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Carlo Ossola, Un surrealismo di irrealtà

 Carlo 1946 è stato professore all’Università di Torino, all’Università di Ginevra, presso il college de
France di Parigi, presso l’Università della Svizzera italiana, a Lugano. Ha diretto la collana “Classici
Treccani“ per la quale curato i seguenti volumi: Dante Alighieri, Commedia (2011), e Alessandro
Manzoni, I promessi sposi, 2012. Su Dante ha pubblicato nel 2012 il saggio Introduzione alla Divina
Commedia. È il presidente del comitato dantesco nazionale.

Carlo Ossola sottolinea che il contrasto totale fra Inferno e Paradiso si configura come antitesi
tra la mimesi terrena e l’armonia, tra il deforme e il deiforme. Tale contrasto è presente anche
sul piano linguistico: nell’Inferno la parola si atrofizza mentre nel Paradiso si rinnova in
molteplici neologismi.

Se il segno della consonanza al divino è l'armonia, delle sfere celesti, dei canti di gloria che sono
intonati nel Paradiso («Qualunque melodia più dolce suona / qua giù e più a sé l'anima tira, /
parrebbe nube che squarciata tona, / comparata al sonar di quella lira / onde si coronava il bel
zaffiro / del quale il ciel più chiaro s'inzaffira»: Par., xXIII, 97-102); il registro della lontananza dal
disegno divino è la dismisura, la disproporzione, la cacofonia dissonante. Si è detto spesso che la
vena tipica dell'Inferno è il realismo: ma siffatto tono è quello che descrive in modo congruo al
reale, che sta quindi accosto all'ordo rerum; mentre in Dante la dannazione varca ogni mimesi
terrena: il suo è il regno del deforme (come il Paradiso sarà quello del deiforme) e dell'abnorme,
tanto dei corpi che della loro parola. Esemplare, al riguardo, è la figura di Nembrot, gigante
informe che ruppe, contribuendo a Babele, l'unità del genere umano e della sua lingua. Da quel
suo «mal coto» (pessimo cogitare) s'è disgiunta ogni sintassi ed egli stesso non è che massa
confusa di membra e di suoni:

La faccia sua mi parea lunga e grossa


come la pina di San Pietro a Roma,
e a sua proporzione eran l'altre ossa;
[…]
«Raphèl mai amècche zabi almi»,
cominciò a gridar la fiera bocca,
cui non si convenia più dolci salmi.
[…]
Poi disse a me: «Elli stessi s'accusa;
questi è Nembrotto per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non s'usa.

Lascianlo stare e non parliamo a voto;


ché così è a lui ciascun linguaggio
come l suo ad altrui, ch'a nullo è noto»
(Inf., XXXI, 58-81)

Se il Paradiso sarà la sede di neologismi che portano nel cuore di una renovatio che fa nuove
anche le parole, le "realizza" (i tanti incielare, III, 97; indiarsi, IV, 28; inluiarsi, intuarsi, inmiarsi, IX,
73, 81; insemprarsi, x, 148; intrearsi, xIII, 57; insusarsi, XVII, 13; infuturarsi, XVII, 98; inventrarsi,
xxI, 84; inmillarsi, xxVIII, 93; ingradarsi, XXIX, 130; indovarsi, xxxIII, 138, etc.); l'Inferno distorce,
squarcia, tronca, strazia l'organo stesso della parola, sì che nulla più appare nemmen del volto:
«che 1 ventre innanzi a li occhi sì tassiepa!» (XXX, 123). Più si discende verso la Caina, più la parola
si screpola in crepitii, vetrifica e scricchia:
Non fece al corso suo sì grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
ne Tamil là sotto 1 freddo cielo,

comera quivi; che se Tambernicchi


vi fosse su caduto, o Pietrapana,
non avria pur da l'orlo fatto cricchi
(Inf., XXXII, 25-30)

Tutto implode, si rinserra, "derealizza", in un "surreale" esibito - appunto - senza narrazione


possibile, come le lacrime che scendendo ghiacciano e cementano gli occhi ai dannati:

li occhi lor, ch'eran pria pur dentro molli,


gocciar su per le labbra, e l’gelo strinse
le lagrime tra essi e riserrolli?
(Inf., xxxII, 46-48)

Il pellegrino stesso partecipa di tale atrofizzarsi della parola: quale un afono parlare da dentro un
sogno che si sogna di sognare, nel quale l'anelito stesso del parlare vaneggia:

Qual è colui che suo dannaggio sogna,


che sognando desidera sognare,
sì che quel ch'è, come non fosse, agogna,

tal mi fec'io, non possendo parlare,


che disfava scusarmi, e scusava
me tuttavia, e nol mi credea fare
(Inf, XXX, 136-141)

L'Infermo è questo: l'emergere, appena, di un fugace tratto, tra la pece, il fuoco, il ghiaccio, il
favillare d'un sol gesto, d'un'ombra, subito serrata «come festuca in vetro» (XXXIV, 12). Non è
teatro di realtà, ma tenebrosa galleria di manichini, dai quali - in un incubo senza fine - si staccano
groppi di parole «smorte e nude» (XXX, 25), e discendono - «mazzerati»1 - al fondo del nulla.

Dopo aver letto con attenzione il brano e riflettuto sui passi riportati svolgi le seguenti consegne
1. Sintetizza le principali informazioni contenute nel brano delineando con chiarezza la teoria
dello studioso.
2. Elabora più ampiamente la tesi dello studioso, facendo leva sulle tue conoscenze e
esperienze di studio e richiamando vicende o personaggi dell’Inferno, versi o intere terzine
utili a sostenere la tesi rappresentata.

1
Inf. XXVIII: mazzerati, cioè gittati in mare; ecco il modo come saranno morti […] (Francesco ad Buti)

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