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Capitolo I

Walter Benjamin: vita e opere

I.I Biografia e tappe fondamentali della vita di Walter Benjamin

«Io, Walter Benjamin, figlio del commerciante Emil Benjamin e di sua moglie Pauline nata a
Schoenflies, sono nato a Berlino il 15 luglio 1892 e appartengo alla confessione ebraica» 1.
Così il filosofo e letterato tedesco presenta sé stesso nel frammento autobiografico Curruculum I il
quale, inoltre, contiene le informazioni più dettagliate che abbia mai fornito sulla sua formazione
scolastica. Dei suoi primi anni, rimane anche il visionario scritto autobiografico degli anni ’30,
Infanzia berlinese intorno al millenovecento, ricco di brevi e nostalgici racconti e poesie, in cui l’io
adulto dell’autore ripercorre le esperienze della fanciullezza, testimoniandone il sentimento ed
unificandolo con quello presente. Nel racconto La giostra, leggiamo:
è l’altezza su cui meglio si sogna di volare. (…) Come un fedele sovrano, troneggia su un mondo che gli
appartiene. (…) Da tempo ormai l’eterno ritorno di tutte le cose è parte della saggezza del fanciullo 2

1
Walter Benjamin, Curriculum I, in Opere Complete, Volume I, a cura di Enrico Ganni, Einaudi, Torino 1999, pp. 67
2
Walter Benjamin, Infanzia Berlinese, Giulio Einaudi Editore, Torino 1973, pp. 41
1
Nel 1907 – dopo un soggiorno di due anni in Turingia dove fa esperienza del modello educativo di
Gustav Wyneken, teorico della Jugendbewgung – tornò a Berlino, concludendo gli studi secondari
nel 1912, ed entrò, nello stesso anno, in Università: si laureerà poi nel 1919 in filosofia con
Herbertz discutendo una tesi sul Concetto di critica d'arte nel Romanticismo tedesco. Trasferitosi a
Monaco nel 1915, strinse amicizia con lo studioso Gerschom Scholem, il quale, in procinto di
abbandonare gli studi di matematica e filosofia per dedicarsi alla mistica ebraica, iniziò Benjamin
allo studio dell’ebraismo, significativo per l’elaborazione del suo pensiero filosofico e teologico.
Sposò, nel 1917, Dora Kellner, dalla quale ebbe un figlio l’anno seguente, Stefan. Al tempo era già
autore di importanti saggi come Due poesie di Friedrich Hölderlin e Sulla lingua in generale e sulla
lingua degli uomini. Nello stesso periodo, conobbe, in Svizzera, Ernst Bloch, con cui avrà un
rapporto controverso, tra entusiasmi e intolleranza. Nel 1920, tornato a Berlino, progettò senza
successo la rivista Angelus Novus e, poco dopo, fece la conoscenza del giovane Theodor W.
Adorno, col quale condividerà alcune simili visioni filosofiche.
Nel 1924 il suo matrimonio entrò in crisi e, durante un lungo soggiorno a Capri, s'innamorò di Asja
Lacis, una rivoluzionaria russa che lo indusse ad avvicinarsi al marxismo.
L'università di Francoforte nel 1925 respinse la sua domanda di abilitazione all'insegnamento
accademico accompagnata dall’elaborato sull'Origine del dramma barocco tedesco che però fu
pubblicato tre anni dopo, insieme agli aforismi di Strada a senso unico. In questo periodo Benjamin
si mantenne con la sua attività di traduttore, critico e recensore per la "Literarische Welt".
Negli anni ’30, con l’avvento del Nazismo in Germania, decise di fuggire dalla sua terra natia
abbandonandola definitivamente nel 1933: trascorse lunghi periodi a Ibiza, Sanremo e Svendborg;
inoltre, Brecht, suo intimo amico, lo ospitò a più riprese nella sua dimora in Danimarca. Il contesto
di incertezza e terrore in cui fu costretto a vivere lo indusse a scrivere di getto il suo ultimo testo, le
Tesi Sul concetto di storia, abbandonando, nel contempo, i precedenti progetti.
Il 14 giugno 1940 Parigi fu occupata dai tedeschi e Benjamin, in quanto cittadino tedesco, venne
internato nel campo di prigionia di Nevers dal quale fu però rilasciato tre mesi dopo. Ottenne, dopo
aver lasciato definitivamente Parigi, un visto per gli Stati Uniti, dove già si erano rifugiati i suoi
amici dell'Istituto per la ricerca sociale, tra cui Theodor W. Adorno; tuttavia, il 25 settembre del
1940, venne bloccato dalla polizia alla frontiera spagnola, nella città catalana di Portbou.Temendo
la probabile cattura e l’automatica espulsione dalla Spagna verso il territorio francese – ormai
saldamente nelle mani dell’esercito nazista – nella notte tra il 26 e il 27 settembre, si tolse la vita
ingerendo una forte dose di morfina. Ai suoi compagni di viaggio fu concesso di passare il confine
il giorno seguente. Con sé aveva una valigia nera che custodiva gelosamente, in cui erano contenuti
probabilmente dei manoscritti o delle pagine incompiute che, tuttavia, non furono mai trovate.
Alcuni suoi amici, tra cui Henny Gurland, futura moglie di Erich Fromm, provvidero alla sua
tumulazione nel cimitero di Portbou – ove fu eretto un memoriale in suo onore. Successivamente, il
suo corpo fu tumulato in una fossa comune.
Egli fu un abile e appassionato giocatore di scacchi e svolse memorabili partite con Brecht e la sua
amante, Margarete Steffin, la quale scrisse: «mi ricordo ancora, a proposito del suo modo di giocare
a scacchi, della tattica di sfiancamento»3 che consisteva nel prendere un tempo che doveva apparire
interminabile all’avversario per ponderare la propria mossa. Brecht, a proposito, scrisse il suo
celebre epitaffio:

3
Saverio Campanini, Tattiche di logoramento, in Le tre vite di Moses Dobrushka di Gershom Scholem, Adelphi, Milano
2014, pp. 217
2
Tattica di logoramento era la tua preferita
seduto alla scacchiera all’ombra del pero
il nemico che ti ha scacciato dai tuoi libri
non si lascia logorare da quelli come noi4

I.II Pensiero e opere di Walter Benjamin

Theodor W. Adorno, in Prismi, opera pubblicata in Germania nel 1955, delinea un profilo
dettagliato della figura – a tratti enigmatica – di Walter Benjamin:

Il nome del filosofo che si tolse la vita mentre cercava riparo dagli sgherri di Hitler, è venuto acquistando, nei
quindici anni che da allora sono trascorsi, un’aureola di autorità nonostante il carattere esoterico dei suoi primi
lavori e quello frammentario dei successivi. Il fascino che emana dalla persona e dall’opera non ha lasciato altra
possibilità che l’attrazione magnetica o il rifiuto inorridito5

Le convenzioni e il ‘filosofare tradizionale’ non ebbero mai alcun potere sul pensatore tedesco, il
quale era piuttosto rivolto verso l’incessante configurazione di ‘aspetti nuovi’, seppur mai
identificabili come originali o organici. Come strumento supremo di conoscenza, era capace di
evocare – e non produrre o acquisire – la Verità attraverso il pensiero. Questa sua natura sfuggente
e refrattaria a qualsiasi classificazione – e non solo per ciò che concerne lo stile ed i contenuti –
dunque, la sua soggettività e singolarità contratta a differenza specifica, avrebbero potuto rendergli,
agli occhi della filosofia tradizionale, la connotazione dell’«effimero, del casuale, dell’affatto
significante»6. Tuttavia, in lui, quest’effetto era la mediazione di un’impegnatività: «il principio
secondo cui nella conoscenza il più universale è il più individuale gli si attagliava perfettamente» 7.
Come il frattale – oggetto geometrico dotato di omotetia interna – ripete la sua stessa forma o
modello originale su scale diverse, le opere di Benjamin, spesso, riprendono, nei temi e nella
struttura, una corrispondenza tra ciò che concerne il microcosmo dell’umano e il macrocosmo
dell’eterno. Infatti, nella XVII tesi Sul concetto di Storia leggiamo: «Il profitto del suo procedere
consiste nel fatto che in un’opera è custodita e conservata tutta l’opera, nell’opera intera l’epoca e
nell’epoca l’intero corso della storia»8

Benjamin seppe fissare il volto della Medusa e sostenerne lo sguardo pietrificante, senza abdicare
mai alla ragione. La proprietà pietrificante dello sguardo critico della filosofia benjaminiana fa sì
che le immagini del presente entrino in comunicazione dialettica con quelle cristallizzate del
passato, proprio come fossero il prodotto di una tecnologia della memoria. Avendo visto e
riconosciuto l’orrore della modernità e della dissoluzione dell’umano, può misurare l’abisso fino in
fondo, affermare l’esigenza dell’utopia e diffondere sgomento nella misura in cui promette la
felicità:
Lo sguardo della sua filosofia è uno sguardo di Medusa (…) l’uomo si trasforma in ampia misura nel teatro di un
processo obiettivo. Per questo la filosofia di Benjamin diffonde lo sgomento quasi nella stessa misura in cui
promette la felicità. Come nell’ambito del mito in luogo della soggettività dominano la molteplicità e
l’ambiguità, così l’univocità della conciliazione – rappresentata secondo il modello del «nome» – è il rovescio
dell’autonomia umana 9
4
Ivi, pp. 218
5
Theodor W. Adorno, Profilo di Walter Benjamin in Prismi, Piccola biblioteca Einaudi, Bologna 2018, pp. 221
6
Ivi, pp. 222
7
Ibidem
8
Walter Benjamin, Sul concetto di Storia, biblioteca Einaudi, 1997 Torino, pp. 53
9
Ivi, pp. 227-229
3
Dunque, il complesso delle opere benjaminiane ci restituisce l’immagine di un autore asistematico
che predilige lo stile aforistico e la forma del saggio rispetto al trattato filosofico e che concepisce,
come compito specifico del critico, il prendere posizione e la contestazione dell'ordine esistente.
Il momento critico-materialistico della sua filosofia si congiunge in modo originale al pensiero
utopico-messianico anche attraverso un linguaggio che, svincolato dalla sua funzione di strumento,
è espressivo nel dare voce alle cose mute. È proprio al tema di una pura lingua immediatamente
simbolica ed essenziale – cui si oppone la violenza dell’astrazione e del giudizio concettuale – che
sono dedicati i primi saggi di Benjamin: Sulla lingua in generale e su quella degli
uomini (1916), Per la critica alla violenza (1921), Il compito del traduttore (1923).
Tutto, senza eccezione, partecipa in qualche modo della lingua che, come respiro e anima intima
della realtà materiale, rende possibile una comunicazione simbolica del contenuto spirituale
particolare ed universale:

Ogni comunicazione di contenuti spirituali è linguaggio, dove la comunicazione mediante la parola è solo un
caso particolare, quello del linguaggio umano e di quello che è alla base di esso o fondato su di esso. Ma la realtà
della lingua non si estende solo a tutti i capi di espressione spirituale dell’uomo, a cui, in un senso o nell’altro,
appartiene sempre una lingua, ma a tutto senza eccezione. 10

La teoria sul linguaggio fu sviluppata da Benjamin negli anni 1916-17 assieme all’amico Gershom
Scholem, al tempo studioso di matematica, filosofia e della mistica ebraica. Grazie alla vicinanza
del compagno e alla lettura di testi come La stella della Redenzione di F. Rosenzweig, rivisse
profondamente ed intimamente il suo ebraismo, elemento cruciale per la formulazione della sua
filosofia. Per formulare la teoria, partirono da una peculiare interpretazione della Genesis e della
Kabbalah che era in diretto contrasto con quella della Wissenschaft des Judentums (la scienza del
giudaismo) e che affondava le sue radici nella visione nichilista e anarchica di Jacob Frank, il quale
si autoproclamò successore del profeta Shabbatay Zevi. Il Jacob, prendendo ispirazione dal padre
dell’anarchismo Bakunin (la cui massima era ‘la forza della distruzione è una forza creativa’), pose
nella propria utopia della vita anarchica, di un’idea assoluta di libertà e promiscuità universali, la
potenza redentrice della distruzione che, tuttavia, attua lo spazio per una creazione eterna. Dunque,
la vita non è l’ordine armonioso della natura e la sua legge soave, ma la libertà dai vincoli di ogni
legge. L’ascesa è preceduta dalla via verso l’abisso (infatti la scala vista in sogno da Giacobbe
aveva la forma di una ‘V’) poiché l’uomo deve abbassarsi e degradarsi – scendere in sé stesso
‘come in una tomba’ (H. Von Eckardt) – per poter accedere, dal punto più basso, alla libertà della
vita. Benjamin e Scholem, interessati a una “Teoria Matematica della Verità”, connessa col
principio d’identità (A=A) che avrebbe potuto spiegare il processo del mondo in una prospettiva
messianica, elaborarono la teoria secondo cui l’essenza del linguaggio è la pura forma spirituale di
una ‘comunicabilità per sè’. Il Messia è un matematico ovvero il primo filosofo del linguaggio; la
sua lingua, che non esprime un semplice contenuto, comunica piuttosto un essere spirituale, cioè
una comunicabilità pura e semplice. Nel novembre del 1916, tuttavia, Benjamin annuncia a
Scholem il lavoro, quasi terminato, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, lamentandosi
di non poter ancora affrontare il tema del rapporto e linguaggio con la matematica e di questa con il
pensiero e l’ebraismo:

10
Walter Benjamin, Sulla lingua in generale e su quella degli uomini in Opere Complete, Volume I, a cura di Enrico
Ganni, Einaudi, Torino 2008, pp. 281
4
Non mi è stato possibile occuparmi di matematica e linguaggio, matematica e pensiero, matematica e Sion,
perché i miei pensieri su questo tema infinitamente difficile sono ancora incompiuti. Nel titolo Lei può ravvisare
una certa intenzione sistematica, che però per me evidenzia bene anche il carattere frammentario dei miei
pensieri, poiché non sono ancora in grado di affrontare adeguatamente molte questioni11

L'unico saggio che Benjamin riuscì a portare a termine – L'origine del dramma barocco
tedesco (1928) – contiene una suggestiva ricerca sui concetti di simbolo e allegoria, attraverso una
ricca analisi delle forme e figure del dramma barocco (Trauerspiel). L’allegoria barocca, con la sua
dialettica eccentrica – ossia priva di centro – tra ciò che si esprime e le intenzioni soggettive che
esprimono, si presenta come uno scacco del simbolico, dell’aspirazione classicista a riunificare la
scissione originaria, prodottasi nell’uomo e nelle sue opere, tra cosa, linguaggio e significato.
L’eliminazione della possibilità di unificazione simbolica e la lacerazione insanabile che ne
consegue procura, nel soggetto moderno che vive la radicale perdita di senso dinnanzi alla visione
del decadimento dell’umano, il sentimento della malinconia. Difatti, il compito della filosofia è,
dapprima, quello di rilevare le contraddizioni celate dalla realtà e, in un secondo momento, quello di
animare e ricordare all’animo umano il bisogno di felicità e emancipazione. Un’analisi analoga è
stata svolta nel Saggio sulle affinità elettive di Goethe (1924-25) in cui s’annuncia un motivo
fondamentale della sua cifra estetica: la conciliazione ed unificazione suggerita dall’opera d’arte è
solo un’apparenza mistificante. Si può, invero, cogliere l’intima e intrinseca frammentarietà del
prodotto artistico grazie alla sua forma dell’inespresso, del non-detto che rinvia sempre ad una
speranza, colta solo da chi ne è radicalmente privo, di una dimensione utopica, non
immediatamente visibile, poiché è in un non-luogo sempre altro. Inoltre, Benjamin scrive che è
stata sua intenzione «attraverso un’analisi dell’opera d’arte che riconosce in essa un’espressione
integrale, in nessun caso delimitabile per ambiti specifici, delle tendenze religiose, metafisiche,
politiche ed economiche di un’epoca, promuovere quel processo di integrazione della scienza che
abbatte sempre più le rigide barriere disciplinari proprie della mentalità del secolo scorso»12.
Pertanto, alle opere d’arte come fenomeni che esprimono le tendenze di un’epoca, e poiché possono
essere viste come analisi scientifiche ed integrate della realtà, è attribuito un rapporto all’ambito
delle idee-monadi che contengono, insieme alla visione passata e futura delle loro rappresentazioni,
l’immagine del mondo: «in ogni fenomeno originario (Ursprungsphabomen) si determina la forma
sotto la quale un’idea continua a confrontarsi col mondo storico (…). L’idea è monade (…) e ciò
significa in breve: ogni idea contiene l’immagine del mondo. Alla sua rappresentazione spetta il
compito, niente meno, di disegnare in scorcio questa immagine di mondo» 13. La rap-presentazione,
presentazione di un’idea di mondo o dell’intero mondo delle idee, avviene attraverso un essere
particolare, un fenomeno originario. Questo stesso rapporto tra idea-monade e fenomeno – cruciale
per comprendere il concetto di ‘immagine dialettica’ e di ‘chance (o kairos) rivoluzionaria’ presente
nelle sue Tesi Sul concetto di Storia – verrà indagato nel Capitolo II.

Uno dei più caratteristici e suggestivi saggi di Benjamin è l'incompiuto progetto filosofico-letterario
su Parigi come Capitale del XIX secolo, nella quale ha voluto creare una fiaba dialettica in cui è
illustrato lo sviluppo del capitalismo utilizzando i mondi della vita della metropoli. Il filosofo ha
cercato di afferrare il senso di un'intera epoca storica attraverso l'analisi della poesia di Baudelaire –

11
Lettera di Benjamin a G. Scholem del 11-11-1916, in Benjamin 1995, pp. 343-344
12
Walter Benjamin, Curriculum III/2, in Opere complete III, Scritti 1928-1929, a cura di Rolf Tiedemann e Hermann
Schweppenhàuser, Torino 1999, pp. 38
13
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, introduzione di G. Schiavoni, Einaudi, Torino 1999, pp. 20-22
5
di cui fu anche traduttore – e quella dell'assetto urbanistico parigino. Le esperienze e gli ‘choc’ della
vita prodotti dagli urti della folla, dalle luci, dalle novità delle merci e delle situazioni – in sintesi,
della metropoli moderna – divengono “esperienza vissuta” solo tramite una rielaborazione razionale
di quegli ‘choc’, tale da impedirne la penetrazione nel profondo e da difendere la coscienza dal loro
assalto. Nell’opera di Baudelaire è chiara ed evidente la costante presenza degli ‘choc’ causati, o
vissuti, da nuove figure psico-antropologiche, come il flaneur, il dandy, la prostituta. La folla è la
“figura segreta” – il suggello e la potenza nascosta – della sua poesia: più come presenza ossessiva
che come rappresentazione espressa, è un archetipo da ricercarsi nella forma nervosa e franta della
poetica baudelairiana. Nella Parigi di Baudelaire, Benjamin vede una profezia che somiglia alla
nottola di Minerva più che ad un oracolo ed in cui si esplicita la figura del disincantato malinconico:
«il poeta esiste solo nella metropoli e per la metropoli; ne beve la frenesia, convive con il suo
tumultuoso mutare, troppo rapido per ‘le coer d’un mortel’»14. La costellazione dei saggi e delle
note che si riferiscono a quest’idea costituiscono, nell’essenza, un lavoro intorno al valore profetico
della poesia, secondo cui la storia dell’arte è una storia di profezie, in cui il profeta possa avvertire
ed elevarsi ad una syn-patheia con la sofferenza del proprio presente, tale da raccoglierlo in un Dire
che, allora, dirà, oltre l’attuale, un possibile eterno. La prosa del poeta, nel suo procedere diritta,
rammemora sempre la rovina del passato e deve procedere pro-fetizzando oltre la musa cittadina
(bisogna distaccarsi dalla città per esprimere l’amore verso di essa)
All’epoca dell’irreparabile incontro con lo spazio, che nulla più protegge, della metropoli, si
mostrano quelle figure archetipiche sopracitate: la carogna, i passanti che si ubriacano di cattivo
vino, i mostri che l’occhio coglie insieme alle figure del cigno, i sogni, gli incubi, le memorie e le
sue cieche speranze… di tutto questo occorre una reale mimesis. Questa bellezza si fa pro-blema e
difficoltà per il poeta: deve salvare – senza occultare né tradire – la potenza di quel colpo,
dell’immediatezza della violenza rivoluzionaria della vita metropolitana e esprimerla in una prosa
che le dia forma, che sia comprensione dei suoi opposti: lo choc, il trauma, va allegorizzato. È
necessario che subisca una metamorfosi, che sia trasformato in storia-e-destino:
L’espressione artistica “all’altezza” dell’epoca dovrebbe dunque saper combinare in sé senza confusione il
massimo dello choc con il massimo della riflessione. (…) L’epoca rimane quella della completa de-
sacralizzazione, ovvero dell’intellettualizzazione del fare artistica (…) e dovrà farsi cosciente che questo tempo
non è quello risolto del concetto, bensì è il tempo della vita nervosa, dell’appercezione distratta, della
mobilitazione universale, del lavoro generale senza qualità15

Una significativa testimonianza della sua teoria estetica in relazione alla sua filosofia della storia è
offerta dal saggio L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (1936-37). Nella
tradizione, la singolarità dell’apparire dell’opera d’arte ne costituiva l’aureola: nel suo hic et nunc
appariva inviolabile, irriproducibile, irripetibile e questo ne assicurava la distanza, non come
separazione astratta dell’opera esposta da chi deve ‘contemplarla’, ma come costrizione ad una
paziente attenzione, ad un’osservazione lunga nel tempo, in-finita:

L’arte non può avanzare la pretesa di conciliare in sé umano e divino; essa piuttosto ne rappresenta l’infinita
distanza. Il culto è tale se soddisfa la nostalgia dei ‘mortali oltre misura attivi’ (…) Quando il valore culturale si
rifugia nell’aura è già, in quanto tale, tramontato. I due piani, culto e aura, non possono essere confusi. 16

14
Massimo Cacciari, Il produttore malinconico, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter
Benjamin, Einaudi, Torino 2011, pp. XXV
15
Ivi, pp. XXVIII
16
Ivi, pp. VIII
6
La presenza dell’aura dell’opera d’arte, poiché non viene mai meno ed eccede ogni spiegazione,
impedisce che essa venga fruita e consumata im-mediatamente: la sua essenza non è mai
disvelabile. Tuttavia, Benjamin, in una lettera a Kraft del ’35, afferma di aver fissato la cifra
dell’Ora del destino che è scoccata per l’arte: la rappresentazione estetico-sensibile esprime la crisi
immanente del suo valore, diviene superflua e sembrerebbe possibile solo la rappresentazione del
suo superfluere. La moderna de-sacralizzazione del culto è un movimento immanente nel
significato delle forme artistiche e termina con la perdita di aura:

Ciò che viene meno, insomma, può essere riassunto nel concetto di aura (…). La tecnica della riproduzione, così
ci si potrebbe esprimere in generale, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. La tecnica di riproduzione,
moltiplicando la riproduzione, pone al posto di un evento unico una sua grande quantità17

Tuttavia, la perdita di aura non è il prodotto dell’invenzione della fotografia, dello strumento di
riproducibilità: «l’opera d’arte è sempre stata riproducibile»18. La fotografia mai avrebbe assunto la
sua funzione nel campo dell’espressione artistica se questa non fosse già di per sé giunta all’Ora del
tramonto di quelle idee di creatività e genialità, di valore eterno e mistero, che ne contrassegnavano
la storia. L’aura si perde a causa dell’affermarsi di un sapere assoluto (per Hegel) che esibisce una
potenza infinitamente superiore a quella immanente della genialità in cui si incarna.

17
Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2011, pp. 8
18
Ivi, pp. 4
7

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