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Noah Gordon

Lo Sciamano
Titolo originale:
Shaman
Traduzione di: Maria Magrini

Proprietà letteraria riservata


© Noah Gordon, 1992
© 1992 RCS Rizzoli Libri S.p.A.

Edizione CDE spa – Milano


su licenza della Rizzoli Libri

Un giovane medico di straordinario talento, Rob J. Cole, costretto a lasciare la


natia Scozia per ragioni politiche, approda nel Nuovo Mondo agli inizi
dell'Ottocento e inizia a esercitare la sua professione a Boston.
Ma l'ambiente chiuso della città gli procura presto insofferenza e delusioni.
Così Rob decide di partire, e questa volta per andare incontro ai suoi sogni: le
grandi praterie degli indiani, che ha imparato ad amare sin da ragazzo
divorando romanzi d'avventura.
Qui, in questa splendida e dura terra di frontiera, Rob stabilisce un pro-fondo
legame spirituale con un piccolo popolo di pellerossa, i Sauk. Fra essi vive
Makwa-ikwa, una sacerdotessa dalle facoltà quasi magiche, che lo affianca nel
suo lavoro di medico e lo mette a contatto con le infinite possibilità della
mente.
Nella cornice spettacolare delle praterie americane, una meravigliosa saga
d'amore, d'avventura e di guerra, pervasa dal mistero e dalla suggestione dei
miti e delle leggende indiane.

Noah Gordon vive nel Massachusetts con la moglie Lorraine e i tre figli Lise,
Jamie Beth e Michael Seay Gordon. Lo Sciamano fa parte di una trilogia, di
cui il primo volume, Medicus (Rizzoli), è stato un best-seller internazionale.
Attualmente lo scrittore sta lavorando al terzo romanzo della serie.
In sovraccoperta: illustrazione di Giorgio Parmigiani grafica di Raffaella Curci

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Noah Gordon
LO SCIAMANO
(Shaman 1992)

Dedico questo libro con amore


a Lorraine Gordon, Irving Cooper, Cis e Ed Plotkin,
Charlie Ritz, e alla cara memoria di Isa Ritz.

PARTE PRIMA
Ritorno a casa
(22 aprile 1864)

Jiggety-jig

Lo Spirit of Des Moines aveva mandato segnali da lontano, mentre si avvi-


cinava alla stazione di Cincinnati nel freddo chiarore dell'alba. Sciamano li
aveva individuati dapprima come un lieve fremito, appena percettibile sulla
pensilina di legno, poi come un forte tremore che avvertiva chiaramente, infine
come una serie di scossoni. Di colpo il mostro era là, con il suo odore di fumo e
di metallo oliato rovente, e correva su di lui nella grigia caligine, con le finiture
di ottone che brillavano nel nero corpo di drago, i possenti pistoni in moto, la
pallida nube di vapore che saliva al cielo come lo spruzzo di una balena, e poi
si incurvava e si allungava in una scia di brandelli sempre più rarefatti finché la
locomotiva non si fermò.
Nel terzo vagone solo pochi dei duri sedili di legno erano liberi e Sciamano
prese posto mentre il treno, vibrando e gemendo, riprendeva la corsa. I treni
erano ancora una novità, ma costringevano a viaggiare con troppa gente.
Sciamano amava cavalcare da solo, perduto nei suoi pensieri. Il lungo vagone
era gremito di soldati, commessi viaggiatori, contadini e tutta una variopinta
congerie di donne, con o senza bambini piccoli. Gli strilli dei bambini non lo
disturbavano, naturalmente: ma l'aria era greve di un miscuglio di cattivi odori
- calzini sporchi, pannolini sudici, aliti pesanti per cattiva digestione, corpi su-

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dati e non lavati, e il fumo rancido di sigari e pipe. Il finestrino pareva un mec-
canismo intrattabile, ma Sciamano era alto e forte e infine riuscì ad alzarlo.
Risultò subito che era stato un errore. Tre vagoni davanti al suo, l'alto fumaiolo
della locomotiva vomitava, insieme con il fumo, un miscuglio di cenere e
fuliggine, minuscole scorie spente o ancora accese, che la velocità del treno
spingeva violentemente all'indietro e che entrarono in parte dal finestrino aper-
to. Di colpo un frammento di brace si posò sulla giacca nuova di Sciamano e ne
uscì un sottile filo di fumo. Tossendo e imprecando esasperato, sbatté giù il
finestrino e picchiò con la mano sulla giacca finché la minuscola scintilla fu
spenta.
Dall'altra parte del corridoio una donna gli gettò un'occhiata e sorrise. Do-
veva avere una decina d'anni più di lui, portava un abito elegante ma adatto al
viaggio, di lana grigia con la gonna liscia, guarnito di lino azzurro che faceva
risaltare i capelli biondi. I loro sguardi si incontrarono un attimo, poi lei
riabbassò la testa sul lavoro all'uncinetto che aveva in mano. Sciamano si
affrettò a distogliere gli occhi da lei: il lutto non era il momento più adatto per
gustare i giochi amorosi fra uomo e donna.
Si era portato un libro nuovo da leggere, ma, ogni volta che cercava di
concentrarsi nella lettura, i suoi pensieri tornavano al padre.
Il controllore stava passando per il vagone e gli era arrivato alle spalle, ma
Sciamano si accorse della sua presenza solo quando una mano lo scosse per la
spalla. Trasalì e, alzando la testa, incontrò una florida faccia con due baffi
imponenti dalla punta impomatata e una barbetta rossiccia che tirava ormai al
grigio, e gli piacque perché lasciava libera e ben visibile la bocca. «Dev'essere
sordo!» esclamò l'uomo giovialmente. «Le ho chiesto tre volte il suo biglietto,
signore.»
Sciamano gli sorrise: si sentiva a suo agio, perché questa era una situazione
abituale, che si era ripetuta per tutta la sua vita. «Sì, sono sordo» rispose, e
porse il suo biglietto.

Osservava distrattamente la vasta prateria che si stendeva fuori del fine-


strino, senza riuscire a concentrarvi tutta la sua attenzione. Era un paesaggio
uniforme, e inoltre la velocità del treno era tale che gli oggetti svanivano alla
vista prima di essere registrati dalla mente. Il miglior modo di viaggiare era
quello di andare a piedi o a cavallo: se uno sentiva fame o doveva urinare,
bastava che si fermasse in un posto adatto a soddisfare il suo bisogno. Ma in
treno, quando si arrivava al posto adatto, tutto spariva in un istante.
Il libro che si era portato era Hospital Sketches, di una donna del Massa-
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chusetts di nome Alcott, un'infermiera che aveva curato i feriti fin dall'inizio
della guerra. Le sue descrizioni delle angosce e delle terribili condizioni degli
ospedali militari avevano suscitato un certo scalpore negli ambienti medici.
Quella lettura peggiorava lo stato d'animo di Sciamano, perché gli faceva pen-
sare alle sofferenze che forse stava affrontando il suo fratello maggiore, volon-
tario nell'esercito confederato, dato per disperso in azione. Se poi, rifletteva,
Alex non era già fra i morti senza nome. Questi pensieri lo riportavano al pa-
dre, in un tormentoso alternarsi di dolore. Alzò la testa e cominciò a guardarsi
intorno, cercando disperatamente un sollievo.
All'altra estremità del vagone un bambino macilento cominciò a vomitare e
sua madre, che sedeva pallida come la cera fra mucchi di fagotti e altri tre
bambini più piccoli, balzò in piedi per tenergli la fronte ed evitare che
insudiciasse le sue povere cose. Quando Sciamano la raggiunse, aveva già
cominciato l'ingrato lavoro di ripulire.
«Posso esserle d'aiuto? Sono un medico.»
«Non ho soldi per pagarti.»
Sciamano fece un cenno con la mano per indicare che non aveva impor-
tanza. Il bambino sudava dopo l'accesso di nausea, ma era fresco al tocco. Non
aveva ghiandole infiammate e i suoi occhi apparivano limpidi.
Si chiamava Sperber, spiegò la donna in risposta alle sue domande. Di
Lima, Ohio. Andava a raggiungere Jonathan, il marito, che aveva ottenuto con
altri quaccheri l'assegnazione di un terreno demaniale a Springdale, ottanta
chilometri a ovest di Davenport. Il piccolo malato era Lester, otto anni. Era
ancora pallido, ma il colore gli stava tornando sul visetto, e non pareva
gravemente ammalato.
«Che cos'ha mangiato?»
Da un sacchetto bisunto la donna trasse a malincuore una manciata di
salsicce fatte in casa. Erano verdastre, e l'odore confermava quel che vedevano
gli occhi. Cristo!
«Ahi... Le ha date da mangiare anche agli altri?»
La donna annuì e Sciamano guardò i tre bambini con apprensione.
«Bene, non deve più dargliele. Sono guaste.»
Lei strinse le labbra. «Non tanto guaste. Sono state salate bene, abbiamo
mangiato anche di peggio. Se fossero cattive, starebbero male anche gli altri, e
anch'io.»
Sciamano ne sapeva abbastanza su quei coloni, di qualsiasi religione fos-
sero, per capire quello che la donna in realtà voleva dire: non avevano che sal-
sicce, dovevano mangiare salsicce guaste o niente. Annuì e tornò al suo posto.
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Si era portato un po' di cibo in un cartoccio di giornale, il Cincinnati Com-
mercial: tre grossi sandwich di pane integrale e carne di manzo, una tartina alla
marmellata di fragole e due mele, che fece ballare tra le mani un attimo per far
divertire i bambini. Quando le offrì il cibo, Mrs. Sperber aprì la bocca come per
protestare, poi la richiuse. La moglie di un colono doveva avere una buona
dose di senso pratico. «Ti siamo molto obbligati, amico» mormorò.
Dall'altra parte del vagone la donna bionda sorrise, ma Sciamano cercava
ancora di immergersi nella lettura del suo libro quando il controllore tornò.
Dica un po', io la conosco, mi è venuto in mente ora. Il figlio del dottor Cole, di
Holden's Crossing. Giusto?»
«Giusto.» Sciamano capì che era la sua sordità che lo aveva identificato.
«Lei non si ricorda di me? Frank Fletcher. Coltivavo grano lungo la strada
di Hooppole. Suo padre ha curato noi sette per più di sei anni, finché io ho
venduto e sono entrato in ferrovia e ci siamo trasferiti a East Moline. Io mi
ricordo che quando lei era appena un ragazzino veniva con suo padre, in sella
dietro di lui, tenendosi stretto alla sua cintola.»
Le visite a domicilio erano l'unico momento che il padre poteva passare
insieme con i suoi figli, e ai ragazzi piaceva enormemente andare con lui.
«Adesso ricordo» rispose Sciamano. «Ricordo la sua fattoria, una casa bianca a
traliccio, il fienile rosso con il tetto di lamiera. Il vecchio capannone con i muri
di zolle che usava come ripostiglio.»
«Sicuro, è quella. Certe volte veniva lei con suo padre, e certe volte suo
fratello... come si chiama?»
«Alex, mio fratello Alex.»
«Ecco, lui. Dov'è ora?»
«Nell'esercito.» Non disse quale.
«Naturalmente. Lei studia per diventare pastore?» chiese il controllore,
adocchiando l'abito nero che ventiquattr'ore prima pendeva da una gruccia nel
negozio di Seligman a Cincinnati.
«No. Anch'io sono medico.»
«Oh, Signore! Sembra così giovane.»
Sciamano strinse le labbra, perché il suo aspetto troppo giovanile era per lui
una difficoltà maggiore che non la sordità. «Non sono troppo giovane. Ho
lavorato in un ospedale nell'Ohio. Mr. Fletcher... mio padre è morto giovedì.»
Il sorriso sparì lentamente, completamente, dal volto dell'uomo; non v'era
dubbio che la notizia lo aveva profondamente addolorato. «Oh... sono sempre i
migliori ad andarsene, mio Dio. La guerra?»
«No, era a casa. Il telegramma diceva febbre tifoide.»
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Il controllore scosse la testa. «Voglia dire, dottore, alla sua mamma che le
preghiere di tanta e tanta gente sono con lei!»
Sciamano ringraziò e aggiunse che sua madre ne sarebbe stata contenta. «E
dica... ci sarà qualche venditore di panini che salirà sul treno in qualcuna delle
stazioni?»
«No. Tutti si portano la colazione.» Il controllore lo guardò preoccupato.
«Non potrà comprarsi niente finché non cambia treno a Kankakee. Ma, in
nome di Dio, non glielo hanno detto quando ha preso il biglietto?»
«Oh, certo, va tutto bene. Domandavo solo per curiosità.»
Il controllore si toccò l'orlo del berretto e si allontanò. In quel mentre la
donna bionda dall'altra parte del passaggio si alzò e tese le braccia per prendere
dalla rete portabagagli un grosso cestino di vimini, mettendo in mostra in quel-
l'atto le attraenti sinuosità del suo corpo, dal seno alle anche. Sciamano sol-
lecito attraversò il passaggio e prese il cestino per lei.
La donna gli sorrise. «Adesso deve dividere con me la mia colazione!»
ordinò con voce che non ammetteva repliche. «Come vede, ne ho abbastanza
per un esercito.» Sciamano ribatté che non era d'accordo quanto all'esercito, ma
ammise che forse poteva bastare per un plotone. Un attimo dopo mangiava di
gusto pollo al forno, focaccia di zucca, pasticcio di patate. Mr. Fletcher, che
tornava con un misero panino al prosciutto che aveva elemosinato da qualche
parte per Sciamano, sogghignò e dichiarò che il dottore, per foraggiarsi, era più
in gamba dell'esercito del Potomac. E se ne andò di nuovo, con la manifesta
intenzione di godersi il panino lui stesso.
Sciamano mangiava più che parlare, stupito e un po' vergognoso di avere
tanta fame in un momento di lutto. La donna bionda parlava, più che mangiare.
Si chiamava Martha McDonald, e suo marito Lyman era rappresentante a Rock
Island della American Farm Implements Co. Espresse le sue condoglianze per
la perdita che aveva colpito Sciamano. Quando gli offriva il cibo, i loro ginoc-
chi si sfioravano, una piacevole intimità. Sciamano aveva sperimentato da mol-
to tempo che le donne reagivano alla sua sordità sentendosi o respinte o
eccitate. Forse queste ultime erano stimolate dal prolungato contatto degli
occhi: egli infatti fissava continuamente la loro bocca mentre parlavano, per
leggere le parole sulle loro labbra.
Quanto al suo aspetto, sapeva che non era del tutto deludente. Se non
propriamente bello, era alto e robusto senza essere goffo, trasudava tutta
l'energia di una giovane virilità e di un'eccellente salute, e i suoi tratti regolari e
i penetranti occhi azzurri che aveva ereditato dal padre lo rendevano perlomeno
attraente. Comunque, tutto questo non aveva importanza per quel che
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riguardava Mrs. McDonald. Si era ormai imposto la regola - altrettanto
inviolabile quanto la necessità di lavarsi a fondo le mani prima e dopo un'ope-
razione chirurgica - di non farsi mai coinvolgere in una relazione con una
donna sposata. Appena poté farlo senza essere offensivo, la ringraziò del-
l'eccellente spuntino e tornò al suo posto.
Passò quasi tutto il pomeriggio chino sul suo libro. Louisa Alcott scriveva
di operazioni chirurgiche praticate senza alcun farmaco per lenire il dolore, di
uomini che morivano di cancrena in ospedali fetidi di sudiciume e di pus. La
morte e la sofferenza non cessavano mai di rattristarlo, ma il dolore non
necessario e la morte senza scopo suscitavano in lui una furiosa indignazione.
Verso la fine del pomeriggio Mr. Fletcher ripassò per il vagone e annunciò che
il treno viaggiava a più di 70 chilometri l'ora, una velocità tre volte superiore a
quella di un cavallo al galoppo, e senza stancarsi! Sciamano ricordò che un
telegramma gli aveva annunciato la morte del padre la mattina dopo che era
avvenuta e si sorprese a pensare che il mondo stava avanzando verso un'era di
rapidi trasporti e ancor più rapide comunicazioni, di nuovi ospedali e nuovi
metodi di cura, di chirurgia senza torture. Stanco di questi elevati pensieri, di
nascosto spogliò Martha McDonald con gli occhi e passò una piacevole e co-
darda mezz'ora immaginando una visita medica che andava a finire nei piaceri
del sesso, la più sicura e più innocente violazione del giuramento di Ippocrate.
La digressione non durò molto. Suo padre! più si avvicinava a casa sua, più
difficile diventava rendersi conto della realtà. Lacrime brucianti gli spuntarono
sotto le palpebre. Ma un medico di ventun anni non può piangere in pubblico!
Papà... La notte scese, buia, prima che cambiassero treno a Kankakee. Infine, e
anche troppo presto, appena undici ore dopo aver lasciato Cincinnati, Mr. Flet-
cher annunciò l'arrivo a «RO-O-OCK I-I-I-SLA-A-AND!».
La stazione era un'oasi di luce. Scendendo dal treno Sciamano vide subito
Alden che lo aspettava sotto uno dei lampioni a gas. Il vecchio bracciante gli
batté una mano sulla spalla, salutandolo con un sorriso triste. «Di nuovo a casa,
di nuovo a casa, jiggety-jig!»
«Salve, Alden.» Si fermarono un momento sotto il lampione a scambiare
due parole. «Come sta mia madre?» chiese Sciamano.
«Be', sai... Cristo, non si rende ancora conto. Non è mai potuta restare sola,
con tutta quella gente della chiesa, e il reverendo Blackmer sempre lì in casa
con lei tutto il giorno.»
Sciamano annuì. L'inflessibile religiosità della madre era stata sempre
fastidiosa per tutti loro, ma ora, se la Prima Chiesa Battista poteva aiutarla a
superare quel momento, gliene era grato.
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Alden aveva giustamente pensato che Sciamano portasse una sola valigia, e
così era venuto con il calesse, che aveva buone molle, invece che con il carro,
che non ne aveva. Il cavallo era Boss, un castrone grigio che suo padre aveva
molto amato; Sciamano gli strofinò gentilmente il naso prima di salire a
cassetta. Una volta in viaggio, la conversazione diventava impossibile perché
nel buio non poteva vedere le labbra di Alden. Il bracciante aveva sempre lo
stesso odore, fieno e tabacco e lana grezza e whisky. Attraversarono il Rock
River sul ponte di legno e poi presero al trotto la strada verso nord-est.
Sciamano non poteva vedere il paesaggio intorno, ma ne conosceva ogni albero
e ogni roccia. In alcuni punti la strada era malridotta perché la neve appena
sciolta l'aveva resa fangosa. Dopo aver guidato per un'ora, Alden fermò il
calesse per far prendere fiato al cavallo, come faceva sempre, e lui e Sciamano
scesero e urinarono sul fieno appena spuntato da Hans Buckman e poi
camminarono per qualche minuto per sgranchirsi le gambe. Poco dopo attra-
versavano lo stretto ponte sul fiume che scorreva nella loro tenuta, e il
momento più doloroso per Sciamano fu quando all'orizzonte comparvero la
casa e il fienile. Finora tutto si era svolto come al solito: Alden che veniva a
prenderlo a Rock Island e lo accompagnava a casa. Ma ora, al loro arrivo, suo
padre non sarebbe stato là ad accoglierlo. Né ora né mai più.
Sciamano non entrò direttamente in casa. Aiutò Alden a staccare il cavallo e
lo segui nel fienile, accendendo la lanterna a petrolio perché potessero parlare.
Alden frugò tra il fieno e ne trasse una bottiglia che era ancora piena per un
terzo, ma Sciamano scosse la testa.
«Sei diventato astemio là nell'Ohio?»
«Ma no.» Era una cosa complicata. Sciamano non era mai stato un gran
bevitore, come tutti i Cole, ma, cosa più importante, suo padre molto tempo
prima gli aveva spiegato che l'alcol cancellava il Dono. «Il fatto è che non bevo
molto.»
«Già, tu sei come lui. Ma questa notte dovresti.»
«Non voglio che lei mi senta l'odore di alcol addosso. Avrò abbastanza
difficoltà con lei, senza aggiungere questo. Ma lasciamela qui, per favore. Ne
prenderò un sorso quando mi ritirerò in camera mia, dopo che lei sarà andata a
dormire.»
Alden annuì. «Devi avere un po' di pazienza con lei» disse con voce
esitante. «So che può essere severa, ma...» Si arrestò stupito quando Sciamano
venne verso di lui e lo abbracciò. Questo non rientrava nei loro abituali
rapporti: gli uomini non si abbracciavano fra loro. Il bracciante batté una mano
sulla spalla di Sciamano, con orgoglio. Un momento dopo Sciamano spegneva
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la lanterna e attraversava il cortile buio verso la cucina dove, rimasta sola dopo
la partenza degli altri, sua madre lo stava aspettando.

L'eredità

La mattina dopo, anche se il livello del liquido ambrato nella bottiglia di


Alden era sceso sì e no di tre dita, Sciamano si sentiva pulsare la testa. Aveva
dormito male: il vecchio letto di funi non era stato tirato e riannodato da anni.
Si tagliò persino il mento, rasandosi. Verso metà mattina, nulla di tutto questo
contava più. Suo padre era stato sepolto con una certa fretta, perché era morto
di febbre tifoide, ma il servizio in chiesa era stato rimandato fino al suo arrivo.
La piccola chiesa battista era gremita di tre generazioni di pazienti che suo
padre aveva aiutato a venire al mondo, aveva curato per malattie, ferite di armi
da fuoco, fitte alla schiena, irritazione della pelle, ossa rotte e Dio sa che cos'al-
tro. Il reverendo Lucian Blackmer pronunciò l'elogio funebre - abbastanza calo-
roso da prevenire l'animosità dei presenti, ma non tanto caloroso da far pensare
che fosse giusto morire com'era morto il dottor Cole, senza avere avuto il buon-
senso di farsi membro dell'unica vera Chiesa. La madre di Sciamano aveva più
volte espresso la sua gratitudine al reverendo che, solo per rispetto verso di lei,
aveva consentito a che suo marito fosse sepolto nel piccolo cimitero della
chiesa.
Per tutto quel pomeriggio la casa dei Cole fu affollata: i visitatori portavano
arrosti, carni ripiene, pudding e torte; una tale quantità di cibo che la circostan-
za assunse quasi l'aria di un festino. Persino Sciamano si trovò a sbocconcellare
un po' di affettato freddo di cuore, il suo piatto preferito. Era stata Makwa-ikwa
che gli aveva insegnato a gustarlo: lui credeva che fosse una specialità indiana,
come il cane bollito o lo scoiattolo cucinato con le interiora, ma aveva poi sco-
perto con piacere che anche molti dei suoi vicini bianchi cucinavano il cuore,
dopo aver macellato una vacca o abbattuto un cervo. Stava servendosi un'altra
fetta quando, alzando gli occhi, vide Lillian Geiger che attraversava la stanza
dirigendosi verso sua madre. Era invecchiata, sciupata, ma sempre attraente.
Era da lei che sua figlia Rachel aveva ereditato la bellezza. Indossava la sua
miglior veste di satin nero, con un soprabito nero di lino e una sciarpa bianca:
una piccola stella di David d'argento appesa a una catenella le pendeva sul
petto. Sciamano osservò che Lillian sceglieva con cura le persone che salutava:
c'era qualcuno che, sia pure a fatica, avrebbe risposto educatamente al saluto di
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un'ebrea, ma mai lo avrebbe rivolto a una Copperhead*. Lillian era cugina di
Judah P. Benjamin, il segretario di Stato confederato, e suo marito Jay era
partito per la sua nativa Carolina del Sud all'inizio della guerra, arruolandosi
nell'esercito confederato con due dei suoi tre fratelli.
Quando Lillian si diresse verso Sciamano, il suo sorriso era esitante. «Zia
Lillian» la salutò lui. Veramente non era sua zia, ma i Geiger e i Cole erano
stati amici intimi quando lui era bambino, e l'aveva sempre chiamata così. Gli
occhi di Lillian si raddolcirono. «Hello, Rob J.» rispose lei con l'antica tene-
rezza. Nessun altro lo chiamava così, quello era il nome di suo padre: ma Lil-
lian raramente lo chiamava Sciamano. Lo baciò sulla guancia e non pensò nep-
pure di esprimergli a parole le sue condoglianze.
Da quanto sapeva di Jason, gli raccontò Lillian - e le notizie erano scarse
perché le lettere dovevano attraversare le linee nemiche - suo marito stava bene
e non pareva in pericolo. Jason Geiger era farmacista: quando si era arruolato,
era stato messo a capo di un piccolo ospedale militare in Georgia e ora dirigeva
un ospedale più grande in Virginia, sulle rive del fiume James. La sua ultima
lettera, diceva Lillian, le aveva portato la notizia che suo fratello, Joseph
Reuben Geiger, anche lui farmacista come gli altri maschi della famiglia ma
divenuto ufficiale di cavalleria, era caduto combattendo sotto il comando di
Stuart.
Sciamano si limitò a un cenno della testa. Anch'egli evitava di esprimere a
voce le condoglianze nella solita maniera convenzionale.
E come stavano i suoi figli?
«Tutti bene, i ragazzi sono tanto cresciuti, Jay non li riconoscerà nemmeno.
Mangiano come lupi.»
«E Rachel?»
«Ha perduto il marito, Joe Regensberg, lo scorso giugno. Morto di febbre
tifoide, come tuo padre.»
«Oh!» esclamò Sciamano colpito. «Ho sentito che la febbre tifoide infuriava
a Chicago l'estate scorsa. Ma Rachel sta bene?»
«Oh, si, benissimo, e così i suoi bambini. Ha un figlio e una figlia.» Lillian
esitò. «Si vede con un altro uomo, un cugino di Joe. Annunceranno il loro
fidanzamento quando sarà terminato il suo anno di lutto.»
Ah! Strano che dovesse ancora importargli tanto, ferirlo così profondamen-
te. «E tu, zia, ti piace essere nonna?»
«Oh, ne sono felice» rispose Lillian; si allontanò da lui e cominciò una

* Testa di rame: persona del Nord che simpatizza per i sudisti. [N.d.T.]

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tranquilla conversazione con Mrs. Pratt, le cui terre confinavano con quelle dei
Geiger.
Verso sera Sciamano riempì un piatto di cibo e lo portò alla casetta di
tronchi di Alden Kimball, che sempre odorava di buon fumo di legna. Il
bracciante, in maglia e mutande, era seduto sul letto e stava bevendo da una
caraffa. I suoi piedi erano puliti, aveva fatto il bagno in occasione del funerale.
L'altro suo cambio di biancheria di lana, più grigio che bianco, pendeva ad
asciugare nel mezzo della stanza, appeso a una corda tesa fra due travi.
Sciamano fece segno di no con la testa quando Alden gli offrì la caraffa.
Sedette sull'unica sedia di legno e osservò il bracciante mentre mangiava.
«Fosse stato per me, avrei sepolto mio padre sulla nostra terra, vicino al
fiume.»
Alden scosse la testa. «Lei non avrebbe voluto. Era troppo vicino alla tomba
dell'indiana. Prima che fosse... uccisa» aggiunse scegliendo con cura le parole
«la gente parlava molto di loro due. E tua madre era terribilmente gelosa.»
Sciamano bruciava dalla voglia di fargli domande su Makwa e sua madre e
suo padre, ma non gli pareva giusto fare pettegolezzi sui suoi genitori con
Alden. Invece lo salutò con un cenno della mano e uscì. Era già il crepuscolo
quando scese lungo il fiume, fino alle rovine dell'hedonoso-te di Makwa-ikwa.
Una metà della grande casa indiana di legno era ancora intatta ma l'altra metà
era crollata, con le travi e le tavole imputridite, asilo senza dubbio di serpenti e
roditori.
«Sono tornato» disse a voce alta.
Gli pareva di percepire la presenza di Makwa. Era ormai morta da lungo
tempo: quello che ora provava per lei era rimpianto, che impallidiva di fronte al
dolore per la perdita del padre. Aveva bisogno di conforto, ma poteva sentire
solo la terribile collera della donna, con tale immediatezza che gli si rizzarono i
capelli sulla nuca. Non lontano c'era la sua tomba, senza lapide, ma attenta-
mente curata, l'erba tagliata, i bordi piantati a gigli gialli, fiori silvestri presi in
un prato vicino, lungo la riva del fiume. I virgulti verdi già spuntavano dalla
terra umida. Sciamano sapeva che doveva essere stato suo padre a prendersi
cura della tomba; si inginocchiò e strappò un paio di erbacce fra gli steli dei
gigli.
Era quasi buio. Immaginò di sentire Makwa che cercava di dirgli qualcosa.
Era già capitato altre volte e quasi gli pareva di percepire la rabbia della donna,
perché non poteva dirgli chi l'aveva uccisa. Voleva chiederle che cosa doveva
fare, ora che suo padre non c'era più. Il vento increspava le acque del fiume, in
cielo spuntavano le prime pallide stelle. Rabbrividì: c'era ancora nell'aria il
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freddo dell'inverno, pensò mentre tornava verso la casa.

Il giorno dopo sapeva che sarebbe dovuto restare a casa, se mai fosse venuto
qualche visitatore in ritardo; ma si accorse che non poteva. Si infilò degli abiti
da lavoro e passò la mattinata con Alden a dare il disinfettante alle pecore.
C'erano nuovi agnelli e cominciò a castrare i maschi, con Alden che reclamava
le "ostriche della prateria" per friggerle insieme con le uova a cena.
Nel pomeriggio, dopo aver fatto il bagno e indossato nuovamente l'abito
nero, Sciamano sedette nel salotto con sua madre. «Sarà meglio esaminare le
cose di tuo padre e decidere come dividerle» affermò lei.
Anche se i suoi capelli biondi stavano diventando grigi, sua madre era anco-
ra una delle donne più attraenti che conoscesse, con il suo bel naso pronunciato
e la bocca sensuale. C'era sempre stato fra loro qualcosa che li divideva, una
difficoltà di comunicare, ma ora lei sentì la riluttanza del figlio. «Si deve fare,
prima o poi, Robert» insistette.
Si preparava a raccogliere i piatti e i vassoi vuoti per portarli in chiesa, dove
i visitatori che avevano offerto i cibi per il funerale sarebbero andati a ripren-
derli. Sciamano si offrì di portarli lui, ma lei voleva far visita personalmente al
reverendo Blackmer. «Vieni anche tu» propose, ma Sciamano scosse la testa:
sapeva che questo significava affrontare una lunga predica sul come e perché
doveva finalmente decidersi a ricevere lo Spirito Santo. La fede assoluta della
madre nel paradiso e nell'inferno continuava a stupirlo. Ricordando le discus-
sioni del passato fra sua madre e suo padre, pensava che ora doveva essere
particolarmente angosciata, perché si era sempre tormentata al pensiero che suo
marito, avendo rifiutato il battesimo, non sarebbe stato ad attenderla in para-
diso.
La vedova alzò la mano e additò la finestra aperta. «Arriva qualcuno a
cavallo.»
Tese l'orecchio per qualche momento, ed ebbe un sorriso triste. «Una donna
ha chiesto ad Alden se c'è il dottore, dice che suo marito si è fatto male. Alden
le ha detto che il dottore è morto. "E il giovane dottore?" ha chiesto la donna. E
Alden: "Oh, lui no, lui è qui".»
Che cosa strana, pensò Sciamano. Sua madre si era già diretta verso la
porta, dov'era, al solito posto, la valigetta medica di Robert J.; la porse al figlio.
«Prendi il calesse, è già attaccato. Io andrò in chiesa più tardi.»

La donna era Liddy Geacher. Lei e il marito Henry avevano comprato la


fattoria dei Buchanan mentre Sciamano era lontano. Conosceva bene la strada,
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erano solo pochi chilometri. Geacher era caduto dal fienile: lo avevano trovato
steso a terra, dolorante e con il respiro affannoso. Gemette quando cercarono di
svestirlo e Sciamano dovette tagliare gli indumenti, avendo cura di farlo lungo
le cuciture perché Mrs. Geacher potesse poi ricucirli. Non c'era sangue, solo
delle brutte contusioni e la caviglia sinistra tumefatta. Dalla valigetta Sciamano
trasse lo stetoscopio di suo padre. «Venga qui, prego, voglio che lei mi dica che
cosa sente» chiese alla donna e le infilò gli auricolari nelle orecchie. Mrs.
Geacher spalancò gli occhi quando Sciamano applicò lo strumento al torace del
marito. Il giovane medico la lasciò auscultare per parecchi minuti, tenendo lo
stetoscopio con la sinistra mentre con l'altra mano sentiva il polso dell'uomo.
«Tump-tump-tump-tump-tump!» mormorò la donna.
Sciamano sorrise. Il polso di Henry Geacher era rapido, ma c'era da aspet-
tarselo. «Che altro sente? Ascolti con comodo.»
La donna ascoltò lungamente.
«Non c'è un leggero scricchiolio, come quando si schiaccia della paglia
secca?»
La donna scosse la testa. «Tump-tump-tump.»
Bene. Nessuna costola rotta aveva perforato il polmone. Sciamano ripose lo
stetoscopio e passò le mani con estrema attenzione su ogni centimetro del
corpo di Geacher. Con la sua sordità, doveva acuire tutti gli altri suoi sensi nel-
l'esaminare un malato, più di quanto fosse necessario a un altro medico.
Quando prese nelle sue le mani dell'uomo, annuì con soddisfazione a ciò che il
Dono gli diceva. Geacher era stato fortunato, poiché era finito su un mucchio di
vecchio fieno, sufficiente a salvarlo. Si era maltrattato un po' le costole, ma
Sciamano non percepì alcun segno di frattura grave. Probabilmente quelle
costole, dalla quinta all'ottava, erano incrinate, e forse anche la nona. Quando
gli fasciò il torace, Geacher cominciò a respirare meglio. Sciamano gli ince-
rottò la caviglia e prese dalla valigetta una bottiglia dell'analgesico di suo pa-
dre, fatto in gran parte di alcol con un po' di morfina e alcune erbe officinali.
«Gli farà male. Due cucchiai ogni ora.»
Un dollaro per la visita a domicilio, cinquanta cent per le fasciature, cin-
quanta per l'analgesico. Ma solo una parte della sua opera era compiuta. I
coloni più vicini ai Geacher erano i Reisman, a dieci minuti di lì con il calesse.
Sciamano vi si recò e parlò a Tod Reisman e a suo figlio Dave, i quali accon-
sentirono a dare un'occhiata alla fattoria dei Geacher e a farla andare avanti per
una settimana o giù di lì, finché Henry fosse di nuovo in grado di lavorare.
Tornò lentamente a casa, assaporando la primavera. La terra nera era ancora
troppo umida per l'aratro. Quella mattina nei pascoli dei Cole aveva notato che
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stavano aprendosi i fiori di campo, il loto violetto, la sanguinaria arancione, la
phlox rosata, e in poche settimane le pianure si sarebbero accese dei loro più
brillanti colori. Con profondo piacere respirava la familiare aria, pesante e
dolce, dei campi concimati.
Quando arrivò, la casa era vuota e un cestino mancava dal suo gancio, il che
significava che sua madre era nel pollaio. Non andò a cercarla. Esaminò la
valigetta medica prima di rimetterla al suo posto vicino alla porta, come se la
vedesse per la prima volta. Il cuoio era un po' logoro, ma era un buon cuoio di
vacca e sarebbe durato ancora a lungo. E dentro, gli strumenti, le bende, le
medicine, erano come li avevano disposti le mani di suo padre, puliti, in ordine,
sempre pronti.
Sciamano entrò nello studio e cominciò a esaminare metodicamente tutto
quello che era appartenuto a suo padre, rovistando nei cassetti, aprendo il baule
di cuoio e separando gli oggetti in tre gruppi: quello per sua madre, una prima
scelta di tutti gli oggetti che potevano avere un valore affettivo; quello per il
fratello maggiore, la mezza dozzina di maglioni che Sarah Cole aveva lavorato
ai ferri con la lana delle loro pecore per tenere caldo il dottore nelle visite a
domicilio notturne, gli attrezzi da caccia e da pesca del padre, e inoltre un
oggetto abbastanza nuovo, che Sciamano vedeva per la prima volta, una Colt
calibro .44 della Marina del Texas con il calcio di noce nero e canna rigata di
nove pollici. L'arma fu per lui una sorpresa e uno shock. Anche se suo padre,
profondamente pacifista, aveva acconsentito infine a curare i feriti dell'Unione,
era sempre stato con l'accordo esplicito che non era un combattente e non
avrebbe mai portato armi: perché dunque aveva acquistato quest'arma, ovvia-
mente piuttosto costosa?
I libri di medicina, il microscopio, la valigetta da medico, il piccolo corredo
di farmaci ed erbe officinali sarebbero toccati a Sciamano. Nel baule di cuoio,
sotto l'astuccio del microscopio, c'era una collezione di volumi, quaderni fatti
con fogli di registro cuciti insieme.
Quando Sciamano li sfogliò, vide che si trattava del diario di suo padre, che
rispecchiava tutta la sua vita.
Prese a caso un quaderno: era stato scritto nel 1842. Sfogliandolo, vi trovò
una ricca collezione di appunti medici, note farmacologiche e pensieri intimi,
annotati alla rinfusa. Il diario era costellato di schizzi - facce, disegni anato-
mici, un nudo di donna a figura intera in cui riconobbe sua madre. Studiò quel
viso tanto più giovane, fissando affascinato la carne proibita, consapevole che
nel ventre inconfondibilmente pregno c'era un feto e che da quel feto si sarebbe
sviluppato lui stesso. Aprì un altro quaderno che era stato scritto prima, quando
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Robert Judson Cole era un giovane medico a Boston, da poco tempo sbarcato
dalla nave preveniente dalla sua natia Scozia. Anche in questo c'era un nudo di
donna, ma con un volto sconosciuto a Sciamano: i lineamenti del viso erano
indistinti, ma la vulva era disegnata con clinica precisione. E si trovò a leggere
di una relazione che suo padre aveva avuto con una donna, nella pensione in
cui alloggiava.
Mentre leggeva l'intero racconto, si sentì diventare più giovane. Gli anni gli
caddero di dosso, il suo corpo tornò adolescente, la Terra invertì la sua eterna
rotazione e lui risenti in sé i fragili misteri e tormenti dell'adolescenza. Era di
nuovo il ragazzo che leggeva libri proibiti nella biblioteca del padre, cercando
parole e immagini che gli rivelassero qualcuna di quelle cose misteriose,
vergognose e forse meravigliose che gli uomini facevano con le donne. Era li
solo e tremava, tendendo l'orecchio per paura che il padre comparisse sulla
porta e lo sorprendesse lì.
Poi avverti che sua madre era tornata in casa con le sue uova e si costrinse a
chiudere il quaderno e a riporlo nel baule.
A cena disse alla madre che aveva cominciato a scegliere tra gli oggetti
appartenuti a suo padre e che sarebbe andato in solaio a prendere una cassa
vuota per riporvi le cose destinate a suo fratello.
Fra loro pendeva inespressa la domanda se Alex fosse ancora vivo e potesse
tornare a usarle; ma Sarah preferì non pronunciarla. «Va bene» gli disse,
evidentemente sollevata che il figlio si fosse messo all'opera.
Quella notte, senza riuscire a dormire, Rob diceva a se stesso che, leggendo
quel diario, diventava come un voyeur, un intruso che spiava la vita dei suoi
genitori, quasi nella loro camera da letto, e che avrebbe dovuto bruciare quei
fogli. Ma la logica gli diceva che suo padre li aveva scritti per registrarvi
l'essenza della propria vita. E ora Sciamano giaceva nel suo letto sbilenco e si
domandava quale fosse la verità su Makwa-ikwa, sulla sua vita e la sua morte,
e si angosciava all'idea che la verità celasse terribili segreti.
Infine si alzò, accese la lampada e la portò giù nell'atrio a passi cauti e
furtivi per non svegliare la madre.
Spuntò lo stoppino fumoso e alzò la fiamma al massimo, ottenendo una luce
appena sufficiente a leggere. Lo studio era sgradevolmente freddo a quell'ora
della notte. Ma Sciamano prese il primo quaderno e cominciò a leggere; e
dimenticò la scarsa luce e il freddo, mentre cominciava ad apprendere più di
quanto avrebbe mai voluto sapere su suo padre e su se stesso.

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PARTE SECONDA
Tela fresca, pittura nuova
(11 marzo 1839)

L'emigrante

Rob J. Cole vide per la prima volta il Nuovo Mondo in un nebbioso mattino
di primavera, quando il Cormorant - una goffa nave con tre tozzi alberi e una
vela di mezzana, che era però l'orgoglio della Black Bal Line - fu spinto in un
comodo porto dalla marea montante e calò l'ancora tra le onde increspate. East
Boston non era un gran che, due file di sbilenche case di legno, ma da uno dei
moli, per tre pence, Rob poté prendere un piccolo traghetto a vapore che si
infilò attraverso un'impressionante congerie di imbarcazioni di ogni genere e lo
portò fino alla banchina centrale. Qui si trovò in mezzo a una massa disordinata
di case e negozi, con un rassicurante fetore di pesce marcio, di sentina e
cordame incatramato, come qualsiasi porto scozzese.
Era un giovane alto e robusto, dalle larghe spalle. Camminare per le tortuo-
se stradette acciottolate gli costava fatica, perché si sentiva le ossa rotte dal
lungo viaggio. Portava sulla spalla sinistra una pesante valigia e sotto il braccio
destro, come se stringesse una donna per la vita, reggeva un grande strumento a
corda. Assorbiva l'aria dell'America con tutti i pori. Strade strette, che lascia-
vano a malapena spazio per il passaggio di carri e carrozze. Case di legno, o di
mattoni rossi. Negozi ben forniti di merci che sbandieravano insegne a vivaci
colori con iscrizioni a lettere dorate. Rob J. Cole faceva uno sforzo per non
guardare le donne che entravano o uscivano dai negozi anche se provava un
bisogno esasperato di sentire odore di femmina.
Gettò un'occhiata in un albergo, l'American House, ma restò intimidito dai
lampadari e dai tappeti orientali e pensò che i suoi prezzi dovevano essere trop-
po alti. In una trattoria in Union Street ordinò una scodella di zuppa di pesce e
chiese ai due camerieri di indicargli una pensione che fosse pulita e a buon
mercato.
«Devi deciderti, giovanotto, puoi avere o l'una o l'altra cosa» gli rispose uno
di loro. Ma l'altro scosse la testa e gli diede l'indirizzo di Mrs. Burton, in Spring
Lane.

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L'unica stanza ancora disponibile era stata in origine costruita come alloggio
della servitù: si trovava nel sottotetto, accanto alle stanze dell'uomo di fatica e
della domestica. Era piccola, in cima a tre rampe di scale, in un angolo sotto la
grondaia: doveva essere calda e soffocante d'estate, gelida d'inverno. Con-
teneva un letto piuttosto stretto, un tavolino con una catinella piena di crepe e
un vaso da notte bianco, coperto da un panno ricamato a fiori blu. Nel prezzo
della stanza, un dollaro e cinquanta la settimana, era compresa la colazione, gli
spiegò Louise Burton: porridge, pane biscottato, un uovo di gallina. Era una ve-
dova giallastra sui sessant'anni, con uno sguardo duro. «Che cos'è quell'og-
getto?»
«Si chiama viola da gamba.»
«Lei si guadagna la vita suonando?»
«Suono per mio piacere. Per vivere faccio il medico.»
La donna scosse la testa, dubbiosa. Chiese il pagamento della stanza in anti-
cipo e gli indicò una locanda in Beacon Street, dove avrebbe potuto prendere i
suoi pasti per un altro dollaro la settimana.
Rob J. Cole si lasciò cadere sul letto appena la donna se ne fu andata. Dormì
tutto quel pomeriggio e tutta la notte, senza sognare, tranne che gli pareva in
qualche modo di sentire ancora il rollìo e il beccheggio della nave. Ma il
mattino si svegliò fresco e allegro. Quando scese a fare colazione si trovò a
sedere accanto a un altro pensionante, Stanley Finch, che lavorava da un
cappellaio in Summer Street. Da lui apprese due fatti estremamente interes-
santi: che si poteva ottenere un secchio d'acqua calda, portata fino in camera
dal facchino, Lem Raskin, per venticinque cent; e che Boston aveva tre ospe-
dali, il Massachusetts General, la Clinica di Maternità e l'Ambulatorio oftal-
mico e di otoiatria. Dopo colazione si immerse beatamente in un bagno caldo,
uscendone soltanto quando l'acqua cominciò a raffreddarsi, poi si diede da fare
per rendere un po' presentabile il suo vestiario. Quando scese le scale, la dome-
stica era inginocchiata a lavare il pavimento. Le sue braccia nude erano coperte
di lentiggini e le sue rotondità posteriori sobbalzavano piacevolmente a quel
suo vigoroso sfregare. Una faccia da gatta imbronciata si voltò verso di lui
mentre passava e Rob J. vide che, sotto la cuffia, i suoi capelli rossi avevano il
colore che meno gli piaceva, quello delle carote bollite.
Al Massachusetts General Hospital dovette aspettare per mezza mattina e
finalmente fu ricevuto dal dottor Walter Channing, che non perse tempo a dir-
gli chiaro e tondo che l'ospedale non aveva bisogno di un altro medico. Questa
esperienza si ripeté tosto negli altri due ospedali. Alla Clinica di Maternità un
giovane dottore, di nome David Humphreys Storer, scosse la testa con sim-
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patia. «La facoltà di medicina di Harvard sforna ogni anno dei medici che de-
vono mettersi in coda per trovare un posto, dottor Cole. La verità è che un
nuovo venuto ha scarse possibilità.»
Rob J. comprese quel che il dottor Storer non aveva detto: alcuni dei lau-
reati locali avevano l'appoggio del prestigio di famiglia e di relazioni sociali,
proprio come a Edimburgo anche lui aveva goduto il vantaggio di essere uno
dei Cole, medici da generazioni.
«Io proverei in un'altra città,» soggiunse il dottor Storer «magari Providence
o New Haven.» Rob J. borbottò un grazie e si avviò alla porta, ma subito dopo
Storer lo raggiunse. «Forse c'è una lontana possibilità. Dovrebbe parlare con il
dottor Walter Aldrich.»
Il dottor Aldrich aveva lo studio nella sua abitazione, una bella casa bianca
ben tenuta, sul lato sud di una larga zona a verde che chiamavano il Common.
Era ora di visite, e Rob J. dovette aspettare a lungo. Il dottor Aldrich era un uo-
mo corpulento e dignitoso, con una gran barba grigia sotto la quale si intra-
vedeva una bocca sottile come un taglio. Ascoltò cortesemente Rob J., inter-
rompendolo di quando in quando con qualche domanda. «Clinica universitaria
di Edimburgo? Sotto il chirurgo William Fergusson? E come mai ha lasciato un
assistentato come quello?»
«Mi avrebbero deportato in Australia se non fossi fuggito.» Si rendeva con-
to che la sua unica speranza stava nella verità. «Avevo scritto un manifesto che
ha portato a una rivolta operaia contro la Corona inglese, che da anni dissangua
la Scozia. Ci sono stati scontri a fuoco e alcuni morti.»
«Mi piace il parlare schietto» commentò il dottor Aldrich. «Un uomo deve
combattere per la sua terra. Mio padre e mio nonno lottarono entrambi contro
gli inglesi.» Osservò Rob J. con occhio critico. «C'è una possibilità. Un ente
assistenziale che manda dei medici a visitare gli indigenti della nostra città.»
Aveva tutta l'aria di un lavoro meschino e senza prospettive: il dottor Aldri-
ch aggiunse che la maggior parte dei medici incaricati delle visite a domicilio
erano pagati cinquanta dollari l'anno ed erano ben felici di fare esperienza, e
Rob J. si chiese che cosa mai poteva imparare un medico di Edimburgo nei
quartieri poveri di una cittadina di provincia.
«Se accetta il posto al Dispensario di Boston, le farò avere un incarico di
docente serale al laboratorio di anatomia della Tremont Medical School. Que-
sto le porterà altri duecentocinquanta dollari l'anno.»
«Dubito di poter vivere con trecento dollari, signore. Al momento sono
quasi al verde.»
«Non ho nient'altro da offrirle. In realtà il suo introito annuale sarebbe di
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trecentocinquanta dollari. Il suo lavoro dovrebbe svolgersi nel Distretto Otto
per il quale il consiglio di amministrazione del Dispensario ha recentemente
deliberato di pagare al medico cento dollari invece di cinquanta.»
«Perché il Distretto Otto paga il doppio delle altre zone?»
Ora fu il dottor Aldrich che parlò schietto. «È perché ci vivono gli irlande-
si» rispose in un tono secco e incolore come le sue labbra.
La mattina dopo Rob J. saliva per le scale scricchiolanti del numero 109 di
Washington Street ed entrava nell'angusto spaccio farmaceutico che era l'unico
ufficio del Dispensario di Boston. Era già stipato di medici che aspettavano
l'assegnazione dei loro compiti per quel giorno. Charles K. Wilson, l'ammi-
nistratore, accolse Rob J. con brusca efficienza, quando venne il suo turno.
«Vediamo. Un nuovo dottore per il Distretto Otto, vero? Bene, il quartiere è
tuttora senza assistenza medica. Questi pazienti la aspettano.» Gli porse un
mazzetto di tagliandi, ognuno con un nome e un indirizzo.
Wilson gli spiegò le norme da seguire e gli descrisse brevemente l'ottavo
distretto. Broad Street passava fra i dock e la collina di Fort Hill. Quando la
città era appena sorta, il quartiere era stato fondato da mercanti che vi avevano
costruito le loro grandi e belle palazzine, per essere più vicini ai loro magazzini
e agli affari del porto. In seguito i commercianti si erano trasferiti in altre zone
più eleganti e le loro case erano state occupate prima da yankee della classe
operaia, poi da inquilini più poveri, originari del luogo, quando le palazzine
erano state suddivise in diversi alloggi, e infine dagli emigranti irlandesi che si
riversavano dalle stive delle navi. Ma a quel tempo le eleganti palazzine erano
già malconce e cadenti, suddivise e subaffittate a settimana e a prezzi disone-
stamente alti. I magazzini erano stati trasformati in alveari di minuscole stanze,
senza una fonte di luce e d'aria; e la disponibilità di alloggi era così scarsa che,
accanto e dietro a ogni edificio preesistente, erano sorte orrende baracche. Il
risultato era una distesa di tuguri, dove in un'unica stanza vivevano fino a dodi-
ci persone, mogli, mariti, fratelli, sorelle, bambini, che talvolta dormivano tutti
nello stesso letto.
Seguendo le indicazioni di Wilson, Rob J. trovò il Distretto Otto. Il lezzo di
Broad Street, il miasma emanato dalle troppo poche latrine usate da troppe
persone: c'era l'odore della miseria, che è lo stesso in ogni città del mondo.
Qualcosa in lui, stanco di sentirsi straniero, lo spingeva a guardare con simpatia
le facce irlandesi perché avevano in comune con lui l'antica origine celtica. Il
suo primo tagliando era intestato a un certo Patrick Geoghegan, in Half Moon
Place: l'indirizzo avrebbe potuto benissimo trovarsi sulla Luna, perché quasi
immediatamente Rob J. si smarrì nel dedalo di viuzze e stradette che si
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diramavano da Broad Street. Infine diede un penny a un ragazzetto dalla faccia
sporca che lo guidò a un piccolo rione sovraffollato; e qui, a furia di chiedere,
arrivò all'ultimo piano di una casa malandata e dovette attraversare stanze abi-
tate da due altre famiglie prima di arrivare all'angusto alloggio dei Geoghegan.
Una donna seduta a terra spidocchiava la testa di un bambino alla luce di una
candela.
«Patrick Geoghegan?»
Rob J. dovette ripetere due volte il nome prima di ottenere un rauco
mormorìo. «Morto cinque giorni fa, di febbre al cervello.»
Era così che i popolani, anche in Scozia, chiamavano qualunque febbre alta
che portasse alla morte. «Mi spiace, signora, le mie condoglianze» mormorò
Rob J. con voce sommessa, ma la donna non alzò neanche la testa.
Scese in strada e si fermò a guardare. Sapeva che ogni Paese aveva strade
come queste, dove l'iniquità e la miseria erano così schiaccianti da creare scene
e suoni e odori particolari: un bambino smunto seduto su uno scalino che rosic-
chiava una nuda cotenna come un cane rosicchia un osso; tre scarpe spaiate,
troppo rotte per essere riparate, gettate nella polvere del vicolo; la voce di un
ubriaco che cantava a squarciagola una lacrimosa canzone sulle verdi colline
della patria lontana; imprecazioni urlate appassionatamente come preghiere;
odore di cavoli bolliti sopraffatto ovunque dal fetore delle fognature traboccate
e immondizie di ogni genere. Rob J. conosceva bene i quartieri poveri di Edim-
burgo e di Paisley, e le casette di pietra a schiera di una dozzina di altre città
dove gli adulti e i bambini uscivano di casa all'alba arrancando verso gli opifici
dove si lavorava il cotone e la lana, per trascinarsi di nuovo a casa dopo che era
calata la notte. Lo colpì l'ironia della sua situazione: era fuggito dalla Scozia
perché aveva lottato contro le forze che creavano tuguri come questi e ora, in
un Paese nuovo, era costretto a rimetterci piede.
Il tagliando successivo era per Martin O'Hara di Humphrey Place, un rione
di stamberghe e baracche aggrappato al pendio di Fort Hill, a cui si arrivava per
mezzo di una scala di legno di quindici metri, così ripida da sembrare una scala
a pioli. Lungo la scala c'era un canale di legno, scoperto, in cui le maleodoranti
acque di scolo di Humphrey Place scendevano ad aggiungersi agli orrori di
Half Moon Place. Malgrado la desolazione del luogo, Rob J. si arrampicò a
passo lesto, cominciando a familiarizzare con la sua attività.
Era una fatica logorante eppure alla fine della giornata non poteva aspettarsi
che un magro pasto fra tristi pensieri, per dedicare poi la serata al suo secondo
lavoro. Nessuno dei due impieghi gli avrebbe fornito denaro sufficiente per un
mese, e con il poco denaro che gli era rimasto non avrebbe potuto pagarsi molti
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pasti.
Il laboratorio di dissezione, che era anche aula scolastica per le lezioni della
Tremont Medical School, era un unico grande stanzone sopra la farmacia di
Thomas Metcalfe, al numero 35 di Tremont Place. Era diretto da un gruppo di
professori usciti da Harvard, che, delusi dell'insufficiente e incoerente insegna-
mento impartito dalla loro università, avevano progettato e organizzato un pro-
gramma di corsi triennali che, speravano, avrebbe dovuto formare medici
migliori.
Il professore di patologia sotto la cui direzione Rob J. Doveva svolgere il
suo lavoro come docente di dissezione era un tipo basso di statura e con le
gambe storte, che aveva circa dieci anni più di lui. Lo accolse in modo molto
sbrigativo. «Io sono Holmes. Lei ha qualche esperienza di insegnamento, dottor
Cole?»
«No, non ho mai insegnato. Ma ho una certa esperienza in chirurgia e
dissezione.»
Il professor Holmes annuì freddamente, come a dire "vedremo". Gli indicò
brevemente i preparativi da compiere prima della sua lezione. Tranne per pochi
particolari, era una procedura di routine, ormai familiare a Rob J. Lui e
Fergusson usavano fare autopsie ogni mattina prima del giro per i reparti, a
scopo di ricerca e per acquistare una pratica che consentisse di operare con
maggiore rapidità sui pazienti. Tolse il lenzuolo che copriva il magro cadavere
di un ragazzo, poi indossò un lungo grembiule grigio da dissezione e dispose in
bell'ordine gli strumenti, mentre gli studenti cominciavano ad arrivare.
C'erano solo sette studenti di medicina. Il dottor Holmes era ritto accanto a
un leggio, a un'estremità del tavolo da dissezione. «Quando studiavo anatomia
a Parigi,» cominciò «ogni studente poteva comprarsi un cadavere intero per
cinquanta soldi, in un posto che li vendeva ogni giorno a mezzodì. Ma oggi i
cadaveri destinati allo studio dell'anatomia sono scarsi. Questo, un ragazzo di
sedici anni morto stamattina per congestione polmonare, ci viene dall'Ente
Assistenziale di Stato. Questa sera voi non farete nessuna dissezione. Alla pros-
sima lezione il corpo sarà diviso fra di voi: due si prenderanno le braccia, due
le gambe, e il resto del tronco sarà diviso fra gli altri.»
Mentre il dottor Holmes descriveva quello che il docente stava facendo,
Rob J. aprì il torace del ragazzo e cominciò ad asportare gli organi e a pesarli,
annunciando ogni peso a voce alta perché il professore potesse annotarlo. Dopo
di ciò, il suo lavoro consisteva nell'additare i vari punti del corpo per illustrare
ciò che il professore stava dicendo. Holmes parlava lentamente, a voce alta, ma
Rob J. si rese ben presto conto che gli studenti consideravano le sue lezioni un
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vero divertimento. Il professore usava volentieri un linguaggio piuttosto salace.
Illustrando i movimenti del braccio, vibrò un violento uppercut in aria. Quando
spiegò la meccanica della gamba, sferrò un gran calcio, e per mostrare come
lavoravano le anche sfoderò una danza del ventre. Gli studenti si bevevano le
sue parole. Alla fine della lezione si affollarono intorno al professore con
svariate domande. Mentre rispondeva, Holmes osservava come il suo nuovo
assistente riponeva il corpo e i pezzi anatomici nella soluzione del contenitore
in cui dovevano essere conservati, lavava il tavolo, quindi lavava e asciugava
gli strumenti e li riponeva. Rob J. stava lavandosi energicamente le mani e le
braccia, quando l'ultimo studente uscì.
«Bene, lei si è mostrato idoneo.»
Perché no? voleva ribattere Rob J., visto che un lavoro così qualsiasi stu-
dente un po' sveglio avrebbe potuto svolgerlo. Invece si sorprese a domandare
umilmente se era possibile essere pagato in anticipo.
«Mi hanno detto che lei lavora per il Dispensario. Anch'io una volta ho la-
vorato per il Dispensario. Un lavoro maledettamente duro, e miseria garantita,
ma anche istruttivo.» Holmes trasse due biglietti da cinque dollari dalla borsa.
«Le basta il salario del primo mezzo mese?»
Rob J. cercò di nascondere il suo sollievo quando rispose che si, era abba-
stanza. Spensero insieme le lampade e si salutarono in fondo alle scale, an-
dando ciascuno per la sua strada. Rob J. provava una sottile ebrezza palpando
le banconote nella sua tasca. Passando davanti al Panificio Allen vide un com-
messo che ritirava i vassoi di pasticceria dalla vetrina, poiché era l'ora di chiu-
sura, ed entrò a comprarsi due tartine alla marmellata di more: un vero festino.
Voleva mangiarsele in camera sua, ma nella casa di Spring Street la dome-
stica era ancora alzata e stava finendo di lavare i piatti. Rob J. entrò in cucina e
le mostrò le tartine. «Una è per te se mi aiuti a rubare un bicchiere di latte.»
La ragazza rise: «Non c'è bisogno di bisbigliare così. Sta dormendo». Ad-
ditò la stanza di Mrs. Burton, al secondo piano. «E niente la sveglia quando è
addormentata.» Si asciugò le mani e tirò fuori la bottiglia del latte e due tazze
pulite. Entrambi si godettero la complicità del furto. La ragazza si chiamava
Margaret Holland: tutti la chiamavano Meg, gli confidò. Finito il festino, una
traccia di latte le era rimasta all'angolo della bocca e Rob J. sporse la mano
attraverso il tavolo, eliminando con il gesto preciso del chirurgo, con la punta
del dito, la prova del reato.

22
4

La lezione di anatomia

Quasi subito Rob J. si accorse di una grave pecca nel sistema seguito dal
Dispensario. I nomi sui tagliandi che gli venivano passati ogni mattina non
corrispondevano ai malati più gravi del quartiere di Fort Hill. Il programma di
assistenza sanitaria non era né giusto né democratico: i tagliandi per le cure
mediche erano divisi tra i ricchi patroni e donatori dell'Ente, i quali li pas-
savano a persone di loro gradimento, perlopiù ai loro stessi domestici, a titolo
di compenso. Spesso Rob J. doveva recarsi da un paziente con un disturbo
lieve, mentre al piano di sotto un povero disoccupato moriva per mancanza di
cure. Il giuramento che aveva prestato quando era diventato medico gli vietava
di abbandonare il posto, era costretto a espletare un gran numero di tagliandi e
a riferire di aver visitato i pazienti di cui ogni tagliando portava il nome.
Una sera alla Medical School discusse il problema con il dottor Holmes.
«Quando lavoravo per il Dispensario, mi facevo dare i tagliandi dai miei amici
di famiglia, che facevano donazioni in denaro all'Ente» gli disse il professore.
«Bene, tornerò a farmi dare i tagliandi e li passerò a lei.»
Rob J. gliene fu grato, ma questo non migliorava molto la situazione. Sape-
va che non sarebbe riuscito a raccogliere abbastanza tagliandi in bianco da
poter curare tutti i malati indigenti del Distretto Otto. Ci sarebbe voluto un
esercito di medici.
Il momento migliore della giornata di solito era quando tornava a Spring
Street la sera tardi e passava qualche minuto a mangiare di contrabbando qual-
che cibo avanzato con Meg Holland. Prese l'abitudine di portarle piccoli doni,
un cartoccio di castagne arrosto, una tavoletta di zucchero d'acero, un paio di
mele gialle. La giovane irlandese gli raccontava i pettegolezzi della casa: come
Mr. Stanley Finch, secondo piano prima porta - che si dava tante arie, figurarsi!
- aveva messo incinta una ragazza a Gardner e poi era scappato; come Mrs.
Burton poteva essere, imprevedibilmente, o una cara persona o una vera strega,
e come l'uomo di fatica, Lemuel Raskin, che occupava la stanza contigua a
quella di Rob J., beveva come una spugna.
Dopo una settimana che Rob J. alloggiava alla pensione, la ragazza gli con-
fidò, come per caso, che Lem, se gli davano una mezza pinta di brandy, se la
trincava subito tutta e poi dormiva come un ghiro.
La sera dopo Rob J. portò a Lem in regalo una bottiglia di brandy.
Era duro aspettare, e più di una volta si disse che era proprio uno sciocco,
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che la ragazza aveva solo spettegolato. La vecchia casa di notte era piena di
rumori: scricchiolii delle travi, il rauco russare di Lem, misteriosi fruscìi nelle
pareti di legno. Infine vi fu un sommesso colpetto alla porta, non più che
l'ombra di un bussare, e quando la aprì, Margaret Holland scivolò nella sua
stanzetta, portandovi un debole odore di femmina e di acqua dei piatti, e mor-
morò che la notte era tanto fredda e gli portava, come scusa, una logora coperta
in più.
Circa tre settimane dopo la dissezione del cadavere del ragazzo, la Tremont
Medical School ebbe un altro colpo di fortuna: il corpo di una giovane donna
che era morta in prigione di febbre puerperale dopo il parto. Quella sera il
dottor Holmes era di guardia al Massachusetts General Hospital e fu sostituito
dal dottor David Storer, della Clinica di Maternità. Prima che Rob J. si accin-
gesse alla dissezione, il dottor Storer insistette per fare una scrupolosa ispe-
zione delle mani del docente. «Niente pipite alle unghie o taglietti nella pelle?»
«No, signore» rispose Rob J., un po' risentito, senza capire la ragione di
tutto quell'interesse per le sue mani.
Al termine della lezione di anatomia, Storer invitò gli studenti a raggrup-
parsi nell'altra parte dell'aula, dove avrebbe spiegato come condurre una visita
ginecologica su donne incinte, o affette da malattie femminili. «Voi troverete
forse che le virtuose donne del New England si vergogneranno di sottoporsi a
una tale visita, o anche la rifiuteranno» spiegava. «Ma è vostra responsabilità
guadagnarvi la loro fiducia per poterle aiutare.»
Il dottor Storer era accompagnato da una donna goffa e pesante, in avanzato
stato di gravidanza, forse una prostituta assoldata per la dimostrazione. Il pro-
fessor Holmes arrivò nel momento in cui Rob J. stava ripulendo e mettendo in
ordine la zona della dissezione. Quando ebbe finito, e si preparava a raggiun-
gere gli studenti che esaminavano la donna, il dottor Holmes tutto agitato gli
sbarrò la strada. «No, no,» esclamò «lei deve lavarsi e andarsene di qui. Subito,
dottor Cole! Vada all'Essex Tavern e mi aspetti mentre raccolgo le mie carte.»
Rob J. obbedì, perplesso e un po' seccato. La taverna era giusto dietro l'an-
golo. Ordinò una birra perché si sentiva nervoso, anche se gli era venuto in
mente che forse stava per essere licenziato e non conveniva spendere quel
denaro. Aveva bevuto solo un mezzo bicchiere quando uno studente del secon-
do anno, un tale Harry Loomis, comparve nel locale con due taccuini e diverse
ristampe di articoli medici.
«Il poeta le manda questi.»
«Chi?»
«Non lo sa? Si è laureato a Boston e quando Dickens è venuto in visita in
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America, Oliver Wendell Holmes ha avuto l'incarico di scrivere il discorso di
benvenuto. Ma non si preoccupi, è molto meglio come dottore che come poeta.
Uno splendido conferenziere, vero?» Loomis si ordinò allegramente una birra.
«Però è un po' fissato sul fatto di lavarsi le mani. Crede che lo sporco faccia
infettare le ferite!»
Loomis aveva portato anche un appunto scribacchiato sul retro di una
vecchia ricetta di laudano per la farmacia Weeks & Potter: Dottor Cole, legga
tutto questo prima di tornare domani sera alla Tremont Med. Sch. Senza fallo,
per favore. Sinc. suo Holmes.

Cominciò a leggere appena tornato nella sua stanza, dapprima un po' sec-
cato, poi con sempre maggiore interesse. Erano fatti esposti da Holmes in un
articolo pubblicato sul New England Quarterly Journal of Medicine e riportati
nell'American Journal of the Medical Sciences. Dapprima apparvero familiari a
Rob J. perché rispondevano esattamente a quanto egli sapeva che accadeva in
Scozia: una larga percentuale di donne gravide che si ammalavano con febbre
altissima, arrivando ben presto a uno stato d'infezione generale e poi alla morte.
Ma l'articolo del dottor Holmes raccontava che un medico di Newton, Mas-
sachusetts, di nome Whitney, assistito da due studenti di medicina, aveva ese-
guito l'autopsia di una donna morta di febbre puerperale. Il dottor Whitney ave-
va una pipita a un'unghia e uno degli studenti aveva una piccola escoriazione
su una mano. Credevano entrambi che fossero cose senza importanza. Ma dopo
pochi giorni il medico sentì un prurito al braccio. Scoprì poco sopra il polso
una macchia rossa delle dimensioni di un pisello, da cui una sottile linea rossa
si estendeva fino all'unghia con la pipita. Il braccio rapidamente si gonfiò fino a
raggiungere il doppio della grandezza normale e il medico fu assalito da febbre
altissima e vomito incontrollabile. Intanto lo studente con la mano escoriata fu
anche lui colpito da febbre alta e in pochi giorni le sue condizioni precipita-
rono. Diventò violaceo, gli si gonfiò il ventre e infine morì. Il dottor Whitney
arrivò molto vicino alla morte, ma lentamente migliorò e finì per guarire. L'al-
tro studente, che non aveva né tagli né escoriazioni sulle mani quando avevano
eseguito l'autopsia, non manifestò alcun sintomo di malattia.
Il caso fu reso noto e i medici di Boston discussero sull'evidente connessio-
ne tra le ferite aperte e l'infezione da febbre puerperale, ma senza arrivare a una
conclusione. Tuttavia, diversi mesi dopo, un medico di Lynn esaminò un caso
di febbre puerperale mentre aveva delle ferite alle mani e in pochi giorni morì
per infezione diffusa. A un congresso della Society for Medical Improvement
di Boston fu sollevato un problema interessante: che cosa sarebbe avvenuto se
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il defunto medico non avesse avuto ferite sulle mani? Anche se non si fosse
infettato personalmente, non avrebbe forse portato in giro il materiale infet-
tante, diffondendo il male ogni volta che toccava le ferite di un altro paziente, o
la vagina di una donna incinta?
Oliver Wendell Holmes non riusciva a scacciare dalla sua mente il pro-
blema. Per diverse settimane aveva fatto ricerche sull'argomento, visitando bi-
blioteche, consultando i propri appunti e chiedendo ai colleghi ginecologi di
comunicargli le loro storie cliniche. Come lavorando a un complesso rompi-
capo, aveva raccolto una collezione imponente di testimonianze e documenti,
che comprendevano un secolo di pratica medica su due continenti. I casi erano
comparsi sporadicamente e non erano stati registrati nella letteratura medica.
Solo quando furono espressamente cercati e messi a confronto si confermarono
reciprocamente e ne risultò una conclusione sorprendente e terribile: la febbre
puerperale era causata da medici, infermiere, levatrici e assistenti ospedalieri
che, dopo aver toccato una paziente contagiosa, passavano a esaminare donne
non ancora contaminate e le condannavano alla febbre e alla morte.
La febbre puerperale era una sciagura causata dalla classe medica, scriveva
Holmes. Una volta che un medico si rendeva conto di questo fatto, doveva es-
sere considerato da parte sua un crimine - un omicidio - infettare una donna.

Rob J. lesse quei fogli due volte, poi rimase sdraiato sul letto attonito e
incredulo.
Avrebbe voluto reagire, respingere e schernire quelle parole. Ma nessun uo-
mo di mente aperta poteva rifiutarsi di prendere in considerazione i casi clinici
e le statistiche riportate da Holmes. Come poteva questo oscuro medico del
Nuovo Mondo saperne di più di sir William Fergusson? In qualche occasione
Rob J. aveva assistito sir William durante l'autopsia di pazienti morte di febbre
puerperale. Subito dopo avevano esaminato donne gravide. E ora si sforzava di
ricordare quali donne erano morte dopo quelle visite.
Pareva che, dopotutto, questi medici provinciali avessero qualcosa da inse-
gnargli sull'arte e la scienza della medicina.
Si alzò per regolare lo stoppino della lampada così da poter leggere ancora
una volta il materiale di Holmes, ma ci fu un colpetto alla porta e Margaret
Holland scivolò nella stanza. Si vergognava un po' di svestirsi davanti a lui, ma
nell'angusta cameretta non c'era un angolo per proteggere il suo pudore, e co-
munque anche Rob J. si stava già spogliando. Meg piegò i suoi abiti e si tolse il
crocifisso. Il suo corpo era paffuto ma muscoloso. Rob J. palpò i segni che le
stecche del busto avevano lasciato nella sua morbida carne e stava spingendosi
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a più audaci carezze quando si arrestò d'un tratto, colpito da un improvviso e
terrificante pensiero.
Lasciandola nel letto, corse alla catinella, la riempì d'acqua e, mentre la
ragazza lo guardava come se fosse improvvisamente ammattito, si insaponò e
si sfregò energicamente le mani. Una volta, due, tre volte. Poi le asciugò con
cura e tornò a letto a riprendere il gioco amoroso. Suo malgrado, Margaret
Holland cominciò a ridacchiare.
«Tu sei il più strano giovanotto che io abbia mai incontrato» gli mormorò
all'orecchio.

Il distretto maledetto da Dio

A sera, quando tornava nella sua stanza, era così stanco che non aveva la
forza di suonare la viola da gamba se non molto raramente. Il suo archeggio era
un po' arrugginito ma la musica era un balsamo per lui, che purtroppo gli era
spesso negato perché Lem Raskin cominciava a picchiare contro la parete per
dirgli di fare silenzio. Non poteva permettersi di fornire brandy a Lem tanto per
la musica quanto per il sesso, e così doveva sacrificare la musica. Una rivista
che aveva trovato nella biblioteca della Medical School raccomandava che
dopo il rapporto la donna, per evitare di restare incinta, facesse irrigazioni con
un infuso di allume e cortecce di Quercus alba; ma Rob J. sapeva dì non poter-
si fidare che Meg facesse regolarmente le irrigazioni. Quando chiese consiglio
a Harry Loomis, questi prese la cosa molto sul serio e lo mandò a una bella
casa grigia, sul versante sud di Cornhill. Mrs. Cynthia Worth, capelli bianchi e
aspetto matronale, sorrise e annuì sentendo fare il nome di Harry. «Io faccio
buoni prezzi ai medici.»
L'articolo da lei fabbricato era tratto dall'intestino cieco delle pecore, un
viscere aperto a una estremità e quindi mirabilmente adatto alle manipolazioni
di Mrs. Worth. La signora era orgogliosa di mostrare i suoi prodotti e li espone-
va come se fosse al mercato del pesce e si trattasse di creature marine con gli
occhi lucenti di freschezza. Rob J. sospirò quando sentì il prezzo, ma Mrs.
Worth fu irremovibile. «Il lavoro è considerevole» replicò, e gli spiegò come i
visceri dovevano essere immersi per ore in acqua, quindi rovesciati, macerati
ancora in una debole soluzione alcalina che si doveva cambiare ogni dodici ore,
raschiati con somma cura fino a liberarli da ogni membrana mucosa, lasciando
la tunica peritoneale e muscolare esposta ai vapori di zolfo; poi lavati in acqua
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e sapone, ventilati e asciugati; tagliati all'estremità aperta nella lunghezza di
venti centimetri e muniti di nastrini rossi o blu per poterli chiudere strettamente
in modo che offrissero sufficiente protezione. La maggior parte dei gentiluo-
mini suoi clienti li compravano in confezioni da tre pezzi, perché così risulta-
vano meno costosi.
Rob J. ne comprò uno. Non espresse preferenza per il colore, ma il nastrino
era blu.
«Con un po' di cura, uno potrà bastare.» Mrs. Worth gli spiegò che si poteva
usare più volte, purché dopo l'uso venisse lavato, asciugato e cosparso di talco.
Quando Rob J. si accomiatò con il suo acquisto, la signora gli augurò cordial-
mente buona fortuna e gli chiese di raccomandarla ai suoi colleghi e ai suoi
pazienti.
Meg detestò subito quella guaina. Apprezzò invece un dono che Harry
Loomis aveva fatto a Rob J. augurandogli una bella nottata: una bottiglietta di
un liquido incolore, protossido di azoto, chiamato anche gas esilarante dagli
studenti di medicina e dai giovani dottori che lo usavano per divertimento. Rob
J. ne versò un poco su un panno e lui e Meg lo fiutarono prima di fare l'amore.
Questa esperienza fu un successo straordinario: mai i loro corpi erano parsi più
buffi o l'atto fisico più comicamente assurdo.
Oltre i piaceri del letto non vi era nulla fra loro. Quando l'atto era lento,
c'era un po' di tenerezza e, quando era furiosamente fisico, c'era più disperazio-
ne che passione. Quando parlavano, lei tendeva o a spettegolare sugli altri pen-
sionanti, il che lo annoiava, o ad abbandonarsi ai ricordi del suo paese lontano,
cosa che lui cercava di evitare perché i suoi ricordi lo facevano soffrire. Non
c'era comunione tra le loro menti o le loro anime. Quella ilarità di origine
chimica che avevano provato una sola volta con l'uso del protossido di azoto
non fu più ripetuta, perché la loro ebrezza sessuale era stata troppo rumorosa;
anche se Lem, ubriaco, non si era mosso, sapevano di essere stati fortunati a
non farsi scoprire. Risero insieme solo un'altra volta, quando Meg maligna-
mente osservò che la guaina doveva venire da un montone, e la battezzò
Vecchio Corno. Rob J. si rese conto con un certo sgomento di abusare un po'
troppo delle grazie della ragazza. Osservando che la sua gonna era molto ram-
mendata, gliene comprò una nuova, un'offerta propiziatrice per tacitare il suo
senso di colpa. La gonna le piacque enormemente e Rob J. nel suo diario la
ritrasse in un rapido schizzo, sdraiata sul letto, una ragazza paffuta con un
musetto di gattina sorridente.

Rob J. vide molte altre cose, che avrebbe ritratto nei suoi schizzi se il
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pesante lavoro professionale gliene avesse lasciato la forza. A Edimburgo
aveva cominciato a frequentare l'Accademia di Belle Arti, ribellandosi alla
tradizione medica dei Cole e sognando di diventare pittore, per cui la famiglia
aveva pensato che fosse un po' tocco. Al suo terzo anno di accademia gli
avevano detto che aveva un certo talento artistico, ma non abbastanza. La sua
esecuzione era precisa e corretta, ma gli mancava l'immaginazione palpitante,
l'arcana visione. «Tu hai la fiamma ma non hai il calore» gli disse il suo
professore di ritrattistica, non sgarbatamente ma in modo fin troppo chiaro.
Rob J. ne rimase profondamente avvilito, finché si verificarono due fatti. Nei
polverosi archivi della biblioteca dell'accademia gli capitò di trovare un
disegno anatomico. Era molto vecchio, forse era precedente allo stesso
Leonardo, un nudo maschile aperto in due per rivelare gli organi e i vasi
sanguigni. Era intitolato Il secondo uomo trasparente, e con viva sorpresa Rob
J. vide che era stato disegnato da uno dei suoi antenati, e la firma era perfetta-
mente leggibile: "Robert Jeffrey Cole, secondo la maniera di Robert Jeremy
Cole". Era una prova che molti dei suoi antenati erano stati degli artisti, oltre
che dei medici. E due giorni dopo, entrando in una sala operatoria, vide
all'opera William Fergusson, un genio della chirurgia che eseguiva le sue
operazioni con assoluta sicurezza, alla velocità del lampo, per ridurre al mini-
mo le sofferenze del paziente. Per la prima volta Rob J. comprese il significato
della lunga tradizione dei medici Cole. Ebbe la profonda certezza che il più mi-
rabile dei dipinti non poteva mai essere così prezioso come un'unica vita
umana. In quel momento la medicina lo volle suo adepto.
Fin dall'inizio del suo addestramento scoprì di avere ciò che suo zio Ranald,
che esercitava la professione di medico nelle vicinanze di Glasgow, usava
chiamare «il Dono dei Cole»: la facoltà di intuire, tenendo le mani di un
paziente, se sarebbe vissuto o sarebbe morto. Era una sensibilità da guaritore,
come un sesto senso diagnostico, in parte istinto e in parte intuito, in parte un
misterioso potere di sensori ereditari che nessuno poteva identificare o capire,
ma che operava finché non era ottenebrato dall'uso eccessivo di alcol. Per un
medico era un vero dono, ma ora, trapiantato in un lontano Paese, diventava un
tormento per l'animo di Rob J., perché il Distretto Otto aveva una quota
altissima di pazienti destinati a morire.
Il distretto maledetto da Dio, come aveva finito per chiamarlo, dominava la
sua esistenza. Gli irlandesi erano arrivati pieni di speranze. Nel vecchio paese il
salario giornaliero di un operaio era di sei pence, quando c'era lavoro. A
Boston c'era meno disoccupazione e gli operai guadagnavano di più, ma
lavoravano quindici ore al giorno per sette giorni la settimana. Pagavano affitti
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molto alti per le loro stamberghe, i viveri erano più cari e non c'erano orticelli
né minuscoli pezzi di terra per coltivarvi le farinose mele di palude, non c'erano
vacche per il latte né maiali per la pancetta. Il distretto lo ossessionava con la
sua miseria e il suo sudiciume e i suoi bisogni che avrebbero dovuto paraliz-
zarlo e invece lo spronavano a lavorare con tutte le sue forze, come uno scara-
beo che tentasse di smuovere una montagna di sterco di pecora. Le domeniche
sarebbero dovute essere tutte sue, come breve periodo di riposo per riprendersi
dal logorante lavoro della terribile settimana. La mattina di domenica anche
Meg aveva qualche ora di permesso, e così poteva andare a messa. Ma ogni
domenica ritrovava Rob J. nel distretto, libero dalla necessità di seguire il
programma stabilito dai tagliandi e libero di donare ai pazienti poveri le ore che
erano sue, che non doveva rubare al Dispensario. Non gli ci volle molto tempo
per instaurare una vera e propria prassi domenicale, anche se perlopiù non
pagata, perché ovunque volgeva lo sguardo non vedeva che miseria e malattia.
Ben presto si sparse voce che c'era un medico capace di parlare in "erse",
l'antico idioma gaelico comune agli scozzesi e agli irlandesi. Quando lo senti-
vano pronunciare i suoni della patria lontana, anche i più arcigni, i più amareg-
giati si aprivano a un sorriso. Beannacht De ort, dochtuir oig, Dio ti benedica,
giovane dottore, esclamavano per le strade al suo passaggio. Gli uni parlavano
agli altri del giovane medico che «aveva la loro lingua» e ben presto Rob J. si
trovò a parlare "erse" tutto il giorno. Ma se a Fort Hill era adorato, godeva assai
meno simpatia nell'ufficio del Dispensario di Boston, perché ogni genere di
pazienti imprevisti cominciarono a comparire con ricette del dottor Robert J.
Cole per medicine o stampelle o anche cibo prescritto per curare la denutrizio-
ne.
«Ma che succede? E che? Non sono sulla lista presentata dai nostri patroni e
donatori!» si lagnava Mr. Wilson.
«Sono quelli che hanno più bisogno di assistenza nel Distretto Otto.»
«Questo non c'entra. Non mettiamo il carro davanti ai buoi. Se lei vuole
restare al Dispensario, dottor Cole, deve conformarsi alle regole» lo ammoniva
severamente Mr. Wilson.

Uno dei pazienti domenicali era Peter Finn di Half Moon Place, che aveva
riportato una lacerazione al polpaccio destro per una cassa caduta da un carro
mentre si guadagnava la giornata come scaricatore di porto. La ferita, bendata
con uno straccio sudicio, era già gonfia e dolente quando la mostrò al medico.
Rob J. lavò e suturò gli orli slabbrati, ma subito cominciò a formarsi il pus e il
giorno dopo fu costretto a togliere i punti e a drenare la ferita. L'infezione
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procedette a ritmo galoppante e dopo pochi giorni il suo Dono gli disse che, se
voleva salvare la vita di Peter Finn, doveva amputare la gamba.
Era un martedì, e non era possibile rimandare l'operazione fino alla dome-
nica: così Rob J. si vide costretto a rubare altro tempo al Dispensario. Non solo
dovette usare uno dei preziosi tagliandi in bianco passatigli da Holmes, ma die-
de il proprio scarso e duramente guadagnato denaro a Rose Finn perché potesse
procurarsi all'osteria una bottiglia di whisky, che, per quanto di pessima
qualità, era necessario all'operazione non meno del bisturi.
Joseph Finn, fratello di Peter, e Michael Bodie, suo cognato, pur riluttanti
acconsentirono ad assisterlo. Rob J. attese finché Peter non fu intontito dal-
l'intruglio di whisky e morfina e steso sul tavolo di cucina, come una vittima
sacrificale. Ma al primo taglio del bisturi il paziente strabuzzò gli occhi, le
corde del suo collo si tesero e ne uscì un urlo terribile che fece impallidire
Joseph Finn e tremare e ansimare Bodie. Rob J. aveva legato la gamba ferita al
tavolo, ma con Peter che si dibatteva e urlava come una bestia in agonia, gridò
ai due uomini: «Tenetelo! Tenetelo giù, presto!».
Tagliò come aveva imparato da Fergusson, con mano rapida e ferma. Gli
urli cessarono mentre incideva la carne e i muscoli, ma il digrignare dei denti
del paziente era più terribile delle grida. Quando recise l'arteria femorale ne
zampillò il chiaro sangue arterioso ed egli cercò di prendere la mano di Bodie
per mostrargli come bloccare l'emorragia. Ma il cognato balzò indietro.
«Torna qui! Bastardo!»
Ma Bodie correva a precipizio giù per le scale, piangendo. Rob J. cercava di
lavorare come se avesse sei mani. Con la sua statura e la sua forza poté aiutare
Joseph a tenere fermo Peter che si dibatteva disperatamente, nello stesso tempo
riusciva abilmente a stringere l'estremità scivolosa dell'arteria, fermando il
sangue. Ma, quando dovette lasciarla andare per prendere la sega, l'emorragia
ricominciò.
«Mi faccia vedere come si deve fare.» Rose Finn era comparsa silenziosa-
mente accanto a lui. Aveva il volto bianco come la cera, ma riuscì ad afferrare
l'arteria e a controllare la fuoriuscita di sangue. Rob J. segò l'osso, diede pochi
altri rapidi tagli e la gamba si staccò. Ora poté legare l'arteria per pareggiare e
suturare i labbri della ferita. Peter aveva gli occhi vitrei per lo shock ed emet-
teva solo un rauco e interrotto ansimare.
Rob J. portò via la gamba avvolta in uno straccio logoro e bisunto per
poterla studiare più tardi nell'aula di dissezione. Era stravolto, più per la
consapevolezza della tortura subita da Peter che per l'estenuante fatica del-
l'amputazione. Non poteva fare nulla per i propri abiti macchiati di sangue, ma
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a una fontana pubblica di Broad Street si lavò accuratamente le mani e le
braccia, finché scomparve ogni traccia di sangue, prima di andare a visitare il
suo successivo paziente, una donna di ventidue anni che - Rob J. lo sapeva
bene - stava morendo di consunzione.

Quando erano a casa loro, nei loro quartieri, gli irlandesi vivevano in mise-
ria. Fuori del loro ambiente, erano diffamati. Rob J. continuava a vedere mani-
festi per le strade: Tutti i cattolici e tutti quelli che sostengono la Chiesa
cattolica sono vili impostori, bugiardi, canaglie e codardi tagliagole. UN
VERO AMERICANO.
Una volta la settimana Rob J. andava a sentire una conferenza di medicina,
nell'anfiteatro dell'Ateneo, al secondo piano di un edificio che era stato formato
congiungendo due stabili di Pearl Street. Talvolta dopo la conferenza andava a
sedersi in biblioteca e leggeva il Boston Evening Transcript, nei cui articoli si
rifletteva l'odio che divideva la comunità. Eminenti religiosi come il reverendo
Lyman Beecher, pastore della Chiesa congregazionalista di Hanover Street,
scrivevano un articolo dopo l'altro sul «meretricio di Babilonia» e sulla «sozza
bestia del cattolicesimo romano». I partiti politici esaltavano gli americani nati
in America e parlavano di «sporchi, ignoranti emigrati irlandesi e tedeschi».
Leggendo le notizie nazionali per imparare a conoscere l'America, Rob J. si
rendeva conto che era un Paese avido di possesso, sempre pronto ad
accaparrarsi terra senza alcuno scrupolo. Recentemente si era annesso il Texas,
aveva acquistato il territorio dell'Oregon mediante un trattato con la Gran
Bretagna, era entrato in guerra con il Messico per la California e le regioni
sudoccidentali del continente americano. La frontiera era segnata dal fiume
Mississippi, che divideva la civiltà dei bianchi dalle terre barbare in cui erano
stati cacciati gli indiani delle grandi praterie. Rob J., che nella sua adolescenza
aveva divorato i romanzi di James Fenimore Cooper, era affascinato dagli
indiani. Lesse tutto quello che la biblioteca dell'Ateneo aveva sull'argomento,
poi si volse alle opere poetiche di Oliver Wendell Holmes. Gli piacevano, e gli
piaceva soprattutto il ritratto del duro vecchio sopravvissuto in L'ultima foglia;
ma Harry Loomis aveva ragione, Holmes era meglio come medico che come
poeta. Era un medico straordinario.
Harry e Rob J. presero l'abitudine di terminare la loro lunga giornata con un
bicchiere di birra alla Essex Tavern, e spesso Holmes si univa a loro.
Evidentemente Harry era lo studente favorito del professore, e Rob J. faceva
fatica a non invidiarlo. La famiglia Loomis godeva di eccellenti relazioni
sociali: quando fosse venuto il momento, Harry avrebbe ottenuto i posti
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migliori all'ospedale, che gli avrebbero assicurato una brillante carriera medica.
Una sera, mentre bevevano le loro birre, Holmes osservò che, facendo certe
ricerche in biblioteca, aveva trovato riferimenti al "gozzo di Cole" e al "Colera
maligno di Cole". Incuriosito, aveva consultato la bibliografia e aveva trovato
ampie testimonianze dei contributi della famiglia Cole alla scienza medica,
compresa la "gotta di Cole" e la "sindrome di Cole e Palmer", una malattia in
cui l'edema era accompagnato da abbondanti sudorazioni e respirazione sterto-
rosa. «E inoltre» aggiunse «ho trovato che più di una dozzina di Cole sono stati
professori universitari di medicina o a Edimburgo o a Glasgow. Sono parenti
suoi?»
Rob J. sorrise, imbarazzato ma compiaciuto. «Tutti parenti. Ma per la mag-
gior parte i Cole, attraverso i secoli, sono stati semplici medici di provincia tra
le colline delle Lowlands, come mio padre.» Non disse nulla del Dono dei
Cole: non era cosa da discutere con altri medici, che lo avrebbero giudicato o
un po' tocco o bugiardo.
«Suo padre c'è ancora?» chiese Holmes.
«No. Ucciso da cavalli imbizzarriti quando io avevo dodici anni.»
«Ah!» Questo fu il momento in cui Holmes, malgrado la piccola differenza
di età fra loro, decise di assumersi un ruolo paterno, introducendo Rob J. nella
cerchia privilegiata delle grandi famiglie di Boston mediante un vantaggioso
matrimonio.
Ben presto, dopo quella serata, Rob J. fu invitato un paio di volte in casa di
Holmes, in Montgomery Street, dove ebbe la visione di uno stile di vita simile
a quello che un tempo aveva sperato per sé a Edimburgo. Al primo invito
Amelia, la vivace moglie del professore, che aveva la passione di combinare
matrimoni, lo presentò a Paula Storrow, la cui famiglia era antica e ricca, ma
che era una ragazza goffa e penosamente stupida. Ma al secondo invito a
pranzo Rob J. si trovò seduto accanto a Lydia Parkman. Era un po' troppo
magra e aveva il seno quasi piatto, ma sotto i morbidi capelli castani il suo viso
e i suoi occhi brillavano di beffarda malizia, e i due passarono la serata in una
conversazione spesso sarcastica su una vasta gamma di argomenti. Lydia
conosceva diverse cose sugli indiani, ma soprattutto parlarono di musica perché
lei suonava la spinetta.
Quella notte, quando Rob J. tornò alla sua stanza in Spring Street, sedette
sul suo giaciglio sotto il tetto riflettendo a quel che sarebbe stata la vita a
Boston per lui, collega e amico di Harry Loo-mis e Oliver Wendell Holmes,
sposato a una signora che incantava gli ospiti con la sua brillante conversazio-
ne.
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A un tratto vi fu alla porta il colpetto che ben conosceva e Meg Holland
entrò. Lei non era troppo magra, notò Rob J. salutandola con un sorriso e
cominciando a sbottonarsi la camicia, ma per una volta Meg rimase seduta sul
bordo del letto senza rispondere alle sue carezze.
Quando parlò, fu come un sussurro aspro, che lo colpì ancor più delle
parole. La sua voce era tesa e sorda, come il suono delle foglie secche spinte
dal vento su un duro terreno gelato.
«Beccata» annunciò.

Sogni

Rob J. non seppe trovar parole. La ragazza era già esperta quando era
venuta da lui, e lui aveva preso le sue precauzioni. Come poteva sapere che il
bambino era suo? Ho sempre messo il preservativo, protestò in silenzio fra sé.
Ma onestamente sapeva di non aver usato nessuna protezione le prime volte, e
neppure la notte in cui avevano provato il gas esilarante.
Rob J. si sentiva obbligato da tutta la sua educazione a condannare l'aborto,
e ora ebbe abbastanza sensibilità da non proporlo nemmeno, poiché sapeva che
la ragazza era profondamente religiosa.
Infine le disse che non l'avrebbe abbandonata. Lui non era Stanley Finch.
Meg non parve molto sollevata da questa sua dichiarazione. Rob J. si co-
strinse a prenderla fra le braccia e stringerla a sé. Voleva essere affettuoso, vo-
leva confortarla. E questo era proprio il momento meno opportuno per accor-
gersi che quel visetto da gatta in pochi anni sarebbe diventato decisamente
bovino. Non proprio il viso dei suoi sogni.
«Tu sei protestante.» Non era una domanda, perché Meg conosceva la
risposta.
«Sono stato educato così.»
Meg era una ragazza coraggiosa. I suoi occhi si riempirono per la prima
volta di lacrime solo quando Rob J. le disse che dubitava dell'esistenza di Dio.

«Vecchio seduttore, vecchia canaglia! Lydia Parkman è stata favorevol-


mente colpita dalla tua compagnia!» Così lo salutò Holmes la sera dopo alla
scuola medica, e sorrise quando Rob J. rispose che anche a lui era sembrata una
donna assai simpatica. Holmes aggiunse come per caso che suo padre, Stephen
Parkman, era giudice di corte d'assise e anche sovrintendente dell'Harvard
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College. I Parkman avevano cominciato come mercanti di pesce secco, poi
erano diventati mercanti di farina e ora controllavano un vasto e lucroso com-
mercio di generi alimentari in barile.
«Quando pensi di rivederla?» chiese Holmes.
«Presto, può starne sicuro» rispose Rob J., sentendosi in colpa, sforzandosi
invano di non pensarci.
Le idee di Holmes a proposito dell'igiene sanitaria avevano rivoluzionato
per Rob J. la pratica della medicina. Holmes gli aveva parlato di due casi che
confermavano le sue teorie. Uno riguardava la scrofola, una malattia tuber-
colare dei linfonodi: nell'Europa medievale si credeva che potesse essere curata
dal tocco delle mani del re. L'altro caso si riferiva all'antica pratica super-
stiziosa di lavare e fasciare le ferite dei soldati, e poi applicare unguenti - terri-
bili pomate composte di ingredienti quali carne putrefatta, sangue umano e
muffa prelevata dal teschio di un impiccato - all'arma che aveva inflitto la
ferita. Entrambi i metodi erano popolari e famosi, aggiunse Holmes, e avevano
successo perché, come effetto secondario, provvedevano alla pulizia del pa-
ziente. Nel primo caso infatti i malati di scrofola venivano accuratamente lavati
per evitare che i regali "guaritori" fossero disgustati quando dovevano toccarli.
Nel secondo caso l'arma veniva spalmata di orrende porcherie, ma le ferite dei
soldati, lavate e lasciate in pace, avevano la probabilità di guarire senza
infezione. Il magico "ingrediente segreto" era l'igiene.
Era estremamente difficile mantenere la necessaria pulizia clinica nel Di-
stretto Otto. Rob J. prese l'abitudine di portarsi asciugamani e sapone nella
borsa e si lavava le mani e puliva gli strumenti diverse volte al giorno; ma le
condizioni di miseria e ignoranza del quartiere congiuravano per farne una
zona dov'era facile ammalarsi e morire.
Cercò di impegnarsi con tutte le sue forze nella lotta quotidiana contro la
malattia, ma, quando rifletteva sulla sua situazione, si domandava se non stesse
lavorando alla propria rovina. In Scozia aveva gettato via la sua carriera e le
sue tradizioni familiari per il suo impegno politico, e ora in America si stava
rovinando per essersi impegolato in una disastrosa gravidanza. Margaret Hol-
land considerava le cose con una mentalità molto pratica: si informò sulle sue
possibilità finanziarie, e il misero introito annuale di trecentocinquanta dollari
di Rob J., invece di scoraggiarla, le sembrò soddisfacente. Cominciò anche a
fargli domande sulla sua famiglia.
«Mio padre è morto. Mia madre era già malaticcia quando lasciai la Scozia
e temo che ora... Ho un fratello, Herbert, che gestisce le proprietà di famiglia a
Kilmarnock. Allevatore di pecore. La proprietà è sua.»
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Meg annuì. «Io ho un fratello, Timothy, che vive a Belfast. È membro della
Giovane Irlanda, sempre nei guai.» La madre era morta; aveva un padre e
quattro fratelli in Irlanda, mentre un quinto fratello, Samuel, viveva a Boston
nella zona di Fort Hill. Chiese timidamente se poteva parlare di Rob al fratello
e pregarlo di guardarsi un po' in giro per trovargli un alloggio, magari nelle
vicinanze del suo.
«Non ancora. È ancora presto» si difese Rob J., e poi le accarezzò la guan-
cia per rassicurarla.
Era inorridito all'idea di abitare nel distretto. E tuttavia sapeva che, se
restava il medico dei poveri immigrati, solo in quei bassifondi sarebbe stato in
grado di mantenersi con una moglie e un bambino. La mattina dopo osservò il
distretto con paura oltre che con rabbia, e sentì crescere in sé una disperazione
molto simile a quella che vedeva ovunque nei vicoli e nei tuguri.

Cominciò a dormire male la notte, turbato da incubi. Due sogni ricorrenti lo


tormentavano e nelle notti peggiori lo assalivano entrambi. Quando non poteva
dormire, giaceva nel buio e ripercorreva le vicende di quei giorni, ancora e
ancora, fino a non saper più se dormiva o se era desto.

Prime ore del mattino. Tempo grigio ma con una promessa di sole. È in
piedi fra migliaia di uomini fuori dei cancelli delle Acciaierie Canon, che
fabbricano cannoni di grosso calibro per la Marina da guerra inglese. Un
uomo ritto su una cassa legge il manifesto che Rob J., restando anonimo, ha
scritto per spingere gli uomini alla dimostrazione. «Amici e compatrioti. Esa-
sperati dalle condizioni in cui siamo stati tenuti per tanti anni, noi siamo
costretti, dall'estrema miseria della nostra situazione e dal disprezzo con cui
le nostre richieste sono state accolte, ad affermare i nostri diritti a costo della
nostra vita.» L'uomo parla a voce alta, che talvolta si incrina rivelando la sua
paura. Quando finisce tutti applaudono. Tre cornamuse suonano. Gli uomini
riuniti cantano allegramente, dapprima degli inni, poi canzoni più gagliarde
che terminano con «Scots Wha' Hae Wi' Wallace Bled». Le autorità hanno
visto il manifesto di Rob e sono in stato di all'erta. Ci sono poliziotti armati, la
milizia civica, il primo battaglione della Brigata Fucilieri e ben addestrati
soldati di cavalleria del 7° e del 10° Ussari, veterani delle guerre europee. I
soldati portano uniformi sgargianti, gli stivali lucidissimi degli ussari brillano
come specchi. I soldati sono più giovani dei poliziotti, ma le loro facce espri-
mono un identico duro disprezzo. Il tumulto scoppia quando l'amico di Rob,
Andrew Gerould di Lamark, tiene un discorso sulla distruzione delle fattorie e
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l'impossibilità di vivere con il misero compenso dato per il loro lavoro, che
arricchisce l'Inghilterra e rende sempre più povera la Scozia. Via via che la
voce di Andrew si accalora, gli uomini cominciano a ruggire la loro rabbia e
a gridare «Libertà o morte!». I dragoni spronano in avanti i loro cavalli, re-
spingendo i dimostranti dalla cancellata che circonda le Acciaierie. Qualcuno
scaglia un sasso. Colpisce un ussaro, che cade di sella. Immediatamente gli
altri ussari sguainano le spade con un sinistro lampeggiare e una pioggia di
pietre cade sui soldati, macchiando di sangue le uniformi blu, rosse e dorate.
La milizia civica apre il fuoco sulla folla. Gli squadroni di cavalleria
caricano. Gli uomini urlano e piangono. Rob è bloccato in mezzo alla calca.
Non può fuggire. Può solo lasciarsi trascinare fuori della mischia, lottando
per restare in piedi, sapendo che, se cade, sarà calpestato dalla turba
terrorizzata, che corre...

Il secondo sogno è ancora peggiore.

Ancora in mezzo a un folto assembramento. Tanti quanti si erano radunati


alle Acciaierie, ma questa volta uomini e donne si accalcano davanti a otto
forche innalzate a Stirling Castle; la folla, trattenuta dalla milizia cittadina, si
stipa tutta intorno alla piazza. Un pastare, il reverendo Edward Bruce di
Renfrew, siede e legge in silenzio. Di fronte a lui è seduto un uomo vestito di
nero. Rob J. lo riconosce prima che quello si copra il viso con una maschera
nera: è un tale Bruce, studente povero della facoltà di medicina, che si guada-
gna quindici sterline come boia. Il reverendo Bruce intona il 130° salmo, che
la gente canta con lui: «Io ho gridato a te dall'abisso, o Signore». Ognuno dei
condannati riceve il regolamentare bicchiere di vino e poi è condotto sulla
piattaforma dove aspettano otto bare. Sei dei prigionieri hanno deciso di non
parlare. Uno, di nome Hardie, leva gli occhi a quel mare di facce e mormora
con voce spenta: «Muoio martire della causa della giustizia». Andrew
Gerould parla con voce chiara. Appare sfinito e più vecchio dei suoi ventitré
anni. «Amici miei, spero che nessuno di voi sia rimasto ferito. Dopo che tutto
sarà compiuto, vi prego, tornate tranquillamente alle vostre case e leggete la
Bibbia.» Qualcuno infila un cappuccio sulle loro teste. Due di loro gridano
addio mentre gli pongono il cappio al collo. Andrew non dice più nulla. A un
segnale l'esecuzione si compie e cinque muoiono senza dibattersi. Tre
scalciano per qualche minuto. Il Nuovo Testamento cade dalle mani inerti di
Andrew sulla folla che tace. Dopo che i corpi sono calati a terra, il boia con
una scure taglia le loro teste, una per una, e solleva per i capelli l'orribile
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cosa, gridando ogni volta come prescrive la legge: «Questa è la testa di un
traditore!»...

Talvolta, quando Rob J. usciva dall'incubo, restava sdraiato sul suo stretto
giaciglio sotto il tetto, toccandosi e tremando di sollievo al pensiero di essere
vivo. Fissando il buio, si domandava quanti uomini non erano più vivi perché
lui aveva scritto quel manifesto. Quanti destini erano cambiati, quante vite
erano state troncate perché lui aveva inculcato le sue convinzioni in tanti suoi
simili? La morale corrente diceva che per i principi valeva la pena di lottare,
valeva la pena di morire. Ma se si teneva conto di tutto il resto, la vita non era
forse l'unico prezioso bene che ogni essere umano possedeva? E, come medico,
non era egli forse impegnato a proteggere e salvare la vita sopra ogni cosa? E
giurava a se stesso e a Esculapio, padre della medicina, che mai più avrebbe
causato la morte di un essere umano per una divergenza di idee, né mai più
avrebbe percosso un altro in un impeto di collera e per la millesima volta si
domandava come aveva potuto quel Bruce guadagnarsi in quel modo orrendo
le sue quindici sterline.

Il colore del quadro

Non è denaro suo quello che spende!» lo investi Mr. Wilson una mattina,
consegnandogli il solito mazzetto di tagliandi. «È denaro donato al Dispensario
dai nostri primi cittadini. I fondi dell'Ente Assistenziale non devono essere
sprecati secondo il capriccio di ogni medico alle nostre dipendenze!»
«Non ho mai sprecato il denaro dell'Ente. Non ho mai scritto una ricetta
inutilmente né curato un paziente che non avesse un disperato bisogno del
nostro aiuto. Il vostro sistema è male impostato. Talvolta mi manda ad assistere
qualcuno che ha solo uno stiramento muscolare, mentre altri muoiono per man-
canza di cure.»
«Lei passa i limiti, signor mio!» Gli occhi e la voce di Mr. Wilson erano
calmi, ma la mano che teneva i tagliandi tremava. «La vuol capire che in futuro
deve limitare le sue visite ai nomi dei tagliandi che io le assegno ogni mat-
tina?»
Rob J. provò una voglia disperata di dire a Mr. Wilson che cosa capiva e
dove poteva mettersi i suoi tagliandi. Ma, pensando alla sua difficile situazione,
non osò. Si costrinse invece ad annuire e ad allontanarsi. Si infilò il mazzetto
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dei tagliandi in tasca e si avviò verso il Distretto.

Quella sera ogni cosa cambiò. Margaret Holland venne nella sua stanza e si
sedette sull'orlo del letto, il suo posto per gli annunci.
«Perdo sangue.»
Rob J. si costrinse a pensare anzitutto come medico. «È un'emorragia? Perdi
molto sangue?»
Lei scosse la testa. «In principio, un po' più del solito, poi come tutte le mie
mestruazioni normali. Quasi finito, adesso.»
«Quando è incominciato?»
«Quattro giorni fa.»
«Quattro giorni!» Perché aveva aspettato tanto a dirglielo? Meg non lo
guardava, sedeva perfettamente immobile, come per sottrarsi alla sua collera, e
Rob J. capì che in quei quattro giorni la ragazza non aveva fatto che lottare con
se stessa. «A momenti neanche me lo dicevi, vero?»
Lei non rispose, ma Rob J. comprese. Pur essendo uno straniero, un prote-
stante che si lavava le mani, lui era stato per la ragazza un'occasione per sfug-
gire infine alla prigione della sua miseria. Poiché era stato costretto a vedere da
vicino quella prigione e quella miseria, si meravigliava anzi che Meg avesse
avuto il coraggio di dirgli la verità; sicché, invece di andare in collera per quel
ritardo, provò un senso di ammirazione e di travolgente gratitudine. Le andò
vicino, la fece alzare, la baciò sugli occhi rossi di pianto. Poi la abbracciò e la
tenne stretta, battendole gentilmente sulle spalle, come a confortare un bam-
bino spaventato.
La mattina dopo si trovò a camminare spensierato, pervaso da un senso di
sollievo. Gli uomini e le donne sorridevano al suo saluto. Era un mondo nuovo,
un sole più radioso e un'aria più dolce da respirare.
Si dedicò ai suoi pazienti con il solito impegno, ma fra un caso e l'altro la
sua mente volava. Infine si sedette su una panchina di Broad Street a riflettere
sul passato, il presente e l'avvenire.
Per la seconda volta era sfuggito a una sorte terribile. Sentì che quello era
stato un avvertimento perché considerasse con più cura, con più rispetto la
propria esistenza.
Immaginava la sua vita come un grande quadro in lavorazione. Qualunque
cosa dovesse accadere, il quadro finito sarebbe stato quello di un medico; ma
sentiva che, se restava a Boston, quel quadro avrebbe mostrato solo sfumature
di grigio.
Amelia Holmes poteva combinare per lui quello che chiamava «un brillante
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connubio»; ma, essendo appena sfuggito a un matrimonio povero e senza
amore, Rob J. non aveva nessuna voglia di cercarne a sangue freddo uno ricco
e senza amore, né di lasciarsi vendere sul mercato matrimoniale di Boston,
carne di medico a un tanto il chilo.
Voleva che la sua vita fosse dipinta con i colori più brillanti che si potevano
trovare.
Quel pomeriggio, quando ebbe portato a termine il lavoro della giornata, si
recò alla biblioteca dell'Ateneo a rileggere i libri che lo avevano così profonda-
mente interessato. Molto prima di terminare la lettura, sapeva dove voleva
andare e che cosa voleva fare.

Quella notte, mentre era già sdraiato a letto, ci fu il piccolo segnale fami-
liare alla porta. Rob J. non si mosse e restò a fissare il buio in silenzio. Il
colpetto si ripeté una seconda volta, poi una terza.
Per diverse ragioni Rob J. avrebbe voluto alzarsi, andare alla porta e aprirla.
Ma rimase immobile, irrigidito in un momento non meno penoso di quelli dei
suoi incubi, e alla fine Margaret Holland se ne andò.

Gli ci volle più di un mese per fare i suoi preparativi e dimettersi dal
Dispensario di Boston. A mo' di pranzo d'addio, in una rigida sera di dicembre
lui, Holmes e Harry Loomis sezionarono il corpo di una schiava negra. Aveva
faticato nei campi per tutta la vita e il suo corpo aveva sviluppato una
considerevole muscolatura. Harry aveva dimostrato un vivo interesse e un vero
talento per l'anatomia e avrebbe sostituito Rob J. come docente alla Medical
School. Holmes teneva lezione mentre i due tagliavano e spiegava che l'orlo
fimbriato della tuba di Falloppio era «come la frangia dello scialle eli una
mendicante». Ogni organo, ogni muscolo ricordava a qualcuno di loro una
storiella, una poesia, un gioco di parole anatomico, uno scherzo scatologico.
Era un serio lavoro scientifico, lavoravano meticolosamente a ogni dettaglio,
eppure scoppiavano ogni tanto in allegre risate. Dopo la dissezione si rifugia-
rono tutti e tre alla Essex Tavern e bevvero vino caldo fino alla chiusura. Rob J.
promise di tenersi in contatto con Holmes e Harry quando fosse arrivato a una
stabile destinazione e di rivolgersi a loro se fosse sorto qualche problema. Si
separarono con tanta cordialità che Rob J. si pentì per un attimo della sua
decisione.
La mattina dopo scese in Washington Street e comprò una manciata di
castagne arrosto, avvolte in un cartoccio fatto con un foglio del Boston Tran-
script. Si infilò furtivamente nella stanza di Meg Holland e le lasciò sotto il suo
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guanciale.
Subito dopo mezzogiorno saliva su un treno e abbandonava la città di
Boston al fischio della locomotiva a vapore. Il controllore che venne a bucare i
biglietti gettò uno sguardo di sbieco al suo bagaglio, perché Rob si era rifiutato
di depositare la sua viola da gamba e la sua valigia nel bagagliaio. Oltre agli
abiti e agli strumenti chirurgici, la valigia ora conteneva il Vecchio Corno e
una mezza dozzina di pezzi di sapone da bucato, dello stesso tipo che usava
Holmes. Così, benché avesse poco denaro in tasca, lasciava Boston più ricco di
quando era arrivato.
Mancavano quattro giorni a Natale. Il treno correva tra file di case dalle por-
te decorate di ghirlande, dietro le cui finestre si intravedevano gli alberi di
Natale. Ben presto si lasciarono alle spalle la città e in meno di tre ore arriva-
rono a Worcester, dove terminava la ferrovia di Boston. I passeggeri dovevano
cambiare e prendere il treno della Ferrovia Occidentale. Nel nuovo vagone Rob
J. si trovò seduto vicino a un uomo corpulento, che subito gli offrì una bottiglia
di brandy.
«No, grazie» fece Rob J., ma accettò di conversare con lui perché il rifiuto
non risultasse offensivo. L'uomo era un viaggiatore di commercio e trattava
chiodi di ferro - ganci, ribattini, bulloni, chiodi a diamante e borchie, in misure
che andavano dai sottili chiodi ad ago fino ai grossi chiodi da barca - e mostrò
a Rob J. il suo campionario, un buon modo per far passare il tempo durante il
lungo viaggio.
«Io vado all'Ovest! Io vado all'Ovest!» annunciò il commerciante. «E lei?»
Rob J. annuì. «Fin dove va?»
«Fin quasi ai confini dello Stato. A Pittsfield. E lei, signore?»
Gli diede un'insolita soddisfazione rispondere, tanto che sorrise e si tratten-
ne dal gridarlo a tutti, e gli parve che le parole suonassero una loro musica e
diffondessero una sottile, romantica luce in ogni angolo del traballante vagone.
«Nella terra degli indiani.»

Musica

Rob J. viaggiò attraverso il Massachusetts e lo Stato di New York utilizzan-


do una serie di brevi tronchi ferroviari collegati da servizi di diligenza. Era
duro viaggiare d'inverno. A volte la corriera doveva fermarsi in attesa che gli
spartineve tirati da buoi, talvolta dieci o dodici addirittura, sgombrassero i
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cumuli di neve o spianassero la strada con grandi cilindri di legno. Le taverne e
le locande erano costose e un bel giorno, quando si trovava in mezzo alle
foreste negli altipiani degli Allegheny, in Pennsylvania, dovette constatare che
il suo denaro era finito. Ebbe la fortuna di trovare lavoro nel campo di dibo-
scamento di Jacob Starr per prestare assistenza medica ai tagliaboschi. Quando
capitava un incidente, era perlopiù una cosa seria, ma tra un incidente e l'altro
non c'era molto da fare per un medico e Rob si trovava dell'altro lavoro unen-
dosi ai boscaioli nell'abbattere pini strobi ed enormi tsughe che avevano più di
duecentocinquanta anni di vita. Di solito manovrava un'estremità di una sega a
due. Il suo corpo si irrobusti e i suoi muscoli si indurirono. Molti campi di
diboscamento non avevano un medico e i tagliaboschi, che sapevano quanto
fosse prezioso per loro, lo proteggevano quando partecipava al loro pericoloso
lavoro. Gli insegnarono a immergere le mani sanguinanti nell'acqua e sale per
indurirle. La sera, nella baracca del campo, faceva giochi di destrezza con le
dita, divenute callose, in modo da mantenerle agili per il suo lavoro di chirurgo,
e suonava per i tagliaboschi la sua viola da gamba accompagnando le loro
rauche canzoni e alternandole a pezzi di J. S. Bach e Marais, che quei duri
lavoratori ascoltavano rapiti.
Per tutto l'inverno accumularono enormi tronchi sulle rive di un corso
d'acqua. Sul manico di ogni scure, c'era una grande stella di acciaio a cinque
punte in rilievo. Ogni volta che un albero veniva abbattuto e sfrondato, gli uo-
mini impugnavano le loro scuri alla rovescia e con un gran colpo imprimevano
il segno della stella nel tronco appena tagliato, marcandolo come proprietà di
Jacob Starr. Quando venne il disgelo primaverile, il livello del torrente si alzò
di due metri e mezzo, trasportando i tronchi fino al fiume Clarion. I tronchi
vennero assemblati a formare enormi zattere, su cui gli uomini costruirono ba-
racche, cucine e capanni per conservarvi i viveri. Rob J. si imbarcò su una
zattera e navigò a valle come un principe, un lento viaggio che pareva un so-
gno, interrotto solo quando i tronchi si impigliavano e si accavallavano e gli
uomini con abilità e pazienza correvano a districarli. In quei giorni vide le più
svariate specie di uccelli e di altri animali, mentre scendeva portato dalla cor-
rente del sinuose Clarion fino alla sua confluenza con l'Allegheny; quindi,
sempre a bordo dei tronchi, proseguì il viaggio sull'Allegheny fino a Pitt-
sburgh.
A Pittsburgh disse addio a Jacob Starr e ai suoi tagliaboschi. In un saloon fu
assunto come medico di una squadra di operai addetti alla posa dei binari della
Ferrovia Washington & Ohio, un'impresa che intendeva fare concorrenza ai
due sovraffollati canali dello Stato. Assieme alla squadra fu trasferito nell'Ohio,
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ai margini di una grande piana tagliata da due lucenti binari, e fu alloggiato
insieme con i dirigenti su quattro vagoni ferroviari. La primavera sulla grande
pianura era splendida, ma il mondo della Washington & Ohio era un brutto
mondo. I posatori, gli sterratori e i cavallari erano immigrati irlandesi e tede-
schi, la cui vita era considerata come mercé a buon mercato. Rob J. aveva il
compito di assicurarsi che impiegassero fino all'ultima oncia delle loro forze a
posare i binari. Gli veniva comodo il salario, ma il posto era destinato a non
durare perché il sovrintendente, un tipo dalla faccia scura di nome Cotting, era
un sudicio individuo che non aveva nessuna intenzione di spendere denaro per
il cibo. La ferrovia aveva assunto dei cacciatori che portavano al campo una
quantità di selvaggina e c'era un infuso di cicoria che facevano passare per
caffè. Ma, tranne che alla tavola dei dirigenti, a cui sedevano anche Cotting e
Rob J., non c'era nessun tipo di verdure, né cavoli né carote né patate, nulla che
potesse fornire all'organismo acido ascorbico se non, come rara leccornia, una
scodella di fagioli. Gli uomini si ammalavano di scorbuto. Benché anemici,
non avevano appetito. Le loro articolazioni si infiammavano, le gengive san-
guinavano, i loro denti cadevano e le loro ferite non volevano guarire. Erano
letteralmente assassinati dalla malnutrizione e dal duro lavoro. Un bel giorno
Rob J. scassinò con un piede di porco il vagone dispensa e distribuì agli operai
le casse di cavoli e di patate, finché tutte le riserve di cibo destinate ai gestori
furono esaurite. Fortunatamente Cotting non sapeva che il suo giovane medico
aveva fatto voto di non violenza. La statura e la muscolatura di Rob J., e il
freddo disprezzo nei suoi occhi, indussero il sovrintendente a decidere che era
più facile pagarlo e liberarsi di lui che affrontare uno scontro.
Con il suo lavoro alla ferrovia Rob J. aveva guadagnato appena a suffi-
cienza per comprare una vecchia e lenta cavalla, un fucile usato calibro .12 ad
avancarica e un piccolo fucile da caccia per prendere la selvaggina minuta, aghi
e filo, una canna da pesca e gli ami, una padella di ferro un po' arrugginita e un
coltello da caccia. Diede alla cavalla il nome di Monica Grenville, in onore di
una bella donna matura, madre di un suo amico, che per anni, nelle febbrili
fantasie dell'adolescenza, aveva sognato di possedere. Monica Grenville, la
cavalla, gli consentì di compiere il viaggio verso l'Ovest secondo i suoi propri
ritmi. Rob abbatteva facilmente la selvaggina, dopo aver scoperto che il fucile
tirava a destra, e pescava se gli si offriva l'occasione, e guadagnava denaro, o
compensi in natura, quando incontrava gente che aveva bisogno di un medico.
L'immensità del Paese non finiva mai di stupirlo: montagne e vallate e
pianure. Dopo qualche settimana si convinse che poteva continuare a cavalcare
per tutta la vita in sella a Monica Grenville, puntando in direzione del sole al
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tramonto.
Ben presto si accorse che la sua piccola scorta di medicinali era finita. Era
già difficile eseguire un intervento chirurgico con l'aiuto di quei pochi e inade-
guati palliativi che erano allora disponibili, ma Rob J. non aveva né laudano né
morfina né alcun'altra droga e doveva basarsi sulla sua sveltezza e su qualche
bottiglia di pessimo whisky che poteva comprare lungo la strada. Fergusson gli
aveva insegnato alcuni utili espedienti, che ora ricordava bene. Se non aveva
tintura di nicotina da somministrare per bocca come rilassante per ridurre la
tensione dello sfintere anale durante un'operazione di fistola, comprava i più
forti sigari che poteva trovare e li inseriva nel retto del paziente finché i tessuti
assorbivano la nicotina dal tabacco e si verificava la distensione. Una volta a
Titusville, Ohio, un anziano cittadino capitò per caso dove Kob J. stava assi-
stendo un paziente piegato sulla stanga di un carro, con il sigaro sporgente
dall'ano.
«Ha un fiammifero, per favore, signore?» gli chiese Rob J. serio serio.
Qualche ora dopo, all'emporio, sentì il vecchio raccontare solennemente agli
amici: «Non potreste mai immaginare come li fumano, quelli!».
In una taverna a Zanesville vide il suo primo indiano. Fu un'amara delusio-
ne. Ben diverso dagli splendidi selvaggi di James Penimore Cooper, l'uomo era
un povero ubriacone piagnucoloso con la faccia sporca di muco, che si lasciava
coprire di insulti mentre mendicava un bicchiere di whisky.
«Delaware, credo» rispose il barista quando Rob J. gli chiese di che tribù
fosse l'indiano. «Miami, forse. O Shawnee.» Alzò sprezzantemente le spalle.
«E che importa? Questi miserabili bastardi per me sono tutti uguali.»
Qualche giorno dopo, a Columbus, Rob J. incontrò un giovane robusto
ebreo dalla barba nera, Jason Maxwell Geiger, un farmacista con una bottega
ben fornita.
«Ha del laudano? Tintura di nicotina? Ioduro di potassio?» Qualunque cosa
Rob J. chiedesse, il farmacista assentiva con un sorriso e Rob J. si aggirava
tutto felice tra fiale e alambicchi. I prezzi erano più bassi di quanto aveva temu-
to perché, spiegò Geiger, suo padre e i suoi fratelli erano produttori farma-
ceutici a Charleston, e quando non era in grado di preparare egli stesso un
farmaco, poteva ordinarlo a condizioni favorevoli ai suoi familiari. Così Rob J.
poté farsi una buona provvista. Mentre aiutava il cliente a caricare i suoi
acquisti sulla cavalla, il farmacista vide lo strumento musicale avvolto in una
coperta e si volse vivacemente a lui: «È una viola?».
«Una viola da gamba» rispose Rob J. e scorse un'espressione nuova affio-
rare negli occhi dell'altro, un desiderio così vivo che non poteva ignorarlo. «Le
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piacerebbe vederla?»
«Deve portarla in casa mia, mostrarla a mia moglie» lo pregò Geiger e lo
guidò al suo alloggio, che si trovava dietro la farmacia.
Quando entrarono, Lillian Geiger si portò un tovagliolo al petto, ma Rob J.
aveva già intravisto sul corpetto le macchie del latte che spillava dai seni. In
una culla dormiva la loro bambina di due mesi, Rachel. La casa odorava del
latte di Mrs. Geiger e di challah fresco di forno. Il salotto, tenuto in penombra,
era arredato con un divano e una poltrona imbottiti di crine di cavallo e con un
piccolo pianoforte. La donna scivolò nella stanza da letto per cambiarsi d'abito,
mentre Rob J. toglieva la viola dal suo fodero, poi lei e il marito esaminarono
lo strumento, facendo scorrere le dita sulle sette corde e sui dieci tasti, come se
sfiorassero un'icona di famiglia appena ritrovata. Lillian gli mostrò il suo
pianoforte, con la sua scura cassa di noce accuratamente oliata. «Fabbricato da
Alpheus Babcock di Philadelphia» spiegò. Jason Geiger trasse da dietro il
piano un altro strumento. «Questo è stato fatto da un fabbricante di birra, Isaac
Schwartz, che vive a Richmond, Virginia. È poco più di un giocattolo, non ho
neppure il coraggio di chiamarlo violino. Un giorno spero di averne uno vero.»
Ma un momento dopo, mentre lo accordava, Geiger trasse dolci suoni dal suo
strumento.
I tre si guardarono dubbiosi, temendo di non essere in grado di suonare
insieme.
«Che cosa proviamo?» chiese Geiger, cedendo l'iniziativa all'ospite.
«Bach? Conoscete questo preludio del Clavicembalo ben temperato? Libro
II, ma non ricordo il numero.» Suonò le prime battute e subito Lillian Geiger si
uni a lui, e così fece il marito, annuendo. «Il numero dodici» mormorò Lillian.
Risultò subito che i due coniugi erano ottimi suonatori, abituati ad accompa-
gnarsi l'un l'altro, e Rob J. temette di fare una magra figura. Mentre la loro mu-
sica progrediva fluida e sicura, la sua seguiva fuori tempo e a scatti. Le sue
dita, invece di volare sulle ali dell'armonia, pareva facessero balzi spastici,
come salmoni che si dibattessero per risalire la corrente. Ma a metà del pre-
ludio Rob dimenticò le sue paure, e la capacità acquisita in lunghi anni di stu-
dio vinse infine la goffaggine causata dalla mancanza di esercizio. Osservò che
Geiger suonava con gli occhi chiusi, mentre il viso di sua moglie aveva
un'espressione di intenso piacere, che era insieme comunicazione e assorta
intimità.
La soddisfazione era così intensa da essere quasi una sofferenza. Rob J. non
si era reso conto di quanto gli mancasse la musica. Quando ebbero finito,
rimasero qualche istante in silenzio, sorridendosi l'un l'altro. Poi Geiger corse a
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porre il cartello di "chiuso" sulla porta del negozio, Lillian andò a dare un'oc-
chiata alla piccola e a porre un arrosto nel forno, Rob J. tolse la sella alla
povera, paziente Monica e le diede da mangiare. Quando si ritrovarono insie-
me, risultò che i Geiger non conoscevano nulla di Marin Marais, mentre Rob J.
non sapeva a memoria nessuna delle opere di quel compositore polacco, Cho-
pin. In compenso tutti e tre conoscevano Beethoven. Tutto quel pomeriggio
vissero in un luminoso mondo nuovo, creato dalla loro musica. Quando i vagiti
della bambina affamata li interruppero, erano ebbri dell'esaltante bellezza dei
loro suoni.
Il farmacista non volle lasciarlo partire. Rob J. sedette con loro a cena:
tenero agnello profumato di aglio e rosmarino, arrostito con carotine e patate
novelle, e alla fine composta di mirtilli. «Dormirà nella stanza degli ospiti»
decise Geiger.
Rob J. si sentiva così attratto dai due coniugi che chiese a Geiger se in zona
ci fossero possibilità di lavoro per un medico.
«Il posto è molto popoloso, poiché Columbus è la capitale dello Stato. E ci
sono già in attività un buon numero di medici. È un buon posto per una farma-
cia, ma noi progettiamo di andarcene appena la bambina sarà abbastanza gran-
de da affrontare il viaggio. Io voglio fare il coltivatore, oltre che il farmacista, e
voglio della terra da lasciare ai miei figli. Nell'Ohio la terra coltivabile ha
prezzi troppo alti: ho già fatto uno studio sulle regioni in cui potrò comprare
terra fertile alla portata dei miei mezzi.»
Aprì sul tavolo alcune carte geografiche. «Illinois» aggiunse, e indicò a Rob
J. quella parte dello Stato che dalle sue ricerche risultava più desiderabile, una
zona fra il Rock River e il Mississippi. «Acqua abbondante. Bei boschi lungo il
fiume. E il resto prateria, buona terra nera che non ha mai sentito l'aratro.»
Rob J. studiò le carte. «Forse dovrei andarci anch'io» disse finalmente. «Per
vedere se mi piace.»
Geiger sorrise. Rimasero a lungo curvi sulle carte, segnando gli itinerari
migliori, conversando cordialmente. Quando Rob andò a coricarsi, Jay Geiger
rimase desto a lungo e alla luce delle candele copiò la musica di una mazurca
di Chopin. La suonarono la mattina dopo, insieme, dopo aver fatto colazione.
Poi i due uomini consultarono ancora una volta la carta geografica e Rob J.
affermò che, se la terra dell'Illinois risultava buona come diceva Geiger, vi si
sarebbe stabilito e avrebbe scritto subito al suo nuovo amico di partire con la
sua famiglia per la frontiera dell'Ovest.

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9

Due lotti di terreno

L'Illinois risultò una regione interessante fin dall'inizio. Si era sul finire
dell'estate e il manto erboso della prateria era secco e scolorito per le lunghe
giornate di sole. A Danville Rob osservò uomini che bollivano l'acqua delle
fonti salate in grandi caldaie nere, e quando ripartì portava con sé un sacchetto
di sale purissimo. L'immensa prateria ondulata si alzava di tratto in tratto in
modeste colline. La regione era ricca di acqua dolce. Rob J. incontrò solo pochi
laghi, ma numerosi acquitrini alimentavano ruscelli che poi si immettevano in
grandi fiumi. Apprese che, quando nell'Illinois la gente parlava della «terra tra i
fiumi», perlopiù intendeva quella regione meridionale che stava tra il Missis-
sippi e l'Ohio: un ricco e profondo terreno alluvionale fra i due grandi corsi
d'acqua. La chiamava anche «Egitto» pensando che fosse fertile come il leg-
gendario suolo del delta del Nilo. Studiando la carta geografica di Jay Geiger,
Rob J. constatò che nell'Illinois vi era un gran numero di "piccoli Egitti", terre
tra i fiumi. Durante il loro breve incontro Geiger si era guadagnato tutta la sua
fiducia, e così Rob J. continuava a viaggiare verso la regione che, secondo il
farmacista, offriva le più favorevoli condizioni di insediamento.
Gli occorsero due settimane di viaggio per attraversare l'Illinois. Il quattor-
dicesimo giorno la pista che stava seguendo entrò in una zona boscosa, che gli
offrì una gradevole frescura e l'aroma di erbe umide. Seguendo lo stretto
sentiero, udì un rumore d'acque, e infine sboccò sulla riva orientale di un largo
fiume, che pensò fosse il Rock.
Era la stagione secca, ma la corrente era forte e i grandi scogli che davano al
fiume il suo nome la facevano biancheggiare di schiuma. Guidando Monica a
passo lento lungo la sponda, Rob J. cercava di scoprire un punto che fosse
guadabile quando arrivò a un tratto dove il fiume era più profondo e più lento.
Fra due enormi tronchi d'albero, sulle due rive del fiume, era tesa una grossa
fune. Da un ramo pendeva un triangolo di ferro e un batacchio d'acciaio, ac-
canto a un'insegna che diceva:

HOLDEN'S CROSSING
Suonare per il traghetto

Rob J. batté sul triangolo vigorosamente e, gli parve, a lungo prima di scor-
gere un uomo che se ne veniva tranquillamente lungo la riva opposta, dirigen-
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dosi là dove era ormeggiata una chiatta. Due robusti pali verticali fissati sulla
chiatta terminavano in due grossi anelli di ferro, attraverso i quali passava la
fune sospesa, consentendo così alla chiatta spinta da una lunga pertica, di
scivolare lungo la fune da una riva all'altra. Quando la chiatta arrivò verso il
centro del fiume, la corrente aveva spinto la fune a valle, sicché il traghettatore
dovette percorrere un arco invece che una linea diritta. Al centro le acque,
scure e lisce, erano troppo profonde perché l'uomo potesse spingere con la
pertica, ed egli quindi fece avanzare lentamente la zattera tirando la fune a
forza di braccia. Cantava con voce baritonale che arrivava chiaramente all'orec-
chio di Rob J.

Un giorno camminavo e udii un lamento,


e vidi una vecchia, il ritratto della miseria.
Guardava il fango sulla soglia (pioveva)
e così cantava menando la scopa.

Oh, la vita è una pena e l'amore un guaio,


la bellezza avvizzisce e la ricchezza si perde,
i piaceri calano e i prezzi raddoppiano,
e nulla è come io vorrei che fosse...

Le strofe erano molte, e, assai prima che finissero, il traghettatore poté


ricominciare a manovrare la pertica. Quando la chiatta si avvicinò, Rob J. riuscì
a vedere un uomo robusto, forse sui trent'anni, più basso e tarchiato di lui, che
pareva nativo del luogo: portava grossi stivali, pantaloni marrone di mezzalana
che erano troppo pesanti per la stagione, una camicia blu di cotone con un gran
bavero e un cappello di cuoio a larghe falde, macchiato di sudore. Aveva folti
capelli neri che portava lunghi e una gran barba nera: gli zigomi prominenti ai
due lati del naso adunco e sottile avrebbero potuto dare un'aria crudele alla sua
faccia, se non fosse stato per gli occhi azzurri che erano allegri e cordiali. Via
via che si faceva più vicino, Rob J. provava un senso di diffidenza, quasi in-
tuisse in lui qualcosa di falso, come capita talvolta vedendo una donna troppo
bella o un uomo troppo elegante. Ma non pareva ci fosse nulla di falso nel
traghettatore.
«Salve!» gridò. «Come va?» Una spinta finale della pertica mandò la chiatta
ad arenarsi scricchiolando sulla riva sabbiosa. Tese la mano. «Nicholas Holden,
al suo servizio.»

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Rob J. gli strinse la mano e si presentò. Holden aveva tirato fuori della tasca
della camicia una scura tavoletta di tabacco da masticare. Ne tagliò un pezzo
con il coltello per sé, quindi ne offrì a Rob J., che scosse la testa. «Quanto per
la traversata?»
«Tre cent per lei, dieci per il cavallo.»
Rob J. pagò i tredici cent in anticipo e legò Monica ad alcuni anelli fissati al
pavimento per questo scopo. Holden gli diede una seconda pertica e i due si
diedero la voce e piegarono la schiena al lavoro.
«Pensa di sistemarsi da queste parti?»
«Forse» fece Rob J. cautamente.
«Lei non è un maniscalco, per caso?» Holden aveva gli occhi più azzurri
che Rob J. avesse mai visto in un uomo, e che sarebbero parsi effeminati se non
fosse stato per lo sguardo penetrante e un po' sarcastico, e come segretamente
divertito. Non parve sorpreso quando Rob J. scosse la testa. «Peccato, mi pia-
cerebbe trovare un buon maniscalco. Un coltivatore, allora?»
Mostrò un rumoroso entusiasmo quando Rob J. gli disse che era medico.
«Tre volte benvenuto, e ancora benvenuto. Abbiamo un gran bisogno di un me-
dico qui nella città di Holden's Crossing. Un medico può fare la traversata
gratis!»
Cessò di manovrare la pertica per tirar fuori di tasca tre cent e contarli
solennemente nella palma di Rob J.
Rob J. guardò le monetine. «E gli altri dieci?»
«Merda, non credo che il cavallo sia un medico!» Sogghignò, e il sogghigno
lo fece sembrare brutto.

Holden aveva una minuscola casetta di tronchi squadrati con le fessure


riempite di argilla bianca, arricchita di un orticello e una sorgente, in vetta a
un'altura che guardava sul fiume. «Giusto in tempo per il pranzo» annunciò e
dopo poco entrambi gustavano un fragrante stufato in cui Rob J. riconobbe
rape, cavoli e cipolle, ma quanto alla carne non riusciva a capire che cosa fosse.
«Mi sono procurato questa mattina una vecchia lepre e un giovane gallo delle
praterie, e sono appunto li dentro» spiegò Holden.
Si riempirono di nuovo le scodelle di legno, conversando. Parlavano ognuno
di sé, in modo da creare un'atmosfera di cordialità. Holden era un avvocato di
campagna e veniva dal Connecticut. Aveva grandi progetti.
«Come mai hanno dato alla città il suo nome?»
«Non loro, io l'ho dato» replicò affabilmente Holden. «Io sono arrivato per
primo e ho impiantato il traghetto. Quando qualcuno arriva per stabilirsi qui,
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gli dico il nome della città. Nessuno ha ancora fatto obiezioni.»
Secondo il giudizio di Rob J., la casetta di tronchi di Holden non era
neanche lontanamente paragonabile a un lindo e accogliente cottage scozzese.
Era buia, l'aria era viziata. Il letto, troppo vicino al fumoso caminetto, era
coperto di fuliggine. Holden gli disse allegramente che l'unica cosa buona, di
quella sua tana, era il terreno su cui sorgeva: entro un anno la capanna sarebbe
stata demolita e al suo posto sarebbe sorta una bella casa. «Sissignore, io ho
grandi progetti» e raccontava di tutto quello che ben presto sarebbe venuto, una
locanda, un emporio, e infine una banca. Non celava il suo desiderio di convin-
cere Rob J. a stabilirsi a Holden's Crossing.
«Quante famiglie vivono qui, ora?» chiese Rob J., e sorrise con rammarico
alla risposta. «Un medico non può guadagnarsi il pane curando solo sedici
famiglie.»
«Be', naturalmente no. Ma devono arrivare sciami di emigranti, si butteran-
no qui come le mosche sul miele. E quelle sedici famiglie vivono in città. Fuori
dei confini della città non c'è nessun medico da qui fino a Rock Island, e ci so-
no un sacco di fattorie sparse nella pianura. Basta che lei si procuri un cavallo
migliore e abbia voglia di viaggiare un po' per fare le visite a domicilio.»
Rob J. ricordò come si era sentito frustrato di non poter praticare seriamente
la sua professione fra la densa e brulicante popolazione del Distretto Otto. Ma
questa era la situazione opposta. Rispose a Nick Holden che ci avrebbe dormito
sopra.
Quella notte dormì nella capanna, sul pavimento, avvolto in una trapunta,
mentre Nick Holden nel letto russava sonoramente. Ma questo non era troppo
penoso per uno che aveva passato l'inverno in una baracca con diciannove
tagliaboschi che ruttavano e scoreggiavano. Al mattino Holden cucinò la cola-
zione, ma lasciò Rob J. a lavare i piatti e le padelle, dicendo che aveva qualco-
sa da fare e che sarebbe tornato presto.
Era una giornata limpida e fresca e il sole già scottava; Rob J. tirò fuori la
sua viola da gamba e sedette su un masso all'ombra, fra la capanna e il margine
del bosco. Stese sul sasso accanto a lui la copia della mazurca di Chopin che
Jay Geiger aveva trascritto per lui e con diligente impegno cominciò a suonare.
Per quasi una mezz'ora studiò il ritmo e la melodia, finché cominciò a essere
vera musica. Alzando gli occhi dalla pagina, guardò verso il bosco e vide due
indiani a cavallo che lo osservavano dall'orlo della radura.
Ne fu allarmato, perché le due figure gli ricordavano le descrizioni di James
Fenimore Cooper: uomini dalle guance incavate e il torace nudo, che appariva
asciutto e muscoloso, lucente per qualche specie di olio di cui era spalmato.
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Quello più vicino a Rob J. indossava calzoni di pelle di daino e aveva un gran
naso adunco. Il cranio completamente rasato era diviso a metà da un vistoso
ciuffo di peli di animale, rigidi e ispidi. Aveva con sé un fucile. Il suo com-
pagno era un uomo di statura imponente, alto come Rob J. ma più robusto.
Aveva lunghi capelli neri trattenuti sulla fronte da una banda di pelle e portava
un perizoma e gambali di cuoio. Era armato di arco e frecce e Rob J. riconobbe
la faretra appesa alla sella del cavallo, proprio come in una illustrazione di un
libro sugli indiani che aveva letto in biblioteca a Boston.
Non poteva sapere se dietro di loro, nei boschi, ce n'erano altri. Se le loro
intenzioni erano ostili, lui era perduto, perché la viola da gamba è un'arma ben
poco efficace in uno scontro. Gli venne in mente che forse era meglio conti-
nuare a suonare, e rimise l'archetto sulle corde, ma non per riprendere la
mazurca di Chopin: non voleva distogliere gli occhi dai due indiani per leggere
la musica. Senza pensarci, attaccò un pezzo del XVII secolo che conosceva
bene: Cara la vita mia di Orazio Bassani. Lo suonò tutto, e poi ricominciando
daccapo ne suonò ancora metà. Infine si fermò, perché non poteva restare li
seduto a suonare in eterno.
Alle sue spalle sentì un fruscìo. Si girò di scatto e vide guizzar via uno
scoiattolo rosso. Quando tornò a voltarsi, si sentì insieme enormemente solle-
vato e pieno di rimpianto. I due indiani erano scomparsi. Per un attimo credette
di sentire i loro cavalli che si allontanavano, poi l'unico suono fu il sussurrare
del vento fra i rami degli alberi.
Nick Holden cercò di non mostrare quanto era preoccupato quando tornò e
fu informato della comparsa degli indiani. Fece un rapido giro d'ispezione, ma
riferì che gli sembrava che non mancasse nulla.
«Gli indiani qui intorno erano Sauk. Furono spinti al di là del Mississippi,
nello Iowa, nove o dieci anni fa, in seguito agli scontri che la gente chiama la
guerra di Falco Nero. Qualche anno fa tutti i Sauk che erano ancora vivi furono
trasferiti in una riserva nel Kansas. Il mese scorso abbiamo sentito dire che una
quarantina di guerrieri con le mogli e i figli erano fuggiti dalla riserva e girava
voce che si dirigessero verso l'Illinois. Dubito che siano così stupidi da venire a
molestarci. Sono solo un pugno di disperati. Probabilmente sperano solo che
noi li lasciamo in pace.»
Rob J. annuì. «Se volevano attaccarmi, avrebbero potuto farlo facilmente.»
Nick era ansioso di abbandonare ogni argomento che potesse gettare ombra
sulla sua Holden's Crossing. Aveva passato la mattinata a esaminare il terreno e
aveva individuato quattro buoni lotti, disse. Voleva mostrarli al dottore, e,
dietro le sue insistenze, Rob J. sellò la cavalla.
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La terra era di proprietà del governo. Mentre cavalcavano, Nick spiegò che
era stata divisa dagli ispettori federali in lotti di circa 32 ettari. La proprietà
privata si vendeva a 8 dollari e più per ettaro, ma le terre demaniali costavano
molto meno: un lotto di 32 ettari per cento dollari. Il venti per cento del prezzo
doveva essere versato subito per ottenere la proprietà della terra, e il venti-
cinque per cento entro quaranta giorni. Il resto doveva essere pagato in tre rate
uguali alla fine del secondo, terzo e quarto anno dall'entrata in possesso. Nick
affermò che era la miglior terra che si potesse trovare per impiantarvi una
fattoria, e quando ci arrivarono Kob J. dovette ammettere che era vero. I lotti si
succedevano per quasi un chilometro e mezzo lungo la riva del fiume e
presentavano un forte margine di bosco rivierasco ricco di diverse sorgenti
d'acqua pura e di legname da costruzione. Al di là dei boschi si stendeva la
fertile promessa della pianura che non conosceva ancora l'aratro.
«Ecco il mio consiglio» diceva Holden. «Io non considererei questa terra
come quattro lotti di 32 ettari, ma come due lotti di 64 ettari. In questo mo-
mento il governo consente ai coloni di comprare fino a due lotti, e questo è
quello che farei io, se fossi in lei.»
Rob J. fece una smorfia e scosse la testa. «È una buona terra. Ma il fatto è
che io non ho i cinquanta dollari necessari.»
Nick Holden lo guardò pensieroso. «Il mio avvenire è legato all'avvenire di
questa città. Se posso attirare coloni, sarò il proprietario dell'emporio, il pro-
prietario del mulino, il proprietario della locanda. I coloni fioccheranno dove
c'è un dottore. Per me è come mettere denaro in banca se lei si stabilisce a
Holden's Crossing. Le banche prestano denaro al tasso annuale del due e mezzo
per cento. Io le posso prestare cinquanta dollari all'uno e mezzo per cento da
restituire in otto anni.»
Rob J. si guardò intorno, trasse un sospiro. Era una buona terra. Il posto gli
piaceva a tal punto che dovette lottare per controllare la voce quando accettò
l'offerta. Nick gli strinse caldamente la mano e mise a tacere i suoi ringrazia-
menti: «Per me è solo un buon affare». Cavalcarono lentamente per la proprie-
tà. Il doppio lotto situato più a sud era in fondovalle, praticamente pianeg-
giante. La parte a nord era ondulata con diversi corrugamenti che si potevano
quasi chiamare basse colline.
«Io prenderei i due lotti a sud» consigliò Holden. «Il terreno è migliore e
più facile da arare.»
Ma Rob J. aveva già deciso di scegliere la zona a nord. «La terrò per la
maggior parte a fieno e alleverò pecore, è il tipo di lavoro agricolo in cui sono
esperto. Ma conosco già qualcuno che desidera diventare coltivatore, e forse
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vorrà i due lotti a sud.»
Quando parlò a Holden di Jason Geiger, l'avvocato sorrise compiaciuto.
«Una farmacia a Holden's Crossing? Ma sarebbe la ciliegina sulla torta! Bene,
farò un deposito per i lotti a sud, per prenotarli a nome di Geiger. Se poi non li
vorrà, non sarà difficile trovare un altro assegnatario per una terra così buona.»
La mattina seguente i due uomini cavalcarono fino a Rock Island, e quando
uscirono dall'Ufficio Demaniale degli Stati Uniti Rob J. era proprietario terriero
e aveva un grosso debito.
Nel pomeriggio tornò a cavallo nella sua proprietà, da solo. Impastoiò la
giumenta e andò a esplorare a piedi il bosco e la prateria, studiando e proget-
tando. Come in un sogno camminava lungo il fiume gettando sassi nell'acqua,
stentando a credere che tutto quello fosse suo. In Scozia era estremamente
difficile procurarsi della terra. La fattoria della sua famiglia, con l'allevamento
di pecore, era passata da una generazione all'altra per molti secoli. Quella sera
scrisse una lettera a Jason Geiger descrivendogli i 64 ettari che erano stati
prenotati per lui vicino alla sua proprietà e gli chiese di fargli sapere al più
presto possibile se intendeva entrare in possesso della terra. Chiese anche a
Jason di spedirgli una buona riserva di zolfo, perché Nick, benché riluttante, gli
aveva detto che in primavera c'erano sempre epidemie di quella che la gente del
luogo chiamava scabbia dell'Illinois, e un'energica somministrazione di zolfo
era l'unica cura che pareva efficace a combatterla.

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Costruzione di una casetta di tronchi

Ben presto si diffuse la notizia della presenza di un medico. Tre giorni dopo
essere arrivato a Holden's Crossing, Kob J. fu chiamato dal suo primo paziente,
a venticinque chilometri di li, dopodiché non cessò mai di lavorare. Diversa-
mente dai coloni dell'Illinois meridionale e centrale, che provenivano per la
maggior parte dagli Stati del Sud, gli agricoltori che colonizzavano l'Illinois
settentrionale arrivavano dallo Stato di New York e dal New England, sempre
più numerosi di mese in mese, a piedi, a cavallo, sui carri, spingendo talvolta
davanti a sé una vacca, qualche maiale, un gruppetto di pecore. La sua attività
di medico doveva coprire un vasto territorio: praterie che si stendevano fra
grandi fiumi, attraversate da torrenti e ruscelli, interrotte da tratti boscosi,
guastate spesso da profonde paludi fangose. Se i pazienti venivano da lui, fa-
ceva pagare settantacinque cent per visita; se doveva fare una visita a domi-
53
cilio, chiedeva un dollaro, e, se era di notte, uno e cinquanta. Trascorreva la sua
giornata di lavoro per la maggior parte in sella, perché le fattorie erano molto
lontane l'una dall'altra, in quello strano Paese. Talvolta, al calar della sera, era
così sfinito da tutto quel cavalcare che non poteva far altro che gettarsi sul
pavimento e sprofondare nel sonno.
Disse a Holden che alla fine del mese avrebbe potuto pagargli una parte del
debito, ma Nick sorrise e scosse la testa. «Non c'è fretta. Anzi, farei meglio a
prestarle un altro po' di denaro. Gli inverni sono rigidi e le occorrerà un ani-
male più robusto di quello che cavalca ora. E con tutti i suoi impegni di medico
non ha tempo di costruirsi una casetta di tronchi prima che venga la neve.
Cercherò qualcuno che la costruisca per lei, a pagamento, si intende.»
Nick trovò un uomo capace di fare quel lavoro, tale Alden Kimball, un tipo
magro e infaticabile, con i denti giallastri per il gran fumare una sua puzzolente
pipa di pannocchia di mais. Cresciuto in un fattoria a Hubbardton, nel Ver-
mont, recentemente era stato allontanato come reprobo dai mormoni di Nau-
voo, Illinois, i cui abitanti erano conosciuti come Santi dell'Ultimo giorno, e
girava voce che potessero avere quante mogli volevano. Quando Rob J. lo in-
contrò, Kimball gli disse che aveva avuto uno scontro con gli anziani della
Chiesa ed era fuggito. Rob J. non ebbe voglia di interrogarlo più a fondo; gli
bastava il fatto che Kimball maneggiava l'ascia e la scure come se fossero
membra del suo stesso corpo. L'uomo abbatté e sfrondò i tronchi e li spianò su
due lati mentre giacevano al suolo, e un giorno Rob J. noleggiò un bue da un
fattore vicino, di nome Grueber. Gli parve di capire che Grueber non gli avreb-
be affidato il suo prezioso animale se non ci fosse stato Kimball a lavorare con
lui. Il reprobo Santo pazientemente riuscì a piegare il bue alla sua volontà, e
insieme i due uomini e l'animale in un solo giorno trascinarono i tronchi già
preparati fino al terreno che Rob J. aveva scelto sulla riva del fiume per
costruirvi la sua capanna. Mentre Kimball incastrava fra loro i tronchi maestri
con cavicchi di legno, Rob J. si accorse che il grande tronco unico che doveva
sostenere la parete nord presentava a metà altezza, una brutta incurvatura, e la
fece osservare ad Alden.
«Va bene così» replicò Kimball laconico, e Rob J. lo lasciò al suo lavoro.
Visitando il posto un paio di giorni dopo, Rob J. vide che le pareti della
capanna erano già in piedi. Alden aveva riempito gli interstizi tra i tronchi con
argilla ricavata dalla riva del fiume e stava intonacando di bianco le strisce di
argilla. Sulla parete nord tutti i tronchi presentavano una curvatura che
accompagnava quasi esattamente quella del tronco maestro, dando così
all'intera parete una leggera inclinazione. L'abile carpentiere aveva dovuto
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impiegare un mucchio di tempo per trovare tronchi che avessero precisamente
lo stesso difetto, e infatti due dei tronchi erano stati lavorati con l'ascia per
adattarsi.
Fu lo stesso Alden che gli parlò di una robusta cavalla che Grueber voleva
vendere. Quando Rob J. confessò che non si intendeva molto di cavalli, Kim-
ball alzò le spalle. «Quattro anni, sta ancora crescendo in altezza. Sana, nessun
difetto.»
Così Rob J. comprò la cavalla. Era ciò che Grueber chiamava un baio san-
guigno, più rosso che marrone, con le zampe, la criniera e la coda nere, e mac-
chie nere come lentiggini sulla fronte. Era alta quindici palmi, e aveva un corpo
robusto e uno sguardo intelligente. Poiché le lentiggini gli ricordavano la
ragazza che aveva conosciuto a Boston, Rob J. la chiamò Margaret Holland,
abbreviato in Meg.
Aveva notato che Alden aveva occhio per gli animali, e un mattino gli
chiese se voleva restare con lui come bracciante, dopo aver terminato la casetta
di tronchi, e lavorare alla fattoria.
«Be', che tipo di fattoria?»
«Pecore.»
Alden fece una smorfia. «Non so niente di pecore. Ho sempre lavorato con
vacche da latte.»
«Io sono cresciuto con le pecore» ribatté Rob J. «Non ci vuole molto per
sorvegliarle. Le pecore tendono a restare ammassate, e basta un uomo solo con
un cane per condurle al pascolo nella prateria. Per quel che riguarda gli altri
lavori, castratura, tosatura e simili, io potrei insegnarteli.»
Parve che Alden riflettesse sulla proposta, ma cercava solo di non essere
scortese. «A dire la verità, non mi attirano molto le pecore. No» rispose infine.
«Grazie di cuore, ma credo proprio di no.» Forse per cambiare argomento,
chiese a Rob J. che cosa intendeva fare della vecchia giumenta. Monica Gren-
ville lo aveva portato all'Ovest, ma come cavalcatura era ormai sfinita. «Non
creda di cavarne molto se la vende così, senza rimetterla un po' in forma. C'è
molta erba nella prateria, ma dovrà comprare il fieno per l'inverno.»
Questo problema fu risolto pochi giorni dopo quando un fattore che era a
corto di denaro gli pagò con un carico di fieno la sua assistenza al parto della
moglie. Alden, consultato al riguardo, propose di prolungare il tetto della
capanna sul lato sud, formando una tettoia, sostenuta agli angoli da alcuni pali,
in modo da avere una stalla aperta per le due cavalle. Pochi giorni dopo che il
lavoro era finito, Nick Holden fece una capatina a trovare Rob. Sorrise osser-
vando la stalla addossata alla casa, ed evitò gli occhi di Alden Kimball. «È una
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costruzione piuttosto curiosa, dovete ammetterlo.» E alzando con disapprova-
zione le sopracciglia davanti alla parete nord: «Quella dannata parete è storta».
Rob J. sfiorò con le dita la curva dei tronchi, con un gesto di ammirazione.
«No, è stata costruita apposta così, e a noi piace così. È questo che distingue la
mia dalle altre case di tronchi che si possono vedere dappertutto.»
Dopo che Nick se ne andò, Alden lavorò in silenzio per circa un'ora, poi
smise di martellare sui cavicchi e si diresse là dove Rob J. stava strigliando
Meg. Batté la pipa contro il calcagno per farne cadere i residui di tabacco.
«Credo che potrò anche imparare a curare le pecore» borbottò a mezza, voce.

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La reclusa

Per il suo primo gregge Rob J. decise di acquistare in prevalenza merinos


spagnole, perché la loro fine lana era un prodotto di valore, e di incrociarle con
una razza inglese a lana lunga, come aveva fatto la sua famiglia in Scozia.
Disse ad Alden che non avrebbe comprato gli animali se non a primavera, per
risparmiare la spesa e la fatica di tenerli durante l'inverno. Nel frattempo Alden
lavorò ad accumulare una scorta di pali per il recinto, mise in piedi due capan-
noni e costruì anche una capanna di tronchi nei boschi per sé. Fortunatamente
era capace di lavorare senza bisogno di controllo, perché Rob J. era molto oc-
cupato. Gli abitanti dei dintorni erano rimasti per lunghi anni senza un medico,
ed egli dovette impiegare i suoi primi mesi di attività professionale per com-
battere le conseguenze della trascuratezza e dei rimedi casalinghi. Visitò molti
pazienti affetti da gotta, cancro, idropisia e scrofola, e troppi bambini afflitti da
verminosi, e persone di ogni età malate di tubercolosi. Non finiva più di estrar-
re denti guasti. Davanti all'estrazione di un dente provava lo stesso disagio che
per l'amputazione di un arto, poiché odiava togliere ciò che non era poi in
grado di restituire.
«Aspetti fino a primavera, dottore, e ognuno qui nei dintorni si beccherà
qualche specie di febbre. Farà una fortuna» gli diceva allegramente Nick
Holden. Le visite a domicilio lo portavano in località remote, su piste quasi ine-
sistenti. Nick si offrì di prestargli un revolver fino a che non poteva comprar-
sene uno. «Viaggiare è pericoloso, ci sono banditi feroci come pirati, e ora
anche questi dannati nemici.»
«Nemici?»
«Gli indiani.»
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«Qualcun altro li ha visti?»
Nick si accigliò. Erano stati avvistati diverse volte, rispose, ma ammise con-
trovoglia che non avevano molestato nessuno. «Finora» aggiunse in tono vaga-
mente sinistro.
Rob J. non si comprò armi, né portò quella di Nick. Si sentiva sicuro sulla
nuova cavalla. Era una bestia robusta e resistente e gli piaceva il passo fermo e
preciso con cui si inerpicava per ripidi pendii e guadava la veloce corrente dei
fiumi. Le insegnò a lasciarlo montare in sella sia da un lato sia dall'altro e a
trottare verso di lui quando fischiava. I cavalli da fatica erano usati per accom-
pagnare al pascolo il bestiame e Grueber le aveva già insegnato a partire,
fermarsi e girarsi all'istante, rispondendo al più leggero spostamento di peso del
suo cavaliere o a un piccolo moto delle redini.
Un giorno di ottobre Rob J. fu chiamato alla fattoria di Gustav Schroeder,
che si era schiacciato due dita della mano sinistra rimaste incastrate tra grossi
macigni. Nel viaggio Rob J. smarrì la strada e si fermò a chiedere indicazioni
in un miserabile tugurio che sorgeva al margine di campi ben curati. La porta si
aprì solo di uno spiraglio, ma Rob J. fu assalito da una zaffata di cattivi odori,
tanfo di vecchi escrementi, aria viziata, sostanze marce. Un viso sbirciò
dall'apertura, occhi gonfi e rossi, sudici e arruffati capelli da strega. «Vada
via!» ordinò una rauca voce di donna. Qualcosa passò di corsa nella stanza, al
di là della porta, come un piccolo cane. O un bambino? Poi la porta gli fu
sbattuta in faccia di colpo.
I campi coltivati erano appunto quelli di Schroeder. Quando Rob J. arrivò
alla fattoria, dovette amputare il mignolo e la prima falange del medio: un vero
supplizio per il paziente. Al momento di accomiatarsi chiese alla moglie di
Schroeder chi era la donna nella capanna e Alma Schroeder apparve un po'
confusa.
«È la povera Sarah» rispose.

12

Il grande indiano

Le lotti si fecero gelide e limpide come il cristallo, con enormi stelle; poi
per diverse settimane il cielo si andò coprendo di nuvole sempre più dense e
più basse. Prima della fine di novembre venne la neve, splendida e terribile, e
poi il vento scavò il profondo mantello bianco accumulando banchi che met-
tevano a dura prova la cavalla, ma non la fermavano. Vedendo con che tenacia
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e con che coraggio Meg affrontava la neve, Rob J. realmente cominciò ad
amarla.
Il gelo regnò sulla pianura per tutto dicembre e gran parte di gennaio. Una
mattina all'alba, tornando a casa dopo una notte passata in una baracca fumosa
con cinque bambini, tre dei quali avevano una brutta laringite, incontrò due
indiani che erano in grossi guai. Riconobbe subito gli uomini che lo avevano
ascoltato quando suonava la viola da gamba fuori della casetta di Nick Holden.
Le carcasse di tre lepri delle nevi indicavano che erano andati a caccia. Uno dei
loro pony si era azzoppato, spezzandosi una delle zampe anteriori al nodello e
inchiodando a terra il suo cavaliere, il sauk con il grande naso adunco. Il suo
compagno, l'indiano alto e robusto, aveva subito ucciso il cavallo e gli aveva
aperto il ventre, poi aveva cercato di tirare fuori l'uomo ferito da sotto la car-
cassa e di spingerlo dentro la cavità fumante del cavallo, per evitare che mo-
risse congelato.
«Sono un medico, e forse posso essere d'aiuto.»
I due non capivano l'inglese, ma il grande indiano non gli impedì di esami-
nare il compagno ferito. Appena tastò sotto la lacera veste di pelliccia Rob J.
riconobbe che il cacciatore aveva sofferto di una dislocazione posteriore del-
l'anca destra e soffriva atrocemente. Il nervo sciatico era stato leso, perché il
piede pendeva inanimato e, quando Rob J. gli tolse il mocassino di pelle e lo
punse con la punta del coltello, l'uomo non riuscì a muovere le dita. I muscoli
flessori erano divenuti intrattabili come legno per il dolore e per il freddo, e
non c'era nessun modo di ridurre l'anca subito sul posto.
All'improvviso, con viva sorpresa di Rob J., il grande indiano balzò in sella
al suo cavallo e li abbandonò, dirigendosi attraverso la prateria verso il margine
del bosco. Forse, pensò Rob J., andava a cercare aiuto. Aveva addosso un vec-
chio mantello di pelli di pecora, tutto tarmato, che aveva vinto giocando a
poker con un tagliaboschi l'inverno precedente. Se lo tolse e coprì il paziente,
poi trasse dalla sua borsa dei panni e delle bende che usò per fasciare le gambe
dell'indiano, in modo da immobilizzare l'anca lussata. Nel frattempo era tornato
il grande indiano, trascinando due lunghi rami d'albero sfrondati, due pali
robusti ma flessibili. Li legò ai fianchi del suo cavallo come stanghe, poi li
congiunse con alcuni dei suoi indumenti di pelle, formando una specie di
lettiga a traino. I due vi collocarono il ferito, che soffrì terribilmente mentre
veniva così trascinato, benché la neve gli offrisse un fondo più morbido di
quanto avrebbe fatto il terreno nudo.
Un leggero nevischio cominciò a mulinare mentre Rob J. cavalcava dietro i
due indiani. Procedevano lungo il margine della foresta che fiancheggiava il
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fiume. Infine l'indiano voltò il cavallo verso una radura fra gli alberi ed
entrarono nel campo dei Sauk.
Era un gruppetto di tepee conici di pelli di animali - risultarono diciassette
quando Rob J. ebbe occasione di contarli - annidati fra gli alberi che li proteg-
gevano dal vento. I Sauk indossavano indumenti caldi e pesanti. Ovunque
erano visibili le tracce della riserva, perché molti portavano abiti scartati dai
bianchi, insieme con le pelli e le pellicce di animali, e in diverse tende si scor-
gevano vecchie cassette di munizioni dell'esercito americano. C'era abbon-
danza di legna da ardere e grigie spirali di fumo si alzavano dall'apertura fu-
maria dei tepee. Ma non sfuggi a Rob J. l'avidità con cui le mani si tendevano
verso le tre magre lepri, né lo sguardo smarrito che scorgeva su tutti i volti,
perché aveva già visto uomini che morivano di fame.
Il ferito fu portato in uno dei tepee e Rob J. lo segui. «C'è qualcuno che
parla inglese?»
«Io so la vostra lingua.»
Era difficile riconoscerne l'età, perché chi parlava portava lo stesso informe
mucchio di indumenti degli altri e la testa era coperta da un cappuccio di pelli
di scoiattolo cucite insieme, ma la voce era di una donna.
«Io so come sistemare l'anca di quell'uomo. Sono un medico. Sai che cos'è
un medico?»
«Lo so.» I suoi occhi castani lo guardavano calmi da sotto le pelli di scoiat-
tolo. Parlò brevemente nella sua lingua e gli altri nella tenda restarono in attesa,
osservando.
Rob J. tolse alcuni stecchi dal mucchio della legna e accese il fuoco.
Quando liberò l'uomo dagli indumenti, vide che l'anca era ruotata all'interno.
Sollevò le ginocchia dell'indiano finché furono interamente flesse e poi,
parlando attraverso la donna, si assicurò che alcuni dei presenti tenessero fermo
l'uomo sul giaciglio. Si inginocchiò e infilò la sua spalla destra sotto il ginoc-
chio del lato offeso, poi spinse con tutta la sua forza e si udì chiaramente lo
schiocco secco quando il condilo rientrò nella cavità articolare.
L'indiano giaceva come morto. Per tutto quel tempo aveva appena mugolato
e Rob J. capì che un sorso di whisky e laudano gli avrebbe fatto bene. Ma i due
medicinali erano nella sua sacca da sella e, prima che potesse andarli a
prendere, la donna aveva versato dell'acqua in un guscio di zucca, vi aveva
aggiunto una polvere tratta da un suo sacchetto di pelle e la porgeva al ferito,
che bevve avidamente. Poi poggiò una mano su ognuna delle anche dell'uomo
e lo guardò negli occhi, canticchiando sommessamente qualcosa nella loro lin-
gua. Mentre osservava e ascoltava, Rob J. sentì che i capelli gli si rizzavano
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sulla nuca. Intuiva che la donna era il loro medico. O forse una sorta di
sciamana.
Infine la notte insonne e la lotta contro la neve delle ultime ventiquattr'ore
ebbero la meglio su di lui, e stordito, come in una nebbia, uscì dall'angusto
tepee tra la folla dei Sauk che attendeva fuori. Un vecchio con gli occhi cisposi
lo toccò con reverenza. «Cawso wabeskiou!» mormorò, e gli altri ripresero in
coro: «Cawso wabeskiou, Cawso wabeskiou».
La guaritrice-sacerdotessa uscì dal tepee, e, quando il cappuccio le scivolò
dal capo, Rob J. vide che era una giovane donna. «Che cosa stanno dicendo?»
«Ti chiamano lo Sciamano Bianco» rispose.

La sciamana gli disse che, per ragioni abbastanza evidenti, l'uomo ferito si
chiamava Waucau-che, Naso d'Aquila. L'indiano alto e robusto si chiamava
Pyawanegawa, Vien Cantando. Mentre Rob J. tornava verso casa sua, incontrò
Vien Cantando e altri due Sauk, che dovevano essere tornati alla carcassa del
cavallo per prelevare la carne prima dell'arrivo dei lupi. Avevano tagliato il
pony morto in tanti pezzi e li riportavano al campo su due cavalli da soma. Gli
passarono accanto in fila, senza guardarlo, come se stessero passando vicino a
un albero.
Arrivato a casa, Rob J. scrisse nel suo diario e cercò di abbozzare a memo-
ria un ritratto della donna; ma, per quanto provasse, tutto quel che gli usciva
era una generica faccia indiana, senza sesso e smunta per la fame. Aveva
bisogno di sonno, ma il suo materasso di paglia non lo attirava. Sapeva che Gus
Schroeder aveva dei cereali da vendere e Alden gli aveva detto che anche Paul
Grueber aveva messo da parte un po' di grano allo stesso scopo. Quel pome-
riggio, cavalcando Meg e conducendo Monica per le redini, tornò al campo dei
Sauk e vi depose due sacchi di mais, uno di rape e uno di frumento.
La sciamana non lo ringraziò. Guardò i sacchi dì cibo e gridò qualche or-
dine, e mani avide li trascinarono dentro i tepee, al riparo dal freddo e dal-
l'umido. Il vento le fece cadere il cappuccio: era veramente una pellerossa, con
il viso di un vivo color rossiccio tendente al marrone. Il suo naso presentava
una netta protuberanza sul dorso e narici quasi negroidi; i grandi occhi avevano
uno sguardo franco e diretto. Quando Rob J. le chiese il suo nome rispose che
si chiamava Makwa-ikwa.
«Che significa in inglese?»
«Donna Orsa.»

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13

La stagione fredda

I moncherini delle dita amputate di Gus Schroeder guarirono senza infe-


zione. Rob J. fece forse troppe visite al colono, perché provava un'avida curio-
sità per la donna che abitava la capanna ai margini della tenuta degli Schroeder.
Alma Schroeder dapprima non aveva voluto parlarne, ma, appena si era
convinta che Rob J. voleva aiutarla, divenne subito più loquace, dimostrando
un materno interesse per la giovane donna. Sarah, ventidue anni, era vedova.
Era venuta dalla Virginia nell'Illinois cinque anni prima con il giovane marito,
Alexander Bledsoe. Per due primavere Bledsoe aveva duramente lavorato per
dissodare il suolo della prateria, lottando con l'aratro e una coppia di buoi per
allargare il più possibile i suoi campi prima che l'erba estiva crescesse più alta
di un uomo. Nel maggio del secondo anno era stato colpito dalla scabbia
dell'Illinois, seguita da una violenta febbre che lo aveva portato alla tomba.
«La primavera successiva Sarah tentò di arare e seminare, tutto da sola»
raccontava Alma. «Riuscì a raccogliere un po' di grano, a dissodare un po' più
di terra, ma da sola non poteva farcela. Non poteva mandare avanti una fattoria.
Quell'estate noi arrivammo dall'Ohio, Gus e io. E facemmo - come chiamarlo?
- un accordo. Lei ha ceduto i suoi campi a Gustav e noi le forniamo farina di
mais, ortaggi, legna per il fuoco.»
«Quanti anni ha il bambino?»
«Due anni» rispose Alma Schroeder con voce pacata. «Lei non lo ha mai
detto, ma noi riteniamo che il padre sia Will Mosby. I due fratelli, Will e Frank
Mosby, vivevano un po' più a valle. Quando noi siamo arrivati qui, Will Mosby
passava molto tempo con lei. Noi ne eravamo lieti: in questi posti una donna ha
bisogno di un uomo.» Sospirò e aggiunse con disprezzo: «Quei fratelli! Due
poco di buono. Frank Mosby sta nascosto perché è ricercato dalla giustizia.
Will è stato ucciso in una rissa, poco prima che il bambino venisse al mondo.
Un paio di mesi dopo Sarah si è ammalata».
«Non ha molta fortuna.»
«Non ne ha per niente. È una malattia grave, lei dice che sta morendo di
cancro. Dolori al ventre, così forti che non... lei capisce... non può trattenere
l'acqua.»
«Ha perduto anche il controllo dell'intestino?»
Alma Schroeder arrossì. Parlare di un bambino nato fuori da un matrimonio
era semplicemente constatare i casi della vita, ma non era abituata a discutere
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di funzioni corporali con un uomo che non fosse suo marito, neppure con un
medico.
«No, solo l'acqua... vuole che io prenda con me il bambino quando lei non
ci sarà più. Noi ne abbiamo già cinque da mantenere... dottore» aggiunse con
passione. «Non avrebbe una medicina da darle per i dolori?»
Un malato di cancro non aveva che la scelta fra il whisky e l'oppio. Ma era-
no cose che la donna non poteva prendere se voleva continuare a badare al
bambino. Quando lasciò gli Schroeder, Rob J. si fermò alla capanna, che era
chiusa e pareva senza vita. «Mrs. Bledsoe» chiamò, bussando alla porta.
Nessuna risposta.
«Mrs. Bledsoe, sono Rob J. Cole. Sono un medico.» Bussò ancora.
«Se ne vada!»
«Le ho detto che sono un medico. Forse posso fare qualcosa per lei.»
«Vada via! Vada via! Vada via!»

Alla fine dell'inverno la sua casetta di tronchi cominciò ad avere un'aria più
accogliente. Ovunque andava, si acquistava qualche oggetto casalingo, una
brocca di ferro, due bicchieri di stagno, una bottiglia colorata, una ciotola di
terracotta, cucchiai di legno. Ne comprava alcuni, ne riceveva altri in pagamen-
to, come un paio di vecchie ma ancora utili trapunte a patchwork: ne appese
una alla parete nord, per ripararsi dagli spifferi di aria fredda, e pose l'altra sul
letto che Alden Kimball aveva fatto per lui. Alden gli fabbricò anche uno
sgabello a tre gambe e una bassa panca da porre davanti al fuoco. Poco prima
che venisse la neve il buon carpentiere aveva fatto rotolare dentro la capanna
un ceppo di sicomoro alto circa un metro, ponendolo ritto, e sopra aveva in-
chiodato alcune assi su cui Rob J. stese un vecchio tappeto di lana. A questa
tavola sedeva come un re, assise sul miglior mobile della casa, una sedia con il
sedile di corteccia di hickory intrecciata. Qui prendeva i suoi pasti o leggeva i
suoi libri e le sue riviste prima di coricarsi, alla luce incerta di uno stoppino
acceso in una ciotola di lardo fuso. Il camino, fatto di pietre del fiume cemen-
tate con argilla, teneva calda la piccola casa. Sopra il camino erano appesi i
suoi fucili e dalle travi pendevano mazzi di erbe officinali, trecce di cipolla e
aglio, collane di fette di mele seccate e anche salsicce stagionate e un pro-
sciutto affumicato. In un angolo erano accumulati diversi utensili: una zappa,
una scure, una vanga, un forcone di legno, lavorati con diversi gradi di abilità
artigianale.
Ogni tanto suonava la sua viola da gamba. Perlopiù era troppo stanco per
dedicarsi alla musica, così da solo. Il 2 marzo arrivò all'ufficio postale di Rock
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Island una lettera di Jay Geiger, assieme a un pacco di zolfo. Giger diceva che
la terra descritta da Rob J. a Holden's Crossing era più di quanto lui e sua mo-
glie avessero sperato. Aveva mandato a Nick Holden una cambiale per l'impor-
to della caparra e si assumeva l'impegno di fare i futuri versamenti all'Ufficio
Demaniale dello Stato. Sfortunatamente i Geiger per il momento non conta-
vano ancora di trasferirsi nell'Illinois: Lillian era di nuovo incinta. «Un evento
inaspettato che, per quanto ci riempia di gioia, ci costringe a rinviare la par-
tenza.» Pensavano di aspettare finché il nuovo piccino fosse nato e fosse in
grado di resistere ai disagi e agli scossoni del viaggio attraverso la prateria.
Rob J. lesse la lettera con un misto di gioia e delusione. Era felice che Jay si
fidasse del suo giudizio e accogliesse il suo consiglio a proposito della terra,
sicché un giorno sarebbe divenuto suo vicino. Ma era avvilito che quel giorno
fosse ancora lontano. Avrebbe dato chissà che cosa per poter sedere con Jason
e Lillian e suonare quella musica che lo confortava ed elevava la sua anima. La
prateria era un'immensa, silenziosa prigione, e per la maggior parte del tempo
si sentiva solo.
Si disse che doveva trovarsi un buon cane.
A metà inverno i Sauk erano di nuovo magri e affamati. Gus Schroeder do-
mandò meravigliato come mai Rob J. volesse comprare altri due sacchi di
granturco, ma non insisté oltre quando Rob J. non gli diede alcuna spiegazione.
Gli indiani accettarono da lui quest'altro dono di grano in silenzio e senza emo-
zione visibile, come la volta precedente. Rob J. portò a Makwa-ikwa mezzo
chilo di caffè e prese l'abitudine di passare qualche ora accanto al suo fuoco.
Lei aggiungeva al caffè tante radici selvatiche secche che la bevanda risultava
diversa da ogni altro caffè che Rob J. avesse mai bevuto. Lo prendevano nero,
senza zucchero né latte: non era buono al gusto, ma era caldo e in qualche
modo aveva sapore di terra indiana. A poco a poco cominciarono a conoscersi
a vicenda: lei era stata per quattro anni a scuola in una missione per bambini
indiani vicino a Fort Crawford. Sapeva leggere un po' e aveva sentito parlare
della Scozia: ma quando Rob J. le disse: «Allora sei cristiana», lei lo corresse
subito. Il suo popolo adorava Se-wanna - il loro dio supremo - e altri manitou e
lei insegnava alla sua gente a venerarli secondo l'antico costume. Rob J. capì
che la donna era una specie di sciamana, e questo la aiutava a essere un'ef-
ficiente guaritrice. Sapeva tutto sulle erbe medicinali del posto e ne teneva dei
mazzi secchi appesi ai pali del suo tepee. Rob J. la osservò parecchie volte
mentre curava un sauk malato: sedeva a gambe incrociate al suo fianco e
cominciava a suonare sommessamente un tamburo fatto con un vaso di
terracotta pieno per tre quarti d'acqua e coperto da una sottile pelle di daino.
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Passava e ripassava sul tamburo un bastoncino ricurvo: ne usciva un basso
ronzìo che alla fine aveva un effetto soporifico. Dopo qualche tempo poggiava
le mani su quella parte del corpo che aveva bisogno di cure e parlava al malato
nella sua lingua. Rob J. la vide alleviare i dolori di un giovane con una vertebra
incrinata e di una vecchia con le ossa torturate dall'artrite.
«Come fanno le tue mani a togliere il dolore?»
Lei scosse la testa. «Non so spiegare.»
Rob J. prese le mani della vecchia nelle sue. Benché il dolore si fosse sopi-
to, sentì che le sue forze declinavano e disse a Makwa-ikwa che la vecchia
aveva solo pochi giorni da vivere. Quando tornò al campo dei Sauk, cinque
giorni dopo, la donna era morta.
«Come facevi a saperlo?» gli chiese Makwa-ikwa.
«La morte che si avvicina... alcuni della mia famiglia possono sentirlo. Una
specie di dono. Non so spiegarlo.»
Così l'uno credette alle parole dell'altra. Rob J. la trovava estremamente
interessante, del tutto diversa da qualsiasi altra persona che conoscesse. Fin da
allora erano acutamente consci della presenza fisica dell'altro. Perlopiù sede-
vano accanto al piccolo fuoco nel tepee di Makwa e bevevano caffè o chiac-
chieravano. Un giorno Rob J. cercò di spiegarle com'era la Scozia e non riuscì
a riconoscere fin dove lei lo capisse, ma Makwa-ikwa ascoltava attentamente e
ogni tanto faceva una domanda sugli animali selvatici e sui raccolti. A sua
volta gli spiegò la struttura tribale dei Sauk, e dovette impiegare tutta la sua
pazienza perché Rob J. la trovò assai complicata. La popolazione sauk era
divisa in dodici gruppi, simili ai clan scozzesi, ma, anziché McDonald o Bruce
o Stewart, si chiamavano: Na-tnawuck, Storione; Muc-kissou, Aquila dalla
testa bianca; Pucca-hummowuck, Persico degli anelli; Macco Pennyack, Patata
Orsina; Kiche Camme, Grande Lago; Payshake-issewuck, Cervo; Pesshe-
peshewuck, Pantera; Waymeco-uck, Tuono; Muck-wuck, Orso; Me-seco, Tiglio
nero; Aha-wuck, Cigno; e Muhwha-wuck, Lupo. I clan vivevano insieme paci-
ficamente: ma ogni maschio sauk apparteneva a una di due Metà, o fazioni
rivali, molto combattive: i Kee-so-qui, Lunghi Capelli, e gli Osh-cush, Uomini
Valenti. Ogni primogenito maschio veniva dichiarato alla nascita membro della
fazione del padre; ogni secondogenito era membro dell'altra fazione, e così via,
alternativamente, in modo che le due fazioni erano rappresentate più o meno
ugualmente in seno a ogni famiglia e a ogni clan. Gareggiavano tra loro nei
giochi, nella caccia, nel generare figli, nel sopportare il dolore e in altri atti di
coraggio - in ogni aspetto della loro vita. Questa fiera competizione manteneva
i Sauk forti e coraggiosi, ma non c'erano faide cruente fra le due Metà. Rob J.
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pensò che questo era un sistema più ragionevole di quello scozzese a lui
familiare, ed era in un certo senso più civile, poiché migliaia di scozzesi erano
morti per mano dei membri di clan rivali, durante molti secoli di selvaggi
conflitti fratricidi.
A causa della scarsità di cibo che riscontrava tra i Sauk, e anche per una
certa diffidenza verso il modo di cucinare indiano, Rob J. evitò in un primo
tempo di condividere i pasti di Makwa-ikwa. Poi, in diverse occasioni, quando
i cacciatori erano stati particolarmente fortunati, mangiò i cibi da lei preparati e
li trovò gustosi. Osservò che gli indiani cucinavano più stufati che arrosti e,
potendo scegliere, preferivano la carne rossa o il pollame al pesce. Makwa-
ikwa gli parlò delle Feste del Cane, banchetti religiosi perché i manitou ap-
prezzavano la carne canina. Gli spiegò che più un cane era amato come ani-
male domestico, più efficace era il sacrificio alla Festa del Cane e più valido il
suo effetto magico come rimedio alle malattie. Rob J. non poté celare il suo
disgusto. «Ma voi non trovate strano mangiare un cane, che è vostro amico?»
«Non così strano come mangiare il sangue e il corpo di Cristo.»
Rob J. era un giovane sano e normale e talvolta, benché entrambi per
difendersi dal freddo fossero avvolti in diversi strati di vesti e di pelli, accanto a
lei aveva una penosa erezione. Se le loro dita si sfioravano quando lei gli
porgeva il caffè, sentiva una reazione ghiandolare. Una volta prese le fredde
mani della donna nelle sue e fu scosso dalla vitalità che sentì palpitare in lei.
Esaminò le sue dita corte, la ruvida pelle rossiccia, le callosità rosee delle
palme. Le chiese se voleva andare qualche volta nella sua casetta a trovarlo.
Lei lo guardò in silenzio e ritirò le mani. Non disse che non voleva fargli visita,
ma non ci andò mai.

All'inizio della primavera, la stagione del fango, Rob J. cavalcò fino al cam-
po degli indiani, cercando di evitare i pantani che si erano formati ovunque,
poiché la prateria, inzuppata come una spugna, non riusciva più ad assorbire la
quantità d'acqua del disgelo. Trovò i Sauk che smontavano il loro campo inver-
nale e li seguì fino a una radura, a una decina di chilometri di distanza, dove, al
posto degli angusti tepee invernali, stavano costruendosi i loro hedonoso-te,
lunghe baracche di rami intrecciati attraverso i quali potevano spirare le miti
brezze dell'estate. C'era una buona ragione per cambiar sito: i Sauk non cono-
scevano norme igieniche e il campo invernale era ammorbato dal fetore dei
loro escrementi. Il fatto di essere sopravvissuti al duro inverno e di potersi
finalmente trasferire al campo estivo aveva rianimato gli indiani, e Rob J. vede-
va ovunque giovani che si cimentavano nella lotta o correvano o giocavano a
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mazza-e-palla, un gioco che non aveva mai visto prima. I giocatori usavano
una palla ricoperta di pelle di daino e robusti bastoni che portavano appeso in
cima un sacchetto di strisce di cuoio intrecciate. Correndo a gran velocità un
giocatore scagliava la palla fuori del suo sacchetto e un altro la prendeva
destramente nel suo. Passandosi la palla dall'uno all'altro la lanciavano a
considerevoli distanze. Il gioco era veloce e molto violento. Quando un gio-
catore aveva la palla, gli altri si sentivano in diritto di farla uscire dal suo sac-
chetto menando gran colpi di bastone, che spesso finivano sul corpo del-
l'avversario mentre gli altri incespicavano e gli cadevano addosso. Vedendo
che Rob J. seguiva il gioco come affascinato, uno dei quattro giocatori gli fece
cenno e gli porse il suo bastone.
Gli altri sogghignarono e subito lo accolsero nella partita, che a lui sembrò
più uno sfogo di violenza che un gioco. Era più robusto e muscoloso della
maggior parte degli altri giocatori. Alla prima occasione l'uomo che aveva la
palla ruotò il polso e scagliò la dura sfera contro Rob J. Questi menò senza
successo il suo bastone e dovette correre a riprendere la palla, solo per trovarsi
nel mezzo di una mischia selvaggia di lunghi bastoni che parevano picchiare
tutti sulla sua povera carne. Smarrito, dolorante, benché pieno di ammirazione
per quella destrezza che non possedeva, dovette ben presto restituire il bastone
al suo proprietario.
Mentre mangiava uno stufato di coniglio nella baracca, di Makwa-ikwa, la
donna gli disse con voce pacata che i Sauk gli volevano chiedere un favore. Per
tutto quel duro inverno avevano preso una quantità di animali da pelliccia nelle
loro trappole. Ora avevano due grosse balle di ottime pelli di visone, volpe,
castoro e ratmusqué. Volevano scambiare le pelli con semi da piantare per il
primo raccolto estivo.
Rob J. rimase sorpreso perché non aveva pensato che gli indiani coltivas-
sero la terra.
«Se portassimo noi stessi le pelli a un mercante bianco, ci imbroglierebbe»
soggiunse Makwa-ikwa. Lo disse senza rancore, come constatando un fatto.
Così una mattina lui e Alden Kimball condussero due cavalli carichi di
pelli, e un altro senza carico, fino a Rock Island. Rob J. mercanteggiò a lungo
con il padrone dell'emporio e in cambio delle pelli se ne tornò con cinque sac-
chi di granturco da semina: un sacco di piccolo granturco primaticcio, due sac-
chi di granturco più grosso e duro per farina grossa e due sacchi di granturco
tenero, dalle pannocchie grandi, per farina fine; inoltre tre sacchi di semi di
fagioli, tre di semi di zucca e tre di semi di popone. In più aveva ricevuto tre
monete d'oro da venti dollari degli Stati Uniti da dare ai Sauk come piccolo
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fondo d'emergenza, nel caso avessero dovuto comprare qualche altra cosa dai
bianchi. Alden era pieno di ammirazione per la scaltrezza del suo padrone,
convinto che avesse condotto la complicata operazione per proprio profitto. La
notte rimasero a Rock Island e in un saloon Rob J. si offrì due bicchieri di
birra, ascoltando i ricordi pieni di fanfaronate di vecchi coloni che avevano
combattuto contro gli indiani. «Tutta la terra qui apparteneva ai Sauk o ai Fox»
diceva il barista dagli occhi cisposi. «I Sauk chiamavano se stessi Osaukie e i
Fox chiamavano se stessi Mesquakie. Insieme occupavano tutta la terra fra il
Mississippi a ovest, il lago Michigan a est; il Wisconsin a nord e il fiume
Illinois a sud. Più di 20 dannati milioni di ettari della miglior terra da semina! Il
loro villaggio più grosso era Sauk-e-nuk, una vera e propria città con le sue
strade e la sua piazza. Qui vivevano undicimila Sauk che coltivavano mille
ettari fra il Rock River e il Mississippi. Bene, non ci abbiamo messo molto,
noi, a cacciare via a calci quei bastardi rossi e a mettere a frutto questa buona
terra!»
Intorno si raccontavano aneddoti di sanguinosi conflitti con Falco Nero e i
suoi guerrieri, in cui gli indiani erano sempre malvagi e i bianchi nobili e co-
raggiosi. C'erano i racconti dei veterani delle Grandi Campagne, perlopiù evi-
denti menzogne, inventate da spacconi che volevano fare gli eroi. Rob J. si rese
conto che per la maggior parte gli uomini bianchi non vedevano negli indiani
quello che vedeva lui. Parlavano come se i Sauk fossero animali selvaggi a cui
si era data giustamente la caccia finché erano fuggiti, lasciando la regione più
sicura per la popolazione umana. Rob J. aveva cercato per tutta la vita la libertà
spirituale che riconosceva nei Sauk. Era quello che sognava quando aveva
scritto il manifesto in Scozia, era quello che aveva pensato di veder morire
quando Andrew Gerould era stato impiccato. E ora lo aveva scoperto in uno
scarno manipolo di stranieri dalla pelle rossa. Non si faceva illusioni roman-
tiche: riconosceva lo squallore del campo dei Sauk, l'arretratezza della loro
cultura in un mondo che li aveva sorpassati. Ma, mentre sorseggiava la sua
birra e fingeva di prestare interesse a quelle storie di ubriachi che si vantavano
di avere sventrato, scotennato e saccheggiato, era convinto che Makwa-ikwa e i
suoi Sauk fossero la cosa migliore che avesse incontrato nel Nuovo Mondo.

14

Mazza-e-palla

Un giorno Rob J. sorprese Sarah Bledsoe e il suo bambino nel modo in cui
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si sorprendono le creature selvatiche in rari momenti di riposo. Aveva visto
assaporare lo stesso oblioso piacere da un gruppo di uccelli assopiti al sole,
dopo essersi spolverati e lisciati le penne con il becco. La donna e il bambino
sedevano a terra fuori della capanna. Ma lei non si era allisciata le penne. I suoi
lunghi capelli biondi erano opachi e arruffati, e la veste stazzonata che le
copriva il magro corpo era sudicia. La sua faccia pallida e tirata, con la pelle
cascante, rifletteva la sua malattia. Il bambino, biondo come la madre e altret-
tanto arruffato e trascurato, dormiva accanto a lei.
Quando Sarah aprì gli occhi azzurri e si trovò a fissare Rob J., ritto accanto
a lei, una vampata di collera e sorpresa e paura le salì al viso; senza dire una
parola afferrò il bambino e scomparve con un balzo nella capanna. Rob J. corse
alla porta: era arrivato a detestare i suoi ripetuti tentativi di parlare con lei
attraverso quella tavola di legno.
«Mrs. Bledsoe, la prego, io voglio aiutarla.» Ma l'unica risposta furono un
grugnito e il rumore della pesante sbarra spinta a chiudere la porta.
Gli indiani non dissodavano le zolle con l'aratro come facevano i coloni
bianchi. Invece cercavano nel mantello erboso le zone dove l'erba era più rada
e con i loro appuntiti bastoni da scavo vi praticavano dei solchi, in cui lascia-
vano cadere i semi. Le zone d'erba più dura venivano coperte con mucchi di
foglie e di rami, che in un anno avrebbero fatto marcire le zolle erbose, gua-
dagnando così altro terreno da semina per la prossima primavera.
Quando Rob J. visitò il campo estivo dei Sauk, la semina del granturco era
già stata portata a termine e intorno regnava un'aria di festa. Makwa-ikwa gli
disse che dopo la semina veniva la Danza della Gru, la festa più allegra
dell'anno. Il primo atto della celebrazione era un grande gioco a mazza-e-palla,
a cui ogni maschio partecipava. Non c'era bisogno di reclutare le squadre: era
una Metà contro l'altra Metà. I Lunghi Capelli avevano una mezza dozzina di
giocatori in meno degli Uomini Valenti. Fu il grande indiano Vien Cantando
all'origine dei guai di Rob J., perché, mentre questi stava conversando con
Makwa-ikwa, arrivò e parlò alla sciamana nella sua lingua.
«Ti invita a giocare a mazza-e-palla con i Lunghi Capelli» riferì la donna a
Rob J.
«Ah, bene.» Rob J. sorrise scioccamente. Era l'ultima cosa che voleva fare,
ricordando l'abilità degli indiani e la sua goffaggine. Aveva già un rifiuto sulla
punta della lingua, ma l'uomo e la donna lo guardavano con particolare inte-
resse ed egli intuì che l'invito aveva un significato che gli era ancora oscuro.
Così, invece di declinarlo come avrebbe fatto un uomo ragionevole, ringraziò
educatamente e disse che sarebbe stato lieto di giocare con i Lunghi Capelli.
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Nel suo inglese preciso e scolastico, così strano da ascoltare, lei spiegò che
la partita avrebbe avuto inizio nel campo estivo. La Metà vincente era quella
che riusciva a infilare la palla in una piccola cavità sull'opposta riva del fiume,
a quasi 10 chilometri di distanza.
«Dieci chilometri» Rob J. fu ancora più stupito nell'apprendere che non
c'erano linee laterali. Makwa-ikwa cercò di spiegargli che chi prendesse la fuga
di lato per evitare gli avversari si sarebbe acquistato il disprezzo degli altri.
Per Rob J. era un ambiente strano, un gioco sconosciuto, la manifestazione
di una cultura primitiva. E allora, perché lo faceva? Se lo chiese decine di volte
quella notte, perché dormì nell'hedonoso-te di Vien Cantando, dato che il gioco
doveva cominciare subito dopo l'alba. La baracca era lunga circa quindici metri
e larga sei, ed era costruita di rami intrecciati coperti all'esterno da fogli di
corteccia d'olmo. Non vi erano finestre e le aperture alle due estremità erano
protette da pelli di bufalo, ma la costruzione di rami lasciava entrare l'aria in
abbondanza. Vi erano otto scompartimenti, quattro su ciascun lato di un corri-
doio centrale. Vien Cantando e sua moglie Luna dormivano in uno, gli anziani
genitori di Luna in un altro, e un altro ancora era occupato dai loro due bam-
bini. Gli altri scompartimenti erano destinati a magazzino o dispensa, e in uno
di essi Rob J. trascorse una notte insonne, studiando le stelle attraverso l'aper-
tura fumaria del soffitto e ascoltando i sospiri, i mugolìi dei cattivi sogni, le
raffiche del vento e, in diverse occasioni, ciò che poteva essere solo il rumore
di una vigorosa ed entusiastica copulazione, anche se il suo ospite non emise né
canti né gemiti.
Al mattino, dopo una colazione di farina di mais bollita in cui sentì grumi di
cenere e pietosamente non volle riconoscere altro, Rob J. dovette sottomettersi
a un inaspettato onore. Non tutti i Lunghi Capelli portavano le chiome davvero
lunghe: quello che doveva distinguere tra loro le due squadre era il colore. I
Lunghi Capelli si dipingevano di nero, una miscela di grasso animale e carbo-
ne. Gli Uomini Valenti si spalmavano di argilla bianca. Per tutto il campo si
vedevano i giovani maschi intingere le dita nelle ciotole di pittura e decorarsi la
pelle. Vien Cantando si applicò larghe strisce di nero sul viso, sul petto e sulle
braccia, poi offrì la ciotola di pittura a Rob J.
Perché no? si chiese lui un po' stordito, pescando con due dita la nera mate-
ria colorante come uno che mangiasse porridge di piselli senza cucchiaio.
Lasciò cadere a terra la sua camicia, come una nervosa farfalla maschio che si
scuotesse di dosso la crisalide, e si spalmò il torace. Vien Cantando diede
un'occhiata alle sue pesanti scarpe scozzesi e sparì, per ricomparire subito dopo
con un paio di leggeri mocassini di pelle di daino come quelli portati da tutti i
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Sauk; ma, benché Rob se ne provasse diverse paia, il suo piede era assai più
grande di quello dell'indiano. Ne risero insieme e Vien Cantando abbandonò
l'impresa, lasciando il medico con le sue pesanti calzature.
Quindi l'indiano gli porse un bastone di hickory che era più grosso e robusto
di una clava e gli fece cenno di seguirlo. Le squadre rivali erano raggruppate in
uno spiazzo aperto, circondato tutt'attorno dalle baracche. Makwa-ikwa pro-
nunciò qualche frase nella sua lingua, senza dubbio una benedizione, quindi
piegò il braccio all'indietro e lanciò la palla. La piccola sfera volò verso i
guerrieri in attesa, descrivendo un'ampia parabola che terminò in un violento
scontrarsi di bastoni fra grida selvagge e urla di dolore. Con vivo disappunto di
Rob J., gli Uomini Valenti si impadronirono della palla, che fu catturata e rapi-
ta nella rete di un giovane dalle lunghe gambe, poco più di un ragazzo, ma con
la muscolatura di un corridore adulto. Questi balzò di corsa via dallo spiazzo e
gli altri lo seguirono come un branco di cani dietro a una lepre. Era chiaramen-
te il momento degli scattisti, perché la palla passò di mano diverse volte duran-
te quella corsa disperata e ben presto fu molto lontana da Rob J.
Vien Cantando era rimasto al suo fianco. Parecchie volte riuscirono ad avvi-
cinarsi ai primi, quando si attaccava la mischia, rallentando il movimento in
avanti. L'indiano grugnì di soddisfazione quando la palla fu afferrata dalla rete
di uno dei Lunghi Capelli, ma non parve sorpreso quando un momento dopo fu
ricatturata dagli Uomini Valenti. Mentre il gruppo correva lungo il margine
della boscaglia che fiancheggiava il fiume, l'indiano fece cenno a Rob J. di se-
guirlo e i due si scostarono dalla direzione presa dagli altri e si lanciarono attra-
verso l'aperta prateria, dove i loro piedi sollevavano spruzzi di rugiada dal gio-
vane tappeto erboso, come sciami di insetti d'argento che li inseguissero.
Ma dove lo conduceva l'indiano? E poteva fidarsi? Era troppo tardi per porsi
tali domande, poiché ormai si era impegnato. Concentrò la sua energia nel ten-
tativo di tener dietro al compagno, che correva bene per essere così grande e
grosso. E ben presto comprese le sue intenzioni: stavano tagliando la prateria in
linea retta per intercettare gli altri che si muovevano su un percorso più lungo,
seguendo l'ansa del fiume. Quando lui e l'indiano poterono rallentare il passo,
Rob J. aveva i piedi pesanti come piombo, ansimava e sentiva un dolore lanci-
nante al costato. Ma arrivarono al termine dell'ansa prima del gruppo.
In realtà il gruppo era rimasto molto indietro in confronto ai velocisti della
prima linea. Mentre Rob J. e Vien Cantando con il fiato grosso aspettavano in
un folto di querce e hickory, tre corridori dipinti di bianco irruppero nella
radura. Il primo non aveva la palla: reggeva negligentemente il suo bastone con
il sacchetto vuoto, come se fosse una lancia. Aveva i piedi nudi e portava un
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paio di laceri calzoni che erano nati come mutandoni di uomo bianco fatti in
casa. Era più piccolo dei due uomini celati tra gli alberi, ma muscoloso, e il suo
aspetto era reso ancora più feroce dal fatto che il suo orecchio sinistro era stato
strappato molto tempo prima, lasciando su quel lato della testa una larga cica-
trice. Rob J. si tese, pronto a balzare, ma Vien Cantando lo trattenne, toccan-
dogli il braccio, e lasciarono passare il corridore d'avanguardia. Poco dietro di
lui arrivava la palla, nella rete del giovane membro degli Uomini Valenti che
l'aveva afferrata quando Makwa-ikwa l'aveva lanciata in gioco. Accanto gli
correva un sauk basso e tarchiato con un paio di pantaloni tagliati a metà, che
un tempo erano stati confezionati per la cavalleria degli Stati Uniti, blu con una
larga striscia giallo sporco su entrambi i lati.
Vien Cantando puntò un dito su Rob J. e poi sul giovane, e Rob J. annuì:
quel giovane costituiva il suo compito. Sapeva che dovevano muoversi sfrut-
tando l'effetto sorpresa, perché, se questo Uomo Valente gli sfuggiva, non lo
avrebbero più ripreso.
Così si lanciarono rapidi come il fulmine, e ora Rob J. comprese uno degli
scopi delle strisce di cuoio che gli avevano avvolto intorno alle braccia: con la
stessa destrezza con cui un buon pastore avrebbe catturato un ariete e gli avreb-
be legato le zampe, Vien Cantando gettò a terra l'indiano e gli legò strettamente
i polsi e le caviglie. Ed era tempo, perché il corridore d'avanguardia stava già
tornando indietro. Rob J. fu più lento nel legare il giovane sauk, e così Vien
Cantando dovette affrontare da solo l'avversario dall'orecchio mozzo. Questi
vibrò il suo bastone come una clava, ma Vien Cantando eluse il colpo quasi
con disprezzo. Era alto una volta e mezzo quell'altro, e assai più forte: lo
inchiodò al suolo e lo legò prima ancora che Rob J. avesse finito con il suo
prigioniero.
Vien Cantando prese la palla e la infilò nella rete di Rob J. Senza una parola
né uno sguardo ai tre Sauk legati, spiccò la corsa. Reggendo la palla nella rete
come fosse una bomba con la miccia accesa, Rob J. si lanciò dietro di lui.

Erano corsi avanti senza incontrare ostacoli quando Vien Cantando si fermò
e gli indicò che avevano raggiunto il punto dove dovevano attraversare il
fiume. Un altro degli scopi delle corregge risultò chiaro quando l'indiano legò
il bastone di Rob J. alla sua cintura, lasciandogli le braccia libere per nuotare.
Quindi legò anche il proprio bastone al perizoma e scalciò via i mocassini di
pelle, abbandonandoli sulla riva. Rob J. sapeva che i suoi piedi erano troppo
delicati per correre senza le scarpe, così le legò per le cinghie e se le appese al
collo. Gli restava la palla, e se la infilò nei calzoni.
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Vien Cantando sogghignò e alzò tre dita.
Benché non fosse la più brillante delle trovate, tuttavia servì a rilassare la
tensione di Rob J., che alzò la testa e fece una gran risata. Fu un errore, perché
l'acqua portò lontano il suono, a cui risposero le grida degli inseguitori che li
avevano scoperti. Quindi non persero tempo a gettarsi entrambi nella fredda
corrente del fiume.
Nuotarono a fianco a fianco, benché Rob J. usasse lo stile europeo a rana e
Vien Cantando si spingesse avanti muovendo le mani come fanno gli animali.
Rob J. si divertiva immensamente; non si sentiva esattamente come un nobile
selvaggio, ma non ci sarebbe voluto molto per convincerlo che era
Calzadicuoio*. Quando raggiunsero l'altra riva, l'indiano grugnì di impazienza
mentre Rob J. si infilava le scarpe. Si potevano vedere le teste dei loro inse-
guitori galleggiare ballonzolando sul fiume come tante mele in una vasca.
Quando infine Rob J. fu pronto ed ebbe rimesso la palla nel sacchetto, il primo
dei nuotatori era quasi arrivato a riva.
Spiccarono la corsa e Vien Cantando gli additò la bocca della piccola cavità
che era la loro meta. Questo gli diede le ali ai piedi e un grido d'esultanza nel
suo nativo gaelico gli uscì dalle labbra; ma era prematuro. Una mezza dozzina
di Sauk irruppe sul percorso fra loro e la cavità; benché l'acqua avesse aspor-
tato gran parte del colore, sui loro corpi restavano tracce di bianco. Quasi
immediatamente una coppia di Lunghi Capelli balzò dai boschi e attaccò gli
Uomini Valenti. Nel XV secolo uno degli antenati di Rob J., Brian Cullen,
aveva tenuto a bada con una sola mano un'intera squadra dei McLaughlins
roteando la sua grande spada scozzese in un micidiale cerchio di morte. Con
due cerchi un po' meno micidiali, e tuttavia abbastanza paurosi, i due Lunghi
Capelli ora trattennero tre degli avversari, roteando i loro bastoni. Questo la-
sciava tre degli Uomini Valenti liberi di gettarsi sulla palla. Vien Cantando
parò abilmente un gran colpo di randello con il suo bastone, quindi liquidò
l'avversario con un calcio ben calcolato del suo piede nudo.
«Bene, così, nel culo, un calcio nel suo dannato culo!» urlò Rob J., dimen-
ticando che nessuno poteva capire le sue parole. Un indiano si gettò su di lui
come un indemoniato. Rob J. fece uno scarto di lato e, quando i piedi nudi
dell'uomo arrivarono a tiro, gli menò un gran calcio negli stinchi con la sua
pesante scarpa scozzese. Scattò oltre la sua vittima che gemeva e in pochi passi
fu abbastanza vicino alla cavità, anche per la sua limitata perizia. Con uno
scatto del polso la palla arrivò alla meta anche se, invece che con un tiro netto e
* Il protagonista dei Racconti di Calzadicuoio, la serie di cinque romanzi di James
Fenimore Cooper, in cui è compreso il notissimo L'ultimo dei Moicani. [N.d.T.]

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preciso, giunse rimbalzando un po' a fatica nella buia bocca della tana. L'im-
portante fu che tutti la videro entrare.
Rob J. scagliò il suo bastone in aria e urlò: «VITTORIA! AL CLAN DEI
NERI!».
Udì, più che sentirlo, il colpo del bastone che gli arrivò in testa, vibrato
dall'uomo che gli stava alle spalle. Fu un suono secco e duro, come quello che
aveva imparato a riconoscere nel campo dei tagliaboschi, il tonfo di un'ascia
calata su un tronco di quercia. Con suo sommo stupore gli parve che la terra si
aprisse. Cadde in un abisso nero dove tutto finì e il mondo si spense.

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Un dono da Cane di Pietra

Non si accorse di essere riportato al campo come un sacco di patate.


Quando riaprì gli occhi, era notte fonda. Sentì odore d'erba schiacciata. Poi dì
carne arrostita, forse un grasso scoiattolo. Il fumo di un fuoco. La femminilità
di Makwa-ikwa che si piegava su di lui e lo osservava con occhi giovani e
vecchi insieme. Non capiva che cosa gli domandava, sentiva solo un terribile
dolore nella testa. L'odore della carne gli dava nausea. Evidentemente lei lo
intuì, perché gli sostenne la testa su un catino di legno e lo lasciò vomitare.
Quando Rob J. ebbe finito, debole e ansante, la donna gli diede da bere una
pozione, qualcosa di freddo e verde e amaro. Rob J. credette di sentirvi della
menta, ma c'era un gusto più forte e meno piacevole. Cercò di voltare la testa
per rifiutare, ma lei lo tenne fermo e lo costrinse a bere, come fosse un bam-
bino. Ne fu seccato e in collera. Ma dopo pochi minuti dormiva. Di tanto in
tanto si svegliava e lei lo obbligava a bere ancora qualche sorso di liquido
verde. In questo modo, addormentato o semincosciente o succhiando la strana
amara bevanda di madre natura, trascorse quasi due giorni.
La terza mattina il macigno che aveva sulla testa si era dissolto e il mal di
capo era sparito. Makwa-ikwa ammise che stava meglio, ma gli somministrò
un'altra abbondante dose del suo filtro, e Rob J. tornò a dormire.
Tutto intorno a lui si svolgeva l'allegro festival della Danza della Gru.
Talvolta si udivano i borbottii del tamburo ad acqua e voci che cantavano in
quella strana lingua gutturale, e rumori vicini e lontani di giochi e di corse e le
grida degli spettatori. Più tardi Rob J. aprì gli occhi nella penombra della
baracca e vide Makwa-ikwa che si cambiava d'abito. Fissò i suoi seni turgidi e
rimase sorpreso: c'era abbastanza luce per rilevare solchi e cicatrici che forma-
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vano sulla pelle simboli strani, segni simili a rune, dalle pareti toraciche alle
areole dei due capezzoli.
Benché Rob rimanesse immobile e non facesse alcun rumore, in qualche
modo lei intuì che la guardava. Per un attimo rimase ritta davanti a lui, e i loro
occhi si incontrarono. Poi si voltò, mostrandogli le spalle. Non per nascondere
il nero triangolo arruffato, come Rob J. credette di capire, ma per proteggere da
lui i simboli misteriosi del sacerdozio che le solcavano i seni. Seni consacrati,
si disse Rob J. stupito. Ma non c'era nulla di sacro nei suoi fianchi e nelle sue
natiche. Aveva un'ossatura robusta e Rob J. si domandò perché la chiamavano
Donna Orsa: quel suo volto, con la sua elastica morbidezza, faceva pensare
piuttosto a una possente gatta. Non riusciva a indovinare la sua età. Fu colto
dall'improvvisa fantasia di prenderla dal di dietro, afferrando con le mani le
grosse trecce dei suoi capelli neri, come cavalcando una sensuale cavalla
umana. Fu sorpreso dal fatto che stava pensando di divenire l'amante di una
selvaggia pellerossa, più splendida di quante Fenimore Cooper avesse imma-
ginato, e fu consapevole di una vigorosa reazione fisica. Il priapismo poteva
essere un sintomo infausto, ma sapeva che il fenomeno era causato da quella
donna, e non da qualche lesione, e quindi presagiva una ripresa delle sue forze.
Giacque in silenzio, osservandola mentre indossava un indumento frangiato
di pelle di daino. La donna si appese alla spalla destra una fascia composta da
quattro strisce di pelle colorata, che terminava con una borsa di pelle dipinta
con figure simboliche, insieme con un cerchietto di grandi piume lucenti di
qualche uccello sconosciuto a Rob J. La borsa e il cerchietto di piume le rica-
devano sul fianco sinistro.
Un attimo dopo Makwa-ikwa era uscita in silenzio e Rob J. udì la sua voce
che si alzava e si abbassava, certamente in preghiera.
Heugh! Heugh! Heugh! risposero gli altri all'unisono e lei riprese a cantare.
Rob J. non aveva la minima idea di quel che stesse dicendo, ma la sua voce gli
dava un brivido e rimase ad ascoltare, fissando dall'apertura fumaria le stelle,
come frammenti di ghiaccio che la sacerdotessa in qualche modo avesse
acceso.
Quella notte attese impaziente che i rumori della Danza della Gru si spe-
gnessero. Sonnecchiava, si svegliava per ascoltare, si innervosiva, restava in
attesa di un po' di pace. Infine i rumori si attenuarono, le voci calarono di tono
e tacquero, la lunga festa era finita.
Fu destato di soprassalto da qualcuno che entrava nella baracca, dal fruscìo
di vesti che scivolavano a terra. Un corpo si adagiò vicino al suo sospirando,
mani si tesero a cercarlo, le sue mani incontrarono una carne calda. Tutto fu
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compiuto in silenzio, tranne per qualche sospiro ansimante, qualche sibilo, un
mugolìo di piacere. Rob J. non ebbe bisogno di far molto: anche se avesse
voluto prolungare il piacere, non avrebbe potuto perché era stato troppo a lungo
in astinenza. Lei era esperta e abile, lui fu impetuoso e rapido, e poi gli rimase
un senso di delusione.
... Come mordere uno splendido frutto per scoprire che non era come si era
sperato.
Ripensandoci al buio, gli sembrava che i seni fossero più cascanti di quelli
che ricordava, e sotto le sue dita la pelle era liscia e senza cicatrici. Strisciò fino
al fuoco, prese un ramo acceso e lo agitò per trarne una fiammella.
Quando tornò al suo giaciglio con la torcia, sospirò.
La larga e piatta faccia che gli sorrideva non era affatto spiacevole; solo che
lui non aveva mai visto prima quella donna.

La mattina dopo, quando Makwa-ikwa tornò alla baracca, portava di nuovo


la solita veste informe di tela tessuta a mano. Evidentemente la festa della
Danza della Gru era terminata. Mentre lei preparava la loro colazione di farina
bollita, Rob J. fu imbronciato e scontroso. Le disse di non mandargli mai più
una donna nel letto, e lei annuì in modo blando e indifferente, che certo aveva
imparato da ragazzina quando le insegnanti della missione cristiana la sgrida-
vano bruscamente.
La donna che gli aveva mandato si chiamava Donna Fumo, gli spiegò, e
mentre cuoceva la farina gli disse senza emozione che lei stessa non poteva
giacere con un uomo perché avrebbe perduto i suoi poteri di guaritrice.
Una dannata sciocchezza degli indigeni, pensò Rob J. con disperazione. Ma
evidentemente Makwa ci credeva.
Ci ripensò mentre mangiavano e l'aspro caffè sauk gli pareva più amaro che
mai. Dovette però ammettere lealmente che anche lui l'avrebbe sicuramente
evitata se, penetrando in lei nell'atto sessuale, avesse saputo di perdere il Dono.
Fu costretto ad ammirare il modo con cui la donna aveva gestito la situa-
zione, assicurandosi che la sua sete di sesso fosse soddisfatta prima di dirgli
chiaro e tondo come stavano le cose. Era una donna veramente fuori del comu-
ne, ripeté a se stesso, e non per la prima volta.

Quel pomeriggio i Sauk si affollarono nell'hedonoso-te di Makwa-ikwa.


Vien Cantando parlò brevemente, rivolgendosi agli altri indiani invece che a
Rob J., ma Makwa-ikwa traduceva.
«I'neni'wa. Lui è un uomo» diceva il grande indiano. Affermava che Cawso
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wabeskiou, lo Sciamano Bianco, sarebbe stato per sempre un sauk e uno dei
Lunghi Capelli. Per tutti i loro giorni tutti i Sauk sarebbero stati fratelli e
sorelle di Cawso wabeskiou.
L'Uomo Valente che lo aveva colpito al capo dopo la partita a mazza-e-palla
fu spinto avanti, confuso e sorridente. Si chiamava Cane di Pietra. Non rientra-
va nella mentalità dei Sauk il concetto di presentare delle scuse, ma quello di
riparare un'offesa, sì. Cane di Pietra gli offrì in dono una borsa di pelle simile a
quella che Makwa-ikwa talvolta portava, solo che era decorata con setole di
maiale invece che con piume.
Makwa-ikwa gli spiegò che doveva servire per custodire il suo corredo di
amuleti, quegli oggetti sacri chiamati mee-shome, che non dovevano mai essere
mostrati a nessuno e da cui ogni sauk traeva forza e potere. Per appendervi la
borsa gli diede in dono una fascia di quattro corregge fatte di budella seccate -
una marrone, una arancione, una blu e una nera - e le legò alla borsa come una
bandoliera, in modo che Rob J. potesse portarla a tracolla. Le corregge erano
chiamate izze, aggiunse. «Ovunque le porterai nessun proiettile ti potrà colpire
e la tua presenza farà prosperare i raccolti e guarire i malati.»
Rob J. fu commosso, e insieme imbarazzato. «Sono felice di essere fratello
dei Sauk.»
Gli era sempre stato difficile esprimere gratitudine. Quando suo zio Ranald
aveva speso cinquanta sterline per fargli avere il posto di assistente in sala ope-
ratoria, in modo che potesse acquistare esperienza chirurgica mentre era ancora
studente di medicina, era stato a malapena capace di borbottare un «grazie».
Anche ora non seppe far di meglio. Fortunatamente neppure i Sauk erano molto
portati a discorsi di ringraziamento o di addio, e nessuno sembrò stupirsi quan-
do egli uscì in silenzio dalla baracca, sellò il cavallo e si allontanò al trotto.
Tornato alla sua casetta di tronchi, innanzi tutto Rob J. si accinse, come per
gioco, a scegliersi oggetti da porre nella borsa che gli era stata regalata. Diverse
settimane prima aveva trovato nel bosco il teschio di un minuscolo animale,
bianco, pulito e misterioso. Pensava che fosse di una moffetta, le dimensioni
erano quelle. Bene, e che altro? Il dito di un neonato strangolato alla nascita?
Un occhio di tritone, una zampa di rospo, un pelo di pipistrello, una lingua di
cane? D'improvviso decise di formare il suo corredo sacro con maggiore serie-
tà. Quali erano gli oggetti della sua sostanza umana, le chiavi della sua anima,
il mee-shome da cui Robert Judson Cole traeva il suo potere?
Pose nella borsa il cimelio professionale della famiglia Cole, il bisturi di
acciaio brunito che i Cole chiamavano il "bisturi di Rob J." e che toccava per
tradizione al figlio maggiore che divenisse medico.
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Qualcosa d'altro, che gli venisse dalla sua giovinezza? Non era possibile
mettere in una borsa l'aria fredda delle alture scozzesi. O la calda sicurezza
della famiglia. Desiderò ardentemente di avere un'immagine di suo padre, di
cui aveva da lungo tempo dimenticato i tratti. Sua madre gli aveva dato una
Bibbia quando si erano salutati, e per questo gli era preziosa, ma non poteva
entrare nel suo mee-shome. Sapeva che non avrebbe più rivisto sua madre:
forse era già morta. Gli venne l'idea di tracciarne l'immagine in un disegno,
finché la ricordava ancora bene. Quando provò, lo schizzo gli riuscì facilmente,
tranne che per il naso: ci vollero ore di travagliati tentativi finché constatò di
avere colto la somiglianza. Allora arrotolò il foglio di carta, lo legò e lo ripose
nella borsa.
Vi aggiunse la musica che Jay Geiger aveva trascritto perché potesse suona-
re Chopin sulla viola da gamba, e un pezzo di buon sapone da bucato, come
simbolo di ciò che Oliver Wendell Holmes gli aveva insegnato sull'igiene e la
chirurgia. Questo diede ai suoi pensieri una direzione diversa, e, dopo qualche
riflessione, Rob J. tolse tutto dalla borsa, tranne il bisturi e il sapone. Vi ag-
giunse bende e cenci, un assortimento di farmaci e medicinali, e infine gli stru-
menti chirurgici che gli occorrevano quando faceva visite a domicilio.
Alla fine la borsa dell'indiano era diventata una borsa medica che conteneva
strumenti e accessori della sua professione. Era quindi il mee-shome che gli
dava i suoi poteri, e fu lieto di quel dono che un colpo di bastone sulla testa gli
aveva procurato da parte dell'indiano dipinto di bianco che si chiamava Cane di
Pietra.

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A caccia di cerbiatte

L'acquisto delle pecore fu per Rob J. un evento importante, perché il loro


belato era l'ultimo dettaglio che gli mancava per sentirsi a casa sua. Dapprima
lavorò alle merinos insieme con Alden, ma ben presto risultò chiaro che il buon
bracciante era capace di gestire le pecore come qualsiasi altro animale, e co-
minciò tutto da solo a mozzare code, castrare agnelli e tenere d'occhio eventuali
segni di scabbia, come se avesse sempre fatto il pastore. Era un bene che la
presenza di Rob J. non fosse necessaria alla fattoria perché, appena si diffuse la
voce della presenza di un buon medico, i pazienti lo chiamavano da sempre
maggior distanza. Ben presto avrebbe dovuto limitare la zona di sua compe-
tenza, perché il sogno di Nick Holden si stava realizzando e a Holden's Cros-
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sing continuavano ad arrivare nuove famiglie. Nick giunse a cavallo un mattino
per vedere il gregge, che giudicò «idilliaco» e insistette con Rob J. «per farlo
entrare in un affare davvero promettente. Un mulino per cereali».
Uno dei nuovi arrivati era un tedesco di nome Pfersick, un mugnaio che
veniva dal New Jersey. Pfersick sapeva dove si poteva comprare l'attrezzatura
per un mulino, ma non aveva capitali. «Novecento dollari potrebbero bastare.
Io ce ne metterò seicento, per il cinquanta per cento delle azioni. Lei ce ne
mette trecento per il venticinque per cento - io le anticiperò la somma neces-
saria - e noi daremo a Pfersick il venticinque per cento per gestire il mulino.»
Rob J. fino a quel momento aveva rimborsato meno della metà della somma
che doveva a Nick, e odiava i debiti. «Lei sborsa tutta la somma, perché non si
prende il settantacinque per cento?»
«Io voglio impiumare il suo nido finché sia così ricco e morbido che lei non
abbia più voglia di andar via. Lei per la città è un bene di prima necessità,
come l'acqua.»
Rob J. sapeva che era vero. Quando lui e Alden erano andati a Rock Island
a comprare le pecore, avevano visto un volantino che Nick aveva distribuito
per descrivere i molti vantaggi di stabilirsi a Holden's Crossing, fra cui spic-
cava la presenza di un medico, il dottor Cole. Pensò che entrare nell'affare del
mulino non poteva compromettere la sua posizione di medico e alla fine
acconsentì.
«Siamo soci!» esclamò Nick.
Si strinsero la mano per suggellare il contratto. Rob J. rifiutò un enorme si-
garo celebrativo: l'uso di sigari a buon mercato per somministrare la nicotina
per via anale aveva spento in lui ogni desiderio di tabacco. Quando Nick si
accese il suo, Rob J. gli disse che aveva l'aspetto del perfetto banchiere.
«Ah, questo verrà prima di quanto lei si aspetti, e lei sarà fra i primi a
saperlo.» Nick soffiò il fumo al cielo con aria soddisfatta. «Questo fine setti-
mana andrò a Rock Island a caccia di cerbiatte. Vuol venire con me?»
«A caccia di cerbiatte? A Rock Island?»
«Be', non proprio cerbiatte. Esemplari del bel sesso. Che ne dice, vecchio
mio?»
«Io sono sempre stato lontano dai bordelli.»
«Ma io parlo di generi privati, di prima scelta.»
«Ma si, verrò con lei.» Aveva cercato di parlare in tono disinvolto, ma qual-
cosa nella sua voce rivelava senza dubbio che non prendeva queste faccende
alla leggera, perché Nick sogghignò.

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La Stephenson House rifletteva il carattere di una città rivierasca sul
Mississippi, dove annualmente approdavano millecinquecento battelli a vapore
e dove spesso si vedevano passare zattere di tronchi lunghe fino a mezzo chilo-
metro. Ogni volta che i marinai e i tagliaboschi avevano denaro, l'hotel era
rumorosamente allegro, e talvolta violento. Nick Holden aveva provveduto a
una sistemazione che era costosa ma offriva una piacevole intimità: una suite di
due camere da letto separate da un salotto-stanza da pranzo. Le due donne era-
no cugine, entrambe di cognome Dawber, incantate dal fatto che i loro cavalieri
fossero dei professionisti. Nick scelse Lettie, Rob J. ebbe Virginia. Erano mi-
nute e vivaci come passerotti, ma avevano un'aria maliziosa e un po' impudente
che spiacque subito a Rob. Lettie era vedova. Virginia gli disse che non era mai
stata sposata; ma quella notte, quando conobbe intimamente il suo corpo, Rob
J. si accorse che aveva partorito figli.
La mattina dopo, quando i quattro si incontrarono a colazione, le due ragaz-
ze bisbigliavano e ridacchiavano fra loro. Virginia doveva aver raccontato a
Lettie del preservativo che Rob J. chiamava Vecchio Corno e Lettie dovette
parlarne a Nick, perché, mentre cavalcavano verso casa, Nick ne accennò ri-
dendo. «Perché poi prendersi la briga di usare quelle cose disgustose!»
«Be', le malattie» rispose Rob J. pacato. «E per evitare le gravidanze.»
«Rovina il piacere.»
Ma tutta la faccenda era stata davvero un piacere? Rob J. dovette ammettere
che il suo corpo e il suo spirito ne avevano tratto un certo sollievo e, quando
Nick disse che se l'era proprio goduta, Rob J. si trovò a rispondere che se l'era
goduta anche lui, e che, sicuro, dovevano andare a caccia di cerbiatte qualche
altra volta.

Pochi giorni dopo, passando a cavallo accanto alla tenuta degli Schroeder,
Rob J. vide Gus in un prato che manovrava la falce, malgrado le dita amputate,
e si scambiarono un saluto. Fu tentato di passare oltre la capanna di Sarah sen-
za fermarsi, perché la donna gli aveva detto chiaramente che lo considerava un
intruso, e questo modo di fare lo rendeva furioso. Ma all'ultimo momento girò
il cavallo, entrò nella radura e smontò.
Davanti alla porta trattenne la mano prima che le sue nocche potessero
bussare, perché sentiva all'interno il piagnucolio del bambino e rauche grida
della madre. Suoni di cattivo auspicio. Tentò di aprire la porta: questa volta non
era chiusa. Dentro, il tanfo lo colpì come un pugno e la luce era scarsa, ma poté
vedere Sarah Bledsoe gettata sul pavimento. Accanto a lei sedeva il bambino,
con la faccia bagnata di lacrime, e il suo terrore fu così grande all'entrata
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dell'alto e grosso sconosciuto che si immobilizzò e nessun suono uscì dalla sua
bocca. Rob J. voleva prenderlo in braccio e confortarlo, ma, poiché la donna
gridò di nuovo, egli seppe che doveva dedicare a lei la sua attenzione.
Si inginocchiò e le toccò la guancia. Sudore freddo. «Che le succede,
signora?»
«Il cancro. Ahi!»
«Dove le fa male, Mrs. Bledsoe?»
Le sue mani con le lunghe dita tese passarono come ragni bianchi sul suo
addome, da entrambi i lati della pelvi.
«Dolore acuto o sordo?»
«Lancinante! Straziante! Signore... è terribile!»
Egli temeva che l'urina fuoriuscisse da una fistola causata dal parto; se era
effettivamente così, non c'era niente che potesse fare per lei.
La donna chiuse gli occhi, perché la prova evidente della sua continua in-
continenza penetrava nel naso e nei polmoni a ogni respiro.
«Io devo visitarla.»
Senza dubbio lei si sarebbe rifiutata, ma quando aprì la bocca fu per emette-
re un altro grido di dolore. Era rigida per la tensione, ma si adeguò docilmente
quando Rob J. la mise in posizione semiprona sul fianco sinistro, con il ginoc-
chio e la coscia destra sollevati. Poté così constatare che non c'era nessuna
fistola.
Aveva nella borsa una scatoletta di lardo fresco, che usò come lubrificante.
«Non deve impressionarsi, io sono un medico» le disse, ma lei pianse più di
umiliazione che di dolore quando sentì il dito medio della sua mano sinistra che
si insinuava nella vagina mentre la destra le palpava l'addome. Rob J. cercava
di vedere con la punta del dito come con un occhio: dapprima non poté vedere
nulla mentre toccava e tentava, ma quando arrivò vicino all'osso pubico trovò
la cosa che si era aspettato. E poi un'altra.
Ritrasse piano il dito e le diede un cencio per asciugarsi; poi andò al ru-
scello a lavarsi le mani.

Per parlare con lei, la condusse fuori alla luce del sole e la fece sedere su un
tronco, con il bambino in braccio.
«Lei non ha un cancro.» Avrebbe desiderato non dover aggiungere altro.
«Lei soffre di calcoli alla vescica.»
«E non morirò?»
Era tenuto a dire la verità. «Con il cancro non avrebbe avuto nessuna
speranza. Con i calcoli alla vescica, una buona speranza c'è.» Le spiegò come
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potevano formarsi corpuscoli minerali nella vescica, causati probabilmente da
dieta poco variata e da prolungata diarrea.
«Si, ho avuto diarrea per lungo tempo dopo il parto. C'è una cura?»
«No. Nessuna medicina può sciogliere i calcoli. Quelli piccoli talvolta fuo-
riescono con l'urina e spesso hanno spigoli taglienti che possono lacerare i
tessuti. Per questo, credo, lei ha visto sangue nelle urine. Ma lei ha due calcoli
grossi. Troppo grossi per passare.»
«E allora? Lei mi taglierà? Per amor di Dio!» chiese la donna con voce
tremante.
«No.» Rob J. esitò, non sapendo quanto dovesse dirle. Una voce del Giura-
mento di Ippocrate che aveva prestato diceva: Io non taglierò una persona che
soffre di un calcolo. Alcuni macellai ignoravano il giuramento e tagliavano lo
stesso, penetrando con il bisturi nel perineo fra l'ano e la vulva, o lo scroto, per
aprire la vescica e asportare i calcoli; ma si lasciavano alle spalle pochi pazienti
che alla fine guarivano e molte vittime che morivano di peritonite o restavano
menomate per tutta la vita perché un muscolo dell'intestino o della vescica era
stato reciso. «Io dovrei penetrare nella vescica con uno strumento chirurgico
attraverso l'uretra, lo stretto canale per cui passa l'urina. Lo strumento si chiama
litotritore. Ha due piccole pinze d'acciaio, come chele, con cui asportare o
frantumare i calcoli.»
«Sarà doloroso?»
«Sì, soprattutto quando si inserisce e quando si estrae il litotritore. Ma il
dolore sarebbe sempre minore di quello che lei soffre ora. Se l'intervento aves-
se successo, lei guarirebbe completamente.» Era difficile per lui ammettere che
il rischio più grande stava nella sua insufficiente capacità di medico. «Se io,
cercando di afferrare la pietruzza nelle pinze del litotritore, dovessi pungere la
vescica e lacerarla, o se dovessi ferire il peritoneo, penso che lei morirebbe per
infezione.» Studiando il suo viso contratto, vide baluginare i lineamenti di una
donna più giovane e più carina. «Tocca a lei decidere se devo tentare.»
Nella sua agitazione la donna stringeva troppo il bambino, che cominciò a
strillare. Per questo ci volle qualche momento perché Rob J. capisse qual era la
parola che aveva mormorato. «La prego.»

Sapeva che avrebbe avuto bisogno di aiuto mentre eseguiva la litotripsia.


Ricordando la rigidità del suo corpo quando l'aveva esaminata, sentì istinti-
vamente che l'assistente doveva essere una donna: si diresse subito alla vicina
casa colonica e parlò con Alma Schroeder.
«Oh, io non posso, no, mai!» La povera Alma impallidì. La sua costerna-
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zione era ancora aggravata dai suoi sentimenti d'affetto per Sarah. «Gott im
Himmel! Oh, dottor Cole, la prego, non posso!»
Rob J. intuì lo stato d'animo della donna e le assicurò che la capiva. Alcune
persone non resistevano alla vista di un'operazione chirurgica. «Va bene, Alma.
Troverò qualcun altro.»
Mentre si allontanava a cavallo, cercava di pensare a una persona del vici-
nato che potesse fargli da assistente, ma dovette respingere una per una tutte le
possibilità. Non voleva piagnistei: aveva bisogno di una donna intelligente e
con braccia robuste, una donna animosa capace di resistere con fermezza da-
vanti alla sofferenza.
Era già a metà strada verso casa sua quando girò il cavallo e si diresse al
villaggio indiano.

17

La figlia del Mide'vrìvtin

Quando Makwa riandava con il pensiero agli anni passati, ricordava un


tempo in cui pochi del suo popolo indossavano abiti dei bianchi, quando una
camicia strappata o una veste lacera erano un potente amuleto, perché tutti
portavano pelli di daino conciate e lavorate con i denti per renderle morbide, o
pellicce di altri animali. Quando era bambina a Sauk-e-nuk, e allora la chiama-
vano Nishwri Kekawi, Due Cieli, gli uomini bianchi, i mookamonik, erano
pochi, troppo pochi per minacciare le loro vite. C'era allora una guarnigione
armata sull'isola, installata dopo che certi pubblici funzionari a St. Louis aveva-
no sorpreso alcuni Mesquakie e Sauk ubriachi e li avevano costretti a firmare
una carta il cui contenuto non poterono leggere in seguito, neanche quando
furono passati i fumi del vino. Il padre di Due Cieli era Ashtibugwa-gupichee,
Bisonte Verde, e aveva raccontato a Due Cieli e a sua sorella maggiore, Meci-
ikwawa, Donna Alta, che, quando era stato costruito il forte, i Lunghi Coltelli
avevano distrutto i migliori arbusti da bacche del Popolo. Bisonte Verde
apparteneva al clan dell'Orso e per nascita era destinato al comando, ma non
aveva alcun desiderio di essere un capo e uno stregone. Malgrado il suo nome
sacro (aveva il nome del manitou), era un uomo semplice, rispettato perché
ricavava buoni raccolti dai suoi campi. Da giovane aveva combattuto contro gli
lowa e vinto gare di destrezza. Non era uno che menasse vanto dei suoi
successi, ma quando suo zio Winnawa, Piccolo Corno, morì, Due Cieli apprese
qualcosa di nuovo su suo padre. Piccolo Corno era il primo sauk, almeno fra
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quelli che lei conosceva, che si fosse ubriacato fino a morirne con il veleno che
i mookamonik chiamavano whisky dell'Ohio e il Popolo chiamava acqua bru-
ciante. I Sauk inumavano i loro morti, a differenza di alcune tribù che sem-
plicemente collocavano i cadaveri fra i rami degli alberi. Quando calarono
Piccolo Corno nella tomba, suo padre batté con il suo pucca-maw sull'orlo
della fossa, vibrando selvaggiamente in aria la sua lancia di guerra. «Io ho
ucciso tre uomini in battaglia e dono i loro spiriti a mio fratello che giace qui,
perché gli servano come schiavi nell'altro mondo» annunciò solennemente, e fu
così che Due Cieli apprese che suo padre era stato un tempo un guerriero.
Bisonte Verde era un uomo mite, un lavoratore. Dapprima lui e sua moglie
Matapya, Unione-di-Fiumi, coltivavano due campi di granturco, zucche e me-
loni, ma quando il Consiglio vide che era un buon coltivatore gli assegnò altri
due campi. I guai cominciarono quando Due Cieli aveva dieci anni: arrivò un
mookamon di nome Hawkins, che si costruì una capanna di tronchi nel terreno
confinante con uno dei campi di granturco di suo padre. L'area su cui Hawkins
si era insediato era stata abbandonata dopo che era morto l'indiano che la colti-
vava, Wegu-wa, Danzatore Shawnee, e il Consiglio non aveva ancora prov-
veduto ad assegnare le sue terre. Hawkins portò con sé cavalli e vacche. I
campi di granturco erano cintati solo da steccati e siepi di bassi arbusti, e i suoi
cavalli saltarono nel campo di Bisonte Verde e mangiarono il suo granturco.
Bisonte Verde catturò i cavalli e li riportò ad Hawkins, ma la mattina dopo gli
animali erano di nuovo nel suo campo. Bisonte Verde presentò il suo reclamo
al Consiglio, ma il Consiglio non sapeva che cosa fare, perché altre cinque
famiglie bianche erano venute a stanziarsi a Rock Island, su terre che erano
state coltivate dai Sauk per più di cento anni.
Bisonte Verde ricorse all'espediente di impastoiare gli animali di Hawkins
sul suo campo, invece di restituirli, e un giorno ricevette la visita di un mer-
cante di Rock Island, un bianco di nome George Davenport. Davenport era
stato il primo bianco venuto a vivere tra loro e il Popolo aveva fiducia in lui.
Disse a Bisonte Verde di restituire i cavalli ad Hawkins, altrimenti i Lunghi
Coltelli lo avrebbero messo in prigione: e Bisonte Verde fece come il suo
amico Davenport gli consigliò.
Nell'autunno del 1831 i Sauk si trasferirono nel loro campo invernale del
Missouri, come facevano ogni anno. Quando in primavera tornarono a Sauk-e-
nuk, trovarono che altre famiglie bianche erano venute a stanziarsi sulle terre
del Popolo, abbattendo gli steccati e bruciando le baracche. Ora il Consiglio
non poteva più evitare di intervenire e si consultò con Davenport, con Felix St.
Vrain, l'Indian Agent, o rappresentante del governo statunitense presso gli in-
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diani, e con il maggiore John Bliss, capo della guarnigione del forte. Le trat-
tative si trascinarono a lungo, e intanto il Consiglio assegnò altri campi agli
indiani le cui terre erano state usurpate.
Un robusto e tarchiato olandese della Pennsylvania, tale Joshua Vandruff,
aveva occupato il campo di un sauk di nome Makataime-shekiakiak, Falco
Nero. Vandruff si installò nell'hedonoso-te che Falco Nero e i suoi figli aveva-
no costruito con le loro mani, e cominciò a vendere whisky agli indiani. Falco
Nero non era un capo, ma per la maggior parte dei suoi sessantatré anni aveva
combattuto contro Osage, Cherokee, Chippewa e Kaskaskia. Quando nel 1812
era scoppiata la guerra fra i bianchi, aveva formato una squadra di guerrieri
Sauk e aveva offerto i suoi servigi agli americani, ma solo per vedersi respinto.
Offeso, aveva fatto la stessa offerta agli inglesi, che lo trattarono con rispetto e
si avvalsero dei suoi servigi per tutta la durata della guerra, fornendogli armi,
munizioni, medaglie e la casacca rossa che contrassegnava un soldato.
Ora, avvicinandosi ormai alla vecchiaia, Falco Nero doveva vedere un bian-
co che vendeva whisky nella sua casa. Peggio ancora, assisteva alla degrada-
zione del suo popolo a opera dell'alcol. Vandruff e il suo amico, B.F. Pike, fa-
cevano ubriacare gli indiani e li truffavano facendosi cedere pellicce, cavalli,
fucili e trappole. Falco Nero andò da Vandruff e Pike e chiese che cessassero di
vendere whisky ai Sauk. I due lo ignorarono ed egli tornò con una mezza doz-
zina di guerrieri che fecero rotolare i barili fuori della baracca, li sfondarono e
versarono tutto il whisky sul terreno.
Immediatamente Vandruff riempì le sue sacche da sella di provviste per un
lungo viaggio e galoppò fino a Bellville, dov'era la residenza di John Reynolds,
governatore dell'Illinois. Vandruff affermò in una deposizione giurata davanti
al governatore che gli indiani Sauk erano in aperta rivolta, assalivano i coloni
bianchi e seminavano distruzione. Consegnò al governatore Reynolds una se-
conda petizione, firmata da B.F. Pyke, che affermava: "Gli indiani pascolano i
loro cavalli sui nostri campi di grano, sparano al nostro bestiame e minacciano
di bruciare le nostre case se noi non ce ne andiamo".
Reynolds era stato appena eletto e aveva promesso ai suoi elettori che l'Illi-
nois sarebbe stata una terra sicura per i coloni. Un governatore che combattesse
vittoriosamente contro gli indiani poteva anche sognare la presidenza. «Cristo,
sicuro,» rispose a Vandruff con voce emozionata «lei è venuto dall'uomo giusto
a chiedere giustizia.»

Settecento soldati a cavallo comparvero poco dopo e si accamparono sotto


Sauk-e-nuk, causando con la loro presenza eccitazione e disagio. Nello stesso
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tempo una nave a vapore risali, ruttando nubi di fumo, il Rock River. Si inca-
gliò tra gli scogli che davano al fiume il suo nome, ma i mookamonik la libera-
rono e quindi gettarono l'ancora, puntando il suo unico cannone contro il vil-
laggio. Il capo dei bianchi, generale Edmund P. Gaines, invitò i Sauk a un
colloquio. Sedevano al tavolo il generale, l'Indian Agent St. Vrain e il mercante
Davenport, che faceva da interprete. Erano presenti forse una ventina di Sauk,
fra i notabili del Popolo.
Il generale Gaines cominciò con l'affermare che il trattato del 1803, con-
cluso al momento della costruzione del forte a Rock Island, aveva anche
assegnato al Grande Padre di Washington tutte le terre sauk a est del Missis-
sippi - più di venti milioni di ettari. Dichiarò agli stupiti e sgomenti indiani che
essi avevano ricevuto tributi annuali, e ora il Grande Padre di Washington vo-
leva che i suoi figli lasciassero Sauk-e-nuk e andassero a vivere sull'altra riva
del Masesibowi, il Grande Fiume. Il Padre di Washington avrebbe dato loro un
dono di granturco, come provvista per l'inverno.
Capo dei Sauk era Keokuk, il quale sapeva che gli americani erano troppi.
Quando Davenport gli tradusse le parole del generale bianco, un enorme pugno
strinse il cuore di Keokuk. Mentre gli altri lo guardavano aspettando la sua
risposta, rimase in silenzio. Ma un uomo, che aveva imparato abbastanza la
lingua dei bianchi combattendo per gli inglesi, e quindi poteva spiegarsi di so-
lo, si alzò in piedi: «Noi non abbiamo venduto la nostra terra. Non abbiamo
mai ricevuto tributi dal nostro Padre americano. Noi terremo il nostro villag-
gio».
Il generale Gaines vide davanti a sé un indiano quasi vecchio, che non ave-
va in testa l'acconciatura di un capo. Era vestito di pelli di daino, con le guance
incavate e un'alta fronte ossuta. Il ciuffo di capelli tagliati a spazzola, che gli
divideva in due il cranio rasato, era più grigio che nero. Un grande naso a
becco sporgeva tra due occhi stranamente distanti l'uno dall'altro, sopra una
bocca imbronciata e un mento lezioso con una fossetta, che non sembrava
neanche appartenere a quel volto.
Gaines sospirò e volse uno sguardo interrogativo a Davenport.
«Si chiama Falco Nero.»
«E chi è?» chiese il generale a Davenport, ma Falco Nero rispose da solo.
«Sono un sauk. I miei padri erano i Sauk, grandi uomini. Io voglio restare
dove sono sepolte le loro ossa ed essere sepolto accanto a loro. Perché dovrei
lasciare i loro campi?»
L'indiano e il generale si fissarono, due sguardi d'acciaio.
«Io non sono venuto a pregarvi o a pagarvi perché lasciate il vostro villag-
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gio. Il mio compito è di farvi sgomberare» rispose Gaines imperturbabile. «In
forma pacifica, se posso. Con la forza, se devo. Ora vi do due giorni per partire
di qui. Se entro questo termine non avrete passato il Mississippi, vi caccerò con
la forza.»
Gli uomini del Popolo parlarono tra loro, guardando il cannone della nave
puntato sul loro villaggio. I soldati che cavalcavano intorno a piccoli gruppi,
caracollando e gettando grida di hurrà, erano ben nutriti e bene armati, con una
quantità di munizioni. I Sauk avevano vecchi fucili, scarse munizioni, nessuna
riserva di cibo.
Keokuk mandò un corriere a chiamare Wabokieshiek, Nuvola Bianca, che
viveva tra i Winnebago. Nuvola Bianca era di padre winnebago e di madre
sauk. Era alto e grasso con lunghi capelli grigi e - una rarità tra gli indiani -
ruvidi baffi neri. Era un grande sciamano e dedicava le sue cure ai bisogni dello
spirito e del corpo dei Winnebago, dei Sauk e dei Mesquakie. Le tre tribù lo
conoscevano come il Profeta, ma Nuvola Bianca non aveva profezie favorevoli
da offrire a Keokuk. Disse che l'esercito era una forza superiore e che Gaines
non avrebbe sentito ragioni. Il loro amico Davenport, il mercante, si incontrò
con il capo e con lo sciamano e insistette perché obbedissero agli ordini e
abbandonassero la terra prima che la contesa si trasformasse in uno scontro
sanguinoso.
Così, la seconda notte di quei due giorni che erano stati concessi al Popolo, i
Sauk abbandonarono Sauk-e-nuk come animali scacciati e attraverso il Masesi-
bowi entrarono nella terra dei loro nemici, gli Iowa.

Quell'inverno Due Cieli perdette la sua fede in un mondo sicuro. Il grano


consegnato dall'Indian Agent al nuovo villaggio a ovest del Masesibowi era di
cattiva qualità e insufficiente a tenere lontana la fame. Il Popolo non poteva
cacciare o catturare con le sue trappole abbastanza carne, perché molti avevano
barattato i loro fucili e le loro trappole con il whisky di Vandruff. Rimpian-
gevano la perdita dei raccolti che avevano abbandonato nei campi: il granturco
da farina, le saporose, nutrienti zucche, i grandi meloni dolci. Una notte cinque
donne riattraversarono il fiume e andarono nei loro vecchi campi a raccogliere
un po' di pannocchie gelate del mais che avevano seminato loro stesse la prece-
dente primavera. Furono scoperte dai coloni bianchi e crudelmente percosse.
Alcune notti dopo, Falco Nero con un piccolo gruppo di uomini a cavallo
tornò a Rock Island. Riempirono sacchi di granturco preso nei campi e
irruppero in un magazzino, prelevando zucche e meloni. In quel terribile
inverno sorse una violenta disputa fra i Sauk. Keokuk, il capo, affermava che
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l'incursione di Falco Nero avrebbe attirato contro di loro le rappresaglie dei
soldati bianchi. Il nuovo villaggio non era Sauk-e-nuk, ma poteva essere un
buon posto per viverci, e la presenza dei mookamonik, al di là del fiume, signi-
ficava un mercato per le pelli dei cacciatori sauk.
Falco Nero affermava che i visi pallidi avrebbero spinto i Sauk sempre più
lontano dal fiume, e poi li avrebbero distrutti. L'unica alternativa era combat-
tere. L'unica speranza per tutti gli uomini di pelle rossa era quella di dimen-
ticare le inimicizie tribali e unirsi insieme, dal Canada al Messico, con l'aiuto
del Padre Inglese, contro il grande nemico, l'Americano.
I Sauk discussero a lungo. Quando giunse la primavera la maggior parte del
Popolo aveva deciso di restare con Keokuk a ovest del Grande Fiume. Solo
trecentosessantotto uomini, insieme con le loro famiglie, legarono il loro desti-
no a quello di Falco Nero. Fra essi c'era Bisonte Verde.

Le canoe erano ormai cariche: Falco Nero, il Profeta e Neosho, uno stre-
gone sauk, si imbarcarono nella canoa di testa, gli altri li seguirono reman-do
vigorosamente contro l'impetuosa corrente del Masesibowi. Falco Nero aveva
ordinato che nessuno distruggesse o uccidesse finché le sue forze non erano
attaccate. Durante la navigazione, quando si avvicinavano a una fattoria di
mookamonik, ordinava ai suoi di suonare i tamburi e cantare. Con le donne, i
bambini e i vecchi aveva circa milletrecento voci e i coloni fuggivano al terri-
bile suono. In alcune fattorie si procurarono del cibo, ma avevano molte bocche
da nutrire e non avevano tempo di cacciare o pescare.
Falco Nero aveva mandato messaggeri a una dozzina di tribù, e in Canada
agli inglesi, per chiedere aiuto. I messaggeri riportarono cattive notizie. Non
c'era da sorprendersi che vecchi nemici come i Sioux e i Chippewa e gli Osage
rifiutassero di allearsi con i Sauk contro i visi pallidi: ma non rispose all'appel-
lo neppure il fraterno popolo dei Mesquakie, né alcun'altra tribù amica. E, cosa
ancora peggiore, il Padre Inglese mandò ai Sauk solo parole di incoraggia-
mento e auguri di buona fortuna in guerra.
Ricordando i cannoni delle navi da guerra, Falco Nero condusse il suo
popolo lontano dalla riva del fiume, dopo aver tirato in secco le canoe sulla
sponda est dalla quale erano stati esiliati. Poiché ogni minima quantità di cibo
era preziosa, ognuno divenne un portatore, anche le squaw che erano gravide di
un figlio, come Unione-di-Fiumi. Passarono oltre Rock Island e risalirono la
valle del Rock River per incontrarsi con i Potawatomi da cui speravano di
avere in prestito un po' di terreno per coltivarvi il loro mais. Appunto dai Pota-
watomi Falco Nero venne a sapere che il Grande Padre di Washington aveva
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venduto le terre dei Sauk a investitori bianchi. Il terreno su cui sorgeva Sauk-e-
nuk e quasi tutti i loro campi erano stati comprati da George Davenport, il mer-
cante che, pretendendo di essere loro amico, li aveva insistentemente consi-
gliati ad abbandonare il paese.
Falco Nero ordinò una Festa del Cane, perché sapeva che il Popolo aveva
bisogno dell'aiuto dei manitou. Il Profeta sorvegliò l'uccisione dei cani, la
pulitura e la purificazione delle carni. Mentre stavano cuocendo, Falco Nero
pose le sue borse degli amuleti davanti ai suoi uomini. «Miei bravi, miei guer-
rieri,» disse «Sauk-e-nuk non esiste più. Le nostre terre sono state rubate. I
soldati dei visi pallidi hanno bruciato i nostri hedonoso-te. Hanno abbattuto gli
steccati dei nostri campi. Hanno passato l'aratro sul nostro Sito dei Morti e
piantato grano in mezzo alle nostre sacre ossa. Queste sono le borse degli
amuleti di nostro padre Muk-ataquet, che fu l'origine del popolo sauk. Furono
trasmesse al grande capo guerriero del nostro popolo, Na-namakee, che fu in
guerra con tutti i popoli dei laghi e con tutti i popoli delle pianure e non fu mai
sconfitto. Mi aspetto da voi tutti che sappiate difenderle.»
I guerrieri mangiarono le sacre carni e ne trassero forza e coraggio. Era
necessario, perché Falco Nero sapeva che i Lunghi Coltelli si preparavano ad
attaccarli. Forse furono i manitou che consentirono a Unione-di-Fiumi di parto-
rire il figlio in questo accampamento, piuttosto che durante la marcia. Era un
maschio, e la sua nascita contribuì a rianimare lo spirito dei guerrieri non meno
che la Festa del Cane, perché Bisonte Verde diede a suo figlio il nome di Wato-
kimita, Colui-Che-Possiede-Terra.
Le voci che Falco Nero e i suoi Sauk erano sul sentiero di guerra susci-
tarono una tale isterica agitazione nel Paese che il governatore Reynolds
dell'Illinois lanciò un appello per arruolare mille volontari a cavallo. Si
presentò un numero più che doppio di aspiranti sterminatori di indiani e 1.935
uomini completamente impreparati furono riuniti a Beardstown, mischiati con
342 soldati regolari e rapidamente organizzati in quattro reggimenti e due
battaglioni di ricognitori. Samuel Whiteside di St. Clair County fu nominato
generale di brigata e posto al comando delle truppe.
Dai rapporti dei coloni Whiteside venne a conoscere la posizione del campo
sauk e fece avanzare la sua brigata. Era stata una primavera insolitamente
piovosa e dovettero passare a nuoto anche i torrenti minori, mentre i comuni
acquitrini rivieraschi diventavano paludi in cui si dibattevano a fatica. Ci
vollero cinque giorni di duro cammino attraverso regioni senza strade perché la
brigata raggiungesse Oquawka, dove avrebbero dovuto trovare i rifornimenti.
Ma l'esercito aveva fatto un grossolano errore: non c'erano rifornimenti ad
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attenderli, e i militari avevano da tempo consumato i viveri che avevano porta-
to nelle loro sacche da sella. Indisciplinati e rissosi, gli uomini, che erano pur
sempre dei civili, tumultuarono contro i loro ufficiali, chiedendo cibo. White-
side spedì un dispaccio al generale Henry Atkinson a Fort Armstrong, e
Atkinson immediatamente mandò il piroscafo Chieftain con un carico di vetto-
vaglie. Whiteside fece avanzare i due battaglioni di soldati regolari, mentre per
almeno una settimana la massa dei volontari si riempì il ventre e rimase a
riposo.
Gli uomini erano penosamente consapevoli di trovarsi in un ambiente ostile
e sinistro. In un mite mattino di maggio il grosso della brigata, circa 1.600
uomini a cavallo, mosse contro Città del Profeta, il villaggio abbandonato di
Nuvola Bianca, e la diede alle fiamme. Ma dopo il fatto gli uomini divennero
inspiegabilmente nervosi e a poco a poco si convinsero che dietro a ogni colli-
na erano in agguato indiani assetati di vendetta. Questo nervosismo divenne
paura, e il panico portò alla disfatta. Abbandonando armi, munizioni e riserve
di cibo, si diedero a una fuga disperata davanti a un nemico inesistente, preci-
pitandosi per prati, boscaglie e foreste, da soli o in piccoli gruppi, senza fer-
marsi, finché, coperti di vergogna, non arrivarono nei dintorni della città di
Dixon, a 16 chilometri dal luogo dove avevano incominciato a correre.
Il primo vero scontro ebbe luogo non molto dopo. Falco Nero e circa qua-
ranta guerrieri erano in viaggio per incontrarsi con alcuni Potawatomi, da cui
cercavano di ottenere in affitto un campo di granturco. Si erano accampati sulle
rive del Rock River quando un esploratore riferì che una numerosa squadra di
Lunghi Coltelli marciava nella loro direzione. Falco Nero legò immedia-
tamente una bandiera bianca a un palo e mandò tre Sauk disarmati incontro ai
bianchi per chiedere un colloquio con il loro comandante. Dietro di loro mandò
altri cinque uomini a cavallo come osservatori.
I soldati non avevano alcuna esperienza di lotta con gli indiani e furono
terrorizzati alla vista dei Sauk. Catturarono immediatamente i tre messaggeri
con la loro bandiera di tregua e li fecero prigionieri; poi si gettarono all'in-
seguimento degli altri cinque osservatori due dei quali furono raggiunti e uc-
cisi. Gli altri riuscirono ad arrivare al campo, sempre inseguiti dai soldati.
Quando le truppe bianche sopraggiunsero, furono attaccate da circa trenta-
cinque guerrieri guidati dalla fredda furia di Falco Nero, disposto ad affrontare
la morte del valoroso per vendicare il tradimento dei visi pallidi. I soldati
dell'avanguardia immaginarono che gli indiani avessero alle spalle un esercito
sterminato di guerrieri: gettarono un primo sguardo ai Sauk che li attaccavano,
voltarono i cavalli e si diedero alla fuga.
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Nulla è così contagioso come il panico in battaglia e in pochi minuti le
truppe bianche furono in pieno caos. Nella confusione due dei tre Sauk che
erano stati catturati con la bandiera di tregua riuscirono a fuggire. Il terzo fu
ucciso a fucilate. I 275 soldati regolari, a cavallo e bene armati, furono presi dal
terrore e fuggirono non meno precipitosamente del grosso dei volontari; ma
questa volta il pericolo non era immaginario. Le poche decine di guerrieri di
Falco Nero li incalzarono, catturarono gli sbandati e se ne tornarono con undici
scalpi. Alcuni dei 264 bianchi in fuga non si fermarono finché non raggiunsero
le loro case, ma la maggior parte dei soldati si raggrupparono infine nella città
di Dixon.

Per tutto il resto della sua vita la fanciulla che era chiamata Due Cieli dove-
va ricordare la gioia che seguì quella battaglia. Giovane com'era, sentiva intor-
no la speranza. La notizia della vittoria si diffuse rapidamente nel mondo dei
pellirosse e ben presto 92 Winnebago vennero a unirsi a loro. Falco Nero
andava in giro con una camicia bianca guarnita di increspature e un trattato di
giurisprudenza rilegato in pelle sotto il braccio - entrambi trovati in una sacca
da sella abbandonata da un ufficiale fuggiasco. La sua eloquenza infiammava
gli uomini. Avevano dimostrato che i mookamonik potevano essere sconfitti,
diceva, e ora altre tribù avrebbero mandato i loro guerrieri a formare quell'al-
leanza che era il suo sogno.
Ma i giorni passarono e nessun guerriero arrivò. Le riserve di cibo dimi-
nuivano e la cacciagione era scarsa. Infine Falco Nero mandò i Winnebago in
una direzione e condusse il Popolo nell'altra. Contro i suoi ordini, i Winnebago
attaccarono insediamenti bianchi rimasti indifesi e riportarono gli scalpi delle
vittime, compreso quello di St. Vrain, l'Indian Agent. Per due giorni di seguito
il cielo divenne verde e nero e il manitou Shagwa scosse l'aria e la terra. Wa-
bokieshiek ammoni Falco Nero a non mettersi mai in marcia se non dopo aver
mandato molto avanti degli esploratori e il padre di Due Cieli borbottò che non
era necessario un profeta per capire che si stavano preparando brutti giorni.

Il governatore Reynolds era furioso. La vergogna che provava per la scon-


fitta della sua milizia era condivisa dalla plebaglia di tutti gli Stati confinanti. I
saccheggi dei Winnebago venivano ingigantiti e attribuiti a Falco Nero. Nuovi
volontari affluirono da ogni parte, attirati dalla voce che era ancora in vigore
una taglia stabilita da una legge dell'Illinois del 1814: 50 dollari per ogni
maschio indiano ucciso o ogni squaw o bambino pellerossa catturati. Reynolds
non fece fatica ad arruolare altri tremila uomini. Duemila soldati bramosi di
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lotta erano già accampati nei forti lungo il Mississippi, sotto il comando del
generale Henry Atkinson, con il colonnello Zachary Taylor come comandante
in seconda. Due compagnie di fanteria furono trasferite da Baton Rouge,
Louisiana, nell'Illinois, e un'armata di mille soldati regolari avanzò dalle posta-
zioni orientali sotto il comando del generale Winfield Scott. Queste truppe
furono colpite dal colera mentre attraversavano su navi a vapore i Grandi
Laghi, ma anche senza di loro un'enorme forza militare assetata di vendetta raz-
ziale e bramosa di lavare nel sangue l'onta recente era stata messa in mo-
vimento.
Per la giovane Due Cieli il mondo divenne piccolo. Le era sempre sembrato
immenso durante i lenti viaggi tranquilli fra il campo invernale dei Sauk nel
Missouri e il loro villaggio estivo sul Rock River. Ma ora, dovunque i suoi si
volgessero, trovavano i ricognitori bianchi e c'erano scontri e urla prima che
potessero liberarsene. Avevano conquistato alcuni scalpi e perduto alcuni valo-
rosi guerrieri. Ed erano stati fortunati a non incontrare il grosso delle truppe
bianche. Falco Nero escogitava finte e svolte lungo il percorso, lasciando false
tracce per eludere i nemici; ma la maggior parte del suo seguito era formato da
donne e bambini ed era difficile tener celati i movimenti di tante persone.
Ben presto il loro numero diminuì. I vecchi morivano, e anche alcuni
bambini. Il fratellino appena nato di Due Cieli aveva un faccino smunto con
grandi occhi smarriti. Il latte della madre non era mancato del tutto, ma il
flusso era lento e scarso e non bastava mai a saziare il bambino. Per la maggior
parte del tempo era Due Cieli che portava il fratellino in braccio.
Falco Nero ormai non parlava più della prospettiva di scacciare i visi
pallidi. Parlava invece della possibilità di rifugiarsi nell'estremo nord, da dove i
Sauk erano scesi centinaia di anni prima. Ma via via che passavano le lune,
molti dei suoi seguaci non ebbero più abbastanza fede da restare con lui.
Gruppo dopo gruppo abbandonarono i Sauk e si diedero alla fuga per conto
loro. I piccoli gruppi probabilmente non avrebbero avuto la possibilità di
sopravvivere, ma per la maggior parte erano convinti che i manitou non erano
più dalla parte di Falco Nero.
Bisonte Verde rimase fedele, benché quattro lune dopo aver lasciato i Sauk
di Keokuk il gruppo di Falco Nero si fosse ridotto a qualche centinaio di
disperati che cercavano di sopravvivere mangiando radici e scorza d'alberi.
Tornarono al Masesibowi, traendo come sempre conforto dal Grande Fiume. Il
piroscafo Warrior sorprese il grosso dei Sauk nelle acque basse alla confluenza
del fiume Wisconsin con il Mississippi, dove i pellirosse cercavano di pescare.
Quando puntò su di loro, Falco Nero vide il cannone sulla prua e capì che
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non potevano più combattere. I suoi uomini alzarono una bandiera bianca, ma
il Warrior continuava ad avvicinarsi e un mercenario winnebago dal ponte
gridò nella loro lingua: «Correte a nascondervi! I bianchi stanno per spara-
re!».
Avevano cominciato a correre sguazzando verso la riva, quando il cannone
sparò una bordata a zero, seguita da un intenso fuoco di fucileria. Ventitré Sauk
furono uccisi. Gli altri riuscirono a rifugiarsi nei boschi, trascinando o portando
sulle spalle i feriti.
Quella notte si riunirono per discutere. Falco Nero e il Profeta decisero di
ritirarsi nel territorio dei Chippewa, con la speranza di poter vivere là. Tre clan
del Popolo si dichiararono pronti a seguirli, ma gli altri, compreso Bisonte
Verde, non credevano che i Chippewa avrebbero ceduto campi di mais ai Sauk
quando le altre tribù si erano rifiutate, e stabilirono di tornare dai Sauk di
Keokuk. La mattina dissero addio ai pochi che partivano per le terre dei Chip-
pewa e intrapresero il lungo cammino verso sud.
Il piroscafo Warrior scoprì le tracce degli indiani seguendo gli stormi di
avvoltoi lungo il corso del fiume. Ora, ovunque i Sauk si dirigessero, i morti
venivano semplicemente abbandonati. Alcuni erano vecchi e bambini, altri era-
no i guerrieri rimasti feriti nel precedente attacco. Quando il piroscafo si ferma-
va per esaminare i corpi, i soldati prelevavano sempre gli orecchi e gli scalpi.
Non aveva importanza che il ciuffo di capelli neri fosse di un bambino, o l'o-
recchio fosse di una donna: venivano orgogliosamente portati nelle piccole
città di provincia come prova che i loro proprietari erano valorosi cacciatori di
indiani.
I Sauk che erano rimasti vivi lasciarono il Masesibowi e si diressero nell'in-
terno, solo per trovarsi di fronte ai mercenari Winnebago assoldati dall'esercito.
Dietro i Winnebago, schiere di soldati inastavano quelle baionette, che avevano
indotto gli indiani a chiamarli Lunghi Coltelli. Quando i bianchi caricarono,
salì dalle loro gole un grido rauco, animalesco, più profondo di un urlo di
guerra ma altrettanto selvaggio. Erano tanti e accaniti a uccidere per rigua-
dagnare qualcosa che credevano di aver perduto. I Sauk non poterono far altro
che indietreggiare, sempre sparando. Quando raggiunsero di nuovo il Masesi-
bowi cercarono di resistere, ma furono ben presto cacciati nelle acque del
fiume. Due Cieli era vicina a sua madre, con l'acqua fino alla vita, quando un
proiettile maciullò la mascella inferiore di Unione-di-Fiumi. La donna cadde in
avanti con la faccia nell'acqua. Due Cieli dovette faticosamente girarla sul
dorso, reggendo in braccio il piccolo Colui-Che-Possiede-Terra. Riuscì a farlo
con immenso sforzo, poi capì che la madre era morta. Non vedeva né suo padre
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né sua sorella. Il mondo intorno a lei non era che urli e spari. E quando i Sauk
guadarono il fiume verso una piccola isola coperta di salici, Due Cieli andò con
loro.
Cercarono rifugio sull'isola, nascondendosi dietro a rocce e tronchi caduti.
Ma, uscendo dalla nebbia come un enorme spettro, il piroscafo ebbe ben presto
l'isoletta sotto il tiro del suo cannone. Alcune delle donne si gettarono nel
fiume e cercarono di attraversarlo a nuoto. Due Cieli non sapeva che l'esercito
aveva assoldato bande di Sioux perché li aspettassero sull'altra riva e ucci-
dessero chiunque riusciva ad arrivare, e infine si gettò anch'essa nell'acqua,
afferrando con i denti il neonato per la tenera pelle della collottola in modo da
avere le mani libere per nuotare. I suoi denti affondarono nella carne del
piccino e lei sentì il sapore del sangue del fratello, e i muscoli del suo collo e
delle spalle si tesero in uno sforzo tormentoso per tenere la testina fuori
dell'acqua. Ben presto si sentì sfinita e capì che, se continuava così, lei e il
neonato sarebbero annegati. La corrente li trascinò a valle, lontano dal fuoco, e
la fanciulla puntò verso la riva nuotando come una volpe o uno scoiattolo che
trasportassero i loro piccoli. Arrivata a terra, si sdraiò accanto al neonato che
urlava, cercando di non vedere la sua nuca sanguinante.
Dopo qualche momento prese in braccio Colui-Che-Possiede-Terra e lo
portò lontano dal rombo degli spari. Seduta sulla riva, a poca distanza, vide una
donna: era sua sorella. Donna Alta era coperta di sangue, ma disse a Due Cieli
che non era il suo sangue: un soldato la stava violentando quando un proiettile
l'aveva colpito al fianco. Aveva cercato di uscire da sotto il suo corpo insan-
guinato; il soldato aveva alzato una mano e aveva chiesto aiuto nella sua lingua
e lei aveva preso un grosso sasso e l'aveva ucciso. Donna Alta riuscì a raccon-
tare la sua storia ma non comprese del tutto quando Due Cieli le disse della
morte della loro madre. Le urla e gli spari sembravano avvicinarsi. Due Cieli
con il bimbo in braccio e la sorella per mano si addentrò nella boscaglia e li si
tennero accovacciate. Donna Alta non parlava, ma il neonato non cessava i suoi
acuti strilli e Due Cieli temeva che i soldati li udissero e li sorprendessero. Si
aprì la veste e avvicinò la bocca del piccino al suo seno non ancora sviluppato.
Il piccolo capezzolo si gonfiò al succhiare delle minuscole labbra e lei si strinse
il fratellino al petto.
Le ore passarono, gli spari si fecero meno intensi e il tumulto si placò. Le
ombre della sera si allungavano al suolo quando Due Cieli udì avvicinarsi i
passi di una pattuglia, e il neonato ricominciò a strillare. Per un attimo pensò di
strangolare il bambino, perché lei e Donna Alta potessero vivere. Invece si
limitò ad aspettare e dopo qualche minuto un magro ragazzo bianco frugò nel
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cespuglio con il suo moschetto e le trascinò fuori. Mentre camminavano verso
il piroscafo, ovunque girassero lo sguardo vedevano cadaveri di persone a loro
note, senza orecchi né scalpi. I Lunghi Coltelli radunarono sul ponte trentanove
fra donne e bambini: tutti gli altri erano stati uccisi. Il neonato continuava a
strillare e un winnebago lo guardò storto. «Piccolo topo di fogna» disse sprez-
zante, ma un soldato con due strisce gialle sulla casacca blu mescolò acqua e
zucchero in una bottiglia di whisky e vi infilò uno straccio. Tolse il piccino
dalle braccia di Due Cieli e gli diede lo straccio inzuccherato da succhiare; poi
se ne andò con un'espressione compiaciuta sul viso, portandosi via il bambino.
Due Cieli cercò di seguirlo, ma il winnebago la colpì sulla testa con la grossa
mano finché lei si sentì rombare le orecchie. Il piroscafo si allontanò lungo il
fiume, fra i cadaveri galleggianti dei Sauk, e le portò una sessantina di chilo-
metri più a valle, fino a Prairie du Chien. Qui lei e Donna Alta e altre tre fan-
ciulle sauk, Donna Fumo, Luna e Uccello Giallo, furono sbarcate e condotte in
un carro. Luna era più giovane di Due Cieli, le altre due erano maggiori di lei,
ma non tanto quanto Donna Alta. Due Cieli non seppe mai come finirono le
altre prigioniere sauk e non rivide mai più Colui-Che-Possiede-Terra.

Il carro arrivò a una postazione militare che, come seppero più tardi, si
chiamava Fort Crawford, ma non entrò e portò le giovani sauk cinque chilo-
metri oltre il forte, a una fattoria di bianchi circondata da baracche e palizzate.
Due Cieli vide campi arati e coltivati e diverse specie di animali al pascolo e di
pollame. Dentro la casa non riusciva neppure a respirare perché l'aria le appa-
riva estranea, satura com'era di odore di sapone e di cera per pavimenti, un
odore di inviolabile intimità mookamon che detestò poi per tutta la vita. Alla
Scuola Evangelica per Ragazze Indiane dovette sopportarlo per quattro anni.
La scuola era diretta dal reverendo Edvard Bronsun e da Miss Eva, fratello e
sorella di mezza età. Nove anni prima, con il patrocinio della Società Missio-
naria di New York City, si erano accinti a penetrare nel territorio sconosciuto
degli indiani per portare quei selvaggi pagani a Gesù. Avevano cominciato la
loro scuola con due ragazze Winnebago, una delle quali debole di mente. Con
perversa ostinazione le femmine indiane rifiutarono i ripetuti inviti dei due
Bronsun di andare a coltivare i loro campi, curare il loro bestiame, imbiancare i
loro edifici e fare le pulizie della loro casa. Solo con l'intervento delle autorità e
dell'esercito fu possibile obbligarne qualcuna al lavoro, finché con l'arrivo delle
ragazze sauk i due missionari ebbero ventun imbronciate ma obbedienti allieve
che lavoravano in una delle fattorie meglio tenute della regione.
Il reverendo Edvard, alto e magro, con il cranio calvo e lentigginoso, istrui-
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va le ragazze in agricoltura e religione, mentre Miss Eva, corpulenta matrona
dagli occhi gelidi, insegnava come i bianchi si aspettassero che i pavimenti
fossero lavati, i mobili spolverati e il legno lucidato. Gli studi delle allieve con-
sistevano in lavori domestici e nell'incessante, pesante lavoro nei campi, nel-
l'imparare a parlare inglese, dimenticare la lingua e la cultura natie e pregare
divinità straniere. Miss Eva, sempre con il suo freddo sorriso, somministrava i
castighi per le diverse colpe, come pigrizia o insolenza o l'uso di una parola
indiana, utilizzando flessibili bacchette tagliate dal prugno della fattoria.
Le altre allieve erano delle tribù dei Winnebago, Chippewa, Illinois, Kicka-
poo, Irochesi e Potawatomi. Tutte guardarono le nuove venute con ostilità, ma
le Sauk non le temevano: arrivando insieme, formavano una maggioranza
tribale, anche se il sistema del posto cercava di annullare questo vantaggio. La
prima cosa che ogni nuova ragazza perdeva era il suo nome indiano. I Bronsun
erano convinti che solo sei nomi biblici fossero capaci di ispirare pietà in una
neofita: Rachel, Ruth, Matu, Martha, Sarah o Anna. Poiché a causa di questo
numero così limitato diverse ragazze avevano lo stesso nome, per evitare
confusione assegnavano a ogni allieva un numero, che restava disponibile
quando l'assegnataria lasciava la scuola. Così Luna divenne Ruth Tre; Donna
Alta, Mary Quattro; Uccello Giallo, Rachel Due; e Donna Fumo, Martha Tre.
Due Cieli fu Sarah Due.
Non fu difficile adattarsi. Le prime parole che le ragazze impararono furono
"per favore" e "grazie". A tavola tutti i cibi e le bevande venivano identificati
una prima volta in inglese. Da quel momento quelle che non li chiedevano in
inglese restavano senza cibo. Le ragazze sauk impararono l'inglese molto rapi-
damente. I due pasti giornalieri erano composti da farina di mais e pane di
granturco e varie radici commestibili tritate. La carne, molto rara, era lardo o
selvaggina minuta. Le ragazze, che avevano provato la fame, mangiavano avi-
damente. Malgrado il duro lavoro, misero un po' di carne sulle ossa. L'espres-
sione apatica sparì dal viso di Donna Alta; ma delle cinque ragazze sauk lei era
quella che più facilmente si distraeva e si metteva a parlare nella lingua del
Popolo, e così veniva picchiata più spesso delle altre. Nel secondo mese di
scuola, Miss Eva la sentì mormorare in lingua sauk e la frustò duramente, men-
tre il reverendo Edvard stava a guardarla. Quella notte il reverendo venne nel
buio dormitorio del solaio e sussurrò che aveva un unguento da spalmare sulla
schiena di Mary Quattro per lenire il dolore e la condusse fuori del dormitorio.
Il giorno dopo Mr. Edvard diede a Donna Alta un sacchetto di pane di mais,
che la fanciulla divise con le altre Sauk. Dopo di ciò egli venne spesso al
dormitorio di notte a prendere Donna Alta, e le ragazze Sauk si abituarono alla
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gradita aggiunta di cibo.
Dopo quattro mesi Donna Alta cominciò a sentirsi male al mattino e lei e
Due Cieli capirono, prima ancora che si vedesse dal rigonfiamento del ventre,
che aspettava un bambino.
Poche settimane dopo Mr. Edvard attaccò il cavallo al calesse e Miss Eva
prese con sé Donna Alta nel calesse e la condusse via. Tornò sola e riferì a Due
Cieli che sua sorella era stata fortunata: da ora in poi sarebbe rimasta a lavorare
in una bella fattoria cristiana, dall'altra parte di Fort Crawford. Due Cieli non
rivide più Donna Alta.

Ogniqualvolta Due Cieli era sicura che fossero sole, parlava alle altre
ragazze nella loro lingua. Mentre mondavano le patate dagli insetti, raccontava
loro le antiche leggende che Unione-di-Fiumi aveva raccontato a lei. Mentre
ripulivano le barbabietole dalle erbacce, cantava le canzoni dei Sauk. E mentre
tagliavano la legna parlava loro di Sauk-e-nuk e del campo invernale, ricordan-
do le danze e le feste e gli uomini del loro Popolo, morti o vivi. E se non le
rispondevano nella loro lingua, minacciava di batterle più aspramente di quanto
facesse Miss Eva. Anche se due delle ragazze erano maggiori di età, e più alte e
più forti di lei, nessuna osava disobbedire e le fanciulle conservarono la loro
lingua.
Trascorsero così circa tre anni. Un giorno arrivò una nuova allieva, una
ragazza sioux. Penna d'Ala era maggiore di Donna Alta, come età; era della
tribù dei Wabashaw e di notte tormentava le fanciulle sauk raccontando come
suo padre e i suoi fratelli avevano aspettato i Sauk sull'altra sponda del Masesi-
bowi e avevano ucciso e scotennato a uno a uno tutti i loro nemici sauk che
erano riusciti ad attraversare il fiume durante il massacro alla foce del Bad
Axe. Penna d'Ala ebbe il nome di Donna Alta, Mary Cinque. Fin dal principio
Mr. Edvard l'aveva adocchiata. Due Cieli sognava di ucciderla, ma la presenza
di Penna d'Ala risultò una fortuna, perché due mesi dopo anche lei era incinta:
forse Mary era un nome propiziatore di fecondità.
Due Cieli osservò gonfiarsi il ventre di Penna d'Ala, e fece progetti e prepa-
rativi. Un caldo, tranquillo giorno d'estate Miss Eva condusse via Penna d'Ala
con il calesse; Mr. Edvard rimase solo e non poteva controllare tutto. Appena
Miss Eva si fu allontanata, Due Cieli gettò a terra la zappa con cui stava
lavorando nel campo di bietole e strisciò via furtivamente finché arrivò dietro il
fienile. Accumulò resinose ramaglie di pino contro le pareti di legno secco e le
accese con gli zolfanelli che aveva rubato e messo da parte per l'occasione.
Quando si accorsero del fuoco, il fienile era già in fiamme. Mr. Edvard si
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precipitò come un pazzo dal campo di patate, urlando con gli occhi fuori delle
orbite, e mise le ragazze in fila con i secchi d'acqua.
Due Cieli rimase fredda nel trambusto generale. Andò a cercare Luna,
Uccello Giallo e Donna Fumo. Poi ebbe un'altra idea: prese una delle chiavi di
Miss Eva e se ne servì per far uscire il grosso maiale maschio dal fetido fango
del porcile. Lo spinse nella lustra e ordinata casa di Miss Eva, odorosa di pietà,
e chiuse la porta. Poi guidò le altre ragazze verso i boschi, lontano dalla fattoria
dei mookamonik.
Evitarono le strade e camminarono nei boschi finché raggiunsero il fiume.
Un grosso tronco di quercia era arenato sulla spiaggia e le ragazze lo spinsero
nell'acqua. La calda corrente del fiume conteneva le ossa e gli spiriti dei loro
cari e abbracciò le ragazze che si stringevano al tronco; così il Masesibowi le
portò verso sud.
Lasciarono il fiume quando cominciò a far buio. Quella notte dormirono nei
boschi, con lo stomaco vuoto. La mattina, mentre raccoglievano bacche lungo
la riva, trovarono nascosta fra le canne una canoa sioux e immediatamente la
rubarono, sperando che appartenesse a un parente di Penna d'Ala. Era già
pomeriggio quando, girando un'ansa, arrivarono alla Città del Profeta. Sulla
riva un pellerossa stava pulendo del pesce. Quando videro che era un me-
squakie risero di sollievo e spinsero la canoa come una freccia verso di lui.

Appena gli fu possibile dopo la guerra, Nuvola Bianca tornò alla Città del
Profeta. I visi pallidi avevano bruciato la sua baracca insieme alle altre, ma egli
si costruì un nuovo hedonoso-te. Quando corse voce che lo sciamano era
tornato, numerose famiglie cominciarono ad arrivare come prima da diverse
tribù e alzarono nei dintorni le loro tende, per poter vivere vicino a lui. Altri
discepoli venivano di tanto in tanto, ma ora egli osservava con speciale
interesse le quattro ragazzine che erano fuggite dai bianchi e si erano così fa-
ticosamente aperta la via fino a lui. Per diversi giorni le studiò attentamente
mentre riposavano e mangiavano nella sua capanna, notando che tre di loro si
rivolgevano alla quarta per guida e aiuto in ogni cosa. Le interrogò separata-
mente e a lungo, e ognuna gli parlava di Due Cieli.
Sempre Due Cieli. Cominciò a osservarla con crescente speranza.
Infine prese due pony e disse a Due Cieli di accompagnarlo. La fanciulla
montò in sella dietro di lui e cavalcarono per la maggior parte della giornata,
finché il terreno cominciò a salire. Tutte le montagne sono sacre, ma in pianura
anche una collina è un posto santo: sulla cima boscosa la condusse in una
radura, piena dell'odore muschioso degli orsi, dove il terreno era sparso di ossa
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di animali e di ceneri di fuochi spenti.
Quando smontarono da cavallo, Wabokieshiek si tolse la coperta dalle
spalle e ordinò a Due Cieli di svestirsi e sdraiarsi sopra. Due Cieli non osò
rifiutare, benché fosse certa che il vecchio sciamano intendeva abusare sessual-
mente di lei. Ma quando Wabokieshiek la toccò, non era la mano di un amante.
La esaminò finché fu certo che la fanciulla era intatta.
Quando il sole tramontò, entrarono nei boschi vicini e lo sciamano collocò
tre trappole. Poi fece un fuoco nella radura e vi sedette accanto, salmodiando
mentre Due Cieli si sdraiava a terra e dormiva.
Quando la ragazza si svegliò, vide che Nuvola Bianca aveva preso un coni-
glio da una delle trappole e gli stava tagliando il ventre. Due Cieli era affamata,
ma il vecchio non diede segno di voler cuocere il coniglio, invece frugava nelle
sue viscere e le studiava più attentamente e più a lungo di quanto avesse fatto
per il corpo della fanciulla. Quando ebbe finito, grugni di soddisfazione e la
fissò con uno sguardo cauto e meravigliato.
Allorché lui e Falco Nero avevano avuto notizia del massacro del loro
popolo al fiume Bad Axe, erano stati presi da un profondo abbattimento. Non
volevano che altri Sauk morissero sotto il loro comando e perciò si conse-
gnarono all'Indian Agent, a Prairie du Chien. A Fort Crawford furono affidati a
un giovane luogotenente dell'esercito, Jefferson Davis, che portò i suoi prigio-
nieri, navigando sul Masesibowi, fino a St. Louis. Per tutto l'inverno rimasero
confinati nelle caserme di Jefferson, soffrendo l'umiliazione delle catene e della
palla al piede. In primavera, per dimostrare ai visi pallidi come il loro esercito
avesse definitivamente sconfitto il Popolo, il Grande Padre di Washington
ordinò che i due prigionieri fossero portati in giro per le città d'America. I due
indiani videro per la prima volta la ferrovia e viaggiarono in treno fino a
Washington e poi a New York, Albany e Detroit. Ovunque, come mandrie di
bisonti, le folle si accalcavano per vedere le due rarità, gli sconfitti «capi
indiani».
Nuvola Bianca vide così enormi città, magnifici edifici, macchine terribili.
Innumerevoli, infiniti americani. Quando gli consentirono di tornare alla Città
del Profeta, dovette ammettere l'amara verità: mai più sarebbe stato possibile
scacciare i mookamonik dalle terre dei Sauk. I pellirosse sarebbero stati conti-
nuamente scacciati e scacciati, sempre più lontano dai migliori terreni di caccia
e di coltivazione. Quelli che erano i suoi figli, i Sauk e i Mesquakie e i Win-
nebago, dovevano rassegnarsi a un mondo crudele dominato dai bianchi. Il
problema non era più quello di scacciare i bianchi. Ora lo sciamano rifletteva
su come il suo popolo potesse cambiare per sopravvivere, e insieme conservare
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i suoi manitou, le sue sacre pratiche mediche tradizionali. Era vecchio, presto
sarebbe morto: e cominciò a guardarsi intorno per trovare qualcuno a cui
potesse trasmettere la sua eredità, qualcuno in cui, come in un sacro vaso,
potesse riversare l'anima delle tribù algonchine. Ma non aveva trovato nessuno,
tranne questa ragazza.
Tutto questo Nuvola Bianca spiegò a Due Cieli, mentre stava seduto nel
luogo sacro sulla sommità della collina, frugando in cerca degli auspici favo-
revoli nel ventre del coniglio, che ora cominciava a puzzare. Quando finì, le
chiese se era disposta a consentire che lui la istruisse per farla diventare una
sciamana.
Due Cieli era ancora una fanciulla, ma ne sapeva abbastanza da restarne
spaventata. C'erano molte cose al di là della sua comprensione, ma capiva ciò
che era importante.
«Proverò» mormorò al Profeta.

Nuvola Bianca mandò Luna, Uccello Giallo e Donna Fumo a vivere con i
Sauk di Keokuk, ma Due Cieli rimase alla Città del Profeta e visse nella
capanna di Wabokieshiek come una figlia prediletta. Nuvola Bianca le mostrò
foglie e radici e cortecce, e le insegnò quali potevano sollevare lo spirito fuori
del corpo e consentirgli di conversare con i manitou, quali servivano a conciare
le pelli di daino o a preparare i colori di guerra, quali dovevano essere seccate e
quali messe in infusione, quali dovevano essere bollite e quali ridotte in
poltiglia e in unguento, quali dovevano essere raschiate con colpi verso l'alto e
quali con colpi verso il basso, quali potevano aprire le viscere e quali chiuderle,
quali potevano mitigare la febbre o il dolore, quali potevano guarire e quali
uccidere.
Due Cieli ascoltava. Alla fine di quattro stagioni, quando il Profeta la
esaminò, ne fu compiaciuto. Le disse che l'aveva guidata attraverso la prima
Tenda della Saggezza.
Prima che fosse condotta alla seconda Tenda della Saggezza, la sua
femminilità sbocciò in lei per la prima volta. Una delle nipoti di Nuvola Bianca
le mostrò come prendersi cura di se stessa e ogni mese Due Cieli andava a
soggiornare nella capanna delle donne finché la sua vagina sanguinava. Il
Profeta le spiegò che non avrebbe mai dovuto celebrare un rito o curare una
malattia o una ferita prima di essere passata nella capanna del bagno di sudore,
per purificarsi dopo il flusso mensile.
Nei successivi quattro anni Due Cieli imparò come invocare i manitou con
canti e tamburi, come sacrificare i cani con diversi riti cerimoniali e cuocere le
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loro carni per una Festa del Cane, come insegnare ai cantori a partecipare alle
danze sacre. Imparò a leggere il futuro nelle viscere degli animali sacrificati.
Imparò il potere della suggestione - a succhiare la malattia da un corpo e a
sputarla dalla propria bocca come un sassolino, in modo che il malato potesse
toccarla e vedere che era stata espulsa dal suo corpo. E quando non poteva
persuadere i manitou a lasciar vivere il malato, imparò come accompagnare,
salmodiando antiche nenie, lo spirito del morente nell'altro mondo. C'erano
sette Tende della Saggezza. Nella quinta il Profeta le insegnò come controllare
il proprio corpo, per arrivare a capire come controllare il corpo degli altri. Due
Cieli imparò a dominare la sete e a vivere lunghi periodi senza cibo. Spesso
Nuvola Bianca la accompagnava a cavallo in luoghi molto lontani e tornava
alla Città del Profeta da solo con i due cavalli, lasciandola a cercarsi la strada
del ritorno a piedi. Gradualmente le insegnò come controllare il dolore
mandando la mente lontano, in un punto profondo di se stessa, così profondo
che il dolore non potesse arrivare alla coscienza.
Alla fine di quell'estate la ricondusse alla radura sacra sulla sommità della
collina. Accesero il fuoco, levarono canti ai manitou e di nuovo collocarono
trappole. Presero uno scarno coniglio marrone e, quando gli aprirono il ventre
ed esaminarono gli organi, Due Cieli riconobbe che gli auspici erano favo-
revoli.
Al crepuscolo di quel giorno Nuvola Bianca le ordinò di togliersi le vesti e
le scarpe. Quando fu nuda, lo sciamano con il suo coltello inglese praticò
doppie incisioni su ciascuna delle sue spalle, poi attentamente tagliò in modo
da ottenere strisce di pelle simili alle spalline degli ufficiali bianchi. Passò una
fune sotto queste strisce sanguinanti, fece un nodo, poi gettò la fune sul ramo di
un albero e issò la fanciulla finché rimase sospesa al di sopra del suolo, appesa
alla sua stessa carne sanguinante.
Con sottili bacchette di quercia dalla punta incandescente impresse a fuoco
sui lati dei due giovani seni i sacri segni degli spiriti del Popolo e i simboli dei
manitou.
Si fece buio mentre Due Cieli stava cercando di liberarsi. Per metà della
notte continuò a dibattersi, finché la striscia di pelle sulla sua spalla destra si
spezzò. Subito dopo si lacerò la carne della sua spalla sinistra e Due Cieli cad-
de a terra; con la mente rifugiata nel lontanissimo punto profondo per non sen-
tire il dolore, forse si addormentò.
Quando spuntò la prima debole luce dell'alba si svegliò, sentendo lo
sbuffare di un orso che entrava nella radura, dalla parte opposta. L'animale non
poteva fiutarla, perché si muoveva nella stessa direzione della brezza mattutina,
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e avanzava con passo così goffo e lento che Due Cieli poté notare il muso
bianco e riconobbe che era una femmina. Un secondo orso la seguiva, tutto
nero, un giovane maschio bramoso di accoppiarsi malgrado i grugniti contrari
della femmina. Due Cieli poteva scorgere il suo grande coska rigido, cir-
condato da duri peli grigi, mentre l'animale cercava di aggrapparsi al dorso
della femmina per montarla. L'orsa ringhiava e si dibatteva, e cercò più volte di
addentarlo, finché il maschio fuggì. Per un attimo lo segui, poi incontrò la
carcassa del coniglio, l'afferrò tra le fauci e si allontanò.
Infine, tutta dolorante, Due Cieli si alzò. Il Profeta aveva portato via le sue
vesti. Non vide alcuna traccia di orsi sul duro suolo della radura, ma nella
cenere del fuoco spento v'era un'unica chiara impronta di una zampa di volpe.
Probabilmente una volpe era venuta durante la notte e aveva preso il coniglio:
forse Due Cieli aveva sognato i due orsi, o erano dei manitou.
Per tutto quel giorno Due Cieli camminò. Una volta sentì dei cavalli e si
nascose fra gli arbusti mentre passavano due giovani Sioux. Era ancora chiaro
quando entrò nella Città del Profeta accompagnata da fantasmi, con il corpo
nudo coperto di sangue e di terra. Tre uomini smisero di parlare mentre si
avvicinava e una donna cessò di macinare granturco. Per la prima volta Due
Cieli vide la paura sulle facce che la guardavano.
Il Profeta stesso la lavò. Mentre le curava le spalle ferite e le bruciature, le
chiese se aveva sognato. Quando la sentì raccontare degli orsi, i suoi occhi
brillarono. «Il segno più potente!» mormorò. Significava, le disse, che finché
non giaceva con un uomo i manitou sarebbero stati con lei.
Mentre la fanciulla rifletteva su queste parole, lo sciamano aggiunse che
non si sarebbe più chiamata Due Cieli, come non si sarebbe mai chiamata
Sarah Due. Quella notte nella Città del Profeta la fanciulla sauk divenne
Makwa-ikwa, la Donna Orso.

Ancora una volta il Grande Padre a Washington aveva mentito ai Sauk.


L'esercito aveva promesso ai Sauk di Keokuk che avrebbero potuto vivere per
sempre nella terra degli Iowa, al di là della riva occidentale del Masesibowi;
ma coloni bianchi avevano ben presto cominciato ad arrivare alla spicciolata
nel territorio. Al di là del fiume sorse così una città dei bianchi, che ebbe nome
Davenport in onore del mercante che aveva consigliato ai Sauk di abbandonare
le ossa dei loro avi e di partire da Sauk-e-nuk e poi aveva comprato le loro terre
dal governo per arricchirsi.
Ora l'esercito disse ai Sauk di Keokuk che dovevano pagare un enorme
debito in moneta americana e dovevano vendere le nuove terre nella regione
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degli lowa e trasferirsi in una riserva che gli Stati Uniti avevano destinato loro,
molti chilometri a sud-ovest, nel territorio dei Kansas.
Il Profeta disse alla Donna Orso che, finché viveva, non doveva mai
accettare come vera la parola di un viso pallido.
Quell'anno Uccello Giallo fu morsa da un serpente e metà del suo corpo si
gonfiò e si riempì d'acqua finché morì. Luna si era trovata un marito, un sauk
chiamato Vien Cantando, e gli aveva già partorito dei figli. Donna Fumo non si
sposò. Dormiva con tanti uomini e così felicemente che la gente sorrideva
quando diceva il suo nome. Talvolta Makwa-ikwa sentiva lo stimolo di brame
sessuali, ma imparò a controllare il desiderio come controllava il dolore. Rim-
piangeva tuttavia di non avere bambini. Ricordava come si era nascosta con il
fratellino durante il massacro di Bad Axe, e come le labbra del neonato le suc-
chiavano i capezzoli. Ma era rassegnata: aveva già vissuto in così stretto con-
tatto con i manitou che non poteva ribellarsi, se avevano deciso che non doves-
se mai essere madre. Era contenta di diventare una sciamana.
Le ultime due Tende della Saggezza riguardavano la magia nera: come far
ammalare una persona sana gettandole un sortilegio, come evocare e dirigere la
malasorte. Makwa-ikwa imparò a conoscere piccoli spiriti maligni, i watawi-
nonas, gli spettri e le streghe, e Pan-guk, lo Spirito della Morte. Questi spiriti
potevano essere avvicinati solo alle Tende finali, poiché una sciamana doveva
raggiungere il pieno autocontrollo prima di evocarli, per non divenire essa
stessa compagna dei watawinonas nella loro malvagità. La magia nera era la
responsabilità più grave. I watawinonas privarono Makwa-ikwa della sua
capacità di sorridere. Si fece smunta ed emaciata al punto che la pelle le
pendeva dalle ossa, e talvolta non le venivano le mestruazioni. Vedeva che i
watawinonas stavano anche succhiando la vita dal corpo di Wabokieshiek,
perché diventava sempre più fragile e magro; ma il Profeta promise che non
sarebbe ancora morto.
Al termine di altri due anni Nuvola Bianca la condusse alla Tenda finale. Se
fossero stati ancora i tempi antichi, avrebbe convocato anche le più lontane
tribù sauk, avrebbe allestito giochi e gare e le cerimonie del calumet e una
riunione segreta dei Mide'wiwin, il Consiglio degli sciamani delle tribù
algonchine. Ma gli antichi tempi erano finiti per sempre. Ovunque gli uomini
di pelle rossa erano dispersi e perseguitati. Il Profeta non poté fare niente di
meglio che chiamare tre altri anziani perché facessero da giudici, Coltello Per-
duto dei Mesquakie, Cavallo Brado degli Ojibwa e Piccolo Grande Serpente
dei Menomini. Le donne della Città del Profeta confezionarono per Makwa-
ikwa una veste e scarpe di pelle di daino bianco e lei indossò la sua tracolla
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izze e bracciali ai polsi e anelli alle caviglie, che tintinnavano quando si
muoveva. Adoperò il coltello da sacrificio per uccidere due cani e sorvegliò la
pulitura e la cottura delle carni. Dopo la cerimonia lei e i vecchi saggi sedettero
tutta la notte vicino al fuoco.
Quando la interrogarono, rispose con rispetto ma con fermezza, come una
loro eguale. Trasse dal tamburo ad acqua i suoni della supplicazione mentre
pronunciava gli antichi canti, invocando i manitou e placando gli spiriti. I
vecchi le rivelarono i segreti speciali del Mide'wiwin, mentre serbavano i loro
propri segreti, come Makwa-ikwa avrebbe serbato i suoi. Quando spuntò l'alba,
era diventata una sciamana.
Una volta, questo le avrebbe conferito enorme potere, ma ora Wabokieshiek
l'aiutò a raccogliere le erbe officinali che non avrebbe potuto trovare là dove
doveva recarsi. Assieme ai tamburi e alla borsa degli amuleti, le erbe furono
caricate su una mula pezzata che lei conduceva a mano. Prese commiato dal
Profeta per l'ultima volta e, salita in sella all'altro dono che aveva ricevuto da
lui, un pony grigio, si diresse verso il territorio dei Kansas dove ora vivevano i
Sauk.

La riserva si trovava in una terra ancora più piatta delle pianure dell'Illinois.
Del tutto arida.
C'era abbastanza acqua da bere, ma bisognava andarla a prendere a grande
distanza. Questa volta i bianchi avevano dato ai Sauk una terra che era tanto
fertile da potervi coltivare qualsiasi cosa. I semi che piantavano crescevano
vigorosi in primavera, ma i primi giorni d'estate tutto avvizziva e moriva. Il
vento portava ovunque una densa polvere attraverso la quale il sole bruciava
come un immenso occhio rosso.
Così i Sauk mangiavano il cibo dell'uomo bianco, che i soldati portavano
nella riserva: carne di bue già guasta, fetido grasso di maiale, verdure vecchie.
Briciole del banchetto dei visi pallidi.
Non vi erano hedonoso-te. Il Popolo viveva in baracche fatte di legno verde
che si incurvava e si spaccava, lasciando fessure così larghe che d'inverno la
neve penetrava nell'interno. Due volte l'anno un piccolo e nervoso Indian Agent
arrivava accompagnato da soldati e lasciava una serie di oggetti nella prateria:
specchietti grossolani, perline di vetro, finimenti per cavalli logori e mezzi rotti
ornati di campanellini, vecchi indumenti, carne verminosa. In principio tutti i
Sauk andavano a spigolare nel mucchio finché qualcuno chiese all'Indian
Agent perché portava quei doni: ed egli rispose che erano un pagamento per la
terra sauk confiscata dal governo. Dopo di ciò, solo i più deboli e i più negletti
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dei Sauk si abbassarono a prendere qualcosa. Il mucchio cresceva in altezza
ogni sei mesi e continuava a marcire alle intemperie.
I Sauk avevano sentito parlare di Makwa-ikwa. Quando arrivò, la ricevette-
ro con rispetto, ma non erano più una tribù abbastanza numerosa da aver
bisogno di uno sciamano. I più coraggiosi erano andati con Falco Nero ed era-
no stati uccisi dai bianchi o erano morti di fame o annegati nel Masesibowi, o
erano stati assassinati dai Sioux. Ma c'erano ancora alcuni nella riserva che
avevano conservato l'animo fiero dei vecchi Sauk. Il loro coraggio era costante-
mente messo alla prova nelle lotte contro le tribù native della regione, perché le
riserve di selvaggina si stavano esaurendo e i Comanche, i Kiowa, i Cheyenne
e gli Osage si sentivano minacciati dalla concorrenza, sui loro territori di
caccia, delle tribù orientali, spinte nella regione dagli americani. I bianchi
rendevano difficile ai Sauk provvedere alla propria difesa, perché badavano a
rifornirli di pessimo whisky in abbondanza e in cambio si prendevano la
maggior parte delle pellicce che gli indiani si procuravano con le loro trappole.
Un numero sempre maggiore di Sauk passava i giorni immerso nei fumi
dell'alcol.
Makwa-ikwa visse nella riserva poco più di un anno. Quella primavera una
piccola mandria di bisonti attraversò la prateria. Il marito di Luna, Vien
Cantando, parti a cavallo insieme con altri cacciatori e riportò al campo le carni
degli animali uccisi. Makwa-ikwa annunciò una Danza del Bisonte e istruì il
coro dei cantori che dovevano cantare a voce spiegata o a bocca chiusa. I Sauk
danzarono le antiche danze e negli occhi di alcuni la sciamana vide comparire
una luce che non vedeva da molto tempo e che la riempì di gioia.
Altri avvertirono la stessa sensazione. Dopo la Danza del Bisonte, Vien
Cantando si presentò da lei e le disse che alcuni del Popolo volevano abban-
donare la riserva e vivere come avevano vissuto i loro padri. Volevano sapere
se la loro sciamana sarebbe andata con loro.
Lei chiese a Vien Cantando dove sarebbero andati.
«A casa» rispose l'indiano.

Così i più giovani e forti partirono dalla riserva e Makwa-ikwa con loro. In
autunno si trovarono in una regione che rallegrò i loro cuori e insieme li riempì
di tristezza. Era difficile evitare l'uomo bianco durante il viaggio: dovevano
fare larghe deviazioni intorno alle fattorie e ai villaggi. La caccia era scarsa.
L'inverno li colse impreparati. Wabokieshiek era morto quell'estate e la Città
del Profeta era deserta. Makwa-ikwa non poteva ricorrere ai bianchi per
chiedere aiuto, ricordando che il Profeta le aveva detto di non riporre mai la
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propria fiducia in un viso pallido.
Ma in risposta alle sue preghiere i manitou le avevano inviato il mezzo per
sopravvivere con l'aiuto del medico bianco, il dottor Cole, e, malgrado le
parole del Profeta, sentiva di poter avere fiducia in lui.
Così quando egli venne al campo dei Sauk e le disse che ora aveva bisogno
del suo aiuto per praticare la propria arte di medico, senza esitare acconsentì ad
accompagnarlo.

18

Calcoli vescicali

Rob J. cercò di spiegare a Makwa-ikwa che cos'era un calcolo, ma non


riuscì a capire se la sciamana credeva davvero che la malattia di Sarah Bledsoe
fosse dovuta a pietruzze nella vescica. Makwa-ikwa gli chiese se avrebbe
succhiato fuori le pietre: evidentemente si aspettava di assistere a un gioco di
destrezza, una specie di trucco da prestigiatore per far credere al paziente di
aver tolto la causa del suo male.
Rob J. le spiegò diverse volte che i calcoli erano reali, che esistevano dolo-
rosamente nella vescica della donna, e che lui si proponeva di penetrare nel
corpo di Sarah con uno strumento per asportarli.
L'indiana rimase sempre più sconcertata quando entrarono nella casetta di
tronchi del medico, e questi lavò energicamente con acqua e sapone scuro il
tavolo che Alden aveva fatto per lui e sul quale avrebbe operato. Si recarono
insieme da Sarah Bledsoe con il carro. Il bambino, Alex, era in casa di Alma
Schroeder e Sarah aspettava il medico con gli occhi spalancati, nella smunta
faccia bianca come la cera. Durante il breve viaggio di ritorno Makwa-ikwa
rimase in silenzio e Sarah era quasi istupidita dal terrore. Rob J. cercò di atte-
nuare la tensione dicendo ogni tanto una frase qualunque, ma con scarso
successo.
Quando arrivarono alla sua casetta, Makwa-ikwa balzò agilmente dal carro
e aiutò la ragazza bianca a scendere con un garbo e una delicatezza che lo sor-
presero. Poi parlò per la prima volta dopo tanto silenzio. «Un tempo mi chia-
mavano Sarah Due» disse alla malata, ma Rob J. pensò che avesse detto:
«Sarah pure».
Sarah non era una buona bevitrice. Tossì quando cercò di ingoiare le tre dita
di whisky che il dottore le diede ed ebbe un conato di vomito quando vide che
lui aggiungeva nella ciotola un altro dito per buona misura. Rob J. la voleva un
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po' intontita e insensibile al dolore, ma capace di collaborare. Mentre aspetta-
vano che il whisky facesse il suo effetto, lui accese alcune candele intorno al
tavolo, malgrado il caldo soffocante dell'estate, perché nella capanna la luce era
scarsa. Quando spogliarono Sarah, videro che il suo corpo era arrossato dal
continuo grattare. Le natiche macilente erano piccole come quelle di un bam-
bino e le cosce dalla pelle bluastra sembravano quasi concave nella loro ma-
grezza. Sarah fece una smorfia di dolore quando il medico inserì il catetere e
riempì d'acqua la vescica. Rob J. mostrò a Makwa-ikwa come tenerle ferme le
ginocchia, poi spalmò il litotritore di lardo pulito, come lubrificante, badando
di non ungere le minuscole pinze che dovevano afferrare il calcolo. La donna
trasalì con un gemito quando lo strumento penetrò nell'uretra.
«So che fa male, Sarah. È doloroso quando entra, ma... ecco... ora andrà
meglio.»
La donna era abituata a dolori peggiori e i suoi gemiti diminuirono, ma Rob
J. era molto preoccupato. Erano passati parecchi anni da quando aveva trattato
calcoli, e allora l'aveva fatto sotto gli occhi attenti di un uomo che senza dubbio
era uno dei migliori chirurghi del mondo. Il giorno prima aveva passato diverse
ore facendo pratica con il litotritore, afferrando bacche e pietruzze e nocciole e
frantumandone il guscio, esercitandosi in una vaschetta d'acqua con gli occhi
chiusi. Ma era cosa ben diversa frugare nella fragile vescica di un essere uma-
no, con l'angosciante consapevolezza che spingere disordinatamente o stringere
con le pinze una minuscola piega di tessuto invece che un calcolo avrebbe
potuto produrre una lacerazione capace di provocare una terribile infezione e
una morte straziante.
Poiché i suoi occhi ora non gli potevano servire, li chiuse e mosse il litotri-
tore lentamente e delicatamente, con tutto il suo essere concentrato in un unico
nervo che agiva all'estremità dello strumento. Le pinze toccarono qualcosa.
Aprì gli occhi e studiò l'inguine e il basso addome, desiderando di poter vedere
attraverso la carne.
Makwa-ikwa osservava le sue mani, con gli occhi fissi sul suo viso, senza
nulla perdere. Rob J. scacciò con la mano una mosca che gli ronzava intorno,
poi ignorò ogni cosa tranne la sua paziente e il proprio compito e il litotritore
che aveva in mano. Il calcolo... buon Dio, si poteva dire subito che era grosso!
Forse delle dimensioni del suo pollice, calcolò, mentre manovrava lo strumento
con la maggior lentezza e cautela possibile.
Per decidere se il calcolo poteva muoversi, lo afferrò con le pinze e strinse,
ma quando esercitò una lievissima pressione, la donna sul tavolo urlò.
«Ho preso la pietra più grossa, Sarah» la confortò lui con voce pacata. «È
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troppo grande per uscire intera, dovrò cercare di romperla.» Mentre parlava le
sue dita azionavano la vite del litotritore. Era come se ogni giro di vite aumen-
tasse anche la sua tensione, perché, se il calcolo non si rompeva, le prospettive
della donna erano disastrose. Ma per fortuna, mentre continuava a girare la
vite, si udì come un sordo scricchiolio, il suono di un coccio schiacciato sotto il
piede.
Ruppe il calcolo in tre pezzi. Anche se lavorava con la massima cura, nel-
l'estrarre il primo pezzo la ferì. Makwa-ikwa inumidì un panno e asciugò il
sudore sul viso di Sarah. Rob J. le prese la mano sinistra, le aprì le dita come i
petali di un fiore e le pose la pietruzza sulla palma. Era un brutto calcolo, nero
e marrone. Il pezzo successivo era liscio e ovale, ma l'ultimo, come anche il
primo, era irregolare, con piccole punte acute e orli taglienti. Quando Sarah
ebbe i tre frammenti in mano, Rob J. inserì il catetere e lavò la vescica, fa-
cendone uscire una quantità di minuscoli cristalli che si erano staccati dal
calcolo quando si era spezzato.
Sarah era sfinita. «Basta per oggi» decise Rob J. «C'è un altro calcolo nella
vescica, ma è piccolo e dovrebbe essere facile da estrarre. Lo toglieremo un
altro giorno.»
In meno di un'ora Sarah ardeva di febbre, come suole avvenire dopo quasi
tutte le operazioni chirurgiche. Le fecero ingerire a forza dei liquidi, compreso
l'efficace tè di corteccia di salice di Makwa-ikwa. La mattina dopo la paziente
era ancora febbricitante, ma poterono trasportarla nella sua capanna. Rob J. sa-
peva che la donna era dolorante e sfinita, ma Sarah sopportò gli scossoni del
tragitto senza lamentarsi. I suoi occhi erano ancora lustri di febbre, ma c'era
una luce nuova, e Rob J. vide che era una luce di speranza.
Pochi giorni dopo, quando Nick Holden lo invitò a un'altra "caccia alle
cerbiatte", Rob J. acconsentì senza troppo entusiasmo. Questa volta presero una
barca per risalire il fiume fino alla città di Dexter, dove le due sorelle LaSalle li
aspettavano alla taverna. Anche se Nick le aveva descritte con salaci iperboli
mascoline, Rob J. riconobbe subito che erano solo due logore puttane. Nick si
prese la più giovane e più attraente, Polly, lasciando a Rob J. una donna più
anziana, con occhi amareggiati e uno strato di cipria incrostata sul labbro supe-
riore, che non riusciva a nascondere l'ombra nera di due considerevoli baffi.
Questa, Lydia, si mostrò chiaramente infastidita dall'insistenza con cui Rob J.
usava l'acqua e il sapone, e soprattutto per il suo uso del Vecchio Corno; ma
eseguì la sua parte con abilità professionale. Quella notte Rob J. giacque
accanto a lei nella stanza in cui erano sospesi i deboli fantasmi olfattivi di
vecchie passioni a pagamento, domandandosi che cosa diavolo facesse lì. Dalla
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stanza vicina venivano voci colleriche, poi uno schiaffo, grida rauche di donna,
ignobili ma inconfondibili colpi.
«Gesù!» Rob J. batté con il pugno contro la sottile parete. «Nick! Tutto
bene da te?»
«Ma certo! Dannazione, Cole, vuoi dormire? O fa' quel che vuoi, ma pianta-
la, capito?» ribatté Holden con una voce impastata dalla collera e dal whisky.
La mattina dopo a colazione Polly aveva un gonfiore rosso sullo zigomo
sinistro. Ma Nick doveva averla pagata bene per le busse che le aveva dato,
perché la voce della ragazza fu abbastanza cordiale quando si accomiatarono.
In barca, durante il ritorno, non poterono evitare di parlare dell'incidente.
Nick pose la mano sul braccio di Rob J. «Certe volte una donna ha proprio
bisogno di essere un po' strapazzata, no, vecchio mio? Praticamente ne va in
cerca, le mette il sangue in moto.»
Rob J. lo guardò in silenzio, sapendo bene che questa era la sua ultima
caccia alle cerbiatte. Poco dopo Nick tolse la mano dal braccio di Rob J. e
cominciò a parlargli delle prossime elezioni. Aveva deciso di darsi alla politica
e di presentarsi candidato al parlamento come deputato del loro distretto. E gli
sarebbe stato assai utile, spiegò in tutta serietà, che il dottor Cole raccoman-
dasse ai suoi pazienti di votare per il suo buon amico, quando faceva le sue
visite a domicilio.

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Un cambiamento

Due settimane dopo aver liberato Sarah del calcolo più grosso, Rob J. era
pronto a estrarre il più piccolo, ma la donna era riluttante. Nei primi giorni
dopo l'intervento aveva passato diversi minuscoli cristalli nelle urine, accom-
pagnati talvolta da dolore. Da quando gli ultimi frammenti del calcolo fran-
tumato erano usciti dalla sua vescica, i sintomi erano cessati. Per la prima volta
dall'inizio della sua malattia non aveva dolori lancinanti, e l'assenza di spasmi
le aveva consentito di recuperare il controllo delle sue funzioni corporee.
«Lei ha ancora un calcolo nella vescica» le ricordò Rob J.
«Non voglio toglierlo. Non mi fa male.» Lo guardò con aria di sfida, ma poi
abbassò gli occhi. «Ho più paura adesso che la prima volta.»
Rob J. notò che aveva già un aspetto migliore. Il suo viso era ancora smunto
per le sofferenze della lunga malattia, ma aveva già acquistato abbastanza peso
da riempire un po' le forme macilente. «Quel grosso calcolo che abbiamo
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estratto era una volta un piccolo calcolo, Sarah. I calcoli crescono» l'ammoniva
lui gentilmente.
Così infine acconsentì. Makwa-ikwa le stette di nuovo vicino mentre il
dottore estraeva il piccolo calcolo, grosso pressappoco un quarto del primo. Il
disagio fu ridotto al minimo, e, quando tutto fu finito, seguì un senso di trionfo.
Ma questa volta, quando insorse la febbre postoperatoria, la pelle di Sarah
scottava come fuoco. Rob J. riconobbe subito la minaccia e si maledisse per
averle dato il consiglio sbagliato. Al tramonto i presentimenti di Sarah risulta-
rono giustificati: per una malignità del destino, la procedura più facile per
asportare il calcolo minore aveva portato a una violenta infezione. Makwa-
ikwa e Rob J. rimasero a turno seduti al capezzale della paziente per quattro
notti e cinque giorni, mentre in quel fragile corpo infuriava la battaglia.
Tenendo le mani di Sarah nelle sue Rob J. sentiva il declinare della sua forza
vitale. Ogni tanto Makwa-ikwa sembrava fissare qualcosa che non c'era e
canticchiava quietamente nella sua lingua: disse a Rob J. che pregava Panguk,
dio della morte, di passar oltre e risparmiare questa donna. C'era ben poco che
potessero fare per lei, oltre che bagnarla con panni inzuppati d'acqua fresca e
sorreggerla, mentre le accostavano alla bocca ciotole di liquido forzandola a
bere, e spalmarle di grasso le labbra screpolate. Per qualche tempo continuò a
declinare, ma la mattina del quinto giorno - era merito di Panguk o della sua
forza vitale o forse di tutto quel tè di salice? - cominciò a sudare copiosamente.
Le sue camicie ne restavano inzuppate quasi subito dopo essere state cambiate.
A metà mattina cadde in un profondo sonno ristoratore e nel pomeriggio,
quando Rob J. le toccò la fronte, la sentì quasi fresca, una temperatura quasi
uguale alla sua.

L'espressione di Makwa-ikwa non cambiò molto, ma Rob J. cominciava a


capirla e pensò che fosse lieta della sua offerta, anche se dapprima non la prese
seriamente.
«Lavorare con te. Tutto il tempo?»
Rob J. annuì. Era una cosa ragionevole. Aveva visto che la donna era capa-
ce di assistere un paziente e non esitava a fare quello che le si chiedeva. Le dis-
se che avrebbe potuto essere una buona soluzione per entrambi. «Tu puoi
imparare un po' della mia medicina. E hai tante cose da insegnarmi, sulle piante
e sulle erbe. Quali mali possono curare. Come impiegarle.»
Avevano discusso la cosa per la prima volta nel carro, dopo aver riportato
Sarah a casa. Rob J. non volle insistere; rimase in silenzio, lasciando che lei
meditasse sulla proposta.
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Pochi giorni dopo si fermò al campo dei Sauk e ne parlarono di nuovo
davanti a una ciotola di stufato di coniglio. L'aspetto della proposta che le era
più sgradito era l'insistenza di Rob J. che lei venisse a vivere accanto alla sua
casetta di tronchi, per poterla chiamare rapidamente in casi di emergenza.
«Io devo stare con il mio popolo.»
Rob J. aveva riflettuto molto sul problema del campo sauk. «Presto o tardi i
coloni bianchi chiederanno al governo tutti i lotti di terreno che voi potreste
usare per un villaggio o un campo invernale. Non ci sarà più per voi nessuna
terra dove andare, tranne che tornare alla riserva da cui siete fuggiti.» Era
necessario, aggiunse, che i Sauk imparassero a vivere nel mondo così come ora
era diventato. «Io ho bisogno di aiuto alla mia fattoria. Alden Kimball non può
far tutto da solo. Potrei assumere una coppia, come Luna e Vien Cantando.
Potreste costruire delle capanne sulla mia terra. Vi pagherei tutti e tre in
moneta degli Stati Uniti, come pure in prodotti della fattoria. Se la cosa
funziona, forse anche altre fattorie daranno lavoro ai Sauk. E se guadagnerete
denaro e lo risparmierete, presto o tardi ne avrete abbastanza da comprarvi un
pezzo dì terra vostro, secondo il costume e la legge dei bianchi, e nessuno
potrebbe mai cacciarvi di lì.»
La donna lo fissava.
«So che è duro per voi dover ricomprare la vostra terra. Gli uomini bianchi
vi hanno mentito, vi hanno imbrogliato. Hanno ucciso tanti di voi. Ma gli
uomini del popolo rosso hanno mentito gli uni agli altri. Hanno rubato gli uni
agli altri. E le diverse tribù si sono sempre uccise fra loro. Me l'hai detto tu
stessa. Il colore della pelle non conta, tutti gli uomini sono canaglie. Ma non
ogni uomo a questo mondo è una canaglia.»
Due giorni dopo, lei e Luna e Vien Cantando, insieme con i due bambini di
Luna, arrivarono a cavallo nella sua terra. Si costruirono un hedonoso-te con
due aperture fumarie: un'unica lunga capanna che la sciamana avrebbe condivi-
so con la famiglia sauk, grande abbastanza per accogliere anche il terzo figlio
che Luna portava già in grembo. Lo innalzarono sulla riva del fiume, a circa
trecento metri dalla casetta di tronchi di Rob J. Accanto, costruirono una pic-
cola capanna del bagno di sudore e una capanna isolata per le donne, dove
abitare durante le mestruazioni.
Alden Kimball andava in giro con un'espressione indignata. «Ci sono degli
uomini bianchi, qui intorno, che cercano lavoro» protestava. «Uomini bianchi.
Non le è mai venuto in mente che io forse non volevo lavorare insieme a dei
dannati indiani?»
«No,» replicò Rob J. «non mi è mai venuto in mente. Se tu avessi incontrato
110
un buon bracciante bianco, credo che mi avresti già detto di assumerlo. Io
conosco bene questa gente. Sono brave persone. Ora, so perfettamente che tu,
se vuoi, puoi andartene, Alden, perché chiunque qui intorno ti assumerebbe
subito se sapesse che sei disponibile. E io non vorrei mai perderti, perché sei
l'uomo migliore che si possa trovare per mandare avanti questa fattoria. Così
spero che resterai.»
Alden lo fissò confuso, compiaciuto dell'elogio ma furioso per quella
risposta fin troppo chiara. Infine si girò e cominciò a caricare pali sul carro.
Quello che portava al colmo la rabbia di Alden era il fatto che Vien Can-
tando, con la sua alta statura e la sua forza prodigiosa unita al suo buon
carattere, era davvero un ottimo bracciante. Luna aveva imparato a cucinare per
gli uomini bianchi quando era ragazzina alla missione cristiana. Per uno
scapolo che viveva da solo era una fortuna trovarsi in casa panini e focacce
calde e cibo gustoso. In capo a una settimana fu evidente che, sebbene Alden
rimanesse scostante e ostile senza voler riconoscere la sconfitta, i Sauk faceva-
no ormai parte della fattoria.
Ma Rob J. dovette sperimentare una piccola ribellione molto simile anche
fra i suoi pazienti. Mentre si bevevano alla taverna un bicchiere di sidro, Nick
Holden lo ammoni. «Alcuni coloni hanno cominciato a chiamarti Indian Cole.
Dicono che sei un simpatizzante degli indiani. Che devi avere anche tu un po'
di sangue indiano nelle vene.»
Rob J. sorrise: l'idea lo divertiva. «Ti dirò una cosa. Se qualcuno si lamenta
con te del dottore, dagli uno di quei bei volantini che stai distribuendo in giro.
Quelli che dicono che è fortunata una città che ha un medico dell'esperienza e
della capacità del dottor Cole. La prima volta che saranno malati o feriti, dubito
molto che staranno a far critiche sulle mie presunte origini. O sul colore delle
mani della mia assistente.»

Quando si recò alla capanna di Sarah per vedere come procedeva la sua
convalescenza, notò che il sentiero che correva dalla strada alla sua porta era
stato spianato e spazzato. Nuove aiuole di fiori silvestri rallegravano la vista
intorno alla casetta. Dentro, le pareti nano state imbiancate e l'unico odore era
quello del sapone, insieme con il gradevole profumo di lavanda e salvia e
menta e finocchiella, appese a mazzetti alle travi.
«Alma Schroeder mi ha dato le erbe» spiegò Sarah. «È troppo tardi per
piantare un orto in questa stagione, ma il prossimo anno ne avrò uno tutto
mio.» Gli mostrò il pezzo di terra destinato all'orto, che aveva già cominciato a
liberare dalle erbacce.
111
Il cambiamento di Sarah era ancora più sorprendente della trasformazione
della sua casetta. Aveva cominciato a cucinarsi ogni giorno i suoi pasti, gli
spiegò, invece di dipendere da qualche occasionale piatto caldo portatole dalla
generosa Alma. Una dieta regolare e una nutrizione migliore avevano già dato
alla sua figura, prima così ossuta e macilenta, una nuova femminilità piena di
grazia. Si piegò a raccogliere due o tre cipollotti verdi che avevano accon-
sentito a crescere neh"appezzamento destinato a orto, e Rob J. osservò la sua
nuca rosea. Ben presto sarebbe stata nascosta dai folti capelli che stavano ricre-
scendo come un caschetto dorato.
Il bambino, cucciolo biondo, trotterellava dietro di lei. Anche lui era tutto
pulito e Rob J. notò che Sarah, con un gesto di malumore, cercava di spazzolar
via le macchie di terra dalle ginocchia del piccino.
«Non si preoccupi, non si può evitare che un bambino si sporchi» l'ammoni
con voce allegra. Il piccolo lo guardava con occhi spaventati. Rob J. si portava
sempre qualche caramella nella borsa, per fare amicizia con i suoi piccoli
pazienti, e ora ne tirò fuori una e la tolse dalla carta. Ma gli ci volle quasi
mezz'ora di parole gentili prima di potersi avvicinare al piccino abbastanza da
offrirgli il dolce. Quando finalmente la piccola mano lo prese, Rob J. udì il
sospiro di sollievo di Sarah. Si volse e vide che lei lo fissava. Aveva degli
occhi stupendi, pieni di vita.
«Ho fatto un pasticcio di carne di daino, se vuol dividere la nostra cena.»
Rob J. stava per rifiutare, ma quei due visi erano rivolti a lui, il piccino
sempre intento a succhiare beato la sua caramella, la madre seria con
un'espressione di attesa. Pareva che quei due volti gli chiedessero qualcosa che
lui non capiva.
«Mi piace molto il pasticcio di daino» rispose.

20

I pretendenti di Sarah

Da un punto di vista medico era ragionevole che Rob J. si fermasse a vedere


Sarah Bledsoe diverse volte nella settimana seguente, tornando dalle visite a
domicilio, poiché non gli costava che una piccola deviazione, e come suo
medico doveva assicurarsi che la convalescenza procedesse bene. Non c'era
niente da dire sulla sua salute: la sua pelle, una volta mortalmente pallida,
aveva preso un bel color pesca e gli occhi brillavano di vivacità e intelligenza.
Un pomeriggio gli offrì il tè con pane di mais. La settimana dopo Rob J. si
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fermò tre volte alla sua casetta e due volte accettò il suo invito di fermarsi a
cena. Era una cuoca assai migliore di Luna e Rob J. gustava con piacere i suoi
piatti: era cucina della Virginia, spiegava Sarah. Rob J. si rendeva conto che le
risorse della donna erano piuttosto scarse, così prese l'abitudine di portarle
sempre qualcosa, un sacchetto di patate, un piccolo prosciutto. Una mattina un
cliente a corto di denaro gli diede in parziale pagamento quattro bei galli delle
praterie che aveva appena ucciso, e Rob J. si avviò contento alla casetta dei
Bledsoe con i volatili appesi alla sella.
Trovò Sarah e Alex seduti a terra accanto all'orto, che era stato energica-
mente zappato da un uomo grande e grosso a torso nudo, grondante di sudore,
con i muscoli potenti e la pelle abbronzata di uno che si guadagna la vita lavo-
rando all'aperto. Sarah lo presentò come Samuel Merriam, un colono di Hoop-
pole. Merriam era arrivato con un carro carico di letame di maiale e ne aveva
già distribuito la metà sul terreno dell'orto. «La miglior cosa del mondo per
crescere ortaggi» sentenziò allegramente.
Accanto al principesco dono di un carico di letame, e per di più messo in
opera, pensò Rob J., i suoi galli erano un ben magro presente, ma glieli offrì
ugualmente e Sarah parve sinceramente grata. Rifiutò educatamente l'invito a
restare a pranzo insieme con Samuel Merriam e invece passò a trovare Alma
Schroeder, che era entusiasta della guarigione di Sarah. «È già venuta a trovar-
la un pretendente, vero?» chiese Alma sorridendo. Merriam aveva perduto la
moglie nel precedente autunno, vittima della febbre tifoide, e aveva urgen-
temente bisogno di un'altra donna che si prendesse cura dei suoi cinque figli e
lo aiutasse nell'allevamento dei maiali. «È una buona occasione per Sarah»
aggiunse saggiamente. «Anche se qui, con la scarsità di donne che c'è, potrebbe
trovare un sacco di occasioni.»
Tornando a casa, Rob J. passò di nuovo per la casetta dei Bledsoe. Salutò
Sarah senza smontar da cavallo e restò in sella guardandola. Questa volta il
sorriso della donna era imbarazzato e Merriam cessò di vangare l'orto e li fissò
con uno sguardo interrogativo. Rob J. non seppe che cosa dire e tirò fuori le
prime parole che gli vennero alle labbra.
«Lei deve lavorare il più possibile, Mrs. Bledsoe,» l'ammoni severamente
«perché l'esercizio è necessario alla sua piena guarigione.» Si toccò il cappello
e irritato spronò il cavallo verso casa.

Tre giorni dopo, quando si fermò alla casetta, non v'era più traccia di pre-
tendenti. Sarah stava cercando di dividere una grossa radice di rabarbaro in
tante sezioni per trapiantarla e infine Rob J. risolse il problema tagliandola a
113
pezzi con la scure. Insieme scavarono buche nel terreno argilloso, piantarono le
radici e le ricoprirono di terriccio caldo: un lavoro che gli piacque e gli fruttò
come compenso un invito a pranzo, dove poté gustare uno spezzatino innaffiato
con fresca acqua di fonte.
Dopo, mentre Alex sonnecchiava all'ombra di un albero, sedettero sulla
sponda del fiume e lui le parlò della Scozia e Sarah gli disse che avrebbe tanto
desiderato che ci fosse una chiesa nei dintorni, in modo che suo figlio potesse
imparare la vera fede. «Spesso ora io penso a Dio» aggiunse. «Quando credevo
di dover morire abbandonando Alex da solo al mondo, ho pregato e Dio mi ha
mandato lei.»
Non senza una certa esitazione, Rob J. le confessò che non credeva nel-
l'esistenza di Dio. «Io credo che gli dèi siano un'invenzione degli uomini, che
sia stato sempre così.» Poté vedere lo sgomento nei suoi occhi e temette di
averla scandalizzata. Ma Sarah abbandonò l'argomento della religione e parlò
della sua giovinezza in Virginia, dove i suoi genitori avevano una fattoria. I
suoi grandi occhi erano di un azzurro così intenso da essere quasi blu: vi bril-
lava l'amore per quei lontani anni così facili e caldi. «Cavalli!» esclamò sorri-
dendo. «Io sono cresciuta con l'amore dei cavalli.»
Questo gli diede l'occasione per invitarla a una cavalcata con lui il giorno
dopo, per far visita a un suo vecchio paziente che stava morendo di tubercolosi
e Sarah non nascose la sua gioia nell'accettare l'invito. La mattina dopo, caval-
cando Margaret Holland e conducendo Monica Grenville per le briglie, tornò
alla casetta dei Bledsoe. Lasciarono Alex con Alma Schroeder, che sorrise di
gioia vedendo Sarah "uscire a cavallo" con il dottore.
Era una bella giornata per una cavalcata, non troppo calda per la stagione, e
tennero i cavalli al passo. Sarah aveva messo pane e formaggio nella sua
bisaccia da sella, e fecero un picnic all'ombra di una grande quercia. Arrivati
alla casa del paziente, Sarah si tenne indietro, ascoltando il respiro rantoloso
del vecchio e osservando Rob J. che gli teneva le mani. Rob J. fece scaldare
l'acqua sul fuoco del camino, bagnò le membra scarne del malato e gli sommi-
nistrò un sedativo, un cucchiaino per volta, perché il sonno rendesse pietosa
l'attesa. Sarah lo sentì dire al figlio e alla nuora che il vecchio aveva solo poche
ore di vita. Quando se ne andarono, Sarah era commossa e parlava poco. Per
tornare alla spensieratezza che avevano goduto prima, Rob J. propose che si
scambiassero i cavalli perché lei era un'eccellente amazzone e poteva cavalcare
Margaret Holland senza difficoltà. Sarah cavalcò volentieri la giumenta più
vivace. «Le due cavalle hanno i nomi di donne che lei ha conosciuto?» chiese e
Rob J. ammise che era proprio così.
114
Lei annuì pensierosa. Malgrado gli sforzi di Rob J., rimasero pili silenziosi
sulla via del ritorno.
Due giorni dopo, arrivando alla casetta di Sarah, Rob J. vide che c'era già un
altro uomo, un venditore ambulante alto e cadavericamente magro, Timothy
Mead, che guardava il mondo con scuri occhi accigliati e salutò rispettosa-
mente il medico quando gli fu presentato. Mead le lasciò in dono quattro ma-
tassine di filo di diversi colori.
Rob J. estrasse una spina dal piedino nudo di Alex e osservò che l'estate
stava per finire e il bambino non aveva scarpe adatte. Tracciò uno schizzo della
pianta dei piedi e la prima volta che si trovò a Rock Island si fermò al negozio
di un calzolaio e ordinò un paio di stivaletti da bambino, provando un vivo
piacere nel farlo. La settimana dopo, quando portò in dono le minuscole calza-
ture, vide che Sarah ne rimaneva turbata. Quella donna era difficile da capire:
non avrebbe saputo dire se fosse contenta o seccata.
La mattina dopo che fu eletto deputato Nick Holden andò a cavallo fino alla
casetta di tronchi di Rob J. Gli confidò che entro due giorni contava di recarsi a
Springfield, dove avrebbe promosso leggi e disposizioni per favorire la crescita
di Holden's Crossing. Quindi gli batté amichevolmente la mano sulla spalla e
portò il discorso sulle voci che correvano, secondo cui il dottor Cole andava in
giro a cavallo con la vedova Bledsoe. «Ah, ci sono cose che dovresti sapere,
vecchio mio.»
Rob J. lo guardò in silenzio.
«Be', il bambino, suo figlio. Ti rendi conto che è un bastardo? Nato due anni
dopo la morte di suo marito.»
Rob J. si alzò. «Arrivederci, Nick. Ti tocca ancora una buona trottata fino a
Springfield.»
Il tono era inequivocabile e Holden si alzò. «Ti stavo solo dicendo che non
è necessario per un uomo...» cominciò, ma quello che vide sul viso di Rob J.
gli fece ringoiare le parole. Balzò in sella, gli fece un saluto imbarazzato e
spronò il cavallo.
Rob J. vedeva sempre sul viso di lei uno strano miscuglio di emozioni:
piacere nel vederlo e nell'essere in sua compagnia, tenerezza ogni tanto, ma
anche a volte una specie di terrore. Venne la sera che la baciò. Dapprima la sua
bocca dischiusa era morbida e cedevole, e lei si strinse al suo petto, ma fu un
momento fuggevole. Dopo un attimo si scostò bruscamente da lui. Al diavolo,
si disse Rob J., vuol dire che non le piaccio, ecco tutto. Ma si costrinse a
chiederle gentilmente: «Che cosa ti prende?».
«Come fai a essere attratto da me?» chiese la donna con passione, il viso in
115
fiamme. «Non mi hai visto malata e distrutta, in una condizione bestiale? Tu
hai... hai persino sentito l'odore del mio...»
«Sarah» la interruppe Rob J. guardandola negli occhi. «Quando eri malata,
io ero il tuo medico. Da allora sei stata per me una donna affascinante e intel-
ligente, con cui mi fa sempre un enorme piacere scambiare idee e condividere
sogni. Ti desidero in tutti i modi. Penso solo a te. Ti amo, Sarah.»
Si stringevano le mani, senza altro contatto fisico. Lei strinse di più, ma ri-
mase in silenzio.
«Forse potresti imparare ad amarmi?»
«Imparare? E come potrei non amarti?» replicò lei con passione. «Tu, che
mi hai ridato la vita, come se tu fossi un dio!»
«No, dannazione! Sono soltanto un uomo. E voglio essere solo questo per
te...»
Ora si baciavano e parve che il bacio non dovesse mai finire. Fu Sarah che
evitò quel che avrebbe potuto seguire, staccandosi da lui e accomodandosi le
vesti.
«Sposami, Sarah!»
Lei non rispose e Rob J. riprese: «Non eri fatta per curare le bestie in un
allevamento di maiali, né per girare con un mercante ambulante con una
bisaccia sulle spalle».
«E per che cosa ero fatta allora?» chiese lei amaramente.
«Be', per essere la moglie di un medico, è chiaro» ribatté Rob J. tutto serio.
Ma lei era ancora più seria. «Ci sarà qualcuno che correrà da te a dirti di
Alex e della sua nascita, così ti dirò tutto io stessa.»
«Io voglio essere il padre di Alex. Mi sta a cuore oggi e così sarà domani.
Non voglio saper nulla di ieri. Anch'io ho un triste passato. Sposami, Sarah.»
I suoi occhi si riempirono di lacrime, ma c'era ancora una cosa che gli
doveva dire. Lo guardò fisso, pacatamente. «Dicono che la donna indiana vive
con te. Devi mandarla via.»
«Dicono! E Qualcuno verrà a dirti! Bene, ora io ti dirò una cosa, Sarah
Bledsoe. Se mi sposi, devi imparare a dire a quelli di andare all'inferno!»
Trasse un respiro profondo e aggiunse: «Makwa-ikwa è una brava donna e
un'ottima lavoratrice. Vive nella sua casa, sulla mia terra. Mandarla via sarebbe
un'ingiustizia per lei e per me, e io non voglio farlo. Sarebbe il modo peggiore
di cominciare la nostra vita insieme. Devi avere fiducia in me se ti dico che non
c'è alcuna ragione che tu sia gelosa». Le tenne strette le mani e non la lasciò
scostarsi. «Qualche altra condizione?»
«Si, devi cambiare il nome delle tue cavalle. Hanno il nome di donne che tu
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hai montato, vero?»
Rob J. ebbe un breve sorriso, ma vide una vera collera negli occhi di Sarah.
«Una di loro, sì. Ma l'altra era una bella donna matura che conobbi da ragazzo.
La madre di un mio amico. Io sospiravo per lei, ma lei mi trattava come un
figlio.»
Sarah non chiese quale dei due nomi apparteneva all'una e quale all'altra. «È
un crudele e sporco gioco maschile. Tu non sei un uomo sporco e crudele, e
devi cambiare i nomi delle tue cavalle.»
«Bene, li cambierai tu stessa.»
«E devi promettermi, qualunque cosa accada in futuro, che non darai mai il
mio nome a una cavalla.»
«Te lo giuro, naturalmente...» Non poté resistere alla tentazione di dirlo:
«Ordinerò a Samuel Merriam un maiale e...».
Fortunatamente le teneva ancora le mani e non la lasciò andare finché lei
rispose al suo bacio con tutta la sua tenerezza. Quando le loro bocche si
staccarono, Rob J. vide che lei piangeva.
«Che c'è?» chiese con improvvisa attenzione, intuendo che essere sposato
con quella donna non sarebbe stato facile.
Fra le lacrime i suoi occhi brillavano. «Spedire una lettera con la corriera
sarà una grossa spesa» rispose. «Ma finalmente potrò mandare una buona
notizia a mio fratello e a mia sorella in Virginia.»

21

Il Grande Risveglio

Era più facile decidere di sposarsi che trovare un pastore. Per questa ragione
diverse coppie lungo la frontiera occidentale non si preoccupavano di formaliz-
zare la loro unione; ma Sarah rifiutava di "sposarsi senza essere sposata". Ed
ebbe la forza di parlar chiaro: «Io so che cosa significa partorire e crescere un
bambino senza padre, e non voglio che mi capiti mai più».
Rob J. la capiva ma era ormai venuto l'autunno e sapeva che, quando la
neve avesse coperto la prateria, sarebbero passati forse molti mesi prima che un
predicatore itinerante o un ministro del culto in visita pastorale passassero per
Holden's Crossing. La risposta al loro problema gli apparve un giorno in un
manifesto affisso alla porta dell'emporio, che annunciava una riunione evan-
gelica della durata di una settimana. «Lo chiamano il Grande Risveglio e sarà
tenuto nella città di Belding Creek. Dobbiamo andare, Sarah: non ci sarà
117
scarsità di ministri del culto.»
Rob J. insistette per portare Alex con loro e Sarah fu ben lieta di acconsen-
tire. Era un tragitto di un giorno e una notte per una strada abbastanza ben
tenuta, benché piuttosto sassosa. La prima notte si fermarono nel fienile di un
fattore ospitale, stendendo le loro coperte sul fragrante fieno appena tagliato.
La mattina dopo Rob J. passò una mezz'ora a castrare due torelli del fattore e
ad asportare una grossa cisti dal fianco di una mucca, per compensarlo del-
l'ospitalità; malgrado questo contrattempo, arrivarono a Belding Creek prima di
mezzogiorno. Era un'altra comunità di recente formazione, sorta solo cinque
anni prima di Holden's Crossing, ma già molto più estesa. Entrando in città,
Sarah spalancò gli occhi e si strinse a Rob J., tenendo la mano di Alex nella
sua: non era abituata a vedere tanta gente. Il Grande Risveglio si teneva in una
prateria accanto a un ombroso boschetto di salici. Aveva attirato fedeli da tutte
le regioni intorno: ovunque avevano alzato delle tende per proteggersi dal sole
del meriggio e dal vento autunnale, e c'erano carri di ogni genere, cavalli e buoi
impastoiati. Diversi assistenti davano aiuto e indicazioni alla folla, e i tre viag-
giatori di Holden's Crossing passarono davanti a cucine all'aperto dove vendi-
tori ambulanti di cibi cucinavano manicaretti dal profumo squisito, stufato di
daino, zuppa di pesce di fiume, maiale arrosto, granturco dolce, lepre alla bra-
ce. Rob J. legò a un albero la cavalla, quella che era una volta chiamata Mar-
garet Holland e ora era stata ribattezzata Vicky, abbreviazione di Regina Vit-
toria («Tu non hai mai montato la giovane regina?» aveva chiesto Sarah).
Erano affamati, ma non c'era bisogno di spendere denaro in cibi comprati su
una bancarella. Alma Schroeder aveva fornito ai tre viaggiatori un paniere di
viveri così generoso che il pranzo di nozze sarebbe potuto durare una settima-
na; e pranzarono con pollo freddo e tartine di mele.
Mangiarono in fretta, presi dall'eccitazione generale, osservando la folla,
ascoltando le chiacchiere e le grida di gioia. Poi, prendendo il bambino per
mano in mezzo a loro, si avviarono lentamente verso il punto dove si teneva la
riunione. In realtà erano due riunioni in una: perché vi era un'ininterrotta riva-
lità religiosa, una gara di predicazione fra metodisti e battisti. Per qualche tem-
po Rob J. e Sarah ascoltarono un pastore battista che parlava in una radura, in
mezzo al boschetto di salici. Si chiamava Charles Prentiss Willard e tuonava e
ruggiva, facendo rabbrividire Sarah. Declamava che Dio scriveva i loro nomi
nel Suo Libro decidendo chi doveva avere la vita eterna e chi doveva perire in
eterno. Ciò che avrebbe condannato il peccatore alla morte eterna era la con-
dotta immorale e non cristiana, la fornicazione, l'uccisione dei fratelli cristiani,
il bestemmiare, il bere whisky e il mettere al mondo figli illegittimi.
118
Rob J. era accigliato e Sarah era pallida e tremante quando si allontanarono
per recarsi nella prateria ad ascoltare il metodista, un pastore di nome Arthur
Johnson. Non era un oratore così eloquente come Willard, ma affermava che la
salvezza dell'anima era possibile per chiunque compisse opere buone e confes-
sasse i suoi peccati e chiedesse perdono a Dio; e Sarah annuì quando Rob J. le
chiese se pensava che il reverendo Johnson avrebbe potuto celebrare le loro
nozze. Johnson li accolse affabilmente quando si avvicinarono a lui dopo la
predica. Voleva sposarli alla presenza di tutti i fedeli riuniti, ma né Rob J. né
Sarah avevano piacere di mettersi in mostra. Quando Rob J. gli diede tre
dollari, il predicatore acconsentì a seguirli a un chilometro e mezzo fuori della
città: si fermarono sotto un albero sulle rive del Mississippi, con il bambino
seduto a terra che li osservava e una placida matrona che il reverendo presentò
semplicemente come Sorella Jane e che doveva fare da testimone.
«Io ho un anello» fece Rob J., traendolo dalla tasca, e Sarah spalancò gli
occhi perché non le aveva mai parlato dell'anello nuziale di sua madre. Le lun-
ghe e affusolate dita di Sarah erano troppo magre e l'anello risultò largo. I suoi
capelli biondi erano legati sulla nuca con un nastro azzurro, dono di Alma
Schroeder, e lei snodò il nastro e scosse la testa, facendoli ricadere sciolti sulle
spalle. Disse che avrebbe portato l'anello infilato nel nastro e appeso al collo
finché avessero potuto farlo modificare e ridurlo alla giusta misura. Tenne
stretta la mano di Rob J., mentre il reverendo Johnson pronunciava le formule
sacre con la speditezza della lunga pratica. Rob J. ripeteva le parole del rito con
una voce roca e ansiosa che lo stupì. La voce di Sarah tremava, pareva incerta
come se non potesse credere a ciò che accadeva. Dopo il rito si stavano ancora
baciando quando il reverendo cominciò a insistere che tornassero al luogo del
servizio evangelico, perché appunto alla riunione della sera la maggior parte
delle anime venivano per trovare salvezza.
Ma loro lo ringraziarono e lo salutarono, e avviarono Vicky sulla via del
ritorno. Il bambino cominciò presto a diventare nervoso e a piagnucolare, ma
Sarah gli cantò canzoncine e gli raccontò storie, e diverse volte, quando Rob J.
fermava il cavallo, lo fece scendere dal carro per correre e giocare con lui.
Cenarono presto con il pasticcio di carne e rognone di Alma e una ricca
torta ricoperta di zucchero candito, il tutto innaffiato con acqua di fonte. Poi
ebbero una breve discussione sul tipo di alloggio da cercare per la notte. C'era
una locanda a poche ore di distanza, e la prospettiva evidentemente piaceva a
Sarah, che non aveva mai avuto abbastanza denaro per alloggiare in un albergo.
Ma quando Rob J. accennò alle cimici e alla sporcizia generale delle istituzioni
di quel tipo, fu subito d'accordo con la sua proposta di fermarsi allo stesso fie-
119
nile in cui avevano dormito la notte precedente.
Vi arrivarono al tramonto e, dopo che il fattore gli ebbe ben volentieri rin-
novato il permesso, si arrampicarono nel caldo buio del fienile, quasi con la
sensazione di tornare a casa.
Alex, sfinito per il gran movimento e la mancanza del solito sonnellino po-
meridiano, cadde subito profondamente addormentato. Sarah e Rob J. stesero
una coperta li vicino e caddero l'una nelle braccia dell'altro prima ancora di
essersi del tutto spogliati. Piacque a Rob J. che lei non fingesse pudori e che la
brama che sentivano l'uno per l'altra fosse schietta e sincera. Fecero l'amore
liberamente, abbandonandosi al loro ardore, senza risparmiare voce e rumori, e
poi tesero l'orecchio, temendo di avere svegliato Alex. Ma il bambino conti-
nuava a dormire.
Rob J. finì di svestirla e voleva vederla. Era buio nel fienile, ma strisciarono
verso la porticina che serviva per immettere il fieno. Quando la aprirono, la
luna quasi piena gettò un rettangolo di luce in cui si esaminarono avidamente.
Rob J. studiava le spalle e le braccia dorate, i seni alabastrini, il pube che pare-
va il nido argenteo di un uccellino, le pallide natiche gentili. Avrebbe voluto
fare l'amore alla luce, ma l'aria era fresca e Sarah temeva che il fattore li ve-
desse, così chiusero la porticina. Questa volta furono lenti e pieni di tenerezza,
e al momento culminante Rob J. le gridò esultando: «Questo farà nostro figlio!
Questo!». E il piccino che dormiva fu svegliato dai gemiti di piacere della
madre e cominciò a piangere.
Rimasero sdraiati con il bambino accoccolato in mezzo a loro, mentre le
mani di Rob J. accarezzavano piano Sarah, scostando dalla sua pelle fili di
fieno, mandando a memoria quei momenti.
«Tu non devi morire» sussurrò Sarah.
«Nessuno di noi due...»
«Credi che abbiamo già cominciato un bambino?»
«... Forse.»
La sentì deglutire. «E magari, per essere sicuri, potremmo anche conti-
nuare?»
Come marito e come medico, Rob J. pensò che era una cosa ragionevole.
Strisciò con le mani e le ginocchia nel buio attraverso il fieno fragrante, se-
guendo il balenare dei pallidi fianchi della moglie, in un punto un po' discosto
dal bambino che dormiva.

120
PARTE TERZA
Holden's Crossing
(14 novembre 1841)

22

Imprecazioni e benedizioni

Dalla metà di novembre in poi l'aria si fece rigida. Abbondanti nevicate


precoci coprirono la pianura e la Regina Vittoria arrancava faticosamente fra i
mucchi di neve. Quando Rob J. cavalcava in mezzo al maltempo, spesso
chiamava la cavalla con il vecchio nome, Margaret, e l'animale drizzava le
corte orecchie. Cavalla e cavaliere conoscevano bene la meta della lunga gio-
rnata. La cavalla bramava acqua calda e un sacco di avena, mentre l'uomo non
vedeva l'ora di arrivare alla sua casetta di tronchi, piena di un calore e di una
luce che venivano più dalla donna e dal bambino che dal camino e dalle
lampade a petrolio. Se Sarah non aveva concepito durante il viaggio di nozze,
l'aveva fatto subito dopo. I malori mattutini non spegnevano il loro ardore. La
notte aspettavano ansiosamente che il piccolo Alex si addormentasse e poi si
gettavano uno nelle braccia dell'altra, con un'avidità inestinguibile, le labbra e i
corpi avvinti. Ma via via che la gravidanza avanzava, Rob J. divenne un
amante più delicato e più cauto. Una volta al mese prendeva taccuino e matita e
la ritraeva nuda, accanto al fuoco: una registrazione delle fasi evolutive di una
donna gravida che non era meno scientifica per la carica emotiva che animava i
disegni. Rob J. tracciava anche piani per una futura casa: doveva avere Ire
stanze da letto, una grande cucina e un salotto. Disegnò dei progetti in scala, in
modo che Alden potesse assumere due carpentieri e cominciare la costruzione
dopo i lavori agricoli primaverili.
Sarah era profondamente ferita dal fatto che Makwa-ikwa condividesse una
parte del mondo di suo marito che a lei era preclusa. Quando i primi tepori
trasformarono la prateria dapprima in un acquitrino, poi in un delicato tappeto
verde, disse a Rob J. che appena fossero sopravvenute le febbri stagionali
sarebbe andata con lui ad assistere i malati. Ma alla fine di aprile il suo corpo si
era fatto troppo pesante. Torturata dalla gelosia non meno che dalla gravidanza,
restava a casa a rodersi il fegato mentre la donna indiana accompagnava il
dottore e tornava dopo molte ore, talvolta dopo giorni. Spossato dalla fatica,

121
Rob J. mangiava, faceva un bagno se era possibile, si concedeva a stento qual-
che ora di sonno, e poi passava a prendere Makwa e tornava ai suoi malati.
A giugno, ultimo mese di gravidanza per Sarah, l'epidemia di febbre era
calata abbastanza da consentire a Rob J. di lasciare Makwa a casa. Un mattino,
mentre cavalcava sotto un violento acquazzone per andare ad assistere la mo-
glie di un colono che era in agonia, nella sua casa arrivava per sua moglie il
momento del parto. Makwa pose un bastoncino da mordere fra i denti di Sarah,
legò una fune alla porta e le diede in mano l'altro capo della fune da tirare.
Ci vollero molte ore prima che Rob J. perdesse la sua battaglia con l'erisipe-
la gangrenosa - come in seguito riferì in una lettera a Oliver Wendell Holmes:
il morbo fatale era il risultato di un taglio trascurato che la donna si era fatta
tagliando patate da semina - ma quando tornò a casa il bambino non era ancora
nato. Sarah lo guardò con occhi stralunati. «Mi spacca il corpo! Fallo cessare,
bastardo!» gli urlò appena lo vide sulla soglia.
Memore delle norme di Holmes, Rob J. si strofinò le mani con acqua e
sapone finché la pelle fu tutta ruvida, prima di avvicinarsi a lei. Quando l'ebbe
esaminata, Makwa lo segui in un angolo della stanza. «Il neonato vien fuori
lento» osservò.
«Il neonato si presenta con i piedi.»
Makwa si accigliò, ma annuì e tornò al letto di Sarah.
Il travaglio continuava. A metà della notte Rob J. si fece forza e prese nelle
sue le mani della moglie, tremando all'idea del messaggio che potevano tras-
mettergli. «Che c'è?» chiese lei con voce roca.
Rob J. poté sentire la sua forza vitale, diminuita ma sempre rassicurante. Le
mormorò parole d'amore, ma lei era troppo dolorante per apprezzare parole o
baci.
Passavano le ore, fra gemiti e urla. Rob J. non poteva fare a meno di pregare
vanamente, spaventato per non essere capace di aver fede, sentendosi insieme
arrogante e ipocrita. Se io sbaglio e tu esisti, ti prego puniscimi in qualche
altro modo, ma non colpendo questa donna. O questo bambino che lotta per
sopravvivere, aggiunse in fretta. Verso l'alba comparvero i piccoli piedi rossi,
piuttosto grossi per un neonato, ma con il numero giusto di dita. Rob J. mor-
morò parole di incoraggiamento, disse al neonato riluttante che tutta la vita era
lotta. Le gambe fuoriuscirono centimetro per centimetro, facendolo fremere di
eccitazione con il loro scalciare.
Il dolce minuscolo pene di un maschio. Le mani, con il numero giusto di
dita. Un neonato ben sviluppato, ma le spalle non passavano e Rob J. dovette
praticare un'incisione. Nuovo dolore. Il piccolo viso era premuto contro la
122
parete della vagina. Preoccupato che il bambino potesse soffocare nella carne
materna, Rob J. infilò due dita nel canale, tenendo la mucosa scostata, finché il
minuscolo viso indignato scivolò fuori in questo mondo freddo e sconvolto... e
subito gettò uno strillo acuto.
Con mani tremanti Rob J. legò e recise il cordone ombelicale e suturò le
lacerazioni della moglie che singhiozzava. Mentre lui le manipolava il ventre
per contrarre l'utero, Makwa lavò e fasciò il neonato e lo pose al seno della
madre. Erano state ventitré ore di penoso travaglio: Sarah cadde in un sonno
spossato e dormì a lungo come morta. Quando aprì gli occhi, Rob J. era accan-
to a lei e le stringeva la mano. «Ottimo lavoro.»
«È grosso come un bisonte. Quasi come era Alex» mormorò lei con voce
rauca. Rob J. lo pesò: quasi quattro chili e mezzo. «Un bel maschio?» chiese
lei, studiando il volto di Rob J., e fece una smorfia quando lui rispose che era
un diavolo di maschio.
«Accidenti!»
Rob J. le accostò la bocca a un orecchio. «Ricordi cosa mi hai detto ieri?» le
chiese.
«Che cosa?»
«Mi hai chiamato bastardo!»
«Io? No, mai!» Sconvolta e furiosa, non volle parlargli per quasi un'ora.
Lo chiamarono Robert Jefferson Cole. Nella famiglia Cole il maschio
primogenito era stato sempre un Robert, con un secondo nome che cominciava
con J. Rob J. pensava che il terzo presidente americano era stato un genio, e
Sarah vide nel nome di Jefferson un legame con la sua natìa Virginia. Aveva
temuto che Alex sarebbe stato geloso, ma il bambino si mostrò invece affa-
scinato dal nuovo piccolo essere. Non si allontanava mai più di un passo o due
dal fratellino, sempre sorvegliandolo attentamente. Fin dal principio acconsentì
che gli altri lo curassero, lo nutrissero, lo cambiassero, giocassero con lui, lo
baciassero. Ma la sorveglianza del bambino era cosa tutta sua.
Sotto molti aspetti il 1842 fu un anno favorevole per la piccola famiglia.
Come aiuto nella costruzione della nuova casa Alden assunse Otto Pfersick, il
mugnaio, e un emigrato dallo Stato di New York, Mort London, che era un otti-
mo ed esperto carpentiere. Pfersick aveva solo una modesta conoscenza dei la-
vori di falegnameria, ma era un buon muratore e i tre uomini passarono molte
giornate a scegliere le pietre migliori dal greto del fiume e a trasportarle fino al
terreno scelto per la costruzione, con l'aiuto dei buoi. Le fondamenta, il camino
e i caminetti riuscirono ottimamente. I tre uomini lavoravano lentamente, con-
sapevoli di costruire un edificio solido e permanente in un paese di casette di
123
tronchi; e quando arrivò l'autunno e Pfersick fu impegnato con il suo mulino a
tempo pieno e gli altri due dovettero badare ai lavori agricoli, il rustico della
casa era terminato e chiuso. Ma la casa era ancora ben lontano dall'essere finita,
così Sarah era seduta davanti alla casetta di tronchi, mondando fagiolini verdi,
quando un grosso carro coperto arrancò su per il sentiero, tirato da due stanchi
cavalli. Sarah levò gli occhi a osservare l'uomo basso e tarchiato che guidava,
notando i capelli e la barba neri coperti dalla polvere della strada.
«È questa la casa del dottor Cole, signora?»
«Sì, ma il dottore è fuori per una visita. Il paziente è ferito o malato?»
«Non c'è nessun malato, grazie a Dio. Siamo amici del dottore e veniamo a
stabilirci in paese.»
Dal retro del carro si sporse una testa di donna. Sarah vide una cuffia spie-
gazzata e un viso pallido e ansioso. «Voi non siete... non sareste per caso i
Geiger?»
«Siamo proprio noi.» L'uomo aveva occhi molto belli e un sorriso aperto,
che pareva aggiungere trenta buoni centimetri alla sua altezza.
«Oh, siate benvenuti, cari vicini! Scendete subito dal carro!» Si alzò dalla
panca tutta agitata, facendo cadere a terra i suoi fagiolini. Nel carro c'erano tre
bambini. Il piccolo appena nato, Herman, dormiva, ma Rachel, che aveva
quattro anni, e il piccolo David di due anni piangevano quando li presero in
braccio per farli scendere, e subito il piccino di Sarah decise di aggiungere i
suoi strilli al coro.
Sarah osservò che Mrs. Geiger era di ben dieci centimetri più alta del marito
e che neppure la fatica di un lungo e penoso viaggio poteva celare la finezza
dei suoi lineamenti. Una donna della Virginia sapeva riconoscere la finezza.
C'era in lei qualcosa di esotico che Sarah non aveva mai visto prima, ma co-
minciò subito a pensare ansiosamente come preparare e servire un pranzo che
fosse degno di lei. Poi si accorse che Lillian aveva cominciato a piangere, e in
un attimo le tornò il ricordo del suo interminabile viaggio in un carro simile a
quello; gettò le braccia al collo dell'altra donna e si trovò con sua sorpresa a
piangere anche lei, mentre Geiger era lì in piedi, sgomento, in mezzo a donne e
bambini che piangevano. Infine Lillian si staccò da Sarah, mormorando imba-
razzata che tutta la sua famiglia aveva terribilmente bisogno di un ruscello per
lavarsi.
«Ma sì, questo è un problema che possiamo risolvere subito» affermò
Sarah, felice di poter fare qualcosa di utile.
Quando Rob J. tornò a casa, li trovò ancora con le teste umide per il bagno
nel ruscello. Dopo gli abbracci e le pacche sulle spalle, mostrò ai nuovi venuti
124
la sua fattoria. Jay e Lillian provavano un senso di timore davanti agli indiani, e
di grande ammirazione per l'abilità di Alden. Jay accolse con entusiasmo la
proposta di sellare Vicky e Bess e fare subito un'ispezione nella sua tenuta.
Quando tornarono, in tempo per un ottimo pranzo, gli occhi di Geiger scin-
tillavano di gioia mentre cercava di descrivere alla moglie le qualità della terra
che Rob J. aveva ottenuto per loro.
«Vedrai, aspetta solo di vederla con i tuoi occhi!» esclamava. Dopo pranzo
si recò al carro e tornò con il suo violino. Non avevano potuto portarsi dietro il
pianoforte della moglie, spiegò, ma lo avevano messo a deposito in un locale
asciutto e sicuro, a pagamento, e contavano di mandarlo a prendere un giorno.
«Hai imparato il pezzo di Chopin?» chiese Geiger, e in risposta Rob J. prese la
viola da gamba, la strinse fra le ginocchia e ne trasse le prime melodiose note
della mazurca. La musica che avevano suonato insieme nell'Ohio era più ricca,
perché vi partecipava il pianoforte di Lillian; ma il violino e la viola fondevano
squisitamente i loro suoni. Quando Sarah finì di sbrigare le pulizie in cucina,
venne ad ascoltare e osservò che, mentre gli uomini suonavano, le dita di Lil-
lian si muovevano a tempo, come se stessero sfiorando i tasti. Avrebbe voluto
prendere la mano di Lillian e lenire la sua nostalgia con parole e promesse:
invece sedette accanto a lei sul pavimento, mentre le onde della melodia sa-
livano e scendevano, portando a tutti speranza e conforto.
I Geiger si accamparono provvisoriamente sulla loro terra, vicino a una
sorgente, mentre Jason tagliava legname per una casetta di tronchi. Erano
decisi a non imporre la loro presenza ai Cole, mentre Sarah e Rob J. avrebbero
tanto desiderato offrire la loro ospitalità. Ma continuavano a farsi visita a vi-
cenda. Mentre, in una notte particolarmente fredda, erano seduti intorno al fuo-
co dei Geiger, sentirono ululare i lupi nella prateria e Jason trasse dal suo vio-
lino un lungo e tremulo ululato, molto simile a quelli. I lupi risposero e per
qualche tempo l'uomo e gli invisibili animali si parlarono attraverso le tenebre,
finché Jason si accorse che sua moglie tremava e non solo per il freddo; gettò
allora un altro ceppo sul fuoco e ripose il suo strumento.
Geiger non era un buon carpentiere; si decise quindi di rimandare ancora
per qualche tempo i lavori di rifinitura della casa dei Cole, e appena Alden riu-
scì a liberarsi in parte dagli impegni della fattoria cominciò a costruire una
casetta di tronchi per i Geiger. Dopo qualche giorno si unirono a lui Otto
Pfersick e Mort London. I tre uomini costruirono rapidamente una comoda
casetta e vi addossarono un capannone chiuso, come farmacia, per riporvi le
cassette dì erbe e di medicinali che avevano occupato la maggior parte dello
spazio nel carro di Jason. Questi inchiodò sulla soglia un minuscolo tubo di
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lamiera contenente un rotolo di pergamena con versetti del Deuteronomio: una
costumanza degli ebrei, spiegò, e i Geiger entrarono nella nuova casa il 18 no-
vembre, pochi giorni prima che il gelo dell'inverno calasse dal Canada.
Jason e Rob J. tagliarono un sentiero nei boschi fra le due case e ben presto
si abituarono a chiamarlo Sentiero Lungo, per distinguerlo da quello che Rob J.
aveva già aperto fra la sua casa e il fiume e che divenne il Sentiero Corto.
Quindi i costruttori trasferirono i loro sforzi alla casa dei Cole. Avevano
davanti tutto l'inverno per portare a termine gli interni, così accendevano legna
nel camino per tenersi caldi e lavoravano con calma in allegria, sagomando
modanature e pannelli di quercia e sprecando ore a miscelare varie tinte di
pittura con latte scremato, per ottenere l'esatta sfumatura di colore che piaceva
a Sarah. Lo stagno vicino alla casa era gelato e Alden talvolta sospendeva il la-
voro e fissava un paio di pattini ai suoi stivali, sfoggiando i suoi virtuosismi di
pattinatore appresi nel Vermont. Anche Rob J. aveva pattinato ogni inverno in
Scozia, e avrebbe volentieri preso a prestito i pattini di Alden, ma erano troppo
piccoli per i suoi rispettabili piedi.
Il primo nevischio cadde tre settimane prima di Natale. Il vento portava
come una nuvolaglia di particelle bianche, che si scioglievano appena tocca-
vano la pelle. Poi caddero le vere larghe falde di neve e stesero sul mondo un
permanente mantello bianco. Con crescente entusiasmo Sarah progettava il suo
menu di Natale, discutendo con Lillian ricette di sicuro successo, imparate nel-
la natia Virginia. Ora scopriva le prime differenze fra la sua famiglia e quella
dei Geiger, perché Lillian non condivideva il suo entusiasmo per l'imminente
festività. E fu sorpresa di sentire che i loro nuovi vicini non celebravano affatto
la nascita di Cristo, mentre stranamente commemoravano qualche antica, eso-
tica battaglia di Terra Santa accendendo sottili candele e cuocendo focacce di
patate! Tuttavia offrirono ai Cole i doni di Natale: marmellate di prugne che si
erano portate dall'Ohio, e caldi calzettoni di lana che Lillian aveva lavorato ai
ferri per tutti. Il dono dei Cole ai Geiger fu una pesante padella di ferro nero
con tre piedini per cucinare sulla brace, che Rob J. aveva comprato all'emporio
di Rock Island.
Invitarono i Geiger al pranzo di Natale, ed essi accettarono, benché Lillian
non mangiasse mai carne fuori di casa sua. Sarah servì una cremosa zuppa di
cipolle, pesce gatto in salsa di funghi, oca arrosto con sugo di rigaglie, croc-
chette di patate, plum pudding all'inglese fatto con le marmellate di Lillian, pan
biscotto, formaggio e caffè. Ai suoi familiari donò maglioni di lana fatti da lei.
Rob I. aveva portato in dono alla moglie una coperta di pelliccia di volpe, così
splendida che strappò a tutti i presenti grida di ammirazione. Ad Alden regalò
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una pipa nuova e una scatola di tabacco, e il bracciante lo sorprese offrendogli
un paio di pattini da ghiaccio dalla lama ben affilata, fatti nell'officina stessa
della fattoria, e abbastanza grandi per i suoi grandi piedi! «Ora il ghiaccio è
coperto dalla neve, ma se li godrà il prossimo anno» gli disse Alden sorridendo.
Dopo che gli ospiti se ne furono andati, Makwa-ikwa bussò alla porta e
lasciò in dono guanti a manopola di pelliccia di coniglio, un paio per Sarah,
uno per Rob, uno per Alex. Si allontanò in fretta, prima che potessero invitarla
a entrare.
«È una donna strana» osservò Sarah pensosa. «Avremmo dovuto regalare
anche a lei qualche cosa.»
«Ci ho pensato io» rispose Rob J. e disse alla moglie che aveva portato a
Makwa-ikwa una padella come quella dei Geiger.
«Vuoi dirmi che hai regalato a quell'indiana un oggetto così costoso, com-
prato in negozio?» E poiché lui non rispondeva, la sua voce si fece tesa e ostile.
«Tu devi tenerci molto, a quella donna!»
Rob la guardò fisso. «Infatti» rispose seccamente.

Quella notte la temperatura si alzò e cadde pioggia invece che neve. Nelle
prime ore del mattino un ragazzo fradicio e piangente, il quindicenne Freddy
Grueber, venne tutto ansimante a bussare alla porta. Il bue che era l'orgoglio di
Hans Grueber aveva rovesciato con un calcio una lampada a petrolio e la stalla
con il fienile era andata a fuoco, malgrado la pioggia. «Mai visto niente di
simile, Cristo, non ce l'abbiamo fatta a spegnerlo. Siamo riusciti a salvare il be-
stiame, eccetto la mula. Ma mio padre si è bruciato malamente, il braccio e il
collo e tutt'e due le gambe. Lei deve venire, dottore!» Il ragazzo aveva fatto a
cavallo ventidue chilometri sotto la pioggia e Sarah cercò di dargli qualcosa da
mangiare e da bere, ma lui scosse la testa e rimontò subito in sella per tornare a
casa.
Sarah preparò un cestino con gli avanzi del pranzo mentre Rob J. riponeva
nella sua sacca i panni puliti e le pomate di cui avrebbe avuto bisogno e
passava a prendere Makwa-ikwa alla sua capanna. Dalla finestra Sarah li vide
sparire nel buio sotto la pioggia, Rob J. su Vicky, con il cappuccio in testa e il
corpo poderoso piegato sulla sella contro il vento; l'indiana, avvolta in una
coperta, era a cavallo di Bess. Sul mio cavallo, e se ne va con mio marito,
mormorava Sarah fra sé, quindi decise di mettersi a impastare il pane, perché
non avrebbe mai potuto tornare a dormire.
Per tutto il giorno attese il loro ritorno. Quando si fece notte rimase a lungo
seduta accanto al fuoco, ascoltando la pioggia e guardando il pranzo che aveva
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tenuto in caldo per lui e che ora diventava immangiabile. Quando andò a letto,
rimase coricata senza dormire, ripetendosi che, se quelli si erano rintanati in un
tepee o in una caverna, in qualche caldo nido, era colpa sua che lo aveva al-
lontanato da sé con la sua gelosia.
La mattina dopo era seduta al tavolo, torturandosi con vane fantasie, quando
venne a trovarla Lillian Geiger, che sentiva la mancanza della vita di città e
malgrado la pioggia veniva a cercar compagnia. Sarah aveva un aspetto stanco
e cerchi neri sotto gli occhi, ma la accolse cordialmente e si sforzò di chiac-
chierare con disinvoltura; a un certo punto tuttavia scoppiò in lacrime nel bel
mezzo di una discussione sui semi da fiori. Un attimo dopo, con un braccio di
Lillian intorno alle spalle, riversava sul seno dell'amica costernata le sue
peggiori paure. «Prima che lui venisse la mia vita era così infelice, ora è così
buona. Se dovessi perderlo...»
«Sarah, ascolta, nessuno può sapere ciò che avviene nel matrimonio degli
altri, ma... tu stessa dici che le tue paure possono essere infondate. Io sono sicu-
ra che lo sono. Rob J. non sembra proprio il tipo d'uomo capace di tradire...»
Sarah si lasciò confortare dall'altra donna e dissuader dai suoi sospetti.
Quando Lillian la lasciò, la sua tempesta emotiva si era placata.
Rob J. tornò a casa a mezzogiorno.
«Come sta Hans Grueber?» chiese Sarah.
«Ah, ustioni gravissime» rispose lui stancamente. «Soffre molto. Spero che
si riprenda. Ho lasciato là Makwa ad assisterlo.»
«Hai fatto bene» osservò lei.
Rob J. dormì tutto quel pomeriggio e la sera, mentre la pioggia cessava e la
temperatura calava bruscamente. Si svegliò nel cuore della notte e si vestì per
uscire e recarsi al gabinetto esterno, inciampando e sdrucciolando perché la
neve impregnata di pioggia si era ghiacciata fino ad assumere la consistenza
del marmo. Quando ebbe vuotato la vescica e fu tornato a letto, non riuscì a
riaddormentarsi. Aveva calcolato di tornare dai Grueber la mattina dopo, ma
ora temeva che gli zoccoli della cavalla non potessero trovare appiglio sul
terreno ghiacciato. Si rivestì, uscì di nuovo all'aperto e constatò che i suoi timo-
ri non erano infondati. Per quanto picchiasse i tacchi sulla neve con la maggior
forza possibile, i suoi stivali non riuscirono a romperne la dura superficie
bianca.
Nel fienile trovò i pattini che Alden aveva fatto per lui e se li legò agli
stivali. Il sentiero che portava alla nuova casa era coperto di ghiaccio ineguale
e sconnesso per le molte impronte, e rendeva difficile il percorso, ma al di là si
estendeva la prateria aperta e la superficie levigata dal vento era liscia come
128
vetro. Rob J. si lanciò per l'ampia distesa scintillante alla luce della luna,
dapprima barcollando un poco, poi con passi più lunghi e sicuri, avventu-
randosi su quel mare di ghiaccio dove si udiva solo il fischio delle lame e il
suono del suo respiro ansimante.
Infine, senza fiato, si fermò a contemplare un attimo lo strano mondo not-
turno della prateria ghiacciata. Vicinissimo, allarmante, risuonò l'ululato spet-
trale di un lupo, e Rob J. si sentì rizzare i capelli sulla nuca. Se fosse caduto, se
si fosse magari spezzato una gamba, i predatori affamati si sarebbero precipitati
su di lui in un minuto. Il lupo urlò ancora, o forse era un altro animale: un urlo
fatto di solitudine e fame e rabbia, che lo spinse a riprendere subito la via di
casa, pattinando con più cautela questa volta, ma sempre correndo come se
fosse inseguito.
Quando tornò alla casetta di tronchi, controllò anzitutto che Alex e il neona-
to non si fossero scoperti nel sonno. Entrambi dormivano tranquillamente.
Quando scivolò piano nel letto, sua moglie si girò e gli scaldò fra i seni il viso
gelato. Sarah fece udire un leggero mugolio, un suono di tenerezza e di desi-
derio, avvolgendolo nel tiepido rifugio delle sue braccia e delle sue gambe. Il
medico era prigioniero del cattivo tempo: Grueber avrebbe potuto fare a meno
di lui finché Makwa fosse rimasta ad assisterlo, pensò, e si abbandonò al calore
del corpo e dell'anima, all'incontro d'amore più misterioso della luce lunare, più
piacevole ancora che volare sul ghiaccio senza lupi.

23

Trasformazioni

Se Robert Jefferson Cole fosse nato nell'Inghilterra del Nord, alla nascita
sarebbe stato chiamato Rob J., e Robert Judson Cole sarebbe divenuto Big Rob
o semplicemente Rob, senza la seconda iniziale. Per i Cole della Scozia, la J.
era conservata dal figlio maggiore finché lui stesso diventava padre di un
maschio primogenito, al quale passava graziosamente senza contestazioni. Rob
J. non pensava certo di violare una tradizione secolare della famiglia; ma que-
sto era un Paese nuovo per i Cole, e quelli che ora egli amava non si davano
pensiero delle tradizioni secolari. Per quanto cercasse di spiegare la cosa, nes-
suno si decise a chiamare il neonato Rob J. Per Alex, dapprima il fratellino fu il
bebé. Per Alden fu il Bambino, Fu Makwa-ikwa che gli diede il nome che
doveva diventare una parte di lui. Un mattino il bambinetto, che ormai si
muoveva a quattro zampe e cominciava a balbettare le prime parole, sedeva a
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terra nell'hedonoso-te di Makwa con due dei tre bambini di Luna e Vien
Cantando: Anemoha, Piccolo Cane, che aveva tre anni, e Chisaw-ik-wa, Donna
Uccello, che ne aveva uno di meno. Giocavano con pupazzi fatti di pannocchie,
ma il piccolo bianco trotterellò lontano da loro. Nella scarsa luce che scendeva
dall'apertura fumaria vide il tamburo ad acqua della sciamana e colpendolo con
la piccola mano ne trasse un suono che fece trasalire ogni persona nella
baracca.
Il piccino strisciò lontano dal suono, ma non tornò dagli altri bambini. Inve-
ce, come se facesse un giro di ispezione, si avviò verso un angolo dove era si-
stemata la riserva di erbe officinali e si fermò davanti a ogni mazzetto, osser-
vandolo gravemente con profondo interesse.
Makwa-ikwa sorrise. «Tu sei ubenu migegee-ieh, un piccolo sciamano.»
Da allora lo chiamò sempre Sciamano, e anche altri ben presto comincia-
rono a usare quel nomignolo, perché sembrava adatto e il piccino all'udirlo
subito rispondeva. C'era qualche eccezione: Alex lo chiamava Fratellino, e per
lui Alex era il Grande, perché fin dal principio la loro madre parlando di loro
diceva il Piccolo e il Grande. Solo Lillian Geiger cercava di chiamarlo Rob J.,
perché Lillian credeva profondamente nella famiglia e nelle tradizioni. Ma
perfino Lillian a volte si dimenticava e lo chiamava Sciamano, e Rob J. Cole (il
padre) rinunciò ben presto alla lotta e conservò la sua iniziale. Comunque,
iniziale o no, sapeva che alle sue spalle alcuni dei suoi pazienti lo chiamavano
Indian Cole e alcuni persino «quel fottuto segaossi amante dei Sauk». Ma tutti,
bigotti o liberali che fossero, lo conoscevano per un buon medico. Quando lo
chiamavano, era sempre pronto ad accorrere da un paziente, senza chiedergli se
lo aveva in simpatia o no.

Là dove una volta Holden's Crossing era stata solo la piantina di una città
tracciata sui volantini di Nick Holden, ora sorgeva una Main Street fiancheg-
giata da case e negozi, che tutti chiamavano il Villaggio. Esibiva orgogliosa-
mente gli Uffici Municipali; l'Emporio generale di Haskins: alimentari, attrezzi
agricoli e tessuti; il magazzino Foraggi e Semi di N.B. Reimer; la Cassa di
Risparmio e Ipoteche di Holden's Crossing; una pensione gestita da Mrs. Anna
Wiley, che serviva anche pasti per i clienti; la farmacia di Jason Geiger; il
Saloon di Nelson (doveva essere una trattoria nei primi progetti di Nick per la
città, ma, data la presenza della locanda di Mrs. Wiley, rimase sempre un basso
stanzone con il lungo banco del bar); e le stalle e la mascalcia di Paul Williams,
maniscalco e fabbro ferraio. Nella sua bella casa di mattoni e legno nel
Villaggio, Roberta Williams, moglie del maniscalco, esercitava le nobili arti di
130
sarta e parrucchiera. Per diversi anni Harold Ames, agente d'assicurazioni a
Rock Island, venne all'emporio generale di Holden's Crossing tutti i mercoledì
pomeriggio per stipulare contratti e trattare altri affari con i cittadini del Villag-
gio. Ma quando i lotti di terre demaniali furono tutti assegnati, e alcuni dei co-
loni fallirono e cominciarono a vendere le loro terre a nuovi venuti, risultò
evidente che era necessaria un'agenzia immobiliare e così arrivò Carroll Wil-
kenson, che aprì il suo Ufficio Beni Immobili e Assicurazioni. Charlie An-
dreson, che pochi anni dopo doveva diventare anche il direttore della banca, fu
eletto sindaco della città alla prima elezione e anche a tutte le successive, per
molti anni. Andreson era simpatico a tutti, anche se nessuno ignorava che era il
sindaco scelto da Nick Holden, ed era sempre la lunga mano di Nick. Lo stesso
avvenne per lo sceriffo. Non c'era voluto più di un anno a Mort London per
scoprire che non era nato per coltivare la terra. E nei dintorni non c'erano
abbastanza lavori di carpenteria per assicurargli il pane, perché ogni colono si
faceva i lavori di falegnameria da solo. Così, quando Nick si offrì di appog-
giarlo per la candidatura all'ufficio di sceriffo, Mort accettò ben volentieri. Era
un uomo tranquillo che si occupava coscienziosamente dei propri compiti, il
che perlopiù significava tener quieti gli ubriachi nel saloon di Nelson. Rob J.
era direttamente interessato ai rapporti con lo sceriffo. Ogni medico della con-
tea aveva le mansioni di vicecoroner ed era lo sceriffo che decideva chi avreb-
be dovuto eseguire l'autopsia nei casi di morte da crimine o incidente. Gene-
ralmente un'autopsia era l'unico modo, per un medico di campagna, di eseguire
le dissezioni che erano necessarie per mantenere in esercizio le sue capacità di
chirurgo. Rob J. nell'eseguire un'autopsia si atteneva scrupolosamente alle rigo-
rose norme scientifiche che aveva appreso a Edimburgo: pesava tutti gli organi
vitali e teneva registrazioni. Fortunatamente era sempre stato in buoni rapporti
con Mort London, ed ebbe così la possibilità di eseguire numerose autopsie.
Nick Holden era stato eletto tre volte di seguito all'assemblea legislativa
dello Stato. Talvolta alcuni dei cittadini si irritavano alle sue arie da padrone e
si dicevano fra loro che l'arrogante deputato poteva ben possedere la maggior
parte della banca e buona parte del mulino e dell'emporio generale del saloon, e
sa il diavolo quanti ettari di terreno, ma perdio non era il loro padrone né il
padrone delle loro terre! In generale però lo osservavano con orgoglio e sor-
presa vedendolo agire come un vero uomo politico, laggiù a Springfield, dove
beveva bourbon con il governatore, che era nativo del Tennessee, e faceva
parte di commissioni governative e tirava le file di innumerevoli affari con tale
rapidità e abilità che loro tutti non potevano che mandar giù il rospo e sog-
ghignare scuotendo la testa.
131
Nick aveva due ambizioni, che manifestava apertamente. «Voglio portare la
ferrovia a Holden's Crossing, così che un giorno forse questo Villaggio diven-
terà una metropoli» disse a Rob J. un mattino, fumandosi un sigaro di lusso
seduto sotto il portico dell'emporio di Haskins. «E voglio essere eletto al Con-
gresso degli Stati Uniti. Non voglio certo ottenere la ferrovia e poi starmene
qui a vegetare a Springfield!»
Non erano più in rapporti di vera amicizia, dal giorno in cui Nick aveva
cercato di dissuaderlo dallo sposare Sarah, ma si salutavano cordialmente ogni
volta che si incontravano. Ora Rob J. lo guardò dubbioso. «Non sarà cosa facile
arrivare al Congresso, Nick. Avrai bisogno dei voti di un distretto elettorale
molto più vasto della nostra contea. E poi c'è il vecchio Singleton.» Il can-
didato della regione, Samuel Turner Singleton, conosciuto in tutta la contea di
Rock Island come «il nostro Sammil», godeva di appoggi formidabili.
«Sammil Singleton è vecchio. Presto morirà o si ritirerà. Quando verrà il
momento, farò in modo che tutti nel distretto si rendano conto che un voto per
me è un voto per la prosperità.» Nick gli rivolse un sorrisetto d'intesa. «Io ho
fatto molto per te, non è vero, dottore?»
Rob J. dovette ammettere che era così. Era azionista tanto del mulino quan-
to della banca. Nick aveva anche controllato il finanziamento dell'emporio ge-
nerale e del saloon, ma non aveva invitato Rob J. a partecipare a questi affari. E
Rob J. aveva capito benissimo: Nick aveva già messo forti radici a Holden's
Crossing e non sprecava lusinghe quando non erano necessarie.

La presenza della farmacia di Jay Geiger e il continuo affluire di coloni nel-


la regione attirarono ben presto a Holden's Crossing un altro medico. Il dottor
Thomas Beckermann era un uomo di mezza età, con il colorito giallognolo e
l'alito cattivo. Proveniva da Albany, New York, e si stabilì in una piccola casa
con intelaiatura di legno nel Villaggio, non lontano dalla farmacia. Non si era
laureato in una facoltà di medicina ed era alquanto vago quando parlava del suo
tirocinio medico, che diceva di aver fatto con un certo dottor Cantwell a Con-
cord, New Hampshire. Dapprima Rob J. vide con piacere la sua venuta. C'era-
no abbastanza pazienti per due medici che non fossero troppo avidi e la pre-
senza di un altro dottore gli avrebbe consentito di dividere con lui le lunghe e
difficili visite a domicilio, che spesso lo portavano a grandi distanze nella
prateria. Ma Beckermann era un mediocre medico e un accanito bevitore, e la
comunità se ne rese subito conto. Così Rob J. dovette continuare con le sue
cavalcate troppo lunghe e i suoi pazienti troppo numerosi.
Questa situazione divenne insostenibile con l'arrivo della primavera, quando
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cominciarono a infuriare le epidemie annuali, le febbri lungo i fiumi, la scabbia
dell'Illinois nelle fattorie e nella pianura, e malattie contagiose ovunque. Sarah
aveva cullato la speranza di poter uscire a fianco del marito assistendo i malati,
e la primavera che segui la nascita del suo secondo figlio si impegnò in una
vera battaglia per convincere Rob J. a portarla con sé. Ma aveva colto il mo-
mento peggiore. Quell'anno le malattie più gravi erano febbre puerperale e
morbillo, e da allora Sarah cominciò a tormentarlo, dicendogli che c'erano già
troppi malati gravi, alcuni anche morenti, e che lui non poteva dedicarle suffi-
ciente attenzione. Così Sarah dovette vedere per tutta quella primavera Makwa-
ikwa che partiva a cavallo con lui e i morsi della gelosia tornarono ad afflig-
gerla.
Verso la metà dell'estate le epidemie entrarono in fase decrescente e Rob J.
riprese la sua più calma routine giornaliera. Una sera dopo che lui e Jay Geiger
si erano concessi un meritato riposo con le armonie del Duetto in sol maggiore
per violino e viola di Mozart, Jay sollevò la spinosa questione dell'infelicità di
Sarah. Ormai erano diventati amici intimi, ma Rob J. fu sorpreso e seccato che
Geiger presumesse di poter intervenire nella sua vita privata, che considerava
inviolabile.
«Come fai a conoscere i sentimenti di Sarah?»
«Sarah parla con Lillian, e Lillian con me.» Jay lottò con un momento di
imbarazzante silenzio. «Spero che tu capisca. Io parlo per... per sincero affet-
to... per entrambi voi due.»
«Capisco. E insieme con il tuo sincero affetto... avresti anche qualche
consiglio?»
«Per amor di tua moglie, devi liberarti della donna indiana.»
«Non c'è altro che amicizia fra noi» ribatté Rob J., malcelando il suo risenti-
mento.
«Non ha importanza. La sua presenza è all'origine dell'infelicità di Sarah.»
«Ma quella donna non ha un posto dove andare! Non c'è un posto dove gli
indiani possano andare. I bianchi dicono che sono selvaggi e non gli lasciano
vivere la loro vita secondo gli antichi costumi. Vien Cantando e Luna sono i
migliori braccianti che si possano trovare, ma nessuno qui nei dintorni è dispo-
sto ad assumere un sauk. Makwa e Luna e Vien Cantando mantengono gli altri
indiani del loro gruppo, con quel poco denaro che guadagnano da me. Makwa
lavora duro ed è fedele, e non posso mandarla via a morire di fame, o peggio.»
Jay sospirò e annuì, e non toccò più l'argomento.
L'arrivo di una lettera era una rarità. Quasi un avvenimento. Una giunse a
Rob J., inoltrata dal postino di Rock Island, che l'aveva trattenuta cinque giorni
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aspettando che Harold Ames, l'agente di assicurazioni, facesse il suo settima-
nale viaggio d'affari a Holden's Crossing.
Rob J. aprì ansiosamente la busta. Era una lunga lettera del dottor Harry
Loomis, il suo amico di Boston. Quando finì di leggerla, tornò a rileggerla
daccapo e poi ancora una volta.
Doveva essere stata scritta il 20 novembre 1846 e aveva impiegato tutto
l'inverno per raggiungere la sua destinazione. Harry evidentemente era avviato
a una brillante carriera a Boston. Riferiva che recentemente era stato nominato
professore aggiunto di anatomia ad Harvard e accennava alle sue nozze immi-
nenti con una nobile fanciulla, Julia Salmon. Ma la lettera parlava più di argo-
menti medici che di cose personali. Ora una nuova scoperta apriva la via alla
chirurgia senza dolore, scriveva Harry con visibile entusiasmo. Era il gas
conosciuto come etere, che per anni era stato usato come solvente nella
fabbricazione di cere e profumi. Harry ricordava a Rob J. certi esperimenti te-
nuti negli ospedali di Boston per verificare gli effetti analgesici del protossido
di azoto, conosciuto anche come "gas esilarante". Aggiungeva poi maliziosa-
mente che Rob J. non poteva aver dimenticato certi impieghi spassosi del
protossido di azoto, fatti fuori dell'ospedale. Certo, Rob J. ricordava, con un
misto di piacere e di senso di colpa, che aveva diviso con Meg Holland una
bottiglietta di gas esilarante regalatagli da Harry per una certa piacevole serata.
Forse il tempo e la distanza rendevano il ricordo più allegro e divertente della
realtà.
«Lo scorso 5 ottobre» scriveva Loomis «un altro esperimento, questa volta
con l'etere, fu tenuto nella sala operatoria del Massachusetts General
Hospital. I precedenti tentativi di eliminare il dolore mediante il protossido di
azoto erano stati un completo fallimento, con un pubblico di studenti e dottori
che sghignazzavano e gridavano: "È una truffa! È una truffa!". I tentativi
avevano assunto l'aria di buffonesca esibizione, e l'operazione predisposta al
Massachusetts General Hospital minacciava di fare la stessa fine. Il chirurgo
era il dottor John Collins Warren. Certamente lei ricorda che il dottor Warren
è un individuo intrattabile ma un ottimo ed esperto chirurgo, più noto per la
sua destrezza con il bisturi che per la sua pazienza con gli sciocchi. Così quel
giorno noi ci recammo in gran numero nella sala operatoria, come per
assistere a un divertente spettacolo.
«Immagini un po' la scena, Rob: l'uomo che doveva somministrare l'etere,
un dentista di nome Morton, è in ritardo. Warren, seccatissimo, sfrutta il
ritardo per tenere una lezione su come procederà per asportare un grosso
tumore dalla lingua cancerosa di un giovane di nome Abbott, il quale è già
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seduto nella rossa poltrona operatoria, mezzo morto dal terrore. Dopo
quindici minuti Warren perde la pazienza e arcigno tira fuori l'orologio. Il
pubblico ha già cominciato a ridacchiare quando arriva tutto affannato il
vagabondo dentista. Morton somministra il gas e annuncia che il paziente è
pronto. Il dottor Warren annuisce, ancora furioso, si rimbocca le maniche e
sceglie il bisturi. Gli assistenti aprono la bocca di Abbott e gli afferrano la
lingua, altre mani lo inchiodano alla sedia operatoria perché non possa
dibattersi. Warren si china sul paziente e pratica con fulminea rapidità il
primo, profondo taglio, che fa sprizzare il sangue da un angolo della bocca
del giovane.
«Il paziente resta immobile.
«Intorno, un silenzio di tomba. Si sentirebbe volare una mosca. Warren si
accinge a continuare: pratica una seconda incisione, poi una terza. Con rapi-
dità e con cura asporta il tumore, raschia, applica i punti, preme una spugna
per controllare l'emorragia.
«Il paziente dorme. Il paziente DORME. Warren si raddrizza. Che lei lo
creda o no, Rob J., gli occhi dell'arcigno autocrate sono umidi!
«"Signori", annuncia, "questa non è una truffa."»
La scoperta dell'etere come analgesico in chirurgia era stata annunciata nelle
riviste mediche di Boston, riferiva Harry. «Il nostro Holmes, sempre pronto ad
afferrare le situazioni, ha già proposto che questa pratica sia chiamata ane-
stesia, dalla parola greca che significa insensibilità.»

La farmacia di Geiger era sprovvista di etere.


«Ma io sono un buon chimico» esclamò Jay riflettendo. «Posso produrlo io
stesso, probabilmente. Devo distillare alcol di grano con acido solforico. Non
potrò adoperare il mio alambicco di metallo, perché l'acido lo corroderebbe.
Ma ho una serpentina di vetro e una grossa bottiglia.»
Quando andarono a cercare nei suoi scaffali, trovarono una quantità di alcol,
ma niente acido solforico.
«Puoi fare l'acido solforico?»
Geiger si grattò il mento, evidentemente compiaciuto. «Per questo, mi basta
combinare zolfo e ossigeno. Io ho zolfo in abbondanza, ma il procedimento
chimico è un po' complicato. Ossidando una volta lo zolfo si ottiene diossido di
zolfo. Dovrò ossidare a sua volta il diossido di zolfo per ottenere acido
solforico. Ma... sicuro, perché no?»
In pochi giorni Rob J. ebbe in mano una riserva di etere. Harry Loomis gli
aveva spiegato come mettere insieme una maschera per l'etere, un semplice
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cono fatto con la stoffa e il fil di ferro. Dapprima Rob J. provò il gas su un
gatto, che rimase insensibile per ventidue minuti. Poi privò di coscienza un
cane per più di un'ora, un periodo così lungo che risultò evidente come l'etere
fosse pericoloso e dovesse essere applicato con cautela. Somministrò il gas a
un agnello prima di castrarlo e i testicoli vennero via senza un belato.
Infine istruì Geiger e Sarah nell'uso dell'etere e i due lo somministrarono a
lui. Rimase privo di sensi solo per pochi minuti, perché il nervosismo dei due
assistenti lo indusse a ridurre eccessivamente la dose: ma fu una singolare
esperienza.
Diversi giorni dopo Gus Schroeder, che aveva già perduto un dito e la prima
falange di un altro, finì con l'indice della mano destra sotto la sua rozza slitta
per il trasporto dei sassi e il dito ne fu maciullato. Rob J. gli somministrò l'etere
e Gus si svegliò con sette dita e mezzo e chiese quando sarebbe cominciata
l'operazione.
Rob J. era stupito delle possibilità che gli si aprivano, gli pareva di aver get-
tato uno sguardo negli infiniti spazi stellari, e insieme si rendeva conto che
l'etere era più potente del Dono. Il Dono era solo prerogativa di pochi membri
della sua famiglia, ma con l'etere ogni chirurgo al mondo avrebbe potuto
operare senza infliggere strazianti dolori. A metà della notte Sarah scese in
cucina e trovò il marito seduto al tavolo, da solo.
«Ti senti bene?»
Rob J. stava osservando il liquido incolore in una bottiglietta di vetro, come
se volesse imprimerselo nella mente.
«Se avessi avuto questo, Sarah, non ti avrei fatto soffrire quando ti ho
operato.»
«Hai fatto benissimo anche senza. Mi hai salvato la vita.»
«Questa sostanza...» Sollevò la bottiglia con aria riverente, ma a lei non
parve altro che un po' d'acqua. «... Salverà migliaia di vite. È una spada contro
il Cavaliere Nero.»
Sarah detestava sentirlo parlare della morte come di un personaggio che
poteva aprire la porta ed entrare in casa in qualsiasi momento. Si strinse le
braccia ai seni turgidi e rabbrividì al freddo della notte. «Vieni a letto, Rob J.»
mormorò.
L'indomani Rob J. cominciò a prendere contatto con i medici della regione
invitandoli a una riunione, che si tenne infatti qualche settimana dopo in una
stanza sopra l'emporio di Rock Island. Ormai Rob J. aveva usato l'etere in altre
tre occasioni. Sette medici e Jason Geiger si riunirono ad ascoltare la lettura
della lettera di Loomis e la relazione di Rob J. sui suoi tre casi.
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Le reazioni dei presenti andavano da un vivo interesse a un aperto scetti-
cismo. Due medici ordinarono a Jay etere e coni da etere. «È una moda passeg-
gera» borbottò Thomas Beckermann sprezzante. «Come tutte quelle idiozie sul
lavarsi le mani.» Molti dei medici sogghignarono, perché tutti conoscevano
l'eccentrica mania di Rob J. per l'acqua e il sapone. «Forse gli ospedali metro-
politani possono sprecare il loro tempo con cose del genere. Ma nessuna cricca
di dottori di Boston dovrebbe venire a insegnarci come praticare la medicina
lungo la frontiera occidentale.»
Gli altri dottori furono più cauti di Beckermann. Tobias Barr disse che
trovava molto utile l'esperienza di incontrarsi con altri medici per uno scambio
di idee e propose di fondare una Società Medicina della contea di Rock Island.
Procedettero subito alla fondazione della società: il dottor Barr fu eletto presi-
dente e Rob J. segretario corrispondente, onore che non poté rifiutare perché a
ognuno dei presenti fu assegnata una carica, o la presidenza di un comitato che
Tobias Barr riteneva di essenziale importanza.

Era un anno cattivo quello. In un caldo, afoso pomeriggio verso la fine


dell'estate, quando i raccolti erano ormai maturi, improvvisamente il cielo si
fece pesante e nero. Tuoni e lampi squassarono le nubi cariche di tempesta.
Mentre stava ripulendo dalle erbacce il suo giardino, Sarah vide che in
lontananza, nella prateria, dalla massa delle nubi si protendeva verso terra un
sottile imbuto. Si snodava come un gigantesco serpente ed emetteva un prolun-
gato sibilo, che si trasformò in un impressionante ruggito quando la sua bocca
raggiunse la prateria e cominciò a risucchiare terra e detriti.
Tutto ciò accadeva lontano da lei, ma Sarah corse a cercare i suoi ragazzi
per portarli nello scantinato.
A una dozzina di chilometri di distanza anche Rob J. aveva osservato il
tornado. Era stata una questione di pochi minuti, ma, quando giunse alla
fattoria di Hans Buckman, Rob J. vide che 16 ettari del miglior granturco erano
andati distrutti. «Come se Satana avesse usato una grande, immensa falce»
osservò amaramente Buckman. Alcuni coloni avevano perso sia il granturco sia
il frumento. La vecchia cavalla bianca dei Mueller era stata risucchiata dal
vortice e scagliata priva di vita in un pascolo a circa 30 metri di distanza. Ma
nessuna vita umana era andata persa, e tutti dovettero ammettere che Holden's
Crossing era stata fortunata.

La gente stava ancora tirando un sospiro di sollievo, quando in autunno


scoppiò un'epidemia. Era la stagione in cui i primi venti freschi e l'aria
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frizzante avrebbero dovuto assicurare vigore e buona salute. La prima setti-
mana di ottobre otto famiglie furono colpite da una malattia che Rob J. non riu-
scì a identificare, una violenta febbre accompagnata da alcuni dei sintomi
biliari della febbre tifoide. Ma egli sospettava che non fosse tifoide, e quando
cominciò a verificarsi almeno un nuovo caso ogni giorno seppe che la cosa era
grave.
Si era avviato verso l'hedonoso-te per dire a Makwa-ikwa di prepararsi a
uscire con lui, ma cambiò direzione e si volse verso la cucina di casa sua.
«Comincia a diffondersi una brutta febbre. Può darsi che io debba restare
lontano per qualche settimana.»
Sarah annuì gravemente, per mostrargli che capiva. Lui le chiese se voleva
accompagnarlo e vide il suo volto illuminarsi tutto.
«Dovrai lasciar soli i bambini» osservò poi Rob J. dubbioso.
«Makwa baderà a loro mentre noi saremo lontani» obiettò Sarah. «Lo fa in
modo eccellente.»
Partirono nel pomeriggio. All'inizio di un'epidemia del genere, Rob J.
soleva recarsi personalmente in ogni casa dov'era segnalato il male, cercando di
spegnere le scintille prima che divampasse l'incendio. Osservò che ogni caso
aveva inizio nello stesso modo, con improvviso e violento rialzo di temperatura
o con la gola infiammata seguita da febbre. Di solito sopravveniva ben presto
la diarrea con emissione di bile giallo-verde. In ogni paziente la bocca si copri-
va di minuscole papille, indipendentemente dal fatto che la lingua fosse riarsa o
umida, nerastra o biancastra.
In una settimana Rob J. si era reso conto che, se il paziente non presentava
altri sintomi, la morte era imminente. Se i primi sintomi erano seguiti da brividi
e dolori alle estremità, spesso violenti, era probabile invece che guarisse.
Foruncoli e altri ascessi che comparissero alla fine della febbre erano segni
favorevoli. Rob J. non aveva idea di come affrontare il morbo. Poiché aveva
riscontrato che la diarrea, quando si verificava nei primi giorni, spesso troncava
la febbre, cercò qualche volta di provocarla somministrando purganti. Quando i
pazienti erano in preda a brividi, gli faceva prendere il tonico verde di Makwa-
ikwa con l'aggiunta di un po' di alcol per provocare la sudorazione, e applicava
cataplasmi di senape. Poco dopo l'inizio dell'epidemia lui e Sarah incontrarono
Tom Beckermann che si recava a cavallo a visitare le vittime della febbre.
«Tifoide, senza dubbio» sentenziò Beckermann. Rob J. non la pensava così.
Non si riscontravano macchie rosse sull'addome, né emorragie anali. Ma non
volle contraddirlo. Qualunque fosse il male che mieteva tante vittime, chiamar-
lo con l'uno o con l'altro nome non l'avrebbe reso meno pauroso. Beckermann
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riferì che due dei suoi pazienti erano morti il giorno prima, in seguito a copiose
emorragie e salassi. Rob J. fece del suo meglio per dimostrare all'altro medico
che i salassi non servivano a combattere la febbre, ma Beckermann non era il
tipo disposto a seguire un trattamento raccomandato da un collega. Rob J. si
trattenne solo pochi minuti con il dottor Beckermann e si affrettò ad accomia-
tarsi: nulla lo irritava più di un cattivo medico.

Dapprima gli parve strano avere vicino a sé Sarah invece che Makwa-ikwa.
Sarah non avrebbe potuto impegnarsi di più e si affrettava a eseguire tutto
quello che le chiedeva. La differenza stava nel fatto che le doveva chiedere e le
doveva insegnare, mentre Mak-wa era arrivata a sapere da sola quel che
occorreva fare, senza che lui glielo dicesse. Di fronte ai pazienti, o cavalcando
da una casa all'altra, lui e Makwa solevano mantenere lunghi e confortevoli
silenzi; Sarah dapprima parlava e parlava, felice di avere un'occasione per stare
con il marito, ma, via via che le visite ai malati si facevano più numerose ed
erano entrambi logorati dalla fatica, divenne anch'essa più silenziosa.
La malattia si diffondeva rapidamente. Di solito, se in una famiglia uno si
ammalava, anche gli altri erano ben presto vittime del morbo. Eppure lui e
Sarah passavano di casa in casa senza essere contagiati, come se portassero
un'armatura invisibile. Ogni tre o quattro giorni cercavano di tornare a casa per
fare un bagno, cambiarsi d'abito, dormire qualche ora. La casa era calda e
pulita, piena del profumo dei cibi che Makwa preparava per loro. Stavano
qualche tempo con i bambini, poi riponevano nelle bisacce da sella il tonico
che Makwa aveva preparato durante la loro assenza, mescolandolo con un po'
di vino secondo le istruzioni di Rob J., e rimontavano in sella. Quando non
tornavano a casa, dormivano rannicchiati l'uno all'altra ovunque potevano
trovar rifugio, di solito in qualche fienile o per terra accanto a un fuoco acceso
da un altro viaggiatore.
Una mattina un colono, tale Benjamin Haskell, entrò nel suo fienile e rimase
di sasso alla vista del dottore che infilava una mano sotto le gonne della
moglie. Quel gesto era quanto di più vicino all'atto amoroso avessero potuto
permettersi durante tutta l'epidemia, sei settimane. Le foglie stavano ingiallen-
do quando era cominciata, e c'era un velo di neve sui campi quando finì.
Il giorno in cui arrivarono a casa, e si resero conto che questa volta non era
necessario ripartire subito, Sarah mandò Makwa e i bambini con il carro alla
fattoria dei Mueller, a comprare cesti di mele per fare marmellata. Quindi si
immerse lentamente in un bagno ristoratore davanti al fuoco e poi fece bollire
altra acqua e preparò il bagno per Rob. J. Quando egli fu nella vasca di metallo,
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lo lavò lentamente e gentilmente, come avevano lavato i loro pazienti, ma ora
in modo diverso, con la mano invece che con un panno. Rob J., ancora tutto
bagnato, le corse dietro rabbrividendo per le fredde stanze della casa, su per le
scale, sotto le calde coperte del letto, dove rimasero per ore, finché Makwa fu
di ritorno con i bambini.
Sarah scoprì di essere incinta pochi mesi dopo, ma abortì quasi subito,
spaventando Rob J. con una violenta emorragia. Rob J. si rese conto che
sarebbe stato pericoloso per lei concepire un'altra volta, e dopo di ciò prese
precauzioni. La osservò ansiosamente nel timore di veder comparire sintomi di
depressione, come spesso avviene dopo un aborto, ma a parte un certo pallore e
certi momenti di malinconia, in cui restava a lungo pensosa tenendo chiusi i
suoi occhi violetti, si riprese più presto di quanto si potesse sperare.
«Niente figlia» mormorò una sera, vicino al fuoco, prendendo la mano del
marito e ponendosela sul ventre piatto.
«No, però, quando verrà la primavera, potrai uscire con me a combattere le
febbri.» E Sarah si sentì confortata.

24

Musica di primavera

Spesso dunque i bambini Cole furono lasciati a lungo alle cure della donna
sauk. Sciamano si abituò ben presto all'odore di bacche schiacciate che
emanava da Makwa, come lo era all'odore bianco della madre naturale. Si
abituò alla sua pelle scura come al latteo candore e ai capelli biondi di Sarah. E
finì per essere ancora più legato a Makwa. Quando Sarah era lontana, l'indiana
coglieva avidamente l'occasione di stringersi al seno il maschietto, il figlio di
Cawso wabeskiou, trovandovi un appagamento che non aveva più provato da
quando aveva tenuto così il suo fratellino, Co-lui-Che-Possiede-Terra. E gettò
un sortilegio d'amore sul bambino bianco. Talvolta gli cantava:

Ni-na ne-gi-se ke-wi-to-se-me-ne ni-na,


Ni-na ne-gi-se ke-wi-to-se-me-ne ni-na,
Wi-a-ya-ni,
Ni-na ne-gi-se ke-wi-to-se-me-ne ni-na,

Cammino con te, figlio mio,

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Cammino con te, figlio mio,
Ovunque tu vada,
Cammino con te, figlio mio.

Talvolta gli cantava i versetti di una formula di protezione:

Tti-la-ye ke-wi-ta-mo-ne i-no-ki,


Tti-la-ye ke-wi-ta-mo-ne i-no-ki-i-i,
Me-ma-ko-te-si-ta
Ki-ma-ma-to-me-ga.
Ke-te-ma-ga-yo-se.

Spirito, io ti invoco oggi,


Spirito, io ti parlo ora.
Uno che ha tanto bisogno
Vuole venerarti.
Manda a me la tua benedizione.

Ben presto questi furono i canti che Sciamano borbottava mentre trotterel-
lava dietro di lei. Alex li seguiva un po' imbronciato, osservando quest'altro
adulto che gli portava via il fratellino. Obbediva a Makwa, ma la donna ricono-
sceva in quell'ombra di sospetto e ili ostilità, che vedeva talvolta negli occhi del
ragazzino, un riflesso dei sentimenti di Sarah verso di lei. Ma questo non le
importava. Alex era un bambino, e lei si impegnò a guadagnarsi la sua fiducia,
Quanto a Sarah... per quanto Makwa poteva ricordare i Sauk avevano sempre
avuto dei nemici.

Jay Geiger, occupatissimo con la sua farmacia, aveva assunto Mort London
per dissodare una prima sezione delle sue terre, un compito lento e faticoso.
Mort aveva lavorato dall'aprile alla fine di luglio per dissodare il duro e pro-
fondo strato di terreno e il processo era reso più lungo e costoso dal fatto che le
zolle erbose, dopo essere state rivoltate, dovevano restare a marcire e maturare
per due o tre anni prima che il campo potesse essere nuovamente arato e poi
piantato; e per di più Mort si era preso la scabbia dell'Illinois, che colpiva la
maggior parte degli uomini impegnati a dissodare la prateria. Alcuni pensavano
che il suolo dove marciva l'erba esalasse un miasma che provocava il male nel
coltivatore, mentre altri affermammo che la scabbia fosse causata dal morso di

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minuscoli insetti disturbati dall'aratro. Era un'affezione particolarmente spiace-
vole, con la pelle che si spaccava in minuscole lacerazioni e dava un violento
prurito. Trattata con zolfo, poteva essere contenuta nei limiti di un qualsiasi
disturbo, ma se veniva trascurata sviluppava febbri mortali, come quelle che
avevano ucciso Alexander Bledsoe, il primo marito di Sarah.
Jay insistette perché anche gli angoli del suo campo fossero accuratamente
arati e seminati. Secondo l'antica legge ebraica, al momento del raccolto si
asteneva dal mietere negli angoli, perché vi potessero spigolare i poveri. Quan-
do la prima sezione cominciò a produrre un buon raccolto di granturco, si ac-
cingeva a preparare una seconda sezione per piantarvi frumento. Ma a quel
tempo Mort London era sceriffo e nessuno degli altri coloni era disposto a
lavorare la terra altrui a salario. Era un tempo in cui i coolies cinesi che lavo-
ravano alle ferrovie non osavano lasciare le loro squadre per paura di essere
presi a sassate se si arrischiavano nella più vicina città. Occasionalmente un
irlandese, e più raramente un italiano, sfuggendo alla quasi schiavitù dei lavori
di scavo del Canale Illinois-Michigan, capitavano a Holden's Crossing, ma i
papisti erano malvisti dalla maggioranza della popolazione, e questi intrusi
dovevano tagliar la corda in fretta. Jay era entrato in rapporti occasionali con
alcuni dei Sauk, perché questi erano appunto i poveri che aveva invitato a
spigolare sulle sue terre. Infine comprò quattro giovenche e un vomere d'ac-
ciaio e assunse due dei guerrieri Sauk, Piccolo Corno e Cane di Pietra, per dis-
sodare la prateria.
Gli indiani avevano i loro segreti per fendere il suolo e rivoltarlo in modo da
esporre la sua carne e il suo sangue, la terra nera. Mentre lavoravano, si scusa-
vano con la terra per doverla ferire, e cantavano antichi canti per propiziarsi gli
spiriti giusti. Sapevano che l'uomo bianco arava troppo in profondità. Se rego-
lavano il vomere per un'aratura più superficiale, la massa di radici sotto la su-
perficie marciva più rapidamente e riuscivano a dissodare quasi un ettaro di
terreno al giorno. E né Piccolo Corno né Cane di Pietra presero la scabbia.
Jay, meravigliato, cercò di spiegare il sistema degli indiani ai suoi vicini,
ma non trovò nessuno disposto ad ascoltarlo.
«Questo perché quegli ignoranti bastardi mi considerano uno straniero,
anche se io sono nato nella Carolina del Sud e alcuni di loro sono nati in
Europa» si lagnava con Rob J. «Non hanno fiducia in me. Odiano gli irlandesi
e gli ebrei e i cinesi e gli italiani e sa Dio chi altri, perché sono venuti in
America troppo tardi. Odiano i francesi e i mormoni per principio. E odiano gli
indiani perché erano in America prima di loro. Diavolo, e allora chi amano?»
Rob J. gli sorrise. «Be', Jay... amano se stessi! Pensano di aver ragione
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perché hanno il buonsenso di arrivare proprio al momento giusto.»

A Holden's Crossing, essere amato era una cosa, essere accettalo era un'al-
tra. Rob J. Cole e Jay Geiger erano accettati, magari un po' a denti stretti, per-
ché le loro professioni erano necessarie. Finirono per diventare un elemento di
spicco nel variopinto tessuto della comunità locale, e intanto le due famiglie era
legate da un'amicizia sempre più stretta e trovarono appoggio e stimolo l'una
nell'altra. I bambini imparavano a conoscere le opere dei grandi compositori
mentre la sera nei loro lettini ascoltavano la musica che saliva fino a loro nel-
l'armonia degli strumenti a corda suonati con amore e passione dai loro padri.
La primavera in cui Sciamano compì cinque anni, la malattia di stagione era
il morbillo. L'armatura invisibile che proteggeva Sarah e Rob J. scomparve, e
così la fortuna che li aveva resi immuni. Sarah portò il morbillo a casa e si
ammalò lei stessa in forma lieve, e così fece Sciamano. Rob J. pensava che era
un vantaggio esserne colpiti in forma lieve, perché la sua esperienza gli diceva
che il morbillo non tornava due volte in un'intera vita. Ma Alex si prese una
forma di estrema violenza. Mentre la madre e il fratellino erano solo febbri-
citanti, lui scottava. Mentre loro avevano solo un leggero prurito, il corpo di
Alex era insanguinato da graffi frenetici, e Rob J. lo avvolse in foglie di cavolo
appassite, e dovette legargli le mani per proteggerlo da se stesso.
L'anno dopo la malattia più diffusa era la scarlattina. Il gruppetto dei Sauk
la prese e da loro la prese Makwa-ikwa, così Sarah dovette restare a casa piena
di risentimento e assistere la donna indiana invece di accompagnare il marito.
Poi si ammalarono i due bambini. Questa volta Alex si ammalò in forma lieve,
mentre Sciamano scottava, vomitava, strillava per il male alle orecchie ed ebbe
un esantema così violento che in alcuni punti la sua pelle si staccava in squame
come quella di un serpente.
Quando la malattia ebbe fatto il suo corso, Sarah aprì la casa alla tiepida
aria di maggio e dichiarò che la famiglia aveva bisogno di una piccola festa.
Arrostì un'oca e fece sapere ai Geiger che la loro presenza sarebbe stata gradita,
e quella sera la musica regnò là dove per settimane non si erano uditi che
gemiti.
I bambini dei Geiger furono messi a dormire su pagliericci, accanto alle
cuccette dei bambini Cole. Lillian Geiger fece una capatina nella stanza e
abbracciò e baciò ogni bambino. Poi si fermò sulla porta e augurò a tutti la
buonanotte. Alex le ricambiò il saluto e così gli altri bambini, Rachel, David,
Herm e Cucciolo, che era troppo piccolo per essere chiamato con il suo vero
nome, Lionel. Lillian notò che uno dei bambini non aveva risposto.
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«Buonanotte, Rob J.» ripeté. Non ci fu risposta. Il bambino guardava fisso
davanti a sé, come se fosse perso nei propri pensieri.
«Sciamano? Mio caro?» Non sentendolo parlare, batté forte le mani. Cinque
visi si voltarono verso di lei, uno non si voltò.
Nell'altra stanza, i due amici stavano suonando il Duetto di Mozart, il pezzo
che eseguivano meglio insieme, che li faceva brillare. Rob J. rimase sorpreso
quando Lillian si piazzò davanti alla sua viola e gli arrestò con la mano
l'archetto durante un fraseggio che gli era particolarmente caro.
«Tuo figlio» disse Lillian. «Il piccolo. Non sente.»

25

Il bambino silenzioso

Per tutta la sua vita Rob J. aveva lottato per salvare i pazienti da affezioni
che comportassero come conseguenza menomazioni fisiche e mentali; e si era
sempre sorpreso nel constatare quanto lo faceva soffrire il fatto che il paziente
fosse qualcuno che amava. Provava affetto per tutti quelli che curava, anche se
erano resi ignobili dalla malattia, anche se erano ignobili prima di ammalarsi,
perché, chiedendo il suo aiuto, in qualche modo entravano nel numero dei suoi
cari. Quando era un giovane medico in Scozia, aveva visto sua madre inferma e
vicino alla morte, ed era stata per lui un'amara lezione sull'impotenza del
medico davanti al destino. E ora provava un'angoscia straziante davanti al male
che aveva colpito quel florido e robusto bambino, grande per la sua età, che era
nato dal suo seme e dal suo amore.
Sciamano guardava sbalordito il padre che batteva le mani, faceva cadere
grossi libri sul pavimento, gridava davanti a lui.
«PUOI... SENTIRE... QUALCOSA, BAMBINO MIO?» Urlava Rob J.,
puntando un dito su uno dei suoi orecchi, ma il piccolo non faceva che fissarlo
sbigottito. Sciamano era completamente sordo.
«Passerà?» chiese Sarah al marito.
«Forse...» rispose Rob J., ma era più spaventato di lei, perché ne sapeva di
più, aveva visto tragedie che lei poteva solo intuire.
«Tu lo farai guarire.» La moglie aveva fiducia assoluta in lui. Come una
volta aveva salvato lei, ora avrebbe salvato il loro bambino.
Rob J. non sapeva come, ma provò. Versò olio caldo negli orecchi di Scia-
mano. Lo immerse in bagni caldi, gli applicò compresse. Sarah pregava Gesù. I
Geiger pregavano Jehovah. Makwa-ikwa batteva sul suo tamburo ad acqua e
144
cantava gli antichi canti ai manitou e agli spiriti. Nessun dio, nessuno spirito li
ascoltò.

All'inizio Sciamano era troppo stupito per essere spaventato. Ma dopo


qualche ora cominciò a piangere e a gridare. Scuoteva la testa e si afferrava gli
orecchi. Sarah pensò che gli fosse tornato quel terribile mal d'orecchi, ma Rob
J. capì che non era questo perché aveva assistito a scene simili in passato. «Il
bambino sente rumori che noi non sentiamo. Dentro la sua testa.»
Sarah impallidì. «Ha qualcosa dentro la testa?»
«No, no!» Rob J. poteva dirle come si chiamava quel fenomeno - il tinnito
auricolare - ma non sapeva dirle che cosa provocava quei suoni che erano così
strani per Sciamano.
Il bambino non cessava di piangere. Suo padre e sua madre e Makwa a
turno si sdraiavano accanto a lui nel suo lettino e lo tenevano abbracciato. In
seguito Rob J. avrebbe appreso che suo figlio sentiva una quantità di rumori,
squilli, scricchiolìi, scoppi e ruggiti e fischi. Tutti molto forti, e il bambino ne
era continuamente terrorizzato.
Il frastuono interno sparì dopo tre giorni. Il ritorno del silenzio fu un
sollievo profondo per Sciamano, ma gli adulti che lo amavano erano straziati
dalla disperazione che si leggeva sul suo visetto pallido.
Quella notte Rob J. scrisse a Oliver Wendell Holmes a Boston, chiedendogli
consiglio sul modo di curare la sordità. Chiese anche a Holmes, nel caso che
nulla si potesse fare per la guarigione, di dargli qualche indicazione sul modo
di allevare un figlio sordo.
Nessuno di loro sapeva come curare Sciamano. Mentre Rob J. si dava da
fare per trovare una soluzione medica, fu Alex che si assunse la responsabilità
del fratellino. Benché stupito e spaventato per quello che era successo, Alex si
adattò presto. Prendeva Sciamano per la mano e non lo lasciava. Dovunque
andasse il ragazzino più grande, il piccolo lo seguiva. Quando si sentivano le
mani indolenzite, Alex passava dall'altra parte e stringeva l'altra manina. E ben
presto Sciamano si abituò alla sicurezza della mano sudata, e spesso sudicia,
del fratello grande.
Alex lo controllava attentamente. «Ne vuole di più» faceva notare a tavola,
durante i pasti, prendendo il piatto di Sciamano e porgendolo alla madre perché
lo riempisse.
Sarah guardava i suoi due figli e vedeva come ciascuno di loro soffrisse.
Con il fratello, Sciamano non parlava più, e Alex lo seguiva nel suo mutismo:
comunicava con lui quasi senza parole, mediante una serie di gesti esagerati
145
mentre i loro occhi si fissavano attentamente.
La madre si tormentava immaginando situazioni in cui Sciamano si trovava
in terribili pericoli perché non poteva udire le sue grida di avvertimento. Volle
che i due bambini rimanessero sempre vicino a casa: e i due si annoiavano e
giocavano stupidi giochi con le noci e i sassolini, disegnando nella polvere con
delle bacchette. Qualche volta era stupita di sentirli ridere. Non potendo udire
la sua stessa voce, Sciamano tendeva a parlare a voce troppo bassa, e dovevano
chiedergli di ripetere quel che aveva mormorato; ma il bambino non li sentiva.
A un certo punto cominciò a mugolare invece che parlare. Alex, esasperato,
dimenticava la realtà. «Come hai detto?» gridava. «Cosa, Sciamano?» E poi si
ricordava la sordità e ricorreva di nuovo ai gesti. Prese la spiacevole abitudine
di mugolare come Sciamano per esprimere qualcosa che cercava di spiegare
con le mani. Sarah non poteva sopportare quei mugolìi e quei grugniti, che
facevano apparire i suoi figli come due piccoli animali.
Prese a sua volta un'abitudine non meno spiacevole: come se volesse verifi-
care la sordità, arrivava alle spalle dei bambini battendo forte le mani o schioc-
cando le dita o gridando i loro nomi. Dentro la casa, se lei picchiava i piedi, le
vibrazioni del pavimento erano percepite da Sciamano e gli facevano voltare la
testa. Altrimenti, solo Alex, accigliandosi sorpreso, notava il suo arrivo.
Sarah aveva passato molto tempo fuori di casa, cogliendo ogni occasione
per seguire suo marito invece che badare ai bambini. Riconosceva con se stessa
che suo marito era la cosa più importante della sua vita, così come doveva
ammettere che la medicina era la cosa più importante per lui, anche più
importante del suo amore per la moglie. Così stavano in realtà le cose. Non
aveva mai sentito per Alexander Bledsoe, o per alcun altro uomo, quello che
sentiva per Rob J. Cole. Ora che uno dei suoi figli era minacciato, rivolgeva
con tutte le sue forze il suo amore ai bambini, ma era troppo tardi. Alex non
voleva lasciarsi privare neppure in minima parte di suo fratello e Sciamano si
era abituato a dipendere in tutto da Makwa-ikwa.
Makwa da parte sua incoraggiava questa dipendenza: si teneva Sciamano
nel suo hedonoso-te per lungo tempo e osservava tutti i suoi gesti. Una volta
Sarah la vide accorrere verso un albero dove il bambino aveva fatto pipi e pre-
levare un po' di terra bagnata per portarla via in una piccola ciotola, come se
raccogliesse le reliquie di un santo. Pensò che la donna fosse una strega che,
dopo aver tentato di portar via al marito ciò che Rob J. aveva di più prezioso,
ora voleva portarle via il figlio. Sapeva che Makwa gettava sortilegi, salmo-
diava e praticava rituali barbarici al cui solo pensiero si sentiva accapponare la
pelle, ma non osava opporsi. Con la stessa disperazione con cui bramava che
146
qualcuno, chiunque, qualsiasi cosa, venisse in soccorso del figlio, ora provava
un senso di farisaica autodifesa, un desiderio di aggrapparsi alla sola vera fede,
poiché i giorni passavano e le insensate pratiche pagane non portavano mi-
glioramenti nelle condizioni del figlio.
Passava notti insonni, tormentata da ricordi di sordomuti che aveva cono-
sciuto, in particolare di una povera donna sciatta e debole di mente che lei
stessa da ragazzina insieme ai compagni aveva inseguito per le strade del suo
villaggio in Virginia, schernendo la misera creatura per la sua obesità e per la
sua sordità. Bessie, si chiamava, Bessie Turner. Le gettavano pietre e pezzi di
legno, scoppiando a ridere quando la vedevano rispondere ai colpi materiali
mentre ignorava gli orribili insulti che le gridavano. E si domandava se ragazzi
crudeli avrebbero inseguito il suo Sciamano per le strade.

Lentamente si faceva strada in lei l'idea che Rob J., persino Rob!, non sa-
pesse come aiutare Sciamano. Rob J. partiva ogni mattina e percorreva a
cavallo la prateria per le sue visite a domicilio, del tutto dedito alle malattie
degli altri. Non abbandonava certo la famiglia; ma a lei sembrava così, perché
era lei che restava con i bambini un giorno dopo l'altro, assistendo al loro
tormento.
I Geiger, nell'intento di portare sollievo, invitarono diverse volte gli amici a
quelle serate musicali che le due famiglie avevano così spesso condiviso. Ma
Rob J. non se la sentiva di accettare: non suonava più la sua viola da gamba e
Sarah pensò che non aveva l'animo di suonare quella musica che Sciamano non
poteva udire.
Assillata da tante angosce, cercò conforto nei lavori della fattoria. Fece
dissodare da Alden Kimball un altro appezzamento e si dedicò con passione a
coltivare un nuovo orto-giardino. Percorreva per chilometri e chilometri le rive
del fiume in cerca di gigli, che trapiantava in un'aiuola di fronte alla casa.
Aiutava Alden e Luna a radunare piccoli gruppi di pecore belanti su una zattera
e portarle in mezzo al fiume, dove poi le spingevano nell'acqua per costringerle
a nuotare fino a riva, lavando così il loro vello prima della tosatura. Dopo aver
castrato gli agnelli nati a primavera, Alden la guardava di traverso quando la
padrona reclamava il secchiello di «ostriche della prateria» che erano la leccor-
nia preferita del buon bracciante. Sarah le spellava delicatamente, doman-
dandosi se erano così anche i testicoli dell'uomo, sotto la loro pelle grinzosa.
Poi tagliava a mela le tenere palline e le friggeva in grasso di pancetta, insieme
con cipollotti selvatici e a qualche vescia affettata. Alden mangiava avidamente
la sua parte, dichiarando che erano eccellenti, e cessava di brontolare.
147
Sarah poteva quasi essere soddisfatta, tranne che...
Rob J., tornando a casa un giorno, le disse che aveva parlato con Tobias
Barr a proposito di Sciamano. «A Jacksonville hanno recentemente aperto una
scuola per sordomuti, ma Barr non ne sa molto. Potrei andarci e vedere com'è...
ma Sciamano è così piccolo!»
«Jacksonville è a duecentoquaranta chilometri da qui. Non lo vedremmo
quasi più.»
Rob J. aggiunse che il medico di Rock Island gli aveva confessalo di igno-
rare come si poteva trattare la sordità nei bambini. In realtà qualche anno prima
non era riuscito a ottenere alcun risultato con una ragazzina di otto anni e suo
fratello di sei. Infine i bambini erano stati ricoverati in un ospizio, nell'Illinois
Asylum a Springfield.
«Ma, Rob J....» obiettò Sarah. Dalla finestra aperta veniva il mugolìo gut-
turale dei suoi figli, un suono che aveva qualcosa di insensato e folle, e le
apparve d'improvviso alla mente l'immagine di Bessie Turner con i suoi occhi
vacui. «Mandare un bambino in un ospizio, rinchiuso con malati di mente... è
una malvagità.» L'idea di malvagità la faceva rabbrividire, come al solito.
«Pensi forse» mormorò «che Sciamano sia punito per i miei peccati?»
Rob J. la prese fra le braccia e lei trasse conforto dalla sua forza, come
sempre faceva.
«No, Sarah.» La tenne stretta a lungo. «Oh, mia cara, non devi mai pensar-
lo.» Ma non seppe dirle che cosa dovevano fare.

Un mattino, mentre i due bambini seduti di fronte all'hedonoso-te con


Piccolo Cane e Donna Uccello erano intenti a scortecciare dei rami di salice
che Makwa usava per le sue pozioni, un indiano sconosciuto in sella a un os-
suto cavallo uscì dai boschi che bordavano la riva del fiume. Era il fantasma di
un sioux, scheletrico come il suo cavallo, e altrettanto lacero e sfinito. Aveva i
piedi nudi e sudici, portava gambali e perizoma di pelle di daino e un lacero
manto di pelo di bisonte sulle spalle, tenuto fermo da una cintura di stracci
intrecciati. I lunghi capelli grigi erano in disordine, con una corta treccia dietro
e due trecce più lunghe ai lati della testa, avvolte in strisce di pelle di lontra.
Qualche anno prima un sauk avrebbe accolto un sioux con la lancia in
pugno, ma ora entrambi sapevano di essere circondati da un nemico comune, e,
quando il cavaliere la salutò con il linguaggio di gesti usato dalle tribù delle
pianure che parlavano lingue diverse, Makwa ricambiò il saluto con la mano.
Pensò che l'indiano doveva aver attraversato il Wisconsin, seguendo il
bordo boscoso lungo il Masesibowi. I gesti dell'uomo le dissero che veniva in
148
pace e seguiva il sole al tramonto dirigendosi verso le Sette Nazioni. E le
chiese del cibo.
I quattro bambini erano affascinati. Ridacchiarono e imitarono il gesto
mangiare con le loro piccole mani.
Era un sioux e quindi Makwa non poteva semplicemente dargli qualcosa in
elemosina. L'uomo barattò una fune intrecciata con un piatto di stufato di
scoiattolo e un grosso pezzo di focaccia di mais, più un sacchetto di piselli
secchi per il viaggio. Lo stufato era freddo, ma l'indiano smontò da cavallo e lo
mangiò con l'avidità di un affamato.
Notando il tamburo ad acqua, chiese se lei era una sciamana evocatrice di
spiriti, e parve a disagio quando Makwa rispose di sì. Non concessero l'uno
all'altra la possibilità di conoscere i loro nomi. Quando ebbe finito di mangiare,
Makwa lo avverti di non andare a caccia di pecore, altrimenti l'uomo bianco lo
avrebbe ucciso, e l'indiano tornò al suo scheletrico cavallo e si allontanò.
I bambini stavano ancora giocando con le loro piccole dita, facendo segni
senza un senso preciso, tranne Alex che ripeteva il gesto mangiare. Makwa
spezzò un pezzo di focaccia e glielo porse, e poi mostrò agli altri come fare
quel segno, ricompensandoli con pezzetti di focaccia quando riuscivano a
ripeterlo esattamente. Il linguaggio intertribale era una cosa che i bambini sauk
dovevano apprendere, e così Makwa insegnò ai piccoli indiani il gesto per
salice e per cortesia lo insegnò anche ai fratellini bianchi. E si accorse che
Sciamano imparava i segni con facilità e fu colpita da un'idea che la affascinò e
la indusse a impegnarsi con lui più che con gli altri.
Oltre a mangiare e salice, insegnò loro i gesti per ragazza, ragazzo, lavarsi,
vestito. Era abbastanza per il primo giorno, pensò, ma li fece esercitare sulle
stesse parole ancora e ancora, come fosse un nuovo gioco, finché i bambini
conobbero i segni alla perfezione.
Quel pomeriggio, quando Rob J. tornò a casa, gli portò i bambini e gli mo-
strò quello che avevano imparato. Rob J. guardò pensoso il suo figlioletto
sordo. Vide che gli occhi di Makwa brillavano ili compiacimento e lui ebbe
lodi per tutti e ringraziò la donna, che promise di continuare a insegnare altri
gesti.
«Ma a che diavolo gli potrà servire?» chiese Sarah aspramente, quando
furono soli. «Perché insegnare al bambino a parlare con le dita, in modo che
solo un branco di indiani potrà capirlo?»
«C'è un linguaggio gestuale simile a quello anche per i sordi» replicò Rob J.
«Inventato dai francesi, credo. Quando studiavo alla scuola di medicina ho
visto io stesso due sordi che conversavano facilmente fra loro, usando le mani
149
invece della voce. Se mi procuro un libro con quei segni e li impariamo con lui,
potremo parlare con Sciamano e lui potrà parlare con noi.»
Riluttante, Sarah ammise che valeva la pena di tentare. Nel frattempo Rob J.
decise che imparare i segni indiani non avrebbe fatto danno al bambino.

Ricevettero da Oliver Wendell Holmes una lunga lettera. Con scrupolosa


attenzione, tipica del suo carattere, il medico aveva esaminato la letteratura sul-
l'argomento nella biblioteca dell'Harvard Medical School e aveva consultato un
gran numero di autorità in quel campo, esponendo i particolari del caso che
Rob J. gli aveva Fornito.

Non aveva molta speranza in un recupero delle condizioni di Sciamano.


«Talvolta» scriveva «l'udito può tornare in un paziente colpito da sordità
totale come conseguenza di una malattia quale morbillo, scarlattina o menin-
gite. Ma spesso una massiccia infezione insorta durante la malattia intacca e
danneggia i tessuti, distruggendo sensibili e delicati processi che non potran-
no essere reintegrati.
«Mi scrivi di avere esaminato visualmente i meati acustici esterni usando
uno speculum e apprezzo la tua ingegnosità nell'aver focalizzato la luce di una
candela nel condotto uditivo per mezzo di uno specchietto. Ma quasi certa-
mente il danno si è prodotto in tessuti più profondi di quelli che tu hai potuto
esaminare. Avendo praticato tante dissezioni, tu e io conosciamo la comples-
sità e la delicatezza dell'orecchio medio e interno. Senza dubbio non sapremo
mai se il problema del piccolo Robert ha sede nella membrana timpanica,
nella catena degli ossicini - il martello, l'incudine, la staffa - o forse nella
coclea. Quello che sappiamo, caro amico, è che se tuo figlio è ancora sordo
nel momento in cui leggi questa mia lettera, molto probabilmente resterà
sordo per il resto della sua vita.
«Il problema da considerare, quindi, è quale sia il modo migliore di
allevarlo.»
Holmes aveva consultato il dottor Samuel G. Howe di Boston, che aveva
lavorato con alunni sordi e muti, insegnando loro a comunicare con gli altri
mediante segni alfabetici fatti con le dita. Tre anni prima il dottor Howe aveva
fatto un viaggio in Europa e aveva visto come si insegnava ai bambini sordi a
parlare con chiarezza ed efficacia.
«Ma nessuna scuola in America insegna ai bambini sordi a parlare»
scriveva Holmes «e invece si insegna il linguaggio dei gesti. Se tuo figlio im-
para il linguaggio dei gesti, potrà comunicare solo con persone sorde. Se
150
invece impara a parlare, e osservando le labbra degli altri riesce a leggere
quello che dicono, non v'è ragione perché non possa vivere una vita normale
nel mondo in mezzo alla gente.
«Perciò il dottor Howe raccomanda che tuo figlio sia tenuto a casa e
istruito da te, e io sono d'accordo.»
I medici consultati avevano affermato che, se non si induceva Sciamano a
parlare di nuovo, gradualmente sarebbe diventato muto per disuso degli organi
vocali. Ma il dottor Holmes ammoniva che, se si voleva restituire al bambino
l'uso del linguaggio, la famiglia Cole non doveva mai usare segni con il piccolo
Robert e non doveva mai permettere a lui di usarli.

26

Le manine legate

Dapprima Makwa-ikwa non riuscì a capire perché Cawso wabeskiou le


imponesse di cessare subito l'insegnamento dei gesti dei popoli indiani ai
bambini. Ma Rob J. le spiegò perché i segni erano una cattiva medicina per
Sciamano. Il bambino aveva già imparato diciannove segni: conosceva il gesto
per indicare la fame, sapeva chiedere acqua, indicare freddo, caldo, malattia,
salute, poteva esprimere piacere o avversione, sapeva salutare, descrivere le
grandezze, manifestare commenti sulla saggezza o la stupidità degli altri. Per
gli altri bambini il linguaggio gestuale degli indiani era un nuovo gioco. Per
Sciamano, privato improvvisamente della possibilità di comunicare, significava
un rinnovato contatto con il mondo.
Le sue dita continuavano a parlare.
Rob J. vietò agli altri di partecipare, ma erano solo dei bambini e quando
Sciamano abbozzava un segno, l'impulso a rispondere era quasi irresistibile.
Dopo aver assistito più volte al ripetersi dei segni, Rob J. prese un morbido
rotolo di tessuto che Sarah aveva preparato per farne bende. Annodò insieme i
polsi di Sciamano e poi gli legò le manine sulla cintura.
Sciamano strillò e pianse.
«Tu tratti tuo figlio... come un animale» protestò Sarah.
«Forse è già troppo tardi per lui. Questa potrebbe essere la sua unica possi-
bilità.» Rob J. prese le mani della moglie nelle sue e cercò dì confortarla. Ma
nessuna preghiera poté cambiare la sua decisione e le mani del bambino
rimasero legate, come se fosse stato un piccolo prigioniero.
Alex ricordava i giorni di tormento quando aveva avuto il terribile prurito
151
dovuto al morbillo e Rob J. gli aveva legato le manine perché non potesse
grattarsi. Aveva dimenticato come il suo corpo sanguinava e ricordava solo il
prurito che non riusciva a calmare e il terrore di essere legato. Alla prima
occasione cercò il falcetto nel fienile e tagliò i legacci del fratellino.
Quando Rob J. lo chiuse in casa, Alex disobbedi. Cercò un coltello da
cucina e corse di nuovo a liberare Sciamano, poi lo prese per mano e fuggirono
insieme.
Era mezzogiorno quando la loro assenza fu notata, e tutti nella fattoria
sospesero il lavoro e si diedero a cercarli, frugando i boschi e i pascoli e il greto
del fiume, chiamando a gran voce i nomi che solo uno dei bambini poteva
udire. Nessuno menzionava il fiume, ma quella primavera due francesi di
Nauvoo si erano avventurati in una canoa che si era rovesciata nelle acque in
piena. Entrambi erano annegati e ora la minaccia del fiume incombeva nella
mente di ognuno.
Non si seppe nulla dei ragazzini finché, verso il tramonto, Jay Geiger arrivò
alla casa dei Cole con Sciamano in sella davanti a lui e Alex aggrappato alle
sue spalle. Raccontò che li aveva trovati in mezzo al suo campo di granturco,
seduti per terra fra i solchi, che si tenevano ancora per mano, sfiniti dal gran
piangere.
«Se non fossi andato a controllare le erbacce, sarebbero ancora là!»
Rob J. aspettò finché i visetti sporchi di terra e di lacrime furono lavati e i
bambini ebbero mangiato. Poi prese Alex per mano e lo condusse sul sentiero
del fiume. La corrente spumeggiava e cantava sugli scogli, l'acqua era più scura
dell'aria e già rifletteva la notte imminente. Le rondini si libravano in volo,
alzandosi e tuffandosi, talvolta fino a sfiorare l'acqua. Più a monte, una gru
avanzava decisa e solenne come un battello.
«Tu sai perché ti ho portato qui?»
«Per picchiarmi.»
«Non ti ho mai picchiato finora, e non lo farò adesso. No, voglio ragionare
con te.»
Il ragazzino sbarrò gli occhi e lo guardò sgomento, incerto se ragionare
fosse meglio che essere picchiato. «Che cosa?»
«Tu sai che cosa significa uno scambio?»
Alex annuì. «Certo. Ho scambiato tante cose, un sacco di volte.»
«Bene, voglio uno scambio di idee con te. A proposito di tuo fratello.
Sciamano è fortunato ad avere un fratello maggiore come le, qualcuno che si
prende cura di lui. Tua madre e io... siamo fieri di te. E ti ringraziamo.»
«... ma tu lo tratti male, papà, legandogli le mani.»
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«Alex, se tu continui a scambiare gesti con lui, non sentirà più il bisogno di
parlare. E presto dimenticherà come si parla e non sentiremo mai più la sua
voce. Mai più. Mi credi?»
Il ragazzino annuì serio serio.
«Io voglio che tu lasci le sue mani legate. Ti chiedo di non usare mai più
segni con lui. Quando gli parli, indica prima con il dito la tua bocca, perché lui
la guardi. Poi parla lentamente e distintamente. Ripeti quello che gli dici, in
modo che lui cominci a leggere le parole sulle tue labbra.» Rob J. lo guardò.
«Tu capisci, figlio mio? Vuoi aiutarci a insegnare al tuo fratellino a parlare?»
Alex annuì. Rob J. lo prese fra le braccia e lo strinse a sé. Alex pranzava
com'era logico puzzasse un ragazzino di dieci anni che era rimasto tutto il
giorno seduto in un campo di granturco ben concimato, sudando e piangendo.
Rob J. si propose di preparargli un bagno caldo, appena tornati a casa.
«Ti voglio tanto bene, Alex.»
«... Anch'io a te, papà.»

A tutti fu dato lo stesso avvertimento.


Attirate l'attenzione di Sciamano. Additate le vostre labbra, Parlategli lenta-
mente e distintamente. Parlate ai suoi occhi invece che alle sue orecchie.
I,a mattina, appena alzati, Rob J. legava le mani del figlioletto. All'ora dei
pasti Alex lo slegava perché potesse mangiare. Poi legava di nuovo le mani del
fratellino. E sorvegliava attentamente gli altri bambini perché nessuno gli
rivolgesse dei segni.
Ma gli occhi di Sciamano si facevano sempre più sgomenti nel visetto tira-
to. Si sentiva escluso dal resto dei familiari. Non riusciva a capire. E non par-
lava.

Se Rob J. avesse sentito raccontare di qualcun altro che legava le mani di


suo figlio, avrebbe fatto quanto era in suo potere per liberare il bambino. La
crudeltà non era nel suo carattere, e vedeva l'effetto delle sofferenze su Sciama-
no sugli altri membri della famiglia. Era una vera liberazione per lui prendere
la sua borsa e andare a visitare i pazienti.
La vita continuava normalmente fuori della fattoria, senza curarsi dei guai
della famiglia Cole. Quell'estate altre tre famiglie stavano costruendosi nuove
case a impalcatura di legno per sostituire le capanne fatte con muri di zolle. La
comunità progettava di aprire una scuola e di assumere un'insegnante e tanto
Rob J. che Jason Geiger appoggiavano con impegno l'idea. Ognuno di loro
istruiva i propri figli in casa, talvolta sostituendosi a vicenda nei momenti di
153
bisogno, ma entrambi erano convinti che sarebbe stato meglio per i ragazzini
frequentare una scuola regolare.
Quando Rob J. si fermò alla farmacia, Jay gli venne incontro tutto eccitato
con una grande notizia: il piccolo pianoforte di Lillian era stato spedito.
Imballato in una cassa di legno a Columbus, era stato trasportato per più di
1.600 chilometri per zattera e battello. «Dal fiume Scioto all'Ohio, dall'Ohio al
Mississippi, e su per quel dannato Mississippi al molo della Great Southern
Transport Company a Rock Island, dove ora aspetta il mio carro e i miei buoi!»

Alden Kimball aveva chiesto a Rob J. di curare uno dei suoi amici che era
malato nella città mormone abbandonata, Nauvoo.
Alden lo accompagnò per fargli da guida. Si imbarcarono con i cavalli su
una chiatta, per viaggiare più facilmente sul fiume. Nauvoo era una città fan-
tasma, in gran parte deserta, una rete di larghe strade adagiata su un dolce
declivio che scendeva al fiume, con belle case solide e al centro le rovine di un
grande tempio di pietra, che pareva fosse stato costruito da re Salomone. Ormai
ci viveva solo uno sparuto gruppo di vecchi mormoni, gli disse Alden, qualche
anziano, qualche ribelle che aveva rotto i rapporti con il consiglio dei capi
quando i Santi dell'Ultimo giorno si erano trasferiti nell'Utah.
Era un posto che attirava i pensatori indipendenti; un angolo della città era
stato affittato a una piccola colonia di francesi che chiamavano se stessi Ica-
riani e vivevano in comunità cooperativa. Alden condusse Rob J. attraverso il
quartiere francese, stando ben ritto in sella per esprimere il suo disprezzo, fino
a una casa di logori mattoni rossi che sorgeva su un lato di un grazioso viottolo.
Una donna accigliata di mezza età si fece sulla soglia quando bussarono, li
salutò e fece cenno che entrassero. Alden la presentò come Mrs. Bidamon. Nel
salotto c'erano già, sedute o in piedi, una dozzina di persone, ma Mrs. Bidamon
condusse Rob J. su per le scale, in una stanza dove uno scontroso ragazzo di
circa sedici anni era a letto con il morbillo. Non era un caso grave. Rob J. diede
alla madre una manciata di semi di senape macinati, spiegandole come aggiun-
gerli all'acqua del bagno del ragazzo, e un mazzetto di fiori di sambuco secchi
per farne un tè. «Non credo che avrà ancora bisogno di me, ma le raccomando
di mandarmi subito a chiamare se dovesse prodursi un'infezione agli orecchi.»
La donna lo precedette al piano di sotto e probabilmente disse qualcosa di
rassicurante alle persone che aspettavano in salotto. Quando Rob J. si diresse
alla porta, gli si fecero incontro con doni, un barattolo di miele, tre barattoli di
marmellata, una bottiglia di vino, balbettando parole di ringraziamento. Fuori
della casa Rob J. si fermò con le mani piene di doni, guardando Alden un po'
154
sconcertato.
«Le sono grati perché ha curato il ragazzo» spiegò Alden. «Mrs. Bidamon è
la vedova di Joseph Smith, il profeta dei Santi dell'Ultimo giorno, l'uomo che
ha fondato questa setta. Il ragazzo è suo figlio e si chiama anche lui Joseph
Smith. Credono che anche il giovane sia un profeta.»
Mentre si allontanavano, Alden si voltò a guardare la città di Nauvoo e
sospirò. «Quello era un bel posto da viverci. Tutto rovinato perché Joseph
Smith non è stato capace di tenersi l'uccello nei pantaloni. Lui e la sua poliga-
mia. Le chiamava mogli spirituali. Ma non c'era niente di spirituale, gli piaceva
semplicemente fottere.»
Rob J. sapeva che i Santi dell'Ultimo giorno erano stati scacciati dall'Ohio,
dal Missouri e infine dall'Illinois, perché i loro matrimoni poligamici avevano
infiammato lo sdegno della gente locale. Non aveva mai voluto intromettersi
nella vita privata di Alden, né fargli domande sul suo passato, ma ora non poté
resistere. «Anche tu i più di una moglie?»
«Tre. Quando ho rotto con la Chiesa, sono state divise fra gli altri Santi,
insieme con i figli.»
Rob J. non osò chiedere quanti figli, ma un demone lo spinse a fare un'altra
domanda. «Questo ti è dispiaciuto?»
Alden rifletté un attimo, poi sputò. «La varietà era anche piacevole, non lo
nego. Ma senza quelle, che pace meravigliosa!»

Quella settimana Rob J. passò dal curare un giovane profeta al curare un


vecchio deputato. Fu chiamato a Rock Island a visitare Samuel T. Singleton,
membro del Congresso degli Stati Uniti, che aveva subito un attacco di stoma-
co mentre tornava nell'Illinois da Washington.
Mentre entrava in casa di Singleton, ne usciva Thomas Beckermann, il
quale gli disse che anche Tobias Barr aveva visitato il deputato. «Vuole un
mucchio di referti medici, vero, il nostro vecchio?» fece acidamente Becker-
mann.
Il fatto rivelava quanto Singleton fosse apprensivo, e visitando il deputato
Rob J. si rese conto che quei timori non erano infondati. Singleton aveva set-
tantanove anni, era un uomo di bassa statura, quasi completamente calvo, con
le carni flaccide e violenti attacchi di stomaco. Rob J. auscultò il suo cuore che
soffiava e gorgogliava e rantolava, lottando per continuare a battere.
Prese le mani del vecchio nelle sue e si trovò a guardare negli occhi del
Cavaliere Nero.
L'assistente di Singleton, un tale Stephen Hume, e il suo segretario, Billy
155
Rogers, erano seduti ai piedi del letto. «Siamo stati tutto l'anno a Washington.
Il deputato ha dei discorsi da fare. Posizioni da rafforzare. Ha un sacco di cose
da sbrigare, dottore» protestava Hume in tono accusatore, come se fosse colpa
di Rob J. se Singleton era malato. Hume era un nome scozzese, ma Rob J. non
si sentiva in vena di espansioni.
«Lei deve restare a letto» disse chiaro e tondo al deputato. «Si dimentichi i
discorsi e le posizioni. Dieta leggera e poco alcol.»
Rogers lo guardò furioso. «Ma gli altri medici non hanno parlato così! Il
dottor Barr ha detto che chiunque sarebbe esaurito dopo il lungo viaggio da
Washington. L'altro tipo della vostra città, il dottor Beckermann, era d'accordo
con Barr, ha detto che il nostro deputato non ha bisogno altro che di una buona
cucina casalinga e di aria della prateria.»
«Abbiamo pensato che fosse bene chiamare diversi medici» aggiunse Hume
«in caso ci fossero divergenze di opinione. Le divergenze ci sono, e gli altri
dottori non sono d'accordo con lei. Due a uno.»
«Calcolo democratico, ma queste non sono le elezioni.» Rob J. si rivolse a
Singleton. «Se ci tiene a sopravvivere, spero che segua il mio consiglio.»
I vecchi occhi freddi gli rivolsero uno sguardo malizioso. «Lei è un amico
del senatore Holden di questo Stato. Socio d'affari in diverse imprese, mi dico-
no.»
Hume ridacchiò. «Nick è piuttosto impaziente che il nostro deputato si
ritiri.»
«Io sono un medico. Non mi interesso di politica. Lei ha mandato a chia-
mare me, deputato.»
Singleton annuì e diede un'occhiata significativa agli altri due. Billy Rogers
accompagnò il medico fuori della stanza. E quando Kob J. cercò di sottolineare
la gravità delle condizioni di Singleton, ottenne un cenno d'assenso dal segreta-
rio e un'untuosa frase di ringraziamento. Rogers gli pagò il suo onorario come
se desse la mancia a un garzone di stalla e il medico fu rapidamente ed educata-
mente messo alla porta.
Un paio d'ore dopo, passando in sella a Vicky per la Main Street di Holden's
Crossing, Rob J. poté constatare che il servizio informazioni di Nick Holden
funzionava a meraviglia. Nick era in attesa sotto il portico dell'emporio di
Haskins, con la sedia inclinata all'indietro contro la parete e uno stivale appog-
giato alla balaustra. Quando vide Rob J., gli fece cenno di avvicinarsi, additan-
dogli il palo per legare i cavalli. Quindi lo condusse rapidamente nella stanza
sul retro del negozio, senza tentare nemmeno di celare la sua impazienza.
«Ebbene?»
156
«Ebbene, che cosa?»
«So che vieni dalla casa di Sammil Singleton.»
«Io parlo dei miei pazienti solo con i miei pazienti, o tutt'al più «mi i loro
familiari. Tu sei uno dei familiari di Singleton?»
Holden sorrise. «Ho una grandissima simpatia per lui.»
«La simpatia non basta, Holden.»
«Non prendermi in giro, Rob J. Io voglio solo sapere una cosa: dovrà
ritirarsi?»
«Se vuoi saperlo, chiedilo a lui.»
«Cristo!» imprecò Nick furioso.
Rob J. si avviò alla porta, evitando accuratamente una trappola per topi già
innescata. La rabbia di Nick lo seguiva, mescolata all'odore di finimenti di
cuoio e patate da semina mezze marce. «Il tuo guaio, Cole, è che sei troppo stu-
pido per riconoscere quali sono i tuoi veri amici!»
Probabilmente Haskins doveva stare attento la sera a nascondere i suoi for-
maggi e coprire con cura la cassa del pan biscotto. I topi potevano far disastri
nelle derrate alimentari durante la notte, rifletteva Rob J. mentre usciva dal-
l'emporio; e non c'era modo di evitare i topi quando si stava così vicino alla
prateria.

Quattro giorni dopo Samuel T. Singleton era seduto a un tavolo con due
consiglieri comunali di Rock Island e tre consiglieri comunali di Davenport,
Iowa, per illustrare la situazione giuridica e fiscale della Ferrovia Chicago-
Rock Island, che progettava di costruire un ponte ferroviario attraverso il
Mississippi fra le loro due città. Stava appunto discutendo della servitù di pas-
saggio, quando fece un piccolo sospiro, come di esasperazione, e si accasciò
sulla sedia. Quando il dottor Tobias Barr, che era stato chiamato in tutta fret-
ta, arrivò al saloon, ognuno nel vicinato sapeva che Sammil Singleton era
morto.
Ci volle una settimana prima che il governatore nominasse un successore.
Subito dopo il funerale Nick Holden era partito per Springfield, per cercare di
accaparrarsi la nomina. Rob J. poteva facilmente immaginare il braccio di ferro
in cui era impegnato, e senza dubbio non furono risparmiati gli sforzi da parte
del migliore amico di baldorie di Nick, il vicegovernatore che era nativo del
Kentucky. Ma evidentemente l'organizzazione Singleton aveva i suoi propri
amici di baldoria, e il governatore nominò l'assistente di Singleton, Stephen
Hume, a coprire il posto del deputato defunto per i diciotto mesi che mancava-
no allo spirare del termine della legislatura.
157
«Il buon Nick è fuori gioco» osservò Jay Geiger. «Di qui allo scadere del
termine Hume avrà messo radici. La prossima volta si presenterà alle elezioni
come deputato in carica, e sarà quasi impossibile che Nick lo batta.»
A Rob J. tutto questo non interessava. Era troppo assorbito da ciò che
accadeva entro le pareti di casa sua.

Dopo due settimane cessò di legare le mani di suo figlio. Sciamano


non tentava più di far segni: ma neanche parlava. C'era qualcosa di grigio
e morto negli occhi del bambino. Tutti lo coccolavano, ma lui ne traeva
solo un conforto momentaneo. Guardandolo, Rob J. non sentiva in sé che
sfiducia e impotenza.
Intanto tutti quelli che lo circondavano seguivano le sue istruzioni come
se lui fosse un medico infallibile nel trattamento della sordità. Parlando
con Sciamano pronunciavano lentamente e distintamente, additando la
propria bocca e incoraggiandolo a leggere il movimento delle labbra.
Fu Makwa-ikwa che escogitò un modo nuovo di affrontare il pro-
blema. Raccontò a Rob J. come lei e le altre giovani sauk avevano impa-
rato a parlare inglese così rapidamente ed efficacemente alla Scuola Evan-
gelica per Ragazze Indiane: ai pasti non ricevevano nulla da mangiare se
non lo chiedevano in inglese.
Sarah ebbe uno scoppio di collera quando Rob J. gliene parlò. «Una
cosa era legarlo come uno schiavo, ma adesso non vorrai farlo morire di
fame!»
Ma Rob J. non aveva più molto da tentare e stava arrivando alla dispera-
zione. Parlò a lungo e seriamente con Alex, che consentì a collaborare, e
chiese alla moglie di preparare un pranzo speciale. Sciamano aveva una
passione per i cibi in agrodolce e Sarah preparò stufato di pollo con gnoc-
chi di frutta e torta calda di rabarbaro per dessert.
Quella sera, quando tutta la famiglia fu seduta intorno al tavolo e Sarah
portò il primo piatto, la cena si svolse come avveniva già da diverse setti-
mane. Rob J. sollevò il coperchio della zuppiera fumante e nella stanza si
diffuse il delizioso aroma di pollo, gnocchi e verdure.
Rob J. servì prima Sarah, poi Alex. Quindi agitò la mano per attirare
l'attenzione di Sciamano e additò la propria bocca. «Pollo» pronunciò sol-
levando il mestolo. «Gnocchi.»
Sciamano lo fissò in silenzio.
Rob J. versò lo stufato nel proprio piatto e sedette.
Sciamano osservò i genitori e il fratello che divoravano allegramente e alzò
158
il suo piatto vuoto, con un mugolìo di irritazione.
Rob J. additò ancora la propria bocca e alzò il mestolo. «Pollo.»
Sciamano porse il piatto.
«Pollo» ripeté Rob J. Poiché il bambino rimase in silenzio, riabbassò
il mestolo nella zuppiera e riprese a mangiare.
Sciamano cominciò a singhiozzare. Guardò la madre che, facendo
forza a se stessa, aveva appena finito la sua porzione. Sarah additò la pro-
pria bocca e porse il suo piatto a Rob J. «Pollo, per favore» articolò e Rob
J. la servì.
Anche Alex chiese una seconda porzione e la ricevette. Sciamano resta-
va seduto tremando di rabbia e di dolore davanti a questo nuovo insulto, a
questo nuovo terrore: la privazione di cibo.
Quando ebbero finito di mangiare pollo e gnocchi, Sarah tolse i piatti
sporchi e portò in tavola il dolce, caldo del forno, e una brocca di latte. Era
fiera della sua torta di rabarbaro, fatta secondo una ricetta della sua natìa
Virginia, con una quantità di zucchero d'acero che bollicchiava insieme
con il succo agro del rabarbaro, caramellandosi sulla superficie bruna, come
un preannuncio delle delizie contenute sotto la crosta.
«Torta» pronunciò Rob J., e la parola fu ripetuta da Sarah e da Alex.
«Torta» disse ancora, guardando Sciamano.
Non funzionava. Rob J. si sentì spezzare il cuore. Dopotutto, si disse,
non poteva lasciar morire di fame suo figlio: meglio un bambino muto che
un bambino morto.
A malincuore, tagliò una fetta.
«TORTA!»
Fu un urlo di indignazione, un grido contro tutte le ingiustizie del
mondo. Era la voce familiare e amata, la voce che non si era più udita da
tempo. Rob J. restò un attimo come stordito, chiedendosi se non fosse stato
Alex a parlare.
«TORTA! TORTA! TORTA!» strillava Sciamano. «TORTA!»
Il suo piccolo corpo tremava di furia e frustrazione, il visetto era bagnato di
lacrime. Respinse il tentativo della madre di pulirgli il nasino.
Le finezze non contavano in quel momento, pensò Rob J.: anche "per
favore" e "grazie" potevano venire dopo. Additò ancora la propria bocca.
«Sì,» disse al figlio, tagliando una grossa fetta «sì, Sciamano. Torta.»

159
27

Politica

Il lotto di terreno pianeggiante, coperto di erbe alte, a sud della


fattoria di Jay Geiger, era stato venduto dal demanio a un emigrato
svedese, August Lund. Lund aveva impiegato tre anni a dissodare il
duro suolo, ma nella primavera del quarto anno la sua giovane moglie
si ammalò di colera e in pochi giorni morì, e quella perdita avvelenò il
posto per il marito e lo piombò in una nera depressione. Jay comprò la
sua vacca e Rob J. comprò i suoi finimenti e alcuni utensili; entrambi
gli pagarono un prezzo più alto del dovuto perché sapevano quanto di-
speratamente Lund bramasse andarsene di lì. Tornò infatti in Svezia e
per due stagioni i suoi campi appena dissodati rimasero brulli come una
donna abbandonata, facendo di tutto per tornare al rigoglio selvaggio
in cui erano stati una volta. Poi la proprietà fu venduta da un'agenzia
immobiliare di Springfield e diversi mesi dopo una carovana di due
carri portò un uomo e cinque donne a vivere nella tenuta.
Fossero stati un ruffiano e le sue cinque puttane non avrebbero potuto
suscitare un maggior subbuglio a Holden's Crossing. Erano un prete e cin-
que monache della Chiesa cattolica romana, dell'ordine di San Francesco
d'Assisi, e si diffuse in tutta la contea la voce che fossero venuti per aprire
una scuola parrocchiale e attirare i giovani alla Chiesa papista. Holden's
Crossing aveva effettivamente bisogno e di una scuola e di una chiesa, e
forse ognuno dei due istituti sarebbe probabilmente rimasto allo stadio di
progetto per anni e anni, ma l'arrivo dei francescani scatenò una frenesia di
attività. Dopo una serie di "serate sociali" nei salotti delle fattorie fu nomi-
nato un comitato per raccogliere i fondi necessari alla costruzione di una
chiesa. Ma Sarah era indignata.
«Non riescono a mettersi d'accordo, non fanno che azzuffarsi come
bambini. Alcuni vogliono una semplice cappella di tronchi d'albero per
far economie sulle spese. Altri pretendono una struttura di legno, o mattoni,
o pietre.» Personalmente, lei avrebbe preferito una costruzione in pietra,
con un campanile, una guglia, vetrate colorate... una vera chiesa. Per tutta
quell'estate, l'autunno e l'inverno infuriarono le discussioni. Ma a marzo, ren-
dendosi conto che i cittadini dovevano anche addossarsi le spese per la
costruzione di una scuola, il comitato decise per una semplice chiesa di
legno, con le pareti di tavole piallate dipinte di bianco. La discussione sulla
160
forma architettonica si esaurì davanti a un nuovo e più arduo problema,
quello della affiliazione e della denominazione, ma prevalse la maggioranza. Il
comitato prese contatti con la congregazione della Prima Chiesa Battista di
Rock Island, che contribuí con buoni consigli e una piccola somma in
contanti per dare impulso al sorgere di una nuova chiesa sorella.
Si aprì una sottoscrizione e Nick Holden abbagliò il popolo di Rock
Island con un'offerta regale, cinquecento dollari. «Non basterà un gesto di
filantropia per farlo eleggere al Congresso» osservò Rob J. «Hume ha
lavorato duro e ha ottenuto la candidatura del partito democratico.»
Evidentemente anche Holden se ne rendeva conto, perché ben presto si
venne a sapere che aveva rotto con i democratici. Alcuni si aspettavano che
cercasse l'appoggio dei conservatori, invece lui si dichiarò membro del parti-
to americano.
«Partito americano? È una cosa nuova per me» osservò Jay.
Rob J. lo illuminò, ricordando gli articoli e i discorsi anti-irlandesi che
aveva visto ovunque a Boston. «È un partito che esalta gli americani bian-
chi nati in America e predica la soppressione dei cattolici e di tutti quelli
nati in Paesi stranieri.»
«Nick gioca abilmente con le passioni e i timori della gente, ovunque
li scorga» replicò Jay. «L'altra sera, nel portico dell'emporio, stava blate-
rando che i buoni cittadini dovevano guardarsi dal gruppo dei Sauk di
Makwa, come se fossero la lunga mano di Falco Nero. E riusciva a convince-
re più d'uno. Diceva che, se non stiamo attenti, ci sarà spargimento di
sangue, coloni con la gola tagliata e così via.» Fece una smorfia. «Il nostro
Nick. Sempre un buon politicante.»
Un giorno arrivò a Rob J. una lettera di suo fratello Herbert dalla
Scozia. Era la risposta a una lettera spedita da Rob J. otto mesi prima, in
cui parlava al fratello della sua famiglia, del suo lavoro dì medico, della sua
fattoria, facendogli una realistica descrizione della sua vita a Holden's
Crossing e chiedendogli di dargli notizie di parenti e amici rimasti in
patria. Ora la lettera del fratello gli portava notizie tristi, anche se non
inaspettate, perché quando Rob J. era fuggito dalla Scozia sapeva che sua
madre era malata e quasi in fin di vita. Era morta tre mesi dopo la sua
partenza, scriveva Herbert, cd era sepolta accanto al loro padre nel «nuovo
cimitero» della chiesa di Kilmarnock. Il fratello del padre, Ranald, era
morto l'anno seguente.
Herbert scriveva che aveva accresciuto le loro greggi e costruito un
nuovo fienile, con pietre tratte da una cava ai piedi della collina. Annotava
161
minuziosamente tutti questi particolari, ovviamente compiaciuto di far
sapere a Rob J. come amministrava bene le terre di famiglia, ma evitando
accuratamente di parlare di prosperità. Forse in qualche momento Herbert
doveva temere il suo ritorno in Scozia, pensò Rob J. La terra era stata
proprietà di Rob J. per diritto ereditario, come figlio primogenito, ma la
notte prima di partire dalla Scozia aveva firmato la cessione delle terre
avite al fratello minore, che amava appassionatamente la tenuta di famiglia.
Herbert aggiungeva che aveva sposato Alice Broome, figlia di John
Broome, che presiedeva la giuria alla Mostra annuale degli agnelli di
Kilmarnock, e di sua moglie Elsa, che era una McLarkin. Rob J. ricordava
vagamente Alice Broome, una ragazza magra con i capelli color topo, che
teneva sempre una mano a coprire il sorriso incerto perché aveva i denti
troppo lunghi. Lei ed Herbert avevano tre bambine, tutte femmine, ma Alice
era di nuovo incinta ed Herbert questa volta sperava di avere un maschio,
perché il gregge di pecore cresceva e lui aveva bisogno di aiuto.
Poiché la situazione politica è ormai tranquillizzata, pensi forse di tornare a
casa?
Rob J. poteva sentire la tensione del dubbio nella scrittura ingarbugliata
di Herbert, e insieme il senso di vergogna che il fratello provava per i suoi
timori. Sedette subito a scrivere una lettera per cancellare le sue apprensioni.
No, non sarebbe tornato in Scozia, se non forse un giorno per una breve
visita, quando si fosse ritirato dalla professione in buona salute e in buone
condizioni economiche. Mandava i suoi affettuosi saluti alla cognata e alle
nipotine e si congratulava con Herbert per i suoi successi nell'allevamen-
to: era chiaro, scriveva, che la proprietà dei Cole era nelle mani giuste.
Terminata la lettera, andò a fare una lunga passeggiata sul sentiero del
fiume, fino al mucchio di pietre che segnava il confine fra la sua proprietà e
quella dei Geiger. Capì perché non voleva lasciare quella terra. L'Illinois
l'aveva catturato, nonostante le sue tormente di neve e i suoi catastrofici
tornado e le sue forti escursioni termiche, o forse per tutte queste cose messe
insieme e per altre ancora.
Questa fattoria Cole era una terra migliore della tenuta di Kilmarnock,
lo strato di humus era più profondo, l'acqua più abbondante, l'erba più
grassa. Rob J. si sentiva già responsabile di questa terra. Aveva impressi
nella memoria i suoi odori e i suoi suoni, amava il suo aspetto nelle calde
mattine d'estate profumate di limone, quando il vento passava frusciando
sulle alte erbe, non meno che nel brutale abbraccio del gelo invernale. Era
veramente la sua terra.
162
Un paio di giorni dopo, trovandosi a Rock Island per una riunione della
Società Medica, passò dagli uffici del giudice di contea e riempì un
formulario per chiedere la cittadinanza.
Roger Murray, l'impiegato, lesse la richiesta con meticolosa attenzione.
«Ci vogliono tre anni, dottore, lei lo sa, per ottenere la cittadinanza.»
Rob J. annuì. «Posso aspettare. Non ho intenzione di andarmene di qui.»
Quanto più Tom Beckermann si dava al bere, tanto più gravi si faceva-
no gli squilibri nell'assistenza medica a Holden's Crossing. Rob J. si trovò
sovraccarico di lavoro e dovette accollarsi gli impegni di Beckermann, im-
precando contro l'alcolismo del collega e desiderando che un terzo dottore
venisse in città. Stephen Hume e Billy Rogers aggravavano il problema,
diffondendo la voce che il dottor Cole era stato l'unico medico che aveva
avvertito Sammil Singleton della gravità del suo male. Se solo Sammil
avesse ascoltato il dottor Cole, dicevano, ora sarebbe stato ancora in vita.
La fama di Rob J. si diffondeva sempre più e nuovi pazienti venivano a
cercarlo.
Rob J. faceva fatica a trovare il tempo per stare vicino a Sarah e ai ragazzi.
Sciamano lo stupiva: era come se una giovane pianta fosse stata danneggia-
ta da qualcosa che ne aveva interrotto lo sviluppo, ma poi si fosse ripresa e
fiorisse con un nuovo rigoglio, emettendo da ogni ramo nuove verdi
gemme. Il bambino cresceva sotto i loro occhi. Sarah, Alex, Alden, i Sauk,
tutti quelli che vivevano nella tenuta dei Cole praticavano con lui la lettura
delle labbra, con pazienza e con fede, anzi sì potrebbe dire con frenetico
zelo, così vivo era il loro sollievo alla fine del suo lungo silenzio. Una volta
che ebbe cominciato a parlare, il bambino continuava a chiacchierare
instancabilmente. Aveva imparato a leggere un anno prima dell'insorgere
della sordità, e ora si preoccupavano di fornirgli sempre nuovi libri.
Sarah insegnava al figlio tutto quello che poteva, ma aveva solo frequentato
i pochi anni di scuola rurale e si rendeva conto dei propri limiti. Rob J.
insegnava ai ragazzini latino e matematica. Alex riusciva bene: era molto
sveglio e si impegnava con diligenza, ma era Sciamano che stupiva tutti con
la sua rapidità nell'apprendere. Talvolta Rob J. si sentiva il cuore stretto
osservando la naturale intelligenza del ragazzino.
«Sarebbe stato un buon medico, lo so» diceva con rimpianto a Jason
Geiger, un pomeriggio che sedevano all'ombra presso la casa dei Geiger
sorseggiando una bibita allo zenzero. Confidava all'amico che era insita nel
cuore di ogni Cole la speranza che il proprio figlio maschio diventasse un
medico.
163
Jay annuiva comprensivo. «Be', c'è Alex. È un bravo ragazzo.»
Rob J. scosse la testa. «Questa è la dannata faccenda. Sciamano, che non
potrà mai diventare un medico a causa della sua sordità, è quello che insiste
sempre per accompagnarmi nelle visite a domicilio. Alex, che potrebbe fare
tutto quello che vuole nella vita, preferisce seguire Alden Kimbell come
un'ombra in giro nella fattoria. Sta a osservare il bracciante che pianta una
palizzata e taglia le palle agli agnelli invece che interessarsi a quello che
faccio io.»
Jay sorrise. «Non lo avresti fatto anche tu, alla sua età? Be', forse i due
fratelli manderanno avanti la fattoria insieme. Sono entrambi dei cari
ragazzi.»
In casa Lillian stava esercitandosi con il Concerto numero ventitré per
piano di Mozart. Era molto attenta alla diteggiatura e all'esattezza dell'ese-
cuzione, ed era esasperante sentirla ripetere la stessa, battuta finché otteneva
il colore e l'espressione voluta. Ma quando era soddisfatta e suonava
speditamente, allora era vera musica. Il pianoforte era arrivato in perfetto
stato, ma una lunga crepa superficiale, di origine sconosciuta, deturpava la
levigata perfezione di una delle sue gambe di noce. Lillian aveva pianto al
vederla, ma il marito aveva detto che non l'avrebbe mai riparata. «E così
dirà ai nostri nipoti quanto abbiamo viaggiato per arrivare qui.»
La prima chiesa di Holden's Crossing fu terminata verso la fine di giu-
gno e la cerimonia della consacrazione si tenne il 4 luglio. Tanto il deputa-
to Stephen Hume che Nick Holden, il quale aveva presentato la sua
candidatura per il posto di Hume, tennero il loro discorso durante il rito.
Osservandoli, Rob J. pensò che Hume appariva rilassato e soddisfatto,
mentre Nick aveva l'aria avvilita di un uomo che sa di essere rimasto
indietro.
La domenica che seguì quella cerimonia arrivò a Holden's Crossing per
celebrare il servizio divino il primo di quella che sarebbe stata una lunga
serie di predicatori visitanti. Sarah confessò a Rob J. che si sentiva nervo-
sa, e Rob J. pensò che certamente la moglie ricordava il predicatore battista
del Grande Risveglio che aveva invocato i fulmini del cielo sulle donne che
partorivano figli fuori del matrimonio. Lei avrebbe preferito un pastore più
mite, come il reverendo Arthur Johnson, il ministro metodista che li aveva
sposati, ma la scelta del pastore doveva essere fatta dall'intera congrega-
zione. Così per tutta l'estate predicatori di ogni tipo vennero a Holden's
Crossing. Rob J. si recò a diversi culti per accompagnare la moglie, ma
perlopiù preferiva non frequentare la chiesa.
164
In agosto un manifestino stampato, affisso fuori dell'emporio, annun-
ciava l'imminente visita di un tale Ellwood R. Patterson, che avrebbe tenu-
to una conferenza sul tema "La marea che minaccia la cristianità" nella chiesa
la sera di sabato 2 settembre alle sette, e poi avrebbe celebrato il culto con
relativa predica la mattina di domenica.
Quel sabato di buon mattino un uomo si presentò all'ambulatorio di
Rob J. e sedette pazientemente nel piccolo salotto che serviva da sala
d'attesa, mentre Rob J. medicava un dito della mano destra di Charley
Haskins, che era rimasto schiacciato fra due pali. Charley, un giovanotto-
ne di vent'anni, figlio del padrone dell'emporio, era di professione taglia-
boschi. Soffriva per la ferita ed era rabbioso con se stesso per la disat-
tenzione che aveva causato l'incidente, ma aveva una parlantina allegra e
salace, e un imbattibile buonumore.
«Be', dottore, questa faccenda mi impedirà di sposarmi?»
«Potrai usare il dito come prima, quando sarà guarito» rispose Rob J.
seccamente. «Perderai l'unghia, ma ricrescerà. Ora va' a casa e torna fra tre
giorni per cambiare la medicazione.»
Fece entrare l'uomo che aspettava in anticamera, il quale si presentò
come Ellwood Patterson. Il predicatore in visita, pensò Rob, ricordando il
nome del manifestino. Era un uomo di una quarantina d'anni, un po' so-
vrappeso ma eretto, con una larga faccia arrogante, capelli neri tenuti
lunghi, colorito tendente al rosso e venuzze blu piuttosto prominenti sul
naso e sulle guance.
Mr. Patterson disse che soffriva di foruncoli. Quando si tolse la cami-
cia, Rob J. vide sulla sua pelle macchie pigmentate di zone cicatrizzate e qua
e là una dozzina di eruzioni pustolose aperte, vescicole crostose granulari e
piccoli tumori gommosi.
Guardò l'uomo con simpatia. «Lei sa di avere una malattia?»
«Mi hanno detto che è sifilide. Qualcuno al saloon diceva che lei è un
bravo dottore. Volevo vedere se lei poteva fare qualcosa.»
Tre anni prima, raccontò, una prostituta di Springfield lo aveva trattato
alla francese, e in seguito gli si era sviluppato un cancroide duro e un
gonfiore dietro i testicoli. «Sono anche andato a trovarla. Non passerà più
l'infezione a nessun altro.»
Un paio di mesi dopo era stato colpito da febbre e piaghe rossicce sul
corpo e da forti dolori alle articolazioni e alla testa. Poi quei sintomi erano
scomparsi da soli e aveva pensato di essere guarito: ma ora aveva tutte
quelle ulcerazioni e quei gonfiori.
165
Rob scrisse il suo nome su una scheda e accanto annotò: sifilide terziaria.
«Da dove viene lei, signore?»
«...Chicago.» Ma il paziente aveva avuto una leggera esitazione, abba-
stanza da far sospettare a Rob J. che mentiva. Questo tuttavia non impor-
tava.
«Non ci sono cure, Mr. Patterson.»
«Ah... E ora che cosa mi succederà?»
Non sarebbe servito a nulla dissimulare. «Se l'infezione arriva al cuore,
morirà. Se arriva al cervello, diventerà pazzo. Ma se entra nelle ossa e
nelle articolazioni, diventerà storpio. Tuttavia spesso nessuno di questi
eventi tragici si verifica. Talvolta i sintomi semplicemente scompaiono e
non ritornano. Quello che può fare è solo sperare di essere uno dei fortu-
nati.»
Patterson fece una smorfia. «Finora le piaghe non sono visibili finché
sono vestito. Può darmi qualcosa per tenerle lontane dal viso e dal collo? Io
ho una vita pubblica.»
«Posso venderle qualche pomata. Non so se può funzionare con questo
tipo di ulcerazioni» rispose Rob J. gentilmente e Mr. Patterson annuì e si
rimise la camicia.

La mattina dopo un ragazzo con i piedi nudi e un paio di pantaloni


laceri arrivò su una mula subito dopo l'alba e disse: «Per favore, signore,
la mamma sta male, potrebbe gentilmente venire a visitarla?». Era Mal-
colm Howard, il figlio maggiore di una famiglia che era arrivata dalla
Louisiana solo pochi mesi prima, e si era stabilita nel fondovalle, a una
decina di chilometri lungo il fiume. Rob J. sellò Vicky e seguì la mula per
sentieri sconnessi finché arrivarono a una capanna di tronchi, che era
appena un po' più decente del pollaio addossato a un fianco. Dentro,
trovò Mollie Howard a letto, circondata dal marito Julian e dagli altri figli.
La donna era in preda a un accesso di febbre malarica, ma Rob J. vide che le
sue condizioni non erano gravi e qualche parola di incoraggiamento e una
buona dose di chinino diedero sollievo alla paziente e alla sua famiglia.
Julian Howard non fece alcun gesto di voler pagare la visita e Rob J.
non chiese nulla, vedendo le misere condizioni della famiglia. Howard lo
seguì fuori della capanna e attaccò discorso sull'ultima iniziativa del sena-
tore Stephen A. Douglas che aveva appena fatto approvare dal Congresso
il Kansas-Nebraska Act, per il quale si istituivano due nuovi territori nel-
l'Ovest. La legge presentata da Douglas conferiva alle singole legislature
166
territoriali il potere di decidere se nei vari Stati fosse permessa la schiavitù,
e per questa ragione la pubblica opinione del Nord era fortemente contraria
alla legge.
«Quei dannati nordisti, che cosa ne sanno dei negri? Alcuni di noi co-
loni stanno mettendo in piedi una piccola organizzazione perché l'Illinois si
faccia furbo e ci consenta di tenere degli schiavi. Magari lei vorrebbe unirsi
a noi? Quella gente negra è fatta per lavorare i campi dei bianchi. Ho visto
che anche lei ha un paio di uomini di colore che lavorano alla sua fattoria.»
«Quelli sono Sauk, non schiavi. Lavorano per me a pagamento. Io per-
sonalmente sono contrario alla schiavitù.»
Si guardarono l'un l'altro. Howard arrossì e rimase in silenzio: senza
dubbio non si sentiva di ribattere aspramente, poiché il presuntuoso dot-
tore non gli faceva pagare la visita. Da parte sua Rob J. fu ben felice di
andarsene. Lasciò a Howard dell'altro chinino e tornò subito a casa.
Ma quando arrivò trovò Gus Schroeder che lo aspettava ansiosamente
perché Alma, nel ripulire la stalla, si era stupidamente infilata fra la parete e
il grosso toro pezzato che era il loro orgoglio. Il toro l'aveva urtata e get-
tata a terra, proprio mentre Gus entrava nella stalla. «E poi quella dan-
nata bestia non voleva muoversi! Stava lì, su di lei, chinando le corna,
finché ho dovuto prendere il forcone del fieno e piantarglielo addosso per
cacciarlo fuori. Lei dice che non ha niente di grave, ma tu conosci Alma!»
Così, senza ancora far colazione, galoppò alla casa degli Schroeder.
Alma stava bene, anche se era pallida e sotto shock. Sussultò quando le
premette la quinta e sesta costola sul lato sinistro e Rob J. non volle correre
il rischio dì lasciarla senza una buona fasciatura. Sapeva che la donna si
mortificava di doversi spogliare davanti a lui, così chiese a Gus di prendersi
cura della sua cavalla, in modo che il marito non dovesse essere presente a
quella umiliazione. Le disse di tenere alzati con le mani i grossi seni flaccidi,
percorsi da venuzze azzurre, e cercò di toccare il meno possibile la sua grassa
carne bianca mentre la fasciava, continuando a chiacchierare di pecore e
frumento, e di sua moglie e dei suoi bambini. Quando ebbe finito, Alma
cercò di sorridere, andò in cucina a mettere la caffettiera sul fuoco, e poi tutti
e tre sedettero davanti alle loro tazze fumanti.
Gus gli riferì che la "conferenza" di Ellwood Patterson, quel sabato
sera, non era stata altro che una mal dissimulata campagna per Nick Holden
e il partito americano. «La gente pensa che Nick lo abbia fatto venire espres-
samente.»
La "Marea che Minaccia la Cristianità", secondo Patterson, era l'immi-
167
grazione di cattolici negli Stati Uniti. Gli Schroeder erano mancati al cul-
to quella mattina, per la prima volta: erano entrambi luterani, ma la confe-
renza di Patterson li aveva disgustati, quando aveva affermato che gli stra-
nieri, e il termine comprendeva anche gli Schroeder stessi, rubavano il pane
dei lavoratori americani. Aveva proposto che il periodo di attesa, per otte-
nere la cittadinanza, fosse portato da tre anni a ventuno.
Rob J. fece una smorfia. «Io non vorrei proprio aspettare tanto» osser-
vò. Ma tutti e tre avevano del lavoro da fare quella domenica, e Rob J. rin-
graziò Alma per il caffè e se ne andò. Aveva davanti una cavalcata di sette
od otto chilometri a monte del fiume fino alla fattoria di John Ashe Gilbert,
il cui vecchio suocero, Fletcher White, era a letto con una brutta bronchite.
Aveva ottantatré anni ed era Ancora un tipo in gamba; aveva già superato in
passato delle affezioni bronchiali e Rob J. sperava che ne uscisse anche
questa volta. Aveva detto alla figlia di Fletcher, Suzy, di fargli prendere
bevande calde e di far bollire diverse caldaie d'acqua una dopo l'altra
perché Fletcher potesse respirarne i vapori. Rob J. andava a visitarlo forse
più spesso di quanto fosse strettamente necessario, ma aveva cura partico-
lare dei suoi pazienti anziani, perché erano poco numerosi. I pionieri di
solito erano robusti giovani che si lasciavano i vecchi alle spalle, ed erano
rari i vecchi che compivano il lungo viaggio.
Trovò Fletcher molto migliorato. Suzy Gilbert gli offrì un pranzetto di
quaglie arrosto e frittelle di patate e lo pregò di fermarsi alla casa dei suoi
vicini, i Baker, dove uno dei figli aveva un'infezione a un alluce che doveva
essere incisa. Rob J. trovò Donny Baker, di diciannove anni, in pessime
condizioni, febbricitante e dolorante per una violenta infezione. Una metà
del suo piede destro era già nera. Rob J. dovette amputargli due dita,
incise la pianta e inserì uno stuello, ma dubitava molto di poter salvare il
piede: aveva visto diversi casi in cui questo tipo di infezione poteva essere
arrestata solo con l'amputazione del piede intero.
Era già il tardo pomeriggio quando si diresse verso casa. Era arrivato a
metà strada quando si sentì chiamare e frenò il trotto di Vicky perché Mort
London potesse raggiungerlo con il suo grosso cavallo baio. «Sì, sceriffo...»
«Dottore, io...» Mort si tolse il cappello e scacciò irritato una mosca
che gli ronzava intorno. Sospirò. «Una maledetta faccenda. Temo che ci
occorrerà un coroner.»
Rob J. si sentì irritato anche lui. Le frittelle di patate di Suzy Gilbert gli
pesavano sullo stomaco. Se quel Calvin Baker lo avesse chiamato una setti-
mana prima, avrebbe potuto curare l'alluce di Donny senza fatica. E ora ci
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sarebbero stati dei guai, e forse una tragedia. Si domandò quanti dei suoi
pazienti erano in pericolo senza che lui lo sapesse e si ripromise di andare
a controllarne almeno tre prima di sera. «È meglio che lei chiami Becker-
mann, sceriffo. Oggi ho molto da fare.»
Lo sceriffo si rigirava il cappello fra le mani. «Ehm... forse vorrà
vedere lei stesso, dottor Cole.»
«Uno dei miei pazienti?» Rob J. considerò rapidamente le varie possibilità.
«È quella donna sauk.»
Rob J. lo fissò sorpreso.
«La donna indiana che lavorava per lei» aggiunse London.

28

L'arresto

Rob J. si disse che forse era Luna. Non che Luna fosse da disprezzare,
anzi gli era simpatica e gli era utile, ma solo due donne sauk la-
voravano per lui, e se non si trattava di Luna... La sua mente si ri-
fiutava di affrontare l'alternativa.
«Quella che l'aiuta nelle sue visite» aggiunse Mort London. «Pugna-
lata. Più volte. Chiunque lo abbia fatto, l'ha percossa prima. Strappate le
vesti. Violentata, credo.»
Per pochi minuti avanzarono in silenzio. «Dovevano essere più di uno.
Diverse impronte di cavallo sul luogo dov'è stata trovata» continuò lo
sceriffo. Poi rimase zitto per tutta la strada.
Quando arrivarono alla fattoria Makwa era già stata trasportata nel
capannone. Fuori, fra l'ambulatorio e il fienile, si era radunato un piccolo
gruppo: Sarah, Alex, Sciamano, Jay Geiger, Luna e Vien Cantando con i
loro bambini. Gli indiani non gemevano a voce alta ma i loro occhi tradi-
vano il loro dolore e la loro impotenza, la consapevolezza che la vita era
cattiva. Sarah piangeva in silenzio o Rob J. le si avvicinò e la baciò.
Jay Geiger avanzò verso di lui. «L'ho trovata io.» Scosse la testa come
per allontanare un insetto molesto. «Lillian mi aveva mandato qui a por-
tare della marmellata di pesche per Sarah. A un certo punto ho visto
Sciamano che dormiva sotto un albero.»
Rob J. trasalì. «Sciamano era lì? E ha visto Makwa?»
«No, non l'ha vista. Sarah dice che Makwa lo aveva condotto stamattina con
sé a raccogliere erbe nei boschi lungo il fiume, come faceva tante volte. Quan-
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do il bambino si stancò, gli lasciò fare un sonnellino all'ombra. E tu sai che
nessun rumore o grido potrebbe svegliarlo. Quando l'ho visto, ho pensato che
certo non era lì da solo e l'ho lasciato dormire e sono andato avanti fino alla
radura. E l'ho trovata...
«Non è bella da vedere, Rob... Mi ci sono voluti alcuni minuti per ripren-
dermi dallo shock. Poi sono tornato indietro e ho svegliato il bambino, ma lui
non aveva visto niente. L'ho portato qui con me, poi sono andato a chiamare lo
sceriffo.»
«Sembra che tu non faccia altro che riportarmi i bambini a casa.»
Jay lo guardò. «Rob, tu stai bene?»
Rob J. annuì.
Jay, d'altra parte, era pallido e sconvolto. «Credo che tu abbia un lavoro da
fare. I Sauk vorranno lavarla e seppellirla.»
«Tienili tutti lontano per un momento» pregò Rob J., poi entrò nel capan-
none da solo e si chiuse la porta alle spalle.
Era coperta da un lenzuolo. Non era stata portata da Jay, o da qualcuno dei
Sauk. Probabilmente da un paio degli uomini di London, perché l'avevano
gettata negligentemente bocconi sul tavolo da dissezione, come un oggetto
inanimato di scarso valore, come un tronco d'albero o una donna indiana morta.
Quello che vide al primo sguardo, appena tolto il lenzuolo, furono la sua nuca e
la schiena nuda, le cosce e le gambe.
Il lividore indicava che era sdraiata supina quando era morta: la schiena e le
natiche erano arrossate dal ristagno del sangue nei capillari. Ma attorno all'ano
violato vide una crosta rossiccia e una chiazza biancastra ormai secca, mac-
chiata di scarlatto dov'era gocciolato il sangue.
Gentilmente la rigirò di nuovo in posizione supina.
C'erano dei graffi sulle sue guance, fatti dai rami quando la sua faccia era
stata premuta contro il suolo del bosco.
Rob J. provava una viva attrazione per il posteriore femminile. Sua moglie
l'aveva presto scoperto e amava offrirsi così a lui, la faccia contro il cuscino, i
seni premuti contro il lenzuolo, divaricando i piedi snelli elegantemente arcua-
ti, le lisce natiche a forma di pera bianche e rosa sopra il vello dorato. Una
posizione scomoda, ma lei la assumeva a volte perché l'eccitazione sessuale del
marito accendeva anche in lei la passione. Rob J. credeva nel coito come forma
di amore, e non semplicemente come mezzo di procreazione, e non riteneva
perciò che un solo orifizio fosse sacro al piacere sessuale. Ma come medico
aveva osservato che lo sfintere anale poteva perdere la sua elasticità, se non si
usava una certa delicatezza, e facendo l'amore con Sarah gli era facile agire in
170
modo da non farle male.
Altri non avevano mostrato lo stesso rispetto per Makwa.
L'indiana aveva il corpo snello e robusto di una donna di dieci anni più
giovane di quella che doveva essere la sua età. Diversi anni prima lui e Makwa
avevano affrontato il problema della loro reciproca attrazione fisica e l'avevano
sempre tenuta attentamente a freno. Ma c'erano stati momenti in cui Rob J.
aveva pensato al suo corpo di donna, immaginando che cosa sarebbe stato fare
l'amore con lei. Ora la morte aveva già cominciato la sua devastazione. Il suo
addome era gonfio, i seni appiattiti dal rilasciarsi dei tessuti. C'era già un inizio
di rigor mortis e Rob J. raddrizzò le gambe, mentre era ancora possibile. Il
pube era come lana nera, inzuppata di sangue; forse era una fortuna che fosse
morta, perché il suo dono di sciamana si sarebbe estinto.
«BASTARDI! SPORCHI BASTARDI!»
Si asciugò gli occhi, rendendosi conto all'improvviso che la gente là fuori
l'avrebbe sentito urlare. Il torso di Makwa era una massa di lividi e ferite, e il
labbro inferiore era stato spaccato, forse da un grosso pugno.
A terra, accanto al tavolo, stavano le prove raccolte dallo sceriffo: la veste
lacera e macchiata di sangue (un vecchio abito di percalle datole da Sarah); il
cestino a metà pieno di menta, crescione e certe foglie di un albero, forse
ciliegio; e un mocassino di pelle di daino. Un solo mocassino? Cercò l'altro e
non riuscì a trovarlo. I suoi piedi forti e bruni erano nudi: erano piedi duri e
robusti, con il secondo dito del sinistro deformato da una vecchia frattura.
L'aveva spesso vista a piedi nudi e talvolta si era domandato come si fosse rotta
quel dito, ma non gliel'aveva mai chiesto.
Guardò il suo viso, il viso della vecchia amica. I suoi occhi erano aperti ma
il corpo vitreo aveva perduto pressione e si era asciugato, e quegli occhi erano
la cosa più morta in lei. Li chiuse gentilmente e pose sulle palpebre due mone-
tine, ma gli sembrava che lei lo fissasse ancora. Nella morte il suo naso era più
pronunciato, più sgarbato. Non sarebbe stata bella invecchiando, ma il suo viso
aveva ancora molta dignità. Rob J. rabbrividì e congiunse strettamente le mani,
come un bambino in preghiera.
«È un grande dolore per me, Makwa-ikwa.» Non si illudeva che lei potesse
sentire, ma lo confortava il parlare con lei. Trasse penna e carta e copiò i segni
a forma di rune impressi sul suo seno, intuendo che avevano un loro signi-
ficato. Non sapeva se qualcuno li avrebbe capiti perché Makwa non aveva
addestrato nessuno a succederle come sciamano dei Sauk, credendo di avere
ancora molti anni di vita. Forse, pensò, aveva sperato che uno dei figli di Luna
e Vien Cantando diventasse crescendo un buon apprendista.
171
Rapidamente tracciò uno schizzo del suo volto, così come era in passato.
Qualcosa di terribile era accaduto a lui, non meno che a lei. Come aveva
tante volte visto in sogno lo studente-boia che sollevava la testa mozzata del
suo amico Andrew Gerould di Lanark, così avrebbe sognato di questa morte.
Non comprendeva del tutto che cosa suscitasse l'amicizia, come non sapeva che
cosa suscitasse l'amore, ma in qualche modo questa donna indiana e lui erano
divenuti sinceramente amici e la sua morte era per lui una grave perdita. Per un
attimo dimenticò il voto di non violenza: se avesse avuto in suo potere quelli
che avevano compiuto il crimine, li avrebbe schiacciati come vermi.
Quel momento passò. Si coprì con un fazzoletto il naso e la bocca per
proteggersi dall'odore e prese il bisturi. Con rapidi colpi aprì il corpo da una
spalla all'altra, a forma di grande U, e poi tagliò dritto fra i seni fino all'om-
belico, in una trisezione a forma di Y, da cui non stillò neppure una goccia di
sangue. Le sue dita erano insensibili e obbedivano ottusamente al pensiero; era
una fortuna che non dovesse tagliare un paziente vivo. Finché non ebbe
sollevato i tre lembi di pelle, quel misero corpo era Makwa. Ma quando prese
le forbici per liberare lo sterno, si costrinse a un diverso livello di coscienza e
sgombrò la mente da ogni pensiero che non fosse quel compito specifico: tornò
alla routine familiare e cominciò a fare le cose che dovevano essere fatte.

REFERTO SU MORTE VIOLENTA


Soggetto: Makwa-ikwa.
Indirizzo: Fattoria Cole, Holden's Crossing, Illinois.
Professione: assistente all'ambulatorio del dottor Robert J. Cole. Età:
all'incirca ventinove anni.
Altezza: 1,752 metri.
Peso: circa 63 chilogrammi.
Circostanze: il corpo del soggetto, una donna della tribù sauk, fu scoperto in
un settore boscoso della Fattoria Allevamento Ovini dei Cole da un passante, a
metà pomeriggio del 3 settembre 1851. Si riscontrarono undici ferite d'arma da
taglio, inferte su una linea irregolare dall'incisura giugulare lungo lo sterno fino
a un punto circa due centimetri sotto il processo xifoideo. Le ferite variavano in
larghezza da 0,947 a 0,952 centimetri. Erano state fatte con uno strumento a
punta, probabilmente una lama metallica di forma triangolare, con i tre lati
affilati e taglienti.
La donna, che era vergine, era stata violentata. I resti dell'imene indicano
che era imperforatus, la membrana spessa e divenuta rigida. Probabilmente lo
stupratore (o stupratori) non riuscì a compiere la penetrazione con il pene: la
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deflorazione fu portata a termine mediante uno strumento non affilato con
piccole protuberanze ruvide o dentate che provocò gravi danni alla vulva,
comprese profonde escoriazioni al perineo e alle grandi labbra, e lacerazioni
alle piccole labbra e al vestibolo della vagina. O prima o dopo questa
sanguinosa deflorazione, la donna fu voltata bocconi. Le contusioni sulle cosce
fanno pensare che sia stata tenuta brutalmente ferma mentre veniva sodomiz-
zata, il che indica che gli aggressori erano almeno due, forse di più. I danni del-
la sodomizzazione comprendono la lacerazione del canale anale. Una quantità
di sperma era presente nel retto e una marcata emorragia nel colon discendente.
Altre contusioni in varie parti del corpo e del viso fanno pensare che la donna
sia stata brutalmente percossa, probabilmente a pugni.
Da taluni indizi si desume che la donna dovette resistere all'aggressione.
Sotto le unghie del secondo, terzo e quarto dito della mano destra si sono rinve-
nuti frammenti di pelle e due peli neri, forse di una barba.
Le pugnalate furono inferte con forza sufficiente a scheggiare la terza
costola e penetrare ripetutamente nello sterno. Il polmone sinistro fu colpito
due volte e il destro tre volte, con conseguente lacerazione della pleure e del
tessuto polmonare interno: entrambi i polmoni dovettero collassare subito. Tre
dei colpi arrivarono al cuore; due produssero ferite nella regione dell'orecchiet-
ta destra larghe rispettivamente 0,887 e 0,799 centimetri. La terza ferita, nel
ventricolo destro, era larga 0,803 centimetri. Dal cuore lacerato il sangue si
riversò largamente nella cavità addominale.
Gli organi non presentavano anomalie, a parte il trauma. Il cuore, pesato,
risultò di 263 grammi; il cervello, 1,43 chilogrammi; il fegato, 1,62 chilogram-
mi; la milza, 199 grammi.
Conclusione: omicidio preceduto da violenza carnale a opera di autore o
autori sconosciuti.
(firmato) Dottor Robert Judson Cole
Assistente Coroner
Contea di Rock Island
Stato dell'Illinois

Rob J. rimase alzato fino a tardi quella notte per copiare il rapporto da
presentare al giudice di contea e poi farne un'altra copia per Mort London. La
mattina dopo i Sauk vennero alla fattoria per seppellire Makwa-ikwa sul
promontorio a picco sul fiume, vicino all'hedonoso-te. Rob J. aveva offerto lo-
ro quel terreno per la tomba, senza consultare la moglie.
Sarah andò in collera quando lo seppe. «Sulla nostra terra? Ma che cos'hai
173
pensato? Una tomba è per sempre, lei sarà qui eternamente, non ci potremo mai
liberare di lei!» gridò furiosa.
«Chiudi la bocca, donna» replicò seccamente Rob J. e lei si voltò e si allon-
tanò da lui.
Luna lavò Makwa e la rivestì con la sua veste da sciamana di pelle di daino.
Alden si offrì di farle una bara di pino, ma Luna disse che era costume dei Sauk
seppellire i morti avvolti nella loro migliore coperta. Alden aiutò invece Vien
Cantando a scavare la tomba. Luna disse che dovevano scavarla nelle prime ore
del mattino: questo era il costume. Tomba scavata al mattino, sepoltura al
pomeriggio. I piedi di Makwa, disse, dovevano essere rivolti a occidente, e
mandò al campo sauk a prendere la coda di un bisonte femmina da porre nella
fossa. Questo avrebbe aiutato Makwa-ikwa a varcare il fiume di nebbia che
separa il Paese dei vivi dal Paese dell'Ovest, spiegò a Rob J.
Il funerale fu un misero rito. Gli indiani e i Cole e Jay Geiger si raccolsero
intorno alla tomba e Rob J. aspettò che qualcuno cominciasse a parlare, ma
nessuno si fece avanti. I Sauk non avevano uno sciamano. Con sgomento vide
che i Sauk guardavano lui. Se Makwa fosse stata cristiana, Rob J. sarebbe stato
abbastanza debole da pronunciare parole in cui non credeva. In questa situazio-
ne si sentiva del tutto fuori posto. Da un angolo della mente gli affiorò il
ricordo di antiche parole:

«La barca in cui ella sedeva, come uno splendido trono,


Brillava sull'acqua; la poppa era oro sbalzato,
Di porpora le vele, e sì profumate che i venti
Ne erano innamorati: i remi erano d'argento,
Battevano l'onda al suono dei flauti, e facevano scorrere
Più rapida l'acqua al loro ritmo,
Come innamorata dei loro colpi.
Quanto alla sua persona,
Superava ogni descrizione».

Jay Geiger lo guardò sorpreso, come se l'amico fosse ammattito. Cleopatra?


Ma si rese conto che per lui la donna indiana aveva una specie di oscura
maestà, un alone di regale santità, una forma speciale di bellezza. Makwa era
meglio di Cleopatra: Cleopatra non aveva conosciuto il sacrificio personale, né
la fede, né le erbe magiche . Rob J. sapeva che non avrebbe più incontrato una
persona come lei, e John Donne gli offrì altre parole da gettare al Vecchio
Cavaliere Nero:
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«Morte non esser superba, anche se alcuni ti chiamano
Potente e terribile, perché non lo sei,
Perché quelli che a batter tu pensi,
Non muoiono, misera Morte, né tu puoi uccidere me».

Quando fu chiaro che non avrebbe detto altro, Jay si schiarì la voce e pro-
nunciò alcune frasi in una lingua che Rob J. pensò fosse ebraico. Per un attimo
temette che Sarah volesse intromettere il nome di Gesù: ma sua moglie era
troppo timida per farlo. Makwa aveva insegnato ai Sauk alcuni canti di pre-
ghiera e ora ne cantarono uno insieme:

Tti-la-ye ke-wi-ta-mo-ne i-no-ki,


Tti-la-ye ke-wi-ta-mo-ne i-no-ki-i-i
Me-ma-ko-te-si-ta
Ke-te-ma-ga-yo-se.

Era una nenia che spesso Makwa aveva cantato a Sciamano, e Rob J. vide
che il bambino, pur senza emettere voce, muoveva le labbra seguendo le
parole. Quando il canto fu terminato, ebbe fine il funerale. E fu tutto.

Dopo, Rob J. si recò alla radura nel bosco, dove il crimine era avvenuto. Il
terreno era un ammasso di impronte di cavalli. Aveva chiesto a Luna se
qualcuno dei Sauk era un cacciatore abile nello stanare la selvaggina, ma la
donna aveva risposto che gli abili cacciatori erano morti. Comunque ormai un
gran numero di agenti di London erano stati sul posto e il suolo era calpestato
da uomini e cavalli. Rob J. sapeva quello che stava cercando. Trovò il baston-
cello nel cespuglio dov'era stato gettato. Sembrava una verga qualsiasi, tranne
per il colore rugginoso a un'estremità. L'altro mocassino di Makwa era stato
gettato nel bosco, dall'altra parte della radura, da qualcuno con un braccio
robusto. Non c'era altro che potesse trovare: avvolse i due oggetti in un panno e
si diresse all'ufficio dello sceriffo.
Mort London ricevette la copia del referto e le due prove senza far com-
menti. Era piuttosto freddo, forse perché i suoi uomini non avevano trovato la
verga e il mocassino quando avevano perquisito il luogo. Rob J. non tardò ad
andarsene.
Accanto all'ufficio dello sceriffo, sotto il portico dell'emporio, fu chiamato
da Julian Howard. «Ho qualcosa per lei» gli disse. Si frugò in tasca e Rob J. udì

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il tintinnio di molte monete. Howard gli porse un dollaro d'argento.
«Non c'è fretta, Mr. Howard.»
Ma Howard gli fece un gesto, agitando la moneta. «Pago i miei debiti» re-
plicò in tono arrogante e Rob J. prese la moneta senza fargli osservare che
mancavano cinquanta cent, contando le medicine che gli aveva lasciato.
Howard stava già voltandosi sgarbatamente. «Come sta sua moglie?» chiese
Rob J.
«Molto meglio. Non c'è più bisogno di lei.»
Era una buona notizia e risparmiava a Rob J. una lunga e faticosa cavalcata.
Si recò invece alla fattoria degli Schroeder, dove Alma già si accingeva alle
pulizie autunnali: era evidente che non aveva alcuna costola fratturata. Poco
dopo, quando passò da Donny Baker, trovò che il ragazzo era ancora febbri-
citante e la carne infiammata del piede indicava che l'infezione avrebbe ancora
potuto diffondersi. Rob J. non poté fare altro che cambiare la medicazione e
dargli un po' di laudano per calmare il dolore.
Una triste e infelice mattinata volgeva alla fine. La sua ultima visita fu alla
casa dei Gilbert, dove trovò Fletcher White in cattive condizioni, con gli occhi
torbidi e quasi spenti, il magro corpo squassato dalla tosse, ogni respiro una
penosa fatica. «Stava già meglio» mormorò Suzy Gilbert.
Rob J. sapeva che Suzy aveva un mucchio di bambini e un'enorme quantità
di lavori da sbrigare, e perciò aveva interrotto troppo presto i suffumigi e le
bevande calde; Rob J. aveva voglia di imprecare e rimproverarla, ma, quando
prese nelle sue le mani di Fletcher, capì che il vecchio aveva ancora poco da
vivere e non volle che Suzy si sentisse in colpa per aver affrettato la morte del
padre con la sua negligenza. Le lasciò un po' del forte tonico di Makwa, per
dare un po' di sollievo al morente. E si accorse che ormai gliene restava ben
poco. Aveva visto diverse volte la sciamana preparare l'infuso e pensava di
conoscere i pochi, semplici ingredienti vegetali di cui era composto. Doveva
ormai tentare di prepararselo da solo.
Aveva in programma di passare le ore del pomeriggio nel suo ambulatorio,
ma quando tornò alla fattoria trovò il suo mondo sconvolto dal caos. Sarah era
pallida come la cera, Luna, che aveva assistito senza una lacrima al funerale di
Makwa, ora piangeva amaramente, e i bambini erano terrorizzati. Mort London
e Fritz Graham, il suo assistente ufficiale, e Otto Pfersick, nominato assistente
per l'occasione, erano sopraggiunti durante l'assenza di Rob J. e avevano pun-
tato i fucili contro Vien Cantando. Mort lo aveva dichiarato in arresto. Gli
avevano legato le mani dietro la schiena, gli avevano annodato una fune alla
vita e lo avevano trascinato via dietro i loro cavalli, come un animale catturato.
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29

Gli ultimi indiani dell'Illinois

Lei ha commesso un errore, Mort» affermò Rob J. Mort London era evi-
dentemente a disagio, ma scosse la testa. «No, noi crediamo che quel grosso
bastardo sia con tutta probabilità quello che l'ha uccisa.»
Quando Rob J. era stato nell'ufficio dello sceriffo, solo poche ore prima,
London non gli aveva detto nulla dell'intenzione di andare alla sua fattoria ad
arrestare uno dei suoi braccianti. C'era qualcosa di storto: il guaio che colpiva
Vien Cantando era come un morbo senza apparente eziologia. Rob J. prese
nota del "noi". Sapeva chi erano i "noi", e intuí che Nick Holden sperava di
sfruttare la morte di Makwa per i suoi piani politici. Ma cautamente trattenne la
sua collera.
«Un grosso errore, Mort.»
«C'è un testimone che ha visto il grosso indiano proprio nella radura dov'è
stata trovata la vittima, poco prima che il crimine fosse compiuto.»
Non c'era da sorprendersi, pensò Rob J., dato che Vien Cantando era uno
dei suoi braccianti e i boschi lungo il fiume facevano parte della sua proprietà.
«Voglio pagare la cauzione.»
«Niente cauzione. Dobbiamo aspettare un giudice del tribunale itinerante
che deve venire da Rock Island.»
«Quanto tempo ci vorrà?»
London non rispose e si strinse nelle spalle.
«Una delle buone cose che ci sono venute dagli inglesi è l'habeas corpus.
Dobbiamo applicarlo anche qui.»
«Non si può far venire in tutta fretta un giudice per un solo indiano.
Occorreranno cinque, sei giorni. Forse una settimana.»
«Voglio vedere Vien Cantando.»
London si alzò e lo accompagnò nella prigione con due celle, adiacente
all'ufficio dello sceriffo. I suoi assistenti sedevano nel buio corridoio fra le
celle, con il fucile sulle ginocchia. Fritz Graham aveva l'aria di divertirsi un
mondo. Otto Pfersick aveva la faccia di uno che voleva solo tornare al suo
mulino a macinar farina. Una delle celle era vuota, l'altra era piena del grande
corpo robusto di Vien Cantando.
«Slegatelo» ordinò bruscamente Rob J.
London esitò. Gli uomini avevano paura di avvicinarsi al prigioniero, pensò
Rob J. Vien Cantando aveva un grosso livido sopra l'occhio destro (fatto dalla
177
canna di un fucile?). La sua imponente statura li intimidiva.
«Fatemi entrare. Lo slegherò io stesso.»
London aprì la porta e Rob J. entrò da solo. «Pyawanegawa» chiamò piano,
ponendo la mano sulla spalla di Vien Cantando e pronunciando il suo vero
nome.
Girò alle spalle dell'indiano e cominciò a trafficare con la fune che lo lega-
va, ma il nodo era troppo stretto. «Si deve tagliare,» disse a London «datemi un
coltello.»
«Un corno!»
«Un paio di forbici, nella mia borsa.»
«Anche quelle sono un'arma» brontolò London, ma mandò Graham a
prendere le forbici e Rob J. poté tagliare la fune. Prese i polsi di Vien Cantando
fra le sue mani e gli parlò guardandolo negli occhi, come parlava al figlioletto
sordo. «Cawso wabeskiou aiuterà Pyawanegawa. Noi siamo fratelli della stessa
Metà, i Lunghi Capelli, i Keeso-qui.»
Ignorò la divertita sorpresa e il disprezzo negli occhi dei bianchi che ascol-
tavano dall'altra parte delle sbarre. Non sapeva quanto Vien Cantando avesse
capito di ciò che gli aveva detto. Gli occhi del sauk erano cupi e opachi, ma
fissandoli Rob J. percepì un cambiamento, un lampo che non avrebbe potuto
definire, che sarebbe potuto essere rabbia ma anche un tenue raggio di rinata
speranza.
Quel pomeriggio condusse Luna dal marito. La donna faceva da interprete
mentre London interrogava il prigioniero.
Vien Cantando era sconcertato dall'interrogatorio.
Ammise subito di essere stato nella radura quella mattina. Era tempo di
raccogliere la legna per l'inverno, disse, guardando l'uomo che lo pagava per
farlo. E cercava aceri da zucchero e se li imprimeva nella memoria per cavarne
il succo a primavera.
Viveva nella stessa baracca della donna morta, osservò London.
Sì.
Aveva mai avuto rapporti sessuali con lei?
Luna esitò prima di tradurre. Rob J. guardò duramente lo sceriffo, ma le
toccò il braccio e annuì, e lei ripeté al marito la domanda. Vien Cantando
rispose subito e senza collera apparente.
No, mai.
Quando l'interrogatorio fu terminato, Rob J. seguì Mort London nel suo
ufficio. «Può dirmi perché ha arrestato quest'uomo?»
«L'ho già detto. Un testimone l'ha visto nella radura poco prima che la
178
donna fosse uccisa.»
«Chi è il testimone?»
«... Julian Howard.»
Rob J. si chiese che cosa diavolo ci faceva Julian Howard nella sua terra.
Ricordò il tintinnio dei dollari nella giacca di Howard, quando gli aveva pagato
la visita. «Lei lo ha pagato per la sua testimonianza» dichiarò, come afferman-
do un dato di fatto.
«No, non l'ho fatto» protestò London arrossendo, ma come canaglia era solo
un dilettante, goffo nel simulare un giusto sdegno.
Doveva essere stato Nick a dargli il denaro, insieme con una buona dose di
lusinghe, di «sei un bravo ragazzo, fai solo il tuo dovere».
«Vien Cantando era là dove doveva essere, lavorava nella mia proprietà. Lei
potrebbe allo stesso modo arrestare me per essere il padrone della terra dove
Makwa è stata uccisa, o Jay Geiger per averla trovata.»
«Se l'indiano non l'ha uccisa, risulterà da un equo processo. Viveva insieme
alla donna...»
«Era la sua sciamana. Era come una sacerdotessa. Il fatto che vivessero nel-
lo stesso alloggio vietava il sesso fra loro, come se fossero fratello e sorella.»
«C'è gente che ha ucciso i suoi preti. E fottuto le sorelle, se è per questo.»
Rob J. si allontanò disgustato, ma si voltò prima di uscire.
«Non è troppo tardi per rimediare all'errore, Mort. L'incarico di sceriffo è un
lavoro qualsiasi, se lo perde potrà benissimo sopravvivere. Io credo che lei sia
un uomo onesto. Ma se commette una volta un'azione del genere, sarà facile
che torni a farlo in futuro.»
Fu un errore. Mort poteva sopportare che tutta la città sapesse che lo sce-
riffo era una pedina di Nick Holden, ma non sopportava che qualcuno glielo
gettasse in faccia.
«Io ho letto quella schifezza che lei chiama referto d'autopsia, dottor Cole.
Dovrà sudare un bel po' per far credere a un giudice e a una giuria di sei onesti
uomini bianchi che quella femmina era vergine. Una bella femmina indiana di
quell'età, e tutti nella contea sanno che era la sua ganza, dottore. Lei ha una
bella faccia di bronzo. E ora vada a farsi fottere fuori di qui e non si metta in
mente di tornare se non ha in mano una carta ufficiale.»

Luna disse che Vien Cantando aveva paura.


«Non credo che gli faranno del male» tentò di rincuorarla Rob J.
Ma non aveva paura di essere percosso, obiettò la donna. «Lui sa che
talvolta gli uomini bianchi impiccano la gente. Se un sauk è strangolato a
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morte, non può attraversare il fiume di nebbia, non può arrivare al Paese del-
l'Ovest.»
«Nessuno impiccherà Vien Cantando» replicò Rob J. irritato. «Non hanno
nessuna prova contro di lui. È una questione politica, e fra pochi giorni do-
vranno rilasciarlo.»
Ma le sue paure erano contagiose. L'unico avvocato a Holden's Crossing era
Nick Holden. A Rock Island c'erano diversi avvocati, ma Rob J. non li cono-
sceva. La mattina dopo passò dai pazienti che avevano bisogno di cure imme-
diate e poi si recò al capoluogo della contea. Nell'anticamera del deputato
Stephen Hume c'erano più persone di quante in genere affollassero il suo
ambulatorio, e dovette aspettare un'ora e mezza prima che venisse il suo turno.
Hume lo ascoltò con molta attenzione. «Perché è venuto da me?» chiese
infine.
«Perché lei si presenta candidato per essere rieletto e Nick Holden è il suo
avversario. Per qualche ragione che non conosco Nick sta cercando di cacciare
in tutti i guai possibili i Sauk in generale, e Vien Cantando in particolare.»
Hume sospirò. «Nick si è messo in una brutta banda, e non posso prendere
alla leggera la sua candidatura. Il partito americano sta inculcando nei lavorato-
ri nativi d'America odio e paura per gli immigrati e i cattolici. Hanno una
loggia segreta in ogni città, con uno spioncino nella porta, per tener fuori quelli
che non sono membri. Li chiamano il partito dei Know-Nothing, i Non-So-
Niente, perché ogni membro, se qualcuno lo interroga sulle sue attività, ha
istruzioni di rispondere che non ne sa niente. Promuovono e usano violenza
contro i coloni nati all'estero e mi vergogno di dire che stanno aumentando
nella nostra regione. Gli emigranti continuano ad arrivare, ma in questo mo-
mento il settanta per cento della popolazione dell'Illinois è formata da uomini
nativi d'America e dell'altro trenta per cento la maggior parte non ha la
cittadinanza e non vota. L'anno scorso ì Know-Nothing sono quasi riusciti a
eleggere un governatore nello Stato di New York e hanno effettivamente eletto
quarantanove deputati alla Camera. Un'alleanza fra i Know-Nothing e i conser-
vatori ha riportato facilmente la maggioranza in Pennsylvania e nel Delaware, e
Cincinnati ha un governo di Know-Nothing, dopo una dura battaglia.»
«Ma perché Nick se la prende con i Sauk? Non sono mica nati all'estero!»
Hume fece una smorfia. «Nick è dotato di un'istintiva astuzia politica. Solo
diciannove anni fa i bianchi venivano massacrati dagli indiani in tutta la
regione, e a loro volta facevano un'infinità di massacri. Molti bianchi morirono
durante la guerra di Falco Nero. E diciannove anni sono un periodo male-
dettamente breve. I ragazzi che sopravvissero alle incursioni e alle devastazioni
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degli indiani sono ora uomini ed elettori, e continuano a odiare e a temere gli
indiani. Così il mio degno avversario sventola la bandiera dell'odio. L'altra not-
te a Rock Island ha fatto scorrere whisky a fiumi e poi ha tenuto una confe-
renza sulle guerre indiane, senza tralasciare un solo scalpo, un solo episodio di
presunta crudeltà. Infine ha citato gli ultimi indiani assetati di sangue del-
l'Illinois che si sono rifugiati qui nella vostra città e ha giurato che quando sarà
eletto rappresentante al Congresso provvederà a che siano riportati nella loro
riserva del Kansas a cui appartengono.»
«Lei potrà fare qualche passo per aiutare i Sauk?»
«Qualche passo?» Hume sospirò. «Dottor Cole, io sono un uomo politico.
Gli indiani non votano, quindi io non intendo prendere posizione in pubblico a
loro favore, né come individui né come comunità. Ma dal punto di vista
politico mi gioverà se riusciremo a disinnescare questa mina, perché il mio
avversario cerca di usarla per vincere il mio seggio.
«I due giudici del tribunale itinerante in questo distretto sono l'onorevole
Daniel P. Allan e l'onorevole Edwin Jordan. Il giudice Jordan è un uomo gretto,
ed è un conservatore. Dan Allan è un buon giudice e un ancor migliore demo-
cratico. Lo conosco e lavoro con lui da molto tempo; se gli sarà affidato il caso,
non permetterà che gli uomini di Nick lo trasformino in una farsa per con-
dannare il suo amico sauk su indizi inconsistenti e aiutare Nick a vincere le
elezioni. Non c'è modo di sapere a chi sarà affidato il caso. Se sarà Allan, si
limiterà a essere onesto, ma certo sarà onesto.
«Nessuno degli avvocati di questa città accetterà di difendere un indiano,
questa è la situazione. Il migliore qui attorno è un giovane, tale John Kurland.
Gli parlerò e vedrò se possiamo tirarlo dalla nostra parte.»
«Le sono grato, onorevole.»
«Bene, potrà dimostrarmelo con il suo voto.»
«Io sono uno di quel trenta per cento. Ho fatto richiesta per ottenere la citta-
dinanza, ma c'è un periodo di attesa di tre anni...»
«Questo le consentirà di votare la prossima volta che mi presento per la
rielezione» fece Hume con molto senso pratico. Sorrise e gli strinse la mano.
«Nel frattempo parli con i suoi amici.»

In città non doveva far molto scalpore la morte di una donna indiana. Più
entusiasmo destava l'imminente apertura dell'Accademia di Holden's Crossing.
Ogni cittadino sarebbe stato ben lieto di cedere un lotto della sua terra per la
costruzione della scuola, assicurandosi così facile accesso per i propri figli, ma
si decise che l'istituto dovesse sorgere in un punto centrale e infine il Consiglio
181
comunale accettò più di un ettaro di terreno da Nick Holden. Nick ne fu
oltremodo soddisfatto, perché il lotto figurava precisamente come sede della
scuola sulla vecchia "Mappa del Sogno" che aveva tracciato per Holden's Cros-
sing.
Si costruì in cooperativa un edificio scolastico di tronchi d'albero, che com-
prendeva una sola aula. Una volta iniziati i lavori, il progetto andò facendosi
sempre più ricco. Invece di un pavimento di sciaveri, gli uomini andarono a
prendere dei grossi tronchi e li trascinarono per dieci chilometri fino in città e li
segarono espressamente per un pavimento di robusto tavolato. Su una parete fu
costruito un lungo ripiano che doveva servire da scrivania collettiva, e di fronte
fu sistemata una panca della stessa lunghezza, in modo che gli scolari potes-
sero sedere di fronte alla parete per scrivere, e poi girarsi a guardare il mae-
stro quando erano interrogati. Al centro della stanza fu posta una robusta
stufa a legna, in ferro. Si decise che la scuola aprisse ogni autunno dopo il
raccolto e avesse la durata di tre trimestri, di dodici settimane ciascuno; il
maestro doveva essere pagato diciannove dollari ogni trimestre, più allog-
gio e pensione. La legge dello Stato disponeva che un maestro dovesse es-
sere qualificato a insegnare lettura, scrittura e aritmetica e avesse una
buona conoscenza di geografia o grammatica o storia. Non si presenta-
rono molti candidati per quel posto, perché la paga era scarsa e le secca-
ture erano molte, ma infine la città assunse Marshall Byers, primo cugino
di Paul Williams, il maniscalco.
Mr. Byers era un magro giovanotto di ventun anni che aveva insegnato
nell'Indiana prima di arrivare nell'Illinois, perciò sapeva che cosa doveva
aspettarsi per "alloggio e pensione a turno", il che significava essere ospi-
tato ogni settimana presso la famiglia di un alunno diverso. Disse a Sarah
che era ben lieto di vivere in una fattoria con un allevamento di pecore,
perché gli piaceva l'agnello con carote più che il maiale con patate. «Nel-
le altre fattorie, quando servono la carne, è sempre maiale con patate, ma-
iale con patate.» Rob J. gli sorrise. «Le piaceranno i Geiger» commentò.
Rob J. non provava troppa simpatia per il maestro. C'era qualche cosa
di sporco nel modo in cui gettava occhiate di soppiatto a Luna e a Sarah, e
guardava Sciamano come se il ragazzino fosse un brutto scherzo di natura.
«Spero che avrò Alexander nella mia scuola» uscì a dire Mr. Byers.
«Anche Sciamano verrà a scuola» replicò pacatamente Rob J.
«Oh, ma questo certo è impossibile. Il ragazzo non parla normal-
mente. E come potrebbe un ragazzo che non sente una parola imparare
qualcosa a scuola?»
182
«Legge le parole sulle labbra. Impara molto facilmente, Mr. Byers.»
Mr. Byers corrugò le sopracciglia. Parve pronto a protestare, ma guardando
il viso di Rob J. cambiò idea. «Certamente, dottor Cole» disse in tono piut-
tosto sostenuto. «Certamente.»

La mattina seguente, prima di colazione, Alden Kimball bussò alla


porta sul retro. Era andato all'emporio alimentari e scoppiava dalla voglia
di portare la grande notizia.
«Dannati indiani! Che cos'hanno fatto!» sbottò. «Si sono ubriacati
ieri notte e hanno incendiato il fienile delle monache papiste!»
Luna negò subito, quando Rob J. andò a parlare con lei. «Io ero al
campo dei Sauk l'altra notte, con i miei amici, a parlare di Vien Cantando.
È una menzogna quello che Alden riferisce.»
«Forse hanno cominciato a bere dopo che tu te ne sei andata.»
«No. È una menzogna.» La donna pareva calma, ma le sue dita tremavano
mentre si slacciava il grembiule. «Andrò a trovare il Popolo.»
Rob J. sospirò. Decise che era meglio andare a far visita al convento
cattolico.

Le aveva sentite descrivere come "quei dannati scarafaggi neri". Capí il


perché quando le vide: portavano abiti scuri di lana che parevano troppo
caldi per l'autunno e dovevano essere stati una tortura durante l'estate.
Quattro di loro stavano lavorando fra le rovine del grazioso fienile svedese
che August Lund e la sua giovane sposa avevano costruito con tanta speran-
za. Pareva che frugassero fra i resti carbonizzati, che ancora fumavano in
un angolo, per vedere se si poteva salvare qualcosa.
«Buongiorno» salutò Rob J.
Le monache non si erano accorte del suo arrivo. Avevano rimboccato i
lembi delle gonne nelle cinture per essere più libere durante il lavoro e ora
si tirarono giù in fretta le vesti per nascondere quattro paia di gambe
ossute in calze fuligginose che dovevano essere state bianche.
«Sono il dottor Cole» si presentò Rob J. scendendo da cavallo. «Un
vostro vicino di queste parti.» Lo fissarono senza parlare e gli venne in
mente che forse non conoscevano la sua lingua. «Posso parlare con il
vostro capo?»
«Sarebbe la Madre Superiora» rispose una di esse, con una voce timida
che era quasi un bisbiglio.
Gli fece un piccolo cenno e si avviò verso la casa, seguita da Rob J.
183
Davanti a un capannone addossato a un lato della casa un vecchio
vestito di nero vangava un orto devastato dal gelo, e non gli prestò alcuna
attenzione. La monaca bussò due volte, piccoli colpi sommessi come la sua
voce.
«Può entrare.»
La veste nera lo precedette e fece un piccolo inchino. «Questo signore
desidera vederla, reverenda Madre. È un medico, nostro vicino» fece con il
suo sommesso bisbiglio, e si inchinò ancora prima di scivolar via.
La Madre Superiora sedeva a un piccolo tavolo, su una sedia di legno.
Una faccia seria incorniciata dal velo, naso largo e generoso, uno sguardo
penetrante negli occhi di un blu vivo, più chiaro di quelli di Sarah:
un'espressione cauta più che benevola.
Rob J. si presentò ed espresse il suo rammarico per l'incendio. «C'è
qualcosa che possiamo fare per aiutarvi?»
«Confido che il Signore ci aiuterà.» Parlava un inglese corretto, con un
leggero accento che gli parve tedesco, anche se era diverso da quello degli
Schroeder. Probabilmente provenivano da regioni diverse della Germania.
«Prego, sieda.» Gli indicò l'unica poltrona comoda della stanza, ampia
come un trono, rivestita di cuoio.
«Ve la siete portata per tutto il viaggio sul carro?»
«Sì. Quando il vescovo verrà a visitarci, avrà un posto decente in cui
sedere» rispose tutta seria. Gli uomini erano arrivati all'ora del vespro, gli
disse. La comunità era impegnata nella preghiera e nessuna di loro aveva
udito i primi rumori e crepitii, ma ben presto avevano sentito l'odore del
fumo.
«Mi hanno detto che erano indiani.»
«Quel tipo di indiani che hanno partecipato al Boston Tea Party*»
rispose amaramente.
«È sicura?»
Lei sorrise senza allegria. «Erano uomini bianchi ubriachi e vomitavano
sudiciume di uomini bianchi ubriachi.»
«C'è una sezione del partito americano qui.»
Lei annuì. «I Know-Nothing. Dieci anni fa io ero presso la comunità

* L'episodio noto con questo nome rientra fra le cause della guerra di Indipendenza
americana e avvenne il 16 dicembre 1773: in segno di protesta per le tasse decretate
dalla Gran Bretagna nei confronti delle colonie americane, un gruppo di coloni, tra-
vestiti da indiani, assalirono tre navi della Compagnia delle Indie ancorate nel porto
di Boston e gettarono in mare il carico di tè. [N.d.T.]

184
francescana di Philadelphia, appena arrivata dal mio nativo Württemberg. I
Know-Nothing mi accolsero con una settimana di tumulti in cui attac-
carono due chiese, percossero a morte dodici cattolici e diedero alle fiamme
dozzine di case di famiglie cattoliche.
Mi ci è voluto un bel po' di tempo per convincermi che ,quelli non sono
tutta l'America.»
Rob J. scosse la testa. Osservò che uno dei due locali della casa di
August Lund era stato adattato a dormitorio, di una semplicità spartana.
Prima era stato il granaio dei Lund: ora c'era una pila di pagliericci
accatastati in un angolo. Oltre il tavolino-scrivania e la sedia della reve-
renda Madre e la poltrona del vescovo, l'unico mobilio era costituito da
una grande e bella tavola da refettorio con panche di legno nuovo, e Rob
J. fece i suoi complimenti per l'accurato lavoro di falegnameria. «Li ha fatti il
vostro prete?»
La monaca sorrise e si alzò. «Padre Russell è il nostro cappellano. Suor
Mary Peter Celestine è la nostra carpentiere. Le piacerebbe vedere la nostra
cappella?»
La seguì nella stanza dove i Lund avevano mangiato e dormito e fatto
l'amore e dove Greta Lund era morta. Era stata intonacata di bianco.
Contro una parete vi era un altare di legno e di fronte un inginocchiatoio.
Davanti al crocefisso sull'altare ardeva una grande candela in un vaso ros-
so, fiancheggiata da candele più piccole. C'erano quattro statuette di gesso,
che parevano divise secondo il sesso. Rob J. riconobbe a destra la Madon-
na. La Madre Superiora gli disse che accanto alla Madonna c'era santa
Chiara, che aveva fondato l'ordine monastico delle clarisse, e dall'altra
parte san Francesco e san Giuseppe.
«Ho sentito che avete in progetto di aprire una scuola.»
«L'hanno informata male.»
Rob J. sorrise. «E che avete intenzione di plagiare i bambini per attirarli
al papismo.»
«Be', questo è in parte vero» rispose la monaca con grande serietà.
«Noi speriamo sempre di salvare un'anima per Cristo, uomo o donna o
bambino che sia. Cerchiamo sempre di conquistarci degli amici, di fare dei
cattolici intorno a noi. Ma il nostro è un ordine infermieristico.»
«Ordine infermieristico! E dove pensate di lavorare? Costruirete qui un
ospedale?»
«Ahimè,» sospirò la monaca «non abbiamo denaro. La Santa Madre
Chiesa ha comprato questa terra e ci ha mandate qui. E ora dobbiamo
185
arrangiarci da sole. Siamo sicure che il Signore provvederà.»
Rob J. era meno sicuro. «Posso chiamare qualcuna delle vostre infermiere,
se occorre assistere un malato?»
«Andare nelle loro case? No, non è possibile» rispose lei seccamente.
Rob J. si sentiva a disagio nella cappella e si accinse a uscire. «Penso che
lei non sia cattolico, dottor Cole.»
Rob J. scosse la testa. Gli venne improvvisamente un'idea. «Se fosse
necessario aiutare i Sauk, voi sareste disposte a testimoniare che gli uomini
che bruciarono il vostro granaio erano bianchi?»
«Naturalmente» fu la decisa risposta. «Poiché è la semplice verità.»
Rob J. si rese conto che le novizie dovevano vivere in costante terrore
della logo superiora. «Grazie.» Esitò, incapace di inchinarsi a questa donna
altera e chiamarla Reverenda Madre. «Qual è il suo nome, Madre?»
«Io sono Madre Miriam Ferocia.»
Rob J. era stato un buon latinista a scuola e aveva sgobbato a tradurre
Cicerone e ad accompagnare Cesare nelle sue guerre galliche e ne ricorda-
va abbastanza per sapere che il nome significava Mary la Fiera. Ma in
seguito, quando pensava a questa donna, la chiamava fra sé - e fra sé sol-
tanto - la Feroce Miriam.

Si fece la lunga cavalcata fino a Rock Island per vedere Stephen Hume
e ne fu ricompensato, perché il deputato aveva buone notizie. Daniel P.
Allan avrebbe presieduto il processo. Data la mancanza di prove, il giu-
dice Allan non aveva difficoltà a rilasciare Vien Cantando su cauzione.
«Si tratta tuttavia di delitto capitale, non può fissare la cauzione a meno
di duecento dollari. Per trovare un garante, lei deve recarsi a Rockford o a
Springfield.»
«Sborserò io la somma. Vien Cantando non tenterà di fuggire a mio
danno.»
«Bene. Il giovane Kurland acconsente ad assumere la difesa. Meglio
per lei non avvicinarsi alla prigione, date le circostanze. L'avvocato Kur-
land si incontrerà con lei fra due ore alla sua banca. È la banca di Holden's
Crossing?»
«Sì.»
«Bene. Si faccia rilasciare un assegno circolare intestato alla contea di
Rock Island, lo firmi e lo consegni a Kurland. Lui si occuperà di tutto il
resto.» Hume sorrise. «La causa sarà discussa fra qualche settimana. Fra
Dan Allan e John Kurland faranno in modo che, se Nick tenterà di strumen-
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talizzare il caso, finirà per farci la figura dello sciocco.» Gli diede una buona
stretta di mano, quasi con l'aria di congratularsi.
Rob J. tornò a casa e attaccò il carro, perché sentiva che Luna doveva
avere il suo posto nel comitato di ricevimento. L'indiana sedeva eretta nel
carro, vestita con i suoi soliti abiti da casa e un berretto che era stato di
Makwa. Era insolitamente silenziosa. Rob J. intuí che doveva essere mol-
to nervosa. Attaccò il cavallo di fronte alla banca e Luna aspettò nel carro
mentre lui si faceva rilasciare l'assegno e lo consegnava a John Kurland.
L'avvocato era un giovane serio che, quando fu presentato a Luna, la
salutò educatamente, benché senza calore.
Quando l'avvocato si avviò verso l'ufficio dello sceriffo, Rob J. risalì
sul carro e sedette accanto a Luna, lasciando il cavallo attaccato. Rima-
sero seduti sbirciando lungo la via verso la porta dell'ufficio di Mort Lon-
don. Il sole era piuttosto caldo per il mese di settembre.
Restarono in attesa per quello che gli sembrò un tempo infinito. Poi
Luna gli toccò il braccio, perché la porta si era aperta e ne era emerso
Vien Cantando, piegando la testa per poter passare. Kurland veniva subito
dietro di lui.
I due videro Luna e Rob J. e si avviarono verso di loro. O perché nella
gioia di sentirsi libero non resisteva alla voglia di correre, o perché qualche
istinto ancestrale lo spingeva ad allontanarsi in fretta di lì, Vien Cantan-
do spiccò la corsa ma aveva appena mosso due passi che uno sparo risuo-
nò in alto a destra e altri due da un altro tetto, al di là della strada.
Pyawanegawa il cacciatore, il capo, l'eroe del gioco a mazza-e-palla
sarebbe dovuto cadere con dignitosa maestà, come un gigantesco albero, e
invece si afflosciò goffamente come un qualsiasi altro uomo, e il suo viso
affondò nella polvere della strada.
Rob J. saltò giù dal carro e fu subito accanto a lui, ma Luna era inca-
pace di muoversi. Quando raggiunse il corpo e lo voltò, vide ciò che Luna
aveva già capito. Uno dei proiettili aveva colpito esattamente la nuca, gli
altri due il petto, a una distanza di non più di due centimetri l'uno dall'altro,
ed entrambi probabilmente avevano causato la morte arrivando al cuore.
Kurland lo raggiunse e rimase lì in piedi, inorridito e impotente. Un mi-
nuto dopo anche London e Holden uscivano dall'ufficio dello sceriffo.
Mort ascoltò Kurland che gli spiegava ciò che era avvenuto e cominciò a
gridare ordini per far ispezionare i tetti su un lato della strada e poi sull'altro.
Nessuno parve molto stupito di trovare che i tetti erano deserti.
Rob J. era rimasto in ginocchio accanto a Vien Cantando, ma ora si
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alzò e affrontò Nick. Holden era pallido ma rilassato, come se fosse pron-
to a tutto. Incongruamente, Rob J. fu di nuovo colpito dalla sua maschia
bellezza. Vide che portava un revolver nella fondina, e capì che le sue pa-
role potevano metterlo in pericolo e dovevano essere scelte con la maggior
cura possibile, ma andavano dette.
«Non voglio mai più avere a che fare con te. Mai più finché vivrò.»

Vien Cantando fu portato nel capannone alla fattoria e Rob J. lo lasciò


con la sua famiglia. Al tramonto andò a prendere Luna e i bambini per
portarli in casa sua e fargli mangiare qualcosa, ma trovò che se ne erano
andati. Anche il corpo di Vien Cantando era sparito. Più tardi, sul far della
notte, Jay Geiger scoprì il carro e il cavallo dei Cole legati a un palo
davanti al suo fienile e li riportò alla fattoria dell'amico. Riferì che Pic-
colo Corno e Cane di Pietra avevano anch'essi lasciato la sua fattoria.
Luna e i suoi figli non tornarono più. Rob J. passò la notte insonne,
pensando a Vien Cantando che giaceva per l'eternità probabilmente in una
tomba senza lapide, in qualche bosco lungo il fiume. Nella terra di un
altro, quella terra che una volta era appartenuta ai Sauk.
Non seppe la notizia se non a metà mattina del giorno dopo, quando
Jay venne a dirgli che l'enorme deposito di granaglie di Nick Holden era
stato incendiato e ridotto in cenere durante la notte. «Non v'è dubbio,
questa volta sono stati i Sauk. Sono tutti scomparsi. Nick ha passato la
maggior parte della notte cercando di tener lontano le fiamme dalla sua
casa e minacciando di chiamare la milizia cittadina e l'esercito degli Stati
Uniti. È già partito all'inseguimento dei Sauk con quasi quaranta uomini, i
più accaniti cacciatori di indiani che si possano trovare: Mort London, il
dottor Beckermann, Julian Howard, Fritz Graham, la maggior parte dei
clienti abituali del saloon di Nelson - metà degli shickers di questa parte
della contea, e tutti pensano di andare in guerra contro Falco Nero. È una
fortuna se non si sparano tra di loro nei piedi.»
Quel pomeriggio Rob J. si recò a cavallo al campo dei Sauk. L'aspetto
del campo gli disse che se n'erano andati per sempre. Le mantelle di bisonte
erano state tolte dalle entrate degli hedonoso-te, che erano aperte come
denti mancanti. I rifiuti della vita da campo erano sparsi sul terreno.
Raccolse un barattolo di latta con l'orlo tutto sbrecciato, evidentemente
aperto con un coltello o una baionetta. L'etichetta diceva che aveva conte-
nuto pesche sciroppate dello Stato della Georgia. Non era mai riuscito a far
capire ai Sauk l'utilità di scavare latrine e ora i suoi sentimentali rimpianti per
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la loro partenza erano grandemente attenuati dal debole odore di escre-
menti umani che gli veniva incontro quando il vento soffiava dai margini
del campo: ultimo sintomo graveolente che qualcosa di valore era scom-
parso da quella terra e non sarebbe stato riportato né da incantesimi né da
manovre politiche.

Nick Holden e il suo gruppo diedero la caccia ai Sauk per quattro


giorni. Gli indiani si tenevano nei boschi lungo il Mississippi, sempre
puntando a nord. Non erano più così abili a muoversi nella natura selvag-
gia come lo erano stati molti del loro popolo che ora erano morti; ma an-
che i più inetti erano migliori dei bianchi nel bosco e cambiavano dire-
zione e tornavano indietro e compivano giri viziosi lasciando false tracce
che i bianchi ottusamente seguivano.
Gli uomini bianchi proseguirono l'inseguimento finché vennero a tro-
varsi nel cuore del Wisconsin. Sarebbe stato meglio per loro tornare
sbandierando trofei, qualche scalpo, qualche paio di orecchi, ma si con-
vinsero tra di loro che avevano riportato una grande vittoria. Si fermarono
a Prairie du Chien e comprarono una quantità di whisky e Fritz Graham si
ubriacò e attaccò lite con un poliziotto e finì in prigione, ma Nick lo tirò
fuori convincendo lo sceriffo che ci voleva pur una piccola cortesia pro-
fessionale verso un deputato in visita. Al loro ritorno 38 discepoli si spar-
sero per le terre e diffusero la nuova novella che Nick Holden aveva sal-
vato lo Stato dalla minaccia dei pellirosse ed era l'uomo da votare.
Fu un bell'autunno quell'anno, migliore dell'estate, perché tutti gli in-
setti furono uccisi dal freddo precoce. Nei boschi dorati le foglie si tin-
gevano di giallo al gelo della notte, ma le giornate erano miti e gradevoli.
In ottobre la chiesa chiamò al pulpito il reverendo Joseph Hills Perkins. Il
pastore aveva chiesto che, oltre allo stipendio, gli fosse fornita una sede
canonica, e così dopo il raccolto fu costruita una piccola casa di tronchi e il
ministro vi si installò con la moglie Elizabeth. Non avevano figli. Sarah si diede
molto da fare come membro del comitato di ricevimento.
Rob J. trovò bulbi di gigli lungo il fiume e li piantò ai piedi della tomba di
Makwa. Non era costume dei Sauk segnare le tombe con lapidi, ma Rob J.
chiese ad Alden di piallare una tavola di nero legno courbaril, che non impu-
tridiva. Non gli parve adeguato iscrivervi parole inglesi, ma fece intagliare da
Alden nel legno i simboli simili a rune che Makwa portava sul petto, per se-
gnare il luogo dove giaceva. Ebbe un unico insoddisfacente colloquio con Mort
London per indurlo ad aprire un'inchiesta sulla morte di Makwa e su quella di
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Vien Cantando; ma lo sceriffo rispose che il caso era chiuso poiché il suo as-
sassino era stato a sua volta ucciso, probabilmente da qualche altro indiano.
In novembre in tutti gli Stati Uniti i cittadini maschi maggiori di ventun an-
ni furono chiamati alle urne. In tutto il Paese ci fu una decisa reazione dei lavo-
ratori contro gli immigranti, che minacciavano il loro posto di lavoro. In molti
Stati, Rhode Island, Connecticut, New Hampshire, Massachusetts e Kentucky,
furono eletti governatori del partito Know-Nothing, che ebbe la maggioranza in
otto Stati. Nel Wisconsin i Know-Nothing contribuirono a far eleggere avvocati
repubblicani che abolirono gli uffici di immigrazione dello Stato. I Know-
Nothing vinsero nel Texas, Tennessee, California e Maryland e acquistarono
forti posizioni nella maggior parte degli Stati del Sud.
Nell'Illinois ebbero la maggioranza a Chicago e nella parte meridionale
dello Stato. Nella contea di Rock Island, il deputato degli Stati Uniti in carica,
Stephen Hume, perdette per 183 voti il suo seggio, che andò al valoroso
cacciatore di indiani Nicholas Holden. Nick partì quasi immediatamente dopo
le elezioni per andare a rappresentare il suo distretto a Washington, D.C.

PARTE QUARTA
Il ragazzo sordo
(12 ottobre 1851)

30

Lezioni

La costruzione della ferrovia ebbe inizio a Chicago. I nuovi arrivati dal-


la Germania, dall'Irlanda e dalla Scandinavia trovarono lavoro e spinse-
ro i lucenti binari attraverso le praterie pianeggianti fino alla riva orien-
tale del Mississippi, a Rock Island. Nello stesso tempo, dall'altra parte del
fiume, la Railroad Company Mississippi-Missouri costruiva la ferrovia at-
traverso lo Iowa, da Davenport a Council Bluffs. Intanto era stata fondata
la Mississippi River Bridge Company per collegare le due ferrovie con un
ponte sul grande fiume.
Nei profondi misteri delle acque fluviali, in una mite serata subito dopo il
tramonto, milioni di larve acquatiche che si contorcevano nelle onde scure si
trasformarono in tricotteri. Uscirono fluttuando dal fiume simili a libellule

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dalle ali d'argento, in una massa vorticosa che si abbatté su Davenport in una
tempesta di fiocchi lucenti, rivestendo le porte e le finestre, entrando negli
occhi e nelle bocche e negli orecchi di uomini e animali, un terribile fastidio
per chiunque si avventurasse in strada. I tricotteri vivono solo una notte. Il
loro breve assalto era un fenomeno che si ripeteva un paio di volte l'anno e
le popolazioni lungo il Mississippi non si lasciavano sgomentare. All'alba
l'invasione era finita, le farfalle erano morte. Alle otto del mattino quattro
uomini sedevano sulle panche del lungofiume nel debole sole autunnale,
fumando e osservando i manovali che scopavano gli insetti morti, accumulan-
doli in grandi mucchi su carri, e poi andavano a rovesciarli nel fiume. Poco
dopo arrivò un cavaliere che conduceva altri quattro cavalli, e gli uomini si
alzarono dalle panche e montarono in sella.
Era una mattina di giovedì. Giorno di paga. Nella Second Street, negli uffici
della Ferrovia Chicago-Rock Island, il contabile e i due impiegati stavano pre-
parando il denaro per il salario delle maestranze che costruivano il ponte.
Alle 8.19 i cinque uomini giunsero davanti all'ufficio. Quattro smontarono
ed entrarono, lasciando il quinto con i cavalli. Non erano mascherati e avevano
l'aspetto di semplici coloni, tranne che erano armati. Quando con voce calma e
molto educata annunciarono la loro intenzione, uno degli impiegati fu abba-
stanza stolto da cercare di afferrare una pistola da uno scaffale vicino, e uno
degli uomini fece fuoco e l'incauto cadde morto come i tricotteri, con un solo
proiettile nella testa. Non ci fu altra resistenza e i quattro rapinatori raccolsero
tutto il denaro delle paghe, per un ammontare di 1.106 dollari e 37 cent, in un
sudicio sacco di tela prima di andarsene. Il contabile riferì in seguito alle
autorità di essere certo che il capobanda era un tal Frank Mosby, il quale per
molti anni aveva coltivato la terra dall'altra parte del fiume, verso sud, al di là
di Holden's Crossing.

Il momento deciso da Sarah fu una scelta infelice. Quella mattina aspettò in


chiesa fino a quando il reverendo Perkins invitò i fedeli alla pubblica confes-
sione. Allora, raccogliendo tutto il suo coraggio, si alzò e avanzò. A voce bassa
confessò al suo pastore e alla congregazione che, dopo essere rimasta vedova
ancora giovane, aveva avuto rapporti fuori del matrimonio, in conseguenza dei
quali aveva partorito un figlio. Ora, diceva, voleva con la pubblica confessione
liberarsi della colpa con la grazia purificatrice di Gesù Cristo.
Quando ebbe finito, alzò il viso pallido e fissò lo sguardo negli occhi lucidi
di commozione del reverendo Perkins. «Sia lodato il Signore» mormorò il sa-
cerdote. Le prese la testa fra le lunghe mani magre e la costrinse a inginoc-
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chiarsi. «Signore!» invocò con voce decisa. «Assolvi questa buona donna dai
suoi peccati, perché oggi ha liberato la sua coscienza nella Tua casa, ha lavato
le macchie della sua anima e l'ha resa bianca come una rosa, pura come la
prima neve.»
I mormorii dei fedeli si alzarono in un crescendo di esclamazioni e di
osanna.
«Sia lode al Signore!»
«Amen!»
«Alleluia!»
«Amen, amen.»
Sarah si sentiva veramente l'anima leggera. Le sembrava di potersi librare
fino al paradiso con la forza del Signore che le scorreva nel corpo attraverso le
mani del reverendo Perkins.
La congregazione dei fedeli era in piena eccitazione. Ognuno sapeva della
rapina all'ufficio paga della ferrovia, e sapeva che il fuorilegge capobanda era
stato identificato come Frank Mosby, il cui defunto fratello Will, si mormorava
all'intorno, aveva generato il primo figlio di Sarah. Così i presenti in chiesa,
tutti presi dal dramma della confessione, studiavano il viso e il corpo di Sarah
Cole, immaginando tutta una varietà di scene lascive che poi avrebbero sussur-
rato all'orecchio di amici e vicini.
Quando finalmente il reverendo Perkins permise a Sarah di tornare al suo
banco, molte mani si tesero verso di lei e molte voci le mormorarono parole di
gioia e congratulazioni. Era la splendida realizzazione di un sogno che l'aveva
tormentata per anni. Era la prova che Dio era buono, che il perdono cristiano
rendeva possibile la speranza, e che lei veniva ora accolta in un mondo gover-
nato dall'amore e dalla carità. Fu quello il momento più felice della sua vita.

La mattina dopo si inaugurava l'Accademia. Era il primo giorno di scuola.


Sciamano si godeva la compagnia di diciotto ragazzi di diverse età, l'odore
asprigno di legno nuovo che emanava dalle pareti e dai mobili, la sua lava-
gnetta e i suoi gessi, e la sua copia del McGuffey's Fourth Eclectic Reader, il
libro di lettura, logoro e maltrattato perché la scuola di Rock Island aveva
acquistato testi nuovi per i suoi alunni e l'Accademia di Holden's Crossing
aveva comprato i libri usati. Ma quasi immediatamente fu assillato da mille
problemi.
Mr. Byers assegnò i posti agli scolari in ordine alfabetico, dividendoli in
quattro gruppi secondo le età; così Sciamano si trovò seduto a un'estremità del
lungo tavolo comune e Alex era troppo lontano per poterlo aiutare. Il maestro
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parlava troppo rapidamente e nervosamente, e Sciamano faceva fatica a leggere
sulle sue labbra. Gli scolari ebbero l'ordine di tracciare il disegno della loro
casa sulla loro lavagnetta e poi scrivervi il loro nome e la loro età, e il nome e
la professione del padre. Con l'entusiasmo del primo giorno, i ragazzi si gi-
rarono verso il tavolo e si misero diligentemente al lavoro.
Sciamano ebbe la prima impressione di qualcosa che andava storto quando
la bacchetta di legno gli batté sulla spalla.
Mr. Byers aveva ordinato alla classe di cessare il lavoro e voltarsi verso di
lui. Tutti obbedirono, tranne il bambino sordo che non aveva sentito. Quando
Sciamano si girò spaventato, vide che gli altri stavano ridendo di lui.
«Ora ciascuno di voi, quando sarà chiamato, leggerà a voce alta ciò che ha
scritto sulla sua lavagnetta e mostrerà il disegno alla classe. Comincerò con
te!» E la bacchetta lo colpì di nuovo.
Sciamano lesse, inciampando su alcune parole. Quando ebbe mostrato il suo
disegno e l'interrogazione ebbe termine, Mr. Byers chiamò Rachel Geiger,
all'altra estremità della stanza. Sciamano si sporse più che poté dal suo posto,
ma non riusciva a vedere il viso della ragazzina né le sue labbra. Alzò la mano.
«Che c'è?»
«Per favore» disse il bambino, rivolgendosi educatamente al maestro come
sua madre gli aveva severamente raccomandato. «Non posso vedere i volti dei
miei compagni da qui. Potrei sedere di fronte a loro?»
Nell'ultima scuola in cui aveva insegnato, Mr. Byers aveva avuto problemi
di disciplina così gravi che talvolta aveva avuto paura di entrare in classe. Que-
sta nuova scuola gli offriva un'altra possibilità, ed era ben deciso a tenere rigo-
rosamente a freno i piccoli selvaggi. Si era convinto che uno dei mezzi per
farlo era di controllare accuratamente i posti. In ordine alfabetico. In quattro
piccoli gruppi, secondo le età. Ciascuno al posto suo.
Pensò subito che sarebbe stato scomodo avere quel ragazzo seduto di fronte
agli altri mentre recitavano la lezione; seduto lì fissando le loro bocche e maga-
ri facendo smorfie alle sue spalle e spingendo gli altri a ridere o a combinare
brutti scherzi. «No, non puoi.»
Per gran parte della mattina Sciamano rimase seduto senza poter capire
quello che si svolgeva intorno a lui. All'ora della colazione i ragazzi uscirono
per giocare ad acchiapparello, e si divertì finché il ragazzo più grande e grosso
della scuola, Lucas Stebbins, diede uno spintone ad Alex per farlo "star sotto" e
lo mandò per terra a gambe levate. Quando Alex si alzò, con i pugni stretti,
Stebbins gli si fece sotto minaccioso. «Vuoi farla a pugni, stronzo? Noi non
dovremmo lasciarti giocare con noi. Tu sei un bastardo. L'ha detto mio papà.»
193
«Che cos'è un bastardo?» chiese Davey Geiger.
«Non lo sai?» sbraitò Luke Stebbins. «Significa che qualcuno che non era il
marito, uno sporco fuorilegge di nome Will Mosby, ha messo il suo cazzo su
per il buco di Mrs. Cole.»
Quando Alex si gettò contro il ragazzo più grosso di lui, ricevette un vio-
lento colpo sul naso, che gli fece sprizzare il sangue su tutto il viso e lo mandò
a rotolare per terra. Sciamano corse contro l'aguzzino di suo fratello ed ebbe
una tale gragnuola di colpi sugli orecchi che alcuni degli altri bambini, atterriti
davanti a Luke, scapparono via.
«Fermo! Gli fai male!» gridò Rachel Geiger furiosa.
Di solito Luke l'ascoltava, affascinato dal fatto che a dodici anni lei aveva
già piccoli turgidi seni, ma questa volta non fece che sogghignare. «È già
sordo, che altro male posso fargli agli orecchi? Gli stupidi dicono sempre cose
stupide» e diede allegramente un colpo finale a Sciamano prima di allontanarsi
a passi maestosi. Se Sciamano l'avesse permesso, Rachel lo avrebbe abbraccia-
to e confortato. Lui e Alex rimasero seduti a terra a piangere insieme, mentre
gli altri scolari li osservavano.
Dopo l'ora di colazione c'era lezione di musica, che consisteva nell'in-
segnare agli alunni l'aria e le parole degli inni di chiesa: era una lezione gradita
a tutti perché era un riposo, dopo il lavoro sui libri. Durante la lezione di
musica Mr. Byers assegnò al ragazzo sordo il compito di vuotare il secchio
della cenere del giorno prima, che stava accanto alla stufa, e portar dentro
pesanti ceppi per riempire la cassetta della legna. Sciamano decise che odiava
la scuola.

Fu Alma Schroeder che parlò a Rob J., con molta ammirazione, della con-
fessione tenuta da Sarah in chiesa, credendo che lui ne fosse già al corrente.
Quando Rob J. venne a sapere tutti i particolari, lui e Sarah ebbero una lite.
Rob J. aveva capito il suo tormento, e ora la sentiva sollevata, ma era stupito e
disgustato che lei avesse offerto alla curiosità di estranei i particolari intimi
della sua vita, dolorosi o meno.
Non estranei, ribatteva lei. «Fratelli nella grazia del Signore, sorelle in
Cristo, che hanno condiviso la mia confessione.» Il reverendo Perkins, spiegò
al marito, aveva detto che chiunque volesse essere battezzato nella prossima
primavera doveva confessarsi. Ed era stupita che Rob J. non capisse: era una
cosa così chiara per lei.
Quando i ragazzi cominciarono a tornare da scuola con i segni delle zuffe
che avevano sostenuto, Rob J. sospettò che almeno alcuni dei suoi fratelli nella
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grazia e delle sorelle in Cristo non fossero sempre disposti a concedere le
assoluzioni che vedevano impartire in chiesa. I suoi figli tenevano la bocca
chiusa a proposito dei loro lividi. E lui stesso non era in grado di discutere con
loro sulla condotta della loro madre, se non parlandone con ammirazione e
rispetto ogni volta che se ne presentava l'occasione. Ma dovette affrontare
l'argomento delle zuffe. «Insomma è sbagliato picchiare qualcuno quando si è
in collera. Le zuffe possono prendere una brutta piega e persino portare alla
morte. Nulla giustifica il fatto di uccidere.»
I ragazzi erano sconcertati. Stavano parlando di scazzottarsi nel cortile della
scuola, non di uccidere. «Ma come si può fare a meno di picchiare quando un
altro ti picchia per primo, papà?» chiese Sciamano.
Rob J. annuì in segno di comprensione. «So che è un problema. Ma tu devi
usare il cervello invece dei pugni.»
Alden Kimball aveva sentito. Qualche tempo dopo, incontrando i fratellini
malconci, sputò inorridito. «Dannazione! E dannazione! Vostro padre può esse-
re l'uomo migliore della terra, ma credo che possa sbagliare, e vi dico, se qual-
cuno vi picchia, voi dovete inchiodare il figlio di puttana, altrimenti continuerà
a picchiarvi.»
«Luke è spaventosamente grosso» fece Sciamano. Era quello che pensava
anche suo fratello maggiore.
«Luke? È quel grosso bue del figlio di Stebbins? Luke Stebbins?» E Alden
sputò ancora quando i due annuirono con aria infelice.
«Quando io ero giovane, ero un buon pugile. Sapete che cos'è?»
«Un pugile molto bravo?» rispose Alex.
«Bravo? Ero meglio che bravo! Facevo gli incontri di pugilato alle fiere,
alle feste e roba del genere. Lottavo tre minuti con chiunque si presentasse pa-
gando mezzo dollaro. Se riuscivano a mandarmi al tappeto, ricevevano tre dol-
lari. E non pensate che fossero pochi i duri che ci provavano per guadagnare tre
dollari.»
«Allora hai fatto un sacco di soldi, Alden?» chiese Alex.
Il viso di Alden si rabbuiò. «Macché. C'era un manager e lui s'intascava un
sacco di soldi. L'ho fatto per due anni, estate e autunno. Poi uno mi ha battuto.
Il manager ha pagato tre dollari al tipo e lo ha assunto per prendere il mio
posto.» Li fissò negli occhi. «Ecco il punto. Io posso insegnarvi a battervi, se
volete.»
Due giovani visi lo guardarono seri. Le due teste annuirono.
«E che diavolo, dite di sì!» fece Alden irritato. «Sembrate una coppia di
dannate pecore.»
195
«Un po' di paura va bene,» diceva Alden «vi riscalda il sangue. Ma se siete
troppo spaventati, va a finire che perdete. E neanche dovete lasciarvi traspor-
tare dalla furia. Un pugile troppo furioso, che comincia a menar colpi all'im-
pazzata, si lascia scoperto ai colpi dell'altro.»
Sciamano e Alex sorridevano impacciati, ma Alden era molto serio quando
insegnava loro come tenere le mani, la sinistra a livello dell'occhio per
proteggere la testa, la destra più bassa per proteggere il torace. Era molto
meticoloso sul modo di tenere il pugno, insistendo perché piegassero e
stringessero forte le dita indurendo le nocche, perché così era come colpire
l'avversario con un sasso in mano.
«Il pugilato ha giusto quattro colpi» spiegava Alden. «Jab sinistro, gancio
sinistro, cross destro, diretto destro. Il jab morde come un serpente. Fa un po'
male ma non danneggia molto l'avversario, lo fa sbandare un po', lo scopre per
un colpo più serio. Il gancio sinistro non porta molto avanti, ma fa la sua
funzione - voi vi girate a sinistra, con tutto il peso sulla gamba destra, e giù uno
swing alla testa. Ora il cross destro, portate tutto il peso sull'altra gamba e
acquistate forza con una rapida rotazione alla vita, così. Il mio favorito, il diret-
to al corpo, io lo chiamo la Clava. Vi girate bassi a sinistra, con tutto il peso
sulla gamba sinistra, e menate il pugno destro nel suo ventre, dritto come se
tutto il vostro braccio fosse una lancia.»
Li colpiva con pugni volutamente inoffensivi, uno alla volta, per non scon-
certarli. Il primo giorno gli fece menar colpi in aria per due ore, perché supe-
rassero il primo impatto e familiarizzassero con il ritmo muscolare. Il giorno
dopo nel pomeriggio tornarono nella piccola radura dietro la capanna di tronchi
di Alden dove erano sicuri di non essere disturbati, e poi ogni pomeriggio nei
giorni seguenti. Praticarono ogni colpo molte e molte volte, prima che Alden
gli permettesse di boxare insieme. Alex aveva tre anni e mezzo di più, ma
Sciamano era così alto e robusto che in pratica era come se la differenza si
riducesse a un anno. Avevano molto riguardo l'uno per l'altro. Infine Alden
fece un incontro a turno con ciascuno dei due ragazzi, insistendo perché pic-
chiassero forte, come avrebbero fatto in una lotta vera. Con loro grande stu-
pore, il bracciante schivava e scivolava via di lato o bloccava ogni colpo con
l'avambraccio o lo parava con il pugno. «Vedete, quello che vi insegno non è
un gran segreto. Gli altri sanno come sferrare un pugno. Voi dovete imparare a
difendervi.» Insisteva perché ognuno abbassasse il mento fino a puntarlo contro
lo sterno. Mostrò loro come avvinghiare l'avversario in corpo a corpo, ma con-
sigliò ad Alex di evitare a tutti i costi il corpo a corpo con Luke. «Quel tipo è
molto più grosso di te, tieniti lontano e non lasciare che ti sbatta a terra.»
196
Era improbabile che Alex potesse mettere fuori combattimento un avver-
sario così grande e grosso, pensava Alden fra sé, ma forse poteva dargli una
buona scarica di pugni, abbastanza perché li lasciasse in pace. Non aveva
l'intenzione di fare dei due ragazzi Cole dei veri pugili, voleva soltanto che
fossero capaci di difendersi, e insegnò loro solo gli elementi di base, perché lui
stesso ne sapeva appena abbastanza da insegnare a dei ragazzi come cavarsela
in una scazzottata. Non cercò neppure dì insegnargli la tecnica del movimento
dei piedi. Diversi anni dopo disse a Sciamano che, se lui stesso avesse saputo
appena un po' come muovere i piedi, probabilmente non sarebbe stato battuto
da quel tizio dei tre dollari.
Diverse volte Alex pensò di essere pronto ad affrontare Luke, ma Alden
obiettava sempre che glielo avrebbe detto lui quando fosse il momento giusto, e
quel momento non era ancora venuto. Così ogni giorno Sciamano e Alex anda-
vano a scuola e sapevano che, all'ora della ricreazione, avrebbero avuto i soliti
guai. Luke si era abituato a considerare i fratelli Cole un suo spasso personale.
Li prendeva a pugni, li insultava chiamandoli lo Scemo e il Bastardo. Li colpi-
va malignamente quando giocavano a rimpiattino e quando li vedeva a terra gli
premeva la testa nella polvere.
Per Sciamano, Luke non era l'unico problema nella scuola. Poteva vedere
solo una piccola parte di ciò che gli altri dicevano durante le lezioni, e fin dal-
l'inizio si trovò in grave arretrato. Marshall Byers ne era segretamente compia-
ciuto. Aveva pur fatto intendere al padre di Sciamano che una scuola regolare
non era il posto giusto per un bambino sordo. Ma agiva con cautela, sapendo
che, quando si fosse dovuto tornare sull'argomento, sarebbe stato meglio per lui
avere delle prove sicure. Tenne una lista accurata dei cattivi voti di Robert J.
Cole, e dopo la scuola tratteneva regolarmente il bambino per fargli fare com-
piti extra, allo scopo di dimostrare che neppure questo riusciva a migliorarne il
profitto.
Talvolta Mr. Byers tratteneva anche Rachel Geiger, e Sciamano ne era sor-
preso perché Rachel era considerata l'allieva più brava della scuola. Quando
questo avveniva, tornavano poi a casa insieme. In uno di quei pomeriggi, una
giornata grigia in cui cominciava a cadere la prima neve dell'anno, mentre
camminavano il bambino fu spaventato al vederla scoppiare in lacrime.
Non poté far altro che guardarla smarrito.
Rachel si fermò e lo guardò, perché lui potesse vedere le sue labbra. «Quel
Mr. Byers! Ogni volta che può mi viene... troppo vicino. E continua a... toccar-
mi!»
«Toccarti?»
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«Qui» mormorò la fanciulla, ponendosi una mano sul petto. Sciamano non
sapeva come reagire a una tale rivelazione, che era molto al di là della sua
esperienza. «Che possiamo fare?» chiese, più a stesso che a lei.
«Non so, non so!» Con suo grande sgomento, Rachel ricominciò a singhioz-
zare.
«Dovrò ucciderlo» pronunciò Sciamano gravemente.
Quelle parole la colpirono al punto che cessò di piangere. «Ma è una cosa
impossibile.»
«No. Lo farò.»
La neve cominciava a fioccare più fitta. Si fermava sul cappuccio e sui ca-
pelli di Rachel. I suoi occhi nocciola, con le lunghe ciglia nere che battevano
ancora per trattenere le lacrime, erano pieni di stupore. Un largo fiocco bianco
si scioglieva sulla sua guancia liscia, più scura di quella di Sciamano, una via
di mezzo fra il biancore latteo di Sarah e il colorito scuro di Makwa. «Tu
faresti questo per me?»
Sciamano cercò di considerare seriamente la cosa. Sarebbe stato già bello
liberarsi di Mr. Byers per se stesso, ma i problemi di Rachel con il maestro era-
no un peso che faceva traboccare la bilancia. Annuì in piena convinzione. E
scoprì che il sorriso di Rachel lo faceva felice, e in un modo nuovo.
Rachel gli toccò solennemente il petto, proprio nel punto che su di lei era
proibito a Mr. Byers. «Tu sei il mio amico per sempre, e io sono la tua amica»
affermò e Sciamano si rese conto che era così. Quando ripresero il cammino e
la mano guantata della ragazzina strinse la sua, Sciamano provò un senso di
profonda sorpresa. I guantini blu di Rachel, come i suoi rossi, erano stati fatti
da mamma Geiger, che sempre faceva guanti da regalare ai Cole per i loro
compleanni. Attraverso la lana, la mano di Rachel gli mandava uno straordi-
nario senso di calore su per il braccio.
D'improvviso lei si fermò e lo guardò in faccia.
«E in che modo... quello... come lo farai?»
Sciamano aspettò un attimo, mentre gli tornava in mente un'espressione che
aveva sentito dalla bocca del padre in diverse occasioni. «Ci dovrò pensare»
rispose.

31

Giorni di scuola

Rob J. frequentava con molto interesse le riunioni della Società Medica. Gli
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offrivano piacevoli serate in compagnia di altri uomini che avevano tante espe-
rienze simili alle sue e con i quali parlava un linguaggio comune. Alla riunione
di novembre Julius Barton, giovane medico che praticava nel nord della contea,
parlò dei morsi dei serpenti e poi riferì di alcuni bizzarri morsi di animali che
aveva curato, compreso il caso di una donna che era stata morsa sul suo mor-
bido sederino paffuto con tanta forza da far uscire il sangue. «Il marito disse
che era stato il cane, e ne risultava un caso particolarmente raro perché dal
morso era evidente che il loro cane aveva denti da uomo!»
Per non essere da meno, Thomas Beckermann raccontò di un tipo, piuttosto
donnaiolo, con dei graffi nei testicoli che non si sapeva bene se erano o non
erano opera di un gatto. Tobias Barr aggiunse che casi di questo tipo erano
piuttosto comuni. Un paio di mesi prima aveva curato un uomo con il viso tutto
rovinato. «Diceva anche lui che era stato graffiato da un gatto, ma, se era così,
il gatto aveva solo tre unghie, ed erano larghe come quelle umane!» Il fatto
provocò altre risate.
Barr cominciò subito a raccontare un altro aneddoto e fu piuttosto seccato
quando Rob J. Cole lo interruppe per chiedergli se poteva ricordare esattamente
quando aveva trattato il paziente con il viso graffiato.
«No» rispose Barr, e continuò con la sua storiella.
Dopo la riunione Rob J. lo fermò. «Tobias, quel paziente con il viso graf-
fiato. È possibile che tu l'abbia curato una domenica, il 3 settembre?»
«Non ricordo proprio. Io non scrivo mica tutto!» Il dottor Barr cercava di
minimizzare il fatto che non teneva registrazioni regolari, sapendo bene che il
dottor Cole praticava una medicina più scientifica. «Non c'è bisogno di star lì
ad annotare ogni sciocchezza, perdiana! Tanto più con un paziente come quel-
lo, un predicatore itinerante che veniva da fuori contea, uno di passaggio.
Probabilmente non lo vedrò mai più, e tanto meno dovrò curarlo.»
«Predicatore? Ti ricordi il nome?»
Il dottor Barr corrugò la fronte, pensò intensamente, scosse la testa.
«Forse Patterson?» chiese ancora Rob J. «Ellwood R. Patterson?»
Il dottor Barr lo fissò. Il paziente non aveva lasciato un indirizzo preciso, a
quanto ricordava. «Credo che abbia detto che veniva da Springfield.»
«A me aveva detto Chicago.»
«È venuto da te per la sifilide?»
«Al terzo stadio.»
«Sì, sifilide terziaria» soggiunse il dottor Barr. «Mi ha chiesto un consiglio
in proposito, dopo che gli ho medicato il viso. Il tipo d'uomo che vuole ottenere
tutto quello che può per il suo dollaro. Se avesse avuto un callo al piede, mi
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avrebbe chiesto di estirparlo, intanto che si trovava nel mio ambulatorio. Gli ho
venduto un po' di pomata per la sifilide.»
«Gliene ho venduta anch'io» fece Rob J. e risero entrambi.
Il dottor Barr sembrava incuriosito. «Se n'è andato senza pagare, eh? Per
questo lo vai cercando.»
«No. Ho fatto l'autopsia di una donna che è stata assassinata proprio il
giorno in cui tu hai curato quel tipo. Era stata violentata da diversi uomini.
C'era della pelle sotto tre delle sue unghie, probabilmente aveva graffiato uno
di loro.»
Il dottor Barr annuì.
«Ricordo che c'erano due uomini che lo aspettavano fuori del mio ambula-
torio. Erano smontati da cavallo e sedevano sugli scalini di casa mia. Uno era
grande e grosso, come un orso prima del letargo, un buon strato di lardo. L'al-
tro, più giovane, era un tipo macilento, pelle e ossa. Una voglia di vino sulla
guancia, sotto l'occhio. Credo l'occhio destro. Non ho mai sentito i loro nomi, e
non ricordo altro di loro.»
Il presidente della Società Medica era incline alle gelosie professionali e po-
teva a volte essere un po' pomposo, ma Rob J. aveva sempre avuto simpatia per
lui. Ringraziò Tobias Barr e prese commiato.

Mort London si era fatto più calmo dopo il loro ultimo incontro, forse
perché si sentiva insicuro ora che Nick Holden era lontano, a Washington, o
forse perché si era reso conto che non giovava a un funzionario eletto non saper
tenere a freno la lingua. Lo sceriffo ascoltò Rob J., prese nota della descrizione
fisica di Ellwood R. Patterson e degli altri due uomini e promise di investigare.
Rob J. ebbe la netta impressione che gli appunti sarebbero finiti nel cestino
della carta straccia appena lui fosse uscito dall'ufficio di London. Dovendo
scegliere fra un Mort rabbioso o uno untuosamente diplomatico, Rob J. lo
preferiva rabbioso.
Così fece qualche ricerca per conto suo. Carroll Wilkenson, l'agente immo-
biliare assicurativo, era presidente del comitato pastorale della chiesa ed era lui
che aveva preso accordi con i predicatori itineranti prima che la chiesa chia-
masse al pulpito il reverendo Perkins. Wilkenson era un esperto uomo d'affari e
teneva registrazioni di ogni cosa. «Eccolo qui» disse, tirando fuori un volantino
ripiegato. «L'ho preso a una riunione di agenti assicurativi a Galesburg.» Il
volantino offriva alle chiese cristiane la visita di un predicatore che avrebbe
tenuto un sermone sui progetti di Dio per la valle del Mississippi. L'offerta era
gratuita per la chiesa che l'accettava, e tutte le spese del predicatore sarebbero
200
state sostenute dall'Istituto Religioso della Bandiera Stellata, Palmer Avenue
282, Chicago.
«Io ho scritto proponendo tre domeniche a scelta. Mi hanno risposto che
Ellwood Patterson avrebbe predicato il 3 settembre: loro si sarebbero presi cura
di tutto.» Riconobbe che il sermone di Patterson non aveva incontrato molto
favore. «Perlopiù non faceva che aizzarci contro i cattolici.» Sorrise. «Nessuno
ci fece molto caso, a dire il vero. Ma poi cominciò a parlare della gente che
arrivava nella valle del Mississippi da altri Paesi. Diceva che rubavano il lavoro
ai nativi. Gli uomini che non erano nati qui gli davano fastidio come un forun-
colo.» Non aveva l'indirizzo successivo di Patterson. «Nessuno ha pensato di
richiamarlo qui. L'ultima cosa che occorre a una chiesa nuova come la nostra è
un predicatore che tenta di dividere la congregazione, mettendo i fedeli gli uni
contro gli altri.»
Ike Nelson, che gestiva il saloon, si ricordava di Ellwood Patterson. «Sono
rimasti qui fino a tardi la notte di sabato. Era un forte bevitore, quel Patterson,
e così gli altri due che erano con lui. Facili a spendere, ma portavano più guai
di quanto valesse il loro denaro. Quello grosso, Hank, continuava a gridarmi dì
andare a prendergli qualche puttana, ma poi si ubriacò del tutto e si dimenticò
delle donne.»
«Che cognome aveva, questo Hank?»
«Un cognome buffo. Sneeze... No, Cough! Hank Cough. L'altro, quello più
giovane e magro, lo chiamavano Len. O Lenny. Non ho mai sentito il cogno-
me, che mi ricordi. Aveva quella voglia di vino sul viso. Camminava zoppi-
cando, doveva avere una gamba più corta dell'altra.»
Toby Barr non aveva parlato di uno zoppo: forse non lo aveva visto cammi-
nare, pensò Rob J. «Da quale gamba zoppicava?» chiese, ma la domanda otten-
ne solo uno sguardo imbarazzato dal barista.
«Camminava così?» chiese ancora Rob J., zoppicando dalla gamba destra.
«O così?» e fece lo stesso con la sinistra.
«Non era tanto zoppo, si vedeva appena. Non so da quale parte. Quello che
so è che tutti e tre avevano le gambe storte. Patterson tirò fuori un buon rotolo
di soldi e mi disse di continuare a mescere, e servirmi anch'io.
«Alla fine della nottata ho dovuto mandare a chiamare Mort London e Fritz
Graham e dargli qualche dollaro da quel rotolo perché portassero quei tre alla
pensione di Anna Wiley e li sbattessero a letto. Ma mi hanno detto che la mat-
tina dopo Patterson in chiesa era sobrio e pio come un santo.» Sogghignò.
«Quello è il tipo di predicatore che mi piace!»

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Otto giorni prima di Natale Alex Cole andò a scuola dopo aver ricevuto da
Alden il permesso di picchiare.
Alla ricreazione Sciamano osservò il fratello che attraversava il cortile. Con
suo sgomento si avvide che le gambe di Alex tremavano.
Alex si diresse senza esitare verso il punto dove stava Luke Stebbins insie-
me con un gruppo di ragazzi che giocavano a saltare nella neve soffice, nel-
l'angolo del cortile che non era stato spalato. Aveva fortuna perché Luke aveva
già fatto due corse con salto finale e per essere più libero si era tolto il pesante
giubbotto di cuoio. Se lo avesse tenuto addosso, menargli un pugno sarebbe
stato come menarlo contro una tavola di legno.
Luke pensò che Alex volesse unirsi al loro gioco e si preparò a concedersi
un po' di spasso. Ma Alex marciò deciso contro di lui e gli sferrò un diretto al
muso.
Fu un errore e l'inizio di un incontro malcondotto. Alden gli aveva dato
istruzioni ben precise. Il primo colpo a sorpresa doveva essere allo stomaco,
con la speranza di mozzare il fiato all'avversario, ma il terrore toglieva ad Alex
la capacità di ragionare. Il pugno massacrò il labbro inferiore di Luke, che si
gettò furioso su di lui. A quella vista Alex sarebbe rimasto paralizzato dal
terrore due mesi prima, ma ora era abituato agli scontri con Alden: si tirò da
parte e, mentre Luke gli passava accanto, gli sferrò un violento jab sinistro alla
bocca già contusa. Poi, mentre il ragazzo più grosso cercava di riprendersi, gli
piazzò altri due jab nello stesso punto.
Sciamano aveva cominciato fin dal primo colpo a gridare, incitandolo, e gli
alunni accorrevano già da tutti gli angoli del cortile.
Il secondo grosso errore di Alex fu di voltarsi alla voce di Sciamano. Il
grosso pugno di Luke lo colse sotto l'occhio destro e lo mandò a rotolare a
terra. Ma Alden aveva fatto un buon lavoro e, appena toccato il suolo, Alex si
rizzò a fronteggiare Luke che si precipitava a capofitto contro di lui.
Si sentiva il viso intorpidito e il suo occhio destro cominciava a gonfiarsi,
ma sorprendentemente le sue gambe si fecero più ferme. Raccolse le sue forze
e si orientò secondo la routine dell'addestramento quotidiano. Il suo occhio
sinistro era ancora buono e lo tenne fisso al petto di Luke, come Alden gli
aveva insegnato, per vedere subito dove si volgeva il corpo dell'avversario e
con quale mano si preparava a picchiare. Cercò solo di bloccare un pugno a
swing, che gli intorpidì tutto il braccio: Luke era troppo forte. Alex cominciava
a essere stanco, ma continuava a colpire e saltare, ignorando il male che Luke
poteva fargli se un altro dei suoi pesanti pugni fosse andato ancora a segno. Il
suo pugno sinistro scattò in avanti colpendo la dolorante bocca di Luke. Il forte
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pugno iniziale che aveva aperto la zuffa aveva già smosso uno dei denti del
ragazzo, e la gragnola di colpi ora fece il resto. Sciamano vide inorridito che
Luke scuoteva furiosamente la testa e sputava il dente nella neve.
Alex celebrò la vittoria colpendo ancora di sinistro e poi vibrando un pesan-
te cross che arrivò sul naso di Luke e gli inondò di sangue la faccia. Luke si
copri il viso con le mani, smarrito.
«La Clava, Alex!» gridò Sciamano. «La Clava!» Alex ascoltò il fratello e
scagliò il pugno destro con tutta la sua forza nello stomaco di Luke, che si
piegò in due ansimando. Fu la fine dello scontro, perché gli altri ragazzi sta-
vano già disperdendosi davanti alla collera del maestro. Dita d'acciaio si strin-
sero sull'orecchio di Alex contorcendolo e Mr. Byers ritto su di loro, rosso di
collera, dichiarava la fine della ricreazione.
Quando tutti furono tornati nell'aula, Luke e Alex furono entrambi messi in
piedi, in castigo, sotto la grande insegna che diceva "Pace sulla terra" e additati
agli altri alunni come pessimi esempi. «Non voglio risse nella mia scuola» di-
chiarò freddamente Mr. Byers. Prese la bacchetta che usava come indicatore e
punì i due avversari con cinque violenti colpi sulla mano aperta. Luke piagnu-
colava. Il labbro inferiore di Alex tremò quando ricevette il suo castigo. Il suo
occhio gonfio aveva già il colore di una melanzana matura e la mano destra gli
doleva, con le nocche sbucciate nella rissa e la palma rossa e gonfia per le
vergate del maestro. Ma quando guardò Sciamano, i due fratelli sentirono in
cuore un'ondata di segreta soddisfazione.
Quando la scuola finì e i ragazzi sciamarono verso casa, un gruppetto si
riunì intorno ad Alex, ridendo e facendogli domande e guardandolo con ammi-
razione. Luke Stebbins si allontanò da solo, imbronciato e ancora stordito.
Quando Sciamano corse da lui, Luke pensò rabbiosamente che adesso era il
turno del fratello e alzò le mani, una stretta a pugno, l'altra aperta in gesto quasi
di supplica.
Sciamano gli parlò in tono cortese ma fermo. «D'ora in poi tu chiamerai mio
fratello Alexander. E chiamerai me Robert» intimò.

Rob J. scrisse all'Istituto Religioso della Bandiera Stellata dicendo che desi-
derava contattare il reverendo Ellwood Patterson per un problema ecclesiastico,
e chiedendo che gli mandassero anche il suo indirizzo.
Ci sarebbero volute settimane perché arrivasse una risposta, posto che quelli
rispondessero. Nel frattempo non parlò a nessuno dei suoi sospetti, fino a una
sera in cui lui e Geiger avevano finito di suonare Eine Kleine Nachtmusik.
Sarah e Lillian chiacchieravano in cucina, preparando il tè e affettando una
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torta, e Rob J. si confidò con Jay. «Che dovrei fare, se trovassi quel prete con il
viso graffiato? So bene che Mort London non sarebbe certo disposto a trasci-
narlo davanti a un tribunale.»
«Allora devi smuovere le acque e arrivare a Springfield» fu il consiglio di
Jay. «E se le autorità dello Stato rispondono picche, dovrai appellarti a Washin-
gton.»
«Non c'è uomo al potere che voglia fare il minimo sforzo solo per un'india-
na morta.»
«In questo caso, se hai le prove del crimine, dobbiamo raccogliere qualche
uomo in gamba, che abbia il senso della giustizia e sappia usare un fucile.»
«Tu lo faresti?»
Jay lo guardò stupito. «Ma naturale. E tu no?»
Rob J. disse a Jay del suo voto di non violenza.
«Io non ho di questi scrupoli, amico mio. Se una canaglia mi minaccia, sono
libero di rispondere.»
«La tua Bibbia dice: "Tu non ucciderai".»
«Bah, dice anche: "Occhio per occhio, dente per dente", e dice: "Se qualcu-
no percuote un uomo fino a farlo morire, sarà messo a morte".»
«"Se qualcuno ti colpisce sulla guancia destra, porgigli l'altra guancia."»
«Questo non c'è nella mia Bibbia» ribatté Geiger.
«Ah, Jay, questo è il guaio, troppe dannate Bibbie, e ciascuna pretende di
avere in tasca la verità.»
Geiger sorrise con simpatia. «Rob J., non vorrei mai dissuaderti dall'essere
un libero pensatore, ma ti lascio quest'altra sentenza: "Il timor di Dio è l'inizio
della saggezza".»
La conversazione si volse ad altri argomenti quando le due donne portarono
il tè.
Nei giorni che seguirono, Rob J. pensò spesso all'amico, talvolta con un
certo risentimento. Era cosa facile per Jay. Si avvolgeva nel suo frangiato scial-
le della preghiera che lo copriva di un manto di sicurezza sulle cose di ieri e di
domani. Tutto era prescritto: questo era permesso, quello era proibito, il cam-
mino era chiaramente segnato. Jay credeva nelle leggi di Jehovah e nelle leggi
dell'uomo e non aveva che da seguire gli antichi precetti e le leggi statutarie
dell'Assemblea Generale dell'Illinois. La Rivelazione, per Rob J., era la scien-
za, una fede assai meno comoda e assai meno confortante. La verità era il suo
dio, la prova era il suo stato di grazia, il dubbio era la sua liturgia. La scienza
aveva tanti misteri quanti le altre religioni ed era piena di sentieri bui che
portavano a gravi pericoli, tremendi precipizi e profondi abissi. Non c'era un
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potere sovrumano che facesse luce sulla oscura e difficile strada, e lui aveva
solo il suo fragile giudizio per scegliere la via della salvezza.
Nei primi rigidi giorni del nuovo anno 1852, la violenza scoppiò di nuovo
nella scuola di Holden's Crossing.
Quella gelida mattina Rachel arrivò tardi a scuola. Scivolò in silenzio al suo
posto sulla panca senza sorridergli come soleva o mormorare un saluto. Scia-
mano vide con sorpresa che suo padre l'aveva seguita. Jason Geiger si avvicinò
alla cattedra e guardò in faccia Mr. Byers.
«Mr. Geiger? È un piacere vederla. Che cosa posso fare per lei?»
La bacchetta di Mr. Byers era appoggiata sulla cattedra e Jay Geiger la
prese e frustò il maestro in viso.
Mr. Byers balzò in piedi, rovesciando la sedia. Era di tutta la testa più alto
di Jay, ma non molto robusto. In seguito, ricordando la scena, ognuno l'avrebbe
trovata comica, con l'uomo basso e tozzo che si gettava sul giovane alto con la
bacchetta stessa del maestro, alzando e abbassando il braccio e menando colpi
sul viso incredulo dell'altro, ma quella mattina nessuno rideva di Jay Geiger.
Gli alunni sedevano trattenendo il respiro. Non potevano credere alla cosa, co-
me non poteva crederci Mr. Byers; era ancora più incredibile dello scontro di
Alex con Luke. Sciamano osservava Rachel e il suo volto rabbuiato dall'imba-
razzo, pallidissimo. Aveva la sensazione che volesse farsi sorda, come lui, e
anche cieca per non vedere e non udire quello che stava accadendo davanti ai
suoi occhi.
«Che diavolo sta facendo?» Mr. Byers alzava le braccia per proteggersi il
viso e strillò di dolore quando le frustate gli calarono sulle costole. Fece un
passo verso Jay. «Dannato idiota! Stupido di un ebreo!»
Jay continuò a colpire, spingendo il maestro verso l'uscita, finché Mr.
Byers si precipitò fuori e si sbatté la porta alle spalle. Poi Jay prese la
giacca del maestro e la gettò nella neve. Quando tornò, ansando un poco, si
sedette alla cattedra di Mr. Byers.
«La scuola è finita per oggi» annunciò. Si prese Rachel e la riportò a
casa sul suo cavallo.
Faceva veramente freddo fuori. Sciamano aveva due sciarpe. Una in-
torno alla testa fin sotto il mento, l'altra avvolta intorno alla bocca e al
naso, ma ugualmente si sentiva gelare le narici ogni volta che respirava.
Quando arrivarono a casa Alex corse a raccontare alla madre quello
che era accaduto a scuola, ma Sciamano passò oltre e si avviò verso il fiu-
me, dove vide che il ghiaccio si era spaccato al freddo e pensò che doveva
uscirne uno strano, meraviglioso rumore. Il gelo aveva spaccato anche una
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gigantesca ceiba, non lontano dall'hedonoso-te di Makwa-ikwa, ora
coperto di neve: e sembrava che l'albero fosse esploso sotto un fulmine.
Fu lieto che Rachel l'avesse detto a Jay. Provava un bel sollievo per il
fatto che non doveva più uccidere Mr. Byers e che non l'avrebbero più
impiccato per questo. Ma una cosa lo assillava come una spina che conti-
nuava a pungere: se Alden pensava che era giusto picchiare, quando era ne-
cessario, e se Jay pensava che era giusto picchiare per proteggere la propria
figlia, allora che cosa c'era di sbagliato in suo padre?

32

Una visita notturna

Poche ore dopo che Marshall Byers era fuggito da Holden's Crossing fu
nominato un comitato per assumere un nuovo maestro. Avevano
chiamato a farne parte Paul Williams per dimostrargli che nessuno
lo biasimava perché suo cugino Byers era risultato una mela marcia. E
anche Jason Geiger, perché fosse chiaro che ognuno considerava giu-
stificata la sua azione nel cacciare Mr. Byers dalla scuola. Fra gli al-
tri membri c'era anche Carroll Wilkenson e questa fu una fortuna,
perché l'agente assicurativo aveva appena pagato una piccola polizza
che John Meredith, un negoziante di Rock Island, aveva stipulato sulla
vita di suo padre. Meredith aveva anche detto a Carroll di essere mol-
to riconoscente a una nipote, Dorothy Burnham, che aveva lasciato il
posto di maestra per assistere suo padre negli ultimi giorni di vita.
Quando il comitato incaricato dell'assunzione la intervistò, Dorothy
Burnham piacque subito a Wilkenson per il suo viso bonario e gentile, e
per il fatto che era nubile e già vicina alla trentina ed era quindi impro-
babile che dovesse lasciare la scuola per maritarsi. Paul Williams l'ap-
poggiava perché quanto più presto assumevano un nuovo maestro,
tanto più facilmente i suoi concittadini avrebbero dimenticato quel suo
dannato cugino. Jay le era favorevole perché parlava dell'insegna-
mento con tranquilla fiducia e con un calore che indicava una vera voca-
zione. L'assunsero per 17,50 dollari il trimestre, 1,5 meno di Byers, perché
era una donna.
Otto giorni dopo la fuga di Mr. Byers, Miss Burnham iniziava l'insegna-
mento. Conservò la disposizione dei posti stabilita da Byers perché i ra-
gazzi ci si erano abituati. Aveva già insegnato in altre due scuole, una più
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piccola di questa, nel villaggio di Bloom, e l'altra molto più grande a
Chicago. L'unico handicap che aveva incontrato in passato era quello di
un alunno claudicante e accolse con vivo interesse la presenza nella sua
classe di un bambino sordo.
La prima volta che parlò con il piccolo Robert Cole fu assai incuriosita
dal fatto che sapesse leggere le parole sulle sue labbra. Le ci volle tuttavia
quasi una mezza giornata per capire che dal suo posto sulla panca il bam-
bino non poteva vedere quello che dicevano gli altri alunni. Nella scuola
vi era una sola sedia, destinata a qualche adulto in visita, e Miss Burnham
ora l'assegnò a Sciamano, facendolo sedere di fronte alla panca comune, e
un po' di lato, perché il bambino potesse vedere anche le sue labbra, oltre a
quelle dei suoi compagni.
L'altro grande cambiamento per Sciamano si verificò quando venne
l'ora di musica. Come d'abitudine, si accingeva a portar fuori il secchio
della cenere e a portar dentro la legna, ma questa volta Miss Burnham lo
fermò e gli disse di tornare al suo posto.
Diede il la agli alunni soffiando in un piccolo flauto rotondo e poi
insegnò loro a cantare con parole la scala ascendente La-nostra-scuo-la-è-bel-
la e la scala discendente E-qui-cre-scia-mo-fe-li-ci.
Già a metà della prima canzone fu chiaro che non aveva fatto un fa-
vore al bambino sordo chiamandolo a partecipare, perché stava lì seduto a
guardare e ben presto i suoi occhi si velarono di una pena e di una ras-
segnazione che la maestra trovò intollerabili. Bisognava dargli uno stru-
mento, decise, le cui vibrazioni gli facessero sentire almeno il "ritmo"
della musica. Forse un tamburo? Ma il frastuono del tamburo avrebbe
sopraffatto il canto degli altri alunni.
Rifletté qualche tempo sul problema e poi si recò all'emporio generale di
Haskins e gli chiese in dono una scatola di sigari in cui pose sei palline
rosse, di quelle che i bambini usano per giocare a biglie in primavera. Le
palline facevano troppo rumore quando si scuoteva la scatola; ma, quando
incollò all'interno una morbida stoffa blu ritagliata da una vecchia camicia, il
risultato fu soddisfacente.
La mattina dopo, nell'ora di musica, diede la scatola in mano a Sciamano e
la scosse a tempo con ogni nota mentre gli alunni intonavano America.
Sciamano capì e accompagnò il canto leggendo le labbra della maestra per
ritmare il movimento della scatola. Non poteva cantare, ma imparò a
conoscere il ritmo e il tempo, formulando con le labbra le parole di ogni
canzone cantata dai compagni, i quali ben presto si abituarono al ronzìo
207
attutito della "scatola di Robert". Sciamano amava la scatola di sigari.
Sull'etichetta faceva bella mostra la figura di una regina dai capelli neri,
con un seno prominente coperto di chiffon e le parole Panatellas de los
Jardines de la Reina e il marchio della Gottlieb Tobacco Importing
Company di New York City. Quando avvicinava la scatola al naso sentiva
un odore di cedro aromatico e un debole profumo di foglia cubana.
Miss Burnham stabilì che ogni alunno a turno arrivasse a scuola un po'
prima per portar fuori la cenere e portar dentro la legna per la stufa. Anche
se Sciamano non vi pensò mai in questi termini, la sua vita era stata radi-
calmente trasformata da quando Mr. Byers non aveva saputo astenersi dal
palpare un giovane seno.

In quei rigidi primi giorni di marzo, quando la prateria era ancora


gelata e dura come pietra, i pazienti ogni mattina affollavano l'anticamera di
Rob J., e quando le ore d'ambulatorio erano finite il dottore si affrettava a
fare il maggior numero possibile di visite a domicilio, perché entro poche
settimane il fango avrebbe reso le strade impraticabili. Quando Sciamano
non era a scuola, il padre se lo prendeva con sé nelle sue cavalcate, perché il
ragazzino badava al cavallo e gli consentiva di correre piu in fretta a visitare i
pazienti.
In un grigio pomeriggio, sul tardi, si trovavano sulla strada del fiume
dopo aver visitato Freddy Wall, che aveva una brutta pleurite. Rob J. stava
pensando fra sé se continuare il viaggio e andare a visitare Anne Frazier,
che era stata poco bene tutto l'inverno, o rimandare la visita al giorno
dopo, quando tre uomini a cavallo uscirono dal bosco. Erano infagottati
in giacconi e sciarpe contro il freddo, come lo erano i due Cole, ma a
Rob J. non sfuggì che ognuno di loro portava un'arma: due delle pistole
erano infilate nelle cinture che stringevano i giacconi, la terza in un fodero
attaccato alla sella.
«Lei è un medico, vero?»
Rob J. annuì. «Voi chi siete?»
«Abbiamo un amico che ha bisogno di un dottore. Un piccolo inci-
dente.»
«Che tipo di incidente? Una frattura?»
«No. Be', non lo sappiamo di sicuro. Forse. Gli hanno sparato. L'uomo
si toccò il braccio sinistro vicino alla spalla.
«Ha perduto molto sangue?»
«No.»
208
«Bene, vengo. Ma prima passo da casa a lasciare il bambino.»
«No» ripeté l'uomo e Rob J. lo guardò. «Sappiamo dove abita lei,
dottore. Dall'altra parte della città. Abbiamo una lunga cavalcata da fare
per arrivare dal nostro amico, da questa parte.»
«Quanto lunga?»
«Quasi un'ora.»
Rob J. sospirò. «Bene, fatemi da guida.»
L'uomo che aveva parlato si pose alla testa del gruppo. A Rob J. non
sfuggì il fatto che gli altri due, dopo aver aspettato che lui si avviasse
dietro il primo, gli si erano messi alle spalle e lo seguivano da presso.

In principio si diressero verso nord-ovest, Rob J. ne era certo. Si avvide


altresì che spesso deviavano e tornavano indietro, come avrebbe fatto
una volpe braccata. Lo stratagemma funzionò, perché ben presto Rob J. si
confuse e perse l'orientamento. Dopo circa mezz'ora arrivarono in una
zona di colline boscose che si elevavano fra il fiume e la prateria. Fra le
alture vi erano degli acquitrini, che ora erano gelati e praticabili, ma che
si sarebbero tramutati in pantani fangosi al momento del disgelo. La guida si
fermò. «Devo bendarvi.»
Rob J. capì che era meglio non protestare. «Un momento» disse, e si voltò
verso Sciamano. «Adesso ti benderanno gli occhi, ma non spaventarti.»
Fu lieto di vedere che il bambino annuiva. Il fazzoletto con cui lo ben-
darono era tutt'altro che pulito e sperò che Sciamano avesse miglior fortu-
na, sgomento all'idea che il sudore e il muco secco di un estraneo fossero a
contatto con la pelle di suo figlio.
Conducendo il cavallo di Rob J. per le briglie gli sconosciuti si aggirarono
a lungo fra le colline, o forse così gli sembrò perché il tempo passava
lentamente per lui mentre era bendato. Ad un certo punto sentì che il
cavallo sotto di lui cominciava ad arrampicarsi per un pendio, e finalmente
si fermarono. Quando gli fu tolta la benda, vide che si trovavano di
fronte a una piccola struttura, più una baracca che una casetta di tronchi,
sotto grandi alberi frondosi. La luce del giorno declinava e Rob J. sbatté le
palpebre per adattare gli occhi. Vide che anche il bambino faceva lo stesso.
«Tutto bene, Sciamano?»
«Tutto bene, papà.»
Rob J. conosceva quell'espressione: Sciamano era abbastanza sensibi-
le da essere spaventato a morte. Ma quando, battendo i piedi per rimettere
in moto la circolazione, entrarono nella baracca, fu quasi divertito al ve-
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dere che gli occhi di Sciamano brillavano di interesse, oltre che di paura,
e insieme era furioso con se stesso per non aver trovato il modo di lascia-
re a casa il bambino, lontano dai pericoli.

Dentro, vi erano carboni accesi nel camino e l'aria era calda ma molto
viziata. Non c'erano mobili. Un uomo grasso giaceva sul pavimento,
appoggiato a una sella, e alla luce del fuoco Sciamano poté vedere che era
calvo, ma aveva sulla faccia tanto ispido pelo nero quanto di solito gli
uomini hanno sul capo. Le coperte stazzonate sul pavimento indicavano do-
ve avevano dormito gli altri.
«Ce ne avete messo del tempo!» protestò l'uomo grasso. Teneva in
mano un boccale nero, bevve un sorso e tossì.
«Non ci siamo mica divertiti» ribatté scontrosamente l'uomo che ave-
va guidato con le briglie il cavallo. Quando si tolse le sciarpe che gli pro-
teggevano il volto, Sciamano vide che portava una barbetta bianca e pare-
va più vecchio degli altri. L'uomo pose una mano sulla spalla di Sciamano
e spinse. «Giù!» fece, come se parlasse a un cane. Sciamano si accovacciò
a terra, non lontano dal fuoco. Era contento di stare in quel punto perché
poteva vedere la bocca dell'uomo ferito e quella di suo padre.
Il vecchio tirò fuori la pistola dal fodero e la puntò contro Sciamano.
«È meglio che tu curi il nostro amico proprio bene, dottore.» Sciamano
era molto spaventato. Il foro all'estremità della canna sembrava uno spie-
tato occhio rotondo che guardasse direttamente lui.
«Io non faccio niente quando qualcuno impugna una pistola» replicò il
padre guardando l'uomo adagiato a terra.
L'uomo grasso parve considerare la cosa. «Voi andate fuori» ordinò ai suoi
uomini.
«Prima di andarvene,» ordinò il padre di Sciamano «portate dentro legna e
fate un buon fuoco. Mettete a bollire dell'acqua. Avete un'altra lampada?»
«Lanterna» fece il vecchio.
«Portatela qui.» Pose una mano sulla fronte dell'uomo grasso; gli sbottonò
la camicia e l'aprì. «Quando è successo?»
«Ieri mattina.» L'uomo guardò Sciamano con occhi torvi. «Quello è
tuo figlio.»
«Il mio figlio minore.»
«Quello sordo.»
«... Pare che tu sappia un sacco di cose sulla mia famiglia.»
L'uomo annuì. «E il maggiore, c'è chi dice che è figlio di mio fratello
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Willy. E somiglia a Willy, è già una dannata canaglia! Sai chi sono io?»
«Posso indovinarlo.» Ora Sciamano vide suo padre chinarsi in avanti e
fissare l'altro uomo negli occhi. «Sono entrambi i miei figli. Se stai par-
lando del mio figlio maggiore, tieni a mente che è il mio figlio maggiore. E
tu starai lontano in futuro da lui, come lo sei stato in passato.»
L'uomo sdraiato a terra sogghignò. «Be', perché non potrei reclamarlo?»
«La ragione più importante è che Alex è un bravo ragazzo, serio e sincero,
con tutte le carte in regola per vivere in futuro una vita decente. E se
anche fosse di tuo fratello, non devi neanche pensare di vederlo qui dove
sei ora, buttato a terra come un animale ferito e braccato in questo puzzolente
porcile.»
Si guardarono l'un l'altro per un lungo momento. Poi l'uomo si mosse e fece
una smorfia, e il padre di Sciamano si pose all'opera. Mise da parte il boc-
cale e tolse al ferito la camicia.
«Non c'è foro di uscita.»
«Oh, il bastardo è dentro, te lo posso assicurare. Mi fa un male d'inferno
quando mi tocchi. Posso avere un altro sorso o due?»
«No, ti darò qualche cosa per farti dormire.»
L'uomo lo guardò furioso. «Io non voglio dormire perché tu possa
farmi quel che diavolo vuoi, mentre io non posso difendermi.»
«La decisione è tua.» Rob J. restituí il boccale all'uomo e lo lasciò bere
mentre aspettava che l'acqua bollisse. Poi con il sapone e un panno pulito
preso dalla sua borsa lavò l'area intorno alla ferita, che Sciamano non
poteva vedere bene. Quindi prese una sottile sonda d'acciaio e la inserí nel
foro lasciato dal proiettile e l'uomo grasso si irrigidì e aprì la bocca e
sporse una grossa lingua rossa fin dove poteva.
«... È arrivato quasi all'osso, ma non c'è frattura. Il proiettile doveva
aver perduto gran parte della sua forza quando ha colpito.»
«Colpo fortunato» ribatté l'uomo. «Il bastardo era molto lontano.»
Aveva il viso di un pallore cinereo e la barba umida di sudore.
Il padre di Sciamano trasse dalla borsa una pinza. «Userò questa per
estrarlo. È molto più grossa della sonda. Ti farà molto male, credimi» lo
avvertì.
Il paziente voltò la testa e Sciamano non poté vedere quello che diceva,
ma probabilmente aveva chiesto qualcosa di più forte del whisky. Suo
padre trasse una fiala e un cono da etere dalla borsa e fece un cenno a
Sciamano, che lo aveva più volte osservato somministrare l'etere, ma non
l'aveva mai aiutato prima. Ora Sciamano tenne il cono con somma atten-
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zione sopra la bocca e il naso dell'uomo grasso, mentre il padre vi faceva
cadere l'etere a goccia a goccia. Il foro del proiettile era più largo di
quanto si aspettasse, con un orlo purpureo. Quando l'etere ebbe fatto
effetto, Rob J. cominciò a muovere la pinza con estrema cura, lentamen-
te, un po' per volta. Una goccia rossa apparve sull'orlo del foro e corse
lungo il braccio dell'uomo. Ma quando la pinza fu estratta, stringeva una
pallottola di piombo.
Rob J. la ripulì e la depose sulla coperta perché l'uomo la trovasse
quando rinveniva. Quindi chiamò gli altri che aspettavano fuori al freddo
e quelli portarono nella capanna una grossa ciotola di fagioli bianchi che
avevano tenuto a gelare sul tetto. La scaldarono e ne offrirono a Sciamano
e a suo padre. C'erano dentro dei pezzetti di carne, forse di coniglio, e
Sciamano pensò che il piatto sarebbe stato più gustoso con l'aggiunta di un
po' di melassa, ma lo mangiò avidamente.
Quando ebbero finito, suo padre fece bollire altra acqua e cominciò a
lavare l'intero corpo del suo paziente, mentre gli altri guardavano dap-
prima con sospetto, poi con fastidio. Si gettarono sulle loro coperte e uno
a uno si assopirono, ma Sciamano restava sveglio. E poco dopo assisteva
al disgustoso vomitare dell'uomo grasso.
«Whisky ed etere non vanno d'accordo» osservò Rob J. «Tu vai a dormire,
lo assisterò io.»
Sciamano obbedì e una luce grigia cominciava a filtrare dalle fessure delle
pareti quando il padre lo svegliò, scuotendolo gentilmente e gli disse di vestirsi
per uscire. L'uomo grasso era sempre sdraiato a terra e li osservava.
«Ti farà piuttosto male per due o tre settimane» lo avverti Rob J. «Ti lascio
un po' di morfina, non è molta ma è tutto quello che ho con me. La cosa più
importante è tener pulita la ferita. Se dovesse farsi purulenta, fammi chiamare e
verrò subito.»
L'uomo sbuffò: «Perdio, saremo ben lontani di qui prima che tu torni».
«Bene, se c'è qualche guaio, chiamatemi. Verrò, dovunque siate.»
L'uomo annuì. «Pagalo bene» disse a quello con la barba bianca, che trasse
una manciata di banconote da un sacco e gliele porse. Il padre di Sciamano
scelse due dollari e lasciò cadere il resto sulla coperta. «Un dollaro e mezzo per
la visita notturna, mezzo dollaro per l'etere.» Si avviò per uscire, ma subito si
voltò. «Voi sapete niente di un tipo chiamato Ellwood Patterson? Che a volte
viaggia con un tale di nome Hank Cough e uno più giovane che chiamano
Lenny?»
Le tre facce lo guardarono ottusamente. L'uomo a terra scosse la testa. Il
212
padre di Sciamano fece un cenno e uscì con il figlio nell'aria che odorava di
alberi e di terra.
Questa volta solo l'uomo che aveva fatto da guida venne con loro. Aspettò
che fossero montati in sella per bendarli di nuovo. Rob J. sentiva il respiro del
figlio farsi più frequente e si pentì di non avergli parlato finché poteva vedere
le sue labbra.
Tese gli orecchi. Il suo cavallo era condotto alla briglia, poteva sentire il
battito degli zoccoli davanti a sé. Non vi erano battiti dietro le sue spalle. Ma
potevano sempre aver qualcuno in attesa lungo il sentiero. Qualcuno che dove-
va solo lasciarli passare, sporgersi e puntare la pistola a pochi centimetri da una
testa bendata: e premere il grilletto.
Fu una lunga cavalcata. Quando infine si fermarono Rob J. pensò che, se un
proiettile doveva arrivare, sarebbe arrivato ora. Ma l'uomo tolse a entrambi le
bende dagli occhi.
«Continua avanti da questa parte, capisci? Arriverai subito ai luoghi che
conosci.»
Sbattendo gli occhi, Rob J. annuì, senza dire che aveva già riconosciuto il
posto in cui si trovavano. Spronò il cavallo nella direzione indicata, mentre il
pistolero tornava indietro.
Poco dopo Rob J. si fermò in una macchia perché potessero vuotare la ve-
scica e sgranchirsi le gambe.
«Sciamano,» chiese «ieri hai seguito il mio dialogo con quell'uomo ferito?»
Il ragazzino annuì, fissandolo.
«Dimmi, figliolo, hai capito di che cosa parlavamo?»
Annuì di nuovo.
Rob J. gli credette. «Ora, come hai potuto capire quel discorso? Qualcuno ti
ha parlato di...» Non riuscì a dire «tua madre» «... di tuo fratello?»
«Certi ragazzi a scuola...»
Rob J. sospirò. Gli occhi di un vecchio in quel visetto infantile, pensò. «Be-
ne, Sciamano, ecco che cosa voglio dirti. Tutto quello che è successo... che sia-
mo andati con quegli uomini e ho curato quel ferito e specialmente ciò di cui
abbiamo parlato... tutto questo deve restare un nostro segreto. Tuo e mio. Per-
ché il dirlo a tuo fratello o a tua madre potrebbe addolorarli. Procurargli ango-
scia.»
«Si, papà.»
Tornarono a cavallo. Ora soffiava una brezza tiepida. Il ragazzo aveva ra-
gione, pensò Rob J., stava arrivando il disgelo di primavera. Fra un paio di
giorni i ruscelli avrebbero ricominciato a scorrere, liberi dal ghiaccio. Dopo
213
poco trasalì all'udire la voce roca del figlio.
«Io voglio essere come te, papà. Voglio diventare un buon medico.»
Rob J. si sentì venire le lacrime agli occhi. Non era quello il momento, con
Sciamano in sella dietro di lui, infreddolito, stanco e affamato, non era quello il
momento di spiegargli che certi sogni erano impossibili da realizzare se uno era
sordo. Dovette accontentarsi di stendere un braccio all'indietro e stringere il
bambino più vicino a sé. Sentiva la fronte di Sciamano premuta contro la sua
schiena e cessò di tormentarsi e per qualche tempo si lasciò ciondolare un po'
assopito, mentre il cavallo arrancava sul sentiero e li riportava a casa.

33

Risposte e domande

Istituto Religioso della Bandiera Stellata


Palmer Avenue 282
Chicago, Illinois
18 maggio 1852
Dottor Robert J. Cole
Holden's Crossing, Illinois

Caro dottor Cole,


abbiamo ricevuto la sua lettera con la quale chiedeva notizie e
indirizzo del reverendo Ellwood Patterson. Siamo spiacenti di non poterle
essere utili in proposito. Come lei forse sa, il nostro Istituto serve le
chiese e i cittadini americani dell'Illinois, portando il messaggio cristiano
di Dio agli onesti lavora-tori nativi del luogo. L'anno scorso Mr.
Patterson si presentò a noi e si offrì di aiutarci nel nostro ministero e ne
risultò la sua visita alla vostra comunità e alla vostra bella chiesa. Ma da
allora non vive più a Chicago e noi abbiamo perduto le sue tracce.
Può star sicuro che, se ci arriverà qualche notizia al riguardo, sarà
nostra premura fargliela sapere. Nel frattempo, se in qualcosa può essere
utile un altro dei valenti ministri di Dio che sono nostri associati, o se in
qualche questione teologica io stesso possa esserle d'aiuto, non esiti a
rivolgersi a me.
Suo sinceramente in Cristo
(firmato)

214
Oliver G. Prescott, D.D., direttore
Istituto Religioso della Bandiera Stellata
La risposta era pressappoco quella che Rob J. si aspettava. Si sedette alla
scrivania e scrisse, in forma di lettera, un conciso rapporto sull'assassinio di
Makwa-ikwa. Riferì della presenza di tre stranieri a Holden's Crossing; spiegò
che durante l'autopsia aveva trovato frammenti di pelle umana sotto tre unghie
di Makwa, e che il dottor Barr, quello stesso pomeriggio in cui era avvenuto
l'assassinio, aveva curato il reverendo Ellwood Patterson per tre gravi la-
cerazioni sul viso.
Spedì lettere identiche al governatore dell'Illinois a Springfield e a entrambi
i senatori dello Stato a Washington. Poi si costrinse a mandarne una terza copia
al deputato dello Stato, Nick Holden, rivolgendosi a lui in forma ufficiale.
Chiedeva alle autorità di impiegare i loro mezzi per rintracciare Patterson e i
suoi due compagni e investigare su eventuali connessioni fra loro e la morte
dell'indiana Donna Orso.

Alla riunione di giugno della Società Medica c'era un ospite, un tal dottor
Naismith, che veniva da Hannibal, Missouri. In quella mezz'ora di piacevoli
conversazioni che precedette la riunione parlò di una causa giudiziaria intentata
nel Missouri da uno schiavo che chiedeva di essere riconosciuto come uomo
libero.
«Prima della guerra di Falco Nero, il dottor John Emerson era stato assunto
come chirurgo qui nell'Illinois, a Fort Armstrong. Aveva uno schiavo nero di
nome Dred Scott e quando il governo mise in vendita l'ex terra degli indiani,
acquistò un lotto di terreno in quella che allora si chiamava Stephenson e ora è
Rock Island. Lo schiavo si costruì una baracca sul lotto e ci visse diversi anni,
in modo che il suo padrone potesse qualificarsi come colono.
«Dred Scott si recò nel Wisconsin con Emerson quando il chirurgo fu
trasferito, e poi tornò con lui nel Missouri, dove Emerson morì. Il nero cercò di
comprarsi la libertà dalla vedova, assieme alla libertà della moglie e di due
figlie. Per le sue buone ragioni Mrs. Emerson rifiutò di vendere. Allora quella
sfrontata canaglia negra presentò una petizione al tribunale, pretendendo di
essere stato per molti anni un uomo libero nell'Illinois e nel Wisconsin.»
Tom Beckermann rise sguaiatamente, «Ah ah, uno sporco negro che
presenta una petizione!»
«Be',» osservò Julius Barton «a me sembra chiaro che la sua richiesta è
fondata. La schiavitù è illegale tanto nell'Illinois quanto nel Wisconsin.»

215
Il dottor Naismith continuava a sorridere. «Ma quello era stato venduto e
comprato nel Missouri, uno Stato schiavista, e nel Missouri era tornato.»
Tobias Barr corrugò la fronte, riflettendo sulla questione. «Qual è la tua opi-
nione sulla schiavitù, Cole?»
«Io penso» rispose Rob J. deliberatamente «che è giusto per un uomo posse-
dere un animale, se ne ha buona cura e gli provvede foraggio e acqua a suf-
ficienza. Ma non credo che sia giusto per un essere umano possedere un altro
essere umano.»
Il dottor Naismith fece del suo meglio per restare cordiale. «Sono lieto che
voi siate dei medici, cari colleghi, e non avvocati o giudici in un tribunale.»
Il dottor Barr annuì davanti all'evidente desiderio dell'altro di non impegnar-
si in argomenti spiacevoli. «Dica, dottor Naismith, avete visto molti casi di
colera nel Missouri, quest'anno?»
«Non molto colera, ma una quantità di ciò che alcuni chiamano la peste
fredda» rispose il dottor Naismith. Continuò descrivendo la presunta eziologia
del morbo, e il resto della riunione fu dedicato a discussioni di materia medica.

Un pomeriggio, diversi giorni dopo, Rob J. passava vicino al convento delle


suore di san Francesco d'Assisi, e senza uno scopo preciso voltò il cavallo e si
diresse per il loro sentiero.
Questa volta il suo arrivo fu preannunciato da lontano e una giovane suora
uscì dall'orto e si precipitò nel convento. Madre Miriam Ferocia offrì a Rob J.
la poltrona del vescovo con un tranquillo sorriso. «Abbiamo del caffè» gli disse
con un tono di importanza, che rivelava come il caffè non fosse cosa di tutti i
giorni. «Posso offrirgliene una tazza?»
Rob J. non aveva nessuna voglia di consumare le loro provviste, ma qualche
cosa nel viso della donna lo spinse ad accettare ringraziando. Il caffè arrivò, ne-
ro e caldo. Era molto forte e aveva un sapore di vecchio, come la loro religione.
«Non abbiamo latte» osservò affabilmente Madre Miriam Ferocia. «Il Si-
gnore non ci ha ancora mandato una mucca.»
Quando le chiese come andava il convento, lei rispose un po' freddamente
che sopravvivevano come al solito.
«Ci sarebbe un modo di guadagnare denaro per il convento.»
«È sempre saggio ascoltare quando qualcuno parla di denaro.»
«Voi siete un ordine infermieristico senza un posto dove svolgere il vostro
lavoro di infermiere. Io curo dei pazienti che hanno bisogno di assistenza.
Alcuni possono anche pagare.»
Ma non ottenne una reazione più positiva di quella che aveva trovato la
216
prima volta che aveva avanzato la proposta. La Madre Superiora si accigliò.
«Noi siamo sorelle di carità.»
«Molti dei miei pazienti non possono pagare nulla. Assisteteli, ed eserci-
terete la carità. Altri possono pagare. Assisteteli e contribuirete a mantenere il
convento.»
«Quando il Signore ci darà un ospedale in cui assistere i pazienti, li assiste-
remo.»
Rob J. si sentì frustrato. «Può dirmi perché non vuole permettere alle sue
monache di assistere i pazienti nelle loro case?»
«No. Lei non capirebbe.»
«Mi metta alla prova.»
Ma Mary la Feroce si limitò a fissarlo con uno sguardo gelido.
Rob J. sospirò e mandò giù la sua amara bevanda. «C'è un'altra questione.»
Le espose i pochi fatti che aveva recentemente appreso e le parlò dei propri
sforzi per rintracciare Ellwood Patterson. «Mi domando se lei per caso sa
qualcosa di quell'uomo.»
«Non di Mr. Patterson. Ma ho sentito parlare dell'Istituto Religioso della
Bandiera Stellata. È un'associazione anticattolica, appoggiata da una società se-
greta che sostiene il partito americano. È chiamata l'Ordine Supremo della Ban-
diera Stellata.»
«Come ha avuto notizie di questo...?»
«Ordine Supremo della Bandiera Stellata. Lo chiamano OSBS.» Gli rivolse
uno sguardo acuto. «La Madre Chiesa è una vasta organizzazione. Ha molti
modi di procurarsi informazioni. Noi porgiamo l'altra guancia, ma sarebbe
sciocco non guardare da quale parte può venire il colpo.»
«Forse la Chiesa potrebbe aiutarmi a rintracciare quel Patterson.»
«Sento che è importante per lei.»
«Ritengo che abbia ucciso una persona che mi era amica. Non si dovrebbe
permettergli di uccidere altri.»
«Non può lasciare la cosa in mano a Dio?» chiese lei pacatamente.
«No.»
La Madre Superiora sospirò. «È improbabile che lei possa rintracciarlo per
mezzo mio. Talvolta una richiesta viaggia solo per un anello o due lungo l'infi-
nita catena della Chiesa. Spesso uno domanda una cosa e non ne sente più par-
lare. Ma io farò domande.»
Lasciando il convento Rob J. si diresse alla fattoria di Daniel Rayner per
curare senza successo Lydia-Belle Rayner e il suo strappo alla schiena, poi pro-
seguì verso l'allevamento di capre di Lester Shedd. Shedd aveva rischiato di
217
morire per una violenta infiammazione ai polmoni, ed era un eccellente esem-
pio di come l'assistenza delle monache sarebbe stata preziosa. Ma Rob J. era
andato a visitare Lester il più spesso possibile per gran parte dell'inverno e tutta
la primavera, e, aiutato dall'assidua opera di Mrs. Shedd, era riuscito a portarlo
fino alla guarigione.
Quando Rob J. annunciò che non erano necessarie altre visite, Shedd mostrò
un visibile sollievo, ma affrontò a disagio la questione dell'onorario del dottore.
«Non avreste per caso una buona capra da latte?» chiese Rob J., e fu stupito
delle sue stesse parole.
«Non dà latte, per ora. Ma ho una piccola bellezza, solo un po' troppo gio-
vane per accoppiarla adesso. Fra un paio di mesi la faccio montare da uno dei
miei capri. E dopo altri cinque mesi... fiumi di latte!»
Rob J. si portò la bestiola riluttante che belava di protesta, legata a una fune
dietro il suo cavallo, e tornò al convento.
Madre Miriam lo ringraziò educatamente, osservando tuttavia in tono un po'
acido che, quando fosse tornato dopo sette mesi, avrebbe avuto la panna per il
suo caffè: come se volesse rinfacciargli di offrire il dono per i propri egoistici
desideri.
Ma Rob J. vide che i suoi occhi brillavano. Quando sorrideva, il sorriso da-
va calore e dolcezza al suo volto energico e scostante; e così il dottore poté tor-
nare a casa con la coscienza di aver speso bene la giornata.

Dorothy Burnham vide subito nel giovane Robert Cole un alunno intel-
ligente e desideroso di imparare. Dapprima fu sorpresa dei bassi voti che vede-
va accanto al suo nome nel registro di Mr. Byers, e poi ne fu incollerita perché
il ragazzino aveva una mente eccezionalmente sveglia ed era evidente che era
stato trattato ingiustamente.
Miss Dorothy non aveva alcuna esperienza nel campo della sordità, ma era
un'insegnante che accoglieva con entusiasmo un'occasione.
Quando andò ad alloggiare in casa dei Cole per un turno di due settimane,
aspettò il momento opportuno per parlare con il dottor Cole in privato. «È a
proposito del linguaggio di Robert» cominciò e vide che il dottore l'ascoltava
con la più viva attenzione. «È una fortuna che parli così chiaramente. Ma ci
sono altri problemi.»
Rob J. annuì. «Il suo modo di parlare è piatto e roco. Io gli ho suggerito di
variare i toni, ma...» Scosse la testa.
«Io credo che parli in tono così monotono perché ha dimenticato come suo-
na la voce umana. Come sale e scende. Credo che possiamo farglielo ricor-
218
dare.»

Due giorni dopo, con il permesso di Lillian, la maestra dopo la scuola con-
dusse Sciamano in casa dei Geiger. Lo fece stare vicino al piano con la palma
della mano appoggiata sulla cassa dello strumento. Colpì il primo do di basso
con tutta la forza e, tenendo il tasto premuto in modo che vibrasse per la
tastiera e la cassa fin nella mano del ragazzino, lo guardò e pronunciò: «LA».
La sua mano destra poggiava sul coperchio del piano.
Poi premette il secondo tasto. «No.» Ora la sua mano destra si alzò
leggermente.
Quindi il tasto successivo. «STRA.» E la sua mano si alzò ancora un poco.
Una nota dopo l'altra, percorse tutta la scala ascendente, e ogni nota era parte
della canzoncina a cui Sciamano si era abituato in classe. «La nostra scuola è
bella!» Poi attaccò la scala discendente. «E qui cresciamo felici!»
Suonò le scale diverse volte, in modo che il ragazzino cogliesse la diffe-
renza nelle vibrazioni che arrivavano alla sua mano e vedesse il graduale alzar-
si e abbassarsi della mano della maestra a ogni nota.
Poi gli disse di cantare le parole che lei stessa aveva adattato alle scale, non
solo muovendo le labbra in silenzio come faceva a scuola, ma a voce alta. I
risultati furono tutt'altro che musicali, ma Miss Burnham non aveva intenzione
di fare della musica. Voleva che Sciamano cominciasse ad acquistare il con-
trollo sull'altezza della sua voce, e dopo un certo numero di tentativi, con la sua
mano che si agitava freneticamente nell'aria, la voce del bambino effettivamen-
te si alzò. Ma si alzò assai più di una sola nota, e Sciamano fissò attonito il
pollice e l'indice della sua maestra che segnavano una minuscola distanza
davanti ai suoi occhi.
Così Miss Dorothy insisteva e lo sgridava, e per Sciamano talvolta era un
tormento. La mano sinistra della maestra correva sulla tastiera, battendo i tasti,
ostinatamente su e giù per le scale. La destra si alzava a segnare una nota alla
volta e poi si abbassava nello stesso modo. Sciamano gracchiava il suo amore
per la scuola, ancora e ancora. Talvolta il suo visetto assumeva un'espressione
ottusa e vacua, e due volte i suoi occhi si riempirono di lacrime, ma la maestra
faceva finta di non vederlo.
Infine cessò di suonare. Aprì le braccia e si strinse il bambino al seno,
tenendolo per un lungo momento e accarezzandogli i folti capelli sulla nuca,
prima di lasciarlo andare.
«Torna a casa» gli disse, ma lo fermò ancora una volta prima che uscisse.
«Domani lo faremo ancora, dopo la scuola.»
219
Sciamano abbassò la testa. «Sì, Miss Burnham.» La sua voce era priva di
inflessioni, ma la maestra non si scoraggiò. Sedette alla tastiera quando il
bambino fu uscito e suonò le scale ancora una volta.
«Sì» disse.

Quell'anno c'era stata una primavera precoce, un breve periodo di piacevole


tepore e poi un manto di caldo opprimente si stese sulle pianure. Una torrida
mattina di venerdì, a metà giugno, Rob J. fu fermato in Main Street, a Rock
Island, da George Cliburne, un colono quacchero che era diventato sensale di
grano. «Avresti solo un momento, dottore?» chiese educatamente Cliburne, e di
comune accordo si diressero verso la fresca ombra di un frondoso hickory per
proteggersi dai torridi raggi del sole.
«Mi dicono che tu hai simpatia per gli uomini che vivono in schiavitù.»
Rob J. fu estremamente sorpreso da quell'osservazione. Conosceva il sensa-
le di grano solo di vista. George Cliburne aveva fama di essere un ottimo uomo
d'affari, astuto ma leale.
«Le mie opinioni personali non possono interessare a nessuno. Chi ve ne ha
parlato?»
«Il dottor Barr.»
Rob J. ricordò la conversazione con il dottor Naismith alla riunione della
Società Medica. Vide che Cliburne si guardava intorno per assicurarsi che
continuassero a essere soli.
«Anche se il nostro Stato ha abolito la schiavitù, le autorità dell'Illinois rico-
noscono il diritto dei cittadini di altri Stati di possedere schiavi. Perciò gli
schiavi che fuggono dagli Stati del Sud qui vengono arrestati e restituiti ai loro
padroni. Sono trattati crudelmente. Ho visto con i miei occhi a Springfield un
grande edificio suddiviso in minuscole celle e in ognuna grossi anelli di ferro
attaccati alle pareti per incatenare mani e piedi.
«Alcuni di noi... gente che ha le nostre stesse opinioni, che riconosce l'ini-
quità della schiavitù, si adoperano per assistere gli schiavi che sono fuggiti in
cerca della libertà. Noi ti invitiamo a unirti a noi nell'opera di Dio.»
Rob J. aspettava che Cliburne si spiegasse meglio, e infine capì che gli veni-
va fatta una specie di offerta.
«Assisterli... come?»
«Non sappiamo da dove vengono. Non sappiamo dove andranno, partendo
da qui. Vengono portati da noi e poi condotti via solo nelle notti senza luna. Tu
dovresti preparare un nascondiglio sicuro, largo appena per un uomo. Una can-
tina, una grotta, una buca nel terreno. Viveri sufficienti per tre o quattro gior-
220
ni.»
Rob J. non stette neppure a pensarci. Scosse la testa. «Mi dispiace.»
Sul viso di Cliburne comparve un'espressione che non era né sorpresa né
risentimento, ma che in qualche modo gli era familiare. «Vorrai tu tenere se-
greto questo nostro colloquio?»
«Oh, sì. Certamente.»
Cliburne trasse un sospiro e annuì. «Possa il Signore camminare al tuo
fianco» e uscirono entrambi dall'ombra nel torrido calore del sole.

Due giorni dopo i Geiger vennero a casa Cole per il pranzo domenicale. I
ragazzi Cole erano felici di quelle occasioni, perché il pranzo era sempre lauto.
Al principio Sarah era un po' risentita, vedendo che i Geiger rifiutavano siste-
maticamente i suoi arrosti per osservare il loro kashruth. Ma infine aveva capi-
to, e cercava di riempire il vuoto preparando sempre qualche cosa di extra, una
zuppa senza carne, altre verdure e pudding e diversi dolci.
Jay portò una copia del Weekly Guardian di Rock Island, che pubblicava un
articolo sulla causa intentata da Dred Scott, e commentò che la petizione dello
schiavo aveva poca o nessuna probabilità di successo.
«Malcolm Howard dice che nella Louisiana tutti possiedono schiavi» com-
mentò Alex.
Sua madre sorrise. «Non proprio tutti» ribatté. «Dubito molto che il padre di
Malcolm Howard abbia mai posseduto schiavi, o altro.»
«Il tuo papà possedeva schiavi quando eravate in Virginia?» chiese Scia-
mano.
«Il mio papà aveva solo una piccola segheria. Aveva tre schiavi, ma ven-
nero tempi difficili e dovette vendere gli schiavi e la segheria, e andare a lavo-
rare per suo padre, che aveva una grande fattoria con più di quaranta schiavi.»
«E la famiglia di mio papà, in Virginia?» domandò Alex.
«I genitori del mio primo marito erano negozianti» rispose Sarah. «Non te-
nevano schiavi.»
«Perché poi un uomo vorrebbe essere uno schiavo?» chiese Sciamano.
«Non vogliono essere schiavi» spiegò Rob J. al figlio. «Sono soltanto dei
poveri infelici, colpiti dalla sventura.»
Jay prese un bicchier d'acqua di pozzo e corrugò la fronte. «Vedi, Sciama-
no, così stanno le cose, così sono state nel Sud da duecento anni. Ci sono i radi-
cali che scrivono che i neri dovrebbero essere liberi. Ma se uno Stato come la
Carolina del Sud dovesse liberarli tutti, come vivrebbero? Ora lavorano per i
bianchi, e i bianchi hanno cura di loro. Qualche anno fa il cugino di Lillian,
221
Judah Benjamin, aveva 140 schiavi nella sua piantagione di canna da zucchero
in Louisiana. E ne aveva molta cura. Mio padre a Charleston aveva due negre
che lavoravano in casa. Le ha sempre avute con sé da quando mi ricordo. Le
tratta con tanta bontà che non lo lascerebbero, credo, neanche se le cacciasse
via.»
«Proprio così» aggiunse Sarah. Rob J. aprì la bocca, poi la richiuse e porse
il piatto dei piselli con carote a Rachel. Sarah andò in cucina e tornò con un
gigantesco pudding di patate al forno, preparato secondo una ricetta di Lillian
Geiger, e Jay borbottò che era sazio, ma porse lo stesso il suo piatto.
Quando i Geiger ricondussero a casa i loro bambini, Jay chiese a Rob J. di
andare con loro per suonare insieme con Lillian. Ma Rob J. rispose che era
stanco.
La verità era che si sentiva scontroso e non aveva voglia di stare in compa-
gnia. Nel tentativo di reagire al malumore andò a passeggiare lungo il fiume
per godersi la brezza. Giunto vicino alla tomba di Makwa, vide che era invasa
dalle erbacce e si fermò un momento a ripulirla, strappandole furiosamente
finché non le ebbe tolte tutte. E ora si rese conto del perché l'espressione del
viso di George Cliburne gli era sembrata familiare. Era identica a quella che
aveva visto sul volto di Andrew Gerould la prima volta che gli aveva chiesto di
scrivere il manifesto contro il governo inglese, e lui aveva rifiutato. I lineamen-
ti dei due uomini avevano espresso un misto di sentimenti, fatalismo, ostinata
tenacia, e il disagio di essersi resi vulnerabili davanti al suo silenzio.

34

Il ritorno

Un mattino all'alba, quando la nebbia pesava ancora sul fiume e sui boschi,
Sciamano uscì di casa e passò oltre il gabinetto esterno per andare a farsi una
lunga, piacevole pipì nel ruscello. Il disco arancione del sole sorgeva dietro la
nebbia, trasformandola in veli di pallida luminosità. Il mondo era nuovo e fre-
sco e odoroso, la pace dei fiumi e dei boschi si accompagnava alla pace eterna
che sentiva nelle sue orecchie. Se quel giorno si voleva andare a pescare, si
disse, bisognava farlo di buonora. Allontanandosi dal fiume passò vicino alla
tomba e quando vide la pallida figura fra i veli di nebbia non ebbe paura:
rimase un attimo sospeso fra l'incredulità e una travolgente ondata di gioia e
gratitudine. Spirito, io ti invoco oggi. Spirito, io ti parlo ora. «Makwa!» gridò
gioiosamente e le corse incontro.
222
«Sciamano?»
Quando le fu vicino, si avvide con uno schianto che non era Makwa.
«Luna?» Nel nome c'era una domanda, perché la donna aveva un aspetto
terribile.
Dietro Luna Sciamano vide due altre figure. Una era un indiano che non
conosceva, l'altro era Cane di Pietra, che aveva lavorato per Jason Geiger. Cane
di Pietra era a petto nudo e portava calzoni di pelle di daino. L'estraneo indos-
sava brache di tela tessuta in casa e una camicia lacera. Entrambi calzavano
mocassini, ma Luna aveva un paio di scarponi da lavoro, di quelli che usavano
gli uomini bianchi, e una vecchia e sudicia veste blu, strappata su una spalla.
Gli uomini avevano tra le mani cose che Sciamano riconobbe - una forma di
formaggio, un prosciutto affumicato, un cosciotto crudo di montone - e si rese
conto che erano entrati nella dispensa, scassinando la porta.
«Avete del whisky?» chiese Cane di Pietra, accennando alla casa. Luna gli
disse aspramente qualcosa in lingua sauk e poi sì accasciò a terra.
«Luna, stai bene?» chiese Sciamano ansioso.
«Sciamano. Tanto cresciuto» mormorò la donna, guardandolo con stupore.
Sciamano si inginocchiò accanto a lei. «Dove siete stati? Sono qui anche gli
altri?»
«No... gli altri nel Kansas. Riserva. Lasciato i bambini là, ma...» Chiuse gli
occhi.
«Vado a chiamare mio padre» fece Sciamano e gli occhi della donna si
riaprirono.
«Ci hanno fatto tanto male, Sciamano.» Gli cercò le mani e le tenne strette.
Sciamano sentì qualcosa che dal corpo della donna passava nella sua mente.
Come se potesse udire ancora e fosse scoppiato un tuono; e seppe - in qualche
modo seppe - quello che stava per capitarle. Nelle sue manine passò un pun-
gente formicolio. Aprì la bocca, ma non poté parlare, non poté avvertirla. Era
paralizzato da un terrore che era del tutto nuovo per lui, più selvaggio del
terrore della sordità, più orribile di qualsiasi cosa avesse mai provato nella sua
breve vita.
Infine riuscì a strapparsi dalle sue mani.
Fuggi verso casa, come se fosse la sua unica speranza.
«Papà!» urlava.

Rob J. era abituato a essere svegliato bruscamente per affrontare un caso di


emergenza, ma non da un attacco isterico di suo figlio. Sciamano continuava a
balbettare che Luna era tornata e che Luna stava morendo. Ci vollero parecchi
223
minuti a Rob J. e a Sarah per capire la sua storia e rendersi conto di che cosa
era successo. Quando capirono che Luna era veramente tornata ed era malata e
giaceva a terra vicino al fiume, corsero fuori.
La nebbia stava rapidamente sparendo. C'era più visibilità e poterono chia-
ramente vedere che non c'era nessuno. I genitori interrogarono ripetutamente il
bambino: Luna e Cane di Pietra e un altro indiano erano là, insisteva Sciamano,
e raccontava com'erano vestiti, che cosa dicevano, che aspetto avevano.
Sarah corse indietro quando sentì che cosa portavano in mano gli indiani e
tornò piena di collera perché la dispensa era stata scassinata e ne mancavano
diversi viveri, duramente guadagnati. «Robert Cole» chiese severamente. «Hai
forse preso tu stesso quelle cose, per qualche trucco, e poi inventi questa storia
dei Sauk che sono tornati?»
Rob J. risalì a passi svelti la riva del fiume, e poi ridiscese chiamando il
nome di Luna, ma nessuno rispose.
Sciamano piangeva disperatamente. «Sta morendo, papà.»
«Ma tu, come lo sai?»
«Lei mi teneva le mani e lei...» Il bambino rabbrividì.
Rob J. guardò il figlio e sospirò. Lo prese fra le braccia e lo strinse a sé.
«Non spaventarti. Non è colpa tua quel che è successo a Luna. Io poi parlerò
con te e cercherò di spiegarti. Ma ora la prima cosa da fare è tentare di tro-
varla.»

Montò a cavallo e cominciò a cercare. Per tutta la mattina esplorò i fitti


boschi che fiancheggiavano la riva del fiume, perché, se gli indiani erano in
fuga e volevano nascondersi, avrebbero certamente preso per i boschi. Si dires-
se prima a nord, verso il Wisconsin, poi tornò indietro e puntò a sud. Ogni
tanto chiamava il nome di Luna, ma non ebbe mai risposta.
È possibile che durante le sue ricerche passasse molto vicino a loro. Forse
talvolta i tre Sauk restarono acquattati nella boscaglia, aspettando che Rob J. si
allontanasse. Nel primo pomeriggio dovette ammettere con se stesso che non
sapeva come potessero pensare i Sauk in fuga, perché non era lui stesso un
sauk in fuga. Forse si erano allontanati dal fiume. Nella prateria verdeggiavano
le alte erbe di fine estate, che avrebbero celato i movimenti dei tre indiani; e nei
campi di granturco i fusti erano più alti di un uomo, almeno di tutta una testa, e
avrebbero offerto un rifugio perfetto.

Quando finalmente Rob J. rinunciò e tornò a casa, Sciamano non nascose la


sua delusione apprendendo che la ricerca era stata infruttuosa. Rob J. si sedette
224
insieme con il ragazzo sotto un albero, da solo a solo, e gli parlò del Dono, e di
come da secoli il Dono ricompariva in un membro della famiglia Cole.
«Non in tutti. Talvolta salta una generazione. Mio padre lo aveva, ma non
mio fratello e neanche mio zio. Si annuncia in alcuni Cole quando sono molto
giovani.»
«E tu lo hai, papà?»
«Sì, ce l'ho.»
«E quanti anni avevi quando...?»
«Avevo quasi cinque anni più di quelli che hai tu ora.»
«E che cosa è?» chiese il bambino esitante.
«Be', Sciamano... veramente non lo so. So però che non c'è nulla di magico.
Credo che sia una specie di sesto senso, un senso come la vista o l'udito o
l'odorato. Alcuni di noi sono in grado di tenere le mani di una persona e sapere
se sta per morire. Penso che sia semplicemente una sensibilità extra, come
quella di sentire il polso quando si toccano parti diverse del corpo...» Si strinse
nelle spalle. «Talvolta è una capacità che torna assai utile, quando si è un
medico.»
Sciamano annuì. «Penso che anche a me sarà molto utile quando diventerò
un medico.»
Rob J. pensò che se il ragazzino era abbastanza grande da capire che cos'era
il Dono, era anche abbastanza maturo per affrontare altri problemi. «Tu non
diventerai un medico, Sciamano.» La sua voce era sommessa e gentile. «Un
medico deve poter udire. Io uso ogni giorno l'udito nel curare i miei pazienti.
Ascolto il torace, ascolto il respiro, la qualità delle loro voci. Un medico deve
essere in grado di sentire un grido di aiuto. Insomma, ha bisogno di tutti e
cinque i suoi sensi.»
Era straziato da quello che leggeva nello sguardo del figlio. «E allora, che
cosa farò quando sarò grande?»
«Questa è una buona fattoria, la coltiverai con tuo fratello.» Il ragazzino
scosse la testa.
«E allora potrai diventare un uomo d'affari, forse lavorare in un emporio.
Miss Burnham dice che sei l'alunno più brillante che abbia mai avuto. Forse ti
piacerà insegnare in una scuola.»
«No, non voglio insegnare in una scuola.»
«Sciamano, adesso sei solo un ragazzo. Passeranno molti anni prima che tu
debba prendere una decisione. Intanto, tieni gli occhi bene aperti. Studia gli
uomini, i loro diversi caratteri, le loro occupazioni. Ci sono tanti modi per gua-
dagnarsi da vivere. Puoi scegliere qualsiasi cosa.»
225
«Eccetto...» mormorò Sciamano.
Rob J. non voleva esporre il bambino a delusioni non necessarie, lascian-
dolo sperare in un sogno che, Io sapeva, non poteva realizzarsi.
«Sì, Sciamano. Eccetto» ripeté fermamente.
Era stato un giorno triste, che aveva lasciato in Rob J. una profonda ama-
rezza per l'ingiustizia della vita. Detestava stroncare il sogno brillante e gene-
roso del figlio. Era come dire a qualcuno che ama la vita che non serve più fare
progetti per l'avvenire.
Si aggirò di malumore per la fattoria. Lungo il fiume le zanzare erano insop-
portabili. Gli disputavano l'ombra degli alberi e finivano per scacciarlo.
Sapeva che non avrebbe mai più rivisto Luna. Avrebbe voluto darle l'ultimo
addio. Le avrebbe chiesto dove era stato sepolto Vien Cantando. Avrebbe volu-
to dare a entrambi una sepoltura degna. Ma ora anche Luna, forse, giaceva ab-
bandonata in una tomba senza nome. Come seppellire un cane.
Si sentiva furioso a quel pensiero, e colpevole, perché malgrado tutto lui
stesso faceva parte dei loro problemi, e ne faceva parte la sua fattoria. Una vol-
ta i Sauk possedevano quelle ricche terre e avevano i loro Siti dei Morti, dove
le tombe avevano un nome.
«Ci hanno fatto tanto male» aveva detto Luna a Sciamano.
L'America aveva un'ottima costituzione, e lui l'aveva letta attentamente. Ga-
rantiva la libertà, ma dovette riconoscere che aveva valore solo per gli uomini
la cui pelle andava dal bianco al rosa. Gli uomini con la pelle più scura avreb-
bero anche potuto essere rivestiti di velli o di piume.
Per tutto il tempo che si aggirò per la fattoria, andò cercando intorno con gli
occhi. All'inizio non se ne era reso conto, ma quando si accorse di quel che
stava facendo si sentì un po' meglio, anche se non molto. Il luogo che cercava
non doveva trovarsi nei campi o nei boschi dove Alden o uno dei ragazzi, o
magari un cacciatore di frodo, potevano per caso inciamparvi. La casa era da
escludere, perché doveva mantenere il segreto anche con i membri della sua
famiglia, cosa che gli dispiaceva profondamente. Il suo ambulatorio talvolta era
deserto, ma c'erano momenti in cui era affollato di pazienti. Anche il fienile era
troppo frequentato. Ma...
Dietro il fienile, addossato a una parete senza finestre che lo separava dal
locale della mungitura, c'era un capannone lungo e stretto. Era il capannone
dove lui conservava farmaci, tonici e altri medicinali. Insieme con i mazzi di
erbe officinali appesi alle travi, e agli scaffali pieni di fiale e bottiglie, vi teneva
un tavolo di legno e una serie di vasi e bacinelle, perché, quando era incaricato
di un'autopsia, la eseguiva nel capannone, che aveva una robusta porta di legno
226
e un grosso catenaccio.
La stretta parete nord del capannone, come l'intera parete nord del vero e
proprio fienile, era appoggiata al fianco della collina. Nel capannone una parte
della parete era di roccia, ma una parte era costituita da terra.
Il giorno dopo Rob J. fu completamente assorbito da un affollato ambulato-
rio e da numerose visite a domicilio, ma il mattino successivo poté liberarsi dai
suoi impegni di medico. Per caso era un giorno fortunato, perché Sciamano e
Alden stavano riparando la palizzata e costruendo un capannone dall'altra parte
della fattoria, e Sarah era in chiesa a occuparsi di certi progetti. In casa c'era so-
lo Kate Stryker, che Sarah aveva assunto come domestica a ore dopo che Luna
se n'era andata, e Kate non lo avrebbe disturbato.
Appena gli altri si furono allontanati, prese un piccone e una vanga e si pose
all'opera. Da diverso tempo non faceva lavori che richiedessero un prolungato
sforzo fisico, e dovette mettersi d'impegno. Il suolo era pieno di pietre ed era
pesante, come del resto quasi tutto il terreno della fattoria, ma Rob J. era forte e
il piccone spezzava la dura terra senza difficoltà. Di tanto in tanto la caricava
con la vanga in una carriola e la trasportava a una buona distanza dal fienile,
gettandola in un piccolo burrone. Aveva pensato che forse lo scavo poteva
richiedere parecchi giorni, ma nelle prime ore del pomeriggio era arrivato alla
roccia. La parete rocciosa proseguiva verso nord, sicché lo scavo che risultò era
profondo solo un metro da una parte e poco più di un metro e mezzo dall'altra,
ed era largo meno di un metro e mezzo. Lo spazio così ricavato era appena suf-
ficiente per starvi sdraiati, specialmente se vi si dovevano mettere anche i vive-
ri e altre provviste, ma Rob J. sapeva che sarebbe servito. Coprì l'apertura con
tavole verticali, di circa due centimetri di spessore, che erano state stipate
all'aperto per quasi un anno e parevano stagionate come il resto del fienile. Con
un punteruolo praticò i fori per i chiodi, tenendone alcuni un po' larghi, e unse i
chiodi che dovevano entrare nei fori, in modo che alcune delle tavole potessero
essere tolte e rimesse facilmente e senza rumore.
Lavorò con estrema attenzione e infine tornò con la carriola nei boschi e
raccolse una quantità di foglie morte che sparse nel burrone per celare la terra
scavata di fresco.
Quindi, la mattina dopo, si recò a cavallo a Rock Island, dove ebbe un breve
ma significativo colloquio con George Cliburne.

227
35

Il nascondiglio segreto

Quell'autunno il mondo cominciò a cambiare per Sciamano, non di colpo,


non trasformandosi bruscamente com'era avvenuto con l'insorgere della sordità,
ma per un complesso spostamento di poli, che non era meno netto per essere
graduale. Alex e Mal Howard erano divenuti amici intimi e l'esuberante
allegria del rapporto fra i due tendeva perlopiù a escludere Sciamano. Rob J. e
Sarah erano scontenti di quell'amicizia: sapevano che Mollie Howard era una
sciattona piagnucolosa e suo marito Julian era un individuo indolente e inca-
pace, ed erano molto preoccupati nel vedere il figlio che passava troppo tempo
nell'affollata e disordinata casa di tronchi degli Howard, dove una buona parte
della popolazione locale si recava a comprare il casalingo beveraggio che Ju-
lian distillava con aria di importanza da un pastone di granturco in un alam-
bicco ben nascosto e chiuso con un coperchio rugginoso.
La loro apprensione raggiunse il culmine nel giorno di Halloween, quando
Alex e Mal assaggiarono un po' del whisky che Mal aveva furtivamente sot-
tratto mentre imbottigliava la produzione del padre. Messi così in allegria, i due
ragazzi girarono per mezza città combinando disastri e scassinando le latrine
esterne, finché Alma Schroeder uscì strillando dal suo gabinetto ribaltato e Gus
Schroeder pose fine alla baldoria comparendo armato del suo fucile da caccia.
L'incidente diede il via a una serie di tempestosi colloqui fra Alex e i suoi
genitori, colloqui che Sciamano cercò di evitare perché, dopo aver assistito alle
prime battute, non ebbe più cuore di continuare a leggere le loro labbra. Un
incontro fra i ragazzi, i loro padri e lo sceriffo London fu ancora più spiacevo-
le. Julian Howard sputò e sentenziò che era «un mucchio di casino per un paio
di ragazzi che avevano fatto un po' di chiasso per Halloween».
Rob J. cercò di dimenticare la sua antipatia per Howard, anche se avrebbe
scom-messo che era un membro dell'Ordine Supremo della Bandiera Stellata,
se mai ce n'era uno a Holden's Crossing, e capace di fare un bel po' di guai per
conto suo. Concordò con Howard che i due ragazzi non erano assassini o ban-
diti; ma, poiché il suo lavoro di medico trattava seriamente le funzioni dige-
stive, non poteva condividere il comune punto di vista che ogni cosa riguar-
dante la merda fosse buffa, compresa la distruzione delle latrine. Sapeva che lo
sceriffo London era venuto armato di una mezza dozzina di capi d'accusa con-
tro i ragazzi e avrebbe proceduto per via legale, per la buona ragione che non
aveva simpatia per i due padri. Suggerì dunque che Alex e Mal si impegnassero
228
a rimediare al malfatto. Tre delle latrine erano ribaltate o ridotte in pezzi. Due
non potevano essere riattate sugli stessi pozzi, che erano pieni. Per fare am-
menda, i ragazzi dovevano scavare i pozzi neri e riparare le cabine. Se occor-
reva dell'altro legname, Rob J. avrebbe fornito il denaro necessario e Alex e
Mal avrebbero pagato il loro debito verso di lui lavorando alla sua fattoria. E se
poi non mantenevano l'impegno, lo sceriffo London poteva procedere.
Mort London, sebbene riluttante, ammise che la proposta era accettabile.
Julian Howard dapprima era contrario, finché gli fu assicurato che tanto suo
figlio quanto il ragazzo Cole avrebbero potuto svolgere anche gli altri loro
compiti quotidiani e allora acconsentì. Né Alex né Mal ebbero la possibilità di
rifiutare, così nel mese successivo divennero dei veri esperti nella ristruttu-
razione delle latrine: anzitutto scavarono i pozzi, prima che l'inverno facesse
gelare il terreno, e poi eseguirono il lavoro di falegnameria, con le mani into-
rpidite dal freddo. Essi si dimostrarono abili costruttori, tanto che le "loro" la-
trine sarebbero durate per anni, eccetto quella dietro la casa degli Humphrey,
distrutta dal tornado che nell'estate del 1863 rase al suolo la casa e il fienile,
uccidendo per giunta Irving e Letty Humphrey.
Alex era diventato un ragazzaccio sfrenato. Una volta a tarda notte entrò
nella stanza da letto che divideva con Sciamano portando la lampada a petrolio
accesa e annunciando con profondo compiacimento che l'aveva fatto.
«Fatto cosa?» chiese Sciamano, ammiccando per poter tenere aperti gli oc-
chi e vedere la bocca di suo fratello.
«Lo sai bene. L'ho fatto. Con Pattie Drucker.»
Sciamano ora era ben desto. «Tu? No! È una bugia, Alex.»
«L'ho fatto, ti dico. Con Pattie Drucker. Proprio là in casa di suo padre, la
famiglia non c'era perché era in visita dallo zio.»
Sciamano lo fissava fra sgomento e delizia, incredulo ma tormentosamente
desideroso di credere. «Ma se l'hai fatto, com'era?»
Alex gli sorrise compiaciuto. «Quando spingi l'affare oltre i peli e tutto, è
caldo e morbido. Molto caldo e morbido. Ma poi ti eccita tutto, non so come, e
ti muovi avanti e indietro perché sei così felice. Avanti e indietro, come l'ariete
fa con la femmina.»
«E anche la ragazza si muove avanti e indietro?»
«No» rispose Alex. «La ragazza se ne sta sdraiata tutta felice e lascia che sia
tu a muoverti.»
«E poi che cosa succede?»
«Be', ti si strabuzzano gli occhi. Il liquido ti sprizza fuori dall'affare come
una palla di fucile.»
229
«Uh, come una palla! E fa male alla ragazza?»
«Ma no, scemo, voglio dire veloce come una palla, non duro come una pal-
la. È più morbido del budino, proprio come quando te lo tiri fuori da te.
Comunque, in quel momento è finito tutto.»
Sciamano era convinto da quella quantità di particolari che non aveva mai
sentito prima. «E questo significa che Pattie Drucker è la tua ragazza?»
«No!» fece Alex deciso.
«Ma sei sicuro?» Sciamano era un po' preoccupato: Pattie Drucker era già
grassa quasi quanto sua madre e rideva che pareva un asino.
«Tu sei troppo giovane per capire» borbottò Alex seccato e di malumore e
spense la lampada per tagliar corto il discorso.
Sciamano rimase sveglio al buio pensando a quello che Alex gli aveva det-
to, insieme eccitato e turbato. Non gli piaceva la fine di quel colloquio a quat-
tr'occhi. Luke Stebbins gli aveva detto che se uno giocava con il suo pisello
rischiava di diventar cieco. Essere sordo era già abbastanza, non poteva per-
mettersi di perdere altri sensi. Mio Dio, disse, forse aveva già cominciato a
diventare cieco, e la mattina dopo se ne andò in giro per la casa e la fattoria
tutto ansioso, controllandosi la vista sugli oggetti vicini e lontani.

Poiché il fratello maggiore passava sempre meno tempo con lui, Sciamano
si dedicava di più ai libri. Leggeva rapidamente e non si vergognava di chie-
derne continuamente in prestito. I Geiger avevano una buona biblioteca e la
mettevano a sua disposizione. Al suo compleanno e a Natale non riceveva in
dono che libri, alimento per il fuoco che accendeva in sé contro il freddo della
solitudine. Miss Burnham diceva che non aveva mai visto un lettore così appas-
sionato.
Lo esercitava assiduamente senza pietà per migliorare la sua pronuncia.
Durante le vacanze scolastiche le fu offerto vitto e alloggio nella casa dei Cole,
e Rob J. provvide a che il suo lavoro con il bambino non rimanesse senza
compenso. Ma la maestra non si dedicava a Sciamano per un guadagno
personale. Ottenere in lui una pronuncia chiara era diventata per lei una meta
ambita. Gli esercizi con la mano appoggiata al pianoforte continuavano
ininterrotti. Era affascinata al vedere come il bambino fin dal principio fosse
sensibile alle differenze di vibrazioni. In poco tempo infatti arrivò a identificare
le note appena lei toccava il tasto.
Sciamano andava acquistando un vocabolario sempre più ricco in seguito
alle molte letture, ma aveva difficoltà per la pronuncia: non riusciva a imparare
l'accento giusto, non potendo udire le voci degli altri. Per esempio, pronunciava
230
«farmacia» come «farmàcia» e Dorothy si rese conto che una parte delle sue
difficoltà stava nel fatto che non sapeva dove porre l'accento. Usò una pallina
di gomma per illustrargli il problema, facendola rimbalzare piano per le sillabe
non accentate e più forte per quelle accentate. Ma anche per questo ci volle del
tempo, perché il comunissimo gesto di afferrare una palla al rimbalzo gli crea-
va grandi difficoltà. Miss Burnham si rese conto che lei stessa si preparava ad
acchiappare la palla in base al suono che faceva rimbalzando sul pavimento.
Sciamano non poteva prepararsi in quel modo, così dovette imparare ad
afferrarla memorizzando l'esatta quantità di tempo che occorreva alla palla per
raggiungere il pavimento e rimbalzare nella sua mano, quando era gettata con
una data forza.
Una volta che fu in grado di identificare i rimbalzi della palla come simboli
dell'accento, Dorothy escogitò una serie di esercizi con il gesso e la lavagna,
scrivendo le parole e poi tracciando minuscole palline sulle sillabe atone e
palline più grosse sulle sillabe accentate.
Rob J. partecipava talvolta agli esercizi insegnando a Sciamano alcuni gio-
chi di destrezza, e anche Alex e Mal spesso assistevano alle lezioni. Rob J.
qualche volta aveva fatto dei giochi di prestigio per intrattenerli, e i ragazzi si
erano divertiti e interessati, ma la destrezza si acquistava solo lentamente.
Tuttavia li incoraggiava a insistere. «A Kilmarnock tutti i bambini Cole im-
parano a fare i giocolieri. È un vecchio costume di famiglia» diceva. «Se
possono impararlo loro, potete impararlo anche voi.» E i ragazzi gli diedero
ragione. Rimase tuttavia deluso al vedere che Mal Howard diventava il miglior
giocoliere dei tre, e ben presto fu in grado di manipolare quattro palle. Ma
Sciamano gli veniva subito dietro e Alex continuò a esercitarsi con tenacia
finché fu in grado di tenere tre palle in aria senza scomporsi. Il suo scopo era
non di addestrare un vero giocoliere, ma di dare a Sciamano il senso del variare
dei ritmi: e la cosa funzionò.
Un pomeriggio, mentre Miss Burnham era al pianoforte di Lillian Geiger
con il ragazzino, tolse la sua mano dalla cassa del piano e l'appoggiò sulla pro-
pria gola. «Quando parlo,» gli spiegò «le corde vocali nella mia laringe vi-
brano, come le corde metalliche del piano. Senti le vibrazioni, e come cam-
biano con le diverse parole?»
Sciamano annuì incantato e si sorrisero a vicenda. «Oh, Sciamano!» Doro-
thy Burnham tolse la mano del bambino dalla propria gola e lo strinse fra le
braccia. «Stai facendo tanti progressi! Ma hai bisogno di continuo esercizio,
più di quello che potrò farti fare io quando comincerà la scuola. Chissà se c'è
qualcuno che potrebbe aiutarti?»
231
Sciamano sapeva che suo padre era occupatissimo con i suoi pazienti. Vede-
va che sua madre si dedicava molto ai suoi lavori per la chiesa, e inoltre sentiva
in lei una certa riluttanza al contatto con la sua sordità, una riluttanza strana per
lui, ma non solo immaginaria. E Alex, appena finiti i compiti di scuola, era
uccel di bosco in compagnia di Mal.
Dorothy sospirò. «Se si potesse trovare qualcuno che lavori con te rego-
larmente!»
«Io sarei contenta di aiutare» fece all'improvviso una voce. Veniva da una
grande poltrona imbottita di crine di cavallo, che stava voltata con lo schienale
verso il pianoforte: e con grande stupore videro Rachel Geiger balzare in piedi
e avvicinarsi a loro.
Quante volte, si chiese Miss Dorothy, la ragazzina se ne era stata lì seduta,
senza che nessuno se ne accorgesse, e li aveva ascoltati durante gli esercizi?
«Io so che posso farlo, Miss Burnham» ripeté Rachel un po' ansiosa.
Sciamano sembrava felice.
Dorothy sorrise e strinse la mano di Rachel. «Sono sicura, mia cara, che ci
riuscirai splendidamente.»

Rob J. non aveva ricevuto risposta a nessuna delle lettere che aveva spedito
a proposito della morte di Makwa. Una notte si sedette alla scrivania e trasferì
la sua frustrazione sulla carta, un'altra lettera dal tono più aspro per cercare di
smuovere le acque.
«... I reati di stupro e assassinio sono stati facilmente ignorati dai rappre-
sentanti del governo e della legge, fatto che solleva il problema se lo Stato
dell'Illinois - in realtà qualunque altro Stato degli Stati Uniti d'America - sia
un Paese veramente civile o sia un luogo in cui gli uomini sono autorizzati a
comportarsi come i piti selvaggi fra gli animali in perfetta impunità.» Spedì le
lettere alle stesse autorità a cui si era già rivolto, sperando che la nuova asprez-
za di tono portasse a qualche risultato.
Nessuno comunicava con lui su nessun argomento, pensò di malumore.
Aveva scavato il rifugio nel capannone con fretta quasi frenetica, e, ora che era
pronto e in attesa, non gli veniva neanche una parola da George Cliburne.
Dapprima, via via che passavano i giorni, si domandava in che modo sarebbe
potuto giungergli un avviso; poi cominciò a domandarsi perché lo ignorassero.
Infine abbandonò il pensiero del rifugio segreto e tornò alla contemplazione
dell'ambiente familiare: il progressivo accorciarsi dei giorni, la vista di uno
stormo di oche nella caratteristica formazione a V, che emigravano verso sud
attraverso l'aria azzurrina, il mormorio canoro del ruscello che diventava più
232
cristallino via via che l'acqua si faceva più fredda. Un mattino si recò al
villaggio e Carroll Wilkenson si alzò dalla sua poltroncina sotto il portico
dell'emporio e si avviò con aria indifferente verso di lui, che stava legando il
cavallo a un palo. Era un piccolo pezzato dal collo malinconicamente chino.
«Un nuovo cavallo, dottore?»
«Cavalla. La stavo provando. La nostra Vicky è quasi cieca ormai. Buona
ancora per portare a spasso i bambini nel prato, ma... Questa vispa ragazzina
appartiene a Tom Beckermann.» Scosse la testa. Il dottor Beckermann gli
aveva detto che la cavalla pezzata aveva cinque anni, ma i suoi incisivi inferiori
erano consumati al punto che doveva averne almeno il doppio, e inoltre faceva
uno scarto a ogni insetto e a ogni ombra.
«Lei preferisce le cavalle?»
«Non necessariamente, ma sono più tranquille degli stalloni, secondo me.»
«Credo che lei abbia proprio ragione. Perfettamente ragione... Ieri ho
incontrato George Cliburne. Mi ha detto di riferirle che gli sono arrivati dei
libri nuovi, che potrebbero interessarle.»
Era il segnale e lo prese di sorpresa. «Grazie, Carroll. George ha un'eccel-
lente biblioteca» rispose, sperando che la sua voce suonasse ferma.
«Davvero.» Wilkenson gli fece un cenno di saluto con la mano. «Bene,
spargerò la voce che lei cerca un cavallo.»
«Le sarò molto grato.»

Dopo cena scrutò il cielo per assicurarsi che non ci sarebbe stata la luna.
Pesanti nuvole plumbee erano passate nell'aria per tutto il pomeriggio, spinte
dal vento. L'aria pareva quella di una lavanderia dopo un bucato di due giorni e
prometteva pioggia prima dell'alba.
Andò a letto presto e si concesse qualche ora di sonno, sfruttando quella
capacità propria del medico di farsi un pisolino quando poteva. Ma alla una era
sveglio. Prese tempo e scivolò in silenzio fuori dal caldo letto di Sarah poco
prima delle due. Si era coricato senza togliersi la biancheria e raccolse senza
far rumore i suoi abiti nella stanza buia, portandoli giú in cucina. Sarah era
abituata alle sue uscite notturne per accorrere al capezzale di qualche paziente a
qualsiasi ora, e continuò a dormire indisturbata.
I suoi stivali erano in un angolo dell'atrio, sotto il giaccone. Nella stalla
sellò Regina Vittoria, perché doveva andare solo fin dove il sentiero dei Cole
sbucava nella strada comune e Vicky conosceva cose bene il percorso che non
aveva bisogno di vederci chiaro. Nel suo nervosismo arrivò troppo presto e per
dieci minuti rimase in sella ad accarezzare il collo della cavalla, mentre
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cominciava a cadere una pioggia leggera. Tendeva l'orecchio a cogliere rumori
immaginari, ma infine gli arrivarono suoni che non erano immaginari, il
crepitio e il tintinnio dei finimenti, il rumore degli zoccoli di un pesante cavallo
che arrancava su per la via. Poco dopo emergeva dal buio un carro carico di
fieno. «Tu sei qui, allora» disse la voce calma di George Cliburne.
Rob J. soffocò l'impulso di dire che non era lui e aspettò, mentre Cliburne
frugava nel fieno e ne emergeva una seconda figura. Evidentemente Cliburne
aveva dato già prima all'ex schiavo le istruzioni necessarie, perché senza una
parola l'uomo si aggrappò alla sella di Vicky e montò dietro Rob J.
«Possa tu camminare con Dio» salutò Cliburne allegramente. Tirò le redini
e rimise in moto il carro. In qualche momento del viaggio il negro doveva aver
perduto il controllo della vescica; il naso esperto di Rob J. gli disse che l'urina
era già asciugata, forse da qualche giorno, e cercò di scostarsi di pochi
centimetri dall'odore di ammoniaca che saliva dietro di lui. Quando passarono
davanti alla casa, tutto era buio. Aveva pensato di sistemare rapidamente
l'uomo nel rifugio che aveva scavato, togliere i finimenti alla cavalla e tor-
narsene al caldo del suo letto. Ma una volta entrato nel capannone, vide che la
faccenda era più complicata.
Quando accese la lampada si trovò di fronte un maschio nero fra i trenta e i
quarant'anni, con lo sguardo diffidente e spaventato di un animale braccato, un
grande naso a becco, una chioma incolta come il vello di un ariete nero.
Portava scarpe robuste, una camicia passabile e pantaloni così laceri che
c'erano più buchi che stoffa.
Rob J. avrebbe voluto chiedergli come si chiamava, da dove era fuggito, ma
Cliburne lo aveva avvisato: niente domande, era contro le regole. Spostò le
tavole, spiegò il contenuto del rifugio: secchio coperto per i bisogni naturali,
carta di giornale per pulirsi, una brocca di acqua da bere, un sacchetto di pan
biscotto. Il negro non disse nulla: si chinò ed entrò. Rob J. rimise a posto le
tavole.
C'era una pentola d'acqua sulla stufa spenta e Rob J. accese il fuoco. Appesi
a un chiodo nel fienile trovò un paio di suoi vecchi calzoni da lavoro, che erano
troppo lunghi e troppo larghi, e un paio di bretelle una volta rosse, e ora grigie
di polvere. I calzoni arrotolati potevano essere pericolosi se il fuggiasco doveva
correre, e Rob J. ne tagliò via venti centimetri da entrambe le gambe con le sue
forbici chirurgiche. Quando ebbe sistemato la cavalla, l'acqua sulla stufa era
calda. Spostò di nuovo le tavole e portò acqua, panni, sapone e calzoni nel
rifugio. Quindi ricollocò le assi, rigovernò la stufa, spense la lampada.
Esitò un attimo prima di allontanarsi. «Buonanotte» disse alle assi. Ci fu un
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fruscio, come di un orso che si muovesse nella tana.
L'uomo si stava lavando. «Grazie, signore» bisbigliò infine una voce rauca,
come se qualcuno parlasse in chiesa.

Il primo ospite della locanda, pensò Rob J. Il negro si fermò 73 ore. George
Cliburne, rilassato e allegro, con modi così educati da sembrare formali, venne
a prenderlo a metà di un'altra notte e lo portò via. Anche se era così buio che
Rob J. non poteva vedere i particolari, era sicuro che i pochi capelli del
quacchero erano pettinati con cura attraverso la testa calva e le sue guance rosa
erano accuratamente rasate come se fosse mezzogiorno.
Circa una settimana dopo Rob J. fu preso dal timore che lui stesso,
Cliburne, il dottor Barr e Carroll Wilkenson rischiassero di essere arrestati
sotto l'accusa di furto di proprietà privata, perché sentì dire che uno schiavo
fuggiasco era stato arrestato da Mort London. Ma risultò che non era il "suo"
nero, era uno schiavo fuggito dalla Louisiana, che si era rifugiato in una chiatta
sul fiume, senza che nessuno lo sapesse e potesse aiutarlo.
Fu una buona settimana per Mort London. Pochi giorni dopo che aveva
ricevuto una ricompensa in denaro per aver restituito lo schiavo, anche Nick
Holden premiò la sua lunga fedeltà facendolo nominare vicesceriffo federale a
Rock Island. London rassegnò subito le dimissioni dall'ufficio di sceriffo e per
sua raccomandazione il sindaco Anderson nominò il suo unico assistente, Fritz
Graham, a fare le sue veci fino alle prossime elezioni. Rob J. non aveva molta
simpatia per Graham, ma, la prima volta che per caso si incontrarono, il nuovo
sceriffo ad interim si affrettò a dimostrargli che non intendeva trascinarsi dietro
le vecchie beghe di Mort London.
«Spero che lei vorrà tornare a prestare la sua attività come coroner, dottor
Cole. Molta attività.»
«Ne sarò lieto.» Era vero, perché aveva sentito molto la mancanza delle
occasioni, offertegli dalle autopsie, di tenere in esercizio la sua abilità tecnica
di chirurgo.
Così incoraggiato, non poté resistere alla tentazione di chiedere a Graham se
si poteva riaprire il caso dell'assassinio di Makwa; ma ne ebbe uno sguardo di
così incredula diffidenza che indovinò la risposta, anche se Fritz Graham
promise: «... Farò tutto il possibile, stia pur sicuro, dottore».

Spesse cateratte lattee coprivano gli occhi di Regina Vittoria e la buona


vecchia cavalla non ci vedeva più. Se fosse stata più giovane, Rob J. l'avrebbe
operata per asportare le cateratte, ma la cavalla aveva perduto ogni forza per il
235
lavoro ed egli non vedeva ragione di infliggerle inutili sofferenze. Non voleva
neanche abbatterla, perché la cavalla pareva contenta di restare nel prato, dove
tutti quelli che si trovavano nella fattoria presto o tardi le si fermavano vicino
per offrirle una mela o una carota.
La famiglia doveva avere un cavallo da usare quando Rob J. era lontano.
L'altra giumenta, Bess, era più vecchia di Vicky e avrebbe dovuto anch'essa
essere ben presto sostituita. Così Rob J. teneva gli occhi aperti per trovare una
cavalcatura. Era un abitudinario e detestava dipendere da un animale nuovo,
ma infine a novembre comprò un cavallo per uso generico dagli Schroeder: una
piccola femmina baia, né giovane né vecchia, per un prezzo abbastanza ragio-
nevole, in modo che non sarebbe stata una grave perdita se poi non rispondeva
ai loro desideri. Gli Schroeder la chiamavano Trude, e Rob J. e Sarah non
videro ragione di cambiare il nome. Rob J. la condusse fuori in brevi cavalcate,
per vedere se lo deludeva, ma in cuor suo sapeva che Alma e Gus non gli
avrebbero venduto un cavallo inservibile.
In un chiaro pomeriggio ravvivato da una brezza pungente la cavalcò per le
sue visite a domicilio, che lo portarono per tutta la città e anche oltre. La
giumenta era più piccola di Vicky e Bess e sembrava più ossuta sotto la sella,
ma rispondeva bene e non era nervosa. Quando arrivarono a casa nelle prime
ombre della sera sapeva che avrebbe funzionato benissimo e si attardò a
strigliarla e a darle foraggio e acqua. Gli Schroeder avevano parlato con lei
solo tedesco. Rob J. le aveva parlato in inglese per tutto il giorno, ma ora le
diede una manata gentile sul fianco e sorrise: «Gute Nacht, Meine Gnädige
Liebchen» le disse, prodigando disinvoltamente il suo patrimonio lessicale
tedesco tutto in una volta.
Prese la lanterna e si affrettò a uscire dalla stalla, ma nel momento in cui
compariva in piena luce sulla porta echeggiò uno sparo. Si fermò incredulo,
cercando di identificarlo, dicendosi che un sacco di altri suoni erano simili a un
colpo di fucile, ma immediatamente dopo lo scoppio ci furono un tonfo sordo e
uno scricchiolio e una scheggia di legno schizzò dalla trave della porta, nem-
meno venti centimetri sopra la sua testa.
Si riprese, tornò in fretta dentro la stalla e spense la lanterna.
Sentì la porta sul retro della casa aprirsi e sbattere, e il calpestìo di piedi che
correvano. «Papà? Tutto bene?» chiamò Alex.
«Sì. Torna in casa.»
«Che cosa...?»
«PRESTO!» Sentì i piedi che si ritiravano, la porta che si apriva e sbatteva.
Sporgendo la testa a scrutare nel buio, si accorse di tremare. Le tre cavalle si
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muovevano inquiete nei loro box, e Vicky nitrí. Un attimo di gelo.
«Dottor Cole?» La voce di Alden si avvicinò. «Ha sparato lei?»
«No, qualcuno ha sparato e ha colpito la stalla. Maledettamente vicino a
me.»
«Lei resti lì» gridò Alden con voce tesa.
Rob J. sapeva come lavorava la mente del bracciante. Gli ci voleva troppo
tempo per arrivare allo schioppo che teneva nella sua capanna, e invece andava
a prendere il fucile da caccia in casa Cole. Rob J. sentì i suoi passi, il suo
avvertimento: «Sono io!», e poi la porta che si apriva e chiudeva.
... E si apriva ancora. Sentì Alden che camminava, e poi più nulla. Un
secolo passò in sette od otto minuti, e sentì i passi che tornavano verso la stalla.
«Nessuno qui fuori, per quanto possa vedere, dottor Cole, e ho guardato
bene. Dove ha colpito?» Rob J. additò la trave scheggiata e Alden dovette
alzarsi sulla punta dei piedi per toccarla. Nessuno dei due accese la lanterna per
vederci meglio. «E che diavolo!» borbottò Alden con voce scossa, il viso pal-
lido nel buio che infittiva. «Magari qualcuno che cacciava di frodo sulle sue
terre, ma sparare così vicino alla casa, e senza la luce del giorno! Se mai trovo
quel pazzo, avrà dei guai!»
«Non c'è stato nessun danno. Sono lieto che tu sia qui.» Rob gli batté sulla
spalla ed entrarono in casa insieme a tranquillizzare gli altri e dimenticare
l'incidente mancato.
Sarah aveva preparato una cena che gli piaceva in modo particolare, pepe-
roni verdi e zucca fresca entrambi con ripieno di carne trita e contorno di patate
e carote. Rob J. mangiò con appetito e fece i complimenti alla moglie per la sua
cucina, ma poi cercò un po' di solitudine e si sedette in una poltroncina nel-
l'angolo della veranda.
Nessun cacciatore che conoscesse poteva essere così sconsiderato da spara-
re vicino a una casa, e andare a caccia di sera con così scarsa visibilità. Pensò a
un possibile legame fra l'incidente e il rifugio e concluse che non poteva essere:
se qualcuno voleva procurargli dei guai perché aiutava schiavi fuggitivi, avreb-
be aspettato l'arrivo del prossimo negro. Poi avrebbe fatto arrestare quel pazzo
del dottor Cole e riscosso anche il compenso per lo schiavo catturato.
Eppure sentiva crescere in sé l'inquietante convinzione che lo sparo era stato
un avvertimento, a cui qualcuno voleva che riflettesse seriamente.
Il chiaro di luna brillava sulla prateria: non era notte da andare in giro con
uomini braccati. Mentre sedeva e osservava le mobili ombre degli alberi agitati
dal vento, si rese conto che infine aveva ricevuto una risposta alle sue lettere.

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36

Il primo ebreo

Rachel temeva il Giorno dell'Espiazione, ma amava la Pasqua, perché gli


otto giorni di Pesah la ricompensavano largamente del fatto che gli altri
avessero il Natale. A Pesah i Geiger restavano a casa loro e la casa le sembrava
un rifugio pieno di calda luce. Era una vacanza di musica e canti e giochi, di
paurose storie bibliche con lieto fine: c'erano cibi speciali al Seder, la Cena
Pasquale, con pane azzimo spedito da Chicago, e sua madre cuoceva al forno
una serie di dolci con pan di Spagna, così alti e leggeri che da bambina aveva
creduto alle parole di suo padre, quando le diceva di sorvegliarli bene e li
avrebbe visti alzarsi e volar via.
Invece, a Rosh ha-shanà e Jom Kippur, ogni autunno la famiglia faceva i
bagagli, dopo settimane di progetti e preparativi, e si metteva in viaggio per
un'intera giornata, con il carro fino a Galesburg, poi in treno fino a un porto sul
fiume Illinois e quindi in piroscafo lungo l'Illinois fino a Peoria, dove c'erano
una comunità ebraica e una sinagoga. Benché si fermassero a Peoria solo per le
due settimane sante di ogni anno, erano membri ufficiali della congregazione,
pagavano i contributi e avevano panche riservate con i loro nomi. Durante que-
ste Grandi Vacanze i Geiger alloggiavano in casa di Morris Goldwasser, un
mercante di tessuti che era un membro eminente dello shul, la Scuola Biblica.
Tutto, intorno a Mr. Goldwasser, era grande e ampio, compreso il suo corpo, la
sua famiglia, la sua casa. Non voleva accettare alcun pagamento da Jason,
asserendo che era un mitzvah, un'opera buona, dare a un altro ebreo la possi-
bilità di adorare Dio, e insisteva che, se i Geiger avessero pagato per la sua
ospitalità, lo avrebbero privato di una benedizione. Così ogni anno Lillian e
Jason si spremevano il cervello per settimane per escogitare un dono adatto a
dimostrare la loro gratitudine.
Rachel detestava l'intera faccenda che le rovinava l'autunno: i preparativi, le
preoccupazioni per la scelta del dono, le fatiche del viaggio, il tormento di
vivere per due settimane in casa di estranei, la pena e lo stordimento del digiu-
no di ventiquattr'ore dello Jom Kippur.
Per i suoi genitori ogni visita a Peoria era un'occasione per rinnovare la loro
coscienza ebraica. Erano ricercati in società, perché il cugino di Lillian, Judah
Benjamin, era stato eletto senatore della Louisiana al Congresso degli Stati
Uniti, il primo membro ebreo del Senato, e tutti volevano parlare di lui con i
Geiger. Andavano alla sinagoga a ogni occasione. Lillian scambiava ricette,
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ascoltava pettegolezzi. Jay parlava di politica con gli uomini, beveva un paio di
schnapps conviviali, offriva e accettava sigari. Parlava agli altri di Holden's
Crossing in termini entusiastici e ammetteva volentieri che cercava di attirarvi
altri ebrei, perché almeno si formasse un minyan di dieci uomini che consen-
tisse il culto in gruppo. Gli altri lo trattavano con cordiale comprensione. Fra
tutti solo Jay stesso e Ralph Seixas, che era nato a Newport, Rhode Island,
erano nativi d'America: gli altri venivano dall'estero e sapevano che cosa
significava essere pionieri. Era duro, ammettevano, essere il primo colono
ebreo a stabilirsi in una regione.
I Goldwasser avevano due grassocce figliole, Rose, che aveva un anno più
di Rachel, e Clara, che ne aveva tre di più. Quando Rachel era bambina, si
divertiva con le piccole Goldwasser giocando alla casa, alla scuola, agli adulti,
ma, quando Rachel compì dodici anni, Clara andò sposa ad Harold Green, un
cappellaio. La coppia viveva con i genitori di Clara e ogni anno, quando i
Geiger arrivavano per le vacanze, Rachel trovava dei cambiamenti. Clara non
voleva più giocare agli adulti, perché era diventata adulta lei stessa, una donna
sposata. Parlava con gentilezza e condiscendenza a sua sorella e a Rachel;
curava suo marito con dolce assiduità e le era ormai consentito di pronunciare
le preghiere sulle candele dello Shabbat, onore riservato alle matrone della ca-
sa. Ma una sera in cui le tre giovani erano sole nella grande casa, bevvero vino
nella stanza di Rose e la quindicenne Clara Goldwasser Green si dimenticò di
essere una "matrona". Raccontò a Rachel e alla sorella tutto il possibile sulla
condizione coniugale: rivelò i più reconditi segreti dell'intimità degli adulti,
ravvivandoli con deliziosi dettagli sulla fisiologia e sulle abitudini del maschio
ebreo.
Tanto Rose che Rachel avevano già visto il pene, ma sempre in miniatura,
sul corpo infantile di fratellini e cuginetti, bambini nel bagno - un cosettino
morbido e rosa che finiva in un pomello circonciso di carne liscia, con un unico
forellino per la pipì.
Ma Clara, vuotando il calice fino alla feccia, con gli occhi semichiusi, sotto-
lineava maliziosamente la differenza fra i bambini ebrei e gli uomini ebrei. E,
leccando le ultime gocce con la punta della lingua, descriveva la trasforma-
zione della molle carne inoffensiva quando il maschio ebreo si sdraiava accanto
alla moglie e poi quel che in seguito avveniva.
Nessuna delle due ragazzine strillò di terrore, ma Rose aveva preso il cu-
scino e se lo premeva sul viso con tutt'e due le mani. «E questo avviene spes-
so?» chiedeva la sua voce soffocata.
Molto spesso, affermava Clara. E senza fallo il sabato e le feste religiose,
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avendo Dio informato il maschio ebreo che quella era una benedizione. «Tran-
ne, naturalmente, durante le mestruazioni.»
Rachel era al corrente delle mestruazioni: era l'unico segreto che sua madre
le aveva rivelato; a lei non erano ancora cominciate, diversamente dalle due
sorelle. Ma era turbata da qualche cosa d'altro, che riguardava la meccanica del
fatto, le misure, il comune senso del pudore, e con gli occhi della mente vedeva
un'immagine sconvolgente. Inconsciamente si protesse il grembo con la mano.
«Di certo» mormorò con voce spenta «questa è una cosa impossibile.»
Qualche volta, le informò Clara con aria di importanza, il suo Harold adope-
rava puro burro kasher, cioè preparato secondo le regole prescritte.
Rose Goldwasser si tolse il cuscino dal viso e fissò la sorella, con il volto
illuminato dalla rivelazione. «Ecco perché ci manca sempre il burro!»
I giorni che seguirono furono particolarmente difficili per Rachel. Lei e Ro-
se, davanti all'alternativa di considerare le rivelazioni di Clara o terrificanti o
comiche, per autodifesa optarono per la commedia. Durante la prima colazione
e il desinare, che di solito erano pasti a base di latticini, bastava che si guardas-
sero per esplodere in uno scoppio di risa così pazze che diverse volte furono
messe in castigo. A pranzo, quando le due famiglie sedevano a tavola insieme
con gli uomini, per lei era ancor peggio perché non poteva sedersi di fronte ad
Harold Green e guardarlo e parlargli senza pensare a lui tutto imburrato.

L'anno seguente, quando i Geiger si recarono a Peoria, Rachel fu delusa


nell'apprendere che Clara e Rose non vivevano più nella casa dei loro genitori.
Clara e Harold avevano avuto un maschietto e si erano trasferiti in una casetta
tutta loro, su un promontorio che guardava sul fiume; quando venivano in visita
dai genitori, Clara era occupatissima con il suo bambino e non aveva tempo da
dedicare a Rachel. Rose aveva sposato nel luglio precedente un ebreo di nome
Samuel Bielfield, che l'aveva portata a vivere a St. Louis.
Un giorno di quel Jom Kippur, mentre Rachel e i suoi genitori si trovavano
davanti alla sinagoga, furono avvicinati da un uomo piuttosto anziano, un tale
Benjamin Schoenberg. Mr. Schoenberg portava un cappello a cilindro di
castorino, una camicia di cotone bianco guarnita di increspature e una cravatta
nera. Chiacchierò un po' con Jay sulla situazione dell'industria farmaceutica e
poi cominciò sorridendo a fare qualche domanda a Rachel sulla scuola e sul-
l'aiuto che dava a sua madre in casa.
Lillian Geiger sorrise al vecchio signore e scosse la testa enigmaticamente.
«È troppo presto» gli disse, e Mr. Schoenberg sorrise a sua volta e annuì, e si
allontanò dopo qualche altra parola gentile.
240
Quella sera Rachel colse per caso qualche brandello di conversazione fra
sua madre e Mrs. Goldwasser, il che le rivelò che Benjamin Schoenberg era
uno shadchen, un sensale di matrimonio. Aveva infatti combinato i matrimoni
di Clara e Rose. Rachel si sentì terrorizzata, ma si consolò ricordando le parole
che sua madre aveva detto al sensale. Era troppo giovane per il matrimonio e i
suoi genitori se ne rendevano conto, si disse, senza voler pensare al fatto che
Rose Goldwasser Bielfield aveva solo otto mesi più di lei.
Per tutto quell'autunno, comprese le due settimane passate a Peoria, il corpo
di Rachel si andò trasformando. Quando le si erano sviluppati i seni, erano stati
fin dall'inizio seni di donna, che sbilanciavano il suo corpo sottile costrin-
gendola a portare il reggipetto e infliggendole una fatica muscolare e dolori di
schiena. Era l'anno in cui Mr. Byers le toccava il seno e le rendeva disgustosa
la scuola, prima che suo padre intervenisse a sistemare le cose. Quando Rachel
si esaminava nello specchio di sua madre, si rassicurava pensando che nessuno
avrebbe voluto prendersi una ragazza con i capelli neri e lisci, le spalle strette,
un collo troppo lungo, seni troppo pesanti, la pelle di un volgare colorito
giallastro e quei grossi occhi scuri da vitella.
Poi le venne in mente che qualsiasi uomo si prendesse una ragazza simile
doveva per forza essere brutto anche lui e stupido e molto povero; e si rese
conto che ogni giorno la portava più vicina a un futuro che rifiutava di contem-
plare. Era nervosa con i fratellini e li trattava con dispetto, perché non sapevano
quali doni e quali privilegi avevano ricevuto nascendo maschi: il diritto di
vivere nella calda sicurezza della casa paterna finché volevano, il diritto di
andare a scuola e imparare senza limiti di tempo.
Le mestruazioni le vennero tardi. Sua madre le aveva fatto di tanto in tanto
qualche domanda casuale, rivelando la sua preoccupazione per il ritardo; e poi
un pomeriggio, mentre in cucina aiutava a fare la marmellata di fragole di
bosco, senza preavviso una serie di crampi la fece piegare in due. Guardò, e si
vide insanguinata. Il cuore le batteva forte, ma non era cosa inaspettata, né era
accaduta mentre era sola e lontana da casa. Sua madre era con lei e le diceva
parole di conforto e le mostrava che cosa fare. Tutto pareva andar liscio finché
sua madre si chinò a baciarla e le disse che ora era diventata una donna.
Rachel cominciò a piangere. Non riusciva a fermarsi. Pianse per ore e pare-
va inconsolabile. Jay Geiger venne nella sua camera e si sedette sul letto accan-
to a lei, come non aveva più fatto da quando era bambina.
Le carezzò i capelli e le chiese che cosa aveva. Le spalle della ragazzina
erano scosse da singhiozzi così forti che non riusciva a parlare e il padre
dovette ripetere più volte la domanda.
241
Finalmente mormorò: «Papà... io non voglio mai sposarmi. Non voglio
lasciare te e la nostra casa».
Jay le diede un bacio e andò a parlare con la moglie. Lillian era molto tur-
bata. Molte ragazze si sposavano già a tredici anni, e pensava che sarebbe stato
meglio per la figlia sistemare la sua vita con un buon matrimonio ebraico
piuttosto che indulgere ai suoi insensati terrori. Ma Jay le fece osservare che,
quando si erano sposati, lei aveva già più di sedici anni, non era una ragazzina.
Quel che era stato un bene per la madre, sarebbe stato un bene per la figlia, che
aveva bisogno di crescere ancora e abituarsi all'idea del matrimonio.
Così Rachel si vide concedere una lunga tregua. Subito la sua vita divenne
migliore. Miss Burnham ripeteva a suo padre che la ragazzina era portata di
natura agli studi e sarebbe stato molto utile per lei continuarli. I genitori
decisero che sarebbe rimasta qualche altro anno all'Accademia, invece di lavo-
rare tutto il giorno in casa o alla fattoria. E furono lieti di vederla contenta, con
il volto sereno e gli occhi brillanti di vita.
Rachel aveva un'istintiva gentilezza che era parte della sua natura, ma la sua
propria infelicità l'aveva resa particolarmente sensibile verso quelli che erano
vittime di circostanze avverse. Era sempre stata in intimità con i Cole, come se
fossero parenti di sangue. Quando Sciamano era un bambinetto, una volta lo
avevano messo nel suo letto e lui si era bagnato: ed era stata Rachel che lo
aveva confortato, alleviando il suo imbarazzo e proteggendolo dalle beffe degli
altri bambini. La malattia che lo aveva privato dell'udito l'aveva sconvolta,
perché era stato il primo fatto della sua vita che le aveva rivelato la presenza di
sconosciuti e insospettati mali. Aveva osservato la lotta di Sciamano contro la
sordità con il senso di frustrazione di chi vorrebbe migliorare le cose ma si
sente impotente, e assisteva a ogni suo progresso con la gioia e l'orgoglio che
avrebbe provato per un fratello. Mentre lei stessa cresceva, aveva visto Scia-
mano trasformarsi da bambino in un robusto giovinetto, ancora più alto e forte
di suo fratello Alex. Dato il suo sviluppo precoce, Sciamano in quel periodo era
spesso impacciato e incespicava e si muoveva goffamente, e Rachel lo trattava
con speciale tenerezza.
Diverse volte era rimasta seduta, senza che gli altri se ne accorgessero, nella
poltrona accanto al pianoforte e aveva ammirato il coraggio e la tenacia di
Sciamano, ed era stata affascinata dall'abilità di Dorothy Burnham come inse-
gnante. Quando Miss Burnham si era domandata chi avrebbe potuto aiutare il
bambino, Rachel aveva reagito istintivamente, lieta dell'occasione. Il dottor
Cole e sua moglie le erano stati grati della sua offerta di lavorare con Scia-
mano, e anche i suoi genitori si mostrarono compiaciuti di quello che consi-
242
deravano un gesto di generosità. Ma Rachel si rendeva conto che, almeno in
parte, voleva aiutarlo perché era il suo più caro e più sicuro amico e perché un
giorno, in perfetta serietà, un bambino si era impegnato a uccidere un uomo che
le faceva del male.

Per il recupero di Sciamano erano necessarie lunghe e lunghe ore di lavoro


ininterrotto, in cui non si doveva cedere alla fatica, e ben presto il ragazzino
cominciò a contestare l'autorità di Rachel, come non avrebbe mai osato fare
con Miss Burnham. «Basta oggi. Sono stanco» affermò la seconda volta che si
trovarono soli, dopo che
Miss Burnham aveva assistito per cinque o sei giorni Rachel negli esercizi.
«No, Sciamano» aveva replicato Rachel seriamente. «Non abbiamo finito.»
Ma il bricconcello era scappato.
La volta successiva Rachel si era infuriata ma Sciamano si era messo a
ridere, e allora lei lo aveva investito gridandogli le parolacce dei loro giochi
d'infanzia. Ma quando la cosa si ripeté, il giorno dopo, gli occhi di Rachel si
riempirono di lacrime e Sciamano fu vinto.
«Proviamo ancora, allora» borbottò riluttante.
Rachel ne fu lieta, ma non cedette più alla tentazione di vincerlo con le
lacrime, poiché capiva che era più vantaggioso per lui assumere un atteggia-
mento severo. Dopo qualche tempo le lunghe ore di esercizi divennero un'abi-
tudine per entrambi. Via via che i mesi passavano e le capacità di Sciamano si
sviluppavano, Rachel modificò gli esercizi di Miss Burnham e ne escogitò altri
più raffinati.
Passavano molto tempo in esercizi che illustravano come il senso poteva
cambiare spostando l'accento da una parola all'altra in una frase sempre uguale:
Il bambino è malato.
Talvolta Rachel gli prendeva la mano e la stringeva per mostrargli dove an-
dava l'accento e Sciamano ne provava un acuto piacere. Era arrivato a odiare
gli esercizi al piano, in cui identificava una nota dalla vibrazione che sentiva
nella mano, perché sua madre ne aveva fatto uno spettacolo da salotto e ogni
tanto lo costringeva a esibirsi. Ma Rachel continuava a lavorare con il piano-
forte, e quando suonava una scala in chiave diversa era incantata al vedere che
Sciamano coglieva anche questa lieve modifica.
Lentamente, dal distinguere le note del piano passò a distinguere le altre
vibrazioni del mondo intero. Ben presto arrivò a capire quando bussavano alla
porta, anche se non udiva i colpi. Coglieva i passi di qualcuno che saliva le
scale, anche se gli altri intorno a lui non se ne accorgevano.
243
Un giorno Rachel prese la grande mano di Sciamano, come aveva fatto
Miss Burnham e se la pose sulla gola. Dapprima parlò a voce molto alta. Poi
moderò la sonorità e parlò sussurrando. «Senti la differenza?»
La sua carne era calda e vellutata, delicata ma forte. Sciamano poteva
sentirne muscoli e tendini. Gli faceva pensare a un cigno, e poi a un minuscolo
uccellino quando il battito del cuore di Rachel arrivava pulsando alla sua mano,
come non era mai accaduto quando premeva il collo più corto e grosso di Miss
Burnham. «La sento» rispose sorridendo.

37

Inondazioni

Nessun altro sparò a Rob J. Se l'incidente al fienile era stato un avverti-


mento per distoglierlo dalle sue ricerche sulla morte di Makwa-ikwa, chiunque
avesse premuto il grilletto dovette credere che il messaggio era stato compreso.
Rob J. non fece più nulla perché non sapeva che cos'altro fare. Infine gli arriva-
rono due lettere molto cortesi dal senatore Nick Holden e dal governatore
dell'Illinois. Furono le uniche autorità che gli risposero, e le loro lettere erano
solo blandi rifiuti. Rob J. ne rimase amareggiato, ma si volse a problemi più
immediati.
All'inizio era chiamato solo di rado a ospitare qualcuno nel suo rifugio se-
greto, ma dopo qualche anno l'affluire di schiavi fuggitivi si andò intensi-
ficando e ci furono periodi in cui l'arrivo di nuovi ospiti si fece più frequente e
regolare.
L'opinione pubblica si interessava vivamente della questione nera, ma da
punti di vista opposti. Dred Scott aveva vinto in primo appello la sua causa per
la libertà al tribunale del Missouri, ma la Corte Suprema dello Stato lo aveva
dichiarato ancora schiavo, e i suoi avvocati abolizionisti avevano fatto ricorso
alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Intanto scrittori e predicatori tuonavano, e
giornalisti e uomini politici scagliavano fulmini da entrambe le parti. Il primo
atto di Fritz Graham, dopo che fu regolarmente eletto sceriffo per cinque anni,
fu di comprare una intera muta di "cani da caccia al negro", perché i compensi
in denaro per l'arresto di uno schiavo ne facevano una lucrosa attività collatera-
le. L'entità dei compensi era cresciuta e le pene per l'aiuto ai fuggitivi erano
diventate più severe. Rob J. era spaventato quando pensava al rischio che cor-
reva, ma perlopiù vietava a se stesso di pensarci.
George Cliburne lo salutava con cortese indifferenza quando per caso lo
244
vedeva, come se non si incontrassero in ben diverse circostanze nel buio della
notte. Una conseguenza secondaria della loro collaborazione fu che Rob J. ebbe
libero accesso alla ricca biblioteca di Cliburne e poteva prelevare libri che
regolarmente portava a casa per Sciamano, e che talvolta leggeva lui stesso. La
collezione del sensale di grano era ricca di opere di filosofia e religione, ma
scarsa come opere scientifiche: il che corrispondeva al carattere e alla cultura
del proprietario.
Dopo circa un anno che Rob J. faceva il contrabbandiere di neri, Cliburne lo
invitò ad assistere a una riunione di quaccheri e accolse il suo rifiuto con
esitazione ma con rispetto. «Pensavo che tu potessi trovare fra noi un aiuto,
poiché tu fai l'opera del Signore.»
Rob J. stava per ribattere che faceva l'opera dell'uomo e non di Dio; ma era
un pensiero presuntuoso e rinunciò a formularlo in parole. Si limitò a sorridere
e scuotere la testa.
Sapeva che il suo nascondiglio era solo un anello di quella che senza dubbio
doveva essere una lunga catena, ma non aveva idea di come fosse il resto del-
l'organizzazione. Parlando con il dottor Barr non alluse mai al fatto che proprio
le parole di Barr lo avevano portato a diventare un fuorilegge. I suoi unici
contatti clandestini erano con Cliburne e con Carroll Wilkenson, che lo avver-
tiva quando il quacchero aveva «un nuovo libro interessante». Rob J. era sicuro
che, quando i fuggiaschi lasciavano il suo rifugio, venivano condotti a nord,
attraverso il Wisconsin e fino al Canada. Forse in barca, attraverso il Lago
Superiore. Questo era il percorso che avrebbe tracciato lui stesso, se avesse
dovuto progettare le fughe.
Ogni tanto Cliburne gli portava una donna, ma per la maggior parte i fug-
giaschi erano uomini. Si presentavano in aspetti assai diversi, ma sempre vestiti
di laceri stracci di cotone. Alcuni avevano la pelle così scura che gli sembrava
di un nero assoluto, il nero delle prugne mature, il nero delle ossa bruciate, il
nero denso delle ali del corvo. In altri il colore d'origine era diluito dal pallore
dei loro oppressori e presentava una varietà di sfumature che andavano dal
caffellatte al bruno del pan tostato. Per la maggior parte erano uomini di alta
statura, con corpi robusti e muscolosi; ma uno di loro era un giovane snello,
quasi bianco, che portava occhiali cerchiati di metallo. Disse di essere figlio di
una domestica nera e del padrone di una piantagione della Louisiana, un posto
chiamato Shreve's Landing. Sapeva leggere e fu grato a Rob J. che gli portò
candele e fiammiferi e vecchie copie dei giornali di Rock Island.
Rob J. si sentiva frustrato come medico, perché teneva con sé i fuggiaschi
per un tempo troppo breve per poter curare i loro problemi di salute. Aveva
245
capito che le lenti degli occhiali del giovane nero erano troppo forti per lui.
Qualche settimana dopo trovò un paio di occhiali che gli parvero più adatti, e la
prima volta che si trovò a passare per Rock Island andò a trovare Cliburne e gli
chiese se poteva in qualche modo inoltrarli. Ma Cliburne guardò gli occhiali e
scosse la testa. «Tu devi avere più buonsenso, dottore» e si allontanò senza
salutarlo.
Un'altra volta, un nero di possente corporatura con la pelle molto nera rima-
se nel nascondiglio per tre giorni. Non ci volle molto a Rob J. per accorgersi
che era nervoso e soffriva di disturbi intestinali. Talvolta il suo viso si faceva
grigiastro e malaticcio e l'appetito era scarso e irregolare. Rob J. era sicuro che
l'uomo avesse una tenia. Gli diede una bottiglietta di rimedio specifico, ma lo
avverti di non prenderlo finché non fosse giunto alla sua destinazione. «Altri-
menti sarai troppo debole per viaggiare e ti lascerai dietro una traccia di feci
mucose che ogni sceriffo del paese potrà seguire!»
Avrebbe ricordato ciascuno di loro finché viveva. Sentiva un'immediata
simpatia per i loro sentimenti e le loro paure, qualcosa di più del fatto che egli
stesso un giorno era stato un fuggiasco: era soprattutto perché i loro travagli gli
erano familiari, perché aveva assistito alle sventure dei Sauk.
Da molto tempo ignorava l'ordine tassativo di Cliburne di non interrogarli.
Alcuni erano loquaci, altri tenevano la bocca chiusa. Negli ultimi tempi cercava
almeno di sapere i loro nomi. Anche se il giovane con gli occhiali si chiamava
Nero, altri avevano nomi ebreo-cristiani: Moses, Abraham, Isaac, Aaron, Peter,
Paul, Joseph. Sentiva ripetere continuamente gli stessi nomi, e questo gli ri-
cordava ciò che Makwa gli aveva raccontato sui nomi biblici dati alle ragazze
indiane nella Scuola Evangelica.
Con quelli disposti a parlare passava tutto il tempo che la sicurezza poteva
consentire. Un nero del Kentucky era già fuggito una volta ed era stato
nuovamente catturato. Mostrò a Rob J. le cicatrici delle frustate sulla sua schie-
na. Un altro del Tennessee, gli disse che non era stato trattato male dal suo pa-
drone. Rob J. gli chiese perché in tal caso era fuggito e l'uomo strinse le labbra
e strizzò gli occhi, nello sforzo di trovare una risposta.
«Io non potere aspettare il giubileo.»

Rob J. chiese a Jay del giubileo. Nell'antica Palestina, ogni sette anni si la-
sciavano i campi incolti perché la terra riposasse e reintegrasse i suoi succhi,
secondo i precetti della Bibbia. Dopo sette anni sabbatici, il cinquantesimo
anno era dichiarato anno del giubileo e gli schiavi ricevevano un dono e veni-
vano liberati.
246
Rob J. osservò che l'istituzione del giubileo era migliore che non la schiavi-
tù perpetua, ma non era il massimo bene, poiché in molti casi cinquant'anni di
schiavitù erano più che una vita intera.
Lui e Jay parlavano con una certa cautela dell'argomento, sapendo da molto
tempo quanto le loro opinioni fossero diverse.
«Sai quanti schiavi ci sono negli Stati del Sud? Quattro milioni. C'è una
pelle nera ogni due pelli bianche. Liberiamoli e le fattorie e le piantagioni che
alimentano tanti abolizionisti del Nord dovranno chiudere. E allora, che farem-
mo di questi quattro milioni di neri? Come vivrebbero? Che ne sarebbe di
loro?»
«Alla fin fine vivrebbero come gli altri. Se avessero un po' di istruzione,
potrebbero diventare qualsiasi cosa. Farmacisti, per esempio» non poté tratte-
nersi dal dire.
Jay scosse la testa. «Tu semplicemente non vuoi capire. L'esistenza stessa
del Sud dipende dalla schiavitù. Ecco perché anche gli Stati che hanno abolito
la schiavitù considerano un reato aiutare gli schiavi fuggiaschi.»
Questa frase colpì Rob J. nel vivo. «Non parlarmi di reati! Il commercio
degli schiavi africani è fuori legge fin dal 1808, ma gli africani sono sempre
catturati e trascinati sotto il tiro dei fucili nelle navi che li trasportano negli
Stati del Sud, dove vengono venduti a blocchi.»
«Bene, tu parli della legge nazionale. Ma ogni Stato emana le sue proprie
leggi. E quelle sono le leggi che contano.»
Rob J. sbuffò e la conversazione finì.
Lui e Jay rimanevano amici e si aiutavano in qualsiasi cosa, ma la questione
della schiavitù aveva elevato fra loro una barriera di cui entrambi si dolevano.
Rob J. era un uomo che apprezzava una tranquilla conversazione con un amico,
e prese l'abitudine di condurre Trude su per il viottolo del convento di San
Francesco ogni volta che passava nelle vicinanze.
Non avrebbe saputo precisare il momento in cui divenne amico di Madre
Miriam Ferocia. Sarah destava in lui una passione fisica che era immutabile e
importante per lui come il cibo e le bevande, ma lei passava più tempo a
parlare con il suo pastore che con suo marito. Nel suo rapporto con Makwa,
Rob J. aveva scoperto che gli era possibile provare per una donna dell'amicizia
senza sessualità. Ora provava la stessa cosa per questa suora dell'Ordine di San
Francesco, di quindici anni più vecchia di lui, con gli occhi così severi nella
faccia energica e stretta nel velo.
L'aveva vista di rado prima di quell'inizio di primavera. L'inverno era stato
insolitamente mite, con piogge abbondanti. Il livello delle acque si alzò inos-
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servato finché i torrenti e i ruscelli d'improvviso si gonfiarono e furono difficili
da guadare, e a marzo la città pagò duramente il privilegio della sua posizione
fra due fiumi: già si parlava del Diluvio del '57. Rob J. osservò il fiume
tracimare dagli argini e inondare le sue terre, spazzando via la capanna del
bagno di sudore di Makwa e la casa delle donne. L'hedonoso-te fu risparmiato
perché Makwa aveva avuto l'accortezza di costruirlo su un rialzo del terreno.
Anche la casa dei Cole era più in alto del livello massimo raggiunto dall'inon-
dazione. Ma subito dopo che le acque si furono ritirate Rob J. fu chiamato a
curare il primo caso di febbre virulenta. Segui subito un altro caso. E un altro
ancora.
Sarah dovette impegnarsi tutto il giorno come infermiera, ma ben presto lei
e Rob J. e Tom Beckermann si trovarono sovraccarichi di lavoro. Poi un
mattino Rob J. arrivò alla fattoria degli Haskell e trovò Ben Haskell con la
febbre alta, ma già lavato a spugna e assistito da due suore di San Francesco.
Tutti gli "scarafaggi neri" erano all'opera ad assistere i malati. Rob J. vide
subito che erano eccellenti infermiere. Lavoravano sempre in coppia e persino
la Madre Superiora si muoveva con una compagna. Quando Rob J. protestò
con lei per questa stranezza, Miriam Ferocia rispose con altera freddezza,
facendogli capire che ogni obiezione era inutile.
Rob J. pensò che probabilmente lavoravano in coppia per difendersi a
vicenda dai dubbi in materia di fede e dai peccati della carne. Qualche giorno
dopo, mentre terminava la sua giornata con una tazza di caffè al convento,
commentò che gli sembrava strano che la Madre Superiora badasse a non
lasciare mai le sue suore da sole in una casa di protestanti. «È così debole,
allora, la vostra fede?»
«La nostra fede è forte! Ma anche noi cerchiamo calore e conforto, come gli
altri. La vita che abbiamo scelto è squallida. E abbastanza dura, anche senza
che vi si aggiungano le sventure delle tentazioni.»
Rob J. capì. Fu ben lieto di accettare la collaborazione delle suore alle
condizioni di Miriam Ferocia, dato che la loro opera di assistenza gli era così
preziosa.
Un giorno la Madre Superiora uscì in un commento sprezzante. «Lei non ha
altra borsa, dottor Cole, che questa logora borsa di cuoio decorata con setole di
maiale?»
«È il mio mee-shome, il mio amuleto sauk. Le cinghie sono fatte di funi
izze. Quando porto questa borsa, nessun proiettile può colpirmi.»
La suora lo guardò stupita. «Lei non ha fede nel nostro Salvatore, e poi
cerca protezione in un amuleto pagano?»
248
«Ah, ma funziona.» Le raccontò dello sparo che lo aveva mancato di poco
davanti alla stalla.
«Lei deve essere molto prudente» lo ammonì la suora, versandogli il caffè.
La capra che Rob J. aveva regalato al convento aveva già partorito due volte,
due piccoli maschi. Miriam Ferocia aveva venduto uno dei capretti e in qualche
modo si era procurata altre tre femmine, sognando di impiantare un'industria di
latticini; tuttavia, quando Rob J. arrivava al convento, non aveva latte per il suo
caffè, perché pareva che ogni capra fosse pregna o impegnata ad allattare i
piccoli. Ne faceva a meno, come facevano le monache, e imparò a gustare il
caffè nero.
La loro conversazione passò ad argomenti più seri. Rob J. era deluso che la
piccola inchiesta condotta dalla Madre Superiora nell'ambiente della sua Chiesa
non avesse portato alcuna notizia di Ellwood Patterson. Aveva abbozzato un
progetto. «Se riuscissimo a collocare un nostro uomo in seno all'Ordine Supre-
mo della Bandiera Stellata? Sarebbe possibile avere notizie sulla loro attività
criminosa in tempo per fermarli.»
«E come si potrebbe fare?»
Rob J. ci aveva pensato a lungo. Ci voleva un americano nato in America
che fosse assolutamente fidato, e insieme molto vicino a lui. Jay Geiger non era
adatto, perché l'Ordine Supremo avrebbe probabilmente rifiutato un ebreo. «Ci
sarebbe il mio bracciante, Alden Kimball. Nato nel Vermont. Un'ottima per-
sona.»
La Madre Superiora scosse la testa. «Che sia un'ottima persona è ancora
peggio, perché con questo progetto lei rischia di sacrificarlo e sacrificare se
stesso. Quelli sono uomini estremamente pericolosi.»
Rob J. dovette riconoscere la saggezza delle sue parole, e inoltre il fatto che
Alden cominciava a dimostrare i suoi anni. Non era ancora in declino, ma gli
anni erano molti. E beveva troppo.
«Lei deve avere pazienza» soggiunse la monaca gentilmente. «Farò qualche
altra ricerca. Nel frattempo, aspettiamo.»
Gli tolse di mano la tazzina del caffè e Rob J. capi che era ora di alzarsi
dalla poltrona del vescovo e prendere commiato, perché lei potesse prepararsi
per le preghiere del vespro. Raccolse la sua borsa-amuleto ornata di setole e
sorrise allo sguardo di sfida che la monaca rivolse al mee-shome. «Grazie,
Reverenda Madre» salutò e uscì.

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38

Ascoltando musica

Le famiglie di Holden's Crossing per istruire i loro figli seguivano il sistema


di mandarli all'Accademia per un semestre o due, in modo che imparassero un
po' a leggere e a eseguire elementari operazioni aritmetiche, e a scrivere con
una grafia stentata. Poi la scuola terminava e i figli cominciavano la loro vita di
lavoratori sui campi delle fattorie. Quando Alex ebbe sedici anni, dichiarò che
ne aveva abbastanza della scuola. Benché Rob J. si offrisse di pagare le spese
per un'educazione superiore, andò a lavorare con Alden a tempo pieno nel-
l'allevamento di pecore e Sciamano e Rachel rimasero gli studenti più anziani
della scuola.
Sciamano era desideroso di continuare a studiare e Rachel era ben lieta di
quel tranquillo scorrere dei giorni, cullandosi nell'illusione che potessero durare
così tutta la vita. Dorothy Burnham si rendeva conto che era un'insolita fortuna
per una insegnante avere degli alunni così e li trattava come tesori, trasmet-
tendogli tutto quello che sapeva e cercando di progredire lei stessa per tener
desta la loro emulazione. Rachel aveva tre anni in più di Sciamano ed era più
avanti nello studio, ma ben presto Miss Burnham li mise alla pari, formando
con i due alunni un'unica classe. Era naturale quindi che trascorressero gran
parte del loro tempo studiando insieme.
Terminati i compiti di scuola, Rachel passava direttamente agli esercizi
vocali con Sciamano. Due volte al mese i due ragazzi si recavano da Miss
Burnham e Sciamano ripeteva tutti gli esercizi davanti alla maestra. Talvolta lei
suggeriva un cambiamento o un esercizio nuovo. Era felice dei progressi di
Sciamano e lieta che Rachel Geiger fosse capace di assisterlo con tanto suc-
cesso.
Via via che la loro amicizia si approfondiva, talvolta Rachel e Sciamano si
confidavano i loro crucci segreti. Rachel gli disse che odiava dover andare a
Peoria ogni anno per le festività ebraiche. Sciamano la commosse rivelandole,
senza tante parole, la sua angosciosa impressione che sua madre lo trattasse
freddamente. («Makwa era per me più madre che non Sarah, e lei lo sa. Forse
le dispiace, ma questa è la verità.») Rachel aveva osservato che Mrs. Cole non
lo chiamava mai Sciamano, come facevano tutti gli altri: lo chiamava Robert,
in tono quasi formale, come Miss Burnham a scuola. Forse la ragione, pensava
Rachel, stava nel fatto che a Mrs. Cole non piacevano le parole indiane. Aveva
sentito Sarah dire a sua madre: «Sono ben contenta che i Sauk se ne siano
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andati».
Sciamano e Rachel si dedicavano agli esercizi vocali ovunque si trovassero,
sulla zattera di Alden o sulle rive del fiume, mentre pescavano o raccoglievano
crescione o facevano lunghe camminate per la prateria o pulivano frutta e
verdura per Lillian sulla veranda di casa Geiger. Diverse volte la settimana
sedevano al piano di Lillian. Sciamano percepiva la tonalità vocale dell'amica
toccandole la testa o la schiena, ma gli piaceva in modo speciale porre la mano
sulla morbida e calda carne della sua gola mentre parlava. Sapeva che la
ragazza sentiva certamente tremare le sue dita.
«Vorrei tanto ricordare il suono della tua voce.»
«Ti ricordi la musica?»
«Non proprio... Ho sentito musica il giorno dopo Natale, l'anno scorso.»
Lei lo guardò sorpresa.
«L'ho sognata.»
«E tu senti la musica nel sogno?»
Sciamano annuì. «Vedevo solo i piedi e le gambe di un uomo. Probabilmen-
te era mio padre. Tu ricordi che talvolta i nostri genitori ci mettevano a dormire
per terra, mentre suonavano? Non vedevo tua madre e tuo padre, ma sentivo il
violino e il piano. Non ricordo che cosa suonavano, ricordo solo... la musica!»
Rachel aveva un nodo alla gola. «Loro amano molto Mozart, forse era
questo» mormorò, e suonò qualcosa al piano.
Ma dopo un po' Sciamano scosse la testa. «Questa è solo una vibra-
zione per me. L'altra era musica vera. Ho cercato tante volte di sognarla
ancora, ma non ci riesco.»
Osservò che gli occhi di Rachel brillavano e con sua grande sorpresa lei
si sporse in avanti e lo baciò sulla bocca. Sciamano rispose al bacio:
qualcosa di nuovo, molto simile a un diverso tipo di musica, pensò. Senza
avvedersene posò la mano sul seno di lei e ve la lasciò. Forse tutto sarebbe
andato bene se avesse tolto la mano subito. Ma poteva sentire, come la
vibrazione di una nota musicale, un indurirsi e un lieve guizzare del
capezzolo. Premette di più e lei alzò la mano e lo colpì forte sulla bocca.
Il secondo schiaffo gli arrivò sotto l'occhio destro. Rimase là, attonito,
senza tentare di difendersi. Lei avrebbe potuto anche ucciderlo, se avesse
voluto, ma gli diede solo un altro colpo. Era cresciuta lavorando nei
campi ed era forte e lo colpì con il pugno chiuso. Il labbro superiore di
Sciamano era spaccato e dal suo naso colava sangue. La vide piangere e
singhiozzare mentre correva via.
Si trascinò dietro di lei fino alla veranda. Per fortuna non c'era nes-
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suno. «Rachel!» chiamò, ma non sapeva se lei aveva risposto e non osò
seguirla su per le scale. Se ne andò abbattuto, dirigendosi verso l'alle-
vamento di pecore, soffiando il sangue a terra per non macchiare il faz-
zoletto. Nell'avvicinarsi a casa sua incontrò Alden che usciva dal fienile.
«Cristo santo, che cosa ti è successo?»
«... una zuffa.»
«Ah, vedo. Sono contento, cominciavo a credere che Alex fosse il solo
ragazzo Cole un po' in gamba. Che ne è dell'altro birbante?»
«Terribile. Molto peggio di me.»
«Ah, bene, bene» fece Alden tutto allegro e se ne andò.
A cena Sciamano dovette sopportarsi una severa paternale contro le
risse.
La mattina dopo gli scolari più giovani studiarono con molto rispetto le
sue ferite di guerra, che furono dispettosamente ignorate da Miss Burn-
ham. Lui e Rachel non si parlarono quasi durante tutta la giornata, ma con
sua grande sorpresa, alla fine delle lezioni, lei lo aspettò fuori come al soli-
to e si avviarono insieme, in accigliato silenzio, verso casa Geiger.
«Hai detto a tuo padre che ti ho toccato?»
«No» fece lei seccamente.
«Bene, non vorrei che mi frustasse.» E diceva davvero. Poiché doveva
guardarla in faccia per parlarle, poté osservare che arrossiva, ma con sua
grande confusione si avvide anche che rideva.
«Oh, Sciamano, la tua povera faccia! Mi dispiace davvero, scusami.» E
gli strinse la mano.
«Scusami anche tu.» Ma non sapeva bene di che cosa dovesse scusarsi.
A casa, Lillian offrì ai due ragazzi una torta allo zenzero. Si sedettero
al tavolino, a fare i loro compiti di scuola mentre mangiavano. Poi torna-
rono in salotto. Sciamano si sedette sulla panchetta accanto a lei, badan-
do a non accostarsi troppo. Quello che era accaduto il giorno prima ave-
va cambiato le cose, come temeva, ma con sua sorpresa non era una sen-
sazione spiacevole. Qualcosa di caldo restava fra loro, di intimo, come una
coppa condivisa.

Un documento ufficiale convocò Rob J. al palazzo di giustizia di Rock


Island, «il 21 di giugno nell'anno del Signore 1857, a proposito della natu-
ralizzazione».
La giornata era calda e luminosa, ma le finestre del tribunale erano
chiuse perché l'onorevole Daniel P. Allan che presiedeva la seduta non
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apprezzava le mosche. La procedura legale fu breve e Rob J. poteva
sperare di cavarsela rapidamente finché il giudice Allan non si accinse a
fargli prestar giuramento.
«Bene, allora. Si impegna lei a rinunciare a ogni e qualsiasi titolo di
legame di fedeltà con qualsiasi altro Paese?»
«Mi impegno.»
«E si impegna a sostenere e difendere la Costituzione e a imbracciare
le armi in nome degli Stati Uniti d'America?»
«No, Vostro Onore. Non mi impegno.»
Strappato bruscamente dal suo torpore, il giudice Allan lo fissò. «Io mi
rifiuto di uccidere, Vostro Onore, e non intendo andare in guerra.»
Il giudice Allan era evidentemente seccato. Al tavolo del cancelliere, lì
accanto, Roger Murray si schiarì la gola. «La legge dice, giudice, in casi
come questo, che il candidato deve dimostrare di essere un obiettore di
coscienza le cui convinzioni gli vietano di portare le armi. Significa che
deve appartenere a qualche gruppo come i quaccheri, che dichiarano
pubblicamente di non voler combattere.»
«Conosco la legge e quel che significa» ribatté il giudice seccamente,
furioso che Murray trovasse sempre il modo di dargli l'imbeccata in pubblico.
Sbirciò al di sopra degli occhiali. «Lei è un quacchero, dottor Cole?»
«No, Vostro Onore.»
«Be', che diavolo è lei, allora?»
«Non sono seguace di nessuna religione» rispose Rob J. e vide che il
giudice sembrava prendere la risposta come un insulto personale.
«Vostro Onore, posso avvicinarmi alla cattedra?» chiese qualcuno dal
fondo dell'aula. Era Stephen Hume, che era diventato legale della
Compagnia Ferroviaria da quando Nick Holden era stato nominato al
Congresso. Il giudice Allan gli fece cenno di accostarsi. «Onorevole?»
«Giudice,» cominciò Hume sorridendo «posso garantire personalmente
per il dottor Cole? Uno dei più distinti gentiluomini dell'Illinois, al
servizio della gente notte e giorno come medico. Tutti sanno che la sua
parola è oro colato. Se afferma di non poter combattere in guerra per le
sue convinzioni, non occorre altra prova per un uomo ragionevole.»
Il giudice Allan corrugò le sopracciglia, con l'inquietante sospetto che
un avvocato con potenti agganci politici, lì davanti al suo seggio, lo
avesse chiamato irragionevole. Ma, nell'incertezza, pensò che la cosa mi-
gliore era rivolgersi a Roger Murray. «Si proceda con la naturalizzazione»
decise e senza altri inciampi Rob J. divenne cittadino degli Stati Uniti.
253
Mentre tornava a Holden's Crossing gli echeggiavano nell'animo lon-
tani ricordi e rimpianti della patria scozzese a cui aveva appena rinun-
ciato, ma si sentiva soddisfatto di essere un americano. Ma anche l'Ame-
rica aveva la sua bella porzione di guai. La Corte Suprema degli Stati
Uniti aveva appena sentenziato che Dred Scott era uno schiavo, perché
legalmente il Congresso non aveva il potere di abolire la schiavitù nei vari
Stati. Dapprima i sudisti si rallegrarono, ma ben presto li riprese la rabbia,
perché i capi del partito repubblicano dichiararono di non accettare come
vincolante la decisione della Corte Suprema.
Né l'accettò Rob J., benché sua moglie e il figlio maggiore fossero
diventati ardenti sostenitori dei sudisti. Aveva aiutato dozzine di schiavi
fuggiaschi a raggiungere il Canada, ed era anche incappato in diversi
momenti rischiosi. Un giorno Alex gli aveva detto di aver incontrato
George Cliburne la notte prima, in strada, a circa un chilometro e mezzo dal
loro fienile. «Era là, seduto a cassetta di un carro carico di fieno, alle tre del
mattino! Che te ne pare?»
«Mi pare che tu non saresti mai capace di alzarti più presto di un
industrioso quacchero! A proposito, che ci facevi fuori di casa alle tre del
mattino?» E Alex era così ansioso di far passare sotto silenzio le sue
scorribande della notte precedente con Mal Howard che non pensò più a
discutere la strana etica professionale di George Cliburne.
Un'altra volta, nel cuore della notte, Rob J. stava chiudendo con il
catenaccio la porta del capannone, quando Alden gli comparve davanti.
«Non potevo dormire. Ero rimasto senza la mia medicina contro l'insonnia,
e mi sono ricordato che tenevo questa da parte nel fienile.» Mostrò la
bottiglia e la offrì. Rob J. raramente beveva e sapeva che l'alcol danneg-
giava il Dono, ma in quel momento sentì il bisogno di condividere un sorso
con Alden. Stappò la bottiglia, se la portò alle labbra, tossi. Alden sogghignò.
Rob J. era impaziente di allontanare il bracciante dal capannone. Nel
nascondiglio, dall'altra parte della porta, c'era un negro di mezza età, un
po' asmatico, con un leggero sibilo nel respiro. Terneva che a un certo
momento il sibilo si facesse più forte e si potesse sentire anche lì, dove
stava parlando con Alden. Ma il bracciante non aveva intenzione di
muoversi: si accovacciò sui talloni e volle mostrare a Rob J. come un
campione beveva il suo whisky, il dito passato nell'occhiello del manico,
la fiasca appoggiata al braccio, il gomito alzato abbastanza da far colare in
bocca la giusta quantità di liquore.
«Fai fatica a prender sonno, di questi tempi?»
254
Alden alzò le spalle. «Tante volte di notte casco come un sasso, morto
di fatica. Ma quando non è così, un sorsetto mi aiuta a dormire.»
Alden aveva un aspetto molto più stanco, da quando era morto Vien
Cantando. «Si dovrebbe cercare un altro uomo per aiutarti nei lavori della
fattoria» osservò Rob J., ed era forse la ventesima volta che lo ripeteva.
«Difficile trovare un uomo bianco in gamba, che abbia voglia di lavorare a
giornata» obiettò Alden, e Rob J. si chiese se il suono delle loro parole
poteva arrivare fin nel nascondiglio. «E poi ho Alex che mi aiuta, e lavora
molto bene.»
«Davvero?»
Alden si alzò, barcollando un po'. Doveva essersi scolato una buona quan-
tità di medicina per l'insonnia, già prima di andare a cercare quella di
riserva. «Perbacco» pronunciò solennemente. «Lei, dottore, non li ap-
prezza mai al giusto merito, quei due poveri ragazzi.» Stringendosi la bot-
tiglia al petto, si avviò verso la sua capanna.

Un giorno, verso la fine di quell'estate, capitò a Holden's Crossing un


cinese di mezza età, di cui non si seppe mai il nome. Poiché al saloon di
Nelson rifiutarono di servirlo, si rivolse a una prostituta, tale Penny Davis,
perché gli comprasse una bottiglia di whisky e lo portasse con sé nel suo
tugurio, dove la mattina dopo fu trovato morto nel letto della donna. Lo
sceriffo Graham disse che non voleva nella sua città una baldracca dispo-
sta a vendere la figa a un cinese e poi smerciarla agli uomini bianchi, e
intervenne personalmente per scacciare Penny Davis da Holden's Cros-
sing. Poi fece mettere il cadavere del cinese su un carro per consegnarlo
al più vicino coroner.
Quel pomeriggio, quando Rob J. arrivò al capannone, Sciamano lo
stava aspettando.
«Non ho mai visto un orientale.»
«Veramente questo è morto. Tu lo sai, vero, Sciamano?»
«Sì, papà.»
Rob J. annuì e aprì la porta del capannone.
Il corpo era coperto da un lenzuolo, che Rob J. piegò e depose sulla
vecchia sedia di legno. Suo figlio era pallido ma si controllava e studiava
con attenzione la figura distesa sul tavolo. Il cinese era un uomo piccolo e
magro, ma muscoloso. Gli avevano chiuso gli occhi e il colore della sua
pelle era qualcosa di mezzo fra il pallore dei bianchi e il rossiccio degli
indiani. Le unghie dei piedi, gialle e dure, avevano bisogno di essere
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tagliate. Guardando la scena con gli occhi di suo figlio, Rob J. si sentì tur-
bato.
«Ora devo fare il mio lavoro, Sciamano.»
«Posso restare a vedere?»
«Sei sicuro di voler restare?»
«Sì, papà.»
Rob J. prese il bisturi e aprì il torace. Oliver Wendell Holmes aveva
uno stile brillantissimo per presentare la morte: il suo sistema invece era di
essere semplice. Avverti il figlio che le interiora di un uomo puzzavano
peggio di qualsiasi selvaggina marcia e gli consigliò di respirare con la
bocca. Poi gli fece notare che quelle carni fredde non erano più una
persona. «Qualunque cosa fosse quella che teneva vivo quest'uomo -
alcuni la chiamano anima - ha ormai lasciato il corpo.»
Il viso di Sciamano era pallido ma i suoi occhi erano attenti. «È quella la
parte che va in paradiso?»
«Non so dove vada» rispose Rob J. gentilmente. Quando pesò gli or-
gani, permise a Sciamano di registrarne il peso, e fu un aiuto per lui.
«William Fergusson, che è stato il mio maestro, usava dire che lo spirito si
lascia indietro il corpo come una casa vuota: così si deve trattarlo con cura
e dignità, per rispetto dell'uomo che ci viveva.
«Questo è il cuore, ed ecco quello che l'ha ucciso.» Tolse l'organo e lo
pose nelle mani di Sciamano, in modo che potesse studiare il cerchio nera-
stro di tessuto morto che sporgeva come una pallina dalla parete muscolare.
«Perché gli è successo questo, papà?»
«Non so, Sciamano.»
Ripose al loro posto gli organi e richiuse i tagli. E quando finirono e si
lavarono le mani, sul volto di Sciamano era tornato il colore.
Rob J. era colpito dal modo in cui Sciamano si era comportato. «Pensa-
vo, mio caro, ti piacerebbe studiare con me qui, di tanto in tanto?»
«Oh, sì, papà!» Il viso di Sciamano si illuminò.
«Mi viene in mente che potresti prenderti un diploma in scienze. E po-
tresti guadagnarti la vita insegnando, magari in un college. Credi che ti
piacerebbe?»
Sciamano lo guardò gravemente, un po' accigliato mentre rifletteva sul-
la proposta. Si strinse nelle spalle.
«Forse» rispose.

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Insegnanti

Quel gennaio Rob J. aggiunse altre coperte nel nascondiglio, perché i


fuggiaschi dal profondo Sud soffrivano penosamente il freddo. C'e-
ra meno neve del solito, ma abbastanza da coprire i campi coltivati,
che così presentavano l'aspetto che doveva avere un tempo la vasta
prateria in inverno. Talvolta, tornando a casa nel cuore della notte dopo
una visita a domicilio, Rob J. fantasticava di alzare gli occhi e vedere
d'improvviso una lunga fila di pellirosse che cavalcavano nel bianco
splendore della pianura intatta, seguendo i loro capi e il loro sciamano; o
enormi animali dal dorso ricurvo che uscivano dal buio verso di lui con
ghiaccioli di brina nella irsuta pelliccia fulva e le corna ricurve e lucenti al
lume della luna. Ma in verità non vide mai nulla, perché credeva nei
fantasmi ancor meno che in Dio.
Quando venne la primavera le acque di disgelo non furono in quantità
eccessiva e fiumi e torrenti rimasero negli argini. Forse per questo il me-
dico quella stagione ebbe meno febbri da curare: ma per qualche ragione,
fra i malati di febbre furono più numerosi i morti. Fra questi ci fu Matilda
Cowan, il cui marito Simeon coltivava a granturco 130 ettari di terreno a
nord della città, ottima terra anche se un po' arida. Avevano tre figlie
piccole. Quando una donna giovane moriva lasciando dei figli, c'era da
aspettarsi che il marito si riammogliasse presto; ma quando Cowan fece la
sua proposta di matrimonio a Miss Dorothy Burnham, la maestra di
scuola, molti rimasero sorpresi. Fu subito accettata.
A colazione, una mattina, Rob J. riferiva sorridendo a Sarah che il
comitato scolastico era sconvolto. «Credevamo di poter contare sul fatto
che Dorothy restasse per sempre zitella. Cowan è un uomo di buonsenso.
Dorothy sarà un'ottima moglie.»
«È una donna fortunata» aggiunse Sarah. «Notevolmente più vecchia
del marito.»
«Oh, Simeon Cowan è solo di tre o quattro anni più giovane di
Dorothy» replicò Rob J., imburrandosi una fetta di pane tostato. «Non è
poi una così gran differenza.» E sorrise stupito al vedere suo figlio
Sciamano che annuiva, vivamente interessato ai loro discorsi sull'età della
maestra.

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L'ultimo giorno in cui Miss Burnham insegnò all'Accademia, Sciama-
no indugiò finché gli altri alunni non furono usciti tutti, e poi si avvicinò
per salutarla.
«Credo che continuerò a vederla, qui in città. Sono contento che non
abbia deciso di andare a sposarsi in qualche altro luogo.»
«Anch'io sono contenta di continuare a vivere a Holden's Crossing,
Robert.»
«Io... volevo ringraziarla» aggiunse lui goffamente. Sapeva che cosa
aveva significato nella sua vita l'opera di questa donna con la sua calda
bontà.
«Grazie, mio caro.» Dorothy aveva informato i suoi genitori che non
avrebbe più potuto continuare gli esercizi con lui, con tutto il lavoro che le
avrebbero dato la fattoria e il marito e le tre bambine. «Sono sicura che tu
e Rachel procederete benissimo senza di me. Inoltre hai raggiunto un
punto in cui puoi fare a meno degli esercizi vocali.»
«Lei crede che ora la mia voce sia come quella degli altri?»
«Be'...» Rifletté un attimo. «Non esattamente. Quando sei stanco, è
ancora un po' gutturale. Ormai ti rendi perfettamente conto di come de-
vono suonare le parole, così non barbugli e non smozzichi la tua parlata
come fanno tanti. Quindi c'è solo una leggera differenza.» Si accorse che
questo lo turbava e gli prese la mano e la strinse. «È una simpatica dif-
ferenza» aggiunse, e fu lieta di vedere che il viso del ragazzo si illuminava.
Sciamano aveva comprato per lei un piccolo dono con i suoi risparmi a
Rock Island, alcuni fazzoletti orlati di merletto celeste. «Anch'io ho una cosa
per te» e gli porse un volume dei sonetti di Shakespeare. «Quando li leggerai,
dovrai pensare a me. Tranne per quelli romantici, naturalmente!» aggiunse e
rise con lui di quella sua nuova libertà, per cui Mrs. Cowan poteva dire e fare
cose che la povera Miss Burnham, la maestra, non si sarebbe neppure sognata.

Con tutto il traffico fluviale della primavera, si verificarono non pochi casi
di annegamento sul Mississippi. Un giovane mozzo cadde da una chiatta,
nell'alto corso del fiume, e il suo corpo fu trascinato a valle dalla corrente, fin-
ché fu gettato a riva nei pressi di Holden's Crossing. Gli altri della ciurma non
sapevano da dove veniva, né sapevano altro di lui, tranne che il suo nome era
Billy, e lo sceriffo Graham lo fece portare al capannone di Rob J.
Sciamano assistette alla sua seconda autopsia e registrò il peso degli organi
nel taccuino di suo padre e apprese che cosa avveniva nei polmoni quando un
uomo annegava. Questa fu un'esperienza più dura per lui. Il cinese era tanto
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diverso da lui per l'età e per l'origine esotica, ma questo giovane aveva solo
pochi anni più di suo fratello Alex, e quel cadavere parlava a Sciamano della
sua propria natura mortale. Tuttavia cercò di tenere questi pensieri lontano dal-
la sua mente per poter meglio osservare e imparare.
Quando ebbero terminato l'autopsia, Rob J. cominciò a sezionare sotto il
polso destro di Billy. «Molti chirurghi hanno un sacro terrore della mano»
spiegava. «Questo perché non hanno mai dedicato abbastanza tempo a stu-
diarla. Se vuoi diventare insegnante di anatomia o fisiologia, devi conoscere la
mano.»
Sciamano capiva bene perché esitavano a sezionare la mano: era tutta mu-
scoli e tendini e articolazioni, e rimase sgomento quando, terminata la disse-
zione della mano destra, suo padre lo invitò a sezionare la sinistra da solo.
Rob J. sorrise al figlio: pareva comprendere perfettamente quello che il
ragazzo sentiva. «Non ti preoccupare, nulla che tu faccia gli potrà far male.»
Così Sciamano passò gran parte di quel giorno tagliando ed esaminando e
mandando a memoria i nomi di ogni minuscolo ossicino, e imparando come si
muovevano le articolazioni nelle mani degli uomini vivi.
Diverse settimane dopo lo sceriffo affidò a Rob J. il cadavere di una vecchia
che era morta nell'ospizio della contea. Sciamano era ansioso di riprendere le
lezioni di anatomia, ma suo padre gli sbarrò l'entrata al capannone.
«Sciamano, hai mai visto una donna svestita?»
«... Ho visto Makwa una volta. Mi aveva portato nella capanna del bagno di
sudore insieme con lei, cantava antichi canti per farmi tornare l'udito.»
Suo padre lo guardò sorpreso, e poi si sentì in obbligo di spiegargli: «Capi-
sci, Sciamano, se era la prima volta che vedevi un corpo di donna, non volevo
che fosse vecchia e brutta e morta.»
Sciamano annuì, sentendosi arrossire. «Non è la prima volta, papà. Makwa
non era né vecchia né brutta.»
«No, certo.» Gli batté una mano sulla spalla ed entrarono nel capannone.

In luglio il comitato della scuola offrì a Rachel Geiger il posto di maestra


all'Accademia. Non era cosa insolita che uno degli alunni più anziani fosse
chiamato a insegnare nella sua stessa scuola, quando c'era un posto vacante, e
Rachel era stata entusiasticamente raccomandata da Dorothy Burnham nella
sua lettera di dimissioni. Inoltre, come fece osservare Carroll Wilkenson, pote-
vano assumerla con uno stipendio da principiante, e poiché già viveva nella ca-
sa paterna non si sarebbe posto il problema del vitto e dell'alloggio.
L'offerta fu accolta con angosciosa indecisione in casa Geiger e provocò
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una serie di colloqui gravi a voce sommessa fra Lillian e Jay. «Abbiamo già
rimandato troppo a lungo le cose» diceva Jay.
«Ma un anno di insegnamento sarebbe un vantaggio per lei, la aiuterebbe a
fare poi un matrimonio migliore. Essere insegnanti è una cosa tanto ameri-
cana!»
Jason sospirava. Amava i suoi tre figli maschi, Davey, Herm e Cucciolo.
Buoni e cari ragazzi. Tutti e tre suonavano il piano come la loro madre, con
vari livelli di abilità, e Dave ed Herm cullavano il desiderio di imparare a
suonare strumenti a fiato, se mai avessero trovato un maestro. Ma Rachel era la
sua unica figlia femmina, e la primogenita, quella a cui aveva insegnato a
suonare il violino. Sapeva che sarebbe venuto il giorno in cui si sarebbe sposata
e allontanata dalla sua casa, per farsi viva solo con rare lettere e con brevi e in-
frequenti visite da un qualche posto, chissà come lontano.
Decise di essere egoista e tenerla in seno alla famiglia per un po' di tempo
ancora. «Bene, lasciamo che faccia la maestra» concordò con Lillian.

Erano passati ormai parecchi anni da quando l'inondazione aveva spazzato


via la capanna del bagno di sudore di Makwa. Ne restavano soltanto due muri
di pietra, lunghi due metri, alti un metro e distanti fra loro circa settantacinque
centimetri. In agosto Sciamano cominciò a costruire sui due muri una cupola di
giovani rami incurvati. Lavorava lentamente, con un certo impaccio, intrec-
ciando verdi vinchi di salice fra i rami. Quando suo padre lo vide, gli chiese se
poteva aiutarlo e i due, lavorando nei ritagli di tempo per quasi due settimane,
misero insieme qualcosa che assomigliava approssimativamente alla capanna
del bagno di sudore che Makwa aveva costruito in poche ore con l'aiuto di
Luna e Vien Cantando.
Con altri rami e vimini intrecciati fabbricarono un lettuccio delle dimensioni
di un uomo, che appoggiarono ai due muri, dentro la capanna.
Rob J. aveva una pelle di bisonte, un po' logora, e una pelle di daino. Le
stesero sulla cupola di rami, ma una grossa fetta restava scoperta.
«Forse una coperta?» suggerì Sciamano.
«Meglio due, un doppio strato, altrimenti non manterrà il vapore.»
Inaugurarono la capanna il primo giorno freddo di settembre. Le pietre per
il bagno di vapore erano ancora là dove Makwa le aveva lasciate. Accesero un
fuoco di legna e vi posero le pietre ad arroventare. Sciamano entrò nel capanno
avvolto solo in una coperta, che lasciò cadere davanti alla porta, e rabbri-
videndo si sdraiò sul lettuccio di vimini. Rob J. portò dentro le pietre roventi,
usando rami forcuti per maneggiarle, e le pose sotto il lettuccio: poi vi gettò
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sopra qualche secchio di acqua fredda e chiuse bene il capanno. Sciamano
giaceva in mezzo al vapore che si alzava dalle pietre, sentendosi affiorare il
sudore sulla pelle, ricordando come si era spaventato la prima volta, e come si
era rannicchiato fra le braccia di Makwa contro tutto quel caldo e quel buio.
Rammentava le strane cicatrici sul suo seno, ruvide contro la sua guancia.
Rachel era più alta e sottile di Makwa, e aveva seni più pesanti. Il pensiero di
Rachel gli procurò d'improvviso un'erezione, e trasalì al pensiero che il padre
entrasse e lo vedesse in quello stato. Si costrinse a pensare di nuovo a Makwa,
al tranquillo affetto che emanava da lei, confortante come la prima calda ondata
del vapore. Era strano trovarsi nel capanno dove Makwa era stata tante volte. Il
ricordo di Makwa si faceva più indistinto in lui con il passare degli anni e si
chiedeva perché qualcuno aveva voluto ucciderla, perché c'erano dei malvagi a
questo mondo. Quasi senza accorgersene cominciò a cantare uno dei canti che
l'indiana gli aveva insegnato: «Wi-a-ya-ni, Ni-na negi-se ke-wi-to-se-me-ne ni-
na...». Ovunque tu vada, cammino con te, figlio mio.
Dopo poco suo padre portò altre pietre roventi, le bagnò con acqua fredda e
il vapore riempì completamente il capanno. Sciamano sopportò finché poté,
finché si trovò ansante e inzuppato di sudore, poi balzò giù dal lettuccio e corse
fuori nell'aria fredda a tuffarsi nel fiume. Per un attimo credette di morire nel-
l'impetuoso abbraccio dell'acqua, ma sguazzando e nuotando sentì il sangue
pulsargli nelle vene, e lanciò grida di gioia, come facevano i Sauk, quando cor-
se fuori dell'acqua verso il fienile, dove si asciugò energicamente e indossò abi-
ti caldi.
Evidentemente aveva troppo dimostrato di godersela, perché, quando uscì
dal fienile, suo padre era anche lui in attesa di provare la capanna del bagno di
sudore, e fu ora il suo turno di arroventare le pietre e versarvi l'acqua fredda per
provocare il vapore.
Infine tornarono a casa tutti accesi e ridenti, per trovare che, mentre suda-
vano, gli altri avevano già cenato. Sarah, indignata, aveva lasciato i loro piatti
sul tavolo e il cibo era freddo. Sciamano e suo padre dovettero fare a meno
della zuppa e furono costretti a grattar via il grasso congelato dall'arrosto di
montone, ma ammisero che ne valeva la pena. Makwa realmente sapeva come
fare un bagno.

Alla riapertura della scuola Rachel non ebbe nessuna difficoltà a iniziare la
sua opera di insegnante. La routine quotidiana le era familiare: lezioni, compiti
in classe, l'insegnamento dei canti, i compiti a casa. Sciamano era più bravo di
lei in matematica e Rachel gli chiese di tenere le lezioni di aritmetica.
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Naturalmente Sciamano lo faceva senza stipendio, ma Rachel tesseva le sue
lodi ai genitori e al comitato scolastico, e il ragazzo era lieto di lavorare con lei
e progettare le lezioni.
Nessuno dei due fece parola dell'opinione di Miss Burnham che gli esercizi
vocali non erano più necessari. Ora gli esercizi si tenevano all'Accademia, dopo
che gli alunni erano tornati alle loro case, tranne quelli che richiedevano l'uso
del pianoforte. Sciamano amava sedere accanto a lei sulla panchetta del piano,
ma ancor più gli piaceva restare con lei da solo a scuola, in affettuosa intimità.
Gli alunni avevano sempre riso del fatto che Miss Burnham non aveva mai
bisogno di andare a far pipi e ora Rachel si imponeva la stessa disciplina, ma,
appena tutti erano usciti, non poteva più rimandare e si precipitava al gabinetto.
Mentre l'aspettava, Sciamano indugiava a fantasticare che cosa portasse sotto la
gonna. Alex gli aveva raccontato che quando «lo aveva fatto» con Pattie Dru-
cker aveva dovuto aiutarla a togliersi certi vecchi e bucherellati mutandoni di
suo padre, ma Sciamano sapeva che molte donne portavano crinoline con
stecche di balena o sottovesti di crine di cavallo, che pungevano un po' ma
erano più calde. Rachel soffriva il freddo: quando tornava dal gabinetto, si
metteva vicino alla stufa a scaldarsi prima davanti e poi di schiena.
Aveva insegnato solo da un mese quando dovette andare a Peoria con la
famiglia per le vacanze ebraiche e Sciamano divenne supplente per una buona
metà del mese di ottobre, e ricevette anche lo stipendio. Gli alunni erano già
abituati ai suoi insegnamenti in matematica. Sapevano che il maestro doveva
vedere le loro labbra per capirli, e la prima mattina Randy Williams, il figlio
minore del maniscalco, disse una frase impertinente voltandogli le spalle. I
ragazzi risero e Sciamano annuì disinvolto e chiese a Randy se voleva essere
tenuto per un paio di minuti sospeso per i talloni a testa in giù. Era più alto e
robusto della maggior parte degli uomini che loro conoscevano e i sorrisi spari-
rono quando Randy tremante balbettò qualcosa come no, non voleva. Per il
resto di quelle due settimane l'insegnamento non ebbe più difficoltà per Scia-
mano.
Il primo giorno che Rachel tornò a scuola pareva abbattuta. Quel pomerig-
gio, quando gli alunni furono usciti, tornò dal gabinetto tremando e piangendo.
Sciamano le venne vicino e le pose un braccio sulle spalle. Lei non protestò,
rimase lì fra lui e la stufa, con gli occhi chiusi. «Io odio Peoria» mormorò som-
messamente. «È orribile incontrare tutta quella gente. Mia madre e mio padre...
mi hanno messa in mostra.»
A Sciamano sembrava ragionevole che fossero orgogliosi di lei. Inoltre,
ormai per tutto un anno non le sarebbe toccato tornare a Peoria. Non disse nul-
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la. Non si sognava nemmeno di baciarla, felice solo di essere vicino alla sua
morbida persona: era sicuro che nulla di quanto un uomo e una donna solevano
fare insieme poteva essere meglio di questo. Dopo un attimo lei si ritrasse e lo
guardò gravemente con gli occhi bagnati di lacrime. «Il mio amico fedele.»
«Sì» confermò Sciamano.

Due piccoli incidenti rivelarono a Rob J. qualcosa che non si aspettava. In


una fredda mattina di novembre Sciamano fermò suo padre mentre si avviava
alla stalla.
«Ieri sono andato a trovare Miss Burnham... cioè, Mrs. Cowan. Mi ha
chiesto di portare i suoi saluti a te e alla mamma.»
Rob J. sorrise. «Ah sì? Bene. Penso che si starà abituando alla vita della
fattoria.»
«Certo. Sembra che le bambine le si siano affezionate. Naturalmente ha un
sacco di lavoro. Sono solo in due.» Sciamano lo guardò. «Papà, ci sono molti
matrimoni come il loro? Ossia, con la moglie più vecchia del marito?»
«Be', Sciamano, di solito accade il contrario, ma non sempre. Penso che ce
ne siano molti.» Si aspettava che il figlio venisse al punto, ma Sciamano si
limitò ad annuire e si avviò verso la scuola. E Rob J. entrò nella stalla e sellò la
cavalla.
Pochi giorni dopo lui e il ragazzo stavano lavorando insieme in casa. Sarah
aveva visto certe stuoie in diverse case di Rock Island, e aveva tanto pregato il
marito che infine lui aveva acconsentito a fargliene tre. Per farle si impregnava
di resina un rettangolo di grossa tela e poi si applicavano cinque mani di
vernice. Il risultato era lavabile, impermeabile e decorativo. Sarah aveva
chiesto ad Alex e Alden di applicare la resina e le prime quattro mani di verni-
ce, ma era ricorsa al marito per la rifinitura.
Rob J. aveva miscelato la vernice per tutte le cinque mani, usando latticello,
petrolio comprato all'emporio e gusci d'uovo finemente macinati per ottenere
una buona vernice di un verde tenue. Lui e Sciamano avevano applicato l'ulti-
ma mano insieme e ora, in un mattino di domenica pieno di sole, stavano dili-
gentemente aggiungendo un sottile bordo nero lungo i lati di ogni stuoia,
perché tutte fossero pronte quando Sarah tornava dalla chiesa.
Sciamano era molto paziente. Rob J. sapeva che Rachel lo aspettava nella
cucina dei Geiger, ma il ragazzo non cercava di affrettare il lavoro mentre
applicavano il bordo nero all'ultima delle tre stuoie. «Papà,» chiese a un tratto
«ci vuole molto denaro per sposarsi?»
«Mmm, abbastanza.» Rob J. ripulì il pennello su uno straccio. «Be', cambia
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a seconda dei casi. Alcune coppie continuano a vivere con la famiglia della
moglie, o del marito, finché non sono in grado di cavarsela da soli.» Si era fatto
uno stampo di legno sottile per facilitare il lavoro e ora Sciamano muoveva il
listello lungo la superficie verniciata e Rob J. applicava la vernice nera.
Terminarono il lavoro, lavarono i pennelli, riposero tutti gli attrezzi nel fie-
nile. Prima di tornare a casa, Sciamano uscì a dire: «Certo, vedo che cambia».
«Che cosa cambia?» chiese Rob J. distrattamente, poiché la sua mente era
già impegnata a escogitare un mezzo per estrarre il liquido dal ginocchio
enormemente gonfio di Harold Hayse.
«Il denaro che occorre per sposarsi. Dipenderà da quanto uno guadagna con
il suo lavoro e se arriva presto un bambino, cose del genere.»
«Naturalmente.» Rob J. era sconcertato, aveva la sensazione che gran parte
del senso di quel discorso gli sfuggisse. Ma pochi minuti dopo vide Sciamano e
Rachel Geiger passare accanto al fienile, diretti a casa. Sciamano teneva gli
occhi fissi sul volto di Rachel per poter capire le sue parole, ma osservandolo
Rob J. capì subito che cosa rivelava.
Come vanno a combinarsi certe cose! borbottò tra sé.
Prima di andare a curare il ginocchio di Harold Hayse passò dalla fattoria
dei Geiger. Jason era nel casotto degli attrezzi e affilava un paio di falci. Sor-
rise all'amico senza interrompere il veloce passaggio della cote sulla lama.
«Salve, Rob J.»
«Salve, Jason.»
C'era un'altra cote e Rob J. la prese e cominciò a lavorare sull'altra falce.
«Devo parlarti di un certo problema.»

40

I ragazzi crescono

L'ultimo strato ghiacciato della neve invernale copriva i campi come una
sottile smerigliatura quando Rob J. avviò le attività primaverili al suo alleva-
mento e Sciamano fu sorpreso ma compiaciuto di essere incluso per la prima
volta nel programma dei lavori. In passato gli avevano affidato solo lavoretti
occasionali, lasciandogli proseguire i suoi studi e gli esercizi vocali. «Quest'an-
no abbiamo un estremo bisogno del tuo aiuto» gli aveva detto suo padre.
«Alden e Alex non vorranno ammetterlo, ma nemmeno tre uomini potrebbero
sbrigare tutto il lavoro che faceva Vien Cantando da solo.» Inoltre, aggiunse,
ogni anno il gregge aumentava e si mettevano nuovi terreni a pascolo. «Ho
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parlato tanto sia con Dorothy Burnham sia con Rachel. Mi dicono che hai
imparato già tutto il possibile all'Accademia. E che non hai più neanche
bisogno di esercizi e...» aggiunse sorridendo «sono d'accordo con loro. Anche a
me la tua voce sembra a posto.»
Rob J. ebbe cura di dire a Sciamano che non si trattava di un lavoro perma-
nente. «So che tu non ami il lavoro della fattoria, ma per adesso ci aiuterai e in
seguito vedremo quello che vorrai fare.»
Alden e Alex si occupavano della macellazione degli agnelli. Sciamano fu
messo a piantare le siepi di confine appena il terreno fu abbastanza morbido per
la vanga. Gli steccati a paletti non erano adatti a un allevamento di pecore,
perché gli agnelli non avevano difficoltà a sgusciare fra i paletti, attraverso i
quali passavano anche i predatori. Per segnare i confini di un nuovo pascolo,
Sciamano dissodava una striscia lungo il perimetro e vi piantava arbusti di
maclura, abbastanza vicini da formare una fitta barriera. Seminava con cura,
perché i semi costavano cinque dollari la libbra. Le madure crescevano robuste,
a cespuglio, con lunghe spine che impedivano alle pecore di uscire e ai coyote
e ai lupi di entrare. Ci volevano tre anni perché le maclure arrivassero a forma-
re una siepe che proteggesse efficacemente i campi, ma Rob J. aveva comin-
ciato a piantare siepi di maclure fin dall'inizio, e, quando Sciamano ebbe finito
di piantare nuove siepi, passava le giornate su una scala a cimare quelle già cre-
sciute. Terminata la cimatura, si doveva ripulire il terreno dalle pietre, racco-
gliere legna da ardere, preparare pali, sradicare vecchi ceppi dai margini del
bosco.
Le sue mani e le sue braccia erano graffiate dalle spine, le sue palme diven-
nero callose, i muscoli cominciarono a dolergli e poi s'indurirono. Nel suo cor-
po erano visibili le trasformazioni dello sviluppo, la sua voce divenne profon-
da. Di notte aveva sogni sessuali. Talvolta non riusciva a ricordare i sogni e a
identificare la donna che li aveva animati, ma spesso gli appariva Rachel.
Almeno una volta riconobbe che la donna era stata Makwa, il che lo turbò e lo
spaventò. Faceva il possibile per eliminare le tracce prima che le sue lenzuola
fossero aggiunte al bucato.
Per anni aveva visto Rachel tutti i giorni; ora la vedeva solo raramente. Un
pomeriggio di domenica si recò alla casa dei Geiger e bussò alla porta. «Rachel
è occupata e adesso non può venire. Le porterò i tuoi saluti, Rob J.» gli rispose
Lillian con molta cortesia. Qualche volta, nelle sere di sabato, quando le due
famiglie si riunivano per stare in compagnia e fare della musica, cercava di
sedere accanto a Rachel e parlare di scuola. Gli dispiaceva di non tenere più le
lezioni di aritmetica agli alunni e le domandava dei loro progressi e l'aiutava a
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programmare le lezioni future. Ma Rachel pareva stranamente a disagio.
Qualcosa che egli aveva amato in lei, una specie di calore e di luce, si era
smorzato, come un fuoco soffocato dalla troppa legna. Quando le suggeriva di
andar fuori insieme a fare una passeggiata, era come se tutti gli adulti nella
stanza fossero in attesa della sua risposta e la tensione non si allentava finché
lei non diceva: «No, grazie, non ho voglia di uscire ora, ma grazie lo stesso,
Sciamano».
I genitori di Rachel le avevano spiegato la situazione, parlando con
indulgenza dell'infatuazione di un ragazzo tanto giovane e dicendole chiaro e
tondo che lei stessa non doveva mostrargli il minimo incoraggiamento. Era una
cosa molto difficile. Sciamano era il suo unico amico e sentiva penosamente la
mancanza della sua compagnia. Era preoccupata per l'avvenire di Sciamano,
ma lei stessa si sentiva sospesa su un abisso ed era presa dall'ansia e dalla paura
se tentava di scorgerne il fondo.
Avrebbe dovuto rendersi conto che proprio l'infatuazione di Sciamano era
l'elemento destinato a far precipitare la situazione; ma il suo rifiuto di guardare
al futuro era così tenace, che quando Johann C. Regensberg venne a passare un
fine settimana a casa Geiger lo accolse all'inizio come un semplice amico di
suo padre. Era un uomo affabile e un po' grassoccio, vicino ai quarant'anni, che
rispettosamente si rivolgeva al suo ospite chiamandolo Mr. Geiger, ma gli
chiese di dargli del tu e di chiamarlo Joe. Di media altezza, aveva vivaci occhi
azzurri leggermente strabici che osservavano pensosamente il mondo da dietro
un paio di occhiali montati in metallo. Il suo viso simpatico era inquadrato fra
una corta barbetta e una testa di capelli neri che si andavano ritirando verso la
sommità del cranio già avviato alla calvizie. In seguito Lillian lo avrebbe de-
scritto agli amici come un uomo «dalla fronte molto alta».
Joe Regensberg comparve alla fattoria un venerdì, in tempo per il pranzo
dello Shabbat e passò quella sera e il giorno seguente in piacevoli ozi con la
famiglia Geiger. Sabato mattina lui e Jason lessero le scritture e studiarono il
Libro del Levitico. Dopo una colazione fredda l'ospite visitò il fienile e il
negozio di farmacia poi, ben coperto nella giornata plumbea, si avviò con loro
a vedere i campi che sarebbero stati seminati in primavera.
I Geiger conclusero quello Shabbat con una cena di cholent, un piatto
contenente fagioli, carne, orzo pelato e prugne, che cuoceva lentamente sulle
braci fin dal pomeriggio precedente, perché agli ebrei era fatto divieto di
accendere il fuoco durante lo Shabbat. Dopo, fecero musica e Jason suonò una
parte di una suonata per violino di Beethoven e poi passò la mano a Rachel che
fu lieta di terminarla, mentre l'ospite assisteva con evidente piacere. Alla fine
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della serata Joe Regensberg aprì la sua grande valigia e ne trasse i doni: una
serie di tegami infilati l'uno nell'altro per Lillian, prodotti nella fabbrica di
oggetti in metallo che possedeva a Chicago; una bottiglia di vecchio brandy di
ottima qualità per Jason, e per Rachel un libro, Il Circolo Pickwick.
Rachel osservò che non c'erano doni per i suoi fratelli. Di colpo comprese il
significato di quella visita e fu sopraffatta dal terrore e dallo sgomento.
Muovendo a fatica le labbra, che le sembravano divenute rigide e spesse, lo
ringraziò e gli disse che le piacevano i libri di Charles Dickens ma finora aveva
letto solo Nicholas Nickleby.
«Il Circolo Pickwick è uno dei miei libri favoriti;» aggiunse lui «dobbiamo
parlarne dopo che lo ha letto.»
Non poteva onestamente essere definito un bell'uomo, ma aveva un viso
intelligente. Un libro, pensò Rachel con un filo di speranza, era una cosa che
solo un uomo eccezionale poteva offrire come primo dono a una donna in
quelle circostanze.
«Ho pensato che fosse un dono adatto per un'insegnante» aggiunse l'ospite,
come se le leggesse nel pensiero. I suoi abiti avevano un taglio più elegante di
quelli degli altri uomini che Rachel conosceva: probabilmente erano fatti da un
sarto migliore. Quando sorrideva, un lampo di umorismo gli scintillava negli
occhi.

Jason aveva scritto a Benjamin Schoenberg, lo shadchen di Peoria, e per


maggior sicurezza aveva mandato un'altra lettera a un sensale di matrimonio,
tale Solomon Rosen, a Chicago, dove viveva una comunità ebraica che si face-
va sempre più numerosa. Schoenberg aveva risposto con una pomposa lettera
in bello stile infiorato, affermando di conoscere un gran numero di giovani che
sarebbero stati ottimi mariti, e i Geiger avrebbero potuto incontrarli nella loro
prossima visita a Peoria per le Grandi Vacanze ebraiche. Ma Solomon Rosen
non aveva scritto: aveva agito. Uno dei suoi più promettenti mariti potenziali
era Johann Regensberg. Quando Regensberg disse che si accingeva a fare un
viaggio d'affari nell'Illinois occidentale per visitare i negozi che rivendevano i
suoi prodotti, compresi diversi empori a Rock Island e a Davenport, Solomon
Rosen combinò la presentazione.
Diverse settimane dopo quella prima visita arrivò un'altra lettera di Mr.
Rosen. Li informava che Johann Regensberg aveva avuto un'impressione favo-
revole di Rachel: che la famiglia Regensberg aveva yiches, la genuina distin-
zione familiare che viene da diverse generazioni di servigi alla comunità; che
fra gli antenati di Regensberg si contavano docenti ed esperti di studi biblici
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che risalivano al XIV secolo.
Ma mentre Jay continuava a leggere, il suo volto si oscurò per l'indigna-
zione. I genitori di Johann, Leon e Golda Regensberg, erano morti, e in questa
circostanza erano rappresentati da Mrs. Harriet Ferber, sorella del defunto Leon
Regensberg. Decisa a seguire la tradizione di famiglia, Mrs. Ferber chiedeva
che le fossero fornite testimonianze o altre prove riguardo alla verginità della
futura sposa.
«Questa non è l'Europa. E non stanno comprando una vacca» obiettò secca-
mente Jay.
La sua fredda lettera di rifiuto fu seguita subito da un'altra missiva concilia-
toria di Rosen, che ritirava la richiesta e chiedeva invece se la zia di Johann
poteva essere invitata a far visita ai Geiger. Così poche settimane dopo arrivava
a Holden's Crossing Mrs. Ferber, una donna minuta ma eretta con lucenti ca-
pelli bianchi pettinati all'indietro e raccolti in un nodo sulla nuca. Accom-
pagnata da un enorme paniere stracolmo di frutti canditi, torte al brandy e una
dozzina di bottiglie di vino kasher, anche lei arrivò in tempo per lo Shabbat.
Gustò la cucina di Lillian e le esecuzioni musicali della famiglia, ma concentrò
tutta la sua attenzione su Rachel e conversò con lei di educazione e scuola e
bambini, e ovviamente provò per lei fin dall'inizio una vivissima simpatia.
Non era così arcigna e scostante come avevano temuto. La sera, mentre Ra-
chel era occupata a rigovernare e ripulire la cucina, si sedette a conversare con
Jay e Lillian, e si informarono reciprocamente sulle rispettive famiglie.
Gli antenati di Lillian erano ebrei spagnoli che erano emigrati, per sfuggire
all'Inquisizione, prima in Olanda, poi in Inghilterra. In America avevano
un'illustre tradizione politica. Da parte di suo padre era imparentata con Francis
Salvador, che era stato eletto dai suoi concittadini cristiani al Congresso pro-
vinciale della Carolina del Sud, e arruolatosi nella Milizia Patriottica solo po-
che settimane dopo la Dichiarazione di Indipendenza fu il primo ebreo che
morì per gli Stati Uniti, catturato e scotennato dai tories e dagli indiani. Da
parte di madre Lillian era una Mendes, cugina di Judah Benjamin, senatore
della Louisiana al Congresso degli Stati Uniti. La famiglia di Jason, noti
produttori di articoli farmaceutici in Germania, era giunta a Charleston nel
1819, fuggendo ai tumulti in cui la folla correva per le strade a caccia di ebrei
gridando: «HEP! HEP! HEP!», grido che risaliva alle Crociate, formato dalle
iniziali di Hierosolyma est perdita, Gerusalemme è perduta.
I Regensberg avevano abbandonato la Germania un decennio prima dei
tumulti Hep, spiegò Mrs. Ferber. Un tempo avevano coltivato dei vigneti nella
valle del Reno. Non erano molto ricchi ma godevano di un certo benessere, e la
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fabbrica di ferramenta di Joe Regensberg prosperava. Era membro della tribù
di Kohane e nelle sue vene scorreva il sangue di Sommi Sacerdoti del Tempio
di Salomone. Se ci fosse stato un matrimonio, suggerì delicatamente a Lillian e
Jay, i loro nipoti sarebbero stati discendenti di due Grandi Rabbini di Gerusa-
lemme. I tre si guardavano reciprocamente con simpatia, mentre sedevano a
sorseggiare un buon tè inglese, uscito anch'esso dal ricco paniere di Mrs.
Ferber. «La sorella di mia madre si chiamava anche lei Harriet» osservò
Lillian. «E la chiamavamo Hattie.» Lei, invece, era sempre stata chiamata
Harriet, replicò Mrs. Ferber, ma con tale calda cordialità che i Geiger accetta-
rono ben volentieri quando li invitò a Chicago.
Poche settimane dopo, un mercoledì, tutti i sei membri della famiglia Gei-
ger si recarono a Rock Island a prendere il diretto per Chicago, dove arrivarono
in cinque ore di viaggio senza bisogno di cambiar treno. Chicago era una città
grande, estesa, affollata, sporca e squallida e rumorosa, e per Rachel affasci-
nante. La sua famiglia prese alloggio al quarto piano del Palmer's Illinois
House Hotel. Giovedì e venerdì, durante due pranzi in casa di Harriet nella
South Wabash Avenue, fecero conoscenza con altri parenti e il sabato mattina
poterono assistere al culto nella sinagoga di famiglia dei Regensberg, congre-
gazione Kehilath Anshe Maarib, dove Jason ebbe l'onore di essere chiamato
alla Torah per intonare una benedizione. Quella sera si recarono a un teatro
dove una compagnia operistica itinerante rappresentava Der Freischittz di Carl
Maria von Weber. Prima d'allora Rachel non aveva mai assistito alla rappre-
sentazione di un'opera e le liriche arie romantiche la incantarono. Al primo
intervallo Joe Regensberg la condusse fuori e le chiese di diventare sua moglie
e Rachel accettò. Tutto si svolse senza traumi, perché la vera proposta e il vero
consenso erano già stati fatti e dati dagli anziani della famiglia. Joe trasse di
tasca un anello, che era stato dì sua madre. Il diamante, il primo che Rachel
avesse mai visto, era modesto, ma assai elegantemente montato. L'anello era un
po' largo e Rachel tenne il pugno chiuso, per non lasciarlo cadere e rischiare di
perderlo. Quando tornarono ai loro posti, la rappresentazione stava per rico-
minciare. Seduta nel buio accanto a Lillian, prese la mano della madre e vi
pose l'anello, e sorrise al suo moto di sorpresa. E mentre la musica la riportava
gloriosamente nelle foreste tedesche, si rese conto che l'evento da lei tanto
temuto poteva invece essere una porta verso la libertà e verso un piacevole tipo
di potere.

Quella calda mattina di maggio quando Rachel venne all'allevamento dei


Cole, Sciamano aveva sudato molte ore falciando il fieno e poi aveva comin-
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ciato a rastrellarlo, così era coperto di polvere e fili d'erba. Rachel portava una
vecchia veste grigia, con macchie di sudore che già cominciavano a comparire
sotto le ascelle, un berretto grigio che Sciamano non aveva mai visto prima e
guanti di cotone bianchi. Quando gli chiese se poteva accompagnarla a casa, il
ragazzo gettò ben volentieri a terra il rastrello.
Per un po' parlarono della scuola, ma quasi subito lei cominciò a raccontar-
gli di sé e di ciò che stava accadendo nella sua vita. Sorridendo si tolse il guan-
to sinistro e gli mostrò l'anello e Sciamano comprese che stava per sposarsi.
«E te ne andrai di qui allora?» Rachel gli prese la mano. Diversi anni dopo,
pensando e ripensando a quella scena, Sciamano si vergognava di non averle
parlato. Di non averle augurato ogni felicità, di non averle detto come era stata
preziosa la sua amicizia per lui, di non averla ringraziata.
Di non averle detto addio.
Ma non poteva guardarla, e così non seppe mai quello che lei gli diceva. Il
suo cuore divenne come una pietra e le parole di lei scivolavano via come
gocce di pioggia.
Quando raggiunsero il viottolo di casa Geiger e Sciamano si voltò e tornò
indietro, si sentiva la mano dolorante perché lei l'aveva tenuta così stretta.
Il giorno dopo che i Geiger erano partiti per Chicago, dove si doveva
celebrare il matrimonio nella sinagoga, Rob J. tornando a casa si vide venire
incontro Alex. «È meglio che tu vada a vedere, papà. Baderò io al cavallo. Non
so che cos'è successo a Sciamano.» In casa, Rob J. si fermò fuori della stanza
di Sciamano e sentì un lungo, rauco singhiozzare. Quando aveva l'età di Scia-
mano, aveva pianto anche lui così, perché la sua cagna si era imbizzarrita e
mordeva e sua madre l'aveva data a un mezzadro che viveva da solo sulle
colline. Ma sapeva che suo figlio non soffriva per un animale: soffriva per un
essere umano.
Entrò e si sedette sul letto. «Ci sono alcune cose che devi conoscere. Gli
ebrei sono assai poco numerosi e sono perlopiù circondati da un gran numero
di noi. Così pensano che, se non si sposano fra di loro, non potranno sopravvi-
vere. Ma vedi, questo non riguardava te. Tu non hai mai avuto la minima
possibilità.» Accarezzò i capelli umidi del figlio con la mano. «Perché Rachel
ormai è una donna, e tu sei solo un ragazzo.»

Durante l'estate il comitato scolastico, sempre in cerca di un buon insegnan-


te, abbastanza giovane da accontentarsi di un salario basso, offrì a Sciamano il
posto all'Accademia. Ma Sciamano rifiutò.
«E allora, che cosa vorresti fare?» gli chiese suo padre. «Non lo so.»
270
«C'è un istituto superiore a Galesburg. Il Knox College. Dicono che è un'ot-
tima scuola. Vuoi continuare a studiare? E cambiare ambiente?»
Sciamano annuì. «Credo che mi piacerebbe.»
Così, due mesi dopo il suo quindicesimo compleanno, Sciamano lasciava la
casa paterna.

41

Vittorie e sconfitte

Nel settembre del 1858 il reverendo Joseph Hills Perkins fu chiamato al


pulpito della maggior chiesa battista di Springfield. Il suo nuovo prosperoso
gregge comprendeva il governatore e un buon numero di deputati dello Stato,
e, se il reverendo Perkins fu incantato dalla sua buona fortuna, non lo furono
meno i membri della sua chiesa di Holden's Crossing, che videro in quella
nomina una chiara conferma della loro sagacia nell'averlo a suo tempo scelto.
Per un certo periodo Sarah fu impegnatissima in una serie di pranzi e
ricevimenti d'addio. Poi, quando i Perkins furono partiti, ricominciò la ricerca
di un degno pastore, con tutta una serie di predicatori ospiti da nutrire e
alloggiare e nuove discussioni e dibattiti sulle relative qualità dei candidati.
All'inizio il favorito fu un ministro proveniente dal nord dell'Illinois,
veemente denunciatore dei peccati, ma con vero sollievo di molti, fra cui Sarah,
che non apprezzava troppo le sue invettive, fu scartato perché aveva sei figli, e
un altro in arrivo, e la casa del pastore era piuttosto piccola. Decisero infine per
il reverendo Lucian Blackmer, un uomo tarchiato, dalle guance rosse, giunto
solo recentemente all'Ovest. «Dallo Stato di Rhode Island allo Stato di Grazia»
come elegantemente annunciò Carroll Wilkenson quando presentò il nuovo
pastore a Rob J. Il reverendo Blackmer sembrava un uomo simpatico, ma Rob
J. rimase male quando fu presentato alla moglie, perché Julia Blackmer era
magra e ansiosa, con il pallore e la tosse di un'avanzata malattia polmonare.
Quando lo salutò, si avvide che il marito lo guardava con un'espressione inten-
sa, come aspettandosi che il dottor Cole gli potesse offrire nuova speranza e
nuove, più efficaci cure.

271
Holden's Crossing, Illinois
12 ottobre 1858

Mio caro Sciamano,


sono lieto di apprendere dalla tua lettera che ti sei sistemato bene a
Galesburg e segui i tuoi studi con piacere e in buona salute. Qui tutti
stanno bene. Alden e Alex hanno finito la macellazione dei maiali e noi
facciamo baldoria con pancetta fresca, costine, prosciutti (cotti, affumicati
e speziati), capocolli, salamoia e lardo.
La voce pubblica dice che il nuovo pastore è un tipo in gamba quando
sale sul pulpito. Si deve riconoscere che è un uomo di coraggio, perché il
suo primo sermone trattava di certe questioni morali sollevate dalla
schiavitù, e mentre pareva incontrare il consenso della maggior parte dei
presenti, una notevole minoranza, anche abbastanza loquace (fra cui tua
madre!), manifestò aperto disaccordo quando la comunità ebbe lasciato la
chiesa.
Ho appreso con vivo interesse che Abramo Lincoln, di Springfield, e il
senatore Douglas si sono incontrati per un dibattito al Knox College il 7
ottobre, e spero che tu abbia potuto essere presente. La loro campagna
elettorale per il Senato coincide con il mio primo voto di cittadino, e io non
so bene quale dei due sia una scelta peggiore. Douglas tuona contro
l'ignorante fanatismo dei Know-Nothing, ma non vuole contrariare gli
schiavisti. Lincoln lancia fulmini contro la schiavitù ma accetta, anzi cerca,
l'appoggio dei Know-Nothing. Entrambi mi disgustano alquanto. La
politica!
I corsi che segui mi sembrano molto interessanti. Tieni presente che
assieme alla botanica e all'astronomia e alla fisiologia, anche la poesia ha
dei segreti da svelare.
Ti accludo qualcosa che ti renderà più facile comprare i regali di
Natale. Sono impaziente di riabbracciarti nelle vacanze!

Con tutto il mio affetto


Papà

Rob J. sentiva molto la mancanza di Sciamano. Il suo rapporto con Alex era
più cauto che caldo. Sarah era sempre occupatissima con il suo lavoro per la
chiesa. Ogni tanto poteva godere qualche serata musicale con i Geiger, ma,

272
quando la musica finiva, si trovavano penosamente di fronte alle loro diver-
genze politiche. Sempre più spesso, alla fine del pomeriggio, dopo aver
terminato le sue visite a domicilio, voltava la cavalla verso il convento di San
Francesco. Via via che passavano gli anni comprendeva sempre più
chiaramente che Madre Miriam era più coraggiosa che feroce, più valente che
scostante.
«Ho qualche cosa per lei» gli disse un giorno e gli porse un fascio di fogli
giallognoli coperti da una scrittura minuta e contorta in inchiostro nero
piuttosto scolorito. Rob J. li lesse mentre sorseggiava il suo caffè, seduto nella
poltrona del vescovo. Era un'accurata descrizione dell'organizzazione interna
dell'Ordine della Bandiera Stellata e poteva essere stata scritta solo da qualcuno
che ne era membro.
Cominciava con uno schema della struttura nazionale di quella società
politica segreta. La sua base era formata da consigli distrettuali, ciascuno dei
quali nominava i propri capi, fissava i propri regolamenti e iniziava i propri
membri. Al di sopra c'erano i consigli di contea, formati dai delegati dei
consigli distrettuali uno per ogni consiglio. I consigli di contea controllavano
l'attività politica dei consigli distrettuali e sceglievano i candidati politici locali
che fossero degni dell'appoggio dell'Ordine.
Tutte le unità in ogni singolo Stato erano controllate da un gran consiglio,
composto da tre delegati per ciascun consiglio distrettuale e presieduto da un
gran presidente e altri rappresentanti eletti. Al vertice della complessa struttura
c'era un consiglio nazionale che decideva su tutte le questioni politiche
nazionali, compresa la selezione dei candidati dell'Ordine alla presidenza e alla
vicepresidenza degli Stati Uniti. Il consiglio nazionale decideva le punizioni
per i membri colpevoli di mancare ai loro doveri e stabiliva i complessi rituali
dell'Ordine.
C'erano due categorie di membri. Per entrare nella prima un candidato
doveva essere un maschio adulto nato negli Stati Uniti da genitori protestanti,
che non fosse sposato con una donna cattolica.
Ogni membro al momento dell'affiliazione doveva rispondere alla domanda:
«Sei tu disposto a usare la tua influenza e a votare solo per cittadini americani
nati in America in tutti gli uffici di onore, fiducia o profitto nel nome del
popolo, a esclusione di tutti gli stranieri e in particolare i cattolici romani, e
senza riguardo a preferenze di partito?».
Chi giurava doveva rinunciare a ogni legame con altri partiti, appoggiare
l'azione politica dell'Ordine e adoperarsi per cambiare le leggi di naturalizza-
zione. Quindi gli venivano confidati i segreti della setta, accuratamente
273
descritti nel rapporto: il segno di riconoscimento, il tipo della stretta di mano, le
sfide e gli ammonimenti.
Per diventare membro di secondo grado il candidato doveva essere un
veterano fidato. Solo i membri di secondo grado erano eleggibili alle alte cari-
che dell'Ordine, per essere impegnati in attività clandestine ed essere appog-
giati alle elezioni statali e nazionali. Quando arrivavano a occupare alte cariche
pubbliche, avevano il dovere di licenziare tutti gli stranieri e i cattolici romani
che lavoravano sotto di loro, e in nessun caso dovevano "nominare tali persone
a impieghi nella loro giurisdizione".
Rob J. alzò lo sguardo al viso di Madre Miriam Ferocia. «Quanti sono?»
La suora si strinse nelle spalle. «Noi non riteniamo che i membri dell'Or-
dine segreto siano molto numerosi. Forse un migliaio. Ma sono il filo d'acciaio
nella spina dorsale del partito americano.
«Le do queste pagine perché lei è contrario a questo gruppo che cerca di
danneggiare la mia Madre Chiesa, e perché lei deve conoscere la natura di
quelli che ci fanno del male, e per le cui anime noi preghiamo Iddio.» Lo
guardò gravemente. «Ma lei deve promettere di non usare alcuna di queste
informazioni per avvicinare un sospetto membro dell'Ordine nell'Illinois,
perché, così facendo, potrebbe mettere in gravissimo pericolo l'uomo che ha
scritto questo rapporto.»
Rob J. annuì, ripiegò le pagine e fece per restituirle, ma Madre Miriam
scosse la testa. «Sono per lei» confermò «insieme con le nostre preghiere.»
«Non dovete pregare per me!» Lo metteva a disagio parlare con lei di
questioni di fede.
«Lei non può impedirmelo. Lei merita le nostre preghiere e io parlo spesso
di lei con il Signore.»
«Così come prega per i suoi nemici» osservò Rob J. accigliato, ma lei
rimase imperturbabile.
Più tardi, a casa, rilesse il rapporto, esaminando quella scrittura contorta. La
scrittura di un uomo (forse un prete?) che viveva nella menzogna, fingendo di
essere quello che non era, rischiando la sua sicurezza, forse la vita. Rob J.
desiderò di poter parlare con quell'uomo.

Nick Holden era stato facilmente rieletto due volte, grazie alla sua reputa-
zione di fiero combattente degli indiani, ma ora si presentava candidato per la
quarta volta e il suo avversario era John Kurland, procuratore generale di Rock
Island. Kurland godeva del favore dei democratici e di altri ancora, e forse
Nick sentiva che l'appoggio dei Know-Nothing per lui cominciava a barcollare.
274
Correva voce che rischiava di perdere il seggio al Congresso e Rob J. si
aspettava che Nick facesse qualche gesto plateale per guadagnare voti. Così
non fu molto sorpreso quando un pomeriggio, tornando a casa, apprese che
l'onorevole Holden e lo sceriffo Graham stavano arruolando una nuova squa-
draccia di volontari.
«Lo sceriffo dice che il fuorilegge Frank Mosby è rintanato su nel nord
della contea» riferì Alden. «Nick ha raccolto un manipolo di uomini così
eccitati che sono più dell'umore di linciare che di arrestare, creda a me. Graham
sta mandando i suoi vice a destra e a sinistra. Alex è partito anche lui, tutto
esaltato. Ha preso il fucile piccolo e ha sellato Vicky.»
Corrugò la fronte, come per scusarsi. «Ho cercato di dissuaderlo, ma...» Si
strinse nelle spalle.
Trude non era ancora raffreddata, ma Rob J. le gettò di nuovo la sella sulla
groppa e si diresse in città.
Gli uomini si affollavano in piccoli gruppi nelle strade. C'erano clamori e
alte risate sotto il portico dell'emporio, dove Nick e lo sceriffo tenevano banco,
ma Rob J. li ignorò. Alex era assieme a Mal Howard e a due altri giovani, tutti
armati di fucile, con gli occhi brillanti di importanza. Chinò la testa quando
vide il padre.
«Vorrei parlarti, Alex.» Lo condusse un po' discosto dagli altri. «Voglio che
tu torni a casa.»
«No, papà.»
Alex aveva diciotto anni ed era caparbio. Se si sentiva contrariato, poteva
mandar tutti al diavolo e andarsene di casa davvero. «Non voglio che tu vada.
Ho le mie buone ragioni.»
«È tutta la vita che sento queste buone ragioni!» ribatté Alex amaramente.
«Una volta ho chiesto a mia madre: Frank Mosby è mio zio? E lei mi ha detto
di no.»
«Tu sei pazzo a tormentare così tua madre. Non ha nessuna importanza se tu
corri là e spari a Mosby, non capisci? La gente continuerà a chiacchierare. Ma
quello che dice la gente ora non conta.
«Potrei dirti di tornare a casa perché quello è il mio fucile, e quella è la mia
povera cavalla cieca. Ma la vera ragione per cui non devi andare è che tu sei il
mio caro figliolo e non voglio che tu faccia qualcosa di cui debba pentirti per
tutto il resto della tua vita.»
Alex gettò uno sguardo disperato verso il gruppo di Mal e degli altri che lo
osservavano incuriositi.
«Di' ai tuoi compagni che ho bisogno di te perché c'è troppo lavoro alla
275
fattoria. Poi vai a prendere Vicky e torna a casa.»
Tornò indietro, rimontò a cavallo e si diresse verso Main Street. C'erano già
dei tafferugli davanti alla chiesa e vide che qualcuno aveva cominciato a bere.
Non si voltò per quasi un chilometro, ma quando Io fece vide Vicky dietro
di sé che trotterellava con il muso incerto del cavallo mezzo cieco, e la figura
piegata sul suo collo come chi cavalca contro un forte vento, il piccolo fucile
da caccia tenuto con la bocca in alto, come lui stesso aveva insegnato ai suoi
figli.

Per due o tre settimane Alex cercò di evitarlo, non tanto perché fosse in
collera con lui quanto per evitare la sua autorità. La squadra di volontari restò
in caccia per due giorni. Trovarono il fuorilegge rintanato in un tugurio cadente
e presero complicate precauzioni prima di precipitarsi ad agguantarlo, ma
quello era addormentato e non oppose resistenza. E non era Frank Mosby. Era
un tale di nome Buren Harrison, che aveva rapinato un negoziante a Geneseo
rubandogli quattordici dollari, e Nick Holden e i suoi amici lo scortarono trion-
falmente, mezzo ubriachi, alla prigione. Si seppe in seguito che Frank Mosby
era annegato nello Iowa due anni prima, mentre cercava di spingere il cavallo
attraverso il fiume Cedar durante una piena.
In novembre Rob J. votò per mandare John Kurland al Congresso e rieleg-
gere Stephen A. Douglas al Senato. La sera dopo si unì alla folla che aspettava
i risultati delle elezioni nell'emporio di Haskins e in una vetrina vide una
coppia di splendidi coltelli da tasca. Ognuno aveva una lama larga, due lame
più piccole e una piccola forbice, tutte di acciaio temperato, il rivestimento di
tartaruga levigata e cappucci d'argento scintillante alle estremità. Erano coltelli
per uomini che non avevano paura di spendere e li comprò per regalarli ai figli
a Natale.
Poco dopo il tramonto Harold Ames arrivò a cavallo da Rock Island con i
risultati delle elezioni. Era stata la giornata delle conferme. Nick Holden,
cacciatore di indiani e difensore della legge, aveva sconfitto di stretta misura
John Kurland, e anche il senatore Douglas tornava al Congresso.
«Adesso Abramo Lincoln imparerà a non andare in giro a strillare che non
si devono tenere gli schiavi» esultava Julian Howard alzando il pugno in
trionfo. «E questa è l'ultima volta che sentiremo parlare di quel figlio di
puttana!»

276
42

Lo studente

Poiché a Holden's Crossing non arrivava la ferrovia, Rob J. accompagnò il


figlio con il carro a Galesburg, a cinquanta chilometri dalla fattoria, con la sua
grossa valigia legata dietro. La città e il college erano stati fondati nello Stato
di New York un quarto di secolo prima, da presbiteriani e congregazionalisti
che avevano costruito le loro case su una rete stradale a scacchiera intorno a
una piazza centrale. Al college il preside Charles Hammond affermò che Scia-
mano, essendo più giovane della maggior parte degli altri studenti, non doveva
stare nel dormitorio. Il preside e sua moglie ospitavano un piccolo numero di
studenti nella loro bianca casa di Cherry Street, e qui fu alloggiato Sciamano, al
secondo piano in una stanza sul retro.
Fuori della sua stanza le scale scendevano fino a una porta che dava sul
cortile posteriore, dove c'erano la pompa dell'acqua e il gabinetto. Nella stanza
attigua alla sua c'erano due pallidi studenti di teologia, congregazionalisti, che
preferivano parlare solo fra loro. Nelle due stanze di fronte alloggiavano il bas-
so e dignitoso bibliotecario del college e uno studente anziano, Ralph Brooke,
che aveva un viso lentigginoso e allegro, e due occhi spalancati che sembrava-
no sempre sorpresi. Brooke studiava latino e la prima mattina, a colazione,
Sciamano vide che aveva sotto il braccio un libro di Cicerone. Suo padre gli
aveva insegnato bene il latino. «Iucundi acti labores» lo salutò. Gli affanni
passati sono dolci.
Il viso di Brooke si illuminò come una lampada «Ita vivam, ut scio». Possa
io vivere, come so. Brooke divenne la sola persona nella casa con cui Sciamano
parlava regolarmente, a eccezione del preside e della sua magra e timida mo-
glie dai capelli bianchi, che cercava di borbottare ogni giorno un paio di dove-
rose parole.
«Ave!» lo salutava Brooke ogni mattina. «Quomodo te habes hodie, iuve-
nis?» Come stai oggi, ragazzo mio?
«Tam bene quam fieri possit talibus in rebus, Caesar.» Bene quanto è
possibile in queste circostanze, o Cesare, rispondeva Sciamano. Ogni mattina.
Il loro grazioso giochetto.
A colazione Brooke rubava i biscotti e continuava a sbadigliare. Solo Scia-
mano sapeva perché. Brooke aveva una ragazza in città e restava fuori la notte
fino a tardi, e molto spesso. Due giorni dopo l'arrivo di Sciamano, il latinista lo
convinse a scendere furtivamente in fondo alle scale e aprire il catenaccio della
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porta sul retro dopo che tutti gli altri erano a letto, così Brooke poteva scivolar
dentro inosservato. Era un servizio che Brooke gli chiedeva spesso.
Le lezioni cominciavano ogni giorno alle otto. Sciamano seguiva i corsi di
fisiologia, composizione e letteratura inglese, e astronomia. Affrontò e superò
anche un esame di latino, il che gli valse il profondo rispetto di Brooke. Essen-
do tenuto a studiare un'altra lingua, scelse l'ebraico al posto del greco, per ra-
gioni che non voleva ammettere neppure con se stesso. La sua prima domenica
a Galesburg il preside e Mrs. Hammond lo condussero con loro alla chiesa
presbiteriana. Ma poi disse agli Hammond di essere congregazionalista, e disse
agli studenti di teologia di essere presbiteriano, così ogni mattina della dome-
nica era libero di girare per la città.
La ferrovia era arrivata a Galesburg sei anni prima dell'arrivo di Sciamano e
aveva portato, assieme alla prosperità, il formarsi di quella popolazione mista
che è caratteristica delle città in via di sviluppo. Inoltre una colonia cooperativa
di svedesi era fallita nella vicina località di Mission Hill e gran parte dei suoi
membri erano venuti a vivere a Galesburg. Sciamano amava osservare le donne
e le fanciulle svedesi, con i loro lunghi capelli biondi e la carnagione diafana.
Di notte, dopo che aveva preso qualche precauzione per non macchiare le
lenzuola di Mrs. Hammond, le donne dei suoi sogni erano svedesi. Una volta,
in South Street, si arrestò di colpo alla vista di una bruna testa femminile che
era sicuro di conoscere, e per un attimo rimase senza fiato. Ma risultò subito
che si trattava di un'estranea. Lei gli fece un rapido sorriso quando vide che la
osservava, ma Sciamano abbassò la testa e si allontanò in fretta. Pareva che
avesse almeno vent'anni e Sciamano non voleva conoscere donne più vecchie
di lui.
Sentiva nostalgia della casa, sentiva desiderio d'amore, ma entrambe queste
pene si attenuarono via via che passavano i giorni, e divennero sopportabili,
come il mal di denti quando non è troppo atroce. Non si fece amici, forse a
causa della giovane età o della sordità; e questo giovava al suo profitto scola-
stico perché per la maggior parte del tempo studiava. I suoi corsi prediletti
erano astronomia e fisiologia, anche se fisiologia finì per essere una delusione,
poiché si riduceva a un semplice elenco di parti e componenti del corpo umano.
Il massimo che Mr. Rowells, il docente, presentò agli studenti come illustrazio-
ne dei processi fisiologici fu una conferenza sulla digestione e sull'importanza
di un regolare funzionamento intestinale. Ma nell'aula di fisiologia c'era uno
scheletro, composto da ossa legate con fil di ferro, sospeso al soffitto mediante
una vite infilata nel cranio, e Sciamano passava ore e ore lì accanto, mandando
a memoria il nome, la forma e la funzione di tutte quelle vecchie ossa sbian-
278
cate.
Galesburg era una graziosa città, con le strade fiancheggiate da olmi, aceri e
noci che erano stati piantati dai primi coloni. I suoi abitanti erano orgogliosi di
tre cose. Harvey Henry May aveva inventato qui un aratro d'acciaio autopulen-
te. Un galesburghese, Olmsted Ferris, aveva ottenuto una buona varietà di
popcorn: era andato anche in Inghilterra per farlo scoppiettare davanti alla regi-
na Vittoria. E il senatore Douglas e il suo avversario, Lincoln, avevano tenuto
un dibattito al college il 7 ottobre 1858.
Sciamano quella sera era andato al dibattito, ma al suo arrivo nell'Aula
Magna trovò una gran folla e si rese conto che, dal posto che aveva trovato
libero, non sarebbe riuscito a leggere le labbra dei candidati. Lasciò quindi
l'Aula Magna e salì le scale fino alla porta del tetto, dove il professor Gardner,
il docente di astronomia, aveva allestito un piccolo osservatorio ed esigeva che
ogni suo allievo studiasse il cielo per diverse ore al mese. Quella notte
Sciamano era solo e scrutava le stelle attraverso l'oculare di quello che era
l'orgoglio e l'amore del professor Gardner, un cannocchiale astronomico di
Alvan Clark di cinque pollici. Aggiustò la manopola, accorciando la distanza
fra l'oculare e la lente anteriore convessa, e le stelle balzarono verso di lui,
duecento volte più grandi di un momento prima. Era una notte fredda, abba-
stanza limpida da rivelare due degli anelli di Saturno. Studiò le nebulose di
Orione e Andromeda, poi cominciò a far ruotare il cannocchiale sul suo trep-
piede, esplorando il firmamento. Il professor Gardner lo chiamava "spazzare il
cielo" e raccontava che una donna, Maria Mitchell, spazzando il cielo si era
guadagnata fama eterna con la scoperta di una cometa.
Sciamano non scoprì comete. Rimase a osservare finché le stelle gli parvero
ruotare, enormi e scintillanti. Chi le aveva formate lassú? E le stelle che
stavano oltre? E oltre ancora?
Sentì che ogni stella e ogni pianeta facevano parte di un sistema complesso,
come un osso nello scheletro o una goccia di sangue nel corpo. Tanta parte
della natura sembrava organizzata, pensò, con tanto ordine, eppure in modo
così complicato. Chi l'aveva fatta? Il professor Gardner gli aveva detto che per
diventare un astronomo bastava avere buoni occhi e buone capacità matema-
tiche. Per qualche giorno aveva pensato di dedicarsi all'astronomia e farne lo
scopo della sua vita, ma poi aveva cambiato idea. Le stelle erano affascinanti,
ma tutto quello che si poteva fare era restare a contemplarle. Se un corpo
celeste si guastava, non si poteva neppure lontanamente sperare di rimetterlo a
posto.

279
Quando tornò a casa per Natale trovò che in qualche modo Holden's
Crossing era diversa da prima. Vi si sentiva più solo che nella sua stanza nella
casa del preside, e alla fine delle vacanze tornò al college quasi volentieri.
Era felice del coltello che suo padre gli aveva regalato; si comprò una
piccola cote e una fialetta d'olio e affilò ogni lama finché poté tagliare in due
un capello.
Nel secondo semestre scelse di frequentare chimica invece di astronomia.
Trovava difficile la composizione inglese. Tu mi hai già detto PRIMA,
scribacchiava seccato il suo professore d'inglese, che Beethoven scrisse la
maggior parte della sua musica quando era sordo. Il professor Gardner lo
incoraggiava a usare il cannocchiale astronomico ogni volta che voleva, ma la
notte prima di un esame di chimica, in febbraio, Sciamano andò sul tetto a
spazzare il cielo invece di studiare la tavola dei pesi atomici di Berzelius ed
ebbe un cattivo voto. Dopo di ciò ridusse la contemplazione delle stelle e fece
eccellenti progressi in chimica. Quando tornò a Holden's Crossing per le
vacanze di Pasqua, i Geiger invitarono i Cole a pranzo, e l'interesse di Jason
per la chimica lení in parte per Sciamano il tormento di quella serata, perché
Jay continuò a fargli domande su quello che aveva studiato.
Le sue risposte dovettero essere soddisfacenti. «Che cosa pensi di fare della
tua vita, vecchio mio?» gli chiese Jay.
«Non so ancora. Pensavo... forse potrei dedicarmi a un'attività scientifica.»
«Se ti piacesse la farmacologia, sarei lieto di prenderti come apprendista.»
Sciamano vide sul volto dei suoi genitori che la proposta li rallegrava, e
ringraziò un po' impacciato Jay Geiger affermando che ci avrebbe certamente
pensato; ma in cuor suo sapeva che non desiderava diventare farmacista. Tenne
gli occhi abbassati sul piatto per qualche minuto e così perdette parte della
conversazione. Quando alzò di nuovo lo sguardo, vide che il volto di Lillian si
era velato di dolore. Stava raccontando all'amica che Rachel aveva perduto il
bambino al quinto mese di gravidanza, e per un po' le due donne continuarono
a parlare di aborti.

Quell'estate Sciamano lavorò all'allevamento di pecore e lesse libri di


filosofia presi a prestito da George Cliburne. Quando tornò al college, il presi-
de Hammond gli permise di abbandonare lo studio dell'ebraico ed egli scelse di
studiare le opere di Shakespeare, matematica avanzata, botanica e zoologia.
Solo uno degli studenti di teologia era tornato a Knox per un altro anno, ma era
tornato anche Brooke e con lui Sciamano continuò a conversare come un antico
romano, rinfrescando il suo latino. Il suo insegnante favorito, il professor Gard-
280
ner, teneva il corso di zoologia, ma era meglio come astronomo che come
biologo. Sezionavano solo rane e topi e piccoli pesci, tracciando una quantità di
diagrammi. Sciamano non aveva il talento artistico del padre, ma quando era
bambino Makwa lo aveva iniziato allo studio della botanica, così presentò la
sua prima tesina sull'anatomia del fiore.
Quell'anno al college il dibattito sulla schiavitù si era fatto molto acceso e
Sciamano, insieme con altri studenti e membri della facoltà, aderí alla Società
per l'Abolizione della Schiavitù; ma erano in molti, al college e a Galesburg,
che parteggiavano per gli Stati del Sud e talvolta la discussione portava a vere e
proprie risse.

Perlopiú la gente lo lasciava tranquillo. I cittadini e gli studenti si erano


abituati alla sua presenza, ma per gli ignoranti e i superstiziosi era divenuto un
mistero, una specie di leggenda locale. In genere non sapevano nulla della
sordità e di come gli individui sordi potessero sviluppare delle capacità di
compensazione. Avevano subito capito che era sordo come una campana, ma
alcuni pensavano che avesse dei poteri occulti, perché se stava studiando da
solo e qualcuno arrivava alle sue spalle, ne avvertiva subito la presenza.
Dicevano che Sciamano aveva «degli occhi dietro la testa». Non capivano che
coglieva le vibrazioni dei passi, che sentiva la ventata fresca che entrava dalla
porta aperta o vedeva muoversi per la corrente d'aria il foglio di carta che
teneva in mano. Era ben felice che nessuno scoprisse la sua capacità di
identificare le note al pianoforte.
Sapeva che talvolta parlavano di lui come di «quello strano ragazzo sordo».

In un mite pomeriggio agli inizi di maggio Sciamano passeggiava per la


città osservando i progressi dei fiori nei giardini, quando all'angolo di South
Street e Cedar Street un carro tirato da quattro cavalli svoltò troppo in fretta.
Anche se gli furono risparmiati il frastuono degli zoccoli e gli alti nitriti,
Sciamano vide la piccola forma villosa sfuggire per un pelo alle zampe dei
cavalli di testa, solo per essere travolta dalla ruota posteriore destra che trascinò
il cane per un'intera rotazione prima di scagliarlo a terra. Il carro proseguì, la-
sciando il cane che si dibatteva nella polvere della strada e Sciamano si
avvicinò di corsa.
Era una povera femmina di razza imprecisata, giallastra, con le zampe tozze
e un fiocco bianco sulla punta della coda. Sciamano pensò che avesse un po'
del terrier. La cagnetta si contorceva sulla schiena e un sottile filo di sangue le
scorreva dall'angolo della bocca.
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Una coppia che si trovava a passare di lì si fermò a guardare.
«Disgraziati» esclamò l'uomo. «Guidano come pazzi. Poteva capitare anche
a uno di noi.» Quando vide che Sciamano stava per inginocchiarsi, l'ammonì
con la mano. «Non lo farei, se fossi in lei. Di sicuro la morde, mentre si contor-
ce nel dolore.»
«Lei sa chi è il padrone?» chiese Sciamano.
«No» fece la donna.
«Oh, un bastardo di strada.» E la coppia si allontanò.
Sciamano si inginocchiò e accarezzò cautamente la cagnetta, ma l'animale
gli leccò la mano. «Povera bestia» mormorò. Controllò le quattro zampe: non
parevano rotte, ma sapeva che il rivolo di sangue era un cattivo segno. Tuttavia
si tolse la giacca, l'avvolse intorno alla cagnetta, e tenendola in braccio come
fosse un bambino, la portò a casa. Nessuno guardò dalle finestre, né lo vide
attraversare con il suo fardello il cortile posteriore. Non incontrò nessuno per le
scale. Giunto nella sua stanza, depose la cagnetta sui pavimento, poi svuotò
l'ultimo tiretto del suo cassettone. Dallo stanzino dell'atrio prese un po' degli
stracci che Mrs. Hammond usava per la pulizia della casa e ne fece una specie
di cuccia nel cassetto, in cui depose la cagna. Quando esaminò la propria giac-
ca, vide che c'era qualche goccia di sangue, ma solo nell'interno.
La cagna giaceva nel cassetto, ansimando, e lo guardava.
All'ora di cena Sciamano uscì dalla stanza e nel corridoio incontrò Brooke,
che lo guardò sorpreso quando lo vide chiudere a chiave la porta della sua stan-
za; era una cosa che nessuno faceva quando restava in casa. «Quid vis?» chiese
Brooke.
«Condo parvam catulam in meo cubiculo.»
Brooke alzò le sopracciglia stupito. «Tu hai...» non si fidò di dirlo in latino
«hai nascosto una cagnetta nella tua stanza?»
«Sic est.»
«Ma guarda un po'» esclamò Brooke incredulo, e gli diede una gran manata
sulla spalla. In sala da pranzo, poiché era lunedì c'erano gli avanzi dell'arrosto
della domenica. Sciamano si fece destramente scivolare diverse fettine d'arro-
sto dal piatto nella tasca, mentre Brooke lo osservava incuriosito. Quando Mrs.
Hammond andò nella dispensa a preparare il dessert, Sciamano si prese una
mezza tazza di latte e lasciò la tavola, mentre il preside era immerso in una
seria conversazione con il bibliotecario sul bilancio della biblioteca.
La cagna non mostrò alcun interesse per la carne né volle leccare il latte.
Sciamano prese qualche goccia di latte sulla punta delle dita e gliela pose sulla
lingua, come se nutrisse un agnello senza madre, e così riuscì a farle prendere
282
un po' di cibo.
Studiò per diverse ore: alla fine della serata si chinò ad accarezzare la be-
stiola, che restava fiacca e indifferente. Aveva il naso che scottava e asciutto.
«Dormi, ragazzina» le disse e spense la lampada. Gli pareva strano avere un
altro essere vivente nella sua stanza, ma gli piaceva.
La mattina per prima cosa andò diritto al cane e trovò che aveva il naso
freddo. In realtà, tutto il suo corpo era freddo e rigido. «Dannazione» borbottò
amaramente.
Ora doveva pensare come liberarsene. Intanto si lavò, si vestì e scese a fare
colazione, chiudendo di nuovo a chiave la porta. Brooke lo aspettava nell'atrio.
«Credevo che tu scherzassi,» gli disse seccato «ma l'ho sentita benissimo
che strillava e mugolava per tutta la notte.»
«Spiacente» rispose Sciamano. «Non sarai più disturbato.»
Dopo colazione tornò nella sua stanza, si sedette sul letto e fissò lo sguardo
sulla cagna. C'era una pulce sull'orlo del cassetto e cercò di schiacciarla, ma
l'insetto schizzò via. Avrebbe dovuto aspettare finché tutti fossero usciti, pensò,
e portare il cane fuori. Doveva esserci una vanga in cantina. Purtroppo avrebbe
perduto la prima ora di lezione.
Ma a un tratto si rese conto che questa era un'occasione unica per un'auto-
psia.
La possibilità lo attirava, ma presentava dei problemi. Anzitutto, il sangue.
Da quando aiutava il padre durante le autopsie, Sciamano sapeva che, dopo la
morte, il sangue in gran parte si coagula, ma non sarebbe mancato del tutto...
Aspettò che la casa fosse quasi vuota, poi andò nell'atrio posteriore, che
dava sul cortile, dove appesa a un chiodo alla parete stava la grande tinozza da
bagno di lamiera. La portò nella sua stanza, la pose vicino alla finestra, dove la
luce era buona. Vi depositò la cagna, adagiandola sul dorso, e parve che l'ani-
male fosse in attesa che gli grattasse la pancia. Le unghie delle zampe erano
lunghe, come quelle di una persona trascurata, e una era rotta. Aveva quattro
unghioni alle zampe posteriori e un'unghia extra, più piccola, sopra ciascuna di
quelle anteriori, come un pollice che in qualche modo si fosse spostato più in
alto. Sciamano era curioso di scoprire se e come le articolazioni delle zampe
somigliavano alle articolazioni umane. Aprì la lama piccola del coltello che gli
aveva regalato suo padre. La cagnetta aveva dei peli lunghi e radi, e altri più
corti e più fitti, ma il pelo sul ventre non era d'impaccio e la carne si aprì facil-
mente quando la lama la incise.

Sciamano non andò alle lezioni né si interruppe per il desinare. Per tutto il
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giorno sezionò, prese appunti, tracciò rozzi diagrammi. Nel tardo pomeriggio
aveva finito con gli organi interni e la maggior parte delle articolazioni. Voleva
ancora studiare e disegnare la spina dorsale, ma rimise il cane nel cassetto e lo
chiuse. Poi si lavò abbondantemente le mani nella catinella con molto sapone e
vuotò l'acqua nella vasca. Prima di scendere per cena si cambiò interamente,
dalla biancheria agli abiti.
Tuttavia, avevano appena cominciato con la zuppa, che il preside Hammond
storse il naso carnoso.
«Che c'è?» chiese sua moglie.
«Non so, qualche cosa. Cavoli, forse?»
«No» fece lei.
Sciamano fu ben felice di svignarsela quando la cena fu terminata. Sedette
nella sua stanza, bagnato di sudore, atterrito all'idea che qualcuno volesse farsi
un bagno.
Nessuno pensò a un bagno. Troppo nervoso per dormire, Sciamano aspettò
un tempo incredibilmente lungo, finché pensò che tutti fossero andati a letto.
Poi portò la tinozza giù per le scale e nel cortile posteriore e vuotò nel prato il
sangue che era rimasto sul fondo. La pompa gli parve insolitamente rumorosa
quando pompò l'acqua, e c'era sempre il pericolo che qualcuno uscisse per
andare al gabinetto. Ma nessuno si fece vedere e Sciamano sfregò energica-
mente la tinozza diverse volte con molto sapone e la risciacquò bene, poi la
riportò nell'atrio e la riappese alla parete.
La mattina dopo dovette convincersi che non gli sarebbe stato possibile
sezionare la spina dorsale, perché la stanza si era fatta più calda e vi stagnava
un greve fetore. Tenne il cassetto chiuso e vi ammucchiò intorno il cuscino e le
coperte, sperando di smorzare l'odore. Ma quando scese a colazione, vide
intorno alla tavola tante facce storte.
«Un topo morto, in qualche buco del muro» osservò il bibliotecario. «O
forse un ratto.»
«No,» replicò Mrs. Hammond «abbiamo scoperto questa mattina la fonte
del cattivo odore. Pare che venga dal terreno intorno alla pompa.»
Il preside sospirò. «Spero che non dovremo scavare un nuovo pozzo.»
Brooke aveva la faccia di chi non ha dormito tutta notte. Continuava a
distogliere nervosamente lo sguardo.
Sciamano, piuttosto sottosopra, si affrettò a recarsi alla sua lezione di chimi-
ca; doveva aspettare che tutti fossero usciti di casa. Quando la lezione fu finita,
invece di passare a quella su Shakespeare, si precipitò a casa, ansioso di
sistemare le cose. Ma quando salì le scale trovò Brooke e Mrs. Hammond e
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uno dei due poliziotti della città fermi davanti alla sua porta. Mrs. Hammond
aveva in mano la sua chiave.
Tutti guardarono Sciamano. «C'è qualcosa di morto là dentro?» chiese il
poliziotto.
Sciamano non riuscì a trovare le parole per rispondere.
«Mi ha detto che nascondeva nella sua stanza una donna» interloquì
Brooke.
Sciamano ritrovò la voce. «No, no» replicò, ma il poliziotto aveva preso la
chiave dalla mano di Mrs. Hammond e stava aprendo la porta.
Dentro Brooke cominciava a guardare sotto il letto, ma il poliziotto vide il
cuscino e le coperte e andò direttamente ad aprire il cassetto. «Un cane!»
esclamò sorpreso. «Tutto tagliato a pezzi.»
«Non una donna?» fece Brooke guardando Sciamano. «Mi avevi detto una
cagnetta!»
«Tu dici una cagnetta. Io ho detto catulam, la femmina del cane.»
«Mi dica, signore» intervenne il poliziotto. «Non c'è nient'altro di morto e
nascosto qui? Sul suo onore?»
«No, niente.» Mrs. Hammond lo guardò ma non disse una parola. Si preci-
pitò giù per le scale e dopo un attimo sentirono sbattere la porta d'entrata.
Il poliziotto sospirò. «Andrà subito all'ufficio del marito. E credo che do-
vremmo andarci anche noi.»
Sciamano annuì e lo seguì. Brooke gli rivolse uno sguardo di scusa per il
fazzoletto che si teneva sotto il naso.
«Vale» lo salutò Sciamano.

Fu sfrattato dalla casa del preside. Mancavano meno di tre settimane alla
fine del semestre e il professor Gardner gli permise di dormire su una branda
nel capanno del suo giardino. In compenso Sciamano vangò il giardino e piantò
un campicello di patate. Un giorno si prese un bello spavento per un serpente
che uscì da sotto certi vasi, ma quando accertò che era solo un'innocua biscia i
due convissero d'amore e d'accordo.
Riportò voti eccellenti, ma gli consegnarono una lettera chiusa da portare a
suo padre. Quando arrivò a casa, rimase seduto nello studio mentre suo padre la
leggeva. Sapeva quello che diceva. Il preside Hammond gli aveva già comuni-
cato che aveva ottenuto l'attestato di due anni di frequenza al college, ma era
sospeso per un anno, per consentirgli di maturare abbastanza da poter entrare in
una comunità universitaria. Se ritornava, doveva trovarsi un altro alloggio.
Suo padre terminò la lettura e lo guardò. «Hai imparato qualcosa da questa
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piccola avventura?»
«Sì, papà. Un cane è sorprendentemente simile a un essere umano nel suo
interno. Il cuore è molto più piccolo, naturalmente, è meno della metà, ma
appariva assai simile ai cuori umani che ti ho visto asportare e pesare nelle
autopsie. Lo stesso color mogano.»
«Non proprio mogano...»
«Be', rossiccio.»
«Si, rossiccio.»
«Anche i polmoni e il tratto intestinale sono simili. Ma non la milza: invece
di essere rotonda e compatta, era come una grossa lingua, di circa trenta centi-
metri, larga cinque centimetri e spessa due centimetri e mezzo.
«La vena aorta era rotta; questo è ciò che ha ucciso la bestiola. Secondo me
la cagnetta aveva perduto quasi tutto il sangue; ce n'era una quantità accumu-
lata nella cavità toracica.»
Suo padre lo guardava.
«Ho preso degli appunti. Se ti interessa, puoi leggerli.»
«Mi interessa molto» rispose Rob J. pensoso.

43

L'aspirante

Quella notte Sciamano rimase sdraiato senza dormire nel suo letto di funi
ormai un po' allentate, fissando le pareti: era una vista così familiare che dalle
variazioni del primo raggio di sole sulla loro superficie poteva indovinare la
stagione dell'anno. Suo padre gli aveva consigliato di trascorrere a casa l'anno
di sospensione. «Ora che hai imparato un po' di fisiologia, puoi essermi più
utile quando devo fare un'autopsia. Inoltre puoi darmi una mano nelle visite a
domicilio. E nel frattempo» aggiunse «potresti aiutare nei lavori della fattoria.»
Ben presto gli parve di non essersi mai allontanato da casa. Ma, per la prima
volta nella sua vita, il silenzio che lo avvolgeva gli dava un'impressione di
acuta solitudine.
Quell'anno i corpi dei suicidi e dei derelitti e degli indigenti senza famiglia
furono i suoi libri di testo, su cui imparò l'arte della dissezione. Nelle case dei
malati e dei feriti preparava strumenti e bende e osservava come suo padre
affrontava le esigenze delle varie situazioni. Sapeva che anche suo padre lo
osservava e si impegnava a star sempre pronto a imparare il nome degli stru-
menti e delle stecche e delle bende, per averli sottomano ancor prima che Rob
286
J. li chiedesse.
Una mattina che avevano fermato il calesse lungo il fiume, per svuotare la
vescica, Sciamano disse al padre che voleva studiare medicina invece di torna-
re al Knox College al termine dell'anno di sospensione.
«Oh, perdio!» imprecò Rob J. e Sciamano con un amaro senso di delusione
lesse nel volto del padre che non aveva cambiato idea.
«Ma non mi capisci, ragazzo? Io cerco di risparmiarti un dolore. È chiaro
che tu hai un vero talento per la scienza. Termina il college e io ti manderò alle
migliori università che tu possa trovare, in qualunque parte del mondo. Puoi
insegnare, dedicarti alla ricerca. Credo che tu possa fare grandi cose.»
Sciamano scosse la testa. «Non mi importa di soffrire. Tu una volta mi
legasti le mani e mi privasti del cibo finché io non usai di nuovo la voce. Tu
cercavi di farmi migliore, non di evitarmi sofferenze.»
Rob J. sospirò e poi annuì. «Bene. Se tu hai deciso di fare il medico, puoi
far pratica con me.»
Ma Sciamano scosse la testa. «In questo modo tu faresti solo un'elemosina
al tuo figlio sordo. Cercheresti di trarre il meglio da un essere inferiore, contro
il tuo proprio giudizio.»
«Sciamano...» mormorò suo padre, oppresso.
«Io intendo studiare come hai studiato tu, a una scuola di medicina.»
«Questa è veramente una cattiva idea. Non credo che una buona scuola
possa accettarti; ci sono invece una quantità di scuole scadenti, che stanno
sorgendo ovunque, e quelle ti accetteranno. Accettano chiunque abbia denaro.
Ma sarebbe un grave errore cercare di studiare medicina in uno di quei posti.»
«Né io vorrei farlo.» Sciamano chiese al padre di dargli un elenco delle
migliori scuole di medicina che si trovassero a una distanza ragionevole dalla
valle del Mississippi.
Appena tornato a casa, Rob J. andò nel suo studio e compilò la lista, che
consegnò al figlio prima di cena, come se volesse cancellare l'argomento dalla
sua mente. Sciamano pose nuovo petrolio nella sua lampada e rimase seduto al
suo tavolino fin dopo mezzanotte, scrivendo lettere. Si preoccupò di precisare
che l'aspirante era sordo, non volendo andare incontro a sorprese spiacevoli.

La cavalla chiamata Bess, e in passato Monica Grenville, si era ridotta scar-


na e zoppicante dopo aver portato Rob J. su e giù per mezzo continente, ma ora
era grassa e contenta negli ozi di una piacevole vecchiaia. Invece la povera e
cieca Vicky, la cavalla che era stata comprata per sostituire Bess, ebbe una
sorte peggiore. Verso la fine dell'autunno, un pomeriggio, Rob J., tornando a
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casa, vide Vicky che tremava in mezzo al prato. Aveva la testa china fino a
terra, le zampe scarne un po' allargate, e pareva dimentica del mondo intorno,
come ogni essere umano che arrivi debole e malaticcio alla vecchiaia.
La mattina dopo Rob J. andò a casa Geiger e chiese a Jay se aveva della
morfina.
«Quanta ne hai bisogno?»
«Abbastanza da uccidere un cavallo.»
Condusse Vicky in mezzo al prato e le diede due carote e una mela. Le
iniettò il farmaco nella vena giugulare destra, accarezzandola e parlandole dol-
cemente, mentre la bestia masticava il suo ultimo pasto dolce. Quasi subito la
vide piegare i ginocchi e crollare a terra. Rob J. restò lì in piedi finché la
cavalla cessò di vivere, poi sospirò e disse ai suoi figli di sistemarla, e si
allontanò per le sue visite a domicilio.
Sciamano e Alex cominciarono a scavare lí accanto. Ci volle molto tempo
perché la fossa doveva essere larga e profonda. Quando fu pronta, diedero un
ultimo sguardo all'animale. «Strano come i suoi incisivi siano inclinati in
avanti» osservò Sciamano.
«È così che i cavalli dimostrano la loro età, con i denti.»
«Io ricordo quando i suoi denti erano diritti come i tuoi o i miei... Era una
brava bestia.»
«E come scoreggiava!» aggiunse Alex ed entrambi risero, fino a quando la
spinsero nella fossa e vi accumularono la terra in fretta, senza avere il coraggio
di guardarla. Sudavano, malgrado la giornata fredda. Alex condusse Sciamano
nel fienile e gli mostrò dove Alden teneva nascosta una bottiglia di whisky,
sotto alcuni sacchi, e bevve un lungo sorso, e anche Sciamano bevve un sorso
più piccolo.
«Io me ne devo andare di qui» affermò Alex.
«Credevo che ti piacesse lavorare alla fattoria.»
«Non vado più d'accordo con nostro padre.»
Sciamano esitò. «Ci vuole molto bene, Alex.»
«Sì, certamente. Ha fatto molto per me. Ma... io vorrei sapere del mio padre
naturale. Domando, e nessuno mi risponde. E io finisco per impazzire perché
mi sento un vero bastardo.»
Sciamano ne fu urtato. «Alex, tu hai una madre e un padre. E un fratello»
aggiunse seccamente. «Dovrebbe essere abbastanza per chiunque non sia un
dannato idiota.»
«Vecchio Sciamano, sempre con il tuo buonsenso.» Alex sogghignò. «Ti
dico una cosa. Andiamocene via, io e te, tutti e due... Andiamo in California. Ci
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deve essere ancora dell'oro là, da qualche parte. Facciamo fortuna, diventiamo
ricchi, e torniamo qui e ricompriamo tutta la dannata città da Nick Holden.»
Era una proposta allettante, andarsene in giro con Alex, e pareva fatta sul
serio. «Ma io ho altri progetti, fratello. E tu non scappare di casa, perché senza
di te chi spazzerebbe la merda delle pecore?»
Alex si gettò su di lui e lo rovesciò a terra. Ansando e grugnendo, ognuno
cercava di agguantare l'altro in una buona presa. La bottiglia di Alden schizzò
sul pavimento e si vuotò gorgogliando, mentre i due si rotolavano sul suolo del
fienile cosparso di paglia. Alex era indurito dal lavoro dei campi ed era molto
forte, ma Sciamano era più alto e robusto e ben presto strinse il fratello in una
presa d'acciaio. Ma dopo un attimo gli parve che Alex volesse dire qualcosa, e
tenendogli il braccio sinistro intorno al collo gli piegò all'indietro il viso con la
mano destra, per vedere le sue labbra.
«Basta, lasciami andare che non ti faccio niente» gracchiò Alex e Sciamano
si rovesciò indietro nel fieno, ridendo.
Alex strisciò a riprendere la bottiglia e la guardò funereo. «Alden impazzirà
di rabbia.»
«Digli che l'ho bevuto io.»
«Puah, chi lo crederebbe?» Alex si portò la bottiglia alle labbra e scolò le
ultime gocce.

Quell'autunno piovve molto, anche a stagione inoltrata, quando di solito


avrebbe dovuto nevicare. La pioggia cadeva in lunghi veli d'argento, con
qualche giorno sereno fra un acquazzone e l'altro, sicché i fiumi, pur gonfi di
acque scroscianti, non superarono gli argini. Nel prato, sulla fossa di Vicky,
l'alto tumulo di terra che i due fratelli avevano accumulato si spianò e si
rassodò e ben presto fu impossibile distinguerlo.
Rob J. comprò un robusto cavallo castrato, grigio, per Sarah: lo chiamarono
Boss, il Padrone, anche se Sarah quando era in sella sapeva perfettamente
padroneggiarlo.
Promise anche che avrebbe tenuto gli occhi aperti per trovarne uno simile
per Alex, il quale gliene fu grato, perché da parte sua non era molto portato a
fare economie, e poi tutti i soldi che riusciva a mettere da parte erano destinati
all'acquisto di un nuovo fucile da caccia a retrocarica.
«Mi sembra di esser sempre a caccia di un cavallo» osservò Rob J., ma non
aggiungeva che ne avrebbe cercato uno per Sciamano.
Il sacco della posta arrivava da Rock Island a Holden's Crossing tutti i
martedì e venerdì mattina. A cominciare dai giorni intorno a Natale, Sciamano
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correva ogni volta a scrutare in mezzo alla posta, ma solo nella terza settimana
di febbraio arrivarono le prime risposte. Quel martedì ricevette due brevi e
piuttosto secche lettere di rifiuto, una dal Medical College del Wisconsin e
l'altra dalla facoltà di medicina dell'Università della Louisiana. Il venerdì suc-
cessivo un'altra lettera gli diceva che la sua preparazione e il suo addestramento
erano eccellenti, ma «il Rush Medical College di Chicago non ha attrezzature
per allievi che siano sordi».
Attrezzature? Pensavano forse che avesse bisogno di una gabbia?
Suo padre sapeva che le lettere erano arrivate, e capiva dal comportamento
controllato di Sciamano che erano state dei rifiuti. Sciamano sarebbe stato
seccato di vedersi trattare dal padre con riguardo o, peggio, con pietà: ma
questo non avvenne. I rifiuti gli bruciavano. Nessun'altra lettera arrivò per le
successive sette settimane, e fu quasi un sollievo per lui.

Rob J. aveva letto gli appunti che Sciamano aveva preso quando aveva
sezionato il cane e li aveva trovati promettenti, anche se un po' rozzi. Gli
suggerì di consultare il suo schedario per imparare a tenere le registrazioni
anatomiche, e Sciamano vi si dedicava appena aveva tempo disponibile. Così,
fu per puro caso che gli capitò in mano il rapporto sull'autopsia di Makwa-
ikwa. Si sentiva stranamente sgomento leggendolo e pensando che, mentre
accadevano le cose terribili ivi descritte, lui stesso era un bambino addormen-
tato nel bosco a pochi metri di distanza.
«È stata violentata! Sapevo che era stata assassinata, ma...»
«Violentata e sodomizzata. Non sono cose che si raccontano a un bam-
bino.»
Era vero, certamente.
Lesse il referto più e più volte, sconvolto.
Undici ferite d'arma da taglio, in linea irregolare dalla gola allo sterno, e
fino a un punto circa due centimetri più in basso del processo xifoideo.
Ferite triangolari, larghe da 0,947 a 0,952 centimetri. Tre avevano raggiunto
il cuore, 0,887 centimetri, 0,799 centimetri, 0,803 centimetri.
«Perché le ferite avevano larghezze diverse?»
«Significa che l'arma era appuntita e diventava progressivamente più larga
verso l'impugnatura. Quanto più violento era il colpo, tanto più larga era la
ferita.»
«Credi che arresteranno l'assassino?»
«No, non credo» rispose suo padre. «Erano probabilmente in tre. Per molto
tempo ho interessato delle persone per cercare in lungo e in largo un tale
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Ellwood R. Patterson. Ma non si è trovata traccia di lui. Probabilmente era un
nome falso. C'era un uomo con lui, di nome Cough. Non ho mai sentito né
incontrato un uomo con questo nome. E ce n'era un altro più giovane, con una
voglia di vino in faccia, che zoppicava. Ero sempre in allarme ogni volta che
incontravo qualcuno con una voglia di vino o una gamba zoppa. Ma ho sempre
riscontrato o l'uno o l'altro difetto. Mai tutti e due insieme.
«Le autorità non si sono mai preoccupate di rintracciarli. E ora...» Si strinse
nelle spalle. «È passato troppo tempo. Troppi anni.» Sciamano avverti la
tristezza nelle parole del padre, ma capi che ormai la collera e la passione si
erano spente.

Un mattino di aprile, mentre passavano nei pressi del convento cattolico,


Rob J. voltò Trude su per il viottolo e Sciamano lo segui su Boss.
Nel convento Sciamano notò che molte delle monache salutavano suo padre
per nome e non parevano sorprese di vederlo. Suo padre lo presentò a Madre
Miriam Ferocia, che pareva la direttrice. Madre Miriam li fece sedere - il dottor
Cole in una grande poltrona di cuoio e Sciamano in una sedia di legno - sotto
una grande croce appesa alla parete, a cui era inchiodato un Gesù di legno dagli
occhi tristi; e una delle monache servì un buon caffè accompagnato da pane
caldo.
«Bisognerà che porti ancora con me il mio ragazzo» osservò sorridendo
Rob J. «Di solito non mi offrite pane insieme con il caffè.» Sciamano si rese
conto che il carattere del padre aveva lati insospettati, e che forse non lo
avrebbe mai compreso del tutto.
Aveva visto più volte delle monache che assistevano i pazienti di suo padre,
e sempre in coppia. Rob J. e la Madre Superiora parlarono brevemente di
diversi casi, ma ben presto il discorso cadde sulla politica; evidentemente
l'interesse di entrambi non era solo medico. Rob J. gettò uno sguardo al cro-
cefisso. «Ralph Waldo Emerson, come riferisce il Tribune di Chicago, avrebbe
detto che John Brown ha reso il suo patibolo glorioso come una croce.»
Miriam Ferocia osservò che Brown, un fanatico abolizionista che era stato
impiccato per aver attaccato un'armeria dell'esercito degli Stati Uniti nella
Virginia occidentale, stava quasi diventando un martire agli occhi degli
avversari della schiavitù. «Tuttavia la schiavitù non è la vera causa dei conflitti
fra gli Stati. La vera causa è di natura economica. Il Sud vende il suo cotone e
il suo zucchero all'Inghilterra e all'Europa, e ne compra prodotti manufatti,
invece di comprarli negli Stati industriali del Nord. Il Sud ha deciso che non ha
nessun bisogno degli altri Stati Uniti d'America. Malgrado i discorsi di Mr.
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Lincoln contro la schiavitù, è questa la piaga che va in suppurazione.»
«Io non so nulla di economia» interloquì Sciamano pensoso. «Avrei dovuto
studiarla quest'anno, se fossi tornato al college.»
Quando la monaca chiese perché non era tornato, Rob J. spiegò che era
stato sospeso per aver sezionato un cane.
«Oh, mio Dio! Ed era morto, il cane?» chiese la monaca.
Le assicurarono che era morto, e lei annuì. «Ya, allora va bene. Anch'io non
ho mai studiato economia, ma ce l'ho nel sangue. Mio padre da giovane faceva
il carpentiere e aggiustava carri da fieno. Ora possiede una fabbrica di carri a
Francoforte e una di vagoni ferroviari a Monaco.» Sorrise. «Mio padre si
chiama Brotknecht. Significa fabbricante di pane, perché nel Medioevo i nostri
antenati erano panettieri. Eppure a Baden, quando ero una novizia, conoscevo
un panettiere che si chiamava Wagenknecht, fabbricante di carri!»
«Qual era il suo nome, prima di diventare monaca?» chiese Sciamano. Vide
che lei esitava e suo padre si accigliava, e si rese conto che la domanda era fuo-
ri luogo, ma Miriam Ferocia lo rassicurò. «Quando ero nel mondo il mio nome
era Andrea.» Si alzò e si diresse a uno scaffale da dove prese un volume. «Può
interessarti leggere questo libro» gli disse. «È di David Ricardo, un economista
inglese.»
Quella notte Sciamano rimase sveglio fino a tardi per leggere il libro. Vi
erano pagine difficili da capire, ma riconobbe che Ricardo sosteneva la libertà
di commercio fra le nazioni, ed era proprio quello che il Sud reclamava.
Quando finalmente si addormentò, gli parve di vedere Cristo sulla croce. E
nel sogno il lungo naso aquilino diventava più corto e più largo, la pelle si
faceva scura e rossastra, i capelli diventavano neri. Si sviluppavano seni fem-
minili, solcati da segni runici. Comparivano le stigmate. Nel sonno, senza con-
tarle, sapeva che erano undici ferite, e vedeva il sangue scorrere lungo il corpo
e gocciolare ai piedi di Makwa.

44

Lettere e note

Nella primavera del 1860 nacquero nell'allevamento dei Cole ben 49 agnelli
e l'intera famiglia fu impegnata per i parti difficili e la castrazione. «Il gregge
ogni primavera si fa più grosso» osservò Alden orgoglioso ma preoccupato.
«Lei mi dovrà dire che cosa vuol farne di questo mucchio di pecore.»
Le scelte erano limitate. Si potevano macellare solo pochi capi di bestiame.
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Nel vicinato la domanda di carne era scarsa, perché ogni colono si allevava i
suoi propri animali, e la carne si sarebbe guastata prima di essere portata in
città per la vendita. Si potevano trasportare e vendere animali vivi, ma era
un'operazione complicata che richiedeva tempo, lavoro e denaro. «La lana ha
molto valore, rispetto al suo peso» decise Rob J. «La cosa migliore è continua-
re ad aumentare il gregge e far denaro con la vendita della lana, come ha sem-
pre fatto la mia famiglia in Scozia.»
«Uh. Bene, ma allora ci sarà più lavoro che mai. Bisognerà assumere un
altro paio di braccia» osservò Alden a disagio, e Sciamano si chiese se Alex
aveva confidato al bracciante il suo desiderio di andarsene dalla fattoria. «Doug
Penfield sarebbe disposto a lavorare per lei a giornata. Così mi ha detto.»
«Pensi che sia in gamba?»
«Ma certo, viene dal New Hampshire. Non è lo stesso che venire dal
Vermont, ma quasi.»
Rob J. ammise che era quasi lo stesso e Doug Penfield fu assunto.

Quella primavera Sciamano fece conoscenza con Lucille Williams, figlia di


Paul Williams, il maniscalco. Per molti anni Lucille aveva frequentato la scuola
quando Sciamano vi insegnava matematica. Ora si era fatta una giovinetta. Se i
suoi capelli biondi, che portava annodati in una grossa crocchia, erano più
pallidi delle chiome d'oro delle fanciulle svedesi dei suoi sogni, aveva però un
visetto dolce sempre pronto al sorriso. Ogni volta che la incontrava al villaggio,
Sciamano si fermava a salutarla come un vecchio amico e a chiederle del suo
lavoro, che la fanciulla divideva fra le stalle di suo padre e il Roberta's
Women's Wear, il negozio di moda di sua madre in Main Street. Questa siste-
mazione le consentiva una certa flessibilità di orari e una certa libertà, perché i
suoi genitori non si preoccupavano delle sue assenze, pensando ognuno che
fosse impegnata in qualche servizio per l'altro. Perciò, quando Lucille chiese a
Sciamano se poteva portarle un po' di burro della sua fattoria, e consegnarglielo
a casa sua il giorno dopo alle due del pomeriggio, lui ne rimase tutto speran-
zoso ed eccitato.
Lei gli spiegò con gran cura che doveva legare il cavallo in Main Street
davanti ai negozi, poi girare intorno all'isolato fino all'Illinois Avenue, tagliare
attraverso la proprietà dei Reimers dietro la siepe di alti arbusti di lillà, fuori di
vista dalla casa, saltare lo steccato che circondava il cortile dei Williams e
bussare alla porta sul retro.
«Così non sembrerà... sai bene, le chiacchiere dei vicini» aggiunse, abbas-
sando gli occhi. Sciamano non ne fu sorpreso, perché anche Alex aveva portato
293
il burro a Lucille un anno prima, e gli aveva fatto ampi resoconti di quelle con-
segne. Ma era piuttosto apprensivo: lui non era Alex.
Il giorno dopo i lillà dei Reimers erano in piena fioritura. Lo steccato era
facile da saltare e la porta sul retro si aprì subito al suo bussare. Lucille lodò
entusiasticamente il burro avvolto graziosamente nei tovaglioli, che ripiegò e
lasciò sul tavolo della cucina con il piatto, quando andò a riporre il burro nella
dispensa. Al ritorno prese la mano di Sciamano e lo condusse in una stanza
accanto alla cucina, che ovviamente era l'atelier e il camerino di prova di
Roberta Williams. In un angolo era appoggiata una mezza pezza di percalle, e
ritagli di seta e satin e cotone erano ordinatamente ripiegati su un lungo scaf-
fale. Accanto a un grande divano di crine di cavallo c'era un manichino di
stoffa e fil di ferro, e Sciamano, affascinato, vide che aveva le natiche d'avorio.
Lucille gli offrì il viso per un lungo bacio, uno solo, e poi ciascuno dei due
cominciò a svestirsi con rapidi gesti, lasciando gli abiti in due piccole pile
ordinate, e le calze nelle scarpe. Sciamano osservò con il suo occhio clinico che
il corpo della ragazza era disarmornico: le spalle erano strette e spioventi, i seni
erano come due frittelle poco lievitate, con una piccola pozza di sciroppo e una
mora marroncina al centro, mentre la metà inferiore era pesante, con fianchi
larghi e grosse gambe. Quando Lucille si voltò per gettare un lenzuolo
grigiastro sul divano («Il crine di cavallo punge!»), Sciamano commentò fra sé
che il manichino non andava bene per le sue gonne: le occorrevano molto più
ampie.
Lucille non si sciolse i capelli. «Ci vuol troppo tempo per rimetterli a posto,
dopo» si scusò e lui le assicurò formalmente che stava benissimo così.
Andò tutto liscio. Lucille gli facilitò le cose e Sciamano aveva sentito le
storie e le spacconate di Alex e degli altri per tanto tempo che, se non aveva
mai lui stesso percorso la strada, ne conosceva però tutte le svolte. Il giorno
prima non si sarebbe sognato neppure di toccare le natiche d'avorio del
manichino della sarta, e ora manipolava la carne calda e viva e leccava lo sci-
roppo e gustava le more. Con rapidità e con grande sollievo si scaricò del peso
della castità in un gran brivido finale. Poiché non poteva udire ciò che Lucille
gli bisbigliava all'orecchio, impiegava al massimo tutti gli altri suoi sensi, e lei
si prestò gentilmente ad assumere tutte le pose perché lui la esplorasse da
vicino. Infine il neofita fu in grado di ripetere la prima esperienza, con maggior
calma e più a lungo. Anzi, era pronto a continuare a volontà, ma ben presto
Lucille gettò un'occhiata all'orologio e saltò giù dal divano dicendo che doveva
far trovare la cena pronta quando sua madre e suo padre tornavano a casa.
Mentre si vestivano, fecero i loro piani per il futuro. Lei (e la comoda casa
294
vuota!) erano sempre disponibili durante il giorno. Ahimè, era proprio quando
Sciamano lavorava. Combinarono che Lucille avrebbe cercato di essere in casa
tutti i martedì e i venerdì alle due del pomeriggio, in caso che lui riuscisse a
venire in città. Così, spiegò Sciamano, avrebbe potuto ritirare anche la posta.
Lucille era una ragazza pratica, e mentre gli dava il bacio d'addio, gli rivelò
che le piacevano tanto i bastoncini di zucchero candito, quelli rosa a strisce
bianche, non quelli verdastri al sapore di menta. Sciamano le assicurò che capi-
va la differenza. Saltò il recinto e camminando con passo insolitamente leggero
scese lungo la siepe dei lillà in fiore nel pesante profumo che per tutta la vita
sarebbe stato per lui un odore altamente erotico.

Lucille amava la pelle liscia e morbida delle sue mani, non sapendo che
erano così morbide perché per la maggior parte del tempo erano bagnate delle
secrezioni dei velli di pecora, ricchi di lanolina. La tosatura si prolungò fino a
maggio inoltrato. Sciamano, Alex e Alden sbrigavano la maggior parte del
lavoro, mentre Doug Penfield, pur desideroso di imparare, era assai impacciato
con le forbici. Perlopiù lo incaricavano di raccogliere e sgrassare la lana.
Quando veniva a lavorare, portava notizie del mondo esterno, compresa quella
che i repubblicani avevano scelto Abramo Lincoln come loro candidato alla
presidenza. Quando tutta la lana tosata fu raccolta e legata e impacchettata in
balle, appresero anche che i democratici, riuniti a Baltimora, dopo un accanito
dibattito avevano scelto Douglas. Dopo qualche settimana i democratici del
Sud convocarono una seconda assemblea democratica nella stessa città e de-
signarono un altro candidato alla presidenza, il vicepresidente John C. Breckin-
ridge, perché difendesse il loro diritto di possedere schiavi.
Localmente i democratici erano più uniti e ancora una volta avevano scelto
John Kurland, il procuratore di Rock Island, contro Nick Holden per il seggio
al Congresso. Nick era il candidato tanto del partito americano quanto dei
repubblicani e si dava un gran daffare a tener comizi in tutta la regione a soste-
gno di Lincoln, sperando di trovar posto sul carrozzone presidenziale. Lincoln
aveva accettato l'appoggio dei Know-Nothing e per questa ragione Rob J.
dichiarò che non poteva votare per lui.
Sciamano non riusciva a interessarsi molto alla politica. In luglio aveva
ricevuto un altro rifiuto dal Medical College di Cleveland, e per la fine
dell'estate era stato respinto anche dal College of Medicine dell'Ohio e
dall'Università di Louisville. Si disse, per consolarsi, che in fondo gli bastava
essere accettato da un solo istituto. Nella prima settimana di settembre, un
martedì che Lucille lo aveva aspettato invano, suo padre tornò a casa con la
295
posta e gli consegnò una lunga busta marrone, spedita dalla Scuola di Medicina
del Kentucky. Se la portò al fienile prima di aprirla e fu lieto di essere solo,
perché era un altro rifiuto. Si sdraiò nel fieno e cercò di non farsi vincere dal
panico.
Era ancora in tempo per andare a Galesburg e iscriversi al Knox College
come studente del terzo anno. Sarebbe stata una vita tranquilla, una routine
ormai familiare in cui si era trovato bene, aveva fatto progressi. Una volta
ottenuto il diploma di maturità, gli si sarebbero aperte prospettive interessanti,
poteva andare a studiare scienze sulla costa orientale. Magari persino in
Europa.
E se non tornava a Knox, e non poteva iscriversi a una scuola di medicina,
quale sarebbe stata la sua vita?
Ma non andò da suo padre a chiedergli di rimandarlo al college. Rimase a
lungo sdraiato nel fieno e, quando si alzò, prese una pala e una carriola e
cominciò a sgomberare il letame dalla stalla, un gesto che in se stesso era una
specie di risposta.

Era impossibile evitare di farsi coinvolgere dalla politica. In novembre il


padre di Sciamano ammise francamente di aver votato per Douglas; ma quello
era l'anno di Lincoln perché il partito democratico si era spaccato: i democratici
del Nord e i democratici del Sud avevano presentato due candidati diversi e
Lincoln aveva avuto la vittoria facile. C'era stata una piccola consolazione:
Nick Holden alla fine aveva perso il seggio. «Almeno Kurland ci rappresenterà
degnamente al Congresso» aveva commentato Rob J. All'emporio la gente si
domandava se Nick sarebbe tornato a Holden's Crossing e avrebbe ripreso la
sua attività di avvocato.
Il problema fu risolto poche settimane dopo, quando Abramo Lincoln an-
nunciò alcune delle nomine che la nuova amministrazione si proponeva di fare.
L'onorevole Nicholas Holden, eroe delle guerre contro i Sauk e ardente soste-
nitore della candidatura di Lincoln, era stato nominato alto commissario per gli
Affari Indiani. Ebbe l'incarico di concludere i trattati con le tribù dell'Ovest e
assegnare a ciascuna una riserva adeguata, in cambio di un comportamento
pacifico e della rinuncia a tutte le altre terre e proprietà indiane.
Rob J. rimase depresso e accigliato per settimane.
Fu un periodo di tensione e disagio per Sciamano, e di tensione e disagio
per tutta la nazione; ma in seguito Sciamano avrebbe guardato a quell'inverno
con nostalgia, ricordandolo come una squisita scena di campagna intagliata da
mani sapienti e poi fissata in una sfera di cristallo. La casa, il fienile. Il fiume
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ghiacciato, i campi coperti di neve. Le pecore e i cavalli e le vacche da latte. E
tutte le singole persone, insieme nella sicurezza comune e ciascuna al proprio
posto.
Ma la sfera di cristallo era caduta dal tavolo ed era già incrinata.
Pochi giorni dopo l'elezione di un presidente che aveva basato la sua
campagna sull'abolizione della schiavitù, gli Stati del Sud cominciarono a
muoversi verso la secessione. La Carolina del Sud fu il primo Stato in cui fiam-
meggiò la rivolta e le forze armate federali che avevano occupato due fortezze
nel porto di Charleston si ritirarono nella più grande delle due, Fort Sumter, e si
trovarono ben presto strette d'assedio. In rapida successione, le milizie statali in
Georgia, Alabama, Florida, Louisiana e Mississippi occuparono gli edifici e le
istituzioni pubbliche strappandoli alle forze federali del normale tempo di pace,
assai inferiori di numero, talvolta dopo scontri sanguinosi.

Carissimi mamma e papà


parto con Mal Howard per arruolarmi con le forze del Sud. Non
sappiamo esattamente in quale Stato ci arruoleremo. Mal preferirebbe
andare nel Tennessee per combattere con i suoi compatrioti. A me non
importa, a meno che non si possa andare in Virginia a salutare la nostra
famiglia.
Mr. Howard dice che è importante per il Sud mettere in campo un
esercito valido, per dimostrare a Lincoln che non c'è da scherzare con i
sudisti. Dice che non sarà proprio una guerra, piuttosto una specie di lite
in famiglia. Così tornerò in tempo per gli agnelli di primavera.
Intanto, papà, forse mi daranno un cavallo e un fucile tutto mio!

Il vostro affezionato figlio


Alexander Bledsoe Cole

Sciamano trovò nella sua stanza un altro biglietto, scarabocchiato su un


pezzo di carta da imballaggio e fermato sul suo cuscino con il compagno di
quel coltello che suo padre gli aveva regalato a Natale.

Fratellino,
abbi cura di questo coltello per me. Non vorrei perderlo. Ci vediamo
presto.
Alex

297
Rob J. si recò subito da Julian Howard, il quale ammise, un po' a disagio ma
in tono di sfida, che aveva accompagnato lui stesso i ragazzi a Rock Island con
il suo carro la sera prima, appena terminati i lavori della fattoria. «Non c'è
bisogno di arrabbiarsi, per amor di Dio! Sono ormai adulti, tutti e due, e in
fondo è solo una piccola avventura!»
Rob J. gli chiese a quale molo li aveva lasciati: erano le ultime parole che
avrebbe mai rivolto a Julian. Howard vide Rob J. Cole che incombeva su di lui
in tutta la sua alta e possente statura, sentì il freddo disprezzo nella voce
imperiosa del dottore e balbettò che li aveva lasciati vicino al pontile per
trasporto merci Tre Stelle.
Rob J. spronò immediatamente il cavallo verso il pontile, contando su una
probabilità, benché minima, di poterli riportare a casa. Se ci fosse stata la bassa
temperatura di altri inverni, forse avrebbe avuto più fortuna: ma il fiume non
era ghiacciato e il traffico era intenso. Il direttore della compagnia di trasporti
lo guardò sorpreso quando Rob J. gli chiese se aveva notato due giovani che
cercavano lavoro su una delle chiatte o dei barconi che scendevano a valle.
«Signore, ieri avevamo 72 imbarcazioni che caricavano o scaricavano a
questo pontile, e siamo in bassa stagione, e siamo solo una delle compagnie di
trasporto del Mississippi. E la maggior parte di queste barche assoldano dei
giovani che sono scappati di casa, e allora come faccio a ricordarmi di
ognuno?» gli rispose pazientemente.

Sciamano pensò che gli Stati del Sud si stavano staccando esplosivamente
come il popcorn da una padella infuocata. Sua madre, sempre con gli occhi ros-
si, passava il suo tempo pregando e suo padre faceva le sue visite a domicilio
senza sorridere. A Rock Island uno dei negozi di alimentari ritirò la maggior
parte della merce nel retrobottega e affittò metà dello spazio a un reclutatore
dell'esercito. Anche Sciamano ci passò una volta, pensando che forse, se tutto il
resto gli falliva nella vita, poteva impiegarsi come barelliere, alto e forte
com'era. Ma il caporale che registrava i volontari alzò comicamente le
sopracciglia appena sentì che era sordo, e gli disse di tornarsene a casa.
Con tanta parte del mondo che andava in rovina, non aveva diritto di afflig-
gersi tanto per i casi della sua vita. Il secondo martedì di gennaio suo padre
portò a casa una lettera, e un'altra il venerdì successivo. Questa volta suo padre
lo sorprese: sapeva di avergli raccomandato nove scuole e aveva tenuto conto
delle nove lettere di risposta. «Questa è l'ultima, vero?» gli chiese quella sera
dopo cena.
«Si, dal Medical College del Missouri. Un rifiuto» rispose Sciamano, e suo
298
padre annuì.
«Ma questa è la lettera che è arrivata martedì» aggiunse Sciamano tirandola
fuori di tasca. Veniva dal preside Lester Nash Berwyn, dell'Istituto di Medicina
del Policlinico di Cincinnati. Lo ammetteva come studente a condizione che
portasse a termine con successo il trimestre iniziale come periodo di prova.
L'istituto, aggregato al Southwestern Ohio Hospital di Cincinnati, offriva un
corso biennale di studi che portava alla laurea di dottore in medicina, quattro
trimestri l'anno. Il prossimo trimestre doveva cominciare il 24 gennaio.
Sciamano avrebbe dovuto provare la gioia della vittoria ma sapeva che il
padre stava fissando le parole "a condizione" e "periodo di prova" e si preparò
a uno scontro. Dopo la partenza di Alex c'era bisogno di lui alla fattoria, ma era
ben deciso a sfuggire a quell'obbligo, ad afferrare la sua grande occasione. Per
diverse ragioni, alcune anche egoistiche, era in collera con suo padre che aveva
lasciato partire il fratello. Era in collera con suo padre perché era così male-
dettamente sicuro che Dio non esisteva, e perché non si rendeva conto che
molti uomini non erano abbastanza forti da essere pacifisti.
Ma quando Rob J. alzò gli occhi dalla lettera, Sciamano vide il suo sguardo
e la sua bocca. L'idea che il dottor Cole non era invulnerabile gli entrò in cuore
come una freccia.
«Alex non sarà ferito, tornerà sano e salvo!» gridò, ma sapeva che non era
l'onesta affermazione di un uomo responsabile. Malgrado le esperienze della
stanza con il manichino dalle natiche d'avorio, e malgrado l'arrivo della lettera
da Cincinnati, capiva che era solo l'inutile speranza di un ragazzo disperato.

PARTE QUINTA
Una lite in famiglia
(24 gennaio 1861)

45

Al Policlinico

Cincinnati era più estesa di quanto Sciamano si fosse aspettato, le strade


brulicavano di gente e di veicoli, il fiume Ohio, libero dal ghiaccio, era
percorso da un intenso traffico di imbarcazioni di ogni genere. Dalle alte
ciminiere si alzava il fumo imponente delle fabbriche. Ovunque una fitta folla:

299
e Sciamano ne poteva immaginare il frastuono.
Un tram a cavalli lo portò dalla stazione alla Terra Promessa nella Ninth
Street. Il Southwestern Ohio Hospital era composto da una coppia di edifici di
mattoni rossi, ognuno di tre piani, e da un lazzaretto a intelaiatura di legno, alto
due piani. Dall'altra parte della strada, in un altro edificio di mattoni
sormontato da una cupola vetrata, si trovava l'Istituto di Medicina del
Policlinico di Cincinnati.
Dentro l'edificio dell'istituto Sciamano vide una serie di aule e sale di
conferenza piuttosto disadorne. Chiese a uno studente dove fosse l'ufficio del
preside e gli fu indicata una scala di legno che portava al secondo piano. Il
dottor Berwyn era un uomo cordiale, di mezza età, con baffi bianchi e una testa
calva che riluceva debolmente alla luce attenuata delle alte finestre polverose.
«Ah, così lei è Cole.»
Fece cenno a Sciamano di sedere. Segui un breve discorso sulla storia
dell'Istituto di Medicina, sulle responsabilità di un buon medico e sulla necessi-
tà di un rigoroso sistema di studi. Sciamano capi istintivamente che quell'acco-
glienza era un discorso fisso, recitato a ogni nuovo studente, ma questa volta
c'era un finale destinato solo a lui. «Tu non devi farti scoraggiare dal fatto di
essere qui a una determinata condizione. In un certo senso, ogni studente qui è
in prova e deve dimostrarsi degno del nostro istituto.»
In un certo senso. Sciamano avrebbe scommesso che non tutti gli studenti
venivano informati per lettera del fatto di essere ammessi "a condizione".
Tuttavia ringraziò educatamente il preside. Il dottor Berwyn gli indicò il
dormitorio, un edificio a due piani, nascosto dietro l'Istituto di Medicina. Una
bacheca con il piano del dormitorio, appesa nell'atrio, lo informò che Cole,
Robert J., era alloggiato nella stanza 2B, insieme con Cooke, Paul P.;
Torrington, Ruel; e Henreid, William.
La 2B era una piccola stanza, interamente riempita da due cuccette doppie,
due cassettoni e un tavolo con quattro sedie, una delle quali era allora occupata
da un giovane grassoccio che stava scrivendo in un taccuino e si interruppe di
colpo quando Sciamano entrò.
«Salve, sono P.P. Cooke, di Xenia. Billy Henreid è andato a prendere i suoi
libri. Così tu devi essere o Torrington del Kentucky o il ragazzo sordo.»
Sciamano rise, e si sentì subito a suo agio. «Sono il ragazzo sordo» rispose.
«Salve, Paul, posso darti del tu?»

Quella sera si studiarono a vicenda e ciascuno ne trasse le sue conclusioni.


Cooke era figlio di un mercante di alimentari. Un ricco mercante, a giudicare
300
dai suoi abiti e dai suoi oggetti personali. Sciamano si accorse che era abituato
a passare per tonto, forse a causa della sua figura grassoccia, ma c'era una viva
intelligenza nei suoi occhi scuri, che non perdevano nulla. Billy Henreid era
minuto e tranquillo. Raccontò che era cresciuto in una fattoria, nei dintorni di
Columbus, e aveva frequentato per tre anni un seminario prima di decidere che
non era tagliato per il sacerdozio. Ruel Torrington, che arrivò solo dopo cena,
fu una sorpresa. Aveva il doppio degli anni dei suoi compagni di stanza e
praticava da molto tempo la medicina. Aveva imparato l'arte come assistente di
un medico, fin dalla giovane età, e ora aveva deciso di frequentare una scuola
di medicina per legittimare il suo titolo di dottore.
Gli altri tre studenti della stanza 2B all'inizio si rallegrarono di avere un
compagno così preparato, pensando che sarebbe stato un vantaggio studiare
assieme a un medico già esperto. Ma Torrington dimostrò subito un pessimo
umore, che non cambiò mai finché rimasero insieme. L'unico letto libero,
quando arrivò, era la cuccetta in alto contro la parete, che non gli piaceva. Non
nascose che disprezzava Cooke perché era grasso, Sciamano perché era sordo e
Henreid perché era cattolico. Questa sua ostilità spinse gli altri tre a stringere
subito amicizia fra loro, e finirono per non badare più a lui.
Cooke era arrivato alla scuola diversi giorni prima e aveva raccolto notizie,
che ora passò agli altri. L'istituto aveva un corpo insegnanti che godeva di alta
reputazione, ma due dei docenti erano stelle di prima grandezza. Uno era il
professore di chirurgia, il dottor Berwyn, che era anche il preside. L'altro era il
dottor Barnett A. McGowan, patologo, che teneva il temuto corso detto "A &
F", anatomia e fisiologia. «Alle sue spalle lo chiamano Barney, il Flagello»
confidò loro Cooke. «Dicono che bocci più studenti lui da solo che tutto il resto
del corpo insegnanti messo insieme.»

La mattina dopo Sciamano si recò a una banca e depositò la maggior parte


del denaro che aveva portato con sé. Lui e il padre avevano attentamente
studiato la situazione finanziaria. La tassa di frequenza era di 60 dollari l'anno,
50 se pagati in anticipo. Avevano aggiunto il denaro per la stanza e i pasti, i
libri, i trasporti e altre spese. Rob J. era ben lieto di sostenere tutte le spese
necessarie, ma Sciamano aveva ostinatamente affermato che lo studio della
medicina era un progetto tutto suo, e quindi era lui che doveva pagarlo. Alla
fine si accordarono che Sciamano avrebbe firmato una ricevuta al padre e gli
avrebbe rimborsato la somma fino all'ultimo dollaro dopo aver preso la laurea.
Lasciata la banca, il suo primo passo fu di recarsi dall'economo della scuola
a pagare la tassa. Rimase piuttosto male quando l'economo gli spiegò che, se in
301
seguito fosse stato allontanato per ragioni di studio o di salute, il denaro della
tassa sarebbe stato restituito solo parzialmente.
La prima lezione a cui si recò era una conferenza di un'ora sulle malattie
femminili. Sciamano aveva imparato al college che era essenziale per lui
entrare in aula il più presto possibile, in modo da poter sedere abbastanza
vicino alla cattedra e leggere facilmente le labbra del docente. Si presentò così
presto che poté occupare un posto in prima fila, e fu una fortuna perché il
professor Harold Meigs parlava molto rapidamente. Aveva imparato a prendere
appunti guardando le labbra del conferenziere, invece del taccuino. Scrisse i
suoi appunti con molta cura, pensando che suo padre avrebbe voluto leggerli
per avere un'idea del livello a cui si svolgeva l'insegnamento della medicina.
La lezione successiva, chimica, gli rivelò che la sua passata esperienza di
laboratorio costituiva una preparazione sufficiente per poter seguire il corso;
questo lo rallegrò e stimolò il suo appetito di cibo, oltre che di scienza. Si recò
al refettorio dell'ospedale per una frettolosa colazione di pan biscotto e zuppa
di carne, che si rivelò piuttosto scadente. Poi sì recò alla libreria Cruikshank,
che serviva l'Istituto di Medicina, dove prese a nolo un microscopio e comprò i
libri indicati nella lista delle adozioni: Terapeutica generale e materia medica
di Dunglison, Fisiologia umana di McGowan, Tavole anatomiche di Quain,
Chirurgia operativa di Berwyn, Chimica di Fowne, e due libri di Meigs, La
donna, le sue malattie e i loro rimedi e Malattie dei bambini.
Mentre l'anziano commesso gli faceva il conto, Sciamano vide in un angolo
il dottor Berwyn che parlava con un uomo piuttosto basso e florido, con una
barbetta ben curata spruzzata di grigio e una gran testa di capelli pure
brizzolati. Chiomato quanto Berwyn era calvo. Erano evidentemente immersi
in un'accalorata discussione, anche se dovevano tenere le voci basse, poiché
nessuno dei presenti prestava loro attenzione. Il dottor Berwyn era voltato di
spalle rispetto a Sciamano, ma l'altro aveva la faccia rivolta verso di lui e
Sciamano gli lesse le labbra, più per abitudine che per desiderio di origliare.
... so bene che il Paese sta andando verso la guerra. Mi rendo conto,
signore, che quest'anno gli studenti iscritti sono 42 invece di 60 e so bene che
alcuni pianteranno l'istituto per andare a combattere appena gli studi si
faranno pili duri. Ma specialmente in un periodo come questo dobbiamo
guardarci bene dall'abbassare il nostro livello. Harold Meigs mi ha detto che
lei ha accettato certi studenti che l'anno scorso avrebbe rifiutato. Mi dicono
che c'è perfino un sordomuto...
Per fortuna a questo punto il commesso toccò il braccio di Sciamano e gli
porse il conto.
302
«Chi è quel signore che parla con il dottor Berwyn?» chiese il sordomuto,
ritrovando la voce.
«È il dottor McGowan, signore» rispose il commesso e Sciamano annuì,
raccolse i suoi libri e uscì in fretta.

Diverse ore dopo il professor Barnett Alan McGowan era seduto alla sua
scrivania, nel laboratorio di dissezione della scuola e trascriveva appunti in
schede permanenti. Tutte le registrazioni trattavano di morte, poiché il dottor
McGowan raramente aveva a che fare con un paziente vivo. Dato che la gente
di solito considerava la morte come un evento non troppo felice, il professore si
era abituato a vedersi assegnare per il suo lavoro dei locali lontani dagli occhi
del pubblico. All'ospedale, dove il dottor McGowan era primario patologo, la
stanza di dissezione si trovava nel seminterrato dell'edificio principale. Anche
se era una posizione comoda da raggiungere attraverso la galleria sotterranea,
rivestita di mattoni, che correva sotto la strada fra l'ospedale e l'Istituto di
Medicina, era un posto squallido, reso ancor più tetro dai tubi che
attraversavano il basso soffitto.
Il laboratorio di anatomia della scuola si trovava sul retro dell'edificio, al
secondo piano, e si raggiungeva attraverso il corridoio e una scala separata.
Un'alta finestra senza tende lasciava passare la plumbea luce invernale nella
lunga e stretta stanza. Di fronte alla cattedra del professore si apriva un piccolo
anfiteatro, con i suoi semicerchi di banchi ascendenti, troppo stretti per essere
comodi, ma adatti alla concentrazione. Dall'altra parte c'era una triplice fila di
tavoli da dissezione destinati agli studenti. Al centro della stanza si trovava una
grande vasca piena di membra umane in soluzione salina e un tavolo con una
serie di strumenti per dissezione. In un angolo, su una larga tavola di legno
sorretta da cavalletti, giaceva il corpo di una giovane donna, coperto da un
lenzuolo bianco e pulito. Il professore stava appunto riportando nei registri i
dati riguardanti questo corpo.
Venti minuti prima dell'inizio della lezione entrò nel laboratorio uno
studente solitario. Il professor McGowan non alzò gli occhi né salutò lo
studente: intinse la penna nell'inchiostro e continuò a scrivere mentre lo studen-
te si dirigeva verso il posto centrale della prima fila e se lo accaparrava lascian-
dovi un quaderno. Ma non si sedette e cominciò invece a girare per il labora-
torio, osservando con attenzione.
Si fermò vicino alla vasca di soluzione salina e con grande stupore del
dottor McGowan prese l'asta di legno con l'uncino di ferro e cominciò a
pescare fra le membra umane, come un ragazzino che giocasse in uno stagno.
303
Erano diciannove anni che il dottor McGowan teneva regolarmente la prima
lezione di anatomia del corso, e non gli era mai capitato di vedere qualcuno che
si comportasse in quel modo. I nuovi studenti venivano alla loro prima lezione
di anatomia pieni di soggezione e infausti presentimenti. Di solito cammina-
vano lentamente, spesso erano veramente spaventati.
«Ehi, tu! Fermati subito e metti giù quell'uncino» ordinò McGowan.
Il giovane non diede segno di aver udito, neppure quando il professore batté
forte le mani e McGowan capì di colpo chi era lo studente. Fece per alzarsi, ma
poi si rimise a sedere, curioso di vedere come andava a finire la cosa.
Il giovane muoveva l'uncino scegliendo fra gli arti nella soluzione salina.
Per la maggior parte erano vecchi e molti erano già stati sezionati da studenti di
altre classi. La loro condizione generale di mutilazione e decomposizione era
l'elemento chiave nel trauma di una prima lezione di anatomia. McGowan vide
il giovane portare in superficie una mano con il polso, poi una gamba tutta
lacera. Infine un avambraccio con la sua mano, che evidentemente era in
condizioni migliori degli altri pezzi. Osservò che con l'uncino portava l'esem-
plare desiderato nell'angolo destro della vasca e poi lo copriva con diversi altri
pezzi in pessime condizioni. Lo nascondeva!
Subito il giovane depose l'asta uncinata dove l'aveva trovata e si accostò al
tavolo, dove cominciò a esaminare i bisturi per vedere se fossero abbastanza
affilati. Quando ne trovò uno di suo gradimento, lo spostò leggermente e tornò
all'anfiteatro a prendere il suo posto.
McGowan decise di ignorarlo e per i dieci minuti successivi continuò a
lavorare alle sue registrazioni. Intanto gli studenti cominciavano ad arrivare
nell'aula e a prender posto. Molti erano già pallidi, perché nel laboratorio
aleggiavano odori che fomentavano le loro fantasie e le loro paure.
Esattamente all'ora stabilita il dottor McGowan depose la penna e avanzò di
fronte alla cattedra. «Signori» pronunciò.
Quando si fece silenzio, si presentò. «In questo corso studieremo i morti
allo scopo di conoscere e aiutare i vivi. Le prime registrazioni su questi studi
risalgono agli antichi Egizi, che sezionavano i corpi degli infelici uccisi nei
sacrifici umani. Gli antichi Greci sono i veri padri della ricerca fisiologica.
C'era una grande scuola di medicina ad Alessandria, dove Erofilo di Calcedo-
nia studiava gli organi e le viscere umane. Fu lui che diede il nome al calamo
scrittorio e al duodeno.»
Il dottor McGowan si avvide che gli occhi del giovane seduto al centro della
prima fila non lasciavano mai la sua bocca: pendevano letteralmente dalle sue
labbra.
304
Parlò elegantemente della scomparsa degli studi anatomici nel vuoto
superstizioso del Medioevo e della loro rinascita dopo il 1300.
L'ultima parte della sua lezione spiegava che, dopo la dipartita dello spirito
vitale, i ricercatori dovevano trattare il corpo umano senza paura, ma con
rispetto. «Quando ero studente in Scozia il mio professore paragonava il corpo
senza vita a una casa abbandonata dal suo proprietario. Diceva che il corpo
doveva essere maneggiato con cura, per rispetto verso l'anima che ivi era
vissuta.» McGowan fu leggermente seccato al vedere che il giovane nella
prima fila sorrideva.
Ordinò agli studenti di prendere ciascuno un esemplare dalla vasca della
soluzione salina e un bisturi: dovevano sezionare il pezzo anatomico e tracciare
un disegno di ciò che vedevano, da consegnare a lui prima di lasciare l'aula.
Durante la prima lezione, c'era sempre un attimo di esitazione, come una
riluttanza a mettersi all'opera. Il giovane che era arrivato per tempo fu di nuovo
il primo: si alzò subito e si diresse alla vasca per trarne il pezzo che aveva
messo da parte e il bisturi più affilato. Mentre gli altri stavano ancora girando
intorno alla vasca, lui era già all'opera al suo tavolo, che era quello con la
luce più favorevole.
Il dottor McGowan si rendeva conto delle tensioni della prima lezione di
anatomia. Era abituato al tanfo dolciastro che usciva dalla vasca, ma ne
conosceva gli effetti sui non iniziati. Sapeva che alcuni degli studenti avevano
un compito difficile, perché molti degli esemplari erano in così cattive
condizioni che era quasi impossibile sezionarli a dovere e tracciarne un disegno
preciso e ne teneva conto. Quel primo esercizio era un cimento, il battesimo del
fuoco per le nuove reclute. Una sfida alle loro capacità di affrontare situazioni
ostili e sgradevoli, e un aspro ma necessario ammonimento che la pratica
della medicina era qualcosa di più che riscuotere alti onorari e godere di una
posizione di rispetto e prestigio nella società.
Dopo qualche minuto diversi giovani avevano lasciato l'aula, e uno di essi
era corso fuori in gran furia. Con soddisfazione del dottor McGowan, tutti alla
fine rientrarono. Per quasi un'ora passeggiò fra i tavoli di dissezione, control-
lando i loro progressi. Vi erano fra loro diversi uomini maturi, che avevano già
praticato la professione di medico, dopo qualche anno di tirocinio: e questi non
ebbero a provare la nausea degli altri studenti. Il professor McGowan sapeva
per esperienza che alcuni sarebbero diventati eccellenti dottori; ma osservò uno
di loro, tale Ruel Torrington, che squarciava a gran colpi una spalla, e sospirò
pensando al terrificante genere di chirurgia che quell'uomo doveva essersi
lasciato alle spalle.
305
Si fermò un attimo di più accanto all'ultimo tavolo, dove un ragazzo grasso
con la faccia stillante sudore lottava con una testa che era quasi un teschio.
Di fronte al ragazzo grasso lavorava lo studente sordo. Dimostrava una
buona esperienza e aveva maneggiato bene il bisturi per aprire il braccio in
tanti strati. Il suo lavoro rivelava una conoscenza dell'anatomia di cui
McGowan fu compiaciuto e insieme sorpreso, notando con quanta precisione le
articolazioni, i muscoli, i nervi e i vasi sanguigni erano riprodotti nel disegno, e
indicati con i rispettivi nomi. Mentre lo stava osservando, il giovane scrisse il
suo nome sul foglio del disegno e glielo consegnò. Cole, Robert J.
«Bene. Ah, Cole, in futuro scrivi un po' più in grande.»
«Si, signore» rispose lo studente con voce chiara. «C'è altro?»
«No. Puoi rimettere il tuo pezzo nella vasca e ripulire il tavolo. Poi potrai
andare.»
Una mezza dozzina di altri studenti vennero a consegnare i loro disegni al
professore, ma ognuno fu rimandato indietro con qualche suggerimento per
correggere il disegno o migliorare la dissezione.
Mentre parlava con gli studenti, McGowan osservò il giovane Cole che
rimetteva il pezzo nella vasca, poi lavava e asciugava il bisturi prima di
ricollocarlo sul tavolo. Quindi Cole portò un secchio d'acqua al tavolo di
dissezione e lavò energicamente la parte su cui aveva lavorato, infine prese un
pezzo di sapone scuro e acqua pulita e si lavò con cura le mani e le braccia
prima di srotolare le maniche che aveva rimboccato.
Nell'uscire il giovane Cole si fermò accanto al ragazzo grasso e osservò il
suo disegno. Il dottor McGowan lo vide chinarsi e mormorare qualcosa. Sul
viso angosciato dell'altro comparve un'ombra di sollievo, e annuì quando Cole
gli batté amichevolmente sulla spalla. Poi lo studente grasso si rimise al lavoro
e lo studente sordo lasciò l'aula.

46

I battiti del cuore

Era come se l'Istituto di Medicina fosse un lontano Paese straniero, a cui di


quando in quando arrivavano voci di una guerra imminente negli Stati Uniti.
Sciamano sentì parlare di una Conferenza di pace tenuta a Washington, D.C., a
cui parteciparono 131 delegati di 21 Stati. Ma la stessa mattina in cui la
Conferenza di pace si apriva nella capitale, un Congresso provvisorio degli
Stati confederati d'America si riuniva a Montgomery, Alabama. Pochi giorni
306
dopo la Confederazione votava la secessione dagli Stati Uniti, e il Paese si rese
penosamente conto che non ci sarebbe stata pace.
Tuttavia Sciamano dedicava scarsa attenzione ai problemi della nazione.
Combatteva la sua guerra personale per la sopravvivenza. Per fortuna era un
ottimo studente. Restava chino sui libri fino a notte tarda, finché quasi gli si
chiudevano gli occhi, e molte mattine si faceva qualche ora di studio prima di
colazione. Le lezioni si tenevano dal lunedì al sabato, dalle dieci alla una e
dalle due alle cinque, spesso prima o durante la visita clinica in uno dei sei
reparti del Policlinico che dava il suo nome alla scuola: martedì pomeriggio,
malattie polmonari; martedì sera, malattie veneree; mercoledì pomeriggio,
malattie dei bambini; mercoledì sera, disturbi femminili; sabato mattina, clinica
chirurgica e sabato pomeriggio clinica medica. La domenica pomeriggio, gli
studenti seguivano lo staff medico nei padiglioni.
Il sesto sabato al Policlinico il dottor Meigs tenne una lezione sullo steto-
scopio. Meigs aveva studiato in Francia con medici che avevano avuto come
insegnante l'inventore stesso dello strumento. Raccontò agli studenti che un
giorno, nel 1816, un medico di nome Rene Laennec, riluttante a porre
l'orecchio sul seno di una donna incinta e dotata di ingombranti mammelle,
aveva arrotolato un foglio di carta e lo aveva legato con una cordicella. Quando
aveva appoggiato l'estremità del tubetto sul petto della paziente e aveva posto
l'orecchio all'altra estremità, era rimasto sorpreso nel notare che quel nuovo
sistema, invece di indebolirli, amplificava i suoni che si producevano all'inter-
no del torace.
Meigs aggiunse che fino a poco tempo prima gli stetoscopi erano semplici
tubetti di legno a cui i medici accostavano un solo orecchio. Ora egli possedeva
una versione più moderna dello strumento, in cui il tubo era in tessuto di seta
ed era collegato a due auricolari d'avorio che si applicavano a entrambi gli
orecchi. Durante la visita in reparto che seguì la lezione, il dottor Meigs usò
uno stetoscopio di ebano con una seconda presa a cui era attaccato un tubo in
modo che, insieme con il professore, anche uno studente potesse ascoltare i
suoni toracici del paziente. Ogni studente ebbe la possibilità di ascoltare, ma
quando venne il suo turno Sciamano dovette dire al professore che era inutile.
«Non potrei udire nulla.»
Il dottor Meigs arricciò le labbra. «Devi almeno provare.» Mostrò a Sciama-
no esattamente come doveva tenere lo strumento all'orecchio. Ma Sciamano
poté solo scuotere la testa.
«È un peccato» osservò il dottor Meigs.

307
Era in programma un esame di pratica clinica. Ogni studente doveva visitare
un paziente usando lo stetoscopio e fare una relazione. Sciamano si rese conto
che sarebbe stato respinto.
In una fredda mattina indossò cappotto e guanti, si mise una sciarpa intorno
al collo e uscì dalla scuola per fare un giro in città. A un angolo un ragazzo
vendeva giornali che parlavano dell'insediamento di Lincoln. Sciamano si
diresse al fiume e si mise a camminare lungo i moli, immerso nei suoi pensieri.
Al ritorno entrò nell'ospedale e si aggirò per le corsie, osservando attenta-
mente gli inservienti e gli infermieri. Per la maggior parte erano uomini, e
molti erano degli ubriaconi che erano finiti a lavorare all'ospedale perché i
livelli professionali erano bassi. Sciamano osservò quelli che sembravano sobri
e intelligenti e infine ne trovò uno, Jim Halleck, che poteva servire ai suoi
scopi. Aspettò che l'inserviente portasse una bracciata di legna e la scaricasse a
terra vicino alla stufa, e gli si avvicinò.
«Ho una proposta da farle, Mr. Halleck.»

Il pomeriggio dell'esame tanto il dottor McGowan che il dottor Berwyn


erano presenti nel reparto medicina, il che aumentò il nervosismo di Sciamano.
Il dottor Meigs esaminava gli studenti in ordine alfabetico. Sciamano era terzo,
dopo Allard e Bronson. Israel Allard ebbe una prova facile: la sua paziente era
una giovane donna con uno strappo muscolare alla schiena, e pulsazioni cardia-
che forti, regolari e senza complicazioni. Clark Bronson fu chiamato a visitare
un paziente asmatico, non più giovane. Descrisse esitando e incespicando il
suono dei rantoli nel torace e Meigs dovette porgli diverse domande per
orientarlo e aiutarlo a enunciare i dati necessari, ma alla fine si dichiarò
soddisfatto.
«Robert Cole?»
Evidentemente si aspettava che Sciamano rifiutasse di sostenere l'esame.
Ma Sciamano avanzò e prese in mano lo stetoscopio monoaurale di legno. Poi
fece un cenno a Jim Halleck, che era seduto in un angolo, e l'inserviente si
avvicinò. Il paziente era un ragazzo di sedici anni, robusto e tarchiato, che si
era tagliato una mano in un'officina di falegname. Halleck appoggiò
un'estremità dello stetoscopio sul torace del ragazzo e pose l'orecchio all'altra
estremità. Sciamano prese il polso del paziente per sentirne le pulsazioni con la
punta delle dita.
«Il battito cardiaco del paziente è normale e regolare. Al ritmo di 78
pulsazioni il minuto» annunciò infine. Volse uno sguardo interrogativo all'in-
serviente, che scosse leggermente la testa. «Non ci sono rantoli» aggiunse.
308
«Che senso ha questa... sceneggiata?» chiese il dottor Meigs. «Che cosa fa
qui Jim Halleck?»
«Mr. Halleck sostituisce i miei orecchi, signore» spiegò Sciamano, e vide
con amarezza sogghigni di scherno sulle facce degli altri studenti.
Ma il dottor Meigs non rideva. «Vedo. I tuoi orecchi. E tu sposerai Mr.
Halleck, Robert Cole? E te lo porterai dietro ovunque praticherai la medicina?
Per il resto della tua vita?»
«No, signore.»
«E allora chiederai a qualcun altro di servirti da orecchi?»
«Forse dovrò farlo, qualche volta.»
«E se come medico arrivi da un paziente che ha bisogno di aiuto, e sei solo?
Solo con il paziente?»
«Posso stabilire il ritmo cardiaco delle pulsazioni.» Sciamano poggiò due
dita sulla gola del paziente, per sentire l'arteria carotide. «E capire se è
normale, o irregolare, o debole.» Allargò le dita e appoggiò il palmo sul petto
del ragazzo. «Posso sentire il ritmo della respirazione. Vedere la pelle e
toccarla, per sapere se è fresca o febbricitante, umida o secca. Posso vedere gli
occhi. Se il paziente è sveglio, posso parlare con lui; e anche se è in stato di
incoscienza posso osservare la consistenza dell'escreato e vedere il colore
dell'u-rina e odorarla, e persino assaggiarla, se è necessario.» Guardando il viso
del professore, indovinò l'obiezione prima che il dottor Meigs la pronunciasse.
«Ma non sarò mai in grado di udire i rantoli nel petto.»
«No, non lo sarai mai.»
«Per me i rantoli non potranno essere sintomi di patologia. Osservando le
prime fasi di respirazione crupale, saprò che, se potessi udirli, i rantoli nel
torace sarebbero indubbiamente subcrepitanti. Se nel paziente la respirazione
crupale si accentua, saprò che nel petto si producono rantoli gorgoglianti. Se c'è
asma o infezione nei bronchi, saprò che i rantoli dovranno essere sibilanti. Ma
non sarò in grado di confermarlo.» Si interruppe e guardò in faccia il dottor
Meigs. «Non posso far nulla contro la mia sordità. La natura mi ha privato di
un prezioso strumento di diagnosi, ma io ho altri strumenti. E in un caso di
emergenza saprei curare il mio paziente usando i miei occhi e il mio naso e la
mia bocca e le mie dita e il mio cervello.»
Non era la risposta deferente che il dottor Meigs si sarebbe aspettato da uno
studente del primo anno e la sua espressione rivelò che era seccato. Il dottor
McGowan gli si avvicinò e gli disse qualcosa all'orecchio.
Il dottor Meigs si rivolse a Sciamano. «Mi si suggerisce di prenderti in
parola e farti diagnosticare un paziente senza l'uso dello stetoscopio. Sono
309
pronto a farlo, se sei d'accordo.»
Sciamano annuì, anche se si sentiva un nodo alla bocca dello stomaco.
Meigs li condusse nella vicina corsia e si fermò al letto di un paziente: la
scheda ai piedi del letto lo indicava come Arthur Herrenshaw. «Puoi esaminare
questo paziente, Cole.»
Sciamano vide subito, osservando gli occhi dell'uomo, che Arthur
Herrenshaw era in gravi condizioni. Spinse indietro il lenzuolo e la coperta e
sollevò la camicia da notte del paziente. Il suo corpo appariva enormemente
grasso, ma quando Sciamano appoggiò una mano sulle sue carni, gli parve di
toccare della pasta lievitata. Dal collo, dove le vene erano tese e pulsanti, fino
alle caviglie senza più forma i tessuti erano gonfi di fluido. Il paziente si
sollevava dal cuscino nello sforzo di respirare.
«Come sta oggi, Mr. Herrenshaw?»
Dovette ripetere la domanda a voce più alta prima che il malato rispondesse
scuotendo la testa.
«Quanti anni ha, signore?»
«Io... cin... quantadue.» Ansimava fra una sillaba e l'altra, come dopo una
lunga corsa.
«Ha dolori, Mr. Herrenshaw?... Signore? Ha dolori?»
«Oh...» L'uomo si pose una mano sullo sterno. A Sciamano sembrò che
volesse sollevarsi.
«Vuole mettersi a sedere, signore?» Lo aiutò ad alzarsi, accomodandogli i
cuscini dietro la schiena. Mr. Herrenshaw sudava copiosamente, e insieme
rabbrividiva. L'unico calore nella corsia era dato da un grosso tubo nero che
attraversava il soffitto partendo dalla stufa a legna, e Sciamano tirò la coperta
sulle spalle del paziente. Prese l'orologio e controllò il polso. Fu come se la
lancetta dei secondi improvvisamente rallentasse. Il battito era debole e in-
costante e incredibilmente rapido, come la corsa disperata di un piccolo
animale in fuga davanti a una belva. Sciamano faceva fatica a tenergli dietro
per contare le pulsazioni. L'animaletto rallentava, si fermava, faceva due balzi,
ricominciava a correre.
Sciamano si rese conto che questo era il momento in cui il dottor Meigs
avrebbe usato lo stetoscopio. Poteva immaginare gli interessanti, tragici suoni
che avrebbe potuto riferire: i suoni di un uomo che annegava nei suoi propri
succhi.
Prese le due mani del malato nelle sue e rabbrividì al tragico messaggio.
Senza quasi rendersene conto, gli batté piano sulla spalla prima di allontanarsi.
Tornarono nell'aula di medicina per udire il rapporto di Sciamano. «Io non
310
so qual è la causa per cui i fluidi si depositano nei tessuti. Non ho abbastanza
esperienza per capirlo. Ma il polso del paziente era debole e intermittente.
Irregolare. Il suo cuore sta cedendo. Batte 132 colpi al minuto quando corre.»
Guardò il dottor Meigs. «In questi ultimi anni ho assistito mio padre nell'auto-
psia di due maschi e una femmina, morti per insufficienza cardiaca. In ciascuno
di essi, una piccola parte del pericardio appariva necrotizzata. Il tessuto sem-
brava bruciato, come se fosse stato toccato da un carbone acceso.»
«Che cosa faresti per lui?»
«Lo terrei caldo. Gli somministrerei dei narcotici. Morirà in poche ore, così
dovremmo alleviargli le sofferenze.» Si accorse subito di aver detto troppo, ma
le parole dette non si potevano cancellare.
Meigs sobbalzò. «Come sai che morirà?»
«L'ho sentito» mormorò Sciamano a bassa voce.
«Che? Parla più chiaro, Cole, perché gli altri capiscano.»
«L'ho sentito, signore.»
«Tu non hai abbastanza esperienza da conoscere i fluidi del corpo, ma sei
capace di sentire la morte imminente» ribatté seccamente il professore. Guardò
gli altri studenti. «La lezione è chiara, signori. Finché c'è vita in un paziente,
non dovremo mai - voi non dovrete MAI! - abbandonarlo alla morte. Noi
lottiamo per conservare i malati in vita, fino all'ultimo respiro. Lo capisci,
Cole?»
«Si, signore» mormorò Sciamano miseramente.
«Puoi sederti.»

Sciamano condusse Jim Halleck a cena in un saloon del lungofiume, con la


segatura sul pavimento, dove mangiarono manzo bollito e cavoli, innaffiati da
tre boccali di birra scura. Non era la celebrazione di una vittoria: entrambi si
sentivano a disagio per quanto era accaduto. Oltre a convenire che Meigs era
un vero stronzo, non avevano molto da dirsi l'uno con l'altro, e dopo mangiato
Sciamano ringraziò Halleck e lo compensò per il suo aiuto, e l'inserviente se ne
tornò a casa da sua moglie e dai suoi quattro figli con diversi dollari in più di
quando era uscito al mattino.
Sciamano si fermò al saloon e bevve dell'altra birra. Non si preoccupò degli
effetti dell'alcol sul Dono. Ormai immaginava che in avvenire il Dono non
sarebbe più stato tanto importante per la sua vita.
Tornò al dormitorio camminando con somma prudenza e pensando solo a
mettere un piede davanti all'altro senza inciampare, e appena arrivato si
arrampicò nella sua cuccetta e vi si lasciò cadere tutto vestito.
311
Il mattino dopo conobbe un'altra buona ragione per evitare le bevute
eccessive, perché gli dolevano terribilmente la testa e le ossa facciali. Giusto
castigo. Ci mise molto tempo a lavarsi e a cambiarsi d'abito e stava lentamente
avviandosi a fare colazione in ritardo, quando un altro studente del primo anno,
un tale Rogers, si precipitò nel refettorio. «Il dottor McGowan dice che devi
andare subito al suo laboratorio all'ospedale.»
Quando Sciamano arrivò alla bassa stanza di dissezione nel seminterrato,
c'erano già il dottor Berwyn e il dottor McGowan. Sul tavolo giaceva il corpo
di Arthur Herrenshaw.
«Ti stavamo aspettando» fece irritato il dottor McGowan, come se Sciama-
no fosse in ritardo a un appuntamento.
«Si, signore» mormorò, non sapendo che cos'altro dire.
«Allora, vuoi aprirlo?» lo invitò McGowan.
Sciamano non l'aveva mai fatto, ma aveva spesso visto suo padre, e, quando
annuì, il dottor McGowan gli porse un bisturi. Sentiva su di sé gli occhi dei due
medici mentre incideva il torace. McGowan usò lui stesso le forbici per costo-
tomia e dopo aver rimosso lo sterno passò una mano sotto il cuore e lo sollevò
leggermente, in modo che il dottor Berwyn e Sciamano potessero vedere la
lesione circolare, come una piccola bruciatura, sulla membrana parietale del
muscolo cardiaco del morto.
«C'è una cosa che devi sapere» spiegò il dottor Berwyn. «Talvolta la lesione
si produce all'interno del cuore, e non è visibile sul pericardio.»
Sciamano annuì, per mostrare che capiva.
Il dottor McGowan si volse al dottor Berwyn e gli disse qualcosa e il dottor
Berwyn si mise a ridere. McGowan si rigirò verso Sciamano, mostrando il viso
rugoso come un vecchio cuoio.
«Gli ho detto: "Va' a cercarmi qualche altro studente che sia sordo"» spiegò
McGowan, e fu la prima volta che Sciamano lo vide sorridere.

47

I giorni di Cincinnati

Ogni giorno, in quella grigia primavera di tempesta nazionale, folle ansiose


si accalcavano fuori degli uffici del Cincinnati Commercial per leggere i
bollettini di guerra che venivano scritti con il gesso su una lavagna. Il
presidente Lincoln aveva ordinato il blocco di tutti i porti confederati, che il
dipartimento federale della Marina aveva subito messo in vigore, e aveva
312
chiamato alle armi tutti gli uomini abili degli Stati del Nord. Ovunque si par-
lava di guerra e circolavano voci di ogni sorta. Il generale Winfield Scott,
generale in capo dell'esercito dell'Unione, era un uomo del Sud, che dava il suo
appoggio agli Stati Uniti, ma era un uomo vecchio e stanco; un paziente nel
reparto medicina interna riferì a Sciamano la voce che Lincoln si era rivolto al
colonnello Robert E. Lee, offrendogli di prendere il comando dell'esercito
dell'Unione. Ma pochi giorni dopo i giornali riportavano la notizia che Lee si
era dimesso dalla sua carica presso le forze armate federali, preferendo
combattere dalla parte dei sudisti.
Prima che all'Istituto di Medicina del Policlinico il semestre fosse terminato,
più di una dozzina di studenti, in gran parte anche per difficoltà negli studi,
avevano lasciato la scuola per arruolarsi nell'uno o nell'altro esercito. Se n'era
andato anche Ruel Torrington, lasciando due cassetti vuoti che conservavano
ancora il lezzo di biancheria non lavata. Altri studenti parlavano di terminare il
semestre e poi unirsi alle forze armate. In marzo il dottor Berwyn convocò una
riunione del corpo scolastico e spiegò che la facoltà aveva pensato in un primo
tempo di chiudere la scuola durante l'emergenza militare, ma, dopo molte
discussioni e molte esitazioni, aveva deciso di continuare l'insegnamento.
Raccomandava a ogni studente di rimanere nella scuola. «Ben presto
occorreranno più medici che nel passato, sia per l'esercito sia per la popolazio-
ne civile.»
Ma il dottor Berwyn aveva cattive notizie. Poiché la facoltà si manteneva
sugli introiti delle tasse di frequenza, e le iscrizioni erano fortemente diminuite,
si rendeva necessario aumentare considerevolmente le tasse. Per Sciamano
questo significava ricorrere a fondi che non aveva calcolato in precedenza. Ma
se finora non si era lasciato fermare dalla sordità, decise che una cosa così
trascurabile come il denaro non gli avrebbe impedito di diventare medico.

Lui e Paul Cooke divennero amici. Nelle questioni di studio e di medicina


Sciamano era il consigliere e la guida, ma in altri campi Cooke prendeva il
comando. Gli fece conoscere i ristoranti e i teatri. Pieni di soggezione, i due
entrarono al Teatro dell'Opera a sentire Edwin Thomas Booth nel Riccardo III.
Il Teatro dell'Opera aveva tre ordini di balconate, tremila posti a sedere e altri
mille posti in piedi. Anche i posti dell'ottava fila che Cooke era riuscito ad
accaparrarsi al botteghino non avrebbero consentito a Sciamano di seguire
pienamente la rappresentazione, ma aveva letto tutto Shakespeare al college, e
si rilesse la tragedia prima della recita. Conoscendo bene l'argomento e i dialo-
ghi, fu in grado di capire e godere la serata.
313
Un'altra sera di sabato Cooke lo condusse in un bordello, dove Sciamano
segui una taciturna donna nella sua stanza e ne ricevette un rapido servizio. La
donna non abbandonò mai il suo sorriso stereotipato e non disse quasi parola.
Sciamano non si sentì neanche invogliato a ripetere l'esperienza, ma qualche
volta, essendo un giovane sano e normale, il desiderio sessuale diventava per
lui un problema. Un giorno in cui era in servizio per guidare l'ambulanza del-
l'ospedale, si recò alla fabbrica di candele P.L. Trent, che faceva lavorare
donne e bambini e curò un ragazzo di tredici anni per ustioni a una gamba,
provocate da una spruzzata di cera bollente. Dovettero portare il ragazzo
all'ospedale e li accompagnò una giovane donna dalle guance rosee e dai
capelli neri, che rinunciò alla sua paga oraria per star vicino all'infortunato, che
era suo cugino. Sciamano la vide ancora quel mercoledì durante l'ora di visita
nei reparti gratuiti degli assistiti poveri. C'erano altri parenti che erano in attesa,
così la visita della ragazza fu breve e Sciamano colse l'occasione per parlarle.
Si chiamava Hazel Melville. Anche se in realtà non avrebbe potuto permetter-
selo, Sciamano le chiese se poteva invitarla a cena la domenica seguente; lei
cercò dapprima di sembrare scandalizzata, ma poi sorrise e accettò ben volen-
tieri.
La ragazza abitava a poca distanza dall'ospedale, al terzo piano di un edifi-
cio di appartamenti, molto simile al dormitorio dell'Istituto di Medicina. Sua
madre era morta. Sciamano era vivamente conscio della propria parlata guttu-
rale quando il padre della ragazza, un uomo tarchiato dalla faccia rossa, uffi-
ciale giudiziario del tribunale municipale di Cincinnati, lo guardò con sospetto
domandandosi che cosa c'era di strano nel giovanotto che aveva invitato sua
figlia.
Se la giornata fosse stata più calda, Sciamano avrebbe potuto portare Hazel
a fare una gita in barca. C'era invece un vento freddo che soffiava dal fiume,
ma entrambi indossavano dei buoni cappotti ed era piacevole passeggiare e
osservare le vetrine dei negozi alla luce incerta del crepuscolo. La ragazza era
carina, decise Sciamano, tranne per le labbra che erano sottili e severe, con
piccole pieghe di abituale scontento agli angoli della bocca. Fu molto impres-
sionata al sentire che era sordo; e quando le spiegò che leggeva le parole sulle
labbra, lei ebbe un sorriso incerto.
Tuttavia era piacevole parlare con una donna che non era né malata né
ferita. Gli raccontò che lavorava alle candele già da un anno: detestava quel
lavoro, ma non c'erano molti posti per le donne. Aggiunse con rancore che due
suoi cugini maschi erano andati a lavorare da Wells & Company per un buon
salario. «La Wells & Company ha ricevuto una grossa commessa dalla milizia
314
statale dell'Indiana, deve fabbricare 10.000 barili di pallottole minié. Vorrei
tanto che assumessero anche donne!»
Cenarono in un piccolo ristorante indicatogli da Cooke che Sciamano aveva
scelto non solo perché era poco costoso, ma soprattutto perché era bene
illuminato e gli consentiva di leggere le labbra della ragazza. Hazel pareva go-
dersi un mondo la serata, anche se mandò indietro gli involtini perché non
erano caldi, rivolgendosi aspramente al cameriere. Quando tornarono all'appar-
tamento della ragazza, suo padre non era in casa. Lei si lasciò facilmente ba-
ciare da Sciamano e rispose con tanto abbandono che per lui fu naturale passare
a palpeggiarla sotto i vestiti e infine a far l'amore su uno scomodo divano. Per
paura che il padre tornasse all'improvviso, Hazel lasciò la lampada accesa e
non volle togliersi i vestiti, limitandosi a sollevare la gonna e la sottoveste fin
sopra la vita. L'odore del suo corpo di donna era soverchiato dall'odore aspri-
gno della paraffina in cui lei immergeva gli stoppini per sei giorni la settimana.
Sciamano la prese violentemente e rapidamente, e con scarso piacere, nel timo-
re di un'improvvisa irruzione del padre rabbioso, senza condividere con lei
un'esperienza umana più calda di quella che aveva provato con la donna del
bordello.
Non pensò neppure più a lei per sette settimane.
Ma un pomeriggio, spinto da un ben noto desiderio, si diresse alla fabbrica
di candele Trent e cercò di lei. L'aria all'interno della fabbrica era calda e pe-
sante, per l'odore concentrato di grasso e petrolio. Hazel Melville fu seccata nel
vederlo. «Non possiamo ricevere visitatori, vuoi che mi licenzino?» Ma prima
che Sciamano se ne andasse, gli disse in fretta che non poteva vederlo più,
perché nelle settimane in cui l'aveva trascurata lei si era fidanzata con un altro,
un giovane che conosceva da molto tempo. Era un professionista, un contabile
dell'azienda, aggiunse, senza cercare di nascondere la propria soddisfazione.

La realtà era che i bisogni fisiologici lo distraevano meno di quanto ci si


sarebbe aspettati. Concentrava tutte le sue forze - ogni desiderio e ogni brama,
ogni speranza di piacere, tutte le sue energie e la sua immaginazione - nello
studio della medicina. Cooke diceva con malcelata invidia che Robert J. Cole
era proprio nato per fare lo studente di medicina, e Sciamano sentiva che era
così: per tutta la sua vita aveva aspettato qualcosa che ora aveva trovato a
Cincinnati.
A metà del trimestre cominciò a recarsi nel laboratorio di dissezione ogni
volta che aveva un'ora libera, talvolta da solo, ma più spesso con Cooke e Billy
Henreid, per aiutarli ad addestrarsi nell'uso degli strumenti o a comprendere
315
meglio un passo del libro di testo o di una lezione. Al principio del corso A &
F il dottor McGowan gli aveva chiesto di aiutare gli studenti che si trovavano
in difficoltà. Sciamano sapeva che il suo profitto negli altri corsi era eccellente,
e persino il dottor Meigs gli faceva un cordiale cenno di saluto quando lo
incontrava nel corridoio. Tutti si erano abituati al suo essere diverso. Talvolta,
mentre si concentrava durante una lezione o in laboratorio, ricadeva nella
vecchia abitudine di canterellare a bocca chiusa, senza avvedersene. Una volta
il dottor Berwyn durante una lezione si era interrotto per dirgli: «Piantala di
cantare, Cole». All'inizio qualche altro studente ridacchiava, ma ben presto
presero a toccarlo sul braccio o ad avvertirlo con un'occhiata perché smettesse.
Questo non lo disturbava. Ormai era sicuro di sé.
Gli piaceva girare da solo per le corsie. Una volta una paziente si lagnò che
era passato accanto al suo letto senza nemmeno guardarla, benché lei lo avesse
chiamato ripetutamente per nome. Da allora, per provare a se stesso che la sua
sordità non doveva nuocere ai malati, aveva preso l'abitudine di fermarsi breve-
mente accanto a ogni letto, tenendo nelle sue le mani del paziente e dicendo a
ognuno qualche parola gentile.
Lo spettro dell'ammissione "a condizione" era ormai svanito alle sue spalle
quando un giorno il dottor McGowan gli offrì un lavoro all'ospedale per i mesi
di luglio e agosto, quando l'Istituto di Medicina era chiuso per le vacanze.
McGowan gli disse francamente che tanto lui quanto il dottor Berwyn all'inizio
intendevano accaparrarsi ognuno per sé i servigi di Sciamano, ma poi avevano
deciso di usufruirne insieme. «Tu dovresti passare l'estate lavorando per tutti e
due: ogni mattina il lavoro sporco in sala chirurgica per Berwyn, e ogni pome-
riggio da me, a fare l'autopsia dei suoi errori.»
Era una splendida occasione, decise Sciamano, e il piccolo salario gli
avrebbe permesso di pagare l'aumento delle tasse. «Mi piacerebbe molto,»
rispose «ma mio padre mi aspetta a casa quest'estate perché lo aiuti nel lavoro
della fattoria. Gli scriverò e gli chiederò il permesso di restare all'ospedale.»
Barnett McGowan sorrise. «Ah, la fattoria! Secondo me tu hai finito con il
lavoro della fattoria, giovanotto. Tuo padre è un medico di campagna nell'Illi-
nois, vero? Volevo proprio domandartelo. C'era uno studente, di parecchi anni
più anziano di me, alla Clinica universitaria di Edimburgo. Aveva il tuo stesso
nome.»
«Sì, era mio padre. Racconta lo stesso aneddoto che ci ha narrato lei alla
lezione di anatomia, su sir William Fergusson che definisce un cadavere come
una casa abbandonata dal suo proprietario.»
«Ricordo che tu hai sorriso quando ho raccontato quella storia. E ora
316
capisco perché.» McGowan lo guardò pensieroso, strizzando gli occhi. «Tu sai
perché... ehm tuo padre ha lasciato la Scozia?»
Sciamano vide che McGowan cercava di non essere indiscreto. «Si, me lo
ha detto. Ha avuto dei guai per ragioni politiche. Ha rischiato di essere
deportato in Australia.»
«Ricordo.» McGowan scosse la testa. «Era stato additato a tutti noi come
ammonimento. Tutti alla Clinica universitaria lo conoscevano. Era il protetto di
sir William Fergusson, con un avvenire brillante davanti a sé. E ora è un
medico di campagna. Che peccato!»
«Non è un peccato!» Sciamano ebbe un impeto di collera, ma finì per
sorridere. «Mio padre è un uomo grande» aggiunse e con sua sorpresa
riconobbe che era vero. Cominciò a parlare di Rob J. a McGowan, raccontando
come aveva lavorato con Oliver Wendell Holmes a Boston, e poi aveva
attraversato il Paese guadagnandosi il pane nel campo dei tagliaboschi o come
medico delle ferrovie. Raccontò del giorno in cui suo padre aveva dovuto
spingere a nuoto il cavallo attraverso due fiumi e un torrente per raggiungere
una capanna di zolle dove aveva aiutato una donna a partorire due gemelli.
Descrisse le cucine delle praterie in cui suo padre aveva operato, e le volte in
cui aveva dovuto trasportare un tavolo da una sudicia capanna all'aria aperta e
alla luce del sole per eseguire un'operazione chirurgica. Raccontò come suo
padre era stato rapito da fuorilegge che, puntandogli contro i fucili, gli avevano
comandato di estrarre un proiettile da un uomo ferito. E raccontò come
tornando a casa una notte con trenta gradi sottozero suo padre era dovuto
scendere da cavallo e corrergli dietro, aggrappato alla coda, per riattivare la
circolazione del sangue.
Barney McGowan sorrise. «Hai ragione. Tuo padre è un uomo grande. Ed è
un padre fortunato.»
«Grazie, signore.» Sciamano stava per allontanarsi, ma si fermò. «Dottor
McGowan, in una delle autopsie di mio padre c'era un cadavere di una donna
uccisa con undici pugnalate al torace, larghe pressappoco 0,950 centimetri.
Fatte da uno strumento appuntito, di forma triangolare, con i tre lati molto
affilati. Lei saprebbe indicarmi quale strumento potrebbe produrre un tal genere
di ferite?»
Il patologo rifletté un momento, interessato. «Potrebbe essere stato uno
strumento chirurgico. C'è il coltello di Beer, un bisturi triangolare usato per
operazioni di cateratte e per correggere difetti della cornea. Ma le ferite che
descrivi erano troppo larghe per essere fatte da un coltello di Beer. Forse si
deve pensare a qualche altro tipo di bisturi. I lati dello strumento erano di
317
larghezza uniforme?»
«No. Lo strumento, qualunque fosse, era appuntito.»
«Non conosco un bisturi simile. Probabilmente le ferite non furono fatte con
uno strumento chirurgico.»
Sciamano esitò. «Potrebbero essere state fatte da un oggetto comunemente
usato da una donna?»
«Ferri da calza o simili? È possibile, naturalmente, ma non posso immagi-
nare un oggetto casalingo che faccia ferite del genere.» McGowan sorrise.
«Lasciami riflettere un po' e ne discuteremo insieme. E quando scrivi a tuo
padre,» aggiunse «fagli i migliori auguri di uno che ha studiato con William
Fergusson pochi anni dopo di lui.»
Sciamano promise di farlo.

La risposta del padre di Sciamano arrivò a Cincinnati solo otto giorni prima
della fine del semestre, ma in tempo per consentirgli di accettare il lavoro
all'ospedale per l'estate.
Rob J. non ricordava McGowan, ma era lieto che Sciamano studiasse pato-
logia con un altro scozzese che aveva imparato l'arte e la scienza della
dissezione da William Fergusson. Chiese al figlio di portare i suoi ossequi al
professore, insieme con il suo consenso perché Sciamano lavorasse all'ospe-
dale.
La lettera era affettuosa ma breve, e da quella laconicità Sciamano indovinò
che suo padre era triste. Non si avevano notizie di Alex e a ogni fase della
guerra sua madre era sempre più oppressa dall'angoscia.

48

Un viaggio in barca

Rob J. si rendeva conto che tanto Jefferson Davis quanto Abramo Lincoln
erano arrivati al potere contribuendo a distruggere il popolo sauk nella guerra
di Falco Nero. Davis, da giovane tenente, aveva personalmente condotto Falco
Nero e lo sciamano Nuvola Bianca da Fort Crawford lungo il Mississippi fino
alle caserme Jefferson, dove erano stati imprigionati e incatenati. Lincoln
aveva combattuto contro i Sauk con la milizia volontaria, sia come soldato
semplice sia come capitano. Ora ciascuno di questi due uomini rispondeva al
titolo di Mister President e stavano guidando una metà della nazione americana
contro l'altra metà.
318
Rob J. avrebbe desiderato restar fuori dall'insensato agitarsi del mondo, ma
era sperare troppo. La guerra infuriava da sei settimane quando Stephen Hume
venne a Holden's Crossing a trovarlo. L'ex deputato gli disse francamente che
aveva usato tutta la sua influenza per ottenere la carica di colonnello nell'eser-
cito degli Stati Uniti. Si era dimesso da consulente legale della Compagnia
Ferroviaria a Rock Island per organizzare il 102° Reggimento Volontari
dell'Illinois, e veniva a offrire al dottor Cole il posto di chirurgo del reggi-
mento.
«Non è cosa per me, Stephen.»
«Dottore, va bene opporsi all'idea di guerra in astratto, ma ora siamo davanti
alla realtà concreta, e ci sono buone ragioni per cui questa guerra debba essere
combattuta.»
«... Io non credo che uccidere un mucchio di gente sia il mezzo giusto per
cambiare le opinioni degli uomini sulla schiavitù o sulla libertà di commercio.
Comunque, lei ha bisogno di qualcuno più giovane e più snello. Io ho quaranta-
quattro anni e ho messo su pancia.» Era vero che era ingrassato. Quando gli
schiavi fuggiaschi arrivavano al suo nascondiglio, Rob J. aveva preso l'abitudi-
ne di infilarsi del cibo in tasca quando passava per la cucina - una patata dolce
al forno, un pezzo di pollo fritto, un paio di ciambelle - per nutrirli. Ora conti-
nuava a prendersi il cibo, ma lo mangiava lui stesso in sella, come conforto alle
lunghe cavalcate.
«Oh, ma io ho bisogno di lei, dottore, così com'è, grasso o magro che sia»
replicò Hume. «In questo momento, in tutto il dannato esercito abbiamo solo
90 ufficiali medici. Ci sono per lei grandi possibilità. Lei entrerà come capitano
e diventerà ben presto maggiore. Un dottore come lei, destinato a far carriera!»
Rob J. scosse la testa. Ma aveva simpatia per Hume e gli porse la mano. «Le
auguro di tornare sano e salvo, colonnello.»
Hume fece un sorrisetto di disappunto e gli strinse la mano. Pochi giorni
dopo Rob J. sentì dire all'emporio che Tom Beckermann era stato nominato
chirurgo del 102°.

Per tre mesi entrambe le parti avevano preso la guerra alla leggera, come un
gioco, ma a luglio fu chiaro che si stava delineando uno scontro di grandi pro-
porzioni. Molti erano ancora convinti che la faccenda si sarebbe rapidamente
risolta: ma quella prima battaglia fu una brusca rivelazione per la nazione in-
tera. Rob J. leggeva i resoconti dei giornali non meno avidamente dei guerra-
fondai.
Più di 30.000 soldati dell'Unione al comando del generale Irvin McDowell
319
erano schierati contro 20.000 confederati sotto il generale Pierre G.T. Beau-
regard a Manassas, Virginia, 38 chilometri a sud di Washington. Altri 11.000
confederati agli ordini del generale Joseph E. Johnston fronteggiavano nella
valle dello Shenandoah un'altra armata dell'Unione forte di 14.000 uomini,
guidata dal generale Robert Patterson. Calcolando che Patterson avrebbe tenuto
impegnato Johnston, il 21 luglio McDowell sferrò l'attacco contro i sudisti
presso Sudley Ford, sul torrente Bull Run.
Ma non fu un attacco a sorpresa.
Poco prima che McDowell attaccasse, Johnston si sottrasse abilmente alla
stretta di Patterson e congiunse le sue forze con quelle di Beauregard. Il piano
strategico dei nordisti era così largamente conosciuto che deputati e funzionari
erano accorsi da Washington a Manassas, con le mogli e i figli, a cavallo o in
carrozza, e avevano imbandito lauti picnic in attesa di godersi lo spettacolo
come se fosse una famosa corsa podistica. L'esercito aveva assunto dozzine di
civili con carri e cavalli che dovevano servire come ambulanze, in caso ci
fossero stati feriti. Molti dei guidatori di ambulanze si erano portati al picnic
generose provviste di whisky.
Mentre questo pubblico osservava affascinato, i soldati di McDowell si get-
tarono sulle forze unite dei confederati. La maggior parte degli uomini, da
entrambe le parti, erano nuove reclute male addestrate, che combattevano con
più zelo che perizia. I cittadini-soldati dei confederati si ritirarono di qualche
chilometro e poi si fermarono e mantennero le posizioni, lasciando che i nor-
disti si logorassero in diversi assalti frenetici. Poi, Beauregard comandò il con-
trattacco. Le truppe federali, esauste, cedettero e volsero le spalle. Ben presto la
ritirata si tramutò in una disfatta.
La battaglia non era stata quel che il pubblico si era aspettato; il fragore del
fuoco di fucileria e di artiglieria, unito alle grida degli uomini, era terribile, la
vista era ancora peggiore. Invece di uno spettacolo sportivo, avevano davanti
agli occhi il trasformarsi di uomini vivi in corpi squarciati, sventrati, mutilati.
Migliaia di morti. Alcuni dei civili svenivano, altri piangevano. Tutti cercavano
di fuggire, ma una bomba squarciò un carro e uccise il cavallo, bloccando la
principale via di ritirata. I guidatori civili delle ambulanze, ubriachi o no, per la
maggior parte erano fuggiti terrorizzati con i carri vuoti. I pochi che cercavano
di raccogliere i feriti si trovavano infognati in un mare di veicoli civili e di
cavalli imbizzarriti. I feriti gravi rimanevano sul campo di battaglia urlando e
gemendo finché morivano. Alcuni di quelli soccorsi dalle ambulanze non arri-
varono a Washington che dopo parecchi giorni.
A Holden's Crossing la vittoria dei confederati diede animo ai simpatizzanti
320
sudisti. Rob J. era più angosciato per la criminale negligenza verso i caduti che
per la sconfitta. Al principio dell'autunno si seppe che la battaglia di Bull Run
aveva fatto quasi cinquemila vittime fra morti, feriti e dispersi, e molte vite
erano andate perdute per mancanza di cure.
Una sera lui e Jay Geiger erano seduti nella cucina dei Cole e badavano a
evitare l'argomento della battaglia. Parlavano con un certo imbarazzo della no-
tizia che il cugino di Lillian Geiger, Judah P. Benjamin, era stato nominato
segretario di Guerra del governo confederato. Ma erano completamente d'ac-
cordo sulla crudele idiozia degli eserciti che non salvavano i propri feriti.
«Per quanto sia difficile,» affermò Jay «non dobbiamo permettere che
questa guerra distrugga la nostra amicizia.»
«No, naturalmente!»
Forse non l'avrebbe distrutta, pensò Rob J., ma la loro amicizia era già stata
intaccata. Rimase sorpreso quando Geiger, prima di tornare a casa, lo abbracciò
stretto, come un innamorato. «Io considero i tuoi familiari come i miei» ag-
giunse Jay. «Non c'è nulla che non farei per assicurare il loro benessere.»
Il giorno dopo Rob J. comprese il significato di quell'addio di Jason, quando
Lillian, seduta con gli occhi asciutti nella cucina dei Cole, li informò che
all'alba suo marito era partito per il Sud, per arruolarsi come volontario nell'e-
sercito dei confederati.

A Rob J. parve che il mondo intero fosse diventato scuro come il grigio dei
confederati. Malgrado tutte le sue cure Julia Blackmer, la moglie del pastore,
morì sfinita dalla tosse poco prima che l'aria invernale si facesse gelida. Al
cimitero il pastore pianse recitando le preghiere dei morti, e quando la prima
palata di terra e pietre cadde con un tonfo sordo sulla bara di Julia, Sarah
strinse la mano di Rob J. così forte da fargli male. I membri del gregge di
Lucian Blackmer si unirono per confortare e sorreggere il loro pastore nei
giorni che seguirono, e Sarah organizzò le donne in modo che al reverendo non
mancasse mai una compagnia comprensiva o un pasto ben preparato. A Rob J.
sembrava che il pastore avrebbe dovuto desiderare un po' di solitudine e di
raccoglimento nel suo dolore, ma il reverendo Blackmer appariva grato di tutte
quelle premure.
Prima di Natale Madre Miriam Ferocia confidò a Rob J. di aver ricevuto
una lettera da uno studio legale di Francoforte che le comunicava la morte del
padre, Ernst Brotknecht. Il testamento disponeva la vendita delle due fabbriche
di carri e vagoni ferroviari a Francoforte e a Monaco, e una considerevole
somma di denaro spettava alla figlia, Andrea Brotknecht.
321
Rob J. le espresse le sue condoglianze per la morte del padre, che la monaca
non vedeva da molti anni, e aggiunse: «C'è almeno un lato positivo. Madre
Miriam, lei è ricca!».
«No» rispose lei tranquillamente: aveva promesso, quando aveva preso
l'abito, di donare tutti i suoi beni terreni alla Santa Madre Chiesa. Aveva già
firmato i documenti per la cessione dell'eredità all'amministrazione fiduciaria
del suo arcivescovo.
Rob J. ne fu irritato. In quegli anni, dolente di veder soffrire le monache,
aveva fatto una serie di piccoli doni alla loro comunità. Aveva osservato la
rigorosa disciplina della loro vita, il severo razionamento e la mancanza di ogni
cosa che potesse essere considerata un lusso. «Un po' di denaro sarebbe una
benedizione per le suore del convento. Se lei non può accettarlo per sé,
potrebbe pensare alle sue monache.»
Ma Madre Ferocia rimase inflessibile. «La povertà è una parte essenziale
delle loro vite» affermò e gli fece un irritante cenno di cristiana sopportazione
quando Rob J. salutò un po' bruscamente e se ne andò.

Dopo la partenza di Jason la vita di Rob J. aveva perduto un po' del suo
calore. Avrebbe potuto continuare a far musica con Lillian, ma il pianoforte e
la viola da gamba parevano stranamente aridi e incompleti senza la melodia del
violino che ne fondeva i suoni, ed entrambi trovarono scuse per evitare di
suonare da soli.
La prima settimana del 1862, in un momento in cui si sentiva partico-
larmente depresso, Rob J. fu lieto di ricevere una lettera di Harry Loomis da
Boston, accompagnata dalla traduzione di un articolo pubblicato a Vienna
diversi anni prima da un medico ungherese di nome Ignàc F. Semmelweis.
L'articolo, intitolato Eziologia, sviluppo e profilassi della febbre puerperale,
veniva in sostanza a suffragare l'opera compiuta in America da Oliver Wendell
Holmes. All'Ospedale Centrale di Vienna Semmelweis aveva concluso che la
febbre puerperale, che uccideva dodici madri su cento, era contagiosa. E rive-
lava, come appunto aveva fatto Holmes qualche decennio prima, che i dottori
stessi diffondevano il morbo perché non si lavavano le mani.
Harry Loomis scriveva che seguiva con crescente interesse gli studi miranti
a prevenire l'infezione nelle ferite e nelle operazioni chirurgiche. Chiedeva se
Rob J. era al corrente delle ricerche del dottor Milton Akerson, che si occupava
di questi problemi all'ospedale della Valle del Mississippi a Cairo, nell'Illinois;
località, aggiungeva Harry, che non doveva essere molto lontana da Holden's
Crossing.
322
Rob J. non aveva notizie del lavoro del dottor Akerson, ma sentì subito il
bisogno di recarsi a Cairo per informarsi. Per molti mesi non ne ebbe la possi-
bilità: era continuamente a cavallo in mezzo alla neve per le sue visite a
domicilio. Infine, con le prime piogge di primavera, la situazione si fece più
calma. Madre Miriam gli assicurò che lei e le sue suore avrebbero tenuto
d'occhio i suoi pazienti e Rob J. annunciò che intendeva recarsi a Cairo per una
breve vacanza. Il 9 aprile, un mercoledì, montò in sella e spinse Boss per il fan-
go delle strade fino a Rock Island, dove collocò il cavallo a pensione in una
stalla; poi al crepuscolo si imbarcò su una chiatta di tronchi che scendeva per il
Mississippi. Per tutta la notte navigò sul fiume, abbastanza comodo nella
baracca della chiatta, dormendo sui tronchi accanto alla stufa del cuoco.
Quando, la mattina dopo, sbarcò a Cairo, si sentiva tutto rigido e indolenzito, e
continuava a piovere.
Cairo era in condizioni pietose: campi inondati e molte strade invase dal-
l'acqua. Rob J. fece un'accurata toilette in una locanda, dove gli fu servita una
mediocre colazione, quindi si recò all'ospedale. Il dottor Akerson era un ometto
basso e occhialuto, di carnagione scura, con grossi baffi che attraverso le guan-
ce andavano a congiungersi ai capelli vicino agli orecchi: era la deplorevole
moda lanciata da Ambrose Burnside, che a capo della sua brigata aveva sferra-
to il primo attacco contro i confederati nella battaglia del Bull Run.
Il dottor Akerson lo accolse con molta cortesia, visibilmente compiaciuto
che le sue ricerche avessero attirato l'attenzione dei colleghi fino a Boston.
Nelle sue corsie aleggiava l'aspro odore dell'acido cloridrico, la sostanza da lui
impiegata per combattere le infezioni che così spesso provocavano la morte dei
feriti. Rob J. notò che l'odore della soluzione, che Akerson chiamava "disin-
fettante", mascherava in certa misura le sgradevoli emanazioni delle corsie, ma
era irritante per il naso e gli occhi.
Ben presto si avvide che il chirurgo di Cairo non aveva scoperto una cura
miracolosa.
«Qualche volta sembra che si possa ottenere un beneficio trattando le ferite
con acido cloridrico. Altre volte...» Il dottor Akerson si strinse nelle spalle.
«Pare che non funzioni.»
Aveva fatto diversi esperimenti, spruzzando acido cloridrico nella sala
operatoria e nelle corsie, ma poi aveva smesso perché i vapori dell'acido
rendevano difficile il vedere e il respirare. Ora si limitava a impregnare le
bende di acido e porle direttamente sulle ferite. Riteneva che la cancrena e altre
infezioni fossero provocate da corpuscoli di pus sospesi nell'aria come un
polverio, e che le bende impregnate di acido li tenessero lontani dalle ferite.
323
Un inserviente arrivò con un vassoio carico di bende, e una cadde sul
pavimento. Il dottor Akerson la raccolse, spazzò via un po' di sudiciume con la
mano e la mostrò a Rob. Era una comunissima benda fatta di tela di cotone e
impregnata di acido cloridrico. Dopo che l'ospite l'ebbe osservata, il chirurgo la
ripose in mezzo alle altre. «Peccato che non si possa capire perché talvolta
funziona e talvolta no» osservò sospirando.
Furono interrotti da un giovane medico che veniva a chiamare il dottor
Akerson perché Robert Francis, rappresentante della Commissione Sanitaria
degli Stati Uniti, aveva chiesto di vederlo «per un affare urgente».
Robert Francis li aspettava ansiosamente nel corridoio. Rob J. conosceva e
approvava la Commissione Sanitaria, un'organizzazione civile istituita per
raccogliere fondi e reclutare personale per la cura dei feriti. Ora Francis li
informò frettolosamente che c'era stata una violenta battaglia di due intere
giornate a Pittsburg Landing, Tennessee, 45 chilometri a nord di Corinth,
Mississippi. «Le perdite sono spaventose, molto più gravi che a Bull Run.
Abbiamo radunato dei volontari per fungere da infermieri, ma siamo dispera-
tamente a corto di medici.»
«La guerra ci ha tolto la maggior parte dei nostri medici» replicò Akerson
con espressione afflitta. «Non c'è nessuno che possa lasciare l'ospedale.»
Rob J. non esitò. «Io sono medico, Mr. Francis. Posso venire.»
Con tre altri medici venuti dalle città vicine e quindici civili che non ave-
vano mai fatto gli infermieri Rob J. salì a bordo del battello City of Louisiana a
mezzogiorno, nell'umida caligine che copriva il fiume Ohio. Alle cinque del
pomeriggio raggiunsero Paducah, nel Kentucky, ed entrarono nel fiume
Tennessee. Fu un lungo viaggio di 350 chilometri sul Tennessee. Nel buio della
notte, senza vedere e senza essere visti, oltrepassarono Fort Henry, che Ulysses
S. Grant aveva occupato solo un mese prima. Per tutto il giorno successivo
passarono accanto a città affacciate sul fiume, a moli carichi di merci, a campi
allagati. Era quasi buio quando, alle cinque del pomeriggio, arrivarono a
Pittsburg Landing.
Nel porto Rob J. contò 24 navi a vapore, fra cui due cannoniere. Quando i
medici sbarcarono, trovarono che il molo e le strade costiere erano stati ridotti
a laghi di fango dal passaggio delle truppe yankee in ritirata, la domenica
precedente. Si sprofondava nella melma quasi fino al ginocchio. Rob J. fu
mandato sul War Hawk, una nave che ospitava 406 feriti. Avevano quasi finito
di caricare quando Rob J. salì a bordo, e la nave salpò senza indugio. Un acci-
gliato primo ufficiale spiegò a Rob J. che l'enorme quantità di feriti aveva
sovraccaricato tutti gli ospedali disponibili nelle città del Tennessee. Il War
324
Hawk doveva portare i suoi passeggeri per quasi mille chilometri sul fiume
Tennessee fino all'Ohio, e quindi risalire l'Ohio fino a Cincinnati.

I feriti erano stati messi a giacere su ogni superficie disponibile sottocoper-


ta, nelle cabine degli ufficiali e dei passeggeri e su tutti i ponti scoperti sotto la
pioggia incessante. Rob J. e un ufficiale medico dell'esercito, Jim Sprague, che
veniva dalla Pennsylvania, erano gli unici medici. Tutte le provviste erano state
accumulate in uno dei due saloni, e il viaggio era cominciato da neanche due
ore quando Rob J. si accorse che qualcuno rubava il brandy medicinale. Il
comandante militare della nave era un giovane luogotenente, Crittendon,
ancora stordito dal combattimento. Rob lo convinse che era necessario porre
una guardia armata a difesa delle provviste, il che fu subito fatto.
Rob J. non aveva portato con sé la sua borsa medica da Holden's Crossing.
Sulla nave c'era un corredo di ferri chirurgici e chiese al comandante di
fargliene affilare alcuni. Per ora non avrebbe voluto usarli. «Il viaggio è duro
per uomini feriti» disse a Sprague. «Quando sia possibile, dovremmo rinviare
le operazioni chirurgiche finché non si possano ricoverare questi uomini in un
ospedale.»
Sprague era d'accordo. «Io non sono molto propenso a tagliare» aggiunse.
Si tirò in disparte, lasciando a Rob J. il compito di prendere le decisioni. Rob J.
si rese conto che Sprague non era neppure molto propenso a fare il medico, e lo
mise a bendare le ferite e a controllare che i pazienti ricevessero regolarmente
zuppa e pane.
Vide subito che alcuni degli uomini avevano le membra veramente maciul-
late ed era necessaria l'amputazione senza indugio.
Gli infermieri volontari erano zelanti ma inesperti. Erano librai, insegnanti,
locandieri, e si trovavano davanti a una tragedia di sangue e dolore che non
avevano mai neppure immaginato. Rob J. ne tenne alcuni con sé per assisterlo
nelle amputazioni e lasciò gli altri con il dottor Sprague a fasciar ferite,
cambiare medicazioni, portar acqua agli assetati e cercare di proteggere dalla
pioggia gelata i feriti sdraiati sul ponte, impiegando tutte le coperte e i teloni
che poterono trovare.
Rob J. avrebbe voluto visitare tutti i pazienti uno dopo l'altro, a turno, ma
non gli fu possibile. Doveva invece accorrere tutte le volte che un infermiere lo
avvertiva che qualcuno «stava male». In teoria, nessuno di quelli che erano
stati imbarcati sul War Hawk avrebbe dovuto esser tanto grave da non poter
sopravvivere al viaggio: ma molti morirono quasi subito.
Rob J. ordinò di sgomberare la cabina dell'ufficiale in seconda e qui
325
cominciò ad amputare, alla luce di quattro lanterne. Quella notte asportò
quattordici arti. Molti dei feriti erano stati amputati prima di salire a bordo e
Rob J. ne esaminò alcuni, rattristato dalla mediocre qualità di alcune operazioni
eseguite. Un giovane di diciannove anni, un certo Peters, aveva perduto la
gamba destra fino al ginocchio, quella sinistra fino all'anca, e tutto il braccio
destro. Durante la notte si verificò un'emorragia al moncone sinistro, o forse
l'emorragia era già in corso quando era stato portato a bordo. Al mattino lo
trovarono morto: era il primo.
«Papà, io ho tentato...» piangeva un soldato dai lunghi capelli biondi, con
un foro nella schiena da cui si scorgeva la spina dorsale, bianca e lucente come
le vertebre di una trota. «Ho fatto di tutto...»
«Si, figlio mio, lo so, sei un bravo ragazzo» mormorò Rob J., accarezzan-
dogli la testa.
Alcuni urlavano, altri si rifugiavano nel silenzio come in un'armatura, altri
piangevano o balbettavano. A poco a poco, dai frammenti dolorosi dei loro
discorsi, Rob J. poté ricostruire l'andamento della battaglia. Grant era accam-
pato a Pittsburg Landing con 42.000 uomini, in attesa di ricongiungersi con le
forze del generale Don Carlos Buell. Beauregard e Albert Johnston pensarono
di poter sconfiggere Grant prima dell'arrivo di Buell e 40.000 confederati attac-
carono di sorpresa le truppe federali bivaccate. Lo schieramento di Grant fu
respinto all'ala destra e a quella sinistra, ma il centro, costituito da uomini dello
Iowa e dell'Illinois, oppose una disperata resistenza.
I ribelli avevano preso molti prigionieri la domenica. Il grosso dell'armata
dell'Unione era stato respinto fino al fiume e cacciato addirittura in acqua, con
il promontorio alle spalle che impediva ogni ulteriore ritirata. Ma lunedì
mattina, quando i confederati pensavano di procedere al rastrellamento finale,
emersero d'improvviso dalla nebbia le navi da guerra mandate da Buell con
20.000 uomini di rinforzo, e le sorti della battaglia mutarono. Alla fine di
quella giornata di scontri accaniti i sudisti si ritirarono a Corinth. Al cader della
notte il campo di battaglia era coperto a perdita d'occhio di moribondi e di
morti. Alcuni dei feriti furono raccolti e imbarcati sulle navi.

Per tutta la mattinata il War Hawk navigò tra campi verdeggianti e foreste
lucenti di foglie nuove e folte di vischio, e ogni tanto frutteti di peschi fioriti,
ma Rob J. non se ne accorse.
Il comandante della nave aveva progettato di attraccare mattina e sera a una
città costiera per rifornirsi di legna: nello stesso tempo i volontari dovevano
scendere a riva e procurare acqua e viveri per i loro pazienti. Ma Rob J. e il
326
dottor Sprague avevano insistito perché si facesse una tappa anche a mezzo-
giorno, e talvolta persino a metà pomeriggio, perché le scorte d'acqua si
esaurivano rapidamente. I feriti erano assetati.
Con vera disperazione di Rob J., i volontari erano nell'impossibilità di man-
tenere anche l'igiene più elementare. Molti dei soldati erano stati colpiti da
dissenteria prima di essere feriti. Defecavano e urinavano là dove si trovavano
ed era impossibile ripulirli. Non erano disponibili cambi d'abito e biancheria e
gli escrementi si incrostavano sui corpi che giacevano sotto la pioggia fredda.
Gli infermieri dovevano impiegare la maggior parte del tempo a distribuire la
zuppa. Il secondo pomeriggio, quando la pioggia cessò e uscì un sole ardente,
Rob J. salutò dapprima il caldo con vero sollievo. Ma i vapori che si alzarono
dalle coperte e dai corpi ammucchiati intensificarono l'orrendo odore che
regnava già sul War Hawk. Il tanfo divenne quasi palpabile. Talvolta, quando
la nave attraccava, salivano a bordo dei patrioti civili portando coperte, acqua e
viveri: battevano le palpebre con gli occhi irritati e lacrimanti, e si affrettavano
ad andarsene senza indugio. Rob J. rimpiangeva di non avere una scorta
dell'acido cloridrico del dottor Akerson.
Gli uomini morivano e venivano cuciti nei lenzuoli più sudici. Rob J. do-
veva amputare con sempre maggiore frequenza, almeno nei casi peggiori,
sicché, quando arrivarono a destinazione, fra i trentotto morti vi erano otto dei
venti feriti che aveva amputato. Raggiunsero Cincinnati nelle prime ore del
mattino di martedì: Rob J. era rimasto per tre giorni e mezzo senza dormire e
quasi senza cibo. Stordito e disorientato, rimase sul molo a osservare stupida-
mente gli altri che dividevano i pazienti in gruppi per smistarli ai diversi
ospedali. Quando vide un carro di feriti diretto al South western Ohio Hospital,
salì a bordo e si sedette sul pavimento fra due barellieri.

Quando scaricarono i pazienti, si mise a girare per l'ospedale, camminando


lentamente perché l'aria di Cincinnati sembrava densa e greve come fango. Il
personale ospedaliero guardava sospettosamente quel gigante irsuto di mezza
età che emanava un tanfo di latrine. Quando un inserviente gli chiese sgarba-
tamente che cosa voleva, fece il nome di Sciamano.
Infine fu accompagnato a una piccola balconata che sovrastava la sala
operatoria. Avevano già cominciato a operare i feriti del War Hawk. Quattro
medici stavano intorno al tavolo e vide che uno di essi era Sciamano. Per
qualche minuto li osservò operare, ma ben presto una calda ondata di sopore lo
sopraffece e si lasciò scivolare senza resistenza nel sonno.

327
Non ricordava come lo avessero condotto dall'ospedale alla stanza di
Sciamano o come lo avessero spogliato. Per il resto di quel giorno e per tutta la
notte dormì inconsapevole nel letto di suo figlio. Quando si svegliò era
mercoledì mattina e il sole brillava dalla finestra. Mentre si radeva e si faceva
un bagno, l'amico di Sciamano, un giovane premuroso di nome Cooke, andò a
prendere i suoi abiti alla lavanderia dell'ospedale, dove erano stati bolliti e
stirati, quindi corse a chiamare Sciamano.
Sciamano appariva molto magro ma in buona salute. «Hai notizie di Alex?»
chiese subito.
«No.»
Sciamano scosse la testa e condusse il padre a un ristorante fuori dell'ospe-
dale, per poter restare più liberi. Si fecero portare una robusta colazione di
uova, patate e costate alla griglia, accompagnata da un pessimo caffè che era
quasi tutto cicoria. Sciamano gli lasciò sorbire il primo sorso bollente di caffè
prima di cominciare a fargli domande e ascoltò con somma attenzione la storia
del viaggio del War Hawk.
Rob J. gli chiese dell'Istituto di Medicina e gli disse quanto era fiero di lui.
«A casa,» soggiunse «ricordi quel mio vecchio bisturi d'acciaio?»
«Quello antico, che chiamavi il coltello di Rob J.? Che era una tradizione di
famiglia da secoli?»
«Quello. Sicuro, è in famiglia da secoli, e tocca al primo figlio che diventa
medico. È tuo.»
Sciamano sorrise. «Non è meglio aspettare dicembre, quando prenderò la
laurea?»
«Non so se potrò essere qui per la tua laurea. Credo che diventerò medico
dell'esercito.»
Sciamano lo guardò con occhi sbarrati. «Ma tu sei un pacifista! Detesti la
guerra.»
«È così, figlio mio. Detesto la guerra» replicò Rob J. con voce più amara di
quell'amaro caffè. «Ma tu vedi che cosa succede nel mondo!»
Rimasero a lungo seduti bevendo altre tazze di quel pessimo caffè,
guardandosi negli occhi e parlando tranquillamente, come se avessero una
quantità di tempo da passare insieme.
Ma alle undici del mattino erano di nuovo in sala operatoria. L'enorme
numero di feriti del War Hawk aveva messo a dura prova le attrezzature
dell'ospedale e il personale medico. Alcuni chirurghi avevano lavorato tutta la
notte e tutta la mattina e ora Robert Jefferson Cole doveva operare un giovane
dell'Ohio che aveva ricevuto nella testa, nelle spalle, nel dorso e nelle natiche
328
una scarica di minuscole schegge di shrapnel confederate. L'operazione era
lunga e penosa perché ogni frammento di metallo doveva essere estratto dalla
carne viva con un minimo di danni per i tessuti e la suturazione doveva essere
egualmente accurata per consentire ai muscoli di reintegrarsi. Sulla piccola
balconata si affollavano gli studenti e anche parecchi membri della facoltà che
osservavano i casi terribili a cui un medico doveva far fronte durante una
guerra. Seduto in prima fila, il dottor Harold Meigs diede di gomito al dottor
Barnett McGowan e con un cenno del mento gli indicò un uomo ritto in un
angolo della sala operatoria, da dove poteva guardare senza essere d'impiccio.
Un uomo alto e corpulento con i capelli già grigi, che fissava a braccia conserte
il tavolo operatorio, incurante di ogni cosa intorno a lui. Mentre osservava la
sicurezza e la competenza del chirurgo, annuiva in gesto di inconsapevole
approvazione, e i due professori si guardarono l'un l'altro e sorrisero.
Rob J. tornò in treno e arrivò alla stazione di Rock Island nove giorni dopo
aver lasciato Holden's Crossing. Nella strada che portava alla stazione incontrò
Paul e Roberta Williams, che erano a Rock Island per far compere.
«Salve, dottore. È sceso ora da quel treno?» gli chiese Williams. «Ho
sentito che si è fatto un po' di vacanza.»
«Sì.»
«Bene, e si è divertito?»
Rob J. aprì la bocca, poi la richiuse. «Molto, grazie, Paul» rispose con voce
tranquilla e si diresse verso la stalla a prendere Boss per tornare a casa.

49

Il chirurgo militare a contratto

Rob J. impiegò quasi tutta l'estate per mettere a punto il suo progetto.
All'inizio aveva pensato di trovare un altro medico che facesse le sue veci a
Holden's Crossing, prospettandogli una pratica professionale economicamente
vantaggiosa. Ma dopo qualche tempo si rese conto che non era possibile,
perché la guerra aveva provocato una paurosa scarsità di medici. Il meglio che
poté fare fu di mettersi d'accordo con Tobias Barr perché venisse all'ambu-
latorio Cole, a Holden's Crossing, tutti i mercoledì, e per i casi più urgenti. Per
i casi meno gravi gli abitanti di Holden's Crossing dovevano farsi il viaggio
fino allo studio del dottor Barr a Rock Island, o consultare le monache
infermiere.
Sarah era fuori di sé per la collera - sia perché il marito si schierava dalla
329
"parte sbagliata" sia perché la lasciava sola, pensava talvolta Rob J. Pregava e
si consultava con il reverendo Blackmer. Sarebbe rimasta indifesa senza di lui,
ripeteva. «Prima di partire devi scrivere all'esercito federale e chiedere se dalle
loro registrazioni risulta che Alex sia loro prigioniero o sia caduto.» Rob J. Io
aveva già fatto diversi mesi prima, ma convenne che era tempo di ripetere la
ricerca.
Sarah e Lillian erano divenute amiche sempre più intime. Jay aveva escogi-
tato con successo un sistema per mandare posta e notizie dei confederati a
Lillian attraverso le linee nemiche, forse per mezzo di contrabbandieri che
operavano sul fiume. Prima che i giornali dell'Illinois pubblicassero la notizia,
Lillian riferì che Judah P. Benjamin era stato promosso da segretario di Guerra
dei confederati a segretario di Stato. Una volta Sarah e Rob J. erano stati a
pranzo con i Geiger e Benjamin quando il cugino di Lillian era venuto a Rock
Island a conferire con Hume a proposito di una causa legale che riguardava le
ferrovie. Benjamin gli era sembrato intelligente e modesto, non il tipo d'uomo
ambizioso che mirasse a salire al potere e guidare i destini di una nuova
nazione.
Quanto a Jay, Lillian disse che suo marito era al sicuro. Aveva il grado di
sottufficiale ed era assegnato come amministratore a un ospedale militare, in
qualche località della Virginia.
Quando sentì che Rob J. si preparava a raggiungere l'esercito nordista,
scosse pensosa la testa. «Prego Dio che tu e Jay non vi incontriate mai finché
siamo in guerra.»
«Penso che sia molto improbabile» replicò Rob J. battendole un colpetto
affettuoso sulla spalla.
Si accomiatò dai conoscenti, evitando il più possibile ogni cerimonia. Ma-
dre Miriam Ferocia lo ascoltò con rassegnata freddezza. Faceva parte della di-
sciplina monacale, pensò Rob J., dire addio alle persone che erano divenute
parte della loro vita. Andavano dove il loro Signore le mandava: sotto questo
aspetto, erano come soldati.
Quella mattina del 12 agosto 1862 portava il suo mee-shome e una sola
piccola valigia quando Sarah lo accompagnò al piroscafo, sul molo di Rock
Island. Piangeva e continuava a baciarlo sulla bocca, quasi selvaggiamente,
incurante delle occhiate che le gettavano gli altri passeggeri.
«Tu sei il mio amore» le mormorò Rob J. teneramente all'orecchio.
Era doloroso lasciarla in quel modo, ma fu un sollievo per lui salire a bordo
e salutarla con la mano quando la sirena lanciò due segnali brevi e uno lungo e
il piroscafo si immise al centro della corrente e si allontanò.
330
Rimase sul ponte per la maggior parte del viaggio. Amava il Mississippi e
osservava compiaciuto l'intenso traffico fluviale, che era al colmo della
stagione. Fino a quel momento, il Sud aveva messo in campo uomini più
audaci e brillanti e generali migliori di quelli del Nord. Ma quando i federali
quella primavera avevano occupato New Orleans, avevano esteso la suprema-
zia dell'Unione su tutto il corso inferiore e superiore del Mississippi. Il grande
fiume, insieme con il Tennessee e altri corsi d'acqua minori, forniva alle forze
federali una rete navigabile che portava diritta al vulnerabile cuore del Sud.
Uno dei centri militari più importanti lungo questa rete fluviale era Cairo,
dove Rob J. aveva cominciato il suo viaggio a bordo del War Hawk, e dove ora
sbarcò. Il fiume non era in piena quella fine d'agosto, ma ciò non costituiva un
gran miglioramento, perché migliaia di soldati erano accampati nei dintorni e i
detriti di quell'umanità concentrata si riversavano nella città, insieme con
immondizie, cani morti e altri rifiuti che si accumulavano nelle strade fangose
anche davanti alle case più eleganti. Rob J. segui il traffico militare fino
all'accampamento, dove fu fermato da una sentinella. Si identificò e chiese di
essere accompagnato dal comandante del campo. Ben presto si trovò di fronte
al colonnello Sibley, del 67° Volontari Pennsylvania. Il 67° Pennsylvania ave-
va già i due chirurghi assegnati dall'organico dell'esercito, gli disse il colonnel-
lo: ma nell'accampamento c'erano altri tre reggimenti, il 42° Kansas, il 106°
Kansas e il 23° Ohio. Nel 106° Kansas c'era un posto vacante di assistente
chirurgo e là Rob J. fu diretto.
Il comandante del 106° era il colonnello Frederick Hilton, che Rob J. trovò
di fronte alla sua tenda; era seduto a un piccolo tavolo e scriveva masticando
tabacco. Hilton fu ben lieto di arruolarlo. Gli poteva offrire il grado di tenente
(«Capitano, il più presto possibile») e l'arruolamento di un anno come ufficiale
medico assistente; ma Rob J. si era ampiamente informato e aveva riflettuto a
lungo prima di partire da casa. Se avesse deciso di presentarsi all'esame di uffi-
ciale chirurgo avrebbe ottenuto la qualifica per diventare maggiore, con gene-
roso stipendio e alloggio di prim'ordine e il rango di ufficiale medico di stato
maggiore o di chirurgo in un grande ospedale. Ma non era questo che Rob J.
voleva. «Io non parlo di arruolamento né di nomina ufficiale. L'esercito assume
medici civili per impiego temporaneo. Lavorerò con voi in base a contratto
trimestrale.»
Hilton si strinse nelle spalle. «Preparerò le carte per assumerla come viceas-
sistente chirurgo. Torni dopo cena a firmare. Ottanta dollari il mese, lei si
procuri il cavallo. La posso mandare da un sarto in città per l'uniforme.»
«Io non porterò l'uniforme.»
331
Il colonnello lo squadrò. «Sarebbe sconsigliabile. Questi uomini sono solda-
ti. Non sono disposti ad accettare ordini da un civile.»
«Fa lo stesso.»
Il colonnello annuì, sputò una gran boccata di sugo di tabacco, quindi
chiamò un sergente e gli disse di mostrare al dottor Cole la tenda degli ufficiali
medici.
Avevano appena imboccato la strada che portava alla compagnia, quando le
prime note di tromba suonarono l'ammainabandiera del tramonto. Ogni rumore
e ogni movimento cessarono, gli uomini si voltarono verso la bandiera e scatta-
rono nel saluto.
Era la sua prima cerimonia dell'ammainabandiera e Rob J. ne provò una
strana emozione: era una specie di comunione religiosa fra tutti quegli uomini,
che restarono ritti nel saluto finché si spense l'ultima nota vibrante della lontana
tromba. Quindi l'attività del campo riprese. Il campo era costituito perlopiù da
piccole tende da campeggio, ma il sergente si diresse verso una zona di tende
coniche che somigliavano vagamente ai tepee, e si fermò davanti a una di
queste. «Siamo arrivati, signore.»
«Grazie.»
Dentro vi erano solo due giacigli a terra, con le loro coperte. Un uomo, sen-
za dubbio il chirurgo del reggimento, era sdraiato, immerso in un sonno pro-
fondo, ed emanava un acido lezzo di corpo mal lavato misto a un pesante odore
di rum.
Rob J. posò la valigia a terra e si sedette li accanto. Aveva fatto molti errori
in passato, e molte sciocchezze, più o meno come capita a tutti gli uomini,
pensò. E si domandò se non stava per caso facendo uno dei passi più stupidi
della sua vita.

Il chirurgo, maggiore G.H. Woffenden, come Rob J. ben presto apprese,


non aveva mai frequentato una scuola di medicina, ma aveva fatto pratica per
un certo periodo «con l'onorevole dottor. Cowan» e poi si era messo in proprio.
Era stato nominato dal colonnello Hilton a Topeka e la paga di maggiore era il
primo stipendio regolare che avesse mai ricevuto. Ed era ben soddisfatto di
dedicarsi seriamente al bere, lasciando al viceassistente chirurgo il compito di
sbrigare le visite quotidiane ai pazienti.
Le visite lo tenevano occupato per quasi tutta la giornata, perché la fila dei
pazienti pareva infinita. Il reggimento comprendeva due battaglioni. Il primo
era in piena forza, con cinque compagnie, mentre il secondo battaglione aveva
solo tre compagnie. Il reggimento era stato costituito meno di quattro mesi
332
prima, quando gli uomini più validi erano già sotto le armi: il 106° aveva preso
ciò che restava e il secondo battaglione aveva rastrellato gli scarti del Kansas.
Molti degli uomini che erano in attesa di visita medica erano troppo vecchi per
fare i soldati, e molti erano troppo giovani, compresi una mezza dozzina che
sembravano proprio ragazzini. Erano tutti in pessime condizioni: le malattie più
frequenti erano diarrea e dissenteria, ma Rob J. constatò una serie di febbri
varie, infreddature varie che interessavano i bronchi e i polmoni, sifilide e
gonorrea, delirium tremens e altri sintomi di alcolismo, ernie e una quantità di
scorbuto.
In una tenda-dispensario era conservata la riserva farmacologica dell'eser-
cito degli Stati Uniti: una grande cassa di vimini e tela contenente una certa
quantità di medicine varie. Secondo l'inventario, avrebbe dovuto contenere
anche tè, zucchero raffinato, estratto di caffè, estratto di carne bovina, latte
condensato e alcol. Quando Rob J. chiese a Woffenden dov'erano questi
articoli, il chirurgo si mostrò offeso. «Rubati, suppongo» sbottò, visibilmente
preoccupato di difendersi.
Dopo i primi ranci, Rob J. riconobbe facilmente la ragione delle molte
malattie di stomaco. Si recò dall'ufficiale della sussistenza, un impegnatissimo
sottotenente di nome Zearing, e apprese che l'esercito passava al reggimento
diciotto cent il giorno per il vitto di un soldato. Il risultato era una razione
giornaliera di 3 etti e mezzo di carne di maiale salata, 70 grammi di fagioli o
piselli e inoltre o mezzo chilo di farina o 9 etti e mezzo di gallette. La carne di
solito era nera all'esterno e gialla di putrefazione all'interno, quando veniva
tagliata, e i soldati chiamavano le gallette «castelli di vermi», perché quelle
grosse fette, spesso ammuffite, erano solitamente abitate da bachi e tonchi.
Ogni soldato riceveva la sua razione cruda e la cucinava da sé su un piccolo
forno da campo: di solito si bollivano i fagioli e si friggeva la carne e la galletta
sbriciolata, o anche la farina, in grasso di porco. Insieme con le malattie, questa
dieta faceva disastri in migliaia di stornaci, e non esistevano latrine. Gli uomini
defecavano dove volevano, di solito dietro le tende, ma molti afflitti da diarrea
arrivavano solo allo spazio fra la loro tenda e quella vicina. Sull'accampamento
pesava un tanfo che ricordava il War Hawk e Rob J. decise che l'intero esercito
puzzava di feci.
Si rese conto che non poteva far niente riguardo alla dieta, almeno per il
momento, ma era ben deciso a migliorare le condizioni sanitarie. Il pomeriggio
successivo, dopo le visite, si recò nello spiazzo dove un sergente della compa-
gnia C, primo battaglione, stava addestrando una mezza dozzina di uomini nel-
l'uso della baionetta. «Sergente, lei sa dove si possono trovare delle vanghe?»
333
«Vanghe? Be', sì, lo so» fece il sergente sorpreso.
«Bene, voglio che ne procuri una per ciascuno di questi uomini e voglio che
scavino un fossato.»
«Un fossato, signore?» Il sergente squadrò la strana figura con lo sformato
abito nero, la camicia stazzonata, la cravatta a stringa e il cappello nero a lar-
ghe falde da civile.
«Si, un fossato» ripeté Rob J. «Esattamente laggiù. Lungo 3 metri, largo 90
centimetri, profondo 1,8 metri.» I
Questo dottore civile era un uomo grande e grosso. È pareva molto deciso.
E il sergente sapeva che aveva un grado equiparato a quello di tenente. Qualche
ora dopo i sei uomini erano impegnati a scavare con zelo, sotto la sorveglianza
di Rob J. e del sergente, quando il colonnello Hilton e il capitano Irvine della
compagnia C, primo battaglione, si trovarono a passare per quella strada.
«Che diavolo succede qui?» chiese il colonnello Hilton al sergente, il quale
aprì la bocca e guardò Rob J.
«Stanno scavando una latrina, colonnello» rispose Rob J.
«Una latrina?»
«Si, signore, un cesso.»
«So benissimo che cos'è una latrina. Faranno meglio a impiegare il loro
tempo addestrandosi alla baionetta. Presto questi uomini si troveranno sulla
linea del fuoco. Noi gli dobbiamo mostrare come uccidere i ribelli. Questo
reggimento deve sparare ai confederati e attaccarli alla baionetta, infilzarli, e se
è necessario li copriremo di merda e di piscia fino alla morte. Ma non vogliamo
scavare latrine.»
Da uno degli uomini venne uno scoppio di riso sgangherato, il sergente sog-
ghignava e osservava Rob J.
«Lei mi ha capito bene, assistente chirurgo?»
Rob J. non sorrideva. «Si, colonnello.»
Questo avveniva il quarto giorno del suo lavoro al 106°. Dopo di ciò vi
furono altri 86 giorni e passarono molto lentamente e Rob J. li contò uno per
uno.

334
50

Una lettera dal figlio

Cincinnati, Ohio
12 gennaio 1863

Caro papà,
bene, reclamo il bisturi di Rob J.!
Il colonnello Peter Brandon, primo assistente del chirurgo capo
William A. Hammond, ha tenuto il discorso di presentazione. Alcuni dice-
vano che è stato un bel discorso, ma io ero deluso. Il dottor Brandon disse
che i medici in tutti i tempi hanno prestato la loro assistenza agli eserciti
del loro Paese. Citò una serie di esempi, gli Ebrei della Bibbia, i Greci, i
Romani e così via. Poi parlò delle splendide occasioni che l'esercito degli
Stati Uniti in guerra può offrire a un medico, gli stipendi, le gratificazioni
che un medico riceve quando serve il suo Paese. Noi speravamo di sentir
parlare delle glorie della nostra professione - di Platone e Galeno, di
Ippocrate e Andrea Vesalio - e lui ci teneva un discorso di arruolamento.
Inoltre non era necessario. Nella mia classe, su trentasei nuovi medici già
diciassette hanno deciso di entrare nel dipartimento di Sanità dell'eser-
cito.
So che tu mi capirai quando ti scrivo che, pur desiderando ardente-
mente di rivedere la mamma, ho provato un vero sollievo nel sentire che
ha deciso di non affrontare il viaggio fino a Cincinnati. I treni, gli
alberghi eccetera sono così affollati e sudici in questi giorni che una
donna, viaggiando sola, si esporrebbe a gravi scomodità, se non peggio.
Avrei desiderato in modo particolare la tua presenza, e questo mi da
un'altra ragione per odiare la guerra. Il padre di Paul Cooke, che ha un
negozio di granaglie e alimentari a Xenia, è venuto alla cerimonia del
conferimento delle lauree e poi ci ha portati entrambi a pranzo, un pranzo
solenne con brindisi e congratulazioni. Paul è uno di quelli che entreran-
no subito nell'esercito. Il suo aspetto può ingannare, perché è sempre così
pronto allo scherzo e al riso, ma era il più brillante della nostra classe e
ha conseguito la laurea «summa cum laude». Io lo aiutavo nel lavoro di
laboratorio, e lui mi aiutava a guadagnarmi la «magna cum laude»,
perché quando finivamo di studiare una materia orale mi interrogava,

335
ponendomi domande assai più severe e difficili di quelle dei professori.
Dopo pranzo lui e il padre andarono al Teatro dell'Opera a sentire un
concerto di Adelina Patti e io tornai al Policlinico. Sapevo esattamente
quello che volevo fare. C'è una galleria sotterranea rivestita di mattoni
che passa sotto la Ninth Street, fra l'Istituto di Medicina e l'edificio
principale dell'ospedale. È riservata soltanto ai medici. Perché rimanga
sgombra nei casi di emergenza, è vietata agli studenti, che devono
attraversare la strada all'aperto, anche con il cattivo tempo. Scesi nel
seminterrato dell'Istituto di Medicina sentendomi ancora studente, ed
entrai nella galleria, che è illuminata da lampade. Quando l'attraversai e
sbucai dall'altra parte nell'ospedale, per la prima volta mi sentii vera-
mente un medico!
Papà, ho accettato un lavoro per due anni come medico interno del
Southwestern Ohio Hospital. Lo stipendio è solo di 300 dollari l'anno, ma
il dottor Berwyn dice che potrò avere un buon introito come chirurgo.
«Mai badare troppo al guadagno!» mi ha detto. «Devi ricordarti che chi
si lamenta dei guadagni di un medico di solito non è un buon medico.»
È forse un po' imbarazzante per me, ma certo è una grande fortuna che
Berwyn e McGowan si contendano il diritto di prendermi sotto la loro ala.
L'altro giorno Barney McGowan mi prospettava questo piano per il mio
avvenire: lavorerò con lui per alcuni anni come suo assistente, poi lui
stesso mi procurerà la nomina a professore aggregato di anatomia. Così,
dice, quando andrà in pensione, io sarò pronto a prendere il suo posto
come professore di patologia.
Questo mi pare fin troppo, i due professori mi fanno girare la testa,
perché il mio sogno è sempre stato soltanto quello di diventare medico.
Alla fine hanno combinato un programma che è molto vantaggioso per
me. Come ho già fatto durante l'estate, passerò le mattine in sala opera-
toria con Berwyn e i pomeriggi in patologia con McGowan: invece di fare
i lavori sporchi come studente, svolgerò la mia attività come medico.
Malgrado la loro gentilezza nei miei confronti, io non so se ho proprio
voglia di stabilirmi a Cincinnati. Preferirei vivere in un paese piccolo,
dove conosco la gente.
Cincinnati, come tendenza e sentimenti, è più sudista di Holden's
Crossing. Billy Henreid ha confidato ad alcuni amici che dopo la laurea
si arruolerà come chirurgo nell'esercito confederato. Due sere fa sono
andato a un pranzo d'addio con Henreid e Cooke. È stata una serata

336
strana e triste, ciascuno dei due sapeva dove l'altro si accingeva ad
andare.
La notizia che il presidente Lincoln ha firmato un proclama in cui
garantisce la libertà agli schiavi ha provocato un'ondata di collera. Io so
che tu non hai molta stima del presidente, a causa della parte che ha
avuto nella distruzione dei Sauk, ma io lo ammiro perché libera gli schia-
vi, quali che siano le sue ragioni politiche. I nordisti qui intorno sembra-
no pronti ad affrontare qualsiasi sacrificio per salvare l'Unione, ma non
vorrebbero che lo scopo della guerra divenisse l'abolizione della schia-
vitù. Molti non sono disposti ad affrontare questo terribile prezzo di
sangue se lo scopo della lotta è solo quello di liberare i neri. Certe
battaglie, come quelle del Bull Run e dell'Antietam, hanno provocato
perdite spaventose. Ora si ha notizia di un 'altra strage a Fredericksburg,
dove circa 13.000 federali sono stati falciati mentre cercavano di oc-
cupare le alture al di là del fiume. La cosa ha suscitato una profonda
disperazione in quelli con cui ho parlato.
Sono continuamente in pena per te e per Alex. Sarai probabilmente
sorpreso di sentire che ho cominciato a pregare, anche se non so chi, o
che cosa, ma prego continuamente che entrambi possiate tornare a casa.
Ti supplico di curare la tua salute come curi quella degli altri, e
ricorda che le vite dei tuoi cari sono legate alla tua forza e alla tua bontà.

Il tuo affezionato figlio


Sciamano
(dottor! Robert Jefferson Cole)

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Il suonatore di tuba

Non era così duro, come Rob J. aveva temuto, vivere in una tenda e dormire
per terra. Più difficile era affrontare le domande che lo assillavano: perché
diavolo si trovava lì, e quale sarebbe stato il risultato di quella terribile guerra
civile. La sorte continuava a essere sfavorevole per la causa del Nord. «Sembra
che noi vinciamo solo per perdere» osservava il maggiore G.H. Woffenden in
un momento in cui era meno ubriaco del solito.
La maggior parte dei soldati in mezzo ai quali Rob J. viveva non facevano

337
che ubriacarsi quando non erano di servizio, specialmente dopo il giorno di
paga. Bevevano per dimenticare, per ricordare, per celebrare, per commiserarsi
l'un l'altro. Quei giovani sudici spesso ubriachi erano come cani al guinzaglio,
dimentichi della morte incombente, bramosi di balzare sul loro naturale
nemico: altri americani, che senza dubbio erano altrettanto sudici, e altrettanto
spesso ubriachi.
Perché erano così bramosi di uccidere i confederati? Ben pochi se ne rende-
vano realmente conto. Rob J. vedeva che la guerra per loro aveva acquistato
una natura e un significato che andavano molto al di là delle ragioni e delle
cause. Erano assetati di lotta perché la guerra esisteva, e perché uccidere era
stato ufficialmente proclamato ammirevole e patriottico. E questo bastava.
Avrebbe voluto urlare e strepitare, chiudere i generali e i politici in una
stanza oscura come ragazzini stupidi e cattivi, prenderli per le loro collettine e
collottole e scuoterli e domandare: Che cosa vi succede? CHE COSA VI
SUCCEDE?
Invece faceva ogni giorno il suo giro di visite e somministrava con estrema
parsimonia ipecacuana e il chinino e l'elisir paregorico, e stava attento a guar-
dar per terra quando camminava, come un uomo che vivesse in un gigantesco
canile.
L'ultimo giorno del suo servizio presso il 106° Kansas Rob J. si recò dall'uf-
ficiale pagatore, intascò i suoi 80 dollari, poi tornò alla tenda conica, s'infilò a
tracolla il suo mee-shome e prese la sua valigia. Il maggiore G.H. Woffenden,
raggomitolato in una sudicia coperta da cavallo, non aprì neppure gli occhi né
borbottò un saluto.
Cinque giorni prima gli uomini del 67° Pennsylvania erano stati caricati su
piroscafi e, secondo le voci che correvano, erano stati trasportati nel Missis-
sippi, sul fronte di battaglia. Ora altre navi avevano scaricato a terra il 119°
Indiana, che stava alzando le tende sul terreno dove poco prima era accampato
il Pennsylvania. Rob J. si recò dal loro comandante e trovò un colonnello con
la faccia da bambino, che aveva poco più di vent'anni, Alonzo Symonds. Il co-
lonnello Symonds era in cerca di un medico, perché il suo chirurgo aveva
concluso il suo incarico trimestrale ed era tornato nell'Indiana, e non aveva mai
avuto un assistente chirurgo. Interrogò a fondo il dottor Cole e parve ben
impressionato da ciò che apprendeva; ma quando Rob J. annunciò che avrebbe
firmato solo a certe condizioni, il viso del colonnello si fece sospettoso.
Rob J. aveva tenuto accurate registrazioni delle visite effettuate per il 106°.
«Quasi ogni giorno il 36 per cento degli uomini era a letto o marcava visita.
Qualche volta la percentuale era più alta. Com'è al confronto la sua lista
338
quotidiana dei malati?»
«Anche noi abbiamo avuto un sacco di malati» ammise Symonds.
«Io posso procurarle degli uomini più sani, colonnello, se lei mi aiuta.»
Symonds aveva la carica di colonnello solo da quattro mesi. La sua famiglia
possedeva una fabbrica di tubi di vetro per lumi a petrolio a Fort Wayne, e
sapeva che gli operai malati erano un grosso guaio. Il 119° Indiana era stato
formato quattro mesi prima con truppe ancora inesperte e dopo pochi giorni era
stato assegnato al servizio di pattuglia nel Tennessee. Si considerava fortunato
di aver avuto solo due schermaglie abbastanza serie da poter essere considerate
un primo contatto con il nemico. Gli erano costati due morti e un ferito, ma
ogni giorno aveva avuto tanti uomini colpiti da febbre che i confederati sareb-
bero potuti venire a ballare il valzer in mezzo alle sue tende, se lo avessero
saputo.
«Che cosa devo fare?»
«I suoi soldati stanno rizzando le tende sui mucchi di merda del 67° Penn-
sylvania. E l'acqua qui è cattiva, bevono acqua del fiume inquinata dai loro
stessi escrementi. C'è un terreno che non è stato ancora usato a meno di un
chilometro e mezzo da qui, sull'altro lato dell'accampamento, con sorgenti d'ac-
qua pura che dovrebbero fornire acqua per tutto l'inverno, se vi sistemiamo le
tubazioni necessarie.»
«Bontà divina! Un chilometro e mezzo è lungo, per andare a conferire con
gli altri reggimenti. O per aspettare che i loro ufficiali vengano da me, se hanno
bisogno di parlarmi.»
Si studiarono l'un l'altro per un lungo momento, e infine il colonnello si de-
cise. Chiamò il suo sergente maggiore. «Ordini di spiantare le tende, Douglass.
Il reggimento si sposta.»
Poi tornò a discutere con il suo difficile chirurgo.
Ancora una volta Rob J. rifiutò di essere arruolato come militare. Chiese di
essere assunto come viceassistente chirurgo, con un contratto di tre mesi.
«In questo modo, se lei non riceve quello che chiede, può andarsene quando
vuole» osservò sagacemente il giovane colonnello. Il maturo chirurgo non lo
negò e il colonnello lo studiò un attimo. «Che cos'altro vuole?»
«Latrine» rispose Rob J.

Il terreno era piuttosto duro, ma non ancora gelato. In un solo mattino i


fossati furono scavati e furono fissati dei tronchi su sostegni di trenta centimetri
all'estremità di ogni fossato. Quando a tutte le compagnie fu letto l'ordine che
imponeva di defecare e urinare soltanto nelle latrine a ciò designate, pena im-
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mediate e severe punizioni, sorse ovunque un vivo malcontento. Gli uomini
avevano bisogno di qualcosa da odiare e ridicolizzare, e Rob J. si rese conto di
essere il capro espiatorio. Quando passava in mezzo a loro, i soldati si davano
di gomito, lo squadravano malignamente, sghignazzavano alla ridicola figura di
quel civile con il suo abito sempre più malandato.
Ma il colonnello Symonds non dava loro troppo tempo per lagnarsi. Li mise
per quattro giorni al lavoro per costruire una serie di piccole capanne di tronchi
e zolle, per metà scavate nel terreno. Erano umide e mal ventilate, ma offrivano
miglior riparo che non le tende e vi si poteva accendere un piccolo fuoco per
gli uomini che vi dormivano nelle notti d'inverno.
Symonds era un buon comandante e aveva intorno a sé un gruppo di discreti
ufficiali. L'ufficiale di sussistenza del reggimento era un capitano di nome Ma-
son e Rob J. non ebbe difficoltà a spiegargli le cause alimentari dello scorbuto,
perché poteva indicare gli effetti del male fra le truppe. I due si recarono a
Cairo con un grosso carro e comprarono diverse cassette di cavoli e carote, che
divennero parte del rancio. Lo scorbuto era ancora più diffuso in alcune delle
altre unità dell'accampamento, ma quando Rob J. cercò di parlare con i medici
di altri reggimenti incontrò scarso successo. Quelli sembravano più orgogliosi
del loro ruolo di ufficiali che di quello di medici. Portavano tutti l'uniforme,
due sfoggiavano spade come gli ufficiali di carriera, e il chirurgo del reggi-
mento dell'Ohio portava spalline frangiate, fatte espressamente per lui, come
quelle che Rob J. aveva visto una volta nel ritratto di un pomposo generale
francese.
Per contrasto Rob J. ci teneva ad affermare la sua condizione di civile.
Quando un sergente addetto alle forniture militari, grato per essere stato guarito
dai crampi di stomaco, gli passò un bel giaccone di lana blu, lo ringraziò calo-
rosamente ma portò il giaccone in città e lo fece tingere in nero e fece sostituire
i bottoni di metallo con comuni bottoni d'osso. Gli piaceva affermare di essere
sempre un medico di campagna che solo temporaneamente si era trasferito in
un'altra città. Sotto molti aspetti l'accampamento era come una piccola città,
benché esclusivamente maschile. Il reggimento aveva il suo ufficio postale, di
cui il caporale Amasa Decker era insieme direttore e portalettere. Tutti i merco-
ledì sera la banda dava concerti sul campo di addestramento e talvolta, quando
suonava qualche canzone popolare come Ascolta il canto del merlo o Vieni
dove il mio amore sta sognando o La ragazza che ho lasciato a casa, gli uo-
mini cantavano in coro. I vivandieri portavano al campo una quantità di merci.
Il soldato comune, con i suoi 13 dollari mensili, non poteva comprarsi molto
formaggio a 50 cent la libbra, o latte condensato a 75 cent il barattolo, ma tutti
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compravano liquori. Rob J. diverse volte la settimana si offriva biscotti alla
melassa, sei per un quarto di dollaro. Un fotografo aveva messo su bottega in
una grande tenda canadese, e un giorno Rob J. pagò un dollaro per farsi fare,
rigido e senza sorridere, una foto che mandò subito a Sarah, come prova che
suo marito era ancora vivo e stava bene e l'amava con tutto il cuore.

Il colonnello Symonds, avendo già una volta guidato truppe inesperte in


territorio di guerra, era ben deciso a non mandarle più impreparate in prima
linea. Per tutto l'inverno assoggettò i suoi soldati a un duro addestramento.
Comandava marce di 45 chilometri, che procuravano a Rob J. nuovi malati,
poiché alcuni degli uomini riportavano strappi muscolari dovuti allo zaino trop-
po carico e al pesante moschetto; altri erano colpiti da ernie perché portavano
pesanti scatole di munizioni appese alla cintura. Le squadre si allenavano
costantemente per l'assalto alla baionetta e Symonds costringeva gli uomini a
eseguire più e più volte la laboriosa operazione di caricare i loro moschetti.
«Strappate con un morso l'estremità della cartuccia avvolta nella carta, come se
foste affamati. Versate la polvere nella canna, inserite la pallottola minié, e poi
l'involucro di carta, come tampone; quindi spingete giù con forza tutto il
dannato intruglio. Prendete una capsula dalla vostra giberna, collocatela sul
bottone della culatta. Puntate il vostro bel moschetto e fuoco!»
I soldati continuavano senza fine a ripetere l'operazione. Symonds, come
disse a Rob J., voleva che fossero in grado di caricare e far fuoco appena
svegliati da un sonno profondo, o quando erano storditi dal panico, o quando
avevano le mani tremanti di eccitazione o paura.
Nello stesso modo, perché imparassero a obbedire agli ordini senza esitare
invece che imprecare o discutere con i loro ufficiali, il colonnello li sotto-
poneva a un duro e incessante addestramento. Molte mattine, quando il terreno
era coperto di neve, Symonds prendeva in prestito dal dipartimento stradale di
Cairo certi pesanti rulli compressori di legno e li faceva trascinare da coppie di
cavalli dell'esercito per tutto il campo di addestramento, finché era abbastanza
spianato e indurito da consentire gli esercizi della truppa, mentre la banda del
reggimento suonava brani a tempo di marcia.
In un limpido giorno d'inverno, passando accanto al campo pieno di soldati
in addestramento, Rob J. gettò uno sguardo alla banda e vide che uno dei suo-
natori di tuba aveva una voglia di vino sul viso. Il pesante strumento d'ottone
era appoggiato sulla spalla dell'uomo e mandava riflessi dorati al sole inver-
nale, e mentre soffiava nel bocchino - stavano suonando Viva la Columbia! - le
guance del suonatore si gonfiavano e si svuotavano ritmicamente. Ogni volta
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che si riempivano d'aria, la macchia purpurea sotto l'occhio destro si scuriva,
come un segnale.
Per tanti, lunghi anni Rob J. aveva avuto un sussulto ogni volta che incon-
trava un uomo con una voglia di vino sul viso; ma ora continuò semplicemente
il suo giro di visite, camminando automaticamente al ritmo martellante della
musica, fino alla tenda-dispensario.
La mattina dopo, quando vide la banda che si avviava verso il campo per
suonare alla parata del primo battaglione, cercò con gli occhi il suonatore con
la voglia sul viso: ma l'uomo non c'era.
Si diresse allora alla fila di capanne dov'era alloggiata la banda e incontrò
subito il suo uomo che toglieva dalla corda del bucato la biancheria irrigidita
dal gelo. «Più rigida del cazzo di un morto» osservò disgustato l'uomo con la
voglia. «Non ha proprio senso fare ispezione nel cuore dell'inverno.»
Ipocritamente Rob J. assentì, anche se le ispezioni erano state una sua
iniziativa per costringere gli uomini a lavare almeno una parte dei loro indu-
menti. «Hai la giornata libera, vero?»
L'uomo lo guardò stizzito. «Io non marcio. Sono storpio.»
Mentre si allontanava con la sua bracciata di indumenti gelati, Rob J. poté
constatare che lo era. Il suonatore di tuba avrebbe distrutto la bella simmetria
della banda militare in marcia. La sua gamba destra appariva più corta della
sinistra e decisamente camminava zoppicando.

Rob J. entrò nella sua capanna e si sedette sul giaciglio nella fredda penom-
bra, con una coperta sulle spalle.
Undici anni. Ricordava con precisione la data. Aveva in mente ognuna delle
visite a domicilio che aveva compiuto mentre Makwa-ikwa veniva violentata e
assassinata.
Pensava ai tre uomini che erano arrivati a Holden's Crossing appena prima
del delitto ed erano scomparsi. In undici anni non era riuscito a sapere nulla di
loro, tranne che erano tre ubriaconi.
Un predicatore fasullo, il reverendo Ellwood Patterson, che lui stesso aveva
curato per sifilide terziaria.
Un uomo corpulento dai muscoli potenti, di nome Hank Cough.
Un giovane scarno che chiamavano Len. Talvolta Lenny. Con una voglia di
vino sul viso, sotto l'occhio destro, che zoppicava.
Non era più così scarno, se questo era l'uomo. E neanche tanto giovane, del
resto.
Questo probabilmente non era l'uomo che cercava, si disse. Chissà quanti
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altri individui c'erano in America con una voglia di vino e una gamba zoppa.
Si rese conto che non voleva che questo fosse l'uomo. Dovette riconoscere
con se stesso che non voleva più ritrovare nessuno dei tre. Che cosa avrebbe
fatto se il suonatore di tuba era realmente Lenny? Gli avrebbe tagliato la gola?
Si sentì oppresso da un senso di impotenza. La morte di Makwa era qual-
cosa che lui aveva cercato di accantonare in uno scomparto chiuso della sua
mente. Ora quello scomparto si era riaperto, come il vaso di Pandora, e un gelo
quasi dimenticato risorgeva dentro di lui, un gelo che non aveva niente a che
fare con la temperatura della capanna.
Uscì e si diresse alla tenda che serviva da ufficio del reggimento. Il sergente
maggiore, Stephen Douglass - scritto con una S in più del nome del senatore -
era abituato a quel dottore che lavorava così assiduamente alle sue registra-
zioni. Aveva detto a Rob J. di non aver mai visto un medico militare tanto
preoccupato di tenere le schede mediche complete. «Altro lavoro di cartaccia,
dottore?»
«Un altro po'.»
«Si accomodi. L'inserviente è uscito a prendere un bricco di caffè caldo,
gliene offro un po' volentieri quando arriva. Ma non ne faccia cadere sulle mie
dannate schede, per favore.»
Rob J. promise di stare attento.
La banda era aggregata alla compagnia del quartier generale. Il sergente
Douglass teneva ordinatamente le schede di ogni compagnia in scatoloni grigi
separati. Rob J. trovò la scatola del quartier generale: dentro c'era un gruppo di
schede legate con una corda e segnate Banda del 119° Reggimento Indiana.
Sfogliò le schede una per una. Non c'era nessuno nella banda il cui nome di
battesimo fosse Leonard; ma quando Rob J. trovò la scheda seppe subito e
senza incertezze che questo era l'uomo giusto, allo stesso modo che talvolta
sapeva se un paziente stava per morire.

Ordway, Lanning A., soldato semplice.


Residenza, Vincennes, Indiana.
Arruolamento per un anno, 28 luglio 1862.
Luogo di reclutamento, Fort Wayne.
Nato a Vincennes, Indiana, 11 novembre 1836.
Altezza cinque piedi e otto pollici.
Carnagione chiara.
Occhi grigi. Capelli castani.
Arruolato per servizi sedentari come suonatore (tuba in mi bemolle) e
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inserviente generico, causa menomazione fisica.

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Movimenti di truppe

Il contratto di Rob J. era scaduto già da diverse settimane quando il colon-


nello Symonds venne da lui per discuterne il rinnovo. Intanto le febbri prima-
verili avevano cominciato a infuriare negli altri reggimenti, ma non nel 119°
Indiana. Gli uomini del 119° avevano infreddature dovute all'umidità e diarree
dovute alla qualità del rancio, ma le code davanti all'infermeria del dottor Cole
erano le più corte che avesse visto da quando aveva cominciato a lavorare per
l'esercito. Il colonnello Symonds sapeva che tre reggimenti erano tormentati da
febbre e malaria, mentre il suo era relativamente sano. Alcuni degli uomini più
vecchi, che non avrebbero neanche dovuto trovarsi sotto le armi, erano stati
rimandati a casa. La maggior parte degli altri avevano i pidocchi, i piedi e i
colli sudici e pruriti nei fianchi, e bevevano troppo whisky, ma erano asciutti e
induriti dalle lunghe marce, scattanti per il continuo addestramento, con occhi
brillanti e l'animo pronto, perché l'assistente chirurgo dottor Cole li aveva
portati attraverso quel duro inverno in buona salute e pronti al servizio, come
aveva promesso. Dei 600 uomini del reggimento, sette erano morti durante
l'inverno, un tasso di mortalità del 12 per mille. In confronto 58 uomini su
mille erano morti negli altri tre reggimenti, e ora che erano sopravvenute le
febbri il tasso era certamente destinato a crescere.
Così il colonnello, venendo in cerca del suo dottore, era disposto a essere
più che ragionevole, e Rob J. firmò senza esitare il contratto per altri tre mesi.
Doveva riconoscere che si trovava in buona posizione.
Quel che ora dovevano fare, disse a Symonds, era preparare un'ambulanza
per assistere il reggimento in battaglia.
La Commissione Sanitaria civile aveva fatto pressioni sul segretario di
Guerra fino a ottenere che ambulanze e barellieri facessero parte integrante
dell'armata del Potomac, ma il movimento di riforma si era fermato li, senza
procedere a provvedimenti analoghi per i feriti delle unità del settore
occidentale. «Dovremo provvedere noi stessi ai nostri bisogni» affermò Rob J.
Lui e Symonds sedevano comodamente davanti alla tenda dell'infermeria
fumando un sigaro, e il fumo azzurro saliva nella tiepida aria primaverile,
mentre il dottore raccontava al colonnello del suo viaggio a Cincinnati a bordo
del War Hawk. «Io ho parlato con uomini che erano rimasti abbandonati
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persino due giorni sul campo di battaglia, dopo essere stati feriti. Era una vera
fortuna che piovesse, perché erano senz'acqua. Uno mi disse che durante la
notte erano arrivati dei maiali là dove giaceva, e avevano cominciato a
mangiare i corpi. Alcuni non erano ancora morti.»
Symonds annuì. Questi raccapriccianti dettagli gli erano familiari. «Che
cosa vuole che faccia?»
«Mi dia quattro uomini da ogni compagnia.»
«Lei vuole un intero plotone per portare le barelle!» esclamò Symonds
sgomento. «Questo reggimento è già molte scarso di forze. Per vincere le
battaglie io ho bisogno di combattenti, non di barellieri.» Fissò pensoso la
punta del suo sigaro. «Ci sono ancora troppi vecchi e troppi invalidi, che non
avrebbero dovuto essere arruolati. Prenda alcuni di quelli.»
«No. Abbiamo bisogno di uomini abbastanza forti da andare a prendere i
feriti sotto il fuoco nemico e riportarli nelle nostre linee. Non è un lavoro che
possa essere fatto da vecchi malaticci.» Rob J. studiò il viso preoccupato di
questo giovane ufficiale, per il quale provava insieme ammirazione e pietà.
Symonds amava i suoi soldati e voleva proteggerli, eppure come colonnello
aveva il non invidiabile compito di spendere vite umane, come se fossero
munizioni o razioni di rancio o ceppi per il fuoco. «Supponiamo che io prenda
uomini della banda musicale» aggiunse Rob J. «Possono continuare a suonare
per la maggior parte del tempo, e dopo una battaglia possono trasportare
barelle.»
Il colonnello Symonds annuì con evidente sollievo. «Benissimo. Veda se il
capobanda può darle qualcuno dei suoi uomini.»
Il capobanda Warren Fitts faceva il calzolaio da sedici anni quando era stato
arruolato a Fort Wayne. Aveva avuto una buona educazione musicale e da
giovane aveva tentato per parecchi anni di creare una scuola di musica a South
Bend. Quando dovette lasciare quella città per mancanza di denaro, si era ras-
segnato, con amarezza e insieme con sollievo, all'arte del calzolaio nella botte-
ga di suo padre, che gli aveva insegnato il mestiere. E Warren era un ottimo
calzolaio. Si guadagnava modestamente ma comodamente la vita e insieme
dava lezioni di musica, insegnando tanto il piano quanto gli strumenti a fiato.
La guerra aveva ravvivato per lui dei sogni che credeva tramontati e dimen-
ticati. All'età di quarant'anni gli si offriva l'occasione di reclutare una banda
militare e istruirla a suo piacimento. Aveva dovuto rastrellare i talenti musicali
della zona di Fort Wayne per trovare abbastanza suonatori per la sua banda, e
ora ascoltò con indignato stupore la proposta del chirurgo, che pretendeva alcu-
ni dei suoi uomini per farne dei barellieri.
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«Mai!»
«Dovrebbero stare con me solo per qualche ora» cercò di rassicurarlo Rob J.
«Per il resto del tempo sarebbero ai suoi ordini.»
Fitts cercò di celare il suo disprezzo. «Ogni suonatore deve dedicare alla
banda tutta la sua attenzione. Quando non suona, deve esercitarsi e provare.»
Dalla sua esperienza personale con la viola da gamba Rob J. sapeva che era
vero. «C'è qualche strumento nella banda per cui lei ha dei suonatori in più?»
chiese pazientemente.
Questa domanda toccò un tasto sensibile in Fitts. La sua posizione come
capobanda era la più vicina possibile a quella di direttore d'orchestra, e lui
badava con puntigliosa attenzione a che il proprio aspetto, e quello di tutta la
banda, fossero degni del suo ruolo di artista. Fitts aveva una folta capigliatura
brizzolata, il viso ben rasato con due bei baffetti a punta, ben impomatati e
voltati all'insù. La sua uniforme era tenuta con molta cura e i suoi suonatori sa-
pevano che dovevano tenere i loro ottoni ben lucidati, le uniformi pulite e gli
stivali lustri. E dovevano marciare con baldanzosa eleganza, perché, quando il
loro capo avanzava impettito roteando la bacchetta, voleva essere seguito da
una banda che fosse al suo livello. Ma c'era sempre qualcuno che macchiava
questa immagine...
«Wilcox, Abner» cominciò. «Tromba.» Wilcox era fortemente strabico.
Fitts pretendeva che i suoi suonatori avessero un bell'aspetto, oltre che un buon
talento musicale. Non poteva tollerare che un difetto fisico guastasse la
bellezza perfetta della sua banda e aveva assegnato Wilcox a servizi secondari
come trombettiere del reggimento.
«Lawrence, Oscar. Tamburino.» Un goffo ragazzone di sedici anni afflitto
da una mancanza di coordinazione che non solo faceva di lui un tamburino
scadente, ma spesso gli faceva perdere il passo quando la banda marciava,
sicché la sua testa talvolta si trovava a ballonzolare fuori ritmo sopra le altre
teste della banda.
«Ordway, Lanning» e quando Fitts pronunciò questo nome il chirurgo fece
un curioso cenno d'assenso. «Tuba in mi bemolle.» Era un suonatore mediocre
e guidava uno dei carri della banda; talvolta era impiegato anche come uomo di
fatica. Andava bene per suonare il suo strumento quando facevano musica per
la truppa il mercoledì sera, o quando si esercitavano seduti sulle loro sedie, sul
campo di addestramento, ma la sua gamba zoppa gli rendeva impossibile mar-
ciare senza rovinare l'effetto militare della banda.
«Perry, Addison. Ottavino e piffero.» Cattivo suonatore e trasandato nella
persona e negli abiti. Fitts era ben contento di liberarsi di quegli scarti.
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«Robinson, Lewis. Cornetta sopranino in mi bemolle.» Buon suonatore,
doveva ammettere Fitts, ma fonte di estrema irritazione per lui, un saccente
borioso pieno di aspirazioni personali. In diverse occasioni Robinson gli aveva
mostrato dei pezzi che pretendeva fossero sue composizioni originali e aveva
chiesto se la banda poteva suonarli. Affermava di aver esperienza come diret-
tore d'orchestra, avendo diretto una filarmonica civica a Columbus, Ohio. E
Fitts non amava che qualcuno gli stesse alle costole e gli soffiasse sul collo.
«E poi...?»
«Nessun altro» concluse il capobanda soddisfatto.
Per tutto quell'inverno Rob J. aveva osservato Ordway da lontano. Era
nervoso, perché, anche se la ferma di Ordway doveva ancora durare piuttosto a
lungo, non era difficile per un uomo disertare e sparire. Ma qualunque fosse il
legame che teneva gli uomini nell'esercito, funzionava anche per Ordway. In
fondo non aveva un aspetto spiacevole, per un individuo sospettato di omicidio,
a parte un certo sguardo sfuggente negli occhi acquosi.
Nessuno dei cinque fu soddisfatto della nuova assegnazione. Lewis Robin-
son reagì con violenza. «Io devo fare musica! Sono un musicista, non un
medico.»
«Barelliere» corresse Rob J. «Per il momento tu sei un barelliere.» E gli
altri capirono che parlava per tutti.
Rob J. cercò di trarre il meglio da un cattivo affare chiedendo al capobanda
di esentarli da ogni altro impegno, e ottenne questa concessione con sospetta
facilità. Per addestrarli cominciò dal principio: gli insegnò ad arrotolare fasce e
fare bendaggi e quindi, simulando vari tipi di ferite, ad applicarvi le
medicazioni necessarie. Insegnò loro come sollevare e trasportare i feriti e fornì
a ognuno un piccolo zaino contenente bendaggi, medicazioni, una bottiglia
d'acqua e oppio e morfina in polvere e in pillole.
Nel dispensario militare c'erano diverse stecche per immobilizzare le frat-
ture, ma a Rob J. non parvero idonee. Requisì del legno e mostrò ai suoi barel-
lieri come prepararsi da sé le stecche, sotto la sua direzione. Abner Wilcox
dimostrò di essere un buon falegname, e pieno di iniziativa. Fabbricò diverse
eccellenti barelle, tendendo pezzi di tela fra due stanghe. L'ufficiale preposto ai
rifornimenti offrì un piccolo carro a due ruote, per servire da ambulanza, ma
Rob J. aveva l'esperienza di tanti anni di visite a domicilio su cattive strade e
sapeva che per evacuare dei feriti su terreno sconnesso ci voleva la sicurezza
delle quattro ruote. Trovò un carro a pianale scoperto in discreto stato e Wilcox
costruì le pareti e il tetto di legno per chiuderlo. Lo verniciarono in nero e
Ordway dipinse molto abilmente il caduceo, simbolo della medicina, in un bel
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colore argento su ognuna delle fiancate dell'ambulanza, copiandolo da quello
che figurava sulla cassa del dispensario. Dall'ufficiale alle cavalcature Rob J.
riuscì a ottenere, a forza di lusinghe, una coppia di brutti ma robusti cavalli da
lavoro, che erano anch'essi degli scarti, come il resto della sua squadra di
soccorso.
I cinque uomini cominciavano a sentire un involontario orgoglio di gruppo,
ma Robinson si lagnava apertamente dei maggiori rischi che dovevano affron-
tare con il nuovo incarico. «Naturalmente ci sarà pericolo» ribatteva Rob J.
«Anche la fanteria sulla linea del fuoco affronta pericoli e c'è pericolo in una
carica di cavalleria, o altrimenti non ci sarebbe bisogno di portaferiti.»
Aveva sempre saputo che la guerra corrompeva gli animi, ma vedeva ora
che aveva corrotto lui come tutti gli altri. Aveva bruscamente indirizzato il
destino di quei cinque giovani in modo che ora erano costretti ad andare a
raccogliere feriti sotto il fuoco nemico, continuamente, come se fossero invul-
nerabili ai proiettili, e voleva placare le loro paure dimostrandogli che erano
membri di una generazione destinata alla morte. Cercava con parole speciose di
sottrarsi alla propria responsabilità, tentando di convincere se stesso, insieme
con loro, che in fondo ora non si trovavano in una condizione peggiore di
prima, quando invece l'unica complicazione delle loro vite era il balzano
temperamento di Fitts e il loro unico impegno era quello di ottenere la massima
espressione suonando valzer o marce o danze scozzesi.
Li divise in coppie di portatori: Perry e Lawrence, Wilcox e Robinson.
«E io?» chiese Ordway.
«Tu resti con me.»

Il caporale Amasa Decker, il portalettere, conosceva bene Rob J. perché gli


consegnava un fiume ininterrotto di posta da Sarah, che scriveva lunghe e
appassionate lettere. Il fatto che sua moglie fosse così sensuale era sempre stato
una delle sue più affascinanti qualità, e talvolta Rob J. restava sdraiato nella sua
capanna e rileggeva una lettera dopo l'altra, tanto preso dal desiderio che gli
sembrava di sentire il profumo di lei. Anche se a Cairo c'erano donne in abbon-
danza, da quelle prezzolate a quelle patriottiche, non aveva fatto alcun tentativo
di avvicinarne una. Era afflitto dalla condanna alla fedeltà.
Passava la maggior parte del suo tempo libero scrivendo lettere piene di
tenerezza e di parole confortanti in risposta all'angosciata passionalità di Sarah.
Talvolta scriveva a Sciamano, e non trascurava mai di tenere il suo diario. Altre
volte restava sdraiato, avvolto nel suo poncho, e rifletteva su come poter
apprendere da Ordway ciò che era avvenuto il giorno della morte di Makwa-
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ikwa. Sapeva che in qualche modo doveva guadagnarsi la fiducia dell'uomo.
Pensava al rapporto che Madre Miriam Ferocia gli aveva consegnato sui
Know-Nothing e sul loro Ordine della Bandiera Stellata.
Chiunque avesse scritto il rapporto - e immaginava che dovesse essere un
prete spia - si era fatto certamente passare per un protestante anticattolico. Si
poteva impiegare ancora una volta la stessa tattica? Il rapporto era rimasto a
Holden's Crossing con il resto delle sue carte, ma lo aveva riletto così spesso e
con tanta attenzione che ricordava i segni e i segnali, le parole in codice e le
parole d'ordine, un'intera panoplia di comunicazioni segrete che avrebbe potuto
essere inventata da un bizzarro fanciullo dotato di eccessiva immaginazione
drammatica.

Rob J. aveva messo in opera una serie di esercizi di addestramento con i


suoi barellieri, uno dei quali si fingeva ferito, e aveva constatato che mentre
due di loro potevano collocare un ferito nella barella e portarlo all'ambulanza,
quegli stessi si sarebbero facilmente stancati, e avrebbero potuto soccombere
alla fatica se avessero dovuto trasportare la barella per una lunga distanza.
«Abbiamo bisogno di quattro portatori, uno a ogni estremità delle stanghe» os-
servò Perry, e Rob J. riconobbe che aveva ragione. Ma questo lo lasciava con
una sola barella azionata da quattro uomini, il che era senza dubbio
insufficiente nel caso il reggimento si fosse trovato in uno scontro a fuoco.
Espose dunque il suo problema al colonnello. «E che cosa vorrebbe fare?»
chiese Symonds.
«Impiegare tutta la banda. I miei cinque barellieri già addestrati diverranno
caporali. Ognuno potrà capeggiare una barella in caso che ci siano molti feriti,
con tre altri suonatori assegnati a ciascun caporale. Se i soldati dovessero
scegliere fra suonatori che suonano della buona musica durante la battaglia e
salvatori che gli salvino la vita quando siano feriti, so bene per che cosa
voterebbero.»
«Non voteranno per niente» ribatté Symonds seccamente. «Sono io che voto
qui dentro.» Ma diede il voto giusto. I cinque barellieri cucirono delle strisce
alle loro maniche e ogni volta che Fitts incontrava per caso Rob J. si guardava
bene dal salutarlo.
A metà maggio cominciò a fare caldo. Le tende del reggimento si trovavano
alla confluenza dell'Ohio con il Mississippi, in mezzo ai due fiumi, entrambi
inquinati dagli scoli dell'intero accampamento. Ma Rob J. distribuì mezza
stecca di sapone scuro a ogni soldato del reggimento e le compagnie venivano
condotte, una alla volta, in un tratto d'acqua pulita a monte del fiume Ohio,
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dove avevano l'ordine di spogliarsi e fare il bagno. All'inizio gli uomini entra-
vano in acqua grugnendo e imprecando, ma per la maggior parte erano cresciuti
in campagna ed erano attirati dalle pozze profonde in cui si poteva nuotare,
sicché il bagno si risolveva in giochi e scherzi e schizzi. Quando uscivano
dall'acqua, erano ispezionati dai loro sergenti, con speciale attenzione alle teste
e ai piedi, e fra le sghignazzate dei compagni molti erano rimandati indietro a
lavarsi di nuovo.
Alcune delle uniformi erano lacere e tarmate, fatte di stoffa scadente.
Symonds si era procurato un buon numero di uniformi nuove, e quando furono
distribuite gli uomini giustamente pensarono che era arrivato per loro il
momento di partire per il fronte. I due reggimenti del Kansas erano già stati
imbarcati su navi che scendevano il Mississippi. Girava voce che erano stati
mandati ad aiutare il generale Grant a prendere Vicksburg, e che il 119°
Indiana li avrebbe ben presto seguiti.
Ma nel pomeriggio del 27 maggio, con la banda di Warren Fitts che suo-
nava a tutto spiano, lanciando un gran numero di stecche strazianti, il reggi-
mento fu avviato verso la stazione ferroviaria invece che verso il fiume. Gli
uomini e gli animali furono caricati su vagoni merci, e ci fu un'attesa di due ore
mentre i vagoni venivano agganciati alla locomotiva. Quindi, al crepuscolo, il
119° disse addio a Cairo, Illinois.

Il medico e i barellieri viaggiavano nel vagone ospedale. Era vuoto quando


lasciarono Cairo, ma un'ora dopo un giovane era svenuto in uno dei vagoni
merci e quando fu portato al vagone ospedale Rob J. constatò che bruciava di
febbre e delirava. Trattò il ragazzo con spugnature d'alcol e decise di sbarcarlo
alla prima occasione per farlo ricoverare in un ospedale civile.
Il vagone ospedale riscosse tutta la sua approvazione: sarebbe risultato pre-
zioso quando si fossero trovati a tornare da un campo di battaglia, invece che
viaggiare verso il fronte. Sui due lati del vagone, per tutta la sua lunghezza, era
disposta una triplice fila di barelle, abilmente sospese a ganci infissi nelle pareti
e nelle travi mediante cappi di gomma, in modo da assorbire un po' degli
scossoni del treno. In mancanza di feriti, i cinque nuovi caporali si erano scelti
ciascuno una barella, e dichiaravano che non avrebbero potuto viaggiare più
comodi neanche se fossero stati generali. Addison Perry, che aveva dimostrato
di poter dormire ovunque, giorno o notte che fosse, era già profondamente
addormentato. E così il più giovane, Lawrence. Lewis Robinson si era scelto
una barella un po' discosta dalle altre, sotto la lanterna, e segnava piccole
macchie nere a penna su un pezzo di carta: componeva musica.
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Nessuno aveva idea di dove fossero diretti. Rob J. si recò all'estremità del
vagone e aprì la porta, da dove entrò un'ondata di frastuono; alzando gli occhi
verso le stelle che splendevano in cielo riconobbe l'Orsa Maggiore. Seguì le
due stelle indicatrici all'estremità del carro e trovò la Stella Polare.
«Stiamo viaggiando verso est» annunciò, tornando nel vagone.
«Merda» fece Abner Wilcox. «Ci mandano all'armata del Potomac!»
Lew Robinson smise per un attimo di tracciare le sue palline nere. «Che c'è
di male?»
«L'armata del Potomac non ha mai fatto niente di buono. Non sa che
starsene li ad aspettare. Quando combatte, una volta ogni tanto, quelle teste di
cazzo fanno in modo di perdere la battaglia con i ribelli. Io volevo andare con
Grant. Quello è un generale.»
«Però non si muore stando lì ad aspettare» osservò Robinson.
«Detesto andare a est» aggiunse Ordway. «Tutto il dannato Est è pieno di
irlandesi e di feccia cattolica. Sporche canaglie.»
«Ma a Fredericksburg nessuno si è comportato meglio della brigata Irlanda.
La maggior parte è morta sul campo» osservò Robinson.
Non fu un gesto meditato da parte di Rob J., solo una decisione del momen-
to. Si pose la punta dell'indice sotto l'occhio destro e la fece scivolare lenta-
mente lungo il naso: era il segnale di un membro dell'Ordine all'altro per dirgli
che stava parlando troppo.
Funzionò, o fu solo una coincidenza? Lanning Ordway lo fissò per un atti-
mo, poi chiuse la bocca e andò a dormire.

Alle tre del mattino vi fu una lunga fermata a Louisville, dove una batteria
di artiglieria fu caricata sul treno. L'aria della notte era più pesante che nel-
l'Illinois, e più dolce. Quelli che erano svegli lasciarono il treno per sgranchirsi
le gambe e Rob J. provvide a far ricoverare il caporale malato all'ospedale
locale. Al ritorno passò vicino a due uomini che orinavano. «Non c'è tempo di
scavare latrine qui, signore» protestò uno di loro, ed entrambi sghignazzarono.
Il chirurgo civile era ancora oggetto di scherno.
Si avviò là dove i grossi Parrotts da dieci libbre e gli obici da dodici libbre
venivano caricati su vagoni scoperti e assicurati con pesanti catene. Gli uomini
lavoravano alla luce gialla di grandi lampade che sfrigolavano e tremolavano,
gettando ombre danzanti che parevano muoversi da sole.
«Dottore» bisbigliò qualcuno vicino a lui. Un uomo uscì dal buio e gli prese
la mano, facendo il segno di riconoscimento. Troppo nervoso per sentirsi
assurdo, Rob J. si sforzò di eseguire il controsegnale, come se l'avesse fatto già
351
molte volte.
Ordway lo guardò. «Bene» disse.

53

La lunga linea grigia

Arrivarono a odiare il treno militare. Arrancava così lentamente per la ster-


minata distesa del Kentucky, serpeggiava così stancamente fra le colline,
tediosa prigione a forma di serpente. Quando il treno entrò nella Virginia, la
notizia corse di vagone in vagone: i soldati si affacciavano cautamente ai
finestrini, aspettandosi di trovarsi all'improvviso a faccia a faccia con il nemi-
co, ma non vedevano che boschi e montagne. Quando si fermavano in qualche
cittadina per caricare acqua e combustibile, la gente li accoglieva amiche-
volmente come nel Kentucky, perché la regione occidentale della Virginia
appoggiava l'Unione. Ben diversamente si presentò la scena quando raggiun-
sero l'altra parte della Virginia. Qui non v'erano donne alle stazioni con
bevande di fresca acqua montana o limonata e gli uomini li guardavano con
occhi freddi e sospettosi.
Il 119° Indiana scese dal treno in una località chiamata Winchester, una
città occupata piena di uniformi blu. Mentre si scaricavano i cavalli e le
salmerie, il colonnello Symonds scomparve nell'edificio del quartier generale,
vicino alla stazione, e quando ne uscì le truppe e i carriaggi erano schierati in
ordine di marcia e pronti ad avanzare verso sud.
Quando Rob J. aveva firmato il suo contratto, gli avevano comunicato che
doveva procurarsi lui stesso il suo cavallo; ma non c'era bisogno di un cavallo a
Cairo, perché il medico non portava uniforme e non partecipava alle parate.
Inoltre i cavalli scarseggiavano ovunque l'esercito si accampasse, perché la
cavalleria requisiva ogni animale nella regione, sia quelli da corsa sia quelli da
soma. Ora quindi, privo di cavalcatura, Rob J. viaggiava nell'ambulanza, sedu-
to accanto al caporale Ordway, che guidava il tiro. Rob J. si sentiva ancora in
tensione alla presenza di Lanning Ordway, ma Ordway si era limitato a chie-
dere sospettosamente come mai un membro dell'OSBS «parlava con la lingua
di uno straniero», alludendo a una traccia di R arrotata, tipicamente scozzese,
che qualche volta ancora si insinuava nella pronuncia di Rob J. Il medico gli
aveva detto che era nato a Boston ed era stato condotto da ragazzo a Edim-
burgo per studiare e Ordway pareva soddisfatto. Ora si mostrava allegro e ami-
chevole, evidentemente compiaciuto di lavorare per un uomo che aveva una
352
ragione politica per prendersi cura di lui.
Lungo il cammino incontrarono un cartello indicatore che segnalava la
direzione di Fredericksburg. «Dio onnipotente» borbottò Ordway. «Spero che
nessuno si sia messo in mente di mandare un secondo battaglione di yankee
contro i ribelli sulle alture di Fredericksburg!»
Rob J. non poté che annuire. Diverse ore prima del tramonto il 119° arrivò
sulla riva del fiume Rappahannock e Symonds ordinò l'alt e fece porre il
campo. Convocò davanti alla sua tenda una riunione di tutti gli ufficiali e Rob
J. si fermò un po' fuori del gruppo in uniforme ad ascoltare.
«Signori, da dodici ore noi facciamo parte dell'armata federale del Potomac,
sotto il comando del generale Joseph Hooker» annunciò Symonds. Aggiunse
che Hooker aveva ai suoi ordini un'armata di 122.000 uomini, disseminata su
un lungo perimetro. Robert E. Lee aveva circa 90.000 confederati, stanziati a
Fredericksburg. La cavalleria di Hooker teneva da lungo tempo sotto osserva-
zione l'armata di Lee e lo stato maggiore era convinto che Lee si proponesse di
invadere il Nord, nel tentativo di distogliere le forze dell'Unione dall'assedio di
Vicksburg: ma nessuno sapeva dove o quando l'invasione avrebbe avuto luogo.
«A Washington sono comprensibilmente in allarme, con l'esercito confederato
a poche ore di marcia dalla Casa Bianca. Il 119° deve congiungersi con altre
unità nei pressi di Fredericksburg.»
Gli ufficiali accolsero la notizia con mentalità pratica. Disposero diverse li-
nee di pattuglie avanzate e sentinelle, e nel campo suonò il silenzio per la notte.
Rob J., dopo aver mangiato il suo pasto di carne di maiale e fagioli, rimase
sdraiato a osservare le grandi stelle della sera estiva. Si sentiva sgomento al-
l'idea delle enormi forze in lizza. Circa 90.000 confederati! Circa 122.000
soldati dell'Unione! E tutti impegnati a scannarsi l'un l'altro.
Una notte limpida. I 614 soldati del 119° Indiana si erano gettati a dormire
sul caldo suolo nudo, senza preoccuparsi di rizzare le tende. Per la maggior
parte avevano ancora le infreddature prese nel Nord, e il suono della loro tosse
era abbastanza forte da denunciare la loro presenza a un eventuale nemico. Rob
J. ebbe un breve incubo da medico, immaginando il fragore di 122.000 uomini
che tossissero tutti insieme. Rabbrividì e si strinse le braccia al petto. Sapeva
che, se due armate così gigantesche si fossero scontrate, ci sarebbero voluti ben
più che i suoi ex suonatori della banda del reggimento per recuperare i feriti.

Ci vollero due giorni e mezzo di marcia per raggiungere Fredericksburg.


Durante il viaggio dovettero quasi soccombere all'attacco dell'arma segreta
della Virginia, la larva della Trombicula. Il minuscolo acaro rosso cadeva sopra
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di loro mentre passavano sotto i rami degli alberi, o si attaccava ai vestiti
mentre camminavano fra l'erba. Migrava fra gli indumenti fino a raggiungere la
pelle nuda e penetrava nella carne umana per nutrirsi. Ben presto i soldati si vi-
dero comparire esantemi da acaro fra le dita dei piedi e delle mani, in mezzo
alle natiche e sul pene. Il corpo dell'acaro era formato da due parti: se un sol-
dato ne vedeva uno che stava penetrandogli nella carne e cercava di strapparlo
fuori, l'acaro si spezzava nel punto centrale, che era sottilissimo, e la porzione
che era già penetrata faceva tanto danno quanto l'acaro intero. Il terzo giorno la
maggior parte dei soldati si grattava e bestemmiava, e alcune delle ferite co-
minciavano a suppurare nel caldo umido. Rob J. non poteva far altro che spruz-
zare zolfo sugli insetti infiltrati nelle carni, ma alcuni degli uomini avevano già
esperienza del flagello. Insegnarono agli altri che l'unico rimedio era tenere
vicinissimo alla pelle un sigaro acceso, o l'estremità incandescente di uno stec-
co, finché l'acaro attirato dal calore cominciava a uscire. Poi si poteva affer-
rarlo ed estrarle lentamente, con attenzione, perché non si spezzasse. In tutto il
campo gli uomini si estraevano gli acari a vicenda e a Rob J. tornavano in men-
te le scimmie che aveva visto spidocchiarsi a vicenda allo zoo di Edimburgo.
Il tormento dell'acaro non eliminava il terrore del nemico. La loro appren-
sione cresceva via via che si avvicinavano a Fredericksburg, che era stato teatro
dell'orrendo massacro degli yankee nella precedente battaglia. Ma quando arri-
varono non videro che le uniformi blu dell'Unione perché Robert E. Lee aveva
abilmente e tacitamente ritirato le sue truppe diverse notti prima, con la pro-
tezione delle tenebre, e la sua armata della Virginia settentrionale stava mar-
ciando verso nord. La cavalleria federale sorvegliava l'avanzata di Lee, ma l'ar-
mata del Potomac non era stata mandata all'inseguimento, per ragioni che solo
il generale Hooker conosceva.
Si accamparono a Fredericksburg e per sei giorni riposarono, si curarono le
vesciche ai piedi, si estrassero gli acari dalle carni, ripulirono e oliarono le
armi. Quando erano fuori servizio, a piccoli gruppi salivano sulla collina dove
solo sei mesi prima quasi 13.000 soldati dell'Unione erano stati uccisi o feriti.
E guardando giù dal pendio, pensando al facile bersaglio costituito dai compa-
gni che li seguivano, si rallegravano che Lee se ne fosse andato prima del loro
arrivo.
Quando Symonds ricevette nuovi ordini, si rimisero in marcia verso nord.
Stavano percorrendo una lunga strada polverosa quando arrivò la notizia che
Winchester, la cittadina dove erano sbarcati dal treno militare, era stata violen-
temente attaccata dai confederati al comando del generale Richard S. Ewell.
Era un'altra vittoria dei ribelli: 95 uomini dell'Unione uccisi, 348 feriti e oltre
354
4.000 erano dispersi o fatti prigionieri.
Seduto nella scomoda ambulanza che attraversava la pacifica campagna,
Rob J. non voleva credere nella guerra, come quando era bambino e non voleva
credere nella morte. Perché gli uomini dovevano morire? Non aveva senso,
poiché era così piacevole vivere. E perché si doveva combattere? Era più
piacevole avanzare per questa strada sonnolenta, sotto il sole, che impegnarsi
nel duro lavoro di uccidere.
Ma come la realtà si era imposta nell'infanzia di Rob J. con la morte del
padre, così la realtà del presente gli si impose quando arrivarono a Fairfax
Court House e vide ciò che la Bibbia intendeva quando parlava di sterminate
legioni di armati.
Si accamparono sulle terre di una fattoria, fra corpi di artiglieria e cavalleria
e altre truppe di fanteria. Ovunque Rob J. girava lo sguardo non vedeva che
soldati dell'Unione. L'armata era ancora instabile, con reparti che arrivavano o
si staccavano. Il giorno dopo il loro arrivo appresero che il generale Lee, con la
sua armata della Virginia settentrionale, aveva già invaso il Nord, attraversando
il fiume Potomac e penetrando nel Maryland. Poiché Lee si era impegnato, si
impegnò anche Hooker, che con grave ritardo mandò le prime unità del suo
esercito verso nord, cercando di frapporsi fra Lee e Washington. Passarono
altre quaranta ore prima che il 119° riprendesse la marcia verso nord.
I due eserciti erano troppo numerosi e troppo dispersi per poter essere
facilmente e completamente spostati. Una parte delle forze di Lee si trovava
ancora in Virginia, in marcia per attraversare il fiume e raggiungere il suo
generale. Le due armate erano mostri informi e pulsanti, che si dilatavano e si
contraevano, sempre in movimento, talvolta una a fianco dell'altra. Quando per
caso i loro avamposti si toccavano, c'erano scaramucce come scoppi di scintille
- a Upperville, ad Haymarket, ad Aldie e in una dozzina di altre località. Il 119°
Indiana non ebbe contatto diretto con il nemico se non una notte, quando la sua
avanguardia ebbe un breve e inconcludente scambio di fucilate con un gruppo
di soldati a cavallo che si affrettarono ad allontanarsi.
Gli uomini del 119° attraversarono il Potomac su piccole barche nel cuore
della notte, il 27 giugno. La mattina dopo ripresero la marcia verso nord, e la
banda di Fitts intonò il Maryland, My Maryland. Talvolta, quando incontra-
vano gente, qualcuno salutava con la mano, ma in genere i civili del Maryland
si mostravano indifferenti, perché da troppi giorni assistevano al passaggio di
truppe. Rob J. e i soldati ben presto furono stufi marci dell'inno nazionale del
Maryland, ma la banda lo stava ancora intonando quella mattina in cui, dopo
aver attraversato una vasta e fertile campagna ondulata, entrarono in un lindo
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villaggio.
«Che parte del Maryland è questa?» chiese Ordway a Rob J.
«Non so.» Stavano passando davanti a un vecchio seduto su una panca, che
osservava sfilare le truppe. «Signore» chiese Rob J. «come si chiama questa
bella cittadina?»
Il complimento parve sorprendere il vecchio. «La nostra città? È Getty-
sburg, Pennsylvania» rispose. Anche se gli uomini del 119° Indiana non lo
sapevano, il giorno in cui entrarono in Pennsylvania ebbero per ventiquattr'ore
un nuovo generale in capo. Il generale George Meade era stato nominato per
sostituire il generale Joe Hooker che scontava l'errore di essersi messo troppo
tardi all'inseguimento dei confederati.
Il 119° attraversò la cittadina e marciò lungo la Taneytown Road. L'esercito
dell'Unione era concentrato a sud di Gettysburg, e Symonds ordinò l'alt in una
vasta prateria ondulata, dove potevano accamparsi. L'aria calda e pesante era
carica di umidità e di rumorose spacconate. Gli uomini parlavano dell'Urlo di
Guerra dei Ribelli. Non l'avevano mai sentito quando si trovavano nel Tennes-
see, ma tutti ne parlavano e cercavano bravamente di imitarlo. E si chiedevano
se infine, fra qualche giorno, lo avrebbero udito davvero.
Il colonnello Symonds sapeva che il lavoro era il rimedio migliore contro il
nervosismo, così mandò squadre di soldati a scavare basse trincee, protette da
pile di macigni che formavano parapetti di difesa. Quella notte andarono a
dormire accompagnati dal canto degli uccelli e dal frinire delle cavallette verdi,
e la mattina dopo si svegliarono al fragore delle fucilate, diversi chilometri a
nord-ovest, verso il Chambersburg Pike.
Verso le undici del mattino il colonnello Symonds ricevette nuovi ordini e il
119° levò le tende e marciò per circa un chilometro, risalendo un pendio bosco-
so per arrivare a una prateria, sulla sommità di un altopiano a est della
Emmitsburg Road. Qui ebbero la prova che la nuova posizione era più vicina al
nemico: fu la sinistra scoperta di sei soldati dell'Unione che giacevano nell'erba
appena falciata. Tutti morti ed erano a piedi nudi, poiché i sudisti, scarseg-
giando di calzature, ne avevano rubato le scarpe.
Symonds ordinò di scavare nuove trincee con basso parapetto e dispose
servizi di pattuglia. Su richiesta di Rob J. fu innalzato ai margini del bosco un
lungo graticolato di pali, a guisa di pergolato, coperto di rami frondosi per dar
ombra ai feriti; fuori di questo rifugio Rob J. collocò il suo tavolo operatorio.
Si venne a sapere dai portaordini che le prime fucilate erano venute da uno
scontro fra drappelli di cavalleria. Con il passare delle ore il fragore della
battaglia si intensificò a nord del 119°: un continuo rauco crepitio di moschetti
356
come l'abbaiare di mille cani arrabbiati e il cupo interminabile tuonare dei
cannoni. Ogni folata di quell'aria pesante pareva uno schiaffo sulle loro facce.
Nel primo pomeriggio il 119° si mise in marcia per la terza volta in quel
giorno, diretto verso la città e verso il rombo della battaglia. Rob J. conosceva
ormai i soldati: sapeva che per la maggior parte si auguravano una lieve ferita,
non più di un graffio, ma capace di lasciare una cicatrice dopo una rapida
guarigione, in modo che i concittadini a casa potessero toccare con mano
quanto i valorosi avessero sofferto per la vittoria. Ma ora stavano marciando là
dove si moriva. Attraversarono la città e d'un tratto, salendo una collina, si
trovarono nel bel mezzo del fragore che avevano udito da lontano. Sentirono
diverse volte le scariche di artiglieria rombare sopra le loro teste e passarono
accanto a postazioni di fanteria trincerate e a quattro batterie di cannoni in
azione. Alla sommità, dove ebbero l'ordine di prendere posizione, scoprirono di
essersi fermati sul terreno di un cimitero, che dava appunto il nome alla
località, Cemetery Hill.
Rob J. stava mettendo in piedi l'ospedale da campo dietro un imponente
mausoleo che offriva protezione insieme con un po' d'ombra, quando soprag-
giunse un colonnello coperto di sudore che chiese dell'ufficiale medico. Si
presentò come colonnello Martin Nichols del dipartimento di Sanità dell'eser-
cito, incaricato di organizzare il servizio medico. «Lei ha esperienza di
chirurgia?»
Non era il momento di fare il modesto. «Si, sono un chirurgo esperto.»
«Allora ho bisogno di lei per un ospedale dove mandiamo i casi più gravi
che richiedono l'opera di un chirurgo.»
«Se permette, colonnello, desidero restare con questo reggimento.»
«No, dottore. Non posso permetterlo. Io ho all'ospedale qualche buon chi-
rurgo, ma anche alcuni medici giovani e inesperti che eseguono operazioni dif-
ficili con risultati disastrosi. Fanno amputazioni senza lasciare lembi di tessuto,
lasciano moncherini con diversi centimetri di osso esposto. Eseguono insolite
operazioni sperimentali che un chirurgo esperto non farebbe: resezione della
testa dell'omero, disarticolazione del giunto femorale, disarticolazione della
giunzione scapolare. Escono dalle loro mani degli storpi, che si potevano evi-
tare, dei pazienti che per tutta la vita si sveglieranno ogni mattina urlando per
gli atroci dolori. Lei sostituirà uno di questi pretesi chirurghi, e quello sarà
mandato qui a bendare i feriti.»
Rob J. annuì. Lasciò a Ordway l'incarico di badare all'ospedale da campo
finché non fosse arrivato un altro medico e seguì il colonnello Nichols giù per
la collina. L'ospedale si trovava in città, installato in una chiesa cattolica che
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era dedicata a San Francesco: doveva ricordarsi di raccontarlo a Madre Miriam
Ferocia. Sull'entrata era collocato un tavolo operatorio e le doppie porte erano
spalancate per lasciar entrare tutta la luce possibile. Sulle panche erano state
adattate delle tavole fornite di paglia e coperte, per farne letti per i feriti. In un
locale angusto e umido, nel seminterrato, illuminato da lampade che emet-
tevano una luce giallastra, erano stati disposti altri due tavoli operatori e Rob J.
si pose a uno di questi. Si tolse la giacca, si rimboccò le maniche, mentre un
caporale della prima divisione cavalleria somministrava il cloroformio a un
soldato che aveva avuto una mano asportata da un proiettile. Appena il giovane
fu anestetizzato, Rob J. amputò il braccio al di sopra del polso, lasciando un
abbondante lembo per il moncone.
«Il prossimo» chiamò. Fu portato un altro paziente e Rob J. si immerse nel
lavoro.
Il seminterrato era largo circa sei metri e lungo dodici. C'era un altro chirur-
go all'opera, dall'altra parte del locale, ma i due medici raramente si guar-
davano e avevano ben poco da dirsi. Nel corso del pomeriggio Rob J. osservò
che l'altro lavorava bene e ne ricevette analogo apprezzamento, ed entrambi
rimasero concentrati sul loro tavolo. Rob J. estraeva proiettili e frammenti di
metallo, sistemava intestini che erano fuoriusciti dalle ferite. Amputava. Innu-
merevoli amputazioni. La pallottola minié era un proiettile lento, che portava
gravi danni specialmente quando colpiva l'osso: e quando asportava o frantu-
mava un osso, l'unica cosa che un chirurgo poteva fare era amputare. Sul sudi-
cio pavimento fra Rob J. e l'altro chirurgo c'era un mucchio di gambe e braccia
che cresceva continuamente. Di tanto in tanto venivano degli uomini a portar
via le membra amputate.
Dopo quattro o cinque ore un altro colonnello, questa volta in uniforme gri-
gia, arrivò nel locale e annunciò ai due medici che erano prigionieri. «Noi
siamo soldati migliori di voi, abbiamo occupato la città. Le vostre truppe sono
in rotta verso il Nord, abbiamo catturato 4.000 dei vostri.» Non c'era molto da
dire. L'altro chirurgo guardò Rob J. e si strinse nelle spalle. Rob J. stava ope-
rando e disse al colonnello di spostarsi, che gli toglieva la luce.
Ogni volta che c'era un attimo di sosta cercava di sonnecchiare per qualche
minuto, in piedi. Ma c'erano poche soste. Gli eserciti in guerra dormivano di
notte, ma i medici continuavano a lavorare, cercando di salvare gli uomini che
gli eserciti avevano massacrato. Non c'erano finestre nel seminterrato e le
lampade erano sempre accese. Ben presto Rob J. perdette la nozione del tempo.
«Il prossimo!» chiamava.
Il prossimo! Il prossimo! Il prossimo!
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Era come dover pulire le stalle di re Augia: appena aveva finito con un
paziente, ne portavano subito un altro. Le lacere e insanguinate uniformi di
alcuni erano grigie, le lacere e insanguinate uniformi di altri erano blu, ma
continuavano comunque ad affluire. La strage era inesauribile.
Purtroppo altre cose non erano inesauribili. Ben presto cominciarono a
mancare le bende, non c'erano più viveri. Il colonnello che aveva proclamato
che il Sud aveva soldati migliori, ora venne a dirgli che il Sud non aveva né
cloroformio né etere.
«Voi non avete scarpe per i loro piedi né anestetico per le loro ferite. Per
questo perderete la guerra» rispose Rob J., ma senza soddisfazione, e chiese di
fargli almeno avere una provvista di whisky. Il colonnello si allontanò in silen-
zio, ma mandò qualcuno con whisky per i pazienti e brodo caldo di piccione
per i medici e Rob J. lo bevve avidamente senza gustarlo.
Poiché mancavano gli anestetici, chiamò tre o quattro uomini robusti che
tenessero fermi i feriti e operò come aveva fatto da giovane, tagliando, segan-
do, ricucendo con mano rapida ed esperta, come William Fergusson gli aveva
insegnato. Le sue vittime urlavano e si dibattevano. Lui non sbadigliava, e, pur
battendo le palpebre, teneva gli occhi bene aperti. Sentiva che i piedi e le
caviglie gli si stavano facendo penosamente gonfi e talvolta, mentre portavano
via un paziente e ne posavano sul tavolo un altro, si massaggiava la mano
destra con la sinistra. Ogni caso era diverso dagli altri, ma c'è solo un numero
limitato di modi per distruggere un essere umano e ben presto i casi gli parvero
tutti uguali, tutti duplicati, anche quelli con la bocca distrutta o i genitali
fracassati o gli occhi cavati dalle orbite.
Le ore passavano, una dopo l'altra.
Gli pareva di aver trascorso tutta la vita nell'angusto seminterrato a tagliare
esseri umani, e di essere condannato a farlo per l'eternità. Ma a un certo mo-
mento vi fu un cambiamento nei rumori che venivano dall'esterno. Gli uomini
nella chiesa erano abituati a gemiti e urli, al rombo dei cannoni e al crepitio dei
moschetti, alle violente vibrazioni dei colpi vicini. Ma il fragore dell'artiglieria
e della fucileria raggiunse un nuovo crescendo, una frenesia di scoppi che durò
diverse ore, quindi sopravvenne un relativo silenzio in cui gli uomini nella
chiesa poterono d'improvviso udire ciò che diceva il vicino. Poi un nuovo
suono, un rombo che si alzò e si propagò come un oceano, e quando Rob J.
mandò un milite confederato a scoprire che cosa stesse succedendo, l'uomo
tornò balbettando con voce rotta che erano i dannati fottuti yankee che urla-
vano il grido di vittoria.

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Poche ore dopo arrivò Lanning Ordway e trovò il medico ancora in piedi
nell'angusto locale.
«Dottore, mio Dio, dottore, venga con me.»
Seppe da Ordway di essere rimasto al tavolo operatorio per quasi due interi
giorni: il 119° bivaccava nei pressi. Lasciò che «il mio buon camerata» e «il
mio terribile nemico» lo accompagnasse in un magazzino vuoto e sicuro, dove
gli preparò un morbido letto di paglia pulita. Vi si lasciò cadere e si addor-
mentò.
Si svegliò solo la sera dopo, destato dai gridi e dai gemiti dei feriti che ave-
vano collocato tutt'intorno a lui sul pavimento del magazzino. Altri chirurghi
lavoravano già ai tavoli operatori. Non era possibile servirsi della latrina della
chiesa, che era ormai sovraccarica e intasata. Uscì sotto una pioggia violenta, e
nell'umidità ristoratrice svuotò la vescica dietro alcuni arbusti di lillà, che
appartenevano nuovamente all'Unione.
I nordisti occupavano di nuovo tutta la città di Gettysburg. Rob J. si avviò
sotto la pioggia, chiedendo a ogni passante dov'era l'accampamento del 119°.
Aveva dimenticato ciò che gli aveva detto Ordway. Lo trovò finalmente; gli
uomini si tenevano al riparo sotto le tende, sparse per la fertile campagna a sud
della città. ,
Wilcox e Ordway lo accolsero con un calore che lo commosse. E avevano
delle uova! Mentre Lanning Ordway schiacciava le gallette e friggeva briciole
e uova in grasso di maiale per il dottore, lo misero al corrente di ciò che era
accaduto. Prima le cattive notizie: Thad Bushman, la miglior tuba della banda,
era stato ucciso. «Un solo piccolissimo foro nel petto, dottore» diceva Wilcox.
«Deve proprio aver colpito al posto giusto.»
Dei barellieri Lew Robinson era stato ferito per primo. «Colpito alla gamba
subito dopo che lei ci ha lasciati, dottore» spiegava Ordway. «E Oscar Lawren-
ce quasi tagliato in due dall'artiglieria ieri.» Ordway finì di strapazzare le uova
e pose la padella davanti a Rob J., che pensava con sincero dolore alla sorte del
giovane tamburino. Ma pur vergognandosi un po' non poté resistere all'invito
del cibo e lo trangugiò avidamente.
«Oscar era troppo giovane. Sarebbe dovuto restare a casa con la mamma»
osservò amaramente Wilcox.
Rob J. si bruciò la bocca con il caffè nero, che era bollente ma aveva un
buon sapore. «Tutti saremmo dovuti restare a casa» osservò, e fece un buon
rutto. Finì più lentamente il resto delle uova e prese una seconda tazza di caffè,
mentre gli raccontavano ciò che era avvenuto durante le lunghe ore in cui lui
lavorava nella cripta della chiesa.
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«Il primo giorno ci hanno respinto fino all'altopiano a nord della città,»
riferiva Ordway «ed era la cosa migliore che ci potesse capitare.
«Il giorno dopo eravamo sul Cemetery Ridge in una lunga linea serpeg-
giante che passava fra due coppie di colline, Cemetery Hill e Culp's Hill a nord,
vicino alla città, e Round Top e Little Round Top un paio di chilometri a sud.
La mischia era terribile, terribile. Un sacco di soldati uccisi. Noi avevamo un
bel daffare a portare fuori i feriti.»
«E lo facevamo bene» soggiunse Wilcox. «Proprio come ci ha insegnato
lei.»
«Sono sicuro che lo facevate bene.»
«Il giorno dopo il 119° fu spostato su Cemetery Hill per rafforzare il corpo
di Howard. Verso mezzogiorno arrivò un inferno di fuoco dai cannoni dei
confederati. Le nostre pattuglie di avanguardia si accorsero che, durante il
bombardamento, le truppe confederate marciavano in massa molto sotto di noi,
nei boschi dall'altra parte di Emmitsburg Road. Si poteva vedere il lampo dei
metalli qua e là fra gli alberi. Ci tennero sotto il fuoco d'artiglieria per un'ora o
due, e molti colpi andavano anche a segno, ma per tutto il tempo noi ci tene-
vamo pronti perché sapevamo che stavano per attaccare.
«A metà del pomeriggio il fuoco dei loro cannoni cessò, e anche i nostri
tacquero. E allora qualcuno gridò: "Vengono, vengono!". E 15.000 bastardi
ribelli in uniformi grigie uscirono da quei boschi. Quei ragazzi di Lee
marciavano contro di noi spalla a spalla, linea dopo linea. Le loro baionette
erano come una lunga palizzata di punte d'acciaio sopra le loro teste, che
scintillava al sole. Non urlavano, non dicevano niente, marciavano solo contro
di noi a passo rapido e fermo.
«Io le dico, dottore,» continuava Ordway «che Robert E. Lee ci ha frustato
sul culo una quantità di volte e io so che è un bastardo figlio di puttana molto in
gamba, ma non è stato in gamba questa volta a Gettysburg. Noi non potevamo
crederci, vedendo i ribelli che avanzavano così attraverso i campi allo scoperto
mentre noi eravamo in alto sopra di loro, in posizioni ben protette. Sapevamo
che erano tutti uomini morti e dovevano saperlo anche loro. Li guardammo
avanzare per più di un chilometro e il colonnello Symonds e gli altri ufficiali
lungo le nostre linee gridavano: "Non fate fuoco! Lasciateli avvicinare! Non
fate fuoco!". E anche loro dovevano sentire.
«Quando furono abbastanza vicini che potevamo vedere le loro facce, la
nostra artiglieria da Little Round Top e da Cemetery Ridge aprì il fuoco e un
gran numero di attaccanti semplicemente sparì. Quelli che erano rimasti
continuarono ad avanzare attraverso il fumo e finalmente Symonds gridò:
361
"Fuoco!" e ciascuno di noi mirò e abbatté un ribelle. Qualcuno gridò:
"Fredericksburg!" e tutti si diedero a gridare: "Fredericksburg! Frederick-
sburg!" e sparavano e caricavano e sparavano e caricavano e sparavano...
«Solo in un punto i ribelli riuscirono ad arrivare alle rocce, ai piedi delle
nostre postazioni, e qui si batterono come disperati, ma furono tutti uccisi o
catturati» concluse Ordway e Rob J. annuì. Quello era il momento in cui aveva
sentito le grida di esultanza.

Wilcox e Ordway avevano lavorato tutta la notte a trasportare i feriti, e ora


tornarono sul campo di battaglia. Rob J. andò con loro sotto l'acquazzone. La
pioggia era una vera fortuna, perché smorzava l'odore di morte, che tuttavia era
già orribile. Ovunque giacevano corpi gonfi in putrefazione. E rottami e rovine
nella carneficina della guerra, mentre i soccorritori cercavano di recuperare i
pochi che erano ancora vivi.
Per il resto di quella mattina Rob J. lavorò sotto la pioggia, bendando feriti e
reggendo a un'estremità una stanga della barella. Quando riportò i feriti al-
l'ospedale, capì perché i suoi avevano delle uova. Ovunque si stavano scarican-
do carri di viveri. E c'erano medicine e anestetici e indumenti, e vettovaglie. I
chirurghi operavano in due, in tre a ogni tavolo operatorio. Una nazione
riconoscente aveva sentito di aver finalmente riportato una vittoria, pagata a ca-
rissimo prezzo, e aveva deciso che nulla doveva mancare ai sopravvissuti.
Nei pressi della stazione ferroviaria gli si avvicinò un civile, pressappoco
della sua età, che gli chiese rispettosamente dove si poteva far imbalsamare un
soldato, con lo stesso tono educato come se gli domandasse l'ora o la strada per
il municipio. L'uomo si presentò come Winfield S. Walker, Jr., coltivatore di
Havre de Grace, Maryland. Quando aveva avuto notizia della battaglia, qualco-
sa gli aveva detto di andare a cercare suo figlio Peter, e lo aveva trovato fra i
morti. «Ora vorrei far imbalsamare il corpo, sa, per poterlo portare a casa.»
«Ho sentito che imbalsamano i corpi al Washington House Hotel, signore.»
«Lo so, ma mi dicono che hanno una lista lunghissima, ce ne sono troppi
prima di me. Volevo cercare in qualche altro posto.» Il corpo di suo figlio si
trovava alla fattoria Harold, dove avevano installato un ospedale da campo,
lungo la Emmitsburg Road.
«Io sono un medico. Posso farlo io.»
Aveva gli attrezzi e i farmaci necessari al deposito medico del 119°; andò a
prenderli e raggiunse Mr. Walker alla fattoria. Dovette dirgli, con la maggior
delicatezza possibile, che doveva procurarsi una delle bare dell'esercito, che
erano zincate, perché ci sarebbe stata qualche perdita di liquidi. Mentre il padre
362
si allontanava per la sua triste bisogna, Rob J. si occupava del figlio, in una
stanza dove erano adagiati altri sei morti. Peter Walker era un bel giovane, di
forse vent'anni, con i lineamenti finemente cesellati del padre e folti capelli
neri. Era intatto, tranne per un proiettile che gli aveva asportato la gamba
sinistra alla coscia. Aveva perduto sangue fino alla morte e il suo corpo aveva
la bianchezza del marmo.
Rob J. sciolse 30 grammi di sali di cloruro di zinco in due litri di alcol e
acqua. Legò l'arteria della gamba asportata, in modo che il liquido fosse tratte-
nuto nel corpo, poi praticò un'incisione nell'arteria femorale della gamba non
ferita e vi iniettò con una siringa il liquido imbalsamante.
Mr. Walker non ebbe difficoltà per ottenere la bara. Cercò di pagare per
l'imbalsamazione, ma Rob J. scosse la testa. «Un padre che aiuta un altro pa-
dre» disse.
Continuava a piovere. Era una pioggia terribile. Il primo violento acquaz-
zone aveva fatto straripare diversi torrenti e annegare alcuni dei feriti più gravi.
Ora la pioggia si era fatta più lenta e Rob J. tornò al campo di battaglia a cer-
care altri feriti fino al tramonto. Poi si fermò, perché erano comparsi uomini
più giovani e forti con lampade e torce a continuare la triste ricerca, e lui era
sfinito.
La Commissione Sanitaria aveva installato una cucina in un grande emporio
nei pressi del centro di Gettysburg. Qui Rob J. poté farsi servire una zuppa con
la prima carne di manzo che avesse mangiato da mesi. Se ne prese tre scodelle,
con sei fette di pane bianco.
Dopo mangiato si recò nella chiesa presbiteriana e passò lungo le panche,
fermandosi a ogni letto per dare un po' di conforto e un po' di aiuto, portare un
bicchier d'acqua, asciugare una fronte sudata. Ogni volta che il ferito era un
confederato, ripeteva la stessa domanda: «Ragazzo mio, hai incontrato per caso
fra le vostre truppe un giovane biondo di ventitré anni di Holden's Crossing,
Illinois, di nome Alexander Cole?».
Ma nessuno lo aveva incontrato.

54

Scaramucce

Mentre la pioggia continuava a scrosciare il generale Robert E. Lee riunì il


suo esercito dissanguato e arrancò lentamente sulla via del ritorno nel
Maryland. Meade non avrebbe dovuto lasciarlo allontanare e consentirgli di
363
porsi in salvo. È vero che l'armata del Potomac era anch'essa duramente col-
pita, con più di 23.000 perdite, compresi circa 8.000 morti o dispersi, ma i
nordisti erano esaltati dalla vittoria e assai più forti degli uomini di Lee, che
erano rallentati e ingombrati da un convoglio di carri carichi di feriti che si
estendeva dietro di loro per quasi venticinque chilometri. Ma esattamente come
Hooker aveva mancato di agire in Virginia, così ora Meade non entrò in azione
in Pennsylvania, e nessuno inseguì il nemico sconfitto.
«Ma dove va a cercarli Mr. Lincoln, i suoi generali?» borbottava Symonds
disgustato. Ma se il ritardo era frustrante per i colonnelli, i loro uomini erano
ben contenti di riposarsi e riprendersi, e magari scrivere a casa la straordinaria
notizia che erano ancora vivi. Ordway trovò Lewis Robinson in uno degli
ospedaletti da campo. Aveva avuto il piede destro amputato dieci centimetri al
di sopra della caviglia, era magro e pallido, ma per il resto sembrava in buona
salute. Rob J. esaminò il moncone e affermò che stava guarendo bene e che
l'uomo che aveva eseguito l'amputazione sapeva il fatto suo. Evidentemente
Robinson era ben felice di essere fuori dalla guerra; c'era un senso di sollievo
nei suoi occhi, così profondo da essere quasi palpabile. Rob J. gli portò la sua
cornetta, insieme con carta e matita, e pensò che questo lo avrebbe fatto
contento, perché non occorrevano due piedi per comporre musica o suonare la
cornetta.
Tanto Ordway che Wilcox furono promossi sergenti. Un gran numero di
soldati erano stati promossi: Symonds doveva completare l'organico del suo
reggimento con i sopravvissuti, assegnando loro le qualifiche e i gradi che
erano appartenuti ai caduti. Il 119° Indiana aveva subito il 18 per cento di per-
dite, non molte in confronto ad altri reggimenti. C'era un reggimento del Min-
nesota che aveva perduto l'86 per cento dei suoi uomini e perciò fu sciolto,
come avvenne per tanti altri. Symonds e i suoi ufficiali furono impegnati per
parecchi giorni a reclutare i sopravvissuti dei reggimenti semidistrutti, portando
l'effettivo del 119° a 771 uomini. Con qualche imbarazzo il colonnello disse a
Rob J. che aveva trovato un chirurgo militare per il suo reggimento. Il dottor
Gardner Coppersmith aveva militato con il grado di capitano in una delle unità
disciolte della Pennsylvania e Symonds lo aveva attirato con la promessa di
una promozione. Laureato alla scuola medica di Philadelphia, Coppersmith
aveva due anni di esperienza di guerra. «Io la nominerei subito chirurgo del
mio reggimento, in questo stesso istante, dottor Cole, se lei non fosse un
civile,» aggiunse Symonds «ma questo posto richiede un ufficiale. Lei capisce
che il maggiore Coppersmith sarà il suo superiore e che dirigerà l'ospedale?»
Rob J. assicurò che capiva.
364
Per Rob J. era una guerra complicata, condotta da una nazione ancora più
complicata. Lesse sul giornale che a New York era scoppiato un tumulto
razziale, scatenato in occasione della prima chiamata alle armi. Una folla di
50.000 uomini, per la maggior parte operai irlandesi cattolici, appiccò il fuoco
all'ufficio di leva, agli uffici del New York Tribune e a un orfanotrofio per bam-
bini neri, fortunatamente vuoto in quel momento. Addossando evidentemente
la colpa della guerra ai neri, i tumultuanti infuriarono per le strade, picchiando
e derubando ogni persona di pelle nera che incontravano, assassinando e lin-
ciando i neri; e la sommossa durò per parecchi giorni prima di essere repressa
dalle truppe federali, che tornavano dall'avere sconfitto i sudisti a Gettysburg.
Quella storia ferì profondamente Rob J. I protestanti nati in America dete-
stavano e perseguitavano i cattolici e gli immigrati; i cattolici e gli immigrati
disprezzavano e assassinavano i neri, come se ogni gruppo saziasse il proprio
odio nutrendolo con il sangue di qualcuno più debole.
Quando Rob J. si preparava a chiedere la cittadinanza americana, aveva stu-
diato la Costituzione degli Stati Uniti e ne aveva provato una viva ammira-
zione. Ora poteva constatare che il genio dei legislatori stava appunto nell'aver
previsto le debolezze del carattere umano e la continua presenza del male nel
mondo e mirava a fare della libertà individuale la realtà giuridica a cui il Paese
doveva continuamente tornare.
Era affascinato e sgomento davanti all'odio che gli uomini nutrivano gli uni
per gli altri e studiava Lanning Ordway come se il sergente zoppo fosse un
insetto sotto il microscopio. Se Ordway non avesse continuamente sputato odio
e livore, e se Rob J. non avesse saputo che un decennio prima nei boschi della
sua stessa fattoria dell'Illinois era stato commesso un orribile crimine rimasto
impunito, avrebbe trovato che il barelliere era uno dei più simpatici ragazzi del
reggimento. Ora lo vedeva acquistare sicurezza e baldanza, probabilmente per-
ché le esperienze fatte nell'esercito rappresentavano il maggior successo che
avesse mai avuto.
In tutto il reggimento si sentiva un'aria di esultanza. La banda militare del
119° Indiana passava piena di slancio e di entusiasmo da un ospedale all'altro,
dando concerti per i feriti. Il nuovo suonatore di tuba non era così abile come
era stato Thad Bushman, ma i musicisti di Fitts suonavano con orgoglio perché
avevano saputo dimostrare che la loro opera era preziosa in battaglia.
«Siamo passati per l'inferno insieme» annunciava solennemente Wilcox una
notte, dopo aver bevuto un po' troppo, fissando Rob J. con fieri occhi strabici.
«Dentro e fuori dai denti della morte, zigzagando nella Valle delle Tenebre.
Abbiamo guardato dritto negli occhi della dannata Femmina Nera. Abbiamo
365
sentito l'urlo dei ribelli e abbiamo fatto sentir loro il nostro.»
C'era fra gli uomini una cordialità, un calore nuovo. Il sergente Ordway e il
sergente Wilcox e persino il trasandato caporale Perry erano onorati perché
avevano guidato i loro commilitoni suonatori a raccogliere i feriti e a riportarli
al campo sotto il fuoco nemico. La storia di Rob J. che aveva lavorato
ininterrottamente per due interi giorni con il bisturi in mano faceva il giro delle
tende e tutti sapevano che era lui l'organizzatore del servizio d'ambulanza nel
loro reggimento. Ora, quando lo vedevano, lo salutavano con un largo sorriso e
nessuno menzionava le latrine.
La sua nuova popolarità gli dava un'insolita soddisfazione. Uno dei soldati
della compagnia B, seconda brigata, di nome Lyon, gli portò persino un caval-
lo. «L'ho giusto trovato che trottava senza cavaliere lungo la strada. E ho pen-
sato a lei, dottore» fece Lyon, porgendogli le redini.
Rob J. rimase imbarazzato e insieme compiaciuto da questa dimostrazione
di affetto. È vero, il cavallo color fango non era un gran che, un castrone sche-
letrico e sbilenco. Forse era appartenuto a un soldato ribelle ferito o rimasto
ucciso, perché sia l'animale sia la sella macchiata di sangue portavano il mar-
chio CSA della Confederazione. Aveva la testa e la coda cadenti, gli occhi
appannati, e la criniera e la coda piene di terriccio. Pareva anche che fosse infe-
stato dai vermi. Ma Rob J. esclamò: «Davvero, soldato, è una bellezza! Non so
come ringraziarti».
«Pensavo che 42 dollari andrebbero bene» replicò il soldato.
Rob J. fece una risata, più divertito dalla propria bramosia di affetto che
dalla situazione. Quando le trattative si conclusero, il cavallo era suo in cambio
di 4,85 dollari e della promessa che non avrebbe denunciato Lyon per sac-
cheggio del campo di battaglia.
Diede buon foraggio all'animale, mondò pazientemente la criniera e la coda
dal terriccio, lavò il sangue dalla sella e frizionò con olio il corpo del cavallo
nei punti dove era escoriato, quindi lo strigliò energicamente. Dopo tutte queste
cure, l'animale aveva ancora un ben misero aspetto, e così Rob J. gli diede il
nome di Bel Giovane, sperando che questo nome potesse dare al brutto animale
un minimo di piacere e di amor proprio.
Era appunto in sella a Bel Giovane quando il 119° Indiana si mise in marcia
il 17 agosto per uscire dalla Pennsylvania. ,
Il cavallo portava ancora la testa e la coda malinconicamente abbassate e
arrancava con il passo dinoccolato ma costante di una bestia abituata a lunghe
marce. Se qualcuno nel reggimento non sapeva ancora in che direzione si muo-
vessero, ogni dubbio scomparve quando il capo della banda, Warren Fitts,
366
diede fiato al suo fischietto, alzò il mento e la bacchetta, e la banda intonò
Maryland, My Maryland.

Il 119° riattraversò il Potomac sei settimane dopo le truppe di Lee e un inte-


ro mese dopo le prime unità dell'esercito dell'Unione. I soldati seguirono il
calore della tarda estate verso il Sud, e il mite incanto dell'autunno non li rag-
giunse finché non si trovarono nel cuore della Virginia. Erano veterani, provati
dalle battaglie contro gli acari e contro il nemico. Ma in quel momento le
operazioni di guerra si svolgevano sul teatro occidentale e per il 119° Indiana
era un periodo di quiete. L'armata di Lee si muoveva lungo la valle dello
Shenandoah, dove le pattuglie di ricognizione dell'Unione ne sorvegliavano le
mosse e riferivano che era in buone condizioni, tranne per una ben compren-
sibile scarsità di rifornimenti, in particolare di calzature.
I cicli della Virginia erano grigi di piogge autunnali quando arrivarono al
Rappahannock e trovarono le tracce dei confederati che si erano accampati li
non molto tempo prima. Malgrado le obiezioni di Rob J., il reggimento rizzò le
sue tende proprio sul terreno del precedente accampamento dei ribelli. Il
maggiore Coppersmith era un medico dotto e competente, ma non sopportava
che ci si preoccupasse tanto per un po' di merda, e non si diede mai pensiero di
far scavare latrine. Non esitò a informare Rob J. che era finito il tempo in cui
un semplice assistente chirurgo poteva dettar legge nei sistemi medico-sanitari
del reggimento. Il maggiore preferiva fare personalmente le visite nei reparti,
senza bisogno di assistenti, tranne nei giorni in cui per caso non si sentiva bene:
il che non capitava spesso. E, aggiunse, a meno che uno scontro non diventasse
un'altra Gettysburg, lui e una recluta bastavano per cambiare le medicazioni
all'infermeria.
Rob J. sorrise. «E a me allora, che cosa resta da fare?»
Il maggiore Coppersmith corrugò le sopracciglia e si allisciò i baffi con la
punta dell'indice. «Bene, mi piacerebbe che lei si occupasse dei barellieri,
dottor Cole.»
Rob J. si trovò così a essere vittima del mostro che aveva egli stesso creato,
intrappolato nella rete da lui stesso tessuta. Non aveva nessun desiderio di
unirsi ai barellieri, ma poiché questo divenne il suo compito principale, gli
sembrò insensato mandare avanti le squadre e restare ad aspettare di vedere che
cosa succedeva. Reclutò una sua squadra personale: due suonatori - il nuovo
suonatore di tuba, Alan Johnson, e un suonatore di piffero, di nome Lucius
Wagner. Come quarto uomo arruolò il caporale Amasa Decker, il postino del
reggimento. Le squadre di barellieri uscivano a turno. Rob J. spiegò ai suoi
367
nuovi uomini, come aveva spiegato ai cinque precedenti (dei quali ora uno era
morto e uno aveva perduto un piede), che andare a recuperare i feriti non era
più pericoloso di qualsiasi altra azione in guerra. Si assicurò che tutto funzio-
nasse a dovere e stabili i turni di uscita.

Il 119° e numerose altre unità dell'armata del Potomac seguirono le tracce


dei confederati lungo il fiume Rappahannock fino al suo principale affluente, il
Rapidan, avanzando lungo le acque che riflettevano giorno dopo giorno il
grigio del cielo. Lee, scarso di uomini e di vettovaglie, si ritirava tenendosi
sempre davanti ai federali. Le ostilità non si riaccesero in Virginia finché la
situazione sul teatro occidentale non peggiorò decisamente per l'Unione. I
confederati del generale Braxton Bragg inflissero un colpo durissimo alle forze
dell'Unione sotto il comando del generale William S. Rosecrans a Chicka-
mauga Creek, poco fuori di Chattanooga; i federali lamentarono oltre 16.000
perdite. Lincoln e il suo gabinetto tennero una riunione d'emergenza e decisero
di distaccare i due corpi di Hooker dall'armata del Potomac in Virginia e di
mandarli per ferrovia in Alabama come rinforzo a Rosecrans.
Quando seppe che l'armata di Meade era stata privata di due corpi, Lee
cessò di ritirarsi. Divise le proprie truppe in due parti e cercò di affiancarsi a
Meade, muovendosi verso ovest e verso nord in direzione di Manassas e
Washington. Così ricominciarono le scaramucce.

Meade badava a tenersi fra Lee e Washington e l'esercito dell'Unione si


ritirava di due o tre chilometri alla volta, finché si trovò ad aver ceduto sessanta
chilometri di terreno all'assalto dei sudisti, con qualche scontro sporadico.
Rob J. osservò che ciascuno dei barellieri affrontava il suo compito in modo
diverso dagli altri. Wilcox si dirigeva verso il ferito con caparbia decisione,
mentre Ordway sfoggiava una disinvolta bravura, si affrettava con la sua
gamba zoppa come un grosso granchio e riportava la vittima con ogni cura,
tenendo alta e ferma l'estremità della sua stanga con uno sforzo delle braccia
muscolose per compensare il suo passo ineguale. Rob J. dovette aspettare
diverse settimane prima di affrontare la sua prima uscita sotto il fuoco, e per
tutto quel tempo non faceva che rimuginare sulle sue paure. Il suo guaio era
che aveva altrettanta immaginazione quanta Robinson, e forse di più. Si
figurava tutti i modi, tutte le circostanze in cui poteva essere colpito. Nella sua
tenda, alla luce della lanterna, tracciò una serie di disegni nel suo diario,
raffigurando la squadra di Wilcox che correva fuori, tre uomini con la testa
china contro una possibile sventagliata di piombo, il quarto con la barella
368
davanti a sé mentre correva, fragile riparo. Disegnò Ordway che tornava
reggendo la stanga posteriore destra della barella, e gli altri tre con le facce tese
e spaventate, e le sottili labbra di Ordway contorte in un rictus che era metà
ghigno, metà ringhio, un individuo buono a nulla che infine aveva trovato
qualcosa che sapeva fare, e bene. Che avrebbe fatto Ordway, si chiedeva Rob
J., quando la guerra fosse finita e lui non sarebbe potuto più andare a
recuperare feriti sotto il fuoco?
Non fece disegni della propria squadra. Non erano ancora usciti.
La prima volta fu il 7 novembre. Il 119° Indiana fu mandato al di là del
Rappahannock, in una località chiamata Kelly's Ford. Il reggimento attraversò
il fiume a metà mattina, ma ben presto fu arrestato da un intenso fuoco nemico,
e dopo dieci minuti arrivò ai barellieri la notizia che qualcuno era stato ferito.
Rob J. e i suoi tre portaferiti avanzarono fino a un campo di fieno, sulla riva del
fiume, dove cinque o sei uomini si tenevano rannicchiati dietro un muro di pie-
tra coperto d'edera e sparavano verso i boschi. Per tutto il percorso Rob J. si
aspettava di sentire il morso di un proiettile nella carne. L'aria era quasi troppo
densa per essere inspirata attraverso le narici. Era come se dovesse penetrare in
quel pesante vapore con la forza e gli pareva che le sue membra si muovessero
lentamente.
Il soldato era stato colpito alla spalla. Il proiettile era ancora nella carne ed
era necessario estrarle, ma non sotto il fuoco. Rob J. prese alcune bende dal suo
mee-shome e fasciò la ferita, cercando di controllare l'emorragia. Poi deposero
il ferito nella barella e presero la via del ritorno di buon passo. Rob J. era
acutamente consapevole del largo bersaglio che offriva la sua schiena esposta
in pieno, mentre reggeva una delle stanghe posteriori. Poteva sentire ciascun
colpo sparato e il fischio dei proiettili che passavano attraverso l'erba alta e
colpivano il suolo ai loro piedi.
Amasa Decker fece un grugnito dall'altra parte della barella.
«Colpito?» chiese ansiosamente Rob J.
«No.»
Affrettando il passo, o quasi di corsa, e sempre reggendo il loro peso,
arrivarono dopo un'eternità al basso avvallamento dove il maggiore Copper-
smith aveva installato il posto di medicazione.
Dopo aver consegnato il loro paziente al chirurgo, i quattro barellieri si
sdraiarono sull'erba umida, come trote appena pescate.
«Sembravano vespe, quelle minié» osservò Lucius Wagner.
«Io ero sicuro di non uscirne vivo» aggiunse Amasa Decker. «E lei,
dottore?»
369
«Anch'io ero spaventato, ma pensavo di avere una protezione.» Rob J. gli
mostrò il mee-shome e aggiunse che le izze lo avrebbero difeso dai proiettili,
secondo la promessa dei Sauk. Decker e Wagner ascoltavano intenti, Wagner
con un piccolo sorriso.
Quel pomeriggio il fuoco quasi cessò. Le due parti rimasero in posizione di
stallo fin quasi al crepuscolo, quando due intere brigate dell'Unione attraver-
sarono il fiume e sferrarono l'attacco, oltrepassando le postazioni del 119°: era
la prima e la sola carica alla baionetta a cui Rob J. avrebbe assistito in tutta
quella guerra. La fanteria del 119° inastò le baionette e si unì all'assalto.
Sfruttando l'effetto sorpresa e combattendo con accanita ferocia le forze dell'U-
nione travolsero il nemico, uccidendo o catturando diverse migliaia di confe-
derati. Le perdite dell'Unione furono modeste, ma Rob J. e i suoi barellieri
uscirono una dozzina di volte a recuperare feriti mentre calava la sera. I tre
soldati si erano convinti che il dottor Cole e la sua borsa indiana li rendessero
una squadra fortunata; e quando tornarono sani e salvi per la settima volta, an-
che Rob J. credeva nel potere del suo mee-shome non meno fermamente degli
altri.
Quella notte nella loro tenda, dopo aver sistemato i feriti, Gardner Copper-
smith osservò con gli occhi brillanti di entusiasmo: «Splendida carica alla
baionetta, no, Cole?».
Rob J. gli rivolse uno sguardo pensoso. «Un macello» replicò con voce
stanca.
Il chirurgo del reggimento lo guardò con disgusto. «Se lei la pensa così,
perché diavolo è qui?»
«Perché è qui che sono i pazienti» rispose Rob J.

Tuttavia aveva deciso che alla fine dell'anno avrebbe lasciato il 119° India-
na. È vero che i pazienti erano qui: era entrato nell'esercito per prestare le sue
cure mediche ai soldati. Ma il maggiore Coppersmith non glielo consentiva.
Rob J. capiva che per un medico esperto era uno spreco di tempo limitarsi a
portar barelle e per un ateo non aveva senso vivere come se cercasse il martirio
o la santità. Aveva in mente di tornare a casa quando scadeva il suo contratto,
ossia la prima settimana del 1864.
La vigilia di Natale fu un momento strano, triste e commovente nello stesso
tempo. Si celebrò la messa davanti alle tende. Su una riva del Rappahannock la
banda del 119° Indiana suonò Adeste Fideles. Quando finì, una banda
confederata sull'altra riva suonò God Resi Ye Merry, Gentlemen, e la musica
fluttuò misteriosa e dolce sulle acque scure, e poi qualcuno intonò Bianco
370
Natale. Il capobanda Fitts alzò la bacchetta e la banda dell'Unione e quella con-
federata suonarono insieme e i soldati di entrambe le armate cantarono insieme
in coro. Potevano vedere i fuochi degli altri sull'altra riva.
Fu una notte di quiete, non si udirono spari. A cena non c'erano stati i tac-
chini arrosto delle solennità, ma l'esercito aveva provveduto una zuppa del tutto
accettabile, con qualcosa che poteva essere carne di manzo, e ogni soldato del
reggimento ricevette una razione di whisky. Forse questo fu un errore, perché
stimolò la sete e la voglia di berne di più. Dopo il concerto Rob J. incontrò
Wilcox e Ordway che tornavano dalla riva del fiume dove si erano scolati una
bottiglia di pessimo whisky del vivandiere. Wilcox sorreggeva Ordway, ma lui
stesso barcollava.
«Tu vai a dormire, Abner» ordinò Rob J. «Io accompagno Ordway alla sua
tenda.» Wilcox annuì e se ne andò, ma Rob J. non fece quel che aveva detto.
Invece portò Ordway lontano dalle tende e lo fece sedere su un macigno.
«Lanny» cominciò. «Lan, ragazzo. Parliamo un po', tu e io.»
Ordway lo guardò con gli occhi semichiusi dell'ubriaco.
«... Buon Natale, dottore.»
«Buon Natale, Lanny. Parliamo un po' dell'Ordine della Bandiera Stellata»
fece Rob J.

Decise dunque che il whisky era una chiave che gli avrebbe aperto ciò che
Lanning Ordway sapeva. Il 3 gennaio, quando il colonnello Symonds venne da
lui con un altro contratto, Rob J. stava osservando Ordway che riempiva con
cura il suo zaino di bendaggi puliti e pillole di morfina. Esitò solo un momento,
senza staccare gli occhi da Ordway. Poi scarabocchiò la sua firma in calce al
contratto per altri tre mesi.

55

«Quando hai incontrato


Ellwood R. Patterson?»

Rob J. pensava di essere stato molto scaltro e molto guardingo quando ave-
va interrogato Ordway ubriaco la vigilia di Natale. Le risposte avevano confer-
mato il quadro che si era fatto dell'uomo e dell'Ordine della Bandiera Stellata.
Seduto a terra e appoggiato al palo della tenda, con il suo diario sulle
ginocchia, scrisse queste note:

371
Lanning Ordway cominciò a frequentare le riunioni del partito
americano a Vincennes, Indiana, «cinque anni prima di aver raggiunto
l'età per votare».
(Mi chiese dove mi ero iscritto al partito e io dissi: «A Boston».)
Era suo padre che lo accompagnava alle riunioni, «perché voleva che
io diventassi un buon americano». Suo padre era Nathanael Ordway e
lavorava come operaio da un fabbricante di scope. Le riunioni si teneva-
no al primo piano sopra un'osteria. Passavano attraverso l'osteria, usci-
vano dalla porta sul retro, salivano una scala. Suo padre batteva il
segnale alla porta. Ricorda che suo padre era sempre orgoglioso quando
il «Guardiano della Porta» (!) li osservava dallo spioncino e li faceva
entrare «perché noi eravamo brava gente».
Dopo un anno o giù di lì, quando suo padre era ubriaco o ammalato,
Lanning talvolta andava alle riunioni da solo. E quando Nathanael
Ordway morì («del troppo bere e di pleurite») Lanning andò a Chicago a
lavorare in un saloon vicino alla stazione, in Galena Street, dove un cugi-
no di suo padre vendeva whisky. Ripuliva il pavimento insudiciato dal
vomito degli ubriachi, spargeva segatura fresca ogni mattina, lavava gli
specchi, lustrava gli ottoni - faceva tutto ciò che c'era da fare.
Era naturale che cercasse una sezione dei Know-Nothing a Chicago.
Era come cercare un contatto con la famiglia, perché aveva molte più
cose in comune con i membri del partito americano che con il cugino di
suo padre. Il partito si adoperava per eleggere solo funzionari pubblici
che assumessero dipendenti nati in America, e non immigranti. Malgrado
la gamba zoppa (parlando con lui e osservandolo, mi sono convinto che
Ordway deve essere nato con una cavità articolare dell'anca troppo poco
profonda), i membri ricorrevano a lui quando avevano bisogno di qualcu-
no abbastanza giovane da portare missive importanti e abbastanza adulto
da tenere la bocca chiusa.
Fu motivo di orgoglio per lui quando, dopo solo un paio d'anni, ne
aveva allora 17, fu accolto nella società segreta dell'Ordine della
Bandiera Stellata. Mi fece capire che era anche una fonte di speranza per
lui, perché pensava che un ragazzo americano povero e zoppo aveva
bisogno dell'appoggio di un'organizzazione potente se voleva contare
qualcosa, «con questi stranieri cattolici e romani che vengono a fare qua-
si ogni lavoro degli americani per un tozzo di pane».
L'Ordine «faceva cose che il partito non poteva fare». Quando chiesi a

372
Ordway che cosa faceva per l'Ordine, mi rispose: «Questo e quello.
Viaggiavo, qua e là».
Gli chiesi se aveva mai incontrato un tipo di nome Hank Cough, e
sbatté le palpebre. «Naturalmente lo conosco. Anche lei lo conosce? Ma
guarda un po'! Hank!»
Gli chiesi dov'era Cough, e lui mi guardò in modo strano. «Be',
nell'esercito!»
Ma quando gli chiesi che lavoro avevano fatto insieme, si pose l'indice
sotto l'occhio e lo fece strisciare lungo il naso. Si alzò in piedi bar-
collando e l'intervista ebbe fine.

La mattina dopo Ordway non diede segno di ricordare l'interrogatorio. Rob


J. ebbe cura di lasciarlo in pace per qualche giorno. In realtà, passarono diverse
settimane prima che si presentasse un'altra occasione opportuna, perché le
riserve di whisky del vivandiere si erano esaurite durante le feste e i mercanti
del Nord che viaggiavano con le forze dell'Unione non volevano comprare
whisky in Virginia per paura che potesse essere avvelenato.
Ma un assistente chirurgo aveva una riserva di whisky fornita dal governo
per uso medico. Rob J. ne diede una bottiglia a Wilcox, sapendo che l'avrebbe
divisa con Ordway. Quella notte rimase in attesa, e quando finalmente arri-
varono, Wilcox allegro, Ordway imbronciato, mandò Wilcox a dormire e
accompagnò Ordway, come la prima volta, a sedere sugli stessi sassi, lontano
dalle tende.
«Be', Lanny» cominciò. «Facciamoci un'altra chiacchierata.»
«Su che cosa, dottore?»
«Quando hai incontrato Ellwood R. Patterson?»
Gli occhi dell'uomo parvero due schegge di ghiaccio. «Ma lei chi è?»
articolò, e nella sua voce non c'era più traccia di ubriachezza.
Rob J. era pronto ad affrontare il momento della verità. Lo aveva aspettato a
lungo. «Chi pensi che sia?»
«Penso che lei sia una dannata spia cattolica, che fa tutte queste domande.»
«E ho ancora altre domande. Domande sulla donna indiana che avete
ucciso.»
«Che donna indiana?» chiese Ordway, questa volta con genuino orrore.
«Quante donne indiane avete ucciso? Lo sai da dove vengo io, Lanny?»
«Lei ha detto da Boston.»
«Questo era prima. Poi ho vissuto molti anni nell'Illinois. In una cittadina

373
che si chiama Holden's Crossing.»
Ordway lo guardò ammutolito.
«La donna indiana che è stata uccisa, Lanny. Era una mia amica, lavorava
per me. Si chiamava Makwa-ikwa, in caso che tu non lo sappia. È stata
violentata e assassinata nei miei boschi, nella mia fattoria.»
«Donna indiana? Mio Dio! Vada via da me, miserabile canaglia! Io non so
di che cosa parla. E l'avverto. Se è abbastanza furbo e ha cara la sua salute,
bastardo di una spia, si dimentichi tutto quello che crede di sapere su Ellwood
R. Patterson.» Balzò in piedi e barcollando si allontanò nel buio, più svelto che
poteva, come se gli sparassero dietro.

Rob J. lo tenne d'occhio per tutto il giorno successivo. L'osservò mentre ad-
destrava la sua squadra di barellieri, ispezionava i loro zaini, li ammoniva a
essere parchi nel somministrare morfina perché le scorte del reggimento erano
quasi esaurite e si doveva aspettare per ricevere rifornimenti. Lanning Ordway,
doveva riconoscerlo, era diventato un ottimo sergente del corpo ambulanze.
Nel pomeriggio Rob J. vide Ordway nella sua tenda: matita in mano, scrive-
va. Scrisse per molte ore.
Dopo il silenzio Ordway portò una busta alla tenda della posta.

Rob J. attese qualche tempo e poi si recò egli stesso alla tenda della posta.
«Questa mattina ho trovato un vivandiere che ha un ottimo formaggio» disse ad
Amasa Decker. «Ne ho lasciato un bel pezzo nella tua tenda.»
«Davvero, dottore?» Decker era piacevolmente sorpreso.
«Devo aver cura dei miei barellieri, no? Meglio che tu vada a prenderlo e
mangiarlo, prima che te lo prenda qualcun altro. Sarò ben lieto di fare il postino
finché ritorni.»
Questo bastò. Appena Decker fu corso fuori, Rob J. andò alla cassetta delle
lettere in partenza. Gli ci vollero solo pochi minuti per trovare la busta e infi-
larla nel suo mee-shome.
Quando fu solo nell'intimità della sua tenda, tirò fuori la busta e l'aprì. Era
indirizzata al Rev. David Goodnow, 237 Bridgeton Street, Chicago, Illinois.

Caro Mr. Goodnow, Lanning Ordway. Sono al 119° Indiana, lei si


ricorderà. C'è qui un tale, che fa domande. Un dottore, di nome Robert
Cole. Vuole sapere di Henry. Dice cose strane, lo sto sorvegliando. Vuole
sapere di L. wood Padson. Dice che abbiamo stuprato e ucciso quella

374
ragazza indiana, quella volta nell'Illinois. Io posso farlo fuori, in tanti
modi. Ma userò la testa e la informerò perché possa scoprire come ha
fatto a sapere di noi. Io sono sergente. Quando la guerra finirà lavorerò
di nuovo per l'Ordine. Lanning Ordway

56

Sull'altra riva del Rappahannock

Rob J. si rendeva penosamente conto che nel bel mezzo di una guerra, con
armi dappertutto e in tutte le mani, con la morte che era ormai uno spettacolo
quotidiano, ci sarebbero stati molti modi e molte occasioni per un assassino
esperto che fosse deciso a "farlo fuori".
Per quattro giorni cercò di guardarsi alle spalle e per cinque notti dormì po-
co o nulla. Restava sveglio, domandandosi in che modo Ordway l'avrebbe
fatto. Al suo posto, e con il suo temperamento, lui avrebbe aspettato finché
entrambi si fossero trovati in mezzo al fuoco, in una mischia rumorosa. D'altra
parte non sapeva se Ordway fosse uno che manovrava il coltello. Se Rob J.
fosse stato trovato pugnalato, o con la gola tagliata, dopo una notte buia quando
ogni sentinella in tensione si figurava che ogni ombra mobile gettata dalla luna
fosse un infiltrato nemico, la sua morte non avrebbe suscitato sorpresa né
provocato inchieste.
La situazione cambiò il 19 gennaio, quando la compagnia B, seconda briga-
ta, ebbe l'ordine di attraversare il Rappahannock per una rapida ricognizione,
seguita da un'altrettanto rapida ritirata. Ma non fu così: la compagnia, compo-
sta da un piccolo numero di fanti, trovò le posizioni dei confederati in piena
forza là dove non si era aspettata di trovarli e i suoi uomini furono duramente
bersagliati in luogo aperto dal fuoco nemico. Era la replica della situazione in
cui si era trovato poche settimane prima l'intero reggimento; ma, invece dei 700
uomini che allora avevano attraversato il fiume con le baionette inastate per
portar soccorso, non arrivarono rinforzi dall'armata del Potomac. I 107 fanti
della compagnia B rimasero dov'erano e si presero in pieno il fuoco nemico,
rispondendo come potevano. Quando scese la notte, si diedero alla fuga riat-
traversando il fiume e portando con sé quattro morti e sette feriti.
La prima persona che riportarono nella tenda-ospedale era Lanning Ordway.

I compagni di squadra riferirono che era stato ferito poco prima del calar

375
della notte. Stava frugandosi in tasca per prendere un involto con un panino e
una fetta di arrosto di maiale che si era procurato quella mattina, quando due
pallottole minié lo colpirono l'una dopo l'altra. Una aveva strappato un pezzo di
tessuto della parete addominale e ora ne fuoriusciva un groviglio di intestino
grigiastro. Rob J. cominciò a spingerlo nell'interno, pensando di suturare la fe-
rita, ma vide subito che c'era ben altro, e che non poteva far nulla per salvare
Ordway.
La seconda ferita era perforante e aveva fatto troppo danno internamente,
all'intestino o allo stomaco, o forse a entrambi. Rob J. capì che se avesse aperto
il ventre, avrebbe trovato il sangue dell'emorragia interna riversato nella cavità
addominale. Il viso di Ordway era bianco come il latte.
«C'è qualche cosa che desideri, Lanny?» chiese gentilmente.
Le labbra del ferito si contorsero. Fissò il medico con una strana calma, che
Rob J. aveva già visto prima nei morenti, e quello sguardo gli rivelò che l'uomo
si rendeva conto. «Acqua» mormorò.
Era la cosa peggiore da dare a un uomo ferito nel ventre, ma Rob J. sapeva
che ormai non aveva più importanza. Trasse due compresse di oppio dal suo
mee-shome e le diede a Ordway con un bicchier d'acqua. Quasi subito Ordway
vomitò un liquido rosso.
«Vorresti un pastore?» chiese ancora Rob J., mentre lo riadagiava. Ma
Ordway non rispose: continuò solo a fissarlo.
«Forse vuoi dirmi che cos'è accaduto esattamente a Makwa-ik-wa quel
giorno alla mia fattoria. O dirmi qualcosa d'altro, qualunque cosa.»
«Lei... inferno» cercò di articolare Ordway.
Rob J. non pensava che avrebbe mai parlato. Né credeva che lui o qualsiasi
altro potesse andare all'inferno, ma non era il momento per una disputa
teologica. «Pensavo che poteva aiutarti il parlarne, in questo momento. Non
vuoi scaricarti, se hai qualche peso sull'anima?»
Ordway chiuse gli occhi e Rob J. capì che doveva lasciarlo in pace. Detesta-
va veder morire un suo paziente, ma soprattutto lo angosciava ora perdere
quell'uomo che si preparava a ucciderlo, perché, chiuse nel suo cervello, c'era-
no notizie che cercava da anni, e se il cervello dell'uomo si spegneva come una
lampada, quelle notizie sarebbero state perdute.
Sapeva anche che, malgrado tutto, qualcosa in lui parlava a favore di quello
strano e complicato giovane che era stato preso e stritolato in un sinistro mec-
canismo. Quale sarebbe stata la sua vita se fosse nato senza menomazioni, se
avesse avuto un po' di istruzione invece di restare nell'ignoranza, e avesse
avuto un'eredità diversa da quella lasciatagli da un padre ubriacone?
376
Ma si rendeva conto dell'inutilità di quelle riflessioni e, quando volse lo
sguardo alla figura immobile, seppe che Ordway era al di là di ogni considera-
zione umana.
Dovette somministrare l'etere a un giovane ferito mentre Gardner Copper-
smith estraeva, non senza abilità, una pallottola miniò dalla natica sinistra del
ragazzo. Poi tornò da Ordway e gli legò la mascella e appoggiò due monetine
sulle sue palpebre per tenerle chiuse; poi lo adagiò a terra accanto agli altri
quattro che erano stati riportati dallo scontro sul fiume.

57

Il cerchio si chiude

Il 12 febbraio 1864 Rob J. scriveva nel suo diario:

Due fiumi, laggiù a casa, il grande Mississippi e il modesto Rock,


hanno impresso il loro marchio sulla mia vita; e ora in Virginia ho
conosciuto fin troppo bene un'altra coppia di fiumi, assistendo a ripetuti
massacri lungo il Rappahannock e il Rapidan. Per tutto l'inverno e i primi
giorni di primavera sia l'armata del Potomac sia l'armata della Virginia
del Nord hanno mandato piccoli gruppi di fanteria e cavalleria ad at-
traversare il Rapidan per attaccarsi a vicenda. Con la stessa disinvoltura
con cui nei tempi andati attraversavo il Rock per visitare un vicino malato
o aiutare un neonato a venire al mondo, ora accompagno i soldati attra-
verso il Rapidan in decine di posti, in sella a Bel Giovane o sguazzando a
piedi nei guadi o navigando sulle acque pili profonde in barche o zattere.
Quest'inverno non ci sono state grandi battaglie con migliaia di morti, ma
sono ormai abituato a vedere una dozzina di cadaveri, a volte uno solo.
C'è qualcosa di infinitamente più tragico in un unico morto che in un
campo pieno di cadaveri. Mi sono abituato in qualche modo a non
guardare né i sani né i morti, ma a concentrarmi sui feriti, uscendo a
recuperare giovani dannati pazzi, spesso sotto il fuoco di altri giovani
dannati pazzi...

I soldati di entrambi gli eserciti avevano cominciato ad attaccare ai loro


giacconi dei pezzetti di carta con il loro nome e indirizzo, sperando che i loro
cari fossero avvertiti se cadevano in battaglia. Né Rob J. né i tre barellieri della

377
sua squadra si preoccuparono di attaccarsi etichette di identificazione. Ora
uscivano senza ombra di paura, perché Amasa Decker, Alan Johnson e Lucius
Wagner si erano convinti che il talismano di Makwa-ikwa li proteggeva davve-
ro e Rob J. aveva finito per essere contagiato dalla loro convinzione. Era come
se il mee-shome in qualche modo generasse una forza che deviava i proiettili,
rendendo i loro corpi invulnerabili.
Pareva talvolta che la guerra ci fosse sempre stata, e dovesse durare in
eterno. Tuttavia Rob J. poteva vedere qualche cambiamento. Un giorno lesse in
una copia tutta stazzonata del Baltimore American che tutti i maschi bianchi
del Sud fra i 17 e i 50 anni erano stati chiamati alle armi nell'esercito confede-
rato. Significava che da quel momento in poi ogni perdita dei confederati non
poteva più essere rimpiazzata, e il loro esercito si stava dissanguando. Rob J.
vedeva con i propri occhi che i soldati confederati, morti o presi prigionieri,
indossavano uniformi lacere e scarpe rotte. Si chiedeva disperatamente se Alex
era ancora vivo, se era nutrito e vestito e calzato. Il colonnello Symonds annun-
ciò che presto il 119° Indiana avrebbe ricevuto un rifornimento di carabine
munite di carica innescante che consentiva un rapido fuoco. E questo indicava
chiara-i mente come sarebbe stato lo svolgimento della guerra, con il Nord che
fabbricava fucili, munizioni e navi migliori, e il Sud che lottava con il calo
degli uomini e la scarsità di tutto ciò che doveva essere prodotto in fabbrica.
Il problema era che i confederati non si rendevano conto di essere in terribi-
le svantaggio industriale e continuavano a combattere con un accanimento che
minacciava di prolungare all'infinito la guerra.

Un giorno, verso la fine di febbraio, i quattro barellieri furono chiamati a


soccorrere un capitano di nome Taney, comandante della compagnia A prima
brigata, che giaceva sul terreno fumando stoicamente un sigaro, con un proietti-
le nella cresta tibiale. Rob J. riconobbe che non aveva senso applicare una
stecca perché il proiettile aveva asportato diversi centimetri di tibia e perone e
la gamba doveva essere amputata a metà fra la caviglia e il ginocchio. Quando
Rob J. tese la mano per prendere le bende dal suo mee-shome, si accorse che la
borsa non c'era.
Con un groppo allo stomaco ricordò esattamente dove l'aveva lasciata,
sull'erba fuori della tenda-ospedale.
Anche gli altri lo capirono.
Slacciò la cintura di cuoio dalla vita di Alan Johnson e la usò come laccio
emostatico, poi caricarono il capitano sulla barella e si avviarono verso la
tenda-ospedale, camminando quasi come ubriachi.
378
«Buon Dio» ripeteva Lucius Wagner. Lo diceva sempre, quasi in tono
d'accusa, quando era spaventato. Ora continuava a borbottare fino alla noia, ma
nessuno si lamentò o gli intimò di chiudere la bocca: tutti erano troppo
concentrati nell'anticipare il doloroso impatto dei proiettili nelle loro carni, così
crudelmente e improvvisamente private del talismano.
Il percorso fu più lento e più angoscioso di tutti gli altri, perfino del primo.
Vi furono scariche di fucileria, ma nessuno fu colpito. Finalmente raggiunsero
la tenda-ospedale, e, dopo aver consegnato il ferito a Coppersmith, Amasa
Decker corse a raccogliere il mee-shome dall'erba e gettò la borsa nelle mani di
Rob J. «Se la metta a tracolla. Subito!»
I tre barellieri si consultarono, nel sollievo che seguì la tensione delle ultime
ore, e decisero di vegliare personalmente a che l'assistente chirurgo ogni matti-
na per prima cosa si mettesse a tracolla la borsa medica.

Rob J. fu lieto di avere con sé il mee-shome due giorni dopo, quando il 119°
Indiana, circa un chilometro oltre la confluenza del Rapidan con il fiume più
grande, girò una curva della strada e si trovò letteralmente a guardare in faccia
una brigata di uomini ugualmente sbalorditi in uniformi grigie.
Da entrambe le parti cominciarono insieme a sparare, alcuni a bruciapelo.
L'aria era piena di imprecazioni e di grida, scoppi di moschetti, urla di feriti;
poi le prime file si scontrarono corpo a corpo, con gli ufficiali che roteavano le
spade o sparavano con le rivoltelle, e i soldati che menavano i fucili come
bastoni o si battevano con i pugni e le unghie e i denti, non avendo tempo di
ricaricare.
Su un lato della strada c'era un bosco di querce e sull'altro un campo appena
concimato che pareva morbido come il velluto, arato e pronto per la semina.
Alcuni dei soldati di ognuna delle due forze nemiche si rifugiarono dietro gli
alberi, ma il grosso invase il campo, continuando a sparare l'uno contro l'altro
da una disordinata e frammentaria linea di scontro.
Di solito, durante una battaglia, Rob J. si teneva nella retroguardia, aspet-
tando di essere chiamato dov'era necessaria la sua opera; ma in quella confu-
sione si trovò a dibattersi con il suo cavallo terrorizzato nel bel mezzo della
mischia. Il castrone scartò, indietreggiò di un passo, poi parve accasciarsi sotto
di lui. Rob J. riuscì a balzar di sella quando l'animale crollò a terra e rimase a
scalciare e a contorcersi. Vi era un foro senza sangue, della grandezza di una
monetina, nella gola color fango di Bel Giovane, ma un doppio rivolo di
sangue gli scorreva dalle froge mentre il cavallo si affannava a respirare,
scalciando spasmodicamente nell'agonia.
379
La borsa medica conteneva una siringa ipodermica e fiale di morfina, ma gli
oppiacei già scarseggiavano e non si potevano sprecare per un cavallo. Dieci
metri più in là giaceva morto un giovane tenente confederato e Rob J. andò a
togliergli il pesante revolver nero dal fodero. Poi tornò dal suo brutto cavallo e
puntò la bocca della pistola contro l'orecchio di Bel Giovane e premette il
grilletto.
Si era allontanato non più di cinque o sei passi, quando sentì un dolore
bruciante nella parte superiore del braccio sinistro, come se un'ape gigantesca
lo avesse punto. Fece altri tre passi, poi la nera terra morbida di concime parve
sollevarsi a raccoglierlo. Era sempre lucido, sapeva di essere venuto meno e di
poter presto recuperare le forze, e rimase sdraiato contemplando con il gusto
del pittore il crudo sole color ocra in un cielo pazzamente blu, mentre i suoni
intorno si spegnevano come se qualcuno avesse gettato una coperta sul resto
del mondo. Non seppe mai quanto tempo fosse rimasto a terra così. Si rese
conto che perdeva sangue dal braccio e frugò nella borsa per prendere dei
bendaggi da premere sulla ferita per tamponare l'emorragia. Abbassando lo
sguardo vide un po' di sangue sul mee-shome e fu colpito dall'irresistibile ironia
delle cose, tanto che si trovò a ridere pensando all'ateo che aveva cercato di
farsi un idolo di una vecchia borsa con un paio di corregge di cuoio.
Infine arrivò a raccoglierlo la squadra di Wilcox. Il sergente - non meno
brutto di Bel Giovane, ma con gli occhi strabici pieni di ansia e di affetto - gli
borbottava le blande frasi insensate che lui stesso aveva detto un migliaio di
volte ai pazienti nel vano tentativo di recare conforto. I sudisti, poiché erano
enormemente inferiori di numero, si erano ritirati. Il suolo era coperto di uno
strato di uomini e cavalli morti e carri sfasciati e armi sparse alla rinfusa e
Wilcox osservò tristemente che il fattore avrebbe fatto una fatica del diavolo a
ripulire e arare quel bel campo.

Sapeva di essere fortunato che la ferita non fosse peggio, ma era più che un
semplice graffio. Il proiettile non aveva colpito l'osso, ma aveva rovinato la
carne e il muscolo. Coppersmith aveva parzialmente suturato la ferita e l'aveva
bendata con cura, provando evidentemente un certo compiacimento nell'opera.
Rob J. insieme con altri 36 feriti fu trasportato a Fredericksburg in un ospe-
dale di zona, dove rimase dieci giorni. L'ospedale era installato in un vecchio
magazzino e non era pulito come avrebbe dovuto, ma l'ufficiale medico in cari-
ca, il maggiore Sparrow, che prima della guerra aveva lavorato ad Hartford,
Connecticut, era un discreto chirurgo. Rob J. ricordava gli esperimenti del
dottor Milton Akerson con l'acido cloridrico nell'Illinois e il dottor Sparrow gli
380
consentì di lavarsi di tanto in tanto la ferita con una blanda soluzione di acido
cloridrico. Bruciava, ma la ferita cominciò a cicatrizzare facilmente e senza
infezione, e i due medici convennero che probabilmente sarebbe stato utile pro-
vare il sistema su altri pazienti. Rob J. poteva flettere le dita e muovere la mano
sinistra, anche se con dolore. Ammise, d'accordo con il dottor Sparrow, che era
troppo presto per stabilire quanta forza e mobilità avrebbe potuto recuperare il
braccio ferito.
Il colonnello Symonds venne a trovarlo dopo una settimana. «Ora se ne
vada a casa, dottor Cole. Quando si sarà perfettamente ristabilito, se vorrà tor-
nare da noi sarà il benvenuto» gli disse, anche se entrambi sapevano che non
sarebbe tornato. Symonds lo ringraziò con un certo imbarazzo. «Se io soprav-
vivo e un giorno lei si troverà a Fort Wayne, Indiana, deve venire a trovarmi
alla fabbrica di tubi di vetro per lumi a petrolio Symonds e mangeremo buon
cibo e berremo buon vino e parleremo a lungo dei cattivi tempi andati.» E si
strinsero forte le mani prima che il giovane colonnello si allontanasse. Gli ci
vollero tre giorni e mezzo per tornare a casa, per cinque diverse linee ferro-
viarie, partendo con la Ferrovia Baltimora & Ohio. Tutti i treni facevano lunghi
ritardi, erano sporchi e gremiti di viaggiatori di ogni sorta. Rob J. aveva il brac-
cio al collo, ma non era che un civile di mezza età e diverse volte dovette stare
in piedi in un vagone traballante, sballottato fra duri scossoni per 70 o 80 chi-
lometri. A Canton, Ohio, dovette aspettare una mezza giornata per cambiar
treno, e poi prese posto accanto a un tal Harrison, viaggiatore di commercio,
che lavorava per una grossa ditta di forniture militari. Gli confidò che più volte
si era trovato a poca distanza dal fronte, tanto da sentire il fragore delle
fucilate; era pieno di improbabili storie di guerra, condite con i nomi di impor-
tanti personaggi politici o militari, ma Rob J. non era infastidito: le storie
facevano passare più presto i chilometri.
Nei vagoni afosi e gremiti cominciò presto a mancar l'acqua. Come gli altri,
Rob J. bevve tutto ciò che aveva nella borraccia e poi cominciò a soffrire la
sete. Infine il treno si fermò a una stazione intermedia, vicino a un accam-
pamento militare poco fuori di Marion, Ohio, per caricare combustibile e
attingere acqua da un piccolo torrente, e i passeggeri si riversarono fuori dei
vagoni per riempire i loro recipienti. Rob J. era fra loro, ma, mentre si ingi-
nocchiava sulla riva con la borraccia in mano, qualcosa attrasse il suo sguardo
dall'altra parte del torrente, e con disgusto riconobbe subito che cos'era. Si
avvicinò di più ed ebbe la conferma che qualcuno aveva gettato bende usate,
fasce insanguinate e altri rifiuti d'ospedale nel torrente, e quando una breve
ispezione gli rivelò altri punti di discarica nelle vicinanze, richiuse la borraccia
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e avverti gli altri viaggiatori che facessero altrettanto.
Il controllore li informò che avrebbero potuto trovare dell'acqua buona a
Lima, la prossima stazione, e Rob tornò al suo posto; quando il treno riprese la
corsa, cadde quasi subito addormentato, malgrado gli scossoni del vagone. Al
destarsi apprese che il treno aveva appena lasciato la stazione di Lima. «Che
seccatura» esclamò irritato. «Avevo bisogno di procurarmi dell'acqua.»
«Non si preoccupi,» fece Harrison «io ne ho tanta!» Gli passò la sua
bottiglia e Rob J. grato ne bevve avidamente.
«C'era molta folla a Lima che aspettava di prender l'acqua?» chiese, resti-
tuendo la bottiglia.
«Oh, ma io non l'ho presa a Lima! Mi ero già riempito la bottiglia a Marion,
quando il treno si è fermato per caricare carbone» rispose il commesso viag-
giatore.
Impallidì quando Rob J. gli disse che cosa aveva visto nel torrente a
Marion. «E allora, ci ammaleremo?»
«Non saprei dirlo.» A Gettysburg aveva visto un'intera compagnia bere per
quattro giorni acqua attinta da un pozzo dove poi si erano rinvenuti due confe-
derati morti, senza riportarne conseguenze gravi. Si strinse nelle spalle. «Non
sarei sorpreso se fra qualche giorno avessimo una forte diarrea.»
«Non possiamo prendere qualcosa per...»
«Un po' di whisky potrebbe servire, se ne avessimo.»
«Lasci fare a me.» Harrison si precipitò fuori in cerca del controllore e tornò
con il portafogli indubbiamente alleggerito e con una grossa bottiglia piena per
tre quarti. Il whisky era abbastanza forte da poter servire allo scopo, confermò
Rob J. dopo averlo assaggiato. Quando si separarono, un po' brilli, a South
Bend, Indiana, ognuno era convinto che l'altro fosse un caro amico, e si strin-
sero la mano con molto calore. Rob J. era già arrivato a Gary quando si rese
conto che non sapeva neppure il nome di battesimo di Harrison.

Arrivò a Rock Island nella frescura del primo mattino, con un forte vento
che soffiava dal fiume. Lasciò il treno con un gran senso di sollievo e attra-
versò la città reggendo la valigia con la mano buona. Voleva noleggiare un
cavallo e farsi una trottata, ma incontrò in strada George Cliburne e il mercante
di granaglie non finiva più di stringergli la mano e dargli pacche sulle spalle e
insistette per accompagnarlo egli stesso a Holden's Crossing con il suo calesse.

Quando Rob J. comparve sulla porta di casa, Sarah era seduta davanti alla
sua colazione di uova e pane raffermo. Lo guardò senza dir parola e scoppiò a
382
piangere. Furono subito nelle braccia l'una dell'altro.
«Sei ferito! Una brutta ferita?»
Le assicurò che non era niente. «Come sei magro!» Voleva preparargli la
colazione, ma lui disse che avrebbe mangiato dopo. Cominciò a baciarla,
impaziente come un ragazzo. La voleva subito, sul tavolo, sul pavimento, ma
lei affermò che era ormai tempo di tornare sul loro letto e Rob J. la segui su per
le scale. Nella stanza da letto lo fece aspettare finché fu del tutto spogliata.
«Avrei bisogno di un bagno» mormorò Rob J. nervosamente, ma lei replicò che
poteva lavarsi dopo. Tutti quegli anni e la fatica e il dolore della ferita gli
caddero di dosso assieme alle vesti. Si baciarono e si esplorarono più avida-
mente di quanto avessero fatto nel fienile del fattore, dopo le nozze al Grande
Risveglio, perché ora sapevano quel che gli era mancato. La sua mano buona la
trovò, e le sue dita parlarono. Dopo un po' le gambe di Sarah non la reggevano
più e Rob J. trasalì per il dolore quando lei gli si aggrappò al collo. Sarah guar-
dò la ferita senza impallidire, ma lo aiutò a infilare di nuovo il braccio nella
tracolla e lo fece sdraiare sul letto mentre lei si occupava di ogni cosa. E
quando fecero l'amore Rob J. gridò più volte, una volta perché il braccio gli
fece male.

Fu una gioia per Rob J. non solo tornare da sua moglie, ma andare alla stalla
a portare mele secche ai cavalli e vedere che lo riconoscevano; e incontrare
Alden che stava aggiustando le palizzate e scorgere la gioia intensa sul viso del
vecchio bracciante; e andare per il Sentiero Corto attraverso i boschi fino al
fiume e fermarsi a strappare le erbacce dalla tomba di Makwa-ikwa e sedersi
con la schiena appoggiata a un albero vicino al luogo dove era sorto l'hedo-
noso-te a osservare l'acqua che scorreva in pace, senza che nessuno dall'altra
riva gettasse grida bestiali e sparasse contro di lui.
Quel pomeriggio sul tardi lui e Sarah presero il Sentiero Lungo, fra la loro
casa e quella dei Geiger. Anche Lillian pianse vedendolo e lo baciò sulla bocca.
Jason era vivo e stava bene, secondo le ultime notizie, e amministrava un
grande ospedale sul fiume James.
«Io ero molto vicino a lui» osservò Rob J. «Solo un paio d'ore di viaggio.»
Lillian annuì. «Se Dio vuole, sarà anche lui di ritorno tra poco» aggiunse, e
non poté fare a meno di guardare il braccio di Rob J.
Sarah non volle fermarsi da Lillian per cena, poiché desiderava avere il
marito tutto per sé.
Ma riuscì a tenerlo con sé in pace solo per un paio di giorni, perché alla
terza mattina si era già diffusa la voce che il dottor Cole era tornato, e cominciò
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ad arrivare una quantità di gente: alcuni solo per salutarlo, ma molti per portare
abilmente il discorso su un foruncolo nella gamba o una tosse ostinata, o un
dolore allo stomaco che non voleva cessare. Il terzo giorno Sarah dovette
arrendersi: Alden sellò Boss e Rob J. visitò una mezza dozzina di fattorie,
dando un'occhiata ai suoi vecchi pazienti.
Tobias Barr aveva aperto un ambulatorio a Holden's Crossing e vi si recava
tutti i mercoledì, ma la gente ci andava solo per i casi più urgenti, e Rob J. si
vide davanti allo stesso genere di problemi che aveva trovato quando era
arrivato la prima volta a Holden's Crossing: ernie trascurate, denti guasti, tossi
croniche. Recandosi dagli Schroeder, li salutò allegramente esclamando che era
contento di vedere che Gustav non aveva perso altre dita in incidenti di lavoro;
il che era vero, anche se lo diceva per scherzo. Alma gli offrì caffè di cicoria e
mandelbrot e lo mise al corrente delle notizie locali, alcune delle quali lo
rattristarono. Hans Grueber era morto all'improvviso nel suo campo di grano,
nell'agosto dell'anno precedente. «Il cuore, suppongo» aggiunse Gus. E Suzy
Gilbert, che aveva sempre offerto a Rob J. certe grosse frittelle di patate, era
morta di parto un mese prima.
In città erano arrivate nuove famiglie dal New England e dallo Stato di New
York. E tre famiglie di cattolici, di fresco emigrate dall'Irlanda. «Non viesco
neppuve a capive la lovo lingua» aggiunse Gus, e Rob J. non poté fare a meno
di ridere.
Nel pomeriggio, recandosi al convento di San Francesco, passò vicino a un
gregge di capre che ora aveva assunto proporzioni veramente rispettabili.
La Feroce Miriam lo accolse con un largo sorriso. Rob J. si sedette nella
poltrona del vescovo e le raccontò quel che gli era successo. La Madre
Superiora provò un vivo interesse al sentir raccontare di Lanning Ordway e
della lettera che aveva scritto al reverendo David Goodnow a Chicago. Gli
chiese se le permetteva di ricopiarsi il nome e l'indirizzo di Goodnow. «Ci sono
persone che saranno ansiose di ricevere questa informazione» aggiunse.
A sua volta gli parlò del suo mondo. Il convento prosperava. Aveva quattro
monache nuove e un paio di novizie. Alcuni laici venivano già al convento per
la messa domenicale. Se continuavano ad arrivare coloni, presto ci sarebbe
stata una chiesa cattolica.
Rob J. sospettò che la Madre Superiora si aspettasse una sua visita, perché
dopo un po' arrivò suor Mary Peter Celestine e servì un piatto di biscotti
appena sfornati e un eccellente formaggio di capra. E un autentico caffè, il
primo che avesse gustato da più di un anno, con un cremoso latte di capra per
addolcirlo. «Il vitello grasso, Reverenda Madre?»
384
«È bello che lei sia tornato a casa.»

Ogni giorno si sentiva più forte. Non ne abusava: dormiva fino a tardi,
mangiava del buon cibo con piacere, passeggiava per la fattoria. Ogni pomerig-
gio visitava alcuni pazienti.
Tuttavia doveva riabituarsi alla buona vita di sempre. Il settimo giorno dopo
il suo ritorno a casa sentì che le braccia e le gambe gli dolevano e la schiena gli
faceva male. Rise, e disse a Sarah che non era più abituato a dormire in un
letto.
Si svegliò nelle prime ore del mattino per un improvviso crampo al ventre.
Cercò di ignorarlo, perché non aveva voglia di alzarsi. Infine capì che doveva
farlo, ma era appena a metà delle scale che cominciò a correre saltando i
gradini e Sarah si destò.
Non riuscì ad arrivare al gabinetto esterno, ma si fermò un po' discosto dal
sentiero e si acquattò fra l'erba come un soldato ubriaco grugnendo e sobbal-
zando quando la scarica uscì.
Sarah l'aveva seguito giù dalle scale e nel prato e Rob J. si sentì crudelmen-
te umiliato che lei lo trovasse così. «Che succede?» gli chiese ansiosa.
«L'acqua... sul treno» ansimò.

Ebbe altri tre episodi durante la notte. La mattina si purgò con olio di ricino
per liberare l'intestino dal morbo, e, quando la sera non constatò miglioramen-
to, prese una dose di sale inglese. Il giorno dopo cominciò a bruciare di febbre,
accompagnata da violenti mal di testa: e riconobbe il male, ancor prima che
Sarah, spogliandolo quella sera per lavarlo, vedesse le macchie rosse sul suo
addome.
Sarah affrontò la situazione con risoluta fermezza. «Bene, abbiamo curato
altri pazienti con febbre tifoide, e li abbiamo salvati. Dimmi della dieta.»
Gli faceva nausea pensare al cibo, ma le dette le sue istruzioni. «Brodo di
carne con verdure, se puoi procurartene. Succhi di frutta. Ma in questa
stagione...»
C'erano ancora delle mele in una cassetta in cantina e Alden le avrebbe
grattugiate.
Sarah continuava a darsi da fare, per tenersi impegnata e non abbandonarsi
all'angoscia, ma dopo altre ventiquattr'ore capi che aveva bisogno di aiuto: non
aveva potuto dormire che qualche ora, sempre indaffarata con la padella del
malato e la necessità di cambiarlo continuamente e di fargli il bagno per
combattere la febbre e di bollire la biancheria. Mandò Alden al convento
385
cattolico per chiedere l'assistenza delle suore infermiere. Arrivò una coppia di
suore, e infatti aveva sentito dire che lavoravano sempre in coppia: una giovane
monaca con il viso infantile, suor Maria Benedicta, e una donna anziana, alta,
dal naso pronunciato, che disse di essere Madre Miriam Ferocia. Rob J. aprì gli
occhi e le vide e sorrise, e Sarah si ritirò nella stanza dei ragazzi e dormì sei ore
di fila.

La stanza del malato era tenuta in ordine e aveva odore di pulito. Le suore
erano ottime infermiere. Dopo tre giorni la temperatura del malato calò bru-
scamente. Dapprima le tre donne si rallegrarono, ma poco dopo la più anziana
fece osservare a Sarah che cominciava a esserci del sangue nelle feci. E Sarah
mandò Alden a cavallo a Rock Island a chiamare il dottor Barr.
Quando il medico arrivò, le feci erano quasi completamente composte di
sangue e Rob J. era molto pallido. Erano passati otto giorni da quando aveva
sentito il primo crampo.
«Un corso molto rapido» gli disse il dottor Barr, come se fossero a una
riunione della Società Medica.
«Succede qualche volta» replicò Rob J.
«Forse chinino, o calomelano?» chiese il dottor Barr. «Qualcuno ritiene che
sia un'affezione malarica.»
Rob J. replicò che il chinino e il calomelano erano inutili. «La febbre tifoide
non è un'affezione malarica» articolò con un certo sforzo.
Tobias Barr non aveva fatto tanto lavoro di anatomia quanto Rob J., ma
entrambi sapevano che una grave emorragia indicava quanto l'intestino fosse
crivellato da perforazioni causate dalla tifoide, e le ulcerazioni sarebbero peg-
giorate, non migliorate. E non occorrevano molte emorragie.
«Potrei lasciarle un po' di polvere di Dover» propose il dottor Barr. La
polvere di Dover era una miscela di ipecacuana e oppio. Rob J. scosse la testa e
il dottor Barr capi: voleva restare cosciente il più a lungo possibile, nella sua
stanza, nella sua casa.
Era più facile per il dottor Barr quando il paziente non si rendeva conto del
suo stato e poteva lasciargli un po' di speranza in una bottiglia, con le istruzioni
su come prenderla. Gli diede una pacca affettuosa su una spalla. «Verrò
domani» promise, componendo il viso in un'espressione serena: aveva già
affrontato prima situazioni del genere, ma i suoi occhi erano carichi di pena.

«Non possiamo aiutarlo in qualche altro modo?» chiese Miriam Ferocia a


Sarah. Questa rispose che era della Chiesa Battista, ma le tre donne si
386
inginocchiarono nel corridoio fuori della camera del malato e pregarono
insieme. Quella sera Sarah ringraziò le monache e le rimandò al convento.
Rob J. riposò tranquillo fino a circa mezzanotte, quando ebbe un'altra
piccola emorragia. Aveva vietato alla moglie di far venire il pastore battista,
ma ora lei gli chiese di nuovo se voleva parlare con il reverendo Blackmer.
«No, posso fare da solo come ha fatto Ordway» rispose Rob J. con voce
chiara.
«Chi è Ordway?» chiese Sarah, ma il malato parve troppo stanco per
rispondere.
Sarah sedette accanto al letto. Rob J. tese la mano e lei la prese, ed entrambi
si assopirono di un sonno leggero. Poco prima delle due del mattino Sarah si
destò e immediatamente sentì come fosse fredda quella mano.
Per un po' rimase seduta accanto a lui, poi si costrinse ad alzarsi. Accese le
lampade e lo lavò per l'ultima volta, ripulendo l'ultima violenta emorragia che
gli aveva tolto la vita. Gli rasò il viso e fece tutto quello che lui le aveva
insegnato a fare per altri in quegli anni, poi lo vestì del suo abito migliore. Ora
era troppo largo, ma Sarah sapeva che non aveva più importanza.
Come buona moglie di medico, raccolse la biancheria che era troppo
inzuppata di sangue per essere bollita e l'avvolse in un lenzuolo, per bruciarla.
Poi fece scaldare molta acqua e si preparò un bagno e si sfregò energicamente
con sapone scuro, piangendo. Quando spuntò il giorno era vestita con gli abiti
buoni e seduta vicino alla porta della cucina. Appena sentì Alden che apriva la
porta del fienile, uscì e gli disse che suo marito era spirato durante la notte e lo
mandò all'ufficio postale per spedire al figlio un telegramma in cui gli chiedeva
di tornare a casa.

PARTE SESTA
Il medico di campagna
(2 maggio 1864)

58

Consigli

Quando si svegliò, Sciamano si accorse con sorpresa di essere combattuto


fra emozioni contraddittorie: il rapido amaro ritorno della realtà che suo padre

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non c'era più, e la familiare sicurezza della sua casa, come se il suo corpo e la
sua mente fossero parte integrante di questo luogo e rientrassero con la mas-
sima naturalezza all'antico posto. Il vibrare della casa a un'improvvisa raffica di
vento della pianura gli era ben noto, e così la sensazione del cuscino e delle
ruvide lenzuola sulla pelle, gli aromi della colazione che salivano dalle scale
attirandolo in cucina, e persino il familiare brillìo del caldo sole dorato sulla
rugiada dell'erba del cortile. Quando lasciò il gabinetto esterno, ebbe la tenta-
zione di avviarsi per il sentiero del fiume, ma dovevano passare ancora diverse
settimane prima che l'acqua fosse abbastanza calda per nuotarvi.
Mentre tornava in casa, Alden uscì dal fienile e gli fece cenno di fermarsi.
«Quanto tempo resterai qui, Sciamano?»
«Non so di preciso, Alden.»
«Bene, ecco il fatto. Ci sono un mucchio di siepi da piantare intorno ai
pascoli. Doug Penfield ha già arato le strisce, ma noi siamo in ritardo con gli
agnelli di primavera e un mucchio di altre cose, con tutto quello che è successo.
Mi servirebbe una mano da te per piantare le maclure. Forse ti ci vorranno
quattro giorni.»
Sciamano scosse la testa. «No, Alden, non posso»
Quando vide lo sguardo dispiaciuto del vecchio bracciante, provò un senso
di colpa e il bisogno di giustificarsi, ma non lo fece. Alden lo considerava
ancora il figlio minore del padrone, il ragazzo a cui si doveva dire quel che
c'era da fare, il ragazzo sordo che non era certo efficiente come Alex nei lavori
della fattoria. Quel rifiuto costituiva un cambiamento nelle loro reciproche
posizioni e Sciamano cercò di raddolcire quel momento. «Forse potrò fare
qualche lavoro fra un paio di giorni. Altrimenti, tu e Doug dovrete arrangiarvi
un po' da soli.» E Alden si allontanò imbronciato.
Lui e la madre si scambiarono un cauto sorriso quando si sedettero l'uno
vicino all'altra. Avevano imparato a parlare fra loro di cose senza importanza.
Sciamano le fece i complimenti per le salsicce e le uova, prodotti dalla loro
fattoria, cotti da lei alla perfezione; non aveva più gustato una colazione come
quella da quando era partito da casa.
Sarah osservò che il giorno prima aveva visto tre aironi azzurri, mentre si
recava in città. «Credo che quest'anno siano più numerosi che in passato. Forse
sono venuti a rifugiarsi qui da qualche altra località, spaventati dalla guerra.»
Sciamano era rimasto alzato fino a tardi, intento al diario del padre. C'erano
domande che avrebbe voluto porle, e lo rattristava non poterlo fare.
Dopo colazione passò molto tempo a consultare le schede dei pazienti di
suo padre. Nessuno teneva registrazioni mediche così esatte come Robert
388
Judson Cole. Anche se era stanco da morire, il dottor Cole aveva sempre
completato le sue note prima di coricarsi la sera e ora Sciamano poté compilare
un'accurata lista dei pazienti che il padre aveva curato nei pochi giorni dopo il
suo ritorno.
Chiese alla madre se poteva adoperare Boss e il calesse per quel giorno.
«Voglio andare dai pazienti che papà ha visitato. La febbre tifoide è tanto
contagiosa.»
Sarah annuì. «È una buona idea prendere il cavallo e il calesse. E per il tuo
desinare?»
«Mi basterà incartare un paio di fette del tuo pan biscotto e metterle in
tasca.»
«Anche lui faceva spesso così» osservò Sarah a bassa voce.
«Lo so.»
«Ti farò un pacchetto con la colazione.»
«Se vuoi, mamma, mi farà piacere.» Si avvicinò e la baciò sulla fronte.
Sarah rimase seduta, ma prese la mano del figlio e la tenne stretta. Quando
finalmente lo lasciò andare, Sciamano rimase colpito ancora una volta da
quanto era bella sua madre.
La sua prima tappa fu alla casa di un colono, William Bemis, che si era fatto
male alla schiena mentre aiutava una vacca a partorire il suo vitello. Bemis
zoppicava e aveva il torcicollo, ma disse che la sua schiena andava meglio.
«Però ho quasi finito quella pomata puzzolente che mi aveva dato suo padre.»
«Non ha avuto febbre, Mr. Bemis?»
«Diavolo, no. Ho solo picchiato la schiena, perché avrei dovuto aver
febbre?» L'uomo si accigliò. «Lei mi fa pagare la visita? Io non avevo mandato
a chiamare il dottore.»
«No, signore, nessun pagamento. Sono lieto che lei stia meglio» rispose
Sciamano, e gli lasciò un po' della pomata puzzolente, per farlo contento.
Cercò di includere visite che sapeva che suo padre avrebbe fatto, giusto per
salutare i pazienti. Arrivò alla fattoria degli Schroeder un po' prima di
mezzogiorno. «In tempo per il pranzo» Io salutò cordialmente Alma, e fece il
broncio quando Sciamano rispose che si era portato dietro la colazione.
«Bene, portala in cucina e la mangerai con noi» lo invitò Alma e fu lieto di
accettare per restare in loro compagnia. Sarah gli aveva preparato dell'agnello
freddo a fette, e una patata dolce al forno e tre toast spalmati di miele. Alma
servì un piatto di quaglie fritte e focacce ripiene di pesche. «Non avrai il
coraggio di rifiutare le mie focacce, fatte con il mio ultimo vaso di marmella-
ta!» minacciò Alma, e Sciamano ne prese due, ed ebbe una buona porzione di
389
quaglie.
«Tuo padre non si portava dietro la colazione, quando veniva da noi all'ora
di pranzo!» lo rimproverò Alma. Lo guardò negli occhi. «Pensi di restare a
Holden's Crossing, ora? Di essere il nostro medico?»
Sciamano si accigliò. Era una domanda naturale, che egli stesso avrebbe
dovuto porsi e finora aveva evitato. «Be', Alma... veramente non ci ho ancora
pensato.»
Gus Schroeder si chinò verso di lui e gli bisbigliò, come se gli comunicasse
un segreto: «E perché allora non ci pensi?».

A metà del pomeriggio Sciamano si recò alla casa degli Snow. Edwin Snow
coltivava frumento in una fattoria a nord di Holden's Crossing: era quella più
lontana da casa Cole a cui si potesse arrivare restando nei confini della città.
Snow aveva subito mandato a chiamare il dottor Cole, appena era corsa la voce
che era tornato, perché aveva una brutta infezione a un piede. Sciamano lo
trovò che camminava spedito, senza neppure zoppicare. «Oh, il mio alluce va
benone» gli disse allegramente. «Suo padre me l'ha curato: mentre Tilda mi
teneva fermo il piede, lui tagliava e apriva con quel suo coltellino e la sua
mano esperta, ferma come una roccia. L'ho tenuto a bagno nei sali, come mi
aveva detto lui, per far uscire il pus. Curioso, però, che lei sia venuto proprio
oggi. Tilda sta poco bene.»
Trovarono Mrs. Snow che dava da mangiare ai polli, pallida e malferma,
come se non avesse la forza di gettare il mangime. Era una donna tarchiata e
grossa con la faccia arrossata, e ammise di sentirsi «un po' calda». Sciamano
vide subito che aveva la febbre alta e si accorse del senso di sollievo della
donna quando le ordinò di restare a letto, anche se lei protestava che non era
necessario. Ma confessò al dottore che da un paio di giorni aveva un dolore
sordo alla schiena e aveva perduto l'appetito.
Sciamano fu subito allarmato, ma si sforzò di parlare con disinvoltura,
dicendole che le occorreva solo un po' di riposo, mentre il marito si sarebbe
occupato dei polli e degli altri animali. Le lasciò una bottiglietta di tonico e
promise di ripassare il giorno dopo. Snow cercò di discutere quando Sciamano
rifiutò di farsi pagare la visita, ma il giovane fu inflessibile. «Niente paga-
mento. Io non sono il vostro medico di famiglia, ero passato soltanto a salutar-
vi.» Non poteva ricevere denaro per curare una malattia che forse la donna
aveva preso da suo padre.
L'ultima tappa della giornata fu al convento di San Francesco.
Madre Miriam fu sinceramente lieta di vederlo. Quando lo invitò a sedersi,
390
Sciamano scelse la sedia di legno dallo schienale diritto dove si era seduto le
poche volte che era venuto al convento con suo padre.
«E allora» cominciò la Madre Superiora «è venuto a dare un'occhiata alla
casa paterna?»
«Qualcosa di più. Devo vedere se mio padre ha per caso contagiato con la
febbre tifoide qualcun altro a Holden's Crossing, Lei o suor Maria Benedicta
avete riscontrato qualche sintomo?»
Madre Miriam scosse la testa. «No, e non mi aspetto di trovarne. Noi siamo
abituate ad assistere pazienti con ogni sorta di malattie, come lo era suo padre.
Forse anche lei, ja!»
«Si, penso di essere abituato anch'io.»
«Io credo che il Signore protegga le persone come noi.»
Sciamano sorrise. «Spero che lei abbia ragione.»
«Avete curato molti casi di tifoide nel vostro ospedale?»
«Ne abbiamo avuta la nostra razione. Teniamo i malati contagiosi in un
edificio separato, lontani dagli altri.»
«Ja, è ragionevole. Mi dica del suo ospedale.»
Così Sciamano le parlò del Southwestern Ohio Hospital, cominciando dal
personale infermieristico perché sapeva che questo argomento avrebbe interes-
sato la suora, per passare poi al corpo medico e chirurgico, e alla sezione di
patologia. La suora gli poneva delle domande intelligenti, che lo spronavano a
continuare. Le parlò delle sue esperienze di chirurgo con il dottor Berwyn e del
suo lavoro di patologo con il dottor Barnett McGowan.
«Così lei ha avuto un buon addestramento e una buona esperienza. E
adesso, che cosa farà? Resterà a Cincinnati?»
Sciamano si trovò a raccontare che già Alma Schroeder glielo aveva chie-
sto, e che non era ancora pronto a rispondere.
Madre Miriam lo guardò con interesse. «E perché trova così difficile
decidere?»
«Quando vivevo qui, mi sentivo sempre incompleto: un ragazzo sordo in
mezzo a persone che udivano. Amavo e ammiravo mio padre e volevo essere
come lui. Bramavo disperatamente diventare medico, anche se tutti, persino
mio padre, mi dicevano che non era possibile.
«Il mio sogno è sempre stato quello di diventare un medico. Ora il sogno si
è realizzato. Non sono più incompleto, sono di ritorno nei luoghi che amo. Per
me questi luoghi apparterranno sempre al vero medico, mio padre.»
Madre Miriam annuì. «Ma lui non c'è più, Sciamano.»
Sciamano rimase in silenzio. Sentì battergli forte il cuore, come se ricevesse
391
la notizia per la prima volta.
«Voglio che lei faccia qualche cosa per me» aggiunse la suora. Gli additò la
poltrona di cuoio. «Prego, si sieda là dove sedeva sempre lui.»
Riluttante, un po' rigido, Sciamano si alzò dalla sedia di legno e si sedette
nella poltrona imbottita. Madre Miriam attese un attimo. «Non è così scomoda,
credo.»
«È comodissima.»
«E lei ci sta molto bene...» Sorrise e gli diede lo stesso consiglio che già gli
aveva dato Gus Schroeder. «E allora deve pensarci.»

Tornando a casa si fermò da Howard e comprò una bottiglia di whisky. «Mi


dispiace per suo padre» borbottò a disagio Julian Howard e Sciamano si limitò
ad annuire, sapendo bene che fra i due non c'erano stati buoni rapporti. Mollie
Howard riteneva che Mal e Alex fossero tuttora nell'esercito confederato, per-
ché non aveva più avuto notizie del figlio da quando i due ragazzi erano fuggiti
da casa. «Penso che se fossero al di qua della linea del fronte, l'uno o l'altro
avrebbero dato qualche notizia a casa» aggiunse, e Sciamano convenne che
aveva ragione.
Dopo cena Sciamano portò la bottiglia alla capanna di Alden, come offerta
di pace. Se ne versò un dito anche per sé, sapendo che Alden non amava bere
da solo quando era in compagnia di un altro. Attese che Alden si fosse scolato
diversi bicchieri prima di affrontare l'argomento della fattoria. «Come mai tu e
Doug Penfield avete fatto tanta fatica a portare avanti il lavoro quest'anno?»
Alden uscì in un torrente di parole. «Questo va avanti da un bel pezzo! Non
vendiamo mai un animale, tranne qualche agnello di primavera a un vicino per
il pranzo pasquale e così ogni anno il gregge cresce e ci sono sempre più peco-
re da lavare e tosare e foraggiare. Ho cercato di indurre tuo padre a occuparsi
della cosa, prima che partisse per l'esercito, ma non c'è stato niente da fare.»
«Bene, parliamone adesso. Quanto ricaviamo da ogni libbra di lana?» Tras-
se di tasca taccuino e matita.
Per quasi un'ora parlarono di lana e di prezzi, e delle prospettive del mercato
dopo la guerra, e della quota di terreno necessaria per ogni pecora e dei giorni
di lavoro e dei costi per ogni giorno. Quando ebbero finito, Sciamano aveva un
taccuino pieno di note.
Alden si era raddolcito. «Ora, se mi dici che Alex tornerà presto, questo
cambia le cose, perché quel ragazzo è un buon lavoratore. Ma la verità è che
potrebbe essere morto, là in qualche posto nel Sud, e sai bene che può essere
così, Sciamano.»
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«Sì, può essere. Ma se non ho una notizia diversa, io penso sempre che sia
vivo.»
«Bene, mio Dio, sicuro. Ma sarà meglio non contare su di lui, facendo i
nostri progetti, ecco.»
Sciamano sospirò e si alzò. «Ti dico una cosa, Alden. Domani pomeriggio
dovrò andare a fare altre visite, ma domattina lavorerò a piantare le maclure.»

La mattina dopo di buonora Sciamano era già nei campi, in abiti da lavoro.
Era una bella giornata per il lavoro all'aperto, asciutta e ventilata, con un im-
menso cielo pieno di nubi che non minacciavano pioggia. Non aveva fatto
lavoro di braccia da molto tempo e sentì i muscoli indolenziti prima ancora di
finire di scavare la prima buca. Aveva piantato solo tre maclure quando sua
madre comparve nella prateria in sella a Boss, seguita da un colono svedese,
tale Par Swanson, che Sciamano conosceva di vista.
«È per mia figlia» gli gridò il colono da lontano. «Ho paura che si sia rotta
il collo.»
Sciamano prese il cavallo della madre e segui il colono. Era una cavalcata di
circa dodici minuti fino alla casa degli Swanson. Dalla breve descrizione del-
l'uomo, tremava all'idea di quello che avrebbe potuto trovare, ma, quando ar-
rivarono, vide subito che la bambina era viva e soffriva molto.
Selma Swanson era una bambina biondissima, di neanche tre anni. Le pia-
ceva montare sul carro che spargeva il concime, insieme con suo padre. Quella
mattina il carro aveva spaventato un grosso falco che stava divorando un topo
nel campo. Il falco si era alzato di colpo in volo, terrorizzando i cavalli, che
avevano fatto uno scarto violento, e la piccola aveva perso l'equilibrio ed era
caduta. Mentre lottava per controllare gli animali, Par aveva visto che la figlia,
cadendo, era stata colpita dall'angolo del carro. «Mi è sembrato che l'avesse
colpita al collo» spiegò al medico.
La bambina si stringeva il braccio sinistro al petto con la mano destra, la sua
spalla sinistra appariva sporgente in avanti. Sciamano la esaminò. «No, si tratta
della clavicola.»
«È rotta?» chiese la madre.
«Be', un po' piegata, forse una piccola incrinatura. Non si preoccupi. Sareb-
be grave se fosse un adulto. Ma alla sua età le ossa sono ancora flessibili come
rametti verdi, e guariscono molto rapidamente.» Con panni fornitigli da Mrs.
Swanson il medico fece una piccola tracolla per il braccio sinistro della
bambina, poi le legò il braccio al corpo con un altro panno, per impedire alla
clavicola di muoversi.
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La piccola si era calmata quando Sciamano finì di bere il caffè che Mrs.
Swanson aveva fatto bollire sulla stufa. Si trovava ormai a poca distanza da
diversi pazienti che aveva stabilito di visitare quel giorno, e pensò che non
aveva senso tornare a casa e poi uscire di nuovo. Così si avviò direttamente a
fare le sue visite.
La moglie di uno dei nuovi coloni, Mrs. Royce, gli offrì a mezzogiorno una
bella porzione di pasticcio di carne. Era già il tardo pomeriggio quando tornò a
casa. Mentre passava accanto al campo dove aveva cominciato a lavorare quel
mattino, vide che Alden aveva messo Doug Penfield a piantare la siepe di
maclure, e una lunga fila di verdi virgulti si estendeva già nella prateria.

59

Il padre segreto

«Dio non voglia!» mormorò Lillian. Nessuno dei Geiger presentava sintomi
di febbre tifoide, confermò. Sciamano pensò che il viso della donna rivelava lo
sforzo e la tensione di portare avanti la fattoria, la casa e i figli senza l'aiuto del
marito. L'attività della farmacia ne aveva un po' sofferto, ma Lillian continuava
a badare anche ad alcuni aspetti del commercio di Jason e importava prodotti
farmaceutici per To-bias Barr e Julius Barton.
«Il problema è che Jason si faceva mandare molti prodotti dalla fabbrica
farmaceutica della sua famiglia a Charleston. E ora naturalmente la Carolina
del Sud è tagliata fuori dalla guerra» spiegava Lillian versando il tè.
«Hai notizie di Jason?»
«Non ultimamente.»
Pareva a disagio quando Sciamano le chiedeva del marito, ma lui capiva:
Lillian esitava a parlare per paura di poter dire qualcosa che potesse danneg-
giare Jason o la sua famiglia, o rivelare segreti militari. Era difficile per una
donna vivere in uno stato dell'Unione mentre il marito combatteva in Virginia
con i confederati.
L'atmosfera divenne più cordiale quando cominciarono a parlare della car-
riera di Sciamano. Lillian sapeva tutto dei suoi progressi all'ospedale e delle
promesse che gli erano state fatte. Ovviamente sua madre confidava all'amica
le notizie che riceveva dalle sue lettere.
«Cincinnati è una città così cosmopolita» diceva Lillian. «Sarà magnifico
per te stabilirti là, insegnare all'Istituto di Medicina e fare una brillante carriera
di chirurgo. Jay e io siamo tanto fieri dì te.» Tagliava sottili fette di torta al
394
caffè e gliene riempiva il piatto.
«Quando pensi di tornare all'ospedale?»
«Non sono tanto sicuro di tornare.»
«Sciamano! Tu sei venuto a casa quando tuo padre è morto e ti sei occupato
di tutto il necessario. Ora devi cominciare a pensare a te stesso e alla tua
carriera. Sai cosa vorrebbe per te tuo padre?»
«Che cosa vorrebbe, zia Lillian?»
«Tuo padre vorrebbe che tu tornassi a Cincinnati e facessi la tua carriera.
Devi tornare là il più presto possibile» affermò Lillian solennemente.

Sapeva che Lillian aveva ragione. Se doveva partire, era meglio non indu-
giare. Ogni giorno era chiamato in diverse fattorie, poiché era circolata la voce
che c'era di nuovo un medico a Holden's Crossing. Ogni volta che curava un
paziente, era come se un altro sottilissimo filo lo legasse alla zona. Certo, quei
fili si potevano spezzare; se partiva, il dottor Barr poteva assumersi la cura dei
suoi pazienti che avevano ancora bisogno di assistenza. Ma questo aumentava
in lui la sensazione che c'erano cose da non lasciare in sospeso.
Suo padre aveva tenuto un elenco di nomi e indirizzi che Sciamano consultò
con somma attenzione. Scrisse della morte del padre al dottor Oliver Wendell
Holmes a Boston, e allo zio Herbert che non aveva mai visto: così lo zio non
avrebbe più dovuto preoccuparsi che il fratello tornasse in Scozia a reclamare
la sua parte di eredità.
Passava ogni momento libero a leggere i diari, affascinato da taluni lati del
carattere del padre che gli erano poco noti. Rob J. Cole aveva scritto della sor-
dità del figlio con dolore e tenerezza e Sciamano, leggendo, sentiva il calore
del suo affetto. L'angoscia di suo padre nel descrivere la morte di Makwa-ikwa
e le morti successive di Vien Cantando e di Luna ridestava in lui sentimenti da
lunghi anni sepolti. Rileggeva il referto sull'autopsia di Makwa-ikwa, chieden-
dosi se gli era sfuggito qualcosa nelle precedenti letture, cercando di capire se
il padre aveva omesso qualcosa nel suo esame e se lui, Sciamano, avrebbe
operato diversamente se avesse eseguito personalmente l'autopsia.
Quando arrivò al quaderno dell'anno 1853 rimase stupefatto. Trovò nel cas-
setto della scrivania del padre la chiave del capannone chiuso, dietro il fienile:
andò al fienile, aprì il grosso catenaccio ed entrò. Era appunto il capannone che
ben conosceva: gli scaffali contenevano provviste di medicine, tonici e pomate,
e dalle travi pendevano mazzi di erbe secche, l'eredità di Makwa. C'erano la
vecchia stufa a legna e il tavolo delle autopsie dove tante volte aveva assistito
all'opera del padre. Bacinelle di drenaggio e secchi pendevano da chiodi infissi
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nelle pareti. A un altro chiodo era ancora appeso il vecchio maglione marrone
del padre.
Il capannone non era stato spazzato e spolverato da anni. Ovunque pendeva-
no ragnatele, ma Sciamano le ignorò. Si accostò al punto della parete che
pensava fosse quello giusto, ma quando tentò l'asse, nulla si mosse. Cera un
piede di porco nel fienile, ma non fu necessario: quando provò a spingere l'asse
accanto, si spostò facilmente e così un paio d'altre.
Era come affacciarsi alla bocca di una caverna. Era troppo buio nel capan-
none, la grigia luce naturale entrava solo da una piccola finestra polverosa.
Sciamano spalancò la porta, ma la luce era ancora scarsa e dovette accendere la
lanterna, che conteneva ancora un po' di petrolio.
La accostò all'apertura e la fiammella gettò ombre vacillanti nel rifugio
segreto.
Sciamano strisciò dentro. Suo padre lo aveva lasciato pulito. Conteneva an-
cora un catino, una scodella e una vecchia coperta accuratamente piegata che
riconobbe subito per averla già vista molte volte in casa. Lo spazio era assai
ristretto e Sciamano era alto e robusto, come lo era stato suo padre.
Certo anche alcuni degli schiavi fuggitivi erano stati uomini alti e robusti.
Spense la lanterna e rimase al buio nell'angusto rifugio. Cercò di immagi-
nare come si sarebbe sentito se l'entrata fosse stata chiusa dalle assi e il mondo
esterno fosse stato tutto una muta di cani lanciati a inseguirlo e avesse dovuto
scegliere se essere un animale da fatica o un animale braccato.
Quando, poco dopo, strisciò fuori del rifugio, tolse il vecchio maglione dal
chiodo e lo indossò, anche se la giornata era già calda. Aveva ancora l'odore di
suo padre.
Per tutto quel tempo, pensò, per tutti quegli anni, mentre lui e Alex viveva-
no in casa e litigavano e facevano chiasso e badavano ai loro desideri e ai loro
bisogni, suo padre aveva tenuto racchiuso dentro di sé questo immane segreto,
aveva vissuto questa esperienza da solo. Sentì un disperato desiderio di parlare
con Rob J., di condividere quell'esperienza, di fargli domande, di esprimergli il
suo amore e la sua ammirazione. Nella sua stanza all'ospedale aveva pianto
brevemente quando aveva ricevuto il telegramma che gli annunciava la perdita
del padre. Ma in treno era distratto e insensibile e si era controllato durante il
funerale per amore di sua madre. Ora si appoggiò alla parete, vicino all'entrata
del rifugio, e si lasciò scivolare a terra e rimase seduto sul pavimento polveroso
come un bambino, e come un bambino che chiamasse il padre si abbandonò al
suo dolore, sapendo bene che ora la sua solitudine sarebbe sempre stata più
profonda che in passato.
396
60

Un caso di crup

Furono fortunati. Non ci furono altri casi di febbre tifoide a Holden's


Crossing. Erano passate due settimane e sul corpo di Tilda Snow non era
comparso alcun esantema. La febbre era calata abbastanza presto, senza emor-
ragia neppure lieve, e un pomeriggio, quando Sciamano arrivò alla fattoria
Snow, la vide che era fuori a lavare i porcellini. «È stata una brutta influenza,
ma ora è finita» disse al marito. Se gli Snow ora avessero voluto pagarlo,
avrebbe accettato il denaro, invece il colono gli diede una coppia di belle oche
che aveva ucciso, appeso, ripulito e spennato apposta per lui.
«Ho una vecchia ernia che mi tormenta» aggiunse Snow.
«Bene, diamoci un'occhiata.»
«Ma non voglio cominciare una cura proprio adesso che ho il primo taglio
del fieno.»
«Quanto le ci vorrà? Sei settimane?»
«Pressappoco.»
«Venga a farsi vedere allora, all'ambulatorio.»
«Che, lei ci sarà ancora?»
«Sì» rispose Sciamano, e sorrise al colono: e fu così che decise di stare a
casa, tranquillamente e senza angosce, senza neppure rendersi conto di aver
preso la decisione.
Diede le oche alla madre e le suggerì di invitare Lillian Geiger e i suoi figli
a pranzo. Ma Sarah obiettò che non era un momento opportuno per Lillian
venire a pranzo da loro proprio ora, ed era meglio mangiarsi le oche da soli,
loro due e i braccianti.
Quella notte Sciamano scrisse a Barnett McGowan e a Lester Berwyn una
lettera per ciascuno, esprimendo la sua riconoscenza per quanto avevano fatto
per lui all'Istituto di Medicina e all'ospedale e spiegando che si dimetteva per
assumersi l'attività medica di suo padre a Holden's Crossing. Scrisse anche a
Tobias Barr a Rock Island, ringraziandolo per l'opera prestata tutti i mercoledì
a Holden's Crossing: gli comunicava che ora intendeva restarvi come medico
fisso e gli chiedeva di presentarlo come membro alla Società Medica della
contea.
Scritte le lettere, comunicò la sua decisione alla madre e vide il suo volto
brillare di gioia e di sollievo all'idea di non restare sola. Sarah si avvicinò e lo
baciò sulla guancia. «Lo dirò alle signore della chiesa» esclamò Sarah e Scia-
397
mano sorrise, sapendo che, praticamente, non c'era bisogno di altro annuncio.
Sedettero vicini a conversare e far progetti. Sciamano avrebbe usato l'ambu-
latorio e il capannone del fienile come aveva fatto suo padre: avrebbe ricevuto i
pazienti all'ambulatorio nella mattinata e avrebbe fatto le visite a domicilio nel
pomeriggio. Pensava di continuare a praticare gli stessi prezzi del padre: non
erano eccessivi eppure avevano sempre mantenuto la famiglia nel benessere.
Aveva riflettuto anche sui problemi della fattoria e Sarah ascoltò le sue
proposte e annuì.
La mattina dopo era seduto nella casetta di tronchi di Alden e bevendo un
orribile caffè gli spiegava che avevano deciso di ridurre il numero delle pecore
del loro gregge.
Alden ascoltava attentamente, succhiando la sua pipa. «Tu sai che cosa
significa, vero? Sai che il prezzo della lana resterà alto finché durerà la guerra?
E che se ridurremo il gregge avremo meno profitti di ora?»
Sciamano annuì. «Mia madre e io sappiamo che l'altra alternativa sarebbe
portare avanti un'impresa di maggiori proporzioni, che richiederebbe più mano
d'opera e più lavoro amministrativo, e nessuno di noi lo vuole. Il mio lavoro è
fare il medico, non curare le pecore. Ma non vogliamo neppure che la fattoria
Cole resti senza pecore. Quindi noi vorremmo che tu esaminassi il gregge e
scegliessi le migliori produttrici di lana: terremo queste e le alleveremo. Sele-
zioneremo le bestie ogni anno per produrre lana sempre migliore, e così saremo
in grado di spuntare sempre un buon prezzo. Terremo solo il numero di pecore
che tu e Doug Penfield sarete in grado di curare.»
Gli occhi di Alden brillarono. «Ecco, questa è quella che io chiamo un'ec-
cellente decisione!» esclamò e riempì nuovamente la tazza di Sciamano con il
suo pessimo caffè.

Talvolta era difficile per Sciamano leggere il diario, era troppo penoso per
lui penetrare nelle segrete emozioni di suo padre. C'erano momenti in cui lo
metteva da parte per una settimana, ma sempre vi tornava, sentendo il bisogno
di leggere le pagine successive perché sapeva che sarebbero state l'ultimo suo
contatto con il padre. Quando fosse arrivato alla fine, sapeva che non avrebbe
saputo più nulla di nuovo su suo padre: gli sarebbero rimasti solo i ricordi.
Erano un giugno piovoso e un'estate strana con una vegetazione precoce, sia
per le messi sia per gli alberi da frutto e le piante nei boschi. La popolazione di
conigli e lepri ebbe una crescita impressionante e le prolifiche bestiole invasero
i campi e arrivarono a brucar l'erba sotto i muri di casa e divorarono la lattuga e
i fiori dell'orto di Sarah Cole. L'umidità rendeva difficile la fienagione, interi
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campi di foraggio marcivano a terra senza poter asciugare e nutrivano sciami di
insetti che mordevano Sciamano e gli succhiavano il sangue mentre passava
per visitare i suoi pazienti. Malgrado tutto, trovava che era meraviglioso essere
il medico di Holden's Crossing. Gli era piaciuto lavorare all'ospedale di Cincin-
nati: là, se aveva bisogno di assistenza o di un consiglio da parte di un dottore
più anziano, c'era tutto il corpo medico a cui ricorrere. Qui era solo, e ogni mat-
tino non sapeva quali problemi avrebbe dovuto affrontare. Era l'essenza della
pratica della medicina, e Sciamano l'amava.
Tobias Barr gli disse che la Società Medica della contea si era sciolta perché
la maggior parte dei suoi medici era sotto le armi. Propose che intanto lui e
Sciamano e Julius Barton si riunissero una volta il mese per cenare insieme e
parlare di medicina: tennero infatti la prima di queste riunioni serali, in cui il
principale argomento di discussione fu il morbillo, che stava rapidamente dif-
fondendosi a Rock Island, ma non ancora a Holden's Crossing. Convennero che
era necessario convincere i pazienti, giovani e vecchi, a non graffiare e lacerare
le pustole, per quanto acuto fosse il prurito, e che il trattamento doveva consi-
stere in pomate calmanti, bevande rinfrescanti e polveri di Seidlitz. Gli altri due
medici si mostrarono assai interessati quando Sciamano riferì che all'ospedale
di Cincinnati la terapia comprendeva anche gargarismi con allume, qualora il
morbo avesse intaccato le vie respiratorie.
Al dessert il discorso cadde sulla politica. Il dottor Barr, come molti altri
repubblicani, pensava che l'atteggiamento di Lincoln verso gli Stati del Sud
fosse troppo debole. Era d'accordo con l'Atto di Ricostruzione Wade-Davis,
che prevedeva severi provvedimenti punitivi contro il Sud alla fine della guer-
ra, e che era stato approvato dalla Camera dei Deputati malgrado le obiezioni
di Lincoln. Incitati da Horace Greeley, i repubblicani dissidenti si erano riuniti
a Cleveland e avevano nominato un loro proprio candidato alla presidenza, il
generale John Charles Fremont.
«Pensate che il generale possa battere Lincoln?» chiese Sciamano.
Il dottor Barr scosse la testa, accigliato. «No, se dura ancora la guerra. Non
c'è niente come una guerra per far rieleggere un presidente.»

In luglio finalmente le piogge cessarono, ma il sole ardeva come un disco di


rame e la prateria era avvolta da vapori e bruciava e divenne color marrone. Il
morbillo raggiunse Holden's Crossing e Sciamano cominciò a essere destato
nel cuore della notte per correre al capezzale di un paziente, anche se l'epi-
demia non era violenta come a Rock Island. Sua madre gli disse che il morbillo
aveva infuriato a Holden's Crossing l'anno prima, facendo una mezza dozzine
399
di vittime, fra cui diversi bambini. Sciamano pensò che forse un'epidemia
grave del morbo poteva in qualche modo produrre una specie di immunità per
gli anni successivi. Decise di scriverne al dottor Harold Meigs, il suo profes-
sore di medicina interna a Cincinnati, chiedendogli se una tale teoria poteva
avere qualche validità.
In una sera plumbea e afosa che terminò in un violento temporale, Sciama-
no si era coricato sentendo ogni tanto le vibrazioni dei tuoni e aprendo gli occhi
ogni volta che la luce bianca di un lampo illuminava la stanza. Infine la
stanchezza lo vinse e cadde in un sonno profondo, tanto che quando sua madre
venne a scuoterlo per la spalla gli ci vollero diversi secondi per rendersi conto
di quanto avveniva.
Sarah alzò la lanterna verso il viso, perché il figlio potesse leggerle le
labbra. «Devi alzarti subito.»
«Qualcuno con il morbillo?» chiese, ma stava già vestendosi per uscire.
«No. C'è qui Lionel Geiger che è venuto a prenderti.»
Sciamano si era già messo le scarpe ed era sceso nell'atrio. «Che succede,
Lionel?»
«Il bambino di mia sorella. Soffoca. Non può respirare, fa un brutto suono,
come una pompa che non può aspirare acqua.»
Ci voleva troppo tempo per correre sul Sentiero Lungo attraverso i boschi, e
troppo tempo per attaccare un calesse o sellare un cavallo. «Prendo il tuo caval-
lo» disse a Lionel. Spinse l'animale sul sentiero, per quei quattro o cinquecento
metri di strada fino a casa Geiger, tenendo stretta la sua borsa medica per non
perderla.
Lillian Geiger aspettava sulla porta. «Entra.»
Rachel. Seduta sul letto nella sua vecchia stanza, con un bambino in brac-
cio. Il piccino aveva il viso blu e tentava debolmente di inspirare aria.
«Fa' qualcosa. Sta morendo.»
In effetti Sciamano pensò che il piccolo fosse vicino alla morte. Gli aprì la
bocca e gli infilò il pollice e l'indice nella gola. Il retrobocca e l'apice della
laringe erano occlusi da un'orrenda membrana mucosa, una membrana mortale,
spessa e grigia. Sciamano la strappò con le dita.
Immediatamente il bambino trasse profondi respiri a scatti, riempiendosi
d'aria i polmoni.
Sua madre lo strinse a sé, piangendo. «Oh Dio, Joshua, stai bene?» Aveva il
respiro ansimante e i capelli scompigliati.
Eppure, incredibilmente, era Rachel. Una Rachel più adulta, più donna. Che
aveva occhi solo per il suo bambino.
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Il piccolo aveva già un aspetto migliore, meno blu, il colore normale torna-
va sulle sue guance con l'ossigeno che arrivava ai polmoni. Sciamano pose la
mano sul petto del bambino per sentire il battito del cuore, poi gli controllò il
ritmo delle pulsazioni e per qualche momento tenne le due piccole mani nelle
sue. Il piccino ricominciò a tossire.
Lillian entrò nella stanza e Sciamano si rivolse a lei. «Che suono ha la
tosse?»
«Sordo... come l'abbaiare di un cane.»
«C'è un sibilo?»
«Sì, alla fine di ogni colpo di tosse, quasi un fischio.»
Sciamano annuì. «Crup catarrale. Fate bollire dell'acqua, bagni caldi per
tutta la notte, per rilassare i muscoli respiratori del suo petto. E deve inspirare
vapore.» Trasse dalla sua borsa una bustina di erbe di Makwa, una miscela di
calendula e serpentaria nera. «Fate un tè con queste erbe e fateglielo bere con
molto zucchero e il più caldo possibile. Gli terrà aperta la laringe e calmerà la
tosse.»
«Grazie, Sciamano.» Lillian gli strinse la mano. Quanto a Rachel, pareva
che non lo vedesse nemmeno. Aveva gli occhi smarriti e iniettati di sangue, la
veste macchiata del catarro del bambino.
Quando uscì da casa Geiger, Sciamano vide sua madre e Lionel che gli ve-
nivano incontro per il Sentiero Lungo: Lionel portava una lanterna che attirava
un enorme sciame di zanzare e falene. Le labbra di Lionel si muovevano e
Sciamano vi lesse la domanda.
«Va meglio, starà presto bene. Prima di entrare in casa, spegnete la lanterna
e badate che gli insetti se ne siano andati.»
S'incamminò da solo per il Sentiero Lungo: lo aveva preso tante volte che
non era un problema per lui percorrerlo al buio. Ogni tanto brillava un ultimo
lampo e i boschi neri lungo il viottolo parevano balzare contro di lui.
Nella suai stanza si spogliò come un sonnambulo. Ma quando fu a letto non
riuscì a dormire. Stordito e confuso, fissava il soffitto e le pareti nere e ovun-
que volgesse lo sguardo vedeva lo stesso viso.

61

Una franca discussione

Quando tornò alla casa dei Geiger la mattina dopo, fu lei che gli aprì la
porta, con una veste azzurra che pareva nuova. Aveva i capelli ben pettinati e
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Sciamano sentì il suo leggero profumo quando lei gli prese la mano.
«Salve, Rachel.»
«... Grazie, Sciamano.»
I suoi occhi erano immutati, splendidi e profondi, ma ancora segnati dalla
fatica. «Come sta il mio piccolo paziente?»
«Pare che vada meglio. La tosse non è più spaventosa come prima.» Lo
condusse su per le scale. Lillian sedeva al capezzale del nipotino con una
matita e dei fogli di carta e lo intratteneva con storielle e disegni. Il paziente,
che la notte prima agli occhi di Sciamano era solo un piccolo essere dolorante,
ora era un bel bambino con gli occhi neri e i capelli castani, e tante lentiggini
che risaltavano sul visetto pallido. Doveva avere circa due anni. Ai piedi del
letto sedeva una bambina, che sembrava avere diversi anni più del piccolo, ma
somigliava molto al fratellino.
«Questi sono i miei bambini» disse Rachel. «Joshua e Hattie Regensberg.
Bambini, questo è il dottor Cole.»
«Buongiorno, bambini» fece Sciamano.
«... 'giorno.» Il piccolo lo guardò intimidito.
«Buongiorno, dottore» salutò Hattie Regensberg. «Mamma dice che lei non
può sentirci e dobbiamo guardarla mentre parliamo e pronunciare distintamente
le parole.»
«Sì, è vero.»
«Perché lei non ci sente?»
«Sono sordo perché sono stato malato quando ero bambino» spiegò Sciama-
no disinvolto.
«Anche Joshua diventerà sordo?»
«No, certamente Joshua non sarà sordo.»
Dopo qualche minuto poté assicurare che Joshua stava molto meglio. I ba-
gni caldi e il vapore avevano fatto calare la febbre, il polso era forte e regolare
e, quando Sciamano collocò lo stetoscopio sul petto del piccolo paziente e
chiese a Rachel che cosa sentiva, lei riferì che non udiva rantoli. Sciamano
pose gli auricolari nelle orecchie di Joshua e gli fece sentire i battiti del suo
cuore, poi fu la volta di Hattie che prese lo stetoscopio, lo sistemò sul torace
del fratellino e annunciò che sentiva solo «gorgogli».
«Vuol dire che ha fame» spiegò Sciamano e consigliò a Rachel di tenerlo a
una dieta leggera ma nutriente per un paio di giorni. Poi disse ai due bambini
che la loro madre conosceva certi posti eccellenti per pescare lungo il fiume e li
invitò a visitare la fattoria dei Cole per giocare con gli agnelli.
Quando si accomiatò, Rachel lo accompagnò alla porta.
402
«Hai dei bellissimi bambini.»
«Sono belli, vero?»
«Condoglianze per tuo marito, Rachel.»
«Grazie, Sciamano.»
«E ti auguro buona fortuna per il tuo imminente matrimonio.»
Rachel parve sorpresa. «Che matrimonio?» ribatté, ma in quel momento sua
madre scendeva dalle scale.
Lillian passò tranquilla attraverso la stanza, ma il colore acceso sul suo viso
era come un ammonimento.
«Sei male informato. Non ho nessun progetto di matrimonio» replicò Ra-
chel seccamente, a voce abbastanza alta perché la madre la sentisse, e il suo
viso era molto pallido quando si accomiatò da Sciamano.

Quel pomeriggio, mentre tornava a casa in sella a Boss, Sciamano raggiunse


una solitaria figura di donna che camminava da sola, e avvicinandosi riconobbe
la veste azzurra. Rachel portava comode scarpe da campagna e un vecchio
berretto per proteggersi dal sole. Sciamano la chiamò e lei si voltò e lo salutò
con voce quieta.
«Posso accompagnarti?»
«Sì, grazie.»
Sciamano scese di sella e camminò al suo fianco, conducendo il cavallo per
le briglie.
«Non so che idea ha avuto mia madre, venire a dirti che sto per sposarmi! Il
cugino di Joe si è interessato a me, ma non ci sposeremo. Io credo che mia
madre mi spinga verso di lui perché è ansiosa che i bambini abbiano di nuovo
un padre adatto.»
«Pare che ci sia una congiura delle madri. La mia non mi aveva detto che eri
tornata, e ha taciuto apposta, sono sicuro.»
«È offensivo da parte loro» soggiunse Rachel, e Sciamano vide le lacrime
nei suoi occhi. «Ci credono stupidi. Io so che ho due bambini che hanno biso-
gno di un padre ebreo, e certamente, l'ultima cosa che a te può interessare è una
donna ebrea che ha due bambini e che è in lutto.»
Sciamano le sorrise. «Sono dei simpatici bambini. E hanno una simpatica
madre. Ma è vero, io non sono più un quindicenne infatuato.»
«Ho pensato spesso a te, dopo essermi sposata. Mi dispiaceva molto che tu
ne soffrissi.»
«È cosa passata.»
«Eravamo bambini, eravamo spinti l'uno verso l'altra in tempi difficili. Io
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avevo il terrore del matrimonio, e tu eri il mio buon amico.» Gli sorrise. «Tu
sei il mio amico fedele. Quando eri ancora un bambino, hai detto che avresti
ucciso, per proteggermi. E adesso siamo adulti, e tu hai salvato mio figlio.» Gli
pose una mano sul braccio. «Spero che resteremo sempre amici. Finché vivre-
mo, Sciamano.»
Sciamano si schiari la gola. «Oh, certo, lo saremo» assicurò goffamente. Per
un tratto camminarono in silenzio e Sciamano le chiese se voleva montare a
cavallo.
«No, preferisco continuare a piedi.»
«Bene, allora io vado, perché ho ancora tante cose da fare prima di cena.
Buon pomeriggio, Rachel.»
«Buon pomeriggio, Sciamano.» Lui rimontò in sella e si allontanò, lascian-
dola camminare pensosa per il sentiero.

Si disse che Rachel era una donna forte, piena di senso pratico, che aveva il
coraggio di guardare in faccia le cose, e decise di imparare da lei. Sentì di aver
bisogno della compagnia di una donna. Fece una visita a Roberta Williams, che
soffriva di "disturbi femminili" e aveva cominciato a bere in modo eccessivo.
Distogliendo gli occhi dal manichino con le natiche d'avorio, le chiese di sua
figlia e seppe che Lucille aveva sposato un postino tre anni prima, e viveva a
Davenport. «Fa un figlio ogni anno. Non viene mai a trovarmi se non ha biso-
gno di denaro, quella» si lagnò Roberta. Sciamano le lasciò una bottiglietta di
tonico.
Proprio nel momento del più triste sconforto, si sentì chiamare sulla Main
Street da Tobias Barr, che sedeva nel suo calesse con due donne. Una era la sua
piccola bionda moglie, Frances, e l'altra era la nipote di Frances, venuta in
visita da St. Louis. Evelyn Flagg aveva diciotto anni, era più alta di Frances
Barr ma bionda come lei, e aveva il più perfetto profilo femminile che Sciama-
no avesse mai visto.
«Stiamo portando Evie a visitare la città» gli disse il dottor Barr. «Hai letto
Romeo e Giulietta, Sciamano?»
«Sì, l'ho letto.»
«Bene, una volta mi hai detto che, quando conosci già un'opera, ti piace
vederla rappresentare. Questa settimana c'è a Rock Island una compagnia di
prosa e noi andiamo a sentirla. Vuoi venire con noi?»
«Sicuro, mi piacerebbe.» E Sciamano sorrise a Evelyn, che gli rispose con
un sorriso raggiante.
«Una cena leggera a casa nostra, allora, alle cinque» propose Frances Barr.
404
Sciamano si comprò una camicia bianca e una cravatta nera e rilesse la
tragedia. I Barr avevano invitato anche Julius Barton e sua moglie Rose.
Evelyn portava un abito azzurro che metteva in risalto i suoi capelli biondi. Per
un attimo Sciamano cercò di ricordare dove aveva visto negli ultimi tempi
quella tinta azzurra, e poi si rese conto che era stata la veste di Rachel Geiger.
L'idea di cena leggera di Frances Barr era un pranzo di sei portate. Sciama-
no trovò difficile portare avanti la conversazione con Evelyn. Quando le faceva
una domanda, lei rispondeva con un piccolo sorriso nervoso e un leggero cenno
della testa. Parlò solo due volte di sua iniziativa, una volta per dire alla zia che
l'arrosto era eccellente, e una seconda volta durante il dessert per confidare a
Sciamano che andava matta per le pesche e le pere, ed era felice che maturas-
sero in stagioni diverse, così non era obbligata a scegliere fra i due frutti.
Il teatro era affollato, la sera era calda, come può esserlo solo una sera di
fine estate. Arrivarono poco prima che si alzasse il sipario, perché le sei portate
del pasto avevano richiesto molto tempo. Tobias Barr aveva comprato i
biglietti tenendo presente la condizione di Sciamano: erano seduti in platea al
centro della terza fila e avevano appena preso posto quando gli attori pronun-
ciarono le prime battute. Sciamano osservava con un binocolo da teatro che gli
consentiva di leggere facilmente le loro labbra e poté godersi veramente lo
spettacolo. Durante il primo intervallo accompagnò il dottor Barr e il dottor
Barton fuori del teatro, e, mentre aspettavano in coda davanti ai gabinetti, si
dissero d'accordo che la rappresentazione era assai interessante. Il dottor Barton
pensava che forse l'attrice che recitava la parte di Giulietta era incinta. Il dottor
Barr supponeva che Romeo portasse un cinto erniario.
Sciamano si era concentrato sulle bocche degli attori, ma durante il secondo
atto osservò attentamente Giulietta e non vide ragioni per credere al sospetto di
Barton. Tuttavia non v'era dubbio che Romeo portasse un cinto erniario.
Alla fine del secondo atto le porte si aprirono a una piacevole brezza e si
accesero le luci. Sciamano ed Evelyn rimasero seduti ai loro posti e cercarono
di conversare. Evie disse che a St. Louis andava spesso a teatro. «Trovo molto
spirituale assistere alle recite, e lei?»
«Si, ma ci vado raramente» rispose lui con aria assente. Curiosamente
sentiva di essere osservato. Studiò con il binocolo gli spettatori alla balconata
di sinistra e poi quelli alla balconata di destra. Nella seconda galleria a destra
vide Lillian Geiger e Rachel. Lillian portava un abito di lino marrone con
grandi maniche di merletto a campana. Rachel era seduta proprio sotto la
lampada, per cui doveva allontanarsi continuamente dal viso le falene che
turbinavano intorno alla luce, ma Sciamano aveva la possibilità di osservarla
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bene. Aveva i capelli ben pettinati e raccolti sulla nuca in un nodo lucente;
indossava un abito nero che pareva di seta e Sciamano si chiese quando
avrebbe cessato di portare il lutto in pubblico. L'abito non aveva colletto, per
essere più fresco, e aveva corte maniche a sbuffo. Sciamano studiava le braccia
ben tornite e il seno colmo, ma tornava sempre al volto. A un certo punto
Rachel si girò e volgendo gli occhi in basso vide che lui stava osservandola con
il binocolo: lo fissò per un lungo momento, poi distolse lo sguardo mentre le
maschere spegnevano le luci.
Il terzo atto gli sembrò interminabile. Proprio nel momento in cui Romeo
diceva a Mercuzio: Coraggio, amico. La ferita non può esser grave, si accorse
che Evelyn Flagg cercava di dirgli qualcosa. Sentì il suo fiato caldo e leggero
sull'orecchio, mentre Mercuzio replicava: No, non è profonda quanto un pozzo,
né larga quanto il portale d'una chiesa, ma basterà, e davvero non occorrerà
dell'altro.
Abbassò il binocolo e voltò la testa verso la ragazza, che gli sedeva a fianco
nel buio, pensando un po' sorpreso che dei bambini piccoli come Joshua e
Hattie Regensberg capivano il principio della lettura delle labbra, mentre Eve-
lyn Flagg non era in grado di capirlo.
«Io non posso sentire le sue parole.»
Non era abituato a bisbigliare e senza dubbio la sua voce suonò troppo alta,
perché lo spettatore che sedeva davanti a lui si voltò e lo fissò. «Mi scusi!»
cercò di mormorare. Sperò sinceramente che questa volta la sua voce fosse
stata più bassa e riportò il binocolo agli occhi.

62

A pesca

Sciamano si domandava che cosa consentisse a uomini come suo padre e


come George Cliburne di rifiutare la violenza, mentre altri uomini non sape-
vano farlo. Pochi giorni dopo la serata a teatro si recò di nuovo a Rock Island,
questa volta per parlare con Cliburne di pacifismo. Non riusciva a credere alla
rivelazione del diario, da cui Cliburne risultava l'uomo freddo e coraggioso che
aveva condotto gli schiavi fuggitivi da suo padre e poi era venuto a riprenderli
per accompagnarli al successivo nascondiglio. Quel grasso e calvo mercante di
granaglie non aveva proprio un'aria eroica, né appariva il tipo d'uomo capace di
rischiare tutto per un principio, sfidando la legge. Sciamano era pieno di
ammirazione per il ferreo uomo segreto che abitava nel pingue corpo del
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bottegaio.
Cliburne era nel suo negozio e annuì alla richiesta di Sciamano. «Bene, tu
puoi farmi le tue domande sul pacifismo e ne parleremo insieme, ma sarà
meglio che tu cominci a leggere qualcosa sull'argomento.» Disse al commesso
che sarebbe tornato presto e condusse Sciamano a casa sua. Scelse dalla sua
libreria alcuni volumi e un opuscolo. «Forse ti piacerebbe assistere alle riunioni
della nostra Società degli Amici, qualche volta.»
Sciamano dubitava di averne voglia, ma ringraziò Cliburne e tornò a casa
con i suoi libri. Furono nel complesso una delusione, poiché parlavano perlopiù
della setta dei quaccheri. Apprese che la Società degli Amici era stata fondata
in Inghilterra nella prima metà del 1600 da George Fox, che era convinto che
"la luce interiore del Signore" stava nei cuori di tutti gli uomini. Secondo i libri
di Cliburne, i quaccheri si appoggiavano a vicenda in una semplice vita di
amore e amicizia. Non riconoscevano un credo, né dogmi: consideravano ogni
vita come sacra e non osservavano liturgie speciali. Non avevano un clero ma
credevano fermamente che qualsiasi laico fosse in grado di ricevere lo Spirito
Santo: un principio fondamentale della loro religione era il rifiuto della guerra
e il lavoro per la pace.
Gli Amici erano stati perseguitati in Inghilterra, e il loro nome all'inizio fu
un insulto. Trascinato davanti al giudice, Fox dichiarò che «tremava alla Parola
del Signore» e il giudice lo chiamò «a quaker» un tremante. William Penn
fondò la sua colonia in Pennsylvania come asilo per gli Amici inglesi persegui-
tati e per tre quarti di secolo la Pennsylvania non ebbe esercito e tenne solo un
piccolo numero di poliziotti.
Sciamano si domandò come facessero a trattare gli ubriachi. Quando chiuse
i libri di Cliburne, non aveva appreso molto del pacifismo, né era stato toccato
dalla luce interiore.

Quel settembre era ancora caldo con giornate limpide e brezze gentili. Nelle
sue visite a domicilio Sciamano preferiva prendere i sentieri lungo il fiume,
godendosi lo scintillio del sole sulle mobili acque e la vista dei trampolieri che
pescavano sulle loro lunghe zampe, pochi ormai perché per la maggior parte
stavano già migrando verso sud.
Un pomeriggio cavalcava lentamente verso casa quando vide tre figure
familiari sotto un albero sulla riva del fiume. Rachel stava liberando un pesce
dall'amo, mentre il figlioletto reggeva la canna, e quando gettò di nuovo
nell'acqua il pesce che si dibatteva Sciamano poté vedere dall'espressione di
Hattie che era imbronciata. Voltò il cavallo e si diresse verso di loro.
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«Salve, amici!»
«Salve!» rispose Hattie.
«La mamma non ci lascia tenere i pesci» si lamentò Joshua.
«Scommetto che erano tutti pesci gatto» fece Sciamano sorridendo. Rachel
non aveva mai voluto portare pesci gatto a casa, perché non erano kasher,
essendo privi di squame. E Sciamano sapeva che per un bambino il piacere
maggiore della pesca era osservare i familiari mangiare i pesci che aveva pe-
scato. «Sto andando ogni giorno da Jack Damon, che sta poco bene. Conosci
quel posto dove il fiume fa una brutta svolta alla sua fattoria?»
Rachel gli sorrise. «Quell'ansa dove ci sono un sacco di scogli?»
«Quella. Ho visto dei ragazzi, l'altro giorno, che pescavano bellissimi pesci
persici in mezzo agli scogli.»
«Grazie, andremo là domani.»
Sciamano osservò che il sorriso della bambina assomigliava molto a quello
della madre. «Bene, sono contento di avervi visti.»
Si toccò il cappello e fece per voltare il cavallo.
«Sciamano.» Rachel andò verso di lui. «Se domani vai da Jack Damon
verso mezzogiorno, vieni a dividere il nostro picnic con noi.»
«Bene, cercherò di fare in tempo, se posso.»

Il giorno dopo, quando lasciò il penoso ansimare di Jack Damon e si avviò


verso l'ansa del fiume, Sciamano vide il calesse dei Geiger all'ombra di un
albero, con la cavalla grigia impastoiata che brucava tranquillamente l'erba.
Rachel e i bambini avevano pescato fra gli scogli e Joshua prese la mano di
Sciamano e lo condusse là dove sei pesci persici, delle giuste dimensioni per
essere mangiati, galleggiavano in una pozza d'acqua poco profonda, con una
funicella passata attraverso le branchie e legata al ramo di un albero.
Rachel, appena lo vide, prese un pezzo di sapone e si lavò energicamente le
mani. «Temo che il picnic puzzerà di pesce» gli disse allegramente.
«Ma che importa!» sorrise Sciamano. C'erano uova sode e cetrioli sottaceto
e limonata con focaccine alla melassa. Dopo colazione, Hattie annunciò solen-
nemente che era il momento del sonnellino e lei e il fratellino si sdraiarono su
una coperta e si addormentarono.
Rachel sparecchiò e ripose ogni cosa in una borsa di tela. «Puoi prendere
una canna e pescare un po', se ti piace.»
«No, grazie.» Preferiva osservarla e leggere sulle sue labbra le sue parole,
invece che badare a una canna da pesca.
Rachel annuì e volse lo sguardo verso il fiume. Un grande stormo di ron-
408
dini, probabilmente di passaggio nell'annuale migrazione verso il Sud, si libra-
va in eleganti evoluzioni, compatto come fosse un solo uccello, e scese a sfio-
rare l'acqua prima di allontanarsi velocemente. «Non è straordinario, Sciama-
no? Non è bello essere a casa?»
«Si, Rachel, è bello.»
Parlarono per un po' della vita in città. Lui le disse di Cincinnati e rispose
alle sue domande sull'ospedale e sull'Istituto di Medicina. «E tu, ti trovavi bene
a Chicago?»
«Mi piaceva avere a portata di mano i teatri e i concerti. Suonavo il violino
in un quartetto ogni giovedì. Joe non era portato per la musica, ma mi lasciava
fare. Era sempre tanto gentile, ha avuto tante cure per me quando ho perso il
bambino, il primo anno che eravamo sposati.»
Sciamano annuì.
«Bene, poi è nata Hattie, ed è venuta la guerra. La guerra assorbiva tutto il
tempo che le cure della famiglia mi lasciavano. Eravamo circa un migliaio di
ebrei a Chicago. Ottantaquattro giovani si arruolarono in una compagnia ebrai-
ca e noi raccogliemmo fondi e li equipaggiammo completamente. Formarono la
compagnia C dell'82° fanteria Illinois. Hanno combattuto valorosamente a Get-
tysburg e in altri scontri, e anch'io avevo contribuito!»
«Ma tu sei cugina di Judah P. Benjamin, e tuo padre è un fervente sudista!»
«Lo so, ma Joe non lo era, e neanch'io. Quel giorno che arrivò la lettera di
mia madre a informarmi che mio padre si era arruolato con i confederati, io
avevo la cucina piena di signore ebree della Società di assistenza ai soldati e
stavamo preparando bende per l'Unione.» Si strinse tristemente nelle spalle.
«E poi è nato Joshua. Poi Joe è morto. E questa è la mia storia.»
«Fino a oggi» soggiunse Sciamano e lei lo guardò negli occhi. Sciamano
aveva dimenticato la curva sensuale delle sue guance sotto gli zigomi alti, la
morbida pienezza del labbro inferiore e le luci e le ombre dei suoi profondi
occhi nocciola. Non intendeva farle quella domanda, ma qualcosa gliela strap-
pò di bocca. «E così, eri felice nel matrimonio?»
Rachel fissò il fiume. Per un attimo Sciamano pensò di non aver udito la sua
risposta, ma poi lei volse di nuovo il viso verso di lui.
«Vorrei tanto poter dire che ero soddisfatta. In verità, ero rassegnata.»
«Io non sono mai stato soddisfatto o rassegnato» osservò Sciamano.
«Tu non cedi, tu continui a lottare, per questo sei Sciamano. Promettimi che
non consentirai mai a rassegnarti.»
Hattie si svegliò e lasciò il fratellino addormentato sulla coperta. Corse dalla
madre e si rannicchiò fra le sue braccia.
409
«Promettimi» ripeté Rachel.
Sciamano sorrise. «Lo prometto.»
«Perché parli così strano?» chiese Hattie.
«Parlo strano?» chiese lui, più a Rachel che alla bambina.
«Sì» affermò Hattie.
«La tua voce è più gutturale di quando io sono partita» spiegò Rachel sce-
gliendo con cura le parole. «E sembra che la controlli di meno.»
Sciamano annuì e le disse delle sue difficoltà quando aveva cercato di bisbi-
gliare, a teatro.
«Hai continuato i tuoi esercizi?» chiese Rachel.
Parve sorpresa quando lui ammise di non aver badato molto alla propria
pronuncia da quando aveva lasciato Holden's Crossing per frequentare l'Istituto
di Medicina.
«Non avevo tempo per gli esercizi. Ero troppo impegnato a studiare per
diventare medico.»
«Ma ora non devi trascurarli. Devi tornare a esercitarti. Se non li fai di tanto
in tanto, rischi di dimenticare com'è la tua voce. Io tornerò a lavorare con te, se
vuoi, come facevamo una volta.» I suoi occhi erano molto seri, mentre il vento
le scompigliava i capelli sciolti e la bambina sorridente si rannicchiava contro
il suo petto. Teneva la testa alta, e il suo bel collo teso ricordò a Sciamano l'im-
magine di una leonessa.
Io so che posso farlo, Miss Burnham.
Rivide la ragazzina che si era offerta di aiutare un bambino sordo a parlare,
e ricordò quanto l'aveva amata.
«Ti sarò grato, Rachel» rispose in tono deciso, badando a mettere l'accento
sulla prima sillaba di "grato" e ad abbassare la voce alla fine della frase.

Avevano deciso di incontrarsi a metà del Sentiero Lungo fra le loro due
case. Sciamano era sicuro che Rachel non avesse riferito a Lillian di aver
ripreso gli esercizi con lui, e non vide ragione di informarne sua madre. Il
primo giorno Rachel arrivò all'ora stabilita, alle tre, accompagnata dai due
bambini che mandò a raccogliere nocciole lungo il sentiero.
Rachel si sedette su una coperta, appoggiandosi al tronco di una quercia, e
Sciamano si sedette compunto come uno scolaretto davanti a lei. Rachel scelse,
come esercizio, di pronunciare una frase che Sciamano leggeva sulle sue labbra
e ripeteva con l'intonazione e l'accento giusto. Per aiutarlo, gli teneva le dita e
le stringeva per indicargli dove una sillaba doveva essere accentata o una
parola doveva essere messa in risalto. La sua mano era calda e asciutta, un toc-
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co pratico e indifferente, come se tenesse un ferro da stiro o un capo di bian-
cheria da lavare. Sciamano sentiva la propria mano umida e scottante, ma non
vi badò più quando concentrò tutta la sua attenzione sul compito che lei gli
poneva. La sua pronuncia presentava ora più problemi di quanto avesse temuto,
e affrontarli non era un piacere. Provò un senso di sollievo quando finalmente i
bambini tornarono con un secchiello quasi pieno di nocciole. Rachel promise
che le avrebbero schiacciate con il martello quando fossero tornati a casa e
avrebbero tolto il seme e avrebbero fatto una torta alle nocciole, da dividere
con Sciamano.
Dovevano incontrarsi il giorno dopo per altri esercizi; ma al mattino, quan-
do terminò le visite all'ambulatorio e cominciò le visite a domicilio, Sciamano
trovò che Jack Damon, consumato dalla tisi, era alla fine. Rimase presso il
morente cercando di recargli sollievo. Quando tutto fu finito, era troppo tardi
per recarsi all'appuntamento con Rachel, e se ne tornò a casa imbronciato.
Il giorno dopo era sabato. In casa Geiger osservavano rigorosamente lo
Shabbat e quel giorno non poteva esserci l'incontro con Rachel. Ma Sciamano,
dopo aver terminato le visite all'ambulatorio, ripeté gli esercizi da solo.
Si sentiva come sradicato e in qualche modo, che non dipendeva dal suo
lavoro, era insoddisfatto della sua vita.
Quel pomeriggio tornò ai libri di Cliburne e lesse diverse pagine sul pacifi-
smo come movimento dei quaccheri; e la mattina di domenica si alzò presto,
sellò il cavallo e si diresse a Rock Island. Il mercante di granaglie stava appun-
to terminando la sua colazione quando Sciamano arrivò. George si riprese i
libri, gli offrì una tazza di caffè e annuì senza mostrare sorpresa quando
Sciamano gli chiese se poteva partecipare alla riunione dei quaccheri.
George Cliburne era vedovo. Aveva una governante, che però era libera di
domenica, e lui era un uomo ordinato. Sciamano attese che avesse lavato i
piatti della colazione, ed ebbe il permesso di asciugarli. Lasciarono Boss nella
stalla e George fece salire con sé Sciamano sul calesse e lungo il tragitto gli
parlò della riunione.
«Entriamo nella Casa della Riunione senza parlare e prendiamo posto, gli
uomini da una parte, le donne dall'altra. Per avere meno distrazioni, credo.
Tutti restano in silenzio finché il Signore depone su uno di noi il peso delle
sofferenze del mondo, e poi quell'uno si alza e parla.»
Cliburne con molto tatto consigliò a Sciamano di sedere al centro o sul
fondo della Casa della Riunione. Non si sarebbero seduti vicini. «È costume
degli Anziani, che hanno lavorato per la Società degli Amici per molti anni,
sedere in prima fila.» Si chinò in avanti e aggiunse in tono confidenziale: «Ci
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sono dei quaccheri che ci chiamano gli Amici Importanti» e fece un breve
sorriso.
La Casa della Riunione era piccola e disadorna, una struttura di legno, bian-
ca, senza guglia né campanile. Nell'interno, pareti bianche, pavimento grigio.
Lungo tre pareti erano sistemate delle panche scure, che formavano una U
aperta, in modo che ognuno potesse vedere in faccia gli altri. Quattro uomini
erano già seduti. Sciamano prese posto su una panca in fondo, vicino alla porta,
come uno che provasse delle acque profonde intingendo la punta del piede
vicino a riva. Dalla parte opposta sedevano una dozzina di donne, e c'erano
anche otto ragazzini. Tutti gli Anziani erano piuttosto vecchi: George e cinque
dei suoi Amici Importanti sedevano su una piccola piattaforma, alta una
trentina di centimetri, di fronte alle panche.
C'erano un silenzio e una pace che si accompagnavano al silenzio del
mondo di Sciamano.
Di tanto in tanto qualcuno entrava e prendeva posto su una panca senza
parlare. Infine non arrivò più nessuno; c'erano undici uomini, quattordici donne
e dodici ragazzini, secondo il conto di Sciamano.
In silenzio.
Era riposante.
Sciamano pensò a suo padre e sperò che riposasse in pace.
Pensò ad Alex.
Ti prego, invocò nel perfetto silenzio che ora condivideva con gli altri. Fra
le centinaia di migliaia di morti, ti prego, risparmia mio fratello. Ti prego,
riporta il mio caro, pazzo, fuggiasco fratello a casa.
Pensò a Rachel, ma non osò pregare.
Pensò a Hattie, che aveva gli occhi e il sorriso della madre, e che parlava
tanto.
Pensò a Joshua, che parlava poco, ma sembrava sempre che lo guardasse.
Un uomo di mezza età si alzò, a pochi metri da lui. Era sottile e fragile e
cominciò a parlare. «Questa guerra terribile comincia infine a placarsi. Lenta-
mente, molto lentamente. Ma ora sentiamo che non può durare in eterno. Molti
dei nostri giornali invocano l'elezione del generale Fremont alla presidenza.
Dicono che il presidente Lincoln sarebbe troppo indulgente con i sudisti,
quando verrà la pace. Dicono che non è tempo di indulgenza, ma tempo di
vendetta contro gli Stati del Sud.
«Gesù ha detto: "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno" e
ha detto ancora: "Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare, e se ha sete,
dagli da bere".
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«Dobbiamo perdonare le colpe commesse da entrambe le parti in questa
terribile guerra e pregare che presto si avverino le parole del salmo, che la
misericordia e la verità si incontrino, e la giustizia e la pace si abbraccino.
«"Benedetti quelli che piangono, perché saranno confortati."
«"Benedetti i mansueti, perché erediteranno la terra."
«"Benedetti quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno
saziati."
«"Benedetti i misericordiosi, perché otterranno misericordia."
«"Benedetti quelli che lavorano per la pace, perché saranno chiamati figli di
Dio."»
Si sedette e ci fu di nuovo un grande silenzio.

Una donna si alzò, quasi di fronte a Sciamano. Disse che si sforzava di


perdonare una persona che aveva fatto un grave torto alla sua famiglia. Voleva
che il suo cuore fosse libero dall'odio e desiderava dimostrare tolleranza e
amore misericordioso, ma si trovava in lotta con se stessa perché non aveva in
sé la volontà di perdonare. Chiedeva agli Amici di pregare perché le fosse data
forza.
Si sedette e un'altra donna si alzò, questa volta nell'angolo più lontano da
lui, e Sciamano non poteva vedere la sua bocca né leggervi le sue parole. Dopo
un po' tornò a sedere e i presenti serbarono il silenzio finché un uomo si alzò da
una panca vicino alla finestra. Un giovane sui vent'anni, con un'espressione
grave. Disse che doveva prendere una decisione importante, che interessava
tutto il suo avvenire. «Ho bisogno dell'aiuto del Signore e delle vostre preghie-
re» disse e si sedette.
Dopo di ciò nessun altro parlò. Passò del tempo. Infine Sciamano vide
George Cliburne volgersi verso il suo vicino e stringergli la mano. Era il segna-
le che scioglieva la riunione. Diverse persone vicino a Sciamano gli strinsero la
mano e i presenti si avviarono verso le porte.
Era il più strano servizio religioso a cui Sciamano avesse mai assistito. Tor-
nando alla casa di Cliburne, era pensieroso. «Allora, ci si aspetta che un quac-
chero perdoni qualsiasi colpa? Ma non si prova soddisfazione, quando la giusti-
zia prevale sul male?»
«Oh, noi crediamo nella giustizia» replicò Cliburne. «Ma non crediamo nel-
la vendetta né nella violenza.» Sciamano sapeva che suo padre aveva arden-
temente desiderato vendicare la morte di Makwa, e lui stesso lo desiderava.
«Tu non saresti violento se vedessi qualcuno che sta per sparare a tua madre?»
chiese, e fu sorpreso di vedere che Cliburne sorrideva.
413
«Presto o tardi questa domanda viene posta da tutti quelli che riflettono sul
pacifismo. Mia madre è morta da tempo, ma se mai io mi venissi a trovare in
una situazione del genere, confido che il Signore mi indicherebbe la cosa giusta
da fare.
«Vedi, Sciamano, tu non rifiuterai la violenza per qualche cosa che io ti
possa dire. Non verrà da qui» toccò le sue labbra, «e nemmeno da qui» e toccò
la fronte di Sciamano.
«Quando avverrà, dovrà venire da qui» e batté con la mano sul petto del
giovane amico. «Così, fino a quel momento, dovrai continuare a cingere la
spada.» Parlava come se Sciamano fosse un antico romano o un visigoto,
invece che un uomo sordo, già giudicato non idoneo al servizio militare. «Se e
quando ti sgancerai la spada e la getterai via, sarà perché non avrai altra scelta»
aggiunse e schioccò la lingua, dando una tiratina alle redini per accelerare il
passo del cavallo.

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La fine del diario

«Siamo invitati a prendere il tè questo pomeriggio dai Geiger» gli annunciò


la madre. «Rachel dice che dobbiamo andare. Si tratta dei bambini e delle
nocciole?»
Così quel pomeriggio si avviarono per il Sentiero Lungo e furono accolti
nella sala da pranzo dei Geiger. Rachel mostrò a Sarah un mantello nuovo di
morbida lana verde. «Fatta con la lana delle pecore dei Cole!» Glielo aveva
fatto sua madre perché l'anno di lutto era terminato, disse, e tutti fecero i
complimenti a Lillian per aver confezionato un capo così bello.
Rachel osservò che lo avrebbe portato il lunedì successivo, per un viaggio a
Chicago.
«Rimarrai molto a Chicago?» chiese Sarah.
«No,» rispose Rachel «solo pochi giorni.»
«Per affari» aggiunse Lillian, in tono che rivelava tutta la sua disapprova-
zione.
Sarah si affrettò a cambiar discorso, lodando l'aroma squisito del tè inglese
e Lillian sospirò e aggiunse che erano fortunati ad averlo. «Non si trova quasi
più caffè in tutto il Sud, e neppure del tè decente. Jay dice che il caffè e il tè si
vendono a 50 dollari la libbra in Virginia.»
«Allora hai avuto notizie da lui?» chiese Sarah.
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Lillian annuì. «Dice che sta bene, grazie a Dio.»
Hattie sorrise felice quando sua madre portò la torta di nocciole, ancora
calda dal forno. «L'abbiamo fatta noi!» annunciò. «La mamma ha messo le
cose e ha mescolato e Joshua e me abbiamo versato dentro le nocciole!»
«Joshua e io» la corresse la nonna.
«Ma no, nonna, tu non eri neanche in cucina!»
«Le nocciole sono davvero deliziose» aggiunse Sarah.
«Le abbiamo raccolte Hattie e me!» esclamò orgogliosamente Joshua.
«Hattie e io» corresse ancora Lillian.
«No, nonna, tu non c'eri, eravamo sul Sentiero Lungo e Hattie e me abbia-
mo raccolto le nocciole mentre mamma e Sciamano erano seduti sulla coperta e
si tenevano le mani.» Ci fu un momento di silenzio.
«Sciamano ha ancora qualche difficoltà di pronuncia» spiegò Rachel. «Ha
bisogno di un po' di esercizio. Io lo aiuto come facevo una volta. Ci siamo in-
contrati sul sentiero del bosco, perché i bambini potessero giocare, ma tornerà
qui in casa, perché si possa usare il piano per gli esercizi.»
Sarah annuì. «Sarà una buona cosa per Robert impegnarsi a migliorare la
sua pronuncia.»
Anche Lillian annuì, un po' più sostenuta. «Si, è una fortuna che tu sia a
casa, Rachel» aggiunse e prese la tazza di Sciamano e la riempì di nuovo di
quel buon tè inglese.

Il giorno dopo, benché non avesse preso alcun appuntamento con Rachel,
tornando dalle sue visite a domicilio Sciamano si avviò per il Sentiero Lungo e
la incontrò che veniva camminando dall'altra parte.
«Dove sono i miei piccoli amici?»
«Hanno aiutato in casa per le pulizie autunnali e non hanno fatto il solito
sonnellino, così sono rimasti a casa a riposare.»
Sciamano si incamminò al suo fianco. I boschi erano pieni di uccelli: su un
albero vide un cardinale rosso che lanciava un imperioso, silente richiamo.
«Ho litigato con mia madre. Voleva che andassimo a Peoria per le Grandi
Vacanze e io mi sono rifiutata di andarci ed essere messa in mostra davanti a
scapoli e vedovi che lei giudica buoni partiti. Così passeremo le vacanze qui a
casa.»
«Bene» fece Sciamano contento, e lei sorrise. L'altra ragione di litigio, pro-
seguì Rachel, era che il cugino di Joe Regensberg sposava un'altra donna e
aveva avanzato un'offerta per comprare la società di ferramenta Regensberg,
non avendola potuta ottenere tramite matrimonio. Ecco perché ora doveva re-
415
carsi a Chicago, gli confidò: per vendere la ditta.
«Tua madre finirà per calmarsi. Ti vuole molto bene.»
«So che mi vuole bene. Vuoi fare qualche esercizio?»
«Perché no?»
Questa volta sentì un lieve tremito nella mano di Rachel che teneva la sua.
Forse era stanca per i lavori di casa, o forse ancora in tensione per il litigio con
la madre. Ma si abbandonò alla speranza che fosse qualcosa di più e riconobbe
la corrente emotiva che passava fra le loro dita e involontariamente la sua mano
si mosse nella morbida mano di lei.
Si dedicarono al controllo del respiro, necessario per attenuare le piccole
esplosioni della P, e Sciamano serio serio si impegnava a ripetere una frase
senza senso, pronunciando un perfetto «posso poco premere un pioppo pasqua-
le», quando Rachel scosse la testa.
«No, senti come lo dico io» e appoggiò la mano di lui sulla propria gola.
Ma tutto quello che Sciamano poté sentire sotto le dita fu la carne calda di
Rachel.
Accadde, senza che ne avesse l'intenzione: se ci avesse pensato, forse non lo
avrebbe fatto. La sua mano salì alla guancia di lei e la tenne a coppa. Il bacio fu
infinitamente dolce, il bacio sognato e bramato di un ragazzo quindicenne e
una fanciulla di cui era disperatamente innamorato. Ma subito divenne il bacio
di un uomo e di una donna, e l'avido desiderio di entrambi fu una scossa
traumatica per lui, così nettamente in contraddizione con la controllata amicizia
che lei gli aveva offerto. Tanto che quasi non osava credere.
«Rachel» mormorò, quando si staccarono.
«No... Oh, mio Dio!»
Ma quando tornarono a stringersi lei gli coprì il viso di una grandine di
piccoli baci. Sciamano le baciava gli occhi e gli angoli della bocca e il naso, e
sentiva il suo corpo premere contro di lui.
Rachel lottava con se stessa. Gli pose una mano tremante sulla guancia e lui
spostò piano la testa e le premette un bacio sulla palma.
La vide pronunciare le parole familiari del passato, quelle che Dorothy
Burnham usava per indicare la fine delle lezioni a scuola. «Penso che sia tutto
per oggi» mormorò Rachel senza fiato. Si staccò da lui e Sciamano rimase a
guardarla mentre si allontanava in fretta e spariva a una svolta del Sentiero
Lungo.
Quella sera cominciò a leggere l'ultima parte del diario di suo padre.
Assisteva con il cuore stretto alla parabola discendente della vita di Robert
Judson Cole, nella terribile serra lungo il Rappahannock, che suo padre aveva
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annotato con la sua grande e chiara scrittura.
Quando arrivò al punto in cui il padre scopriva nel suo reggimento Lanning
Ordway, restò seduto per qualche momento senza leggere. Era profondamente
colpito dal fatto che, dopo tanti anni di inutili tentativi, suo padre fosse
finalmente giunto in contatto con uno degli uomini responsabili della morte di
Makwa.
Rimase piegato sul diario per tutta la notte, sforzando la vista alla scarsa
luce della lampada.
Rilesse diverse volte la lettera di Ordway a Goodnow.
Poco prima dell'alba arrivò all'ultima pagina, agli ultimi giorni della vita del
padre. Si gettò sul letto, tutto vestito, per un'interminabile ora di solitudine.
Quando sentì la madre che si muoveva in cucina, uscì di casa e andò al fienile a
chiamare Alden. Mostrò a entrambi la lettera di Ordway e spiegò come l'aveva
trovata.
«Nel suo diario? Hai letto il suo diario?» chiese Sarah.
«Sì. Vorresti leggerlo anche tu?»
Lei scosse la testa. «Non c'è bisogno. Io ero sua moglie, lo conoscevo.»
Videro che Alden pareva avvilito e stanco, e Sarah versò il caffè per tutti.
«Non so che fare con questa lettera.» La fece leggere attentamente a entram-
bi.
«Be', che cosa puoi fare?» ribatté Alden irritato. Alden stava invecchiando
rapidamente, osservò Sciamano: o beveva troppo o non sapeva più reggere
l'alcol. La sua mano tremante versò lo zucchero sul tavolo mentre lo metteva
nel caffè. «Tuo padre cercò con ogni mezzo di ottenere che la legge scoprisse
che cos'era successo a quella donna sauk. E tu credi che le autorità saranno più
interessate ora, solo perché tu hai un nome nella lettera di un morto?»
«Robert, quando finirà questa storia?» intervenne sua madre amaramente.
«Le ossa di quella donna giacciono nella nostra terra da tanti anni e voi due,
tuo padre e ora tu, non siete capaci di lasciarla riposare in pace, né di lasciare in
pace noi. Non puoi strappare quella lettera e dimenticare i vecchi guai e scorda-
re i morti?»
Ma Alden scosse la testa. «Con tutto il rispetto, Mrs. Cole, ma questo ragaz-
zo non ascolta il buonsenso e la ragione quando si tratta degli indiani. Come
non li ascoltava suo padre.» Soffiò sul suo caffè, alzò la tazza con entrambe le
mani e bevve una gran sorsata che dovette bruciargli la bocca. «No, continua a
menarla come un cane che rosicchia un osso, come faceva suo padre.» Guardò
di nuovo Sciamano. «Se il mio consiglio conta qualcosa, e forse non conta
niente, dovresti andare a Chicago appena puoi e cercare questo Goodnow,
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vedere se può dirti qualcosa. Altrimenti continuerai a tormentarti e insieme a
tormentare anche noi.»

Madre Miriam Ferocia non era d'accordo. Quando quel pomeriggio Sciama-
no si recò al convento e le mostrò la lettera, annuì. «Suo padre mi aveva parlato
di David Goodnow» gli disse tranquillamente.
«Se il reverendo Goodnow era in realtà il reverendo Patterson, deve essere
ritenuto responsabile della morte di Makwa.»
Madre Miriam sospirò. «Sciamano, lei è un medico, non un poliziotto. Non
può lasciare quest'uomo al giudizio di Dio? Noi abbiamo bisogno di lei come
medico.» Si chinò verso di lui e lo fissò negli occhi. «Ho delle notizie impor-
tanti. Il nostro vescovo ci ha fatto sapere che ci manderà fondi per costruire qui
un ospedale.»
«Reverenda Madre, questa è una notizia meravigliosa!»
«Sì, meravigliosa.»
Il sorriso le illuminava il volto, pensò Sciamano. Ricordò di aver letto nel
diario del padre che la monaca aveva ricevuto un'eredità e l'aveva destinata alla
Chiesa: e si domandò se era quell'eredità, o parte di quell'eredità, che il vesco-
vo intendeva mandarle. Ma la gioia di Madre Miriam non avrebbe tollerato un
tale cinismo.
«La gente di questa zona avrà un ospedale» aggiunse raggiante. «Le suore
infermiere di questo convento saranno le infermiere dell'ospedale di San Fran-
cesco d'Assisi.»
«E io avrò un ospedale dove ricoverare i miei pazienti.»
«In realtà spero che lei avrà qualcosa di più. Le sorelle sono d'accordo: noi
desideriamo che lei sia il primario dell'ospedale.»
La proposta lo lasciò interdetto per un attimo. «Mi sento onorato, Reveren-
da Madre» replicò infine. «Ma io suggerirei come primario un medico di mag-
giore esperienza e più vecchio di me. Inoltre lei sa bene che io non sono
cattolico.»
«Una volta, quando ho cominciato a sognare di un ospedale, speravo che
suo padre ne sarebbe diventato il primario. Dio ci aveva mandato suo padre
perché fosse il nostro medico e il nostro amico. Ma suo padre non c'è più. Ora
Dio ci manda lei. Lei ha studiato, è capace e ha già una buona esperienza. Lei è
il medico di Holden's Crossing, e dovrebbe dirigere l'ospedale della città.»
Sorrise ancora. «E per quanto riguarda la sua giovane età, credo che lei sia il
giovane più maturo che io abbia mai incontrato. Sarà un piccolo ospedale, solo
venticinque letti, e noi tutti matureremo in esperienza.
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«Voglio sperare che lei ci darà qualche consiglio. Non esiti ad aver fiducia
in se stesso, come l'hanno gli altri in lei. E non abbia paura ad aspirare ad alte
mete, perché Dio è stato largo di doni con lei.»
Sciamano era imbarazzato, ma sorrise con la sicurezza di un medico a cui
hanno appena promesso un ospedale. «Sono sempre onorato di credere alle sue
parole, Reverenda Madre.»

64

Chicago

Sciamano confidò solo a sua madre la sua conversazione con la Madre


Superiora del convento e fu sorpreso e lieto dell'orgoglio che Sarah dimostrava.
«Come sarà bello avere un ospedale qui, dove tu sarai il primario! Come ne
sarebbe stato felice tuo padre!»
Sciamano aggiunse che i soldi per la costruzione non sarebbero arrivati fin-
ché non fossero stati approntati e approvati i progetti per l'ospedale. «Nel frat-
tempo Madre Miriam Ferocia mi ha chiesto di visitare diversi ospedali e
studiarne l'organizzazione.»
Seppe subito dove sarebbe andato e che treno avrebbe preso.
Quel lunedì si recò a cavallo a Moline e cercò una stalla dove lasciare Boss
per qualche giorno. Il treno per Chicago arrivava a Moline alle 3.20 del pome-
riggio e si fermava il tempo necessario per caricare la merce spedita dalla fab-
brica di aratri di John Deere. Alle 2.45 Sciamano era già in attesa alla pensilina.
Quando il treno arrivò, salì sull'ultimo vagone e cominciò a percorrere tutti
gli altri. Sapeva che Rachel aveva preso il treno a Rock Island solo alcuni
minuti prima e la trovò infatti dopo tre vagoni, seduta da sola. Si era preparato
a salutarla gioiosamente, scherzando sul "casuale" incontro, ma Rachel impal-
lidì quando lo vide.
«Sciamano... è successo qualcosa ai bambini?»
«Ma no, per niente. Io vado a Chicago per affari miei» la rassicurò Sciama-
no, seccato con se stesso per non aver previsto il risultato della sua sorpresa.
«Posso sedere vicino a te?»
«Certo.»
Ma quando ebbe sistemato la valigia accanto a quella di Rachel sulla rete, e
si fu seduto, rimasero qualche momento imbarazzati.
«Quanto a quello che è successo l'altro giorno nel bosco, Sciamano...»
«Per me è stata una gioia» replicò Sciamano deciso.
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«Non posso permettere che tu ti faccia un'idea sbagliata.»
Di nuovo, di nuovo, pensò lui disperato. «Credevo che fosse piaciuto anche
a te» ribatté e Rachel arrossì violentemente.
«Non è questo il punto. Non dobbiamo abbandonarci a quel genere di...
gioia che può solo rendere più crudele la realtà.»
«Che cos'è la realtà?»
«Io sono una vedova ebrea con due bambini.»
«E allora?»
«Ho giurato di non lasciare mai più che i miei genitori mi trovino un marito,
ma questo non significa per me fare una scelta irragionevole.»
Le sue parole lo colpirono dolorosamente. Ma ora non avrebbe lasciato fra
di loro la barriera di cose non dette. «Io ti ho amata per tutta la mia vita. Non
ho mai incontrato una donna con un volto o una mente più belle per me. C'è in
te una bontà, una ricchezza di cui ho bisogno.»
«Sciamano. Ti prego.» Voltò la testa e fissò lo sguardo fuori del finestrino,
ma Sciamano continuò.
«Tu mi hai fatto promettere di non rassegnarmi mai, di non darmi mai per
vinto nella mia vita. Io non mi rassegnerò a perderti di nuovo. Voglio sposarti
ed essere un padre per Hattie e Joshua.»
Rachel rimaneva voltata verso il finestrino e fissava i campi e le fattorie che
sfilavano davanti ai suoi occhi.
Sciamano aveva detto quel che voleva dire. Trasse di tasca una rivista me-
dica e cominciò a leggere un articolo sulla eziologia e il trattamento della tosse
convulsa. Dopo un po' Rachel tirò fuori la sua borsa da sotto il sedile e prese il
lavoro a maglia. Stava facendo un piccolo golf di lana azzurra.
«È per Hattie?»
«Per Joshua.» Si guardarono l'un l'altra per un lungo momento, poi lei fece
un breve sorriso e riprese a sferruzzare.

Si fece buio dopo che ebbero percorso una settantina di chilometri e il


controllore venne ad accendere le luci. Erano appena le cinque ma sentirono
troppo appetito per aspettare più a lungo. Sciamano aveva portato un cestino
con pollo arrosto e torta di mele, e Rachel aveva pane e formaggio e uova sode,
e quattro piccole pere. Si divisero la torta e le uova e la frutta. Sciamano aveva
una bottiglia di acqua di pozzo.
Dopo la fermata di Joliet il controllore spense le lampade e Rachel si
addormentò per un tratto. Quando si svegliò, la sua testa era appoggiata alla
spalla di Sciamano, e lui le teneva una mano. Rachel ritrasse la mano, ma restò
420
per qualche momento con la testa sulla sua spalla. Allorché il treno entrò dal
buio della prateria nel mare di luci della città, Rachel era in piedi e si aggiu-
stava i capelli, tenendo una forcina tra i forti denti bianchi. Finì di pettinarsi e
gli disse che erano arrivati a Chicago.

Presero una carrozza dalla stazione al Palmer's Illinois House Hotel, dove
l'avvocato di Rachel le aveva prenotato una stanza. Anche Sciamano prese
alloggio nello stesso albergo ed ebbe una stanza al quinto piano, numero 508.
Accompagnò Rachel alla sua 306 e diede la mancia al cameriere.
«Vuoi qualche cosa? Una tazza di caffè?»
«No, Sciamano, grazie. Si è fatto tardi e ho tante cose da fare domani.»
Declinò anche il suo invito a colazione per il giorno dopo. «Perché non ci
troviamo qui alle tre? Ti condurrò a visitare Chicago prima di cena.»
Sciamano rispose che per lui andava benissimo e la salutò. Salì alla sua
stanza 508, disfece la valigia e ripose in ordine la biancheria nei cassetti e gli
abiti nell'armadio, poi scese di nuovo i cinque piani di scale per recarsi ai gabi-
netti, che si trovavano dietro l'albergo e che risultarono, con sua soddisfazione,
puliti e ben tenuti.
Tornando, si fermò un attimo al terzo piano e gettò uno sguardo nel corri-
doio verso la stanza di Rachel, poi salì gli altri due piani fino alla sua stanza.

Al mattino, subito dopo colazione, cercò la Bridgeton Street, un quartiere


operaio di casette di legno strette l'una all'altra. Al numero 237, la giovane don-
na affaticata che rispose al suo bussare aveva un bambino in braccio e un altro
attaccato alle gonne.
Scosse la testa quando Sciamano le chiese del reverendo David Goodnow.
«Mr. Goodnow non sta più qui da oltre un anno. È molto malato, mi dicono.»
«Sa per caso dov'è andato?»
«Sì, è in un... una specie di ospedale. Non l'abbiamo più visto. Mandiamo
ogni mese l'importo della retta all'ospedale, secondo l'accordo fatto dal suo
avvocato.»
«Potrebbe dirmi il nome dell'ospedale? È molto importante che io lo veda.»
La donna annuì. «Sì, l'ho scritto da qualche parte in cucina.» Si allontanò,
ma tornò dopo qualche minuto trascinandosi dietro il bambino, e gli porse un
foglietto.
«È il Dearborn Asylum. In Sable Street.»

L'insegna era modesta ma dignitosa, una targa di bronzo fissata alla colonna
421
centrale che si alzava sopra un basso muretto di mattoni rossi:

DEARBORN ASYLUM
Per alcolizzati
e malati di mente

Era un edificio a tre piani di mattoni rossi e le pesanti sbarre di ferro alle
finestre si accompagnavano alle punte di ferro battuto in cima al muro di mat-
toni.
Al di là del portone di mogano si trovava un'anticamera buia, con un paio di
poltroncine imbottite di crine di cavallo. In un piccolo ufficio un uomo di
mezza età era seduto a una scrivania e trascriveva registrazioni in un grande
libro mastro. Annuì alla richiesta di Sciamano.
«Mr. Goodnow non ha ricevuto visite da non so quanto tempo. Non so se ne
abbia mai avute. Firmi il registro delle richieste, e andrò a chiedere al dottor
Burgess.»
Il dottor Burgess comparve qualche minuto dopo, un uomo basso con i
capelli neri e due baffetti sottili. «Lei è un parente o un amico di Mr. Goodnow,
dottor Cole? O si tratta di una visita professionale?»
«Ho dei conoscenti che conoscono Mr. Goodnow» rispose Sciamano
scegliendo con cura le parole. «Mi fermo a Chicago solo per un paio di giorni e
pensavo di venire a trovarlo.»
Il dottor Burgess annuì. «Veramente l'ora di visita è nel pomeriggio, ma per
un medico molto impegnato possiamo fare un'eccezione. Mi segua, prego.»
Salirono una rampa di scale e il dottor Burgess bussò a una porta chiusa a
chiave, che fu aperta da un infermiere di imponente statura. L'uomo li condusse
per un lungo corridoio: donne pallide e smunte sedevano lungo le pareti, par-
lando fra loro o fissando il nulla. Si fermarono presso una pozza di urina, e
Sciamano vide macchie di feci calpestate. Fuori del corridoio, in alcune stanze
vi erano donne incatenate alla parete. Sciamano aveva passato quattro tristi set-
timane nell'Ospizio per Malati di Mente dell'Ohio, quando studiava all'Istituto
di Medicina, e non fu sorpreso da quello spettacolo, né da quegli odori. Fu lieto
di non poter udire i suoni.
L'infermiere aprì un'altra porta e li condusse per un altro corridoio, il reparto
uomini, non diverso da quello delle donne. Infine Sciamano fu introdotto in
una stanzetta, arredata con un tavolo e qualche sedia di legno, e gli fu chiesto di
aspettare.
Poco dopo il medico e l'infermiere tornarono accompagnando un uomo
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piuttosto anziano che indossava un paio di pantaloni da operaio, privi di diversi
bottoni, e una sudicia giacca portata direttamente sulla biancheria. Aveva biso-
gno di un buon taglio di capelli e il suo viso era ispido di una barba grigia e
trascurata. C'era sulle sue labbra un piccolo sorriso, ma i suoi occhi erano
altrove. «Ecco David Goodnow» annunciò il dottor Burgess.
«Mr. Goodnow, io sono il dottor Robert Cole.» Il sorriso rimase immobile,
gli occhi non lo vedevano.
«Non può parlare» spiegò il dottor Burgess.
Tuttavia Sciamano si alzò e si avvicinò all'uomo.
«Mr. Goodnow, lei una volta era Ellwood Patterson?»
«Non parla da più di un anno» ripeté pazientemente il dottor Burgess.
«Mr. Goodnow, ha ucciso lei la donna indiana a Holden's Crossing, dopo
averla violentata? Quando è andato in quella città per incarico dell'Ordine della
Bandiera Stellata?»
Il dottor Burgess e l'infermiere fissavano attoniti Sciamano. «Sa dove posso
trovare Hank Cough?»
Ancora non ci fu risposta.
E di nuovo, duramente. «Dove posso trovare Hank Cough?»
«È sifilitico. Una parte del suo cervello è stata distrutta da una paresi»
spiegò il dottor Burgess.
«Lei è sicuro che quest'uomo non finga?»
«Lo vediamo tutti i giorni, e lo sappiamo. Perché un uomo dovrebbe finge-
re, per poi vivere in questo modo?»
«Anni fa quest'uomo ha partecipato a un atroce, disumano delitto. Mi ribello
all'idea di vederlo sfuggire alla punizione» fu l'amara risposta di Sciamano.
David Goodnow aveva cominciato a sbavare e un rivolo di saliva gli usciva
dall'angolo della bocca. Il dottor Burgess lo guardò e scosse la testa. «Non
credo che sia sfuggito alla punizione» osservò.

Sciamano fu riaccompagnato attraverso i reparti alla porta dell'ospizio, dove


il dottor Burgess lo salutò cordialmente e gli disse che il Dearborn Asylum era
sempre lieto di tenersi in contatto con i medici dell'Illinois. Si allontanò final-
mente dal triste luogo, battendo le palpebre alla brillante luce del sole. Il tanfo
della città era un profumo al confronto. Si sentiva stordito e camminò per
diversi isolati assorto nei suoi pensieri.
Gli pareva di essere arrivato alla fine di una pista. Uno degli uomini che
avevano massacrato Makwa-ikwa era morto. Un altro, come aveva appena
visto, era prigioniero di un inferno vivente. Del terzo si era perduta ogni
423
traccia.
Miriam Ferocia aveva ragione, decise fra sé. Era tempo di lasciare gli
assassini di Makwa alla giustizia di Dio, e concentrarsi sulla sua professione di
medico e sulla sua vita di uomo.

Prese un tram a cavalli fino al centro di Chicago, e un altro tram a cavalli


per arrivare al Chicago Hospital, che gli ricordò subito il suo ospedale di
Cincinnati. Era ben attrezzato, e grande, con almeno 500 letti. Quando Sciama-
no chiese di parlare con il direttore clinico e spiegò lo scopo della sua visita, fu
accolto con molta cortesia.
Il medico di servizio lo condusse da uno dei primari e i due colleghi gli
esposero le loro idee sulle attrezzature e i rifornimenti necessari a un piccolo
ospedale. All'ufficio acquisti l'amministratore gli raccomandò alcune ditte
fornitrici che offrivano servizi regolari e consegne tempestive. Parlò anche con
il magazziniere capo, che gli indicò il numero delle lenzuola necessarie per
tenere ogni letto pulito e in ordine. Prese nota di tutto nel suo taccuino.
Poco prima delle 3, quando tornò al Palmer's Illinois House Hotel, trovò
Rachel che lo aspettava seduta nell'atrio. Appena la guardò in viso capì che
aveva avuto una buona giornata.
«Tutto finito, la ditta non è più sulle mie spalle» gli annunciò, e spiegò che
l'avvocato aveva fatto un lavoro eccellente nel preparare i documenti necessari
e la maggior parte del ricavato della vendita era già posto sotto amministra-
zione fiduciaria per Hattie e Joshua.
«Bene, allora dobbiamo festeggiare» propose Sciamano e il malumore
creato in lui dalle visite del mattino fu del tutto dissipato.
Presero una carrozza pubblica all'angolo, di fronte all'albergo. Sciamano
non aveva nessuna voglia di vedere il Teatro dell'Opera o i nuovi magazzini.
Solo una cosa lo interessava a Chicago. «Mostrami i luoghi che conoscevi
quando abitavi qui.»
«Ma sarà una cosa noiosa!»
«Ti prego!»
Così, Rachel diede istruzioni al cocchiere, e il cavallo partì.
Dapprima parve in imbarazzo, quando gli mostrò il negozio di musica dove
aveva comprato le corde e un nuovo archetto per il violino, e aveva fatto
sostituire i bischeri. Ma cominciò a divertirsi via via che identificava i negozi
dove aveva acquistato cappelli e scarpe, e la sartoria dove aveva ordinato delle
camicie eleganti per il regalo di compleanno di suo padre. Proseguirono per
altri venti isolati, finché si trovarono davanti a un imponente edificio e Rachel
424
gli spiegò che era la Sinai Congregation. «Qui io suonavo nel mio quartetto
tutti i giovedì e venivamo al culto alle sere del venerdì. Ma non è qui che Joe e
io ci siamo sposati. Le nostre nozze sono state celebrate nella sinagoga
Kehilath Anshe Maarib, di cui la zia di Joe, Harriet Ferber, era uno dei membri
più importanti.
«Quattro anni fa Joe e un gruppetto di altri si staccarono dalla sinagoga e
fondarono Sinai, una congregazione di ebraismo riformista. Abolirono un buon
numero di norme rituali e tradizionali, il che suscitò qui un enorme scandalo.
La zia Harriet era furiosa, ma non fu una rottura insanabile e rimanemmo
amici. Quando morì, un anno dopo, decidemmo di dare a nostra figlia il suo
nome.»
Mostrò al cocchiere la via per arrivare a un quartiere di villette piccole ma
comode, e in Tyler Street indicò una casa rivestita di legno marrone.
«È qui che abitavamo.»
Pensando all'aspetto che Rachel aveva allora, Sciamano si sporse e cercò di
inquadrare la fanciulla del suo ricordo nella cornice di quella casa.
Oltrepassarono altri cinque isolati e trovarono un gruppo di negozi. «Oh,
fermiamoci!» esclamò Rachel. Scesero dalla carrozza ed entrarono in una
drogheria piena dell'aroma di spezie e cibi salati, dove un bel vecchio dalla
barba bianca, alto e imponente come Sciamano, venne loro incontro sorridendo
e asciugandosi le mani nel grembiule.
«Mrs. Regensberg, come sono contento di rivederla!»
«Grazie, Mr. Freudenthal. Anch'io sono lieta di vederla. Vorrei comprare
certe cose da portare a casa a mia madre.»
Acquistò diversi tipi di pesce affumicato, olive nere e un bel pacchetto di
pasta di mandorle. Il droghiere gettò uno sguardo incuriosito a Sciamano.
«Ehr is nit ah Yiddisheh» osservò.
«Nein» fece Rachel. Poi, come se sentisse la necessità di dare una spiega-
zione: «Ehr is ein guteh freint».
Sciamano non aveva bisogno di conoscere la lingua per capire che cosa
dicevano. Sentì una punta di collera, ma subito si rese conto che la domanda
del vecchio droghiere faceva parte di quella che era la realtà di Rachel, come
Hattie e Joshua. Quando lui e Rachel erano bambini, in un mondo più inno-
cente, non c'erano state molte differenze fra loro, ma ora erano adulti e le diffe-
renze che li dividevano dovevano essere affrontate.
Così, quando prese i pacchi degli acquisti dalle mani del droghiere, sorrise
al vecchio negoziante. «Buongiorno a lei, Mr. Freudenthal» e seguì Rachel
fuori del negozio.
425
Riportarono i pacchi all'albergo. Era l'ora di cena e Sciamano si sarebbe
accontentato della sala da pranzo dell'hotel, ma Rachel disse che conosceva un
posto migliore. Lo condusse al Parkman Cafe, un piccolo ristorante che
raggiunsero a piedi dall'albergo. Non era lussuoso e aveva prezzi modesti, ma il
cibo e il servizio erano buoni. Dopo cena, quando le domandò che cosa voleva
fare, Rachel rispose che desiderava passeggiare lungo il lago.
Una fresca brezza soffiava dall'acqua, temperando il calore estivo dell'aria.
In cielo brillavano le stelle e l'ultimo quarto di luna, ma era troppo buio perché
Sciamano potesse vedere le sue labbra, e nessuno dei due parlò. Con un'altra
donna questo lo avrebbe messo a disagio, ma sapeva che Rachel considerava
normale il suo silenzio in mancanza di visibilità. Infine Rachel si fermò sotto
un lampione e additò una larga zona luminosa. «Sento una musica pessima e
adorabile, un sacco di cimbali!»
Quando raggiunsero la zona illuminata, si trovarono davanti a una scena
assai curiosa: una piattaforma rotonda su cui erano fissati degli animali di
legno. Un uomo magro con la faccia segnata dal sole e dal vento girava una
grande manovella.
«Che cos'è? Una scatola musicale?» chiese Rachel.
«Non, è un carrousel. Si sceglie un animale e si monta in groppa, très dròle,
très plaisant» rispose l'uomo. «Ogni giro 20 cent, signori.»
Sciamano salì in groppa a un orso bruno, Rachel su un cavallo dipinto di un
improbabile rosso. Il francese grugnì, girò con forza la manovella e subito la
piattaforma cominciò a ruotare. Al centro della giostra pendeva da un palo un
anello di ottone: un cartello diceva che chiunque riuscisse ad afferrare l'anello
restando seduto sulla sua cavalcatura, avrebbe fatto un giro gratis. Naturalmen-
te l'anello era fuori della portata della maggior parte dei giostranti, ma Sciama-
no protese il suo lungo corpo e, benché il francese, vedendolo, girasse più svel-
to la manovella e accelerasse la corsa della giostra, riuscì ad afferrarlo al secon-
do tentativo.
Vinse diversi giri per Rachel, ma ben presto il padrone fermò la giostra per
riposare il braccio e Sciamano scese dal suo orso bruno e si assunse il compito
di girare la manovella. La girava sempre più velocemente e il cavallo rosso
passò dal trotto al galoppo. Rachel gettava indietro la testa e quando gli passa-
va accanto rideva fragorosamente con un lampo dei denti candidi, come una
bambina. Ma non c'era nulla di infantile nel suo fascino. E non c'era solo Scia-
mano che rimanesse incantato: anche il francese le gettava furtivi sguardi di
ammirazione mentre si preparava a chiudere. «Voi siete gli ultimi clienti
dell'anno 1864» disse a Sciamano. «C'est finì, per questa stagione. Ben presto
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verrà il ghiaccio.» Rachel restò sulla giostra per undici giri. Era evidente che
avevano costretto il francese a far tardi: Sciamano, quando lo pagò, aggiunse
una buona mancia, e l'uomo fece dono a Rachel di un boccale di vetro bianco
su cui era dipinto un mazzo di rose.
Tornarono all'albergo con i capelli scompigliati dal vento, ridendo.
«Mi sono tanto divertita» esclamò Rachel sulla porta della camera 306.
«Anch'io.» Prima che Sciamano potesse fare o dire nulla, Rachel lo baciò
leggermente sulla guancia e la porta si aprì e si richiuse.
Nella sua stanza, Sciamano rimase sdraiato per un'ora sul letto, tutto vestito.
Infine si alzò e scese due piani di scale. Passò un lungo momento prima che lei
rispondesse al suo bussare, e Sciamano stava per scoraggiarsi e tornare indietro
quando la porta infine si aprì, e Rachel comparve in vestaglia.
Si guardarono un attimo in silenzio. «Vieni dentro tu o vengo fuori io?»
chiese infine Rachel e Sciamano vide che era turbata.
Entrò nella stanza e chiuse la porta. «Rachel...» cominciò, ma lei gli coprì la
bocca con la mano.
«Quando ero una ragazzina, andavo a camminare per il Sentiero Lungo e mi
fermavo in un posto bellissimo, dove i boschi scendevano a bagnare i loro rami
nel fiume, proprio sul confine delle nostre due fattorie. E mi dicevo che tu
presto saresti diventato adulto e avresti costruito una casetta proprio in quel
posto e mi avresti salvata dal dover sposare un uomo vecchio con i denti guasti.
Mi figuravo i nostri bambini, un maschietto come te, e tre bambine con cui tu
saresti stato affettuoso e paziente e le avresti lasciate andare a scuola e vivere
nella loro casa, finché fossero pronte ad andarsene.»
«Io ti ho amata per tutta la vita.»
«Lo so.» E mentre lui la baciava, cominciò a slacciare i bottoni della sua
camicia.

Lasciarono la luce accesa, per potersi parlare e potersi guardare.


Dopo che ebbero fatto l'amore, Rachel si addormentò dolcemente, come una
gattina che si assopisce al sole, e Sciamano restò sdraiato a studiare il suo
respiro. Infine lei si svegliò e spalancò gli occhi, come sorpresa al vederlo.
«Anche dopo che ero la moglie di Joe... anche dopo che ero diventata
madre, ho sempre sognato di te.»
«In qualche modo io lo sapevo e questo peggiorava le cose.»
«Ho paura, Sciamano!»
«Di che cosa?»
«Per tanti anni ho cercato di scacciare ogni speranza... Sai che cosa fa una
427
famiglia di ebrei osservanti quando uno si sposa fuori della fede? Coprono con
dei panni tutti gli specchi e prendono il lutto. E dicono le preghiere dei morti.»
«Non aver paura. Noi gli parleremo e loro capiranno.»
«E se non capiranno?»
Lui sentì come una coltellata di paura, ma la questione andava affrontata.
«Se non capiranno, tu dovrai prendere una decisione.» Si guardarono negli
occhi.
«Mai più rassegnarsi a rinunciare, nessuno di noi» mormorò Rachel.
«Giusto?»
«Giusto.»
Entrambi seppero che avevano preso un impegno, più serio di qualsiasi
voto, e si volsero l'uno verso l'altra e si strinsero come se l'uno fosse per l'altra
un'ancora di salvezza.

Il giorno dopo, nel treno che li portava verso ovest, parlarono del loro
futuro.
«Io avrò bisogno di tempo» osservò Rachel.
Quando Sciamano le chiese quanto tempo, lei rispose che voleva parlarne al
padre di persona, non in una lettera contrabbandata. «Non ci vorrà molto. Tutti
pensano che la guerra stia per finire.»
«Ti ho aspettata per tanti anni. Non posso aspettare di più» ribatté Sciama-
no. «Ma non voglio incontrarti in segreto. Voglio venire a trovarti a casa tua,
voglio che usciamo insieme. E voglio passare tanto tempo con Hattie e Joshua,
per poterci conoscere meglio.»
Rachel sorrise e gli prese una mano. «Sicuro.»
A Rock Island Lillian sarebbe andata a prendere la figlia alla stazione.
Sciamano scese a Moline e andò alla stalla a riprendersi il cavallo. Risalì il
fiume per 45 chilometri, poi attraversò il Mississippi con il traghetto e sbarcò a
Clinton, Iowa. Quella notte dormì al Randall Hotel, in un'ottima stanza con il
caminetto di marmo e acqua corrente calda e fredda. L'albergo aveva meravi-
gliosi gabinetti igienici, in un annesso di mattoni a cinque piani, accessibile da
ogni pianerottolo. Ma, il giorno dopo, la sua visita all'Inman Hospital fu una
delusione. Era un piccolo ospedale, come quello che si stava progettando per
Holden's Crossing, ma era sudicio e maltenuto, una vera lezione su che cosa
non si doveva fare. Sciamano se ne andò il più presto possibile e pagò una
buona somma al capitano di una chiatta perché portasse lui e il cavallo fino a
Rock Island.
Pioveva e faceva freddo mentre cavalcava verso Holden's Crossing, ma il
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pensiero di Rachel e del loro futuro lo riscaldava.
Quando finalmente fu a casa ed ebbe sistemato il cavallo, entrò in cucina e
trovò sua madre seduta molto rigida sull'orlo della sua sedia. Era chiaro che
aveva atteso ansiosamente il suo ritorno, perché le parole le uscirono impetuo-
samente di bocca appena vide il figlio sulla porta.
«Tuo fratello è vivo. È prigioniero di guerra.»

65

Un telegramma

Lillian Geiger il giorno prima aveva ricevuto una lettera del marito. Jason
scriveva di aver visto il nome del caporale Alexander Bledsoe in un elenco di
prigionieri di guerra confederati. Alex era stato catturato dalle forze del-
l'Unione l'11 novembre 1862 a Perryville, Kentucky.
«Ecco perché Washington non ha risposto alle nostre lettere in cui chiede-
vamo di un prigioniero di nome Alexander Cole» osservò Sarah. «Alex ha
usato il cognome del mio primo marito.»
Sciamano era esultante. «Almeno può essere ancora vivo! Scrivo subito per
vedere di scoprire dove lo tengono.»
«Scrivere? Ci vorrebbero dei mesi! Se è ancora vivo, deve essere prigionie-
ro almeno da tre anni. Jason dice che le condizioni di vita sono terribili nei
campi di prigionia, da entrambe le parti combattenti. Dovremmo cercare di
raggiungerlo subito.»
«Allora vado io stesso a Washington.»
Ma sua madre scosse la testa. «Ho letto sul giornale che Nick Holden è in
procinto di venire a Rock Island e a Holden's Crossing per parlare a favore
della rielezione di Lincoln. Vai da lui e chiedigli di aiutarti a ritrovare tuo
fratello.»
Sciamano si sentì a disagio. «Perché dovremmo andare da Nick Holden
invece che dal nostro deputato o dal nostro senatore? Papà disprezzava Holden
perché aveva contribuito a distruggere i Sauk.»
«Nick Holden probabilmente è il padre di Alex» replicò Sarah con voce
quieta.
Per un attimo Sciamano rimase senza parole.
«... io ho sempre pensato... Ossia, Alex credeva che il suo padre naturale
fosse un tale di nome Will Mosby.»
Sua madre lo guardò. Era molto pallida, ma aveva gli occhi asciutti. «Io
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avevo diciassette anni quando è morto il mio primo marito. Ero sola, in una
casetta di tronchi, in mezzo alla prateria, in quella che è ora la tenuta degli
Schroeder. Cercai di portare avanti i lavori della fattoria, ma non avevo la
forza. La fatica di lavorare la terra mi spezzava. Non avevo denaro. Non
c'erano posti di lavoro qui intorno. La zona era ancora scarsamente abitata. Fu
Will Mosby che mi trovò per primo. Era un criminale, stava lontano per lunghi
periodi, ma quando tornava aveva un sacco di denaro. Poi Nick Holden
cominciò a venire a trovarmi.
«Erano entrambi degli uomini belli e attraenti. Dapprima pensavo che nes-
suno dei due sapesse dell'altro, ma quando rimasi incinta risultò che entrambi
lo sapevano e ciascuno affermò che il padre era l'altro.»
Sciamano non sapeva che cosa dire. «E nessuno di loro ti ha mai aiutata?»
Sarah ebbe un amaro sorriso. «Molto scarsamente. Will Mosby mi amava
credo, e alla fine mi avrebbe sposata, ma faceva una vita rischiosa da fuorileg-
ge, e scelse giusto quel momento per farsi ammazzare. Nick si tenne lontano,
anche se io ho sempre pensato che fosse lui il padre di Alex. Intanto erano
arrivati Alma e Gus e avevano preso la terra e credo che Nick sapesse che gli
Schroeder provvedevano a mantenermi.
«Al momento del parto fu Alma ad assistermi, ma la povera donna perdeva
la testa nei casi di emergenza e perlopiù dovevo dirle io quel che doveva fare.
Dopo la nascita di Alex per qualche anno la mia vita fu orribile. Dapprima mi
cedettero i nervi, poi mi ammalai di intestino e questo provocò i calcoli alla
vescica.» Sarah scosse la testa. «Tuo padre mi ha salvato la vita. Finché non è
comparso lui, io non credevo che esistessero al mondo degli uomini onesti e
buoni.
«Il fatto è che io avevo peccato. Quando tu hai perduto l'udito, io sapevo
che era un castigo per me e che era colpa mia, e non riuscivo quasi ad avvici-
narmi a te. Ti amavo tanto, e sentivo tanto rimorso.» Gli accarezzò piano il
viso. «Mi dispiace che tu abbia avuto una madre così debole e colpevole.»
Sciamano le prese la mano. «No, non sei debole e colpevole. Sei una donna
forte che ha avuto bisogno di molto coraggio per sopravvivere. E soprattutto
molto coraggio per raccontarmi la tua storia. La mia sordità non è colpa tua,
mamma. Dio non vuole punirti. Io non sono mai stato tanto orgoglioso di te,
non ti ho mai voluto tanto bene come ora.»
«Grazie, Sciamano» mormorò Sarah e ora, quando Sciamano la baciò, sentì
che la sua guancia era umida.

Cinque giorni prima che Nick Holden venisse a parlare a Rock Island,
430
Sciamano lasciò una lettera per lui al presidente del Comitato repubblicano
della contea: scriveva che il dottor Robert Jefferson Cole chiedeva di poter
parlare con il commissario Holden per una questione urgente e di grande im-
portanza.
Il giorno del primo comizio politico Sciamano si recò alla grande casa di
Holden a Holden's Crossing e un segretario annuì quando sentì il suo nome.
«Il commissario l'aspetta» e introdusse Sciamano nell'ufficio.
Holden era molto cambiato da quando Sciamano lo aveva visto l'ultima vol-
ta. Era ingrassato, i capelli grigi si erano fatti radi e una rete di venuzze era
comparsa agli angoli del suo naso. Ma era sempre un uomo di bell'aspetto e
portava su tutta la sua persona la sicurezza di sé, come un abito di buon taglio.
«Bene, buon Dio, lei è il piccolo, il figlio minore, vero? E ora è già medico?
Sono veramente felice di vederla. Dica un po', io ho bisogno di un buon pranzo
paesano, venga con me alla trattoria di Anna Wiley e lasci che le offra un vero
pasto di Holden's Crossing.»
Sciamano aveva appena letto il diario del padre e vedeva ancora Nick con
gli occhi di Rob J. Cole, e l'ultima cosa che desiderava era spartire pane e vino
con lui. Ma sapeva bene perché era li e si lasciò condurre alla trattoria di Main
Street nella carrozza di Nick. Naturalmente dovettero passare prima per l'empo-
rio, dove rimase in attesa mentre Nick stringeva la mano a ogni cittadino sotto
il portico, com'era dovere di un buon politico, e si assicurava che ognuno fa-
cesse conoscenza «del mio buon amico, il nostro dottore».
Nella sala da pranzo Anna Wiley si fece in quattro per loro e servì a
Sciamano il suo arrosto, che era ottimo, e la sua torta di mele, che era discreta.
E finalmente Sciamano poté parlare a Nick Holden di Alex.
Holden ascoltò senza interromperlo, poi annuì. «È prigioniero da tre anni?»
«Si, signore. Se è ancora vivo.»
Nick trasse un sigaro dalla tasca interna della giacca e glielo offrì. Sciamano
rifiutò e Nick ne staccò con i denti l'estremità e se lo accese, soffiando pensoso
piccoli sbuffi di fumo. «Perché è venuto da me?»
«Mia madre pensava che lei poteva interessarsi.»
Holden lo guardò, annuendo, e sorrise. «Suo padre e io... sa, quando erava-
mo giovani, eravamo grandi amici. Qualche volta ce la siamo spassata insie-
me.»
«Lo so» replicò Sciamano piuttosto seccamente. Qualcosa nel suo tono do-
vette avvertire Nick che era meglio abbandonare l'argomento. «Bene,» proseguì
Holden «porga i miei migliori ossequi a sua madre. Le dica che mi interesserò
personalmente della questione.»
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Rob lo ringraziò. Comunque, appena tornato a casa, scrisse al senatore e al
deputato della contea, chiedendo il loro aiuto per rintracciare Alex.

Pochi giorni dopo il loro ritorno da Chicago, sia Sciamano sia Rachel
annunciarono alle rispettive madri che avevano deciso di unire i loro destini.
Sarah strinse le labbra quando sentì la notizia, ma non ne fu sorpresa. «Tu
sarai buono con i suoi bambini, naturalmente, così come tuo padre fu buono
con Alex. E se avrete dei figli, li farete battezzare?»
«Non so, mamma. Non ne abbiamo ancora parlato.»
«Io ne parlerei, se fossi in voi.» E fu tutto quello che ebbe da dirgli sulla
questione.
Rachel non fu così fortunata. Lei e la madre litigavano spesso. Lillian era
cortese con Sciamano quando veniva a casa Geiger, ma non gli dimostrava
nessuna cordialità. Sciamano portava fuori con sé Rachel e i due bambini con il
calesse quando era possibile, ma la natura cospirava contro di lui, perché face-
va sempre cattivo tempo. Come l'estate era venuta presto, e subito molto calda,
quasi senza che ci fosse la primavera, così l'inverno quell'anno sopraggiunse
prematuramente sulle praterie. L'ottobre portò il gelo. Sciamano trovò i pattini
di suo padre nel fienile; comprò ai bambini degli slittini all'emporio di Haskins
e li portò a giocare sullo stagno gelato. Ma faceva troppo freddo per restarvi a
lungo. E nevicò il giorno delle elezioni, quando Lincoln fu rieletto, e il 18 del
mese una bufera di neve colpì Holden's Crossing e stese sul terreno un manto
bianco che sarebbe durato fino a primavera.
«Hai osservato il tremito di Alden?» gli chiese un mattino sua madre.
In realtà Sciamano stava osservando Alden da un pezzo. «Ha il morbo di
Parkinson, mamma.»
«E che diavolo è?»
«Non so che cosa provochi il tremore, ma la malattia investe il controllo dei
muscoli.»
«E ne morirà?»
«Qualche volta la malattia porta alla morte, ma non spesso. Probabilmente
avrà un lento peggioramento. Forse diventerà paralitico.»
Sarah annuì. «Sicuro, il poveretto diventa troppo vecchio e debole per por-
tare avanti la fattoria. Dovremo pensare a sostituirlo con Doug Penfield, e
assumere qualcun altro come aiuto. Possiamo permettercelo?»
Al momento Alden riceveva 22 dollari il mese e Doug Penfield 10. Sciama-
no fece qualche rapido calcolo e finalmente annuì.
«E poi, che ne sarà di Alden?»
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«Be', resterà nella sua casetta di tronchi e noi avremo cura di lui, natural-
mente. Ma sarà difficile convincerlo ad abbandonare il lavoro pesante.»
«La cosa migliore sarà incaricarlo di una serie di lavoretti che non ri-
chiedano troppa fatica» osservò accortamente sua madre e Sciamano si disse
d'accordo.
«Penso proprio di avere uno di questi lavoretti per lui.»
Quella sera portò il "Bisturi di Rob J." alla casetta di Alden.
«Ha bisogno di essere affilato, no?» fece Alden, prendendolo in mano.
Sciamano sorrise. «No, Alden, lo tengo affilato io. È uno strumento chirur-
gico che è nella mia famiglia da centinaia di anni. Mio padre mi disse che nella
sua casa paterna era tenuto in una cornice, sottovetro, e appeso alla parete. Mi
domandavo se potessi fare una cornice per me.»
«E perché no?» Alden si girò il coltello fra le dita. «Ottimo acciaio, questo.»
«Ottimo, sì. Ha un taglio perfetto.»
«Potrei farti un coltello come questo, se ne vuoi un altro.»
Sciamano lo guardò, incuriosito. «Vuoi provare? Potresti farne uno con una
lama più lunga e più stretta?»
«Non dovrebbe essere un problema» rispose Alden e Sciamano cercò di non
osservare come tremava la sua mano rendendogli il bisturi.

Era molto duro vivere così vicino a Rachel eppure tanto lontano. Non v'era
nessun posto dove potessero fare l'amore. Arrancavano nella neve profonda
fino ai boschi, e qui si gettavano l'uno nelle braccia dell'altra e si stringevano
come orsi e si scambiavano baci con la faccia gelata e carezze attraverso i giac-
coni pesanti. Sciamano divenne nervoso e di malumore e osservò che Rachel
aveva dei lividi sotto gli occhi.
Quando la lasciava, Sciamano si faceva lunghe camminate. Un giorno, per-
correndo il Sentiero Corto, osservò che la parte della lapide di legno di Makwa-
ikwa che sporgeva al di sopra della neve aveva una profonda fessura. Le intem-
perie avevano quasi cancellato i segni a forma di rune che suo padre aveva
fatto intagliare nel legno.
Sentì la collera furiosa di Makwa salire verso di lui dalla terra, attraverso la
neve. Quanto era la sua immaginazione, e quanto la sua coscienza?
Ho fatto quel che ho potuto. Che altro posso fare? Nella mia vita c'è ben
più del fatto che tu non puoi riposare in pace, le disse irosamente e si voltò e
arrancando nella neve tornò a casa.

Quel pomeriggio si recò a casa di Betty Cummings, che aveva forti dolori
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reumatici nelle spalle. Legò il cavallo e si stava avviando verso la porta sul
retro quando vide, poco al di là del fienile, una duplice traccia e una serie di
impronte curiose.
Attraversò il mucchio di neve e si inginocchiò a osservarle.
Le impronte nella neve avevano forma triangolare e affondavano per circa
quindici centimetri, variando leggermente in grandezza a seconda della profon-
dità.
Quelle ferite triangolari nel bianco mantello di neve erano senza sangue, e
ce n'erano una decina e più.
Rimase inginocchiato, fissandole.
«Dottor Cole?»
Mrs. Cummings era uscita nel cortile e si chinava su di lui con l'espressione
preoccupata.
Gli disse che le impronte erano quelle delle racchette da sci di suo figlio. Il
ragazzo si era fatto gli sci e le racchette con legno di hickory, appuntendone le
estremità.
Erano troppo larghe.
«Va tutto bene, dottor Cole?» La donna rabbrividì e si strinse lo scialle al
petto e Sciamano d'improvviso si vergognò di tener così fuori al freddo una
vecchia sofferente di reumatismi.
«Tutto bene, Mrs. Cummings.» Si alzò e la seguì nella comoda cucina
calda.

Alden aveva fatto un eccellente lavoro con la cornice del bisturi di Rob J.
Aveva usato legno di quercia ben squadrato e aveva ottenuto da Sarah un
piccolo ritaglio di velluto azzurro per montarvi il bisturi. «Però non ho potuto
trovare un pezzo di vetro usato. Ho dovuto comprarlo nuovo all'emporio. Spero
di aver fatto bene.»
«Più che bene, mio caro.» Sciamano era molto contento. «Lo appenderò a
casa nell'atrio.»
Fu ancora più soddisfatto quando vide il bisturi che Alden aveva forgiato in
base alle sue indicazioni. «L'ho tirato fuori da un vecchio ferro da marchio. Ne
è rimasto ancora tanto da fare altri due o tre di questi coltelli, se ti occorrono.»
Sciamano si sedette con carta e matita e disegnò una sonda da dissezione e
un bisturi amputante. «Credi di poter fare questi strumenti?»
«Non c'è dubbio.»
Sciamano lo guardò, colpito da un altro pensiero. «Presto avremo un
ospedale qui da noi, Alden. Questo significa che avremo bisogno di strumenti,
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letti, sedie... ogni sorta di cose. Che ne dici? Potresti trovare qualcuno che ti
aiuti a fabbricarli per noi?»
«Be', mi piacerebbe ma... Non credere che io possa trovare il tempo...»
«Sì, vedo. Ma se assumiamo qualcuno che lavori alla fattoria con Doug
Penfield? Tu potresti chiamarli un paio di volte la settimana per spiegare loro
che cosa devono fare.»
Alden rifletté un momento, poi annuì. «Potrebbe andare.»
Sciamano ebbe una breve esitazione. «Alden... tu hai buona memoria?»
«Buona come qualsiasi altro, credo.»
«Per quel che ti puoi ricordare, dimmi dove si trovava ogni persona il gior-
no in cui Makwa fu uccisa.»
Alden trasse un greve sospiro e alzò gli occhi al cielo. «Ancora con quel-
l'idea, vedo.» Ma con qualche parola persuasiva Sciamano lo convinse a
collaborare. «Bene, cominciamo da te. Tu dormivi nel bosco, mi hanno detto.
Tuo padre era fuori, a visitare i suoi pazienti. Io ero alla fattoria di Hans Grue-
ber e lo aiutavo a macellare, in cambio dei buoi che tuo padre aveva preso in
prestito per tirare il carro spargiconcime sui nostri pascoli... Vediamo, chi re-
sta?»
«Alex. Mia madre. Luna e Vien Cantando.»
«Bene, Alex era fuori in qualche posto a pescare o giocare, non so. Tua
madre e Luna... Adesso ricordo, stavano riordinando la dispensa fredda, per
appendervi la carne quando noi macellavamo le nostre bestie. Il grande indiano
badava al gregge e poi, poco dopo, era nei boschi a lavorare.» Sorrise a
Sciamano. «Che cosa ne dici della mia memoria?»
«Fu Jason che trovò Makwa. Come aveva passato la sua giornata?»
Alden era indignato. «Diavolo, come faccio a saperlo? Se vuoi sapere di
Geiger, chiedilo a sua moglie.»
Sciamano annuì. «Lo farò.»
Ma quando tornò a casa scacciò ogni altro pensiero dalla mente, perché sua
madre gli disse che Carroll Wilkenson era arrivato con un messaggio per lui.
Era stato spedito all'ufficio telegrafico di Rock Island.
Le sue dita tremavano come quelle di Alden quando lacerò la busta.
Il telegramma era conciso e asciutto.
Caporale Alexander Bledsoe, 38° Louisiana, fucilieri a cavallo, attualmen-
te prigioniero di guerra al campo prigionieri di Elmira, New York. Prego
farmi sapere se in qualsiasi altro modo posso essere d'aiuto. Buona fortuna.
Nicholas Holden, commissario per gli Affari Indiani degli Stati Uniti.

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66

Il campo di Elmira

Nell'ufficio del direttore, alla banca, Charlie Andreson guardò la cifra del
prelevamento e sporse le labbra. Anche se prelevava il proprio denaro Sciama-
no espose ad Andreson senza esitare la ragione per cui lo faceva, sapendo di
poter avere fiducia nel banchiere. «Non ho idea di quel che occorrerà per Alex.
Comunque avrò bisogno di fondi per aiutarlo.»
Andreson annuì e lasciò l'ufficio. Quando tornò, portava un cestino pieno di
mazzetti di banconote. Aveva anche una cintura portamonete, che porse a
Sciamano. «Un piccolo dono della banca a uno stimato cliente. Insieme con i
nostri più sinceri auguri e a un consiglio, se permette: tenga il denaro nella cin-
tura e lo porti a contatto con la pelle, sotto i vestiti. Lei ha una pistola?»
«No.»
«Bene, dovrebbe comprarsela. Ha da fare un lungo viaggio e ci sono in giro
uomini pericolosi che non ci penserebbero due volte a uccidere per impadronir-
si di tutto questo denaro.»
Sciamano ringraziò il banchiere e ripose il denaro e la cintura in una bor-
setta di tela che aveva portato con sé. Stava cavalcando per la Main Street
quando gli venne in mente che in realtà aveva una pistola: la Colt 44 che suo
padre aveva tolto a un confederato morto per uccidere un cavallo, e che aveva
poi portato a casa dalla guerra.
In circostanze normali non avrebbe mai pensato di viaggiare armato, ma
non poteva permettersi di affrontare rischi che avrebbero potuto pregiudicare la
sua ricerca del fratello. Girò il cavallo e si diresse all'emporio di Haskins, dove
comprò una scatola di munizioni per la 44. I proiettili e la pistola erano pesanti
e occupavano molto spazio nell'unica valigia che si portò appresso, insieme con
la borsa medica, quando partì da Holden's Crossing la mattina dopo.

Prese un battello a vapore che scendeva il fiume fino a Cairo, poi proseguì
verso est in treno. Tre volte vi furono lunghe soste, con il treno fermo per
consentire il passaggio dei treni militari. Furono quattro giorni e quattro notti di
viaggio disagevole e faticoso. Quando si lasciò alle spalle l'Illinois la neve
scomparve, ma non l'inverno, e il freddo intenso che regnava nei vagoni gli
penetrava nelle ossa. Quando finalmente arrivò a Elmira, era sfinito dal viaggio
ma non pensò neppure di fare un bagno o cambiarsi d'abito prima di cercare di
vedere Alex: lo incalzava un'ansia irrefrenabile di accertarsi che il fratello fosse
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vivo.
Fuori della stazione non prese una carrozza, ma un calesse, per potersi
sedere a fianco del cocchiere e leggere sulle sue labbra quello che gli diceva. Il
cocchiere gli spiegò tutto orgoglioso che Elmira aveva raggiunto i 15.000
abitanti. Attraversarono una linda cittadina di piccole case, poi dei sobborghi
alla sua periferia, lungo Water Street che fiancheggiava un fiume, il fiume
Chemung, disse il cocchiere. Infine arrivarono alla palizzata di legno che
circondava il campo dei prigionieri.
Il cocchiere era orgoglioso dei miglioramenti che abbellivano la sua città ed
era lieto di parlarne. Disse a Sciamano che la palizzata era alta tre metri e
mezzo. «Tutta fatta di tavole di legni locali» e racchiudeva un terreno di undici
ettari su cui vivevano più di 10.000 prigionieri confederati. «E c'erano stati
anche più di 12.000 ribelli, a volte.»
Spiegò che a un metro e mezzo dalla sommità della palizzata, verso l'ester-
no, vi era un cammino di ronda, lungo il quale pattugliavano sentinelle armate.
Percorsero la West Water Street, dove imprenditori di pochi scrupoli aveva-
no fatto del campo di prigionieri una specie di zoo umano. Una torre di legno
alta tre piani, completa di scale che portavano a una piattaforma cinta da
parapetto, consentiva a chiunque di osservare per 15 cent gli uomini che si
aggiravano entro la palizzata.
«Prima c'erano due torri qui e una quantità di bancarelle con rinfreschi,
vendevano frittelle, panini, limonata e birra a quelli che venivano a vedere i
prigionieri. Ma il dannato esercito ha chiuso tutto.»
«Peccato.»
«Eh si. Vuole fermarsi a dare un'occhiata?»
Sciamano scosse la testa. «Mi faccia scendere all'entrata principale del
campo, per piacere.»

Alla porta c'era una sentinella di colore, in atteggiamento molto militare.


Pareva che la maggior parte delle sentinelle fossero nere. Sciamano segui un
soldato semplice che lo accompagnò alla fureria del quartier generale, dove
diede le sue generalità a un sergente e chiese l'autorizzazione a visitare un
prigioniero di nome Alexander Bledsoe.
Il sergente conferì con un sottotenente seduto dietro una scrivania in un
piccolo ufficio, poi comparve ad annunciare che c'era stato un messaggio da
Washington a favore del dottor Cole: il che indusse Sciamano a giudicare più
favorevolmente Nicholas Holden.
«Le visite non devono durare più di novanta minuti.» Il soldato lo avrebbe
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condotto da suo fratello, tenda 8-C. Sciamano lo segui per strade ghiacciate fin
verso il centro del campo. Ovunque guardasse vedeva prigionieri, apatici,
miserabili, mal coperti contro il freddo. Capì subito che erano affamati. Ce
n'erano due in piedi, presso un barile rovesciato, che stavano scuoiando un
grosso topo.
Oltrepassarono una serie di basse baracche di legno, oltre le baracche
c'erano file di tende e al di là delle tende un lungo stagno stretto, che
evidentemente era usato come fognatura all'aperto, perché via via che vi si
avvicinava il fetore si faceva più forte.
Infine il soldato nero si fermò davanti a una delle tende. «Questa è la 8-C,
signore.»
Sciamano lo ringraziò.
Dentro trovò quattro uomini con le facce contratte dal freddo. Non li
conosceva, e il suo primo pensiero fu che uno di loro aveva lo stesso nome di
Alex e lui aveva fatto tutto quel viaggio per un caso di omonimia.
«Sto cercando il caporale Alexander Bledsoe.»
Uno dei prigionieri, quasi un ragazzo con baffi neri troppo grandi per il viso
ossuto, accennò a quel che pareva un mucchio di stracci. Sciamano si avvicinò
cautamente, come se un animale pericoloso fosse in agguato sotto i sudici
cenci: due sacchi di iuta, un pezzo di tappeto, qualcosa che forse un giorno era
stato un mantello. «Gli teniamo la faccia coperta per il freddo» spiegò il ragaz-
zo dai baffi neri: tese il braccio e alzò uno dei sacchi.
Era suo fratello, ma quanto diverso! Incontrandolo per strada Sciamano non
lo avrebbe riconosciuto, tanto era cambiato. Magrissimo, il viso incavato da
esperienze che Sciamano non voleva neppure immaginare. Gli prese la mano e
Alex aprì gli occhi e lo fissò senza riconoscerlo.
«Alex» cominciò Sciamano, ma non poté proseguire.
Alex sbatté gli occhi, sgomento. Poi a poco a poco si fece strada in lui la
percezione della realtà, come una marea che lentamente invadesse una spiaggia
solitaria, e cominciò a piangere.

«Mamma e papà?»
Furono le prime parole che Alex gli disse e Sciamano menti immedia-
tamente e istintivamente. «Stanno bene.» I due fratelli sedettero vicini, tenen-
dosi le mani. Avevano tanto da dirsi, tanto da chiedere e raccontare che
dapprima rimasero muti. Poi Sciamano ritrovò le parole, Alex non ancora:
malgrado l'eccitazione dell'incontro, scivolò di nuovo nel sonno, e questo disse
a Sciamano quanto il fratello fosse malato.
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Si presentò agli altri quattro prigionieri, che gli dissero i loro nomi. Berry
Womack di Spartanburg, Carolina del Sud, basso e robusto, con lunghi e sudici
capelli biondi. Fox J. Byrd di Charlottesville, Virginia, con il viso sonnolento e
la pelle cascante, come se una volta fosse stato grasso. James Joseph Waldron
di Van Buren, Arkansas, robusto, pelle scura, il più giovane di tutti, non più di
diciassette anni, pensò Sciamano. E Barton O. Westmoreland di Richmond,
Virginia, il ragazzo dai baffi neri, che gli strinse energicamente la mano e gli
disse di chiamarlo Buttons.
Mentre Alex dormiva, Sciamano lo esaminò.
Gli mancava il piede sinistro.
«... Un colpo d'arma da fuoco?»
«No, signore» rispose Buttons. «Io ero con lui. Un gruppo di noi fu
trasferito qui in treno dal campo prigionieri di Point Loo kout, Maryland, il 16
luglio scorso... Bene, ci fu un terribile scontro ferroviario in Pennsylvania, a
Sholola. Quarantotto prigionieri e diciassette guardie federali rimasero uccisi.
Li seppellirono così, in un campo vicino ai binari, come dopo una battaglia.
«Ottantacinque di noi furono feriti. Il piede di Alex era così maciullato che
dovettero amputarlo. Io sono stato veramente fortunato, solo una spalla slo-
gata.»
«Suo fratello pareva che stesse bene, per un certo tempo» aggiunse Berry
Womack. «Jimmie-Joe gli fece una gruccia e lui si muoveva bene con quella.
Alex era il sergente-infermiere in questa tenda, e si prendeva cura di noi tutti.
Diceva che aveva imparato un po' di medicina osservando suo padre.»
«E noi lo chiamavamo dottore» interloquì Jimmie-Joe Waldron.
Quando Sciamano sollevò la gamba di Alex, vide che quella era la fonte del
male. La gamba non era ancora andata in cancrena, ma a metà del moncone, da
cui pendevano laceri lembi di pelle, non era cicatrizzata, e sotto il tessuto della
parte cicatrizzata c'era del pus.
«Lei è un medico?» chiese Waldron quando vide lo stetoscopio. Sciamano
assentì. Sistemò lo stetoscopio sul torace di Alex e provò un gran sollievo al
sentire, dai rumori riferiti dagli altri, che i polmoni fortunatamente erano illesi.
Ma Alex aveva la febbre e il suo polso era debole e irregolare.
«C'è un'epidemia in tutto il campo, signore» riferì Buttons. «Vaiolo, ogni
sorta di febbri. Malaria, diversi tipi di febbri palustri. Quale pensa che sia il suo
male?»
«Un principio di necrosi alla gamba» rispose Sciamano angosciato. Era
ovvio che Alex soffriva anche di denutrizione e di lunga esposizione al freddo,
come del resto gli altri uomini della tenda. Dissero a Sciamano che diverse
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tende avevano delle stufe di lamiera e alcune anche delle coperte, ma per la
maggior parte non avevano niente.
«E che cosa mangiate?»
«Al mattino ognuno riceve un pezzo di pane e un pezzetto di pessima carne.
La sera, un pezzo di pane e una ciotola di quello che chiamano zuppa, ossia
l'acqua in cui hanno fatto bollire la pessima carne.»
«Niente verdure?»
Scossero la testa, ma Sciamano sapeva già la risposta. I sintomi dello
scorbuto gli erano balzati agli occhi appena era entrato nel campo.
«Quando siamo arrivati qui, c'erano 10.000 prigionieri» soggiunse Buttons.
«E continuano a riceverne degli altri, ma solo 5000 dei vecchi 10.000 sono
sopravvissuti. Hanno un obitorio sempre affollato e un grande cimitero appena
al di là del campo. Circa 25 di noi muoiono ogni giorno.»
Sciamano si sedette sulla terra gelata e prese la mano di Alex, osservando il
suo viso. Alex continuava a dormire, un sonno troppo profondo.
Ben presto la guardia si affacciò all'apertura della tenda e annunciò che il
tempo era scaduto.

Nella fureria del quartier generale il sergente ascoltò impassibile quando


Sciamano dichiarò di essere un medico e descrisse i sintomi del fratello.
«Vorrei avere il permesso di riportarlo a casa. So che, se rimane qui, morirà.»
Il sergente frugò in uno schedario e ne trasse un foglio, che esaminò attenta-
mente. «Suo fratello non può essere rilasciato sulla parola. Qui è definito
"geniere"; così chiamiamo un prigioniero che ha tentato di scavare un tunnel
per evadere.»
«Un tunnel!» si stupì Sciamano. «Come poteva scavare? Ha un piede solo!»
«Ma ha due mani. E prima di arrivare qui era evaso da un altro campo ed
era stato ricatturato.»
Sciamano cercò di farlo ragionare. «Ma non è quello che avrebbe fatto
anche lei? Che ogni uomo d'onore farebbe?»
Ma il sergente scosse la testa. «Abbiamo le nostre regole.»
«Posso almeno portargli qualche cosa?»
«Niente che sia affilato o fatto di metallo.»
«C'è una pensione qui vicino?»
«Ce n'è una, duecento metri a ovest dell'entrata principale. Affittano stan-
ze.» Sciamano ringraziò e riprese le sue borse.

Appena Sciamano fu nella sua stanza e riuscì a liberarsi del locandiere, tolse
440
150 dollari dalla sua cintura portamonete e si pose le banconote nella tasca
della giacca. C'era un inserviente che fu ben felice di portare il nuovo pensio-
nante in città, a pagamento, s'intende. All'ufficio telegrafico Sciamano spedì un
messaggio a Nick Holden a Washington: Alex gravemente malato. Necessario
assicurare il suo rilascio, o morirà. Prego, ci aiuti.
Trovò una grande scuderia con stallaggio e noleggio; prese a nolo un caval-
lo e un carro a pianale coperto.
«Per un giorno o per una settimana?» chiese il noleggiatore. Lo prese per
una settimana e pagò in anticipo.
L'emporio era più grande di quello di Haskins. Sciamano riempì il carro con
diversi generi per i compagni di tenda di Alex: legna da ardere, coperte, un
pollo già pulito e pronto per la cottura, un trancio di pancetta, sei pagnotte, due
sacchi di patate, un sacco di cipolle, una cassetta di cavoli.
Il sergente spalancò gli occhi quando vide il "qualche cosa" che Sciamano
aveva portato per il fratello. «Lei oggi ha già usufruito dei novanta minuti.
Metta solo giù il suo carico e torni fuori.»
Alla tenda Alex dormiva ancora. Ma per gli altri fu come il giorno di Natale
ai bei tempi. Chiamarono i loro vicini, e da una dozzina di tende vennero i
prigionieri a prendersi legna e verdura. Sciamano aveva destinato le provviste
agli uomini della tenda 8-C, ma quelli avevano deciso di distribuirle ai
compagni di prigionia.
«Avete qui una pentola?» chiese a Buttons.
«Sissignore.» Buttons tirò fuori un grosso barattolo di latta tutto ammac-
cato.
«Fate un brodo di pollo, cipolle, cavoli, patate, e poi metteteci un po' di
pane. Conto su di voi perché ne facciate mangiare a mio fratello il più possi-
bile.»
«Sissignore, lo faremo» assicurò Buttons.
Sciamano esitò. Un'allarmante quantità di cibo era già scomparsa. «Ne por-
terò ancora domani. Dovete cercare di conservare una certa quantità di prov-
viste per la vostra tenda.»
Westmoreland annuì pensieroso. Sapevano entrambi che la condizione, taci-
tamente posta e accettata, era che soprattutto Alex dovesse essere nutrito.
Il locandiere teneva riempita la caraffa d'acqua di Sciamano e lo invitò a be-
re, con la stessa premura con cui gli avrebbe offerto del vino. L'acqua era pia-
cevole al gusto, ma non aveva niente di speciale, per quanto parve a Sciamano.
«Anche i pozzi del campo prigionieri hanno acqua eccellente. E questa non
è cosa da poco. Suo fratello era forse a Point Lookout, come tanti altri di questo
441
campo?»
Sciamano annuì.
«Le diranno che l'acqua a Point Lookout era un vero veleno.»
Sciamano non poté trattenersi dall'osservare che, malgrado l'ammirabile
qualità dell'acqua, nel campo di Elmira moriva un alto numero di prigionieri.
Il locandiere annuì. «L'acqua da sola non può dare la salute. Il primo inte-
resse del governo è quello di portare avanti la guerra, non di nutrire i prigio-
nieri.» Sospirò e confidò al suo cliente che a detta di tutti il chirurgo del campo
era un ben misero campione della professione del dottor Cole, e inoltre era
posseduto dai demoni che lo spingevano a consumare per sé gran parte delle
droghe che il governo forniva per i suoi pazienti. «Deve cercare di far rilasciare
suo fratello il più presto possibile.»

La mattina dopo, quando tornò al campo, Alex dormiva e Jimmie-Joe lo


vegliava. Jimmie-Joe gli disse subito che il malato aveva ingerito una buona
porzione di zuppa.
Quando Sciamano gli aggiustò le coperte, Alex si destò di soprassalto. «Va
tutto bene, fratello. Sono io, sono Sciamano.»
Alex chiuse di nuovo gli occhi ma dopo un attimo parlò. «Il vecchio Alden?
È ancora vivo?»
«Si, è in gamba.»
«Bene...» Alex aprì gli occhi, e vide lo stetoscopio che sporgeva dalla borsa
medica. «Che cosa fai con la borsa di papà?»
«L'ho presa in prestito» mormorò Sciamano, colto alla sprovvista. «Sono
medico anch'io.»
«Ma no!» fece Alex, come se fossero due bambini che si raccontavano
frottole.
«Ma sì, lo sono.» E si sorrisero l'un l'altro prima che Alex cadesse di nuovo
addormentato. Sciamano gli prese il polso, ma non c'era nulla che potesse fare
al momento. Il corpo non lavato di Alex emanava cattivo odore, ma quando
Sciamano scoprì il moncone e si chinò a fiutarlo, si sentì mancare il cuore. La
lunga pratica fatta con il padre, e poi con Lester Berwyn e Barney McGowan
gli diceva che non c'era nulla di buono in ciò che i chirurghi meno illuminati
talvolta salutavano come "giovevole pus". Sapeva che in una incisione o in una
ferita spesso il pus indicava l'insorgere di una setticemia, o di ascessi, o di
cancrena. Sapeva quel che si doveva fare, e sapeva che non si poteva fare nel
campo prigionieri.
Coprì il fratello con due delle coperte nuove, si sedette accanto i lui e gli
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tenne le mani, studiando il suo viso.
Quando il soldato lo costrinse a uscire, dopo un'ora e mezza, Sciamano
guidò il suo carro a nolo verso sud-est, lungo la strada che costeggiava il fiume
Chemung. La regione era più collinosa dell'Illinois e più boscosa. Circa otto
chilometri oltre il confine della città giunse a un grande emporio la cui insegna
diceva BARNARD'S. Vi comprò dei panini e un pezzo di formaggio per
colazione, poi si prese due fette di una buona torta di mele e due tazze di caffè.
Quando chiese al negoziante se c'era disponibilità di alloggi nei dintorni, gli fu
indicata la locanda di Mrs. Pauline Clay, a circa un chilometro e mezzo di
distanza, fuori del villaggio di Wellsburg.
Era una piccola casa, non intonacata, circondata da boschi. C'erano quattro
cespugli di rose, avvolti in sacchi da farina contro il freddo e legati con funi da
imballaggio. Un'insegna sulla palizzata diceva CAMERE.
Mrs. Clay aveva un viso aperto e cordiale. Simpatizzò subito con lui quando
le disse del fratello e gli mostrò la casa. L'insegna poteva essere benissimo al
singolare, perché c'erano solo due camere da letto. «Suo fratello potrebbe
occupare la stanza degli ospiti e lei la mia. Io spesso dormo sul divano» spiegò
la donna.
Rimase evidentemente sorpresa quando Sciamano dichiarò che intendeva
prendere in affitto l'intera casa.
«Oh, temo proprio...» Ma spalancò gli occhi appena vide quanto il cliente
era disposto a pagare. Disse francamente che una vedova che aveva lottato per
anni non poteva rifiutare una tale generosità, e che si sarebbe trasferita in casa
di sua sorella al villaggio, mentre i fratelli Cole abitavano nella sua villetta.
Sciamano tornò all'emporio e caricò sul suo carro provviste di viveri e
generi vari e mentre li trasportava nella nuova casa quel pomeriggio vide che
Mrs. Clay stava anch'essa traslocando.

La mattina dopo il sergente era scontroso e decisamente freddo, ma era evi-


dente che l'esercito aveva ricevuto una voce da Nick Holden e forse da alcuni
dei suoi amici.
Il sergente consegnò infatti a Sciamano un documento che era un formale
rilascio sulla parola, con l'impegno che, in cambio della libertà, «il sottoscritto
non riprenderà mai più le armi contro gli Stati Uniti d'America».
«Faccia firmare questo foglio a suo fratello e potrà portarlo via.»
Sciamano era perplesso. «È possibile che stia troppo male per firmare.»
«Bene, la regola è che deve dare la sua parola d'onore, o non sarà rilasciato.
A me non importa che stia male: se non firma non esce.»
443
Così Sciamano portò penna e inchiostro alla tenda 8-C ed ebbe un colloquio
con Buttons fuori della tenda. «Lei pensa che Alex firmerà questa carta, se è in
grado di farlo?»
Westmoreland si grattò il mento. «Be', alcuni sono disposti a firmare, pur di
uscire di qui, e alcuni lo considerano un disonore. Non so come la pensa suo
fratello.»
La cassetta che aveva contenuto i cavoli era a terra vicino alla tenda e Scia-
mano la voltò e vi appoggiò sopra il foglio di carta e l'inchiostro. Intinse la pen-
na e scrisse rapidamente in calce alla pagina: Alexander Bledsoe.
Buttons approvò con un cenno della testa. «Ha fatto bene, dottor Cole. Così
lei lo tira fuori da questo inferno.»

Sciamano disse a ognuno dei compagni di tenda di Alex di scrivergli su un


foglietto il nome e l'indirizzo di un familiare, e promise di far sapere ai loro
cari che erano vivi.
«Lei pensa di poter far passare le lettere oltre la linea del fronte?» gli chiese
Buttons Westmoreland.
«Spero di poterlo fare, quando sarò arrivato a casa.»
Sciamano agì in fretta. Lasciò il documento firmato al sergente e si precipi-
tò alla locanda a prendere la sua valigia. Fece riempire il carro di paglia sciolta
e tornò subito al campo. Un sergente e un soldato semplice, entrambi neri,
sorvegliarono i prigionieri mentre caricavano Alex nel carro e lo avvolgevano
nelle coperte.
Gli uomini della tenda 8-C afferrarono la mano di Sciamano accomiatandosi
cordialmente da lui.
«Salute, dottore!»
«Stammi bene, Bledsoe, vecchio mio!»
«Buona fortuna!»
«Auguri e buona salute!»
Alex restava con gli occhi chiusi, senza rispondere.
Il sergente fece cenno che potevano partire e il soldato salì a cassetta e prese
le redini, guidando il cavallo fino all'entrata principale del campo. Sciamano
osservava la sua pelle nera e sorrideva, ricordando certe pagine del diario di
suo padre.
«Giorno del giubileo» disse. Il soldato parve sorpreso, poi sorrise con un
lampo dei denti bianchi.
«Credo che lei abbia ragione, signore» rispose e gli porse le redini.

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Il carro aveva senza dubbio delle cattive molle: Alex, sdraiato nella paglia,
subiva continui scossoni. Gridava per il dolore e mugolava quando Sciamano
uscì dalla porta del campo e si immise nella carreggiata.
Il cavallo passò oltre la torre di osservazione, oltre il muro di cinta del
campo. Dal cammino di ronda un soldato armato di fucile li osservò attenta-
mente mentre si allontanavano.
Sciamano tenne il cavallo al passo. Non poteva farlo correre senza far sof-
frire Alex, ma procedeva lentamente anche perché non voleva attirare l'atten-
zione su di loro. Aveva la strana e irrazionale sensazione che a ogni momento il
lungo braccio degli Stati Uniti potesse allungarsi e riprendersi suo fratello, e
non cominciò a respirare liberamente se non quando i muri del campo furono
ben lontani e si trovò finalmente fuori della città di Elmira.

67

La casa di Wellsburg

La casa di Mrs. Clay risultò comoda e accogliente. Era così piccola che
Sciamano vi si trovò subito a suo agio, come se ci avesse vissuto per anni.
Fece un gran fuoco nella stufa e ben presto il ferro divenne incandescente;
poi scaldò una quantità d'acqua nelle pentole di Mrs. Clay e ne riempì la
tinozza da bagno, che aveva collocato vicino al fuoco. Quando Alex si trovò
immerso nell'acqua come un neonato, i suoi occhi brillarono di piacere.
«Quando è stata l'ultima volta che hai fatto un vero bagno?»
Alex scosse lentamente la testa. Sciamano lo sapeva bene: era tanto tempo
che non se ne poteva neppure ricordare. Non osò lasciare a lungo il fratello nel
bagno, per paura che prendesse un malanno quando l'acqua si raffreddava; lo
lavò con un panno insaponato, cercando di ignorare com'era scarno il suo
torace, e avendo cura di trattare con delicatezza la gamba offesa.
Quando lo fece uscire dalla tinozza e lo fece sdraiare su una coperta davanti
alla stufa, lo asciugò con cura e gli mise addosso una camicia da notte di
flanella. Qualche anno prima non sarebbe riuscito a trasportarlo su per le scale,
ma ora Alex aveva perso tanto peso che la cosa non gli fu difficile.
Dopo aver sistemato Alex nella stanza per gli ospiti, Sciamano si pose
all'opera. Sapeva esattamente che cosa si doveva fare. Non c'era ragione di
indugiare e ogni ritardo poteva portare grave danno.
Tolse dalla cucina ogni mobile e ogni oggetto, lasciando solo il tavolo e una
sedia e accumulando tutto il resto nel salotto. Poi lavò energicamente con
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acqua calda e sapone le pareti, il pavimento, il soffitto, il tavolo e la sedia. La-
vò gli strumenti chirurgici e li dispose sulla sedia, accanto al tavolo. Infine si
tagliò le unghie e tornò a lavarsi accuratamente le mani.
Quando trasportò di nuovo Alex in cucina e lo depose sul tavolo, suo fratel-
lo appariva così vulnerabile che per un momento Sciamano ne fu scosso. Era
sicuro di quel che stava facendo, salvo che per una sola cosa: aveva portato con
sé del cloroformio, ma non sapeva esattamente quale fosse la quantità da usare,
dato che il trauma e la denutrizione avevano così gravemente indebolito il ma-
lato.
«Che cosa c'è?» mugolò Alex intontito e confuso in tutto quel tramestio.
«Respira profondamente, Alex.»
Versò a gocce il cloroformio, tenendo il cono sulla faccia di Alex, pieno
d'ansia per il timore di eccedere. Che il Signore mi aiuti, pensò.
«Alex! Mi senti?» Pizzicò il braccio del fratello, gli diede uno schiaffetto
sulla guancia, ma il malato dormiva profondamente.
Sciamano non aveva più bisogno di pensare e progettare. Aveva già pensato
e già deciso. Scacciò ogni emozione dalla mente e procedette a fare quello che
era necessario.
Voleva conservare quanto era possibile della gamba, e nello stesso tempo
asportare abbastanza da essere sicuro che la parte amputata comprendesse tutto
l'osso e tutti i tessuti infetti.
Eseguì la prima incisione circolare quindici centimetri al di sotto del cavo
del poplite e preparò un buon lembo per il futuro moncone, interrompendo
l'incisione solo per legare la grande e la piccola safena, le vene tibiali e la vena
peroneale. Segò la tibia con la stessa cura che avrebbe usato tagliando un
materiale infiammabile. Procedette a segare il perone, e la parte infetta dell'arto
fu staccata: un lavoro preciso e pulito.
Quindi passò a fasciare strettamente con bende pulite per ottenere un mon-
cone ben formato. Poi baciò Alex, ancora privo di sensi, e lo riportò nel suo
letto.
Per un certo tempo rimase al capezzale del fratello, osservandolo attenta-
mente: ma non c'era traccia di sintomi inquietanti, né nausea né vomito né
gemiti di dolore. Alex dormiva come un lavoratore che meriti un buon riposo.
Infine portò il pezzo della gamba tagliata fuori della casa, avvolta in un
panno, insieme con una vanga che aveva trovato in cantina. Si inoltrò nei bo-
schi dietro la casa e cercò di seppellirlo, ma il terreno era gelato in profondità e
la vanga scivolava sulla superficie ghiacciata. Allora raccolse un po' di legna e
fece un piccolo rogo, per dare all'arto un funerale da vichingo. Lo pose sulla
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legna, vi accumulò sopra altri rami secchi e cosparse il tutto con un po' di pe-
trolio della lampada. Vi avvicinò un fiammifero acceso e le fiamme si alza-
rono. Restò li vicino, appoggiato a un tronco d'albero, con gli occhi asciutti ma
preso da una profonda emozione, pensando che nel migliore dei mondi un
uomo non avrebbe dovuto trovarsi a tagliare e bruciare la gamba di suo fratello.

Nella fureria del campo prigionieri il sergente conosceva la gerarchia dei


sottufficiali della sua regione e riconobbe subito che quel grasso e muscoloso
sergente maggiore non era di stazione a Elmira. Normalmente avrebbe chiesto
a qualsiasi soldato che venisse da fuori di identificare l'unità a cui apparteneva;
ma l'atteggiamento di quest'uomo, e soprattutto i suoi occhi, dicevano chiara-
mente che era venuto a cercare informazioni, non a darne.
Il sergente sapeva che i sergenti maggiori non erano delle divinità, ma sape-
va anche fin troppo bene che erano loro che gestivano l'esercito. I sottufficiali
di rango superiore avevano il potere di disporre delle sorti di un soldato, di
assegnargli una buona destinazione o un trasferimento punitivo in qualche forte
sperduto. Potevano cavarlo dai guai o cacciarlo nei guai, potevano favorire o
spezzare una carriera. Nella realtà pratica in cui si muoveva il sergente, un
sergente maggiore incuteva più soggezione o timore di qualsiasi ufficiale, e
quindi si affrettò a compiacerlo.
«Sissignore, sergente maggiore» annunciò dopo aver consultato 5 registri.
«Lo ha mancato per poco più di un giorno. Quel tipo è gravemente ammalato.
Gli è restato solo un piede, capisce? Suo fratello è un medico, di nome Cole.
L'ha portato via in un carro giusto ieri mattina.»
«Che direzione hanno preso?»
Il sergente lo guardò e scosse la testa.
L'uomo grasso grugnì e sputò sul pavimento pulito. Lasciando la fureria,
montò in sella alla sua bella cavalla bruna e uscì dalla porta principale del
campo. Un giorno di vantaggio non era niente se il fratello doveva portarsi
appresso un invalido. C'era solo quella strada: potevano solo aver preso l'una o
l'altra direzione. Decise di dirigersi a nord-ovest. Di tanto in tanto, passando
davanti a un negozio o a una fattoria, si fermava e si informava. Così attraversò
il villaggio di Horseheads e poi il villaggio di Big Flats. Nessuno degli interro-
gati aveva visto gli uomini che cercava.
Il sergente maggiore era esperto nello stanare la selvaggina. Sapeva che,
quando una pista era così invisibile, voleva dire che era la pista sbagliata. Così
girò il cavallo e puntò nell'altra direzione. Passò di nuovo accanto al campo
prigionieri e attraverso la città di Elmira. Dopo tre chilometri di strada un
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fattore ricordò di aver visto il loro carro. Altri due o tre chilometri dopo la
cittadina di Wellsburg arrivò a un grande emporio.
Dentro, il proprietario sorrise al vedere il grasso soldato crogiolarsi davanti
alla stufa. «Freddo, eh?» Quando il sergente maggiore gli chiese un caffè, si
affrettò a servirglielo.
E si affrettò a rispondere quando l'uomo gli pose la sua domanda.
«Oh, sicuro. Alloggiano in casa di Mrs. Pauline Clay. Le dico subito come
trovarla. Un tipo molto simpatico, il dottor Cole. È venuto qui a comprare
viveri e altro. Amici suoi, i Cole?»
Il sergente maggiore sorrise. «Sarò tanto contento di vederli.»

La notte dopo l'operazione Sciamano rimase seduto accanto al letto del


fratello e tenne la lampada accesa per tutte quelle lunghe ore. Alex dormiva di
un sonno agitato, con sussulti di dolore.
Verso l'alba Sciamano scivolò in un leggero assopimento e quando riapri gli
occhi nella luce grigia vide che Alex era sveglio e lo fissava.
«Ehi, fratellone.»
Alex si passò la lingua sulle labbra aride. Sciamano andò a prendere un po'
d'acqua e gli resse la testa mentre beveva, permettendogli solo qualche piccolo
sorso.
«Mi domandavo...» articolò infine Alex.
«Che cosa?»
«Come potrò... prenderti di nuovo a calci in culo... senza cadere con la fac-
cia a terra?»
Sciamano fu felice di vedere il suo sogghigno contorto.
«Tu mi hai tagliato via un altro pezzo di gamba, vero?» Alex parlava in
tono d'accusa, e questo ferì Sciamano già esausto.
«Si, ma ho salvato qualche altra cosa, credo.»
«Che cosa?»
«La tua vita.»
Alex rifletté un momento e poi annuì. Un attimo dopo ricadde nel sonno.

Nella prima giornata postoperatoria Sciamano cambiò le medicazioni due


volte. Ogni volta fiutava il moncone e lo esaminava, atterrito all'idea di
scoprire l'odore o l'aspetto dell'infezione, perché aveva visto molti morire di
setticemia pochi giorni dopo un'amputazione. Ma non c'era odore e i tessuti
sopra il moncone apparivano rosei e sani.
Alex non aveva quasi febbre, ma era estremamente indebolito e Sciamano
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aveva poca fiducia nei poteri di recupero del fratello. Cominciò a passare molto
tempo nella cucina di Mrs. Clay. A metà mattina somministrò ad Alex una
piccola quantità di pappa d'orzo, e a mezzogiorno un uovo alla coque.
Poco dopo mezzogiorno larghe e fitte falde di neve cominciarono a cadere
sulla campagna che ben presto fu coperta da un bianco mantello. Sciamano,
preoccupato considerò le provviste che aveva in casa e decise di tornare con il
carro all'emporio, in caso che dovessero rimanere bloccati dalla neve. Durante
un intervallo in cui Alex era sveglio, gli spiegò che cosa pensava di fare e Alex
annuì per indicare che capiva.
Era piacevole trottare nel silenzioso mondo innevato. La vera ragione per
cui aveva deciso di recarsi all'emporio era che voleva fare un brodo di pollo;
ma con sua grande delusione Barnard non aveva polli. Aveva però della buona
carne di manzo, adatta per un brodo nutriente, e Sciamano dovette acconten-
tarsi.
«E il suo amico vi ha poi trovati?» chiese il negoziante, mentre tagliava il
grasso in eccesso dalla carne.
«Che amico?»
«Quel soldato. Gli ho spiegato come poteva arrivare di qui alla casa di Mrs.
Clay.»
«Oh! E quando è stato?»
«Ma ieri, un paio d'ore prima della chiusura. Un uomo grande e grosso, un
grassone. Barba nera, e un sacco di mostrine.» Si toccò il braccio. «Non è
venuto?» Osservò Sciamano con uno sguardo penetrante. «Suppongo che ho
fatto bene a dirgli dove stavate.»
«Naturale, Mr. Barnard. Chiunque fosse, probabilmente ha deciso di non
aver tempo per una visita, e se n'è andato.»
Che cosa vuole ora l'esercito? si chiedeva Sciamano, uscendo dall'emporio.
A metà strada ebbe l'inquietante sensazione di essere osservato. Resistette
alla tentazione di voltarsi a guardare, ma dopo pochi minuti fermò il cavallo e
scese ad armeggiare con le briglie, come per mettere qualcosa a posto. Nello
stesso tempo gettò un lungo sguardo dietro di sé.
Era difficile vedere attraverso la neve che continuava a cadere, ma arrivò
una folata di vento e Sciamano poté scorgere un uomo a cavallo che lo seguiva
a distanza.

Quando arrivò a casa, vide che Alex stava meglio. Staccò il cavallo e lo
mise al riparo nel fienile, poi tornò in cucina e pose la carne a cuocere in una
pentola d'acqua, insieme con patate, carote, cipolle e rape.
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Era angosciato. Non sapeva se riferire ad Alex quel che aveva saputo, infine
si sedette accanto al letto e lo informò. «Così, può darsi che avremo una visita
dai militari.»
Ma Alex scosse la testa. «Se fosse l'esercito, avrebbero già bussato alla
nostra porta... Uno come te che viene a tirar fuori un parente dal campo prigio-
nieri, si suppone che abbia del denaro. Probabilmente è questo che cercano...
Non è che per caso hai una pistola?»
«Ne ho una.» Andò a prendere la Colt dalla valigia. E dietro le insistenze di
Alex, la ripulì, mentre il fratello lo osservava, e la caricò assicurandosi che ci
fosse un proiettile in canna. Quando la depose sul comodino, era più turbato di
prima. «Perché quest'uomo dovrebbe star li ad aspettare e a spiarci?»
«Ci osserva... per essere sicuro che siamo qui da soli. Studia la luce della
lampada di notte per scoprire in che stanza dormiamo. Cose del genere.»
«Forse stiamo esagerando» replicò Sciamano pensoso. «Forse quel soldato
che ha chiesto di noi fa parte di un qualche servizio informazioni dell'esercito e
deve assicurarsi che noi non stiamo progettando di aiutare altri prigionieri a
evadere dal campo. Probabilmente non ne sentiremo più parlare.»
Alex si strinse nelle spalle. Ma Sciamano non era del tutto convinto di ciò
che diceva. Se dovevano esserci dei guai, l'ultima cosa che desiderava era
rimanere bloccato in casa con un fratello debole e appena amputato.

Quel pomeriggio fece bere ad Alex latte caldo addolcito con il miele.
Avrebbe voluto somministrargli una iperalimentazione con dolci e budini, per
veder tornare un po' di carne sulle sue ossa, ma sapeva che ci voleva del tempo.
Ben presto Alex si addormentò di nuovo, e quando si svegliò, diverse ore dopo,
aveva voglia di parlare.
Così Sciamano, un pezzo per volta, apprese quello che era capitato al fra-
tello dopo che se ne era andato di casa.
«Mal Howard e io siamo arrivati a New Orleans su una chiatta. Poi fra noi
ci fu un litigio per una ragazza, e lui se ne andò da solo nel Tennessee ad
arruolarsi.» Alex si interruppe e guardò il fratello. «Tu sai che cosa ne è stato di
Mal?»
«I suoi genitori non hanno ricevuto neanche una parola da lui.»
Alex non parve sorpreso. «In quel momento ero tentato di tornare a casa. E
vorrei averlo fatto. Ma c'erano i reclutatori dei confederati in tutta la zona, e
così mi sono arruolato. Ho pensato che sapevo andare a cavallo e sapevo
sparare, e così sono entrato in cavalleria.»
«Hai combattuto in molti scontri?»
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Alex annuì tristemente. «Per due anni. Ero così rabbioso con me stesso
quando mi hanno catturato nel Kentucky! Ci tenevano dentro un recinto che un
bambino avrebbe potuto scavalcare. Così ho aspettato la buona occasione e
sono evaso. Sono rimasto libero per tre giorni, rubavo un po' di cibo dagli orti e
cose del genere. Poi mi sono fermato a una fattoria e ho chiesto qualche cosa
da mangiare. Una donna mi ha offerto la colazione e io l'ho ringraziata come un
gentiluomo, senza fare un gesto inopportuno, e questo forse è stato il mio
errore! Mezz'ora dopo sentii il branco dei cani che avevano lanciato dietro di
me. Corsi in un enorme campo di granturco, tra fusti altissimi e verdi e
talmente fitti che non potevo passarci in mezzo. Dovevo rovesciarli e
calpestarli mentre correvo, sembrava che in mezzo ai campi ci fosse un orso.
Vi rimasi per quasi tutta la mattina, correndo per sfuggire ai cani. Cominciavo
a pensare che non ne sarei mai uscito. Poi arrivai all'estremità del campo ed
ecco, c'erano quei due soldati yankee e mi puntavano contro i fucili sog-
ghignando.
«Questa volta i federali mi mandarono a Point Lookout. Era il peggior
campo di tutti! Cibo pessimo o niente del tutto, acqua putrida e ti sparavano a
vista se ti avvicinavi a quattro passi dalla palizzata. Certo, sono stato ben
contento quando mi hanno spedito via da quell'inferno. Ma poi è successo il
disastro ferroviario.» Scosse la testa. «Ricordo solo un gran fragore di lamiere
e un dolore acuto al piede. Sono rimasto svenuto per un po' e quando ho ripreso
i sensi mi avevano già amputato il piede e mi trovavo su un altro treno diretto a
Elmira.»
«E come sei riuscito a scavare un tunnel, dopo l'amputazione?»
Alex sogghignò. «È stato facile. Mi hanno detto che un gruppo stava sca-
vando. Mi sentivo abbastanza bene in quei giorni e facevo il mio turno agli
scavi. Abbiamo scavato 60 metri, proprio sotto il muro di cinta. Il mio mon-
cone non era guarito e continuavo a insudiciarlo nel tunnel. Forse è per questo
che sono finito nei guai. Naturalmente io non potevo evadere con loro, ma dieci
uomini sono riusciti a fuggire e non ho mai sentito che siano stati ripresi. E mi
addormentavo felice pensando a quei dieci uomini liberi.»
Sciamano trasse un profondo sospiro.
«Alex, ascolta. Papà è morto.»
Alex restò in silenzio per qualche minuto, poi annuì. «Credo di averlo capi-
to quando ti ho visto in mano la sua borsa. Se fosse stato vivo e in buona salute,
sarebbe venuto lui da me, invece di mandare te.»
Sciamano sorrise. «È vero, fratello.» Gli raccontò quel che era successo a
Rob J. Cole prima che morisse. Durante il racconto Alex cominciò a piangere
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silenziosamente, e prese la mano di Sciamano. Quando il racconto finì, rima-
sero l'uno accanto all'altro in silenzio. E dopo che Alex si fu addormentato,
Sciamano rimase a lungo vicino a lui con la mano del fratello nella sua.

Nevicò per tutto il pomeriggio. Quando cadde la notte, Sciamano si affacciò


a tutte le finestre della casa e guardò fuori. La luce lunare splendeva sulla neve
intatta: nessuna impronta. Intanto Sciamano aveva trovato una spiegazione:
pensava che il soldato grasso fosse stato mandato a cercarlo perché qualcuno
aveva bisogno di un medico. Forse il paziente era morto, o era migliorato, o
forse il soldato aveva trovato un altro medico e non aveva più bisogno del
dottor Cole.
La spiegazione era plausibile e si sentì incoraggiato.
Diede ad Alex una scodella di buon brodo ricco per cena, con una fetta di
pan biscotto inzuppato. Alex si addormentò di un sonno agitato. Sciamano
aveva pensato di dormire quella notte nel letto dell'altra stanza, ma restò a
sonnecchiare seduto sulla sedia al capezzale del fratello.
Nelle prime ore del mattino - il suo orologio, appoggiato accanto alla pistola
sul comodino, faceva le 2.43 - fu svegliato da Alex. Il malato si era alzato a
metà e si era gettato quasi fuori del letto, con gli occhi sbarrati.
«Qualcuno ha rotto il vetro di una finestra al piano di sotto» borbottò.
Sciamano si alzò e afferrò la pistola, un oggetto così poco familiare per lui,
tenendola con la sinistra.
Attese, con gli occhi fissi sul viso del fratello.
Forse Alex si era immaginato il rumore. Forse aveva sognato? La porta
della stanza da letto era chiusa. Forse aveva sentito il suono di ghiaccioli
spezzati dal vento?
Rimase immobile. Tutto il suo corpo divenne come la mano che stava
appoggiata sulla cassa armonica del vecchio pianoforte. E percepì i passi
furtivi.
«È in casa» mormorò.
Ora cominciava a sentire qualcuno che saliva, come le note di una scala
ascendente.
«Sale le scale. Ora spengo la lampada.» Vide che Alex capiva. Loro due
conoscevano la disposizione della stanza, mentre l'intruso non la conosceva: un
vantaggio per loro nel buio. Ma Sciamano era angosciato perché senza luce non
poteva leggere le labbra di Alex.
Prese una mano del fratello e l'appoggiò sulla propria gamba. «Quando senti
che è nella stanza, stringi» mormorò e Alex annuì.
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L'unica scarpa di Alex era sul pavimento. Sciamano passò la pistola nella
destra, poi si chinò ad afferrare la scarpa. Quindi soffiò sulla lampada e spense
la fiamma.
Gli sembrò che passasse un'eternità. Non v'era nulla da fare se non aspet-
tare, immobili nel buio.
Finalmente le fessure intorno alla porta della camera mutarono da gialle in
nere. L'intruso aveva spento la lampada infissa nella parete dell'atrio, per non
risaltare in controluce nel vano della porta.
Chiuso nel suo mondo familiare di perfetto silenzio, Sciamano si accorse
quando l'uomo aprì la porta, sentendo il soffio di aria fredda dalla finestra
aperta e la mano di Alex che gli stringeva la gamba.
Scagliò la scarpa attraverso la stanza, contro la parete più lontana.
Vide le due gialle lucciole gemelle, una dopo l'altra e cercò di puntare la
pesante Colt in direzione delle due lingue di fiamma. Quando premette il
grilletto, la pistola sobbalzò selvaggiamente nella sua destra; l'afferrò a due
mani e premette ancora e ancora, sentendo le vibrazioni di ogni sparo, battendo
gli occhi a ogni lampo, fiutando l'odore infernale della polvere. Quando la
pistola fu scarica, sentendosi più nudo e vulnerabile che mai, si alzò, aspet-
tando il morso crudele del fuoco di risposta.
«Tutto bene, Alex?» chiese infine, irragionevolmente, poiché non poteva
distinguere la risposta. Frugò sul comodino in cerca dei fiammiferi e accese la
lampada con mani tremanti.
«Tutto bene?» ripeté, ma Alex stava puntando il dito verso l'uomo sul
pavimento. Sciamano non era certo un buon tiratore. Se l'uomo lo fosse stato, lì
avrebbe uccisi entrambi, ma anche lui era un incapace. Sciamano si avvicinò
come se fosse un orso abbattuto e forse non ancora morto. La scarsa abilità
dell'intruso era visibile in tutta la stanza: vi erano fori nelle pareti, il pavimento
era scheggiato. I colpi avevano mancato la scarpa, ma avevano rovinato il pri-
mo cassetto del bel comò di Mrs. Clay. L'uomo giaceva su un fianco come se
dormisse, un grasso soldato con la barba nera e uno sguardo di sorpresa negli
occhi sbarrati. Un proiettile lo aveva colpito alla gamba sinistra, esattamente
nel punto in cui Sciamano aveva amputato la gamba di Alex. Un altro lo aveva
preso al petto, sopra il cuore. Quando Sciamano gli tastò la carotide, sentì che
la carne della gola era ancora calda, ma non vi erano pulsazioni.

Alex non aveva riserve di forze e ben presto crollò. Sciamano si sedette sul
letto e tenne il fratello fra le braccia, cullandolo come un bambino mentre
tremava e piangeva.
453
Alex era certo che, se il cadavere fosse stato scoperto, lo avrebbero ricon-
dotto nel campo prigionieri. Chiese a Sciamano di portare il cadavere nei bo-
schi e bruciarlo, come aveva bruciato la gamba.
Sciamano lo confortava e gli batteva pacche affettuose sulla schiena, ma
stava freddamente calcolando i rischi.
«L'ho ucciso io, non tu. Se qualcuno è nei guai, non sei tu. Ma la scomparsa
di quest'uomo sarà notata. Il negoziante sa che stava venendo qua, e forse lo
sanno anche altri. Questa stanza è danneggiata e ha bisogno di un falegname,
che ne parlerà in giro. Se nascondo e distruggo il corpo, finisco impiccato. Non
dobbiamo più neanche toccarlo.»
Alex si calmò. Sciamano rimase seduto vicino a lui e parlarono finché nella
stanza entrò la grigia luce dell'alba e poterono spegnere la lampada. Allora
portò il fratello giù in salotto e lo fece coricare sul divano, avvolgendolo nelle
coperte calde. Riempì la stufa di legna e ricaricò la Colt, che pose su una sedia
accanto ad Alex.
«Io tornerò con i soldati. Per amor di Dio, non sparare a nessuno se non sei
sicuro che non siamo noi.»
Guardò il fratello negli occhi. «Certo ci interrogheranno più e più volte, da
soli e insieme. È importante che tu dica l'esatta verità su ogni cosa. In questo
modo non potranno distorcere le nostre dichiarazioni. Mi capisci?»
Alex annuì. Sciamano lo accarezzò su una guancia e uscì di casa.

La neve era alta, si affondava fino al ginocchio, e decise di non prendere il


carro. C'era una cavezza appesa nel fienile; la mise al cavallo e lo montò senza
sella. Fino all'emporio di Barnard, e anche oltre, l'avanzare fu lento e faticoso
sul terreno coperto di neve, ma nella città di Elmira la neve era stata spianata
con i rulli e Sciamano poté affrettare l'andatura del cavallo.
Si sentiva stordito e ghiacciato, ma non per il freddo. Aveva perduto dei
pazienti che sperava di poter salvare, e questo lo aveva sempre angosciato. Ma
non aveva mai ucciso un uomo.
Arrivò troppo presto all'ufficio telegrafico e dovette aspettare finché aprì,
alle sette. Mandò un telegramma a Nick Holden.
Ho ucciso un soldato per autodifesa. Prego mandare subito alle autorità
civili e militari a Elmira sue garanzie riguardo mia persona e quella di
Alexander Bledsoe Cole. Riconoscente, Robert J. Cole.
Quindi si recò direttamente all'ufficio dello sceriffo della contea di Steuben
per denunciare un omicidio.

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Dibattendosi nella rete

Ben presto la casetta di Mrs. Clay fu gremita di gente. Lo sceriffo Jesse


Moore, un uomo basso e tarchiato dai capelli grigi, soffriva di dispepsia
mattutina e ogni tanto aggrottava le sopracciglia e ruttava in continuazione. Era
accompagnato da due assistenti, e un suo messaggio all'esercito aveva fatto
subito arrivare cinque militari: un tenente, due sergenti e due soldati semplici.
Entro mezz'ora giunse il maggiore Oliver P. Poole, un ufficiale bruno e
occhialuto con sottili baffi neri. Tutti lo trattavano con grande deferenza:
evidentemente era lui che aveva l'incarico del caso.
Dapprima i militari e i civili furono indaffarati a esaminare il cadavere e i
luoghi, andando dentro e fuori della casa, salendo e scendendo pesantemente
per le scale con i grossi stivali, conversando privatamente fra loro con le teste
vicine. Dispersero tutto quel po' di calore che restava in casa e portarono dentro
neve e ghiaccio che rovinarono irreparabilmente i bei pavimenti di legno
lucidati a cera di Mrs. Clay.
Lo sceriffo e i suoi uomini erano attenti e guardinghi, i militari erano molto
seri, e il maggiore era freddamente cortese. Al piano superiore, nella stanza da
letto, il maggiore Poole studiò i fori dei proiettili nel pavimento, nelle pareti,
nel cassetto del comò e nel corpo del soldato.
«Lei non può identificarlo, dottor Cole?»
«Non l'ho mai visto prima d'ora.»
«Lei pensa che fosse venuto a rubare?»
«Non ne ho la più pallida idea. So solo che ho scagliato una scarpa contro
una parete in una stanza buia e lui ha sparato al rumore e io ho sparato a lui.»
«Ha guardato nelle sue tasche?»
«No, signore.»
Il maggiore procedette a esaminare il contenuto delle tasche del soldato,
disponendolo sulla coperta ai piedi del letto. Non c'era molto: una scatoletta di
tabacco da fiuto Clock Time; un fazzoletto stazzonato e incrostato di muco; 17
dollari e 38 cent; e un foglio di licenza militare che Poole lesse e poi passò a
Sciamano. «Il nome significa qualcosa per lei?»
Il foglio di licenza era stato rilasciato a nome del sergente maggiore Henry
Bowman Korff, quartier generale, comando di fureria dell'armata orientale
degli Stati Uniti, Elizabeth, New Jersey.
Sciamano lesse e scosse la testa. «Non ho mai visto né sentito questo nome»
455
poté sinceramente dichiarare.
Ma pochi minuti dopo, mentre si accingeva a scendere al piano di sotto, si
rese conto che il nome aveva destato un'eco inquietante nella sua mente. A
metà delle scale capi il perché. Mai più avrebbe dovuto riprendere la ricerca
che suo padre aveva portato avanti fino alla sua morte, per rintracciare il terzo
uomo che era fuggito da Holden's Crossing il giorno dell'uccisione di Makwa-
ikwa. Non doveva più cercare un uomo grasso dal nome "Hank Cough". Hank
Cough aveva trovato lui.

Venne il coroner a firmare la dichiarazione ufficiale di morte. Salutò Scia-


mano freddamente, come facevano tutti gli uomini nella casa, che gli mostra-
vano aperta o malcelata ostilità; e Sciamano non tardò a capirne la ragione.
Alex era un loro nemico: aveva combattuto contro di loro, aveva probabilmente
ucciso dei nordisti, e fino a pochi giorni prima era stato loro prigioniero di
guerra. E ora il fratello di Alex aveva ucciso un soldato dell'Unione in uni-
forme.
Sciamano provò un vero sollievo quando caricarono il pesante corpo
dell'uomo su una lettiga e non senza fatica lo trasportarono giù dalle scale e
fuori di casa.
Fu allora che cominciò seriamente l'interrogatorio. Il maggiore si sedette
nella stanza in cui era avvenuta la sparatoria. Accanto a lui, su un'altra sedia di
cucina, sedeva uno dei sergenti che prendeva appunti. Sciamano si sistemò
sull'orlo del letto.
Il maggiore Poole lo interrogò sulle sue opinioni politiche e Sciamano
dichiarò che le uniche organizzazioni a cui aveva aderito erano la Società per
l'Abolizione della Schiavitù, quando era studente, e la Società Medica di Rock
Island.
«Lei è un Copperhead, dottor Cole?»
«No, signore, non lo sono.»
«Non ha mai avuto la minima simpatia per i sudisti?»
«Io sono contrario alla schiavitù. Mi auguro che la guerra finisca senza altre
sofferenze da entrambe le parti, ma non sono un sostenitore della causa del
Sud.»
«Perché il sergente maggiore Korff è venuto in questa casa?»
«Non ne ho idea.» Aveva immediatamente deciso di non far parola del-
l'assassinio, avvenuto tanti anni prima, di una donna indiana nell'Illinois, e del
fatto che tre uomini e una società politica segreta vi erano implicati. Tutto era
ormai lontano e troppo oscuro. Capiva che tali rivelazioni potevano susci-tare
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l'incredulità di questo sgradevole ufficiale e un'interminabile serie di guai.
«Lei ci chiede di accettare il fatto che un sergente maggiore dell'esercito
degli Stati Uniti sia stato ucciso in un tentativo di rapina a mano armata.»
«No, io non vi chiedo di accettare nulla. Maggiore Poole, lei crede che ab-
bia invitato io quest'uomo a rompere una finestra di casa mia, a entrare clande-
stinamente alle due del mattino e a salire le scale e penetrare nella stanza di
mio fratello malato, sparando con una pistola?»
«E allora, perché lo ha fatto?»
«Non so» ripeté Sciamano e il maggiore corrugò la fronte.

Mentre Poole interrogava Sciamano, nel salotto il tenente interrogava Alex.


Intanto i due soldati e gli assistenti dello sceriffo perquisivano il fienile e la
casa, ispezionando il bagaglio di Sciamano e vuotando cassetti e ripostigli. Di
tanto in tanto l'interrogatorio si interrompeva e i due ufficiali conferivano fra
loro.
«Perché non mi ha detto che sua madre è originaria del Sud?» chiese il
maggiore Poole dopo una di quelle interruzioni.
«Mia madre è nata in Virginia, ma è vissuta in Illinois per più di metà della
sua vita. Non l'ho detto perché lei non me l'ha chiesto.»
«Questi sono stati trovati nella sua borsa medica. Che cosa sono, dottor
Cole?» Poole depose sul letto quattro foglietti di carta. «Su ciascuno è scritto
un nome e un indirizzo. Persone del Sud.»
«Sono gli indirizzi delle famiglie dei compagni di tenda di mio fratello, nel
campo prigionieri di Elmira. Quegli uomini hanno curato mio fratello e lo han-
no tenuto in vita. Quando la guerra sarà finita, scriverò per sapere se ciascuno
di loro è sopravvissuto e, in tal caso, per ringraziarli.»
L'interrogatorio continuava, interminabile. Spesso Poole ripeteva le doman-
de già fatte, e Sciamano ripeteva le risposte già date.
A mezzogiorno gli uomini uscirono per procurarsi cibo all'emporio di
Barnard, lasciando due soldati e uno dei sergenti di guardia nella casa. Sciama-
no andò in cucina e preparò una pappa d'orzo per Alex, che appariva pericolo-
samente esausto.
Alex dichiarò che non poteva mangiare.
«Devi mangiare. È il tuo modo di continuare a combattere!» replicò severa-
mente Sciamano e Alex annuì e cominciò a prendere qualche cucchiaiata.

Dopo il pasto del mezzogiorno gli inquirenti si scambiarono il posto; il


maggiore interrogava Alex, mentre il tenente si occupava di Sciamano. A metà
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del pomeriggio Sciamano chiese un intervallo per rifare la medicazione al
moncone di Alex e i due ufficiali, benché seccati, non osarono negarglielo.
Con grande sorpresa di Sciamano, il maggiore Poole gli ordinò di accom-
pagnare tre dei soldati nel bosco dove aveva bruciato la parte amputata della
gamba di Alex. Spalarono la neve e frugarono nei resti di legna carbonizzata
finché trovarono qualche frammento sbiancato della tibia e del perone, che
posero in un panno e portarono via. Verso la fine del pomeriggio tutti se ne
andarono. La casa era finalmente vuota, ma appariva insicura e violata. Alla
finestra rotta era stata appesa una coperta. I pavimenti erano sporchi di fango e
nell'aria restava l'odore delle pipe e dei corpi.
Sciamano riscaldò il brodo di carne. Con suo vivo sollievo, Alex d'improv-
viso dimostrò un grande appetito e si mangiò una buona porzione di manzo e di
verdure, insieme con il brodo. Questo stimolò anche la fame di Sciamano, e
dopo la zuppa si concessero pane, burro e marmellata, una buona salsa di mele
e qualche tazza di caffè fatto di fresco.
Quindi Sciamano portò Alex al piano di sopra e lo sistemò nel letto di Mrs.
Clay. Provvide ai bisogni del fratello e rimase seduto fino a tardi, per poi
tornare nella stanza degli ospiti e gettarsi esausto sul letto, cercando di non
pensare alle macchie di sangue sul pavimento. Quella notte non dormirono
molto.
La mattina dopo né lo sceriffo né i suoi uomini si fecero vivi, ma i soldati
arrivarono prima che Sciamano avesse lavato i piatti della colazione. Parve
inizialmente che la giornata dovesse essere una ripetizione di quella preceden-
te, ma a metà mattina un visitatore bussò alla porta e si presentò come George
Hamilton Crockett, vicecommissario per gli Affari Indiani degli Stati Uniti, di
stanza ad Albany. Si appartò con il maggiore Poole e conferì a lungo con lui,
consegnandogli un plico di carte che i due uomini consultarono diverse volte
nel corso della loro conversazione.
Quindi i militari raccolsero le loro cose e indossarono i cappotti. Guidati da
un accigliato maggiore Poole, lasciarono la casa.
Mr. Crockett rimase per qualche tempo a parlare con i fratelli Cole. Riferì
che erano stati oggetto di un gran numero di telegrammi da Washington.
«Si tratta di uno sfortunato incidente. I militari fanno fatica a mandar giù il
fatto di aver perso uno di loro in casa di un soldato confederato. Sono abituati a
uccidere i confederati che uccidono i loro uomini.»
«Lo hanno dimostrato chiaramente con i loro interrogatori e la loro insisten-
za» osservò Sciamano.
«Lei non ha niente da temere. Le prove sono evidenti. Il cavallo del
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sergente maggiore Korff era legato nel bosco, dov'era stato nascosto. Le
impronte del sergente maggiore nella neve andavano dal cavallo alla finestra
sul retro della casa. Il vetro era rotto, la finestra era stata lasciata aperta.
Quando hanno esaminato il suo corpo, stringeva ancora la rivoltella che aveva
sparato due volte.
«Nell'ardore delle passioni di guerra, un'indagine poco scrupolosa potrebbe
trascurare le prove più evidenti in un tal caso. Ma non quando potenti parti
interessate conducono una ricerca più attenta.»
Crockett sorrise e presentò ai due fratelli i cordiali saluti dell'onorevole
Nicholas Holden. «L'alto commissario mi ha chiesto di assicurarvi che verrà
personalmente a Elmira, se occorre. Sono lieto di potergli comunicare che un
viaggio simile non sarà più necessario.»

La mattina dopo il maggiore Poole mandò uno dei sergenti con l'ordine che
i fratelli Cole non lasciassero la città di Elmira fino alla conclusione formale
delle indagini. Quando Sciamano gli chiese quanto tempo poteva passare, il
sergente rispose abbastanza cortesemente che non lo sapeva.
Così rimasero nella piccola casa. Mrs. Clay aveva saputo subito che cos'era
successo, e venne a fare una visita, tutta pallida e angosciata, sbirciando senza
parole la finestra rotta e sbarrando gli occhi con orrore al vedere i fori dei
proiettili nel pavimento macchiato di sangue. Ma i suoi occhi si riempirono di
lacrime quando vide il cassettone rovinato. «Era di mia madre!»
«Provvedere a farlo riparare e a sistemare tutta la casa» assicurò Sciamano.
«Può indicarmi un buon falegname?»
Mrs. Clay mandò subito qualcuno nel pomeriggio, un uomo anziano alto e
dinoccolato, un tale Bert Clay, cugino del defunto marito. Bert fece una smor-
fia di disgusto, ma si pose subito all'opera. Portò un vetro delle giuste dimen-
sioni e riparò anzitutto la finestra. I guasti nella stanza da letto presentarono
maggiori difficoltà. Si dovevano sostituire i tasselli scheggiati del pavimento e
raschiare e rifinire i punti macchiati di sangue. Bert spiegò che avrebbe stucca-
to i fori nelle pareti e ridipinto la stanza. Ma guardando il cassetto del comò
scosse la testa. «Qui io non ce la faccio. È legno di acero da zucchero. Potrei
trovarne forse un pezzo, ma costerà caro.»
«Se lo procuri» fece Sciamano seccamente.
Ci volle una settimana per portare a termine le riparazioni. Quando Bert
ebbe finito, Mrs. Clay venne a ispezionare attentamente ogni cosa. Annuì e
ringraziò Bert e approvò il lavoro fatto, anche il cassetto del comò. Ma era
piuttosto fredda verso Sciamano e lui la capì: la sua casa non sarebbe stata mai
459
più la stessa per lei.
Tutti quelli che incontrava erano freddi con lui. Mr. Barnard non sorrideva
più e non chiacchierava amichevolmente quando Sciamano entrava nel suo
negozio. Nelle strade vedeva persone che lo guardavano e mormoravano fra
loro. L'ostilità generale lo rese nervoso. Il maggiore Poole aveva confiscato la
Colt e i due fratelli si sentivano privi di protezione. Di notte Sciamano si cori-
cava con l'attizzatoio del caminetto e un coltello da cucina sul pavimento
accanto al letto, e restava sveglio, quando la casa era scossa dal vento, e
cercava di percepire le vibrazioni di qualche intruso.
Dopo tre settimane Alex aveva acquistato peso e aveva un aspetto migliore,
ma era impaziente di partire da Elmira, e i due fratelli furono ben felici quando
il maggiore Poole gli fece sapere che erano liberi di andarsene. Sciamano aveva
acquistato per Alex abiti civili e lo vestì, appuntando la gamba sinistra dei
pantaloni perché non lo intralciasse. Alex cercava di camminare appoggiandosi
alla gruccia, ma gli riusciva difficile. «Mi sento tutto sbilanciato, con quel
pezzo di gamba in meno» si lamentò, e Sciamano gli assicurò che si sarebbe
abituato.
Da Barnard comprò una grossa forma di cacio e la lasciò sul tavolo per Mrs.
Clay, come offerta espiatoria. Aveva combinato di restituire al noleggiatore il
cavallo e il carro alla stazione ferroviaria e Alex vi giunse sdraiato sulla paglia,
come quando aveva lasciato il campo prigionieri. Quando arrivò il treno,
Sciamano portò in braccio il fratello nel vagone e lo sistemò sul sedile vicino al
finestrino, mentre gli altri passeggeri li fissavano, o distoglievano lo sguardo.
Parlarono poco, e quando il treno uscì da Elmira Alex posò la mano sul braccio
del fratello, e quel gesto era più eloquente di un poema.

Sciamano scelse un itinerario più a nord di quello percorso quando era


venuto a Elmira. Prese la direzione di Chicago invece che quella di Cairo,
perché non poteva essere sicuro che il Mississippi sarebbe stato libero dai
ghiacci quando fossero andati nell'Illinois. Fu un viaggio molto duro. Gli
scossoni causavano ad Alex gravi e continue sofferenze. Ci furono molti cambi
di treno, e ogni volta Alex doveva essere trasportato a braccia dal fratello.
Inoltre gli arrivi e le partenze non avvenivano mai in orario. Diverse volte il
loro treno fu dirottato su un binario morto per consentire il passaggio di un
convoglio militare. Una volta, per una settantina di chilometri, Sciamano riuscì
a ottenere dei sedili imbottiti in un vagone salotto, ma per la maggior parte del
tempo dovettero viaggiare su duri sedili di legno. Quando arrivarono a Eric, in
Pennsylvania, agli angoli della bocca di Alex erano comparse delle chiazze
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bianche e Sciamano si convinse che suo fratello non poteva più continuare il
viaggio.
Prese una stanza in albergo, perché Alex potesse riposare qualche tempo in
un letto morbido. La sera, mentre gli cambiava le medicazioni, cominciò a
narrare ad Alex qualcuna delle vicende che aveva letto nel diario di suo padre.
Gli disse della sorte dei tre uomini che avevano violentato e ucciso Makwa-
ikwa. «Credo che sia colpa mia se Henry Korff ci ha seguito. Quando mi sono
recato al manicomio di Chicago, dove è ricoverato David Goodnow, ho parlato
troppo degli assassini. Ho fatto domande sull'Ordine della Bandiera Stellata e
su Hank Cough, e ho lasciato la netta impressione che mi proponevo di con-
tinuare a indagare perché ricevessero il giusto castigo. Qualcuno del personale
probabilmente era membro dell'Ordine... Forse lo sono tutti in quell'ospizio!
Senza dubbio hanno informato Korff e Korff ha deciso di venire a cercarci.»
Alex restò in silenzio un momento, poi guardò preoccupato il fratello. «Ma,
Sciamano... Korff sapeva dove trovarci. Il che significa che qualcuno a
Holden's Crossing gli ha riferito che eri partito per Elmira.»
Sciamano annuì. «Ci avevo pensato anch'io.»

Arrivarono a Chicago una settimana dopo essere partiti da Elmira. Sciama-


no mandò un telegramma alla madre dicendole che riportava Alex a casa. La
informò che Alex aveva perduto una gamba e le chiese di venire a prenderli
alla stazione.
Quando il treno arrivò a Rock Island con un'ora di ritardo, Sarah era alla
pensilina della stazione con Doug Penfield. Sciamano portò Alex giù dal
vagone e Sarah gettò le braccia al collo del figlio e pianse in silenzio.
«Lascia che lo metta giù, è pesante» pregò infine Sciamano, e sistemò il
fratello sul calesse. Anche Alex piangeva. «Ti trovo bene, mamma» disse final-
mente. Sarah sedette accanto a lui e Sciamano prese le redini, mentre Doug
montava il suo cavallo, che aveva portato alla stazione legato dietro al calesse.
«Dov'è Alden?» chiese Sciamano.
«È costretto a letto. È molto peggiorato, Sciamano, il tremito è assai più
grave. Ed è scivolato e ha fatto una brutta caduta qualche settimana fa, mentre
stavano tagliando il ghiaccio sul fiume.»
Alex osservava avidamente la campagna mentre viaggiavano. E anche Scia-
mano: si sentiva come estraneo. Se a Mrs. Clay la sua casa sarebbe sembrata
sempre diversa da prima, così a lui sembrava la sua vita. Da quando era partito
di qui, aveva ucciso un uomo. Il mondo gli pareva sbagliato.
Quando arrivarono a casa, al crepuscolo, misero Alex nel suo antico letto.
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Rimase là sdraiato con gli occhi chiusi e un'espressione di quieto piacere sul
viso.
Sarah preparò il pranzo per il ritorno del figliol prodigo: pollo arrosto, con
purè di patate e carote. Subito dopo cena, Lillian arrivò di corsa dal Sentiero
Lungo con una terrina di stufato. «I giorni della fame sono finiti!» annunciò ad
Alex, dopo averlo abbracciato.
Gli disse che Rachel era dovuta restare con i bambini, ma sarebbe venuta a
salutarlo la mattina dopo.
Sciamano li lasciò insieme a conversare, con sua madre e Lillian seduti al
letto di Alex, e si recò alla casetta di Alden. Quando entrò, Alden dormiva e
l'aria puzzava di whisky. Uscì di nuovo senza far rumore e prese il Sentiero
Lungo. La neve sul sentiero era stata calpestata e poi era ghiacciata e in molti
punti si scivolava. Arrivando a casa Geiger, vide dalla finestra Rachel seduta a
leggere vicino al caminetto. Bussò al vetro, e lei lasciò cadere il libro. Si
abbracciarono e si baciarono freneticamente, come se fossero in punto di mor-
te. Rachel lo prese per mano e lo condusse su per le scale fino alla sua camera.
I bambini dormivano al piano di sotto, suo fratello Lionel stava riparando una
sella nel fienile, e sua madre poteva tornare a casa da un momento all'altro, ma
fecero l'amore sul letto di Rachel, tutti vestiti, dolcemente e ardentemente, con
un senso di disperata gratitudine.
Quando Sciamano tornò a casa per il Sentiero Lungo, il mondo era tornato a
posto.

69

L'ultimo nome di Alex

Sciamano si sentì mancare il cuore quando vide Alden muoversi in giro per
la fattoria. C'era una rigidezza nuova nel collo e nelle spalle, che Sciamano non
conosceva, e il viso sembrava una triste maschera paziente, anche quando gli
attacchi di parkinsonismo erano più gravi. Faceva ogni cosa con gesti lenti e
pesanti, come un uomo che si muovesse sott'acqua.
Ma la mente era lucida. Trovò Sciamano nel capannone del fienile e gli
consegnò la vetrinetta che aveva fabbricato per il bisturi di Rob J., assieme al
nuovo bisturi che Sciamano gli aveva chiesto. Si sedette vicino a lui e gli fece
un rendiconto generale su come la fattoria aveva passato l'inverno: il numero di
animali, la quantità di foraggio consumata, le prospettive per l'agnellatura
primaverile. «Ho detto a Doug di portare del legno stagionato nel capannone
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dello zucchero, così possiamo bollire la melassa appena la stagione mette in
moto i succhi.»
«Bene» approvò Sciamano. Si fece forza per affrontare il compito ingrato e
annunciò ad Alden, come casualmente, che aveva incaricato Doug di trovare un
buon bracciante per i lavori di primavera.
Alden annuì lentamente. Tossicchiò a lungo per schiarirsi la voce, poi sputò
con cura di lato. «Non sono più in gamba come una volta» ammise, come per
dare la notizia con cautela.
«Bene, ci sarà qualcun altro per arare, questa primavera. Non c'è bisogno
che il manager della fattoria si sobbarchi di lavori pesanti quando possiamo tro-
vare dei giovani che facciano lavorare i muscoli.»
Alden annuì ancora e uscì dal capannone.
Sciamano notò che gli occorreva un po' di tempo per cominciare a cam-
minare, come un uomo che avesse deciso di urinare e non ci riuscisse. Ma
quando si avviava, era come se i piedi si muovessero sicuri nel loro piccolo
trotto, mentre il resto del corpo di Alden li seguiva a malincuore.

Sciamano tornò volentieri all'attività di medico. Anche se le suore infer-


miere avevano fatto del loro meglio per assistere i suoi pazienti, non potevano
certo sostituire un medico. Per diverse settimane dovette lavorare assiduamen-
te, poiché aveva da eseguire diverse operazioni chirurgiche che aveva rimanda-
to, e doveva fare ogni giorno molte più visite a domicilio di quante fosse solito
fare un tempo.
Quando si fermò al convento, Madre Miriam Ferocia lo accolse calorosa-
mente e apprese con molta gioia la notizia del ritorno di Alex. Anche lei aveva
notizie da dargli. «L'arcidiocesi ci ha fatto sapere che il nostro preventivo è
stato approvato, e ci chiedono di procedere alla costruzione dell'ospedale.»
Il vescovo aveva esaminato personalmente i progetti e li aveva approvati,
ma consigliava di non costruire l'ospedale nelle adiacenze del convento. «Dice
che il convento è poco accessibile, troppo lontano dal fiume e dalle strade
principali. Così dobbiamo cercare un altro terreno.»
Prese da una mensola dietro la sedia due pesanti mattoni color crema e li
porse a Sciamano. «Che pensa lei di questi?»
Erano durissimi e diedero un suono squillante quando li urtò l'uno contro
l'altro. «Non me ne intendo molto di mattoni, ma mi sembrano ottimi.»
«Con questi mattoni i muri saranno come una fortezza» aggiunse la Madre
Superiora. L'ospedale sarà fresco in estate e caldo in inverno. Sono mattoni
vetrificati, così compatti che non assorbono l'acqua. E si possono acquistare qui
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nei dintorni, da un tale Ross-well che ha impiantato una fornace vicino ai suoi
depositi di argilla. Ne ha già disponibili abbastanza da cominciare la
costruzione, ed è ansioso di fabbricarne ancora. Dice che, se vogliamo un
colore più scuro, può ottenerlo affumicando l'impasto.»
Sciamano soppesò i mattoni che gli davano una sensazione di solidità e
realtà, come se tenesse nelle mani i muri stessi dell'ospedale. «Penso che que-
sto colore vada benissimo.»
«Lo penso anch'io» assenti Madre Miriam Ferocia, e si sorrisero compia-
ciuti, come due bambini che si dividessero un dolce.

Quella sera dopo cena Sciamano sedeva in cucina a bere caffè con sua
madre. «Ho informato Alex della sua... parentela con Nick Holden» disse
Sarah.
«E lui, come l'ha presa?»
Sarah si strinse nelle spalle. «Semplicemente... ha accettato la cosa.» Ebbe
un debole sorriso. «Ha detto che tanto valeva avere Nick per padre, invece di
un fuorilegge morto.» Rimase in silenzio per un attimo, ma, quando tornò a
voltarsi verso di lui, Sciamano si avvide che era nervosa.
«Il reverendo Blackmer lascerà Holden's Crossing. Il pastore della chiesa
battista di Davenport e stato chiamato a Chicago, e la congregazione ha offerto
il suo posto a Lucian.»
«Mi spiace. So quanto lo apprezzavi. E ora la chiesa di Holden's Crossing
dovrà cercarsi un altro pastore.»
«Sciamano» fece Sarah «Lucian mi ha chiesto di andare con lui. Mi ha chie-
sto di sposarlo.»
Sciamano le prese la mano, che era fredda. «... E tu che vuoi fare, mam-
ma?»
«Noi siamo diventati... molto amici dopo che sua moglie è morta. E quando
io sono rimasta vedova, è stato un valido appoggio per me.» Strinse forte la
mano di Sciamano. «Io ho amato tuo padre con tutta me stessa, e lo amerò
sempre.»
«Lo so.»
«Fra qualche settimana sarà passato un anno dalla sua morte. Tu me ne
faresti una colpa, se io mi risposassi?»
Sciamano si alzò e si avvicinò alla madre.
«Io sono una donna che ha bisogno di essere una moglie.»
«Io voglio solo che tu sia felice, mamma» disse, e la strinse tra le braccia.
Lei dovette staccarsi a forza dal suo abbraccio, perché lui potesse leggerle le
464
parole sulle labbra.
«Ho detto a Lucian che non potremo sposarci se non quando Alex non avrà
più bisogno di me.»
«Mamma, starà meglio quando tu cesserai di servirlo in ginocchio.»
«Davvero?»
«Davvero.»
Il viso di Sarah era raggiante. Sciamano, con un tuffo al cuore, ebbe per un
attimo la visione di quel che doveva essere stata sua madre quando era giovane.
«Grazie, Sciamano, mio caro. Lo dirò a Lucian» mormorò Sarah.

Il moncone di Alex guariva splendidamente. E lui era interminabilmente


coccolato e infastidito da sua madre e dalle signore della chiesa. Benché stesse
acquistando peso e mettendo un po' di carne sulle ossa, raramente sorrideva e
un'ombra gli velava gli occhi.
Un artigiano di nome Wallace si era acquistato fama e un buon giro di affari
a Rock Island fabbricando membra artificiali e, dopo molte insistenze, Alex
consentì a farsi condurre da Sciamano al suo laboratorio. Alle pareti era appeso
un affascinante campionario di mani e braccia, gambe e piedi intagliati in
legno. Mr. Wallace aveva la figura rotondetta di un simpatico burlone, ma in
realtà prendeva il suo lavoro molto sul serio. Passò più di un'ora a controllare le
misure, facendo stare Alex in piedi, seduto, disteso, facendolo camminare,
flettere un ginocchio, flettere l'altro ginocchio, inginocchiarsi e coricarsi come
per mettersi a letto. Poi annunciò che potevano tornare a ritirare la gamba
artificiale dopo sei settimane.
Alex non era solo, c'era un vero esercito di reduci storpiati. Sciamano li
vedeva ovunque in città, ex soldati che avevano perduto un arto, o erano malati
di mente. Il vecchio amico di suo padre Stephen Hume era tornato con una
stella di generale, essendo stato promosso generale di brigata sul campo di
battaglia a Vicksburg, tre giorni prima di prendersi una pallottola un paio di
centimetri sopra il gomito destro. Non aveva perduto il braccio, ma la ferita
aveva distrutto i nervi: l'arto era fuori uso e Hume lo portava al collo con una
tracolla nera, come se avesse una frattura permanente. Due mesi prima che
Hume tornasse a casa, era morto l'onorevole Daniel P. Allan, giudice del tribu-
nale itinerante dell'Illinois, e il governatore nominò al suo posto l'eroico gene-
rale. Il giudice Hume teneva già udienze. Sciamano notò che alcuni reduci
erano capaci di tornare alla vita civile senza traumi, mentre altri avevano
problemi che li assillavano e li paralizzavano.
Voleva consigliarsi con Alex sulle decisioni da prendere per la fattoria.
465
L'offerta di manodopera era sempre scarsa, ma Doug Pen-field trovò un tale
Billy Edwards che aveva lavorato con le pecore nello lowa. Sciamano gli parlò
e vide che era un giovane robusto e volenteroso, e inoltre gli era caldamente
raccomandato da George Cliburne. Chiese ad Alex se voleva parlare con
Edwards.
«No, veramente non mi interessa.»
«Ma non sarebbe una buona idea che tu gli parlassi? Dopotutto, lavorerà per
te quando tornerai a occuparti della fattoria.»
«Non credo che tornerò a occuparmi della fattoria.»
«Oh?»
«Forse lavorerei volentieri con te. Posso essere i tuoi orecchi, come quel
tipo di cui mi hai parlato, all'ospedale di Cincinnati.»
Sciamano sorrise. «Ma io non ho bisogno di un orecchio a tempo pieno.
Posso prendere gli orecchi di qualcuno, quando occorre. Seriamente, hai idea di
quel che vorrai fare?»
«... Non lo so ancora, per adesso.»
«Bene, hai tutto il tempo per decidere» concluse Sciamano, e fu ben lieto di
lasciar cadere l'argomento.

Billy Edwards era un buon lavoratore, ma quando interrompeva il lavoro


non faceva che chiacchierare. Parlava della qualità del terreno e del modo di
allevare le pecore e dei prezzi delle granaglie e di quanto sarebbe stato vantag-
gioso avere la ferrovia. Ma un giorno parlò del ritorno degli indiani nello Iowa,
e attirò l'attenzione di Sciamano.
«Che cosa intendi, dicendo che sono tornati?»
«Un gruppo misto di Sauk e Mesquakie. Hanno lasciato la riserva del
Kansas e sono tornati nello Iowa.»
Come il gruppo di Makwa-ikwa, pensò Sciamano. «... e hanno dei guai?
Voglio dire, dalla gente della zona?»
Edwards si grattò la testa. «No. Nessuno può far loro del male, secondo la
legge. Sono indiani buoni, hanno comprato la loro terra, è tutto legale. Pagando
in buona moneta americana.» Sogghignò. «Naturalmente la terra che hanno
comprato è probabilmente la peggiore dello Stato, una quantità di suolo arido.
Ma si sono costruiti le loro capanne e coltivano diversi campi a grano. Si sono
fatti una vera piccola città. La chiamano Tama, dal nome di un loro capo,
credo.»
«Dov'è questa città indiana?»
«Circa 160 chilometri a ovest di Davenport. E un po' più a nord.»
466
Sciamano sentì di colpo il desiderio di andarci.
Pochi giorni dopo evitò intenzionalmente di fare domande all'alto commis-
sario per gli Affari Indiani a proposito dei Sauk e dei Mesquakie dello lowa.
Nick Holden arrivò alla fattoria dei Cole in una splendida carrozza nuova con il
cocchiere. Quando Sarah e Sciamano lo ringraziarono per il suo aiuto, Nick fu
cortese e amichevole, ma era chiaro che era venuto per vedere Alex.
Passò la mattina nella stanza di Alex, seduto accanto al letto. E quando
Sciamano a mezzogiorno terminò le visite all'ambulatorio, fu sorpreso al vede-
re Nick e il cocchiere che facevano salire Alex nella carrozza.
Rimasero fuori tutto il pomeriggio e una parte della serata. Al ritorno Nick e
il cocchiere aiutarono Alex a scendere e a entrare in casa, salutarono tutti
cordialmente e se ne andarono.
Alex non fu molto loquace a proposito degli eventi di quella giornata.
«Abbiamo girato un po'. E parlato.» Sorrise. «Ossia, perlopiù lui parlava e io
ascoltavo. Abbiamo avuto un buon pranzo alla trattoria di Anna Wiley.» Alzò
le spalle, ma si vedeva che era pensieroso e andò a letto presto, stanco
dell'attività della giornata.
La mattina dopo Nick si ripresentò con la carrozza. Questa volta condusse
Alex a Rock Island, e la sera Alex descrisse il pranzo e la cena sontuosi che si
erano offerti all'albergo.
Il terzo giorno si recarono a Davenport. Alex tornò a casa più presto del
solito e Sciamano lo sentì augurare a Nick un buon viaggio per Washington.
«Mi terrò in contatto, se posso» disse Nick.
Quella notte, quando Sciamano salì per coricarsi, Alex lo chiamò nella sua
camera. «Nick mi rivuole.»
«Ti rivuole?»
Alex annuì. «Il primo giorno che è venuto mi ha detto che il presidente
Lincoln gli aveva chiesto di dimettersi, per poter nominare un altro. Nick dice
che è tempo per lui di tornare a casa e sistemarsi qui. Non ha voglia di sposarsi,
ma gli piacerebbe avere un figlio. Dice che ha sempre saputo di essere mio
padre. Abbiamo passato questi tre giorni a girare nella zona e visitare le sue
proprietà. Possiede anche una ben avviata fabbrica di matite in Pennsylvania, e
sa Dio che cos'altro. Vuole che io sia il suo erede e cambi il mio nome con
quello di Holden.»
Sciamano sentì un'onda di tristezza e collera insieme. «Be', tu hai detto che
non volevi occuparti di lavori agricoli.»
«Ho detto a Nick che non avevo dubbi su chi fosse mio padre. Mio padre è
l'uomo che mi ha allevato e ha sopportato pazientemente le mie bizze di
467
bambino e i miei errori di gioventù, che mi ha dato disciplina e amore. Gli ho
detto che il mio nome era Cole.»
Sciamano batté sulla spalla del fratello. Non riusciva a parlare, ma annuì.
Baciò Alex sulla guancia e andò a letto.

Il giorno indicato dall'artigiano per la consegna della gamba artificiale


tornarono al laboratorio. Wallace aveva abilmente intagliato il piede, su cui si
poteva infilare una calza e una scarpa. Il moncone di Alex si adattava bene
all'incavo e l'arto fu legato alla gamba con cinghie di cuoio sopra e sotto il
ginocchio.
Dal primo momento che Alex calzò l'arto, lo detestò. Nel portarlo soffriva
terribili dolori.
«È perché il moncone è tenero» gli spiegò Wallace. «Più lei porterà la
gamba, più il moncone si farà calloso. E ben presto non le farà più male per
niente.»
Pagarono la gamba artificiale e la portarono a casa. Ma Alex la ripose nello
stanzino dell'atrio e rifiutò di calzarla. Quando andava in giro, si trascinava con
la gruccia che aveva fatto per lui Jimmie-Joe nel campo prigionieri di Elmira.

Un mattino, a metà marzo, Billy Edwards nel cortile stava manovrando il


carro con un carico di tronchi e cercava di far girare i buoi che aveva preso a
nolo dal giovane Mueller. Alden era dietro il carro, appoggiato al suo bastone,
e gridava istruzioni all'impacciato Billy.
«Indietro, ragazzo! Falli stare indietro.»
Billy obbedì. Era logico pensare che il vecchio Alden, poiché aveva
ordinato lui di far retrocedere il carro, si sarebbe scansato in tempo. Un anno
prima Alden lo avrebbe fatto facilmente e senza incidenti; ma ora, anche se la
mente gli diceva di farsi da parte, la malattia impedi al messaggio di arrivare in
tempo alle gambe. Un legno che sporgeva dal retro del carro lo colpì sul lato
destro del torace con la violenza di un ariete da guerra e lo scagliò a qualche
metro di distanza, dove giacque abbandonato nella neve fangosa.
Billy si precipitò all'ambulatorio dove Sciamano stava visitando una nuova
paziente incinta, Molly Thornwell, la cui gravidanza aveva resistito al lungo
viaggio dal Maine. «È Alden. Credo di averlo ucciso!» balbettava ansante.
Portarono Alden in cucina e lo sistemarono sul tavolo. Sciamano tagliò gli
abiti e lo esaminò accuratamente.
Alex, pallido, aveva lasciato la sua stanza e scendeva zoppicando le scale.
Volse a Sciamano uno sguardo interrogativo.
468
«Ha diverse costole rotte. Non possiamo curarlo nella sua capanna. Lo
metto nella stanza degli ospiti e verrò a dormire con te.»
Alex annuì. Si scostò e rimase a osservare Sciamano e Billy che traspor-
tavano Alden su per le scale e lo mettevano a letto.

Poco dopo Alex ebbe davvero l'occasione di essere l'orecchio di Sciamano.


Auscultò attentamente il petto di Alden e riferì quel che sentiva. «Guarirà?»
«Non so» rispose Sciamano. «I polmoni sembrano indenni. Le fratture alle
costole possono essere facilmente superate da un uomo sano e forte. Ma alla
sua età, e con la sua malattia...» Alex annuì. «Starò seduto accanto a lui e lo
assisterò.» «Sei sicuro? Posso chiedere un'infermiera a Madre Miriam.» «Ti
prego, voglio farlo io. Ho fin troppo tempo.»

Così, oltre i pazienti che riponevano in lui la loro fiducia, Sciamano aveva
ora due membri della sua famiglia che avevano bisogno di lui. Benché fosse un
medico pieno di comprensione, scoprì che curare i propri familiari era ben
diverso dal curare gli altri pazienti. C'era un'ansietà speciale, un senso urgente
di responsabilità nelle cure quotidiane. Quando si affrettava verso casa, alla
fine di ogni giornata di lavoro, le ombre gli parevano più lunghe e più buie.
C'erano tuttavia dei momenti lieti. Un pomeriggio Joshua e Hattie, con sua
grande gioia, vennero a trovarlo da soli. Era il loro primo viaggio senza scorta
per il Sentiero Lungo, e in tono serio e pieno di dignità chiesero a Sciamano se
aveva tempo di andare a giocare con loro. Il medico fu compiaciuto e onorato
di passare un'oretta con i due bambini nei boschi, dove videro le prime violette
e scoprirono le chiare impronte di un daino.

Alden soffriva. Sciamano gli somministrò piccole dosi di morfina, ma per


Alden il farmaco di elezione era quello distillato dal grano. «Bene, dagli del
whisky,» disse ad Alex «ma con moderazione. È inteso?»
Alex annuì e tenne fede agli ordini. La stanza del malato cominciò ad avere
il caratteristico odore di whisky, ma gliene concedevano solo due sorsi a
mezzogiorno e due sorsi la sera.
Talvolta Sarah o Lillian venivano a dare il cambio ad Alex come infermiere.
Una sera lo sostituì Sciamano, che sedette accanto al letto leggendo una rivista
medica di Cincinnati. Alden era inquieto, entrava e usciva da un sonno agitato.
Nel dormiveglia talvolta borbottava e parlava con persone invisibili, rivivendo
incontri con Doug Penfield alla fattoria, imprecando contro predatori che dava-
no la caccia agli agnelli. Sciamano studiava il vecchio viso solcato da rughe, gli
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occhi stanchi, il grosso naso rosso con le narici pelose, pensando ad Alden
come l'aveva conosciuto in passato, forte e capace, l'antico pugile che aveva
insegnato ai ragazzini Cole a usare i pugni.
Alden si acquietò e dormì profondamente per qualche tempo; Sciamano finì
di leggere un articolo sulle fratture a legno verde e si accingeva a leggerne un
altro sulla cateratta dell'occhio, quando alzando lo sguardo vide Alden che lo
fissava tranquillo, in un breve momento di lucidità.
«Io non volevo che cercasse di ucciderti. Pensavo solo che ti spaventasse»
articolò distintamente Alden.

70

Un viaggio a Nauvoo

Sciamano e Alex, dividendo di nuovo la stessa camera, si sentivano talvolta


come se fossero ancora bambini. Un mattino all'alba Alex, mentre erano
coricati già svegli nei loro letti, accese la lampada e descrisse a Sciamano i
suoni del disgelo primaverile - i trilli degli uccelli, l'impaziente mormorio dei
ruscelli che ricominciavano la corsa annuale verso il mare, il fragore rombante
del fiume, e ogni tanto lo scroscio dei grossi blocchi di ghiaccio che si urta-
vano. Ma la mente di Sciamano non era rivolta alla natura. Pensava invece
all'anima dell'uomo, e ricordava cose e sommava fatti che d'improvviso
sembravano collegarsi e assumere un significato. Più di una volta nel cuore
della notte si alzava e si muoveva a passi felpati sui pavimenti gelati della casa
silenziosa per andare a consultare il diario del padre.
E studiava Alden con attenzione speciale e uno strano senso di tenerezza e
sospetto. Talvolta guardava il vecchio bracciante come se lo vedesse per la
prima volta.
Alden continuava a restare in un inquieto dormiveglia. Ma una sera, mentre
lo auscultava con lo stetoscopio, Alex trasalì. «C'è un suono nuovo... come se
uno prendesse due ciocche di capelli e le strofinasse tra le dita.»
Sciamano annuì. «Quei suoni si chiamano rantoli.»
«E che cosa significano?»
«Che qualcosa va male nei polmoni.»

Il 9 aprile Sarah Cole e Lucian Blackmer si sposarono nella Prima Chiesa


Battista di Holden's Crossing. La cerimonia fu celebrata dal reverendo Gregory
Bushman, di cui Lucian si apprestava a prendere il posto a Davenport. Sarah
470
indossava il suo migliore abito grigio, ravvivato con colletto e polsini di pizzo
bianco che Rachel aveva finito di lavorare all'uncinetto solo il giorno prima.
Il reverendo Bushman tenne un bel discorso, evidentemente compiaciuto di
celebrare il matrimonio di un collega pastore. Alex riferì a Sciamano che Lu-
cian aveva pronunciato la formula nuziale con il tono sicuro di un ecclesiastico,
e Sarah aveva pronunciato la sua con voce bassa e tremante. Quando la cerimo-
nia fu conclusa e si voltarono, Sciamano vide la madre che sorrideva dietro il
corto velo.
Dopo la cerimonia, la congregazione si riunì nella casa dei Cole. La mag-
gior parte dei fedeli arrivava al ricevimento portando un piatto coperto, ma per
tutta una settimana Sarah e Alma Schroeder avevano cucinato, e Lillian aveva
infornato, in preparazione del pranzo. La gente mangiava e mangiava, e Sarah
era felice. «Abbiamo svuotato la cantina di tutti i prosciutti e le salsicce» disse
a Doug Penfield. «Quest'anno dovrete macellare a primavera.»
«Sarà mio piacere, Mrs. Blackmer» rispose Doug galantemente, e fu la pri-
ma persona che la chiamò con il nuovo nome.
Quando gli ultimi ospiti si furono accomiatati, Sarah prese la valigia già
pronta e abbracciò i figli. Lucian se la portò in calesse alla casa parrocchiale,
dove sarebbero rimasti pochi giorni, per poi recarsi alla loro nuova sede di
Davenport.
Poco dopo Alex andò al ripostiglio e tirò fuori la gamba artificiale. Se la le-
gò al moncone senza chiedere aiuto, mentre Sciamano nello studio leggeva
alcune riviste mediche. Ogni pochi minuti Alex passava e ripassava davanti
alla porta aperta, attraversando l'atrio con passi esitanti. Sciamano poteva per-
cepire l'impatto dell'arto che veniva sollevato troppo in alto e poi abbassato, e
indovinava il dolore che ogni passo recava al fratello.
Quando entrò nella stanza da letto Alex si era già rifugiato nel sonno. La
gamba artificiale portava ancora la calza e la scarpa, e giaceva sul pavimento
accanto alla scarpa destra di Alex, come se fosse il suo posto naturale.

La mattina dopo, recandosi in chiesa, Alex portava la gamba artificiale: un


regalo di nozze per Sarah. I due fratelli non erano soliti frequentare la chiesa,
ma la madre li aveva pregati di assistere al culto di quella domenica, come
fosse parte della cerimonia nuziale; e non staccò gli occhi dal primogenito che
attraversava la navata fino al banco in prima fila riservato alla famiglia del
pastore. Alex si appoggiava a un bastone da passeggio di frassino che Rob J.
aveva tenuto per prestarlo a qualche paziente. Talvolta trascinava il piede
artificiale, talvolta lo sollevava troppo. Ma non barcollava né cadeva e
471
camminò risoluto fino a raggiungere la madre.
Sarah sedeva tra i due figli e osservava il nuovo marito che guidava la
comunità nella preghiera. Al momento del sermone, il pastore esordi espri-
mendo la sua gratitudine a quelli che si erano riuniti per celebrare le sue nozze.
Disse che Dio lo aveva mandato a Holden's Crossing, e ora Dio lo mandava
lontano, e ringraziò i fedeli che avevano reso così significativo per lui il mini-
stero.
Stava giusto accingendosi a indicare per nome alcuni dei fedeli che lo
avevano aiutato nell'opera del Signore, quando dalle finestre semiaperte irruppe
nella chiesa un insolito clamore. Furono dapprima grida isolate che ben presto
divennero più forti. Grida di donne, urla più rauche. Qualcuno nella Main
Street sparò un colpo, che fu seguito da una salva di fucilate.
La porta della chiesa si spalancò d'improvviso e Paul Williams si precipitò
per la navata fino al pastore, e gli mormorò qualcosa all'orecchio.
«Fratelli e sorelle» annunciò il reverendo Blackmer. Pareva che facesse fati-
ca a trovare le parole. «Un messaggio telegrafico è arrivato a Rock Island...
Robert E. Lee e il suo esercito ieri si sono arresi al generale Grant.»
Un mormorio corse tra i fedeli. Alcuni si alzarono. Sciamano vide che suo
fratello si appoggiava allo schienale del banco, con gli occhi chiusi.
«Che significa, Sciamano?» chiese la madre.
«Significa che finalmente ne siamo fuori, mamma» rispose Sciamano.
A Sciamano parve che nei successivi quattro giorni, ovunque andasse, la
gente fosse ebbra di pace e di speranza. Anche i più malati sorridevano e parla-
vano dei giorni migliori che erano finalmente tornati, e c'erano esultanza e
gioia, ma anche dolore, perché tutti conoscevano qualcuno che era caduto.
Quando tornò a casa quel giovedì dopo le visite, trovò Alex diviso tra
speranza e ansietà, perché Alden presentava nuovi sintomi inquietanti. Aveva
gli occhi aperti ed era lucido, ma Alex riferì che i rantoli nel petto erano più
forti. «E mi sembra caldo.»
«Hai fame, Alden?» chiese Alex. Il vecchio bracciante lo guardò ma non
rispose. Lo alzarono a sedere sul letto e gli somministrarono un po' di brodo,
ma era una cosa difficile perché il parkinsonismo si era aggravato. Da qualche
giorno gli davano solo brodo e pappa d'avena, perché Sciamano temeva che il
cibo gli andasse di traverso e finisse nei polmoni.
In realtà Sciamano non aveva rimedi che migliorassero la situazione. Versò
della trementina in un secchio d'acqua bollente e sistemò una coperta a guisa di
tenda sopra il secchio e la testa di Alden. Alden aspirò i vapori per lungo
tempo, ma finì per tossire così violentemente che Sciamano tolse il secchio e
472
non ripeté più il trattamento.

La gioia dolce e amara di quella settimana si cambiò in orrore nel pome-


riggio del venerdì, mentre Sciamano passava a cavallo per la Main Street. Al
primo sguardo capì che era arrivata notizia di qualche terribile catastrofe. La
gente si riuniva a gruppetti e parlava concitatamente. Vide Anna Wiley che
piangeva, appoggiata a un palo sotto al portico della pensione. Simeon Cowan,
il marito di Dorothy Burnham Cowan, era seduto a cassetta del suo carro con
gli occhi semichiusi e si pizzicava le labbra fra l'indice e il grosso pollice
calloso.
«Che succede?» gli chiese Sciamano. Temeva che la pace fosse stata
infranta.
«Abramo Lincoln è morto. Gli hanno sparato ieri notte in un teatro di
Washington. Un maledetto attore.»
Sciamano non poteva crederci, ma scese di sella e ne ricevette da ogni parte
la conferma. Anche se mancavano i particolari, era chiaro che la notizia era
vera. Tornò a casa e riferì il funesto evento ad Alex.
«Il vicepresidente prenderà il suo posto» osservò Alex.
«Senza dubbio Andrew Johnson ha già prestato giuramento.»
Sedettero a lungo nel salotto senza parlare.
«Il nostro povero Paese» fece Sciamano finalmente. Era come se l'America
fosse un suo paziente che aveva lottato a lungo e duramente per sopravvivere al
più terribile dei morbi, e ora era precipitato da una rupe.

Furono giorni grigi. Quando faceva le visite a domicilio, le espressioni


erano cupe. Ogni sera la campana della chiesa suonava a morto. Sciamano
aiutò Alex a salire in sella a Trude, e Alex cavalcò nei dintorni. Era la prima
volta che montava a cavallo da quando era stato preso prigioniero. Quando
tornò, riferì al fratello che i rintocchi della campana riecheggiavano tristemente
nella solitudine della prateria.
Dopo mezzanotte, seduto al capezzale di Alden, Sciamano sollevò lo sguar-
do dal libro che stava leggendo e vide gli occhi del vecchio fissi su di lui.
«Vuoi qualche cosa, Alden?»
Scosse appena la testa, un movimento quasi impercettibile.
Sciamano si chinò su di lui. «Alden. Ricordi quella volta che mio padre
usciva dal fienile e qualcuno gli sparò alla testa? E tu hai cercato nei boschi e
non hai trovato nessuno?»
Gli occhi di Alden non si mossero.
473
«Sei stato tu che hai sparato a mio padre.»
Alden si passò la lingua sulle labbra aride. «... Sparato per non colpire... per
spaventarlo soltanto.»
«Vuoi dell'acqua?»
Alden non rispose. Poi: «Come l'hai saputo?».
«Tu hai detto qualcosa mentre stavi male, e mi hai fatto capire un sacco di
cose. Per esempio, perché hai insistito che andassi a Chicago a trovare David
Goodnow. Tu sapevi che era demente e senza speranza, e muto. Che io non
avrei potuto apprendere niente.»
«... Che cos'altro sai?»
«So che tu sei implicato nel fatto. Fino al collo.»
Ancora un cenno impercettibile della testa. «Io non l'ho uccisa... io...» Fu
colto da un lungo e terribile accesso di tosse e Sciamano gli tenne un catino
sotto la testa e il malato sputò una quantità di muco grigio, macchiato di rosa.
Quando cessò di tossire, era pallido e sfinito, e chiuse gli occhi.
«Alden. Perché hai detto a Korff dov'ero andato?»
«Tu non volevi mollare. Li hai spaventati troppo, a Chicago. Korff ha man-
dato uno a parlarmi, il giorno dopo che sei partito. Gli ho detto dove andavi.
Pensavo che ti avrebbe solo parlato, messo paura. Come aveva messo paura a
me.»
Ansimava. Sciamano aveva un mucchio di domande sulla punta della lin-
gua, ma sapeva quanto fosse grave lo stato di Alden. Lottò fra la collera e il
giuramento che aveva prestato. Alla fine rimase a osservarlo, ringoiandosi le
parole, mentre Alden giaceva con gli occhi chiusi e ogni tanto sputava un po' di
sangue e si contorceva negli spasmi del morbo di Parkinson.

Una mezz'ora dopo Alden cominciò a parlare spontaneamente.


«Io qui ero capo del partito americano...
«Quella mattina aiutavo Grueber... a macellare. L'ho lasciato presto per
incontrare quei tre. Nei boschi. Sono arrivato e loro avevano già... violentato la
donna. Era là a terra, e li sentiva parlare con me. Io cominciai a gridare: "Come
posso restare qui ora?". Loro se ne andavano, ma a me, l'indiana mi avrebbe
messo nei guai.
«Korff non disse neanche una parola. Prese il coltello e uccise la donna.»
Sciamano non poté fargli nessun'altra domanda. Tremava di rabbia. Voleva
gridare come un bambino.
«E mi dissero di tenere la bocca chiusa e se ne andarono. Io tornai a casa,
misi un po' di roba in un sacco. Pensavo di dover scappare... non sapevo dove.
474
Ma nessuno badava a me, e neppure mi fecero domande, dopo che la trova-
rono.»
«Hai persino aiutato a seppellirla, miserabile.» Sciamano non seppe
trattenersi. Forse fu il tono della voce che scosse Alden, più che le parole.
Chiuse gli occhi e cominciò a tossire. Questa volta la tosse non voleva cessare.
Sciamano andò a prendere del chinino e del tè, ma, quando cercò di
farglielo bere, Alden lo ingoiò di traverso e quasi soffocava e lo sparse dapper-
tutto, bagnando la camicia da notte al punto che dovette essere cambiata.
Sciamano rimase diverse ore seduto, ricordando il bracciante come l'aveva
conosciuto in passato. L'abile artigiano che fabbricava canne da pesca e pattini
da ghiaccio, l'esperto che gli aveva insegnato a pescare e cacciare. L'irascibile
ubriacone.
Il bugiardo. Complice di stupro e assassinio.
Prese la lampada e la tenne sospesa sul viso di Alden. «Alden, ascoltami.
Con che coltello l'ha colpita Korff? Qual era l'arma, Alden?»
Ma quegli occhi rimasero chiusi. Alden Kimball non diede segno di aver
udito la voce di Sciamano.

Verso mattina, toccando la fronte di Alden, Sciamano sentì che la febbre


continuava a salire. Alden era privo di conoscenza. Quando tossiva, l'espetto-
rato era purulento e a un certo punto divenne di un rosso vivo. Gli prese il
polso: batteva a precipizio, 108 pulsazioni al minuto.
Lo spogliò e gli stava facendo spugnature di alcol quando, alzando gli
occhi, vide che era sorto il sole. Alex lo stava guardando dalla porta.
«Dio, ha un aspetto orribile! Soffre molto?»
«Non credo che soffra, ormai.»
Fu duro raccontare tutto ad Alex, e più duro ancora per Alex ascoltare, ma
Sciamano non tralasciò nulla.
Alex aveva lavorato per anni insieme con Alden, dividendo con lui il duro
lavoro della fattoria, imparando da lui cento compiti quotidiani, cercando nel-
l'uomo anziano un punto d'appoggio, nel periodo in cui si sentiva un povero
bastardo senza padre e si ribellava all'autorità di Rob J. Sciamano sapeva che
Alex aveva un profondo affetto per Alden.
«Farai rapporto alle autorità?» Alex appariva calmo. Solo suo fratello pote-
va capire fino a che punto era sconvolto.
«Non c'è ragione. Ha la polmonite, una forma galoppante.»
«Sta per morire?»
Sciamano annuì.
475
«Per il suo bene, ne sono lieto» mormorò Alex.
Sedettero uno accanto all'altro, considerando la possibilità di avvertire i
parenti o conoscenti di Alden. Nessuno dei due sapeva dove si trovassero la
moglie e i figli mormoni che il bracciante aveva abbandonato prima di venire a
lavorare per Rob J.
Sciamano mandò Alex a ispezionare la casetta di Alden. Quando tornò,
scosse la testa. «Tre bottiglie di whisky, due canne da pesca, un fucile. Diversi
utensili. Dei finimenti che stava riparando. Biancheria sporca. E questo.»
Aveva un foglio di carta in mano. «Una lista di uomini del posto. Devono
essere i membri del partito americano qui in città.»
Sciamano non prese il foglio. «Meglio bruciarlo.»
«Dici sul serio?»
Annuì. «Io penso di passare il resto della mia vita qui, a curare questa gen-
te. Quando entro nelle loro case come medico, non voglio sapere chi di loro è
un Know-Nothing» disse e Alex annuì e portò via la lista.

Sciamano mandò Billy Edwards al convento con i nomi di diversi pazienti


che dovevano essere assistiti nelle loro case e chiese a Madre Miriam Ferocia
di fare le visite a domicilio per lui. Dormiva quando Alden morì a metà mat-
tina. Quando si svegliò, Alex aveva già chiuso gli occhi al vecchio bracciante e
l'aveva lavato e rivestito di abiti puliti.
Appena lo seppero, Doug e Billy accorsero e rimasero in piedi accanto al
letto per qualche momento, poi andarono al fienile e cominciarono a fabbricare
una bara.
«Non voglio che sia sepolto qui alla fattoria» dichiarò Sciamano.
Alex rimase in silenzio per un momento, poi annuì.
«Possiamo portarlo a Nauvoo. Penso che dovrebbe avere ancora degli amici
fra quei mormoni.»
Portarono la bara a Rock Island con il carro e la imbarcarono su una chiatta.
I fratelli Cole sedettero lì accanto su una cassa di ferramenta. Quel giorno,
mentre un treno trasportava la salma di Abramo Lincoln in un lungo, lento
viaggio verso ovest, la salma del bracciante scendeva spinta dalla corrente a
valle del Mississippi.
A Nauvoo fu scaricata sul molo e Alex rimase ad aspettare, mentre Sciama-
no entrava in un magazzino e parlava con un commesso, tale Perley Robinson.
«Alden Kimball? Non lo conosco. Deve avere l'autorizzazione di Mrs. Bida-
mon per seppellirlo qui. Aspetti, vado a informarla.»
Tornò quasi subito. La vedova del profeta Joseph Smith gli aveva detto che
476
conosceva Alden Kimball, mormone e antico colono di Nauvoo, e che poteva
essere sepolto nel loro cimitero.
Il piccolo cimitero si trovava nell'interno. Non si vedeva il fiume, ma c'era-
no molti alberi, e qualcuno che sapeva come usare la falce teneva tagliata l'er-
ba. Due robusti giovani scavarono la fossa e Perley Robinson, che era uno degli
anziani, lesse pagine interminabili dal Libro dei mormoni, mentre si allungava-
no le ombre del crepuscolo.
Poi Sciamano regolò il conto. I costi del funerale sommavano a sette dollari,
compresi quattro dollari e cinquanta per l'acquisto del terreno. «Per altri venti
dollari farò mettere una bella lapide» propose Robinson.
«Va bene» assentì subito Alex.
«In che anno è nato?»
Alex scosse la testa. «Non sappiamo. Fate incidere solo questo: Alden
Kimball, morto nel 1865.»
«Un'altra cosa: sotto si potrebbe aggiungere "santo".»
Ma Sciamano lo guardò e scosse la testa. «Solo il nome e la data» affermò
decisamente.

Perley Robinson li informò che doveva passare un battello. Espose la


bandierina rossa per farlo fermare, e poco dopo i due fratelli erano seduti sul
ponte di babordo mentre il sole scendeva verso lo Iowa in un cielo di fuoco.
«Ma come mai sarà finito con i Know-Nothing?» si meravigliava Sciamano.
Alex disse che questo non lo sorprendeva. «Era un individuo pieno di odio.
Amareggiato per un sacco di cose. Mi disse diverse volte che il padre era nato
in America ed era morto facendo il bracciante nel Vermont, e anche lui sarebbe
morto bracciante. Si sentiva il fiele in bocca quando vedeva degli stranieri che
possedevano la terra...»
«E a lui, che cosa lo impediva? Papà lo avrebbe aiutato ad acquistarsi una
terra sua.»
«Era qualcosa che aveva dentro. In tutti questi anni noi lo abbiamo creduto
migliore di quanto si credesse lui stesso» osservò Alex. «Non c'è da stupirsi se
beveva. Con tutto quello che il povero vecchio bastardo si portava in cuore.»
Sciamano scosse la testa. «Quando penserò a lui, lo ricorderò sempre che
rideva in segreto alle spalle di nostro padre. E dava il mio indirizzo a un uomo
sapendo che era un assassino.»
«Questo non ti ha impedito di curarlo, dopo che lo hai saputo» osservò
Alex.
«Be', sì» replicò Sciamano amaramente. «La verità è che per la seconda
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volta in vita mia ho sentito la voglia di uccidere un uomo.»
«Ma non l'hai fatto. Invece hai cercato di salvarlo.» Alzò gli occhi a fissare
il fratello. «... Al campo di Elmira curavo gli uomini della mia tenda. Quando
erano malati, cercavo di immaginare che cosa avrebbe fatto nostro padre, e lo
facevo per loro. Questo mi rendeva felice.»
Sciamano annuì.
«Pensi che potrei diventare medico?»
La domanda colse Sciamano di sorpresa. Tacque un lungo momento prima
di rispondere. «Si, potresti, Alex.»
«Certo io non ho l'amore per lo studio che avevi tu.»
«Tu sei più in gamba di quanto vuoi ammettere. A scuola non ti importava
studiare. Ma se ora ti impegni, sono convinto che tu possa farcela. Potresti
cominciare a fare un po' di tirocinio con me.»
«Io vorrei lavorare con te e per il tempo che ci vorrà a prepararmi in
chimica e anatomia e quanto altro tu pensi che occorra. Ma poi preferirei
andare a una scuola medica, come avete fatto tu e papà. Vorrei andare all'Est.
Magari studiare con l'amico di papà, il dottor Holmes.»
«Hai già pensato a tutto! Ci pensi già da molto tempo, vero?»
«Ma si. E non sono mai stato così spaventato!» fece Alex, ed entrambi
risero per la prima volta dopo tanto tempo.

71

Doni di famiglia

Tornando da Nauvoo passarono per Davenport e trovarono la loro madre


che sedeva tutta smarrita in mezzo a un mucchio di cassette e valigie non
ancora disfatte, nella piccola casa parrocchiale di mattoni accanto alla chiesa
battista. Lucian era già in giro per le visite pastorali. Sciamano vide subito che
Sarah aveva gli occhi rossi.
«C'è qualcosa che non va, mamma?»
«No, Lucian è l'uomo più gentile che ci sia, e ci vogliamo un gran bene. E
io sono contenta di stare qui, ma... è davvero un gran cambiamento. Tutto è
nuovo e mi spaventa e insomma io perdo un po' la testa...»
Ma era felice di vedere i figli.
Pianse ancora quando le dissero di Alden. Pareva che non potesse smettere.
«Piango sia per un senso di colpa sia per Alden» spiegò, mentre cercavano di
confortarla. «Non mi piaceva Makwa-ikwa, non ero mai gentile con lei, ma...»
478
«So io il modo di farti stare allegra!» la interruppe Alex, e cominciarono
entrambi a disfare le valigie. In pochi minuti gli occhi di Sarah tornarono
asciutti, e si mise all'opera con loro. «Voi non sapete in che posto mettere le
mie cose!»
Mentre si davano da fare con le valigie, Alex le disse della decisione di
studiare medicina. Sarah si illuminò di gioia. «Rob J. ne sarebbe stato tanto
felice!»
Mostrò loro la sua piccola casa. I mobili erano modesti e malandati, e anche
piuttosto scarsi. «Chiederò a Lucian di metterne alcuni nel fienile e farò venire
qualcuna delle mie cose da Holden's Crossing.»
Fece il caffè e tagliò una torta di mele che una delle donne della "sua"
chiesa aveva portato. Mentre mangiavano, Sciamano scarabocchiò alcune cifre
sul retro di un vecchio biglietto.
«Che cosa fai?» chiese sua madre.
«Ho un'idea.» Li guardò, non sapendo come cominciare, e poi semplice-
mente avanzò la domanda. «Che ne diresti di donare un appezzamento di 8
ettari del nostro terreno al nuovo ospedale?»
Alex, che stava portandosi alla bocca un pezzo di torta, si fermò con la
forchetta a mezz'aria e disse qualche cosa. Sciamano gli abbassò la forchetta
con la mano per poter vedere le sue labbra. «Un sedicesimo di tutta la nostra
terra?» ripeté Alex.
«Secondo i miei calcoli, se noi cedessimo il terreno, l'ospedale potrebbe
avere trenta letti invece di venticinque.»
«Ma Sciamano... 8 ettari?»
«Abbiamo già ridotto il gregge. E rimarrà ancora una quantità di terra da
coltivare, anche se volessimo nuovamente aumentare il numero di pecore.»
Sua madre si accigliò. «Dovrai stare attento che non costruiscano l'ospedale
troppo vicino alla casa.»
Sciamano trasse un respiro profondo. «La casa si trova appunto nel terreno
che cederei all'ospedale. Potrebbe avere il pontile d'imbarco sul fiume e un
diritto di passaggio sulla strada.»
I due rimasero muti a fissarlo.
«Tu, mamma, ormai abiterai qui a Davenport» proseguì Sciamano. «Io con-
to di costruire per Rachel e i bambini una nuova casa. E tu» fece, rivolgendosi
ad Alex «resterai lontano per anni, a studiare e far pratica. Io trasformerei la
nostra casa in una clinica, un posto dove i pazienti che non sono tanto gravi da
dover essere ospedalizzati possono venire a consultare un medico. Ci sarebbero
altre sale visita e altre sale d'aspetto. Forse gli uffici amministrativi dell'ospeda-
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le, una farmacia. Potremmo chiamarla Robert Judson Cole Memorial Clinic.»
«Oh, mi piacerebbe!» esclamò subito la madre, e Sciamano, guardandola
negli occhi, capì di averla conquistata.
Anche Alex annuì.
«Sei proprio d'accordo, Alex?»
«Sicuro.»
Era già tardi quando lasciarono la casa parrocchiale e presero il traghetto
per attraversare il Mississippi. Ed era notte allorché ripresero il carro e il
cavallo dallo stallaggio di Rock Island, ma la strada gli era così familiare che
non ebbero difficoltà a tornare a casa nel buio. Arrivarono a Holden's Crossing
a un'ora troppo tarda perché Sciamano potesse recarsi al convento di San
Francesco d'Assisi. Sapeva che quella notte non avrebbe dormito e si sarebbe
certamente alzato all'alba. Era impaziente di portare la notizia a Madre Miriam
Ferocia.

Cinque giorni dopo, quattro agrimensori si recarono sul terreno ceduto con i
loro teodoliti e i loro nastri misuratori d'acciaio. Non c'erano architetti nella
zona tra i fiumi, ma l'imprenditore edile che aveva la migliore reputazione era
un tale Oscar Ericsson, di Rock Island. Sciamano e Madre Miriam Ferocia si
incontrarono con Ericsson ed ebbero con lui lunghi colloqui. L'imprenditore
aveva già costruito un municipio e diverse chiese, ma perlopiù case e magaz-
zini. Questa era la sua prima occasione di edificare un ospedale, e ascoltò atten-
tamente quanto gli esponevano. Quando esaminarono i primi schizzi del pro-
getto, Sciamano e Madre Miriam Ferocia capirono di aver trovato l'uomo
giusto.
Ericsson cominciò con il tracciare una mappa del terreno, indicando i per-
corsi delle strade e dei viali di accesso. Un viale fra la clinica e il pontile
passava esattamente accanto alla casetta di Alden. «Tu e Billy dovreste abbat-
terla e utilizzare i tronchi come legna da ardere» disse Sciamano a Doug
Penfield, e i due si misero subito al lavoro. Quando i primi operai di Ericsson
arrivarono per sgomberare il terreno, era come se la vecchia casetta di tronchi
non fosse mai esistita.
Quel pomeriggio Sciamano era sul calesse tirato da Boss per le visite a
domicilio quando incontrò la carrozza da nolo dello stallaggio di Rock Island,
che veniva verso di lui dalla direzione opposta. C'era un uomo seduto a cassetta
accanto al cocchiere, e Sciamano passando fece un cenno di saluto. Gli ci volle
qualche attimo perché la mente registrasse chi era il passeggero, e Sciamano
girò Boss in una svolta a U e accelerò per raggiungerli. Quando fu accanto alla
480
carrozza, accennò al cocchiere che si fermasse e si precipitò a terra. «Jay!»
chiamò.
Jason Geiger scese a sua volta. Era molto smagrito: non c'era da meravi-
gliarsi che Sciamano non lo avesse riconosciuto subito. «Sciamano?» chiese.
«Mio Dio, è lui!»
Non aveva valigia, solo un sacco di tela legato con una corda, che Sciamano
trasferì subito sul calesse.
Jay sedette accanto a lui. Volgeva lo sguardo intorno, divorando con gli
occhi il paesaggio. «Quanto mi è mancato!» esclamò. Gettò uno sguardo alla
borsa medica. «Lillian mi ha scritto che sei medico. Non posso dirti quanto ne
sono orgoglioso. Tuo padre deve essersi sentito...» Non poté proseguire. Ma
dopo un attimo aggiunse: «Io ero più affezionato a tuo padre che ai miei fra-
telli».
«È sempre stato felice di avere un amico come te.»
Geiger annuì.
«E i tuoi, ti aspettano?»
«No. L'ho saputo solo pochi giorni fa. Le truppe dell'Unione sono venute al
mio ospedale con i loro medici e ci hanno detto semplicemente che potevamo
andarcene a casa. Io mi sono messo in abiti civili e ho preso un treno. Quando
sono arrivato a Washington, qualcuno mi ha detto che la salma di Lincoln era
nella rotonda del Campidoglio, e io ci sono andato. Non avevo mai visto una
tale folla. Sono rimasto in coda tutto il giorno.»
«E hai visto la salma?»
«Per pochi momenti. Aveva una grande dignità. Si sentiva il desiderio di
fermarsi e dirgli qualcosa, ma gli altri in coda spingevano avanti. Mi è venuto
in mente che, se qualcuno nella folla avesse potuto vedere l'uniforme grigia nel
mio sacco, mi avrebbero sbranato.» Sospirò. «Lincoln avrebbe potuto essere il
salvatore del Paese. Ora temo che quelli che sono saliti al potere sfrutteranno
l'assassinio di Lincoln per radere al suolo il Sud.»
Si interruppe perché Sciamano aveva voltato il calesse sul sentiero che
portava a casa Geiger e andava a fermarsi davanti alla porta laterale che la
famiglia di solito usava.
«Vuoi entrare?» chiese Jay. Sciamano sorrise e scosse la testa. Aspettò che
Jay prendesse il sacco dal calesse e salisse i gradini. Era la sua casa ed entrò
senza bussare. Sciamano schioccò la lingua a Boss e si allontanò.
Il giorno dopo, portate a termine le visite all'ambulatorio, Sciamano si avviò
per il Sentiero Lungo verso casa Geiger. Jay venne ad aprirgli la porta e appena
ebbe gettato uno sguardo sul suo viso Sciamano capì che Rachel aveva parlato
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al padre.
«Entra, Sciamano.»
«Grazie, Jay.»
La situazione non migliorò per il fatto che i due bambini, riconosciuta la
voce di Sciamano, si precipitarono urtandosi dalla cucina e si aggrapparono
alle sue gambe. Lillian li segui subito e li staccò da lui, salutandolo cortese-
mente, e si portò in cucina i due piccini che protestavano a gran voce.
Jay fece entrare Sciamano in salotto e gli additò una delle poltroncine im-
bottite di crine di cavallo.
«I miei nipotini hanno paura di me.»
«Non ti conoscono ancora. Lillian e Rachel gli hanno parlato di te tutto il
tempo. Nonno qui, e Zaydeh là. Appena ti collegheranno con quel meraviglioso
nonno, ti vorranno bene.» Gli venne in mente che forse Geiger non apprezzava
il suo tono condiscendente a proposito dei nipotini, e per di più in quelle
circostanze, e cercò di cambiare argomento. «Dov'è Rachel?»
«È andata a fare una passeggiata. È... sconvolta.»
«Ti ha detto di me.»
Jason annuì.
«Io l'ho amata per tutta la vita. Grazie a Dio, non sono più un ragazzo... Jay,
io so che cosa temi.»
«No, Sciamano. Con tutto il rispetto, non lo saprai mai. Questi due bambini
hanno nelle vene il sangue di Sommi Sacerdoti. Devono essere allevati come
ebrei.»
«E lo saranno. Ne abbiamo parlato a lungo. Rachel non dovrà rinunciare
alla sua fede. Joshua e Hattie la impareranno da te, l'uomo che l'ha insegnata
alla loro madre. Mi piacerebbe imparare l'ebraico con loro: ne avevo studiato
un po' al college.»
«Ti convertirai?»
«No... attualmente sto pensando di farmi quacchero.»
Geiger rimase in silenzio.
«Se la tua famiglia fosse chiusa in una città della vostra gente, potresti
aspettarti il tipo di matrimonio che desideri per i tuoi figli. Ma tu li hai portati
nel mondo.»
«Si, mi prendo la responsabilità. Ora devo riportarli indietro.»
Sciamano scosse la testa. «Non verranno. Non possono.»
L'espressione del viso di Jay rimase immutata.
«Rachel e io ci sposeremo. E se voi la ferirete mortalmente coprendo i vo-
stri specchi e recitando le preghiere dei morti, le chiederò di prendere i bambini
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e venire con me, molto lontano di qui.»
Per un attimo temette la leggendaria collera dei Geiger, ma Jay finì per
annuire. «Questa mattina Rachel mi ha detto che verrebbe.»
«Ieri mi hai detto che mio padre era più vicino al tuo cuore dei tuoi stessi
fratelli. Io so che tu ami la sua famiglia. E so che vuoi bene a me. Non pos-
siamo, noi due, amarci per quello che siamo?»
Jason era pallido. «Sembra che dovremo provare» mormorò tristemente. Si
alzò e tese la mano.
Sciamano ignorò la mano e lo strinse in un grande abbraccio. Sentì la mano
di Jason che gli batteva sulla spalla, piccole pacche confortanti.

Nella terza settimana di aprile nell'Illinois tornò l'inverno. La temperatura


calò bruscamente, cadde la neve. Sciamano si preoccupava dei fragili boccioli
dei peschi. In cantiere si dovettero interrompere i lavori, ma lui ed Ericsson
esaminarono la casa dei Cole e decisero dove si dovevano collocare scaffali e
armadi per gli strumenti. Fortunatamente erano d'accordo che occorreva ben
poco lavoro strutturale per trasformare la casa in una clinica.
Quando cessò di nevicare, Doug Penfield approfittò del freddo per proce-
dere a una macellazione primaverile, come aveva promesso a Sarah. Passando
vicino al mattatoio, dietro il fienile, Sciamano vide tre maiali legati e appesi per
le zampe posteriori a un'alta sbarra. Pensò che tre erano troppi: Rachel non
avrebbe usato prosciutto o spalla affumicata nella loro casa, e sorrise pensando
a come sarebbe diventata complessa la sua vita. I maiali erano già stati dissan-
guati, sventrati e svuotati, poi immersi in tinozze d'acqua bollente e raschiati.
Erano di un bianco rosato, e mentre passava Sciamano si fermò bruscamente
alla vista di tre minuscoli, identici fori nelle larghe vene delle gole, da dove gli
animali erano stati dissanguati.
Fori triangolari, come quelli lasciati nella neve fresca dalle punte delle
racchette da sci.
Senza doverli misurare, Sciamano seppe che quei fori erano delle dimen-
sioni giuste.
Era lì fermo, pietrificato, quando Doug arrivò con la sega che usava per la
macellazione.
«Quei fori! Che cosa hai usato per farli?»
«Il coltello per macellare di Alden» rispose Doug, e gli sorrise. «È una cosa
buffa. Io avevo chiesto ad Alden di farmene uno, fin dalla prima volta che lo
aiutai a macellare. E continuavo a chiederglielo, e lui prometteva di farlo.
Affermava che colpire i maiali con il coltello era meglio che tagliargli la gola.
483
Diceva che una volta aveva un coltello per macellare e lo aveva perduto. Ma
non ne fece mai uno per me.
«Poi abbiamo abbattuto la sua capanna di tronchi ed era là, sotto un'asse del
pavimento. Probabilmente lo aveva appoggiato un momento mentre riparava
l'asse, e poi lo aveva dimenticato e ci aveva ricollocato l'asse sopra. Non aveva
neanche bisogno di essere affilato.»
In un attimo il coltello fu nelle mani di Sciamano. Era lo strumento il cui
uso aveva reso perplesso Barnett McGowan, quando aveva cercato di identifi-
carlo nel laboratorio di patologia dell'ospedale di Cincinnati, basandosi solo
sulla descrizione delle ferite di Makwa. Era lungo circa quarantacinque centi-
metri, con il manico arrotondato e liscio, facile da impugnare. Come il padre
aveva calcolato durante l'autopsia, gli ultimi quindici centimetri della lama
triangolare si assottigliavano per finire a punta, sicché quanto più la lama veni-
va affondata nei tessuti, tanto più larga risultava la ferita. I tre spigoli lucevano
pericolosamente, l'acciaio era ben affilato. Ad Alden era sempre piaciuto usare
del buon acciaio.
Gli pareva di vedere l'arma alzarsi e calare. Alzarsi e calare.
Undici volte.
Lei non avrebbe gridato né implorato. Si sarebbe raccolta in se stessa, nel
profondo, nel punto dove non v'era dolore. Sperò fervidamente che fosse vero.
Lasciò Doug al suo lavoro e si portò lo strumento per il Sentiero Corto,
tenendolo davanti a sé con cautela come se potesse trasformarsi in un serpente
e guizzare e morderlo. Passò sotto gli alberi, davanti alla tomba di Mikwa,
accanto alle macerie dell'hedonoso-te. Sulla riva del fiume piegò all'indietro il
braccio e lo scagliò.
La lama ruotò più volte su se stessa, solcando l'aria primaverile, brillando al
sole, come una spada. Ma non era Excalibur. Nessun braccio inviato da Dio si
alzò dalle profondità delle acque per brandirla. Invece si infilò di punta nel
mezzo della corrente, senza neppure incresparla. Sciamano sapeva che il fiume
non avrebbe restituito quel coltello, e un peso che aveva portato per anni - tanti
che ne aveva perduto il conto - gli scivolò dalle spalle e spari come un uccello.

72

Il primo colpo di vanga

Alla fine d'aprile la neve era sparita, anche nelle cavità segrete dove i boschi
lungo la riva gettavano ombre profonde. Le punte dei rami di pesco erano state
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bruciate dal gelo, ma una nuova vita pulsava sotto i tessuti anneriti e spingeva
le gemmule verdi verso la fioritura. Il 13 maggio il tempo era mite quando si
celebrò la cerimonia del primo colpo di vanga nella tenuta dei Cole. Subito
dopo mezzogiorno sua eminenza James Duggan, vescovo della diocesi di
Chicago, scese dal treno a Rock Island, accompagnato da tre monsignori.
Furono accolti da Madre Miriam Ferocia e da due carrozze a nolo che li
portarono alla fattoria, dove già si era radunata una piccola folla. C'erano la
maggior parte dei medici della zona, le monache infermiere del convento e il
prete che era il loro confessore; le autorità municipali e diversi uomini politici,
fra cui Nick Holden e il deputato John Kurland; e un gran numero di cittadini.
La voce di Madre Miriam era ferma quando diede il benvenuto agli ospiti, ma
il suo accento era più marcato del solito, come avveniva quando era nervosa.
Presentò i prelati e chiese al vescovo Duggan di pronunciare l'invocazione.
Quindi presentò Sciamano, che condusse il gruppo a visitare il terreno. Il
vescovo, un uomo corpulento con un viso rubicondo incorniciato da una gran
massa di capelli grigi, era chiaramente compiaciuto di quanto vedeva. Quando
arrivarono al terreno su cui doveva sorgere l'ospedale, il deputato Kurland par-
lò brevemente, prospettando i vantaggi che la presenza dell'ospedale avrebbe
offerto agli elettori. Il vescovo Duggan ricevette una vanga dalle mani di
Madre Miriam e scavò una palata di terra, con la disinvoltura di chi l'ha sempre
fatto. Poi la vanga passò alla Madre Superiora e quindi a Sciamano, seguito
dagli uomini politici e poi da diversi cittadini, che un giorno avrebbero raccon-
tato con orgoglio ai loro nipoti che avevano scavato le prime palate per la
costruzione dell'Ospedale di San Francesco.
Dopo la cerimonia della vanga ognuno si recò al ricevimento offerto dal
convento. Durante il cammino il gruppo fece diverse deviazioni: visitò l'orto, il
gregge di pecore e il branco di capre nei pascoli, il fienile, infine l'edificio
stesso del convento.
Miriam Ferocia aveva dovuto osservare un difficile equilibrio: voleva ono-
rare il vescovo con la dovuta ospitalità, ma sapeva bene che non doveva appa-
rire troppo prodiga ai suoi occhi. Si era regolata in modo ammirevole, usando i
prodotti del convento per far cuocere al forno piccoli pasticci di formaggio, che
furono serviti caldi su vassoi, accompagnati da tè o caffè. Tutto pareva proce-
dere ottimamente, ma Sciamano aveva la sensazione che Miriam Ferocia fosse
presa da un'ansia malcelata. Gettava occhiate inquiete a Nick Holden, che si era
installato nella poltrona imbottita accanto al tavolo della Superiora.
Quando Nick si alzò e si allontanò, Madre Miriam rimase in attesa sbir-
ciando di tanto in tanto verso il vescovo Duggan.
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Sciamano si era già presentato al vescovo alla fattoria e aveva scambiato
qualche parola con lui. Ora si avvicinò e appena ne ebbe l'occasione gli parlò.
«Eccellenza, lei vede, dietro di me, quella grande poltrona imbottita con i
braccioli di legno intagliato?»
Il vescovo appariva perplesso. «Sì, la vedo.»
«Eccellenza, quella poltrona è stata trasportata attraverso la prateria in un
carro, quando le monache arrivarono qui. La chiamavano la poltrona del ve-
scovo. Hanno sempre sognato che un giorno il loro vescovo venisse a visitarle
e avesse una bella poltrona in cui sedere.»
Il vescovo Duggan annuì in tutta serietà, ma i suoi occhi ammiccarono
allegramente. «Dottor Cole, io credo che lei andrà lontano.»
Il prelato era un fine diplomatico. Si avvicinò dapprima al deputato per
parlare del futuro dei cappellani militari, ora che la guerra era finita. Dopo
qualche minuto si volse a Miriam Ferocia. «Venga, Madre, facciamo due
chiacchiere insieme.» Spinse una sedia di legno accanto alla poltrona imbottita,
nel cui morbido abbraccio si sprofondò con un sospiro di piacere.
Ben presto furono assorti in un dialogo sugli affari del convento. Madre
Miriam Ferocia sedeva eretta sulla sedia di legno e i suoi occhi si bevevano il
vescovo, installato nella poltrona in posa quasi regale, la schiena ben appog-
giata, le mani comodamente posate sui braccioli intagliati. Suor Mary Peter
Celestine, che serviva i pasticcini, non mancò di notare il viso raggiante della
Superiora. Scambiò un'occhiata con suor Maria Benedicta, che versava il caffè,
ed entrambe sorrisero.

La mattina dopo il ricevimento, lo sceriffo e un assistente arrivarono con un


carro alla fattoria Cole, portando il corpo di una donna grassa di mezza età con
lunghi capelli sudici. Lo sceriffo non sapeva chi fosse. Il cadavere era stato rin-
venuto in fondo a un carro chiuso che portava un carico di sacchi di zucchero e
farina all'emporio di Haskins.
«Pensiamo che si sia arrampicata sul retro del carro a Rock Island, ma nes-
suno sa da dove venisse, né si sa altro su di lei» spiegò lo sceriffo. La portarono
nel capannone e la deposero sul tavolo, poi salutarono e se ne andarono.
«Lezione di anatomia» annunciò Sciamano ad Alex.
Spogliarono la morta. Non era pulita e Alex osservò Sciamano che pettinava
i capelli per toglierne insetti e sudiciume. Sciamano usò il bisturi che Alden
aveva fatto per lui ed esegui l'incisione a Y che apriva il torace. Manovrò la
pinza per costotomia e asportò lo sterno, indicando ogni organo e spiegandone
le funzioni e lo scopo; e quando alzò gli occhi vide che Alex stava lottando con
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se stesso.
«Per quanto sudicio e contaminato sia il corpo umano, è sempre un mira-
colo da ammirare e da trattare con rispetto. Quando una persona muore, l'anima
o lo spirito - quello che i greci chiamavano ànemos - lo abbandona. Gli uomini
hanno sempre discusso sul problema se anch'essa muoia o se migri in un altro
mondo.» Sorrise ricordando suo padre e Barney che pronunciavano lo stesso
messaggio e pensando con singolare piacere che ora lui stesso lo trasmetteva ad
altri. «Quando nostro padre studiava medicina, uno dei suoi professori gli
diceva che lo spirito abbandona il corpo come un uomo lascia la casa in cui ha
vissuto. Papà diceva che dobbiamo trattare il corpo con riverenza, per rispetto
verso la persona che viveva in quella casa.»
Alex annuì. Sciamano vide che si chinava sul tavolo con sincero interesse e
che il colore cominciava a tornare sul suo viso mentre osservava le mani del
fratello.

Jay si era offerto di istruire Alex in chimica e farmacologia. Quel pome-


riggio sedevano sotto il portico di casa Cole ripassando gli elementi, mentre
Sciamano li vicino leggeva una rivista, e ogni tanto sonnecchiava. Ma furono
costretti a mettere via i libri, e Sciamano abbandonò ogni speranza di pisolino,
all'arrivo di Nick Holden. Sciamano notò che Alex accoglieva Nick con corte-
sia ma senza calore.
Nick era venuto ad accomiatarsi. Era sempre alto commissario per gli Affari
Indiani e doveva tornare a Washington.
«Il presidente Johnson le ha dunque offerto di restare in carica?» chiese
Sciamano.
«Solo provvisoriamente. Metterà in ogni posto i suoi uomini, non c'è dub-
bio» rispose Nick con una smorfia. Riferì che tutta Washington era in
subbuglio per le voci di una collusione tra l'ex vicepresidente e l'assassino di
Lincoln. «Si dice che è stata scoperta una nota diretta a Johnson e firmata da
John Wilkes Booth. E che nel pomeriggio dell'assassinio Booth si è recato
all'albergo di Johnson e ha chiesto di lui alla reception, solo per sentirsi dire
che Johnson non c'era.»
Sciamano si domandò se a Washington assassinavano le reputazioni come
assassinavano i presidenti. «E Johnson è stato interrogato a proposito di queste
voci?»
«Ha deciso di ignorarle. Parla di risanare il deficit causato dalla guerra.»
«Il deficit più spaventoso causato dalla guerra non potrà essere risanato»
interloquì Jay. «Un milione di uomini uccisi o feriti. E ne dovranno morire
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degli altri, perché ci sono sacche di confederati che non si sono ancora arresi.»
Meditarono un attimo sulla terribile prospettiva. «Che cosa sarebbe accadu-
to a questo Paese se non ci fosse stata la guerra?» chiese improvvisamente
Alex. «Se Lincoln avesse lasciato in pace il Sud?»
«La Confederazione avrebbe avuto breve vita» rispose Jay. «Gli uomini del
Sud hanno fede nel loro proprio Stato e diffidano di un governo centrale.
Sarebbero scoppiati quasi subito dei conflitti. I confederati si sarebbero divisi
in gruppi regionali più piccoli, e questi con il tempo si sarebbero smembrati in
tanti Stati singoli. E penso che poi tutti questi Stati, uno per uno, per quanto
avviliti e sgomenti, avrebbero chiesto loro stessi di rientrare nell'Unione.»
«L'Unione sta cambiando» aggiunse Sciamano. «Il partito americano ha
avuto scarso successo nelle ultime elezioni. I soldati nati in America hanno vi-
sto i compagni irlandesi e tedeschi e scandinavi morire accanto a loro in batta-
glia e non hanno più voglia di ascoltare i politici intolleranti e settari. Il Daily
Tribune di Chicago dice che i Know-Nothing sono finiti.»
«Alla buonora!» fece Alex.
«Era semplicemente un altro partito politico» osservò Nick come a caso.
«Un partito politico che ha dato vita ad altri gruppi ben più infausti» replicò
Jay. «Ma non c'è troppo da illudersi. Ci sono tre milioni e mezzo di ex schiavi
che stanno dilagando per il Paese in cerca di lavoro. Sorgeranno nuove società
segrete di terroristi contro di loro, forse con gli stessi nomi sulle liste dei loro
membri.»
Nick Holden si alzò per prendere commiato. «A proposito, Geiger, la sua
gentile consorte ha avuto notizia del suo celebre cugino?»
«Se sapessi dove si trova Judah Benjamin, commissario, crede forse che
glielo direi?» ribatté Jay con voce tranquilla.
Holden fece il solito sorrisino.
Era vero che Nick aveva salvato la vita di Alex, e Sciamano gliene era
grato. Ma la gratitudine non bastava a fargli provare simpatia per lui. In fondo
al cuore desiderò ardentemente che il fratello fosse stato generato dal giovane
fuorilegge che si era chiamato Will Mosby.
Non gli venne neanche in mente di invitare Holden alle sue nozze.
Sciamano e Rachel si sposarono il 22 maggio 1865 nel salotto di casa
Geiger, alla presenza dei soli parenti. Non erano le nozze che i loro genitori
avrebbero desiderato. Sarah aveva suggerito al figlio che, poiché il patrigno era
un ecclesiastico, sarebbe stato un bel gesto per l'unità della famiglia se Lucian
fosse stato invitato a celebrare il rito. Jay aveva detto alla figlia che una donna
ebrea non poteva contrarre matrimonio se non era consacrato da un rabbino.
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Rachel e Sciamano non stettero a discutere, ma il matrimonio fu celebrato dal
giudice Stephen Hume. Hume non poteva maneggiare pagine o fogli con una
sola mano, se non aveva un leggio, e Sciamano dovette prenderne in prestito
uno dalla chiesa battista. Compito facilitato dal fatto che non era stato ancora
nominato un nuovo pastore. Si presentarono davanti al giudice insieme con i
bambini. La piccola mano sudata di Joshua si era aggrappata all'indice di
Sciamano. Rachel, in un abito da sposa di broccato azzurro con un largo col-
letto di pizzo color crema, teneva Hattie per mano. Hume era un uomo
simpatico, augurò loro un monte di cose belle, e la piccola cerimonia si svolse
regolarmente. Quando li dichiarò marito e moglie e disse: «Andate e che la
pace e la gioia siano con voi», Sciamano lo prese alla lettera, vide illuminarsi il
mondo e sentì nell'anima un impeto di gioia che aveva provato solo una volta
in passato, quando per la prima volta aveva percorso come medico la galleria
sotterranea tra l'Istituto di Medicina del Policlinico di Cincinnati e il South-
western Ohio Hospital.
Sciamano si era aspettato che Rachel, per il viaggio di nozze, desiderasse
recarsi a Chicago, o in qualche altra città; ma Rachel aveva sentito dire che un
gruppo di Sauk e Mesquakie era tornato nello lowa, e con sua grande gioia gli
chiese di far visita agli indiani.
Avevano bisogno di un cavallo da soma per trasportare i viveri e le coperte.
Paul Williams aveva nella stalla un grosso castrone grigio di carattere mite, e
Sciamano lo prese a nolo per undici giorni. Tama, la città indiana, distava circa
centocinquanta chilometri. Calcolò quattro giorni di viaggio sia all'andata sia al
ritorno, e un paio di giorni per la visita.
Poche ore dopo la cerimonia nuziale si accomiatarono e partirono, Rachel in
sella a Trude, e Sciamano su Boss e guidando il cavallo da soma, che si chia-
mava Ulysses, aveva detto Williams, «senza offesa per il generale Grant».
Quando arrivarono a Rock Island, Sciamano pensava di fermarsi per quella
giornata, ma erano vestiti da viaggio, non per un albergo elegante, e Rachel
desiderava passare la notte nella prateria. Così attraversarono il fiume assieme
ai cavalli sul traghetto e poi cavalcarono per circa quindici chilometri oltre
Davenport.
Seguirono una stretta strada polverosa, in mezzo a vasti campi arati di terra
nera, ma fra gli appezzamenti coltivati restavano ancora lembi di prateria.
Quando arrivarono a un tratto erboso, attraversato da un ruscello, Rachel
avvicinò il cavallo e agitò la mano per attirare l'attenzione del marito. «Non
possiamo restare qui?»
«Meglio trovare una fattoria.»
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Dovettero cavalcare per un altro paio di chilometri. Nelle vicinanze della
casa il mantello erboso si trasformava in campi coltivati, che senza dubbio
sarebbero stati piantati a granturco. Nel cortile un cane giallastro abbaiò ai
cavalli. Il colono stava mettendo un nuovo bullone al vomere dell'aratro e
aggrottò la fronte sospettoso quando Sciamano gli chiese il permesso di
accamparsi vicino al ruscello. Ma appena si offrì di pagare, quello acconsentì.
«Volete fare un fuoco?»
«Pensavo di farlo. Il campo è tutto verde.»
«Oh, si, non c'è pericolo che si incendi. L'acqua del ruscello è buona da
bere. Proseguite da quella parte, troverete degli alberi morti, da far legna per il
fuoco.»
Lo ringraziarono e tornarono indietro finché trovarono un posto adatto.
Tolsero le selle ai cavalli e scaricarono Ulysses. Poi Sciamano fece tre o
quattro viaggi per portare la legna, e Rachel provvide a sistemare le cose per
accamparsi. Stese una vecchia pelle di bisonte che suo padre aveva comprato
diversi anni prima da Cane di Pietra, già un po' spelacchiata, con chiazze di
cuoio marrone là dove aveva perduto il pelo, ma ancora buona da tenere fra i
loro corpi e la nuda terra. Sulla pelle di bisonte mise due coperte tessute con la
lana dei Cole, perché mancava ancora un mese all'estate.
Sciamano ammucchiò un po' di legna tra due pietroni e accese il fuoco.
Mise acqua del ruscello e caffè in un bricco, e lo pose a bollire. Seduti sulle
selle, mangiarono gli avanzi freddi del loro banchetto di nozze - tenero agnello
di primavera a pezzetti, patate al forno, carote candite. Come dolce ebbero la
bianca torta nuziale con glassa al whisky, poi sedettero accanto al fuoco a bere
il caffè. Le stelle brillarono in cielo al calar della notte e una falce di luna si
alzò sulla prateria.
Poco dopo Rachel depose la ciotola, prese sapone e asciugamano e una
pezza di spugna e scivolò via nel buio che si stava addensando. Non era la
prima volta che facevano l'amore e Sciamano si domandò perché si sentisse
così agitato. Si spogliò e si recò in un altro punto del ruscello per lavarsi in
fretta; e la stava aspettando fra le coperte e la pelle di bisonte quando lei lo
raggiunse. La loro carne aveva ancora il freddo dell'acqua, ma si scaldò presto.
Sciamano capi che Rachel aveva scelto la posizione del letto in modo che non
fosse illuminato dal fuoco, ma non gli importava. Solo lei restava, e le loro
mani e le bocche e i corpi. Fecero l'amore per la prima volta come marito e
moglie, poi restarono sdraiati, supini, stringendosi una mano.
«Ti amo, Rachel Cole» mormorò Sciamano. Vedevano tutto il cielo
incurvarsi come una cupola sulla terra. Le stelle basse erano enormi e
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splendenti.
Poco dopo fecero di nuovo l'amore. Questa volta, quando fu finito, Rachel
si alzò e corse al fuoco: raccolse un ramo acceso all'estremità e lo agitò in aria
finché ne uscì la fiamma. Poi tornò a inginocchiarsi accanto a lui, così vicina
che le poteva vedere la pelle d'oca nel solco fra i seni, e gli occhi splendenti
come gemme alla luce della fiamma. E poté vedere la sua bocca. «Anch'io ti
amo, Sciamano» gli disse.

Il giorno dopo, via via che si inoltravano nello lowa, osservarono che le
fattorie erano sempre più distanti l'una dall'altra. Per quasi un chilometro la
strada attraversò un allevamento di maiali e il fetore era così denso che si
poteva toccare. Ma poi ritrovarono la prateria dall'erba alta e l'aria profumata.
Una volta Rachel si irrigidì sulla sella e alzò una mano.
«Che c'è?»
«Degli ululati. Potrebbe essere un lupo?»
Sciamano pensò che doveva essere un cane. «Credo che i coloni abbiano
cacciato i lupi, come hanno fatto da noi. I lupi sono spariti, come i bisonti e gli
indiani.»
«Forse prima di tornare a casa vedremo una qualche meraviglia della
prateria» osservò Rachel. «Forse un bisonte o una linee, o l'ultimo lupo dello
lowa.»
Passarono per diverse piccole città. A mezzodì arrivarono a un grande
emporio e fecero colazione con pane tostato e formaggio e pesche sciroppate.
«Ieri si è sentito dire che i soldati hanno arrestato Jefferson Davis. Lo
tengono in catene a Fort Monroe, in Virginia» raccontò il negoziante. E sputò
sul pavimento cosparso di segatura. «Spero che lo impicchino, quel figlio di
puttana. Le chiedo scusa, signora.»
Rachel annuì. Era difficile avere l'aspetto di una vera signora mentre si
stava scolando le ultime gocce di sciroppo dal barattolo delle pesche. «Hanno
anche arrestato il suo segretario di Stato? Judah P. Benjamin?»
«L'ebreo? No, non l'hanno ancora preso, a quanto ne so.»
«Bene» commentò Rachel con voce troppo chiara.
Si presero i barattoli vuoti, che potevano venire utili durante il viaggio, e si
diressero ai loro cavalli. Il negoziante si fece sul portico e li guardò allontanarsi
per la strada polverosa.

Quel pomeriggio guadarono con ogni cautela il fiume Cedar, badando a non
bagnarsi, ma subito dopo furono inzuppati da capo a piedi da un improvviso
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acquazzone primaverile. Era quasi buio quando arrivarono a una fattoria e
poterono ripararsi nel fienile. Sciamano si sentiva curiosamente eccitato,
ricordando la descrizione della notte di nozze dei suoi genitori, che aveva letto
nel diario del padre. Sfidò la pioggia per andare a chiedere il permesso di per-
nottare nel fienile, permesso che gli fu prontamente accordato. Il padrone della
fattoria si chiamava Williams, ma non era parente del Williams che teneva lo
stallatico a Holden's Crossing. Quando Sciamano fu di ritorno, Mrs. Williams
lo segui quasi subito con una mezza pentola di ottima zuppa di latte, densa di
orzo, patate e carote, e con una pagnotta di pane fresco. Li lasciò così presto
che entrambi sorrisero: la buona donna certo aveva capito che erano una coppia
in viaggio di nozze.
La mattina dopo il cielo era sereno e il clima più caldo del giorno prima.
Nelle prime ore del mattino arrivarono al fiume lowa. Billy Edwards aveva
detto a Sciamano che, se proseguivano verso nord-ovest, avrebbero trovato gli
indiani. Quel tratto del fiume era deserto, e poco dopo arrivarono a una caletta
con l'acqua limpida e bassa, e il fondo sabbioso.
Si fermarono, legarono i cavalli e Sciamano si svesti subito e si mise a
sguazzare nell'acqua. «Vieni anche tu!» chiamò.
Rachel non osava. Ma il sole era caldo e il fiume era così solitario che
sembrava non fosse mai stato visto da occhio umano. In pochi minuti Rachel si
nascose dietro un ciuffo di arbusti e si tolse tutto, tranne la camicia. Nell'acqua
fredda strillò un poco, poi cominciarono a giocare come bambini. La camicia
bagnata aderiva maliziosamente al corpo e Sciamano le tese le braccia, ma lei
si spaventò. «Potrebbe arrivare qualcuno!» esclamò e corse fuori dell'acqua.
Si rimise la veste e appese la camicia a un albero ad asciugare. Sciamano
aveva lenza e ami nel sacco; quando si fu rivestito, trovò dei vermi sotto un
tronco e spezzò un ramo per farsi la canna. Risali un po' il fiume per cercare un
posto adatto e in breve tempo pescò due bei persici, di un paio d'etti ciascuno.
A mezzogiorno avevano mangiato uova sode, dell'abbondante riserva di
Rachel, ma i pesci sarebbero stati la loro cena quella sera. Sciamano li pulì su-
bito. «Meglio cuocerli ora, così non si guasteranno; li avvolgiamo in un panno
e ce li portiamo dietro» e accese un piccolo fuoco.
Mentre i persici cuocevano, Sciamano le tese di nuovo le braccia e questa
volta Rachel abbandonò ogni cautela. Non le importava affatto che un vigoroso
lavaggio con acqua e sapone non fosse bastato a toglierle l'odore di pesce dalle
mani, né le importava che fosse pieno giorno. Sciamano le sollevò la veste e
fecero l'amore tutti vestiti sotto il sole, sull'erba calda della riva del fiume, con
il mormorìo dell'acqua che li accompagnava.
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Pochi minuti dopo, mentre Rachel girava il pesce perché non bruciasse, una
chiatta sbucò dall'ansa del fiume: a bordo vi erano tre uomini barbuti, a piedi
scalzi, vestiti solo di laceri pantaloni. Uno di loro sollevò la mano in un pigro
saluto e Sciamano agitò la mano in risposta.
Appena la barca fu scomparsa, Rachel si precipitò là dov'era appesa la ca-
micia, come un grande vessillo bianco a segnalare quel che avevano appena
fatto. Sgomenta, si volse verso Sciamano, che l'aveva seguita. «Ma che cosa ci
succede?» mormorò. «Che cosa mi succede? Chi sono io?»
«Tu sei Rachel» rispose lui, stringendola fra le braccia. Lo disse con tale
passione, con tale convinzione che quando la baciò lei sorrideva.

73

Tama

Il quinto giorno, nelle prime ore del mattino, raggiunsero un altro uomo che
cavalcava davanti a loro. Quando si avvicinarono per chiedergli la strada,
Sciamano osservò che era vestito di abiti semplici ma montava un buon cavallo
con una sella costosa. Aveva i capelli lunghi e neri e la pelle color mattone.
«Mi può indicare la via per Tama?» chiese Sciamano.
«Meglio ancora, ci vado anch'io. Venite con me, se volete.»
«Grazie di cuore.»
L'indiano si chinò a dirgli qualche altra cosa, ma Sciamano scosse la testa.
«Mi è difficile parlare mentre cavalchiamo. Per capire, devo vedere le sue
labbra. Sono sordo.»
«Oh!»
«Mia moglie ci sente benissimo, però.» Sorrise e anche l'indiano sorrise e si
volse verso Rachel, toccandosi il cappello. Scambiarono poche parole, ma per
la maggior parte del tragitto cavalcarono insieme, tenendosi silenziosamente
compagnia nella calda mattina.
Quando arrivarono a un piccolo stagno Scesero per far abbeverare i cavalli e
fargli mangiare un po' d'erba mentre loro si sgranchivano le gambe, e si
presentarono educatamente. L'uomo strinse loro la mano e disse di chiamarsi
Charles P. Keyser.
«Lei vive a Tama?»
«No, ho acquistato una fattoria a 12 chilometri da qui. Sono di nascita
potawatomi, ma sono stato allevato dai bianchi quando i miei familiari mo-
rirono tutti di febbre. Non parlo neppure la lingua indiana, tranne poche parole
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di kickapoo. Mia moglie era metà kickapoo, metà francese.»
Disse che ogni due o tre anni andava a Tama a passarvi qualche giorno.
«Veramente non so neanch'io perché.» Alzò le spalle e sorrise. «I pellirosse
chiamano i pellirosse, penso.»
Sciamano annuì. «Che dice, i nostri cavalli avranno mangiato abbastanza?»
«Oh, sì. Non vogliamo che gli animali ci scoppino sotto, no?» Tornarono
alle loro cavalcature e ripresero il cammino.

A metà mattina Keyser li condusse direttamente a Tama. Prima ancora di


raggiungere le casette di tronchi raggruppate in largo cerchio furono circondati
da una frotta di bambini dagli occhi neri e da cani che abbaiavano
festosamente.
Dopo un po' Keyser fece segno di fermare e scese da cavallo. «Farò sapere
al capo che siamo qui.» Si diresse a una vicina capanna di tronchi e riapparve
con un alto e robusto pellerossa di mezza età, mentre intorno si radunava una
piccola folla.
Il capo indiano disse qualcosa che Sciamano non riuscì a leggere sulle sue
labbra: non parlava inglese, ma strinse la mano che Sciamano gli porse.
«Io sono il dottor Robert J. Cole di Holden's Crossing, Illinois. Questa è mia
moglie, Rachel Cole.»
«Il dottor Cole?» un giovane uscì dalla folla e si avvicinò a scrutare
Sciamano. «Ma no. Lei è troppo giovane.»
«... Forse conoscevi mio padre?»
L'uomo lo studiava con occhi attenti. «Tu... tu sei il ragazzo sordo?... Sei tu,
Sciamano?»
«Si.»
«Io sono Piccolo Cane. Figlio di Luna e Vien Cantando.»
Sciamano fu felice di stringergli la mano, ricordando come avevano giocato
insieme da bambini.
L'imponente indiano parlò ancora.
«Lui è Medi-ke, Tartaruga-che-morde, capo della città di Tama» annunciò
Piccolo Cane. «Desidera che voi tre entriate nella sua casa.»
Tartaruga-che-morde fece cenno a Piccolo Cane perché li seguisse, e con un
altro cenno mandò via gli altri. La sua capanna di tronchi era piccola e odorava
di carne arrostita di recente. Alcune coperte ben piegate indicavano il lato dove
si dormiva, e in un angolo pendeva un'amaca di tela. Il pavimento di terra era
ben compresso e pulito, e qui gli ospiti sedettero, mentre la moglie di
Tartaruga-che-morde - Wapansee, Piccola Luce - serviva caffè fumante, for-
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temente addolcito con zucchero d'acero e addizionato con altri ingredienti che
ne alteravano il sapore, com'era stato quello di Mak-wa-ikwa. Quando Piccola
Luce ebbe servito il caffè, Tartaruga-che-morde le disse qualcosa, e la donna
uscì dalla casa.
«Tu avevi una sorella, Donna Uccello. È qui anche lei?» chiese Sciamano a
Piccolo Cane.
«È morta da molto tempo. Ho un'altra sorella, Salice Verde, la più giovane.
Vive con il marito nella riserva del Kansas.» Nessuno degli abitanti di Tama
aveva fatto parte del gruppo di Holden's Crossing, aggiunse Piccolo Cane.
Tartaruga-che-morde, parlando attraverso Piccolo Cane, affermò di essere
un mesquakie, e spiegò che c'erano circa duecento Mesquakie e Sauk a Tama.
Poi uscì in un torrente di parole, e guardò verso Piccolo Cane.
«Dice che le riserve sono una brutta cosa. Come grosse gabbie. Noi
soffrivamo ricordando i vecchi giorni e gli antichi costumi. Catturammo cavalli
selvatici, li domammo e li vendemmo per quel che ne potevamo prendere. E
mettemmo da parte ogni soldo ricavato.
«Poi siamo venuti qui, eravamo un centinaio. Abbiamo dovuto dimenticare
che Rock Island era una volta Sauk-e-nuk, la grande città dei Sauk, e che
Davenport era Mesquak-e-nuk, la grande città dei Mesquakie. Il mondo è
cambiato. Abbiamo pagato denaro all'uomo bianco per trentadue ettari di terra
e il governatore bianco dello lowa ha firmato le carte come testimone.»
Sciamano annuì. «Avete fatto bene» approvò, e Tartaruga-che-morde
sorrise. Evidentemente capiva un po' d'inglese, ma continuò a parlare nella sua
lingua e il suo viso si fece cupo.
«Dice che il governo sempre pretende di avere comprato le nostre terre. Il
Padre Bianco ci strappa le nostre terre e offre alle tribù piccole monete invece
di grandi biglietti di banca. E ci truffa anche sulle monete, dandoci cattivi
prodotti e gingilli e affermando di pagare ai Mesquakie e ai Sauk il tributo
annuale. Molti dei nostri uomini lasciano quegli oggetti senza valore a marcire
per terra. E noi consigliamo loro di proclamare a voce alta che accetteranno
solo denaro, e di venire poi qui a comprare altra terra.»
«Avete delle difficoltà con i vostri vicini bianchi?» chiese Sciamano.
«Nessuna difficoltà» rispose Piccolo Cane, e tacque per ascoltare Tartaruga-
che-morde. «Dice che noi non siamo una minaccia. Quando i nostri uomini
vanno al mercato, i bianchi infilano delle monete nella corteccia degli alberi e
dicono ai nostri che se le possono tenere se le colpiscono con le frecce. Alcuni
di noi dicono che è un'offesa, ma Tartaruga-che-morde lo permette.»
Tartaruga-che-morde parlò ancora e Piccolo Cane sorrise. «Dice che serve a
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tenerci esercitati nel tiro con l'arco.»
Piccola Luce tornò accompagnata da un uomo con una logora camicia di
cotone e un paio di pantaloni di lana tutti macchiati e un fazzoletto rosso legato
sulla fronte. Era Nepepaqua, Colui-che-Cammina-nel-Sonno, un sauk e il
guaritore della città. Colui-che-Cammina-nel-Sonno non era uomo che perdeva
tempo. «Lei dice che tu sei un medico.»
«Sì.»
«Bene, vieni con me.»
Sciamano annuì. Lui e Rachel lasciarono Charles Keyser a bere caffè con
Tartaruga-che-morde. Si fermarono solo per prendere la borsa medica di
Sciamano: poi seguirono il guaritore.

Attraversando il villaggio, Sciamano cercava i segni familiari che serbava


nel ricordo. Non vide nessun tepee, ma vi erano alcuni hedonoso-te dietro le
capanne di tronchi. Gli abitanti perlopiù indossavano logori abiti vecchi scartati
dagli uomini bianchi; i mocassini erano come quelli che ricordava, ma molti
degli indiani portavano scarponi da lavoro o calzature dell'esercito.
Colui-che-Cammina-nel-Sonno li condusse a una capanna dall'altra parte
del villaggio. Dentro, una giovane donna scarna giaceva contorcendosi e
stringendosi con le mani il grosso ventre.
Aveva gli occhi vitrei e pareva fuori di sé. Non rispose quando Sciamano le
fece alcune domande. Il polso era rapido e irregolare. Sciamano provò un'im-
provvisa paura, ma quando le prese le mani vi sentì più vitalità di quanto aves-
se temuto.
La giovane era Watwaweiska, Scoiattolo Balzante, disse Colui-che-Cam-
mina-nel-Sonno, la moglie di suo fratello. Era il suo primo parto, ed era giunta
al termine della gravidanza il giorno avanti. Aveva scelto in precedenza un
posto soffice e asciutto nel bosco, e vi si era recata. I dolori del parto si ripete-
vano di continuo, e lei si era acquattata, come le aveva detto sua madre. Quan-
do si erano rotte le acque, le avevano bagnato le gambe e la veste, ma non era
successo nient'altro. I dolori non passavano e il bambino non nasceva. A notte
fonda erano andate a cercarla altre donne, l'avevano trovata e l'avevano portata
nella capanna.
Colui-che-Cammina-nel-Sonno non era riuscito ad aiutarla.
Sciamano le tolse la veste madida di sudore e le esaminò il corpo. Era molto
giovane. I seni, benché gonfi di latte, erano piccoli e la pelvi era troppo stretta.
La vagina era aperta ma non si scorgeva ancora la piccola testa. Sciamano le
premette gentilmente il ventre con le dita, poi estrasse lo stetoscopio e porse gli
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auricolari a Rachel. Quando lo appoggiò sul ventre di Scoiattolo Balzante, le
conclusioni a cui era già giunto furono confermate dai suoni che Rachel descri-
veva.
«Il bambino si presenta male.»
Uscì dalla capanna e chiese acqua pulita. Colui-che-Cammina-nel-Sonno Io
condusse a un ruscello tra gli alberi. Il guaritore lo osservò incuriosito mentre
faceva schiumare il sapone e si strofinava vigorosamente le mani e le braccia.
«Fa parte della medicina» spiegò Sciamano e Colui-che-Cammina-nel-Sonno
accettò il sapone e lo imitò.
Tornato nella capanna, Sciamano prese il barattolo di lardo e si spalmò le
mani. Inserì un dito nel canale del parto, poi un altro, come a formare un
pugno. Risali lentamente nel canale. Dapprima non sentì niente, poi la ragazza
ebbe una violenta contrazione e qualcosa spinse leggermente. Un minuscolo
piede si infilò tra le dita e Sciamano sentì, avvolto intorno al piedino, il cor-
done ombelicale. Il cordone era resistente, ma era teso, e Sciamano non tentò di
liberare il piede finché la contrazione del travaglio non cessò. Poi, armeggiando
cautamente con sole due dita, svolse il cordone e trasse fuori il piedino.
L'altro piede era più in alto, puntato contro la parete del canale, e poté
raggiungerlo durante la contrazione successiva: lo fece scendere lentamente
finché si scorsero due minuscoli piedini rossi sporgere dal corpo della giovane
madre. I piedini divennero gambe, e presto si vide che era un maschietto.
Emerse l'addome del bambino e con esso il cordone, ma si arrestò bruscamente
quando le spalle e la testa del feto si incastrarono nel canale come il tappo nel
collo di una bottiglia.
Sciamano non riusciva a estrarre ulteriormente il corpicino, e non poteva
arrivare abbastanza in alto da impedire che gli venissero tappate le narici.
Restava inginocchiato con la mano nel canale del parto e la mente tesa a
cercare una soluzione, ma capiva che il bambino rischiava di soffocare.
Colui-che-Cammina-nel-Sonno aveva una borsa in un angolo della capanna
e ne trasse un grosso viticcio lungo poco più di un metro, che terminava con
un'estremità piatta somigliante a un'orrida testa di vipera a cui erano applicati
due occhietti neri di vetro e due denti sporgenti. Cominciò a manipolare il
"serpente" in modo da farlo strisciare su per il corpo di Scoiattolo Balzante,
finché la testa ondeggiando arrivò fino al viso della giovane. Intanto salmo-
diava litanie nella sua lingua, ma Sciamano non cercava di leggergli le labbra.
Studiava attentamente Scoiattolo Balzante.
Vide i suoi occhi sbarrati fissarsi sul serpente, mentre il guaritore girava il
viticcio e lo faceva scendere serpeggiando lungo il corpo, finché l'orribile testa
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si trovò esattamente sopra il punto dov'era il bambino.
Sciamano sentì una vibrazione nel canale del parto.
Vide Rachel che apriva la bocca per protestare, e l'ammonì con un'occhiata
perché tacesse.
I denti velenosi toccarono il ventre di Scoiattolo Balzante. D'improvviso
Sciamano sentì allargarsi il canale. La giovane madre diede un'ultima violenta
spinta e il bimbo uscì così facilmente che non ci volle alcuno sforzo per
prenderlo. Aveva le labbra e le guance blu, ma ripresero subito colore. Con un
dito tremante Sciamano gli tolse il muco dalla bocca. Il faccino si contorse
indignato e spalancò la bocca. Sciamano sentì l'addome del piccolo contrarsi
per inspirare aria e capì che gli altri udivano un sottile, acuto strillo. Doveva
essere in re bemolle, perché il pancino vibrava esattamente come il piano di
Lillian quando Rachel schiacciava il quinto tasto nero a partire dall'estremità
della tastiera.

Sciamano tornò con il guaritore al ruscello per lavarsi. Colui-che-Cammina-


nel-Sonno aveva un'espressione compiaciuta, Sciamano era turbato. Prima di
uscire dalla capanna aveva esaminato ancora una volta il viticcio per assicurarsi
che fosse solo un viticcio.
«La ragazza ha temuto che il serpente le divorasse il bambino e così lo ha
partorito, per salvarlo?»
«Il mio canto diceva che il serpente era un manitou cattivo. Il buon manitou
l'ha aiutata.»
Sciamano comprese la lezione: la scienza può portare l'opera del medico
fino a un certo punto. Oltre quello la fede o la credenza in qualche cosa le offre
un potente aiuto. Questo era un vantaggio che il guaritore aveva sul medico,
perché Colui-che-Cammina-nel-Son-no era un sacerdote, oltre che un guari-
tore.
«Tu sei uno sciamano?»
«No.» L'indiano lo guardò. «Tu conosci le Tende della Saggezza?»
«Makwa ci ha parlato di Sette Tende.»
«Sì, sono sette. Sotto alcuni aspetti io sono nella quarta Tenda. Per molti
altri, sono solo nella prima.»
«Diventerai uno sciamano un giorno?»
«Chi potrebbe istruirmi? Wabokieshiek è morto. Makwa-ikwa è morta. Le
tribù sono disperse, il Mide'wiwin non c'è più. Quando ero giovane, e sapevo di
voler diventare un servo degli spiriti, sentii parlare di un vecchio sauk, quasi
uno sciamano, nel Missouri. Lo trovai, passai due anni con lui. Ma morì di
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vaiolo, troppo presto. Ora io vado in cerca dei vecchi, per imparare da loro, ma
sono pochi, e perlopiù non sanno. I nostri figli imparano l'inglese nelle riserve,
e le Sette Tende della Saggezza sono estinte.»
Gli stava dicendo che non c'erano per lui scuole di medicina a cui spedire
richieste di ammissione, pensò Sciamano. I Sauk e i Mesquakie erano relitti di
un grande naufragio, derubati della loro religione, della loro medicina e del
loro passato.
Ebbe una breve, terrificante visione di un'orda di uomini dalla pelle verde
che si rovesciava sulla razza bianca lasciando solo pochi sopravvissuti, perse-
guitati e braccati, a cui non restavano che ricordi di un'antica civiltà e una
pallida eco di Ippocrate, Galene, Avicenna, Geova, Apollo e Gesù.

Parve che l'intero villaggio venisse immediatamente a sapere della nascita


del piccino. Gli indiani non erano abituati a manifestare i loro sentimenti, ma
Sciamano si rendeva conto che lo approvavano mentre passava in mezzo a loro.
Charles Keyser gli confidò che il caso della ragazza era simile al parto di cui
era morta sua moglie l'anno prima. «Il dottore non arrivò in tempo. L'unica
donna presente era mia madre, e non sapeva più di quanto ne sapessi io.»
«Lei non deve sentirsi in colpa. Qualche volta anche noi non possiamo
salvare una vita. Morì anche il bambino?»
Keyser annuì.
«Lei ha altri figli?»
«Due bambine e un maschietto.»
Sciamano pensò che una delle ragioni per cui Keyser era venuto a Tama
fosse la ricerca di una moglie. Gli indiani di Tama pareva lo conoscessero e lo
accogliessero benevolmente. Ogni tanto qualche passante Io salutava e lo
chiamava Charlie il Coltivatore.
«Perché la chiamano così? Non coltivano anche loro la terra?»
Keyser sorrise. «Non con il mio sistema. Mio padre mi lasciò 16 ettari del
terreno più grasso e nero che lei abbia mai visto. Io ne ho dissodati 7 ettari e ne
pianto la maggior parte a frumento nel tardo autunno.
«Quando venni qui per la prima volta cercai di insegnare agli indiani come
coltivare la terra. Mi ci volle un po' di tempo per capire che non vogliono i
sistemi dell'uomo bianco. I bianchi che vendettero agli indiani questa terra
pensarono probabilmente di averli imbrogliati, perché è un terreno assai
povero. Ma gli indiani accumulano fogliame, erbe e rifiuti su piccoli appezza-
menti e li lasciano maturare, talvolta per anni. Poi vi gettano i semi, usando
bastoni piantatori invece di aratri. Questi orti producono una quantità di cibo.
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La regione è piena di selvaggina minuta e il fiume lowa è ricco di pesci.»
«Qui dunque vivono realmente la vita degli antichi tempi, che sono venuti a
cercare.»
Keyser annuì. «Colui-che-Cammina-nel-Sonno dice che le ha chiesto di
curare altri malati. Io sarei lieto di aiutarla, dottor Cole.»
Sciamano aveva già Rachel e Colui-che-Cammina-nel-Sonno ad assisterlo.
Ma poi pensò che Keyser, benché come aspetto fosse simile agli altri abitanti di
Tama, non pareva completamente a suo agio, e forse aveva bisogno della
compagnia di altri estranei. Così rispose al Coltivatore che avrebbe apprezzato
il suo aiuto.

I quattro formavano una singolare piccola comitiva, girando di capanna in


capanna, ma risultò presto che si integravano a vicenda. Il guaritore li presen-
tava, in modo che fossero bene accolti, e salmodiava le sue litanie. Rachel
portava un sacchetto di dolci ed era bravissima a guadagnarsi la simpatia dei
bambini; e le grandi mani di Charlie Keyser avevano la forza e la delicatezza
che gli consentivano di tenere fermo un paziente, quando occorreva.
Sciamano estrasse un buon numero di denti guasti, allietato dalla vista dei
pazienti che, pur sputando sangue, sorridevano perché una fonte di torture era
di colpo sparita.
Incise ascessi, amputò un pollice annerito dall'infezione, e Rachel fu conti-
nuamente impegnata ad auscultare con lo stetoscopio il torace dei malati di
tosse. Ad alcuni Sciamano somministrò uno sciroppo calmante, ma altri erano
affetti da tubercolosi, e fu costretto a comunicare a Colui-che-Cammina-nel-
Sonno che non c'era niente da fare per loro. Videro anche una mezza dozzina di
uomini e diverse donne intontiti dall'alcol e l'indiano gli disse che molti altri si
sarebbero volentieri ubriacati, se avessero avuto whisky.
Sciamano si rese conto che le malattie degli uomini bianchi avevano ucciso
più pellirosse dei loro proiettili. Specialmente il vaiolo aveva devastato le tribù
delle pianure e dei boschi, e Sciamano aveva portato con sé a Tama una piccola
scatola di legno a metà piena di escare di vaiolo bovino.
Colui-che-Cammina-nel-Sonno fu chiaramente interessato quando Sciama-
no gli disse che aveva una medicina per prevenire il vaiolo. Ma Sciamano fece
molta fatica a spiegargli il procedimento. Si dovevano praticare dei piccoli tagli
nel braccio di ogni individuo e inserire nella ferita minuscoli frammenti di
escara bovina. Si sarebbe sviluppata una vescichetta rossa e pruriginosa, delle
dimensioni di un piccolo pisello, che poi sarebbe diventata una specie di forun-
colo grigio, della forma di un ombelico, circondato da una larga zona rossa,
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dura e scottante. Dopo l'inoculazione, per la maggior parte i pazienti potevano
avere una forma lieve di vaiolo vaccino, della durata di circa tre giorni; una
malattia molto più mite e benigna del vaiolo, che però avrebbe conferito
immunità contro la malattia mortale. I vaccinati potevano avere mal di testa e
febbre. Dopo la breve malattia, la ferita si sarebbe asciugata, sarebbe diventata
più larga e più scura, finché la crosta sarebbe caduta dopo circa ventun giorni,
lasciando una cicatrice rosea e butterata.
Sciamano consigliò a Colui-che-Cammina-nel-Sonno di spiegare la cosa ai
suoi indiani e chiedere se volevano ricevere il trattamento. Il guaritore tornò
poco dopo: tutti volevano essere protetti dal vaiolo, riferì, e così si accinsero a
praticare la vaccinazione all'intera comunità.
Colui-che-Cammina-nel-Sonno ebbe il compito di mettere in fila gli indiani
davanti al medico bianco, spiegando che cosa dovevano aspettarsi. Rachel,
seduta su un tronco d'albero, staccava con due bisturi minuscole scaglie dalle
escare di vaiolo vaccino conservate nella scatoletta di legno. Quando un
paziente arrivava davanti a Sciamano, Charlie Keyser gli sollevava il braccio
sinistro esponendo la parte interna dell'avambraccio, il punto più riparato da
occasionali colpi o graffi. Sciamano infine, con un bisturi a punta, vi praticava
un taglietto poco profondo in cui inseriva un minuscolo frammento di escara.
Non era un'operazione complicata, ma doveva essere eseguita con cura, e la
fila dei pazienti si muoveva lentamente. Infine, al tramonto, Sciamano sospese
il lavoro: un quarto della popolazione di Tama doveva ancora essere vaccinata,
ma Sciamano annunciò che l'ufficio del medico era chiuso e che tornassero la
mattina dopo.

Colui-che-Cammina-nel-Sonno aveva l'istinto di un predicatore battista di


successo, e quella sera riunì il suo popolo per onorare i visitatori. Un grande
falò fu acceso nella radura e gli indiani si raccolsero tutti intorno, seduti per
terra.
Sciamano sedeva a destra di Colui-che-Cammina-nel-Sonno; Piccolo Cane
si sistemò fra Sciamano e Rachel, per poter far loro da interprete. Charlie era
seduto accanto a una giovane donna snella e sorridente, e Piccolo Cane li
informò che era una vedova con due bambini piccoli.
Colui-che-Cammina-nel-Sonno chiese a Sciamano di parlare loro della
donna che era stata la loro sciamana, Makwa-ikwa.
Sciamano era convinto che ognuno nel gruppo sapesse del massacro di Bad
Axe più di quanto ne sapeva lui. Ciò che era avvenuto in quella lingua di terra
dove il fiume Bad Axe confluisce nel Mississippi doveva essere stato raccon-
501
tato migliaia di volte intorno ai fuochi, e avrebbe continuato a esserlo. Ma disse
loro che fra gli indiani uccisi dai Lunghi Coltelli era caduto un uomo chiamato
Bisonte Verde, un nome che Colui-che-Cammina-nel-Sonno tradusse con
Ashtibugwa-gupichee, e una donna chiamata Unione-di-Fiumi, Matapya.
Raccontò che la loro figlia di dieci anni, Due Cicli, Nishwri Kekawi, aveva
raccolto il fratellino neonato e l'aveva portato in salvo sotto il fuoco dei fucili e
dei cannoni dell'esercito nemico, nuotando nelle acque del Masesibowi e
tenendo fra i denti la molle carne del collo del bambino, per impedirgli di
annegare.
Raccontò come la fanciulla Due Cicli aveva trovato sua sorella, Donna Alta,
e come si erano nascoste insieme nei cespugli come lepri, finché i soldati le
avevano scovate. E come un soldato si era preso il neonato sanguinante, e
nessuno Io aveva più rivisto.
Raccontò che le due sorelle sauk erano state portate in una missione
cristiana nel Wisconsin, e Donna Alta era stata messa incinta da un missionario
ed era stata vista per l'ultima volta nel 1832, quando era stata portata a servire
in una fattoria bianca nei pressi di Fort Crawford. E la fanciulla chiamata Due
Cicli era fuggita dalla missione ed era riuscita ad arrivare alla Città del Profeta,
dove lo sciamano Nuvola Bianca, Wabokieshiek, l'aveva presa nella sua tenda
e l'aveva guidata per le Sette Tende della Saggezza e le aveva dato un nuovo
nome, Makwa-ikwa, la Donna Orso.
E che Makwa-ikwa era stata la sciamana del suo popolo, finché era stata
violentata e uccisa da tre uomini bianchi nell'Illinois, nel 1851.
Gli indiani ascoltavano gravemente, ma nessuno piangeva. Erano abituati a
storie di orrori compiuti contro quelli che amavano.
Si passarono un tamburo ad acqua di mano in mano finché arrivò a Colui-
che-Cammina-nel-Sonno. Non era il tamburo di Makwa, che era scomparso
quando i Sauk avevano lasciato l'Illinois, ma Sciamano vide che era molto
simile. Insieme al tamburo avevano fatto passare un bastoncino e ora Colui-
che-Cammina-nel-Sonno si inginocchiò di fronte al tamburo e cominciò a
battervi, in gruppi di quattro versetti ritmici, cantando:

Ne-nye-ma-wa-wa,
Ne-nye-ma-wa-wa,
Ne-nye-ma-wa-wa,
Ke-ta-ko-ko-na-na.

Io lo batto quattro volte,


502
Io lo batto quattro volte,
Io lo batto quattro volte,
Io batto il nostro tamburo quattro volte.

Sciamano si guardò attorno e vide che gli indiani cantavano assieme al


guaritore e molti tenevano in mano delle zucche e le scuotevano al ritmo della
musica, così come Sciamano aveva scosso la scatola di sigari piena di palline
durante la lezione di musica, quando era bambino.

Ke-te-ma-ga-yo-se lye-ya-ya-ni,
Ke-te-ma-ga-yo-se lye-ya-ya-ni,
Me-to-se-ne-ni-o lye-ya-ya-ni,
Ke-te-ma-ga-yo-se lye-ya-ya-ni.

Benedici noi quando vieni,


Benedici noi quando vieni,
Il popolo, quando vieni,
Benedici noi quando vieni.

Sciamano si piegò in avanti e poggiò la mano sulla parete del tamburo,


appena sotto la membrana di pelle. Quando Colui-che-Cammina-nel-Sonno
batté ancora, gli parve di tenere un tuono nella mano. Osservò le labbra di
Colui-che-Cammina-nel-Sonno e vide con piacere che ora l'indiano intonava
un canto che lui conosceva, uno dei canti di Makwa. E cantò con loro:

... Wi-a-ya-ni,
Ni-na ne-gi-se ke-wi-to-se-me-ne ni-na.

... Ovunque tu vada, Cammino con te, figlio mio.

Qualcuno venne con un ceppo e lo gettò nel fuoco, e una colonna di faville
dorate si alzò serpeggiando verso il cielo buio. Il bagliore del fuoco unito al
calore della notte gli dava un senso di vertigine: si sentì stordito e incline alle
allucinazioni Cercò con gli occhi la moglie, preoccupato per lei, e vide Rachel
in un atteggiamento che avrebbe fatto infuriare sua madre. Era a testa nuda, con
i capelli scompigliati, il viso lucente di sudore e gli occhi scintillanti di piacere.
Non gli era mai sembrata più femminile, più umana, più desiderabile. Lei colse
il suo sguardo e sorridendo si sporse dalla spalla di Piccolo Cane per parlargli.
503
Una persona provvista di udito avrebbe perduto le sue parole nel rombo del
tamburo e del canto, ma Sciamano non ebbe difficoltà a leggere le sue labbra.
È bello come vedere un bisonte! diceva Rachel.
La mattina dopo, Sciamano scivolò fuori della tenda all'alba, senza svegliare
la moglie, e fece il bagno nel fiume lowa mentre le rondini scendevano in
picchiata sull'acqua in cerca di cibo e minuscoli pesciolini dal corpo dorato
guizzavano sul fondo intorno ai suoi piedi.
Era da poco sorto il sole. Nel villaggio i bambini si chiamavano l'un l'altro
con acuti strilli e passando accanto alle capanne vedeva donne a piedi nudi e
qualche uomo che coltivava l'orto al fresco del mattino. Al limitare del
villaggio si trovò a faccia a faccia con Co-lui-che-Cammina-nel-Sonno: sedette
accanto a lui e i due conversarono tranquillamente, come due gentiluomini di
campagna che si fossero incontrati durante le loro passeggiate mattutine.
Colui-che-Cammina-nel-Sonno gli chiese del funerale di Makwa e della sua
tomba. Sciamano si sentiva a disagio nel rispondere. «Ero solo un ragazzo
quando è morta.» Ma ricordando il diario del padre, poté riferirgli che la tomba
di Makwa era stata scavata al mattino, e lei era stata sepolta nel pomeriggio,
avvolta nella migliore coperta, con i piedi rivolti verso occidente. Insieme con
lei era stata sepolta la coda di un bisonte.
Colui-che-Cammina-nel-Sonno fece un cenno di approvazione. «Che cos'è
stato posto dieci passi a nord-ovest della tomba?»
Sciamano parve sorpreso. «Non ricordo. Non lo so.»
Il viso del guaritore era grave. Il vecchio del Missouri, gli disse, quello che
era quasi uno sciamano, gli aveva insegnato i riti che riguardavano la morte
degli sciamani. Gli spiegò che là dove è sepolto uno sciamano, quattro
watawinonas, gli spiriti del male, si installano dieci passi a nord-ovest della
tomba. I watawinonas vegliano a turno: uno è sempre desto, mentre gli altri tre
dormono. Non possono far del male allo sciamano, ma finché restano sul luogo
gli impediscono di usare i suoi poteri per aiutare i viventi che gli chiedono
aiuto.
Sciamano trasse un sospiro. Forse, se fosse stato allevato in quella fede,
avrebbe potuto avere più tolleranza. Ma durante la notte era rimasto sveglio
chiedendosi come stessero i suoi pazienti a Holden's Crossing. E ora voleva
portare a termine la sua opera al villaggio e partire abbastanza presto per
potersi accampare la notte nella comoda caletta dove avevano pernottato
venendo.
«Per scacciare i watawinonas,» aggiunse Colui-che-Cammina-nel-Sonno
«devi trovare il posto dove dormono, e bruciarlo.»
504
«Si, lo farò» promise Sciamano senza vergogna, e Colui-che-Cammina-nel-
Sonno parve sollevato.
In quella arrivò Piccolo Cane a chiedere se poteva prendere il posto di
Charlie il Coltivatore quando il medico bianco ricominciava l'opera dei
taglietti. Riferì che Keyser aveva lasciato Tama durante la notte, subito dopo
che avevano fatto spegnere il fuoco.
Sciamano fu deluso che Keyser non fosse venuto a salutarlo, ma rispose a
Piccolo Cane che era d'accordo.
Cominciarono presto con le vaccinazioni. Il lavoro si svolse più rapidamen-
te del giorno prima perché Sciamano ormai ci aveva preso la mano. Avevano
quasi finito quando un carro tirato da una coppia di cavalli bai entrò nella
radura del villaggio. Lo guidava Keyser, e nel carro c'erano tre bambini che
osservavano con viva curiosità i Sauk e i Mesquakie.
«Le sarei grato se volesse fare anche a loro il taglietto contro il vaiolo»
chiese, e Sciamano acconsentì ben volentieri.
Quando tutti gli altri indiani e i tre bambini furono vaccinati, Charlie aiutò
Sciamano e Rachel a raccogliere le loro cose.
«Mi piacerebbe portare i miei bambini a visitare la tomba della sciamana un
giorno» disse, e Sciamano rispose che sarebbe sempre stato il benvenuto.
Ci volle poco tempo per caricare i bagagli su Ulysses. Ricevettero un regalo
da Shemago, la Lancia, marito di Scoiattolo Balzante, che arrivò con tre grosse
bottiglie, che avevano contenuto whisky e ora erano piene di sciroppo d'acero.
Sciamano fu felice del dono e le legò insieme con un flessibile viticcio, simile a
quello del serpente di Colui-che-Cammina-nel-Sonno. Quando le sistemò in
groppa a Ulysses, parve che lui e Rachel fossero avviati a una festa solenne.
Strinse la mano a Colui-che-Cammina-nel-Sonno e promise che sarebbero
tornati la prossima primavera. Poi strinse la mano anche a Charlie e a
Tartaruga-che-morde e a Piccolo Cane.
«Ora tu sei Cawso wabeskiou» gli disse Piccolo Cane.
Cawso wabeskiou, lo Sciamano Bianco. Sciamano ne provò piacere perché
sapeva che nelle parole di Piccolo Cane c'era un significato più profondo che
non il semplice soprannome.
Molti degli indiani alzarono la mano, e così fecero Sciamano e Rachel
quando con i loro tre cavalli uscirono da Tama e si avviarono per la strada che
fiancheggiava il fiume.

505
74

Una levata mattutina

Per quattro giorni, dopo il suo ritorno a casa, Sciamano seppe quale prezzo
deve pagare un medico che si prende una vacanza. Ogni mattina l'ambulatorio
era gremito di pazienti e ogni pomeriggio doveva visitare i malati costretti in
casa di cui aveva la responsabilità.
Tornava a casa Geiger a tarda notte, sfinito.
Ma il quinto giorno, un sabato, la marea dei pazienti era calata e il lavoro
era tornato più o meno normale; e la mattina di domenica si svegliò nella
stanza di Rachel con la deliziosa sensazione di avere finalmente una pausa di
respiro. Come al solito, si alzò prima degli altri, raccolse gli abiti e li portò al
pianterreno nel salotto, dove si vestì in silenzio prima di uscire.
Si avviò per il Sentiero Lungo, fermandosi nei boschi dove gli operai di
Oscar Ericsson avevano sgomberato il terreno per la nuova casa. Non era il sito
dove Rachel si era fermata da ragazzina a sognare. Sfortunatamente i sogni
delle ragazzine non tengono conto del drenaggio, ed Ericsson aveva ispezio-
nato il terreno e aveva scosso la testa. Decisero per un terreno più adatto, a un
centinaio di metri di distanza, e Rachel dichiarò che era abbastanza vicino al
suo sogno. Sciamano si era offerto di comprare l'appezzamento per la nuova
casa, ma Jay aveva insistito che era il suo dono di nozze. Lui e Jay in quei
giorni si trattavano con molta cordialità e profondo rispetto, e la questione si
sarebbe agevolmente sistemata.
Quando raggiunse il terreno destinato all'ospedale, vide che la fossa per le
fondamenta era già stata quasi completamente scavata. La cavità pareva infe-
riore come dimensioni a quanto egli aveva immaginato per l'edificio del-
l'ospedale, ma Ericsson gli aveva spiegato che la fossa sembrava sempre più
piccola. Le fondamenta dovevano essere costruite in pietre grigie, estratte da
una cava oltre Nauvoo, trasportate sul Mississippi a mezzo di chiatte e quindi
su carri da Rock Island: un arduo viaggio che dava pensiero a Sciamano ma
che il costruttore prospettava senza alcuna preoccupazione.
Proseguì verso la casa dei Cole, che Alex ben presto avrebbe lasciato.
Quindi imboccò il Sentiero Corto, cercando di immaginarlo percorso dai pa-
zienti che sarebbero arrivati alla clinica in battello. Si dovevano fare diverse
modifiche. Osservò la capanna del bagno di sudore che improvvisamente
veniva a trovarsi al posto sbagliato. Decise di disegnare un accurato schizzo
della posizione di ogni pietrone, e poi trasferire i pietroni e ricostruire la
506
capanna dietro il nuovo fienile; così Joshua e Hattie avrebbero avuto la
singolare esperienza di sedere nel crescente calore fino a essere costretti a cor-
rere fuori nelle rinfrescanti acque del fiume.
Quando si avvicinò alla tomba di Makwa vide che la lapide di legno era così
piena di crepe e così logorata dalle intemperie che gli antichi segni a forma di
rune non erano più decifrabili. Ma erano conservati nel diario del padre, e si
ripromise di provvedere per una lapide più resistente e di collocare intorno alla
tomba una specie di recinto, in modo che rimanesse indisturbata.
Le erbe di primavera l'avevano invasa. Mentre strappava le erbacce che
erano spuntate tra i ciuffi dei gigli, si sorprese a raccontare a Makwa che alcuni
del suo popolo avevano trovato rifugio a Tama.
La fredda collera che aveva sentito qui - fosse o non fosse venuta dall'incon-
scio - era svanita. Tutto quello che ora sentiva era una grande quiete. Ma...
C'era ancora qualcosa.
Si alzò, lottando per qualche momento con quello strano impulso. Poi indi-
viduò l'esatta direzione nord-ovest e cominciò a camminare, contando i passi.
Quando ebbe percorso esattamente dieci passi, si trovò in mezzo alle rovine
dell'hedonoso-te. Nel corso degli anni si era sempre più deteriorato e ora non
era che un basso mucchio ineguale di tronchi e strisce di corteccia muffita da
cui spuntavano rampicanti e baptisie.
Non aveva senso, si disse, ripulire la tomba, spostare la capanna del bagno
di sudore e poi lasciare questo brutto mucchio di macerie. Andò al fienile a
prendere un grosso orcio di terracotta quasi pieno di petrolio, e lo vuotò sui
resti dell'antica dimora. Il materiale era umido di rugiada, ma il fiammifero lo
accese al primo colpo e il petrolio si infiammò.
In un attimo l'intero hedonoso-te esplose in fiamme azzurre e gialle e una
colonna di fumo scuro si alzò al cielo, e al soffio della brezza si piegò verso il
fiume.
Sciamano vide il primo dei watawinonas, quello che era sveglio, fuggire a
cavallo di un'acre nube di fumo emessa da uno dei ceppi alla sommità del
mucchio.
Gli sembrò che un altro degli spiriti maligni emergesse dal sonno e fuggisse
quando la parte più interna del mucchio prese fuoco. Il terzo Io segui in una
nube di fumo più chiara, cosparsa di faville; l'ultimo dei watawinonas veleggiò
lontano in un bizzarro battello volante di ceneri bianche.
Sciamano, ritto accanto al fuoco, sentiva folate ardenti lambirgli il viso,
come se fosse accanto al falò di una cerimonia sauk, e cercava di immaginare
come doveva essere stato quel luogo quando il giovane Robert J. Cole lo aveva
507
visto per la prima volta, vasta prateria ininterrotta che si stendeva fino ai boschi
e al fiume. E pensava agli altri che erano vissuti li, Makwa e Luna e Vien
Cantando. E Alden. Via via che il fuoco andava spegnendosi canticchiava fra
sé: Tti-la-ye ke-wi-ta-mo-ne i-no-ki-i-i, ke-te-ma-ga-yo-se. Spirito, io ti parlo
ora, manda a me la tua benedizione.
Infine restò solo un sottile strato di cenere da cui uscivano ancora lievi
spirali di fumo. Sapeva che l'erba avrebbe ben presto invaso il posto e non
sarebbe più rimasta traccia dell'hedonoso-te.
Quando pensò di poter abbandonare senza pericolo le ultime braci, riportò
l'orcio al fienile e riprese la via di casa. Sul Sentiero Lungo incontrò una
figuretta corrucciata che lo cercava, seguita da un bambinetto che era caduto e
si era sbucciato un ginocchio. Il bambinetto zoppicava dietro di lei, ostinato,
piangendo con il nasino gocciolante di muco.
Sciamano pulì il naso di Joshua e gli diede un piccolo bacio sul ginocchio,
vicino alla sbucciatura, promettendo di farlo guarire appena arrivati a casa. Si
pose sul collo Hattie, con le gambe a cavalcioni delle sue spalle, prese in
braccio Joshua e cominciò a camminare. Questi erano gli unici spiriti al mondo
che gli importavano. Questi due spiriti buoni che gli avevano conquistato il
cuore. Hattie gli tirava le orecchie per farlo andare più in fretta, e lui si mise a
trottare come Trude. E quando la ragazzina cominciò a dargli strattoni così forti
da fargli male, strinse Joshua contro le sue gambette, perché non cadesse, e
cominciò a correre al piccolo galoppo come Boss. E così galoppava,
galoppava, seguendo una delicata e piacevole nuova musica che solo lui era in
grado di udire.

508
Ringraziamenti e note

I Sauk e i Mesquakie vivono ancora a Tama, lowa, su terra che è di loro


proprietà. Il terreno di 32 ettari acquistato in origine è stato considerevolmente
ampliato. Ora circa 575 indigeni d'America vivono su 1.416 ettari lungo il
fiume lowa. Nell'estate del 1987 visitai l'insediamento di Tama insieme con
mia moglie Lorraine. Don Wanatee, che era allora capo del Consiglio tribale, e
Leo-nard Young Bear, noto artista indigeno americano, risposero pa-
zientemente alle mie domande. In altri colloqui successivi mi risposero con
eguai cortesia Muriel Racehill, il capo attuale, e Charlie Old Bear.
Ho cercato di presentare le vicende della guerra di Falco Nero attenendomi
il più fedelmente possibile alla realtà storica. Il capo guerriero conosciuto come
Falco Nero (la traduzione letterale del nome sauk, Makataime-shekiakiak,
sarebbe Sparviero Nero) è una figura storica. Lo sciamano Wabokieshiek,
Nuvola Bianca, è an-ch'egli realmente vissuto. In questo libro diviene un
personaggio di fantasia dopo l'incontro con la fanciulla che doveva diventare
Mak-wa-ikwa, Donna Orso.
Per gran parte del vocabolario sauk e mesquakie utilizzato nel romanzo mi
sono valso di una serie di pubblicazioni del Centro di Etnologia Americana
della Smithsonian Institution.
L'organizzazione assistenziale nota come Dispensario di Boston nei primi
tempi fu pressappoco come io l'ho descritta. Mi sono valso della mia libertà di
romanziere per quanto riguarda gli stipendi dei medici incaricati delle visite.
Anche se la scala degli stipendi è autentica, l'organizzazione non cominciò a
pagare i medici se non dopo il 1842, ossia alcuni anni dopo che nel romanzo
Rob J. comincia a lavorare come medico stipendiato per curare i poveri. Fino al
1842 l'opera del medico al Dispensario di Boston era considerata una specie di
internato volontario gratuito. Tuttavia le condizioni della popolazione erano
così miserabili e il lavoro era così duro che i giovani medici si ribellarono.
Dapprima chiesero di essere pagati, poi si rifiutarono di continuare a visitare i
pazienti nei loro tuguri. Quindi il Dispensario di Boston si trasferì in un edifi-
cio proprio e divenne una clinica, dove i pazienti venivano a consultare i
medici. Quando io mi recai al Dispensario di Boston, alla fine degli anni Cin-
quanta e all'inizio degli anni Sessanta per un servizio giornalistico come redat-
tore scientifico del vecchio Boston Herald, era diventato un ben organizzato
istituto ospedaliere ed era amministrativamente associato con la Pratt Dia-
gnostic Clinic, il Floating Hospital for Infants and Children e la Tufts Medical
School, che avevano formato il Tufts-New England Medical Center. Nel 1965 i
509
vari ospedali componenti si fusero nell'attuale eminente istituzione conosciuta
come New England Medical Center Hospitals. David W. Nathan, già archivista
del Medical Center, e Kevin Richardson del Department of External Affairs del
Medical Center mi fornirono informazioni e materiale documentario.
Mentre scrivevo Lo Sciamano, trovai un'inaspettata miniera di notizie e idee
proprio vicino a casa mia, e sono grato ad amici, vicini e concittadini.
Edward Gulick mi parlò di pacifismo e mi narrò del campo prigionieri di
Elmira, New York. Elizabeth Gulick mi informò sulla Società degli Amici e mi
consentì di leggere alcuni dei suoi scritti sul culto dei quaccheri. Don Buckloh,
ambientalista che lavora con il dipartimento di Agricoltura degli Stati Uniti, mi
fornì notizie sulle fattorie dei primi coloni del Midwest. Sua moglie, Denise
Jane Buckloh, già suor Miriam dell'Eucarestia, O.C.D., mi diede informazioni
particolareggiate sul cattolicesimo e sulla vita giornaliera di una monaca in
convento.
Donald Fitzgerald mi mise a disposizione dei libri per la documentazione e
mi diede una copia del diario tenuto durante la Guerra Civile dal suo bisnonno,
John Fitzgerald, che a sedici anni era partito a piedi da Rowe, Massachusetts,
percorrendo per trentotto chilometri la Pista Mohawk fino a Greenfield per
arruolarsi nell'esercito dell'Unione. John Fitzgerald combatté con il 27°
Volontari Massachusetts finché fu fatto prigioniero dai confederati, e soprav-
visse dopo essere passato per diversi campi di prigionia, compreso quello di
Andersonville.
Theodore Bobetsky, proprietario di una fattoria che confina con la nostra,
mi diede notizie sulla macellazione. L'avvocato Stewart Eisenberg mi spiegò il
sistema di cauzione applicato dai tribunali del XIX secolo e Nina Heiser mi
consentì di consultare la sua collezione di libri sugli indigeni americani.
Walter A. Whitney Jr. mi diede la copia di una lettera scritta il 22 aprile
1862 da Addison Graves a suo padre, Ebenezer Graves Jr., di Ashfield,
Massachusetts. La lettera racconta le esperienze di Addison Graves come
infermiere volontario sulla nave ospedale War Eagle, che portò i feriti
dell'Unione da Pittsburgh, Tennessee a Cincinnati. Mi servì come documento
per elaborare il capitolo 48, in cui Rob J. Cole lavora come chirurgo volontario
sulla nave ospedale War Hawk.
Beverly Presley, bibliotecaria della sezione Geografia e Cartografia della
Clark University, calcolò la distanza percorsa durante i viaggi dalle navi
ospedale, tanto quelle storiche quanto quelle di fantasia.
La facoltà di filologia classica del College of the Holy Cross mi fu di molto
aiuto per diverse traduzioni latine.
510
Richard M. Jakowski, V.M.D., professore aggiunto della sezione di
patologia al Tufts-New England Veterinary Medical Center, a North Grafton,
Massachusetts, rispose alle mie domande sull'anatomia dei cani.
Sono grato all'University of Massachusetts ad Amherst per avermi consen-
tito l'accesso a tutte le sue biblioteche, e a Edla Holm dell'ufficio prestiti di
quella università.
Ricevetti aiuti e materiale da Richard J. Wolfe, curatore della sezione Libri
e Manoscritti Rari, e da Joseph Garland, bibliotecario della Countway Medical
Library della facoltà di medicina di Harvard, ed ebbi prestiti a lungo termine
dalla Lamar Soutter Library della facoltà di medicina dell'University of
Massachusetts, a Worcester. Devo anche ringraziare il personale di consulta-
zione della Biblioteca Pubblica di Boston e del Boston Athenaeum per l'aiuto
offertomi.
Bernard Wax, della Società Storica Ebraica d'America alla Brandeis
University, mi fornì notizie e dati sulla Compagnia C dell'82° Illinois, "la
compagnia ebraica". La mia fonte per la lingua yiddish fu mia suocera Dorothy
Seay.
Nell'estate del 1989 mia moglie e io visitammo diversi campi di battaglia
della Guerra Civile. A Charlottesville, il professor Ervin L. Jordan Jr., archi-
vista della Biblioteca Alderman dell'University of Virginia, mi accolse con la
cordiale ospitalità che è caratteristica di quella biblioteca e mi fornì
informazioni sugli ospedali dell'esercito confederato.
Mentre scrivevo questo libro Ann N. Lilly, che faceva parte del personale
tanto della Forbes Library di Northampton quanto del Western Massachusetts
Regional Library System di Hadley, Massachusetts, fece spesso per me
ricerche negli schedari e trasportò parecchi libri dalle due biblioteche alla sua
casa di Ashfield. Ringrazio anche Barbara Zalenski della Belding Memorial
Library di Ashfield, e il personale della Field Memorial Library di Conway,
Massachusetts, per il loro aiuto e per le ricerche compiute per me.
La Planned Parenthood Federation of America (la Federazione Americana
per la Pianificazione Familiare) mi mandò del materiale a proposito della
confezione e dell'uso dei preservativi nel secolo scorso. Al Center for Disease
Control di Atlanta, Georgia, Robert Cannon, M.D., mi diede interessanti
informazioni sul trattamento della sifilide durante il periodo in cui si svolgono
le vicende del mio romanzo, e la American Parkinson Disease Association,
Inc., mi fornì notizie su questa malattia.
William McDonald, assistente alla facoltà di metallurgia dell'Istituto di
Tecnologia del Massachusetts, mi parlò dei metalli usati per fabbricare
511
strumenti all'epoca della Guerra Civile.
L'analisi di Jason Geiger su quanto sarebbe avvenuto se Lincoln avesse
permesso alla Confederazione di staccarsi dagli Stati Uniti senza guerra, analisi
che è esposta nel capitolo 72, si basa sull'opinione del defunto psicologo
Gamaliel Bradford, esposta nella sua biografia di Robert E. Lee (Lee the
American, Houghton Mifflin Company, Boston, 1912).
Ringrazio Dennis B. Gjerdingen, rettore della Clarke School per i Sordi a
Northampton, Massachusetts, per avermi concesso di consultare sia il personale
sia la biblioteca di quella scuola. Ana D.
Grist, già bibliotecaria della Clarke School, mi permise di prendere in
prestito libri per un lungo periodo di tempo. Sono grato in modo speciale a
Marjorie E. Magner, che per quarantatré anni si è dedicata all'insegnamento ai
bambini sordi. Mi fornì un gran numero di idee e suggerimenti e lesse anche il
manoscritto del libro per controllare l'esattezza di quanto è detto sulla sordità.
Diversi medici del Massachusetts mi hanno offerto un generoso aiuto per
questo libro. Albert B. Giknis, M.D., ispettore sanitario di Franklin County,
Massachusetts, discusse ampiamente con me sullo stupro e sull'omicidio, e mi
consentì di prendere in prestito i suoi testi di patologia. Joel F. Moorhead,
M.D., primario del reparto pazienti ambulatoriali allo Spaulding Hospital e
Clinical Instructor in medicina riabilitativa alla Tufts Medical School, mi diede
preziose spiegazioni sulle lesioni e sulle malattie. Wolfgang G. Gilliar, D.O.,
direttore di programmi per la medicina riabilitativa presso il Gree-nery
Rehabilitation Center e istruttore di medicina riabilitativa alla Tufts Medical
School, ebbe con me diversi colloqui sulla medicina clinica. Il mio medico di
famiglia, Barry E. Poret, M.D., fu prodigo di notizie e consigli e mi mise a
disposizione i suoi libri di medicina. Stuart R. Jaffee, M.D., primario di
urologia al St. Vincent Hospital di Worcester, Massachusetts, e professore
aggiunto di urologia all'Istituto Universitario della Massachusetts Medical
School, rispose alle mie domande sulla litotripsia e lesse il manoscritto del
libro per controllare la precisione dei termini medici.
Sono grato al mio agente, Eugene H. Winick della Mclntosh & Otis, Inc.,
per la sua amicizia e il suo entusiasmo, e al dottor Karl Blessing,
Geschäftsführer della Casa Editrice Droemer Knaur di Monaco. Lo Sciamano è
il secondo romanzo di una trilogia progettata sulla dinastia medica dei Cole. La
fiducia e l'interesse che il dottor Blessing ha subito manifestato per il primo
libro della trilogia, Medicus, hanno contribuito a farlo diventare un best seller
in Germania e in altri Paesi e mi hanno grandemente incoraggiato durante la
stesura di Lo Sciamano.
512
Sotto molti aspetti, Lo Sciamano è stata un'opera di famiglia. Mia figlia Lise
ha revisionato Lo Sciamano prima che fosse consegnato ai miei editori. È assai
meticolosa, severa anche con suo padre, e mi ha dato preziosi incoraggiamenti.
Mia moglie Lorraine mi ha aiutato nella preparazione del dattiloscritto e, come
al solito, mi ha dedicato il suo amore e il suo appoggio totale. Mia figlia lamie
Beth, fotografa, ha saputo far sparire il mio timore della macchina fotografica
durante speciali e allegrissime sedute di fotografia, in cui mi ha fatto le foto
necessarie per la copertina del libro e per i cataloghi degli editori. Mi ha dato
un aiuto prezioso con le sue annotazioni e le sue schede. E le frequenti
telefonate interurbane di mio figlio Michael Seay arrivavano invariabilmente
quando avevo bisogno dell'allegro sollievo che egli sempre ci porta.
Queste quattro persone sono la parte importante della mia vita e hanno
aumentato e almeno decuplicato la mia gioia nel terminare questo romanzo.

Ashfield, Massachusetts
20 novembre 1991

513
Indice

PARTE PRIMA
Ritorno a casa

01 Jiggety-jig 2
02 L'eredità 9
PARTE SECONDA
Tela fresca, pittura nuova

03 L'emigrante 16
04 La lezione di anatomia 23
05 Il distretto maledetto da Dio 27
06 Sogni 34
07 Il colore del quadro 38
08 Musica 41
09 Due lotti di terreno 47
10 Costruzione di una casetta di tronchi 53
11 La reclusa 56
12 Il grande indiano 57
13 La stagione fredda 61
14 Mazza-e-palla 67
15 Un dono da Cane di Pietra 73
16 A caccia di cerbiatte 77
17 La figlia del Mide'wiwin 82
18 Calcoli vescicali 105
19 Un cambiamento 108
20 I pretendenti di Sarah 112
21 Il Grande Risveglio 117
PARTE TERZA
Holden's Crossing

22 Imprecazioni e benedizioni 121


23 Trasformazioni 129
24 Musica di primavera 140

514
25 Il bambino silenzioso 144
26 Le manine legate 151
27 Politica 160
28 L'arresto 169
29 Gli ultimi indiani dell'Illinois 177

PARTE QUARTA
Il ragazzo sordo

30 Lezioni 190
31 Giorni di scuola 198
32 Una visita notturna 206
33 Risposte e domande 214
34 Il ritorno 222
35 Il nascondiglio segreto 228
36 Il primo ebreo 238
37 Inondazioni 244
38 Ascoltando musica 250
39 Insegnanti 257
40 I ragazzi crescono 264
41 Vittorie e sconfitte 271
42 Lo studente 277
43 L'aspirante 286
44 Lettere e note 292
PARTE QUINTA
Una lite in famiglia

45 Al Policlinico 299
46 I battiti del cuore 306
47 I giorni di Cincinnati 312
48 Un viaggio in barca 318
49 Il chirurgo militare a contratto 329
50 Una lettera dal figlio 335
51 Il suonatore di tuba 337
52 Movimenti di truppe 344

515
53 La lunga linea grigia 352
54 Scaramucce 363
55 «Quando hai incontrato Ellwood R. Patterson?» 371
56 Sull'altra riva del Rappahannock 375
57 Il cerchio si chiude 377
PARTE SESTA
Il medico di campagna

58 Consigli 387
59 Il padre segreto 394
60 Un caso di crup 397
61 Una franca discussione 401
62 A pesca 406
63 La fine del diario 414
64 Chicago 419
65 Un telegramma 429
66 Il campo di Elmira 436
67 La casa di Wellsburg 445
68 Dibattendosi nella rete 455
69 L'ultimo nome di Alex 462
70 Un viaggio a Nauvoo 470
71 Doni di famiglia 478
72 Il primo colpo di vanga 484
73 Tama 493
74 Una levata mattutina 505

Ringraziamenti e note 509

516

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