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Indice

Franco Basaglia
Se l’impossibile diventa possibile
Libertà e oppressione
Indice
Aprire l’istituzione non è aprire le porte
Franco Basaglia
Collana Humana Civilitas
Colophon

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Franco Basaglia
FRANCO BASAGLIA (1924 - 1980) È stato protagonista e animatore di una vera e
propria rivoluzione della psichiatria, che raggiunse il suo culmine nel 1978 con la chiusura dei
manicomi, a seguito della legge 180. L’esperienza di Basaglia negli ospedali di Gorizia e di
Trieste ha proposto un nuovo modello di rapporto tra medico e paziente, approfondito a livello
teorico nei suoi numerosi scritti che rappresentano ancora oggi un riferimento imprescindibile
per chiunque si occupi di diversità a livello sociale e personale.

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Franco Basaglia

Se l’impossibile diventa possibile

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Ringraziamenti
L’editore desidera ringraziare Alberta ed Enrico Basaglia per aver generosamente concesso l’utilizzo dei
testi pubblicati in questo volume e la Fondazione Franca e Franco Basaglia per la disponibilità dimostrata,
oltre che per il lavoro di tutela e valorizzazione che svolge. In particolare, ringrazia Maria Grazia
Giannichedda per la sua indispensabile collaborazione alla selezione dei testi e alla redazione dell’opera.
Un ringraziamento è rivolto anche a Silvia Jop per aver compreso lo spirito di questo volume e averne
agevolato la pubblicazione. Infine, l’editore ringrazia Raffaello Cortina Editore per aver concesso, senza
nulla chiedere, la pubblicazione del testo Libertà e oppressione nei termini di cui si dà conto nella nota al
testo.

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Indice

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Il fine è l’uomo

Libertà e oppressione
Aprire l’istituzione non è aprire le porte
Franco Basaglia

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Libertà e oppressione

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Libertà e oppressione è tratto dalle prime due sessioni delle conferenze tenute da Franco Basaglia a San
Paolo del Brasile il 18 e il 19 giugno 1979, presso l’Istituto Sedes Sapientiae. Al testo sono state apportate
alcune lievi modifiche, che conservano tuttavia intatto lo spirito del discorso originario. I punti in cui le
argomentazioni venivano interrotte dalle domande dei partecipanti, o in cui per ragioni di coerenza interna
sono state omesse alcune righe, sono indicati nel testo. L’edizione completa delle Conferenze brasiliane è
pubblicata da Raffaello Cortina Editore.

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[San Paolo, 18 giugno 1979]
È molto difficile stabilire una differenza, una divisione bizantina, fra libertà e
oppressione, ed è difficile dire se la psichiatria sia di per sé strumento di
liberazione o di oppressione. Tendenzialmente la psichiatria è sempre
oppressiva, è un modo di porsi del controllo sociale, ma è nata come elemento
di liberazione dell’uomo, e sotto questo punto di vista la questione diventa più
complessa. Se partiamo dall’origine della psichiatria vediamo emergere nomi di
grandi psichiatri, mentre del malato di mente esistono solo denominazioni,
etichette: isteria, schizofrenia, mania, astenia, ecc. La storia della psichiatria è
storia degli psichiatri, non storia dei malati. Comincia così il calvario del folle e
la grande fortuna dello psichiatra.
Fin dal Settecento il malato è sempre stato indissolubilmente legato al suo
medico, creando una condizione di dipendenza dalla quale non è mai riuscito a
liberarsi. Direi che la psichiatria non è mai stata altro che una brutta copia della
medicina, una copia nella quale il malato appare sempre totalmente dipendente
dal medico che lo cura: l’importante è che non sia mai in una posizione critica
nei confronti del medico.
Quando il popolo, nel secolo scorso, cominciò a ribellarsi all’autorità dello
Stato, si capì che voleva una parte nella gestione del potere e soprattutto che il
popolo non era un animale che poteva essere dominato facilmente. Così emerse
nettamente, nel secolo scorso, l’esistenza di due classi: la classe dei lavoratori,
che non vuole più essere dominata e vuol essere partecipe del potere, e la classe
dominante, che vuole continuare a dominare senza cedere spazio a chi vuole
spartire il suo potere. La storia è chiara: sono più di cento anni di lotte, di
sangue, di guerre civili. La classe lavoratrice ha conquistato uno spazio di
rilievo nei nostri paesi e io penso che sia fondamentale che il medico e lo
psichiatra che curano i malati sappiano queste cose.
Il medico che assiste una comunità deve infatti sapere che in questa sono
presenti come minimo due classi, una che vuole dominare e l’altra che non
vuole lasciarsi dominare. Quando lo psichiatra entra in manicomio incontra una
società ben definita: da un lato i “folli poveri”, dall’altro i ricchi, la classe
dominante che dispone dei mezzi per il trattamento dei poveri folli. Sotto questa
angolazione, come possiamo pensare che la psichiatria possa essere liberatrice?
Lo psichiatra sarà sempre in una posizione di privilegio, di dominio nei
confronti del malato. Anche questo fa parte di ciò che la storia della psichiatria

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fa capire. Essa è storia dei potenti, dei medici, e mai dei malati. Da questo punto
di vista, la psichiatria è fin dalla nascita una tecnica altamente repressiva, che lo
Stato ha sempre usato per opprimere i malati poveri, cioè la classe lavoratrice
che non produce.
Tuttavia, qualcosa di nuovo è accaduto in questa seconda metà del secolo,
qualcosa di speciale che ha dato alla scienza in generale, e in particolare ad
alcuni aspetti della medicina e della psichiatria, elementi di liberazione e non di
oppressione.
Dopo la seconda guerra mondiale il popolo e alcuni tecnici hanno cominciato a
mettere in discussione le istituzioni dello Stato. Negli anni Sessanta abbiamo
visto, come in una grande fiammata, la gioventù del mondo intero ribellarsi. In
questa rivolta noi tecnici della repressione psichiatrica eravamo presenti e
abbiamo dato il nostro appoggio a questa ribellione. Poi, mentre la rivolta del
Sessantotto si perdeva in varie direzioni e veniva recuperata in una sorta di
nuova oppressione e restaurazione, c’è stata una serie di situazioni abbastanza
interessanti che hanno legato le lotte nelle istituzioni alle lotte dei lavoratori.
I grandi movimenti di questi ultimi vent’anni sono stati la rivolta degli studenti,
i grandi scioperi operai che hanno preso in mano alcune delle lotte degli
studenti, la lotta nelle istituzioni psichiatriche e, infine, una delle più importanti,
la lotta dei movimenti comunisti. Questo momento ha fatto sperare che il mondo
potesse essere diverso. Ci sono state illusioni, ma anche una serie di certezze.
Abbiamo visto, per esempio, che quando il movimento operaio prende nelle sue
mani lotte rivendicative, di liberazione, antistituzionali, questa illusione diventa
realtà. In Italia per esempio, dopo il 1968 ci sono stati grandi scioperi, durante i
quali gli operai rivendicarono il diritto alla salute, cioè portarono a livello delle
istituzioni pubbliche le loro lotte. Parallelamente alcuni tecnici dimostrarono
che il manicomio era un luogo di oppressione e di dolore, non di cura. Infine, in
quegli anni e nei seguenti, le donne dimostrarono che l’oppressione del maschio
e della famiglia impediva loro di avere una propria soggettività.
In altre parole, tutti questi movimenti e queste lotte hanno evidenziato che, oltre
alla lotta del movimento operaio che rivendicava il cambiamento della
condizione di vita e la partecipazione alla gestione del potere, c’era anche
un’altra lotta fondamentale: la volontà di affermarsi non tanto come oggettività,
ma come soggettività. Questa è una fase molto importante, poiché è la fase che
stiamo vivendo, ed è una sfida a ciò che siamo, al rapporto tra la nostra vita
privata e la nostra vita come uomini pubblici e politici.
Quando il malato chiede al medico spiegazioni sulla sua cura, e il medico non sa
o non vuole rispondere, o quando il medico pretende che il malato se ne stia a
letto, è evidente il carattere oppressivo della medicina. Quando invece il medico

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accetta la contestazione, quando accetta di essere il polo di una dialettica, allora
la medicina e la psichiatria diventano strumenti di liberazione.
È su questa questione che dobbiamo scegliere la nostra strada: se preferiamo
rimanere nell’oscurità o se vogliamo essere presenti al nostro tempo e cambiare
in pratica la nostra vita.
[…]
La società tuttavia non può essere cambiata da un giorno all’altro. È la storia
dell’uomo, la storia di quest’ultimo secolo. Abbiamo visto una rivoluzione
importante, la Rivoluzione d’ottobre, che doveva cambiare il mondo. Dopo
questa rivoluzione ci sono stati altri cambiamenti che hanno trasformato le
condizioni di alcuni popoli. In questo secolo, dopo la rivoluzione russa, c’è stata
la rivoluzione cinese e poi anche Cuba ha cambiato la sua struttura sociale. E
ogni volta noi abbiamo sperato che la situazione di questi paesi cambiasse.
Bene, abbiamo avuto molte delusioni, però in quei paesi c’erano persone che
morivano di fame e adesso non muoiono più. Ci sono stati buoni risultati, ma
l’uomo in questi paesi non può esprimersi o è limitato nella sua espressione.
Parliamo dei manicomi e della repressione nei nostri paesi e sappiamo che nei
paesi socialisti esistono i gulag, ci sono persone represse in senso manicomiale,
manicomi terribili e persone che non possono esprimere il loro dissenso. Che
cosa possiamo dire? Tutto è finito, chiudiamo il libro e torniamo a casa? No, io
penso che se noi siamo dei buoni militanti dobbiamo approfondire la logica di
questa falsa dialettica, perché se non facciamo questa operazione spereremo
sempre in qualcosa che non arriverà mai.
Sono d’accordo con l’idea che si debba cambiare questa società. Non credo che
una persona malata possa vivere al suo interno, perché questa società la uccide.
Diventa chiaro allora che il nostro compito è cambiarla, perché vogliamo vivere
e vogliamo che il malato viva. Tuttavia non possiamo restare nell’illusione che,
una volta cambiata la società, noi potremo vivere meglio di quanto viviamo
oggi. Certamente vivremo meglio, ma ci sarà sempre una contraddizione fra
quello che siamo e quello che vorremmo essere, fra quella che è la nostra
“oggettività” e quella che è la nostra “soggettività”. L’uomo è sempre sconfitto
a questo livello: non ottiene mai di esprimere ciò che vuole. La sfida del mondo
e la sfida dell’uomo è sempre stata quella di poter trovare una maniera di
esprimersi. Il mondo non ha solo duemila anni, ne ha molti di più. A mio
avviso, dall’epoca in cui l’uomo viveva nelle caverne sono stati fatti grandi
progressi, ma la cosa più importante è che rimanga sempre questa “radicalità”
che è l’unica variabile per cui l’uomo migliora sempre. Se non avessimo questa
visione, questa immaginazione di futuro, sarebbe meglio suicidarci tutti, questa
sarebbe la logica conseguenza del “pessimismo della ragione”. Penso tuttavia

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che se qualcuno realizza qualcosa, è nella pratica che lo fa. Allora io pongo
l’alternativa seguente: dal pessimismo della ragione all’ottimismo della pratica.
È solamente così che possiamo cambiare il mondo, altrimenti rimarremo sempre
schiavi dei dittatori, dei militari e dei medici. […] Non basta però individuare
solamente una pratica, dobbiamo trovare anche una teoria per proseguire la
nostra lotta e, a dire il vero, non abbiamo ancora le idee molto chiare su questo
punto. Il capitalismo domina la scena e ci mette in una condizione molto
difficile per quanto riguarda i problemi teorici della nostra lotta. Io credo nel
trionfo del socialismo, ma non so quando verrà. Penso che oggi il buon marxista
debba porsi il problema della pratica marxista, che assume come priorità la
soggettività nella lotta quotidiana, in mezzo alle contraddizioni del capitale.
Penso che questo debba essere il nostro compito. Per esempio, se domani
cominciassimo a fare un lavoro di trasformazione istituzionale,
indipendentemente dal potere a disposizione di ciascuno, sarebbe già un grande
passo verso la conquista del socialismo. Ma se invece continuassimo il nostro
lavoro nelle istituzioni psichiatriche come se nulla fosse, penso che il
capitalismo vincerebbe sempre.
[San Paolo, 19 giugno 1979]
Noi vogliamo essere degli psichiatri, ma vogliamo soprattutto essere delle
persone impegnate, dei militanti. O meglio, vogliamo trasformare, cambiare il
mondo attraverso il nostro specifico, attraverso la miseria dei nostri pazienti che
è parte della miseria del mondo.
Quando diciamo no al manicomio, diciamo no alla miseria del mondo e ci
uniamo a tutte le persone che lottano per una situazione di emancipazione. Non
siamo più un semplice gruppo di studiosi, né un’associazione di psichiatria
sociale. Siamo persone unite che lottano per una libertà reale del mondo. Molto
probabilmente gli psichiatri tradizionali direbbero che sono un paranoico, che
ho un delirio di onnipotenza, che voglio rivoltare il mondo… ed è la verità! Ma
il mio è un delirio collettivo, una follia generalizzata. Sarebbe bello se ci fossero
nel mondo molte altre follie come questa, potremmo dire che il mondo sta
cambiando davvero… Queste però sono affermazioni di principio, il problema
sta nel mettere una pietra a fianco all’altra, in direzione di una libertà che non
sarà fatta di parole, ma costruita sui fatti.
Penso che la domanda che dobbiamo farci è questa: se la miseria scomparisse,
la psichiatria continuerebbe a esistere? In realtà è una questione puramente
teorica, perché la miseria esiste, ed esiste la psichiatria. Ma è proprio per questo
che noi dobbiamo prima di tutto abolire la miseria, per vedere cosa succede
dopo.

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Consideriamo per esempio cosa succede quando si dimette una persona, che mi
pare un tema piuttosto importante e chiarificatore. È davvero un dramma
dimettere una persona che ha passato anni di internamento e deve di nuovo
affrontare quella stessa realtà che l’ha rifiutata e l’ha spinta in manicomio.
Perché chi entra in manicomio è stato rifiutato dall’organizzazione sociale, dalla
società, e quando viene dimessa si trova di fronte una società che non è
assolutamente cambiata, e che la rimanderà nuovamente in manicomio.
Il nostro problema è trovare una soluzione di vita per la persona che viene
dimessa, non all’interno del gruppo familiare, perché non possiamo ricreare di
nuovo la famiglia, ma nel gruppo sociale. Dobbiamo mostrare a questo gruppo
chi è la persona che sta ritornando. È questa la maggiore difficoltà, quella che
esige maggiore abilità da parte dell’operatore sociale che, nella miseria
extraistituzionale deve trovare il posto per un indesiderato. Io penso che questa
presenza possa essere un detonatore molto importante per una presa di
coscienza politica da parte della società, perché una persona che è stata esclusa e
torna a essere integrata può essere uno specchio della politica
dell’organizzazione sociale in cui viviamo, del suo significato, dei suoi valori.
Nell’esempio di chi viene dimesso possiamo trovare elementi molto importanti
da cui la comunità può prendere coscienza della propria oppressione. Quando
dimettiamo un internato vogliamo far vedere alla gente che questa persona, oltre
a essere malata, aveva carenze sociali, affettive, psicologiche e umane, le stesse
che ciascuno di noi ha. Sono carenze di un’unità che abbiamo perduto o che non
abbiamo mai avuto. Abbiamo tutti una grande paura e ci sentiamo rassicurati dal
fatto di stare insieme. Immaginiamo invece una persona che ha vissuto per dieci
anni in manicomio: ci chiede protezione, e noi dobbiamo dargliela. Alla fine è
questo il nostro lavoro, la nostra abilità. Non è il caso di fare grandi elaborazioni
psicologiche per concludere che questa persona ha un complesso di Edipo non
risolto, o qualcosa del genere. L’importante per lei è avere da mangiare, avere
denaro, un letto per dormire. Questo è il problema. Questo io ho imparato finora
dalle persone con cui ho parlato.
È in questo contesto che dobbiamo collocarci ed è in questo contesto che
dobbiamo trovare una soluzione per la nostra pratica professionale. Ed è molto
difficile la nostra pratica professionale, perché non riusciamo mai a vincere e
subiamo sempre grandi sconfitte. Dobbiamo imparare a perdere e a riprendere di
nuovo la lotta, perché solamente così riusciremo a convincere. I dittatori, infatti,
sono quelli che vincono, il popolo invece, con le sue ragioni deve convincere.
[…] Ma se la società cambiasse veramente, se cambiasse la propria logica
interna, il problema della malattia mentale cambierebbe o no? Si potrebbe
parlare all’infinito di questo tema senza esaurirlo. Il fatto è che la società che

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conosciamo è quella in cui viviamo e non sarebbe realistico parlare di una
società nella quale non viviamo. Dobbiamo parlare di questa società, di ciò che
può essere fatto all’interno di questa società; dobbiamo domandarci in che
modo possiamo agire per cambiare la logica istituzionale e riuscire a dare una
risposta alle persone che stanno soffrendo. […] Certamente la sofferenza umana
non si può eliminare. Sta nella vita, sta nell’uomo, è una condizione dell’uomo.
Il problema della vita è la contraddizione fra ciò che è l’organizzazione sociale e
la sofferenza che si esprime in ciascuno di noi. Il problema è che coloro che
possono sopravvivere economicamente hanno anche la possibilità di esprimere
il dolore, cioè di esprimersi soggettivamente, perché esprimere una sofferenza
esistenziale è esprimersi soggettivamente. Chi non ha i mezzi economici per
sopravvivere non può esprimersi in alcun modo, non conosce la sofferenza
esistenziale, conosce solo la sofferenza della sopravvivenza perché non può
esprimere la contraddizione e l’antagonismo. Noi abbiamo diritto, come
cittadini, di esprimere ciò che siamo, anche se poi in realtà ci esprimiamo come
il potere vuole. È già molto che questa società accetti in modo passivo la
persona dimessa dal manicomio, ma deve accettare anche che essa lotti per
sopravvivere. Deve darle le armi per lottare, perché oltre a dover risolvere il
problema della sua malattia, questa persona ha bisogno di affetto, di denaro, di
lavoro. Questi sono gli elementi di base con i quali si può competere con gli
altri ed esprimersi. In una situazione di miseria invece si è sempre sottoposti
agli altri. […] Alla luce di tutto questo, noi dobbiamo tenere in piedi
contemporaneamente due situazioni e due ruoli: quello di tecnico e quello di
militante politico. Nel momento in cui io porto una persona a prendere
coscienza delle contraddizioni in cui vive non sto facendo un’azione tecnica ma
politica. È altrettanto vero però che in questo modo esplico anche il mio essere
psichiatra.
Facciamo un esempio: in una famiglia di operai c’è un figlio handicappato e
ogni mattina il padre e la madre, che devono andare a lavorare, portano il
bambino un po’ di qua e un po’ di là, un giorno a casa di un amico, un altro
giorno da un altro. Ma la solidarietà non è eterna e, giorno più giorno meno,
questa famiglia sarà obbligata a internare il figlio in un istituto, il che non è la
situazione ideale per un bambino handicappato. Ebbene, questa circostanza
porta con sé gravi conseguenze, perché produce angoscia nei genitori, crea già
una situazione nevrotica. Ed ecco che io come psichiatra, nel mio lavoro di
salute mentale, vengo chiamato da questa famiglia che si sente in colpa per
avere internato il bambino. Quale sarà il mio compito? Curare la nevrosi della
madre o la depressione del padre? Certo, io ho gli strumenti per farlo, ma questo
intervento non sarebbe che una modalità di repressione della famiglia. Il

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problema è che io devo spiegare alla madre e al padre perché sono stati obbligati
a internare il figlio in istituto. Sono stati obbligati perché l’organizzazione
sociale ha impedito loro di dare al bambino l’affetto di cui aveva bisogno.
Questa è un’azione politica e tecnica allo stesso tempo e il mio compito di
psichiatra è questo. Non è di dare farmaci ai genitori, ma piuttosto di creare una
presa di coscienza, un nuovo codice che consenta a queste persone di capire le
cose. […] Qui si pone però un problema di perdita di identità e di acquisizione
di una nuova identità da parte del tecnico, e anche questo è un aspetto
importante. Come può il tecnico trovare una nuova identità oltre alla vecchia,
nella quale si poneva come padrone della situazione, con il potere di etichettare
l’altro a suo piacimento? Nel manicomio infatti l’identità del tecnico è quella di
essere il padrone assoluto, il padrone medievale di molte anime, dieci, venti,
mille, duemila anime. Ma quando si comincia a parlare di distruzione del
manicomio la terra trema sotto i suoi piedi, perché il tecnico perde la sua
identità ed entra in una situazione anomala, perché non sa più chi è. Di solito il
medico che lavorava in un manicomio pubblico esercitava anche un’attività
privata. Non voglio offendere nessuno, ma mi chiedo qual è allora la differenza
tra una prostituta che vende il suo corpo e il medico che si prostituisce nel suo
ambulatorio privato quando dovrebbe invece dare il massimo della sua attività
alle istituzioni pubbliche? Il problema è di difficile soluzione, come la
redenzione della prostituta… Io credo che la redenzione e la riabilitazione del
medico debbano essere fatte poco a poco, a mano a mano che si fa la
riabilitazione del malato. Perché quando il medico si dà totalmente
all’istituzione, nel senso di trasformarla ed eliminarla, cambierà realmente
anche il suo ruolo, così come quello dello psichiatra. Sia chiaro in ogni caso che
non avevo intenzione di offendere nessuno quando ho paragonato la prostituta al
medico, perché davvero ho un grande rispetto per la prostituta…
[…]
Nel manicomio la condizione di potere del medico e di dipendenza del malato
non dà alcuna possibilità di mettere in atto una terapia. È per questo che noi
proponiamo l’eliminazione di queste istituzioni. La terapia ha senso quando c’è
reciprocità fra malato e medico, e da questo punto di vista la psicoanalisi è un
esempio significativo. All’interno della terapia analitica la cosa più importante è
il denaro, cioè il fatto che il paziente deve pagare. Questa situazione – e non sto
dicendo che sia giusta o sbagliata – pone medico e paziente in una posizione di
uguaglianza: il medico ha degli obblighi per via del denaro che riceve e il
paziente ha dei diritti per via del denaro che gli dà. Questa è una situazione di
reciprocità perché tutti e due sono impegnati nel trattamento terapeutico. Ma
questa situazione risponde ai problemi di quella piccola parte della popolazione

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che possiede i mezzi economici per difendersi. Ricordo un proverbio calabrese
che dice “Chi non ha, non è”. Chi non ha denaro per la terapia non esiste, e di
conseguenza sta in manicomio.
Quando parliamo di miseria invece, quando affrontiamo la follia in mezzo alla
miseria, la persona che sta male deve poter capire che il medico è lì per darle
una mano, per aiutarla, che non è in una situazione di potere, ma di reciprocità e
quindi di “terapeuticità”. Dobbiamo andare alla ricerca di una situazione di
complicità e di reciprocità verso e con il malato, solo così possiamo parlare di
terapia. In caso contrario possiamo parlare solo di dipendenza e di schiavitù.
[…] Deve esserci inoltre chiaro che quando parliamo di miseria e di follia,
stiamo parlando della miseria e della follia, non le stiamo sovrapponendo.
Abbiamo visto che a volte la follia non può esprimersi perché la miseria la
domina. Quando per esempio andiamo in manicomio e vediamo le persone
miserabili che ci vengono incontro, sfido qualunque psichiatra a fare una
diagnosi di schizofrenia, di mania o di qualunque altra cosa. Posso aiutare
queste persone solo dando loro la libertà di uscire dalla loro miseria. Dopo,
ovviamente, si potrà anche fare una diagnosi clinica. Prima è impossibile. Io
penso che miseria e follia camminino molto vicine ed è proprio per questo che è
impossibile scoprire la follia nella fase della miseria.
[…]
Non so che cosa sia la follia, può essere tutto o niente. È una condizione umana.
In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione, e una società per dirsi
civile dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece questa società
accetta la follia come parte della ragione, la fa diventare ragione attraverso una
scienza che si incarica di eliminarla, di far diventare razionale l’irrazionale,
trasformando il folle in malato. Il problema fondamentale consiste nel disfare
questo nodo, nell’andare al di là della “follia istituzionale” e riconoscere la
follia là dove essa ha origine, cioè nella vita.

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Aprire l’istituzione non è aprire le porte

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Aprire l’istituzione non è aprire le porte è la lezione introduttiva al primo corso di aggiornamento degli
infermieri di Trieste, tenuta da Franco Basaglia nel 1979 e pubblicata con il titolo Lezione/Conversazione
con gli infermieri in G. Gallio; M. G. Giannichedda; O. De Leonardis; D. Mauri, La libertà è terapeutica?
L’esperienza psichiatrica di Trieste (Feltrinelli, 1983).

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Quando sono stato invitato a introdurre questo corso di aggiornamento
professionale ho detto che non è un caso che la scuola di formazione per gli
infermieri, il suo inizio, coincida con la fine della mia gestione triestina. Questa
affermazione mi è stata rimproverata come se avessi voluto dire: “La storia è
finita, comincia la storiografia. Finora si è cambiata l’istituzione, si è
trasformato nella pratica, oggi comincia la razionalizzazione del cambiamento,
si comincia a edificare e abbellire la casa che è stata cambiata”.
Io non ho voluto affatto dire questo; penso che ciò non sia assolutamente vero
perché se trasformazione c’è stata qui a Trieste, non è dipesa da me, ma dallo
sforzo partito da tutti, dagli infermieri, dai medici, ma soprattutto direi dalla
forza operante dei degenti, dei pazienti, dei “matti”, di tutti coloro che oggi
chiamiamo utenti. Perché se non ci fosse stata questa forza trasformatrice nella
gente che noi abbiamo curato, nelle persone che venivano a domandare aiuto,
noi non avremmo cambiato niente, non avremmo fatto storia.
Penso che l’ulteriore organizzazione che noi possiamo dare ai servizi triestini
sarà ulteriormente storia, perché dobbiamo dimostrare che dei servizi
trasformati possono dare una risposta ai bisogni della gente. Come questo
avvenga è ancora poco chiaro, e il fatto di essere qui a parlare serve a chiarirci
su cosa abbiamo fatto. Anche perché in questo corso noi docenti non possiamo
insegnare qualcosa a voi, infermieri, e penso sia necessario piuttosto chiarire ciò
che è avvenuto in questi anni perché noi stessi, tecnici del vertice, non lo
comprendiamo bene. Non comprendiamo per quale ragione prima c’erano
milleduecento persone in questo ospedale e oggi non ci sono più; non
comprendiamo come mai questa istituzione ha cambiato la sua cultura, i suoi
limiti: come mai il manicomio, che era chiuso e ben delimitato dalle sue mura,
oggi non ci sia più e al suo posto ci sia tendenzialmente un nuovo tipo di
rapporto tra chi ha bisogno e chi risponde ai bisogni, tra noi e gli utenti. Penso
sia questo il mistero che circonda il nostro incontro e a cui noi dobbiamo dare
una risposta per comprendere meglio cosa stiamo facendo.
Le definizioni di salute e malattia oggi appaiono molto diversificate da un
tempo, come diversificato da un tempo è il concetto di istituzione. Non siamo
capaci di dare una definizione di salute e malattia se non criticando la
definizione che avevamo imparato molti anni fa: che la malattia o la salute sono
rispettivamente lo squilibrio e l’equilibrio della situazione biologica o
psicologica di una persona. E non abbiamo capito bene il concetto di istituzione
perché anni fa lo vivevamo in un senso, oggi lo viviamo in un altro.

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Ricordo che circa vent’anni fa, quando questo lavoro di trasformazione era ai
suoi inizi, sono andato in Inghilterra perché si era avviata in quel paese una
grande opera di rinnovamento dei programmi istituzionali sia nella medicina in
generale che nella psichiatria in particolare. Ho visitato molte di queste
istituzioni e ho constatato che c’era un differente rapporto tra medico e malato:
un rapporto più libero, meno coercitivo, e mi sembrava di non riuscire più a
capire il concetto di istituzione. Lo capivo sì, perché lo avevo studiato, ma il
vissuto che avevo sperimentato fino a quel momento, vivendo nelle istituzioni
italiane, era molto differente dal concetto di istituzione quale vedevo nelle
istituzioni inglesi e ho chiesto vergognandomi a un mio collega inglese: «Cosa
vuol dire istituzione?». Lui non sapeva darmi una risposta, si meravigliava
molto della mia ineleganza concettuale, in quanto gli inglesi pensano che i
continentali siano molto più “concettuali”, molto più precisi nelle definizioni,
mentre loro sono molto pragmatici, e guardandomi mi rispose in maniera
pragmatica: «L’istituzione è…» guardandosi in giro «… questa», indicando me
e lui con le mani. Eravamo nella stanza di un manicomio. E così ho avuto
l’illuminazione per cui ho capito che l’istituzione in quel momento eravamo noi
due, là, in quel posto che era il manicomio, e quindi ho cominciato a capire che
tutti i discorsi che noi facevamo in quel momento erano discorsi che aprivano o
chiudevano questa istituzione, che eravamo noi due. Se noi facevamo dei
discorsi di apertura, l’istituzione era una situazione aperta; se noi facevamo dei
discorsi di chiusura, l’istituzione era un’istituzione chiusa. Questo era il parlare,
ma poi c’era anche il fare. Se un’istituzione viene gestita dal suo personale in
maniera chiusa, mentalmente e praticamente, l’istituzione è chiusa; se si fa
l’opposto l’istituzione si apre.
Continuando a riferirci alla situazione inglese dopo il National Act, potremmo
dire che proprio in quegli anni entra nella medicina un concetto molto
importante che è quello della socialità: entra il sociale nella medicina e nella
psichiatria. L’Inghilterra, come primo paese dell’orbita occidentale, inaugura
quella che si chiamerà poi “psichiatria sociale”. La schizofrenia, la mania,
l’isterismo, ecc… non sono più etichette scientifiche, connotate da un sapere
esclusivamente biologico o psicologico. Queste etichette, che sussistono,
cominciano ad avere una pregnanza sociale molto forte per cui possiamo vedere
che, nella stessa diagnosi di schizofrenia, lo schizofrenico non è più tale in
assoluto, ma è schizofrenico in un ambiente particolare che il medico non può
più ignorare: il medico deve affrontare non solo il malato, ma la socialità che lo
circonda. Al di là dell’esempio inglese, dovremmo soffermarci su questo punto,
perché è a partire da qui che l’istituzione si apre, apre i suoi battenti e comincia
a diffondersi al di là delle mura chiuse, dovendosi confrontare con le

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problematiche sociali e facendosi essa stessa sociale. Comincia a distruggere la
sua istituzionalizzazione e a socializzarsi in quella che gli anglosassoni
chiamano comunità, in quello che noi chiamiamo il territorio.
Ma resta pur sempre istituzione, perché quando il medico nell’ospedale aperto o
nel territorio affronta il suo utente, comincia un discorso che continua a
declinarsi in uno spazio istituzionale. E allora si ripropone quell’esempio che il
mio collega inglese mi ha dato guardandosi intorno, e questo seguita ad
avvenire in seno a questa o quella istituzione, perché l’istituzione viene a essere
il tutto, il niente. Questo fatto è di estrema importanza: si inaugura un altro tipo
di logica tra le persone, potenzialmente ricca di una visione dialettica tra il
dentro e il fuori, dove il dentro non è più riferito al dentro di una istituzione
chiusa, ma al dentro di noi, e il fuori al fuori di noi. In altre parole con l’inizio di
questa logica il manicomio come “teatro della follia” scompare e il suo
contenuto viene buttato fuori, scodellato nella comunità, nel territorio. Questo
movimento mostra all’improvviso quanto di sociale c’era all’interno della
malattia della persona; e quanto questa malattia è intrisa di rapporti malvissuti,
di situazioni che ripropongono continuamente quel che è il rapporto di
oppressione tra le persone.
L’apertura del manicomio evidenzia inoltre la mistificazione di un rapporto
curante-curato regolato dalla norma istituzionale e la produzione aggiuntiva
nella vita manicomiale di una condizione di anormalità che viene a essere
l’anormalità dell’anormalità: vale a dire che il malato, che è già anormale
perché non sta alla norma, una volta entrato in manicomio è anormale due volte;
anormale di una anormalità costruita attorno alle mura del manicomio.
Nel momento in cui si leva almeno una di queste chiusure si ha l’altra chiusura
della situazione che si determina tra “una persona che ragiona bene” e “una
persona che ragiona male”. E qui sta l’abilità di vivere la nuova istituzione
aperta: di vivere una situazione della quale non abbiamo la chiave, ma abbiamo
invece il rischio del rapporto che è sempre aperto, che è nostra abilità tenere
aperto e non chiudere.
Direi che questo si verifica e si è verificato in rapporti che non sono solo i
rapporti di manicomio, chiuso o aperto. Penso che lo abbiamo verificato tutti
noi anche nei nostri rapporti familiari all’interno dei quali si rifletteva l’apertura
del manicomio. Io so per esempio (perché avete cominciato questo processo con
me) che voi avete vissuto delle gravi crisi familiari nel momento in cui vedevate
messo in discussione il vostro lavoro pratico; nel momento in cui non potevate
essere più in un rapporto autoritario coi malati; nel momento in cui questo
rapporto chiuso si apriva nell’ospedale e voi capivate che il malato aveva gli
stessi diritti che avete voi. Nel momento in cui, tornando a casa, avvertivate che

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vostro figlio aveva gli stessi diritti di libertà che avevate voi e molti dei limiti
che voi avevate posto nella vostra famiglia erano totalmente falsi, erano fondati
su una norma falsa. Allora siete entrati leggermente in crisi perché era la stessa
crisi che vivevate nel lavoro.
Questa è l’evidenza di un’altra istituzione che è la famiglia: istituzione
apparentemente aperta ma totalmente chiusa, che si ripropone di essere aperta
ogniqualvolta l’istituzione del nostro lavoro mostra di non resistere più
all’attacco dei tempi nuovi, del mondo che cambia, della trasformazione della
nostra società che non può più stare nell’abito troppo stretto, nella camicia
troppo stretta…
Non possiamo più obbligare il malato ai nostri voleri, non possiamo più
obbligare i figli ai nostri voleri e comincia allora un rapporto dialettico tra due
poli diversi: io che ho il potere e il malato che non ne ha. Io che ho il potere
come padre e il figlio che non ne ha.
Su questi due poli di rapporto si gioca tutto il potere istituzionale della norma e
dell’anormalità, della salute e della malattia. E mi pare che, proprio a partire da
qui, il discorso si faccia ancora più interessante, perché nostro compito diviene
continuamente quello di scoprire cosa è malattia, cosa è salute.
Se una persona viene da noi, un “malato”, è malato perché viene da noi? Questa
domanda, ridefinisce continuamente la malattia e la salute: questo è il nostro
compito di bravi sanitari. Perché è molto facile essere dietro a un tavolo,
aspettare che una persona venga là e pensare che, perché viene da noi, questa
persona “è necessariamente malata”. Può essere una persona che, presa nelle
spire della sua situazione, si ammala perché l’organizzazione nella quale vive
non le permette di vivere.
Allora sarà nel rapporto tra noi due che troveremo una situazione altra, al di là
di questa domanda che la persona viene a farmi “in quanto malata” e che
ribadisce continuamente il fatto che lei è malata mentre io medico sono sano. È
stato nella dialettica di questa situazione che noi abbiamo potuto avere un
rapporto diverso, nuovo, con quelle persone che erano state sempre catalogate
istituzionalmente come malate.
Tutto il lavoro fatto a Trieste ci ha portato a considerare che il problema
istituzionale, chiuso com’era, catalogato in quel determinato modo, costituiva
una scelta ben precisa di gestione della devianza e di conseguenza la nostra
azione di liberazione, in riferimento a questa problematica, era di natura
politica. Ebbene noi siamo stati nel tempo tacciati di molte cose, etichettati,
perché si trattava di istituzionalizzare la nostra azione di trasformazione…
siamo stati di volta in volta accusati di tutto.
Direi che quello che noi eravamo è quello che siamo adesso, cioè persone che

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non vogliono vivere costantemente dentro l’etichettamento di una situazione
falsa, ma vogliamo vivere in una situazione che si rinnova. Anche perché
facendo il nostro mestiere abbiamo fatto, credo, una scoperta: cioè che è vero
che abbiamo agito e abbiamo affermato di essere dei politici, ma gli psichiatri
sono sempre stati dei politici perché la gestione dell’istituzione chiusa era
l’espressione di un tipo di controllo sociale che ricadeva sulla parte povera di
una popolazione di uno Stato. I manicomi avevano come finalità non tanto
quella di curare, ma quella di controllare: penso che nessuno possa dire che
questo non è vero, perché la gente che entrava nei manicomi difficilmente
usciva e, se usciva, usciva soltanto per essere rinormalizzata e rimessa in una
catena di produzione finché non sbagliava un’altra volta, e un’altra volta veniva
messa in ospedale.
Per esempio, se noi pensiamo a un malato, che non è un malato, a un deviante
tipico qual è l’alcolista, sappiamo che è sempre stato trattato dall’istituzione
manicomiale come una persona da controllare, non da curare. L’alcolista è una
persona che viene in ospedale perché disturba l’ordine pubblico, perché dal
momento che beve e non è in grado di controllare il proprio comportamento è
preso dalla polizia e viene portato nel ghetto del manicomio, o in quello del
carcere. Sappiamo anche che ci sono altre persone che bevono e possono
controllare la propria ubriacatura, perché sono al riparo delle mura di una casa.
Quelle persone non finiscono in manicomio, ma possono curarsi e si curano.
Allora direi che esistono due tipi di alcolismo, ed è l’alcolismo dei poveri quello
che entra nell’istituzione non tanto per essere curato ma per essere controllato.
Perché che cosa facevamo per queste persone che entravano in manicomio? Le
chiudevamo dentro uno sgabuzzino, le punivamo in maniera che dopo un mese
o quindici giorni uscivano, non bevevano per un mese, poi bevevano un’altra
volta e ritornavano in manicomio. E così è il ciclo produttivo del malato.
Cosa abbiamo fatto noi per aprire l’istituzione? Aprire l’istituzione non è aprire
le porte, è aprire la testa di fronte a “questo” malato. Direi che abbiamo
cominciato a dare fiducia a queste persone, sapendo che avrebbero bevuto
ancora, ma se non fossimo entrati nel rischio del rapporto con la persona, se noi
non avessimo cominciato a considerare il nostro mestiere come un mestiere con
dei rischi reali, io penso che l’istituzione sarebbe stata sempre chiusa, avrebbe
avuto il lucchetto…
Noi abbiamo sempre corso un rischio molto grosso perché, quando abbiamo
dato la libertà al malato e il malato è andato per la strada, egli sapeva che aveva
un rapporto di solidarietà con il proprio curante che doveva rispettare e
viceversa. Questo tipo di rapporto ha creato un momento pratico di apertura
delle istituzioni che ha portato a cambiare il nostro concetto di salute e malattia.

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Soprattutto, ripensando alla definizione che il mio collega inglese mi aveva dato
di “cosa è l’istituzione”, questo rapporto ci ha portato, quando uno ci chiede
“che cosa è l’istituzione”, a prenderlo per mano, portarlo per la strada e dire “è
questa”. In questa maniera noi distruggiamo il concetto di istituzione chiusa,
distruggiamo il concetto di istituzione aperta e ci poniamo in una dimensione
totalmente altra: una dimensione in cui il rapporto uomo a uomo è determinante
per la nostra vita sociale.

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Franco Basaglia

Franco Basaglia nasce a Venezia l’11 marzo del 1924. Durante gli studi, prima
il liceo classico, poi la facoltà di Medicina all’Università di Padova, si unisce a
un gruppo studentesco antifascista, adesione che gli costerà l’arresto e un
periodo di detenzione di qualche mese. Nel 1953 consegue la specializzazione
in Malattie nervose e mentali presso la clinica neuropsichiatrica di Padova e
sposa Franca Ongaro, che collaborerà con lui alla redazione di gran parte dei
suoi scritti. Insieme avranno due figli.
Dopo tredici anni di lavoro all’università di Padova, nel 1961 vince il concorso
di direttore nell’ospedale psichiatrico di Gorizia, dove avvia l’esperienza di
apertura del manicomio, fondata su un approccio radicalmente diverso tra il
paziente e tutto il personale ospedaliero. I successi di Gorizia si traducono anche
in successi editoriali, con due opere pubblicate per Einaudi nel 1967 e nel 1968
(Che cos’è la psichiatria? e L’istituzione negata) che approfondiscono il
concetto di “apertura dell’istituzione” e valgono a Franco Basaglia la fama
nazionale e internazionale. L’istituzione negata viene tradotto in francese,
tedesco, olandese e finlandese. Contemporaneamente esce un altro libro di
grande successo, Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da
Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin che Basaglia aveva curato insieme alla
moglie Franca.
Nel 1969 Basaglia viene invitato come visiting professor al Community Mental
Health Centre del Maimonides Hospital di New York, e a partire da quella
esperienza scrive altre due importanti opere: Lettera da New York. Il malato
artificiale (1969) e La maggioranza deviante (1971).
Per un anno, nel 1970, dirige l’ospedale psichiatrico di Parma, ma l’esperienza
si chiude tra difficoltà burocratiche e dissidi politici, e alla fine dell’anno
successivo Basaglia passa a dirigere l’ospedale di Trieste, dove riesce a
raggiungere l’obiettivo di chiudere il manicomio e di dare vita a un nuovo
sistema di servizi di salute mentale comunitari.
Negli anni di Trieste Basaglia scrive diversi saggi e dà il suo contributo a
un’illuminante ricerca collettiva, Crimini di pace (1975), a cui partecipano tra
gli altri Michel Foucault, Erving Goffman, Ronald Laing, Noam Chomsky e
Robert Castel. È un’opera che testimonia l’ampiezza del suo impegno
intellettuale, che in quel periodo anima anche il movimento di Psichiatria
democratica e il Réseau, la rete europea di alternativa alla psichiatria.
Il 13 maggio del 1978 il Parlamento italiano approva la legge di riforma
psichiatrica – la legge 180 – sollecitata da un decennio dal movimento italiano e

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in gran parte ispirata dal lavoro dello psichiatra veneziano, tanto da essere
universalmente nota con il nome “legge Basaglia”. I principi che enunciava
sono stati successivamente inseriti nella legge di riforma sanitaria che ha
istituito il Servizio Sanitario Nazionale.
L’anno seguente Basaglia parte per il Brasile, dove tiene un importante ciclo di
seminari – successivamente raccolti in volume – nel corso dei quali analizza e
commenta la propria esperienza di psichiatra e di uomo.
Alla fine del 1979 viene chiamato a Roma per coordinare i servizi psichiatrici
della Regione Lazio, ma all’inizio del 1980, dopo una conferenza alla Freie
Universität di Berlino, comincia ad avvertire i primi sintomi del tumore al
cervello che lo porterà alla morte pochi mesi dopo.
Il 29 agosto 1980 Franco Basaglia muore nella sua casa di Venezia, lasciando
una prolifica eredità di esperienza e di pensiero, oggi curata e promossa dalla
Fondazione Franca e Franco Basaglia. I suoi Scritti sono stati raccolti da Franca
Ongaro e pubblicati prima in due volumi da Einaudi nel 1981-1982, e poi nel
2017 da Il Saggiatore. Nel 2005 è uscita, sempre per Einaudi, un’antologia dal
titolo L’utopia della realtà, e nel 2018 Raffaello Cortina Editore ha dato alle
stampe una nuova edizione delle Conferenze brasiliane, curata da Maria Grazia
Giannichedda e Franca Ongaro.

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Collana Humana Civilitas
Il pensiero di uomini e donne liberi animati da un ideale di convivenza umana fondato sulla dignità della
persona, sulla responsabilità e sulla cultura del rispetto e dell’accoglienza.

1. Franco Basaglia, Se l’impossibile diventa possibile


2. Aldo Moro, Il fine è l’uomo

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Franco Basaglia, Se l’impossibile diventa possibile
© Comunità Editrice 2018
© Eredi di Franco Basaglia

Per il testo Libertà e oppressione


© 2000, 2018 Raffaello Cortina Editore

ISBN 97888-32005-01-1

Redazione: Angela Ricci, Andrea Crisanti de Ascentiis


Impaginazione e ebook: Studio Akhu
Progetto grafico: BeccoGiallo Lab

Edizioni di Comunità è un’iniziativa in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti


www.fondazioneadrianolivetti.it

Direzione editoriale: Beniamino de’ Liguori Carino

facebook.com/edizionidicomunita
twitter.com/edcomunita
www.edizionidicomunita.it
info@edizionidicomunita.it

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Indice
Franco Basaglia 4
Indice 2
Se l’impossibile diventa possibile 5
Libertà e oppressione 9
Indice 7
Aprire l’istituzione non è aprire le porte 19
Franco Basaglia 27
Collana Humana Civilitas 29
Colophon 30

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