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N. 55
C
Ruth Iyob (University of Missouri-St. Louis)
Silvana Palma (Università di Napoli “L’Orientale”)
Adolfo Mignemi (Insmli, Milano)
Shiferaw Bekele (University of Addis Ababa)
Alessandro Triulzi (Università di Napoli “L’Orientale”)
Paolo Bertella Farnetti (Università di Modena e Reggio Emilia)
Giancarlo Poidomani (Università di Catania)
Alessandro Pes (Università di Cagliari)
H M
LA PERESTROJKA
E LA FINE DELLA DDR
Come sono andate veramente le
cose
MIMESIS
Titolo originale: Hans Modrow, Die Perestroika. Wie ich sie sehe
© edition ost, Berlin, 1998
Gorbačëv non poté opporsi a questi principi, tanto più che i cinesi
avevano coinvolto nel loro concetto una terza parte, il PCUS.
Quanto al Presidente del partito Hu Yaobang, Honecker aveva un
netto vantaggio su Gorbačëv. Entrambi erano stati presidenti delle
rispettive organizzazioni giovanili negli anni Cinquanta e in tale veste
avevano fatto parte del Consiglio della Federazione mondiale della
gioventù democratica (WFDY). Inoltre si conoscevano (e anche io
conoscevo Yaobang, l’avevo incontrato in Cina nel 1959. A quel
tempo, fu scattata una foto di noi che, prima del viaggio di Honecker,
avevo tirato fuori dall’album di famiglia e dato a un editore per un
libro illustrato che mostrava la continuità delle relazioni tra la DDR e
la Repubblica popolare cinese).
Incoraggiato dall’aver trovato un punto di accordo, Honecker si
aprì: recentemente, a Berlino Ovest il famoso poeta sovietico Evgenij
Evtušenko aveva dichiarato che per lui non esisteva una letteratura
dell’Est e una dell’Ovest, ma una sola letteratura tedesca. Non era
l’unico intellettuale sovietico a esprimersi in questo modo sulla
speci ca situazione politica dell’Europa centrale. Non solo ormai
avevano adottato le argomentazioni occidentali, ma avevano anche
smesso di accettare gli inviti dell’Accademia delle arti della DDR:
preferivano andare a Berlino Ovest o nella Repubblica federale.
Gorbačëv ascoltò pazientemente e promise di analizzare la
questione. Dubito che questo sia mai accaduto. Che cosa avrebbe
dovuto analizzare? Evtušenko era libero di esprimersi pubblicamente
senza dover prima consultare Mosca o il Politburo di Berlino.
Gorbačëv aveva tolto agli intellettuali la museruola che avevano
portato no a quel momento ed era quindi prevedibile che qualcuno
avrebbe detto qualche sciocchezza. Ma poiché Honecker, nella sua
sfera di in uenza, pretendeva che gli artisti si inchinassero alla linea
del Partito (e quelli che ri utavano erano espulsi o gli veniva negato il
passaporto), si aspettava che anche Gorbačëv trattasse gli artisti allo
stesso modo.
Incidenti come questo e altri simili, che no a quel momento erano
impensabili, indussero Honecker a prendere le distanze da Mosca; e su
questo l’istinto di Gorbačëv non sbagliava. Questo dissenso emerse per
la prima volta quando Kurt Hager, responsabile ideologico del
Politburo della SED, in un’intervista a “Stern”, il 9 aprile 1987, chiese al
suo interlocutore, con aria compiaciuta e riguardo all’Unione
Sovietica: “Si sentirebbe obbligato a cambiare la tappezzeria solo
perché lo fa il suo vicino di casa?”. Era chiaro: Mosca faccia ciò che
vuole, noi abbiamo nito di rinnovare.
Ormai Honecker non si tratteneva più nemmeno all’interno della
cerchia dei segretari regionali della SED. Ci aveva chiaramente fatto
capire di non essere d’accordo con la politica dei compagni sovietici e
di mettere in discussione le relazioni amichevoli esistenti tra le
organizzazioni regionali della SED e i loro corrispettivi sovietici. Io
non ero disposto ad andare così lontano. Tuttavia, cresceva anche la
mia incredulità. Quando ero a Leningrado da Solov’ëv, a volte dovevo
davvero trattenermi. Si discuteva all’in nito sul perché le cose non
andavano. La nuova concezione di una maggiore responsabilità dei
collettivi dei lavoratori non aveva raggiunto le fabbriche; tutto andava
avanti come prima, o anche peggio. Le persone non sono cani
pavloviani, che sbavano non appena la luce lampeggia. Non era stato
suf ciente dire: glasnost’ e perestrojka, eccovi la democrazia e ora
fatene uscire qualcosa. Il Partito non faceva da guida, i funzionari
lasciavano che le cose seguissero il loro corso e chiamavano questo
“autodeterminazione”. Solov’ëv non menzionò mai più
“Intensi cazione 90”, il progetto di sviluppo per l’area di Leningrado, e
il programma di visite che mi proposero si era ridotto a mero turismo
politico.
Solov’ëv però portava sempre i saluti personali da parte di Michail
Sergeevič, e non ho mai saputo se fosse per ragioni di protocollo o se
fossero autentici. Nelle sue memorie, Gorbačëv afferma che, rispetto a
Berlino, ha sempre esercitato una certa protezione nei miei confronti.
Tuttavia anche adesso non posso dire se questo fosse vero o se
semplicemente non sia un’interpretazione a posteriori.
Almeno a Leningrado tenevo delle conversazioni sincere faccia a
faccia con Solov’ëv durante le quali discutevamo anche della
situazione della SED e della DDR. Seppi che a Leningrado e a Mosca
le riserve di Honecker sui cambiamenti in atto in Unione Sovietica
erano percepite come molto forti e, da parte mia, come un rischio.
Non c’è altra interpretazione per il cenno occasionale su come avrei
dovuto comportarmi in modo da non compromettere il mio ruolo di
Primo segretario della direzione regionale della SED a Dresda.
Solov’ëv mi rivelò che lui e altri alti funzionari sovietici speravano in
un cambiamento nella dirigenza della SED. Benché restasse tutto
piuttosto vago e indistinto nella foschia diplomatica, grazie a una certa
esperienza politica riuscii comunque a capirlo. Probabilmente, proprio
a causa di questi contatti, venni improvvisamente chiamato “faro di
speranza” e potenziale “Gorbačëv della DDR” da alcuni media
occidentali. La mia situazione, che dovevo sorvegliare attentamente,
non era certo migliorata.
Quanto alla deriva incontrollata in corso all’interno del PCUS, la
critica di Honecker era pienamente giusti cata. Ma, e questo è stato il
suo errore fatale, estese la sua opposizione a qualsiasi forma di
cambiamento. Per lui l’unico mantra era: andiamo avanti! Aveva
trasformato l’oggettiva necessità di autocritica e correzione di rotta
nella formula “continuità e rinnovamento”. Ma erano solo parole. Non
veniva rinnovato nulla e non si ri etteva nemmeno sul rinnovamento.
Il culmine di tale “rinnovamento” era stata la scelta dei candidati per
le elezioni che si sarebbero tenute nel maggio 1989. Nella loro mente
un cambiamento c’era stato eccome rispetto alle pratiche passate,
perché ci sarebbero stati candidati alternativi tra cui scegliere. Non si
doveva votare il candidato nominato dal rispettivo comitato di
selezione e inserito nella lista unitaria del Fronte nazionale: ora si
aveva l’opportunità di scegliere un candidato diverso, ma nominato
dallo stesso comitato per la lista unitaria. Era come quando si andava
a scegliere l’automobile: non era certo obbligatorio prendere una
Trabant verde, si poteva tranquillamente sceglierne una blu.
Ora non c’erano dubbi, Honecker ri utava tutto ciò che sapeva
anche lontanamente di perestrojka e glasnost’. Visto dall’esterno si
comportava invece come era opportuno fare: la sua lealtà verso la
terra di Lenin non sembrava essersi incrinata. Probabilmente avrà
pensato che già in passato l’Unione Sovietica aveva attraversato fasi
dif cili e che un fallimento di Gorbačëv, cioè la sua destituzione da
Segretario generale, non sembrava poi così impossibile.
A tal proposito, va ricordata la visita a Berlino di Rusakov, il
segretario del Comitato centrale, il 21 ottobre 1981. La Repubblica
democratica tedesca, da anni in dif coltà economiche, aveva subìto un
taglio del dieci percento nella fornitura di petrolio. Questo aveva
avuto importanti ripercussioni in vari campi. Uno su tutti, mancava il
petrolio come combustibile. Molti impianti industriali e di
teleriscaldamento dovettero di conseguenza essere riconvertiti al
carbone. E questo richiese un ulteriore investimento. D’altra parte
iniziarono a mancare le valute estere, che si guadagnavano esportando
i prodotti petroliferi di maggior valore. Ora, invece, si doveva
utilizzare le rimanenze di valuta estera per comprare il petrolio sul
mercato internazionale. E i prezzi delle materie prime si erano
considerevolmente innalzati durante gli anni Settanta. Tuttavia,
secondo un accordo del Comecon, tali incrementi di prezzo si
sarebbero ri essi solo con un ritardo di diversi anni.
A causa di questo drammatico inasprimento della situazione
economica, ci si domandava se la linea di Honecker (“unità di politica
economica e sociale”) con le sue massicce sovvenzioni potesse essere
mantenuto. Naturalmente Honecker decise di imporsi. Una correzione
della linea, che avrebbe inevitabilmente portato a una riduzione degli
standard di vita, era per lui fuori discussione. Ricordo una
consultazione con i segretari regionali, che si tenne in seguito a una
riunione del Comitato centrale, in cui era stata sollevata la questione
dell’aumento del prezzo della benzina. Il petrolio era diventato scarso
e costoso, quindi ne avremmo subito le conseguenze. Heinz Keßler, un
amico d’infanzia di Honecker, a quel tempo capo
dell’amministrazione politica dell’Armata popolare nazionale (NVA),
ci fece una proposta a tal proposito che giusti cò dicendo che questo
dif cilmente avrebbe condotto a una tensione sociale a livello
generale, e che avrebbe alleviato il bilancio pubblico in modo
sensibile. La proposta non ebbe alcun seguito, dava un segnale
sbagliato ed era diretta contro la linea del Partito e quindi contro
Honecker.
Così, Rusakov venne a Berlino nell’ottobre 1981 col dif cile
compito di giusti care la riduzione della fornitura di petrolio:
Il compagno Brežnev mi ha chiesto di comunicarti di persona la nostra risposta
riguardo alle due lettere inviate dal vostro Politburo al nostro sulla questione delle
forniture energetiche.
Il compagno Leonid Il’ič mi ha incaricato di informarti che mai in vita sua ha dovuto
rmare, con profondo dolore come ora, una sincera richiesta del Comitato centrale del
PCUS ai partiti fratelli, come quella contenuta nella lettera del 4 settembre e del 10
ottobre.
La situazione si è notevolmente deteriorata dopo l’incontro in Crimea, durante il quale
sapevamo già che i raccolti non sarebbero stati positivi. La nostra valutazione fatta ad
agosto non si è rivelata realistica. I raccolti di cereali, zucchero, patate e altri prodotti
agricoli sono stati signi cativamente inferiori rispetto a quanto previsto in agosto. Solo di
cereali mancano molti milioni di tonnellate. Ci troviamo di fronte a numeri che non hanno
precedenti nella storia sovietica. Cui si aggiungono inoltre le magre annate del 1979 e del
1980… Una simile serie di disgrazie è indicativa dei tempi dif cili che stiamo vivendo. Il
cattivo raccolto ha ripercussioni dirette sul bestiame. Ma non solo, anche le riserve sono
già state esaurite… L’unica soluzione che prospettiamo è l’acquisto di grano e zucchero
all’estero con valuta straniera.
Siate certi, compagni, che abbiamo esaminato a più riprese tutte le opzioni possibili.
Una maggiore esportazione di petrolio verso i paesi capitalisti si è dimostrata l’unica
alternativa valida. Per questo motivo ci siamo rivolti ai partiti fratelli per rendere nota
questa situazione. Non è stato facile per noi. Siamo consapevoli delle grandi dif coltà che
causeremo a voi e agli altri paesi. Ma vi preghiamo di credere che nel nostro paese
abbiamo preso misure ancora più drastiche. Da quando esiste la comunità socialista, siamo
spesso venuti in aiuto in simili dif cili situazioni.
Ora siamo noi a chiedere il vostro aiuto. Non conosciamo altre soluzioni o vie d’uscita.
Il compagno Brežnev mi ha detto di riferire: se parli con il compagno Honecker, digli che
ho rmato questa richiesta con le lacrime agli occhi.
Durante la conversazione Rusakov non lasciò dubbi sul fatto che
l’Unione Sovietica fosse letteralmente con l’acqua alla gola, per cui
andavano ritenuti responsabili i pessimi raccolti dei tre anni
precedenti e la “folle politica reaganiana”. Ma nella sua verbosa
dichiarazione disse anche: “Abbiamo avuto un’avaria. Una disgrazia di
proporzioni sconosciute dall’esistenza dell’Unione Sovietica”.
Forse intendeva “avaria” in senso metaforico?
Certamente il declino dell’economia sovietica fu tutt’altro che
accidentale. “L’Unione Sovietica era quasi all’ultimo posto in
confronto agli standard di vita negli altri paesi socialisti. Lo diciamo
apertamente: così non funziona, non possiamo retrocedere oltre”.
L’Unione Sovietica era certo di fronte a un’imminente bancarotta.
Né l’imperialismo tedesco, con l’imposizione del trattato di Brest-
Litovsk (che Rusakov citò in confronto alla situazione presente), né
l’aggressione fascista (quattro decenni prima), né la Guerra fredda e la
corsa agli armamenti ne furono la causa, ma l’incapacità di sviluppare
un’economia ef ciente. Lenin aveva identi cato la produttività del
lavoro come il criterio chiave per la vittoria del socialismo sul
capitalismo. Aveva ragione, anche se non nel senso che aveva previsto.
Apparentemente, questo fatto non fu preso in considerazione. Ma
nella situazione concreta era comprensibile: se la casa va a fuoco,
bisogna prima di tutto spegnere le amme, non andare alla ricerca
delle cause dell’incendio.
“Il compagno Leonid Il’ič mi ha incaricato di informare il Politburo
della SED che un’enorme disgrazia si è abbattuta sull’URSS. Se non
siete disposti a farvi carico insieme a noi delle conseguenze, c’è il
pericolo che l’Unione Sovietica non sarà in grado di mantenere la sua
posizione attuale nel mondo e le conseguenze di ciò ricadranno su
tutta la comunità socialista.”
Non so se Honecker avesse preso la situazione sul serio, così
com’era stata descritta, o se pensava che le rivelazioni di Rusakov,
senza dubbio sconcertanti, fossero invece solo esagerazioni. La sua
risposta mi fa propendere per quest’ultima ipotesi. Si era preparato
molto bene per l’incontro e la sua risposta riempiva più di dieci pagine
di appunti.
Di fronte a Rusakov, calcolò accuratamente che la DDR aveva
consegnato all’URSS 4820 tonnellate di uranio estratto nelle miniere
di Wismut. La DDR aveva acquistato 450 tonnellate di carburante
nucleare dall’URSS per alimentare le centrali della DDR. “La
quantità di uranio rimasta in Unione Sovietica corrisponde a circa 40
milioni di tonnellate di combustibile. Quindi, se confrontiamo le
risorse energetiche che riceviamo dall’Unione Sovietica, convertite in
unità di combustibile, con le risorse energetiche che abbiamo fornito
all’Unione Sovietica, appare chiaramente che diamo più di quanto
riceviamo.” Honecker presentò all’emissario di Mosca anche le cifre
riguardanti il denaro investito dalla DDR nella miniera di Wismut, per
permettere che l’Unione Sovietica continuasse a produrre armi
nucleari e mantenesse in funzione le sue centrali. Poi disse:
“Compagno Rusakov, ti suggerisco di riferire al compagno Leonid Il’ič
Brežnev della nostra conversazione e di dirgli anche che
comprendiamo bene le dif coltà della situazione presente. Saremmo
anche disposti ad accettare subito la misura, ma siamo anche consci
che qui è in gioco la stabilità della DDR. Da noi nella DDR, la
chiusura di una fabbrica avrebbe un impatto del tutto diverso da
quello che avrebbe in Polonia”.
Honecker alludeva alla recente crisi in Polonia, dove la dirigenza di
Jaruzelski aveva cercato di riprendere il controllo della situazione
dichiarando lo stato di emergenza. La posizione esposta della DDR
rispetto alla NATO, che con nava con un paese in cui si parlava la
stessa lingua e con il quale esistevano innumerevoli legami familiari,
sembravano a Honecker motivazioni ragionevoli per ottenere una
deroga.
Non dovremmo sottovalutare il pericolo rappresentato dalla guerra mediatica condotta
dalla radio e dalla televisione contro la DDR. Dobbiamo mantenere la ducia del popolo.
Siamo profondamente rattristati dalla tragedia che ha colpito l’Unione Sovietica, anche se
non conosco i dettagli. Ma non possiamo permetterci di peggiorare ulteriormente la
situazione, vi chiedo quindi ancora una volta di rivedere la vostra decisione. D’altronde, la
stabilità della DDR ha un grande signi cato internazionale.
Così come la storia tedesca non è mai stata il risultato di sole fatiche
tedesche, la fondazione della DDR aveva avuto i suoi precursori in
patria e all’estero. Rispetto ad altre nazioni europee, la Germania si
era formata come stato-nazione relativamente tardi. Il Sacro romano
impero della nazione germanica contava no al XVIII secolo
trecentocinquanta “stati”, Napoleone e le successive guerre di
liberazione ne ridussero il numero. Il Congresso di Vienna sotto
l’egida di Metternich riorganizzò nuovamente la Germania: la
Confederazione germanica fu un’unione di trentanove stati divisi da
barriere doganali, valute, religioni e dinastie. Che i vicini vedessero di
buon occhio questo paesaggio frantumato dalla storia e dal loro stesso
intervento corrispondeva al principio romano del “divide et impera”,
un concetto antico che conoscevano bene.
Bismarck, il cancelliere della Confederazione tedesca del nord,
forgiò l’impero tedesco “con sangue e ferro” nelle guerre contro la
Danimarca, l’Austria e la Francia. Si trattava di una necessità storica,
ma questa nascita improvvisa portava con sé tutti i difetti di ciò che è
tardivo. La Germania cercò di recuperare, in fretta e violentemente,
ciò che altri stati-nazione avevano costruito e conquistato nel corso
dei secoli e che ora dovevano difendere dal nuovo contendente sorto
al centro dell’Europa: mercati, materie prime, colonie e privilegi.
Questo fece divampare una guerra per la nuova spartizione del
mondo. A Versailles, i vincitori della Prima guerra mondiale dettarono
ai vinti le condizioni della vergogna e in ne l’interpretazione dei fatti:
la Germania aveva provocato la guerra, gli altri erano soltanto vittime
e non carne ci. Questa menzogna ebbe almeno due conseguenze
fatali: in primo luogo, la maggioranza dei tedeschi avviliti meditava la
vendetta e la retti ca di quel verdetto (non solo gli imperialisti, i
nazionalisti, i militari e in seguito i fascisti, ma anche molta “gente
ordinaria” percepiva il Trattato di Versailles come un vergognoso
diktat. Questo spiega in parte il funesto successo dei nazionalsocialisti
dopo il 1933, i quali furono i più rumorosi nel protestare contro le
sanzioni del Trattato). In secondo luogo, la sinistra tedesca, per
allontanarsi dalle destre, ruppe con l’idea di nazione. I comunisti, si
diceva, erano senza patria, a meno che questa non fosse stata una
patria comunista. E in Germania, la questione nazionale era stata no
a quel momento appannaggio esclusivo delle forze reazionarie. (Le
conseguenze di questa prospettiva rozza e per nulla dialettica le
abbiamo viste nel 1989-90, quando le masse svilupparono sentimenti
apertamente più “nazionali” rispetto alla dirigenza della Germania
orientale, che negli anni Novanta rispose con slogan ingenui come
“Mai più Germania!” o “Sta’ zitta Germania!”. La necessaria presa di
distanze dal nazionalismo e dallo sciovinismo non dovrebbe mai
ridursi a un semplice ri uto.)
La Germania di Hitler aveva dato inizio alla Seconda guerra
mondiale e giustamente fu punita dai popoli della terra, che per
riparare ai crimini tedeschi chiesero che l’espiazione fosse a un tempo
collettiva e individuale. Io stesso fui internato in un campo per
prigionieri di guerra sovietico. Una parte della pena fu la divisione
prima di tutto territoriale della Germania, poi anche politica,
economica e culturale. La creazione di due stati tedeschi fu il prezzo
pagato per i crimini del “Reich millenario”.
Come a ogni criminale viene data a un certo punto la possibilità di
redimersi, così fu pure per la Germania, anche se questo andava oltre
l’immaginazione di entrambi gli stati tedeschi. Se le quattro potenze
vincitrici avessero ritenuto che la Germania avesse pagato abbastanza,
si sarebbe potuta superare la divisione…
Dalla prospettiva di Mosca, sia durante la Guerra fredda sia durante
la distensione, la zona di occupazione sovietica, che in seguito divenne
la DDR, avrebbe dovuto svolgere diverse funzioni nei confronti
dell’Occidente. Secondo il messaggio di Stalin del 7 ottobre 1949, la
fondazione della DDR era un simbolo di progresso nonché un punto
di svolta nella storia della Germania e dell’Europa. Questa visione era
ampiamente condivisa all’interno del Politburo sovietico. In una parte
della Germania esisteva la possibilità di una società alternativa. Era
l’occasione per un tentativo di edi cazione del socialismo in un paese
capitalista industrializzato. Le relazioni con i tedeschi avevano una
lunga tradizione e anche Lenin era stato germano lo. Tra le due
guerre, a livello delle relazioni statali, Berlino e Mosca erano in buoni
rapporti: basta ricordare i trattati di Rapallo, in cui i due paria della
comunità internazionale si accordarono per la cooperazione, oppure
l’intensa attività commerciale tra le due nazioni no alla prima metà
del 1941.
Il secondo fattore fu un mero calcolo di potere. Il separatista
Adenauer disse una volta – e su questo avemmo ragione a
rimproverarlo – che preferiva possedere interamente mezza
Germania, piuttosto che possedere a metà una Germania intera. Con
l’aiuto delle potenze occidentali unì le rispettive zone d’occupazione,
costituì la Repubblica federale e lavorò per la sua integrazione tra gli
alleati occidentali. Benché all’Est nessuno lo dicesse esplicitamente,
anche noi agimmo in maniera analoga. Meglio mezza Germania
interamente che la Germania intera solo a metà, tanto più che tutti gli
sforzi per l’uni cazione erano falliti. La DDR fu integrata
nell’alleanza militare orientale (naturalmente, in risposta alla
precedente integrazione della sua controparte nella NATO) e divenne,
come la Repubblica federale, il membro più fedele della sua alleanza.
Se i tedeschi fanno qualcosa, lo fanno in modo completo e coerente.
Il calcolo di Mosca era chiaro: la DDR era la punta di diamante
contro l’Occidente, una zona cuscinetto per la sicurezza dell’Unione
Sovietica, l’alleato più importante e il primo partner commerciale: una
pedina importante nella partita contro l’Occidente. A seconda della
linea dominante nel Politburo, la politica di Mosca era orientata verso
l’Europa e amichevole nei confronti della Germania oppure era
completamente russo la e orientata alle proprie esigenze nazionali. La
DDR occupava solo 108.000 chilometri quadrati, era il luogo di
dislocamento per diverse centinaia di migliaia di soldati, un’area
militare e un potenziale campo di battaglia. Ci furono diverse
dichiarazioni da parte dei comandanti in capo alle forze sovietiche
nella DDR rivolte ai vari capi di Stato in carica: “Siamo chiari, in caso
di emergenza, qui il capo sono io”. Pëtr Abrasimov, l’ambasciatore
sovietico, fu soprannominato “ambasciatore di governo” e in effetti si
atteggiava a padrone di casa. Più di una volta disse ai politici
occidentali, riferendosi a Honecker, che se non riuscivano a gestire la
situazione avrebbero dovuto andare subito da lui. Alla ne,
l’autocratico Abrasimov fu tuttavia richiamato a seguito
dell’intervento di Honecker e sostituito da Kočemasov, ma la sua
arroganza granderussa non era un’eccezione e l’atteggiamento
coloniale non nì con la sua partenza (dopotutto l’ambasciata di
Unter den Linden faceva solo ciò che pretendeva Mosca). Come
regalo di commiato, Abrasimov ricevette da Honecker una dacia nei
pressi di Mosca e, quando dovette chiamare ripetutamente Berlino per
un nuovo rubinetto, chiese persino all’ambasciata tedesca di risarcirgli
le spese telefoniche.
Contrariamente ad altre dichiarazioni che sono state fatte in
proposito, credo che l’atteggiamento di Gorbačëv sulla questione
tedesca non fosse ideologico. Considerava innaturale la divisione,
anche se sembra che ignorò che negli ultimi decenni da entrambe le
parti si erano veri cati sviluppi rispetto ai quali non si poteva tornare
indietro.
La DDR era socialista e la Repubblica federale era capitalista. Dal
punto di vista della perestrojka, il socialismo nella DDR avrebbe
dovuto essere rimodellato e migliorato, non messo in questione in
quanto tale, poiché era chiaro che al mondo non serviva un’altra
repubblica tedesca capitalista. E la Repubblica federale, che era
costituzionalmente anticomunista, dif cilmente sarebbe diventata
socialista dopo la riuni cazione dei due stati. Contro una simile
prospettiva c’erano l’estensione territoriale, la demogra a, il potere
economico e la chiara integrazione della Repubblica federale
all’interno della comunità occidentale e dei suoi valori.
Il 28 maggio 1986, a una conferenza presso il ministero degli Esteri
sovietico, Gorbačëv e Ševardnadze indicarono per la prima volta che
secondo loro l’uni cazione dei due stati tedeschi non era qualcosa di
inconcepibile. In seguito, l’idea fu discussa più di una volta da una
piccola cerchia di persone: Šachnazarov, Falin, Fëdorov, Martynov,
Bogomolov e Bondarenko, che a causa delle loro relazioni con la
Germania erano spesso tra coloro che ne discutevano in seno al
Comitato centrale e al ministero degli Esteri. Ancora una volta,
c’erano due linee di pensiero: una considerava l’uni cazione una
conseguenza logica, naturale e inevitabile, e l’altra non voleva alterare
lo status quo, specialmente perché la DDR era in de nitiva l’unico
simbolo visibile rimasto della vittoria sulla Germania nazista.
L’Unione Sovietica aveva nel frattempo perso tutti gli altri trofei di
guerra o vi aveva rinunciato, come nel caso dell’Austria. Rinunciare
alla DDR avrebbe certo signi cato il ritiro delle truppe sovietiche
dall’Europa centrale e questo era inaccettabile. Come si sarebbe
potuto giusti care un ritiro delle truppe di fronte al popolo sovietico,
che per la vittoria contro i fascisti tedeschi tra il 1941 e il 1945 aveva
versato il proprio sangue e sofferto pene indicibili?
La liquidazione di Berija, che aveva tentato di succedere a Stalin
dopo la sua morte, era stata giusti cata – e non fu mera propaganda –
adducendo che intendeva ripensare il futuro del socialismo nella
Germania Est, se una Germania “paci ca” (cioè neutrale) fosse stata
garantita dall’Occidente. Questo fu visto come un tradimento degli
interessi sovietici. Da quel momento in poi, tutti i diplomatici sovietici
sapevano, come scrive Falin nelle sue memorie, cosa sarebbe successo
a coloro che avessero pensato a qualche cambiamento politico
radicale riguardo alla questione tedesca. Inoltre, tutti gli accordi più
importanti che sono stati negoziati negli anni Settanta e Ottanta erano
basati sull’inviolabilità e immutabilità dei con ni: dal Trattato di
Mosca all’Accordo quadripartito su Berlino, dal Trattato di Base tra
DDR e RFT no agli Accordi di Helsinki. Mosca guardava con il
massimo sospetto qualsiasi presunta convergenza tra Bonn e Berlino,
e persino Gorbačëv usò quest’argomentazione per porre il veto alla
visita nella Repubblica federale che Honecker aveva previsto nel 1987.
(Può sembrare un’ironia della storia, ma i funzionari e gli esperti
dell’intelligence sovietica oggi sostengono che negli anni Ottanta
Honecker diede un contributo considerevole all’unità tedesca e anche
Šachnazarov gli attribuisce questo “grande merito” postumo.)
La decisione sovietica sull’unità tedesca venne presa durante una
riunione il 26 gennaio 1990 a Mosca. Vi parteciparono il Primo
ministro Ryžkov, Gorbačëv e il ministro degli Esteri Ševardnadze,
insieme ai consiglieri e agli esperti della Germania Jakovlev, Falin,
Achromeev, il capo del KGB Krjučkov, Šachnazarov e Černjaev. Ci
sono una serie di indizi che dimostrano come l’atteggiamento nei
confronti della questione tedesca non cambiò spontaneamente da un
giorno all’altro. La correzione di rotta avvenne molto prima. Tra le
mie carte, ho ancora il memorandum di una conversazione avvenuta il
26 aprile 1989 tra Bruno Mahlow e Koptelcev, il capo settore del
Dipartimento IV (Relazioni internazionali) del Comitato centrale del
PCUS, che all’epoca generò parecchia indignazione. Il compagno di
Mosca, responsabile per la DDR, spiegava che dal suo punto di vista
la DDR era l’anello più debole del blocco socialista, “poiché la
questione nazionale non era stata risolta”. Quest’affermazione provocò
una feroce opposizione da parte tedesca che vedeva nella DDR una
nascente nazione socialista tedesca. Koptelcev sorrise amichevolmente
e disse: “Questa valutazione ri ette la visione della dirigenza e di
parte dei membri della SED, ma non è certo quella della maggioranza
della popolazione della DDR. Questa maggioranza ragiona secondo le
categorie di una nazione in cui svolge un ruolo signi cativo anche la
superiorità economica della RFT”. Non senza malizia, Koptelcev citò
anche il Segretario generale della DDR come testimone chiave a
sostegno della sua tesi: “Che la questione nazionale nella DDR sia
ancora irrisolta è dimostrato dalla dichiarazione del compagno
Honecker, secondo cui la questione dell’unità tedesca sarebbe
completamente diversa, se si considera una possibile vittoria del
socialismo nella Repubblica federale. Al momento, tuttavia, un tale
sviluppo non sembrerebbe all’orizzonte”. Suggerì quindi che la teoria
della formazione delle due nazioni tedesche doveva essere ripensata
“da entrambe le parti e senza fretta” poiché essa non era “fondata su
basi solide”. Sebbene Koptelcev ammettesse che il compagno Semënov
era stato uno dei suoi ideatori, e con questo anche che Mosca avrebbe
dovuto assumersi parte della responsabilità per questo errore,
bisognava però prendere atto che “la realtà non aveva confermato la
teoria”.
La reazione dei nostri compagni doveva essere stata molto negativa,
il verbale riporta infatti che Koptelcev fu “reso consapevole delle
conseguenze pericolose di un simile inaccettabile approccio” e che gli
fu chiesta un’alternativa. Ovviamente Koptelcev non ne aveva, non
aveva nessuna “soluzione immediata”. Tuttavia, sarebbe stato
importante “sedersi insieme e pensare in maniera costruttiva alle
possibili alternative”.
Nella cerchia ristretta dei dirigenti le decisioni erano quindi state
prese, o almeno discusse, già prima della primavera del 1989, benché
all’esterno si applicassero ancora i vecchi modelli argomentativi. A
posteriori, si può fondatamente affermare che la politica uf ciale di
Mosca nei confronti della DDR e della Germania nel suo complesso
abbia cominciato a rivelare elementi di ipocrisia e doppiezza almeno a
partire dal 1989.
Il 26 settembre 1989, in risposta alle dichiarazioni di Kohl al
congresso della CDU, Ševardnadze disse davanti all’Assemblea
generale delle Nazioni Unite che la prospettiva di una Germania in cui
tutti i tedeschi potessero vivere in “libertà e unità” non era mai stata
così vicina alla realizzazione: “È un peccato che dopo mezzo secolo
alcuni politici stiano cominciando a dimenticare le lezioni della
Seconda guerra mondiale”. Dopodiché rievocò il noto spettro del
revanscismo mettendo in guardia tutti quelli che “hanno di mira la
revisione e la trasformazione della realtà postbellica”.
Solo pochi giorni prima, un articolo sulla “Pravda” polemizzò
contro un “piano per l’annessione della DDR”, che aveva allarmato il
diplomatico tedesco Hans-Dietrich Genscher. In un’intervista
pubblicata sullo “Spiegel” il 25 settembre, insistette sul fatto che il
governo della RFT avrebbe mantenuto le sue posizioni riguardo alla
Germania e alla DDR, ma che avrebbe proseguito a esercitare
pressioni su quest’ultima af nché avviasse le riforme seguendo il
modello dell’Unione Sovietica. Ma dichiarò anche che “non esiste né
una nazione tedesca socialista né una nazione tedesca capitalista”.
In ottobre, non ci furono da parte di Mosca né comunicati uf ciali
né dichiarazioni uf ciose sulla questione tedesca. Gorbačëv venne
controvoglia a Berlino due giorni per partecipare alle celebrazioni per
il 40° anniversario della DDR. La delegazione selezionata in un primo
momento fu sfoltita e il programma inizialmente piani cato fu ridotto
al minimo. Ci fu una riunione con il Politburo e un incontro privato
con Honecker. In quell’occasione divenne chiaro che Honecker non
godeva più della protezione del Segretario generale sovietico, ma
vigeva anche il tacito accordo secondo cui Gorbačëv non avrebbe reso
pubblico quest’ultimo aspetto. Gorbačëv assunse un tono conciliante e
pose l’accento su due punti: il primo era che più si esita e più le
decisioni dif cili diventano dolorose, mentre il secondo era che
l’Unione Sovietica non avrebbe interferito negli affari interni della
DDR.
Secondo una valutazione condotta dai sovietici, basata su fonti della
Germania occidentale, che a loro volta avevano valutato attentamente
i dati pubblicati nella DDR, quest’ultima, rispetto alla Repubblica
federale, era in ritardo nella produttività del lavoro industriale del
cinquanta percento e in campo agricolo addirittura del cinquantotto
percento. All’inizio degli anni Ottanta, Honecker annunciò che il
ritardo era sceso al trenta percento. Bisognava con urgenza fare
qualcosa.
Honecker, invece, espresse ancora una volta le sue critiche nei
confronti di Kohl e del suo ricatto, secondo cui avrebbe concesso aiuti
economici alla DDR a condizione che avesse portato avanti le riforme
politiche. Gorbačëv non reagì. Maksimyčev, il sostituto di Kočemasov,
aveva due spiegazioni sul motivo per cui Mosca non fece nulla per la
DDR in questa situazione che stava mettendo a rischio la sua stessa
esistenza.
Innanzitutto, gli apparatčiki sovietici erano talmente abituati a
identi care la “volontà del Partito” con la “volontà del popolo” da
non essere più in grado di immaginare il potenziale sovversivo dei
movimenti popolari. In secondo luogo, il governo sovietico non aveva
una soluzione per la crisi nella Germania orientale (questa mancanza
di soluzioni è una costante di tutta la perestrojka).
Tutti i tentativi di dare espressione alla nostra disapprovazione [di Mosca, N.d.A.] per
la linea suicida adottata dalla dirigenza della DDR sono stati respinti con la motivazione
che la situazione nella Repubblica è di competenza esclusiva della dirigenza della
Germania Est. Qualsiasi imposizione signi cherebbe sollevarli dalle loro responsabilità, le
quali ricadrebbero con tutte le conseguenze su di noi.
Con tutto questo ottimismo nei confronti della storia, sarebbe stato
meglio se Gorbačëv – diversamente da come fece con le sue molte altre
buone idee – si fosse battuto con vigore e rigore per la realizzazione
delle proprie intenzioni in occasione dei negoziati sull’unità tedesca.
Ahimè, resistenza, perseveranza e af dabilità politica non erano il suo
forte. Per quanto abbia apprezzato le sue dichiarazioni critiche contro
la persecuzione politica e legale dei cittadini della DDR, tra l’altro in
palese contraddizione con i suoi accordi con Kohl, ciò che mi rese
davvero furioso fu la sua posizione sulla riforma fondiaria. Il 1° marzo
1990 ribadimmo la validità della legge sull’esproprio, introdotta tra il
1945 e il 1949 nella zona di occupazione sovietica. Il 27 marzo anche il
Consiglio dei ministri dell’URSS confermò che i cambiamenti di
proprietà apportati dopo la guerra erano legalmente vincolanti e
avrebbero continuato ad avere validità anche in Pomerania, Slesia,
Prussia orientale e nel territorio dei Sudeti. Di questo sembra che
Gorbačëv non volesse proprio ricordarsene.
Per quanto mi riguarda, non ho nessuna intenzione di sollevare
Gorbačëv dalla sua responsabilità storica, in virtù delle vuote frasi
retoriche che sfoggiò quando dovette difendersi dall’accusa di aver
consegnato ad altri i paesi del socialismo reale: “E a chi li avrei
consegnati? Solo al popolo stesso!”. No, non è così semplice.
Parlare in questo caso di tradimento sarebbe altrettanto vuoto. I
cento miliardi di marchi tedeschi che Falin aveva chiesto alla
Repubblica federale come tardive benché legittime riparazioni di
guerra (dopotutto, le riparazioni erano state pagate solo dalla DDR)
non furono mai stanziati. Ancora oggi, il governo federale è reticente
a pagare un risarcimento anche minimo alle vittime della guerra e del
fascismo in Europa orientale, sebbene, in quanto successore legale del
Reich nazista, non abbia mai avuto problemi a versare le pensioni
tedesche agli ex membri delle SS in Lettonia.
No, la DDR e gli altri paesi socialisti non sono stati semplicemente
traditi o venduti da Mosca. La grande potenza sovietica ha trascurato
di rappresentarne gli interessi con coerenza e perseveranza. Interessi
che in de nitiva erano anche i suoi.
Tuttavia, almeno nel suo fallimento, Mosca fu coerente: nemmeno
gli interessi dei popoli dell’Unione Sovietica furono seriamente
rappresentati. La ne dell’URSS fu una logica conseguenza.
1
J.W. Goethe, Il re degli el , in Id., Ballate, traduzione, note e commenti di R. Fertonani,
introduzione di G. Cusatelli, Garzanti, Milano 1975. [N.d.T.]
CAPITOLO V
I RAPPORTI TRA PCUS E SED
Questo è quanto disse Falin l’11 gennaio 1991. Nel corso del nostro
successivo scambio di idee non trovammo risposta alle domande su
cosa siano esattamente il socialismo e la dottrina socialista, su cosa si
debba intendere per giustizia sociale e quale sia il rapporto tra
democrazia e socialismo. Ancora una volta fu chiaro che sei anni di
perestrojka, più che dare delle risposte, avevano posto molte domante.
La conversazione si concluse con la richiesta di Falin di contribuire
alla stesura della dichiarazione del Soviet supremo sul Trattato due più
quattro, cosa che facemmo. Secondo Falin la questione degli espropri
da parte dell’amministrazione militare sovietica tra il 1945 e il 1949 e
la garanzia che i rapporti di proprietà risultanti sarebbero stati
mantenuti erano suf cientemente disciplinate dal diritto
internazionale nella lettera tra i due ministri degli Esteri tedeschi
allegata al trattato. Rimaneva però la questione dei procedimenti
legali contro gli ex dirigenti della DDR. Proponemmo una
formulazione che si sarebbe poi ri essa nella dichiarazione uf ciale
dell’Unione Sovietica alla rati ca del Trattato due più quattro nel
marzo 1991: “Il Soviet supremo dell’URSS si aspetta che i diritti
umani dei cittadini della DDR vengano rispettati e che nessuno sarà
perseguitato per le proprie convinzioni politiche”.
Feci notare con insistenza questa dichiarazione alla Commissione
per gli affari esteri del Bundestag. Il ministro degli esteri Genscher
rispose freddamente che questa poteva essere importante per il Soviet
supremo dell’URSS, ma per il governo della Repubblica federale tali
esortazioni non avevano alcun signi cato, in quanto non facevano
parte del Trattato due più quattro.
Le relazioni tra il PCUS e la SED hanno una storia che non può
essere separata dalle persone e dai contesti internazionali. A volte
erano più aperte, a volte meno, ma avevano sempre un carattere di
tutela, che si mantenne anche con Gorbačëv, contrariamente alle sue
dichiarazioni. Nell’interesse della perestrojka, non volle rinunciare a
questo ruolo e questo ebbe delle conseguenze anche sul rapporto tra
lui e Honecker. La nascita della SED-PDS, e in seguito del PDS, fu
accompagnata dalla fondata speranza che questo rapporto sarebbe
cambiato. Dopotutto, anche sulle loro bandiere c’era scritto
rinnovamento e trasformazione. Sempre più, tuttavia, crebbe la
contraddizione tra la perestrojka di Gorbačëv e il socialismo
democratico. Con il decreto di messa al bando del PCUS del 6
novembre 1991 si concluse ogni relazione.
Parallelamente, Mosca mantenne anche i rapporti con il Partito
comunista tedesco (DKP). I compagni sovietici erano alquanto
interessati al rapporto tra i due partiti tedeschi. Poco prima della mia
conversazione con Falin dell’11 gennaio 1991 avevo avviato degli
incontri a Berlino tra i vertici del PDS e del DKP per discutere delle
nostre differenze e dei punti in comune. Lo dissi anche a Falin.
Honecker si era sbagliato quando, tre anni prima, aveva dichiarato che
la SED, la SEW (disciolta del 1990) e il DKP erano essenzialmente un
unico partito. A seguito dei mutamenti politici che si veri carono in
Germania, avevano sviluppato punti di vista diversi sia rispetto alla
valutazione del passato sia nelle ri essioni su come trasformare la
società tedesca nell’interesse della maggioranza della popolazione.
Falin ascoltò attentamente ma nemmeno lui avrebbe potuto cambiare
il corso della storia.
CAPITOLO VI
IL CROLLO
DELL’UNIONE SOVIETICA
28 giugno-1° luglio 1988: alla XIX Conferenza del Partito del PCUS,
Gorbačëv chiede un’accelerazione della perestrojka.
5-7 febbraio 1990: durante una sessione del Comitato centrale del
PCUS viene deciso di rimuovere dalla Costituzione il ruolo guida del
Partito comunista e di adottare una costituzione presidenzialista.
17 luglio 1990: terzo ciclo di negoziati sul Trattato due più quattro a
Parigi.
22 agosto 1990: la Camera del popolo della DDR adotta una nuova
legge per le elezioni nella Germania riuni cata.
31 agosto 1990: rma del secondo trattato tra la DDR e la RFT che
regola il ripristino dell’unità tedesca.
Baker, James, nato nel 1930. Tra il 1988 e il 1992 Segretario di Stato
degli Stati Uniti d’America per gli affari esteri.
Baklanov, Oleg Dmitrievič, nato nel 1932. Dal 1983 al 1988 ministro
della Meccanica generale, dal 1988 al 1991 Segretario del Comitato
centrale del PCUS, responsabile per il complesso industriale militare,
partecipò al putsch dell’agosto 1991.
Boldin, Valerij Ivanovič, nato nel 1935. Redattore alla “Pravda”, dal
1985 al 1987 consulente di Gorbačëv per le questioni agricole, dal 1987
al 1991 capo del Dipartimento affari generali del Comitato centrale
del PCUS, partecipò al putsch dell’agosto 1991. Morto nel 2006.
Brežnev, Leonid Il’ič, nato nel 1906. Dal 1964 al 1982 Segretario
generale del Comitato centrale del PCUS, dal 1960 al 1964 e dal 1977
al 1982 capo del Presidium del Soviet supremo, dal 1957 al 1982
membro del Politburo. Morto nel 1982.
Bush, George H.W., nato nel 1924. Presidente degli Stati Uniti dal
1988 al 1992. Morto nel 2018.
Ceaușescu, Nicolae, nato nel 1918. Dal 1965 al 1989 Segretario
generale del Comitato centrale del Partito comunista rumeno, dal 1974
al 1989 Presidente della Romania. Giustiziato nel 1989.
Chruščëv, Nikita Sergeevič, nato nel 1894. Dal 1939 al 1964 membro
del Politburo, dal 1953 al 1964 Primo segretario del Comitato centrale
del PCUS, 1958 al 1964 capo del Consiglio dei ministri. Morto nel
1971.
El’cin, Boris Nikolaevič, nato nel 1931. Dal 1976 al 1985 Primo
segretario del comitato regionale di Sverdlovsk (Ekaterinburg), nel
1985 segretario del Comitato centrale del PCUS, dal 1985 al 1987
Primo segretario del comitato cittadino di Mosca, dal 1987 al 1989
vicepresidente del Comitato di Stato per le costruzioni, nel 1991
Presidente della RSFSR. Morto nel 2007.
Ivaško, Vladimir Antonovič, nato nel 1932. Dal 1988 al 1989 Secondo
segretario, dal 1989 al 1990 Primo segretario del Comitato centrale del
PCUS in Ucraina, 1990 capo del Soviet supremo ucraino, dal 1990 al
1991 Vicesegretario generale del PCUS. Partecipò al putsch
dell’agosto 1991. Morto nel 1994.
Janaev, Gennadij Ivanovič, nato nel 1937. Dal 1986 al 1990 segretario
del Comitato centrale, dal 1989 al 1990 Deputy Chair, nel 1990 capo
del Consiglio centrale dei sindacati di tutta l’Unione sovietica, dal
1990 al 1991 segretario e membro del Politburo del Comitato centrale
del PCUS, dal 1990 al 1991 vicepresidente dell’URSS, partecipò al
putsch dell’agosto 1991. Morto nel 2010.
Jasov, Dmitrij Timofeevič, nato nel 1924. Maresciallo dell’Unione
Sovietica, dal 1987 al 1991 ministro della Difesa, membro del
Politburo.
Kádár, János, nato nel 1912. Dal 1956 al 1988 Segretario generale
del Partito comunista ungherese, dal 1956 al 1958 e dal 1961 al 1968
Primo ministro. Morto nel 1989.
Kania, Stanisław, nato nel 1927. Nel 1980-81 Primo segretario del
Comitato centrale del Partito operaio uni cato polacco.
Ligačëv, Egor Kuz’mič, nato nel 1920. Dal 1965 al 1983 Primo
segretario del comitato regionale di Tomsk, dal 1983 al 1990 segretario
del Comitato centrale del PCUS, dal 1985 al 1990 membro del
Politburo.
Luk’janov, Anatolij Ivanovič, nato nel 1930. Dal 1985 al 1987 capo
del Dipartimento affari generali del Comitato centrale del PCUS, nel
1987-88 segretario del Comitato centrale del PCUS, partecipò al
putsch dell’agosto 1991. Morto nel 2019.
Lužkov, Jurij Michajlovič, nato nel 1936. Dal 1992 al 2010 sindaco di
Mosca.
Medvedev, Vadim Andreevič, nato nel 1929. Dal 1978 al 1983 rettore
dell’Accademia delle scienze sociali, dal 1983 al 1986 capo del
Dipartimento per la scienza e l’educazione del Comitato centrale, dal
1986 al 1988 direttore del Dipartimento internazionale, dal 1986 al
1990 segretario del Comitato centrale, dal 1988 al 1990 membro del
Politburo del Comitato centrale del PCUS, consulente di Gorbačëv e
membro della Fondazione Gorbačëv.
Mlynář, Zdeněk, nato nel 1930. Amico di Gorbačëv da quando erano
studenti, nel 1968 segretario del Comitato centrale del Partito
comunista cecoslovacco, iniziatore del movimento “Charta 77”. Morto
del 1998.
Nazarbaev, Nursultan Abiševič, nato nel 1940. Dal 1984 al 1989 capo
del Consiglio dei ministri della Repubblica del Kazakistan, dal 1989 al
1991 Primo segretario del Comitato centrale del Partito comunista
kazako, dal 1990 al 1991 membro del Politburo del Comitato centrale
del PCUS, dal 1990 al 2019 Presidente del Kazakistan. Nel 2019, la
capitale Astana è stata ribattezzata Nursultan in suo onore.
Pavlov, Valentin Sergeevič, nato nel 1937. Dal 1986 al 1989 capo del
Comitato di Stato per i prezzi, dal 1989 al 1991 ministro delle Finanze
dell’URSS, nel 1991 primo ministro dell’Unione sovietica, partecipò al
putsch dell’agosto 1991. Morto nel 2003.
Plechanov, Jurij Sergeevič, nato nel 1930. Capo della sezione del
KGB per la sicurezza del Presidente sovietico.
Popov, Gavriil Charitonovič, nato nel 1936. Dal 1977 al 1988 direttore
del Dipartimento di economia dell’Università di Mosca, dal 1988 al
1990 caporedattore della rivista “Voprosy ekonomiki”, dal 1990 al 1992
sindaco di Mosca.
Pugo, Boris Karlovič, nato nel 1937. Dal 1980 al 1984 capo del KGB
in Lettonia, dal 1988 al 1991 capo della Commissione centrale di
controllo del PCUS, nel 1990-91 ministro dell’Interno, partecipò al
putsch di agosto. Suicida nel 1991.
Razumovskij, Georgij Petrovič, nato nel 1936. Dal 1983 al 1985
Primo segretario del comitato regionale del Partito comunista a
Krasnodar, dal 1986 al 1991 segretario del Comitato centrale del
PCUS, responsabile per le questioni riguardanti i quadri di partito.
Reagan, Ronald, nato nel 1911. Dal 1981 al 1989 Presidente degli
Stati Uniti. Morto nel 2004.
Revenko, Grigorij Ivanovič, nato nel 1936. Dal 1985 al 1990 Primo
segretario del comitato regionale del Partito comunista a Kiev, nel
1992 vicepresidente della Fondazione Gorbačëv.
Romanov, Grigorij Vasil’evič, nato nel 1923. Dal 1970 al 1983 Primo
segretario del comitato regionale di Leningrado, dal 1976 al 1985
membro del Politburo, dal 1983 al 1985 segretario del Comitato
centrale del PCUS. Morto nel 2008.
Rybkin, Ivan Petrovič, nato nel 1946. Dal 1987 al 1990 Primo
segretario del comitato regionale di Volgograd, nel 1991 capo
dipartimento al Comitato centrale del Partito comunista russo, 1991
copresidente del Partito socialista dei lavoratori, nel 1998 vicepremier
russo.
Ryžkov, Nikolaj Ivanovič, nato nel 1929. Dal 1982 al 1985 segretario
e capo del Dipartimento per l’economia del Comitato centrale, dal
1985 al 1991 Presidente del Consiglio dei ministri dell’URSS, dal 1985
al 1990 membro del Politburo del Comitato centrale del PCUS.
Šachraj, Sergej Michajlovič, nato nel 1956. Dal 1991 al 1994 vice
Primo ministro russo, nel 1996 vicecapo del gabinetto presidenziale
russo e rappresentante presidenziale alla Corte costituzionale.
Šarapov, Viktor Vasilevič, nato nel 1931. Dal 1982 al 1988 consulente
di Andropov, Černenko e Gorbačëv, dal 1988 al 1992 Ambasciatore
sovietico in Bulgaria.
Šejnin, Oleg Vasilevič, nato nel 1937. Dal 1987 al 1990 Primo
segretario del territorio di Krasnojarsk, dal 1990 al 1991 segretario del
Comitato centrale dell’URSS e membro del Politburo, partecipò al
putsch dell’agosto 1991.
Šelepin, Aleksandr Nikolaevič, nato nel 1918. Dal 1958 al 1961 capo
del KGB, dal 1961 al 1967 segretario del Comitato centrale del PCUS,
dal 1964 al 1975 membro del Politburo, dal 1967 al 1975 Presidente del
Consiglio centrale dei sindacati di tutta l’Unione sovietica. Morto nel
1994.
Solov’ëv, Jurij Filippovič, nato nel 1925. Dal 1985 al 1989 Primo
segretario del comitato regionale di Leningrado.
Suslov, Michail Andreevič, nato nel 1902. Dal 1939 al 1944 Primo
segretario del comitato regionale di Stavropol’, dal 1947 al 1982
segretario del PCUS, dal 1952 al 1953 e dal 1955 al 1982 membro del
Politburo. Morto nel 1982.
Ulbricht, Walter, nato nel 1893. Dal 1929 al 1946 membro del
Politburo del Comitato centrale del KPD, dal 1953 al 1970 Primo
segretario del Comitato centrale della SED, dal 1960 al 1973
Presidente del Consiglio di Stato della DDR. Morto 1973.
Živkov, Todor, nato nel 1911. Dal 1954 al 1989 Segretario generale
del Comitato centrale del Partito comunista bulgaro, dal 1962 al 1971
Primo ministro, dal 1971 al 1989 Presidente del Consiglio di Stato.
Morto nel 1998.
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05. Nicola Mastronardi, Ghedda . La rivoluzione tradita
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07. Caterina Roggero, L’Algeria e il Maghreb. La guerra di liberazione e l’unità regionale
08. Roberta Cairoli, Dalla parte del nemico. Ausiliarie, delatrici e spie nella Repubblica sociale
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09. Esther Fintz Menascé, Buio nell’isola del sole. Rodi 1943-1945: i due volti di una tragedia
quasi dimenticata
10. Gian Paolo Caselli, La Russia nuova, Economia e storia da Gorbačёv a Putin
11. Benedetta Guerzoni, Cancellare un popolo. Immagini e documenti del genocidio armeno
12. Paolo Bertella Farnetti, Adolfo Mignemi, Alessandro Triulzi (a cura di), L’impero nel
cassetto. L’Italia coloniale tra album privati e archivi pubblici
13. Wolfgang Krieger, Storia dei servizi segreti.. Dai faraoni alla Cia
14. Manfredi Scanagatta, E l’America creò gli hippie. Storia di una avanguardia
15. Giancarlo Vigorelli, Diario moscovita. Appunti sul dispotismo russo
16. Massimiliano Santi, La stele di Axum. Da bottino di guerra a patrimonio dell’umanità. Una
storia italiana, Introduzione di Angelo Del Boca
17. massimo campanini, oltre la democrazia. Temi e problemi del pensiero politico islamico
18. Giorgio Galli, Storia d’Italia tra imprevisto e previsioni. Dal Risorgimento alla crisi europea
(1815-2015)
19. Francesco Zavatti, Comunisti per caso. Regime e consenso in Romania durante e dopo la
guerra fredda
20. Pier Paolo Portinaro (a cura di), Passioni violente e memorie contrastate. Scene del
Novecento europeo
21. Valeria Deplano e Alessandro Pes (a cura di), Quel che resta dell’impero. La cultura
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23. Marzia Ponso, Processi, riparazioni, memorie. L’“elaborazione del passato” nella Germania
postnazista e postcomunista
24. Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria
25. Roberto Biorcio, Il populismo nella politica italiana. Da Bossi a Berlusconi, da Grillo a
Renzi
26. Veronica Ronchi, La metamorfosi della Rivoluzione. Il liberalismo sociale nel Messico di
Salinas (1988-1994), prefazione di Massimo De Giuseppe
27. Giuseppe Deiana, La rivoluzione dei giusti. Un’alternativa alla globalizzazione
dell’indifferenza
28. Massimo Campanini, L’islam, religione dell’occidente
29. Giorgio Galli, Francesco Bochicchio, Scacco alla superclass. La nuova oligarchia che
governa il mondo e i metodi per limitarne lo strapotere
30. Giulia Grechi e Viviana Gravano (a cura di), Presente imperfetto. Eredità coloniali e
immaginari razziali contemporanei
31. David Gilbert, Amore e lotta. Autobiogra a di un rivoluzionario negli Stati Uniti, a cura di
Giacomo Marchetti e Nora Gattiglia
32. Luca Ciabarri ed Elia Vitturini (a cura di), Dopo la guerra: democrazia, sviluppo e
migrazioni in Somalia
33. Massimo Pieri, Doikeyt, Noi stiamo qui ora! Gli Ebrei del Bund nella Rivoluzione russa
34. Paolo Bertella Farnetti, Lorenzo Bertucelli e Alfonso Botti (a cura di), Public History.
Discussioni e pratiche
35. Aldo Giannuli, Elia Rosati, Storia di ordine nuovo
36. Andrea Sceresini, Nicola Palma, Maria Elena Scandaliato, Piazza Fontana, noi sapevamo.
Golpe e stragi di Stato. Le verità del generale Maletti, prefazione di Paolo Biondani
37. Aldo Giannuli, Da Lenin a Stalin. La formazione del sistema di potere sovietico
38. Gabriele Bassi, Sudditi di Libia, Prefazione di Angelo Del Boca
39. Giorgio Galli, Francesco Bochicchio, Arricchirsi impoverendo. Multinazionali e capitale
nanziario nella crisi in nita
40. Alfredo Sprovieri, Joca il “Che” dimenticato. La vera storia del ribelle italiano che s dò il
regime dei Gorillas
41. Matteo Ceschi, Un’altra musica. L’America nelle canzoni di protesta
42. Mumia Abu-Jamal, Vogliamo la libertà. Una vita nel Partito delle Pantere Nere, a cura di
Giacomo Marchetti
43. Francesco Dei, La rivoluzione sotto assedio. Storia militare della guerra civile russa 1917-
1918, Vol. 1
44. Francesco Dei, La rivoluzione sotto assedio, Storia militare della guerra civile russa 1919-
1920, Vol. 2
45. Elia Rosati, Casapound Italia. Fascisti del terzo millennio
46. Aldo Giannuli, Le spie del duce (1939-43). Lettere e documenti segreti sulla campagna di
Russia
47. Massimiliano Santi, Sguardo a Levante. La politica culturale italiana sul patrimonio
archeologico e monumentale del Dodecaneso 1912-1945
48. Filippo Colombara, Raccontare l’Impero. Una storia orale della conquista d’Etiopia (1935-
1941)
49. Paolo Bertella Farnetti, Pantere nere. Storia e mito del Black Panther Party
50. Giuseppe Deiana, Dissento dunque sono. Essere obiettori e disobbedienti nella società
plurale
51. Stefano Pisu, La cortina di celluloide
52. Luca Cerchiari, Jazz e fascismo. Dalla nascita della radio a Gorni Kramer
53. Antonio Senta (a cura di), Gli anarchici e la rivoluzione russa (1917-1922)
54. Manolo Morlacchi, La linea del fuoco. L’Argentina da Perón alla lotta armata