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LA LEGGE «SUL BIOTESTAMENTO»

Introduzione
L’Italia ha finalmente una legge sul “testamento biologico”. Quest’espressione implicitamente evocativa della fine della fine
dell’esistenza umana resta tuttora in voga, ed è frequente si parli anche di “legge sul fine vita”. Ma è bene osservare che,
conformemente al titolo ufficiale “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, la legge
219/2017 non riguarda solo la disponibilità delle procedure di sostegno in vita in condizioni terminali e investe invece il rifiuto di
qualunque trattamento sanitario in qualunque condizione clinica.
Più volte negli ultimi 30 anni si è tentato di introdurre una simile legge in Italia. Solo a seguito di vicende particolarmente sentite,
come i casi Welby ed Englaro, quando ormai sembrava impossibile un intervento del legislatore in materia, all’esito della XVII
legislatura, vi fu l’adozione, in data 22 dicembre 2017, della legge 219.
Pur riconoscendone il notevole impatto sia sul piano ideologico che sul piano pratico, l’autore del libro trova il testo della legge di
fattura scadente, segnato da timidezze e da forti incoerenze, costellato di espressioni inutili e di altre equivoche o senz’altro infelici.
I livelli di protezione accordati alla persona del potenziale paziente sono stati scarsamente elevati e sono rimasti poco incisi anche i
problemi degli operatori medici. Si tratta, insomma, di una legge a metà tra la svolta storica e l’occasione mancata.

Capitolo I – Un’impresa pluridecennale

I principi della costituzione – dopo la caduta del fascismo e la fine della Seconda guerra mondiale, i rappresentanti delle forze
politiche e delle correnti ideologiche che avevano concorso nella Resistenza produssero, come è ben noto, una Costituzione
caratterizzata dall’adozione di una politica liberaldemocratica, innovativa sotto quasi ogni punto di vista. Fu una Costituzione laica,
pluralista, solidarista e personalista. La tutela della persona in particolare trovava piena espressione già a partire dagli artt. 2 e 3, ma
soprattutto, ai fini di questo discorso, all’interno dell’art. 32, che ancora oggi così recita:

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli
indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun
caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Queste formule furono frutto di una attenta ponderazione tra differenti esigenze. Tra tutte, particolarmente avvertita era quella di
difendere gli individui in confronto dell’autorità costituita e precludere nefandezze come quelle perpetrate durante gli anni
precedenti, nel nome del progresso della “razza” e della ricerca bio-medica, specialmente in Germania. Occorreva quindi fare senza
negare in radice la possibilità che determinati trattamenti vengano imposti al singolo per esigenze di salute o sicurezza pubbliche: di
qui lo spiraglio lasciato aperto dal secondo comma non certo a qualunque ordine prefettizio o giudiziale, ma a una puntuale
previsione di legge, nel rispetto, in ogni caso, della “persona umana”.
Non altrettanta attenzione ha ricevuto un’altra questione fondamentale, ovvero quella se l’irrinunciabilità del trattamento possa
dipendere dalle indicazioni della medicina, e in particolare se debbano praticarsi anche contro la volontà del malato cure
indispensabili alla sua sopravvivenza. La scelta di omettere nell’art. 32 un riferimento esplicito al rifiuto di terapie può sembrare
oggi gravemente elusiva, compromissoria o ipocrita, ma si trattò all’epoca di una scelta in linea con i valori che si intendevano
affermare: in un sistema pluralista e personalista è necessario coltivare sentimenti di apprezzamento della convivenza e dunque,
tendenzialmente, anche desiderio di guarigione dalle malattie.
La struttura dell’art. 32 è una utile indicazione per comprendere l’enorme fatica con cui si è deciso di adottare una legge sul
biotestamento: fin dagli anni Cinquanta e ancora fino a ieri, l’art. 32 è stato uno spunto fondamentale per supportare tesi illiberali,
quasi sempre di stampo cattolico, atte ad affermare l’idea dell’indisponibilità della vita e della salute in quanto doni di Dio.

Gli esordi della fabbrica: la proposta “Fortuna” (1984) – la scena prende a modificarsi quando, dopo la metà del Novecento,
emergono strumenti (ventilatori artificiali e macchine di respirazione) capaci di salvare vite di pazienti che altrimenti sarebbero
inevitabilmente morti, ma lasciandoli spesso in condizioni di gravissima menomazione.
Nel 1975 è pubblicato un Manifesto sull’eutanasia, sottoscritto da grandi personalità di fama intellettuale, tra cui il premio Nobel
Jaques Monod. Nel 1982 Pietro Rescigno, nell’ambito di un vasto saggio sugli aspetti giuridici della fine della vita umana, segnalò
al pubblico italiano una legge californiana dal significativo titolo di Natural Death Act.
Questi documenti rendono bene il clima nel quale la fabbrica dei progetti di legge prese avvio: se per secoli la fantasia popolare era
stata ossessionata dal terrore della morte apparente, al proscenio saliva adesso la paura della morte impedita, dell’umanità sfigurata
dall’accanimento della scienza.
Nel dicembre del 1984 l’onorevole Fortuna e altri presentarono agli uffici della Camera un testo intitolato “Norme sulla tutela della
dignità della vita e disciplina della eutanasia passiva”. Vi si proponeva di stabilire l’esenzione di tutti i medici dal somministrare
“terapie di sostenimento vitale”, ai pazienti in condizioni “terminali”, salvo che risultasse l’opposta volontà dell’interessato
(ricalcando il c.d. sistema anglosassone dell’opting in). Si trattava di una proposta coraggiosa, seppur incompleta, che non trovò
seguito.

“Dignità” e “difesa” della vita “nello stadio terminale”. La proposta Del Donno (1985) e l’entrata in uso della formula
“testamento biologico” – Il testo Fortuna prefigurava l’onere, per tutte le persone che intendano fruire delle “terapie di
sostenimento vitale”, di far risultare questa loro volontà con una dichiarazione pro-futuro, resa cautelativamente per l’eventualità di
trovarsi un giorno candidati a terapie di quel tipo.
Poco tempo dopo vi fu la presentazione del progetto di legge d’iniziativa Del Donno e altri, intitolato “Norme per la difesa della vita
nel suo stadio terminale”. All’interno dell’art. 4 si prevedeva che “il paziente di propria volontà e nel pieno possesso delle facoltà
mentali può dare disposizioni affinché le terapie di sostentamento vitale non vengano usate o ne venga sospeso l’uso”. Si trattava di
un approccio opposto a quello del progetto Fortuna (ispirato al c.d. sistema anglosassone dell’opting out), essendo necessario che in
questo caso risultasse un rifiuto a riceve i trattamenti. Del Donno proponeva, quindi, che dovesse risultare il rifiuto per mezzo di
una dichiarazione preventiva che, visto il suo carattere preventivo e personale analogo ad un testamento “classico”, veniva indicata
con l’espressione “testamento biologico”.
Lo “stato vegetativo persistente” – già da tempo circolava a quell’epoca l’espressione “stato vegetativo persistente”, atta ad
indicare quel sottogruppo di sopravvissuti a grave danno cerebrali in condizioni di post-coma senza consapevolezza di vigilanza
“separata da sensazioni e pensieri”. La diagnosi si intende comunemente basata sulla mancanza di manifestazioni comportamentali
in risposta a stimoli esterni. La distinzione tra risposte riflesse e risposte intenzionali implica già di per sé dei margini di insicurezza:
per lo più la responsività può essere avversata da farmaci, complicanze di interesse neurologico, squilibri metabolici. Può spiegarsi
con ciò che all’interno della comunità medico-scientifica venga riconosciuta la relativamente elevata frequenza di “sbagli
diagnostici”, mentre con il progresso degli studi appare labile la linea di demarcazione rispetto ad altri stati, di coscienza ridotta o
inespressa.
Quanto alla prognosi, non sembra controvertibile che le probabilità di ripristino dell’autoconsapevolezza diminuiscano
progressivamente: sul piano statistico, esse risultano “trascurabili” decorsi 12 mesi da un danno celebrale traumatico e 3 mesi da un
danno celebrale non traumatico. A partire dagli anni 90’ lo stato vegetativo persistente oltre questo periodo è stato definito
“permanente”, visti i rarissimi recuperi oltre tali limiti (oltretutto spesso legati ad errori di diagnosi).
Si tratta di una scelta terminologica criticabile, poiché “permanente” può indicare l’alta o altissima improbabilità, ma non
“l’assoluta impossibilità” di un ritorno alla coscienza. Non casualmente si è spesso suggerito di adottare altre espressioni meno
impegnative, come “cronico”.
Nella misura in cui tali questioni divengono oggetto di diffusa conoscenza, due effetti si determinano nel dibattito bioetico e de iure
condendo:
-si rafforza il pensiero che sulla prospettiva di un’imparziale valutazione di vanità o sproporzionata protrazione di certe cure debba
prevalere quella di esercizio in via preventiva all’autodeterminazione del paziente;
-avanza l’idea che il giudizio circa la “cronicità” o “irreversibilità” dello stato vegetativo debba essere assoggettato, in ragione del
particolare grado di problematicità, a regole di particolare rigore.

Alle origini nella linea proibizionista – le prime leggi proposte (Fortuna e Del Donno) avevano evitato lo spinoso riferimento allo
stato vegetativo. Se da un lato la proposta Fortuna adoperava il fumoso riferimento alle “condizioni terminali”, dall’altro la proposta
Del Donno, pur senza nominare lo stato vegetativo, tagliava corto, escludendo che potessero formare oggetto di rifiuto
l’alimentazione o altre cure ordinarie che sostentano il malato. Non è un dettaglio insignificante: se i redattori avessero mosso dal
riconoscimento che un generale principio di incoercibilità della persona era già implicito nel quadro costituzionale, non si sarebbero
sentiti intitolati a prevedere tale limitazione. Questo dimostra che la proposta Del Donno non fu concepita come disciplina
dell’esercizio di una libertà inscritta già nel diritto vigente, ma come istitutiva di un diritto soggettivo nuovo.

Sì all’autodeterminazione, ma per finta – il pensiero di matrice religiosa, dell’indisponibilità della salute e della vita, è
rispettabilissimo fin quando chi lo nutra ne faccia o ne facesse la propria linea di condotta, ma è di per sé inidoneo a farsi regola
politico-giuridica. Una simile lettura potrebbe essere coerentemente trasposta in un testo legislativo solo per mezzo dell’assoluta
negazione di uno spazio alla volontà del paziente. Gli indisponibilisti adottarono tuttavia la linea più subdola dell’esclusione della
concessione: se da una legge dovrà risultare la libertà di sottrarsi a cure mediche, sia proibito ogni rifiuto che prelude alla morte del
paziente; se vi è da dubitare di un netto e stabile discrimine fra trattamenti medici vitali e non vitali, si neghi a certe procedure di
sostegno alla vita la sostanza metafisica di trattamenti medici, e sotto tal pretesto la si tenga fuori dalla portata del rifiuto potenziale;
se proprio il rifiuto a qualche trattamento deve essere concesso, gli si riconosca valore solo quando espresso dall’interessato in
presenza di una malattia, e non preventivamente. Il progetto di legge Calabrò, durante l’ultimo governo Berlusconi, incorporò
l’intera collezione di questi meccanismi, ma non fu mai, fortunatamente, approvato.

Timidezze del “fronte laico” – al fuoco di sbarramento indisponibilista si sarebbe teoricamente contrapporre un fronte, contrario e
altrettanto integralista, atto a battersi per la tutela delle libertà dei cittadini. Così fu. Tuttavia, la “parte laica” del Parlamento
rinunciò fin da subito alla possibilità di far evolvere e sviluppare il discorso, lasciando di fatto quest’ultimo nelle mani dei due fronti
opposti, i quali proseguirono nella produzione di testi di bandiera, opposti nelle premesse e nei contenuti, ma accomunati dalla
mancanza di realistiche prospettive di successo.

Dal particolare al generale: verso una legge “sulla relazione di cura” – se oggetto del contendere era la libertà delle cure, il
raggio di incidenza delle successive proposte era destinato inevitabilmente ad accrescersi: non si trattava più di regolare l’uso delle
tecniche di sostegno in vita in condizioni terminali, ma di progettare norme concernenti tutti i trattamenti medici; non si trattava
solo di riconoscere rilievo a dichiarazioni preventive, rese dall’interessato per il caso di trovarsi un giorno, da incapace, candidato a
certe terapie, ma di farsi arbitri del peso che la volontà dell’interessato debba assumere anche quando espressa al personale curante
nell’attualità dell’indicazione medica. I nuovi progetti estesero la loro considerazione a dichiarazioni di rifiuto di trattamenti estremi
che al linguaggio comune avevano già suggerito l’espressione “testamento biologico”. Ciò accresceva la difficoltà dell’impresa.
L’assetto giuridico della materia del rapporto terapeutico risultava, e ancora risulta, non soltanto da disposizioni legislative, ma da
legislativi silenzi, prassi condivise e collaudate nel tempo, regole e modelli di comportamento elaborati dalla giurisprudenza e dalla
deontologia. Facile, in questo contesto, non avere una visione chiara ed essere predisposti a girare a vuoto. L’attenzione dei
progettisti finì così per focalizzarsi su questioni che avrebbe potuto lasciare impregiudicate (su tutte, il trattamento degli incapaci
legali) e su temi del tutto esterni (come la donazione di organi post mortem).

Apprendisti stregoni – già a considerarla sotto aspetti che si usa dire “meramente formali”, la lunga serie dei successivi disegni e
proposte offre molte conferme alla tesi del declino delle assemblee legislative nel nostro tempo e dell’involuzione inesorabile dei
frutti del loro lavoro. Si va dalle semplici ineleganze, ai bisticci con la logica, agli autentici attentati alla lingua giuridica e non.
Ciò che appare soprattutto criticabile è la tecnica legislativa, caratterizzata da un sofferto rapporto con la logica, una scarsa
chiarezza di idee, da un eccesso di rinvii interni. Non ci si può quindi aspettare nulla di buono, specie se si va a considerare che
alcuni disegni recenti sono sfociati quasi nel comico: ad esempio, all’interno dell’art. 7 del disegno Marino (2013) si trova scritto
che in alcuni casi previsti dall’art. 8 si applicano le disposizioni di cui all’art. 8.
Quello che però è forse l’aspetto più preoccupante è dato dalla riproposizione costante dei vari testi legislativi, che è forse il più
preoccupante indizio di stanchezza e ritualità del lavoro progettuale. Tutto ciò è confermato dalla pressoché regolare trasmissione
dei moduli espressivi e interi “blocchi di discorso” tra progetti diversi: non solo tra progetti di ispirazione affine, quindi
internamente agli schieramenti ideologici, ma in più di un caso trasversalmente ad essi. È il profilo linguistico di una vicenda
estenuante, nella quale sembra che il lavoro parlamentare abbia proceduto non per raffinamento, enucleazione di problemi e
chiarimento di idee, ma per irrigidimento di pensieri e per accumulo di carte e parole.

Il fondamento costituzionale della libertà di cure riconosciuto dalla giurisprudenza – mentre in Parlamento si susseguivano le
proposte, controversie sempre meno rare in materia di relazione di cura continuavano a essere gestite dalla giurisprudenza sulla base
della normativa in vigore.
L’idea della naturale corrispondenza delle indicazioni mediche all’interesse del paziente non mancò di ispirare in tale sede gravi
reticenze. Ma con crescente chiarezza, uniformità e persino enfasi, i dicta della Corte costituzionale e della Cassazione riconobbero
il “consenso informato” quale “fondamento” del rapporto terapeutico: con l’evidente implicazione che ai trattamenti offerti dai
terapeuti ci si può sottrarre. All’inizio del nuovo millennio il nesso tra principio di libertà di cure e garanzia costituzionale della
persona appariva insomma sempre meglio acclarato. Forti reticenze e incertezze continuavano a covare rispetto a due situazioni
tipiche, delle quali non si diminuisce l’importanza osservando che non sono frequentissime:
-l’interruzione dei trattamenti in corso necessari alla sopravvivenza;
-la contrarietà a certi trattamenti espressa dal paziente ora incapace anticipatamente;
Due scandali pubblici e tragiche vicende si resero necessari per porre in luce la questione fino in fondo.
Pier Giorgio Welby – la prima è la vicenda di Pier Giorgio Welby, che del tutto immobilizzato nel suo letto di ospedale chiede
formalmente, con i poveri mezzi di voce a sua disposizione, di poter morire. Tale desiderio deve tuttavia attendere migliaia di giorni
prima di poter essere esaudito.
Alla sua richiesta si opponeva il pensiero che interrompere trattamenti in corso, tanto più se essi sono condizione del mantenimento
in vita del paziente, sarebbe contrario a una sorta di statuto deontologico universale della professione medica. L’unica reale
differenza tra il sig. Welby e un paziente che, ad esempio, rifiuta una amputazione salva-vita è che il primo non era in grado di dar
corso alla propria volontà: non si vede per quale ragione la libertà di cure dovrebbe valere per l’uno e non per l’altro. Poco importa
che vi sia una norma nel Codice penale (omicidio del consenziente) che impedisce di dare seguito alla volontà del sig. Welby: la
Costituzione tutela la garanzia della persona e deve prevalere sia sul Codice penale che su una norma deontologica di dubbio
fondamento. Coloro che hanno esaudito il desiderio di Pier Giorgio Welby sono stati sottoposti a violenti attacchi mediatici, ma non
sono stati condannati.

Il caso Englaro – a differenza del sig. Welby, Eluana Englaro era da molti anni in condizioni di incoscienza. Il padre e tutore
chiedeva che si mettesse fine ad alimentazione e idratazione artificiali. Oltre all’obbiezione deontologica già richiamata sopra,
un’altra più grave ragione di perplessità frenava gli operatori e i giudici: la richiesta non proveniva direttamente dall’interessata, ma
da un rappresentante legale. Il caso aveva tutte le caratteristiche per riproporre in termini ultimativi il tema delle disposizioni
preventive: se a rifiutare trattamenti vitali non può essere il rappresentante legale non è da dubitare che possa rifiutarli la persona
direttamente interessata; se va rispettato il rifiuto proveniente attualmente dall’interessato capace, lo stesso deve valere per il rifiuto
espresso dal paziente ora incapace anticipatamente. In linea con la giurisprudenza precedente sul consenso informato e il diritto
all’autodeterminazione, la Cassazione diede atto a Beppino Englaro che la volontà manifestata dal paziente stesso quando era
compos sui non solo giustifica, ma esige che sia posto fine ai trattamenti. La soluzione della Corte potrebbe destare alcuni dubbi, ma
i giudici si mossero come potevano in una situazione determinata da un “vuoto di politica”.
A ragionare in termini di fisiologia dello Stato di diritto, basato sul principio di legalità e sulla separazione dei poteri, la soluzione
giudiziaria del caso indicava una chiara linea di azione: varare finalmente una legge che, sul presupposto del principio di
autodeterminazione, disciplinasse l’espressione anticipata del rifiuto di cure in modo da assicurarne certezza di paternità e di
significato. Inutile dire che un’ampia parte di politica e di opinion makers del Paese ne fece invece l’occasione non solo per
continuare a revocare in dubbio il principio di autodeterminazione, ma per un attacco frontale alla magistratura, tacciata di aver
violato le prerogative del legislatore.
I mesi successivi alla pronuncia restituirono l’immagine di un paese scisso. Camera e Senato giunsero addirittura a presentare
davanti alla Corte costituzionale una questione di conflitto tra poteri dello Stato. La Consulta, supportata da alcune successive
dichiarazioni dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, rigettò la questione, osservando che il legislatore “può in
qualsiasi momento adottare una specifica normativa della materia”.
In questo clima di conflitto, il 6 febbraio 2009, mentre in una struttura di Udine alimentazione e idratazione di Eluana Englaro
venivano interrotte, il Governo approntò un decreto-legge che pretendeva di imporne la prosecuzione. Il Capo di Stato negò la
firma, ma in segno di sfida il decreto fu trasformato in disegno di legge. La sera del 9 febbraio Eluana Englaro morì, di fame e di
sete secondo alcuni, nel tardivo rispetto della sua volontà secondo altri.
L’apertura della Cassazione all’eutanasia (termine ambiguo e spesso abusato) e il caso Englaro in generale restituirono l’immagine
di un paese drammaticamente diviso, incomunicante e inconcludente. Il disegno di legge prodotto dal Governo (disegno Calabrò)
non vide mai la luce per via dell’anticipata conclusione della XVI legislatura. Le vicende determinarono comunque una forte battuta
d’arresto sui lavori legislativi in materia, sia dal fronte dei “pro-vita” sia da quello dei “pro autodeterminazione”.

Lo Stato di diritto sotto attacco – la campagna contro la magistratura in relazione al caso Englaro e la reiterata promozione di una
legge repressiva della libertà di cure possono essere accomunate ad alcune “perle legislative”, su tutte la legge sulla procreazione
assistita del 2004 e quella sulla legittima difesa del 2006, sulla base del comune intento di contraddire la dignità delle persone.
Dietro tutti questi episodi di vita pubblica è dato scorgere né più né meno che l’irrisolto rapporto di una parte cospicua del pensiero
e del sentimento nazionali con la scelta fondativa espressa dall’Assemblea costituente nel 1948: la scelta, per l’appunto, di
istituzioni liberal-democratiche.
La legge sulla procreazione assistita è stata poi più volte censurata di incostituzionalità e quella sulla legittima difesa è stata
interpretata in termini estremamente restrittivi dalla Cassazione. All’esito, come ben sappiamo, la legge 219 ha ribadito ed
esplicitato la libertà di trattamenti sanitari. Sarebbe, tuttavia, ottimistico dire che si sia giunti ad una vittoria con i nemici della
democrazia liberale: il fatto stesso che l’inviolabilità delle persone sia oggetto di continua trattativa, che sempre sia in agenda
qualche scorciatoia, qualche ragione di eccezione o sospensione al riconoscimento di pari dignità, diseduca alla vita politica,
indebolisce il pensiero della convivenza nel rispetto reciproco, contribuisce a disarmare il sentimento di cittadinanza.
Due sentenze sui testimoni di Geova – agli stessi anni risalgono un paio di sentenza della Cassazione in tema di rifiuto anticipato
di emotrasfusioni da parte di aderenti alla confessione dei testimoni di Geova. Si tratta di sentenze apparentemente di segno
contrario alla vicenda Englaro, perché negarono la responsabilità dei medici che si erano risolti nel praticare la trasfusione, in virtù
del fatto che questi avevano dovuto operare senza avere una reale certezza della provenienza della dichiarazione di rifiuto. Le
pronunce in questione davano un’indicazione chiara: il rifiuto anticipato di cure è in linea di principio lecito e vincolante; occorre
che la legge fissi le forme e le procedure capaci di dare alla dichiarazione di rifiuto una pubblica certezza.

Il rifiuto di cure anticipato: obiezioni e problemi – come già accennato, la parte cattolica del nostro paese era solita obbiettare,
contro la libertà di cure, che al rifiuto di terapie indicate non dovrebbe mai annettersi rilievo quando formulato anticipatamente. Il
rifiuto viene reso, infatti, nella prospettiva del venirsi a trovare in una situazione di incapacità. La sopravvenuta incapacità preclude
tuttavia ogni possibile ripensamento e per questo inficia, secondo i cattolici, il valore di ogni dichiarazione preventiva. Altro tema
assai noto e pressoché autoevidente è quello del rischio del difetto di conoscenze mediche o di scarsa padronanza del linguaggio
tecnico: l’autore di disposizioni anticipate di cura potrebbe dichiarare una cosa per un’altra, o designare l’oggetto o le condizioni del
rifiuto con eccessiva ampiezza rispetto all’intenzione, e così trovarsi incapace “prigioniero” di un documento non effettivamente
rispondente alla propria volontà.
Non si può dire che le obbiezioni portate avanti dalla fronda cattolica non fossero in questo caso sensate. Raramente, tuttavia, i
progettisti dei parlamentari del fronte laico vi diedero importanza, preferendo, al contrario, concentrarsi su questioni di contorno.

Disavventure laiche. Rovesciamento del “paradigma di Ippocrate” – in tempi in cui la si accusava di eccesso di protagonismo,
la magistratura aveva dato mostra, con le sentenze sui testimoni di Geova, dell’esatto contrario: di senso di limitatezza delle proprie
attribuzioni. I giudici supremi erano tornati a riconoscere la libertà dei trattamenti sanitari risultante da Costituzione e da fonti
sovranazionali, ma in mancanza di norme ad hoc, le quali stabilissero su quali presupposti a un documento che si presenti come
proveniente dal paziente ora incapace debba riconoscersi calore legale, non si erano spinti a qualificare come illecito il
comportamento dei medici che nell’urgenza avevano eseguito la trasfusione.
Sfumato il disegno di legge Calabrò assieme alla XVI legislatura, nel nuovo Parlamento tutto riprese grosso modo come prima, con
un fronte laico che era tornato a sfornare progetti segnati da incerti e tortuosi percorsi di pensiero. Indicative della tendenza di
questo periodo sono due proposte frequenti:
-la previsione secondo cui, prima di dare esecuzione alle disposizioni anticipate, l’incapacità del paziente di esprimere o negare
attualmente il consenso dovrebbe essere accertata e certificata da altri che il curante, e precisamente da un collegio di diversi medici
dalle diverse competenze;
-la mancata previsione del rifiuto di cure: il medico non dovrebbe quindi ricercare una previa dichiarazione, ma piuttosto districarsi
tra previsioni legali che alternativamente e nell’ordine gli impongono di consultare il “fiduciario”, il tutore o l’amministratore di
sostegno (ove nominati, altrimenti si consultano i familiari) per assicurarsi che non venga in mente al soggetto legalmente titolato di
rifiutare le cure in luogo dell’interessati.
Queste due stranezze gettano luce su un’altra. Tutto lascia pensare che la loro origine dimenticata stia in quello stadio della
discussione e della progettazione legislativa in cui si ragionava di opportunità e di rifiuto non di qualunque trattamento sanitario, ma
solo delle pratiche di protrazione della vita, dopo la perdita di coscienza o l’irreversibile blocco respiratorio, per mezzo di macchine.
In questo contesto, si immaginava di riservare ad un collegio non il giudizio di incapacità del paziente, ma quello della prognosi
delle “condizioni terminali” e di “stato vegetativo permanente”. Anche l’idea di quella lunga gerarchia di persone più o meno vicine
al diretto interessato, potenzialmente legittimate a opporsi a cure da lui non dichiarate sgradite, ha una sua plausibilità quando si
pensi a trattamenti in sé sospetti di integrare un accanimento terapeutico. Si tratta, comunque, di una prospettiva molto lontana
ancora da quella che porterà all’adozione del “testamento biologico”.

Complessità e banalizzazione – curante giudice inattendibile dell’incapacità di esprimere il consenso; valutatore non autorizzato
dell’opportunità di trattamenti che il paziente incosciente non ha in precedenza dichiarato di rifiutare; esecutore inaffidabile delle
disposizioni anticipate del paziente. Che sia stata o meno deliberatamente composta, questa immagine del professionista clinico ha
oggettivamente aleggiato sul cantiere parlamentare. Trent’anni di lavoro parlamentare dedicato al tema della libertà di cure denotano
nell’insieme quell’andamento paradossale più volte sottolineato: da un lato, vi era la fronda cattolica, fautrice di una prosecuzione ad
libitum delle procedure di sostegno e della vita biologica; dall’altro il fronte laico, caratterizzato da una esaltazione
dell’autodeterminazione fino all’eccesso di rappresentarsi il paziente come una monade irrelata. È chiaro che anche quest’ultima
lettura sia difettosa: nel riconoscere all’individuo l’autodeterminazione, la politica e la legge non dovrebbero lavarsi le mani dai
condizionamenti ch’esse stesse concorrono a determinare.
Di fronte al rifiuto di terapie indicate, anche vitali, l’atteggiamento di buone istituzioni non può che essere quello del rispetto: ma di un
grave rispetto, non dimentico del fatto che la morte segna la fine tanto della politica quanto della vita. Questo si volle esprimere nel
1948 decidendo che al rifiuto di cure non si sarebbe fatto espresso riferimento nell’art. 32 della Costituzione. I progettisti laici non si
sono misurati con i reali problemi della materia. Meno succubi del clima politico, essi avrebbero percepito che l’impresa richiedeva il
cesello e non la spada: confermare il principio della libertà del paziente: ma anche fronteggiare il rischio che competenze e spirito di
iniziativa dei medici siano sminuiti all’eccesso.

Il coronamento degli sforzi – la legge 219/2017 è figlia della storia che si è ripercorso. Il testo nasce dall’unificazione di molti altri,
ciascuno dei quali reca chiari segni di discendenza da proposte o disegni delle legislature precedenti.

Capitolo II – Un nuovo diritto per la relazione di cura?


La legge 219/2017. Declamazione preambolari. “Tempo di cura” e comunicazione tra medico e paziente – quasi a compensare
i cittadini per la lunga attesa, la l. 219/2017 esordisce solennemente, proclamando di essere ispirata “al rispetto dei principi di cui
agli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione e degli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”. Si tratta di una
dichiarazione di dubbia utilità: si parla come se il rispetto delle fonti sovraordinate fosse opzionale.
Sempre nel 1 comma dell’art. 1 si trova affermato che: “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del
consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”. Come si è già visto, il
principio doveva considerarsi già iscritto nel diritto vigente (nel frammento citato riecheggia non a caso, in forma più distesa, la
prima parte del comma 2 dell’art. 32 della Costituzione).
Il comma successivo reca alcune affermazioni di rotonda sonorità, ma di scarso o nullo impatto sullo status quo ante: “è promossa e
valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano
l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico; […] contribuiscono
alla relazione di cura, in base alle rispettive competenze, gli esercenti di una professione sanitaria che compongono l’equipe
sanitaria”. Nella relazione di cura: “sono coinvolti, se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il
convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo”.
Maggiormente significatici sono un paio di enunciati che si trovano più oltre nell’art. 1:
i. comma 8 - “il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”. Tale comma è stato previsto
per mettere al riparo i medici dipendenti da aziende ospedaliere dalla pratica cieca dei “minutaggi” e con essa da eventuali accuse di
mancare all’espletamento delle loro mansioni. ii. comma 10 – “comprende la formazione in materia di relazione e di
comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative”
Altrettanto opportuna risulta la previsione del comma 9: “la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge” va
garantita in “ogni struttura sanitaria pubblica o privata”. Unita al silenzio della legge quanto al tema a volte agitato dall’obbiezione
di coscienza dei sanitari, questa formula attesta che il diritto del paziente all’autodeterminazione non può soffrire deroghe o
sospensioni in nome di sentimenti etici o imperativi categorici fatti propri da chi lo ha in cura.

Informazione del paziente. Un primo eccesso di disinvoltura: il “diritto di non sapere” – il terzo comma dell’art. 1 si occupa
del diritto del paziente di essere informato in modo esauriente e comprensibile. Nella stessa sede si è anche inteso regolare il diritto
del paziente di non sapere, e ciò si è fatto con molta disinvoltura, scrivendo che l’interessato “può rifiutare in tutto o in parte di
ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricata di riceverle”.
Come l’immagine di un interessato che rifiuti di ogni informazione possa convivere con il programma di “valorizzare” la
“relazione” di cura e con l’indicazione del “consenso informato” quale “base” di essa è oggettivamente un mistero. Si può e si deve
convenire che il paziente vada tenuto finché possibile all’oscuro di certe prognosi e fors’anche di qualche diagnosi. Ma
l’informazione circa tutti i comportamenti indicati per vincere o anche solo contenere efficacemente la malattia meriterà di rimanere
obbligatoria a carico dei medici. È chiaro che un’interpretazione del comma 3 cum grano salis aiuterà a correggere il tiro, ma resta
che il legislatore anche in questo caso abbia complicato le cose.
Figurarsi che il familiare o la persona di fiducia possa aver l’incarico di ricevere tutta l’informazione ha condotto gli artefici della
legge a prevedere che dal paziente possa essergli attribuito pure il potere di “esprimere il consenso in sua vece”. Questa idea di
delega delle decisioni di cura piace molto in parlamento, ma contrasta, secondo l’autore, con la Costituzione: per quanto l’incaricato
possa essere stretto al paziente da saldi vincoli dio affetto e solidarietà, ci si colgono gli estremi di un atto di sottomissione
personale e di abdicazione dell’interessato al proprio status personae.

“Acquisizione”, “documentazione”, forma d’espressione del consenso – nel comma 4 dell’art. 1 il fenomeno della prosa legale
disorientata e falsamente rigorosa si manifesta con riguardo al tema del “consenso informato”. La norma dispone che esso sia
“acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente”, “documentato in forma scritta o attraverso
videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare” e infine, “in qualunque
forma espresso”, “inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”.
Sembra volersi superare la precedente regola giurisprudenziale del “consenso semplicemente espresso”, ma il vocabolario adoperato
nella norma resta impreciso e l’elevazione della forma scritta o videoregistrata a normale presupposto di validità del consenso resta
un effetto incerto nella disponibilità della stessa giurisprudenza. Oltre a rendere la vita più difficile ai medici, l’innovazione non
sarebbe di gran profitto nemmeno per i pazienti: da tempo si è osservato che la formalizzazione del consenso non basta affatto a
garantire la qualità delle comunicazioni tra curante e curato né ad assicurare un’efficace informazione di quest’ultimo, potendo anzi
sortire l’effetto contrario. Si tratta di una norma introdotta con l’intento di combattere l’invadenza e l’iper-attivismo dei clinici:
senza rendersi conto che il principio del consenso scritto varrebbe più a tutelare il medico che ad assicurare un elevato livello di
comprensione, da parte del paziente, delle terapie che gli vengono proposte e delle loro implicazioni.

Il rifiuto di cure del paziente capace – con il quinto e il sesto comma dell’art.1 viene fugato ogni dubbio circa l’ossequio da
prestare alla volontà negativa del paziente capace, senza l’eccezione che sia in gioco la sua vita e indipendentemente dalla cavillosa
distinzione fra trattamenti da intraprendere e trattamenti in atto.
Per il rifiuto dei trattamenti necessari alla sopravvivenza, sempre nel comma 5 si trova l’opportuna codificazione di prassi già
normalmente in uso: “il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisone e le
possibili alternative e promuove ogni azione di sostegni al paziente medesimo, anche avvalendosi di servizi di assistenza
psicologica”.
Quanto all’ipotesi di trattamenti già in corso, fino a ieri vi si collegava la pretesa di far valere sanzioni penali a carico del personale
sanitario: la legge taglia questo nodo sia con la già citata formula dell’art. 1
c.1 (“nessun trattamento […] può essere iniziato o proseguito”), sia con l’inequivoco accorgimento di associare nei commi 5 e 6
dello stesso articolo il concetto di “rifiuto” quello di “rinuncia” al trattamento. Un’altra questione che la legge affronta e almeno in
parte dirime è quella relativa a idratazione e alimentazione “artificiali”: nei limiti in cui si tratti di “somministrazione, su
prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici”, anche questi sono da considerare “trattamenti medici” e la loro
rifiutabilità non potrà più essere messa in discussione.

Incapacità e condizioni d’urgenza – del consenso potrà farsi a meno se il paziente in condizioni d’urgenza è incapace di prestarlo
(ad es. perché incosciente). Il comma 7 dell’art. 1 lo attesta nella modalità di schietto gusto barocco di implicarlo a contrario: “nelle
situazioni di emergenza o di urgenza il medico e i componenti dell’equipe sanitaria assicurano le cure necessarie, nel rispetto della
volontà del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla”.

Inesigibilità di trattamenti stravaganti – mentre consente di sottrarsi a qualunque trattamento, la legge non permette di pretendere
dai medici trattamenti che non abbiano superato la soglia giuridica minima di collaudo o attendibilità, o che addirittura siano
ripudiati dalla comunità scientifica. Questo è il tenore del comma 6 dell’art. 1: “il paziente non può esigere trattamenti sanitari
contrari a norme di legge, alle deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali”.

Terapia del dolore e sedazione profonda continua – l’art. 2 esordisce affermando il dovere del medico di “adoperarsi”, con i
“mezzi appropriati allo stato del paziente”, per alleviarne le sofferenze anche quando le cure indicate siano state rifiutate, e richiama
in proposito l’importante legge 38/2010. Esplicitando il punto che la precedente legge aveva lasciato in penombra, il secondo
comma dello stesso articolo ammette la “sedazione palliativa profonda e continua” in casi in cui ricorrano “prognosi infausta o a
breve termine” e “sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari” (sempre con il consenso del paziente e fatta salva la doverosità
dell’azione interruttiva di tutti i trattamenti rinunciati).

Trattamento degli incapaci legali – si è già accennato al fatto che, in questa prima iterazione di una legge sul biotestamento, il
legislatore avrebbe ben potuto tralasciare la spinosa questione degli incapaci legali. Il lungo e confusionario art. 3 è chiaramente
indicativo di tale inopportunità.
Già la giurisprudenza precedente aveva escluso la presenza di un vero e proprio potere di rifiuto delle cure in capo ai rappresentanti.
L’ordinamento in questi casi sembra piuttosto aperto, in relazione all’incertezza circa la beneficialità di un trattamento, a una sorta
di procedimentale oggettivazione del giudizio: nel dissidio tra genitore e responsabile delle cure circa il grado di attendibilità del
beneficio, l’uno o l’altro sono legittimati a provocare il pronunciamento del giudice. Non vi è inoltre dubbio che questo debba
ispirare la sua decisione al c.d. migliore interesse del legittimamente incapace. Il numero contenuto di controversie giudiziarie
testimonia più o meno faticosamente che il funzionamento del sistema non sia poi così tanto insoddisfacente.
In questo panorama viene ad inserirsi adesso l’art. 3 della l.219/2017, con la sua selva di contraddizioni. Il primo comma proclama
il diritto di “minori, interdetti giudiziali, inabilitati e sottoposti ad amministrazione di sostegno” alla “valorizzazione” delle loro
“capacità di comprensione e decisione” (comma 1); ma è subito seguito dalla previsione che il consenso ai trattamenti sanitari sia
“espresso o rifiutato” – “avendo come scopo” “vita”, “salute” e “dignità” del paziente – dagli esercenti la responsabilità genitoriale
(comma 2), dal tutore (commi 2 e 3), “anche ovvero da solo” dall’amministratore di sostegno (comma 4), fatta sempre salva, in caso
di dissenso del medico, la determinazione del giudice tutelare (comma 5).
La direttiva di “valorizzazione” delle “capacità di decisione” dell’incapace è estremamente interessante, ma non si capisce come si
concili con la prescrizione che il consenso sia espresso o rifiutato dagli altri. L’incipit del comma 4 sembrerebbe dare atto che
l’inabilitazione non rileva in questa materia (“il consenso informato della persona inabilitata è espresso dalla medesima persona
inabilitata”), ma l’esatto contrario risulta dal comma 5, ove si allude all’inesistente ufficio di rappresentante legale della persona
inabilitata e gli ricollega il potere, in assenza di disposizioni anticipate dell’interessato, di rifiutare le cure proposte dai medici.
Sempre il comma 4, riferendosi all’amministratore di sostegno, statuisce che questi debba “tenere conto della volontà del
beneficiario”: nulla di più falso, visto che il proseguio della norma attribuisce all’amministratore il potere di esprimere o rifiutare il
consenso “da solo”. A coronamento dell’intrico sta il frammento del comma 4 dal quale risulta che il decreto di nomina potrebbe
anche incaricare l’amministratore di integrare il consenso o il rifiuto di cure espressi dal beneficiario. Con ogni probabilità si è al
cospetto di un fraintendimento della giurisprudenza, quando in senso figurato afferma che in materia di cure compito
dell’amministratore è di pronunciarsi con il suo assistito. È ben vero che l’amministratore può integrare la volontà dell’assistito, ma
la usuale disciplina in materia di atti patrimoniali di amministrazione ordinaria o straordinaria non si addice a questo ambito
(sarebbe assurdo che l’amministrato, di fatto in grado di contestare la sua intenzione di ricevere le cure, non venga curato perché
mance l’assenso dell’amministratore!).

Le disposizioni anticipate di trattamento (DAT). Inizialmente mancata istituzione di un registro unico nazionale – tutti gli
elementi di certezza di cui si è parlato nel paragrafo 4 investono in pieno pure il tema delle volontà espresse in via preventiva dal
paziente attualmente incapace. Su tale versante la legge (art. 4 commi 1,6 e 7) sembra meno idonea a dissipare problemi, prevenire
controversie e in generale a garantire la persona.
Se davvero su voleva che le disposizioni anticipate vengano espresse, come dice il comma 1, “dopo aver acquisito adeguate
informazioni mediche”, non sarebbe stato fuori luogo prevedere il coinvolgimento di un esperto in medicina nella formazione
dell’atto. Il comma 6 al contrario parla solo della verbalizzazione delle dichiarazioni o la loro certificazione da parte di un notaio o
pubblico ufficiale. Hanno piena validità i semplici moduli compilati e sottoscritti dagli interessati.
A sostegno della conoscibilità delle dichiarazioni da parte dei curanti era stato previsto all’interno di un comma 7 un archivio
informativo nazionale. Tale archivio, tuttavia, non ha ancora visto la luce per motivi economici.

L’effetto vincolante della DAT e le sue ambigue limitazioni – posto che le disposizioni anticipate giungano a conoscenza dei
curanti, questi sono obbligati ad attenervisi (art. 4 comma 5). Se, tuttavia, l’autore delle dichiarazioni soffre di patologie o disturbi
differenti da quelli cui si era riferito nel documento, o se disponibili e indicate sono cure significativamente diverse da quelle che il
paziente ha preventivamente dichiarato di non volere, c’è da riconoscere che le direttive non sono applicabili. La formulazione
sovrabbondante dell’articolo lascia aperta la strada ad altre possibili interpretazioni. “In accordo con il fiduciario”, espressione
utilizzata nel comma 5, significa che, se un fiduciario vi è, la responsabilità che le disposizioni anticipate vengano eseguite o
“disattese” nel rispetto della legge è condivisa dal medico con lui: nel caso di conflitto tra i due, l’articolo prevede che la decisione
spetti ad un giudice.

L’ufficio fiduciario – secondo la lettera dell’art. 4, comma 1, il fiduciario è “indicato” nelle DAT perché “faccia le veci” del
dichiarante e lo “rappresenti” nelle relazioni con i medici e con le strutture straniere.
Deve trattarsi di una persona “maggiorenne e capace di intendere e di volere”, che ha accettato l’incarico attraverso “la
sottoscrizione delle DAT o con atto successivo”.
Il tono categorico del comma 1 farebbe pensare che la designazione del fiduciario sia un elemento necessario delle DAT. Dal
comma 4 risulta per contro che la mancanza dell’indicazione, come pure la rinuncia o la sopravvenuta morte o incapacità
dell’indicato, potrebbero determinare un “caso di necessità”: per tale eventualità è previsto che il giudice tutelare provveda alla
nomina di un amministratore di sostegno. Sembra discenderne che, quanto meno se nessun fiduciario sia stato nominato, ben possa
il medico curante portar da solo la responsabilità di dar seguito alla DAT secundum legem, ma anche che, quante volte il medico
nutra plausibili dubbi circa il significato delle disposizioni, possa egli chiedere la nomina dell’amministratore.
La figura del fiduciario così delineata crea enormi dubbi: rimettere ad un altro soggetto la decisione circa la propria salute è una
negazione della persona. Risulta quindi auspicabile un intervento correttivo da parte della giurisprudenza.

Revoca e modifica delle DAT – dopo aver detto che “le DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata
autenticata” o, nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, “attraverso videoregistrazioni o dispositivi che
consentano alla persona con disabilità di comunicare”, il chilometrico art. 6 afferma che “con le medesime forme” le disposizioni
anticipate “sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento”, e culmina con la seguente statuizione: “nei casi in cui
ragioni di emergenza e urgenza impedissero di procedere alla revoca delle DAT con le forme previste dai periodi precedenti, queste
possono essere revocate con dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, con l’assistenza di due testimoni”. Se,
come è ovvio ed è confermato dall’art. 4 al comma 1, le disposizioni anticipate vengono “redatte in previsione di un’eventuale
futura incapacità di autodeterminarsi”, è logico pensare che, fin quando il loro autore sia in grado di rendere a quale medico
dichiarazioni ulteriori, le prime semplicemente non meritano di entrare in considerazione.
Anche qui serve quindi un’interpretazione chiarificatrice: ove un paziente manifesti in qualunque forma il suo ripensamento circa
un rifiuto di cure precedentemente espresso (vi siano o meno testimoni) è previso obbligo giuridico dei medici che ne abbiano avuto
conoscenza procedere senza indugia a curarlo.

Ancora sulla fase di attuazione delle DAT e sui limiti della loro eseguibilità. La “pianificazione condivisa delle cure” e
l’incoerenza di fondo della legge – si è visto che l’art. 4, c.5, lascia aperto il campo alla disapplicazione delle DAT per “palese
incongruità”: espressione alquanto vaga e indefinita. Si è già detto che, nonostante il portato dell’art. 1 (la volontà di trattamento
deve essere espressa “dopo aver acquisito adeguate informazioni mediche”), manca, nella procedura tipica di redazione delle
disposizioni anticipate, il coinvolgimento della figura di un esperto in medicina.
Soprattutto per questi motivi, la legge sembra poco idonea a soddisfare la richiesta di certezza proveniente da singoli cittadini, dalle
associazioni e dalla giurisprudenza. “Palese incongruità”, “adeguate informazioni”: si tratta di passerelle che condurranno, quasi
certamente, a nuove, tragiche vicende giudiziarie analoghe ai casi Englaro.
Non sembra sensato addentrarsi in inutili dietrologie: la verità è che il legislatore ha agito ancora una volta in modo confuso e
incoerente.
Solo all’interno dell’art. 5, in presenza di una “patologia cronica e invalidante”, è prevista la possibilità di una “pianificazione
condivisa” con un medico e, di conseguenza, una concreta partecipazione di questi. Non si tratta però di una scelta vincente, ma di
una scelta che, al contrario, manifesta l’incoerenza del legislatore: non sarebbe stato più logico e lineare rinunciare alla ricercatezza
della pianificazione condivisa, scrivendo in generale che la dichiarazione delle disposizioni “è ricevuta da un medico”, e di seguito
eventualmente prevedere che il medico si occupi di una qualche forma di registrazione? Qualunque paziente in condizioni di
capacità esprime il consenso o il rifiuto di cure non in isolamento e neppure recandosi dal notaio, ma colloquiando con un medico.
Questo avrebbe l’unica funzione di ricevere le dichiarazioni, dopo aver informato adeguatamente il paziente (evitando così che il
suo convincimento si basi su conoscenze false). Fare della recezione da parte del medico una modalità tipica di dichiarazione delle
disposizioni anticipate sarebbe valso a collocare generalmente prima, al momento della dichiarazione, quella messa a confronto con
le obbiettive risultanze e con i codici espressivi del sapere specialistico cui la legge lascia spazio dopo, nella fase di esecuzione, e
questo, all’avviso dell’autore, avrebbe portato a conseguenze vantaggiose.

Un primo bilancio – in favore della legge 219 si può e si deve dire quanto segue:
i. ha conferito espressione inequivoca al principio prima disputato della libertà di cure ii. ha dato apertamente atto
che l’esercizio di tale libertà può comportare anche la fine della vita; iii. ha assicurato che il rifiuto di cure del paziente
compos sui venga d’ora innanzi sempre rispettato; iv. ha posto un’enfasi tutt’altro che inutile sul diritto a trattamenti
palliativi e alla terapia del dolore; v. ha esplicitato la possibilità di ricorso alla sedazione profonda;
Riconoscere tali meriti non esime, però, dal sottolineare i principali difetti di questa normativa:
i. presenza di enunciati non solo inutili, perché non innovativi rispetto a regole preesistenti, ma dannosi, perché si
annidano vere e proprie sviste o errori tecnici; ii. uso reiterato di un linguaggio inconcludente, tale da ingenerare in vario
grado incertezze nuove e da mantenerne di vecchie; iii. presenza di disposizioni palesemente incongrue, o comunque
gravemente indiziabili di contrasto con l’impianto personalista della Costituzione; iv. limitato innalzamento del livello di
garanzia di effettivo rispetto delle disposizioni anticipate;
v. mancata previsione in via generale dell’assistenza di un medico alla redazione delle disposizioni anticipate; vi.
diffusione nel testo di elementi di un messaggio opposto a quello dell’art. 1, comma 2, ove si annuncia “promossa e valorizzata la
relazione di fiducia tra paziente e medico”;

“Non vincerà chi oscura la libertà di cura” – il principio enunciato dal comma 1 dell’art. 4, secondo il quale la dichiarazione di
disposizioni anticipate viene resa avendo assunto “adeguate informazioni mediche”, è coerente con la logica del “consenso
informato” e con tutta l’enfasi che da tempo gli scrittori di bioetica, la giurisprudenza e lo stesso legislatore giustamente vanno
mettendo sull’informazione del paziente. Diversi progetti falliti avevano previsto il coinvolgimento di un esperto in medicina nella
redazione dell’atto.
Parlando dei progetti del passato si è incontrata la proposta di sottrarre al medico curante, proprio e solo quando risulti l’esistenza di
disposizioni anticipate, l’accertamento dell’incapacità del malato. Da ciò si è tratto l’indizio di un fenomeno: quando si abbandonò
l’idea di una legge specificamente dedicata ai trattamenti di sostegno in vita in condizioni terminali e si iniziò a pensare a un testo
che investisse consenso e rifiuto dei trattamenti sanitari in generale, sul nuovo terreno vennero trasferiti come per forza di inerzia
alcuni termini dei discorsi e dei ragionamenti precedenti. La lista, figurante in molti progetti “generalisti”, di una vera e propria
pletora di persone alternativamente legittimate a rifiutare trattamenti in luogo del paziente incapace, sembra la conferma di un
pensiero ancora condizionato dall’inziale orizzonte tematico del contrasto all’accanimento terapeutico. È quanto l’autore chiama
rovesciamento del paradigma di Ippocrate: smentita dallo sviluppo delle tecniche di sostegno in vita la vecchia idea che l’offerta
medica collimi sempre con l’interesse del malato, è come se sui progettisti abbia esercitato attrazione l’opposta paradossale
presunzione, che il bene del malato attuale o potenziale venga dalle offerte del medico per definizione insidiato. L’estromissione
dell’esperto in medicina dalla procedura di dichiarazione delle DAT può essere vista come l’ovvio punto di arrivo di questa
traiettoria.

A proposito di paternalismo – l’immagine del cittadino, il quale, con l’assistenza di un iniziato all’arte, misuri le parole per dare
voce preventivamente e cautelativamente al proprio desiderio di non sottostare a certi trattamenti medici in condizioni determinate,
o non sottostarvi in alcun caso, suscita tuttora anche fuori del Parlamento, da parte di persone che hanno a cuore “i diritti”,
espressioni di diffidenza e riprovazione: spesso si sente qualificarla come fantasia illiberale e una tipica manifestazione di
“paternalismo”. In particolare, quest’ultima accusa risulta soggettiva e spesso mal circostanziata: se si assume che sia paternalista la
regola che privi di efficacia le preferenze dei soggetti, il discorso in atto sarebbe a forte rischio di rimanere fuori quadro, poiché la
legge che contemplasse la ricezione delle disposizioni di cura da parte di un medico non diminuirebbe, ma accrescerebbe le
aspettative di rispetto delle preferenze espresse meglio dall’interessato. Meglio calzante suona il rimprovero se per paternalismo si
deve intendere la manifestazione di qualche dubbio circa la capacità delle persone di comprendere appieno gli effetti delle proprie
azioni e delle proprie scelte.
Assunto il termine di questo significato, non può negarsi che sia paternalista il modello di condotta cui si conferma supinamente la
maggior parte di noi frequentatori di codici, funzionari delle poste, periti agrari o consulenti turistici, allorché per curarsi il morbillo
o la stenosi arteriosa, piuttosto che agire in proprio, ci rivolgiamo ad un esperto in medicina.
In rapporto all’altro addebito, quello di “illiberalismo”, è d’avanzo ricordare che il pensiero liberale meno improvvisato conosce il
tema dei limiti alla libertà funzionali a preservare la libertà stessa. In questo caso è discutibile che di vero e proprio limite possa
parlarsi: non si tratterebbe di inibire all’autonomia dell’individuo di conseguire un certo effetto, ma di condizionarne il
conseguimento al rispetto di una determinata procedura.
Prese nel loro insieme, queste accuse di paternalismo e di ispirazione illiberale sembrano sintomatiche di un atteggiamento che
chiamerei di individualismo insofferente, nonché di una concezione tutta pretensiva della politica e della legge.

Di una legge immaginaria – qualcuno obbietterà che ci sono medici e medici, diversamente specializzati e disegualmente pronti, in
via di fatto, a prestare in modo coscienzioso la propria consulenza: il coinvolgimento di un dottore in medicina nella stesura delle
DAT non basterebbe ad assicurare in assoluto “l’adeguata informazione” del dichiarante. A tanto si può ribattere che un vulnerabile
dispositivo di garanzia di informazione è preferibile a nessun dispositivo.
La legge che chiamasse il medico ad assumere un ruolo nella raccolta delle DAT pressoché inevitabilmente dovrebbe gravarlo di
alcune informazioni notarili. Ma è essenzialmente nelle sue vesti professionali che il medico entrerebbe in scena: la legge dovrebbe
impegnarlo a offici di assistenza ordinati al fine che la dichiarazione delle decisioni anticipate sia resa sulla base di una
informazione il più possibile corretta.
Riconosciuta l’opportunità di un modello di disciplina che ambienti la dichiarazione entro un contesto di confronti dialogico con un
medico, sarebbe conseguente prevedere anche la possibilità che dialogo fallisca. Il medico potrebbe rifiutarsi di sottoscrivere
dichiarazioni che ritiene viziate da errori di giudizio circa i caratteri e gli effetti di una patologia o di una terapia. Si dirà quindi che
c’è il rischio che la disciplina lasci spazio a coscienze professionali ipertrofiche: ma la legge vi rimedierebbe mantenendo
indefinitamente aperta la possibilità che la dichiarazione rifiutata sia proposta da altro medico.
Disposto tutto ciò, coerentemente la legge potrebbe dichiarare le DAT vincolanti sul semplice presupposto della loro corrispondenza
alla situazione clinica del paziente e astenersi dall’ipotizzare ragioni per “disattenderle”. Perché anche e non secondariamente tale è
la questione: esentando il dichiarante dalla necessità di confronto con un esperto, la legge 219 finisce con l’assicurare non maggiore,
ma minore tutela del diritto all’autodeterminazione. Essa lascia aperta la possibilità che al momento di eseguire le disposizioni
anticipate qualcuno metta in dubbio che siano state espresse “dopo aver acquisito informazioni mediche” e con ciò metta in causa la
loro validità.

Gentismo – dopo l’espressione “civiltà dello spettacolo”, nella letteratura politologica ha fatto da qualche tempo apparizione il
vocabolo “gentismo”. Esso si riferisce all’atteggiamento mentale che consiste nel figurarsi un soggetto buono dall’identità indistinta
(la “gente” appunto) come contrapposto ai portatori di qualche autorità, non necessariamente politica (i “professoroni” tanto cari al
nostro Matteo).
La legge 219 potrebbe essere influenzata proprio dal gentismo, tanto dal punto di vista linguistico (la legge adopera spesso un
eloqui funzionale non a stabilire, ma a piacere e a rassicurare), quanto dal punto di vista della dinamica di approvazione collegale: la
legge, infatti, è frutto di un lavoro in cui non ci è applicati per chiarire e distinguere i vari ordini di idee affinché su uno di essi
piuttosto che su un altro converga una maggioranza, ma si sovrappongono invece le idee, e le si confondono, perché pochi o
nessuno abbia a sentirsi in minoranza.

Intorno alla legge

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