ai cantori a partecipare alle
danze sacre. Imparò a leggere il futuro nelle viscere degli animali sacrificati.
Imparò il potere della suggestione - a succhiare la malattia da un corpo e a
sputarla dalla propria bocca come un sassolino, in modo che il malato potesse
toccarla e vedere che era stata espulsa dal suo corpo. E quando non poteva
persuadere i manitou a lasciar vivere il malato, imparò come accompagnare,
salmodiando antiche nenie, lo spirito del morente nell'altro mondo. C'erano
sette Tende della Saggezza. Nella quinta il Profeta le insegnò come controllare
il proprio corpo, per arrivare a capire come controllare il corpo degli altri. Due
Cieli imparò a dominare la sete e a vivere lunghi periodi senza cibo. Spesso
Nuvola Bianca la accompagnava a cavallo in luoghi molto lontani e tornava
alla Città del Profeta da solo con i due cavalli, lasciandola a cercarsi la strada
del ritorno a piedi. Gradualmente le insegnò come controllare il dolore
mandando la mente lontano, in un punto profondo di se stessa, così profondo
che il dolore non potesse arrivare alla coscienza.
Alla fine di quell'estate la ricondusse alla radura sacra sulla sommità della
collina. Accesero il fuoco, levarono canti ai manitou e di nuovo collocarono
trappole. Presero uno scarno coniglio marrone e, quando gli aprirono il ventre
ed esaminarono gli organi, Due Cieli riconobbe che gli auspici erano favo-
revoli.
Al crepuscolo di quel giorno Nuvola Bianca le ordinò di togliersi le vesti e
le scarpe. Quando fu nuda, lo sciamano con il suo coltello inglese praticò
doppie incisioni su ciascuna delle sue spalle, poi attentamente tagliò in modo
da ottenere strisce di pelle simili alle spalline degli ufficiali bianchi. Passò una
fune sotto queste strisce sanguinanti, fece un nodo, poi gettò la fune sul ramo di
un albero e issò la fanciulla finché rimase sospesa al di sopra del suolo, appesa
alla sua stessa carne sanguinante.
Con sottili bacchette di quercia dalla punta incandescente impresse a fuoco
sui lati dei due giovani seni i sacri segni degli spiriti del Popolo e i simboli dei
manitou.
Si fece buio mentre Due Cieli stava cercando di liberarsi. Per metà della
notte continuò a dibattersi, finché la striscia di pelle sulla sua spalla destra si
spezzò. Subito dopo si lacerò la carne della sua spalla sinistra e Due Cieli cad-
de a terra; con la mente rifugiata nel lontanissimo punto profondo per non sen-
tire il dolore, forse si addormentò.
Quando spuntò la prima debole luce dell'alba si svegliò, sentendo lo
sbuffare di un orso che entrava nella radura, dalla parte opposta. L'animale non
poteva fiutarla, perché si muoveva nella stessa direzione della brezza mattutina,
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e avanzava con passo così goffo e lento che Due Cieli poté notare il muso
bianco e riconobbe che era una femmina. Un secondo orso la seguiva, tutto
nero, un giovane maschio bramoso di accoppiarsi malgrado i grugniti contrari
della femmina. Due Cieli poteva scorgere il suo grande coska rigido, cir-
condato da duri peli grigi, mentre l'animale cercava di aggrapparsi al dorso
della femmina per montarla. L'orsa ringhiava e si dibatteva, e cercò più volte di
addentarlo, finché il maschio fuggì. Per un attimo lo segui, poi incontrò la
carcassa del coniglio, l'afferrò tra le fauci e si allontanò.
Infine, tutta dolorante, Due Cieli si alzò. Il Profeta aveva portato via le sue
vesti. Non vide alcuna traccia di orsi sul duro suolo della radura, ma nella
cenere del fuoco spento v'era un'unica chiara impronta di una zampa di volpe.
Probabilmente una volpe era venuta durante la notte e aveva preso il coniglio:
forse Due Cieli aveva sognato i due orsi, o erano dei manitou.
Per tutto quel giorno Due Cieli camminò. Una volta sentì dei cavalli e si
nascose fra gli arbusti mentre passavano due giovani Sioux. Era ancora chiaro
quando entrò nella Città del Profeta accompagnata da fantasmi, con il corpo
nudo coperto di sangue e di terra. Tre uomini smisero di parlare mentre si
avvicinava e una donna cessò di macinare granturco. Per la prima volta Due
Cieli vide la paura sulle facce che la guardavano.
Il Profeta stesso la lavò. Mentre le curava le spalle ferite e le bruciature, le
chiese se aveva sognato. Quando la sentì raccontare degli orsi, i suoi occhi
brillarono. «Il segno più potente!» mormorò. Significava, le disse, che finché
non giaceva con un uomo i manitou sarebbero stati con lei.
Mentre la fanciulla rifletteva su queste parole, lo sciamano aggiunse che
non si sarebbe più chiamata Due Cieli, come non si sarebbe mai chiamata
Sarah Due. Quella notte nella Città del Profeta la fanciulla sauk divenne
Makwa-ikwa, la Donna Orso.
La riserva si trovava in una terra ancora più piatta delle pianure dell'Illinois.
Del tutto arida.
C'era abbastanza acqua da bere, ma bisognava andarla a prendere a grande
distanza. Questa volta i bianchi avevano dato ai Sauk una terra che era tanto
fertile da potervi coltivare qualsiasi cosa. I semi che piantavano crescevano
vigorosi in primavera, ma i primi giorni d'estate tutto avvizziva e moriva. Il
vento portava ovunque una densa polvere attraverso la quale il sole bruciava
come un immenso occhio rosso.
Così i Sauk mangiavano il cibo dell'uomo bianco, che i soldati portavano
nella riserva: carne di bue già guasta, fetido grasso di maiale, verdure vecchie.
Briciole del banchetto dei visi pallidi.
Non vi erano hedonoso-te. Il Popolo viveva in baracche fatte di legno verde
che si incurvava e si spaccava, lasciando fessure così larghe che d'inverno la
neve penetrava nell'interno. Due volte l'anno un piccolo e nervoso Indian Agent
arrivava accompagnato da soldati e lasciava una serie di oggetti nella prateria:
specchietti grossolani, perline di vetro, finimenti per cavalli logori e mezzi rotti
ornati di campanellini, vecchi indumenti, carne verminosa. In principio tutti i
Sauk andavano a spigolare nel mucchio finché qualcuno chiese all'Indian
Agent perché portava quei doni: ed egli rispose che erano un pagamento per la
terra sauk confiscata dal governo. Dopo di ciò, solo i più deboli e i più negletti
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dei Sauk si abbassarono a prendere qualcosa. Il mucchio cresceva in altezza
ogni sei mesi e continuava a marcire alle intemperie.
I Sauk avevano sentito parlare di Makwa-ikwa. Quando arrivò, la ricevette-
ro con rispetto, ma non erano più una tribù abbastanza numerosa da aver
bisogno di uno sciamano. I più coraggiosi erano andati con Falco Nero ed era-
no stati uccisi dai bianchi o erano morti di fame o annegati nel Masesibowi, o
erano stati assassinati dai Sioux. Ma c'erano ancora alcuni nella riserva che
avevano conservato l'animo fiero dei vecchi Sauk. Il loro coraggio era costante-
mente messo alla prova nelle lotte contro le tribù native della regione, perché le
riserve di selvaggina si stavano esaurendo e i Comanche, i Kiowa, i Cheyenne
e gli Osage si sentivano minacciati dalla concorrenza, sui loro territori di
caccia, delle tribù orientali, spinte nella regione dagli americani. I bianchi
rendevano difficile ai Sauk provvedere alla propria difesa, perché badavano a
rifornirli di pessimo whisky in abbondanza e in cambio si prendevano la
maggior parte delle pellicce che gli indiani si procuravano con le loro trappole.
Un numero sempre maggiore di Sauk passava i giorni immerso nei fumi
dell'alcol.
Makwa-ikwa visse nella riserva poco più di un anno. Quella primavera una
piccola mandria di bisonti attraversò la prateria. Il marito di Luna, Vien
Cantando, parti a cavallo insieme con altri cacciatori e riportò al campo le carni
degli animali uccisi. Makwa-ikwa annunciò una Danza del Bisonte e istruì il
coro dei cantori che dovevano cantare a voce spiegata o a bocca chiusa. I Sauk
danzarono le antiche danze e negli occhi di alcuni la sciamana vide comparire
una luce che non vedeva da molto tempo e che la riempì di gioia.
Altri avvertirono la stessa sensazione. Dopo la Danza del Bisonte, Vien
Cantando si presentò da lei e le disse che alcuni del Popolo volevano abban-
donare la riserva e vivere come avevano vissuto i loro padri. Volevano sapere
se la loro sciamana sarebbe andata con loro.
Lei chiese a Vien Cantando dove sarebbero andati.
«A casa» rispose l'indiano.
Così i più giovani e forti partirono dalla riserva e Makwa-ikwa con loro. In
autunno si trovarono in una regione che rallegrò i loro cuori e insieme li riempì
di tristezza. Era difficile evitare l'uomo bianco durante il viaggio: dovevano
fare larghe deviazioni intorno alle fattorie e ai villaggi. La caccia era scarsa.
L'inverno li colse impreparati. Wabokieshiek era morto quell'estate e la Città
del Profeta era deserta. Makwa-ikwa non poteva ricorrere ai bianchi per
chiedere aiuto, ricordando che il Profeta le aveva detto di non riporre mai la
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propria fiducia in un viso pallido.
Ma in risposta alle sue preghiere i manitou le avevano inviato il mezzo per
sopravvivere con l'aiuto del medico bianco, il dottor Cole, e, malgrado le
parole del Profeta, sentiva di poter avere fiducia in lui.
Così quando egli venne al campo dei Sauk e le disse che ora aveva bisogno
del suo aiuto per praticare la propria arte di medico, senza esitare acconsentì ad
accompagnarlo.
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Calcoli vescicali
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Un cambiamento
Due settimane dopo aver liberato Sarah del calcolo più grosso, Rob J. era
pronto a estrarre il più piccolo, ma la donna era riluttante. Nei primi giorni
dopo l'intervento aveva passato diversi minuscoli cristalli nelle urine, accom-
pagnati talvolta da dolore. Da quando gli ultimi frammenti del calcolo fran-
tumato erano usciti dalla sua vescica, i sintomi erano cessati. Per la prima volta
dall'inizio della sua malattia non aveva dolori lancinanti, e l'assenza di spasmi
le aveva consentito di recuperare il controllo delle sue funzioni corporee.
«Lei ha ancora un calcolo nella vescica» le ricordò Rob J.
«Non voglio toglierlo. Non mi fa male.» Lo guardò con aria di sfida, ma poi
abbassò gli occhi. «Ho più paura adesso che la prima volta.»
Rob J. notò che aveva già un aspetto migliore. Il suo viso era ancora smunto
per le sofferenze della lunga malattia, ma aveva già acquistato abbastanza peso
da riempire un po' le forme macilente. «Quel grosso calcolo che abbiamo
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estratto era una volta un piccolo calcolo, Sarah. I calcoli crescono» l'ammoniva
lui gentilmente.
Così infine acconsentì. Makwa-ikwa le stette di nuovo vicino mentre il
dottore estraeva il piccolo calcolo, grosso pressappoco un quarto del primo. Il
disagio fu ridotto al minimo, e, quando tutto fu finito, seguì un senso di trionfo.
Ma questa volta, quando insorse la febbre postoperatoria, la pelle di Sarah
scottava come fuoco. Rob J. riconobbe subito la minaccia e si maledisse per
averle dato il consiglio sbagliato. Al tramonto i presentimenti di Sarah risulta-
rono giustificati: per una malignità del destino, la procedura più facile per
asportare il calcolo minore aveva portato a una violenta infezione. Makwa-
ikwa e Rob J. rimasero a turno seduti al capezzale della paziente per quattro
notti e cinque giorni, mentre in quel fragile corpo infuriava la battaglia.
Tenendo le mani di Sarah nelle sue Rob J. sentiva il declinare della sua forza
vitale. Ogni tanto Makwa-ikwa sembrava fissare qualcosa che non c'era e
canticchiava quietamente nella sua lingua: disse a Rob J. che pregava Panguk,
dio della morte, di passar oltre e risparmiare questa donna. C'era ben poco che
potessero fare per lei, oltre che bagnarla con panni inzuppati d'acqua fresca e
sorreggerla, mentre le accostavano alla bocca ciotole di liquido forzandola a
bere, e spalmarle di grasso le labbra screpolate. Per qualche tempo continuò a
declinare, ma la mattina del quinto giorno - era merito di Panguk o della sua
forza vitale o forse di tutto quel tè di salice? - cominciò a sudare copiosamente.
Le sue camicie ne restavano inzuppate quasi subito dopo essere state cambiate.
A metà mattina cadde in un profondo sonno ristoratore e nel pomeriggio,
quando Rob J. le toccò la fronte, la sentì quasi fresca, una temperatura quasi
uguale alla sua.
Quando si recò alla capanna di Sarah per vedere come procedeva la sua
convalescenza, notò che il sentiero che correva dalla strada alla sua porta era
stato spianato e spazzato. Nuove aiuole di fiori silvestri rallegravano la vista
intorno alla casetta. Dentro, le pareti nano state imbiancate e l'unico odore era
quello del sapone, insieme con il gradevole profumo di lavanda e salvia e
menta e finocchiella, appese a mazzetti alle travi.
«Alma Schroeder mi ha dato le erbe» spiegò Sarah. «È troppo tardi per
piantare un orto in questa stagione, ma il prossimo anno ne avrò uno tutto
mio.» Gli mostrò il pezzo di terra destinato all'orto, che aveva già cominciato a
liberare dalle erbacce.
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Il cambiamento di Sarah era ancora più sorprendente della trasformazione
della sua casetta. Aveva cominciato a cucinarsi ogni giorno i suoi pasti, gli
spiegò, invece di dipendere da qualche occasionale piatto caldo portatole dalla
generosa Alma. Una dieta regolare e una nutrizione migliore avevano già dato
alla sua figura, prima così ossuta e macilenta, una nuova femminilità piena di
grazia. Si piegò a raccogliere due o tre cipollotti verdi che avevano accon-
sentito a crescere neh"appezzamento destinato a orto, e Rob J. osservò la sua
nuca rosea. Ben presto sarebbe stata nascosta dai folti capelli che stavano ricre-
scendo come un caschetto dorato.
Il bambino, cucciolo biondo, trotterellava dietro di lei. Anche lui era tutto
pulito e Rob J. notò che Sarah, con un gesto di malumore, cercava di spazzolar
via le macchie di terra dalle ginocchia del piccino.
«Non si preoccupi, non si può evitare che un bambino si sporchi» l'ammoni
con voce allegra. Il piccolo lo guardava con occhi spaventati. Rob J. si portava
sempre qualche caramella nella borsa, per fare amicizia con i suoi piccoli
pazienti, e ora ne tirò fuori una e la tolse dalla carta. Ma gli ci volle quasi
mezz'ora di parole gentili prima di potersi avvicinare al piccino abbastanza da
offrirgli il dolce. Quando finalmente la piccola mano lo prese, Rob J. udì il
sospiro di sollievo di Sarah. Si volse e vide che lei lo fissava. Aveva degli
occhi stupendi, pieni di vita.
«Ho fatto un pasticcio di carne di daino, se vuol dividere la nostra cena.»
Rob J. stava per rifiutare, ma quei due visi erano rivolti a lui, il piccino
sempre intento a succhiare beato la sua caramella, la madre seria con
un'espressione di attesa. Pareva che quei due volti gli chiedessero qualcosa che
lui non capiva.
«Mi piace molto il pasticcio di daino» rispose.
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I pretendenti di Sarah
Tre giorni dopo, quando si fermò alla casetta, non v'era più traccia di pre-
tendenti. Sarah stava cercando di dividere una grossa radice di rabarbaro in
tante sezioni per trapiantarla e infine Rob J. risolse il problema tagliandola a
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pezzi con la scure. Insieme scavarono buche nel terreno argilloso, piantarono le
radici e le ricoprirono di terriccio caldo: un lavoro che gli piacque e gli fruttò
come compenso un invito a pranzo, dove poté gustare uno spezzatino innaffiato
con fresca acqua di fonte.
Dopo, mentre Alex sonnecchiava all'ombra di un albero, sedettero sulla
sponda del fiume e lui le parlò della Scozia e Sarah gli disse che avrebbe tanto
desiderato che ci fosse una chiesa nei dintorni, in modo che suo figlio potesse
imparare la vera fede. «Spesso ora io penso a Dio» aggiunse. «Quando credevo
di dover morire abbandonando Alex da solo al mondo, ho pregato e Dio mi ha
mandato lei.»
Non senza una certa esitazione, Rob J. le confessò che non credeva nel-
l'esistenza di Dio. «Io credo che gli dèi siano un'invenzione degli uomini, che
sia stato sempre così.» Poté vedere lo sgomento nei suoi occhi e temette di
averla scandalizzata. Ma Sarah abbandonò l'argomento della religione e parlò
della sua giovinezza in Virginia, dove i suoi genitori avevano una fattoria. I
suoi grandi occhi erano di un azzurro così intenso da essere quasi blu: vi bril-
lava l'amore per quei lontani anni così facili e caldi. «Cavalli!» esclamò sorri-
dendo. «Io sono cresciuta con l'amore dei cavalli.»
Questo gli diede l'occasione per invitarla a una cavalcata con lui il giorno
dopo, per far visita a un suo vecchio paziente che stava morendo di tubercolosi
e Sarah non nascose la sua gioia nell'accettare l'invito. La mattina dopo, caval-
cando Margaret Holland e conducendo Monica Grenville per le briglie, tornò
alla casetta dei Bledsoe. Lasciarono Alex con Alma Schroeder, che sorrise di
gioia vedendo Sarah "uscire a cavallo" con il dottore.
Era una bella giornata per una cavalcata, non troppo calda per la stagione, e
tennero i cavalli al passo. Sarah aveva messo pane e formaggio nella sua
bisaccia da sella, e fecero un picnic all'ombra di una grande quercia. Arrivati
alla casa del paziente, Sarah si tenne indietro, ascoltando il respiro rantoloso
del vecchio e osservando Rob J. che gli teneva le mani. Rob J. fece scaldare
l'acqua sul fuoco del camino, bagnò le membra scarne del malato e gli sommi-
nistrò un sedativo, un cucchiaino per volta, perché il sonno rendesse pietosa
l'attesa. Sarah lo sentì dire al figlio e alla nuora che il vecchio aveva solo poche
ore di vita. Quando se ne andarono, Sarah era commossa e parlava poco. Per
tornare alla spensieratezza che avevano goduto prima, Rob J. propose che si
scambiassero i cavalli perché lei era un'eccellente amazzone e poteva cavalcare
Margaret Holland senza difficoltà. Sarah cavalcò volentieri la giumenta più
vivace. «Le due cavalle hanno i nomi di donne che lei ha conosciuto?» chiese e
Rob J. ammise che era proprio così.
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Lei annuì pensierosa. Malgrado gli sforzi di Rob J., rimasero pili silenziosi
sulla via del ritorno.
Due giorni dopo, arrivando alla casetta di Sarah, Rob J. vide che c'era già un
altro uomo, un venditore ambulante alto e cadavericamente magro, Timothy
Mead, che guardava il mondo con scuri occhi accigliati e salutò rispettosa-
mente il medico quando gli fu presentato. Mead le lasciò in dono quattro ma-
tassine di filo di diversi colori.
Rob J. estrasse una spina dal piedino nudo di Alex e osservò che l'estate
stava per finire e il bambino non aveva scarpe adatte. Tracciò uno schizzo della
pianta dei piedi e la prima volta che si trovò a Rock Island si fermò al negozio
di un calzolaio e ordinò un paio di stivaletti da bambino, provando un vivo
piacere nel farlo. La settimana dopo, quando portò in dono le minuscole calza-
ture, vide che Sarah ne rimaneva turbata. Quella donna era difficile da capire:
non avrebbe saputo dire se fosse contenta o seccata.
La mattina dopo che fu eletto deputato Nick Holden andò a cavallo fino alla
casetta di tronchi di Rob J. Gli confidò che entro due giorni contava di recarsi a
Springfield, dove avrebbe promosso leggi e disposizioni per favorire la crescita
di Holden's Crossing. Quindi gli batté amichevolmente la mano sulla spalla e
portò il discorso sulle voci che correvano, secondo cui il dottor Cole andava in
giro a cavallo con la vedova Bledsoe. «Ah, ci sono cose che dovresti sapere,
vecchio mio.»
Rob J. lo guardò in silenzio.
«Be', il bambino, suo figlio. Ti rendi conto che è un bastardo? Nato due anni
dopo la morte di suo marito.»
Rob J. si alzò. «Arrivederci, Nick. Ti tocca ancora una buona trottata fino a
Springfield.»
Il tono era inequivocabile e Holden si alzò. «Ti stavo solo dicendo che non
è necessario per un uomo...» cominciò, ma quello che vide sul viso di Rob J.
gli fece ringoiare le parole. Balzò in sella, gli fece un saluto imbarazzato e
spronò il cavallo.
Rob J. vedeva sempre sul viso di lei uno strano miscuglio di emozioni:
piacere nel vederlo e nell'essere in sua compagnia, tenerezza ogni tanto, ma
anche a volte una specie di terrore. Venne la sera che la baciò. Dapprima la sua
bocca dischiusa era morbida e cedevole, e lei si strinse al suo petto, ma fu un
momento fuggevole. Dopo un attimo si scostò bruscamente da lui. Al diavolo,
si disse Rob J., vuol dire che non le piaccio, ecco tutto. Ma si costrinse a
chiederle gentilmente: «Che cosa ti prende?».
«Come fai a essere attratto da me?» chiese la donna con passione, il viso in
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fiamme. «Non mi hai visto malata e distrutta, in una condizione bestiale? Tu
hai... hai persino sentito l'odore del mio...»
«Sarah» la interruppe Rob J. guardandola negli occhi. «Quando eri malata,
io ero il tuo medico. Da allora sei stata per me una donna affascinante e intel-
ligente, con cui mi fa sempre un enorme piacere scambiare idee e condividere
sogni. Ti desidero in tutti i modi. Penso solo a te. Ti amo, Sarah.»
Si stringevano le mani, senza altro contatto fisico. Lei strinse di più, ma ri-
mase in silenzio.
«Forse potresti imparare ad amarmi?»
«Imparare? E come potrei non amarti?» replicò lei con passione. «Tu, che
mi hai ridato la vita, come se tu fossi un dio!»
«No, dannazione! Sono soltanto un uomo. E voglio essere solo questo per
te...»
Ora si baciavano e parve che il bacio non dovesse mai finire. Fu Sarah che
evitò quel che avrebbe potuto seguire, staccandosi da lui e accomodandosi le
vesti.
«Sposami, Sarah!»
Lei non rispose e Rob J. riprese: «Non eri fatta per curare le bestie in un
allevamento di maiali, né per girare con un mercante ambulante con una
bisaccia sulle spalle».
«E per che cosa ero fatta allora?» chiese lei amaramente.
«Be', per essere la moglie di un medico, è chiaro» ribatté Rob J. tutto serio.
Ma lei era ancora più seria. «Ci sarà qualcuno che correrà da te a dirti di
Alex e della sua nascita, così ti dirò tutto io stessa.»
«Io voglio essere il padre di Alex. Mi sta a cuore oggi e così sarà domani.
Non voglio saper nulla di ieri. Anch'io ho un triste passato. Sposami, Sarah.»
I suoi occhi si riempirono di lacrime, ma c'era ancora una cosa che gli
doveva dire. Lo guardò fisso, pacatamente. «Dicono che la donna indiana vive
con te. Devi mandarla via.»
«Dicono! E Qualcuno verrà a dirti! Bene, ora io ti dirò una cosa, Sarah
Bledsoe. Se mi sposi, devi imparare a dire a quelli di andare all'inferno!»
Trasse un respiro profondo e aggiunse: «Makwa-ikwa è una brava donna e
un'ottima lavoratrice. Vive nella sua casa, sulla mia terra. Mandarla via sarebbe
un'ingiustizia per lei e per me, e io non voglio farlo. Sarebbe il modo peggiore
di cominciare la nostra vita insieme. Devi avere fiducia in me se ti dico che non
c'è alcuna ragione che tu sia gelosa». Le tenne strette le mani e non la lasciò
scostarsi. «Qualche altra condizione?»
«Si, devi cambiare il nome delle tue cavalle. Hanno il nome di donne che tu
116
hai montato, vero?»
Rob J. ebbe un breve sorriso, ma vide una vera collera negli occhi di Sarah.
«Una di loro, sì. Ma l'altra era una bella donna matura che conobbi da ragazzo.
La madre di un mio amico. Io sospiravo per lei, ma lei mi trattava come un
figlio.»
Sarah non chiese quale dei due nomi apparteneva all'una e quale all'altra. «È
un crudele e sporco gioco maschile. Tu non sei un uomo sporco e crudele, e
devi cambiare i nomi delle tue cavalle.»
«Bene, li cambierai tu stessa.»
«E devi promettermi, qualunque cosa accada in futuro, che non darai mai il
mio nome a una cavalla.»
«Te lo giuro, naturalmente...» Non poté resistere alla tentazione di dirlo:
«Ordinerò a Samuel Merriam un maiale e...».
Fortunatamente le teneva ancora le mani e non la lasciò andare finché lei
rispose al suo bacio con tutta la sua tenerezza. Quando le loro bocche si
staccarono, Rob J. vide che lei piangeva.
«Che c'è?» chiese con improvvisa attenzione, intuendo che essere sposato
con quella donna non sarebbe stato facile.
Fra le lacrime i suoi occhi brillavano. «Spedire una lettera con la corriera
sarà una grossa spesa» rispose. «Ma finalmente potrò mandare una buona
notizia a mio fratello e a mia sorella in Virginia.»
21
Il Grande Risveglio
Era più facile decidere di sposarsi che trovare un pastore. Per questa ragione
diverse coppie lungo la frontiera occidentale non si preoccupavano di formaliz-
zare la loro unione; ma Sarah rifiutava di "sposarsi senza essere sposata". Ed
ebbe la forza di parlar chiaro: «Io so che cosa significa partorire e crescere un
bambino senza padre, e non voglio che mi capiti mai più».
Rob J. la capiva ma era ormai venuto l'autunno e sapeva che, quando la
neve avesse coperto la prateria, sarebbero passati forse molti mesi prima che un
predicatore itinerante o un ministro del culto in visita pastorale passassero per
Holden's Crossing. La risposta al loro problema gli apparve un giorno in un
manifesto affisso alla porta dell'emporio, che annunciava una riunione evan-
gelica della durata di una settimana. «Lo chiamano il Grande Risveglio e sarà
tenuto nella città di Belding Creek. Dobbiamo andare, Sarah: non ci sarà
117
scarsità di ministri del culto.»
Rob J. insistette per portare Alex con loro e Sarah fu ben lieta di acconsen-
tire. Era un tragitto di un giorno e una notte per una strada abbastanza ben
tenuta, benché piuttosto sassosa. La prima notte si fermarono nel fienile di un
fattore ospitale, stendendo le loro coperte sul fragrante fieno appena tagliato.
La mattina dopo Rob J. passò una mezz'ora a castrare due torelli del fattore e
ad asportare una grossa cisti dal fianco di una mucca, per compensarlo del-
l'ospitalità; malgrado questo contrattempo, arrivarono a Belding Creek prima di
mezzogiorno. Era un'altra comunità di recente formazione, sorta solo cinque
anni prima di Holden's Crossing, ma già molto più estesa. Entrando in città,
Sarah spalancò gli occhi e si strinse a Rob J., tenendo la mano di Alex nella
sua: non era abituata a vedere tanta gente. Il Grande Risveglio si teneva in una
prateria accanto a un ombroso boschetto di salici. Aveva attirato fedeli da tutte
le regioni intorno: ovunque avevano alzato delle tende per proteggersi dal sole
del meriggio e dal vento autunnale, e c'erano carri di ogni genere, cavalli e buoi
impastoiati. Diversi assistenti davano aiuto e indicazioni alla folla, e i tre viag-
giatori di Holden's Crossing passarono davanti a cucine all'aperto dove vendi-
tori ambulanti di cibi cucinavano manicaretti dal profumo squisito, stufato di
daino, zuppa di pesce di fiume, maiale arrosto, granturco dolce, lepre alla bra-
ce. Rob J. legò a un albero la cavalla, quella che era una volta chiamata Mar-
garet Holland e ora era stata ribattezzata Vicky, abbreviazione di Regina Vit-
toria («Tu non hai mai montato la giovane regina?» aveva chiesto Sarah).
Erano affamati, ma non c'era bisogno di spendere denaro in cibi comprati su
una bancarella. Alma Schroeder aveva fornito ai tre viaggiatori un paniere di
viveri così generoso che il pranzo di nozze sarebbe potuto durare una settima-
na; e pranzarono con pollo freddo e tartine di mele.
Mangiarono in fretta, presi dall'eccitazione generale, osservando la folla,
ascoltando le chiacchiere e le grida di gioia. Poi, prendendo il bambino per
mano in mezzo a loro, si avviarono lentamente verso il punto dove si teneva la
riunione. In realtà erano due riunioni in una: perché vi era un'ininterrotta riva-
lità religiosa, una gara di predicazione fra metodisti e battisti. Per qualche tem-
po Rob J. e Sarah ascoltarono un pastore battista che parlava in una radura, in
mezzo al boschetto di salici. Si chiamava Charles Prentiss Willard e tuonava e
ruggiva, facendo rabbrividire Sarah. Declamava che Dio scriveva i loro nomi
nel Suo Libro decidendo chi doveva avere la vita eterna e chi doveva perire in
eterno. Ciò che avrebbe condannato il peccatore alla morte eterna era la con-
dotta immorale e non cristiana, la fornicazione, l'uccisione dei fratelli cristiani,
il bestemmiare, il bere whisky e il mettere al mondo figli illegittimi.
118
Rob J. era accigliato e Sarah era pallida e tremante quando si allontanarono
per recarsi nella prateria ad ascoltare il metodista, un pastore di nome Arthur
Johnson. Non era un oratore così eloquente come Willard, ma affermava che la
salvezza dell'anima era possibile per chiunque compisse opere buone e confes-
sasse i suoi peccati e chiedesse perdono a Dio; e Sarah annuì quando Rob J. le
chiese se pensava che il reverendo Johnson avrebbe potuto celebrare le loro
nozze. Johnson li accolse affabilmente quando si avvicinarono a lui dopo la
predica. Voleva sposarli alla presenza di tutti i fedeli riuniti, ma né Rob J. né
Sarah avevano piacere di mettersi in mostra. Quando Rob J. gli diede tre
dollari, il predicatore acconsentì a seguirli a un chilometro e mezzo fuori della
città: si fermarono sotto un albero sulle rive del Mississippi, con il bambino
seduto a terra che li osservava e una placida matrona che il reverendo presentò
semplicemente come Sorella Jane e che doveva fare da testimone.
«Io ho un anello» fece Rob J., traendolo dalla tasca, e Sarah spalancò gli
occhi perché non le aveva mai parlato dell'anello nuziale di sua madre. Le lun-
ghe e affusolate dita di Sarah erano troppo magre e l'anello risultò largo. I suoi
capelli biondi erano legati sulla nuca con un nastro azzurro, dono di Alma
Schroeder, e lei snodò il nastro e scosse la testa, facendoli ricadere sciolti sulle
spalle. Disse che avrebbe portato l'anello infilato nel nastro e appeso al collo
finché avessero potuto farlo modificare e ridurlo alla giusta misura. Tenne
stretta la mano di Rob J., mentre il reverendo Johnson pronunciava le formule
sacre con la speditezza della lunga pratica. Rob J. ripeteva le parole del rito con
una voce roca e ansiosa che lo stupì. La voce di Sarah tremava, pareva incerta
come se non potesse credere a ciò che accadeva. Dopo il rito si stavano ancora
baciando quando il reverendo cominciò a insistere che tornassero al luogo del
servizio evangelico, perché appunto alla riunione della sera la maggior parte
delle anime venivano per trovare salvezza.
Ma loro lo ringraziarono e lo salutarono, e avviarono Vicky sulla via del
ritorno. Il bambino cominciò presto a diventare nervoso e a piagnucolare, ma
Sarah gli cantò canzoncine e gli raccontò storie, e diverse volte, quando Rob J.
fermava il cavallo, lo fece scendere dal carro per correre e giocare con lui.
Cenarono presto con il pasticcio di carne e rognone di Alma e una ricca
torta ricoperta di zucchero candito, il tutto innaffiato con acqua di fonte. Poi
ebbero una breve discussione sul tipo di alloggio da cercare per la notte. C'era
una locanda a poche ore di distanza, e la prospettiva evidentemente piaceva a
Sarah, che non aveva mai avuto abbastanza denaro per alloggiare in un albergo.
Ma quando Rob J. accennò alle cimici e alla sporcizia generale delle istituzioni
di quel tipo, fu subito d'accordo con la sua proposta di fermarsi allo stesso fie-
119
nile in cui avevano dormito la notte precedente.
Vi arrivarono al tramonto e, dopo che il fattore gli ebbe ben volentieri rin-
novato il permesso, si arrampicarono nel caldo buio del fienile, quasi con la
sensazione di tornare a casa.
Alex, sfinito per il gran movimento e la mancanza del solito sonnellino po-
meridiano, cadde subito profondamente addormentato. Sarah e Rob J. stesero
una coperta li vicino e caddero l'una nelle braccia dell'altro prima ancora di
essersi del tutto spogliati. Piacque a Rob J. che lei non fingesse pudori e che la
brama che sentivano l'uno per l'altra fosse schietta e sincera. Fecero l'amore
liberamente, abbandonandosi al loro ardore, senza risparmiare voce e rumori, e
poi tesero l'orecchio, temendo di avere svegliato Alex. Ma il bambino conti-
nuava a dormire.
Rob J. finì di svestirla e voleva vederla. Era buio nel fienile, ma strisciarono
verso la porticina che serviva per immettere il fieno. Quando la aprirono, la
luna quasi piena gettò un rettangolo di luce in cui si esaminarono avidamente.
Rob J. studiava le spalle e le braccia dorate, i seni alabastrini, il pube che pare-
va il nido argenteo di un uccellino, le pallide natiche gentili. Avrebbe voluto
fare l'amore alla luce, ma l'aria era fresca e Sarah temeva che il fattore li ve-
desse, così chiusero la porticina. Questa volta furono lenti e pieni di tenerezza,
e al momento culminante Rob J. le gridò esultando: «Questo farà nostro figlio!
Questo!». E il piccino che dormiva fu svegliato dai gemiti di piacere della
madre e cominciò a piangere.
Rimasero sdraiati con il bambino accoccolato in mezzo a loro, mentre le
mani di Rob J. accarezzavano piano Sarah, scostando dalla sua pelle fili di
fieno, mandando a memoria quei momenti.
«Tu non devi morire» sussurrò Sarah.
«Nessuno di noi due...»
«Credi che abbiamo già cominciato un bambino?»
«... Forse.»
La sentì deglutire. «E magari, per essere sicuri, potremmo anche conti-
nuare?»
Come marito e come medico, Rob J. pensò che era una cosa ragionevole.
Strisciò con le mani e le ginocchia nel buio attraverso il fieno fragrante, se-
guendo il balenare dei pallidi fianchi della moglie, in un punto un po' discosto
dal bambino che dormiva.
120
PARTE TERZA
Holden's Crossing
(14 novembre 1841)
22
Imprecazioni e benedizioni
121
Rob J. mangiava, faceva un bagno se era possibile, si concedeva a stento qual-
che ora di sonno, e poi passava a prendere Makwa e tornava ai suoi malati.
A giugno, ultimo mese di gravidanza per Sarah, l'epidemia di febbre era
calata abbastanza da consentire a Rob J. di lasciare Makwa a casa. Un mattino,
mentre cavalcava sotto un violento acquazzone per andare ad assistere la mo-
glie di un colono che era in agonia, nella sua casa arrivava per sua moglie il
momento del parto. Makwa pose un bastoncino da mordere fra i denti di Sarah,
legò una fune alla porta e le diede in mano l'altro capo della fune da tirare.
Ci vollero molte ore prima che Rob J. perdesse la sua battaglia con l'erisipe-
la gangrenosa - come in seguito riferì in una lettera a Oliver Wendell Holmes:
il morbo fatale era il risultato di un taglio trascurato che la donna si era fatta
tagliando patate da semina - ma quando tornò a casa il bambino non era ancora
nato. Sarah lo guardò con occhi stralunati. «Mi spacca il corpo! Fallo cessare,
bastardo!» gli urlò appena lo vide sulla soglia.
Memore delle norme di Holmes, Rob J. si strofinò le mani con acqua e
sapone finché la pelle fu tutta ruvida, prima di avvicinarsi a lei. Quando l'ebbe
esaminata, Makwa lo segui in un angolo della stanza. «Il neonato vien fuori
lento» osservò.
«Il neonato si presenta con i piedi.»
Makwa si accigliò, ma annuì e tornò al letto di Sarah.
Il travaglio continuava. A metà della notte Rob J. si fece forza e prese nelle
sue le mani della moglie, tremando all'idea del messaggio che potevano tras-
mettergli. «Che c'è?» chiese lei con voce roca.
Rob J. poté sentire la sua forza vitale, diminuita ma sempre rassicurante. Le
mormorò parole d'amore, ma lei era troppo dolorante per apprezzare parole o
baci.
Passavano le ore, fra gemiti e urla. Rob J. non poteva fare a meno di pregare
vanamente, spaventato per non essere capace di aver fede, sentendosi insieme
arrogante e ipocrita. Se io sbaglio e tu esisti, ti prego puniscimi in qualche
altro modo, ma non colpendo questa donna. O questo bambino che lotta per
sopravvivere, aggiunse in fretta. Verso l'alba comparvero i piccoli piedi rossi,
piuttosto grossi per un neonato, ma con il numero giusto di dita. Rob J. mor-
morò parole di incoraggiamento, disse al neonato riluttante che tutta la vita era
lotta. Le gambe fuoriuscirono centimetro per centimetro, facendolo fremere di
eccitazione con il loro scalciare.
Il dolce minuscolo pene di un maschio. Le mani, con il numero giusto di
dita. Un neonato ben sviluppato, ma le spalle non passavano e Rob J. dovette
praticare un'incisione. Nuovo dolore. Il piccolo viso era premuto contro la
122
parete della vagina. Preoccupato che il bambino potesse soffocare nella carne
materna, Rob J. infilò due dita nel canale, tenendo la mucosa scostata, finché il
minuscolo viso indignato scivolò fuori in questo mondo freddo e sconvolto... e
subito gettò uno strillo acuto.
Con mani tremanti Rob J. legò e recise il cordone ombelicale e suturò le
lacerazioni della moglie che singhiozzava. Mentre lui le manipolava il ventre
per contrarre l'utero, Makwa lavò e fasciò il neonato e lo pose al seno della
madre. Erano state ventitré ore di penoso travaglio: Sarah cadde in un sonno
spossato e dormì a lungo come morta. Quando aprì gli occhi, Rob J. era accan-
to a lei e le stringeva la mano. «Ottimo lavoro.»
«È grosso come un bisonte. Quasi come era Alex» mormorò lei con voce
rauca. Rob J. lo pesò: quasi quattro chili e mezzo. «Un bel maschio?» chiese
lei, studiando il volto di Rob J., e fece una smorfia quando lui rispose che era
un diavolo di maschio.
«Accidenti!»
Rob J. le accostò la bocca a un orecchio. «Ricordi cosa mi hai detto ieri?» le
chiese.
«Che cosa?»
«Mi hai chiamato bastardo!»
«Io? No, mai!» Sconvolta e furiosa, non volle parlargli per quasi un'ora.
Lo chiamarono Robert Jefferson Cole. Nella famiglia Cole il maschio
primogenito era stato sempre un Robert, con un secondo nome che cominciava
con J. Rob J. pensava che il terzo presidente americano era stato un genio, e
Sarah vide nel nome di Jefferson un legame con la sua natìa Virginia. Aveva
temuto che Alex sarebbe stato geloso, ma il bambino si mostrò invece affa-
scinato dal nuovo piccolo essere. Non si allontanava mai più di un passo o due
dal fratellino, sempre sorvegliandolo attentamente. Fin dal principio acconsentì
che gli altri lo curassero, lo nutrissero, lo cambiassero, giocassero con lui, lo
baciassero. Ma la sorveglianza del bambino era cosa tutta sua.
Sotto molti aspetti il 1842 fu un anno favorevole per la piccola famiglia.
Come aiuto nella costruzione della nuova casa Alden assunse Otto Pfersick, il
mugnaio, e un emigrato dallo Stato di New York, Mort London, che era un otti-
mo ed esperto carpentiere. Pfersick aveva solo una modesta conoscenza dei la-
vori di falegnameria, ma era un buon muratore e i tre uomini passarono molte
giornate a scegliere le pietre migliori dal greto del fiume e a trasportarle fino al
terreno scelto per la costruzione, con l'aiuto dei buoi. Le fondamenta, il camino
e i caminetti riuscirono ottimamente. I tre uomini lavoravano lentamente, con-
sapevoli di costruire un edificio solido e permanente in un paese di casette di
123
tronchi; e quando arrivò l'autunno e Pfersick fu impegnato con il suo mulino a
tempo pieno e gli altri due dovettero badare ai lavori agricoli, il rustico della
casa era terminato e chiuso. Ma la casa era ancora ben lontano dall'essere finita,
così Sarah era seduta davanti alla casetta di tronchi, mondando fagiolini verdi,
quando un grosso carro coperto arrancò su per il sentiero, tirato da due stanchi
cavalli. Sarah levò gli occhi a osservare l'uomo basso e tarchiato che guidava,
notando i capelli e la barba neri coperti dalla polvere della strada.
«È questa la casa del dottor Cole, signora?»
«Sì, ma il dottore è fuori per una visita. Il paziente è ferito o malato?»
«Non c'è nessun malato, grazie a Dio. Siamo amici del dottore e veniamo a
stabilirci in paese.»
Dal retro del carro si sporse una testa di donna. Sarah vide una cuffia spie-
gazzata e un viso pallido e ansioso. «Voi non siete... non sareste per caso i
Geiger?»
«Siamo proprio noi.» L'uomo aveva occhi molto belli e un sorriso aperto,
che pareva aggiungere trenta buoni centimetri alla sua altezza.
«Oh, siate benvenuti, cari vicini! Scendete subito dal carro!» Si alzò dalla
panca tutta agitata, facendo cadere a terra i suoi fagiolini. Nel carro c'erano tre
bambini. Il piccolo appena nato, Herman, dormiva, ma Rachel, che aveva
quattro anni, e il piccolo David di due anni piangevano quando li presero in
braccio per farli scendere, e subito il piccino di Sarah decise di aggiungere i
suoi strilli al coro.
Sarah osservò che Mrs. Geiger era di ben dieci centimetri più alta del marito
e che neppure la fatica di un lungo e penoso viaggio poteva celare la finezza
dei suoi lineamenti. Una donna della Virginia sapeva riconoscere la finezza.
C'era in lei qualcosa di esotico che Sarah non aveva mai visto prima, ma co-
minciò subito a pensare ansiosamente come preparare e servire un pranzo che
fosse degno di lei. Poi si accorse che Lillian aveva cominciato a piangere, e in
un attimo le tornò il ricordo del suo interminabile viaggio in un carro simile a
quello; gettò le braccia al collo dell'altra donna e si trovò con sua sorpresa a
piangere anche lei, mentre Geiger era lì in piedi, sgomento, in mezzo a donne e
bambini che piangevano. Infine Lillian si staccò da Sarah, mormorando imba-
razzata che tutta la sua famiglia aveva terribilmente bisogno di un ruscello per
lavarsi.
«Ma sì, questo è un problema che possiamo risolvere subito» affermò
Sarah, felice di poter fare qualcosa di utile.
Quando Rob J. tornò a casa, li trovò ancora con le teste umide per il bagno
nel ruscello. Dopo gli abbracci e le pacche sulle spalle, mostrò ai nuovi venuti
124
la sua fattoria. Jay e Lillian provavano un senso di timore davanti agli indiani, e
di grande ammirazione per l'abilità di Alden. Jay accolse con entusiasmo la
proposta di sellare Vicky e Bess e fare subito un'ispezione nella sua tenuta.
Quando tornarono, in tempo per un ottimo pranzo, gli occhi di Geiger scin-
tillavano di gioia mentre cercava di descrivere alla moglie le qualità della terra
che Rob J. aveva ottenuto per loro.
«Vedrai, aspetta solo di vederla con i tuoi occhi!» esclamava. Dopo pranzo
si recò al carro e tornò con il suo violino. Non avevano potuto portarsi dietro il
pianoforte della moglie, spiegò, ma lo avevano messo a deposito in un locale
asciutto e sicuro, a pagamento, e contavano di mandarlo a prendere un giorno.
«Hai imparato il pezzo di Chopin?» chiese Geiger, e in risposta Rob J. prese la
viola da gamba, la strinse fra le ginocchia e ne trasse le prime melodiose note
della mazurca. La musica che avevano suonato insieme nell'Ohio era più ricca,
perché vi partecipava il pianoforte di Lillian; ma il violino e la viola fondevano
squisitamente i loro suoni. Quando Sarah finì di sbrigare le pulizie in cucina,
venne ad ascoltare e osservò che, mentre gli uomini suonavano, le dita di Lil-
lian si muovevano a tempo, come se stessero sfiorando i tasti. Avrebbe voluto
prendere la mano di Lillian e lenire la sua nostalgia con parole e promesse:
invece sedette accanto a lei sul pavimento, mentre le onde della melodia sa-
livano e scendevano, portando a tutti speranza e conforto.
I Geiger si accamparono provvisoriamente sulla loro terra, vicino a una
sorgente, mentre Jason tagliava legname per una casetta di tronchi. Erano
decisi a non imporre la loro presenza ai Cole, mentre Sarah e Rob J. avrebbero
tanto desiderato offrire la loro ospitalità. Ma continuavano a farsi visita a vi-
cenda. Mentre, in una notte particolarmente fredda, erano seduti intorno al fuo-
co dei Geiger, sentirono ululare i lupi nella prateria e Jason trasse dal suo vio-
lino un lungo e tremulo ululato, molto simile a quelli. I lupi risposero e per
qualche tempo l'uomo e gli invisibili animali si parlarono attraverso le tenebre,
finché Jason si accorse che sua moglie tremava e non solo per il freddo; gettò
allora un altro ceppo sul fuoco e ripose il suo strumento.
Geiger non era un buon carpentiere; si decise quindi di rimandare ancora
per qualche tempo i lavori di rifinitura della casa dei Cole, e appena Alden riu-
scì a liberarsi in parte dagli impegni della fattoria cominciò a costruire una
casetta di tronchi per i Geiger. Dopo qualche giorno si unirono a lui Otto
Pfersick e Mort London. I tre uomini costruirono rapidamente una comoda
casetta e vi addossarono un capannone chiuso, come farmacia, per riporvi le
cassette dì erbe e di medicinali che avevano occupato la maggior parte dello
spazio nel carro di Jason. Questi inchiodò sulla soglia un minuscolo tubo di
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lamiera contenente un rotolo di pergamena con versetti del Deuteronomio: una
costumanza degli ebrei, spiegò, e i Geiger entrarono nella nuova casa il 18 no-
vembre, pochi giorni prima che il gelo dell'inverno calasse dal Canada.
Jason e Rob J. tagliarono un sentiero nei boschi fra le due case e ben presto
si abituarono a chiamarlo Sentiero Lungo, per distinguerlo da quello che Rob J.
aveva già aperto fra la sua casa e il fiume e che divenne il Sentiero Corto.
Quindi i costruttori trasferirono i loro sforzi alla casa dei Cole. Avevano
davanti tutto l'inverno per portare a termine gli interni, così accendevano legna
nel camino per tenersi caldi e lavoravano con calma in allegria, sagomando
modanature e pannelli di quercia e sprecando ore a miscelare varie tinte di
pittura con latte scremato, per ottenere l'esatta sfumatura di colore che piaceva
a Sarah. Lo stagno vicino alla casa era gelato e Alden talvolta sospendeva il la-
voro e fissava un paio di pattini ai suoi stivali, sfoggiando i suoi virtuosismi di
pattinatore appresi nel Vermont. Anche Rob J. aveva pattinato ogni inverno in
Scozia, e avrebbe volentieri preso a prestito i pattini di Alden, ma erano troppo
piccoli per i suoi rispettabili piedi.
Il primo nevischio cadde tre settimane prima di Natale. Il vento portava
come una nuvolaglia di particelle bianche, che si scioglievano appena tocca-
vano la pelle. Poi caddero le vere larghe falde di neve e stesero sul mondo un
permanente mantello bianco. Con crescente entusiasmo Sarah progettava il suo
menu di Natale, discutendo con Lillian ricette di sicuro successo, imparate nel-
la natia Virginia. Ora scopriva le prime differenze fra la sua famiglia e quella
dei Geiger, perché Lillian non condivideva il suo entusiasmo per l'imminente
festività. E fu sorpresa di sentire che i loro nuovi vicini non celebravano affatto
la nascita di Cristo, mentre stranamente commemoravano qualche antica, eso-
tica battaglia di Terra Santa accendendo sottili candele e cuocendo focacce di
patate! Tuttavia offrirono ai Cole i doni di Natale: marmellate di prugne che si
erano portate dall'Ohio, e caldi calzettoni di lana che Lillian aveva lavorato ai
ferri per tutti. Il dono dei Cole ai Geiger fu una pesante padella di ferro nero
con tre piedini per cucinare sulla brace, che Rob J. aveva comprato all'emporio
di Rock Island.
Invitarono i Geiger al pranzo di Natale, ed essi accettarono, benché Lillian
non mangiasse mai carne fuori di casa sua. Sarah servì una cremosa zuppa di
cipolle, pesce gatto in salsa di funghi, oca arrosto con sugo di rigaglie, croc-
chette di patate, plum pudding all'inglese fatto con le marmellate di Lillian, pan
biscotto, formaggio e caffè. Ai suoi familiari donò maglioni di lana fatti da lei.
Rob I. aveva portato in dono alla moglie una coperta di pelliccia di volpe, così
splendida che strappò a tutti i presenti grida di ammirazione. Ad Alden regalò
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una pipa nuova e una scatola di tabacco, e il bracciante lo sorprese offrendogli
un paio di pattini da ghiaccio dalla lama ben affilata, fatti nell'officina stessa
della fattoria, e abbastanza grandi per i suoi grandi piedi! «Ora il ghiaccio è
coperto dalla neve, ma se li godrà il prossimo anno» gli disse Alden sorridendo.
Dopo che gli ospiti se ne furono andati, Makwa-ikwa bussò alla porta e
lasciò in dono guanti a manopola di pelliccia di coniglio, un paio per Sarah,
uno per Rob, uno per Alex. Si allontanò in fretta, prima che potessero invitarla
a entrare.
«È una donna strana» osservò Sarah pensosa. «Avremmo dovuto regalare
anche a lei qualche cosa.»
«Ci ho pensato io» rispose Rob J. e disse alla moglie che aveva portato a
Makwa-ikwa una padella come quella dei Geiger.
«Vuoi dirmi che hai regalato a quell'indiana un oggetto così costoso, com-
prato in negozio?» E poiché lui non rispondeva, la sua voce si fece tesa e ostile.
«Tu devi tenerci molto, a quella donna!»
Rob la guardò fisso. «Infatti» rispose seccamente.
Quella notte la temperatura si alzò e cadde pioggia invece che neve. Nelle
prime ore del mattino un ragazzo fradicio e piangente, il quindicenne Freddy
Grueber, venne tutto ansimante a bussare alla porta. Il bue che era l'orgoglio di
Hans Grueber aveva rovesciato con un calcio una lampada a petrolio e la stalla
con il fienile era andata a fuoco, malgrado la pioggia. «Mai visto niente di
simile, Cristo, non ce l'abbiamo fatta a spegnerlo. Siamo riusciti a salvare il be-
stiame, eccetto la mula. Ma mio padre si è bruciato malamente, il braccio e il
collo e tutt'e due le gambe. Lei deve venire, dottore!» Il ragazzo aveva fatto a
cavallo ventidue chilometri sotto la pioggia e Sarah cercò di dargli qualcosa da
mangiare e da bere, ma lui scosse la testa e rimontò subito in sella per tornare a
casa.
Sarah preparò un cestino con gli avanzi del pranzo mentre Rob J. riponeva
nella sua sacca i panni puliti e le pomate di cui avrebbe avuto bisogno e
passava a prendere Makwa-ikwa alla sua capanna. Dalla finestra Sarah li vide
sparire nel buio sotto la pioggia, Rob J. su Vicky, con il cappuccio in testa e il
corpo poderoso piegato sulla sella contro il vento; l'indiana, avvolta in una
coperta, era a cavallo di Bess. Sul mio cavallo, e se ne va con mio marito,
mormorava Sarah fra sé, quindi decise di mettersi a impastare il pane, perché
non avrebbe mai potuto tornare a dormire.
Per tutto il giorno attese il loro ritorno. Quando si fece notte rimase a lungo
seduta accanto al fuoco, ascoltando la pioggia e guardando il pranzo che aveva
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tenuto in caldo per lui e che ora diventava immangiabile. Quando andò a letto,
rimase coricata senza dormire, ripetendosi che, se quelli si erano rintanati in un
tepee o in una caverna, in qualche caldo nido, era colpa sua che lo aveva al-
lontanato da sé con la sua gelosia.
La mattina dopo era seduta al tavolo, torturandosi con vane fantasie, quando
venne a trovarla Lillian Geiger, che sentiva la mancanza della vita di città e
malgrado la pioggia veniva a cercar compagnia. Sarah aveva un aspetto stanco
e cerchi neri sotto gli occhi, ma la accolse cordialmente e si sforzò di chiac-
chierare con disinvoltura; a un certo punto tuttavia scoppiò in lacrime nel bel
mezzo di una discussione sui semi da fiori. Un attimo dopo, con un braccio di
Lillian intorno alle spalle, riversava sul seno dell'amica costernata le sue
peggiori paure. «Prima che lui venisse la mia vita era così infelice, ora è così
buona. Se dovessi perderlo...»
«Sarah, ascolta, nessuno può sapere ciò che avviene nel matrimonio degli
altri, ma... tu stessa dici che le tue paure possono essere infondate. Io sono sicu-
ra che lo sono. Rob J. non sembra proprio il tipo d'uomo capace di tradire...»
Sarah si lasciò confortare dall'altra donna e dissuader dai suoi sospetti.
Quando Lillian la lasciò, la sua tempesta emotiva si era placata.
Rob J. tornò a casa a mezzogiorno.
«Come sta Hans Grueber?» chiese Sarah.
«Ah, ustioni gravissime» rispose lui stancamente. «Soffre molto. Spero che
si riprenda. Ho lasciato là Makwa ad assisterlo.»
«Hai fatto bene» osservò lei.
Rob J. dormì tutto quel pomeriggio e la sera, mentre la pioggia cessava e la
temperatura calava bruscamente. Si svegliò nel cuore della notte e si vestì per
uscire e recarsi al gabinetto esterno, inciampando e sdrucciolando perché la
neve impregnata di pioggia si era ghiacciata fino ad assumere la consistenza
del marmo. Quando ebbe vuotato la vescica e fu tornato a letto, non riuscì a
riaddormentarsi. Aveva calcolato di tornare dai Grueber la mattina dopo, ma
ora temeva che gli zoccoli della cavalla non potessero trovare appiglio sul
terreno ghiacciato. Si rivestì, uscì di nuovo all'aperto e constatò che i suoi timo-
ri non erano infondati. Per quanto picchiasse i tacchi sulla neve con la maggior
forza possibile, i suoi stivali non riuscirono a romperne la dura superficie
bianca.
Nel fienile trovò i pattini che Alden aveva fatto per lui e se li legò agli
stivali. Il sentiero che portava alla nuova casa era coperto di ghiaccio ineguale
e sconnesso per le molte impronte, e rendeva difficile il percorso, ma al di là si
estendeva la prateria aperta e la superficie levigata dal vento era liscia come
128
vetro. Rob J. si lanciò per l'ampia distesa scintillante alla luce della luna,
dapprima barcollando un poco, poi con passi più lunghi e sicuri, avventu-
randosi su quel mare di ghiaccio dove si udiva solo il fischio delle lame e il
suono del suo respiro ansimante.
Infine, senza fiato, si fermò a contemplare un attimo lo strano mondo not-
turno della prateria ghiacciata. Vicinissimo, allarmante, risuonò l'ululato spet-
trale di un lupo, e Rob J. si sentì rizzare i capelli sulla nuca. Se fosse caduto, se
si fosse magari spezzato una gamba, i predatori affamati si sarebbero precipitati
su di lui in un minuto. Il lupo urlò ancora, o forse era un altro animale: un urlo
fatto di solitudine e fame e rabbia, che lo spinse a riprendere subito la via di
casa, pattinando con più cautela questa volta, ma sempre correndo come se
fosse inseguito.
Quando tornò alla casetta di tronchi, controllò anzitutto che Alex e il neona-
to non si fossero scoperti nel sonno. Entrambi dormivano tranquillamente.
Quando scivolò piano nel letto, sua moglie si girò e gli scaldò fra i seni il viso
gelato. Sarah fece udire un leggero mugolio, un suono di tenerezza e di desi-
derio, avvolgendolo nel tiepido rifugio delle sue braccia e delle sue gambe. Il
medico era prigioniero del cattivo tempo: Grueber avrebbe potuto fare a meno
di lui finché Makwa fosse rimasta ad assisterlo, pensò, e si abbandonò al calore
del corpo e dell'anima, all'incontro d'amore più misterioso della luce lunare, più
piacevole ancora che volare sul ghiaccio senza lupi.
23
Trasformazioni
Se Robert Jefferson Cole fosse nato nell'Inghilterra del Nord, alla nascita
sarebbe stato chiamato Rob J., e Robert Judson Cole sarebbe divenuto Big Rob
o semplicemente Rob, senza la seconda iniziale. Per i Cole della Scozia, la J.
era conservata dal figlio maggiore finché lui stesso diventava padre di un
maschio primogenito, al quale passava graziosamente senza contestazioni. Rob
J. non pensava certo di violare una tradizione secolare della famiglia; ma que-
sto era un Paese nuovo per i Cole, e quelli che ora egli amava non si davano
pensiero delle tradizioni secolari. Per quanto cercasse di spiegare la cosa, nes-
suno si decise a chiamare il neonato Rob J. Per Alex, dapprima il fratellino fu il
bebé. Per Alden fu il Bambino, Fu Makwa-ikwa che gli diede il nome che
doveva diventare una parte di lui. Un mattino il bambinetto, che ormai si
muoveva a quattro zampe e cominciava a balbettare le prime parole, sedeva a
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terra nell'hedonoso-te di Makwa con due dei tre bambini di Luna e Vien
Cantando: Anemoha, Piccolo Cane, che aveva tre anni, e Chisaw-ik-wa, Donna
Uccello, che ne aveva uno di meno. Giocavano con pupazzi fatti di pannocchie,
ma il piccolo bianco trotterellò lontano da loro. Nella scarsa luce che scendeva
dall'apertura fumaria vide il tamburo ad acqua della sciamana e colpendolo con
la piccola mano ne trasse un suono che fece trasalire ogni persona nella
baracca.
Il piccino strisciò lontano dal suono, ma non tornò dagli altri bambini. Inve-
ce, come se facesse un giro di ispezione, si avviò verso un angolo dove era si-
stemata la riserva di erbe officinali e si fermò davanti a ogni mazzetto, osser-
vandolo gravemente con profondo interesse.
Makwa-ikwa sorrise. «Tu sei ubenu migegee-ieh, un piccolo sciamano.»
Da allora lo chiamò sempre Sciamano, e anche altri ben presto comincia-
rono a usare quel nomignolo, perché sembrava adatto e il piccino all'udirlo
subito rispondeva. C'era qualche eccezione: Alex lo chiamava Fratellino, e per
lui Alex era il Grande, perché fin dal principio la loro madre parlando di loro
diceva il Piccolo e il Grande. Solo Lillian Geiger cercava di chiamarlo Rob J.,
perché Lillian credeva profondamente nella famiglia e nelle tradizioni. Ma
perfino Lillian a volte si dimenticava e lo chiamava Sciamano, e Rob J. Cole (il
padre) rinunciò ben presto alla lotta e conservò la sua iniziale. Comunque,
iniziale o no, sapeva che alle sue spalle alcuni dei suoi pazienti lo chiamavano
Indian Cole e alcuni persino «quel fottuto segaossi amante dei Sauk». Ma tutti,
bigotti o liberali che fossero, lo conoscevano per un buon medico. Quando lo
chiamavano, era sempre pronto ad accorrere da un paziente, senza chiedergli se
lo aveva in simpatia o no.
Là dove una volta Holden's Crossing era stata solo la piantina di una città
tracciata sui volantini di Nick Holden, ora sorgeva una Main Street fiancheg-
giata da case e negozi, che tutti chiamavano il Villaggio. Esibiva orgogliosa-
mente gli Uffici Municipali; l'Emporio generale di Haskins: alimentari, attrezzi
agricoli e tessuti; il magazzino Foraggi e Semi di N.B. Reimer; la Cassa di
Risparmio e Ipoteche di Holden's Crossing; una pensione gestita da Mrs. Anna
Wiley, che serviva anche pasti per i clienti; la farmacia di Jason Geiger; il
Saloon di Nelson (doveva essere una trattoria nei primi progetti di Nick per la
città, ma, data la presenza della locanda di Mrs. Wiley, rimase sempre un basso
stanzone con il lungo banco del bar); e le stalle e la mascalcia di Paul Williams,
maniscalco e fabbro ferraio. Nella sua bella casa di mattoni e legno nel
Villaggio, Roberta Williams, moglie del maniscalco, esercitava le nobili arti di
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sarta e parrucchiera. Per diversi anni Harold Ames, agente d'assicurazioni a
Rock Island, venne all'emporio generale di Holden's Crossing tutti i mercoledì
pomeriggio per stipulare contratti e trattare altri affari con i cittadini del Villag-
gio. Ma quando i lotti di terre demaniali furono tutti assegnati, e alcuni dei co-
loni fallirono e cominciarono a vendere le loro terre a nuovi venuti, risultò
evidente che era necessaria un'agenzia immobiliare e così arrivò Carroll Wil-
kenson, che aprì il suo Ufficio Beni Immobili e Assicurazioni. Charlie An-
dreson, che pochi anni dopo doveva diventare anche il direttore della banca, fu
eletto sindaco della città alla prima elezione e anche a tutte le successive, per
molti anni. Andreson era simpatico a tutti, anche se nessuno ignorava che era il
sindaco scelto da Nick Holden, ed era sempre la lunga mano di Nick. Lo stesso
avvenne per lo sceriffo. Non c'era voluto più di un anno a Mort London per
scoprire che non era nato per coltivare la terra. E nei dintorni non c'erano
abbastanza lavori di carpenteria per assicurargli il pane, perché ogni colono si
faceva i lavori di falegnameria da solo. Così, quando Nick si offrì di appog-
giarlo per la candidatura all'ufficio di sceriffo, Mort accettò ben volentieri. Era
un uomo tranquillo che si occupava coscienziosamente dei propri compiti, il
che perlopiù significava tener quieti gli ubriachi nel saloon di Nelson. Rob J.
era direttamente interessato ai rapporti con lo sceriffo. Ogni medico della con-
tea aveva le mansioni di vicecoroner ed era lo sceriffo che decideva chi avreb-
be dovuto eseguire l'autopsia nei casi di morte da crimine o incidente. Gene-
ralmente un'autopsia era l'unico modo, per un medico di campagna, di eseguire
le dissezioni che erano necessarie per mantenere in esercizio le sue capacità di
chirurgo. Rob J. nell'eseguire un'autopsia si atteneva scrupolosamente alle rigo-
rose norme scientifiche che aveva appreso a Edimburgo: pesava tutti gli organi
vitali e teneva registrazioni. Fortunatamente era sempre stato in buoni rapporti
con Mort London, ed ebbe così la possibilità di eseguire numerose autopsie.
Nick Holden era stato eletto tre volte di seguito all'assemblea legislativa
dello Stato. Talvolta alcuni dei cittadini si irritavano alle sue arie da padrone e
si dicevano fra loro che l'arrogante deputato poteva ben possedere la maggior
parte della banca e buona parte del mulino e dell'emporio generale del saloon, e
sa il diavolo quanti ettari di terreno, ma perdio non era il loro padrone né il
padrone delle loro terre! In generale però lo osservavano con orgoglio e sor-
presa vedendolo agire come un vero uomo politico, laggiù a Springfield, dove
beveva bourbon con il governatore, che era nativo del Tennessee, e faceva
parte di commissioni governative e tirava le file di innumerevoli affari con tale
rapidità e abilità che loro tutti non potevano che mandar giù il rospo e sog-
ghignare scuotendo la testa.
131
Nick aveva due ambizioni, che manifestava apertamente. «Voglio portare la
ferrovia a Holden's Crossing, così che un giorno forse questo Villaggio diven-
terà una metropoli» disse a Rob J. un mattino, fumandosi un sigaro di lusso
seduto sotto il portico dell'emporio di Haskins. «E voglio essere eletto al Con-
gresso degli Stati Uniti. Non voglio certo ottenere la ferrovia e poi starmene
qui a vegetare a Springfield!»
Non erano più in rapporti di vera amicizia, dal giorno in cui Nick aveva
cercato di dissuaderlo dallo sposare Sarah, ma si salutavano cordialmente ogni
volta che si incontravano. Ora Rob J. lo guardò dubbioso. «Non sarà cosa facile
arrivare al Congresso, Nick. Avrai bisogno dei voti di un distretto elettorale
molto più vasto della nostra contea. E poi c'è il vecchio Singleton.» Il can-
didato della regione, Samuel Turner Singleton, conosciuto in tutta la contea di
Rock Island come «il nostro Sammil», godeva di appoggi formidabili.
«Sammil Singleton è vecchio. Presto morirà o si ritirerà. Quando verrà il
momento, farò in modo che tutti nel distretto si rendano conto che un voto per
me è un voto per la prosperità.» Nick gli rivolse un sorrisetto d'intesa. «Io ho
fatto molto per te, non è vero, dottore?»
Rob J. dovette ammettere che era così. Era azionista tanto del mulino quan-
to della banca. Nick aveva anche controllato il finanziamento dell'emporio ge-
nerale e del saloon, ma non aveva invitato Rob J. a partecipare a questi affari. E
Rob J. aveva capito benissimo: Nick aveva già messo forti radici a Holden's
Crossing e non sprecava lusinghe quando non erano necessarie.
Dapprima gli parve strano avere vicino a sé Sarah invece che Makwa-ikwa.
Sarah non avrebbe potuto impegnarsi di più e si affrettava a eseguire tutto
quello che le chiedeva. La differenza stava nel fatto che le doveva chiedere e le
doveva insegnare, mentre Mak-wa era arrivata a sapere da sola quel che
occorreva fare, senza che lui glielo dicesse. Di fronte ai pazienti, o cavalcando
da una casa all'altra, lui e Makwa solevano mantenere lunghi e confortevoli
silenzi; Sarah dapprima parlava e parlava, felice di avere un'occasione per stare
con il marito, ma, via via che le visite ai malati si facevano più numerose ed
erano entrambi logorati dalla fatica, divenne anch'essa più silenziosa.
La malattia si diffondeva rapidamente. Di solito, se in una famiglia uno si
ammalava, anche gli altri erano ben presto vittime del morbo. Eppure lui e
Sarah passavano di casa in casa senza essere contagiati, come se portassero
un'armatura invisibile. Ogni tre o quattro giorni cercavano di tornare a casa per
fare un bagno, cambiarsi d'abito, dormire qualche ora. La casa era calda e
pulita, piena del profumo dei cibi che Makwa preparava per loro. Stavano
qualche tempo con i bambini, poi riponevano nelle bisacce da sella il tonico
che Makwa aveva preparato durante la loro assenza, mescolandolo con un po'
di vino secondo le istruzioni di Rob J., e rimontavano in sella. Quando non
tornavano a casa, dormivano rannicchiati l'uno all'altra ovunque potevano
trovar rifugio, di solito in qualche fienile o per terra accanto a un fuoco acceso
da un altro viaggiatore.
Una mattina un colono, tale Benjamin Haskell, entrò nel suo fienile e rimase
di sasso alla vista del dottore che infilava una mano sotto le gonne della
moglie. Quel gesto era quanto di più vicino all'atto amoroso avessero potuto
permettersi durante tutta l'epidemia, sei settimane. Le foglie stavano ingiallen-
do quando era cominciata, e c'era un velo di neve sui campi quando finì.
Il giorno in cui arrivarono a casa, e si resero conto che questa volta non era
necessario ripartire subito, Sarah mandò Makwa e i bambini con il carro alla
fattoria dei Mueller, a comprare cesti di mele per fare marmellata. Quindi si
immerse lentamente in un bagno ristoratore davanti al fuoco e poi fece bollire
altra acqua e preparò il bagno per Rob. J. Quando egli fu nella vasca di metallo,
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lo lavò lentamente e gentilmente, come avevano lavato i loro pazienti, ma ora
in modo diverso, con la mano invece che con un panno. Rob J., ancora tutto
bagnato, le corse dietro rabbrividendo per le fredde stanze della casa, su per le
scale, sotto le calde coperte del letto, dove rimasero per ore, finché Makwa fu
di ritorno con i bambini.
Sarah scoprì di essere incinta pochi mesi dopo, ma abortì quasi subito,
spaventando Rob J. con una violenta emorragia. Rob J. si rese conto che
sarebbe stato pericoloso per lei concepire un'altra volta, e dopo di ciò prese
precauzioni. La osservò ansiosamente nel timore di veder comparire sintomi di
depressione, come spesso avviene dopo un aborto, ma a parte un certo pallore e
certi momenti di malinconia, in cui restava a lungo pensosa tenendo chiusi i
suoi occhi violetti, si riprese più presto di quanto si potesse sperare.
«Niente figlia» mormorò una sera, vicino al fuoco, prendendo la mano del
marito e ponendosela sul ventre piatto.
«No, però, quando verrà la primavera, potrai uscire con me a combattere le
febbri.» E Sarah si sentì confortata.
24
Musica di primavera
Spesso dunque i bambini Cole furono lasciati a lungo alle cure della donna
sauk. Sciamano si abituò ben presto all'odore di bacche schiacciate che
emanava da Makwa, come lo era all'odore bianco della madre naturale. Si
abituò alla sua pelle scura come al latteo candore e ai capelli biondi di Sarah. E
finì per essere ancora più legato a Makwa. Quando Sarah era lontana, l'indiana
coglieva avidamente l'occasione di stringersi al seno il maschietto, il figlio di
Cawso wabeskiou, trovandovi un appagamento che non aveva più provato da
quando aveva tenuto così il suo fratellino, Co-lui-Che-Possiede-Terra. E gettò
un sortilegio d'amore sul bambino bianco. Talvolta gli cantava:
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Cammino con te, figlio mio,
Ovunque tu vada,
Cammino con te, figlio mio.
Ben presto questi furono i canti che Sciamano borbottava mentre trotterel-
lava dietro di lei. Alex li seguiva un po' imbronciato, osservando quest'altro
adulto che gli portava via il fratellino. Obbediva a Makwa, ma la donna ricono-
sceva in quell'ombra di sospetto e ili ostilità, che vedeva talvolta negli occhi del
ragazzino, un riflesso dei sentimenti di Sarah verso di lei. Ma questo non le
importava. Alex era un bambino, e lei si impegnò a guadagnarsi la sua fiducia,
Quanto a Sarah... per quanto Makwa poteva ricordare i Sauk avevano sempre
avuto dei nemici.
Jay Geiger, occupatissimo con la sua farmacia, aveva assunto Mort London
per dissodare una prima sezione delle sue terre, un compito lento e faticoso.
Mort aveva lavorato dall'aprile alla fine di luglio per dissodare il duro e pro-
fondo strato di terreno e il processo era reso più lungo e costoso dal fatto che le
zolle erbose, dopo essere state rivoltate, dovevano restare a marcire e maturare
per due o tre anni prima che il campo potesse essere nuovamente arato e poi
piantato; e per di più Mort si era preso la scabbia dell'Illinois, che colpiva la
maggior parte degli uomini impegnati a dissodare la prateria. Alcuni pensavano
che il suolo dove marciva l'erba esalasse un miasma che provocava il male nel
coltivatore, mentre altri affermammo che la scabbia fosse causata dal morso di
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minuscoli insetti disturbati dall'aratro. Era un'affezione particolarmente spiace-
vole, con la pelle che si spaccava in minuscole lacerazioni e dava un violento
prurito. Trattata con zolfo, poteva essere contenuta nei limiti di un qualsiasi
disturbo, ma se veniva trascurata sviluppava febbri mortali, come quelle che
avevano ucciso Alexander Bledsoe, il primo marito di Sarah.
Jay insistette perché anche gli angoli del suo campo fossero accuratamente
arati e seminati. Secondo l'antica legge ebraica, al momento del raccolto si
asteneva dal mietere negli angoli, perché vi potessero spigolare i poveri. Quan-
do la prima sezione cominciò a produrre un buon raccolto di granturco, si ac-
cingeva a preparare una seconda sezione per piantarvi frumento. Ma a quel
tempo Mort London era sceriffo e nessuno degli altri coloni era disposto a
lavorare la terra altrui a salario. Era un tempo in cui i coolies cinesi che lavo-
ravano alle ferrovie non osavano lasciare le loro squadre per paura di essere
presi a sassate se si arrischiavano nella più vicina città. Occasionalmente un
irlandese, e più raramente un italiano, sfuggendo alla quasi schiavitù dei lavori
di scavo del Canale Illinois-Michigan, capitavano a Holden's Crossing, ma i
papisti erano malvisti dalla maggioranza della popolazione, e questi intrusi
dovevano tagliar la corda in fretta. Jay era entrato in rapporti occasionali con
alcuni dei Sauk, perché questi erano appunto i poveri che aveva invitato a
spigolare sulle sue terre. Infine comprò quattro giovenche e un vomere d'ac-
ciaio e assunse due dei guerrieri Sauk, Piccolo Corno e Cane di Pietra, per dis-
sodare la prateria.
Gli indiani avevano i loro segreti per fendere il suolo e rivoltarlo in modo da
esporre la sua carne e il suo sangue, la terra nera. Mentre lavoravano, si scusa-
vano con la terra per doverla ferire, e cantavano antichi canti per propiziarsi gli
spiriti giusti. Sapevano che l'uomo bianco arava troppo in profondità. Se rego-
lavano il vomere per un'aratura più superficiale, la massa di radici sotto la su-
perficie marciva più rapidamente e riuscivano a dissodare quasi un ettaro di
terreno al giorno. E né Piccolo Corno né Cane di Pietra presero la scabbia.
Jay, meravigliato, cercò di spiegare il sistema degli indiani ai suoi vicini,
ma non trovò nessuno disposto ad ascoltarlo.
«Questo perché quegli ignoranti bastardi mi considerano uno straniero,
anche se io sono nato nella Carolina del Sud e alcuni di loro sono nati in
Europa» si lagnava con Rob J. «Non hanno fiducia in me. Odiano gli irlandesi
e gli ebrei e i cinesi e gli italiani e sa Dio chi altri, perché sono venuti in
America troppo tardi. Odiano i francesi e i mormoni per principio. E odiano gli
indiani perché erano in America prima di loro. Diavolo, e allora chi amano?»
Rob J. gli sorrise. «Be', Jay... amano se stessi! Pensano di aver ragione
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perché hanno il buonsenso di arrivare proprio al momento giusto.»
A Holden's Crossing, essere amato era una cosa, essere accettalo era un'al-
tra. Rob J. Cole e Jay Geiger erano accettati, magari un po' a denti stretti, per-
ché le loro professioni erano necessarie. Finirono per diventare un elemento di
spicco nel variopinto tessuto della comunità locale, e intanto le due famiglie era
legate da un'amicizia sempre più stretta e trovarono appoggio e stimolo l'una
nell'altra. I bambini imparavano a conoscere le opere dei grandi compositori
mentre la sera nei loro lettini ascoltavano la musica che saliva fino a loro nel-
l'armonia degli strumenti a corda suonati con amore e passione dai loro padri.
La primavera in cui Sciamano compì cinque anni, la malattia di stagione era
il morbillo. L'armatura invisibile che proteggeva Sarah e Rob J. scomparve, e
così la fortuna che li aveva resi immuni. Sarah portò il morbillo a casa e si
ammalò lei stessa in forma lieve, e così fece Sciamano. Rob J. pensava che era
un vantaggio esserne colpiti in forma lieve, perché la sua esperienza gli diceva
che il morbillo non tornava due volte in un'intera vita. Ma Alex si prese una
forma di estrema violenza. Mentre la madre e il fratellino erano solo febbri-
citanti, lui scottava. Mentre loro avevano solo un leggero prurito, il corpo di
Alex era insanguinato da graffi frenetici, e Rob J. lo avvolse in foglie di cavolo
appassite, e dovette legargli le mani per proteggerlo da se stesso.
L'anno dopo la malattia più diffusa era la scarlattina. Il gruppetto dei Sauk
la prese e da loro la prese Makwa-ikwa, così Sarah dovette restare a casa piena
di risentimento e assistere la donna indiana invece di accompagnare il marito.
Poi si ammalarono i due bambini. Questa volta Alex si ammalò in forma lieve,
mentre Sciamano scottava, vomitava, strillava per il male alle orecchie ed ebbe
un esantema così violento che in alcuni punti la sua pelle si staccava in squame
come quella di un serpente.
Quando la malattia ebbe fatto il suo corso, Sarah aprì la casa alla tiepida
aria di maggio e dichiarò che la famiglia aveva bisogno di una piccola festa.
Arrostì un'oca e fece sapere ai Geiger che la loro presenza sarebbe stata gradita,
e quella sera la musica regnò là dove per settimane non si erano uditi che
gemiti.
I bambini dei Geiger furono messi a dormire su pagliericci, accanto alle
cuccette dei bambini Cole. Lillian Geiger fece una capatina nella stanza e
abbracciò e baciò ogni bambino. Poi si fermò sulla porta e augurò a tutti la
buonanotte. Alex le ricambiò il saluto e così gli altri bambini, Rachel, David,
Herm e Cucciolo, che era troppo piccolo per essere chiamato con il suo vero
nome, Lionel. Lillian notò che uno dei bambini non aveva risposto.
143
«Buonanotte, Rob J.» ripeté. Non ci fu risposta. Il bambino guardava fisso
davanti a sé, come se fosse perso nei propri pensieri.
«Sciamano? Mio caro?» Non sentendolo parlare, batté forte le mani. Cinque
visi si voltarono verso di lei, uno non si voltò.
Nell'altra stanza, i due amici stavano suonando il Duetto di Mozart, il pezzo
che eseguivano meglio insieme, che li faceva brillare. Rob J. rimase sorpreso
quando Lillian si piazzò davanti alla sua viola e gli arrestò con la mano
l'archetto durante un fraseggio che gli era particolarmente caro.
«Tuo figlio» disse Lillian. «Il piccolo. Non sente.»
25
Il bambino silenzioso
Per tutta la sua vita Rob J. aveva lottato per salvare i pazienti da affezioni
che comportassero come conseguenza menomazioni fisiche e mentali; e si era
sempre sorpreso nel constatare quanto lo faceva soffrire il fatto che il paziente
fosse qualcuno che amava. Provava affetto per tutti quelli che curava, anche se
erano resi ignobili dalla malattia, anche se erano ignobili prima di ammalarsi,
perché, chiedendo il suo aiuto, in qualche modo entravano nel numero dei suoi
cari. Quando era un giovane medico in Scozia, aveva visto sua madre inferma e
vicino alla morte, ed era stata per lui un'amara lezione sull'impotenza del
medico davanti al destino. E ora provava un'angoscia straziante davanti al male
che aveva colpito quel florido e robusto bambino, grande per la sua età, che era
nato dal suo seme e dal suo amore.
Sciamano guardava sbalordito il padre che batteva le mani, faceva cadere
grossi libri sul pavimento, gridava davanti a lui.
«PUOI... SENTIRE... QUALCOSA, BAMBINO MIO?» Urlava Rob J.,
puntando un dito su uno dei suoi orecchi, ma il piccolo non faceva che fissarlo
sbigottito. Sciamano era completamente sordo.
«Passerà?» chiese Sarah al marito.
«Forse...» rispose Rob J., ma era più spaventato di lei, perché ne sapeva di
più, aveva visto tragedie che lei poteva solo intuire.
«Tu lo farai guarire.» La moglie aveva fiducia assoluta in lui. Come una
volta aveva salvato lei, ora avrebbe salvato il loro bambino.
Rob J. non sapeva come, ma provò. Versò olio caldo negli orecchi di Scia-
mano. Lo immerse in bagni caldi, gli applicò compresse. Sarah pregava Gesù. I
Geiger pregavano Jehovah. Makwa-ikwa batteva sul suo tamburo ad acqua e
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cantava gli antichi canti ai manitou e agli spiriti. Nessun dio, nessuno spirito li
ascoltò.
Lentamente si faceva strada in lei l'idea che Rob J., persino Rob!, non sa-
pesse come aiutare Sciamano. Rob J. partiva ogni mattina e percorreva a
cavallo la prateria per le sue visite a domicilio, del tutto dedito alle malattie
degli altri. Non abbandonava certo la famiglia; ma a lei sembrava così, perché
era lei che restava con i bambini un giorno dopo l'altro, assistendo al loro
tormento.
I Geiger, nell'intento di portare sollievo, invitarono diverse volte gli amici a
quelle serate musicali che le due famiglie avevano così spesso condiviso. Ma
Rob J. non se la sentiva di accettare: non suonava più la sua viola da gamba e
Sarah pensò che non aveva l'animo di suonare quella musica che Sciamano non
poteva udire.
Assillata da tante angosce, cercò conforto nei lavori della fattoria. Fece
dissodare da Alden Kimball un altro appezzamento e si dedicò con passione a
coltivare un nuovo orto-giardino. Percorreva per chilometri e chilometri le rive
del fiume in cerca di gigli, che trapiantava in un'aiuola di fronte alla casa.
Aiutava Alden e Luna a radunare piccoli gruppi di pecore belanti su una zattera
e portarle in mezzo al fiume, dove poi le spingevano nell'acqua per costringerle
a nuotare fino a riva, lavando così il loro vello prima della tosatura. Dopo aver
castrato gli agnelli nati a primavera, Alden la guardava di traverso quando la
padrona reclamava il secchiello di «ostriche della prateria» che erano la leccor-
nia preferita del buon bracciante. Sarah le spellava delicatamente, doman-
dandosi se erano così anche i testicoli dell'uomo, sotto la loro pelle grinzosa.
Poi tagliava a mela le tenere palline e le friggeva in grasso di pancetta, insieme
con cipollotti selvatici e a qualche vescia affettata. Alden mangiava avidamente
la sua parte, dichiarando che erano eccellenti, e cessava di brontolare.
147
Sarah poteva quasi essere soddisfatta, tranne che...
Rob J., tornando a casa un giorno, le disse che aveva parlato con Tobias
Barr a proposito di Sciamano. «A Jacksonville hanno recentemente aperto una
scuola per sordomuti, ma Barr non ne sa molto. Potrei andarci e vedere com'è...
ma Sciamano è così piccolo!»
«Jacksonville è a duecentoquaranta chilometri da qui. Non lo vedremmo
quasi più.»
Rob J. aggiunse che il medico di Rock Island gli aveva confessalo di igno-
rare come si poteva trattare la sordità nei bambini. In realtà qualche anno prima
non era riuscito a ottenere alcun risultato con una ragazzina di otto anni e suo
fratello di sei. Infine i bambini erano stati ricoverati in un ospizio, nell'Illinois
Asylum a Springfield.
«Ma, Rob J....» obiettò Sarah. Dalla finestra aperta veniva il mugolìo gut-
turale dei suoi figli, un suono che aveva qualcosa di insensato e folle, e le
apparve d'improvviso alla mente l'immagine di Bessie Turner con i suoi occhi
vacui. «Mandare un bambino in un ospizio, rinchiuso con malati di mente... è
una malvagità.» L'idea di malvagità la faceva rabbrividire, come al solito.
«Pensi forse» mormorò «che Sciamano sia punito per i miei peccati?»
Rob J. la prese fra le braccia e lei trasse conforto dalla sua forza, come
sempre faceva.
«No, Sarah.» La tenne stretta a lungo. «Oh, mia cara, non devi mai pensar-
lo.» Ma non seppe dirle che cosa dovevano fare.
26
Le manine legate
Alden Kimball aveva chiesto a Rob J. di curare uno dei suoi amici che era
malato nella città mormone abbandonata, Nauvoo.
Alden lo accompagnò per fargli da guida. Si imbarcarono con i cavalli su
una chiatta, per viaggiare più facilmente sul fiume. Nauvoo era una città fan-
tasma, in gran parte deserta, una rete di larghe strade adagiata su un dolce
declivio che scendeva al fiume, con belle case solide e al centro le rovine di un
grande tempio di pietra, che pareva fosse stato costruito da re Salomone. Ormai
ci viveva solo uno sparuto gruppo di vecchi mormoni, gli disse Alden, qualche
anziano, qualche ribelle che aveva rotto i rapporti con il consiglio dei capi
quando i Santi dell'Ultimo giorno si erano trasferiti nell'Utah.
Era un posto che attirava i pensatori indipendenti; un angolo della città era
stato affittato a una piccola colonia di francesi che chiamavano se stessi Ica-
riani e vivevano in comunità cooperativa. Alden condusse Rob J. attraverso il
quartiere francese, stando ben ritto in sella per esprimere il suo disprezzo, fino
a una casa di logori mattoni rossi che sorgeva su un lato di un grazioso viottolo.
Una donna accigliata di mezza età si fece sulla soglia quando bussarono, li
salutò e fece cenno che entrassero. Alden la presentò come Mrs. Bidamon. Nel
salotto c'erano già, sedute o in piedi, una dozzina di persone, ma Mrs. Bidamon
condusse Rob J. su per le scale, in una stanza dove uno scontroso ragazzo di
circa sedici anni era a letto con il morbillo. Non era un caso grave. Rob J. diede
alla madre una manciata di semi di senape macinati, spiegandole come aggiun-
gerli all'acqua del bagno del ragazzo, e un mazzetto di fiori di sambuco secchi
per farne un tè. «Non credo che avrà ancora bisogno di me, ma le raccomando
di mandarmi subito a chiamare se dovesse prodursi un'infezione agli orecchi.»
La donna lo precedette al piano di sotto e probabilmente disse qualcosa di
rassicurante alle persone che aspettavano in salotto. Quando Rob J. si diresse
alla porta, gli si fecero incontro con doni, un barattolo di miele, tre barattoli di
marmellata, una bottiglia di vino, balbettando parole di ringraziamento. Fuori
della casa Rob J. si fermò con le mani piene di doni, guardando Alden un po'
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sconcertato.
«Le sono grati perché ha curato il ragazzo» spiegò Alden. «Mrs. Bidamon è
la vedova di Joseph Smith, il profeta dei Santi dell'Ultimo giorno, l'uomo che
ha fondato questa setta. Il ragazzo è suo figlio e si chiama anche lui Joseph
Smith. Credono che anche il giovane sia un profeta.»
Mentre si allontanavano, Alden si voltò a guardare la città di Nauvoo e
sospirò. «Quello era un bel posto da viverci. Tutto rovinato perché Joseph
Smith non è stato capace di tenersi l'uccello nei pantaloni. Lui e la sua poliga-
mia. Le chiamava mogli spirituali. Ma non c'era niente di spirituale, gli piaceva
semplicemente fottere.»
Rob J. sapeva che i Santi dell'Ultimo giorno erano stati scacciati dall'Ohio,
dal Missouri e infine dall'Illinois, perché i loro matrimoni poligamici avevano
infiammato lo sdegno della gente locale. Non aveva mai voluto intromettersi
nella vita privata di Alden, né fargli domande sul suo passato, ma ora non poté
resistere. «Anche tu i più di una moglie?»
«Tre. Quando ho rotto con la Chiesa, sono state divise fra gli altri Santi,
insieme con i figli.»
Rob J. non osò chiedere quanti figli, ma un demone lo spinse a fare un'altra
domanda. «Questo ti è dispiaciuto?»
Alden rifletté un attimo, poi sputò. «La varietà era anche piacevole, non lo
nego. Ma senza quelle, che pace meravigliosa!»
Quattro giorni dopo Samuel T. Singleton era seduto a un tavolo con due
consiglieri comunali di Rock Island e tre consiglieri comunali di Davenport,
Iowa, per illustrare la situazione giuridica e fiscale della Ferrovia Chicago-
Rock Island, che progettava di costruire un ponte ferroviario attraverso il
Mississippi fra le loro due città. Stava appunto discutendo della servitù di pas-
saggio, quando fece un piccolo sospiro, come di esasperazione, e si accasciò
sulla sedia. Quando il dottor Tobias Barr, che era stato chiamato in tutta fret-
ta, arrivò al saloon, ognuno nel vicinato sapeva che Sammil Singleton era
morto.
Ci volle una settimana prima che il governatore nominasse un successore.
Subito dopo il funerale Nick Holden era partito per Springfield, per cercare di
accaparrarsi la nomina. Rob J. poteva facilmente immaginare il braccio di ferro
in cui era impegnato, e senza dubbio non furono risparmiati gli sforzi da parte
del migliore amico di baldorie di Nick, il vicegovernatore che era nativo del
Kentucky. Ma evidentemente l'organizzazione Singleton aveva i suoi propri
amici di baldoria, e il governatore nominò l'assistente di Singleton, Stephen
Hume, a coprire il posto del deputato defunto per i diciotto mesi che mancava-
no allo spirare del termine della legislatura.
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«Il buon Nick è fuori gioco» osservò Jay Geiger. «Di qui allo scadere del
termine Hume avrà messo radici. La prossima volta si presenterà alle elezioni
come deputato in carica, e sarà quasi impossibile che Nick lo batta.»
A Rob J. tutto questo non interessava. Era troppo assorbito da ciò che
accadeva entro le pareti di casa sua.
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27
Politica
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L'arresto
Rob J. si disse che forse era Luna. Non che Luna fosse da disprezzare,
anzi gli era simpatica e gli era utile, ma solo due donne sauk la-
voravano per lui, e se non si trattava di Luna... La sua mente si ri-
fiutava di affrontare l'alternativa.
«Quella che l'aiuta nelle sue visite» aggiunse Mort London. «Pugna-
lata. Più volte. Chiunque lo abbia fatto, l'ha percossa prima. Strappate le
vesti. Violentata, credo.»
Per pochi minuti avanzarono in silenzio. «Dovevano essere più di uno.
Diverse impronte di cavallo sul luogo dov'è stata trovata» continuò lo
sceriffo. Poi rimase zitto per tutta la strada.
Quando arrivarono alla fattoria Makwa era già stata trasportata nel
capannone. Fuori, fra l'ambulatorio e il fienile, si era radunato un piccolo
gruppo: Sarah, Alex, Sciamano, Jay Geiger, Luna e Vien Cantando con i
loro bambini. Gli indiani non gemevano a voce alta ma i loro occhi tradi-
vano il loro dolore e la loro impotenza, la consapevolezza che la vita era
cattiva. Sarah piangeva in silenzio o Rob J. le si avvicinò e la baciò.
Jay Geiger avanzò verso di lui. «L'ho trovata io.» Scosse la testa come
per allontanare un insetto molesto. «Lillian mi aveva mandato qui a por-
tare della marmellata di pesche per Sarah. A un certo punto ho visto
Sciamano che dormiva sotto un albero.»
Rob J. trasalì. «Sciamano era lì? E ha visto Makwa?»
«No, non l'ha vista. Sarah dice che Makwa lo aveva condotto stamattina con
sé a raccogliere erbe nei boschi lungo il fiume, come faceva tante volte. Quan-
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do il bambino si stancò, gli lasciò fare un sonnellino all'ombra. E tu sai che
nessun rumore o grido potrebbe svegliarlo. Quando l'ho visto, ho pensato che
certo non era lì da solo e l'ho lasciato dormire e sono andato avanti fino alla
radura. E l'ho trovata...
«Non è bella da vedere, Rob... Mi ci sono voluti alcuni minuti per ripren-
dermi dallo shock. Poi sono tornato indietro e ho svegliato il bambino, ma lui
non aveva visto niente. L'ho portato qui con me, poi sono andato a chiamare lo
sceriffo.»
«Sembra che tu non faccia altro che riportarmi i bambini a casa.»
Jay lo guardò. «Rob, tu stai bene?»
Rob J. annuì.
Jay, d'altra parte, era pallido e sconvolto. «Credo che tu abbia un lavoro da
fare. I Sauk vorranno lavarla e seppellirla.»
«Tienili tutti lontano per un momento» pregò Rob J., poi entrò nel capan-
none da solo e si chiuse la porta alle spalle.
Era coperta da un lenzuolo. Non era stata portata da Jay, o da qualcuno dei
Sauk. Probabilmente da un paio degli uomini di London, perché l'avevano
gettata negligentemente bocconi sul tavolo da dissezione, come un oggetto
inanimato di scarso valore, come un tronco d'albero o una donna indiana morta.
Quello che vide al primo sguardo, appena tolto il lenzuolo, furono la sua nuca e
la schiena nuda, le cosce e le gambe.
Il lividore indicava che era sdraiata supina quando era morta: la schiena e le
natiche erano arrossate dal ristagno del sangue nei capillari. Ma attorno all'ano
violato vide una crosta rossiccia e una chiazza biancastra ormai secca, mac-
chiata di scarlatto dov'era gocciolato il sangue.
Gentilmente la rigirò di nuovo in posizione supina.
C'erano dei graffi sulle sue guance, fatti dai rami quando la sua faccia era
stata premuta contro il suolo del bosco.
Rob J. provava una viva attrazione per il posteriore femminile. Sua moglie
l'aveva presto scoperto e amava offrirsi così a lui, la faccia contro il cuscino, i
seni premuti contro il lenzuolo, divaricando i piedi snelli elegantemente arcua-
ti, le lisce natiche a forma di pera bianche e rosa sopra il vello dorato. Una
posizione scomoda, ma lei la assumeva a volte perché l'eccitazione sessuale del
marito accendeva anche in lei la passione. Rob J. credeva nel coito come forma
di amore, e non semplicemente come mezzo di procreazione, e non riteneva
perciò che un solo orifizio fosse sacro al piacere sessuale. Ma come medico
aveva osservato che lo sfintere anale poteva perdere la sua elasticità, se non si
usava una certa delicatezza, e facendo l'amore con Sarah gli era facile agire in
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modo da non farle male.
Altri non avevano mostrato lo stesso rispetto per Makwa.
L'indiana aveva il corpo snello e robusto di una donna di dieci anni più
giovane di quella che doveva essere la sua età. Diversi anni prima lui e Makwa
avevano affrontato il problema della loro reciproca attrazione fisica e l'avevano
sempre tenuta attentamente a freno. Ma c'erano stati momenti in cui Rob J.
aveva pensato al suo corpo di donna, immaginando che cosa sarebbe stato fare
l'amore con lei. Ora la morte aveva già cominciato la sua devastazione. Il suo
addome era gonfio, i seni appiattiti dal rilasciarsi dei tessuti. C'era già un inizio
di rigor mortis e Rob J. raddrizzò le gambe, mentre era ancora possibile. Il
pube era come lana nera, inzuppata di sangue; forse era una fortuna che fosse
morta, perché il suo dono di sciamana si sarebbe estinto.
«BASTARDI! SPORCHI BASTARDI!»
Si asciugò gli occhi, rendendosi conto all'improvviso che la gente là fuori
l'avrebbe sentito urlare. Il torso di Makwa era una massa di lividi e ferite, e il
labbro inferiore era stato spaccato, forse da un grosso pugno.
A terra, accanto al tavolo, stavano le prove raccolte dallo sceriffo: la veste
lacera e macchiata di sangue (un vecchio abito di percalle datole da Sarah); il
cestino a metà pieno di menta, crescione e certe foglie di un albero, forse
ciliegio; e un mocassino di pelle di daino. Un solo mocassino? Cercò l'altro e
non riuscì a trovarlo. I suoi piedi forti e bruni erano nudi: erano piedi duri e
robusti, con il secondo dito del sinistro deformato da una vecchia frattura.
L'aveva spesso vista a piedi nudi e talvolta si era domandato come si fosse rotta
quel dito, ma non gliel'aveva mai chiesto.
Guardò il suo viso, il viso della vecchia amica. I suoi occhi erano aperti ma
il corpo vitreo aveva perduto pressione e si era asciugato, e quegli occhi erano
la cosa più morta in lei. Li chiuse gentilmente e pose sulle palpebre due mone-
tine, ma gli sembrava che lei lo fissasse ancora. Nella morte il suo naso era più
pronunciato, più sgarbato. Non sarebbe stata bella invecchiando, ma il suo viso
aveva ancora molta dignità. Rob J. rabbrividì e congiunse strettamente le mani,
come un bambino in preghiera.
«È un grande dolore per me, Makwa-ikwa.» Non si illudeva che lei potesse
sentire, ma lo confortava il parlare con lei. Trasse penna e carta e copiò i segni
a forma di rune impressi sul suo seno, intuendo che avevano un loro signi-
ficato. Non sapeva se qualcuno li avrebbe capiti perché Makwa non aveva
addestrato nessuno a succederle come sciamano dei Sauk, credendo di avere
ancora molti anni di vita. Forse, pensò, aveva sperato che uno dei figli di Luna
e Vien Cantando diventasse crescendo un buon apprendista.
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Rapidamente tracciò uno schizzo del suo volto, così come era in passato.
Qualcosa di terribile era accaduto a lui, non meno che a lei. Come aveva
tante volte visto in sogno lo studente-boia che sollevava la testa mozzata del
suo amico Andrew Gerould di Lanark, così avrebbe sognato di questa morte.
Non comprendeva del tutto che cosa suscitasse l'amicizia, come non sapeva che
cosa suscitasse l'amore, ma in qualche modo questa donna indiana e lui erano
divenuti sinceramente amici e la sua morte era per lui una grave perdita. Per un
attimo dimenticò il voto di non violenza: se avesse avuto in suo potere quelli
che avevano compiuto il crimine, li avrebbe schiacciati come vermi.
Quel momento passò. Si coprì con un fazzoletto il naso e la bocca per
proteggersi dall'odore e prese il bisturi. Con rapidi colpi aprì il corpo da una
spalla all'altra, a forma di grande U, e poi tagliò dritto fra i seni fino all'om-
belico, in una trisezione a forma di Y, da cui non stillò neppure una goccia di
sangue. Le sue dita erano insensibili e obbedivano ottusamente al pensiero; era
una fortuna che non dovesse tagliare un paziente vivo. Finché non ebbe
sollevato i tre lembi di pelle, quel misero corpo era Makwa. Ma quando prese
le forbici per liberare lo sterno, si costrinse a un diverso livello di coscienza e
sgombrò la mente da ogni pensiero che non fosse quel compito specifico: tornò
alla routine familiare e cominciò a fare le cose che dovevano essere fatte.
Rob J. rimase alzato fino a tardi quella notte per copiare il rapporto da
presentare al giudice di contea e poi farne un'altra copia per Mort London. La
mattina dopo i Sauk vennero alla fattoria per seppellire Makwa-ikwa sul
promontorio a picco sul fiume, vicino all'hedonoso-te. Rob J. aveva offerto lo-
ro quel terreno per la tomba, senza consultare la moglie.
Sarah andò in collera quando lo seppe. «Sulla nostra terra? Ma che cos'hai
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pensato? Una tomba è per sempre, lei sarà qui eternamente, non ci potremo mai
liberare di lei!» gridò furiosa.
«Chiudi la bocca, donna» replicò seccamente Rob J. e lei si voltò e si allon-
tanò da lui.
Luna lavò Makwa e la rivestì con la sua veste da sciamana di pelle di daino.
Alden si offrì di farle una bara di pino, ma Luna disse che era costume dei Sauk
seppellire i morti avvolti nella loro migliore coperta. Alden aiutò invece Vien
Cantando a scavare la tomba. Luna disse che dovevano scavarla nelle prime ore
del mattino: questo era il costume. Tomba scavata al mattino, sepoltura al
pomeriggio. I piedi di Makwa, disse, dovevano essere rivolti a occidente, e
mandò al campo sauk a prendere la coda di un bisonte femmina da porre nella
fossa. Questo avrebbe aiutato Makwa-ikwa a varcare il fiume di nebbia che
separa il Paese dei vivi dal Paese dell'Ovest, spiegò a Rob J.
Il funerale fu un misero rito. Gli indiani e i Cole e Jay Geiger si raccolsero
intorno alla tomba e Rob J. aspettò che qualcuno cominciasse a parlare, ma
nessuno si fece avanti. I Sauk non avevano uno sciamano. Con sgomento vide
che i Sauk guardavano lui. Se Makwa fosse stata cristiana, Rob J. sarebbe stato
abbastanza debole da pronunciare parole in cui non credeva. In questa situazio-
ne si sentiva del tutto fuori posto. Da un angolo della mente gli affiorò il
ricordo di antiche parole:
Quando fu chiaro che non avrebbe detto altro, Jay si schiarì la voce e pro-
nunciò alcune frasi in una lingua che Rob J. pensò fosse ebraico. Per un attimo
temette che Sarah volesse intromettere il nome di Gesù: ma sua moglie era
troppo timida per farlo. Makwa aveva insegnato ai Sauk alcuni canti di pre-
ghiera e ora ne cantarono uno insieme:
Era una nenia che spesso Makwa aveva cantato a Sciamano, e Rob J. vide
che il bambino, pur senza emettere voce, muoveva le labbra seguendo le
parole. Quando il canto fu terminato, ebbe fine il funerale. E fu tutto.
Dopo, Rob J. si recò alla radura nel bosco, dove il crimine era avvenuto. Il
terreno era un ammasso di impronte di cavalli. Aveva chiesto a Luna se
qualcuno dei Sauk era un cacciatore abile nello stanare la selvaggina, ma la
donna aveva risposto che gli abili cacciatori erano morti. Comunque ormai un
gran numero di agenti di London erano stati sul posto e il suolo era calpestato
da uomini e cavalli. Rob J. sapeva quello che stava cercando. Trovò il baston-
cello nel cespuglio dov'era stato gettato. Sembrava una verga qualsiasi, tranne
per il colore rugginoso a un'estremità. L'altro mocassino di Makwa era stato
gettato nel bosco, dall'altra parte della radura, da qualcuno con un braccio
robusto. Non c'era altro che potesse trovare: avvolse i due oggetti in un panno e
si diresse all'ufficio dello sceriffo.
Mort London ricevette la copia del referto e le due prove senza far com-
menti. Era piuttosto freddo, forse perché i suoi uomini non avevano trovato la
verga e il mocassino quando avevano perquisito il luogo. Rob J. non tardò ad
andarsene.
Accanto all'ufficio dello sceriffo, sotto il portico dell'emporio, fu chiamato
da Julian Howard. «Ho qualcosa per lei» gli disse. Si frugò in tasca e Rob J. udì
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il tintinnio di molte monete. Howard gli porse un dollaro d'argento.
«Non c'è fretta, Mr. Howard.»
Ma Howard gli fece un gesto, agitando la moneta. «Pago i miei debiti» re-
plicò in tono arrogante e Rob J. prese la moneta senza fargli osservare che
mancavano cinquanta cent, contando le medicine che gli aveva lasciato.
Howard stava già voltandosi sgarbatamente. «Come sta sua moglie?» chiese
Rob J.
«Molto meglio. Non c'è più bisogno di lei.»
Era una buona notizia e risparmiava a Rob J. una lunga e faticosa cavalcata.
Si recò invece alla fattoria degli Schroeder, dove Alma già si accingeva alle
pulizie autunnali: era evidente che non aveva alcuna costola fratturata. Poco
dopo, quando passò da Donny Baker, trovò che il ragazzo era ancora febbri-
citante e la carne infiammata del piede indicava che l'infezione avrebbe ancora
potuto diffondersi. Rob J. non poté fare altro che cambiare la medicazione e
dargli un po' di laudano per calmare il dolore.
Una triste e infelice mattinata volgeva alla fine. La sua ultima visita fu alla
casa dei Gilbert, dove trovò Fletcher White in cattive condizioni, con gli occhi
torbidi e quasi spenti, il magro corpo squassato dalla tosse, ogni respiro una
penosa fatica. «Stava già meglio» mormorò Suzy Gilbert.
Rob J. sapeva che Suzy aveva un mucchio di bambini e un'enorme quantità
di lavori da sbrigare, e perciò aveva interrotto troppo presto i suffumigi e le
bevande calde; Rob J. aveva voglia di imprecare e rimproverarla, ma, quando
prese nelle sue le mani di Fletcher, capì che il vecchio aveva ancora poco da
vivere e non volle che Suzy si sentisse in colpa per aver affrettato la morte del
padre con la sua negligenza. Le lasciò un po' del forte tonico di Makwa, per
dare un po' di sollievo al morente. E si accorse che ormai gliene restava ben
poco. Aveva visto diverse volte la sciamana preparare l'infuso e pensava di
conoscere i pochi, semplici ingredienti vegetali di cui era composto. Doveva
ormai tentare di prepararselo da solo.
Aveva in programma di passare le ore del pomeriggio nel suo ambulatorio,
ma quando tornò alla fattoria trovò il suo mondo sconvolto dal caos. Sarah era
pallida come la cera, Luna, che aveva assistito senza una lacrima al funerale di
Makwa, ora piangeva amaramente, e i bambini erano terrorizzati. Mort London
e Fritz Graham, il suo assistente ufficiale, e Otto Pfersick, nominato assistente
per l'occasione, erano sopraggiunti durante l'assenza di Rob J. e avevano pun-
tato i fucili contro Vien Cantando. Mort lo aveva dichiarato in arresto. Gli
avevano legato le mani dietro la schiena, gli avevano annodato una fune alla
vita e lo avevano trascinato via dietro i loro cavalli, come un animale catturato.
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Lei ha commesso un errore, Mort» affermò Rob J. Mort London era evi-
dentemente a disagio, ma scosse la testa. «No, noi crediamo che quel grosso
bastardo sia con tutta probabilità quello che l'ha uccisa.»
Quando Rob J. era stato nell'ufficio dello sceriffo, solo poche ore prima,
London non gli aveva detto nulla dell'intenzione di andare alla sua fattoria ad
arrestare uno dei suoi braccianti. C'era qualcosa di storto: il guaio che colpiva
Vien Cantando era come un morbo senza apparente eziologia. Rob J. prese
nota del "noi". Sapeva chi erano i "noi", e intuí che Nick Holden sperava di
sfruttare la morte di Makwa per i suoi piani politici. Ma cautamente trattenne la
sua collera.
«Un grosso errore, Mort.»
«C'è un testimone che ha visto il grosso indiano proprio nella radura dov'è
stata trovata la vittima, poco prima che il crimine fosse compiuto.»
Non c'era da sorprendersi, pensò Rob J., dato che Vien Cantando era uno
dei suoi braccianti e i boschi lungo il fiume facevano parte della sua proprietà.
«Voglio pagare la cauzione.»
«Niente cauzione. Dobbiamo aspettare un giudice del tribunale itinerante
che deve venire da Rock Island.»
«Quanto tempo ci vorrà?»
London non rispose e si strinse nelle spalle.
«Una delle buone cose che ci sono venute dagli inglesi è l'habeas corpus.
Dobbiamo applicarlo anche qui.»
«Non si può far venire in tutta fretta un giudice per un solo indiano.
Occorreranno cinque, sei giorni. Forse una settimana.»
«Voglio vedere Vien Cantando.»
London si alzò e lo accompagnò nella prigione con due celle, adiacente
all'ufficio dello sceriffo. I suoi assistenti sedevano nel buio corridoio fra le
celle, con il fucile sulle ginocchia. Fritz Graham aveva l'aria di divertirsi un
mondo. Otto Pfersick aveva la faccia di uno che voleva solo tornare al suo
mulino a macinar farina. Una delle celle era vuota, l'altra era piena del grande
corpo robusto di Vien Cantando.
«Slegatelo» ordinò bruscamente Rob J.
London esitò. Gli uomini avevano paura di avvicinarsi al prigioniero, pensò
Rob J. Vien Cantando aveva un grosso livido sopra l'occhio destro (fatto dalla
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canna di un fucile?). La sua imponente statura li intimidiva.
«Fatemi entrare. Lo slegherò io stesso.»
London aprì la porta e Rob J. entrò da solo. «Pyawanegawa» chiamò piano,
ponendo la mano sulla spalla di Vien Cantando e pronunciando il suo vero
nome.
Girò alle spalle dell'indiano e cominciò a trafficare con la fune che lo lega-
va, ma il nodo era troppo stretto. «Si deve tagliare,» disse a London «datemi un
coltello.»
«Un corno!»
«Un paio di forbici, nella mia borsa.»
«Anche quelle sono un'arma» brontolò London, ma mandò Graham a
prendere le forbici e Rob J. poté tagliare la fune. Prese i polsi di Vien Cantando
fra le sue mani e gli parlò guardandolo negli occhi, come parlava al figlioletto
sordo. «Cawso wabeskiou aiuterà Pyawanegawa. Noi siamo fratelli della stessa
Metà, i Lunghi Capelli, i Keeso-qui.»
Ignorò la divertita sorpresa e il disprezzo negli occhi dei bianchi che ascol-
tavano dall'altra parte delle sbarre. Non sapeva quanto Vien Cantando avesse
capito di ciò che gli aveva detto. Gli occhi del sauk erano cupi e opachi, ma
fissandoli Rob J. percepì un cambiamento, un lampo che non avrebbe potuto
definire, che sarebbe potuto essere rabbia ma anche un tenue raggio di rinata
speranza.
Quel pomeriggio condusse Luna dal marito. La donna faceva da interprete
mentre London interrogava il prigioniero.
Vien Cantando era sconcertato dall'interrogatorio.
Ammise subito di essere stato nella radura quella mattina. Era tempo di
raccogliere la legna per l'inverno, disse, guardando l'uomo che lo pagava per
farlo. E cercava aceri da zucchero e se li imprimeva nella memoria per cavarne
il succo a primavera.
Viveva nella stessa baracca della donna morta, osservò London.
Sì.
Aveva mai avuto rapporti sessuali con lei?
Luna esitò prima di tradurre. Rob J. guardò duramente lo sceriffo, ma le
toccò il braccio e annuì, e lei ripeté al marito la domanda. Vien Cantando
rispose subito e senza collera apparente.
No, mai.
Quando l'interrogatorio fu terminato, Rob J. seguì Mort London nel suo
ufficio. «Può dirmi perché ha arrestato quest'uomo?»
«L'ho già detto. Un testimone l'ha visto nella radura poco prima che la
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donna fosse uccisa.»
«Chi è il testimone?»
«... Julian Howard.»
Rob J. si chiese che cosa diavolo ci faceva Julian Howard nella sua terra.
Ricordò il tintinnio dei dollari nella giacca di Howard, quando gli aveva pagato
la visita. «Lei lo ha pagato per la sua testimonianza» dichiarò, come afferman-
do un dato di fatto.
«No, non l'ho fatto» protestò London arrossendo, ma come canaglia era solo
un dilettante, goffo nel simulare un giusto sdegno.
Doveva essere stato Nick a dargli il denaro, insieme con una buona dose di
lusinghe, di «sei un bravo ragazzo, fai solo il tuo dovere».
«Vien Cantando era là dove doveva essere, lavorava nella mia proprietà. Lei
potrebbe allo stesso modo arrestare me per essere il padrone della terra dove
Makwa è stata uccisa, o Jay Geiger per averla trovata.»
«Se l'indiano non l'ha uccisa, risulterà da un equo processo. Viveva insieme
alla donna...»
«Era la sua sciamana. Era come una sacerdotessa. Il fatto che vivessero nel-
lo stesso alloggio vietava il sesso fra loro, come se fossero fratello e sorella.»
«C'è gente che ha ucciso i suoi preti. E fottuto le sorelle, se è per questo.»
Rob J. si allontanò disgustato, ma si voltò prima di uscire.
«Non è troppo tardi per rimediare all'errore, Mort. L'incarico di sceriffo è un
lavoro qualsiasi, se lo perde potrà benissimo sopravvivere. Io credo che lei sia
un uomo onesto. Ma se commette una volta un'azione del genere, sarà facile
che torni a farlo in futuro.»
Fu un errore. Mort poteva sopportare che tutta la città sapesse che lo sce-
riffo era una pedina di Nick Holden, ma non sopportava che qualcuno glielo
gettasse in faccia.
«Io ho letto quella schifezza che lei chiama referto d'autopsia, dottor Cole.
Dovrà sudare un bel po' per far credere a un giudice e a una giuria di sei onesti
uomini bianchi che quella femmina era vergine. Una bella femmina indiana di
quell'età, e tutti nella contea sanno che era la sua ganza, dottore. Lei ha una
bella faccia di bronzo. E ora vada a farsi fottere fuori di qui e non si metta in
mente di tornare se non ha in mano una carta ufficiale.»
In città non doveva far molto scalpore la morte di una donna indiana. Più
entusiasmo destava l'imminente apertura dell'Accademia di Holden's Crossing.
Ogni cittadino sarebbe stato ben lieto di cedere un lotto della sua terra per la
costruzione della scuola, assicurandosi così facile accesso per i propri figli, ma
si decise che l'istituto dovesse sorgere in un punto centrale e infine il Consiglio
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comunale accettò più di un ettaro di terreno da Nick Holden. Nick ne fu
oltremodo soddisfatto, perché il lotto figurava precisamente come sede della
scuola sulla vecchia "Mappa del Sogno" che aveva tracciato per Holden's Cros-
sing.
Si costruì in cooperativa un edificio scolastico di tronchi d'albero, che com-
prendeva una sola aula. Una volta iniziati i lavori, il progetto andò facendosi
sempre più ricco. Invece di un pavimento di sciaveri, gli uomini andarono a
prendere dei grossi tronchi e li trascinarono per dieci chilometri fino in città e li
segarono espressamente per un pavimento di robusto tavolato. Su una parete fu
costruito un lungo ripiano che doveva servire da scrivania collettiva, e di fronte
fu sistemata una panca della stessa lunghezza, in modo che gli scolari potes-
sero sedere di fronte alla parete per scrivere, e poi girarsi a guardare il mae-
stro quando erano interrogati. Al centro della stanza fu posta una robusta
stufa a legna, in ferro. Si decise che la scuola aprisse ogni autunno dopo il
raccolto e avesse la durata di tre trimestri, di dodici settimane ciascuno; il
maestro doveva essere pagato diciannove dollari ogni trimestre, più allog-
gio e pensione. La legge dello Stato disponeva che un maestro dovesse es-
sere qualificato a insegnare lettura, scrittura e aritmetica e avesse una
buona conoscenza di geografia o grammatica o storia. Non si presenta-
rono molti candidati per quel posto, perché la paga era scarsa e le secca-
ture erano molte, ma infine la città assunse Marshall Byers, primo cugino
di Paul Williams, il maniscalco.
Mr. Byers era un magro giovanotto di ventun anni che aveva insegnato
nell'Indiana prima di arrivare nell'Illinois, perciò sapeva che cosa doveva
aspettarsi per "alloggio e pensione a turno", il che significava essere ospi-
tato ogni settimana presso la famiglia di un alunno diverso. Disse a Sarah
che era ben lieto di vivere in una fattoria con un allevamento di pecore,
perché gli piaceva l'agnello con carote più che il maiale con patate. «Nel-
le altre fattorie, quando servono la carne, è sempre maiale con patate, ma-
iale con patate.» Rob J. gli sorrise. «Le piaceranno i Geiger» commentò.
Rob J. non provava troppa simpatia per il maestro. C'era qualche cosa
di sporco nel modo in cui gettava occhiate di soppiatto a Luna e a Sarah, e
guardava Sciamano come se il ragazzino fosse un brutto scherzo di natura.
«Spero che avrò Alexander nella mia scuola» uscì a dire Mr. Byers.
«Anche Sciamano verrà a scuola» replicò pacatamente Rob J.
«Oh, ma questo certo è impossibile. Il ragazzo non parla normal-
mente. E come potrebbe un ragazzo che non sente una parola imparare
qualcosa a scuola?»
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«Legge le parole sulle labbra. Impara molto facilmente, Mr. Byers.»
Mr. Byers corrugò le sopracciglia. Parve pronto a protestare, ma guardando
il viso di Rob J. cambiò idea. «Certamente, dottor Cole» disse in tono piut-
tosto sostenuto. «Certamente.»
* L'episodio noto con questo nome rientra fra le cause della guerra di Indipendenza
americana e avvenne il 16 dicembre 1773: in segno di protesta per le tasse decretate
dalla Gran Bretagna nei confronti delle colonie americane, un gruppo di coloni, tra-
vestiti da indiani, assalirono tre navi della Compagnia delle Indie ancorate nel porto
di Boston e gettarono in mare il carico di tè. [N.d.T.]
184
francescana di Philadelphia, appena arrivata dal mio nativo Württemberg. I
Know-Nothing mi accolsero con una settimana di tumulti in cui attac-
carono due chiese, percossero a morte dodici cattolici e diedero alle fiamme
dozzine di case di famiglie cattoliche.
Mi ci è voluto un bel po' di tempo per convincermi che ,quelli non sono
tutta l'America.»
Rob J. scosse la testa. Osservò che uno dei due locali della casa di
August Lund era stato adattato a dormitorio, di una semplicità spartana.
Prima era stato il granaio dei Lund: ora c'era una pila di pagliericci
accatastati in un angolo. Oltre il tavolino-scrivania e la sedia della reve-
renda Madre e la poltrona del vescovo, l'unico mobilio era costituito da
una grande e bella tavola da refettorio con panche di legno nuovo, e Rob
J. fece i suoi complimenti per l'accurato lavoro di falegnameria. «Li ha fatti il
vostro prete?»
La monaca sorrise e si alzò. «Padre Russell è il nostro cappellano. Suor
Mary Peter Celestine è la nostra carpentiere. Le piacerebbe vedere la nostra
cappella?»
La seguì nella stanza dove i Lund avevano mangiato e dormito e fatto
l'amore e dove Greta Lund era morta. Era stata intonacata di bianco.
Contro una parete vi era un altare di legno e di fronte un inginocchiatoio.
Davanti al crocefisso sull'altare ardeva una grande candela in un vaso ros-
so, fiancheggiata da candele più piccole. C'erano quattro statuette di gesso,
che parevano divise secondo il sesso. Rob J. riconobbe a destra la Madon-
na. La Madre Superiora gli disse che accanto alla Madonna c'era santa
Chiara, che aveva fondato l'ordine monastico delle clarisse, e dall'altra
parte san Francesco e san Giuseppe.
«Ho sentito che avete in progetto di aprire una scuola.»
«L'hanno informata male.»
Rob J. sorrise. «E che avete intenzione di plagiare i bambini per attirarli
al papismo.»
«Be', questo è in parte vero» rispose la monaca con grande serietà.
«Noi speriamo sempre di salvare un'anima per Cristo, uomo o donna o
bambino che sia. Cerchiamo sempre di conquistarci degli amici, di fare dei
cattolici intorno a noi. Ma il nostro è un ordine infermieristico.»
«Ordine infermieristico! E dove pensate di lavorare? Costruirete qui un
ospedale?»
«Ahimè,» sospirò la monaca «non abbiamo denaro. La Santa Madre
Chiesa ha comprato questa terra e ci ha mandate qui. E ora dobbiamo
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arrangiarci da sole. Siamo sicure che il Signore provvederà.»
Rob J. era meno sicuro. «Posso chiamare qualcuna delle vostre infermiere,
se occorre assistere un malato?»
«Andare nelle loro case? No, non è possibile» rispose lei seccamente.
Rob J. si sentiva a disagio nella cappella e si accinse a uscire. «Penso che
lei non sia cattolico, dottor Cole.»
Rob J. scosse la testa. Gli venne improvvisamente un'idea. «Se fosse
necessario aiutare i Sauk, voi sareste disposte a testimoniare che gli uomini
che bruciarono il vostro granaio erano bianchi?»
«Naturalmente» fu la decisa risposta. «Poiché è la semplice verità.»
Rob J. si rese conto che le novizie dovevano vivere in costante terrore
della logo superiora. «Grazie.» Esitò, incapace di inchinarsi a questa donna
altera e chiamarla Reverenda Madre. «Qual è il suo nome, Madre?»
«Io sono Madre Miriam Ferocia.»
Rob J. era stato un buon latinista a scuola e aveva sgobbato a tradurre
Cicerone e ad accompagnare Cesare nelle sue guerre galliche e ne ricorda-
va abbastanza per sapere che il nome significava Mary la Fiera. Ma in
seguito, quando pensava a questa donna, la chiamava fra sé - e fra sé sol-
tanto - la Feroce Miriam.
Si fece la lunga cavalcata fino a Rock Island per vedere Stephen Hume
e ne fu ricompensato, perché il deputato aveva buone notizie. Daniel P.
Allan avrebbe presieduto il processo. Data la mancanza di prove, il giu-
dice Allan non aveva difficoltà a rilasciare Vien Cantando su cauzione.
«Si tratta tuttavia di delitto capitale, non può fissare la cauzione a meno
di duecento dollari. Per trovare un garante, lei deve recarsi a Rockford o a
Springfield.»
«Sborserò io la somma. Vien Cantando non tenterà di fuggire a mio
danno.»
«Bene. Il giovane Kurland acconsente ad assumere la difesa. Meglio
per lei non avvicinarsi alla prigione, date le circostanze. L'avvocato Kur-
land si incontrerà con lei fra due ore alla sua banca. È la banca di Holden's
Crossing?»
«Sì.»
«Bene. Si faccia rilasciare un assegno circolare intestato alla contea di
Rock Island, lo firmi e lo consegni a Kurland. Lui si occuperà di tutto il
resto.» Hume sorrise. «La causa sarà discussa fra qualche settimana. Fra
Dan Allan e John Kurland faranno in modo che, se Nick tenterà di strumen-
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talizzare il caso, finirà per farci la figura dello sciocco.» Gli diede una buona
stretta di mano, quasi con l'aria di congratularsi.
Rob J. tornò a casa e attaccò il carro, perché sentiva che Luna doveva
avere il suo posto nel comitato di ricevimento. L'indiana sedeva eretta nel
carro, vestita con i suoi soliti abiti da casa e un berretto che era stato di
Makwa. Era insolitamente silenziosa. Rob J. intuí che doveva essere mol-
to nervosa. Attaccò il cavallo di fronte alla banca e Luna aspettò nel carro
mentre lui si faceva rilasciare l'assegno e lo consegnava a John Kurland.
L'avvocato era un giovane serio che, quando fu presentato a Luna, la
salutò educatamente, benché senza calore.
Quando l'avvocato si avviò verso l'ufficio dello sceriffo, Rob J. risalì
sul carro e sedette accanto a Luna, lasciando il cavallo attaccato. Rima-
sero seduti sbirciando lungo la via verso la porta dell'ufficio di Mort Lon-
don. Il sole era piuttosto caldo per il mese di settembre.
Restarono in attesa per quello che gli sembrò un tempo infinito. Poi
Luna gli toccò il braccio, perché la porta si era aperta e ne era emerso
Vien Cantando, piegando la testa per poter passare. Kurland veniva subito
dietro di lui.
I due videro Luna e Rob J. e si avviarono verso di loro. O perché nella
gioia di sentirsi libero non resisteva alla voglia di correre, o perché qualche
istinto ancestrale lo spingeva ad allontanarsi in fretta di lì, Vien Cantan-
do spiccò la corsa ma aveva appena mosso due passi che uno sparo risuo-
nò in alto a destra e altri due da un altro tetto, al di là della strada.
Pyawanegawa il cacciatore, il capo, l'eroe del gioco a mazza-e-palla
sarebbe dovuto cadere con dignitosa maestà, come un gigantesco albero, e
invece si afflosciò goffamente come un qualsiasi altro uomo, e il suo viso
affondò nella polvere della strada.
Rob J. saltò giù dal carro e fu subito accanto a lui, ma Luna era inca-
pace di muoversi. Quando raggiunse il corpo e lo voltò, vide ciò che Luna
aveva già capito. Uno dei proiettili aveva colpito esattamente la nuca, gli
altri due il petto, a una distanza di non più di due centimetri l'uno dall'altro,
ed entrambi probabilmente avevano causato la morte arrivando al cuore.
Kurland lo raggiunse e rimase lì in piedi, inorridito e impotente. Un mi-
nuto dopo anche London e Holden uscivano dall'ufficio dello sceriffo.
Mort ascoltò Kurland che gli spiegava ciò che era avvenuto e cominciò a
gridare ordini per far ispezionare i tetti su un lato della strada e poi sull'altro.
Nessuno parve molto stupito di trovare che i tetti erano deserti.
Rob J. era rimasto in ginocchio accanto a Vien Cantando, ma ora si
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alzò e affrontò Nick. Holden era pallido ma rilassato, come se fosse pron-
to a tutto. Incongruamente, Rob J. fu di nuovo colpito dalla sua maschia
bellezza. Vide che portava un revolver nella fondina, e capì che le sue pa-
role potevano metterlo in pericolo e dovevano essere scelte con la maggior
cura possibile, ma andavano dette.
«Non voglio mai più avere a che fare con te. Mai più finché vivrò.»
PARTE QUARTA
Il ragazzo sordo
(12 ottobre 1851)
30
Lezioni
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dalle ali d'argento, in una massa vorticosa che si abbatté su Davenport in una
tempesta di fiocchi lucenti, rivestendo le porte e le finestre, entrando negli
occhi e nelle bocche e negli orecchi di uomini e animali, un terribile fastidio
per chiunque si avventurasse in strada. I tricotteri vivono solo una notte. Il
loro breve assalto era un fenomeno che si ripeteva un paio di volte l'anno e
le popolazioni lungo il Mississippi non si lasciavano sgomentare. All'alba
l'invasione era finita, le farfalle erano morte. Alle otto del mattino quattro
uomini sedevano sulle panche del lungofiume nel debole sole autunnale,
fumando e osservando i manovali che scopavano gli insetti morti, accumulan-
doli in grandi mucchi su carri, e poi andavano a rovesciarli nel fiume. Poco
dopo arrivò un cavaliere che conduceva altri quattro cavalli, e gli uomini si
alzarono dalle panche e montarono in sella.
Era una mattina di giovedì. Giorno di paga. Nella Second Street, negli uffici
della Ferrovia Chicago-Rock Island, il contabile e i due impiegati stavano pre-
parando il denaro per il salario delle maestranze che costruivano il ponte.
Alle 8.19 i cinque uomini giunsero davanti all'ufficio. Quattro smontarono
ed entrarono, lasciando il quinto con i cavalli. Non erano mascherati e avevano
l'aspetto di semplici coloni, tranne che erano armati. Quando con voce calma e
molto educata annunciarono la loro intenzione, uno degli impiegati fu abba-
stanza stolto da cercare di afferrare una pistola da uno scaffale vicino, e uno
degli uomini fece fuoco e l'incauto cadde morto come i tricotteri, con un solo
proiettile nella testa. Non ci fu altra resistenza e i quattro rapinatori raccolsero
tutto il denaro delle paghe, per un ammontare di 1.106 dollari e 37 cent, in un
sudicio sacco di tela prima di andarsene. Il contabile riferì in seguito alle
autorità di essere certo che il capobanda era un tal Frank Mosby, il quale per
molti anni aveva coltivato la terra dall'altra parte del fiume, verso sud, al di là
di Holden's Crossing.
Fu Alma Schroeder che parlò a Rob J., con molta ammirazione, della con-
fessione tenuta da Sarah in chiesa, credendo che lui ne fosse già al corrente.
Quando Rob J. venne a sapere tutti i particolari, lui e Sarah ebbero una lite.
Rob J. aveva capito il suo tormento, e ora la sentiva sollevata, ma era stupito e
disgustato che lei avesse offerto alla curiosità di estranei i particolari intimi
della sua vita, dolorosi o meno.
Non estranei, ribatteva lei. «Fratelli nella grazia del Signore, sorelle in
Cristo, che hanno condiviso la mia confessione.» Il reverendo Perkins, spiegò
al marito, aveva detto che chiunque volesse essere battezzato nella prossima
primavera doveva confessarsi. Ed era stupita che Rob J. non capisse: era una
cosa così chiara per lei.
Quando i ragazzi cominciarono a tornare da scuola con i segni delle zuffe
che avevano sostenuto, Rob J. sospettò che almeno alcuni dei suoi fratelli nella
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grazia e delle sorelle in Cristo non fossero sempre disposti a concedere le
assoluzioni che vedevano impartire in chiesa. I suoi figli tenevano la bocca
chiusa a proposito dei loro lividi. E lui stesso non era in grado di discutere con
loro sulla condotta della loro madre, se non parlandone con ammirazione e
rispetto ogni volta che se ne presentava l'occasione. Ma dovette affrontare
l'argomento delle zuffe. «Insomma è sbagliato picchiare qualcuno quando si è
in collera. Le zuffe possono prendere una brutta piega e persino portare alla
morte. Nulla giustifica il fatto di uccidere.»
I ragazzi erano sconcertati. Stavano parlando di scazzottarsi nel cortile della
scuola, non di uccidere. «Ma come si può fare a meno di picchiare quando un
altro ti picchia per primo, papà?» chiese Sciamano.
Rob J. annuì in segno di comprensione. «So che è un problema. Ma tu devi
usare il cervello invece dei pugni.»
Alden Kimball aveva sentito. Qualche tempo dopo, incontrando i fratellini
malconci, sputò inorridito. «Dannazione! E dannazione! Vostro padre può esse-
re l'uomo migliore della terra, ma credo che possa sbagliare, e vi dico, se qual-
cuno vi picchia, voi dovete inchiodare il figlio di puttana, altrimenti continuerà
a picchiarvi.»
«Luke è spaventosamente grosso» fece Sciamano. Era quello che pensava
anche suo fratello maggiore.
«Luke? È quel grosso bue del figlio di Stebbins? Luke Stebbins?» E Alden
sputò ancora quando i due annuirono con aria infelice.
«Quando io ero giovane, ero un buon pugile. Sapete che cos'è?»
«Un pugile molto bravo?» rispose Alex.
«Bravo? Ero meglio che bravo! Facevo gli incontri di pugilato alle fiere,
alle feste e roba del genere. Lottavo tre minuti con chiunque si presentasse pa-
gando mezzo dollaro. Se riuscivano a mandarmi al tappeto, ricevevano tre dol-
lari. E non pensate che fossero pochi i duri che ci provavano per guadagnare tre
dollari.»
«Allora hai fatto un sacco di soldi, Alden?» chiese Alex.
Il viso di Alden si rabbuiò. «Macché. C'era un manager e lui s'intascava un
sacco di soldi. L'ho fatto per due anni, estate e autunno. Poi uno mi ha battuto.
Il manager ha pagato tre dollari al tipo e lo ha assunto per prendere il mio
posto.» Li fissò negli occhi. «Ecco il punto. Io posso insegnarvi a battervi, se
volete.»
Due giovani visi lo guardarono seri. Le due teste annuirono.
«E che diavolo, dite di sì!» fece Alden irritato. «Sembrate una coppia di
dannate pecore.»
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«Un po' di paura va bene,» diceva Alden «vi riscalda il sangue. Ma se siete
troppo spaventati, va a finire che perdete. E neanche dovete lasciarvi traspor-
tare dalla furia. Un pugile troppo furioso, che comincia a menar colpi all'im-
pazzata, si lascia scoperto ai colpi dell'altro.»
Sciamano e Alex sorridevano impacciati, ma Alden era molto serio quando
insegnava loro come tenere le mani, la sinistra a livello dell'occhio per
proteggere la testa, la destra più bassa per proteggere il torace. Era molto
meticoloso sul modo di tenere il pugno, insistendo perché piegassero e
stringessero forte le dita indurendo le nocche, perché così era come colpire
l'avversario con un sasso in mano.
«Il pugilato ha giusto quattro colpi» spiegava Alden. «Jab sinistro, gancio
sinistro, cross destro, diretto destro. Il jab morde come un serpente. Fa un po'
male ma non danneggia molto l'avversario, lo fa sbandare un po', lo scopre per
un colpo più serio. Il gancio sinistro non porta molto avanti, ma fa la sua
funzione - voi vi girate a sinistra, con tutto il peso sulla gamba destra, e giù uno
swing alla testa. Ora il cross destro, portate tutto il peso sull'altra gamba e
acquistate forza con una rapida rotazione alla vita, così. Il mio favorito, il diret-
to al corpo, io lo chiamo la Clava. Vi girate bassi a sinistra, con tutto il peso
sulla gamba sinistra, e menate il pugno destro nel suo ventre, dritto come se
tutto il vostro braccio fosse una lancia.»
Li colpiva con pugni volutamente inoffensivi, uno alla volta, per non scon-
certarli. Il primo giorno gli fece menar colpi in aria per due ore, perché supe-
rassero il primo impatto e familiarizzassero con il ritmo muscolare. Il giorno
dopo nel pomeriggio tornarono nella piccola radura dietro la capanna di tronchi
di Alden dove erano sicuri di non essere disturbati, e poi ogni pomeriggio nei
giorni seguenti. Praticarono ogni colpo molte e molte volte, prima che Alden
gli permettesse di boxare insieme. Alex aveva tre anni e mezzo di più, ma
Sciamano era così alto e robusto che in pratica era come se la differenza si
riducesse a un anno. Avevano molto riguardo l'uno per l'altro. Infine Alden
fece un incontro a turno con ciascuno dei due ragazzi, insistendo perché pic-
chiassero forte, come avrebbero fatto in una lotta vera. Con loro grande stu-
pore, il bracciante schivava e scivolava via di lato o bloccava ogni colpo con
l'avambraccio o lo parava con il pugno. «Vedete, quello che vi insegno non è
un gran segreto. Gli altri sanno come sferrare un pugno. Voi dovete imparare a
difendervi.» Insisteva perché ognuno abbassasse il mento fino a puntarlo contro
lo sterno. Mostrò loro come avvinghiare l'avversario in corpo a corpo, ma con-
sigliò ad Alex di evitare a tutti i costi il corpo a corpo con Luke. «Quel tipo è
molto più grosso di te, tieniti lontano e non lasciare che ti sbatta a terra.»
196
Era improbabile che Alex potesse mettere fuori combattimento un avver-
sario così grande e grosso, pensava Alden fra sé, ma forse poteva dargli una
buona scarica di pugni, abbastanza perché li lasciasse in pace. Non aveva
l'intenzione di fare dei due ragazzi Cole dei veri pugili, voleva soltanto che
fossero capaci di difendersi, e insegnò loro solo gli elementi di base, perché lui
stesso ne sapeva appena abbastanza da insegnare a dei ragazzi come cavarsela
in una scazzottata. Non cercò neppure dì insegnargli la tecnica del movimento
dei piedi. Diversi anni dopo disse a Sciamano che, se lui stesso avesse saputo
appena un po' come muovere i piedi, probabilmente non sarebbe stato battuto
da quel tizio dei tre dollari.
Diverse volte Alex pensò di essere pronto ad affrontare Luke, ma Alden
obiettava sempre che glielo avrebbe detto lui quando fosse il momento giusto, e
quel momento non era ancora venuto. Così ogni giorno Sciamano e Alex anda-
vano a scuola e sapevano che, all'ora della ricreazione, avrebbero avuto i soliti
guai. Luke si era abituato a considerare i fratelli Cole un suo spasso personale.
Li prendeva a pugni, li insultava chiamandoli lo Scemo e il Bastardo. Li colpi-
va malignamente quando giocavano a rimpiattino e quando li vedeva a terra gli
premeva la testa nella polvere.
Per Sciamano, Luke non era l'unico problema nella scuola. Poteva vedere
solo una piccola parte di ciò che gli altri dicevano durante le lezioni, e fin dal-
l'inizio si trovò in grave arretrato. Marshall Byers ne era segretamente compia-
ciuto. Aveva pur fatto intendere al padre di Sciamano che una scuola regolare
non era il posto giusto per un bambino sordo. Ma agiva con cautela, sapendo
che, quando si fosse dovuto tornare sull'argomento, sarebbe stato meglio per lui
avere delle prove sicure. Tenne una lista accurata dei cattivi voti di Robert J.
Cole, e dopo la scuola tratteneva regolarmente il bambino per fargli fare com-
piti extra, allo scopo di dimostrare che neppure questo riusciva a migliorarne il
profitto.
Talvolta Mr. Byers tratteneva anche Rachel Geiger, e Sciamano ne era sor-
preso perché Rachel era considerata l'allieva più brava della scuola. Quando
questo avveniva, tornavano poi a casa insieme. In uno di quei pomeriggi, una
giornata grigia in cui cominciava a cadere la prima neve dell'anno, mentre
camminavano il bambino fu spaventato al vederla scoppiare in lacrime.
Non poté far altro che guardarla smarrito.
Rachel si fermò e lo guardò, perché lui potesse vedere le sue labbra. «Quel
Mr. Byers! Ogni volta che può mi viene... troppo vicino. E continua a... toccar-
mi!»
«Toccarti?»
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«Qui» mormorò la fanciulla, ponendosi una mano sul petto. Sciamano non
sapeva come reagire a una tale rivelazione, che era molto al di là della sua
esperienza. «Che possiamo fare?» chiese, più a stesso che a lei.
«Non so, non so!» Con suo grande sgomento, Rachel ricominciò a singhioz-
zare.
«Dovrò ucciderlo» pronunciò Sciamano gravemente.
Quelle parole la colpirono al punto che cessò di piangere. «Ma è una cosa
impossibile.»
«No. Lo farò.»
La neve cominciava a fioccare più fitta. Si fermava sul cappuccio e sui ca-
pelli di Rachel. I suoi occhi nocciola, con le lunghe ciglia nere che battevano
ancora per trattenere le lacrime, erano pieni di stupore. Un largo fiocco bianco
si scioglieva sulla sua guancia liscia, più scura di quella di Sciamano, una via
di mezzo fra il biancore latteo di Sarah e il colorito scuro di Makwa. «Tu
faresti questo per me?»
Sciamano cercò di considerare seriamente la cosa. Sarebbe stato già bello
liberarsi di Mr. Byers per se stesso, ma i problemi di Rachel con il maestro era-
no un peso che faceva traboccare la bilancia. Annuì in piena convinzione. E
scoprì che il sorriso di Rachel lo faceva felice, e in un modo nuovo.
Rachel gli toccò solennemente il petto, proprio nel punto che su di lei era
proibito a Mr. Byers. «Tu sei il mio amico per sempre, e io sono la tua amica»
affermò e Sciamano si rese conto che era così. Quando ripresero il cammino e
la mano guantata della ragazzina strinse la sua, Sciamano provò un senso di
profonda sorpresa. I guantini blu di Rachel, come i suoi rossi, erano stati fatti
da mamma Geiger, che sempre faceva guanti da regalare ai Cole per i loro
compleanni. Attraverso la lana, la mano di Rachel gli mandava uno straordi-
nario senso di calore su per il braccio.
D'improvviso lei si fermò e lo guardò in faccia.
«E in che modo... quello... come lo farai?»
Sciamano aspettò un attimo, mentre gli tornava in mente un'espressione che
aveva sentito dalla bocca del padre in diverse occasioni. «Ci dovrò pensare»
rispose.
31
Giorni di scuola
Rob J. frequentava con molto interesse le riunioni della Società Medica. Gli
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offrivano piacevoli serate in compagnia di altri uomini che avevano tante espe-
rienze simili alle sue e con i quali parlava un linguaggio comune. Alla riunione
di novembre Julius Barton, giovane medico che praticava nel nord della contea,
parlò dei morsi dei serpenti e poi riferì di alcuni bizzarri morsi di animali che
aveva curato, compreso il caso di una donna che era stata morsa sul suo mor-
bido sederino paffuto con tanta forza da far uscire il sangue. «Il marito disse
che era stato il cane, e ne risultava un caso particolarmente raro perché dal
morso era evidente che il loro cane aveva denti da uomo!»
Per non essere da meno, Thomas Beckermann raccontò di un tipo, piuttosto
donnaiolo, con dei graffi nei testicoli che non si sapeva bene se erano o non
erano opera di un gatto. Tobias Barr aggiunse che casi di questo tipo erano
piuttosto comuni. Un paio di mesi prima aveva curato un uomo con il viso tutto
rovinato. «Diceva anche lui che era stato graffiato da un gatto, ma, se era così,
il gatto aveva solo tre unghie, ed erano larghe come quelle umane!» Il fatto
provocò altre risate.
Barr cominciò subito a raccontare un altro aneddoto e fu piuttosto seccato
quando Rob J. Cole lo interruppe per chiedergli se poteva ricordare esattamente
quando aveva trattato il paziente con il viso graffiato.
«No» rispose Barr, e continuò con la sua storiella.
Dopo la riunione Rob J. lo fermò. «Tobias, quel paziente con il viso graf-
fiato. È possibile che tu l'abbia curato una domenica, il 3 settembre?»
«Non ricordo proprio. Io non scrivo mica tutto!» Il dottor Barr cercava di
minimizzare il fatto che non teneva registrazioni regolari, sapendo bene che il
dottor Cole praticava una medicina più scientifica. «Non c'è bisogno di star lì
ad annotare ogni sciocchezza, perdiana! Tanto più con un paziente come quel-
lo, un predicatore itinerante che veniva da fuori contea, uno di passaggio.
Probabilmente non lo vedrò mai più, e tanto meno dovrò curarlo.»
«Predicatore? Ti ricordi il nome?»
Il dottor Barr corrugò la fronte, pensò intensamente, scosse la testa.
«Forse Patterson?» chiese ancora Rob J. «Ellwood R. Patterson?»
Il dottor Barr lo fissò. Il paziente non aveva lasciato un indirizzo preciso, a
quanto ricordava. «Credo che abbia detto che veniva da Springfield.»
«A me aveva detto Chicago.»
«È venuto da te per la sifilide?»
«Al terzo stadio.»
«Sì, sifilide terziaria» soggiunse il dottor Barr. «Mi ha chiesto un consiglio
in proposito, dopo che gli ho medicato il viso. Il tipo d'uomo che vuole ottenere
tutto quello che può per il suo dollaro. Se avesse avuto un callo al piede, mi
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avrebbe chiesto di estirparlo, intanto che si trovava nel mio ambulatorio. Gli ho
venduto un po' di pomata per la sifilide.»
«Gliene ho venduta anch'io» fece Rob J. e risero entrambi.
Il dottor Barr sembrava incuriosito. «Se n'è andato senza pagare, eh? Per
questo lo vai cercando.»
«No. Ho fatto l'autopsia di una donna che è stata assassinata proprio il
giorno in cui tu hai curato quel tipo. Era stata violentata da diversi uomini.
C'era della pelle sotto tre delle sue unghie, probabilmente aveva graffiato uno
di loro.»
Il dottor Barr annuì.
«Ricordo che c'erano due uomini che lo aspettavano fuori del mio ambula-
torio. Erano smontati da cavallo e sedevano sugli scalini di casa mia. Uno era
grande e grosso, come un orso prima del letargo, un buon strato di lardo. L'al-
tro, più giovane, era un tipo macilento, pelle e ossa. Una voglia di vino sulla
guancia, sotto l'occhio. Credo l'occhio destro. Non ho mai sentito i loro nomi, e
non ricordo altro di loro.»
Il presidente della Società Medica era incline alle gelosie professionali e po-
teva a volte essere un po' pomposo, ma Rob J. aveva sempre avuto simpatia per
lui. Ringraziò Tobias Barr e prese commiato.
Mort London si era fatto più calmo dopo il loro ultimo incontro, forse
perché si sentiva insicuro ora che Nick Holden era lontano, a Washington, o
forse perché si era reso conto che non giovava a un funzionario eletto non saper
tenere a freno la lingua. Lo sceriffo ascoltò Rob J., prese nota della descrizione
fisica di Ellwood R. Patterson e degli altri due uomini e promise di investigare.
Rob J. ebbe la netta impressione che gli appunti sarebbero finiti nel cestino
della carta straccia appena lui fosse uscito dall'ufficio di London. Dovendo
scegliere fra un Mort rabbioso o uno untuosamente diplomatico, Rob J. lo
preferiva rabbioso.
Così fece qualche ricerca per conto suo. Carroll Wilkenson, l'agente immo-
biliare assicurativo, era presidente del comitato pastorale della chiesa ed era lui
che aveva preso accordi con i predicatori itineranti prima che la chiesa chia-
masse al pulpito il reverendo Perkins. Wilkenson era un esperto uomo d'affari e
teneva registrazioni di ogni cosa. «Eccolo qui» disse, tirando fuori un volantino
ripiegato. «L'ho preso a una riunione di agenti assicurativi a Galesburg.» Il
volantino offriva alle chiese cristiane la visita di un predicatore che avrebbe
tenuto un sermone sui progetti di Dio per la valle del Mississippi. L'offerta era
gratuita per la chiesa che l'accettava, e tutte le spese del predicatore sarebbero
200
state sostenute dall'Istituto Religioso della Bandiera Stellata, Palmer Avenue
282, Chicago.
«Io ho scritto proponendo tre domeniche a scelta. Mi hanno risposto che
Ellwood Patterson avrebbe predicato il 3 settembre: loro si sarebbero presi cura
di tutto.» Riconobbe che il sermone di Patterson non aveva incontrato molto
favore. «Perlopiù non faceva che aizzarci contro i cattolici.» Sorrise. «Nessuno
ci fece molto caso, a dire il vero. Ma poi cominciò a parlare della gente che
arrivava nella valle del Mississippi da altri Paesi. Diceva che rubavano il lavoro
ai nativi. Gli uomini che non erano nati qui gli davano fastidio come un forun-
colo.» Non aveva l'indirizzo successivo di Patterson. «Nessuno ha pensato di
richiamarlo qui. L'ultima cosa che occorre a una chiesa nuova come la nostra è
un predicatore che tenta di dividere la congregazione, mettendo i fedeli gli uni
contro gli altri.»
Ike Nelson, che gestiva il saloon, si ricordava di Ellwood Patterson. «Sono
rimasti qui fino a tardi la notte di sabato. Era un forte bevitore, quel Patterson,
e così gli altri due che erano con lui. Facili a spendere, ma portavano più guai
di quanto valesse il loro denaro. Quello grosso, Hank, continuava a gridarmi dì
andare a prendergli qualche puttana, ma poi si ubriacò del tutto e si dimenticò
delle donne.»
«Che cognome aveva, questo Hank?»
«Un cognome buffo. Sneeze... No, Cough! Hank Cough. L'altro, quello più
giovane e magro, lo chiamavano Len. O Lenny. Non ho mai sentito il cogno-
me, che mi ricordi. Aveva quella voglia di vino sul viso. Camminava zoppi-
cando, doveva avere una gamba più corta dell'altra.»
Toby Barr non aveva parlato di uno zoppo: forse non lo aveva visto cammi-
nare, pensò Rob J. «Da quale gamba zoppicava?» chiese, ma la domanda otten-
ne solo uno sguardo imbarazzato dal barista.
«Camminava così?» chiese ancora Rob J., zoppicando dalla gamba destra.
«O così?» e fece lo stesso con la sinistra.
«Non era tanto zoppo, si vedeva appena. Non so da quale parte. Quello che
so è che tutti e tre avevano le gambe storte. Patterson tirò fuori un buon rotolo
di soldi e mi disse di continuare a mescere, e servirmi anch'io.
«Alla fine della nottata ho dovuto mandare a chiamare Mort London e Fritz
Graham e dargli qualche dollaro da quel rotolo perché portassero quei tre alla
pensione di Anna Wiley e li sbattessero a letto. Ma mi hanno detto che la mat-
tina dopo Patterson in chiesa era sobrio e pio come un santo.» Sogghignò.
«Quello è il tipo di predicatore che mi piace!»
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Otto giorni prima di Natale Alex Cole andò a scuola dopo aver ricevuto da
Alden il permesso di picchiare.
Alla ricreazione Sciamano osservò il fratello che attraversava il cortile. Con
suo sgomento si avvide che le gambe di Alex tremavano.
Alex si diresse senza esitare verso il punto dove stava Luke Stebbins insie-
me con un gruppo di ragazzi che giocavano a saltare nella neve soffice, nel-
l'angolo del cortile che non era stato spalato. Aveva fortuna perché Luke aveva
già fatto due corse con salto finale e per essere più libero si era tolto il pesante
giubbotto di cuoio. Se lo avesse tenuto addosso, menargli un pugno sarebbe
stato come menarlo contro una tavola di legno.
Luke pensò che Alex volesse unirsi al loro gioco e si preparò a concedersi
un po' di spasso. Ma Alex marciò deciso contro di lui e gli sferrò un diretto al
muso.
Fu un errore e l'inizio di un incontro malcondotto. Alden gli aveva dato
istruzioni ben precise. Il primo colpo a sorpresa doveva essere allo stomaco,
con la speranza di mozzare il fiato all'avversario, ma il terrore toglieva ad Alex
la capacità di ragionare. Il pugno massacrò il labbro inferiore di Luke, che si
gettò furioso su di lui. A quella vista Alex sarebbe rimasto paralizzato dal
terrore due mesi prima, ma ora era abituato agli scontri con Alden: si tirò da
parte e, mentre Luke gli passava accanto, gli sferrò un violento jab sinistro alla
bocca già contusa. Poi, mentre il ragazzo più grosso cercava di riprendersi, gli
piazzò altri due jab nello stesso punto.
Sciamano aveva cominciato fin dal primo colpo a gridare, incitandolo, e gli
alunni accorrevano già da tutti gli angoli del cortile.
Il secondo grosso errore di Alex fu di voltarsi alla voce di Sciamano. Il
grosso pugno di Luke lo colse sotto l'occhio destro e lo mandò a rotolare a
terra. Ma Alden aveva fatto un buon lavoro e, appena toccato il suolo, Alex si
rizzò a fronteggiare Luke che si precipitava a capofitto contro di lui.
Si sentiva il viso intorpidito e il suo occhio destro cominciava a gonfiarsi,
ma sorprendentemente le sue gambe si fecero più ferme. Raccolse le sue forze
e si orientò secondo la routine dell'addestramento quotidiano. Il suo occhio
sinistro era ancora buono e lo tenne fisso al petto di Luke, come Alden gli
aveva insegnato, per vedere subito dove si volgeva il corpo dell'avversario e
con quale mano si preparava a picchiare. Cercò solo di bloccare un pugno a
swing, che gli intorpidì tutto il braccio: Luke era troppo forte. Alex cominciava
a essere stanco, ma continuava a colpire e saltare, ignorando il male che Luke
poteva fargli se un altro dei suoi pesanti pugni fosse andato ancora a segno. Il
suo pugno sinistro scattò in avanti colpendo la dolorante bocca di Luke. Il forte
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pugno iniziale che aveva aperto la zuffa aveva già smosso uno dei denti del
ragazzo, e la gragnola di colpi ora fece il resto. Sciamano vide inorridito che
Luke scuoteva furiosamente la testa e sputava il dente nella neve.
Alex celebrò la vittoria colpendo ancora di sinistro e poi vibrando un pesan-
te cross che arrivò sul naso di Luke e gli inondò di sangue la faccia. Luke si
copri il viso con le mani, smarrito.
«La Clava, Alex!» gridò Sciamano. «La Clava!» Alex ascoltò il fratello e
scagliò il pugno destro con tutta la sua forza nello stomaco di Luke, che si
piegò in due ansimando. Fu la fine dello scontro, perché gli altri ragazzi sta-
vano già disperdendosi davanti alla collera del maestro. Dita d'acciaio si strin-
sero sull'orecchio di Alex contorcendolo e Mr. Byers ritto su di loro, rosso di
collera, dichiarava la fine della ricreazione.
Quando tutti furono tornati nell'aula, Luke e Alex furono entrambi messi in
piedi, in castigo, sotto la grande insegna che diceva "Pace sulla terra" e additati
agli altri alunni come pessimi esempi. «Non voglio risse nella mia scuola» di-
chiarò freddamente Mr. Byers. Prese la bacchetta che usava come indicatore e
punì i due avversari con cinque violenti colpi sulla mano aperta. Luke piagnu-
colava. Il labbro inferiore di Alex tremò quando ricevette il suo castigo. Il suo
occhio gonfio aveva già il colore di una melanzana matura e la mano destra gli
doleva, con le nocche sbucciate nella rissa e la palma rossa e gonfia per le
vergate del maestro. Ma quando guardò Sciamano, i due fratelli sentirono in
cuore un'ondata di segreta soddisfazione.
Quando la scuola finì e i ragazzi sciamarono verso casa, un gruppetto si
riunì intorno ad Alex, ridendo e facendogli domande e guardandolo con ammi-
razione. Luke Stebbins si allontanò da solo, imbronciato e ancora stordito.
Quando Sciamano corse da lui, Luke pensò rabbiosamente che adesso era il
turno del fratello e alzò le mani, una stretta a pugno, l'altra aperta in gesto quasi
di supplica.
Sciamano gli parlò in tono cortese ma fermo. «D'ora in poi tu chiamerai mio
fratello Alexander. E chiamerai me Robert» intimò.
Rob J. scrisse all'Istituto Religioso della Bandiera Stellata dicendo che desi-
derava contattare il reverendo Ellwood Patterson per un problema ecclesiastico,
e chiedendo che gli mandassero anche il suo indirizzo.
Ci sarebbero volute settimane perché arrivasse una risposta, posto che quelli
rispondessero. Nel frattempo non parlò a nessuno dei suoi sospetti, fino a una
sera in cui lui e Geiger avevano finito di suonare Eine Kleine Nachtmusik.
Sarah e Lillian chiacchieravano in cucina, preparando il tè e affettando una
203
torta, e Rob J. si confidò con Jay. «Che dovrei fare, se trovassi quel prete con il
viso graffiato? So bene che Mort London non sarebbe certo disposto a trasci-
narlo davanti a un tribunale.»
«Allora devi smuovere le acque e arrivare a Springfield» fu il consiglio di
Jay. «E se le autorità dello Stato rispondono picche, dovrai appellarti a Washin-
gton.»
«Non c'è uomo al potere che voglia fare il minimo sforzo solo per un'india-
na morta.»
«In questo caso, se hai le prove del crimine, dobbiamo raccogliere qualche
uomo in gamba, che abbia il senso della giustizia e sappia usare un fucile.»
«Tu lo faresti?»
Jay lo guardò stupito. «Ma naturale. E tu no?»
Rob J. disse a Jay del suo voto di non violenza.
«Io non ho di questi scrupoli, amico mio. Se una canaglia mi minaccia, sono
libero di rispondere.»
«La tua Bibbia dice: "Tu non ucciderai".»
«Bah, dice anche: "Occhio per occhio, dente per dente", e dice: "Se qualcu-
no percuote un uomo fino a farlo morire, sarà messo a morte".»
«"Se qualcuno ti colpisce sulla guancia destra, porgigli l'altra guancia."»
«Questo non c'è nella mia Bibbia» ribatté Geiger.
«Ah, Jay, questo è il guaio, troppe dannate Bibbie, e ciascuna pretende di
avere in tasca la verità.»
Geiger sorrise con simpatia. «Rob J., non vorrei mai dissuaderti dall'essere
un libero pensatore, ma ti lascio quest'altra sentenza: "Il timor di Dio è l'inizio
della saggezza".»
La conversazione si volse ad altri argomenti quando le due donne portarono
il tè.
Nei giorni che seguirono, Rob J. pensò spesso all'amico, talvolta con un
certo risentimento. Era cosa facile per Jay. Si avvolgeva nel suo frangiato scial-
le della preghiera che lo copriva di un manto di sicurezza sulle cose di ieri e di
domani. Tutto era prescritto: questo era permesso, quello era proibito, il cam-
mino era chiaramente segnato. Jay credeva nelle leggi di Jehovah e nelle leggi
dell'uomo e non aveva che da seguire gli antichi precetti e le leggi statutarie
dell'Assemblea Generale dell'Illinois. La Rivelazione, per Rob J., era la scien-
za, una fede assai meno comoda e assai meno confortante. La verità era il suo
dio, la prova era il suo stato di grazia, il dubbio era la sua liturgia. La scienza
aveva tanti misteri quanti le altre religioni ed era piena di sentieri bui che
portavano a gravi pericoli, tremendi precipizi e profondi abissi. Non c'era un
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potere sovrumano che facesse luce sulla oscura e difficile strada, e lui aveva
solo il suo fragile giudizio per scegliere la via della salvezza.
Nei primi rigidi giorni del nuovo anno 1852, la violenza scoppiò di nuovo
nella scuola di Holden's Crossing.
Quella gelida mattina Rachel arrivò tardi a scuola. Scivolò in silenzio al suo
posto sulla panca senza sorridergli come soleva o mormorare un saluto. Scia-
mano vide con sorpresa che suo padre l'aveva seguita. Jason Geiger si avvicinò
alla cattedra e guardò in faccia Mr. Byers.
«Mr. Geiger? È un piacere vederla. Che cosa posso fare per lei?»
La bacchetta di Mr. Byers era appoggiata sulla cattedra e Jay Geiger la
prese e frustò il maestro in viso.
Mr. Byers balzò in piedi, rovesciando la sedia. Era di tutta la testa più alto
di Jay, ma non molto robusto. In seguito, ricordando la scena, ognuno l'avrebbe
trovata comica, con l'uomo basso e tozzo che si gettava sul giovane alto con la
bacchetta stessa del maestro, alzando e abbassando il braccio e menando colpi
sul viso incredulo dell'altro, ma quella mattina nessuno rideva di Jay Geiger.
Gli alunni sedevano trattenendo il respiro. Non potevano credere alla cosa, co-
me non poteva crederci Mr. Byers; era ancora più incredibile dello scontro di
Alex con Luke. Sciamano osservava Rachel e il suo volto rabbuiato dall'imba-
razzo, pallidissimo. Aveva la sensazione che volesse farsi sorda, come lui, e
anche cieca per non vedere e non udire quello che stava accadendo davanti ai
suoi occhi.
«Che diavolo sta facendo?» Mr. Byers alzava le braccia per proteggersi il
viso e strillò di dolore quando le frustate gli calarono sulle costole. Fece un
passo verso Jay. «Dannato idiota! Stupido di un ebreo!»
Jay continuò a colpire, spingendo il maestro verso l'uscita, finché Mr.
Byers si precipitò fuori e si sbatté la porta alle spalle. Poi Jay prese la
giacca del maestro e la gettò nella neve. Quando tornò, ansando un poco, si
sedette alla cattedra di Mr. Byers.
«La scuola è finita per oggi» annunciò. Si prese Rachel e la riportò a
casa sul suo cavallo.
Faceva veramente freddo fuori. Sciamano aveva due sciarpe. Una in-
torno alla testa fin sotto il mento, l'altra avvolta intorno alla bocca e al
naso, ma ugualmente si sentiva gelare le narici ogni volta che respirava.
Quando arrivarono a casa Alex corse a raccontare alla madre quello
che era accaduto a scuola, ma Sciamano passò oltre e si avviò verso il fiu-
me, dove vide che il ghiaccio si era spaccato al freddo e pensò che doveva
uscirne uno strano, meraviglioso rumore. Il gelo aveva spaccato anche una
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gigantesca ceiba, non lontano dall'hedonoso-te di Makwa-ikwa, ora
coperto di neve: e sembrava che l'albero fosse esploso sotto un fulmine.
Fu lieto che Rachel l'avesse detto a Jay. Provava un bel sollievo per il
fatto che non doveva più uccidere Mr. Byers e che non l'avrebbero più
impiccato per questo. Ma una cosa lo assillava come una spina che conti-
nuava a pungere: se Alden pensava che era giusto picchiare, quando era ne-
cessario, e se Jay pensava che era giusto picchiare per proteggere la propria
figlia, allora che cosa c'era di sbagliato in suo padre?
32
Poche ore dopo che Marshall Byers era fuggito da Holden's Crossing fu
nominato un comitato per assumere un nuovo maestro. Avevano
chiamato a farne parte Paul Williams per dimostrargli che nessuno
lo biasimava perché suo cugino Byers era risultato una mela marcia. E
anche Jason Geiger, perché fosse chiaro che ognuno considerava giu-
stificata la sua azione nel cacciare Mr. Byers dalla scuola. Fra gli al-
tri membri c'era anche Carroll Wilkenson e questa fu una fortuna,
perché l'agente assicurativo aveva appena pagato una piccola polizza
che John Meredith, un negoziante di Rock Island, aveva stipulato sulla
vita di suo padre. Meredith aveva anche detto a Carroll di essere mol-
to riconoscente a una nipote, Dorothy Burnham, che aveva lasciato il
posto di maestra per assistere suo padre negli ultimi giorni di vita.
Quando il comitato incaricato dell'assunzione la intervistò, Dorothy
Burnham piacque subito a Wilkenson per il suo viso bonario e gentile, e
per il fatto che era nubile e già vicina alla trentina ed era quindi impro-
babile che dovesse lasciare la scuola per maritarsi. Paul Williams l'ap-
poggiava perché quanto più presto assumevano un nuovo maestro,
tanto più facilmente i suoi concittadini avrebbero dimenticato quel suo
dannato cugino. Jay le era favorevole perché parlava dell'insegna-
mento con tranquilla fiducia e con un calore che indicava una vera voca-
zione. L'assunsero per 17,50 dollari il trimestre, 1,5 meno di Byers, perché
era una donna.
Otto giorni dopo la fuga di Mr. Byers, Miss Burnham iniziava l'insegna-
mento. Conservò la disposizione dei posti stabilita da Byers perché i ra-
gazzi ci si erano abituati. Aveva già insegnato in altre due scuole, una più
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piccola di questa, nel villaggio di Bloom, e l'altra molto più grande a
Chicago. L'unico handicap che aveva incontrato in passato era quello di
un alunno claudicante e accolse con vivo interesse la presenza nella sua
classe di un bambino sordo.
La prima volta che parlò con il piccolo Robert Cole fu assai incuriosita
dal fatto che sapesse leggere le parole sulle sue labbra. Le ci volle tuttavia
quasi una mezza giornata per capire che dal suo posto sulla panca il bam-
bino non poteva vedere quello che dicevano gli altri alunni. Nella scuola
vi era una sola sedia, destinata a qualche adulto in visita, e Miss Burnham
ora l'assegnò a Sciamano, facendolo sedere di fronte alla panca comune, e
un po' di lato, perché il bambino potesse vedere anche le sue labbra, oltre a
quelle dei suoi compagni.
L'altro grande cambiamento per Sciamano si verificò quando venne
l'ora di musica. Come d'abitudine, si accingeva a portar fuori il secchio
della cenere e a portar dentro la legna, ma questa volta Miss Burnham lo
fermò e gli disse di tornare al suo posto.
Diede il la agli alunni soffiando in un piccolo flauto rotondo e poi
insegnò loro a cantare con parole la scala ascendente La-nostra-scuo-la-è-bel-
la e la scala discendente E-qui-cre-scia-mo-fe-li-ci.
Già a metà della prima canzone fu chiaro che non aveva fatto un fa-
vore al bambino sordo chiamandolo a partecipare, perché stava lì seduto a
guardare e ben presto i suoi occhi si velarono di una pena e di una ras-
segnazione che la maestra trovò intollerabili. Bisognava dargli uno stru-
mento, decise, le cui vibrazioni gli facessero sentire almeno il "ritmo"
della musica. Forse un tamburo? Ma il frastuono del tamburo avrebbe
sopraffatto il canto degli altri alunni.
Rifletté qualche tempo sul problema e poi si recò all'emporio generale di
Haskins e gli chiese in dono una scatola di sigari in cui pose sei palline
rosse, di quelle che i bambini usano per giocare a biglie in primavera. Le
palline facevano troppo rumore quando si scuoteva la scatola; ma, quando
incollò all'interno una morbida stoffa blu ritagliata da una vecchia camicia, il
risultato fu soddisfacente.
La mattina dopo, nell'ora di musica, diede la scatola in mano a Sciamano e
la scosse a tempo con ogni nota mentre gli alunni intonavano America.
Sciamano capì e accompagnò il canto leggendo le labbra della maestra per
ritmare il movimento della scatola. Non poteva cantare, ma imparò a
conoscere il ritmo e il tempo, formulando con le labbra le parole di ogni
canzone cantata dai compagni, i quali ben presto si abituarono al ronzìo
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attutito della "scatola di Robert". Sciamano amava la scatola di sigari.
Sull'etichetta faceva bella mostra la figura di una regina dai capelli neri,
con un seno prominente coperto di chiffon e le parole Panatellas de los
Jardines de la Reina e il marchio della Gottlieb Tobacco Importing
Company di New York City. Quando avvicinava la scatola al naso sentiva
un odore di cedro aromatico e un debole profumo di foglia cubana.
Miss Burnham stabilì che ogni alunno a turno arrivasse a scuola un po'
prima per portar fuori la cenere e portar dentro la legna per la stufa. Anche
se Sciamano non vi pensò mai in questi termini, la sua vita era stata radi-
calmente trasformata da quando Mr. Byers non aveva saputo astenersi dal
palpare un giovane seno.
Dentro, vi erano carboni accesi nel camino e l'aria era calda ma molto
viziata. Non c'erano mobili. Un uomo grasso giaceva sul pavimento,
appoggiato a una sella, e alla luce del fuoco Sciamano poté vedere che era
calvo, ma aveva sulla faccia tanto ispido pelo nero quanto di solito gli
uomini hanno sul capo. Le coperte stazzonate sul pavimento indicavano do-
ve avevano dormito gli altri.
«Ce ne avete messo del tempo!» protestò l'uomo grasso. Teneva in
mano un boccale nero, bevve un sorso e tossì.
«Non ci siamo mica divertiti» ribatté scontrosamente l'uomo che ave-
va guidato con le briglie il cavallo. Quando si tolse le sciarpe che gli pro-
teggevano il volto, Sciamano vide che portava una barbetta bianca e pare-
va più vecchio degli altri. L'uomo pose una mano sulla spalla di Sciamano
e spinse. «Giù!» fece, come se parlasse a un cane. Sciamano si accovacciò
a terra, non lontano dal fuoco. Era contento di stare in quel punto perché
poteva vedere la bocca dell'uomo ferito e quella di suo padre.
Il vecchio tirò fuori la pistola dal fodero e la puntò contro Sciamano.
«È meglio che tu curi il nostro amico proprio bene, dottore.» Sciamano
era molto spaventato. Il foro all'estremità della canna sembrava uno spie-
tato occhio rotondo che guardasse direttamente lui.
«Io non faccio niente quando qualcuno impugna una pistola» replicò il
padre guardando l'uomo adagiato a terra.
L'uomo grasso parve considerare la cosa. «Voi andate fuori» ordinò ai suoi
uomini.
«Prima di andarvene,» ordinò il padre di Sciamano «portate dentro legna e
fate un buon fuoco. Mettete a bollire dell'acqua. Avete un'altra lampada?»
«Lanterna» fece il vecchio.
«Portatela qui.» Pose una mano sulla fronte dell'uomo grasso; gli sbottonò
la camicia e l'aprì. «Quando è successo?»
«Ieri mattina.» L'uomo guardò Sciamano con occhi torvi. «Quello è
tuo figlio.»
«Il mio figlio minore.»
«Quello sordo.»
«... Pare che tu sappia un sacco di cose sulla mia famiglia.»
L'uomo annuì. «E il maggiore, c'è chi dice che è figlio di mio fratello
210
Willy. E somiglia a Willy, è già una dannata canaglia! Sai chi sono io?»
«Posso indovinarlo.» Ora Sciamano vide suo padre chinarsi in avanti e
fissare l'altro uomo negli occhi. «Sono entrambi i miei figli. Se stai par-
lando del mio figlio maggiore, tieni a mente che è il mio figlio maggiore. E
tu starai lontano in futuro da lui, come lo sei stato in passato.»
L'uomo sdraiato a terra sogghignò. «Be', perché non potrei reclamarlo?»
«La ragione più importante è che Alex è un bravo ragazzo, serio e sincero,
con tutte le carte in regola per vivere in futuro una vita decente. E se
anche fosse di tuo fratello, non devi neanche pensare di vederlo qui dove
sei ora, buttato a terra come un animale ferito e braccato in questo puzzolente
porcile.»
Si guardarono l'un l'altro per un lungo momento. Poi l'uomo si mosse e fece
una smorfia, e il padre di Sciamano si pose all'opera. Mise da parte il boc-
cale e tolse al ferito la camicia.
«Non c'è foro di uscita.»
«Oh, il bastardo è dentro, te lo posso assicurare. Mi fa un male d'inferno
quando mi tocchi. Posso avere un altro sorso o due?»
«No, ti darò qualche cosa per farti dormire.»
L'uomo lo guardò furioso. «Io non voglio dormire perché tu possa
farmi quel che diavolo vuoi, mentre io non posso difendermi.»
«La decisione è tua.» Rob J. restituí il boccale all'uomo e lo lasciò bere
mentre aspettava che l'acqua bollisse. Poi con il sapone e un panno pulito
preso dalla sua borsa lavò l'area intorno alla ferita, che Sciamano non
poteva vedere bene. Quindi prese una sottile sonda d'acciaio e la inserí nel
foro lasciato dal proiettile e l'uomo grasso si irrigidì e aprì la bocca e
sporse una grossa lingua rossa fin dove poteva.
«... È arrivato quasi all'osso, ma non c'è frattura. Il proiettile doveva
aver perduto gran parte della sua forza quando ha colpito.»
«Colpo fortunato» ribatté l'uomo. «Il bastardo era molto lontano.»
Aveva il viso di un pallore cinereo e la barba umida di sudore.
Il padre di Sciamano trasse dalla borsa una pinza. «Userò questa per
estrarlo. È molto più grossa della sonda. Ti farà molto male, credimi» lo
avvertì.
Il paziente voltò la testa e Sciamano non poté vedere quello che diceva,
ma probabilmente aveva chiesto qualcosa di più forte del whisky. Suo
padre trasse una fiala e un cono da etere dalla borsa e fece un cenno a
Sciamano, che lo aveva più volte osservato somministrare l'etere, ma non
l'aveva mai aiutato prima. Ora Sciamano tenne il cono con somma atten-
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zione sopra la bocca e il naso dell'uomo grasso, mentre il padre vi faceva
cadere l'etere a goccia a goccia. Il foro del proiettile era più largo di
quanto si aspettasse, con un orlo purpureo. Quando l'etere ebbe fatto
effetto, Rob J. cominciò a muovere la pinza con estrema cura, lentamen-
te, un po' per volta. Una goccia rossa apparve sull'orlo del foro e corse
lungo il braccio dell'uomo. Ma quando la pinza fu estratta, stringeva una
pallottola di piombo.
Rob J. la ripulì e la depose sulla coperta perché l'uomo la trovasse
quando rinveniva. Quindi chiamò gli altri che aspettavano fuori al freddo
e quelli portarono nella capanna una grossa ciotola di fagioli bianchi che
avevano tenuto a gelare sul tetto. La scaldarono e ne offrirono a Sciamano
e a suo padre. C'erano dentro dei pezzetti di carne, forse di coniglio, e
Sciamano pensò che il piatto sarebbe stato più gustoso con l'aggiunta di un
po' di melassa, ma lo mangiò avidamente.
Quando ebbero finito, suo padre fece bollire altra acqua e cominciò a
lavare l'intero corpo del suo paziente, mentre gli altri guardavano dap-
prima con sospetto, poi con fastidio. Si gettarono sulle loro coperte e uno
a uno si assopirono, ma Sciamano restava sveglio. E poco dopo assisteva
al disgustoso vomitare dell'uomo grasso.
«Whisky ed etere non vanno d'accordo» osservò Rob J. «Tu vai a dormire,
lo assisterò io.»
Sciamano obbedì e una luce grigia cominciava a filtrare dalle fessure delle
pareti quando il padre lo svegliò, scuotendolo gentilmente e gli disse di vestirsi
per uscire. L'uomo grasso era sempre sdraiato a terra e li osservava.
«Ti farà piuttosto male per due o tre settimane» lo avverti Rob J. «Ti lascio
un po' di morfina, non è molta ma è tutto quello che ho con me. La cosa più
importante è tener pulita la ferita. Se dovesse farsi purulenta, fammi chiamare e
verrò subito.»
L'uomo sbuffò: «Perdio, saremo ben lontani di qui prima che tu torni».
«Bene, se c'è qualche guaio, chiamatemi. Verrò, dovunque siate.»
L'uomo annuì. «Pagalo bene» disse a quello con la barba bianca, che trasse
una manciata di banconote da un sacco e gliele porse. Il padre di Sciamano
scelse due dollari e lasciò cadere il resto sulla coperta. «Un dollaro e mezzo per
la visita notturna, mezzo dollaro per l'etere.» Si avviò per uscire, ma subito si
voltò. «Voi sapete niente di un tipo chiamato Ellwood Patterson? Che a volte
viaggia con un tale di nome Hank Cough e uno più giovane che chiamano
Lenny?»
Le tre facce lo guardarono ottusamente. L'uomo a terra scosse la testa. Il
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padre di Sciamano fece un cenno e uscì con il figlio nell'aria che odorava di
alberi e di terra.
Questa volta solo l'uomo che aveva fatto da guida venne con loro. Aspettò
che fossero montati in sella per bendarli di nuovo. Rob J. sentiva il respiro del
figlio farsi più frequente e si pentì di non avergli parlato finché poteva vedere
le sue labbra.
Tese gli orecchi. Il suo cavallo era condotto alla briglia, poteva sentire il
battito degli zoccoli davanti a sé. Non vi erano battiti dietro le sue spalle. Ma
potevano sempre aver qualcuno in attesa lungo il sentiero. Qualcuno che dove-
va solo lasciarli passare, sporgersi e puntare la pistola a pochi centimetri da una
testa bendata: e premere il grilletto.
Fu una lunga cavalcata. Quando infine si fermarono Rob J. pensò che, se un
proiettile doveva arrivare, sarebbe arrivato ora. Ma l'uomo tolse a entrambi le
bende dagli occhi.
«Continua avanti da questa parte, capisci? Arriverai subito ai luoghi che
conosci.»
Sbattendo gli occhi, Rob J. annuì, senza dire che aveva già riconosciuto il
posto in cui si trovavano. Spronò il cavallo nella direzione indicata, mentre il
pistolero tornava indietro.
Poco dopo Rob J. si fermò in una macchia perché potessero vuotare la ve-
scica e sgranchirsi le gambe.
«Sciamano,» chiese «ieri hai seguito il mio dialogo con quell'uomo ferito?»
Il ragazzino annuì, fissandolo.
«Dimmi, figliolo, hai capito di che cosa parlavamo?»
Annuì di nuovo.
Rob J. gli credette. «Ora, come hai potuto capire quel discorso? Qualcuno ti
ha parlato di...» Non riuscì a dire «tua madre» «... di tuo fratello?»
«Certi ragazzi a scuola...»
Rob J. sospirò. Gli occhi di un vecchio in quel visetto infantile, pensò. «Be-
ne, Sciamano, ecco che cosa voglio dirti. Tutto quello che è successo... che sia-
mo andati con quegli uomini e ho curato quel ferito e specialmente ciò di cui
abbiamo parlato... tutto questo deve restare un nostro segreto. Tuo e mio. Per-
ché il dirlo a tuo fratello o a tua madre potrebbe addolorarli. Procurargli ango-
scia.»
«Si, papà.»
Tornarono a cavallo. Ora soffiava una brezza tiepida. Il ragazzo aveva ra-
gione, pensò Rob J., stava arrivando il disgelo di primavera. Fra un paio di
giorni i ruscelli avrebbero ricominciato a scorrere, liberi dal ghiaccio. Dopo
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poco trasalì all'udire la voce roca del figlio.
«Io voglio essere come te, papà. Voglio diventare un buon medico.»
Rob J. si sentì venire le lacrime agli occhi. Non era quello il momento, con
Sciamano in sella dietro di lui, infreddolito, stanco e affamato, non era quello il
momento di spiegargli che certi sogni erano impossibili da realizzare se uno era
sordo. Dovette accontentarsi di stendere un braccio all'indietro e stringere il
bambino più vicino a sé. Sentiva la fronte di Sciamano premuta contro la sua
schiena e cessò di tormentarsi e per qualche tempo si lasciò ciondolare un po'
assopito, mentre il cavallo arrancava sul sentiero e li riportava a casa.
33
Risposte e domande
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Oliver G. Prescott, D.D., direttore
Istituto Religioso della Bandiera Stellata
La risposta era pressappoco quella che Rob J. si aspettava. Si sedette alla
scrivania e scrisse, in forma di lettera, un conciso rapporto sull'assassinio di
Makwa-ikwa. Riferì della presenza di tre stranieri a Holden's Crossing; spiegò
che durante l'autopsia aveva trovato frammenti di pelle umana sotto tre unghie
di Makwa, e che il dottor Barr, quello stesso pomeriggio in cui era avvenuto
l'assassinio, aveva curato il reverendo Ellwood Patterson per tre gravi la-
cerazioni sul viso.
Spedì lettere identiche al governatore dell'Illinois a Springfield e a entrambi
i senatori dello Stato a Washington. Poi si costrinse a mandarne una terza copia
al deputato dello Stato, Nick Holden, rivolgendosi a lui in forma ufficiale.
Chiedeva alle autorità di impiegare i loro mezzi per rintracciare Patterson e i
suoi due compagni e investigare su eventuali connessioni fra loro e la morte
dell'indiana Donna Orso.
Alla riunione di giugno della Società Medica c'era un ospite, un tal dottor
Naismith, che veniva da Hannibal, Missouri. In quella mezz'ora di piacevoli
conversazioni che precedette la riunione parlò di una causa giudiziaria intentata
nel Missouri da uno schiavo che chiedeva di essere riconosciuto come uomo
libero.
«Prima della guerra di Falco Nero, il dottor John Emerson era stato assunto
come chirurgo qui nell'Illinois, a Fort Armstrong. Aveva uno schiavo nero di
nome Dred Scott e quando il governo mise in vendita l'ex terra degli indiani,
acquistò un lotto di terreno in quella che allora si chiamava Stephenson e ora è
Rock Island. Lo schiavo si costruì una baracca sul lotto e ci visse diversi anni,
in modo che il suo padrone potesse qualificarsi come colono.
«Dred Scott si recò nel Wisconsin con Emerson quando il chirurgo fu
trasferito, e poi tornò con lui nel Missouri, dove Emerson morì. Il nero cercò di
comprarsi la libertà dalla vedova, assieme alla libertà della moglie e di due
figlie. Per le sue buone ragioni Mrs. Emerson rifiutò di vendere. Allora quella
sfrontata canaglia negra presentò una petizione al tribunale, pretendendo di
essere stato per molti anni un uomo libero nell'Illinois e nel Wisconsin.»
Tom Beckermann rise sguaiatamente, «Ah ah, uno sporco negro che
presenta una petizione!»
«Be',» osservò Julius Barton «a me sembra chiaro che la sua richiesta è
fondata. La schiavitù è illegale tanto nell'Illinois quanto nel Wisconsin.»
215
Il dottor Naismith continuava a sorridere. «Ma quello era stato venduto e
comprato nel Missouri, uno Stato schiavista, e nel Missouri era tornato.»
Tobias Barr corrugò la fronte, riflettendo sulla questione. «Qual è la tua opi-
nione sulla schiavitù, Cole?»
«Io penso» rispose Rob J. deliberatamente «che è giusto per un uomo posse-
dere un animale, se ne ha buona cura e gli provvede foraggio e acqua a suf-
ficienza. Ma non credo che sia giusto per un essere umano possedere un altro
essere umano.»
Il dottor Naismith fece del suo meglio per restare cordiale. «Sono lieto che
voi siate dei medici, cari colleghi, e non avvocati o giudici in un tribunale.»
Il dottor Barr annuì davanti all'evidente desiderio dell'altro di non impegnar-
si in argomenti spiacevoli. «Dica, dottor Naismith, avete visto molti casi di
colera nel Missouri, quest'anno?»
«Non molto colera, ma una quantità di ciò che alcuni chiamano la peste
fredda» rispose il dottor Naismith. Continuò descrivendo la presunta eziologia
del morbo, e il resto della riunione fu dedicato a discussioni di materia medica.
Dorothy Burnham vide subito nel giovane Robert Cole un alunno intel-
ligente e desideroso di imparare. Dapprima fu sorpresa dei bassi voti che vede-
va accanto al suo nome nel registro di Mr. Byers, e poi ne fu incollerita perché
il ragazzino aveva una mente eccezionalmente sveglia ed era evidente che era
stato trattato ingiustamente.
Miss Dorothy non aveva alcuna esperienza nel campo della sordità, ma era
un'insegnante che accoglieva con entusiasmo un'occasione.
Quando andò ad alloggiare in casa dei Cole per un turno di due settimane,
aspettò il momento opportuno per parlare con il dottor Cole in privato. «È a
proposito del linguaggio di Robert» cominciò e vide che il dottore l'ascoltava
con la più viva attenzione. «È una fortuna che parli così chiaramente. Ma ci
sono altri problemi.»
Rob J. annuì. «Il suo modo di parlare è piatto e roco. Io gli ho suggerito di
variare i toni, ma...» Scosse la testa.
«Io credo che parli in tono così monotono perché ha dimenticato come suo-
na la voce umana. Come sale e scende. Credo che possiamo farglielo ricor-
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dare.»
Due giorni dopo, con il permesso di Lillian, la maestra dopo la scuola con-
dusse Sciamano in casa dei Geiger. Lo fece stare vicino al piano con la palma
della mano appoggiata sulla cassa dello strumento. Colpì il primo do di basso
con tutta la forza e, tenendo il tasto premuto in modo che vibrasse per la
tastiera e la cassa fin nella mano del ragazzino, lo guardò e pronunciò: «LA».
La sua mano destra poggiava sul coperchio del piano.
Poi premette il secondo tasto. «No.» Ora la sua mano destra si alzò
leggermente.
Quindi il tasto successivo. «STRA.» E la sua mano si alzò ancora un poco.
Una nota dopo l'altra, percorse tutta la scala ascendente, e ogni nota era parte
della canzoncina a cui Sciamano si era abituato in classe. «La nostra scuola è
bella!» Poi attaccò la scala discendente. «E qui cresciamo felici!»
Suonò le scale diverse volte, in modo che il ragazzino cogliesse la diffe-
renza nelle vibrazioni che arrivavano alla sua mano e vedesse il graduale alzar-
si e abbassarsi della mano della maestra a ogni nota.
Poi gli disse di cantare le parole che lei stessa aveva adattato alle scale, non
solo muovendo le labbra in silenzio come faceva a scuola, ma a voce alta. I
risultati furono tutt'altro che musicali, ma Miss Burnham non aveva intenzione
di fare della musica. Voleva che Sciamano cominciasse ad acquistare il con-
trollo sull'altezza della sua voce, e dopo un certo numero di tentativi, con la sua
mano che si agitava freneticamente nell'aria, la voce del bambino effettivamen-
te si alzò. Ma si alzò assai più di una sola nota, e Sciamano fissò attonito il
pollice e l'indice della sua maestra che segnavano una minuscola distanza
davanti ai suoi occhi.
Così Miss Dorothy insisteva e lo sgridava, e per Sciamano talvolta era un
tormento. La mano sinistra della maestra correva sulla tastiera, battendo i tasti,
ostinatamente su e giù per le scale. La destra si alzava a segnare una nota alla
volta e poi si abbassava nello stesso modo. Sciamano gracchiava il suo amore
per la scuola, ancora e ancora. Talvolta il suo visetto assumeva un'espressione
ottusa e vacua, e due volte i suoi occhi si riempirono di lacrime, ma la maestra
faceva finta di non vederlo.
Infine cessò di suonare. Aprì le braccia e si strinse il bambino al seno,
tenendolo per un lungo momento e accarezzandogli i folti capelli sulla nuca,
prima di lasciarlo andare.
«Torna a casa» gli disse, ma lo fermò ancora una volta prima che uscisse.
«Domani lo faremo ancora, dopo la scuola.»
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Sciamano abbassò la testa. «Sì, Miss Burnham.» La sua voce era priva di
inflessioni, ma la maestra non si scoraggiò. Sedette alla tastiera quando il
bambino fu uscito e suonò le scale ancora una volta.
«Sì» disse.
Due giorni dopo i Geiger vennero a casa Cole per il pranzo domenicale. I
ragazzi Cole erano felici di quelle occasioni, perché il pranzo era sempre lauto.
Al principio Sarah era un po' risentita, vedendo che i Geiger rifiutavano siste-
maticamente i suoi arrosti per osservare il loro kashruth. Ma infine aveva capi-
to, e cercava di riempire il vuoto preparando sempre qualche cosa di extra, una
zuppa senza carne, altre verdure e pudding e diversi dolci.
Jay portò una copia del Weekly Guardian di Rock Island, che pubblicava un
articolo sulla causa intentata da Dred Scott, e commentò che la petizione dello
schiavo aveva poca o nessuna probabilità di successo.
«Malcolm Howard dice che nella Louisiana tutti possiedono schiavi» com-
mentò Alex.
Sua madre sorrise. «Non proprio tutti» ribatté. «Dubito molto che il padre di
Malcolm Howard abbia mai posseduto schiavi, o altro.»
«Il tuo papà possedeva schiavi quando eravate in Virginia?» chiese Scia-
mano.
«Il mio papà aveva solo una piccola segheria. Aveva tre schiavi, ma ven-
nero tempi difficili e dovette vendere gli schiavi e la segheria, e andare a lavo-
rare per suo padre, che aveva una grande fattoria con più di quaranta schiavi.»
«E la famiglia di mio papà, in Virginia?» domandò Alex.
«I genitori del mio primo marito erano negozianti» rispose Sarah. «Non te-
nevano schiavi.»
«Perché poi un uomo vorrebbe essere uno schiavo?» chiese Sciamano.
«Non vogliono essere schiavi» spiegò Rob J. al figlio. «Sono soltanto dei
poveri infelici, colpiti dalla sventura.»
Jay prese un bicchier d'acqua di pozzo e corrugò la fronte. «Vedi, Sciama-
no, così stanno le cose, così sono state nel Sud da duecento anni. Ci sono i radi-
cali che scrivono che i neri dovrebbero essere liberi. Ma se uno Stato come la
Carolina del Sud dovesse liberarli tutti, come vivrebbero? Ora lavorano per i
bianchi, e i bianchi hanno cura di loro. Qualche anno fa il cugino di Lillian,
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Judah Benjamin, aveva 140 schiavi nella sua piantagione di canna da zucchero
in Louisiana. E ne aveva molta cura. Mio padre a Charleston aveva due negre
che lavoravano in casa. Le ha sempre avute con sé da quando mi ricordo. Le
tratta con tanta bontà che non lo lascerebbero, credo, neanche se le cacciasse
via.»
«Proprio così» aggiunse Sarah. Rob J. aprì la bocca, poi la richiuse e porse
il piatto dei piselli con carote a Rachel. Sarah andò in cucina e tornò con un
gigantesco pudding di patate al forno, preparato secondo una ricetta di Lillian
Geiger, e Jay borbottò che era sazio, ma porse lo stesso il suo piatto.
Quando i Geiger ricondussero a casa i loro bambini, Jay chiese a Rob J. di
andare con loro per suonare insieme con Lillian. Ma Rob J. rispose che era
stanco.
La verità era che si sentiva scontroso e non aveva voglia di stare in compa-
gnia. Nel tentativo di reagire al malumore andò a passeggiare lungo il fiume
per godersi la brezza. Giunto vicino alla tomba di Makwa, vide che era invasa
dalle erbacce e si fermò un momento a ripulirla, strappandole furiosamente
finché non le ebbe tolte tutte. E ora si rese conto del perché l'espressione del
viso di George Cliburne gli era sembrata familiare. Era identica a quella che
aveva visto sul volto di Andrew Gerould la prima volta che gli aveva chiesto di
scrivere il manifesto contro il governo inglese, e lui aveva rifiutato. I lineamen-
ti dei due uomini avevano espresso un misto di sentimenti, fatalismo, ostinata
tenacia, e il disagio di essersi resi vulnerabili davanti al suo silenzio.
34
Il ritorno
Un mattino all'alba, quando la nebbia pesava ancora sul fiume e sui boschi,
Sciamano uscì di casa e passò oltre il gabinetto esterno per andare a farsi una
lunga, piacevole pipì nel ruscello. Il disco arancione del sole sorgeva dietro la
nebbia, trasformandola in veli di pallida luminosità. Il mondo era nuovo e fre-
sco e odoroso, la pace dei fiumi e dei boschi si accompagnava alla pace eterna
che sentiva nelle sue orecchie. Se quel giorno si voleva andare a pescare, si
disse, bisognava farlo di buonora. Allontanandosi dal fiume passò vicino alla
tomba e quando vide la pallida figura fra i veli di nebbia non ebbe paura:
rimase un attimo sospeso fra l'incredulità e una travolgente ondata di gioia e
gratitudine. Spirito, io ti invoco oggi. Spirito, io ti parlo ora. «Makwa!» gridò
gioiosamente e le corse incontro.
222
«Sciamano?»
Quando le fu vicino, si avvide con uno schianto che non era Makwa.
«Luna?» Nel nome c'era una domanda, perché la donna aveva un aspetto
terribile.
Dietro Luna Sciamano vide due altre figure. Una era un indiano che non
conosceva, l'altro era Cane di Pietra, che aveva lavorato per Jason Geiger. Cane
di Pietra era a petto nudo e portava calzoni di pelle di daino. L'estraneo indos-
sava brache di tela tessuta in casa e una camicia lacera. Entrambi calzavano
mocassini, ma Luna aveva un paio di scarponi da lavoro, di quelli che usavano
gli uomini bianchi, e una vecchia e sudicia veste blu, strappata su una spalla.
Gli uomini avevano tra le mani cose che Sciamano riconobbe - una forma di
formaggio, un prosciutto affumicato, un cosciotto crudo di montone - e si rese
conto che erano entrati nella dispensa, scassinando la porta.
«Avete del whisky?» chiese Cane di Pietra, accennando alla casa. Luna gli
disse aspramente qualcosa in lingua sauk e poi sì accasciò a terra.
«Luna, stai bene?» chiese Sciamano ansioso.
«Sciamano. Tanto cresciuto» mormorò la donna, guardandolo con stupore.
Sciamano si inginocchiò accanto a lei. «Dove siete stati? Sono qui anche gli
altri?»
«No... gli altri nel Kansas. Riserva. Lasciato i bambini là, ma...» Chiuse gli
occhi.
«Vado a chiamare mio padre» fece Sciamano e gli occhi della donna si
riaprirono.
«Ci hanno fatto tanto male, Sciamano.» Gli cercò le mani e le tenne strette.
Sciamano sentì qualcosa che dal corpo della donna passava nella sua mente.
Come se potesse udire ancora e fosse scoppiato un tuono; e seppe - in qualche
modo seppe - quello che stava per capitarle. Nelle sue manine passò un pun-
gente formicolio. Aprì la bocca, ma non poté parlare, non poté avvertirla. Era
paralizzato da un terrore che era del tutto nuovo per lui, più selvaggio del
terrore della sordità, più orribile di qualsiasi cosa avesse mai provato nella sua
breve vita.
Infine riuscì a strapparsi dalle sue mani.
Fuggi verso casa, come se fosse la sua unica speranza.
«Papà!» urlava.
227
35
Il nascondiglio segreto
Poiché il fratello maggiore passava sempre meno tempo con lui, Sciamano
si dedicava di più ai libri. Leggeva rapidamente e non si vergognava di chie-
derne continuamente in prestito. I Geiger avevano una buona biblioteca e la
mettevano a sua disposizione. Al suo compleanno e a Natale non riceveva in
dono che libri, alimento per il fuoco che accendeva in sé contro il freddo della
solitudine. Miss Burnham diceva che non aveva mai visto un lettore così appas-
sionato.
Lo esercitava assiduamente senza pietà per migliorare la sua pronuncia.
Durante le vacanze scolastiche le fu offerto vitto e alloggio nella casa dei Cole,
e Rob J. provvide a che il suo lavoro con il bambino non rimanesse senza
compenso. Ma la maestra non si dedicava a Sciamano per un guadagno
personale. Ottenere in lui una pronuncia chiara era diventata per lei una meta
ambita. Gli esercizi con la mano appoggiata al pianoforte continuavano
ininterrotti. Era affascinata al vedere come il bambino fin dal principio fosse
sensibile alle differenze di vibrazioni. In poco tempo infatti arrivò a identificare
le note appena lei toccava il tasto.
Sciamano andava acquistando un vocabolario sempre più ricco in seguito
alle molte letture, ma aveva difficoltà per la pronuncia: non riusciva a imparare
l'accento giusto, non potendo udire le voci degli altri. Per esempio, pronunciava
230
«farmacia» come «farmàcia» e Dorothy si rese conto che una parte delle sue
difficoltà stava nel fatto che non sapeva dove porre l'accento. Usò una pallina
di gomma per illustrargli il problema, facendola rimbalzare piano per le sillabe
non accentate e più forte per quelle accentate. Ma anche per questo ci volle del
tempo, perché il comunissimo gesto di afferrare una palla al rimbalzo gli crea-
va grandi difficoltà. Miss Burnham si rese conto che lei stessa si preparava ad
acchiappare la palla in base al suono che faceva rimbalzando sul pavimento.
Sciamano non poteva prepararsi in quel modo, così dovette imparare ad
afferrarla memorizzando l'esatta quantità di tempo che occorreva alla palla per
raggiungere il pavimento e rimbalzare nella sua mano, quando era gettata con
una data forza.
Una volta che fu in grado di identificare i rimbalzi della palla come simboli
dell'accento, Dorothy escogitò una serie di esercizi con il gesso e la lavagna,
scrivendo le parole e poi tracciando minuscole palline sulle sillabe atone e
palline più grosse sulle sillabe accentate.
Rob J. partecipava talvolta agli esercizi insegnando a Sciamano alcuni gio-
chi di destrezza, e anche Alex e Mal spesso assistevano alle lezioni. Rob J.
qualche volta aveva fatto dei giochi di prestigio per intrattenerli, e i ragazzi si
erano divertiti e interessati, ma la destrezza si acquistava solo lentamente.
Tuttavia li incoraggiava a insistere. «A Kilmarnock tutti i bambini Cole im-
parano a fare i giocolieri. È un vecchio costume di famiglia» diceva. «Se
possono impararlo loro, potete impararlo anche voi.» E i ragazzi gli diedero
ragione. Rimase tuttavia deluso al vedere che Mal Howard diventava il miglior
giocoliere dei tre, e ben presto fu in grado di manipolare quattro palle. Ma
Sciamano gli veniva subito dietro e Alex continuò a esercitarsi con tenacia
finché fu in grado di tenere tre palle in aria senza scomporsi. Il suo scopo era
non di addestrare un vero giocoliere, ma di dare a Sciamano il senso del variare
dei ritmi: e la cosa funzionò.
Un pomeriggio, mentre Miss Burnham era al pianoforte di Lillian Geiger
con il ragazzino, tolse la sua mano dalla cassa del piano e l'appoggiò sulla pro-
pria gola. «Quando parlo,» gli spiegò «le corde vocali nella mia laringe vi-
brano, come le corde metalliche del piano. Senti le vibrazioni, e come cam-
biano con le diverse parole?»
Sciamano annuì incantato e si sorrisero a vicenda. «Oh, Sciamano!» Doro-
thy Burnham tolse la mano del bambino dalla propria gola e lo strinse fra le
braccia. «Stai facendo tanti progressi! Ma hai bisogno di continuo esercizio,
più di quello che potrò farti fare io quando comincerà la scuola. Chissà se c'è
qualcuno che potrebbe aiutarti?»
231
Sciamano sapeva che suo padre era occupatissimo con i suoi pazienti. Vede-
va che sua madre si dedicava molto ai suoi lavori per la chiesa, e inoltre sentiva
in lei una certa riluttanza al contatto con la sua sordità, una riluttanza strana per
lui, ma non solo immaginaria. E Alex, appena finiti i compiti di scuola, era
uccel di bosco in compagnia di Mal.
Dorothy sospirò. «Se si potesse trovare qualcuno che lavori con te rego-
larmente!»
«Io sarei contenta di aiutare» fece all'improvviso una voce. Veniva da una
grande poltrona imbottita di crine di cavallo, che stava voltata con lo schienale
verso il pianoforte: e con grande stupore videro Rachel Geiger balzare in piedi
e avvicinarsi a loro.
Quante volte, si chiese Miss Dorothy, la ragazzina se ne era stata lì seduta,
senza che nessuno se ne accorgesse, e li aveva ascoltati durante gli esercizi?
«Io so che posso farlo, Miss Burnham» ripeté Rachel un po' ansiosa.
Sciamano sembrava felice.
Dorothy sorrise e strinse la mano di Rachel. «Sono sicura, mia cara, che ci
riuscirai splendidamente.»
Rob J. non aveva ricevuto risposta a nessuna delle lettere che aveva spedito
a proposito della morte di Makwa. Una notte si sedette alla scrivania e trasferì
la sua frustrazione sulla carta, un'altra lettera dal tono più aspro per cercare di
smuovere le acque.
«... I reati di stupro e assassinio sono stati facilmente ignorati dai rappre-
sentanti del governo e della legge, fatto che solleva il problema se lo Stato
dell'Illinois - in realtà qualunque altro Stato degli Stati Uniti d'America - sia
un Paese veramente civile o sia un luogo in cui gli uomini sono autorizzati a
comportarsi come i piti selvaggi fra gli animali in perfetta impunità.» Spedì le
lettere alle stesse autorità a cui si era già rivolto, sperando che la nuova asprez-
za di tono portasse a qualche risultato.
Nessuno comunicava con lui su nessun argomento, pensò di malumore.
Aveva scavato il rifugio nel capannone con fretta quasi frenetica, e, ora che era
pronto e in attesa, non gli veniva neanche una parola da George Cliburne.
Dapprima, via via che passavano i giorni, si domandava in che modo sarebbe
potuto giungergli un avviso; poi cominciò a domandarsi perché lo ignorassero.
Infine abbandonò il pensiero del rifugio segreto e tornò alla contemplazione
dell'ambiente familiare: il progressivo accorciarsi dei giorni, la vista di uno
stormo di oche nella caratteristica formazione a V, che emigravano verso sud
attraverso l'aria azzurrina, il mormorio canoro del ruscello che diventava più
232
cristallino via via che l'acqua si faceva più fredda. Un mattino si recò al
villaggio e Carroll Wilkenson si alzò dalla sua poltroncina sotto il portico
dell'emporio e si avviò con aria indifferente verso di lui, che stava legando il
cavallo a un palo. Era un piccolo pezzato dal collo malinconicamente chino.
«Un nuovo cavallo, dottore?»
«Cavalla. La stavo provando. La nostra Vicky è quasi cieca ormai. Buona
ancora per portare a spasso i bambini nel prato, ma... Questa vispa ragazzina
appartiene a Tom Beckermann.» Scosse la testa. Il dottor Beckermann gli
aveva detto che la cavalla pezzata aveva cinque anni, ma i suoi incisivi inferiori
erano consumati al punto che doveva averne almeno il doppio, e inoltre faceva
uno scarto a ogni insetto e a ogni ombra.
«Lei preferisce le cavalle?»
«Non necessariamente, ma sono più tranquille degli stalloni, secondo me.»
«Credo che lei abbia proprio ragione. Perfettamente ragione... Ieri ho
incontrato George Cliburne. Mi ha detto di riferirle che gli sono arrivati dei
libri nuovi, che potrebbero interessarle.»
Era il segnale e lo prese di sorpresa. «Grazie, Carroll. George ha un'eccel-
lente biblioteca» rispose, sperando che la sua voce suonasse ferma.
«Davvero.» Wilkenson gli fece un cenno di saluto con la mano. «Bene,
spargerò la voce che lei cerca un cavallo.»
«Le sarò molto grato.»
Dopo cena scrutò il cielo per assicurarsi che non ci sarebbe stata la luna.
Pesanti nuvole plumbee erano passate nell'aria per tutto il pomeriggio, spinte
dal vento. L'aria pareva quella di una lavanderia dopo un bucato di due giorni e
prometteva pioggia prima dell'alba.
Andò a letto presto e si concesse qualche ora di sonno, sfruttando quella
capacità propria del medico di farsi un pisolino quando poteva. Ma alla una era
sveglio. Prese tempo e scivolò in silenzio fuori dal caldo letto di Sarah poco
prima delle due. Si era coricato senza togliersi la biancheria e raccolse senza
far rumore i suoi abiti nella stanza buia, portandoli giú in cucina. Sarah era
abituata alle sue uscite notturne per accorrere al capezzale di qualche paziente a
qualsiasi ora, e continuò a dormire indisturbata.
I suoi stivali erano in un angolo dell'atrio, sotto il giaccone. Nella stalla
sellò Regina Vittoria, perché doveva andare solo fin dove il sentiero dei Cole
sbucava nella strada comune e Vicky conosceva cose bene il percorso che non
aveva bisogno di vederci chiaro. Nel suo nervosismo arrivò troppo presto e per
dieci minuti rimase in sella ad accarezzare il collo della cavalla, mentre
233
cominciava a cadere una pioggia leggera. Tendeva l'orecchio a cogliere rumori
immaginari, ma infine gli arrivarono suoni che non erano immaginari, il
crepitio e il tintinnio dei finimenti, il rumore degli zoccoli di un pesante cavallo
che arrancava su per la via. Poco dopo emergeva dal buio un carro carico di
fieno. «Tu sei qui, allora» disse la voce calma di George Cliburne.
Rob J. soffocò l'impulso di dire che non era lui e aspettò, mentre Cliburne
frugava nel fieno e ne emergeva una seconda figura. Evidentemente Cliburne
aveva dato già prima all'ex schiavo le istruzioni necessarie, perché senza una
parola l'uomo si aggrappò alla sella di Vicky e montò dietro Rob J.
«Possa tu camminare con Dio» salutò Cliburne allegramente. Tirò le redini
e rimise in moto il carro. In qualche momento del viaggio il negro doveva aver
perduto il controllo della vescica; il naso esperto di Rob J. gli disse che l'urina
era già asciugata, forse da qualche giorno, e cercò di scostarsi di pochi
centimetri dall'odore di ammoniaca che saliva dietro di lui. Quando passarono
davanti alla casa, tutto era buio. Aveva pensato di sistemare rapidamente
l'uomo nel rifugio che aveva scavato, togliere i finimenti alla cavalla e tor-
narsene al caldo del suo letto. Ma una volta entrato nel capannone, vide che la
faccenda era più complicata.
Quando accese la lampada si trovò di fronte un maschio nero fra i trenta e i
quarant'anni, con lo sguardo diffidente e spaventato di un animale braccato, un
grande naso a becco, una chioma incolta come il vello di un ariete nero.
Portava scarpe robuste, una camicia passabile e pantaloni così laceri che
c'erano più buchi che stoffa.
Rob J. avrebbe voluto chiedergli come si chiamava, da dove era fuggito, ma
Cliburne lo aveva avvisato: niente domande, era contro le regole. Spostò le
tavole, spiegò il contenuto del rifugio: secchio coperto per i bisogni naturali,
carta di giornale per pulirsi, una brocca di acqua da bere, un sacchetto di pan
biscotto. Il negro non disse nulla: si chinò ed entrò. Rob J. rimise a posto le
tavole.
C'era una pentola d'acqua sulla stufa spenta e Rob J. accese il fuoco. Appesi
a un chiodo nel fienile trovò un paio di suoi vecchi calzoni da lavoro, che erano
troppo lunghi e troppo larghi, e un paio di bretelle una volta rosse, e ora grigie
di polvere. I calzoni arrotolati potevano essere pericolosi se il fuggiasco doveva
correre, e Rob J. ne tagliò via venti centimetri da entrambe le gambe con le sue
forbici chirurgiche. Quando ebbe sistemato la cavalla, l'acqua sulla stufa era
calda. Spostò di nuovo le tavole e portò acqua, panni, sapone e calzoni nel
rifugio. Quindi ricollocò le assi, rigovernò la stufa, spense la lampada.
Esitò un attimo prima di allontanarsi. «Buonanotte» disse alle assi. Ci fu un
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fruscio, come di un orso che si muovesse nella tana.
L'uomo si stava lavando. «Grazie, signore» bisbigliò infine una voce rauca,
come se qualcuno parlasse in chiesa.
Il primo ospite della locanda, pensò Rob J. Il negro si fermò 73 ore. George
Cliburne, rilassato e allegro, con modi così educati da sembrare formali, venne
a prenderlo a metà di un'altra notte e lo portò via. Anche se era così buio che
Rob J. non poteva vedere i particolari, era sicuro che i pochi capelli del
quacchero erano pettinati con cura attraverso la testa calva e le sue guance rosa
erano accuratamente rasate come se fosse mezzogiorno.
Circa una settimana dopo Rob J. fu preso dal timore che lui stesso,
Cliburne, il dottor Barr e Carroll Wilkenson rischiassero di essere arrestati
sotto l'accusa di furto di proprietà privata, perché sentì dire che uno schiavo
fuggiasco era stato arrestato da Mort London. Ma risultò che non era il "suo"
nero, era uno schiavo fuggito dalla Louisiana, che si era rifugiato in una chiatta
sul fiume, senza che nessuno lo sapesse e potesse aiutarlo.
Fu una buona settimana per Mort London. Pochi giorni dopo che aveva
ricevuto una ricompensa in denaro per aver restituito lo schiavo, anche Nick
Holden premiò la sua lunga fedeltà facendolo nominare vicesceriffo federale a
Rock Island. London rassegnò subito le dimissioni dall'ufficio di sceriffo e per
sua raccomandazione il sindaco Anderson nominò il suo unico assistente, Fritz
Graham, a fare le sue veci fino alle prossime elezioni. Rob J. non aveva molta
simpatia per Graham, ma, la prima volta che per caso si incontrarono, il nuovo
sceriffo ad interim si affrettò a dimostrargli che non intendeva trascinarsi dietro
le vecchie beghe di Mort London.
«Spero che lei vorrà tornare a prestare la sua attività come coroner, dottor
Cole. Molta attività.»
«Ne sarò lieto.» Era vero, perché aveva sentito molto la mancanza delle
occasioni, offertegli dalle autopsie, di tenere in esercizio la sua abilità tecnica
di chirurgo.
Così incoraggiato, non poté resistere alla tentazione di chiedere a Graham se
si poteva riaprire il caso dell'assassinio di Makwa; ma ne ebbe uno sguardo di
così incredula diffidenza che indovinò la risposta, anche se Fritz Graham
promise: «... Farò tutto il possibile, stia pur sicuro, dottore».
237
36
Il primo ebreo
37
Inondazioni
Rob J. chiese a Jay del giubileo. Nell'antica Palestina, ogni sette anni si la-
sciavano i campi incolti perché la terra riposasse e reintegrasse i suoi succhi,
secondo i precetti della Bibbia. Dopo sette anni sabbatici, il cinquantesimo
anno era dichiarato anno del giubileo e gli schiavi ricevevano un dono e veni-
vano liberati.
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Rob J. osservò che l'istituzione del giubileo era migliore che non la schiavi-
tù perpetua, ma non era il massimo bene, poiché in molti casi cinquant'anni di
schiavitù erano più che una vita intera.
Lui e Jay parlavano con una certa cautela dell'argomento, sapendo da molto
tempo quanto le loro opinioni fossero diverse.
«Sai quanti schiavi ci sono negli Stati del Sud? Quattro milioni. C'è una
pelle nera ogni due pelli bianche. Liberiamoli e le fattorie e le piantagioni che
alimentano tanti abolizionisti del Nord dovranno chiudere. E allora, che farem-
mo di questi quattro milioni di neri? Come vivrebbero? Che ne sarebbe di
loro?»
«Alla fin fine vivrebbero come gli altri. Se avessero un po' di istruzione,
potrebbero diventare qualsiasi cosa. Farmacisti, per esempio» non poté tratte-
nersi dal dire.
Jay scosse la testa. «Tu semplicemente non vuoi capire. L'esistenza stessa
del Sud dipende dalla schiavitù. Ecco perché anche gli Stati che hanno abolito
la schiavitù considerano un reato aiutare gli schiavi fuggiaschi.»
Questa frase colpì Rob J. nel vivo. «Non parlarmi di reati! Il commercio
degli schiavi africani è fuori legge fin dal 1808, ma gli africani sono sempre
catturati e trascinati sotto il tiro dei fucili nelle navi che li trasportano negli
Stati del Sud, dove vengono venduti a blocchi.»
«Bene, tu parli della legge nazionale. Ma ogni Stato emana le sue proprie
leggi. E quelle sono le leggi che contano.»
Rob J. sbuffò e la conversazione finì.
Lui e Jay rimanevano amici e si aiutavano in qualsiasi cosa, ma la questione
della schiavitù aveva elevato fra loro una barriera di cui entrambi si dolevano.
Rob J. era un uomo che apprezzava una tranquilla conversazione con un amico,
e prese l'abitudine di condurre Trude su per il viottolo del convento di San
Francesco ogni volta che passava nelle vicinanze.
Non avrebbe saputo precisare il momento in cui divenne amico di Madre
Miriam Ferocia. Sarah destava in lui una passione fisica che era immutabile e
importante per lui come il cibo e le bevande, ma lei passava più tempo a
parlare con il suo pastore che con suo marito. Nel suo rapporto con Makwa,
Rob J. aveva scoperto che gli era possibile provare per una donna dell'amicizia
senza sessualità. Ora provava la stessa cosa per questa suora dell'Ordine di San
Francesco, di quindici anni più vecchia di lui, con gli occhi così severi nella
faccia energica e stretta nel velo.
L'aveva vista di rado prima di quell'inizio di primavera. L'inverno era stato
insolitamente mite, con piogge abbondanti. Il livello delle acque si alzò inos-
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servato finché i torrenti e i ruscelli d'improvviso si gonfiarono e furono difficili
da guadare, e a marzo la città pagò duramente il privilegio della sua posizione
fra due fiumi: già si parlava del Diluvio del '57. Rob J. osservò il fiume
tracimare dagli argini e inondare le sue terre, spazzando via la capanna del
bagno di sudore di Makwa e la casa delle donne. L'hedonoso-te fu risparmiato
perché Makwa aveva avuto l'accortezza di costruirlo su un rialzo del terreno.
Anche la casa dei Cole era più in alto del livello massimo raggiunto dall'inon-
dazione. Ma subito dopo che le acque si furono ritirate Rob J. fu chiamato a
curare il primo caso di febbre virulenta. Segui subito un altro caso. E un altro
ancora.
Sarah dovette impegnarsi tutto il giorno come infermiera, ma ben presto lei
e Rob J. e Tom Beckermann si trovarono sovraccarichi di lavoro. Poi un
mattino Rob J. arrivò alla fattoria degli Haskell e trovò Ben Haskell con la
febbre alta, ma già lavato a spugna e assistito da due suore di San Francesco.
Tutti gli "scarafaggi neri" erano all'opera ad assistere i malati. Rob J. vide
subito che erano eccellenti infermiere. Lavoravano sempre in coppia e persino
la Madre Superiora si muoveva con una compagna. Quando Rob J. protestò
con lei per questa stranezza, Miriam Ferocia rispose con altera freddezza,
facendogli capire che ogni obiezione era inutile.
Rob J. pensò che probabilmente lavoravano in coppia per difendersi a
vicenda dai dubbi in materia di fede e dai peccati della carne. Qualche giorno
dopo, mentre terminava la sua giornata con una tazza di caffè al convento,
commentò che gli sembrava strano che la Madre Superiora badasse a non
lasciare mai le sue suore da sole in una casa di protestanti. «È così debole,
allora, la vostra fede?»
«La nostra fede è forte! Ma anche noi cerchiamo calore e conforto, come gli
altri. La vita che abbiamo scelto è squallida. E abbastanza dura, anche senza
che vi si aggiungano le sventure delle tentazioni.»
Rob J. capì. Fu ben lieto di accettare la collaborazione delle suore alle
condizioni di Miriam Ferocia, dato che la loro opera di assistenza gli era così
preziosa.
Un giorno la Madre Superiora uscì in un commento sprezzante. «Lei non ha
altra borsa, dottor Cole, che questa logora borsa di cuoio decorata con setole di
maiale?»
«È il mio mee-shome, il mio amuleto sauk. Le cinghie sono fatte di funi
izze. Quando porto questa borsa, nessun proiettile può colpirmi.»
La suora lo guardò stupita. «Lei non ha fede nel nostro Salvatore, e poi
cerca protezione in un amuleto pagano?»
248
«Ah, ma funziona.» Le raccontò dello sparo che lo aveva mancato di poco
davanti alla stalla.
«Lei deve essere molto prudente» lo ammonì la suora, versandogli il caffè.
La capra che Rob J. aveva regalato al convento aveva già partorito due volte,
due piccoli maschi. Miriam Ferocia aveva venduto uno dei capretti e in qualche
modo si era procurata altre tre femmine, sognando di impiantare un'industria di
latticini; tuttavia, quando Rob J. arrivava al convento, non aveva latte per il suo
caffè, perché pareva che ogni capra fosse pregna o impegnata ad allattare i
piccoli. Ne faceva a meno, come facevano le monache, e imparò a gustare il
caffè nero.
La loro conversazione passò ad argomenti più seri. Rob J. era deluso che la
piccola inchiesta condotta dalla Madre Superiora nell'ambiente della sua Chiesa
non avesse portato alcuna notizia di Ellwood Patterson. Aveva abbozzato un
progetto. «Se riuscissimo a collocare un nostro uomo in seno all'Ordine Supre-
mo della Bandiera Stellata? Sarebbe possibile avere notizie sulla loro attività
criminosa in tempo per fermarli.»
«E come si potrebbe fare?»
Rob J. ci aveva pensato a lungo. Ci voleva un americano nato in America
che fosse assolutamente fidato, e insieme molto vicino a lui. Jay Geiger non era
adatto, perché l'Ordine Supremo avrebbe probabilmente rifiutato un ebreo. «Ci
sarebbe il mio bracciante, Alden Kimball. Nato nel Vermont. Un'ottima per-
sona.»
La Madre Superiora scosse la testa. «Che sia un'ottima persona è ancora
peggio, perché con questo progetto lei rischia di sacrificarlo e sacrificare se
stesso. Quelli sono uomini estremamente pericolosi.»
Rob J. dovette riconoscere la saggezza delle sue parole, e inoltre il fatto che
Alden cominciava a dimostrare i suoi anni. Non era ancora in declino, ma gli
anni erano molti. E beveva troppo.
«Lei deve avere pazienza» soggiunse la monaca gentilmente. «Farò qualche
altra ricerca. Nel frattempo, aspettiamo.»
Gli tolse di mano la tazzina del caffè e Rob J. capi che era ora di alzarsi
dalla poltrona del vescovo e prendere commiato, perché lei potesse prepararsi
per le preghiere del vespro. Raccolse la sua borsa-amuleto ornata di setole e
sorrise allo sguardo di sfida che la monaca rivolse al mee-shome. «Grazie,
Reverenda Madre» salutò e uscì.
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Ascoltando musica
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Insegnanti
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L'ultimo giorno in cui Miss Burnham insegnò all'Accademia, Sciama-
no indugiò finché gli altri alunni non furono usciti tutti, e poi si avvicinò
per salutarla.
«Credo che continuerò a vederla, qui in città. Sono contento che non
abbia deciso di andare a sposarsi in qualche altro luogo.»
«Anch'io sono contenta di continuare a vivere a Holden's Crossing,
Robert.»
«Io... volevo ringraziarla» aggiunse lui goffamente. Sapeva che cosa
aveva significato nella sua vita l'opera di questa donna con la sua calda
bontà.
«Grazie, mio caro.» Dorothy aveva informato i suoi genitori che non
avrebbe più potuto continuare gli esercizi con lui, con tutto il lavoro che le
avrebbero dato la fattoria e il marito e le tre bambine. «Sono sicura che tu
e Rachel procederete benissimo senza di me. Inoltre hai raggiunto un
punto in cui puoi fare a meno degli esercizi vocali.»
«Lei crede che ora la mia voce sia come quella degli altri?»
«Be'...» Rifletté un attimo. «Non esattamente. Quando sei stanco, è
ancora un po' gutturale. Ormai ti rendi perfettamente conto di come de-
vono suonare le parole, così non barbugli e non smozzichi la tua parlata
come fanno tanti. Quindi c'è solo una leggera differenza.» Si accorse che
questo lo turbava e gli prese la mano e la strinse. «È una simpatica dif-
ferenza» aggiunse, e fu lieta di vedere che il viso del ragazzo si illuminava.
Sciamano aveva comprato per lei un piccolo dono con i suoi risparmi a
Rock Island, alcuni fazzoletti orlati di merletto celeste. «Anch'io ho una cosa
per te» e gli porse un volume dei sonetti di Shakespeare. «Quando li leggerai,
dovrai pensare a me. Tranne per quelli romantici, naturalmente!» aggiunse e
rise con lui di quella sua nuova libertà, per cui Mrs. Cowan poteva dire e fare
cose che la povera Miss Burnham, la maestra, non si sarebbe neppure sognata.
Con tutto il traffico fluviale della primavera, si verificarono non pochi casi
di annegamento sul Mississippi. Un giovane mozzo cadde da una chiatta,
nell'alto corso del fiume, e il suo corpo fu trascinato a valle dalla corrente, fin-
ché fu gettato a riva nei pressi di Holden's Crossing. Gli altri della ciurma non
sapevano da dove veniva, né sapevano altro di lui, tranne che il suo nome era
Billy, e lo sceriffo Graham lo fece portare al capannone di Rob J.
Sciamano assistette alla sua seconda autopsia e registrò il peso degli organi
nel taccuino di suo padre e apprese che cosa avveniva nei polmoni quando un
uomo annegava. Questa fu un'esperienza più dura per lui. Il cinese era tanto
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diverso da lui per l'età e per l'origine esotica, ma questo giovane aveva solo
pochi anni più di suo fratello Alex, e quel cadavere parlava a Sciamano della
sua propria natura mortale. Tuttavia cercò di tenere questi pensieri lontano dal-
la sua mente per poter meglio osservare e imparare.
Quando ebbero terminato l'autopsia, Rob J. cominciò a sezionare sotto il
polso destro di Billy. «Molti chirurghi hanno un sacro terrore della mano»
spiegava. «Questo perché non hanno mai dedicato abbastanza tempo a stu-
diarla. Se vuoi diventare insegnante di anatomia o fisiologia, devi conoscere la
mano.»
Sciamano capiva bene perché esitavano a sezionare la mano: era tutta mu-
scoli e tendini e articolazioni, e rimase sgomento quando, terminata la disse-
zione della mano destra, suo padre lo invitò a sezionare la sinistra da solo.
Rob J. sorrise al figlio: pareva comprendere perfettamente quello che il
ragazzo sentiva. «Non ti preoccupare, nulla che tu faccia gli potrà far male.»
Così Sciamano passò gran parte di quel giorno tagliando ed esaminando e
mandando a memoria i nomi di ogni minuscolo ossicino, e imparando come si
muovevano le articolazioni nelle mani degli uomini vivi.
Diverse settimane dopo lo sceriffo affidò a Rob J. il cadavere di una vecchia
che era morta nell'ospizio della contea. Sciamano era ansioso di riprendere le
lezioni di anatomia, ma suo padre gli sbarrò l'entrata al capannone.
«Sciamano, hai mai visto una donna svestita?»
«... Ho visto Makwa una volta. Mi aveva portato nella capanna del bagno di
sudore insieme con lei, cantava antichi canti per farmi tornare l'udito.»
Suo padre lo guardò sorpreso, e poi si sentì in obbligo di spiegargli: «Capi-
sci, Sciamano, se era la prima volta che vedevi un corpo di donna, non volevo
che fosse vecchia e brutta e morta.»
Sciamano annuì, sentendosi arrossire. «Non è la prima volta, papà. Makwa
non era né vecchia né brutta.»
«No, certo.» Gli batté una mano sulla spalla ed entrarono nel capannone.
Alla riapertura della scuola Rachel non ebbe nessuna difficoltà a iniziare la
sua opera di insegnante. La routine quotidiana le era familiare: lezioni, compiti
in classe, l'insegnamento dei canti, i compiti a casa. Sciamano era più bravo di
lei in matematica e Rachel gli chiese di tenere le lezioni di aritmetica.
261
Naturalmente Sciamano lo faceva senza stipendio, ma Rachel tesseva le sue
lodi ai genitori e al comitato scolastico, e il ragazzo era lieto di lavorare con lei
e progettare le lezioni.
Nessuno dei due fece parola dell'opinione di Miss Burnham che gli esercizi
vocali non erano più necessari. Ora gli esercizi si tenevano all'Accademia, dopo
che gli alunni erano tornati alle loro case, tranne quelli che richiedevano l'uso
del pianoforte. Sciamano amava sedere accanto a lei sulla panchetta del piano,
ma ancor più gli piaceva restare con lei da solo a scuola, in affettuosa intimità.
Gli alunni avevano sempre riso del fatto che Miss Burnham non aveva mai
bisogno di andare a far pipi e ora Rachel si imponeva la stessa disciplina, ma,
appena tutti erano usciti, non poteva più rimandare e si precipitava al gabinetto.
Mentre l'aspettava, Sciamano indugiava a fantasticare che cosa portasse sotto la
gonna. Alex gli aveva raccontato che quando «lo aveva fatto» con Pattie Dru-
cker aveva dovuto aiutarla a togliersi certi vecchi e bucherellati mutandoni di
suo padre, ma Sciamano sapeva che molte donne portavano crinoline con
stecche di balena o sottovesti di crine di cavallo, che pungevano un po' ma
erano più calde. Rachel soffriva il freddo: quando tornava dal gabinetto, si
metteva vicino alla stufa a scaldarsi prima davanti e poi di schiena.
Aveva insegnato solo da un mese quando dovette andare a Peoria con la
famiglia per le vacanze ebraiche e Sciamano divenne supplente per una buona
metà del mese di ottobre, e ricevette anche lo stipendio. Gli alunni erano già
abituati ai suoi insegnamenti in matematica. Sapevano che il maestro doveva
vedere le loro labbra per capirli, e la prima mattina Randy Williams, il figlio
minore del maniscalco, disse una frase impertinente voltandogli le spalle. I
ragazzi risero e Sciamano annuì disinvolto e chiese a Randy se voleva essere
tenuto per un paio di minuti sospeso per i talloni a testa in giù. Era più alto e
robusto della maggior parte degli uomini che loro conoscevano e i sorrisi spari-
rono quando Randy tremante balbettò qualcosa come no, non voleva. Per il
resto di quelle due settimane l'insegnamento non ebbe più difficoltà per Scia-
mano.
Il primo giorno che Rachel tornò a scuola pareva abbattuta. Quel pomerig-
gio, quando gli alunni furono usciti, tornò dal gabinetto tremando e piangendo.
Sciamano le venne vicino e le pose un braccio sulle spalle. Lei non protestò,
rimase lì fra lui e la stufa, con gli occhi chiusi. «Io odio Peoria» mormorò som-
messamente. «È orribile incontrare tutta quella gente. Mia madre e mio padre...
mi hanno messa in mostra.»
A Sciamano sembrava ragionevole che fossero orgogliosi di lei. Inoltre,
ormai per tutto un anno non le sarebbe toccato tornare a Peoria. Non disse nul-
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la. Non si sognava nemmeno di baciarla, felice solo di essere vicino alla sua
morbida persona: era sicuro che nulla di quanto un uomo e una donna solevano
fare insieme poteva essere meglio di questo. Dopo un attimo lei si ritrasse e lo
guardò gravemente con gli occhi bagnati di lacrime. «Il mio amico fedele.»
«Sì» confermò Sciamano.
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I ragazzi crescono
L'ultimo strato ghiacciato della neve invernale copriva i campi come una
sottile smerigliatura quando Rob J. avviò le attività primaverili al suo alleva-
mento e Sciamano fu sorpreso ma compiaciuto di essere incluso per la prima
volta nel programma dei lavori. In passato gli avevano affidato solo lavoretti
occasionali, lasciandogli proseguire i suoi studi e gli esercizi vocali. «Quest'an-
no abbiamo un estremo bisogno del tuo aiuto» gli aveva detto suo padre.
«Alden e Alex non vorranno ammetterlo, ma nemmeno tre uomini potrebbero
sbrigare tutto il lavoro che faceva Vien Cantando da solo.» Inoltre, aggiunse,
ogni anno il gregge aumentava e si mettevano nuovi terreni a pascolo. «Ho
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parlato tanto sia con Dorothy Burnham sia con Rachel. Mi dicono che hai
imparato già tutto il possibile all'Accademia. E che non hai più neanche
bisogno di esercizi e...» aggiunse sorridendo «sono d'accordo con loro. Anche a
me la tua voce sembra a posto.»
Rob J. ebbe cura di dire a Sciamano che non si trattava di un lavoro perma-
nente. «So che tu non ami il lavoro della fattoria, ma per adesso ci aiuterai e in
seguito vedremo quello che vorrai fare.»
Alden e Alex si occupavano della macellazione degli agnelli. Sciamano fu
messo a piantare le siepi di confine appena il terreno fu abbastanza morbido per
la vanga. Gli steccati a paletti non erano adatti a un allevamento di pecore,
perché gli agnelli non avevano difficoltà a sgusciare fra i paletti, attraverso i
quali passavano anche i predatori. Per segnare i confini di un nuovo pascolo,
Sciamano dissodava una striscia lungo il perimetro e vi piantava arbusti di
maclura, abbastanza vicini da formare una fitta barriera. Seminava con cura,
perché i semi costavano cinque dollari la libbra. Le madure crescevano robuste,
a cespuglio, con lunghe spine che impedivano alle pecore di uscire e ai coyote
e ai lupi di entrare. Ci volevano tre anni perché le maclure arrivassero a forma-
re una siepe che proteggesse efficacemente i campi, ma Rob J. aveva comin-
ciato a piantare siepi di maclure fin dall'inizio, e, quando Sciamano ebbe finito
di piantare nuove siepi, passava le giornate su una scala a cimare quelle già cre-
sciute. Terminata la cimatura, si doveva ripulire il terreno dalle pietre, racco-
gliere legna da ardere, preparare pali, sradicare vecchi ceppi dai margini del
bosco.
Le sue mani e le sue braccia erano graffiate dalle spine, le sue palme diven-
nero callose, i muscoli cominciarono a dolergli e poi s'indurirono. Nel suo cor-
po erano visibili le trasformazioni dello sviluppo, la sua voce divenne profon-
da. Di notte aveva sogni sessuali. Talvolta non riusciva a ricordare i sogni e a
identificare la donna che li aveva animati, ma spesso gli appariva Rachel.
Almeno una volta riconobbe che la donna era stata Makwa, il che lo turbò e lo
spaventò. Faceva il possibile per eliminare le tracce prima che le sue lenzuola
fossero aggiunte al bucato.
Per anni aveva visto Rachel tutti i giorni; ora la vedeva solo raramente. Un
pomeriggio di domenica si recò alla casa dei Geiger e bussò alla porta. «Rachel
è occupata e adesso non può venire. Le porterò i tuoi saluti, Rob J.» gli rispose
Lillian con molta cortesia. Qualche volta, nelle sere di sabato, quando le due
famiglie si riunivano per stare in compagnia e fare della musica, cercava di
sedere accanto a Rachel e parlare di scuola. Gli dispiaceva di non tenere più le
lezioni di aritmetica agli alunni e le domandava dei loro progressi e l'aiutava a
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programmare le lezioni future. Ma Rachel pareva stranamente a disagio.
Qualcosa che egli aveva amato in lei, una specie di calore e di luce, si era
smorzato, come un fuoco soffocato dalla troppa legna. Quando le suggeriva di
andar fuori insieme a fare una passeggiata, era come se tutti gli adulti nella
stanza fossero in attesa della sua risposta e la tensione non si allentava finché
lei non diceva: «No, grazie, non ho voglia di uscire ora, ma grazie lo stesso,
Sciamano».
I genitori di Rachel le avevano spiegato la situazione, parlando con
indulgenza dell'infatuazione di un ragazzo tanto giovane e dicendole chiaro e
tondo che lei stessa non doveva mostrargli il minimo incoraggiamento. Era una
cosa molto difficile. Sciamano era il suo unico amico e sentiva penosamente la
mancanza della sua compagnia. Era preoccupata per l'avvenire di Sciamano,
ma lei stessa si sentiva sospesa su un abisso ed era presa dall'ansia e dalla paura
se tentava di scorgerne il fondo.
Avrebbe dovuto rendersi conto che proprio l'infatuazione di Sciamano era
l'elemento destinato a far precipitare la situazione; ma il suo rifiuto di guardare
al futuro era così tenace, che quando Johann C. Regensberg venne a passare un
fine settimana a casa Geiger lo accolse all'inizio come un semplice amico di
suo padre. Era un uomo affabile e un po' grassoccio, vicino ai quarant'anni, che
rispettosamente si rivolgeva al suo ospite chiamandolo Mr. Geiger, ma gli
chiese di dargli del tu e di chiamarlo Joe. Di media altezza, aveva vivaci occhi
azzurri leggermente strabici che osservavano pensosamente il mondo da dietro
un paio di occhiali montati in metallo. Il suo viso simpatico era inquadrato fra
una corta barbetta e una testa di capelli neri che si andavano ritirando verso la
sommità del cranio già avviato alla calvizie. In seguito Lillian lo avrebbe de-
scritto agli amici come un uomo «dalla fronte molto alta».
Joe Regensberg comparve alla fattoria un venerdì, in tempo per il pranzo
dello Shabbat e passò quella sera e il giorno seguente in piacevoli ozi con la
famiglia Geiger. Sabato mattina lui e Jason lessero le scritture e studiarono il
Libro del Levitico. Dopo una colazione fredda l'ospite visitò il fienile e il
negozio di farmacia poi, ben coperto nella giornata plumbea, si avviò con loro
a vedere i campi che sarebbero stati seminati in primavera.
I Geiger conclusero quello Shabbat con una cena di cholent, un piatto
contenente fagioli, carne, orzo pelato e prugne, che cuoceva lentamente sulle
braci fin dal pomeriggio precedente, perché agli ebrei era fatto divieto di
accendere il fuoco durante lo Shabbat. Dopo, fecero musica e Jason suonò una
parte di una suonata per violino di Beethoven e poi passò la mano a Rachel che
fu lieta di terminarla, mentre l'ospite assisteva con evidente piacere. Alla fine
266
della serata Joe Regensberg aprì la sua grande valigia e ne trasse i doni: una
serie di tegami infilati l'uno nell'altro per Lillian, prodotti nella fabbrica di
oggetti in metallo che possedeva a Chicago; una bottiglia di vecchio brandy di
ottima qualità per Jason, e per Rachel un libro, Il Circolo Pickwick.
Rachel osservò che non c'erano doni per i suoi fratelli. Di colpo comprese il
significato di quella visita e fu sopraffatta dal terrore e dallo sgomento.
Muovendo a fatica le labbra, che le sembravano divenute rigide e spesse, lo
ringraziò e gli disse che le piacevano i libri di Charles Dickens ma finora aveva
letto solo Nicholas Nickleby.
«Il Circolo Pickwick è uno dei miei libri favoriti;» aggiunse lui «dobbiamo
parlarne dopo che lo ha letto.»
Non poteva onestamente essere definito un bell'uomo, ma aveva un viso
intelligente. Un libro, pensò Rachel con un filo di speranza, era una cosa che
solo un uomo eccezionale poteva offrire come primo dono a una donna in
quelle circostanze.
«Ho pensato che fosse un dono adatto per un'insegnante» aggiunse l'ospite,
come se le leggesse nel pensiero. I suoi abiti avevano un taglio più elegante di
quelli degli altri uomini che Rachel conosceva: probabilmente erano fatti da un
sarto migliore. Quando sorrideva, un lampo di umorismo gli scintillava negli
occhi.
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Vittorie e sconfitte
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Holden's Crossing, Illinois
12 ottobre 1858
Rob J. sentiva molto la mancanza di Sciamano. Il suo rapporto con Alex era
più cauto che caldo. Sarah era sempre occupatissima con il suo lavoro per la
chiesa. Ogni tanto poteva godere qualche serata musicale con i Geiger, ma,
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quando la musica finiva, si trovavano penosamente di fronte alle loro diver-
genze politiche. Sempre più spesso, alla fine del pomeriggio, dopo aver
terminato le sue visite a domicilio, voltava la cavalla verso il convento di San
Francesco. Via via che passavano gli anni comprendeva sempre più
chiaramente che Madre Miriam era più coraggiosa che feroce, più valente che
scostante.
«Ho qualche cosa per lei» gli disse un giorno e gli porse un fascio di fogli
giallognoli coperti da una scrittura minuta e contorta in inchiostro nero
piuttosto scolorito. Rob J. li lesse mentre sorseggiava il suo caffè, seduto nella
poltrona del vescovo. Era un'accurata descrizione dell'organizzazione interna
dell'Ordine della Bandiera Stellata e poteva essere stata scritta solo da qualcuno
che ne era membro.
Cominciava con uno schema della struttura nazionale di quella società
politica segreta. La sua base era formata da consigli distrettuali, ciascuno dei
quali nominava i propri capi, fissava i propri regolamenti e iniziava i propri
membri. Al di sopra c'erano i consigli di contea, formati dai delegati dei
consigli distrettuali uno per ogni consiglio. I consigli di contea controllavano
l'attività politica dei consigli distrettuali e sceglievano i candidati politici locali
che fossero degni dell'appoggio dell'Ordine.
Tutte le unità in ogni singolo Stato erano controllate da un gran consiglio,
composto da tre delegati per ciascun consiglio distrettuale e presieduto da un
gran presidente e altri rappresentanti eletti. Al vertice della complessa struttura
c'era un consiglio nazionale che decideva su tutte le questioni politiche
nazionali, compresa la selezione dei candidati dell'Ordine alla presidenza e alla
vicepresidenza degli Stati Uniti. Il consiglio nazionale decideva le punizioni
per i membri colpevoli di mancare ai loro doveri e stabiliva i complessi rituali
dell'Ordine.
C'erano due categorie di membri. Per entrare nella prima un candidato
doveva essere un maschio adulto nato negli Stati Uniti da genitori protestanti,
che non fosse sposato con una donna cattolica.
Ogni membro al momento dell'affiliazione doveva rispondere alla domanda:
«Sei tu disposto a usare la tua influenza e a votare solo per cittadini americani
nati in America in tutti gli uffici di onore, fiducia o profitto nel nome del
popolo, a esclusione di tutti gli stranieri e in particolare i cattolici romani, e
senza riguardo a preferenze di partito?».
Chi giurava doveva rinunciare a ogni legame con altri partiti, appoggiare
l'azione politica dell'Ordine e adoperarsi per cambiare le leggi di naturalizza-
zione. Quindi gli venivano confidati i segreti della setta, accuratamente
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descritti nel rapporto: il segno di riconoscimento, il tipo della stretta di mano, le
sfide e gli ammonimenti.
Per diventare membro di secondo grado il candidato doveva essere un
veterano fidato. Solo i membri di secondo grado erano eleggibili alle alte cari-
che dell'Ordine, per essere impegnati in attività clandestine ed essere appog-
giati alle elezioni statali e nazionali. Quando arrivavano a occupare alte cariche
pubbliche, avevano il dovere di licenziare tutti gli stranieri e i cattolici romani
che lavoravano sotto di loro, e in nessun caso dovevano "nominare tali persone
a impieghi nella loro giurisdizione".
Rob J. alzò lo sguardo al viso di Madre Miriam Ferocia. «Quanti sono?»
La suora si strinse nelle spalle. «Noi non riteniamo che i membri dell'Or-
dine segreto siano molto numerosi. Forse un migliaio. Ma sono il filo d'acciaio
nella spina dorsale del partito americano.
«Le do queste pagine perché lei è contrario a questo gruppo che cerca di
danneggiare la mia Madre Chiesa, e perché lei deve conoscere la natura di
quelli che ci fanno del male, e per le cui anime noi preghiamo Iddio.» Lo
guardò gravemente. «Ma lei deve promettere di non usare alcuna di queste
informazioni per avvicinare un sospetto membro dell'Ordine nell'Illinois,
perché, così facendo, potrebbe mettere in gravissimo pericolo l'uomo che ha
scritto questo rapporto.»
Rob J. annuì, ripiegò le pagine e fece per restituirle, ma Madre Miriam
scosse la testa. «Sono per lei» confermò «insieme con le nostre preghiere.»
«Non dovete pregare per me!» Lo metteva a disagio parlare con lei di
questioni di fede.
«Lei non può impedirmelo. Lei merita le nostre preghiere e io parlo spesso
di lei con il Signore.»
«Così come prega per i suoi nemici» osservò Rob J. accigliato, ma lei
rimase imperturbabile.
Più tardi, a casa, rilesse il rapporto, esaminando quella scrittura contorta. La
scrittura di un uomo (forse un prete?) che viveva nella menzogna, fingendo di
essere quello che non era, rischiando la sua sicurezza, forse la vita. Rob J.
desiderò di poter parlare con quell'uomo.
Nick Holden era stato facilmente rieletto due volte, grazie alla sua reputa-
zione di fiero combattente degli indiani, ma ora si presentava candidato per la
quarta volta e il suo avversario era John Kurland, procuratore generale di Rock
Island. Kurland godeva del favore dei democratici e di altri ancora, e forse
Nick sentiva che l'appoggio dei Know-Nothing per lui cominciava a barcollare.
274
Correva voce che rischiava di perdere il seggio al Congresso e Rob J. si
aspettava che Nick facesse qualche gesto plateale per guadagnare voti. Così
non fu molto sorpreso quando un pomeriggio, tornando a casa, apprese che
l'onorevole Holden e lo sceriffo Graham stavano arruolando una nuova squa-
draccia di volontari.
«Lo sceriffo dice che il fuorilegge Frank Mosby è rintanato su nel nord
della contea» riferì Alden. «Nick ha raccolto un manipolo di uomini così
eccitati che sono più dell'umore di linciare che di arrestare, creda a me. Graham
sta mandando i suoi vice a destra e a sinistra. Alex è partito anche lui, tutto
esaltato. Ha preso il fucile piccolo e ha sellato Vicky.»
Corrugò la fronte, come per scusarsi. «Ho cercato di dissuaderlo, ma...» Si
strinse nelle spalle.
Trude non era ancora raffreddata, ma Rob J. le gettò di nuovo la sella sulla
groppa e si diresse in città.
Gli uomini si affollavano in piccoli gruppi nelle strade. C'erano clamori e
alte risate sotto il portico dell'emporio, dove Nick e lo sceriffo tenevano banco,
ma Rob J. li ignorò. Alex era assieme a Mal Howard e a due altri giovani, tutti
armati di fucile, con gli occhi brillanti di importanza. Chinò la testa quando
vide il padre.
«Vorrei parlarti, Alex.» Lo condusse un po' discosto dagli altri. «Voglio che
tu torni a casa.»
«No, papà.»
Alex aveva diciotto anni ed era caparbio. Se si sentiva contrariato, poteva
mandar tutti al diavolo e andarsene di casa davvero. «Non voglio che tu vada.
Ho le mie buone ragioni.»
«È tutta la vita che sento queste buone ragioni!» ribatté Alex amaramente.
«Una volta ho chiesto a mia madre: Frank Mosby è mio zio? E lei mi ha detto
di no.»
«Tu sei pazzo a tormentare così tua madre. Non ha nessuna importanza se tu
corri là e spari a Mosby, non capisci? La gente continuerà a chiacchierare. Ma
quello che dice la gente ora non conta.
«Potrei dirti di tornare a casa perché quello è il mio fucile, e quella è la mia
povera cavalla cieca. Ma la vera ragione per cui non devi andare è che tu sei il
mio caro figliolo e non voglio che tu faccia qualcosa di cui debba pentirti per
tutto il resto della tua vita.»
Alex gettò uno sguardo disperato verso il gruppo di Mal e degli altri che lo
osservavano incuriositi.
«Di' ai tuoi compagni che ho bisogno di te perché c'è troppo lavoro alla
275
fattoria. Poi vai a prendere Vicky e torna a casa.»
Tornò indietro, rimontò a cavallo e si diresse verso Main Street. C'erano già
dei tafferugli davanti alla chiesa e vide che qualcuno aveva cominciato a bere.
Non si voltò per quasi un chilometro, ma quando Io fece vide Vicky dietro
di sé che trotterellava con il muso incerto del cavallo mezzo cieco, e la figura
piegata sul suo collo come chi cavalca contro un forte vento, il piccolo fucile
da caccia tenuto con la bocca in alto, come lui stesso aveva insegnato ai suoi
figli.
Per due o tre settimane Alex cercò di evitarlo, non tanto perché fosse in
collera con lui quanto per evitare la sua autorità. La squadra di volontari restò
in caccia per due giorni. Trovarono il fuorilegge rintanato in un tugurio cadente
e presero complicate precauzioni prima di precipitarsi ad agguantarlo, ma
quello era addormentato e non oppose resistenza. E non era Frank Mosby. Era
un tale di nome Buren Harrison, che aveva rapinato un negoziante a Geneseo
rubandogli quattordici dollari, e Nick Holden e i suoi amici lo scortarono trion-
falmente, mezzo ubriachi, alla prigione. Si seppe in seguito che Frank Mosby
era annegato nello Iowa due anni prima, mentre cercava di spingere il cavallo
attraverso il fiume Cedar durante una piena.
In novembre Rob J. votò per mandare John Kurland al Congresso e rieleg-
gere Stephen A. Douglas al Senato. La sera dopo si unì alla folla che aspettava
i risultati delle elezioni nell'emporio di Haskins e in una vetrina vide una
coppia di splendidi coltelli da tasca. Ognuno aveva una lama larga, due lame
più piccole e una piccola forbice, tutte di acciaio temperato, il rivestimento di
tartaruga levigata e cappucci d'argento scintillante alle estremità. Erano coltelli
per uomini che non avevano paura di spendere e li comprò per regalarli ai figli
a Natale.
Poco dopo il tramonto Harold Ames arrivò a cavallo da Rock Island con i
risultati delle elezioni. Era stata la giornata delle conferme. Nick Holden,
cacciatore di indiani e difensore della legge, aveva sconfitto di stretta misura
John Kurland, e anche il senatore Douglas tornava al Congresso.
«Adesso Abramo Lincoln imparerà a non andare in giro a strillare che non
si devono tenere gli schiavi» esultava Julian Howard alzando il pugno in
trionfo. «E questa è l'ultima volta che sentiremo parlare di quel figlio di
puttana!»
276
42
Lo studente
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Quando tornò a casa per Natale trovò che in qualche modo Holden's
Crossing era diversa da prima. Vi si sentiva più solo che nella sua stanza nella
casa del preside, e alla fine delle vacanze tornò al college quasi volentieri.
Era felice del coltello che suo padre gli aveva regalato; si comprò una
piccola cote e una fialetta d'olio e affilò ogni lama finché poté tagliare in due
un capello.
Nel secondo semestre scelse di frequentare chimica invece di astronomia.
Trovava difficile la composizione inglese. Tu mi hai già detto PRIMA,
scribacchiava seccato il suo professore d'inglese, che Beethoven scrisse la
maggior parte della sua musica quando era sordo. Il professor Gardner lo
incoraggiava a usare il cannocchiale astronomico ogni volta che voleva, ma la
notte prima di un esame di chimica, in febbraio, Sciamano andò sul tetto a
spazzare il cielo invece di studiare la tavola dei pesi atomici di Berzelius ed
ebbe un cattivo voto. Dopo di ciò ridusse la contemplazione delle stelle e fece
eccellenti progressi in chimica. Quando tornò a Holden's Crossing per le
vacanze di Pasqua, i Geiger invitarono i Cole a pranzo, e l'interesse di Jason
per la chimica lení in parte per Sciamano il tormento di quella serata, perché
Jay continuò a fargli domande su quello che aveva studiato.
Le sue risposte dovettero essere soddisfacenti. «Che cosa pensi di fare della
tua vita, vecchio mio?» gli chiese Jay.
«Non so ancora. Pensavo... forse potrei dedicarmi a un'attività scientifica.»
«Se ti piacesse la farmacologia, sarei lieto di prenderti come apprendista.»
Sciamano vide sul volto dei suoi genitori che la proposta li rallegrava, e
ringraziò un po' impacciato Jay Geiger affermando che ci avrebbe certamente
pensato; ma in cuor suo sapeva che non desiderava diventare farmacista. Tenne
gli occhi abbassati sul piatto per qualche minuto e così perdette parte della
conversazione. Quando alzò di nuovo lo sguardo, vide che il volto di Lillian si
era velato di dolore. Stava raccontando all'amica che Rachel aveva perduto il
bambino al quinto mese di gravidanza, e per un po' le due donne continuarono
a parlare di aborti.
Sciamano non andò alle lezioni né si interruppe per il desinare. Per tutto il
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giorno sezionò, prese appunti, tracciò rozzi diagrammi. Nel tardo pomeriggio
aveva finito con gli organi interni e la maggior parte delle articolazioni. Voleva
ancora studiare e disegnare la spina dorsale, ma rimise il cane nel cassetto e lo
chiuse. Poi si lavò abbondantemente le mani nella catinella con molto sapone e
vuotò l'acqua nella vasca. Prima di scendere per cena si cambiò interamente,
dalla biancheria agli abiti.
Tuttavia, avevano appena cominciato con la zuppa, che il preside Hammond
storse il naso carnoso.
«Che c'è?» chiese sua moglie.
«Non so, qualche cosa. Cavoli, forse?»
«No» fece lei.
Sciamano fu ben felice di svignarsela quando la cena fu terminata. Sedette
nella sua stanza, bagnato di sudore, atterrito all'idea che qualcuno volesse farsi
un bagno.
Nessuno pensò a un bagno. Troppo nervoso per dormire, Sciamano aspettò
un tempo incredibilmente lungo, finché pensò che tutti fossero andati a letto.
Poi portò la tinozza giù per le scale e nel cortile posteriore e vuotò nel prato il
sangue che era rimasto sul fondo. La pompa gli parve insolitamente rumorosa
quando pompò l'acqua, e c'era sempre il pericolo che qualcuno uscisse per
andare al gabinetto. Ma nessuno si fece vedere e Sciamano sfregò energica-
mente la tinozza diverse volte con molto sapone e la risciacquò bene, poi la
riportò nell'atrio e la riappese alla parete.
La mattina dopo dovette convincersi che non gli sarebbe stato possibile
sezionare la spina dorsale, perché la stanza si era fatta più calda e vi stagnava
un greve fetore. Tenne il cassetto chiuso e vi ammucchiò intorno il cuscino e le
coperte, sperando di smorzare l'odore. Ma quando scese a colazione, vide
intorno alla tavola tante facce storte.
«Un topo morto, in qualche buco del muro» osservò il bibliotecario. «O
forse un ratto.»
«No,» replicò Mrs. Hammond «abbiamo scoperto questa mattina la fonte
del cattivo odore. Pare che venga dal terreno intorno alla pompa.»
Il preside sospirò. «Spero che non dovremo scavare un nuovo pozzo.»
Brooke aveva la faccia di chi non ha dormito tutta notte. Continuava a
distogliere nervosamente lo sguardo.
Sciamano, piuttosto sottosopra, si affrettò a recarsi alla sua lezione di chimi-
ca; doveva aspettare che tutti fossero usciti di casa. Quando la lezione fu finita,
invece di passare a quella su Shakespeare, si precipitò a casa, ansioso di
sistemare le cose. Ma quando salì le scale trovò Brooke e Mrs. Hammond e
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uno dei due poliziotti della città fermi davanti alla sua porta. Mrs. Hammond
aveva in mano la sua chiave.
Tutti guardarono Sciamano. «C'è qualcosa di morto là dentro?» chiese il
poliziotto.
Sciamano non riuscì a trovare le parole per rispondere.
«Mi ha detto che nascondeva nella sua stanza una donna» interloquì
Brooke.
Sciamano ritrovò la voce. «No, no» replicò, ma il poliziotto aveva preso la
chiave dalla mano di Mrs. Hammond e stava aprendo la porta.
Dentro Brooke cominciava a guardare sotto il letto, ma il poliziotto vide il
cuscino e le coperte e andò direttamente ad aprire il cassetto. «Un cane!»
esclamò sorpreso. «Tutto tagliato a pezzi.»
«Non una donna?» fece Brooke guardando Sciamano. «Mi avevi detto una
cagnetta!»
«Tu dici una cagnetta. Io ho detto catulam, la femmina del cane.»
«Mi dica, signore» intervenne il poliziotto. «Non c'è nient'altro di morto e
nascosto qui? Sul suo onore?»
«No, niente.» Mrs. Hammond lo guardò ma non disse una parola. Si preci-
pitò giù per le scale e dopo un attimo sentirono sbattere la porta d'entrata.
Il poliziotto sospirò. «Andrà subito all'ufficio del marito. E credo che do-
vremmo andarci anche noi.»
Sciamano annuì e lo seguì. Brooke gli rivolse uno sguardo di scusa per il
fazzoletto che si teneva sotto il naso.
«Vale» lo salutò Sciamano.
Fu sfrattato dalla casa del preside. Mancavano meno di tre settimane alla
fine del semestre e il professor Gardner gli permise di dormire su una branda
nel capanno del suo giardino. In compenso Sciamano vangò il giardino e piantò
un campicello di patate. Un giorno si prese un bello spavento per un serpente
che uscì da sotto certi vasi, ma quando accertò che era solo un'innocua biscia i
due convissero d'amore e d'accordo.
Riportò voti eccellenti, ma gli consegnarono una lettera chiusa da portare a
suo padre. Quando arrivò a casa, rimase seduto nello studio mentre suo padre la
leggeva. Sapeva quello che diceva. Il preside Hammond gli aveva già comuni-
cato che aveva ottenuto l'attestato di due anni di frequenza al college, ma era
sospeso per un anno, per consentirgli di maturare abbastanza da poter entrare in
una comunità universitaria. Se ritornava, doveva trovarsi un altro alloggio.
Suo padre terminò la lettura e lo guardò. «Hai imparato qualcosa da questa
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piccola avventura?»
«Sì, papà. Un cane è sorprendentemente simile a un essere umano nel suo
interno. Il cuore è molto più piccolo, naturalmente, è meno della metà, ma
appariva assai simile ai cuori umani che ti ho visto asportare e pesare nelle
autopsie. Lo stesso color mogano.»
«Non proprio mogano...»
«Be', rossiccio.»
«Si, rossiccio.»
«Anche i polmoni e il tratto intestinale sono simili. Ma non la milza: invece
di essere rotonda e compatta, era come una grossa lingua, di circa trenta centi-
metri, larga cinque centimetri e spessa due centimetri e mezzo.
«La vena aorta era rotta; questo è ciò che ha ucciso la bestiola. Secondo me
la cagnetta aveva perduto quasi tutto il sangue; ce n'era una quantità accumu-
lata nella cavità toracica.»
Suo padre lo guardava.
«Ho preso degli appunti. Se ti interessa, puoi leggerli.»
«Mi interessa molto» rispose Rob J. pensoso.
43
L'aspirante
Quella notte Sciamano rimase sdraiato senza dormire nel suo letto di funi
ormai un po' allentate, fissando le pareti: era una vista così familiare che dalle
variazioni del primo raggio di sole sulla loro superficie poteva indovinare la
stagione dell'anno. Suo padre gli aveva consigliato di trascorrere a casa l'anno
di sospensione. «Ora che hai imparato un po' di fisiologia, puoi essermi più
utile quando devo fare un'autopsia. Inoltre puoi darmi una mano nelle visite a
domicilio. E nel frattempo» aggiunse «potresti aiutare nei lavori della fattoria.»
Ben presto gli parve di non essersi mai allontanato da casa. Ma, per la prima
volta nella sua vita, il silenzio che lo avvolgeva gli dava un'impressione di
acuta solitudine.
Quell'anno i corpi dei suicidi e dei derelitti e degli indigenti senza famiglia
furono i suoi libri di testo, su cui imparò l'arte della dissezione. Nelle case dei
malati e dei feriti preparava strumenti e bende e osservava come suo padre
affrontava le esigenze delle varie situazioni. Sapeva che anche suo padre lo
osservava e si impegnava a star sempre pronto a imparare il nome degli stru-
menti e delle stecche e delle bende, per averli sottomano ancor prima che Rob
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J. li chiedesse.
Una mattina che avevano fermato il calesse lungo il fiume, per svuotare la
vescica, Sciamano disse al padre che voleva studiare medicina invece di torna-
re al Knox College al termine dell'anno di sospensione.
«Oh, perdio!» imprecò Rob J. e Sciamano con un amaro senso di delusione
lesse nel volto del padre che non aveva cambiato idea.
«Ma non mi capisci, ragazzo? Io cerco di risparmiarti un dolore. È chiaro
che tu hai un vero talento per la scienza. Termina il college e io ti manderò alle
migliori università che tu possa trovare, in qualunque parte del mondo. Puoi
insegnare, dedicarti alla ricerca. Credo che tu possa fare grandi cose.»
Sciamano scosse la testa. «Non mi importa di soffrire. Tu una volta mi
legasti le mani e mi privasti del cibo finché io non usai di nuovo la voce. Tu
cercavi di farmi migliore, non di evitarmi sofferenze.»
Rob J. sospirò e poi annuì. «Bene. Se tu hai deciso di fare il medico, puoi
far pratica con me.»
Ma Sciamano scosse la testa. «In questo modo tu faresti solo un'elemosina
al tuo figlio sordo. Cercheresti di trarre il meglio da un essere inferiore, contro
il tuo proprio giudizio.»
«Sciamano...» mormorò suo padre, oppresso.
«Io intendo studiare come hai studiato tu, a una scuola di medicina.»
«Questa è veramente una cattiva idea. Non credo che una buona scuola
possa accettarti; ci sono invece una quantità di scuole scadenti, che stanno
sorgendo ovunque, e quelle ti accetteranno. Accettano chiunque abbia denaro.
Ma sarebbe un grave errore cercare di studiare medicina in uno di quei posti.»
«Né io vorrei farlo.» Sciamano chiese al padre di dargli un elenco delle
migliori scuole di medicina che si trovassero a una distanza ragionevole dalla
valle del Mississippi.
Appena tornato a casa, Rob J. andò nel suo studio e compilò la lista, che
consegnò al figlio prima di cena, come se volesse cancellare l'argomento dalla
sua mente. Sciamano pose nuovo petrolio nella sua lampada e rimase seduto al
suo tavolino fin dopo mezzanotte, scrivendo lettere. Si preoccupò di precisare
che l'aspirante era sordo, non volendo andare incontro a sorprese spiacevoli.
Rob J. aveva letto gli appunti che Sciamano aveva preso quando aveva
sezionato il cane e li aveva trovati promettenti, anche se un po' rozzi. Gli
suggerì di consultare il suo schedario per imparare a tenere le registrazioni
anatomiche, e Sciamano vi si dedicava appena aveva tempo disponibile. Così,
fu per puro caso che gli capitò in mano il rapporto sull'autopsia di Makwa-
ikwa. Si sentiva stranamente sgomento leggendolo e pensando che, mentre
accadevano le cose terribili ivi descritte, lui stesso era un bambino addormen-
tato nel bosco a pochi metri di distanza.
«È stata violentata! Sapevo che era stata assassinata, ma...»
«Violentata e sodomizzata. Non sono cose che si raccontano a un bam-
bino.»
Era vero, certamente.
Lesse il referto più e più volte, sconvolto.
Undici ferite d'arma da taglio, in linea irregolare dalla gola allo sterno, e
fino a un punto circa due centimetri più in basso del processo xifoideo.
Ferite triangolari, larghe da 0,947 a 0,952 centimetri. Tre avevano raggiunto
il cuore, 0,887 centimetri, 0,799 centimetri, 0,803 centimetri.
«Perché le ferite avevano larghezze diverse?»
«Significa che l'arma era appuntita e diventava progressivamente più larga
verso l'impugnatura. Quanto più violento era il colpo, tanto più larga era la
ferita.»
«Credi che arresteranno l'assassino?»
«No, non credo» rispose suo padre. «Erano probabilmente in tre. Per molto
tempo ho interessato delle persone per cercare in lungo e in largo un tale
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Ellwood R. Patterson. Ma non si è trovata traccia di lui. Probabilmente era un
nome falso. C'era un uomo con lui, di nome Cough. Non ho mai sentito né
incontrato un uomo con questo nome. E ce n'era un altro più giovane, con una
voglia di vino in faccia, che zoppicava. Ero sempre in allarme ogni volta che
incontravo qualcuno con una voglia di vino o una gamba zoppa. Ma ho sempre
riscontrato o l'uno o l'altro difetto. Mai tutti e due insieme.
«Le autorità non si sono mai preoccupate di rintracciarli. E ora...» Si strinse
nelle spalle. «È passato troppo tempo. Troppi anni.» Sciamano avverti la
tristezza nelle parole del padre, ma capi che ormai la collera e la passione si
erano spente.
44
Lettere e note
Nella primavera del 1860 nacquero nell'allevamento dei Cole ben 49 agnelli
e l'intera famiglia fu impegnata per i parti difficili e la castrazione. «Il gregge
ogni primavera si fa più grosso» osservò Alden orgoglioso ma preoccupato.
«Lei mi dovrà dire che cosa vuol farne di questo mucchio di pecore.»
Le scelte erano limitate. Si potevano macellare solo pochi capi di bestiame.
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Nel vicinato la domanda di carne era scarsa, perché ogni colono si allevava i
suoi propri animali, e la carne si sarebbe guastata prima di essere portata in
città per la vendita. Si potevano trasportare e vendere animali vivi, ma era
un'operazione complicata che richiedeva tempo, lavoro e denaro. «La lana ha
molto valore, rispetto al suo peso» decise Rob J. «La cosa migliore è continua-
re ad aumentare il gregge e far denaro con la vendita della lana, come ha sem-
pre fatto la mia famiglia in Scozia.»
«Uh. Bene, ma allora ci sarà più lavoro che mai. Bisognerà assumere un
altro paio di braccia» osservò Alden a disagio, e Sciamano si chiese se Alex
aveva confidato al bracciante il suo desiderio di andarsene dalla fattoria. «Doug
Penfield sarebbe disposto a lavorare per lei a giornata. Così mi ha detto.»
«Pensi che sia in gamba?»
«Ma certo, viene dal New Hampshire. Non è lo stesso che venire dal
Vermont, ma quasi.»
Rob J. ammise che era quasi lo stesso e Doug Penfield fu assunto.
Lucille amava la pelle liscia e morbida delle sue mani, non sapendo che
erano così morbide perché per la maggior parte del tempo erano bagnate delle
secrezioni dei velli di pecora, ricchi di lanolina. La tosatura si prolungò fino a
maggio inoltrato. Sciamano, Alex e Alden sbrigavano la maggior parte del
lavoro, mentre Doug Penfield, pur desideroso di imparare, era assai impacciato
con le forbici. Perlopiù lo incaricavano di raccogliere e sgrassare la lana.
Quando veniva a lavorare, portava notizie del mondo esterno, compresa quella
che i repubblicani avevano scelto Abramo Lincoln come loro candidato alla
presidenza. Quando tutta la lana tosata fu raccolta e legata e impacchettata in
balle, appresero anche che i democratici, riuniti a Baltimora, dopo un accanito
dibattito avevano scelto Douglas. Dopo qualche settimana i democratici del
Sud convocarono una seconda assemblea democratica nella stessa città e de-
signarono un altro candidato alla presidenza, il vicepresidente John C. Breckin-
ridge, perché difendesse il loro diritto di possedere schiavi.
Localmente i democratici erano più uniti e ancora una volta avevano scelto
John Kurland, il procuratore di Rock Island, contro Nick Holden per il seggio
al Congresso. Nick era il candidato tanto del partito americano quanto dei
repubblicani e si dava un gran daffare a tener comizi in tutta la regione a soste-
gno di Lincoln, sperando di trovar posto sul carrozzone presidenziale. Lincoln
aveva accettato l'appoggio dei Know-Nothing e per questa ragione Rob J.
dichiarò che non poteva votare per lui.
Sciamano non riusciva a interessarsi molto alla politica. In luglio aveva
ricevuto un altro rifiuto dal Medical College di Cleveland, e per la fine
dell'estate era stato respinto anche dal College of Medicine dell'Ohio e
dall'Università di Louisville. Si disse, per consolarsi, che in fondo gli bastava
essere accettato da un solo istituto. Nella prima settimana di settembre, un
martedì che Lucille lo aveva aspettato invano, suo padre tornò a casa con la
295
posta e gli consegnò una lunga busta marrone, spedita dalla Scuola di Medicina
del Kentucky. Se la portò al fienile prima di aprirla e fu lieto di essere solo,
perché era un altro rifiuto. Si sdraiò nel fieno e cercò di non farsi vincere dal
panico.
Era ancora in tempo per andare a Galesburg e iscriversi al Knox College
come studente del terzo anno. Sarebbe stata una vita tranquilla, una routine
ormai familiare in cui si era trovato bene, aveva fatto progressi. Una volta
ottenuto il diploma di maturità, gli si sarebbero aperte prospettive interessanti,
poteva andare a studiare scienze sulla costa orientale. Magari persino in
Europa.
E se non tornava a Knox, e non poteva iscriversi a una scuola di medicina,
quale sarebbe stata la sua vita?
Ma non andò da suo padre a chiedergli di rimandarlo al college. Rimase a
lungo sdraiato nel fieno e, quando si alzò, prese una pala e una carriola e
cominciò a sgomberare il letame dalla stalla, un gesto che in se stesso era una
specie di risposta.
Fratellino,
abbi cura di questo coltello per me. Non vorrei perderlo. Ci vediamo
presto.
Alex
297
Rob J. si recò subito da Julian Howard, il quale ammise, un po' a disagio ma
in tono di sfida, che aveva accompagnato lui stesso i ragazzi a Rock Island con
il suo carro la sera prima, appena terminati i lavori della fattoria. «Non c'è
bisogno di arrabbiarsi, per amor di Dio! Sono ormai adulti, tutti e due, e in
fondo è solo una piccola avventura!»
Rob J. gli chiese a quale molo li aveva lasciati: erano le ultime parole che
avrebbe mai rivolto a Julian. Howard vide Rob J. Cole che incombeva su di lui
in tutta la sua alta e possente statura, sentì il freddo disprezzo nella voce
imperiosa del dottore e balbettò che li aveva lasciati vicino al pontile per
trasporto merci Tre Stelle.
Rob J. spronò immediatamente il cavallo verso il pontile, contando su una
probabilità, benché minima, di poterli riportare a casa. Se ci fosse stata la bassa
temperatura di altri inverni, forse avrebbe avuto più fortuna: ma il fiume non
era ghiacciato e il traffico era intenso. Il direttore della compagnia di trasporti
lo guardò sorpreso quando Rob J. gli chiese se aveva notato due giovani che
cercavano lavoro su una delle chiatte o dei barconi che scendevano a valle.
«Signore, ieri avevamo 72 imbarcazioni che caricavano o scaricavano a
questo pontile, e siamo in bassa stagione, e siamo solo una delle compagnie di
trasporto del Mississippi. E la maggior parte di queste barche assoldano dei
giovani che sono scappati di casa, e allora come faccio a ricordarmi di
ognuno?» gli rispose pazientemente.
Sciamano pensò che gli Stati del Sud si stavano staccando esplosivamente
come il popcorn da una padella infuocata. Sua madre, sempre con gli occhi ros-
si, passava il suo tempo pregando e suo padre faceva le sue visite a domicilio
senza sorridere. A Rock Island uno dei negozi di alimentari ritirò la maggior
parte della merce nel retrobottega e affittò metà dello spazio a un reclutatore
dell'esercito. Anche Sciamano ci passò una volta, pensando che forse, se tutto il
resto gli falliva nella vita, poteva impiegarsi come barelliere, alto e forte
com'era. Ma il caporale che registrava i volontari alzò comicamente le
sopracciglia appena sentì che era sordo, e gli disse di tornarsene a casa.
Con tanta parte del mondo che andava in rovina, non aveva diritto di afflig-
gersi tanto per i casi della sua vita. Il secondo martedì di gennaio suo padre
portò a casa una lettera, e un'altra il venerdì successivo. Questa volta suo padre
lo sorprese: sapeva di avergli raccomandato nove scuole e aveva tenuto conto
delle nove lettere di risposta. «Questa è l'ultima, vero?» gli chiese quella sera
dopo cena.
«Si, dal Medical College del Missouri. Un rifiuto» rispose Sciamano, e suo
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padre annuì.
«Ma questa è la lettera che è arrivata martedì» aggiunse Sciamano tirandola
fuori di tasca. Veniva dal preside Lester Nash Berwyn, dell'Istituto di Medicina
del Policlinico di Cincinnati. Lo ammetteva come studente a condizione che
portasse a termine con successo il trimestre iniziale come periodo di prova.
L'istituto, aggregato al Southwestern Ohio Hospital di Cincinnati, offriva un
corso biennale di studi che portava alla laurea di dottore in medicina, quattro
trimestri l'anno. Il prossimo trimestre doveva cominciare il 24 gennaio.
Sciamano avrebbe dovuto provare la gioia della vittoria ma sapeva che il
padre stava fissando le parole "a condizione" e "periodo di prova" e si preparò
a uno scontro. Dopo la partenza di Alex c'era bisogno di lui alla fattoria, ma era
ben deciso a sfuggire a quell'obbligo, ad afferrare la sua grande occasione. Per
diverse ragioni, alcune anche egoistiche, era in collera con suo padre che aveva
lasciato partire il fratello. Era in collera con suo padre perché era così male-
dettamente sicuro che Dio non esisteva, e perché non si rendeva conto che
molti uomini non erano abbastanza forti da essere pacifisti.
Ma quando Rob J. alzò gli occhi dalla lettera, Sciamano vide il suo sguardo
e la sua bocca. L'idea che il dottor Cole non era invulnerabile gli entrò in cuore
come una freccia.
«Alex non sarà ferito, tornerà sano e salvo!» gridò, ma sapeva che non era
l'onesta affermazione di un uomo responsabile. Malgrado le esperienze della
stanza con il manichino dalle natiche d'avorio, e malgrado l'arrivo della lettera
da Cincinnati, capiva che era solo l'inutile speranza di un ragazzo disperato.
PARTE QUINTA
Una lite in famiglia
(24 gennaio 1861)
45
Al Policlinico
299
e Sciamano ne poteva immaginare il frastuono.
Un tram a cavalli lo portò dalla stazione alla Terra Promessa nella Ninth
Street. Il Southwestern Ohio Hospital era composto da una coppia di edifici di
mattoni rossi, ognuno di tre piani, e da un lazzaretto a intelaiatura di legno, alto
due piani. Dall'altra parte della strada, in un altro edificio di mattoni
sormontato da una cupola vetrata, si trovava l'Istituto di Medicina del
Policlinico di Cincinnati.
Dentro l'edificio dell'istituto Sciamano vide una serie di aule e sale di
conferenza piuttosto disadorne. Chiese a uno studente dove fosse l'ufficio del
preside e gli fu indicata una scala di legno che portava al secondo piano. Il
dottor Berwyn era un uomo cordiale, di mezza età, con baffi bianchi e una testa
calva che riluceva debolmente alla luce attenuata delle alte finestre polverose.
«Ah, così lei è Cole.»
Fece cenno a Sciamano di sedere. Segui un breve discorso sulla storia
dell'Istituto di Medicina, sulle responsabilità di un buon medico e sulla necessi-
tà di un rigoroso sistema di studi. Sciamano capi istintivamente che quell'acco-
glienza era un discorso fisso, recitato a ogni nuovo studente, ma questa volta
c'era un finale destinato solo a lui. «Tu non devi farti scoraggiare dal fatto di
essere qui a una determinata condizione. In un certo senso, ogni studente qui è
in prova e deve dimostrarsi degno del nostro istituto.»
In un certo senso. Sciamano avrebbe scommesso che non tutti gli studenti
venivano informati per lettera del fatto di essere ammessi "a condizione".
Tuttavia ringraziò educatamente il preside. Il dottor Berwyn gli indicò il
dormitorio, un edificio a due piani, nascosto dietro l'Istituto di Medicina. Una
bacheca con il piano del dormitorio, appesa nell'atrio, lo informò che Cole,
Robert J., era alloggiato nella stanza 2B, insieme con Cooke, Paul P.;
Torrington, Ruel; e Henreid, William.
La 2B era una piccola stanza, interamente riempita da due cuccette doppie,
due cassettoni e un tavolo con quattro sedie, una delle quali era allora occupata
da un giovane grassoccio che stava scrivendo in un taccuino e si interruppe di
colpo quando Sciamano entrò.
«Salve, sono P.P. Cooke, di Xenia. Billy Henreid è andato a prendere i suoi
libri. Così tu devi essere o Torrington del Kentucky o il ragazzo sordo.»
Sciamano rise, e si sentì subito a suo agio. «Sono il ragazzo sordo» rispose.
«Salve, Paul, posso darti del tu?»
Diverse ore dopo il professor Barnett Alan McGowan era seduto alla sua
scrivania, nel laboratorio di dissezione della scuola e trascriveva appunti in
schede permanenti. Tutte le registrazioni trattavano di morte, poiché il dottor
McGowan raramente aveva a che fare con un paziente vivo. Dato che la gente
di solito considerava la morte come un evento non troppo felice, il professore si
era abituato a vedersi assegnare per il suo lavoro dei locali lontani dagli occhi
del pubblico. All'ospedale, dove il dottor McGowan era primario patologo, la
stanza di dissezione si trovava nel seminterrato dell'edificio principale. Anche
se era una posizione comoda da raggiungere attraverso la galleria sotterranea,
rivestita di mattoni, che correva sotto la strada fra l'ospedale e l'Istituto di
Medicina, era un posto squallido, reso ancor più tetro dai tubi che
attraversavano il basso soffitto.
Il laboratorio di anatomia della scuola si trovava sul retro dell'edificio, al
secondo piano, e si raggiungeva attraverso il corridoio e una scala separata.
Un'alta finestra senza tende lasciava passare la plumbea luce invernale nella
lunga e stretta stanza. Di fronte alla cattedra del professore si apriva un piccolo
anfiteatro, con i suoi semicerchi di banchi ascendenti, troppo stretti per essere
comodi, ma adatti alla concentrazione. Dall'altra parte c'era una triplice fila di
tavoli da dissezione destinati agli studenti. Al centro della stanza si trovava una
grande vasca piena di membra umane in soluzione salina e un tavolo con una
serie di strumenti per dissezione. In un angolo, su una larga tavola di legno
sorretta da cavalletti, giaceva il corpo di una giovane donna, coperto da un
lenzuolo bianco e pulito. Il professore stava appunto riportando nei registri i
dati riguardanti questo corpo.
Venti minuti prima dell'inizio della lezione entrò nel laboratorio uno
studente solitario. Il professor McGowan non alzò gli occhi né salutò lo
studente: intinse la penna nell'inchiostro e continuò a scrivere mentre lo studen-
te si dirigeva verso il posto centrale della prima fila e se lo accaparrava lascian-
dovi un quaderno. Ma non si sedette e cominciò invece a girare per il labora-
torio, osservando con attenzione.
Si fermò vicino alla vasca di soluzione salina e con grande stupore del
dottor McGowan prese l'asta di legno con l'uncino di ferro e cominciò a
pescare fra le membra umane, come un ragazzino che giocasse in uno stagno.
303
Erano diciannove anni che il dottor McGowan teneva regolarmente la prima
lezione di anatomia del corso, e non gli era mai capitato di vedere qualcuno che
si comportasse in quel modo. I nuovi studenti venivano alla loro prima lezione
di anatomia pieni di soggezione e infausti presentimenti. Di solito cammina-
vano lentamente, spesso erano veramente spaventati.
«Ehi, tu! Fermati subito e metti giù quell'uncino» ordinò McGowan.
Il giovane non diede segno di aver udito, neppure quando il professore batté
forte le mani e McGowan capì di colpo chi era lo studente. Fece per alzarsi, ma
poi si rimise a sedere, curioso di vedere come andava a finire la cosa.
Il giovane muoveva l'uncino scegliendo fra gli arti nella soluzione salina.
Per la maggior parte erano vecchi e molti erano già stati sezionati da studenti di
altre classi. La loro condizione generale di mutilazione e decomposizione era
l'elemento chiave nel trauma di una prima lezione di anatomia. McGowan vide
il giovane portare in superficie una mano con il polso, poi una gamba tutta
lacera. Infine un avambraccio con la sua mano, che evidentemente era in
condizioni migliori degli altri pezzi. Osservò che con l'uncino portava l'esem-
plare desiderato nell'angolo destro della vasca e poi lo copriva con diversi altri
pezzi in pessime condizioni. Lo nascondeva!
Subito il giovane depose l'asta uncinata dove l'aveva trovata e si accostò al
tavolo, dove cominciò a esaminare i bisturi per vedere se fossero abbastanza
affilati. Quando ne trovò uno di suo gradimento, lo spostò leggermente e tornò
all'anfiteatro a prendere il suo posto.
McGowan decise di ignorarlo e per i dieci minuti successivi continuò a
lavorare alle sue registrazioni. Intanto gli studenti cominciavano ad arrivare
nell'aula e a prender posto. Molti erano già pallidi, perché nel laboratorio
aleggiavano odori che fomentavano le loro fantasie e le loro paure.
Esattamente all'ora stabilita il dottor McGowan depose la penna e avanzò di
fronte alla cattedra. «Signori» pronunciò.
Quando si fece silenzio, si presentò. «In questo corso studieremo i morti
allo scopo di conoscere e aiutare i vivi. Le prime registrazioni su questi studi
risalgono agli antichi Egizi, che sezionavano i corpi degli infelici uccisi nei
sacrifici umani. Gli antichi Greci sono i veri padri della ricerca fisiologica.
C'era una grande scuola di medicina ad Alessandria, dove Erofilo di Calcedo-
nia studiava gli organi e le viscere umane. Fu lui che diede il nome al calamo
scrittorio e al duodeno.»
Il dottor McGowan si avvide che gli occhi del giovane seduto al centro della
prima fila non lasciavano mai la sua bocca: pendevano letteralmente dalle sue
labbra.
304
Parlò elegantemente della scomparsa degli studi anatomici nel vuoto
superstizioso del Medioevo e della loro rinascita dopo il 1300.
L'ultima parte della sua lezione spiegava che, dopo la dipartita dello spirito
vitale, i ricercatori dovevano trattare il corpo umano senza paura, ma con
rispetto. «Quando ero studente in Scozia il mio professore paragonava il corpo
senza vita a una casa abbandonata dal suo proprietario. Diceva che il corpo
doveva essere maneggiato con cura, per rispetto verso l'anima che ivi era
vissuta.» McGowan fu leggermente seccato al vedere che il giovane nella
prima fila sorrideva.
Ordinò agli studenti di prendere ciascuno un esemplare dalla vasca della
soluzione salina e un bisturi: dovevano sezionare il pezzo anatomico e tracciare
un disegno di ciò che vedevano, da consegnare a lui prima di lasciare l'aula.
Durante la prima lezione, c'era sempre un attimo di esitazione, come una
riluttanza a mettersi all'opera. Il giovane che era arrivato per tempo fu di nuovo
il primo: si alzò subito e si diresse alla vasca per trarne il pezzo che aveva
messo da parte e il bisturi più affilato. Mentre gli altri stavano ancora girando
intorno alla vasca, lui era già all'opera al suo tavolo, che era quello con la
luce più favorevole.
Il dottor McGowan si rendeva conto delle tensioni della prima lezione di
anatomia. Era abituato al tanfo dolciastro che usciva dalla vasca, ma ne
conosceva gli effetti sui non iniziati. Sapeva che alcuni degli studenti avevano
un compito difficile, perché molti degli esemplari erano in così cattive
condizioni che era quasi impossibile sezionarli a dovere e tracciarne un disegno
preciso e ne teneva conto. Quel primo esercizio era un cimento, il battesimo del
fuoco per le nuove reclute. Una sfida alle loro capacità di affrontare situazioni
ostili e sgradevoli, e un aspro ma necessario ammonimento che la pratica
della medicina era qualcosa di più che riscuotere alti onorari e godere di una
posizione di rispetto e prestigio nella società.
Dopo qualche minuto diversi giovani avevano lasciato l'aula, e uno di essi
era corso fuori in gran furia. Con soddisfazione del dottor McGowan, tutti alla
fine rientrarono. Per quasi un'ora passeggiò fra i tavoli di dissezione, control-
lando i loro progressi. Vi erano fra loro diversi uomini maturi, che avevano già
praticato la professione di medico, dopo qualche anno di tirocinio: e questi non
ebbero a provare la nausea degli altri studenti. Il professor McGowan sapeva
per esperienza che alcuni sarebbero diventati eccellenti dottori; ma osservò uno
di loro, tale Ruel Torrington, che squarciava a gran colpi una spalla, e sospirò
pensando al terrificante genere di chirurgia che quell'uomo doveva essersi
lasciato alle spalle.
305
Si fermò un attimo di più accanto all'ultimo tavolo, dove un ragazzo grasso
con la faccia stillante sudore lottava con una testa che era quasi un teschio.
Di fronte al ragazzo grasso lavorava lo studente sordo. Dimostrava una
buona esperienza e aveva maneggiato bene il bisturi per aprire il braccio in
tanti strati. Il suo lavoro rivelava una conoscenza dell'anatomia di cui
McGowan fu compiaciuto e insieme sorpreso, notando con quanta precisione le
articolazioni, i muscoli, i nervi e i vasi sanguigni erano riprodotti nel disegno, e
indicati con i rispettivi nomi. Mentre lo stava osservando, il giovane scrisse il
suo nome sul foglio del disegno e glielo consegnò. Cole, Robert J.
«Bene. Ah, Cole, in futuro scrivi un po' più in grande.»
«Si, signore» rispose lo studente con voce chiara. «C'è altro?»
«No. Puoi rimettere il tuo pezzo nella vasca e ripulire il tavolo. Poi potrai
andare.»
Una mezza dozzina di altri studenti vennero a consegnare i loro disegni al
professore, ma ognuno fu rimandato indietro con qualche suggerimento per
correggere il disegno o migliorare la dissezione.
Mentre parlava con gli studenti, McGowan osservò il giovane Cole che
rimetteva il pezzo nella vasca, poi lavava e asciugava il bisturi prima di
ricollocarlo sul tavolo. Quindi Cole portò un secchio d'acqua al tavolo di
dissezione e lavò energicamente la parte su cui aveva lavorato, infine prese un
pezzo di sapone scuro e acqua pulita e si lavò con cura le mani e le braccia
prima di srotolare le maniche che aveva rimboccato.
Nell'uscire il giovane Cole si fermò accanto al ragazzo grasso e osservò il
suo disegno. Il dottor McGowan lo vide chinarsi e mormorare qualcosa. Sul
viso angosciato dell'altro comparve un'ombra di sollievo, e annuì quando Cole
gli batté amichevolmente sulla spalla. Poi lo studente grasso si rimise al lavoro
e lo studente sordo lasciò l'aula.
46
307
Era in programma un esame di pratica clinica. Ogni studente doveva visitare
un paziente usando lo stetoscopio e fare una relazione. Sciamano si rese conto
che sarebbe stato respinto.
In una fredda mattina indossò cappotto e guanti, si mise una sciarpa intorno
al collo e uscì dalla scuola per fare un giro in città. A un angolo un ragazzo
vendeva giornali che parlavano dell'insediamento di Lincoln. Sciamano si
diresse al fiume e si mise a camminare lungo i moli, immerso nei suoi pensieri.
Al ritorno entrò nell'ospedale e si aggirò per le corsie, osservando attenta-
mente gli inservienti e gli infermieri. Per la maggior parte erano uomini, e
molti erano degli ubriaconi che erano finiti a lavorare all'ospedale perché i
livelli professionali erano bassi. Sciamano osservò quelli che sembravano sobri
e intelligenti e infine ne trovò uno, Jim Halleck, che poteva servire ai suoi
scopi. Aspettò che l'inserviente portasse una bracciata di legna e la scaricasse a
terra vicino alla stufa, e gli si avvicinò.
«Ho una proposta da farle, Mr. Halleck.»
47
I giorni di Cincinnati
La risposta del padre di Sciamano arrivò a Cincinnati solo otto giorni prima
della fine del semestre, ma in tempo per consentirgli di accettare il lavoro
all'ospedale per l'estate.
Rob J. non ricordava McGowan, ma era lieto che Sciamano studiasse pato-
logia con un altro scozzese che aveva imparato l'arte e la scienza della
dissezione da William Fergusson. Chiese al figlio di portare i suoi ossequi al
professore, insieme con il suo consenso perché Sciamano lavorasse all'ospe-
dale.
La lettera era affettuosa ma breve, e da quella laconicità Sciamano indovinò
che suo padre era triste. Non si avevano notizie di Alex e a ogni fase della
guerra sua madre era sempre più oppressa dall'angoscia.
48
Un viaggio in barca
Rob J. si rendeva conto che tanto Jefferson Davis quanto Abramo Lincoln
erano arrivati al potere contribuendo a distruggere il popolo sauk nella guerra
di Falco Nero. Davis, da giovane tenente, aveva personalmente condotto Falco
Nero e lo sciamano Nuvola Bianca da Fort Crawford lungo il Mississippi fino
alle caserme Jefferson, dove erano stati imprigionati e incatenati. Lincoln
aveva combattuto contro i Sauk con la milizia volontaria, sia come soldato
semplice sia come capitano. Ora ciascuno di questi due uomini rispondeva al
titolo di Mister President e stavano guidando una metà della nazione americana
contro l'altra metà.
318
Rob J. avrebbe desiderato restar fuori dall'insensato agitarsi del mondo, ma
era sperare troppo. La guerra infuriava da sei settimane quando Stephen Hume
venne a Holden's Crossing a trovarlo. L'ex deputato gli disse francamente che
aveva usato tutta la sua influenza per ottenere la carica di colonnello nell'eser-
cito degli Stati Uniti. Si era dimesso da consulente legale della Compagnia
Ferroviaria a Rock Island per organizzare il 102° Reggimento Volontari
dell'Illinois, e veniva a offrire al dottor Cole il posto di chirurgo del reggi-
mento.
«Non è cosa per me, Stephen.»
«Dottore, va bene opporsi all'idea di guerra in astratto, ma ora siamo davanti
alla realtà concreta, e ci sono buone ragioni per cui questa guerra debba essere
combattuta.»
«... Io non credo che uccidere un mucchio di gente sia il mezzo giusto per
cambiare le opinioni degli uomini sulla schiavitù o sulla libertà di commercio.
Comunque, lei ha bisogno di qualcuno più giovane e più snello. Io ho quaranta-
quattro anni e ho messo su pancia.» Era vero che era ingrassato. Quando gli
schiavi fuggiaschi arrivavano al suo nascondiglio, Rob J. aveva preso l'abitudi-
ne di infilarsi del cibo in tasca quando passava per la cucina - una patata dolce
al forno, un pezzo di pollo fritto, un paio di ciambelle - per nutrirli. Ora conti-
nuava a prendersi il cibo, ma lo mangiava lui stesso in sella, come conforto alle
lunghe cavalcate.
«Oh, ma io ho bisogno di lei, dottore, così com'è, grasso o magro che sia»
replicò Hume. «In questo momento, in tutto il dannato esercito abbiamo solo
90 ufficiali medici. Ci sono per lei grandi possibilità. Lei entrerà come capitano
e diventerà ben presto maggiore. Un dottore come lei, destinato a far carriera!»
Rob J. scosse la testa. Ma aveva simpatia per Hume e gli porse la mano. «Le
auguro di tornare sano e salvo, colonnello.»
Hume fece un sorrisetto di disappunto e gli strinse la mano. Pochi giorni
dopo Rob J. sentì dire all'emporio che Tom Beckermann era stato nominato
chirurgo del 102°.
Per tre mesi entrambe le parti avevano preso la guerra alla leggera, come un
gioco, ma a luglio fu chiaro che si stava delineando uno scontro di grandi pro-
porzioni. Molti erano ancora convinti che la faccenda si sarebbe rapidamente
risolta: ma quella prima battaglia fu una brusca rivelazione per la nazione in-
tera. Rob J. leggeva i resoconti dei giornali non meno avidamente dei guerra-
fondai.
Più di 30.000 soldati dell'Unione al comando del generale Irvin McDowell
319
erano schierati contro 20.000 confederati sotto il generale Pierre G.T. Beau-
regard a Manassas, Virginia, 38 chilometri a sud di Washington. Altri 11.000
confederati agli ordini del generale Joseph E. Johnston fronteggiavano nella
valle dello Shenandoah un'altra armata dell'Unione forte di 14.000 uomini,
guidata dal generale Robert Patterson. Calcolando che Patterson avrebbe tenuto
impegnato Johnston, il 21 luglio McDowell sferrò l'attacco contro i sudisti
presso Sudley Ford, sul torrente Bull Run.
Ma non fu un attacco a sorpresa.
Poco prima che McDowell attaccasse, Johnston si sottrasse abilmente alla
stretta di Patterson e congiunse le sue forze con quelle di Beauregard. Il piano
strategico dei nordisti era così largamente conosciuto che deputati e funzionari
erano accorsi da Washington a Manassas, con le mogli e i figli, a cavallo o in
carrozza, e avevano imbandito lauti picnic in attesa di godersi lo spettacolo
come se fosse una famosa corsa podistica. L'esercito aveva assunto dozzine di
civili con carri e cavalli che dovevano servire come ambulanze, in caso ci
fossero stati feriti. Molti dei guidatori di ambulanze si erano portati al picnic
generose provviste di whisky.
Mentre questo pubblico osservava affascinato, i soldati di McDowell si get-
tarono sulle forze unite dei confederati. La maggior parte degli uomini, da
entrambe le parti, erano nuove reclute male addestrate, che combattevano con
più zelo che perizia. I cittadini-soldati dei confederati si ritirarono di qualche
chilometro e poi si fermarono e mantennero le posizioni, lasciando che i nor-
disti si logorassero in diversi assalti frenetici. Poi, Beauregard comandò il con-
trattacco. Le truppe federali, esauste, cedettero e volsero le spalle. Ben presto la
ritirata si tramutò in una disfatta.
La battaglia non era stata quel che il pubblico si era aspettato; il fragore del
fuoco di fucileria e di artiglieria, unito alle grida degli uomini, era terribile, la
vista era ancora peggiore. Invece di uno spettacolo sportivo, avevano davanti
agli occhi il trasformarsi di uomini vivi in corpi squarciati, sventrati, mutilati.
Migliaia di morti. Alcuni dei civili svenivano, altri piangevano. Tutti cercavano
di fuggire, ma una bomba squarciò un carro e uccise il cavallo, bloccando la
principale via di ritirata. I guidatori civili delle ambulanze, ubriachi o no, per la
maggior parte erano fuggiti terrorizzati con i carri vuoti. I pochi che cercavano
di raccogliere i feriti si trovavano infognati in un mare di veicoli civili e di
cavalli imbizzarriti. I feriti gravi rimanevano sul campo di battaglia urlando e
gemendo finché morivano. Alcuni di quelli soccorsi dalle ambulanze non arri-
varono a Washington che dopo parecchi giorni.
A Holden's Crossing la vittoria dei confederati diede animo ai simpatizzanti
320
sudisti. Rob J. era più angosciato per la criminale negligenza verso i caduti che
per la sconfitta. Al principio dell'autunno si seppe che la battaglia di Bull Run
aveva fatto quasi cinquemila vittime fra morti, feriti e dispersi, e molte vite
erano andate perdute per mancanza di cure.
Una sera lui e Jay Geiger erano seduti nella cucina dei Cole e badavano a
evitare l'argomento della battaglia. Parlavano con un certo imbarazzo della no-
tizia che il cugino di Lillian Geiger, Judah P. Benjamin, era stato nominato
segretario di Guerra del governo confederato. Ma erano completamente d'ac-
cordo sulla crudele idiozia degli eserciti che non salvavano i propri feriti.
«Per quanto sia difficile,» affermò Jay «non dobbiamo permettere che
questa guerra distrugga la nostra amicizia.»
«No, naturalmente!»
Forse non l'avrebbe distrutta, pensò Rob J., ma la loro amicizia era già stata
intaccata. Rimase sorpreso quando Geiger, prima di tornare a casa, lo abbracciò
stretto, come un innamorato. «Io considero i tuoi familiari come i miei» ag-
giunse Jay. «Non c'è nulla che non farei per assicurare il loro benessere.»
Il giorno dopo Rob J. comprese il significato di quell'addio di Jason, quando
Lillian, seduta con gli occhi asciutti nella cucina dei Cole, li informò che
all'alba suo marito era partito per il Sud, per arruolarsi come volontario nell'e-
sercito dei confederati.
A Rob J. parve che il mondo intero fosse diventato scuro come il grigio dei
confederati. Malgrado tutte le sue cure Julia Blackmer, la moglie del pastore,
morì sfinita dalla tosse poco prima che l'aria invernale si facesse gelida. Al
cimitero il pastore pianse recitando le preghiere dei morti, e quando la prima
palata di terra e pietre cadde con un tonfo sordo sulla bara di Julia, Sarah
strinse la mano di Rob J. così forte da fargli male. I membri del gregge di
Lucian Blackmer si unirono per confortare e sorreggere il loro pastore nei
giorni che seguirono, e Sarah organizzò le donne in modo che al reverendo non
mancasse mai una compagnia comprensiva o un pasto ben preparato. A Rob J.
sembrava che il pastore avrebbe dovuto desiderare un po' di solitudine e di
raccoglimento nel suo dolore, ma il reverendo Blackmer appariva grato di tutte
quelle premure.
Prima di Natale Madre Miriam Ferocia confidò a Rob J. di aver ricevuto
una lettera da uno studio legale di Francoforte che le comunicava la morte del
padre, Ernst Brotknecht. Il testamento disponeva la vendita delle due fabbriche
di carri e vagoni ferroviari a Francoforte e a Monaco, e una considerevole
somma di denaro spettava alla figlia, Andrea Brotknecht.
321
Rob J. le espresse le sue condoglianze per la morte del padre, che la monaca
non vedeva da molti anni, e aggiunse: «C'è almeno un lato positivo. Madre
Miriam, lei è ricca!».
«No» rispose lei tranquillamente: aveva promesso, quando aveva preso
l'abito, di donare tutti i suoi beni terreni alla Santa Madre Chiesa. Aveva già
firmato i documenti per la cessione dell'eredità all'amministrazione fiduciaria
del suo arcivescovo.
Rob J. ne fu irritato. In quegli anni, dolente di veder soffrire le monache,
aveva fatto una serie di piccoli doni alla loro comunità. Aveva osservato la
rigorosa disciplina della loro vita, il severo razionamento e la mancanza di ogni
cosa che potesse essere considerata un lusso. «Un po' di denaro sarebbe una
benedizione per le suore del convento. Se lei non può accettarlo per sé,
potrebbe pensare alle sue monache.»
Ma Madre Ferocia rimase inflessibile. «La povertà è una parte essenziale
delle loro vite» affermò e gli fece un irritante cenno di cristiana sopportazione
quando Rob J. salutò un po' bruscamente e se ne andò.
Dopo la partenza di Jason la vita di Rob J. aveva perduto un po' del suo
calore. Avrebbe potuto continuare a far musica con Lillian, ma il pianoforte e
la viola da gamba parevano stranamente aridi e incompleti senza la melodia del
violino che ne fondeva i suoni, ed entrambi trovarono scuse per evitare di
suonare da soli.
La prima settimana del 1862, in un momento in cui si sentiva partico-
larmente depresso, Rob J. fu lieto di ricevere una lettera di Harry Loomis da
Boston, accompagnata dalla traduzione di un articolo pubblicato a Vienna
diversi anni prima da un medico ungherese di nome Ignàc F. Semmelweis.
L'articolo, intitolato Eziologia, sviluppo e profilassi della febbre puerperale,
veniva in sostanza a suffragare l'opera compiuta in America da Oliver Wendell
Holmes. All'Ospedale Centrale di Vienna Semmelweis aveva concluso che la
febbre puerperale, che uccideva dodici madri su cento, era contagiosa. E rive-
lava, come appunto aveva fatto Holmes qualche decennio prima, che i dottori
stessi diffondevano il morbo perché non si lavavano le mani.
Harry Loomis scriveva che seguiva con crescente interesse gli studi miranti
a prevenire l'infezione nelle ferite e nelle operazioni chirurgiche. Chiedeva se
Rob J. era al corrente delle ricerche del dottor Milton Akerson, che si occupava
di questi problemi all'ospedale della Valle del Mississippi a Cairo, nell'Illinois;
località, aggiungeva Harry, che non doveva essere molto lontana da Holden's
Crossing.
322
Rob J. non aveva notizie del lavoro del dottor Akerson, ma sentì subito il
bisogno di recarsi a Cairo per informarsi. Per molti mesi non ne ebbe la possi-
bilità: era continuamente a cavallo in mezzo alla neve per le sue visite a
domicilio. Infine, con le prime piogge di primavera, la situazione si fece più
calma. Madre Miriam gli assicurò che lei e le sue suore avrebbero tenuto
d'occhio i suoi pazienti e Rob J. annunciò che intendeva recarsi a Cairo per una
breve vacanza. Il 9 aprile, un mercoledì, montò in sella e spinse Boss per il fan-
go delle strade fino a Rock Island, dove collocò il cavallo a pensione in una
stalla; poi al crepuscolo si imbarcò su una chiatta di tronchi che scendeva per il
Mississippi. Per tutta la notte navigò sul fiume, abbastanza comodo nella
baracca della chiatta, dormendo sui tronchi accanto alla stufa del cuoco.
Quando, la mattina dopo, sbarcò a Cairo, si sentiva tutto rigido e indolenzito, e
continuava a piovere.
Cairo era in condizioni pietose: campi inondati e molte strade invase dal-
l'acqua. Rob J. fece un'accurata toilette in una locanda, dove gli fu servita una
mediocre colazione, quindi si recò all'ospedale. Il dottor Akerson era un ometto
basso e occhialuto, di carnagione scura, con grossi baffi che attraverso le guan-
ce andavano a congiungersi ai capelli vicino agli orecchi: era la deplorevole
moda lanciata da Ambrose Burnside, che a capo della sua brigata aveva sferra-
to il primo attacco contro i confederati nella battaglia del Bull Run.
Il dottor Akerson lo accolse con molta cortesia, visibilmente compiaciuto
che le sue ricerche avessero attirato l'attenzione dei colleghi fino a Boston.
Nelle sue corsie aleggiava l'aspro odore dell'acido cloridrico, la sostanza da lui
impiegata per combattere le infezioni che così spesso provocavano la morte dei
feriti. Rob J. notò che l'odore della soluzione, che Akerson chiamava "disin-
fettante", mascherava in certa misura le sgradevoli emanazioni delle corsie, ma
era irritante per il naso e gli occhi.
Ben presto si avvide che il chirurgo di Cairo non aveva scoperto una cura
miracolosa.
«Qualche volta sembra che si possa ottenere un beneficio trattando le ferite
con acido cloridrico. Altre volte...» Il dottor Akerson si strinse nelle spalle.
«Pare che non funzioni.»
Aveva fatto diversi esperimenti, spruzzando acido cloridrico nella sala
operatoria e nelle corsie, ma poi aveva smesso perché i vapori dell'acido
rendevano difficile il vedere e il respirare. Ora si limitava a impregnare le
bende di acido e porle direttamente sulle ferite. Riteneva che la cancrena e altre
infezioni fossero provocate da corpuscoli di pus sospesi nell'aria come un
polverio, e che le bende impregnate di acido li tenessero lontani dalle ferite.
323
Un inserviente arrivò con un vassoio carico di bende, e una cadde sul
pavimento. Il dottor Akerson la raccolse, spazzò via un po' di sudiciume con la
mano e la mostrò a Rob. Era una comunissima benda fatta di tela di cotone e
impregnata di acido cloridrico. Dopo che l'ospite l'ebbe osservata, il chirurgo la
ripose in mezzo alle altre. «Peccato che non si possa capire perché talvolta
funziona e talvolta no» osservò sospirando.
Furono interrotti da un giovane medico che veniva a chiamare il dottor
Akerson perché Robert Francis, rappresentante della Commissione Sanitaria
degli Stati Uniti, aveva chiesto di vederlo «per un affare urgente».
Robert Francis li aspettava ansiosamente nel corridoio. Rob J. conosceva e
approvava la Commissione Sanitaria, un'organizzazione civile istituita per
raccogliere fondi e reclutare personale per la cura dei feriti. Ora Francis li
informò frettolosamente che c'era stata una violenta battaglia di due intere
giornate a Pittsburg Landing, Tennessee, 45 chilometri a nord di Corinth,
Mississippi. «Le perdite sono spaventose, molto più gravi che a Bull Run.
Abbiamo radunato dei volontari per fungere da infermieri, ma siamo dispera-
tamente a corto di medici.»
«La guerra ci ha tolto la maggior parte dei nostri medici» replicò Akerson
con espressione afflitta. «Non c'è nessuno che possa lasciare l'ospedale.»
Rob J. non esitò. «Io sono medico, Mr. Francis. Posso venire.»
Con tre altri medici venuti dalle città vicine e quindici civili che non ave-
vano mai fatto gli infermieri Rob J. salì a bordo del battello City of Louisiana a
mezzogiorno, nell'umida caligine che copriva il fiume Ohio. Alle cinque del
pomeriggio raggiunsero Paducah, nel Kentucky, ed entrarono nel fiume
Tennessee. Fu un lungo viaggio di 350 chilometri sul Tennessee. Nel buio della
notte, senza vedere e senza essere visti, oltrepassarono Fort Henry, che Ulysses
S. Grant aveva occupato solo un mese prima. Per tutto il giorno successivo
passarono accanto a città affacciate sul fiume, a moli carichi di merci, a campi
allagati. Era quasi buio quando, alle cinque del pomeriggio, arrivarono a
Pittsburg Landing.
Nel porto Rob J. contò 24 navi a vapore, fra cui due cannoniere. Quando i
medici sbarcarono, trovarono che il molo e le strade costiere erano stati ridotti
a laghi di fango dal passaggio delle truppe yankee in ritirata, la domenica
precedente. Si sprofondava nella melma quasi fino al ginocchio. Rob J. fu
mandato sul War Hawk, una nave che ospitava 406 feriti. Avevano quasi finito
di caricare quando Rob J. salì a bordo, e la nave salpò senza indugio. Un acci-
gliato primo ufficiale spiegò a Rob J. che l'enorme quantità di feriti aveva
sovraccaricato tutti gli ospedali disponibili nelle città del Tennessee. Il War
324
Hawk doveva portare i suoi passeggeri per quasi mille chilometri sul fiume
Tennessee fino all'Ohio, e quindi risalire l'Ohio fino a Cincinnati.
Per tutta la mattinata il War Hawk navigò tra campi verdeggianti e foreste
lucenti di foglie nuove e folte di vischio, e ogni tanto frutteti di peschi fioriti,
ma Rob J. non se ne accorse.
Il comandante della nave aveva progettato di attraccare mattina e sera a una
città costiera per rifornirsi di legna: nello stesso tempo i volontari dovevano
scendere a riva e procurare acqua e viveri per i loro pazienti. Ma Rob J. e il
326
dottor Sprague avevano insistito perché si facesse una tappa anche a mezzo-
giorno, e talvolta persino a metà pomeriggio, perché le scorte d'acqua si
esaurivano rapidamente. I feriti erano assetati.
Con vera disperazione di Rob J., i volontari erano nell'impossibilità di man-
tenere anche l'igiene più elementare. Molti dei soldati erano stati colpiti da
dissenteria prima di essere feriti. Defecavano e urinavano là dove si trovavano
ed era impossibile ripulirli. Non erano disponibili cambi d'abito e biancheria e
gli escrementi si incrostavano sui corpi che giacevano sotto la pioggia fredda.
Gli infermieri dovevano impiegare la maggior parte del tempo a distribuire la
zuppa. Il secondo pomeriggio, quando la pioggia cessò e uscì un sole ardente,
Rob J. salutò dapprima il caldo con vero sollievo. Ma i vapori che si alzarono
dalle coperte e dai corpi ammucchiati intensificarono l'orrendo odore che
regnava già sul War Hawk. Il tanfo divenne quasi palpabile. Talvolta, quando
la nave attraccava, salivano a bordo dei patrioti civili portando coperte, acqua e
viveri: battevano le palpebre con gli occhi irritati e lacrimanti, e si affrettavano
ad andarsene senza indugio. Rob J. rimpiangeva di non avere una scorta
dell'acido cloridrico del dottor Akerson.
Gli uomini morivano e venivano cuciti nei lenzuoli più sudici. Rob J. do-
veva amputare con sempre maggiore frequenza, almeno nei casi peggiori,
sicché, quando arrivarono a destinazione, fra i trentotto morti vi erano otto dei
venti feriti che aveva amputato. Raggiunsero Cincinnati nelle prime ore del
mattino di martedì: Rob J. era rimasto per tre giorni e mezzo senza dormire e
quasi senza cibo. Stordito e disorientato, rimase sul molo a osservare stupida-
mente gli altri che dividevano i pazienti in gruppi per smistarli ai diversi
ospedali. Quando vide un carro di feriti diretto al South western Ohio Hospital,
salì a bordo e si sedette sul pavimento fra due barellieri.
327
Non ricordava come lo avessero condotto dall'ospedale alla stanza di
Sciamano o come lo avessero spogliato. Per il resto di quel giorno e per tutta la
notte dormì inconsapevole nel letto di suo figlio. Quando si svegliò era
mercoledì mattina e il sole brillava dalla finestra. Mentre si radeva e si faceva
un bagno, l'amico di Sciamano, un giovane premuroso di nome Cooke, andò a
prendere i suoi abiti alla lavanderia dell'ospedale, dove erano stati bolliti e
stirati, quindi corse a chiamare Sciamano.
Sciamano appariva molto magro ma in buona salute. «Hai notizie di Alex?»
chiese subito.
«No.»
Sciamano scosse la testa e condusse il padre a un ristorante fuori dell'ospe-
dale, per poter restare più liberi. Si fecero portare una robusta colazione di
uova, patate e costate alla griglia, accompagnata da un pessimo caffè che era
quasi tutto cicoria. Sciamano gli lasciò sorbire il primo sorso bollente di caffè
prima di cominciare a fargli domande e ascoltò con somma attenzione la storia
del viaggio del War Hawk.
Rob J. gli chiese dell'Istituto di Medicina e gli disse quanto era fiero di lui.
«A casa,» soggiunse «ricordi quel mio vecchio bisturi d'acciaio?»
«Quello antico, che chiamavi il coltello di Rob J.? Che era una tradizione di
famiglia da secoli?»
«Quello. Sicuro, è in famiglia da secoli, e tocca al primo figlio che diventa
medico. È tuo.»
Sciamano sorrise. «Non è meglio aspettare dicembre, quando prenderò la
laurea?»
«Non so se potrò essere qui per la tua laurea. Credo che diventerò medico
dell'esercito.»
Sciamano lo guardò con occhi sbarrati. «Ma tu sei un pacifista! Detesti la
guerra.»
«È così, figlio mio. Detesto la guerra» replicò Rob J. con voce più amara di
quell'amaro caffè. «Ma tu vedi che cosa succede nel mondo!»
Rimasero a lungo seduti bevendo altre tazze di quel pessimo caffè,
guardandosi negli occhi e parlando tranquillamente, come se avessero una
quantità di tempo da passare insieme.
Ma alle undici del mattino erano di nuovo in sala operatoria. L'enorme
numero di feriti del War Hawk aveva messo a dura prova le attrezzature
dell'ospedale e il personale medico. Alcuni chirurghi avevano lavorato tutta la
notte e tutta la mattina e ora Robert Jefferson Cole doveva operare un giovane
dell'Ohio che aveva ricevuto nella testa, nelle spalle, nel dorso e nelle natiche
328
una scarica di minuscole schegge di shrapnel confederate. L'operazione era
lunga e penosa perché ogni frammento di metallo doveva essere estratto dalla
carne viva con un minimo di danni per i tessuti e la suturazione doveva essere
egualmente accurata per consentire ai muscoli di reintegrarsi. Sulla piccola
balconata si affollavano gli studenti e anche parecchi membri della facoltà che
osservavano i casi terribili a cui un medico doveva far fronte durante una
guerra. Seduto in prima fila, il dottor Harold Meigs diede di gomito al dottor
Barnett McGowan e con un cenno del mento gli indicò un uomo ritto in un
angolo della sala operatoria, da dove poteva guardare senza essere d'impiccio.
Un uomo alto e corpulento con i capelli già grigi, che fissava a braccia conserte
il tavolo operatorio, incurante di ogni cosa intorno a lui. Mentre osservava la
sicurezza e la competenza del chirurgo, annuiva in gesto di inconsapevole
approvazione, e i due professori si guardarono l'un l'altro e sorrisero.
Rob J. tornò in treno e arrivò alla stazione di Rock Island nove giorni dopo
aver lasciato Holden's Crossing. Nella strada che portava alla stazione incontrò
Paul e Roberta Williams, che erano a Rock Island per far compere.
«Salve, dottore. È sceso ora da quel treno?» gli chiese Williams. «Ho
sentito che si è fatto un po' di vacanza.»
«Sì.»
«Bene, e si è divertito?»
Rob J. aprì la bocca, poi la richiuse. «Molto, grazie, Paul» rispose con voce
tranquilla e si diresse verso la stalla a prendere Boss per tornare a casa.
49
Rob J. impiegò quasi tutta l'estate per mettere a punto il suo progetto.
All'inizio aveva pensato di trovare un altro medico che facesse le sue veci a
Holden's Crossing, prospettandogli una pratica professionale economicamente
vantaggiosa. Ma dopo qualche tempo si rese conto che non era possibile,
perché la guerra aveva provocato una paurosa scarsità di medici. Il meglio che
poté fare fu di mettersi d'accordo con Tobias Barr perché venisse all'ambu-
latorio Cole, a Holden's Crossing, tutti i mercoledì, e per i casi più urgenti. Per
i casi meno gravi gli abitanti di Holden's Crossing dovevano farsi il viaggio
fino allo studio del dottor Barr a Rock Island, o consultare le monache
infermiere.
Sarah era fuori di sé per la collera - sia perché il marito si schierava dalla
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"parte sbagliata" sia perché la lasciava sola, pensava talvolta Rob J. Pregava e
si consultava con il reverendo Blackmer. Sarebbe rimasta indifesa senza di lui,
ripeteva. «Prima di partire devi scrivere all'esercito federale e chiedere se dalle
loro registrazioni risulta che Alex sia loro prigioniero o sia caduto.» Rob J. Io
aveva già fatto diversi mesi prima, ma convenne che era tempo di ripetere la
ricerca.
Sarah e Lillian erano divenute amiche sempre più intime. Jay aveva escogi-
tato con successo un sistema per mandare posta e notizie dei confederati a
Lillian attraverso le linee nemiche, forse per mezzo di contrabbandieri che
operavano sul fiume. Prima che i giornali dell'Illinois pubblicassero la notizia,
Lillian riferì che Judah P. Benjamin era stato promosso da segretario di Guerra
dei confederati a segretario di Stato. Una volta Sarah e Rob J. erano stati a
pranzo con i Geiger e Benjamin quando il cugino di Lillian era venuto a Rock
Island a conferire con Hume a proposito di una causa legale che riguardava le
ferrovie. Benjamin gli era sembrato intelligente e modesto, non il tipo d'uomo
ambizioso che mirasse a salire al potere e guidare i destini di una nuova
nazione.
Quanto a Jay, Lillian disse che suo marito era al sicuro. Aveva il grado di
sottufficiale ed era assegnato come amministratore a un ospedale militare, in
qualche località della Virginia.
Quando sentì che Rob J. si preparava a raggiungere l'esercito nordista,
scosse pensosa la testa. «Prego Dio che tu e Jay non vi incontriate mai finché
siamo in guerra.»
«Penso che sia molto improbabile» replicò Rob J. battendole un colpetto
affettuoso sulla spalla.
Si accomiatò dai conoscenti, evitando il più possibile ogni cerimonia. Ma-
dre Miriam Ferocia lo ascoltò con rassegnata freddezza. Faceva parte della di-
sciplina monacale, pensò Rob J., dire addio alle persone che erano divenute
parte della loro vita. Andavano dove il loro Signore le mandava: sotto questo
aspetto, erano come soldati.
Quella mattina del 12 agosto 1862 portava il suo mee-shome e una sola
piccola valigia quando Sarah lo accompagnò al piroscafo, sul molo di Rock
Island. Piangeva e continuava a baciarlo sulla bocca, quasi selvaggiamente,
incurante delle occhiate che le gettavano gli altri passeggeri.
«Tu sei il mio amore» le mormorò Rob J. teneramente all'orecchio.
Era doloroso lasciarla in quel modo, ma fu un sollievo per lui salire a bordo
e salutarla con la mano quando la sirena lanciò due segnali brevi e uno lungo e
il piroscafo si immise al centro della corrente e si allontanò.
330
Rimase sul ponte per la maggior parte del viaggio. Amava il Mississippi e
osservava compiaciuto l'intenso traffico fluviale, che era al colmo della
stagione. Fino a quel momento, il Sud aveva messo in campo uomini più
audaci e brillanti e generali migliori di quelli del Nord. Ma quando i federali
quella primavera avevano occupato New Orleans, avevano esteso la suprema-
zia dell'Unione su tutto il corso inferiore e superiore del Mississippi. Il grande
fiume, insieme con il Tennessee e altri corsi d'acqua minori, forniva alle forze
federali una rete navigabile che portava diritta al vulnerabile cuore del Sud.
Uno dei centri militari più importanti lungo questa rete fluviale era Cairo,
dove Rob J. aveva cominciato il suo viaggio a bordo del War Hawk, e dove ora
sbarcò. Il fiume non era in piena quella fine d'agosto, ma ciò non costituiva un
gran miglioramento, perché migliaia di soldati erano accampati nei dintorni e i
detriti di quell'umanità concentrata si riversavano nella città, insieme con
immondizie, cani morti e altri rifiuti che si accumulavano nelle strade fangose
anche davanti alle case più eleganti. Rob J. segui il traffico militare fino
all'accampamento, dove fu fermato da una sentinella. Si identificò e chiese di
essere accompagnato dal comandante del campo. Ben presto si trovò di fronte
al colonnello Sibley, del 67° Volontari Pennsylvania. Il 67° Pennsylvania ave-
va già i due chirurghi assegnati dall'organico dell'esercito, gli disse il colonnel-
lo: ma nell'accampamento c'erano altri tre reggimenti, il 42° Kansas, il 106°
Kansas e il 23° Ohio. Nel 106° Kansas c'era un posto vacante di assistente
chirurgo e là Rob J. fu diretto.
Il comandante del 106° era il colonnello Frederick Hilton, che Rob J. trovò
di fronte alla sua tenda; era seduto a un piccolo tavolo e scriveva masticando
tabacco. Hilton fu ben lieto di arruolarlo. Gli poteva offrire il grado di tenente
(«Capitano, il più presto possibile») e l'arruolamento di un anno come ufficiale
medico assistente; ma Rob J. si era ampiamente informato e aveva riflettuto a
lungo prima di partire da casa. Se avesse deciso di presentarsi all'esame di uffi-
ciale chirurgo avrebbe ottenuto la qualifica per diventare maggiore, con gene-
roso stipendio e alloggio di prim'ordine e il rango di ufficiale medico di stato
maggiore o di chirurgo in un grande ospedale. Ma non era questo che Rob J.
voleva. «Io non parlo di arruolamento né di nomina ufficiale. L'esercito assume
medici civili per impiego temporaneo. Lavorerò con voi in base a contratto
trimestrale.»
Hilton si strinse nelle spalle. «Preparerò le carte per assumerla come viceas-
sistente chirurgo. Torni dopo cena a firmare. Ottanta dollari il mese, lei si
procuri il cavallo. La posso mandare da un sarto in città per l'uniforme.»
«Io non porterò l'uniforme.»
331
Il colonnello lo squadrò. «Sarebbe sconsigliabile. Questi uomini sono solda-
ti. Non sono disposti ad accettare ordini da un civile.»
«Fa lo stesso.»
Il colonnello annuì, sputò una gran boccata di sugo di tabacco, quindi
chiamò un sergente e gli disse di mostrare al dottor Cole la tenda degli ufficiali
medici.
Avevano appena imboccato la strada che portava alla compagnia, quando le
prime note di tromba suonarono l'ammainabandiera del tramonto. Ogni rumore
e ogni movimento cessarono, gli uomini si voltarono verso la bandiera e scatta-
rono nel saluto.
Era la sua prima cerimonia dell'ammainabandiera e Rob J. ne provò una
strana emozione: era una specie di comunione religiosa fra tutti quegli uomini,
che restarono ritti nel saluto finché si spense l'ultima nota vibrante della lontana
tromba. Quindi l'attività del campo riprese. Il campo era costituito perlopiù da
piccole tende da campeggio, ma il sergente si diresse verso una zona di tende
coniche che somigliavano vagamente ai tepee, e si fermò davanti a una di
queste. «Siamo arrivati, signore.»
«Grazie.»
Dentro vi erano solo due giacigli a terra, con le loro coperte. Un uomo, sen-
za dubbio il chirurgo del reggimento, era sdraiato, immerso in un sonno pro-
fondo, ed emanava un acido lezzo di corpo mal lavato misto a un pesante odore
di rum.
Rob J. posò la valigia a terra e si sedette li accanto. Aveva fatto molti errori
in passato, e molte sciocchezze, più o meno come capita a tutti gli uomini,
pensò. E si domandò se non stava per caso facendo uno dei passi più stupidi
della sua vita.
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50
Cincinnati, Ohio
12 gennaio 1863
Caro papà,
bene, reclamo il bisturi di Rob J.!
Il colonnello Peter Brandon, primo assistente del chirurgo capo
William A. Hammond, ha tenuto il discorso di presentazione. Alcuni dice-
vano che è stato un bel discorso, ma io ero deluso. Il dottor Brandon disse
che i medici in tutti i tempi hanno prestato la loro assistenza agli eserciti
del loro Paese. Citò una serie di esempi, gli Ebrei della Bibbia, i Greci, i
Romani e così via. Poi parlò delle splendide occasioni che l'esercito degli
Stati Uniti in guerra può offrire a un medico, gli stipendi, le gratificazioni
che un medico riceve quando serve il suo Paese. Noi speravamo di sentir
parlare delle glorie della nostra professione - di Platone e Galeno, di
Ippocrate e Andrea Vesalio - e lui ci teneva un discorso di arruolamento.
Inoltre non era necessario. Nella mia classe, su trentasei nuovi medici già
diciassette hanno deciso di entrare nel dipartimento di Sanità dell'eser-
cito.
So che tu mi capirai quando ti scrivo che, pur desiderando ardente-
mente di rivedere la mamma, ho provato un vero sollievo nel sentire che
ha deciso di non affrontare il viaggio fino a Cincinnati. I treni, gli
alberghi eccetera sono così affollati e sudici in questi giorni che una
donna, viaggiando sola, si esporrebbe a gravi scomodità, se non peggio.
Avrei desiderato in modo particolare la tua presenza, e questo mi da
un'altra ragione per odiare la guerra. Il padre di Paul Cooke, che ha un
negozio di granaglie e alimentari a Xenia, è venuto alla cerimonia del
conferimento delle lauree e poi ci ha portati entrambi a pranzo, un pranzo
solenne con brindisi e congratulazioni. Paul è uno di quelli che entreran-
no subito nell'esercito. Il suo aspetto può ingannare, perché è sempre così
pronto allo scherzo e al riso, ma era il più brillante della nostra classe e
ha conseguito la laurea «summa cum laude». Io lo aiutavo nel lavoro di
laboratorio, e lui mi aiutava a guadagnarmi la «magna cum laude»,
perché quando finivamo di studiare una materia orale mi interrogava,
335
ponendomi domande assai più severe e difficili di quelle dei professori.
Dopo pranzo lui e il padre andarono al Teatro dell'Opera a sentire un
concerto di Adelina Patti e io tornai al Policlinico. Sapevo esattamente
quello che volevo fare. C'è una galleria sotterranea rivestita di mattoni
che passa sotto la Ninth Street, fra l'Istituto di Medicina e l'edificio
principale dell'ospedale. È riservata soltanto ai medici. Perché rimanga
sgombra nei casi di emergenza, è vietata agli studenti, che devono
attraversare la strada all'aperto, anche con il cattivo tempo. Scesi nel
seminterrato dell'Istituto di Medicina sentendomi ancora studente, ed
entrai nella galleria, che è illuminata da lampade. Quando l'attraversai e
sbucai dall'altra parte nell'ospedale, per la prima volta mi sentii vera-
mente un medico!
Papà, ho accettato un lavoro per due anni come medico interno del
Southwestern Ohio Hospital. Lo stipendio è solo di 300 dollari l'anno, ma
il dottor Berwyn dice che potrò avere un buon introito come chirurgo.
«Mai badare troppo al guadagno!» mi ha detto. «Devi ricordarti che chi
si lamenta dei guadagni di un medico di solito non è un buon medico.»
È forse un po' imbarazzante per me, ma certo è una grande fortuna che
Berwyn e McGowan si contendano il diritto di prendermi sotto la loro ala.
L'altro giorno Barney McGowan mi prospettava questo piano per il mio
avvenire: lavorerò con lui per alcuni anni come suo assistente, poi lui
stesso mi procurerà la nomina a professore aggregato di anatomia. Così,
dice, quando andrà in pensione, io sarò pronto a prendere il suo posto
come professore di patologia.
Questo mi pare fin troppo, i due professori mi fanno girare la testa,
perché il mio sogno è sempre stato soltanto quello di diventare medico.
Alla fine hanno combinato un programma che è molto vantaggioso per
me. Come ho già fatto durante l'estate, passerò le mattine in sala opera-
toria con Berwyn e i pomeriggi in patologia con McGowan: invece di fare
i lavori sporchi come studente, svolgerò la mia attività come medico.
Malgrado la loro gentilezza nei miei confronti, io non so se ho proprio
voglia di stabilirmi a Cincinnati. Preferirei vivere in un paese piccolo,
dove conosco la gente.
Cincinnati, come tendenza e sentimenti, è più sudista di Holden's
Crossing. Billy Henreid ha confidato ad alcuni amici che dopo la laurea
si arruolerà come chirurgo nell'esercito confederato. Due sere fa sono
andato a un pranzo d'addio con Henreid e Cooke. È stata una serata
336
strana e triste, ciascuno dei due sapeva dove l'altro si accingeva ad
andare.
La notizia che il presidente Lincoln ha firmato un proclama in cui
garantisce la libertà agli schiavi ha provocato un'ondata di collera. Io so
che tu non hai molta stima del presidente, a causa della parte che ha
avuto nella distruzione dei Sauk, ma io lo ammiro perché libera gli schia-
vi, quali che siano le sue ragioni politiche. I nordisti qui intorno sembra-
no pronti ad affrontare qualsiasi sacrificio per salvare l'Unione, ma non
vorrebbero che lo scopo della guerra divenisse l'abolizione della schia-
vitù. Molti non sono disposti ad affrontare questo terribile prezzo di
sangue se lo scopo della lotta è solo quello di liberare i neri. Certe
battaglie, come quelle del Bull Run e dell'Antietam, hanno provocato
perdite spaventose. Ora si ha notizia di un 'altra strage a Fredericksburg,
dove circa 13.000 federali sono stati falciati mentre cercavano di oc-
cupare le alture al di là del fiume. La cosa ha suscitato una profonda
disperazione in quelli con cui ho parlato.
Sono continuamente in pena per te e per Alex. Sarai probabilmente
sorpreso di sentire che ho cominciato a pregare, anche se non so chi, o
che cosa, ma prego continuamente che entrambi possiate tornare a casa.
Ti supplico di curare la tua salute come curi quella degli altri, e
ricorda che le vite dei tuoi cari sono legate alla tua forza e alla tua bontà.
51
Il suonatore di tuba
Non era così duro, come Rob J. aveva temuto, vivere in una tenda e dormire
per terra. Più difficile era affrontare le domande che lo assillavano: perché
diavolo si trovava lì, e quale sarebbe stato il risultato di quella terribile guerra
civile. La sorte continuava a essere sfavorevole per la causa del Nord. «Sembra
che noi vinciamo solo per perdere» osservava il maggiore G.H. Woffenden in
un momento in cui era meno ubriaco del solito.
La maggior parte dei soldati in mezzo ai quali Rob J. viveva non facevano
337
che ubriacarsi quando non erano di servizio, specialmente dopo il giorno di
paga. Bevevano per dimenticare, per ricordare, per celebrare, per commiserarsi
l'un l'altro. Quei giovani sudici spesso ubriachi erano come cani al guinzaglio,
dimentichi della morte incombente, bramosi di balzare sul loro naturale
nemico: altri americani, che senza dubbio erano altrettanto sudici, e altrettanto
spesso ubriachi.
Perché erano così bramosi di uccidere i confederati? Ben pochi se ne rende-
vano realmente conto. Rob J. vedeva che la guerra per loro aveva acquistato
una natura e un significato che andavano molto al di là delle ragioni e delle
cause. Erano assetati di lotta perché la guerra esisteva, e perché uccidere era
stato ufficialmente proclamato ammirevole e patriottico. E questo bastava.
Avrebbe voluto urlare e strepitare, chiudere i generali e i politici in una
stanza oscura come ragazzini stupidi e cattivi, prenderli per le loro collettine e
collottole e scuoterli e domandare: Che cosa vi succede? CHE COSA VI
SUCCEDE?
Invece faceva ogni giorno il suo giro di visite e somministrava con estrema
parsimonia ipecacuana e il chinino e l'elisir paregorico, e stava attento a guar-
dar per terra quando camminava, come un uomo che vivesse in un gigantesco
canile.
L'ultimo giorno del suo servizio presso il 106° Kansas Rob J. si recò dall'uf-
ficiale pagatore, intascò i suoi 80 dollari, poi tornò alla tenda conica, s'infilò a
tracolla il suo mee-shome e prese la sua valigia. Il maggiore G.H. Woffenden,
raggomitolato in una sudicia coperta da cavallo, non aprì neppure gli occhi né
borbottò un saluto.
Cinque giorni prima gli uomini del 67° Pennsylvania erano stati caricati su
piroscafi e, secondo le voci che correvano, erano stati trasportati nel Missis-
sippi, sul fronte di battaglia. Ora altre navi avevano scaricato a terra il 119°
Indiana, che stava alzando le tende sul terreno dove poco prima era accampato
il Pennsylvania. Rob J. si recò dal loro comandante e trovò un colonnello con
la faccia da bambino, che aveva poco più di vent'anni, Alonzo Symonds. Il co-
lonnello Symonds era in cerca di un medico, perché il suo chirurgo aveva
concluso il suo incarico trimestrale ed era tornato nell'Indiana, e non aveva mai
avuto un assistente chirurgo. Interrogò a fondo il dottor Cole e parve ben
impressionato da ciò che apprendeva; ma quando Rob J. annunciò che avrebbe
firmato solo a certe condizioni, il viso del colonnello si fece sospettoso.
Rob J. aveva tenuto accurate registrazioni delle visite effettuate per il 106°.
«Quasi ogni giorno il 36 per cento degli uomini era a letto o marcava visita.
Qualche volta la percentuale era più alta. Com'è al confronto la sua lista
338
quotidiana dei malati?»
«Anche noi abbiamo avuto un sacco di malati» ammise Symonds.
«Io posso procurarle degli uomini più sani, colonnello, se lei mi aiuta.»
Symonds aveva la carica di colonnello solo da quattro mesi. La sua famiglia
possedeva una fabbrica di tubi di vetro per lumi a petrolio a Fort Wayne, e
sapeva che gli operai malati erano un grosso guaio. Il 119° Indiana era stato
formato quattro mesi prima con truppe ancora inesperte e dopo pochi giorni era
stato assegnato al servizio di pattuglia nel Tennessee. Si considerava fortunato
di aver avuto solo due schermaglie abbastanza serie da poter essere considerate
un primo contatto con il nemico. Gli erano costati due morti e un ferito, ma
ogni giorno aveva avuto tanti uomini colpiti da febbre che i confederati sareb-
bero potuti venire a ballare il valzer in mezzo alle sue tende, se lo avessero
saputo.
«Che cosa devo fare?»
«I suoi soldati stanno rizzando le tende sui mucchi di merda del 67° Penn-
sylvania. E l'acqua qui è cattiva, bevono acqua del fiume inquinata dai loro
stessi escrementi. C'è un terreno che non è stato ancora usato a meno di un
chilometro e mezzo da qui, sull'altro lato dell'accampamento, con sorgenti d'ac-
qua pura che dovrebbero fornire acqua per tutto l'inverno, se vi sistemiamo le
tubazioni necessarie.»
«Bontà divina! Un chilometro e mezzo è lungo, per andare a conferire con
gli altri reggimenti. O per aspettare che i loro ufficiali vengano da me, se hanno
bisogno di parlarmi.»
Si studiarono l'un l'altro per un lungo momento, e infine il colonnello si de-
cise. Chiamò il suo sergente maggiore. «Ordini di spiantare le tende, Douglass.
Il reggimento si sposta.»
Poi tornò a discutere con il suo difficile chirurgo.
Ancora una volta Rob J. rifiutò di essere arruolato come militare. Chiese di
essere assunto come viceassistente chirurgo, con un contratto di tre mesi.
«In questo modo, se lei non riceve quello che chiede, può andarsene quando
vuole» osservò sagacemente il giovane colonnello. Il maturo chirurgo non lo
negò e il colonnello lo studiò un attimo. «Che cos'altro vuole?»
«Latrine» rispose Rob J.
Rob J. entrò nella sua capanna e si sedette sul giaciglio nella fredda penom-
bra, con una coperta sulle spalle.
Undici anni. Ricordava con precisione la data. Aveva in mente ognuna delle
visite a domicilio che aveva compiuto mentre Makwa-ikwa veniva violentata e
assassinata.
Pensava ai tre uomini che erano arrivati a Holden's Crossing appena prima
del delitto ed erano scomparsi. In undici anni non era riuscito a sapere nulla di
loro, tranne che erano tre ubriaconi.
Un predicatore fasullo, il reverendo Ellwood Patterson, che lui stesso aveva
curato per sifilide terziaria.
Un uomo corpulento dai muscoli potenti, di nome Hank Cough.
Un giovane scarno che chiamavano Len. Talvolta Lenny. Con una voglia di
vino sul viso, sotto l'occhio destro, che zoppicava.
Non era più così scarno, se questo era l'uomo. E neanche tanto giovane, del
resto.
Questo probabilmente non era l'uomo che cercava, si disse. Chissà quanti
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altri individui c'erano in America con una voglia di vino e una gamba zoppa.
Si rese conto che non voleva che questo fosse l'uomo. Dovette riconoscere
con se stesso che non voleva più ritrovare nessuno dei tre. Che cosa avrebbe
fatto se il suonatore di tuba era realmente Lenny? Gli avrebbe tagliato la gola?
Si sentì oppresso da un senso di impotenza. La morte di Makwa era qual-
cosa che lui aveva cercato di accantonare in uno scomparto chiuso della sua
mente. Ora quello scomparto si era riaperto, come il vaso di Pandora, e un gelo
quasi dimenticato risorgeva dentro di lui, un gelo che non aveva niente a che
fare con la temperatura della capanna.
Uscì e si diresse alla tenda che serviva da ufficio del reggimento. Il sergente
maggiore, Stephen Douglass - scritto con una S in più del nome del senatore -
era abituato a quel dottore che lavorava così assiduamente alle sue registra-
zioni. Aveva detto a Rob J. di non aver mai visto un medico militare tanto
preoccupato di tenere le schede mediche complete. «Altro lavoro di cartaccia,
dottore?»
«Un altro po'.»
«Si accomodi. L'inserviente è uscito a prendere un bricco di caffè caldo,
gliene offro un po' volentieri quando arriva. Ma non ne faccia cadere sulle mie
dannate schede, per favore.»
Rob J. promise di stare attento.
La banda era aggregata alla compagnia del quartier generale. Il sergente
Douglass teneva ordinatamente le schede di ogni compagnia in scatoloni grigi
separati. Rob J. trovò la scatola del quartier generale: dentro c'era un gruppo di
schede legate con una corda e segnate Banda del 119° Reggimento Indiana.
Sfogliò le schede una per una. Non c'era nessuno nella banda il cui nome di
battesimo fosse Leonard; ma quando Rob J. trovò la scheda seppe subito e
senza incertezze che questo era l'uomo giusto, allo stesso modo che talvolta
sapeva se un paziente stava per morire.
52
Movimenti di truppe
Alle tre del mattino vi fu una lunga fermata a Louisville, dove una batteria
di artiglieria fu caricata sul treno. L'aria della notte era più pesante che nel-
l'Illinois, e più dolce. Quelli che erano svegli lasciarono il treno per sgranchirsi
le gambe e Rob J. provvide a far ricoverare il caporale malato all'ospedale
locale. Al ritorno passò vicino a due uomini che orinavano. «Non c'è tempo di
scavare latrine qui, signore» protestò uno di loro, ed entrambi sghignazzarono.
Il chirurgo civile era ancora oggetto di scherno.
Si avviò là dove i grossi Parrotts da dieci libbre e gli obici da dodici libbre
venivano caricati su vagoni scoperti e assicurati con pesanti catene. Gli uomini
lavoravano alla luce gialla di grandi lampade che sfrigolavano e tremolavano,
gettando ombre danzanti che parevano muoversi da sole.
«Dottore» bisbigliò qualcuno vicino a lui. Un uomo uscì dal buio e gli prese
la mano, facendo il segno di riconoscimento. Troppo nervoso per sentirsi
assurdo, Rob J. si sforzò di eseguire il controsegnale, come se l'avesse fatto già
351
molte volte.
Ordway lo guardò. «Bene» disse.
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Poche ore dopo arrivò Lanning Ordway e trovò il medico ancora in piedi
nell'angusto locale.
«Dottore, mio Dio, dottore, venga con me.»
Seppe da Ordway di essere rimasto al tavolo operatorio per quasi due interi
giorni: il 119° bivaccava nei pressi. Lasciò che «il mio buon camerata» e «il
mio terribile nemico» lo accompagnasse in un magazzino vuoto e sicuro, dove
gli preparò un morbido letto di paglia pulita. Vi si lasciò cadere e si addor-
mentò.
Si svegliò solo la sera dopo, destato dai gridi e dai gemiti dei feriti che ave-
vano collocato tutt'intorno a lui sul pavimento del magazzino. Altri chirurghi
lavoravano già ai tavoli operatori. Non era possibile servirsi della latrina della
chiesa, che era ormai sovraccarica e intasata. Uscì sotto una pioggia violenta, e
nell'umidità ristoratrice svuotò la vescica dietro alcuni arbusti di lillà, che
appartenevano nuovamente all'Unione.
I nordisti occupavano di nuovo tutta la città di Gettysburg. Rob J. si avviò
sotto la pioggia, chiedendo a ogni passante dov'era l'accampamento del 119°.
Aveva dimenticato ciò che gli aveva detto Ordway. Lo trovò finalmente; gli
uomini si tenevano al riparo sotto le tende, sparse per la fertile campagna a sud
della città. ,
Wilcox e Ordway lo accolsero con un calore che lo commosse. E avevano
delle uova! Mentre Lanning Ordway schiacciava le gallette e friggeva briciole
e uova in grasso di maiale per il dottore, lo misero al corrente di ciò che era
accaduto. Prima le cattive notizie: Thad Bushman, la miglior tuba della banda,
era stato ucciso. «Un solo piccolissimo foro nel petto, dottore» diceva Wilcox.
«Deve proprio aver colpito al posto giusto.»
Dei barellieri Lew Robinson era stato ferito per primo. «Colpito alla gamba
subito dopo che lei ci ha lasciati, dottore» spiegava Ordway. «E Oscar Lawren-
ce quasi tagliato in due dall'artiglieria ieri.» Ordway finì di strapazzare le uova
e pose la padella davanti a Rob J., che pensava con sincero dolore alla sorte del
giovane tamburino. Ma pur vergognandosi un po' non poté resistere all'invito
del cibo e lo trangugiò avidamente.
«Oscar era troppo giovane. Sarebbe dovuto restare a casa con la mamma»
osservò amaramente Wilcox.
Rob J. si bruciò la bocca con il caffè nero, che era bollente ma aveva un
buon sapore. «Tutti saremmo dovuti restare a casa» osservò, e fece un buon
rutto. Finì più lentamente il resto delle uova e prese una seconda tazza di caffè,
mentre gli raccontavano ciò che era avvenuto durante le lunghe ore in cui lui
lavorava nella cripta della chiesa.
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«Il primo giorno ci hanno respinto fino all'altopiano a nord della città,»
riferiva Ordway «ed era la cosa migliore che ci potesse capitare.
«Il giorno dopo eravamo sul Cemetery Ridge in una lunga linea serpeg-
giante che passava fra due coppie di colline, Cemetery Hill e Culp's Hill a nord,
vicino alla città, e Round Top e Little Round Top un paio di chilometri a sud.
La mischia era terribile, terribile. Un sacco di soldati uccisi. Noi avevamo un
bel daffare a portare fuori i feriti.»
«E lo facevamo bene» soggiunse Wilcox. «Proprio come ci ha insegnato
lei.»
«Sono sicuro che lo facevate bene.»
«Il giorno dopo il 119° fu spostato su Cemetery Hill per rafforzare il corpo
di Howard. Verso mezzogiorno arrivò un inferno di fuoco dai cannoni dei
confederati. Le nostre pattuglie di avanguardia si accorsero che, durante il
bombardamento, le truppe confederate marciavano in massa molto sotto di noi,
nei boschi dall'altra parte di Emmitsburg Road. Si poteva vedere il lampo dei
metalli qua e là fra gli alberi. Ci tennero sotto il fuoco d'artiglieria per un'ora o
due, e molti colpi andavano anche a segno, ma per tutto il tempo noi ci tene-
vamo pronti perché sapevamo che stavano per attaccare.
«A metà del pomeriggio il fuoco dei loro cannoni cessò, e anche i nostri
tacquero. E allora qualcuno gridò: "Vengono, vengono!". E 15.000 bastardi
ribelli in uniformi grigie uscirono da quei boschi. Quei ragazzi di Lee
marciavano contro di noi spalla a spalla, linea dopo linea. Le loro baionette
erano come una lunga palizzata di punte d'acciaio sopra le loro teste, che
scintillava al sole. Non urlavano, non dicevano niente, marciavano solo contro
di noi a passo rapido e fermo.
«Io le dico, dottore,» continuava Ordway «che Robert E. Lee ci ha frustato
sul culo una quantità di volte e io so che è un bastardo figlio di puttana molto in
gamba, ma non è stato in gamba questa volta a Gettysburg. Noi non potevamo
crederci, vedendo i ribelli che avanzavano così attraverso i campi allo scoperto
mentre noi eravamo in alto sopra di loro, in posizioni ben protette. Sapevamo
che erano tutti uomini morti e dovevano saperlo anche loro. Li guardammo
avanzare per più di un chilometro e il colonnello Symonds e gli altri ufficiali
lungo le nostre linee gridavano: "Non fate fuoco! Lasciateli avvicinare! Non
fate fuoco!". E anche loro dovevano sentire.
«Quando furono abbastanza vicini che potevamo vedere le loro facce, la
nostra artiglieria da Little Round Top e da Cemetery Ridge aprì il fuoco e un
gran numero di attaccanti semplicemente sparì. Quelli che erano rimasti
continuarono ad avanzare attraverso il fumo e finalmente Symonds gridò:
361
"Fuoco!" e ciascuno di noi mirò e abbatté un ribelle. Qualcuno gridò:
"Fredericksburg!" e tutti si diedero a gridare: "Fredericksburg! Frederick-
sburg!" e sparavano e caricavano e sparavano e caricavano e sparavano...
«Solo in un punto i ribelli riuscirono ad arrivare alle rocce, ai piedi delle
nostre postazioni, e qui si batterono come disperati, ma furono tutti uccisi o
catturati» concluse Ordway e Rob J. annuì. Quello era il momento in cui aveva
sentito le grida di esultanza.
54
Scaramucce
Tuttavia aveva deciso che alla fine dell'anno avrebbe lasciato il 119° India-
na. È vero che i pazienti erano qui: era entrato nell'esercito per prestare le sue
cure mediche ai soldati. Ma il maggiore Coppersmith non glielo consentiva.
Rob J. capiva che per un medico esperto era uno spreco di tempo limitarsi a
portar barelle e per un ateo non aveva senso vivere come se cercasse il martirio
o la santità. Aveva in mente di tornare a casa quando scadeva il suo contratto,
ossia la prima settimana del 1864.
La vigilia di Natale fu un momento strano, triste e commovente nello stesso
tempo. Si celebrò la messa davanti alle tende. Su una riva del Rappahannock la
banda del 119° Indiana suonò Adeste Fideles. Quando finì, una banda
confederata sull'altra riva suonò God Resi Ye Merry, Gentlemen, e la musica
fluttuò misteriosa e dolce sulle acque scure, e poi qualcuno intonò Bianco
370
Natale. Il capobanda Fitts alzò la bacchetta e la banda dell'Unione e quella con-
federata suonarono insieme e i soldati di entrambe le armate cantarono insieme
in coro. Potevano vedere i fuochi degli altri sull'altra riva.
Fu una notte di quiete, non si udirono spari. A cena non c'erano stati i tac-
chini arrosto delle solennità, ma l'esercito aveva provveduto una zuppa del tutto
accettabile, con qualcosa che poteva essere carne di manzo, e ogni soldato del
reggimento ricevette una razione di whisky. Forse questo fu un errore, perché
stimolò la sete e la voglia di berne di più. Dopo il concerto Rob J. incontrò
Wilcox e Ordway che tornavano dalla riva del fiume dove si erano scolati una
bottiglia di pessimo whisky del vivandiere. Wilcox sorreggeva Ordway, ma lui
stesso barcollava.
«Tu vai a dormire, Abner» ordinò Rob J. «Io accompagno Ordway alla sua
tenda.» Wilcox annuì e se ne andò, ma Rob J. non fece quel che aveva detto.
Invece portò Ordway lontano dalle tende e lo fece sedere su un macigno.
«Lanny» cominciò. «Lan, ragazzo. Parliamo un po', tu e io.»
Ordway lo guardò con gli occhi semichiusi dell'ubriaco.
«... Buon Natale, dottore.»
«Buon Natale, Lanny. Parliamo un po' dell'Ordine della Bandiera Stellata»
fece Rob J.
Decise dunque che il whisky era una chiave che gli avrebbe aperto ciò che
Lanning Ordway sapeva. Il 3 gennaio, quando il colonnello Symonds venne da
lui con un altro contratto, Rob J. stava osservando Ordway che riempiva con
cura il suo zaino di bendaggi puliti e pillole di morfina. Esitò solo un momento,
senza staccare gli occhi da Ordway. Poi scarabocchiò la sua firma in calce al
contratto per altri tre mesi.
55
Rob J. pensava di essere stato molto scaltro e molto guardingo quando ave-
va interrogato Ordway ubriaco la vigilia di Natale. Le risposte avevano confer-
mato il quadro che si era fatto dell'uomo e dell'Ordine della Bandiera Stellata.
Seduto a terra e appoggiato al palo della tenda, con il suo diario sulle
ginocchia, scrisse queste note:
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Lanning Ordway cominciò a frequentare le riunioni del partito
americano a Vincennes, Indiana, «cinque anni prima di aver raggiunto
l'età per votare».
(Mi chiese dove mi ero iscritto al partito e io dissi: «A Boston».)
Era suo padre che lo accompagnava alle riunioni, «perché voleva che
io diventassi un buon americano». Suo padre era Nathanael Ordway e
lavorava come operaio da un fabbricante di scope. Le riunioni si teneva-
no al primo piano sopra un'osteria. Passavano attraverso l'osteria, usci-
vano dalla porta sul retro, salivano una scala. Suo padre batteva il
segnale alla porta. Ricorda che suo padre era sempre orgoglioso quando
il «Guardiano della Porta» (!) li osservava dallo spioncino e li faceva
entrare «perché noi eravamo brava gente».
Dopo un anno o giù di lì, quando suo padre era ubriaco o ammalato,
Lanning talvolta andava alle riunioni da solo. E quando Nathanael
Ordway morì («del troppo bere e di pleurite») Lanning andò a Chicago a
lavorare in un saloon vicino alla stazione, in Galena Street, dove un cugi-
no di suo padre vendeva whisky. Ripuliva il pavimento insudiciato dal
vomito degli ubriachi, spargeva segatura fresca ogni mattina, lavava gli
specchi, lustrava gli ottoni - faceva tutto ciò che c'era da fare.
Era naturale che cercasse una sezione dei Know-Nothing a Chicago.
Era come cercare un contatto con la famiglia, perché aveva molte più
cose in comune con i membri del partito americano che con il cugino di
suo padre. Il partito si adoperava per eleggere solo funzionari pubblici
che assumessero dipendenti nati in America, e non immigranti. Malgrado
la gamba zoppa (parlando con lui e osservandolo, mi sono convinto che
Ordway deve essere nato con una cavità articolare dell'anca troppo poco
profonda), i membri ricorrevano a lui quando avevano bisogno di qualcu-
no abbastanza giovane da portare missive importanti e abbastanza adulto
da tenere la bocca chiusa.
Fu motivo di orgoglio per lui quando, dopo solo un paio d'anni, ne
aveva allora 17, fu accolto nella società segreta dell'Ordine della
Bandiera Stellata. Mi fece capire che era anche una fonte di speranza per
lui, perché pensava che un ragazzo americano povero e zoppo aveva
bisogno dell'appoggio di un'organizzazione potente se voleva contare
qualcosa, «con questi stranieri cattolici e romani che vengono a fare qua-
si ogni lavoro degli americani per un tozzo di pane».
L'Ordine «faceva cose che il partito non poteva fare». Quando chiesi a
372
Ordway che cosa faceva per l'Ordine, mi rispose: «Questo e quello.
Viaggiavo, qua e là».
Gli chiesi se aveva mai incontrato un tipo di nome Hank Cough, e
sbatté le palpebre. «Naturalmente lo conosco. Anche lei lo conosce? Ma
guarda un po'! Hank!»
Gli chiesi dov'era Cough, e lui mi guardò in modo strano. «Be',
nell'esercito!»
Ma quando gli chiesi che lavoro avevano fatto insieme, si pose l'indice
sotto l'occhio e lo fece strisciare lungo il naso. Si alzò in piedi bar-
collando e l'intervista ebbe fine.
373
che si chiama Holden's Crossing.»
Ordway lo guardò ammutolito.
«La donna indiana che è stata uccisa, Lanny. Era una mia amica, lavorava
per me. Si chiamava Makwa-ikwa, in caso che tu non lo sappia. È stata
violentata e assassinata nei miei boschi, nella mia fattoria.»
«Donna indiana? Mio Dio! Vada via da me, miserabile canaglia! Io non so
di che cosa parla. E l'avverto. Se è abbastanza furbo e ha cara la sua salute,
bastardo di una spia, si dimentichi tutto quello che crede di sapere su Ellwood
R. Patterson.» Balzò in piedi e barcollando si allontanò nel buio, più svelto che
poteva, come se gli sparassero dietro.
Rob J. lo tenne d'occhio per tutto il giorno successivo. L'osservò mentre ad-
destrava la sua squadra di barellieri, ispezionava i loro zaini, li ammoniva a
essere parchi nel somministrare morfina perché le scorte del reggimento erano
quasi esaurite e si doveva aspettare per ricevere rifornimenti. Lanning Ordway,
doveva riconoscerlo, era diventato un ottimo sergente del corpo ambulanze.
Nel pomeriggio Rob J. vide Ordway nella sua tenda: matita in mano, scrive-
va. Scrisse per molte ore.
Dopo il silenzio Ordway portò una busta alla tenda della posta.
Rob J. attese qualche tempo e poi si recò egli stesso alla tenda della posta.
«Questa mattina ho trovato un vivandiere che ha un ottimo formaggio» disse ad
Amasa Decker. «Ne ho lasciato un bel pezzo nella tua tenda.»
«Davvero, dottore?» Decker era piacevolmente sorpreso.
«Devo aver cura dei miei barellieri, no? Meglio che tu vada a prenderlo e
mangiarlo, prima che te lo prenda qualcun altro. Sarò ben lieto di fare il postino
finché ritorni.»
Questo bastò. Appena Decker fu corso fuori, Rob J. andò alla cassetta delle
lettere in partenza. Gli ci vollero solo pochi minuti per trovare la busta e infi-
larla nel suo mee-shome.
Quando fu solo nell'intimità della sua tenda, tirò fuori la busta e l'aprì. Era
indirizzata al Rev. David Goodnow, 237 Bridgeton Street, Chicago, Illinois.
374
ragazza indiana, quella volta nell'Illinois. Io posso farlo fuori, in tanti
modi. Ma userò la testa e la informerò perché possa scoprire come ha
fatto a sapere di noi. Io sono sergente. Quando la guerra finirà lavorerò
di nuovo per l'Ordine. Lanning Ordway
56
Rob J. si rendeva penosamente conto che nel bel mezzo di una guerra, con
armi dappertutto e in tutte le mani, con la morte che era ormai uno spettacolo
quotidiano, ci sarebbero stati molti modi e molte occasioni per un assassino
esperto che fosse deciso a "farlo fuori".
Per quattro giorni cercò di guardarsi alle spalle e per cinque notti dormì po-
co o nulla. Restava sveglio, domandandosi in che modo Ordway l'avrebbe
fatto. Al suo posto, e con il suo temperamento, lui avrebbe aspettato finché
entrambi si fossero trovati in mezzo al fuoco, in una mischia rumorosa. D'altra
parte non sapeva se Ordway fosse uno che manovrava il coltello. Se Rob J.
fosse stato trovato pugnalato, o con la gola tagliata, dopo una notte buia quando
ogni sentinella in tensione si figurava che ogni ombra mobile gettata dalla luna
fosse un infiltrato nemico, la sua morte non avrebbe suscitato sorpresa né
provocato inchieste.
La situazione cambiò il 19 gennaio, quando la compagnia B, seconda briga-
ta, ebbe l'ordine di attraversare il Rappahannock per una rapida ricognizione,
seguita da un'altrettanto rapida ritirata. Ma non fu così: la compagnia, compo-
sta da un piccolo numero di fanti, trovò le posizioni dei confederati in piena
forza là dove non si era aspettata di trovarli e i suoi uomini furono duramente
bersagliati in luogo aperto dal fuoco nemico. Era la replica della situazione in
cui si era trovato poche settimane prima l'intero reggimento; ma, invece dei 700
uomini che allora avevano attraversato il fiume con le baionette inastate per
portar soccorso, non arrivarono rinforzi dall'armata del Potomac. I 107 fanti
della compagnia B rimasero dov'erano e si presero in pieno il fuoco nemico,
rispondendo come potevano. Quando scese la notte, si diedero alla fuga riat-
traversando il fiume e portando con sé quattro morti e sette feriti.
La prima persona che riportarono nella tenda-ospedale era Lanning Ordway.
I compagni di squadra riferirono che era stato ferito poco prima del calar
375
della notte. Stava frugandosi in tasca per prendere un involto con un panino e
una fetta di arrosto di maiale che si era procurato quella mattina, quando due
pallottole minié lo colpirono l'una dopo l'altra. Una aveva strappato un pezzo di
tessuto della parete addominale e ora ne fuoriusciva un groviglio di intestino
grigiastro. Rob J. cominciò a spingerlo nell'interno, pensando di suturare la fe-
rita, ma vide subito che c'era ben altro, e che non poteva far nulla per salvare
Ordway.
La seconda ferita era perforante e aveva fatto troppo danno internamente,
all'intestino o allo stomaco, o forse a entrambi. Rob J. capì che se avesse aperto
il ventre, avrebbe trovato il sangue dell'emorragia interna riversato nella cavità
addominale. Il viso di Ordway era bianco come il latte.
«C'è qualche cosa che desideri, Lanny?» chiese gentilmente.
Le labbra del ferito si contorsero. Fissò il medico con una strana calma, che
Rob J. aveva già visto prima nei morenti, e quello sguardo gli rivelò che l'uomo
si rendeva conto. «Acqua» mormorò.
Era la cosa peggiore da dare a un uomo ferito nel ventre, ma Rob J. sapeva
che ormai non aveva più importanza. Trasse due compresse di oppio dal suo
mee-shome e le diede a Ordway con un bicchier d'acqua. Quasi subito Ordway
vomitò un liquido rosso.
«Vorresti un pastore?» chiese ancora Rob J., mentre lo riadagiava. Ma
Ordway non rispose: continuò solo a fissarlo.
«Forse vuoi dirmi che cos'è accaduto esattamente a Makwa-ik-wa quel
giorno alla mia fattoria. O dirmi qualcosa d'altro, qualunque cosa.»
«Lei... inferno» cercò di articolare Ordway.
Rob J. non pensava che avrebbe mai parlato. Né credeva che lui o qualsiasi
altro potesse andare all'inferno, ma non era il momento per una disputa
teologica. «Pensavo che poteva aiutarti il parlarne, in questo momento. Non
vuoi scaricarti, se hai qualche peso sull'anima?»
Ordway chiuse gli occhi e Rob J. capì che doveva lasciarlo in pace. Detesta-
va veder morire un suo paziente, ma soprattutto lo angosciava ora perdere
quell'uomo che si preparava a ucciderlo, perché, chiuse nel suo cervello, c'era-
no notizie che cercava da anni, e se il cervello dell'uomo si spegneva come una
lampada, quelle notizie sarebbero state perdute.
Sapeva anche che, malgrado tutto, qualcosa in lui parlava a favore di quello
strano e complicato giovane che era stato preso e stritolato in un sinistro mec-
canismo. Quale sarebbe stata la sua vita se fosse nato senza menomazioni, se
avesse avuto un po' di istruzione invece di restare nell'ignoranza, e avesse
avuto un'eredità diversa da quella lasciatagli da un padre ubriacone?
376
Ma si rendeva conto dell'inutilità di quelle riflessioni e, quando volse lo
sguardo alla figura immobile, seppe che Ordway era al di là di ogni considera-
zione umana.
Dovette somministrare l'etere a un giovane ferito mentre Gardner Copper-
smith estraeva, non senza abilità, una pallottola miniò dalla natica sinistra del
ragazzo. Poi tornò da Ordway e gli legò la mascella e appoggiò due monetine
sulle sue palpebre per tenerle chiuse; poi lo adagiò a terra accanto agli altri
quattro che erano stati riportati dallo scontro sul fiume.
57
Il cerchio si chiude
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sua squadra si preoccuparono di attaccarsi etichette di identificazione. Ora
uscivano senza ombra di paura, perché Amasa Decker, Alan Johnson e Lucius
Wagner si erano convinti che il talismano di Makwa-ikwa li proteggeva davve-
ro e Rob J. aveva finito per essere contagiato dalla loro convinzione. Era come
se il mee-shome in qualche modo generasse una forza che deviava i proiettili,
rendendo i loro corpi invulnerabili.
Pareva talvolta che la guerra ci fosse sempre stata, e dovesse durare in
eterno. Tuttavia Rob J. poteva vedere qualche cambiamento. Un giorno lesse in
una copia tutta stazzonata del Baltimore American che tutti i maschi bianchi
del Sud fra i 17 e i 50 anni erano stati chiamati alle armi nell'esercito confede-
rato. Significava che da quel momento in poi ogni perdita dei confederati non
poteva più essere rimpiazzata, e il loro esercito si stava dissanguando. Rob J.
vedeva con i propri occhi che i soldati confederati, morti o presi prigionieri,
indossavano uniformi lacere e scarpe rotte. Si chiedeva disperatamente se Alex
era ancora vivo, se era nutrito e vestito e calzato. Il colonnello Symonds annun-
ciò che presto il 119° Indiana avrebbe ricevuto un rifornimento di carabine
munite di carica innescante che consentiva un rapido fuoco. E questo indicava
chiara-i mente come sarebbe stato lo svolgimento della guerra, con il Nord che
fabbricava fucili, munizioni e navi migliori, e il Sud che lottava con il calo
degli uomini e la scarsità di tutto ciò che doveva essere prodotto in fabbrica.
Il problema era che i confederati non si rendevano conto di essere in terribi-
le svantaggio industriale e continuavano a combattere con un accanimento che
minacciava di prolungare all'infinito la guerra.
Rob J. fu lieto di avere con sé il mee-shome due giorni dopo, quando il 119°
Indiana, circa un chilometro oltre la confluenza del Rapidan con il fiume più
grande, girò una curva della strada e si trovò letteralmente a guardare in faccia
una brigata di uomini ugualmente sbalorditi in uniformi grigie.
Da entrambe le parti cominciarono insieme a sparare, alcuni a bruciapelo.
L'aria era piena di imprecazioni e di grida, scoppi di moschetti, urla di feriti;
poi le prime file si scontrarono corpo a corpo, con gli ufficiali che roteavano le
spade o sparavano con le rivoltelle, e i soldati che menavano i fucili come
bastoni o si battevano con i pugni e le unghie e i denti, non avendo tempo di
ricaricare.
Su un lato della strada c'era un bosco di querce e sull'altro un campo appena
concimato che pareva morbido come il velluto, arato e pronto per la semina.
Alcuni dei soldati di ognuna delle due forze nemiche si rifugiarono dietro gli
alberi, ma il grosso invase il campo, continuando a sparare l'uno contro l'altro
da una disordinata e frammentaria linea di scontro.
Di solito, durante una battaglia, Rob J. si teneva nella retroguardia, aspet-
tando di essere chiamato dov'era necessaria la sua opera; ma in quella confu-
sione si trovò a dibattersi con il suo cavallo terrorizzato nel bel mezzo della
mischia. Il castrone scartò, indietreggiò di un passo, poi parve accasciarsi sotto
di lui. Rob J. riuscì a balzar di sella quando l'animale crollò a terra e rimase a
scalciare e a contorcersi. Vi era un foro senza sangue, della grandezza di una
monetina, nella gola color fango di Bel Giovane, ma un doppio rivolo di
sangue gli scorreva dalle froge mentre il cavallo si affannava a respirare,
scalciando spasmodicamente nell'agonia.
379
La borsa medica conteneva una siringa ipodermica e fiale di morfina, ma gli
oppiacei già scarseggiavano e non si potevano sprecare per un cavallo. Dieci
metri più in là giaceva morto un giovane tenente confederato e Rob J. andò a
togliergli il pesante revolver nero dal fodero. Poi tornò dal suo brutto cavallo e
puntò la bocca della pistola contro l'orecchio di Bel Giovane e premette il
grilletto.
Si era allontanato non più di cinque o sei passi, quando sentì un dolore
bruciante nella parte superiore del braccio sinistro, come se un'ape gigantesca
lo avesse punto. Fece altri tre passi, poi la nera terra morbida di concime parve
sollevarsi a raccoglierlo. Era sempre lucido, sapeva di essere venuto meno e di
poter presto recuperare le forze, e rimase sdraiato contemplando con il gusto
del pittore il crudo sole color ocra in un cielo pazzamente blu, mentre i suoni
intorno si spegnevano come se qualcuno avesse gettato una coperta sul resto
del mondo. Non seppe mai quanto tempo fosse rimasto a terra così. Si rese
conto che perdeva sangue dal braccio e frugò nella borsa per prendere dei
bendaggi da premere sulla ferita per tamponare l'emorragia. Abbassando lo
sguardo vide un po' di sangue sul mee-shome e fu colpito dall'irresistibile ironia
delle cose, tanto che si trovò a ridere pensando all'ateo che aveva cercato di
farsi un idolo di una vecchia borsa con un paio di corregge di cuoio.
Infine arrivò a raccoglierlo la squadra di Wilcox. Il sergente - non meno
brutto di Bel Giovane, ma con gli occhi strabici pieni di ansia e di affetto - gli
borbottava le blande frasi insensate che lui stesso aveva detto un migliaio di
volte ai pazienti nel vano tentativo di recare conforto. I sudisti, poiché erano
enormemente inferiori di numero, si erano ritirati. Il suolo era coperto di uno
strato di uomini e cavalli morti e carri sfasciati e armi sparse alla rinfusa e
Wilcox osservò tristemente che il fattore avrebbe fatto una fatica del diavolo a
ripulire e arare quel bel campo.
Sapeva di essere fortunato che la ferita non fosse peggio, ma era più che un
semplice graffio. Il proiettile non aveva colpito l'osso, ma aveva rovinato la
carne e il muscolo. Coppersmith aveva parzialmente suturato la ferita e l'aveva
bendata con cura, provando evidentemente un certo compiacimento nell'opera.
Rob J. insieme con altri 36 feriti fu trasportato a Fredericksburg in un ospe-
dale di zona, dove rimase dieci giorni. L'ospedale era installato in un vecchio
magazzino e non era pulito come avrebbe dovuto, ma l'ufficiale medico in cari-
ca, il maggiore Sparrow, che prima della guerra aveva lavorato ad Hartford,
Connecticut, era un discreto chirurgo. Rob J. ricordava gli esperimenti del
dottor Milton Akerson con l'acido cloridrico nell'Illinois e il dottor Sparrow gli
380
consentì di lavarsi di tanto in tanto la ferita con una blanda soluzione di acido
cloridrico. Bruciava, ma la ferita cominciò a cicatrizzare facilmente e senza
infezione, e i due medici convennero che probabilmente sarebbe stato utile pro-
vare il sistema su altri pazienti. Rob J. poteva flettere le dita e muovere la mano
sinistra, anche se con dolore. Ammise, d'accordo con il dottor Sparrow, che era
troppo presto per stabilire quanta forza e mobilità avrebbe potuto recuperare il
braccio ferito.
Il colonnello Symonds venne a trovarlo dopo una settimana. «Ora se ne
vada a casa, dottor Cole. Quando si sarà perfettamente ristabilito, se vorrà tor-
nare da noi sarà il benvenuto» gli disse, anche se entrambi sapevano che non
sarebbe tornato. Symonds lo ringraziò con un certo imbarazzo. «Se io soprav-
vivo e un giorno lei si troverà a Fort Wayne, Indiana, deve venire a trovarmi
alla fabbrica di tubi di vetro per lumi a petrolio Symonds e mangeremo buon
cibo e berremo buon vino e parleremo a lungo dei cattivi tempi andati.» E si
strinsero forte le mani prima che il giovane colonnello si allontanasse. Gli ci
vollero tre giorni e mezzo per tornare a casa, per cinque diverse linee ferro-
viarie, partendo con la Ferrovia Baltimora & Ohio. Tutti i treni facevano lunghi
ritardi, erano sporchi e gremiti di viaggiatori di ogni sorta. Rob J. aveva il brac-
cio al collo, ma non era che un civile di mezza età e diverse volte dovette stare
in piedi in un vagone traballante, sballottato fra duri scossoni per 70 o 80 chi-
lometri. A Canton, Ohio, dovette aspettare una mezza giornata per cambiar
treno, e poi prese posto accanto a un tal Harrison, viaggiatore di commercio,
che lavorava per una grossa ditta di forniture militari. Gli confidò che più volte
si era trovato a poca distanza dal fronte, tanto da sentire il fragore delle
fucilate; era pieno di improbabili storie di guerra, condite con i nomi di impor-
tanti personaggi politici o militari, ma Rob J. non era infastidito: le storie
facevano passare più presto i chilometri.
Nei vagoni afosi e gremiti cominciò presto a mancar l'acqua. Come gli altri,
Rob J. bevve tutto ciò che aveva nella borraccia e poi cominciò a soffrire la
sete. Infine il treno si fermò a una stazione intermedia, vicino a un accam-
pamento militare poco fuori di Marion, Ohio, per caricare combustibile e
attingere acqua da un piccolo torrente, e i passeggeri si riversarono fuori dei
vagoni per riempire i loro recipienti. Rob J. era fra loro, ma, mentre si ingi-
nocchiava sulla riva con la borraccia in mano, qualcosa attrasse il suo sguardo
dall'altra parte del torrente, e con disgusto riconobbe subito che cos'era. Si
avvicinò di più ed ebbe la conferma che qualcuno aveva gettato bende usate,
fasce insanguinate e altri rifiuti d'ospedale nel torrente, e quando una breve
ispezione gli rivelò altri punti di discarica nelle vicinanze, richiuse la borraccia
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e avverti gli altri viaggiatori che facessero altrettanto.
Il controllore li informò che avrebbero potuto trovare dell'acqua buona a
Lima, la prossima stazione, e Rob tornò al suo posto; quando il treno riprese la
corsa, cadde quasi subito addormentato, malgrado gli scossoni del vagone. Al
destarsi apprese che il treno aveva appena lasciato la stazione di Lima. «Che
seccatura» esclamò irritato. «Avevo bisogno di procurarmi dell'acqua.»
«Non si preoccupi,» fece Harrison «io ne ho tanta!» Gli passò la sua
bottiglia e Rob J. grato ne bevve avidamente.
«C'era molta folla a Lima che aspettava di prender l'acqua?» chiese, resti-
tuendo la bottiglia.
«Oh, ma io non l'ho presa a Lima! Mi ero già riempito la bottiglia a Marion,
quando il treno si è fermato per caricare carbone» rispose il commesso viag-
giatore.
Impallidì quando Rob J. gli disse che cosa aveva visto nel torrente a
Marion. «E allora, ci ammaleremo?»
«Non saprei dirlo.» A Gettysburg aveva visto un'intera compagnia bere per
quattro giorni acqua attinta da un pozzo dove poi si erano rinvenuti due confe-
derati morti, senza riportarne conseguenze gravi. Si strinse nelle spalle. «Non
sarei sorpreso se fra qualche giorno avessimo una forte diarrea.»
«Non possiamo prendere qualcosa per...»
«Un po' di whisky potrebbe servire, se ne avessimo.»
«Lasci fare a me.» Harrison si precipitò fuori in cerca del controllore e tornò
con il portafogli indubbiamente alleggerito e con una grossa bottiglia piena per
tre quarti. Il whisky era abbastanza forte da poter servire allo scopo, confermò
Rob J. dopo averlo assaggiato. Quando si separarono, un po' brilli, a South
Bend, Indiana, ognuno era convinto che l'altro fosse un caro amico, e si strin-
sero la mano con molto calore. Rob J. era già arrivato a Gary quando si rese
conto che non sapeva neppure il nome di battesimo di Harrison.
Arrivò a Rock Island nella frescura del primo mattino, con un forte vento
che soffiava dal fiume. Lasciò il treno con un gran senso di sollievo e attra-
versò la città reggendo la valigia con la mano buona. Voleva noleggiare un
cavallo e farsi una trottata, ma incontrò in strada George Cliburne e il mercante
di granaglie non finiva più di stringergli la mano e dargli pacche sulle spalle e
insistette per accompagnarlo egli stesso a Holden's Crossing con il suo calesse.
Quando Rob J. comparve sulla porta di casa, Sarah era seduta davanti alla
sua colazione di uova e pane raffermo. Lo guardò senza dir parola e scoppiò a
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piangere. Furono subito nelle braccia l'una dell'altro.
«Sei ferito! Una brutta ferita?»
Le assicurò che non era niente. «Come sei magro!» Voleva preparargli la
colazione, ma lui disse che avrebbe mangiato dopo. Cominciò a baciarla,
impaziente come un ragazzo. La voleva subito, sul tavolo, sul pavimento, ma
lei affermò che era ormai tempo di tornare sul loro letto e Rob J. la segui su per
le scale. Nella stanza da letto lo fece aspettare finché fu del tutto spogliata.
«Avrei bisogno di un bagno» mormorò Rob J. nervosamente, ma lei replicò che
poteva lavarsi dopo. Tutti quegli anni e la fatica e il dolore della ferita gli
caddero di dosso assieme alle vesti. Si baciarono e si esplorarono più avida-
mente di quanto avessero fatto nel fienile del fattore, dopo le nozze al Grande
Risveglio, perché ora sapevano quel che gli era mancato. La sua mano buona la
trovò, e le sue dita parlarono. Dopo un po' le gambe di Sarah non la reggevano
più e Rob J. trasalì per il dolore quando lei gli si aggrappò al collo. Sarah guar-
dò la ferita senza impallidire, ma lo aiutò a infilare di nuovo il braccio nella
tracolla e lo fece sdraiare sul letto mentre lei si occupava di ogni cosa. E
quando fecero l'amore Rob J. gridò più volte, una volta perché il braccio gli
fece male.
Fu una gioia per Rob J. non solo tornare da sua moglie, ma andare alla stalla
a portare mele secche ai cavalli e vedere che lo riconoscevano; e incontrare
Alden che stava aggiustando le palizzate e scorgere la gioia intensa sul viso del
vecchio bracciante; e andare per il Sentiero Corto attraverso i boschi fino al
fiume e fermarsi a strappare le erbacce dalla tomba di Makwa-ikwa e sedersi
con la schiena appoggiata a un albero vicino al luogo dove era sorto l'hedo-
noso-te a osservare l'acqua che scorreva in pace, senza che nessuno dall'altra
riva gettasse grida bestiali e sparasse contro di lui.
Quel pomeriggio sul tardi lui e Sarah presero il Sentiero Lungo, fra la loro
casa e quella dei Geiger. Anche Lillian pianse vedendolo e lo baciò sulla bocca.
Jason era vivo e stava bene, secondo le ultime notizie, e amministrava un
grande ospedale sul fiume James.
«Io ero molto vicino a lui» osservò Rob J. «Solo un paio d'ore di viaggio.»
Lillian annuì. «Se Dio vuole, sarà anche lui di ritorno tra poco» aggiunse, e
non poté fare a meno di guardare il braccio di Rob J.
Sarah non volle fermarsi da Lillian per cena, poiché desiderava avere il
marito tutto per sé.
Ma riuscì a tenerlo con sé in pace solo per un paio di giorni, perché alla
terza mattina si era già diffusa la voce che il dottor Cole era tornato, e cominciò
383
ad arrivare una quantità di gente: alcuni solo per salutarlo, ma molti per portare
abilmente il discorso su un foruncolo nella gamba o una tosse ostinata, o un
dolore allo stomaco che non voleva cessare. Il terzo giorno Sarah dovette
arrendersi: Alden sellò Boss e Rob J. visitò una mezza dozzina di fattorie,
dando un'occhiata ai suoi vecchi pazienti.
Tobias Barr aveva aperto un ambulatorio a Holden's Crossing e vi si recava
tutti i mercoledì, ma la gente ci andava solo per i casi più urgenti, e Rob J. si
vide davanti allo stesso genere di problemi che aveva trovato quando era
arrivato la prima volta a Holden's Crossing: ernie trascurate, denti guasti, tossi
croniche. Recandosi dagli Schroeder, li salutò allegramente esclamando che era
contento di vedere che Gustav non aveva perso altre dita in incidenti di lavoro;
il che era vero, anche se lo diceva per scherzo. Alma gli offrì caffè di cicoria e
mandelbrot e lo mise al corrente delle notizie locali, alcune delle quali lo
rattristarono. Hans Grueber era morto all'improvviso nel suo campo di grano,
nell'agosto dell'anno precedente. «Il cuore, suppongo» aggiunse Gus. E Suzy
Gilbert, che aveva sempre offerto a Rob J. certe grosse frittelle di patate, era
morta di parto un mese prima.
In città erano arrivate nuove famiglie dal New England e dallo Stato di New
York. E tre famiglie di cattolici, di fresco emigrate dall'Irlanda. «Non viesco
neppuve a capive la lovo lingua» aggiunse Gus, e Rob J. non poté fare a meno
di ridere.
Nel pomeriggio, recandosi al convento di San Francesco, passò vicino a un
gregge di capre che ora aveva assunto proporzioni veramente rispettabili.
La Feroce Miriam lo accolse con un largo sorriso. Rob J. si sedette nella
poltrona del vescovo e le raccontò quel che gli era successo. La Madre
Superiora provò un vivo interesse al sentir raccontare di Lanning Ordway e
della lettera che aveva scritto al reverendo David Goodnow a Chicago. Gli
chiese se le permetteva di ricopiarsi il nome e l'indirizzo di Goodnow. «Ci sono
persone che saranno ansiose di ricevere questa informazione» aggiunse.
A sua volta gli parlò del suo mondo. Il convento prosperava. Aveva quattro
monache nuove e un paio di novizie. Alcuni laici venivano già al convento per
la messa domenicale. Se continuavano ad arrivare coloni, presto ci sarebbe
stata una chiesa cattolica.
Rob J. sospettò che la Madre Superiora si aspettasse una sua visita, perché
dopo un po' arrivò suor Mary Peter Celestine e servì un piatto di biscotti
appena sfornati e un eccellente formaggio di capra. E un autentico caffè, il
primo che avesse gustato da più di un anno, con un cremoso latte di capra per
addolcirlo. «Il vitello grasso, Reverenda Madre?»
384
«È bello che lei sia tornato a casa.»
Ogni giorno si sentiva più forte. Non ne abusava: dormiva fino a tardi,
mangiava del buon cibo con piacere, passeggiava per la fattoria. Ogni pomerig-
gio visitava alcuni pazienti.
Tuttavia doveva riabituarsi alla buona vita di sempre. Il settimo giorno dopo
il suo ritorno a casa sentì che le braccia e le gambe gli dolevano e la schiena gli
faceva male. Rise, e disse a Sarah che non era più abituato a dormire in un
letto.
Si svegliò nelle prime ore del mattino per un improvviso crampo al ventre.
Cercò di ignorarlo, perché non aveva voglia di alzarsi. Infine capì che doveva
farlo, ma era appena a metà delle scale che cominciò a correre saltando i
gradini e Sarah si destò.
Non riuscì ad arrivare al gabinetto esterno, ma si fermò un po' discosto dal
sentiero e si acquattò fra l'erba come un soldato ubriaco grugnendo e sobbal-
zando quando la scarica uscì.
Sarah l'aveva seguito giù dalle scale e nel prato e Rob J. si sentì crudelmen-
te umiliato che lei lo trovasse così. «Che succede?» gli chiese ansiosa.
«L'acqua... sul treno» ansimò.
Ebbe altri tre episodi durante la notte. La mattina si purgò con olio di ricino
per liberare l'intestino dal morbo, e, quando la sera non constatò miglioramen-
to, prese una dose di sale inglese. Il giorno dopo cominciò a bruciare di febbre,
accompagnata da violenti mal di testa: e riconobbe il male, ancor prima che
Sarah, spogliandolo quella sera per lavarlo, vedesse le macchie rosse sul suo
addome.
Sarah affrontò la situazione con risoluta fermezza. «Bene, abbiamo curato
altri pazienti con febbre tifoide, e li abbiamo salvati. Dimmi della dieta.»
Gli faceva nausea pensare al cibo, ma le dette le sue istruzioni. «Brodo di
carne con verdure, se puoi procurartene. Succhi di frutta. Ma in questa
stagione...»
C'erano ancora delle mele in una cassetta in cantina e Alden le avrebbe
grattugiate.
Sarah continuava a darsi da fare, per tenersi impegnata e non abbandonarsi
all'angoscia, ma dopo altre ventiquattr'ore capi che aveva bisogno di aiuto: non
aveva potuto dormire che qualche ora, sempre indaffarata con la padella del
malato e la necessità di cambiarlo continuamente e di fargli il bagno per
combattere la febbre e di bollire la biancheria. Mandò Alden al convento
385
cattolico per chiedere l'assistenza delle suore infermiere. Arrivò una coppia di
suore, e infatti aveva sentito dire che lavoravano sempre in coppia: una giovane
monaca con il viso infantile, suor Maria Benedicta, e una donna anziana, alta,
dal naso pronunciato, che disse di essere Madre Miriam Ferocia. Rob J. aprì gli
occhi e le vide e sorrise, e Sarah si ritirò nella stanza dei ragazzi e dormì sei ore
di fila.
La stanza del malato era tenuta in ordine e aveva odore di pulito. Le suore
erano ottime infermiere. Dopo tre giorni la temperatura del malato calò bru-
scamente. Dapprima le tre donne si rallegrarono, ma poco dopo la più anziana
fece osservare a Sarah che cominciava a esserci del sangue nelle feci. E Sarah
mandò Alden a cavallo a Rock Island a chiamare il dottor Barr.
Quando il medico arrivò, le feci erano quasi completamente composte di
sangue e Rob J. era molto pallido. Erano passati otto giorni da quando aveva
sentito il primo crampo.
«Un corso molto rapido» gli disse il dottor Barr, come se fossero a una
riunione della Società Medica.
«Succede qualche volta» replicò Rob J.
«Forse chinino, o calomelano?» chiese il dottor Barr. «Qualcuno ritiene che
sia un'affezione malarica.»
Rob J. replicò che il chinino e il calomelano erano inutili. «La febbre tifoide
non è un'affezione malarica» articolò con un certo sforzo.
Tobias Barr non aveva fatto tanto lavoro di anatomia quanto Rob J., ma
entrambi sapevano che una grave emorragia indicava quanto l'intestino fosse
crivellato da perforazioni causate dalla tifoide, e le ulcerazioni sarebbero peg-
giorate, non migliorate. E non occorrevano molte emorragie.
«Potrei lasciarle un po' di polvere di Dover» propose il dottor Barr. La
polvere di Dover era una miscela di ipecacuana e oppio. Rob J. scosse la testa e
il dottor Barr capi: voleva restare cosciente il più a lungo possibile, nella sua
stanza, nella sua casa.
Era più facile per il dottor Barr quando il paziente non si rendeva conto del
suo stato e poteva lasciargli un po' di speranza in una bottiglia, con le istruzioni
su come prenderla. Gli diede una pacca affettuosa su una spalla. «Verrò
domani» promise, componendo il viso in un'espressione serena: aveva già
affrontato prima situazioni del genere, ma i suoi occhi erano carichi di pena.
PARTE SESTA
Il medico di campagna
(2 maggio 1864)
58
Consigli
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non c'era più, e la familiare sicurezza della sua casa, come se il suo corpo e la
sua mente fossero parte integrante di questo luogo e rientrassero con la mas-
sima naturalezza all'antico posto. Il vibrare della casa a un'improvvisa raffica di
vento della pianura gli era ben noto, e così la sensazione del cuscino e delle
ruvide lenzuola sulla pelle, gli aromi della colazione che salivano dalle scale
attirandolo in cucina, e persino il familiare brillìo del caldo sole dorato sulla
rugiada dell'erba del cortile. Quando lasciò il gabinetto esterno, ebbe la tenta-
zione di avviarsi per il sentiero del fiume, ma dovevano passare ancora diverse
settimane prima che l'acqua fosse abbastanza calda per nuotarvi.
Mentre tornava in casa, Alden uscì dal fienile e gli fece cenno di fermarsi.
«Quanto tempo resterai qui, Sciamano?»
«Non so di preciso, Alden.»
«Bene, ecco il fatto. Ci sono un mucchio di siepi da piantare intorno ai
pascoli. Doug Penfield ha già arato le strisce, ma noi siamo in ritardo con gli
agnelli di primavera e un mucchio di altre cose, con tutto quello che è successo.
Mi servirebbe una mano da te per piantare le maclure. Forse ti ci vorranno
quattro giorni.»
Sciamano scosse la testa. «No, Alden, non posso»
Quando vide lo sguardo dispiaciuto del vecchio bracciante, provò un senso
di colpa e il bisogno di giustificarsi, ma non lo fece. Alden lo considerava
ancora il figlio minore del padrone, il ragazzo a cui si doveva dire quel che
c'era da fare, il ragazzo sordo che non era certo efficiente come Alex nei lavori
della fattoria. Quel rifiuto costituiva un cambiamento nelle loro reciproche
posizioni e Sciamano cercò di raddolcire quel momento. «Forse potrò fare
qualche lavoro fra un paio di giorni. Altrimenti, tu e Doug dovrete arrangiarvi
un po' da soli.» E Alden si allontanò imbronciato.
Lui e la madre si scambiarono un cauto sorriso quando si sedettero l'uno
vicino all'altra. Avevano imparato a parlare fra loro di cose senza importanza.
Sciamano le fece i complimenti per le salsicce e le uova, prodotti dalla loro
fattoria, cotti da lei alla perfezione; non aveva più gustato una colazione come
quella da quando era partito da casa.
Sarah osservò che il giorno prima aveva visto tre aironi azzurri, mentre si
recava in città. «Credo che quest'anno siano più numerosi che in passato. Forse
sono venuti a rifugiarsi qui da qualche altra località, spaventati dalla guerra.»
Sciamano era rimasto alzato fino a tardi, intento al diario del padre. C'erano
domande che avrebbe voluto porle, e lo rattristava non poterlo fare.
Dopo colazione passò molto tempo a consultare le schede dei pazienti di
suo padre. Nessuno teneva registrazioni mediche così esatte come Robert
388
Judson Cole. Anche se era stanco da morire, il dottor Cole aveva sempre
completato le sue note prima di coricarsi la sera e ora Sciamano poté compilare
un'accurata lista dei pazienti che il padre aveva curato nei pochi giorni dopo il
suo ritorno.
Chiese alla madre se poteva adoperare Boss e il calesse per quel giorno.
«Voglio andare dai pazienti che papà ha visitato. La febbre tifoide è tanto
contagiosa.»
Sarah annuì. «È una buona idea prendere il cavallo e il calesse. E per il tuo
desinare?»
«Mi basterà incartare un paio di fette del tuo pan biscotto e metterle in
tasca.»
«Anche lui faceva spesso così» osservò Sarah a bassa voce.
«Lo so.»
«Ti farò un pacchetto con la colazione.»
«Se vuoi, mamma, mi farà piacere.» Si avvicinò e la baciò sulla fronte.
Sarah rimase seduta, ma prese la mano del figlio e la tenne stretta. Quando
finalmente lo lasciò andare, Sciamano rimase colpito ancora una volta da
quanto era bella sua madre.
La sua prima tappa fu alla casa di un colono, William Bemis, che si era fatto
male alla schiena mentre aiutava una vacca a partorire il suo vitello. Bemis
zoppicava e aveva il torcicollo, ma disse che la sua schiena andava meglio.
«Però ho quasi finito quella pomata puzzolente che mi aveva dato suo padre.»
«Non ha avuto febbre, Mr. Bemis?»
«Diavolo, no. Ho solo picchiato la schiena, perché avrei dovuto aver
febbre?» L'uomo si accigliò. «Lei mi fa pagare la visita? Io non avevo mandato
a chiamare il dottore.»
«No, signore, nessun pagamento. Sono lieto che lei stia meglio» rispose
Sciamano, e gli lasciò un po' della pomata puzzolente, per farlo contento.
Cercò di includere visite che sapeva che suo padre avrebbe fatto, giusto per
salutare i pazienti. Arrivò alla fattoria degli Schroeder un po' prima di
mezzogiorno. «In tempo per il pranzo» Io salutò cordialmente Alma, e fece il
broncio quando Sciamano rispose che si era portato dietro la colazione.
«Bene, portala in cucina e la mangerai con noi» lo invitò Alma e fu lieto di
accettare per restare in loro compagnia. Sarah gli aveva preparato dell'agnello
freddo a fette, e una patata dolce al forno e tre toast spalmati di miele. Alma
servì un piatto di quaglie fritte e focacce ripiene di pesche. «Non avrai il
coraggio di rifiutare le mie focacce, fatte con il mio ultimo vaso di marmella-
ta!» minacciò Alma, e Sciamano ne prese due, ed ebbe una buona porzione di
389
quaglie.
«Tuo padre non si portava dietro la colazione, quando veniva da noi all'ora
di pranzo!» lo rimproverò Alma. Lo guardò negli occhi. «Pensi di restare a
Holden's Crossing, ora? Di essere il nostro medico?»
Sciamano si accigliò. Era una domanda naturale, che egli stesso avrebbe
dovuto porsi e finora aveva evitato. «Be', Alma... veramente non ci ho ancora
pensato.»
Gus Schroeder si chinò verso di lui e gli bisbigliò, come se gli comunicasse
un segreto: «E perché allora non ci pensi?».
A metà del pomeriggio Sciamano si recò alla casa degli Snow. Edwin Snow
coltivava frumento in una fattoria a nord di Holden's Crossing: era quella più
lontana da casa Cole a cui si potesse arrivare restando nei confini della città.
Snow aveva subito mandato a chiamare il dottor Cole, appena era corsa la voce
che era tornato, perché aveva una brutta infezione a un piede. Sciamano lo
trovò che camminava spedito, senza neppure zoppicare. «Oh, il mio alluce va
benone» gli disse allegramente. «Suo padre me l'ha curato: mentre Tilda mi
teneva fermo il piede, lui tagliava e apriva con quel suo coltellino e la sua
mano esperta, ferma come una roccia. L'ho tenuto a bagno nei sali, come mi
aveva detto lui, per far uscire il pus. Curioso, però, che lei sia venuto proprio
oggi. Tilda sta poco bene.»
Trovarono Mrs. Snow che dava da mangiare ai polli, pallida e malferma,
come se non avesse la forza di gettare il mangime. Era una donna tarchiata e
grossa con la faccia arrossata, e ammise di sentirsi «un po' calda». Sciamano
vide subito che aveva la febbre alta e si accorse del senso di sollievo della
donna quando le ordinò di restare a letto, anche se lei protestava che non era
necessario. Ma confessò al dottore che da un paio di giorni aveva un dolore
sordo alla schiena e aveva perduto l'appetito.
Sciamano fu subito allarmato, ma si sforzò di parlare con disinvoltura,
dicendole che le occorreva solo un po' di riposo, mentre il marito si sarebbe
occupato dei polli e degli altri animali. Le lasciò una bottiglietta di tonico e
promise di ripassare il giorno dopo. Snow cercò di discutere quando Sciamano
rifiutò di farsi pagare la visita, ma il giovane fu inflessibile. «Niente paga-
mento. Io non sono il vostro medico di famiglia, ero passato soltanto a salutar-
vi.» Non poteva ricevere denaro per curare una malattia che forse la donna
aveva preso da suo padre.
L'ultima tappa della giornata fu al convento di San Francesco.
Madre Miriam fu sinceramente lieta di vederlo. Quando lo invitò a sedersi,
390
Sciamano scelse la sedia di legno dallo schienale diritto dove si era seduto le
poche volte che era venuto al convento con suo padre.
«E allora» cominciò la Madre Superiora «è venuto a dare un'occhiata alla
casa paterna?»
«Qualcosa di più. Devo vedere se mio padre ha per caso contagiato con la
febbre tifoide qualcun altro a Holden's Crossing, Lei o suor Maria Benedicta
avete riscontrato qualche sintomo?»
Madre Miriam scosse la testa. «No, e non mi aspetto di trovarne. Noi siamo
abituate ad assistere pazienti con ogni sorta di malattie, come lo era suo padre.
Forse anche lei, ja!»
«Si, penso di essere abituato anch'io.»
«Io credo che il Signore protegga le persone come noi.»
Sciamano sorrise. «Spero che lei abbia ragione.»
«Avete curato molti casi di tifoide nel vostro ospedale?»
«Ne abbiamo avuta la nostra razione. Teniamo i malati contagiosi in un
edificio separato, lontani dagli altri.»
«Ja, è ragionevole. Mi dica del suo ospedale.»
Così Sciamano le parlò del Southwestern Ohio Hospital, cominciando dal
personale infermieristico perché sapeva che questo argomento avrebbe interes-
sato la suora, per passare poi al corpo medico e chirurgico, e alla sezione di
patologia. La suora gli poneva delle domande intelligenti, che lo spronavano a
continuare. Le parlò delle sue esperienze di chirurgo con il dottor Berwyn e del
suo lavoro di patologo con il dottor Barnett McGowan.
«Così lei ha avuto un buon addestramento e una buona esperienza. E
adesso, che cosa farà? Resterà a Cincinnati?»
Sciamano si trovò a raccontare che già Alma Schroeder glielo aveva chie-
sto, e che non era ancora pronto a rispondere.
Madre Miriam lo guardò con interesse. «E perché trova così difficile
decidere?»
«Quando vivevo qui, mi sentivo sempre incompleto: un ragazzo sordo in
mezzo a persone che udivano. Amavo e ammiravo mio padre e volevo essere
come lui. Bramavo disperatamente diventare medico, anche se tutti, persino
mio padre, mi dicevano che non era possibile.
«Il mio sogno è sempre stato quello di diventare un medico. Ora il sogno si
è realizzato. Non sono più incompleto, sono di ritorno nei luoghi che amo. Per
me questi luoghi apparterranno sempre al vero medico, mio padre.»
Madre Miriam annuì. «Ma lui non c'è più, Sciamano.»
Sciamano rimase in silenzio. Sentì battergli forte il cuore, come se ricevesse
391
la notizia per la prima volta.
«Voglio che lei faccia qualche cosa per me» aggiunse la suora. Gli additò la
poltrona di cuoio. «Prego, si sieda là dove sedeva sempre lui.»
Riluttante, un po' rigido, Sciamano si alzò dalla sedia di legno e si sedette
nella poltrona imbottita. Madre Miriam attese un attimo. «Non è così scomoda,
credo.»
«È comodissima.»
«E lei ci sta molto bene...» Sorrise e gli diede lo stesso consiglio che già gli
aveva dato Gus Schroeder. «E allora deve pensarci.»
La mattina dopo di buonora Sciamano era già nei campi, in abiti da lavoro.
Era una bella giornata per il lavoro all'aperto, asciutta e ventilata, con un im-
menso cielo pieno di nubi che non minacciavano pioggia. Non aveva fatto
lavoro di braccia da molto tempo e sentì i muscoli indolenziti prima ancora di
finire di scavare la prima buca. Aveva piantato solo tre maclure quando sua
madre comparve nella prateria in sella a Boss, seguita da un colono svedese,
tale Par Swanson, che Sciamano conosceva di vista.
«È per mia figlia» gli gridò il colono da lontano. «Ho paura che si sia rotta
il collo.»
Sciamano prese il cavallo della madre e segui il colono. Era una cavalcata di
circa dodici minuti fino alla casa degli Swanson. Dalla breve descrizione del-
l'uomo, tremava all'idea di quello che avrebbe potuto trovare, ma, quando ar-
rivarono, vide subito che la bambina era viva e soffriva molto.
Selma Swanson era una bambina biondissima, di neanche tre anni. Le pia-
ceva montare sul carro che spargeva il concime, insieme con suo padre. Quella
mattina il carro aveva spaventato un grosso falco che stava divorando un topo
nel campo. Il falco si era alzato di colpo in volo, terrorizzando i cavalli, che
avevano fatto uno scarto violento, e la piccola aveva perso l'equilibrio ed era
caduta. Mentre lottava per controllare gli animali, Par aveva visto che la figlia,
cadendo, era stata colpita dall'angolo del carro. «Mi è sembrato che l'avesse
colpita al collo» spiegò al medico.
La bambina si stringeva il braccio sinistro al petto con la mano destra, la sua
spalla sinistra appariva sporgente in avanti. Sciamano la esaminò. «No, si tratta
della clavicola.»
«È rotta?» chiese la madre.
«Be', un po' piegata, forse una piccola incrinatura. Non si preoccupi. Sareb-
be grave se fosse un adulto. Ma alla sua età le ossa sono ancora flessibili come
rametti verdi, e guariscono molto rapidamente.» Con panni fornitigli da Mrs.
Swanson il medico fece una piccola tracolla per il braccio sinistro della
bambina, poi le legò il braccio al corpo con un altro panno, per impedire alla
clavicola di muoversi.
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La piccola si era calmata quando Sciamano finì di bere il caffè che Mrs.
Swanson aveva fatto bollire sulla stufa. Si trovava ormai a poca distanza da
diversi pazienti che aveva stabilito di visitare quel giorno, e pensò che non
aveva senso tornare a casa e poi uscire di nuovo. Così si avviò direttamente a
fare le sue visite.
La moglie di uno dei nuovi coloni, Mrs. Royce, gli offrì a mezzogiorno una
bella porzione di pasticcio di carne. Era già il tardo pomeriggio quando tornò a
casa. Mentre passava accanto al campo dove aveva cominciato a lavorare quel
mattino, vide che Alden aveva messo Doug Penfield a piantare la siepe di
maclure, e una lunga fila di verdi virgulti si estendeva già nella prateria.
59
Il padre segreto
«Dio non voglia!» mormorò Lillian. Nessuno dei Geiger presentava sintomi
di febbre tifoide, confermò. Sciamano pensò che il viso della donna rivelava lo
sforzo e la tensione di portare avanti la fattoria, la casa e i figli senza l'aiuto del
marito. L'attività della farmacia ne aveva un po' sofferto, ma Lillian continuava
a badare anche ad alcuni aspetti del commercio di Jason e importava prodotti
farmaceutici per To-bias Barr e Julius Barton.
«Il problema è che Jason si faceva mandare molti prodotti dalla fabbrica
farmaceutica della sua famiglia a Charleston. E ora naturalmente la Carolina
del Sud è tagliata fuori dalla guerra» spiegava Lillian versando il tè.
«Hai notizie di Jason?»
«Non ultimamente.»
Pareva a disagio quando Sciamano le chiedeva del marito, ma lui capiva:
Lillian esitava a parlare per paura di poter dire qualcosa che potesse danneg-
giare Jason o la sua famiglia, o rivelare segreti militari. Era difficile per una
donna vivere in uno stato dell'Unione mentre il marito combatteva in Virginia
con i confederati.
L'atmosfera divenne più cordiale quando cominciarono a parlare della car-
riera di Sciamano. Lillian sapeva tutto dei suoi progressi all'ospedale e delle
promesse che gli erano state fatte. Ovviamente sua madre confidava all'amica
le notizie che riceveva dalle sue lettere.
«Cincinnati è una città così cosmopolita» diceva Lillian. «Sarà magnifico
per te stabilirti là, insegnare all'Istituto di Medicina e fare una brillante carriera
di chirurgo. Jay e io siamo tanto fieri dì te.» Tagliava sottili fette di torta al
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caffè e gliene riempiva il piatto.
«Quando pensi di tornare all'ospedale?»
«Non sono tanto sicuro di tornare.»
«Sciamano! Tu sei venuto a casa quando tuo padre è morto e ti sei occupato
di tutto il necessario. Ora devi cominciare a pensare a te stesso e alla tua
carriera. Sai cosa vorrebbe per te tuo padre?»
«Che cosa vorrebbe, zia Lillian?»
«Tuo padre vorrebbe che tu tornassi a Cincinnati e facessi la tua carriera.
Devi tornare là il più presto possibile» affermò Lillian solennemente.
Sapeva che Lillian aveva ragione. Se doveva partire, era meglio non indu-
giare. Ogni giorno era chiamato in diverse fattorie, poiché era circolata la voce
che c'era di nuovo un medico a Holden's Crossing. Ogni volta che curava un
paziente, era come se un altro sottilissimo filo lo legasse alla zona. Certo, quei
fili si potevano spezzare; se partiva, il dottor Barr poteva assumersi la cura dei
suoi pazienti che avevano ancora bisogno di assistenza. Ma questo aumentava
in lui la sensazione che c'erano cose da non lasciare in sospeso.
Suo padre aveva tenuto un elenco di nomi e indirizzi che Sciamano consultò
con somma attenzione. Scrisse della morte del padre al dottor Oliver Wendell
Holmes a Boston, e allo zio Herbert che non aveva mai visto: così lo zio non
avrebbe più dovuto preoccuparsi che il fratello tornasse in Scozia a reclamare
la sua parte di eredità.
Passava ogni momento libero a leggere i diari, affascinato da taluni lati del
carattere del padre che gli erano poco noti. Rob J. Cole aveva scritto della sor-
dità del figlio con dolore e tenerezza e Sciamano, leggendo, sentiva il calore
del suo affetto. L'angoscia di suo padre nel descrivere la morte di Makwa-ikwa
e le morti successive di Vien Cantando e di Luna ridestava in lui sentimenti da
lunghi anni sepolti. Rileggeva il referto sull'autopsia di Makwa-ikwa, chieden-
dosi se gli era sfuggito qualcosa nelle precedenti letture, cercando di capire se
il padre aveva omesso qualcosa nel suo esame e se lui, Sciamano, avrebbe
operato diversamente se avesse eseguito personalmente l'autopsia.
Quando arrivò al quaderno dell'anno 1853 rimase stupefatto. Trovò nel cas-
setto della scrivania del padre la chiave del capannone chiuso, dietro il fienile:
andò al fienile, aprì il grosso catenaccio ed entrò. Era appunto il capannone che
ben conosceva: gli scaffali contenevano provviste di medicine, tonici e pomate,
e dalle travi pendevano mazzi di erbe secche, l'eredità di Makwa. C'erano la
vecchia stufa a legna e il tavolo delle autopsie dove tante volte aveva assistito
all'opera del padre. Bacinelle di drenaggio e secchi pendevano da chiodi infissi
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nelle pareti. A un altro chiodo era ancora appeso il vecchio maglione marrone
del padre.
Il capannone non era stato spazzato e spolverato da anni. Ovunque pendeva-
no ragnatele, ma Sciamano le ignorò. Si accostò al punto della parete che
pensava fosse quello giusto, ma quando tentò l'asse, nulla si mosse. Cera un
piede di porco nel fienile, ma non fu necessario: quando provò a spingere l'asse
accanto, si spostò facilmente e così un paio d'altre.
Era come affacciarsi alla bocca di una caverna. Era troppo buio nel capan-
none, la grigia luce naturale entrava solo da una piccola finestra polverosa.
Sciamano spalancò la porta, ma la luce era ancora scarsa e dovette accendere la
lanterna, che conteneva ancora un po' di petrolio.
La accostò all'apertura e la fiammella gettò ombre vacillanti nel rifugio
segreto.
Sciamano strisciò dentro. Suo padre lo aveva lasciato pulito. Conteneva an-
cora un catino, una scodella e una vecchia coperta accuratamente piegata che
riconobbe subito per averla già vista molte volte in casa. Lo spazio era assai
ristretto e Sciamano era alto e robusto, come lo era stato suo padre.
Certo anche alcuni degli schiavi fuggitivi erano stati uomini alti e robusti.
Spense la lanterna e rimase al buio nell'angusto rifugio. Cercò di immagi-
nare come si sarebbe sentito se l'entrata fosse stata chiusa dalle assi e il mondo
esterno fosse stato tutto una muta di cani lanciati a inseguirlo e avesse dovuto
scegliere se essere un animale da fatica o un animale braccato.
Quando, poco dopo, strisciò fuori del rifugio, tolse il vecchio maglione dal
chiodo e lo indossò, anche se la giornata era già calda. Aveva ancora l'odore di
suo padre.
Per tutto quel tempo, pensò, per tutti quegli anni, mentre lui e Alex viveva-
no in casa e litigavano e facevano chiasso e badavano ai loro desideri e ai loro
bisogni, suo padre aveva tenuto racchiuso dentro di sé questo immane segreto,
aveva vissuto questa esperienza da solo. Sentì un disperato desiderio di parlare
con Rob J., di condividere quell'esperienza, di fargli domande, di esprimergli il
suo amore e la sua ammirazione. Nella sua stanza all'ospedale aveva pianto
brevemente quando aveva ricevuto il telegramma che gli annunciava la perdita
del padre. Ma in treno era distratto e insensibile e si era controllato durante il
funerale per amore di sua madre. Ora si appoggiò alla parete, vicino all'entrata
del rifugio, e si lasciò scivolare a terra e rimase seduto sul pavimento polveroso
come un bambino, e come un bambino che chiamasse il padre si abbandonò al
suo dolore, sapendo bene che ora la sua solitudine sarebbe sempre stata più
profonda che in passato.
396
60
Un caso di crup
Talvolta era difficile per Sciamano leggere il diario, era troppo penoso per
lui penetrare nelle segrete emozioni di suo padre. C'erano momenti in cui lo
metteva da parte per una settimana, ma sempre vi tornava, sentendo il bisogno
di leggere le pagine successive perché sapeva che sarebbero state l'ultimo suo
contatto con il padre. Quando fosse arrivato alla fine, sapeva che non avrebbe
saputo più nulla di nuovo su suo padre: gli sarebbero rimasti solo i ricordi.
Erano un giugno piovoso e un'estate strana con una vegetazione precoce, sia
per le messi sia per gli alberi da frutto e le piante nei boschi. La popolazione di
conigli e lepri ebbe una crescita impressionante e le prolifiche bestiole invasero
i campi e arrivarono a brucar l'erba sotto i muri di casa e divorarono la lattuga e
i fiori dell'orto di Sarah Cole. L'umidità rendeva difficile la fienagione, interi
398
campi di foraggio marcivano a terra senza poter asciugare e nutrivano sciami di
insetti che mordevano Sciamano e gli succhiavano il sangue mentre passava
per visitare i suoi pazienti. Malgrado tutto, trovava che era meraviglioso essere
il medico di Holden's Crossing. Gli era piaciuto lavorare all'ospedale di Cincin-
nati: là, se aveva bisogno di assistenza o di un consiglio da parte di un dottore
più anziano, c'era tutto il corpo medico a cui ricorrere. Qui era solo, e ogni mat-
tino non sapeva quali problemi avrebbe dovuto affrontare. Era l'essenza della
pratica della medicina, e Sciamano l'amava.
Tobias Barr gli disse che la Società Medica della contea si era sciolta perché
la maggior parte dei suoi medici era sotto le armi. Propose che intanto lui e
Sciamano e Julius Barton si riunissero una volta il mese per cenare insieme e
parlare di medicina: tennero infatti la prima di queste riunioni serali, in cui il
principale argomento di discussione fu il morbillo, che stava rapidamente dif-
fondendosi a Rock Island, ma non ancora a Holden's Crossing. Convennero che
era necessario convincere i pazienti, giovani e vecchi, a non graffiare e lacerare
le pustole, per quanto acuto fosse il prurito, e che il trattamento doveva consi-
stere in pomate calmanti, bevande rinfrescanti e polveri di Seidlitz. Gli altri due
medici si mostrarono assai interessati quando Sciamano riferì che all'ospedale
di Cincinnati la terapia comprendeva anche gargarismi con allume, qualora il
morbo avesse intaccato le vie respiratorie.
Al dessert il discorso cadde sulla politica. Il dottor Barr, come molti altri
repubblicani, pensava che l'atteggiamento di Lincoln verso gli Stati del Sud
fosse troppo debole. Era d'accordo con l'Atto di Ricostruzione Wade-Davis,
che prevedeva severi provvedimenti punitivi contro il Sud alla fine della guer-
ra, e che era stato approvato dalla Camera dei Deputati malgrado le obiezioni
di Lincoln. Incitati da Horace Greeley, i repubblicani dissidenti si erano riuniti
a Cleveland e avevano nominato un loro proprio candidato alla presidenza, il
generale John Charles Fremont.
«Pensate che il generale possa battere Lincoln?» chiese Sciamano.
Il dottor Barr scosse la testa, accigliato. «No, se dura ancora la guerra. Non
c'è niente come una guerra per far rieleggere un presidente.»
61
Quando tornò alla casa dei Geiger la mattina dopo, fu lei che gli aprì la
porta, con una veste azzurra che pareva nuova. Aveva i capelli ben pettinati e
401
Sciamano sentì il suo leggero profumo quando lei gli prese la mano.
«Salve, Rachel.»
«... Grazie, Sciamano.»
I suoi occhi erano immutati, splendidi e profondi, ma ancora segnati dalla
fatica. «Come sta il mio piccolo paziente?»
«Pare che vada meglio. La tosse non è più spaventosa come prima.» Lo
condusse su per le scale. Lillian sedeva al capezzale del nipotino con una
matita e dei fogli di carta e lo intratteneva con storielle e disegni. Il paziente,
che la notte prima agli occhi di Sciamano era solo un piccolo essere dolorante,
ora era un bel bambino con gli occhi neri e i capelli castani, e tante lentiggini
che risaltavano sul visetto pallido. Doveva avere circa due anni. Ai piedi del
letto sedeva una bambina, che sembrava avere diversi anni più del piccolo, ma
somigliava molto al fratellino.
«Questi sono i miei bambini» disse Rachel. «Joshua e Hattie Regensberg.
Bambini, questo è il dottor Cole.»
«Buongiorno, bambini» fece Sciamano.
«... 'giorno.» Il piccolo lo guardò intimidito.
«Buongiorno, dottore» salutò Hattie Regensberg. «Mamma dice che lei non
può sentirci e dobbiamo guardarla mentre parliamo e pronunciare distintamente
le parole.»
«Sì, è vero.»
«Perché lei non ci sente?»
«Sono sordo perché sono stato malato quando ero bambino» spiegò Sciama-
no disinvolto.
«Anche Joshua diventerà sordo?»
«No, certamente Joshua non sarà sordo.»
Dopo qualche minuto poté assicurare che Joshua stava molto meglio. I ba-
gni caldi e il vapore avevano fatto calare la febbre, il polso era forte e regolare
e, quando Sciamano collocò lo stetoscopio sul petto del piccolo paziente e
chiese a Rachel che cosa sentiva, lei riferì che non udiva rantoli. Sciamano
pose gli auricolari nelle orecchie di Joshua e gli fece sentire i battiti del suo
cuore, poi fu la volta di Hattie che prese lo stetoscopio, lo sistemò sul torace
del fratellino e annunciò che sentiva solo «gorgogli».
«Vuol dire che ha fame» spiegò Sciamano e consigliò a Rachel di tenerlo a
una dieta leggera ma nutriente per un paio di giorni. Poi disse ai due bambini
che la loro madre conosceva certi posti eccellenti per pescare lungo il fiume e li
invitò a visitare la fattoria dei Cole per giocare con gli agnelli.
Quando si accomiatò, Rachel lo accompagnò alla porta.
402
«Hai dei bellissimi bambini.»
«Sono belli, vero?»
«Condoglianze per tuo marito, Rachel.»
«Grazie, Sciamano.»
«E ti auguro buona fortuna per il tuo imminente matrimonio.»
Rachel parve sorpresa. «Che matrimonio?» ribatté, ma in quel momento sua
madre scendeva dalle scale.
Lillian passò tranquilla attraverso la stanza, ma il colore acceso sul suo viso
era come un ammonimento.
«Sei male informato. Non ho nessun progetto di matrimonio» replicò Ra-
chel seccamente, a voce abbastanza alta perché la madre la sentisse, e il suo
viso era molto pallido quando si accomiatò da Sciamano.
Si disse che Rachel era una donna forte, piena di senso pratico, che aveva il
coraggio di guardare in faccia le cose, e decise di imparare da lei. Sentì di aver
bisogno della compagnia di una donna. Fece una visita a Roberta Williams, che
soffriva di "disturbi femminili" e aveva cominciato a bere in modo eccessivo.
Distogliendo gli occhi dal manichino con le natiche d'avorio, le chiese di sua
figlia e seppe che Lucille aveva sposato un postino tre anni prima, e viveva a
Davenport. «Fa un figlio ogni anno. Non viene mai a trovarmi se non ha biso-
gno di denaro, quella» si lagnò Roberta. Sciamano le lasciò una bottiglietta di
tonico.
Proprio nel momento del più triste sconforto, si sentì chiamare sulla Main
Street da Tobias Barr, che sedeva nel suo calesse con due donne. Una era la sua
piccola bionda moglie, Frances, e l'altra era la nipote di Frances, venuta in
visita da St. Louis. Evelyn Flagg aveva diciotto anni, era più alta di Frances
Barr ma bionda come lei, e aveva il più perfetto profilo femminile che Sciama-
no avesse mai visto.
«Stiamo portando Evie a visitare la città» gli disse il dottor Barr. «Hai letto
Romeo e Giulietta, Sciamano?»
«Sì, l'ho letto.»
«Bene, una volta mi hai detto che, quando conosci già un'opera, ti piace
vederla rappresentare. Questa settimana c'è a Rock Island una compagnia di
prosa e noi andiamo a sentirla. Vuoi venire con noi?»
«Sicuro, mi piacerebbe.» E Sciamano sorrise a Evelyn, che gli rispose con
un sorriso raggiante.
«Una cena leggera a casa nostra, allora, alle cinque» propose Frances Barr.
404
Sciamano si comprò una camicia bianca e una cravatta nera e rilesse la
tragedia. I Barr avevano invitato anche Julius Barton e sua moglie Rose.
Evelyn portava un abito azzurro che metteva in risalto i suoi capelli biondi. Per
un attimo Sciamano cercò di ricordare dove aveva visto negli ultimi tempi
quella tinta azzurra, e poi si rese conto che era stata la veste di Rachel Geiger.
L'idea di cena leggera di Frances Barr era un pranzo di sei portate. Sciama-
no trovò difficile portare avanti la conversazione con Evelyn. Quando le faceva
una domanda, lei rispondeva con un piccolo sorriso nervoso e un leggero cenno
della testa. Parlò solo due volte di sua iniziativa, una volta per dire alla zia che
l'arrosto era eccellente, e una seconda volta durante il dessert per confidare a
Sciamano che andava matta per le pesche e le pere, ed era felice che maturas-
sero in stagioni diverse, così non era obbligata a scegliere fra i due frutti.
Il teatro era affollato, la sera era calda, come può esserlo solo una sera di
fine estate. Arrivarono poco prima che si alzasse il sipario, perché le sei portate
del pasto avevano richiesto molto tempo. Tobias Barr aveva comprato i
biglietti tenendo presente la condizione di Sciamano: erano seduti in platea al
centro della terza fila e avevano appena preso posto quando gli attori pronun-
ciarono le prime battute. Sciamano osservava con un binocolo da teatro che gli
consentiva di leggere facilmente le loro labbra e poté godersi veramente lo
spettacolo. Durante il primo intervallo accompagnò il dottor Barr e il dottor
Barton fuori del teatro, e, mentre aspettavano in coda davanti ai gabinetti, si
dissero d'accordo che la rappresentazione era assai interessante. Il dottor Barton
pensava che forse l'attrice che recitava la parte di Giulietta era incinta. Il dottor
Barr supponeva che Romeo portasse un cinto erniario.
Sciamano si era concentrato sulle bocche degli attori, ma durante il secondo
atto osservò attentamente Giulietta e non vide ragioni per credere al sospetto di
Barton. Tuttavia non v'era dubbio che Romeo portasse un cinto erniario.
Alla fine del secondo atto le porte si aprirono a una piacevole brezza e si
accesero le luci. Sciamano ed Evelyn rimasero seduti ai loro posti e cercarono
di conversare. Evie disse che a St. Louis andava spesso a teatro. «Trovo molto
spirituale assistere alle recite, e lei?»
«Si, ma ci vado raramente» rispose lui con aria assente. Curiosamente
sentiva di essere osservato. Studiò con il binocolo gli spettatori alla balconata
di sinistra e poi quelli alla balconata di destra. Nella seconda galleria a destra
vide Lillian Geiger e Rachel. Lillian portava un abito di lino marrone con
grandi maniche di merletto a campana. Rachel era seduta proprio sotto la
lampada, per cui doveva allontanarsi continuamente dal viso le falene che
turbinavano intorno alla luce, ma Sciamano aveva la possibilità di osservarla
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bene. Aveva i capelli ben pettinati e raccolti sulla nuca in un nodo lucente;
indossava un abito nero che pareva di seta e Sciamano si chiese quando
avrebbe cessato di portare il lutto in pubblico. L'abito non aveva colletto, per
essere più fresco, e aveva corte maniche a sbuffo. Sciamano studiava le braccia
ben tornite e il seno colmo, ma tornava sempre al volto. A un certo punto
Rachel si girò e volgendo gli occhi in basso vide che lui stava osservandola con
il binocolo: lo fissò per un lungo momento, poi distolse lo sguardo mentre le
maschere spegnevano le luci.
Il terzo atto gli sembrò interminabile. Proprio nel momento in cui Romeo
diceva a Mercuzio: Coraggio, amico. La ferita non può esser grave, si accorse
che Evelyn Flagg cercava di dirgli qualcosa. Sentì il suo fiato caldo e leggero
sull'orecchio, mentre Mercuzio replicava: No, non è profonda quanto un pozzo,
né larga quanto il portale d'una chiesa, ma basterà, e davvero non occorrerà
dell'altro.
Abbassò il binocolo e voltò la testa verso la ragazza, che gli sedeva a fianco
nel buio, pensando un po' sorpreso che dei bambini piccoli come Joshua e
Hattie Regensberg capivano il principio della lettura delle labbra, mentre Eve-
lyn Flagg non era in grado di capirlo.
«Io non posso sentire le sue parole.»
Non era abituato a bisbigliare e senza dubbio la sua voce suonò troppo alta,
perché lo spettatore che sedeva davanti a lui si voltò e lo fissò. «Mi scusi!»
cercò di mormorare. Sperò sinceramente che questa volta la sua voce fosse
stata più bassa e riportò il binocolo agli occhi.
62
A pesca
Quel settembre era ancora caldo con giornate limpide e brezze gentili. Nelle
sue visite a domicilio Sciamano preferiva prendere i sentieri lungo il fiume,
godendosi lo scintillio del sole sulle mobili acque e la vista dei trampolieri che
pescavano sulle loro lunghe zampe, pochi ormai perché per la maggior parte
stavano già migrando verso sud.
Un pomeriggio cavalcava lentamente verso casa quando vide tre figure
familiari sotto un albero sulla riva del fiume. Rachel stava liberando un pesce
dall'amo, mentre il figlioletto reggeva la canna, e quando gettò di nuovo
nell'acqua il pesce che si dibatteva Sciamano poté vedere dall'espressione di
Hattie che era imbronciata. Voltò il cavallo e si diresse verso di loro.
407
«Salve, amici!»
«Salve!» rispose Hattie.
«La mamma non ci lascia tenere i pesci» si lamentò Joshua.
«Scommetto che erano tutti pesci gatto» fece Sciamano sorridendo. Rachel
non aveva mai voluto portare pesci gatto a casa, perché non erano kasher,
essendo privi di squame. E Sciamano sapeva che per un bambino il piacere
maggiore della pesca era osservare i familiari mangiare i pesci che aveva pe-
scato. «Sto andando ogni giorno da Jack Damon, che sta poco bene. Conosci
quel posto dove il fiume fa una brutta svolta alla sua fattoria?»
Rachel gli sorrise. «Quell'ansa dove ci sono un sacco di scogli?»
«Quella. Ho visto dei ragazzi, l'altro giorno, che pescavano bellissimi pesci
persici in mezzo agli scogli.»
«Grazie, andremo là domani.»
Sciamano osservò che il sorriso della bambina assomigliava molto a quello
della madre. «Bene, sono contento di avervi visti.»
Si toccò il cappello e fece per voltare il cavallo.
«Sciamano.» Rachel andò verso di lui. «Se domani vai da Jack Damon
verso mezzogiorno, vieni a dividere il nostro picnic con noi.»
«Bene, cercherò di fare in tempo, se posso.»
Avevano deciso di incontrarsi a metà del Sentiero Lungo fra le loro due
case. Sciamano era sicuro che Rachel non avesse riferito a Lillian di aver
ripreso gli esercizi con lui, e non vide ragione di informarne sua madre. Il
primo giorno Rachel arrivò all'ora stabilita, alle tre, accompagnata dai due
bambini che mandò a raccogliere nocciole lungo il sentiero.
Rachel si sedette su una coperta, appoggiandosi al tronco di una quercia, e
Sciamano si sedette compunto come uno scolaretto davanti a lei. Rachel scelse,
come esercizio, di pronunciare una frase che Sciamano leggeva sulle sue labbra
e ripeteva con l'intonazione e l'accento giusto. Per aiutarlo, gli teneva le dita e
le stringeva per indicargli dove una sillaba doveva essere accentata o una
parola doveva essere messa in risalto. La sua mano era calda e asciutta, un toc-
410
co pratico e indifferente, come se tenesse un ferro da stiro o un capo di bian-
cheria da lavare. Sciamano sentiva la propria mano umida e scottante, ma non
vi badò più quando concentrò tutta la sua attenzione sul compito che lei gli
poneva. La sua pronuncia presentava ora più problemi di quanto avesse temuto,
e affrontarli non era un piacere. Provò un senso di sollievo quando finalmente i
bambini tornarono con un secchiello quasi pieno di nocciole. Rachel promise
che le avrebbero schiacciate con il martello quando fossero tornati a casa e
avrebbero tolto il seme e avrebbero fatto una torta alle nocciole, da dividere
con Sciamano.
Dovevano incontrarsi il giorno dopo per altri esercizi; ma al mattino, quan-
do terminò le visite all'ambulatorio e cominciò le visite a domicilio, Sciamano
trovò che Jack Damon, consumato dalla tisi, era alla fine. Rimase presso il
morente cercando di recargli sollievo. Quando tutto fu finito, era troppo tardi
per recarsi all'appuntamento con Rachel, e se ne tornò a casa imbronciato.
Il giorno dopo era sabato. In casa Geiger osservavano rigorosamente lo
Shabbat e quel giorno non poteva esserci l'incontro con Rachel. Ma Sciamano,
dopo aver terminato le visite all'ambulatorio, ripeté gli esercizi da solo.
Si sentiva come sradicato e in qualche modo, che non dipendeva dal suo
lavoro, era insoddisfatto della sua vita.
Quel pomeriggio tornò ai libri di Cliburne e lesse diverse pagine sul pacifi-
smo come movimento dei quaccheri; e la mattina di domenica si alzò presto,
sellò il cavallo e si diresse a Rock Island. Il mercante di granaglie stava appun-
to terminando la sua colazione quando Sciamano arrivò. George si riprese i
libri, gli offrì una tazza di caffè e annuì senza mostrare sorpresa quando
Sciamano gli chiese se poteva partecipare alla riunione dei quaccheri.
George Cliburne era vedovo. Aveva una governante, che però era libera di
domenica, e lui era un uomo ordinato. Sciamano attese che avesse lavato i
piatti della colazione, ed ebbe il permesso di asciugarli. Lasciarono Boss nella
stalla e George fece salire con sé Sciamano sul calesse e lungo il tragitto gli
parlò della riunione.
«Entriamo nella Casa della Riunione senza parlare e prendiamo posto, gli
uomini da una parte, le donne dall'altra. Per avere meno distrazioni, credo.
Tutti restano in silenzio finché il Signore depone su uno di noi il peso delle
sofferenze del mondo, e poi quell'uno si alza e parla.»
Cliburne con molto tatto consigliò a Sciamano di sedere al centro o sul
fondo della Casa della Riunione. Non si sarebbero seduti vicini. «È costume
degli Anziani, che hanno lavorato per la Società degli Amici per molti anni,
sedere in prima fila.» Si chinò in avanti e aggiunse in tono confidenziale: «Ci
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sono dei quaccheri che ci chiamano gli Amici Importanti» e fece un breve
sorriso.
La Casa della Riunione era piccola e disadorna, una struttura di legno, bian-
ca, senza guglia né campanile. Nell'interno, pareti bianche, pavimento grigio.
Lungo tre pareti erano sistemate delle panche scure, che formavano una U
aperta, in modo che ognuno potesse vedere in faccia gli altri. Quattro uomini
erano già seduti. Sciamano prese posto su una panca in fondo, vicino alla porta,
come uno che provasse delle acque profonde intingendo la punta del piede
vicino a riva. Dalla parte opposta sedevano una dozzina di donne, e c'erano
anche otto ragazzini. Tutti gli Anziani erano piuttosto vecchi: George e cinque
dei suoi Amici Importanti sedevano su una piccola piattaforma, alta una
trentina di centimetri, di fronte alle panche.
C'erano un silenzio e una pace che si accompagnavano al silenzio del
mondo di Sciamano.
Di tanto in tanto qualcuno entrava e prendeva posto su una panca senza
parlare. Infine non arrivò più nessuno; c'erano undici uomini, quattordici donne
e dodici ragazzini, secondo il conto di Sciamano.
In silenzio.
Era riposante.
Sciamano pensò a suo padre e sperò che riposasse in pace.
Pensò ad Alex.
Ti prego, invocò nel perfetto silenzio che ora condivideva con gli altri. Fra
le centinaia di migliaia di morti, ti prego, risparmia mio fratello. Ti prego,
riporta il mio caro, pazzo, fuggiasco fratello a casa.
Pensò a Rachel, ma non osò pregare.
Pensò a Hattie, che aveva gli occhi e il sorriso della madre, e che parlava
tanto.
Pensò a Joshua, che parlava poco, ma sembrava sempre che lo guardasse.
Un uomo di mezza età si alzò, a pochi metri da lui. Era sottile e fragile e
cominciò a parlare. «Questa guerra terribile comincia infine a placarsi. Lenta-
mente, molto lentamente. Ma ora sentiamo che non può durare in eterno. Molti
dei nostri giornali invocano l'elezione del generale Fremont alla presidenza.
Dicono che il presidente Lincoln sarebbe troppo indulgente con i sudisti,
quando verrà la pace. Dicono che non è tempo di indulgenza, ma tempo di
vendetta contro gli Stati del Sud.
«Gesù ha detto: "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno" e
ha detto ancora: "Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare, e se ha sete,
dagli da bere".
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«Dobbiamo perdonare le colpe commesse da entrambe le parti in questa
terribile guerra e pregare che presto si avverino le parole del salmo, che la
misericordia e la verità si incontrino, e la giustizia e la pace si abbraccino.
«"Benedetti quelli che piangono, perché saranno confortati."
«"Benedetti i mansueti, perché erediteranno la terra."
«"Benedetti quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno
saziati."
«"Benedetti i misericordiosi, perché otterranno misericordia."
«"Benedetti quelli che lavorano per la pace, perché saranno chiamati figli di
Dio."»
Si sedette e ci fu di nuovo un grande silenzio.
63
Il giorno dopo, benché non avesse preso alcun appuntamento con Rachel,
tornando dalle sue visite a domicilio Sciamano si avviò per il Sentiero Lungo e
la incontrò che veniva camminando dall'altra parte.
«Dove sono i miei piccoli amici?»
«Hanno aiutato in casa per le pulizie autunnali e non hanno fatto il solito
sonnellino, così sono rimasti a casa a riposare.»
Sciamano si incamminò al suo fianco. I boschi erano pieni di uccelli: su un
albero vide un cardinale rosso che lanciava un imperioso, silente richiamo.
«Ho litigato con mia madre. Voleva che andassimo a Peoria per le Grandi
Vacanze e io mi sono rifiutata di andarci ed essere messa in mostra davanti a
scapoli e vedovi che lei giudica buoni partiti. Così passeremo le vacanze qui a
casa.»
«Bene» fece Sciamano contento, e lei sorrise. L'altra ragione di litigio, pro-
seguì Rachel, era che il cugino di Joe Regensberg sposava un'altra donna e
aveva avanzato un'offerta per comprare la società di ferramenta Regensberg,
non avendola potuta ottenere tramite matrimonio. Ecco perché ora doveva re-
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carsi a Chicago, gli confidò: per vendere la ditta.
«Tua madre finirà per calmarsi. Ti vuole molto bene.»
«So che mi vuole bene. Vuoi fare qualche esercizio?»
«Perché no?»
Questa volta sentì un lieve tremito nella mano di Rachel che teneva la sua.
Forse era stanca per i lavori di casa, o forse ancora in tensione per il litigio con
la madre. Ma si abbandonò alla speranza che fosse qualcosa di più e riconobbe
la corrente emotiva che passava fra le loro dita e involontariamente la sua mano
si mosse nella morbida mano di lei.
Si dedicarono al controllo del respiro, necessario per attenuare le piccole
esplosioni della P, e Sciamano serio serio si impegnava a ripetere una frase
senza senso, pronunciando un perfetto «posso poco premere un pioppo pasqua-
le», quando Rachel scosse la testa.
«No, senti come lo dico io» e appoggiò la mano di lui sulla propria gola.
Ma tutto quello che Sciamano poté sentire sotto le dita fu la carne calda di
Rachel.
Accadde, senza che ne avesse l'intenzione: se ci avesse pensato, forse non lo
avrebbe fatto. La sua mano salì alla guancia di lei e la tenne a coppa. Il bacio fu
infinitamente dolce, il bacio sognato e bramato di un ragazzo quindicenne e
una fanciulla di cui era disperatamente innamorato. Ma subito divenne il bacio
di un uomo e di una donna, e l'avido desiderio di entrambi fu una scossa
traumatica per lui, così nettamente in contraddizione con la controllata amicizia
che lei gli aveva offerto. Tanto che quasi non osava credere.
«Rachel» mormorò, quando si staccarono.
«No... Oh, mio Dio!»
Ma quando tornarono a stringersi lei gli coprì il viso di una grandine di
piccoli baci. Sciamano le baciava gli occhi e gli angoli della bocca e il naso, e
sentiva il suo corpo premere contro di lui.
Rachel lottava con se stessa. Gli pose una mano tremante sulla guancia e lui
spostò piano la testa e le premette un bacio sulla palma.
La vide pronunciare le parole familiari del passato, quelle che Dorothy
Burnham usava per indicare la fine delle lezioni a scuola. «Penso che sia tutto
per oggi» mormorò Rachel senza fiato. Si staccò da lui e Sciamano rimase a
guardarla mentre si allontanava in fretta e spariva a una svolta del Sentiero
Lungo.
Quella sera cominciò a leggere l'ultima parte del diario di suo padre.
Assisteva con il cuore stretto alla parabola discendente della vita di Robert
Judson Cole, nella terribile serra lungo il Rappahannock, che suo padre aveva
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annotato con la sua grande e chiara scrittura.
Quando arrivò al punto in cui il padre scopriva nel suo reggimento Lanning
Ordway, restò seduto per qualche momento senza leggere. Era profondamente
colpito dal fatto che, dopo tanti anni di inutili tentativi, suo padre fosse
finalmente giunto in contatto con uno degli uomini responsabili della morte di
Makwa.
Rimase piegato sul diario per tutta la notte, sforzando la vista alla scarsa
luce della lampada.
Rilesse diverse volte la lettera di Ordway a Goodnow.
Poco prima dell'alba arrivò all'ultima pagina, agli ultimi giorni della vita del
padre. Si gettò sul letto, tutto vestito, per un'interminabile ora di solitudine.
Quando sentì la madre che si muoveva in cucina, uscì di casa e andò al fienile a
chiamare Alden. Mostrò a entrambi la lettera di Ordway e spiegò come l'aveva
trovata.
«Nel suo diario? Hai letto il suo diario?» chiese Sarah.
«Sì. Vorresti leggerlo anche tu?»
Lei scosse la testa. «Non c'è bisogno. Io ero sua moglie, lo conoscevo.»
Videro che Alden pareva avvilito e stanco, e Sarah versò il caffè per tutti.
«Non so che fare con questa lettera.» La fece leggere attentamente a entram-
bi.
«Be', che cosa puoi fare?» ribatté Alden irritato. Alden stava invecchiando
rapidamente, osservò Sciamano: o beveva troppo o non sapeva più reggere
l'alcol. La sua mano tremante versò lo zucchero sul tavolo mentre lo metteva
nel caffè. «Tuo padre cercò con ogni mezzo di ottenere che la legge scoprisse
che cos'era successo a quella donna sauk. E tu credi che le autorità saranno più
interessate ora, solo perché tu hai un nome nella lettera di un morto?»
«Robert, quando finirà questa storia?» intervenne sua madre amaramente.
«Le ossa di quella donna giacciono nella nostra terra da tanti anni e voi due,
tuo padre e ora tu, non siete capaci di lasciarla riposare in pace, né di lasciare in
pace noi. Non puoi strappare quella lettera e dimenticare i vecchi guai e scorda-
re i morti?»
Ma Alden scosse la testa. «Con tutto il rispetto, Mrs. Cole, ma questo ragaz-
zo non ascolta il buonsenso e la ragione quando si tratta degli indiani. Come
non li ascoltava suo padre.» Soffiò sul suo caffè, alzò la tazza con entrambe le
mani e bevve una gran sorsata che dovette bruciargli la bocca. «No, continua a
menarla come un cane che rosicchia un osso, come faceva suo padre.» Guardò
di nuovo Sciamano. «Se il mio consiglio conta qualcosa, e forse non conta
niente, dovresti andare a Chicago appena puoi e cercare questo Goodnow,
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vedere se può dirti qualcosa. Altrimenti continuerai a tormentarti e insieme a
tormentare anche noi.»
Madre Miriam Ferocia non era d'accordo. Quando quel pomeriggio Sciama-
no si recò al convento e le mostrò la lettera, annuì. «Suo padre mi aveva parlato
di David Goodnow» gli disse tranquillamente.
«Se il reverendo Goodnow era in realtà il reverendo Patterson, deve essere
ritenuto responsabile della morte di Makwa.»
Madre Miriam sospirò. «Sciamano, lei è un medico, non un poliziotto. Non
può lasciare quest'uomo al giudizio di Dio? Noi abbiamo bisogno di lei come
medico.» Si chinò verso di lui e lo fissò negli occhi. «Ho delle notizie impor-
tanti. Il nostro vescovo ci ha fatto sapere che ci manderà fondi per costruire qui
un ospedale.»
«Reverenda Madre, questa è una notizia meravigliosa!»
«Sì, meravigliosa.»
Il sorriso le illuminava il volto, pensò Sciamano. Ricordò di aver letto nel
diario del padre che la monaca aveva ricevuto un'eredità e l'aveva destinata alla
Chiesa: e si domandò se era quell'eredità, o parte di quell'eredità, che il vesco-
vo intendeva mandarle. Ma la gioia di Madre Miriam non avrebbe tollerato un
tale cinismo.
«La gente di questa zona avrà un ospedale» aggiunse raggiante. «Le suore
infermiere di questo convento saranno le infermiere dell'ospedale di San Fran-
cesco d'Assisi.»
«E io avrò un ospedale dove ricoverare i miei pazienti.»
«In realtà spero che lei avrà qualcosa di più. Le sorelle sono d'accordo: noi
desideriamo che lei sia il primario dell'ospedale.»
La proposta lo lasciò interdetto per un attimo. «Mi sento onorato, Reveren-
da Madre» replicò infine. «Ma io suggerirei come primario un medico di mag-
giore esperienza e più vecchio di me. Inoltre lei sa bene che io non sono
cattolico.»
«Una volta, quando ho cominciato a sognare di un ospedale, speravo che
suo padre ne sarebbe diventato il primario. Dio ci aveva mandato suo padre
perché fosse il nostro medico e il nostro amico. Ma suo padre non c'è più. Ora
Dio ci manda lei. Lei ha studiato, è capace e ha già una buona esperienza. Lei è
il medico di Holden's Crossing, e dovrebbe dirigere l'ospedale della città.»
Sorrise ancora. «E per quanto riguarda la sua giovane età, credo che lei sia il
giovane più maturo che io abbia mai incontrato. Sarà un piccolo ospedale, solo
venticinque letti, e noi tutti matureremo in esperienza.
418
«Voglio sperare che lei ci darà qualche consiglio. Non esiti ad aver fiducia
in se stesso, come l'hanno gli altri in lei. E non abbia paura ad aspirare ad alte
mete, perché Dio è stato largo di doni con lei.»
Sciamano era imbarazzato, ma sorrise con la sicurezza di un medico a cui
hanno appena promesso un ospedale. «Sono sempre onorato di credere alle sue
parole, Reverenda Madre.»
64
Chicago
Presero una carrozza dalla stazione al Palmer's Illinois House Hotel, dove
l'avvocato di Rachel le aveva prenotato una stanza. Anche Sciamano prese
alloggio nello stesso albergo ed ebbe una stanza al quinto piano, numero 508.
Accompagnò Rachel alla sua 306 e diede la mancia al cameriere.
«Vuoi qualche cosa? Una tazza di caffè?»
«No, Sciamano, grazie. Si è fatto tardi e ho tante cose da fare domani.»
Declinò anche il suo invito a colazione per il giorno dopo. «Perché non ci
troviamo qui alle tre? Ti condurrò a visitare Chicago prima di cena.»
Sciamano rispose che per lui andava benissimo e la salutò. Salì alla sua
stanza 508, disfece la valigia e ripose in ordine la biancheria nei cassetti e gli
abiti nell'armadio, poi scese di nuovo i cinque piani di scale per recarsi ai gabi-
netti, che si trovavano dietro l'albergo e che risultarono, con sua soddisfazione,
puliti e ben tenuti.
Tornando, si fermò un attimo al terzo piano e gettò uno sguardo nel corri-
doio verso la stanza di Rachel, poi salì gli altri due piani fino alla sua stanza.
L'insegna era modesta ma dignitosa, una targa di bronzo fissata alla colonna
421
centrale che si alzava sopra un basso muretto di mattoni rossi:
DEARBORN ASYLUM
Per alcolizzati
e malati di mente
Era un edificio a tre piani di mattoni rossi e le pesanti sbarre di ferro alle
finestre si accompagnavano alle punte di ferro battuto in cima al muro di mat-
toni.
Al di là del portone di mogano si trovava un'anticamera buia, con un paio di
poltroncine imbottite di crine di cavallo. In un piccolo ufficio un uomo di
mezza età era seduto a una scrivania e trascriveva registrazioni in un grande
libro mastro. Annuì alla richiesta di Sciamano.
«Mr. Goodnow non ha ricevuto visite da non so quanto tempo. Non so se ne
abbia mai avute. Firmi il registro delle richieste, e andrò a chiedere al dottor
Burgess.»
Il dottor Burgess comparve qualche minuto dopo, un uomo basso con i
capelli neri e due baffetti sottili. «Lei è un parente o un amico di Mr. Goodnow,
dottor Cole? O si tratta di una visita professionale?»
«Ho dei conoscenti che conoscono Mr. Goodnow» rispose Sciamano
scegliendo con cura le parole. «Mi fermo a Chicago solo per un paio di giorni e
pensavo di venire a trovarlo.»
Il dottor Burgess annuì. «Veramente l'ora di visita è nel pomeriggio, ma per
un medico molto impegnato possiamo fare un'eccezione. Mi segua, prego.»
Salirono una rampa di scale e il dottor Burgess bussò a una porta chiusa a
chiave, che fu aperta da un infermiere di imponente statura. L'uomo li condusse
per un lungo corridoio: donne pallide e smunte sedevano lungo le pareti, par-
lando fra loro o fissando il nulla. Si fermarono presso una pozza di urina, e
Sciamano vide macchie di feci calpestate. Fuori del corridoio, in alcune stanze
vi erano donne incatenate alla parete. Sciamano aveva passato quattro tristi set-
timane nell'Ospizio per Malati di Mente dell'Ohio, quando studiava all'Istituto
di Medicina, e non fu sorpreso da quello spettacolo, né da quegli odori. Fu lieto
di non poter udire i suoni.
L'infermiere aprì un'altra porta e li condusse per un altro corridoio, il reparto
uomini, non diverso da quello delle donne. Infine Sciamano fu introdotto in
una stanzetta, arredata con un tavolo e qualche sedia di legno, e gli fu chiesto di
aspettare.
Poco dopo il medico e l'infermiere tornarono accompagnando un uomo
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piuttosto anziano che indossava un paio di pantaloni da operaio, privi di diversi
bottoni, e una sudicia giacca portata direttamente sulla biancheria. Aveva biso-
gno di un buon taglio di capelli e il suo viso era ispido di una barba grigia e
trascurata. C'era sulle sue labbra un piccolo sorriso, ma i suoi occhi erano
altrove. «Ecco David Goodnow» annunciò il dottor Burgess.
«Mr. Goodnow, io sono il dottor Robert Cole.» Il sorriso rimase immobile,
gli occhi non lo vedevano.
«Non può parlare» spiegò il dottor Burgess.
Tuttavia Sciamano si alzò e si avvicinò all'uomo.
«Mr. Goodnow, lei una volta era Ellwood Patterson?»
«Non parla da più di un anno» ripeté pazientemente il dottor Burgess.
«Mr. Goodnow, ha ucciso lei la donna indiana a Holden's Crossing, dopo
averla violentata? Quando è andato in quella città per incarico dell'Ordine della
Bandiera Stellata?»
Il dottor Burgess e l'infermiere fissavano attoniti Sciamano. «Sa dove posso
trovare Hank Cough?»
Ancora non ci fu risposta.
E di nuovo, duramente. «Dove posso trovare Hank Cough?»
«È sifilitico. Una parte del suo cervello è stata distrutta da una paresi»
spiegò il dottor Burgess.
«Lei è sicuro che quest'uomo non finga?»
«Lo vediamo tutti i giorni, e lo sappiamo. Perché un uomo dovrebbe finge-
re, per poi vivere in questo modo?»
«Anni fa quest'uomo ha partecipato a un atroce, disumano delitto. Mi ribello
all'idea di vederlo sfuggire alla punizione» fu l'amara risposta di Sciamano.
David Goodnow aveva cominciato a sbavare e un rivolo di saliva gli usciva
dall'angolo della bocca. Il dottor Burgess lo guardò e scosse la testa. «Non
credo che sia sfuggito alla punizione» osservò.
Il giorno dopo, nel treno che li portava verso ovest, parlarono del loro
futuro.
«Io avrò bisogno di tempo» osservò Rachel.
Quando Sciamano le chiese quanto tempo, lei rispose che voleva parlarne al
padre di persona, non in una lettera contrabbandata. «Non ci vorrà molto. Tutti
pensano che la guerra stia per finire.»
«Ti ho aspettata per tanti anni. Non posso aspettare di più» ribatté Sciama-
no. «Ma non voglio incontrarti in segreto. Voglio venire a trovarti a casa tua,
voglio che usciamo insieme. E voglio passare tanto tempo con Hattie e Joshua,
per poterci conoscere meglio.»
Rachel sorrise e gli prese una mano. «Sicuro.»
A Rock Island Lillian sarebbe andata a prendere la figlia alla stazione.
Sciamano scese a Moline e andò alla stalla a riprendersi il cavallo. Risalì il
fiume per 45 chilometri, poi attraversò il Mississippi con il traghetto e sbarcò a
Clinton, Iowa. Quella notte dormì al Randall Hotel, in un'ottima stanza con il
caminetto di marmo e acqua corrente calda e fredda. L'albergo aveva meravi-
gliosi gabinetti igienici, in un annesso di mattoni a cinque piani, accessibile da
ogni pianerottolo. Ma, il giorno dopo, la sua visita all'Inman Hospital fu una
delusione. Era un piccolo ospedale, come quello che si stava progettando per
Holden's Crossing, ma era sudicio e maltenuto, una vera lezione su che cosa
non si doveva fare. Sciamano se ne andò il più presto possibile e pagò una
buona somma al capitano di una chiatta perché portasse lui e il cavallo fino a
Rock Island.
Pioveva e faceva freddo mentre cavalcava verso Holden's Crossing, ma il
428
pensiero di Rachel e del loro futuro lo riscaldava.
Quando finalmente fu a casa ed ebbe sistemato il cavallo, entrò in cucina e
trovò sua madre seduta molto rigida sull'orlo della sua sedia. Era chiaro che
aveva atteso ansiosamente il suo ritorno, perché le parole le uscirono impetuo-
samente di bocca appena vide il figlio sulla porta.
«Tuo fratello è vivo. È prigioniero di guerra.»
65
Un telegramma
Lillian Geiger il giorno prima aveva ricevuto una lettera del marito. Jason
scriveva di aver visto il nome del caporale Alexander Bledsoe in un elenco di
prigionieri di guerra confederati. Alex era stato catturato dalle forze del-
l'Unione l'11 novembre 1862 a Perryville, Kentucky.
«Ecco perché Washington non ha risposto alle nostre lettere in cui chiede-
vamo di un prigioniero di nome Alexander Cole» osservò Sarah. «Alex ha
usato il cognome del mio primo marito.»
Sciamano era esultante. «Almeno può essere ancora vivo! Scrivo subito per
vedere di scoprire dove lo tengono.»
«Scrivere? Ci vorrebbero dei mesi! Se è ancora vivo, deve essere prigionie-
ro almeno da tre anni. Jason dice che le condizioni di vita sono terribili nei
campi di prigionia, da entrambe le parti combattenti. Dovremmo cercare di
raggiungerlo subito.»
«Allora vado io stesso a Washington.»
Ma sua madre scosse la testa. «Ho letto sul giornale che Nick Holden è in
procinto di venire a Rock Island e a Holden's Crossing per parlare a favore
della rielezione di Lincoln. Vai da lui e chiedigli di aiutarti a ritrovare tuo
fratello.»
Sciamano si sentì a disagio. «Perché dovremmo andare da Nick Holden
invece che dal nostro deputato o dal nostro senatore? Papà disprezzava Holden
perché aveva contribuito a distruggere i Sauk.»
«Nick Holden probabilmente è il padre di Alex» replicò Sarah con voce
quieta.
Per un attimo Sciamano rimase senza parole.
«... io ho sempre pensato... Ossia, Alex credeva che il suo padre naturale
fosse un tale di nome Will Mosby.»
Sua madre lo guardò. Era molto pallida, ma aveva gli occhi asciutti. «Io
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avevo diciassette anni quando è morto il mio primo marito. Ero sola, in una
casetta di tronchi, in mezzo alla prateria, in quella che è ora la tenuta degli
Schroeder. Cercai di portare avanti i lavori della fattoria, ma non avevo la
forza. La fatica di lavorare la terra mi spezzava. Non avevo denaro. Non
c'erano posti di lavoro qui intorno. La zona era ancora scarsamente abitata. Fu
Will Mosby che mi trovò per primo. Era un criminale, stava lontano per lunghi
periodi, ma quando tornava aveva un sacco di denaro. Poi Nick Holden
cominciò a venire a trovarmi.
«Erano entrambi degli uomini belli e attraenti. Dapprima pensavo che nes-
suno dei due sapesse dell'altro, ma quando rimasi incinta risultò che entrambi
lo sapevano e ciascuno affermò che il padre era l'altro.»
Sciamano non sapeva che cosa dire. «E nessuno di loro ti ha mai aiutata?»
Sarah ebbe un amaro sorriso. «Molto scarsamente. Will Mosby mi amava
credo, e alla fine mi avrebbe sposata, ma faceva una vita rischiosa da fuorileg-
ge, e scelse giusto quel momento per farsi ammazzare. Nick si tenne lontano,
anche se io ho sempre pensato che fosse lui il padre di Alex. Intanto erano
arrivati Alma e Gus e avevano preso la terra e credo che Nick sapesse che gli
Schroeder provvedevano a mantenermi.
«Al momento del parto fu Alma ad assistermi, ma la povera donna perdeva
la testa nei casi di emergenza e perlopiù dovevo dirle io quel che doveva fare.
Dopo la nascita di Alex per qualche anno la mia vita fu orribile. Dapprima mi
cedettero i nervi, poi mi ammalai di intestino e questo provocò i calcoli alla
vescica.» Sarah scosse la testa. «Tuo padre mi ha salvato la vita. Finché non è
comparso lui, io non credevo che esistessero al mondo degli uomini onesti e
buoni.
«Il fatto è che io avevo peccato. Quando tu hai perduto l'udito, io sapevo
che era un castigo per me e che era colpa mia, e non riuscivo quasi ad avvici-
narmi a te. Ti amavo tanto, e sentivo tanto rimorso.» Gli accarezzò piano il
viso. «Mi dispiace che tu abbia avuto una madre così debole e colpevole.»
Sciamano le prese la mano. «No, non sei debole e colpevole. Sei una donna
forte che ha avuto bisogno di molto coraggio per sopravvivere. E soprattutto
molto coraggio per raccontarmi la tua storia. La mia sordità non è colpa tua,
mamma. Dio non vuole punirti. Io non sono mai stato tanto orgoglioso di te,
non ti ho mai voluto tanto bene come ora.»
«Grazie, Sciamano» mormorò Sarah e ora, quando Sciamano la baciò, sentì
che la sua guancia era umida.
Cinque giorni prima che Nick Holden venisse a parlare a Rock Island,
430
Sciamano lasciò una lettera per lui al presidente del Comitato repubblicano
della contea: scriveva che il dottor Robert Jefferson Cole chiedeva di poter
parlare con il commissario Holden per una questione urgente e di grande im-
portanza.
Il giorno del primo comizio politico Sciamano si recò alla grande casa di
Holden a Holden's Crossing e un segretario annuì quando sentì il suo nome.
«Il commissario l'aspetta» e introdusse Sciamano nell'ufficio.
Holden era molto cambiato da quando Sciamano lo aveva visto l'ultima vol-
ta. Era ingrassato, i capelli grigi si erano fatti radi e una rete di venuzze era
comparsa agli angoli del suo naso. Ma era sempre un uomo di bell'aspetto e
portava su tutta la sua persona la sicurezza di sé, come un abito di buon taglio.
«Bene, buon Dio, lei è il piccolo, il figlio minore, vero? E ora è già medico?
Sono veramente felice di vederla. Dica un po', io ho bisogno di un buon pranzo
paesano, venga con me alla trattoria di Anna Wiley e lasci che le offra un vero
pasto di Holden's Crossing.»
Sciamano aveva appena letto il diario del padre e vedeva ancora Nick con
gli occhi di Rob J. Cole, e l'ultima cosa che desiderava era spartire pane e vino
con lui. Ma sapeva bene perché era li e si lasciò condurre alla trattoria di Main
Street nella carrozza di Nick. Naturalmente dovettero passare prima per l'empo-
rio, dove rimase in attesa mentre Nick stringeva la mano a ogni cittadino sotto
il portico, com'era dovere di un buon politico, e si assicurava che ognuno fa-
cesse conoscenza «del mio buon amico, il nostro dottore».
Nella sala da pranzo Anna Wiley si fece in quattro per loro e servì a
Sciamano il suo arrosto, che era ottimo, e la sua torta di mele, che era discreta.
E finalmente Sciamano poté parlare a Nick Holden di Alex.
Holden ascoltò senza interromperlo, poi annuì. «È prigioniero da tre anni?»
«Si, signore. Se è ancora vivo.»
Nick trasse un sigaro dalla tasca interna della giacca e glielo offrì. Sciamano
rifiutò e Nick ne staccò con i denti l'estremità e se lo accese, soffiando pensoso
piccoli sbuffi di fumo. «Perché è venuto da me?»
«Mia madre pensava che lei poteva interessarsi.»
Holden lo guardò, annuendo, e sorrise. «Suo padre e io... sa, quando erava-
mo giovani, eravamo grandi amici. Qualche volta ce la siamo spassata insie-
me.»
«Lo so» replicò Sciamano piuttosto seccamente. Qualcosa nel suo tono do-
vette avvertire Nick che era meglio abbandonare l'argomento. «Bene,» proseguì
Holden «porga i miei migliori ossequi a sua madre. Le dica che mi interesserò
personalmente della questione.»
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Rob lo ringraziò. Comunque, appena tornato a casa, scrisse al senatore e al
deputato della contea, chiedendo il loro aiuto per rintracciare Alex.
Pochi giorni dopo il loro ritorno da Chicago, sia Sciamano sia Rachel
annunciarono alle rispettive madri che avevano deciso di unire i loro destini.
Sarah strinse le labbra quando sentì la notizia, ma non ne fu sorpresa. «Tu
sarai buono con i suoi bambini, naturalmente, così come tuo padre fu buono
con Alex. E se avrete dei figli, li farete battezzare?»
«Non so, mamma. Non ne abbiamo ancora parlato.»
«Io ne parlerei, se fossi in voi.» E fu tutto quello che ebbe da dirgli sulla
questione.
Rachel non fu così fortunata. Lei e la madre litigavano spesso. Lillian era
cortese con Sciamano quando veniva a casa Geiger, ma non gli dimostrava
nessuna cordialità. Sciamano portava fuori con sé Rachel e i due bambini con il
calesse quando era possibile, ma la natura cospirava contro di lui, perché face-
va sempre cattivo tempo. Come l'estate era venuta presto, e subito molto calda,
quasi senza che ci fosse la primavera, così l'inverno quell'anno sopraggiunse
prematuramente sulle praterie. L'ottobre portò il gelo. Sciamano trovò i pattini
di suo padre nel fienile; comprò ai bambini degli slittini all'emporio di Haskins
e li portò a giocare sullo stagno gelato. Ma faceva troppo freddo per restarvi a
lungo. E nevicò il giorno delle elezioni, quando Lincoln fu rieletto, e il 18 del
mese una bufera di neve colpì Holden's Crossing e stese sul terreno un manto
bianco che sarebbe durato fino a primavera.
«Hai osservato il tremito di Alden?» gli chiese un mattino sua madre.
In realtà Sciamano stava osservando Alden da un pezzo. «Ha il morbo di
Parkinson, mamma.»
«E che diavolo è?»
«Non so che cosa provochi il tremore, ma la malattia investe il controllo dei
muscoli.»
«E ne morirà?»
«Qualche volta la malattia porta alla morte, ma non spesso. Probabilmente
avrà un lento peggioramento. Forse diventerà paralitico.»
Sarah annuì. «Sicuro, il poveretto diventa troppo vecchio e debole per por-
tare avanti la fattoria. Dovremo pensare a sostituirlo con Doug Penfield, e
assumere qualcun altro come aiuto. Possiamo permettercelo?»
Al momento Alden riceveva 22 dollari il mese e Doug Penfield 10. Sciama-
no fece qualche rapido calcolo e finalmente annuì.
«E poi, che ne sarà di Alden?»
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«Be', resterà nella sua casetta di tronchi e noi avremo cura di lui, natural-
mente. Ma sarà difficile convincerlo ad abbandonare il lavoro pesante.»
«La cosa migliore sarà incaricarlo di una serie di lavoretti che non ri-
chiedano troppa fatica» osservò accortamente sua madre e Sciamano si disse
d'accordo.
«Penso proprio di avere uno di questi lavoretti per lui.»
Quella sera portò il "Bisturi di Rob J." alla casetta di Alden.
«Ha bisogno di essere affilato, no?» fece Alden, prendendolo in mano.
Sciamano sorrise. «No, Alden, lo tengo affilato io. È uno strumento chirur-
gico che è nella mia famiglia da centinaia di anni. Mio padre mi disse che nella
sua casa paterna era tenuto in una cornice, sottovetro, e appeso alla parete. Mi
domandavo se potessi fare una cornice per me.»
«E perché no?» Alden si girò il coltello fra le dita. «Ottimo acciaio, questo.»
«Ottimo, sì. Ha un taglio perfetto.»
«Potrei farti un coltello come questo, se ne vuoi un altro.»
Sciamano lo guardò, incuriosito. «Vuoi provare? Potresti farne uno con una
lama più lunga e più stretta?»
«Non dovrebbe essere un problema» rispose Alden e Sciamano cercò di non
osservare come tremava la sua mano rendendogli il bisturi.
Era molto duro vivere così vicino a Rachel eppure tanto lontano. Non v'era
nessun posto dove potessero fare l'amore. Arrancavano nella neve profonda
fino ai boschi, e qui si gettavano l'uno nelle braccia dell'altra e si stringevano
come orsi e si scambiavano baci con la faccia gelata e carezze attraverso i giac-
coni pesanti. Sciamano divenne nervoso e di malumore e osservò che Rachel
aveva dei lividi sotto gli occhi.
Quando la lasciava, Sciamano si faceva lunghe camminate. Un giorno, per-
correndo il Sentiero Corto, osservò che la parte della lapide di legno di Makwa-
ikwa che sporgeva al di sopra della neve aveva una profonda fessura. Le intem-
perie avevano quasi cancellato i segni a forma di rune che suo padre aveva
fatto intagliare nel legno.
Sentì la collera furiosa di Makwa salire verso di lui dalla terra, attraverso la
neve. Quanto era la sua immaginazione, e quanto la sua coscienza?
Ho fatto quel che ho potuto. Che altro posso fare? Nella mia vita c'è ben
più del fatto che tu non puoi riposare in pace, le disse irosamente e si voltò e
arrancando nella neve tornò a casa.
Quel pomeriggio si recò a casa di Betty Cummings, che aveva forti dolori
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reumatici nelle spalle. Legò il cavallo e si stava avviando verso la porta sul
retro quando vide, poco al di là del fienile, una duplice traccia e una serie di
impronte curiose.
Attraversò il mucchio di neve e si inginocchiò a osservarle.
Le impronte nella neve avevano forma triangolare e affondavano per circa
quindici centimetri, variando leggermente in grandezza a seconda della profon-
dità.
Quelle ferite triangolari nel bianco mantello di neve erano senza sangue, e
ce n'erano una decina e più.
Rimase inginocchiato, fissandole.
«Dottor Cole?»
Mrs. Cummings era uscita nel cortile e si chinava su di lui con l'espressione
preoccupata.
Gli disse che le impronte erano quelle delle racchette da sci di suo figlio. Il
ragazzo si era fatto gli sci e le racchette con legno di hickory, appuntendone le
estremità.
Erano troppo larghe.
«Va tutto bene, dottor Cole?» La donna rabbrividì e si strinse lo scialle al
petto e Sciamano d'improvviso si vergognò di tener così fuori al freddo una
vecchia sofferente di reumatismi.
«Tutto bene, Mrs. Cummings.» Si alzò e la seguì nella comoda cucina
calda.
Alden aveva fatto un eccellente lavoro con la cornice del bisturi di Rob J.
Aveva usato legno di quercia ben squadrato e aveva ottenuto da Sarah un
piccolo ritaglio di velluto azzurro per montarvi il bisturi. «Però non ho potuto
trovare un pezzo di vetro usato. Ho dovuto comprarlo nuovo all'emporio. Spero
di aver fatto bene.»
«Più che bene, mio caro.» Sciamano era molto contento. «Lo appenderò a
casa nell'atrio.»
Fu ancora più soddisfatto quando vide il bisturi che Alden aveva forgiato in
base alle sue indicazioni. «L'ho tirato fuori da un vecchio ferro da marchio. Ne
è rimasto ancora tanto da fare altri due o tre di questi coltelli, se ti occorrono.»
Sciamano si sedette con carta e matita e disegnò una sonda da dissezione e
un bisturi amputante. «Credi di poter fare questi strumenti?»
«Non c'è dubbio.»
Sciamano lo guardò, colpito da un altro pensiero. «Presto avremo un
ospedale qui da noi, Alden. Questo significa che avremo bisogno di strumenti,
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letti, sedie... ogni sorta di cose. Che ne dici? Potresti trovare qualcuno che ti
aiuti a fabbricarli per noi?»
«Be', mi piacerebbe ma... Non credere che io possa trovare il tempo...»
«Sì, vedo. Ma se assumiamo qualcuno che lavori alla fattoria con Doug
Penfield? Tu potresti chiamarli un paio di volte la settimana per spiegare loro
che cosa devono fare.»
Alden rifletté un momento, poi annuì. «Potrebbe andare.»
Sciamano ebbe una breve esitazione. «Alden... tu hai buona memoria?»
«Buona come qualsiasi altro, credo.»
«Per quel che ti puoi ricordare, dimmi dove si trovava ogni persona il gior-
no in cui Makwa fu uccisa.»
Alden trasse un greve sospiro e alzò gli occhi al cielo. «Ancora con quel-
l'idea, vedo.» Ma con qualche parola persuasiva Sciamano lo convinse a
collaborare. «Bene, cominciamo da te. Tu dormivi nel bosco, mi hanno detto.
Tuo padre era fuori, a visitare i suoi pazienti. Io ero alla fattoria di Hans Grue-
ber e lo aiutavo a macellare, in cambio dei buoi che tuo padre aveva preso in
prestito per tirare il carro spargiconcime sui nostri pascoli... Vediamo, chi re-
sta?»
«Alex. Mia madre. Luna e Vien Cantando.»
«Bene, Alex era fuori in qualche posto a pescare o giocare, non so. Tua
madre e Luna... Adesso ricordo, stavano riordinando la dispensa fredda, per
appendervi la carne quando noi macellavamo le nostre bestie. Il grande indiano
badava al gregge e poi, poco dopo, era nei boschi a lavorare.» Sorrise a
Sciamano. «Che cosa ne dici della mia memoria?»
«Fu Jason che trovò Makwa. Come aveva passato la sua giornata?»
Alden era indignato. «Diavolo, come faccio a saperlo? Se vuoi sapere di
Geiger, chiedilo a sua moglie.»
Sciamano annuì. «Lo farò.»
Ma quando tornò a casa scacciò ogni altro pensiero dalla mente, perché sua
madre gli disse che Carroll Wilkenson era arrivato con un messaggio per lui.
Era stato spedito all'ufficio telegrafico di Rock Island.
Le sue dita tremavano come quelle di Alden quando lacerò la busta.
Il telegramma era conciso e asciutto.
Caporale Alexander Bledsoe, 38° Louisiana, fucilieri a cavallo, attualmen-
te prigioniero di guerra al campo prigionieri di Elmira, New York. Prego
farmi sapere se in qualsiasi altro modo posso essere d'aiuto. Buona fortuna.
Nicholas Holden, commissario per gli Affari Indiani degli Stati Uniti.
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Il campo di Elmira
Nell'ufficio del direttore, alla banca, Charlie Andreson guardò la cifra del
prelevamento e sporse le labbra. Anche se prelevava il proprio denaro Sciama-
no espose ad Andreson senza esitare la ragione per cui lo faceva, sapendo di
poter avere fiducia nel banchiere. «Non ho idea di quel che occorrerà per Alex.
Comunque avrò bisogno di fondi per aiutarlo.»
Andreson annuì e lasciò l'ufficio. Quando tornò, portava un cestino pieno di
mazzetti di banconote. Aveva anche una cintura portamonete, che porse a
Sciamano. «Un piccolo dono della banca a uno stimato cliente. Insieme con i
nostri più sinceri auguri e a un consiglio, se permette: tenga il denaro nella cin-
tura e lo porti a contatto con la pelle, sotto i vestiti. Lei ha una pistola?»
«No.»
«Bene, dovrebbe comprarsela. Ha da fare un lungo viaggio e ci sono in giro
uomini pericolosi che non ci penserebbero due volte a uccidere per impadronir-
si di tutto questo denaro.»
Sciamano ringraziò il banchiere e ripose il denaro e la cintura in una bor-
setta di tela che aveva portato con sé. Stava cavalcando per la Main Street
quando gli venne in mente che in realtà aveva una pistola: la Colt 44 che suo
padre aveva tolto a un confederato morto per uccidere un cavallo, e che aveva
poi portato a casa dalla guerra.
In circostanze normali non avrebbe mai pensato di viaggiare armato, ma
non poteva permettersi di affrontare rischi che avrebbero potuto pregiudicare la
sua ricerca del fratello. Girò il cavallo e si diresse all'emporio di Haskins, dove
comprò una scatola di munizioni per la 44. I proiettili e la pistola erano pesanti
e occupavano molto spazio nell'unica valigia che si portò appresso, insieme con
la borsa medica, quando partì da Holden's Crossing la mattina dopo.
Prese un battello a vapore che scendeva il fiume fino a Cairo, poi proseguì
verso est in treno. Tre volte vi furono lunghe soste, con il treno fermo per
consentire il passaggio dei treni militari. Furono quattro giorni e quattro notti di
viaggio disagevole e faticoso. Quando si lasciò alle spalle l'Illinois la neve
scomparve, ma non l'inverno, e il freddo intenso che regnava nei vagoni gli
penetrava nelle ossa. Quando finalmente arrivò a Elmira, era sfinito dal viaggio
ma non pensò neppure di fare un bagno o cambiarsi d'abito prima di cercare di
vedere Alex: lo incalzava un'ansia irrefrenabile di accertarsi che il fratello fosse
436
vivo.
Fuori della stazione non prese una carrozza, ma un calesse, per potersi
sedere a fianco del cocchiere e leggere sulle sue labbra quello che gli diceva. Il
cocchiere gli spiegò tutto orgoglioso che Elmira aveva raggiunto i 15.000
abitanti. Attraversarono una linda cittadina di piccole case, poi dei sobborghi
alla sua periferia, lungo Water Street che fiancheggiava un fiume, il fiume
Chemung, disse il cocchiere. Infine arrivarono alla palizzata di legno che
circondava il campo dei prigionieri.
Il cocchiere era orgoglioso dei miglioramenti che abbellivano la sua città ed
era lieto di parlarne. Disse a Sciamano che la palizzata era alta tre metri e
mezzo. «Tutta fatta di tavole di legni locali» e racchiudeva un terreno di undici
ettari su cui vivevano più di 10.000 prigionieri confederati. «E c'erano stati
anche più di 12.000 ribelli, a volte.»
Spiegò che a un metro e mezzo dalla sommità della palizzata, verso l'ester-
no, vi era un cammino di ronda, lungo il quale pattugliavano sentinelle armate.
Percorsero la West Water Street, dove imprenditori di pochi scrupoli aveva-
no fatto del campo di prigionieri una specie di zoo umano. Una torre di legno
alta tre piani, completa di scale che portavano a una piattaforma cinta da
parapetto, consentiva a chiunque di osservare per 15 cent gli uomini che si
aggiravano entro la palizzata.
«Prima c'erano due torri qui e una quantità di bancarelle con rinfreschi,
vendevano frittelle, panini, limonata e birra a quelli che venivano a vedere i
prigionieri. Ma il dannato esercito ha chiuso tutto.»
«Peccato.»
«Eh si. Vuole fermarsi a dare un'occhiata?»
Sciamano scosse la testa. «Mi faccia scendere all'entrata principale del
campo, per piacere.»
«Mamma e papà?»
Furono le prime parole che Alex gli disse e Sciamano menti immedia-
tamente e istintivamente. «Stanno bene.» I due fratelli sedettero vicini, tenen-
dosi le mani. Avevano tanto da dirsi, tanto da chiedere e raccontare che
dapprima rimasero muti. Poi Sciamano ritrovò le parole, Alex non ancora:
malgrado l'eccitazione dell'incontro, scivolò di nuovo nel sonno, e questo disse
a Sciamano quanto il fratello fosse malato.
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Si presentò agli altri quattro prigionieri, che gli dissero i loro nomi. Berry
Womack di Spartanburg, Carolina del Sud, basso e robusto, con lunghi e sudici
capelli biondi. Fox J. Byrd di Charlottesville, Virginia, con il viso sonnolento e
la pelle cascante, come se una volta fosse stato grasso. James Joseph Waldron
di Van Buren, Arkansas, robusto, pelle scura, il più giovane di tutti, non più di
diciassette anni, pensò Sciamano. E Barton O. Westmoreland di Richmond,
Virginia, il ragazzo dai baffi neri, che gli strinse energicamente la mano e gli
disse di chiamarlo Buttons.
Mentre Alex dormiva, Sciamano lo esaminò.
Gli mancava il piede sinistro.
«... Un colpo d'arma da fuoco?»
«No, signore» rispose Buttons. «Io ero con lui. Un gruppo di noi fu
trasferito qui in treno dal campo prigionieri di Point Loo kout, Maryland, il 16
luglio scorso... Bene, ci fu un terribile scontro ferroviario in Pennsylvania, a
Sholola. Quarantotto prigionieri e diciassette guardie federali rimasero uccisi.
Li seppellirono così, in un campo vicino ai binari, come dopo una battaglia.
«Ottantacinque di noi furono feriti. Il piede di Alex era così maciullato che
dovettero amputarlo. Io sono stato veramente fortunato, solo una spalla slo-
gata.»
«Suo fratello pareva che stesse bene, per un certo tempo» aggiunse Berry
Womack. «Jimmie-Joe gli fece una gruccia e lui si muoveva bene con quella.
Alex era il sergente-infermiere in questa tenda, e si prendeva cura di noi tutti.
Diceva che aveva imparato un po' di medicina osservando suo padre.»
«E noi lo chiamavamo dottore» interloquì Jimmie-Joe Waldron.
Quando Sciamano sollevò la gamba di Alex, vide che quella era la fonte del
male. La gamba non era ancora andata in cancrena, ma a metà del moncone, da
cui pendevano laceri lembi di pelle, non era cicatrizzata, e sotto il tessuto della
parte cicatrizzata c'era del pus.
«Lei è un medico?» chiese Waldron quando vide lo stetoscopio. Sciamano
assentì. Sistemò lo stetoscopio sul torace di Alex e provò un gran sollievo al
sentire, dai rumori riferiti dagli altri, che i polmoni fortunatamente erano illesi.
Ma Alex aveva la febbre e il suo polso era debole e irregolare.
«C'è un'epidemia in tutto il campo, signore» riferì Buttons. «Vaiolo, ogni
sorta di febbri. Malaria, diversi tipi di febbri palustri. Quale pensa che sia il suo
male?»
«Un principio di necrosi alla gamba» rispose Sciamano angosciato. Era
ovvio che Alex soffriva anche di denutrizione e di lunga esposizione al freddo,
come del resto gli altri uomini della tenda. Dissero a Sciamano che diverse
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tende avevano delle stufe di lamiera e alcune anche delle coperte, ma per la
maggior parte non avevano niente.
«E che cosa mangiate?»
«Al mattino ognuno riceve un pezzo di pane e un pezzetto di pessima carne.
La sera, un pezzo di pane e una ciotola di quello che chiamano zuppa, ossia
l'acqua in cui hanno fatto bollire la pessima carne.»
«Niente verdure?»
Scossero la testa, ma Sciamano sapeva già la risposta. I sintomi dello
scorbuto gli erano balzati agli occhi appena era entrato nel campo.
«Quando siamo arrivati qui, c'erano 10.000 prigionieri» soggiunse Buttons.
«E continuano a riceverne degli altri, ma solo 5000 dei vecchi 10.000 sono
sopravvissuti. Hanno un obitorio sempre affollato e un grande cimitero appena
al di là del campo. Circa 25 di noi muoiono ogni giorno.»
Sciamano si sedette sulla terra gelata e prese la mano di Alex, osservando il
suo viso. Alex continuava a dormire, un sonno troppo profondo.
Ben presto la guardia si affacciò all'apertura della tenda e annunciò che il
tempo era scaduto.
Appena Sciamano fu nella sua stanza e riuscì a liberarsi del locandiere, tolse
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150 dollari dalla sua cintura portamonete e si pose le banconote nella tasca
della giacca. C'era un inserviente che fu ben felice di portare il nuovo pensio-
nante in città, a pagamento, s'intende. All'ufficio telegrafico Sciamano spedì un
messaggio a Nick Holden a Washington: Alex gravemente malato. Necessario
assicurare il suo rilascio, o morirà. Prego, ci aiuti.
Trovò una grande scuderia con stallaggio e noleggio; prese a nolo un caval-
lo e un carro a pianale coperto.
«Per un giorno o per una settimana?» chiese il noleggiatore. Lo prese per
una settimana e pagò in anticipo.
L'emporio era più grande di quello di Haskins. Sciamano riempì il carro con
diversi generi per i compagni di tenda di Alex: legna da ardere, coperte, un
pollo già pulito e pronto per la cottura, un trancio di pancetta, sei pagnotte, due
sacchi di patate, un sacco di cipolle, una cassetta di cavoli.
Il sergente spalancò gli occhi quando vide il "qualche cosa" che Sciamano
aveva portato per il fratello. «Lei oggi ha già usufruito dei novanta minuti.
Metta solo giù il suo carico e torni fuori.»
Alla tenda Alex dormiva ancora. Ma per gli altri fu come il giorno di Natale
ai bei tempi. Chiamarono i loro vicini, e da una dozzina di tende vennero i
prigionieri a prendersi legna e verdura. Sciamano aveva destinato le provviste
agli uomini della tenda 8-C, ma quelli avevano deciso di distribuirle ai
compagni di prigionia.
«Avete qui una pentola?» chiese a Buttons.
«Sissignore.» Buttons tirò fuori un grosso barattolo di latta tutto ammac-
cato.
«Fate un brodo di pollo, cipolle, cavoli, patate, e poi metteteci un po' di
pane. Conto su di voi perché ne facciate mangiare a mio fratello il più possi-
bile.»
«Sissignore, lo faremo» assicurò Buttons.
Sciamano esitò. Un'allarmante quantità di cibo era già scomparsa. «Ne por-
terò ancora domani. Dovete cercare di conservare una certa quantità di prov-
viste per la vostra tenda.»
Westmoreland annuì pensieroso. Sapevano entrambi che la condizione, taci-
tamente posta e accettata, era che soprattutto Alex dovesse essere nutrito.
Il locandiere teneva riempita la caraffa d'acqua di Sciamano e lo invitò a be-
re, con la stessa premura con cui gli avrebbe offerto del vino. L'acqua era pia-
cevole al gusto, ma non aveva niente di speciale, per quanto parve a Sciamano.
«Anche i pozzi del campo prigionieri hanno acqua eccellente. E questa non
è cosa da poco. Suo fratello era forse a Point Lookout, come tanti altri di questo
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campo?»
Sciamano annuì.
«Le diranno che l'acqua a Point Lookout era un vero veleno.»
Sciamano non poté trattenersi dall'osservare che, malgrado l'ammirabile
qualità dell'acqua, nel campo di Elmira moriva un alto numero di prigionieri.
Il locandiere annuì. «L'acqua da sola non può dare la salute. Il primo inte-
resse del governo è quello di portare avanti la guerra, non di nutrire i prigio-
nieri.» Sospirò e confidò al suo cliente che a detta di tutti il chirurgo del campo
era un ben misero campione della professione del dottor Cole, e inoltre era
posseduto dai demoni che lo spingevano a consumare per sé gran parte delle
droghe che il governo forniva per i suoi pazienti. «Deve cercare di far rilasciare
suo fratello il più presto possibile.»
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Il carro aveva senza dubbio delle cattive molle: Alex, sdraiato nella paglia,
subiva continui scossoni. Gridava per il dolore e mugolava quando Sciamano
uscì dalla porta del campo e si immise nella carreggiata.
Il cavallo passò oltre la torre di osservazione, oltre il muro di cinta del
campo. Dal cammino di ronda un soldato armato di fucile li osservò attenta-
mente mentre si allontanavano.
Sciamano tenne il cavallo al passo. Non poteva farlo correre senza far sof-
frire Alex, ma procedeva lentamente anche perché non voleva attirare l'atten-
zione su di loro. Aveva la strana e irrazionale sensazione che a ogni momento il
lungo braccio degli Stati Uniti potesse allungarsi e riprendersi suo fratello, e
non cominciò a respirare liberamente se non quando i muri del campo furono
ben lontani e si trovò finalmente fuori della città di Elmira.
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La casa di Wellsburg
La casa di Mrs. Clay risultò comoda e accogliente. Era così piccola che
Sciamano vi si trovò subito a suo agio, come se ci avesse vissuto per anni.
Fece un gran fuoco nella stufa e ben presto il ferro divenne incandescente;
poi scaldò una quantità d'acqua nelle pentole di Mrs. Clay e ne riempì la
tinozza da bagno, che aveva collocato vicino al fuoco. Quando Alex si trovò
immerso nell'acqua come un neonato, i suoi occhi brillarono di piacere.
«Quando è stata l'ultima volta che hai fatto un vero bagno?»
Alex scosse lentamente la testa. Sciamano lo sapeva bene: era tanto tempo
che non se ne poteva neppure ricordare. Non osò lasciare a lungo il fratello nel
bagno, per paura che prendesse un malanno quando l'acqua si raffreddava; lo
lavò con un panno insaponato, cercando di ignorare com'era scarno il suo
torace, e avendo cura di trattare con delicatezza la gamba offesa.
Quando lo fece uscire dalla tinozza e lo fece sdraiare su una coperta davanti
alla stufa, lo asciugò con cura e gli mise addosso una camicia da notte di
flanella. Qualche anno prima non sarebbe riuscito a trasportarlo su per le scale,
ma ora Alex aveva perso tanto peso che la cosa non gli fu difficile.
Dopo aver sistemato Alex nella stanza per gli ospiti, Sciamano si pose
all'opera. Sapeva esattamente che cosa si doveva fare. Non c'era ragione di
indugiare e ogni ritardo poteva portare grave danno.
Tolse dalla cucina ogni mobile e ogni oggetto, lasciando solo il tavolo e una
sedia e accumulando tutto il resto nel salotto. Poi lavò energicamente con
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acqua calda e sapone le pareti, il pavimento, il soffitto, il tavolo e la sedia. La-
vò gli strumenti chirurgici e li dispose sulla sedia, accanto al tavolo. Infine si
tagliò le unghie e tornò a lavarsi accuratamente le mani.
Quando trasportò di nuovo Alex in cucina e lo depose sul tavolo, suo fratel-
lo appariva così vulnerabile che per un momento Sciamano ne fu scosso. Era
sicuro di quel che stava facendo, salvo che per una sola cosa: aveva portato con
sé del cloroformio, ma non sapeva esattamente quale fosse la quantità da usare,
dato che il trauma e la denutrizione avevano così gravemente indebolito il ma-
lato.
«Che cosa c'è?» mugolò Alex intontito e confuso in tutto quel tramestio.
«Respira profondamente, Alex.»
Versò a gocce il cloroformio, tenendo il cono sulla faccia di Alex, pieno
d'ansia per il timore di eccedere. Che il Signore mi aiuti, pensò.
«Alex! Mi senti?» Pizzicò il braccio del fratello, gli diede uno schiaffetto
sulla guancia, ma il malato dormiva profondamente.
Sciamano non aveva più bisogno di pensare e progettare. Aveva già pensato
e già deciso. Scacciò ogni emozione dalla mente e procedette a fare quello che
era necessario.
Voleva conservare quanto era possibile della gamba, e nello stesso tempo
asportare abbastanza da essere sicuro che la parte amputata comprendesse tutto
l'osso e tutti i tessuti infetti.
Eseguì la prima incisione circolare quindici centimetri al di sotto del cavo
del poplite e preparò un buon lembo per il futuro moncone, interrompendo
l'incisione solo per legare la grande e la piccola safena, le vene tibiali e la vena
peroneale. Segò la tibia con la stessa cura che avrebbe usato tagliando un
materiale infiammabile. Procedette a segare il perone, e la parte infetta dell'arto
fu staccata: un lavoro preciso e pulito.
Quindi passò a fasciare strettamente con bende pulite per ottenere un mon-
cone ben formato. Poi baciò Alex, ancora privo di sensi, e lo riportò nel suo
letto.
Per un certo tempo rimase al capezzale del fratello, osservandolo attenta-
mente: ma non c'era traccia di sintomi inquietanti, né nausea né vomito né
gemiti di dolore. Alex dormiva come un lavoratore che meriti un buon riposo.
Infine portò il pezzo della gamba tagliata fuori della casa, avvolta in un
panno, insieme con una vanga che aveva trovato in cantina. Si inoltrò nei bo-
schi dietro la casa e cercò di seppellirlo, ma il terreno era gelato in profondità e
la vanga scivolava sulla superficie ghiacciata. Allora raccolse un po' di legna e
fece un piccolo rogo, per dare all'arto un funerale da vichingo. Lo pose sulla
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legna, vi accumulò sopra altri rami secchi e cosparse il tutto con un po' di pe-
trolio della lampada. Vi avvicinò un fiammifero acceso e le fiamme si alza-
rono. Restò li vicino, appoggiato a un tronco d'albero, con gli occhi asciutti ma
preso da una profonda emozione, pensando che nel migliore dei mondi un
uomo non avrebbe dovuto trovarsi a tagliare e bruciare la gamba di suo fratello.
Quando arrivò a casa, vide che Alex stava meglio. Staccò il cavallo e lo
mise al riparo nel fienile, poi tornò in cucina e pose la carne a cuocere in una
pentola d'acqua, insieme con patate, carote, cipolle e rape.
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Era angosciato. Non sapeva se riferire ad Alex quel che aveva saputo, infine
si sedette accanto al letto e lo informò. «Così, può darsi che avremo una visita
dai militari.»
Ma Alex scosse la testa. «Se fosse l'esercito, avrebbero già bussato alla
nostra porta... Uno come te che viene a tirar fuori un parente dal campo prigio-
nieri, si suppone che abbia del denaro. Probabilmente è questo che cercano...
Non è che per caso hai una pistola?»
«Ne ho una.» Andò a prendere la Colt dalla valigia. E dietro le insistenze di
Alex, la ripulì, mentre il fratello lo osservava, e la caricò assicurandosi che ci
fosse un proiettile in canna. Quando la depose sul comodino, era più turbato di
prima. «Perché quest'uomo dovrebbe star li ad aspettare e a spiarci?»
«Ci osserva... per essere sicuro che siamo qui da soli. Studia la luce della
lampada di notte per scoprire in che stanza dormiamo. Cose del genere.»
«Forse stiamo esagerando» replicò Sciamano pensoso. «Forse quel soldato
che ha chiesto di noi fa parte di un qualche servizio informazioni dell'esercito e
deve assicurarsi che noi non stiamo progettando di aiutare altri prigionieri a
evadere dal campo. Probabilmente non ne sentiremo più parlare.»
Alex si strinse nelle spalle. Ma Sciamano non era del tutto convinto di ciò
che diceva. Se dovevano esserci dei guai, l'ultima cosa che desiderava era
rimanere bloccato in casa con un fratello debole e appena amputato.
Quel pomeriggio fece bere ad Alex latte caldo addolcito con il miele.
Avrebbe voluto somministrargli una iperalimentazione con dolci e budini, per
veder tornare un po' di carne sulle sue ossa, ma sapeva che ci voleva del tempo.
Ben presto Alex si addormentò di nuovo, e quando si svegliò, diverse ore dopo,
aveva voglia di parlare.
Così Sciamano, un pezzo per volta, apprese quello che era capitato al fra-
tello dopo che se ne era andato di casa.
«Mal Howard e io siamo arrivati a New Orleans su una chiatta. Poi fra noi
ci fu un litigio per una ragazza, e lui se ne andò da solo nel Tennessee ad
arruolarsi.» Alex si interruppe e guardò il fratello. «Tu sai che cosa ne è stato di
Mal?»
«I suoi genitori non hanno ricevuto neanche una parola da lui.»
Alex non parve sorpreso. «In quel momento ero tentato di tornare a casa. E
vorrei averlo fatto. Ma c'erano i reclutatori dei confederati in tutta la zona, e
così mi sono arruolato. Ho pensato che sapevo andare a cavallo e sapevo
sparare, e così sono entrato in cavalleria.»
«Hai combattuto in molti scontri?»
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Alex annuì tristemente. «Per due anni. Ero così rabbioso con me stesso
quando mi hanno catturato nel Kentucky! Ci tenevano dentro un recinto che un
bambino avrebbe potuto scavalcare. Così ho aspettato la buona occasione e
sono evaso. Sono rimasto libero per tre giorni, rubavo un po' di cibo dagli orti e
cose del genere. Poi mi sono fermato a una fattoria e ho chiesto qualche cosa
da mangiare. Una donna mi ha offerto la colazione e io l'ho ringraziata come un
gentiluomo, senza fare un gesto inopportuno, e questo forse è stato il mio
errore! Mezz'ora dopo sentii il branco dei cani che avevano lanciato dietro di
me. Corsi in un enorme campo di granturco, tra fusti altissimi e verdi e
talmente fitti che non potevo passarci in mezzo. Dovevo rovesciarli e
calpestarli mentre correvo, sembrava che in mezzo ai campi ci fosse un orso.
Vi rimasi per quasi tutta la mattina, correndo per sfuggire ai cani. Cominciavo
a pensare che non ne sarei mai uscito. Poi arrivai all'estremità del campo ed
ecco, c'erano quei due soldati yankee e mi puntavano contro i fucili sog-
ghignando.
«Questa volta i federali mi mandarono a Point Lookout. Era il peggior
campo di tutti! Cibo pessimo o niente del tutto, acqua putrida e ti sparavano a
vista se ti avvicinavi a quattro passi dalla palizzata. Certo, sono stato ben
contento quando mi hanno spedito via da quell'inferno. Ma poi è successo il
disastro ferroviario.» Scosse la testa. «Ricordo solo un gran fragore di lamiere
e un dolore acuto al piede. Sono rimasto svenuto per un po' e quando ho ripreso
i sensi mi avevano già amputato il piede e mi trovavo su un altro treno diretto a
Elmira.»
«E come sei riuscito a scavare un tunnel, dopo l'amputazione?»
Alex sogghignò. «È stato facile. Mi hanno detto che un gruppo stava sca-
vando. Mi sentivo abbastanza bene in quei giorni e facevo il mio turno agli
scavi. Abbiamo scavato 60 metri, proprio sotto il muro di cinta. Il mio mon-
cone non era guarito e continuavo a insudiciarlo nel tunnel. Forse è per questo
che sono finito nei guai. Naturalmente io non potevo evadere con loro, ma dieci
uomini sono riusciti a fuggire e non ho mai sentito che siano stati ripresi. E mi
addormentavo felice pensando a quei dieci uomini liberi.»
Sciamano trasse un profondo sospiro.
«Alex, ascolta. Papà è morto.»
Alex restò in silenzio per qualche minuto, poi annuì. «Credo di averlo capi-
to quando ti ho visto in mano la sua borsa. Se fosse stato vivo e in buona salute,
sarebbe venuto lui da me, invece di mandare te.»
Sciamano sorrise. «È vero, fratello.» Gli raccontò quel che era successo a
Rob J. Cole prima che morisse. Durante il racconto Alex cominciò a piangere
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silenziosamente, e prese la mano di Sciamano. Quando il racconto finì, rima-
sero l'uno accanto all'altro in silenzio. E dopo che Alex si fu addormentato,
Sciamano rimase a lungo vicino a lui con la mano del fratello nella sua.
Alex non aveva riserve di forze e ben presto crollò. Sciamano si sedette sul
letto e tenne il fratello fra le braccia, cullandolo come un bambino mentre
tremava e piangeva.
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Alex era certo che, se il cadavere fosse stato scoperto, lo avrebbero ricon-
dotto nel campo prigionieri. Chiese a Sciamano di portare il cadavere nei bo-
schi e bruciarlo, come aveva bruciato la gamba.
Sciamano lo confortava e gli batteva pacche affettuose sulla schiena, ma
stava freddamente calcolando i rischi.
«L'ho ucciso io, non tu. Se qualcuno è nei guai, non sei tu. Ma la scomparsa
di quest'uomo sarà notata. Il negoziante sa che stava venendo qua, e forse lo
sanno anche altri. Questa stanza è danneggiata e ha bisogno di un falegname,
che ne parlerà in giro. Se nascondo e distruggo il corpo, finisco impiccato. Non
dobbiamo più neanche toccarlo.»
Alex si calmò. Sciamano rimase seduto vicino a lui e parlarono finché nella
stanza entrò la grigia luce dell'alba e poterono spegnere la lampada. Allora
portò il fratello giù in salotto e lo fece coricare sul divano, avvolgendolo nelle
coperte calde. Riempì la stufa di legna e ricaricò la Colt, che pose su una sedia
accanto ad Alex.
«Io tornerò con i soldati. Per amor di Dio, non sparare a nessuno se non sei
sicuro che non siamo noi.»
Guardò il fratello negli occhi. «Certo ci interrogheranno più e più volte, da
soli e insieme. È importante che tu dica l'esatta verità su ogni cosa. In questo
modo non potranno distorcere le nostre dichiarazioni. Mi capisci?»
Alex annuì. Sciamano lo accarezzò su una guancia e uscì di casa.
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La mattina dopo il maggiore Poole mandò uno dei sergenti con l'ordine che
i fratelli Cole non lasciassero la città di Elmira fino alla conclusione formale
delle indagini. Quando Sciamano gli chiese quanto tempo poteva passare, il
sergente rispose abbastanza cortesemente che non lo sapeva.
Così rimasero nella piccola casa. Mrs. Clay aveva saputo subito che cos'era
successo, e venne a fare una visita, tutta pallida e angosciata, sbirciando senza
parole la finestra rotta e sbarrando gli occhi con orrore al vedere i fori dei
proiettili nel pavimento macchiato di sangue. Ma i suoi occhi si riempirono di
lacrime quando vide il cassettone rovinato. «Era di mia madre!»
«Provvedere a farlo riparare e a sistemare tutta la casa» assicurò Sciamano.
«Può indicarmi un buon falegname?»
Mrs. Clay mandò subito qualcuno nel pomeriggio, un uomo anziano alto e
dinoccolato, un tale Bert Clay, cugino del defunto marito. Bert fece una smor-
fia di disgusto, ma si pose subito all'opera. Portò un vetro delle giuste dimen-
sioni e riparò anzitutto la finestra. I guasti nella stanza da letto presentarono
maggiori difficoltà. Si dovevano sostituire i tasselli scheggiati del pavimento e
raschiare e rifinire i punti macchiati di sangue. Bert spiegò che avrebbe stucca-
to i fori nelle pareti e ridipinto la stanza. Ma guardando il cassetto del comò
scosse la testa. «Qui io non ce la faccio. È legno di acero da zucchero. Potrei
trovarne forse un pezzo, ma costerà caro.»
«Se lo procuri» fece Sciamano seccamente.
Ci volle una settimana per portare a termine le riparazioni. Quando Bert
ebbe finito, Mrs. Clay venne a ispezionare attentamente ogni cosa. Annuì e
ringraziò Bert e approvò il lavoro fatto, anche il cassetto del comò. Ma era
piuttosto fredda verso Sciamano e lui la capì: la sua casa non sarebbe stata mai
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più la stessa per lei.
Tutti quelli che incontrava erano freddi con lui. Mr. Barnard non sorrideva
più e non chiacchierava amichevolmente quando Sciamano entrava nel suo
negozio. Nelle strade vedeva persone che lo guardavano e mormoravano fra
loro. L'ostilità generale lo rese nervoso. Il maggiore Poole aveva confiscato la
Colt e i due fratelli si sentivano privi di protezione. Di notte Sciamano si cori-
cava con l'attizzatoio del caminetto e un coltello da cucina sul pavimento
accanto al letto, e restava sveglio, quando la casa era scossa dal vento, e
cercava di percepire le vibrazioni di qualche intruso.
Dopo tre settimane Alex aveva acquistato peso e aveva un aspetto migliore,
ma era impaziente di partire da Elmira, e i due fratelli furono ben felici quando
il maggiore Poole gli fece sapere che erano liberi di andarsene. Sciamano aveva
acquistato per Alex abiti civili e lo vestì, appuntando la gamba sinistra dei
pantaloni perché non lo intralciasse. Alex cercava di camminare appoggiandosi
alla gruccia, ma gli riusciva difficile. «Mi sento tutto sbilanciato, con quel
pezzo di gamba in meno» si lamentò, e Sciamano gli assicurò che si sarebbe
abituato.
Da Barnard comprò una grossa forma di cacio e la lasciò sul tavolo per Mrs.
Clay, come offerta espiatoria. Aveva combinato di restituire al noleggiatore il
cavallo e il carro alla stazione ferroviaria e Alex vi giunse sdraiato sulla paglia,
come quando aveva lasciato il campo prigionieri. Quando arrivò il treno,
Sciamano portò in braccio il fratello nel vagone e lo sistemò sul sedile vicino al
finestrino, mentre gli altri passeggeri li fissavano, o distoglievano lo sguardo.
Parlarono poco, e quando il treno uscì da Elmira Alex posò la mano sul braccio
del fratello, e quel gesto era più eloquente di un poema.
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Sciamano si sentì mancare il cuore quando vide Alden muoversi in giro per
la fattoria. C'era una rigidezza nuova nel collo e nelle spalle, che Sciamano non
conosceva, e il viso sembrava una triste maschera paziente, anche quando gli
attacchi di parkinsonismo erano più gravi. Faceva ogni cosa con gesti lenti e
pesanti, come un uomo che si muovesse sott'acqua.
Ma la mente era lucida. Trovò Sciamano nel capannone del fienile e gli
consegnò la vetrinetta che aveva fabbricato per il bisturi di Rob J., assieme al
nuovo bisturi che Sciamano gli aveva chiesto. Si sedette vicino a lui e gli fece
un rendiconto generale su come la fattoria aveva passato l'inverno: il numero di
animali, la quantità di foraggio consumata, le prospettive per l'agnellatura
primaverile. «Ho detto a Doug di portare del legno stagionato nel capannone
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dello zucchero, così possiamo bollire la melassa appena la stagione mette in
moto i succhi.»
«Bene» approvò Sciamano. Si fece forza per affrontare il compito ingrato e
annunciò ad Alden, come casualmente, che aveva incaricato Doug di trovare un
buon bracciante per i lavori di primavera.
Alden annuì lentamente. Tossicchiò a lungo per schiarirsi la voce, poi sputò
con cura di lato. «Non sono più in gamba come una volta» ammise, come per
dare la notizia con cautela.
«Bene, ci sarà qualcun altro per arare, questa primavera. Non c'è bisogno
che il manager della fattoria si sobbarchi di lavori pesanti quando possiamo tro-
vare dei giovani che facciano lavorare i muscoli.»
Alden annuì ancora e uscì dal capannone.
Sciamano notò che gli occorreva un po' di tempo per cominciare a cam-
minare, come un uomo che avesse deciso di urinare e non ci riuscisse. Ma
quando si avviava, era come se i piedi si muovessero sicuri nel loro piccolo
trotto, mentre il resto del corpo di Alden li seguiva a malincuore.
Quella sera dopo cena Sciamano sedeva in cucina a bere caffè con sua
madre. «Ho informato Alex della sua... parentela con Nick Holden» disse
Sarah.
«E lui, come l'ha presa?»
Sarah si strinse nelle spalle. «Semplicemente... ha accettato la cosa.» Ebbe
un debole sorriso. «Ha detto che tanto valeva avere Nick per padre, invece di
un fuorilegge morto.» Rimase in silenzio per un attimo, ma, quando tornò a
voltarsi verso di lui, Sciamano si avvide che era nervosa.
«Il reverendo Blackmer lascerà Holden's Crossing. Il pastore della chiesa
battista di Davenport e stato chiamato a Chicago, e la congregazione ha offerto
il suo posto a Lucian.»
«Mi spiace. So quanto lo apprezzavi. E ora la chiesa di Holden's Crossing
dovrà cercarsi un altro pastore.»
«Sciamano» fece Sarah «Lucian mi ha chiesto di andare con lui. Mi ha chie-
sto di sposarlo.»
Sciamano le prese la mano, che era fredda. «... E tu che vuoi fare, mam-
ma?»
«Noi siamo diventati... molto amici dopo che sua moglie è morta. E quando
io sono rimasta vedova, è stato un valido appoggio per me.» Strinse forte la
mano di Sciamano. «Io ho amato tuo padre con tutta me stessa, e lo amerò
sempre.»
«Lo so.»
«Fra qualche settimana sarà passato un anno dalla sua morte. Tu me ne
faresti una colpa, se io mi risposassi?»
Sciamano si alzò e si avvicinò alla madre.
«Io sono una donna che ha bisogno di essere una moglie.»
«Io voglio solo che tu sia felice, mamma» disse, e la strinse tra le braccia.
Lei dovette staccarsi a forza dal suo abbraccio, perché lui potesse leggerle le
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parole sulle labbra.
«Ho detto a Lucian che non potremo sposarci se non quando Alex non avrà
più bisogno di me.»
«Mamma, starà meglio quando tu cesserai di servirlo in ginocchio.»
«Davvero?»
«Davvero.»
Il viso di Sarah era raggiante. Sciamano, con un tuffo al cuore, ebbe per un
attimo la visione di quel che doveva essere stata sua madre quando era giovane.
«Grazie, Sciamano, mio caro. Lo dirò a Lucian» mormorò Sarah.
Così, oltre i pazienti che riponevano in lui la loro fiducia, Sciamano aveva
ora due membri della sua famiglia che avevano bisogno di lui. Benché fosse un
medico pieno di comprensione, scoprì che curare i propri familiari era ben
diverso dal curare gli altri pazienti. C'era un'ansietà speciale, un senso urgente
di responsabilità nelle cure quotidiane. Quando si affrettava verso casa, alla
fine di ogni giornata di lavoro, le ombre gli parevano più lunghe e più buie.
C'erano tuttavia dei momenti lieti. Un pomeriggio Joshua e Hattie, con sua
grande gioia, vennero a trovarlo da soli. Era il loro primo viaggio senza scorta
per il Sentiero Lungo, e in tono serio e pieno di dignità chiesero a Sciamano se
aveva tempo di andare a giocare con loro. Il medico fu compiaciuto e onorato
di passare un'oretta con i due bambini nei boschi, dove videro le prime violette
e scoprirono le chiare impronte di un daino.
70
Un viaggio a Nauvoo
71
Doni di famiglia
Cinque giorni dopo, quattro agrimensori si recarono sul terreno ceduto con i
loro teodoliti e i loro nastri misuratori d'acciaio. Non c'erano architetti nella
zona tra i fiumi, ma l'imprenditore edile che aveva la migliore reputazione era
un tale Oscar Ericsson, di Rock Island. Sciamano e Madre Miriam Ferocia si
incontrarono con Ericsson ed ebbero con lui lunghi colloqui. L'imprenditore
aveva già costruito un municipio e diverse chiese, ma perlopiù case e magaz-
zini. Questa era la sua prima occasione di edificare un ospedale, e ascoltò atten-
tamente quanto gli esponevano. Quando esaminarono i primi schizzi del pro-
getto, Sciamano e Madre Miriam Ferocia capirono di aver trovato l'uomo
giusto.
Ericsson cominciò con il tracciare una mappa del terreno, indicando i per-
corsi delle strade e dei viali di accesso. Un viale fra la clinica e il pontile
passava esattamente accanto alla casetta di Alden. «Tu e Billy dovreste abbat-
terla e utilizzare i tronchi come legna da ardere» disse Sciamano a Doug
Penfield, e i due si misero subito al lavoro. Quando i primi operai di Ericsson
arrivarono per sgomberare il terreno, era come se la vecchia casetta di tronchi
non fosse mai esistita.
Quel pomeriggio Sciamano era sul calesse tirato da Boss per le visite a
domicilio quando incontrò la carrozza da nolo dello stallaggio di Rock Island,
che veniva verso di lui dalla direzione opposta. C'era un uomo seduto a cassetta
accanto al cocchiere, e Sciamano passando fece un cenno di saluto. Gli ci volle
qualche attimo perché la mente registrasse chi era il passeggero, e Sciamano
girò Boss in una svolta a U e accelerò per raggiungerli. Quando fu accanto alla
480
carrozza, accennò al cocchiere che si fermasse e si precipitò a terra. «Jay!»
chiamò.
Jason Geiger scese a sua volta. Era molto smagrito: non c'era da meravi-
gliarsi che Sciamano non lo avesse riconosciuto subito. «Sciamano?» chiese.
«Mio Dio, è lui!»
Non aveva valigia, solo un sacco di tela legato con una corda, che Sciamano
trasferì subito sul calesse.
Jay sedette accanto a lui. Volgeva lo sguardo intorno, divorando con gli
occhi il paesaggio. «Quanto mi è mancato!» esclamò. Gettò uno sguardo alla
borsa medica. «Lillian mi ha scritto che sei medico. Non posso dirti quanto ne
sono orgoglioso. Tuo padre deve essersi sentito...» Non poté proseguire. Ma
dopo un attimo aggiunse: «Io ero più affezionato a tuo padre che ai miei fra-
telli».
«È sempre stato felice di avere un amico come te.»
Geiger annuì.
«E i tuoi, ti aspettano?»
«No. L'ho saputo solo pochi giorni fa. Le truppe dell'Unione sono venute al
mio ospedale con i loro medici e ci hanno detto semplicemente che potevamo
andarcene a casa. Io mi sono messo in abiti civili e ho preso un treno. Quando
sono arrivato a Washington, qualcuno mi ha detto che la salma di Lincoln era
nella rotonda del Campidoglio, e io ci sono andato. Non avevo mai visto una
tale folla. Sono rimasto in coda tutto il giorno.»
«E hai visto la salma?»
«Per pochi momenti. Aveva una grande dignità. Si sentiva il desiderio di
fermarsi e dirgli qualcosa, ma gli altri in coda spingevano avanti. Mi è venuto
in mente che, se qualcuno nella folla avesse potuto vedere l'uniforme grigia nel
mio sacco, mi avrebbero sbranato.» Sospirò. «Lincoln avrebbe potuto essere il
salvatore del Paese. Ora temo che quelli che sono saliti al potere sfrutteranno
l'assassinio di Lincoln per radere al suolo il Sud.»
Si interruppe perché Sciamano aveva voltato il calesse sul sentiero che
portava a casa Geiger e andava a fermarsi davanti alla porta laterale che la
famiglia di solito usava.
«Vuoi entrare?» chiese Jay. Sciamano sorrise e scosse la testa. Aspettò che
Jay prendesse il sacco dal calesse e salisse i gradini. Era la sua casa ed entrò
senza bussare. Sciamano schioccò la lingua a Boss e si allontanò.
Il giorno dopo, portate a termine le visite all'ambulatorio, Sciamano si avviò
per il Sentiero Lungo verso casa Geiger. Jay venne ad aprirgli la porta e appena
ebbe gettato uno sguardo sul suo viso Sciamano capì che Rachel aveva parlato
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al padre.
«Entra, Sciamano.»
«Grazie, Jay.»
La situazione non migliorò per il fatto che i due bambini, riconosciuta la
voce di Sciamano, si precipitarono urtandosi dalla cucina e si aggrapparono
alle sue gambe. Lillian li segui subito e li staccò da lui, salutandolo cortese-
mente, e si portò in cucina i due piccini che protestavano a gran voce.
Jay fece entrare Sciamano in salotto e gli additò una delle poltroncine im-
bottite di crine di cavallo.
«I miei nipotini hanno paura di me.»
«Non ti conoscono ancora. Lillian e Rachel gli hanno parlato di te tutto il
tempo. Nonno qui, e Zaydeh là. Appena ti collegheranno con quel meraviglioso
nonno, ti vorranno bene.» Gli venne in mente che forse Geiger non apprezzava
il suo tono condiscendente a proposito dei nipotini, e per di più in quelle
circostanze, e cercò di cambiare argomento. «Dov'è Rachel?»
«È andata a fare una passeggiata. È... sconvolta.»
«Ti ha detto di me.»
Jason annuì.
«Io l'ho amata per tutta la vita. Grazie a Dio, non sono più un ragazzo... Jay,
io so che cosa temi.»
«No, Sciamano. Con tutto il rispetto, non lo saprai mai. Questi due bambini
hanno nelle vene il sangue di Sommi Sacerdoti. Devono essere allevati come
ebrei.»
«E lo saranno. Ne abbiamo parlato a lungo. Rachel non dovrà rinunciare
alla sua fede. Joshua e Hattie la impareranno da te, l'uomo che l'ha insegnata
alla loro madre. Mi piacerebbe imparare l'ebraico con loro: ne avevo studiato
un po' al college.»
«Ti convertirai?»
«No... attualmente sto pensando di farmi quacchero.»
Geiger rimase in silenzio.
«Se la tua famiglia fosse chiusa in una città della vostra gente, potresti
aspettarti il tipo di matrimonio che desideri per i tuoi figli. Ma tu li hai portati
nel mondo.»
«Si, mi prendo la responsabilità. Ora devo riportarli indietro.»
Sciamano scosse la testa. «Non verranno. Non possono.»
L'espressione del viso di Jay rimase immutata.
«Rachel e io ci sposeremo. E se voi la ferirete mortalmente coprendo i vo-
stri specchi e recitando le preghiere dei morti, le chiederò di prendere i bambini
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e venire con me, molto lontano di qui.»
Per un attimo temette la leggendaria collera dei Geiger, ma Jay finì per
annuire. «Questa mattina Rachel mi ha detto che verrebbe.»
«Ieri mi hai detto che mio padre era più vicino al tuo cuore dei tuoi stessi
fratelli. Io so che tu ami la sua famiglia. E so che vuoi bene a me. Non pos-
siamo, noi due, amarci per quello che siamo?»
Jason era pallido. «Sembra che dovremo provare» mormorò tristemente. Si
alzò e tese la mano.
Sciamano ignorò la mano e lo strinse in un grande abbraccio. Sentì la mano
di Jason che gli batteva sulla spalla, piccole pacche confortanti.
72
Alla fine d'aprile la neve era sparita, anche nelle cavità segrete dove i boschi
lungo la riva gettavano ombre profonde. Le punte dei rami di pesco erano state
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bruciate dal gelo, ma una nuova vita pulsava sotto i tessuti anneriti e spingeva
le gemmule verdi verso la fioritura. Il 13 maggio il tempo era mite quando si
celebrò la cerimonia del primo colpo di vanga nella tenuta dei Cole. Subito
dopo mezzogiorno sua eminenza James Duggan, vescovo della diocesi di
Chicago, scese dal treno a Rock Island, accompagnato da tre monsignori.
Furono accolti da Madre Miriam Ferocia e da due carrozze a nolo che li
portarono alla fattoria, dove già si era radunata una piccola folla. C'erano la
maggior parte dei medici della zona, le monache infermiere del convento e il
prete che era il loro confessore; le autorità municipali e diversi uomini politici,
fra cui Nick Holden e il deputato John Kurland; e un gran numero di cittadini.
La voce di Madre Miriam era ferma quando diede il benvenuto agli ospiti, ma
il suo accento era più marcato del solito, come avveniva quando era nervosa.
Presentò i prelati e chiese al vescovo Duggan di pronunciare l'invocazione.
Quindi presentò Sciamano, che condusse il gruppo a visitare il terreno. Il
vescovo, un uomo corpulento con un viso rubicondo incorniciato da una gran
massa di capelli grigi, era chiaramente compiaciuto di quanto vedeva. Quando
arrivarono al terreno su cui doveva sorgere l'ospedale, il deputato Kurland par-
lò brevemente, prospettando i vantaggi che la presenza dell'ospedale avrebbe
offerto agli elettori. Il vescovo Duggan ricevette una vanga dalle mani di
Madre Miriam e scavò una palata di terra, con la disinvoltura di chi l'ha sempre
fatto. Poi la vanga passò alla Madre Superiora e quindi a Sciamano, seguito
dagli uomini politici e poi da diversi cittadini, che un giorno avrebbero raccon-
tato con orgoglio ai loro nipoti che avevano scavato le prime palate per la
costruzione dell'Ospedale di San Francesco.
Dopo la cerimonia della vanga ognuno si recò al ricevimento offerto dal
convento. Durante il cammino il gruppo fece diverse deviazioni: visitò l'orto, il
gregge di pecore e il branco di capre nei pascoli, il fienile, infine l'edificio
stesso del convento.
Miriam Ferocia aveva dovuto osservare un difficile equilibrio: voleva ono-
rare il vescovo con la dovuta ospitalità, ma sapeva bene che non doveva appa-
rire troppo prodiga ai suoi occhi. Si era regolata in modo ammirevole, usando i
prodotti del convento per far cuocere al forno piccoli pasticci di formaggio, che
furono serviti caldi su vassoi, accompagnati da tè o caffè. Tutto pareva proce-
dere ottimamente, ma Sciamano aveva la sensazione che Miriam Ferocia fosse
presa da un'ansia malcelata. Gettava occhiate inquiete a Nick Holden, che si era
installato nella poltrona imbottita accanto al tavolo della Superiora.
Quando Nick si alzò e si allontanò, Madre Miriam rimase in attesa sbir-
ciando di tanto in tanto verso il vescovo Duggan.
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Sciamano si era già presentato al vescovo alla fattoria e aveva scambiato
qualche parola con lui. Ora si avvicinò e appena ne ebbe l'occasione gli parlò.
«Eccellenza, lei vede, dietro di me, quella grande poltrona imbottita con i
braccioli di legno intagliato?»
Il vescovo appariva perplesso. «Sì, la vedo.»
«Eccellenza, quella poltrona è stata trasportata attraverso la prateria in un
carro, quando le monache arrivarono qui. La chiamavano la poltrona del ve-
scovo. Hanno sempre sognato che un giorno il loro vescovo venisse a visitarle
e avesse una bella poltrona in cui sedere.»
Il vescovo Duggan annuì in tutta serietà, ma i suoi occhi ammiccarono
allegramente. «Dottor Cole, io credo che lei andrà lontano.»
Il prelato era un fine diplomatico. Si avvicinò dapprima al deputato per
parlare del futuro dei cappellani militari, ora che la guerra era finita. Dopo
qualche minuto si volse a Miriam Ferocia. «Venga, Madre, facciamo due
chiacchiere insieme.» Spinse una sedia di legno accanto alla poltrona imbottita,
nel cui morbido abbraccio si sprofondò con un sospiro di piacere.
Ben presto furono assorti in un dialogo sugli affari del convento. Madre
Miriam Ferocia sedeva eretta sulla sedia di legno e i suoi occhi si bevevano il
vescovo, installato nella poltrona in posa quasi regale, la schiena ben appog-
giata, le mani comodamente posate sui braccioli intagliati. Suor Mary Peter
Celestine, che serviva i pasticcini, non mancò di notare il viso raggiante della
Superiora. Scambiò un'occhiata con suor Maria Benedicta, che versava il caffè,
ed entrambe sorrisero.
Il giorno dopo, via via che si inoltravano nello lowa, osservarono che le
fattorie erano sempre più distanti l'una dall'altra. Per quasi un chilometro la
strada attraversò un allevamento di maiali e il fetore era così denso che si
poteva toccare. Ma poi ritrovarono la prateria dall'erba alta e l'aria profumata.
Una volta Rachel si irrigidì sulla sella e alzò una mano.
«Che c'è?»
«Degli ululati. Potrebbe essere un lupo?»
Sciamano pensò che doveva essere un cane. «Credo che i coloni abbiano
cacciato i lupi, come hanno fatto da noi. I lupi sono spariti, come i bisonti e gli
indiani.»
«Forse prima di tornare a casa vedremo una qualche meraviglia della
prateria» osservò Rachel. «Forse un bisonte o una linee, o l'ultimo lupo dello
lowa.»
Passarono per diverse piccole città. A mezzodì arrivarono a un grande
emporio e fecero colazione con pane tostato e formaggio e pesche sciroppate.
«Ieri si è sentito dire che i soldati hanno arrestato Jefferson Davis. Lo
tengono in catene a Fort Monroe, in Virginia» raccontò il negoziante. E sputò
sul pavimento cosparso di segatura. «Spero che lo impicchino, quel figlio di
puttana. Le chiedo scusa, signora.»
Rachel annuì. Era difficile avere l'aspetto di una vera signora mentre si
stava scolando le ultime gocce di sciroppo dal barattolo delle pesche. «Hanno
anche arrestato il suo segretario di Stato? Judah P. Benjamin?»
«L'ebreo? No, non l'hanno ancora preso, a quanto ne so.»
«Bene» commentò Rachel con voce troppo chiara.
Si presero i barattoli vuoti, che potevano venire utili durante il viaggio, e si
diressero ai loro cavalli. Il negoziante si fece sul portico e li guardò allontanarsi
per la strada polverosa.
Quel pomeriggio guadarono con ogni cautela il fiume Cedar, badando a non
bagnarsi, ma subito dopo furono inzuppati da capo a piedi da un improvviso
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acquazzone primaverile. Era quasi buio quando arrivarono a una fattoria e
poterono ripararsi nel fienile. Sciamano si sentiva curiosamente eccitato,
ricordando la descrizione della notte di nozze dei suoi genitori, che aveva letto
nel diario del padre. Sfidò la pioggia per andare a chiedere il permesso di per-
nottare nel fienile, permesso che gli fu prontamente accordato. Il padrone della
fattoria si chiamava Williams, ma non era parente del Williams che teneva lo
stallatico a Holden's Crossing. Quando Sciamano fu di ritorno, Mrs. Williams
lo segui quasi subito con una mezza pentola di ottima zuppa di latte, densa di
orzo, patate e carote, e con una pagnotta di pane fresco. Li lasciò così presto
che entrambi sorrisero: la buona donna certo aveva capito che erano una coppia
in viaggio di nozze.
La mattina dopo il cielo era sereno e il clima più caldo del giorno prima.
Nelle prime ore del mattino arrivarono al fiume lowa. Billy Edwards aveva
detto a Sciamano che, se proseguivano verso nord-ovest, avrebbero trovato gli
indiani. Quel tratto del fiume era deserto, e poco dopo arrivarono a una caletta
con l'acqua limpida e bassa, e il fondo sabbioso.
Si fermarono, legarono i cavalli e Sciamano si svesti subito e si mise a
sguazzare nell'acqua. «Vieni anche tu!» chiamò.
Rachel non osava. Ma il sole era caldo e il fiume era così solitario che
sembrava non fosse mai stato visto da occhio umano. In pochi minuti Rachel si
nascose dietro un ciuffo di arbusti e si tolse tutto, tranne la camicia. Nell'acqua
fredda strillò un poco, poi cominciarono a giocare come bambini. La camicia
bagnata aderiva maliziosamente al corpo e Sciamano le tese le braccia, ma lei
si spaventò. «Potrebbe arrivare qualcuno!» esclamò e corse fuori dell'acqua.
Si rimise la veste e appese la camicia a un albero ad asciugare. Sciamano
aveva lenza e ami nel sacco; quando si fu rivestito, trovò dei vermi sotto un
tronco e spezzò un ramo per farsi la canna. Risali un po' il fiume per cercare un
posto adatto e in breve tempo pescò due bei persici, di un paio d'etti ciascuno.
A mezzogiorno avevano mangiato uova sode, dell'abbondante riserva di
Rachel, ma i pesci sarebbero stati la loro cena quella sera. Sciamano li pulì su-
bito. «Meglio cuocerli ora, così non si guasteranno; li avvolgiamo in un panno
e ce li portiamo dietro» e accese un piccolo fuoco.
Mentre i persici cuocevano, Sciamano le tese di nuovo le braccia e questa
volta Rachel abbandonò ogni cautela. Non le importava affatto che un vigoroso
lavaggio con acqua e sapone non fosse bastato a toglierle l'odore di pesce dalle
mani, né le importava che fosse pieno giorno. Sciamano le sollevò la veste e
fecero l'amore tutti vestiti sotto il sole, sull'erba calda della riva del fiume, con
il mormorìo dell'acqua che li accompagnava.
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Pochi minuti dopo, mentre Rachel girava il pesce perché non bruciasse, una
chiatta sbucò dall'ansa del fiume: a bordo vi erano tre uomini barbuti, a piedi
scalzi, vestiti solo di laceri pantaloni. Uno di loro sollevò la mano in un pigro
saluto e Sciamano agitò la mano in risposta.
Appena la barca fu scomparsa, Rachel si precipitò là dov'era appesa la ca-
micia, come un grande vessillo bianco a segnalare quel che avevano appena
fatto. Sgomenta, si volse verso Sciamano, che l'aveva seguita. «Ma che cosa ci
succede?» mormorò. «Che cosa mi succede? Chi sono io?»
«Tu sei Rachel» rispose lui, stringendola fra le braccia. Lo disse con tale
passione, con tale convinzione che quando la baciò lei sorrideva.
73
Tama
Il quinto giorno, nelle prime ore del mattino, raggiunsero un altro uomo che
cavalcava davanti a loro. Quando si avvicinarono per chiedergli la strada,
Sciamano osservò che era vestito di abiti semplici ma montava un buon cavallo
con una sella costosa. Aveva i capelli lunghi e neri e la pelle color mattone.
«Mi può indicare la via per Tama?» chiese Sciamano.
«Meglio ancora, ci vado anch'io. Venite con me, se volete.»
«Grazie di cuore.»
L'indiano si chinò a dirgli qualche altra cosa, ma Sciamano scosse la testa.
«Mi è difficile parlare mentre cavalchiamo. Per capire, devo vedere le sue
labbra. Sono sordo.»
«Oh!»
«Mia moglie ci sente benissimo, però.» Sorrise e anche l'indiano sorrise e si
volse verso Rachel, toccandosi il cappello. Scambiarono poche parole, ma per
la maggior parte del tragitto cavalcarono insieme, tenendosi silenziosamente
compagnia nella calda mattina.
Quando arrivarono a un piccolo stagno Scesero per far abbeverare i cavalli e
fargli mangiare un po' d'erba mentre loro si sgranchivano le gambe, e si
presentarono educatamente. L'uomo strinse loro la mano e disse di chiamarsi
Charles P. Keyser.
«Lei vive a Tama?»
«No, ho acquistato una fattoria a 12 chilometri da qui. Sono di nascita
potawatomi, ma sono stato allevato dai bianchi quando i miei familiari mo-
rirono tutti di febbre. Non parlo neppure la lingua indiana, tranne poche parole
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di kickapoo. Mia moglie era metà kickapoo, metà francese.»
Disse che ogni due o tre anni andava a Tama a passarvi qualche giorno.
«Veramente non so neanch'io perché.» Alzò le spalle e sorrise. «I pellirosse
chiamano i pellirosse, penso.»
Sciamano annuì. «Che dice, i nostri cavalli avranno mangiato abbastanza?»
«Oh, sì. Non vogliamo che gli animali ci scoppino sotto, no?» Tornarono
alle loro cavalcature e ripresero il cammino.
Ne-nye-ma-wa-wa,
Ne-nye-ma-wa-wa,
Ne-nye-ma-wa-wa,
Ke-ta-ko-ko-na-na.
Ke-te-ma-ga-yo-se lye-ya-ya-ni,
Ke-te-ma-ga-yo-se lye-ya-ya-ni,
Me-to-se-ne-ni-o lye-ya-ya-ni,
Ke-te-ma-ga-yo-se lye-ya-ya-ni.
... Wi-a-ya-ni,
Ni-na ne-gi-se ke-wi-to-se-me-ne ni-na.
Qualcuno venne con un ceppo e lo gettò nel fuoco, e una colonna di faville
dorate si alzò serpeggiando verso il cielo buio. Il bagliore del fuoco unito al
calore della notte gli dava un senso di vertigine: si sentì stordito e incline alle
allucinazioni Cercò con gli occhi la moglie, preoccupato per lei, e vide Rachel
in un atteggiamento che avrebbe fatto infuriare sua madre. Era a testa nuda, con
i capelli scompigliati, il viso lucente di sudore e gli occhi scintillanti di piacere.
Non gli era mai sembrata più femminile, più umana, più desiderabile. Lei colse
il suo sguardo e sorridendo si sporse dalla spalla di Piccolo Cane per parlargli.
503
Una persona provvista di udito avrebbe perduto le sue parole nel rombo del
tamburo e del canto, ma Sciamano non ebbe difficoltà a leggere le sue labbra.
È bello come vedere un bisonte! diceva Rachel.
La mattina dopo, Sciamano scivolò fuori della tenda all'alba, senza svegliare
la moglie, e fece il bagno nel fiume lowa mentre le rondini scendevano in
picchiata sull'acqua in cerca di cibo e minuscoli pesciolini dal corpo dorato
guizzavano sul fondo intorno ai suoi piedi.
Era da poco sorto il sole. Nel villaggio i bambini si chiamavano l'un l'altro
con acuti strilli e passando accanto alle capanne vedeva donne a piedi nudi e
qualche uomo che coltivava l'orto al fresco del mattino. Al limitare del
villaggio si trovò a faccia a faccia con Co-lui-che-Cammina-nel-Sonno: sedette
accanto a lui e i due conversarono tranquillamente, come due gentiluomini di
campagna che si fossero incontrati durante le loro passeggiate mattutine.
Colui-che-Cammina-nel-Sonno gli chiese del funerale di Makwa e della sua
tomba. Sciamano si sentiva a disagio nel rispondere. «Ero solo un ragazzo
quando è morta.» Ma ricordando il diario del padre, poté riferirgli che la tomba
di Makwa era stata scavata al mattino, e lei era stata sepolta nel pomeriggio,
avvolta nella migliore coperta, con i piedi rivolti verso occidente. Insieme con
lei era stata sepolta la coda di un bisonte.
Colui-che-Cammina-nel-Sonno fece un cenno di approvazione. «Che cos'è
stato posto dieci passi a nord-ovest della tomba?»
Sciamano parve sorpreso. «Non ricordo. Non lo so.»
Il viso del guaritore era grave. Il vecchio del Missouri, gli disse, quello che
era quasi uno sciamano, gli aveva insegnato i riti che riguardavano la morte
degli sciamani. Gli spiegò che là dove è sepolto uno sciamano, quattro
watawinonas, gli spiriti del male, si installano dieci passi a nord-ovest della
tomba. I watawinonas vegliano a turno: uno è sempre desto, mentre gli altri tre
dormono. Non possono far del male allo sciamano, ma finché restano sul luogo
gli impediscono di usare i suoi poteri per aiutare i viventi che gli chiedono
aiuto.
Sciamano trasse un sospiro. Forse, se fosse stato allevato in quella fede,
avrebbe potuto avere più tolleranza. Ma durante la notte era rimasto sveglio
chiedendosi come stessero i suoi pazienti a Holden's Crossing. E ora voleva
portare a termine la sua opera al villaggio e partire abbastanza presto per
potersi accampare la notte nella comoda caletta dove avevano pernottato
venendo.
«Per scacciare i watawinonas,» aggiunse Colui-che-Cammina-nel-Sonno
«devi trovare il posto dove dormono, e bruciarlo.»
504
«Si, lo farò» promise Sciamano senza vergogna, e Colui-che-Cammina-nel-
Sonno parve sollevato.
In quella arrivò Piccolo Cane a chiedere se poteva prendere il posto di
Charlie il Coltivatore quando il medico bianco ricominciava l'opera dei
taglietti. Riferì che Keyser aveva lasciato Tama durante la notte, subito dopo
che avevano fatto spegnere il fuoco.
Sciamano fu deluso che Keyser non fosse venuto a salutarlo, ma rispose a
Piccolo Cane che era d'accordo.
Cominciarono presto con le vaccinazioni. Il lavoro si svolse più rapidamen-
te del giorno prima perché Sciamano ormai ci aveva preso la mano. Avevano
quasi finito quando un carro tirato da una coppia di cavalli bai entrò nella
radura del villaggio. Lo guidava Keyser, e nel carro c'erano tre bambini che
osservavano con viva curiosità i Sauk e i Mesquakie.
«Le sarei grato se volesse fare anche a loro il taglietto contro il vaiolo»
chiese, e Sciamano acconsentì ben volentieri.
Quando tutti gli altri indiani e i tre bambini furono vaccinati, Charlie aiutò
Sciamano e Rachel a raccogliere le loro cose.
«Mi piacerebbe portare i miei bambini a visitare la tomba della sciamana un
giorno» disse, e Sciamano rispose che sarebbe sempre stato il benvenuto.
Ci volle poco tempo per caricare i bagagli su Ulysses. Ricevettero un regalo
da Shemago, la Lancia, marito di Scoiattolo Balzante, che arrivò con tre grosse
bottiglie, che avevano contenuto whisky e ora erano piene di sciroppo d'acero.
Sciamano fu felice del dono e le legò insieme con un flessibile viticcio, simile a
quello del serpente di Colui-che-Cammina-nel-Sonno. Quando le sistemò in
groppa a Ulysses, parve che lui e Rachel fossero avviati a una festa solenne.
Strinse la mano a Colui-che-Cammina-nel-Sonno e promise che sarebbero
tornati la prossima primavera. Poi strinse la mano anche a Charlie e a
Tartaruga-che-morde e a Piccolo Cane.
«Ora tu sei Cawso wabeskiou» gli disse Piccolo Cane.
Cawso wabeskiou, lo Sciamano Bianco. Sciamano ne provò piacere perché
sapeva che nelle parole di Piccolo Cane c'era un significato più profondo che
non il semplice soprannome.
Molti degli indiani alzarono la mano, e così fecero Sciamano e Rachel
quando con i loro tre cavalli uscirono da Tama e si avviarono per la strada che
fiancheggiava il fiume.
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Per quattro giorni, dopo il suo ritorno a casa, Sciamano seppe quale prezzo
deve pagare un medico che si prende una vacanza. Ogni mattina l'ambulatorio
era gremito di pazienti e ogni pomeriggio doveva visitare i malati costretti in
casa di cui aveva la responsabilità.
Tornava a casa Geiger a tarda notte, sfinito.
Ma il quinto giorno, un sabato, la marea dei pazienti era calata e il lavoro
era tornato più o meno normale; e la mattina di domenica si svegliò nella
stanza di Rachel con la deliziosa sensazione di avere finalmente una pausa di
respiro. Come al solito, si alzò prima degli altri, raccolse gli abiti e li portò al
pianterreno nel salotto, dove si vestì in silenzio prima di uscire.
Si avviò per il Sentiero Lungo, fermandosi nei boschi dove gli operai di
Oscar Ericsson avevano sgomberato il terreno per la nuova casa. Non era il sito
dove Rachel si era fermata da ragazzina a sognare. Sfortunatamente i sogni
delle ragazzine non tengono conto del drenaggio, ed Ericsson aveva ispezio-
nato il terreno e aveva scosso la testa. Decisero per un terreno più adatto, a un
centinaio di metri di distanza, e Rachel dichiarò che era abbastanza vicino al
suo sogno. Sciamano si era offerto di comprare l'appezzamento per la nuova
casa, ma Jay aveva insistito che era il suo dono di nozze. Lui e Jay in quei
giorni si trattavano con molta cordialità e profondo rispetto, e la questione si
sarebbe agevolmente sistemata.
Quando raggiunse il terreno destinato all'ospedale, vide che la fossa per le
fondamenta era già stata quasi completamente scavata. La cavità pareva infe-
riore come dimensioni a quanto egli aveva immaginato per l'edificio del-
l'ospedale, ma Ericsson gli aveva spiegato che la fossa sembrava sempre più
piccola. Le fondamenta dovevano essere costruite in pietre grigie, estratte da
una cava oltre Nauvoo, trasportate sul Mississippi a mezzo di chiatte e quindi
su carri da Rock Island: un arduo viaggio che dava pensiero a Sciamano ma
che il costruttore prospettava senza alcuna preoccupazione.
Proseguì verso la casa dei Cole, che Alex ben presto avrebbe lasciato.
Quindi imboccò il Sentiero Corto, cercando di immaginarlo percorso dai pa-
zienti che sarebbero arrivati alla clinica in battello. Si dovevano fare diverse
modifiche. Osservò la capanna del bagno di sudore che improvvisamente
veniva a trovarsi al posto sbagliato. Decise di disegnare un accurato schizzo
della posizione di ogni pietrone, e poi trasferire i pietroni e ricostruire la
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capanna dietro il nuovo fienile; così Joshua e Hattie avrebbero avuto la
singolare esperienza di sedere nel crescente calore fino a essere costretti a cor-
rere fuori nelle rinfrescanti acque del fiume.
Quando si avvicinò alla tomba di Makwa vide che la lapide di legno era così
piena di crepe e così logorata dalle intemperie che gli antichi segni a forma di
rune non erano più decifrabili. Ma erano conservati nel diario del padre, e si
ripromise di provvedere per una lapide più resistente e di collocare intorno alla
tomba una specie di recinto, in modo che rimanesse indisturbata.
Le erbe di primavera l'avevano invasa. Mentre strappava le erbacce che
erano spuntate tra i ciuffi dei gigli, si sorprese a raccontare a Makwa che alcuni
del suo popolo avevano trovato rifugio a Tama.
La fredda collera che aveva sentito qui - fosse o non fosse venuta dall'incon-
scio - era svanita. Tutto quello che ora sentiva era una grande quiete. Ma...
C'era ancora qualcosa.
Si alzò, lottando per qualche momento con quello strano impulso. Poi indi-
viduò l'esatta direzione nord-ovest e cominciò a camminare, contando i passi.
Quando ebbe percorso esattamente dieci passi, si trovò in mezzo alle rovine
dell'hedonoso-te. Nel corso degli anni si era sempre più deteriorato e ora non
era che un basso mucchio ineguale di tronchi e strisce di corteccia muffita da
cui spuntavano rampicanti e baptisie.
Non aveva senso, si disse, ripulire la tomba, spostare la capanna del bagno
di sudore e poi lasciare questo brutto mucchio di macerie. Andò al fienile a
prendere un grosso orcio di terracotta quasi pieno di petrolio, e lo vuotò sui
resti dell'antica dimora. Il materiale era umido di rugiada, ma il fiammifero lo
accese al primo colpo e il petrolio si infiammò.
In un attimo l'intero hedonoso-te esplose in fiamme azzurre e gialle e una
colonna di fumo scuro si alzò al cielo, e al soffio della brezza si piegò verso il
fiume.
Sciamano vide il primo dei watawinonas, quello che era sveglio, fuggire a
cavallo di un'acre nube di fumo emessa da uno dei ceppi alla sommità del
mucchio.
Gli sembrò che un altro degli spiriti maligni emergesse dal sonno e fuggisse
quando la parte più interna del mucchio prese fuoco. Il terzo Io segui in una
nube di fumo più chiara, cosparsa di faville; l'ultimo dei watawinonas veleggiò
lontano in un bizzarro battello volante di ceneri bianche.
Sciamano, ritto accanto al fuoco, sentiva folate ardenti lambirgli il viso,
come se fosse accanto al falò di una cerimonia sauk, e cercava di immaginare
come doveva essere stato quel luogo quando il giovane Robert J. Cole lo aveva
507
visto per la prima volta, vasta prateria ininterrotta che si stendeva fino ai boschi
e al fiume. E pensava agli altri che erano vissuti li, Makwa e Luna e Vien
Cantando. E Alden. Via via che il fuoco andava spegnendosi canticchiava fra
sé: Tti-la-ye ke-wi-ta-mo-ne i-no-ki-i-i, ke-te-ma-ga-yo-se. Spirito, io ti parlo
ora, manda a me la tua benedizione.
Infine restò solo un sottile strato di cenere da cui uscivano ancora lievi
spirali di fumo. Sapeva che l'erba avrebbe ben presto invaso il posto e non
sarebbe più rimasta traccia dell'hedonoso-te.
Quando pensò di poter abbandonare senza pericolo le ultime braci, riportò
l'orcio al fienile e riprese la via di casa. Sul Sentiero Lungo incontrò una
figuretta corrucciata che lo cercava, seguita da un bambinetto che era caduto e
si era sbucciato un ginocchio. Il bambinetto zoppicava dietro di lei, ostinato,
piangendo con il nasino gocciolante di muco.
Sciamano pulì il naso di Joshua e gli diede un piccolo bacio sul ginocchio,
vicino alla sbucciatura, promettendo di farlo guarire appena arrivati a casa. Si
pose sul collo Hattie, con le gambe a cavalcioni delle sue spalle, prese in
braccio Joshua e cominciò a camminare. Questi erano gli unici spiriti al mondo
che gli importavano. Questi due spiriti buoni che gli avevano conquistato il
cuore. Hattie gli tirava le orecchie per farlo andare più in fretta, e lui si mise a
trottare come Trude. E quando la ragazzina cominciò a dargli strattoni così forti
da fargli male, strinse Joshua contro le sue gambette, perché non cadesse, e
cominciò a correre al piccolo galoppo come Boss. E così galoppava,
galoppava, seguendo una delicata e piacevole nuova musica che solo lui era in
grado di udire.
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Ringraziamenti e note
Ashfield, Massachusetts
20 novembre 1991
513
Indice
PARTE PRIMA
Ritorno a casa
01 Jiggety-jig 2
02 L'eredità 9
PARTE SECONDA
Tela fresca, pittura nuova
03 L'emigrante 16
04 La lezione di anatomia 23
05 Il distretto maledetto da Dio 27
06 Sogni 34
07 Il colore del quadro 38
08 Musica 41
09 Due lotti di terreno 47
10 Costruzione di una casetta di tronchi 53
11 La reclusa 56
12 Il grande indiano 57
13 La stagione fredda 61
14 Mazza-e-palla 67
15 Un dono da Cane di Pietra 73
16 A caccia di cerbiatte 77
17 La figlia del Mide'wiwin 82
18 Calcoli vescicali 105
19 Un cambiamento 108
20 I pretendenti di Sarah 112
21 Il Grande Risveglio 117
PARTE TERZA
Holden's Crossing
514
25 Il bambino silenzioso 144
26 Le manine legate 151
27 Politica 160
28 L'arresto 169
29 Gli ultimi indiani dell'Illinois 177
PARTE QUARTA
Il ragazzo sordo
30 Lezioni 190
31 Giorni di scuola 198
32 Una visita notturna 206
33 Risposte e domande 214
34 Il ritorno 222
35 Il nascondiglio segreto 228
36 Il primo ebreo 238
37 Inondazioni 244
38 Ascoltando musica 250
39 Insegnanti 257
40 I ragazzi crescono 264
41 Vittorie e sconfitte 271
42 Lo studente 277
43 L'aspirante 286
44 Lettere e note 292
PARTE QUINTA
Una lite in famiglia
45 Al Policlinico 299
46 I battiti del cuore 306
47 I giorni di Cincinnati 312
48 Un viaggio in barca 318
49 Il chirurgo militare a contratto 329
50 Una lettera dal figlio 335
51 Il suonatore di tuba 337
52 Movimenti di truppe 344
515
53 La lunga linea grigia 352
54 Scaramucce 363
55 «Quando hai incontrato Ellwood R. Patterson?» 371
56 Sull'altra riva del Rappahannock 375
57 Il cerchio si chiude 377
PARTE SESTA
Il medico di campagna
58 Consigli 387
59 Il padre segreto 394
60 Un caso di crup 397
61 Una franca discussione 401
62 A pesca 406
63 La fine del diario 414
64 Chicago 419
65 Un telegramma 429
66 Il campo di Elmira 436
67 La casa di Wellsburg 445
68 Dibattendosi nella rete 455
69 L'ultimo nome di Alex 462
70 Un viaggio a Nauvoo 470
71 Doni di famiglia 478
72 Il primo colpo di vanga 484
73 Tama 493
74 Una levata mattutina 505
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