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ETIMOLOGIA

Secondo le più autorevoli ricostruzioni semantiche presso gli antichi popoli indoeuropei, la
nozione di libertà sarebbe ricostruibile in termini di comune appartenenza ad un gruppo, ad una
stirpe legata da vincoli di sangue, e per conseguenza di protezione all’interno della comunità.
Nelle lingue greca e latina i lemmi ‘liber’ ed ‘eléutheros’ discenderebbero infatti dalla radice
‘leudh’, che descrive lo sviluppo in una dimensione collettiva e socializzata, e dunque per
estensione la stessa collettività etnica in una “metafora di crescita vegetale”.
I membri del gruppo sono così immuni dall’esercizio della forza da parte di esterni e sono
tutelati, in quanto appartenenti alla comunità, da ogni forma di coercizione, fruendo di una
protezione sia verticale che orizzontale, in assenza di monopolio dell’uso della forza legittima da
parte di entità assimilabili allo Stato.
La con gurazione della libertà come status sociale, espresso essenzialmente da vincoli di
appartenenza etnica, è dunque perlomeno altrettanto riferibile alla sua imputazione individuale in
chiave di non sottoposizione a giogo di schiavitù o di liberazione da qualcosa.

GRECO
- ERODOTO (Storie, VII, 103): il dialogo tra Serse e Demarato (re spartano), Erodoto delinea la
di erenza principale tra Greci e Persiani: contrariamente ai Persiani, i Greci sono liberi e
sono soggetti solo alla legge. Il con itto greco - persiano è visto da Erodoto come lo scontro tra
due opposte e inconciliabili civiltà fondate l'una sulla libertà e il rispetto per la legge, l'altra sul
dispotismo di un monarca assoluto. come ud queste cose Serse ridendo disse: «Demarato,
quali parole hai pronunciato, che mille uomini combatteranno contro un cos grande esercito?
Ors , dimmi. Tu dici di essere stato re di questi uomini; tu saresti disposto a combattere subito
contro dieci uomini? Che anzi, se i vostri cittadini sono tutti quali tu dichiari, tu che sei loro re
dovresti combattere contro un numero doppio secondo le vostre leggi. Se ciascuno di loro
equivalente a dieci uomini del mio esercito, io chiedo che tu equivalga a venti; cos sarebbe
giusto quel discorso che hai fatto poco fa. Ma se, essendo tali e di tale statura quanto siete tu e
i Greci che vengono a colloquio con me, vi vantate tanto, guarda che le parole da te dette non
siano vana iattanza». «Io non sostengo di essere capace di combattere n contro dieci uomini
n contro due e, di mia volont , neppure con uno solo lotterei. Ma se ci fosse necessità, o una
qualche prova decisiva che mi incitasse, combatterei piuttosto contro questi uomini che tu dici
essere ciascuno degno di tre Greci. Cos anche gli Spartani, combattendo uno per uno, non
sono inferiori ad alcun altro uomo, ma quando combattono insieme sono i pi valorosi di tutti gli
uomini. Essi infatti pur essendo liberi non sono del tutto liberi; sovrasta infatti a essi come
sovrana la legge, che essi temono molto di pi di quanto i tuoi temano te. Fanno dunque ci
che essa comanda, ed essa comanda sempre la stessa cosa, non permettendo che essi si
ritirino dalla battaglia qualunque sia la moltitudine dei nemici, e ordinando di rimanere al proprio
posto e di vincere o morire».

- TUCIDIDE (Epita o di Pericle): il re spartano Archidamo II, invade l'Attica e devasta i campi
attorno ad Atene. È l'inizio della guerra del Peloponneso, che per trent'anni vede a rontarsi le
città di Atene e Sparta e i loro rispettivi alleati. È una guerra per il dominio territoriale, ma la
componente ideologica vi gioca un ruolo essenziale: a scontrarsi sono infatti non soltanto due
potenze militari, ma soprattutto due tendenze politiche e due diverse concezioni dello
Stato, quella aristocratica e quella democratica. Una guerra i cui protagonisti sono le
"polis", e, all'interno delle singole città, i partiti loateniese e lospartano. Alcune fonti antiche
attribuiscono la responsabilità diretta del con itto al leader della democrazia ateniese, Pericle,
che per stornare l'attenzione dei suoi cittadini dai problemi interni e per mettere a tacere gli
oppositori avrebbe deciso di intraprendere la guerra contro Sparta. Ma le cause remote della
guerra del Peloponneso vanno cercate nell'espansionismo ateniese, cominciato
all'indomani delle guerre persiane. Questo è il giudizio di Tucidide, lo storico di parte ateniese
aristocratica che ci ha lasciato nelle sue Storie il mirabile racconto della guerra. Scrive Tucidide:
"Il motivo più vero, ma meno dichiarato apertamente, penso che fosse il crescere della potenza
ateniese e il suo incutere timore ai Lacedemoni”. Alla ne del primo anno di guerra, che si è
concluso con un nulla di fatto, gli Ateniesi organizzano le esequie u cali per i caduti, che

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prevedono un discorso funebre da parte di "un uomo designato dalla città, un uomo che abbia
qualità di intelletto e goda di particolare prestigio". Per quell'anno è Pericle ad essere scelto per
pronunciare il discorso. L’epita o pronunciato da Pericle, non è una semplice celebrazione
degli ateniesi morti eroicamente nel primo anno di guerra: egli infatti passa subito ad un'analisi
più generale della città e del suo sistema politico, così che le sue parole niscono per
risultare un vero e proprio manifesto della democrazia ateniese. "In virtù di quali princìpi
noi siamo giunti a questo impero, e con quale costituzione e con quale modo di vivere tale
impero si è ingrandito, questo mi accingo a mostrare per prima cosa... Abbiamo una
costituzione che non emula le leggi dei vicini, in quanto noi siamo più d'esempio ad altri che
imitatori. E poiché essa è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla
maggioranza, essa è chiamata democrazia: di fronte alle leggi, per quanto riguarda gli interessi
privati, a tutti spetta un piano di parità, mentre per quanto riguarda la considerazione pubblica
nell'amministrazione dello stato, ciascuno è preferito a seconda del suo emergere in un
determinato campo, non per la provenienza di una determinata classe sociale ma più per quello
che vale. E per quanto riguarda la povertà, se uno può fare qualcosa di buono alla città, non ne
è impedito dall'oscurità della suo rango sociale. Liberamente noi viviamo nei rapporti con la
comunità, e in tutto quanto riguarda il sospetto che sorge dai rapporti reciproci nelle abitudini
giornaliere senza adirarci con il vicino se fa qualcosa secondo il suo piacere e senza in iggerci a
vicenda molestie che, sì, non sono dannose, ma pure sono spiacevoli ai nostri occhi. Senza
danneggiarci esercitiamo reciprocamente i rapporti privati e nella vita pubblica la reverenza
soprattutto ci impedisce di violare le leggi, in obbedienza a coloro che sono nei posti di
comando, e alle istituzioni, in particolare a quelle poste a tutela di chi subisce ingiustizia o che,
pur essendo non scritte, portano a chi le infrange una vergogna da tutti riconosciuta" (Tucidide,
Storie II, 36,4-37,3). . C'è forse un punto di contatto tra la democrazia degli antichi e quella
dei moderni che tutti, sostenitori e detrattori, ottimisti e pessimisti, sono disposti a
riconoscere: la sostanziale imperfezione, l'incompiutezza, la fragilità costitutiva di questo
sistema politico sia nella sua declinazione moderna sia in quella antica. La democrazia
ateniese ha conosciuto una tensione insanabile tra libertà ed eguaglianza, qualunque
signi cato si intende dare a questi termini. È stato ammesso l'imperialismo e la guerra; sono
stati esclusi dai diritti politici le donne, gli stranieri e gli schiavi; ha spesso esercitato la violenza
sui suoi cittadini per autopreservarsi e ottenere il consenso. Non sono forse gli stessi limiti, le
stesse gravi contraddizioni a cui sono confrontate le attuali democrazie occidentali? Appunto
per questo lo studioso Luciano Canfora si è fatto portavoce in età moderna di una critica e di
un giudizio realistico sull’epoca periclea, che de nisce il sistema politico di quel tempo una
“democrazia solo a parole”in cui non vengono rispettati i principi fondamentali che
caratterizzano l’essenza della parola democrazia. in questa critica, il concetto di democrazia
viene contrapposto a quello di libertà: ciò deriva dal fatto che attualmente si è ben
dimostrato che al trionfo della democrazia, consegue necessariamente il deperimento della
libertà e viceversa. Le argomentazioni portate avanti dallo storico possono essere racchiuse
sinteticamente in una frase pronunciata da Pericle durante il suo discorso secondo cui: sul
piano del diritto privato gli ateniesi difendono la libertà, accolgono lo straniero, e praticano la
loso a. Tuttavia Canfora ci fa ri ettere sul fatto che per ognuna di queste a ermazioni ci siano
in realtà delle contraddizioni all’interno della politica ateniese a livello costituzionale poiché
sebbene lo straniero venga accolto, egli non avrebbe mai potuto ottenere la cittadinanza
ateniese, e che nonostante venga praticata la loso a, quest’ultima non era sempre ben vista a
causa di alcune sue teorie poco conformi alle credenze e alle tradizioni greche.

- SOFOCLE (Antigone 502,511):


A: Eppure da dove avrei potuto ricavare
Una gloria più grande che dall'aver deposto nella tomba
Mio fratello consanguineo? E tutti costoro direbbero
Che approvano questo, se la paura non chiudesse loro la lingua.
Ma io tra gli altri vantaggi della tirannide c'è anche che le è possibile fare ciò che vuole
C: Tu sola vedi questo fra questi Cadmei.
A: Lo vedono anche loro ma di fronte a te si tappano la bocca.
C: E tu non ti vergogni di pensare separatamente dagli altri?
A: Non c'è nessuna vergogna a onorare i consanguinei.
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L'Antigone di Sofocle è considerata la tragedia dei contrasti tra Antigone e Creonte.
La tragedia è dedicata alla so erenza per una legge ingiusta: Antigone piange la morte del
fratello Polinice, caduto in battaglia contro l’altro fratello Eteocle per la riconquista del trono di
Tebe dopo l’abbandono del loro padre Edipo; Antigone chiede la sepoltura del corpo dello
sventurato fratello ma Creonte, fratello della loro madre Giocasta, ne vieta l’esecuzione avendo
egli combattuto contro Tebe. È forse il primo esempio letterario di scontro tra le ragioni del
diritto ed i sentimenti, tra la legge e la coscienza, tra il diritto positivo e quello naturale, il
primo riconosciuto dallo stato ed il secondo appartenente all’intima consapevolezza della
persona.
Importante è l'analisi di Hegel che vede fra i due personaggi un contrasto tra due istituzioni:
quella più arcaica, della famiglia, dei vincoli di sangue e delle leggi non scritte, rappresentata da
Antigone; e quella più moderna dello stato e delle leggi scritte rappresentata da Creonte.
Tra i doveri della famiglia vi è la vendetta e dare onorata sepoltura ai consanguinei, ma queste si
scontrano inevitabilmente con lo Stato che deve dare leggi scritte per far sì che tutti siano uguali.
Molti critici hanno sottolineato lo scontro tra libertà e tirannide che è visibile in questo passo
tradotto in cui Antigone si oppone alla legge dello Stato per a ermare i suoi valori e opporsi
contro un'ingiusta tirannide. Bisogna comunque ricordare che né Creonte , né Antigone sono del
tutto negativi o positivi, ma anzi essi sono molto simili tra loro, caparbi, intolleranti, non disponibili
verso le idee degli altri.

- EURIPIDE (Supplici, 403-408): Le «supplici» sono le madri dei sette condottieri argivi morti nel
fallito assalto a Tebe. I Tebani hanno lasciato i loro corpi insepolti; le donne allora, guidate da
Adrasto, il re di Argo, giungono a Eleusi per chiedere a Teseo, re di Atene, l’aiuto
necessario a riavere quei cadaveri, per poterli onorare con la sepoltura. Etra, madre di
Teseo, intercede per loro e riesce a ottenere dal glio un impegno in tal senso. Giunge nel
frattempo un araldo tebano. Questi intima a Teseo di non intrometterei negli a ari di Tebe. Il
sovrano, forte dell’appoggio dei cittadini, ribatte che la legge panellenica impone di onorare i
morti, chiunque essi siano. Fra le due città è dunque rottura e si va alla guerra. La battaglia si
conclude con la vittoria ateniese e la restituzione dei cadaveri alle madri. Conclude il dramma la
comparsa ex machina di Atena. La dea fa giurare all’argivo Adrasto l’eterna riconoscenza della
sua città nei confronti di Atene e predice, inoltre, la prossima caduta di Tebe. Euripide, nelle
Supplici, cos fa parlare Teseo all’araldo tebano: “qui non comanda un solo uomo: la citt
libera! Il popolo sovrano; tutti i cittadini a turno di anno in anno tengono il governo; nessun
vantaggio dato al denaro, ma il povero e il ricco godono gli stessi diritti” Dunque, Teseo
difende con passione la democrazia, proclamando che la libert consiste anzitutto nella
possibilit concessa a tutti i cittadini di esporre liberamente il proprio pensiero. Nella
tragedia Le Supplici la vicenda delle madri dei caduti di Tebe che, sotto la guida di Adrasto, si
rivolgono al sovrano ateniese Teseo per ottenere i corpi dei gli, permette a Euripide di
sviluppare il tema dell’elogio della città. Atene è infatti presentata come il baluardo di ogni
libertà, la patria ideale dove regnano sovrani la giustizia e il rispetto delle leggi umane e
divine. Appare quindi evidente l’intenzione di Euripide di dimostrare la superiorità della
democratica Atene sull’oligarchica Sparta.

LATINO
Dopo l’instaurazione del principato, la vita intellettuale diventa sempre più condizionata e
controllata dal potere politico. La dipendenza dei letterati da personaggi socialmente,
economicamente, politicamente in uenti ed autorevoli era stata già rilevante in epoca
repubblicana. Sotto l’impero tuttavia diventa ancora più stretta e vincolante in conseguenza del
fortissimo accentramento della gestione del potere nelle mani dell’imperatore: ne consegue
una drastica riduzione di quegli spazi di libertà e di autonomia che prima si aprivano nel quadro
complesso e variegato della vita politica, sociale e culturale.
In questo senso, la storia della libertà nel mondo classico è storia della sempre più
consapevole negazione della libertà




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- SENECA: La libertà per Seneca, quella vera, è dentro di noi e nessuno può
comprimerla: nella sapienza, nel disprezzo del nostro corpo caduco è la libertà più
sicura. Se sapremo rivolgerci a cose più grandi della schiavitù del corpo, conquisteremo
la libertà interiore, diventeremo possesso di noi stessi. “Mi domandi quale sia la strada
per andare verso la libertà? Una qualsiasi vena del tuo corpo”. Spesso si parla di libertà e
schiavitù metaforicamente, in senso morale.
- Seneca parla ampiamente della libertà nelle Epistulae ad Lucilium: così , ad esempio nella
lettera 90 si legge che «la lussuria ha reso l’anima schiava del corpo e l’ha asservita al suo
piacere» (§ 19), e nella 92 che «nessuno che sia schiavo del corpo è libero» (§ 33). La tendenza
è a concepire la libertà e la schiavitù morali come la vera libertà e la vera schiavitù. Seneca
ripropone il famoso paradosso stoico per cui solo il saggio è veramente libero mentre tutti
gli altri sono schiavi: la saggezza, infatti, è per lui la sola libertà e in forza di ciò non c‟è dubbio
che per lui uno schiavo o un liberto possono essere più liberi degli uomini liberi: “La saggezza è
aperta a tutti; tutti abbiamo la nobiltà su ciente per aspirarvi. La loso a non respinge né
sceglie nessuno [...]. Platone a erma che non c’è nessun re che non tragga le sue origini da
schiavi e nessuno schiavo che non derivi da re. Un lungo alternarsi di vicende ha mischiato
queste condizioni sociali, e la fortuna le ha capovolte a suo capriccio. Chi è nobile? Colui che è
stato ben disposto dalla natura alla virtù. [...] Non è la casa piena di ritratti anneriti dal tempo che
rende nobili. [...] È l’animo che ci rende nobili: da qualunque condizione sociale esso può
sollevarsi al di sopra della fortuna. Supponi che tu non sia cavaliere romano, ma un liberto:
potresti tuttavia ottenere di essere il solo libero fra coloro che sono nati liberi» (Ep. 44, 3-6)”.
- (epistulae ad Lucilium 70, 14-15) La ri essione sulla libertà scivola lentamente sulla questione
del suicidio e sull’opportunità, per il saggio e per l’uomo in generale, di ricorrervi quando è
schiacciato dalla fortuna. Andando oltre la posizione dello stoicismo tradizionale, che
ammetteva il suicidio solo se guidato da un’intenzione razionale, come atto di libera scelta di
un uomo libero per de nizione, Seneca lo esalta invece come gesto estremo di libertà: se
l’esistenza umana è costrizione, se il corpo è il ‘carcere’ dell’anima, ognuno di noi, per sottrarsi
all’oppressione della vita, può, anzi deve scegliere la morte. 14) Invenies etiam professos
sapientiam qui vim a erendam vitae suae negent et nefas iudicent ipsum interemptorem sui
eri: exspectandum esse exitum quem natura decrevit. Hoc qui dicit non videt se libertatis viam
cludere: nihil melius aeterna lex fecit quam quod unum introitum nobis ad vitam dedit, exitus
multos. [15] Ego exspectem vel morbi crudelitatem vel hominis, cum possim per media exire
tormenta et adversa discutere ? Hoc est unum cur de vita non possimus queri: neminem tenet.
Bono loco res humanae sunt, quod nemo nisi vitio suo miser est. Placet? vive: non placet? licet
eo reverti unde venisti14) Troverai anche uomini che hanno fatto professione di saggezza e
sostengono che non si debba fare violenza a se stessi; per loro il suicidio è un delitto: bisogna
aspettare il termine ssato dalla natura. Non si accorgono che in questo modo si precludono la
via della libertà? Averci dato un solo ingresso alla vita, ma diverse vie di uscita è quanto di
meglio abbia stabilito la legge divina. 15) Dovrei aspettare la crudeltà di una malattia o di un
uomo, quando posso invece sottrarmi ai tormenti e stroncare le avversità? Ecco l'unico motivo
per cui non possiamo lamentarci della vita: non trattiene nessuno. La condizione dell'uomo
poggia su buone basi: nessuno è infelice se non per sua colpa. Ti piace vivere? Vivi; se no, puoi
tornare da dove sei venuto. L’idea concettuale del passo è il suicidio come a ermazione
suprema di libertà: un’opzione sempre praticabile per l’uomo, che in ogni momento può così
facilmente sottrarsi allo strapotere della sorte e alle avversità della fortuna.
Epistulae ad Lucilium 12, 10 “ Patent undique ad libertatem viae multae, breves faciles. Agamus
deo gratias quod nemo in vita teneri potest: calcare ipsas necessitates licet” Sono spalancate da
ogni parte molte strade verso la libertà, brevi, facili. Rendiamo grazie a dio perché nessuno può
essere trattenuto in vita: è possibile calpestare addirittura le necessità.
De providentia 6,7 (discorso pronunciato dal Dio agli uomini) “Ante omnia cavi ne quis vos teneret
invitos: patet exitus. Si pugnare non vultis, licet fugere. Ideo ex omnibus rebus quas esse vobis
necessarias volui nihil feci facilius quam mori. Prono animam loco posui: trahitur. Attendite modo,
et videbitis quam brevis ad libertatem et quam expedita ducat via. Non tam longas in exitu vobis
quam intrantibus moras posui; alioqui magnum in vos regnum fortuna tenuisset, si homo tam tarde
moreretur quam nascitur” Innanzitutto ho provveduto a che nessuno vi trattenga contro la vostra
volontà: la porta è aperta. Se non volete combattere, potete fuggire. Quindi tra tutte le cose che
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ho voluto che fossero per voi inevitabili, non ho fatto nessuna più agevole del morire. Ho collocato
l’anima in un luogo in discesa: viene trascinata. Basta solo aspettare, e vedrete quanto breve e
quanto agevole sia la strada che conduce alla libertà. Ho posto alla vostra uscita ostacoli non
lunghi così come all’entrata; altrimenti la fortuna avrebbe avuto un grande potere su di voi, se
l’uomo morisse così lentamente come nasce.
De brevitate vitae (5, 1-3): In un’epistola ad Attico, Cicerone lamenta che gli impegni politici lo
privino della sua libertà: la colpa era sua che non riusciva a distaccarsene; il saggio, invece, non
potrà mai essere privato della libertà, in qualsiasi condizione si trovi. Nel proporre la vicenda
di Cicerone come esempio di occupatio, Seneca ricorre a un tono più critico e meno conciliante
di quello adottato nel caso di Augusto, espropriato del tempo libero per il bene comune. La
rappresentazione dell’oratore, in balia delle vicissitudini politiche e fondamentalmente
incapace di guidare la res publica in un momento di grave di coltà, è in linea con il giudizio
poco edi cante di Cicerone che si era di uso sotto il principato
- metafora mare in tempesta: All’inizio del paragra la condizione di Cicerone, in balia di
personaggi ostili e ambigui, viene illustrata attraverso una metafora “marinara”: la vicenda di
Cicerone è quella del marinaio “sbattuto” da una parte all’altra, mentre i “poli” tra cui Cicerone
è sballottato sono rappresentati dai nomi dei suoi nemici (inter Catilinas Clodìos ...
Pompeiosque et Crassos). Subito dopo la metafora marinara, segue l’immagine di Cicerone
“timoniere”, che trattiene la res publica “dall’andare a fondo”. Le istituzioni sono dunque
implicitamente paragonate a una nave, che Cicerone faticosamente guida nel mare
tempestoso: l’immagine della tempesta, applicata alle vicissitudini politiche, risale al poeta
greco Alceo (VII/VI secolo a.C.) ed è ripresa più volte sia nella letteratura greca e latina (celebre
l’ode I, 14 di Orazio)
- Cicerone come anti-sapiens: L’atteggiamento di Seneca verso Cicerone è piuttosto critico, in
linea con una certa immagine dell’oratore, lamentosa e poco dignitosa, che si di use a
partire dall’età augustea; a Cicerone vengono attribuite qualità opposte a quelle che
caratterizzano il saggio stoico: al par. 1, viene de nito nec secundis rebus quietus nec
adversarum patiens (“inquieto nella prosperità, incapace di sopportare le avversità”), privo cioè
della calma e della fermezza tipiche del sapiens. Di segno negativo anche il suo rapporto
con il tempo, espresso nella lettera menzionata al par. 2: et priorem aetatem complorat et de
praesenti queritur et de futura desperat “con cui compiange la vita passata, si lamenta di quella
presente e dispera di quella futura”); Cicerone risulta dunque privo di quella capacità di
valorizzare il presente che al saggio non deve mai mancare.
- Semiliber: Ma il termine che sintetizza la condizione esistenziale di Cicerone e che
maggiormente segna la distanza dal sapiens è l’aggettivo semiliber “mezzo schiavo” o “libero
a metà”. Questo aggettivo evoca, per il losofo, una situazione inaccettabile da parte del
saggio la cui libertà interiore non può essere limitata da niente e da nessuno.

LUCANO (Bellum civile): Il Bellum civile o Pharsalia ha ben tre personaggi principali: Cesare,
Pompeo e Catone. Cesare è il tiranno sanguinario e violento (forse metafora di Nerone), che per
avidità di potere ha scatenato una guerra civile ed ha prodotto distruzione e rovine. Pompeo,
nella prima parte dell’opera, viene presentato come un personaggio non dotato di eccezionali
virtù, anzi come un uomo incerto e debole, mentre nella seconda parte invece viene presentato
come il cittadino romano difensore delle istituzioni repubblicane e della libertà. Eppure il poeta
non si abbandona alla completa esaltazione del personaggio e ciò perché Lucano sapeva che se
il vincitore fosse stato Pompeo, avrebbe occupato da solo il potere e avrebbe imposto un regime
tirannico come quello degli imperatori che vennero dopo, e di Nerone in particolare. In verità è
Catone a essere il vero “eroe” dell’opera è a rispecchiare il pensiero di Lucano. Catone diventa
dunque il vero portavoce del poeta e, soprattutto, in lui si incarnano il valore della libertà e lo
spirito eroico di salvaguardia delle istituzioni repubblicane. In lui Lucano realizza l’ideale del
sapiente stoico, dell’uomo che lotta per la libertà no al suicidio, che avrebbe rappresentato
uno dei momenti più alti e signi cativi del poema. L’opera si presenta come il racconto di un
evento funesto (la guerra civile) perché narra la caduta della Libertas repubblicana che coincide
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per Lucano con la ne della grandezza di Roma. (Pharsalia, 2, vv. 380-391) “Hi mores, haec duri
inmota Catonis secta fuit, servare modum nesque tenere naturamque sequi patriaeque inpendere
vitam nec sibi, sed toti genitum se credere mundo” [...] Urbi pater est Urbique maritus, iustitiae
cultor, rigidi servator honesti, in commune bonus; nullosque Catonis in actus subrepsit partemque
tulit sibi nata voluptas”. Questi i costumi, questa la linea immutabile di condotta del duro Catone:
conservare la misura, rispettare i limiti, seguire la natura, spendere la vita per la patria e ritenere di
non essere nato per sé ma per il mondo intero. per l’Urbe padre e per l’Urbe marito, amante della
giustizia, custode della rigida onestà, integro nell’interesse di tutti; in nessun atto di Catone si
insinuò e ottenne una parte il piacere rivolto solo a se stesso. Il passo di Lucano in cui viene
descritta la gura di Catone si può confrontare con il passo di Seneca, De providentia 2, 9-11,
relativo all’eroe o suicidio dell’uticense “Catone ha un luogo attraverso cui uscire. Con una mano
sola, larga strada spalancherà alla libertà. Questo ferro, anche durante la guerra civile puro ed
innocente, opere buone nalmente compirà e degne di fama; la libertà, che non è stato in grado di
dare alla patria, la darà a Catone”.
- CICERONE (De Republica): Cicerone rappresenta, senza esagerazioni, la più insigne voce latina
esaltatrice della libertà: la sua straordinaria capacità oratoria gli fornì gli strumenti per
ammantare di uno splendido drappeggio di parole quell'ideale che animò tutta la sua azione
politica e lo condusse alla morte, per aver difeso la libertà repubblicana contro Antonio:
Leopardi de nì le orazioni Filippiche, che procurarono a Cicerone l'odio di Antonio e la
conseguente morte, "l'ultimo monumento della libertà antica". Nella poliedrica attività di
Cicerone la libertà ha un ruolo centrale: l'amore per la libertà, e il congiunto odio per la
tirannide, è l'ideale politico che lo anima, anche se egli concepisce la libertà secondo gli
schemi ormai vetusti del partito ottimate; l'amore per la libertà lo porta però a trascendere i
limiti storici e politici della sua persona e gli fanno celebrare la libertà universale come forza
motrice della vita e della storia. Nella sua visione esistono diverse sfere di libertà,
corrispondenti agli ambiti in cui si estrinseca la vita dell'uomo. Nell'ambito etico, egli elogia la
libertà dalle passioni, "per la quale gli uomini magnanimi devono lottare in ogni modo" (De
o ciis I,20); questa libertà, che consente all'uomo di elevarsi al di sopra delle bassezze e degli
appetiti che lo accomunano alle bestie, deve essere coltivata dall'uomo politico, perché solo
essa può procurargli la gloria. Nell’ambito politico, la libertà risiede nel popolo ed è uno degli
elementi costitutivi della res publica, unitamente alla potestas nei consoli e all'auctoritas
nel Senato. Così egli de nisce il tribunato della plebe "guardiano e difensore della libertà" (De
lege agraria II,15) e difende come "garante della libertà" (De oratore II,199) l'istituto della
provocatio, che consente al cittadino di appellarsi al popolo. Nella sua opera politica più
importante, il De Republica, Cicerone muove dalle teorie politiche greche, in particolare di
Platone e Aristotele, alle quali a anca però l'esperienza politica romana, che giudica
superiore, perché tratta dalla e ettiva realtà politica. In quest'opera fornisce la famosa
de nizione di res publica come res populi, ma aggiunge che "non si può de nire però popolo
ogni moltitudine di uomini riunitasi in un modo qualsiasi, bensì una società organizzata che ha
per fondamento l'osservanza del diritto e la comunanza di interessi" (I,25). Riprendendo
l'argomentazione polibiana, egli ritiene che né monarchia, né aristocrazia né democrazia
possano essere ottimi regimi politici, in quanto propensi a degenerare bruscamente e a
tramutarsi nei corrispettivi regimi corrotti rappresentati dalla tirannide, dall'oligarchia e dalla
demagogia (I,28). Solo una forma di governo mista, come quella romana, che risulti "dalla
fusione e da un saggio temperamento" delle tre forme può assicurare stabilità e buon governo.
La vera libertà deve dunque essere aequa e consiste nella populi potestas summa. Da
questa condizione di uguaglianza tra tutti i cittadini discende l'autogoverno della repubblica:
"un popolo libero sceglierà da sé gli uomini cui a darsi" (I,34).
- TACITO: La storiogra a di Tacito è caratterizzata da un tenebroso moralismo che si traduce in
una visione pessimistica della vita e della storia. Tuttavia non bisogna dimenticare che la
storiogra a tacitiana è quella “senatoria”, di un ceto che si era visto escluso dal potere nella
nuova realtà del principato. Tacito è lo storico della libertà perduta, ma della libertas di pochi
legati al privilegio, di quell’aristocrazia oppressa dal potere imperiale. Egli resta legato all’idea
del principato come necessità storica per creare una salda e unitaria compagine statale che
dia pace e stabilità. Quando si accinse a comporre le Historiae Tacito riteneva che fosse
possibile conciliare l’impero con la libertas, a condizione che il principe fosse illuminato
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(Nerva e Traiano sembravano avere le caratteristiche dell’optimus princeps). Principatus e
libertas sono conciliabili idealmente, ma durante la composizione dell’opera, lo storico maturò
un nuovo convincimento politico, che lo portava a vedere il principato illuminato come una
contraddizione in termini: la libertas garantita dall’imperatore era solo apparente, perché in
realtà i cittadini non avevano alcun potere decisionale. Lo spirito di libertà è per lui il sentimento
umano più ero e più alto ad un tempo, che unisce gli uomini al di là dei con ni geogra ci.
Nell’elogio del suocero Agricola traspare la sua ammirazione per i barbari i quali combattono
eramente per la loro libertà e per quella della loro terra: in particolare il capo dei Caledoni,
Calgaco che de nisce i suoi uomini "gli ultimi della terra e della libertà" (Agricola XXX,4).
“Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; in ne, dove hanno
fatto il deserto, quello lo chiamano pace” “concupiscunt, auferre trucidare rapes falsis
nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”. Invece nei primi tre
capitoli dell’Agricola Tacito chiarisce il proprio punto di vista sulla situazione politica che Roma
stava vivendo, dopo l’elezione di Nerva a princeps e la ne della tirannide domizianea. In
questo senso l’espressione nunc demum redit animus (3, 1) riassume il concetto centrale, in
quanto sottolinea l’entusiasmo per il nuovo corso, caratterizzato dalla capacità di Nerva di far
convivere due cose, la libertà e il Principato (miscuerit… princpatum ac libertatem) che per
molto tempo erano parse inconciliabili .Con il termine libertas infatti lo storico intende la libertà
di parola e di pensiero dei senatori (libertatem senatus, 2, 2) riguadagnata dopo quindici anni
(l’epoca di Domiziano) passati nel silenzio (per silentium venimus, 3, 2).

ITALIANO
- DANTE (Canto I Purgatorio): Dante annuncia che l'argomento della nuova cantica, dopo la
drammatica visita all'inferno, sarà più elevato: canterà il secondo regno dell'Aldilà in cui le
anime si puri cano per salire a Dio. Invoca quindi l'aiuto delle muse, prima tra tutte Calliope
dal bel canto. La prima gura che Dante incontra è Catone, custode del purgatorio: Marco
Porcio Catone, detto l'Uticense, nato nel 95 A.C., dopo aver osteggiato la tirannide di Silla,
aver combattuto contro Catilina insieme a Cicerone, essersi opposto inutilmente al primo
triunvirato, scelse di parteggiare per Pompeo contro Cesare, che minacciava l'istituzione
repubblicana, ma, dopo la scon tta di Pompeo ed il trionfo di Cesare si uccise a Utica nel 46
A.C. Quindi Catone è pagano, e per giunta suicida, eppure Dante fa di lui un'anima che sarà
beata, a dandogli il ruolo impegnativo ed elevato di custode del Purgatorio. Catone dedicò
tutta la sua vita all'impegno politico, non ne a se stesso, ma in difesa delle libertà
repubblicane. Questo suo comportamento e queste sue scelte, spesso di cili e dolorose,
furono sempre in accordo con le sue convinzioni loso che di stoico: lo stoico crede
nell'immortalità dell'anima, ed è disposto a sopportare qualsiasi so erenza, sica e morale, per
realizzare i suoi ideali, ma se non ci riesce, sceglie il suicidio. Quindi il suo suicidio può essere
considerato da Dante un esempio di fortezza morale. Inoltre Dante sceglie Catone perché in
possesso di tutte le caratteristiche che ne fanno una straordinaria " gura" di Cristo, perché
sceglie il martirio per riscattare Roma dalla schiavitù di Cesare, come Cristo si sacri cò per
riscattare l'umanità dalla schiavitù del peccato. “Libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi
per lei vita ri uta. Tu'l sai, chè no n ti fu per lei amara in Utica la morte, ove lasciasti la vesta
ch'al grandì sarà sì chiara" (sono le parole rivolte da Virgilio a Catone per presentargli Dante
come “cercatore di libertà”, ricordandogli la sua stessa esistenza completamente dedita alla
lotta per la libertà)
- FOSCOLO (“ultime lettere di Jacopo Ortis”): “Ma l' unica amma vitale che anima ancora
questo travagliato mio corpo, è la speranza di tentare la libertà della patria”. Si tratta di un
romanzo epistolare, una Raccolta di lettere scritte dal giovane Jacopo Ortis all’amico
Lorenzo Alderani: la narrazione della vita di un personaggio che è l'alter ego del Foscolo. Esso
riprende il romanzo di Goethe, "I dolori del giovane Werther", a cui Foscolo ha saputo
aggiungere originalità e valore di carattere storico e politico. I temi principali che troviamo sono
quelli propri del Foscolo: l’amore, la politica, la morte. È una protesta contro la tirannide
politica, del costume e della morale borghese, ma anche contro la tirannide della vita,
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dominata dalla morte e dal dolore, che solo l’amore e la passione sanno rendere meno
grave. La passione politica, entra in crisi dopo la delusione per il Trattato di Campoformio
(cessione di Venezia all’ Austria), con il quale crollano gli unici ideali che davano giusti cazione
alla vita del Foscolo: quella libertà che viene negata da Napoleone spinge l’autore ad
un’appassionata difesa della patria e dell’identità nazionale, un’eroica smania di azione per
cambiare lo stato delle cose. La passione politica dunque col suo fallimento, mette in evidenza
da un lato i rapporti negativi con il potere e dall'altro il desiderio di un'Italia che avrebbe potuto
essere uni cata proprio alla luce delle idee di use dalla Rivoluzione francese e dagli entusiasmi
suscitati dalle imprese di Napoleone. Jacopo Ortis, è un giovane Veneziano di buona
famiglia, che deve lasciare la città dopo che essa è stata ceduta all'Austria con il trattato
di Campoformio sottoscritto da Napoleone, e deve cercare rifugio, trovando sui colli Euganei
in una sua proprietà. Qui si invaghisce di Teresa, ormai già promessa sposa al marchese
Odoardo, contro la volontà della madre. L'amore di Jacopo è contraccambiato, ma Teresa
non vuole disubbidire alle disposizioni di suo padre che venuto a sapere della loro
"relazione" cerca di persuadere il giovani Veneziano ad allontanarsi dai colli Euganei. Così,
senza nemmeno un saluto, Jacopo parte e viaggia per l'Italia sperando di distogliere il suo
pensiero da Teresa, ma invano; la vicenda si conclude con il suicidio di Jacopo Ortis che
non è negazione della vita, ma è, nella concezione al eriana, l’a ermazione di una
suprema libertà interiore che appare come la più alta forma denuncia contro la società del
tempo.
- PIRANDELLO (“Il fu Mattia Pascal”): “ il salto che spiccai dal vagone mi salvò ( . ) la mia
liberazione, la libertà di una vita nuova! ( . ) Ero morto, ero morto: non avevo più debiti, non
avevo più moglie, non avevo più suocera: nessuno! Libero! Libero! Libero! ( . ) Avrò cura della
mia libertà: me la condurrò a spasso per vie piane e sempre nuove ( . ) andrò in cerca di belle
vedute, di ameni luoghi tranquilli”. Il protagonista, Mattia Pascal, vive in un piccolo paese in
Liguria, “intrappolato” tra la misera condizione sociale (bibliotecario) e una famiglia che
non ama. Per fuggire da tutto questo, Mattia lascia il paese di nascosto, ma una clamorosa
vincita alla roulette di Montecarlo e la notizia della sua morte cambiano il corso della sua
vita: egli è nalmente libero da quella orribile trappola che lo imprigionava. Nonostante
inizialmente si senta libero, il protagonista prova ben presto un senso di solitudine e di
precarietà, in quanto gli mancano quelle certezze che prima disprezzava: la casa, la moglie, il
piccolo paese. Essere libero, infatti, signi cava essere estraniato completamente, essere
“forestiere della vita”. Decide quindi di crearsi una nuova identità diventando Adriano Meis:
in questo modo deve mutare il suo aspetto, costruirsi una maschera ed essere così
nuovamente dentro una trappola. Non sopportando più i limiti di questa falsa libertà decide di
tornare al suo paese ma si accorgerà di non poter più rientrare nella sua vecchia identità.
L’errore del protagonista, secondo Pirandello non consiste dunque nell’aver scelto la
libertà, ma nel non essere stato capace di viverla pienamente e di essersi creato una
nuova identità falsa, e, quindi, ancora più costrittiva e limitante.

INGLESE
- ORWELL (“1984”) = La libertà è un peso gravoso, un fardello molesto e ostico, troppo
ingombrante per portarlo sulle spalle, ancor più scomodo per la coscienza. Il pensiero è padre
della libertà. Massa priva della facoltà tracotante e meravigliosa della ribellione, al contrario,
schiava dei dettami insensati della società, soggiogata dalla bruta tirannia delle idee, devota
all’ortodossia che calpesta l’arbitrio impudente e zittisce il grido lancinante dell’eresia. La libertà è
sacrilega, blasfema, esecrabile.
Così George Orwell, nel suo capolavoro “1984”, delinea il ritratto di una società completamente
sottomessa, in cui è ormai impossibile far nascere un sentimento di rivoluzione e ribellione.
Il Grande Fratello, tiranno del regno dell’Oceania e assimilabile al le gure di Stalin e Hitler,
controlla ogni minimo movimento dei suoi sudditi per non concedere loro la possibilità di pensare,
per plasmare le loro menti, inducendole alla devozione nei confronti del “Partito”, unica fazione
politica presente in quel regno.
“Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato.”
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Non esiste memoria nel continente dell’Oceania, la Storia è cancellata, e anche la di usione di
una “neolingua” ha lo scopo di ridurre all’essenziale l’articolazione di un pensiero, modi cando L”
autentico signi cato delle parole. In questo contesto la gura di Winston Smith si pone come
paladino della verità. Egli è consapevole delle misti cazioni in cui è tenuta gran parte della
popolazione: dunque come forma di ribellione sceglie di scrivere un diario, in cui riunisce la
critiche al partito e che simboleggia la propria manifestazione di libero arbitrio e libero
pensiero perché non controllata dalla propaganda e dal governo. Alla ne il protagonista
viene condotto dalla spia del partito O’Brien nella famosa stanza 101, in cui è costretto ad
a rontare la sua paura più grande: i topi. Così il partito riesce a far in modo che il protagonista
rinneghi tutti i propri valori e denunci la donna amata, Julia.

FILOSOFIA
Il tema della Libertà, e con esso indistintamente quello della Necessità, hanno attraversato la
storia del pensiero e della loso a proponendo innumerevoli visioni ed interpretazioni:
per Libertà si intende la condizione antropologica per cui un individuo può decidere di pensare,
esprimersi ed agire senza costrizioni di alcun genere e ancora più speci catamente, la Libertà può
de nirsi, negativamente, come assenza di ogni costrizione, e positivamente, come la condizione
di chi può pensare e fare ciò che vuole. Il termine Necessità, invece, rimanda ad un principio,
generalmente meta sico, che governa gli enti esistenti nel cosmo compreso l’uomo, e ne
determina la loro stessa esistenza secondo un nesso di causa/e etto, che in loso a si chiama
Determinismo. In tal senso, la Necessità è la condizione corrispondente all’impossibilità, assoluta
o relativa, di qualsiasi scelta e quindi di libertà.
Partendo dalla Filoso a Moderna, il problema della libertà non è più teologico, come lo era nella
loso a medievale, ma diviene antropologico e, sulla scia del Razionalismo di CARTESIO, la
libertà nisce per consistere nell’uso metodico ed organizzato della propria ragione. Tra i
cartesiani, spicca poi SPINOZA, che con la sua loso a meta sica approda alla totale negazione
della Libertà a favore del trionfo della Necessità: il modello spinoziano, ammette un ordine
geometrico determinato dalla Sostanza in sé, letta ed interpretata meta sicamente e come
Sostanza teologica.
Con l’avvento dell’illuminismo, e quindi della loso a di KANT, cambia completamente la
prospettiva della concezione della libertà che non appartiene più al mondo dei fenomeni
sensibili, che restano sotto il giogo della necessità sica e fenomenica, ma a quello che fonda
l’esperienza, al mondo meta sico del noumeno.
Nel mondo empirico e sensibile della realtà fenomenica non esiste la libertà poiché ogni atto è
naturalisticamente condizionato e determinato, su base meccanicistica; tuttavia l‟uomo nel suo
comportamento morale si sente razionalmente responsabile delle sue azioni: quindi se da un lato
la scelta morale implica la necessità, l’impossibilità di sfuggire all’imperativo categorico che ha
valore normativo, in quanto fatto di ragione, dall’altro si deve tuttavia postulare l‟esistenza della
libertà.
I due termini, apparentemente inconciliabili, di libertà e necessità possono invece coesistere nel
concetto di autonomia: nel senso che l’uomo obbedisce ad una legge che egli stesso
liberamente si è dato, in quanto espressione di una volontà universale che lui stesso manifesta.
Dall’istanza kantiana, prende il via il lone ottocentesco nelle sue espressioni idealista e
romantica. Nell’Idealismo la libertà è un dominio della sensibilità che è tratto distintivo
dell’uomo almeno quanto la ragione, e in quest’ottica generale spicca la posizione di HEGEL:
dentro il tutto, e nello speci co dentro lo Stato, che è Necessità politica, la libertà si realizza
solo nel e con il lavoro, poiché tutte le altre dimensioni di esistenza dell’uomo sono e debbono
essere parte e conformi al tutto stesso. Attraverso una chiave di lettura profondamente attuale e
valida in eterno, si vedrà come in Hegel il lavoro è formazione, è educazione, è cultura e più
precisamente è liberazione, all‟interno di uno Stato che in quanto espressione dell’Assoluto
(Necessità meta sica e teologica) è perfezione.
Famosa è poi l’interpretazione della libertà da parte dei maestri del sospetto (Marx, Nietzsche e
Freud): in MARX la più alta espressione della libertà è la lotta di classe. È il lavoratore la gura al
centro del suo sistema loso co, ed è proprio la lotta di classe l’emblema dell’uomo libero, colui
che fa del suo lavoro consapevole l‟espressione dell‟economia e della sua stessa
liberazione, contro ogni Necessità imposta, per no di natura politica.
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In NIETZSCHE la negazione di Dio e di ogni dogma religioso, Necessità teologica, diventa la
condizione in cui l’uomo può a ermare se stesso, la sua vera natura e la propria libertà.
Nell’espressione nietzscheana carica di enfasi per la quale “l’uomo libero è un guerriero” si
riassume tutto il senso della sua trattazione ed il messaggio motivazionale più proprio della sua
loso a.
In ultimo, in FREUD, partendo dal contesto culturale e metodologico della psicoanalisi, lo studio
della psiche dell’uomo, della sua struttura e delle sue di erenti facoltà, condurrà alla teoria
della libertà come illusione. Infatti, la Necessità per Freud è la vita psichica stessa:
l’uomo non può liberarsi mai totalmente dalla propria struttura interiore e dalle sue
caratteristiche inconsce, ed è destinato ad essere e a rimanere “servo di tre padroni” (Super-io,
Es, mondo esterno) mai assolutamente libero.
In ultima analisi gli esistenzialisti come KIERKEGAARD quali cano la libertà come “senso
dell’esistenza” e in particolare per Kierkegaard è strettamente collegata la concetto di angoscia.
L’uomo infatti è destinato ad una vita angosciosa perché posto di fronte a in nite possibilità e
quindi in nte scelte da compiere. Viene de nita come “la più gravosa e necessaria delle
categorie umane” ma al tempo stesso è necessaria per permettere all’uomo di abbandonarsi alla
fede religiosa in Dio, inteso come colui al quale tutto è possibile e che quindi è al di fuori del
vortice angoscioso e incerto dell’esistenza umana terrena.
Altro concetto chiave nella loso a di Kierkegaard è la disperazione intesa come sentimento
riguardo al rapporto dell’uomo con se stesso: l’uomo infatti può “voler essere stesso” e quindi
non giungerà mai all’equilibrio perché nito e insu ciente a se stesso, oppure può “non voler
essere se stesso” e quindi ugualmente urtare con un’impossibilità fondamentale.

ESPORTARE LA LIBERTÀ
Nel libro di Luciano Canfora si narra la storia fallimentare dell'esportazione della libertà
attraverso quattro vicende emblematiche: la politica di potenza di Atene e di Sparta, la campagna
napoleonica, la parabola dell'URSS e il «fondamentalismo umanitario» degli Usa.
Come a erma lo stesso Canfora “le vicende narrate in questi capitoli mettono in luce come il
programma di esportazione di idealità e di modelli politici (libertà, democrazia, socialismo...)
“copra” sempre in realtà esigenze di potenza”.
L’espressione stessa “esportare la libertà” è in realtà una torsione morale, culturale e politica
che consente a uno stato di perseguire una politica egemonica, nascondendosi allo stesso
tempo dietro al titolo di difensore della libertà.
Che la democrazia e la libertà siano “esportabili” in generale e con le armi in particolare è un fatto
che storicamente è estremamente raro. In Europa si ha la falsa percezione che tutto il mondo
possa, se solo si impegnasse a farlo, uniformarsi al modello europeo, ma, evidentemente, non è
così. A livello globale democrazia e libertà sono una merce estremamente rara e le persone
che possono godere dei loro bene ci, il più delle volte, non ne comprendono appieno nè la
portata nè la rarità.
Dati per scontati in Occidente, libertà e democrazia sono praticamente sconosciuti nella
stragrande parte del resto del mondo. Il caso afghano è l’ennesima dimostrazione di come sia
estremamente di cile se non impossibile fare attecchire delle profonde e solide radici
culturali che permettano lo sviluppo della democrazia e della libertà in un paese alieno alla
sua speci cità. In pochi giorni di avanzata talebana il simulacro di Stato democratico afgano è
crollato miseramente, dimostrando ancora un volta che la classe politica e militare locale ha
utilizzato la democrazia e la libertà solo ad uso e consumo dell’Occidente mentre nella realtà non
ha fatto nulla per farne attecchirne le radici all’interno della società afgana. La storia ha
ampiamente dimostrato che “esportare” questo prodotto è molto di cile e necessita, nei rari
casi in cui l’impresa è riuscita, di un impegno gigantesco. Semplicemente bisogna convincersi
che è necessario convivere con la consapevolezza che il “progresso” così come l’Occidente lo ha
concepito e lo concepisce non può penetrare ovunque.
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