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MIMESIS / PASSATO PROSSIMO

N. 55

Collana diretta da Paolo Bertella Farnetti

C
Ruth Iyob (University of Missouri-St. Louis)
Silvana Palma (Università di Napoli “L’Orientale”)
Adolfo Mignemi (Insmli, Milano)
Shiferaw Bekele (University of Addis Ababa)
Alessandro Triulzi (Università di Napoli “L’Orientale”)
Paolo Bertella Farnetti (Università di Modena e Reggio Emilia)
Giancarlo Poidomani (Università di Catania)
Alessandro Pes (Università di Cagliari)
H M
LA PERESTROJKA
E LA FINE DELLA DDR
Come sono andate veramente le
cose

MIMESIS
Titolo originale: Hans Modrow, Die Perestroika. Wie ich sie sehe
© edition ost, Berlin, 1998

Traduzione di Manuel Guidi

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)


www.mimesisedizioni.it
mimesis@mimesisedizioni.it

Collana: Passato prossimo, n. 55


Isbn: 9788857562506

© 2019 – Mim Edizioni SRL


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Sesto San Giovanni (MI)
Phone: +39 02 24861657 / 24416383
INTRODUZIONE

Il socialismo nei colori della DDR1 fu una realtà contraddittoria e


un processo sociale incoerente, determinato da diversi fattori: tentativi
contingenti di trasformazione e rinnovamento, stagnazione e
repressione, in uenze esterne e interne. Fu un socialismo nato dalla
Guerra fredda ma anche un tentativo di alternativa sociale al modello
capitalista. Questa sua condizione lo accompagnò no alla ne. Le sue
interazioni con la Repubblica federale capitalista furono, nel bene e
nel male, ancora più decisive di quelle con i vicini orientali.
Walter Ulbricht riconobbe più chiaramente di ogni altro politico
della DDR questa realtà dialettica e cercò di affrontarla in modo
costruttivo. Attraverso varie misure volle accelerarne lo sviluppo e
negli anni Sessanta avviò una serie di riforme economiche volte a non
perdere i contatti con l’economia mondiale e a evitare l’isolamento.
Ulbricht non fu solo un esponente dell’era post-stalinista, ma alla ne
ne rimase anche vittima. Con l’appoggio di Mosca, fu destituito da una
maggioranza del Politburo vicina a Honecker. La richiesta di
dimissioni forzate non era rivolta solo contro la persona, ma anche
contro lo sforzo di adattare la scienza e la tecnica al contesto di
un’economia moderna, al ne di renderla più ef ciente. È però un
fatto storico che a Mosca, la dirigenza del Partito avesse preso in
considerazione anche delle alternative a Honecker. Ulbricht era un
partner scomodo ma rispetto al suo successore veniva considerato
comunque più intelligente, più prevedibile e anche più aperto al
futuro. A ogni modo, Brežnev dovette piegarsi alla necessità oggettiva
di un ringiovanimento del gruppo dirigente e all’epoca tale
rinnovamento era rappresentato dal gruppo di Honecker. In seguito,
comunicò però attraverso Bowin, l’autore dei suoi discorsi, il desiderio
che il compagno Ulbricht venisse trattato dignitosamente e con il
dovuto rispetto. E quando Brežnev venne a Berlino in occasione
dell’VIII Congresso del partito, insistette per fare visita a Ulbricht.
Il cambio ai vertici del Partito del 1970/71, almeno all’inizio,
apparve quindi come un progresso. Sia nelle questioni di politica
estera sia in quelle di politica interna, all’inizio la nuova dirigenza si
mostrò essibile. La DDR ottenne il suo riconoscimento
internazionale, l’economia faceva progressi e il tenore di vita cresceva
rapidamente. La parola d’ordine era “unità nella politica economica e
sociale”. Negli anni Cinquanta si diceva: “Lavorando oggi, vivremo
domani” e adesso i lavoratori stavano nalmente godendo dei frutti
del lavoro. Questo, si pensava, li avrebbe coinvolti di più nell’impegno
per il socialismo. La produttività del lavoro e i volumi della
produzione aumentarono rispetto al passato e questo fece sì che dalla
fonte della ricchezza sociale sgorgasse il benessere.
A parte il fatto che si trattava chiaramente di un calcolo
semplicistico e illusorio, poiché non teneva conto degli sviluppi
dell’economia globale (come l’aumento dei prezzi delle materie prime
o dei beni che era necessario importare, le innovazioni tecnologiche e
le scoperte), fu soprattutto un errore credere che la prosperità si
sarebbe tradotta in maniera direttamente proporzionale in coscienza
socialista. L’idea era semplice: più aumenta il benessere dei cittadini
della DDR e più questi diventeranno socialisti. A ogni modo, il
meccanismo fu messo in moto e qualsiasi correzione – questo credeva
Honecker – avrebbe signi cato ammettere di aver perseguito una
politica sbagliata. Così, il tenore di vita venne sistematicamente
aumentato, benché i tassi di crescita economici rimanessero indietro.
La prosperità fu alimentata anche da fonti esterne e in questo modo il
futuro fu messo a rischio: si consumava più di quanto si accumulava.
Con Ulbricht, l’attenzione era tutta concentrata sull’accumulazione,
con Honecker, invece, sui consumi. Questo ridusse i margini di
manovra economici e anche quelli politici. Dopo una fase iniziale di
liberalizzazione nella prima metà degli anni Settanta, Honecker, con
l’aiuto del suo “esperto economista” Günter Mittag e di Joachim
Herrmann, responsabile della comunicazione, diede in ne una stretta
decisiva. Furono così rafforzati centralismo e culto della personalità.
Questi processi furono strettamente legati agli sviluppi in corso in
Unione Sovietica. Il governo della DDR era in un certo senso il glio
adottivo della grande potenza orientale e tutti i tentativi della DDR (e
degli altri paesi del blocco orientale) di sottrarsi alla sua tutela ebbero
conseguenze fatali per chiunque volle intraprendere questa strada, a
volte anche in senso letterale. Per esempio, il tentativo di creare un
socialismo dal volto umano portato avanti dalla Primavera di Praga fu
duramente represso. Il fondamento politico di quell’intervento esterno
prese il nome di dottrina Brežnev. Fu grazie all’impegno personale di
Ulbricht che l’esercito popolare della DDR non venne direttamente
coinvolto in quell’azione decisa dal Patto di Varsavia. Andando contro
un’esplicita richiesta di Mosca, fece sì che nessun soldato tedesco
entrasse in territorio ceco, cosa che avrebbe costituito la
continuazione di una triste tradizione. Fu un gesto che probabilmente
contribuì alla sua destituzione.
La stagnazione in Unione Sovietica, guidata da un Segretario
generale in precarie condizioni di salute, gettò la sua ombra sulla
DDR per tutti gli anni Settanta e Ottanta. L’assistenza economica che
fu richiesta ai sovietici non venne concessa nella misura auspicata, in
quanto anche l’Unione Sovietica stava attraversando una profonda
crisi economica e politica.
Nel 1982, dopo la morte di Brežnev, Jurij Andropov divenne
Segretario generale. Andropov volle introdurre profondi cambiamenti
all’interno del sistema del socialismo reale. La SED2 reagì con
reticenza e nemmeno i suoi esperti in scienze sociali risposero
all’appello di Mosca di avviare un dibattito aperto. Non so dire se ciò
sia stato dovuto più alla loro arroganza o più alle pressioni esercitate
dai dirigenti del Partito. In ogni caso, fu sprecata un’opportunità
storica. Allo stesso tempo, questo rese evidenti i limiti oggettivi di un
sistema centralizzato. È vero che questo sistema permetteva in
de nitiva di far passare qualsiasi cosa, e che questo poteva anche
andare a vantaggio dell’intera popolazione se si trattava di proposte
ragionevoli e socialiste, ma se il capo dello stato era un despota o era
malato, tutto il paese ne avrebbe sofferto. Andropov era già molto
malato quando prese il posto di Brežnev. Anche lui non raggiunse i
vertici del Partito attraverso un processo democratico, ma grazie al
calcolo politico di determinati gruppi di potere all’interno della
dirigenza sovietica, che a loro volta potevano contare sull’appoggio di
poteri forti nella società. Brežnev fu portato al potere soprattutto dal
complesso industriale militare e dall’apparato di partito e ne
rappresentò gli interessi no alla ne del suo mandato. Andropov non
fu eletto perché voleva riformare il Partito o la società, ma perché non
rappresentava un elemento polarizzante e non costituiva un pericolo
per nessuno all’interno del Politburo. Inoltre, a causa delle sue cattive
condizioni di salute, si presumeva che il suo mandato sarebbe stato
breve. Di conseguenza, dopo un anno prese il suo posto Konstantin
Černenko, anch’egli già molto malato. In questo modo la nomenklatura
poteva stare tranquilla che anche con questo Segretario generale
nessuno avrebbe intaccato i suoi privilegi.
Andropov era probabilmente consapevole della portata della crisi
sociale che stavano attraversando sia il paese sia il sistema socialista
nel suo complesso. Tuttavia, la dirigenza era dominata dal terrore
verso le riforme. Così, la paura che Andropov potesse adottare una
linea completamente diversa gli costò il sostegno della dirigenza del
Partito. Se poi il suo successore non fosse andato bene, si sarebbe
potuto di nuovo destituirlo, seguendo una pratica che nella storia
sovietica aveva avuto già diversi precedenti. I membri del Politburo, di
cui dal 1980 faceva parte anche Gorbačëv, avevano evidentemente più
a cuore la propria posizione che non il destino del socialismo. A ben
guardare, la presunta collettività rappresentata dalla dirigenza altro
non era che la somma di una serie di codardie individuali.
La mia impressione, e non sono l’unico a pensarla in questo modo, è
che al nostro modello socialista mancassero degli strumenti ef caci
per garantire il continuo rinnovamento a tutti i livelli del Partito.
Questa mancanza fu una delle cause del nostro fallimento.
Allo stesso tempo, bisogna dire però che la disposizione al ruolo del
pretendente non era certo una prerogativa esclusiva dei partiti
comunisti. Anche ai partiti borghesi piaceva avere le spalle coperte.
Per esempio anche Helmut Kohl governò il suo partito per oltre un
ventennio superando in questo persino lo stesso Honecker. E il modo
in cui incoronò il proprio del no (“Vedrei bene Wolfgang Schäuble
come mio successore”) rivelò una chiara predisposizione monarchica.
Al di là di questa critica assolutamente necessaria, la mia intenzione
ora è prima di tutto di confrontarmi con le nostre mancanze. Questo
implica una ri essione sul ruolo delle grandi personalità all’interno
della storia.
Plechanov condusse una ri essione su questo tema e la sua
interpretazione era tenuta in alta considerazione da Lenin. Per chi non
avesse famigliarità con la loso a di Plechanov, va detto che lui non si
riteneva un marxista, anche se bisogna riconoscere che nei primi
partiti comunisti e nelle prime organizzazioni dei lavoratori erano
notoriamente pochi coloro che si de nivano marxisti. C’erano due
punti di vista. Il primo riteneva di scarsa importanza il fattore
soggettivo: non sono gli uomini a fare la storia, bensì le classi. Il
secondo enfatizzava invece il ruolo dei singoli e culminava nel culto
della personalità (pur mantenendo la tesi del ruolo storico delle
masse). Senza dubbio, nelle società relativamente arretrate dal punto
di vista economico e culturale era più facile che i capi venissero
idolatrati, anche ricorrendo alle tradizioni nazionali. Nella Russia
zarista, durante le processioni religiose, si portavano per le strade le
ef gi con le immagini dei santi. Dopo la rivoluzione queste furono
sostituite dai ritratti di politici. Nel movimento dei lavoratori tedesco
una cosa simile era del tutto impensabile e infatti non se ne trova
traccia nelle immagini storiche precedenti al 1920. Questa pratica è
iniziata in Germania solo dopo la “bolscevizzazione” del Partito
comunista tedesco (KPD), che era la sezione tedesca della Terza
Internazionale, a sua volta controllata da Mosca. I ritratti dei capi, vivi
o morti, iniziarono a essere appesi alle pareti, allo stesso modo delle
icone religiose. I capi incarnavano tutte le speranze, i desideri e i
pensieri dei membri del partito. In questo svolgeva un ruolo anche la
propaganda. Il Presidente o il Segretario generale concentravano su di
sé tutta la saggezza collettiva del partito. Ogni frase e ogni pensiero
non erano semplicemente veri e giusti, ma rappresentavano l’apice del
pensiero umano. Le parole del capo venivano citate, imparate a
memoria, scritte sugli striscioni e incise nella pietra. Il ruolo nobilitava
automaticamente la persona che lo assumeva. Chi veniva posto alla
testa del Partito era esaltato ed elevato al livello dell’infallibilità. E
siccome la sua “elezione” dif cilmente poteva de nirsi democratica, la
sua eventuale rimozione era altrettanto poco democratica. O moriva
nell’adempimento delle sue funzioni o veniva rovesciato. Il
“centralismo democratico” garantiva il dominio del singolo sull’intero
Partito.
I segretari generali sovietici, nonostante tutte le loro particolarità
caratteriali e i vari gradi di arbitrio soggettivo, dovevano svolgere
compiti per loro natura oggettivi e assumere decisioni nell’interesse
dello sviluppo dell’intera società. Con Stalin, che assunse la direzione
del Partito contro la volontà di Lenin, un paese agricolo arretrato fu
repentinamente trasformato in una potenza mondiale. Il prezzo che i
popoli dell’Unione Sovietica dovettero pagare per questo fu
inimmaginabile e anche considerando tutte le condizioni particolari
non può essere in alcun caso giusti cato.
Dopo un breve interregno, il PCUS3 mise allora Chruščëv alla testa
del Partito. A lui fu af dato il compito di fare i conti con i crimini e gli
eccessi di Stalin, ma senza mettere in discussione le radici politiche del
problema. Il fatto che Chruščëv ebbe il coraggio di parlare delle
atrocità commesse in nome di Stalin e del socialismo, gli assicurò il suo
posto nella storia. (Soltanto i dogmatici più incorreggibili pensano
ancora che il declino del socialismo sia iniziato con Chruščëv.)
Tuttavia, Chruščëv non riuscì ad avviare grandi cambiamenti nella
società e nel Partito. La sua liquidazione del culto della personalità
signi cò anche per me la caduta degli “dèi umani”, eppure non ebbe
effetti duraturi sul potere dei segretari generali.
Benché Brežnev fosse giovane quando giunse al potere nel 1964, era
tuttavia un uomo che apparteneva al vecchio sistema. Il suo nome
rimane legato alla stagnazione e alla corsa agli armamenti che portò il
mondo sulla soglia della catastrofe nucleare, ma anche al periodo della
distensione internazionale. Senza dubbio la situazione di stallo
nucleare raggiunta negli anni Sessanta portò una relativa stabilità a
livello mondiale. La politica della distensione, che raggiunse l’apice
con gli Accordi di Helsinki del 1975, si sviluppò sulla base di questo
equilibrio del terrore. Entrambe le parti si aspettavano dei bene ci:
l’Unione Sovietica e suoi alleati accettarono il “terzo cesto” sulla
questione dei diritti umani, nella speranza di un rafforzamento della
loro politica di coesistenza paci ca, mentre da parte occidentale si
contava invece su un indebolimento a lungo termine del socialismo
reale, un calcolo che si rivelò in ne corretto.
Nei decenni dell’era Brežnev, l’insieme della società sovietica e del
Partito subirono una fase di pesante ristagno, le strutture esistenti
furono completamente sclerotizzate e l’industria bellica era l’unico
settore dell’economia in cui si assistette a una certa innovazione e
creatività. L’unica ricaduta sull’economia nazionale consistette nel suo
asservimento agli interessi dell’industria degli armamenti.
Andropov aveva il compito storico di spezzare queste catene
mortali, ma per motivi di salute non fu in grado di farlo. Černenko fu
un segretario di transizione e quando nel 1985 fu il turno di Gorbačëv,
questi dovette affrontare un compito di proporzioni titaniche. La
trasformazione fondamentale del socialismo fu così messa all’ordine
del giorno e ora sarebbe dovuta incominciare.
Nessuno si aspettava che alla ne il socialismo sarebbe stato abolito,
anziché trasformato. Nemmeno Gorbačëv stesso, anche se oggi
sostiene di averlo piani cato n dall’inizio. Questa tesi è confutata
anche dagli storici americani che hanno studiato tutte le fonti meglio
di quanto non abbia fatto io. Gli eventi non seguirono il corso previsto
da Gorbačëv. Secondo Philip Zelikow e Condoleezza Rice: “Il suo
obiettivo principale fu la trasformazione interna. I cambiamenti nella
politica estera furono intesi come un sostegno alla trasformazione, alla
perestrojka”. Ma quanto alla politica interna, Gorbačëv non aveva idea
di dove stesse andando. “Sapeva che lo status quo non poteva essere
mantenuto, ed era tipico di Gorbačëv, in quanto abile stratega, saper
sfruttare i compromessi e i cambiamenti di rotta per andare avanti, ma
non era chiaro in quale direzione stesse andando.” Il suo nuovo modo
di pensare era una risposta a una crisi del sistema di natura strutturale
e radicata nel carattere centralizzato, militarizzato e isolato
dell’economia e della società com’erano state plasmate già ai tempi di
Lenin.
La domanda che vuole porsi questo libro e che mi ha occupato per
anni è allora: la forma sovietica del socialismo era destinata a nire nel
modo in cui nì o c’erano delle reali possibilità per un autentico
rinnovamento? Questo tipo di socialismo, cui Stalin aveva dato forma,
doveva per forza tramontare per rendere possibile la nascita di un
socialismo democratico, o sarebbe stato possibile che si riformasse
ricorrendo unicamente alle proprie forze? Un socialismo democratico,
come progetto e come obiettivo, può essere sviluppato solo a partire
dal capitalismo reale nella sua forma odierna? Era necessario
innanzitutto tornare indietro per poter ripartire nel modo “giusto”?
Rispondere a queste domande non signi ca prendersela con la
storia. La storia ha scelto il proprio corso. Tuttavia la storiogra a ci
insegna che non c’è mai un’unica strada possibile e che quella percorsa
non è per forza sempre la migliore. Non è per una legge della storia
che i segretari generali assumono il potere o che gli stati tramontano.
È vero che esiste una logica interna, una certa coerenza e un
implacabile rigore nei processi storici, tuttavia, tali processi non
possono essere previsti con precisione o governati nei loro aspetti
particolari, di conseguenza, non si può mai sapere in anticipo dove essi
ci condurranno. La storia – contrariamente all’opinione di alcuni
studiosi – non è nita con il crollo del socialismo reale. La storia è più
che mai aperta al possibile.
Ed è proprio questo che, insieme alla conoscenza del passato, ci
rende curiosi nei riguardi del futuro.
1
Deutsche Demokratische Republik, Repubblica Democratica Tedesca. [N.d.R.]
2
Sozialistische Einheitspartei Deutschlands, Partito di Unità Socialista di Germania. [N.d.R.]
3
Partito Comunista dell’Unione Sovietica. [N.d.R.]
CAPITOLO I
I PRIMI SEGNI
DEL CAMBIAMENTO

L’oblast’ di Leningrado era la regione sovietica gemellata con


Dresda. Al vertice del suo comitato regionale del Partito c’era
Grigorij Romanov. Ebbi modo di conoscerlo bene grazie a
innumerevoli incontri e presto godetti della sua completa ducia, che
si ri etteva sia nella franchezza delle nostre conversazioni sia nei
programmi delle visite di scambio. Romanov mi fece visitare le
centrali nucleari e i cantieri in cui si costruivano speciali navi da
guerra. Lui stesso veniva dall’industria navale e non mancava mai di
sottolineare con erezza il proprio contributo allo sviluppo
dell’incrociatore da battaglia Kirov. I Kirov erano una classe di
incrociatori che negli anni Sessanta includeva le navi da guerra più
moderne al mondo. Non a caso fu proprio a bordo di una di queste
navi che Chruščëv viaggiò a suo tempo a New York per partecipare
all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Mostrò così che questa
grande nave da battaglia sovietica era in grado di superare senza
dif coltà lo stretto tra il mar Baltico e il mare del Nord. Grazie a
Romanov fui introdotto nelle istituzioni accademiche e potei
familiarizzare con le considerazioni sugli ultimi sviluppi della scienza e
della ricerca, compresi gli aspetti relativi alla formazione del personale
e alla promozione dei quadri. Erano temi verso cui nutrivo un
profondo interesse poiché erano stati al centro della mia tesi di
dottorato negli anni Sessanta. Le quali che tecniche e i tratti
caratteriali dei dirigenti erano una questione politica centrale: la sola
ideologia non era suf ciente allo sviluppo di tutti gli aspetti di una
società.
Con piacere e soddisfazione notavo i cambiamenti nella sionomia
di Leningrado. A ogni visita vedevo nuovi passi avanti: come i lavori
della metropolitana che avanzavano, i nuovi alberghi e gli edi ci di
rappresentanza o l’ampio spazio e il sostegno che ricevevano la cultura
e lo sport. Non c’erano dubbi che Leningrado, la “culla della
Rivoluzione”, fosse dopo Mosca “la metropoli dell’Unione Sovietica”,
un importante centro politico ed economico. Questa importanza si
ri etteva anche nella dirigenza del PCUS: il Primo segretario
dell’oblast’ di Leningrado era infatti anche tradizionalmente membro
del Politburo.
L’idea che mi sono fatto di Romanov è probabilmente migliore di
quella di altri che l’hanno conosciuto. Nonostante i tratti negativi del
suo carattere (mostrava talvolta un’arroganza ai limiti della
prepotenza, aveva modi feudali e non ammetteva critiche personali),
possedeva una forza che ammiravo. Era un economista competente e
un politico lungimirante, pensava e agiva strategicamente ma senza
badare solo al proprio avanzamento personale. Era un funzionario
consapevole del proprio potere e sapeva come farne uso per
accrescerlo. Di certo non era l’unico a possedere questa abilità, di cui
esisteva anzi una vera tradizione all’interno del PCUS. Se chi ne
faceva uso possedeva una certa levatura, cosa piuttosto rara, allora ne
poteva anche uscire qualcosa di buono. Era indubbiamente questo il
caso di Romanov.
All’inizio degli anni Ottanta presentò un progetto chiamato
“Intensi cazione 90” che mirava innanzitutto allo sviluppo dinamico
dell’oblast’ di Leningrado in direzione di una maggiore indipendenza
(credo che volesse elevarla al rango di Repubblica dell’Unione
Sovietica). La sua idea era di rendere sistematica l’introduzione, prima
solo occasionale, delle innovazioni provenienti dall’industria bellica
nella produzione civile, senza naturalmente trascurare le esigenze del
segreto militare. L’intenzione era di riunire e concentrare la ricerca e
lo sviluppo delle accademie, delle università, dell’industria e
dell’agricoltura, in modo da accrescere la complessità dell’intera
produzione. Romanov riconobbe la burocrazia e gli altri limiti della
società sovietica per ciò che erano: ostacoli al vero progresso.
Non fui sorpreso quando, nel giugno 1983, Andropov lo convocò a
Mosca alla Segreteria del Comitato centrale. Il segretario Romanov
diventò da quel momento responsabile del complesso industriale
militare. Inoltre, già all’epoca Romanov era conosciuto bene anche
all’estero, poiché era dif cile che un personaggio straniero importante,
ospite della dirigenza del Partito di Mosca, non venisse invitato anche
a Leningrado. Romanov aveva quindi già stretto la mano a molti capi
di Stato e aveva maturato diverse esperienze internazionali in
occasione delle visite uf ciali. Andropov apprezzava Romanov per la
sua forte personalità, che gli sarebbe servita per avviare le
trasformazioni necessarie e in caso anche per difendersi nelle dispute
con i dogmatici e con gli apparatčiki come Černenko e Grišin.
Al Politburo della SED, Romanov non godeva però della stessa
buona reputazione: durante le visite degli alti funzionari della DDR a
Leningrado si era mostrato eccessivamente sicuro di sé e siccome noi
eravamo in buoni rapporti, parte del ri uto e del distacco rivolti a lui
ricaddero in qualche modo anche su di me.
Andropov conosceva i propri collaboratori come nessun altro ai
vertici del Partito. Ex capo del KGB, era membro del Politburo già ai
tempi di Brežnev. Nel 1956, in qualità di ambasciatore sovietico in
Ungheria, aveva dato un contributo non trascurabile alla repressione
dell’insurrezione. Tuttavia, in seguito la sua posizione maturò e si
ritrovò più dalla parte degli oppositori che tra gli amici dei falchi del
generale Ustinov. Sono sicuro che Andropov volle deliberatamente
insediare Romanov proprio in opposizione a Ustinov.
A differenza di Gorbačëv, che nelle sue memorie non fa cenno alle
molte dichiarazioni fondamentali di Andropov, reputo il suo discorso
del 15 giugno 1983 al plenum del Comitato centrale d’importanza
decisiva. La mia impressione è che fu proprio quel discorso a
determinare una cesura nel pensiero politico del Segretariato generale
di Mosca. Il discorso di Andropov, in cui espose il suo punto di vista
sul nuovo programma del Partito, era in buona parte ancora
in uenzato dalla scolastica marxista-leninista, faceva ricorso alla
vecchia fraseologia e a punti dottrinali familiari, come la società senza
classi e a quegli elementi del comunismo già presenti nel socialismo
maturo. Al contempo però, nella sua analisi sulle condizioni reali
dell’Unione Sovietica citò Lenin, il quale a suo tempo,
nell’elaborazione del secondo programma del Partito, aveva affermato
chiaramente la necessità di confrontarsi con la realtà e di stabilire il da
farsi in modo oggettivo e senza esagerazioni.
Anche se la “Neues Deutschland”1 aveva, come sempre, pubblicato
il suo discorso, quest’ultimo non ebbe molta risonanza nella DDR.
Andropov aveva detto francamente:
Non abbiamo ancora sondato a suf cienza la società in cui viviamo e lavoriamo. Non
abbiamo ancora individuato pienamente le sue leggi, in particolare quelle economiche.
Pertanto, siamo stati a volte costretti ad agire in modo empirico, non sempre razionale, e
procedere per tentativi ed errori.
Sfortunatamente, la pratica scienti ca, secondo i principi e le condizioni del socialismo
sviluppato, non ci aveva fornito le necessarie soluzioni per una serie di importanti
problemi. Che cosa signi ca questo? Ebbene, in primo luogo, parlo della scelta del modo
migliore per aumentare l’ef cienza e la qualità della produzione, così come dei principi
per l’implementazione della teoria dei prezzi. Ma non solo. La vita solleva costantemente
nuovi problemi, dai quali dipende il progresso della nostra società.

Di sicuro non vi si trova una parola di critica rivolta al predecessore


o commenti sulla stagnazione. Il giudizio sull’era Brežnev era ancora
limitato. (Poco dopo la sua elezione a Segretario generale, il 22
novembre 1982, Andropov aveva dichiarato che c’erano carenze
nell’economia e che Brežnev ne era il responsabile: tuttavia, l’appello
di quest’ultimo per una maggiore disciplina, per più iniziativa e
creatività, evitò immediatamente al predecessore le accuse dei critici.)
Chi però voleva capire, percepiva già che la musica era cambiata. Fino
a quel momento non fu mai messo in dubbio che noi sapessimo tutto e
che le nostre azioni fossero fondate su una visione scienti ca del
mondo. Perché, quindi, il nuovo segretario affermava d’un tratto che la
nostra società non era stata suf cientemente compresa? E come era
giunto a notare che avevamo operato procedendo “per tentativi ed
errori” e in modo non razionale? C’era forse qualcosa di sbagliato?
Cercai un dialogo con Erich Hahn, che dirigeva l’Istituto di loso a
marxista-leninista dell’Accademia delle scienze sociali presso il
Comitato centrale della SED. Hahn non mi contraddisse quando
affermai di aver interpretato il discorso di Andropov come una
chiamata a ri ettere a fondo sullo sviluppo futuro del sistema
socialista, sia in Unione Sovietica sia qui nella DDR. E con “a fondo”
intendevo in un modo nuovo e andando oltre gli assiomi vigenti no a
quel momento. Il mio amico e con dente annuì, tuttavia non ne seguì
una vera discussione. Questo era il dilemma di allora: molti di noi
avevano dei dubbi, ri ettevano sui problemi e sapevano che anche
altri lo facevano, ma pochi avevano il coraggio di scavalcare quei muri
invisibili che ci separavano. E noi due non facevamo eccezione.
Eppure mi facevo coraggio ed ero ducioso, perché c’erano segnali
da Mosca che mi spingevano a vedere all’orizzonte il cambiamento e il
rinnovamento. Furono intraprese azioni energiche contro la
corruzione, e anche le persone vicine a Brežnev non furono
risparmiate. “Abbiamo di nuovo un padrone di casa”, si sentiva dire
per le strade. Come sempre, la voce del popolo aveva centrato il
bersaglio. Nel 1983, la produzione industriale nell’Unione Sovietica
aumentò del quattro percento rispetto all’anno precedente e quella
agricola arrivò a un aumento del cinque percento. C’erano inoltre stati
aumenti nella produttività del lavoro di proporzioni simili. Anche la
politica estera si rimise in movimento: per esempio, si cominciarono a
fare i primi cauti passi in direzione della Cina dopo gli scontri
sull’Ussuri del 1969. Da quell’anno le comunicazioni tra le due nazioni
erano infatti state interrotte.
Andropov non era sicuramente un teorico. Ma era abbastanza
intelligente e autorevole da radunare attorno a sé consulenti ed esperti
che si potessero occupare di queste faccende al posto suo. Tra loro
c’era anche Šachnazarov, che conosceva Bruno Mahlow del Comitato
centrale della SED. A quest’ultimo riferì di aver ricevuto da
Andropov l’ordine di sviluppare delle idee su come la società e il
Partito avrebbero potuto essere democratizzati. Šachnazarov produsse
quindi un documento che consegnò ad Andropov. Questi analizzò
attentamente le sue idee, ma le mise da parte obiettando che prima di
affrontare le questioni politiche il popolo avrebbe dovuto essere
nutrito e vestito. Una volta raggiunto questo progresso, in senso
engelsiano, se fosse quindi avvenuto un cambiamento per il popolo,
allora sarebbe stato possibile mettere in atto le idee di Šachnazarov.
Questa reazione mostrava quanto Andropov fosse pragmatico e
realista.
Il 4 maggio 1983, Honecker fece una visita uf ciale ad Andropov.
Questi si impegnò a creare un’atmosfera di apertura e ducia ed
espresse chiaramente la convinzione che, soprattutto in quel
momento, la cooperazione tra Mosca e Berlino fosse di importanza
decisiva. Se non fosse stato così, le attuali questioni urgenti non si
sarebbero potute risolvere. A Honecker questo discorso piacque,
anche perché, negli ultimi anni, i rapporti con il Cremlino non erano
stati privi di tensioni. C’erano opinioni contrastanti sulle questioni del
disarmo e della distensione, ma anche su questioni economiche.
Tuttavia, prima che gli impulsi dati da Andropov si fossero potuti
ripercuotere durevolmente sulla sfera politica e sul Partito, questi morì
di una malattia cronica. Non credo che i suoi quindici mesi di attività a
capo del PCUS possano essere interpretati come l’inizio di una
trasformazione, di un cambiamento fondamentale nella società.
Andropov voleva sì correggere il sistema post-stalinista, ma si
preoccupava anche di creare una nuova politica onesta, di rimediare ai
gravi errori che erano stati commessi, e tutto ciò, in vista del
successivo fallimento della perestrojka e del crollo dell’Unione
Sovietica, sarebbe stato un risultato da non sottovalutare. Lo storico
Roj Medvedev fornisce un giudizio abbastanza realistico di
quest’uomo che, se fosse rimasto in carica più a lungo, avrebbe forse
contribuito a dare al mondo una forma diversa:
Andropov non era certo un teorico del socialismo, e tutte le sue opere, che furono
stampate alla ne del 1983, furono inserite in un solo volume. Non era scaltro, e
certamente non era un uomo subdolo. Era glio dei suoi tempi, che erano dif cili, e non
solo si sforzava di migliorare il funzionamento di uno stato totalitario, ma cercava anche di
migliorare la vita delle persone. Era cauto e determinato allo stesso tempo. Si può
giustamente dire di lui che era un abile organizzatore e amministratore, un leader educato
e intelligente, un politico capace e competente e un arguto conversatore. Amava la musica
e la pittura, e non solo di tipo classico e realista; parlava inglese, poteva comunicare in
tedesco e in ungherese, e quanto agli affari di stato non era corrotto.

Con il successore di Andropov, Konstantin Černenko, ci fu una


ricaduta nella stagnazione. L’Unione Sovietica fu sempre più isolata,
anche all’interno della comunità socialista, che probabilmente lo era
ormai solo di nome.
Honecker colse questa occasione per distinguersi negli affari esteri.
All’ostinazione di Mosca nei colloqui sul disarmo – che erano intanto
stati congelati – si oppose con la provocazione “Ora più che mai!”. Chi
parla non spara, spiegò poi, e formò una coalizione internazionale
fondata sulla ragione e il realismo. Se in Occidente questo ruolo
maggiormente attivo e indipendente accrebbe la considerazione della
DDR e la reputazione personale di Honecker, a Est rese sospettoso il
suo potente vicino. Dietro le porte chiuse del Cremlino, Černenko
rimproverò Honecker come uno scolaretto e gli proibì di accettare
l’invito a visitare Bonn. Seduto al tavolo, a condividere ogni parola,
c’era anche il Segretario del Comitato centrale, Gorbačëv.
Un anno dopo, Černenko, che anche come Segretario generale fu
poco più che un capouf cio, passò a miglior vita. Prese il suo posto
Gorbačëv, il cui unico merito era l’età. Dopo che tre vecchi uomini
avevano occupato la posizione di leadership più importante
nell’Europa orientale, era giunto il momento di aprirsi a una
generazione più giovane. Naturalmente, in termini relativi: Gorbačëv
era allora già sulla cinquantina.
Tra i candidati si era parlato di Viktor Grišin, Primo segretario del
Comitato moscovita del Partito, e di Grigorij Romanov. Quest’ultimo,
secondo le memorie di Gorbačëv, scoppiò in lacrime quando il voto
andò contro di lui. In tutta onestà, penso che se lo sia inventato.
Romanov era certo ambizioso, ma non era un rammollito che si
sarebbe messo a piangere di fronte a una scon tta personale. E non
era nemmeno il funzionario incompetente e poco creativo che diceva
Gorbačëv, il quale pensò così di giusti care la rapida espulsione di
Romanov dal Politburo. Come rappresentante del complesso
industriale militare, Romanov era stato un concorrente pericoloso
all’interno del gruppo dirigente, perciò il nuovo Segretario generale
dovette buttarlo fuori alla svelta. Dico questo senza voler apparire
troppo critico (Gorbačëv rimosse Grišin da Primo segretario del
Comitato moscovita del Partito nel dicembre 1985 e nominò al suo
posto El’cin).
L’uomo nuovo, come tutti gli uomini nuovi, per prima cosa deve
costruire la base del proprio potere, e questo consiste in parte nella
nomina dei propri uomini di ducia, rovesciando e deponendo allo
stesso tempo i sostenitori del proprio predecessore. Su questo, in un
certo senso, ero e sono comprensivo. Tuttavia, sono anche tra quelli
che pensano che Gorbačëv abbia commesso, nel corso del tempo,
errori enormi nelle decisioni riguardanti i quadri. Falin mi fece notare
che, su dieci nomine, Gorbačëv faceva nove errori e solo una, nella
migliore delle ipotesi, era la scelta appropriata. (Per completezza, si
noti che la conversazione in cui fu pronunciata questa frase si svolse il
23 agosto 1991 presso il Comitato centrale del PCUS, un’ora prima che
l’edi cio fosse chiuso al Partito, ed è stata l’ultima conversazione
condotta con un ospite straniero nel vecchio Comitato centrale.
Benché non fosse stato un mio obiettivo, il caso offrì l’occasione a un
compagno tedesco di essere presente all’ora del decesso del Partito. A
volte la storia segue strani percorsi: la fondazione del Partito
comunista tedesco coincise secondo Lenin con l’istituzione della Terza
Internazionale; ora, logicamente, il PCUS e la SED sarebbero usciti
insieme dal palcoscenico mondiale.)
Michail Gorbačëv fu eletto Segretario generale nel marzo 1985 al
Plenum del Comitato centrale. Figlio di un bracciante agricolo
originario delle colline del Caucaso settentrionale, aveva no ad allora
perseguito la classica carriera di partito e non si era particolarmente
distinto nel presentare idee o suggerimenti coraggiosi. A differenza
dei suoi predecessori, non era stato direttamente in uenzato dalla
Grande guerra patriottica2 e dalle sue impronte psicologiche.
Nell’estate del 1942, il suo villaggio era stato occupato dai tedeschi per
quattro mesi. Ma ciò che si impresse di più nella sua memoria, in
maniera forte e persistente, fu l’inizio delle deportazioni dopo il ritiro
dei tedeschi. Già durante la collettivizzazione dell’agricoltura negli
anni Venti e Trenta, la famiglia di Gorbačëv aveva sperimentato disagi
e oppressione; il padre di suo padre era stato vittima della polizia
segreta (GPU) e fu deportato in Siberia. In poche parole: la paura di
un nemico esterno, che in Unione Sovietica per generazioni aveva
prodotto e mantenuto un bisogno ipertro co di sicurezza, sembrava
essere, sulla base dell’esperienza stessa di Gorbačëv, non più grande
della paura dell’apparato di sicurezza interno.
Gorbačëv fu eletto e nella sua prima dichiarazione durante il Plenum
di aprile sembrò confermare pienamente l’aspettativa di continuità.
Tuttavia, questa riunione del Comitato centrale fu in seguito
idealizzata e indicata come la nascita della perestrojka, eppure, oltre
ad assicurare che avrebbe aderito alle precedenti decisioni del Partito
e al miglioramento del socialismo, non fece alcun cenno a una nuova
politica. Con un po’ d’immaginazione, si poteva forse intuire che stesse
gettando le basi per qualcosa di nuovo, ma cosa avrebbe voluto
costruire su queste basi non lo sapeva nemmeno lui. Gli americani
Zelikow e Rice, che avevano una profonda conoscenza della
situazione, affermarono laconicamente: “Erano poche le ragioni per
ritenere che il Segretario generale avrebbe agito diversamente dai suoi
predecessori”.
Più tardi, non solo Gorbačëv seppe attirarsi le simpatie degli Stati
Uniti, ma il suo comportamento fece presa anche in altre parti del
mondo. In confronto ad altri leader sovietici (e alti funzionari nei pae-
si socialisti), appariva disinvolto e aperto. Invece degli angoli della
bocca sempre rivolti verso il basso di un Gromyko (“Mr Nyet”), che si
erano solidi cati come in una maschera anche nei lineamenti del viso
di Brežnev e Černenko, ora ci si trovava di fronte a frequenti sorrisi e a
una faccia amichevole e simpatica. Gorbačëv aveva, in tal senso, molto
in comune con Jurij Gagarin, il cosmonauta, che conquistò il cuore del
mondo intero quando nel 1961 compì il primo volo spaziale nel 1961.
Aveva rotto con la gura stereotipata dei russi rabbiosi e marziali
all’assalto dell’Occidente libero. Gorbačëv (“Gorby”) aveva facilità di
parola e non aveva bisogno di tenere i documenti sotto il naso quando
voleva comunicare qualcosa. Di tanto in tanto, nella conversazione,
faceva ricorso a semplici appunti scritti a mano, ma anche in quel caso
riusciva sempre a stupire i suoi interlocutori con espressioni
spontanee. (Alcune, spesso ripetute, sono nite tra le citazioni più
famose del mondo. Celebre fu quella del 6 ottobre 1989, a Unter den
Linden a Berlino, quando, riferendosi alla testardaggine della
dirigenza della SED, affermò: “Chi arriva troppo tardi sarà punito
dalla vita”.) L’ondata di simpatia con cui fu accolto all’estero fu
probabilmente una reazione a questo sorprendente contrasto con i
suoi predecessori. Ma gli osservatori più acuti non si lasciarono
sfuggire che raramente era schietto, anzi era sempre estremamente
controllato. Gorbačëv era in grado di mettere avanti quegli aspetti della
sua personalità che riteneva necessari per ottenere l’effetto desiderato.
A seconda delle esigenze, poteva essere un affascinante conversatore,
un politico carismatico, uno statista lungimirante, uno spietato
negoziatore o un acuto stratega di partito.
Oggi, dopo essere stato privato di tutti quegli uf ci che un tempo gli
conferivano enorme importanza, e lasciato di fronte alla sua vera
personalità (e ai suoi risultati storici), sembra aver mantenuto poco di
quel carisma. In occasione di eventi come l’Oktoberfest e anniversari
lo si può sentire snocciolare le solite banalità. E non mi risulta che ci
sia qualche ex presidente americano che si sia umiliato prestando il
volto a una pubblicità per un fastfood…
Michail Gorbačëv iniziò come i suoi predecessori. Come il dif dente
Stalin aveva cacciato tutti i suoi consiglieri personali (poiché temeva
che presto avrebbero potuto sapere tanto quanto lui stesso), anche
tutti i suoi successori non ebbero consulenti. Lo stesso Honecker,
quando durante un’intervista un giornalista occidentale gli pose
direttamente la domanda, affermò semplicemente di non averne
bisogno, poiché era abbastanza informato dai suoi compagni del
Politburo. Nel corso del tempo, Gorbačëv cominciò a radunare attorno
a sé un gruppo, ma anche qui probabilmente trovava conferma ciò che
Falin aveva detto a proposito dei suoi errori nelle nomine. Secondo
alcuni suoi stretti collaboratori, non era facile consigliare e sostenere il
Segretario generale. Gorbačëv rispettava la sua agenda e faceva molte
telefonate da solo dalla sua dacia, senza consultare i suoi uomini di
ducia. I visitatori occidentali percepivano il caos nell’apparato del
Cremlino; anche solo provare a telefonare al Segretario generale
poteva a volte rappresentare un problema quasi insormontabile.
Nella DDR del 1985 di tutto ciò sapevamo poco. Dopo il primo
discorso del nuovo uomo, le menti critiche della SED avevano
visibilmente riacquistato la speranza che il socialismo potesse ora
liberarsi dai suoi rigidi ormeggi, e dirigersi verso nuove rive. I decenni
passati avevano dimostrato che i cambiamenti avrebbero potuto avere
luogo solo se le idee fossero partite dal centro del potere. Tutti i
tentativi di riforma e di democratizzazione partiti dal basso erano stati
puntualmente repressi e soffocati da Mosca. L’Unione Sovietica era la
potenza guida e il Partito comunista l’avanguardia del progresso
umano. Aveva determinato il corso, il ritmo e la direzione degli eventi.
All’uovo non sarebbe mai stato permesso di diventare più intelligente
della gallina…
E ora la potenza guida era tornata sulla scena mondiale. Il
linguaggio del Segretario generale era insolito, non consisteva più
semplicemente negli stereotipi e nei cliché che ben conoscevamo. Le
immagini utilizzate erano vivide, gli argomenti logici, le conclusioni
comprensibili. Le sue osservazioni ri ettevano, da un lato, l’adesione
ai principi, dall’altro, una suf ciente essibilità nel trattare con altre
opinioni.
A metà degli anni Ottanta la DDR era in bancarotta e sopravviveva
solo grazie ai prestiti miliardari dell’Occidente. Chi ci aveva condotto
a questo punto non era il nemico di classe (sebbene ci rendesse
l’esistenza costantemente dif cile), quanto, soprattutto, politiche
economiche e sociali sbagliate. In questo senso, tutti i paesi socialisti
erano simili. Inizialmente, Honecker aveva solo delle riserve nei
confronti delle riforme, ma queste si trasformarono poi sempre più in
ostilità. Considerava il “suo” socialismo quasi perfetto, anche se,
declamando la sua frase “Ciò che abbiamo ottenuto non è tutto ciò
che si può ottenere”, pensava di affrontare le riserve o i de cit
apparenti. In effetti, fare domande realmente critiche era visto come
una messa in discussione della sua politica. Chi faceva questo genere
di domande veniva calunniato come criticone e pessimista, una pratica
che si sarebbe ripetuta anni dopo nella Germania riuni cata.
Agli occhi di Honecker, Gorbačëv era un avventuriero, un giocatore
d’azzardo. Se si guarda al risultato nale della sua politica, è dif cile
contraddire questo punto di vista. Tuttavia, a quei tempi, Honecker si
sbagliava. La sua arroganza impedì che anche noi partecipassimo al
momento giusto e intensamente a una discussione aperta ed
eterodossa sui fondamenti del socialismo, dal punto di vista materiale
e ideale. Il ri uto del segnale proveniente da Mosca da parte di
Honecker non era basato su una maggiore lungimiranza, ma al
contrario sulla limitatezza di vedute. La sua lungimiranza consisteva
forse solo nel cercare di preservare il suo potere.
Su quale quorum democratico era basato questo Segretario
generale “assoluto”, che controllava il Comitato centrale che a sua
volta governava lo Stato? Abbiamo bisogno della democrazia come
l’aria che respiriamo, aveva dichiarato solennemente Gorbačëv. Questo
non valeva solo per l’Unione Sovietica.
Sono certo che all’inizio degli anni Settanta, il mio partito, la SED,
avrebbe conquistato la maggioranza, anche se non assoluta, se ci
fossero state elezioni veramente democratiche. Un tale voto non
sarebbe stato una testimonianza di ducia a sostegno della
continuazione di un’alternativa sociale? Ma no al 1989 questa ducia
era stata quasi del tutto annullata. Col senno di poi, ho i miei dubbi sul
fatto che una correzione di rotta nel 1985 avrebbe permesso di
riconquistare la ducia perduta. A quei tempi, però, non ero l’unico a
nutrire questa speranza.
1
Il giornale uf ciale della SED. [N.d.T.]
2
Seconda guerra mondiale. [N.d.T.]
CAPITOLO II
PERESTROJKA:
ASPETTATIVE E REALTÀ

Già dalle sue prime apparizioni Gorbačëv aveva saputo infondere


speranza. Oggi mi chiedo: come è stato possibile? In n dei conti, alla
base di tutta questa ondata emotiva c’era ben poca sostanza.
Al Plenum di aprile aveva parlato del progresso tecnico-scienti co
come dell’elemento più importante per lo sviluppo sociale. Non era
una novità, la stessa cosa era già stata dichiarata dai suoi predecessori.
Tuttavia, era interessante la sua proposta di decentrare a tale scopo la
gestione dell’economia e di espandere in modo sostanziale i diritti
delle singole imprese. La soluzione delle questioni sociali, secondo
Gorbačëv, non avrebbe avuto luogo dopo la modernizzazione e la
riforma dell’economia, ma contemporaneamente, in parallelo.
Avrebbero dovuto costruire più case, ristrutturare l’industria
alimentare, migliorare l’istruzione pubblica e implementare
l’assistenza medica. L’uguaglianza salariale doveva essere consegnata
alla storia: chi lavorava di più e meglio doveva guadagnare
diversamente da chi lavorava di meno e peggio. Inoltre, da quel
momento in poi, anche le competenze degli organi locali dello stato
avrebbero dovuto essere ampliate.
Ero già a conoscenza di molte di queste esigenze e ri essioni. Erano
già presenti nel progetto “Intensi cazione 90” di Romanov e in più
conoscevo anche le carenze che vi erano menzionate grazie al mio
lavoro quotidiano come Primo segretario della SED a Dresda. Tutto
ciò accrebbe le aspettative nei confronti del nuovo corso e mantenne
le critiche al minimo. Il principio di Marx per cui si deve dubitare di
tutto fu messo da parte insieme a ogni ri essione e obiezione.
Ben presto nuove parole ed espressioni entrarono a far parte del
nostro vocabolario politico: nuovo pensiero, più democrazia signi ca
più socialismo, la rivoluzione va avanti, creazione della casa comune
europea, glasnost’1 e via di seguito. La nuova apertura e trasparenza
del processo decisionale politico erano viste come parti intrinseche
della perestrojka, andavano di pari passo. Glasnost’ voleva dire
formazione democratica della volontà politica dal basso, e quindi
apertura degli archivi, diffusione di argomenti un tempo tabù e
proiezione di lm che erano rimasti a lungo ad aspettare di essere
distribuiti. Improvvisamente i trentacinquemila uf ciali polacchi morti
nella foresta di Katyn’ erano stati assassinati dall’NKVD di Stalin e
non, come era stato insistentemente affermato sin dagli anni
Quaranta, dagli invasori fascisti. La commissaria, un lm toccante
sulla rivoluzione, fu proiettato nei cinema con oltre vent’anni di
ritardo dalla sua uscita. Il suo messaggio era chiaro: anche una
rivoluzione socialista può essere crudele e dura con l’uomo e prima di
raggiungere l’umanità si devono attraversare umi di sangue e lacrime.
Uscirono nuovi libri e lm che ripercorrevano criticamente la storia
sovietica. Nel lm Pentimento di Tengiz Abuladze veniva fatta la
caricatura di un despota, la cui sionomia e il cui carattere
rappresentavano chiaramente una fusione di Stalin e Hitler. Questo e
altri lm non furono proiettati nei nostri cinema e i due maggiori
quotidiani della DDR pubblicarono, su istruzioni del Politburo, una
severa recensione di Pentimento. I lettori, pur non conoscendo il lm,
avevano capito: la critica non prendeva di mira l’opera bensì l’autore.
Gradualmente si venne a sapere che in aggiunta al patto Molotov-
Ribbentrop esisteva un protocollo segreto sulla spartizione della
Polonia e sulle rispettive sfere di in uenza. Questo era sempre stato
negato (lo negò anche Gorbačëv sebbene, come si è poi venuto a
sapere, il documento fosse conservato nella sua cassaforte). E si iniziò
apertamente a chiedersi se la guerra sovietico- nlandese non
costituisse un’eclatante violazione del diritto internazionale…
Sembrava quasi che il senso della glasnost’ fosse prima di tutto di
illuminare tutti gli angoli sporchi del socialismo reale in Unione
Sovietica, tanto che a volte potevo quasi capire il ri uto di Honecker a
prendervi parte. In questo modo non stavamo regalando argomenti al
“nemico di classe”? Non stavamo spingendo chi magari era già
scettico a passare dall’altra parte? Non stavamo alimentando il
sospetto che dopotutto non eravamo poi così moralmente superiori?
Non ci stavamo scavando la fossa con le nostre stesse mani?
Aveva forse ragione Honecker quando accusava gli ammiratori
della glasnost’ e della perestrojka di essere degli ingenui? In quanto
ammiratori di Gorbačëv e delle sue politiche eravamo davvero
politicamente così sciocchi come credeva lui?
Devo ammettere che alcune rivelazioni andavano davvero un po’
oltre e furono anche per me dolorose. Ma c’era un argomento che mi
tranquillizzava: quando si apre una diga, emergono tutti i ri uti che
stavano sul fondo; ma quando l’acqua torna al livello di prima, tutto
viene di nuovo ricoperto dalle placide acque del lago. Come politico,
sapevo che ogni messaggio negativo ci avrebbe penalizzato, ma come
socialista ero convinto che alla ne solo la verità avrebbe potuto
venirci in aiuto. In questo Gorbačëv aveva assolutamente ragione. Se
una casa è costruita sulle menzogne, le sue fondamenta non potranno
mai sostenerne il peso. Ma che ne aveva fatto il precetto secondo cui
non avremmo dovuto dare nessun vantaggio al nemico di classe?
Innanzitutto, non avevamo condiviso nessuna nuova informazione; le
questioni controverse del passato erano già state al centro di diverse
discussioni, quindi al massimo avremmo dato al nemico la
soddisfazione di poter dire che aveva avuto ragione. E quindi? Tale
ammissione era, a mio avviso, soprattutto l’atto di uno stato sovrano
maturo, che nel lungo periodo avrebbe potenzialmente suscitato
simpatia nei nostri confronti, che era molto meglio che mostrare
vigliaccheria e rassegnazione.
In secondo luogo, dovevamo essere onesti con noi stessi e ritrovare
noi stessi. Dopotutto, lo sviluppo di una società socialista non poteva
darsi solo come ri esso e risposta al nemico di classe. Di certo
chiunque preferisce pulire in casa i panni sporchi, ma quando è
necessario bisogna avere il coraggio di fare pubblicamente ciò che si
preferirebbe fare in privato.
Honecker aveva uno spiccato senso del potere. Sapeva che ogni
fatto storico non edi cante toglieva lustro alla dimora socialista, quella
stessa dimora che lui e i propagandisti avevano tenuto con cura per
decenni. Smise allora di distinguere tra le realtà di fatto e di diritto,
prese la propaganda per verità pensando che lo avrebbero fatto anche
gli altri. Se si gratta via lo strato di luccicante vernice sulla super cie,
sotto non rimane più nulla. Era questa la sua logica.
All’VIII Congresso del Partito fu di nuovo formulato l’invito a
superare le restrizioni e a rompere i tabù, ma venne anche subito
messo da parte. Eppure avevamo raggiunto alcuni risultati, che io
stesso ritenevo importanti e degni di essere difesi. Eravamo riusciti a
scon ggere la paura del futuro, tutti avevano lavoro e mezzi di
sostentamento, i bambini avevano prospettive, la vecchiaia non era un
peso, tutti avevano diritto all’assistenza e alle cure mediche,
all’educazione e all’acquisizione di nuove competenze. Senza dubbio,
alcuni appartamenti non erano all’altezza, la pensione di base era
bassa, bisognava aspettare una quindicina di anni prima di poter
comprare un’automobile nuova e le vacanze erano possibili solo in
determinati paesi. Ma ciò che avevamo realizzato non era una
nzione, bensì una realtà invidiata in tutto il mondo. Invece di mettere
in luce questi (benché modesti) bene ci, renderli visibili e
contrapporli alla realtà della tanto più ricca Repubblica federale,
volevamo superare il nostro vicino occidentale senza averlo prima
raggiunto, o per lo meno, essere dei degni concorrenti. Non fummo
mai in grado di farlo. Ma questa è proprio una debolezza piccolo-
borghese: voler copiare il proprio vicino, senza averne i mezzi. Werner
Lamberz, che aveva riconosciuto questo problema fondamentale, nel
suo articolo del 1977 pubblicato sulla rivista teorica “Einheit” criticava
il consumismo che minacciava sempre più di soppiantare i valori
morali della società socialista. Honecker lo considerò, forse in maniera
non del tutto infondata, come un attacco alla sua politica, e respinse
questo chiaro segnale d’allarme a livello interno, senza nessuna
discussione.
Gorbačëv aveva quindi aperto le dighe. Noi osservavamo incantati e
sapevamo che tutto sarebbe cambiato anche nel nostro paese anche se
la DDR stava vivendo un pesante ristagno. Ma ciò che si presentava
come perestrojka e glasnost’ era davvero la chiave per risolvere i
problemi che si erano accumulati nel tempo? E se la risposta fosse
stata positiva quali erano retrospettivamente i motivi per cui la
riorganizzazione non ebbe successo? Quando e in che modo il suo
decorso sfuggì di mano?
Il punto di partenza per tutte le ri essioni deve essere la
Rivoluzione russa del 1917, che passò alla storia come la grande
Rivoluzione socialista d’ottobre. Essa fu il tentativo legittimo di
rovesciare le inenarrabili condizioni della Russia zarista belligerante
che aveva osato costruire un’alternativa di società. Le obiezioni
secondo cui si sarebbe trattato più della rivolta di un manipolo di
uomini che si impossessò del potere, o di uno stratagemma da parte
dello stato maggiore dell’esercito tedesco per aiutare Lenin e i suoi
compagni a minare il potere dello zar, per quanto possano contenere
qualche elemento di verità, non possono essere prese sul serio. La
rivoluzione si veri cò e diede l’esempio per le insurrezioni in altri
paesi europei: la Repubblica di Weimar fu in un certo senso il risultato
di questa svolta storica. Ciò che si è sempre riconosciuto a questa
rivoluzione è di aver dato un notevole impulso all’emancipazione
dell’umanità in generale. Questo aspetto non si è esaurito con il suo
fallimento, perché anche la scon tta porta nuove intuizioni: l’umanità
sa oggi cosa non può funzionare. Un socialismo degno di questo nome
deve essere costruito in maniera diversa.
Naturalmente, bisognerebbe chiedersi se il tentativo dei bolscevichi
non sia giunto troppo presto e se non fosse per questo destinato a
fallire. Nella migliore delle ipotesi, la domanda ha valore retorico.
Credo sia più interessante chiedersi se la Rivoluzione d’ottobre e i
suoi effetti non abbiano invece allungato la vita all’imperialismo. Oggi
più che mai, vediamo che il capitalismo selvaggio non è assolutamente
in grado di risolvere i problemi del mondo. In un’economia in cui il
pro tto è considerato il bene più alto, dove tutto è valutato per la sua
utilità e viene trattato e scambiato di conseguenza, gli interessi
dell’uomo vengono persi di vista a meno che non abbiano un impatto
sulle condizioni della produzione. Le multinazionali pensano e
agiscono solo per ragioni economiche e non per il benessere delle
persone o nell’interesse del mondo in generale. Clima, ecologia,
risorse naturali, cibo, lavoro, istruzione, alloggio, cure mediche ecc.
non possono essere regolati esclusivamente dall’economia di mercato.
Ciò signi ca che, se l’umanità non vuole uccidersi lentamente e
distruggere il pianeta, è necessario cercare di lottare per un modo
diverso di vivere e di produrre. Da socialista dico che questo modo
potrà essere solo socialista e democratico.
Ottant’anni fa l’imperialismo non era in grado di risolvere questi
problemi in modo costruttivo. Ma, è questa la mia domanda, non è
stata proprio la Rivoluzione d’ottobre che, dando inizio al socialismo
di stato e contribuendo a creare il risultante bipolarismo del mondo,
ha salvato “l’imperialismo morente, putrescente e parassitario”?
Mettendolo sotto pressione e costringendolo a rinnovarsi, oltre ad
averlo aiutato a sopravvivere, non lo aveva anche aiutato a rafforzarsi
grazie alla necessità di mobilitare il potenziale creativo che giaceva al
suo interno? La domanda appare urgente se si considera criticamente
lo stato attuale dell’imperialismo, ora rivoltato contro se stesso.
L’imperialismo avrebbe potuto incontrare lentamente la sua ne nel
corso di questo secolo, se non fosse stato continuamente messo in
discussione dal socialismo realmente esistente? I movimenti dei
cittadini e dei popoli gli avrebbero inesorabilmente messo ne in
modo democratico, o lo avrebbero rimodellato, modi candolo per
renderlo più sopportabile e meno disumano e ricattatorio di quanto lo
sia oggi? Forse ci saremmo avvicinati molto di più all’ideale umano
della Rivoluzione francese del 1789 se non avessimo intrapreso la
strada della Rivoluzione d’ottobre, o forse ce ne saremmo invece
allontanati. Entrambe le ipotesi sono ugualmente impossibili da
dimostrare. La storia non è un’equazione matematica, ma può essere
raggruppata in epoche e suddivisa in fasi distinte.
Secondo me, tre quarti di secolo di storia sovietica possono essere
suddivisi in cinque fasi.
Il primo periodo comprende i primi cinque anni dopo la rivoluzione,
che furono sostanzialmente segnati dalla gura di Lenin. Questo
periodo vide la liquidazione dello stato zarista e l’istituzione dei
soviet, l’instaurazione della pace sia esternamente sia, dopo guerre
civili e interventi militari, internamente. Durante quel periodo furono
rovesciate le strutture della proprietà privata e, quando la rottura
radicale si rivelò troppo violenta, questa fu corretta con l’aiuto della
Nuova politica economica di Lenin (NEP). Da quel momento
elementi socialisti e capitalisti dell’economia iniziarono a coesistere,
gli uni di anco agli altri.
Il secondo periodo comprende il regime di Stalin, che durò circa tre
decenni, no alla sua morte nel 1953. La collettivizzazione
dell’agricoltura e la costruzione dell’industria, la Grande guerra
patriottica, la coalizione anti-hitleriana, la Conferenza di Potsdam e la
Guerra fredda, sono tutti eventi storici legati al suo nome. I
cambiamenti nella struttura economica del paese furono effettuati
ricorrendo alla forza bruta: centinaia di migliaia furono costretti
all’esilio in quanto kulaki, la costruzione del socialismo costò migliaia
di vite e i campi di lavoro erano parte integrante dell’economia.
L’invasione della Germania di Hitler, che fu indiscutibilmente un
atto di aggressione, fu preceduta dalle stesse sue azioni autoritarie.
Stalin era in lotta costante contro sabotatori, agenti segreti e nemici
del popolo. L’enorme apparato di sicurezza che aveva creato uccise
nel corso degli anni milioni di persone, inclusi molti comunisti.
L’amara verità è che perirono più quadri comunisti tedeschi sotto
Stalin che sotto Hitler.
A questo proposito ci sono due interpretazioni: o Stalin aveva
deformato il socialismo no a renderlo irriconoscibile; oppure aveva
solo fatto emergere chiaramente i suoi difetti di nascita, realizzando
tutte quelle conseguenze le cui premesse erano già state poste da
Lenin. Il principio del centralismo democratico, per esempio, senza
democrazia conduce inevitabilmente al dispotismo e al culto della
personalità. Nel 1918, quando nessuno ancora pensava a Stalin come
Segretario generale e il potere sovietico era ancora agli albori, Rosa
Luxemburg richiamò l’attenzione sulle pericolose conseguenze di una
dittatura da parte dell’apparato di partito. Le sue previsioni si
avverarono, la dittatura del proletariato di Stalin – come anche le
versioni tedesca, polacca, ceca, ungherese, rumena o bulgara – si rivelò
disastrosa. La perestrojka avrebbe tentato di correggere questo difetto
di nascita.
Il terzo periodo della storia sovietica è quello del cosiddetto
“disgelo”. Si tratta dell’era di Chruščëv e durò quasi un decennio. Dopo
la liquidazione di Stalin e dello stalinismo durante il XX Congresso
del Partito comunista sovietico  nel 1956, si poteva avvertire un certo
aumento della libertà, tuttavia ciò non portò a una ri essione
fondamentale sulla struttura della società, sul partito e sul suo ruolo
nella società. La critica a Stalin e allo stalinismo rimase super ciale e
non seppe scavare no alle radici. Stalin fu interpretato come un
incidente di percorso, non come una conseguenza logica. Si riteneva
che con alcune procedure esteriori (la suddivisione burocratica ai
vertici, la riabilitazione delle vittime, la partecipazione democratica sul
posto di lavoro, ecc.) si sarebbero potute correggere le evidenti
manchevolezze strutturali.
Il quarto periodo durò circa due decenni e fu l’epoca post-stalinista.
Finito il disgelo, questa epoca fu essenzialmente segnata dalla
stagnazione. Una parte importante di responsabilità per questa
ricaduta l’ebbe Brežnev, che fu a capo del Partito dal 1964 al 1982,
anche se bisogna notare che dopo la metà degli anni Settanta il suo
ruolo fu quasi solo di rappresentanza. A causa del progressivo
peggioramento delle sue condizioni di salute, Brežnev fu sempre più
incapace di svolgere i suoi doveri uf ciali, per cui l’apparato del
Partito governava al suo posto oppure lasciava che le cose seguissero il
loro corso.
Sebbene non vi fossero repressioni di massa come sotto Stalin,
esistevano tuttavia molti parallelismi: dalla centralizzazione di tutte le
decisioni sulla società (incluso il controllo centrale dell’economia) no
alla totale burocratizzazione della vita. Ciò portò a una
demoralizzazione senza precedenti dei cittadini, che venivano di fatto
trattati come servi della gleba, e a un culto della personalità dei
funzionari di partito e di stato che ricordavano le pratiche feudali.
La piani cazione centralizzata e la gestione dell’economia nazionale
si dimostrarono incapaci di governare un tale meccanismo complesso
che coinvolgeva oltre un sesto delle terre emerse. Sebbene questa
economia piani cata dall’alto fosse in grado di galvanizzare tutte le
forze verso il raggiungimento di un obiettivo strategico, come la
risposta al monopolio atomico degli Stati Uniti, la ricerca spaziale o lo
sviluppo bellico in generale, tutto il resto si muoveva invece
nell’ambito della pura fantasticheria. Il risultato fu un costante calo
della produzione e quindi del tenore di vita. Non pochi cittadini
sovietici espressero la propria rabbia sostenendo che almeno sotto
Stalin c’era abbastanza da mangiare.
Si sviluppò un’economia sommersa a cui seguirono corruzione e
nepotismo. Una schiera di funzionari privilegiati si serviva
impunemente di tutto ciò che il popolo produceva, il potere
giudiziario chiudeva un occhio o magari due e partecipava al
saccheggio dei beni collettivi. Il vitello d’oro, cioè l’esercito, era
considerato intoccabile e divenne uno stato all’interno dello stato.
Quello che accadeva dietro le mura delle caserme lì rimaneva. Se
moriva una giovane recluta o se queste venivano trattate come servi
dagli uf ciali, non c’era mai nessuna conseguenza.
Andropov aveva cercato di ripulire queste stalle di Augia, ma la sua
morte prematura impedì che questo compito fosse completato.
Černenko, dal canto suo, non ci pensò neppure.
Il quinto e ultimo periodo della storia sovietica fu breve, o lungo,
quanto il primo periodo sotto Lenin. La gura di spicco fu Gorbačëv,
che si trovò di fronte alla scelta o di continuare il confronto con
l’Occidente (che sin dall’inizio aveva in uenzato la politica interna ed
economica dell’Unione Sovietica) mobilitando tutto ciò che era
rimasto da mobilitare (dopotutto, Reagan aveva dato ato alle trombe
per la battaglia nale, il che non sembrava poi così male per
l’Occidente); o di dire addio al pensiero tradizionale di Mosca,
sbarazzarsi di dogmi e idee antiquati, e dare inizio a un nuovo modo di
pensare. Data la possibilità di una reciproca distruzione nucleare
(“Colui che spara per primo muore per secondo”), la questione dei
vincitori e dei perdenti non era più rilevante. Gli interessi di classe –
fondamentali per tutte le considerazioni politiche, militari ed
economiche – apparivano obsoleti, dato che ora era in gioco
l’esistenza dell’intera umanità. In breve, era necessario prima
determinare l’oggetto e lo scopo di una nuova politica estera, e in
secondo luogo – ma come centro di tutti gli sforzi politici – creare le
effettive condizioni per il socialismo.
Se l’abolizione del socialismo non era il vero obiettivo di tali sforzi,
allora questo quinto periodo deve essere considerato un fallimento.

Dopo il Plenum dell’aprile 1985, Gorbačëv aveva formato la sua


squadra. A luglio Romanov fu sollevato dalla sua posizione direttiva,
mentre il suo successore a Leningrado, Saikov, entrò nel Politburo di
Mosca. Il nuovo Primo segretario della oblast’ di Leningrado,
Solov’ëv, fu nominato candidato al Politburo. A settembre Ryžkov
divenne Primo ministro e portò al Politburo il capo del KGB Čebrikov
e il segretario all’agricoltura Ligačëv, oltre a El’cin, che prese il posto
di Grišin, capo del partito di Mosca. Nominò Ivaško Vicesegretario
generale – una posizione che no ad allora non esisteva – e introdusse
il capo del partito georgiano Eduard Ševardnadze, suo amico dagli
anni Cinquanta, nel Politburo, nominandolo ministro degli esteri.
Andrej Gromyko, che aveva raccomandato l’elezione di Gorbačëv e
giusti cato la proposta al Comitato centrale, fu insignito del
prestigioso incarico di Presidente del Presidium del Soviet supremo.
Nei mesi successivi, Gorbačëv riunì intorno a sé una piccola cerchia
di consiglieri: Jakovlev, diplomatico esperto (in precedenza
ambasciatore in Canada) e ideologo del partito, fu nominato capo del
dipartimento internazionale del Comitato centrale e in seguito del
Politburo; Černjaev, teorico del Partito che proveniva dal
Dipartimento internazionale; il maresciallo Achromeev, capo dello
stato maggiore dell’esercito ed esperto militare, e Ševardnadze. Tra le
persone di ducia c’erano anche Falin, ambasciatore nella Germania
Ovest dal 1971 al 1978, che come segretario del Comitato centrale si
occupò del Dipartimento internazionale del Comitato centrale dal
1988, e Portugalov, un germanista proveniente dal circolo di Falin.
Per dare un po’ l’idea del contesto: Jakovlev rivendicava di essere
stato l’ideatore della perestrojka. Gorbačëv era, a suo dire, solo il suo
pessimo esecutore.
Alla metà degli anni Ottanta, l’economia civile sovietica era ai
minimi storici. Le fabbriche erano controllate, sia sul piano
amministrativo sia su quello burocratico, dallo stato ed erano
economicamente e giuridicamente isolate l’una dall’altra: non
esistevano né un mercato né alcuna relazione tra produttore e
consumatore. Non c’era nessun proprietario, di conseguenza nessuno
sentiva come proprio ciò che faceva e i direttori erano amministratori
senza responsabilità. Ecco come appariva questa situazione in
dettaglio:
1) L’autorità centrale di piani cazione non disponeva di
informazioni suf cienti su quali prodotti fossero effettivamente
necessari al paese e in quali quantità. C’erano degli obiettivi speci cati
nel piano per cui si doveva continuare con il tipo e la quantità della
produzione precedente. Il livello della produzione era assunto come
obiettivo primario e se scendeva sotto le direttive, il piano veniva
corretto.
L’obiettivo del piano veniva sistematicamente aumentato ogni anno
dal due al quattro percento, ma le direttive non venivano mai
soddisfatte. Lo stato effettivo della produzione alla ne dell’anno era
assunto (dopo la correzione del piano) come completa realizzazione
del piano. Ciò portò all’assurda situazione per cui, mentre anno dopo
anno il “piano” si realizzava, il piano quinquennale complessivo non
poteva però mai essere raggiunto.
Questa situazione insostenibile era aggravata dal fatto che i
dirigenti delle fabbriche, seppure non riuscissero a rispettare il piano,
obbligatorio per legge, ngevano allora di raggiungere la crescita
richiesta del due o del quattro percento e richiedevano, di
conseguenza, maggiori forniture agli uf ci di piani cazione. Le
consegne delle forniture inviate dagli uf ci centrali di piani cazione
erano di solito inferiori alle quantità ordinate (dopotutto, c’era
carenza ovunque), quindi i dirigenti delle fabbriche richiedevano più
di quanto fosse effettivamente necessario, seguendo il principio
secondo cui ordinando dieci, forse si riusciva a ottenere il due di cui si
aveva realmente bisogno. Poiché questi trucchi erano noti alle autorità
di piani cazione, queste non potevano fare una stima adeguata di ciò
di cui avevano realmente bisogno le rispettive unità produttive, e
nivano quindi con l’ignorare del tutto le richieste. In poche parole:
questo tipo di piani cazione era completamente inutile. La
produzione non soddisfaceva i bisogni reali, le carenze o la
sovrapproduzione costituivano gli indicatori determinanti, ma non
c’era nessuno che fosse ritenuto responsabile per lo spreco e lo
sperpero di ricchezza e lavoro. L’assenza di responsabilità organizzata
regnava in tutto il paese. Il peggior impatto si ebbe nell’agricoltura,
dove andava perso regolarmente circa un terzo dei raccolti. Tale
perdita doveva essere compensata annualmente con l’importazione di
diversi milioni di tonnellate di cereali, principalmente dagli Stati
Uniti, ai quali venivano destinate sempre di più le già scarse riserve di
valuta estera.
2) Il comitato dei prezzi di Stato determinava i prezzi delle merci,
che erano quindi più o meno arbitrari. Da un lato, il costo dei prodotti
importati doveva rimanere stabile per ragioni politiche,
indipendentemente dal fatto che le materie prime fossero diventate
più o meno costose, o che la produzione diventasse più ef cace
attraverso l’automazione o meno. Dall’altro, i prezzi dei beni di
consumo di qualità relativamente elevata tendevano ad aumentare per
almeno due motivi: primo, perché non ce n’era una quantità suf ciente
per soddisfare la domanda, e in secondo luogo perché si doveva far
credere ai consumatori di aver acquistato qualcosa di molto speciale
(anche se questo accadeva di rado).
I prezzi non erano dunque determinati dall’offerta e dalla domanda,
cioè dal mercato, dal valore d’uso di una merce o dai costi di
produzione, ma dall’arbitrio soggettivo dell’autorità.
3) Anche la qualità dei prodotti aveva scarso effetto sulle vendite: lo
stato garantiva infatti l’acquisto di ogni prodotto. I reclami erano
pressoché impossibili. Per quanto riguardava le macchine agricole, per
esempio, erano avvenuti molti miglioramenti, ma erano stati i kolchoz
e i sovchoz stessi a metterli in atto. Inoltre, ogni unità agricola si
vedeva obbligata a mantenere la propria riserva di pezzi di ricambio,
ottenuta tramite il baratto: grano in cambio di ruote dentate, patate in
cambio di cemento, tavole in cambio di lame, ecc. Questa economia
sotterranea, al di fuori del normale commercio, non solo privava il
“mercato” di notevoli quantità di merci, ma impiegava anche una
grande quantità di personale. I lavoratori venivano continuamente
distolti dai loro compiti nei cantieri, nelle strutture agricole, nelle
fabbriche, per occuparsi dello scambio o dell’acquisizione di beni. Alla
ne del mese, gli stipendi venivano pagati in parte in contanti, in parte
in beni o in tessere di razionamento per beni e servizi.
Questi e altri fattori portarono, anche in aziende paragonabili tra
loro, a livelli di redditività molto diversi. L’autorità di piani cazione e
gestione economica centrale si preoccupava poi della compensazione.
Le aziende in rosso perdevano così ogni stimolo a uscire da questa
condizione: chi ri uterebbe volontariamente delle sovvenzioni? Una
seconda sovvenzione era destinata agli investimenti, ma raramente
arrivava a coprire il cinquanta percento dei reali bisogni. In
circostanze normali ciò avrebbe suscitato una maggiore creatività da
parte dell’amministrazione delle imprese, che si sarebbe posta come
obiettivo quello di colmare il divario con l’aiuto di innovazioni
tecnologiche e ricorrendo a ogni risorsa tecnica. Ma questo era
escluso: le imprese non avevano nessuna autonomia e dif cilmente
erano in grado di piani care e lavorare a livello di economia aziendale,
perché, oltre a tutto il resto, dipendevano dalle autorità preposte alla
piani cazione di stato. Ogni segretario di partito, ogni istituzione
territoriale, fosse essa di partito o di stato, era autorizzata a interferire
negli affari interni delle aziende. Gli ordini dei “superiori” avevano
una priorità maggiore rispetto al piano e alla redditività. A subirne le
conseguenze, tuttavia, erano esclusivamente le imprese.
Il groviglio di problemi crebbe così tanto che nei decenni successivi
fu chiamato il “nodo gordiano” dell’economia sovietica. E si sa che
questo, anziché sciolto, può essere solo reciso con un colpo di spada.
Gorbačëv si decise a recidere il nodo, annunciando n dall’inizio del
suo mandato riforme di vasta portata per l’economia. In primo luogo,
proibì la vodka nelle aziende e nelle altre istituzioni e ridusse la
produzione di liquori, in quanto il diffuso alcolismo era in parte
responsabile del basso morale e del continuo declino della produzione.
Ciò gli procurò da subito scherno e derisione da parte dei suoi
connazionali, che avevano ribattezzato il loro Segretario generale
“Mineralnij Sekretar”2.
Questa rigida misura non portò, tuttavia, il paese a bere di meno. Il
risultato fu che le bevande alcoliche cominciarono a essere prodotte
clandestinamente. Ci furono, inoltre, effetti collaterali inaspettati. Nel
1987 nei pressi di Odessa andai a visitare un vigneto che però non
aveva più viti. Erano state sradicate durante l’“attuazione del decreto”.
Ci vollero anni, dopo il ritiro del decreto, prima che l’uva, lì e altrove,
potesse di nuovo essere raccolta. Soprattutto, venendo a mancare le
entrate scali derivanti dalla vendita della vodka, si generò un buco di
miliardi di rubli nel bilancio dello Stato e fu questo che alla ne portò
a una correzione della decisione di Mosca.
Gorbačëv attraversò il vasto territorio sovietico, visitò le aziende e le
piazze, tenne colloqui individuali e si concesse ai bagni di folla. Aveva
innescato una rottura con i suoi predecessori e le loro apparizioni
ritualizzate. Mostrò a tutti che lui poteva e voleva ascoltare.
Riconquistò poco a poco quella ducia che il Partito, ora guidato da
lui, aveva perso decenni prima. Gorbačëv era aperto, spontaneo e
simpatico, reagiva in maniera disinvolta e nelle conversazioni con la
gente dava risposte intelligenti e originali. Accrebbe la speranza che le
aspettative, che in passato erano state spesso alimentate invano,
questa volta non sarebbero state deluse.
Inizialmente i paesi stranieri restarono cautamente in attesa. In
politica estera, dagli accordi di Helsinki l’Unione Sovietica era rimasta
sulla difensiva. Non era un segreto che ciò avesse a che fare con
l’ingovernabilità del paese. L’avventura militare in Afghanistan non
solo aveva portato al boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca del 1980,
ma era anche stata determinante per la decisione del riarmo della
NATO3. Nuove testate americane a medio raggio furono schierate in
Europa centrale, mentre i missili sovietici SS-20 erano già di stanza
nella DDR e in Cecoslovacchia. Di conseguenza, l’Unione Sovietica
interruppe tutti i negoziati sul disarmo con gli Stati Uniti. Quando nel
1983 un aereo passeggeri coreano fu abbattuto mentre sorvolava la
Siberia, bandiere sovietiche furono bruciate di fronte alle rispettive
ambasciate: la reputazione mondiale di Mosca raggiunse allora il suo
punto più basso. Il problema, più che nell’abbattimento dell’aereo, era
nella spudorata menzogna. Un aereo civile, e ciò fu in seguito
confermato da fonti occidentali, era entrato nello spazio aereo
sovietico unicamente a scopo di provocazione. Ci furono tentativi da
parte sovietica di costringere il velivolo a virare e atterrare, ma poiché
non ci fu alcuna risposta, l’intruso fu “abbattuto”. Invece di rendere
immediatamente pubblico quanto successo, alle richieste occidentali
sulla scomparsa dell’aereo, l’URSS rispondeva come se non avesse
nulla a che fare con l’accaduto. Per giorni Mosca negò ogni
connessione con l’incidente, declinò ogni responsabilità e solo sotto la
pressione della comunità internazionale ammise di aver abbattuto
l’aereo. Questa confessione non solo creò un enorme imbarazzo, ma
nì col dare ragione a coloro che da sempre sostenevano che i
comunisti avessero problemi a dire la verità.
In questo contesto, fu facile per Reagan ottenere la maggioranza a
favore dello scudo spaziale (iniziativa di difesa strategica, SDI).
Benché gli esperti sostenessero che non c’era modo di realizzare il suo
piano di schierare uno scudo nucleare nello spazio, gli Stati Uniti
riuscirono comunque ad aprire un nuovo fronte nel campo degli
armamenti tecnologicamente avanzati.
L’anno seguente, gli atleti del blocco sovietico non parteciparono
alle Olimpiadi di Los Angeles mentre in Afghanistan continuavano i
combattimenti: gli americani decisero di sostenere massicciamente i
“ribelli” contro Mosca. (Negli anni Novanta quegli stessi
“fondamentalisti islamici” puntarono poi le loro armi contro i loro
sostenitori di un tempo: se si pensa alle numerose vittime degli
attentati di Nairobi e Dar es Salaam, queste furono tragicamente
uccise come risultato diretto di tali politiche. L’amministrazione
americana poteva essere paragonata all’apprendista stregone di
Goethe, contro cui gli spiriti maligni che aveva liberato e nutrito si
erano rivoltati).
Gorbačëv cercò di uscire da questo vicolo cieco. In primo luogo
perché, e questo è spesso trascurato dalla maggior parte degli studi di
autori occidentali, i cittadini sovietici, dopo tutto quello che avevano
storicamente attraversato, avevano un forte desiderio di pace. I russi
erano di natura molto meno aggressivi e militanti rispetto a molte
altre nazioni: non era (e non è) un caso che il paci co, ma forte e
maldestro, orso bruno sia il simbolo nazionale del paese. Corrisponde
all’anima russa, e il poeta Evtušenko descrisse questa indole nel suo
poema I russi vogliono la guerra?
Il naturale bisogno di sicurezza, intrinseco a ogni nazione, era frutto
dell’esperienza storica: come l’intervento straniero nella guerra civile
all’inizio degli anni Venti e l’invasione della Germania nazista. Mai
più si sarebbe dovuto ripetere un 22 giugno 1941, recitava il credo
della politica di difesa sovietica. Poiché esistono gli eserciti, vale
quindi il principio secondo cui l’attacco è la miglior difesa. Su questo
si basava la dottrina della difesa sovietica e di conseguenza si sviluppò
l’industria della difesa e gli armamenti. L’altra parte, che secondo
molti aveva scarso interesse per la pace, perseguiva intenti aggressivi e
si comportava anch’essa di conseguenza. Ne risultò una spirale di
accumulo e modernizzazione degli armamenti, che avrebbe
inevitabilmente portato alla catastrofe. Gorbačëv lo aveva capito e
volle interrompere questo circolo vizioso.
Inoltre, doveva uscire dalla corsa agli armamenti perché l’Unione
Sovietica riusciva a fatica a tenere il passo dal punto di vista
economico. Passò quindi all’azione, annunciando per la prima volta
una moratoria unilaterale: per un anno e mezzo l’Unione Sovietica
non avrebbe testato nuove armi nucleari. Questo doveva essere un
primo passo sulla strada del disarmo nucleare. In seguito cercò
colloqui diretti con Reagan. Da oltre sei anni non c’era più stato un
vertice tra Mosca e Washington, l’ultimo – che si svolse a Vienna nel
1979 – era stato tra Brežnev e Carter e aveva lasciato un ricordo
alquanto imbarazzante: Brežnev sembrava assente e senza più il
controllo di sé. Gorbačëv, che anche in confronto a Reagan era
giovane, sembrava invece più energico, deciso e dinamico e dava
l’idea, già solo per come si presentava, che fosse lui ad avere in mano
la situazione.
Del resto – mi si conceda questa nota personale – anche io da
politico ho sempre preferito il colloquio individuale a qualsiasi altra
forma di comunicazione con una controparte in quanto si crea così un
rapporto personale che dif cilmente le parti potranno revocare in
seguito. Finché la comunicazione avviene in modo astratto e anonimo,
è più facile che si veri chino reazioni ostili. Reagan, per esempio,
prima di conoscere Gorbačëv, descriveva l’Unione Sovietica come
l’impero del male e il suo rappresentante come il diavolo in persona.
In seguito non poté più usare questo linguaggio colorito. O si pensi a
Kohl, che paragonò Gorbačëv a Goebbels. Successivamente, divennero
grandi amici e il Cancelliere dovette affrontare qualche imbarazzo
ogni volta che si accennava al suo irripetibile paragone.
Il vertice di Ginevra del 1985 non solo catapultò il leader sovietico
sulla scena mondiale, ma servì anche a garantire, attraverso la sua
politica estera, l’avanzamento della perestrojka all’interno del paese.
L’iniziativa di Gorbačëv nella politica di pace e nel disarmo consisteva
non solo in proposte (come aveva già fatto il suo predecessore), ma in
concreti passi avanti. Fu questo il suo risultato storico: Gorbačëv
allontanò davvero l’umanità dall’orlo dell’autodistruzione nucleare.
Questo risultato non può essere negato nonostante la giusta obiezione
secondo cui il mondo non è diventato più sicuro dopo la scomparsa
del Patto di Varsavia. L’equilibrio del terrore che aveva prevalso no
ad allora era sì un equilibrio, ma era basato sulla paura della mutua
distruzione. Entrambe le parti, benché dichiarassero sempre il
contrario, erano di fatto in uno stato di guerra permanente. Chiunque
ne dubiti, dovrebbe parlare con gli uomini e le donne impiegati nel
sistema degli uf ciali di servizio e nei rispettivi servizi della NATO, o
chiedere ai soldati che sorvegliavano la mobilità operativa delle unità
militari. Il Segretario generale sovietico era determinato a liberare la
vita delle persone da questa paura e alla ne ci riuscì. Oggi, tuttavia, ci
troviamo ad affrontare altre e nuove paure.
Può darsi che Gorbačëv abbia dovuto vincere tra le sue la una
resistenza non minore di quella del nemico di classe. Non si poteva
spiegare tutto con la semplice formula secondo cui la sete di pro tto
dell’industria bellica occidentale costituiva il più grande ostacolo al
disarmo e alla conversione e che la trasformazione dell’industria
socialista degli armamenti in produzione di beni di consumo doveva
essere l’ideale a cui aspirare, perché la corsa agli armamenti drenava
l’economia dei fondi urgentemente necessari. Per prima cosa, a un
generale sovietico non sarebbe stato di certo più facile rispetto alla sua
controparte americana togliersi la sua amata divisa e accettare un
lavoro civile, doversi occupare da quel momento in poi dei propri
interessi personali e non potersi più servire del lavoro gratuito dei
propri aiutanti. Chi mai avrebbe voluto tornare alla vita civile dopo
aver dato ordini per tutta una vita? E ancora: dove avrebbero vissuto
tutti i soldati congedati quando le caserme sarebbero state svuotate, e
dove avrebbero lavorato? (La Russia sta tuttora facendo i conti con
questo problema). In terzo luogo: che fare con le numerose armi
super ue, i carri armati, i sottomarini a propulsione nucleare, i missili
e le testate, gli arsenali di armi biologiche e chimiche? Smantellarle o
renderle inutilizzabili avrebbe divorato risorse pari o addirittura
superiori a quelle che erano state impiegate per la loro produzione.
L’immagine classica del nemico fu in ne sconvolta quando
l’industria bellica imperialista modi cò il proprio orientamento.
Poiché i pro tti della produzione di armi (che quasi mai venivano
utilizzate) erano in costante diminuzione, queste cominciarono a
orientarsi verso nuovi campi di produzione e mercati, come per
esempio la Cina o l’Unione Sovietica. Ma poiché questi mercati
avrebbero potuto essere conquistati solo con mezzi paci ci, i
monopoli delle armi cominciarono a coltivare un profondo interesse
nella normalizzazione delle relazioni con i nemici giurati degli
americani. Solo i lavoratori dell’industria occidentale degli armamenti
e i loro sindacati – i quali, secondo la nostra concezione dei ruoli,
erano organizzazioni di classe e quindi intrinsecamente progressisti –
si opponevano con forza a questo sviluppo. Per difendere il proprio
lavoro, si opponevano di fatto al disarmo. Quindi, tutti i presupposti
ritenuti corretti no a poco tempo prima, ora non andavano più bene.
Le carte dovevano essere mischiate di nuovo: bisognava, ancora una
volta, ripensare tutto daccapo.
Senza militari esperti come il maresciallo Achromeev o Kulikov, i
quali riconobbero la necessità della politica di Gorbačëv e si
impegnarono a farla rispettare tra le proprie la, il fronte trincerato
del complesso industriale militare sovietico non sarebbe mai crollato.
Era lì che venivano stabilite le politiche e scelti i segretari generali, o
rovesciati, come nel caso di Chruščëv. Un aereo militare lo aveva
prelevato dalla Crimea, dove passava regolarmente le vacanze, e
portato a Mosca, per informarlo che da quel momento era stato
deposto e mandato in pensione seduta stante. Dunque, senza il
sostegno dei leader militari, Gorbačëv non avrebbe mai potuto avere
successo con la sua politica di pace e disarmo. Pertanto, è giusto che si
riconosca anche il loro ruolo.
Ciononostante, a questo punto bisogna dire che l’industria bellica
ha continuato a realizzare pro tto in ogni epoca e che la ne del
blocco orientale non comportò una grande riduzione della produzione
di armi nei paesi industrializzati occidentali, e neppure vide diminuire
lo spreco di ricchezza nazionale per questo scopo. Tutt’oggi gli Stati
Uniti, per mantenere la loro leadership politica mondiale, continuano
ad aver bisogno di armi d’avanguardia, che impiegano secondo le loro
necessità. Ciò signi ca che non c’è più alcuna garanzia per la pace,
anche se per un po’ così è sembrato.
Dal 25 febbraio al 6 marzo 1986 si svolse a Mosca il XXVIII
Congresso del PCUS. Venne rafforzato il concetto della nuova
squadra di governo: sviluppare e rafforzare il socialismo attraverso la
trasformazione e il rinnovamento. L’obiettivo e il percorso erano stati
ssati con precisione dal Cremlino e non ci furono altre dichiarazioni
da parte di Gorbačëv. In un certo senso era anche lui rigido e
in essibile come i suoi predecessori. Honecker, che da anni chiedeva a
Mosca il permesso di fare un viaggio a Bonn, ricevette un netto ri uto.
Non sarebbe spettato a lui, fece sapere Gorbačëv in termini diplomatici
e tortuosi, recarsi per primo nella Repubblica federale.
Il XXVIII Congresso non suscitò pubblico scalpore, in parte anche
a causa del disastro di Černobyl’. Fu poche settimane dopo questo
importante incontro politico a Mosca, che esplose il reattore della
centrale nucleare vicino a Kiev. L’area circostante venne gravemente
contaminata e il vento trasportò le particelle radioattive dall’Ucraina a
tutta l’Europa. Mosca, tuttavia, che predicava glasnost’ da mesi,
innalzò come sempre un muro. L’incidente – ci si rese ben presto
conto che si trattava del più grande disastro nucleare mai accaduto in
una centrale – fu minimizzato e banalizzato dalle autorità. Quando in
Europa occidentale i contatori Geiger davano già l’allarme, Mosca
continuava a far nta che non fosse successo niente di grave e che la
situazione fosse sotto controllo. Questa politica di informazione fece sì
che gli osservatori esterni credessero che, nonostante tutti i segnali in
direzione opposta, a Est nulla fosse realmente cambiato. Nonostante
la glasnost’ e la perestrojka, la dirigenza sovietica agiva come in
passato, in modo rigido e ottuso.
Ancora una volta e con maggiore intensità, si riaccese il dibattito
sulla sicurezza delle centrali nucleari. Anche se la sciatteria e l’errore
umano furono in seguito identi cati come le cause di questo evento
catastro co, dif cilmente si potrebbe escludere ogni possibilità che
questo si ripeta. E il sacri cio dei soldati e dei pompieri che sigillarono
il reattore e ricoprirono il sarcofago di cemento, che furono vittime
delle radiazioni, combattendo con coraggio come i soldati dell’Armata
Rossa che avevano difeso la fortezza di Brėst, non deve essere
dimenticato. Questi uomini meritano tutta la nostra gratitudine. Ma
questo processo ci mostra chiaramente che la massima sicurezza può
essere garantita solo dallo smantellamento delle centrali nucleari
esistenti e dalla rinuncia a costruirne di nuove.
Gorbačëv cercò di riparare a questo scacco alla glasnost’
permettendo al critico del regime più in vista, il sico nucleare
Sacharov, di tornare a Mosca dall’esilio. Sarebbe scorretto affermare
che questo atto non venne interpretato all’estero come un passo in
avanti signi cativo. Gorbačëv voleva far capire che era determinato a
rompere con le vecchie pratiche in uso nell’Unione Sovietica, per cui
chi non era incondizionatamente per il socialismo era considerato un
nemico e doveva affrontarne le conseguenze. Intellettuali e personaggi
di spicco erano stati internati nei reparti psichiatrici, persone meno
eminenti erano scomparse nei campi di lavoro o erano state esiliate.
Per mettere ne a tutto ciò, Gorbačëv volle integrare l’opposizione
nella società. Poiché non era solo il consenso ad arricchire il dibattito
sul progresso.
Il 28 luglio 1986, pochi giorni dopo aver conferito a Mosca con il
Presidente francese François Mitterrand, Gorbačëv sottolineò con una
studiata apparizione in Estremo Oriente che l’Unione Sovietica non
era solo una grande potenza europea, ma anche asiatica. Nel suo
discorso a Vladivostok, fece capire agli americani che il Paci co non
era di loro proprietà. Ai giapponesi, con i quali l’Unione Sovietica era
in con itto sulle isole Curili n dalla Seconda guerra mondiale, fece
un’offerta diplomatica: la Siberia è talmente grande che l’Unione
Sovietica da sola dif cilmente sarebbe riuscita a sfruttare le vaste
risorse della regione. Gorbačëv bussò anche alla porta della Cina, che
però non mostrò grande entusiasmo.
Nell’autunno del 1986, Gorbačëv incontrò Reagan per la seconda
volta, su un terreno neutrale, questa volta ospiti nella capitale
islandese. Nell’aprile 1987 arrivò a Mosca il Primo ministro britannico,
Margaret Thatcher. Il cerchio era completo. Tutte e quattro le potenze
vittoriose della Seconda guerra mondiale, che per quasi quarant’anni
erano state coinvolte nella Guerra fredda, avevano ora riallacciato i
contatti ai più alti livelli, dichiarandosi disponibili a riprendere le
reciproche relazioni e ad abbandonare la pericolosa quanto scomoda
posizione in groppa ai loro razzi nucleari.
Può darsi che le attività di politica estera diano naturalmente più
nell’occhio all’esterno rispetto a quelle di politica interna, ma penso di
non sbagliarmi dicendo che Gorbačëv si concentrò in effetti più sulla
politica estera che sulla trasformazione delle condizioni interne,
soprattutto in campo economico. Osservando i pro li dei consulenti
che si riunirono attorno a lui, questo diventa ancora più evidente. Essi
erano attivi al di fuori dell’apparato del Partito e del ministero degli
Esteri, il che portò gradualmente all’emarginazione del Comitato
centrale nella sua funzione di arbitro della politica estera e provocò
naturalmente con itti, per esempio, con Falin in qualità di Segretario
per le questioni internazionali. Il consulente più vicino a Gorbačëv era
Černjaev, che stabiliva il protocollo in quasi tutti gli incontri con gli
uomini di stato stranieri, e che Gorbačëv nominò referente per
l’amministrazione statunitense per la maggior parte delle questioni.
Šachnazarov, Presidente dell’Associazione delle scienze politiche in
Unione Sovietica, lo consigliava in quanto responsabile per i paesi
socialisti. Primakov, dal 1985 direttore dell’Istituto per l’economia
mondiale e le relazioni internazionali, sosteneva invece Gorbačëv in
materia di politica estera.
Durante questa fase, i rapporti con la Repubblica federale
svolgevano un ruolo piuttosto secondario; la questione tedesca non
era ancora un tema di discussione. La SPD, tradizionalmente più attiva
nella politica orientale rispetto ai conservatori che governavano dal
1982, aveva incontrato spesso Gorbačëv. Il loro interesse era rivolto a
promuovere lo sviluppo del PCUS in senso socialdemocratico
piuttosto che alle questioni di politica estera. Non sorprende che a
Bonn la politica estera fosse portata avanti da altri. Nel giugno 1986, il
Primo ministro tedesco Rau fu ospite a Mosca, mentre l’anno prima
era stata la volta del capo della SPD Brandt e di Bahr, padri del
concetto in politica estera di “cambiamento attraverso il
riavvicinamento”. Sarebbero nuovamente tornati a Mosca nel 1988 e
nel 1989.
Nel giugno 1987, venne in visita il Presidente della Germania Ovest
von Weizsäcker. Le discussioni sulla questione tedesca ebbero un tono
cortese. Una dichiarazione fatta dal capo di Stato tedesco a tal
riguardo fu liquidata da Gorbačëv dicendo senza mezzi termini che gli
stati tedeschi erano due. Che cosa ne sarebbe venuto fuori, lo avrebbe
mostrato il futuro, al momento non c’era bisogno di intervenire.
Gorbačëv si atteneva a livello uf ciale alla vecchia linea. Ma in via
non uf ciale – le prove possono essere trovate nei documenti, e
Honecker lo suggerisce nei suoi “appunti di Moabit” – Gorbačëv
faceva tutt’altro. Sembra infatti che il Segretario generale, proprio nel
1987, in una conversazione con il direttore del consiglio di vigilanza
della Deutsche Bank fece capire che l’Unione Sovietica avrebbe
tenuto la DDR nel Patto di Varsavia solo a precise condizioni. A Bonn
questo fu percepito esattamente nel modo in cui probabilmente era
inteso. Le discussioni dietro le quinte tra i negoziatori di Bonn e di
Berlino Est, il cui scopo era stato quello di cercare una stabilizzazione
economica della DDR, furono interrotte bruscamente.
Sin dall’inizio degli anni Ottanta, Honecker era stato in grado di
usare a proprio vantaggio e a vantaggio della DDR il vuoto in politica
estera creato dal governo sovietico “senza dirigenza”. Nel 1985, al
cambio di guardia nel Cremlino, la sua reputazione internazionale era
in effetti maggiore di quella del nuovo segretario dell’URSS.
Honecker conosceva Gorbačëv a seguito di due incontri, sempre che
come risultato di quel tipo di incontri si possa parlare di vera
conoscenza. Nel giugno 1966, Gorbačëv aveva viaggiato con un gruppo
di funzionari sovietici nella DDR per studiare il lavoro della SED.
C’era stato un colloquio al Comitato centrale con Erich Honecker, il
segretario corrispondente. Dubito, però, che l’allora cinquantatreenne
Honecker avesse notato il trentacinquenne Gorbačëv. Il secondo
incontro si tenne il 17 agosto 1984. Il Segretario generale Černenko
aveva negato la richiesta di Honecker di andare a Bonn e Gorbačëv e il
ministro della Difesa Ustinov assistettero a questo diniego. Già il 14
giugno il Segretario generale sovietico aveva chiesto a Honecker di
astenersi da qualsiasi intento di questo tipo. Gli era stato detto che la
sua visita a Bonn non era nell’interesse dell’Unione Sovietica e che
avrebbe portato a un indebolimento della DDR e che Mosca avrebbe
considerato tale visita come una violazione della politica estera
concordata dai paesi socialisti. Già Andropov, il 4 maggio 1983, aveva
dato una spiegazione simile.
Honecker doveva capire che Mosca temeva, come già in passato,
eventuali prese di posizione unilaterali da parte della DDR; temeva
che la DDR e la RFT sviluppassero una relazione più forte, e di
conseguenza la potenziale perdita del suo alleato chiave all’interno del
Patto di Varsavia; in ne, il Cremlino voleva continuare ad avere voce
in capitolo nella politica tedesca.
Dal punto di vista di Mosca ciò era comprensibile. Honecker era
consapevole che, senza l’Unione Sovietica, la DDR sarebbe andata in
rovina, quindi non intendeva affatto agire con leggerezza e mettere a
rischio una relazione vitale. Era uno stratega e sapeva bene che le
relazioni tra comunisti contavano per lui di più di quelle con i
capitalisti. Ma ciò che lo feriva, più che il divieto in sé, era il modo in
cui tale ri uto gli era stato comunicato. Non voleva essere trattato in
quel modo. Il mio sospetto è probabilmente vicino alla verità:
Honecker non aveva dimenticato la palese approvazione di Gorbačëv
del trattamento indegno che gli aveva riservato Černenko.
A questa spiacevole esperienza, poi, ne seguì un’altra. Ai funerali di
Konstantin Černenko, Gorbačëv parlò con Bush, Kohl, Mitterrand,
Thatcher e Nakasone. I capi di Stato e di partito dei paesi socialisti,
alleati e fedeli all’Unione Sovietica, non ricevettero invece nessuna
particolare attenzione.
L’occasione per un primo scambio tra Honecker e Gorbačëv si
presentò il 5 maggio 1985. Alla vigilia del 40° anniversario della
vittoria sulla Germania nazista, fu aperto un museo a Krasnogorsk che
documentava la storia del comitato nazionale “Germania libera” che
era stato fondato lì. A Mosca, fu intitolata una piazza a Ernst
Thälmann e venne posata la prima pietra per un monumento
commemorativo del capo del Partito comunista tedesco.
Il Segretario generale della SED cercava chiaramente di creare una
buona atmosfera e non lasciava dubbi su chi, per lui, fosse il padrone
della casa socialista. Parlò dei progressi della DDR in campo
scienti co e tecnico, elogiando allo stesso tempo la buona
cooperazione con l’Unione Sovietica e menzionò distrattamente
l’osservazione di un giornalista italiano secondo cui, data la sua
prosperità e la sua crescita, la DDR non avrebbe potuto essere un
modello per la comunità socialista. Così facendo ebbe l’opportunità di
enfatizzare ulteriormente il ruolo dell’Unione Sovietica. Senza
considerare però che la DDR non era più grande dell’oblast’ di
Leningrado. Gorbačëv annuì educatamente e rispose facendo mettere a
verbale che esisteva “un solo modello di socialismo marxista-leninista”.
Honecker si affrettò a rassicurarlo: “Questa è da sempre la nostra
posizione. Esiste un solo modello, tuttavia all’interno della comunità
socialista c’è chi ri ette anche su altri modelli”.
A quel punto Gorbačëv rispose al suo docile apprendista: “Sulla
piani cazione e sulla direzione della macchina economica Unione
Sovietica e DDR sono in perfetta armonia”.
Nei mesi successivi non si percepì alcun evidente disaccordo tra
Mosca e Berlino. Honecker si era congratulato con Gorbačëv per il suo
resoconto politico al XXVII Congresso del Partito nel marzo 1986.
Gorbačëv ringraziò la SED per la solidarietà dimostrata nei confronti
del PCUS in questa dif cile fase. Cercò di ottenere comprensione e
sostegno ed espresse la sua convinzione che i due paesi avrebbero
proseguito il loro cammino anco a anco.
Questo fu il tenore di tutti i suoi discorsi durante la visita nella
DDR in aprile. L’occasione si ebbe con l’XI Congresso della SED. Per
la prima volta da più di sei anni, un Segretario generale sovietico era
venuto a Berlino. Erano state programmate visite al centro industriale
di Karl-Marx-Stadt e a Jena, dove venivano prodotti componenti
elettronici per la ricerca scienti ca, l’esplorazione spaziale e la difesa,
di cui circa un quarto della produzione andava all’Unione Sovietica.
Tuttavia questi viaggi non si fecero a causa di limiti di tempo o almeno
questa fu la spiegazione uf ciale. Potsdam fu visitata solo per motivi di
protocollo. Honecker sollecitò però una visita all’Istituto per la
gestione economica socialista, che poi ebbe luogo. Se Gorbačëv non
voleva familiarizzare con l’industria di punta della DDR, gli si doveva
almeno far conoscere l’alto livello di gestione economica di
Rahnsdorf. Almeno, questa era l’intenzione della dirigenza della SED.
Il 20 aprile 1986 ebbe luogo una memorabile conversazione che
rivelò il divario tra Gorbačëv e Honecker. Come sempre, Honecker lo
aveva informato dei progressi della DDR: era il suo tema preferito e
chiunque ascoltasse i suoi interventi sapeva che la modestia e la
moderazione non erano il suo forte mentre si abbandonava a queste
digressioni. A volte esagerava così tanto da andare oltre ogni
imbarazzo.
Gorbačëv ribadì il concetto che il PCUS e la SED dovevano
procedere anco a anco. Ma non solo a livello simbolico, la
situazione richiedeva che ciò accadesse veramente. Era di vitale
importanza per entrambi i partiti, per entrambi i paesi, per l’intera
comunità socialista, dimostrare che non c’erano troppe differenze.
Honecker rimase incredulo e affermò che il partito e il popolo della
DDR sostenevano il percorso intrapreso dal XXVII Congresso del
PCUS. Gorbačëv osservò allora il suo interlocutore: aveva percepito
che il compagno Honecker era stato irritato da qualcosa che aveva
detto. Honecker rispose indignato che non era affatto così. E anche se
lo fosse stato, questo non sarebbe stato di certo un argomento di
discussione. Dopotutto, non si trattava di lui, ma della causa del
socialismo.
Correva voce, disse Gorbačëv, che il compagno Honecker in passato
avesse spesso dichiarato: “Imparare dall’Unione Sovietica signi ca
imparare a essere vittoriosi!”. Tuttavia era ormai parecchio tempo che
non si sentivano più commenti simili da parte di Honecker.
Honecker rispose in modo evasivo e disse che personalmente era
dell’opinione che il XXVII Congresso del PCUS avesse contribuito al
rafforzamento del socialismo nell’Unione Sovietica e dell’intera
comunità socialista.
Gorbačëv non fu soddisfatto da questo luogo comune e insistette:
aveva notato che il compagno Honecker aveva parlato diffusamente di
come le questioni internazionali erano state discusse al XXVII
Congresso. Tuttavia, per Gorbačëv, mancava una chiara valutazione da
parte del compagno Honecker e rimase dell’opinione che avesse
dimostrato un certo distacco.
Honecker ribadì dunque nella debita forma che non aveva riserve
riguardo alle dichiarazioni fatte al Congresso, e fece riferimento
all’affermazione del 23 ottobre 1985 a So a, durante la riunione al
vertice dei segretari generali e dei primi segretari dei partiti fratelli
degli stati membri del Patto di Varsavia: il compagno Gorbačëv è la
speranza del mondo.
Durante il tragitto verso l’aeroporto, Gorbačëv insistette ancora:
“Non hai detto nulla sul fatto che anche noi stiamo seguendo adesso
un percorso di unità politica economica e sociale”.
Più tardi Honecker scrisse a mano la risposta a verbale: “Non ho
detto nulla deliberatamente”.
Dubito che il chiaro malcontento di Honecker si basasse sulla
recente cancellazione del suo viaggio a Bonn. Tuttavia si può
tranquillamente presumere che le osservazioni a tal proposito fatte da
Gorbačëv non avevano di certo accresciuto la sua simpatia nei
confronti del Segretario generale. Gorbačëv disse infatti che Egon
Bahr lo aveva fortemente dissuaso dal venire nella città sul Reno
quell’anno. Aveva seguito quel consiglio e aveva detto a Brandt,
durante la visita di quest’ultimo a Mosca, che intendeva procedere su
quella strada.
Honecker replicò a tale osservazione che era stato invece esortato
sia da Brandt sia da Rau a visitare la Repubblica federale a maggio.
Anche Kohl gli aveva rivolto lo stesso invito più di una volta. Lui,
Honecker, considerava tale viaggio parte dell’iniziativa di politica
estera della comunità socialista.
Gorbačëv ci pensò su un momento e replicò che lui stesso avrebbe
potuto ancora andarci nell’anno in corso.
La conversazione si concluse con la promessa reciproca di ri ettere
su questo punto. E fu tutto. Né Honecker né Gorbačëv andarono a
Bonn nel 1986. L’uno non poteva, perché l’altro non voleva farsi
rubare la scena. Dopo un solo anno in carica, anche il Segretario
generale Gorbačëv iniziò a comportarsi in modo autoritario,
esattamente come i suoi predecessori.
Si rincontrarono quindi il 7 ottobre 1986. A Mosca, era prevista
l’inaugurazione del monumento a Ernst Thälmann. Erano presenti
anche i presidenti del DKP4 e del Partito di unità socialista di Berlino
Ovest (SEW), Herbert Mies e Horst Schmidt. Gorbačëv invitò tutti e
tre i dirigenti di partito a parlare. Lui e Honecker fecero da
moderatori. Gorbačëv disse chiaramente che SED, DKP e SEW erano
in realtà un unico partito “che agiva in tre paesi diversi”. Mies, così
come a suo tempo il Presidente del Partito comunista tedesco Max
Reimann, avrebbe potuto prendere immediatamente il suo posto al
Politburo del Comitato centrale della SED. Honecker riferì poi dello
stato della cooperazione con i socialdemocratici, che giudicava
positivo, e della situazione internazionale.
Gorbačëv annuì soddisfatto. Era impressionato da quello che aveva
detto il compagno Honecker. Più della metà di quell’intervento
avrebbe potuto essere stato scritto da lui. Non solo i due erano
d’accordo politicamente, ma anche per quanto riguardava le idee e le
valutazioni.
Honecker tuttavia lo esortò a spiegare il suo punto di vista e fu
evidente che Gorbačëv non faceva più ricorso agli stereotipi come “la
coesistenza paci ca” o “l’Internazionale comunista e il movimento
operaio”. Forse era questa l’altra metà del discorso su cui invece non
erano in accordo.
La situazione era ancora complessa e pericolosa, spiegò Gorbačëv.
Le cose non erano cambiate in meglio. Il ritmo della corsa agli
armamenti non era rallentato e la situazione sul fronte della pace non
era particolarmente stabile.
Diversi partiti comunisti notarono con preoccupazione che i
socialisti si erano impossessati di diversi temi e che accrescevano la
propria in uenza, mentre altri stavano sviluppando un malsano
desiderio di autonomia e indipendenza. Era una situazione dolorosa e
bisognava fare qualcosa. Furono dunque Dobrynin e il Dipartimento
internazionale del Comitato centrale a ricevere l’incarico di seguire da
vicino questi sviluppi.
Successivamente Gorbačëv lodò le relazioni tra la SED e il PCUS,
tra la DDR e l’URSS, relazioni che erano esemplari. E mise in rilievo
l’impegno personale di Honecker.
Quest’ultimo non obiettò, ma fece concretamente notare quali
fossero gli oneri. La riduzione a due milioni di tonnellate delle
forniture di petrolio sovietiche aveva posto un serio problema per
l’economia della DDR. La cooperazione all’interno del Comecon
necessitava di riforme urgenti. Come in passato, l’integrazione, che era
stata essenzialmente limitata alla cooperazione bilaterale, non poteva
progredire. L’apparato burocratico doveva essere snellito e
l’amministrazione resa più ef ciente: forse sarebbe stato necessario
costituire un parlamento del Comecon, spiegò Honecker. Le sue
richieste erano completamente giusti cate, ma presupponevano dei
cambiamenti negli stati membri, compresa la DDR. E lì Honecker
costituiva il suo stesso ostacolo.
A quel punto cambiò argomento e disse che intendeva recarsi nella
Repubblica popolare cinese. Schürer, capo del protocollo, nell’agosto
dell’anno precedente era andato a Pechino a sondare il terreno e fece
poi pervenire personalmente le informazioni a Gorbačëv su quanto era
stato detto. Gorbačëv, in cambio, aveva fatto conoscere le sue riserve
sulle politiche cinesi, e specialmente su quelle di Deng Xiaoping. Ora
Honecker lo informava sui punti essenziali che il Presidente cinese Hu
Yaobang aveva trasmesso:
1. La Cina rispetta pienamente le politiche estere e interne della
SED;
2. Rispetta inoltre la speciale relazione tra la SED e il PCUS;
3. Il Partito comunista cinese rispetta le idee della SED sullo
sviluppo delle relazioni reciproche, che a sua volta intende avere
relazioni con il PCUS.

Gorbačëv non poté opporsi a questi principi, tanto più che i cinesi
avevano coinvolto nel loro concetto una terza parte, il PCUS.
Quanto al Presidente del partito Hu Yaobang, Honecker aveva un
netto vantaggio su Gorbačëv. Entrambi erano stati presidenti delle
rispettive organizzazioni giovanili negli anni Cinquanta e in tale veste
avevano fatto parte del Consiglio della Federazione mondiale della
gioventù democratica  (WFDY). Inoltre si conoscevano (e anche io
conoscevo Yaobang, l’avevo incontrato in Cina nel 1959. A quel
tempo, fu scattata una foto di noi che, prima del viaggio di Honecker,
avevo tirato fuori dall’album di famiglia e dato a un editore per un
libro illustrato che mostrava la continuità delle relazioni tra la DDR e
la Repubblica popolare cinese).
Incoraggiato dall’aver trovato un punto di accordo, Honecker si
aprì: recentemente, a Berlino Ovest il famoso poeta sovietico Evgenij
Evtušenko aveva dichiarato che per lui non esisteva una letteratura
dell’Est e una dell’Ovest, ma una sola letteratura tedesca. Non era
l’unico intellettuale sovietico a esprimersi in questo modo sulla
speci ca situazione politica dell’Europa centrale. Non solo ormai
avevano adottato le argomentazioni occidentali, ma avevano anche
smesso di accettare gli inviti dell’Accademia delle arti della DDR:
preferivano andare a Berlino Ovest o nella Repubblica federale.
Gorbačëv ascoltò pazientemente e promise di analizzare la
questione. Dubito che questo sia mai accaduto. Che cosa avrebbe
dovuto analizzare? Evtušenko era libero di esprimersi pubblicamente
senza dover prima consultare Mosca o il Politburo di Berlino.
Gorbačëv aveva tolto agli intellettuali la museruola che avevano
portato no a quel momento ed era quindi prevedibile che qualcuno
avrebbe detto qualche sciocchezza. Ma poiché Honecker, nella sua
sfera di in uenza, pretendeva che gli artisti si inchinassero alla linea
del Partito (e quelli che ri utavano erano espulsi o gli veniva negato il
passaporto), si aspettava che anche Gorbačëv trattasse gli artisti allo
stesso modo.
Incidenti come questo e altri simili, che no a quel momento erano
impensabili, indussero Honecker a prendere le distanze da Mosca; e su
questo l’istinto di Gorbačëv non sbagliava. Questo dissenso emerse per
la prima volta quando Kurt Hager, responsabile ideologico del
Politburo della SED, in un’intervista a “Stern”, il 9 aprile 1987, chiese al
suo interlocutore, con aria compiaciuta e riguardo all’Unione
Sovietica: “Si sentirebbe obbligato a cambiare la tappezzeria solo
perché lo fa il suo vicino di casa?”. Era chiaro: Mosca faccia ciò che
vuole, noi abbiamo nito di rinnovare.
Ormai Honecker non si tratteneva più nemmeno all’interno della
cerchia dei segretari regionali della SED. Ci aveva chiaramente fatto
capire di non essere d’accordo con la politica dei compagni sovietici e
di mettere in discussione le relazioni amichevoli esistenti tra le
organizzazioni regionali della SED e i loro corrispettivi sovietici. Io
non ero disposto ad andare così lontano. Tuttavia, cresceva anche la
mia incredulità. Quando ero a Leningrado da Solov’ëv, a volte dovevo
davvero trattenermi. Si discuteva all’in nito sul perché le cose non
andavano. La nuova concezione di una maggiore responsabilità dei
collettivi dei lavoratori non aveva raggiunto le fabbriche; tutto andava
avanti come prima, o anche peggio. Le persone non sono cani
pavloviani, che sbavano non appena la luce lampeggia. Non era stato
suf ciente dire: glasnost’ e perestrojka, eccovi la democrazia e ora
fatene uscire qualcosa. Il Partito non faceva da guida, i funzionari
lasciavano che le cose seguissero il loro corso e chiamavano questo
“autodeterminazione”. Solov’ëv non menzionò mai più
“Intensi cazione 90”, il progetto di sviluppo per l’area di Leningrado, e
il programma di visite che mi proposero si era ridotto a mero turismo
politico.
Solov’ëv però portava sempre i saluti personali da parte di Michail
Sergeevič, e non ho mai saputo se fosse per ragioni di protocollo o se
fossero autentici. Nelle sue memorie, Gorbačëv afferma che, rispetto a
Berlino, ha sempre esercitato una certa protezione nei miei confronti.
Tuttavia anche adesso non posso dire se questo fosse vero o se
semplicemente non sia un’interpretazione a posteriori.
Almeno a Leningrado tenevo delle conversazioni sincere faccia a
faccia con Solov’ëv durante le quali discutevamo anche della
situazione della SED e della DDR. Seppi che a Leningrado e a Mosca
le riserve di Honecker sui cambiamenti in atto in Unione Sovietica
erano percepite come molto forti e, da parte mia, come un rischio.
Non c’è altra interpretazione per il cenno occasionale su come avrei
dovuto comportarmi in modo da non compromettere il mio ruolo di
Primo segretario della direzione regionale della SED a Dresda.
Solov’ëv mi rivelò che lui e altri alti funzionari sovietici speravano in
un cambiamento nella dirigenza della SED. Benché restasse tutto
piuttosto vago e indistinto nella foschia diplomatica, grazie a una certa
esperienza politica riuscii comunque a capirlo. Probabilmente, proprio
a causa di questi contatti, venni improvvisamente chiamato “faro di
speranza” e potenziale “Gorbačëv della DDR” da alcuni media
occidentali. La mia situazione, che dovevo sorvegliare attentamente,
non era certo migliorata.
Quanto alla deriva incontrollata in corso all’interno del PCUS, la
critica di Honecker era pienamente giusti cata. Ma, e questo è stato il
suo errore fatale, estese la sua opposizione a qualsiasi forma di
cambiamento. Per lui l’unico mantra era: andiamo avanti! Aveva
trasformato l’oggettiva necessità di autocritica e correzione di rotta
nella formula “continuità e rinnovamento”. Ma erano solo parole. Non
veniva rinnovato nulla e non si ri etteva nemmeno sul rinnovamento.
Il culmine di tale “rinnovamento” era stata la scelta dei candidati per
le elezioni che si sarebbero tenute nel maggio 1989. Nella loro mente
un cambiamento c’era stato eccome rispetto alle pratiche passate,
perché ci sarebbero stati candidati alternativi tra cui scegliere. Non si
doveva votare il candidato nominato dal rispettivo comitato di
selezione e inserito nella lista unitaria del Fronte nazionale: ora si
aveva l’opportunità di scegliere un candidato diverso, ma nominato
dallo stesso comitato per la lista unitaria. Era come quando si andava
a scegliere l’automobile: non era certo obbligatorio prendere una
Trabant verde, si poteva tranquillamente sceglierne una blu.
Ora non c’erano dubbi, Honecker ri utava tutto ciò che sapeva
anche lontanamente di perestrojka e glasnost’. Visto dall’esterno si
comportava invece come era opportuno fare: la sua lealtà verso la
terra di Lenin non sembrava essersi incrinata. Probabilmente avrà
pensato che già in passato l’Unione Sovietica aveva attraversato fasi
dif cili e che un fallimento di Gorbačëv, cioè la sua destituzione da
Segretario generale, non sembrava poi così impossibile.
A tal proposito, va ricordata la visita a Berlino di Rusakov, il
segretario del Comitato centrale, il 21 ottobre 1981. La Repubblica
democratica tedesca, da anni in dif coltà economiche, aveva subìto un
taglio del dieci percento nella fornitura di petrolio. Questo aveva
avuto importanti ripercussioni in vari campi. Uno su tutti, mancava il
petrolio come combustibile. Molti impianti industriali e di
teleriscaldamento dovettero di conseguenza essere riconvertiti al
carbone. E questo richiese un ulteriore investimento. D’altra parte
iniziarono a mancare le valute estere, che si guadagnavano esportando
i prodotti petroliferi di maggior valore. Ora, invece, si doveva
utilizzare le rimanenze di valuta estera per comprare il petrolio sul
mercato internazionale. E i prezzi delle materie prime si erano
considerevolmente innalzati durante gli anni Settanta. Tuttavia,
secondo un accordo del Comecon, tali incrementi di prezzo si
sarebbero ri essi solo con un ritardo di diversi anni.
A causa di questo drammatico inasprimento della situazione
economica, ci si domandava se la linea di Honecker (“unità di politica
economica e sociale”) con le sue massicce sovvenzioni potesse essere
mantenuto. Naturalmente Honecker decise di imporsi. Una correzione
della linea, che avrebbe inevitabilmente portato a una riduzione degli
standard di vita, era per lui fuori discussione. Ricordo una
consultazione con i segretari regionali, che si tenne in seguito a una
riunione del Comitato centrale, in cui era stata sollevata la questione
dell’aumento del prezzo della benzina. Il petrolio era diventato scarso
e costoso, quindi ne avremmo subito le conseguenze. Heinz Keßler, un
amico d’infanzia di Honecker, a quel tempo capo
dell’amministrazione politica dell’Armata popolare nazionale (NVA),
ci fece una proposta a tal proposito che giusti cò dicendo che questo
dif cilmente avrebbe condotto a una tensione sociale a livello
generale, e che avrebbe alleviato il bilancio pubblico in modo
sensibile. La proposta non ebbe alcun seguito, dava un segnale
sbagliato ed era diretta contro la linea del Partito e quindi contro
Honecker.
Così, Rusakov venne a Berlino nell’ottobre 1981 col dif cile
compito di giusti care la riduzione della fornitura di petrolio:
Il compagno Brežnev mi ha chiesto di comunicarti di persona la nostra risposta
riguardo alle due lettere inviate dal vostro Politburo al nostro sulla questione delle
forniture energetiche.
Il compagno Leonid Il’ič mi ha incaricato di informarti che mai in vita sua ha dovuto
rmare, con profondo dolore come ora, una sincera richiesta del Comitato centrale del
PCUS ai partiti fratelli, come quella contenuta nella lettera del 4 settembre e del 10
ottobre.
La situazione si è notevolmente deteriorata dopo l’incontro in Crimea, durante il quale
sapevamo già che i raccolti non sarebbero stati positivi. La nostra valutazione fatta ad
agosto non si è rivelata realistica. I raccolti di cereali, zucchero, patate e altri prodotti
agricoli sono stati signi cativamente inferiori rispetto a quanto previsto in agosto. Solo di
cereali mancano molti milioni di tonnellate. Ci troviamo di fronte a numeri che non hanno
precedenti nella storia sovietica. Cui si aggiungono inoltre le magre annate del 1979 e del
1980… Una simile serie di disgrazie è indicativa dei tempi dif cili che stiamo vivendo. Il
cattivo raccolto ha ripercussioni dirette sul bestiame. Ma non solo, anche le riserve sono
già state esaurite… L’unica soluzione che prospettiamo è l’acquisto di grano e zucchero
all’estero con valuta straniera.
Siate certi, compagni, che abbiamo esaminato a più riprese tutte le opzioni possibili.
Una maggiore esportazione di petrolio verso i paesi capitalisti si è dimostrata l’unica
alternativa valida. Per questo motivo ci siamo rivolti ai partiti fratelli per rendere nota
questa situazione. Non è stato facile per noi. Siamo consapevoli delle grandi dif coltà che
causeremo a voi e agli altri paesi. Ma vi preghiamo di credere che nel nostro paese
abbiamo preso misure ancora più drastiche. Da quando esiste la comunità socialista, siamo
spesso venuti in aiuto in simili dif cili situazioni.
Ora siamo noi a chiedere il vostro aiuto. Non conosciamo altre soluzioni o vie d’uscita.
Il compagno Brežnev mi ha detto di riferire: se parli con il compagno Honecker, digli che
ho rmato questa richiesta con le lacrime agli occhi.
Durante la conversazione Rusakov non lasciò dubbi sul fatto che
l’Unione Sovietica fosse letteralmente con l’acqua alla gola, per cui
andavano ritenuti responsabili i pessimi raccolti dei tre anni
precedenti e la “folle politica reaganiana”. Ma nella sua verbosa
dichiarazione disse anche: “Abbiamo avuto un’avaria. Una disgrazia di
proporzioni sconosciute dall’esistenza dell’Unione Sovietica”.
Forse intendeva “avaria” in senso metaforico?
Certamente il declino dell’economia sovietica fu tutt’altro che
accidentale. “L’Unione Sovietica era quasi all’ultimo posto in
confronto agli standard di vita negli altri paesi socialisti. Lo diciamo
apertamente: così non funziona, non possiamo retrocedere oltre”.
L’Unione Sovietica era certo di fronte a un’imminente bancarotta.
Né l’imperialismo tedesco, con l’imposizione del trattato di Brest-
Litovsk (che Rusakov citò in confronto alla situazione presente), né
l’aggressione fascista (quattro decenni prima), né la Guerra fredda e la
corsa agli armamenti ne furono la causa, ma l’incapacità di sviluppare
un’economia ef ciente. Lenin aveva identi cato la produttività del
lavoro come il criterio chiave per la vittoria del socialismo sul
capitalismo. Aveva ragione, anche se non nel senso che aveva previsto.
Apparentemente, questo fatto non fu preso in considerazione. Ma
nella situazione concreta era comprensibile: se la casa va a fuoco,
bisogna prima di tutto spegnere le amme, non andare alla ricerca
delle cause dell’incendio.
“Il compagno Leonid Il’ič mi ha incaricato di informare il Politburo
della SED che un’enorme disgrazia si è abbattuta sull’URSS. Se non
siete disposti a farvi carico insieme a noi delle conseguenze, c’è il
pericolo che l’Unione Sovietica non sarà in grado di mantenere la sua
posizione attuale nel mondo e le conseguenze di ciò ricadranno su
tutta la comunità socialista.”
Non so se Honecker avesse preso la situazione sul serio, così
com’era stata descritta, o se pensava che le rivelazioni di Rusakov,
senza dubbio sconcertanti, fossero invece solo esagerazioni. La sua
risposta mi fa propendere per quest’ultima ipotesi. Si era preparato
molto bene per l’incontro e la sua risposta riempiva più di dieci pagine
di appunti.
Di fronte a Rusakov, calcolò accuratamente che la DDR aveva
consegnato all’URSS 4820 tonnellate di uranio estratto nelle miniere
di Wismut. La DDR aveva acquistato 450 tonnellate di carburante
nucleare dall’URSS per alimentare le centrali della DDR. “La
quantità di uranio rimasta in Unione Sovietica corrisponde a circa 40
milioni di tonnellate di combustibile. Quindi, se confrontiamo le
risorse energetiche che riceviamo dall’Unione Sovietica, convertite in
unità di combustibile, con le risorse energetiche che abbiamo fornito
all’Unione Sovietica, appare chiaramente che diamo più di quanto
riceviamo.” Honecker presentò all’emissario di Mosca anche le cifre
riguardanti il denaro investito dalla DDR nella miniera di Wismut, per
permettere che l’Unione Sovietica continuasse a produrre armi
nucleari e mantenesse in funzione le sue centrali. Poi disse:
“Compagno Rusakov, ti suggerisco di riferire al compagno Leonid Il’ič
Brežnev della nostra conversazione e di dirgli anche che
comprendiamo bene le dif coltà della situazione presente. Saremmo
anche disposti ad accettare subito la misura, ma siamo anche consci
che qui è in gioco la stabilità della DDR. Da noi nella DDR, la
chiusura di una fabbrica avrebbe un impatto del tutto diverso da
quello che avrebbe in Polonia”.
Honecker alludeva alla recente crisi in Polonia, dove la dirigenza di
Jaruzelski aveva cercato di riprendere il controllo della situazione
dichiarando lo stato di emergenza. La posizione esposta della DDR
rispetto alla NATO, che con nava con un paese in cui si parlava la
stessa lingua e con il quale esistevano innumerevoli legami familiari,
sembravano a Honecker motivazioni ragionevoli per ottenere una
deroga.
Non dovremmo sottovalutare il pericolo rappresentato dalla guerra mediatica condotta
dalla radio e dalla televisione contro la DDR. Dobbiamo mantenere la ducia del popolo.
Siamo profondamente rattristati dalla tragedia che ha colpito l’Unione Sovietica, anche se
non conosco i dettagli. Ma non possiamo permetterci di peggiorare ulteriormente la
situazione, vi chiedo quindi ancora una volta di rivedere la vostra decisione. D’altronde, la
stabilità della DDR ha un grande signi cato internazionale.

Tuttavia, nella sua frase conclusiva, Honecker sottolineò con forza


che probabilmente non si trattava tanto del signi cato internazionale,
ma del potere dello Stato. “La DDR è forte solo se il suo partito, la
SED, è ancorato al popolo. Non possiamo ingranare la retromarcia.”
Guardando cinicamente si potrebbe concludere che Honecker
pensava che la lealtà e il consenso della popolazione fossero merci di
scambio, e che se questa volta non avesse concesso la carota, la SED
avrebbe perso in uenza e potere.
Rusakov chiarì ancora una volta che l’emergenza in atto non
avrebbe avuto conseguenze solo sulla DDR e lasciò intendere,
diplomaticamente, che Honecker era mosso da motivazioni egoistiche.
Concerne il vostro e il nostro popolo. Se dovessimo stringere ancora di più la cinghia, il
popolo ci chiederebbe: che cosa ne è dei paesi socialisti nostri alleati? Perché deve essere
sempre il popolo sovietico a sopportare situazioni tanto dure? Ma non si tratta solo di
questo, si tratta anche della sicurezza di tutti. Noi siamo costretti a mantenere almeno il
minimo indispensabile. Non stiamo parlando solo del tenore di vita della popolazione, ma
anche della fornitura di armi al nostro esercito. Fortunatamente, in vita mia non ho mai
dovuto supplicare un aiuto. Sono sicuro che il popolo della DDR non vorrà costringerci a
perdere la dignità.

Per quanto ne so, la genu essione di Rusakov non scosse la fede di


Honecker nell’in nita ricchezza sovietica. Non c’è altra spiegazione
per la sua insistenza sul ritiro della decisione di ridurre la fornitura di
petrolio alla DDR. In seguito tentò anche altre strade per persuadere
Mosca a cedere, ma non ebbe successo.
Credo che proprio questa esperienza sia all’origine dell’arroganza di
Honecker nei confronti dell’Unione Sovietica, che crebbe
velocemente no a farlo salire sul piedistallo a dare lezioni di
socialismo, convinto di fare tutto bene e meglio degli altri. Ne
conseguiva che non c’era alcuna necessità di apportare cambiamenti
nel paese. Mentre i nostri vicini avevano già iniziato a rinnovare
l’intero edi cio, noi non avremmo dovuto nemmeno cambiare la
tappezzeria. E quando parlava in maniera sprezzante dell’economia
“polacca”, consciamente o meno, articolava la parola in un modo che
trasudava disprezzo per i nostri vicini di casa.
I pensieri di Honecker erano semplici come le sue parole. I sovietici
avrebbero dovuto fare bene i compiti come aveva fatto la DDR e
raggiungere gli stessi standard e poi si sarebbe potuto parlare. Contava
un unico criterio: chi aveva il tenore di vita più elevato era anche il
migliore e non doveva accettare rimproveri sulle proprie presunte
carenze da parte di chi, dati alla mano, non era meglio.
Honecker fu reso cieco e sordo da questa logica. Se devo essere
sincero, confesso che era un atteggiamento contagioso. L’argomento
sembrava convincente: cosa importa della glasnost’ e della
perestrojka, se le condizioni di vita delle persone stavano
peggiorando? Avrebbero fatto meglio a lavorare sodo (come noi)
anziché soltanto parlare. Il compito del Partito era di guidare il paese,
non compiacere qualche svitato intellettuale.… A volte i giudizi non
superavano davvero il livello delle chiacchiere da bar.
A quanto pare ci si era dimenticati che l’Unione Sovietica aveva
subìto perdite immense durante la Grande guerra patriottica e che per
decenni aveva sovvenzionato l’area socialista e sostenuto in tutto il
mondo diversi movimenti di liberazione nazionale. Inoltre, per
raggiungere e mantenere l’equilibrio militare con l’Occidente, aveva
erogato fondi per la difesa in proporzioni sconsiderate rispetto
all’economia nazionale. I problemi politici strutturali erano stati
invece completamente ignorati, anche perché, se fossero stati percepiti
a Berlino, si sarebbe posto il problema delle conseguenze per il nostro
paese. Dopotutto, nonostante tutte le differenze e le varie speci cità,
alla ne eravamo uguali. L’atteggiamento ostinato di Honecker, il suo
persistente diniego, in fondo non fu altro che autodifesa.
1
“Trasparenza” in russo. [N.d.T.]
2
Segretario dell’acqua minerale. [N.d.T.]
3
Crisi degli euromissili. [N.d.T.]
4
Il Partito comunista della Germania occidentale. [N.d.T.]
CAPITOLO III
LA PERESTROJKA
E LA FINE DEL SOCIALISMO REALE

Al di là dei problemi impellenti che condussero alla trasformazione,


alla luce di quelli che furono i suoi esiti, sorgono inevitabilmente
alcune domande: la perestrojka e la glasnost’ erano ancora concetti
socialisti o erano già controrivoluzionari, poiché estranei alla natura
del socialismo? Il vero scopo della trasformazione del socialismo era
la sua abolizione o il socialismo avrebbe potuto davvero compiere un
salto qualitativo in direzione dello sviluppo e del miglioramento?
Se interpreto correttamente i discorsi di Gorbačëv e le decisioni del
PCUS, almeno per quanto riguarda la prima fase tra la primavera del
1985 e l’estate del 1988, la risposta è inequivocabile. Gorbačëv e i suoi
volevano migliorare la qualità del socialismo, emanciparlo, svilupparlo
ulteriormente e tornare così al suo spirito originario. Nel 1987,
Gorbačëv istituì diversi gruppi di lavoro sotto la direzione dei suoi
consiglieri Jakovlev e Černjaev, che avevano l’obiettivo di analizzare la
relazione tra leninismo e perestrojka. Lui stesso lesse intensamente le
memorie di Lenin, gli studi di storia del marxismo e le annotazioni dei
“vecchi bolscevichi”, la maggior parte dei quali era stata assassinata da
Stalin. Nelle sue memorie, Černjaev riporta che da questo studio
Gorbačëv trasse chiaramente due conclusioni. La prima era che il
socialismo poteva essere raggiunto in diversi modi, e che di
conseguenza era permesso o addirittura necessario modi care il
proprio atteggiamento in base alle circostanze. La seconda era che in
Lenin non si trovava nulla contro l’idea di adattare il socialismo al
mutare delle circostanze, in particolare rispetto a quelle che Lenin
stesso non avrebbe potuto prevedere.
La ricerca negli scritti di Lenin di una conferma ideologica o di una
giusti cazione per la sua azione radicale restò tuttavia senza esito.
Pertanto, Gorbačëv si rifugiò nella massima generale del fondatore
dello Stato sovietico, secondo cui bisognava sempre farsi guidare dalla
prassi. La sua digressione teorica fu in seguito inclusa in una raccolta
di discorsi e articoli, tra cui Socialističeskaja ideja i revolucionnaja
perestroika1. Già nel novembre 1987, in occasione del 70° anniversario
della Rivoluzione d’ottobre, Gorbačëv dichiarò che “l’eterogeneità
nazionale e sociale” nel mondo socialista era “buona e utile”. A quel
tempo però, i fondamenti ideologici marxisti e leninisti rimanevano
comunque per lui assolutamente irrinunciabili. Per esempio, al
congresso del Partito operaio uni cato polacco (PZPR) del 1986, mise
in guardia i compagni polacchi nei confronti delle riforme in direzione
dell’economia di mercato. “Alcuni di voi vedono nell’Occidente un
salvagente per la vostra economia. Ma, compagni, non dovreste
pensare ai salvagenti, ma alla nave, e la nave è il socialismo.”
Secondo la dottrina (leninista) sarebbe stato possibile arrivare al
socialismo in diversi modi, di conseguenza Gorbačëv permise allo stato
fratello di seguire da quel momento la propria strada. Brežnev aveva
tenuto la Polonia al guinzaglio e chiunque avesse provato a liberarla
avrebbe subìto l’ira di Mosca. La cosiddetta dottrina Brežnev restò in
vigore per oltre due decenni, no a quando Gorbačëv non vi pose ne.
Tuttavia, e questo fu uno dei suoi errori di ragionamento,
l’affrancamento dalla tutela sovietica non ebbe solo conseguenze
positive. Era ingenuo pensare che da quel momento le forze
riformatrici avrebbero automaticamente assunto i vertici dei partiti al
potere per iniziare in ciascun paese le necessarie trasformazioni.
Gorbačëv riponeva le sue speranze nei vari “piccoli Gorbačëv”, ma o
questi non esistevano oppure i riformatori non avevano alcuna
possibilità contro l’alleanza di conservatori e ortodossi, come era il
caso nella DDR. Per citare solo due esempi: nel 1986, al viceministro
Markus Wolf fu dato di fatto il benservito e fu mandato in pensione, e
nella primavera del 1989, avrei dovuto essere destituito dalla carica di
Primo segretario della direzione distrettuale del SED. (Il primo
novembre 1989, Gorbačëv disse a Krenz di essere stato molto colpito
da come era stato trattato Modrow. Krenz informò quindi il Segretario
generale che già due anni prima aveva ricevuto l’incarico di sostituire
Modrow. Ma trovò con lui una soluzione tattica, che fu poi duramente
criticata.)
In questo modo Gorbačëv fece sì che Mosca stessa si ritrovasse con
le mani legate: anche se avesse voluto, da quel momento non avrebbe
più potuto intervenire nelle scelte dei partiti fratelli senza venire
accusata di ipocrisia.
La principale potenza del blocco orientale che cosa sostituì al
rapporto di tutela esistito no ad allora? Libertà assoluta?
Consultazioni occasionali? Visite di scambio? Se Gorbačëv e i suoi
consiglieri avessero visto in che modo le principali potenze occidentali
imponevano la propria volontà agli alleati, avrebbero capito che il loro
progetto – se mai ne ebbero uno – non avrebbe potuto funzionare.
Anche un’altra idea, benché essenzialmente corretta, si rivelò un
boomerang. Marx ed Engels avevano capito che la storia dell’uomo è
storia di lotta di classe. Lenin si attenne a questa intuizione e quando
l’idea originaria della rivoluzione mondiale non si realizzò e solo la
Russia sovietica prese la via del socialismo, elaborò la tesi della
coesistenza paci ca come forma di lotta di classe. Entrambi i modelli
di società erano costretti a esistere uno a anco all’altro. E siccome il
mondo capitalista, come avevano testimoniato a più riprese le guerre
fredde e non fredde, voleva scon ggere quello socialista, e poiché
quest’ultimo era ossessionato dalla stessa ambizione (dopotutto il
mondo doveva ancora essere liberato dall’oppressione e dallo
sfruttamento), ogni relazione era una forma di lotta di classe. Questa
si ritrovava quindi a livello ideologico, nell’economia, nella politica,
nello sport, negli affari militari e anche nella cultura.
Quella di Gorbačëv era una logica cogente. A causa del terribile
potenziale di annientamento, una guerra tra i due blocchi militari
avrebbe reso tutti perdenti. In un simile contesto, l’interesse di classe
si risolveva da solo, nel senso che al di sopra dell’interesse di classe se
ne presentava ora uno di ordine superiore, uno più importante:
l’interesse dell’umanità intera. Sarebbe stato assurdo, in nome del
socialismo, che si considerava un ordine umanista, annientare il
mondo, solo per scon ggere un nemico di classe che non poteva essere
scon tto. Inoltre, un’esportazione della rivoluzione e un
sovvertimento coronato da successo nei paesi capitalisti era fuori da
qualsiasi realtà.
Di conseguenza, si doveva togliere alle relazioni internazionali il
loro carattere assolutizzato di lotta di classe. Al posto della s ducia,
del sospetto, dello spionaggio, bisognava instaurare la competizione
paci ca, lo scambio e la cooperazione, mantenendo al contempo la
reciproca accettazione dei diversi sistemi di valori. Per questo era
necessario innanzitutto che si riconoscesse alla parte avversa la
capacità di superare paci camente le ostilità. Per generazioni si era
imparato da Lenin che l’imperialismo aveva una natura aggressiva.
Gorbačëv non fu però l’unico a fare da apripista su questi temi. Il fatto
che anche in altri paesi si giunse alle stesse conclusioni e alle relative
conseguenze è solo una conferma della tesi secondo cui in tutti i partiti
e gli stati socialisti erano presenti analoghe necessità di riforma. Per
esempio, nel 1987, i socialdemocratici della Germania Ovest e i
socialisti della Germania Est elaborarono un documento congiunto
SED-SPD sul con itto ideologico. Il documento era rivoluzionario da
molti punti di vista e il fatto che fu avallato anche da Honecker è
probabilmente dovuto al fatto che questi non aveva colto appieno la
portata e la dimensione di questo straordinario progetto. Per la prima
volta la SED riconosceva al “nemico di classe” la capacità di superare
paci camente le ostilità. (Tra l’altro, benché il documento fosse stato
pubblicato interamente sulla “Neues Deutschland”, non ci fu alcun
dibattito interno al Partito.)
Con il suo ri uto del carattere di classe delle relazioni
internazionali, Gorbačëv ruppe per così dire con una delle colonne
portanti dell’edi cio socialista. E cosa mise al suo posto? Detto
cinicamente: solo amore e gioia per tutti. Certo, si sarebbero potute
anche cancellare in una notte le coordinate dei bersagli dai programmi
delle testate nucleari strategiche, ma non si sarebbe potuto fare lo
stesso con l’immagine del nemico tramandata per decenni. Nella
maggior parte degli stati occidentali l’anticomunismo era un elemento
costitutivo, era qualcosa di prescritto e ormai interiorizzato da intere
generazioni. La gente comune che ovunque rappresenta la
maggioranza non ha interesse per simili questioni. La gente è fatta così
e chiunque abbia fatto un po’ di esperienza in giro per il mondo e
abbia avuto modo di parlare con persone comuni, di origini e
nazionalità diverse, capisce perfettamente cosa intendo. Se ne fregano
della grande politica, hanno altre preoccupazioni e si pongono altre
domande rispetto a quelle che attanagliano i governanti di qualche
lontana capitale. Se un contadino del Midwest americano incontra un
agricoltore di un kolchoz russo, cosa invero piuttosto rara, questi
parleranno del mais o del valore della terra, non certo di ideologia e
lotta di classe.
Gli affari di Stato non sono mai stati, e non sono, gestiti dalla gente
comune, ma dai politici di professione, i quali hanno sempre avuto, e
hanno, idee abbastanza precise riguardo ai propri obiettivi. La loro
visione del mondo è (ed era) solo in parte modi cabile. Gorbačëv ha
chiesto alla sua gente di seguire un “nuovo pensiero”, ne ha stravolto le
menti, e quando la cosa non funzionava, perché gli sembravano ormai
sclerotizzate, allora la mandava in pensione.
E dalla parte avversa chi provvedeva a tutto questo? (Negli Stati
Uniti, secondo la Costituzione il Presidente non può superare due
mandati; in Germania, il cancelliere, ntanto che gli elettori lo
vogliono, può rimanere in carica no alla ne dei suoi giorni.)
La mia ipotesi, volendo essere indulgente, è che Gorbačëv puntasse
tutto sulla forza del buon esempio. Credeva nella buona fede dei
politici e nella loro disponibilità a cambiare se stessi in maniera
fondamentale. (Con Kohl sembra che abbia funzionato visto che no a
ieri comparava Gorbačëv a Goebbels e adesso già lo chiama per nome
e lo tratta come un amico di vecchia data…)
Detto in termini meno indulgenti: Gorbačëv fu ancora una volta
ingenuo e senza le idee ben chiare, a meno che ovviamente non agisse
di proposito.
Le aggressioni imperialiste passate non erano una nzione, erano
fatti reali: Egitto, Cuba, Vietnam, Cile, Grenada, Nicaragua, Angola,
Mozambico… Certo, in passato, anche in nome del socialismo, erano
stati calpestati tanto il diritto internazionale quanto la dignità umana.
Ma come sarebbe stata possibile questa repentina conversione sulla
via di Damasco senza l’assunzione di nessun impegno vincolante? Al
vertice di Mosca dell’estate del 1988, Gorbačëv voleva ottenere da
Reagan una dichiarazione che contenesse un riconoscimento
vincolante dei reciproci interessi di Stato in un mondo fortemente
interconnesso e che affermasse il principio di non interferenza negli
affari interni. Il Presidente americano ri utò di dare il proprio assenso.
L’ideale non violento di Gesù di Nazareth ha tutta la mia
ammirazione e mi sento certo più vicino a Gandhi che non a
Ceaușescu. Ma in un mondo e in una società civile in cui continua a
prevalere il diritto del più forte, attenersi esclusivamente al sermone
della montagna è politicamente irresponsabile. Sono per la non
violenza e preferisco le soluzioni politiche a quelle militari, tuttavia,
sono anche costretto ad accettare che il mondo non è come lo vorrei
io. Se vengo colpito non porgo l’altra guancia, in politica sarebbe una
follia.
Egon Bahr sostituì il principio di Adenauer del “cambiamento
attraverso la forza” con il concetto ben più ef cace di “cambiamento
attraverso il riavvicinamento”. Anche la doppia decisione della NATO
della ne degli anni Settanta, appoggiata dalla SPD, conteneva
entrambi gli elementi: l’offerta di negoziati e la pressione militare.
Gorbačëv dal canto suo, così sembrerebbe a posteriori, sostituì il
concetto praticando il principio del “cambiamento attraverso la
dissennatezza”. Eppure io non lo condanno, perché questa poteva
essere espressione dei suoi sforzi di sfuggire alla logica letale della
corsa agli armamenti e all’inferno nucleare. A meno che dietro
l’azione di Gorbačëv non ci fossero calcoli di altro tipo.
Inizialmente, le offerte unilaterali da parte sovietica non portarono
nessuna distensione a livello della politica interna come anche nessun
cambiamento nella politica estera. L’embargo imposto dall’Occidente
continuava invariato: malgrado i passi avanti in direzione del disarmo,
specialmente in campo nucleare, il complesso militare industriale
continuava a vivere di vita propria e a consumare una parte incredibile
delle risorse nazionali. Gli squilibri nell’economia nazionale
crescevano, come anche il debito estero, le condizioni della
popolazione peggioravano costantemente e le complesse ma
necessarie riforme economiche e sociali non iniziavano.
Fatta eccezione per alcuni singoli cambiamenti – furono concessi
maggiori diritti di partecipazione democratica ai collettivi dei
lavoratori, per esempio non venivano più assegnati i direttori
d’azienda, ma venivano eletti dal personale – tutto rimase come
prima. Il sistema di piani cazione e direzione centralizzato e ultra
burocratico continuava invariabilmente a governare l’incerta
economia civile, l’economia sommersa rimaneva un elemento
determinante dello scambio dei beni e ovunque regnava la penuria.
All’obiezione secondo cui una radicale trasformazione socialista
avrebbe comportato dif coltà e conseguenze imprevedibili si può
opporre il fatto che il passaggio all’economia di mercato non ha
nemmeno lontanamente risolto nessuno dei problemi esistenti. Al
contrario, ha generato un forte sradicamento sociale, che
probabilmente ha avuto conseguenze che non ci sarebbero state se tali
complesse riforme sociali ed economiche fossero state portate avanti
seguendo un’impostazione di tipo socialista. La liberalizzazione dei
prezzi, il mancato pagamento dei salari, la disoccupazione di massa, la
mancanza di sicurezza sociale, la permanenza dell’economia
sommersa e della corruzione (di proporzioni no a quel momento
sconosciute), il ri uto da parte delle imprese di pagare le tasse, la fuga
di capitali all’estero, ecc. Tutti questi fenomeni sono stati all’origine di
conseguenze ben più gravi rispetto a quelle che ci sarebbero state con
una vera perestrojka condotta all’interno dell’economia sovietica.
A metà del 1988 la perestrojka raggiunse il suo apice. Alla XIX
Conferenza del Partito comunista sovietico, tra il 28 giugno e il 1°
luglio, Gorbačëv chiese un’accelerazione della perestrojka, e fu infatti
ciò che accadde. In meno di un anno, Mosca abbandonò ogni idea di
alternativa socialista. Al vertice con George Bush del 3 dicembre 1989,
sulla nave da crociera Maxim Gorki a largo dell’isola di Malta, il
Presidente americano dichiarò che il superamento delle divisioni in
Europa sarebbe potuto avvenire solo sulla base dei “valori
occidentali”. Gorbačëv, nella sua risposta di venti minuti, affermò:
“Condividiamo i valori della democrazia, della libertà individuale e
dell’autodeterminazione”.
Dopo che ai paesi ex alleati dell’Europa orientale e sudorientale fu
lasciata la libertà di scegliere un nuovo orientamento, furono recisi
anche i tradizionali legami con i movimenti di liberazione nel terzo
mondo. Questi furono lasciati da soli e condannati così alla rovina
oppure si ritrovarono sull’orlo della catastrofe nazionale, come
successe a Cuba. Nel 1988, il ritiro delle truppe d’intervento sovietiche
in Afghanistan era moralmente più che giusti cabile, ma dietro di sé
lasciò un campo di battaglia aperto. Da allora, in Afghanistan
imperversa una feroce guerra civile, dovuta anche al fatto che per anni
gli Stati Uniti hanno sostenuto e armato i “ribelli” anticomunisti (i
quali nel frattempo sono diventati nemici mortali degli Stati Uniti).
Ancora una volta l’Unione Sovietica non fu in grado di ritirarsi in
modo ordinato.
La XIX Conferenza del Partito fu anche l’ultimo grande successo
tattico di Gorbačëv. Era già sotto attacco a causa dei contrasti nella
politica interna: il 13 marzo, il giornale “Sovetskaja Rossija” pubblicò
un articolo rmato da Nina Andreeva di Leningrado. Si trattava in
realtà soltanto della punta dell’iceberg. Oltre a una sconcertante
banalizzazione dei crimini di Stalin, l’articolo conteneva un pesante
attacco contro la perestrojka nel suo complesso. Honecker, che trovò
così un sostegno alla sua opposizione di principio alla perestrojka, fece
immediatamente ripubblicare l’articolo sulla “Neues Deutschland”. Il 5
aprile sulla “Pravda” apparve la replica che, se non si voleva rischiare
un affronto pubblico, doveva anch’essa venire ripubblicata sulla
“Neues Deutschland”. Fu ripubblicata con riluttanza, consapevoli che
le tesi di Andreeva erano state l’unico argomento discusso dal
Politburo a Mosca tra il 24 e il 25 marzo. Il contributo apparso
sull’organo uf ciale del PCUS rappresentava quindi la posizione
uf ciale della dirigenza sovietica.
Quanto avvenuto non era solo indicativo del rapporto ambiguo tra
Berlino e il PCUS, ma a causa della rottura che generò divenne anche
un momento chiave.
La lettera di Andreeva era una risposta a un’intervista apparsa sul
giornale “Il lavoratore di Leningrado”. Il fatto che la sua lettera non
fosse stata pubblicata sullo stesso giornale ma addirittura su un organo
uf ciale non può essere spiegato senza pensare a qualcuno che
muovesse le la da dietro le quinte. Anche lo stile della lettera e le tesi
contenute portano a trarre la stessa conclusione. L’ipotesi di un
coinvolgimento di Ligačëv, uno dei membri del Politburo che faceva
parte dell’opposizione interna a Gorbačëv, non è stata mai confutata.
Bruno Mahlow, membro del Dipartimento relazioni internazionali
del Comitato centrale della SED e profondo conoscitore della
situazione sovietica, condusse a suo tempo un’analisi del testo di
Andreeva. In un documento che consegnò al Comitato centrale,
criticava il fatto che Andreeva, pur pronunciandosi a favore della
perestrojka, si opponeva però ai presunti riformatori troppo zelanti,
inoltre, non esplicitava chiaramente quali erano i valori cui diceva di
non volere rinunciare. Tuttavia, il suo fu essenzialmente un ri uto
tanto del concetto quanto del contenuto della perestrojka, era quindi
contro la linea del Partito, ma era troppo pusillanime per dirlo o
scriverlo apertamente. Mahlow riteneva inoltre che Andreeva
rappresentava le situazioni di precrisi e di crisi sotto il socialismo come
fenomeni naturali, i quali erano secondo lei strumentalizzati dagli
allarmisti. Polemizzava anche contro una presunta in ltrazione
ideologica borghese e, in opposizione alle decisioni del XXVII
Congresso del Partito, riteneva che il pluralismo avrebbe condotto a
divisioni all’interno della società.
Andreeva pretendeva di avere ricevuto diverse lettere da parte di
compagni preoccupati della DDR e invitava i comunisti tedeschi a
occuparsi più da vicino delle questioni sovietiche. Nel suo documento
del 1988 Mahlow scrisse: “Chiedere a un altro partito di interferire
negli affari interni non ha nulla a che vedere con l’attenzione verso i
principi. Si può trattare in questo caso solo di una provocazione o di
una schizofrenia soggettiva, una specie di pretenzioso spirito
missionario”.
In conclusione, l’esperto del Comitato centrale constatava che
Andreeva poteva essere considerata come un’oppositrice della
perestrojka. Andreeva evitava “una chiara e onesta presa di posizione
nei riguardi dei seri problemi che riguardavano il Partito, il paese e la
storia” per ergersi invece a paladina “del Santo Graal della purezza
marxista-leninista della dottrina, del partito e della sua patria”.
Il 20 giugno, a pochi giorni dall’inizio della XIX Conferenza del
Partito, il consolato generale della DDR a Leningrado ricevette una
visita inaspettata. Il giorno seguente, il compagno Bauer informò
Berlino per iscritto a proposito della visita di quindici minuti da parte
di una donna sulla quarantina, intelligente, colta, molto capace e
sicura di sé, che si era presentata come Nina Andreeva. “Ha ricevuto
più di millecinquecento lettere a favore della sua posizione, incluse
molte provenienti dalla DDR e dalla Polonia. Le lettere dalla DDR
erano soprattutto su questioni di principio, caratterizzate da una solida
posizione di classe e di natura altamente teorica” riferiva il console
generale. Dopo la pubblicazione della replica al suo intervento sulla
“Pravda” rilasciò un’altra presa di posizione, ma questa “lettera
aperta” alla Conferenza del Partito non fu pubblicata né sulla
“Pravda” né sulla “Sovetskaja Rossija”. Al contrario fu data a Bauer
una copia della “lettera aperta” con la preghiera di inoltrarla alla
“Neues Deutschland”. A questa allegò anche una lettera al
caporedattore della “Neues Deutschland” in cui, tra le altre cose,
spiegava le ragioni per cui aveva scelto di non usare la posta normale.
Alla ne del colloquio mostrò al console alcune lettere di cittadini
della DDR che avrebbe citato nel suo articolo. “Sulla lettera del
cittadino M. Stein non compariva il mittente, ma riportava solo il
timbro postale di Berlino. La lettera si concludeva con una nota del
suo autore in cui dichiarava di averla scritta di propria iniziativa e
senza aver ricevuto alcuna istruzione al riguardo. La compagna
Andreeva ha dichiarato di aver risposto a ogni singola lettera.”
Honecker e il caporedattore della “Neues Deutschland” non
ricevettero mai né questo memorandum né la “lettera aperta”.
Rimasero incastrati negli ingranaggi del Comitato centrale. Nina
Andreeva non pubblicò altri interventi. Bruno Mahlow dichiarò allora
di aver sentito alla televisione sovietica, durante la trasmissione
Vzgljad2, il regista e attore Rolan Bykov accennare distrattamente al
fatto che Andreeva era stata espulsa dal Partito. Un’informazione che
Bykov avrebbe appreso durante una recente visita a Leningrado.
Alla luce delle crescenti controversie interne al Partito, Gorbačëv
aprì la XIX Conferenza del Partito con un tema centrale: “Come
possiamo rafforzare e rendere irreversibile la rivoluzionaria
trasformazione che su iniziativa del Partito e della sua dirigenza è
avvenuta con la perestrojka nel nostro paese? Questa è la questione
fondamentale che abbiamo ora di fronte. La risposta dipende dal fatto
se il Partito sarà o meno in grado di continuare a svolgere il ruolo di
avanguardia politica in questa fase dello sviluppo della società
sovietica.”
Nella sua esposizione, Gorbačëv dipinse un quadro allarmante. In tre
anni la perestrojka aveva aggravato la situazione economica del paese
e le condizioni sociali della maggioranza dei cittadini sovietici erano
peggiorate. La politica agraria, la politica delle nazionalità, il sistema
giudiziario… tutto andava male. Di conseguenza, aumentavano le
tensioni tra chi era pro e chi contro la perestrojka, tra chi sosteneva e
chi osteggiava Gorbačëv.
Ancora una volta, con notevole talento tattico, riuscì a calmare le
acque e assicurarsi che la sua linea fosse appoggiata dalla
maggioranza. Eppure, mai come in questo caso fu tanto evidente la
sua mancanza di orientamento strategico. Non ci fu nessuna
dichiarazione in merito agli obiettivi di politica interna e su come si
sarebbe dovuto raggiungerli. La Conferenza giunse alla conclusione
che le riforme economiche avrebbero dovuto essere estese in modo
radicale e che si sarebbero dovuti mettere al centro i problemi
quotidiani urgenti delle masse popolari. L’unica proposta concreta fu
in ne la ricostruzione dell’apparato di partito, che fu decisa il 29
luglio, al Plenum del Comitato centrale.
Entro la ne del 1988 i privilegi della nomenklatura dovevano
essere aboliti e l’apparato drasticamente ridotto. Furono decisioni
giuste e oggettivamente necessarie. Anche in questo caso però non
c’era nessun progetto preciso. Nessuno si chiedeva come avremmo
assicurato che i funzionari fossero politicamente quali cati, come
avremmo potuto, con il personale ridotto, svolgere meglio di prima i
compiti ora più numerosi, o quale dovesse essere il ruolo del Partito
nella società. Al contrario, cedettero alle pressioni della base del
Partito come anche a quelle della società. Assunsero un atteggiamento
populista e si limitarono a liberarsi della zavorra di personale in
eccesso.
Dal punto di vista della politica interna, Gorbačëv e la perestrojka
erano sempre più sotto pressione. La glasnost’ non aveva portato
maggiore democrazia e pluralismo, ma solo l’affermazione di un
nuovo monopolio dell’opinione pubblica. La maggioranza dei media
condusse una battaglia ideologica contro tutte le istituzioni dello Stato
e del Partito, il sistema giudiziario e il Partito persero il controllo della
situazione non riuscendo a perseguire tutti i casi di corruzione e di
abuso di potere, l’ordinamento istituzionale stava chiaramente
vacillando. Gorbačëv volle ride nire il ruolo del Soviet supremo e nel
marzo 1989 fece eleggere un nuovo Congresso dei deputati del popolo
al ne di ottenere un organo legittimato democraticamente che
potesse portare avanti la perestrojka, ma fu subito evidente che il
PCUS aveva perso la sua reputazione e la ducia da parte del popolo.
Così, ancora una volta, una debole democrazia fu affossata dai suoi
stessi sostenitori: Gorbačëv e altri che non erano sicuri di essere eletti
furono “delegati” a questo organo. Solov’ëv, il Primo segretario del
Comitato regionale di Leningrado, dovette invece affrontare le
elezioni e fu prontamente scon tto.
Gorbačëv ottenne quindi questo nuovo organo istituzionale
superiore, ma anch’esso non riformò l’ordinamento giuridico vigente e
così non era chiaro quale dovesse essere la sua funzione e quale
sarebbe stato in futuro il ruolo del Soviet supremo, il cui Presidium era
in mano a Gorbačëv dall’ottobre dell’anno precedente. I con ni tra la
democrazia parlamentare di uno stato presidenziale e la prediletta
democrazia di base si fecero sempre più confusi. “Tutto il potere ai
Soviet!” chiedeva Gorbačëv, in una sorta di ritorno a Lenin, ignorando
però che per una simile rivendicazione non esistevano condizioni di
sorta né nei rajon né nelle municipalità. I relativi dibattiti “della base”
non portarono a nulla ma fecero sì che lo Stato diventasse
ingovernabile.
Dal punto di vista formale, in accordo con la Costituzione sovietica,
il PCUS era ancora alla guida e il Politburo continuava infatti a
rappresentare il governo del paese. Eppure non era di fatto già più
così. Dopo la stagnazione dell’era post-staliniana, ormai anche la
perestrojka stava ora creando una nuova stagnazione. Anche se da
fuori appariva in costante movimento, in sostanza rimase tutto come
prima. La “rivoluzione dall’alto” combatteva le strutture doppie e
parallele dello Stato e del Partito, ma distruggendo l’unica
infrastruttura intatta, che era quella del PCUS, praticamente si
paralizzò da sola.
Intanto nella DDR, Honecker se ne stava seduto in poltrona con le
braccia conserte. Ogni tanto provocava e questo Gorbačëv lo sapeva
bene. Il 1° novembre 1989, durante la visita uf ciale d’obbligo a
Mosca, quest’ultimo disse a Krenz: “Il compagno Erich Honecker
crede evidentemente di essere il numero uno del socialismo, se non
del mondo intero. Non ha davvero capito quello che sta succedendo”.
Honecker non perdeva occasione per dimostrare alla dirigenza
sovietica, che sembrava non avere più la situazione sotto controllo, la
presunta inesorabile ascesa della DDR. Anche se la DDR non era
meno in dif coltà dell’URSS. (Gorbačëv sembra che fosse rimasto
sconvolto quando Krenz gli disse che la DDR aveva un debito estero
di 26,5 miliardi di dollari. Oltre il 62 percento dei proventi delle
esportazioni se ne andava in interessi, ossia 4,5 miliardi di dollari. A
questo punto il protocollista della DDR annotava: “Il compagno
Gorbačëv chiede stupito se la cifra è corretta. Non immaginava che la
situazione fosse tanto precaria”.)
Honecker sperava che Gorbačëv potesse essere presente a Berlino
quale ospite d’onore per i 750 anni della città in modo da potergli
presentare la sua splendente metropoli socialista. Quando Gorbačëv
declinò l’invito, Honecker insistette af nché almeno il Comitato
consultivo politico fosse presente a Berlino a maggio 1987. Così, alla
ne Gorbačëv dovette venire. Fu allora trascinato in visita a
un’esposizione sulle conquiste della DDR che, come disse lui stesso,
aveva il solo scopo di mettere in luce i progressi della DDR in campo
scienti co e tecnologico, rispetto alle inutili discussioni sulla
democrazia in corso in Unione Sovietica.
Ovviamente, per Honecker questo non era ancora abbastanza.
Nell’ottobre 1988 viaggiò a Mosca e in mezzo a un gran chiasso
propagandistico presentò il Megabit-Chip che la DDR aveva
sviluppato, a quanto pare, completamente da sola. Gorbačëv, leader di
una potenza mondiale come l’Unione Sovietica, fece buon viso a un
gioco imbarazzante.
Con tutto il rispetto per i risultati ottenuti dai ricercatori di Jena,
Dresda e Berlino, sembra strano che la piccola DDR pretendesse ora
di aver raggiunto le vette mondiali della microelettronica e di
competere con americani e giapponesi.
Nella sua distanza con Mosca, la Germania di Honecker poteva
essere comparata solo alla Romania di Ceaușescu, che aveva
comunque preso la sua strada già prima dell’elezione di Gorbačëv.
Come Honecker, anche Ceaușescu credeva che in Romania una
trasformazione come quella iniziata in Unione Sovietica non fosse
necessaria, poiché già di fatto realizzata dal suo lungimirante governo.
(Per aver confrontato Honecker a Ceaușescu, il membro del Comitato
centrale Bogomolov fu dichiarato da Honecker persona non grata
nella DDR.)
Ungheria e Polonia erano già sulla via delle riforme quando quelle
di Gorbačëv furono avviate in Unione Sovietica. Poteva quindi essere
sicuro del loro appoggio. Per anni, Kádár era riuscito a sfruttare lo
stretto margine di manovra concessogli da Mosca per fare avanzare il
paese economicamente. L’agricoltura orientata alle esportazioni
funzionava bene, l’industria era ef ciente e con i sui autobus Ikarus
l’Ungheria aveva ottenuto il monopolio in tutto il blocco orientale. Il
turismo e la produzione sotto licenza ebbero una forte crescita e
giusti carono il motto di spirito secondo cui l’Ungheria era la baracca
più allegra del campo socialista. Dopo il XXVII Congresso del PCUS
ci fu un cambio nella dirigenza ungherese: dopo oltre tre decadi a capo
dello Stato, Kádár rassegnò le dimissioni. Nel maggio 1988, Károly
Grósz prese il posto di Kádár come Segretario generale del Comitato
centrale del POSU e Németh divenne Primo ministro. Kádár morì nel
giugno 1989 e fu sepolto con tutti gli onori. Il POSU si trasformò sotto
la guida di Gyula Horn nel Partito socialdemocratico ungherese,
mentre una parte dei suoi membri fondarono il Partito operaio
ungherese.
In Polonia governava dall’inizio degli anni Ottanta il generale
Wojciech Jaruzelski. Il rapporto tra Polonia e Unione Sovietica non
era mai stato privo di tensioni. Tuttavia, Gorbačëv e Jaruzelski
andavano d’accordo. Non era stato per caso che la prima visita
uf ciale all’estero di Gorbačëv come Segretario generale fosse stata
proprio a Varsavia. Nel 1981, i compagni polacchi si dimostrarono più
lungimiranti rispetto ai vertici di Mosca, Praga e Berlino, i quali, dopo
il rafforzamento di Solidarność, non riuscivano a sbarazzarsi del tutto
del desiderio di agire secondo la dottrina Brežnev. Il 3 aprile 1981, il
capo del partito Stanisław Kania e il ministro della Difesa Jaruzelski
furono portati in una località segreta, dove il capo del KGB Andropov
e il ministro della Difesa Ustinov, durante un colloquio durato sei ore,
richiesero un’azione forte e decisa. Questo voleva dire arresti di massa
dei membri del sindacato indipendente Solidarność. (Jaruzelski ha
rivelato più tardi che prima di partire chiese al responsabile del suo
uf cio di occuparsi di sua moglie e di sua glia nel caso in cui non
fosse tornato. Simili reazioni fanno capire quanto fosse
profondamente radicata la dif denza nei confronti di Mosca.) Dopo
questo incontro segreto, l’ideologo capo Suslov e il ministro degli
Esteri Gromyko si presentarono a Varsavia e minacciarono un’azione
militare congiunta degli stati del Patto di Varsavia. A ogni modo, i
compagni polacchi ignorarono i “suggerimenti” di Mosca e
nell’ottobre 1981 al posto di Olszowski elessero Jaruzelski come Primo
segretario del PZPR, il quale evitò un intervento militare esterno
imponendo la legge marziale. A causa della crescente opposizione
interna, aumentava in Polonia la pressione per le riforme, che furono
in ne concesse. A tale riguardo la perestrojka sovietica fu molto
d’aiuto e non incontrò nessuna riserva da parte della dirigenza
polacca. Nel luglio 1989, dopo che il governo di Solidarność aveva già
assunto la guida dello Stato, Jaruzelski fu eletto Presidente, mentre
come Primo segretario del Comitato centrale del PZPR fu eletto
Rakowski.
Tra il distretto di Dresda e il voivodato di Breslavia c’era un
gemellaggio e anche tra le rispettive dirigenze di partito c’erano buoni
rapporti d’amicizia. Fino al 1980 la mia controparte era Ludwik
Drożdż, che prese il posto di Edward Gierek quando fu rimpiazzato
alla guida del PZPR. In seguito ci fu una riforma amministrativa. Il
voivodato si divise in quattro e noi mantenemmo i contatti con
Breslavia e Jelenia Góra. A prendere il posto di Drożdż fu Tadeusz
Porębski, ex rettore di un politecnico, che presto divenne anche
candidato al Politburo. Quando ci incontrammo a Dresda a metà
novembre 1981, era già ai vertici del Partito. A quell’incontro senza
interprete – insieme parlavamo tedesco e russo – partecipò anche
Jerzy Golis, Primo segretario del voivodato di Jelena Gora. Disse
chiaramente che in Polonia il con itto non si sarebbe potuto risolvere
senza il Patto di Varsavia, ma Porębski non era affatto d’accordo. La
Polonia (e il PZPR) aveva la responsabilità di risolvere i problemi con
le proprie forze. L’Europa non avrebbe accettato una seconda Praga.
Ricordo che la nostra discussione su questo tema fu franca e
costruttiva. Tutti fummo d’accordo sul fatto che Jaruzelski portava su
di sé tutto il peso della responsabilità e che doveva agire da solo. A
mio avviso, fortunatamente per la Polonia, per il Patto di Varsavia e
per l’Europa, ebbe successo.
Più problematiche rispetto a Budapest e Varsavia furono le
relazioni con Praga. L’invasione del 1968 aveva creato ferite che erano
ancora aperte. (Solo il 4 dicembre 1989 il Patto di Varsavia presentò le
scuse uf ciali per quell’aggressione, a eccezione della Romania che
all’epoca non partecipò.) L’atteggiamento di Gorbačëv era chiaro:
Zdeněk Mlynář, con il quale aveva studiato a Mosca e del quale aveva
conservato l’amicizia, lavorava al segretariato di Dubček. Mlynář era
all’epoca il più giovane segretario di un comitato centrale che il blocco
orientale avesse mai visto. Quando Gorbačëv diventò Segretario
generale, la dirigenza cecoslovacca includeva ancora personaggi come
Vasiľ Biľak, il quale, nel 1968, aveva richiesto l’intervento di Mosca “in
aiuto”, e Gustáv Husák, che fu poi sostituito da Dubček.
I compagni cechi – in quanto distretto con nante con la
Cecoslovacchia tenevamo rapporti anche con la Moravia del Nord –
erano innovativi sotto diversi aspetti. La loro importante industria
aveva diritti di commercio con l’estero che solo ora Gorbačëv stava
concedendo alle imprese sovietiche. Anche l’elezione dei dirigenti
d’azienda da parte degli impiegati era praticata già molto prima che a
Gorbačëv venisse questa idea. (Ma visto che non fu loro concessa piena
autonomia, i risultati furono scarsi come in Unione Sovietica.)
Tuttavia, da Praga non arrivò un chiaro appoggio a favore della
perestrojka, anche se nell’aprile 1988 – nelle sue memorie Gorbačëv
riporta volentieri le lusinghe che riceveva – Husák dichiarò: “Lei,
Michail Sergeevič, ha portato i rapporti tra i partiti fratelli a un nuovo
livello, e ha avuto l’audacia, il talento e il tempo di portare a termine il
grande lavoro iniziato”.
Quando nell’autunno del 1989 Husák fu come Honecker costretto a
dimettersi, chiese una consultazione con Gorbačëv. L’ambasciatore
sovietico a Praga inoltrò la richiesta seguendo i canali uf ciali, ossia
passando dal segretario competente del Comitato centrale, Vadim
Medvedev. La richiesta fu respinta in quanto si sarebbe trattato di
un’intromissione in una disputa interna al Partito. Husák si rivolse
quindi direttamente a Gorbačëv, il quale si limitò a inviare i propri
saluti e un breve messaggio in cui spiegava che avevano già discusso di
tutto a Mosca e che la decisione sarebbe spettata soltanto a lui. Husák
lasciò l’incarico di capo del Partito, ma mantenne la carica di
Presidente. Miloš Jakeš gli succedette come Segretario generale.
Husák ri utò la carica simbolica di Presidente onorario.
(Mlynář viveva a Vienna già dagli anni Settanta, dove lavorava come
professore. Lo incontrai nel 1992 a una conferenza della Fondazione
Gorbačëv a Mosca e, nell’estate del 1995, ci incontrammo a Berlino a
un convegno al quale partecipò anche Mieczysław Rakowski. Zdeněk
parlò pubblicamente della sua distanza da Gorbačëv ma, quando
parlammo in privato, la sua critica andava oltre l’indignazione, era
delusione. Come prova mi inviò un manoscritto su un dibattito che
aveva avuto con Gorbačëv in vista di un libro. Non se ne fece però
nulla in quanto Gorbačëv non diede il permesso di divulgarlo. A Praga,
il “blocco di sinistra” elesse Mlynář, un socialista democratico, alla
carica di Presidente onorario. Non poté però mantenere l’incarico a
lungo poiché morì di cancro nel 1996.)
La repressione della Primavera di Praga segnò una cesura anche nei
rapporti tra Romania e Unione Sovietica. Da quel momento Ceaușescu
insistette su concetti come la parità, la sovranità e il principio di non
interferenza, che l’Occidente rispettava e interpretava come
opposizione. Mentre nel resto del blocco orientale gli scambi con i
paesi capitalisti costituivano di solito un terzo del commercio estero,
in Romania questa parte crebbe presto no a due terzi. Tuttavia, la
glasnost’ e la perestrojka misero il Conducător sotto pressione,
specialmente per quanto riguardava il rapporto con Stalin e lo
stalinismo. Negli anni Ottanta, in nessuno dei paesi socialisti, il culto
della personalità era ancora vivo quanto in Romania. In nessun altro
paese le decisioni venivano prese in maniera tanto brutale senza tener
conto dei cittadini. Così, per dimostrare l’ascesa della Romania a
nazione industriale moderna, Ceaușescu aveva distrutto centinaia di
villaggi con tutte le loro strutture sociali sviluppate organicamente
lungo i secoli. La popolazione rurale era stata sradicata e ricollocata
nelle aree urbane di nuova edi cazione, che spesso non venivano
costruite in tempo o non potevano essere adeguatamente rifornite di
energia elettrica o riscaldamento. Ceaușescu disse al XXVII Congresso
del PCUS che la glasnost’ e la perestrojka erano un problema
sovietico e che dal punto di vista socialista non avevano nessuna
legittimazione per rappresentare dei modelli per altri stati.
A ogni modo, Gorbačëv visitò Bucarest nel maggio 1987. I discorsi
che si tennero segnarono il crollo delle relazioni tra i due paesi.
Gorbačëv disse, con moderazione, che capiva i motivi per cui Ceaușescu
ri utava la perestrojka e che avrebbe potuto continuare a vivere anche
così. Un altro problema, proseguì senza peli sulla lingua, era il fatto
che chi rimaneva in carica troppo a lungo rischiava di assumere un
punto di vista ristretto.
Ceaușescu avrebbe di certo tagliato volentieri tutti i ponti se nel
frattempo l’Occidente non avesse assunto un nuovo orientamento. La
Romania non serviva più come mezzo per fare pressione sull’Unione
Sovietica, ora l’Occidente dialogava direttamente con Mosca. Di
conseguenza Ceaușescu, quando nel 1988 si ritrovò economicamente
con l’acqua alla gola, fu costretto a bussare alla porta del Cremlino.
Quando contraccambiarono la visita, Ceaușescu chiese allora una
maggiore cooperazione economica. La Romania, disse, avrebbe a
breve termine riorganizzato la propria produzione adattandola ai
bisogni sovietici, in cambio chiese una maggiore fornitura di petrolio.
Indipendentemente dal fatto che la Romania avesse potuto o meno
realizzare quanto dichiarato, l’Unione Sovietica non poté accogliere la
proposta in quanto aumentare le esportazioni di petrolio era
impossibile.
Il comune ri uto della perestrojka fece avvicinare ancora di più
Honecker e Ceaușescu, una vicinanza che fu resa manifesta
dall’assegnazione al Conducător dell’Ordine di Karl Marx alla ne del
1988. Questo riconoscimento al potentato rumeno non solo incontrò
l’incomprensione da parte del popolo della DDR, ma suscitò anche
diverse proteste all’interno del Partito. Come sempre, le proteste
furono messe a tacere. Alla ne del novembre 1989, quando, come
nella maggior parte dei paesi socialisti, ci fu un cambiamento nella
dirigenza del Partito a causa delle pressioni da parte delle masse,
Ceaușescu non si fece impressionare e celebrò a Bucarest il Congresso
del PCR con la parola d’ordine “Congresso delle grandi vittorie, del
trionfo del socialismo e della piena espressione dell’indipendenza e
della sovranità della Romania”. Un mese dopo, il 25 dicembre, lui e sua
moglie erano morti. Un sedicente tribunale li condannò entrambi a
morte e li fece fucilare.
Le relazioni tra Mosca e So a erano più dif cili di quanto si
credesse. Tradizionalmente, i due paesi erano in buoni rapporti,
favoriti dalla presenza di legami culturali e linguistici. I soldati russi
avevano liberato la Bulgaria dal giogo turco e il Presidente Dimitrov,
forte oppositore di Stalin in seno al Comintern, era sinceramente
intenzionato a far diventare la Bulgaria la sedicesima repubblica
sovietica. Al tempo della nomina di Gorbačëv, Todor Živkov era il
Segretario generale del blocco orientale in carica da più tempo.
Siccome Gorbačëv lo aveva spesso visto al anco di Brežnev, interpretò
come ipocrite le sue dichiarazioni a sostegno della perestrojka.
Sicuramente si sbagliava. Živkov riuscì a trasformare la Bulgaria da un
paese che produceva pomodori a un produttore di elettronica, era
aperto alle innovazioni e sosteneva incondizionatamente Gorbačëv su
questioni come il disarmo e il miglioramento delle relazioni con
l’Occidente. Come lui, vedeva la necessità urgente delle riforme
economiche e dello sviluppo qualitativo della cooperazione in seno al
Comecon.
Gorbačëv credette di aver visto del risentimento verso la democrazia
e la libertà. Come si fece questa idea rimane un mistero. Živkov
dedicò tre sessioni del suo Politburo all’analisi del Plenum del
Comitato centrale del PCUS del gennaio 1987, elaborò delle lunghe
risoluzioni con i cambiamenti per la Bulgaria e le inviò a Mosca per
una valutazione. Le accolsero con un certo sbigottimento poiché si
aspettavano qualcos’altro. Ma il baluardo Živkov, che aveva già
superato diverse bufere interne al Partito, non si fece intimidire da
questo nuovo sviluppo. Innanzitutto, Mosca inviò il segretario del
Comitato centrale Medvedev in Bulgaria, dopodiché, nell’autunno del
1987, vi si recò Gorbačëv stesso per il suo primo incontro con Živkov.
Quest’ultimo si dimise da Segretario generale il 17 dicembre 1989, per
essere succeduto da Petăr Mladenov, mentre Andrej Lukanov divenne
Primo ministro. Questi assicurarono una transizione paci ca. Živkov
morì nell’agosto 1998, dopo diversi anni di carcere domiciliare. Gli feci
visita l’ultima volta nell’autunno del 1997. Dopo tutto quello che era
successo, non faceva mistero della propria opposizione a Gorbačëv, che
secondo lui era in larga parte responsabile della ne dell’Unione
Sovietica e del fallimento del socialismo reale.
La perestrojka incontrò un’accoglienza certamente diversa nei vari
partiti e stati del blocco orientale. Ma la valutazione, espressa più tardi
da Gorbačëv, secondo cui il ri uto sarebbe stato totale ed
essenzialmente in reazione al ri uto di Mosca di inviare i carri armati
per mantenere i rispettivi partiti comunisti al potere, è davvero troppo
semplicistica. Inoltre, l’esempio polacco del 1981 mostra chiaramente
che la necessità di un intervento dei carri armati sovietici non era così
grande come vorrebbe far credere Gorbačëv. I veri patrioti tra i
comunisti pensavano e agivano nazionalmente e preferivano sempre
risolvere i problemi da soli.
Anche la politica estera di Honecker nei primi anni Ottanta era
orientata in questo senso. “Dal suolo tedesco non dovrà essere mai più
scatenata una guerra.” Erano queste le parole d’ordine che aveva
posto a guida della sua azione. Questa motivazione era più forte della
paura di un rimprovero da parte di Mosca per aver agito
unilateralmente o addirittura di una destituzione da Segretario
generale. Dopotutto, fu solo al vertice del Comitato politico consultivo
del Patto di Varsavia nel 1985 che questa linea venne approvata e
sanzionata. Fino a quel momento – e furono due o tre anni pericolosi –
Honecker aveva sostenuto le proprie posizioni senza l’approvazione di
Mosca.
Non posso negare che questo tipo di politica e la conseguente
attenzione internazionale stuzzicarono la vanità di Honecker. Per
questo non escludo che fu proprio la sua vanità a essere stata ferita
quando – dopo che Mosca ritornò con Gorbačëv sulla scena
internazionale – fu nuovamente relegato al secondo posto. Aveva
conferito con i grandi leader mondiali, era stato in visita dal Papa e dal
re di Spagna, era stato in Giappone, Francia, Italia e – in quello che
retrospettivamente fu il coronamento della sua carriera – nella
Repubblica federale tedesca. Il suo obiettivo più ambizioso – un
incontro con il Presidente americano alla Casa Bianca – gli fu tuttavia
negato, malgrado tutti i suoi sforzi al riguardo. Hermann Axen fece
anticamera alla Casa Bianca e Klaus Gysi, in qualità di Segretario di
stato per gli affari religiosi, tentò invano la carta ebraica, ma
l’amministrazione americana fece chiaramente capire che non aveva
intenzione di avere rapporti con un uomo della sua generazione.
Aspettavano qualcuno di diverso, qualcuno di nuovo. Questo non era
una sorpresa visto che gli interessi degli Stati Uniti divergevano
completamente dalle posizioni delle altre tre potenze vincitrici. Sia la
Gran Bretagna sia la Francia non solo concordavano con la divisione
della Germania in due stati, ma erano del tutto soddisfatte di questa
soluzione, per non parlare dell’Unione Sovietica, che teneva uno dei
due stati sotto la propria ala protettrice.
Gli americani non avevano invece problemi con l’idea di una
Germania uni cata, ntanto che questa non si fosse dichiarata
neutrale. Cinque giorni dopo le dimissioni di Honecker ci fu una
telefonata tra il Cancelliere Helmut Kohl e il Presidente Bush. Era il
23 ottobre e come nei ventotto anni precedenti il muro non sembrava
dare segni di cedimento.
Il giorno seguente Bush rilasciò un’intervista al “New York Times”
in cui fece riferimento alla telefonata del giorno prima e dichiarò di
aspettarsi grandi cambiamenti nello status della Germania. E aggiunse
di non condividere “le preoccupazioni espresse da alcuni stati europei
nei confronti di una riuni cazione della Germania” e che a suo parere
“l’impegno e l’apprezzamento della Germania a favore dell’alleanza
sono irremovibili”. Kohl aveva capito. L’8 novembre assicurò di fronte
al Bundestag il “completo sostegno” alla DDR nel caso in cui fossero
state approvate riforme “fondamentali” non solo in campo economico
ma anche politico. In questo modo rese chiaro in quale direzione si
sarebbe sviluppata la situazione e che i tempi delle riforme non si
sarebbero decisi a Berlino o a Mosca, ma esclusivamente a Bonn. In
realtà, quindi, la sentenza di morte per la DDR era già stata emessa
prima della caduta del muro.
Ora vorrei però tornare a Honecker, al suo malcontento nei
confronti della perestrojka e alle sue conseguenze per la DDR. Nel
febbraio 1989, inviò a Dresda una commissione d’inchiesta. I media
occidentali mi dipinsero come un riformatore e un sostenitore di
Gorbačëv, ma il mio contributo fu semmai solo indiretto. Nel 1987,
poco prima di recarsi a Mosca per la sua nuova nomina a capo del
dipartimento orientale del Comitato centrale, l’inviato dell’ambasciata
sovietica a Berlino, Valentin Koptelcev, fece il mio nome in risposta a
una domanda dello “Spiegel” su chi, secondo Gorbačëv, sarebbe
dovuto succedere a Honecker. Tutto qua. Presentare la politica in
termini personalistici, come continui confronti individuali, è solo una
consuetudine giornalistica. (Come accade anche oggi: due parole e
una mezza allusione di un politico famoso o di sua moglie bastano a
tenere occupata per giorni tutta la nazione.) Il membro del Politburo
Günter Mittag fu quindi inviato da Honecker a Dresda per trovare
una ragione per farmi fuori. Le voci sui giornali esteri secondo cui
sarei stato l’uomo di ducia di Gorbačëv e il successore di Honecker
bastarono a quest’ultimo per trarre le sue conclusioni. Secondo il
rapporto di Mittag: “I sostenitori della perestrojka nella DDR
vogliono riportare il paese allo stato in cui era nel 1948, al livello in cui
si trova ora l’Unione Sovietica, principalmente a causa della
perestrojka di Gorbačëv”.
A parte il fatto che nel 1948 non esisteva neanche la DDR, quanta
arroganza e presunzione rivela una simile osservazione? Durante
l’infanzia Honecker aveva dovuto condividere il letto con i suoi
fratelli, aveva conosciuto la disoccupazione e la povertà, aveva vissuto
l’in azione, la fame e la miseria. La DDR era riuscita – ovviamente
grazie alla sua guida straordinaria – a far sì che nessuno soffrisse più la
fame, che i prezzi fossero stabili, che ognuno avesse un tetto sopra la
testa e un lavoro sicuro, che ogni bambino avesse un letto tutto per sé
e possibilmente anche una camera tutta sua in un condominio nuovo,
luminoso e ben riscaldato. Ora, è chiaro che tutti dovrebbero
cortesemente fare il piacere di essere felici, contenti e grati, invece di
mettere a rischio tutto questo benessere attraverso chiacchiere inutili.
Honecker non aveva capito che questa modesta prosperità piccolo-
borghese non era affatto ciò di cui il popolo aveva bisogno per il
proprio benessere. Quello che proprio non gli entrava in testa era che
le richieste di riforme non erano frutto di desideri soggettivi dei
singoli, bensì necessità oggettive. Un’automobile non può funzionare
in eterno, alcuni pezzi vanno sostituiti, altri riparati, altrimenti non
serve più allo scopo e alla ne diventa un rottame. Coloro che
volevano mantenere in vita il socialismo avrebbero dovuto cambiarlo.
Volerlo conservare così com’era signi cava ucciderlo.
Honecker faceva notare compiaciuto che la produttività del lavoro
nella DDR era la più alta di tutto il mondo socialista. Non voleva però
ammettere che la distanza rispetto alla produttività nei paesi
occidentali cresceva sempre di più. Honecker si vantava per il
Megabit-Chip, ignorando che per avere una semplice automobile in
Duroplast si dovevano aspettare almeno quindici anni (e lui stesso
utilizzava automobili importate, francesi e svedesi). Si prendeva il
merito per la realizzazione del milionesimo appartamento, ma
tralasciava deliberatamente il fatto che le città andavano in rovina a
causa della scarsità di materiali da costruzione e muratori, come anche
che la produttività dei cantieri della DDR non era al livello di quella
dei paesi occidentali. Honecker parlava ovviamente con persone
dell’Ovest, leggeva i loro giornali e le loro riviste, si faceva inviare le
loro videocassette e mangiava i loro prodotti gastronomici, che alla
residenza dei dirigenti di Wandlitz potevano essere acquistati con
denaro della DDR e a un prezzo accessibile. Vietava ai suoi
connazionali ciò che lui stesso si permetteva. Tutti i contatti con
l’Ovest dovevano essere segnalati o mantenuti segreti. Per anni io non
ho potuto vedere mio fratello che viveva nella Germania federale.
Dresda si trovava nella “valle degli ignari” 3, dove su mia iniziativa fu
facilitata una ricezione almeno parziale della televisione dell’Ovest.
No, Honecker non volle vedere che la sua politica lo stava
allontanando sempre di più dalla gente, i cui bisogni gli erano ignoti
ed estranei. Per questo non poteva cogliere il nocciolo del messaggio
di Gorbačëv di tornare alle masse e di orientare il socialismo sui
bisogni della gente, per fare esattamente ciò che lo stesso Honecker
aveva proclamato all’VIII Congresso del Partito: tutto per il bene del
popolo, poiché questo è l’unico signi cato del socialismo. Al centro
della politica ci doveva essere l’uomo. Quindici anni dopo, all’XIII
Congresso della SED, un solo uomo rimase al centro della politica: lo
stesso Honecker.
Quelli che non lo seguivano erano disfattisti e piagnucoloni, e
venivano messi in riga o espulsi dal paese e nessuno versava una
lacrima per la loro dipartita. Comunque, come disse contro ogni
buonsenso il Presidente della Camera del popolo Horst Sindermann:
si trattava solo di disadattati e squilibrati.
Quando Honecker sproloquiava sulla democrazia socialista – come
puntualmente faceva durante le visite di Stato – elencava sempre le
numerose organizzazioni e i partiti politici nella DDR, e riferiva i
numeri riguardanti i loro membri. La somma superava spesso il
numero dei cittadini della DDR, perché diverse persone pagavano le
quote associative a più di un’organizzazione di massa. Questo grande
impegno politico dei cittadini non impressionava solo gli interlocutori
stranieri ma probabilmente anche l’oratore stesso. In ogni caso,
Honecker ha sempre avuto uno strano rapporto con i numeri. Al
momento delle elezioni, si interessava solo alle cifre decimali che
seguivano la virgola dopo il novantanove. Come venivano nominati i
candidati, se tutti i settori della popolazione e le parti interessate
fossero adeguatamente rappresentati, o se ci fosse la possibilità di
revocare un mandato in caso di rappresentanti indegni o incompetenti
non era di particolare interesse per Honecker. Ovviamente, tutto ciò
non aveva niente a che vedere con la democrazia. Anche per quanto
concerne il personale non c’era alcun ricambio. Quando Honecker era
ancora giovane e indossava la camicia blu della FDJ4, le parole
d’ordine erano: responsabilizzare e dare ducia ai giovani. Quando i
suoi capelli erano ormai grigi, aveva ancora questo motto sulle labbra.
Ma dov’era nita la gioventù? Quando mai le fu data l’opportunità di
dimostrare il proprio valore o di distinguersi? L’età media di alcune
brigate giovanili che lavoravano alla “Trasse”5 era sui quarant’anni, e
chiunque con meno di sessant’anni avesse un incarico importante
nello Stato o nel Partito era guardato con scetticismo dalla vecchia
guardia: cosa vuole questo sbarbatello? Le donne, anche se vissero di
fatto un’uguaglianza poi purtroppo andata perduta nella Germania
uni cata, dif cilmente potevano fare carriera. Potsdam aveva una
sindaca e anche nel Consiglio dei ministri sedeva una donna, ma
quanto al Politburo le due candidate che c’erano sarebbero
probabilmente ancora candidate adesso se non avessero rassegnato le
dimissioni con tutto il Politburo nell’autunno del 1989.
Nella DDR molto si era ormai deteriorato, le parole d’ordine un
tempo pertinenti, ripetute a oltranza, erano diventate logore o erano
state superate dalla realtà e degradate a frasi fatte. Quanto questo
distaccamento dalla realtà avesse colpito non solo Honecker ma tutta
la classe dirigente fu evidente nel momento in cui, nell’ottobre 1989,
Egon Krenz dichiarò pubblicamente che la trasformazione era partita
dalla SED.
Sembra proprio che non riuscissero neanche lontanamente a
immaginarsi come una simile affermazione potesse risuonare nelle
orecchie di centinaia di migliaia di persone che, in quelle ultime
settimane, avevano manifestato per le strade della DDR il proprio
malcontento contro la dirigenza e la sua riluttanza verso le riforme.
Anche per i compagni più critici all’interno della SED era diventato
allora chiaro che così non si poteva andare avanti.
Le manifestazioni contro la dirigenza del partito “cambiato” e per il
rinnovamento furono all’inizio losocialiste. Erano intese a
incoraggiare le riforme e la trasformazione. “Wir sind das Volk!”6 altro
non era che la richiesta di rimettere al centro della politica gli interessi
della maggioranza. Quando a Lipsia i dimostranti iniziarono a cantare
“Wir sind ein Volk!”7 la protesta di massa assunse un nuovo contenuto
e un nuovo obiettivo. Anche per questo non uso il termine
“rivoluzione” per ciò che è accaduto nella DDR e in altri paesi del
blocco orientale. Ci trovammo di fronte allo scatenamento di un
sentimento che si era accumulato negli anni e che per molto tempo era
stato arginato, ma il cui signi cato mutava di continuo.
Il fatto che tali processi avvennero in maniera analoga anche negli
altri paesi del Patto di Varsavia era necessariamente connesso con il
modello di società cui facevano riferimento. In linea di principio, e
nonostante differenti caratteristiche nazionali, avevano tutti seguito il
modello sovietico. Come sappiamo dalla storia, questo non era
avvenuto del tutto volontariamente e nemmeno per caso. Pertanto, i
problemi che dovevano affrontare le persone e le politiche dominanti
nei vari paesi erano simili. Al contrario della Russia post-feudale, in
cui si incrociavano le visioni del mondo europea e asiatica, la
Germania orientale era un classico paese industriale europeo. Ma il
tentativo di non applicare pedissequamente il modello sovietico
terminò prima ancora di iniziare. Il lavoro di Anton Ackermann sulle
speci cità della via tedesca al socialismo, benché scritto per conto
della dirigenza del Partito, fu ignorato e ogni ri essione al riguardo fu
messa a tacere. Questo precursore fu quindi improvvisamente
etichettato come un dissidente, un rinnegato e un nemico. La feroce
inquisizione staliniana vigilava al ne di garantire la purezza della
dottrina. Sebbene nei decenni seguenti le conseguenze fossero meno
atroci, il Comitato centrale continuava a mantenere il monopolio
dell’interpretazione e il privilegio del progresso, possedeva i mezzi per
esercitare pressioni e per elargire punizioni. Pretendeva di
rappresentare l’unico vero socialismo. Gli esperimenti jugoslavi e
cinesi non avevano nulla a che fare con il socialismo. Tito, si diceva,
faceva il gioco del nemico di classe, e Mao Zedong, ovunque lo
avrebbero portato i suoi balzi in avanti, non sarebbe mai arrivato al
socialismo.
La mancanza di cultura democratica e di libertà di movimento, le
strutture patriarcali, il centralismo e la burocrazia furono trasposte in
tutti i paesi chiamati alleati. Considerando il modo in cui i governi
furono instaurati e l’in uenza fu esercitata e mantenuta, il termine
“stato satellite” non era distante dalla realtà. Egon Bahr usò questa
immagine negli anni Novanta in relazione alla DDR. Logicamente,
questi satelliti si schiantarono a terra non appena lasciarono le loro
orbite prestabilite.
La generazione che aveva iniziato la costruzione del socialismo
aveva in seguito giustamente ri utato questo termine per non subire
un declassamento postumo ad agenti volontari di una potenza
straniera. I tedeschi sopravvissuti all’inferno della guerra, coloro che
avevano vissuto gli orrori della dittatura nazista, erano determinati a
impedire a ogni costo che tutto questo potesse ripetersi. Il grembo che
aveva dato alla luce il Reich hitleriano e l’Olocausto, la guerra
mondiale e la povertà di massa era di stampo borghese-capitalista.
Quindi, quel sistema doveva essere superato e al suo posto doveva
essere creato un nuovo ordinamento economico. Persino la CDU di
Adenauer, nel suo primo programma postbellico, considerava una
forma di socialismo come l’unica prospettiva concepibile per la
Germania.
Questo idealismo e questo entusiasmo erano promossi e sostenuti
dal potere occupante sovietico, ma come sappiamo bene non in
maniera del tutto disinteressata e altruistica. Tuttavia, oggi dovremmo
stare attenti a non rinfacciare alle forze occupanti questa mancanza di
altruismo. Dopotutto, la Germania aveva compiuto genocidi e aveva
sopraffatto il mondo con il terrore e la devastazione. Non c’era certo
da aspettarsi gratitudine. La colpa ricadeva su tutti, anche sui
comunisti tedeschi, come ammisero mestamente nella loro
dichiarazione dell’11 giugno 1945.
Ma nel 1947-48, il dibattito democratico era già stato soffocato e lo
slancio iniziale placato. La creazione del Partito socialista unitario
tedesco (SED), come unione di comunisti e socialdemocratici
all’interno del settore sovietico della Germania, voluta da Stalin in
spirito leninista, fu celebrata come nascita di un “Partito di un nuovo
tipo”. Da quel momento, purché seguisse le direttive del fratello
maggiore, il Partito, come recitava il suo inno, avrebbe avuto sempre
ragione. No, anche se la capitolazione era stata quasi volontaria e
molti – incluso me stesso – consideravano questo procedere in accordo
e al passo col PCUS come una condizione della nostra forza, la SED
non era un partito sovrano che potesse decidere il proprio destino.
Eravamo convinti che solo uniti saremmo stati forti. Il nostro potere
collettivo era fondato sulla convergenza dei nostri punti di vista e
naturalmente, all’interno di un’alleanza, conduce il gioco chi detiene
una maggiore esperienza e il potenziale materiale migliore. Come in
ogni famiglia, era il fratello più grande a dare l’esempio. (A tal
proposito, occorre ricordare che anche all’Ovest le potenze occupanti
divennero di fatto potenze protettrici e che non si limitarono a reggere
la mano che scrisse la costituzione democratica.)
Ora, sarebbe un errore imputare a Mosca tutte le responsabilità per
il fallimento del socialismo nella DDR e negli altri paesi del blocco
orientale. Dall’Unione Sovietica avevamo ereditato tutti i difetti di
nascita, le malattie infantili e i nei relativi al suo modello, che era
quello di una caserma militare, la cui origine era stata individuata da
Lenin nella severa organizzazione della socialdemocrazia tedesca.
Come oggi affermano alcuni storici, non era stato lui ma Friedrich
Ebert ad aver inventato e applicato per primo il centralismo
democratico. Questo riduce la nostra responsabilità?
Quando mai nella SED ci siamo ribellati o ci siamo chiesti:
compagni, è ancora nel segno del progresso ciò che stiamo facendo e il
modo in cui lo stiamo facendo? Stiamo servendo il popolo o solo noi
stessi? Stiamo seguendo gli ideali dei rivoluzionari francesi del 1789 o
stiamo sostituendo una dittatura del Partito, della sua logica interna e
dei suoi condizionamenti esterni alla libertà, all’uguaglianza, alla
fraternità e alla nozione marxista per cui la libertà individuale è il
presupposto di una società libera? Siamo ancora dei pionieri
dell’emancipazione sociale o siamo solo i suoi amministratori? Ci
stiamo aggrappando al potere per se stesso o lo stiamo usando per il
benessere di tutti? Il socialismo è diventato ne a se stesso o mantiene
ancora il suo compito storico di rendere la terra un posto vivibile per
l’umanità, in cui possano regnare pace e giustizia?
Sono interrogativi che ci siamo magari posti a bassa voce, in piccoli
circoli, ma laddove queste domande collettive avrebbero potuto
portare a ri essioni e magari anche ad azioni collettive, abbiamo
tenuto la bocca chiusa. Gorbačëv fece a modo suo, probabilmente
troppo tardi e senza tener conto delle conseguenze, ma almeno lo fece.
In base alla mia esperienza, sono convinto che il socialismo reale sia
crollato una volta esaurito il suo potenziale come sistema sociale. Era
arrivato autonomamente a un limite che non poteva infrangere e
quando ci ha provato questo signi cò la sua ne.
1
Idea socialista e perestrojka rivoluzionaria. [N.d.T.]
2
Sguardo. [N.d.T.]
3
Tal der Ahnungslosen, erano le regioni che non ricevevano i programmi radio e tv
occidentali. [N.d.T.]
4
Freie Deutsche Jugend, Libera Gioventù Tedesca. [N.d.R.]
5
Un enorme oleodotto sovietico costruito da volontari di diversi paesi socialisti. [N.d.T.]
6
Siamo noi il popolo. [N.d.T.]
7
Siamo un (solo) popolo. [N.d.T.]
CAPITOLO IV
LA PERESTROJKA
E LA FINE DELLA DDR

Così come la storia tedesca non è mai stata il risultato di sole fatiche
tedesche, la fondazione della DDR aveva avuto i suoi precursori in
patria e all’estero. Rispetto ad altre nazioni europee, la Germania si
era formata come stato-nazione relativamente tardi. Il Sacro romano
impero della nazione germanica contava no al XVIII secolo
trecentocinquanta “stati”, Napoleone e le successive guerre di
liberazione ne ridussero il numero. Il Congresso di Vienna sotto
l’egida di Metternich riorganizzò nuovamente la Germania: la
Confederazione germanica fu un’unione di trentanove stati divisi da
barriere doganali, valute, religioni e dinastie. Che i vicini vedessero di
buon occhio questo paesaggio frantumato dalla storia e dal loro stesso
intervento corrispondeva al principio romano del “divide et impera”,
un concetto antico che conoscevano bene.
Bismarck, il cancelliere della Confederazione tedesca del nord,
forgiò l’impero tedesco “con sangue e ferro” nelle guerre contro la
Danimarca, l’Austria e la Francia. Si trattava di una necessità storica,
ma questa nascita improvvisa portava con sé tutti i difetti di ciò che è
tardivo. La Germania cercò di recuperare, in fretta e violentemente,
ciò che altri stati-nazione avevano costruito e conquistato nel corso
dei secoli e che ora dovevano difendere dal nuovo contendente sorto
al centro dell’Europa: mercati, materie prime, colonie e privilegi.
Questo fece divampare una guerra per la nuova spartizione del
mondo. A Versailles, i vincitori della Prima guerra mondiale dettarono
ai vinti le condizioni della vergogna e in ne l’interpretazione dei fatti:
la Germania aveva provocato la guerra, gli altri erano soltanto vittime
e non carne ci. Questa menzogna ebbe almeno due conseguenze
fatali: in primo luogo, la maggioranza dei tedeschi avviliti meditava la
vendetta e la retti ca di quel verdetto (non solo gli imperialisti, i
nazionalisti, i militari e in seguito i fascisti, ma anche molta “gente
ordinaria” percepiva il Trattato di Versailles come un vergognoso
diktat. Questo spiega in parte il funesto successo dei nazionalsocialisti
dopo il 1933, i quali furono i più rumorosi nel protestare contro le
sanzioni del Trattato). In secondo luogo, la sinistra tedesca, per
allontanarsi dalle destre, ruppe con l’idea di nazione. I comunisti, si
diceva, erano senza patria, a meno che questa non fosse stata una
patria comunista. E in Germania, la questione nazionale era stata no
a quel momento appannaggio esclusivo delle forze reazionarie. (Le
conseguenze di questa prospettiva rozza e per nulla dialettica le
abbiamo viste nel 1989-90, quando le masse svilupparono sentimenti
apertamente più “nazionali” rispetto alla dirigenza della Germania
orientale, che negli anni Novanta rispose con slogan ingenui come
“Mai più Germania!” o “Sta’ zitta Germania!”. La necessaria presa di
distanze dal nazionalismo e dallo sciovinismo non dovrebbe mai
ridursi a un semplice ri uto.)
La Germania di Hitler aveva dato inizio alla Seconda guerra
mondiale e giustamente fu punita dai popoli della terra, che per
riparare ai crimini tedeschi chiesero che l’espiazione fosse a un tempo
collettiva e individuale. Io stesso fui internato in un campo per
prigionieri di guerra sovietico. Una parte della pena fu la divisione
prima di tutto territoriale della Germania, poi anche politica,
economica e culturale. La creazione di due stati tedeschi fu il prezzo
pagato per i crimini del “Reich millenario”.
Come a ogni criminale viene data a un certo punto la possibilità di
redimersi, così fu pure per la Germania, anche se questo andava oltre
l’immaginazione di entrambi gli stati tedeschi. Se le quattro potenze
vincitrici avessero ritenuto che la Germania avesse pagato abbastanza,
si sarebbe potuta superare la divisione…
Dalla prospettiva di Mosca, sia durante la Guerra fredda sia durante
la distensione, la zona di occupazione sovietica, che in seguito divenne
la DDR, avrebbe dovuto svolgere diverse funzioni nei confronti
dell’Occidente. Secondo il messaggio di Stalin del 7 ottobre 1949, la
fondazione della DDR era un simbolo di progresso nonché un punto
di svolta nella storia della Germania e dell’Europa. Questa visione era
ampiamente condivisa all’interno del Politburo sovietico. In una parte
della Germania esisteva la possibilità di una società alternativa. Era
l’occasione per un tentativo di edi cazione del socialismo in un paese
capitalista industrializzato. Le relazioni con i tedeschi avevano una
lunga tradizione e anche Lenin era stato germano lo. Tra le due
guerre, a livello delle relazioni statali, Berlino e Mosca erano in buoni
rapporti: basta ricordare i trattati di Rapallo, in cui i due paria della
comunità internazionale si accordarono per la cooperazione, oppure
l’intensa attività commerciale tra le due nazioni no alla prima metà
del 1941.
Il secondo fattore fu un mero calcolo di potere. Il separatista
Adenauer disse una volta – e su questo avemmo ragione a
rimproverarlo – che preferiva possedere interamente mezza
Germania, piuttosto che possedere a metà una Germania intera. Con
l’aiuto delle potenze occidentali unì le rispettive zone d’occupazione,
costituì la Repubblica federale e lavorò per la sua integrazione tra gli
alleati occidentali. Benché all’Est nessuno lo dicesse esplicitamente,
anche noi agimmo in maniera analoga. Meglio mezza Germania
interamente che la Germania intera solo a metà, tanto più che tutti gli
sforzi per l’uni cazione erano falliti. La DDR fu integrata
nell’alleanza militare orientale (naturalmente, in risposta alla
precedente integrazione della sua controparte nella NATO) e divenne,
come la Repubblica federale, il membro più fedele della sua alleanza.
Se i tedeschi fanno qualcosa, lo fanno in modo completo e coerente.
Il calcolo di Mosca era chiaro: la DDR era la punta di diamante
contro l’Occidente, una zona cuscinetto per la sicurezza dell’Unione
Sovietica, l’alleato più importante e il primo partner commerciale: una
pedina importante nella partita contro l’Occidente. A seconda della
linea dominante nel Politburo, la politica di Mosca era orientata verso
l’Europa e amichevole nei confronti della Germania oppure era
completamente russo la e orientata alle proprie esigenze nazionali. La
DDR occupava solo 108.000 chilometri quadrati, era il luogo di
dislocamento per diverse centinaia di migliaia di soldati, un’area
militare e un potenziale campo di battaglia. Ci furono diverse
dichiarazioni da parte dei comandanti in capo alle forze sovietiche
nella DDR rivolte ai vari capi di Stato in carica: “Siamo chiari, in caso
di emergenza, qui il capo sono io”. Pëtr Abrasimov, l’ambasciatore
sovietico, fu soprannominato “ambasciatore di governo” e in effetti si
atteggiava a padrone di casa. Più di una volta disse ai politici
occidentali, riferendosi a Honecker, che se non riuscivano a gestire la
situazione avrebbero dovuto andare subito da lui. Alla ne,
l’autocratico Abrasimov fu tuttavia richiamato a seguito
dell’intervento di Honecker e sostituito da Kočemasov, ma la sua
arroganza granderussa non era un’eccezione e l’atteggiamento
coloniale non nì con la sua partenza (dopotutto l’ambasciata di
Unter den Linden faceva solo ciò che pretendeva Mosca). Come
regalo di commiato, Abrasimov ricevette da Honecker una dacia nei
pressi di Mosca e, quando dovette chiamare ripetutamente Berlino per
un nuovo rubinetto, chiese persino all’ambasciata tedesca di risarcirgli
le spese telefoniche.
Contrariamente ad altre dichiarazioni che sono state fatte in
proposito, credo che l’atteggiamento di Gorbačëv sulla questione
tedesca non fosse ideologico. Considerava innaturale la divisione,
anche se sembra che ignorò che negli ultimi decenni da entrambe le
parti si erano veri cati sviluppi rispetto ai quali non si poteva tornare
indietro.
La DDR era socialista e la Repubblica federale era capitalista. Dal
punto di vista della perestrojka, il socialismo nella DDR avrebbe
dovuto essere rimodellato e migliorato, non messo in questione in
quanto tale, poiché era chiaro che al mondo non serviva un’altra
repubblica tedesca capitalista. E la Repubblica federale, che era
costituzionalmente anticomunista, dif cilmente sarebbe diventata
socialista dopo la riuni cazione dei due stati. Contro una simile
prospettiva c’erano l’estensione territoriale, la demogra a, il potere
economico e la chiara integrazione della Repubblica federale
all’interno della comunità occidentale e dei suoi valori.
Il 28 maggio 1986, a una conferenza presso il ministero degli Esteri
sovietico, Gorbačëv e Ševardnadze indicarono per la prima volta che
secondo loro l’uni cazione dei due stati tedeschi non era qualcosa di
inconcepibile. In seguito, l’idea fu discussa più di una volta da una
piccola cerchia di persone: Šachnazarov, Falin, Fëdorov, Martynov,
Bogomolov e Bondarenko, che a causa delle loro relazioni con la
Germania erano spesso tra coloro che ne discutevano in seno al
Comitato centrale e al ministero degli Esteri. Ancora una volta,
c’erano due linee di pensiero: una considerava l’uni cazione una
conseguenza logica, naturale e inevitabile, e l’altra non voleva alterare
lo status quo, specialmente perché la DDR era in de nitiva l’unico
simbolo visibile rimasto della vittoria sulla Germania nazista.
L’Unione Sovietica aveva nel frattempo perso tutti gli altri trofei di
guerra o vi aveva rinunciato, come nel caso dell’Austria. Rinunciare
alla DDR avrebbe certo signi cato il ritiro delle truppe sovietiche
dall’Europa centrale e questo era inaccettabile. Come si sarebbe
potuto giusti care un ritiro delle truppe di fronte al popolo sovietico,
che per la vittoria contro i fascisti tedeschi tra il 1941 e il 1945 aveva
versato il proprio sangue e sofferto pene indicibili?
La liquidazione di Berija, che aveva tentato di succedere a Stalin
dopo la sua morte, era stata giusti cata – e non fu mera propaganda –
adducendo che intendeva ripensare il futuro del socialismo nella
Germania Est, se una Germania “paci ca” (cioè neutrale) fosse stata
garantita dall’Occidente. Questo fu visto come un tradimento degli
interessi sovietici. Da quel momento in poi, tutti i diplomatici sovietici
sapevano, come scrive Falin nelle sue memorie, cosa sarebbe successo
a coloro che avessero pensato a qualche cambiamento politico
radicale riguardo alla questione tedesca. Inoltre, tutti gli accordi più
importanti che sono stati negoziati negli anni Settanta e Ottanta erano
basati sull’inviolabilità e immutabilità dei con ni: dal Trattato di
Mosca all’Accordo quadripartito su Berlino, dal Trattato di Base tra
DDR e RFT no agli Accordi di Helsinki. Mosca guardava con il
massimo sospetto qualsiasi presunta convergenza tra Bonn e Berlino,
e persino Gorbačëv usò quest’argomentazione per porre il veto alla
visita nella Repubblica federale che Honecker aveva previsto nel 1987.
(Può sembrare un’ironia della storia, ma i funzionari e gli esperti
dell’intelligence sovietica oggi sostengono che negli anni Ottanta
Honecker diede un contributo considerevole all’unità tedesca e anche
Šachnazarov gli attribuisce questo “grande merito” postumo.)
La decisione sovietica sull’unità tedesca venne presa durante una
riunione il 26 gennaio 1990 a Mosca. Vi parteciparono il Primo
ministro Ryžkov, Gorbačëv e il ministro degli Esteri Ševardnadze,
insieme ai consiglieri e agli esperti della Germania Jakovlev, Falin,
Achromeev, il capo del KGB Krjučkov, Šachnazarov e Černjaev. Ci
sono una serie di indizi che dimostrano come l’atteggiamento nei
confronti della questione tedesca non cambiò spontaneamente da un
giorno all’altro. La correzione di rotta avvenne molto prima. Tra le
mie carte, ho ancora il memorandum di una conversazione avvenuta il
26 aprile 1989 tra Bruno Mahlow e Koptelcev, il capo settore del
Dipartimento IV (Relazioni internazionali) del Comitato centrale del
PCUS, che all’epoca generò parecchia indignazione. Il compagno di
Mosca, responsabile per la DDR, spiegava che dal suo punto di vista
la DDR era l’anello più debole del blocco socialista, “poiché la
questione nazionale non era stata risolta”. Quest’affermazione provocò
una feroce opposizione da parte tedesca che vedeva nella DDR una
nascente nazione socialista tedesca. Koptelcev sorrise amichevolmente
e disse: “Questa valutazione ri ette la visione della dirigenza e di
parte dei membri della SED, ma non è certo quella della maggioranza
della popolazione della DDR. Questa maggioranza ragiona secondo le
categorie di una nazione in cui svolge un ruolo signi cativo anche la
superiorità economica della RFT”. Non senza malizia, Koptelcev citò
anche il Segretario generale della DDR come testimone chiave a
sostegno della sua tesi: “Che la questione nazionale nella DDR sia
ancora irrisolta è dimostrato dalla dichiarazione del compagno
Honecker, secondo cui la questione dell’unità tedesca sarebbe
completamente diversa, se si considera una possibile vittoria del
socialismo nella Repubblica federale. Al momento, tuttavia, un tale
sviluppo non sembrerebbe all’orizzonte”. Suggerì quindi che la teoria
della formazione delle due nazioni tedesche doveva essere ripensata
“da entrambe le parti e senza fretta” poiché essa non era “fondata su
basi solide”. Sebbene Koptelcev ammettesse che il compagno Semënov
era stato uno dei suoi ideatori, e con questo anche che Mosca avrebbe
dovuto assumersi parte della responsabilità per questo errore,
bisognava però prendere atto che “la realtà non aveva confermato la
teoria”.
La reazione dei nostri compagni doveva essere stata molto negativa,
il verbale riporta infatti che Koptelcev fu “reso consapevole delle
conseguenze pericolose di un simile inaccettabile approccio” e che gli
fu chiesta un’alternativa. Ovviamente Koptelcev non ne aveva, non
aveva nessuna “soluzione immediata”. Tuttavia, sarebbe stato
importante “sedersi insieme e pensare in maniera costruttiva alle
possibili alternative”.
Nella cerchia ristretta dei dirigenti le decisioni erano quindi state
prese, o almeno discusse, già prima della primavera del 1989, benché
all’esterno si applicassero ancora i vecchi modelli argomentativi. A
posteriori, si può fondatamente affermare che la politica uf ciale di
Mosca nei confronti della DDR e della Germania nel suo complesso
abbia cominciato a rivelare elementi di ipocrisia e doppiezza almeno a
partire dal 1989.
Il 26 settembre 1989, in risposta alle dichiarazioni di Kohl al
congresso della CDU, Ševardnadze disse davanti all’Assemblea
generale delle Nazioni Unite che la prospettiva di una Germania in cui
tutti i tedeschi potessero vivere in “libertà e unità” non era mai stata
così vicina alla realizzazione: “È un peccato che dopo mezzo secolo
alcuni politici stiano cominciando a dimenticare le lezioni della
Seconda guerra mondiale”. Dopodiché rievocò il noto spettro del
revanscismo mettendo in guardia tutti quelli che “hanno di mira la
revisione e la trasformazione della realtà postbellica”.
Solo pochi giorni prima, un articolo sulla “Pravda” polemizzò
contro un “piano per l’annessione della DDR”, che aveva allarmato il
diplomatico tedesco Hans-Dietrich Genscher. In un’intervista
pubblicata sullo “Spiegel” il 25 settembre, insistette sul fatto che il
governo della RFT avrebbe mantenuto le sue posizioni riguardo alla
Germania e alla DDR, ma che avrebbe proseguito a esercitare
pressioni su quest’ultima af nché avviasse le riforme seguendo il
modello dell’Unione Sovietica. Ma dichiarò anche che “non esiste né
una nazione tedesca socialista né una nazione tedesca capitalista”.
In ottobre, non ci furono da parte di Mosca né comunicati uf ciali
né dichiarazioni uf ciose sulla questione tedesca. Gorbačëv venne
controvoglia a Berlino due giorni per partecipare alle celebrazioni per
il 40° anniversario della DDR. La delegazione selezionata in un primo
momento fu sfoltita e il programma inizialmente piani cato fu ridotto
al minimo. Ci fu una riunione con il Politburo e un incontro privato
con Honecker. In quell’occasione divenne chiaro che Honecker non
godeva più della protezione del Segretario generale sovietico, ma
vigeva anche il tacito accordo secondo cui Gorbačëv non avrebbe reso
pubblico quest’ultimo aspetto. Gorbačëv assunse un tono conciliante e
pose l’accento su due punti: il primo era che più si esita e più le
decisioni dif cili diventano dolorose, mentre il secondo era che
l’Unione Sovietica non avrebbe interferito negli affari interni della
DDR.
Secondo una valutazione condotta dai sovietici, basata su fonti della
Germania occidentale, che a loro volta avevano valutato attentamente
i dati pubblicati nella DDR, quest’ultima, rispetto alla Repubblica
federale, era in ritardo nella produttività del lavoro industriale del
cinquanta percento e in campo agricolo addirittura del cinquantotto
percento. All’inizio degli anni Ottanta, Honecker annunciò che il
ritardo era sceso al trenta percento. Bisognava con urgenza fare
qualcosa.
Honecker, invece, espresse ancora una volta le sue critiche nei
confronti di Kohl e del suo ricatto, secondo cui avrebbe concesso aiuti
economici alla DDR a condizione che avesse portato avanti le riforme
politiche. Gorbačëv non reagì. Maksimyčev, il sostituto di Kočemasov,
aveva due spiegazioni sul motivo per cui Mosca non fece nulla per la
DDR in questa situazione che stava mettendo a rischio la sua stessa
esistenza.
Innanzitutto, gli apparatčiki sovietici erano talmente abituati a
identi care la “volontà del Partito” con la “volontà del popolo” da
non essere più in grado di immaginare il potenziale sovversivo dei
movimenti popolari. In secondo luogo, il governo sovietico non aveva
una soluzione per la crisi nella Germania orientale (questa mancanza
di soluzioni è una costante di tutta la perestrojka).
Tutti i tentativi di dare espressione alla nostra disapprovazione [di Mosca, N.d.A.] per
la linea suicida adottata dalla dirigenza della DDR sono stati respinti con la motivazione
che la situazione nella Repubblica è di competenza esclusiva della dirigenza della
Germania Est. Qualsiasi imposizione signi cherebbe sollevarli dalle loro responsabilità, le
quali ricadrebbero con tutte le conseguenze su di noi.

In altre parole: Mosca aveva paura.


Il successore di Honecker, Egon Krenz, si recò a Mosca il 31 ottobre
dove ricordò a Gorbačëv che la DDR era “in un certo senso glia
dell’Unione Sovietica e la paternità dei propri gli non dovrebbe
essere rinnegata”. Gorbačëv, stando al verbale, fu d’accordo.
Riguardo alle future relazioni tra Bonn e Berlino, Gorbačëv progettò
una sorta di triade. La sua proposta fu la creazione di un uf cio
congiunto che avrebbe coordinato le relazioni tra Repubblica federale,
DDR e Unione Sovietica. In secondo luogo, in questo contesto, Mosca
avrebbe intensi cato le sue relazioni con Bonn, il che sarebbe andato
anche a vantaggio di Berlino. Gorbačëv riferì che Bonn era pronta per
una più ampia cooperazione, ma che in cambio si aspettava un aiuto
nel processo di riuni cazione. Krenz, aggiunse Gorbačëv, non aveva
nulla di cui preoccuparsi, ma allo stesso tempo raccomandò cautela in
modo da evitare di prestare il anco al “nemico ideologico”. Senza
troppi giri di parole, Gorbačëv dichiarò che l’intenzione di Mosca era
di regolare le relazioni tra i due paesi. (Questo non rappresentava
certo una novità, era infatti sempre stato così, solo che non era mai
stato detto apertamente. Si trattava anche in questo caso di una specie
di glasnost’.) La necessaria cautela nello sviluppo dei rapporti con la
Repubblica federale era legata alla fornitura di materie prime ed era
indispensabile per evitare di “cadere ancora di più tra le braccia della
RFT”.
In terzo luogo, la DDR avrebbe dovuto cercare di ottenere
assistenza economica anche al di fuori di questa triade. Dal punto di
vista economico, ammise Gorbačëv, l’Unione Sovietica poteva fare ben
poco per la DDR. Tuttavia, disse che avrebbe messo una buona parola
in Occidente per conto della DDR.
Già alcuni giorni dopo fu chiaro che si trattava di parole al vento. Il
4 novembre, un sabato, 500.000 persone manifestarono a Berlino, e
quattro giorni dopo, alla decima riunione del Comitato centrale, fu
eletto un nuovo Politburo. L’ambasciata statunitense a Berlino riferì a
Washington che l’incontro era indicativo di “un signi cativo
spostamento in direzione di riforme potenzialmente attuabili,
soprattutto a causa della rapida ascesa di Modrow [sic]”. Il 9 novembre
crollò il muro di Berlino, “fu un errore”, come commentano
giustamente i diplomatici americani Zelikow e Rice: “Per il regime
comunista l’apertura del muro fu il colpo di grazia”. Sì, probabilmente
fu proprio così, ancora una volta avevamo fallito. Zelikow e Rice
aggiungono:
Anni di allontanamento dalla sensibilità popolare hanno fatto sì che la dirigenza non
fosse più in grado di cogliere le opportunità di questo momento storico. Nei giorni
successivi, nessun rappresentante politico della DDR si fece vedere nei pressi del Muro,
mentre dall’altra parte s lavano esultanti tutti i leader della Repubblica federale.

E Gorbačëv? Anche lui si mostrò debole. Secondo il suo punto di


vista, questo sarebbe dovuto essere il culmine della sua politica estera,
il più grande successo del “nuovo pensiero”. La cortina di ferro era
caduta, la sua politica aveva aperto le porte, come Reagan aveva
chiesto nel 1987, le divisioni all’interno dell’Europa erano ormai state
superate.
E invece, il 10 novembre, Gorbačëv telegrafò preoccupato ai paesi
occidentali che era sorta “una situazione caotica dalle conseguenze
imprevedibili”. Descrisse la situazione a Berlino come “piuttosto
estrema”, paventando anche la possibilità di disordini al limite della
guerra civile. I destinatari del messaggio mantennero la calma con un
atteggiamento di superiorità e, dopo una consultazione reciproca, il 17
novembre diedero la loro risposta. Accolsero con favore la decisione
della Germania orientale di aprire il muro ed espressero la loro
speranza nel fatto che anche la Germania occidentale sarebbe stata
favorevole a un cambiamento ordinato e graduale.
L’11 novembre, Kohl telefonò a Gorbačëv e gli assicurò che Bonn
non avrebbe favorito nessuna “destabilizzazione della situazione nella
DDR”. E ribadì che la sua promessa di aiutare l’Unione Sovietica nelle
sue riforme economiche era sempre valida…
Il 13 novembre, la Camera del popolo della DDR scelse me come
Primo ministro e mi af dò il compito di formare il nuovo governo. Il
17 novembre feci la mia dichiarazione di governo, in cui mi pronunciai
contro la riuni cazione. Credevo nella possibilità di un socialismo
riformato nella DDR e al posto della riuni cazione sostenevo l’idea di
una coesistenza e una collaborazione con la Repubblica federale. Il
mio obiettivo era una comunità di stati fondata sui trattati e sugli
accordi esistenti. Entrambi gli stati tedeschi sarebbero così divenuti
due pilastri della grande casa europea. Non ero il solo a sostenere
questa prospettiva, che corrispondeva invece al punto di vista di tutti i
partiti che presero parte alla nuova coalizione. La mia dichiarazione di
governo fu dunque rati cata dalla Camera del popolo.
Gli americani Zelikow e Rice commentano in proposito:
A metà novembre il vento cominciò a sof are in direzione contraria a Kohl e alla
presunzione secondo cui autodeterminazione signi cava automaticamente riuni cazione.
La proposta di Modrow [sic] di una coesistenza dei due stati tedeschi mise in secondo
piano la riuni cazione. Per la prima volta ci fu qualcuno a Berlino Est che si opponeva con
ef cacia al punto di vista di Kohl sulla Germania. Anche nell’Est c’erano delle voci che
chiedevano la riuni cazione, ma erano ancora deboli. Il 19 novembre a Lipsia i
manifestanti per la prima volta modi carono lo slogan “Siamo noi il popolo” in “Siamo un
solo popolo”.

Il 28 novembre, Kohl presentò al Bundestag il suo “Programma in


dieci punti per superare la divisione della Germania”, in cui poneva
inequivocabilmente la riuni cazione come obiettivo ultimo di un
processo graduale.
Tra la mia dichiarazione di governo e il discorso di Kohl al
Bundestag del 21 novembre ci fu un incontro decisivo. Nikolai
Portugalov diede un foglio scritto a mano a Horst Teltschik, l’uomo di
ducia di Kohl. Teltschik lo racconta nelle sue memorie intitolate 329
Tage. La prima parte era secondo Portugalov “di carattere uf ciale” ed
era stata concordata con Falin e Černjaev. L’argomento era la
trasformazione nella DDR, equiparata qui alla perestrojka sovietica.
La seconda parte era stata concordata solo con Falin. Si affrontavano
le questioni che dovevano essere risolte prima della riuni cazione. In
altre parole, si trattava della tabella di marcia sovietica per la
riuni cazione tedesca. Teltschik era, per sua stessa ammissione,
“elettrizzato”. A quanto pare, la ri essione a Mosca era andata molto
più avanti di quanto non fosse stato immaginato a Bonn. “Come può
vedere – disse Portugalov – riguardo alla questione tedesca abbiamo
pensato a tutto, anche a ciò che è praticamente impensabile”.
Il 17 novembre, in un’intervista al “Frankfurter Rundschau”,
Portugalov dichiarò che la riuni cazione “non sarebbe piaciuta a
nessuno dei vicini dei due stati tedeschi” e che sarebbe stata
“incompatibile con i requisiti di stabilità geopolitica e geostrategica”.
Lui, Portugalov, assunse “che nel prossimo futuro, così come anche a
lungo termine, i due stati tedeschi continueranno a esistere come stati
sovrani e su un piano di reciproca parità”.
Dopo aver letto il foglio di Portugalov, Teltschik si sedette alla sua
scrivania e stilò il programma in dieci punti di Kohl. Questo fu
concepito in risposta alla mia idea di una comunità di stati basata sui
trattati, che doveva essere tolta di mezzo prima del formarsi di un
ampio consenso internazionale, che avrebbe nito per mettere Kohl
all’angolo. Non si tratta di una mia valutazione ma di quella di
Teltschik, contenuta nel suo già citato libro di memorie.
L’ambasciatore sovietico a Bonn Julij Kvicinskij, non informato sul
contenuto della conversazione tra Portugalov e Teltschik, chiedeva ora
alla dirigenza sovietica una politica dinamica per la Germania, che
invece di fare dichiarazioni pubbliche vaghe avrebbe dovuto
proteggere le relazioni con la DDR e cercare di in uenzare il futuro
della Germania. Altrimenti, telegrafò a Mosca, la sopravvivenza della
DDR sarebbe stata “solo una questione di tempo”. La Repubblica
democratica tedesca e il socialismo si sarebbero potuti preservare se
Kohl fosse stato preventivamente convinto dell’idea di una
confederazione di due stati indipendenti con differenti sistemi sociali.
Questa iniziativa, secondo quanto riporta Kvicinskij nel suo libro Vor
dem Sturm, non sarebbe dovuta provenire dalla SED ma dai nuovi
partiti e movimenti civili della DDR. Ševardnadze rispose subito e fu
d’accordo con questa idea.
Poco dopo, una chiamata da Mosca informò Kvicinskij che il
telegramma del ministro degli Esteri non rappresentava l’opinione del
governo. Inoltre, non si doveva drammatizzare: la scomparsa della
DDR era fuori questione e non avrebbero lasciato che succedesse.
Tra il 2 e il 3 dicembre Gorbačëv e Bush si incontrarono per la prima
volta. A bordo di una nave nel porto di Malta, si tennero diversi
incontri allargati e conversazioni private, in cui si parlò anche della
Germania. Il modo in cui Gorbačëv affrontò la questione fu descritto
dai suoi colleghi come un errore fatale. Il maresciallo Achromeev, che
partecipò al summit, accusò Gorbačëv di non essere stato in grado di
fornire risposte concrete riguardo alla questione tedesca. L’Occidente
concluse che l’Unione Sovietica non avrebbe opposto alcuna vera
resistenza alla riuni cazione. Come ha ricordato con rabbia
Achromeev, Bush fu molto chiaro: “Se ci fosse stata una simile
posizione, Gorbačëv l’avrebbe espressa a Malta”. A suo parere, furono
proprio Gorbačëv e il ministero degli Esteri a “non essere preparati per
dei veri negoziati”. Fu davvero così? Oppure Gorbačëv e la sua cerchia
avevano altre intenzioni?
Il 4 dicembre mi recai in visita a Mosca insieme a Egon Krenz e al
ministro degli Esteri della DDR Oskar Fischer. Gorbačëv voleva
informare i dirigenti dei paesi del Patto di Varsavia sui colloqui
avvenuti con Bush al vertice di Malta. Gorbačëv, che all’incontro aveva
ricevuto gli elogi del Presidente americano, descrisse l’incontro come
una svolta storica, anche se per me non era chiaro in che cosa
consistesse questa svolta. Gorbačëv era convinto che le due alleanze
militari sarebbero state mantenute al ne di garantire la sicurezza
europea e sostenne che Kohl si era spinto troppo oltre con il suo
programma in dieci punti.
Chiese allora ai presenti di prendere posizione. Ceaușescu fu il primo
a parlare. Quella sarebbe stata la sua ultima apparizione pubblica: tre
settimane dopo sarebbe morto. L’incontro non ebbe alcun impatto sul
corso degli eventi, la disintegrazione del Patto di Varsavia era già
iniziata e la ne del socialismo reale in Europa non poteva più essere
impedita. La maggior parte dei partecipanti – e io non facevo
eccezione – non ne era a conoscenza. Avevamo represso questa
consapevolezza e probabilmente anche Gorbačëv, nel suo dinamismo e
nella sua rigidità, aveva fatto lo stesso.
Incontrai il Segretario generale su mia richiesta durante un
colloquio a margine degli appuntamenti uf ciali. La mia speranza era
di rafforzare così la mia autorità in Germania. Gorbačëv disse che la
mia idea di una comunità di stati fondata sui trattati era accettabile
solo se non avesse portato all’uni cazione tedesca. Infatti era così.
Tornammo quindi insieme a Berlino. Tra l’8 e il 9 dicembre si tenne un
congresso straordinario della SED in cui si chiusero de nitivamente i
conti con lo stalinismo. Poco prima del congresso, Jakovlev e Falin
vennero a Berlino da Mosca. Fatta eccezione per le ri essioni
loso che sulla necessità dell’esistenza di due stati tedeschi, non
avevano nulla da aggiungere a tal proposito. Allo stesso tempo,
Gorbačëv si vantava di fronte al Plenum del Comitato centrale del
PCUS:
È con fermezza che dichiariamo che non abbandoneremo la DDR. È il nostro alleato
strategico e il membro del Patto di Varsavia che si oppose con grande forza ai tentativi
occidentali di in uenzare il corso dei paesi socialisti. […] Intraprenderemo ogni misura
necessaria per neutralizzare tali interferenze esterne, specialmente nei confronti della
DDR.

Così ruggì il leone. Ma quando François Mitterrand, che conobbe


Gorbačëv il 6 dicembre a Kiev, disse al capo del Partito sovietico che
sarebbe andato a Berlino dal 21 al 22 dicembre per conferire con
Modrow e chiese a Gorbačëv se lo avrebbe accompagnato, Gorbačëv fu
così sorpreso da fraintendere la sincerità della proposta. Il Presidente
francese guardava criticamente alle attività di Bonn e voleva – questo
era il senso del suo invito – rafforzare in modo dimostrativo la mia
posizione con una doppia visita (dopotutto, rappresentavano la metà
delle quattro potenze alleate vincitrici). Nel corso della loro
conversazione, Mitterrand chiese di nuovo: “In concreto che cosa
vogliamo fare?”. Gorbačëv non aveva nessuna risposta. Il vertice si
concluse, come risulta dai verbali sovietici dell’incontro, senza nessun
risultato.
Il 12 dicembre incontrai a Potsdam il Segretario di stato americano
James Baker. Arrivò al crepuscolo, passando sul ponte di Glienicke,
quello usato durante la Guerra fredda per diversi scambi di spie. La
prima visita in assoluto da parte di un Segretario di stato americano
alla DDR iniziò in modo piuttosto comico. Baker scambiò uno dei
camerieri per Egon Krenz, che conosceva solo dalle fotogra e, e volle
lasciare subito la stanza per non incontrare l’ex Segretario generale
del SED. L’incontro fu del tutto amichevole. Baker concesse aiuti
economici con la condizione che venissero introdotte le riforme
politiche ed economiche fondamentali. Lo rassicurai in proposito e in
seguito seppi che i rappresentanti ecclesiastici che incontrò dopo di
me gli confermarono che avevo davvero la necessaria volontà di
portare avanti le riforme.
Gorbačëv non colse nemmeno la successiva opportunità di chiedere
con forza ciò che aveva presuntuosamente proclamato alla riunione
del Comitato centrale. Kohl scrisse chiedendogli un incontro, ma il
capo del Partito e dello Stato sovietici decise di non dare seguito alla
richiesta e fece sapere a Kohl che in quel momento non aveva proprio
tempo.
Kohl venne quindi a Dresda. Il primo incontro non andò molto
bene. Dopo il nostro colloquio, Kohl giubilò di fronte a un mare di
bandiere nero, rosso e oro ai piedi delle rovine della Frauenkirche e
sfoggiò tutto il repertorio sentimentale nazionale. La folla sembrava
ubriaca e lo accolse inneggiando alla riuni cazione. Mi resi conto che
l’ora della ne della DDR si stava rapidamente avvicinando e che
senza un chiaro intervento di Mosca non ci sarebbe stato più nulla da
salvare. L’11 dicembre si tenne un incontro diplomatico presso l’ex
quartiere generale del comando alleato a Berlino in cui si ribadì
ancora una volta la responsabilità delle potenze vincitrici nei confronti
della Germania, ma a parte la consueta fotogra a di gruppo
dall’incontro risultò un nulla di fatto. Da Mosca non ricevetti nessun
messaggio. (Come seppi più tardi, l’incontro fu organizzato più su
iniziativa dell’ambasciatore Kočemasov che non di Mosca.)
Francamente, perché mai Mosca avrebbe dovuto reagire e cambiare
linea proprio adesso che la Germania stava seguendo un suo sviluppo
senza quasi subire in uenze estere?
Mosca, se mai ne avesse avuta una negli ultimi dodici mesi, lasciò
ora cadere ogni iniziativa riguardo alla politica tedesca. Mi resi conto
che la mia idea di una confederazione di stati era diventata carta
straccia sul piazzale della Frauenkirche.
Proprio in quei giorni, Ševardnadze parlò al comitato politico del
Parlamento europeo a Bruxelles. Il discorso, come appresi più tardi,
non era stato concordato né con il Politburo né con i membri del
Comitato centrale del PCUS. Il suo intervento fu titubante, come la
maggior parte di ciò che negli ultimi tempi proveniva da Mosca. I
commentatori occidentali se ne fecero giustamente beffa:

Ševardnadze sembrava rivolgere la propria indecisione al mondo ponendo domande


senza risposta. Il discorso presupponeva che la questione tedesca fosse all’ordine del
giorno. Almeno la possibilità della riuni cazione doveva essere presa in considerazione.
Poi però Ševardnadze sembrava escludere la riuni cazione, ma, allo stesso tempo, poneva
delle domande sulle condizioni per la sua attuazione. Sul futuro della Germania Est non
propose nessuna alternativa. L’effetto del suo discorso è stato allo stesso tempo confuso e
di cattivo auspicio.

Lo storico Vladimir Baranovskij scrisse un articolo sulla


“Moskovskie novosti” dedicato alla questione tedesca, Sulla
prospettiva delle nuove realtà. Per lui, la creazione di una casa comune
europea era il “mezzo radicale” da adottare per la soluzione della
questione tedesca, che poteva però “diventare attuale anche prima
della sua edi cazione”. In questo contesto criticò – pur senza
esplicitare a chi si rivolgeva l’accusa – “l’indolente inclinazione
all’attendismo” e l’assunto secondo cui “in qualche modo tutto si
sarebbe sistemato da sé”. Inoltre, sosteneva la necessità di un processo
ben de nito che avrebbe dovuto portare alla rma di un trattato di
pace. La prima fase del processo delineato da Baranovskij, prevedeva
delle consultazioni da parte delle quattro potenze, in cui si sarebbe
riaffermata la comune responsabilità per la soluzione della questione
tedesca in modo chiaro e politicamente responsabile. In riferimento
all’accordo di quattro pagine, che era stato rmato quindici anni
prima, una simile azione sarebbe stata “del tutto giusti cabile dal
punto di vista della politica internazionale”. Tuttavia, sarebbe
appropriato – continuava Baranovskij – che anche i due stati tedeschi
fossero coinvolti nelle discussioni.
Durante la seconda fase, le proposte elaborate da un piccolo gruppo
sarebbero state discusse in seno al Patto di Varsavia e alla NATO,
poiché entrambe le alleanze erano interessate a evitare una situazione
in cui la Germania potesse fare da pomo della discordia. Inoltre, si
sarebbero dovuti coinvolgere anche gli stati con nanti con i due stati
tedeschi. Per l’Unione Sovietica, sempre secondo Baranovskij, era di
fondamentale importanza anche la possibilità di accelerare la
trasformazione dell’organizzazione del Patto di Varsavia.
Se entrambe le alleanze assumessero il ruolo di garante per le decisioni sulla questione
tedesca, ciò costituirebbe una prima interazione costruttiva tra la NATO e il Patto di
Varsavia su una questione importante. L’individuazione di una soluzione a lungo termine
sarebbe anche il primo passo per superare lo scontro tra i due blocchi in Europa.

La fase nale del processo sarebbe stata organizzata nell’ambito


della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, e questo
avrebbe dato un ulteriore impulso alla formazione di strutture
paneuropee.
Una simile agenda avrebbe costretto Mosca a rinunciare alla
posizione secondo cui la questione tedesca era già stata decisa “dalla
realtà dei fatti”. Si sarebbero dunque imposti due principi
fondamentali: 1) la questione tedesca sarebbe dovuta essere
necessariamente considerata tenendo conto di tutti gli Stati interessati.
In questo contesto, le decisioni che si sarebbero prese avrebbero
contribuito alla sicurezza sia in Oriente sia in Occidente; 2) nché la
comunità internazionale non avesse raggiunto degli accordi
soddisfacenti, la situazione attuale dei due stati tedeschi, come anche i
diritti e le responsabilità delle quattro potenze, sarebbe rimasta
invariata.
In ogni caso, proposte come questa non trovarono nessuna eco. La
capitolazione sovietica de nitiva sulla Germania avvenne il 26
gennaio 1990. Gorbačëv ordinò ai suoi consiglieri di prendere parte a
una riunione straordinaria nel suo uf cio del Cremlino. Era la prima
volta che si incontravano in quel luogo per discutere su questo tema.
L’idea di questa riunione d’emergenza era stata di Falin, il quale –
come mostra il verbale di questo infuocato incontro di quattro ore –
era forse il più lungimirante del gruppo ed era, rispetto agli altri,
quello più preoccupato per gli interessi della DDR. Černjaev per
esempio rivelò come lui e gli altri non avessero compreso la situazione
quando Falin parlò in seguito delle diverse forme di associazione
possibili e fece notare la differenza fondamentale tra una fusione
diretta, attraverso l’incorporazione della DDR nella Repubblica
federale ai sensi dell’articolo 23 della Costituzione della Germania
federale, e una confederazione di due stati sovrani ed eguali. Černjaev
osservò che nessuno nella stanza sapeva di cosa stesse parlando Falin.
Oltre a Gorbačëv, Falin e Černjaev, parteciparono alla riunione
anche i due consiglieri personali Achromeev e Šachnazarov, il Primo
ministro Ryžkov, Ševardnadze, Jakovlev, il vice di Falin, Fëdorov e il
capo del KGB Krjučkov. Gorbačëv aveva stabilito la linea all’inizio
dell’incontro: “L’intenzione è di parlare apertamente di ciò che ci
aspetta, ogni premessa è consentita, tranne una: l’uso delle nostre
forze armate”.
Černjaev propose di rivolgersi alla Repubblica federale e di trovare
un accordo con Kohl, abbandonare il governo della DDR e annullare
l’incontro precedentemente concordato con Modrow e il nuovo leader
del Partito Gregor Gysi. Dopotutto, solo due giorni prima, Kohl aveva
organizzato una consegna di viveri all’Unione Sovietica sovvenzionata
dal governo tedesco per 220 milioni di marchi tedeschi. Così, quello
stesso giorno, Mosca accolse la richiesta di Kohl, formulata un mese
prima, di venire in visita a Mosca.
Falin e Fëdorov non furono d’accordo, Ševardnadze e Ryžkov
reagirono in modo evasivo e reticente. Krjučkov rimase neutrale.
Černjaev propose in ne di discutere tutte le questioni sollevate dalla
riuni cazione con le quattro potenze ed entrambi gli stati tedeschi.
Gorbačëv riprese questa idea del “gruppo dei sei” e insistette nel
voler mantenere gli appuntamenti con me e Gysi. Allo stesso tempo,
però, dichiarò che in futuro si sarebbe rivolto soprattutto a Kohl,
malgrado volesse altresì evitare un’espansione a Est della NATO.
Achromeev fu incaricato di preparare il ritiro delle truppe sovietiche
dalla DDR. Il destino della DDR era ormai segnato.
Il 30 gennaio 1990 presi parte alla riunione del Comitato centrale
del PCUS. Era evidente che Gorbačëv si era in qualche modo
preparato per questa conversazione, ma ciò che era stato discusso
quattro giorni prima lo seppi solo più tardi, dalle memorie di
Gorbačëv. Ancora una volta, la decisione sulla linea da adottare fu
presa sopra le nostre teste, il 26 gennaio 1990.
Portai io stesso un piano per la creazione di una federazione di due
stati tedeschi. Il 30 gennaio, presentai a Gorbačëv il documento scritto
in russo, cui lavorammo ancora durante il volo di due ore da Berlino a
Mosca. Nella prima fase, dopo la rma di un trattato tra Berlino e
Bonn, era prevista una collaborazione economica da parte di due stati
che rimanevano comunque entrambi sovrani. Nella seconda fase, si
sarebbero dovuti trasferire i poteri dello stato a una confederazione e
in ne, nella terza fase, si sarebbe creato uno “stato unitario,
possibilmente nella forma di una federazione o di una confederazione
tedesca”. Secondo il mio programma, tutto il processo sarebbe dovuto
durare due o tre anni.
Gorbačëv accolse di buon grado la mia proposta e aggiunse che la
Germania unita avrebbe dovuto essere assolutamente neutrale dal
punto di vista militare. Tuttavia, durante la nostra conversazione,
mostrò scarsa comprensione per le questioni economiche. Per
esempio, quando gli chiesi di chiamare Kohl per l’aiuto economico che
aveva promesso a sostegno dell’economia al collasso della Germania
Est, e volli descrivere brevemente la situazione nel nostro paese, lui
mi interruppe e mi disse di rivolgermi a Ryžkov, che in qualità di
Primo ministro si sarebbe occupato della faccenda.
Inoltre, lo informai delle mie consultazioni con tutti i partiti che
parteciparono alla Tavola rotonda centrale della repubblica del 28
gennaio, quando raggiungemmo un accordo secondo il quale le
elezioni della Camera del popolo non si sarebbero svolte il 6 maggio,
come inizialmente previsto, bensì il 18 marzo. Fino ad allora, un
governo di responsabilità nazionale avrebbe governato il paese sotto
la mia direzione. A questo scopo, i nuovi partiti e le nuove
organizzazioni, che parteciparono alla Tavola rotonda centrale dal 7
dicembre 1989, avrebbero inviato i loro rappresentanti. Naturalmente,
neanche questi sarebbero stati legittimati ed eletti democraticamente,
ma in questo modo fu almeno chiarito che l’ex partito di governo
avrebbe rinunciato de nitivamente al suo ruolo di guida del paese. Da
quel momento in poi tutte le forze socialmente rilevanti sarebbero
state responsabili dello sviluppo della società.
A questo punto, ero stato Primo ministro per oltre due mesi e
dovevo accettare di aver perso la maggioranza favorevole a una
trasformazione socialista del paese. A novembre, già 130.000 persone
avevano lasciato la DDR per trasferirsi nella Repubblica federale. A
gennaio, circa duemila persone al giorno abbandonavano il paese. Non
c’è dubbio che parte della colpa fu anche della pressione esercitata
dall’Occidente, ma anche noi del governo della DDR, costretti tra
diversi fronti e superati dagli eventi, fummo obbligati più a reagire che
ad agire. Parte della responsabilità è poi da attribuire alla mancanza di
leadership a Mosca, per cui non c’era nessuno, persone o istituzioni,
con cui potevamo parlare di perestrojka. In Unione Sovietica, nessuno
voleva assumersi la responsabilità della DDR e della sua
trasformazione. La cooperazione economica scese al livello più basso
immaginabile. Mosca non era in grado di stabilire i propri bisogni, in
quanto non riceveva più i dati economici dalle singole repubbliche, e
in questo modo non poteva negoziare nuovi accordi commerciali con
la DDR. Quasi nessuna delle materie prime fondamentali venne
consegnata alla DDR, in particolare il petrolio, perché i contratti
esistenti erano ormai carta straccia. La decisione presa a gennaio
dall’Unione Sovietica di convertire i pagamenti all’interno del
Comecon in valuta forte e di accantonare la forma di pagamento in
rubli trasferibili ebbe conseguenze devastanti. Dopotutto, il vero
scopo del Comecon era di pagare gli scambi reciproci non in valuta ma
direttamente in merci. Il glio dell’Unione Sovietica, la DDR, era
ormai un malato terminale in terapia intensiva e Mosca decise di
staccare la spina.
Cinque settimane dopo, tra il 5 e il 6 marzo, ero di nuovo a Mosca
per un incontro con Gorbačëv, accompagnato dai ministri dei nuovi
partiti e movimenti della DDR. Lo scopo di questa ultima visita prima
delle elezioni nella DDR era ancora una volta di ricordare
energicamente alla dirigenza sovietica le sue responsabilità nei
confronti della DDR. Bonn aspirava alla riuni cazione attraverso
l’articolo 23, in questo modo tutti gli obblighi internazionali della
DDR nei confronti dei suoi alleati sarebbero stati invalidati. (Mosca
non aveva ancora capito che cosa voleva dire Falin alla riunione
d’emergenza del 26 gennaio?) Gorbačëv era d’accordo con me sul fatto
che la Germania uni cata non avrebbe dovuto far parte della NATO.
Tuttavia, la neutralità militare non era già più un argomento di
discussione.
L’importanza che Gorbačëv attribuiva al nostro intervento disperato
ai primi di marzo 1990 è tradita nelle sue memorie: semplicemente
non ne parla affatto.
Siccome non c’era più tempo, il 31 gennaio, senza consultare il mio
governo o la Tavola rotonda centrale, presentai alla stampa il mio
programma per la riuni cazione. Lo chiamai Germania patria unita,
riprendendo una strofa dell’inno nazionale della DDR.
Semplicemente, mi limitai a rendere pubblico ciò che da molto tempo
pensava e provava la maggioranza della popolazione della DDR. Il
Partito mi criticò duramente per questa dichiarazione. Evidentemente
non avevano ancora capito e accettato che non ero il primo ministro
della SED-PDS, ma il capo di un governo formato da una coalizione
molto più ampia.
Il 3 febbraio, il sindaco di Berlino Ovest Walter Momper presentò al
pubblico il suo piano in nove punti. Il politico della SPD avanzò una
terza opzione rispetto alla proposta della CDU/CSU di una Germania
uni cata parte della NATO e alla mia idea di una Germania neutrale e
smilitarizzata. Questa proposta intendeva estendere la legislazione
della Germania occidentale, escluse le norme riguardanti l’esercito e
la difesa, alla DDR e quest’ultima sarebbe dovuta essere
smilitarizzata, fatta eccezione per le truppe sovietiche rimanenti, che
si sarebbero però dovute ridurre allo stesso numero delle truppe al-
leate di stanza in Occidente. Le quattro potenze avrebbero poi
sorvegliato congiuntamente l’armonizzazione legislativa tra Est e
Ovest.
La proposta di Momper non fu presa sul serio da nessuna delle due
parti. Invece, mostrò che il mio piano, che era stato concordato con
Gorbačëv, aveva avuto qualche effetto, anche se non necessariamente
nel senso che mi ero pre gurato. Poiché Mosca e Berlino si
dichiararono disponibili a compiere dei passi in direzione della
riuni cazione, in entrambi gli stati tedeschi si foraggiò l’idea che tutto
potesse accadere più rapidamente di quanto discusso in precedenza.
Kohl aveva parlato di un processo della durata di più o meno cinque
anni, io di circa due o tre anni. Tuttavia, trarre la conclusione – come
ha fatto la Fondazione Gorbačëv di Mosca – che io stesso avrei
accelerato il ritmo della riuni cazione e fatto pressioni in tal senso su
Mosca signi ca stravolgere la verità storica. Comunque, non nego che
i diplomatici e i consiglieri presidenziali statunitensi videro nel mio
piano la possibilità di mettere a segno un punto contro Mosca e che
chiesero a Bush e a Baker di agire.
Il 9 febbraio, Baker, il Segretario di stato degli Stati Uniti, si recò a
Mosca. Nel suo primo colloquio al ministero degli Esteri, il suo
omologo Ševardnadze gli disse che l’Unione Sovietica avrebbe
insistito per una Germania demilitarizzata e neutrale, così come
formulato nel piano di Modrow. Poco dopo, durante la seconda
intervista di Baker, Gorbačëv gli disse invece esattamente il contrario.
Alla dichiarazione di Baker secondo cui gli Stati Uniti avrebbero
respinto l’idea di una Germania neutrale, Gorbačëv rispose:
“Fondamentalmente, sono d’accordo con lei”, e aggiunse: “La
prospettiva di una Germania riuni cata non ha in sé nulla di
spaventoso”.
Quindi avanzò la proposta sostenuta da Černjaev il 26 gennaio di
una conferenza delle quattro potenze con la partecipazione tedesca.
“Il meccanismo del due più quattro o dei quattro più due è
appropriato alla situazione, purché si basi sul diritto internazionale.”
Baker accettò a condizione che questo processo non iniziasse prima
delle elezioni del 18 marzo.
Il 10 febbraio Kohl incontrò Gorbačëv a Mosca. La conversazione
durò due ore e mezza. Il leader sovietico apparve rilassato e non
rivolse una sola parola di critica al suo ospite. Kohl sottolineò i
bene ci che una Germania riuni cata avrebbe rappresentato per
l’Unione Sovietica: era noto infatti che la DDR era il principale
partner commerciale di Mosca, anche se non poteva adempiere ai suoi
obblighi. Una rapida uni cazione avrebbe signi cato, prima di tutto,
che le consegne sarebbero state soddisfatte regolarmente e inoltre che
i prodotti sarebbero stati migliori e più economici. La nuova
Germania avrebbe garantito il mantenimento e l’espansione delle
attuali relazioni economiche tra la DDR e l’Unione Sovietica, e Mosca
avrebbe ottenuto un facile accesso al mercato comune europeo. Le
promesse di Kohl si dimostrarono ef caci. Gorbačëv dichiarò che era
pronto in linea di principio ad accettare la riuni cazione tedesca, e
non sollevò obiezioni all’osservazione di Kohl secondo cui la
Germania sarebbe rimasta nella NATO, anche se il dislocamento delle
truppe NATO – ma non la sfera di competenza della NATO – si
sarebbe limitato al territorio della vecchia Repubblica federale. Per
quanto concerneva l’esercito popolare della DDR, suggerì che si
sarebbe potuto trasformare in una sorta di guardia di frontiera della
Germania federale (BGS). Gorbačëv non chiese né la neutralità né la
smilitarizzazione, e non affrontò neppure il problema del ritiro delle
armi nucleari occidentali. Il suo unico interesse era sapere se il costo
del dislocamento delle truppe sovietiche, che la DDR aveva in
precedenza coperto, sarebbe stato in futuro pagato in marchi della
Germania occidentale. Kohl rispose che su questo punto era stato
colto di sorpresa e che il governo federale non aveva ancora ri ettuto
sulla questione.
Durante il volo di ritorno, Kohl capì che quella conversazione con
Gorbačëv era stata decisiva per la riuni cazione tedesca. La
propaganda portata avanti dai media rafforzò l’impressione che Mosca
avesse delegato a Bonn la responsabilità del processo di riuni cazione.
Ero perfettamente in grado di distinguere tra i fatti e il
chiacchiericcio dei media, ma sapevo anche che, quando Gorbačëv mi
chiamò, considerava già de nitivamente perduta la DDR. Al telefono,
mi raccontò della conversazione con Kohl e Baker avvenuta tre giorni
prima. Disse di essere rimasto molto colpito sia dall’atteggiamento dei
tedeschi sia da quello degli americani e non fece cenno al fatto che il
30 gennaio aveva promesso di esercitare pressioni su Kohl.
Quando insistetti con tutte le mie forze per chiedergli di sostenermi
al mio incontro di due giorni a Bonn con Kohl, lui non reagì in nessun
modo. Mi disse che era importante mantenere una linea coerente, mi
augurò buona fortuna e riattaccò. Rimasi costernato.
Per scusare Gorbačëv, ammetto di buon grado che in effetti era
sopraffatto dalla situazione, come probabilmente lo eravamo tutti. La
sua stessa casa stava andando in amme. All’inizio dell’anno la
Lituania si era separata dall’Unione Sovietica, a Tbilisi c’erano stati
degli scontri con dei morti, in Azerbaigian l’esercito dovette reprimere
i disordini dei nazionalisti che il 20 gennaio a Baku costarono la vita a
diverse centinaia di persone. Il 12 febbraio, durante la nostra
conversazione telefonica, Gorbačëv mi disse che, nel contesto del
collasso del blocco orientale, voleva concentrarsi sul rafforzamento
della perestrojka, in modo da impedire che l’Unione Sovietica fosse
trascinata nell’abisso.
Pur con tutta la comprensione per i suoi problemi, il suo egoismo mi
sembrò miope e alquanto inadeguato per un uomo di stato,
specialmente considerato che ciò con cui avevamo a che fare era il
quadro politico del secolo futuro. Fu allora che smisi di riporre
speranze in Gorbačëv. La perestrojka, che lui aveva iniziato, era nita,
come anche questa forma di socialismo. Ora ci sarebbero state solo
scaramucce durante la ritirata, saluti di commiato e un funerale di
terza classe.
Il 13 febbraio mi recai in visita a Bonn accompagnato da diciassette
ministri, otto dei quali provenivano dalla Tavola rotonda centrale. Al
ne di prevenire l’imminente stato di insolvenza della DDR, chiesi da
dieci a quindici miliardi di dollari in previsione dell’unione economica
e monetaria discussa dal governo federale il 7 febbraio. Fu un’idea
della SPD, una delle poche a essere accolta dal governo di coalizione.
Il Presidente della Bundesbank Karl Otto Pöhl fu presente alla
riunione del gabinetto federale e a quanto pare mise in guardia
rispetto a un’introduzione troppo rapida del marco tedesco nella
DDR, in quanto avrebbe generato uno sconvolgimento economico e
sociale. Alla ne, tuttavia, Pöhl si piegò alle pressioni politiche di
Kohl, il quale, a quanto pare, lo accusò di eccessiva grettezza: “Non ci
si dovrebbe comportare nei confronti di questa decisione storica in
modo tanto meschino”. Si può interpretarla come una semplice
coincidenza, ma poco dopo Pöhl fu sostituito dal democristiano Hans
Tietmeyer, che prese il suo posto a capo della Bundesbank.
Il Cancelliere e anche gli altri interlocutori di Bonn tennero nei
nostri confronti un atteggiamento brusco e arrogante. Kohl avrebbe
concesso gli aiuti solo a condizione che il governo federale avesse
determinato la politica monetaria nella DDR. Respingemmo questa
pretesa con decisione, poiché acconsentirvi avrebbe signi cato
arrendersi e permettere l’annessione della DDR. Nonostante la
gravità della nostra situazione, non avevamo ancora perso la nostra
dignità.
Partimmo il giorno seguente. Il solo risultato concreto di questo
colloquio illuminante, soprattutto per i rappresentanti della DDR, fu
l’accordo secondo cui i negoziatori di entrambe le parti avrebbero
elaborato le condizioni per un’unione monetaria e una comune
politica economica. Era ormai chiaro chi d’ora in poi avrebbe dettato i
termini del futuro e quali sarebbero stati questi termini. Bonn aveva
abbandonato il linguaggio della diplomazia, da quel momento si
sarebbe parlato schiettamente. Cominciai a sospettare quale sarebbe
stata la meta del viaggio e Bonn non mi smentì: i miei sospetti erano
purtroppo fondati.

Il 21 febbraio lessi un articolo di Gorbačëv sulla prima pagina della


“Pravda” in cui, benché in maniera un po’ contorta, diceva che si era
rassegnato quanto al crollo della DDR e alla riuni cazione. In un
linguaggio come sempre piuttosto arzigogolato, spiegava che il corso
della storia aveva assunto “un ritmo inaspettatamente veloce”.
Verso la ne di febbraio, Bruno Mahlow si recò ancora una volta a
Mosca. Al suo ritorno, in una comunicazione strettamente
con denziale, informò me, Gregor Gysi, il suo vice Wolfgang Pohl,
Hans-Joachim Willerding e André Brie su quale fosse la vera politica
sovietica riguardo alla Germania, che era riuscito a dedurre a seguito
di numerose discussioni in seno al Comitato centrale. Mosca voleva
una graduale integrazione dei due stati tedeschi e chiese che il PDS
assumesse come suo “compito più importante” l’impegno nei
confronti della “preservazione della DDR e del suo rafforzamento nel
quadro delle possibilità attualmente esistenti”. Secondo il parere dei
vertici del PCUS, la classe dirigente della Repubblica federale
stava consapevolmente giocando sporco cercando di ingannare il popolo della DDR. Si
dovrebbero pertanto utilizzare tutti questi elementi per frenare o rallentare il processo di
riuni cazione, in modo da poter informare le persone su tutte le conseguenze.

Il completo distaccamento dalla realtà delle valutazioni sovietiche,


come anche la doppiezza della sua dirigenza, si palesò anche in un
altro appello rivolto al PDS:
Si dovrebbe anche considerare in quale misura i processi di cooperazione economica e
politica potrebbero essere separati, perché la debolezza in campo economico della DDR è
condivisa anche dall’Unione Sovietica e dagli altri paesi dell’Europa orientale.
È chiaro che la Repubblica federale tedesca e il suo capitale nanziario concederanno
un sostegno economico solo nella misura in cui il suo impiegò sarà in linea con le loro
agende politiche. Alla luce di questo fatto, le questioni in campo economico non
dovrebbero essere lasciate alla sola RFT. Al contrario, le discussioni sulla cooperazione
economica dovrebbero includere diversi altri paesi.
Per quanto concerne la riuni cazione politica della DDR e della Repubblica federale,
sarebbe necessario uno sforzo maggiore per individuare argomenti a favore
dell’istituzione di strutture sovrane. Anche su questo tema, potrebbero essere coinvolte
nella discussione diverse forze politiche in tutto il mondo.

Secondo Mahlow, Gorbačëv e altri politici avevano chiarito in


maniera inequivocabile che per loro il problema principale era il
futuro status militare della Germania riuni cata. Restare all’interno
della NATO, “poco importa se come RFT o come paese intero”, era
inaccettabile. La posizione di Kohl e Genscher sarebbe stata respinta e
anche la proposta di Momper non avrebbe trovato consenso.
L’Unione Sovietica basa la sua politica sulla premessa fondamentale che gli impegni
assunti dai due Stati tedeschi verso il mondo esterno saranno rispettati. Ciò riguarda una
serie di trattati e accordi internazionali, tra cui, per esempio, il Trattato di non
proliferazione nucleare. È importante che la DDR rimanga all’interno del Patto di
Varsavia no al 2005. Un suo distaccamento potrebbe essere compensato solo
dall’istituzione in Europa di misure di sicurezza collettive. Ciò evidenzia la necessità di
integrare il processo di riuni cazione tedesca in un più ampio processo di disarmo e di
creazione di una casa europea.
Mosca espresse dubbi sull’effettiva esistenza nella DDR di una
maggioranza favorevole alla riuni cazione e se quella maggioranza
non si fosse piuttosto lasciata spaventare da una “piccola ma rumorosa
minoranza”. Bisognava quindi
agire contro il sentimento sempre più diffuso nella DDR secondo cui il salvataggio della
Repubblica sarebbe ormai una causa persa. Non tutto è andato perduto, non tutte le
risorse sono state esaurite. È importante chiarire a tutti che una rapida riuni cazione non
risolverebbe i problemi delle persone.

Le dif coltà nella DDR


non sono più dovute solo agli errori del passato ma anche alle conseguenze delle misure
speci che prese dalla RFT al ne di annettere la DDR. Minore sarà la resistenza opposta
alla politica del governo federale, maggiori saranno i problemi nella DDR.

In ne, Mosca dichiarò chiaramente:


In generale, i compagni sovietici sono persuasi che il processo di riuni cazione politica
e costituzionale dei due stati tedeschi secondo il diritto internazionale sarà molto più
complicato di una semplice unione economica.

L’intenzione della politica sovietica era di attuare il processo il più


lentamente possibile, in modo da guadagnare tempo, nella
convinzione che “in un contesto mutato sarebbero emerse nuove
prospettive”.
L’interlocutore di Mahlow aveva ribadito “la disponibilità del
PCUS a concedere qualsiasi aiuto per il rafforzamento del PDS quale
garante decisivo per la preservazione della DDR come stato sovrano”.
Il 18 marzo, con la vittoria elettorale della coalizione conservatrice
“Alleanza per la Germania”, la storia – per riprendere l’immagine
usata da Gorbačëv nella sua intervista alla “Pravda” del 21 febbraio –
scattò al galoppo. Ma come nella ballata di Goethe, quando il 2
ottobre “il cavaliere giunse al palazzo con stento e con sforzo / nelle
sue braccia il bambino era morto”1.
Il direttore del dipartimento di studi sulla DDR dell’Istituto per
l’economia del sistema socialista mondiale dell’Accademia delle
scienze dell’URSS, Leonid Zedilin, in un’intervista alla “Pravda” del
26 marzo 1990, stimava i costi della riuni cazione tra i cinquecento e i
mille miliardi di marchi tedeschi. Questi erano investimenti che
avrebbero portato dei pro tti. “Ma nessuno oggi può dire chi nella
DDR trarrà bene cio da questa pioggia di denaro e chi sarà invece
lasciato per strada. Possiamo solo aspettare e vedere.”
A metà marzo 1990, l’URSS introdusse una nuova costituzione di
stampo presidenziale ed elesse Gorbačëv Presidente. Un mese prima, il
Plenum del Comitato centrale aveva tolto al PCUS il suo ruolo di
guida del paese, cancellando i relativi articoli costituzionali, e aveva
approvato il sistema presidenziale. Di conseguenza, cominciò a
svilupparsi un sistema multipartitico. Questo tolse ogni potere al
Comitato centrale del Cremlino sulla Piazza Rossa e da quel momento
la politica estera fu decisa esclusivamente al ministero degli Esteri sul
Boulevard Smolenskij. Falin, l’esperto di questioni tedesche e
segretario del Comitato centrale del PCUS, non aveva più molta voce
in capitolo. Prese il comando Ševardnadze, che oramai guardava solo a
Occidente. Quando Genscher gli chiese quando aveva preso in
considerazione per la prima volta una riuni cazione della Germania,
rispose che fu nel 1986. In questo modo diede involontariamente
ragione a Honecker, che morì convinto che la DDR era stata
abbandonata con l’avvio della perestrojka.
La messa in atto della riuni cazione tedesca il 3 ottobre 1990 e la
rma a Mosca del trattato due più quattro il 12 settembre 1990
avevano – perlomeno nella prospettiva di questo libro – solo un valore
protocollare. Ciononostante, questo trattato non aveva il carattere di
un accordo di pace con la Germania, come aveva ripetutamente
richiesto Falin. Gorbačëv a quanto pare non aveva colto l’importanza
di questo aspetto per l’Unione Sovietica e l’Europa orientale. Il 2
ottobre 1990, il comitato del PDS a Berlino ricevette una lettera dal
Segretariato del Comitato centrale del PCUS, rmata anche dal suo
Segretario generale, Gorbačëv:
Cari compagni!
Oggi mettiamo la parola ne a un passato segnato dalla guerra. La Germania raggiunge
l’unità nazionale, stabilita secondo la volontà della maggioranza popolare.
Le conquiste della DDR in campo sociale, culturale e in altri ambiti sono tutte
innegabili. Per l’Unione Sovietica e non solo, la Repubblica Democratica Tedesca non è
stata semplicemente un alleato e un partner economico ma anche un simbolo di sincera
riconciliazione dopo una guerra terribile. Fintanto che le ostilità dominavano i rapporti tra
Oriente e Occidente, la DDR ha garantito il mantenimento della pace.
Viviamo in un’epoca in cui si stanno gettando le basi per una nuova civiltà mondiale.
Non si tratterà di una ripetizione del passato. Tra le sue caratteristiche vi saranno la
riduzione del militarismo e della violenza e una maggiore attenzione verso i valori morali
e sociali. I programmi politici e di partito dovranno sapersi misurare con questo nuovo
contesto. I fautori della sovranità popolare e della giustizia sociale hanno tutte le ragioni
per rimanere ottimisti di fronte al corso della storia.

Con tutto questo ottimismo nei confronti della storia, sarebbe stato
meglio se Gorbačëv – diversamente da come fece con le sue molte altre
buone idee – si fosse battuto con vigore e rigore per la realizzazione
delle proprie intenzioni in occasione dei negoziati sull’unità tedesca.
Ahimè, resistenza, perseveranza e af dabilità politica non erano il suo
forte. Per quanto abbia apprezzato le sue dichiarazioni critiche contro
la persecuzione politica e legale dei cittadini della DDR, tra l’altro in
palese contraddizione con i suoi accordi con Kohl, ciò che mi rese
davvero furioso fu la sua posizione sulla riforma fondiaria. Il 1° marzo
1990 ribadimmo la validità della legge sull’esproprio, introdotta tra il
1945 e il 1949 nella zona di occupazione sovietica. Il 27 marzo anche il
Consiglio dei ministri dell’URSS confermò che i cambiamenti di
proprietà apportati dopo la guerra erano legalmente vincolanti e
avrebbero continuato ad avere validità anche in Pomerania, Slesia,
Prussia orientale e nel territorio dei Sudeti. Di questo sembra che
Gorbačëv non volesse proprio ricordarsene.
Per quanto mi riguarda, non ho nessuna intenzione di sollevare
Gorbačëv dalla sua responsabilità storica, in virtù delle vuote frasi
retoriche che sfoggiò quando dovette difendersi dall’accusa di aver
consegnato ad altri i paesi del socialismo reale: “E a chi li avrei
consegnati? Solo al popolo stesso!”. No, non è così semplice.
Parlare in questo caso di tradimento sarebbe altrettanto vuoto. I
cento miliardi di marchi tedeschi che Falin aveva chiesto alla
Repubblica federale come tardive benché legittime riparazioni di
guerra (dopotutto, le riparazioni erano state pagate solo dalla DDR)
non furono mai stanziati. Ancora oggi, il governo federale è reticente
a pagare un risarcimento anche minimo alle vittime della guerra e del
fascismo in Europa orientale, sebbene, in quanto successore legale del
Reich nazista, non abbia mai avuto problemi a versare le pensioni
tedesche agli ex membri delle SS in Lettonia.
No, la DDR e gli altri paesi socialisti non sono stati semplicemente
traditi o venduti da Mosca. La grande potenza sovietica ha trascurato
di rappresentarne gli interessi con coerenza e perseveranza. Interessi
che in de nitiva erano anche i suoi.
Tuttavia, almeno nel suo fallimento, Mosca fu coerente: nemmeno
gli interessi dei popoli dell’Unione Sovietica furono seriamente
rappresentati. La ne dell’URSS fu una logica conseguenza.
1
J.W. Goethe, Il re degli el , in Id., Ballate, traduzione, note e commenti di R. Fertonani,
introduzione di G. Cusatelli, Garzanti, Milano 1975. [N.d.T.]
CAPITOLO V
I RAPPORTI TRA PCUS E SED

I rapporti tra i diversi comitati centrali e le strutture di partito erano


tradizionalmente buoni e diversi cati. Si tenevano regolarmente
incontri sia tra dirigenti sia a livello della base di partito. La frequenza
di queste consultazioni diminuì con l’arrivo di Gorbačëv e la politica
della perestrojka e del Nuovo pensiero. Di conseguenza, anche i
dirigenti della SED ebbero meno contatti diretti e dal 1987 le visite
delle delegazioni di studio diminuirono drasticamente. Gli ambiti più
colpiti furono quelli dell’ideologia, dei media e della cultura, ma anche
le relazioni in campo economico si af evolirono notevolmente. Dal
lato sovietico la cosa non passò inosservata e così i canali di
informazione non uf ciali assunsero maggiore importanza.
Così, nell’estate del 1988, Medvedev, membro del Politburo e
Segretario del Comitato centrale, trascorse le vacanze nella DDR. A
Berlino incontrò diversi amici, tra cui Gunter Sieber, il capo del
Dipartimento relazioni internazionali del Comitato centrale della
SED. Si recò quindi anche a Dresda a vedere la Semperoper, il teatro
d’opera da poco ricostruito, e per visitare la Pinacoteca dei Maestri
Antichi, ma in realtà venne soprattutto per incontrarmi. Avevo
conosciuto Medvedev durante il mio lavoro al Comitato centrale,
mentre lavorava per il Dipartimento della propaganda del Comitato
centrale del PCUS. In precedenza, era stato segretario per il lavoro
ideologico presso il comitato regionale di Leningrado, in seguito
Gorbačëv lo introdusse al Politburo. Oggi lavora per la fondazione di
Gorbačëv, ma i nostri rapporti sono rimasti amichevoli.
Non so quali conseguenze possano avere avuto le nostre
conversazioni dopo il suo ritorno a Mosca. Medvedev non esercitò
un’in uenza apprezzabile sugli sviluppi nei paesi socialisti e se le sue
impressioni e le sue informazioni avessero un qualche effetto su
Gorbačëv, non è né un fatto documentato né qualcosa che si potesse
dedurre dalle sue reazioni. Inoltre, è anche possibile che le
interpretazioni di Medvedev fossero diverse dalle mie. Ricordo per
esempio una gita con lui in Crimea nell’estate del 1990, con noi
c’erano una dozzina di giovani, una guida turistica e poiché Medvedev
era un membro del Politburo, ci accompagnava anche la sua scorta
personale. Passeggiando indisturbati, circondati da una natura
incantevole, parlammo apertamente dei problemi attuali. Forse fu
l’effetto di quella bella giornata o forse la sua ingenuità, ma Medvedev
disse che tutto sarebbe andato bene, magari ci sarebbe stata qua e là
un po’ di burrasca, ma Mosca aveva la situazione sotto controllo e
nulla sarebbe sfuggito di mano… Quando ci incontrammo di nuovo
alla Fondazione Gorbačëv nel dicembre 1992, ammise autocriticamente
che ciò che aveva detto durante la vacanza in Crimea era senza dubbio
un po’ fuori dalla realtà.
Nel 1989, Honecker incontrò Gorbačëv due volte. Era stato invitato
a Magnitogorsk a giugno, perché nel 1930, quando era un giovane
comunista di diciott’anni, aveva lavorato lì alcuni mesi alla costruzione
dell’acciaieria. Durante la sua tappa a Mosca, si tenne un incontro con
il Segretario generale del PCUS il cui contenuto riempì un verbale di
trenta pagine.
Leggendo quel resoconto si capisce come Gorbačëv tentò di
spiegare, dalla prospettiva del Partito comunista sovietico, quegli
avvenimenti rispetto ai quali il segretario generale della SED si era
mostrato piuttosto chiuso. Come accadeva sempre durante gli incontri
con il capo del Partito sovietico, questi non si rivolse in maniera
diretta al suo interlocutore, ma lasciò a quest’ultimo il compito di
ltrare le informazioni che avrebbero potuto essere per lui importanti.
Disse che si erano lasciati il vecchio alle spalle, anche se il nuovo non
era ancora all’orizzonte. “Un problema è che non abbiamo ancora
trovato nel nostro sistema gli strumenti e i processi necessari per
risolvere i problemi. La maggior parte degli strumenti che abbiamo
trovato, provengono ancora da Lenin.”
Questo deve aver fatto doppiamente piacere a Honecker: da un lato
trovò confermata la sua convinzione che i russi erano avventurieri e
che non sapevano ciò che facevano, dall’altro, come aveva sempre
pensato, i grandi classici erano ancora capaci di fornire le risposte
migliori.
Il Partito era la questione fondamentale, continuò Gorbačëv, senza il
Partito, la perestrojka non sarebbe potuta andare avanti. Il Partito
avrebbe dovuto svolgere un ruolo più attivo e incarnare la vera
avanguardia politica. Honecker osservò che era anche ciò che pensava
lui riguardo alla SED. Entrambi gli stati, anche su questo furono
d’accordo, avevano bisogno di uno sviluppo stabile nonostante tutti i
problemi. In futuro la DDR, disse ancora Gorbačëv, avrebbe
continuato a rimanere stabile, anche se avesse intrapreso una sua
strada in direzione del rinnovamento e fosse proceduta secondo i
propri tempi.
Il secondo incontro tra i due, tre mesi dopo, non fu molto diverso.
Dopo la accolata e la cerimonia della FDJ per il 40° anniversario
della Repubblica democratica, Gorbačëv rivalutò come molto
importante l’iniziativa di Honecker di invitarlo a Berlino. La SED e la
DDR, concluse, erano alleati di primaria importanza per il PCUS e
l’Unione Sovietica. Il discorso di Honecker gli era piaciuto perché
diceva ciò che andava fatto in maniera corretta e onesta. Lui,
Gorbačëv, riteneva che rispetto al PCUS, per la SED sarebbe stato
tutto più facile a causa della diversa situazione sociale della DDR.
Dopo una lunghissima e garbata introduzione, giunse in ne al vero
tema dell’incontro, anche se si mantenne pur sempre sul vago. Il
Partito avrebbe dovuto prendere l’iniziativa, altrimenti l’avrebbero
avuta vinta i demagoghi. In base alla sua esperienza sapeva che non si
poteva mai arrivare in ritardo e che bisognava reagire
tempestivamente alle questioni poste dalla realtà dei fatti.
I verbali dei due incontri mostrano bene come entrambi non furono
sinceri. Ognuno era conscio della dif denza e del sospetto da parte del
proprio interlocutore. Si scambiarono quindi gli elogi quanto ai
rispettivi successi e diedero rassicurazione sulla ducia che nutrivano
l’uno per l’altro. Recitarono la parte delle persone sincere
ingannandosi a vicenda e non appena uno si voltava dall’altra parte,
l’altro iniziava a parlare senza più peli sulla lingua. “Non è così che ci
si dovrebbe trattare tra comunisti”, disse anni dopo Heinz Keßler,
amico d’infanzia e con dente di Honecker. Ma lo fecero comunque e
così avvelenarono i rapporti tra i due partiti.
L’ultimo incontro tra segretari generali ebbe luogo il 1° novembre
1989 a Mosca. Dodici giorni prima, Krenz aveva preso il posto di
Honecker e ora voleva intraprendere un nuovo inizio. Krenz ebbe
l’impressione che Gorbačëv lo stesse prendendo in giro. La sua
sensazione era di essere appoggiato sia dal comitato centrale del
proprio partito sia dalla maggioranza della popolazione della DDR e
informò quindi Gorbačëv in questi termini sulla situazione nella
Germania orientale. Evidentemente, la crisi che aveva investito la
SED e tutta la DDR era più profonda e complessa di quanto il nuovo
uomo di governo non credesse o desse a vedere. Di conseguenza,
Krenz non aveva nessuna proposta decisiva su come superare la crisi.
Quanto a Gorbačëv, a giudicare dalle sue reazioni, anche lui non si era
preparato molto per questo incontro, benché fosse chiaramente di
estrema importanza per entrambe le parti. Gran parte del dialogo non
superò il livello della battuta amichevole e non impegnativa e si
mantenne strettamente all’interno del protocollo. Anche per questo –
e non a causa delle turbolenze politiche che causarono la rimozione di
Krenz dal suo incarico dopo soli cinquanta giorni – le discussioni che
si tennero a quel vertice non ebbero nessun effetto sui due partiti.
Quando Krenz mi accompagnò a Mosca il 4 dicembre, per un
incontro del Comitato politico consultivo del Patto di Varsavia, non
era già più Segretario generale. Appena un giorno prima, cedendo alle
pressioni della base del Partito, l’intero Politburo si era dimesso. Krenz
faceva parte della delegazione dei presidenti del Consiglio di Stato,
anche se di fatto era già stato richiamato. Dopo il nostro ritorno a
Berlino, il 7 dicembre, rassegnò formalmente le dimissioni anche da
questa carica. Il Presidente del Partito liberal-democratico (LDPD),
Manfred Gerlach, prese il suo posto no alle elezioni del 18 marzo
1990.
Siccome Herbert Kroker, che dirigeva il Comitato di lavoro, ossia
l’organo che il 3 dicembre sostituì il Comitato centrale dimissionario,
mi aveva incaricato di difendere gli interessi della SED, quando andai
a Mosca in qualità di Primo ministro, ero anche leader de facto del
Partito. In questa veste ebbi un colloquio con Gorbačëv a margine
dell’incontro uf ciale. Il 24 novembre, il Segretario generale del PCUS
aveva inviato un messaggio ai dirigenti della SED per prepararsi
all’incontro. In sei punti aveva delineato gli elementi essenziali della
sua politica e della nostra collaborazione. Siccome questo documento
non è mai stato pubblicato e mostra in maniera abbastanza precisa la
visione del mondo di Gorbačëv e la sua posizione politica alla ne del
1989, dopo la caduta del muro ma prima del suo incontro con Bush del
2-3 dicembre, lo citerò di seguito per intero:
1. La base fondamentale per le relazioni tra l’Unione Sovietica e gli altri stati,
naturalmente compresi i nostri alleati, è il rispetto del diritto sovrano di ogni nazione di
scegliere la propria via per lo sviluppo. Tale rispetto deve essere reciproco, in caso
contrario non sarà possibile alcuno sviluppo internazionale costruttivo.
2. La crescente interdipendenza tra le nazioni, particolarmente evidente nel continente
europeo, esige di rinunciare a ciò che resta della Guerra fredda, in modo da porre ne al
pensiero e alla politica generati dallo scontro tra blocchi. Ciò che a tale riguardo deve
essere modi cato, in quale direzione e con quali tempi, può essere deciso solo nel contesto
di un dialogo costruttivo paneuropeo. Per fare questo, non è necessario iniziare da zero.
Gli accordi di Helsinki costituiscono una buona base. Il processo iniziato dalla
Commissione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, in cui partecipano da eguali
anche Stati Uniti e Canada, procede con successo.
L’Unione Sovietica e i suoi alleati sono disposti – e lo hanno confermato attraverso
azioni concrete – a ridurre le loro forze armate e gli armamenti a un minimo ragionevole e
a passare dal confronto alla cooperazione in praticamente ogni ambito.
Siamo pronti – e anche a dimostrazione di ciò ci sono prove evidenti – a rispettare i
diritti umani e a lavorare anco a anco con chiunque desideri sviluppare le tradizioni
umanistiche, la cultura e la tecnologia europee, così come anche con chiunque cerchi uno
sviluppo di civiltà rispettoso dell’ambiente.
3. Tuttavia, i cambiamenti più audaci e di vasta portata potranno avere successo e
portare bene ci reciproci per il nostro continente solo se saranno mantenute e rafforzate
le basi della stabilità europea. Questi cambiamenti non dovranno in uenzare le realtà
politiche e territoriali, non dovranno portare alla rinascita delle vecchie rivendicazioni
territoriali o all’emergere di nuove, né dovranno mettere in discussione i con ni esistenti
dei paesi europei. Poiché è proprio su questo punto che possono essere individuate le
cause della Prima e della Seconda guerra mondiale. La pace in Europa durerà no a
quando questo vaso di Pandora rimarrà chiuso.
4. I recenti cambiamenti che hanno coinvolto la Repubblica democratica tedesca hanno
generato molte discussioni sulla “questione tedesca” e sulle prospettive offerte dalla
riuni cazione. Non intendiamo entrare in una discussione dettagliata su questo problema,
siamo però fermamente convinti che in tutti questi anni di esistenza e di sviluppo, la DDR
sia stata, ed è tutt’oggi, una garanzia di straordinaria importanza per l’equilibrio delle
forze in Europa, per la pace e per la stabilità internazionale. In qualità di stato sovrano e
membro del Patto di Varsavia, la DDR è rimasta e rimane il nostro primo alleato
strategico in Europa. Per quanto ne sappiamo, i politici responsabili in Occidente sono
ben consapevoli di questo fatto. Tuttavia, i pericoli rappresentati da sentimenti revanscisti
non devono essere sottovalutati. Alimentarli signi cherebbe affossare la ducia nascente e
mettere in discussione tutte le conquiste storicamente signi cative nello sviluppo delle
relazioni Est-Ovest.
5. Una caratteristica fondamentale del nuovo pensiero politico è la rinuncia
all’ideologia nelle relazioni interstatali. Questo dovrà portare a un avanzamento dinamico
delle relazioni nei termini di una cooperazione pragmatica e costruttiva, nonché al
rafforzamento della ducia reciproca. In questo senso, i tentativi di dipingere la
trasformazione dell’Unione Sovietica, così come le riforme in atto in un certo numero di
altri paesi socialisti, come prova del presunto fallimento del socialismo, sono ingiusti cati
e miopi. In realtà, si tratta di un processo di rinnovamento della società socialista. È
importante abbandonare i modelli di pensiero della Guerra fredda e prendere le distanze
dall’idea di sfruttare le dif coltà temporanee della controparte per il raggiungimento dei
propri obiettivi.
6. La transizione verso un periodo di pace della storia europea richiede garanzie
attendibili di mutua sicurezza. Il lavoro fatto a Vienna è un passo in questa direzione.
Questo solleva inevitabilmente anche il problema del nuovo ruolo del Patto di Varsavia e
della NATO. Per quanto riguarda l’immediato futuro, siamo a favore di una loro
trasformazione in organizzazioni di difesa politica, nalizzate alla creazione sia di contatti
a breve termine sia di relazioni continuative e reciprocamente vantaggiose, nonché
all’istituzionalizzazione della cooperazione tra i due blocchi. Ciò può fornire un nuovo e
signi cativo contributo al rafforzamento della sicurezza in Europa e potrebbe portare a un
livello di ducia che ci consentirebbe di prendere in considerazione lo scioglimento di
entrambe le alleanze.
Queste sono le nostre attuali ri essioni sulle questioni europee che intendiamo
presentare nelle trattative con il Presidente degli Stati Uniti.

Fino a che punto lo fece davvero non me lo disse mai. Io lo informai


brevemente sulla situazione nel mio partito e nel paese, e gli dissi che
dal giorno prima ci stavamo preparando per un congresso
straordinario del Partito che si sarebbe svolto nel ne settimana
seguente. Gorbačëv era visibilmente interessato, ma dovette
interrompere la nostra conversazione poiché oberato dalle troppe
riunioni…
Le dimissioni della vecchia dirigenza della SED e l’annuncio di un
congresso straordinario del Partito (Krenz voleva solo una conferenza
di partito che, per esempio, non avrebbe potuto eleggere un nuovo
gruppo dirigente), suscitarono senza dubbio molte ri essioni a Mosca.
Il Dipartimento internazionale del Comitato centrale del PCUS cercò
immediatamente di iniziare le comunicazioni con i nuovi e per lo più
sconosciuti dirigenti e inviò degli osservatori alla prima sessione del
congresso straordinario del Partito dell’8-9 dicembre. Questi erano il
primo vicedirettore del dipartimento Fëdorov e il capo settore
Koptelcev. Subito dopo l’elezione di Gregor Gysi alla presidenza della
SED, arrivò un telegramma di congratulazioni da parte di Gorbačëv. Il
10 dicembre Gysi ebbe una conversazione approfondita con i due
rappresentanti di Mosca. Fëdorov osservò che il vertice aveva assunto
una tendenza piuttosto socialdemocratica, ma – come speci cò,
scusandosi – questo non lo infastidì. Poco prima, i delegati avevano
richiesto un cambio di nome; Fëdorov fece notare che una simile
decisione andava soppesata attentamente, in quanto avrebbe potuto
generare divisioni. Ancora più importante: il Partito sarebbe dovuto
tornare a essere in grado di agire e di assumersi di nuovo le proprie
responsabilità nei confronti della DDR, anche perché l’esistenza della
DDR era strettamente legata agli interessi sovietici. Se questi interessi
fossero stati intaccati, se fossero state sollevate questioni relative ai
con ni, il processo avviato con gli accordi di Helsinki, che
presupponevano due stati tedeschi sovrani, avrebbe potuto essere
messo a repentaglio.
Gysi era della stessa opinione, come assicurò a Gorbačëv quella
stessa sera durante una telefonata durata circa mezz’ora. Disse che
avrebbe lavorato con tutte le sue forze per la salvaguardia del Partito e
della sovranità della DDR.
Il Segretario generale sovietico lo informò che il giorno precedente
aveva parlato al Plenum del Comitato centrale sulla situazione della
DDR. Si era reso conto che le tensioni erano aumentate in modo
signi cativo negli ultimi mesi e per questo accusava la vecchia
dirigenza della SED che, sfortunatamente, non possedeva la
necessaria comprensione per gli eventi. A Mosca il congresso
straordinario della SED era stato seguito con attenzione. C’erano tre
punti contenuti nel discorso di Gysi e nel mio sui quali voleva porre
l’accento: il primo era l’adesione al socialismo e il desiderio di un suo
rinnovamento nella Germania Est; il secondo era la solidarietà e
l’amicizia con i popoli dell’Unione Sovietica e il terzo era la lotta per
l’indipendenza della DDR, anche se – Gorbačëv si espresse con
prudenza su questo punto – erano sorte nuove condizioni che nel
prossimo futuro avrebbero richiesto la massima attenzione. A Bush
aveva chiesto che attorno alla DDR potessero regnare pace e
tranquillità e a Genscher disse che il programma in dieci punti di Kohl
differiva dagli accordi che erano stati presi con lui. Tuttavia, Gorbačëv
pensava che la mia formula di una comunità di stati fondata sui trattati
sarebbe stata la scelta migliore in quanto avrebbe lasciato maggiori
margini di manovra.
Quattro giorni dopo, ci fu un’altra telefonata tra i due segretari
generali, questa volta fu Gorbačëv a chiamare. Il Segretario generale
informò di aver inviato una lettera il cui contenuto voleva essere un
aiuto in vista delle prossime discussioni. Era interessato a sapere
brevemente come andavano le cose nel Partito e nel paese e Gysi
espresse la propria preoccupazione per le crescenti pressioni interne
ed esterne alla DDR a sostegno della riuni cazione, che erano state
rilevate dai sondaggi. I presupposti per la visita di Kohl il 19 dicembre
non erano dei migliori. Sebbene fosse stata un’iniziativa di Krenz,
ritirare l’invito non era purtroppo più possibile. Gorbačëv lo rassicurò
dicendogli che lui e io avremmo saputo gestire l’incontro e che la
strada intrapresa era quella giusta. Avremmo inoltre potuto avvalerci
anche dei consigli del compagno Jakovlev, che sarebbe stato presente
a Berlino in occasione della seconda sessione del congresso del partito
il 17-18 dicembre.
La sua visita era stata annunciata da Fëdorov, il quale aveva anche
riferito dell’intenzione di Jakovlev di parlare prima con i
rappresentanti dell’opposizione. In particolare, espresse il desiderio di
incontrare Bärbel Bohley. L’incontro non avvenne per motivi di cui
non sono a conoscenza. Jakovlev ebbe solo un incontro organizzato
dall’ambasciata sovietica con i rappresentanti religiosi. Per il resto,
fummo io e Gysi a parlare con l’uomo di ducia di Gorbačëv e
Segretario del Comitato centrale.
Tutte le sue osservazioni segnalavano l’intenzione di Mosca di porre
ne alla relazione con la SED di Honecker e il desiderio di portare
rapidamente la nuova dirigenza del Partito e dello stato sulla linea di
Gorbačëv. Per evitare di dare un’impressione paternalistica o di volere
interferire, Jakovlev scelse il metodo preferito anche da Gorbačëv:
parlò esclusivamente dell’attuazione della perestrojka nel suo partito e
dei problemi che erano sorti.
Jakovlev riferì quindi che il Partito sovietico aveva iniziato con la
trasformazione in campo economico e che incontrò una resistenza
inaspettata. La scelta di non realizzare parallelamente le riforme
politiche ed economiche si rivelò dunque un errore. Al di là degli
appelli di carattere generale, la vera trasformazione era iniziata con il
Plenum del gennaio 1987. Tra aprile 1985 e dicembre 1986 in Unione
Sovietica non vi era stata alcuna riforma economica. Le decisioni
prese in quel periodo, che intendevano garantire una maggiore
autonomia alle imprese, erano in de nitiva limitate a cambiamenti
super ciali, come l’elezione dei direttori. Il sistema centralistico
burocratico non era stato intaccato e le limitazioni imposte alle
imprese in termini di piani cazione, produzione, accumulazione e
utilizzo delle risorse, non erano state rimosse. L’accesso ai mercati
esteri era praticamente ancora vietato e il monopolio dello stato sul
commercio estero, fatta eccezione per alcune restrizioni, era rimasto
invariato. Tutto ciò doveva cambiare.
Sarebbe importante, continuò Jakovlev ricorrendo a una metafora
alquanto singolare, imbrigliare il cavallo della perestrojka al carro
della legge, in modo da andare avanti con calma e senza eccessi. Di
particolare importanza erano un nuovo codice penale, una legge
sull’autogoverno locale, una sulla sovranità delle repubbliche
dell’Unione e nuove leggi sulla stampa, la proprietà della terra e, da
ultimo ma non meno importante, sulla gioventù.
Jakovlev concluse la sua presentazione dicendo che questo avrebbe
forse spinto i suoi compagni tedeschi a ri ettere e ad agire di
conseguenza. Dopodiché, ci raccontò della sua situazione. In qualità di
responsabile del lavoro internazionale per il Politburo, all’ultimo
Plenum era stato fortemente attaccato e ritenuto responsabile per gli
sviluppi nella DDR e nella SED. Sebbene avesse respinto
sdegnosamente tutte le accuse di questo tipo.
In linea di principio, il compagno Jakovlev aveva ragione,
personalmente non era certo responsabile per la situazione. Tuttavia,
nemmeno poteva lavarsene pilatescamente le mani e ngere che
Mosca non avesse niente a che fare con questa situazione.
Jakovlev ammise che c’erano state lotte interne alla direzione del
Partito. La perestrojka non era stata avviata dal Partito, ma da uno
speci co gruppo all’interno della dirigenza, seguito poi dalla
maggioranza del Comitato centrale.
L’eredità stalinista era ancora diffusa, persino nel gruppo dirigente.
Le menzogne che il Partito diffuse per decenni si erano
profondamente radicate nella società, anche se spesso non erano
accettate. Per esempio nei casi di repressione e persecuzione, nelle
violazioni della legge e nel culto della personalità. Il socialismo aveva
sviluppato in URSS forme crescenti di parassitismo che dovevano
essere superate attraverso la democrazia e una maggiore apertura.
Abbiamo bisogno di un nuovo modello di socialismo, disse.
Di questo aveva parlato anche a Honecker nel 1987, quando si
trovava nella DDR in occasione di un soggiorno di lavoro. All’epoca
aveva cercato di spiegare le cause storiche che motivavano la necessità
di sviluppare un nuovo concetto di socialismo, ma il Segretario
generale della SED si era ri utato di capire. Aveva risposto che forse
questo andava bene per l’URSS, ma non per la DDR. Nella DDR, un
nuovo concetto di socialismo era già stato implementato con successo
dall’VIII Congresso, vale a dire già quindici anni prima.
Era contento, continuò Jakovlev, che i nuovi dirigenti della SED
riconoscessero ora questa necessità e che stessero compiendo passi in
direzione del rinnovamento e della trasformazione del socialismo.
Questa affermazione rese evidente che il nostro desiderio di seguire la
linea di Gorbačëv era ormai più che noto. Pertanto, sembrava strano
che da un lato riabilitassero quei funzionari perseguitati o assassinati
da Bucharin e da Stalin, ma dall’altro non erano però disposti a
spingersi tanto lontano da espellere a posteriori Brežnev e altri
personaggi di spicco dal Partito. Chiaramente, a Mosca non vedevano
di buon occhio l’esclusione dalla SED di Honecker e di altri membri
del Politburo a causa delle loro trasgressioni.
Ma per quale ragione? Il motivo principale era che, dopo l’XI
Congresso del Partito, Honecker aveva rivendicato anche per la SED
il diritto all’autonomia e allo sviluppo indipendente che Gorbačëv
aveva concesso a tutti gli altri partiti alleati, allargando così quella
spaccatura tra Mosca e Berlino che ora la nuova dirigenza sovietica
stava cercando di ricucire.
Honecker aveva pubblicato la lettera di Nina Andreeva contro la
perestrojka di Gorbačëv. Aveva inoltre vietato o temporaneamente
limitato la distribuzione delle riviste sovietiche (come “Sputnik” e
“Neue Zeit”) e, nell’autunno del 1988, aveva proibito la proiezione di
cinque lm sovietici e obbligato il comitato di selezione del Festival
del documentario di Lipsia a respingere diverse proposte provenienti
dall’URSS. In primavera aveva notevolmente ridotto la tiratura del
libro di Gorbačëv Perestrojka: Il nuovo pensiero per il nostro paese e
per il mondo e di una raccolta in quattro volumi dei suoi discorsi e di
altri scritti. Aveva ripetutamente criticato la politica dei mezzi
d’informazione dell’Unione Sovietica e aveva formulato numerosi
attacchi contro pubblicazioni speci che, come per esempio il 6 maggio
1989 sulla “Neues Deutschland”, in polemica su questioni di
revisionismo storico del PCUS nel suo rapporto con l’eredità di Stalin
e dello stalinismo. Il 9 giugno 1988, Hermann Axen dovette
intervenire a nome del Politburo presso l’ambasciata sovietica, contro
una dichiarazione del professor Vjačeslav Dašičev sulla questione
tedesca pubblicata quello stesso giorno su “Die Welt”. Honecker aveva
già protestato presso l’ambasciata nell’aprile 1988 contro le
dichiarazioni di alcuni partecipanti sovietici a un programma
televisivo realizzato in cooperazione tra la Germania occidentale e
l’Unione Sovietica. (Honecker si comportava come se ogni russo
dovesse esprimere la posizione uf ciale del Politburo.)
Il Segretario generale della SED aveva limitato le relazioni dirette e
gli scambi di delegazioni e, in una lettera dell’aprile 1987, aveva
ordinato a tutti i segretari regionali di ricordare alle imprese dei vari
settori che gli accordi commerciali ed economici dovevano essere
stipulati unicamente dalle istituzioni centrali adibite al controllo del
commercio con l’estero. Alla base di questi ordini c’erano le offerte
provenienti dagli organi locali di Partito, di Stato e di gestione
economica sovietici (e le nuove, benché graduali, libertà garantite
dalla perestrojka) che intendevano stabilire contatti diretti attraverso
le relazioni esistenti tra le regioni.
La realizzazione della proposta sovietica secondo cui la DDR
avrebbe dovuto stabilire a Mosca un centro culturale e informativo,
era stata ripetutamente rinviata (chiaramente, una tale istituzione non
sarebbe stata a senso unico), adducendo come motivazione che non
c’era spazio per un progetto del genere nell’ambito del piano
quinquennale in corso. Durante la visita di Honecker nel settembre
1988, fu deciso che si sarebbero aperti i negoziati per discutere la
questione… E ancora Honecker non avrebbe dovuto essere espulso
dalla SED? Chi avrebbe potuto capirlo non lo fece. Noi non lo
facemmo.
Senza dubbio, avremmo potuto discutere sulla correttezza del modo
in cui a vari livelli trattavamo con gli alti funzionari. In realtà, molto
spesso queste trattative non meritavano certo di essere de nite
“democratiche”, ma questo era un altro problema. In ogni caso, non
posso escludere che con la sua critica il compagno Jakovlev non
mirasse soprattutto al raggiungimento dei suoi obiettivi.
La seconda sessione del Congresso straordinario del Partito, in cui
la SED assunse il doppio nome di SED-PDS (Partito del socialismo
democratico), mise in luce le differenze con il PCUS di Gorbačëv. Il
nostro concetto di pluralismo dei partiti andava ben oltre ciò che
intendeva Mosca. Anche la nostra rottura con lo stalinismo fu più
radicale. Tuttavia, a mio parere, fu uno sbaglio – e il PDS ne subisce
oggi le conseguenze – non aver de nito con suf ciente precisione ciò
che intendevamo per socialismo moderno e democratico. Così,
ognuno si era fatto la propria idea e quando in seguito si cercò di
trovare il consenso sulla costituzione, saltò fuori che le opinioni al
riguardo erano tutte diverse. Al posto di una ri essione collettiva ci
furono solamente considerazioni individuali e alla ne la base non
poté fare altro che tentare di comprendere a posteriori ciò che la
dirigenza aveva scritto o dichiarato.
Chiaramente, non è che ogni singola decisione debba essere prima
legittimata da un sondaggio tra i membri del Partito, poiché i delegati,
a loro volta legittimati democraticamente, eleggono degli organi
speci ci appunto per guidare il Partito tra un congresso e l’altro. Ma i
limiti della democrazia si mostrano quando, neppure in queste
occasioni, le questioni fondamentali vengono adeguatamente discusse
e concordate prima di essere comunicate al pubblico. Avere
un’immagine di sé democratica e riformatrice non è abbastanza per
evitare certi errori.
Dopo il Congresso straordinario, nelle relazioni tra i due partiti
regnò il silenzio. Contro il parere di alcuni suoi colleghi, Gorbačëv,
come precedentemente accordato, ricevette Gysi per un incontro
all’inizio di febbraio 1990. Vi presero parte Falin, Willerding,
responsabile per le relazioni internazionali nella direzione del PDS,
l’ambasciatore della DDR König, che faceva parte anche della
direzione del partito, ed Ettinger in funzione di interprete e
consulente.
Gorbačëv lodò Gysi e criticò Honecker, il quale, malgrado i ripetuti
appelli, non aveva voluto ascoltare mostrando così scarsa
comprensione della situazione. Rivolgendosi ai dirigenti del Partito,
chiese di ritornare per quanto possibile a un normale processo politico
e di rinunciare alle posizioni sviluppate nelle ultime settimane e mesi
in risposta alle pressioni dei movimenti di piazza. Non speci cò
tuttavia a quali posizioni si riferisse. I movimenti di piazza, sostenuti
dalle forze politiche della Repubblica federale, protestavano contro
l’intero Partito e non solo contro determinati quadri. Era necessario
tenerne conto in vista delle imminenti elezioni del 18 marzo. Inoltre,
Gorbačëv aggiunse che si sarebbe dovuto tener conto della classe
operaia, a quel punto Gysi fece notare che era proprio in quel settore
della popolazione che la SED-PDS aveva registrato il maggior calo nei
consensi.
Gorbačëv parlò allora della relazione con la SPD. Gysi spiegò che la
revoca di Berghofer dalla carica di vicepresidente della SED era
motivata dal fatto che il suo ex vice, che era sindaco di Dresda, sentiva
di avere una maggiore possibilità di rielezione se avesse preso le
distanze dal Partito. Ciò che all’epoca non era ancora chiaro, era che
Berghofer e una nutrita cerchia di funzionari stavano preparando il
loro passaggio alla SPD. La dirigenza della SPD della Germania
occidentale era però preoccupata per il fatto che molti altri membri
del PDS avrebbero potuto seguirlo e questo avrebbe signi cato la ne
del Partito, o perlomeno un suo indebolimento. Tuttavia, ad Amburgo,
Henning Voscherau e il gruppo parlamentare di Bonn avevano fatto i
loro calcoli senza considerare i pochi membri della SPD della
Germania Est che, per arroganza e in previsione della vittoria
elettorale il 18 marzo, avevano respinto l’idea. Dieci anni dopo, questo
errore strategico ha ancora inciso negativamente sui risultati della
SPD nella Germania orientale.
Quella conversazione durata diverse ore si concluse con la proposta
di Gorbačëv di formulare un piano d’azione comune. Jakovlev e Falin
sarebbero stati incaricati della sua elaborazione. Il Segretario generale
volle allora sottolineare la particolare importanza attribuita
ovviamente ai rapporti tra il PCUS e il PDS. Questo piano d’azione
comune alla ne non ci fu mai presentato.
Il 7 febbraio, Bruno Mahlow, in qualità di Segretario della
Commissione per le politiche internazionali della dirigenza del PDS, si
recò a Mosca con l’obiettivo di tornare sul tema e riallacciare i
rapporti. Non tralasciò di parlare con nessuno dei rappresentati del
dipartimento internazionale, e conferì anche con Krasin, il direttore
dell’Istituto di scienze sociali.
Fëdorov e Koptelcev annunciarono la loro partecipazione al
congresso pre-elettorale del PDS il 24-25 febbraio. Vennero, ma
mantennero la loro posizione di osservatori. Non ci fu alcun discorso
uf ciale. Evidentemente a Mosca si stava veri cando un cambio di
orientamento che coinvolgeva anche le relazioni tra partiti.
Il 5-6 marzo, colsi l’occasione della conferenza intergovernativa di
Mosca per un incontro a quattr’occhi con Gorbačëv. In qualità di
Primo ministro, e ora anche come Presidente onorario del PDS,
espressi le mie preoccupazioni sulla situazione tedesca e sul
trattamento riservato al PDS. Gorbačëv disse che l’Unione Sovietica
avrebbe usato le relazioni esistenti con le forze politiche della
Germania orientale per cercare di contribuire al miglioramento della
situazione. Sebbene la SPD continuasse a cercare di indebolire il PDS,
erano necessari maggiori sforzi per promuovere la cooperazione tra le
forze di sinistra.
Nel verbale si legge:

In ne, Michail Gorbačëv ha sottolineato la ferma intenzione dell’URSS di trattare la


riuni cazione dei due stati tedeschi come una questione di importanza globale. Il suo
sviluppo in uenzerà infatti l’esito di diversi incontri internazionali. Nonostante tutte le sue
dif coltà interne, l’Unione Sovietica non dovrebbe essere sottovalutata. L’URSS non
accetterebbe di essere messa di fronte a un fatto compiuto ed è pienamente consapevole
delle proprie responsabilità nei confronti dei cittadini della DDR e della Repubblica
federale.

Oggi sappiamo quanto poco valevano tutte queste belle parole. O si


fondavano su una valutazione completamente errata della situazione o
servivano solo da sostegno morale. In quest’ultimo caso, bisogna dire
che fecero il loro effetto, tornai infatti a casa abbastanza ottimista
mentre la catastrofe stava già prendendo il suo corso inesorabile.
Due settimane dopo, Fëdorov venne a Berlino per incontrare
Hartmann, capo settore alla direzione del PDS. La loro conversazione
fu dichiarata “strettamente riservata”. Affrontò il risultato delle
elezioni del 18 marzo solo di passaggio. Secondo i compagni di Mosca,
il sedici percento era un buon risultato per il PDS e ritenevano che a
quel punto un posto nel panorama politico della nuova DDR fosse
ormai assicurato.
La sensazione era che gli attacchi contro il Partito sarebbero
diminuiti nel tempo e alla lunga SPD e PDS avrebbero unito le forze.
Secondo il PCUS, il compito più urgente per il Partito era adesso
quello di combattere l’annessione. La nuova Germania non doveva
diventare una Grande Repubblica federale, ma si sarebbe dovuta
costituire come stato realmente democratico. È abbastanza ovvio che
il dipartimento internazionale del Comitato centrale del PCUS aveva
adottato una linea diversa da quella di Gorbačëv e del ministero degli
Esteri sovietico.
Ma le cose peggiorarono. Fëdorov previde tempi duri per l’Unione
Sovietica: Gorbačëv stava voltando sempre più le spalle al Partito e si
preoccupava ormai solo di espandere il proprio potere presidenziale.
Così facendo, era probabile che avrebbe causato una spaccatura
all’interno del Partito.
Alla ne di maggio, Mosca invitò me e Gysi in vacanza in Unione
Sovietica. Gysi non era entusiasta, ma accettò di andare il 14 e il 15
giugno. Lo accompagnarono il suo vice Wolfgang Pohl e Jochen
Willerding. L’incontro che era stato programmato con Gorbačëv non
avvenne, in quanto era malato. Jakovlev dovette quindi prendere il suo
posto. Prima dell’incontro Gysi tenne una conferenza stampa
internazionale, che fu molto partecipata, e rilasciò un’intervista alla
televisione di stato sovietica.
Io accettai l’invito di Gorbačëv e partecipai volentieri al viaggio in
Crimea, dove avevo trascorso già diverse vacanze, durante le quali
avevo avuto diverse conversazioni interessanti in un’atmosfera
rilassata, che era poi il vero senso di questi inviti. Lì, nell’estate del
1987, avevo conosciuto Nursultan Nazarbaev, allora Primo ministro del
Kazakistan, e in seguito suo Presidente. Ci eravamo confrontati sulla
perestrojka, sul con itto nel Nagorno Karabakh e su altri temi
d’attualità. Anche allora, nella mia conversazione con Nazarbaev,
avevo espresso alcune riserve nei confronti della politica di Mosca.
Nazarbaev si era lamentato dell’abitudine di Gorbačëv di interrompere
le persone durante le discussioni, anche quando ci si trovava di fronte
alle telecamere, e del fatto che lo aveva criticato per le presunte scarse
prestazioni economiche del Kazakistan. Ma il carbone e il minerale
grezzo che lì venivano estratti, erano poi portati in Ucraina per la
lavorazione, ed era lì che si realizzava il pro tto. E lui, per queste
assurdità di economia politica, doveva sorbirsi le lagnanze di Mosca.
Niente affatto, mi aveva detto, con la perestrojka queste pratiche
erano rimaste inalterate.
Il 24 luglio, in viaggio per la Crimea, feci sosta a Mosca per vedere
Falin. Parlammo della situazione della DDR e del PDS e di come avrei
potuto sviluppare ulteriormente le relazioni tra i nostri partiti.
Suggerii, per esempio, che avremmo dovuto metterci d’accordo sul
signi cato e sul contenuto del socialismo democratico, poiché, a mio
parere, il XXVII Congresso aveva fatto in proposito ben poco.
Avremmo dovuto nalmente dipanare la nebbia e passare al piano
della concretezza. Falin mi scrutò attentamente e disse che in autunno
il PCUS avrebbe inviato a Mosca tutte le parti interessate a una
conferenza sul tema.
Otto giorni prima, il 16 luglio, Gorbačëv e Kohl si erano dati
appuntamento nella terra natia di Gorbačëv nel Caucaso
settentrionale. L’abbigliamento dei due capi di Stato esprimeva il
carattere dell’incontro: camicia e maglione per Gorbačëv e cardigan
per Kohl. I commentatori occidentali descrissero questo mese come
“la tarda estate della perestrojka”. Tutto era ormai andato in malora e
Gorbačëv sarebbe letteralmente sprofondato nell’acqua fredda del
ume Zelenčuk, se il Cancelliere non avesse teso una mano. Falin,
come sappiamo oggi dai relativi documenti, aveva cercato di
persuadere Gorbačëv a cogliere l’ultima possibilità per una correzione
di rotta sulla Germania e sull’espansione a Est della NATO. Il 13
luglio consegnò a Gorbačëv un “vigoroso memorandum” e, siccome
non ottenne alcuna reazione, alla ne lo chiamò al telefono. Gorbačëv
promise che l’avrebbe richiamato. La telefonata arrivò a mezzanotte
meno un quarto: “Che cosa volevi dirmi?”.
La trascrizione della chiamata è divisa in tre punti. Ecco i problemi
principali posti da Falin:
Primo: ci stanno accollando il peso dell’annessione. Questo avrà delle pessime
conseguenze. La fusione meccanica di due economie profondamente diverse darà senza
dubbio origine a con itti sociali e ad altri problemi di natura strutturale. Tutti i costi
morali e politici saranno attribuiti all’Unione Sovietica e alla sua creatura, la DDR. Il
trasferimento delle norme giuridiche da uno stato a un altro renderà illegale tutto ciò che
nel corso di quarant’anni è avvenuto nella Germania Est. Di conseguenza, diverse
centinaia di migliaia di persone rischiano di essere messe sotto processo.

Gorbačëv: “Ho capito. Vai avanti”.


Secondo: l’adesione alla NATO della Germania riuni cata. Il minimo su cui occorre
insistere è la non partecipazione della Germania a un’organizzazione militare, come per
esempio non vi prende parte la Francia. Il minimo del minimo è almeno il non
stazionamento di armi nucleari su tutto il territorio tedesco. Secondo i sondaggi, l’84
percento dei tedeschi è per la denuclearizzazione del paese.
Terzo: tutte le questioni relative alla nostra proprietà, in particolare nella DDR,
devono essere risolte prima della rma di qualsiasi accordo politico. Altrimenti, a
giudicare dall’esperienza della Cecoslovacchia e dell’Ungheria, ogni questione relativa
alle relazioni tra paesi rimarrà imbrigliata in dibattiti senza risultati. I nostri esperti
dovranno imparare a fare la contabilità non meno degli americani e, per esempio, quando
si solleveranno le questioni ecologiche, dovranno preparare un inventario speci co dei
danni ambientali causati dall’invasione dell’Unione Sovietica da parte di Hitler, nel caso
in cui i tedeschi sollevino questioni ecologiche.

Gorbačëv pose ancora qualche domanda e concluse la telefonata


commentando rassegnato: “Farò il possibile. Temo che ormai abbiamo
perso il treno”. Probabilmente era vero, ma era stato lui il capostazione
che aveva dato al treno il segnale di partenza.
Falin aveva ricevuto questa memorabile telefonata otto giorni prima
della mia visita, ma non mi disse nulla a riguardo. Se lo avesse fatto,
avrebbe riconosciuto la disfatta in quanto Gorbačëv aveva buttato tutto
al vento. Così, nel suo uf cio del Comitato centrale sulla Piazza Rossa
a Mosca, io e Falin parlammo dell’atteggiamento del PCUS, della
persecuzione politica e legale degli ex funzionari della SED e della
DDR e del problema della proprietà, in particolare della riforma
agraria che, se fosse andata come previsto, dopo la riuni cazione
sarebbe stata oggetto di revisione. Questo me lo confermò anche Falin
che mi ascoltò preoccupato. Bisognava evitare che venissero messi in
discussione degli accordi raggiunti nell’immediato dopoguerra.
All’interno della dirigenza del PDS, fu in particolare Bruno Mahlow
a sollevare ripetutamente la questione dell’Unione Sovietica e del
Partito comunista. Nella sua analisi non fece ricorso solo ai suoi anni
di esperienza e ai canali di informazione ancora funzionanti, ma anche
ai rapporti familiari. Sua moglie Ludmilla era infatti russa. Nell’agosto
1990 presentò una valutazione della situazione in cui rilevava una
profonda frattura tra dirigenza e popolo sovietici. La stella di Gorbačëv
brillava in Occidente, non da ultimo a causa della sua costante
presenza sui media internazionali, ma nel suo paese nessuno lo
prendeva più sul serio. Intanto, l’uomo della strada contava
amaramente ciò che aveva (o non aveva) nel portafoglio e cosa poteva
permettersi. La situazione sociale era diventata nel frattempo una
polveriera pronta a esplodere.
Il 14 settembre, Mahlow incontrò di nuovo Falin. Quest’ultimo
confermò la sua analisi. Il giorno precedente, dopo una discussione
durata undici ore, il Politburo era giunto alla conclusione che l’Unione
Sovietica si trovava in un periodo di transizione molto critico,
caratterizzato da una straordinaria destabilizzazione economica,
politica, ideologica e psicologica. I segretari di partito delle
repubbliche e delle aree dell’Unione che erano stati invitati alla
consultazione avevano avvertito molto chiaramente che, se il Partito
non fosse entrato immediatamente in azione e avesse garantito
stabilità politica, le forze antisocialiste avrebbero intrapreso un attacco
diretto e completo.
Lo stesso Gorbačëv riconobbe, facendo autocritica, che il Partito
aveva innescato la crisi, distruggendo il vecchio sistema e senza
riuscire a costruirne in tempo uno nuovo. Era stato un grosso errore
politico del Partito aver permesso che i mass media venissero trasferiti
nelle mani di forze a lui ostili. In un simile contesto non aveva più
senso parlare di pluralismo. La valutazione era corretta, ma anche
inconseguente.
Anche riguardo alla politica tedesca, Falin volle proteggere
Gorbačëv (anche se in seguito non sarebbe più stato così). Capiva le
preoccupazioni dei compagni tedeschi, dichiarò Falin, che in molti casi
erano condivise dai compagni sovietici, tuttavia chiedeva
comprensione. Non c’erano dubbi che a seguito della riuni cazione
l’Unione Sovietica avrebbe perso un importante partner economico.
“Avremmo dovuto chiedere 500 miliardi di marchi tedeschi, e invece
siamo niti in perdita” sbottò Falin. Come per tranquillizzarsi, riferì di
una conversazione che aveva avuto il giorno prima con un non meglio
precisato industriale tedesco occidentale, il quale aveva detto che la
DDR sarebbe stata un boccone indigesto per la Repubblica federale,
che avrebbe fatto perdere alla Germania almeno dai tre o quattro anni
nella concorrenza col Giappone.
Mahlow riferì preoccupato di questo colloquio. C’erano tutti i segni
di una tempesta imminente. Boris El’cin, che aveva lasciato il PCUS
già parecchio tempo prima, era ora a capo del Soviet supremo della
Russia, la quale era stata dichiarata indipendente il 12 giugno.
Rispettivamente a Mosca e a Leningrado, erano stati eletti sindaci
Gavriil Popov e Anatolij Sobčak, entrambi oppositori dichiarati di
Gorbačëv.
Con l’assenso del ministro della Difesa Dmitrij Jazov, contattai
Boris Snetkov, comandante in capo delle forze sovietiche di stanza in
occidente. Con questa visita volevo rendere evidente che il PDS non
rinnegava il proprio passato e non stava per recidere i legami
tradizionali, come molti altri avevano invece fatto. Inoltre, volevo
mostrare che le fatiche e i sacri ci profusi dall’Armata Rossa per
scon ggere la Germania nazista non sarebbero stati misconosciuti
attraverso il superamento della divisione della Germania, che fu
dopotutto il risultato di quella guerra. Il 3 ottobre 1990 non ci sarebbe
stata nessuna ora zero. Snetkov fu però riassegnato da Mosca e fu
sostituito dal generale Matvej Burlakov. Fino al ritiro delle truppe nel
maggio 1994, partecipai ripetutamente a diversi colloqui a Wilnsdorf,
presso la sede del quartier generale delle forze sovietiche di stanza
nella DDR. Il PDS – e stiamo ancora parlando di rapporti tra partiti –
accompagnò politicamente il ritiro dei nipoti dell’Armata Rossa dalla
Germania più di ogni altro partito.
Tra il 14 e il 15 novembre 1990 si tenne a Mosca una conferenza dei
partiti che erano succeduti ai partiti comunisti nei paesi dell’ex blocco
orientale. Ci riunimmo alla foresteria del Comitato centrale, in quello
che in seguito fu chiamato President hotel e che fu utilizzato da El’cin.
L’invito uf ciale a questa conferenza, l’ultima del suo genere, partì dal
PCUS e dal PDS. A eccezione della Romania, che inviò solo un
osservatore, si presentarono: il Partito socialista bulgaro (ex Partito
comunista bulgaro), il Partito operaio socialista ungherese, la
Socialdemocrazia della Repubblica di Polonia (ex Partito operaio
uni cato polacco) e il Partito comunista cecoslovacco.
Il PDS era rappresentato da Gysi, Willerding e me, mentre Mahlow
ed Ettinger parteciparono in qualità di consulenti. Il PCUS inviò il
vicesegretario Vladimir Ivaško e i segretari del Comitato centrale
Janaev, Kupcov e Falin. Dalla Bulgaria vennero Kjučukov e Marinov,
dall’Ungheria il Presidente del Partito Thürmer e il suo vice, Koyi, così
come Nagmikai e Segy. I polacchi furono rappresentati da
Kwaśniewski, che in seguito divenne Presidente della Polonia, nonché
da Miller, Iwiński e Oleksy. Dalla Cecoslovacchia non ancora separata
arrivarono Kanis e Waiss, presidenti del Partito comunista della
Cecoslovacchia e il compagno Ledl del Partito della sinistra
democratica della Slovacchia. Dalla Polonia giunsero anche gli
osservatori di tre diverse organizzazioni, compresa un’associazione
femminile.
La conferenza di due giorni fu aperta da Ivaško, che portò i saluti di
Gorbačëv. Attorno al tavolo si radunarono i giovani quarantenni,
mentre non furono presenti i politici della mia generazione, quella
degli anni Settanta e Ottanta. Rimasi impressionato dalla sincerità e
dalla dedizione di questi nuovi quadri di partito, da come seppero
assumersi le proprie responsabilità e guardare in modo critico e
realistico sia al passato sia al presente. Il punto non era più la
trasformazione del socialismo nei rispettivi paesi, questo, anziché il
Partito, lo aveva deciso la storia e ora bisognava parlare delle
prospettive per il futuro.
L’agenzia di stampa TASS riferì solo marginalmente della
conferenza. Le trentanove pagine di appunti presi da Mahlow si
limitavano a riassumere la discussione. I relatori fornirono un’analisi
della situazione nei vari paesi e partiti, e illustrarono i rispettivi ruoli e
i compiti all’interno della società. Gli interventi rilevarono anche le
reciproche manchevolezze: nell’ultimo anno eravamo stati tutti così
impegnati con le questioni interne, che eravamo riusciti a malapena a
seguire ciò che stava succedendo ai nostri vicini. Il fatto che ci fossimo
concentrati sulle questioni nazionali aveva indotto molti di noi a
perdere di vista il quadro più ampio. Inoltre, il PDS dovette
riconoscere che l’apertura dei con ni aveva fatto sì che le attenzioni
del Partito si indirizzassero maggiormente verso Occidente. La lotta
politica contro la “fortezza Europa” non aveva impedito al Partito di
stabilire una base all’interno di questa fortezza. Forse, questa era la
mia speranza, la conferenza accrebbe la consapevolezza di questo
problema.
Kwaśniewski disse ad alta voce ciò che tutti sapevano: “Il tempo del
socialismo reale in Polonia e negli altri paesi europei è nito. E non ha
possibilità di rinascere”. Ci furono quindi vari suggerimenti e proposte
su come unire le forze di sinistra. Tuttavia, nessuna strategia di lotta
politica era all’orizzonte. Questo non deve sorprendere: quando si
lotta per la sopravvivenza, si pensa prima di tutto al presente e il
domani appare lontano.
L’agenzia TASS riassunse così quella interessante discussione:
I partecipanti alla conferenza hanno accolto con favore tutti i cambiamenti nei
rispettivi paesi in direzione di un allargamento della democrazia. Allo stesso tempo hanno
riconosciuto che gli sviluppi degli ultimi mesi sono caratterizzati da uno spirito di
confronto che ha coinvolto un certo numero di paesi. Hanno espresso solidarietà ai partiti
di sinistra che sono oggetto di repressione, chiedendo la ne delle persecuzioni politiche.
La democrazia deve essere una democrazia per tutti: per la maggioranza e per la
minoranza, per le forze dominanti e per l’opposizione. La cultura democratica, la
tolleranza e il rispetto reciproco sono vitali per garantire la pace civile, per consolidare la
società e per raggiungere obiettivi costruttivi.
C’è stato inoltre uno scambio di opinioni sulla fondazione di una nuova Europa, una
grande casa paneuropea, e sulla conversione delle strutture del blocco orientale e
sull’in usso che questo processo avrà sui rapporti tra i singoli stati. I partecipanti alla
conferenza considerano le azioni comuni, il dialogo e la comprensione reciproca di tutte le
forze europee come aspetti necessari alla convivenza paci ca, democratica e solidale tra i
popoli e gli stati del continente. E si sono dichiarati disposti a collaborare, nei rispettivi
paesi, in Europa e in altre parti del mondo, con i partiti comunisti, socialisti e
socialdemocratici, con l’Internazionale socialista e con tutti i movimenti sociali e
democratici.
Tutti hanno concordato sull’utilità della conferenza, che ha permesso di determinare
con precisione le aree di interesse comuni e di de nire le forme e i metodi concreti di
cooperazione tra i partiti all’interno del nuovo contesto. In ne, i partiti presenti
all’incontro hanno mostrato interesse nel mantenimento di contatti sistematici, nello
scambio di opinioni e nel lavoro comune di ricerca e analisi teorica.

Ma tutti questi propositi restarono per il momento sulla carta.


Tuttavia, ciò non signi ca che l’incontro fosse stato inutile. Durante la
conferenza fu ripetutamente annunciato un incontro con Gorbačëv,
cosa che generò un certo clima di attesa. Infatti, malgrado il
malcontento nei confronti delle sue politiche, Gorbačëv godeva ancora
di grande stima da parte di quella cerchia. Per due volte il suo
intervento fu annunciato e rimandato. Alla ne, fu comunicato che i
delegati della conferenza sarebbero stati ricevuti al Cremlino, in
quanto le circostanze non permettevano al Presidente di lasciare il
proprio uf cio.
Stretti in un paio di automobili ci dirigemmo verso la Piazza Rossa.
Al Cremlino fummo condotti in una stanza dalla forma allungata e
non essendoci posti assegnati ognuno prese la prima sedia sottomano.
Non appena fummo tutti seduti, Gorbačëv apparve in fondo alla
stanza. Dava l’impressione di essere nervoso, impreparato e confuso, e
sembrava che Gysi e io fossimo gli unici che avesse mai visto prima. Si
alzò quindi dal suo posto e si avvicinò per scambiare con noi qualche
parola amichevole. In quell’occasione, si astenne dall’accogliere
personalmente gli ospiti stringendo la mano.
Forse non gli sto rendendo giustizia, ma non avevo certo
l’impressione che fosse particolarmente interessato a chi fossero e
cosa volessero questi capi di partito sconosciuti. La sua prima
domanda: “Allora, come sta andando la conferenza?” era puramente
retorica. Senza pausa rispose quindi lui stesso: “Lo scambio di
opinioni non è mai una cosa vana. La trasmissione delle esperienze è
importante per la civiltà europea e per il progresso di tutta l’umanità”.
Poi, guardando dalla nostra parte, aggiunse: “L’ho detto anche a Kohl:
l’esperienza della DDR non è stata vana”.
Dopodiché, passò al suo argomento preferito: la situazione in
Unione Sovietica. L’umanità si è posta la domanda: socialismo o no?
Secondo Gorbačëv, era chiaro che il popolo sovietico non aveva
intenzione di allontanarsi dal socialismo, come aveva dimostrato la
partecipazione alla manifestazione per il 73° anniversario della
Rivoluzione d’ottobre. Certo, c’erano dei contrasti ma si erano
concentrati su tre punti principali. In primo luogo, la transizione verso
l’economia di mercato, in cui bisogna risolvere la questione della
proprietà nell’interesse della popolazione. In secondo luogo, la
questione nazionale, che il PCUS aveva sempre sottovalutato. Il
popolo era favorevole al mantenimento dell’Unione delle repubbliche
socialiste, ma era necessario un trattato che la ride nisse. In terzo
luogo, la questione della stabilità politica. La situazione era
estremamente tesa. C’erano chiari segnali di anarchia e i gruppi
nazionalisti e fascisti stavano crescendo. Non bisognava arrendersi ma
nemmeno si dovevano intraprendere azioni sbagliate. Come sempre,
Gorbačëv si rifugiò in una massima salomonica: “Dobbiamo ri ettere
bene su come procedere”.
A Gysi fu dato il compito di ringraziare Gorbačëv per le sue sagge
parole. Assicurò la nostra solidarietà all’Unione Sovietica nella sua
lotta per la sopravvivenza, ma chiedergli di ricambiare sarebbe stato
irrealistico.
Ci stringemmo di nuovo la mano e tornammo a casa con la
sensazione che questa conferenza sarebbe stata con ogni probabilità
l’ultima del suo genere nella storia. E in effetti il PCUS, a causa della
sua dissoluzione, non ebbe nemmeno la forza di tirare le somme della
conferenza e nel periodo seguente perse sempre più i contatti con i
partiti esteri.
Tra coloro che allora si incontrarono nella capitale sovietica, solo
pochi hanno mantenuto negli anni a seguire posizioni politiche di
rilievo. Kupcov – su di lui tornerò in seguito – ha preparato la
rifondazione del Partito comunista della Federazione russa (KPFR).
Kwaśniewski è diventato Presidente della Polonia, e Miller, il
successore di Oleksy, è diventato Presidente del partito Alleanza della
sinistra democratica. Gyula Thürmer è Presidente del partito in
Ungheria e Gysi, come Presidente del Partito della sinistra europea, è
uno dei più importanti politici di sinistra dell’Europa occidentale.
Alla ne del 1990, ci trovavamo tra le rovine del socialismo reale e
volevamo guardare avanti. Gorbačëv, il Segretario generale, non aveva
dato importanza alla conferenza, ormai era solo un uomo di stato. Per
lui noi non eravamo importanti, lo erano soltanto Bush, Kohl,
Mitterrand e Thatcher. Anche questo fu un motivo di distanza. Per noi
questo incontro ebbe invece un certo peso. Si trattò di un momento
importante nel processo di rinnovamento di tutti i nostri partiti, in cui
furono determinati il loro ruolo e i loro compiti nella società. Inoltre,
anche tra le opinioni di Gorbačëv da un lato, e quelle di Ivaško, Falin e
Janaev dall’altro, c’erano delle differenze signi cative. Quest’ultimo
volle discutere dei cambiamenti nei nostri paesi e del futuro delle
forze di sinistra in Europa centrale e orientale, nonché del ruolo di
una Germania riuni cata in Europa e della futura cooperazione tra
partiti. Ed essi erano consapevoli – forse più di Gorbačëv – che gli
interessi dell’Unione Sovietica sarebbero rimasti legati a quelli degli
ex paesi del blocco orientale.
A me toccò il compito di introdurre il tema della riuni cazione
tedesca. Io stesso avevo vissuto gli eventi del 3 ottobre 1990 da Tokyo,
guardando i fuochi d’arti cio a Berlino attraverso un monitor
televisivo. La tv giapponese mi aveva chiesto di commentare l’evento.
Nel frattempo, avevo comunque avuto modo di osservare la situazione
più da vicino. Dissi allora che si sarebbe sviluppata una Germania
forte, che avrebbe sempre più mirato a rivendicazioni a livello
internazionale, aspirando a un ruolo guida non solo in Europa ma
anche nel mondo. Fu una previsione che, devo dire, si è poi realizzata.
Spiegai che l’annessione della DDR ai sensi dell’articolo 23 della
Costituzione aveva impedito un processo di uni cazione interna. Di
conseguenza, molti avevano visto l’adesione come una forma di
colonizzazione, poiché tutte le leggi e i regolamenti della Repubblica
federale avevano semplicemente preso il posto delle leggi della DDR.
Il Trattato due più quattro non aveva quasi per nulla impedito questo
processo, e anche l’idea che la riuni cazione tedesca sarebbe dovuta
avvenire nel contesto dell’integrazione europea rimase sulla carta e la
riuni cazione era stata realizzata in maniera indipendente e distaccata
rispetto al processo di integrazione europea.
Criticai anche la SPD per non aver portato nessun contributo
sostanziale al processo e per essersi limitata a seguire la linea della
CDU. Nemmeno i suggerimenti provenienti dalle proprie le – come
quelli avanzati dal socialdemocratico Romberg, che era ministro delle
Finanze nel governo di Lothar de Maizière – erano stati accolti dalla
dirigenza del Partito a Bonn.
Non risparmiai inoltre le critiche a Mosca per il ruolo avuto
nell’allargamento della NATO. Il consenso dell’Unione Sovietica a
fare rientrare la Germania Est nei territori della NATO mi sembrava
funesto e l’idea che la presenza della Repubblica federale nella NATO
ne avrebbe in qualche modo limitato l’operato mi appariva ingenua e
miope. La Repubblica federale, ormai molto più grande, avrebbe
avuto oggettivamente un peso diverso all’interno della NATO. In base
alla popolazione e all’estensione territoriale la Germania sarebbe
diventata, dopo gli Stati Uniti, il membro più forte dell’alleanza e il
più importante del continente europeo. Inoltre, c’era il timore che
l’allargamento a Est della NATO non si sarebbe necessariamente
fermato alla linea Oder-Neiße. Anche in questo caso, come è stato
mostrato negli anni Novanta, i miei sospetti non erano fuori dalla
realtà.
Dopo di me parlò Józef Oleksy, che iniziò il suo intervento
prendendo in considerazione le differenze tra PDS e SPD dal punto di
vista polacco. Dopodiché, anche lui criticò il fatto che la riuni cazione
tedesca fosse avvenuta in maniera indipendente rispetto al processo di
integrazione europea, cosa che aveva approfondito la distanza tra
Europa orientale e occidentale. L’espansione verso Est della NATO,
continuò, avrebbe portato a un cambiamento complessivo nell’assetto
della sicurezza nel continente, accompagnato in Europa orientale da
una vera e propria corsa per unirsi alla NATO nella speranza di
ricevere gli aiuti occidentali. Anche la Polonia si era attivata a questo
riguardo. Secondo Oleksy, era necessaria una nuova cooperazione
regionale tra i paesi dell’Europa orientale. Condivideva inoltre il mio
punto di vista secondo cui la logica dell’unità tedesca avrebbe portato
inizialmente a un dominio della Germania in Europa, prima in campo
economico, poi politico e in ne anche militare. (Anche per questo
rimasi molto sorpreso quando più tardi il governo Oleksy non fece
nulla per contrastare tali sviluppi, e forzò invece l’ingresso della
Polonia nella NATO.) Della “cooperazione regionale”, che avrebbe
dovuto svilupparsi tra Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, alla ne
non rimase più nulla. Ciò che invece non cambiò era il contrasto tra le
posizioni sull’allargamento a Est della NATO, con la SPD e i
socialdemocratici polacchi da un lato e il PDS dall’altro. Loro erano a
favore e noi abbiamo continuato a essere contrari.
Dopo Oleksy fu il turno di Falin. Innanzitutto, espresse la sua
profonda preoccupazione per le spese militari, che continuavano a
essere molto alte. Siccome in nessun altro continente c’erano così tanti
soldati come in Europa, presentò come un successo dei negoziati due
più quattro la riduzione delle forze tedesche a un contingente di
370.000 uomini. Tuttavia, gli Stati Uniti erano ancora presenti nel
continente con un arsenale bellico in grado di cancellare più volte
l’intera umanità dalla faccia della terra. Secondo Falin, non c’era una
reale apertura da parte degli Stati Uniti per un vero disarmo. C’era
quindi il pericolo concreto che i paesi dell’Europa orientale venissero
degradati a oggetti, anziché diventare soggetti della nuova politica.
Era quindi assolutamente necessario proseguire, o rispettivamente
iniziare, il disarmo. I sovietici si erano impegnati molto nelle
discussioni per il Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa
(CFE) e per le Misure di rafforzamento della ducia e della sicurezza
(CSBM) che dal marzo 1989 si tenevano a Vienna. In questo contesto,
divenne evidente che l’Unione Sovietica era rimasta senza alleati.
Anche se Falin mostrò maggiore realismo rispetto a Gorbačëv, si
aggrappò comunque all’illusione che l’Europa orientale e occidentale
avrebbero presto dialogato da pari nell’ambito della nuova casa
europea. Falin colse le differenze oggettive tra gli interessi di Francia,
Gran Bretagna e Italia, tuttavia, sembrava che sottovalutasse
l’in uenza degli Stati Uniti e della Repubblica federale rispetto agli
altri paesi. Su un punto però aveva ragione: parlò del ruolo di
tesoriere dell’UE della Repubblica federale e del fatto che questo
avrebbe creato dei problemi, come si è poi chiaramente mostrato nella
disputa tra Parigi e Bonn su chi avrebbe dovuto occupare il posto di
comando nella Banca centrale europea. Non sorprende che alla ne
abbia vinto la proposta di Bonn. (Mentre studiavo i documenti per
questo libro, sono rimasto sorpreso dal fatto che, a poca distanza
temporale dal nostro incontro tra il 19 e il 21 novembre 1990, fosse
stata organizzata nella capitale francese una “Helsinki II”.)
I trentaquattro capi di governo della Conferenza sulla sicurezza e la
cooperazione in Europa (CSCE) – la DDR fu esclusa – rmarono
allora la “Carta di Parigi per una nuova Europa”. Elaborato dagli stati
membri della NATO e del Patto di Varsavia, il “Trattato sulle forze
armate convenzionali in Europa” conteneva le misure per
l’incremento della ducia e della sicurezza, intese a proseguire e
allargare gli accordi CSBM di Stoccolma. Ventidue stati rmarono
inoltre una “Dichiarazione congiunta” sul miglioramento delle
relazioni nel quadro di una nuova era della politica europea. Al
summit parteciparono circa mille diplomatici, mentre settemila
giornalisti documentarono quell’evento che fu descritto come
“storico”. A posteriori, non sono l’unico oggi ad avere qualche dubbio
al riguardo. Ma all’epoca non avevamo idea di cosa sarebbe successo
ed è sorprendente che Falin non abbia detto una sola parola riguardo
a quell’incontro che si sarebbe tenuto a breve. Fu lì che Gorbačëv
dischiarò: “Uno dei cambiamenti mondialmente più importanti –
questo è un fatto noto – è la storica svolta avvenuta in URSS”. La
tragica ambiguità di questa affermazione si sarebbe presto resa
evidente.
Durante il nostro incontro a Mosca, Falin si espresse energicamente
contro le ingiustizie – tra cui la persecuzione politica e legale degli ex
cittadini della DDR – che erano il risultato della riuni cazione.
Parlando più approfonditamente del collasso del blocco orientale,
disse che quella inferta al socialismo era stata una scon tta
autoin itta. Il socialismo reale non era riuscito a mettere in pratica la
teoria e a realizzare gli ideali socialisti fondamentali, in quanto il
potere aveva alienato le persone. Il fallimento di un modello e di un
regime socialisti non dovrebbe però essere paragonato al fallimento
dell’idea socialista. Questo, oltre che stupido, equivarrebbe a
screditare tutte le forze di sinistra. L’esistenza del socialismo reale
aveva costretto il capitalismo a adattarsi e reinventarsi costantemente.
Il fatto che ci sia riuscito così bene ha mostrato una certa superiorità
del capitalismo, ma questo non signi ca che avesse superato le proprie
contraddizioni e ora cercava di combattere e annientare l’idea stessa
del socialismo. In Germania si era arrivati ormai già al punto che
persino la SPD – in chiara crisi d’identità – considerava il PDS come
un avversario politico. Il PDS doveva quindi, secondo Falin, diventare
un partito socialista di tutta la Germania e mettersi in dialogo con le
altre forze di sinistra.
A quel punto della discussione feci notare che tra gli alti funzionari
dei paesi socialisti la questione della perestrojka non era mai stata
veramente discussa. Questo era uno dei motivi per cui ci trovammo
quel giorno tutti riuniti. Tuttavia, di questa mancanza non erano
responsabili solo i dirigenti dei cosiddetti partiti fratelli. Gorbačëv non
aveva mai sollevato il problema. D’altronde però, nemmeno poteva
giusti carsi adducendo la volontà di non interferire negli affari interni
degli altri partiti. Infatti, anche dopo il 1985, nessun dialogo aveva
sostituito il monologo. Un dialogo aperto era al di là delle capacità di
Mosca, anche sotto Gorbačëv. Con ogni probabilità, un autentico
dibattito avrebbe respinto il predominio del Partito comunista e il
ruolo guida dell’Unione Sovietica. E Mosca non era né pronta né
disposta a una simile conclusione.
Janaev parlò degli attacchi alle forze di sinistra in Unione Sovietica.
La terapia d’urto voluta dall’Occidente nella transizione verso
l’economia di mercato stava avendo conseguenze imprevedibili.
Janaev temeva un’imminente esplosione sociale. Mise quindi in
guardia di fronte a tali eruzioni negli ex paesi socialisti, i quali,
secondo Janaev, erano stati spinti dall’Occidente non solo alla
separazione ma anche allo scontro con l’Unione Sovietica. Inoltre, la
Repubblica federale stava compiendo sforzi equivalenti nel campo
dell’espansione economica.
Certo, ma dopotutto dal capitale non ci si poteva aspettare
nient’altro che questo, vorrei dirgli ancora oggi. Il suo scopo è
precisamente di espandersi, aprire nuovi mercati e trovare nuove fonti
di materie prime. Mi ha sempre stupito l’ingenuità con cui i membri
della vecchia dirigenza del PCUS guardavano al mondo, non si poteva
evitare di avere l’impressione che non avessero mai avuto tra le mani
un libro di Marx o di Lenin, per non parlare della letteratura
economica occidentale.
La sinistra, proseguì Janaev, emancipata dalle deformazioni del
passato, potrebbe svolgere ora un ruolo importante nell’impedire
simili tendenze. È quindi necessario lottare energicamente per i diritti
umani, contro lo sciovinismo, per la giustizia sociale, per
l’indipendenza nazionale, per la sicurezza e a favore di eque relazioni
tra gli stati…
Rimango quindi dell’avviso che l’incontro di novembre a Mosca sia
stato utile e importante. Facemmo il punto della situazione, ne
riconoscemmo la gravità e discutemmo di come affrontarla. Per
quanto riguarda l’Unione Sovietica e il futuro dei suoi ex alleati, dal
dibattito emersero tre possibili scenari. Il primo vedeva un potere
autoritario, una “mano forte”, prendere il timone. Era uno scenario
plausibile. Il secondo, era un sistema parlamentare borghese
pluripartitico sul modello latino-americano, in cui si alternano cioè
democrazia e dittatura. Il terzo – più desiderabile ma dif cilmente
immaginabile, in quanto richiedeva condizioni estremamente
favorevoli – era uno sviluppo democratico basato sul consenso di tutta
la nazione.
Durante gli anni Novanta si rese evidente che questi scenari non
erano poi così inverosimili. In Polonia e Bulgaria si veri carono
diversi elementi pertinenti alle varianti che avevamo prospettato. In
Russia questo fu molto chiaro. El’cin governava con il “pugno di
ferro”, la democrazia esisteva ovviamente solo sulla carta, in milioni
vivevano al di sotto della soglia di povertà, le forze di sinistra, riunite
attorno al Partito comunista della Federazione russa (KPFR), si
opposero all’autocrazia di El’cin nella Duma e nelle piazze. L’arbitrio
e la miseria regnavano ovunque nel paese…
Avrebbe avuto senso un altro incontro come quello del novembre
1990? Penso che sarebbe stato utile se la cooperazione tra i partiti di
sinistra in Europa occidentale avesse incoraggiato un processo di
collaborazione anche in Europa orientale, che avrebbe potuto in ne
riunire i partiti di sinistra dell’Est e dell’Ovest…
Nel gennaio 1991 fui di nuovo in Unione Sovietica, questa volta in
veste di portavoce per la politica estera dei deputati del PDS al
Bundestag. Mi accompagnò Bruno Mahlow. L’argomento era il
Trattato due più quattro, di cui era prevista la rati ca da parte del
Soviet supremo. Le discussioni e le consultazioni che si tennero
durante l’anno precedente furono portate avanti senza la necessaria
apertura; inoltre, i sovietici preferivano negoziare esclusivamente a
livello di governo e questo aveva escluso il PDS. Certo, il viceministro
degli esteri della DDR Hermann Ott e l’ambasciatore Peter Krabatsch
furono interpellati un paio di volte e avevano collaborato in posizione
subordinata alla stesura del trattato sotto il governo de Maizière.
Tuttavia, no al 3 ottobre 1990, furono messi in ombra dai consulenti
della Germania Ovest e dopo furono scaricati. Loro e tutti gli altri
diplomatici capaci della DDR presenti nella lista che il politico della
SPD Egon Bahr consegnò al ministro degli Esteri Genscher furono
semplicemente messi da parte. Bahr era dell’opinione che queste
persone dovessero essere trasferite al ministero degli Esteri, ma anche
il ministero non voleva rinunciare ai suoi paraocchi ideologici.
L’11 gennaio fui ricevuto da Janaev, membro del Politburo e
vicepresidente dell’URSS, e da Falin, segretario del Comitato centrale.
Durante le nostre conversazioni sostenni con forza che gli accordi
(incluso il Trattato di uni cazione) non fornivano alcuna protezione a
coloro che avevano servito fedelmente la DDR. In un certo senso era
come dare campo libero a ogni possibile ritorsione. Sarebbero stati
giudicati non secondo le leggi della DDR ma in base ai nuovi standard
morali e al sistema giudiziario della Repubblica federale, applicando
retroattivamente le sue leggi agli ex cittadini della DDR. Questo
andava contro ogni diritto internazionale. E il riferimento al tribunale
per i crimini di guerra di Norimberga era ridicolo e non avrebbe
sopportato alcun esame serio perché, in quanto stato sovrano, la DDR
non aveva mai violato il diritto internazionale. In realtà, faceva parte
di organizzazioni internazionali, tra cui l’ONU (dove, insieme alla
RFT, partecipava temporaneamente al Consiglio di sicurezza), aveva
stabilito relazioni diplomatiche con più di centotrenta paesi e con i
capi di Stato dei principali paesi del mondo, tra cui la Repubblica
federale, che aveva organizzato diverse visite uf ciali dei politici della
DDR. Lo stigma che improvvisamente le fu attribuito era a quel
tempo ovviamente inesistente. Se i cittadini della DDR erano stati
colpevoli – e potevano esserlo solo violando le leggi vigenti in quel
momento – allora avrebbero dovuto essere ritenuti legalmente
responsabili, ma anche giudicati secondo le leggi che avrebbero
trasgredito e non secondo altre leggi.
In linea di principio, Janaev fu d’accordo con me. Le commissioni
competenti del Soviet supremo che stavano studiando gli accordi
erano impegnate in discussioni simili. L’atteggiamento della società
sovietica e degli organi parlamentari non era chiaro. A causa delle
pratiche che stavano emergendo in Germania, e sulle quali avevo
posto l’accento, crebbero le voci che chiedevano una riscrittura
retrospettiva dell’accordo. Alcuni parlavano già di tradimento, altri
erano più cauti ma chiedevano garanzie per compagni e amici con i
quali avevano lavorato per decenni. Era tutto molto complicato, disse
Janaev, ma era grato, aggiunse, per le informazioni fornite dai
compagni tedeschi e le avrebbe sottoposte a voce al Presidente, il
quale avrebbe visto quello che avrebbe potuto fare.
Nel corso della conversazione Janaev mi informò sullo stato della
società sovietica, naturalmente con particolare attenzione al capo
dello stato. Il IV Congresso dei deputati del popolo aveva sollevato la
questione se fosse sensato che il Presidente dell’Unione Sovietica
fosse anche Segretario generale del PCUS. Gorbačëv non poteva essere
persuaso a rinunciare a parte del suo potere e anticipò l’obiezione del
troppo lavoro incaricando dei supplenti ai vertici sia del Partito sia
dello Stato. Tuttavia, l’elezione di un nuovo vicepresidente rese
evidente che le preferenze di Gorbačëv non per forza coincidevano con
quelle dei deputati. Janaev non riuscì a essere eletto al primo turno.
La causa della s ducia nei suoi confronti non era rivolta alla sua
persona quanto al fatto che Janaev facesse parte del Politburo. I nuovi
movimenti e le nuove correnti all’interno del Congresso non
accettavano il fatto che in questo modo il Partito mantenesse de facto
il suo ruolo guida, anche se l’idea di “ruolo guida” del Partito era già
stata rimossa dalla Costituzione del febbraio 1990. Gorbačëv si
impegnò quindi a favore dell’elezione di Janaev e alla ne riuscì a
persuadere la maggioranza dei deputati a votare per lui.
Mi chiedevo se anche questa mossa di Gorbačëv fosse indirizzata al
bene del paese o piuttosto al suo tornaconto personale. Ševardnadze
fu in questo senso più coerente e, di fronte al chiaro fallimento della
perestrojka e della sua politica estera, lasciò l’incarico. Janaev mi
spiegò che questa decisione fu una sorpresa sia per Gorbačëv sia per il
Politburo. Ševardnadze aveva infatti assicurato che il suo sostegno al
Presidente era rimasto lo stesso e le sue dimissioni furono viste quindi
come una pugnalata alle spalle.
Adesso era necessario chiarire agli altri paesi – Janaev parlava ora
in veste uf ciale – che non ci sarebbero stati cambiamenti nella
politica estera dell’Unione Sovietica e che questa sarebbe rimasta
coerente con la dottrina del “nuovo pensiero”.
Presi atto della comunicazione e tenni per me le mie considerazioni.
Oggi continuo a considerare quelle dimissioni un gesto ambiguo.
Ovviamente è giusto che di fronte alle responsabilità individuali ci
siano anche delle conseguenze. Chi fa degli errori deve naturalmente
rispondere delle proprie azioni. Se però un simile passo risponde a un
calcolo tattico o a vigliaccheria, il fatto di tirarsi indietro di fronte alle
proprie responsabilità senza riconoscere i propri errori signi ca che si
lascia ad altri il compito di mettere a posto le cose, mentre il vero
colpevole tiene un piede sulla porta, pronto a cogliere altre
opportunità. In questo caso le dimissioni sono un gesto discutibile e
non solo dal punto di vista morale. E questo è ancora più chiaro
quando ci si mette a civettare con le proprie dimissioni o quanto
queste sono usate come mezzo per esercitare pressioni al ne di
ottenere determinate maggioranze.
Dopo l’incontro, andai da Falin per incontrarlo come amico e
con dente. La conversazione fu molto più aperta, critica e costruttiva
rispetto alla precedente. Tuttavia, entrambi non ci eravamo ancora
liberati di alcune illusioni. Falin espresse soddisfazione per il risultato
elettorale del 2 dicembre, che aveva garantito al PDS di essere
rappresentato al Bundestag. Kohl e i suoi avevano dovuto rendersi
conto che le cose in Germania non sarebbero procedute secondo
l’idea che si erano fatti e senza attriti di alcun genere. Falin voleva
sapere i dettagli e mi chiese una valutazione della situazione politica
ed economica del paese. Questa potevo dargliela. La mia impressione
era che con l’annessione Bonn si fosse spinta troppo oltre. Inoltre, non
aveva nessun progetto per l’integrazione dei nuovi cittadini
nell’economia e nella società della Germania occidentale. In ossequio
alla diffusa alterigia anticomunista, si doveva eliminare ogni cosa che
potesse anche solo ricordare la DDR. La funzione disciplinare di
questo modo di procedere non era rivolta solo ai cittadini dell’Est ma
anche a quelli dell’Ovest: che non si provi neppure a pensare a
un’alternativa sociale o a mettere in discussione il sistema vigente o
saranno guai! (A Berlino, Heinrich Lummer della CDU, lo esplicitò
dicendo che esisteva un solo delitto ed era la stessa esistenza della
DDR!) Per quanto riguardava l’economia, sarebbe stata guidata dal
mercato, le cui miracolose virtù di autoguarigione erano a tutti ben
note.
Falin era d’accordo con la mia valutazione e anche lui non vedeva
nessuna strategia nella classe dominante tedesca, fatta eccezione per
la ricerca del massimo pro tto. Kohl aveva sviluppato solamente una
strategia per la riuni cazione della Germania, che fu realizzata con
spietata coerenza nell’arco di un anno, cosa che Falin notò non senza
una certa ammirazione. Il modo in cui il Cancelliere tedesco aveva
colto questa opportunità storica unica, sfruttando senza ritegno la
debolezza dell’Unione Sovietica e lasciandosi alle spalle gli altri leader
delle potenze occidentali, gli andava sicuramente riconosciuto,
malgrado tutte le distanze. Falin era in grado di vedere il lato sportivo
della cosa, l’aspetto per così dire agonistico. Comunque, non risparmiò
nemmeno le critiche.
Sull’imminente rati ca del Trattato due più quattro, e in risposta
alla mia richiesta di un emendamento, tramite il Soviet supremo, in
difesa degli interessi degli ex cittadini della DDR, Falin diede una
risposta diplomatica. Cito dalla trascrizione di Mahlow:
Nel PDS e tra la popolazione è largamente diffusa l’impressione che l’Unione Sovietica
abbia tradito la DDR. Sarebbe importante che una buona volta si chiarisse chi ha tradito
chi. Dal 1970 Honecker ha giocato più di una partita: contro il trattato di Mosca, contro
l’accordo quadripartito su Berlino e Brandt è stato rovesciato, tra l’altro con l’aiuto di
Herbert Wehner. Honecker ha anche cospirato con Ceaușescu… Nella questione tedesca ci
sono stati insomma molti alti e bassi.
All’inizio degli anni Settanta l’Unione Sovietica era riuscita di riprendere l’iniziativa.
Ma a metà degli anni Settanta già non era più così. Per parecchio tempo la DDR era
considerata persa a causa dell’arroganza di Honecker, di Günter Mittag e di alcuni altri
compagni.
Dopo il 1985, sono cominciate le prime azioni audaci e lungimiranti del compagno
Gorbačëv. Se Honecker le avesse sostenute, questo avrebbe potuto dargli un po’ di slancio,
ma purtroppo tutte le iniziative di Gorbačëv sono state respinte con un atteggiamento del
tutto distruttivo. Gli errori grossolani di Brežnev e di altri dalla parte dell’URSS, così
come la rigidità della vecchia dirigenza della SED, hanno indotto uno sviluppo che
ammetteva solo due alternative: usare la forza o lasciar perdere. Per non parlare poi
dell’apertura non concordata del con ne il 9 novembre da parte della DDR.

Falin era consapevole che tali argomenti – quando presentati dalla


parte sovietica – potevano essere intesi come un tentativo di
giusti carsi. Continuò quindi dicendo:
Sarebbe meglio, e bisognerebbe pensarci, se il PDS facesse del suo II Congresso una
specie di resa dei conti politica, come fu per il PCUS il suo XX Congresso. Questo
permetterebbe di chiarire ancora una volta che il PDS non è semplicemente la
continuazione della vecchia SED.
Sarebbe utile approfondire i risultati della Germania dell’Est, come la riforma della
terra e dell’istruzione e altri progressi democratici, nel contesto di un’indagine storica
completa e obiettiva. Erano molto più progrediti rispetto alle zone occidentali. Questo
potrebbe servire allo sviluppo di una nuova costituzione per la Repubblica federale
tedesca. Si potrebbero trovare molte informazioni pertinenti negli archivi delle sedute del
Consiglio parlamentare del 1948-49.

Questo è quanto disse Falin l’11 gennaio 1991. Nel corso del nostro
successivo scambio di idee non trovammo risposta alle domande su
cosa siano esattamente il socialismo e la dottrina socialista, su cosa si
debba intendere per giustizia sociale e quale sia il rapporto tra
democrazia e socialismo. Ancora una volta fu chiaro che sei anni di
perestrojka, più che dare delle risposte, avevano posto molte domante.
La conversazione si concluse con la richiesta di Falin di contribuire
alla stesura della dichiarazione del Soviet supremo sul Trattato due più
quattro, cosa che facemmo. Secondo Falin la questione degli espropri
da parte dell’amministrazione militare sovietica tra il 1945 e il 1949 e
la garanzia che i rapporti di proprietà risultanti sarebbero stati
mantenuti erano suf cientemente disciplinate dal diritto
internazionale nella lettera tra i due ministri degli Esteri tedeschi
allegata al trattato. Rimaneva però la questione dei procedimenti
legali contro gli ex dirigenti della DDR. Proponemmo una
formulazione che si sarebbe poi ri essa nella dichiarazione uf ciale
dell’Unione Sovietica alla rati ca del Trattato due più quattro nel
marzo 1991: “Il Soviet supremo dell’URSS si aspetta che i diritti
umani dei cittadini della DDR vengano rispettati e che nessuno sarà
perseguitato per le proprie convinzioni politiche”.
Feci notare con insistenza questa dichiarazione alla Commissione
per gli affari esteri del Bundestag. Il ministro degli esteri Genscher
rispose freddamente che questa poteva essere importante per il Soviet
supremo dell’URSS, ma per il governo della Repubblica federale tali
esortazioni non avevano alcun signi cato, in quanto non facevano
parte del Trattato due più quattro.

Le relazioni tra il PCUS e la SED hanno una storia che non può
essere separata dalle persone e dai contesti internazionali. A volte
erano più aperte, a volte meno, ma avevano sempre un carattere di
tutela, che si mantenne anche con Gorbačëv, contrariamente alle sue
dichiarazioni. Nell’interesse della perestrojka, non volle rinunciare a
questo ruolo e questo ebbe delle conseguenze anche sul rapporto tra
lui e Honecker. La nascita della SED-PDS, e in seguito del PDS, fu
accompagnata dalla fondata speranza che questo rapporto sarebbe
cambiato. Dopotutto, anche sulle loro bandiere c’era scritto
rinnovamento e trasformazione. Sempre più, tuttavia, crebbe la
contraddizione tra la perestrojka di Gorbačëv e il socialismo
democratico. Con il decreto di messa al bando del PCUS del 6
novembre 1991 si concluse ogni relazione.
Parallelamente, Mosca mantenne anche i rapporti con il Partito
comunista tedesco (DKP). I compagni sovietici erano alquanto
interessati al rapporto tra i due partiti tedeschi. Poco prima della mia
conversazione con Falin dell’11 gennaio 1991 avevo avviato degli
incontri a Berlino tra i vertici del PDS e del DKP per discutere delle
nostre differenze e dei punti in comune. Lo dissi anche a Falin.
Honecker si era sbagliato quando, tre anni prima, aveva dichiarato che
la SED, la SEW (disciolta del 1990) e il DKP erano essenzialmente un
unico partito. A seguito dei mutamenti politici che si veri carono in
Germania, avevano sviluppato punti di vista diversi sia rispetto alla
valutazione del passato sia nelle ri essioni su come trasformare la
società tedesca nell’interesse della maggioranza della popolazione.
Falin ascoltò attentamente ma nemmeno lui avrebbe potuto cambiare
il corso della storia.
CAPITOLO VI
IL CROLLO
DELL’UNIONE SOVIETICA

Nel 1985 Gorbačëv fu eletto democraticamente dal Comitato


centrale del PCUS. Non andò al potere con un colpo di stato e non
ottenne maggioranze con l’intrigo assumendo il controllo
dell’apparato. Il Partito lo mise al comando perché era diventato
chiaro che i vertici del socialismo reale avevano urgente bisogno di un
ringiovanimento. Il mandato che diedero alla loro dirigenza fu lo
sviluppo del socialismo, non la sua abolizione. Gorbačëv – anche se in
seguito sostenne il contrario – non aveva altri propositi che questo. Si
richiamò a Lenin e alla Rivoluzione d’ottobre e si orientò nel senso
della teoria politica che prende il nome di marxismo-leninismo.
Ed era anche in questo modo che noi sostenitori della perestrojka
intendevamo il signi cato della trasformazione. Attraverso questo
edi cio concettuale e sulla base dei fondamenti del socialismo, non si
sarebbero dovuti solo correggere i difetti di costruzione del socialismo
reale, ma si sarebbe dovuta trasformare radicalmente la sua intera
struttura. Volevamo spalancare le nestre al mondo e fare entrare un
po’ di aria fresca. Doveva essere una rivoluzione dentro la rivoluzione.
La tesi contemporanea secondo cui la Russia e il mondo del 1917 non
erano ancora pronti per la rivoluzione è di natura puramente
accademica. Quando le masse si sollevano contro un despota e un
regime disumano, non chiedono alla storia se sono arrivati “prima del
tempo” a prendere in mano il proprio destino. Lo fanno solo per
liberarsi dalla miseria. Questo è ciò che i mužik1 russi, i braccianti e i
diseredati, gli esiliati e gli schiavi, fecero nel 1917-18. Lenin e i suoi
diedero solo una direzione e una forma alla rabbia.
Questo è un altro rimprovero che dobbiamo accettare noi emulatori
e gli postumi. Abbiamo creduto acriticamente che tutto ciò che era
avvenuto dopo fosse stato conseguente e legittimo. La logica della
storia socialista si era svolta nella sua inesorabile coerenza. Tutto ciò
che aveva fatto Lenin, lo aveva fatto a ragione. Il (presunto) progresso
giusti cava ogni cosa. Così, il terrore rosso era stata l’unica risposta
possibile al terrore bianco, alla guerra civile e all’intervento straniero,
che erano state le conseguenze dello smisurato desiderio del capitale
mondiale di riprendersi ciò che aveva perduto, così come ogni azione
intrapresa dalla parte avversa. Ci siamo allontanati da loro e non
possono accettarlo, disse una volta Hermann Kant, un autore che
ammiro molto, a un congresso degli scrittori della Repubblica
democratica tedesca. Era vero e falso allo stesso tempo. La nostra
visione del mondo era radicata nella convinzione autoritaria di essere
sempre nel giusto (chi lotta per la giustizia ha sempre ragione, recitava
l’inno della SED), di avere il monopolio della verità e del progresso.
Quell’arroganza non solo ha fatto sì che i nostri avversari dif dassero
di noi, ma ha anche ridotto a compagni di seconda categoria chi
simpatizzava dissentendo.
Non avremmo dovuto suddividere il mondo in compartimenti e
collocarvi ogni stato, partito o persona. Avremmo dovuto chiederci:
che cosa volevano Trockij, Bucharin o Gramsci? Perché durante gli
anni Venti e Trenta abbiamo guardato solo ai “grandi monumenti del
socialismo” dell’Unione Sovietica, rimanendo ciechi di fronte ai campi
in cui scomparirono migliaia e migliaia di persone? Gli emigranti
comunisti tedeschi che dopo il 1945 tornavano dall’Unione Sovietica,
mantennero il silenzio sulle loro brutte esperienze per non
danneggiare l’URSS e il socialismo.
Il XX Congresso, quello in cui si fecero i conti con Stalin, mi colpì
come un pugno nello stomaco. Ma ridusse anche il problema a
semplice deformazione del socialismo. Stalin aveva agito da solo,
aveva usurpato il potere e ne aveva abusato. Dopo tutto Lenin,
ripetevamo per metterci l’animo in pace, ci aveva messo in guardia
contro Stalin: diceva che era rozzo e che non aveva la maturità umana
richiesta per un simile incarico. Eppure non ci chiedevamo se esisteva
ancora la possibilità che la storia si ripetesse con un nuovo Segretario
generale, oppure se esistevano i meccanismi di controllo democratici
necessari a mettere un freno al potere nel caso in cui si fosse
presentato un nuovo dittatore.
Anche nel caso di Gorbačëv le cose non furono diverse. Ma non era
così ovvio in quanto le sue azioni erano oggettivamente in linea con i
bisogni sociali. La sua politica estera rispondeva al bisogno reale di
pace e tranquillità. La sua politica interna prometteva ai connazionali
benessere e prosperità, e questi sono diritti umani più che legittimi che
240 milioni di cittadini sovietici stavano aspettando da molto tempo.
Decenni di privazioni sono stati giusti cati attribuendoli all’eredità
dell’epoca zarista, all’invasione nazista, alla corsa agli armamenti
obbligata o alla lotta di classe internazionale, e mai a un proprio
fallimento. Fino agli anni Ottanta, l’Unione Sovietica non era mai
stata percepita come colpevole di qualcosa ma sempre e soltanto come
vittima. Poi arrivò Gorbačëv e disse che, se le cose andavano male,
questo aveva a che fare con il sistema politico adottato no a quel
momento. Per cui era necessario rinnovare tutto il sistema!
Il fatto che i sovietici abbiano voltato le spalle a Gorbačëv è dovuto
da un lato alla naturale propensione di un popolo a non farsi
ingannare, che non può essere tenuta a freno per troppo tempo,
dall’altro al fatto che i frutti della sua politica furono visti prima come
troppo acerbi e poi, quando fu evidente che si trattava solo di vuote
promesse, come già marci. L’immagine di Gorbačëv come grande
personaggio della storia mondiale faceva certo bene al suo ego ma
non dava da mangiare alla gente.
Ci è voluto un po’ di tempo af nché anche all’estero ci rendessimo
conto che Gorbačëv non era il Messia che molti credevano che fosse e
su cui avevano riposto la speranza che potesse guarire tutti i mali che
af iggevano il mondo, in particolare quello socialista.
Credo che questo tipo di socialismo, incluso quello dell’Unione
Sovietica, abbia fallito perché attribuiva troppa poca importanza alla
proprietà (e alla sua percezione) all’interno della sua economia. È
troppo facile attribuirne il fallimento solo all’assenza di un’economia
di mercato. Oggi più nessuno crede che l’economia di mercato possa
da sola risolvere ogni problema. Il mercato è importante, ma non è
tutto. In Unione Sovietica non esisteva la proprietà privata dei mezzi
di produzione, e anche la proprietà delle cooperative agricole non era
di fatto una vera proprietà. Tutto apparteneva allo Stato, quindi a
nessuno, ed era così che veniva trattato. Lo Stato aveva preso tutto
sotto la sua custodia e per questo si aspettava gratitudine, lavoro e
lealtà. A parte alcune piccole differenze, nella DDR la situazione non
era diversa.
Glori cavamo l’ideologia della produzione a ogni costo e ci siamo
ubriacati di cifre. Celebravamo ogni sacco di cemento e ogni
tonnellata d’acciaio che l’Unione Sovietica produceva in più rispetto
agli Stati Uniti, senza farci domande sulla qualità e senza chiederci a
che cosa sarebbe servito. Ci vantavamo di aver costruito il più grande
escavatore per la lignite al mondo o il primo rompighiaccio a
propulsione nucleare e non ci siamo mai chiesti: a quale scopo?
Omaggiavamo i nostri piloti agricoli, che spruzzavano quantità
inaudite di fertilizzanti chimici sui campi, convinti che questo fosse il
progresso. E tutti questi fertilizzanti non hanno danneggiato solo la
vegetazione ma anche le falde acquifere. I giornali celebravano, con
titoli a tutta pagina, un enorme raccolto di 220 milioni di tonnellate di
grano, ma nessuno si chiedeva quanti ettari c’erano voluti. Avremmo
poi scoperto che la resa media per ettaro era di 17 quintali, a volte
nemmeno di una tonnellata di grano per 10.000 metri quadrati, una
quantità spaventosamente bassa, che in Occidente non avrebbe messo
in moto nemmeno una trebbiatrice poiché il valore del carburante
avrebbe superato quello del grano raccolto.
In Unione Sovietica la perestrojka non determinò da questo punto
di vista nessun cambio di rotta. Non ci furono né un’intensi cazione
della produzione né una rivoluzione tecnico-scienti ca, le quali
avrebbero generato profondi cambiamenti nella natura e nei risultati
della produzione civile. Tuttavia, va decisamente ri utata anche
l’affermazione arrogante secondo cui i contributi innovativi
dell’Unione Sovietica all’economia mondiale si ridurrebbero al
samovar e alla matrioska. Che cosa dire allora dello Sputnik, di
Gagarin oppure della Mir, la prima stazione spaziale con equipaggio,
utilizzata per decenni anche dai ricercatori occidentali? Eppure, in
questa presunzione c’è anche un granello di verità, ossia che nella
maggior parte dei casi l’eccellenza sovietica fu prodotta da laboratori
e istituti di ricerca afferenti all’industria bellica, mentre il resto del
paese bene ciava poco o nulla di queste innovazioni.
L’intenzione di Gorbačëv di trovare una via d’uscita a questo
dilemma si perse dopo il 1988. La perestrojka divenne un processo
impossibile da controllare e perse allo stesso tempo il suo slancio
socialista. L’idea che più democrazia signi chi più socialismo fu
disattesa. Un cambiamento democratico fondamentale semplicemente
non si veri cò mai e anche il democratico Gorbačëv si comportò in
modo non democratico per non perdere il potere. La sua
legittimazione fu che lui era l’unico garante della democrazia. (La
stessa usata più tardi dal suo successore El’cin e all’estero dalle forze
che lo sostenevano.)
Nell’estate del 1991 si svolse l’ultimo atto sul palco di Mosca.
Kevorkov, ex generale del KGB e all’epoca vicedirettore dell’agenzia
di stampa TASS, lo de nì signi cativamente “l’operetta di Mosca”.
Dal 4 al 24 agosto ero in vacanza con mia moglie in Unione
Sovietica. La nostra visita, come quella dell’anno precedente,
rispondeva a un invito del Comitato centrale del PCUS. Al mio arrivo
a Mosca mi aspettavano i miei amici e compagni del Dipartimento
internazionale, i quali mi informarono del programma che avevano
preparato. La mattina seguente, il 5 agosto, Janaev volle incontrarmi e
nel tardo pomeriggio ebbi un appuntamento con Dzasochov,
segretario del Comitato centrale per le questioni ideologiche. Il 6
agosto avremmo dovuto prendere l’aereo per Simferopol. La mia
sistemazione per le vacanze si trovava presso un sanatorio a Foros,
non lontano dalla dacia di Gorbačëv.
La conversazione che tenni con Janaev mi sembrò genuina,
amichevole e abbastanza aperta. Su sua richiesta, lo informai della
situazione in Germania e sugli incipienti procedimenti legali contro i
funzionari della DDR. Janaev lo sapeva: non a caso, gli Honecker e
Markus Wolf con sua moglie risiedevano ora nella capitale sovietica.
Incontrammo Misha e sua moglie Andrea, ma non gli Honecker,
sebbene fossi venuto a Mosca anche per incontrare entrambe le
coppie. Da un lato ero andato per aiutarli a ottenere supporto legale,
dall’altro per scoprire attraverso i canali diplomatici quali forme di
sostegno e solidarietà l’Unione Sovietica avrebbe potuto fornire a
livello internazionale per loro e per le altre persone minacciate di
persecuzione politica e legale. Quando sollevai la questione, Janaev mi
disse che non ne avrebbe parlato e che di questo se ne sarebbe
occupato Krjučkov. Lo chiamò per telefono e il capo del KGB si rese
disponibile per un colloquio nel pomeriggio. Dissi subito di sì.
Dopo aver riattaccato il telefono, Janaev iniziò a riferire la
situazione nel paese. Il trattato per l’istituzione della nuova Unione
degli stati sovrani, concordato a ne aprile da Gorbačëv insieme ai capi
di Stato di altre nove repubbliche, era pronto per la rma. Il 27 luglio,
Gorbačëv incontrò il Presidente russo El’cin e Nazarbaev, Primo
ministro del Kazakistan, e stabilirono che il 20 agosto – non appena
Gorbačëv fosse rientrato dalle vacanze – avrebbero rmato il trattato.
Il giorno prima, mi disse Janaev, aveva preso l’aereo per Foros. Ah,
pensai, quindi la persona seduta di fronte a me è il capo di Stato
attualmente in carica.
In quel momento squillò il telefono della linea di massima sicurezza.
Era facile capire che dall’altra parte c’era Gorbačëv. Janaev disse che
ero seduto davanti a lui; ci furono allora i consueti saluti e auguri,
dopodiché parlarono di altre questioni. La conversazione fu del tutto
unilaterale, il più delle volte Janaev ascoltava e rispondeva solo da o
niet. Non aveva molto da dire, probabilmente fu solo una telefonata di
routine.
Dopo la chiamata, Janaev riprese a parlare del nuovo Trattato
dell’Unione, che in quel momento sembrava essere il tema centrale
della politica interna sovietica. Il documento era stato redatto sotto la
guida di Šachnazarov, consigliere di Gorbačëv, a Novo-Ogarëvo, uno
dei tanti luoghi protetti nelle vicinanze di Mosca. La bozza del
trattato, così come lo slogan di Gorbačëv, “Un’unione forte con
repubbliche forti”, aveva ottenuto l’approvazione dalle repubbliche.
Gorbačëv era quindi abbastanza tranquillo per andare in vacanza.
La nascita del Trattato dell’Unione era stata tanto democratica
quanto la maggior parte di ciò che negli ultimi anni era stato fatto
sotto la guida di Gorbačëv. Sebbene a Novo-Ogarëvo fosse stato
consultato un certo numero di esperti, alla ne il Presidente sovietico
prese la decisione insieme ai suoi nove omologhi. I singoli parlamenti,
il Soviet supremo dell’Unione Sovietica e quelli delle altre
repubbliche non avevano partecipato. L’8 agosto il trattato fu
pubblicato sulla “Pravda”.
Quando arrivai all’appuntamento programmato per quel
pomeriggio, Krjučkov mi stava già aspettando. Ci conoscevamo già da
Dresda e ci salutammo come due vecchi amici. Il capo del KGB non
mi apparve meno aperto e sincero di Janaev. Mi assicurò che, entro la
ne del mio soggiorno, avrei avuto una risposta chiara in riferimento
ai casi di Honecker e Wolf. Inoltre, chiese informazioni sulla
situazione nella Germania orientale. La mia impressione non fu che
fosse particolarmente informato. Il ritiro delle truppe sovietiche era
già iniziato e i collegamenti con l’esercito della Germania Ovest
furono condotti attraverso lo stato maggiore sovietico di Wünsdorf.
Questo aveva sollevato alcuni problemi di sicurezza. Come uomo dei
servizi segreti non mostrava ovviamente tutte le sue carte. Sebbene
fossi quasi un amico, ora ero anche il rappresentante di una potenza
straniera, benché al Bundestag sedessi tra i banchi dell’opposizione. Ci
separammo, comunque, in cordiale accordo.
Nel tardo pomeriggio vidi Dzasochov per la prima volta. Era nuovo
alla carica di segretario per l’ideologia, ma si comportò con me come
se ci conoscessimo da sempre. Fu amichevole, curioso e ascoltava
pazientemente mentre riferivo. Parlammo principalmente di questioni
di partito. Riferì sulla preparazione del XXIX Congresso del PCUS,
che si sarebbe tenuto a novembre per decidere un nuovo programma
che avrebbe tenuto conto della nuova situazione.
Al momento si stava sviluppando in Unione Sovietica un sistema
multipartitico; il ruolo guida del PCUS era stato espunto dalla
costituzione e il Partito doveva cercare di continuare a essere una
forza politica di primo piano. (Non mi fu chiaro però se questa
necessità era motivata dal fatto che non ci fosse nessun altro in grado
di assumere questo ruolo o se loro non erano disposti ad
abbandonarlo.) Il Congresso, secondo Dzasochov, avrebbe dovuto
riconquistare la ducia perduta e incoraggiare i membri a lavorare per
un futuro migliore attraverso la nuova piattaforma programmatica.
In ne, Dzasochov convenne con me sul fatto che sarebbe stata una
buona cosa se il Presidente del PDS, Gregor Gysi, fosse venuto a
Mosca in autunno, nel migliore dei casi a ottobre, e avesse incontrato
Gorbačëv. Un simile incontro sarebbe stato di fondamentale
importanza, disse, poiché il PDS era per il PCUS un partner
importante in Europa occidentale.
Prima di lasciare la sede del Comitato centrale, passai di nuovo da
Fëdorov per informarlo sui miei incontri. Potei riferire senza
esagerazioni che erano stati incontri di carattere sostanziale e non solo
formale. Sentii che erano stati utili e ringraziai Fëdorov, che li aveva
organizzati. Lui mi fece capire con un cenno che non c’era da
ringraziare e passò i miei saluti a Falin, il quale avrebbe voluto
parlarmi ma che a causa del poco tempo a disposizione non riuscì a
organizzare un appuntamento. Un incontro sarebbe magari stato
possibile durante lo scalo del mio volo di ritorno, così Fëdorov mi
propose di ripassare dal Comitato centrale dopo le vacanze e ci
salutammo cordialmente.
A Foros mia moglie e io prendemmo una stanza al sanatorio Jushny.
Dalla nostra nestra potevamo vedere le navi della otta del Mar
Nero rollare placidamente sull’acqua davanti alla dacia del Presidente.
A volte rimanevano all’ancora, a volte andavano di pattuglia, ma il
fatto che si trovassero lì indicava chiaramente la presenza del capo di
Stato.
Passai il tempo nuotando e facendo jogging, guardando intorno a
me volti familiari e creando nuovi contatti. Feci amicizia con Fëdor, il
capo giardiniere che si prendeva cura della vasta area verde del
sanatorio. Ogni mattina, dopo colazione, ci sedevamo insieme per una
breve chiacchierata. Appresi come viveva la gente comune di Foros e
quale fosse lì la situazione degli approvvigionamenti. L’offerta dei
negozi statali era molto scarsa, il mercato del kolchoz suppliva a volte
a qualche mancanza ma i prezzi erano alti e la gente doveva stare
attenta a far quadrare i conti.
Diversi segretari di partito ucraini stavano trascorrendo le proprie
vacanze al sanatorio e, rispetto all’élite politica di Mosca, erano più
disponibili e aperti. Per esempio, vidi Frolov, membro del Politburo e
direttore della “Pravda”, e anche il ministro dell’Interno Pugo, ma
scambiammo solo poche parole di cortesia, per il resto volevano stare
per i fatti loro. Che differenza rispetto agli ucraini! Io e mia moglie
eravamo spesso invitati a passare con loro lunghe serate di generosa
ospitalità e in nite serie di brindisi. Naturalmente, mi fu chiesto più
volte di dire due parole alzando il bicchiere. In quelle occasioni
parlavo del mio sentimento di amicizia per l’Unione Sovietica,
coltivato nel Komsomol e nella FDJ, che nessuna Repubblica federale
avrebbe potuto togliermi. I miei amici erano commossi dalle mie
parole e non era solo l’effetto della vodka.
Incontrai anche Kwaśniewski con sua moglie e sua glia, e anche
Miller, il Segretario generale dei socialdemocratici polacchi. Entrambi
parlarono apertamente del disfacimento in atto nel loro paese e del
fatto che la perestrojka non avesse attecchito, nonostante molti
cambiamenti fossero necessari e urgenti. Non dissero nulla su
Gorbačëv, né in positivo né in negativo, e questo fu sorprendente. Con
Miller strinsi un’amicizia che continua ancora oggi.
Primakov e suo nipote avevano un tavolo accanto al nostro e presto
iniziai a parlare pure con lui. Il 12 agosto vidi anche Šachnazarov nella
sala da pranzo. Fummo lieti della coincidenza che ci aveva fatti
incontrare e ci sedemmo a conversare. Era lì per riposarsi ma anche
per lavorare. Ogni giorno lui e Primakov trascorrevano infatti molte
ore alla dacia di Gorbačëv. Non è poi così male, gli dissi, e gli chiesi di
trasmettere i miei saluti a Gorbačëv e di dirgli che, se avesse voluto,
sarei stato lieto di informarlo su alcuni problemi di cui gli avevo già
parlato a Mosca. Šachnazarov disse che avrebbe trasmesso il
messaggio e che mi avrebbe riferito immediatamente qualsiasi
comunicazione. Ora siamo davvero in vacanza, dissi a mia moglie
Annemarie.
La mattina seguente andai a fare un po’ di jogging ed ebbi
l’impressione che nel mondo fosse tutto a posto. Corsi su per una
collina, no a una piccola chiesa, la cui cupola dorata brillava a
trecento metri dal livello del mare. Era da poco stata ristrutturata.
Volli quindi correre lungo il mare, che era una delle cose che preferivo
fare. Per prima cosa attraversai il parco sopra le scogliere no a Foros,
a circa tre chilometri di distanza, giunsi così alla vecchia dacia dello
scrittore Maxim Gorky che con nava con i quarantasette ettari di
terreno del Presidente. Mentre passavo lì davanti, le guardie si stavano
dando il cambio.
Le guardie che avevano nito il turno rientrarono da un cancello
laterale della recinzione intorno alla proprietà in cui si trovava la
dacia. Più sotto, si vedeva una fregata che sostava all’ancora. Anche
senza binocolo erano chiaramente visibili la sovrastruttura e i marinai
sul ponte. In questo punto della costa il fondale scendeva ripido
permettendo alle imbarcazioni di avvicinarsi parecchio alla riva.
Questo era permesso solo alle navi della marina militare, mentre le
imbarcazioni civili dovevano tenersi a debita distanza dall’area
protetta.
Anche il 19 agosto mi alzai di prima mattina. Mia moglie
Annemarie stava ancora dormendo. Non accesi nemmeno la radio e
corsi direttamente in spiaggia. La prima persona che incontrai fu
Fëdor, il giardiniere, che sembrava agitato. Mi chiese che cosa pensavo
della proclamazione dello stato di emergenza e della malattia di
Gorbačëv. Lo guardai un po’ confuso. Mi chiese allora se non avessi
sentito le notizie alla radio. Evidentemente non le avevo sentite.
Il giorno precedente vidi il ministro dell’Interno Pugo partire alle
dieci, ma in questo non c’era nulla di straordinario. Nel ne settimana
gli ospiti andavano e venivano in continuazione. Anche Kwaśniewski
se n’era andato. Tutto sembrava normale. A colazione la sala da
pranzo era piena come sempre. Tuttavia, tra i tavoli c’era chiaramente
più movimento del solito. Gli ospiti si stavano riunendo a gruppi, ma i
russi si tenevano ancora in disparte. Chiesi informazioni a Miller, ma
lui alzò le spalle, non ne sapeva più di me. Del gruppo degli ucraini era
rimasta una sola persona. Mi rivolsi quindi a lui. Mi fece capire che
aveva fretta, siccome i collegamenti telefonici del sanatorio erano
interrotti, aveva dovuto chiamare il suo comitato di partito da Foros e
lo stavano aspettando. Riguardo a quanto stava succedendo, credeva
che si trattasse di un tentativo di riportare nalmente l’ordine nel
paese, un giro di vite decisivo che avrebbe permesso alla dirigenza di
riacquistare la ducia perduta.
Sarebbe esagerato parlare di panico tra i villeggianti, ma nelle ore
che seguirono era impossibile non notare come il numero degli ospiti
della struttura stesse diminuendo rapidamente. Mi sedetti con le
persone rimaste nella sala della televisione e guardai la conferenza
stampa. Pugo, che appena il giorno prima aveva fatto colazione in sala
da pranzo in tutta tranquillità, ora sedeva dietro un microfono con
altri quattro uomini dai volti pallidi. Janaev, accanto a lui, disse con la
voce tremante che un Comitato d’emergenza aveva preso il potere nel
paese e, dal momento che il Presidente era malato, in qualità di suo
vice era lui ora il capo di Stato in carica.
La spiegazione di Janaev diede l’impressione che tutto fosse
assolutamente legale e conforme alle leggi vigenti. E in un certo senso
fu proprio così: in aprile, come si seppe in seguito, la dirigenza
sovietica aveva elaborato alcuni documenti che stabilivano la
procedura da attuare in caso di stato di emergenza, che erano poi stati
approvati e istituiti da Gorbačëv. La procedura non era insolita. Già
all’inizio degli anni Sessanta il governo federale tedesco aveva
approvato delle norme di questo tipo, in seguito, dopo che l’uf cio
centrale della Stasi aveva ottenuto i relativi documenti e li aveva
trasmessi al governo della DDR, anche Berlino aveva elaborato
misure simili.
Ora Mosca intendeva stabilire l’ordine nel caos che si era creato
facendo ricorso ai regolamenti d’emergenza. Tuttavia, quando i
compagni Janaev, Baklanov, Pugo e Tisjakov apparvero sullo schermo
non furono molto convincenti e anche il riferimento alla malattia di
Gorbačëv non sembrò credibile. Durante il suo incontro con Bush a
Mosca il 30-31 luglio, Gorbačëv era sano come un pesce o almeno
aveva dato questa impressione. Inoltre, in passato già altri dirigenti,
come Chruščëv, Ulbricht e Honecker, furono mandati in pensione a
causa di presunte malattie. In tutta questa storia c’era insomma
qualcosa di sospetto.
Se avessi appreso la storia dal giornale, sul quale riferiva il Comitato
d’emergenza, sarei stato ancora più sospettoso. Alla ne del marzo
1991, Gorbačëv aveva incaricato il segretario del Comitato centrale
Šejnin di guidare i diciannove milioni di membri del PCUS nel caso di
una sua assenza da Mosca. In seguito, nella conseguente discussione
sul generale declino politico ed economico del paese, sorse anche
l’idea che la dichiarazione dello stato d’emergenza – che non fu
chiamato in questo modo, visto che non si deve mai parlare di corde in
casa dell’impiccato – avrebbe potuto aiutare il paese a uscire dalla sua
crisi sociale. Il 30 aprile 1991, sotto la direzione di Gorbačëv, il
Consiglio di sicurezza discusse la questione. Boldin, che era a capo
della squadra presidenziale, aveva già detto a tutti i partecipanti prima
della riunione che il Presidente era allergico alla parola emergenza e
che bisognava quindi cancellarla dal vocabolario. Gorbačëv aveva
insistito sul fatto che si sarebbe opposto a qualsiasi misura
d’emergenza e che non avrebbe rmato nessun documento in cui se ne
facesse il benché minimo accenno. Pertanto, il decreto n. 7-1977,
emanato il 16 maggio 1991, non parlava di “misure d’emergenza”
bensì di “misure urgenti”. Tuttavia, l’avversione di Gorbačëv rimaneva.
Temeva le reazioni che si sarebbero scatenate in patria e all’estero se
fosse stato dichiarato lo stato di emergenza e così cacciò questa idea in
fondo alla sua mente.
La mattina seguente, il 20 agosto, percorsi il mio solito sentiero in
direzione della dacia presidenziale. La dichiarazione dello stato
d’emergenza non aveva cambiato la routine quotidiana al sanatorio.
Non c’era paragone con la Polonia, quando, all’inizio degli anni
Ottanta, il capo dello Stato e del Partito Jaruzelski decise di compiere
questo stesso passo. In quel frangente l’esercito aveva visibilmente
preso il potere ovunque: gli aeroporti, le stazioni ferroviarie e le strade
principali erano presidiati e sorvegliati dai militari. Alcuni giorni dopo
la dichiarazione dello stato d’emergenza, mi ero recato in visita al
comitato di partito a Breslavia e alla miniera di carbone di Turów. Alla
miniera c’era un colonnello che impartiva ordini, con al suo anco il
direttore e il segretario del Partito. Non vidi nulla di simile, mentre
facevo jogging avvicinandomi a Foros. La squadra di operai edili
dell’esercito, che da settimane era impegnata nella costruzione di
alcune case e di una scuola, continuava a lavorare indisturbata. Alla
base che ospitava il personale di guardia del Presidente, non notai
alcun cambiamento, né davanti né dietro l’alta recinzione d’acciaio
eretta a protezione della tenuta. Al sole del mattino tutto appariva
calmo come l’avevo sempre trovato. Strano, pensai, visto lo stato
d’emergenza, mi sarei aspettato almeno qualcosa di diverso. Forse la
mia prima impressione sulla conferenza stampa di Janaev e Pugo era
stata corretta. Tutto sembrava molto dilettantesco, confuso, mal
concepito e titubante.
Tornato al sanatorio, incontrai Fëdor. Sembrava piuttosto sconvolto
e voleva sapere la mia opinione sulla conferenza stampa. Non capiva
per quale ragione fosse stato proclamato lo stato d’emergenza e che
cosa avrebbe comportato. Mi disse che non aveva molta
considerazione per quelle persone, ma subito dopo mi pregò di
tenermi per me quanto mi aveva appena detto, visto che non si poteva
sapere cosa sarebbe successo in seguito. La sua reazione mostrava
bene come generazioni di sovietici erano cresciute nella paura di
esprimere liberamente le proprie opinioni. Chiaramente la glasnost’ e
la perestrojka non erano riuscite a eliminare questo sentire comune e
le persone vivevano ancora perennemente nella preoccupazione che
una parola sbagliata potesse avere conseguenze imprevedibili.
Il 21 agosto fu annunciato in televisione che il Comitato
d’emergenza era stato rovesciato segnando la ne del colpo di stato.
L’eroe del giorno era El’cin, che aveva cacciato i golpisti con la forza
delle armi e si era fatto fotografare seduto su un carro armato. La
notizia mostrava anche un Gorbačëv spossato con una coperta sulle
spalle che scendeva dalla scaletta dell’aereo di ritorno a Mosca. Tutto
sembrava molto drammatico, per non dire drammatizzato.
Cancellammo il resto delle nostre vacanze e il 22 agosto volammo a
Mosca. All’aeroporto mi accolse Andrej, del dipartimento
internazionale. Gysi sarebbe arrivato il giorno seguente. Alle due
aveva un appuntamento con Falin cui dovevo partecipare anche io.
Arrivai puntuale all’appuntamento. Al posto di Gysi venne
Willerding, c’erano poi Fëdorov e Tarasov, che a Berlino faceva da
interprete ad Abrasimov e che aveva lavorato come consigliere per gli
affari culturali presso l’ambasciata sovietica. Falin, contrariamente al
suo solito, non indossava il completo e pareva appena tornato dalla
sua dacia. Quando ci accolse nel suo uf cio zoppicava, come se si fosse
ferito a una gamba. Quasi come per scusarsi, spiegò che infatti era
proprio come sospettavamo: era caduto lavorando in giardino. Aveva
saputo del colpo di stato alla radio, disse arrivando subito al punto. Al
Politburo e al Segretariato del Comitato centrale del PCUS non si era
mai parlato di compiere un simile passo. Subito dopo le prime notizie,
era al telefono con il Comitato centrale, ma anche lì nessuno sembrava
essere informato. Il 21 agosto, anziché andare dal medico, come forse
avrebbe dovuto, salì in macchina e andò direttamente al Comitato
centrale.
Falin riteneva chiaramente molto importante che sapessimo che si
trattava di un’azione intrapresa senza la partecipazione e all’oscuro
della dirigenza del Partito, da parte di un gruppo di individui
impazziti. Ci dissero di portare questo messaggio alla dirigenza del
PDS, quanto successo non doveva nuocere alla ducia e alla
cooperazione tra i nostri partiti.
Il nostro interlocutore appariva abbattuto e inerme. Non avevo mai
visto Falin così. Un uomo che aveva sofferto gli orrori della guerra,
che aveva perso molti famigliari, soprattutto a Leningrado, che dopo
la guerra era sopravvissuto alle epurazioni di Stalin e che aveva in ne
contribuito alla formazione delle relazioni tedesco-sovietiche,
assumendo su di sé una posizione molto delicata. Sembrava perplesso.
Che fare adesso? Ma soprattutto: che cosa era veramente successo?
Né lui né noi sapevamo che il 5 agosto, Jazov, Krjučkov, Baklanov,
Boldin e Šejnin si erano incontrati dopo le otto di sera in un edi cio
speciale, all’archivio e biblioteca centrale di Mosca, per conferire sul
Trattato dell’Unione. Probabilmente fu più che una coincidenza che
proprio lì si fossero incontrati, appena sette giorni prima, Gorbačëv,
El’cin e Nazarbaev, per accordarsi sulla rma del Trattato prevista per
il 20 agosto. Contrariamente a questi ultimi, la riunione dei cinque
aveva deciso che il Trattato dell’Unione non rappresentava
un’opportunità per il futuro. Di certo credevano anche che ci fosse
ancora la possibilità per bloccare la rma del Trattato. Il 18 agosto
mandarono una delegazione formata da Baklanov, Šejnin, Boldin e
Varennikov, a Foros da Gorbačëv. Prima di riceverli, li aveva fatti
aspettare un’ora. Il generale dell’esercito Varennikov, comandante in
capo delle forze di terra, aveva fatto da portavoce ed era stato il primo
a capire che con Gorbačëv era come parlare a un muro. Gorbačëv aveva
ri utato qualsiasi emendamento al trattato come anche qualsiasi
rinvio della data della rma. Varennikov aveva lasciato la stanza per
primo. Gli altri lo avevano seguito poco dopo. In ne erano tornati
tutti a Mosca. I promotori del tentato colpo di stato inviarono
Varennikov a Kiev per assicurarsi il sostegno dei capi militari. Allo
stesso tempo, Luk’janov, Presidente del Soviet supremo, fu portato a
Mosca a bordo di un aereo militare. Anche il ministro dell’Interno
Pugo fu invitato a recarsi nella capitale, chiaramente anche la sua
partenza non era stata piani cata.
Nel frattempo, con Jazov al ministero della Difesa, la situazione si
stava surriscaldando. In base ai documenti d’emergenza, l’esercito, il
KGB e il ministero dell’Interno avrebbero dovuto essere mobilitati. A
Janaev, capo di Stato in carica, fu af dato il compito di informare il
pubblico sulla proclamazione dello stato d’emergenza e di rivolgersi
alle ambasciate straniere per chiedere loro di trasmettere il messaggio
ai rispettivi paesi. Fu informata anche la sede dell’ONU a New York.
Luk’janov e il ministro degli Esteri Bessmertnych ri utarono di far
parte del Comitato d’emergenza, anche se assicurarono il loro
sostegno e la loro lealtà.
Lo stesso 18 agosto, El’cin, Presidente della Russia, tornò dalle sue
vacanze in Kazakistan. Non è chiaro se il suo rientro fosse stato
piani cato o accidentale, se fosse stato informato o meno. Ma, come si
ebbe subito modo di vedere, si trovò nel posto giusto al momento
giusto.
Il Comitato d’emergenza dichiarò: Salvare la Russia! Mirava quindi
al cuore patriottico, ma era tutto qui. El’cin entrò nei suoi uf ci senza
essere ostacolato dalle truppe aviotrasportate che erano di stanza
davanti alla Casa Bianca, la sua residenza uf ciale, per arrestarlo o
almeno per trattenerlo. El’cin contattò immediatamente Gračëv, che
comandava le truppe aviotrasportate dell’URSS, e riuscì a convincerlo
a passare dalla sua parte, come anche il generale Lebed. Così, il dado
fu tratto. Il 21 agosto, il Comitato d’emergenza, senza una base, senza
in uenza e senza determinazione, inviò da Gorbačëv una delegazione
guidata da Krjučkov, capo del KGB, per sventolare bandiera bianca.
Tuttavia, El’cin fu più veloce e aveva già ordinato al suo
vicepresidente Ruckoj (un maggiore generale in pensione), che era già
in Crimea, di riportare Gorbačëv a Mosca. Così, accadde che la
delegazione di Krjučkov fu arrestata all’aerodromo di Belbek in
Crimea, prima ancora che avesse la possibilità di raggiungere
Gorbačëv. Il Presidente volò quindi insieme alla famiglia con l’aereo
presidenziale di Ruckoj. Il suo arrivo a Mosca lo vedemmo tutti in
televisione. Quelle immagini mostrarono indirettamente il completo
fallimento del Presidente. Non era chiaramente riuscito a mostrarsi
padrone della situazione. Tuttavia, non mi era sembrato che si fosse
trovato sotto qualche tipo di sorveglianza speciale, anche se devo
ammettere che la mia visuale era stata limitata al recinto del giardino
e quindi non è che avessi potuto vedere molto bene. Sembrò un uomo
solo, senza amici o persone di ducia che avrebbe potuto mobilitare.
L’altra cosa che rese evidente questo incidente fu che il potere statale
poggiava su uno strato di ghiaccio estremamente sottile. In termini di
stabilità politica, la grande potenza sovietica stava diventando una
repubblica delle banane. E questo era un pericolo mortale per il
mondo intero.
Presumibilmente lo aveva capito anche Falin, per il quale ho sempre
nutrito un profondo rispetto. Dopo due ore di contrizione collettiva ci
congedammo da lui. Nel frattempo, le unità fedeli a El’cin e i
manifestanti, i “democratici”, circondarono il Comitato centrale e gli
edi ci adiacenti alla Piazza Vecchia (Staraja Ploščad’) e controllavano
chiunque volesse superare lo sbarramento.
Attraversammo il cortile, dove di solito si trovava il parco veicoli.
Venti metri oltre il cancello c’era uno sbarramento di persone. Andrej
sperava che in quanto stranieri non ci avrebbero controllato e provò a
farsi largo tra la folla con la sua ventiquattrore in mano. Willerding e
io tenemmo in mostra i nostri passaporti e ngemmo di non capire
una parola di russo. “Per favore, fateci passare, siamo stranieri”
dicevamo in tedesco. La folla formò un piccolo passaggio e passarono
con noi anche due donne. Dall’altra parte della strada ripresi a parlare
in russo e chiesi a una di loro da dove venissero. Disse di essere in
viaggio di lavoro. Doveva recarsi in uno degli edi ci vicini al Comitato
centrale ed era nita in mezzo alla calca. Lanciò un’occhiata
sprezzante ai manifestanti e disse: “Questi cosiddetti democratici ci
riporteranno a prima del 1917. Ci porteranno solo sofferenze e
miseria”. Poi, dopo un breve saluto, se n’era già andata.
A Berlino si tenne nel ne settimana una riunione del Comitato del
Partito. Non fu solo la decennale disciplina di partito che mi spinse a
partecipare, ma anche il tema dell’incontro. Sabato lasciammo alle
cinque del mattino la foresteria del Comitato centrale del PCUS. Mia
moglie e io fummo con ogni probabilità gli ultimi ospiti a essere
portati all’aeroporto di Mosca-Šeremet’evo da un collaboratore del
Comitato centrale.
Sulla facciata della Karl-Liebknecht-Haus a Berlino era stato
appeso uno striscione: “Solidarietà alla perestrojka”. La piccola sala
conferenze della Casa dell’Unità di Prenzlauer Allee – no al 1990
sede dell’Istituto per il marxismo-leninismo del Comitato centrale
della SED – era in fermento, il clima era teso. Il primo comunicato
stampa del Presidium del 19 agosto, in risposta all’annuncio del colpo
di stato, aveva suscitato diversi malumori. Come notarono molti
critici, non era stato abbastanza deciso nel condannare i golpisti e la
posizione a favore di Gorbačëv non era suf cientemente articolata, ma
si limitò a esprimere “grande preoccupazione”. Chiaramente preferì
attendere. Solo in seguito ci si decise per una chiara presa di posizione.
Capivo l’agitazione, ma mi trattenni. Anche io ero per la solidarietà
con l’Unione Sovietica e con il PCUS, ma non con Gorbačëv. La
conversazione con Falin e gli eventi recenti mi avevano portato a
capire de nitivamente che Gorbačëv era già passato dall’altra parte. E
mentre parlavamo no a farci scoppiare la testa, accadde qualcosa che
Falin probabilmente aveva previsto: il 24 agosto Gorbačëv si dimise
dalla carica di Segretario generale e raccomandò lo scioglimento del
Comitato centrale. Le dimissioni furono precedute da una conferenza
stampa il 22 agosto che fu più che imbarazzante per Gorbačëv. Le sue
osservazioni erano disattente, senza contenuto e senza direzione. Il
giorno seguente apparve davanti al Soviet supremo russo, dove El’cin
faceva la voce grossa. Di fronte alle telecamere fece a pezzi Gorbačëv:
“Il suo governo l’ha tradita. Chi pensa di essere ancora? Nessuno.
Abolirò il suo partito!”. El’cin chiese che Gorbačëv, umiliato, rmasse
un decreto che poneva le attività del PCUS sotto il controllo delle
autorità locali.
Il 24 agosto Gorbačëv proclamò eroi postumi dell’Unione Sovietica i
tre giovani uccisi dai carri armati durante il colpo di stato. (Avevano
voluto coprire le feritoie di un veicolo blindato ed erano niti sotto i
cingoli. Questo tragico incidente – in tutta la città non era stato
sparato un colpo – fu trasformato in un atto di eroismo. Fu davvero
un’operetta.) Dopo il funerale Gorbačëv tornò al Cremlino e si dimise
dalla carica di Segretario generale del PCUS. A un uomo simile non
potevo mostrare alcuna solidarietà; un monumento era in ne caduto
dal suo piedistallo.
Le dimissioni di Gorbačëv non furono un colpo di testa.
Probabilmente, già da tempo stava covando l’idea di voltare le spalle
al Partito. Ciò nondimeno, nel luglio 1990, si era ancora candidato alla
rielezione al XXVIII Congresso. Era un personaggio diverso da
El’cin. Quest’ultimo era assetato di potere ed era un combattente
solitario, capace di mettersi ef cacemente al centro della scena. Non
aveva bisogno di un partito, per questo al Congresso fu in grado di
compiere il gesto dimostrativo di uscire dal PCUS. A differenza di
Gorbačëv che invece, senza la cassa di risonanza del Partito, non
sapeva essere ef cace. Era anche molto consapevole del proprio
potere, come El’cin, ma mancava di coerenza e risolutezza nel trattare
con le persone. El’cin decretò l’ukase: chi non si adeguava era fuori
dai giochi. Gorbačëv invece avrebbe parlato per ore, avrebbe cercato di
moderare, di convincere e magari di ammaliare. El’cin era
politicamente senza scrupoli. Gorbačëv invece si impegnava a mostrare
l’aspetto culturale del cambiamento, benché anche lui non si facesse
problemi a mettere da parte chi dissentiva. Per lui contava solo la
lealtà, eppure non si dava nemmeno dei consiglieri più vicini se, a
causa della sua miopia o della sua credulità nei confronti di
insinuazioni esterne, era portato a trarre conclusioni diverse.
Gorbačëv moderò anche il congresso di luglio. Cercò di mettere
d’accordo l’ala del Partito vicina a Jakovlev, che voleva sciogliere il
Partito, e quella conservatrice guidata da Ligačëv. Alla ne, il
consenso aveva tenuto insieme il congresso, ma non il Partito. Mahlow
e Krawczyk, che erano presenti in qualità di osservatori del PDS,
tornarono a Berlino con i peggiori presentimenti. Quanto questi
fossero fondati lo si capì in meno di un anno.
Le discussioni erano dominate dalla politica interna. Gorbačëv le
riteneva della massima importanza, eppure i discorsi di politica
interna erano privi di idee coerenti e anche quelli sulla politica estera
non erano affatto convincenti. Nell’estate del 1990 erano in corso i
negoziati per il Trattato due più quattro, che potevano avere
conseguenze internazionali a lungo termine di ampia portata. Si
trattava probabilmente delle decisioni di politica estera più importanti
di quell’anno, eppure nelle osservazioni di Gorbačëv al Congresso non
svolsero praticamente alcun ruolo. Evidentemente, si era già
congedato dalla scena politica mondiale. Tuttavia, molti delegati
attribuirono invece grande importanza alla questione tedesca. La
DDR, il partner economico e per molti anche lo stato amico più
importante, nonché il risultato più evidente della vittoria sulla
Germania nazista, sembrava ormai perduta. Anche il fatto che
durante tutti quegli anni avevano servito in Germania da otto a dieci
milioni di soldati sovietici, i quali avevano sviluppato una varietà di
rapporti con la DDR, svolgeva un ruolo non indifferente.
Sebbene le critiche sull’accettazione di concessioni unilaterali sul
disarmo fossero rivolte principalmente a Ševardnadze, andava posta
anche la domanda su che cosa fare nel caso in cui la sicurezza del
paese fosse messa a rischio dal superamento dei limiti della politica
attraverso il mancato adempimento degli accordi da parte occidentale.
In questo caso la responsabilità sarebbe stata da imputare a Gorbačëv.
Adesso, a un anno di distanza, Gorbačëv si trovava di fronte alle
macerie della sua stessa politica. La perestrojka come l’aveva intesa
lui aveva completamente fallito. Il 6 novembre 1991, in Russia, il
PCUS fu messo fuori legge, il XXIX Congresso non si tenne e il nuovo
programma del Partito nì nella pattumiera della storia. Nel febbraio
1993, sotto la guida di Zjuganov, fu costituito il Partito comunista della
Federazione russa.
Il nuovo Trattato dell’Unione non fu mai rmato. Dopo il 20 agosto
1991, dodici Repubbliche seguirono l’esempio della Lituania, che
aveva dichiarato l’indipendenza già l’11 marzo 1990, e lasciarono
l’Unione Sovietica. L’8 dicembre i Presidenti di Russia, Ucraina e
Bielorussia costituirono la Comunità degli stati indipendenti (CSI), a
cui si unirono in seguito altre repubbliche, sciogliendo così di fatto
l’URSS. Il 25 dicembre 1991 Gorbačëv rinunciò al suo ruolo di
Presidente dell’Unione Sovietica. Quello fu l’ultimo atto della storia
dell’URSS iniziata nel 1922. Nel frattempo si formarono partiti
socialisti e comunisti nei paesi membri della CSI, con i quali il PDS
stabilì una serie di relazioni di amicizia.
Il 30 settembre 1991, ebbi un incontro rivelatore con Ichiro
Suetsugu, Segretario generale del Consiglio di sicurezza nazionale
giapponese a Berlino. Aveva conferito con Jakovlev e Ignatenko a
Mosca e mi presentò le sue conclusioni suddividendole in tre punti:
1) L’obiettivo del golpe era stato di costringere Gorbačëv a
dimettersi e ottenere la sua rma su una dichiarazione di abdicazione.
2) El’cin aveva assunto l’incarico dall’Unione come conseguenza del
golpe fallito.
3) Gorbačëv aveva perso il potere durante questo processo in quanto
non aveva saputo essere convincente e non aveva dato l’impressione
di avere un piano per la soluzione dei problemi.
Secondo Suetsugu, la riunione del 24 agosto, durata otto ore, tra
Gorbačëv e i suoi collaboratori era stata della massima importanza. In
un rapporto introduttivo Jakovlev aveva spiegato che la nuova
situazione era radicalmente mutata, ma Gorbačëv non era d’accordo.
Dopo una pausa, Gorbačëv si era corretto e aveva deciso di lasciare
l’incarico di Segretario generale. Allo stesso tempo aveva chiesto lo
scioglimento del Comitato centrale, sostenendo che non aveva preso
posizione contro il colpo di stato con suf ciente chiarezza. Suetsugu
mi disse anche che il successivo divieto del Partito comunista non era
compatibile con lo stato di diritto e lo de nì il “golpe di El’cin”.
L’esperto di sicurezza giapponese espresse preoccupazione anche
riguardo agli sviluppi economici. La sessione del Soviet supremo del
26-31 agosto non aveva portato alcun progresso; così, sarebbe stato
necessario indire un’altra seduta probabilmente già l’8 ottobre. Il
trattato economico dell’Unione non era ancora stato completato. La
questione era sorta a seguito delle mancate o insuf cienti riforme
economiche. Il programma d’emergenza dei cinquecento giorni era
stato in ne un compromesso tra i concetti diametralmente opposti di
Ryžkov e Šatalin. Ma anche questo compromesso non aveva avuto
alcun risultato. Alcuni specialisti sovietici e statunitensi avevano
quindi elaborato un progetto da presentare al vertice del G7. Ma gli
esperti economici delle sette potenze avevano respinto il piano
reputandolo non realistico.
Suetsugu espresse le sue considerazioni sul nuovo Trattato
dell’Unione e criticò l’evidente volontà di Gorbačëv di essere eletto
Presidente alla svelta, in modo da ottenere quella legittimità che al
momento aveva solo El’cin. L’opinione del giapponese era che
Gorbačëv fosse stato superato dagli eventi. Inoltre, le competenze
speci che e la struttura di potere alla base del ruolo cui ambiva e cui
lo spingeva la sua cerchia non erano state affatto de nite.
Secondo Suetsugu, era dif cile da prevedere quale sarebbe stato lo
sviluppo futuro del movimento democratico. Benché Ševardnadze e
Jakovlev fossero gure di certo intelligenti, dubitava che questi
potessero riuscire a conquistarsi una base di massa. Inoltre, il fatto che
Jakovlev fosse tornato ora a svolgere funzioni di consulente creava
ulteriori problemi.
Il Giappone era pronto a offrire aiuto e sostegno. In quali campi
questo potesse avvenire era al momento oggetto di analisi. Tuttavia,
molti dati necessari non erano disponibili in quanto i sovietici non
erano stati particolarmente collaborativi. Uno dei problemi riguardava
il debito estero da 75 miliardi di dollari, di cui 20 miliardi avevano
ormai raggiunto i termini di pagamento, senza che fosse ancora chiaro
da dove sarebbero arrivati i fondi necessari. Per il Giappone, la
questione cruciale erano le isole Curili. Il vicepresidente russo si era
recato da poco a Tokyo e aveva presentato il piano di El’cin per la
soluzione della controversia sui con ni. Suetsugu disse a tal proposito:
“Tante parole e nessuna soluzione: nessun progetto concreto in grado
portarci fuori dal caos”.
Il mio sincero interlocutore giapponese era generalmente scettico su
qualsiasi tipo di trattato dell’Unione che avrebbe potuto concretizzarsi
sotto la guida di Gorbačëv. L’aveva già scritto in quel momento. A quel
punto se ne era già fatto una ragione.
Tra settembre e ottobre, diversi capi di Stato esteri si recarono al
Cremlino per assicurare a Gorbačëv il loro sostegno dopo il colpo di
stato. All’estero la questione più importante sembrava essere il
rapporto tra Gorbačëv e El’cin. I servizi segreti avevano segnalato che
non era dei migliori e lo si era potuto vedere chiaramente anche
durante le dimostrazioni di forza in televisione. Ma Gorbačëv, come al
solito, taceva se interrogato in proposito. Il primo settembre, con il
Primo ministro britannico John Major si limitò a un laconico: “Stiamo
davvero lavorando insieme”. Il 5 settembre disse a Kohl: “I miei
rapporti con El’cin sono ora molto migliorati”. E alla domanda se
El’cin sarebbe stato d’accordo con questa affermazione, commentò:
“Presumo che lo sia”. Il 9 settembre dichiarò a Genscher: “El’cin è
diventato più ragionevole e la situazione è migliorata. Lui ha bisogno
di me”. L’11 settembre Baker lo avvertì: “La sua collaborazione con
El’cin è importante. Non possiamo relazionarci con due diverse
posizioni sovietiche”. Il 26 settembre Bush comunicò a Gorbačëv che
aveva parlato di questo al telefono con El’cin, il quale aveva posto
l’accento sulla buona cooperazione tra i due. Questo rassicurò
Gorbačëv, ma fu una rassicurazione che durò solo quattro giorni. Il 30
settembre il Primo ministro spagnolo Felipe Gonzáles divulgò ciò che
sembra gli avesse detto Bush, ossia che il suo prossimo incontro con
Gorbačëv sarebbe stato probabilmente l’ultimo con lui come
Presidente. Continuare a fare af damento sull’Unione Sovietica
sarebbe stato troppo rischioso: era necessario guardare al futuro. Nel
frattempo, dietro le quinte, erano già stati presi contatti con la Russia
e l’Ucraina, rispettivamente con El’cin e Kravčuk.
Il 4 novembre, i nuovi capi di Stato delle repubbliche dimostrarono
di non essere di alcuna utilità per Gorbačëv. All’incontro indetto per
discutere del futuro dell’Unione, Gorbačëv fece come sempre
af damento sul proprio carisma.
Presentò le sue idee, disse di essere essibile e aperto alle obiezioni,
e ancora una volta sfoggiò tutto il suo armamentario retorico. El’cin,
che aveva previsto tutto questo, arrivò deliberatamente in ritardo alla
sessione e, in quanto rappresentante della repubblica più grande, si
permise di chiedere di ritornare all’ordine del giorno della riunione.
Semplicemente tagliò fuori Gorbačëv. Nazarbaev appoggiò la richiesta
di El’cin mentre quella di Gorbačëv di estendere l’ordine del giorno
per includervi almeno un punto – una discussione sulla situazione del
paese – fu respinta in quanto, non senza ragione, temevano che
Gorbačëv avrebbe intonato di nuovo il suo canto delle sirene. Gorbačëv
era ormai fuori dai giochi e da quel momento i media sovietici
cominciarono a trattarlo di conseguenza.
Il 21 novembre, El’cin incontrò Gregor Gysi a Bonn. Inizialmente, il
Presidente russo ed ex membro del Politburo era molto interessato al
PDS, a come andavano le cose nel nuovo contesto, ecc. Alla sua
domanda sul numero degli iscritti al PDS, Gysi rispose che dei 2,3
milioni membri della SED, si erano iscritti al PDS 180.000 compagni.
El’cin commentò che si trattava certo di un partito completamento
nuovo.
Più avanti nella conversazione, El’cin chiese all’improvviso:
“Insomma, che cosa fa adesso Herbert Mies?”. Gysi dovette confessare
la propria ignoranza; i rapporti tra il PDS e il DKP erano infatti
diventati complicati in quanto il DKP sosteneva che la Germania
aveva bisogno di un autentico Partito comunista e che il PDS non lo
era. Su questo punto Gysi era d’accordo con il DKP.
El’cin spiegò allora come il suo ruolo di Presidente lo poneva al di
sopra di tutti i partiti. Attualmente c’erano in Russia tredici partiti, e
prima delle elezioni avrebbe dovuto decidere quale partito avrebbe
rappresentato meglio la sua base politica.
In riferimento alle relazioni economiche all’interno del blocco
orientale, El’cin riconobbe criticamente che la dirigenza sovietica
aveva sbagliato a troncare i legami economici e a cancellare gli accordi
con gli ex paesi socialisti. Durante una sua recente visita in
Cecoslovacchia aveva potuto constatare in prima persona quanto
l’interruzione di relazioni economiche decennali fosse stata devastante
per l’economia nazionale. Il mercato occidentale non era certo in
attesa dei prodotti dell’Europa orientale. Malgrado la Russia fosse un
paese molto grande, questa politica aveva avuto un impatto pesante
anche sulla sua economia. Al momento, la Russia stava stipulando
nuovi accordi bilaterali con gli ex paesi socialisti. Erano già stati
elaborati accordi simili con la Repubblica federale ceca e slovacca, il
Presidente bulgaro Želev sarebbe presto venuto a Mosca e a dicembre
El’cin sarebbe andato a discutere del problema con i governi
ungherese e rumeno. A partire dal 1992 le relazioni economiche con
questi paesi avrebbero ripreso il loro corso normale. Quanto alla
Germania, stava valutando la possibilità di stipulare accordi separati
con le regioni della Germania orientale.
Benché avesse appena rmato un’intesa con Kohl per l’intera
Germania, un accordo economico separato, disse, non avrebbe potuto
che essere vantaggioso. Si sarebbe quindi dovuto formare subito un
gruppo misto di esperti. “Consideri la cosa come già decisa”, disse
El’cin a Gysi. La promessa di El’cin rimase sulla carta. Forse Kohl non
era d’accordo.
1
Termine russo che indica il contadino, con particolare riferimento alle condizioni socio-
economiche della Russia prima del 1917. [N.d.R.]
CAPITOLO VII
LA PERESTROJKA:
UNA VITTORIA O UNA SCONFITTA?

Il processo avviato da Gorbačëv era composto di quattro elementi:


l’accelerazione del progresso tecnico-scienti co, la trasformazione
dell’economia e della società (perestrojka), l’apertura e la trasparenza
nei processi politici (glasnost’) e un nuovo modo di pensare alla
politica estera.
Erano tutti punti di eguale importanza, questo elenco non
costituisce quindi un ordine di priorità. Tuttavia, nel corso degli anni,
le proporzioni si sono modi cate in modo tale da non perdere solo
l’equilibrio tra le componenti ma anche l’obiettivo ultimo di quella
politica. Il processo fu quindi svuotato di contenuto.
Ricordo una visita a Zelenograd, la città della microelettronica nei
pressi di Mosca. Mi fu orgogliosamente presentato un giocattolo con i
personaggi della lepre e del lupo del cartone animato Nu, pogodi!
Un’innovazione elettronica sviluppata dall’industria della Difesa, ora
trasferita alla produzione civile. La dimostrazione non fu solo comica,
ma anche illuminante, in quanto rivelava chiaramente l’immutato e
persistente dilemma: qualsiasi cosa sviluppassero gli appartati istituti
di ricerca militari rimaneva segreta. Se la “condivisione” del sapere si
riduceva a queste insulsaggini, allora il sogno del progresso scienti co
e tecnico nell’economia civile era davvero destinato a rimanere un
sogno. L’unica cosa che venne accelerata fu l’instabilità dell’economia
e della società nel suo insieme.
La trasformazione, intesa come processo rivoluzionario per il
rinnovamento del socialismo, fu necessariamente avviata dall’alto, ma
laddove avrebbe dovuto diventare movimento di massa trovò poca o
nessuna eco. Mancarono gli stimoli a livello sociale, non ci furono
miglioramenti tangibili nei redditi e nel benessere materiale. La
democrazia da sola non era abbastanza. L’elezione dei dirigenti delle
fabbriche, il diritto delle brigate di lavoro ad avere voce in capitolo
nella determinazione dei salari, erano tutte cose buone e giuste, ma
cosa ci guadagnava l’individuo? Se c’era qualche ri essione teorica,
questa era probabilmente fondata su un ideale di umanità
completamente priva di egoismo, che trovava la propria grati cazione
esclusivamente nella vita della comunità e nell’altruismo. Ma era
qualcosa di inesistente, anche in Unione Sovietica. C’è una frase nel
famoso libro per bambini di Erwin Strittmatter degli anni Cinquanta,
Tinko, che intendeva essere polemica e diretta contro la tradizionale
immagine di sé contadina, che è ancora valida: “Le persone possono
ottenere molto quando pensano al proprio benessere”. La costante
sottovalutazione della proprietà e del suo effetto sulla coscienza
individuale ha avuto conseguenze disastrose per la perestrojka. Non
era stata attivata una forza motrice decisiva della società.
Le misure per stabilizzare l’economia non divennero mai vere
riforme, furono un lavoro lasciato a metà. Il programma dei
cinquecento giorni, per esempio, un programma di emergenza per
migliorare la situazione economica, era un’idea elaborata da singoli
esperti in materia, non dal governo, e certamente non faceva parte di
alcuna strategia.
Il nuovo modo di pensare alla politica estera – concepito non da
ultimo come alleggerimento dall’enorme spesa militare per dare
equilibrio all’economia nazionale – fu certo una benedizione per
l’umanità, ma comportò anche degli svantaggi. Mosca non riuscì infatti
a creare la stabilità politica ed economica interna necessaria per
l’introduzione della nuova politica estera e alla ne diventò
prigioniera di se stessa. Non riuscì a mantenere l’iniziativa e fu
superata dagli eventi. Baker, che incontrò Gorbačëv per la prima volta
nel maggio 1989, affermò che, contrariamente ai tanti discorsi, si
nascondevano un calo di ducia e una crescente debolezza. Questa
osservazione era corretta. Ora Mosca stava cercando di sfuggire alla
valanga che aveva messo in moto.
L’apertura e la trasparenza, che avrebbero dovuto porre ne alle
bugie e al continuo autoinganno, generarono invece nuove falsità.
Sedicenti storici avevano interpretato la storia in modo arbitrario e
molti eventi, come il massacro di Katyn’, il patto Hitler-Stalin, la
guerra russo- nlandese o la repressione della Chiesa, erano stati messi
sotto il tappeto della ragion di stato, lasciando campo libero alle
speculazioni. Fu più che giusto iniziare nalmente un confronto critico
sul passato, ma fu un grave errore trascurare di stabilire un
programma di ricerca serio in modo da porre delle pietre angolari atte
a evitare abusi politici. Dopo che per più di settant’anni era stato detto
alle persone cosa era vero e cosa era giusto, era estremamente ingenuo
sperare che da un giorno all’altro potessero essere in grado di stabilire
facilmente tutte le verità. Se tutto a un tratto la storia dell’Unione
Sovietica veniva ridotta a una serie di errori e di crimini, non c’è da
stupirsi se il Partito, che intendeva se stesso come forza portante dello
Stato, alla ne avesse deciso di abolire se stesso e anche lo Stato.
Meglio la ne della paura che una paura senza ne, si disse la maggior
parte dei 240 milioni di cittadini sovietici. Quelli che pensavano che
valesse ancora la pena difendere l’Unione Sovietica, nonostante tutti
gli errori, erano chiaramente diventati una minoranza.
La perestrojka è stata qualche volta paragonata alla Primavera di
Praga, entrambe vollero creare un socialismo dal volto umano. Credo
però che ci fossero due differenze fondamentali: la Primavera di Praga
crebbe come un movimento dal basso e arrivò due decenni prima del
tempo, la perestrojka fu avviata dall’alto e arrivò invece in ritardo.
Senza dimenticare che i suoi migliori pensatori – come Ota Šik,
combattente della resistenza antifascista, membro del Comitato
centrale e direttore dell’Istituto di economia dell’Accademia delle
scienze; Radovan Richta, combattente della resistenza, membro del
Comitato centrale e losofo dell’Accademia delle scienze e Zdeněk
Mlynář – diedero alla Primavera di Praga un fondamento teorico che
la perestrojka non ebbe mai. In questo senso penso soprattutto a
Zdeněk Mlynář e Jiří Pelikán. Una volta emigrato Mlynář divenne uno
scienziato politico all’Università di Vienna, mentre Pelikán andò in
Italia, dove divenne membro del Partito socialista e deputato al
Parlamento europeo. Mantenemmo la nostra amicizia grazie a un
rapporto epistolare.
Mlynář aveva studiato Legge insieme a Gorbačëv all’Università
statale Lomonosov di Mosca, non fu quindi un caso che l’abbia
incontrato nel dicembre 1992 a un seminario presso la Fondazione
Gorbačëv. Nel suo intervento tentò un’analisi critica e un bilancio della
Primavera di Praga e della perestrojka, al ne di trovare possibili
approcci al socialismo democratico. Non aveva più legami con
Gorbačëv, la delusione per il suo fallimento era stata troppo grande.
Nel 1968 Mlynář era stato segretario del Comitato centrale e in
seguito aveva fondato il movimento per i diritti civili “Charta 77”.
Tornò a Praga nel 1989, dove cercò di riorganizzare la sinistra. Morì
nel 1998 all’età di sessantotto anni.
La Primavera di Praga era stata in fondo la preparazione per il XIV
Congresso del PCC. Questo doveva fondere le riforme in un progetto
coerente da riversarsi in un programma di partito che rispondesse alla
“missione umanistica del movimento comunista” e a un “nuovo
modello di socialismo, corrispondente al contesto cecoslovacco”.
Lavorarono al progetto intellettuali e funzionari e ovunque nel paese
se ne parlava.
Che cosa dire invece dei “riformatori” e dei “democratici” in
Unione Sovietica? El’cin si fece un nome come Primo segretario del
comitato cittadino del PCUS di Mosca, ispezionando personalmente
negozi e aziende per sollecitare la disciplina. L’intento era populista,
non ebbe grandi effetti e certamente non ebbe alcun impatto sulla
letargia delle masse. El’cin fece poco per la perestrojka, sia nel bene
sia nel male.
Poi c’erano gli opportunisti, come Jurij Afanasev, che il 21 ottobre
1990, a un convegno a Mosca cui presero parte circa duemila persone,
fondò il movimento “Russia Democratica”. L’avevo conosciuto in
Giappone nell’aprile dello stesso anno, durante un dibattito televisivo
sui cambiamenti in atto in Europa centrale e orientale. Afanasev, che
ora si presentava come storico, era stato segretario del Comitato
centrale del Komsomol e aveva lavorato come docente presso il
Collegio della stessa istituzione per poi dedicarsi alla ricerca,
diventando professore. Tutto ciò era stato declamato durante il
dibattito ma per il resto non fu molto convincente: criticò Gorbačëv,
ma le sue posizioni erano nebulose.
La ne della perestrojka non signi cò solo un tragico fallimento per
Gorbačëv, ma determinò anche la ne di tutte quelle forze che
venivano descritte, o che si presentavano, come la “sinistra” e la
“destra” del PCUS, indipendentemente dal fatto che avessero
partecipato o meno al putsch di agosto. Nessuno era senza
responsabilità o senza colpe per il crollo dell’URSS, eppure tutti erano
ancora al proprio posto. A qualunque forza politica all’interno della
CSI si facesse riferimento, a parte rarissime eccezioni, tutti venivano
dal PCUS e anche i quadri più giovani avevano come minimo
guadagnato i primi galloni nel Komsomol.
Per l’Occidente, che ancora non vuole rinunciare al proprio
anticomunismo, solo quelli che hanno rinunciato completamente al
passato comunista e che sono diventati fervidi anticomunisti contano
come democratici. Nessuno seppe soddisfare questo criterio meglio
del caro amico di Kohl, Boris El’cin. Decine di migliaia di russi
seguirono poi il suo esempio. La via della perestrojka, possiamo dire
oggi di fronte al suo fallimento, condusse direttamente al più primitivo
capitalismo. Tuttavia, sarebbe astorico e ingiusto ritenere responsabile
solo la generazione di Gorbačëv. Le radici risalgono addirittura a
prima del 1917.
Lenin scrisse una volta con grande lungimiranza: “Un paese
arretrato può facilmente iniziare la rivoluzione perché il suo
avversario è putrescente o perché la sua borghesia è disorganizzata,
ma per continuarla avrà bisogno di mille volte più circospezione,
cautela e perseveranza”.
Dopo l’ignominioso crollo dell’Unione Sovietica, non si può che
constatare obiettivamente che questo paese non è mai riuscito a
sviluppare mille volte più circospezione, cautela e perseveranza.
Credo che la scomparsa dell’URSS abbia rivelato alcuni aspetti che
dovrebbero essere ulteriormente esaminati.
1) L’obiettivo della creazione di nuovi rapporti di produzione di tipo
socialista è stato disatteso. La struttura economica, compresi i rapporti
di proprietà, ha attraversato diverse fasi. La guerra civile e l’intervento
straniero avevano generato il comunismo di guerra, con tutto il suo
sistema di comando. Con l’introduzione della sua nuova politica
economica (NEP), Lenin cercò di cambiare i metodi di direzione e
gestione in modo da promuovere l’interesse materiale e usare
l’esperienza e la tecnologia delle imprese capitaliste. Per farlo, fu
persino disposto a limitare la sovranità della proprietà statale nei
confronti dell’impresa privata.
Nel periodo successivo si sviluppò tutto ciò che fu no alla ne
determinante per l’economia sovietica: eccessiva centralizzazione
nella piani cazione e nella gestione, burocrazia, assenza di
responsabilità e riduzione a sole due forme di proprietà: proprietà
statale e cooperativa. Quest’ultima era anche considerata come una
forma “inferiore” che si sarebbe dovuta superare.
2) Il sistema politico dell’Unione Sovietica era deformato. Lenin,
negli ultimi anni, in virtù della sua conoscenza ed esperienza
nell’edi cazione del potere sovietico, pose l’accento sul rischio di
burocratizzazione all’interno del Partito e dello Stato, sui pericoli
dell’abuso di potere e della repressione. Inoltre, il carrierismo e
l’opportunismo soffocarono ogni barlume di democrazia e obiettività.
Il XX Congresso del 1956 fu molto importante nel descrivere il
problema; tuttavia, le radici dello stalinismo non furono sradicate. I
tentativi di riforma non furono suf cientemente strutturati e alla ne
non ebbero effetti reali. Gorbačëv lo aveva capito. Il motto “Più
democrazia signi ca più socialismo” divenne un faro per il
risanamento del sistema politico e sociale dell’URSS. Alle parole non
seguirono però fatti, in quanto non c’erano progetti concreti.
3) Il crollo dell’Unione Sovietica generò un’enorme s ducia nella
politica in generale e la perdita di tutti i valori tradizionali. L’idea
stessa del socialismo fu seriamente screditata. Poco prima di morire
Kadar disse che i comunisti avevano dovuto superare due prove:
passare attraverso il terrore e le persecuzioni perpetrate dalle forze
reazionarie fu la prima prova, ma la seconda era la prova del potere, e
in questa i comunisti avevano fallito.
Se oggi alla Duma e in altri parlamenti si formano importanti
schieramenti politici di sinistra, ciò non è solo la dimostrazione che si
sta sviluppando qualcosa di nuovo. All’Occidente piace dipingere
queste forze politiche a tinte fosche, come tentativi di tornare a un
sistema ormai morto, anche se questo è del tutto fuori discussione. Nel
frattempo, però, anche da parte della popolazione sta riaf orando la
prospettiva di un superamento della profonda crisi economica, sociale
e culturale, attraverso delle alternative al capitalismo sfrenato. Il
socialismo democratico non è allora un’idea assurda.
Questi cambiamenti sono illustrati per esempio anche dalle mie
relazioni con Kupcov, il vicepresidente del Partito comunista della
Federazione russa (KPFR), e con il suo gruppo alla Duma. Quando ci
vedemmo nel dicembre 1992, il nostro incontro fu, nel migliore dei
casi, al limite della legalità. Ora invece ci incontriamo nelle sedi del
Parlamento russo, parliamo della salvaguardia della riforma fondiaria
in Germania, del possibile supporto del suo gruppo parlamentare alla
lotta contro la persecuzione politica e legale in Germania e di altre
questioni simili. Insomma, si tratta di normale vita parlamentare.
Per Gorbačëv e per coloro che gli sono politicamente af ni, non c’è
più spazio oggi all’interno dello spettro politico della sinistra. Sono
stati di fatto superati dagli eventi. Agli inizi del suo lavoro come
Segretario generale, Gorbačëv aveva mostrato un certo senso per la
necessità politica e aveva avuto infatti il coraggio di iniziare a fare ciò
che era necessario. Con le sue iniziative sul disarmo nucleare non solo
ha mosso le acque stagnanti della politica mondiale, ma ha dato
coraggio all’umanità contro la raccapricciante prospettiva
dell’annientamento nucleare. L’“impero del male”, il nemico
ideologico dell’Occidente, alla ne fu distrutto, dopo essersi
giustamente meritato la stima della comunità internazionale.
Gorbačëv seppe distinguersi, innanzitutto, perché cercava consiglio
negli altri, sapeva ascoltare ed era capace di sviluppare idee originali,
tuttavia, perse rapidamente queste capacità. Il democratico Gorbačëv
abbandonò progressivamente le maniere democratiche. La sua
originaria modestia fece posto alla vanità e la sua ducia in se stesso
crebbe più di quanto ci si potesse aspettare. Le sue iniziative
individuali nel trattare con i leader mondiali mostravano sempre più la
sua impreparazione rispetto ai compiti che doveva affrontare. Mentre
la controparte preparava scrupolosamente ogni discorso e ogni vertice
in qualsiasi ambito, compresi i servizi segreti, Gorbačëv credeva di
potersi af dare esclusivamente al proprio fascino personale o
eventualmente all’aiuto dei consulenti. Questa prassi andava
obiettivamente a spese dell’URSS e dei paesi alleati.
Il cambiamento sociale cui diede inizio fu un programma senza
programma. Gorbačëv agiva pragmaticamente, ma il fatto che si
concentrasse solo su alcune questioni rendeva evidente la mancanza di
idee coerenti. La perestrojka rimase un’opera incompiuta che ebbe
effetti secondari imprevisti e in de nitiva imprevedibili.
Le carenze più gravi nella politica estera di Gorbačëv riguardarono
la sua politica nei confronti della Germania e il contributo sovietico al
Trattato due più quattro. Chiaramente non si rese mai conto delle reali
dimensioni storiche di quei negoziati. È vero che Mosca non fu messa
sotto pressione per colpa sua, ma per quell’errore della storia
mondiale che aveva portato all’apertura non concordata del con ne
della DDR, tuttavia, è anche vero che Mosca non seppe cogliere
nessuna occasione per in uenzare il futuro corso della storia. Gorbačëv
raggiunse il culmine della follia diplomatica al suo incontro con Bush
il 30 maggio 1990 a Washington, quando suggerì che la Germania
riuni cata potesse fare parte allo stesso tempo della NATO e del Patto
di Varsavia. Bush era in fondo un timoniere navigato e sapeva che
gettare due ancore era meglio che gettarne una sola. Questo non
mostrò solo l’ingenuità politica di Gorbačëv, ma anche come fosse
diventato sempre più facile per l’Occidente manipolarlo. Per rimanere
nella metafora: la sua ancora aveva spezzato la catena e si era persa
nel mare della politica, mentre quella della controparte continuava
invece ad assicurare saldamente la nave.
L’amara verità è che l’Unione Sovietica fu l’unica, tra le potenze
vincitrici della Seconda guerra mondiale, ad aver perso la guerra per
così dire a posteriori. L’URSS fu in ne smantellata e da quel
momento l’in uenza della Russia si arrestò ben al di qua dei con ni
dell’ex Unione Sovietica. Anche il Patto di Varsavia fu spezzato e la
NATO si espanse inesorabilmente verso est. Sarebbe esagerato dire
che ventotto milioni di cittadini sovietici hanno perso la vita invano
nella Grande guerra patriottica, tuttavia, alla luce della situazione
attuale, la “ricompensa” per aver liberato mezza Europa dal agello
fascista appare ingiustamente misera. L’offerta di un “Partenariato per
la pace” fatta alla Russia, tanto per rassicurare El’cin di fronte alla
prevista entrata nella NATO di Polonia, Repubbliche baltiche,
Repubblica Ceca e Ungheria, fu vista persino dal caro amico di Kohl,
El’cin, come semplice propaganda.
Achromeev, richiamato dal pensionamento da Gorbačëv per fargli
da consigliere militare, era consapevole della scon tta ed è forse
questa l’unica ragione per cui sostenne il fallito colpo di stato
dell’agosto 1991. Lo considerava probabilmente l’ultima possibilità per
evitare l’inevitabile. Quando il 24 agosto si suicidò nel suo uf cio al
Cremlino, non fu a causa della delusione per la disfatta dei golpisti, ma
per la consapevolezza di un completo e totale fallimento: “Non posso
vivere se la mia patria crolla insieme a tutto ciò che pensavo fosse lo
scopo della mia vita. La mia età e la mia esperienza mi danno tutto il
diritto di farla nita. Ho combattuto no all’ultimo”, scrisse. In una
seconda lettera chiese al suo segretario di pagare i suoi debiti alla
mensa del Cremlino e lasciò cinquanta rubli a questo scopo…
Gorbačëv una volta aveva detto a Boldin il motivo per cui aveva
riportato in politica questo irreprensibile generale, che aveva
combattuto per quattro anni contro la Germania di Hitler e aveva
guadagnato i propri galloni sui fronti di Leningrado e Stalingrado:
“Capisci perché ho bisogno di lui? Se lo avrò al mio anco, sarà più
facile risolvere i problemi legati al disarmo. I nostri militari e
l’industria della difesa si dano di lui ed è rispettato anche in
Occidente”.
Con gli altri consulenti Gorbačëv ebbe meno con itti. Sagladin,
Šachnazarov, Černjaev e Medvedev trovarono in ne posto nella
Fondazione Gorbačëv, come anche Krasin, l’ex Presidente
dell’Accademia delle scienze sociali presso il Comitato centrale del
PCUS. A quanto sembra, per loro la ne dell’Unione Sovietica non fu
una perdita così grave. Era il prezzo della libertà di cui aveva parlato
una volta Šachnazarov.
Leggendo le sue memorie o quelle di Černjaev, è sorprendente
quante volte ripetono di aver messo in guardia Gorbačëv rispetto alla
sua ingenua credulità e cercato di fargli notare i suoi errori. Se
davvero è andata così, sorge spontaneo chiedersi perché non abbiano
interrotto la loro collaborazione e abbiano invece continuano a
lavorare con lui.
Non ho mai perso la mia stima per Šachnazarov e Sagladin; ci
conosciamo da troppo tempo e troppo bene, anche se politicamente
siamo molto distanti. Coloro che in passato non perdevano occasione
per ricordarci i principi comunisti e che si comportavano come se
incarnassero la visione del mondo marxista-leninista sono nel
frattempo diventati anticomunisti.
Jakovlev, la presunta mente della perestrojka, diede le dimissioni
dal Politburo nel luglio 1990 e nì nel Consiglio presidenziale di
Gorbačëv. Era attratto dal movimento democratico, le cui idee erano
però lontane dalla realtà sovietica. Il mio programma economico è
semplice, disse nel settembre 1991: lasciare che le persone lavorino e
non impedire che facciano soldi. Le piccole e medie imprese, il
commercio e soprattutto i servizi devono essere privatizzati. I kolchoz
che funzionano sopravvivranno, gli altri spariranno…
Ah, se solo fosse stato così semplice! Le osservazioni di Jakovlev
raggiunsero il colmo quando disse che negli Stati Uniti, in Francia, in
Svezia, in Germania e in molti altri paesi si potevano già vedere
elementi del socialismo. Ovviamente quest’uomo aveva
completamente dimenticato i suoi cari Marx e Lenin. Colui che
doveva indicare la direzione aveva perso la bussola.
Primakov, l’ex capo dello spionaggio estero, divenne ministro degli
Esteri e rimase fedele a se stesso e alle proprie convinzioni. Tenni una
corrispondenza con lui sulla riforma fondiaria a proposito
dell’ignoranza e della mancanza di tatto che Gorbačëv aveva
dimostrato in materia. Primakov rispose prontamente e chiaramente,
criticando Gorbačëv.
Tra i membri del Politburo estromessi dalla direzione o fatti
arrestare da Gorbačëv, incontrai più volte Ryžkov e Luk’janov. Oggi
sono deputati della Duma. L’ex Primo ministro Ryžkov fa parte del
gruppo Potere al popolo, all’interno del blocco di sinistra, mentre
Luk’janov è capo della commissione giuridica. Entrambi furono tra i
promotori della dichiarazione della Duma che condannava la
persecuzione politica e legale contro i cittadini della DDR nella
Repubblica federale tedesca.
Nel settembre 1997, quando il Presidente Herzog andò a Mosca, non
visitò la Duma, ma scelse di parlare solo con la commissione per le
relazioni estere. Probabilmente era a conoscenza di questa risoluzione
adottata nell’aprile 1997. Durante la conferenza stampa che seguì
all’incontro, gli fu posta una domanda in proposito e lui dovette
rispondere. Herzog, come fanno i capi di Stato in situazioni dif cili,
assicurò che avrebbe affrontato il problema, ma nora non ha fatto
nulla.
CAPITOLO VIII
DOPO LA PERESTROJKA

Non c’è dubbio: oggi siamo più avveduti di prima. Le valutazioni


che siamo in grado di fare oggi un tempo erano impensabili.
Semplicemente, sappiamo molte più cose, anche se sono ancora
moltissime quelle che ignoriamo. Con il passare degli anni, si presenta
il pericolo che certe considerazioni vengano scambiate per saccenteria
e che chi formula la critica venga sospettato di comportarsi come se
avesse sempre saputo tutto n dall’inizio. No, né all’epoca né oggi ho
mai creduto di essere più intelligente di Gorbačëv, ci differenzia magari
la capacità di prendere le distanze da ciò che abbiamo fatto. Credo di
essere una persona capace di analisi autocritica e per questo cerco di
ripercorrere con attenzione gli eventi. Ho condiviso le mie
considerazioni sulla perestrojka perché sono convinto che l’analisi
abbia senso nella misura un cui, riconoscendo gli errori, permette di
non ripeterli in futuro.
A differenza dei molti che all’epoca della trasformazione hanno
inneggiato al socialismo e che ora invece non ne vogliono più sapere
nulla, io continuo a essere convinto che il socialismo democratico sia
l’unica prospettiva in grado di dare un futuro all’umanità.
Dopo il crollo del socialismo reale, nessuno desidera ripetere
quanto è già avvenuto – e perché sennò avremmo voluto
trasformarlo? – e di fronte al capitalismo reale, il Partito del
socialismo democratico ha scelto una terza via. Nel suo statuto,
adottato al primo Congresso del Partito nel febbraio 1990, si
affermava: “Il Partito del socialismo democratico è un partito
socialista su suolo tedesco. Il ne e il contenuto della sua attività
politica sono un socialismo democratico e umano”. E anche nel
programma si diceva: “Il PDS, in quanto partito socialista, è aperto a
tutte le forze popolari che hanno l’obiettivo di creare una società fatta
di relazioni umane solidali e uguaglianza sociale. Il Partito si rivolge in
particolare agli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori e di tutti i
salariati. Non ambisce al monopolio del potere. Ri uta inoltre
l’intolleranza intellettuale, la presunzione di infallibilità, lo spirito
missionario e il settarismo politico gli sono estranei. Per noi non esiste
alcun monopolio della verità”.
Oggi, nessuno parla più di terza via. La prospettiva di un’alternativa
sociale che incorpori gli aspetti positivi del socialismo che abbiamo
conosciuto e che, a ragione, è fallito, e del vecchio capitalismo, sembra
oggi dif cilmente concepibile. Il capitalismo selvaggio domina a livello
mondiale, tranne che in Cina, che ha adottato un proprio modello di
sviluppo, a Cuba, in Venezuela e nella Corea del Nord; tutti paesi in
lotta per la sopravvivenza che per diversi motivi meritano la nostra
solidarietà. Ciò signi ca che, come Partito socialista, dobbiamo fare i
conti con la realtà e riconoscere che la nostra in uenza sulla società
borghese è ormai minima. La visione di una società giusta, una società
socialista rimane l’obiettivo, ma il percorso sarà molto, molto lungo e
includerà nuovi errori e nuovi sbagli. Rimane invariata l’attualità
dell’augurio che Lenin rivolgeva ai compagni a Capodanno: speriamo
quest’anno di non fare gli stessi stupidi errori dell’anno scorso!
Tra le nuove prospettive c’è la consapevolezza che non siamo i soli
ad avere questo desiderio. Anche in altri paesi ci sono movimenti e
partiti mossi da motivazioni simili e a volte addirittura identiche alle
nostre. Dobbiamo stabilire un contatto con loro e mantenerlo perché è
sempre valido il vecchio principio: insieme siamo più forti.
Per esempio in ex Unione Sovietica sono nati diversi gruppi, di cui
dovremmo seguire da vicino il lavoro. Verso la ne dell’autunno del
1992, fui ospite a una conferenza della Fondazione Gorbačëv in cui si
discuteva degli sviluppi in Europa dopo la ne del socialismo reale.
Ammetto senza problemi che non fu senza un certo imbarazzo che
chiesi un colloquio personale con Gorbačëv. Lui non ri utò il mio
invito, tuttavia, nonostante le numerose pause, in nessuno dei due
giorni della conferenza fu possibile organizzare un incontro. Da allora
non ci incontrammo più e probabilmente la nostra ultima
corrispondenza all’inizio dell’estate del 1998 non favorì la sua buona
disposizione. In occasione di una conferenza al Centro congressi
internazionale (ICC), tra gli applausi degli ex proprietari terrieri, i
quali gli pagarono un generoso gettone di presenza, aveva dichiarato
che la questione degli espropri e della riforma fondiaria tra il 1945 e il
1949 non erano mai entrate nei negoziati sulla riuni cazione tra Bonn
e Mosca. Ritenni quindi opportuno scrivere una lettera per rendere
l’ex Segretario generale consapevole della propria amnesia selettiva.
Alla conferenza di Mosca del 1992, ci fu anche di che essere lieti.
Seppi da Kupcov che era in preparazione la fondazione di un nuovo
Partito comunista russo, cosa che avvenne l’anno seguente. Il partito
conta circa 600.000 membri ed è l’unico ad aver sviluppato una solida
rete di strutture in tutto il paese. A San Pietroburgo e Mosca è ancora
poco rappresentato, ma altrove è ben radicato. Alla Duma
rappresenta oggi il gruppo più grande1. Si sono riunite in questo
partito le principali forze comuniste riformiste, la maggior parte delle
quali ha preso le distanze da Gorbačëv, ma si pone ancora in difensa
del socialismo e del suo rinnovamento. Al suo interno coesistono
diversi punti di vista sul passato sovietico. In questo, come nella
concezione politica del Partito, svolge un ruolo anche l’in usso del
pensiero russo risalente a prima di Lenin. Questo non aiuta la
comprensione da parte dell’Europa occidentale, poiché si tratta di
esperienze appartenenti a una cultura sconosciuta e aliena, di cui no
a poco tempo fa sapevamo poco o nulla.
La politica di questo partito sotto Zjuganov, che alle ultime elezioni
presidenziali ha raggiunto il ballottaggio, è essenzialmente pragmatica
e non per forza visionaria. Ma questo è probabilmente il destino di
tutti i partiti di sinistra che hanno deciso di accettare le regole della
democrazia parlamentare. Il KPFR vuole servire il paese e proteggere
il popolo dagli effetti devastanti della politica di El’cin. Sebbene siano
in corso discussioni e analisi teoriche, poiché un partito non può
portare avanti i propri compiti senza una solida base teorica, in questo
senso rimane ancora molto lavoro da fare.
All’interno del blocco di sinistra della Duma ci sono anche altri
partiti e movimenti che si oppongono a El’cin e che non vogliono
avere a che fare con Gorbačëv, ma che provengono da altre scuole di
pensiero, come il Partito agrario guidato da Lapšin o il movimento
Potere al popolo di Ryžkov. Egor Gajdar, ex redattore del “Komunist”,
l’organo teorico del PCUS, fa parte di “Jabloko” (Mela), un cosiddetto
movimento riformista radicale. Come Primo ministro di El’cin, fu lui
ad aprire le porte all’economia di mercato, che praticamente in un
solo anno costò ai russi i risparmi di tutta una vita. El’cin agì come
aveva sempre fatto e sacri cò il presunto colpevole sull’altare della
democrazia.
Gorbačëv non svolge più alcun ruolo nella politica interna sovietica.
Fatta eccezione per occasionali apparizioni nei tendoni della birra
bavaresi o a eventi commemorativi come l’anniversario per i 750 anni
dalla costruzione della cattedrale di Colonia (ancora mi chiedo che
bisogno c’era di invitare un ex capo di Stato sovietico in un’occasione
del genere), Gorbačëv non riempie più i titoli dei giornali. Nel 1997 ha
presentato un libro intitolato Das neue Denken. Politik im Zeitalter der
Globalisierung2 in cui ri ette sugli eventi attuali. Anche io come lui
credo che oggi più che mai sia necessario un nuovo modo di pensare
per uscire dai vecchi tracciati, ma Gorbačëv non ri ette su un nuovo
pensiero ma solo su vecchie tesi. Inoltre, scrive che l’unico signi cato
della sua perestrojka fu di portare la libertà al popolo russo, il che
implicava che non avrebbe dovuto applicarsi ai paesi dell’Europa
centrale e orientale. Questo tipo di libertà o di non interferenza, a mio
avviso, potrebbe essere tradotto meglio con la parola irresponsabilità.
I paesi del blocco orientale non erano solo dei vicini di casa, erano
uniti da molti trattati, erano alleati in una comunità basata su valori
comuni. Indipendentemente dalle circostanze che hanno dato la luce a
questa comunità e da come Mosca ne mantenne per decenni l’unità e
la purezza in modo dittatoriale, la loro storia richiedeva l’impegno
dell’Unione Sovietica di sciogliere queste alleanze in modo ordinato,
colto, civile e anche democratico. Ma questo non avvenne. Ritengo
che sia estremamente cinico tras gurare a posteriori questo collasso
come qualcosa di intenzionale.
Gorbačëv aveva iniziato il processo con coraggio e grande slancio.
Per questo si meritò il nostro apprezzamento e la nostra ammirazione.
Seppe infondere la speranza nei socialisti di tutto il mondo che si
potessero aprire nuovi orizzonti. Ciò che rimane è poco più di un
retrogusto amaro.
A tutti quanti, promotori e sostenitori della perestrojka, sorge
spontanea la domanda: come andare avanti dopo il fallimento del
socialismo reale? Alla ne di questo secolo si affaccia la necessità di
un nuovo pensiero per affrontare il secolo venturo. Questo impone
un’analisi critica del secolo appena trascorso.
Gorbačëv scrisse: “Nel 1945 il fascismo tedesco fu distrutto, ma in
alcuni paesi, a partire dalla stessa Unione Sovietica, i regimi totalitari
rimasero in piedi. Ai nostri tempi, il crollo di tali regimi è una
caratteristica essenziale dello sviluppo politico globale”. È corretto
porre le questioni in termini tanto assoluti, senza prima rispondere
alla domanda su che cosa ha caratterizzato la Seconda guerra
mondiale? Nell’interpretazione di Gorbačëv non era forse implicito
considerare il con itto mondiale come un confronto tra due regimi
totalitari piuttosto che, almeno dal punto di vista sovietico, come una
guerra di liberazione in risposta all’aggressione fascista? Equiparare i
due regimi come fece Gorbačëv è inaccettabile. Naturalmente è lecito
confrontare tra loro gli stati e i sistemi politici, ma metterli sullo stesso
piano è sintomo di totale miopia storica. Lo storico tedesco Gerd
Koenen scrive nel suo libro Utopie der Säuberung (Utopia
dell’epurazione) di “parallelismi”, ma in nessun caso di “identità”.
Al contrario: proprio attraverso un confronto diretto si rendono ancor più evidenti i
differenti contesti storici di partenza e le diverse impostazioni dei rispettivi progetti
rivoluzionari nazionale e sociale. Sotto diversi aspetti i due sistemi furono, in realtà,
diametralmente opposti.

Seguendo la logica di Gorbačëv, il senso della perestrojka avrebbe


dovuto essere l’abolizione dell’Unione Sovietica e del socialismo.
L’attuale costituzione della Russia dovrebbe quindi essere vista come
una benedizione. Ma anche la stessa Chiesa russa ha ormai adottato
una prospettiva diversa e critica apertamente la disintegrazione della
società in piccoli gruppi di super-ricchi e in una massa crescente di
persone che vivono nella povertà e nella miseria.
Se ne accorse anche Gorbačëv. Ora però accusa El’cin di non aver
dato forma alla Russia seguendo le idee della perestrojka. Da
inguaribile ottimista non si dà per vinto. “Finché la Russia avrà
Gorbačëv e la sua Fondazione” ha dichiarato al canale televisivo
tedesco ZDF, “rimane una speranza per il futuro”. Sulla situazione in
Russia, sul capitalismo primitivo e selvaggio e sulle sue conseguenze,
sull’enorme debito estero e sull’instabilità della situazione politica,
non ha detto una sola parola, anche perché altrimenti avrebbe dovuto
dire qualcosa anche a proposito delle cause storiche che lui stesso ha
contribuito a generare. Invece, ha preferito attaccare ancora più
duramente del Presidente russo il blocco di sinistra alla Duma.
Secondo la più classica tradizione anticomunista ha inveito contro il
Partito dei lavoratori socialisti, contro il movimento Potere al popolo,
contro il Partito agrario e soprattutto contro i comunisti, malgrado i
loro membri provengano, proprio come lui, El’cin e gli altri
“democratici”, tutti dallo stesso partito: il PCUS.
Questa singolare visione degli eventi passati e presenti ha portato
nel frattempo Gorbačëv dalla parte degli ex latifondisti tedeschi, i
quali, in conformità agli accordi di Potsdam, a seguito di una riforma
agraria democratica, avevano perso la terra in quanto criminali di
guerra nazisti. Gli espropri furono completamente legali e neanche nei
colloqui tra Bonn e Mosca è mai stato ipotizzato che le decisioni prese
all’epoca dalla Germania orientale potessero essere messe in
discussione. Un altro tentativo di riportare indietro la ruota della
storia potrebbe adesso avvenire con la Corte costituzionale federale
tedesca che conta sull’aiuto di Gorbačëv come “testimone di Stato”, il
quale nega ora che ci sia mai stato un tale accordo. Chi avrebbe mai
pensato che fosse possibile?
Quasi mi devo vergognare di essere stato de nito il “Gorbačëv
tedesco”, un’etichetta che certo non mi sono dato da solo. Il fatto che
no al 1989 fossi stato visto in Occidente come un “portatore di
speranza”, era forse legato all’aspettativa che, vedendo come era stato
corteggiato Gorbačëv da quel momento in poi, mi sarei magari
comportato in seguito come lui. Quando si resero conto che il ruolo
del becchino non faceva per me e che ancora, nonostante ogni
distanza critica dal socialismo reale, ero legato all’idea di un
socialismo democratico, improvvisamente smisi di essere un
“portatore di speranza”. Non fu dif cile riconoscere che la “speranza”
dalla parte del capitale era ben diversa dalla “speranza” che si nutriva
dalla nostra parte. Io e il mio governo volevamo trasformare il
socialismo, volevamo una DDR diversa. Ma quando divenne chiaro
che all’interno della DDR non c’era più una maggioranza a sostegno
di questa prospettiva, il 1° febbraio 1990 rispettai questo corso della
storia dichiarando che anch’io ero a favore di una Germania diversa,
ma che la “Germania patria unita” che avevo in mente non era una
Repubblica federale allargata. Le cose andarono diversamente. Il
potere del denaro e dell’economia si ri etté sulla politica dominante e
fecero in modo che determinate concezioni venissero applicate alla
società, come lo sono tutt’oggi.
Il socialismo reale ha fallito, ma il capitalismo non ha vinto. È solo
ciò che è sopravvissuto e le sue caratteristiche sono le tensioni sociali
crescenti, le guerre e i con itti regionali, lo sfruttamento dell’uomo e
della natura, l’ingiustizia dentro la società e nelle relazioni tra gli stati,
la minaccia nucleare e l’autodistruzione.
Le forze politiche che si considerano genericamente “di sinistra”
non possono limitarsi alla sola critica delle condizioni esistenti, ma
devono anche sviluppare progetti praticabili per il futuro a cercare di
ottenere il favore delle maggioranze all’interno della società e nel
mondo.
Il 20 dicembre 1989, la SPD stabilì a Berlino un nuovo Programma
che avrebbe dovuto traghettarla verso il prossimo millennio. Era una
professione di fede socialista democratica fondata sui valori di libertà,
giustizia e solidarietà. La libertà era intesa nel senso di Rosa
Luxemburg, come libertà di dissenso, oltre che nel signi cato di Marx,
secondo cui la libertà del singolo è una precondizione per la libertà di
tutti. Nella DDR di Ulbricht e Honecker questa era una parola
sconosciuta. Abbiamo provato a conquistare questa libertà nella
Repubblica democratica tedesca quando ancora esisteva, ma ci siamo
presto resi conto che benché in occidente “la libertà” fosse sulla bocca
di tutti, nella vita reale non aveva un grande signi cato. I dissidenti –
specialmente quando criticavano le condizioni esistenti e si
mostravano scettici anziché entusiasti – furono presto emarginati,
anche da quel partito che aveva appena posto questi valori
fondamentali nel proprio programma. “L’azione collettiva, non solo
l’individualismo egoista, crea e assicura le condizioni
dell’autodeterminazione individuale”, c’era scritto nel suo programma.
In effetti, la pratica del capitalismo di mercato è contraria alla
solidarietà e la risposta a questa atomizzazione e mancanza di
solidarietà può essere data solo dall’azione collettiva. Solo se la SPD
adotterà questi valori fondamentali, portandoli dal nostro secolo a
quello venturo, potrà avere un futuro e potrà essere in grado di
contribuire a determinarlo. La rinuncia a questi valori la priverebbe
della sua essenza.
Lo stesso vale per il PDS che, secondo il suo programma, intende il
socialismo come movimento contro lo sfruttamento dell’uomo da
parte dell’uomo. “Insieme, crediamo nel superamento del dominio
della proprietà privata capitalista. Una varietà di forme di proprietà,
privata, cooperativa, municipale e statale dovrebbero servire i bisogni
delle persone e mantenere il loro benessere naturale e sociale. Ci sono
opinioni diverse sul fatto che si possa realizzare una vera
socializzazione della proprietà attraverso una regolamentazione della
proprietà privata o che il passaggio alla proprietà pubblica debba
essere il fattore determinante, si legge nel suo programma.
Mentre l’SPD lascia aperta la questione, il PDS segnala la necessità
di una discussione. Anche per molti altri partiti e movimenti di sinistra
la questione della proprietà rimane un problema centrale. La lotta
comune contro la disoccupazione, contro l’abbattimento dello stato
sociale e per la solidarietà è importante, ma altrettanto urgente è la
necessità di un ampio dibattito sui valori del socialismo, sul suo
orientamento e sui suoi obiettivi. Se l’umanità vuole continuare a
esistere, deve imparare a pensare oltre l’orizzonte del capitalismo
reale e superarlo. Si tratta di idee che rientrano nell’ambito del
razionale e del fattibile, non si tratta di utopie irrealizzabili. Per la mia
generazione, che fu segnata dall’ideologia nazista, dalla guerra e dalla
povertà, e che dopo la guerra si ritrovò in uno stato di profonda
demoralizzazione, la nascita nella Germania orientale, nel 1946, di un
programma di diritti fondamentali per i giovani rappresentò un nuovo
inizio. Nonostante tutte le critiche fondate alla politica successiva,
l’orientamento verso il lavoro, l’istruzione e la cultura, la gioia e la
felicità, offrì ai giovani un enorme slancio vitale. In Occidente non
esisteva nulla di paragonabile. E se tra i venti milioni di disoccupati
che conta oggi l’Unione Europea, uno su quattro è giovane, quando
centinaia di migliaia di persone non ricevono alcuna formazione e
molti tirano a campare tra droghe, criminalità e prostituzione, allora
sorgono inevitabilmente delle domande sulle carenze di questa società
e sul bisogno di un suo superamento.
Certo, la storia non si ripete, e il presente non può essere
paragonato al dopoguerra. Ma oggi come allora è evidente che il
capitalismo non è in grado di risolvere i problemi esistenziali
dell’umanità. La Costituzione della Repubblica federale non dice
nulla sulla forma del sistema economico che dovrebbe prevalere nel
paese – contrariamente a quanto si crede negli ambienti della classe
dominante – e questa non deve necessariamente essere il capitalismo.
Socialismo e democrazia non sono incompatibili, anche se il nostro
tentativo di rimodellare il socialismo in questo senso ha fallito. La
strada verso il socialismo democratico è lunga ma anche Roma non fu
costruita in un giorno.
È necessario impegnarsi in un dibattito aperto e scienti co sul
futuro e trovare il coraggio di cercare alternative al capitalismo in
declino e cominciare a metterle in pratica. Per quanto mi riguarda
l’alternativa è ancora il socialismo democratico.
1
Nel 1998. [N.d.T.]
2
Il nuovo pensiero. La politica al tempo della globalizzazione, non tradotto in italiano.
[N.d.T.]
CRONOLOGIA

11 marzo 1985: Gorbačëv viene eletto Segretario generale del


PCUS.

26 aprile 1985: il Patto di Varsavia viene esteso per altri vent’anni.

1° luglio 1985: Ševardnadze è nominato ministro degli Esteri e il suo


predecessore, Gromyko, diventa Presidente del Presidium del Soviet
supremo.

27 settembre 1985: Ryžkov diventa Presidente del Consiglio dei


ministri dell’URSS.

Ottobre 1985: il Comitato consultivo politico, il più alto organo dei


paesi del Patto di Varsavia, si riunisce a So a.

19-21 novembre 1985: vertice a Ginevra tra Gorbačëv e il Presidente


degli Stati Uniti Reagan.

15 gennaio 1986: Gorbačëv propone lo smantellamento di tutte le


armi nucleari nel mondo entro il 2000.

Marzo 1986: XXVII Congresso del PCUS a Mosca.

26 aprile 1986: a Černobyl’ avviene il più grande incidente nucleare


della storia.

Maggio 1986: al IX Congresso del Partito a Berlino, Gorbačëv


enfatizza il ruolo del mondo socialista e mette in guardia contro le
concessioni verso l’Occidente.
Luglio 1986: il Presidente francese Mitterrand visita Mosca.

28 luglio 1986: Gorbačëv, in un discorso a Vladivostok, sottolinea il


diritto dell’Unione Sovietica ad avere voce in capitolo in Asia e nella
regione del Paci co.

11-12 ottobre 1986: vertice a Reykjavik tra Reagan e Gorbačëv.

27-28 gennaio 1987: al plenum del Comitato centrale Gorbačëv


avvia la riforma delle elezioni interne del Partito.

9 aprile 1987: in un’intervista con la rivista tedesca “Stern”, Kurt


Hager dice nei confronti dell’Unione Sovietica: “Dovremmo sentirci
obbligati a cambiare la tappezzeria solo perché lo fa il nostro vicino di
casa?”.

Aprile 1987: visita del Primo ministro britannico Margaret Thatcher


a Mosca.

12 giugno 1987: Reagan fa un appello alla Porta di Brandeburgo a


Berlino: “Mr. Gorbačëv, apra questa porta! Abbatta questo muro!”.

7-8 ottobre 1987: vertice a Washington tra Reagan e Gorbačëv.

7 novembre 1987: al 70° anniversario della Rivoluzione d’ottobre,


Gorbačëv ribadisce il proprio leninismo.

Dicembre 1987: rmato il Trattato sulle forze nucleari a raggio


intermedio (INF) tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti.

13 marzo 1988: su “Sovetskaja Rossija” appare il contributo di Nina


Andreeva Non posso dimenticare i miei principi.

5 aprile 1988: la “Pravda” pubblica la risposta all’articolo di


Andreeva.

15 maggio 1988: inizia il ritiro delle truppe sovietiche


dall’Afghanistan.
29 maggio-1° giugno 1988: vertice a Mosca tra Reagan e Gorbačëv.

Giugno 1988: il partito di governo della Germania Ovest, la CDU,


considera di modi care il suo programma af nché la vecchia e
obsoleta supposizione che la “questione tedesca” debba essere
all’ordine del giorno venga cancellata. I sostenitori del cambiamento
includono Schäuble, Teltschik e Wilms.

28 giugno-1° luglio 1988: alla XIX Conferenza del Partito del PCUS,
Gorbačëv chiede un’accelerazione della perestrojka.

1° ottobre 1988: Gorbačëv è nominato Presidente del Soviet


supremo dell’URSS.

24-27 ottobre 1988: visita del Cancelliere Kohl a Mosca. In


un’intervista rilasciata dopo il suo ritorno, alla domanda sulla
riuni cazione tedesca, dichiara: “Probabilmente non vivrò abbastanza
per vederla”.

Novembre 1988: il Primo ministro britannico Margaret Thatcher


dichiara che la Guerra fredda è nita. Anche il segretario di Stato
americano Shultz nelle sue memorie cita l’anno 1988 come la ne della
Guerra fredda.

7 dicembre 1988: Gorbačëv parla all’Assemblea generale delle


Nazioni Unite a New York; retrospettivamente, è il culmine del
processo di trasformazione nella politica estera sovietica e l’inizio di
una nuova politica sull’Europa. Il Segretario generale annuncia la
riduzione unilaterale delle forze sovietiche a 500.000 uomini e
l’introduzione di misure per ridurre il potenziale offensivo del
contingente sovietico in Europa orientale.

11-26 maggio 1989: elezione dei delegati al Congresso dei deputati


del popolo.

Marzo 1989: secondo il Primo ministro ungherese Németh, in un


colloquio privato Gorbačëv dà il via libera all’apertura del con ne
ungherese.
6 aprile 1989: il quotidiano del Comitato centrale della SED, “Neues
Deutschland”, pubblica come ogni anno gli slogan per il Primo maggio.
Per la prima volta non ci sono riferimenti all’Unione Sovietica.

6 maggio 1989: alle elezioni comunali nella DDR, i candidati del


Fronte nazionale ottengono il risultato manipolato del 98,95 percento.

17 maggio 1989: il Presidente degli Stati Uniti Bush sostiene in un


memorandum che bisogna superare la marginalizzazione dell’Unione
Sovietica e integrare il paese nel sistema internazionale.

29-30 maggio 1989: a una riunione del Consiglio della NATO a


Bruxelles, Bush afferma che la sua strategia è quella di “superare la
divisione dell’Europa e creare un’unità basata sui valori occidentali”.

9-11 giugno 1989: Ševardnadze visita la DDR.

12-15 giugno 1989: Gorbačëv visita la Repubblica federale tedesca.


A Bonn, entrambe le parti si impegnano a superare la divisione
dell’Europa. Nei tre incontri faccia a faccia con Kohl, alla domanda di
quest’ultimo su ciò che Honecker pensa della trasformazione in corso
in URSS, Gorbačëv risponde che l’Unione Sovietica sta
semplicemente recuperando terreno rispetto alla DDR. Afferma che
la DDR è avanti di dieci o quindici anni e prosegue dicendo che si
stanno persino studiando le soluzioni implementate nella DDR in
politica sociale. Gorbačëv mette inoltre in guardia Kohl e l’Occidente
di non intervenire nei processi di “transizione” nell’Europa orientale
né di usarli per la destabilizzazione. Ciò annienterebbe il periodo di
pace nelle relazioni Est-Ovest. Secondo Gorbačëv, Kohl è d’accordo
“in linea di principio”.

23 giugno 1989: Hans Modrow, Primo segretario della SED a


Dresda, viene accusato dal Politburo del Comitato centrale del SED di
diffondere “idee dannose”.
26-28 giugno 1989: Honecker si reca in Unione Sovietica per una
“visita di lavoro”.
30 giugno 1989: il Gruppo di forze sovietiche in Germania (GSVG),
in gran parte di stanza nella DDR, sono ribattezzate “Gruppo di forze
occidentale”.

Fine giugno 1989: i primi “turisti” della DDR si recano


all’ambasciata della Germania Ovest a Budapest e si ri utano di
andarsene. Migliaia di persone seguono il loro esempio nelle
settimane e nei mesi successivi. Anche a Praga e a Varsavia i cittadini
della DDR tentano di partire per l’Occidente nello stesso modo.

Luglio 1989: scioperi dei minatori nei bacini minerari sovietici.


El’cin, ex membro del Politburo e capo del partito a Mosca, suggerisce
la formazione di un gruppo internazionale di deputati nel Soviet
supremo.

8-9 luglio 1989: Riunione del Comitato politico consultivo a


Bucarest, Honecker lascia anticipatamente per motivi di salute.

Luglio 1989: Gorbačëv presenta al Consiglio d’Europa la sua idea di


una “Casa europea”, in cui due diversi sistemi sociali possano
coesistere paci camente.

9 agosto 1989: il ministro dell’Uf cio del Cancelliere, Seiters, fa un


appello sottolineando che dall’inizio dell’anno più di 46.000 cittadini
della DDR hanno lasciato illegalmente il paese: i tedeschi dell’Est
devono restare nel loro paese o intraprendere le vie legali, ma devono
astenersi dal cercare rifugio nelle ambasciate della Germania
occidentale.

10 agosto 1989: il ministro degli Esteri ungherese Horn si chiede di


fronte al Consiglio dei ministri chi mai può voler vivere in un sistema
come quello della DDR, segnalando in questo modo che l’Ungheria
non agirà più da guardia di frontiera per impedire ai cittadini della
DDR di partire per l’Occidente.
18 agosto 1989: Kohl afferma in un’intervista che sia lui sia
Honecker volevano continuare a “perseguire una politica di buona
volontà”. Ciò è ribadito in una lettera del Cancelliere a Honecker, che
arriva a Berlino nello stesso momento. Tuttavia, a Bonn avviene un
cambio di rotta.

19 agosto 1989: il rettore dell’Accademia delle scienze sociali,


Reinhold, afferma in un’intervista radiofonica che la DDR doveva
esistere solo come “alternativa socialista alla Repubblica federale”.

21 agosto 1989: a Praga viene interrotta la manifestazione in


memoria della repressione della Primavera di Praga del 1968.

24 agosto 1989: in una telefonata, Gorbačëv spiega a Rakowski,


Primo segretario del Comitato centrale del Partito operaio uni cato
polacco, che ci sarebbero state conseguenze se le posizioni chiave nel
nuovo governo polacco non fossero state occupate da comunisti. Due
giorni dopo, il capo del KGB Krjučkov si reca a Varsavia. Su pressione
di Mosca, persone “af dabili” vengono nominate ai ministeri
dell’Interno e della Difesa. La Polonia rimane nel Patto di Varsavia.

25 agosto 1989: il Primo ministro ungherese, Németh, in carica da


marzo, visita Bonn. In un colloquio con Kohl e Genscher, Németh e
Horn informano sulla loro intenzione di lasciare emigrare i rifugiati
della DDR in Occidente. Kohl gli avrebbe assicurato un prestito di
500 milioni di marchi, ma i partecipanti a questa conversazione ancora
oggi continuano a negare con veemenza.

10 settembre 1989: l’Ungheria annulla diversi accordi con la DDR e


apre il suo con ne occidentale ai cittadini della Repubblica
democratica. Nei due mesi successivi, circa 43.000 tedeschi dell’Est
lasciano così il paese.

11 settembre 1989: al Congresso della CDU a Brema alcuni delegati


suggeriscono il ripristino dei con ni tedeschi del 1937. Kohl non
risponde a queste affermazioni.
11-14 settembre 1989: il membro del Politburo Ligačëv si trova nella
DDR, dove, senza consultare Gorbačëv, annuncia la visita di
quest’ultimo in occasione del 40° anniversario della DDR.

Metà settembre 1989: di ritorno dal Giappone, la Thatcher si ferma


a Mosca. Porta a Gorbačëv un messaggio da parte di Bush: Mosca non
dovrebbe vedere nei cambiamenti dell’Europa orientale una minaccia
ai suoi interessi di sicurezza. Gorbačëv risponde che gli interessi di
sicurezza dell’URSS includono l’effettività del Patto di Varsavia.

19-20 settembre 1989: una sessione plenaria del Comitato centrale


del PCUS discute sulle proteste in Estonia, Lettonia e Lituania con cui
viene ricordato il 50° anniversario della rma del patto Hitler-Stalin.
In Armenia e Azerbaigian, Moldavia e Abcasia si ripresentano
con itti etnici; in Ucraina forze nazionaliste chiedono l’indipendenza
da Mosca.

26-27 settembre 1989: a margine dell’Assemblea generale delle


Nazioni Unite a New York, Genscher assicura a Ševardnadze che la
Repubblica federale non farebbe nulla per indebolire la stabilità della
DDR. Genscher conferisce con Fischer su una soluzione al problema
delle emigrazioni attraverso le ambasciate; Genscher propone di far
partire i rifugiati a Praga con il treno attraverso la DDR.

29 settembre 1989: Fischer invia a Genscher un messaggio che arriva


a New York da Berlino Est: la proposta è stata accettata. Vola
immediatamente a Bonn e poi a Praga, dove rende pubblica la notizia.

6-7 ottobre 1989: Gorbačëv si reca nella DDR.

12 ottobre 1989: riunione del Segretariato del Comitato centrale


della SED con i primi segretari delle sezioni distrettuali della SED.

13 ottobre 1989: Honecker riceve i rappresentanti degli altri partiti


del blocco orientale.
16 ottobre 1989: le manifestazioni del lunedì di Lipsia, che da
settembre si tengono settimanalmente, raggiungono il loro picco con
150.000 partecipanti. Proteste di massa hanno luogo a Dresda, Erfurt,
Rostock, Jena, Neubrandenburg, Halberstadt e in altri luoghi della
DDR.
18 ottobre 1989: al IX Plenum del Comitato centrale della SED
Honecker viene rimosso dall’incarico. Egon Krenz prende il suo posto.

24 ottobre 1989: il Segretario generale Krenz viene eletto Presidente


del Consiglio di Stato e Presidente del Consiglio di difesa nazionale
dalla Camera del popolo.

Fine ottobre 1989: Kohl respinge l’idea di una possibile iniziativa


politica per la Germania, affermando che progetti del genere
appartengono alla fantasia: gli interessi di Gorbačëv sono
completamente diversi.

1° novembre 1989: Krenz visita Mosca.

4 novembre 1989: manifestazione con oltre 500.000 partecipanti a


Berlino.

7 novembre 1989: si dimette il Consiglio dei ministri della DDR.

8 novembre 1989: si dimette il Politburo del Comitato centrale della


SED, ma Krenz rimane Segretario generale. Modrow viene eletto nel
nuovo Politburo.

9 novembre 1989: apertura del con ne della DDR verso la


Repubblica federale e Berlino Ovest.

17 novembre 1989: Modrow è incaricato dalla Camera del popolo di


formare un nuovo governo e propone una “comunità di stati fondata
sui trattati” con la Repubblica federale.

18-24 novembre 1989: A Praga, si dimettono i dirigenti del Partito e


dello stato cecoslovacco.
28 novembre 1989: il cancelliere Kohl propone al Bundestag un
programma in dieci punti per l’uni cazione tedesca.

1° dicembre 1989: la Camera del popolo annulla il diritto


costituzionale della SED a guidare il paese.
2-3 dicembre 1989: vertice su una nave al largo di Malta tra
Gorbačëv e il presidente Bush. Gorbačëv respinge indignato la
richiesta di Bush secondo cui il superamento della divisione
dell’Europa può avvenire solo sulla base dei “valori occidentali”.

3 dicembre 1989: dimissioni del Politburo del Comitato centrale


della SED.

4 dicembre 1989: a Mosca, Gorbačëv informa i leader del Patto di


Varsavia sul suo incontro con Bush. La DDR è rappresentata dal
Primo ministro Modrow, dal segretario del Consiglio di Stato Krenz, e
dal ministro degli Esteri Fischer. Gorbačëv si consulta con Modrow.

5 dicembre 1989: A Berlino si riunisce per la prima volta la Tavola


rotonda centrale.

6 dicembre 1989: la Camera del popolo solleva Krenz dalle sue


funzioni.

8-9 dicembre 1989: ha luogo il Congresso straordinario del Partito, il


popolo della DDR riceve le scuse per le politiche della SED e viene
avviato un fondamentale rinnovamento del partito. Gysi è eletto
Presidente del Partito.

11 dicembre 1989: il Segretario di Stato americano Baker visita la


DDR.

15 dicembre 1989: il ministro degli Esteri francese visita Modrow.


Gysi riceve Jakovlev, membro del parlamento di Mosca.

17-18 dicembre 1989: prosegue il Congresso della SED. Il partito


viene rinominato SED-PDS.
18 dicembre 1989: Modrow incontra a Potsdam il Presidente
federale tedesco von Weizsäcker.

19 dicembre 1989: Modrow conferisce a Dresda con il cancelliere


Kohl.
21-22 dicembre 1989: visita uf ciale del Presidente francese
Mitterrand nella DDR.

25 dicembre 1989: in seguito alla caduta della dirigenza del Partito e


dello Stato rumeno viene giustiziato il Conducător Ceaușescu.

27 dicembre 1989: la Tavola rotonda centrale rilascia una


dichiarazione sul rischio di estremismo di destra.

29 dicembre 1989: Havel viene nominato a Praga Presidente della


Cecoslovacchia.

15 gennaio 1990: il Primo ministro della DDR prende parte per la


prima volta alla Tavola rotonda centrale. A Berlino i manifestanti
occupano la sede centrale della Stasi a Lichtenberg.

22 gennaio 1990: la Tavola rotonda centrale suggerisce di votare il 6


maggio una nuova Camera del popolo.

22-24 gennaio 1990: il ministro degli Esteri britannico si reca in


visita da Modrow.

29 gennaio 1990: il Primo ministro Modrow incontra i partiti della


Tavola rotonda centrale. Vengono stabiliti la creazione di un governo
di responsabilità nazionale e la data delle elezioni della Camera del
popolo.

30 gennaio 1990: Modrow si trova a Mosca in visita di lavoro.

1° febbraio 1990: Modrow annuncia il piano “Germania patria


unita”, che prevede la riuni cazione delle due repubbliche tedesche
per fasi successive.
2 febbraio 1990: Gorbačëv riceve Gysi.

5 febbraio 1990: la Camera del popolo riconosce il governo di


responsabilità nazionale.

5-7 febbraio 1990: durante una sessione del Comitato centrale del
PCUS viene deciso di rimuovere dalla Costituzione il ruolo guida del
Partito comunista e di adottare una costituzione presidenzialista.

9 febbraio 1990: il segretario di Stato americano Baker è in visita a


Mosca.

10 febbraio 1990: Kohl e il ministro degli Esteri Genscher


conferiscono a Mosca con Gorbačëv e Ševardnadze.

13 febbraio 1990: a Bonn, Modrow stabilisce con Kohl i termini


delle negoziazioni sull’uni cazione economica e monetaria.

20 febbraio 1990: un comitato misto di esperti si mette al lavoro per


preparare l’uni cazione monetaria. Accordi concreti saranno conclusi
solo dopo le elezioni della Camera del popolo del 18 marzo.

24 febbraio 1990: Kohl conferisce con Bush a Washington. Viene


concordata l’entrata della Germania unita nella NATO.

25 febbraio 1990: Congresso pre-elettorale del PDS: Modrow viene


eletto Presidente onorario del Partito.

5 marzo 1990: la Tavola rotonda centrale decreta una carta sociale


che contribuirà a garantire i futuri diritti per i cittadini dell’Est.

6 marzo 1990: Modrow e i membri del governo di responsabilità


nazionale conferiscono con Gorbačëv.

12-15 marzo 1990: in Unione Sovietica entra in vigore la nuova


costituzione presidenzialista, Gorbačëv diventa presidente.
18 marzo 1990: l’Alleanza per la Germania vince le elezioni politiche
della Camera del popolo.

12 aprile 1990: la Camera del popolo rati ca l’elezione di Lothar de


Maizière come Primo ministro del governo di larghe intese.

24 aprile 1990: Kohl e de Maizière concordano a Bonn l’avviamento


dell’uni cazione economica, monetaria e sociale dal 1° luglio.

29 aprile 1990: Gorbačëv e de Maizière conferiscono a Mosca.

5 maggio 1990: a Bonn, iniziano i negoziati tra le quattro potenze


vittoriose della Seconda guerra mondiale e i due stati tedeschi, il
cosiddetto Trattato due più quattro.

18 maggio 1990: a Bonn viene rmato il Trattato sull’uni cazione


economica, monetaria e sociale tra la RFT e la DDR.

29 maggio 1990: El’cin diventa Presidente del Soviet supremo della


RSFS Russa.

31 maggio 1990: vertice a Washington tra Bush e Gorbačëv.

8 giugno 1990: a margine della conferenza del Comitato politico


consultivo Gorbačëv conferisce con de Maizière.

22 giugno 1990: a Berlino si tiene il secondo ciclo di negoziati sul


Trattato due più quattro.

1° luglio 1990: il marco tedesco occidentale diventa la valuta


uf ciale della DDR.

1°-11 luglio 1990: il XXVII Congresso del PCUS elegge Gorbačëv


come Segretario generale. El’cin si dimette dal PCUS.

10 luglio 1990: inizio dei negoziati tra la DDR e il RFT su un


secondo trattato.
15 luglio 1990: Kohl negozia con Gorbačëv a Mosca e a
Železnovodsk.

17 luglio 1990: terzo ciclo di negoziati sul Trattato due più quattro a
Parigi.

22 agosto 1990: la Camera del popolo della DDR adotta una nuova
legge per le elezioni nella Germania riuni cata.

23 agosto 1990: il parlamento stabilisce per il 3 ottobre l’adesione


della DDR alla RFT in conformità dell’articolo 23 della Costituzione
della Repubblica federale.

31 agosto 1990: rma del secondo trattato tra la DDR e la RFT che
regola il ripristino dell’unità tedesca.

9 settembre 1990: vertice a Helsinki tra Bush e Gorbačëv.

12 settembre 1990: a Mosca si concludono i negoziati sul Trattato


due più quattro con la rma di un trattato sulla regolamentazione
de nitiva della Germania.

20 settembre 1990: la Camera del popolo e il Bundestag rati cano il


secondo trattato di Stato.

2 ottobre 1990: a mezzanotte la DDR cessa di esistere.

4 ottobre 1990: al Reichstag di Berlino si tiene una riunione


congiunta della Camera del popolo e del Bundestag. Si forma un
governo completamente tedesco.

14-15 novembre 1990: si incontrano a Mosca i rappresentanti dei


partiti eredi dei partiti comunisti al potere nel blocco orientale no al
1989.

2 dicembre 1990: le prime elezioni tedesche sostengono il governo


di coalizione conservatore-liberale a Bonn.
4-5 gennaio 1991: a Mosca viene sciolto il Consiglio di mutua
assistenza economica (Comecon).

25 febbraio 1991: il Patto di Varsavia viene smantellato.

17 marzo 1991: in un referendum sulla continuazione dell’URSS – al


quale non partecipano sei repubbliche – il 76,4 percento degli elettori
delle restanti repubbliche conferma il proprio sostegno all’Unione.

23 aprile 1991: Gorbačëv si accorda con i capi di nove repubbliche


sulla preparazione di un nuovo contratto dell’Unione.

2 giugno 1991: El’cin viene eletto Presidente della RSFSR, Popov


sindaco di Mosca e Sobčak sindaco di Leningrado.

Luglio 1991: pubblicazione del nuovo programma del PCUS.

30 luglio 1991: vertice a Mosca tra Bush e Gorbačëv.

18-21 agosto 1991: a Mosca un comitato per lo stato di emergenza


tenta un colpo di stato, si arriva agli scontri militari.

Agosto 1991: dopo la Lituania, la prima repubblica a dichiarare


l’indipendenza dall’URSS l’11 marzo 1990, altre dodici repubbliche
seguono il suo esempio tra il 20 agosto e il 16 dicembre.

24 agosto 1991: Gorbačëv si dimette dalla carica di Segretario


generale del Comitato centrale del PCUS e suggerisce al Comitato
centrale lo scioglimento del Partito. Come Presidente, per decreto,
ordina che le risorse del PCUS passino sotto il controllo delle autorità
locali.

6 novembre 1991: El’cin vieta il PCUS e il Partito comunista russo.

1° dicembre 1991: un referendum conferma l’indipendenza


dell’Ucraina.
8 dicembre 1991: i presidenti della Russia (El’cin), dell’Ucraina
(Kravčuk) e della Bielorussia (Šuškevič) istituiscono la Comunità
degli stati indipendenti (CSI), a cui si uniscono successivamente altre
repubbliche. Ciò porta alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.

25 dicembre 1991: Gorbačëv si dimette da Presidente dell’URSS. La


ne dell’Unione Sovietica è uf ciale.
SCHEDE BIOGRAFICHE

Abalkin, Leonid Ivanovič, nato nel 1930. Nel 1986 direttore


dell’Istituto di Economia, tra il 1989 e il 1991 vicepresidente del
Consiglio dei ministri dell’URSS, membro dell’Accademia russa delle
scienze e consulente di Gorbačëv. Morto nel 2011.

Achromeev, Sergej Fëdorovič, nato nel 1923. Tra il 1979 e il 1984


primo vicecapo dello Stato maggiore, tra il 1984 e il 1988 capo dello
Stato maggiore delle Forze armate sovietiche e Primo viceministro
della difesa, tra il 1989 e il 1991 fu consigliere di Gorbačëv. Morto nel
1991.

Afanasev, Jurij Nikolaevič, nato nel 1934. Nel 1987 fu rettore


dell’Istituto di storia e archivi di Mosca, nel 1991 Rettore
dell’Università russa per le discipline umanistiche, cofondatore del
movimento “Russia democratica”.

Andreeva, Nina Aleksandrovna, nata nel 1938. Segretario generale


del Partito comunista dei bolscevichi di tutta l’Unione Sovietica,
fondato a San Pietroburgo nel novembre 1991.

Andropov, Jurij Vladimirovič, nato nel 1914. Funzionario di partito


in Carelia, attivo nel ministero degli Esteri, ambasciatore in Ungheria,
Segretario del Comitato centrale del PCUS, tra il 1967 e il 1982, capo
del KGB tra il 1973 e il 1984, membro del Politburo tra il 1982 e il
1984, Segretario generale del Comitato centrale del PCUS. Morto nel
1984.

Arbatov, Georgij Arkadevič, nato nel 1923. Nel 1967 fu direttore


dell’Istituto sovietico degli studi sugli Stati Uniti e il Canada,
consigliere di politica estera di Gorbačëv. Morto nel 2010.

Baker, James, nato nel 1930. Tra il 1988 e il 1992 Segretario di Stato
degli Stati Uniti d’America per gli affari esteri.

Baklanov, Oleg Dmitrievič, nato nel 1932. Dal 1983 al 1988 ministro
della Meccanica generale, dal 1988 al 1991 Segretario del Comitato
centrale del PCUS, responsabile per il complesso industriale militare,
partecipò al putsch dell’agosto 1991.

Beresovskij, Boris Abramovič, nato nel 1946. Dal 1996 al 1997


vicesegretario del Consiglio di sicurezza della Federazione russa,
incaricato per l’intervento armato in Cecenia, dal maggio 1998
segretario del Consiglio della CSI. Morto nel 2013.

Berija, Lavrentij Pavlovič, nato nel 1899. Dal 1938 al 1945


Commissario del popolo per gli affari interni e capo dell’NKWD, dal
1946 al 1953 membro del Politburo, nel 1953 ministro dell’Interno.
Giustiziato nel 1953.

Boldin, Valerij Ivanovič, nato nel 1935. Redattore alla “Pravda”, dal
1985 al 1987 consulente di Gorbačëv per le questioni agricole, dal 1987
al 1991 capo del Dipartimento affari generali del Comitato centrale
del PCUS, partecipò al putsch dell’agosto 1991. Morto nel 2006.

Bovin, Aleksandr Evgen’evič, nato nel 1930. Capo del gruppo


consultivo del Comitato centrale PCUS, commentatore politico per il
giornale “Izvestija”, Ambasciatore russo in Israele, giornalista
freelance.

Brežnev, Leonid Il’ič, nato nel 1906. Dal 1964 al 1982 Segretario
generale del Comitato centrale del PCUS, dal 1960 al 1964 e dal 1977
al 1982 capo del Presidium del Soviet supremo, dal 1957 al 1982
membro del Politburo. Morto nel 1982.

Bush, George H.W., nato nel 1924. Presidente degli Stati Uniti dal
1988 al 1992. Morto nel 2018.
Ceaușescu, Nicolae, nato nel 1918. Dal 1965 al 1989 Segretario
generale del Comitato centrale del Partito comunista rumeno, dal 1974
al 1989 Presidente della Romania. Giustiziato nel 1989.

Chruščëv, Nikita Sergeevič, nato nel 1894. Dal 1939 al 1964 membro
del Politburo, dal 1953 al 1964 Primo segretario del Comitato centrale
del PCUS, 1958 al 1964 capo del Consiglio dei ministri. Morto nel
1971.

Dzasochov, Aleksandr Sergeevič, nato nel 1934. Ambasciatore


sovietico in Siria, dal 1988 al 1990 Primo segretario del comitato
regionale dell’Ossezia del Nord, nel 1990-91 membro del Politburo, nel
1998 Presidente dell’Ossezia del Nord.

El’cin, Boris Nikolaevič, nato nel 1931. Dal 1976 al 1985 Primo
segretario del comitato regionale di Sverdlovsk (Ekaterinburg), nel
1985 segretario del Comitato centrale del PCUS, dal 1985 al 1987
Primo segretario del comitato cittadino di Mosca, dal 1987 al 1989
vicepresidente del Comitato di Stato per le costruzioni, nel 1991
Presidente della RSFSR. Morto nel 2007.

Evtušenko, Evgenij Aleksandrovič, nato nel 1933. Scrittore, poeta,


drammaturgo e regista. Morto nel 2017.

Falin, Valentin Michailovič, nato nel 1926. Dal 1971 al 1978


ambasciatore sovietico a Bonn, dal 1986 al 1988 direttore dell’agenzia
stampa APN, dal 1988 al 1991 capo del Dipartimento internazionale
del Comitato centrale del PCUS, nel 1990-91 segretario del Comitato
centrale. Morto nel 2018.

Fëdorov, Rafael Petrovič, germanista, a lungo collaboratore e


consulente per il Comitato centrale del PCUS, dal 1988 al 1991 primo
vicecapo del Dipartimento internazionale del Comitato centrale del
PCUS, giornalista freelance. Morto nel 1994.
Gajdar, Egor Timurovič, nato nel 1956. Dal 1990 al 1991 direttore
dell’Istituto di economia politica, dal 1991 al 1992 vicecapo del
Consiglio dei ministri e ministro delle Finanze, leader del partito
Scelta democratica della Russia (oggi Unione delle forze di destra).
Morto nel 2009.

Gorbačëv, Michail Sergeevič, nato nel 1931. Dal 1966 al 1968


segretario di partito a Stavropol’, dal 1970 al 1978 Primo segretario
della regione di Stavropol, nel 1971 membro del Comitato centrale del
PCUS, dal 1978 al 1985 segretario del Comitato centrale, dal 1985 al
1991 Segretario generale, dal 1988 al 1990 capo del Presidium del
Soviet supremo, dal 1990 al 1991 Presidente dell’URSS, nel 1991
Presidente della Fondazione Gorbačëv.

Ivaško, Vladimir Antonovič, nato nel 1932. Dal 1988 al 1989 Secondo
segretario, dal 1989 al 1990 Primo segretario del Comitato centrale del
PCUS in Ucraina, 1990 capo del Soviet supremo ucraino, dal 1990 al
1991 Vicesegretario generale del PCUS. Partecipò al putsch
dell’agosto 1991. Morto nel 1994.

Jakovlev, Aleksandr Nikolaevič, nato nel 1923. Dal 1973 al 1983


ambasciatore sovietico in Canada, dal 1983 al 1985 direttore
dell’Istituto di economia mondiale e relazioni internazionali
dell’Accademia delle scienze, dal 1986 al 1990 segretario del Comitato
centrale del PCUS e responsabile per la propaganda, cultura e politica
estera, dal 1987 al 1990 membro del Politburo, nel 1990-91 consulente
di Gorbačëv. Morto nel 2005.

Janaev, Gennadij Ivanovič, nato nel 1937. Dal 1986 al 1990 segretario
del Comitato centrale, dal 1989 al 1990 Deputy Chair, nel 1990 capo
del Consiglio centrale dei sindacati di tutta l’Unione sovietica, dal
1990 al 1991 segretario e membro del Politburo del Comitato centrale
del PCUS, dal 1990 al 1991 vicepresidente dell’URSS, partecipò al
putsch dell’agosto 1991. Morto nel 2010.
Jasov, Dmitrij Timofeevič, nato nel 1924. Maresciallo dell’Unione
Sovietica, dal 1987 al 1991 ministro della Difesa, membro del
Politburo.

Javlinskij, Grigorij Alekseevič, nato nel 1952. Esperto di economia,


nel 1990 vicecapo del Consiglio dei ministri dell’URSS, nel 1991
direttore del Centro per la ricerca economica e politica, leader alla
Duma del gruppo parlamentare Jabloko.

Kádár, János, nato nel 1912. Dal 1956 al 1988 Segretario generale
del Partito comunista ungherese, dal 1956 al 1958 e dal 1961 al 1968
Primo ministro. Morto nel 1989.

Kania, Stanisław, nato nel 1927. Nel 1980-81 Primo segretario del
Comitato centrale del Partito operaio uni cato polacco.

Koptelcev, Valentin Alekseevič, germanista, diplomatico a Bonn e


Berlino, capo settore al Dipartimento internazionale del Comitato
centrale del PCUS no al 1991, in seguito, per un certo periodo
direttore della delegazione a Berlino dell’Ambasciata russa in
Germania.

Kravčuk, Leonid Makarovič, nato nel 1934. Nel 1989-90 Secondo


segretario del Comitato centrale del Partito comunista ucraino, nel
1990-91 capo del Soviet supremo ucraino, dal 1991 al 1994 Presidente
dell’Ucraina.

Krjučkov, Vladimir Aleksandrovič, nato nel 1924. Dal 1974 al 1988


capo del Primo direttorato centrale del KGB, dal 1978 al 1988
vicecapo del KGB, dal 1988 al 1991 capo del KGB, nel 1989-90
membro del Politburo, partecipò al putsch dell’agosto 1991. Morto nel
2007.

Kudrjavcev, Vladimir Nikolaevič, nato nel 1923. Dal 1973 al 1989


direttore dell’Istituto per lo Stato e il diritto, nel 1988 vicepresidente
dell’Accademia delle scienze dell’URSS. Morto nel 2007.
Kupcov, Valentin Aleksandrovič, nato nel 1937. Dal 1985 al 1990
Primo segretario del comitato regionale di Vologda, nel 1990-91
segretario del Comitato centrale del PCUS, nel 1991 Primo segretario
del Comitato centrale del Partito comunista della RSFSR, dal 1993
vicepresidente del Comitato centrale del Partito comunista della
RSFSR.

Lebed, Aleksandr, nato nel 1950. Generale in Afghanistan,


comandante della 14ª Armata sovietica, da luglio a settembre 1996
segretario del Consiglio di sicurezza russo, nel 1998 governatore della
regione di Krasnojarsk. Morto nel 2002.

Ligačëv, Egor Kuz’mič, nato nel 1920. Dal 1965 al 1983 Primo
segretario del comitato regionale di Tomsk, dal 1983 al 1990 segretario
del Comitato centrale del PCUS, dal 1985 al 1990 membro del
Politburo.

Luk’janov, Anatolij Ivanovič, nato nel 1930. Dal 1985 al 1987 capo
del Dipartimento affari generali del Comitato centrale del PCUS, nel
1987-88 segretario del Comitato centrale del PCUS, partecipò al
putsch dell’agosto 1991. Morto nel 2019.
Lužkov, Jurij Michajlovič, nato nel 1936. Dal 1992 al 2010 sindaco di
Mosca.

Mazowiecki, Tadeusz, nato nel 1927. Dal 1989 al 1990 primo


ministro della Polonia. Morto nel 2013.

Medvedev, Vadim Andreevič, nato nel 1929. Dal 1978 al 1983 rettore
dell’Accademia delle scienze sociali, dal 1983 al 1986 capo del
Dipartimento per la scienza e l’educazione del Comitato centrale, dal
1986 al 1988 direttore del Dipartimento internazionale, dal 1986 al
1990 segretario del Comitato centrale, dal 1988 al 1990 membro del
Politburo del Comitato centrale del PCUS, consulente di Gorbačëv e
membro della Fondazione Gorbačëv.
Mlynář, Zdeněk, nato nel 1930. Amico di Gorbačëv da quando erano
studenti, nel 1968 segretario del Comitato centrale del Partito
comunista cecoslovacco, iniziatore del movimento “Charta 77”. Morto
del 1998.

Nazarbaev, Nursultan Abiševič, nato nel 1940. Dal 1984 al 1989 capo
del Consiglio dei ministri della Repubblica del Kazakistan, dal 1989 al
1991 Primo segretario del Comitato centrale del Partito comunista
kazako, dal 1990 al 1991 membro del Politburo del Comitato centrale
del PCUS, dal 1990 al 2019 Presidente del Kazakistan. Nel 2019, la
capitale Astana è stata ribattezzata Nursultan in suo onore.

Nemcov, Boris Efimovič, nato nel 1959. Dal 1991 al 1996


Governatore dell’oblast’ di Nižnij Novgorod, nel 1998 vicepresidente
del Consiglio dei ministri russo. Assassinato nel 2015.

Pavlov, Valentin Sergeevič, nato nel 1937. Dal 1986 al 1989 capo del
Comitato di Stato per i prezzi, dal 1989 al 1991 ministro delle Finanze
dell’URSS, nel 1991 primo ministro dell’Unione sovietica, partecipò al
putsch dell’agosto 1991. Morto nel 2003.
Plechanov, Jurij Sergeevič, nato nel 1930. Capo della sezione del
KGB per la sicurezza del Presidente sovietico.

Popov, Gavriil Charitonovič, nato nel 1936. Dal 1977 al 1988 direttore
del Dipartimento di economia dell’Università di Mosca, dal 1988 al
1990 caporedattore della rivista “Voprosy ekonomiki”, dal 1990 al 1992
sindaco di Mosca.

Portugalov, Nikolaj Sergeevič, nato nel 1928. Alto funzionario del


Dipartimento internazionale del Comitato centrale del PCUS. Morto
nel 2008.

Primakov, Evgenij Maksimovič, nato nel 1929. Dal 1977 al 1985


direttore dell’Istituto di orientalistica, dal 1985 al 1989 direttore
dell’Istituto di economia mondiale e relazioni internazionali, nel 1989-
90 Presidente del Consiglio del Soviet supremo, nel 1991 direttore del
servizio di intelligence internazionale russo, membro dell’Accademia
delle scienze, nel 1990-91 inviato di Gorbačëv per la Guerra del Golfo,
nel 1996 ministro degli Esteri, nel 1998-99 Primo ministro. Morto nel
2015.

Pugo, Boris Karlovič, nato nel 1937. Dal 1980 al 1984 capo del KGB
in Lettonia, dal 1988 al 1991 capo della Commissione centrale di
controllo del PCUS, nel 1990-91 ministro dell’Interno, partecipò al
putsch di agosto. Suicida nel 1991.
Razumovskij, Georgij Petrovič, nato nel 1936. Dal 1983 al 1985
Primo segretario del comitato regionale del Partito comunista a
Krasnodar, dal 1986 al 1991 segretario del Comitato centrale del
PCUS, responsabile per le questioni riguardanti i quadri di partito.

Reagan, Ronald, nato nel 1911. Dal 1981 al 1989 Presidente degli
Stati Uniti. Morto nel 2004.

Revenko, Grigorij Ivanovič, nato nel 1936. Dal 1985 al 1990 Primo
segretario del comitato regionale del Partito comunista a Kiev, nel
1992 vicepresidente della Fondazione Gorbačëv.

Romanov, Grigorij Vasil’evič, nato nel 1923. Dal 1970 al 1983 Primo
segretario del comitato regionale di Leningrado, dal 1976 al 1985
membro del Politburo, dal 1983 al 1985 segretario del Comitato
centrale del PCUS. Morto nel 2008.

Rusakov, Konstantin Victorovič, nato nel 1909. Dal 1963 al 1973 e


dal 1977 al 1986 capo del Dipartimento per le relazioni tra partiti
comunisti e dei lavoratori del Comitato centrale del PCUS. Morto nel
1993.

Ruckoj, Aleksandr Vladimirovič, nato nel 1947. Pilota di caccia,


Comandante divisionario delle forze d’occupazione di Afghanistan,
eroe dell’Unione Sovietica, dal 1991 al 1993 vicepresidente russo,
partecipò al sollevamento contro El’cin tra il settembre e l’ottobre
1993, Governatore di Kursk.

Rybkin, Ivan Petrovič, nato nel 1946. Dal 1987 al 1990 Primo
segretario del comitato regionale di Volgograd, nel 1991 capo
dipartimento al Comitato centrale del Partito comunista russo, 1991
copresidente del Partito socialista dei lavoratori, nel 1998 vicepremier
russo.

Ryžkov, Nikolaj Ivanovič, nato nel 1929. Dal 1982 al 1985 segretario
e capo del Dipartimento per l’economia del Comitato centrale, dal
1985 al 1991 Presidente del Consiglio dei ministri dell’URSS, dal 1985
al 1990 membro del Politburo del Comitato centrale del PCUS.

Šachnazarov, Georgij Chosroevič, nato nel 1924. Dal 1964 al 1969 e


dal 1973 al 1987 vicecapo del Dipartimento internazionale, dal 1975 al
1991 Presidente dell’associazione delle scienze politiche dell’Unione
Sovietica, dal 1988 al 1991 consulente di Gorbačëv, direttore del centro
programmi internazionali della Fondazione Gorbačëv. Morto nel 2001.

Šachraj, Sergej Michajlovič, nato nel 1956. Dal 1991 al 1994 vice
Primo ministro russo, nel 1996 vicecapo del gabinetto presidenziale
russo e rappresentante presidenziale alla Corte costituzionale.

Šarapov, Viktor Vasilevič, nato nel 1931. Dal 1982 al 1988 consulente
di Andropov, Černenko e Gorbačëv, dal 1988 al 1992 Ambasciatore
sovietico in Bulgaria.

Šejnin, Oleg Vasilevič, nato nel 1937. Dal 1987 al 1990 Primo
segretario del territorio di Krasnojarsk, dal 1990 al 1991 segretario del
Comitato centrale dell’URSS e membro del Politburo, partecipò al
putsch dell’agosto 1991.
Šelepin, Aleksandr Nikolaevič, nato nel 1918. Dal 1958 al 1961 capo
del KGB, dal 1961 al 1967 segretario del Comitato centrale del PCUS,
dal 1964 al 1975 membro del Politburo, dal 1967 al 1975 Presidente del
Consiglio centrale dei sindacati di tutta l’Unione sovietica. Morto nel
1994.

Ševardnadze, Eduard Amvroseevič, nato nel 1928. Dal 1972 al 1985


Primo segretario del Comitato centrale del Partito comunista
georgiano, dal 1985 al 1990 ministro degli Esteri dell’URSS, dal 1985 al
1990 membro del Politburo, nel 1995 Presidente della Georgia. Morto
nel 2014.

Sobčak, Anatolij Aleksandrovič, nato nel 1937. Nel 1990 sindaco di


Leningrado/San Pietroburgo. Morto nel 2000.

Solov’ëv, Jurij Filippovič, nato nel 1925. Dal 1985 al 1989 Primo
segretario del comitato regionale di Leningrado.

Starodubcev, Vasilij Aleksandrovič, nato nel 1931. Dal 1986 al 1991


Presidente del Consiglio dei kolchoz di tutta l’Unione, dal 1990 al 1991
Presidente dell’Unione dei contadini dell’URSS, partecipò al putsch
dell’agosto 1991.

Suslov, Michail Andreevič, nato nel 1902. Dal 1939 al 1944 Primo
segretario del comitato regionale di Stavropol’, dal 1947 al 1982
segretario del PCUS, dal 1952 al 1953 e dal 1955 al 1982 membro del
Politburo. Morto nel 1982.

Ulbricht, Walter, nato nel 1893. Dal 1929 al 1946 membro del
Politburo del Comitato centrale del KPD, dal 1953 al 1970 Primo
segretario del Comitato centrale della SED, dal 1960 al 1973
Presidente del Consiglio di Stato della DDR. Morto 1973.

Ustinov, Dimitri Fëdorovič, nato nel 1908. Maresciallo dell’Unione


Sovietica, dal 1976 al 1984 ministro della Difesa e membro del
Politburo del Comitato centrale del PCUS. Morto nel 1984.

Vol’skij, Arkadij Ivanovič, nato nel 1932. Dal 1983 al 1985


consulente di Andropov, Černenko e Gorbačëv, 1985 al 1988 capo di
dipartimento al Comitato centrale, dal 1988 al 1990 rappresentante di
Mosca nel Nagorno Karabakh, dal 1990 al 1992 Presidente
dell’Unione russa degli industriali e degli imprenditori, nel 1993
Presidente del Partito dei Liberi Cittadini.

Zagladin, Vadim Valentinovič, nato nel 1927. Dal 1975 al 1988


vicecapo del Dipartimento internazionale del Comitato centrale del
PCUS, dal 1988 al 1991 consulente di Gorbačëv, membro della
Fondazione Gorbačëv. Morto nel 2006.

Zaslavskaja, Tat’jana Ivanovna, nata nel 1927. Sociologa, dal 1988 al


1992 direttrice del Centro russo per lo studio dell’opinione pubblica.
Morta nel 2013.

Živkov, Todor, nato nel 1911. Dal 1954 al 1989 Segretario generale
del Comitato centrale del Partito comunista bulgaro, dal 1962 al 1971
Primo ministro, dal 1971 al 1989 Presidente del Consiglio di Stato.
Morto nel 1998.

Zjuganov, Genandij Andreevič, nato nel 1944. Dal 1990 al 1991


membro del Politburo e segretario del Comitato centrale del Partito
comunista della RSFSR, Presidente del Partito comunista russo.
BIBLIOGRAFIA

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Gorbačëv M., Perestrojka. Il nuovo pensiero per il nostro paese e per il mondo, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano 1988.
Gorbačëv M., Gipfelgespräche: Geheimprotokolle aus meiner Amtszeit, Rowohlt Verlag,
Berlin 1993.
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Kissinger H.A., Die sechs Saulen der Weltordnung, Siedler Verlag, Berlin 1992.
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Zelikow P., Rice C., Sternstunden der Diplomatie, Propyläen, Berlin 1997.
MIMESIS PASSATO PROSSIMO

Collana diretta da Paolo Bertella Farnetti

01. Alessandro Boaglio, Plotone chimico. Cronache abissine di una generazione scomoda
02. Danilo Franchi (a cura di), Raccontare la verità. Sud Africa 1996-98. La Commissione per
la verità e la riconciliazione
03. Florian Coulmas, Hiroshima. Storia e memoria dell’olocausto atomico
04. Silvia Cassamagnaghi, Quando lo zio Sam volle anche loro. Hollywood, le donne e la
Seconda Guerra Mondiale
05. Nicola Mastronardi, Ghedda . La rivoluzione tradita
06. Baris Alakus, Katarina Kniefacz, Robert Vorberg, I bordelli di Himmler. La schiavitù
sessuale nei campi di concentramento nazisti
07. Caterina Roggero, L’Algeria e il Maghreb. La guerra di liberazione e l’unità regionale
08. Roberta Cairoli, Dalla parte del nemico. Ausiliarie, delatrici e spie nella Repubblica sociale
italiana (1943-1945)
09. Esther Fintz Menascé, Buio nell’isola del sole. Rodi 1943-1945: i due volti di una tragedia
quasi dimenticata
10. Gian Paolo Caselli, La Russia nuova, Economia e storia da Gorbačёv a Putin
11. Benedetta Guerzoni, Cancellare un popolo. Immagini e documenti del genocidio armeno
12. Paolo Bertella Farnetti, Adolfo Mignemi, Alessandro Triulzi (a cura di), L’impero nel
cassetto. L’Italia coloniale tra album privati e archivi pubblici
13. Wolfgang Krieger, Storia dei servizi segreti.. Dai faraoni alla Cia
14. Manfredi Scanagatta, E l’America creò gli hippie. Storia di una avanguardia
15. Giancarlo Vigorelli, Diario moscovita. Appunti sul dispotismo russo
16. Massimiliano Santi, La stele di Axum. Da bottino di guerra a patrimonio dell’umanità. Una
storia italiana, Introduzione di Angelo Del Boca
17. massimo campanini, oltre la democrazia. Temi e problemi del pensiero politico islamico
18. Giorgio Galli, Storia d’Italia tra imprevisto e previsioni. Dal Risorgimento alla crisi europea
(1815-2015)
19. Francesco Zavatti, Comunisti per caso. Regime e consenso in Romania durante e dopo la
guerra fredda
20. Pier Paolo Portinaro (a cura di), Passioni violente e memorie contrastate. Scene del
Novecento europeo
21. Valeria Deplano e Alessandro Pes (a cura di), Quel che resta dell’impero. La cultura
coloniale degli italiani
22. Marco Di Donato, Hezbollah. Storia del Partito di Dio, introduzione di Massimo
Campanini
23. Marzia Ponso, Processi, riparazioni, memorie. L’“elaborazione del passato” nella Germania
postnazista e postcomunista
24. Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria
25. Roberto Biorcio, Il populismo nella politica italiana. Da Bossi a Berlusconi, da Grillo a
Renzi
26. Veronica Ronchi, La metamorfosi della Rivoluzione. Il liberalismo sociale nel Messico di
Salinas (1988-1994), prefazione di Massimo De Giuseppe
27. Giuseppe Deiana, La rivoluzione dei giusti. Un’alternativa alla globalizzazione
dell’indifferenza
28. Massimo Campanini, L’islam, religione dell’occidente
29. Giorgio Galli, Francesco Bochicchio, Scacco alla superclass. La nuova oligarchia che
governa il mondo e i metodi per limitarne lo strapotere
30. Giulia Grechi e Viviana Gravano (a cura di), Presente imperfetto. Eredità coloniali e
immaginari razziali contemporanei
31. David Gilbert, Amore e lotta. Autobiogra a di un rivoluzionario negli Stati Uniti, a cura di
Giacomo Marchetti e Nora Gattiglia
32. Luca Ciabarri ed Elia Vitturini (a cura di), Dopo la guerra: democrazia, sviluppo e
migrazioni in Somalia
33. Massimo Pieri, Doikeyt, Noi stiamo qui ora! Gli Ebrei del Bund nella Rivoluzione russa
34. Paolo Bertella Farnetti, Lorenzo Bertucelli e Alfonso Botti (a cura di), Public History.
Discussioni e pratiche
35. Aldo Giannuli, Elia Rosati, Storia di ordine nuovo
36. Andrea Sceresini, Nicola Palma, Maria Elena Scandaliato, Piazza Fontana, noi sapevamo.
Golpe e stragi di Stato. Le verità del generale Maletti, prefazione di Paolo Biondani
37. Aldo Giannuli, Da Lenin a Stalin. La formazione del sistema di potere sovietico
38. Gabriele Bassi, Sudditi di Libia, Prefazione di Angelo Del Boca
39. Giorgio Galli, Francesco Bochicchio, Arricchirsi impoverendo. Multinazionali e capitale
nanziario nella crisi in nita
40. Alfredo Sprovieri, Joca il “Che” dimenticato. La vera storia del ribelle italiano che s dò il
regime dei Gorillas
41. Matteo Ceschi, Un’altra musica. L’America nelle canzoni di protesta
42. Mumia Abu-Jamal, Vogliamo la libertà. Una vita nel Partito delle Pantere Nere, a cura di
Giacomo Marchetti
43. Francesco Dei, La rivoluzione sotto assedio. Storia militare della guerra civile russa 1917-
1918, Vol. 1
44. Francesco Dei, La rivoluzione sotto assedio, Storia militare della guerra civile russa 1919-
1920, Vol. 2
45. Elia Rosati, Casapound Italia. Fascisti del terzo millennio
46. Aldo Giannuli, Le spie del duce (1939-43). Lettere e documenti segreti sulla campagna di
Russia
47. Massimiliano Santi, Sguardo a Levante. La politica culturale italiana sul patrimonio
archeologico e monumentale del Dodecaneso 1912-1945
48. Filippo Colombara, Raccontare l’Impero. Una storia orale della conquista d’Etiopia (1935-
1941)
49. Paolo Bertella Farnetti, Pantere nere. Storia e mito del Black Panther Party
50. Giuseppe Deiana, Dissento dunque sono. Essere obiettori e disobbedienti nella società
plurale
51. Stefano Pisu, La cortina di celluloide
52. Luca Cerchiari, Jazz e fascismo. Dalla nascita della radio a Gorni Kramer
53. Antonio Senta (a cura di), Gli anarchici e la rivoluzione russa (1917-1922)
54. Manolo Morlacchi, La linea del fuoco. L’Argentina da Perón alla lotta armata

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