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D’IMPRESA
La
teoria
economica,
pur
riconoscendo
la
decisiva
responsabilità
dell'imprenditore
nelle
scelte
strategiche
dell'azienda,
ha
incontrato
non
poche
difficoltà
nell'identificarne
i
contorni,
di
per
sé
poco
definiti,
e
nel
renderne
in
qualche
modo
analitica
la
vaghezza
concettuale.
Le
prerogative
e
le
capacità
di
tale
attore
economico,
in
quanto
estremamente
dinamiche,
non
possono,
infatti,
essere
costrette
entro
modelli
generali,
validi
in
assoluto.
D’altra
parte,
nell'ideale
economia
di
mercato
oggetto
di
studio
del
mainstream
economico
–
quello
di
impostazione
neoclassico-‐marginalista
-‐
non
c'è
spazio
per
l'incertezza,
le
asimmetrie
informative,
le
esternalità
e
la
cattiva
allocazione
delle
risorse:
è
un
contesto
statico,
tendente
all'equilibrio
tra
domanda
e
offerta,
in
cui
elementi
dinamici,
e
quindi
perturbatori,
quali
le
iniziative
imprenditoriali
non
vengono
nemmeno
ipotizzati.
Non
è
un
caso
che
i
contributi
più
significativi
riguardo
alla
natura
e
alla
performance
dell'imprenditore
siano
pervenuti
dalle
scienze
umane
e
dalle
scienze
sociali
(sociologia,
antropologia,
psicologia
e
soprattutto
storia).
A
partire
dalla
rivoluzione
industriale,
l'eventuale
interesse
teorico
veniva
rivolto
alla
figura
e
al
ruolo
del
capitalista;
con
l’estendersi
della
seconda
grande
onda
dell'industrializzazione
moderna
(legata
alle
tecnologie
dell’elettricità
e
della
catena
di
montaggio,
alle
economie
di
scala,
ai
rilevanti
investimenti
in
capitale
fisso)
si
aprì
qualche
spazio
per
la
riflessione
intorno
alla
figura
dell'imprenditore,
presto
però
ridimensionato
dall’attenzione
prestata
alla
rivoluzione
manageriale
e
alle
organizzazioni
burocratiche
della
grande
impresa
di
tipo
fordista.
Verso
la
fine
del
secolo
scorso
si
è
avuto
un
notevole
ritorno
di
interesse
per
l'imprenditore,
attribuibile,
da
un
lato,
ai
cambiamenti
innescati
dalle
tecnologie
dell’informazione
e
della
comunicazione,
dall’altro
alla
crescente
consapevolezza
che
anche
forme
di
organizzazione
produttiva
diversa
da
quella
della
grande
impresa
manageriale
non
solo
sopravvivevano
ma
anzi,
in
contesti
anche
molto
diversi,
sembravano
prosperare.
1.1 La
tradizione
continentale
(prevale
la
componente
microeconomica:
tradizione
marginalista
–
neoclassica
basata
sulla
teoria
del
valore
soggettivo
–
l’imprenditore
e
l’impresa
vengono
prese
in
considerazione)
In
tema
di
imprenditore,
possono
distinguersi
due
tradizioni
di
ricerca:
quella
continentale,
che,
prendendo
le
mosse
dall’Italia
tardomedievale,
giunge
fino
a
Schumpeter
e
ai
suoi
seguaci;
e
quella
anglosassone,
che
originata
nell’Inghilterra
della
Rivoluzione
industriale,
raggiungerà
la
sua
massima
fioritura
negli
Stati
Uniti,
dopo
la
seconda
guerra
mondiale.
Nella
tradizione
continentale,
in
cui
prevale
un
approccio
ermeneutico
-‐
interpretativo,
la
rappresentazione
del
processo
economico
lascia
spazio
per
l'agire
individuale
e
per
la
vitalità
e
la
creatività
dei
soggetti
economici;
viceversa,
in
quella
anglosassone
la
ricerca
del
funzionamento
oggettivo
del
sistema
economico
rigetta
un’analisi
del
comportamento
individuale
distinta
dalle
dinamiche
delle
macrograndezze
economiche.
Risalgono
all'Italia
pre
-‐
rinascimentale
i
primi
tentativi
di
legittimazione
del
profitto
come
remunerazione
del
rischio
e
dell'incertezza
connessi
con
quell'attività
mercantile
divenuta
ormai
tratto
dominante
di
ampi
settori
della
società
dell’epoca.
Fu
questo
un
passaggio
cruciale
nel
processo
che
avrebbe
portato
all'affermazione
di
una
civiltà
dalla
forte
connotazione
mercantile
-‐
imprenditoriale
e
dello
stesso
capitalismo.
Del
resto,
non
si
potrebbe
spiegare
adeguatamente
il
successo
dell’economia
italiana
registrato
sino
al
Seicento
senza
riconoscere
il
ruolo
fondamentale
svolto
da
una
dinamica
e
continuamente
rinnovata
classe
di
imprenditori.
Ne
erano
consapevoli
mercanti
e
uomini
di
pensiero
del
tempo,
che
È
tuttavia
un
francese,
Cantillon
-‐
vissuto
a
cavallo
del
Settecento
-‐
ad
aver
introdotto
nel
linguaggio
economico
il
termine
entrepreneur,
identificando
colui
che
cercava
di
sfruttare
le
opportunità
del
mercato
create
dalla
discrepanza
tra
domanda
e
offerta,
reputandolo
“il
vero
organizzatore
di
tutto
ciò
che
si
produce”.
Gli
imprenditori
rappresentavano
una
delle
tre
categorie
(con
salariati
e
proprietari)
in
cui
Cantillon
raggruppava
gli
agenti
economici:
l'unica
caratterizzata
da
un
rischio
derivante
dalla
volontà
di
comprare
a
un
prezzo
certo
e
vendere
a
un
prezzo
incerto,
per
realizzare
il
guadagno
determinato
dalla
differenza:
si
è
imprenditori
in
quanto
disposti
ad
assumersi
il
rischio
della
previsione.
-‐ Baudeau
riconobbe
uno
specifico
ruolo
alla
classe
imprenditoriale
nell'attività
economica,
in
particolare
in
quell'agricola.
Tale
classe
era
mossa
dal
profitto
assicurato
dalle
iniziative
volte
a
perfezionare
l'agricoltura,
comprimere
i
costi
e
aumentare
la
produzione.
L'imprenditore
doveva
quindi
essere
ben
distinto
dal
proprietario
e
dal
salariato,
essendo
colui
che
metteva
in
atto
le
migliorie,
che
correva
i
rischi
e
affrontava
tutte
le
fatiche
e
le
incertezze:
al
concetto
di
rischio
si
associa
ora
quello
di
miglioria,
di
innovazione;
-‐ Per
l’italiano
Gioia
gli
intraprenditori
sono
agenti
intermedi
tra
i
proprietari
e
capitalisti,
da
una
parte,
e
la
massa
degli
operai,
dall’altra:
sono
i
centri
da
cui
parte
il
movimento
sociale,
sono
i
canali
da
cui
si
diffondono
le
ricchezze
di
tutti
e
si
ripartono
secondo
i
titoli
di
ciascuno;
-‐ Say
fu
il
primo
economista
a
sottolineare
con
forza
il
ruolo
manageriale
dell'imprenditore,
ponendo
una
chiara
distinzione
tra
la
funzione
di
fornire
capitale
a
un'impresa
industriale
e
quella
di
dirigere
e
controllare
la
produzione.
Colui
che
svolgeva
questa
funzione
doveva
essere
dotato
di
retto
giudizio
e
di
perseveranza,
e
l'essenza
della
sua
attività
consisteva
nel
mettere
in
atto
tutte
le
operazioni
indispensabili
alla
creazione
di
prodotti.
Per
Say
l'imprenditore
è
l'agente
principale
della
produzione:
emergeva
così
la
componente
soggettiva
dell’attività
creativa
dell’imprenditore,
declinata
però
in
un
contesto
ancora
statico,
quello
classico
dell’equilibrio
(sarà
con
Schumpeter
che
la
figura
dell’imprenditore
verrà
collocata
in
una
prospettiva
dinamica)
1.2 La
tradizione
della
scuola
economica
anglosassone
(prevale
la
componente
macroeconomica
della
tradizione
classica
basata
sulla
teoria
del
valore
lavoro
caratterizzata
da
un
approccio
oggettivante
e
spersonalizzato)
Negli
schemi
analitici
della
scuola
economica
classica
inglese,
in
cui
la
funzione
imprenditoriale
risultò
trascurata
almeno
fino
alla
metà
dell’Ottocento,
permase
a
lungo
l’influenza
del
padre
fondatore
dell’economia
politica,
Smith.
Di
fatto,
nella
Ricchezza
delle
nazioni
[1776]
Smith
ignorava
la
figura
dell'imprenditore:
da
una
parte,
egli
coglieva
la
differenza
fra
l'attività
di
procurare
lo
stock
di
capitale
necessario
all’attività
produttiva,
in
cambio
di
profitti,
e
quella
di
direzione,
in
cambio
di
salario;
dall’altra,
però,
identificava
i
titolari
delle
due
funzioni
in
un
solo
soggetto,
non
distinguendo
fra
capitalista
imprenditore
(per
il
quale
non
esisteva
nemmeno
un
termine
inglese
equivalente
al
francese
entrepreneur).
È
vero
tuttavia
che
Smith
scriveva
agli
albori
della
prima
rivoluzione
industriale
-‐
quando
le
fabbriche
erano
di
dimensioni
ridotte,
non
vi
era
un
mercato
del
credito
e
alle
necessità
finanziarie
provvedeva
il
proprietario,
che
al
limite
allargava
la
raccolta
a
qualche
amico
o
parente.
Sulla
falsariga
di
Smith
si
mosse
anche
l’altro
padre
dell’economia
classica,
Ricardo,
che
si
interessò
allo
schema
del
reddito,
alla
legge
della
domanda
e
dell'offerta
e
allo
schema
di
formazione
dei
prezzi
di
Say,
ma
nessuna
attenzione
venne
riservata
alla
funzione
imprenditoriale.
Pur
riconoscendo
che
il
capitalista
http://www.unictblog.com
-‐
http://unict.myblog.it
2
che
“avesse
fatto
l’invenzione
della
macchina
o
che
per
primo
l’avesse
utilmente
impiegata”
avrebbe
goduto
di
un
vantaggio
supplementare,
realizzando
per
un
certo
tempo
ingenti
profitti,
Ricardo
non
identificava
nella
capacità
innovativa
la
caratteristica
distintiva
del
capitalista/imprenditore
rispetto
agli
altri
capitalisti.
Piuttosto
considerava
la
produzione
e
l'investimento
di
capitale
come
un
processo
più
meno
automatico,
che
non
comportava
alcuna
scelta
critica
e
nessuna
valutazione
sul
rischio.
Il
meccanismo
cruciale
che
stava
alla
base
del
sistema
economico
e
del
suo
sviluppo
era
l'accumulazione
di
capitale,
la
cui
genesi
andava
ricercata
nei
profitti
realizzati
dal
capitalista
in
quanto
fornitore
e
detentore
del
capitale
e
non
in
quanto
imprenditore.
Questa
posizione
rimase
sostanzialmente
immutata
in
Mill
e
Marx,
sebbene
in
entrambi
ci
sia
un
qualche
elemento
di
novità,
dovuto
alla
realtà
ben
diversa
con
cui
avevano
a
che
fare.
Nell’Inghilterra
vittoriana
–
con
imprese
di
notevoli
dimensioni,
un
dinamico
mercato
di
capitali
e
l’affermazione
delle
società
per
azioni
–
non
era
più
possibile
mantenere
una
stretta
identificazione
tra
proprietà
e
direzione
d’impresa.
Mill
introduceva
il
termine
entrepreneur,
ma
identificando
con
esso
un
dirigente
stipendiato,
un
manager,
il
cui
coinvolgimento
personale
nell’impresa
era
condizionato
dalla
misura
del
suo
salario
e
dalla
presenza
dell’
“occhio
del
padrone”.
Per
certi
versi,
Marx
sembrava
procedere
oltre
Mill
sulla
strada
della
rivendicazione
di
un
ruolo
autonomo
e
determinante
dell'imprenditore
nel
processo
produttivo,
salvo
poi
sostenere
che
il
guadagno
d'imprenditore
-‐
che
spetta
al
capitalista
attivo
e
che
non
si
contrappone
al
lavoro
salariato
ma
solo
all'interesse
-‐
è
piuttosto
un
salario,
un
salario
di
controllo,
più
alto
di
quello
del
comune
operaio,
in
quanto
retribuzione
di
un
lavoro
più
complesso
e
autodeterminato.
Marx
appare
pertanto
pienamente
inserito
nell’evoluzione
del
pensiero
classico
britannico.
Sul
finire
dell’800,
in
Italia,
Francia
e
Svizzera,
la
teoria
dell’equilibrio
economico
generale,
con
Pareto
e
Walras,
elimina
la
figura
dell'imprenditore,
poiché
l’imprenditore
non
costituisce
un
fattore
di
produzione
come
il
capitale
e
il
lavoro
e
quindi
non
viene
ricompensato
per
una
sua
funzione
specifica.
In
Inghilterra,
invece,
Marshall
inaugura
un
ambito
di
studi,
quello
dell'economia
industriale,
in
cui
riserva
all'imprenditore
un
ruolo
specifico.
È
il
ruolo
di
organizzatore
della
produzione,
retribuito
con
una
quota
dei
profitti:
cioè
in
certi
casi
si
riconosce
l'organizzazione
con
un
quarto
fattore
della
produzione.
Marshall
tende
a
limitare
questi
casi
soprattutto
alle
piccole
e
medie
imprese,
in
cui
è
più
facile
ascendere
dal
ruolo
di
lavoratore
a
quello
d’imprenditore.
L’interesse
mashalliano
per
l’impresa
media
lo
porta
a
porre
l’accento
sul
quotidiano
dispiegarsi
dell’attività
economica:
per
cui
l'imprenditore
non
è
l’eroe
schumpeteriano
che
provoca
shock
esogeni
al
sistema,
rompendone
l’equilibrio,
ma
è
uno
dei
soggetti
economici
che
operano
nel
sistema
“immerso
nella
densa
tessitura
delle
relazioni
di
mercato,
in
un
continuum
che
lo
collega
agli
altri
comprimari
dell'economia”.
In
Europa
la
tradizione
continentale
non
era
certo
esaurita:
essa
riemerse
prepotentemente
in
Germania
e
in
Austria
con
Weber,
Sombart
e
Schumpeter.
Fondamentale
premessa
fu
l’opera
di
Menger,
per
il
quale
oggetto
dell'analisi
scientifica
dell'economia
potevano
essere
soltanto
i
comportamenti
degli
agenti
individuali,
consumatori
o
imprenditori,
mentre
non
potevano
avere
alcuna
solidità
analitica
gli
studi
macroeconomici
di
aggregati
quali
il
reddito
o
la
ricchezza
nazionali.
Non
c’è
dubbio
che
dei
tre
autori,
Schumpeter
sia
stato
quello
che
ha
maggiormente
influito
sull’elaborazione
teorica
successiva,
tanto
da
identificare
l’imprenditore
schumpeteriano
con
l’imprenditore
tout
court.
L'imprenditore,
nello
specifico
l'imprenditore
-‐
innovatore,
è
l'anima
del
capitalismo,
il
primo
motore
dello
sviluppo
economico.
Rompendo
con
la
teoria
ortodossa,
Schumpeter
si
interessa
al
funzionamento
dinamico
del
sistema,
osservando
come
la
storia
del
capitalismo
è
segnata
da
esplosioni
e
catastrofi
violente,
che
ci
devono
indurre
a
smettere
di
pensare
ad
esso
come
a
qualcosa
per
sua
natura
armonioso
e
senza
scosse.
Questi
squilibri
(i
cicli
economici)
sono
indotti
dall'azione
dinamica
degli
imprenditori
innovatori
che
mettono
in
atto
nuove
combinazioni
economiche
-‐
nuovi
prodotti,
nuovi
processi
di
produzione,
nuove
forme
organizzative
–
e
che
trasformando
le
invenzioni
in
innovazioni,
rendendo
cioè
le
invenzioni
sfruttabili
economicamente,
fanno
da
ponte
fra
il
progredire
della
scienza
e
della
tecnologia
e
quello
dell'economia.
Il
http://www.unictblog.com
-‐
http://unict.myblog.it
3
rischio
cui
vanno
incontro
è
ripagato
dai
profitti
assicurati
dalla
posizione
di
rendita
monopolistica
che
temporaneamente
l’innovazione
assicura
loro:
temporaneamente
perché
ben
presto
l'innovazione
tenderà
ad
essere
imitata
e
affinata
dalla
concorrenza;
inoltre,
essa
stimolerà
altri
progressi
mettendo
in
atto
di
volta
in
volta
fasi
più
o
meno
intense
di
attività
innovativa
nei
vari
settori
produttivi
che,
appunto,
squilibrano
il
sistema.
Le
innovazioni
tendono
ad
affollarsi
in
grappoli
e
a
concentrarsi
in
settori
specifici
(come
per
i
miglioramenti
delle
imprese
tessili
inglesi
ai
tempi
della
rivoluzione
industriale).
Da
ciò
per
Schumpeter
derivava
la
natura
ciclica
e
fluttuante
del
processo
di
crescita
capitalistica.
Egli
dedicò
la
sua
attenzione
ai
cicli
di
lungo
periodo,
le
cosiddette
onde
lunghe
di
Kondratieff,
di
durata
più
o
meno
cinquantennale.
Ne
identificò
tre:
il
primo
(1786-‐1842),
connotato
dal
cluster
di
innovazioni
nel
settore
tessile
e
metallurgico
della
prima
rivoluzione
industriale;
il
secondo
(1843-‐97)
nelle
ferrovie
e
nelle
attività
innovative,
il
terzo,
ancora
in
svolgimento
quando
scriveva,
caratterizzato
dal
dinamismo
dei
settori
elettrico,
chimico
e
automobilistico.
Al
capitalismo
imprenditoriale
(la
cui
analisi
aveva
preso
avvio
con
la
Teoria
dello
sviluppo
economico
ed
era
culminata
con
i
Business
cycles)
gradualmente
si
sostituì
il
capitalismo
del
big
business,
in
cui
i
manager
(e
non
più
gli
imprenditori)
erano
gli
attori
principali
del
progresso,
mentre
l'attività
innovativa
diveniva
endogena
al
sistema
delle
imprese
che
la
sviluppava
attraverso
un
costante
sforzo
delle
sue
unità
di
ricerca
specializzate.
Schumpeter,
in
questa
seconda
fase,
sembrava
cogliere
appieno
quei
caratteri
della
trasformazione
in
atto
nel
capitalismo
americano.
Il
“secondo”
Schumpeter
sarà
fonte
di
ispirazione
per
autori
fondamentali,
come
Galbraith
e
Chandler,
per
i
quali
la
funzione
imprenditoriale
e
l'attività
innovativa
divengono
la
discriminante
per
l'affermazione
e
il
successo
della
grande
impresa.
Nell’America
del
Novecento,
emerge
anche
una
linea
di
ricerca
di
matrice
istituzionalista,
che
partendo
da
Knight
arriva
a
Coase
e
Williamson.
Per
Knight
l’aspetto
che
definisce
l'imprenditore
non
è
più
l'innovazione
ma
il
rischio
e
l'incertezza.
Mentre
il
rischio
è
qualcosa
di
misurabile
ex
ante
dall’operatore
economico,
l’incertezza
non
lo
è,
perché
implica
situazioni
nuove
e
sconosciute.
Quando
è
presente
l’incertezza
e
il
compito
di
decidere
cosa
e
come
fare
conquista
la
precedenza
su
quello
i
eseguire,
diventa
imperativa
la
centralizzazione
di
questa
funzione
di
decisione
e
di
controllo.
Il
profitto
dell’imprenditore
è
la
retribuzione
che
egli
ottiene
nel
portare
a
termine
quei
compiti
e
la
sua
funzione
si
esplica
anche
in
ambiente
neoclassico,
ovvero
in
presenza
di
concorrenza
perfetta
e
in
situazione
di
stabile
equilibrio
di
lungo
periodo.
Alcuni
spunti
di
Knight
vennero
ripresi
da
Coase
e
Williamson,
anche
se
con
essi
l’enfasi
si
sposta
dall’imprenditore
all’impresa.
Fra
i
più
interessanti
contributi
teorici
in
materia
di
imprenditorialità
della
seconda
metà
del
Novecento
sono
da
annoverare
quelli
della
cosiddetta
“scuola
neoaustriaca”
(come
von
Mises,
von
Hayek,
Kirzner,
quindi
sempre
tradizione
continentale).
È
la
natura
dinamica
del
processo
tendenziale
dell’economia
verso
l’equilibrio
che
determina
acquisizione
e
diffusione
della
conoscenza.
Gli
individui
che
agiscono
sul
mercato
hanno
generalmente
una
scarsa
conoscenza;
ciò
fa
di
essi
dei
pricetakers.
Se,
d’altra
parte,
un
particolare
agente
economico
ha
conoscenze
maggiori,
rifiuterà
di
comportarti
come
un
pricetaker
e
agirà
in
modo
da
manipolare
a
suo
vantaggio
il
mercato:
ciò
che
produce
profitti
è
il
fatto
che
l’imprenditore
che
valuta
i
futuri
prezzi
dei
prodotti
in
modo
più
corretto
degli
altri
acquisisce
tutti
o
in
parte
i
fattori
di
produzione
a
prezzi
che
risultano
vantaggiosi.
In
tal
modo,
il
costo
totale
della
produzione
compreso
l'interesse
sul
capitale
investito,
risulta
inferiore
ai
prezzi
che
egli
praticherà:
questa
differenza
è
il
profitto
dell'imprenditore.
Rielaborando
questi
concetti,
per
Kirzner
(americano
proveniente
dalla
scuola
austriaca)
l'imprenditore
è
un
intermediario
che
svolge
la
funzione
di
trovare
collegare
informazioni
nel
mercato.
Il
suo
dinamismo
è
motivato
dall'esistenza
di
informazione
incompleta
o
costosa;
egli
è
alla
ricerca
di
tali
imperfezioni
perché
la
loro
individuazione
rende
possibile
la
creazione
di
ricchezza.
Come
in
Schumpeter,
anche
in
Kirzner
l’imprenditore
è
colui
che
vede
ciò
che
gli
altri
non
sono
riusciti
a
vedere,
ma
anziché
forza
squilibrante,
agisce
come
forza
che
riporta
tendenzialmente
all’equilibrio.
http://www.unictblog.com
-‐
http://unict.myblog.it
4
L’informazione
diventa,
quindi
il
centro
delle
più
recenti
concettualizzazioni
in
tema
di
imprenditore.
Per
il
britannico
Casson,
l'imprenditore
è
colui
che
si
specializza
nel
prendere
decisioni
critiche
e
fondamentali
riguardo
al
coordinamento
di
risorse
scarse;
egli
infatti
può
godere
dei
vantaggi
comparati
che
gli
derivano
dall'avere
un
miglior
accesso
alle
informazioni
e
dal
saper
meglio
sfruttare
quelle
che
possiede.
Il
profitto
è
la
“rendita
dell’abilità”,
una
temporanea
rendita
monopolistica
che
gli
proviene
dalla
sua
superiore
capacità
di
giudizio.
L’imprenditore
è
al
tempo
stesso
il
capitalista,
il
proprietario
ed
il
manager.
A
livello
teorico,
quindi,
sono
state
di
volta
in
volta
individuate
le
qualità
di
un
imprenditore
di
successo,
connotando
la
figura
di
quell’ambiguità
di
cui
si
diceva
all’inizio.
È
qui
che
interviene
con
successo
la
storia
d’impresa,
sia
nella
variante
della
entrepreneurial
history,
tesa
essenzialmente
a
valorizzare
le
figure
dei
singoli
imprenditori
-‐
nell'indirizzo
tracciato
dal
primo
Schumpeter,
sia
in
quella
della
business
history,
interessata
ad
analizzare
l'evoluzione
delle
strutture
organizzative
interne
all'impresa
-‐
più
in
consonanza
con
il
secondo
Schumpeter.
Secondo
la
teoria
neoclassica,
le
imprese
agiscono
in
mercati
perfetti
e
sono
fortemente
caratterizzate
a
priori:
hanno
dimensione
minima,
competono
con
un
elevato
numero
di
concorrenti,
subiscono
il
prezzo
imposto
dal
mercato,
agiscono
razionalmente
disponendo
di
tutte
le
informazioni
per
essere
efficienti.
Questa
concezione
–
che
ricorre
anche
nei
più
consolidati
filoni
dell’economia
industriale
(quelli
del
paradigma
Struttura
–
Condotta
–
Performance)
–
risulta,
senza
voler
entrare
nel
merito,
poco
utile
alla
storia
d’impresa,
che,
anzi,
se
da
essa
traesse
ispirazione,
verrebbe
svuotata
di
ogni
suo
contenuto.
Al
contrario,
una
concezione
dinamico
–
strategica
dell’impresa,
oltre
a
risultare
indispensabile
allo
storico,
può
essere
a
sua
volta
vantaggiosamente
remunerata
dalla
storia,
in
un
flusso
continuo
di
reciproci
feedback.
È
in
questa
logica
che
sono
richiamate
le
riflessioni
più
significative
nel
percorso
della
teoria
dell’impresa
verso
una
concezione
dinamica,
storica,
evolutiva
dell’istituzione
cardine
del
capitalismo.
Il
tedesco
Sombart
(inizi
‘900)
racchiude
nella
sua
opera
“Il
capitalismo
moderno”
le
differenti
posizioni
dell'idealismo
e
del
positivismo,
del
socialismo
marxiano,
del
nazionalismo,
dell’economia
storica
e
della
sociologia
economica.
Sombart
propone
una
spiegazione
dell’evoluzione
del
sistema
capitalista
dalle
origini
del
Novecento
incentrata
sull’analisi
dell’impresa
capitalistica.
Il
capitalismo
è
un'organizzazione
economica
di
scambio,
in
cui
collaborano,
uniti
dal
mercato,
due
diversi
gruppi
di
popolazione,
i
proprietari
dei
mezzi
di
produzione,
che
contemporaneamente
hanno
la
direzione
e
costituiscono
i
soggetti
economici,
e
i
lavoratori
nullatenenti
(come
oggetti
economici):
tale
organizzazione
è
dominata
dal
principio
del
profitto
e
dal
razionalismo
economico.
Il
sistema
si
differenzia
da
quelli
che
lo
hanno
preceduto
perché
in
esso
si
afferma
lo
spirito
capitalista.
Esso
è
il
portato
di
un
lungo
processo
che
ha
visto
prima
affermarsi
lo
spirito
di
Faust,
che
è
lo
spirito
dell'intrapresa:
quando
questo
spirito
di
conquista
penetra
nella
vita
economica
allora
emerge
il
capitalismo.
Quando
allo
spirito
di
potere
e
di
conquista
si
associa
lo
spirito
borghese,
che
assicura
ordine
e
precisione
e
calcola
freddamente
lo
scopo
dell’azione
e
le
modalità
per
raggiungerlo,
nasce
lo
spirito
capitalista,
che
è
la
fusione
dello
spirito
imprenditoriale
che
vuole
conquistare
e
guadagnare,
e
dello
spirito
borghese,
che
vuole
ordinare
a
conservare.
L’istituzione
economica
del
sistema
capitalista
è
l’impresa
capitalistica.
Essa
è
un'unità
astratta,
l'azienda,
che
può
assumere
forme
diverse
a
seconda
dell'attività
svolta,
della
proprietà
del
capitale
investito,
dell'organizzazione
del
lavoro
e
dei
rapporti
con
il
potere
pubblico.
Lo
scopo
dell'azienda
è
il
conseguimento
del
profitto.
La
somma
dei
valori
di
scambio
che
costituisce
il
fondamento
reale
di
un’impresa
è
il
capitale.
Lo
scopo
dell'economia
capitalistica
consiste
nella
valorizzazione
del
capitale
investito,
cioè
nella
sua
riproduzione
aumentata
di
un
certo
profitto.
All'imprenditore
tradizionale
dell'epoca
del
capitalismo
liberale
si
andava
sostituendo
un'organizzazione
complessa
caratterizzata
dal
distacco
della
funzione
imprenditoriale
dalla
proprietà,
http://www.unictblog.com
-‐
http://unict.myblog.it
5
dalla
progressiva
specializzazione
dell'attività
produttiva,
dall'integrazione
tra
le
attività
produttive
e
quelle
finanziarie.
America
anni
Trenta:
momento
culminante
della
lunga
fase
di
trasformazione
del
capitalismo.
L’aspetto
più
evidente
di
tale
cambiamento
era
rappresentato
dall’emergere
del
big
business,
organizzato
in
grandi
corporations
–
cioè
società
anonime
gestite
da
gerarchie
manageriali.
In
“The
modern
corporation
and
private
property”
Berle
e
Means
notavano
come
nel
1930
le
200
maggiori
corporations
americane
controllassero
circa
la
metà
della
ricchezza
non
bancaria
detenuta
sotto
forma
societaria
nel
paese
e
introitassero
il
43,2%
del
reddito
societario.
Questo
significava
che
i
circa
2000
individui
che
controllavano
tali
società
avevano
nelle
loro
mani
più
di
1/5
della
ricchezza
degli
Stati
Uniti.
Il
controllo
non
si
identificava
più
con
la
proprietà,
quasi
due
terzi
della
ricchezza
industriale
del
paese
erano
passati
dalla
proprietà
individuale
a
quella
delle
grandi
società,
le
quali
a
loro
volta
erano
possedute
da
milioni
di
piccoli
azionisti
(o
direttamente
o
attraverso
fondi
pensionistici
e
assicurativi).
La
società
per
azioni
era
divenuta
a
un
tempo
lo
strumento
mediante
il
quale
esercitare
il
diritto
di
proprietà
e
un
mezzo
fondamentale
per
organizzare
la
vita
economica.
Lo
sviluppo
del
grande
capitale
anonimo
aveva
reso
possibile
la
concentrazione
della
ricchezza
di
innumerevoli
individui
in
enormi
aggregati
(il
big
business),
il
cui
controllo
era
stato
ceduto
a
un
ristretto
gruppo
di
persone:
la
direzione
dell'impresa
risultava
affidata
a
individui
diversi
da
quelli
che
avevano
in
essa
investito.
Tre
diverse
forme
di
separazione
fra
proprietà
e
controllo
erano
possibili:
controllo
di
maggioranza,
controllo
di
minoranza
e
controllo
degli
amministratori
(con
il
quale
venivano
esclusi
tutti
o
quasi
proprietari).
Era
soprattutto
in
questi
ultimi
casi
che
la
separazione
della
proprietà
dal
controllo
poteva
determinare
una
situazione
di
divergenza
fra
gli
interessi
dei
proprietari
e
quelli
dei
manager.
Mentre
quest’eventualità
verrà
rigettata
dalla
teoria
del
principal/agent
(in
ambito
neoclassico),
nella
corsa
alla
finanziarizzazione
e
terziarizzazione
dell’economia
degli
anni
Ottanta
emerse
come
non
fossero
rari
i
casi
in
cui
i
top
manager
della
grande
impresa
perseguivano
il
proprio
interesse
anziché
quello
degli
azionisti.
Nel
saggio
“The
nature
of
the
firm”
(1937),
Coase
introduce
il
concetto
di
costo
di
impiego
dei
meccanismi
di
mercato,
anche
noti
come
transaction
costs.
L’impresa
emerge
proprio
perché,
internalizzando
le
transazioni
e
minimizzando
i
loro
costi,
risulta
più
efficiente
del
mercato:
il
limite
delle
sue
dimensioni
si
situa
al
livello
in
cui
il
costo
di
organizzazione
della
transazione
eguaglia
il
costo
della
sua
effettuazione
sul
mercato.
Ma
perché
le
transazioni
di
mercato
continuano
a
sussistere?
Perché
l'intera
produzione
non
viene
effettuata
da
una
sola
grande
impresa?
Tre
possibili
ragioni
per
Coase:
al
crescere
di
scala
dell'impresa
possono
verificarsi
rendimenti
decrescenti
della
funzione
imprenditoriale,
all'aumentare
delle
transazioni
l’impresa
non
è
più
in
grado
di
realizzare
l'ottimale
allocazione
delle
risorse,
le
imprese
di
piccole
dimensioni
possono
avere
altri
vantaggi
superiori
a
quelli
di
una
grande
impresa.
Di
conseguenza,
un'impresa
tenderà
a
espandersi
finché
i
costi
per
organizzare
una
transazioni
in
più
al
suo
interno
non
eguaglieranno
i
costi
di
effettuazione
della
stessa
sul
mercato
o
i
costi
per
organizzare
un'impresa
diversa.
Muovendo
da
un
ambito
marginalista
e
statico,
Coase
approda
ad
una
teoria
dell’equilibrio
mobile,
in
cui
sottolinea
l’importanza
dei
fattori
dinamici.
(seconda
metà
anni
Cinquanta).
L’impresa
è
un
insieme
di
risorse
-‐
materiali
e
umane
-‐
coordinate
da
un'organizzazione
amministrativa
allo
scopo
di
produrre
beni
e
servizi
da
vendere
sul
mercato
in
cambio
di
un
profitto.
Ciascuna
impresa
è
unica
ma
ciò
che
la
rende
unica
non
sono
tanto
le
risorse
quanto
http://www.unictblog.com
-‐
http://unict.myblog.it
6
l'eterogeneità
dei
servizi
che
quelle
risorse
possano
fornire,
in
particolari
quelle
umane.
Il
management,
in
un
contesto
d’incertezza,
deve
essere
capace
di
identificare
le
opportunità
produttive
e
di
agire
di
conseguenza:
la
crescita
è
governata
dall’interazione
dinamica
e
creativa
tra
le
risorse
produttive
dell'azienda
e
le
sue
opportunità
di
mercato,
ma
tali
opportunità
svaniscono
se
l’impresa
non
si
rende
conto
delle
possibilità
di
espansione.
Un'impresa
può
scegliere
tra
il
conservare
il
ritmo
esistente
o
impegnarsi
per
scoprire
nuove
opportunità:
tale
decisione
dipende
dal
suo
spirito
d'iniziativa
e
dalle
qualità
di
colui
o
coloro
che
svolgono
all'interno
dell'azienda
la
funzione
imprenditoriale.
L’impresa
appare
una
realtà
dinamica,
dotata
di
spirito
imprenditoriale,
che
non
reagisce
passivamente
al
mercato,
ma
influisce
strategicamente
su
di
esso.
Chandler,
senza
dubbio
la
personalità
più
importante
della
storia
d’impresa
degli
ultimi
decenni,
trascorse
i
suoi
anni
di
formazione
nel
Research
center
for
entrepreneurial
history
di
Shumpeter
-‐
centro
di
perfezionamento
e
di
studi
sull'imprenditorialità
–
dove
incominciò
a
costruire
quella
organizational
synthesis,
destinata
a
divenire
il
paradigma
dominante
della
disciplina.
L'innovazione
resta
il
motore
del
cambiamento,
ma
il
regista
di
tale
cambiamento
non
è
più
l'imprenditore
bensì
la
gerarchia
manageriale,
che
è
in
grado
di
individuare
e
di
applicare
le
strategie
più
adatte
alla
crescita
delle
imprese
nonché
di
adeguare
allo
stesso
tempo
le
strutture
dell'azienda
a
quelle
strategie
espansive
(l’organizzazione
dell’impresa
dalla
struttura
monofunzionale
propria
dell’epoca
del
capitalismo
famigliare
alle
strutture
gerarchico
–
organizzative
della
grande
impresa
americana
del
XX
secolo).
Tre
le
opere
principali:
2) “Mano
visibile”
(1976):
largo
affresco
della
nascita
e
dell'evoluzione
del
sistema
di
impresa
americana,
approfondisce
le
strategie
di
crescita
esposte
nella
prima
opera.
3) “Scale
and
scope”
(1990):
introduce
il
concetto
di
imprese
first
mover,
cioè
le
imprese
che
per
prime
seppero
cogliere
le
opportunità
di
crescita
collegate
a
quel
cluster
di
innovazioni
comunemente
associato
alla
seconda
rivoluzione
industriale.
Le
imprese
che
seppero
competere
in
questi
nuovi
settori
erano
ad
alta
intensità
di
capitale
e
operavano
con
grandi
impianti
in
grado
di
sfruttare
le
economie
di
scala
e
di
scopo:
le
imprese
che
per
prime
effettuarono
la
triplice
serie
di
investimenti
richiesti
dalle
nuove
attività
-‐
nella
produzione,
nella
distribuzione
e
nell'organizzazione
-‐
raggiunsero
rapidamente
una
posizione
dominante
nei
rispettivi
settori
e
la
conservarono
per
decenni.
Il
lavoro
di
Chandler
influenza
non
poco
gli
studiosi
di
strategia
aziendale,
ponendosi
l’accento
sull’efficienza
dinamica
dell’impresa.
Il
comportamento
strategico
sta
nella
capacità
dell'impresa
non
tanto
di
adattarsi
all’ambiente
esterno,
quanto
di
intervenire
e
modificare
le
condizioni
date:
la
sfida
diviene
quella
di
valorizzare
al
meglio
le
risorse
e
le
competenze
distintive
dell'azienda,
in
modo
da
assicurarle
un
vantaggio
competitivo.
L’impresa
non
si
può
limitare
a
ottimizzare
il
suo
comportamento
all'interno
di
condizioni
date
ma
deve
sviluppare
una
strategia
competitiva,
che
finirà
con
l’incidere
su
quelle
condizioni
e
col
modificarle.
Porter
–
principale
esponente
di
quest’indirizzo
di
studi
-‐
esamina
le
forze
che
possono
influenzare
la
concorrenza
in
un
settore,
e
discute
dei
possibili
piani
d'azione
che
i
responsabili
dell'impresa
possono
intraprendere
sulla
base
dei
punti
di
forza
e
di
debolezza
dell'azienda:
strategie
difensive,
strategie
d’attacco,
strategie
a
lungo
termine.
La
strategia
competitiva
di
un'azienda
può
nascere
solo
da
una
conoscenza
approfondita
del
settore
in
cui
opera,
tenendo
conto
che
una
determinante
fondamentale
della
sua
redditività
è
proprio
data
dalle
potenzialità
di
quel
settore
e
dal
suo
posizionamento
competitivo
all'interno
di
esso.
Le
regole
della
concorrenza
si
riassumono
in
cinque
forze
competitive:
minaccia
di
nuovi
entranti,
la
cui
consistenza
dipende
dall'esistenza
o
meno
di
barriere
all'entrata;
potere
contrattuale
dei
fornitori,
che
determina
il
costo
delle
materie
prime
e
di
altre
forniture
e
che
nei
confronti
dell'azienda
del
settore
è
forte,
soprattutto
se
sono
pochi
e
concentrati
e
se
il
prodotto
che
forniscono
è
unico
o
differenziato;
potere
contrattuale
degli
acquirenti,
che
determina
i
prezzi
che
l’azienda
può
imporre;
minaccia
di
prodotti
e
servizi
sostitutivi;
manovre
di
posizionamento
dei
concorrenti,
che
dipendono
dal
numero,
dalla
velocità
di
crescita
del
settore,
dal
grado
di
differenziazione,
dalla
presenza
di
barriere
all'uscita.
Solo
le
strategie
d'attacco
e
le
strategie
a
lungo
termine
possono
spostare
l'equilibrio
del
settore
e
dare
un
vantaggio
competitivo
all'azienda,
di
cui
due
sono
i
tipi
fondamentali
:
costi
bassi
e
differenziazione.
Questi
due
tipi
di
vantaggio
combinati
con
le
caratteristiche
del
settore
danno
unità
a
tre
strategie
di
base:
leadership
di
costo,
differenziazione
e
focalizzazione.
Lo
strumento
fondamentale
per
diagnosticare
il
vantaggio
competitivo
è
la
catena
del
valore
che
identifica
le
attività
generatrici
di
valore
dell'impresa,
grazie
alla
suddivisione
delle
attività
che
essa
svolge.
Fra
i
maggiori
studiosi
dell’economia
delle
organizzazioni,
per
Williamson
il
soggetto
economico
può
contare
soltanto
su
una
razionalità
limitata
e
non
assoluta,
che
impedisce
la
totale,
perfetta
comprensione
della
complessità
del
sistema
e
ne
condiziona
quindi
le
scelte.
Poiché
l’impresa
è
una
coalizione
di
individui
e
gruppi
con
aspirazioni
ed
esigenze
diverse,
il
suo
comportamento
e
le
sue
decisioni
si
realizzano
attraverso
un
processo
di
contrattazione
e
conciliazione
fra
i
membri
che
la
compongono.
L'economia
dei
costi
di
transazione
studia
l'intera
gamma
delle
istituzioni
del
capitalismo,
dallo
scambio
di
mercato
fino
all'organizzazione
gerarchica
centralizzata,
con
una
miriade
di
forme
miste
o
intermedie
che
si
collocano
tra
questi
due
estremi.
I
costi
di
transazione
dipendono
dalla
natura
umana
dell'uomo
contrattuale,
il
cui
comportamento
si
basa
su
due
principali
assunzioni:
razionalità
limitata
e
opportunismo.
Razionalità
limitata
dell’attore
in
contesto
dominato
dall’incertezza:
riconosce
i
limiti
della
facoltà
conoscitiva
e
si
contrappone
ad
altri
due
livelli
di
razionalità:
quella
forte
della
tradizione
neoclassica
che
prevede
la
massimizzazione
e
l'ottimizzazione
dell’allocazione
delle
risorse,
quella
debole
dei
moderni
approcci
evolutivi
o
della
scuola
austriaca,
in
cui
l'enfasi
è
sugli
aspetti
di
processo
e
le
istituzioni
sono
in
continua
evoluzione.
La
razionalità
limitata
ammette
che
i
comportamenti
dell'uomo
economico
sono
razionali
nelle
intenzioni
ma
lo
sono
solo
limitatamente
nei
fatti.
Opportunismo:
perseguimento
con
astuzia
di
finalità
egoistiche,
reso
possibile
da
asimmetrie
informative
nella
stipulazione
dei
contratti,;
può
essere
classificato
in
opportunismo
ex
ante,
che
origina
dalla
adverse
selection,
intesa
come
diffusione
di
informazioni
selezionate
o
distorte,
e
opportunismo
ex
post,
che
deriva
dal
moral
hazard,
ovvero
la
promessa
relativa
alla
condotta
futura
che
non
verrà
rispettata.
http://www.unictblog.com
-‐
http://unict.myblog.it
8
L'economia
dei
costi
di
transazione
individua
e
spiega
anche
i
fattori
e
le
dimensioni
che
determinano
le
differenze
fra
le
transazioni
e
le
modalità
con
cui
queste
sono
organizzate.
Le
transazioni
richiederanno
strutture
di
governo
specializzate,
le
imprese,
in
particolare
quando
ricorrono
situazioni
quali
specificità
delle
risorse,
incertezza,
frequenza.
L’impresa
appare
come
l'istituzione
economica
fondamentale
del
capitalismo
atta
a
ridurre
i
costi
di
transazione
attraverso
scelte
organizzative
di
internalizzazione
o
di
esternalizzazione
della
transazione
stessa
(make
or
buy).
Nelson
e
Winter
analizzano
la
dinamica
evolutiva
e
il
ruolo
delle
innovazioni,
traendo
ispirazione
soprattutto
dal
secondo
Schumpeter,
la
cui
attenzione
si
era
spostata
verso
l'analisi
del
capitalismo
trustificato,
caratterizzato
dal
prevalere
delle
grandi
imprese
oligopolistiche.
L'attività
innovativa
perdeva
per
Schumpeter
quella
forza
dirompente
che
aveva
mostrato
nelle
fasi
di
avvio
e
di
consolidamento
del
sistema
capitalista:
essa
veniva
di
fatto
integrata
nella
normale
attività
burocratica
(le
routine)
dell’impresa,
mettendo
a
rischio
quel
processo
di
evoluzione
ininterrotta
che
aveva
fino
ad
allora
connotato
lo
sviluppo
del
sistema
capitalista
e
la
crescita
delle
imprese.
Le
routine
sono
le
conoscenze
tacite
alla
base
della
maggior
parte
delle
attività
dell’impresa
e
sono
il
frutto
delle
sue
passate
esperienze.
Ma
l'impresa
rimane
il
luogo
e
il
soggetto
principale
del
mutamento:
il
suo
potenziale
innovativo
dipende
dalle
sue
capacità
di
rinnovare
le
proprie
routine,
mentre
il
suo
successo
dipende
dalla
selezione
esercitata
sia
dentro
che
fuori
il
mercato.
L'attività
innovatrice
è
un
fenomeno
casuale,
selettivo,
incerto:
il
suo
ritmo
dipende
dalle
opportunità
tecnologiche
del
settore
in
cui
l'impresa
si
trova
a
operare
nonché
dalle
sue
capacità
di
ritardare
l'imitazione
dell'innovazione
da
parte
delle
imprese
rivali.
Le
attività
dell'impresa
sono
tuttavia
delimitate
da
regimi
tecnologici
e
ruotano
intorno
a
determinate
traiettorie,
come
la
tendenza
alle
economie
di
scala
o
la
meccanizzazione.
Il
progresso
tecnico
è
allo
stesso
tempo
continuo
e
discontinuo:
è
continuo
il
progresso
che
si
svolge
all'interno
di
un
determinato
regime
e
lungo
una
certa
traiettoria
per
iniziativa
delle
imprese,
si
caratterizza
come
un
flusso
di
piccole
innovazioni
e
miglioramenti
incrementali.
È
discontinuo
quando
si
verifica
il
passaggio
da
un
regime
tecnologico
all'altro
a
causa
di
qualche
innovazione
rivoluzionaria,
o
quando
si
esaurisce
una
traiettoria
e
se
ne
apre
una
nuova.
Nell’ambito
delle
elaborazioni
più
strettamente
e
coerentemente
evolutive
sono
stati
approfonditi
concetti
di
notevole
importanza
anche
per
la
storia
d’impresa
e
che,
anzi,
hanno
messo
in
moto
un
proficuo
feedback
tra
teoria
e
storia
d’impresa.
• Nella
stessa
direzione
si
collocano
i
recenti
sviluppi
della
teoria
evolutiva
caratterizzati
da
una
visione
knowledge-‐based
dell'impresa,
concepita
come
un’entità
in
grado
di
creare
conoscenza.
La
conoscenza
e
la
capacità
di
crearla
rappresentano
la
più
importante
fonte
del
vantaggio
competitivo
di
cui
può
godere
l'impresa,
la
cui
stessa
ragion
d'essere
quindi
sta
proprio
nella
continua
creazione
della
conoscenza.
L'apprendimento
è
però
condizionato
da
variabili
di
carattere
esogeno
e
quindi
non
sempre
dominabili:
il
contesto
di
rischio
e
incertezza
nel
quale
l'impresa
si
trova
a
operare,
la
razionalità
limitata
che
comunque
ne
condiziona
le
scelte,
gli
aspetti
di
path
dependence
(dipendenza
dal
percorso
-‐
un
processo
path
dependent
è
un
processo
il
cui
esito
finale
può
essere
influenzato
in
maniera
determinante
da
eventi
temporalmente
remoti,
anche
di
tipo
casuale
e
non
sistemico).
La
prima
messa
a
punto
del
concetto
è
legata
a
David,
che
ha
spiegato
• Tornando
a
Coase
e
Williamson,
essi
fecero
ricorso
alla
dicotomia
gerarchia
(impresa)/
mercato
per
identificare
le
istituzioni
al
cui
interno
vengono
organizzate
le
transazioni.
Tale
dicotomia
implica
nel
primo
caso
un'organizzazione
formale,
burocratica
che
si
basa
sull'autorità
e
struttura
le
relazioni
secondo
determinate
regole
di
condotta;
nel
secondo
caso
è
in
azione
una
mano
invisibile,
un’organizzazione
non
formale
che
sovrintende
alle
transazioni.
Si
è
osservato
tuttavia
che
tale
formulazione
è
ambigua,
che
non
si
possono
individuare
dei
margini
netti
tra
un
tipo
e
l’altro
di
transazione
e
che
ne
esistono
forme
ibride
di
organizzazione
(reti
di
imprese,
distretti,
holding):
una
più
realistica
rappresentazione
degli
scambi
va
inquadrata
in
un
continuum
di
situazioni
in
cui
possono
coesistere
aspetti
dell'una
e
dell'altra
forma
di
organizzazione.
• Altro
terreno
d’incontro
tra
teoria
e
storia
d’impresa
riguarda
la
capacità
della
grande
impresa
di
mantenere
nel
lungo
periodo
una
posizione
di
vertice
all’interno
dell’economia
in
cui
opera.
Le
grandi
imprese
che
superano
la
selezione
del
mercato,
nella
fase
di
turbolenza
che
caratterizza
l'affermazione
di
un
regime
tecnologico
riescono
ad
accumulare
nel
tempo
capabilities
tali
da
consentire
loro
di
resistere
alle
turbolenze
connesse
all'emergere
di
un
nuovo
regime
tecnologico.
Tale
accumulazione
è
resa
possibile
dalle
barriere
all'entrata
-‐
economie
di
scala
e
profitti
monopolistici
-‐
e
dall'azione
di
meccanismi
di
path
dependence.
La
rappresentazione
dinamica
dell’impresa,
quella
che
accumula
conoscenze
in
grado
di
assicurarle
un
perdurante
vantaggio
competitivo,
è
frutto
anche
delle
ricerche
empiriche
di
Chandler,
che
hanno
a
lungo
costituito
il
paradigma
dominante
della
teoria
d’impresa.
In
tempi
recenti
è
stato
messo
in
discussione
da
diversi
studi
che
hanno
evidenziato
gli
aspetti
di
discontinuità,
piuttosto
che
quelli
di
permanenza,
nelle
posizioni
di
vertice
degli
elenchi
delle
più
grandi
imprese.
Buona
parte
degli
spunti
teorici
e
delle
elaborazioni
concettuali
dell’economia
mostrano
di
non
reggere
tout
court
alla
prova
dei
fatti,
ovvero
dell’analisi
storica.
È
esempio
di
eccessiva
esemplificazione
teorica,
oltre
che
la
dicotomia
gerarchie/mercati
di
Coase
e
Williamson,
la
separazione
tra
proprietà
e
controllo
di
Sombart
e,
soprattutto,
di
Berle
e
Means,
esistendo
–
per
questo
secondo
esempio
–
svariate
forme
giuridiche
intermedie.
Del
resto
il
nocciolo
della
questione
sta
non
tanto
nella
proprietà
dell’azienda,
quanto
nel
suo
effettivo
controllo.
In
generale
la
contestualizzazione
è
passaggio
essenziale
per
tradurre
le
immagini
teoriche
in
oggetti
reali
di
indagine
operativa.
È
questo
il
primo
compito
della
storia
d’impresa.
Il
contesto
nel
quale
si
trova
ad
operare
l’impresa
è
il
portato
di
un’evoluzione
di
lungo
periodo
ed
è
andato
evolvendosi
con
l’impresa
stessa,
in
un
rapporto
il
cui
esito
è
condizionato
tanto
da
fattori
razionali
quanto
da
fattori
stocastici
(la
path
dependence).
Sotto
il
termine
cultura
possiamo
raccogliere
quella
molteplicità
di
fattori
esogeni
al
network
degli
imprenditori
e
delle
imprese
che
hanno
storicamente
influito
sul
loro
comportamento
all'interno
delle
diverse
società.
Altre
definizioni,
peraltro
simili,
guardano
a
“valori
e
credenze
condivise”
ovvero
a
“corpo
di
consuetudini
e
valori
morali
che
caratterizza
una
popolazione”.
Ai
fini
della
teoria
dell’impresa,
è
più
utile
osservare
che
“i
valori
veicolano
informazioni
riguardo
a
ciò
che
è
giusto
o
sbagliato,
le
credenze
contengono
informazioni
riguardo
a
ciò
che
è
vero
o
falso”.
Essa
favorisce,
in
termini
economici,
l'efficienza
con
cui
le
risorse
scarse
vengono
utilizzate
da
un
gruppo
sociale,
migliorando
la
quantità
e
la
qualità
delle
informazioni
a
disposizione
degli
individui.
Lo
stesso
contesto
istituzionale
e
normativo
appare
come
il
risultato
di
un
processo
di
elaborazione
culturale
a
livello
sia
centrale
che
periferico.
Istruttivo
può
risultare
il
paragone
tra
l'atteggiamento
e
l'etica
del
mondo
occidentale
nei
confronti
dell'economia
e
del
lavoro
e
quelli
dei
paesi
dell'estremo
oriente,
in
particolare
del
Giappone:
come
è
noto,
la
società
giapponese
è
una
società
il
cui
senso
del
dovere
e
degli
obblighi
collettivi,
in
tutti
i
settori,
la
rende
diversa
dall'individualismo
coltivato
in
Occidente.
Aspetti
etico
religiosi
e
sistemi
di
famiglia
hanno
avuto
un
impatto
culturale
importante
anche
sulla
enucleazione
delle
differenze
dei
sistemi
di
imprese
nei
contesti
nazionali
del
mondo
occidentale;
per
questo
motivo,
nel
loro
rapporto
con
l’attività
economica
e
le
iniziative
imprenditoriali,
sono
stati
terreno
di
notevoli
approfondimenti.
Weber
(nell'opera
“L’etica
protestante
e
lo
spirito
del
capitalismo”
–
1965):
la
riforma
protestante
ha
diffuso
nelle
regioni
che
è
andata
conquistando
una
nuova
etica
cristiana,
secondo
la
quale
l'affermazione
in
campo
economico
nella
vita
terrena
può
rappresentare
un
mezzo
di
avvicinamento
alla
salvezza
eterna.
La
vita
umana
dedicata
agli
affari
che
prima
veniva
considerata
pericolosa
per
l'anima
acquisisce
una
nuova
santità.
Il
lavoro
non
è
più
soltanto
un
mezzo
economico,
l'occupazione
deve
essere
proficua.
Quindi,
il
protestantesimo
e
le
sue
componenti
di
derivazione
calvinista
promossero
l’ascesa
del
capitalismo
Tawney,
pur
non
condividendo
il
determinismo
weberiano,
riconosce
all'etica
protestante
il
merito
di
aver
dato
dignità
alle
professioni
economiche,
creando
intorno
a
esse
uno
scudo
protettivo
nei
confronti
dei
pregiudizi
e
degli
attacchi
provenienti
dall'aristocrazia.
Gerschenkron
si
pone
la
domanda
“in
quale
misura
l'approvazione
da
parte
della
collettività
influisce
sulla
nascita
delle
imprese?”.
Una
risposta
adeguata
non
può
non
tener
conto
di
un'altra
fondamentale
componente
culturale,
quella
ideologica:
ovvero
l'affermazione
di
ideologie
nazionali
più
o
meno
propense
all'attività
imprenditoriale.
Il
quadro
che
emerge
dalla
ricostruzione
storica
evidenzia
situazioni
di
incertezza
nelle
quali
l'atteggiamento
sociale
verso
la
cultura
industriale
mostra
parecchi
risvolti
ambigui
e
contraddittori.
Questo
è
il
caso
della
Francia,
dell’Italia
ed
anche
della
gran
Bretagna,
molto
meno
invece
di
Stati
Uniti
e
Germania.
In
Inghilterra,
infatti,
una
vera
cultura
industriale
ebbe
sempre
difficoltà
a
imporsi
dovendo
lottare
contro
pregiudizi
e
consuetudini
secolari;
a
differenza
che
negli
Stati
Uniti,
dove
il
contesto
socio
culturale
si
era
mostrato
favorevole
alla
rapida
affermazione
dell'ideologia
dello
sviluppo
economico.
Sembra
emersa
sin
dalle
prime
fasi
dell’industrializzazione
europea
la
tendenza
a
preservare
l'unità
dell'impresa
familiare,
pur
nel
rispetto
di
leggi
di
successione
che
disponevano
dell'equa
ripartizione
dell'asse
ereditario
fra
gli
eredi.
Il
lignaggio
che
privilegiava
il
primo
figlio
maschio
veniva
deliberato
con
l'attribuzione
di
consistenti
doti
alle
femmine,
in
grado
di
assicurare
loro
adeguati
matrimoni;
i
figli
cadetti
venivano
gratificati
con
posizioni
di
responsabilità
all'interno
dell'impresa
oppure
liquidati
per
avviarli
a
professioni
indipendenti
accendendo
debiti
a
lungo
termine
che
sarebbero
gravati
sui
bilanci
dell’impresa.
Nelle
dinastie
industriali
ottocentesche
i
matrimoni
endogamici
rappresentarono
una
modalità
molto
comune
per
preservare
l’unità
dell’azienda.
Peraltro
il
prolungato
mantenimento
della
proprietà
e
del
controllo
all'interno
di
una
stessa
famiglia,
bloccandone
gli
sviluppi
nella
direzione
dell'impresa
manageriale,
poteva
portare
a
costi
più
che
a
benefici,
dando
origine
alla
sindrome
di
BUDDENBROOK
(volendoci
riferire,
con
le
parole
del
romanzo
di
Thomas
Mann,
al
disagio
cui
va
incontro
la
terza
generazione
nel
gestire
l'impresa
che
ha
ereditato,
considerato
da
LANDES
una
fra
le
cause
che
meglio
spiegano
il
rallentamento
dell'economia
britannica
e
la
sua
progressiva
perdita
di
leadership
economica
nel
mondo,
a
vantaggio
dei
Stati
uniti
e
della
Germania).
In
Corea
del
Sud
e
Taiwan
la
forma
di
organizzazione
economica
prevalente
non
è
l’impresa
singola,
ma
il
gruppo
di
imprese:
chaebol
nel
primo
caso
e
business
group
nel
secondo,
basati
su
principi
di
parentele
simili,
ma
operanti
in
modo
diverso,
ovvero
come
reti
integrate
e
controllate
verticalmente
in
Corea,
come
reti
organizzate
orizzontalmente
a
Taiwan.
Tali
differenze
gerarchiche
derivano
da
differenze
nelle
strutture
sociali,
frutto
di
un
processo
storico
-‐
culturale
di
lungo
periodo.
In
Corea,
una
tradizione
che
risale
alla
struttura
sociale
della
dinastia
Yi
ha
generato
un
sistema
di
parentela
e
una
pratica
ereditaria
che
privilegiano
il
figlio
maggiore
della
famiglia
dominante:
si
è
formata
così
un'élite
di
grandi
famiglie
al
vertice
delle
strutture
gerarchiche
verticali
dei
chaebol,
in
stretto
rapporto
simbiotico
con
lo
Stato.
Il
sistema
della
famiglia
confuciana
di
Taiwan
riflette
la
storia
della
Cina:
dopo
invasione
mongola
del
1280,
i
lignaggi
aristocratici
vennero
sostituiti
da
un
sistema
di
parentela
segmentato
di
tipo
patrilineo,
nel
quale
la
famiglia
e
non
il
lignaggio
rappresentava
il
tassello
fondamentale
della
società
rurale.
Tale
sistema
creò
una
struttura
economica
basata
sulla
piccola
proprietà
rurale
e
sviluppò
legami
orizzontali
con
persone
dello
stesso
rango.
Un
crescente
numero
di
studi
mostra
che
la
presenza
femminile
negli
affari
è
stata
molto
più
importante
di
quella
che
la
storiografia
d’impresa,
con
l’eccezione
degli
Stati
Uniti
e
in
parte
della
Gran
Bretagna,
le
ha
finora
riconosciuto.
L’approccio
di
genere
(che
non
si
identifica
tout
court
con
narrazioni
che
hanno
l’attività
femminile
nel
campo
degli
affari
come
oggetto
di
studio,
ma
cerca
di
sviluppare
un
più
profondo
livello
d’analisi,
considerando
le
donne
non
solo
in
quanto
imprenditrici,
manager
o
lavoratrici,
ma
anche
in
quanto
mogli,
figlie,
consumatrici)
si
è
rivelato
particolarmente
utile
nello
studio
delle
imprese
familiari.
http://www.unictblog.com
-‐
http://unict.myblog.it
12
Ad
esempio,
le
modalità
di
successione
e
lo
status
delle
proprietà
femminili
si
sono
rivelati
variabili
cruciali
per
spiegare
differenze
e
similitudini
nelle
strategie
familiari
in
Italia,
Spagna
e
Inghilterra.
In
tutti
e
tre
le
donne
furono
fonti
vitali
di
finanziamenti
e
di
contratti,
così
come
il
matrimonio
rappresentò
un
elemento
cruciale
per
ridurre
i
costi
di
transazione,
estendendo
i
network
fiduciari
familiari.
Ma
le
strategie
delle
imprese
familiari
e
il
lignaggio
risentirono
delle
differenze
di
status
giuridico
e
culturale
delle
donne.
L'istruzione
e
le
modalità
di
formazione
del
capitale
umano
possono
avere
una
duplice
influenza
sul
mondo
degli
affari:
a
livello
macroeconomico,
sulla
crescita
dei
singoli
paesi,
perché
stimolano
la
capacità
di
generare
tecnologia;
a
livello
microeconomico,
perché
agiscono
come
fattori
modernizzanti
della
mentalità
e
del
comportamento
degli
operatori
economici.
In
una
prospettiva
di
lungo
periodo,
gli
effetti
risultano
evidenti
solo
a
partire
dalla
seconda
metà
dell’Ottocento,
con
l’emergere
in
modo
sempre
più
netto
dei
feedback
tra
sviluppo
industriale
e
progresso
tecnico
e
tra
questo
e
la
ricerca
scientifica.
In
Gran
Bretagna
i
ritardi
e
le
difficoltà
di
adattamento
del
sistema
di
istruzione,
che
permasero
fino
alla
fine
dell’Ottocento,
trovavano
radice
nella
natura
stessa
della
prima
rivoluzione
industriale,
che
si
sviluppò
da
tecnologie
relativamente
semplici,
prodotte
soprattutto
dal
lavoro
di
artigiani
e
operai,
attraverso
pratiche
di
apprendimento
sul
campo
e
un
processo
di
continue
migliorie.
La
maggior
parte
degli
imprenditori
dell'Inghilterra
a
cavallo
dell'800
non
aveva
seguito
studi
regolari
e
aveva
affinato
le
proprie
capacità
attraverso
la
pratica.
L'Inghilterra
era
un
paese
in
cui
a
metà
800
(all’apice
del
fulgore)
il
tasso
di
analfabetismo
era
ancora
superiore
alle
30%.
Ben
diversa
la
situazione
di
due
paesi
second
comers,
come
Stati
Uniti
e
Germania.
Landes
ha
identificato
l’istruzione
con
la
somministrazione
di
quattro
tipi
di
conoscenza:
1.
la
capacità
di
leggere
e
scrivere
e
far
di
conto;
2.
le
cognizioni
professionali
dell'artigiano
e
del
meccanico;
3.
la
combinazione
di
principi
scientifici
e
di
addestramento
pratico
che
è
propria
dell'Ingegnere
e
del
tecnico;
4.
la
conoscenza
scientifica
ad
alto
livello,
teorica
e
pratica.
In
Germania,
sulla
spinta
di
principi
e
sovrani,
i
vari
stati
svilupparono
fin
dal
1820
una
rete
di
scuole
commerciali
e
di
scuole
tecniche
superiori,
di
livello
parauniversitario,
che
formarono
l'ossatura
di
un
sistema
di
formazione
superiore.
A
differenza
del
caso
britannico
le
imprese
tedesche
si
mostrarono
ben
felici
di
assumere
i
diplomati
di
questi
istituti,
innalzandoli
sovente
ai
gradi
della
massima
responsabilità
aziendale.
Negli
Stati
uniti
fin
dell'epoca
coloniale
considerazioni
di
ordine
religioso
giocarono
un
ruolo
essenziale
(vedasi
il
particolare
risalto
dato
in
campo
sociale
al
saper
leggere
il
Vecchio
Testamento):
vennero
promulgate
leggi,
dopo
il
1647,
che
ordinavano
a
tutte
le
città
di
mantenere
istituzioni
scolastiche.
In
seguito
fattori
politici
si
accompagnarono
ai
fattori
religiosi:
con
la
progressiva
estensione
del
suffragio
elettorale,
l'educazione
dell'uomo
comune
venne
sempre
più
riconosciuta
come
essenziale
per
un'adeguata
partecipazione
alla
vita
politica.
A
differenza,
quindi,
dell’Inghilterra,
dove
l’istruzione
venne
lasciata
in
mani
privata,
sia
negli
Stati
Uniti
che
in
Germania,
le
istituzioni
pubbliche
parteciparono
attivamente
alla
costruzione
del
sistema
scolastico.
Negli
Stati
Uniti
altrettanto
fondamentale
fu
però
il
contributo
dei
privati,
e
in
particolare
dell’emergente
industria.
Col
passare
degli
anni,
poi,
il
feedback
fra
grande
industria
privata
e
formazione
scientifica
e
tecnologica
si
fece
sempre
più
stretto:
le
grandi
imprese,
che
per
prime
avevano
realizzato
i
propri
laboratori
di
ricerca,
furono
all'avanguardia
anche
nel
creare
propri
corsi
di
formazione,
per
preparare
il
proprio
personale
da
impiegare
nelle
attività
di
vendita,
di
marketing
e
nel
lavoro
di
ufficio.
I
settori
più
dinamici
in
tal
senso
furono
ancora
una
volta
quelli
più
legati
alla
Seconda
rivoluzione
industriale,
in
particolare
quello
elettrico.
L'azione
dello
Stato
rappresenta
un
formidabile
terreno
di
confronto
dialettico
per
l’impresa:
in
quanto
entità
storicamente
determinata,
esso
è
preesistente
all'impresa
capitalistica,
si
è
evoluto
con
essa;
nei
regimi
dirigisti
e
autoritari
si
è
imposto
ad
essa,
subordinandone
il
destino
alle
proprie
finalità;
nei
regimi
socialisti
si
è
completamente
sostituito
ad
essa.
Per
istituzioni
qui
s’intende
l’insieme
di
attività
necessarie
alla
formazione
di
un
efficiente
mercato
dei
fattori
della
produzione
e
dei
beni
e
dei
servizi.
Ciò
contempla
la
azioni
che
sovente
soltanto
un'autorità
superiore
può
svolgere:
si
tratta
di
decisioni
implicanti
l’intervento
di
un
soggetto
distinto
e
superiore
alle
parti,
specializzato
nell'uso
della
forza
e
nell'esercizio
della
giustizia,
dotato
di
poteri
impositivi
e
di
autorità
a
legiferare,
cioè
a
stabilire
le
regole
del
gioco.
Queste
azioni
sono
fondamentalmente
di
due
tipi:
la
progressiva
riduzione
dei
costi
di
transazione
(ovvero
dei
costi
necessari
a
far
funzionare
il
mercato)
e
la
creazione
di
istituzioni,
ovvero
gli
interventi
atti
a
garantire
la
titolarità
di
beni
e
servizi
oggetto
della
transazione,
cioè
i
diritti
di
proprietà.
L’impatto
della
politica
istituzionale
e
legislativa
sulla
crescita
delle
economie
e
sull’attività
delle
imprese
è
forse
meno
evidente
di
altre
forme
d’intervento
dello
stato,
quali
la
politica
economica,
ma
sicuramente
più
duraturo
e
continuo.
Nel
Regno
unito
(paese
prototipo
del
laissez
faire)
il
ruolo
del
potere
pubblico
nella
creazione
di
un
efficiente
mercato
nazionale
è
stato
ritenuto
fondamentale
per
spiegare
il
primato
britannico;
coerentemente,
una
delle
motivazioni
addotte
per
spiegare
il
declino
inglese
del
tardo
800
è
stata
proprio
l’incapacità
dello
Stato
nel
leggere
le
necessità
del
mercato
e
del
mondo
imprenditoriale.
Gli
interventi
più
significativi
si
ebbero
un
secolo
e
mezzo
prima
della
rivoluzione
industriale:
un
sistema
fiscale,
commerciale
(Atti
di
Navigazione)
e
monetario
unificato,
l'introduzione
dello
STATUTO
DEI
MONOPOLI
nel
1624
per
proteggere
le
innovazioni,
e,
a
partire
dalla
prima
metà
del
600,
vennero
favorite
le
richieste
di
enclosure,
ovvero
di
recinzione
delle
terre
aperte
per
stimolare
l’applicazione
delle
moderne
tecniche
di
coltivazione
intensiva.
Anche
negli
Stati
uniti
fu
decisivo
il
ruolo
del
potere
pubblico:
a
livello
federale
significativi
furono
i
provvedimenti
di
assegnazione
della
terra
e
di
sostegno
alla
colonizzazione,
la
difesa
militare
di
coloni
dalla
resistenza
indigena.
A
livello
statale
decisiva
fu
l'azione
del
potere
pubblico
nel
agevolare
la
raccolta
di
capitale
e
la
formazione
di
società
anonime.
In
un
primo
tempo
venne
autorizzata
la
costituzione
di
società
e
compagnie
privilegiate,
che
agissero
a
livello
di
monopolio
o
quasi
monopolio
in
settori
chiave
dell'economia
(credito,
ferrovie,
assicurazioni).
I
vari
stati,
soprattutto
nei
primi
anni
dell’Unione,
parteciparono
direttamente
a
queste
società
sottoscrivendo
quote
azionarie.
Man
mano
che
ci
si
addentrava
nel
XIX
secolo
la
componente
pubblica
andò
perdendo
importanza
e
le
corporations
divennero
sempre
più
una
forma
di
impresa
privata.
L’attività
dei
singoli
Stati
americani
in
materia
di
diritto
di
impresa
fu
altrettanto
significativa
per
la
creazione
di
un
contesto
istituzionale
favorevole
allo
sviluppo
delle
attività
economiche.
Qui
gli
Stati
uniti
guadagnarono
un
vantaggio
nei
confronti
dei
partner
europei
mai
più
colmato.
In
tutto
il
mondo
occidentale,
si
rammenta,
erano
entrati
in
vigore
nel
corso
del
Settecento
limitazioni
e
controlli
delle
iniziative
di
associazione
di
capitale.
Per
creare
una
società
anonima
era
necessaria
una
specifica
autorizzazione
parlamentare
ma
anche
con
ciò
non
veniva
riconosciuta
la
responsabilità
limitata
degli
http://www.unictblog.com
-‐
http://unict.myblog.it
14
azionisti.
Queste
norme,
emanate
al
fine
di
evitare
bolle
speculative,
rappresentavano
un
vincolo
alla
libertà
di
iniziativa.
Già
nel
1809
negli
USA
vennero
adottati
provvedimenti
che
liberalizzavano
l’atto
di
incorporation:
da
allora
in
poi
fu
sufficiente
l’avvio
di
una
semplice
procedura
amministrativa
che
rendeva
superfluo
l’intervento
dell’autorità
centrale;
ancor
più
importante,
si
introdusse
il
principio
della
responsabilità
limitata
(nel
1816)
e
ciò
preparò
il
terreno
al
grande
boom
azionario
di
fine
800.
Al
contrario,
in
Inghilterra
per
la
liberalizzazione
delle
procedure
di
costituzione
di
società
per
azioni
si
dovette
il
1856,
in
Francia
il
1863,
in
Prussia
il
1870,
in
Italia
il
Codice
Mancini
del
1882;
ancora
posteriore
alle
date
indicate
fu
il
riconoscimento
della
responsabilità
limitata.
Anche
al
di
fuori
del
mondo
occidentale,
l’iniziativa
statale
fu
a
tratti
decisiva
nel
promuovere
le
condizioni
favorevoli
allo
sviluppo
economico.
In
particolare,
in
Giappone.
I
primi
interventi
riguardarono
l’abolizione
del
feudalesimo,
l’introduzione
della
tassa
sulla
proprietà
terriera
e
la
creazione
di
un
sistema
monetario
unificato.
Nel
secondo
dopoguerra
il
Ministero
dell’Industria
portò
avanti
un’azione
finalizzata
a
mantenere
stabile
il
contesto
microeconomico,
a
incentivare
le
aziende
e
gli
investimenti
in
R&S.
Nel
corso
del
900
altri
paesi
dell’Estremo
Oriente
–
Corea,
Taiwan
e
Singapore
–
vennero
influenzati
dal
modello
giapponese
di
developmental
state,
cioè
di
stato
il
cui
intervento
non
è
mirato
a
ridistribuire
il
surplus
a
scopi
di
eguaglianza
sociale,
ma
ad
accelerare
la
sua
formazione,
anche
a
scapito
di
diritti
e
libertà
democratiche.
Per
Stiglitz
la
comprensione
della
crescita
e
dello
sviluppo
delle
moderne
società
industriali
deve
cominciare
dallo
studio
della
storia
e
dell’evoluzione
dei
mercati
finanziari.
I
mercati
dei
capitali,
infatti,
sono
diversi
dagli
altri
mercati,
perché
in
essi
il
denaro
viene
scambiato
non
con
un
altro
bene
o
servizio
disponibile
ma
contro
una
promessa
di
futuri
introiti:
garantire
che
questa
promessa
verrà
rispettata
è
il
principale
problema
di
questi
mercati,
per
risolvere
il
quale
sono
state
create
apposite
istituzioni
finanziarie.
L'evoluzione
di
queste
è
correlata
con
l'evoluzione
delle
imprese,
dato
che
le
prime
svolgono
la
funzione
di
risolvere
i
problemi
che
potrebbero
impedire
la
raccolta
e
il
trasferimento
di
capitali
tra
coloro
che
li
detengono,
gli
investitori,
e
coloro
che
li
usano,
le
imprese.
Tendenzialmente,
il
processo
porta
a
una
sempre
maggiore
efficienza
dei
mercati
che
sono
strutturalmente
imperfetti
a
causa
della
varietà
dei
regimi
fiscali,
dell'insorgere
di
problemi
di
agenzia,
nonché
delle
asimmetrie
informative
che
si
riflettono
sulle
scene
dì
indebitamento
delle
imprese
e
sulla
loro
struttura
finanziaria.
Questa
rappresenta
una
variabile
essenziale
per
spiegare
similitudini
e
differenze
nelle
strategie
espansive
e
nei
percorsi
di
crescita
delle
imprese:
la
scelta
fra
indebitamento
e
capitale
di
rischio
è
spiegata
non
solo
in
termini
di
funzioni
di
prezzo,
ma
anche
di
eventuali
cambiamenti
negli
assetti
dei
proprietari
e
di
controllo,
o
di
contrasti
tra
azionisti
e
manager.
L'esistenza
di
sistemi
finanziari
evoluti
–
si
è
osservato
-‐
incide
positivamente
sulla
crescita
economica;
la
maggiore
liquidità
in
essi
riscontrata
consente
di
gestire
più
efficientemente
i
rischi
e
favorisce
gli
investimenti
a
lungo
termine
associati
all'innovazione
tecnologica.
Vi
è
dunque
una
relazione
simbiotica
fra
l’evolvere
della
finanza
d'impresa
e
le
trasformazioni
dei
sistemi
e
delle
istituzioni
finanziarie.
Tale
relazione
chiama
in
causa
anche
l'evoluzione
del
quadro
normativo
societario
e
della
disciplina
in
materia
di
stesura
e
analisi
di
bilancio,
in
quanto
lo
sviluppo
di
strumenti
di
controllo
interno
ed
esterno
della
solidità
patrimoniale
e
reddituale
dell'azienda
ha
consentito
un
più
efficace
monitoraggio
da
parte
degli
investitori.
La
finanza
d’impresa
è
stata
influenzata
da
due
diversi
modelli
di
governo:
il
sistema
finanziario
market
oriented
(orientato
al
mercato)
e
il
sistema
bank
oriented
(orientato
agli
intermediari).
Il
primo
(a
cui
possono
essere
ricondotte
le
esperienze
dei
paesi
anglosassoni)
sembra
mostrare
maggiore
efficienza
operativa
in
un
contesto
stabile
di
crescita
delle
imprese,
il
secondo
(a
cui
si
riconducono
le
esperienze
del
Giappone
e
dell'Europa
continentale)
sembra
favorire
una
logica
di
accumulazione
di
lungo
periodo,
mostrandosi
più
adeguato
in
situazioni
di
rapido
cambiamento
e
più
reattivo
di
fronte
alle
innovazioni
tecnologiche.
Nel
caso
degli
Stati
Uniti,
nel
1864,
dopo
un
ventennio
di
forte
instabilità
finanziaria
provocata
dall'assenza
di
qualsiasi
disciplina
nell'attività
delle
banche,
venne
introdotta
una
più
severa
regolamentazione:
il
numero
degli
istituti
fu
notevolmente
ridotto
e
venne
creato
un
sistema
di
banche
di
primo
livello,
in
grado
di
fornire
adeguate
garanzie:
le
banche
nazionali.
Le
crescenti
esigenze
di
finanziamento
industriale
vennero
soddisfatte
da
istituti
specializzati
nel
finanziamento
a
lungo
termine
-‐
mutual
savings
banks,
fondi
pensione,
società
fiduciarie
–
e
dalla
contemporanea
esplosione
del
mercato
borsistico.
Un
ruolo
crescente
venne
svolo
dalle
investment
banks,
case
d’affari
private
specializzate
in
attività
d’intermediazione
a
lungo
termine,
protagoniste
della
trasformazione
in
senso
corporate
delle
imprese
americane
(oltre
a
fornire
venture
capital,
favorirono
fusioni
fra
i
propri
clienti,
esercitando
una
continua
supervisione).
In
Inghilterra
le
imprese
sorte
a
cavallo
della
rivoluzione
industriale
erano
per
la
maggior
parte
di
dimensioni
contenute,
gli
impianti
fissi
di
tali
imprese
erano
relativamente
semplici
e
i
costi
del
capitale
necessario
per
incorporare
nuove
tecnologie
ridotti.
Poiché
a
queste
ridotte
esigenze
di
investimenti
in
capitale
fisso
si
provvide
in
larga
parte
con
l'autofinanziamento,
la
domanda
di
finanziamenti
a
lungo
termine
fu
inizialmente
trascurabile,
contribuendo
per
la
sua
parte
alle
ritardo
nella
formazione
di
un
dinamico
sistema
bancario.
In
secondo
luogo
l’Inghilterra
dovette
a
lungo
scontare
le
conseguenze
della
bolla
speculativa
del
1720
e
del
panico
finanziario
da
essa
indotto.
Venne
promulgata
una
normativa
estremamente
restrittiva
(il
BUBBLE
ACT),
venne
imposta
la
responsabilità
illimitata
ai
soci,
ridotto
a
sei
il
loro
numero
massimo,
proibito
il
libero
trasferimento
delle
azioni.
Venne
così
a
lungo
inibita
la
creazione
di
banche
in
grado
di
effettuare
investimenti
industriali
di
larga
portata.
L'unica
banca
con
la
forma
giuridica
della
società
per
azioni
rimase
fino
al
1826
la
Banca
d'Inghilterra;
al
credito
commerciale
provvedevano
banchieri
privati
e
banche
provinciali,
comunque
cauti
nel
prestare
denaro.
Così,
al
momento
della
seconda
grande
onda
industriale,
il
sistema
bancario
inglese
si
mostrò
del
tutto
inadeguato
a
fronteggiare
gli
investimenti
richiesti
da
impianti
di
grandi
dimensioni
a
elevata
intensità
di
capitale
fisso.
A
questa
carenza
sopperì
in
parte
lo
sviluppo
della
Borsa
di
Londra,
accompagnato
dalla
crescita
di
merchant
banks
specializzate
in
consulenza
e
intermediazione
finanziaria.
L’investimento
azionario,
però
(che
riguardò
soprattutto
azioni
privilegiate)
fece
i
conti
con
la
crescente
preferenza
per
gli
investimenti
esteri.
Il
sistema
orientato
a
intermediari
è
associato
alle
vicende
finanziarie
di
Germania
e
Giappone:
in
esso
la
forma
prevalente
di
finanziamento
esterno
delle
imprese
è
rappresentata
dal
credito
bancario.
Le
banche
hanno
giocato
un
ruolo
cruciale
nella
trasformazione
industriale
di
questi
paesi.
In
particolare,
le
banche
miste
forniscono
finanziamenti
sia
a
breve
che
a
lungo
termine
ed
espletano
funzioni
di
sostegno
e
di
controllo
verso
le
imprese
assistite.
Il
mercato
borsistico
è
rimasto
a
lungo
marginale
e
poco
efficiente,
svolgendo
al
massimo
funzioni
di
complemento
all’attività
delle
banche;
queste
e
non
il
mercato
hanno
rappresentato
il
centro
nevralgico
di
diffusione
delle
informazioni,
attraverso
una
rete
privilegiata
di
fiduciari
da
esse
collocati
nei
consigli
di
amministrazione
e
nei
collegi
sindacali
delle
imprese
affidate.
L’idealtipo
di
questo
sistema
è
storicamente
rappresentato
dalla
Germania
del
1850,
al
tempo
cioè
dei
massicci
investimenti
nelle
costruzioni
ferroviarie,
e
dall’influenza
delle
Grossbanken
sul
processo
di
industrializzazione.
L’esperienza
tedesca
venne
imitata
in
altri
paesi
e
un
effetto
ne
fu
la
stretta
compenetrazione
tra
banca
e
imprese,
che
in
alcuni
casi
-‐quali
Belgio,
Germania,
Italia
-‐
ha
assunto
la
forma
di
capitalismo
finanziario,
caratterizzato
da
una
relativa
subordinazione
dell'impresa
alla
banca,
spesso
nella
posizione
di
main
bank,
ovvero
di
unico
o
privilegiato
referente,
che
assume
funzioni
di
reale
centro
decisionale.
In
particolare,
in
Italia
durante
gli
anni
Venti
gli
eccessivi
immobilizzi
delle
banche
miste
furono
all’origine
della
crisi
che
nei
primi
anni
Trenta
portò
alla
nascita
dell’IRI
e
alla
ristrutturazione
del
sistema
bancario
nella
direzione
di
una
specializzazione
degli
intermediari.
Il
differente
sviluppo
di
questa
legislazione
nelle
varie
realtà
nazionali
è
il
migliore
esempio
di
quanto
le
specificità
del
contesto
socio
istituzionale
possano
influenzare
le
strategie
delle
imprese.
Negli
Stati
Uniti
e
in
Germania
(paesi
protagonisti
della
Seconda
Rivoluzione
industriale)a
cavallo
del
secolo
scorso
si
consolidò
la
tendenza
alla
concentrazione
degli
impianti,
con
il
conseguente
rafforzamento
del
ruolo
della
grande
impresa.
Negli
Stati
Uniti
(cui
possiamo
accostare
l’Inghilterra,
dove
la
via
della
concentrazione
seguì
la
strada
delle
fusioni
piuttosto
che
quella
degli
accordi
tra
imprese,
essendo
questi
ultmi
anche
qui
illegali)
era
cresciuta
l'ostilità
della
popolazione
nei
confronti
delle
dimensioni
eccessive
che
andavano
assumendo
le
imprese,
in
particolare
le
società
ferroviarie:
a
quei
tempi
risale
la
pressione
dell'opinione
pubblica
per
la
limitazione
del
potere
economico
delle
imprese
e
la
tutela
della
libera
concorrenza.
Così
il
Congresso
varò
nel
1887
e
nel
1890
l’interstate
commerce
act
e
lo
sherman
act,
con
i
quali
venne
dichiarata
incostituzionale
la
pratica
dei
pools
e
degli
accordi
di
cartello,
ma
si
lasciava
ampio
spazio
a
fusioni,
concentrazioni
e
holding.
Dopo
il
1897,
un'interpretazione
estensiva
della
Corte
Suprema
dello
Sherman
act
dichiarò
illegale
ogni
forma
di
accordo
fra
imprese
formalmente
indipendenti.
In
tale
frangente
la
fusione
rimaneva
l'unica
via
di
controllo
del
mercato
praticabile
dalle
imprese.
Nel
giro
di
cinque
o
sei
anni
circa
3000
imprese
si
consolidarono
per
un
capitale
complessivo
di
$
6
miliardi.
Con
Roosevelt,
Taft
e
Wilson
si
rafforzarono
i
provvedimenti
legislativi
antitrust,
con
lo
smembramento
di
due
potentissimi
gruppi
che
controllavano
il
mercato
del
petrolio
e
del
tabacco:
la
Standard
Oil
e
l'American
Tobacco.
Al
contrario
in
Germania
(possiamo
accostare
Francia
e
Giappone)
la
tendenza
alla
cartellizzazione
non
solo
non
venne
vietata
ma
anzi
riconosciuta
come
legittima
e
protetta
dallo
Stato.
Inoltre,
già
a
partire
dal
primo
novecento,
si
affermarono
forme
di
collaborazione
più
stretta
e
formalizzata,
i
Konzerne
e
le
IG
(che
comportano,
oltre
ad
accordi
formali,
lo
scambio
reciproco
di
azioni
e,
nel
caso
delle
IG,
anche
la
suddivisione
dei
profitti).
3.2 L'evoluzione della disciplina giuridica in materia di bilanci e corporate governance
Mentre
in
Francia,
Belgio
e
Italia
la
legislazione
commerciale
traeva
ispirazione
dal
Codice
napoleonico,
in
Germania
e
in
Svizzera
nel
1880
vennero
emanate
norme
precise
per
la
compilazione
degli
stati
patrimoniali,
in
particolare
in
materia
di
valutazioni
di
bilancio.
Una
disciplina
analoga
a
quella
tedesca
era
stata
introdotta
in
Inghilterra
fin
dal
1844
con
il
Joint
Stock
Companies
Act
con
l’indicazione
di
criteri
precisi
per
la
compilazione
tanto
dello
stato
patrimoniale
quanto
del
conto
economico,
raccomandandone
l’adozione;
in
seguito,
rapporti
contabili
dettagliati
vennero
imposti
alla
società
che
richiedeva
investimenti
massicci
(ferrovie,
gas,
elettricità),
ma
si
dovette
attendere
il
1928
col
il
Company
Act
perché
essi
divenissero
obbligatori
per
tutte
le
imprese.
Negli
Stati
Uniti
le
preoccupazioni
sulla
necessità
di
maggiori
informazioni
sulle
società
a
responsabilità
limitata
si
riverberarono
sulla
LEGGE
DI
INCORPORAZIONE
http://www.unictblog.com
-‐
http://unict.myblog.it
17
GENERALE
dello
Stato
di
New
York
(1848),
che
servì
da
modello
per
il
resto
del
paese:
essa
richiedeva
la
preparazione
di
relazioni
annuali
contenenti
indicazioni
sul
capitale
versato
e
sull'ammontare
dei
debiti
e
comminava
pesanti
pene
pecuniarie
agli
amministratori
che
si
fossero
resi
responsabili
di
falsi
in
bilancio.
Nel
1887
si
introdussero
modalità
standard
per
rilevare
i
dati
finanziari
del
settore
ferroviario,
che
vennero
poi
estese
alle
imprese
operanti
nei
servizi
pubblici.
In
Italia
il
Codice
di
Commercio
del
1865
conservò
il
principio
dell'autorizzazione
governativa
per
la
costituzione
delle
società
anonime.
Solo
il
nuovo
Codice
di
Commercio
del
1882
(Codice
Mancini)
accolse
la
nuova
normativa,
che
si
imperniava
su
tre
direttrici
principali:
il
riconoscimento
di
più
estesi
diritti
alle
minoranze,
un
sistema
di
ampia
pubblicità
degli
atti
sociali
(con
la
pubblicazione
dei
bilanci
delle
società
di
capitale
in
un
apposito
organo,
il
Bollettino
ufficiale
delle
società
per
azioni)
e
una
più
severa
considerazione
degli
atti
degli
amministratori,
sull'operato
dei
quali
doveva
vigilare
anche
il
nuovo
istituto
del
collegio
sindacale.
Inoltre,
venivano
messi
a
disposizione
dei
soci
due
nuovi
documenti
contabili:
le
relazioni
di
bilancio
e
le
relazioni
del
collegio
sindacale.
Anche
con
questi
nuovi
documenti
non
era
affatto
garantita
la
trasparenza
delle
operazioni
contabili
delle
società,
causa:
l’assenza
di
precisi
criteri
di
formazione
del
bilancio
e
la
completa
oscurità
in
cui
veniva
lasciato
il
conto
profitti
e
perdite.
Con
il
codice
civile
del
1942
per
la
prima
volta
si
provvedeva
a
richiedere
una
dettagliata
descrizione
dello
stato
patrimoniale
secondo
precisi
criteri
di
valutazione,
che
nel
1974
si
allargò
anche
al
conto
profitti
e
perdite.
La
storia
d’impresa
si
è
per
lungo
tempo
identificata
con
la
storia
della
grande
impresa,
e
ciò
per
varie
ragioni:
1) Ragioni pratiche: le grandi imprese, anche cessate, tendono a lasciare maggiori tracce di sé;
2) Il
prevalere
di
un
approccio
funzional
–
determinista,
per
il
quale
la
produzione
di
massa
e
la
grande
impresa
rappresentano
l’ineluttabile
sbocco
delle
trasformazioni
dell’economia
e
della
società
contemporanea,
che
hanno
preso
avvio
con
la
Prima
rivoluzione
industriale;
3) La
convergenza
verso
il
modello
americano
nella
forma
d’impresa
e
nel
sistema
di
capitalismo
usato
da
tutte
le
economie
industriali
avanzate
per
la
produzione
e
la
distribuzione
dei
beni.
A
partire
dagli
anni
Ottanta
(anche
in
conseguenza
dell’apparente
temporaneo
declino
della
leadership
economica
americana)
si
sono
affacciate
nuove
linee
d’indagine
che,
da
un
lato
hanno
dato
spazio
alla
contestualizzazione
geografico
–
temporale
delle
esperienze
di
crescita
delle
imprese,
dall’altro,
hanno
posto
l’accento
sugli
aspetti
di
originalità
e
specificità
di
forme
d’impresa
diverse
da
quelle
di
modello
americano.
Così
l’interesse
si
è
allargato
a:
-‐ Imprese rete, distretti industriali e altre forme di produzione flessibile;
La
dimensione
quantitativa
nella
storia
d’impresa
è
rimasta
a
lungo
subordinata
a
quella
qualitativa.
Soltanto
nell'ultimo
quarto
di
secolo
la
misurazione
si
è
fatta
strada
nella
disciplina,
sulla
scia
di
ricerche
centrate
sul
caso
americano
e
nell’ambito
della
scuola
chandleriana.
Dimensioni,
ranking,
longevità
e
indicatori
di
performance
sono
a
poco
a
poco
divenuti
oggetto
di
indagine
dello
storico
d'impresa,
anche
se
ancora
l’evidenza
empirica
prodotta
è
piuttosto
limitata
(anche
perché
solo
negli
ultimi
decenni
nella
maggior
parte
dei
paesi
si
è
proceduto
alla
raccolta
di
dati
relativi
a
PMI,
distretti,
ecc).
La
quasi
totalità
delle
ricerche,
quindi,
prende
in
analisi
dei
cluster
necessariamente
ridotti
di
soggetti:
le
imprese
al
di
sopra
di
una
certa
soglia,
le
maggiori
x
imprese
accomunate
dall'appartenenza
a
un
sistema
economico
o
a
un
suo
settor,e
o
da
determinate
caratteristiche
(forma
giuridica,
organizzazione).
Anche
la
valutazione
delle
performance
risente
dell'influenza
del
paradigma
chandleriano:
poiché
la
crescita
dell'impresa
è
lo
sbocco
inevitabile
del
progredire
dell'economia,
la
grande
dimensione
diviene
di
per
se
stessa
simbolo
del
suo
successo,
mentre
la
sua
capacità
di
mantenersi
ai
vertici
del
ranking
dimensionale
rappresenta
un
adeguato
indicatore
della
sua
performance.
Nel
capitalismo
esistono
molteplici
forme
di
impresa,
rispetto
sia
alla
dimensione
sia
all'organizzazione
interna
e
dunque
diversi
sistemi
di
impresa.
CHANDLER
sostiene
che
la
grande
impresa
sia
divenuta
nel
corso
del
900
l'elemento
portante
dei
sistemi
produttivi
americano
e
tedesco,
mentre
quello
britannico
sarebbe
rimasto
a
lungo
condizionato
da
un
pregiudizio
in
favore
delle
operazioni
su
scala
limitata
e
della
I
dati
di
Hannah
sulla
consistenza
delle
prime
100
aziende
nei
primi
due
decenni
del
Novecento,
oltre
a
mostrare
una
divergenza
non
significativa
tra
le
esperienze
dei
vari
paesi
occidentali,
non
permettono
di
valutare
il
peso,
all’interno
di
ogni
contesto
nazionale,
delle
varie
classi
dimensionali.
Un
indicatore
utile
in
tal
senso
è
la
quota
occupazionale
assorbita
da
ciascuna
impresa;
con
esso
si
dimostra
come
gli
occupati
delle
prime
100
imprese
non
siano
neanche
un
terzo
del
totale.
In
particolare,
mentre
in
Germania,
Stati
Uniti
e
Gran
Bretagna
la
classe
più
importante
è
quella
della
media
impresa,
in
Italia,
Francia
e
Giappone
sono
le
piccole
imprese
a
fare
la
parte
del
leone
con
quote
di
occupazione
superiori
al
50%
del
totale.
Due
dati
di
fatto:
la
tendenza
alla
crescita
dimensionale
delle
imprese
ed
il
permanere
di
diverse
forme
d’impresa.
Del
resto,
la
dimensione
dell'impresa
può
rappresentare
un
aspetto
essenziale
della
strategia
di
riduzione
dei
costi:
un’attività
che
impone
economie
di
scala
richiede
un'organizzazione
della
produzione
e
della
vendita
in
grado
di
servire
un
mercato
di
massa
e
quindi
un'impresa
di
grandi
dimensioni.
La
piccola
o
media
dimensione
è
di
solito
più
adeguata
alla
produzione
specializzata
o
di
nicchia,
che
invece
richiede
di
concentrare
lo
sforzo
competitivo
in
mercati
più
ristretti.
La
struttura
dimensionale
delle
imprese
dipende
anche
dalla
storia
e
dalla
specificità
del
contesto
istituzionale
di
ogni
singolo
paese:
la
maggiore
frammentazione
delle
imprese
di
Italia
e
Giappone
si
spiega
col
radicamento
dell'industria
diffusa
e
dei
distretti
nel
caso
italiano,
con
la
struttura
piramidale
dei
gruppi
di
imprese
nel
caso
giapponese.
È
impossibile
dar
conto
in
modo
esauriente
della
varietà
e
dell'ampiezza
dei
significati
che
le
scienze
sociali
(teoria
economica
dell'impresa,
discipline
aziendali,
sociologia
economica
e
storia
d’impresa
stessa)
attribuiscono
all'espressione
performance
dell'impresa.
In
esso
confluiscono
valutazioni
di
carattere
contabile
relative
all'efficienza
nel
produrre
beni
e
servizi,
che
assumono
la
forma
di
indici
specifici
(ROI,
ROE
e
ROS);
valutazioni
di
carattere
patrimoniale
relative
alla
solidità
dell'impresa
nonché
valutazioni
di
performance
finanziarie.
Sono
queste
stime
riconducibili
al
mainstream
della
microeconomia,
in
quanto
traggono
ispirazione
dall'assunzione
di
fondo
di
questo
approccio,
la
massimizzazione
del
profitto.
Nella
corrente
istituzionalista,
invece,
l'efficacia
dell'impresa
viene
valutata
in
base
alla
sua
capacità
di
ridurre
i
costi
di
transazione
e
di
minimizzare
i
conflitti
principale/agente,
ovvero
di
posizionarsi
efficacemente
all'interno
del
continuum
gerarchie
–
mercati,
dotandosi
di
una
struttura
organizzativa
adeguata
alle
condizioni
del
mercato
e
alla
sua
specializzazione
produttiva.
Nell'approccio
evolutivo
l’enfasi
è
posta
sulla
sopravvivenza
dell'impresa;
infine,
nell’indirizzo
del
management
strategico
che
si
riconosce
nel
paradigma
struttura-‐condotta-‐performance
la
performance
dipende
in
primo
luogo
da
condizioni
esogene,
quali
la
struttura
del
settore
nel
quale
l'impresa
si
trova
a
operare,
e
dalla
sua
capacità
di
interagire
con
esso.
Non
esiste,
in
definitiva,
alcun
criterio
universale
di
valutazione
della
performance
dell'impresa,
anche
perché
esso
varia
a
seconda
del
soggetto
interessato
-‐
l’azionista,
il
manager,
il
proprietario,
i
lavoratori
-‐,
della
forma,
dell’organizzazione
e
della
dimensione
dell’impresa
stessa.
Cassis
(propugnatore
e
coordinatore
di
un
progetto
di
ricerca
sulla
performance
delle
imprese)
ha
proposto
una
suddivisione
dei
diversi
criteri
di
valutazione
del
comportamento
delle
imprese
in
cinque
categorie:
dimensione
(ma
con
la
crescita
dimensionale
usualmente
associata
a
strategie
competitive
vincenti),
rendimento
(calcolato
sulla
base
degli
indici
di
redditività
e
poco
attendibile
per
lunghi
periodi),
sopravvivenza
o
longevità
(di
interpretazione
ambigua,
perché
a
volte
la
cessazione
di
un’azienda
può
risultare
per
gli
stakeholders
più
proficua
della
mera
sopravvivenza),
competitività
(da
valutare
più
che
altro
tra
imprese
operanti
nello
stesso
settore)
e
reputazione
(serie
di
valutazioni
di
carattere
qualitativo,
ad
es.
l’impatto
ambientale).
Il
confronto
della
redditività
delle
imprese
a
livello
comparato
è
stato
ancora
più
problematico.
Lo
storico
d’impresa
si
trova
di
fronte
alla
difficoltà
di
ricostruire
serie
omogenee
comparabili
tra
i
diversi
paesi,
dato
che
la
determinazione
dei
profitti
delle
imprese
è
soggetta
a
consuetudini
e
normative
spesso
molto
diverse.
Inoltre,
lo
storico
può
quasi
sempre
esercitare
una
scelta
molto
limitata,
dato
che
è
molto
raro
rinvenire
nelle
raccolte
di
documenti
contabili
voci
di
bilancio
disaggregate
con
criteri
omogenei
per
lunghi
periodi:
così
mentre
le
informazioni
sul
capitale
sono
quasi
sempre
riportate,
quelle
sugli
investimenti
non
lo
sono
quasi
mai,
nonostante
siano
fondamentali
per
determinare
le
strategie
industriali
delle
imprese
e
per
effettuare
confronti
intersettoriali
e
internazionali,
mediante
l'impiego
del
ROI.
Per
questo
motivo
le
ricerche
fino
ad
ora
effettuate
hanno
usato
il
ROE,
cioè
un
indice
di
redditività
del
capitale
più
generico
che
risulta
molto
sensibile
alle
strategie
fiscali
e
alla
politica
dei
dividendi
nei
confronti
degli
azionisti,
poco
dinamico
in
quanto
stabilizzato
a
valori
predeterminati.
Non
si
deve
poi
trascurare
il
fatto
che
i
profitti
denunciati
siano
spesso
ben
diversi
–
per
ragioni
in
primis
fiscali
-‐
da
quelli
reali:
quella
che
è
stata
definita
“finanza
creativa”.
Tuttavia,
questo
tipo
di
analisi
rimane
fondamentale
per
spiegare
l’evoluzione
e
la
dinamica
di
lungo
periodo
delle
economie,
anche
se
la
ridotta
evidenza
empirica
finora
prodotta
dalla
storiografia
è
stata
stimolata
dai
propositi
di
verificare
alcune
delle
ipotesi
di
Chandler,
con
risultati
in
definitiva
contrastanti.
2. L’impresa famigliare
L’impresa
famigliare
non
ha
attratto
l’attenzione
di
una
specifica
letteratura
economica
o
manageriale,
considerata
solo
come
il
primo
stadio
del
ciclo
di
vita
delle
imprese
e
caratterizzata
da:
dimensione
ridotta
e
lento
tasso
di
crescita
(conseguenza
di
una
scarsa
politica
di
investimenti),
ricorso
precipuo
all’autofinanziamento;
scarsa
propensione
alle
fusioni
o
ai
takeovers;
precipuo
affidamento
sui
componenti
della
famiglia,
con
il
conseguente
mantenimento
di
strutture
organizzative
arretrate.
Visione,
questa,
condivisa
dalla
scuola
chandleriana.
In
realtà,
recenti
approfondimenti
hanno
dimostrato
come
queste
imprese
sembri
adattarsi
meglio
a
condizioni
di
elevata
incertezza,
limitando
i
costi
di
transazione
e
i
rischi
connessi
alla
sostituzione
della
leadership.
Tendono
ad
affermarsi
nei
settori
con
ridotte
economie
di
scala,
competenze
artigianali
e
forme
organizzative
semplici.
Le
esperienze
di
diversi
paesi
europei
(dove
l’impresa
famigliare
mantiene
ancora
una
discreta
vitalità)
dimostrano
altresì
che
le
caratteristiche
tradizionali
del
capitalismo
famigliare
non
di
rado
si
mischiano
con
successo
ad
aspetti
moderni
del
mercato
dei
capitali
come
l’internazionalizzazione.
Non
solo
in
Europa,
ma
anche
in
Corea
del
Sud,
Taiwan,
Cile
e
negli
stessi
Stati
Uniti.
http://www.unictblog.com
-‐
http://unict.myblog.it
21
Di
fronte
a
questi
dati,
la
discussione
sul
ruolo
delle
imprese
famigliari
nella
crescita
non
è
affatto
conclusa,
ma
appare
superata
l’idea
che
quest’impresa
si
debba
considerare
un’organizzazione
economica
alternativa
all’impresa
manageriale;
piuttosto,
l’impresa
famigliare
va
considerata
come
una
fra
le
molte
forme
d’impresa
che
si
pongono
nel
continuum
williamsoniano
di
gerarchie
e
mercati.
Sia
negli
Stati
Uniti
che
in
Europa
all'origine
della
grande
impresa
moderna
vi
è
stata
la
costruzione
delle
infrastrutture,
canali
e
reti
ferroviarie.
In
particolare,
la
costruzione
di
queste
ultime,
comportando
l'impiego
di
enormi
quantità
di
ferro,
acciaio,
cemento
e
legno,
stimolò
lo
sviluppo
delle
attività
industriali
a
monte;
secondariamente
le
ferrovie
sollecitarono
le
attività
a
valle,
tagliando
i
tempi
di
percorrenza,
facilitando
la
movimentazione
di
merci
e
passeggeri
e
consentendo
alle
imprese
di
ampliare
i
propri
mercati;
in
terzo
luogo,
le
società
ferroviarie
furono
il
primo
esempio
di
big
business
moderno.
Fino
agli
anni
70
solo
le
ferrovie
mostrarono
le
caratteristiche
proprie
della
grande
impresa:
impianti
di
grandi
dimensioni,
organizzazione
complessa,
forti
necessità
di
coordinamento
manageriale,
una
crescente
separazione
tra
proprietà
e
controllo.
Ma
l'elemento
chiave
fu
rappresentato
dalle
necessità
finanziarie
per
far
fronte
ai
colossali
investimenti
richiesti:
la
formula
preferita
inizialmente
fu
quella
delle
obbligazioni,
ma
specie
negli
Stati
Uniti
non
fu
raro
il
ricorso
a
emissioni
azionarie.
Il
forte
indebitamento
indusse
anche
a
pratiche
collusive
in
grado
di
garantire
una
maggiore
redditività.
Non
a
caso
il
primo
intervento
di
carattere
antimonopolistico
fu
la
promulgazione
nel
1887
negli
Stati
Uniti
di
una
legge
federale
per
regolamentare
il
commercio
interstatale.
Negli
anni
1850-‐70
il
settore
ferroviario
attraeva
su
di
sé
fortissimi
investimenti
e
le
imprese
ferroviarie
erano
prime
anche
per
occupazione.
L’entità
di
queste
imprese
richiese,
quindi,
nuove
strutture
organizzative
e
nuove
procedure
di
coordinamento:
ciò
comportò
l'introduzione
di
un’organizzazione
per
funzioni
(merci,
passeggeri
comunicazioni),
basata
su
gerarchie
formali
distinte
per
linee
di
autorità
e
deleghe
di
responsabilità,
nonché
la
sperimentazione
di
sofisticate
tecniche
di
contabilità.
La
grande
impresa
manageriale
ha
trovato
negli
Stati
Uniti
le
condizioni
socio
economiche
migliori
per
affermarsi:
il
paese
era
scarsamente
popolato
e
aveva
una
ridotta
possibilità
di
sfruttamento
della
forza
lavoro,
ma
godeva
di
una
notevole
offerta
di
risorse
naturali
e
di
una
relativa
disponibilità
di
capitale.
Fin
dal
primo
Ottocento
una
serie
di
fondamentali
innovazioni
di
processo
e
prodotto
resero
possibile
la
diffusione
delle
pratiche
di
standardizzazione:
si
sviluppò
il
cosiddetto
American
system
of
manufacturing,
una
tecnologia
che
anticipava
le
produzione
di
massa.
Era
il
primo
stadio
di
una
filiera
tecnologica
che
di
lì
a
qualche
decennio
sarebbe
sfociata
nel
fordismo,
cioè
nella
completa
meccanizzazione
del
processo
produttivo
mediante
l'adozione
della
catena
di
montaggio.
Negli
Stati
Uniti
aveva
preso
avvio
il
processo
di
integrazione
delle
attività
produttive,
che
condusse
alla
sostituzione
della
mano
visibile
della
grande
impresa
con
la
mano
invisibile
del
mercato:
si
andò
cioè
delineando
in
modo
sempre
più
netto
la
tendenza
all’internalizzazione
nell'azienda
di
operazioni
e
transazioni
fino
ad
allora
coordinate
dal
mercato,
i
cui
meccanismi
non
sembravano
in
grado
di
assicurare
le
economie
di
scala
e
di
ampiezza
necessarie
a
garantire
quel
crescente
flusso
di
prodotto
che
era
ormai
condizione
indispensabile
per
lo
sviluppo
dell'impresa.
Il
coordinamento
manageriale
ovviava
a
questa
necessità
e
si
spiega
così
il
rapido
sviluppo
delle
burocrazie
aziendali
e
la
loro
crescente
importanza
nel
dirigere
e
organizzare
i
flussi
interni
all'impresa,
nonché
nell’allocarvi
in
maniera
ottimale
i
fattori
della
produzione.
Da
qui
nascevano,
poi,
quei
processi
di
divisione
fra
attività
finanziarie
e
produttive
e
tra
proprietà
e
management,
caposaldo
della
grande
impresa
del
XX
secolo.
Nell’America
di
fine
800
e
inizi
900,
la
grande
impresa
manageriale
integrata
si
diffuse
soprattutto
nelle
industrie
caratterizzate
da
un
elevato
tasso
di
cambiamento
tecnologico
e
sollecitate
da
una
domanda
in
http://www.unictblog.com
-‐
http://unict.myblog.it
22
rapida
espansione.
Entravano
a
far
parte
del
novero
delle
industrie
attive
(sotto
i
profili
tecnologico
e
organizzativo)
due
gruppi
di
imprese:
nel
primo
confluivano
tabacco,
alimentare,
meccanica
leggera,
nel
secondo
petrolio,
chimica,
elettromeccanica
pesante,
gomma
e
automobile.
Le
imprese
del
primo
gruppo
erano
accomunate
da
un
processo
di
crescita
sostanzialmente
interno,
attuato
attraverso
strategie
di
integrazione
a
valle
nel
campo
della
distribuzione
e
del
marketing
e
a
monte
nell'acquisizione
delle
materie
prime.
Nella
maggior
parte
dei
casi
queste
strategie
di
sviluppo
poterono
essere
perseguite
facendo
affidamento
soprattutto
su
risorse
finanziarie
proprie
assicurate
dall'elevato
cash
flow
generato
dalla
produzione
e
dalla
distribuzione
di
massa.
Facevano
parte
del
secondo
gruppo
le
imprese
che
operavano
in
settori
a
elevata
intensità
di
capitale
e
che
erano
inizialmente
cresciute
soprattutto
attraverso
strategie
di
integrazione
orizzontale
per
il
controllo
dei
prezzi
e
della
produzione:
a
questa
fase
aveva
fatto
seguito
ben
presto
un
periodo
più
o
meno
lungo
di
ristrutturazione
produttiva
e
organizzativa,
caratterizzata
da
una
forte
spinta
anche
all'integrazione
verticale.
Ne
conseguiva
un
ulteriore
elemento
di
differenziazione
di
queste
imprese
rispetto
a
quelle
del
primo
gruppo:
il
più
ampio
ricorso
al
mercato
dei
capitali;
infatti
i
massicci
investimenti
richiesti
portarono
le
società
ad
appoggiarsi
pesantemente
su
fonti
di
finanziamento
esterno
fra
le
quali
il
mercato
azionario.
Per
Chandler
tutte
queste
imprese
avevano
in
comune
il
fatto
di
essere
first
movers,
cioè
le
prime
imprese
ad
aver
effettuato
investimenti
su
larga
scala
in
una
triplice
direzione:
in
adeguate
economie
di
scala
e
di
scopo
per
rafforzare
la
produzione,
in
un'organizzazione
della
distribuzione
che
rendesse
fluido
il
collegamento
fra
l’impresa
e
il
mercato
e
in
una
struttura
manageriale
di
coordinamento
e
controllo
delle
due
attività
precedenti.
Queste
imprese
hanno
potuto
godere
di
un
forte
vantaggio
competitivo,
creando
delle
barriere
all'entrata
in
grado
di
essere
superate
dagli
sfidanti
soltanto
con
sforzi
ancora
più
rilevanti
e
con
rischi
maggiori.
Solo
poche
sono
riuscite
nell'impresa,
e
poco
dopo
si
sono
trovate
a
competere
con
le
prime
secondo
modalità
oligopolistiche
moderne,
cioè
confrontandosi
non
tanto
sul
prezzo
quanto
sui
miglioramenti
di
prodotto
e
di
processo,
del
marketing
e
della
distribuzione.
Si
dotarono
di
laboratori
di
ricerca
e
sviluppo,
diventando
fertile
terreno
di
elaborazione
delle
conoscenze
tecnologiche,
manageriali
e
organizzative
che
poi
andavano
a
riversarsi
sull'intero
sistema
economico.
Quattro
principali
strategie
consentono
alle
grandi
imprese
di
continuare
a
crescere
e
a
mantenersi
ai
vertici
delle
economie
contemporanee.
Due
di
esse
hanno
motivazioni
difensive,
poiché
sono
realizzate
per
proteggere
gli
investimenti
già
effettuati:
la
prima
è
di
integrazione
orizzontale
(unirsi
o
acquisire
imprese
che
utilizzano
metodi
produttivi
simili
per
produrre
uno
stesso
prodotto
rivolto
a
uno
stesso
mercato),
la
seconda
è
di
integrazione
verticale
(assorbire
unità
coinvolte
nelle
attività
a
monte
o
a
valle
del
proprio
processo
produttivo).
Due
strategie
hanno
carattere
offensivo,
sono
cioè
finalizzate
a
entrare
in
nuovi
mercati
e
a
intraprendere
nuove
attività:
una
è
la
diversificazione
produttiva,
l’altra
l'espansione
verso
aree
geograficamente
lontane.
La
conglomerata
è
il
punto
di
arrivo
di
una
strategia
di
diversificazione
spinta.
La
diversificazione
viene
classificata
in
due
categorie,
quella
correlata
(espansione
dell'impresa
in
linee
di
prodotto
vicine
al
core
business
originario)
e
quella
non
correlata
(diversificazione
in
settori
che
appaiono
remoti
per
caratteristiche
tecnologiche
o
per
modalità
di
marketing
e
distribuzione).
La
diversificazione
correlata,
già
teorizzata
dalla
Penrose
come
modalità
di
crescita
dell’impresa,
fu
strategia
largamente
adottata
dalle
imprese
americane
nel
secondo
dopoguerra,
ma
dagli
anni
Sessanta
si
riscontrò
anche
una
crescente
tendenza
verso
la
diversificazione
non
correlata.
La
crisi
che
colpì
il
capitalismo
americano
degli
anni
80
si
attribuì
proprio
agli
eccessi
di
diversificazione
della
grande
impresa,
in
particolare
alla
sua
degenerazione
impersonata
dalla
conglomerata
con
rischi
di
dispersione
e
di
insufficiente
coordinamento.
Chandler,
condividendo
questa
posizione,
ritiene
che
vi
sia
una
debole
razionalità
economica
nella
diversificazione
non
correlata
e
vede
con
favore
la
spinta
alle
ristrutturazioni
e
alle
dismissioni
che
prende
avvio
degli
anni
60,
che
porta
la
grande
impresa
a
focalizzarsi
nuovamente
sul
suo
core
business.
Constata,
inoltre,
come
la
tendenza
delle
grandi
imprese
a
concentrarsi
Altra
modalità
di
crescita
dell’impresa
indicata
da
Chandler
è
l'espansione
verso
aree
geograficamente
lontane,
tramite
investimenti
diretti
in
unità
produttive
all'estero
che
consentono
all'azienda
di
sfruttare
anche
fuori
dei
confini
nazionali
il
vantaggio
competitivo.
Le
imprese
manageriali
si
trasformano
in
imprese
multinazionali.
Diversi
fattori
possono
spingere
l'impresa
a
creare
propri
impianti
in
un
paese
estero:
tariffe
doganali
e
altri
interventi
legislativi
da
questo
messi
in
atto
per
aumentare
il
prezzo
dei
prodotti
importati;
il
costo
del
lavoro,
lo
sfruttamento
di
nuovi
potenziali
mercati.
Nel
secondo
dopoguerra,
la
grande
espansione
degli
IDE
degli
Stati
Uniti
stimolò
l’interesse
degli
studiosi,
anche
in
Europa.
È
emerso
che
nella
fase
pre-‐1914
l’Inghilterra
era
in
cima
alla
lista
dei
paesi
che
avevano
effettuato
non
soltanto
i
maggiori
investimenti
di
portafoglio
all'estero
ma
anche
i
maggiori
investimenti
diretti
(del
resto
era
nella
fase
di
massima
espansione
internazionale);
circa
l'80%
degli
investimenti
diretti
proveniva
dal
vecchio
continente
e
solo
il
14%
da
Stati
Uniti.
Ampio
il
raggio
di
destinazione:
Asia,
America
Latina,
Stati
Uniti
e
Europa
orientale.
Oltre
alla
maggiore
intensità,
vi
era
un
altro
aspetto
che
differenziava
le
multinazionali
europee
da
quelle
americane:
l'originalità
della
loro
forma.
Soltanto
una
quota
ridotta
era
costituita
da
imprese
manageriali
di
grande
dimensione,
la
maggior
parte
delle
altre
multinazionali
era
rappresentata
da
imprese
registrate
sì
nella
madrepatria,
ma
che
all'interno
di
essa
non
svolgevano
alcuna
attività:
non
erano
quindi
filiazioni
estere
di
grandi
imprese
nazionali,
bensì
aziende
specializzate
in
una
singola
attività,
prodotto
o
servizio
che
fosse
solitamente
in
un
solo
paese
(denominate
free
standing
companies).
Negli
anni
Venti
queste
lasciarono
spazio
alle
multinazionali
di
forma
classica,
ma
la
recessione
degli
anni
Trenta
vide
un
rallentamento
della
crescita
degli
IDE.
Crebbe
ulteriormente
l’importanza
del
settore
petrolifero
che,
da
solo,
coprì
una
ragguardevole
parte
dell’attività
delle
multinazionali.
Dal
secondo
dopoguerra
si
ebbe
una
forte
ripresa
dell’attività
multinazionale,
con
gli
Stati
Uniti
ancora
a
fare
la
parte
del
leone.
Dagli
anni
80
si
registra
un
vero
e
proprio
boom
degli
IDE
e
anche
l’Italia
vede
crescere
la
propria
quota:
accanto
a
poche
grandi
imprese
–
Eni,
Fiat,
Telecom
-‐
si
segnala
un
crescente
numero
delle
cosiddette
multinazionali
tascabili,
imprese
di
medie
dimensioni
-‐
Candy,
Mapei,
Artsana
-‐
che
perseguono
la
conquista
di
nicchie
di
mercato
all'estero,
trasferendovi
parte
della
propria
produzione.
Intorno
alla
metà
degli
anni
90
è
aumentata
la
forza
d'attrazione
degli
IDE
dell'Europa
e
degli
Stati
Uniti,
mentre
l'aumento
della
quota
asiatica
è
da
collegarsi
al
crescente
interesse
per
la
Cina.
Cambia
anche
la
direzione
degli
investimenti
,
con
i
servizi
che
già
nel
1992
assorbivano
più
del
50%
degli
IDE.
L'impresa
personale
e
l’impresa
manageriale
rappresentano
i
due
estremi
di
un
set
di
svariate
forme
di
organizzazione
della
produzione,
risultato
di
specificità
di
carattere
storico
e
geografico.
In
Asia
orientale
e
in
sud
America
la
diversificazione
–
via
maestra
di
crescita
delle
imprese
-‐
non
ha
costituito
lo
sbocco
finale
della
loro
evoluzione
ma
è
stata
il
frutto
della
precoce
formazione
di
gruppi
di
imprese
strettamente
interrelate.
Questi,
anziché
specializzarsi
in
una
produzione
o
una
linea
di
produzioni
correlate,
hanno
sfruttato
l'ampio
spettro
di
tecnologie
straniere
mature
per
dar
vita
a
un
ventaglio
di
industrie
capaci
di
mettere
in
pratica
un'aggressiva
politica
di
espansione
sui
mercati
esteri:
una
precoce
In
Corea
i
cheabol,
cioè
i
gruppi
di
imprese
diversificate
a
proprietà
familiare,
ricalcano
l’esperienza
degli
zaibatsu
dell’anteguerra,
ma
a
differenza
dei
gruppi
giapponesi
non
possono
controllare
banche,
e
ciò
dà
al
governo
la
possibilità
di
controllare
il
processo
di
industrializzazione.
Grazie
alla
diversificazione
spinta,
all’aggressiva
politica
commerciale
e
agli
investimenti
in
capacità
manageriali,
hanno
registrato
una
crescita
impressionante
(dal
1974
al
1984
la
quota
di
PNL
prodotta
dai
primi
10
gruppi
passò
dal
15,1
al
67,4%
del
totale;
i
maggiori
quattro
erano
Hyundai,
Samsung,
Daewoo,
Lucky
Goldstar).
In
Sud
America
i
grupos
-‐
imprese
multisocietarie
che
operano
su
diversi
mercati
ma
con
gestione
finanziaria
e
imprenditoriale
unificata
-‐
si
formarono
a
cavallo
del
900,
moltiplicandosi
negli
anni
Venti.
Nei
Paesi
più
sviluppati
–
come
Francia
e
Germania
–
la
presenza
consolidata
di
questi
gruppi
è
stata
interpretata
come
l’esito
di
una
ricerca
di
adattamento
organizzativo
efficiente
alle
esigenze
di
determinati
settori;
in
Italia
la
diffusione
dei
gruppi
di
imprese
ha
solidi
radici
storiche,
tanto
da
identificarsi
come
una
caratteristica
strutturale
del
sistema
economico.
A
metà
degli
anni
Ottanta
si
comprese
pienamente
come
la
specializzazione
flessibile
–
ovvero
l’organizzazione
della
produzione
in
reticoli
territoriali
di
piccola
impresa
–
avrebbe
offerto
un’alternativa
storica
alla
produzione
di
massa
altrettanto
efficiente,
evitando
peraltro
la
dequalificazione
del
lavoratore
operata
dalla
grande
fabbrica.
La
flessibilità
aveva
già
rappresentato
la
stessa
ragione
d'essere
nella
manifattura
a
domicilio
dell’età
preindustriale;
è
stata
il
tratto
dominante
dell'industria
tessile
svizzera
e
di
larghi
settori
della
manifattura
francese
e
della
stessa
industria
americana.
Rappresenta,
infine,
l'aspetto
più
originale
e
significativo
dei
distretti
industriali
che
caratterizzano
quello
che
è
stato
definito
il
modello
italiano.
In
Italia
nel
1959
149
distretti
danno
lavoro
a
360.000
addetti,
nel
1971
sono
166
con
un'occupazione
di
poco
più
di
un
milione,
nel
1991
238
con
1.700.000
occupati.
Si
localizzano
nel
Nord-‐est
del
Paese,
in
alcune
aree
del
centro
e
sulla
costa
adriatica.
Occupano
più
del
50%
degli
addetti
del
settore
tessile,
http://www.unictblog.com
-‐
http://unict.myblog.it
25
dell'abbigliamento
e
delle
calzature,
il
40%
dell'industria
del
pellame,
del
legno
e
della
produzione
di
mobili
in,
più
del
30%
di
cartotecnica,
plastica,
ceramica
e
vetro:
in
totale
circa
1/3
della
manodopera
industriale.
Becattini,
guardando
al
modello
italiano,
definì
il
distretto
industriale
come
un’entità
socio
territoriale
caratterizzata
dalla
compresenza
attiva,
in
un'area
territoriale
circoscritta,
di
una
comunità
di
persone
e
di
una
popolazione
di
imprese
industriali
che
tendono
a
compenetrarsi.
Il
distretto
ha
una
rete
stabile
di
collegamenti
con
i
suoi
fornitori
e
i
suoi
clienti
al
di
fuori
del
distretto,
ampliando
gradualmente
la
sua
azione
fino
a
poter
raggiungere
una
dimensione
regionale,
ma
in
certi
casi
anche
nazionale
e
internazionale.
Gli
elementi
caratterizzanti
del
distretto
sono
quattro:
1) La
comunità
di
persone:
un
sistema
omogeneo
di
valori
che
si
esprime
in
termini
di
etica
del
lavoro
e
dell’attività,
della
famiglia,
della
reciprocità
e
del
cambiamento.
Parallelamente
al
sistema
dei
valori
si
forma
nel
distretto
un
sistema
di
istituzioni
e
regole
che
diffondono
garantiscono
e
trasmettono
quei
valori
stessi.
Lo
sviluppo
storico
ha
prodotto
una
forte
interiorizzazione
di
tali
valori
che
sono
trasmessi
da
padre
a
figlio.
2) La
popolazione
delle
imprese
che
formano
il
distretto
è
funzionale
alla
sua
specifica
attività:
ciascuna
è
specializzata
in
una
o
in
poche
fasi
del
processo
di
produzione
tipico
che
caratterizza
il
distretto.
La
divisione
del
lavoro
è
realizzata
nel
mercato
locale,
ogni
unità
è
allo
stesso
tempo
un'entità
caratterizzata
da
una
sua
storia
e
un
ingranaggio
specifico
di
quello
specifico
distretto.
Le
imprese
del
distretto
appartengono
allo
stesso
settore
(marshallianamente
definito).
3) Le
risorse
umane.
L’insieme
delle
posizioni
lavorative
è
particolarmente
variegato:
dal
lavoro
a
domicilio
al
lavoro
salariato,
all’attività
autonoma,
all'attività
imprenditoriale.
Il
distretto
incorpora
una
tendenza
a
redistribuire
e
riallocare
continuamente
le
sue
risorse
umane
ed
è
caratterizzato
da
un'elevata
mobilità
verticale.
L’imprenditore
–
perno
di
questa
realtà
–
ha
un
compito
preciso:
tradurre
in
termini
di
prodotti
vendibili
sul
mercato
tutte
le
potenzialità
produttive
ed
economico-‐
sociale
del
distretto;
non
produce
ma
commercia
e
smista
materie
prime
e
prodotti
finiti.
4) Il
mercato
del
distretto
flessibile
e
specializzato.
In
esso
la
merce
rappresentativa
di
ogni
distretto
deve
essere
riconoscibile
per
determinati
standard
qualitativi,
per
tipicità
di
produzione,
regolarità
delle
consegne.
Il
distretto
si
caratterizza
per
la
maggior
resistenza
–
rispetto
alla
grande
impresa
-‐
all'introduzione
delle
innovazioni,
in
una
realtà
dominata
da
risorse
umane.
Il
progresso
tecnologico
è
un
processo
sociale,
che
si
realizza
gradualmente.
Un’ulteriore
specificità
è
rappresentata
dalle
modalità
del
suo
sistema
di
finanziamento,
con
il
fondamentale
intervento
della
banca
locale,
organismo
nato
e
cresciuto
nel
distretto:
l'informazione
sui
membri
del
distretto,
con
i
quali
opera
a
stretto
contatto,
è
il
suo
vantaggio
competitivo.
I
distretti
favoriscono
lo
sviluppo
di
imprese
di
medie
dimensioni,
dinamiche
e
aggressive
sui
mercati
interni
e
internazionali,
che
hanno
dato
vita
al
cosiddetto
quarto
capitalismo,
all'interno
del
quale
spiccano
le
multinazionali
tascabili
(come
De
Longhi,
Della
Valle).
Il
futuro
del
distretto
sembra
andare
proprio
nella
direzione
di
una
rete
di
aziende
di
dimensioni
medio
–
piccole,
organizzate
attorno
a
un
produttore
più
grande,
in
grado
di
competere
sui
mercati
internazionali.
Sono
associazioni
autogestite
e
volontarie
di
individui
che
si
uniscono
fra
di
loro
per
soddisfare
le
proprie
aspirazioni
economiche,
sociali
e
culturali
e
si
fondano
sui
valori
della
responsabilità
e
dell'aiuto
reciproco,
della
democrazia,
dell'equità,
dell'uguaglianza
e
della
solidarietà.
Non
rientrano
nella
tipologia
delle
imprese
capitalistiche,
in
quanto
le
loro
strategie
sono
subordinate
a
logiche
etico-‐sociali
diverse
da
quelle
del
profitto
e
del
mercato.
Oltre
a
quello
inglese,
sono
stati
identificati
altri
tre
modelli
di
cooperazione
in
Europa.
Quello
francese
è
stato
caratterizzato
soprattutto
dallo
sviluppo
di
cooperative
di
produzione,
originatesi
dagli
ateliers
nationaux
che
nel
’48
rappresentarono
il
punto
di
riferimento
per
la
formazione
nel
giro
di
qualche
anno
di
centinaia
di
società
cooperative
operaie,
gli
ateliers
sociaux,
organizzate
in
base
al
principio
della
parità
di
salario
e
dell'egualitaria
ripartizione
degli
utili.
Il
proliferare
di
tali
imprese
richiese
una
disciplina
normativa
e
portò,
nel
1884,
alla
costituzione
di
una
Camera
consultiva
delle
cooperative
operaie
di
produzione
per
coordinarne
e
orientarne
l'attività
e
nel
1893
alla
creazione
di
un'apposita
Banca
cooperativa.
La
cooperazione
tedesca
fu
vivace
nel
settore
del
credito,
dove
nel
1840
era
nata
la
prima
cassa
rurale,
un
istituto
cooperativo
ad
azionariato
popolare
con
un'attività
limitata
al
raggio
dei
soci,
soprattutto
piccoli
agricoltori
cui
praticava
credito
a
tassi
particolarmente
favorevoli.
Il
notevole
successo
incontrato
portò
alla
moltiplicazione
delle
iniziative,
che
confluirono
in
un
istituto
centrale
di
credito
agricolo
(la
Banca
tedesca
Raiffeisen),
l'istituto
di
riferimento
delle
cooperative
cattoliche.
Parallelamente
si
diffuse
un'altra
forma
di
istituto
di
credito
cooperativo,
le
banche
popolari,
per
fornire
sostegno
economico
all'artigianato
urbano
e
alle
cooperative
di
produzione
industriale.
In
Scandinavia
si
segnalò
fin
da
metà
800
la
diffusione
delle
cooperative
agricole,
che,
a
partire
dagli
anni
70,
conobbero
un
forte
sviluppo
soprattutto
in
Danimarca,
quando,
in
conseguenza
della
crisi
cerealicola,
indotta
dall'invasione
dei
grani
americani,
l'agricoltura
del
paese
venne
sottoposta
a
una
profonda
ristrutturazione
produttiva.
In
America
ben
il
30%
del
prodotto
delle
imprese
agricole
a
carattere
familiare
oggi
arriva
al
mercato
tramite
cooperative.
In
effetti,
nel
Paese
simbolo
del
capitalismo,
la
cooperazione
è
costantemente
cresciuta
di
importanza:
oggi,
ad
es.,
più
della
metà
della
distribuzione
dell'energia
elettrica
del
paese
è
gestita
da
cooperative
elettriche
rurali,
mentre
50
milioni
di
americani
usufruiscono
di
compagnie
mutue
di
assicurazione.
Anzi
gli
americani
rivendicano
la
primogenitura
in
fatto
di
cooperazione:
a
Philadelphia
nel
1752
per
iniziativa
di
Benjamin
Franklin
si
costituì
una
mutua
assicurazione
contro
gli
incendi;
e
si
vantano
di
essere
stati
tra
i
principali
promotori
della
costituzione
nel
1885
della
International
Cooperative
Alliance
(associazione
internazionale
che
raggruppa
oggi
oltre
200
associazioni
nazionali
di
coop).
Fin
dagli
anni
40
erano
sorte
cooperative
nel
settore
lattiero-‐caseario
e
successivamente
nella
movimentazione
dei
grani;
si
moltiplicarono
poi
negli
anni
70
e
80
per
impulso
del
movimento
di
protesta
contro
il
potere
monopolistico
delle
compagnie
ferroviarie.
Una
seconda
fase
di
grande
sviluppo
della
cooperazione
si
ebbe
durante
il
New
Deal
di
Roosevelt,
quando
venne
agevolata
a
livello
sia
finanziario
che
normativo,
la
costituzione
di
coop
di
consumo
e
soprattutto
di
coop
rurali
per
il
trasporto
e
la
distribuzione
dell'energia
elettrica.
In
Italia
il
movimento
mosse
i
primi
passi
nel
Regno
di
Sardegna
quando
nel
1854
a
Torino
venne
costituita
la
prima
cooperativa
di
consumo,
seguendo
poi
i
ritmi
dell’economia
italiana:
lento
avvio
nella
seconda
metà
dell’800,
decollo
geograficamente
circoscritto
in
età
giolittiana,
difficile
tenuta
durante
il
fascismo
e
boom
nel
secondo
dopoguerra.
Sembra
essersi
delineata
una
certa
prevalenza
delle
coop
di
consumo
nel
triangolo
industriale,
di
quelle
di
credito
nel
Nord-‐est,
delle
coop
di
produzione
e
di
quelle
agricole
in
Emilia-‐
Romagna.
Alla
fine
del
900
le
cooperative
costituivano
una
componente
di
tutto
rispetto
dell'economia
italiana:
stime
ancora
provvisorie
indicavano
una
presenza
di
circa
160.000
imprese
con
circa
10
milioni
di
soci
e
un'occupazione
di
mezzo
milione
di
persone.
In
questa
sede
s’intende
approfondire
come
si
sia
evoluto
nel
tempo
il
rapporto
tra
strategia
e
struttura.
Tra
l’altro,
si
propone
una
rapida
sintesi
dei
cambiamenti
dell’organizzazione
del
lavoro,
considerato
come
il
tema
del
lavoro
sia
un
aspetto
centrale
dell’evoluzione
delle
economie
moderne:
rappresenta,
infatti,
una
delle
principali
modalità
attraverso
cui
l’impresa
agisce
sul
contesto
e
sulle
trasformazioni
del
sistema
economico.
Tema
di
grande
attualità
oggi
è
quello
della
responsabilità
sociale
dell’impresa,
la
cui
azione
esterna
non
si
esaurisce
nei
rapporti
col
mercato,
essendo
essa
al
centro
degli
interessi
di
una
molteplicità
di
stakeholders
(soci,
risorse
umane,
clienti,
fornitori,
partner
finanziari,
Stato
e
enti
locali,
P.A.,
comunità
e
ambiente).
L’impresa
socialmente
responsabile
è
quella
che
sceglie
di
rispettare
determinati
parametri
relativi
a
ciascuno
di
questi
soggetti.
Quello
della
responsabilità
sociale
rimanda
a
un
altro
tema,
ancora
più
ampio:
quello
della
corporate
governance
(governo
dell’impresa).
In
particolare,
ci
si
chiede
se
e
fino
a
che
punto
il
concetto
di
governo
dell’impresa
debba
allargarsi
sino
a
comprendere,
oltre
ai
tradizionali
meccanismi
principal
–
agent,
anche
quelli
che
regolano
le
relazioni
tra
impresa
e
stakeholders.
Due
le
posizioni
prevalenti:
la
prima
si
focalizza
sui
diritti
degli
azionisti
dell’impresa
nei
confronti
di
eventuali
comportamenti
scorretti
degli
amministratori,
la
seconda
privilegia
la
massimizzazione
di
valore
di
tutti
i
portatori
di
interesse
collegati
all’impresa
(avvicinandosi
molto
al
tema
della
responsabilità
sociale).
1. L’evoluzione dell’organizzazione
Il
processo
di
crescita
della
grande
impresa
non
avrebbe
potuto
compiersi
senza
le
profonde
trasformazioni
organizzative
che
l’hanno
accompagnato.
Fino
all'avvento
delle
grandi
compagnie
ferroviarie
la
tradizionale
organizzazione
monofunzionale
aveva
rappresentato
la
struttura
dominante
dell'industria
europea
e
americana:
il
proprietario
gestiva
direttamente
l'impressa
affiancato
al
più
da
qualche
collaboratore
tecnico
per
la
supervisione
dell'officina
e
la
contabilità.
Con
l'avvento
delle
ferrovie
oltre
Atlantico
si
ebbe
la
prima
vera
forma
di
big
business:
ricorso
al
finanziamento
esterno,
ricerca
di
accordi
societari
finalizzati
al
controllo
delle
tariffe
e
del
mercato,
innovazioni
organizzative
e
gestionali
affinché
il
mezzo
di
trasporto
fosse
efficiente
e
affidabile.
La
nuova
struttura
organizzativa
dipartimentale
era
basata
sulla
distinzione
fra
responsabilità
gerarchica
(line)
e
di
stato
maggiore
(staff)
sperimentata
per
la
prima
volta
nel
1880.
Si
trattava
di
una
struttura
plurifunzionale
accentrata,
quella
che
Chandler
chiama
U-‐form,
organizzata
in
una
serie
di
dipartimenti
funzionali
dotati
di
responsabilità
operativa.
I
direttori
di
ciascun
dipartimento
funzionale
erano
al
vertice
della
line
e
si
avvalevano
della
consulenza
dei
funzionari
di
staff,
impegnati
in
attività
ausiliarie
e
consultive.
I
primi
facevano
parte
del
comitato
esecutivo
che
aveva
la
responsabilità
delle
decisioni
strategiche.
In
tal
modo
l'ufficio
centrale,
composto
dal
CdA
e
dal
comitato
esecutivo,
svolgeva
tanto
il
compito
di
effettuare
le
scelte
di
lungo
periodo
quando
quello
di
valutare,
pianificare
e
coordinare
fra
di
loro
le
attività
dei
dipartimenti
funzionali
e
quelle
dell'azienda
nel
suo
complesso.
Le
linee
di
comunicazione
e
di
autorità
all'interno
dell'impresa
erano
rigorosamente
gerarchiche
e
verticali.
Questa
struttura
risultò
efficiente
fintantoché
l’azienda
concentrò
i
suoi
sforzi
in
attività
relativamente
omogenee,
e
quando
nei
primi
decenni
del
900
molte
grandi
imprese
plurifunzionali
intrapresero
la
strada
della
diversificazione,
venne
introdotta
una
nuova
forma
organizzativa,
la
M-‐form
o
forma
multi
divisionale:
sperimentata
inizialmente
alla
Du
Pont
e
alla
General
Motors
(GM)
è
ancora
oggi
prevalente
nella
grande
impresa
diversificata.
Piena
responsabilità
operativa
viene
assegnata
a
divisioni
–
centri
di
profitto
autonomi
-‐
organizzate
per
linee
di
prodotto
o
aree
geografiche.
Elemento
chiave
è
la
separazione
fra
http://www.unictblog.com
-‐
http://unict.myblog.it
28
decisioni
strategiche
(di
cui
è
responsabile
il
top
management)
e
decisioni
operative
(di
cui
rispondono
le
divisioni).
Ogni
divisione
segue
una
linea
di
prodotti
o
un'area
geografica
e
dispone
di
un
general
manager,
che
risponde
in
pieno
dei
risultati
e
dei
profitti
da
essa
conseguiti,
del
suo
staff
di
collaboratori
e
dei
responsabili
delle
attività
funzionali.
Nelle
imprese
multi
divisionali
la
responsabilità
strategica
è
attribuita
a
un
quartier
generale
formato
dal
CdA
e
dal
comitato
esecutivo
che
analizza
e
valuta
la
performance
delle
singole
divisioni
operative,
in
modo
da
essere
in
grado
di
allocare
efficiente
il
capitale
fra
di
esse
sulla
base
dei
rispettivi
risultati.
Esso
è
assistito
da
uno
staff
centrale
di
funzionari
di
alto
livello
(corporate
office),
che
fornisce
un
flusso
continuo
di
informazioni
e
che
comprende
diversi
dipartimenti
–
finanza
e
controllo,
personale,
ecc.
–
con
funzioni
consultive
e
non
di
line,
ma
fondamentali
per
accrescere
le
capabilities
dell’impresa.
La
M-‐form
–
ritenuta
la
più
avanzata
forma
di
organizzazione
che
la
moderna
grande
impresa
potesse
darsi
–
rappresentò
la
risposta
organizzativa
della
grande
impresa
americana
alle
sfide
poste
dai
cambiamenti
del
capitalismo
nei
primi
decenni
del
900.
La
sua
diffusione
in
Europa
fu
molto
lenta
fino
al
1950,
quando
divenne
una
componente
di
rilievo
nel
processo
di
americanizzazione
delle
economie
europee
del
secondo
dopoguerra.
E
al
di
là
delle
previsioni
(la
M-‐form
doveva
essere
inevitabilmente
adottata
dalla
grande
impresa
europea),
con
discreto
successo
continuarono
a
convivere
con
essa
altri
modelli
di
organizzazione.
Nella
dottrina
di
Harvard,
la
forma
divisionale
viene
spiegata
in
termini
di
adeguamento
della
struttura
alle
strategie
di
crescita
dell’impresa.
Essa
può
risultare:
una
naturale
evoluzione
della
forma
plurifunzionale,
all’interno
di
un
processo
di
miglioramento
graduale
che
richiede
anni
–
vedi
Du
Pont;
oppure
una
marcata
discontinuità
rispetto
alla
precedente
organizzazione
–
vedi
GM,
dove
sostituì
la
forma
a
holding.
In
effetti
la
Holding
(H-‐form)
si
caratterizza
come
un
gruppo
di
imprese
controllate
da
una
società
capogruppo
attraverso
partecipazioni
azionarie:
è
connotata
da
un
forte
decentramento
strategico
e
operativo,
in
cui
l'intensità
dei
legami
tra
le
imprese,
e
tra
le
imprese
e
la
capogruppo,
dipende
dall'intensità
delle
partecipazioni
incrociate.
Per
questo
viene
liquidata
dalla
scuola
americana
come
un
retaggio
del
passato,
inferiore
in
tutto
alla
M-‐form
per
la
visione
strategica,
la
chiara
struttura
proprietaria
delle
divisioni
e
la
netta
separazione
tra
strategia
e
attività
operativa
di
quest’ultima.
Eppure
la
holding
è
rimasta
la
forma
organizzativa
preferita
dalle
grandi
imprese
europee
(senza
contare
che
le
forme
assunte
dai
gruppi
di
imprese
extra
europei,
come
i
keiretsu
giapponesi
e
i
grupos
sudamericani,
possono
essere
interpretate
come
altrettante
declinazioni
della
H-‐form).
Come
mai?
1) Negli
USA
al
successo
della
M-‐form
contribuirono
anche
fattori
quali
l’evoluzione
della
legislazione
(che
prese
di
mira
le
holding
sul
finire
dell’800),
la
bramosia
capitalista
di
manager
e
imprenditori,
le
connessioni
politiche,
la
sete
di
imitazione;
2) Al
di
fuori
degli
USA,
l’importanza
assunta
dai
gruppi
di
imprese,
soprattutto
dove
la
grande
impresa
mantiene
ancora
un
carattere
prevalentemente
famigliare.
2. Impresa e lavoro
La
fabbrica
vittoriana
–
simbolo
dell’organizzazione
del
lavoro
dell’impresa
ottocentesca,
di
tipo
famigliare
-‐
è
stata
a
lungo
identificata
con
il
ritratto
che
ne
ha
fornito
Engels,
per
il
quale
essa
era
la
responsabile
di
quel
social
breakdown
che,
sradicando
il
lavoratore
dalla
campagna,
lo
aveva
trasformato
in
manodopera
dequalificata
subordinata
alle
macchine.
L’industrializzazione
avrebbe,
quindi,
comportato
un
impoverimento
della
classe
lavoratrice,
almeno
fino
alla
metà
dell’800
(anche
se
questa
visione
non
è
unanimemente
condivisa).
Ad
esempio,
nell'industria
cotoniera
del
Lancashire
questo
non
avvenne:
l'area
assunse
caratteristiche
di
distretto
industriale,
e
nelle
migliaia
di
fabbriche
di
filati
venne
mantenuta
l'unità
della
struttura
familiare
tipica
dell'industria
a
domicilio,
con
un'organizzazione
del
lavoro
per
squadra
caratterizzata
dalla
tradizionale
divisione
di
compiti
fra
tutti
i
membri
della
famiglia.
Tale
struttura
a
rete,
difesa
da
accordi
tra
forza
lavoro
e
imprenditori
–
riuscì
a
resistere
fino
agli
anni
60
del
900,
quando
venne
sostituita
da
una
struttura
fortemente
concentrata,
basata
su
grandi
imprese
e
controllata
da
forze
esterne
alla
realtà
locale.
Fino
a
metà
800
il
mercato
del
lavoro
britannico
mostrò
un
forte
radicamento
territoriale
e
scarsa
mobilità,
tanto
che
per
l'Inghilterra
non
si
può
parlare
di
mercato
del
lavoro
unitario
e
integrato
fino
alla
prima
guerra
mondiale,
quando
l'emergenza
dell'economia
bellica
e
l'inflazione
misero
in
moto
masse
di
lavoratori
che
prima
non
avevano
mai
considerato
la
possibilità
di
una
generalizzata
mobilità
territoriale.
Il
processo
che
portò
alla
formazione
di
un
moderno
mercato
del
lavoro
fu
influenzato
da
fattori
esogeni,
quali
il
progresso
tecnico
e
la
legislazione
di
fabbrica;
venne
caratterizzato
dalla
resistenza
opposta
dalle
professioni
artigiane
alla
moderna
impresa.
Talvolta
la
resistenza
ebbe
successo,
come
nel
caso
degli
operai
specializzati
dell'industria
meccanica
e
dei
filatori,
che
andarono
a
costituire
una
vera
e
propria
aristocrazia
del
lavoro.
Ma
a
differenza
che
nel
tessile,
in
attività
come
metallurgia
e
meccanica,
sia
in
Gran
Bretagna
che
negli
Stati
Uniti,
l’èlite
operaia
si
mantenne
altamente
dinamica,
adattandosi
all'innovazione
tecnologica.
Negli
Stati
Uniti
intorno
al
1870
la
percentuale
dei
lavoratori
skilled
(specializzati)
nelle
imprese
metallurgiche
era
superiore
al
20-‐25%:
il
possesso
del
mestiere
si
confermava
come
un
fondamentale
principio
di
autorità
nella
gerarchia
del
lavoro
e
uno
straordinario
strumento
di
controllo
sociale
della
fabbrica,
oltre
ad
essere
fonte
di
un
salario
più
elevato.
D’altra
parte,
le
rigide
clausole
di
regolamentazione
dell'apprendistato,
la
difesa
incondizionata
dei
posti
di
lavoro
degli
skilled
furono
alla
base
delle
rivendicazioni
del
sindacato
di
mestiere,
che
rapidamente
dalle
fabbriche
britanniche
si
allargò
agli
altri
paesi
(e
a
realtà
come
American
Federation
of
Labor
negli
Usa
e
FIOM
in
Italia).
Il
sindacato
di
mestiere
perse
seguito
a
partire
dalla
fine
dell'800
a
favore
dell’unionismo
di
massa.
Ciò
fu
l'esito:
1)
delle
modificazioni
della
struttura
produttiva
-‐
con
l'esplosione
del
big
business
–
e
dell’azione
imprenditoriale
tesa
a
una
maggior
efficienza
produttiva;
2)
dell’azione
degli
unskilled,
che
si
organizzarono
in
sindacati
e
del
sempre
più
largo
ricorso
allo
sciopero.
Le
trasformazioni
produttive
di
maggior
impatto
sulla
trasformazione
del
lavoro
si
ebbero
nelle
imprese
statunitensi,
dove
l’American
system
e
la
produzione
standardizzata
stavano
evolvendo
nella
produzione
di
massa,
fondata
sulla
catena
di
montaggio
(assembly
line)
la
cui
introduzione
implicava
un
rovesciamento
del
modo
di
concepire
il
processo
produttivo
(ora
era
il
pezzo
che
si
spostava,
mentre
gli
operai
stavano
fermi
ad
aspettarlo)
e
anche
del
modo
di
lavorare.
Lo
studio
di
un
nuovo
modello
organizzativo
(scientific
management)
fu
al
centro
dell'opera
dell'ingegnere
Taylor,
che
si
propose
di
misurare
il
tempo
necessario
all'esecuzione
di
ogni
semplice
lavorazione
e
di
definire
l’unico
modo
migliore
per
compiere
l’operazione.
Con
l’uso
sistematico
delle
macchine
e
la
standardizzazione
della
produzione
gli
operai
specializzati
videro
drasticamente
ridotta
alla
loro
forza
contrattuale,
poiché
le
nuove
tecniche
di
produzione
spinsero
gli
imprenditori
ad
accrescere
l'impiego
di
operai
non
specializzati,
che
del
resto
il
crescente
flusso
di
immigrazione
dall'Europa
forniva
in
abbondanza.
La
spersonalizzazione
divenne
la
caratteristica
specifica
del
sistema
di
fabbrica.
http://www.unictblog.com
-‐
http://unict.myblog.it
30
Le
idee
di
Taylor,
oggetto
di
numerose
critiche
per
la
progressiva
alienazione
della
forza
lavoro,
si
inserivano
nella
generale
tendenza
alla
razionalizzazione
della
produzione
industriale.
In
tale
contesto
appariva
importante
quanto
Ford
stava
realizzando
a
livello
di
razionalizzazione
tecnologica
della
produzione
con
la
catena
di
montaggio.
La
assembly
line
rappresentava
un
superamento
dello
scientific
management,
dato
che
metteva
l'operaio
nella
condizione
di
lavorare
al
meglio
senza
più
l'illusione
tayloristica
di
insegnargli
la
one
best
way.
La
produzione
di
massa
con
il
sistema
Ford
diede
risultati
eccezionali,
tagliando
tempi
e
costi,
ma
essa
implicava
un
mercato
di
massa.
Ford
vedeva
nei
suoi
operai
dei
potenziali
consumatori:
così
aumentò
loro
il
salario
e
diede
avvio
a
un
efficiente
welfare
aziendale
(abitazioni,
scuole
e
assistenza).
La
visione
dell'azienda
da
parte
di
Ford
entrò
in
crisi
negli
anni
della
grande
depressione,
quando
disoccupazione
e
stenti
rilanciarono
il
movimento
sindacale.
La
politica
di
Roosevelt
poi
fu
favorevole
al
mondo
del
lavoro
e
la
Ford
ingaggiò
una
strenua
battaglia
che
la
portò
sull'orlo
del
fallimento,
prima
di
cedere
nel
1941.
In
Italia
l'affermazione
della
fabbrica
industriale
moderna
presupponeva
la
formazione
di
una
manodopera
stabile
attraverso
l'integrazione
di
due
componenti:
quella
derivata
dal
lavoro
artigianale
urbano
e
quella
di
origine
contadina,
che
richiedeva
un
addestramento
specifico,
lungo
e
faticoso.
Tra
fine
800
e
primo
900
gli
imprenditori
si
recarono
negli
Stati
Uniti,
a
testimonianza
dell’interesse
per
il
modello
americano.
Il
percorso
che
portò
l’industria
italiana
a
completare
il
trasferimento
organizzativo
secondo
il
modello
taylor
–
fordista
fu
lungo
e
complesso,
dovendo
peraltro
confrontarsi
con
le
ostilità
della
componente
professionale
della
manodopera.
Prese
avvio
con
il
progetto
del
nuovo
stabilimento
del
Lingotto
alla
Fiat,
costruito
tra
il
1916
e
il
1922.
Innovativo
il
sistema
organizzativo
che
prevedeva
uno
sviluppo
verticale
del
flusso
produttivo,
ma
la
ristrettezza
del
mercato
interno
sminuì
il
significato
dell'iniziativa.
Un
salto
di
qualità
si
ebbe
con
l'entrata
in
funzione
nel
secondo
dopoguerra
dell'impianto
Mirafiori,
che
capovolgeva
le
logiche
costruttive
del
Lingotto
e
proponeva
lo
sviluppo
in
orizzontale
delle
attività.
La
crisi
degli
anni
70
ha
avuto
una
profonda
influenza
sull'organizzazione
del
lavoro
di
stampo
taylor
-‐
fordista.
Originata
dal
declino
del
paradigma
della
produzione
di
massa
essa
ha
portato
a:
riposizionamento
della
struttura
produttiva,
rafforzamento
di
forme
alternative
di
organizzazione
e
ripensamento
della
strategia
della
grande
impresa.
Nelle
organizzazioni
di
tipo
distrettuale
o
reticolato,
nei
gruppi
di
imprese
e
varie
forme
di
specializzazione
flessibile
(che
hanno
avuto
molto
successo)
il
lavoro
ha
mantenuto
molte
delle
caratteristiche
prefordiste:
attiva
partecipazione
degli
operai
alla
vita
dell'impresa,
valorizzazione
delle
capacità
individuali,
cooperazione
fra
i
lavoratori.
Un
posto
di
riguardo
è
occupato
dal
modello
giapponese
di
fabbrica
snella
(lean
production)
sperimentato
nell'industria
automobilistica
(ed
in
particolare
dalla
Toyota).
La
grande
novità
del
toyotismo
risiedeva
in
un
rovesciamento
del
tradizionale
approccio
alla
fabbricazione
del
prodotto:
programmare
il
flusso
produttivo
non
più
da
monte
a
valle,
cioè
dalle
prime
fasi
della
produzione
fino
al
montaggio
finale,
ma
muovendo
dalle
richieste
del
mercato
e
da
queste
risalendo
alla
produzione.
Ciò
consentiva
un
dì
utilizzare
solo
i
pezzi
necessari
e
solo
nel
momento
in
cui
ce
n'era
bisogno,
eliminando
sprechi,
riorganizzando
il
ciclo
del
prodotto
e
riducendo
al
minimo
le
scorte.
Tre
i
principi
chiave:
il
just
in
time
(ciascun
componente
deve
arrivare
alla
linea
nel
preciso
momento
in
cui
ce
n'è
bisogno
e
nella
quantità
necessaria),
l’autoattivazione
(capacità
dell'operaio
di
intervenire
rapidamente
in
situazioni
di
anomalia
della
linea
e
di
eliminarle),
il
lavoro
per
squadre
(che
valorizza
la
responsabilità,
il
controllo
di
qualità
e
l’autogestione
dei
gruppi
di
lavoro).
I
clamorosi
risultati
raggiunti
dalla
Toyota
hanno
spinto
anche
le
imprese
automobilistiche
americane
e
europee
ad
importare
i
principi
della
fabbrica
snella,
anche
creando
impianti
completamente
nuovi
(come
nel
caso
dello
stabilimento
Fiat
di
San
Nicola
di
Melfi).
Le
capabilities
definiscono
l’impresa
dinamica,
ovvero
la
crescita
dell’impresa
dipende
dalla
sua
capacità
di
innovare.
Questo
concetto
sta
alla
base
non
solo
della
costruzione
chandleriana,
ma
di
tutta
la
storia
d’impresa.
Da
Schumpeter
in
avanti,
e
soprattutto
a
fronte
degli
straordinari
effetti
indotti
dalla
Terza
rivoluzione
industriale,
è
cresciuta
la
consapevolezza
di
un
fenomeno
che
è
codeterminato
da
elementi
endogeni
ed
esogeni,
in
cui
cioè
scelte
e
comportamenti
di
soggetti
e
gruppi
di
soggetti
interagiscono
con
macro
determinanti
sistemiche:
l’innovazione
è
solitamente
il
prodotto
dell’interazione
tra
il
processo
di
apprendimento
specifico
dell’impresa,
la
crescita
della
domanda
e
la
creazione
di
nuova
conoscenza
scientifica
e
tecnologica.
Inizialmente
i
cambiamenti
tecnologici
venivano
considerati
shock
esogeni
al
sistema
economico;
poi
la
new
growth
theory
ha
sviluppato
modelli
in
cui
il
progresso
tecnico
viene
trattato
come
endogeno,
in
quanto
risultato
dell’attività
di
R&S
delle
imprese.
Ma
questa
visione
(all’opposto
della
prima)
trascura
le
interrelazioni
dell’impresa
con
la
scienza
e
il
suo
progredire,
e
gli
aspetti
di
incertezza
connaturati
alla
stessa
natura
del
progresso
tecnico.
Un
contributo
importante
alla
sua
realistica
raffigurazione
viene
invece
dalla
storia,
sia
dell’economia
che
della
tecnologia,
che,
in
evidente
continuità
con
Schumpeter
e
il
filone
evolutivo
di
studi
economici
che
a
lui
s’ispira,
ha
mostrato
tra
l’altro:
-‐ A
livello
macro,
l’incidenza
delle
componenti
tanto
endogene
quanto
esogene,
la
compresenza
di
elementi
di
continuità
e
discontinuità,
il
ruolo
della
differente
offerta
dei
fattori
di
produzioni,
l’azione
di
meccanismi
di
path
dependence;
-‐ A
livello
micro,
la
rilevanza
dei
processi
di
apprendimento
localizzato,
la
natura
irreversibile
delle
innovazioni,
la
possibilità
per
le
imprese
di
proteggere
adeguatamente
le
proprie
innovazioni.
a) evolutivo
e
incerto,
i
cui
risultati
sono
il
prodotto
dell'interazione
di
diversi
giocatori:
le
imprese,
le
istituzioni
di
formazione
e
ricerca
e
lo
Stato.
Furono
le
prime
due
a
officiare
il
definitivo
matrimonio
fra
tecnologia
e
scienza
verso
la
fine
dell'800,
quando
si
affermarono
nuove
industrie
che
richiedevano
personale
dotato
di
quella
specifica
preparazione
che
solo
un
training
accademico
poteva
fornire.
Fu
quello
il
momento
in
cui
le
università
tedesche
e
americane
svilupparono
specifici
curricoli
finalizzati
a
formare
giovani
adeguati
alle
esigenze
delle
imprese.
Queste
presto
realizzarono
che
l'innovazione,
per
essere
efficace,
richiedeva
la
costituzione
di
propri
laboratori
di
ricerca
forniti
di
personale
adeguato,
in
grado
di
implementare
specifiche
tecnologie
e
di
soddisfare
le
esigenze
che
si
presentavano.
Nel
corso
del
900
emersero
anche
gli
altri
attori:
lo
Stato,
che
già
nel
secolo
precedente
si
era
mostrato
sensibile
nel
sostenere
l'istruzione
formale,
assunse
un
ruolo
determinante
nel
fornire
supporto
alla
ricerca;
le
associazioni
professionali
e
di
categoria.
L’approccio
evolutivo
evidenzia
le
differenze
tra
la
conoscenza
pubblica
e
le
conoscenze
specifiche
di
ogni
impresa:
questa
ha
uno
spettro
di
opportunità
che
varia
a
seconda
di
attività
e
aspettative
tecnologiche
che
caratterizzano
i
diversi
settori
e/o
contesti
sociali.
La
possibilità
di
sopravvivenza
e
di
crescita
dell'impresa
dipende
dall'ambiente
selettivo,
e
in
particolare
dal
livello
di
pressione
esercitato
dalla
concorrenza
tanto
sul
mercato
dei
prodotti
finali
quanto
su
quello
dei
capitali,
dalle
politiche
statali
e
dai
ritmi
del
progresso
tecnico.
La
prima
fase
di
sviluppo
di
un
nuovo
paradigma
tecnologico
vede
un'elevata
natalità
di
imprese
di
piccole
dimensioni,
che
si
trovano
a
fronteggiare
una
domanda
fluida
ed
elastica
e
che
possono
guadagnare
situazioni
di
effimero
oligopolio.
In
una
seconda
fase
si
delinea
man
mano
una
più
stabile
struttura
oligopolistica,
in
cui
si
distinguono
poche
grandi
imprese.
Nelle
imprese
della
prima
rivoluzione
industriale
l'esperienza
fatta
con
la
pratica
era
in
genere
sufficiente
per
portare
avanti
un'efficace
attività
innovativa,
ma
verso
la
fine
del
XIX
secolo
le
cose
cambiarono.
La
tecnologia
richiedeva
un
elevato
livello
di
istruzione
nelle
scienze
e
nelle
discipline
tecniche,
inoltre
l'attività
inventiva
comportava
sempre
maggiori
investimenti
in
attrezzature
speciali
e
costose
nonché
un
lavoro
di
gruppo.
Nelle
grandi
imprese
comparvero
così
i
primi
laboratori
di
R&S,
dipartimenti
specializzati
nel
miglioramento
delle
tecnologie
di
prodotto
e
processo
nei
settori
in
cui
esse
operavano,
erano
tenuti
distinti
dalle
linee
di
produzione,
ma
erano
parte
dell'organizzazione
dell'impresa,
o
come
funzione
dipendente
dal
comitato
esecutivo
o
–
più
tardi
–
come
divisione
autonoma.
Per
essere
efficace
la
R&S
necessita
di
buoni
canali
di
comunicazione
con
l'azienda
per
cui
svolge
attività
innovativa
e
che
alla
fine
utilizzerà
i
suoi
risultati.
Industria
elettrica
e
chimica
furono
le
prime
industrie
a
base
scientifica:
l’inizio
del
processo
di
istituzionalizzazione
si
ebbe
in
Germania
nella
seconda
metà
dell'800
nella
produzione
dei
coloranti
sintetici.
Questa
forma
di
organizzazione,
cioè
di
sfruttamento
organizzato
e
sistematico
della
R&S
venne
presto
imitata
negli
Stati
Uniti,
dove
chimica
e
elettricità
definirono
il
modello
di
produzione
e
gestione
dell’industria
moderna.
La
moderna
R&S
aveva
avuto
un
illustre
predecessore
nel
laboratorio
di
Edison,
dove
a
cavallo
degli
anni
80
dell'800
lo
scienziato
-‐
imprenditore
aveva
messo
a
punto
il
suo
sistema
di
produzione
e
distribuzione
dell'energia,
poi
confluito
nella
struttura
della
Edison
Electric
Company,
sorta
con
lo
scopo
di
sfruttare
commercialmente
le
innovazioni
prodotte.
A
partire
dal
primo
900
i
laboratori
di
R&S
si
sarebbero
trasformati
nei
principali
protagonisti
del
big
business
americani,
impegnati
nei
settori
tecnologicamente
avanzati.
Il
successo
di
un'impresa
dipende
non
soltanto
dal
vantaggio
competitivo
connesso
alle
sue
specificità
produttive
e
organizzative,
ma
anche
dalla
sua
capacità
di
interagire
col
mercato
e
dal
modo
in
cui
essa
si
pone
nei
confronti
dei
suoi
potenziali
clienti.
Le
varie
attività
che
caratterizzano
l’interconnessione
fra
produttore
e
consumatore
sono
raggruppate
sotto
il
termine
“marketing”.
Esso
non
ha
suscitato
grande
interesse
tra
gli
economisti
di
oggi
e
del
passato
–
per
i
quali
vale
la
legge
di
Say:
l’offerta
crea
automaticamente
la
propria
domanda
-‐,
eccetto
che
per
Marshall,
l’unico
a
considerare
produzione
e
http://www.unictblog.com
-‐
http://unict.myblog.it
33
marketing
parti
di
un
unico
processo
di
aggiustamento
dell’offerta
alla
domanda.
Non
c’è
dubbio,
invece,
che
il
marketing
sia
componente
essenziale
nello
studio
del
comportamento
competitivo
dell’impresa.
Di
pari
passo
con
l’affermarsi
del
marketing
come
disciplina
autonoma,
si
è
andato
delineando
un
corpus
dottrinale
al
cui
interno
la
History
of
marketing
thought
è
concorde
nell’individuare
precise
fasi
e
cesure,
in
particolare
quattro
che
coprono
tutto
il
900.
L’era
I
o
“della
fondazione”
(1900-‐20),
con
l’affermazione
del
marketing
come
specifico
corso
in
diverse
università,
l'enfasi
sugli
aspetti
della
distribuzione
e
sulle
sue
possibili
ricadute
sociali.
L’era
II,
del
“consolidamento
formale
della
disciplina”
(1920-‐50):
vennero
create
le
prime
associazioni
professionali,
nacquero
diverse
riviste
specializzate,
le
università
incominciarono
a
dotarsi
di
dipartimenti
di
marketing,
a
livello
teorico
l’enfasi
primaria
venne
posta
sullo
sviluppo
e
l’integrazione
di
principi
base
del
marketing.
L’era
III,
del
“cambiamento
di
paradigma”
indotto
dal
boom
delle
mercato
di
massa
e
dall'eccezionale
crescita
delle
attività
di
marketing
nel
sistema
delle
imprese,
arriva
fino
al
1980,
caratterizzata
da
due
tendenze:
un
accentuato
ricorso
alle
scienze
quantitative
e
comportamentali
come
strumenti
di
conoscenza
dell'atteggiamento
dei
consumatori
e
lo
sviluppo
del
marketing
management,
ovvero
dell'analisi
del
mercato
secondo
la
prospettiva
di
manager
specializzati
nel
cogliere
l'orientamento
e
i
gusti
dei
clienti
in
una
fase
di
esplosione
delle
mercato
di
massa
e
quindi
in
continuo
cambiamento
nelle
preferenze
dei
consumatori.
È
in
tale
contesto
che
viene
formulato
il
concetto
di
marketing
mix
o
delle
4
P:
product
–
price
–
promotion
-‐
place.
L’era
IV,
della
“frammentazione
del
mainstream”,
che
arriva
fino
a
oggi,
si
ricollega
alla
crisi
del
fordismo
e
del
paradigma
della
produzione
di
massa:
si
assiste
a
continui
riposizionamenti
della
disciplina
di
fronte
al
moltiplicarsi
delle
sfide
per
business
community:
globalizzazione,
flessibilità,
downsizing
e
business
process
re-‐engineering.
Queste
linee
evolutive
si
riferiscono
all’esperienza
americana,
l’unica
per
la
quale
si
dispone
di
una
reale
riflessione
storica.
La
storia
del
marketing
thought
può
rappresentare
uno
strumento
utile
ad
accostare
il
tema
della
storia
del
marketing
in
sé
e
quello
del
contributo
che
ne
è
derivato
alla
business
history.
Di
un
certo
interesse
è
la
stilizzazione
della
storia
del
marketing
americano
suggerita
dallo
storico
d’impresa
Tedlow.
La
prima
fase
è
quella
della
frammentazione
del
marketing
precedente
al
1880,
frutto
della
scarsa
integrazione
del
mercato
interno
americano,
in
cui
solo
pochi
prodotti
raggiungevano
una
distribuzione
su
scala
nazionale.
Nella
seconda
fase
-‐
quella
della
unificazione,
dagli
ultimi
decenni
dell’800
agli
anni
50
del
900
-‐
si
forma
e
si
consolida
un
mercato
integrato
nazionale
che
va
assumendo
le
caratteristiche
di
mercato
di
massa,
a
seguito
della
rivoluzione
dei
trasporti
innescata
prima
dalla
costruzione
delle
grandi
linee
ferroviarie
e
poi
dalla
motorizzazione
su
larga
scala.
Negli
anni
80
la
messa
a
punto
di
macchinari
per
la
produzione
a
ciclo
continuo
di
beni
di
largo
consumo
e
la
loro
impacchettatura
in
confezioni
di
piccole
dimensioni
fecero
emergere
il
nuovo
protagonista:
la
marca.
Il
produttore
poteva
ora
lanciarsi
in
campagne
pubblicitarie
su
scala
nazionale,
divenendo
protagonista
anche
dei
canali
della
distribuzione
per
raggiungere
un
pubblico
indifferenziato
di
consumatori;
era
il
caso
dei
first
movers
chandleriani,
che
oltre
alle
innovazioni
nella
produzione
rivoluzionarono
le
tecniche
di
distribuzione
e
di
commercializzazione.
La
Coca
Cola,
ad
esempio,
si
rivolgeva
con
un
solo
formato
ad
un
target
indifferenziato:
l'universo
dei
clienti.
La
terza
fase
-‐
secondo
dopoguerra,
quella
della
segmentazione
–
è
l’esito
di
trasformazioni
economiche
e
socio
culturali
indotte
dall'esplosione
della
pubblicità
radiofonica
e
televisiva
e
dal
crescente
impatto
del
cinema
sul
comportamento
delle
giovani
generazioni.
Le
preferenze
dei
fruitori
di
radio,
cinema
e
televisione
variavano
a
seconda
dell'età,
delle
condizioni
sociali,
del
livello
culturale.
Il
marketing
andò
segmentandosi
per
venire
incontro
alle
esigenze
di
un
pubblico
sempre
più
differenziato,
in
cui
emergevano
con
forza
quelle
delle
giovani
generazioni
sensibili
non
tanto
al
prezzo,
quanto
a
comunicazioni
portatrici
di
valori
simbolici,
quali
stile
di
vita
e
senso
di
appartenenza.
In
tempi
recenti
l’evoluzione
del
marketing
è
sfociata
nella
quarta
fase,
quella
della
“ipersegmentazione”
e
del
“micromarketing”,
accelerata
dallo
sviluppo
delle
nuove
tecnologie
dell'informazione
e
della
comunicazione,
il
cui
motto
è:
vendere
al
consumatore
esattamente
ciò
che
vuole.
Per
i
suoi
riflessi
sulla
business
history
è
di
un
certo
interesse
l’enfasi
posta
nella
prima
era
dalla
dottrina
e
dagli
accademici
americani
sugli
aspetti
della
distribuzione,
che
segno
un
primo
cambiamento
rispetto
all’approccio
tradizionale,
centrato
solo
sulla
produzione.
Gli
studi
sulla
storia
dell’impresa
americana
mostrano
come
la
razionalizzazione
della
distribuzione
non
sia
un
passo
successivo
e
separato
rispetto
alla
razionalizzazione
produttiva
e
organizzativa
che
segna
il
decollo
della
grande
impresa
americana;
piuttosto
esse
sono
declinazioni
diverse
di
uno
stesso
processo,
l’economia
di
massa.
Due
le
figure
cardine
nella
prima
metà
dell’800:
l’agente
commissionario,
negli
Stati
del
Sud,
tramite
tra
la
piantagione
e
il
mercato,
e
il
grossista
indipendente
(fino
agli
anni
80
in
grado
di
catalizzare
nelle
sue
mani
la
totalità
del
commercio
americano),
che
acquistava
dai
fabbricanti
nazionali
e
rivendeva
agli
stores.
Nati
negli
anni
50
e
60
nelle
metropoli
dell’East
Coast,
i
grandi
magazzini
offrivano
ai
propri
clienti
la
possibilità
di
concentrare
in
breve
tempo
in
un
solo
luogo
una
gamma
completa
di
acquisti,
realizzando
profitti
attraverso
una
rapida
rotazione
delle
scorte.
Verso
la
fine
del
secolo
le
case
di
vendita
per
corrispondenza
(equivalente
rurale
dei
grandi
magazzini)
poterono
sfruttare
le
nuove
infrastrutture
per
far
giungere
a
domicilio
i
prodotti
ordinati
su
catalogo.
Molteplici
furono
anche
le
catene
di
negozi,
specie
quelle
specializzate
in
prodotti
di
drogheria.
Di
grande
significato
per
l'evoluzione
delle
strutture
commerciali
americane
fu
l'integrazione
in
un'unica
impresa
dei
processi
di
produzione
di
massa
con
quelli
di
distribuzione
di
massa.
Tre
furono
le
categorie
industriali
che
intrapresero
tale
strada:
produttori
di
beni
di
consumo,
che
si
confrontavano
con
particolari
problemi
di
commercializzazione
(conservazione
e
refrigerazione),
fabbricanti
di
beni
di
consumo
durevole,
che
necessitavano
di
interventi
di
installazione
e
assistenza
specialistica,
coloro
che
si
erano
dotati
di
impianti
per
la
produzione
a
ciclo
continuo
per
incrementare
il
ritmo
e
il
flusso
dei
loro
prodotti
(tabacchi
fiammiferi
cereali),
superando
la
capacità
di
smercio
della
rete
distributiva
esistente.
Altra
discontinuità
fu
l’affermazione
dei
supermarket
alimentari
(il
primo
nel
1916
a
Memphis)
negli
anni
30
con
un
grande
impatto
sulla
società
americana
per
gli
ambienti
curati
e
invitanti
e
la
spettacolarizzazione
nella
presentazione
dei
prodotti.
L’evoluzione
della
distribuzione
negli
Stati
Uniti
è
stata
condizionata
dalle
caratteristiche
storiche
e
geografiche
del
Paese:
grandi
dimensioni,
scarsa
popolazione,
nessun
condizionamento
storico,
culturale
e
sociale.
In
Europa,
i
grandi
magazzini
compaiono
per
la
prima
volta
nel
1852
a
Parigi
(tanto
che
i
francesi
ne
rivendicano
la
paternità):
prezzo
fisso,
ingresso
libero,
bassi
margini
di
guadagno
ma
elevata
rotazione
delle
scorte,
possibilità
di
restituzione
della
merce.
Negli
anni
80
erano
presenti
anche
in
Gran
Bretagna,
Germania,
Svizzera,
Paesi
Bassi
e
Scandinavia.
In
Italia
il
primato
spettò
a
Milano
nel
1877
con
il
grande
magazzino
Alle
città
d'Italia,
diventato
poi
la
Rinascente,
col
nome
ideato
da
Gabriele
D'Annunzio.
La
caduta
dei
consumi
indotta
dalla
crisi
del
‘29
portò
alla
costituzione
di
una
catena
di
negozi
a
prezzo
unico,
l’UPIM,
cui,
dal
1931,
fece
concorrenza
la
STANDA.
I
supermercati,
invece,
in
Europa
si
diffusero
solo
nel
secondo
dopoguerra,
e
molto
lentamente
(per
la
resistenza
sul
mercato
di
legioni
di
dettaglianti),
con
forti
differenze
tra
un
Paese
e
l’altro.
L’influenza
americana
non
si
esercitò
solo
indirettamente,
ma
anche
tramite
consulenze
e
dimostrazioni,
soprattutto
in
Italia
(ad
es.,
da
una
controllata
di
Rockfeller
nasce
a
Milano
nel
1957
l’Esselunga).
http://www.unictblog.com
-‐
http://unict.myblog.it
35
4.3 Le
origini
delle
relazioni
pubbliche
Anche
la
storia
delle
relazioni
pubbliche
è
figlia
delle
peculiarità
dell’economia
e
della
società
degli
USA,
dove
è
da
tempo
in
corso
un
vivace
dibattito
sul
se
e
quanto
le
relazioni
pubbliche
abbiano
contribuito
a
trasformare
l’atteggiamento
della
società
nei
confronti
della
grande
impresa.
La
transazione
verso
la
corporate
reconstruction
of
American
capitalism
era
avversata
da
vasti
settori
dell’opinione
pubblica
(per
il
timore
di
pratiche
collusive
e
degenerazioni
finanziario
–
monopolistiche)
e
dall’intellighenzia
progressista,
che
sottolineava
la
contraddizione
tra
le
fortune
dei
magnati
e
le
condizioni
degli
immigrati.
Il
big
business
comprese
per
tempo
l’importanza
della
comunicazione
con
il
pubblico:
il
primo
passo
fu
il
going
public,
ovvero
l’esporsi
al
tribunale
dell’opinione
pubblica.
Tra
le
prime
a
muoversi
ci
fu
una
grande
compagnia
ferroviaria,
la
Pennsylvania
Railroad,
che
a
partire
dal
1906
iniziò
una
martellante
strategia
di
comunicazione,
con
il
continuo
invio
alla
stampa
di
informazioni
e
dati.
La
comunicazione
aziendale,
fino
a
fine
secolo
prerogativa
del
press
–
agent,
una
sorta
di
pubblicista
imbonitore
che
diffondeva
notizie
manipolate
ad
arte,
in
una
professione
rispettabile,
quella
del
consulente
delle
pubbliche
relazioni.
Altra
campagna
modello
fu
quella
promossa
dalla
ATT
dal
1908
fino
alla
vigilia
della
seconda
guerra
mondiale,
che
con
una
martellante
presenza
su
quotidiani
nazionali
e
locali
puntava
a
vendere
non
il
prodotto
–
cioè
il
servizio
telefonico
–
ma
l’istituzione
e
la
dimensione
nazionale:
con
l’obiettivo
di
allacciare
la
campagna
e
la
provincia
americane,
si
fece
del
telefono
uno
strumento
per
allargare
la
democrazia
e
unire
la
nazione.
Il
bilancio
di
un’impresa
ne
rappresenta
il
principale
strumento
di
conoscenza
interna
in
quanto
fornisce
alla
proprietà
una
rappresentazione
della
sua
situazione
patrimoniale
e
della
sua
capacità
di
reddito,
ed
esterna
in
quanto
le
stesse
informazioni
vengono
messe
a
disposizione
del
pubblico
e
dei
suoi
potenziali
investitori.
Un
approccio
multidisciplinare
(che
tiene
conto
di
storia
dell’accounting
e
teoria
dell’impresa,
economia
dell’informazione
e
organizational
synthesis
di
Chandler)
può
svelare
aspetti
della
trasformazione
corporate
dell’impresa
americana
a
cavallo
del
900
prima
trascurati
dalla
storiografia.
La
crescita
delle
nuove
grandi
imprese
americane
creò
una
nuova
domanda
di
informazione,
non
più
motivata
da
esigenze
di
carattere
commerciale,
ma
dalla
necessità
di
misurare
e
registrare
ciò
che
era
fondamentale
per
capire
il
comportamento
dell'azienda
e
per
tenere
sotto
controllo
i
costi
di
produzione
e
assicurarle
una
performance
competitiva.
La
documentazione
contabile
dovrebbe
perciò
occupare
uno
spazio
privilegiato
tra
gli
strumenti
di
cui
si
avvale
lo
storico
d’impresa.
Di
recente,
ad
esempio,
si
è
delineata
una
nuova
linea
di
ricerca
nella
quale
l’analisi
storica
ha
come
oggetto
di
indagine
il
comportamento
di
organizzazioni
produttive
di
grandi
dimensioni
gestite
da
amministrazioni
pubbliche,
arsenali
militari,
manifatture
reali,
Monopoli
dei
tabacchi,
rilevando
non
solo
la
modernità
delle
rispettive
scritture
contabili,
ma
anche
le
loro
capacità
nello
spiegare
le
origini
del
moderno
management
e
del
coordinamento
burocratico
dell’attività.
Le
origini
della
moderna
contabilità
vanno
rintracciate
nell'Italia
pre
rinascimentale:
nel
tardo
400
infatti
vide
la
luce
il
“libro
a
partita
doppia”
che,
a
parere
di
Sombart,
avrebbe
scandito
l’origine
del
capitalismo:
ciascun
episodio
aziendale
doveva
tradursi
necessariamente
in
due
partite
di
conto,
antitetiche
per
segno
contabile
ed
eguali
per
misura
monetaria.
Fino
alla
Seconda
rivoluzione
industriale
la
buona
contabilità
fu
un'arte
e
non
una
scienza;
con
l'avvio
del
processo
di
industrializzazione
in
Inghilterra,
l'arte
dei
conti
non
fu
sempre
in
grado
di
tenere
il
passo
con
la
fabbrica
capitalista
che
era
profondamente
diversa
dall'azienda
commerciale
capitalistica
per
via
dell’esigenza
di
tecniche
di
ammortamento
più
raffinate
e
della
necessità
di
conoscere
nel
modo
più
preciso
la
gestione
reddituale
dell'impresa,
in
modo
da
tenere
sotto
controllo
i
costi
e
da
individuare
e
correggere
le
aree
operative
di
scarso
rendimento.
Un
importante
contributo
venne
dal
mondo
degli
accountants,
la
cui
prima
organizzazione
professionale
fu
creata
in
Scozia
intorno
alla
metà
del
XIX
secolo.
In
Inghilterra
le
più
vecchie
associazioni
risalivano
al
1870
e
dal
1874
godevano
di
una
propria
rivista
specializzata.
Gli
analisti
in
bilancio
contribuirono,
fin
dal
1860,
alla
formazione
dei
principi
di
base
ai
quali
le
società
inglesi
si
sarebbero
attenute
nella
stesura
dei
propri
bilanci.
A
partire
dagli
anni
80
furono
disponibili
i
primi
manuali
di
contabilità
e
potevano
ormai
dirsi
definitivamente
formati
i
criteri
per
la
valutazione
dell'attivo
dello
stato
patrimoniale
e
per
la
determinazione
dei
profitti
reali.
Però
il
problema
dei
costi
rimaneva:
esatta
determinazione
dei
costi
fissi
e
di
quelli
variabili
e
individuazione
di
criteri
attendibili
per
l'allocazione
dei
costi
generali
ai
vari
centri
di
spesa.
La
soluzione
venne
dal
mondo
non
dell’accounting,
ma
da
quello
dei
tecnici
e
degli
ingegneri,
che
si
pose
il
problema
della
riduzione
dei
costi
industriali
che
sono
un’accurata
contabilità
poteva
consentire.
Garke
e
Fells
nel
1887
nel
manuale
“factory
accounts”
per
la
prima
volta
distinguevano
con
chiarezza
i
costi
fissi
da
quelli
variabili.
Un
altro
ingegnere
inglese,
Matheson,
distinse
tra
svalutazione
degli
impianti
e
loro
obsolescenza,
introducendo
i
concetti
di
ammortamento
tecnico
e
ammortamento
economico.
Nel
giro
di
qualche
decennio
il
divario
tra
applicazione
pratica
ed
elaborazione
teorica
andò
colmandosi,
ma
la
contabilità
britannica,
a
fronte
delle
esigenze
emergenti
(ovvero
che
i
prospetti
contabili
fornissero
anche
elementi
di
giudizio
sulla
salute
dell’azienda),
perse
la
sua
competitività
a
vantaggio
dei
second
comers.
In
particolare,
negli
Stati
Uniti,
fin
dal
tardo
800,
si
erano
delineati
due
campi
autonomi
di
indagine:
l’accountancy,
che
si
occupava
delle
scritture
contabili,
de
i
bilanci
e
delle
relative
valutazioni
e
la
scienza
del
management
o
scienza
dell'organizzazione
e
della
gestione.
La
crescita
delle
dottrine
contabili
in
America
fu
rapida
almeno
quanto
quella
dell’industria.
Se
intorno
al
1880,
la
contabilità
americana
era
ancora
a
un
livello
rudimentale,
già
col
nuovo
secolo
e
l’affermarsi
del
big
business,
l’azienda
statunitense
maturava
forme
di
gestione
e
contabilità
che
vennero
presto
adattate
anche
alle
piccole
e
medie
imprese.
Anche
qui
fu
decisivo
il
contributo
di
tecnici
e
ingegneri.
Alcuni
di
questi,
infatti,
fissarono
quei
concetti
di
valori
standard
intorno
ai
quali,
a
partire
del
1910,
il
mondo
dell’accounting
americano
individuò
i
cosiddetti
standard
ratios:
indicatori
che
costituivano
un
valido
punto
di
riferimento
per
una
corretta
gestione
contabile
dell'azienda.
Adottati
negli
Stati
Uniti
già
negli
anni
Venti
1920,
nel
secondo
dopoguerra
vennero
adottati
in
tutto
il
mondo
occidentale.
5.2 Indici e flussi. Gli Stati Uniti e l’“analisi scientifica” del bilancio
Con
l'espressione
di
analisi
scientifica
del
bilancio,
coniata
da
Justin
nel
1924,
si
volevano
indicare
le
capacità
segnaletiche
e
predittive
di
valutazioni
incentrate
su
alcuni
quozienti
di
sintesi,
elaborati
dalla
dottrina
aziendale
americana
a
partire
dalla
fine
del
XIX
secolo:
essi
erano
calcolati
rapportando
fra
loro
grandezze
significative
dello
stato
patrimoniale.
Le
novità
in
materia
di
controllo
e
di
finanza
d’impresa
potevano
essere
viste
come
il
prodotto
del
clima
culturale
degli
Stati
Uniti
del
primo
900,
con
la
sua
fin
eccessiva
accentuazione
degli
aspetti
scientifici
e
tecnici
del
mondo
produttivo.
In
tal
senso
l’impiego
della
ratio
analysis
fu
un
tentativo
di
individuare
criteri
rigorosi
e
affidabili
per
l’analisi
di
bilancio.
Poi
con
le
nuove
e
complesse
forme
organizzative
si
iniziarono
a
produrre
anche
report
e
rapporti
sistematici
e
periodici,
quali
strumenti
di
comunicazione
necessari
all’interno
della
nuova
grande
imprese.
A
seguito
della
separazione
tra
proprietà
e
controllo
e
del
crescente
ricorso
al
mercato
finanziario,
la
valutazione
di
bilancio,
e
quindi
la
ratio
analysis
fu
dominata
soprattutto
http://www.unictblog.com
-‐
http://unict.myblog.it
37
dalle
esigenze
del
mondo
creditizio
e
si
incentrò
essenzialmente
su
due
quozienti
statici
di
situazione
finanziaria,
current
ratio
e
quick
ratio,
che
mettevano
in
relazione
rispettivamente
disponibilità
e
passività
correnti
e
disponibilità
e
passività
liquide.
Lo
sviluppo
di
quozienti
di
analisi
reddituale
fu
invece
un
fenomeno
che
prese
avvio
all'interno
dell'impresa
e
che
soltanto
in
un
secondo
tempo
(dagli
anni
Quaranta
in
poi)
trovò
un'adeguata
sistemazione
teorica.
La
formula
di
Brown,
R/K
=
(V/K)
x
(R/V),
che
mette
in
relazione
il
ROI
con
il
turnover
del
capitale
e
i
profitti
di
vendita
-‐
fu
impiegata
per
la
prima
volta
nel
1919
alla
Du
Pont,
quando
la
società
passò
dalla
struttura
polifunzionale
a
quella
multi
divisionale.
La
scomposizione
del
ROI
nei
due
fattori
del
turnover
e
della
economicità
delle
vendite
poi
forniva
all'alta
dirigenza
informazioni
strategiche
di
primaria
importanza
per
le
previsioni
a
breve
e
medio
termine
dello
sviluppo
dell’azienda.
Infatti,
mentre,
a
prezzi
costanti,
un
miglioramento
del
saggio
di
rotazione
del
capitale
indicava
un
più
proficuo
sfruttamento
del
capitale
investito,
un
incremento
del
margine
di
profitto
sulle
vendite
significava
una
diminuzione
dei
costi
relativi.
La
struttura
organizzativa
e
i
sistemi
contabili
della
Du
Pont
vennero
applicati
dal
1920
anche
alla
General
Motors,
proprio
nell’anno
della
sua
ristrutturazione
in
senso
multi
divisionale.
Quanto
all’esame
della
dinamica
finanziaria
(nella
forma
di
rendiconto
complessivo
o
documento
riferito
alle
variazioni
nel
corso
dell’anno
del
capitale
circolante
e
dei
flussi
di
cassa)
i
primi
documenti
finanziari
separati
dallo
stato
patrimoniale
e
dal
conto
profitti
e
perdite
risalgono
ai
bilanci
delle
principali
compagnie
ferroviarie
operanti
negli
anni
post
guerra
di
secessione;
fu
solo
negli
anni
Venti
che
si
andò
sviluppando
a
livello
teorico
un
dibattito
su
modalità,
limiti
e
scopi
del
nuovo
strumento
di
analisi
finanziaria.
Già
negli
anni
Quaranta
era
cresciuto
l’interesse
su
tecniche
di
analisi
e
di
valutazione
in
Australia
e
soprattutto
in
Gran
Bretagna.
Qui
il
British
Institute
of
Management
suggerì
dagli
anni
Cinquanta
l'impiego
dei
ratios
come
strumento
per
effettuare
confronti
fra
le
imprese,
allo
scopo
di
aiutare
il
management
a
valutare
la
propria
efficienza
e
a
effettuare
scelte
strategiche
riguardo
al
futuro.
Le
tecniche
manageriali
e
gestionali
americane
trovarono
poi
un
importante
strumento
di
diffusione
nel
piano
Marshall.
In
Italia
soltanto
negli
anni
60
la
dottrina
aziendale
sembra
aprirsi
a
queste
novità,
forse
in
conseguenza
del
ritardo
che
connotava
gran
parte
del
mondo
industriale.
Ma
il
ritardo
era
in
parte
anche
dovuto
agli
sviluppi
della
ragioneria
italiana
nel
periodo
fra
le
due
guerre
e
alla
concezione
dell’azienda
elaborata
da
Zappa,
per
il
quale
l'azienda
andava
considerata
un
soggetto
totalizzante
e
per
questo
sfuggente.
Si
delineava
pertanto
una
tendenza
a
ricomporre
quella
specializzazione
disciplinare
fra
scienze
dell'organizzazione
aziendale
e
scienze
della
contabilità
che
nei
paesi
anglosassoni
andava
tracciandosi,
invece,
con
chiarezza.
Ne
conseguiva
un
ridimensionamento
del
ruolo
della
ragioneria
che
non
poteva
rivendicare
alcuna
autonoma
dignità
scientifica,
ma
al
massimo
raccogliere
materiali
da
elaborare
nella
scienza
dell'economia
aziendale.
Fu
perciò
impossibile
che
nell'aziendalismo
italiano
si
affermasse
la
metodologia
della
ratio
analysis.
Invece,
la
prassi
contabile
non
fu
(è
il
caso
della
business
community
milanese)
insensibile
agli
approcci
specialistici
di
ingegneri
e
tecnici,
in
ordine
alla
determinazione
dei
costi
industriali
alle
tecniche
di
ammortamento.
Negli
anni
Trenta,
poi,
Masi,
sostenitore
di
una
concezione
della
ragioneria
come
scienza
del
governo
economico
del
patrimonio,
suggerì
di
attribuire
alle
corporazioni
anche
il
compito
di
formare
indici
aziendali
standard
o
tipici.
Faceva
quindi
capolino
nell’aziendalismo
italiano
la
ratio
analysis,
ma
sarebbe
stato
necessario
ancora
qualche
decennio
perché
diventasse
consueto
strumento
d’indagine.
Solo
dopo
la
seconda
guerra
mondiale
un
notevole
contributo
alla
creazione
di
moderne
strutture
manageriali
e
allo
sviluppo
di
tecniche
gestionali
di
matrice
americana
venne
offerto
dai
più
importanti
gruppi
pubblici,
IRI
e
ENI,
che
non
a
caso
si
avvalsero
della
consulenza
di
società
d’oltre
Atlantico.
http://www.unictblog.com
-‐
http://unict.myblog.it
38
STORIA
D’IMPRESA
CAPITOLO
5
–
L’IMPRESA
PUBBLICA:
ASCESA
E
DECLINO
In
realtà
una
valutazione
dell’intera
parabola
delle
aziende
di
stato
deve
considerare
i
cambiamenti
intervenuti
nel
XX
secolo
e
che
hanno
profondamente
inciso
sulla
sua
vicenda:
l’affermazione
di
regimi
dirigisti
e
autarchici,
la
diffusione
di
sistemi
socialisti,
a
seguito
della
prima
guerra
mondiale
e
della
crisi
del
’29,
sono
reazioni
ai
fallimenti
di
mercato
che
piagavano
l’economia
capitalista,
con
almeno
due
tratti
comuni:
1)
il
riconoscimento
dell’instabilità
della
libera
economia
di
mercato
e
la
convinzione
che
lo
Stato
dovesse
avere
un
ruolo
maggiore;
2)
la
nazionalizzazione
di
attività
strategiche
era
parte
importante
delle
nuove
politiche
economiche,
anche
nei
sistemi
democratici.
Negli
anni
70
e
80
con
le
cattive
performance
delle
economie
miste
e
poi
con
il
collasso
dei
regimi
collettivisti
si
apre
una
profonda
riflessione
sulla
nozione
di
impresa
pubblica.
Per
impresa
pubblica
qui
s’intendono
sia
le
imprese
possedute
e/o
gestite
a
livello
centrale
(imprese
pubbliche
vere
e
proprie,
aziende
autonome,
imprese
a
partecipazione
statale,
enti
pubblici,
ecc.)
sia
quelle
che
operano
a
livello
decentrato,
come
le
aziende
municipali.
Inoltre,
ad
esempio
nel
caso
di
Germania
e
Stati
Uniti,
si
ricomprendono
anche
le
imprese
federali.
Svariati
sono
i
motivi
che
sottendono
la
scelta
di
nazionalizzare
o
di
creare
ex
novo
imprese
pubbliche.
In
qualche
caso
non
c’è
neanche
una
scelta
programmata
(vedi
il
caso
della
Volkswagen,
salvata
dal
fallimento,
in
mancanza
di
possibili
compratori;
e
il
caso
dell’IRI).
Sostanzialmente
sono
tre
i
motivi:
1) Ragioni
di
carattere
politico
e
ideologico.
Così
nei
regimi
socialisti,
ma
anche
nei
Paesi
occidentali
nel
secondo
dopoguerra,
sulla
spinta
dei
partiti
progressisti
(favorevoli
ad
una
ridistribuzione
del
potere
di
cui
avrebbero
beneficiato
i
lavoratori);
oltre
che
nei
regimi
dirigisti
di
Italia,
Germania,
Spagna
e
Giappone
nel
periodo
infra-‐bellico
(dove
l’impresa
pubblica
era
strumento
per
raggiungere
l’autarchia
ed
attuare
la
politica
di
potenza
dello
Stato-‐nazione).
3.1)
market
failures:
la
proprietà
pubblica
è
necessaria
in
situazioni
con
insufficienza
di
informazioni
o
esternalità,
tali
per
cui
è
insoddisfacente
il
criterio
della
convenienza
privata.
Caso
tipico
è
quello
dei
monopoli
naturali
nei
settori
di
luce,
acqua
e
gas,
dove
è
più
economico
che
vi
sia
una
sola
impresa
a
produrre,
ma
solo
la
nazionalizzazione
assicura
prezzi
equi
e
affidabilità
dell’offerta,
senza
diseconomie
per
il
consumatore.
Laddove,
invece,
come
negli
USA,
tali
servizi
sono
stati
lasciati
ai
privati,
si
è
resa
necessaria
una
rigorosa
regolamentazione
di
prezzi,
tariffe,
qualità
delle
prestazioni
e
la
creazione
di
agenzie
e
autorità
speciali
(prerequisito
alla
scelta
di
privatizzare
ampi
3.2)
Obiettivi
di
crescita
nelle
aree
e/o
settori
arretrati.
L’impresa
pubblica
assume
decisioni
sulla
base
di
considerazioni
di
lungo
periodo
non
governate
dalla
mera
logica
del
profitto.
A
livello
settoriale,
l’intervento
diretto
dello
Stato
può
essere
diretto
a
stimolare
settori
strategici
o
trascurati:
dallo
sfruttamento
di
risorse
naturali
alla
creazione
di
infrastrutture,
ai
settori
dell’industria
di
base
(per
fornire
a
prezzi
convenienti
input
necessari
alla
crescita
dell’industria
nel
suo
complesso).
3.3)
Salvataggi
di
imprese
in
gravissima
crisi,
per
lo
più
operanti
in
settori
strategici
e
con
grande
occupazione.
3.4)Effetti
di
redistribuzione
del
reddito
(conseguenti
oltre
che
a
cambiamenti
di
proprietà,
anche
a
politiche
di
prezzi
e
tariffe)
e
di
stabilizzazione
del
sistema
economico
(l’esistenza
di
una
vasto
settore
pubblico
piattaforma
per
l’attuazione
di
politiche
di
investimenti
di
carattere
anticiclico).
Se
nei
primi
anni
80
le
aziende
di
Stato
coprivano
circa
il
10%
della
produzione
manifatturiera
di
un
Paese
industriale
come
l’Italia
o
il
25%
di
un
Paese
in
rapida
crescita
come
la
Corea,
ben
superiori
le
%
nei
Paesi
meno
sviluppati,
con
un
raggio
d’azione
esteso
a
moltissimi
rami
della
produzione.
È
opportuno
però
raggruppare
gli
ambiti
in
cui
si
sono
trovate
a
operare
le
imprese
pubbliche
in
4
categorie
principali:
Il
modello
forte
–
quello
del
big
government
–
trovò
applicazione
nell’ondata
di
nazionalizzazioni
di
numerosi
stati
continentali
prima
della
seconda
guerra
mondiale
e
dopo
nei
sistemi
di
economia
mista
dell’Europa
occidentale.
Tra
le
tradizioni
e
influenze
di
diversa
matrice
alla
base
della
sua
formulazione:
2) La
nuova
visione
dello
Stato
maturata
in
Germania
sulla
scorta
della
filosofia
idealista,
che
considerava
l’azione
individuale
incapace
di
risolvere
i
problemi
d’interesse
collettivo;
3) La tradizione del socialismo scientifico che propugnava la collettivizzazione dei mezzi produttivi;
Sicuramente
più
ampia
fu
comunque
la
dimensione
raggiunta
dall’impresa
pubblica
nella
maggior
parte
delle
altre
economie
miste,
in
Europa
e
non,
nella
sua
fase
di
maggior
fortuna
(intorno
alla
metà
degli
anni
70).
Nella
maggior
parte
dei
Paesi
occidentali
la
grande
stagione
delle
nazionalizzazioni
si
era
svolta
nel
trentennio
successivo
alla
grande
depressione,
anche
se
già
nei
primi
decenni
del
900
non
erano
mancati
interventi
diretti
dello
Stato
nell’economia.
In
particolare,
nella
Germania
di
Weimar
larghi
settori
dei
servizi
e
delle
infrastrutture,
ma
anche
della
produzione
erano
sotto
il
controllo
della
mano
pubblica,
spesso
nella
forma
dell’azionariato
di
Stato.
Qui
nel
primo
dopoguerra
il
problema
della
riconversione
industriale
era
apparso
inscindibilmente
legato
a
quello
di
una
razionalizzazione
spinta
fino
alla
socializzazione.
Se
già
con
la
guerra
1914-‐18
il
processo
aveva
subito
nell’Europa
occidentale
un’accelerazione,
con
le
crisi
socio
–
politiche
del
dopoguerra
e
gli
effetti
della
crisi
del
’29
non
più
solo
le
componenti
social
–
riformiste
e
autoritarie
della
politica,
ma
strati
sempre
più
larghi
delle
forze
liberal
–
democratiche
e
cattoliche
individuavano
nell’intervento
governativo
il
rimedio
ai
fallimenti
di
mercato.
Si
pensi
in
Italia
alla
creazione
dell’IRI,
nato
come
ente
temporaneo
per
liberare
le
tre
maggiori
banche
dei
loro
eccessivi
immobilizzi
e
trasformato
in
ente
permanente
nel
1937,
che
mantenne
anche
nel
dopoguerra
un
ruolo
da
protagonista
nell’economia
italiana.
In
Germania,
già
prima
del
nazismo,
lo
Stato
era
intervenuto
nella
ristrutturazione
del
sistema
bancario,
come
azionista
delle
principali
Grossbanken;
poi,
nella
fase
autarchica,
si
arrivò
a
forme
di
statizzazione
vere
e
proprie
dell’economia.
E
anche
in
Spagna
il
regime
puntò
all’autarchia,
con
in
primis
la
creazione
dell’INI
(equivalente
del
nostro
IRI).
Fra
i
Paesi
democratici,
la
Francia
fu
quella
che
si
spinse
più
avanti
sulla
strada
delle
nazionalizzazioni
(nel
campo
delle
ferrovie,
delle
armi
e
delle
costruzioni
aeronautiche.
In
Gran
Bretagna
il
Partito
laburista,
al
momento
della
sua
ascesa
al
potere
nel
1945,
dopo
aver
tentato
di
regolamentare
i
produttori
nei
settori
di
infrastrutture
e
servizi
pubblici,
optò
per
le
nazionalizzazioni.
In
altri
Paesi
(come
la
Svezia),
che
avevano
accusato
meno
la
recessione,
il
processo
stentò
a
decollare;
ed
anche
in
Giappone,
America
Latina
e
in
misura
minore
USA,
si
preferirono
forme
di
intervento
indiretto
per
stimolare
la
ripresa.
Fu
nel
secondo
dopoguerra
che
assunzione
della
proprietà
e
della
gestione
di
attività
economiche
da
parte
dello
Stato
e
sforzi
rivolti
alla
programmazione
economica
divennero
capisaldi
delle
politiche
di
sviluppo
dei
Paesi
a
economia
mista,
col
duplice
obiettivo
dell’eliminazione
di
squilibri
settoriali
e
regionali,
da
un
lato,
e
ridimensionamento
di
monopoli
e
potenziamento
di
attività
d’interesse
collettivo,
dall’altro.
A
livello
politico
non
fu
certo
trascurabile
il
peso
delle
forze
di
sinistra
ora
al
potere.
Anche
se
in
Gran
Bretagna
la
nazionalizzazione
del
comparto
automobilistico
fu
effettuata
da
un
governo
conservatore
(sebbene
il
settore
pubblico
si
sia
allargato
soprattutto
durante
i
governi
laburisti).
In
Francia
le
due
fasi
più
importanti
si
sono
avute:
nel
1944-‐48,
con
i
Partiti
socialista
e
comunista
al
governo,
con
la
nazionalizzazione
della
Banca
di
Francia,
delle
quattro
principali
banche
di
deposito,
del
trasporto
aereo,
di
Fuori
dall’Europa,
il
Canada
ha
rappresentato
tra
i
Paesi
industrializzati
il
caso
più
significativo;
ma
è
tra
i
PVS
che
il
fenomeno
è
stato
più
ampio
e
intenso,
spesso
prodotto
di
politiche
dirigiste
e
regimi
autocratici,
se
non
di
vere
dittature
(così
in
diversi
Paesi
dell’America
Latina,
in
Egitto,
Indonesia,
ecc.)
Parziale
eccezione
a
questa
tendenza
è
rappresentata,
oltre
che
dagli
Stati
Uniti,
anche
da
Germania
(dove
lo
sforzo
di
ricostruzione
fu
accompagnato
dallo
smobilizzo
almeno
in
parte
dell’apparato
pubblico
creato
dal
nazismo)
e
dal
Giappone
(dove
la
presenza
dello
Stato
prese
le
forme
dello
stimolo
indiretto
e
della
pianificazione,
sotto
la
direzione
del
MITI).
a) Economiche:
frequenti
i
casi
di
government
failure,
dovuti
al
rilievo
dato
spesso
a
obiettivi
di
carattere
sociale
e
non
economico,
all’eccessiva
burocratizzazione
delle
gerarchie
manageriali
e
alle
interferenze
di
partiti
e
lobby
politiche.
Inoltre,
i
monopoli
pubblici
offrivano
servizi
di
bassa
qualità
ai
cittadini,
causa
l’assenza
di
concorrenti.
c) Politiche
e
ideologiche:
riemerge
la
centralità
dell’impresa
privata
e
del
profitto
a
scapito
delle
politiche
sociali;
non
solo,
privatizzare
vuol
dire
anche
spezzare
i
legami
perversi
creatisi
tra
Stato
e
potentati
economici.
Le
politiche
di
privatizzazione
sono
state
spesso
associate
all’esperienza
britannica
sotto
il
governo
Thatcher,
ove
erano
finalizzate
(oltre
che
a
minare
il
tradizionale
supporto
che
sindacati
e
impiegati
statali
avevano
riservato
ai
laburisti)
a:
aumentare
le
entrate
statali,
promuovere
l’efficienza,
la
concorrenza
e
la
competitività,
stimolare
l’allargamento
della
proprietà
azionaria
e,
con
essa,
del
mercato
nazionale
dei
capitali.
Un
forte
elemento
di
differenziazione
tra
la
politica
britannica
e
quella
seguita
più
tardi
dai
Paesi
europei
fu
rappresentato
dalle
forti
pressioni
esercitate
in
ambito
comunitario
finalizzate
a
una
maggiore
integrazione
del
mercato
e
a
ridurre
la
presenza
dell’impresa
pubblica
e
delle
sovvenzioni
ad
essa
destinate.
Un
altro
stimolo
venne
in
settori
cruciali
del
servizio
pubblico
dal
progresso
tecnologico,
che
annullava
il
pericolo
di
lasciare
in
mani
private
i
monopoli
naturali.
1-‐
nelle
dismissioni
di
grandi
imprese
pubbliche,
il
sistema
dell’offerta
pubblica
di
vendita
è
stato
di
solito
preferito
a
quello
della
trattiva
privata;
2-‐ nella vendita delle prime tranche azionarie i governi hanno spesso fatto ricorso all’underpricing;
Quanto
al
comportamento
delle
aziende
denazionalizzate
nelle
fasi
di
forte
recessione,
i
risultati
sono
stati
contraddittori
e
per
nulla
univoci.
Sono
in
ogni
caso
necessarie
alcune
precondizioni
perché
un
programma
di
denazionalizzazione
abbia
successo:
un
mercato
dei
fattori
e
dei
prodotti
concorrenziale;
una
legislazione
a
tutela
di
azionisti
e
risparmiatori;
un
mercato
dei
capitali
sufficientemente
evoluto.
Il
processo
di
privatizzazione
dell’ultimo
quarto
del
XX
secolo,
fatto
partire
nel
Regno
Unito
della
Thatcher,
si
è
intensificato
negli
anni
90,
raggiungendo
il
suo
apice
nel
1998,
per
poi
segnare
un
rallentamento
-‐
fino
ai
minimi
del
2001
–
dovuto
a:
rallentamento
dell’economia,
sfavorevoli
condizioni
del
mercato
dei
capitali,
progressivo
esaurimento
da
parte
dei
governi
degli
assets
più
appetibili.
E
ancora.
Mentre
all’inizio
la
privatizzazione
ha
riguardato
settori
competitivi
come
banche
e
imprese
manifatturiere,
in
un
secondo
momento
ha
investito
massicciamente
settori
monopolistici
e
infrastrutturali
come
trasporti,
public
utilities
e
telecomunicazioni
(queste
ultime
fonte,
poi,
delle
maggiori
entrate).
La
metà
circa
degli
introiti
del
periodo
1977
–
2003
si
sono
concentrati
nei
Paesi
dell’UE
allargata,
il
90%
dei
quali
nei
Paesi
dell’Europa
occidentale,
dove
già
era
sviluppato
il
mercato
azionario.
Solo
Regno
Unito
e
Spagna
hanno
denazionalizzato
completamente
settori
strategici
come
energia,
telecomunicazioni
e
trasporti;
altrove
i
governi
hanno
mantenuto
qualche
forma
di
controllo
sulle
ex
imprese
pubbliche.
Al
primo
posto
tra
i
Paesi
europei
in
termini
di
introiti
delle
denazionalizzazioni
troviamo
il
Regno
Unito,
seguito
dall’Italia
-‐
nonostante
il
vero
processo
di
privatizzazione
abbia
inizio
solo
nel
1992,
quando
iniziarono
ad
essere
collocate
sul
mercato
quote
importanti
delle
imprese
del
gruppo
IRI.
L’apice
è
raggiunto
nel
1999,
quando
peraltro
viene
messa
sul
mercato
la
prima
tranche
dell’ENEL.
–
Seguono
Germania,
Francia,
Spagna
e
Portogallo.
Nelle
economie
di
transizione
(i
Paesi
ex
socialisti
nella
fase
di
passaggio
verso
il
capitalismo)
quasi
ovunque
–
sulla
spinta
di
Banca
Mondiale
e
FMI
–
si
hanno
massicci
smobilizzi
delle
imprese
pubbliche
attraverso
cessioni
a
investitori
esteri
e,
soprattutto,
privatizzazioni
di
massa
forzate,
che
hanno
molto
spesso
assunto
la
forma
della
distribuzione
diretta
e
gratuita
di
voucher
ai
cittadini.
Il
ricorso
a
tali
modalità
(volte
a
radicare
in
questi
Paesi
il
diritto
di
proprietà)
ha
influito
sulla
qualità
delle
privatizzazioni,
determinando
strutture
di
proprietà
eccessivamente
disperse.
Nel
complesso,
il
primo
paese
ex
socialista
–
la
Polonia
–
è
all’ottavo
posto
nella
graduatoria
relativa
all’Europa
allargata.
A
circa
un
quarto
di
secolo
dal
loro
inizio,
un
bilancio
delle
politiche
di
privatizzazione
è
tutt’altro
che
semplice,
e
più
che
a
delle
conclusioni,
si
può
giungere
a
qualche
considerazione
di
massima.
• Se
nei
Paesi
industrializzati
il
ruolo
delle
imprese
pubbliche
si
è
significativamente
ridotto,
nelle
economie
meno
sviluppate
queste
mantengono
una
quota
di
partecipazione
al
PNL
ancora
superiore
al
10%
(con
l’eccezione
dei
Paesi
dell’America
Latina).
• Gli
studi
hanno
evidenziato
la
maggior
efficienza
e
redditività
delle
imprese
private
rispetto
a
quelle
rimaste
in
mano
pubblica,
ma:
1)
questo
non
può
portare
a
dire
che
le
prime
siano
sempre
più
efficienti
delle
seconde;
2)
tali
studi
non
considerano
quasi
mai
sicurezza
e
continuità
dell’offerta
o
vincoli
di
carattere
ambientale;
3)
quanto
alla
redditività,
dipende
cosa
s’intende,
visto
che
imprese
pubbliche
tendono
spesso
a
massimizzare
più
il
benessere
sociale
che
il
profitto.
Questo
è
vero
per
• Quanto
alle
privatizzazioni
nei
Paesi
ex
socialisti,
dopo
il
grande
iniziale
ottimismo,
poiché
il
cambio
di
proprietà
non
ha
prodotto
gli
effetti
sperati,
anzi
in
taluni
casi
non
ha
neanche
fermato
il
declino
di
queste
economie,
sono
stati
avanzati
dubbi
sulla
loro
efficacia,
accresciuti
da
episodi
frequenti
di
corruzione
e
malaffare.
Si
discostano
da
quest’andamento
la
Polonia
e
i
Paesi
ex
socialisti
dell’Europa
centrale.
A
fronte
di
prescrizioni
generali
di
carattere
economico
e
finanziario,
che
sottolineano
la
maggior
efficienza
e
redditività
delle
imprese
privatizzate,
sono
cresciute
sfiducia
e
disaffezione
della
popolazione
nelle
politiche
di
denazionalizzazione
(specie
per
i
tagli
all’occupazione
e
gli
aumenti
dei
prezzi
che
ne
sono
conseguiti),
soprattutto
nell’America
Latina.
In
ogni
caso,
non
è
tanto
la
nuda
proprietà
–
pubblica
o
privata
–
a
fare
la
differenza,
ma
l’insieme
di
cambiamenti
–
struttura
dei
mercati,
modalità
di
finanziamento
e
organizzazione
dell’impresa,
oltre
che
mentalità
e
cultura
–
che
in
genere
accompagnano
i
processi
di
privatizzazione.
In
questo
senso,
alcuni
Paesi
nordici
–
come
la
Svezia
–
più
che
smantellare
il
proprio
apparato
di
imprese
pubbliche,
si
sono
preoccupati
di
rendere
i
mercati
estremamente
concorrenziali,
creando
agenzie
di
regolazione
indipendenti.
Concludendo,
in
materia
di
intervento
statale
nell’economia,
non
potendo
la
vicenda
dell’impresa
pubblica
dirsi
ancora
conclusa,
è
bene
richiamare
il
monito
lanciato
da
Heertje:
la
storia
è
sempre
stata
caratterizzata
dall’alternanza
di
fasi
di
estrema
presenza
dello
Stato
nell’economia
e
di
reazioni
nella
direzione
opposta;
anche
se
ovviamente,
la
natura
di
tale
presenza
è
andata
cambiando
nel
tempo.
I. UN PAESE DIVISO
L'unificazione d'Italia non fu il risultato di un processo di integrazione economica tra le diverse
regioni che entrarono a far parte del Regno: il sistema economico del nuovo Stato non aveva certo le
caratteristiche di un mercato nazionale unico. Non si trattava soltanto della scarsa dotazione
infrastrutturale che caratterizzava gli Stati preunitari, ben più rilevante era il fatto che le diverse
regioni presentavano specializzazioni produttive assai differenti fra loro e, soprattutto, poco o per
nulla complementari. Questi squilibri risaltano in maniera ancora più evidente se si considera il
contributo offerto alla creazione di ricchezza dalle singole regioni. Ad es: Piemonte, Lombardia,
Liguria e Veneto con appena il 30% della popolazione totale producevano i ¾ del reddito nazionale.
Né diversa si presentava la situazione nei vari comparti del settore manifatturiero. L'origine di questo
dualismo va ricercato in un complesso di fattori stratificati nel lungo periodo. Nel settentrione,
già negli anni della Restaurazione era giunta a maturazione una secolare dinamica di investimenti e
migliorie che avevano dato origine ad un’agricoltura florida di tipo intensivo. Al Sud, invece, il
predominio del settore primario si concretizzava nella diffusione di colture cerealicole destinate quasi
esclusivamente al consumo interno, in un panorama dominato dal latifondo e dalla mezzadria.
Entrambe le realtà manifestavano, ciascuna per proprio conto, un considerevole grado di
coinvolgimento in ampi circuiti economici ramificati nelle economie europee.
Al Nord, nei filatoi prealpini, si andava profilando una prima educazione ai ritmi di fabbrica per una
manodopera che presto avrebbe trovato inserimento nel più moderno sistema industriale. Insieme a
quella lavoratrice cresceva la classe imprenditoriale; ciò consentì l'accumulazione di ingenti fortune
destinate a loro volta a dar vita a iniziative in campo commerciale, finanziario, industriale.1 Di segno
diverso erano le risposte offerte dal Meridione agli stimoli provenienti dall'economia mondiale. Perno
delle principali attività (olio, ferro, zolfo) erano prevalentemente capitali esteri, le merci erano
esportate in genere allo stato grezzo, con una dipendenza di fatto di natura coloniale.
Oltre alle correnti d’esportazione, in Italia era diffusa la presenza di imprenditorialità straniera, al
Nord soprattutto svizzeri e tedeschi nel cotonificio. Analogamente nella metallurgia, dove il know-
how proveniente dall'estero sosteneva con le proprie competenze iniziative autoctone, per poi magari
avviare proficue attività per conto proprio. Se però nell'area settentrionale al dinamismo degli stranieri
faceva da contraltare un vivace substrato di imprenditoria locale (che giungeva anche a rivaleggiare in
modernità con le analoghe esperienze straniere, come fu per il cotonificio Cantoni e il lanificio Rossi)
e tutta la fascia alpina e prealpina era costellata di sistemi produttivi formati da piccoli opifici tessili,
metallurgici e meccanici; altrettanto non può dirsi del Meridione, ove invece di scarso spessore è
l'iniziativa privata locale la quale, quando è presente, fruisce di sostanziosi aiuti da parte governativa.
Unica, parziale eccezione alla colonizzazione e all'intervento pubblico era offerta dall'industria
leggera, concentrata principalmente nell'area urbana napoletana e nella lavorazione a domicilio di
corallo e guanti di pelle.
Al momento dell'unificazione, l'Italia non è soltanto un paese diviso, ma anche periferico in
un’Europa in rapido sviluppo. Il gap che separava le regioni settentrionali da quelle meridionali era
senz'altro minore dell'immenso divario intercorrente fra l’Italia e i paesi all'avanguardia nella
rivoluzione industriale, sia in relazione al reddito complessivo, che ai rendimenti medi in agricoltura,
all'estensione e dinamicità del mercato interno, al tasso di urbanizzazione. Sotto il profilo della
dotazione infrastrutturale il divario era ancora più marcato, e nel settore manifatturiero toccava livelli
abissali il distacco tecnologico, di produttività e di concentrazione delle produzioni rispetto
all’Inghilterra. È anche vero però che emergevano, spesso concentrate nelle aree urbane, alcune isole
manifatturiere, in sostanziale continuità con le tradizioni corporative e artigianali, che in molti settori
mostravano elevati livelli di specializzazione e competitività sui mercati esteri.
1
La produzione serica mobilitava da tempo risorse finanziarie, generava contatti internazionali, spingeva all’adozione di
innovazioni tecnologiche, contribuiva ad un’accumulazione finanziaria senza precedenti stimolando nel contempo energie
imprenditoriali pronte a liberarsi non appena si fosse presentata l’occasione.
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montagna che utilizzavano laghi artificiali per garantire la costante alimentazione alle centrali.
Notevole il contributo del Politecnico di Milano, nel quale viene attivato già dal 1883 un
insegnamento relativo alle applicazioni elettriche. Sempre a Milano prende il via l’Università
Bocconi. Così, mentre Genova con i cantieri e la grande siderurgia è l’emblema di attività legate allo
Stato, Milano simboleggia una nuova leva di imprenditori rapidi nell’afferrare le innovazioni tecniche
e decisamente orientati al mercato. In questo contesto si ritrovano realtà industriali siderurgiche di
altissimo livello ed efficienza come le Acciaierie e ferriere lombarde di Falck, sebbene anch’egli non
disdegni il sostegno nazionale. Anche Pirelli deve la prima espansione della sua impresa alla
commessa che il genio militare gli affidò per la creazione del filo telegrafico e poi ottiene anche altri
lavori commissionati dallo Stato che gli permettono di crescere notevolmente; egli persegue una
vivace politica d’espansione fondata sulla diversificazione produttiva che gli permette di cogliere tutte
le occasioni rese disponibili dalle tecnologie del settore. Successivamente l’espansione incrementale
della vecchia fabbrica non bastò più e nell’ambito del progetto “quartiere industriale Nord Milano” dà
il via alla costruzione dello stabilimento di Bicocca, all’interno del quale vengono concentrate le
lavorazioni del filo elastico e dei cavi sotterranei. Viene avviata una nuova produzione, quella dei
pneumatici, che si rivela da subito molto proficua.
Altra considerevole vicenda imprenditoriale è quella di Agnelli, che ha portato la Fiat ai vertici del
sistema industriale italiano. Egli si colloca in una posizione intermedia fra le due tipologie di
imprenditori: genovesi e milanesi. Agnelli sa cogliere le opportunità di un ambiente economico nel
quale capitali immobilizzati in agricoltura o nella speculazione diventavano disponibili per l’industria,
e ha interesse per l’innovazione, l’estero e la selezione di manager e operai. D’altra parte la Fiat salirà
presto ai primi posti tra le imprese italiane grazie alle commesse della Mobilitazione industriale,
mentre alla fine degli anni 20 solo un feroce protezionismo sottrarrà l’impresa alla concorrenza della
Ford. La Fiat nasce con grandi mezzi e ambizioni e con un notevole appoggio anche da parte della
corona, in una Torino culturalmente e produttivamente vivace. Tra i suoi dirigenti si contraddistingue
Giovanni Agnelli. L’obiettivo è quello di superare ogni impronta artigianale separando la funzione
produttiva da quella di studio e collaudo; si avvia dunque la produzione in serie. Nonostante si guardi
già ai modelli d’oltreoceano (come Ford) si è comunque consapevoli del fatto che non esistono ancora
le condizioni per avviare un mercato di massa e ciò fa si che per i primi anni la Fiat produca soltanto
auto di lusso. Il peso politico, oltre al patrimonio tecnico-produttivo, consente alla Fiat di ottenere una
posizione privilegiata per quanto concerne le commesse belliche sin dalla campagna italo-turca del
1911. Decisiva per l’affermazione dell’impresa resta tuttavia la sua capacità di concretizzare la sua
strategia di integrazione verticale, che non si arresta all’interno della fase produttiva ma perviene alla
creazione di un’estesa rete di vendita.
Lo sviluppo dell’età giolittiana coinvolge, accanto a quelli moderni, anche i settori tradizionali, che
presentano tassi di sviluppo non trascurabili. Il setificio nazionale era sempre il primo in Europa e il
terzo al mondo in termini di produzione ed esportazioni. In ciò ruolo fondamentale ovviamente è
rappresentato dall’introduzione dell’elettricità. Il cotoniero, tra tutti, è il settore che più direttamente
subisce gli effetti del rapido sviluppo di fine secolo. L’avanzamento tecnologico si accompagna a
considerevoli aumenti di produttività, conseguiti all’interno di aziende contraddistinte da un certo
grado di integrazione anche in campo commerciale, e dall’impiego di nuove fonti di energia
alternative a quella idrica: il vapore e in seguito l’elettricità. Ancora incerto sulla via della
modernizzazione è il settore alimentare, che si presenta assai differenziato al proprio interno: imprese
in rapida crescita, dinamiche sotto il profilo produttivo e commerciale sono avvolte in un pulviscolo di
botteghe artigiane, assai spesso attive solo stagionalmente e sempre legate a mercati e modelli di
consumo locali. Anche in questo caso le iniziative imprenditoriali hanno alle spalle una lunga fase di
incubazione mercantile (Cirio, Galbani, Buitoni, Barilla).
A più di 50 anni dall’unificazione politica, l’Italia si era dotata di un apparato industriale di una certa
consistenza in termini sia quantitativi che qualitativi. Non mancavano squilibri e carenze: ad es., nel
settore chimico la scarsa protezione doganale lasciava spazio alla concorrenza tedesca, la scarsità di
competenze tecnico-scientifiche finiva per confinare le imprese nel ristretto mercato interno e su
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successive importanti, come il suffragio universale maschile) fu sempre più messa in discussione dalla
sinistra anarchico – sindacalista, dalla destra nazionalista e dagli industriali, insofferenti alle
interferenze del governo. Nel marzo 1914 Giolitti fu sostituito da Salandra; nel giro di pochi mesi si
posero le premesse per una radicale trasformazione della politica interna ed estera italiana.
Il Governo, compiendo una scelta contraria alla volontà della maggioranza degli italiani, interviene a
fianco dell’Intesa, contro gli ex alleati. Se da un lato l’emergenza provocata dal conflitto con la
mobilitazione dell’apparato industriale e la militarizzazione della manodopera ristabilì quelle
gerarchie sociali che l’età giolittiana sembrava aver posto in discussione, dall’altro lato, il Partito
socialista dimostra, come, al pari del passato, le classi dirigenti manchino l’obiettivo dell’ampio
coinvolgimento popolare, trincerandosi dietro una visione elitaria ed esclusiva del potere, scegliendo
di entrare in una guerra non voluta dalla popolazione.
dall’aumento del debito pubblico e della circolazione cartacea. Si ricorse ampiamente ai prestiti esteri,
soprattutto americani, per l’importazione di prodotti essenziali. Ma con la fine del controllo sui cambi,
nel 1920 la lira crolla e ciò provoca la rovina di quella piccola e media borghesia che sino ad allora
aveva costituito il supporto politico essenziale per lo Stato nato dal Risorgimento. In realtà non tutti i
gruppi sociali escono perdenti dal conflitto: industriali e commercianti hanno ottenuto rapidi e
abnormi arricchimenti e i lavoratori riescono a difendere il valore del salario.
Con le elezioni del 1919 condotte secondo il sistema proporzionale si affermano i due partiti che
rappresentano le correnti politiche e ideali che si sono opposte alla guerra: il Partito Socialista e il
Partito popolare, ma nessuno dei due è in grado di proporsi quale perno di nuovi equilibri, a
testimonianza di un grave malessere che serpeggia nel Paese. Ad esso non è estranea neanche
l’industria, la cui organizzazione produttiva con la guerra è caratterizzata da sprechi e irrazionalità e di
cui è anche cambiata la popolazione: le necessità del fronte hanno costretto a utilizzare su vasta scala
manodopera minorile e femminile, contadini da poco inurbati, lavoratori coatti provenienti dalle
colonie, prigionieri di guerra. L’operaio di mestiere è così diluito in una massa eterogena e il sindacato
perde i caratteri di associazione coesa.
Per sopperire alle nuove esigenze organizzative i migliori fra gli operai più anziani vengono elevati al
ruolo di capi; un rischio questo per l’autorità aziendale dal momento che essi, legati ad una
concezione della fabbrica come centro di socializzazione, saranno probabilmente gli ispiratori delle
istanze relative al controllo dei lavoratori sull’attività dell’impresa. Al termine del conflitto esplode,
infatti, un’ondata di scioperi ed agitazioni, che ottengono risultati importanti (sostanziale incremento
delle paghe e conquista delle otto ore giornaliere). A fronte di ciò traballano, però, le stesse
fondamenta dell’organizzazione aziendale, e diffuso è lo sconcerto fra l’opinione pubblica, gli
intellettuali e i protagonisti della vicenda politica. Ma per spiegare la grande turbolenza del periodo
occorre considerare anche il desiderio dei giovani delle fabbriche di potersi godere la vita, dopo i bui
anni della guerra, conoscendo in quegli anni nuove forme di tempo libero (come cinema e calcio).
Tutto questo sommovimento doveva trovare in ogni caso un esito politico in quanto la situazione di
incertezza non poteva protrarsi a tempo indefinito. Il punto culminante dello scontro venne raggiunto
nel 1920, dopo le richieste di miglioramenti salariali e normativi della FIOM, la risposta negativa
degli industriali e il conseguente ostruzionismo degli operai. Seguirono la serrata delle fabbriche e la
loro occupazione da parte dei lavoratori. Giolitti, tornato quasi ottantenne alla presidenza del
Consiglio, come per lo sciopero generale del 1904, concentrò la forza pubblica nel controllo di alcuni
gangli essenziali, mentre cercava di mediare fra le parti. Tra le organizzazioni dei lavoratori dominava
l’incertezza: erano stati superati i limiti di un’azione sindacale, ma la lotta non si orientò in senso
rivoluzionario (varie le ragioni per cui la Sinistra non si misurò con tale sfida). Diverse anche le
posizioni degli imprenditori. Giolitti accolse come ancora di salvezza la proposta dei riformisti del
sindacato, mirante ad ottenere oltre al soddisfacimento delle rivendicazioni salariali, una legge sul
controllo operaio, e impose l’accordo all’organizzazione imprenditoriale, ottenendo, negli ultimi
giorni di settembre, la fine dell’occupazione. Per gli industriali il controllo operaio era però
inaccettabile e significativo fu il gesto di Agnelli, che si dimise da Ad proponendo che la Fiat fosse
gestita dai lavoratori come una cooperativa. Difficile dire se la sua fu una mossa calcolata o dettata
dallo sconforto, ma la grande paura della borghesia fu reale come la breve ma intensa crisi economica
del 1921. Essa colpì dapprima i Paesi più avanzati per raggiungere sul finire del 1920 l’Italia, dove i
problemi del gigantismo industriale causato dalla guerra erano di difficile soluzione. Mentre il
Governo attutiva notevolmente l’impatto delle misure sgradite agli industriali, la Sinistra non poté far
nulla per evitare i licenziamenti. Si usciva quindi da un periodo della storia d’Italia in cui la questione
delle relazioni industriali era apparsa centrale per le aziende e per il Paese, similmente ad altre due fasi
della vicenda nazionale: il secondo dopoguerra e il lungo autunno che ha inizio nel 1969 e abbraccia
tutto il decennio successivo. L’esito è lo stesso: drammatizzazione dello scontro e sconfitta del
movimento operaio. L’Italia si rivelava incapace di incanalare il conflitto industriale in istituzioni
consensuali e democratiche.
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industrie elettrica, chimica e meccanica, che consentono all’Italia il balzo nel nuovo paradigma
tecnologico con produzioni che si collocano spesso sulla frontiera tecnico-scientifica internazionale.
Si affermano le imprese di grandi dimensioni, rinnovate sul piano organizzativo e delle strutture
produttive, con l’affermarsi di nuovi potentati industriali e finanziari facenti capo alla triade Edison-
Montecatini-Fiat. Durante il periodo fascista dunque il processo di industrializzazione nel suo
complesso registra buoni ritmi di crescita e si registrano importanti novità soprattutto per le industrie
tecnologicamente più avanzate.
Nel primo dopoguerra l’industria elettrica matura quelle caratteristiche che gli conferiscono il ruolo
di comparto capace di catalizzare i maggiori capitali tra le società anonime. Essa non subisce infatti
traumi di conversione e riconversione e realizza al contrario il massimo sfruttamento della potenza
degli impianti sotto la spinta del forte incremento della domanda di energia. La crescita produttiva
avviene in un quadro di regolamentazione legislativa che favorisce i grandi gruppi elettrici e quindi la
concentrazione finanziaria e la spartizione del territorio nazionale in sfere d’influenza, con una nuova
disciplina delle concessioni, contributi per la costruzione di impianti, revisione delle tariffe e dei
canoni d’utenza industriale. Il definirsi della struttura dei gruppi elettrici rappresenta una fase
importante, specie per il coinvolgimento dei vertici bancari, finanziari e politici del Paese. I gruppi che
controllano il settore elettrico nazionale sono: Edison, SIP e SADE (ma anche SME e la finanziaria
Bastogi), con un netto ridimensionamento del ruolo del capitale straniero nel loro azionariato. Con
l’accordo per la sistemazione della nuova Bastogi, si chiude una fase di acuta conflittualità fra i
maggiori gruppi bancari e industriali per il controllo delle imprese elettriche, mentre rimangono
irrisolti i problemi del settore: mancata unificazione della rete nazionale e specializzazione
idroelettrica. La produzione di materiale elettrico registra però nel periodo fra le due guerre un
significativo sviluppo, anche se l’apporto straniero rimane ben presente e la dimensione delle imprese
non vede un salto verso le grandi misure.
La guerra inoltre aveva fornito nuove occasioni allo sviluppo dell’industria chimica e imposto il
settore all’attenzione dello Stato: la tariffa del ’21 incluse anche le principali produzioni chimiche. Le
novità sono i fertilizzanti azotati e le fibre tessili artificiali; inizia il processo di concentrazione
dell’industria chimica italiana in pochi grandi complessi, capaci di superare la crisi dei primi anni 30.
Nel primo dopoguerra si colloca l’ascesa spettacolare della SNIA (Società di navigazione
italoamericana) di Gualino, che inizia la produzione di fibra artificiale da cellulosa su larga scala.
Un’efficiente politica di distribuzione ed esportazione favorisce il successo. Gualino costruisce un
sistema di debiti e partecipazioni incrociate, destinato a crollare con la rivalutazione della lira del
1926-27 e le difficoltà dell’export. Con l’adesione al cartello internazionale del rayon l’impresa si
assicura lo sfruttamento di brevetti e tecnologie in cambio della cessione di un grosso pacchetto
azionario ai gruppi esteri del cartello stesso. Alla fine degli anni 20 l’industria italiana delle fibre
artificiali era sopravanzata solo da quella americana, e la SNIA, allontanato Gualino, mantiene una
larga fetta della produzione nazionale.Un altro fulmineo successo nella chimica italiana è quello di
Panzarasa, che in un quinquennio trasforma l’Italgas in una holding cui faceva capo la maggiore
concentrazione di impianti di produzione e società di distribuzione del gas del Paese, con fusioni e
acquisizioni nella chimica, nel farmaceutico e nel minerario. La diversificazione rende però necessaria
un’operazione di salvataggio e di risanamento, a seguito della quale l’Italgas domina il settore del gas
e conserva alcune partecipazioni chimiche.
La Montecatini è il punto di riferimento dell’industria mineraria italiana, dominando nel rame e
nelle piriti e controllando la raffinazione dello zolfo e le iniziative per sviluppare i giacimenti
nazionali di combustibili fossili. La razionalizzazione produttiva e l’autofinanziamento le permettono
di evitare il destino dei “colossi dai piedi d’argilla” creati dalla congiuntura bellica, riuscendo, con la
fusione con i due maggiori gruppi di perfosfati, a divenire una delle imprese più importanti del Paese,
forte della superiorità tecnico-organizzativa e della contiguità con il regime (in una logica do ut des tra
protezionismo, sostegno della domanda e interventi di salvataggio). Rallentamenti si registrano nella
prima metà degli anni 30, quando le novità maggiori sono rappresentate da alcuni indirizzi produttivi
nuovi: dalla chimica per l’industria agli esplosivi, dai coloranti all’alcool metilico, ai farmaceutici. Il
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divario con i grandi gruppi stranieri permane in proporzioni rilevanti, complice un contesto che è di
scarso stimolo all’innovazione. Manca infatti quel circolo virtuoso che lega marketing, R&S e
produzione tipico delle imprese americane e tedesche; prevale inoltre un forte accentramento
decisionale.
Superate le difficoltà postbelliche, la Terni estende nei primi anni 20 la sua attività alla produzione di
elettricità e al settore elettrochimico, assumendo l’aspetto di un complesso polisettoriale controllato
dalla COMIT. Con il cambio della ragione sociale in Terni, società per l’industria e l’elettricità, e
l’assorbimento dell’impresa ternana Società per il carburo di calcio, si pongono le basi per
l’ambizioso progetto di riconversione e diversificazione, che punta da un lato al rafforzamento nel
ramo dell’elettricità, dall’altro alla riorganizzazione verticale e orizzontale dei numerosi interessi
raccolti intorno alle acciaierie di Terni. Anche in questo caso, decisivo il rapporto di scambio
instaurato con il regime.
Già negli anni precedenti il primo conflitto, la Pirelli si pone come un serio competitore sul mercato
internazionale, solido, flessibile e che fa della diversificazione, geografica e merceologica, la chiave
del successo, puntando sulla propria capacità di export con il potenziamento di una rete commerciale
internazionale e l’impianto di filiali produttive all’estero. Nel periodo fra i due conflitti, la Pirelli,
insieme solo alla Fiat e all’Olivetti, è in grado di competere sui mercati di nazioni a capitalismo
avanzato e con prodotti ad alto contenuto tecnologico. Sono di quegli anni un disegno di integrazione
verticale con la produzione elettrica, la costruzione di una holding finanziaria, la riorganizzazione
dell’impresa italiana, la quotazione (è la prima impresa in Italia) alla Borsa di New York, ed il ruolo di
primo piano nell’oligopolio mondiale della gomma.
Nell’espansione di quegli anni il settore meccanico segna un grande progresso sia per le piccole e le
medie imprese specializzate, sia per alcune grandi imprese, come la Fiat, la Marelli, la Olivetti, la
Breda e l’Ansaldo. A partire dalla crisi postbellica decisivo il sostegno dello Stato con alcuni piani di
riconversione, ma soprattutto con la protezione doganale e con le sovvenzioni all’industria
cantieristica. Analoghe attenzioni sono rivolte dal Governo all’industria aeronautica. Le caratteristiche
e le dimensioni del mercato interno impediscono l’affermarsi dell’industria automobilistica di
massa. Complessivamente però la produzione meccanica rappresenta il 25% del totale delle industrie
nazionali. L’intenso movimento di concentrazione post-crisi di riconversione vede l’affermarsi di tre
grandi complessi – Fiat, nuova Ansaldo e Breda -, che raggiungono un quarto di tutto il capitale
investito, e la parallela fioritura di una serie di iniziative specializzate di dimensioni piccole e medie.
La solidità della maggiore impresa meccanica italiana non viene messa in discussione nemmeno dal
conflitto operaio degli anni 1919-20, e proprio a partire da quegli anni la Fiat estende il disegno di
integrazione verticale centrato sul settore automobilistico partendo dall’autonomo rifornimento di
energia elettrica e delle produzioni metallurgiche per potenziare ulteriormente la rete di vendita. Le
ragioni di questo successo risiedono nel solido assetto proprietario e nella valida gerarchia
manageriale. Si tratta anche qui di un successo che esce ridimensionato dal confronto internazionale,
causa soprattutto la scarsa pressione della domanda. Fanno il resto la rivalutazione della lira e l’ondata
protezionistica seguita alla crisi del ’29. Proprio volendo forzare la domanda interna, la Fiat fonda la
SAVA per promuovere la vendita a rate; nel ’27, invece, viene creato l’IFI, holding controllata da
Agnelli per la gestione del patrimonio di partecipazioni nazionali e estere.
Dopo la guerra, matura la grave situazione della siderurgia. La crescita dei primi anni 20 aveva
trovato il settore dominato dal confronto tra il ciclo integrale per la produzione dell’acciaio dalla ghisa
d’altoforno e quello “a carica solida” che prevedeva l’utilizzazione del rottame. È quest’ultimo a
prevalere, complice la caduta dei prezzi del rottame sui mercati internazionali, con Acciaierie e
ferriere lombarde e Fiat in prima linea. Sul versante del ciclo integrale si consuma l’insuccesso
dell’ILVA. Una volta ristrutturata, con l’importante sostegno dello Stato, si presenta però non come
un sistema industriale integrato, ma come un raggruppamento disorganico con stabilimenti sparsi sul
territorio e tra loro difficilmente coordinabili. La situazione di sottoutilizzo degli impianti a ciclo
integrale rappresenta uno degli indicatori della debolezza dell’ILVA rispetto alle dinamiche del
mercato, ma il mancato sfruttamento della posizione di monopolio nazionale nella produzione della
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ghisa deriva direttamente dall’assenza di una direzione aziendale capace di operare una scelta
convinta a favore del ciclo integrale. Ed è il funzionamento del settore siderurgico nel suo complesso
a uscirne fortemente compromesso.
avanzati, anche per via degli incentivi pubblici per l’insediamento industriale in zone importanti dal
punto di vista sociale e politico. Parallelamente all’aumento della concentrazione tecnica, cresce la
tendenza tra i principali gruppi industriali ad accrescere il grado di interdipendenza reciproca.
La riforma di maggior rilievo, ma paradossalmente meno propagandata è la creazione dell’Iri,
testimonianza della consolidata tradizione di intervento statale nell’economia. In analoga continuità
con la fase liberale sono invece le politiche meridionaliste, imperniate sul ricorso all’intervento
straordinario e sul volano dell’industria pesante, coinvolta nello sforzo generato dalle conquiste
coloniali e dal riarmo. Con ciò il regime rinuncia a percorsi alternativi per l’industria meridionale,
anzi si accelera, complici le politiche del regime, il declino dei settori di manifattura leggera.
L’ampio universo dei settori leggeri viene in generale gravemente penalizzato dalle politiche di
rivalutazione monetaria e di contrazione dei consumi privati, a cui si aggiunge la progressiva chiusura
dei mercati esteri. Infine, le strutture organizzative non posso certo paragonarsi con i più evoluti
modelli esteri, anche se, per iniziativa di CONFINDUSTRIA, nasceva (1925) l’Ente nazionale italiano
per l’organizzazione scientifica del lavoro (ENIOS) al fine di diffondere i più avanzati metodi di
organizzazione della produzione, e ci furono sperimentazioni ambiziose come quelle di Olivetti e Fiat,
ma si trattava di casi isolati.
impegno a lungo termine per un generale miglioramento dell’economia del Paese. Questa linea
politica è un po’ quella che si riscontrava nel ventennio post-unitario che vedeva lo Stato orientato a
scelte di tipo industrialista e che si delinea con il protezionismo, le sovvenzioni, le commesse e i
salvataggi.
Non erano assenti, nella giovane Italia industriale, abili capitani d’industria che compresero
tempestivamente le necessità critiche delle loro imprese, ma almeno la metà di loro ebbe nello Stato
più che nel mercato il punto di riferimento della propria azione. Essi perseguirono la crescita delle
loro aziende, spesso in settori non correlati, non per ragioni economiche ma per motivi strategici,
inerenti alla possibilità di collocarsi in posizione migliore per contrattare con il potere politico. Sotto
questo profilo, quello italiano può definirsi un capitalismo “politico”, diverso dall’americano
(“manageriale”), inglese (“personale”) e tedesco (“cooperativo”). Quella dell’IRI fu un’esperienza
così radicata nell’evoluzione dell’economia italiana che, nel secondo dopoguerra, anche i sostenitori
dell’iniziativa privata ammettevano che fosse una necessità. Altrettanto fuori discussione è il fatto che
l’IRI rappresenti un importante punto di svolta: da allora lo Stato è proprietario di molte e importanti
imprese che operano sul mercato, il che contrasta nettamente con l’orientamento del potere politico,
almeno sino alla fine degli anni 20. Ancora oggi si discute se questo sostanziale mutamento derivi da
un disegno consapevole o sia il risultato di decisioni prese sotto la pressione dei crolli bancari.
È vero che Beneduce, cui Mussolini affida l’operazione IRI, pur essendo socialista militante non ha
alcuna simpatia per un’economia nazionalizzata e comprende la necessità che l’IRI si imponga certi
limiti, lasciando che siano le imprese a competere sul mercato. In un periodo caratterizzato dalla
presenza di confuse conglomerate, l’IRI e la sua logica settoriale introducono importanti elementi di
razionalizzazione. La struttura dello Stato Imprenditore vede infatti una superholding – IRI – che lo
Stato possiede totalmente, controllare almeno il 51% di holding di settore alle quali fanno a loro volta
riferimento le aziende partecipate. Nascono così nel 1934 la STET e nel 1936 la FINMARE che
pongono ordine rispettivamente nel ramo delle telecomunicazioni e in quello armatoriale. Come
successivamente accadde, naturalmente, aver affidato al controllo dello Stato una sezione così
rilevante dell’economia nazionale avrebbe dato luogo a serie contraddizioni fra una proprietà che
mirava a obiettivi di carattere politico e sociale e un management che intendeva condurre le imprese
secondo criteri di competitività economica.
internati. Diverse aziende (Alfa Romeo e ILVA, ad es.) furono costrette a grossi risanamenti.
Problemi di tale portata non potevano essere risolti senza un intervento più o meno diretto dello Stato.
Dalla fine del 1946 il Tesoro appoggiò imprese e settori in crisi, concedendo anticipazioni all’IRI e/o
garantendo assieme all’IMI il credito erogato dall’Export Import Bank americana e provvedendo a
collocare gli aiuti statunitensi. Nel 1947 nasce il FIM (Fondo per il finanziamento dell’industria
meccanica), che salva l’Alfa Romeo; nel 1948 la FINMECCANICA, una nuova holding settoriale.
Si riproponeva il dibattito sulla morfologia più appropriata per l’apparato industriale nazionale, che
per alcuni avrebbe dovuto puntare sulle sole “industrie naturali”, mentre altri ritenevano che l’Italia
abbisognasse di un forte settore di produzione dell’acciaio. La rivalutazione delle prime, unitamente
alle difficoltà affrontate dagli organismi di maggiori dimensioni, proponeva nuovi ruoli e prospettive
per piccole imprese, di cui ora si apprezzava la grande capacità di adattamento (sebbene non tutti,
specie tra i leaders delle grandi imprese, fossero disposti ad accettare l’idea di un’Italia orientata alla
piccola impresa dedita alle produzioni di nicchia).
Al di là delle istanze avanzate presso la Costituente, l’industria italiana si era presentata alla prova
della guerra fortemente polarizzata in termini dimensionali (alle imprese con oltre 500 addetti, passate
al 22% dell’occupazione, si affiancava un ampio stuolo di piccole e piccolissime imprese).
Similmente agli altri Paesi industriali nei settori ad alta intensità di capitale erano diffuse le posizioni
oligopolistiche ed elevati i tassi di concentrazione. I grandi oligopoli erano saldamente nelle mani di
un ristretto numero di individui o di famiglie: gli Agnelli, i Falck, i Parodi-Delfino, i Piaggio e i
Pirelli. In altri casi, l’estrema polverizzazione del capitale azionario permetteva di esercitare un
effettivo controllo sulle imprese a chi ne deteneva % relativamente ridotte; attraverso il sistema delle
deleghe dei piccoli azionisti, era il CdA a controllare se stesso (Montecatini, SNIA, Edison).
L’immediato dopoguerra vede delinearsi un attacco frontale da larga parte della classe imprenditoriale
nei confronti dell’IRI. In realtà, l’iniziativa statale era (anche a fronte di attività non facili da
smobilizzare) una necessità in termini non solo finanziari e organizzativi, ma anche di sostegno
all’occupazione. Due in definitiva le caratteristiche salienti del sistema industriale italiano: 1) la
spaccatura a metà tra grandi oligopoli pubblici e privati e piccole imprese di natura semi-artigianale;
2) la considerevole distanza nei settori più avanzati dai leaders del processo d’industrializzazione, in
termini di capitale investito, tecnologie applicate e specializzazione degli impianti.
forte pressione da parte dei lavoratori e delle organizzazioni politiche che ad essi facevano
riferimento. Nell’immediato dopoguerra tre richieste forti facevano i lavoratori alle imprese: a)
purificazione dalle compromissioni con il fascismo; b) possibilità di influenzare o perlomeno
comprendere le politiche aziendali; c) governo dell’organizzazione del lavoro. In realtà, già
nell’autunno del ’45 all’interno degli stessi comitati di liberazione prevaleva il convincimento che le
imprese dovessero essere restituite ai proprietari: lo esigevano gli istituti di credito e soprattutto i
finanziatori americani, le cui erogazioni erano indispensabili alla ripresa. Si trovò una via d’uscita con
il decreto del 4/8/1945 che stabiliva la non punibilità per il passato fascista di quanti dopo l’8
settembre si fossero distinti nella lotta contro i tedeschi e così furono assolti nel giudizio di epurazione
Agnelli, Pirelli, Donegani. Quanto ai consigli di gestione (la maggior parte dei quali si limitava ad un
ruolo consultivo), le posizioni (di democristiani e liberali, socialisti, comunisti e Confindustria) erano
ovviamente molto diverse. Il nodo era squisitamente politico ed era in ogni caso l’egemonia
comunista a non poter essere metabolizzata da imprenditori che si sentivano in grado di garantire
ricostruzione ed espansione. Emblematica la vicenda della Fiat nell’evoluzione dei rapporti tra
direzione aziendale e rappresentanze operaie. Valletta, divenuto Presidente dell’azienda torinese nel
1946, è infatti costretto ad accettare un compromesso, l’esistenza dei Consigli di gestione, battendosi
però perché le loro funzioni restino solo consultive. Ma soprattutto egli ottiene il ridimensionamento
del giudizio d’epurazione, il reingresso di manager importanti nel CdA della Fiat e (cosa ancora più
importante) l’accordo per la nascita di un Consiglio di gestione paritetico. Del resto, si comprendeva
che solo chi come Valletta aveva dimostrato capacità di guida della Fiat e godeva di un vasto
apprezzamento in ambito internazionale poteva garantire la possibilità di una risalita.
Infine, mancava un largo e radicato consenso comune che permettesse una ricostruzione e delle
riforme economiche di largo respiro, perché basate su un saldo accordo tra le parti sociali. Sempre
Valletta scatena una lotta senza quartiere alla Fiat contro la CGIL socialista e comunista. E
quest’atteggiamento è tra le cause di conflitti ancora più laceranti, quelli degli anni 60 e 70.
Più travagliata fu la partita che dovette ingaggiare la FINSIDER di Sinigaglia per ottenere i
finanziamenti. Ma, nonostante l’iniziale scetticismo e le resistenze degli americani, nel 1949 ebbe
pieno successo il modello fondato sulle grandi dimensioni, sulla fluidità del ciclo produttivo, sul
completo monitoraggio della fabbrica.
La fragilità della situazione economica e la disomogeneità delle forze politiche che guidano il Paese
nel dopoguerra fanno sì che non venga realizzata un’ampia strategia di piano, neanche su
sollecitazione dell’alleato forte. Il Governo riesce ad attuare solo una politica deflattiva, che crea le
condizioni per una stabilità sociale maggiore rispetto all’accidentato percorso postbellico.
e, nel caso dell’ENI, completa integrazione verticale). Così le tre imprese raggiungono risultati storici.
A fronte dell’impetuosa crescita della domanda e della disponibilità di nuove tecnologie per la
produzione di massa, le imprese abbandonano la strategia di diversificazione e puntano a concentrare
le proprie risorse su un solo settore, per sfruttare appieno le economie di scala. Vi provò, costretta
dagli eventi, la Terni che tornò alla vecchia vocazione siderurgica con risultati in realtà poco brillanti.
La Montecatini, al di fuori di un contesto autarchico e con l’apparire di due agguerriti concorrenti
(ENI e Edison), non sa affrontare la sfida che le deriva dall’agguerrita competizione di quegli anni.
Così, dopo la sconfitta legata al progetto di Brindisi, si trova in posizione subalterna alla più grande
fusione della storia industriale italiana, Montedison. L’altra società che ne fa parte, l’Edison, in buone
condizioni dal punto di vista finanziario ma non da quello industriale, temendo sin dal dopoguerra la
nazionalizzazione del comparto elettrico, aveva diretto verso il settore chimico le sue vaste possibilità
di investimento e si era associata a consolidate imprese americane del settore. Tuttavia, pur divenendo
un serio concorrente per la Montecatini, le attività chimiche dell’Edison presentavano agli inizi degli
anni 60 una bassissima redditività, perché a queste l’impresa avrebbe dovuto prestare una dedizione
assoluta, mentre la vecchia società elettrica intese garantirsi dai rischi dell’esproprio con un’eccessiva
diversificazione degli investimenti produttivi.
Nei settori a produzione di massa l’espansione della domanda sconvolge anche le imprese di nicchia.
Ad esempio, nel settore automobilistico, Lancia e Alfa Romeo si misurano con grandi cambiamenti a
livello gestionale, di organizzazione produttiva e commerciale, di investimenti in capitale fisso. Anche
le imprese minori entrano in una prospettiva fordiana di Seconda Rivoluzione Industriale, che richiede
la capacità di coniugare strategia di differenziazione e produzione di massa. Un passo del genere viene
compiuto più agevolmente da un’impresa a controllo pubblico, qual è l’Alfa Romeo, che non teme,
espandendosi, di alterare gli assetti proprietari e riesce così a sostituire la Lancia al secondo posto tra
le case automobilistiche italiane.
La crescita della grande impresa con i suoi stabilimenti di dimensioni mai viste è fra le cause più
importanti di migrazioni e fenomeni di inurbamento dai caratteri epocali, ingovernabili per la loro
portata dal potere politico in termini sia di pianificazione dello sviluppo urbano che di creazione di un
moderno “stato del benessere”. Ad aggravare la situazione si aggiunge la sostanziale incapacità della
grande impresa di affrontare le pressioni dei cambiamenti sociali. In particolare, la Fiat conduceva una
battaglia “ad annientamento” del sindacato, sollecitata in questo dalle autorità americane (erano gli
anni più cupi della guerra fredda), che esasperava il problema sociale di quegli anni. Valletta voleva
garantirsi il controllo assoluto del ciclo produttivo ed, in effetti, ottenne più di un risultato importante
con la sconfitta della FIOM alle elezioni per le commissioni interne del ’55 e la scarsissima adesione
dei suoi metalmeccanici agli scioperi nazionali. La “pace vallettiana” non sarebbe durata a lungo e i
primi scontri ci furono già nel ’62. Valletta inoltre riteneva che obiettivo sociale dell’azienda fosse
garantire uno sviluppo crescente con relativo incremento del monte salari, mentre doveva essere lo
Stato a creare le infrastrutture rese necessarie da questo boom.
Di visione opposta era Olivetti, fra i maggiori protagonisti del “miracolo”, la cui azienda era divenuta
in quegli anni un’impresa globale, con quasi 20 mila dipendenti nei 5 continenti e serie prospettive
anche nell’elettronica. All’Olivetti, diversamente che alla Fiat, i benefici extra salariali sono
riconosciuti per contratto e il negoziato è permanente. Non solo: si punta a creare una comunità a
misura d’uomo, armonizzando la fabbrica con il territorio, e addirittura a creare iniziative industriali al
Sud. L’Olivetti era, dunque, un’impresa diversa, che però manteneva accentramento decisionale e
controllo famigliare, caratteri che ne avrebbero acuito la crisi dei primi anni 60.
In generale, il nostro capitalismo manteneva un nucleo centrale costituito da imprese ad alta intensità
di capitale e di organizzazione, con una differenza importante rispetto agli Stati Uniti: anche qui i
manager – imprenditori erano in una posizione di forza bilanciata però da regole e istituzioni precise
che esigevano trasparenza e limiti dimensionali, e che non facevano del risparmiatore azionista un
intruso da manipolare e da tenere all’oscuro, come era in Italia. Qui, del resto, era assolutamente
arretrata la tutela legislativa nei confronti del piccolo sottoscrittore e delle minoranze nel complesso.
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portato al rafforzamento del sistema economico, grazie ad una stabile presenza nei settori di energia,
elettronica e chimica avanzata. Il mancato salto in una dimensione più avanzata contribuì a modellare
la fisionomia dell’industria nazionale attorno alle industrie oggi dominanti del made in Italy.
Mattei incarna il progetto di una grande politica in campo energetico, indispensabile nella fase di
intensa crescita degli anni 50. Dieci anni dopo la % di energia derivata da gas naturale e prodotti
petroliferi è più che raddoppiata e l’Italia diventa la “raffineria d’Europa”. A ciò non corrispose una
politica di settore efficiente che evitasse all’Italia la poi consolidata dipendenza totale dall’import di
petrolio. Mattei s’impegnò nel costruire alleanze con i Paesi produttori, offrendo loro (in contrasto con
il cartello petrolifero internazionale) condizioni molto favorevoli; puntò inoltre a fare dell’ENI un ente
unico per l’energia, con strategie diversificate di ricerca, approvvigionamento, raffinazione. Il suo
progetto fallisce però con la sua scomparsa e la ristrutturazione attuata dal successore, che punta tutto
su commercializzazione del greggio, distribuzione di prodotti petroliferi e petrolchimica. Falliscono
anche le iniziative da lui avviate nel campo del nucleare. L’interesse in quest’ambito si manifesta
nell’immediato dopoguerra, su iniziativa di Felice Ippolito, senza però alcuna realizzazione concreta
per tutti gli anni 50, nonostante l’interesse manifestato dalla Banca Mondiale. Nei primi anni 60 IRI,
ENI e Edison avviano la costruzione di centrali. Dopo il 1962, l’ENEL, che con la nazionalizzazione
possedeva anche le centrali, avrebbe potuto costituire il perno per una politica innovativa basata sulla
diversificazione nello sfruttamento di fonti energetiche. Ma a ciò ostavano i consolidati privilegi di
gruppi petroliferi privati, italiani e stranieri, divenuti nel frattempo i principali fornitori degli impianti
termoelettrici dell’ente pubblico. Così, nonostante le crisi petrolifere degli anni 70 avessero mostrato
chiaramente la necessità di alternative, fu realizzata solo un’altra centrale, fino all’abbandono del
nucleare sancito dal referendum del ’85. La classe dirigente ormai non contemplava fonti alternative a
quella petrolifera né l’effettuazione di investimenti diretti per accrescere la produttività degli input
utilizzati, legando a doppio filo l’ENEL e le sue tariffe alle fluttuazioni nei prezzi del petrolio.
Altro “fallimento” riguardò l’Olivetti e le sue scelte di diversificazione nell’elettronica e nella
computeristica intraprese all’inizio degli anni 50. Scelte che ebbero all’inizio grande successo, ma la
morte del suo leader, le divisioni all’interno della famiglia e il calo degli utili dovuto alla difficile fase
della metà degli anni 60 determinarono la necessità di un salvataggio e di un programma di
risanamento, con la cessione delle attività più onerose, ovvero quelle della Elettronica.
Se alla base di questo fallimento stavano i limiti strutturali di una proprietà accentrata e su base
familiare (oltre che la non piena valutazione di rischi e oneri del settore elettronico), l’opportunità di
razionalizzare e modernizzare il comparto chimico va perduta a causa della sostanziale incapacità
imprenditoriale e del perverso intreccio tra potere politico e sistema economico pubblico e privato. La
nazionalizzazione dell’industria elettrica aveva fatto affluire ingenti somme tra interessi e indennizzi
alle imprese ex elettriche espropriate, nella convinzione che queste risorse potessero essere utilmente
reinvestite in altri settori, a partire da quello chimico. Ma le cose andarono diversamente: il
management di queste società mancava completamente dell’esperienza necessaria a gestire attività
totalmente differenti da quelle elettriche ed esse finirono con l’essere assorbite da altri gruppi. Il caso
più eclatante di dispersione delle risorse della nazionalizzazione fu il fallimento della fusione
Montecatini – Edison, che avrebbe dovuto creare un grande gruppo competitivo a livello
internazionale nella chimica avanzata. Il progetto prevedeva che la Edison assumesse la funzione di
holding e incorporasse la Montecatini, cui facevano riferimento le attività operative. Invece, i due
ambiti, finanziario e industriale, finirono spesso per sovrapporsi tra loro, determinando gli scarsi
risultati economici del complesso. L’ENI, quindi, trovò facilmente appoggi nel Governo e in
Bankitalia nella scalata alla Montedison, il cui risanamento (nelle intenzioni di Cefis, presidente
dell’ENI, divenuto anche presidente di Montedison) prevedeva la cessione delle attività non
direttamente connesse a quella principale, aprendo l’ennesimo scontro nel settore, dominato ormai da
una concorrenza fatta di continui ribassi nei prezzi e di un utilizzo spregiudicato degli incentivi
pubblici per sollecitare gli investimenti nelle zone più depresse. L’avvio della politica d’intervento
diretto attraverso la Cassa del Mezzogiorno coincide con una serie di provvedimenti di incentivo
degli investimenti privati al Sud e delle disposizioni legislative che obbligavano enti e imprese
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pubbliche a collocare il 60% degli investimenti al Sud. Nacquero così grandi complessi industriali,
specie del settore chimico, ma la creazione di impianti in aree prive delle necessarie infrastrutture
portò ad elevate diseconomie. La sovraccapacità produttiva conseguente a queste scriteriate politiche
espansive si univa al rallentamento della domanda e alle forti tensioni nei prezzi delle materie prime a
seguito degli shock petroliferi nel determinare la crisi di tutte le imprese del settore, che finì sotto il
controllo dell’ENI. Invece che una seria politica di razionalizzazione e risanamento si scelse la strada
della rigida separazione delle sfere d’influenza con la ricostituzione di un polo chimico privato
affiancato da uno pubblico guidato dall’ENI. Intrecci azionari e tentativi di scalata impediscono per
l’ennesima volta di reperire le risorse finanziarie per il risanamento.
fino alle aziende. Al vertice si colloca un azionista occulto: i rappresentanti dei partiti politici al
Governo. L’intreccio tra economia e politica (con frequenti episodi di clientelismo, competizione per i
posti di potere, scambio di favori) rivela tutte le sue falle con la crisi di metà anni 70, quando le
imprese pubbliche si trovarono a dipendere fortemente dalle risorse finanziarie erogate da Governo e
Parlamento, quindi controllate dai partiti. Eppure c’è chi l’ha ritenuto la ricetta giusta per la prosperità
economica e il benessere sociale del Paese. Ad esempio, legati a doppio filo al potere politico, i
dirigenti della FINSIDER puntarono alla costruzione di un nuovo stabilimento a Taranto, pur
consapevoli che fosse più importante la specializzazione dell’espansione quantitativa, ma questa
voleva dire più occupazione e maggior consenso. Lo stabilimento crebbe così enormemente negli anni
70 senza alcuna strategia e per la FINSIDER fu l’inizio della fine. Anche all’ENI le ragioni
dell’impresa vennero sopraffatte, trasformandosi, dopo la morte di Mattei, in un ente per lo sviluppo
economico, lanciato in salvataggi in settori anche scollegati al suo, su comando di leggi approvate dal
Parlamento.
In una prospettiva storica e comparata, nell’ultimo quarto del XIX secolo tre Paesi – Russia, Giappone
e Italia – videro nel processo di industrializzazione un elemento fondamentale per aspirare al ruolo di
grande potenza. Ma per aspirare a tanto, visto il gap con Inghilterra, USA e Germania, era necessario
una forte discontinuità, e quindi la presenza di un fattore sostitutivo delle spontanee forze economiche.
Questo fattore era rappresentato dall’azione dello Stato che in ciascuno dei tre Paesi fu attore
economico di primo piano. In Italia il connubio tra Stato e mercato, in un contesto dove strutture
statuali forte non esistevano (né esistono oggi) e dove le istituzioni pubbliche erano dominare dalle
forze politiche, merita, dopo un’esperienza di sessant’anni, una valutazione negativa. Può dirsi, infatti,
che l’Italia sia tra le maggiori nazioni industriali, ma il suo vantaggio competitivo sembra essere stato
raggiunto nonostante l’azione dello Stato.
al cambiamento.
Nel settore alimentare, gli effetti del rallentamento si accentuano nei settori in cui è più elevata
l’elasticità della domanda rispetto al reddito. Così, la Perugina, dopo 150 anni di proprietà Buitoni,
viene rilevata dalla CIR di De Benedetti, e la Motta dalla SME.
Il gruppo Rinascente – Sma – Upim, uno dei gioielli del capitalismo lombardo viene acquisita, causa
contrasti interni alla famiglia che ne è alla guida, da Mediobanca e IFI. Alla fine degli anni 60 le
ottime condizioni sotto il profilo industriale e finanziario della Fiat consentono a Gianni e Umberto
Agnelli di revisionare la struttura organizzativa non più adeguata ad un gruppo così ampio. Cala però
in quegli anni la domanda, al punto da ipotizzare l’abbandono della produzione automobilistica, e alla
nuova dirigenza si richiede di accelerare il riassetto organizzativo. La Fiat si trasforma in un holding
in cui il top management delle singole parti ha un ruolo chiave, pur mantenendo intatto il potere della
famiglia attraverso l’IFI. I nuovi dirigenti, Romiti e Ghidella, avviano un piano che contempla
recuperi di produttività, taglio di organici, rinnovo della gamma di prodotti, che inizia dai primi anni
80 a dare i suoi frutti.
I problemi della Pirelli hanno inizio nel 1970, anno della fusione con l’inglese Dunlop, fonte di gravi
problemi per l’errata modalità di attuazione: non ci fu, infatti, alcun tentativo di amalgamare le due
imprese sotto il profilo manageriale. La società, assistita da Mediobanca, avvia una profonda
ristrutturazione, ricercando nuove risorse finanziarie, promuovendo il decentramento delle
responsabilità. L’uscita della Pirelli dalla crisi, a metà anni 80, coincide con una serie di tentativi di
aumentarne il peso a livello mondiale, e poi in operazioni finanziarie che aggravano nuovamente le
condizioni finanziarie del gruppo.
L’Italcementi beneficia appieno del boom edilizio e delle costruzioni autostradali, e il leader Pesenti
si lancia nella creazione prima di una holding, l’Italmobiliare, e poi di un vasto impero finanziario,
difficilmente governabile. Rileva anche la Lancia, ma nonostante i consistenti investimenti e
l’intervento di manager capaci, è infine costretto a cederla alla Fiat nel ’69. Anche per salvare
Italmobiliare dagli attacchi del finanziere Sindona, il gruppo si ritrova a sostenere un indebitamento
prossimo ai 1.000 mld, cui potrà far fronte solo con il sostegno di Mediobanca, che promuoverà il
ritorno dell’Italcementi al suo core business.
Gli anni 70, in definitiva, determinano presso molte aziende uno svecchiamento organizzativo che
promuove a posizioni di comando un management nuovo cui la proprietà lascia ampia autonomia.
Siamo ancora ben lontani dalla separazione tra proprietà e controllo, cui si oppongono tradizioni
consolidate d’imprenditorialità famigliare e l’idea dell’insostituibilità del ruolo delle famiglie,
riassunta nelle parole di Cuccia (Mediobanca), per cui solamente “chi possiede” può guidare il
management.
Nel 1968 (mentre il mondo è scosso dalla sconfitta americana in Vietnam e dall’emergere di una
nuova cultura di stampo comunista) CGIL, CISL e UIL imboccano la strada dell’unità e
dell’autonomia dai partiti impegnandosi per la riforma del sistema pensionistico e il superamento delle
differenze salariali tra le diverse regioni. Mutano anche le strutture di base del sindacato in azienda,
con la nascita dei CUB (Comitati unitari di base), formati da operai e studenti, per l’egualitarismo e
contro lo sfruttamento del lavoro. Da questa breve esperienza prendono spunto i consigli di fabbrica,
che si sostituiscono alle commissioni interne.
Il “lungo autunno” ha inizio a Torino nel settembre con uno sciopero spontaneo di 800 operai Fiat, da
cui si apre la vertenza del sindacato per il contratto nazionale che sarebbe scaduto a fine anno. La lotta
si conclude tre mesi dopo (dopo aver coinvolto tutte le categorie più importanti dell’industria e aver
provocato ingenti costi in termini di ore di lavoro perse), ma le vertenze si prolungano fino al 1972-
73, quando relazioni sindacali, rapporti di potere e condizioni di lavoro potevano dirsi profondamente
cambiati nella fabbrica italiana. Rovesciando l’impostazione tayloristica, il sindacato vuole conoscere
e controllare l’organizzazione del lavoro; si ottiene, inoltre, il diritto all’assemblea e alla completa
manifestazione di opinioni nei luoghi di lavoro.
Più che l’accresciuto peso economico (con il significativo aumento dei salari) è il nuovo clima a
disorientare le imprese, che ebbero reazioni molto limitate e scoordinate, a fronte di una politica del
tutto difensiva tenuta da Confindustria; sbandamento acuito dal “rischio magistratura” che
l’approvazione nel ’70 dello Statuto dei diritti dei lavoratori portava con sé.
Dal lato dei sindacati (che avevano raggiunto un ruolo di primo piano nella società), la più vasta
partecipazione alle lotte che si era ricercata aveva portato con sé una microconflittualità e una
microcontrattualità tali da rendere ingovernabili sia il sindacato che la fabbrica. La mancata
definizione di regole, limiti e strategie crea spazi per le minoranze violente; le grandi fabbriche negli
anni 70 sono spesso alla mercé di cortei interni, si registrano infiltrazioni di terroristi: in sostanza a
un’enorme capacità di mobilitazione non corrispose quella di saper amministrare le conquiste. Le
organizzazioni dei lavoratori affrontano direttamente in vertenze con il Governo i grandi problemi
sociali del Paese, scavalcando partiti e Parlamento, ed è anche su loro pressione, che negli anni 70
nasce un welfare italiano, costruito su di un’incontrollata espansione della spesa pubblica, una delle
cause di una forte tendenza inflazionistica. A questa contribuirono gli stessi sindacati, ottenendo dagli
imprenditori l’accordo su un aumento uguale per tutti per ogni punto di incremento dell’indice del
costo della vita. E la conseguente inflazione limitò l’auspicata redistribuzione del reddito tra i gruppi
sociali.
Mentre nei Paesi scandinavi, in Inghilterra e Germania un forte sindacato unitario poteva far
riferimento ad un forte partito riformista, socialdemocratico, integrato nel modello occidentale; in
Italia non esisteva tutto ciò. Con i comunisti tornati all’opposizione, il terrorismo e un’inflazione ai
livelli sudamericani, il “lungo autunno” giungeva a compimento lì dove era iniziato, alla Fiat: nel
1980, di fronte alla reale crisi dell’impresa e alla profonda ristrutturazione chiesta dalle banche, il
sindacato, in un clima ormai cambiato, accettò la cassa integrazione per oltre 20 mila lavoratori.
scala, bassa intensità di capitale fisso, elevato livello qualitativo e forte specificità dei beni prodotti.
È in coincidenza con la crisi degli anni 70 che le aziende di minori dimensioni affermano ancor di più
il loro ruolo, complici le dinamiche di de-verticalizzazione avviate dalla grande impresa sotto la spinta
di tensioni inflazionistiche e sindacali. Ma nella maggior parte dei casi i distretti industriali affondano
le proprie radici assai lontano nel tempo, identificandosi in sistemi protoindustriali e di artigianato
urbano attivi già in età moderna, evoluti a seguito di trasformazioni tecnologiche che segnano il
passaggio dalla bottega dell’artigiano alla piccola impresa di fase.
Quanto ai percorsi che sfociano nella divisione del lavoro tra produttori specializzati, nelle aree ad
agricoltura povera si affermano i circuiti commerciali e produttivi imperniati sul putting-out system,
dove i contadini nelle pause del ciclo agricolo si impegnano in qualche forma di attività
manifatturiera. La pluriattività non è infatti estranea all’affermarsi dell’industria nelle regioni del
centro e del Nord-Est, dove dagli anni 50, con la crisi del settore primario, si moltiplicano i membri
delle famiglie mezzadrili nei laboratori e nelle piccole fabbriche.
Quale che sia l’origine del sistema distrettuale, ovunque un ruolo di primo piano è rivestito dalla
comunità locale – in termini di senso di appartenenza, ridotti costi di transazione, concorrenza
associata a cooperazione - e, al suo interno, dalla famiglia, come pure dalle istituzioni locali (Camera
di Commercio, associazioni di categoria e, soprattutto, le municipalità).
L’impresa distrettuale riproduce al suo interno i caratteri tipici delle unità a struttura organizzativa
elementare: si prediligono forme societarie semplici corrispondenti a realtà aziendali che si
identificano totalmente con la figura dell’imprenditore. Il livello tecnologico è in genere ridotto,
tradizionali sono i canali di reperimento delle risorse finanziarie: la famiglia anzitutto e poi
professionisti locali, mondo della produzione (attraverso il credito di fornitura), enti creditizi locali
(che hanno una perfetta conoscenza del distretto).
Non mancano forti contraddizioni derivati dalle stesse condizioni che determinano il successo di
queste realtà: scarsa o assente capacità innovativa, sottocapitalizzazione, eccessiva dipendenza dai
mercati di esportazione e da forme di sfruttamento della manodopera e di evasione contributiva e
fiscale. Il ciclo produttivo, anche in considerazione di ciò, si è ricomposto in imprese di medie
dimensioni che fanno ampio uso dei piccoli produttori del distretto – quali loro subfornitori -, dai quali
si distaccano per strategie organizzative, commerciali, tecnologiche e che tendono a modificare i
sistemi locali indirizzandoli verso strutture di tipo gerarchico.
divenuta una multinazionale partendo proprio da una realtà distrettuale). In alcuni casi (ad es., quello
della Diesel) si affronta il mercato privi di qualsiasi struttura produttiva propria, basandosi solo sulla
rete flessibile di subfornitori.
Le medie imprese che vanno popolando i distretti sono la risultante di mutamenti nella tecnologia e
nella domanda che rendono conveniente l’adozione di scale dimensionali di un certo rilievo. Così la
Golden Lady nel mercato dei collant procede ad una serie di acquisizioni che ne fa oggi un grande
gruppo; la Marazzi nella ceramica; la Luxottica, che da contoterzista quale era inizialmente,
attraverso l’investimento in tecnologie e una serie di acquisizioni, diventa il primo produttore
mondiale di occhiali, nonché un’impresa completamente integrata e anche il maggior distributore
mondiale di occhiali.
Non tutte queste medie imprese vantano matrici di natura distrettuale. Alcune, infatti, operano
all’interno di nicchie altamente specifiche, adottando quelle strategie necessarie ad acquisirvi uno
stabile predominio. Ne è un esempio l’ARTSANA (nel campo degli articoli sanitari) da cui nascono
la Chicco e la Lycia. La specificità del segmento prescelto consente anche posizioni monopolistiche a
livello internazionale: così è per la Carraro (nella produzione di assali e sistemi di sterzo per
macchine agricole), la Riello (nella produzione di bruciatori e caldaie), l’IMA (nella produzione di
macchine per il confezionamento di the, e poi medicinali e cosmetici).
È spesso internazionale per imprese di questo tipo l’accesso a capitale e lavoro. Si pensi a: Miroglio
di Alba (tessile), che delocalizza gli impianti in aree a basso costo del lavoro, MAPEI (collanti per
l’edilizia), che opta per la costruzione di stabilimenti sparsi per il mondo per ridurre i costi di trasporto
di una merce a basso valore unitario. Quando non basta più l’autofinanziamento, le risorse sono
reperite sul mercato internazionale, sia borsistico che dei capitali, con la quotazione in borse
internazionali, la creazione di finanziarie e il sostegno di grossi istituti di credito e fondi stranieri.
Le risorse finanziarie derivanti da queste attività hanno permesso a tali imprese di inserirsi con
successo nel processo di privatizzazione partito dalla metà degli anni 90. Nel siderurgico la Riva
acquisisce la proprietà dell’ILVA; Generale Supermercati e Autogrill sono acquistate da Luxottica e
Benetton associate alla svizzera Movenpick; e non mancano partecipazioni nelle grandi banche prima
pubbliche, come quelle di Della Valle e Stefanel nel CdA della Banca Commerciale italiana.
Il più delle volte queste realtà imprenditoriali si strutturano in gruppi gerarchici formati da società
operative legate a una holding direttamente o attraverso catene di partecipazioni azionarie. In questo
modo i fondatori e i loro eredi mantengono il pieno controllo e la quotazione non pone mai in
discussione il predominio della famiglia. Del resto, lo stesso accesso al mercato borsistico non è la
regola, tant’è che a metà anni 90 dei primi 50 gruppi industriali solo 17 sono quotati e di questi pochi
sono quelli aderenti al modello del “medio capitalismo”. Il management è in generale di formazione
interna e di provata fedeltà alla famiglia, né viene trascurata l’antica via del matrimonio per cooptare
risorse cui la famiglia non sia in grado di arrivare.
Rimane d’altra parte il rischio insito nel permanere di strutture verticistiche che accentuano i problemi
di transizione generazionale e di suddivisione dei compiti tra i membri della famiglia (è il caso del
gruppo siderurgico Marcegaglia, uno dei principali nella siderurgia). Ma è indubbio che a questi
gruppi vada ascritta una parte non trascurabile della crescita economica degli ultimi anni.
Dopo una breve parentesi proprio alla Fiat, De Benedetti procede ad una serie di acquisizioni, tra le
altre quasi il 20% di Olivetti, che riporta in breve tempo al successo. Attraverso la sua holding
acquisisce quote di minoranza di varie società di un certo rilievo in Italia e all’estero, costruendo un
impero finanziario, che comprende partecipazioni al capitale di banche e assicurazioni. Altro
imprenditore di successo di quegli anni è Gardini, leader del gruppo Ferruzzi, costruito sul
commercio dei cereali provenienti da oltreoceano e venuto in possesso, tra le altre società,
dell’Eridania. L’abilità di Gardini sta nell’aver ridotto i volumi del commercio di cereali, a fronte
della piena autosufficienza raggiunta dall’Europa in campo agro-alimentare e del rialzo del tasso di
interesse negli USA, e nell’aver spostato per tempo i suoi interessi in Europa e sull’industria. In pochi
anni il gruppo Ferruzzi diventa un complesso agricolo, industriale e commerciale integrato e, forte di
questo, Gardini si inserisce nella contesa per il controllo della Montedison, acquisendone il 40% delle
azioni, limite che lo garantisce da qualsiasi rischio di scalata ostile.
Questi tre esempi sono il segno della vitalità di un capitalismo che riprendeva slancio, ma già la fine
del 1987 fa da spartiacque tra questa fase di sviluppo e una nuova crisi dei grandi gruppi. Coincisa con
l’esaurirsi della crescita dei mercati azionari, in Italia assume dimensione importante, perché intrecci
proprietari tra gruppi, ampia emissione di azioni di risparmio (cioè senza diritto di voto), società a
cascata e “scatole cinesi”, che permettevano di emettere nuovi titoli a fronte delle stesse attività,
consentivano a pochi di dominare le imprese al centro del sistema economico, in un contesto giuridico
ancora poco garantista per il risparmiatore azionista.
In questo contesto si collocano: le iniziative di De Benedetti per ampliare la propria sfera d’influenza,
anche se il tentativo di scalata alla finanziaria Société Génerale de Belgique si rivela l’inizio del suo
declino; la fusione tra la Ferruzzi Finanziaria e l’holding Iniziativa Meta (che deteneva le attività più
redditizie della Montedison), che è di sollievo per le casse della prima, sebbene sia criticata per il
danno derivatone, nei concambi agli azionisti della Montedison; il riacquisto di azioni ad un prezzo
superiore al loro valore da parte della Fiat (con conseguente danno per gli investitori), in cui le ragioni
del controllo famigliare sembrano prevalere su quelle dello sviluppo aziendale (così si spiega, ad
esempio, la mancata fusione con la Ford Europa). Dal 1988 De Benedetti deve rinunciare a diversi
pezzi del suo impero, fino a dover abbandonare, nel ’96, anche l’Olivetti; frattanto ingaggia una lotta
con Berlusconi per il controllo della Mondadori, che si conclude con quest’ultima al re delle tv
commerciali, e La Repubblica e L’Espresso a De Benedetti. Gardini, dopo aver visto bocciare il suo
progetto di allargamento della Ferruzzi srl, esce dal gruppo e con la liquidazione ne costituisce uno
suo nel comparto alimentare, ma finisce nell’inchiesta “Mani pulite” per l’affare Enimont. Nel 1988,
infatti, il pesante indebitamento della Montedison, dopo la fusione con la Ferruzzi, spinge Gardini a
intavolare una trattativa con il presidente dell’ENI, che sfocia nella nascita del colosso chimico
Enimont. Due però erano i punti deboli dell’accordo: l’abbattimento degli oneri fiscali sulle
plusvalenze derivanti dalla fusione, promesso dal Governo e mai varato dal Parlamento, e l’impegno a
non “toccare” il flottante sul mercato per non alterare il rapporto di pariteticità tra Montedison e ENI,
non rispettato da uomini vicini a Gardini. Dopo due anni di scontri, la vicenda si conclude con la
cessione da parte della Montedison all’ENI del suo 40% e con la vicenda giudiziaria (si scopre un
sistema di tangenti e di scorrettezze sul mercato) che porta al suicidio di Gardini e al fallimento del
gruppo. Rilevato da cinque banche, tra queste Mediobanca conduce un ambizioso progetto di fusione,
destinato anch’esso a fallire, segnando la fine della centralità dell’istituto di credito.
Negli anni 80 il potere politico non è estraneo ai giochi del big business, interessato più che a
governare il cambiamento segnato dall’azione dei nuovi investitori, a rimarcare il proprio peso.
Il quadro all’inizio degli anni 90 era desolante: migliaia di miliardi bruciati in speculazioni, rapporto
tra industria e potere politico improntato alla logica dello scambio, debito pubblico alle stelle, tale da
contrastare gli investimenti azionari. Unica nota positiva: l’adesione al Trattato di Maastricht
(1992). Si creano le condizioni per la formazione di un governo libero da gravami partitici, presieduto
da Amato, che si impegna nel risanamento, con la svalutazione della lira e un ampio programma di
privatizzazioni (IRI e ENI sono trasformate in Spa con CdA da cui sono esclusi i rappresentanti dei
partiti) volto a: ridimensionare il debito pubblico, spezzare il legame perverso tra industria e politica,
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Impresa
e
industria
in
Italia
–
dall’Unità
a
oggi
rivitalizzare il tessuto industriale. Il programma si concretizza con il governo Ciampi, ponendo l’Italia
ai primi posti nel mondo per questo tipo di operazioni, sebbene non siano mancate resistenze (da parte
delle imprese in posizioni monopolistiche) e perplessità per alcune trattative dirette (risolte in modo
forse troppo conveniente per il compratore). Sempre di questi anni è anche la modernizzazione del
quadro istituzionale: sono creati o rafforzati organismi di controllo come Consob, autorità Anti-
trust; introdotti nuovi attori come SIM e fondi pensione; emessa una legge sulla corporate
governance, che tutela vigorosamente gli azionisti minori.
Anche in conseguenza di ciò si scongelano gli assetti di vertice del capitalismo italiano. Significativo,
oltre che ambiguo, il caso TELECOM. Avviata la privatizzazione nel ’97, due anni dopo l’Ad di
Olivetti, Colaninno, lancia una colossale OPA che lo porta al pieno controllo dell’impresa. Dubbi ha
suscitato l’indebitamento contratto dagli “scalatori” – non di grande auspicio per il futuro dell’impresa
-, oltre che il modo non proprio nuovo di Colaninno di relazionarsi con la politica.