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Bioetica

Per il fine vita resta solo la disobbedienza civile


Chiara Lalli, 8 febbraio 2023

Il cortile dell’hospice Antea, Roma.

In Italia una legge sul suicidio assistito ancora non c’è. Dovrebbe garantire risposte certe a chi
lo richiede, e non fare differenza tra le persone e i tipi di malattie

Questo articolo è uscito su Parole, un numero di Internazionale Extra che raccoglie reportage,
foto e fumetti sull’Italia. Si può comprare in tutte le edicole e sul sito di Internazionale, oppure
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“Domani durante la conferenza stampa cercate di non piangere”. È il pomeriggio del 15 giugno
2022, siamo a Senigallia e Mario ha deciso che il giorno dopo spingerà un pulsante e morirà.
Non lo possiamo promettere, penso, soprattutto io che sono una piagnona (ma non lo dico, non
dico niente). Mario il giorno dopo spinge il pulsante e muore. Mario era Federico Carboni,
aveva quarantaquattro anni e da dodici era paraplegico dopo un incidente stradale che gli aveva
rotto la schiena. Quel pomeriggio del 15 giugno, poche ore prima, aveva scherzato su come
eravamo vestiti, una maglietta non stirata o la barba da fare. La mattina dopo aveva esaudito
quello che da più di due anni era il suo desiderio: non vivere più così, quasi immobile in un
letto.

Non è stato facile, nonostante fosse un suo diritto grazie alla sentenza 242 della corte
costituzionale di pochi anni prima. Quella sentenza era la risposta al quesito di legittimità
costituzionale sollevato dal tribunale di Milano dopo che Marco Cappato, tesoriere
dell’Associazione Luca Coscioni, aveva accompagnato Fabiano Antoniani in Svizzera. Anche
Fabiano aveva avuto un incidente, anche Fabiano era immobile e a un certo punto aveva deciso
che basta, non voleva più vivere così. Che quella, secondo lui, non era più una vita che
desiderava.

E quando Cappato era tornato in Italia si era autodenunciato, perché secondo un vecchio
articolo del codice Rocco era reato non solo istigare al suicidio ma pure aiutare qualcuno che
aveva deciso per i fatti suoi. Secondo l’articolo 580 del codice penale, sull’istigazione o l’aiuto
al suicidio, “chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero

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ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da
cinque a dodici anni”.

La corte, nel 2019, aveva dichiarato l’illegittimità di una parte di questo articolo, che risale agli
anni trenta, un’epoca indifferente alle libertà personali e precedente agli articoli della
costituzione che proteggono i nostri diritti fondamentali dal 1948. Ne aveva dichiarato
l’illegittimità “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli
articoli 1 e 2 della legge 219 del 22 dicembre 2017 (Norme in materia di consenso informato e
di disposizioni anticipate di trattamento), […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio,
autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di
sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche
che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli,
sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura
pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente
competente”.

Assenza di garanzie

Quindi aiutare qualcuno in determinate condizioni non è più un reato. E oggi siamo un po’ più
liberi grazie alla corte costituzionale – e grazie a Fabiano Antoniani e a Marco Cappato – e non
all’ultima legge discussa in parlamento, che non è stata approvata ed è meglio così.

Il testo di quella legge sul suicidio assistito arrivato in senato avrebbe infatti peggiorato la
sentenza numero 242 senza superarne i limiti, come l’assenza di garanzie sui tempi di verifica
delle condizioni di chi chiede di poter accedere al suicidio assistito e sui tempi delle risposte, e
il fatto che chi chiede il suicidio assistito deve soddisfare il requisito del cosiddetto “sostegno
vitale”, cioè deve dipendere da trattamenti che lo mantengono in vita (Fabiano Antoniani quel
requisito lo aveva e i quindici giudici della corte hanno risposto a questo caso specifico).

“Avrei preferito morire nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia e di mio
marito”

Le conseguenze di quel requisito e di quell’assenza si capiscono meglio con altre due storie:
quella di Elena e quella di Fabio. Elena era “solo” una malata oncologica e non era ancora
arrivata a una condizione in cui avrebbe avuto bisogno di un sostegno vitale, anche nel
significato più ampio che possiamo immaginare, come un farmaco o una Peg, cioè una sonda
applicata chirurgicamente per somministrare le sostanze nutritive direttamente nello stomaco.

Elena non voleva continuare a vivere aspettando i sintomi più invadenti della sua malattia
incurabile. E allora ha scelto di andare in Svizzera perché in Italia non poteva morire,
nonostante quello che dice la costituzione e nonostante la sentenza numero 242. Marco Cappato
l’ha accompagnata, rischiando ancora una volta l’imputazione e anni di detenzione. “Avrei
sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia
figlia e la mano di mio marito. Purtroppo questo non è stato possibile e, quindi, sono dovuta
venire qui da sola”, ha detto Elena.

La seconda storia è quella di Fabio Ridolfi, esasperato dalle mancate risposte e dall’attesa, ha
scelto la sedazione profonda. E non so se scegliere è il verbo giusto, perché Fabio aveva chiesto
alla propria azienda sanitaria di verificare le sue condizioni per poter accedere al suicidio
assistito, proprio come previsto dalla sentenza della corte. Ma nonostante un gruppo di medici

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fosse andato a visitarlo e avesse scritto la relazione, quel documento era rimasto in qualche
cassetto per quaranta giorni.

Il paternalismo è una tentazione irresistibile, anche nelle motivazioni pretestuose della


inammissibilità del referendum sull’eutanasia

Perché? Non si è mai capito se per sciatteria, per qualche paternalistica intenzione o perché la
burocrazia si dimentica che quando aspetti, quando sei bloccato nel tuo corpo immobile da
diciotto anni, quando non ne puoi più ogni ora dura mille volte di più. Fabio aveva il diritto di
morire a casa sua e come voleva lui – spingendo un bottone. Ma per esasperazione ha scelto di
essere addormentato. Per lui è stato uguale, ma per la sua famiglia no. Ed era questa la ragione
per cui aveva insistito e aveva provato ad aspettare. Che poi quelle ore tra la sedazione e la
morte, mi racconta il fratello Andrea, sono state ore strazianti, di spasmi e convulsioni.

Perché? Perché se non ci sono garanzie dei tempi e delle responsabilità, tutto rimane scritto,
ma chissà se sarà applicato. E allora può essere che qualcuno risponda velocemente e non
dimentichi di mandare un documento necessario, ma può pure essere che si sia costretti a
denunciare, a diffidare, a chiedere inutilmente. Ad aspettare per mesi. La legge e i diritti da soli
non bastano. Hanno bisogno della garanzia della loro applicazione e del loro esercizio per non
rimanere solo una vana promessa.

Decisione di merito

Oggi in Italia la legge e i diritti sono chiari. E basterebbe prendere sul serio la costituzione per
concludere che possiamo decidere di morire; o meglio che siamo liberi di decidere e, tra le
decisioni, possiamo smettere di curarci. La legge del 2017 sulle disposizioni anticipate di
trattamento (o testamento biologico), che la corte nomina nella sentenza 242, ha solo rinforzato
la nostra libertà, permettendoci di estendere il consenso informato a un futuro più o meno
lontano.

Ci sono forse degli aspetti moralmente controversi e difficili? Sicuramente, come per esempio
l’accertamento della volontà e delle nostre capacità cognitive, ma quali alternative ci sono? La
libertà è un esercizio che richiede sempre dei prerequisiti e che comporta sempre dei rischi, ma
non è una ragione sufficiente per limitarla o eliminarla.

Il paternalismo è una tentazione irresistibile, e anche nelle motivazioni pretestuose della


inammissibilità del referendum sull’eutanasia (che era stato proposto, tra gli altri,
dall’associazione Luca Coscioni) è emerso come unica e (questa sì, inammissibile) ragione.
Secondo la corte l’abrogazione di quell’articolo – sebbene parziale e con delle condizioni volte
a escludere l’incapacità (per età o per una condizione temporanea o permanente) – era
inammissibile perché con l’abrogazione “ancorché parziale, della norma sull’omicidio del
consenziente […] non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della
vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.

È stata una decisione di merito, che è una fase distinta dal giudizio di ammissibilità dei
referendum. “La valutazione dell’ammissibilità è infatti un passaggio per valutare la
correttezza in virtù delle norme che prevedono un perimetro di ammissibilità dei referendum
popolari che sono abrogativi e non per valutare nel merito e politicamente un quesito”, spiega
Filomena Gallo, avvocata e segretaria dell’Associazione Luca Coscioni.

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Quella decisione, poi, sembra ignorare il quadro normativo attuale e rimandarci indietro di
decenni, quando la libertà individuale non valeva niente e a decidere delle nostre vite era
qualcun altro: lo stato, il medico, il giudice. “È stato molto difficile accettare la decisione di
mio figlio, perché lì per lì quando me l’ha detto, come madre, ti spacca il cuore”, ha detto Rosa
Maria, la madre di Federico Carboni. E nemmeno per Federico è stato semplice. Ci sono voluti
anni e l’ostinazione di Filomena Gallo, denunce e ricorsi. E non dovrebbe andare in questo
modo.

Per proteggere la nostra libertà, una buona legge sul fine vita non dovrebbe poi fare molto:
dovrebbe garantire che quel diritto che l’articolo 32 già ci dà sia davvero garantito (cioè serve
la garanzia delle risposte e dei tempi) e che non ci siano differenze ingiustificabili tra le persone
e le malattie. Perché se sono libera di scegliere, questa libertà non può essere condizionata dal
tipo di malattia e di condizioni – una volta accertate le mie capacità cognitive, cioè la mia
capacità di capire le conseguenze delle mie decisioni.

Una buona legge ancora non c’è, nonostante i molti inviti al parlamento. Ricordiamo che la
corte ha suggerito ancora una volta al parlamento di agire e sono passati altri tre anni da allora.
Una cattiva legge non serve, ovviamente, e anzi sarebbe solo dannosa. E se dal parlamento e
dal legislatore nulla si muove, i cambiamenti verranno dalle disobbedienze civili.

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