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Eutanasia

COSA INTENDIAMO PER “EUTANASIA”?
Eutanasìa, in greco antico, significa letteralmente buona morte. Oggi con questo
termine si definisce correntemente l’intervento medico volto ad abbreviare
l’agonia di un malato terminale.
Si parla di eutanasia passiva quando il medico si astiene dal praticare cure volte
a tenere ancora in vita il malato; di eutanasia attiva quando il medico causa,
direttamente, la morte del malato; di eutanasia attiva volontaria quando il medico
agisce su richiesta esplicita del malato.
Nella casistica si tende a far rientrare anche il cosiddetto suicidio assistito,
ovvero l’atto autonomo di porre termine alla propria vita compiuto da un malato
terminale in presenza di — e con mezzi forniti da — un medico.

LA LEGISLAZIONE ITALIANA SULLA MATERIA
L’eutanasia attiva non è assolutamente normata dai codici del nostro Paese:
ragion per cui essa è assimilabile all’omicidio volontario (articolo 575 del codice
penale). Nel caso si riesca a dimostrare il consenso del malato, le pene sono
previste dall’articolo 579 (omicidio del consenziente) e vanno comunque dai sei
ai quindici anni.
Anche il suicidio assistito è considerato un reato, ai sensi dell’articolo 580. Va
tuttavia precisato che, nel novembre 2017, il tribunale di Milano ha stabilito che
non si può ostacolare la volontà di chi vuole recarsi all’estero per ottenere il
suicidio assistito.
Nel caso di eutanasia passiva, pur essendo anch’essa proibita, la difficoltà nel
dimostrare la colpevolezza la rende più sfuggente a eventuali denunce.

LA POSIZIONE CATTOLICA
Secondo la Chiesa cattolica la vita è stata donata da Dio e solo lui può disporne:
ragion per cui l’eutanasia è un omicidio. È al massimo ammessa la fine
delle terapie qualora venissero ritenute sproporzionate.
È chiaro che una posizione del genere si pone esclusivamente dal punto di vista
del medico, e mai dal punto di vista del paziente sofferente. In passato, anzi,
talvolta questa sofferenza era ritenuta un modo di “partecipare” alla passione di
Gesù e, ancora oggi, l’Italia è clamorosamente indietro nella somministrazione di
morfina ai malati terminali.
Non tutte le chiese cristiane la pensano così: diverse chiese protestanti hanno
assunto posizioni più liberali e alcune chiese minori riconoscono apertamente il
diritto dell’individuo di disporre della propria vita. Per i valdesi l’eutanasia «è un
diritto che va riconosciuto».

ALCUNI CASI-LIMITE ITALIANI
Così come succede anche all’estero, il tema dell’eutanasia attira l’attenzione
dell’opinione pubblica quando i media portano, con fin troppa dovizia di
particolari, alcuni casi in primo piano.
Dalla primavera del 2000 tre sono stati i casi particolarmente dibattuti sulle
pagine dei giornali italiani. Il 23 maggio un giovane di Viareggio ha aiutato il suo
amico Stefano del Carlo a farla finita, con una dose di insulina: nonostante i
genitori stessi del defunto abbiano definito il suo gesto «un grande atto di amore»,
è arrivata la condanna a quattro anni di reclusione. Negli stessi giorni un uomo di
Monza veniva condannato a sei anni e mezzo per avere, due anni prima,
staccato i fili che pompavano aria ai polmoni della moglie. Il 24 aprile 2002 il
marito è stato però assolto in appello dall’accusa di omicidio volontario
premeditato. I giudici hanno infatti stabilito che l’ingegnere Forzatti, staccando la
spina del respiratore al quale era attaccato il corpo della moglie, non la uccise in
quanto, a loro avviso, la donna era già morta. Nel maggio 2001 gli ultimi giorni di
Emilio Vesce, storico militante radicale, infiammarono la campagna elettorale per
via delle dichiarazioni del figlio contro il nutrimento artificiale, «non più attuato
come terapia ma come accanimento terapeutico».
Nel settembre 2006 è scoppiato il caso di Piergiorgio Welby, affetto da distrofia
muscolare e oramai incapace di muoversi, che ha chiesto al Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano di poter ottenere l’eutanasia. Il Presidente ha
subito invitato le Camere a discutere del problema, ma è rimasto inascoltato. Il
successivo 21 dicembre Piergiorgio Welby è morto, scatenando una forte ondata
di commozione in tutto il Paese.
Nel luglio 2007 è morto Giovanni Nuvoli, che aveva a sua volta chiesto che gli
fosse staccato il respiratore: per impedire che un medico rispettasse le sue
volontà erano stati inviati i carabinieri. Nuvoli è stato così costretto, per porre
fine alle sofferenze, a non assumere più né cibo né bevande, “lasciandosi
morire” di fame e di sete.
Il caso di Eluana Englaro, completamente immobile e priva di coscienza dal
1992, ha tenuto banco per molti anni. Il padre, stanco di vederla tenuta in vita da
un cannello nasogastrico (e contro la stessa volontà della figlia), ha intrapreso
diverse iniziative legali per sospendere le cure, senza alcun successo per molti
anni. Finalmente, nell’ottobre 2007, la Corte di Cassazione, nel rinviare la
questione alla Corte d’Appello di Milano, ha stabilito che l’interruzione delle cure
può essere ammessa, quando il paziente si trova in uno stato vegetativo
irreversibile e se, in vita, aveva manifestato la propria contrarietà a tali cure. La
Corte d’Appello, nel luglio 2008, ha autorizzato il padre di Eluana a interrompere
i trattamenti di idratazione e alimentazione forzata: contro il provvedimento è
stato presentato un ricorso da parte del procuratore generale di Milano, ricorso
poi bocciato dalla Corte di Cassazione. Eluana si è spenta nel febbraio 2009 in
una clinica di Udine, dopo che il governo Berlusconi aveva tentato di emanare
un decreto legge ad hoc per impedire il compimento dela volontà di Eluana.
Nel novembre 2010, il noto regista Mario Monicelli, affetto da malattia terminale,
decise di lanciarsi dal quinto piano dell’ospedale in cui era ricoverato.
Esattamente un anno dopo è stato infine l’ex parlamentare Lucio Magri a
scegliere il suicidio assistito in Svizzera. Nel 2013 a far notizia è il caso di Piera
Franchina, a sua volta recatasi in Svizzera. In ottobre è ancora un regista, Carlo
Lizzani, a togliersi la vita lanciandosi dal terzo piano: aveva detto che avrebbe
voluto l’eutanasia insieme alla moglie, come Romeo e Giulietta.
Infine, nel 2016, il giudice tutelare del tribunale di Cagliari ha accolto la richiesta
di Walter Piludu, ex presidente della Provincia, malato di Sla, che chiedeva
l’interruzione delle cure. Il magistrato ha stabilito che «è un diritto rifiutare le cure
e andarsene senza soffrire: sedati per non sentire ansia o dolore».
Il 27 febraio 2017 è morto in Svizzera Dj Fabo, il 13 aprile Davide Trentini., l’11
ottobre Loris Bertocco. Tutti e tre sono ricorsi al suicidio assistito. Per il primo
caso è stata disposta l’imputazione coatta per il dirigente radicale Marco
Cappato, che l’aveva accompagnato a Zurigo. Nel 2018 la vicenda è finita
davanti alla Corte costituzionale, che ha rinviato la decisione di un anno
invitando il parlamento a intervenire.
Questi casi, se sono strazianti dal punto di vista di chi ne è coinvolto
direttamente, finiscono quanto meno per dimostrare come la legislazione sia
assolutamente inadeguata ai tempi. Alcuni progetti di legge presentati in
parlamento sono tutti naufragati per l’opposizione dei clericali.

CHI SI BATTE PER LEGALIZZARE L’EUTANASIA
Il concetto di legalizzazione (rendere legale un atto) si scontra spesso con quello
di depenalizzazione (rendere non punibile un atto).
Il Comitato Nazionale di Bioetica, costituito presso la Presidenza del Consiglio dei
Ministri, dovrebbe produrre dei pareri volti ad aggiornare la legislazione italiana.
Alla prova dei fatti, per diversi anni, si è rivelato un organismo soggetto a pesanti
ingerenze vaticane, estensore di sterili documenti in cui viene riproposta la
strada delle cure palliative (importante, ma ovviamente non sufficiente). Il parere
del 18 luglio 2019 Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito, visti anche
i precedenti, può essere considerato una svolta, un’apertura al diritto al suicidio
medicalmente assistito.
Nel 1989 nacque la Consulta di Bioetica, che si propone di discutere sui temi della
vita e della morte, promuovendo in generale lo sviluppo del dibattito laico e
razionale sui problemi etici nel campo della medicina e delle scienze biologiche.
Del 1996 è invece la costituzione di Exit-Italia, battagliera associazione che
promuove, all’interno dell’opinione pubblica, diverse campagne per la
legalizzazione dell’eutanasia. Del 2001 è Liberauscita, associazione per la
depenalizzazione dell’eutanasia, che ha promosso un disegno di legge volto a
normare la materia. Molto impegnata su questi temi è, inoltre, l’associazione
radicale Luca Coscioni.
L’Uaar rivendica il diritto all’eutanasia e al suicidio medicalmente assistito
all’interno della campagna Liberi di scegliere. La rivista L’Ateo si è occupata più
volte del tema: nel numero 2/2003 in particolare si possono consultare diversi
interessanti articoli. L’intervento del segretario nazionale Giorgio Villella al
convegno Diritto a Vivere, Diritto a Morire organizzato da Cittadinanzattiva il 23
luglio 2002 può essere consultato in questa pagina. Oltre a una proposta di legge
di iniziativa popolare (vedi sotto), l’associazione ha inoltre sostenuto la
campagna Io sto con Max. Il 9 settembre 2019 l’Uaar e la Consulta di Bioetica,
hanno organizzato presso la sala ISMA del Senato della Repubblica il
convegno Per il diritto al suicidio medicalmente assistito: un’urgenza non più
rimandabile. Il week end del 14 e 15 settembre 2019 è stato dedicato a
una mobilitazione dei circoli territoriali per il diritto all’autodeterminazione nel fine
vita. Il 19 settembre 2019 l’Uaar ha sostenuto e ha partecipato alla
manifestazione-concerto organizzato dall’Associazione Luca Coscioni, con uno
stand e con un intervento dal palco del segretario Roberto Grendene.
Tutti i sondaggi condotti negli ultimi anni attestano che la maggioranza degli
italiani è favorevole alla legalizzazione dell’eutanasia. Secondo un sondaggio
Swg del 2019, i cittadini favorevoli a una legge sarebbero ormai il 93%.

Aborto
E' una procedura medica, distinta in più fasi, che si basa sull'assunzione di
almeno due principi attivi diversi, il mifepristone (meglio conosciuto col nome di
RU486) e una prostaglandina, a distanza di 48 ore l'uno dall'altro.
Il mifepristone, interessando i recettori del progesterone, necessari per il
mantenimento della gravidanza, causa la cessazione della vitalità dell'embrione;
l’assunzione del secondo farmaco, della categoria delle prostaglandine, ne
determina l’espulsione.
In Italia è possibile ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza con il
metodo farmacologico dietro richiesta della persona interessata. 
Il ministero della Salute il 12 agosto 2020 ha emanato una circolare di
aggiornamento delle “Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di
gravidanza con mifepristone e prostaglandine” .
Le nuove Linee di indirizzo, che aggiornano quelle del 24 giugno 2010, sono
passate al vaglio del Consiglio Superiore di Sanità (Css) che il 4 agosto
scorso ha espresso parere favorevole al ricorso all’interruzione volontaria di
gravidanza con metodo farmacologico con le seguenti modalità:

 fino a 63 giorni pari a 9 settimane compiute di età gestazionale;


 presso strutture ambulatoriali pubbliche adeguatamente attrezzate,
funzionalmente collegate all’ospedale ed autorizzate dalla Regione,
nonché consultori, oppure day hospital. 

Successivamente al parere del CSS l'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) il 12


agosto ha emanato la Determina n. 865 "Modifica delle modalità di impiego del
Medicinale Mifegyne a base di mifepristone (RU486)”. 
 Interruzione volontaria di gravidanza attraverso il metodo chirurgico
Anche se il metodo farmacologico sta prendendo sempre più piede, l'interruzione
di gravidanza attraverso il metodo chirurgico resta comunque molto praticata.
L'intervento può essere effettuato presso le strutture pubbliche del Servizio
sanitario nazionale e le strutture private convenzionate e autorizzate dalle
Regioni.

Pena di morte
La pena di morte: i fatti e le cifre
Secondo i dati del 2019 sono 142 i paesi nel mondo che hanno abolito la pena di
morte per legge o nella pratica, lasciando a 56 il numero dei paesi che ancora
praticano esecuzioni capitali. Sono state almeno 657 le esecuzioni registrate in
20 paesi (escludendo la Cina, dove si crede che siano migliaia le sentenze
eseguite), mentre sono oltre 25mila le persone nel braccio della morte. Il numero
di esecuzioni nel 2019 è stato il più basso dell'ultimo decennio. Nel 2018 le
esecuzioni erano state 690, mentre nel 2017 ne erano state eseguite 993.
Circa l’86% di tutte le esecuzioni registrate nel 2019 ha avuto luogo in quattro
paesi - Iran, Arabia Saudita, Iraq e Egitto. Tali stime sono ignote per la Cina, che
protegge questi dati con il segreto di stato. (Fonte: Amnesty International)
C’è una forte opposizione contro l’abolizione della pena di morte in Asia, nel
mondo arabo e negli Stati Uniti. Tuttavia quattro quinti dei 55 paesi in Africa
hanno abolito la pena di morte o hanno stabilito delle moratorie.
Come l’UE combatte la pena di morte
Come parte del suo impegno per difendere i diritti umani, l’Unione europea è il
più grande donatore nella lotta contro la pena di morte nel mondo. Tutti i paesi
europei hanno abolito la pena di morte in linea con la Convenzione europea dei
diritti dell'uomo.
L’UE combatte la pena di morte in molti modi. Ad esempio vieta il commercio di
merci che potrebbero essere utilizzate per la pena di morte e utilizza le politiche
commerciali per incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo. Inoltre supporta le
organizzazioni della società civile nei paesi che ancora applicano la pena di
morte, facendo un lavoro di documentazione e di sensibilizzazione.
L’Unione europea, come osservatore permanente dell’ONU, sostiene
convintamente tutte le azioni che pongono fine alla pena di morte dove è ancora
praticata.
Il Parlamento europeo adotta le risoluzioni e ospita i dibattiti che condannano le
azioni dei paesi che ancora utilizzano la pena capitale. Una risoluzione del 2015
sulla pena di morte condannava il suo uso per sopprimere l’opposizione, oppure
per ragioni di credo religioso, omosessualità e adulterio.
La Bielorussia è l’unico paese del continente europeo che continua a praticare le
esecuzioni capitali. In Russia c’è invece una moratoria.

Razzismo

’incontro con l’altro e il razzismo


Occidente e Islam, hutu e tutsi, ariani ed ebrei, bianchi e neri, cattolici e
protestanti, serbi e croati, autoctoni e immigrati, lombardi e terroni, indiani e
cowboy. La discriminazione razziale ha da sempre declinato il concetto di “altro”
in modi diversi, cambiando maschera e appoggiandosi a criteri anche molto
differenti a seconda dei contesti storici, politici o geografici.

Il comune denominatore a questi molteplici esempi è però sempre il medesimo:


l’incontro con la diversità diventa uno scontro, e l’altro è percepito come
inferiore.

Come scatta questo meccanismo? Come si costruisce la discriminazione e,


soprattutto, l’odio per l’altro?
Nessuno è razzista da solo. Per quanto un individuo possa agire in autonomia,
sganciato da associazioni o movimenti, l’idea stessa di razzismo e di odio etnico
rimanda ad un gruppo al quale riferirsi ed appartenere in opposizione a qualcun
altro. È nei momenti di conflitto tra gruppi che il razzismo prende piede e si
radicalizza, diventando a sua volta carburante per alimentare, amplificare e
perpetuare tale scontro.

 
Il concetto di razza
Ma quando nasce l’idea di “razza” dato che oggi è scientificamente infondato il
concetto di razza?
Il concetto di “razza” è proposto per la prima volta dal medico e viaggiatore
francese Bernier nel 1684. Successivamente, saranno Linneo (1735) e Buffon
(1749) a sviluppare maggiormente tale concetto. Entrambi questi studiosi
ritenevano, infatti, di aver individuato delle specifiche caratteristiche
morfologiche e fisiche che permettevano una chiara differenziazione dei gruppi
umani in razze distinte.
Oggi tale definizione è stata tuttavia categoricamente scientificamente
disconfermata: studi genetici, antropologici e antropometrici hanno rivelato
l’impossibilità di definire differenti  razze umane (come invece può avvenire
parlando di cani o cavalli), favorendo la sua sostituzione con il termine “etnia”,
che attribuisce le differenziazioni tra gruppi umani a fattori culturali e
antropologici più che strettamente biologici.
Carlo Tullio-Altan individua cinque fattori costitutivi l’etnicità e che possono
essere resi salienti attraverso forme di narrazione che li pongono come
determinanti rispetto ad altri nascosti e trascurati.
Tali elementi sarebbero:
1) epos: la memoria storica esaltata e celebrata in un passato comune;
2) ethos: il complesso delle istituzioni e norme etiche e religiose;
3) logos: la lingua comune;
4) genos: trasfigurazione simbolica dei legami di discendenza comune;
5) topos: identificazione del gruppo con il territorio;
Quali di questi elementi vengano utilizzati e come siano plasmati risulta arbitrario
e mutevole. Quando si parla di cultura, etnia e religione, non ci si riferisce a
concetti reali, esistenti nel senso materiale del termine (come invece avviene per
“tavolo”, o “mela”) ma costruiti e sostenuti grazie ad un accordo tra persone e
declinati attraverso l’interazione sociale, a stretto contatto con il contesto storico-
politico.

Il razzismo e il senso di superiorità rispetto agli altri


Stabilito questo, come si passa dalla definizione di un gruppo, alla
discriminazione degli altri? Perché il nostro gruppo ci appare migliore degli altri?

Secondo Fabietti e Matera (1999), il razzismo oggi si fonda su una forma di


narrazione del passato, una costruzione artificiale della memoria operata
attraverso la selezione di ricordi e informazioni che esaltano alcuni specifici
aspetti rispetto ad altri, collegati a costruire una storia utile a giustificare l’odio
verso l’altro. Un passaggio chiave in questo processo è la creazione del concetto
di “identità etnica”, che da concetto astratto, inesistente, finisce per essere
percepita come un’entità reale, naturale. Secondo gli autori questo passaggio
chiave avverrebbe attraverso processi esterni all’individuo (esasperazione delle
differenze tra gruppi e minimizzazione delle somiglianze per dare realtà e
sostanza all’identità etnica) e interni (costruzione del senso di appartenenza e
riconoscimento dell’idea di etnia come di una cosa reale, esistente).
Concetti simili vengono espressi anche da Tajifel e Turner, con la loro “Teoria
dell’identità sociale”, nella quale sostengono che quando si entra in contatto con
soggetti appartenenti al nostro stesso gruppo sociale le differenze vengono
minimizzate e le somiglianze accentuate, e specularmente, quando abbiamo a
che fare con soggetti appartenenti ad un gruppo diverso dal nostro le differenze
vengono sovraconsiderate, mentre le somiglianze tendono ad essere
minimizzate o contestualizzate.

Se pensiamo ai casi di cronaca che costellano il panorama sociale attuale,


ritroviamo diversi esempi di come l’azione criminosa possa essere intrepretata in
modo molto differente, se a commettere il reato è un membro del nostro gruppo
o di un altro: nel primo caso gli attributi negativi saranno legati alla singola
persona, mentre nel secondo tendono ad essere letti come tipici di quel gruppo.
Le quattro affermazioni che seguono esemplificano ciò che abbiamo appena
detto: “Un rom ruba perché tutti i rom rubano”; “Se un rom sventa un furto, è
perché sarà lui ad essere particolarmente onesto (…o ne ha avuto qualche altro
vantaggio…)”. Al contrario: “Se un mio concittadino ruba, è perché sarà lui ad
essere un delinquente”; “Se un mio concittadino sventa un furto, è perché noi
siamo gente onesta!”
Carmine Pio Schettino 1 C sc.
Grazie, Claudia
Prima Comunione 30 maggio 2021

Prima Comunione 30 maggio 2021


Grazie per aver gioito con me
Claudia

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