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SAGGI

938.
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ALFIO MASTROPAOLO

FARE LA GUERRA CON ALTRI MEZZI

Sociologia storica del governo democratico

IL MULINO
ISBN 978-88-15-38348-8

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Finito di stampare nel marzo 2023 presso LegoDigit s.r.l - Lavis (TN)
Stampato su carta Munken Print White di Arctic Paper, prodotta nel pieno rispetto
del patrimonio boschivo

4
indice

Premessa p.   7

I. Stato  13

1. Dominio e monopolio. - 2. Monopolio, opposizioni,


concorrenze. - 3. Lasciti, bricolage, ibridazioni. - 4. La
grande ibridazione con il mercato. - 5. Dal governo
tramite gli individui al governo tramite il sociale. - 6. La
contesa legittima per il monopolio. - 7. Il mercato
contro lo Stato.

II. Rappresentanza 105

1. Due teorie sulla rappresentanza. - 2. Costituire un


seguito. - 3. La rivincita del mandato e l’ordinaria de-
magogia. - 4. Regolare la rappresentanza. - 5. Tecniche
di dosaggio e di esclusione. - 6.  Dalla rappresentanza
fidelizzata alla rappresentanza occasionale.

III. Partiti 167

1. Dall’America all’Europa. - 2. Il radicamento dei


partiti.  - 3. I partiti e la democrazia. - 4. Quando gli
outsiders divennero established. - 5. Gli outsiders non
finiscono mai. - 6.  Divergenze e convergenze. - 7. In
cerca del popolo.

IV. Mercato 227

1. Un nuovo contratto sociale. - 2. Sessantotto. - 3. Ri-


pristinare l’autorità. - 4. Neoconservatorismo e neoliberi-
smo. - 5. Market turn. - 6. Dalla sinistra al centro. - 7. La

5
Grande dispersione. - 8. Altre dispersioni. - 9. Alla
ricerca del populismo.

Post scriptum. Verso una democrazia esclusiva? p. 307

Indice dei nomi 327

6
Premessa

Oggi non è lecito sostenere che la soluzione


ultima è che gli uomini siano governati con il
loro consenso. Fra i mezzi del potere che oggi
predominano vi è quello di guidare e manipolare
il consenso degli uomini.
C.W. Mills, L’immaginazione sociologica
(1959), 1962.

La parola è seducente. O lo è diventata, tanto che se ne sono


impadroniti pure i suoi avversari. A prima vista, la democrazia
evoca nientemeno che la possibilità di dissolvere il potere,
di sottrarlo ai governanti e consegnarlo ai governati: a tutti
nella stessa misura. Dietro però a questa suggestione si celano
definizioni diverse, normative e descrittive. Di volta in volta
può essere una tecnica di governo, una forma di convivenza,
una forma di cooperazione e socialità. La crescita smisurata
dell’impiego della parola complica le cose. Nel XIX secolo
le idee erano più chiare, perché più semplici. La democrazia
indicava, tra parecchie diffidenze, il regime politico che, una
volta esteso il suffragio, avrebbe rimpiazzato quello liberale.
Con qualche diffidenza in meno e molte aspettative in più,
all’indomani del secondo conflitto mondiale la democrazia
è stata identificata col regime vigente nei paesi vincitori. La
parola però è così accattivante che anche i regimi instaurati
nell’Europa di mezzo e in quella orientale, benché diversissimi,
si definirono democrazie, addirittura popolari. Cioè non elitarie,
come quelle dell’ovest.
A rileggere le costituzioni del secondo dopoguerra, il regime
democratico conciliava il suffragio universale e le libertà ere-
ditate dal liberalismo, con la divisione dei poteri e lo Stato di
diritto. La novità è che prestava qualche attenzione aggiuntiva
alla vita reale dei governati. Del termine si faceva uso, comun-
que, con una certa discrezione. I costituenti italiani hanno
adoperato il sostantivo e l’attributo solo cinque volte. La Legge
fondamentale della Repubblica federale tedesca usa una volta

7
il sostantivo e dieci l’aggettivo. La Costituzione francese del
1946 ne fa una volta un avverbio e un’altra un attributo, quella
del 1958 usa l’attributo due volte in più. L’attributo ricorre sei
volte nella Costituzione spagnola del 1978. Fa eccezione la pro-
lissa Costituzione portoghese del 1976. Scritta nell’entusiasmo
della Rivoluzione dei garofani, la parola democrazia e i suoi
derivati risuonano oltre quaranta volte: parlando di democra-
zia economica e partecipativa e di un insieme di complementi
grosso modo egualitari che le altre costituzioni si erano per lo
più limitate a prefigurare e abbozzare.
Una cosa è prefigurare, un’altra è adottare e applicare. A
onor del vero, però, a metà anni ’70 molti complementi egua-
litari erano stati messi in opera, in misura variabile, da tutte le
democrazie occidentali, instaurando quello che si è chiamato lo
Stato sociale. È in quella temperie che la parola democrazia ha
fatto fortuna, come conferma la gran copia d’indagini dedicate
a come funzionano o dovrebbero funzionare i regimi cosiddetti
democratici. La fortuna non ha avuto limiti una volta crollato
il Muro di Berlino, trascinandosi appresso, oltre ai regimi au-
toritari dell’Europa orientale, qualche altro autoritarismo in
giro per il pianeta. Fra l’altro, un po’ di calcinacci del Muro
hanno impolverato i partiti socialisti e socialdemocratici, i quali,
benché incolpevoli, hanno ritenuto la parola socialismo troppo
ingombrante e hanno cercato una nuova bandiera da inalbera-
re. Che neanche a essi ha da allora impedito di consentire alla
revoca di molti dei complementi dello Stato sociale. Quant’è
democratica questa revoca? È un altro problema. Il paradosso
è che alla parola non hanno rinunciato nemmeno quei paesi
in cui la democrazia sembrava essersi allargata e che invece da
ultimo l’hanno sottoposta a una regressione severa, quando non
drammatica. Sa un po’ di beffa, ma l’Ungheria si compiace di
definirsi una democrazia illiberale e la Russia una democrazia
sovrana.
C’è chi ha sempre avuto da ridire sul conto dei regimi
democratici e li ha sempre contrastati. Al momento, però, nes-
suno più si azzarda a dichiararsi non democratico. Se non che,
mentre la fortuna della parola non demorde, ed è adoperata
con molta larghezza, sono moltissimi coloro che considerano
molto incerto lo stato di tali regimi. Forse lo è intrinsecamente.
Sta di fatto che da quasi mezzo secolo l’incertezza pare essersi

8
aggravata, favorendo l’accumularsi su di essi di una lettera-
tura imponente, che ne ha per lo più dichiarato lo stato di
crisi: i medici si affannano al capezzale per stabilire cosa non
funzioni e come e dove si dovrebbe intervenire. Questo libro
vuole accantonare il tema della crisi – dandola per difficile da
diagnosticare: quel che è crisi per alcuni non lo è per tutti – e
rinuncia anche, per quant’è possibile, a definizioni normative,
giacché pure su quello non c’è grande accordo, per trattare
invece nel suo farsi storico quello che per lo più s’intende per
governo democratico.
L’obiettivo è esplorarne le premesse e l’origine, il suo
laborioso rapprendersi, il suo incessante rinnovamento, alla
luce delle circostanze storiche, dei fatti sociali, dei movimenti
d’idee, delle contese di potere, che l’hanno plasmato e tuttora
lo plasmano. La ricognizione si articola in quattro capitoli e,
anzi, in quattro racconti, alquanto intricati e perciò con qual-
che sovrapposizione tra loro. Fatta la scelta di adottare titoli
telegrafici, è doveroso enunciarne in premessa l’argomento. Il
primo racconto è dedicato allo Stato: come si è costituito il
monopolio della coercizione, come il monopolio si è esteso e
come si è intrecciato con altre tecniche di esercizio del potere,
come è sceso a patti con la società intorno a sé, come ha in-
corporato una parte del pluralismo da essa espresso tramite il
regime rappresentativo e come al momento faccia fronte a una
grandiosa offensiva condotta dal mercato capitalistico contro
di esso. Il tema del secondo capitolo è la rappresentanza po-
litica. Inventata per riconoscere e regolare il pluralismo della
vita collettiva e per mettere in comunicazione governanti e
governati, la rappresentanza è il titolo fondamentale per ac-
cedere ai vertici dello Stato. Introdotta ufficialmente dalle tre
grandi rivoluzioni, a metà del XIX secolo è stata strutturata
dai partiti politici, dei quali si occupa il terzo capitolo. Sono
stati anch’essi un’invenzione fondamentale, che progressiva-
mente si è distaccata dalla società e si è intrecciata vieppiù
con lo Stato e, infine, anche col mercato. Il quarto capitolo
è intitolato proprio al mercato: l’argomento parrà singolare,
per un libro che non è d’economia. Dando seguito al primo
capitolo, l’intento è raccontare l’offensiva condotta ormai da
quasi mezzo secolo dal mercato contro lo Stato per spossessarlo
degli spazi che aveva occupato dal secondo dopoguerra, con

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l’effetto, fra l’altro, di disperdere una buona quota dell’autorità
che per secoli aveva concentrato. Ne è seguita un’inattesa, e
preoccupante, reazione politica.
Volutamente, la ricognizione è ristretta all’Europa occidenta-
le. Ogni confine è arbitrario e lo è anche questo. Si può tuttavia
argomentare che i paesi dell’Europa occidentale, pur nella
loro ragguardevole varietà, abbiano vissuto esperienze storiche
contigue, diverse, ma non separate, né autosufficienti. L’Europa
«moderna», capitalistica e democratica, che conosciamo non
è peraltro frutto unicamente di dinamiche endogene. Questo
libro si occupa di queste ultime, ma con la consapevolezza che
l’Europa è quel che è anche grazie al mondo che le sta intorno
e alle relazioni, spesso violente, che ha stabilito con esso.
Concentrarsi sull’Europa consente di mettere in evidenza
come le più vantate invenzioni occidentali, tra cui il governo
democratico e il mercato capitalistico, siano la risultanza, ol-
tre che di circostanze storiche specifiche, di un lunghissimo e
tormentato travaglio, non di un processo evolutivo lineare. La
grande invenzione democratica nulla ha di scontato e d’irre-
versibile e l’idea che faccia parte del destino della specie non
ha alcun fondamento. In Occidente si è per lo più convinti che
i modi di convivere, di produrre e di governarsi in vigore da
queste parti vantino qualche titolo di superiorità. Sarebbero
la modernità e il progresso. Non è detto. Non è soprattutto
detto che siano il solo progresso e la sola modernità possibili.
In ogni caso: il processo attraverso cui sono state elaborate
tali tecniche di governo dovrebbe far intendere tanto di non
darle per scontate, quanto la difficoltà di esportarle e anche
d’importarle, sollevando qualche dubbio sui tentativi, a volte
non pacifici, d’esportazione, compiuti dagli occidentali.
Sempre in premessa. Osservare la società e raccontarla
è un’operazione laboriosa. Le scienze sociali hanno sempre
sotto gli occhi pedine che si muovono nel corso di una partita
che non inizia e nemmeno finisce. Ogni mossa compiuta sulla
scacchiera cambia la condizione di tutte le pedine, anche di
quelle che stanno ferme. Non solo, ma l’osservatore anche lui
si adegua di continuo, vede la partita diversamente da come la
vedeva al momento della mossa precedente, rilegge le mosse
passate, rivede gli schemi che aveva in mente e le sue attese
sugli spostamenti futuri. Neanche guardare i fatti passati ri-

10
duce il gravame di «pre-giudizi» che lo condiziona e anche
l’osservazione manipola il suo oggetto. Perfino la dura obiet-
tività dei numeri propria delle statistiche è solo una pretesa.
Tanto più che i fatti del passato si osservano con gli occhi del
presente. Che li deformano, sollecitati da nuove domande, ma
pure perché, inevitabilmente, parte dei fatti stessi sfugge alla
vista, o assume un significato diverso da quello loro attribuito
da chi li viveva. Le scienze sociali sono un genere letterario
molto particolare e lo spazio per la soggettività di chi lo pratica
è inevitabilmente larghissimo.
I pre-giudizi hanno anche natura politica. Ai tempi suoi
Max Weber prescriveva avalutatività a chi parla dalla cattedra.
Ma sapeva benissimo che gli studiosi hanno passioni, interes-
si, visioni del mondo e sono anche parte in causa. Lo sforzo
che agli studiosi si chiede, specie a quelli che osservano la
società, è quello di prendere qualche distanza da se stessi, di
osservare e raccontare con un po’ di distacco e argomentare
ragionevolmente. Sarebbe opportuno che considerassero con
sospetto anche i loro racconti. Per stabilire un equilibrio, le
regole professionali vigenti nel mondo della ricerca prescrivono
il confronto reciproco. Eppure, a molti capita, di spacciarsi per
osservatori oggettivi e sono anche persuasi di esserlo. Le scienze
«esatte» ci hanno ormai rinunciato. Ma fa parte del gioco ed è
uno stile adottato per rendere più credibile il proprio punto di
vista. L’autore di queste pagine avverte invece il lettore: ha fatto
del suo meglio per sottrarsi a se stesso, ma sa di non esserci
riuscito. Chiede venia in partenza. Il libro risente palesemente
delle circostanze in cui è stato scritto, alle quali è difficile restare
insensibili: sono quelle dell’Italia d’inizio millennio. Giunto
alla fine, nelle pagine che ha intitolato non conclusioni, bensì
post scriptum, ammette di essersi lasciato andare, e di aver dato
voce anche al cittadino. A chi fosse troppo attaccato ai sacri
principi dell’avalutatività, conviene non leggerle. Sempre che
valga la pena leggere il resto.

Quando si è finito di scrivere un libro, e ci si è messo anche


molto tempo, l’autore si accorge di non averlo scritto da solo.
L’autore porta lui la responsabilità di ciò che ha scritto, ma sono
tanti gli amici e colleghi con cui gli è capitato di discuterne, che gli

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hanno dato qualche idea, che ne hanno messa in dubbio qualche
altra, che l’hanno incoraggiato, che hanno letto e commentato
qualche parte o tutto l’insieme, che a vario titolo gli sono stati
d’aiuto. Sono sicuro di averne dimenticato qualcuno e me ne
rammarico. Un sentito ringraziamento va a Daniela Adorni,
Paola Arrigoni, Cecilia Biancalana, Irene Bono, Marco Bontempi,
Loris Caruso, Rita Di Leo, Giuseppe Di Palma, Furio Ferraresi,
Guido Formigoni, Jean-Pierre Gaudin, Vittorio Martone, Oscar
Mazzoleni, Vittorio Mete, Daniela R. Piccio, Gianfranco Poggi,
Franca Roncarolo, Rocco Sciarrone, Luca Scuccimarra, Carlo
Trigilia, Antonio Vesco.

12
capitolo primo

STATO

1. Dominio e monopolio

La deferenza di un tempo è svanita. La sua autorevolezza


è decaduta. Ma lo Stato domina ancora il paesaggio collettivo.
Nessuno l’ha mai visto, ma seguita a essere rappresentato, e
vissuto, come soggetto capace di pensiero e d’azione. C’è chi
suggerisce che sia una finzione1, che unifica un’infinità di
segni: frontiere, pubblici edifici, bandiere, divise, cerimonie,
carte intestate, moduli, passaporti. Sono segni pure i sovrani, i
presidenti, i ministri, i parlamentari, i funzionari, i magistrati,
i militari, gli insegnanti, i gendarmi, gli elettori. Oltre i segni,
però, cos’è lo Stato?
Per le scienze sociali il punto di partenza più titolato è
quello di Weber. La cui prima definizione, riposta in uno dei
suoi scritti metodologici, rinvia agli inizi di tutta la storia:

Il nucleo tipico di quell’associazione che oggi diciamo «stato»


consiste da un lato in libere associazioni occasionali di predatori, co-
stituite per una campagna militare, sotto capi da esse medesime scelte,
dall’altro nell’associazione occasionale dei minacciati a scopo di difesa.
Mancano del tutto poteri di scopo, e manca qualsiasi permanenza. Un
lungo cammino, con ininterrotti trapassi, conduce di qui fino all’asso-
ciazione permanente dell’armata, con imposizione sistematica esercitata
sulle donne, sugli inermi, sui sudditi, e fino all’usurpazione dell’agire
giudiziario e amministrativo2.

1
 Lo ricordano, ad esempio, due autori culturalmente lontanissimi: G.
Miglio, Genesi e trasformazioni del termine-concetto «Stato» (1981), ora in
Id., Le regolarità della politica, t. II, Milano, Giuffrè, 1988, pp. 799-832;
D. Runciman, The Concept of the State: The Sovereignty of a Fiction, in Q.
Skinner e B. Strath (a cura di), States and Citizens: History, Theory, Prospects,
Cambridge, Cambridge University Press, 2003.
2
  Cfr. M. Weber, Alcune categorie della sociologia comprendente (1913),
in Id., Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino, Einaudi, 1958, p. 273. Il

13
Sono origini violente, insanguinate e nient’affatto auliche.
Qualche anno più tardi, Max Weber di definizioni ne proporrà
altre due, in apparenza meno drammatiche. Per la prima lo
Stato è «un’impresa istituzionale di carattere politico nella
quale – e nella misura in cui – l’apparato amministrativo avanza
con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica
legittima, in vista dell’attuazione degli ordinamenti»3. Coeva, e
di poco differente, nel testo di una celebre conferenza tenuta nel
1919, si trova la seconda definizione: lo Stato è «quella comu-
nità umana che all’interno di un determinato territorio – questa
componente del “territorio” è caratteristica – pretende per
sé (con successo) il monopolio del legittimo uso della forza
fisica». Ne consegue che lo Stato «consiste in una relazione di
dominio dell’uomo sull’uomo». Ovvero, com’è detto più oltre,
è un’«associazione di dominio»4.
Anziché evocare i compiti svolti dallo Stato a servizio della
collettività, o i suoi fini superiori, Weber scarnifica e secolarizza
il venerando concetto di sovranità e la riduce a esercizio del
potere, che da un canto è dotato di un nucleo violento, dall’al-
tro – è la legittimità – ricerca l’assenso dei suoi sottoposti. Tra
dominanti e dominati s’intreccia un rapporto di dipendenza
reciproca, segnata da una condizione congenita di provvisorietà.
La esplicita il concetto di «pretesa»: storicamente riuscita, ma,
in quanto tale, sempre da confermare. Weber ha quindi avan-
zato riflessioni fondamentali su burocrazia, diritto, legittimità,
ma non ha elaborato una compiuta sociologia dello Stato5. Ha
tuttavia additato un indirizzo d’indagine. A dispetto del suo

testo prosegue additando una parentela tra Stato e mercato quali dispositivi di
dominio: «[...] E viceversa – questo è uno dei diversi processi che partecipano
al sorgere dell’“economia politica” – dalla rovina delle associazioni permanenti
che sussistono in virtù della soddisfazione dei bisogni può anche scaturire la
formazione amorfa del “mercato”, che rappresenta un “agire in comunità”».
3
  M. Weber, Economia e società, I, Milano, Comunità, 1961, p. 53. Weber
usa in tedesco l’espressione politischer Anstaltsbetrieb: le traduzioni possibili
sono tante. In italiano è stata tradotta come impresa o come comunità, in
inglese come association, in francese come entreprise e come communauté.
4
 M. Weber, La politica come professione, in Id., Scritti politici, Roma,
Donzelli, 1998, pp. 178 e 182. Qui invece usa dapprima menschliche Ge-
meinschaft e più avanti anstaltsmäßiger Herrschaftsverband.
5
  Il contributo weberiano è stato ricostruito da ultimo da A. Anter, Max
Weber’s Theory of the Modern State: Origins, Structure and Significance,
Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2013. Sul tema dell’origine dello Stato
cfr. pp. 152-158.

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nome, lo Stato è più processo che stato, è un work in progress.
È un intrico quotidianamente negoziato di rapporti di dominio,
subordinazione, associazione, cooperazione, ma anche d’idee,
ideali, categorie e modi di pensare: degli «uomini storici», ma
pure di chi, da qualche osservatorio storicamente situato, li scruta,
li racconta, li studia6. L’intreccio è stato approfondito da altri.
Fra i tanti autori, spesso molto illustri, che hanno preso
avvio dall’idea weberiana, sono tre quelli che abbiamo scelto
di segnalare. Di altri diremo più avanti. Sono figure di grande
spicco nelle scienze sociali del Novecento: Norbert Elias, Pierre
Bourdieu e Charles Tilly. In uno scritto di quest’ultimo subito
si ritrova il massimo di assonanza con la prima definizione we-
beriana. Queste le parole con cui infatti esordisce: «se il racket
costituisce la forma più raffinata di crimine organizzato, allora
la minaccia della guerra e la costruzione degli Stati – classiche
forme di racket con il vantaggio della legittimità – costituiscono
il più grande esempio immaginabile di crimine organizzato»7.
Sarebbe, quest’ultima, per Tilly, una rappresentazione più rea-
listica di quelle consuete: quella contrattualista; quella secondo
cui eserciti e burocrazie sarebbero agenzie che, in un mercato
aperto, offrono servizi ai consumatori interessati; quella di una
collettività che, accomunata da norme e aspettative, adotta una
data forma di governo.
Benché scandalosa, la definizione non è originale: calca le
orme di Agostino d’Ippona8 per descrivere drammaticamente

6
 Weber invita sempre a distinguere. Nel saggio su L’«oggettività» co-
noscitiva della scienza sociale e della politica sociale (1904) precisava che,
quantunque le due dimensioni comunichino di continuo, una cosa sono le
idee dello Stato, «per esempio la metafisica “organica” dello Stato, sorta in
Germania, in antitesi alla concezione “commerciale” americana e un’altra il
tipo ideale dello Stato, che serve a fini conoscitivi». Più avanti, ne Il significato
della «avalutatività» nelle scienze sociologiche e economiche (1917), Weber
dirà che lo Stato può esser sì considerato, storicamente, un valore ultimo,
ma che ciò non cancella il fatto che sia «un mero strumento tecnico per la
realizzazione di valori del tutto diversi». Ambedue gli scritti sono inclusi ne
Il metodo delle scienze storico-sociali, cit., pp. 120-121 e 371.
7
 C. Tilly, War-Making and State-Making as Organized Crime, in P.B.
Evans, D. Rueschemeyer e T. Skocpol (a cura di), Bringing the State Back
in, Cambridge, Cambridge University Press, 1985. Le idee contenute in quel
saggio sono sviluppate in C. Tilly, Coercion, Capital, and European States,
990-1990, Oxford, Blackwell, 1990.
8
  Tilly non cita curiosamente la formula di Agostino: Remota itaque iustitia,
quid sunt regna nisi magna latrocinia?: cfr. De civitate dei, L IV, 4 (trad. it.
Aurelio Agostino, La città di Dio, Milano, Bompiani, 2001, p. 221).

15
gli State-builders originari come imprenditori violenti, il cui
successo è dipeso dalla capacità di fornire servizi di protezione
da minacce da essi stessi suscitate. Non volevano inventare lo
Stato. Intendevano accumulare ricchezze, territori, popolazio-
ne, prestigio e non immaginavano nulla di diverso dalle forme
preesistenti di dominio. Le circostanze fecero la differenza
rispetto ad analoghe esperienze del passato.
All’alba dell’età moderna il racket rastrellava risorse: da altri
signori feudali, dalla popolazione contadina, da quella urbana.
Le tecnologie alimentarono le sue ambizioni. Alla feudalità fu
sottratto il controllo esclusivo della terra. Altre risorse furono
ricavate dalla classe mercantile urbana in sviluppo. Ma non tutto
si ottiene con la violenza, o la violenza, per quanto temibile,
non è sempre risolutiva. Tra il racket e le sue vittime s’istituì
uno scambio reciprocamente vantaggioso. I sovrani iniziarono
a erogare alla classe mercantile una gamma di servizi più ampia
della protezione originaria, a iniziare dalla difesa della proprietà:
fu un avvio d’inclusione. La classe mercantile era in grado di
concedere ai sovrani capitali in prestito, nonché di fornire beni
e servizi necessari alle loro intraprese guerresche. Ne trasse in
cambio un vantaggio differenziale rispetto ai concorrenti che
erano sprovvisti di una simile difesa.
Interdipendenze, negoziati, collaborazioni, complicità,
inclusioni si estesero man mano. Al racket non bastavano né
un braccio militare, né i mezzi economici. Serviva un appara-
to amministrativo, che ne organizzasse e reggesse le attività.
Presto i sovrani scoprirono di aver bisogno anche del grosso
della popolazione, per combattere, per produrre, per servirli,
cosicché decisero di fornire anche a essa qualche servizio
aggiuntivo.
La metafora del racket è preziosa per cogliere l’ambivalenza
costitutiva dello Stato: che è soggetto di dominio, ma che ha
appreso via via a operare con qualche beneficio per i suoi – a
vario titolo – sottoposti. Gli imprenditori violenti sanno bene
che un impiego esagerato e protratto della coercizione ha co-
sti troppo elevati. Ben lo sapevano quelli che inventarono lo
Stato: sottoposta la popolazione alla pressione fiscale, e alla
tassa del sangue della coscrizione, occorreva ottenere da essa
almeno un po’ d’acquiescenza. Il racket è perciò sceso a patti
e ha assunto tutt’altre sembianze. Si è fatto Stato, nientemeno

16
che promotore ufficiale dell’ordine. Ha assoggettato la sua
azione di dominio al diritto. Ha introdotto organi giudiziari
e istituzioni rappresentative. Ha circoscritto, tramite i diritti,
spazi di potere riservati ai governati, negoziando con essi
un’idea di giustizia. È stato obbligato a un’ambivalenza di cui
neanche nelle condizioni più estreme si è del tutto liberato.
Meticolose attenzioni ha dedicato alla sua reputazione, che è
anch’essa strumento di potere. Ovvero, ha legittimato e reso
socialmente accettabili le sue pretese, rivestendosi di simboli,
segni, parole: la mafia, che è il racket per eccellenza, amava
definirsi «onorata società» e i suoi adepti si definivano «uomini
d’onore», che reciprocamente si aiutavano, raddrizzavano torti,
proteggevano i deboli9. Non diversamente lo Stato ha curato la
sua immagine, si è rappresentato quale rimedio all’incertezza,
quale garante della sicurezza, del bene comune, dell’interesse
generale e ha, a lungo andare, promosso i sudditi a cittadini,
rendendoli parte costitutiva di sé10.
Questo è il punto di vista di Tilly. Più in continuità con
il linguaggio weberiano è l’ambiziosa ricerca avviata a metà
anni ’30 del Novecento da quella unica e straordinaria figura
di scienziato sociale che è stato Norbert Elias. Dedicata al
graduale e tortuoso formarsi in Europa di un ristretto numero
di monopoli della coercizione, la ricerca muove da un assunto
fondamentale: elemento essenziale della vita associata sono
le pretese di monopolio in concorrenza tra loro. Lo Stato, la
politica, dinastica o elettiva che sia, il mercato, la religione, la
scienza, lo sport e ancora, si costituiscono reciprocamente quali
fasci di attori che competono per il potere. La concorrenza non
è necessariamente violenta e periodicamente si acquieta, prevede
forme di cooperazione, anche paritarie. Ma quel che conta è la
concezione apertamente relazionale di Elias. Gli attori esistono
in ragione l’un dell’altro e si plasmano vicendevolmente. La
lotta per il monopolio non è affatto un valore, giacché conviene
imparare a controllarla, a sottoporla a regole e a condurla con
mezzi pacifici. Questo è il progresso.

9
  Sono da ricordare le parole di Tommaso Buscetta, in P. Arlacchi, Addio
Cosa Nostra: la vita di Tommaso Buscetta, Milano, Rizzoli, 1994, p. 11.
10
  È uno sviluppo sottolineato da G. Poggi, Varieties of Political Experi-
ence, Colchester, EcprPress, 2014, pp. 63-74.

17
La «sociogenesi»11 dell’assolutismo è la grande contesa
su cui Elias ha concentrato l’attenzione nei suoi primi scritti.
Lo Stato assoluto sarebbe un effetto collaterale, e non voluto,
della lotta per il monopolio insorta nel mondo tardomedie-
vale, quando due precondizioni, la crescita demografica, che
promuoveva le lotte per la terra, e lo sviluppo dell’economia
monetaria, avrebbero consentito un rivolgimento strutturale
assai più ampio e profondo, tale da scompaginare e ridisegnare
la vita collettiva fin nelle sue più intime fibre: le menti stesse
degli esseri umani.
È grazie alla diffusione della moneta che sarà possibile
uno smisurato incremento degli scambi, che servirà ai signo-
ri territoriali per soddisfare le loro ambizioni espansive. La
competizione armata, propria della «società di guerrieri»12,
che aveva agitato il frammentato scenario della feudalità, non
era una novità. Né lo era la costruzione di grandi formazioni
politiche. Ma l’economia monetaria impresse inedito slancio
all’accumulo dei mezzi di coercizione condotto dai potentati
dinastici, tra intraprese militari, alleanze matrimoniali e coali-
zioni d’ogni sorta, consentendo loro di operare in forme nuove
e producendo conseguenze anch’esse inedite.
In prima istanza, il potenziale militare si era concentrato a
detrimento della feudalità. In successione, sarebbero entrate in
competizione tra loro le più vaste «unità di dominio»13 costituite
in tal modo. Le più forti avrebbero sottomesso le più deboli,
assumendo il controllo di territori vieppiù estesi e di popolazioni
vieppiù numerose. Istituendo il monopolio della coercizione
fisica, entro i confini che aveva tracciato, l’autorità monarchica
vi stabiliva un nuovo ordine, riducendo progressivamente e con
grandi sforzi l’impiego della violenza nell’azione di governo,
nelle contese per il potere e nelle relazioni sociali. Strettamente
intrecciato, secondo Elias, vi sarebbe però un secondo, non
meno importante, processo di monopolizzazione. Le unità di
dominio in espansione necessitavano di risorse economiche,
con cui sostenere le loro aspirazioni, e si sarebbero perciò

11
  N. Elias, Potere e civiltà. Il processo di civilizzazione, II (1969), Bologna,
Il Mulino, 1983.
12
  Ivi, p. 94.
13
  Ivi, p. 127.

18
adoperate per estrarre risorse fiscali, e anzi monopolizzarle.
Donde una trama d’interdipendenze entro cui gli inventori del
monopolio si trovarono impigliati, insieme a gruppi sociali e
istituzioni sempre più differenziati.
Le interdipendenze implicano sempre condizionamenti
reciproci. Due tipi d’interdipendenze, in cui chi domina è
condizionato dai dominati, risulteranno più cruciali di altre.
Anzitutto quelle con la classe mercantile. È, più o meno, il
medesimo racconto di Tilly. Poiché i confini da difendere si
ampliavano, andavano reclutate, equipaggiate, vettovagliate
forze armate all’altezza. Al contempo, occorrevano addetti
per riscuotere le imposte, amministrare i proventi del prelievo
fiscale, acquistare beni e servizi per far la guerra, per gover-
nare i territori conquistati. Non era possibile avvalersi della
nobiltà feudale, appena espropriata degli strumenti di governo
che autonomamente deteneva. Né bastava più il seguito di
familiari, clienti, collaboratori, legati ai sovrani da vincoli di
fedeltà personale. Non era sufficiente nemmeno il patrimonio
del sovrano, né le imposte estratte dalla popolazione, né quelle
istituite in occasione delle campagne militari. Servivano mezzi
che solo la classe mercantile era in grado di fornire: ma non
a titolo gratuito.
La comparsa di nuovi collaboratori, revocabili a piacimento,
dotati di competenze specifiche e retribuiti in moneta, suscitò
un altro effetto e un’altra interdipendenza: l’allargamento e la
diversificazione del gruppo detentore del monopolio. La dispo-
nibilità di mezzi tanto militari, quanto fiscali iniziò dunque a
defluire dalle mani dei monarchi verso quelle di «un consorzio
di individui interdipendenti»14, che costituiranno un «apparato
di dominio differenziato»15: più semplicemente lo Stato.
Il transito dall’una all’altra fase appare in tutta evidenza
nel caso francese16. Perseverando nell’opera di accentramento
condotta dai suoi predecessori lungo più di due secoli, Luigi
XIV sottomise la nobiltà feudale, che si era ribellata agli inizi
del suo regno. Lo fece attirandola a corte e rendendola econo-

14
  Ivi, p. 158.
15
  Ivi, p. 145.
16
  In particolare, N. Elias, La società di corte (1939), Bologna, Il Mulino,
1980 e Id., La civiltà delle buone maniere (1939), Bologna, Il Mulino, 1982.

19
micamente dipendente, nonché ingabbiandola in un minuzioso
e macchinoso sistema di regole e rituali. Se non che, la buro-
crazia reclutata tra i ranghi della classe borghese lo esproprierà
a sua volta, facendone un «funzionario della società»17 e del
monopolio, quantunque di rango più elevato. Entrati in col-
lisione, politicamente e simbolicamente, con l’autorità regia, i
funzionari promuoveranno la sua spersonalizzazione e pubbli-
cizzazione, depositandola in quell’entità astratta e impersonale
che chiamiamo lo Stato, detentrice di un monopolio che non
era più privato, ma pubblico, anche per questo più renitente
ai tentativi di smembrarlo e privatizzarlo nuovamente.
Un terzo punto di vista è quello elaborato da Pierre Bour-
dieu, in una nutrita serie di saggi e articoli, oltre che nelle lezioni
tenute al Collège de France tra il 1989 e il 199218. Bourdieu
concentra l’attenzione sugli aspetti culturali e simbolici della
costituzione e riproduzione dei rapporti di dominio e rielabo-
ra quel fondamentale ingrediente dell’azione ordinatrice e di
pacificazione svolta dallo Stato che è la legittimazione.
Al pari d’ogni altra istituzione, lo Stato è per Bourdieu
«fiducia organizzata, [...] una credenza organizzata, una fin-
zione [sic] collettiva riconosciuta come reale dalla credenza
e pertanto reale»19. E poiché la legittimità, e la reputazione,
sono ingredienti irrinunciabili di qualsiasi relazione di dominio
intesa a durare, la sfida per lo Stato sta nell’azione persuasiva
volta a indurre spontaneamente i suoi sottoposti all’obbedienza.
Perfino ignorando di obbedire. Non tutti saranno convinti dalle
pretese d’obbedienza dello Stato, né lo saranno in permanenza
e in maniera incondizionata. Ma, come per qualunque forma
di dominio, per i dominanti è più conveniente persuadere i
dominati anziché reprimerli: meno lo Stato impiega la sua
capacità coercitiva, meno minaccia, meno impartisce ordini
e commina sanzioni, tanto più ha successo. Non sono molto
meno costosi i compromessi, i servizi erogati ai dominati.
Lo Stato è allora lo Stato perché ha reso la sua presenza e
la sua azione necessarie, e anzi naturali, elementi costitutivi

  N. Elias, Potere e civiltà, cit., p. 152.


17

  P. Bourdieu, Sur l’État. Cours au Collège de France (1989-1992), Paris,


18

Seuil/Raisons d’agir, 2012.


19
  Ivi, p. 67.

20
dell’esperienza umana. Il suo monopolio è tale perché pochi
s’interrogano intorno alla sua legittimità e necessità. Per più
di mezzo millennio in Occidente, quanti hanno pensato un
mondo e se stessi, senza lo Stato?20
Gli State-builders originari non immaginavano di provvedere
gli esseri umani di mappe con cui guardare il mondo attorno a
sé. Non tutti leggono allo stesso modo queste mappe, ma tutti
se ne servono, consentendo allo Stato di farsi valere e durare.
Sono mappe né trasparenti, né innocenti. Finalizzate a gover-
nare, sono impregnate dagli interessi e dai valori – che sono
all’incirca la stessa cosa – di coloro che al momento presidiano
lo Stato, nonché dei suoi sottoposti e concorrenti. Bourdieu
prosegue la riflessione di Weber, Elias e Tilly indicando un
terzo, e fondamentale, processo di monopolizzazione, quello del
capitale simbolico21. Risalta l’imposizione di significati legittimi,
condotta dai dominanti senza che i dominati la riconoscano, che
inizia già con l’unificazione della lingua, a sua volta il principale
codice con cui gli esseri umani comunicano: Bourdieu chiama
quest’azione «violenza simbolica»22.
Le mappe disegnate dallo Stato sono in perpetuo cambia-
mento. Entro e intorno ai confini statali le lotte non hanno
tregua. Anche perché, insieme ai confini geografici, lo Stato
ne ha tracciati molti altri: ha prescritto unità di misura, dello
spazio, del tempo e ancora. Lo Stato registra, certifica, classi-
fica, consacra, nomina, autorizza, notifica, brevetta, promuove,
insignisce, giudica, conia. A lungo si è accanito a perseguire
l’unità religiosa, strumentalizzando o ostacolando il reimpie-
go entro la sua sfera del capitale di potere, simbolico e non,
della Chiesa. Lo Stato distingue il lecito dall’illecito, il giusto

20
 Per la verità, ci sono gli anarchici, che hanno riflettuto seriamente
sulla questione e che si sono anche battuti per una società senza Stato. Cfr.
G. Ragona, Anarchismo. Le idee e il movimento, Roma-Bari, Laterza, 2013.
21
  L’impiego del concetto di capitale in Bourdieu ha carattere esclusivamen-
te metaforico: cfr. R. Boyer, L’anthropologie économique de Pierre Bourdieu,
in «Actes de la recherche en sciences sociales», 5, 2003, pp. 65-78. Il ricorso
alla terminologia economica ha sicuramente un costo, anzitutto in termini di
critiche. Ma ha carattere unicamente metaforico. Anche la sfera economica
per Bourdieu è effetto di un processo di costruzione sociale e simbolica. Cfr.
ancora L’anthropologie économique de Pierre Bourdieu, cit.
22
  Sul concetto di violenza simbolica, cfr. P. Bourdieu, Ragioni pratiche,
Bologna, Il Mulino, 1995, p. 169.

21
dall’ingiusto, il morale dall’immorale ed è preso in mille altre
faccende. È fondamentale come classifica gli esseri umani,
come sono fondamentali le cariche che attribuisce, i titoli che
riconosce, anzitutto quelli scolastici, le categorie statistiche
che adopera, perfino l’anagrafe. Tutto questo ne fa un «meta-
potere», precondizione di tutti gli altri23.
Anche Bourdieu sottolinea la portata eversiva della sostitu-
zione del governo dinastico e patrimoniale, fondato sulla Maison
du roi, con il governo affidato a addetti professionali. Il suo
racconto riecheggia l’esperienza e la mitologia dello statalismo
francese. Profittando di una dimestichezza non comune con
la letteratura storiografica, Bourdieu attraversa però la Manica
e riutilizza il dilemma, formulato da Ernst Kantorowicz sulla
scorta del caso inglese, dei «due corpi del re»24. La dissociazione
tra corpo mortale e corpo mistico, politico e immortale, del
sovrano, aveva colà le sue radici. Con didascalica puntualità
illustra in qual modo gli alti funzionari della Corona inglese, il
segretario di Stato, il custode del sigillo privato, il cancelliere,
abbiano concorso, mediante pratiche come la controfirma degli
atti reali e l’uso del gran sigillo, a spersonalizzare e pubblicizzare
l’autorità regia25. Attraverso una sequenza di movimenti pres-
soché impercettibili, fu inventato un nuovo modo di stabilire
l’ordine e di governare gli esseri umani.
È ancora un tema comune con Weber ed Elias. Reclutata
escludendo l’aristocrazia, e opponendo ai principi dell’onore
e dell’eredità quello della competenza, sarà la burocrazia regia
a tracciare un confine a sua difesa e a pensarsi in altro modo.
Alla lealtà personale verso il sovrano i funzionari sostituirono
quella rivolta a quell’entità astratta e impersonale che assumerà
il nome di Stato, di fatto a se stessi, pensandosi come istituzione,
sovraordinata a ogni interesse particolare, devota all’universale
e al corpo collettivo. Facendo della «Ragion di Stato» regola
d’azione, alternativa alla ragione dinastica, attribuendo allo
Stato un disegno di potenza, pensando lo Stato e pensandosi
come suoi servitori, non più come consiglieri o segretari del

  P. Bourdieu, Sur l’État, cit., p. 489.


23

  E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia
24

politica medievale (1957), Torino, Einaudi, 1989.


25
  P. Bourdieu, Sur l’État, cit., pp. 471-479.

22
principe, le burocrazie costituirono la nuova istituzione e ne
rivendicarono la cura.
Era un’invenzione inevitabile? Di sicuro fu un’invenzione,
che, per citare un illustre storico spagnolo molto attento alla
dimensione istituzionale come José Antonio Maravall, fece
di ciascun funzionario la «ruota dell’ingranaggio dello Stato,
[che] per elevarsi socialmente, deve esaltare lo Stato, che serve
con un senso di responsabilità pubblica»26. Stando a uno dei
giochi di parole tanto congeniali a Bourdieu, è successo che
«un certo numero di agenti, che hanno fatto lo Stato, e si sono
fatti essi stessi in quanto agenti dello Stato facendo lo Stato,
hanno dovuto fare lo Stato per farsi detentori di un potere di
Stato»27. Che è come dire che a fare lo Stato, se ne può divenire
i padroni, ma se ne resta imprigionati.
Contaminazioni e tensioni tra l’interesse pubblico, di
cui gli addetti allo Stato si sono rivendicati i tutori, e i loro
interessi personali, sono state sempre all’ordine del giorno.
Né gli addetti allo Stato si sono sempre mostrati refrattari a
calcoli politici e a sollecitazioni d’altri interessi, definiti come
privati. Ma se è impossibile fugare l’ombra del sospetto, le
circostanze, le condizioni stesse del loro lavoro, i rapporti di
potere, spiega Bourdieu, hanno indotto i funzionari a indossare
un habitus «disinteressato» e a fare del disinteresse – sine ira
ac studio è la formula weberiana – il loro specifico interesse.
Prezioso per legittimarsi quale potere, si può ben dire, «ter-
zo», rispetto sia al potere dinastico, sia ai suoi antagonisti,
che sono stati inizialmente la nobiltà, il clero e gli emergenti
ceti commerciali28.
Per trasformare il dominio, per smilitarizzare e civilizzare
il racket originario, istituzionalizzarlo, legittimarlo, è stato de-
cisivo il ruolo del diritto29. Sottoponendo l’esercizio del potere

26
  J.A. Maravall, Stato moderno e mentalità sociale, II, Bologna, Il Mulino,
1991, p. 593.
27
  P. Bourdieu, Sur l’État, cit., pp. 68-69.
28
 Sull’«interesse al disinteresse», o sul disinteresse come interesse, si
veda soprattutto L’intérêt au désintéressement. Cours au Collège de France,
1987-1989, Paris, Seuil/Raisons d’agir, 2022.
29
  Ad esempio P. Bourdieu, La force du droit. Éléments pour une sociologie
du champ juridique, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 64, 1986,
pp. 3-19.

23
a regole ufficialmente stabilite, il diritto lo normalizzava, lo
rendeva prevedibile e più sopportabile, perché lo sottraeva
all’arbitrio. Ciò non toglie che, per quanto riduca l’incertezza,
il diritto è sempre piegato a qualche idea storica d’ordine, di
convivenza, di giustizia, d’interesse generale, di cui ha assoluto
bisogno per legittimarsi. Il diritto può legittimare perfino, op-
portunamente addobbate, oppressione e repressione. Ma può
legittimare anche altre pratiche, più generose verso i governati
e intese a tutelarli.
L’esperienza l’aveva già fatta la Chiesa, istituendo attraverso
il diritto canonico, ispirato dal diritto romano, un sistema di
norme dettate da un’autorità centralizzata30. Seguendone l’esem-
pio, le monarchie tardomedievali usarono il diritto per imporre
la loro superiorità alla preesistente galassia di giurisdizioni feu-
dali, ecclesiastiche, cittadine, corporative. Il diritto dettato dal
sovrano attribuiva coerenza al monopolio statale, cementandolo
grazie alla sua azione performativa e all’idea di giustizia che gli
era sottesa. Profittiamo ancora di Maravall: ai sovrani medievali
toccava unicamente proclamare e custodire la legge e semmai
precisarla e interpretarla. La legge precedeva la loro volontà.
Il mutamento sociale, lo sviluppo degli scambi, l’infittirsi delle
relazioni sociali condussero non solo a adattare le norme, ma
a produrne di nuove e a fissarle per iscritto, agevolandone la
circolazione. Pretendendo di porsi al di sopra del diritto per
produrlo, e applicarlo, in contrasto con altre norme e con i
costumi locali, l’autorità regia cambiò la sua condizione, dato
che la formalizzazione del dominio tramite il diritto s’impo-
neva anche a essa. Grazie al diritto «razionalizzato», non più
«personale e soggettivo», bensì «generale, come legalità capace
di far fronte al ripetersi di situazioni anche nuove della vita
economica e sociale in dinamico sviluppo»31, ogni manifestazione
di dominio a esso sottratta ricadeva nell’arbitrio e lo Stato era
vincolato all’universalità. Era ancora un modo per prevenire
le opposizioni, le resistenze, le ribellioni che avrebbe suscitato
un potere senza limiti. La pratica sarà molto imperfetta, ma
un limite era tracciato.

30
  H.J. Berman, Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica
occidentale, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 232-274.
31
  J.A. Maravall, Stato moderno e mentalità sociale, cit., p. 499.

24
Nella formulazione e applicazione del diritto, da parte di
un ceto di giuristi, i governati trovavano una difesa, seppure
non risolutiva, dall’impiego arbitrario della coercizione32. L’ar-
ma fu adoperata anzitutto dalle oligarchie mercantili, subito
attrezzatesi di competenze giuridiche, ma ne avrebbe profittato
man mano una più larga platea di dominati33. Ai quali il diritto
prometteva un’ampia, ancorché elementare e irta d’eccezioni,
condizione d’uguaglianza. Azionare il diritto non è alla portata
di chicchessia: l’uguaglianza tramite il diritto resterà una chimera
e Bourdieu non manca di rimarcarlo e ne fa anzi uno dei suoi
temi fondamentali. Ma pur sempre un principio fu introdotto.
Vi saranno pure dei giudici a Berlino, ebbe a dire un favoloso
mugnaio al Grande Federico. Sarà stato un caso eccezionale,
ma secondo la favola pare sia riuscito a spuntarla. Il dominio
è fatto anche di contraddizioni tra i dominanti.
Per usare un’altra espressione propria del lessico di Bour-
dieu, il diritto è altresì divenuto un «campo» differenziato,
presidiato dai suoi specialisti. Non è un campo pacifico, fer-
vono le lotte per conquistare il monopolio di «dire» il diritto:
di dettare, interpretare, armonizzare – in maniera mai inno-
cente – le norme. In quanto potere formalizzato, intorno al
diritto disputano i suoi teorici e i suoi pratici, le articolazioni
funzionali della professione giuridica, chi fa legislazione, chi
fa giurisdizione e chi amministrazione, e le loro dispute non
sono affatto estranee alle lotte che si svolgono in altre sfere
della vita collettiva. Altre idee del diritto, d’ordine e di giustizia
sono sempre in discussione. Ma intanto viene fatto lo Stato.
Nella pretesa di universalità dello Stato l’inganno non è
intenzionalmente escogitato: l’universalità è un principio di
legittimazione e un’arma contro i poteri privati. La distorsione
è più sottile e sta di fatto che, una volta assunti pubblicamen-
te taluni impegni, non li si contraddice impunemente. Per
quanto dubbio sia l’ancoraggio all’universale nella pratica, lo
Stato ha compiuto un percorso che non sarà facile compiere
a ritroso. A dispetto dei profondi cambiamenti occorsi negli
ultimi decenni, in cui i suoi ambiti d’azione sono parsi restrin-
gersi, e degli enormi investimenti, simbolici e non, effettuati

32
  Ivi, pp. 539-541.
33
  Ivi, p. 499.

25
per sminuirlo, incrementando la possibilità che gli interessi
privati e gli addetti al mercato avanzino pretese addirittura di
monopolio sul governo della vita associata, il ritorno verso un
modello scopertamente e ufficialmente privatistico d’esercizio
dell’autorità non è alle viste.
Tra gli strumenti di cui lo Stato si avvale si segnala l’istru-
zione, cui Bourdieu ha dedicato alcune tra le sue più importanti
ricerche34. Se la scuola consiste nel trasmettere conoscenze,
dunque nel suggerire modi di pensare e anche di fare, i si-
stemi d’istruzione sono decisivi. Perciò, per impossessarsi di
essi, o per controllarli, gli addetti allo Stato hanno lungamente
lottato, disputandoli alla Chiesa. Lottano tutt’ora, almeno le
parti politiche, perché i diplomi scolastici sono uno strumento
fondamentale di classificazione degli esseri umani e decidono
del loro destino, per cominciare dalle opportunità di accesso
al mercato del lavoro. Ultimamente, il mercato capitalistico è
intenzionato ad appropriarsene.
A fianco dello Stato è stato pure fabbricato il grande pe-
rimetro identitario della nazione, che dell’esperienza storica
dello Stato è elemento irrinunciabile. Bourdieu cita Benedict
Anderson: la nazione è una grandiosa costruzione simbolica,
volta a persuadere i sottoposti allo Stato di avere interessi
comuni, superiori al vasto assortimento di particolarismi ter-
ritoriali e linguistici, appartenenze sociali, affiliazioni religiose,
condizioni economiche, divisioni politiche ricompresi entro i
confini statali35. E una costruzione che si è perfezionata allor-
ché la società ha preso ad articolarsi smisuratamente, al tempo
dell’industrializzazione, ma che era stata avviata molto presto,
in sinergia con quella della macchina statale. Nell’intento di
suscitare ragioni aggiuntive per sottomettersi all’autorità dello
Stato, di esaudirne le pretese fiscali, di sopportare i sacrifici di
sangue da essa richiesti, tramite la nazione lo Stato si rivestiva
di altri panni inclusivi e ugualitari.
La nazione evoca l’immagine del corpo collettivo, pro-
muovendo le vittime del racket a consociati, a iniziare dai ceti

34
  In particolare, P. Bourdieu e J.-C. Passeron, Les héritiers. Les étudiants
et la culture, Paris, Éditions de Minuit, 1964. 
35
  B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi,
Roma-Bari, Laterza, 2018.

26
istruiti36. A coadiuvare gli addetti allo Stato in quest’opera
d’invenzione, ammaestramento, sono intervenuti ogni sorta
d’operatori: letterati, artisti, pensatori, studiosi, educatori,
che forse per primi si sono sentiti parte della nazione. Che
di qui discenderà verso il basso, per persuadere, almeno un
poco, quanti abitavano entro i confini dello Stato, anche i ceti
inferiori e più svantaggiati, che comune era la loro origine, la
loro biografia, il loro destino37. Si tracceranno confini e sa-
ranno elaborati racconti di atti fondativi e di vissuti condivisi.
S’inventeranno simboli, celebrazioni, rituali, la letteratura, la
musica, la pittura nazionali. Nel XX secolo è stato mobilitato
lo sport. I confini saranno disegnati più volte e anche la storia
condivisa verrà più volte riscritta, alla luce delle contese per il
potere e secondo le convenienze di chi entro lo Stato ha preso
il sopravvento.
Nella prospettiva romantica, organicista ed esclusiva, la
nazione è una comunità naturale, precedente lo Stato, unita
dalla lingua e dalla cultura e guarda al passato. Nella prospet-
tiva illuministica la nazione guarda al futuro: è fondata sulla
libera condivisione di norme e valori da parte dei cittadini38.
La seconda prospettiva è in apparenza più mite: ma non è
detto. Traccia pur sempre un artificioso confine simbolico, che
può insanguinarsi: la distinzione tra i due modelli è analitica e
carica anche di significato politico.
La pretesa di universalità, naturalità e terzietà dello Stato è
fatta pure di questi mattoni. Le scienze sociali amano parlare
di Stato-nazione: per descrivere l’ambizione di unificare la
popolazione e il territorio. È un’invenzione occidentale, con-
trassegnata da un’ambivalenza insuperabile: perché lo Stato-
nazione tanto domina, quanto associa. Eppure, se è possibile
tacciarlo d’ipocrisia e smascherarne la finzione, tocca altresì
riconoscere la sua ambivalenza. Se è la tonaca a fare il monaco,

36
  Anche quello della nazione, va ricordato, è un importante tema we-
beriano, strettamente intrecciato al mutamento sociale: cfr. F. Ferraresi, La
comunità politica in Max Weber. La legittimità democratica come assenza, in
«Filosofia politica», 2, XI, 1997, pp. 181-210.
37
  P. Bourdieu, Sur l’État, cit., pp. 547-548.
38
  La contrapposizione tra un’idea francese e una tedesca di nazione in
E.W. Böckenförde, La storiografia costituzionale tedesca nel secolo decimonono,
Milano, Giuffrè, 1970, pp. 112-113.

27
non la s’indossa mai inutilmente. Dai panni di cui lo Stato si
riveste i dominati traggono pure qualche vantaggio: benché
non per tutti nella stessa misura e tanto meno per sempre39.
Ne trarrebbero però di più se lo Stato non ci fosse?

2. Monopolio, opposizioni, concorrenze

Le istituzioni sono fasci di relazioni sociali più stabili di


altri. Le regole, ufficiali e ufficiose, che le stabilizzano sono
però riviste, reinterpretate, aggiornate di continuo da coloro
che le abitano. Lo Stato, in quanto istituzione, non fa eccezione.
È un accumulo grandioso di mezzi di coercizione, di risorse
finanziarie, simboliche e organizzative, che impone la sua pre-
minenza pacificando lo spazio intorno a sé: uno spazio inteso
come territorio, ma pure come popolazione e come insieme
di relazioni sociali. La sua azione pacificatrice – e ordinatri-
ce – non è originaria. L’idea di Weber è l’opposto di quella di
Hobbes, anche perché diverse erano le loro intenzioni: analitica
l’una, normativa l’altra. Nella sostanza lo Stato di Weber è una
«fazione» – o una costellazione di fazioni – che, guidata dalle
proprie ambizioni, ha investito un capitale iniziale, a carattere
militare, e successivamente l’ha incrementato, diversificato,
consolidato, sperperato. O ne è stata spossessata. Prima o
dopo, qualche altra fazione l’ha avvicendata. Per Tilly, è stata
la resistenza delle vittime a sollecitare la mutazione dal racket
originario. Secondo Elias è stata invece l’economia monetaria
a farne una potenza economica e ad offrirgli opportunità or-
ganizzative senza precedenti. Per Bourdieu il successo dello
Stato sta nei paramenti di cui si sono rivestiti i suoi addetti:
quelli dell’ordine, della sicurezza, della giustizia, dell’interesse
generale.
La parola «fazione» non ha intenti polemici. È generica,
come molte altre utilizzate in queste pagine: governanti, élite,
«addetti» allo Stato, alla politica, al mercato, e altre ancora. Non

39
  È su tale ambivalenza che insiste, entro un appassionato dibattito tra
antropologi, F. Dei, Di Stato si muore? Per una critica dell’antropologia critica,
in F. Dei e C. Di Pasquale (a cura di), Stato, violenza, libertà. La «critica del
potere» e l’antropologia contemporanea, Roma, Donzelli, 2018.

28
implica ferrea coesione, né necessarie comunanze ideologiche.
Non esclude conflitti e prevede anzi gerarchie mutevoli e con-
testate. È solo un modo per ridurre l’astrattezza del concetto di
Stato. Indica la parzialità dei raggruppamenti d’individui che lo
costituiscono, contendendolo ad altri. Ereditata la preminenza
simbolica della regalità pre-statale, i paramenti dello Stato hanno
permesso a una fazione di accreditarsi quale autorità sovraordi-
nata a ogni altro potere e come misura d’ogni cosa. Cambiano
le fazioni e cambiano i paramenti, nel tempo e nello spazio: le
esperienze statali in Occidente hanno molti tratti in comune,
ma conoscono una quantità di variazioni. I sarti statali amano
viaggiare e guardano agli altri Stati, ma ciascuno Stato taglia
e cuce i paramenti a sua misura. Nei casi di rottura, anche i
più drammatici, e di avvicendamento delle fazioni che fanno
lo Stato, i paramenti, ancorché ridisegnati, ne assicurano la
continuità. Semmai li si aggiorna. Tant’è che sono a tutt’oggi
la posta più elevata delle contese che dividono la vita associata.
Dal suo istituzionalizzarsi, lo Stato ha tratto una vocazione
alla sintesi e alla coerenza tanto cogente, quanto di continuo
trasgredita. Entro un mondo man mano fattosi più plurale,
differenziato, diviso in parti eterogenee e confliggenti, lo Sta-
to è divenuto – la formula è di Alessandro Pizzorno – la più
ampia ed efficace «cerchia di riconoscimento» che la moder-
nità occidentale abbia architettato40. Perennemente proteso a
trascendere e contenere la pluralità sociale, culturale, religiosa,
linguistica, economica, della vita collettiva. Storicamente si è
quasi senza volerlo trovato ad assumere il compito di contra-
stare e ricomporre il disordine e l’incertezza imperanti entro
propri confini41. Chiunque s’impossessi dello Stato, e pretenda
farsi Stato, è vincolato a tradurre nel linguaggio dell’ordine,
dell’interesse generale, della sicurezza collettiva e della giustizia
le proprie istanze particolari.
Epperò, anche ad ammettere che si possa da qualche
parte stabilire un ordine perfetto, universale, l’ordine che lo
Stato storicamente stabilisce non è mai tale. Né lo è ciò che
40
  È un concetto usato da A. Pizzorno molte volte: cfr., ad esempio, Il velo
della diversità: studi su razionalità e riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 2007.
41
  Con eccesso di understatement lo sottolinea in nota G. Di Palma, The
Modern State Subverted. Risk and the Deconstruction of Solidarity, Colchester,
ECPRPress, p. 12, n. 2.

29
di volta in volta esso definisce come interesse generale, bene
comune, giustizia42. A guardarsi indietro, ogni definizione ap-
pare contingente e controversa, corrisponde alle convenienze
e alle possibilità delle fazioni che provvisoriamente indossano
i paramenti statali. Vi sono fazioni che profittano di tali para-
menti piegando l’idea d’ordine e di giustizia al perseguimento
miope e restrittivo del proprio vantaggio. Ve ne sono altre che
curano interessi più ampi dei propri. Dipende da come sono
fatte, da come la pensano, dalle condizioni in cui operano.
Dipende anche dalla disponibilità a cooperare che incontrano
dai loro sottoposti, o delle opposizioni, resistenze, renitenze che
le ostacolano. Anche quando sono minime, le opposizioni che
lo Stato incontra sul suo cammino ne condizionano le condotte
e lo plasmano. Dopotutto, se non ci fossero, vi sarebbe mai
bisogno di un simile enorme macchinario?
«Ogni relazione umana», scriveva Max Weber all’allievo e
amico Robert Michels, «anche del tutto individuale, contiene
elementi di dominio, forse reciproco (questa è addirittura la
regola, ad esempio, nel matrimonio)»43. Detto altrimenti, non
c’è dominio incontrastato. Ovvero, per dirla con Michel Fou-
cault, «dove c’è potere, c’è resistenza», la quale pertanto «non
è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere»44. Sollevata
la questione, Foucault non ha tuttavia elaborato una teoria si-
stematica dell’anti-Stato, cioè degli ostacoli e delle opposizioni
con cui lo Stato vive in intima simbiosi45. Per quanto numerose

42
 Legittimazione e giustificazione del potere, e dell’autorità pubblica,
sono storicamente situate. Concetti come interesse generale, legalità, volon-
tà popolare, ecc. assumono nel tempo e nello spazio significati diversi. Un
ambizioso tentativo di riordinamento è quello compiuto, riconoscendo nell’e-
sperienza occidentale alcuni modelli principali di «città» e di convivenza, da
L. Boltanski e L. Thévenot, De la justification: les économies de la grandeur,
Paris, Gallimard, 1991.
43
  M. Weber, Lettera a Robert Michels del 21 dicembre 1910, cit. in E. Hanke,
Introduzione a Economia e società. Dominio, Roma, Donzelli, 2018, p. XXII.
44
 M. Foucault, Storia della sessualità, I, Milano, Feltrinelli, 2001, pp.
125-126.
45
 Un contributo fondamentale, che nega la possibilità di una teoria
generale, è la ricerca di B. Moore jr., Le basi sociali dell’obbedienza e della
rivolta (1978), Milano, Comunità, 1983. Un altro contributo, che sottolinea
l’ubiquità delle resistenze, è quello di J.C. Scott, Domination and the Arts
of Resistance: Hidden Transcripts, New Haven, Yale University Press, 1990.
Una ricognizione sull’argomento in P. Saitta, Resistenze. Pratiche e margini

30
e pregevoli siano le teorie del conflitto, ancora difetta una
soddisfacente teoria delle resistenze. Se tante e spesso sottili
e inattese sono le tecniche di cui si servono i dominanti per
dominare, lo stesso vale per le tecniche di cui si servono i do-
minati per difendersi. Gli annali registrano le ribellioni visibili,
rumorose e collettive. Tralasciano le resistenze individuali e le
pratiche di autodifesa silenziose. Quel che è certo è che se ai
dominati costa difendersi e ancor più ribellarsi, anche dominare
è un arduo rompicapo.
Non vi sono unicamente le rivolte, gli scioperi, le sfilate,
il terrorismo. C’è chi pure si sottomette: o aderisce al potere
o vi si riconosce, e vi trova qualche convenienza; oppure non
concepisce nemmeno la possibilità di sottrarsi alla propria
soggezione, per quanto oppressiva; o ancora la sopporta per
abitudine, o per paura. In realtà, c’è sempre una zona grigia
che attornia i dominanti. Le apparenze della sottomissione
mascherano molte forme di autodifesa, possibilmente a basso
rischio. Si fa opposizione criticando, narrando, beffando, irri-
dendo, cantando, imbrattando i muri di scritte. Simulazione,
sabotaggio, diserzione, illegalità, evasione fiscale, corruzione,
assenteismo, economia informale, obiezione di coscienza sono
tutte tecniche di autodifesa. I subordinati sono lesti a profittare
di difetti, incoerenze, incertezze, errori dei dominanti, nonché
delle contese che tra questi ultimi si accendono. Un’altra tec-
nica di autodifesa, rammenta Hirschman46, è l’exit. Che può
avvenire persino in direzione del soprannaturale. Dal canto
loro, ricordiamo lo Stato-racket, gli addetti allo Stato non solo
opprimono ed estorcono, ma premiano, negoziano, corrompono,
persuadono, blandiscono, includono, tollerano il dissenso, gli
consentono a volte di manifestarsi apertamente e magari l’in-
coraggiano. È tipico d’ogni dominio, che, per stabilizzare, raf-
forzare, riprodurre le sue asimmetrie, per renderle sopportabili
ai suoi sottoposti, paga un prezzo e nega perfino di dominare.
Enormi sono i capitali simbolici, organizzativi, economici, che
lo Stato investe per ottenere rispetto, ubbidienza, consenso,

del conflitto nel quotidiano, Verona, Ombre corte, 2015. Ricchissimo d’idee
ed esemplificazioni è B. Hibou, Anatomie politique de la domination, Paris,
La Découverte, 2011.
46
  A.O. Hirschman, Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle
imprese dei partiti e dello stato (1970), Milano, Bompiani, 1982.

31
lealtà, attaccamento, collaborazione, complicità, conformismo,
ma anche solo disinteresse, timore, apatia.
Non è così un paradosso che a una quota cospicua dei
suoi sottoposti l’azione di dominio svolta dallo Stato, benché
parziale, selettiva, imperfetta, appaia dopotutto conveniente e
perfino, benevola e rassicurante. Anche quando non è affatto
amichevole. Fondamentale è l’incontro – provvisorio – tra l’of-
ferta di Stato, e dunque d’ordine, sicurezza, giustizia avanzata
da chi indossa pro tempore i paramenti statali, e la domanda di
Stato avanzata da gran parte dei suoi sottoposti e utenti. Una
delle risorse dello Stato consiste nell’evocare il disordine che
conseguirebbe dalla sua dissoluzione. Cosicché, se da un lato lo
Stato promette sicurezza, dall’altro inscrive l’insicurezza, cioè la
propria crisi – l’eterna crisi dello Stato – addirittura nella sua
costituzione. A dire dello Stato, senza e fuori da esso, la vita
umana diverrebbe insicura. Il ritrovamento di nemici e ribelli,
se del caso irriducibili e intrattabili, è un mezzo essenziale per
coltivare la credenza nella propria legittimità, autorità, premi-
nenza. Molto c’è da riflettere persino sul cosiddetto terrorismo
e sulle strategie per contrastarlo.
Anzi: non solo lo Stato evoca il disordine, ma ne semina a
iosa. Ha elaborato una retorica per la quale governare è risolvere
problemi collettivi. Ma non c’è azione di governo, misura di policy,
chiunque la progetti e la conduca, che non sia parziale, scomoda
per qualcuno e vantaggiosa per qualcun altro. Tra governo e
conflitto non c’è discontinuità sostanziale, ma solo apparente.
Per venire a capo delle opposizioni, i dominanti stabiliscono
con i dominati ciò che Barrington Moore chiama un «contratto
sociale implicito»: negoziano obblighi reciproci e definiscono i
criteri con cui si risolvono «i problemi dell’autorità, della divi-
sione del lavoro e della distribuzione dei beni e servizi», nonché
si stabiliscono principi di disuguaglianza sociale47. Il contratto
è però temporaneo e sottoposto a continua verifica, da parte
dei dominanti non meno che dei dominati, per sperimentarne
i limiti, per scoprire ciò che ciascuna parte può fare e non può
fare, per aggiornarlo. I contraenti non sono nemmeno tenuti
allo stesso modo a rispettarlo48.

47
  B. Moore jr., Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta, cit., pp. 38-41.
48
  Ivi, p. 43.

32
La fortuna dei dominanti è che l’opposizione aperta e
simultanea di tutti i sottoposti è da escludere. A volte non
basta. Ma avallare o suscitare divisioni tra di essi è una tecnica
di dominio ben riuscita. Gli addetti allo Stato hanno subito
appreso a usare tali divisioni, a dosarle, prevenirle, attenuarle,
incoraggiarle, eccitarle, reprimerle, secondo le loro convenienze:
a mettere gli uni contro gli altri. Il consenso di alcuni è sfruttato
per contrastare la dissidenza di altri, concedendo selettivamente
riconoscimenti simbolici, benefici materiali, spazi di autonomia,
immunità e privilegi e, in maniera sempre selettiva sanzionando
e reprimendo. Gli esseri umani sono pure incoerenti con loro
stessi. Neanche coloro che apprezzano il dominio statale e ne
traggono beneficio rinunciano a disobbedire e trasgredire ta-
citamente, a piegare le regole, a escogitare scappatoie. Quanti
sono pronti a invocare severe misure law & order, e al con-
tempo trasgrediscono le leggi, evadono le imposte, inquinano,
parcheggiano in doppia fila? Lo Stato, talora, ne profitta.
Un confine arduo da tracciare è quello tra opposizione e
concorrenza. Ovvero, vi sono coloro che si difendono dallo
Stato, ma anche quelli che aspirano a farsi Stato al suo posto, o
che vorrebbero disfarlo, tanto dall’interno, quanto dall’esterno.
Gli uni e gli altri spesso si confondono e si strumentalizzano
reciprocamente. La Chiesa e il clero, gli imprenditori, i partiti,
gli interessi organizzati, i movimenti collettivi, le famiglie, le
associazioni possono rivelarsi per le fazioni in carica dello Stato
tanto alleati, quanto oppositori, quanto ancora concorrenti,
portatori di altre pretese, altri interessi, altre idee d’ordine, di
giustizia, di sicurezza, d’interesse generale.
Anche i conflitti e le alleanze con gli altri Stati fanno
parte dello Stato. Sono un fattore possente, oltre che nella
sua costituzione, anche della sua conformazione. «Gli Stati
fanno la guerra», ricorda Tilly, e «la guerra fa gli Stati»49. Più
ravvicinata è la pressione militare, maggiore è la propensione
a consolidare le forze armate, gli apparati di sicurezza, le isti-
tuzioni amministrative e quelle preposte all’ordine pubblico,
ma pure a incoraggiare determinate attività economiche a spese
di altre. Non mancano nemmeno gli effetti sul comune sentire.
Ma non c’è solo la guerra, né la pressione militare, a tracciare

49
  C. Tilly, War-Making..., cit., p. 170.

33
dall’esterno il confine e il profilo degli Stati. Tra loro si danno
anche relazioni non violente, ma non meno condizionanti. Il
costituirsi del mercato capitalistico come sfera a sé ha suscitato
una trama d’interdipendenze e concorrenze: commerciali, finan-
ziarie, tecnologiche, che a volte si sono fermate ai confini degli
Stati, ma altre volte li hanno sorpassati. La globalizzazione ne
è una manifestazione straordinaria. Anche i grandi spostamenti
di popolazione, di recente tornati d’attualità, concorrono a
plasmare gli Stati.
Conta molto, inutile dirlo, il mutevole coacervo d’istituzioni
in cui gli Stati si sono storicamente articolati o intrecciati: mo-
narchie, burocrazie, magistrature, forze armate, autorità eletti-
ve, partiti, movimenti, interessi organizzati. E ancora: scuole,
università, mezzi di comunicazione. La divisione del lavoro
tra tali istituzioni è variabile, spesso conflittuale, e le modalità
d’esercizio del monopolio statale ne risentono. Nemmeno la
religione, il mercato, la scienza sono immuni da lotte di fazione,
che si riversano sullo Stato. A osservarlo senza intenti celebrativi
e senza lasciarsi intimidire dai paramenti di cui si veste, specie
dall’immagine della sovranità, lo Stato – la formula è di Joseph
R. Strayer – è un «mosaico»50, composto d’infinite tessere,
piuttosto mobili, e gravato da non meno infinite ipoteche. Se
però il dominio dello Stato è contestabile e deperibile, è pure
adattabile. È così che è sopravvissuto per secoli. Anche se da
ultimo c’è il sospetto che lo Stato, al volgere tra secondo e terzo
millennio, abbia gettato la spugna, si sia arreso al più disordinato
dei suoi concorrenti, che è il mercato. Il quale chiede allo Stato
unicamente di mantenere il suo ordine «spontaneo». È anche
questa, dopotutto, un’idea di Stato e di società.
Lo Stato domina in mille modi. Oltre però a perseguire
disegni di ordine sociale, mutevoli nel tempo, lo Stato è mosso
e consumato da un’ambizione ordinatrice in un altro senso. L’ha
illustrata con dovizia di argomenti ed esempi James C. Scott,
un altro studioso di fama. Conciliando ispirazione weberiana e
foucaultiana, Scott ha dedicato un libro a come lo Stato «vede»
e ragiona, e a come, proprio al fine di ordinare e governare
in funzione di esigenze fondamentali quali la tassazione e la

50
  J.R. Strayer, On the Medieval Origins of the Modern State, Princeton,
Princeton University Press, 1970, p. 57.

34
coscrizione, si sia attrezzato, investendo smisurate energie tanto
nel rendere leggibile la società, quanto nello standardizzarla,
uniformarla, allinearla51.
Mirabile esempio di questo sforzo di conoscenza, azione,
ridisegno, ma pure dei suoi ripetuti fallimenti, o di non cor-
rispondenza alle sue ambizioni, secondo Scott, è la politica
forestale adottata dalla Prussia al tempo del cameralismo
settecentesco. Per massimizzare la produttività delle foreste,
e trarne un prodotto più idoneo alla commercializzazione, gli
specialisti di scienze forestali studiarono, classificarono, selezio-
narono le diverse essenze, impiantarono foreste monocolturali,
coltivarono alberi delle medesime dimensioni in file perfetta-
mente allineate, con cura liberate dal sottobosco. Scopriranno
più tardi gli inconvenienti della monocoltura. L’esperimento si
risolse in disastro. Ripulito il sottobosco, inariditosi il suolo,
cacciata la fauna, gli alberi presero a deperire in maniera per
nulla rispondente alle attese di chi li aveva piantati. I pareri
degli «esperti» già allora avevano qualche controindicazione.
Il modello di coltura forestale introdotto nei domini del
re di Prussia non è un unicum. È inscritto nella vicenda dello
Stato. Sono coerenti con esso le geometrie amministrative co-
struite dagli Stati e, per l’appunto, la standardizzazione delle
unità di misura, la predisposizione delle mappe catastali, la
perimetrazione delle proprietà e delle colture, la cancellazione
dei dialetti a favore delle lingue nazionali, l’unificazione mo-
netaria e normativa, il calendario, l’anagrafe, l’imposizione dei
cognomi, il riordinamento del tessuto urbanistico delle città e
via di seguito. Da ultimo, l’informatica ha dischiuso immen-
se – e forse soffocanti – possibilità52. In compenso, non sono
affatto eccezionali gli inconvenienti.
Scott attribuisce allo Stato un impegno formidabile d’in-
gegneria politica, amministrativa, sociale, che, in forme varia-
bili, sarà perseguito lungo un arco di tempo plurisecolare. I
rivoluzionari francesi e quelli russi, una volta che si furono
impadroniti dello Stato, ne hanno offerto alcune tra le mani-

51
  J.C. Scott, Seeing Like a State: How Certain Schemes to Improve the
Human Condition Have Failed, New Haven, Yale University Press, 1998.
52
  B. Hibou, La bureaucratisation du monde à l’ère néolibérale, Paris, La
Découverte, 2012.

35
festazioni più estreme. Non si tratta di aderire alle retoriche
conservatrici considerate da A.O. Hirschman53: perché anche
l’immobilismo produce cambiamenti e pure indesiderati. Ma
è bene conoscere in anticipo le complicazioni che incontra
chiunque intenda manipolare la società. Le circostanze, il caso,
le diversità, le opposizioni, le insubordinazioni amano contrad-
dire le pretese, i disegni, le utopie. Tanto più sono ambiziosi i
disegni – quelli che Scott definisce high modernist – tanto più
elevato è il rischio. D’altro canto, le semplificazioni servono a
dare coerenza al mondo, aiutano a renderlo più comprensibile
e soprattutto più maneggevole per chi aspira a governarlo. E
forsanche per i governati. Ma non lo rendono tale.
Tra i paramenti dello Stato, insieme al suo nome, che evoca
la stabilità, rientra la tiara della sovranità, che ha incoronato
la pretesa riuscita – sempre però provvisoria – del monopolio.
Machiavelli, Bodin, Hobbes e altri ancora hanno reso pensabile
quell’idea. È l’occasione per ricordare che anche chi pensa,
parla, scrive, a favore o contro, concorre a fare lo Stato. È un
altro conglomerato di fazioni in lotta, a modo loro, per la loro
porzione di dominio. Idee, concetti, parole non sono semplice
decoro. Sono armi efficacissime, che hanno plasmato e affinato
il monopolio statale e hanno ispirato e condizionato l’operato
sia di coloro che lo detenevano, sia di quanti aspiravano a esso,
o aspiravano a disfarlo.
Si prenda il caso di Hobbes. Il suo turbamento al cospetto
della guerra civile ne fece uno strenuo assertore della suprema-
zia dello Stato. Era l’arma con cui prese parte alla contesa per
il potere, e in maniera per nulla secondaria. Nel suo pensiero
disegnò lo Stato come artificio, atto a ricomporre una pluralità
per sua natura disordinata e condannata altrimenti alla guerra
civile. Fu una mossa che promosse una rivoluzione concettuale
e un modo nuovo di pensare l’autorità e la convivenza, che, una
volta radicati nella teoria e nel vocabolario politico, sono stati
essenziali per fare e istituzionalizzare lo Stato54. Oggi è la teoria
economica cosiddetta neoliberale che avanza questa pretesa.

53
  A.O. Hirschman, Retoriche dell’intransigenza. Perversità, futilità, messa
a repentaglio (1996), Bologna, Il Mulino, 1991.
54
  Q. Skinner, Visions of Politics, II, Cambridge, Cambridge University
Press, 2002, pp. 394-413.

36
Forse nessuna tra le rappresentazioni dell’ordine statale
vale però le trionfali architetture dell’età barocca, i cui spet-
tatori erano infinitamente più numerosi di quelli di qualsiasi
altra celebrazione coeva dello Stato. Vi recitarono una parte
gli stessi monarchi non contentandosi di commissionare quelle
architetture. Essi, si sa, negoziavano anche la propria iconografia.
Una volta stabilita la propria immagine ufficiale, sarebbe stata
ripetuta a ogni occasione. Non diversamente negoziavano con
i loro architetti, affinché mettessero in scena la loro preminen-
za e le loro ambizioni. Era un’operazione di comunicazione,
finalizzata a suscitare stupore e deferenza intorno alla maestà
regia e ad iscrivere in permanenza quest’ultima, e l’ordine dello
Stato, nei pensieri e nei cuori dei loro sudditi.
Il mondo attorno allo Stato, si è detto, ha sempre resistito
agli sforzi di semplificarlo, sottometterlo, uniformarlo, standar-
dizzarlo. L’autorità monarchica in Francia si rapprese a fatica,
con fatica nelle campagne e ancor più nelle città. Imprigionata
a corte l’aristocrazia, occorreva tenercela e mantenerla. Per
nulla leale era il clero, che guardava verso Roma. I poteri lo-
cali andavano ammansiti. Lo spazio intorno al trono rimaneva
accidentato, irto di fazioni riottose e agguerrite, con cui spesso
conveniva negoziare. Le burocrazie erano eterogenee e in lite fra
loro. Il regno era eternamente in guerra, con i nemici esterni,
non meno pericolosi di quelli che gli resistevano all’interno.
Le casse dello Stato non erano mai colme a sufficienza. Luigi
XIV volle riprodurre in mille forme la sua immagine che fu
messa al centro di una grandiosa e intenzionale attività di
propaganda55.
Molto da riflettere dà soprattutto il contrasto tra la reggia
che egli volle edificare a Versailles, al centro ideale del regno,
e la sua tormentata pratica di governo. Quella reggia appare
pensata quale immagine fisica della sua autorità, istituendo
un luogo supremo per il suo esercizio, a conveniente distanza
dai sudditi e dalle loro opposizioni. Ebbene, l’immensa ar-
chitettura da lui elevata a se stesso e al monopolio che si era
personalmente intestato era senz’altro una mossa di una duris-
sima partita di potere – una partita in quanto le mosse degli

55
  L’ha investigata in dettaglio P. Burke, La fabbrica del Re Sole, Milano,
Il Saggiatore, 1994.

37
attori erano decisive – ma non sarà stata magari un tentativo
d’esorcizzare la pervicace ambivalenza della sua condizione?
L’État c’est moi, si narra che abbia detto il Re Sole. La coreo­
grafia di quell’edificio metteva in scena l’unità, la coerenza
e la cogenza dell’autorità regia agli occhi dei suoi sottoposti
e dei suoi rivali. Eppure, in quella temperie, sovraccarica di
tensioni sociali e politiche, potrebbe essere stato pure un modo
per fugare, o dissimulare, incertezze e frustrazioni. Esibendo
la sontuosa materialità delle sue fabbriche, dei suoi giardini,
delle sue feste, il Re Sole forse cercava conferma di un’autorità
incoerente, discontinua e insicura. Quanto l’insicurezza fosse
fondata lui l’aveva sperimentato di persona agli inizi del suo
regno. L’avrebbero confermato i parigini marciando su Ver-
sailles il 5 ottobre 1789.

3. Lasciti, bricolage, ibridazioni

Una delle metafore più fortunate con cui lo Stato è rap-


presentato è quella della macchina. Risale al XVII secolo56.
Ma se la metafora corrisponde all’ambizione di regolarizzare,
spersonalizzare e rendere irresistibile l’autorità dello Stato, la
pratica non si adegua. La macchina dello Stato non è facile da
azionare. Nel suo quotidiano operare lo Stato è un assemblag-
gio d’istituzioni, regole, esseri umani, che si destreggiano tra
infinite difficoltà. Ogni Stato fa lo Stato come può: in misura
e con modalità variabili. Non tutti gli Stati occupano nella vita
associata il medesimo spazio: a volte si espandono, altre volte si
ritraggono. Lo Stato può accentrare e decentrare. Può coltivare
la dimensione nazionale e simbolica, ma può tralasciarla. Non
tutti gli Stati intendono il diritto allo stesso modo: la differenza
tra rule of law e Stato di diritto è considerevole. Vi sono Stati
laici e Stati confessionali e niente è più mutevole degli equilibri
tra Stato e mercato. Le fazioni che si sono avvicendate nella
conduzione del monopolio statale hanno sempre esercitato il
loro dominio anche tramite un affannato bricolage di materiali

56
 Con riferimento alle origini della metafora, ai suoi molteplici usi e
in particolare a quello weberiano cfr. A. Anter, Max Weber’s Theory of the
Modern State, cit., pp. 196-202.

38
di risulta. Questa, storicamente, è la cifra dello Stato, che la
storiografia attuale considera perciò molto meno «moderno»
di quanto non si usasse pensare tempo fa57.
Proviamo a offrire qualche esempio, senza metodo, dalle
infinite esperienze disponibili. Tra i tanti bricolages primeggiano
quelli occorsi con il passato. Non c’è appropriazione, si badi,
senza rielaborazione. Quanto è stato rielaborato non è mai
ripetizione dell’originale. Lo Stato ha fatto bricolage anzitutto
con la feudalità, che ha resistito lungamente, malgrado fosse
la prima vittima dello sforzo di accentramento. Ancor più a
lungo ha resistito la classe che le era legata, ossia la nobiltà.
È un intreccio, quello tra feudalità e Stato, su cui Perry
Anderson ha avanzato un’interpretazione originale. L’assolutismo
sarebbe stato nientemeno che «la nuova armatura politica
della nobiltà minacciata» dalle borghesie urbane e dalle rivolte
contadine58. Monarchia e feudalità avrebbero fatto causa co-
mune contro tali sfide. Le generalizzazioni sono rischiose. Ma
Anderson è avvertito e non semplifica, anzi contrasta le gene-
ralizzazioni precedenti. In gran parte delle regioni d’Europa
relazioni in qualche modo assimilabili a quelle feudali, sia sul
piano economico, sia su quello politico, hanno resistito, tramite
istituti quali la venalità delle cariche e un sistema fiscale gravante
soprattutto sui contadini.
Una volta espropriata della sua autorità politica, l’aristocra-
zia mostrò anche considerevoli capacità di ricollocarsi e tener
testa ai ceti borghesi. Da Stato a Stato le cose cambiano. Ma gli
eredi dell’aristocrazia feudale, la gentry e i suoi equivalenti con-
tinentali, le nobiltà cittadine, trovarono sovente spazio nella rete
dei consigli, privati o di Stato, dei collegi specializzati, istituiti
dai sovrani, nelle magistrature e nell’amministrazione regia59.
Spesse volte questi ceti si posizionarono lungo il confine tra
politica e affari – l’esazione fiscale o i servizi di posta – quando
non si riconvertirono all’imprenditoria capitalistica. La tesi di
Arno Mayer è che un cospicuo grumo d’interessi, e finanche
di valori, identificabili con la nobiltà, conservatori, se non rea­
57
  Si veda in special modo F. Benigno, Stato moderno, in Id., Parole nel
tempo. Un lessico per pensare la storia, Roma, Viella, 2013.
58
  P. Anderson, Lo Stato assoluto, Milano, Mondadori, 1980, p. 20.
59
  A. Maczak, The Nobility-State Relationship, in W. Reinhard (a cura di),
Power Elites and State Building, Oxford, Clarendon Press, 1996, pp. 189-206.

39
zionari, avrebbe resistito fino al primo conflitto mondiale60. I
ceti nobiliari ottocenteschi avevano però quasi nulla in comune
con l’antica nobiltà feudale e con quella prerivoluzionaria61. Si
erano via via incrociati con i ceti borghesi. L’impatto con la
modernità li aveva indotti a adeguarsi. Anche se tra le élites
legate allo Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nell’ordine
giudiziario e nelle forze armate, fino al Novecento inoltrato,
sono sopravvissute nicchie riservate alla nobiltà.
Intrecciando storia e scienze sociali, Barrington Moore ha
raccontato la precoce riconversione imprenditoriale dell’aristo-
crazia e della gentry in Inghilterra62. Già l’assolutismo Tudor
aveva ceduto loro il governo locale, la riscossione dell’imposta
fondiaria e l’amministrazione della giustizia. Il paese era vasto
e la corona faceva risparmio di un costoso apparato burocra-
tico. Dopo la rivoluzione e la dittatura militare di Cromwell,
restaurata la monarchia e stabilizzato il regime rappresentativo,
l’aristocrazia e la gentry, in ragione del loro prestigio sociale e
delle loro risorse patrimoniali, istituiranno una solida supre-
mazia nella vita politica locale e anche in quella nazionale, di
cui resteranno tracce anche oltre il XIX secolo. Pure grazie
alla loro disponibilità a intrecciare vincoli di parentela, oltre
che di affari, con i ceti borghesi.
In Francia, viceversa, il Re Sole sgretolò l’opposizione della
nobiltà feudale sottomettendola ai riti di corte e facendone orna-
mento della propria maestà. Lui, e ancor più i suoi successori, le
consentirono comunque di amministrare ancora ricchi patrimoni
e le offrirono cariche amministrative e gradi militari, mentre in
provincia la nobiltà piccola e media si disputava il potere con
le borghesie cittadine, quando non si alleava con esse contro la
burocrazia regia. Si verificò pure una retroazione singolare. La
monarchia attinse dalla borghesia i suoi funzionari per escludere
l’aristocrazia. Ma dovette rassegnarsi a quel succedaneo che era

60
  A.J. Mayer, Il potere dell’Ancien Régime fino alla Prima guerra mondiale,
Roma-Bari, Laterza, 1982.
61
  Una lettura comparativa, critica nei confronti di Mayer, in C. Charle,
Elite Formation in Late Nineteenth Century: France Compared to Britain and
Germany, in «Historical Social Research/Historische Sozialforschung», 2,
XXXII, 2008, pp. 249-261.
62
  B. Moore Jr., Le origini sociali della dittatura e della democrazia. Proprie-
tari e contadini nella formazione del mondo moderno, Torino, Einaudi, 1969.

40
la nobiltà degli uffici, prontissima ad assumere costumi, stili di
vita, modalità di esercizio del potere della noblesse d’épée63. Un
secolo dopo, qualche residuo aristocratico sopravviverà, ma sarà
la borghesia proprietaria e delle professioni legali a occupare
i vertici dello Stato, con qualche circoscritto temperamento
meritocratico che coinvolgeva altri ceti64.
In Prussia, il difetto d’ingenti entrate fiscali provenienti dalle
attività commerciali e industriali suggerirà invece aggressive
politiche d’espansione, che confermarono il ruolo militare della
nobiltà. La scelta dell’autorità regia fu d’accordarsi con essa,
ripristinando i rapporti feudali nelle campagne e assorbendola,
specie le sue componenti economicamente più deboli, una volta
fuoruscita dai ranghi dell’esercito, in quelli dell’amministrazione
territoriale e della burocrazia, dove però fu costretta a misurarsi
con un’élite, in parte borghese, dotata di competenze anzitutto
giuridiche. A pagarne il prezzo, grazie all’esosa pressione fiscale
e alla coscrizione, fu la popolazione contadina. Ma vittima fu
pure, benché diversamente, la borghesia, che rimase separata
dallo Stato. Dedicatasi con successo agli affari e alla cultura,
le sarà unicamente concesso di accedere ai governi cittadini65.
In ogni caso, i titoli nobiliari persisteranno a lungo quali
segni di prestigio e di distinzione: i sovrani di tutta Europa se-
guiteranno a riconoscerli e a distribuirli con larghezza e nessuno
si è mai rifiutato di riceverli. Placata la tempesta rivoluzionaria,
Napoleone si compiacque d’inventare la nobiltà dell’impero.
I suoi successori evitarono di congedarla. Un secolo dopo il
fascismo distribuirà titoli nobiliari a profusione. In pieno XX
secolo il franchismo ha restaurato la monarchia e ridato corso ai
titoli nobiliari. Istituire gerarchie e promuovere disuguaglianze
si può pure farlo con modalità un po’ vetuste.
La colonna vertebrale dello Stato sono state le burocrazie
pubbliche. Ma nell’organizzazione della macchina statale ele-

63
  K. Isaacs e M. Prak, Cities, Bourgeoisies, and States, in W. Reinhard (a
cura di), Power Elites and State Building, cit., pp. 228-229.
64
  C. Charle, Elite Formation in Late Nineteenth Century: France Compared
to Britain and Germany, cit., nonché J. Kocka, Borghesia e società borghese nel
XIX secolo. Sviluppi europei e peculiarità tedesche, in Id. (a cura di), Borghesie
europee dell’Ottocento, Venezia, Marsilio, 1989.
65
 H. Rosenberg, Bureaucracy, Aristocracy, and Autocracy. The Prussian
Experience. 1660-1815, Boston, Beacon Press, 1966.

41
menti patrimoniali e moderni hanno a lungo convissuto. Solo
ben oltre la metà del XIX secolo le burocrazie si struttureranno
definitivamente, secondo, più o meno, l’idealtipo weberiano66.
Selezionati per concorso, ai pubblici funzionari sarà garantita
la stabilità nell’impiego, regolandone la progressione in carriera
e prescrivendo loro neutralità e indipendenza in opposizione
alla parzialità della politica elettiva67. Fino a quel momento
le burocrazie pubbliche erano state costrette a destreggiarsi
entro un’intricata stratificazione e contrapposizione di poteri
ed erano state ipotecate da vincoli familiari, clientelari, locali,
che tuttavia facevano comodo ai sovrani, conseguendo anch’essi
l’effetto, solo in apparenza paradossale, di favorire il rappren-
dersi dell’organizzazione statale del potere68.
Fondamentali furono le circostanze. Nella Francia e nella
Spagna del XVI secolo esse consentirono di regolamentare
meglio cariche e competenze, e di dissociare i funzionari dal
territorio, spostandoli da un luogo all’altro69. Non fu l’unica so-
luzione, fu anzi spesso in contrasto con un’altra: la vendita degli
uffici era un altro bricolage singolare. I re di Francia ne fecero
sostituito e antidoto all’aristocrazia. Ma presto concessero agli
officiers la carica in proprietà, ne autorizzarono la trasmissione
ereditaria e l’impreziosirono a volte con un titolo nobiliare: con
una mano monopolizzavano, con l’altra privatizzavano le attività
dello Stato. Pure la raccolta fiscale era di regola affidata a im-
prenditori privati. Niente è mai troppo originale, tantomeno le
privatizzazioni. Gli inconvenienti erano noti e furono avanzati
progetti di riforma, di ridimensionamento o abolizione della
venalità. I re di Francia erano però troppo gravati dai debiti, e
gli introiti della venalità troppo vantaggiosi, per rinunciarvi. La
venalità implicava l’esenzione dalla taille, compensata ampia-
mente da nuove entrate: nel momento in cui le cariche erano
attribuite e quando erano trasmesse, per successione o in altro
modo, nonché nel corso del loro esercizio. In più, i sovrani
legavano a sé una parte della classe mercantile e rinnovavano le

  J.A. Maravall, Stato moderno e mentalità sociale, cit., vol. II, pp. 532-537.
66

 F. Dreyfus, L’invention de la bureaucratie: servir l’État en France, en


67

Grande-Bretagne et aux États-Unis (XVIIIe-XXe siècle), Paris, La Découverte,


2000, pp. 169-197 e 204-225.
68
  Su Francia, Inghilterra e Stati Uniti: ivi, pp. 119-121.
69
  J.A. Maravall, Stato moderno e mentalità sociale, cit., vol. II, pp. 548-553.

42
classi dirigenti. Il meccanismo era così redditizio che gli uffici
messi in vendita furono moltiplicati. Erano un discreto motore
per l’economia. Chi acquistava una carica, effettuava un cospicuo
investimento per ricavarne, insieme ad autorità e prestigio, una
rendita, pagata non dal sovrano, bensì dagli utenti70.
In Inghilterra i due rami del Parlamento si assicurarono pre-
sto competenze normative e riuscirono a imporre alla monarchia
considerevoli vincoli, controllandone le spese e contrastando
il ricorso alla venalità per finanziarle. Solo per poco, al tempo
degli Stuart, la monarchia fece qualche commercio di cariche.
Se le storie narrate a cose fatte promuovono l’Inghilterra ad
esempio virtuoso, dato che colà avrebbe visto la luce la prima
burocrazia professionale moderna, insieme al primo moderno
sistema fiscale, ciò avvenne però in ragione di circostanze for-
tuite. Il caso aveva voluto che alla classe mercantile si offrisse
l’opportunità d’impiegare altrimenti i suoi capitali, mentre le
fiorenti attività economiche e finanziarie della city di Londra
consentivano alla pressione fiscale di essere meno gravosa71.
In tanti casi ha contato la collocazione geografica. Secondo
un illustre studioso delle istituzioni come Otto Hintze, l’esigenza
di allestire forze armate numerose e dotate di costosi armamenti
per varcare la Manica scoraggerà i potenziali invasori e indurrà
al contempo gli inglesi a frenare le loro ambizioni continentali e
ad investire piuttosto in lucrose imprese oltremare. Sarebbe per-
fino una ragione della lunga durata del regime rappresentativo,
giacché venivano limitate le capacità repressive dello Stato. Le
urgenze militari della Francia, al centro di molteplici pressioni
sui confini, concorrono invece a spiegare l’ipertrofia dello Stato.
Così come, più tardi, l’emergenza militare al tempo della rivolu-
zione e del Primo impero non solo imporrà allo Stato di estrarre
dai suoi sottoposti più risorse fiscali dell’ordinario, ma favorirà il
sostanziale rinnovamento del suo apparato amministrativo. Non
meno intrigante è il caso della Prussia. Pressato da ogni parte,
lo Stato costituito dal Grande Elettore e dai suoi eredi divenne

70
  R. Descimon, Power Elites and the Prince: The State as Enterprise, in
W. Reinhard (a cura di), Power Elites and State Building, cit., pp. 111-121.
71
  Su questi temi J. Brewer, The Sinews of Power. War, Money, and the
English State, 1688-1783, London, Unwin Hyman, 1989, segnatamente pp.
57-72. Inoltre, J.-P. Genet, La genèse de l’État moderne. Culture et société
politique en Angleterre, Paris, Puf, 2003, pp. 89-110.

43
uno «Stato guarnigione», sorretto da una possente macchina
burocratica72. Le esigenze militari imposero a loro volta uno
sforzo enorme di amministrazione. A beneficio del quale cure
specifiche furono dedicate alle istituzioni universitarie, affinché
impartissero agli aspiranti funzionari istruzione adeguata. Si
sarebbero sviluppate le discipline camerali73. Grandi riforme
amministrative saranno adottate a seguito della sconfitta di
Jena. Frutto dello stretto legame tra esercito e burocrazia fu
pure lo statuto precocemente disposto per quest’ultima: già a
fine XVIII secolo se ne precisarono obblighi e diritti, oltre alle
competenze richieste per accedere ai suoi ranghi74.
Pescando tra i lasciti del passato: sono innumerevoli e si
ritrovano dappertutto. Perfino nel tortuoso processo che con-
dusse all’intestazione del potere al popolo. Non è il popolo
modernamente inteso, costituito da individui liberi e uguali.
Ma la formula del governo del popolo arriva da lontano e
l’investitura divina evocata dall’impero carolingio non riuscì a
cancellarne la memoria. Nella ricostruzione di Walter Ullmann
la legittimazione popolare avrebbe qualche rapporto finanche
con la funzione feudale del potere regio. Comportando un
vincolo di fedeltà reciproco tra re e vassalli, tale funzione era
giocoforza in contrasto con il principio teocratico75. Un’altra
ipotesi suggestiva l’ha avanzata José Antonio Maravall. Una
volta scompaginata la vecchia stratificazione cetuale, fu lo

72
  Cfr. O. Hintze, Politica di potenza e forme di governo, in S. Pistone (a
cura di), Politica di potenza e imperialismo, Milano, Angeli, 1973; Formazione
degli Stati e sviluppo costituzionale, Studio storico-politico, in «Annali dell’I-
stituto Storico Italo-Germanico», IV, 1978; nonché Essenza e trasformazione
dello Stato moderno, in O. Hintze, Stato e Società, Bologna, Zanichelli, 1980.
Il tema sarà ripreso da molti autori: da C. Tilly, in Coercion, Capital..., cit.;
da B. Downing, The Military Revolution and Political Change. Origins of
Democracy and Autocracy in Early Modern Europe, Princeton, Princeton
University Press, 1992 e da T. Ertman, Birth of the Leviathan: Building States
and Regimes, Cambridge, Cambridge University Press, 1997.
73
  P. Schiera, Dall’arte di governo alle scienze dello Stato. Il cameralismo
e l’assolutismo tedesco, Milano, Giuffrè, 1968.
74
  H. Rosenberg, Bureaucracy, Aristocracy, and Autocracy, cit. e J.R. Gillis,
Aristocracy and Bureaucracy in Nineteenth-Century Prussia, in «Past & Pres-
ent», 1, XLI, 1968, pp. 105-129.
75
 Sulla contrapposizione tra concezione «discendente» e concezione
«ascendente» del potere cfr. W. Ullmann, Principi di governo e di politica
nel Medioevo, Bologna, Il Mulino, 1972.

44
stesso assolutismo a ridisegnare il vincolo tra sovrano e sudditi
alimentando, involontariamente, tra questi ultimi sentimenti di
libertà e «aspirazioni democratiche»76.
Al fondo vi sono pure molte ed eterogenee esperienze di
autogoverno. In pieno Medioevo le comunità di villaggio, di
cui l’Europa contadina era disseminata, eleggevano i loro capi
e si autogovernavano, per difendersi, per coltivare la terra,
per soccorrere i propri membri. Si autogestivano le comunità
funzionali: gilde, confraternite, compagnie commerciali, cor-
porazioni77. L’esistenza politica del popolo, e il conferimento
di un qualche mandato popolare ai governanti, saranno
simbolicamente riconosciuti nei comuni e nelle repubbliche
cittadine, che, lungo la cintura urbana che congiungeva l’Italia
alle Fiandre, passando dalla Svizzera e dalla valle del Reno, per
un tempo non breve tennero testa all’accentramento monarchi-
co78. In qualche caso – dalle Province Unite a Venezia – con
successo. Potevano costituire un’alternativa allo Stato quale
forma d’organizzazione politica della modernità? C’è chi l’ha
immaginato. Il contrattualismo repubblicano di Althusius
e Spinoza è simmetrico a quello statalista di Hobbes79. E il
governo cittadino fu anche un modello temuto. Quando nel
1640 il Parlamento si sollevò contro di lui, Carlo I manifestò
con sdegno la preoccupazione d’esser ridotto al rango del doge
di Venezia, ingabbiato dalla severa collegialità del Maggior
Consiglio80.

76
  Argomenta questa tesi, cui dedica un capitolo così intitolato, J.A. Ma-
ravall, Stato moderno e mentalità sociale, cit., vol. I, pp. 465-529.
77
  Si rinvia ai saggi contenuti in P. Blickle (a cura di), Resistance, Rep-
resentation and Community, Oxford, Clarendon, 1997. W. Ullmann tratta
diffusamente la maturazione di una dottrina del governo popolare: cfr. Principi
di governo e di politica nel Medioevo, cit., pp. 283-411.
78
 Oltre a C. Tilly, Coercion, Capital..., cit., affronta la questione della
concorrenza tra monarchie assolute e repubbliche cittadine, e delle diffe-
renze tra queste ultime H. Spruyt, The Sovereign State and Its Competitors:
An Analysis of Systems Change, Princeton, Princeton University Press, 1994.
Ma si veda anche W. Blockmans, Voracious States and Obstructing Cities: An
Aspect of State Formation in Preindustrial Europe, in «Theory and Society»,
5, XVIII, 1989, pp. 733-755.
79
  M. Van Gelderen, The State and Its Rivals in Early Modern Europe, in
Q. Skinner e B. Strath (a cura di), States and Citizens, cit.
80
  J. Adamson, The Noble Revolt. The Overthrow of Charles I, London,
Phoenix, 2007, pp. 212 e 226.

45
Come modello democratico le città non valevano granché.
Erano rette da oligarchie aristocratiche e mercantili, esclusive
del popolo «minuto»81. Mancava un medesimo stato giuridico
che accomunasse tutti gli abitanti. Ma le tecniche di governo
lì sperimentate depositarono molte tracce in memoria, per
essere valorizzate più a lungo termine82. Per gli addetti allo
Stato fu un’importante lezione: vi fece le sue prove l’impiego
della scrittura, che è tratto fondamentale delle moderne am-
ministrazioni pubbliche. Mentre anche entro lo Stato assoluto,
persino in Francia, le città per tutto l’Ancien Régime rimasero
dotate di propri organi di governo e di procedure elettive83,
entrando spesso in collisione con il potere regio. Ai sovrani,
d’altro canto, la cooperazione delle borghesie cittadine tornava
preziosa ed era loro convenienza riconoscerle e rispettare alcune
forme di autonomia.
L’imperialismo britannico ha adoperato nei suoi possedimenti
oltremare la tecnica dell’indirect rule. Onde limitare le opposi-
zioni locali, una quota delle responsabilità di governo andava
mantenuta nelle mani delle élites autoctone84. Il governo indiretto
è una caratteristica di tutti gli imperi, che hanno assemblato
formazioni politiche e sociali disparate, puntando più a con-
sentirne la convivenza che a uniformarle. Tutt’altra, è la logica
dello Stato-nazione. Travolgendo ogni resistenza, il suo dominio
dal centro si vuol estendere verso le frontiere, per omologare i
suoi territori e uniformare le sue popolazioni. Non fosse che la
pratica è stata di gran lunga più conciliante e l’inclusione non
sarà stata una strategia, ma di sicuro è stata una tattica.
Per uno storico dell’assolutismo francese, la tecnica preferita
da Luigi XIV era la «collaborazione sociale»85. Non c’è Stato

81
 P. Blickle, Conclusions, in Id. (a cura di), Resistance, Representation
and Community, cit., p. 328.
82
  A. Höfert, States, Cities, and Citizens in the Later Middle Ages, in Q.
Skinner e B. Strath (a cura di), States and Citizens, cit.
83
  O. Christin, Vox populi. Une histoire du vote avant le suffrage universel,
Paris, Seuil, 2014, pp. 13-80.
84
 Non era una tecnica propria solo dell’impero britannico. Cfr. M.W.
Doyle, Empires, Ithaca, Cornell University Press, 1986; J. Burbank e F. Cooper,
Empires in World History. Power and the Politics of Difference, Princeton,
Princeton University Press, 2011, pp. 390-391.
85
  W. Beik, The Absolutism of Louis XIV as Social Collaboration, in «Past
& Present», 1, 188, 2005, pp. 195-224.

46
che distendendosi verso le periferie non sia sceso a patti con
le élites e con i costumi, gli stili di vita, i dialetti, le unità di
misura, le norme consuetudinarie locali. Ha provato a forzarli,
ma li ha anche tollerati. Ha patteggiato con gli interessi insediati
sul territorio, in genere restii a lasciarsi riassorbire entro un
quadro unitario che li avrebbe privati di tutto il loro vigore86.
Per le fazioni insediate al centro il controllo della periferia
era spesso troppo oneroso. Mentre le fazioni periferiche erano
rese collaborative dalla prospettiva di ottenere tanto risorse
dal centro, quanto spazio per le loro controversie locali. Lo
Stato, le burocrazie pubbliche, le magistrature, le università, le
assemblee legislative hanno reclutato a lungo i loro addetti tra
i ceti dotati localmente di autorità sociale, i quali svolgevano
una profittevole azione di cerniera tra la sfera locale da cui
provenivano e quella nazionale. La persistenza del notabilato,
fatto di disponibilità economiche, prestigio, reti di relazioni,
si spiega anche in questo modo.
L’ambizione accentratrice si è stemperata nei fatti in una
quantità di ibridi, seppure ufficiosi, tra pretese di monopolio e
più realistiche forme di negoziazione, coordinamento, inclusio-
ne. Anche quando a fine XIX secolo il processo pareva giunto
all’apice, e il monopolio statale si era stabilizzato, residui più o
meno consistenti dell’articolazione originaria sono sopravvissuti.
A dispetto della simbologia della sovranità, ciascun territorio
ricompreso entro i confini statali – con le fazioni in esso radica-
te – proverà a farsi valere nelle contese nazionali per il potere,
rivendicando spazi di autonomia e opportunità di accesso ai
vertici dello Stato. Saranno condizionati dalle loro articolazioni
territoriali anche i grandi partiti nazionali del Novecento, che
hanno in molti casi alimentato un ricco notabilato di ritorno.
Un esempio di assimilazione tortuosa si trae dall’Italia.
Costretti dalle armate francesi, gli Stati preunitari furono in-
dotti a adottare il centralismo napoleonico, con l’eccezione di
quelli che già applicavano il modello austriaco. La pagina più
intrigante fu scritta nel Mezzogiorno. In quello continentale
l’insediamento dei Borboni sul trono di Napoli a metà XVIII
secolo dette avvio a importanti riforme amministrative, acce-

86
  Ricchissima d’informazioni è ancora la raccolta curata da P. Blickle (a
cura di), Resistance, Representation and Community, cit.

47
leratesi sotto l’intermezzo francese, che i Borboni, tornati sul
trono dopo il congresso di Vienna, mantennero e avrebbero
voluto estendere alla Sicilia87. Ma lì incontrarono la caparbia
resistenza dei gruppi di potere isolani, spesso attrezzati con una
cospicua capacità di violenza, impiegata in attività tanto politi-
che quanto economiche. E alla fine si rassegnarono. Fu questa
la situazione in cui le autorità piemontesi e i loro successori
hanno seguitato a fare lo Stato. Interventi, talora parecchio
brutali, volti a mantenere l’ordine pubblico, si sono conciliati
con l’installazione di burocrazie compiacenti verso i potentati
locali, gratificati dalle opportunità di ascesa nelle gerarchie del
potere nazionale. Rientra in questo adattamento la tolleranza
mostrata verso le sacche di violenza sopravvissute, o ricosti-
tuitesi, localmente, comunque condizionate dall’impatto con
la nuova azione di governo nazionale, che ha pertanto avuto
parecchie responsabilità nel persistere di quel temibile potere
privato che è la mafia. Senza generalizzare impropriamente: tra
la mafia e alcune fazioni coinvolte nell’esercizio del monopolio
statale si sono sovente instaurate interdipendenze e intrecci
reciprocamente vantaggiosi88.
Un cumulo di bricolages, lasciti, indirect rule, ibridazioni
sono i rapporti con la sfera religiosa. Il governo indiretto è stato
sperimentato per secoli dalla Chiesa, che ha sì combattuto, anche
ferocemente, i dissenzienti, ma mille volte ha patteggiato con i
poteri e le consuetudini locali e con la religiosità popolare89. A
parte il fatto che non c’è pratica religiosa che non si adatti alle
circostanze e ai luoghi, a qualche dose di diversità la Chiesa si è
rassegnata anche a dispetto delle severe intenzioni accentratrici
rafforzatesi dopo il concilio tridentino. Le possibilità di comu-
nicazione erano quelle che erano e pertanto è stato privilegiato
il clero autoctono, gli sono stati lasciati margini di autonomia
e con pragmatismo sono stati riconosciuti devozioni, liturgie,
santi e santuari locali. Di altri margini di autonomia hanno fruito
gli ordini religiosi. Neanche la Chiesa è mai stata un monolite.

87
 A. Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, Bologna, Il Mulino,
1997.
88
  S. Lupo, Storia della mafia dalle origini ai nostri giorni, Roma, Donzelli,
2004.
89
 Un caso emblematico in P. Burke, Historical Anthropology of Early
Modern Italy, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, pp. 40-59.

48
Oltre che innumerevoli motivi di conflitto, lo Stato ha
trovato quantità di opportunità d’ibridazione e di bricolage. È
un appassionante tema di ricerca. La sfera religiosa è un’altra
istituzione che, con i suoi addetti, raggruppa e governa gli
esseri umani. Lo Stato è divenuto lo Stato sconfessando la le-
gittimazione teocratica ed emancipandosi dalla Chiesa, la quale
ha resistito con grande ostinazione. Ma tra i tanti bricolages c’è
quello simbolico segnalato da Kantorowicz: per il potere regio fu
scontato adattare il modello del potere religioso e i suoi rituali,
sacralizzando la figura del re, in quanto espressione della collet-
tività, e spersonalizzandone l’autorità90. La tesi, molto citata, di
Carl Schmitt è che la teologia abbia rifornito lo Stato dei suoi
concetti fondamentali91. Il retaggio religioso è imponente nel
culto della nazione, che è stato coltivato alacremente dal XIX
secolo92. Non c’è Stato che, avvalendosi di specifici addetti,
non si sia adoperato per unificare la varietà dei suoi sottoposti
celebrando liturgie e investendo i suoi santi e i suoi martiri. An-
che di sacrifici umani ne sono stati consumati in abbondanza93.
Stando a Foucault, la moderna autorità secolare avrebbe
anche appreso moltissimo dal modello pastorale, cioè dalla
tecnica di governo elaborata dalla Chiesa per prendersi cura
del proprio gregge94. Secondo un’altra ipotesi, entro la sfera
religiosa potrebbero ritrovarsi perfino i germi della secolariz-
zazione dell’autorità, al momento della Riforma protestante.
Tralasciando i presupposti, che sono forse risalenti95, allorché fu
sancito il libero esame delle Scritture e proclamato il sacerdozio
universale dei credenti, la Riforma riscrisse il rapporto tra l’au-
torità e i suoi sottoposti. Riconnettendosi alla teoria weberiana
sull’affinità tra la dottrina della predestinazione e l’autodisci-
plina, che ha favorito l’impianto della moderna imprenditoria

90
  E. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit.
91
  C. Schmitt, Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità
(1922), in Id., Le categorie del «politico», Bologna, Il Mulino, 1972.
92
  Sulla secolarizzazione del concetto di Corpus mysticum, cfr. E. Kanto-
rowicz, I due corpi del Re, cit., pp. 177-233.
93
  P. Manow, In the King’s Shadow, London, Polity, 2010.
94
 M. Foucault, Sécurité, territoire, population, Paris, Gallimard/Seuil,
2014, pp. 119-134.
95
  Per Otto Brunner il germe è ancora più antico. La secolarizzazione e
l’individualismo sono intrinseci al cristianesimo: cfr. Vita nobiliare e cultura
europea, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 58 ss.

49
capitalistica96, Philip S. Gorski ha avanzato un’ipotesi circa le
conseguenze politiche della grande «rivoluzione disciplinare»
promossa dal calvinismo. Diffusa dal basso dalle autorità re-
ligiose e in orizzontale tra i fedeli, ne avrebbero profittato, in
forme diversissime, sia il regime repubblicano in Olanda, sia
l’assolutismo burocratico prussiano, che avrebbero rafforzato
grazie a essa le loro istituzioni di governo, successivamente
contagiando gli altri Stati europei97. Ancora una volta risalta il
caso inglese, dove il puritanesimo conciliò rivoluzione politica
e rivoluzione religiosa98.
Tra i lasciti offerti allo Stato dalla Chiesa, ispirata a sua
volta dall’esperienza del diritto romano, sono ancora da citare
la tradizione giuridica e la struttura gerarchica e accentrata
introdotta con le riforme gregoriane e qualche secolo dopo
perfezionata dal concilio di Trento. Fu un modello per le buro-
crazie pubbliche. Non è nemmeno secondario, come rammenta
Max Weber, che i sovrani promotori del monopolio statale,
volendo costituire una cerchia di collaboratori più ampia di
quella loro legata da vincoli di dipendenza personale, si siano
inizialmente rivolti ai chierici: professionisti, non solo del sacro,
ma pure della scrittura99.
Oltre a ereditare e imparare dalla Chiesa, lo Stato si è
ibridato ampiamente con essa nell’azione di governo. Pure
gli Stati più laici hanno permesso alle confessioni religiose
di concorrere alla definizione e manutenzione della morale
collettiva. In America l’onnipotente è invocato per ogni dove;
in Inghilterra i sovrani sono tuttora incoronati a Westminster;
in Italia non c’è cerimonia laica senza vescovi e monsignori e
le aule scolastiche e giudiziarie sono sormontate dai crocifissi.
Quanti Stati in Occidente disdegnano i cappellani militari e
quanti rinunciano a santificare le loro imprese militari? Tra

96
 M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze,
Sansoni, 1965.
97
  P.S. Gorski, The Disciplinary Revolution. Calvinism and the Rise of the
State in Early Modern Europe, Chicago-London, The University of Chicago
Press, 2003.
98
  Una proposta interpretativa originale in M. Walzer, La rivoluzione dei
santi: il puritanesimo alle origini del radicalismo politico, Torino, Claudiana,
1996.
99
  M. Weber, La politica come professione, cit., p. 193.

50
il XIX e il XX secolo gli Stati occidentali hanno chiesto alla
religione di confermare l’identità nazionale in contrasto con
la non identità dei popoli colonizzati. Ultimamente le autorità
politiche secolarizzate tendono spesso a invocare il soccorso
della religione per marcare il confine con il mondo islamico
e con chi giunge da quelle parti. Il paradosso è che le chiese
sono cambiate e non gradiscono troppo la richiesta.
In molti paesi d’Europa lo Stato e le istituzioni religiose si
sono sovente spartiti perfino i servizi pubblici. L’amministra-
zione statale si è a lungo avvalsa delle parrocchie, trattandole
quali ripartizioni amministrative, e i registri parrocchiali furono
il primo strumento per registrare nascite, morti, matrimoni e
censire la popolazione. Alle chiese si è lasciato il compito di
soccorrere i poveri e i bisognosi, pur con sostanziali differenze
tra Chiesa cattolica e chiese riformate. Nell’Italia del terzo
millennio alla Charitas, inclusa sotto la capiente rubrica della
società civile, è delegata parte non secondaria dell’accoglienza
ai migranti, mentre dal Concordato del 1929 il celebrante del
matrimonio religioso funge da ufficiale di stato civile. Un buon
esempio di indirect rule è il monopolio riconosciuto in Italia
fino al 1976 alla Chiesa cattolica dello scioglimento dei vincoli
matrimoniali. In Irlanda alla Chiesa è stata fino a ieri delegata
un’abbondante porzione del sistema educativo.
I casi d’ibridazione si sprecano. Lo Stato, o quell’insieme
di fazioni, rapporti e tecniche di dominio e di governo che si
chiama con questo nome, hanno nutrito grandi ambizioni di
potenza, hanno dettato regole e tracciato confini spaziali, tem-
porali, simbolici, che pragmaticamente e tacitamente sono stati
contraddetti, favorendo pratiche più flessibili. Eppure, le tante
ibridazioni cui lo Stato è rassegnato non gli hanno impedito di
mantenere una preminenza, anzitutto simbolica. Per quanto si
ibridi, lo Stato mai addiviene, perché contraddirebbe se stesso,
alla resa incondizionata a un mondo refrattario al suo ordine:
tuttora, quantunque si mostri conciliante come non mai con
il mercato, lo Stato prova a resistere.
Indirect rule e ibridazioni possono essere formali, sanzio-
nate nelle istituzioni di governo, o possono essere informali,
possono essere circoscritte funzionalmente o territorialmente
e variare di geometria e d’intensità. Sono forme – convenienti
o obbligate, a seconda dei casi – di delega, appalto, condivi-

51
sione, complicità, variamente dosate, in cui sfere di governo
rivali divengono partners e provano a trarne qualche, provvi-
sorio, tornaconto. Le ibridazioni possono essere intenzionali e
inconsapevoli, abusive, ufficiose, forzate, inventive e banali. È
storicamente prevalso un assetto centralistico, ma sono sorti
pure Stati federali. Proprio quando il processo di costruzione
dello Stato sembrava coronato dall’unificazione simbolica della
nazione, cioè nel XIX secolo, e si erano stabilizzate le moderne
burocrazie professionali, si manifesteranno correnti di pensiero
in controtendenza, risvegliandone quelle più antiche dianzi
citate. Il contributo più noto è quello di Otto von Gierke, che
riscopriva la consociatio di Althusius, elaborata a ridosso delle
repubbliche cittadine. È una rappresentazione che precorre il
grande travaglio novecentesco, ma che già riconosce il carattere
differenziato e plurale della vita collettiva e considera riduttiva la
pretesa statale al monopolio. La filiera delle dottrine che si usa
chiamare pluraliste è ricchissima. Dal contributo di Maitland,
traduttore di Gierke in Inghilterra, a quello di G.D.H. Cole,
J.N. Figgis e H.J. Laski100. Tra Otto e Novecento, simili idee
hanno messo in discussione tanto lo statalismo, quanto l’indi-
vidualismo liberale. Qualche eco, opportunamente adattata, si
avverte pure in Francia e in Italia: dalla scuola del droit social
di Léon Duguit alla teoria della pluralità degli ordinamenti
giuridici di Santi Romano. Con gradazioni diverse saranno
immaginate tecniche di governo più in sintonia con la pluralità
della vita collettiva: qualcosa si ritrova da ultimo nelle teorie e
nella pratica della governance101 e della «sussidiarietà»102.

100
  P.Q. Hirst, The Pluralist Theory of the State: Selected Writings of G.D.H.
Cole, J.N. Figgis and H.J. Laski, London, Routledge, 1989; D. Runciman,
Pluralism and the Personality of the State, Cambridge, Cambridge University
Press, 1997.
101
  La bibliografia in materia è sterminata per un termine e un concetto
diventati una sorta di passe-partout. È motivo per preferire le letture critiche.
Cfr. G. Hermet, A. Kazancigil e J.-F. Prud’homme (a cura di), La gouver-
nance. Un concept et ses applications, Paris, Karthala, 2005; M.R. Ferrarese,
La governance tra politica e diritto, Bologna, Il Mulino, 2010; M. Bevir,
Democratic Governance, Princeton, Princeton University Press, 2010; J.-P.
Gaudin,  Critique de la gouvernance, une nouvelle morale politique, La Tour
d’Aigues, Éditions de l’aube, 2014.
102
  Il principio di sussidiarietà è stato riconosciuto ufficialmente dal Trattato
di Lisbona del 13 dicembre 2007. Una definizione in A. Mégie, Subsidiarity,
in M. Bevir (a cura di), Encyclopedia of Governance, London, Sage, 2007.

52
Si danno casi d’ibridazioni e di governo indiretto nei luoghi
più inattesi e nelle forme più sorprendenti. Ancora a metà del
secolo decimonono, negli stati schiavisti d’America, ai padroni
era riconosciuto il governo esclusivo della popolazione afroa-
mericana. Nelle fabbriche fino a tempi non lontani gli operai
sono stati governati anche in modi violenti, con il consenso dello
Stato. Per secoli agli uomini è stata concessa una delega per go-
vernare legittimamente la sfera privata e dunque la popolazione
femminile e giovanile103. Un lascito degli spazi di autogoverno
riconosciuti, sotto la supervisione statale, alle corporazioni sono
gli ordini professionali. Associazioni, comunità locali, confes-
sioni religiose, famiglie, hanno sempre concorso all’azione di
governo. Anche se in forme continuamente aggiornate.
Capita anche che lo Stato – si è già citata la mafia – sopporti,
con la complicità di alcuni suoi segmenti, una riserva illegale
di poteri violenti, che sono di quando in quando reimpiegati
tanto nella sua sfera, quanto in quella del mercato. L’insubor-
dinazione criminale può essere strumentalizzata contro altre
forme d’insubordinazione, magari politica. È forse la distan-
za temporale dai fatti storici che ha consentito la ricerca di
Francesco Benigno sulle politiche di mantenimento dell’ordine
pubblico e sulle forme di lotta politica nell’Italia meridionale
dopo l’Unità, che avrebbero strumentalizzato la criminalità.
Sono pratiche eterodosse nella prospettiva del principio di
legalità, ma meno inconsuete di quanto sembri104.
Le contaminazioni possibili non si contano. La scelta com-
piuta dai governanti italiani nel 2015 di far rientrare l’economia
criminale nel calcolo del Pil è in continuità con la tolleranza che
i governi delle società avanzate dimostrano verso l’economia
informale, l’evasione fiscale, l’abusivismo edilizio, le esportazioni
illegali di capitali. Per non parlare dei trattamenti di favore con-
cessi alle trasgressioni dei colletti bianchi e delle classi superiori105.

103
  G. Poggi, Varieties of Political Experience, cit., p. 35.
104
  F. Benigno, La mala setta. Alle origini di mafia e camorra, 1859-1878,
Torino, Einaudi, 2015.
105
  A. Cottino, Disonesto ma non criminale. La giustizia e i privilegi dei
potenti, Roma, Carocci, 2005. Cfr. anche N. Fischer e A. Spire, L’État face
aux illégalismes, in «Politix», 3, XXII, 2009, pp. 7-20 e il numero dedicato
a Quand les classes supérieures s’arrangent avec le droit di «Sociétés contem-
poraines», 4, XXVIII, 2017.

53
Non è un capitolo secondario nella vicenda della statualità.
Tutt’altro. È una conferma della sua intrinseca ambivalenza.
Negli anni ’40 del Novecento il tema fu esplorato da un giurista
weimariano emigrato oltreoceano, Ernst Fraenkel, elaborando
la categoria del «doppio Stato»106. Nello Stato nazionalsocialista
coabitavano uno Stato «normativo», corrispondente alla tra-
dizione dello Stato di diritto, e uno Stato «discrezionale», nel
quale i detentori dell’autorità pubblica erano liberi d’esercitare
la propria azione, anche violenta, al di fuori d’ogni norma, in
ragione di valutazioni contingenti.
Un altro modo per considerare la doppiezza è quello indi-
cato da Alan Wolfe, che stigmatizzava i comportamenti adottati
dagli Stati Uniti al tempo della Guerra fredda, accampando
esigenze di sicurezza nazionale. Per Wolfe al governo «visibi-
le», conforme alla costituzione, si contrapponeva un governo
«invisibile», che l’ignorava. Giustificazione del secondo, cioè di
un impiego illegale delle risorse dello Stato, era l’emergenza107.
Norberto Bobbio ne ha concluso che il potere invisibile, che
del tutto invisibile non è, è una delle – numerose – «promesse
non mantenute» della democrazia108. Per quanto simbolicamente
rinnegato, il governo invisibile ha portata così vasta e duratura
da poter essere ritenuto un tratto fisiologico della statualità.

4. La grande ibridazione con il mercato

Nessuno può dire con certezza che l’ibridazione dello Stato


con il mercato sia necessaria, ma è genetica: storicamente il
moderno monopolio della coercizione si è sviluppato grazie
alle sue relazioni con il mercato. Il quale si è altresì configurato
tanto quale sfera della produzione e dello scambio, quanto
come legittima istituzione di governo della vita associata,

106
 E. Fraenkel, Il doppio Stato. Contributo alla teoria della dittatura,
Torino, Einaudi, 1984.
107
  A. Wolfe, I confini della legittimazione. Le contraddizioni politiche del
capitalismo contemporaneo, Bari, De Donato, 1981. È un uso che non si è
affatto perso, anzi, è tuttora assai fiorente. Il precedente è stato replicato dal
cosiddetto Patriot Act del 2001.
108
  Oltre all’Introduzione a E. Fraenkel, Il doppio Stato, cit., cfr. N. Bobbio,
Democrazia e segreto, Torino, Einaudi, 2011.

54
fondata sul principio del coordinamento tramite l’accordo tra
le parti anziché su quello di autorità. Non c’è simmetria con
lo Stato in quanto garante di ordine, sicurezza e giustizia. Ma
il governo delle moderne società occidentali è stato frutto in
gran parte del mutevole dosaggio di queste due istituzioni109.
I potentati dinastici che costituirono il monopolio non
avevano in mente lo Stato. Figurarsi se pensavano il mercato
quale sfera indipendente. Il monopolio fiscale, le spese che ef-
fettuavano e i debiti che contraevano li avevano a loro insaputa
messi a capo della maggiore impresa economica e finanziaria
dell’epoca. Soffocare l’iniziativa privata non era perciò loro
convenienza, ma non erano nemmeno disposti a rinunciare a
regolare le attività economiche. La dottrina economica dell’as-
solutismo, rammenta tra gli altri Foucault, era il mercantilismo,
ovvero l’estensione allo Stato dei principi del «governo della
casa»110. Ne dà conferma l’impiego che l’autorità regia faceva
delle risorse drenate mediante la fiscalità, alienando la terra,
vendendo cariche, indebitandosi, facendo la guerra. Una quota
era adoperata per mantenere la casa del re e curare l’immagine
della regalità. Gran parte era investita nella sua potenza: in
ulteriori attività militari, in incombenze amministrative, nel
mantenimento dell’ordine pubblico. A questi fini cresceranno
gli investimenti infrastrutturali, in porti e vie di comunicazione,
in bonifiche e innovazioni culturali, in esplorazioni geografiche,
in manifatture e scavi minerari. C’erano infine i servizi che
conveniva fornire alla popolazione, come approvvigionamento
e distribuzione delle derrate alimentari. Quella dello Stato era
un’azione invadente e onerosa, conseguente alle sue ambizioni,
ma non sempre gradita alla classe mercantile. Che non mancò
di farsi sentire.
In Francia la Fronda parlamentare precedette la Fronda dei
principi, ribellandosi all’esosità fiscale dello Stato. In Inghilterra
le classi mercantili, l’aristocrazia e la gentry ingaggiarono un
conflitto aperto con il re, che ne uscì soccombente. Anche se la
ricerca storica è andata molto oltre, torna prezioso un celebre

109
  Sul mercato, oltre che come fatto politico, anche come spazio politico,
cfr. P. Bourdieu, Anthropologie économique, cit.
110
  M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France
(1978-1979), Paris, Gallimard-Seuil, 2004, p. 54.

55
contributo di sociologia storica di Barrington Moore111. La sua
originalità, nel raccontare la complessità e i diversi andamenti di
quella grande partita di potere che è stata l’ingresso nel mondo
moderno consiste nell’allargare il cast degli attori, mettendo in
primo piano le classi rurali, i proprietari e i contadini. Sarebbe
stato l’imporsi del capitalismo nelle campagne a consentire al
mercato di fare concorrenza allo Stato.
Moore indica tre vie alla modernità: la prima è condotta
dalla borghesia, la seconda è guidata dall’alto, dai ceti legati
allo Stato, la terza sono le rivoluzioni contadine. Per illustrarle
considera l’Inghilterra, la Francia, gli Stati Uniti, il Giappone,
la Cina e l’India. Nonché, più rapidamente Russia e Germania.
Sono tutte e tre vie politiche: perseguite tramite lotte poli-
tiche. Dal nostro punto di vista, i casi più interessanti sono
quelli dell’Inghilterra e della Francia, insieme a quello della
Germania. L’Inghilterra è un esempio di rivoluzione di cui
sono state protagoniste la classe mercantile urbana e quella
parte delle classi agrarie, che, lungi dal resistere, promossero la
commercializzazione dell’agricoltura. L’aristocrazia terriera, la
gentry e gli yeomen introdussero nuove tecniche di coltivazione,
promossero l’allevamento, la produzione di lana, le colture
cerealicole e sovvertirono le relazioni di potere, adottando i
rapporti capitalistici di produzione. Le recinzioni delle terre
comuni estromisero i contadini, che in parte furono tutelati, ma
in gran parte sospinti verso i centri urbani. Mettere a reddito
i propri possedimenti era un modo per preservare la propria
preminenza e condizione sociale. Ma fu anche la premessa di
un incontro con la borghesia mercantile e finanziaria, a spese
della monarchia, oltre che dei contadini, che essa aveva provato
a difendere.
Alimentato anche da fattori religiosi, il conflitto che esplose
dagli anni ’30 del Seicento tra monarchia e Parlamento, entro il
quale le componenti borghesi e urbane avevano acquistato peso
politico, confermerà il ruolo assunto dal mercato. La tenaglia
si chiuse sulla monarchia. Di fronte ai capitali economici, ma
anche politici e simbolici, che le borghesie cittadine e i nuovi
imprenditori rurali avevano accumulati, le ambizioni di premi-
nenza di Carlo I si rivelarono anacronistiche e deflagrarono in

111
  B. Moore jr., Le origini sociali della dittatura e della democrazia, cit.

56
un conflitto armato, al termine del quale titolarità ed esercizio
del monopolio statale furono trasferiti a un’istituzione collegia-
le come il Parlamento, seppure appaiato con il re. Armi alla
mano, l’asse del governo della vita collettiva si era spostato
verso il mercato.
Di come fosse quest’ultima la posta della sollevazione
contro il re se n’erano accorti i Levellers, che nell’Agreement
of the people rivendicarono il riconoscimento di alcuni diritti
individuali, dai diritti civili al diritto di voto, e il ridisegno
dei collegi elettori in ragione del numero degli abitanti. Ma
si guardarono dal difendere quel residuo del mondo feudale
che erano i contadini. Un articolo era invece dedicato alla
libertà di commercio e alla rimozione dei privilegi aristocratici.
Furono sconfitti anch’essi. Terminata la guerra civile, l’aristo-
crazia seguiterà a prevalere in Parlamento. Mentre, benché
non esclusa dai banchi parlamentari, la classe mercantile e
imprenditoriale presidierà il mercato, di lì esercitando la sua
azione di governo.
Fu decisivo, secondo Moore, il diffondersi tra le classi su-
periori agrarie di una mentalità imprenditoriale, assente invece
nell’aristocrazia e carente nella borghesia francese. In Francia
la monarchia sottomise la prima, interdicendole l’esercizio delle
attività mercantili, e la seconda, cooptandola al suo servizio. Per
qualche tempo l’aristocrazia resistette, finché non alienò in varie
forme il possesso della terra, per mantenere il proprio tenore
di vita. Per quanto le assicurasse una condizione di privilegio,
il potere regio la ridusse a nobiltà di corte e quindi a sua di-
pendente e suo decoro. Ancora per contrastare l’aristocrazia, i
sovrani attrassero nella loro orbita i ceti borghesi, affidando loro
l’amministrazione civile. In compenso li distolsero dalle attività
imprenditoriali. Solo la sollevazione delle classi popolari urbane
e rurali permise alle élites borghesi di accedere al potere e di
condurre un rinnovamento, per l’appunto rivoluzionario, che
ha comunque confermato allo Stato il ruolo preponderante che
aveva assunto nella vita associata e in quella economica. L’esi-
stenza del nuovo regime sarà comunque travagliata. Mentre il
mercato rimarrà sottomesso allo Stato e ne avrà a lungo bisogno
per svilupparsi.
È pure accaduto che siano state le fazioni in carica dello
Stato ad assumere l’iniziativa di costituire, tramite una ri-

57
voluzione dall’alto, l’economia e la società moderne. Il caso
approfondito da Moore è quello del Giappone, mentre più
succintamente è considerato quello tedesco. Lontanissimo
dall’Occidente, il forzato innesto d’istituzioni occidentali sulla
società giapponese è istruttivo. Scavalcata la metà del XIX
secolo, protagonista della Restaurazione Meiji fu una parte
dell’aristocrazia, che, in guerra con un’altra, e d’intesa con le
gerarchie militari, instaurò il monopolio statale. Chiamando
in soccorso esperti occidentali furono pertanto introdotte
istituzioni di governo modellate sull’esempio europeo, che
promossero il cambiamento economico. È stata infatti l’au-
torità pubblica, cioè le fazioni che se n’erano impadronite, a
pilotare la privatizzazione e commercializzazione dell’agricol-
tura, conducendo al contempo una ruvida azione repressiva
a danno dei contadini. Non solo, furono ancora esse a dotare
il paese di un moderno apparato industriale, in testa al quale
si riproducevano le vecchie famiglie d’élite, il cui successo fu
segnato dagli investimenti pubblici e dalle commesse militari.
Una volta costituita una macchina statale di stampo occiden-
tale, essa sarà infine proiettata, guarda caso, verso sanguinarie
avventure militari e imperialiste.
Moore ravvisa alcune analogie con il Reich bismarckiano.
Pure in quel caso sono state le élites tradizionali, detentrici del
monopolio statale, a promuovere il mercato e a dare impulso a
un capitalismo industriale moderno, iniziando dalle commesse
militari, con importanti conseguenze politiche. Ben insediata
nell’esercito e nella pubblica amministrazione, l’aristocrazia
condurrà una modernizzazione avversa alle classi inferiori,
ma anche alle ambizioni dei ceti borghesi112, che troveranno
sfogo, come si è già ricordato, nel dinamismo imprenditoriale
di molti loro esponenti, oltre che nelle sfere della cultura, della
scienza, delle professioni, nella burocrazia e nella costellazione
dei governi cittadini. Adottato verso la fine del XIX secolo,
il regime rappresentativo sarà infine sottoposto a restrizioni
severe, ostacolando la democratizzazione del paese. Solo dopo
112
  Merita di essere citata la Prolusione di Friburgo del 1895. Cfr. M. We-
ber, Lo Stato nazionale e la politica economica tedesca, in Id., Scritti politici,
cit. Non troppo diversa, anche se molto più argomentata, è l’opinione di N.
Elias, I tedeschi. Lotte di potere ed evoluzione dei costumi nei secoli XIX e
XX (1989), Bologna, Il Mulino, 1991.

58
una fosca parentesi autoritaria e una drammatica sconfitta, sa-
ranno superate le remore all’istituzione di un moderno regime
rappresentativo.
Per quanto ampio sia lo spazio che il mercato ha occupato,
e che si è esteso con il tempo, nel racconto di Moore, non è
mai uno spazio autonomo e autosufficiente dallo Stato. Era già
così per Marx e anche per Weber. Lo era anche per un altro
grande scienziato sociale del Novecento: in un altro libro no-
tissimo, apparso a metà anni ’40, Karl Polanyi ha sottolineato
il carattere storicamente contingente della divisione del lavoro
tra Stato e mercato capitalistico113. Il quale non ha nulla di
naturale e di spontaneo. È stato infatti lo Stato che ha rimosso
«il consunto particolarismo del commercio locale, [...] aprendo
quindi la strada ad un mercato nazionale»114, senza di sicuro
immaginarlo come un’istituzione concorrente.
Anche Polanyi cita il caso inglese. Al tempo del mer-
cantilismo e dell’economia amministrata, ancora nel XVIII
secolo, il mercato era ritenuto accessorio rispetto allo Stato,
che seguitò a regolamentarlo e a limitarne in qualche modo
gli inconvenienti. In ragione dell’impoverimento dei conta-
dini provocato dalle recinzioni, i Tudor e gli Stuart avevano
rallentato il processo e gli stessi proprietari avevano accettato
misure volte a soccorrere le classi popolari. Approvata nel 1832
la riforma elettorale, i nuovi ceti imprenditoriali celebreranno
però il loro ingresso sulla scena parlamentare approvando la
New Poor Law e le Corn Laws. Influenzate dalle teorie di
Malthus e Ricardo, le nuove e severissime leggi sui poveri
furono legittimate con la promessa di riscattarli moralmente
ed economicamente. Fu criminalizzata la disoccupazione e
fu esasperata l’indigenza delle classi inferiori. Sarà del pari
repressa l’autodifesa operaia precipitata nel movimento cartista.
La posta sarà adesso rimuovere le barriere protezionistiche
che tutelavano l’aristocrazia fondiaria a beneficio dei ceti
industriali. L’autorità dello Stato intervenne in ogni caso. La
«società di mercato», conclude Polanyi, è stata il frutto «di un
consapevole e spesso violento intervento da parte del governo

113
  K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche
della nostra epoca (1944), Torino, Einaudi, 1974.
114
  Ivi, p. 85.

59
che imponeva l’organizzazione di mercato alla società per fini
non economici»115.
Allorché ha preso piede quella che Polanyi chiama l’«utopia
del mercato autoregolato», formulata dagli economisti liberali,
il mercato capitalistico si è battuto per emanciparsi e legit-
timarsi quale spazio di governo a sé, per sua natura proteso
a sottomettere alle proprie esigenze ogni aspetto della vita
collettiva. L’aspirazione, ovviamente, è politica e corrisponde
a un nuovo disegno di ordine sociale: che si autodefinisce
spontaneo e naturale, in opposizione all’artificialità attribuita
all’ordine sociale proprio dello Stato. A dispetto delle rap-
presentazioni che ne fanno uno spazio pacifico, il mercato è
tuttavia anch’esso uno spazio differenziato e plurale, popolato
di attori in competizione tra loro per il potere, che inoltre
suscita drammatiche condizioni di miseria. Liberato da ogni
freno, il mercato per Polanyi discioglie addirittura i legami di
cui è intessuta la vita collettiva e desertifica l’ambiente umano,
sociale e culturale.
Non facendo mistero della sua fede socialista, Polanyi rite-
neva l’autoregolazione del mercato non la tecnica più avanzata
di soddisfazione dei bisogni materiali, ma un’utopia dissennata.
Rivisitando di recente il suo pensiero, Fred Block e Margaret R.
Somers, hanno riconosciuto nel neoliberalismo contemporaneo,
che chiamano «fondamentalismo di mercato»116, la riproposi-
zione di quell’utopia. Ma ciò che qui interessa maggiormente è
la storicità del mercato quale sfera autonoma: l’ha confermata
anche Norbert Elias, il quale cita anche lui tra i moventi gli
sviluppi della scienza economica117. I confini tracciati dalla vita
associata, come tutti i confini, stabiliscono relazioni di potere:
di conseguenza, anziché separare Stato e mercato, conviene
una considerazione unitaria della «distribuzione del potere su
larga scala, in tutte le sfere, a tutti i livelli d’integrazione delle
pluristratificate società statali di tipo industriale»118. La lotta
per il monopolio si svolge a tutto campo, non è confinata allo

  Ivi, p. 312.
115

  F. Block e M. Somers, The Power of Market Fundamentalism. Karl


116

Polanyi’s Critique, Cambridge-London, Harvard University Press, 2014.


117
  N. Elias, Che cos’è la sociologia, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990,
p. 165.
118
  Ivi, p. 167.

60
Stato e conflitti, intrecci, alleanze tra i suoi addetti e gli addetti
al capitalismo sono la regola.
Nella lunga storia delle relazioni di Stato e mercato capitali-
stico i casi in cui gli addetti al secondo, cioè le imprese private,
hanno invaso gli spazi del primo non si contano. Tra i casi
estremi: con il beneplacito dello Stato, la Compagnia delle Indie
e le altre grandi compagnie coloniali hanno condotto, ambiziose
imprese militari119. Fino a metà del XX secolo la manodopera
è stata governata con consistenti dosi di coercizione e non solo
tramite i salari, le condizioni lavorative, gli orari di lavoro. Ma
le imprese hanno governato anche più benignamente: alla vigilia
del welfare, non erano poche quelle che alloggiavano i loro
dipendenti, li curavano, provvedevano all’istruzione dei figli.
Decaduta l’ibridazione tra Stato e mercato promossa dopo la
crisi del ’29, è un costume che si è ultimamente rinnovato: lo
chiamano «welfare aziendale». L’azione protettiva svolta dal
welfare pubblico è delegata alle imprese, che, incoraggiate dalle
agevolazioni fiscali offerte dallo Stato, corrispondono beni e
servizi a integrazione della retribuzione120.
Tra mercato e Stato vi sono pure attribuzioni ambivalenti,
o terre di nessuno. Così è per lo sciopero, che è arma sia po-
litica, sia economica121. È ambivalente l’economia informale,
che tanto viola il principio di concorrenza su cui si fonda il
mercato capitalistico, quanto è tecnica di resistenza praticata dai
soggetti deboli, spesse volte strumentalizzata da attori privati e
pubblici forti122. Una formidabile questione confinaria è quel
complesso di fenomeni che chiamiamo corruzione. Ovvero i
reati commessi ogni qualvolta un addetto allo Stato – d’estra-
zione burocratica o elettiva – violi i propri obblighi d’ufficio
a beneficio di un interesse personale, o privato. Da un sistema
giuridico all’altro, la definizione e perimetrazione dei reati è

119
  A. Phillips e J.C. Sharman, Outsourcing Empire: How Company-States
Made the Modern World, Princeton, Princeton University Press, 2020.
120
  Ad esempio: M. Jessoula e E. Pavolini (a cura di), La mano invisibile
dello stato sociale. Il welfare fiscale in Italia, Bologna, Il Mulino, 2022. Ov-
viamente, gravando sulla fiscalità generale.
121
  Sul diritto di sciopero A. Supiot, La sovranità del limite. Giustizia, lavoro
e ambiente nell’orizzonte della mondializzazione, a cura di A. Allamprese e
L. d’Ambrosio, Milano, Mimesis, 2021.
122
  P. Saitta, Resistenze. Pratiche margini del conflitto nel quotidiano, cit.,
pp. 48-72.

61
mutevole, com’è mutevole la loro percezione. Norme sociali
e norme giuridiche non sempre coincidono. Se non che, nella
corruzione possiamo trovare ben più che un reato.
È, in primo luogo, un fatto politico, in quanto manifestazione
di slealtà e forma di contrasto all’autorità dello Stato, tanto dei
corrotti, quanto dei corruttori. Può essere un’arma politica: i
proventi della corruzione sono impiegati in favore di qualche
parte politica contro altre parti politiche. È un’arma antica,
terribile e onnipresente anche l’accusa di corruzione, che
alcune parti politiche, in genere quelle marginali, rivolgono
spesso contro le burocrazie pubbliche, o contro i loro con-
correnti diretti123. L’adoperano ad ampio spettro gli addetti al
mercato, i media, la cosiddetta società civile. La corruzione può
essere perfino una tecnica di governo. Le autorità pubbliche,
che ritengono troppo elevati i costi della sua repressione, la
tollerano. Eventualmente per ingraziarsi pubblici funzionari,
addetti alla politica elettiva e anche interessi privati, oppure
contro i loro avversari.
La corruzione è pure un importante fatto economico.
Si presta solitamente più attenzione ai corrotti che non ai
corruttori. Imprenditori e imprese amano raffigurarsi come
vittime: o di deliberati taglieggiamenti da parte degli addetti
allo Stato, o delle inefficienze e lentezze delle amministrazio-
ni pubbliche. Non fosse che la corruzione consente profitti
aggiuntivi, sostitutivi o differenziali. Può perfino succedere
che, così come all’evasione fiscale e all’abusivismo edilizio, il
senso comune attribuisca alla corruzione ricadute economiche
positive. Secondo le recenti teorie del crony capitalism, o del
«capitalismo politico»124, affari e politica sono inestricabilmente
intrecciati: gli addetti al mercato sarebbero più affezionati al
profitto che non alla libera concorrenza. E quindi con qualche
disinvoltura ricorrono alla corruzione e si fanno anzi concor-
renza su questo terreno: non è che un costo tra gli altri ed
è conferma di come Stato e mercato capitalistico procedano
in coppia. Pertanto: mentre nel primo seguita ad aggirarsi
123
  C. Mattina, F. Monier, O. Dard e J.I. Engels (a cura di), Dénoncer la
corruption: chevaliers blancs, pamphlétaires et promoteurs de la transparence
à l’époque contemporaine, Paris, Demopolis, 2018.
124
  R.G. Holcombe, Political Capitalism: How Economic and Political Power
Is Made and Maintained, Cambridge, Cambridge University Press, 2018.

62
l’antico spirito del racket, sul secondo aleggia sempre quello
dei merchant adventurers.

5. Dal governo tramite gli individui al governo tramite il sociale

Una gran parte dell’azione di dominio e di governo si


esercita tramite gli stessi dominati. È una considerazione ba-
nale. Non c’è istituzione di dominio che non si adoperi per
rendere spontanea l’obbedienza. È uno dei temi di Bourdieu.
Ma c’è uno specifico aspetto su cui Elias richiama l’attenzione:
come il monopolio statale della coercizione abbia rinnovato
in profondità le relazioni tra gli esseri umani e addirittura il
loro «habitus psichico»125 e le loro soggettività, costituendo
l’individuo moderno, che poi si è evoluto in molte direzioni.
Niente di naturale, come sempre. Rispetto alle celebrazioni
della naturale propensione all’autonomia e all’autosufficienza
individuali, «concetti come “individuo” e “società”, per Elias,
si riferiscono [...] non a oggetti che esistono separatamente,
bensì ad aspetti dell’uomo diversi, ma inseparabili»126. E qui è
intervenuto il monopolio statale, la cui istituzione avrebbe propi-
ziato forme più pacifiche di convivenza, di tutela degli interessi
e di risoluzione dei conflitti e consentito interdipendenze più
strette, alla luce di regole e norme non solo giuridiche, che si
convertiranno in automatismi: una larga quota di coercizione
si sarebbe risolta – ed è questo il punto – in autoregolazione,
autodisciplina, autogoverno individuali. E per lo Stato in un’altra
forma d’ibridazione e di governo indiretto.
Con ritmi diversi il processo ha investito tutti gli strati
sociali. Un primo e decisivo episodio sarebbe stato l’insorgere
in Francia della «società di corte»127. La soppressione della
società dei guerrieri, con i suoi costumi violenti, oltre a rendere
l’aristocrazia orfana del suo ruolo politico, l’avrebbe incitata a
cercare una rivincita nella pacifica gara indetta dal sovrano per
ottenere prestigio, privilegi, prebende, cariche amministrative e

125
  N. Elias, La civiltà delle buone maniere, cit., p. 222.
126
  Ivi, p. 17. Il tema è ripreso e sviluppato in N. Elias, La società degli
individui (1939), Bologna, Il Mulino, 1987.
127
  N. Elias, Potere e civiltà, cit., p. 336.

63
-gradi nell’esercito. Lungi dall’esaurirsi, le relazioni e le contese
di potere interpersonali furono così sublimate e condotte in
forme non violente. A colpi d’etichetta il sovrano esercitava il
suo potere sugli «uomini di corte» e, contestualmente, a colpi
d’etichetta, e di questioni di rango, uomini e donne di corte
impararono a contendersi il favore reale. Represse le pulsio-
ni aggressive, e tenute a bada emozioni e passioni, ciascuno
rispettava una «peculiare razionalità curiale»128, la quale rese
conveniente agire con prudenza, con prudenza manifestare le
proprie opinioni, nascondere le proprie avversioni e simulare
le opportune simpatie. Con il trascorrere del tempo, i compor-
tamenti adottati a corte tracimarono e concorsero a plasmare
l’habitus di tutti gli altri strati sociali.
Colpiti dal contagio per primi furono gli strati della bor-
ghesia più prossimi alla nobiltà: per condizioni economiche,
o per funzioni svolte al servizio dello Stato. Di qui il nuovo
habitus si estese, non senza modificarsi, grazie alle catene
d’interdipendenze tessute dall’economia all’ombra del mono-
polio statale. Porzioni sempre più ampie di società appresero
a «eliminare ogni oscillazione nel proprio comportamento e
ad esercitare una costante autocostrizione»129, condividendo la
«civiltà delle buone maniere», segnata da rigorose prescrizioni
in materia di gesti – dal saluto al linguaggio, dai compor-
tamenti a tavola all’abbigliamento – oltre che da un severo
autocontrollo delle funzioni corporali e della sessualità130. Da
ultimo, le interdipendenze più intense con gli strati inferiori –
la «dipendenza di tutti da tutti» – costringeranno da un lato
tali strati a controllare le loro pulsioni e la loro aggressività
e, dal lato opposto, gli strati superiori a «tenere conto delle
masse»131. Il cammino dell’uguaglianza ha qui un remoto e
importante passaggio.
Autocontrollo non significa che gli individui siano dive-
nuti più liberi e autonomi. Non tutti lo sono diventati nella
stessa misura e tutti sono stati sottoposti a nuove costrizioni,
a nuovi legami, a una percezione delle reciproche differenze,

128
 Id., Il processo di civilizzazione, cit., p. 389.
129
  Ivi, p. 322.
130
  N. Elias, La civiltà delle buone maniere, cit.
131
  Ivi, p. 326.

64
che saranno motivo di tensione, anzitutto per la personalità
di ciascuno. La maggior sicurezza rispetto ai comportamenti
altrui è stata compensata da sentimenti d’insicurezza verso se
stessi e verso il mondo attorno a sé. Nelle pagine di Elias si
riconosce la lezione di Freud, che per trattare insicurezze e
sentimenti di costrizione inventò una nuova scienza e una nuova
professione132. Il cambiamento ha in ogni caso condotto i rap-
porti di dominio e i conflitti tra gli individui a trasformarsi in
vertenze giudiziarie e, più a lungo andare, in dibattiti pubblici,
in contese elettorali, in dispute accademiche e perfino in gare
sportive. Proprio allo sport Elias ha dedicato una tra le sue più
avvincenti riflessioni, sottolineando come esso abbia anche fatto
spettacolo, non violento, della conflittualità, com’è spettacolare
la concorrenza pacifica che si è riproposta tramite le elezioni,
le manifestazioni di piazza e le esibizioni mediatiche133.
Niente è accaduto in maniera preordinata e pianificata, né
irreversibile. La responsabilizzazione dell’individuo ha assunto
forme diverse in Francia, in Germania, in Inghilterra e altrove.
Probabilmente pure da una regione all’altra. Se in Francia le
pratiche di autocontrollo irradiarono dalla corte, mettendo in
comunicazione aristocrazia e borghesia, in Inghilterra irradia-
rono dal mercato. In Germania l’aristocrazia sarebbe invece
rimasta un gruppo chiuso, instaurando con la borghesia rapporti
distanti e rarefatti. Ogni società fabbrica i propri individui.
Non è nemmeno troppo importante che le cose siano
andate o meno secondo il racconto di Elias. La catena di
fattori che ha riplasmato i modi di pensare e i comportamenti
umani è difficile da districare e non si esaurisce con l’azione
dello Stato. Fanno la loro parte, eccome, pure il mercato e la
religione – cui Weber dedicò uno dei suoi scritti più noti – e
altre istituzioni. Sempre all’azione dello Stato è dedicato invece
un altro contributo di spicco, che schiude un’altra porta sulle
sue ibridazioni con gli individui. Stando alla ricerca di Michel
Foucault, lo Stato avrebbe costituito gli individui, con le loro
soggettività e i loro comportamenti tramite le sue strategie e le

132
  In particolare, S. Freud, Il disagio della civiltà (1930), Torino, Bollati
Boringhieri, 1971.
133
  N. Elias e E. Dunning, Sport e aggressività (1986), Bologna, Il Mulino,
1989, segnatamente pp. 32-40.

65
sue tattiche di governo, le quali hanno tracciato un percorso
culminato nella concessione a essi nientemeno che della facoltà
di agire liberamente134.
Quella condotta da Foucault è, com’è noto, una ricogni-
zione ricchissima del pensiero filosofico, giuridico, economico,
amministrativo, politico. È anche un’investigazione sui rap-
porti di dominio condotta nei dettagli, nelle pieghe, oltre le
apparenze, che vorrebbe liberarsi dello Stato quale categoria
interpretativa. Più che di Stato, Foucault parla di governo,
che considera un’azione non esclusiva dello Stato: è un’idea
di cui ci siamo appropriati in queste pagine. C’è governo per
ogni dove: nei luoghi, nelle forme e con i mezzi più disparati.
Senza confini stabiliti tra politica, economia e altre sfere, non
solo in verticale, ma pure in orizzontale, in maniera diretta e
indiretta, visibile e invisibile, in profondità e in superficie. Vi
sono così il governo «di sé», il governo «degli altri», il governo
del pater familias sui figli e sulla casa, degli insegnanti sugli
allievi, della Chiesa sulle anime, delle imprese sui dipendenti
e, infine, dello Stato sui suoi sottoposti135. Inteso come un
assemblaggio instabile di relazioni e di pratiche, quest’ultimo
svolge, Foucault deve ammetterlo, un’azione di governo più
ingombrante di qualsia­si altra istituzione136, fondamentale per
«soggettivare» e assoggettare i suoi sottoposti.
Oltre che alle tecniche d’imposizione, orientamento, con-
dizionamento, controllo utilizzate dallo Stato, Foucault presta
massima attenzione all’elaborazione e circolazione di saperi
che tanto lo riforniscono di conoscenze circa l’oggetto della
sua azione, quanto concorrono a conferirgli la sua immagine
di unità e coerenza: saperi in conflitto con altri saperi, che in-
spirano le «contro-condotte»137. Dunque, anche le opposizioni,
le disobbedienze, le resistenze allo Stato.
È un altro modo per raccontare la smilitarizzazione del
monopolio statale, che si sarebbe anche avvalso largamente di

134
  Manca in Foucault pure una compiuta teoria dello Stato. Prova a rica-
varla, destreggiandosi tra contraddizioni, incoerenze, vaghezze, A. Skornicki,
La grande soif de l’État. Michel Foucault avec les sciences sociales, Paris, Les
Prairies ordinaires, 2015.
135
  Anche noi profittiamo in questo libro di una definizione così estensiva.
136
  M. Foucault, Sécurité, territoire, population, cit., p. 96.
137
  Ivi, pp. 196 ss.

66
strategie, tattiche, tecniche, «arti del governo» apprese da altri.
Foucault propone una cronologia scandita in tre fasi. La prima
è quella «machiavelliana». Per essa il Principe intratteneva
con il territorio e chi lo abitava un rapporto di «esteriorità»
e «trascendenza»138. Acquisito, per eredità o per conquista,
andava preservato e difeso, sottomettendolo, insieme ai suoi
abitanti, all’autorità «sovrana», di cui il diritto – leggi, rego-
lamenti, ordinanze – era il principale strumento. Salvo che la
fase machiavelliana, anziché inaugurare la modernità politica,
concludeva un’epoca139. Già dal XVII secolo si delineava un’al-
tra prospettiva, ove si affacciava l’economia. La circolazione di
uomini e merci sostituiva l’immagine statica del territorio con
quella dinamica della popolazione, di cui sfruttare e valorizzare
le potenzialità in quanto forza produttiva. Inizialmente, lo Stato
ha applicato le logiche del governo della famiglia. Era l’eco-
nomia mercantilista: non ancora economia «politica», benché
già prevedesse un’azione di governo sugli uomini e sulle cose,
da condurre con «saggezza» e «diligenza», usando «tattiche
diverse»140, finalizzate alla potenza e alla prosperità dello Stato
e al mantenimento dell’ordine entro i suoi confini.
Condizionato ancora dallo schema della sovranità e della
potenza, il mercantilismo era uno sviluppo che, mentre rico-
nosceva nei commerci uno dei moventi della potenza statale,
consentiva al mercato e alle sue logiche d’irrompere nella sua
conduzione, di dettargli principi di buon governo e di apporgli
qualche limite141. La popolazione andava trattata in funzione
della sua «natura», curandone benessere, salute, istruzione,
moralità. Di nuovo intervenivano appositi saperi, premessa di
nuovi sviluppi. Si riconoscevano i diritti naturali degli indivi-
dui, si calcolava cosa più convenisse alla prosperità dello Stato
e della sua popolazione. La statistica consentiva di censirla,
di tracciarne circostanziato profilo, funzionale alle necessità
fiscali e militari dell’autorità statale, di stabilire confronti con
gli altri Stati, di prendere conoscenza delle risorse disponibili:
produzioni agricole, tecniche colturali, foreste, miniere, scambi

138
  Ivi, p. 95.
139
  Ivi, p. 67.
140
  Ivi, p. 103.
141
  Ivi, pp. 36-39.

67
commerciali, beni importati ed esportati, naviglio mercantile. Un
ulteriore contributo conoscitivo l’offriranno le scienze camerali
e della polizia e sarà alfine decisiva l’economia «politica», per
«razionalizzare l’esercizio del potere» e orientare i comporta-
menti della popolazione e degli individui142.
Era il potere disciplinare, cui Foucault attribuisce matrice
religiosa, e che in forma pura si manifesta nella disciplina
militare. Che ordinava, omologava, plasmava gli individui,
nelle scuole, nelle fabbriche, nell’esercito. Che confinava gli
«anormali» in ospedali, manicomi, carceri, fabbriche. Che
manipolava tempi e spazi di vita. Intesa la popolazione quale
«forza produttiva»143, su di essa il potere si esercitava, in attesa
di un’altra tecnica di governo, la sécurité. Per la quale le energie
degli individui andavano assecondate, incoraggiate, premiate,
dosando l’azione di governo con il soccorso di saperi sempre
più raffinati e plurali, che, lungi dal semplificare i fenomeni, ne
prenderanno accurata misura, ricavando vantaggio, tanto dalle
loro regolarità, quanto dalle loro complessità, varietà, instabilità.
Illustrando gli sviluppi della sécurité, Foucault avan-
za il concetto forse più celebre da lui coniato, quello di
«governamentalità»144. Con cui denomina una forma d’ibrida-
zione dello Stato con i suoi sottoposti particolarmente sottile:
il loro riconoscimento quali individui autonomi. Rimossi pri-
vilegi e barriere d’antico regime, ordine e benessere saranno
perseguiti lasciandoli liberi, assecondandone le potenzialità,
benché entro regole accortamente predisposte e applicate. Il
liberalismo non era ostile allo Stato, intendeva solo potarne gli
eccessi e servirsene, secondo una strategia che ha bisogno delle
libertà – non solo di quelle di mercato – per funzionare. Quin-
di le «fabbrica» e le «organizza» per poterle «consumare»145.
Non vi è netta successione storica, bensì dosaggio, tra
sovranità, disciplina e sicurezza. I dispositivi della sécurité an-
ticipano i rischi, calcolano le probabilità che si concretizzino,
stabiliscono una media di ciò che è tollerabile e si adoperano
perché sia rispettata. La «contropartita e il contrappeso delle

  Ivi, p. 104. In francese si distingue tra sécurité e sureté.


142

  Ivi, p. 71.
143
144
  Ivi, pp. 61 e 111-112.
145
  M. Foucault, Naissance de la biopolitique: Cours au Collège de France
(1978-1979), Paris, Gallimard-Seuil, 2004, pp. 67-68.

68
libertà»146 era una perdurante azione di sorveglianza, sanzio-
ne, reclusione, contro chiunque, specie tra le classi inferiori,
mettesse a repentaglio l’ordine, la proprietà privata e la libertà
altrui. Già però l’azione di governo si era messa in cammino
oltre gli spazi illustrati da Foucault. Ne ha fatto oggetto di
acuminata riflessione Giuseppe Di Palma, parlando di «governo
del sociale tramite il sociale»147, che richiede altre tecniche,
altri strumenti, altre istituzioni di governo, affiancati da nuove
competenze e più ampie e circostanziate conoscenze intorno
alla vita collettiva.
Il ribellismo contadino e quello urbano, la criminalità, il
banditismo erano da sempre forme endemiche di contrasto
all’ordine sociale e ai criteri di giustizia dettati dallo Stato.
Né reprimerle, né misurarle era sufficiente per liberarsene.
Incendiata dal malcontento delle classi popolari, la Grande
Rivoluzione le promosse a fatti politici di prima grandezza,
mostrando come la lotta per il dominio si manifestasse anche in
questo modo e come potesse fin dalle fondamenta sconvolgere
gerarchie sociali e politiche consolidate. Il movimento cartista,
i sollevamenti del 1830 e quelli del 1848 lo confermeranno. La
rivoluzione industriale concentrava nelle città le sofferenze di
larghi segmenti di popolazione, spesso fuggita o cacciata dalle
campagne, e nel giro di pochi decenni smentirà l’illusione di
un ordine spontaneo affidato agli individui. Divenne pertanto
urgente escogitare altre tecniche: era anzitutto un problema
«morale», scrive Rose, e dunque di valori, e per il bene della
collettività nel suo insieme servivano «tecnologie morali» per
plasmare il carattere e le condotte di coloro che erano consi-
derati soggetti morali148.
L’estensione degli spazi del mercato non precludeva una
partita di potere rivolta a delimitare una nuova sfera di rapporti
sociali e pratiche di governo: a metà del XIX secolo fu così
istituito il «sociale». Per l’antico Stato-racket era un’altra sfida:
quella di «abilitare»149 gli individui per governarli più agevol-
mente. Classificati la malattia, la povertà, il vagabondaggio,
146
  Ivi, p. 68.
147
  G. Di Palma, The Modern State Subverted, cit, p. 20.
148
  N. Rose, Powers of Freedom. Reframing Political Thought, Cambridge,
Cambridge University Press, 2004, p. 103.
149
  Ivi, p. 68.

69
la disoccupazione, unitamente al disordine cui davano luogo,
come patologie morali, ma anche come fatti imputabili a cause
sociali, altri saperi si svilupparono all’occasione ed entrarono in
circolo: a iniziare dall’osservazione svolta dal grande romanzo
ottocentesco. Una parte preminente l’ha recitata il marxismo,
suscitando pure una massiccia mobilitazione intellettuale in
concorrenza. A narrare la vita collettiva, a diagnosticarne i
problemi, a imporli alla pubblica attenzione e a farne tema di
dibattito e poi d’intervento statale hanno contribuito letterati,
filantropi, economisti, statistici, criminologi, medici, igienisti,
pedagogisti, urbanisti, architetti, agronomi, giornalisti. Quali
interessi, quali valori li muovevano? Oltre alle ragioni morali,
alle preferenze politiche, ai sentimenti di solidarietà, contava
anche la loro professionalità specifica. Per molti valevano
anche calcoli di convenienza – reprimere era una tecnica di
governo troppo costosa – e la sincera convinzione dei benefici
dell’inclusione. Fu predisposto via via un disegno del sociale
come spazio e come tecnica di governo fondati su meccanismi
alternativi a quelli dello Stato e del mercato150. Era un modo
per riordinare altrimenti il disordine, trattando «gli esseri umani
come membri di una collettività più ampia, non riducibili ad
acquirenti e venditori su un mercato competitivo»151.
Lo Stato, le burocrazie pubbliche e le dirigenze politiche
saranno pertanto coinvolti in un’opera ambiziosa di society
building, complementare a quella di market building e provvista
di «una paradossale componente anti-individualistica»152. Com-
penetrandosi con la società, lo Stato la governava dall’interno.
A sciogliere l’intreccio, in tutt’altro clima, Margaret Thatcher
riuscirà con solo sette parole: there’s no such thing as society.
Ma la costruzione del sociale aveva preso all’incirca un secolo:
grazie alle riforme sociali, condotte dallo Stato e non solo. Le
aveva dato una mano lo sviluppo di una nuova disciplina, la
sociologia153, il cui contributo si può osservare attraverso la

150
 Anche R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?,
Torino, Einaudi, 2004, p. 13.
151
  N. Rose, Powers of Freedom, cit., p. 1120.
152
  Ivi, p. 118.
153
 Una ricostruzione dei nessi tra sociologia e questione sociale in G.
Procacci e A. Szakolczai, La scoperta della società. Alle origini della sociologia,
Roma, Carocci, 2003.

70
figura di Émile Durkheim: uno dei primi a riconoscere nel
sociale un’istituzione trascendente gli individui e dotata di
esistenza sua propria. Da un lato c’è la solidarietà «meccanica»,
propria delle società definite tradizionali, in cui gli individui si
assomigliano, hanno scarse chances di differenziarsi, mentre la
vita collettiva si avvale di poche istituzioni fondamentali, tra
cui la religione e i suoi miti. Dal canto opposto c’è la moder-
na solidarietà «organica», fondata sulla divisione del lavoro,
sull’interdipendenza tra individui diversi e autonomi e su una
varietà d’istituzioni eterogenee. Se non che, le interdipendenze
della solidarietà organica non sono argine bastevole ai rischi
d’impoverimento morale e d’egoismo suscitati dall’accresciuta
divisione del lavoro e dal mercato. Da prevenire perciò mediante
misure appropriate, tali da rinsaldare, anzitutto a livello simbo-
lico, le norme sociali. Per salvaguardare le libertà individuali, e
per scongiurare l’eccesso di supremazia dello Stato minacciato
dal socialismo, per Durkheim conveniva preservare una dose di
solidarietà meccanica e valorizzare le rappresentazioni collet-
tive, i rituali, i principi morali, unitamente alle istituzioni che
vi provvedono: famiglia, scuola, corpi intermedi, corporazioni,
rappresentanze professionali.
Era il punto di vista di un severo radicale della Terza
Repubblica, di un uomo fortemente identificato con le sue
istituzioni, preoccupato dell’ordine e della stabilità. Scontato
era per lui diffondere il dovere civico e il patriottismo154. Sui
benefici materiali si concentrava invece il programma rifor-
matore bismarckiano, tanto ambizioso, quanto anticipatore.
Onde prevenire il movimento socialista furono introdotte le
prime forme assicurative contro la malattia, la vecchiaia, gli
infortuni155. A fornire sostegno teorico, confermando il nesso
tra sapere e potere, fu il Verein für Socialpolitik, con le sue
proposte di azioni di governo intese a prevenire il conflitto
sociale e dunque il rischio che pregiudicasse il benessere del
paese.
Secondo la teoria del «doppio movimento» di Polanyi, i
processi di mercificazione e demercificazione si avvicendano.

154
  Su Durkheim, cfr. G. Poggi, Immagini della società. Saggi sulle teorie
sociologiche di Tocqueville, Marx e Durkheim, Bologna, Il Mulino, 1972.
155
  F. Girotti, Welfare. Storia, modelli e critica, Roma, Carocci, 2005.

71
Gli uni aggrediscono la società, gli altri la difendono156. Lo
Stato ha contribuito alla difesa, ibridandosi con altre istitu-
zioni, anche con le imprese. Moltissimo fecero, con tutt’altre
finalità, i partiti socialisti e i sindacati. Sorti fuori dallo Stato,
si adoperarono per ricucire le pratiche spontanee e disperse di
autodifesa degli strati inferiori, ma anche per tutelare chi non
disponeva di alcuna protezione. Ciò che Marx aveva definito
come classe sfidava lo Stato e, insieme a esso, il mercato. In
quanto dispositivo di autodifesa del sociale, il movimento
socialista istituì le classi lavoratrici quale attore collettivo e il
lavoro come valore fondamentale, in concorrenza con la pro-
prietà157. In attesa che le misure di protezione fossero assunte
dallo Stato, il movimento socialista si farà promotore di una
rete di corpi intermedi e di meccanismi ravvicinati di prote-
zione reciproca: circoli, coope­rative, leghe, società di mutuo
soccorso, case del popolo. Hanno svolto un’azione di tutela,
oltre che di governo, delle classi lavoratrici. Anche in questo
modo il sociale ha acquisito visibilità e consistenza. Convincen-
do lo Stato a farne oggetto d’intervento pubblico, inizialmente
condotto, in larga prevalenza, dalle amministrazioni municipali,
all’uopo valorizzate.
Approssimandosi la fine del secolo, all’istruzione pub-
blica lo Stato aveva conferito il compito di formare buoni
cittadini, in grado di convivere ordinatamente. Così come
iniziava a adottare le prime misure di protezione sociale. Nel
secondo dopoguerra il processo culminerà in un’azione intesa
ufficialmente a promuovere l’occupazione e a demercificare il
lavoro, almeno in parte. Il documento che più compiutamente
testimonia l’assunzione di consapevolezza da parte dello Stato
è il Rapporto Beveridge. Redatto da uno studioso d’estrazione
liberale, su commissione di un governo d’unità nazionale, il
rapporto apparve in Gran Bretagna in un momento in cui la
popolazione era sottoposta a sacrifici terribili e i cittadini in
armi erano dispersi sui teatri di guerra di tutto il pianeta. Nelle
sue pagine la sicurezza sociale diveniva tanto tutela collettiva
dai rischi dell’esistenza, quanto occasione per salvaguardare i
sentimenti reciproci di responsabilità e solidarietà che la guer-

156
  K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., p. 98.
157
  R. Castel, L’insicurezza sociale, cit., pp. 27-31.

72
ra stava sollecitando all’estremo158. Governare pacificamente
pretendeva un siffatto investimento.
I riformatori del XIX secolo intendevano prevenire un
intervento dello Stato intrusivo ed eversivo, come si paventava
fosse quello voluto dai partiti socialisti. Erano persuasi che
disuguaglianze, povertà, disoccupazione, devianza avessero
cause sociali ed economiche e che adeguate misure inclusive
potessero contrastarle. Si spingeranno più avanti i riformatori
del nuovo secolo, immaginando di suscitare, a favore delle
vittime dell’industrializzazione, «altruismo degli estranei per gli
estranei»159, secondo la formula di uno dei primi studiosi di wel-
fare, Richard Titmuss. Era un modo per prevenire e temperare
il disordine. Il potere disciplinare trovava seguito nella sanità
pubblica, negli uffici del lavoro, nelle politiche abitative. Ma
al contempo le misure solidali e inclusive si volevano premessa
di più ampi margini di libertà e dignità per ciascuno. Dopo il
secondo conflitto mondiale, nel momento di massimo seguito
del movimento operaio organizzato, sopravvissuto al fascismo,
la demercificazione del lavoro, tramite i diritti riconosciuti ai
lavoratori, farà altri passi avanti, accompagnata da una retorica,
che genericamente, e fuori d’ogni allusione ai partiti, è stata
definita «social-democratica». Grazie alle misure universalistiche
del welfare, lo Stato stendeva un altro velo sulla memoria del
racket originario. Si faceva esso stesso «sociale», estendendo
la sua protezione a tutta la popolazione e concedendo ai ceti
non proprietari altri margini nelle relazioni di potere con i ceti
abbienti ed entro il mercato. Alla luce dell’esperienza di governo
laburista in Gran Bretagna tra il 1945 e il 1950, Thomas H.
Marshall consacrerà questa tecnica di governo e d’inclusione
nel linguaggio liberale dei diritti: affiancando i diritti «sociali»
ai diritti civili e politici160.
Il riconoscimento del sociale, non diversamente da quello
del mercato, è avvenuto a seguito di lotte tempestose. I partiti
di massa e i sindacati ne furono i protagonisti. La demercifica-

158
  N. Rose, Powers of Freedom, cit., p. 34.
159
  R. Titmuss, The Limits of the Welfare State, in «New Left Review», 1,
27, 1964, pp. 28-37, spec. p. 35. Cfr. anche Saggi sul Welfare State (1959),
Roma, Edizioni Lavoro, 1986.
160
  T.H. Marshall, Citizenship and Social Class, and Other Essays, Cam-
bridge, Cambridge University Press, 1950.

73
zione tramite il welfare consentirà allo Stato di bilanciare la sua
ibridazione con il mercato e agli addetti alle amministrazioni
e ai servizi publici di allargarsi, rafforzarsi, guadagnare pote-
re. Niente, come sempre, è mai perfetto: accusato di eccessi
burocratici, il welfare sarà riconosciuto come uno strumento
di controllo e disciplinamento, specie verso gli strati inferiori
della popolazione. Era un altro esempio dell’ambivalenza dello
Stato: era questo, ma non solo questo. È un argomento di cui
hanno profittato anche gli addetti al mercato quando si sono
sollevati, perché troppo elevati erano i costi dell’azione inclu-
siva svolta dall’intervento pubblico, suscitando nuove lotte per
il monopolio che provocheranno altri cambiamenti. Allorché
verso la fine del XX secolo il capitalismo industriale inizierà
a decadere, l’inclusione condotta ibridando Stato e società
sarà squalificata a dipendenza, marginalità, assistenzialismo.
Proponendo un altro disegno d’ordine sociale fondato su un
individualismo tanto radicale, quanto spietato: non solo gli
individui sarebbero stati «liberi di scegliere», ma sarebbero
stati «costretti ad essere liberi»161, per divenire imprenditori di
se stessi. Nella sua versione più benigna, il fondamentalismo
di mercato consentirà allo Stato di abilitarli e poi toccherà a
loro difendersi: a dispetto delle proprie capacità e intenzioni.
È la stagione tuttora in corso.

6. La contesa legittima per il monopolio

Col tempo l’andamento della lotta per il monopolio statale


culminata nell’assolutismo monarchico avrebbe preso un’altra
piega. I pretendenti al monopolio ne avrebbero inteso i vantaggi
e sarebbero addivenuti all’idea che battersi sanguinosamente
per smantellarlo non convenisse. È la tesi di Elias: alle fazioni
in lotta apparve di comune interesse risolvere i conflitti con
mezzi pacifici, escogitarono a questo fine «periodiche lotte
per l’eliminazione, che non ricorr[evano] però all’impiego
delle armi e che [erano] regolate dall’apparato monopolisti-
co, lotte “controllate” dal monopolio». Sono esse che hanno

161
  N. Rose, Powers of Freedom, cit., p. 87. Anche F. Dubet, La préférence
pour l’inégalité: comprendre la crise des solidarités, Paris, Seuil, 2014, pp. 70-80.

74
dato luogo a «quello che siamo soliti chiamare un “regime
democratico”»162.
Controllare la violenza – e i conflitti – è un’esigenza fon-
damentale, lo rammenta ancora Elias, per qualsiasi gruppo
umano163. Era stata la grande ambizione di quanti avevano
istituito il monopolio statale, confinando la violenza nelle
caserme e affidandola agli specialisti dell’ordine pubblico e
della guerra. L’assolutismo aveva anche tollerato e ammesso
qualche forma di pluralismo. Ma non era bastato a porre fine
alle contese violente per il monopolio. Spogliati d’ogni retorica,
i regimi rappresentativi, e le loro prosecuzioni democratiche
costituiscono una tecnica di governo più complessa, che rico-
nosce il pluralismo della vita collettiva, e segna un’altra tappa
nell’addomesticamento del racket delle origini. Profittando di
una formula di Foucault, che ne rovescia una di Clausewitz,
diremo che i contendenti s’intesero per condurre la guerra
per il monopolio e per dirimere le loro controversie «con
altri mezzi»: le elezioni e la pubblica discussione164. La guerra
proseguiva. Ciascuna parte politica avrebbe ancora perseguito
i suoi progetti di ordine sociale. Vi saranno vittorie e sconfitte,
conteranno le armi e i terreni su cui si combatte, le tattiche, le
strategie dei contendenti, e le idee e lo spirito da cui saranno
animati, nonché le alleanze, i tradimenti, le rappacificazioni
durevoli e gli armistizi di breve durata. Ma i contendenti si
erano accordati su un punto: non spargere sangue. Chiunque
avesse preso il sopravvento, avrebbe rispettato i soccombenti e
non avrebbe profittato del capitale di coercizione accumulato
entro lo Stato per restaurare l’autorità monocratica. Era un
compromesso che, a pensarci, ne conteneva un altro: le parti in
conflitto avrebbero agito in modo tale da non esasperare i loro
rapporti e da rendere conveniente la riscoperta della violenza.
Il salto evolutivo avvenne in Inghilterra. Qui più che
altrove si erano già istituzionalizzate forme di pluralismo, il
Parlamento era un’assemblea di ceto più vitale di altre, anche
per la frequenza delle sue convocazioni, e si era più sviluppato

162
  N. Elias, Potere e civiltà, cit., p. 158.
163
 Id., Tappe di una ricerca, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 246.
164
  M. Foucault, Dits et écrits, t. II, Paris, Gallimard, 2001, pp. 702-704.
Per la verità Foucault si riferisce alla politica internazionale.

75
il mercato. Ci volle però una guerra civile in piena regola, non
una congiura di palazzo, una ribellione nobiliare, una rivolta di
strada. Fu una guerra condotta da due possenti forze armate,
culminata nella messa a morte del re. Fu anche una guerra di
religione165. Il diniego di Carlo I di addivenire a un’intesa in
materia fiscale rese la collisione inevitabile. Interrotto il nego-
ziato, i contendenti fecero ricorso alle maniere forti. Sconfitto
il re, le divergenze tra i vincitori consentirono a Cromwell e
all’esercito d’imporre il proprio ordine e d’instaurare la prima
autocrazia moderna – precedente, dunque, l’instaurazione del
regime rappresentativo! – tale perché condotta in nome del
popolo. Finché l’uscita di scena del Lord Protettore non mise
in chiaro come l’alternativa più ragionevole alla guerra civile e
all’autocrazia fosse un’intesa tra le fazioni aspiranti al monopo-
lio e tra esse e la monarchia, che fu restaurata, ponendo fine
a una lunghissima e violenta partita di potere e inaugurando
una sequenza di partite più pacifiche.
Le fazioni in lizza oltre Manica potevano alfine dedicarsi ai
propri affari, che si stavano rivelando parecchio convenienti.
Per deporre le armi, la loro relativa prosperità fu con buone
probabilità determinante. Concorsero anche vigorose energie
intellettuali, quelle dei giusnaturalisti in primo luogo166. Il
sommo teorico dell’assolutismo monarchico, che era Hobbes,
aveva immaginato l’autorità sovrana come frutto di un accordo
consapevole tra gli esseri umani, consegnandola per intero a
un monarca, ma non escludendo la possibilità di depositarla
in un’assemblea. Tra i contributi di rilievo è da segnalare
quello straordinario documento democratico che è l’Agree-
ment of the people, insieme ai dibattiti di Putney. I Levellers
saranno sconfitti. Ma le loro discussioni gettarono gran copia
di semi. All’indomani della Gloriosa rivoluzione l’accordo tra
re e Parlamento sarà messo in forma e nobilitato da Locke,
promuovendolo a virtuosa «separazione dei poteri». La quale,
più avanti, nelle pagine di Montesquieu, diverrà la tecnica di
governo ideale e anche un’arma disponibile per tutte le fazioni
165
  A. Pizzorno, Mutamenti nelle istituzioni rappresentative e sviluppo dei
partiti, in P. Bairoch e E. Hobsbawm (a cura di), Storia dell’Europa contem-
poranea, Torino, Einaudi, 1996, pp. 960-1031.
166
  Q. Skinner, Significato e comprensione nella storia delle idee (1969), in
Id., Dell’interpretazione, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 11-57.

76
interessate a delegittimare e disciogliere l’accumulo di potere
costituito attorno ai sovrani assoluti.
A pensarci, il nuovo regime era un omaggio alla finitezza
umana. Il diritto aveva stabilito un limite all’uso arbitrario del
potere. Per il nuovo regime, una volta estromessa la volontà
divina, nulla più era assoluto. La pretesa volontà del popolo era
molto incerta. Si proverà di quando in quando ad assolutizzarla,
ne abbiamo esempi recenti, ma il riconoscimento del plurali-
smo implicava che nessuna volontà avesse titoli sufficienti per
sopraffarne un’altra: era una scelta tra la ragione e la forza, tra
la vita e la morte. Era un modo di pensare lo Stato altrimenti:
la dose di coercizione era compressa a beneficio della persua-
sione e della tolleranza. In linea di principio agli individui era
riconosciuto il diritto di pensare, parlare, associarsi, criticare
liberamente chi li governava e a vivere in sicurezza. Le contese
per il potere hanno continuamente disatteso le promesse, ma i
diritti saranno pur sempre armi piuttosto efficaci, a disposizione
di chi voglia imbracciarle. È il nucleo dell’esperienza politica
occidentale, coronato dal rovesciamento simbolico del rapporto
tra lo Stato e i suoi sottoposti implicito nell’attribuzione a questi
ultimi della facoltà di designare i governanti e della possibilità
di divenirlo essi stessi.
L’esperimento l’avevano fatto le repubbliche cittadine, ma
applicarlo a un grande monopolio statale era un’altra cosa.
Forme ufficiali di discussione, negoziazione e governo collegiale,
hanno di gran lunga preceduto l’avvento della società borghese.
Avevano preso piede già dalla fine del mondo feudale, metten-
do in dubbio il modello teocratico167. Stavolta però ebbero la
meglio. Concentrato prevalentemente sull’esperienza inglese, dà
un’idea di come la nuova tecnica di governo sia stata perfezio-
nata il resoconto di Jurgen Habermas168: nei salotti, nei circoli,
nelle accademie, nei caffè, nelle logge massoniche la borghesia
si radunava incontrandosi con i ceti aristocratici. Si era formata
così una possente fazione, o una galassia di fazioni, che avevano
perimetrato una «sfera pubblica» entro cui si disputava su idee

167
  C.H. McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno (1940), Venezia,
Neri Pozza, 1956.
168
  J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1962), Roma-Bari,
Laterza, 1973.

77
di ordine alternative rispetto a quella proposta dall’autorità
monarchica. Koselleck la chiama «alta corte di giustizia della
ragione»169 e Keith M. Baker «tribunale dell’opinione»170. Era
uno spazio variamente abitato e per niente egualitario. Ma che
d’ora in poi resterà al centro della vita collettiva e della lotta
politica, estendendosi, complicandosi vieppiù e fors’anche,
secondo Habermas, snaturandosi.
Elevate le due camere del Parlamento a luogo fondamen-
tale di mediazione dei conflitti e di governo, in Inghilterra fu
piuttosto ovvio ripetere quanto accadeva da secoli. Ai Comuni
si accedeva in quanto rappresentanti di qualcuno. Pure le ele-
zioni furono una scelta inerziale, che veniva da lontano, di cui
si sarebbe rinnovato il significato171. Secondo Bernard Manin
sono per metà egualitarie, tutti coloro che sono intesi come
cittadini hanno diritto di voto, e per metà aristocratiche172, o
elitarie. Non tutti hanno le medesime possibilità di successo.
Gli elettori, come confermerà più avanti la sociologia elettorale,
selezionano entro un’élite ben dotata di capitali relazionali,
culturali, economici, politici e oggidì mediatici. Chi detiene
tali capitali parte in vantaggio. Sarà possibile talora rimontarlo,
ma con difficoltà. Sarà per questo che le elezioni sono state
preferite al sorteggio, che è cieco e pericolosamente ugualitario.
Le elezioni hanno mostrato anche altre virtù. Diverranno
una liturgia collettiva in cui, almeno in via provvisoria, il popolo
sovrano fa la sua comparsa. È una liturgia che rende ancora il
suo servizio, anche se con crescente fatica. Le elezioni hanno
regolarizzato, inoltre, i ritmi della competizione per il potere,
in precedenza scandita dai capricci della successione dinasti-
ca: almeno finché i media non hanno inventato la «campagna
elettorale permanente». Mettono anche ciclicamente in scena
la possibilità di un premio e di una sanzione ai governanti:

169
  R. Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese, Bologna,
Il Mulino, 1972, p. 12.
170
  K.M. Baker, Politique et opinion publique sous l’Ancien Régime, in
«Annales. Économies, Sociétés, Civilisations», 1, XLII, 1987, pp. 41-71.
171
 O. Christin, Le lent triomphe du nombre. Les progrès de la décision
majoritaire à l’époque moderne, in «La Vie des idées», 11 mai 2012 (https://
laviedesidees.fr/Le-lent-triomphe-du-nombre.html).
172
  B. Manin, Principes du gouvernement représentatif, Paris, Flammarion,
1996, pp. 160-188.

78
quantunque l’esperienza insegni che premio e sanzione di
rado giungono a proposito. Come non c’è da illudersi troppo
sulla qualità delle scelte compiute dagli elettori. Se non altro,
però, le elezioni, oltre a pacificare la contesa per il monopolio,
concorrono a civilizzare il contrasto congenito tra governanti
e governati.
Da subito entro il nuovo regime la contesa politica si
rivelò accanita e servì a stimolare nuove ambizioni di potere.
Una vivace descrizione di cosa capitasse ai Comuni a metà
del XVIII secolo la offre Lewis Namier: la contesa elettorale
aveva inaugurato «una feroce, anche se non sanguinosa, lotta
per le cariche pubbliche»173. La lotta coinvolgeva i primoge-
niti delle grandi famiglie aristocratiche, in attesa di ascendere
alla camera alta, per i quali nel frattempo il seggio ai Comuni
era un obbligo. Per i country gentlemen era un’opportunità
per confermare il proprio rango. Si aggiungevano pubblici
funzionari, ufficiali, ammiragli, imprenditori e banchieri e un
buon numero di avvocati, apprezzati per le loro competenze
giuridiche e interessati a guadagnare visibilità e relazioni. Erano
inevitabili gli arrampicatori sociali e i faccendieri. Una quota
di seggi parlamentari era proprietà privata dell’aristocrazia.
Altri erano riservati ai protetti della corona e del suo governo,
i quali  –  come accadrà più tardi in Francia e in Italia – non
lesinavano favori per orientare la composizione e l’operato della
camera bassa. La contesa tra i componenti di una siffatta oli-
garchia era animatissima. I suoi esponenti investivano i capitali
di cui disponevano – patrimonio, prestigio, relazioni familiari,
deferenze clientelari – per ottenere vantaggi per sé, i loro amici
e i loro mandanti174. Coerente con la riconversione di una parte
preminente delle élites al profitto imprenditoriale, l’accesso alla
rappresentanza era un mezzo per assicurarsi cariche, sinecure,
pensioni, promozioni, appalti, commesse, finanziamenti e per
imbastire ogni sorta d’affari profittevoli. Lo spirito del racket
non si rassegna a morire.
Il regime parlamentare inglese è stato un archetipo. A
distanza s’inquieterà del suo stato Charles Louis de Secondat,

173
  L.B. Namier, The Structure of Politics at the Accession of George III,
London, MacMillan, 1957, p. 16.
174
  Ivi, pp. 1-61.

79
barone di la Brède e di Montesquieu, che pure ne è stato il
più illustre apologeta: da un lato cantò le lodi della separa-
zione dei poteri, dall’altro disdegnò la litigiosità della contesa
politica d’oltre Manica175. Grande timore per la sopraffazione
dell’interesse collettivo da parte degli interessi privati sarà
manifestato da Edmund Burke e sarà condiviso in Francia da
Emmanuel Sieyès. Avevano ottime ragioni. Già alla fine del
XVIII secolo in Inghilterra una parte delle élites, quella che
si sentiva danneggiata176, inizierà ad agitare la bandiera della
moralità pubblica contro la cosiddetta Old corruption. Ma fu
solo dopo le guerre napoleoniche, quando la corruzione era
giunta all’apice, che le denunce dei radicali ottennero qualche
risultato, come il ridisegno dei collegi elettorali previsto dal
Reform Act del 1832177, che aprirà le porte dei Comuni a nuovi
strati sociali.
Una parte del problema risiedeva proprio nelle elezioni. Gli
inventori del nuovo regime erano persuasi che sarebbero state
unicamente un rito di conferma: si sentivano élites «naturali»
e il consenso era ovvio. In effetti, fino al secondo Reform Act,
del 1867, metà dei collegi elettorali era uncontested. A lungo
le elezioni furono vissute come un festoso e disordinato rito
di riconsacrazione delle élites precostituite, che coinvolgeva
finanche gli esclusi dal diritto di voto178. Ma, come apprese
a sue spese Burke, c’erano le eccezioni. E, grazie a esse, la
contesa per il potere, la pratica parlamentare, la misurazione
del consenso con il numero dei voti, cominciarono a plasmare
in maniera imprevista il regime rappresentativo e le stesse
élites. Per i concorrenti l’esigenza di massimizzare il proprio
seguito elettorale sarà un fortissimo incentivo a conformare
le proprie azioni a criteri di razionalità strategica: i calcoli di
convenienza elettorale prenderanno il sopravvento. Per contro,
la collegialità parlamentare incoraggiava – non sempre – i

175
  K.M. Baker, Politique et opinion publique sous l’Ancien Régime, cit.
176
  L.B. Namier, The Structure of Politics at the Accession of George III,
cit., pp. 158-172.
177
  P. Harling, Rethinking «Old Corruption», in «Past & Present», 147,
1995, pp. 127-158. Sulla riforma elettorale J. Cannon, Parliamentary Reform
1640-1832, Cambridge, Cambridge University Press, 1973.
178
 F. O’Gorman, Voters, Patrons and Parties: The Unreformed Electorate
of Hanoverian England, 1734-1832, Oxford, Oxford University Press, 1989.

80
compromessi. È l’astuzia del regime rappresentativo179: un
antidoto spontaneo a ogni forma di radicalismo, purtroppo
molto imperfetto. Quel che non era stato previsto per niente
è l’insorgere della nuova e temibile fazione degli addetti pro-
fessionali alla politica.
Non era alla portata di chicchessia radunare un seguito
elettorale. Non tutti, osserva Elias, possedevano «l’arte di di-
rimere una contesa con le parole, ossia con la persuasione»180.
Per com’era condotta, la lotta politica divenne un’occupazione
impegnativa, che richiedeva un savoir faire spacifico: bisognava
saper parlare in pubblico, discutere, negoziare e conciliare
interessi eterogenei, legiferare, valutare – un politico ragiona
pure in questo modo – gli effetti più a lungo termine del
proprio operato. C’era di che farne un mestiere. Già i notabili
locali, che sedevano nei parlamenti grazie alle loro risorse per-
sonali di autorità sociale, acquisivano on the job competenze
specifiche e tendevano a dedicarsi alla politica quasi a tempo
pieno: nelle assemblee elettive e nel proprio collegio181. Lo
facevano senza ricavarne ufficialmente alcun compenso. Man
mano però che il mercato elettorale si allargava, gli impren-
ditori politici, che vi fiutavano un’opportunità promettente
d’investimento, si moltiplicarono e professionalizzarono. Alla
fine, predisporranno istituzioni apposite, ovvero i partiti, in
grado di suscitare e coltivare un più vasto seguito. Per We-
ber è entro i partiti che la politica è divenuta un mestiere in
senso pieno, di cui vivere, ovvero farne una fonte stabile di
sostentamento182. In questo modo, s’inaugurava pure un nuo-
vo percorso di mobilità sociale ascendente, fruibile da nuovi
strati sociali. Estendendo il suffragio, il percorso si sarebbe
allargato: è probabilmente uno dei motivi principali per cui
il suffragio è stato esteso.
Il rafforzamento del regime rappresentativo ebbe un cor-
rispettivo nella professionalizzazione anche delle burocrazie

179
 Poche definizioni di tale astuzia sono più convincenti di quella di
Kelsen: cfr. Essenza e valore della democrazia (1929), in Id., I fondamenti
della democrazia e altri saggi, Bologna, Il Mulino, 1970.
180
  N. Elias, I tedeschi, cit. p. 74.
181
 É. Phélippeau, L’invention de l’homme politique moderne. Mackau,
l’Orne et la République, Paris, Belin, 2002.
182
  M. Weber, La politica come professione, cit., p. 191.

81
pubbliche. Il contrasto con le dirigenze elettive è dunque
originario. Più crescerà la centralità di queste ultime, più le
burocrazie saranno professionalizzate. Reclutate per concorso,
accertandone le competenze, vincolate al rispetto delle norme e
della gerarchia, dovevano costituire un potere «terzo», opposto
alle oscillazioni e alle parzialità del regime rappresentativo.
Ossessionato dalla razionalità formale, Weber ebbe molto da
ridire. Viceversa, Schumpeter le ha ritenute, con qualche ra-
gione, un contrappeso alla demagogia elettorale183.
Per concludere: in funzione di una nuova idea di ordine, il
regime rappresentativo aveva assunto dosi controllate di disor-
dine. Era un vaccino utile a regolare concorrenze, resistenze,
ribellioni. Quanto disordine era però sopportabile? Molte
volte si solleverà l’esigenza di dosarlo e filtrarlo. Sarà un altro
tema di disputa persistente. Inizialmente fu ristretto il diritto
di voto, si seguiterà con molti altri accorgimenti. Ne diremo
nel capitolo dedicato alla rappresentanza. Un’altra tecnica di
bilanciamento del pluralismo introiettato dal regime rappre-
sentativo, insieme alla professionalità dei pubblici funzionari,
sarà già in partenza l’alienazione al mercato di larghi spazi di
governo. Ma i nostalgici dell’autorità monocratica e dell’unità
organica della vita collettiva non troveranno mai pace. In nome
dell’interesse generale e del bene comune, la loro azione sarà
un’insidia persistente, anche quando silenziosa, che ha talora
condotto a regressioni drammatiche. Non si sono acquietati
neanche adesso.

7. Il mercato contro lo Stato

Il regime rappresentativo è una tecnica di governo escogitata


per mettere a regime – ci si consenta il bisticcio – il pluralismo
della vita collettiva e il conflitto riducendo l’impiego della coer­
cizione. È una tecnica raffinata ed efficace, malgrado i molti
infortuni che le sono capitati184. Dando voce, ufficialmente e
183
  Una burocrazia competente per J.A. Schumpeter è condizione necessaria
di successo per il metodo democratico: cfr. Capitalismo, socialismo, democrazia
(1942), Milano, Comunità, 1962, pp. 276-282.
184
  Una circostanziata rassegna in R. Romanelli, Nelle mani del popolo. Le
fragili fondamenta della politica moderna, Roma, Donzelli, 2021.

82
regolarmente, ai dominati, con molti limiti e per interposta
persona, il regime rappresentativo ha cambiato il modo di pen-
sare e di fare lo Stato e i modi di pensare, pensarsi e agire dei
governanti e dei governati. La sua traiettoria è proseguita con
l’universalizzazione del suffragio. Non sempre è stata accolta
pacificamente. Era una tecnica di governo, utile a neutralizzare
il potenziale di opposizione delle classi inferiori, ma implicava
la possibilità di una ripartizione meno disuguale del potere
e della ricchezza sociale: tanto che ha suscitato forme anche
violente di rigetto.
Né la pacificazione del conflitto, né quella dell’azione di
governo da parte dello Stato hanno mai cancellato del tutto
la ribellione violenta da una parte e la coercizione dall’altra.
Forme violente di conflittualità si sono riproposte più volte,
mentre la difesa dell’ordine pubblico e dei confini statali ri-
chiederanno di mantenere una quota di coercizione, sulla cui
portata si accenderanno animate dispute politiche. Il dibattito
sull’impiego delle forze dell’ordine e sulla repressione penale e
carceraria non si è mai esaurito185. Ed è tuttora discusso pure
il confine tra lotte sociali pacifiche, e perciò ritenute legittime,
e lotte che sono invece considerate violente. Infine, lo Stato, o
gli Stati, hanno riversato un’enorme mole di violenza fuori dai
propri confini. Sarà quella risparmiata all’interno?
Non si può in effetti non constatare come le relazioni tra
gli Stati siano rimaste allo stadio primitivo, renitenti a qualsiasi
tentativo di civilizzarle: dai trattati di Westfalia fino ad oggi.
Violente «lotte per l’egemonia»186 hanno ripetutamente riscritto
i confini statali, entro e fuori d’Europa. Lotte per il monopolio
sono state le tardive unificazioni italiana e tedesca, il primo
conflitto mondiale e il crollo degli imperi che ne è seguito.
Lotta per il monopolio è stata la Seconda guerra mondiale e così
pure la Guerra fredda. Nemmeno la fine dell’Unione Sovietica
e dell’ordine bipolare ha consentito d’instaurare un altro ordine
più pacifico. Il tentativo di istituire un’autorità sovranazionale
ha dato risultati modestissimi e, soprattutto, quella che c’è non

185
  L. Wacquant, Punishing the Poor. The Neoliberal Government of Social
Insecurity, Durham, Duke University Press, 2009. Inoltre, S. Palidda, Polizie,
sicurezza e insicurezze, Milano, Meltemi, 2021.
186
  N. Elias, Potere e civiltà, cit.

83
ha guadagnato via via in credibilità. L’unico reale avanzamento
è la rappacificazione tra una parte degli Stati d’Europa. C’è da
augurarsi che duri e che possa estendersi.
Curiosamente, Norbert Elias sfiora appena il tema del
dominio coloniale187. Eppure, è stato anch’esso lotta per il
monopolio e l’Occidente quale lo conosciamo non esistereb-
be se non avesse profittato del dominio che ha esercitato su
larghe parti del pianeta. Gli imperi coloniali sono stati un
complemento decisivo della statualità occidentale188. Consi-
derati i territori d’oltremare res nullius, sprovvisti di Stato, di
confini, di storia e di cultura, era legittimo sottometterli per
«civilizzarli». Non fosse che le violenze perpetrate oltremare
hanno di rimando intossicato costumi e istituzioni dei paesi
colonizzatori. Secondo Enzo Traverso lì vanno cercate le origini
della violenza nazista189.
Le potenze coloniali hanno anche esportato e imposto i
propri costumi, la propria cultura, le proprie tecniche di do-
minio190: è il «progresso». Che è tuttavia stato accolto molto
selettivamente e si è ibridato con le condizioni locali. Ai valori
occidentali si sono pertanto ispirate, tranne poi abbandonarli,
le lotte di liberazione dei popoli colonizzati, che hanno posto
fine al dominio occidentale191. Che ha allora assunto altre forme:
tra di esse la globalizzazione, pubblicizzata  – con credibilità
decrescente – come competizione pacifica e fruttuosa tra Stati,
mercati, imprese. Ma neanche l’incremento degli scambi e degli
intrecci produttivi e finanziari sono bastati a ridurre l’impiego
della violenza, che ciascun contendente giustifica con ragioni

187
  L’esternalizzazione della lotta violenta per il monopolio fuori dall’Oc-
cidente contraddice la «civilizzazione dei costumi». In compenso Elias è
ben consapevole di come la civilizzazione sia un processo tutt’altro che
irreversibile. Si veda, N. Elias, I tedeschi, cit. e Humana conditio (1985),
Bologna, Il Mulino, 1987.
188
  G.K. Bhambra e J. Holmwood argomentano anzi che l’Europa moderna
fosse fatta non da Stati, bensì da imperi, che in Europa avevano il centro,
ma che si estendevano oltremare. Sarebbero queste le unità da considerare,
anziché gli Stati, ripensando le categorie della teoria sociale che poco o nulla
si è misurata con il tema del colonialismo: cfr. Colonialism and Modern Social
Theory, London, Polity, 2021.
189
  E. Traverso, La violenza nazista. Una genealogia, Bologna, Il Mulino,
2010.
190
  N. Elias, Potere e civiltà, cit., pp. 402-403.
191
  Sul punto R. Romanelli, Nelle mani del popolo, cit. pp. 195-218.

84
che andrebbero prese sul serio, anche quando non le si con-
dividano. È scomodo, ma è la premessa necessaria per capire.
Da ultimo, un importantissimo avvicendamento nelle grandi
lotte per il monopolio ha avuto luogo. Si sono fatti largo con
prepotenza le corporations e i potentati finanziari transnazionali.
Alcuni Stati hanno resistito, ma una quota della sovranità statale
è andata dispersa: quella fiscale, anzitutto, ma anche in altre
sfere. Più che un esproprio è stata una rinuncia o un ridisegno,
legittimato dalla promessa dei luminosi orizzonti della globaliz-
zazione e compensata dal costituirsi di un sistema di autorità
sovranazionali: Fmi, Wb, Wto e via seguitando192. Primeggia
per incisività l’Unione europea. Sono tutte istituzioni che si
sono messe in concorrenza con gli Stati e hanno man mano
accumulato ingenti capitali di competenze, di reputazione, di
relazioni e, ovviamente, di potere193.
A quanto pare, sono però insufficienti a governare la com-
plessità dell’economia globale. Tant’è che si è insediata una
costellazione d’autorità private, le quali concorrono anch’esse a
espropriare gli Stati di un monopolio fondamentale: quello del
diritto194. Alle corti giudiziarie internazionali si sono affiancati i
grandi studi legali, in origine americani, che hanno riesumato la
lex mercatoria a beneficio del mondo degli affari e che dirimono
le vertenze insorte nei commerci internazionali. Tra pubblico e
privato sono all’incirca settantamila le istituzioni d’ogni genere
che governano lo spazio internazionale195. Nella terra di nessu-
no tra gli Stati si sono insediate autorità arbitrali, di garanzia,
agenzie che dettano codici, norme, standard, istituzioni bancarie,
società di consulenza e studi legali internazionali, circuiti di

192
  Non esiste un’unica forma di sovranità statale. La sovranità è sempre
stata condizionata. Sulle sue variazioni cfr. J. Agnew, Globalization and Sov-
ereignty. Beyond the Territorial Trap, New York, Rowman Littlefield, 2018.
193
  B. Mazlish e E.R. Morss, A Global Elite?, in A.O. Chandler Jr. e B.
Mazlish (a cura di), Leviathans: Multinational Corporations and the New
Global History, Cambridge, Cambridge University Press, 2005. Sulle istituzioni
sovranazionali le conoscenze cominciano ad accumularsi. Un’indagine centrata
sull’emancipazione delle burocrazie internazionali dagli Stati è quella di M.
Barnett e M. Finnemore, Rules for the World: International Organizations in
Global Politics, Ithaca, Cornell University Press, 2004.
194
  Una guida in M.R. Ferrarese, Poteri nuovi. Privati, penetranti, opachi,
Bologna, Il Mulino, 2022.
195
  Ivi, p. 58.

85
expertise, Ong. Alla verticalità del government si oppone l’o-
rizzontalità reticolare della governance, fatta di negoziazioni e
concertazioni depoliticizzate, ove istituzioni private e pubbliche
intervengono come partner alla pari.
È pure questo un modo di lottare per il monopolio e di
governare, dove si segnalano anche istituzioni che dall’Occi-
dente esportano costumi, stili di vita e tecniche di governo,
magari sotto forma di aiuti allo sviluppo, corredati da vincoli
alquanto severi: è la good governance196. La formula degli aiuti
allo sviluppo non è in realtà un’esclusiva occidentale: anche
quello è diventato uno spazio conteso. A suo tempo, qualche
tentativo, meno riuscito, l’aveva fatto l’Unione Sovietica, più
di recente, è la Cina che ha deciso di fare la sua parte.
Non deve ovviamente sorprendere che gli addetti alle
istituzioni sovranazionali si aggreghino in fazioni e nutrano
autonome ambizioni di potere197. È pure possibile che si
sia formata una superfazione – o superclasse – capitalistica
transnazionale198. Come c’è ragione di ritenere che, non solo
nelle pieghe, l’indebolimento dello Stato offra opportunità
inedite alle organizzazioni criminali: il confine tra attività legali
e illegali non è per nulla netto e invalicabile199.
196
  M. Bevir, Democratic Governance, cit., pp. 95-110.
197
 Sul policy making sovranazionale, cfr. J. Joachim, B. Reinalda e B.
Verbeek (a cura di), International Organizations and Implementation: Enforc-
ers, Managers, Authorities?, London-New York, Routledge, 2008. Cfr. anche
N. Kauppi e M.R. Madsen (a cura di), Transnational Power Elites. The New
Professionals of Governance, Law and Security, Abingdon, Routledge, 2013.
Sui giuristi operanti nelle corti internazionali, che producono sentenze ad alto
impatto in moltissimi ambiti, dalla tutela dei diritti umani alla regolazione delle
attività commerciali, cfr. L. Swigart e D. Terris, Who Are International Judges?,
in C.P.R. Romano, K.J. Alter e Y. Shany (a cura di), The Oxford Handbook
of International Adjudication, Oxford, Oxford University Press, 2014.
198
  Secondo Luciano Gallino, uno studioso sempre molto misurato e alieno
da suggestioni complottiste, vi sono ottime ragioni per pensarlo. Cfr. La lotta di
classe dopo la lotta di classe, intervista a cura di P. Borgna, Roma-Bari, Laterza,
2012, pp. 17-18. Tra i tanti: S. Strange, Chi governa l’economia mondiale?
Crisi dello Stato e dispersione del potere, Bologna, Il Mulino, 1998. Inoltre, L.
Sklair, The Transnational Capitalist Class and Global Politics: Deconstructing
the Corporate: State Connection, in «International Political Science Review»,
2, XXIII, 2002, pp. 159-174. Solleva invece dei dubbi M. Hartmann, Inter-
nationalisation et spécificités nationales des élites économiques, in «Actes de
la recherche en sciences sociales», 5, 190, 2011, pp. 10-23.
199
  Il confine tra arricchimento legale e illegale, pacifico e violento, è mol-
to sottile e la sua permeabilità, visto l’indebolimento dell’autorità statale, è

86
Il deperimento della sovranità degli Stati non ha comunque
concluso le lotte per il monopolio entro i confini statali. Con
grande fervore proseguono: sia le lotte per la rappresentanza
tra le forze politiche e tra gli interessi, sia soprattutto quelle tra
Stato e mercato. Non sono nemmeno mancate le new entries: gli
addetti ai media da un canto, gli esperti dall’altro. Sono fazioni
che rivendicano la loro estraneità alla contesa per il monopolio,
ma che in profondità sono penetrate entro la sfera della politica
e del governo. Spesso conducendo manovre congiunte.
Molti e diversi sono i punti di vista da cui considerare i
mass media200. Risaliamo alle origini. Fin dall’inizio la stampa,
fatta per mettere in circolo informazioni e opinioni, si è rivelata
un’arma a disposizione dei titolari del monopolio statale, degli
addetti al mercato e dei loro oppositori e concorrenti. I quali ne
hanno fatto per qualche tempo un impiego molto intenso. Finché
l’elettoralizzazione di partiti non ha coinciso con una grande in-
novazione tecnologica: la televisione. Con assai più efficacia della
stampa quotidiana e della radio, la televisione non solo mette in
circolo informazioni e opinioni, ma «crea» la realtà, è una fucina
attivissima d’interpretazioni, classificazioni, divisioni, oscuramenti,
enfatizzazioni201. Si può perfino ritenerla una forma sostitutiva
d’esperienza. Trainando gli altri media, la televisione ha invaso
la sfera pubblica, condizionando costumi e stili di vita, modi di
pensare e comportarsi, addirittura i criteri con cui si osservano
e giudicano gli eventi202. Fino a che punto? Le conoscenze sugli
effetti della mediatizzazione sono insoddisfacenti. Ma sappiamo
per certo che i media permeano la vita quotidiana e sono una
connessione fondamentale tra gli individui e la società intorno
a loro, di cui hanno enormemente dilatato i confini203.

diventata la norma. Cfr. F. Armao, L’età dell’oikocrazia. Il nuovo totalitarismo


globale dei clan, Milano, Meltemi, 2019.
200
  G. Mazzoleni, La comunicazione politica, Bologna, Il Mulino, 2012. Una
ricognizione a largo raggio in F. Esser e J. Strömbäck (a cura di), Mediati-
zation of Politics. Understanding the Transformation of Western Democracies,
Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2014.
201
  P. Bourdieu, Sur la télévision, Paris, Raisons d’agir,1996, pp. 18-20.
202
  Preveggente e di grande respiro critico è la riflessione, non solo sugli
effetti dei media, di Danilo Zolo. Cfr. Il principato democratico. Per una teoria
realistica della democrazia, Milano, Feltrinelli, 1992, pp. 33-34 e pp. 171-203.
203
 Per un’introduzione problematica all’uso politico della tecnologia,
anche nel campo della comunicazione, cfr. S. Jasanoff, Technology As a Site

87
Dal canto loro, gli addetti ai media non ci hanno messo
molto a costituire fazioni autonome, con le loro ambizioni e
il loro capitale di potere, che la televisione ha incrementato.
La vocazione dei giornalisti a farsi portavoce dei cittadini, in
concorrenza con gli eletti e i partiti non è recente. La gittata
e l’invasività della televisione hanno promosso nientemeno che
la mediatizzazione della contesa politica. Oltre ai giornalisti,
alcuni specializzati nell’interpellare i politici, vi sono gli enter-
tainers, gli autori, i programmisti, i pubblicitari e, a maggior
ragione, gli editori e gli investitori pubblicitari: eterogenei
per orientamenti culturali, affiliazioni politiche, condizioni
professionali e interessi. Si fanno sentire pure gli accademici
mediatizzati. Ma a mutare definitivamente lo stato della sfera
pubblica è stata la comparsa delle reti commerciali, che non solo
hanno potenziato la dimensione spettacolare della televisione,
ma hanno incrementato l’importanza degli interessi privati,
ridisegnando pure il servizio pubblico. Si sono moltiplicate
le imprese multinazionali operanti nel settore, con effetti di
concentrazione problematici dal punto di vista democratico.
Particolarmente delicata è la condizione degli addetti alla
politica elettiva. Non sono indifesi, in primo luogo perché
hanno qualche responsabilità nello stabilire principi e limiti
dei cosiddetti regimi mediatici: è lo Stato che concede le
frequenze, regola l’affollamento pubblicitario, pone o meno
vincoli alla proprietà dei media. E, infatti, da un paese all’al-
tro i rapporti tra le varie categorie di addetti ai media, gli
imprenditori del settore, gli interessi organizzati, la politica
elettiva, variano tra complicità, strumentalizzazione reciproca,
diffidenza, interpenetrazione204. Ma l’aspetto forse più impor-
tante è che gli addetti alla politica hanno preso assai sul serio
l’influenza dei media.

and Object of Politics, in R.E. Goodin e C. Tilly (a cura di), The Oxford Hand-
book of Contextual Political Analysis, Oxford, Oxford University Press, 2006.
204
  Un tentativo riuscito di comparazione, tenendo conto di più fattori
quali il tipo di mercato mediatico, le forme della professionalizzazione gior-
nalistica, le parentele con la politica, in D.C. Hallin e P. Mancini, Comparing
Media Systems. Three Models of Media and Politics, Cambridge, Cambridge
University Press, 2004. Cfr. anche la messa a punto più recente: Idd., Ten
Years After Comparing Media Systems: What Have We Learned?, in «Political
Communication», 2, XXXIV, 2017, pp. 155-171.

88
Quantunque i media – i loro addetti e i loro studiosi –
coltivino sovente l’immagine della loro irresistibilità, non sono
né l’arma politica finale, né una fazione invincibile205. Non
abbiamo nemmeno certezze su come e quanto influenzino le
scelte degli elettori. Il «clima d’opinione» dipende molto da
essi, ma le lealtà elettorali non sono per niente effimere. Ciò
non ha impedito a quella che viene chiamata la media logic,
dettata dalla preoccupazione per l’audience, per le vendite e i
profitti delle televisioni commerciali, di ricadere pesantemente
sulla politica: sui linguaggi, stili e ritmi della competizione,
sull’agenda di policy, persino sulle regole del gioco206. I politici
hanno imparato a adeguarsi alle attese della televisione e dei
media in genere, anche se non passivamente. Hanno anche
appreso a usarli: spesso anche li anticipano e suscitano loro
gli eventi mediatici. Sanno anche bene che valgono i perso-
naggi, i gesti trasgressivi, i racconti paurosi, le zuffe, la brevità
e perentorietà delle asserzioni, il botta e risposta, il negative
campaigning e la horse race 207. A considerare, tuttavia, quanto
i profitti dell’industria televisiva provengano dalla raccolta
pubblicitaria, l’innovazione appare profonda.
Le tecnologie sono sempre strumenti adoperati da qualcu-
no, che sceglie se e come adoperarli. Anche il loro sviluppo è
oggetto di dispute e di decisioni. Nel caso della Tv, essa aveva
offerto inizialmente l’opportunità di comunicare la politica a
un pubblico più vasto. Non è detto che gli addetti ai media,
in assenza dei media commerciali, e gli addetti alla politica
si aspettassero gli sviluppi successivi. Ovvero: non sappia-
mo quanto sia stata consapevole la scelta sia di autorizzare
un’offerta televisiva privata, sia di trasformare la politica in
intrattenimento, di valorizzarne la dimensione emotiva e ago-
nistica. Nel caso dello sport, la spettacolarizzazione, promossa

205
  Tra i contributi che suggeriscono cautela J. Strömbäck e F. Esser (a cura
di), Mediatization of Politics. Understanding the Transformation of Western
Democracies, New York, Palgrave MacMillan, 2014.
206
  F. Esser e J. Strömbäck, Introduction, in Idd., Mediatization of Politics,
cit., pp. 14-16.
207
 L’argomento è stato originariamente sviluppato da D.L. Altheide e
R.P. Snow, Media logic. La logica dei media (1979), Roma, Armando, 2018.
Si veda anche l’Introduzione di R. Marini. È altresì da ricordare che oggi il
bilancio delle imprese mediatiche dipende in larghissima misura, più che dalla
vendita del servizio agli utenti, dalla raccolta pubblicitaria.

89
dai media commerciali, che l’ha radicalmente cambiato, non
è avvenuta casualmente. Nel caso della politica forse solo
qualche imprenditore privato preveggente ne aveva intuito la
possibilità, magari senza anticiparne gli effetti d’inasprimento
della contesa politica che ha provocato. Fatto sta che tra gli
addetti alla politica e per il mercato dei media commerciali si
è configurata una nuova ibridazione: per i primi la posta era
la visibilità, per le imprese commerciali, che hanno effettua-
to ingenti investimenti, il profitto, con gravose implicazioni
sulla contesa politica e sull’azione di governo, dettandone
finanche le regole.
È stata una partita di potere, tuttora in corso. Che ha le
sue vittime: come succede dal tempo delle recinzioni delle
terre comuni. Una vittima sono stati i giornali e il giornalismo
tradizionale. La stampa quotidiana è in decadenza, subisce la
concorrenza della televisione, attrae meno investimenti pub-
blicitari, trova, pur con importanti eccezioni, meno lettori. La
precarizzazione della professione giornalistica è elevatissima,
a scapito dell’indipendenza dei suoi addetti. L’altra vittima è
il pubblico insieme alla sfera pubblica: la dialettica entro tale
sfera è fortemente condizionata dalle distorsioni spettacolari
dei media. Sono alfine scesi in lizza i social media, avanzando
la promessa di promuovere la comunicazione orizzontale tra
i cittadini e di rianimare magari la sfera pubblica. Non fosse
che anche i social sono in mano a imprenditori privati e agli
investitori pubblicitari. Sono perciò da temere manipolazioni
ulteriori e ulteriori effetti di avvelenamento del linguaggio e
della contesa politica e di soffocamento della sfera pubblica?208
I social non rischiano a loro volta di prosciugare il mercato
della pubblicità televisiva? C’è chi li tratta come un demone
tecnologico inafferrabile e invincibile e chi invita a non so-
pravalutarli e a considerare piuttosto le sinergie con i media

208
  P. Staab e T. Thiel, Social Media and the Digital Structural Transfor-
mation of the Public Sphere, in «Theory, Culture & Society», 4, XXXIX,
2022, pp. 129-143. Secondo i due autori i social servono a esaudire le
esigenze del capitalismo post-fordista, che ha individualizzato tanto la
produzione quanto i consumi. Sono uno strumento utile a personalizzare
il messaggio e raggiungere individualmente i consumatori, sfruttato anche
dalle forze politiche.

90
convenzionali209. C’è chi ne intravede l’ambivalenza e conta
sulla possibilità d’intrecciare connessioni orizzontali per riani-
mare la sfera pubblica. Forse i social devono ancora scoprire
la loro vocazione e ci vorrà qualche tempo per intenderne
le implicazioni.
La seconda importante new entry nelle contese per il mo-
nopolio è la scienza. Ne ha sempre fatto parte, ma, una volta
divenuta expertise, ha rinnovato il proprio ruolo: l’esperto è
colui che detiene competenze non alla portata dell’uomo della
strada ed è chiamato in soccorso dalla politica210, ma già nel
XVIII secolo sono servite altre competenze. Per primi sono
arrivati i giuristi. È tuttavia col crescere dell’intervento pubblico,
iniziato dopo la Prima guerra mondiale e la crisi del ’29, che
lo Stato ha dato grande spazio ad altri specialisti, muniti di
competenze economiche e tecniche.
L’idea del governo dei tecnici, avanzata agli inizi della società
industriale da Saint-Simon e Comte, riproposta negli anni ’30
dai regimi autoritari, risvegliata negli anni ’60, si è fatta strada
ancora una volta211. È stato il market turn degli anni ’80, sma-
nioso di contenere lo Stato, che ha di nuovo allargato gli spazi
della scienza e dell’expertise, seppur curandosi di privatizzarli.
L’azione di governo è stata ridefinita come problem solving,
depoliticizzando le issues e sottraendole alla dialettica tra le
forze politiche: sono diventate questioni tecniche, da trattare
alla luce di evidenze scientificamente accertate e inoppugna-

209
  Si rinvia alla ricerca molto approfondita, condotta da Y. Benkler, R.
Faris e H. Roberts, Network Propaganda: Manipulation, Disinformation,
and Radicalization in American Politics, New York, Oxford University
Press, 2018.
210
 Per una messa a punto generale C. Delmas, Sociologie politique de
l’expertise, Paris, La Découverte, 2011.
211
  In un momento in cui si cominciava a osservare la trasformazione dei
partiti provocata dal loro stabile insediamento al governo, e non molto dopo
l’instaurazione della V Repubblica, s’interrogava criticamente J. Meynaud, La
tecnocrazia. Mito o realtà (1964), Bari, Laterza, 1964. Meynaud denunciava
la tendenza dei tecnici, cioè di figure non elettive, che per lui coincidevano
allora in gran parte con gli alti funzionari, a usurpare le responsabilità dei
politici. Una ricostruzione dell’avanzata – depoliticizzante – degli «esperti»,
che in Francia risaliva agli anni ’30 e aveva attraversato il regime di Vichy
per riapparire nel dopoguerra, in P. Bourdieu e L. Boltanski, La production
de l’ideologie dominante, in «Actes de la recherche en sciences sociales»,
2-3, II, 1976, pp. 4-73.

91
bili, se possibile con urgenza. Contro i capricci della politica,
gravata da residui ideologici, ma pure contro le macchinosità
burocratiche e perfino contro le imprevedibilità del mercato,
l’autorevolezza oracolare degli esperti mette a tacere i conflitti,
a profitto dell’azione di governo.
Non fosse che le evidenze scientifiche, pur confermate da
procedure di validazione condivise, rimangono controverse,
oltre che afflitte da pregiudizi politici. Sono la regola le contese
tra discipline, scuole e studiosi. A maggior ragione sono con-
troversi i pareri offerti alla politica da scienziati ed esperti212.
Capita pure che gli esperti s’imbattano in qualche problema
inedito, cui la scienza non ha avuto tempo per applicare le sue
procedure di validazione: il caso Covid-19 è istruttivo.
Il market turn ha conferito particolare valore a una specifica
leva di esperti: quelli di formazione economica e manageria-
le, che accumulano il loro capitale di credibilità circolando
tra Stato e mercato, tra amministrazioni e agenzie pubbliche
e imprese private, tra authorities indipendenti, istituzioni
sovranazionali e corporations multinazionali, Ong, cattedre
universitarie, centri di ricerca, boards di riviste accademiche,
prime pagine dei giornali e schermi televisivi213. Con quali
criteri però in questa sfera è conferito il crisma della compe-
tenza e dell’expertise?
Balzate in primo piano, le controversie scientifiche non
potevano non diventare intrattenimento mediatico anch’esse,
con qualche inconveniente. La contesa politica oppone tra
loro i pareri tecnici. E c’è già chi mobilita contro l’expertise
il disorientamento dei cittadini. Le manifestazioni di antin-
tellettualismo, la celebrazione della saggezza dell’uomo della
strada, il rifiuto della medicina tradizionale, i negazionisti della
catastrofe ambientale o della pandemia da Covid, i movimenti
no vax, manovrati anche dai media, mostrano come l’impiego
invasivo della scienza e dell’expertise possa suscitare temibili

  G. Eyal, The Crisis of Expertise, Cambridge, Polity, 2019.


212

 Sugli economisti e la loro alleanza con la politica, F. Lebaron, La


213

croyance économique: les économistes entre science et politique, Paris, Seuil,


2000 e Id., Le savant, le politique et la mondialisation, Broissieux, Éditions
du Croquant, 2003. Interessante la ricerca di D. Dulong, Quand l’économie
devient politique. La conversion de la compétence économique en compétence
politique sous la Ve République, in «Politix», 3, IX, 1996, pp. 109-130.

92
contraccolpi214. Anche l’expertise ha qualche limite e servirebbe
qualche cautela nel suo impiego nella contesa politico-mediatica.
Sempre che sia fattibile. Ulrich Beck aveva avvertito il pericolo,
ma non ha trovato molto ascolto215.
Da ultimo: all’incrocio tra imprese private, decisori pubblici,
ambienti intellettuali, si sono installati i think tanks: sono le
istituzioni prescelte per confermare e sfruttare l’autorevolezza
della scienza. Finalizzati al policy making, anch’essi prendono a
prima vista le distanze dalla contesa politica. Usano la scienza
e il contributo degli esperti per identificare e approfondire
le issues, per influenzare l’agenda di policy, per suggerire
le misure da adottare, per suscitare interesse nella pubblica
opinione. Dedicati alla ricerca applicativa, l’accompagnano
con un’intensa e ben orchestrata attività di comunicazione.
Tra reports, libri bianchi, convegni, prosperano i think tanks
nazionali e internazionali216, quelli indipendenti, e quelli legati,
anche finanziariamente, a forze politiche, a gruppi d’interesse,
imprese, fondazioni, alla società civile, e sono divenuti una
formidabile «force de frappe intellettuale»217, che è penetrata
nella vita pubblica e perfino nella ricerca accademica, cui detta
temi e ricerche meritevoli di essere coltivati.
I media e l’expertise fanno la loro parte nella partita di potere
che ha segnato l’ultimo mezzo secolo: quella tra Stato e mercato,
che ne ha radicalmente rinnovato l’ibridazione. Non esauriremo
l’argomento, sempre che sia possibile, in questo capitolo, vi
torneremo nel quarto capitolo. Proveremo qui a tratteggiarne
alcune linee. È in corso anzitutto una grande partita simbolica,
che ha decostruito l’immagine ordinatrice e pacificatrice dello

214
  Da ultimo, fa il punto L. Pellizzoni, Autorità in declino? L’expertise
scientifica nell’epoca della post-verità, in «Quaderni di Sociologia», 86, LXV,
2021, pp. 133-152.
215
 Solleva la questione dei limiti dell’expertise, con molto anticipo, U.
Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, Carocci,
2000, pp. 219-253.
216
  M. Diletti, Think tank. Le fabbriche delle idee in America e in Europa,
Bologna, Il Mulino, 2009. Inoltre, A. Rich, Think Tanks, Public Policy, and
the Politics of Expertise, Cambridge, Cambridge University Press, 2004; A.
Salas-Porras e G. Murray (a cura di), Think Tanks and Global Politics. Key
Spaces in the Structure of Power, New York, Palgrave Macmillan, 2016.
217
  La formula è di E. Neveu, Sociologie politique des problèmes publics,
Paris, Colin, 2015, p. 56.

93
Stato e che è rivolta a privarlo della sua arma più potente: vuole
indurre gli esseri umani a pensare il mondo senza di esso. Il
mercato è sempre stato un’istituzione di governo della vita col-
lettiva. Lo è stato in concorrenza, ma anche ibridandosi con lo
Stato. Una grande partita di potere è in corso per sincronizzare
i rispettivi meccanismi di funzionamento e, anzi, per omologarli.
Ne è parte di rilievo l’invasione delle scienze sociali da parte
della scienza economica218, unitamente alla contaminazione dei
linguaggi: l’invasione della politica e dell’azione di governo da
parte del linguaggio dell’economia, la nuova scienza sociale
totale. Termini come governance, empowerment, capitale so-
ciale, accountability, sostenibilità, disintermediazione, crediti,
transitati dal linguaggio dell’economia a quello della politica,
ne danno testimonianza219. Quella contro lo Stato è sopra ogni
cosa un’offensiva simbolica.
Un altro indicatore è la pratica di revolving doors tra pub-
blico e privato, tra politica, imprese, istituzioni finanziarie,
lobbies, attività di consulenza, mass media e quant’altro220, dove
liberamente si convertono capitali d’ogni sorta. Lo si chiama
talvolta crony capitalism. È il capitalismo politico di Randall G.
Holcombe, che lo identifica con il «favoritismo, corporativismo,
clientelismo»221. Utilizzando il concetto di élite, Holcombe
denuncia le pervasive complicità tra le élites del capitalismo
e quelle della politica: le une a caccia di regole ed espedienti
utili a volgere a proprio vantaggio la libera concorrenza, le altre
interessate a salvaguardare la propria condizione di privilegio.
Per Wolfgang Streeck, che ha il raro merito di non sterilizzare

218
  Di questa invasione R. Marchionatti e M. Cedrini, Economics as So-
cial Science. Economics Imperialism and the Challenge of Interdisciplinarity,
Abingdon, Routledge, 2017.
219
  Anche se già superato, molti termini della neolingua sono illustrati in
M. Bevir (a cura di), Encyclopaedia of Governance, cit. Meno accademico è E.
Hazan, La propagande du quotidien, Paris, Raisons d’agir, 2006. Una riflessione
sulla neolingua e sulla sua «magica» capacità di dettare le agende di ricerca
delle scienze sociali in C. Pollitt e P. Hupe, Talking About Government, in
«Public Management Review», 5, XIII, 2011, pp. 641-658.
220
 J. Kane, Life After Political Death: The Fate of Leaders After Leav-
ing High Office, in J. Keane, H. Patapan e P. ‘t Hart (a cura di), Dispersed
Democratic Leadership. Origins, Dynamics, and Implications, Oxford, Oxford
University Press, 2009.
221
  R.G. Holcombe, Political Capitalism, cit., pp. X e 44-60.

94
il suo linguaggio, si tratta semplicemente di oligarchia e di cor-
ruzione sistemica222. Avendo fatto parecchia ricerca sul tema,
Pierre Lascoumes ha attribuito alle élites politiche ed econo-
miche una peculiare «economia morale», ovvero un insieme
di credenze collettive che le autorizza a ritenersi diverse dai
comuni mortali223. Esisterebbero, due sistemi morali: uno per
i piani alti e l’altro per i piani bassi della società.
Secondo Holcombe, sarebbe un capitalismo inedito, che lui
vorrebbe curare con meno Stato. In realtà, fin dalle origini dello
Stato-racket i ceti abbienti e gli interessi privati hanno condi-
zionato le autorità pubbliche, che li hanno sempre trattati con
più riguardo di chiunque altro. Ma potrebbe essere avvenuto
un salto evolutivo. Quanti esercitavano il monopolio statale – le
burocrazie pubbliche e le dirigenze elettive – avevano a lungo
salvaguardato dei margini di autonomia. Gli stessi marxisti hanno
alfine riconosciuto come lo Stato non potesse permettersi di
essere il comitato d’affari della borghesia. Secondo Poulantzas,
non poteva perché il suo compito era tenere assieme la società
capitalistica224. Da ultimo, però, l’ibridazione tra gli addetti allo
Stato e gli addetti al mercato è divenuta più intima e stringente225.
Finito il tempo dell’intervento pubblico e dell’economia «mista»,
non solo le élites circolano liberamente, ma le regole sono scritte
spesso congiuntamente, il diritto pubblico s’inchina al diritto
privato, ovvero agli accordi tra le parti, i criteri premiali in vigore
nella sfera privata hanno nidificato entro l’autorità pubblica.
Eppure, a dispetto di tanti impedimenti, restrizioni, opposi-
zioni e della sua decostruzione simbolica e organizzativa, lo Stato
persevera a fare lo Stato. La sua ibridazione con il mercato si è
rinnovata: lo vincola più che in passato. Ma, pur con qualche
fatica, lo Stato rimane tuttora, simbolicamente e materialmente,

222
  W. Streeck, Come finirà il capitalismo? Anatomia di un sistema in crisi
(2016), Milano, Meltemi, 2020, pp. 42-52.
223
  P. Lascoumes, L’économie morale des élites dirigeantes, Paris, Presses
de SciencesPo, 2022, p. 8. Il concetto di economia morale è stato elaborato
da E.P. Thompson, L’economia morale delle classi popolari inglesi del secolo
XVIII (1963), Milano, Et al., 2009.
224
  Per esempio, N. Poulantzas, Potere politico e classi sociali (1968), Roma,
Editori Riuniti, 1971.
225
  Uno studio di caso in A. Vauchez e P. France, The Neoliberal Repub-
lic. Corporate Lawyers, Statecraft, and the Making of Public-Private France,
Ithaca-London, Cornell University Press, 2020.

95
il locus fondamentale dell’ordine e dell’interesse generale. Per
quanto logore, le sue immagini maestose, i suoi riti solenni,
le grandi narrazioni ufficiali, suscitano ancora attenzione. Ad
espropriarlo – con sua piena consapevolezza – oltre al mercato
e alle istituzioni sovranazionali, sono state le istituzioni locali di
governo e la società civile. Ma lo Stato ha lunga esperienza di
reinvenzioni, che dipendono dalle fazioni che l’amministrano
e che se lo contendono. Per chi ne dubitasse, l’ha confermato
la vicenda del Covid-19. Dopo qualche decennio di riforme
orientate al laissez-faire, si è dimostrato la più efficace agenzia
di protezione e assicurazione collettiva.
Sono i parlamenti e i governi che hanno rivoluzionato le
relazioni industriali, che hanno consentito le rilocalizzazioni
produttive, revocato le politiche di piena occupazione, rimosso
le protezioni accordate al mondo del lavoro e hanno promosso
la crescita tramite le esportazioni. In conformità alle attese del
mercato, è grazie allo Stato che popolazione e territorio sono
divenuti beni da mettere a reddito. Né la finanziarizzazione, né
l’internazionalizzazione dell’economia sarebbero state possibili
in sua assenza226. Le stesse autorità non statali hanno bisogno
di qualche riconoscimento da parte dello Stato per operare227.
Tuttora le istituzioni pubbliche costituiscono un attore econo-
mico di prima grandezza. È lo Stato che presta la sua garanzia
per il debito beffardamente definito «sovrano» e che si ado-
pera per onorarlo. La spesa pubblica resta un motore troppo
potente perché il mercato vi rinunci. Dopo la grande ondata di
deregulation, marketization, commodification, oscilla ancora tra
il 40 e il 50 per cento del Pil228. È sempre lo Stato che modula
la fiscalità, in concorrenza con gli altri Stati.

226
 Sulla finanziarizzazione L. Gallino, Finanzcapitalismo: la civiltà del
denaro in crisi, Torino, Einaudi, 2011. Inoltre, M.R. Ferrarese, Promesse man-
cate. Dove ci ha portato il capitalismo finanziario, Bologna, Il Mulino, 2017.
227
  P. Genschel e B. Zangl, The Rise of Non-State Authority and the Recon-
figuration of the State, in D.S. King e P. Le Galés (a cura di), Reconfiguring
European States in Crisis, Oxford, Oxford University Press, 2017. Secondo
i due autori le organizzazioni internazionali dettano regole, ma difettano di
capacità operative, per contro gli attori privati transnazionali hanno capacità
operative, ma la legittimità delle regole secondo cui operano deve essere in
ultima istanza confermata dagli Stati.
228
  D.S. King e P. Le Galés, A Reconfigured State: European Policy States in a
Globalizing World, in Idd., Reconfiguring European States in Crisis, cit., pp. 7-8.

96
Basta una rapida ricognizione comparativa per scoprire
come gli Stati dispongano di margini, stretti, ma non strettis-
simi, per inasprire o alleviare l’imposizione, per concentrarla o
distribuirla su redditi da lavoro, patrimoni, profitti, consumi,
per privilegiare o penalizzare alcune categorie sociali, per of-
frire condizioni di favore alle imprese affinché trasferiscano le
loro attività produttive o finanziarie sul loro territorio. Anche
quando lascia gli addetti al capitalismo più liberi di agire, lo
Stato ha non poche possibilità di condurre una politica: per il
territorio, per l’ambiente, per l’istruzione, per la salute pubblica.
Ne conduce una anche per l’industria: gli aiuti che direttamen-
te e indirettamente lo Stato e i governi locali forniscono alle
imprese sono enormi, diretti, ma pure sotto forma di benefici
fiscali, di condizioni creditizie, d’interventi infrastrutturali, di
attività di ricerca, di ammortizzatori sociali e ancora. Varrebbe
la pena farne il conto e confrontarli con i profitti.
Sono le fazioni in carica dello Stato che hanno deciso la
privatizzazione di larghe porzioni dei pubblici servizi: credito,
sanità, assistenza, trasporti, energia, telecomunicazioni, istru-
zione, ricerca, patrimonio artistico e culturale, ordine pubbli-
co. Da esse il capitalismo occidentale, in decadenza nella sua
dimensione industriale, ha ricavato nuove opportunità d’inve-
stimento, solitamente a basso rischio e di sicura redditività. In
occasione della Grande crisi finanziaria del 2008 provocata dai
crediti subprime, è ancora lo Stato che ha soccorso le grandi
istituzioni bancarie: too big to fail.
C’è ancora bisogno dello Stato per governare l’istruzione.
La scuola liberale ottocentesca intendeva formare i cittadini,
per ricomporre l’eterogeneità della popolazione e renderla
deferente verso l’autorità. Lo Stato sociale voleva elevare il
livello culturale della popolazione per ridurre le disuguaglianze
e stimolare la mobilità sociale. Da ultimo, è lo Stato che ha
accettato di rimercificare l’istruzione, come pure la ricerca229, in
parte privatizzandole e comunque per metterle a disposizione
del mercato e omologarle a esso. È un destino comune agli

229
 M. Florio, La privatizzazione della conoscenza: tre proposte contro i
nuovi oligopoli, Roma-Bari, Laterza, 2021. Più in generale, cfr. A. Palumbo,
Knowledge as a Fictitious Commodity: A Polanyian Reading of the «Digital
Economy», in «International Journal of Political Theory», 1, IV, 2020, pp. 1-23.

97
addetti alle istituzioni pubbliche230: la responsabilità educativa
degli insegnanti si è convertita in disponibilità verso gli utenti e
in progressioni di carriera da monetizzare. Compito della scuola
è incrementare il capitale umano e, a questo scopo, gli istituti
scolastici sono tra loro in concorrenza e le attività formative si
misurano e certificano in «crediti». Sono stati rivisti i programmi
d’insegnamento in funzione del mercato del lavoro, esaltando
principi come merito, competitività, spirito imprenditoriale231.
Si cancellano la storia e la geografia e s’ingiunge di parlare
su scala planetaria la medesima lingua, l’inglese, a discapito
dell’assortimento e della ricchezza di significati – e opportu-
nità d’espressione e di pensiero – che ogni lingua porta seco.
E infine lo Stato seguita ad apporre il suo suggello definitivo:
il rilascio e il riconoscimento dei diplomi.
Lo Stato interventista redistribuiva. Le dottrine neoliberali
prescrivono uno Stato «regolatore»232. Non per questo meno
occupato: non eroga servizi, ma incentiva, indirizza, mobilita
risorse, controlla il rispetto delle regole e, senza dirlo, redistri-
buisce anch’esso, ma dal basso verso l’alto. Lo Stato, che dal
secondo dopoguerra aveva integrato il principio di libertà con
quello di uguaglianza, si è riconvertito alla cura degli indivi-
dui: a tutti vanno offerte uguali possibilità di competere. Ha
anche aggiornato in omaggio al mercato, che coordina anziché
comandare, i suoi «strumenti di governo»233. I più recenti sono
fondati sull’accordo, l’informazione, la comunicazione. La nor-
ma che sovrasta è un’anticaglia, trasformata in opportunità, che
ciascuno coglie come meglio gli conviene e meglio gli riesce.
Sono preferite le dichiarazioni di principio, i codici di condotta,
la light touch regulation. Ma lo Stato rende disponibile anche
una mole consistente di risorse, offerte a titolo di incentivi,

  F. Dubet, La préférence pour l’inégalité, cit., pp. 65-67.


230

  Sugli effetti della commodification of education, cfr. G. Standing, The


231

Precariat. The New Dangerous Class, London, Bloomsbury, 2011, pp. 67-73.
232
  A. La Spina e G. Majone, Lo Stato regolatore, Bologna, Il Mulino, 2000.
233
 P. Lascoumes, Gouverner par les instruments, in J. Lagroye (a cura
di), La politisation, Paris, Belin, 2003, pp. 387-401 e ancora: P. Lascoumes
e P. Le Galès (a cura di), Gouverner par les instruments, Paris, Presses de
SciencesPo, 2005; C. Halpern, P. Lascoumes e P. Le Galès (a cura di),
L’instrumentation de l’action publique: controverses, résistances, effets, Paris,
Presses de SciencesPo, 2014.

98
o messe a bando – si governa anche «per concorso»234 – in
funzione dei progetti predisposti, e co-finanziati, da attori
privati e pubblici.
Trattative, scambi, compromessi, bricolages, hanno sempre
fatto parte dell’azione di governo, ma sono divenuti la regola
ufficiale: è un continuo patteggiare con i privati per adottare e
implementare specifiche scelte di policy, per condurre i servizi,
per amministrare il territorio. Scavalcati l’esecutivo, le istituzioni
rappresentative e l’azione amministrativa, si chiama governance
una tecnica di governo condotta da luoghi intermedi e fondata
sul principio del coordinamento negoziato tra attori pubblici e
privati235. La retorica del dialogo e del partenariato è opposta
a quella dell’autorità, del conflitto e della politica partisan.
Specie le policies dedicate al territorio, sono ufficialmente ne-
goziate tra autorità pubbliche, organizzazioni imprenditoriali,
sindacati, società civile e stakeholders d’ogni genere236. Lo Stato
incoraggia, autorizza e alla bisogna provvede a rammendare.
Le ambizioni omologatrici del mercato non hanno fatto
grazia nemmeno alle pubbliche amministrazioni. I principi
weberiani – gerarchia, rispetto delle procedure, competenza
accertata per concorso, ethos del servizio pubblico, neutralità
politica – erano le armi con cui le fazioni dei funzionari pubblici
avevano progressivamente costituito il loro potere e l’avevano
più tardi salvaguardato dalle dirigenze elettive. Le accuse di
lentezza, inefficienza, opacità, attaccamento strumentale alle
procedure, autodifesa corporativa, sono antiche. Lo smisurato
accrescimento delle burocrazie pubbliche al tempo dello Stato
sociale ha aggravato gli inconvenienti. Ma non è vero che le
burocrazie fossero assolutamente autoreferenziali. Hanno ac-
cumulato grandi competenze e capacità tecniche per affrontare
i problemi della vita collettiva. Se usavano le procedure per
difendersi, spesse volte si mostravano sensibili alle pressioni

234
  Ad esempio, G. Pinson, Voracious Cities and Obstructing States?, in
S. Oosterlynck, L. Beeckmans, D. Bassens, B. Derudder e B. Segaert (a cura
di), The City as a Global Political Actor, London, Routledge, 2018, pp. 75-76.
235
 Vedi supra nt. 101.
236
  Per un’interpretazione generale, cfr. J.P. Gaudin, Gouverner par contrat.
L’action publique en question, Paris, Presses de SciencesPo, 1999; nonché L.
Bobbio, Produzione di politiche a mezzo di contratti nella pubblica ammini-
strazione italiana, in «Stato e mercato», 1, XX, 2000, pp. 111-141.

99
della politica elettiva, che sfruttava il potenziale elettorale dei
pubblici dipendenti e utilizzava l’impiego pubblico per soste-
nere l’occupazione. Il market turn ha creato condizioni per
disfare ogni vincolo.
È stata inventata ad hoc una nuova dottrina, o un insieme
di dottrine, e addirittura un movimento, non privo di tensioni
interne e in continuo aggiornamento: il New Public Management.
Andrebbe studiato nei corsi di teoria politica. Perché, pur
articolato in diversi filoni, è anche una compiuta e ambiziosa
teoria dello Stato e de optima re publica, che ha ispirato un
imponente flusso di riforme. Con la promessa dell’efficienza
e dell’economicità il principio dell’interesse privato è stato
reintrodotto entro la sfera del servizio pubblico da cui era stato
estromesso dacché era stata abolita la venalità degli uffici237.
Alle autorità di governo compete la selezione del manage-
ment, l’indicazione degli obiettivi, l’attribuzione del budget e,
tramite procedure apposite, la valutazione dei risultati. Nei fatti
intervengono criteri fiduciari – cioè politici – nel reclutamento
del management, che spesso proviene dal settore privato, elu-
dendo la regola aurea del concorso: il New Public Management
ha importato dall’America lo spoils system. Al contempo, una
volta contrattualizzati i rapporti d’impiego, le retribuzioni sono
divenute competitive con quelle del settore privato, commisurate
ai risultati conseguiti, tra cui rientra la riduzione dei costi, oltre
che accompagnate da sostanziosi premi di rendimento. Va da
sé che ai managers conviene trovare le condizioni lavorative e
retributive più vantaggiose, eventualmente nel settore privato.
A chi saranno più leali? Al settore pubblico entro cui operano,
alle dirigenze politiche che li nominano, confermano, premiano,

237
  Sulle origini del Npm, G. Gruening, Origin and Theoretical Basis of
New Public Management, in «International Public Management Journal», 1, IV,
2001, pp. 1-25. Una presentazione generale del movimento e dell’applicazione
delle sue idee in P. Bezes, Exploring the Legacies of New Public Management
in Europe, in E. Ongaro e S. van Thiel (a cura di), The Palgrave Handbook
of Public Administration and Management in Europe, Basingstoke, Palgrave
Macmillan, 2018. Dello stesso autore The Neo-Managerial Turn of Bureaucratic
States: More Steering, More Devolution, in D. King e P. Le Galès (a cura di),
Reconfiguring European States in Crisis, Oxford, Oxford University Press,
2017. Cfr. anche C. Pollitt e G. Bouckaert, Public Management Reform. A
Comparative Analysis. New Public Management, Governance, and the Neo-
Weberian State, New York, Oxford University Press, 2011.

100
o avranno più attenzione al privato, donde magari provengono
e dove potrebbero tornare, o ancora terranno d’occhio ammi-
nistrazioni pubbliche interessate ad accoglierli a condizioni più
favorevoli? Con quali conseguenze per la qualità dei servizi e
per la «terzietà» dello Stato?238
Nel New Public Management si possono identificare alcuni
principi fondamentali239. Oltre all’autonomizzazione e respon-
sabilizzazione del management, strategia, gestione e controllo
sono separati dalle funzioni d’implementazione ed esecuzione.
Le pubbliche amministrazioni vanno disarticolate in una costel-
lazione di strutture – la si chiama agencification – che, affrancate
dai vincoli del diritto amministrativo tradizionale, sono rette
da principi privatistici e concorrono a rimercificare i servizi
che lo Stato non ha potuto alienare. Attori pubblici e privati
sono infine messi in concorrenza per erogare i servizi. Mutuata
dalle imprese private, la cosiddetta «pianificazione strategica»
è correntemente esternalizzata a imprese private multinazionali
di consulenza, con cui i governi stipulano redditizi contratti. Il
New Public Management si è anche segnalato per la promessa di
alleggerire le procedure. Salvo offrire un’occasione paradossale
di rivincita alla gabbia d’acciaio weberiana.
Laddove non sia possibile istituire un regime di concor-
renza, si prova a simularla, adottando specifiche tecniche di
quantificazione, misurazione e valutazione. L’informatica ha
consentito l’implacabile uniformazione high-modernist dei co-
dici a barre, che accomunano esseri viventi e cose inanimate.
Tutto è misurabile e misurato e la quantità si fa qualità: per
l’attività di funzionari, magistrati, forze dell’ordine, insegnanti,
ricercatori, studenti, medici, imprese, artigiani, coltivatori, alle-
vatori, commercianti240. Tutti assediati dalla post-burocrazia di
moduli, certificazioni, rendicontazioni, valutazioni d’impatto,
risultati attesi, indicatori di performance, statistiche, standard,
benchmark, audit, in buona parte affidata a imprese private. Non

238
 Sugli inconvenienti provocati dal decadimento della professionalità
weberiana cfr. E.N. Suleiman, Dismantling Democratic States, Princeton,
Princeton University Press, 2003.
239
  P. Bezes, Exploring the Legacies..., cit.
240
  Sull’applicazione del Npm all’istruzione cfr. A. Palumbo e A. Scott,
Remaking Market Society: A Critique of Social Theory and Political Economy
in Neoliberal Times, New York, Routledge, 2018, pp. 108-139.

101
sono esentati i cittadini: sottoposti a un’estesissima azione di
sorveglianza, a loro è addossata una quota dei costi dei servizi:
assillandoli con una mole crescente di adempimenti, dichiara-
zioni, certificazioni, autorizzazioni, quando non s’imbattono
nei labirinti di un risponditore automatico interattivo. Anche
questi sono modi per risparmiare e tecniche di governo241.
Ciò malgrado, la domanda di Stato non decade. Ed è a ben
vedere elevata anche l’offerta. C’è finanche lo «Stato moralizza-
tore», che vieta il fumo, contrasta l’obesità, proibisce o prescrive
simboli religiosi, persegue il negazionismo e le nostalgie fasciste,
presidia la frontiera che separa la vita dalla morte: chissà che
in questo modo non gli riesca di rinverdire la sua legittimità242.
Con qualche altro paradosso, come la convivenza tra lo Stato
che riconosce pubblicamente il gioco d’azzardo e che grazie
a esso finanzia il restauro di monumenti e opere d’arte. Si è
anche rafforzata l’azione coercitiva. La proprietà privata va
tutelata e l’ordine pubblico va mantenuto: alcuni servizi di
sicurezza, a volte anche le carceri, sono stati privatizzati. Ma
occorrono ancora norme dettate dallo Stato per identificare i
reati, perseguirli e sanzionarli. Lo Stato è l’unica istituzione che
possa legittimamente restringere le libertà personali.
L’estrema rivalsa dello Stato è la reviviscenza dell’armamentario
simbolico della nazione. Le cui immagini si erano appannate
nel secondo dopoguerra. La nazione però è «endemica»: è
stata oggetto di continua manutenzione, anche non visibile, e
gli individui naturaliter vi si pensano e situano243. Da qualche
tempo, si è tornati a eccitare il sentimento nazionale. La maggior
novità nelle contese politico-elettorali di fine millennio sono i
partiti di estrema destra, denominati populisti, che hanno butta-
to benzina sulla fiamma che languiva dell’identità nazionale ed
etnica e hanno contagiato le altre parti politiche: curiosamente
al loro nazionalismo si è dato il nome di sovranismo244.

241
  B. Hibou, La bureaucratisation du monde à l’ère néolibérale, cit.
242
  C. Groulier (a cura di), L’État moralisateur: regards interdisciplinaires
sur les liens contemporains entre la morale et l’action publique, Paris, Mare
& Martin, 2014.
243
  M. Billig, Nazionalismo banale (1995), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015.
244
  Fuori d’Italia ha più fortuna l’espressione nativismo: cfr. H.-G. Betz,
Facets of Nativism: A Heuristic Exploration, in «Patterns of Prejudice», 2,
LIII, 2019, pp. 111-135.

102
I tempi si prestano. Politica ed economia sono interdipen-
denti. In tempi di crisi economica, il nazionalismo è un buon
diversivo. La Russia ci prova da un ventennio. L’aggressione
perpetrata contro l’Ucraina, la guerra sulla porta di casa, hanno
alimentato anche in Occidente un nazionalismo di ritorno. An-
che entro le democrazie d’Occidente il nazionalismo potrebbe
divenire un diversivo per destreggiarsi tra le sfide del pluralismo
e della decadenza economica. E un modo per riscoprire lo Stato
militare. Non mancano altri buoni motivi: la catastrofe climatica,
le epidemie, il ritorno del protezionismo, i flussi migratori245.
Tutto è parte del gioco. Se lo Stato è cambiato parecchio
a cavallo dei due millenni, l’ultimo cambiamento è coerente
con quanto succede da secoli. È cambiato il mix di fazioni che
lo conducono, insieme ai suoi rapporti con il mercato e i suoi
addetti. Si sono aggiornati anche i suoi critici e i suoi opposi-
tori. Molte opposizioni si sono frammentate, clandestinizzate
e indebolite. I caotici flussi migratori verso l’Occidente sono
anch’essi una forma molto insidiosa di ribellione. Innumere-
voli vittime mietono la guerra, il terrorismo, l’insicurezza, la
desertificazione, la carestia, il land grabbing. Le vittime, quan-
do possono, si ribellano ed esportano le loro sofferenze. E il
disordine rimbalza verso l’emisfero settentrionale, ove assume
le minacciose fattezze del nazionalismo reazionario.
Il disordine potrebbe essere pure scappato di mano a chi
al momento impone la propria idea di ordine, che si è forse
convinto di poter governare il disordine tramite il disordine.
Non si sa. Le esperienze del passato inducono comunque a
pensare che lo Stato è sempre in costruzione e che nuovi cam-
biamenti sono promessi. Non sappiamo quali, come e quando,
e non è nemmeno escluso che s’instauri un altro ordine, sempre
parziale e precario, ma più generoso di quello attuale verso la
gran parte dei sottoposti allo Stato. Non è neanche scritto che
lo Stato duri all’infinito246. Uno dei suoi motivi di successo è la
difficoltà di pensare un mondo senza Stato. Ma giunge sempre
il momento in cui si pensa l’impensabile.

245
  P. Gerbaudo, Controllare e proteggere. Il ritorno dello Stato, Milano,
Nottetempo, 2022.
246
  Secondo M. Savage, l’imponente incremento delle disuguaglianze sta
conducendo a una regressione dagli Stati agli imperi: cfr. The Return of
Inequality. Social Change and the Weight of the Past, Cambridge, Harvard
University Press, 2021.

103
capitolo secondo

RAPPRESENTANZA

1. Due teorie sulla rappresentanza

Il 5 maggio 1789 a Versailles, al cospetto di Luigi XVI e


Maria Antonietta, nella sala dei Tre ordini, ebbe luogo la prima
solenne riunione degli Stati generali. Come non avveniva dal
lontano 1614, la Francia si rappresentava al suo sovrano e a se
stessa. Schierati in tre spazi diversi c’erano il clero, l’aristocrazia
e il Terzo stato. Erano tre corpi intermedi, riconosciuti come
costitutivi del regno, che l’autorità regia, giunte allo stremo le
pubbliche finanze, aveva convocato per decidere dei destini
del paese.
La prima convocazione degli Stati generali risaliva al 1302.
Messi a tacere, senza abolirli, avevano seguitato a riunirsi gli
Stati provinciali. È la conferma di come il monopolio statale
fosse stato istituito dalla monarchia al prezzo di una compli-
cata sequenza di conflitti e transazioni, volti a governare la
resistenza delle altre autorità insistenti sul territorio. Molte
furono soppresse. A quelle che non fu possibile sopprimere
fu data voce. Tramite la rappresentanza «per ceti»1, il sovrano
raggruppava, semplificava, riordinava, regolava il disordine
dei poteri feudali, ecclesiastici, cittadini. Era una tecnica di
dominio fondata sull’inclusione2: in virtù della quale ascoltava
le esigenze dei propri sudditi, mediava i conflitti con loro e
tra loro e otteneva «consiglio e aiuto». L’aiuto aveva carattere
eminentemente fiscale: per estrarre risorse dai propri sottoposti,

1
  Sui ceti è classico O. Hintze, Tipologia delle costituzioni cetuali in occi-
dente (1929), trad. it. nella raccolta curata da G. D’Agostino, Le istituzioni
parlamentari nell’Ancien Régime, Napoli, Guida, 1980.
2
  Sulla vocazione inclusiva della rappresentanza S. Hayat, La représentation
inclusive, in «Raisons politiques», 50, 2013, pp. 115-135.

105
il sovrano doveva negoziare, riconoscendoli tacitamente come
titolari di una quota di potere. Forti abbastanza da poterne
fare a meno, i sovrani francesi avevano cessato di convocare
gli Stati generali. Li convocarono nuovamente quando la crisi
della monarchia divenne gravissima e già in Inghilterra e in
America era stata inventata la rappresentanza politica moderna.
In Inghilterra qualche parvenza d’incrostazioni feudali ha
resistito. Alcune durano ancora. In Francia l’aggiornamento fu
netto. Cancellati i ceti, la rappresentanza politica avrebbe d’ora
in poi rappresentato un corpo collettivo unitario: il popolo o la
nazione. È ovvio che chi aveva in mente l’autogoverno rimase
deluso. La critica più nota e corrosiva della rappresentanza politica
è quella formulata da Rousseau guardando proprio all’Inghilterra:
«il popolo inglese, sentenziava, ritiene di esser libero: si sbaglia
di molto; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parla-
mento. Appena questi sono eletti, esso è schiavo, non è nulla»3.
La pratica della rappresentanza politica non ha sofferto più
di tanto per una simile critica. Solo episodicamente gli alfieri di
altre tecniche di governo hanno trovato qualche seguito. Non
è rimasta mai disarmata nemmeno la sua teoria, che possiamo
definire classica. Forte per prima cosa degli ostacoli pratici che
si oppongono alla piena attuazione della sovranità popolare:
in una società minimamente complessa, è inevitabile che una
minoranza governi e i più siano governati. La teoria classica non
fa neanche fatica ad ammettere che le elezioni sono una mani-
festazione di volontà e di potere assai modesta e che gli elettori
esprimono unicamente un mandato molto vago: tracciano un
segno – o scrivono un nome – sulla scheda elettorale. D’altra
parte, dal punto di vista del governo della vita collettiva, non
mancano gli argomenti: quali sono le conoscenze e le opinioni
dell’elettore medio sull’andamento della cosa pubblica? Anche
il più informato e istruito potrà mai abbracciare la totalità dei
temi trattati dall’azione di rappresentanza e di governo? Chi è
in grado di conoscere i vantaggi, i costi e le implicazioni, anche
di lungo periodo, di una scelta di policy o di un’altra? Sono in
imbarazzo i governanti, figurarsi gli elettori.

3
  J.-J. Rousseau, Il contratto sociale (1762), III, Milano, Rizzoli, 1974, 15.
Ma pure Tocqueville giungeva a conclusioni analoghe: cfr. La democrazia in
America, t. II, Torino, Utet, 1968, p. 813.

106
E com’è invece possibile attribuire a una sommatoria di
gesti individuali, sorretti da preferenze eterogenee e di varia
intensità, la portata di una volontà collettiva?4 La rappresen-
tanza, conclude un autorevole esponente della teoria classica
come Hans Kelsen5, è una «finzione». La quale, tuttavia, non
manca di pregi. Per Hannah F. Pitkin, cui dobbiamo il con-
tributo analitico forse più pregevole apparso nella seconda
metà del Novecento, la rappresentanza è congegnata in modo
tale da sollecitare i rappresentanti ad «agire nell’interesse dei
rappresentati in un modo che sia reattivo (sensibile) nei loro
confronti»6. Per rappresentanti e rappresentati le consultazioni
elettorali sono un’occasione di ascolto reciproco e concedono
perfino ai secondi una dose, minima, ma non disprezzabile,
di autogoverno7. Non solo: la contesa per la rappresentanza
aiuta a risolvere pure i conflitti tra le molteplici componenti
del pluralismo e concorre a depotenziare eventuali collisioni.
Tradurre le diversità politiche, territoriali, sociali, religiose,
linguistiche nel linguaggio della rappresentanza è un contributo
alla pacificazione delle contese di potere tra loro. Se le attese
degli elettori e i diversi valori e interessi irrompessero per
come sono nella sfera politica, ogni sintesi sarebbe preclusa8.
Infine: le elezioni sono pure un grande rito entro cui i cittadini
si ritrovano insieme: sebbene da qualche tempo il rito appaia
alquanto stanco, anche la stanchezza significa qualcosa.

4
  Si sono dedicati a smentire puntualmente e sulla base di dati di ricerca
ogni illusione sulla competenza degli elettori C.H. Achen e L.M. Bartels, in
Democracy for Realists. Why Elections Do Not Produce Responsible Govern-
ment, Princeton N.J., Princeton University Press, 2017. Utilizza altro genere
di dati D. Gaxie, Cognitions, auto-habilitation et pouvoirs des «citoyens», in
«Revue française de science politique», 6, LVII, 2007, pp. 737-757.
5
  Così H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, in Id., I fondamenti
della democrazia e altri saggi, Bologna, Il Mulino, 1970, pp. 22-23.
6
  H.F. Pitkin, Il concetto di rappresentanza (1967), Soveria Mannelli, Rub-
bettino, 2017, p. 309. Con la parola «reattivo» si traduce l’inglese responsive.
Da ultimo sul libro di Pitkin cfr. A. Campati, Democrazia e rappresentanza
politica. Un’alleanza sempre più incerta?, in «Teoria politica», Annali VIII,
2018, pp. 385-400.
7
  N. Urbinati. Representative Democracy Principles and Genealogy, Chi-
cago, The University of Chicago Press, 2006, p. 45: sarebbe una delle due
funzioni fondamentali della rappresentanza, l’altra è resistere all’esclusione.
8
 G. Sartori, Democrazia e definizioni, Bologna, Il Mulino, 1958, pp.
159-160.

107
Di persuadere i critici radicali, ovviamente, non c’è verso.
Ma la teoria classica ha il limite di non chiarire appieno in
che modo la rappresentanza si costituisca e come in concreto
funzioni il rapporto tra rappresentato e rappresentante. È un
interrogativo cui prova a dare risposta la teoria costruttivista
della rappresentanza9, cui ha offerto di recente un importante
contributo Michael Saward10. Assumendo il punto di vista dei
critici, Saward nega l’idea di un mandato che procede dal basso
verso l’alto e mette al suo posto un representative claim: ovvero
una rivendicazione avanzata pubblicamente da parte di qualcuno
di parlare per conto di qualcun altro. È il pretendente alla rap-
presentanza che costituisce il rappresentato. A maggior ragione
quando il rappresentato è un corpo collettivo. L’argomento si
ritrova già in Hobbes, quando attribuisce al sovrano un ruolo
di rappresentanza11. Saward ripropone, approfondisce e osserva
un più realistico moto discendente. È un moto che si svolge
pubblicamente: è entro la contesa pacifica per la rappresen-
tanza, avviata dai moderni regimi rappresentativi, che i claims
assumono consistenza. L’aspetto democraticamente scomodo
sta nella selettività dell’offerta di claims. Contro cittadini, strati,
gruppi, temi, che trovano un portavoce, ve ne sono che non ne
trovano. La sfida dal punto di vista normativo è mettere tutti i
rappresentati potenziali in condizione di farsi valere.
L’idea della rappresentanza come offerta, anziché come
domanda, e come relazione che si stabilisce dall’alto verso
il basso, è palesemente elitista. E infatti l’avevano anticipata
anche due elitisti – e conservatori senza tentennamenti – come
Gaetano Mosca e Joseph A. Schumpeter. A fine Ottocento,
l’idea di Mosca era racchiusa in questa frase: «Chiunque abbia
assistito ad una elezione sa benissimo che non sono gli elettori
che eleggono il Deputato, ma ordinariamente è il Deputato che
si fa eleggere dagli elettori»12. Mezzo secolo dopo, Schumpeter

9
  Sull’approccio costruttivista cfr. V. Dutoya e S. Hayat, Prétendre représen-
ter. La construction sociale de la représentation politique, in «Revue française
de science politique», 1, LXVI, 2016, pp. 7-25.
10
 M. Saward, The Representative Claim, Oxford, Oxford University
Press, 2010.
11
  T. Hobbes, Il Leviatano, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 144-145.
12
  G. Mosca, Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare. Studii
storici e sociali, Palermo, Loescher, 1884, p. 295.

108
riterrà insensato pensare che gli elettori possano avere qual-
che volontà ed esprimerla. Tanto meno esistono «autentiche»
volizioni di gruppo: «anche forti e definite, rimangono latenti,
spesso per decenni, finché qualche leader le rende attuali, tra-
sformandole in strumenti di azione politica»13.
Tra i contributi recenti alla sociologia costruttivista della
rappresentanza è altresì da annoverare quello di Pierre Bourdieu,
che pertanto si schiera tra i critici radicali della rappresentanza14.
La rivendicazione di rappresentanza fa per lui tutt’uno con
un’attività d’imposizione e di dominio. Non c’è rappresentato
che preceda il rappresentante, né esiste volontà collettiva che
non sia messa in forma e costituita dalla rappresentanza. Sono i
pretendenti alla rappresentanza che a un tempo si costituiscono
quali rappresentanti e che attribuiscono – o impongono – ai
rappresentati, da essi denominati e costituiti in corpo collettivo,
una qualche volontà, a iniziare dal proprio riconoscimento come
rappresentanti. È un’operazione che non si restringe all’azione
performativa svolta dalla rivendicazione pubblica, ma che richie-
de altri atti, non linguistici, ma anche organizzativi e non solo.
La revisione costruttivista – e sociologica – estende l’applica-
bilità del termine e del concetto oltre i confini della sfera politica.
È una prospettiva per la quale la vita collettiva è affollata di por-
tavoce, che parlano in nome di qualcun altro. Bourdieu cita tra
gli altri la Chiesa15. Avviata da uno dei tanti movimenti religiosi
apparsi nel primo secolo, è una straordinaria intrapresa entro cui
una macchina organizzativa e un corpo di addetti radunano il
popolo dei fedeli tramite idee, simboli, disegni di salvezza e ne
assumono la rappresentanza per farsi spazio entro la vita colletti-
va. Tutto fuorché una finzione. Non troppo diversamente hanno

13
  J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, Milano, Comunità,
1954, p. 258. Non troppo diversamente un altro studioso proveniente dall’A-
merica E.E. Schattschneider parlava di «mobilitazione del pregiudizio»: cfr.
The Semi-Sovereign People, New York, Holt, Rinehart & Winston, 1960, p. 71.
14
  P. Bourdieu, La représentation politique e Délégation et fétichisme poli-
tique, in Id., Langage et pouvoir symbolique, Paris, Fayard, 2001.
15
  P. Bourdieu, Délégation et fétichisme politique, cit. Bourdieu cita anche
le classi sociali: cfr. Espace social et genèse des classes, in Id., Langage et
pouvoir symbolique, cit. Una ricostruzione minuziosa della costruzione di un
gruppo sociale attraverso una sedimentazione di attività di rappresentazione
e di rappresentanza in L. Boltanski, Les cadres. La formation d’un groupe
social, Paris, Minuit, 1982.

109
operato gli addetti allo Stato. I quali, tracciandone i confini, si
sono costituiti come portavoce della popolazione racchiusa entro
di essi, adoperandosi del pari tramite la lingua, la scuola, la co-
scrizione e, ovviamente, le istituzioni della rappresentanza, a farne
un corpo collettivo, la nazione, dotato di una sua soggettività.
La rappresentanza politica elettiva è così una species di
un genus più ampio. Di cui i moderni regimi rappresentativi
si sono appropriati, dando la stura a una lunga sequenza di
azioni rivendicative e costitutive: condotte entro le istituzioni
definite rappresentative e al di fuori di esse. In questo modo la
rappresentanza è diventata la posta fondamentale della contesa
per il monopolio statale: quella che consente di accedere alle
cariche in cui si deposita simbolicamente la volontà popolare.
Le fazioni che si contendono pacificamente il monopolio, vuoi
che condividano l’ordine sociale esistente, vuoi che intendano
rinnovarlo, sono sospinte a lottare per la rappresentanza avan-
zando rivendicazioni in concorrenza.
Il compito dei pretendenti alla rappresentanza non è mai
stato agevole. Non lo era per i notabili, che pure, grazie alla
ristrettezza del suffragio, intrattenevano col loro seguito una
relazione ravvicinata: forti della dotazione di autorità sociale e di
relazioni personali di cui disponevano, bastava loro un bricolage
artigianale, ma pur sempre laborioso. La contesa si è animata
via via, in corrispondenza con le estensioni del suffragio, che
allungavano la distanza tra pretendenti ed elettori. Sorgeranno
allora vere e proprie «imprese» di rappresentanza: vale a dire i
partiti. I quali, per raggruppare su scala ben più vasta il proprio
seguito, si sono avvalsi delle tecniche di comunicazione disponi-
bili sul momento: la stampa da una parte, le ferrovie dall’altra16.
Quella svolta dai partiti è stata così per lungo tempo un’azione
di raggruppamento duratura: hanno «fidelizzato» il loro seguito
denominandolo, classificandolo, circoscrivendolo, organizzandolo,
rendendolo riconoscibile anche a se stesso. Cioè trasformando
stabilmente una moltitudine d’individui in un corpo collettivo
unificato nel tempo da valori, interessi, modi di pensare, aspi-
razioni, in contrasto con altri corpi collettivi, e con le gerarchie
del potere. Oltre che da esibire in occasione delle elezioni.

16
  Sui partiti come imprese, M. Offerlé, Les partis politiques, Paris, Puf,
2002 e D. Gaxie, La démocratie représentative, Paris, Montchréstien, 2004.

110
La lotta per la rappresentanza e quanto siamo soliti inten-
dere come politica sono la stessa cosa: entro di essa il consenso
manifestato e certificato ciclicamente mediante le elezioni è il
metro per misurarne il valore di pretendenti e concorrenti. Presto
però alle elezioni si affiancheranno altre occasioni per esibire e
misurare un seguito, produttive di effetti politici. La lotta per
la rappresentanza allargherà gli spazi della contesa politica e
susciterà nuove opportunità di misurazione. Al conteggio dei
voti si affiancherà, e spesso si opporrà, il conteggio degli iscritti
ai partiti, ai sindacati, alle associazioni, quello dei convenuti alle
manifestazioni di piazza e dei firmatari delle petizioni, la diffu-
sione di alcuni organi di stampa. I tempi cambiano: da ultimo
i media si sono messi di mezzo e hanno cambiato alquanto le
regole. Se una manifestazione o uno sciopero non ottengono la
loro attenzione, i numeri rischiano di non valere. Si fa politica
anche esibendo i dati di sondaggio e perfino i like sui social.
È una lotta pacifica, quella per la rappresentanza, ma sempre
di lotta si tratta e anche senza quartiere. Ne fa parte la contesa
sulla sua natura. Alla teoria della rappresentanza sono assegnate
parecchie parti in commedia: è un’arma, in quanto le si chiede
di stabilire il «vero» significato della rappresentanza. È una
posta, perché le parti politiche se la contendono. È un attore,
in quanto i teorici, benché a tutela della propria autorevolezza
lo neghino, non vivono in un empireo politicamente sterilizzato,
ma svolgono un ruolo politico.
Un’altra posta fondamentale della contesa è il suo svol-
gimento. Le elezioni prevedono un’esibizione certificata del
seguito dei rappresentanti, ma non è raro il caso che si sollevino
obiezioni sulla correttezza e moralità dell’azione promozionale
svolta dai concorrenti, sulla regolarità delle operazioni di voto,
finanche sull’attendibilità dei numeri. Quante volte si è detto
che gli elettori sono stati costretti con la violenza, sono stati
manipolati dai parroci, dagli imprenditori, dal crimine organiz-
zato, da pratiche clientelari e assistenziali? Ultimamente, i grandi
manipolatori sarebbero i social. Le accuse di brogli in vario
modo perpetrati sono tutt’altro che l’eccezione, e alla disputa
non sfuggono nemmeno le regole, spesso ritenute inappropria-
te. Infine, la contesa politica, giornalistica e accademica  – gli
studi elettorali sono molto fiorenti – sul significato dei risultati
è accanitissima: quale volontà ha espresso realmente il popolo

111
sovrano? Come si sono pronunciati gli elettori? Chi è stato pre-
miato e chi punito? L’aritmetica dei dati non è affatto scontata.

2. Costituire un seguito

A seconda delle circostanze e delle armi di cui i preten-


denti dispongono, le relazioni stabilite con gli elettori hanno
consistenza e dimensioni variabili. L’azione di raggruppamento
può produrre effetti durevoli e temporanei: può suscitare con-
stituencies ampie e circoscritte, può ravvicinare socialmente e
culturalmente gli elettori e intrecciare tra loro rapporti solidali
e può non farlo. Vi sono raggruppamenti già predisposti in sede
prepolitica e altri istituiti ex novo. Alcune constituencies col
tempo si emancipano da chi le ha inventate, vivono di vita pro-
pria, si autorganizzano e magari si offrono a nuovi pretendenti.
La borghesia ha fatto il suo ingresso nella contesa per il
potere grazie a un’azione di rappresentanza prepolitica prece-
dente perfino l’avvio dei regimi rappresentativi. Svolta da chi
l’ha pensata, le ha dato un nome, una voce, una fisionomia
collettiva. La rappresentanza politica si è successivamente ap-
propriata del lavoro compiuto da imprenditori, professionisti,
letterati, uomini di scienza, economisti e quant’altri. Hanno
contribuito pure i suoi avversari: quanto è in debito la sua
autorappresentazione e la sua rappresentanza con la teoria
della lotta di classe? Pensandosi come gruppo sociale, la bor-
ghesia ha man mano maturato altri strumenti per riprodursi,
indipendentemente dalla rappresentanza politica: simboli,
consuetudini, linguaggi, costumi, cultura, scuole, università,
circoli, associazioni, luoghi in cui abitare e altro ancora. È un
buon esempio di un raggruppamento che si è emancipato dai
suoi portavoce iniziali e dai cui ranghi sono fuorusciti nuovi
pretendenti a rappresentarlo.
Non ha limiti la gamma dei claims che i rappresentanti
attribuiscono ai rappresentati. Al tempo stesso, l’offerta che
costituisce la domanda – è l’idea di Bourdieu – è sia una
forma di dominio, sia un’azione di governo: anche quando
suscita opposizioni e resistenze. Il rappresentante impone e
governa nel momento in cui persuade i suoi potenziali rap-
presentati della loro comune e peculiare condizione e chiede

112
di essere riconosciuto quale loro portavoce. È nondimeno da
escludere che la rappresentanza sia mero arbitrio, disancora-
to dal mondo reale e da ciò che vi accade. Detto altrimenti:
se consideriamo l’offerta di rappresentanza un «testo», esso
presuppone dei «pre-testi». La vita associata ne offre in ab-
bondanza: è disseminata di asimmetrie, diversità, contrasti,
nonché d’interessi e valori eterogenei, che sono all’incirca la
stessa cosa. Non sempre gli esseri umani sono consapevoli di
come la propria condizione sia comune con quella di altri e
in contrasto con quella di altri ancora. Non necessariamente
la percepiscono come ingiusta17. Anche la condizione dei ceti
abbienti, adeguatamente elaborata, può essere pre-testo della
rappresentanza: la si può anche percepire come ingiusta e non
adeguatamente riconosciuta18.
La qualità, morale e politica, dei pre-testi è tema di giudizio
politico e non è qui in discussione. Può essere oggetto di analisi
la loro consistenza e la loro disponibilità a essere utilizzati. Il
successo di un’impresa di rappresentanza dipende dalla sua
capacità di reperire i pre-testi, d’intenderne le potenzialità, di
elaborarli adeguatamente, di renderli evidenti alla constituency
che vuole raggruppare.
Ancora, non c’è rappresentanza che si sottragga alla regola
del rispecchiamento e della differenziazione: nessuno si pensa,
è pensabile ed è pensato se non in relazione all’altro. La rap-
presentanza raggruppa tracciando confini, dividendo e perciò
opponendo. I pretendenti alla rappresentanza predispongono
i loro testi entro un «con-testo» storicamente costituito, di
cui fanno parte le imprese di rappresentanza concorrenti, le
constituencies da esse assemblate, il monopolio statale e chi
lo regge, le confessioni religiose, i media, le imprese, le bu-
rocrazie pubbliche, la magistratura, gli intellettuali, le scienze
sociali, la letteratura, il cinema, perfino le statistiche. Lungi
dal restringersi ai rapporti tra rappresentanti e rappresentati,
l’azione di rappresentanza si svolge entro un mondo molto più
vasto e complicato.
17
  È l’interrogativo fondamentale posto da B. Moore jr., Le basi sociali
dell’obbedienza e della rivolta (1978), Milano, Comunità, 1983.
18
  Interessanti riflessioni, fondate su dati di ricerca, in É. Agrikoliansky e
A. Collovald, Mobilisations conservatrices: comment les dominants contestent?,
in «Politix», 2, XXVII, 2014, pp. 7-29.

113
La rappresentanza, insiste Dario Castiglione, non è riducibile
al dualismo tra elettori ed eletti e alle scadenze elettorali. La
contesa per la rappresentanza ha suscitato un con-testo, che è
sociale e politico, intessuto di sollecitazioni continue, maturate
entro la sfera pubblica, attraverso la concorrenza tra le forze
politiche, l’azione dei media, quella di chi professionalmente
osserva la vita associata, entro la società civile e le forme pre-
politiche di rappresentanza, i sindacati, i gruppi d’interesse,
i movimenti collettivi, la stessa partecipazione dei cittadini.
Non tutti dispongono di uguali capacità di sollecitazione, ma
la coralità del con-testo, a pensarci, concorre ad attribuire alla
rappresentanza un valore democratico che il dualismo tra eletti
ed elettori tende a contenere19.
Nella prima stagione della rappresentanza politica i notabili
si servivano dei pre-testi reperibili nei luoghi in cui esercitavano
la loro autorità sociale. In concorrenza con altri notabili, dispute
locali e identità municipali erano ricomposte in rivendicazioni
da sfruttare in occasione delle elezioni. Ben più ampio respiro
avrà l’azione di rappresentanza allorché ha preso a utilizzare
come pre-testi le lacerazioni, gli effetti di sradicamento, le oppo-
sizioni suscitate dall’urbanesimo e dall’industrializzazione. Sono
stati questi i pre-testi che hanno consentito ai partiti socialisti
d’Europa, e più tardi a quelli comunisti, di scrivere, in un con-
testo nient’affatto amichevole, spesso apertamente ostile, il testo
della «classe» operaia, situandola sulle mappe della politica,
costituendosi al contempo come suoi portavoce. Ne è derivato
un ulteriore effetto di con-testo importantissimo: la vita collettiva
è stata da allora e per lungo tratto pensata e rappresentata come
suddivisa in classi. I partiti moderati e confessionali si dicevano
interclassisti: le classi c’erano anche per loro, ma la loro offerta
di rappresentanza le trattava come interdipendenti e compatibili.
Il nesso tra pre-testi, testi e con-testi non è lineare. Anche i
pre-testi più semplici sono materia viva, sono fatti di esseri umani,
con esperienze, bisogni materiali e non, con le loro immagini del
mondo, che nutrono sentimenti morali e idee di giustizia, magari
elementari, che fanno valere come possono, in condizioni avverse

19
  D. Castiglione, The System of Democratic Representation and Its Nor-
mative Principles, in M. Cotta e F. Russo (a cura di), Research Handbook on
Political Representation, Cheltenham, Edward Elgar, 2020.

114
e che la rappresentanza, condotta in loro nome, solitamente rie-
labora. Può farlo superficialmente, può farlo intensamente, può
essere creativa in molti modi. Se nel costituire corpi collettivi
la loro enunciazione fa da innesco, l’attività organizzativa non
solo è condizione di persistenza, ma è pure una forma di society
building. Gli elettori a loro volta recepiscono e rielaborano anche
loro. La sociologia elettorale ha più volte mostrato come non
siano ricettori passivi: si può dubitare della loro competenza, ma
si parlano e si ascoltano tra loro, le scelte di voto sono un fatto
sociale, dove contano la posizione sociale di ciascuno, ma pure
le relazioni familiari, amicali, di vicinato, l’occupazione e le rela-
zioni stabilite sui luoghi di lavoro, l’appartenenza e la frequenza
religiosa e ancora altro20. Senza tralasciare la pluralità dei claims e
le sollecitazioni diffuse di rappresentanza, che non si esauriscono
nelle contese elettorali. Solo di recente i media sono utilizzati per
individualizzare gli elettori, ma è da vedere quanto la ricezione e
l’accoglimento dell’offerta siano davvero individualizzati.
Una mappa dei pre-testi e delle imprese di rappresentanza
è stata predisposta da Seymour M. Lipset e Stein Rokkan, i
quali, pur riconoscendo la preminenza del conflitto di classe,
hanno ricostruito una trama più complessa di cleavages culturali,
confessionali, territoriali, scavati entro la storia europea degli
ultimi due secoli da due grandi giunture critiche: la rivoluzione
nazionale e la rivoluzione industriale21. Per Lipset e Rokkan
i cleavages hanno preceduto la rappresentanza condotta dai
partiti. Nella prospettiva dell’offerta, viceversa, è per l’appunto
la rappresentanza, che non è solo politica e partitica, che li ha
costituiti. Ovvero ha usato i pre-testi suscitati dalle giunture
critiche per predisporre i testi, i claims, che ha accompagnato
con un’attività organizzativa, preoccupata anche delle offerte
di rappresentanza concorrenti22.

20
  Una messa a punto che adotta anche una prospettiva storica in P. Lehin-
gue, Le vote. Approches sociologiques de l’institution et des comportements
électoraux, Paris, La Découverte, 2011.
21
  S.M. Lipset e S. Rokkan, Cleavage Structures, Party Systems and Voter
Alignments. An Introduction, in Idd. (a cura di), Party Systems and Voter
Alignments, New York, Free Press, 1967. Nel loro catalogo quattro sono i
cleavages fondamentali: Stato/Chiesa, città/campagna, centro/periferia, datori
di lavoro/prestatori d’opera.
22
 Sulla decisività della politicizzazione dei cleavages, G. Sartori, The
Sociology of Parties: A Critical Review, in P. Mair (a cura di), The West Eu-

115
Sarebbe appassionante indagare le imprese di rappresen-
tanza avviate e non riuscite, o riuscite solo a metà, che non
si sono trasformate in rappresentanza certificata dalla contesa
elettorale, ma hanno tuttavia influenzato le imprese di successo.
Nell’ultimo tratto del XX secolo è anche accaduto che alcune
new entries siano tornate a elaborare claims e testi per qualche
tempo occultati o repressi: sono le imprese di rappresentanza
subnazionali o le formazioni d’estrema destra accomunate
sotto l’etichetta di populismo, che hanno riproposto il tema
del nazionalismo. Toccherà riparlarne.
Ad avviare lo sfruttamento dei pre-testi sono state talvolta
aggregazioni e forme di autodifesa, e di autorappresentanza, i
cui promotori si sono subito confusi nel seguito che avevano
suscitato e di cui s’è persa, o quasi, memoria. Le esperienze di
solidarietà e di resistenza collettiva a corto raggio, entro i ceti
inferiori, vantano una storia lunghissima. Il movimento socia-
lista ha sfruttato in molti casi come pre-testi le mobilitazioni
locali, autonomamente condotte dai lavoratori, ribellandosi
alla loro condizione. Sono quelle cui si è dedicata la ricerca di
E.P. Thompson, scavando indietro, fino al tardo XVIII secolo,
e prestando specifica attenzione al modo autonomo di pensare
l’economia e la società degli strati popolari e ai criteri morali
che ispiravano le loro pratiche di autodifesa, anche illegali23.
Dopo le guerre napoleoniche, la grande mobilitazione cartista
esercitò una formidabile e prolungata pressione policentrica,
rappresasi in un movimento di dimensioni grandiose. Memore
delle tradizioni di autodifesa del corporativismo artigiano e
operaio, per oltre un decennio il movimento rappresentò e
coagulò migliaia e migliaia di lavoratori, promosse proteste,
scioperi, manifestazioni e petizioni imponenti. Non ottenne i
risultati sperati in fatto di diritto di voto, ma la sua lotta per
la rappresentanza servì a tracciare il perimetro della work-

ropean Party System, Oxford, Oxford University Press, 1990, pp. 150-182,
spec. p. 169. Ma pure la rivisitazione della teoria dei cleavages di Lipset
e Rokkan di S. Bartolini, The Political Mobilisation of the European Left.
1880-1980. The Class Cleavage, Cambridge, Cambridge University Press,
2000, pp. 13-25.
23
  E.P. Thompson, L’economia morale delle classi popolari inglesi del secolo
XVIII (1963), Milano, Et al., 2009. E pure, Id., Rivoluzione e classe operaia
in Inghilterra (1963), Milano, Il Saggiatore, 1969.

116
ing class e ad inscriverne la condizione nell’agenda politica,
rendendola fruibile per imprese di rappresentanza ulteriori24.
Non è la sola vicenda di questo genere che abbia accompa-
gnato lo sviluppo industriale e che si sia intrecciata con la storia
dei sindacati e dei partiti socialisti25. I quali hanno predisposto
un testo oltremodo elaborato, che descriveva come comune
la condizione dei lavoratori, che li incoraggiava a estendere i
sentimenti di solidarietà oltre il luogo di lavoro e il vicinato
e a sommare le loro potenzialità di opposizione e resistenza
individuali. Erogando veri e propri «servizi di rappresentanza»,
simbolici e materiali, forme di protezione e di soccorso, i partiti
socialisti denominarono, riconobbero e organizzarono il mondo
del lavoro. Persuasero i lavoratori circa i loro «reali» interessi,
li attrezzarono di schemi cognitivi, di un’interpretazione della
propria condizione, di un’identità comune su scala addirittura
sovranazionale e di un progetto di ordine sociale, di una comune
concezione morale e di un’idea di giustizia, rimodellando del
pari le soggettività di ciascun individuo. Non necessariamente
tutti divennero adepti ferventi di un disegno di cambiamento
radicale: molti si contentavano di migliorare la loro condizio-
ne. I partiti possono essere fruiti in maniera molto diseguale
e anche passiva. Ma già la presenza organizzata di ampi corpi
collettivi alterava l’andamento della contesa politica.
Un altro tema su cui indagare è quanto testi e pre-testi cor-
rispondano. Quanto il seguito dei partiti socialisti corrispondeva
sociologicamente al testo da essi elaborato? Una cosa è fare del
disagio e delle ingiustizie di cui sono vittime i ceti inferiori un
tema politico, un’altra è radunare un seguito costituito da essi.
Non tutti gli operai preferivano i partiti della classe operaia.
Per molte ragioni – lealtà locali, legami familiari, affiliazione
religiosa, comportamenti degli imprenditori, altre offerte di
rappresentanza – un’ampia quota delle classi lavoratrici ha
sempre votato per i partiti liberali, conservatori, confessionali26.

24
 C. Tilly, Popular Contention in Great Britain: 1758-1834, Boulder-
London, Paradigm Publisher, 2005, pp. 284-339.
25
 Sulla dialettica tra autodifesa e rappresentanza in Germania si veda
la dettagliata ricostruzione di B. Moore jr., Le basi sociali dell’obbedienza e
della rivolta, cit., pp. 153-322.
26
  Ad esempio: M. Dogan, Le vote ouvrier en Europe occidentale, in «Revue
française de sociologie», 1, 1960, 1, I, pp. 25-44. Inoltre, F. Parkin, Working-

117
Simmetricamente, un segmento dei ceti medi aderiva ai partiti
socialisti.
Alle imprese di rappresentanza non è nemmeno mai
convenuto investire su un unico pre-testo. È più conveniente
utilizzarne e combinarne un fascio, al prezzo di ardui sforzi di
conciliazione. I partiti confessionali, ad esempio, si servivano
dei contrasti religiosi, erano a proprio agio con la popolazione
delle campagne, ma non trascuravano la condizione operaia.
Un’impresa di rappresentanza nazionale deve adattarsi ai pre-testi
differenti offerti da luoghi differenti. I pre-testi sono per loro
conto in perpetua agitazione. Reagiscono anch’essi al con-testo,
alle circostanze economiche, al cambiamento sociale, a quello
culturale, nonché alla lotta per la rappresentanza. Capita che,
rispecchiandosi tra loro, le constituencies si rigenerino, entro un
groviglio di rappresentazioni e condizionamenti che non hanno
natura esclusivamente politica. Pure il con-testo è in perenne
aggiornamento. Infine, una delle poste più ambite nella lotta per
la rappresentanza sono i pre-testi, i testi, le constituencies altrui.
Chi se ne appropria li rielabora. Ma di rimando ne è condizionato.
Il con-testo originario dei partiti socialisti erano lo Stato
e i partiti di notabili. Sopraggiungeranno i partiti moderati e
quelli confessionali e, infine, i partiti comunisti. Ma hanno fatto
da con-testo i racconti, le denunce, le riflessioni dedicate alle
classi lavoratrici da attori che in gran parte non avevano in
mente la rappresentanza politica. Contribuivano ovviamente
i sindacati, che erano istituzioni rappresentative prepolitiche,
più o meno coerenti coi partiti socialisti. E contribuiva in tanti
modi l’azione repressiva dello Stato: la criminalizzazione di al-
cune forme d’azione politica è stata un elemento fondamentale.
Anche il mondo imprenditoriale ha regolarmente fabbricato
contro-rappresentazioni e rappresentanze di comodo del mondo

Class Conservatives: A Theory of Political Deviance, in «The British Journal of


Sociology», XVIII, 1967, pp. 278-290. Pochi anni dopo Parkin pubblicherà un
libro in cui darà ampio conto delle ragioni per cui una parte della working class
aderisse a valori tradizionali: cfr. Disuguaglianza di classe e ordinamento politico,
Torino, Einaudi, 1976, pp. 85-94. Confrontando una pluralità di fonti su quindici
casi europei, per S. Bartolini, The Political Mobilisation of the European Left,
cit., pp. 590-593, durante le Trente glorieuses, votava per un partito socialista
o comunista tra un terzo e due terzi della working class. S’interroga ancora
sull’eterogeneità degli orientamenti politici della working class in Germania
B. Moore jr., Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta, cit., pp. 224-228.

118
del lavoro27. La cui eclissi, nell’ultimo scorcio del XX secolo,
è coincisa con le trasformazioni della sfera produttiva, ma
pure con la sua progressiva sottorappresentazione nella sfera
pubblica e nella contesa politica.
Come un pre-testo si trasformi in testo è un’alchimia miste-
riosa, renitente a generalizzazioni troppo facili. Per esempio, tra
la rappresentanza dei ceti popolari e quella dei ceti intermedi
e superiori c’è una discreta differenza. Vi sono gruppi sociali
già in qualche modo strutturati: è motivo di differenza tra i
partiti socialisti e quelli confessionali, liberali, conservatori. La
storia delle grandi imprese di rappresentanza politica è storia
anche d’incomprensioni, divisioni, secessioni, radiazioni. C’è
pure qualche rappacificazione. In principio, la rappresentanza
politica preferisce le opposizioni radicali, con cui ottiene rico-
noscimento28. Col tempo, i contrasti si attenuano. Non bastasse:
i pretendenti alla rappresentanza non solo predispongono
i testi, ma fanno anch’essi parte dell’allestimento. Oltre ad
avanzare claims, e a inventare i loro mandanti, hanno l’onere
di costituire se stessi in quanto rappresentanti, d’inventarsi e
accreditarsi come tali. Le due operazioni, osserva Bourdieu29,
sono contestuali. I pretendenti alla rappresentanza devono
mettersi in scena, agli occhi tanto della propria constituency,
quanto dei loro concorrenti e della collettività nel suo insieme.
Devono sopra ogni cosa persuadere la prima a prenderli sul
serio, ottenerne in qualche modo il rispetto, o qualcosa che gli
somiglia30. È un’operazione delicata e laboriosa, specie perché
le imprese di rappresentanza si aggiornano in permanenza e
i loro addetti si avvicendano. Cambiano le biografie, i modi
di pensare, gli stili, il temperamento di tali addetti, le loro

27
 Ad esempio: D. Germanese, L’ardua democrazia: la stampa aziendale
Pirelli (1945-1948), in «Passato e presente: rivista di storia contemporanea»,
2, XXXIX, 2021, pp. 83-102.
28
  A. Pizzorno, Le radici della politica assoluta e altri saggi, Milano, Fel-
trinelli, 1993, pp. 87-104.
29
  P. Bourdieu, La représentation politique, cit.
30
  Sulla sfida cui sono sottoposti gli «esseri in carne ed ossa» che rap-
presentano qualsiasi istituzione, cfr. L. Boltanski, Della critica. Compendio di
sociologia dell’emancipazione, Torino, Rosenberg & Sellier, 2014, pp. 130-134.
Insiste sul tema con riferimento specifico alla rappresentanza M. Dogliani, La
rappresentanza politica come rappresentanza del «valore» di uno stato concreto,
in «Democrazia e diritto», 2, LV, 2014, pp. 7-15.

119
autorappresentazioni e anche le preferenze della potenziale
constituency.
Il problema è antichissimo. Anzitutto, perché la perso-
na privata del rappresentante va dissociata dalla sua figura
pubblica. Onde rendere evidente la dissociazione, il supremo
rappresentante della Chiesa romana usa cambiar nome. Lo
stesso avviene nelle chiese ortodosse e, talora, nelle monar-
chie. Uno dei temi fondamentali nella vicenda dello Stato è
stata la sua spersonalizzazione rispetto al potere regio e la sua
rappresentazione quale entità diversa dai suoi addetti, i quali,
nello svolgimento delle loro funzioni, si sono a lungo rivestiti di
appositi paramenti. Il problema si è riproposto con la moderna
rappresentanza politica e anzi il tema dell’autorappresentazione
dei rappresentanti – e della costruzione della loro immagine
pubblica – si è fatto ancora più acuto: anche i parlamenti e i
partiti hanno elaborato tecniche rivolte a questo scopo.
Basta a volte lo stile. Lo stile dei notabili era a volte severo,
altre brutale, altre ancora paterno e all’occorrenza generoso.
I partiti hanno a lungo adottato simboli e coltivato, ad uso
del loro seguito, grandi prospettive di riscatto o comunque
di miglioramento dello stato della vita collettiva. Suscitava-
no fiducia anche disegnando immagini edificanti, eroiche, o
comunque virtuose, dei loro esponenti. Un’altra tecnica dei
partiti di massa era la rappresentanza «descrittiva»31: i rappre-
sentanti dovevano somigliare in qualche modo ai rappresentati.
Quando non si riusciva a farli corrispondere sociologicamente,
si potevano ravvicinare i comportamenti e gli stili di vita.
Nei partiti socialisti era d’uso l’appellativo di compagno. Sui
palcoscenici della rappresentanza politica si sono avvicendate
ogni sorta d’immagini: sobrie e auliche, eroiche, vistose, per-
fino irridenti. Conta finanche l’abbigliamento: si sono viste
giacche a doppio petto, uniformi, tute da lavoro, camicie e
maniche rimboccate, persino canottiere. I tempi cambiano.
C’è chi si spoglia di fronte all’obiettivo e l’ultimo ritrovato è
farsi prescrivere da uno specialista d’immagine il taglio della
barba e il formato degli occhiali. Se la rappresentanza in altri
tempi si segnalava per il suo formalismo, attualmente predilige
l’informalità.

31
  H.F. Pitkin, Il concetto di rappresentanza, cit., pp. 91-138.

120
Conta anche la rappresentazione reciproca dei rappresen-
tanti: possono interloquire tra loro e criticarsi civilmente, pos-
sono ironizzare, sbeffeggiarsi, demonizzarsi vicendevolmente e
possono sempre mettere in dubbio l’altrui moralità. Sono tutti
aspetti cui l’ibridazione tra la politica e i media e le esigenze
spettacolari di questi ultimi hanno alfine dato impulso. Ne è
derivata anche l’invenzione, o l’esasperazione, del fenomeno
della leadership personale. Alle cariche pubbliche, ai ruoli di
comando, è stata sempre riconosciuta una qualche «grazia di
stato». I regimi democratici l’avevano appannata. Per Weber
era però un tratto tipico dei partiti32. Ma i media, a loro uso,
l’hanno riproposta, e le élites politiche hanno aderito. Mentre
l’attrattività mediatica dei candidati è diventata premiale, i
media a loro volta concentrano l’attenzione sulla biografia dei
leaders, s’infiltrano nella loro vita privata e ne fanno spettacolo.
A discapito, ovviamente, di altri aspetti33.
Infine: i media di ultima generazione – la Tv soprattutto –
hanno sovvertito le modalità dell’offerta di rappresentanza e
hanno anche smisuratamente ampliato la possibilità che un
claim produca di per sé effetti politici di rilievo senza bisogno
di radunare un seguito. La novità non è assoluta e non c’è
nulla di patologico o di scandaloso. Sono le circostanze che
favoriscono la rappresentanza virtuale e anche quella che chia-
meremo «occasionale». Vi sono claims virtuali molto nobili: le
generazioni a venire, il pianeta, le specie in via di estinzione,
svincolate dalle contese elettorali. Anche se, per il bene e per
il male, un qualche peso politico ce l’hanno. C’è pure una rap-
presentanza speculativa, finalizzata a modificare sul momento
l’agenda di policy, ma è la rappresentanza «occasionale» che ha
maggiori implicazioni elettorali. È un salto non da poco per la
lotta per la rappresentanza. Ragioniamo per differenza con la

32
  M. Weber, La politica come professione, in Id., Scritti politici, Roma,
Donzelli, 1998.
33
  Tra i primi a osservare il fenomeno della personalizzazione, A. Mabi-
leau, La personnalisation du pouvoir dans les gouvernements démocratiques,
in «Revue française de science politique», 1, X, 1960, pp. 39-65. Sugli
sviluppi ulteriori B. Manin, Principes du gouvernement représentatif, Paris,
Flammarion, 1996, pp. 279-302. Si rinvia anche ai lavori di M. Calise, Il
partito personale, Roma-Bari, Laterza, 2000 e La democrazia del leader,
Roma-Bari, Laterza, 2016.

121
rappresentanza notabiliare e con quella «fidelizzata» dai partiti.
I notabili erano tenuti a onorare la loro autorità sociale e la
usavano per stabilizzare il loro seguito. La strategia dei partiti
popolari trattava il seguito come i fedeli di una confessione
religiosa, da convertire e da estendere. Entro la lotta per la
rappresentanza, erano i partiti a politicizzare, sotto forma di
cleavage, i motivi di divisione insorti nella vita collettiva. A
questo scopo, effettuavano investimenti simbolici e organizzativi
considerevoli e di lungo periodo, istituivano presidi territoriali,
stabilivano gerarchie, promuovevano relazioni orizzontali entro
la propria constituency. La rappresentanza «fidelizzata» era ca-
ratterizzata da obiettivi di lungo termine e dal raggruppamento
e dall’esibizione di corpi collettivi identificabili.
La rappresentanza occasionale corrisponde a tutt’altra
strategia. Se la rappresentanza fidelizzata svolgeva un’azione
educativa, onde costituire il suo seguito, quella occasionale
lo costituisce adattandosi. L’offerta è pronta a essere riscritta
a ogni campagna elettorale. Delineati alcuni claims di fondo,
contano le scelte tattiche e i claims di contorno. L’idea di una
società traversata da cleavages profondi è stata archiviata. Si
preferiscono i claims occasionali, che sfruttano interessi, ca-
tegorie, identità, che già ci sono. Al momento delle elezioni
i partiti si curano solitamente di risvegliare le lealtà di lungo
periodo che ancora resistono: dopotutto, il grosso degli elet-
tori le mantiene e spesso si trasmettono da una generazione
all’altra34. Ma l’investimento principale è effettuato sui pre-testi
suggeriti dalla contingenza, coltivando le emozioni, le inquietu-
dini, le insofferenze, le paure del momento, nonché sfruttando
i fallimenti dei concorrenti. Conta, ovviamente, la capacità di
taluni portatori d’interessi particolari o locali di mettere in
agenda qualche tema, o di valorizzare il malcontento verso una
data misura di policy. Sono state condotte campagne elettorali
focalizzando l’attenzione su un atto di violenza brutale, su una
catastrofe naturale, sull’inadeguatezza dei soccorsi, sui destini
di una compagnia aerea, su un’ondata di sbarchi di migranti,
34
  Il caso americano è il più semplice. Gli elettori si dividono in demo-
cratici, repubblicani e indipendenti e i trasferimenti da un fronte all’altro
sono eccezionali C.H. Achen e L.M. Bartels, Democracy for Realists, cit., pp.
311-316. A decidere le elezioni sono gli indipendenti, che sono gli elettori
meno radicati e meno motivati politicamente.

122
su uno scandalo che ha coinvolto questo o quel concorrente. È
una strategia generale, con cui sono molto a loro agio i partiti
cosiddetti populisti, molto lesti ad aggiornare le loro paure e
le loro ricette salvifiche. In cambio sono divenuti a loro volta
pre-testo di rappresentanza occasionale per i loro avversari, che
ripetutamente ne denunciano la dubbia affidabilità democratica.
Nella versione occasionale della rappresentanza, propizia-
ta dai media – dalla televisione e ultimamente dai social – il
voto ha cambiato significato. Il voto fidelizzato era segno di
appartenenza a una constituency durevole, circoscritta da un
partito, la cui attività non si limitava alla propaganda elettorale.
Il voto era un’opportunità per situarsi e ritrovarsi con altri,
socialmente e politicamente35. La rappresentanza occasionale,
in quanto rappresentanza usa e getta, semmai destabilizza. Per
quanto profittevole possa essere in sede di contesa elettorale,
neanche la rappresentanza occasionale sfugge comunque alla
critica della concorrenza e, prima o poi, la sua credibilità è
sottoposta a verifica: ammesso che superi il vaglio delle elezioni,
tocca anche a essa difendersi dalle delusioni successive degli
elettori. Anzi, vi è sovraesposta: la novità del terzo millennio
è l’accentuata instabilità elettorale. Sempre affamata di nuovi
temi, la rappresentanza occasionale è travolta in un circuito
frenetico, dove il vizio più grave è l’orientamento a breve
termine. Il suo orizzonte sono le prossime elezioni. Con quali
conseguenze per il governo della vita collettiva?

3. La rivincita del mandato e l’ordinaria demagogia

Capitanati da Rousseau, i critici della rappresentanza la


considerano un’impostura. Oppure esproprio, imposizione,
spossessamento. Costituisce una condizione di disuguaglianza
a favore dei rappresentanti e a danno dei rappresentati, specie
per i ceti svantaggiati. In realtà, la rappresentanza non è solo
questo: dà voce, non in maniera egualitaria, ma dopotutto
la dà anche a chi di suo non ne avrebbe. Per complicare le

35
  È quella che A. Pizzorno chiama azione «identificante», opposta a quella
«efficiente»: cfr. Le radici della politica assoluta, cit., pp. 145-184. Ma cfr.
anche la Prefazione di Pizzorno a H.F. Pitkin, Il concetto di rappresentanza, cit.

123
cose, tocca tuttavia riconoscere che la rappresentanza svolge
comunque un’azione distorsiva.
Non c’è rappresentanza che non sia interpretazione, sele-
zione, limitazione, distrazione, trasfigurazione, understatement
o esagerazione. Già le rappresentazioni cartografiche, artistiche,
letterarie, fotografiche non sono e non possono, spesso nemmeno
vogliono, essere duplicazioni perfette dell’originale. Seleziona-
no e interpretano. Lo fa pure la rappresentanza privatistica,
quantunque preveda uno specifico mandato al rappresentante,
il quale però impiega parole sue per esercitarlo. Finanche chi
prova a dare una rappresentazione di se stesso seleziona e di-
storce. Figurarsi se può esser fedele la rappresentanza in politica,
che ha a che fare con mandanti eterogenei e anche di dubbia
esistenza: il popolo, i corpi collettivi, gli interessi.
Ciò detto, due precisazioni sono d’obbligo. La prima è che
i rappresentanti sono sì portatori d’interessi propri, ma non se-
lezionano, interpretano, alterano necessariamente per malvagità,
disonestà, opportunismo. Lo fanno perché tanto pretendono i
meccanismi della rappresentanza: come sarebbe mai possibile
raggruppare, anche solo provvisoriamente, una moltitudine se
non si attribuissero agli individui che la compongono tratti co-
muni, di cui spesso non sono consapevoli, e se non si oscurassero
i tratti che li rendono diversi? Come si potrebbero raggruppare
e convincere gli elettori senza pronunciare parole che gratifi-
chino, esaltino, eccitino, dissimulino, oscurino, scompongano e
ricompongano? O senza additare un avversario, o, quantomeno,
un concorrente? La storia della rappresentanza è storia, d’im-
posizioni, ma pure d’invenzioni, affabulazioni, artifici36.
La seconda precisazione è che fa parte del gioco pure la
critica della rappresentanza, la denuncia delle sue distorsioni,
dei suoi travisamenti, occultamenti, allarmismi. È un gioco in
cui compaiono più che i critici della rappresentanza, gli stessi
pretendenti, che definiscono le loro offerte di rappresentanza
più autentiche, più adeguate, più meritevoli di ascolto di quelle
altrui. Distorcono anch’essi, ovviamente.
La rappresentanza è pure un’invenzione ambivalente. Lo è
in quanto la contesa elettorale suscita nei suoi pretendenti e in

36
  B. Latour, What If We Talked Politics a Little?, in «Contemporary Political
Theory», 2, 2003, pp. 143-164.

124
chi la esercita l’esigenza non solo d’imporre, togliere e mani-
polare, ma pure di restituire. Non è detto che accada sempre,
ma è il grande punto di resistenza, o la rivincita, della teoria
classica. Le parole non si pronunciano invano, specie quando
sono pronunciate pubblicamente: costituiscono dei vincoli. La
rappresentanza politica in quanto istituzione, per di più sanzio-
nata dai testi costituzionali e dalla pratica elettiva, promette agli
elettori un qualche potere sugli eletti. L’impegno di questi ultimi
ad agire nell’interesse dei rappresentati può essere disatteso, ma,
una volta assunto pubblicamente, non è senza conseguenze. Sarà
un racconto improbabile, ma tanto i rappresentanti quanto i
rappresentati sono indotti a prenderlo sul serio.
Molto presto la concorrenza elettorale ha reso le elezioni
un rito d’investitura meno scontato di quanto prevedessero gli
inventori del regime rappresentativo. I pretendenti si sono man
mano attrezzati e la concorrenza li ha indotti ad assumere verso
gli elettori un atteggiamento ricettivo: hanno dovuto promettere
e anche concedere qualcosa. Pur non operando in regime di
concorrenza, Hobbes raccomandava al sovrano, da lui inteso
quale rappresentante, di prendersi buona cura dei propri sud-
diti37. L’idea stessa di rappresentanza rendeva vulnerabile la sua
condizione. La ripetizione del racconto e del rito del mandato
ha familiarizzato con la rappresentanza anche gli elettori: colti
magari alla sprovvista dal riconoscimento del diritto di voto, che
spesso non avevano nemmeno rivendicato, questi ultimi – non
tutti allo stesso tempo e nella stessa misura – hanno alfine preso
conoscenza della promessa fatta dai loro portavoce. I più istruiti
erano in condizioni più favorevoli. Ma alla fine tutti gli elettori si
ritengono i mandanti di chi dichiara di rappresentarli e occupa,
grazie a loro, una posizione di pubblico rilievo e di preminenza
sociale. A loro volta, i pretendenti alla rappresentanza sono
stati costretti ad affinare le loro tecniche di persuasione: un po’
manipolano, un po’ mantengono. Il rapporto tra rappresentanti
e rappresentati si è perciò riequilibrato e la rappresentanza, pur
in minima parte, ha prodotto effetti più coerenti col suo nome.
Qualora gli elettori – per difetto di competenza e informa-
zione – non avessero interiorizzato il loro diritto alla rappre-
sentanza, non manca chi glielo insegni o rammenti: è sempre

37
  T. Hobbes, Il Leviatano, cit., pp. 298-317.

125
parte della lotta per la rappresentanza. Glielo ricordano nel
farsi concorrenza i pretendenti alla rappresentanza. Glielo
rammentano i suoi critici, quando ribadiscono l’idea del man-
dato illusorio e tradito. Lo confermano, con le precisazioni del
caso, i testi costituzionali e i manuali d’educazione civica. Sono
motivo di conferma i mass media, i quali da mezzo secolo, sono
divenuti elementi attivissimi del con-testo e amano mettere in
scena il cittadino che personalmente rivendica, osserva, critica,
giudica, condanna coloro che ha designato a rappresentarlo.
Tecnicamente, o per la teoria più accreditata della rap-
presentanza, la disponibilità per il rappresentante a mostrarsi
ricettivo verso i suoi elettori viene chiamata responsiveness38.
La teoria classica della rappresentanza vorrebbe subordinarla
all’interesse generale: gli eletti rappresentano l’intera collettività.
È quest’ultima, si sostiene, il loro vero mandante, di cui sono
tenuti a prendersi cura, e non chi li ha votati. Pochi principi
sono stati però più trasgrediti. Sollecitazioni e vincoli cui sono
sottoposti i pretendenti e i titolari della rappresentanza sono
innumerevoli: dagli elettori, dal partito, da chiunque abbia
concorso a farli eleggere.
Da subito i claims dei pretendenti alla rappresentanza
sono stati perciò accompagnati dall’erogazione di servizi di
rappresentanza. Un po’ li producono loro stessi. Un po’ li
ricavano una volta eletti, specie quando hanno accesso alle
cariche di governo. Hanno iniziato i notabili, al tempo del
suffragio ristretto, utilizzando sia risorse personali, sia oppor-
tunità offerte dalla loro prossimità al potere. I grandi partiti
popolari allargheranno la gamma dei servizi. I partiti socialisti e
comunisti, quand’erano ancora outsiders, hanno erogato servizi
mediante le società di mutuo soccorso, le cooperative, le forme
di sostegno agli scioperanti. Una volta occupate posizioni di
governo nazionali e locali, la responsiveness ha cambiato natura.
Pizzorno distingue tra «micropolitica» e «macropolitica». La
prima consiste di servizi di respiro più o meno ampio resi a
individui, gruppi, organizzazioni d’interesse, comunità locali,
e altro ancora. La macropolitica consiste invece di ambiziose
politiche riformatrici e redistributive39.

  H.F. Pitkin, Il concetto di rappresentanza, cit., p. 341.


38

  A. Pizzorno, Il velo della diversità: studi su razionalità e riconoscimento,


39

Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 330-340.

126
Esistono – e sono importantissimi – anche i servizi di rap-
presentanza d’ordine simbolico. Una prima variante Pizzorno
la chiama politica «della speranza». Rita Di Leo, che la dà
ormai per persa, la chiama invece «politica-progetto»40. Per i
grandi partiti popolari in essa s’intrecciavano grandi costruzioni
ideologiche, analisi della società, denuncia delle disuguaglianze,
claims di riconoscimento di grandi identità collettive, promesse
di giustizia e programmi di trasformazioni sociali di portata
epocale. Una seconda eventualità più effimera e più attuale
sarebbe invece la «politica dell’eticità»41. Propria delle situa-
zioni d’incertezza e instabilità, è una tecnica che consente di
suscitare consenso in modi anche contrapposti. Pizzorno cita
le inquietudini ambientaliste o le difese delle minoranze. Ne
è una variante sollevare scandali e promettere cure miracolose
dell’immoralità pubblica. Come si possono risvegliare le identità
nazionali, suscitando paure e fomentando odio, intolleranza,
antisemitismo, islamofobia.
Va da sé che a essere responsive e a erogare servizi di rappre-
sentanza gli addetti alla rappresentanza si rendono vulnerabili
a una critica opposta a quella rousseauiana. È facile accusare
i rappresentanti di essere troppo generosi e accondiscendenti
verso le pretese dei rappresentati. Nella lotta per la rappre-
sentanza c’è sempre qualche attore pronto a denunciare le
deprecabili finalità elettorali della micro e della macropolitica.
Da sempre c’è chi accusa i regimi rappresentativi-democratici
in quanto tali, perché promuovono il pluralismo degli interessi
parziali, a scapito dell’interesse generale e dell’azione di gover-
no: di quella che è stata denominata la «governabilità»42. Non
ricevono miglior trattamento, per una ragione o per l’altra, i
servizi di rappresentanza d’ordine simbolico.
La parola che si pronuncia con frequenza, carica di si-
gnificato infamante, è «demagogia». Non è il suo significato
originario. Ha provato a renderle giustizia Luciano Canfora43.

40
  R. Di Leo, L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo,
Bologna, Il Mulino, 2018.
41
  A. Pizzorno, Il velo della diversità, cit.
42
  Il dibattito sulla governabilità prende avvio col famoso rapporto della
Commissione Trilaterale: cfr. M. Crozier, S.P. Huntington e J. Watanuki, La
crisi della democrazia (1975), Milano, Angeli, 1977.
43
  L. Canfora, Demagogia, Palermo, Sellerio, 1993.

127
Per i greci, che coniarono il termine, demagogia era l’arte di
guidare il demos curandosi di esso. Per i critici della democra-
zia era la sua inevitabile degenerazione. Il termine era dunque
ambivalente. La contesa politica odierna ha fatto anch’essa
della demagogia un rischio per la democrazia, quando invece
è nell’ordine delle cose. Viceversa, secondo Weber, che era un
realista, «il “demagogo”, a partire dallo Stato costituzionale e
soprattutto dalla democrazia, è il tipo del politico eminente
in Occidente. Il sapore sgradevole del termine non può far
dimenticare che non Cleone, bensì Pericle fu il primo che
portò questo nome»44. Dunque, mentre la demagogia è inevi-
tabile, il rischio sta nella cattiva demagogia. Il problema è che
distinguere buona e cattiva demagogia è questione di giudizio
politico, purtroppo soggettivo.
Nella pratica chiunque aspiri alla rappresentanza mescola
svariate forme di demagogia, a seconda dei potenziali fruitori.
La promessa del socialismo si è coniugata con la tutela dei livelli
salariali. Il nazionalismo è un condimento per molte politiche
diverse. Si possono mescolare promesse di welfare e ostilità ai
migranti. È, infine, demagogia pure la guerra alla demagogia,
attualmente in gran rigoglio. Il discredito gettato sull’altrui
demagogia è un espediente antico. Più recente è la controde-
magogia, da cui conseguono severe prescrizioni terapeutiche:
intese a premiare il merito e a contrastare l’assistenzialismo.
In Italia i partiti tendono ad affidare le misure di austerità più
severe ai cosiddetti «governi tecnici»: aggirando la rappresen-
tanza, pare sia più agevole risolvere i problemi collettivi.
A dispetto di ciò che comunemente si ritiene, il mestiere
degli addetti alla rappresentanza sarà pure ben remunerato,
simbolicamente e materialmente, ma è scomodo e rischioso.
Responsiveness e demagogia saranno inevitabili, ma vi sono
sempre promesse non soddisfatte, che suscitano malcontento,
anche perché i concorrenti le strumentalizzano. Il problema è
allora limitare gli inconvenienti dell’ordinaria demagogia, che è
per l’appunto il rimedio escogitato dai grandi partiti popolari:

44
 M. Weber, La politica come professione, cit., p. 217. Per Weber la
demagogia andava però dosata e i regimi parlamentari e lo Stato di diritto
erano dispositivi utili allo scopo: la demagogia va cioè sottomessa «alle rigide
forme giuridiche della vita statale».

128
fidelizzare gli elettori era una strategia intesa a costituirsi quali
accumulatori di legittimazione e di fiducia, preziosi per prevenire
e attenuare le delusioni inevitabilmente provocate dall’azione
quotidiana dei loro addetti alla rappresentanza o al governo.
Assicurando del pari quella che Weber chiamava l’«elasticità
dell’apparato parlamentare»45. La rappresentanza occasionale
è invece ripiegata sulla micropolitica, sui traffici elettorali pic-
coli e grandi, sugli intrecci provvisori con gli interessi, oppure
è generosa di offerte non mantenibili e suscita un sovrappiù
di delusioni. Se però la grande costruzione mediatica che la
incoraggia è efficace per così dire in ascesa, è invece spietata
in discesa. Governare logora e la posizione di chi governa è
divenuta scomodissima.
Molti fattori condizionano i servizi di rappresentanza: i tem-
pi, le circostanze, le risorse disponibili, i pre-testi, le mosse degli
avversari. Vi sono situazioni routinarie e situazioni eccezionali.
Nelle prime la micropolitica e i vantaggi materiali hanno buon
successo. Nelle seconde si pensa e si fa la politica in tutt’altro
modo: cambia lo spirito dei contendenti. Quando i benefici
materiali scarseggiano, si punta sui servizi simbolici. Max Weber
scrisse il suo saggio sul professionismo politico all’indomani della
guerra mondiale. Era una stagione parecchio concitata, segnata
da disagio sociale diffuso, instabilità esistenziale, frustrazioni
e tensioni terribili, ampio uso della violenza. La demagogia
divenne o rivoluzionaria, o reazionaria e autoritaria. Donde il
suo invito a bilanciare con cura l’etica della convinzione e dei
fini ultimi con l’etica della responsabilità e delle conseguenze.
In tempi più pacifici avrebbe magari rovesciato la priorità e
rivolto l’invito a bilanciare l’etica della responsabilità con quella
della convinzione: se la politica è troppo prosaica, si condanna
all’insuccesso46.
È la storia del regime rappresentativo. I suoi inventori
avevano immaginato un’inclusione meramente simbolica dei
dominati. Contavano sulla loro autorità «naturale» per restare
tra loro. Non prevedevano né la concorrenza, né che il ricono-
scimento della possibilità di votare a una minoranza avrebbe
suscitato l’attesa – e la pretesa – della sua estensione. Il muro

45
  M. Weber, Economia e società, vol. I, Milano, Comunità, 1961, p. 349.
46
 Id., La politica come professione, cit., p. 222.

129
dell’esclusione era stato comunque incrinato e l’inclusione
degli esclusi è diventata un claim di successo. La rappresen-
tanza ha messo così politicamente al mondo strati e categorie
sociali finora esistenti solo nei testi letterari, nella generosità
dei filantropi, nelle indagini sociali.
Dal suffragio universale alle politiche di welfare non c’è
riforma egualitaria e inclusiva che non sia stata promossa per
prevenire o contenere il dissenso di qualcuno, o per ottenerne
il consenso47. In questo modo i regimi rappresentativi liberali
si sono evoluti in regimi democratici. Da un canto c’erano i
partiti socialisti, che rivendicavano il suffragio universale, con
fini ugualitari, ma anche per guadagnare consenso e aumentare
la propria forza d’urto. Dall’altro, c’erano le élites in carica del
monopolio, che invece si sono divise: alcune si sono opposte,
vaticinando gli effetti destabilizzanti dell’estensione del diritto di
voto alle folle nullatenenti, incolte e manovrate dai demagoghi,
altre l’hanno propiziato. Giolitti, nelle sue memorie, si vanta
di aver contribuito, grazie al suffragio universale, al rafforza-
mento dello Stato e alla crescita civile del paese48. Nell’impero
tedesco, per contrastare i socialdemocratici, fu Bismarck, che
non era un fior di democratico, a introdurre precocemente il
suffragio universale e lo Stato sociale.
Se la rappresentanza può includere, può però anche esclu-
dere. L’inclusione di alcuni implica, se non l’esclusione, l’arre-
tramento di altri. Che pagano qualche costo, magari modesto,
ma lo pagano. L’universalizzazione del suffragio diluì provvi-
soriamente il potere dei ceti cui prima era finora riservato il
diritto di voto. Un altro caso di esclusione riguarda i partiti di
massa, che hanno incluso le classi inferiori, ma che, con grande,
e fondato, disappunto di Robert Michels49, erano guidati da
un’élite che prendeva le distanze da esse e disattendeva le sue
promesse democratiche.
Resta da rammentare che la rappresentanza, oltre a essere
ambivalente, produce effetti reversibili: il suo grado d’inclusività
non è definitivo. È modulato dalle vicende politiche e nulla ne

47
  A. Pizzorno, Le radici della politica assoluta, cit., pp. 88-90.
48
  G. Giolitti, Memorie della mia vita, II, Milano, Treves, 1922, pp. 279-325.
49
  R. Michels, La sociologia del partito politico (1911), Bologna, Il Mulino,
1966.

130
esclude la revoca. È quel che sta accadendo ultimamente. Anche
senza ricorrere all’impiego della violenza. Molte cose sono in
realtà reversibili entro l’orizzonte della rappresentanza, finan-
che la conduzione pacifica dei conflitti. Una volta canalizzato
entro le procedure e i costumi del regime rappresentativo, il
pluralismo perde progressivamente il suo potenziale dirom-
pente. Regole e costumi configurano la «civiltà parlamentare»,
che prevede una sorta di pacificazione progressiva: il conflitto
sociale si attenua traducendosi in contesa elettorale e la contesa
elettorale si attenua, a sua volta, varcando la soglia del par-
lamento, dove i contrasti politici possono essere strenui, ma
sono compensati dai rapporti personali50. Non sempre però la
civiltà parlamentare è rispettata. Le tribune parlamentari pos-
sono anche servire a gettare benzina sul fuoco dei conflitti51.
È un’eventualità per nulla remota: non contano solo le regole,
ma anche chi le applica.

4. Regolare la rappresentanza

Per fare il punto. La lotta per la rappresentanza politica


è parte essenziale delle lotte per il monopolio statale. In tale
lotta rientra la disputa sui suoi significati e sulle regole che vi
presiedono. La discussione è iniziata nello stesso momento in
cui si è riconvertita la lotta violenta in competizione elettorale
e in discussione parlamentare. Provvide per prima la coali-
zione di fazioni che in Inghilterra aveva preso il sopravvento.
Apparve allora più conveniente sostenere che le regole – una
costituzione – già ci fossero. In altre circostanze, la coalizione
dei vincitori ha sancito la propria vittoria scrivendo nuove co-
stituzioni, le quali non sono mai opera di un arbitro estraneo al

50
  Secondo Bertrand de Jouvenel c’erano «meno differenze tra due deputati
di cui uno è rivoluzionario e l’altro non lo è, che tra due rivoluzionari di
cui uno è deputato e l’altro no». E aggiungeva, «all’Assemblea Nazionale vi
è una regola ineludibile che domina: rispettare lo spirito della ditta e non
nuocersi. Tra colleghi si litiga, ma non ci si detesta... non si ama farsi del
male». Cfr. La République des camarades, Paris, Grasset, 1914, p. 17 e p. 57.
51
  Una riflessione preliminare in P.-Y. Baudot e O. Rozenberg, Introduction.
Lasses d’Elias: des assemblées dé-pacifiées?, in «Parlement[s], Revue d’histoire
politique», 2, XIV, 2010, pp. 6-17. Il numero della rivista è dedicato alla
Violence des échanges en milieu parlementaire.

131
gioco, ma di attori coinvolti nella lotta politica: sono frutto di
circostanze storiche e di rapporti di potere contingenti. Detto
altrimenti, le scrivono i vincitori del momento, che intendo-
no perpetuare la propria idea d’ordine sociale e di giustizia.
Quando non ne hanno una condivisa, si contentano di offrirsi
garanzie reciproche52. Ma il conflitto non s’interrompe, giacché
prosegue mediante un lavorio d’interpretazione, aggiustamento,
adattamento, delle regole e anche dei significati delle parole.
Al tempo della rivoluzione inglese il Parlamento consacrò
la sua pretesa di supremazia con due gesti d’altissimo valore
simbolico. Pur dichiarando rispetto per la monarchia di diritto
divino, decise di muovere guerra al re. Una volta che il re fu
sconfitto, decise di comminargli la pena capitale. Guerra e
regicidio sono espressioni estreme dell’azione di governo. In
quelle circostanze il popolo fu arruolato da entrambe le parti.
Il Parlamento evocava i risalenti e consolidati diritti dei free-
born Englishmen. Il sovrano rivendicava i suoi diritti come un
obbligo verso i propri sudditi.
Effetti altrettanto drammatici, perché mancò il regicidio,
ma diede luogo a una guerra dopotutto civile, ebbe la Di-
chiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America. Poco
dopo in Francia le moderne istituzioni rappresentative furono
inaugurate dal giuramento prestato il 20 giugno del 1789 dai
deputati del Terzo stato nella sala della Pallacorda, insieme
ai dissenzienti degli altri due ordini. Denominatisi Assemblea
nazionale, i deputati si attribuirono l’autorità, per conto del
popolo, di fixer la Constitution du Royaume: di stabilire principi
e regole di una rinnovata forma di governo e di convivenza.
Di nuovo un sovrano sarà messo a morte al culmine di quella
che è stata anch’essa una guerra civile.
Per quanto vi fossero dei precedenti, l’invenzione del
popolo in senso moderno ha avuto luogo in Inghilterra. Con-

52
  Per questi casi Giuseppe Di Palma ha proposto il concetto di costitu-
zione «garantista»: To Craft Democracies. An Essay on Democratic Transitions,
Berkeley, University of California Press, 1990, alle cui considerazioni circa
le condizioni di scrittura delle costituzioni si rinvia: cfr. pp. 50-76. È pure
successo che le regole fossero dettate, o quasi, dall’esterno: nel dopoguerra
in Germania e Giappone. Nemmeno chi le dettava era però un arbitro
imparziale. Era un estraneo, che voleva assicurarsi che il gioco in futuro si
svolgesse secondo le sue aspettative.

132
clusa la guerra civile, il Parlamento prese posto a fianco del
re, per conto del popolo53. Il problema che si pose da subito
fu quello del significato del mandato, cioè del rapporto che
legava ai Comuni eletti ed elettori. Occorreva stabilire cosa
questi ultimi fossero. Tra i tanti argomenti messi in campo si
segnalano quelli sollevati da Edmund Burke.
Esponente di punta di un’importante fazione parlamentare,
gli Whigs capeggiati dal marchese di Rockingham, Burke era
un intellettuale e al contempo un parvenu, che con qualche
approssimazione può essere ritenuto un politico di professione
ante litteram. Non possedeva in proprio alcun capitale d’au-
torità sociale, anche se col tempo avrebbe guadagnato repu-
tazione e rispetto, e beneficiava di quello del suo protettore.
Sostenitore convinto delle potenzialità della rappresentanza
e del Parlamento quale rappresentante della nazione, al cen-
tro di una delle sue tante battaglie politiche Burke mise un
doppio sforzo di contenimento. Il primo contro le pressioni,
divisive, degli interessi. Il secondo inteso a contrastare l’a-
zione, divisiva e corruttrice, del sovrano e della «Cabala di
corte». Favorevole a una più proficua dialettica tra l’azione
di governo dell’esecutivo e quella di discussione e controllo
svolta dal Parlamento, Burke era in aperto contrasto con la
nostalgia dei Tories per l’autorità monocratica: per essi l’uni-
co rappresentante della nazione era il re e il Parlamento era
null’altro che un luogo in cui trattare rivendicazioni locali e
interessi ristretti.
Il punto fondamentale sollevato da Burke è la natura del
mandato. Sono le celebri parole del Discorso agli elettori di Bristol
del 1774. Lì il Parlamento era definito l’«assemblea deliberativa
di un’unica Nazione, con un solo interesse, quello dell’intero:
dove dovrebbero essere di guida non già obiettivi locali, ma il
bene generale». Di conseguenza, «istruzioni imperative e mandati
che, una volta inoltrati, il membro del Parlamento è tenuto a
seguire ciecamente ed incondizionatamente [...], quantunque
contrari alla più chiara convinzione del suo discernimento e
della sua coscienza», erano «cose letteralmente sconosciute alle

53
  E.S. Morgan, Inventing the People: The Rise of Popular Sovereignty in
England and America, New York-London, Norton & Co, 1988.

133
leggi di questa terra»54. Non che gli interessi dei rappresentati
fossero illegittimi. Anzi: i «desideri» degli elettori avrebbero
dovuto «avere gran peso [...], la loro opinione grande rispetto,
i loro affari incondizionata attenzione»55. Gli elettori saranno
addirittura invitati a radunarsi in partiti56. Ma non spettava
al Parlamento promuovere interessi privati. Radunando la
parte migliore del paese, selezionata dalle elezioni, compito di
quest’ultima era farsi interprete dell’interesse anche di coloro
che non votavano: era la teoria della rappresentanza «virtuale»57.
Sulla natura del mandato, già un secolo prima Edward
Coke si era espresso in termini non troppo diversi, così come
Algernon Sidney e il quasi contemporaneo Blackstone. Ma
Burke sollevava un argomento specifico: è il rappresentante che
costituisce il rappresentato. Sul piano normativo, ma pure su
quello empirico. L’interesse generale non era definibile in astrat-
to. Forti della conoscenza delle questioni in gioco consentita
dalla loro posizione, a seguito di una discussione ben condotta
e improntata a criteri di prudenza e moderazione, il compito
dei membri del Parlamento era esprimere insieme, e in piena
autonomia, la volontà della nazione. Era il modo per tenere a
bada il pluralismo. I commercianti di Bristol non sentirono però
ragioni: avevano capito il meccanismo. Alle elezioni del 1780
giunse loro un’altra offerta di rappresentanza, più confacente
alle loro attese, e decisero di accoglierla58.
Chissà se i rivoluzionari francesi erano al corrente delle
pretese dei mercanti di Bristol e dei moniti di Burke, che fu
fra le altre cose loro fierissimo avversario. Le circostanze li ren-

54
  E. Burke, Mr. Edmund Burke’s Speeches at His Arrival at Bristol and at
the Conclusion of the Poll, 1774, trad. it. in L. Ornaghi (a cura di), Il concetto
di interesse, Milano, Giuffrè, 1984, p. 320.
55
  Ivi.
56
  «Un partito, scrive Burke, è un corpo di uomini che si riuniscono per
promuovere insieme l’interesse della nazione, in base a qualche principio
particolare sul quale tutti concordano»: cfr. Thoughts on the Cause of the
Present Discontents, 1770, in Burke’s Thoughts on the Cause of the Present
Discontents, London, Macmillan, 1905, p. 81.
57
  J. Conniff, Burke, Bristol, and the Concept of Representation, in «Western
Political Quarterly», XXX, 1977, pp. 329-341.
58
  Non era nemmeno così vero che Burke fosse tanto restio a preoccuparsi
degli elettori. Cfr. P.T. Underdown, Edmund Burke, the Commissary of His
Bristol Constituents, 1774-1780, in «The English Historical Review», 287,
LXXIII, 1958, pp. 252-269.

134
devano comunque assai più inquieti e intransigenti. Il capofila
nella contesa per la rappresentanza fu allora Emmanuel Sieyès,
il quale soprattutto temeva che la Francia d’Ancien Régime si
rigenerasse con i suoi particolarismi, insidiando l’unità dello
Stato e il monopolio dell’autorità. Le lacerazioni del momento
l’indussero a elaborare una concezione decisamente restrittiva
della rappresentanza e del mandato elettorale.
Era anche il tempo della legge Le Chapelier, che vietava ai
lavoratori di associarsi. Pertanto, se le elezioni erano lo strumen-
to con cui selezionare i rappresentanti, l’assemblea legislativa e
la sua azione di governo andavano messi al riparo da qualsiasi
istruzione che la dividesse e pregiudicasse la sua capacità di
perseguire il bene comune59. Con rivoluzionaria risolutezza,
e astrattezza, Sieyès attribuiva a quel consesso il compito
esclusivo di costituire l’unità della nazione. Il ragionamento si
articolava in due mosse. La prima consisteva nel fondamento
rigorosamente individualistico prescritto alla rappresentanza
politica: la società era popolata esclusivamente da individui,
liberi e uguali, e andava tenuta sgombra da corpi intermedi.
La seconda mossa unificava gli individui – e la varietà della
vita collettiva – entro un unico mandante virtuale: la nazione.
Una e indivisibile, quest’ultima si costituiva politicamente
tramite il corpo legislativo, che era a un tempo il detentore
monopolistico della rappresentanza e dell’autorità pubblica.
Di nuovo era una prospettiva top/down: «Il popolo, scriveva
Sieyès, non può parlare, non può agire se non attraverso i
suoi rappresentanti e il popolo e la nazione non possono
avere che una voce, quella del sistema legislativo nazionale»60.
A loro volta, «gli interessi particolari devono restare isolati,
e la volontà della maggioranza deve essere sempre conforme
all’interesse generale»61. Precisava ancora Sieyès: «una società
non può avere che un interesse generale. Sarebbe impossibile
instaurare l’ordine se si pretendesse di perseguire vari interessi

59
  Per un resoconto del dibattito costituente francese e sull’azione di
Sieyès si rinvia a P. Violante, Lo spazio della rappresentanza, Palermo, Ila
Palma, 1981.
60
  E. Sieyès, Discorso dell’Abate Sieyès sulla questione del veto regio alla
seduta del 7 settembre 1789, trad. it. in Opere e testimonianze politiche, 1789,
t. I, Milano, Giuffrè, 1993, p. 444.
61
 Id., Che cos’è il Terzo Stato?, 1789, trad. it in Opere, cit., t. I, p. 278.

135
opposti. L’ordine sociale suppone necessariamente unità di
scopi e comunione di mezzi»62.
Era una visione hobbesiana. Una volta che gli elettori si
fossero pronunciati, la parola spettava al corpo collettivo in cui
si ritrovavano gli eletti, liberi da qualsiasi mandato. Spettava
a essi «proporre, ascoltare, accordarsi, modificare il proprio
personale parere» e potevano pure dividersi in maggioranze
e minoranze. Alla fine, tuttavia, erano tenuti a formare «una
volontà comune»63, che aveva come presupposto l’«unanimità
indiretta»64 della nazione. Molto di più che per Burke, il
pluralismo degli interessi costituiva per Sieyès una minaccia
insopportabile. Tanto da convincersi alfine a consegnare al
generale Bonaparte la Francia rivoluzionaria. Divenuto conte
dell’Impero, gli verranno tutt’altre idee, mentre il regime rap-
presentativo era soppresso e la Francia si prendeva una lunga
pausa monocratica65.
Per reperire un’interpretazione della rappresentanza meno
estrema, e più realistica, occorre varcare l’oceano. Tra la Rivo-
luzione gloriosa e la Grande rivoluzione, i Padri fondatori si
mostrarono più disposti a riconoscere tanto il carattere plurale
della collettività e del corpo rappresentativo, quanto l’esistenza
d’interessi privati, o di quelle che Madison denominava «fa-
zioni». Per gli americani il pluralismo culturale e religioso era
addirittura genetico. La consuetudine delle assemblee cittadine
e di villaggio, che disputavano dei pubblici affari, era assodata
ben prima dell’indipendenza. Nel famoso articolo 10 del Federal-
ist, Madison dava per scontato che i rappresentanti fossero dei
delegati e si preoccupassero di affari privati e interessi locali.
Ma soprattutto che le fazioni, fondate sulla natura acquisitiva
degli esseri umani e sull’ineguale distribuzione della proprietà,
fossero incoercibili. Rimuoverle, avrebbe messo a rischio la

62
 Id., Preliminari della Costituzione. Riconoscimento ed esposizione ra-
gionata dei diritti dell’uomo e del cittadino. Letto il 20 e 21 luglio 1789 al
comitato di costituzione dall’Abate Sieyès, trad. it. in Opere, cit., t. I, p. 391.
63
 Id., Discorso dell’Abate Sieyès sulla questione del veto regio alla seduta
del 7 settembre 1789, trad. it. in Opere, t. I, cit., p. 443.
64
  Id., Preliminari..., cit., p. 392.
65
  Sulle origini del regime bonapartista e sulla sua natura plebiscitaria,
L. Scuccimarra, La sciabola di Sieyès. Le giornate di brumaio e la genesi del
regime bonapartista, Bologna, Il Mulino, 2002.

136
libertà, meglio regolarle e orientarle. Ovvero sopportarle e
semmai lasciare che si moltiplicassero entro una repubblica
di vaste dimensioni, ospitante una popolazione numerosa e
differenziata. Fazioni e partiti si sarebbero moltiplicati, interessi
e fedi religiose si sarebbero dispersi, rendendo più remoto il
rischio di coalizioni maggioritarie troppo solide e durature,
refrattarie alla revoca elettorale e, dunque, oppressive nei
confronti delle minoranze.
Madison confidava altresì in un tipico correttivo del mondo
dei notabili. Qualora si fossero rispettate le gerarchie sociali
costituite, le elezioni avrebbero convogliato nel Congresso un
«corpo scelto di cittadini, la cui saggezza [avrebbe potuto]
meglio discernere l’interesse generale del proprio paese ed il
cui patriottismo e la cui sete di giustizia [avrebbe reso] meno
probabile che si [sacrificasse] il bene del paese a considerazioni
particolarissime e transitorie»66. Che gli eletti si affrancassero
dagli interessi privati, era comunque un’eventualità improbabile.
Per contro, l’esperienza condotta lontano dalla madre patria in-
glese induceva gli autori della Costituzione a non riporre troppe
attese nell’autorità pubblica. Ciò rendeva più accettabile che la
rappresentanza introiettasse una dose di pluralismo maggiore di
quella che erano disposte ad accettare le élites europee.
Che la rappresentanza potesse divenire veicolo di più ampia
e pluralistica inclusione sociale e politica è un’idea che si farà
strada con lentezza esasperante. Nella Francia della Restaura-
zione e della Monarchia di luglio e nell’Inghilterra vittoriana
il potere resterà riservato ai ceti possidenti, pur con uno slit-
tamento verso quelli industriali e commerciali. E varrà ancora
la diffidenza verso il pluralismo. Non ne era esente nemmeno
Stuart Mill, quantunque auspicasse una partecipazione più
ampia dei cittadini, estesa anche alle donne. L’allargamento del
suffragio avrebbe sì educato gli elettori, ma andava filtrato: «È
importante, auspicava Mill, che gli elettori scelgano un deputato
più preparato di loro e accettino poi la sua direzione»67. Ancor
più severo, e legato a una concezione aristocratica dell’autorità

66
  Il federalista, n. 10 (Madison), in A. Hamilton, J. Jay e J. Madison, Il
Federalista, Pisa, Nistri Lischi, 1955, p. 62.
67
  J.S. Mill, Considerazioni sul governo rappresentativo (1861), Roma,
Editori Riuniti, 1997, p. 174.

137
pubblica, si mostrerà Walter Bagehot, che confidava invece nella
supremazia riconosciuta al cabinet sul Parlamento, in ragione
del potere di scioglimento che gli era conferito68.
L’alternativa continentale sarà decisamente più drastica.
A formularla in Germania furono alcuni autorevoli giuristi,
esponenti di quel ceto di funzionari, magistrati, accademici,
d’origine borghese che si era rappreso attorno allo Stato,
facendo del diritto la sua specifica arma nelle dispute per il
potere. Il regime rappresentativo era stato accolto anche fuori
dai paesi d’origine, ma costoro tenevano a chiarire come la sua
azione non dovesse mettere in dubbio il monopolio statale – e
la loro idea di ordine sociale – sottomettendosi agli interessi
privati e agli esiti elettorali. Per un pensatore rivoluzionario
come Sieyès, la rappresentanza doveva inchinarsi alla Nazione.
In questa variante si sarebbe inchinata allo Stato, organicistica-
mente ricongiunto con essa, col popolo e con la vita associata.
Era radicale l’argomento con cui uno dei massimi giuspub-
blicisti della Germania bismarckiana e guglielmina, Paul Laband,
troncava ogni controversia sulla portata del mandato e sulla
rappresentanza: «in senso giuridico i membri del Reichstag non
rappresentano nessuno; le loro attribuzioni non sono derivate
da un altro soggetto giuridico»69. È dunque «da considerare
come antigiuridica la contraria concezione che il popolo eserciti,
mediante il Reichstag, come sua rappresentanza, una partecipa-
zione continua agli affari pubblici dell’Impero. Appena compiuta
l’elezione, cessa ogni partecipazione, ogni cooperazione, ogni
influenza giuridicamente rilevante del “popolo intero”, cioè
dei cittadini sulle determinazioni di volontà dell’Impero»70. Un
quarto di secolo dopo a esiti analoghi giungerà anche un giurista
liberale e innovativo come Georg Jellinek, il quale riconosceva sì
al popolo uno spazio che Laband gli rifiutava, ma solo in quanto
organizzato dallo Stato per il tramite del corpo legislativo71.

68
  W. Bagehot, La costituzione inglese (1872), Bologna, Il Mulino, 1995,
pp. 153-156.
69
  P. Laband, Il diritto pubblico del l’Impero germanico (1876), trad. it.
in Biblioteca di scienze politiche ed amministrative, serie 3a, vol. VI, parte I,
Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1914, pp. 400-401.
70
  Ivi.
71
  G. Jellinek, Allgemeine Staatslehre (1914), Berlin, Springer, 1929, pp.
580-582.

138
Altrettanto riduttiva ed esclusiva è l’idea formulata a cavallo
tra i due secoli in Italia e in Francia da due altri giuristi di
elevata caratura come Vittorio Emanuele Orlando e Raymond
Carré de Malberg, che derubricavano la rappresentanza a
strumento per reclutare il personale elettivo. Accademico di
cultura in gran parte d’importazione germanica, Orlando sa-
rebbe divenuto un grande notabile e un protagonista della vita
pubblica per oltre mezzo secolo. Ma proveniva soprattutto da
un paese giunto in ritardo all’unificazione e all’adozione del
regime parlamentare. Forse per questo era tanto perentorio
nel definire la rappresentanza una «finzione»72. Diversamente
da come la userà Hans Kelsen, la parola serviva a sbarrare la
strada a ogni velleità di rendere più rappresentativa e inclusiva
la rappresentanza: finzione era e tale doveva restare. Qualsiasi
«dichiarazione di volontà corrispondente alla delegazione di
poteri, che si suppone essere sopravvenuta»73 era vietata. Gli
elettori «nulla trasmettono e nulla hanno da trasmettere»74.
L’elettore non vota come «uomo», che precede lo Stato ed è
titolare di diritti, ma in quanto «autorizzato dalle leggi», e lì
si esaurisce il suo compito75. Pertanto, poiché popolo e Stato
s’identificano – l’uno è l’«elemento materiale», l’altro ne è la
«personalità giuridica» – i deputati «rappresentano lo Sta-
to», rispetto al quale la rappresentanza, oltre che finzione, è
«funzione»76. È finzione perché non c’è mandato. Ed è funzione
dello Stato, che mediante la costituzione la istituisce.
Non troppo diverso era il punto di vista di Carré de
Malberg. Successore, per un capriccio della storia, di Laband
nella cattedra di diritto pubblico all’università di Strasburgo,
restituita alla Francia all’indomani del primo conflitto mondia-
le, restava nella scia di Sieyès nel sostenere che «l’assemblea
dei deputati ha la funzione di esprimere non la volontà degli
elettori, ma la volontà statale della nazione». Agli elettori

72
 V.E. Orlando, Sul fondamento giuridico della rappresentanza politica
(1895), in Id., Diritto pubblico generale. Scritti varii coordinati in sistema,
1881-1940, Milano, Giuffrè, 1954, p. 424. È un testo originariamente apparso
in francese.
73
  Ivi, p. 440.
74
  Ivi, p. 439.
75
  Ivi, p. 418.
76
  Ivi, p. 440.

139
competeva nient’altro che un «potere di nomina», esclusivo
di qualsiasi mandato77.
Le distanze che separavano i tre maggiori regimi rappresen-
tativi continentali erano ragguardevoli. In Germania nel 1871
era stato introdotto il suffragio universale, ma la preminenza
del potere monarchico e dell’esecutivo non era in dubbio.
Nell’Italia liberale di fine secolo e nella Francia della Terza
Repubblica gli equilibri istituzionali e politici erano tutt’altri:
il parlamento era un’istituzione di peso, era luogo di contese
politiche, ma pure oggetto di aspre critiche. All’ordine del
giorno del dibattito pubblico c’era il dilemma tra paese reale
e paese legale, sollecitato tanto dai democratici, quanto dai
conservatori. Il pluralismo faceva sentire la sua pressione. Il
suffragio universale maschile era stato introdotto in Francia
nel 1848, ma era stata la parentesi plebiscitaria del Secondo
Impero a renderlo pienamente operativo. In Italia la riforma del
1882 incrementò il numero degli elettori fino a due milioni, ma
tutto lasciava prevedere che nuove inclusioni sarebbero tosto
sopravvenute. Compiuta o incombente, l’universalizzazione del
suffragio minacciava una sostanziale redistribuzione del potere.
Il timore si mostrerà eccessivo, anche se il suffragio imporrà
qualche adeguamento al modo di operare delle élites politiche
in carica. Malgrado il quale, tuttavia, l’Italia liberale non reggerà
alla sfida e sopravverrà un regime autoritario, mentre pure per
la Francia si aprirà una stagione di rimilitarizzazione dei con-
flitti. Orlando e Carré de Malberg intendevano piantare solidi
steccati a difesa del regime rappresentativo liberale, insufficienti
tuttavia a sostenere l’impatto con la politica di massa.
I punti di vista restrittivi, antipluralistici, esclusivi, erano
insomma venuti in scadenza. Riaffioreranno molto presto, ma
intanto nuove forze erano all’opera. Era entrato in scena il
movimento socialista e l’andamento della contesa travolgeva i
vecchi modi di pensare la rappresentanza. I conservatori sono
spesso i più lucidi. Come Gaetano Mosca, coetaneo, conterraneo
e amico di Orlando, grande teorico delle élites, il quale avviava
un impietoso ripensamento. Mosca, che non era un giurista,

77
  R. Carré de Malberg, Contribution à la théorie générale de l’État, vol.
II, Paris, Sirey, 1920, p. 230.

140
chiamava la rappresentanza una «menzogna»78, concordando
con Rousseau, verso il quale, inutile dirlo, nutriva ben scarsa
simpatia. Anche lui era un esponente del mondo dei notabili,
destinato a divenire membro autorevole della Camera dei de-
putati, prossimo agli ultimi eredi della Destra storica, e infine
senatore del Regno. Resterà un critico ostinato del regime
rappresentativo fino al 1925. Quando il suo collasso lo indurrà
a aderire al manifesto antifascista di Croce.
Il piglio era arcigno e dichiaratamente conservatore. Ben
conoscendo l’andamento delle contese elettorali, Mosca anti-
cipava l’interpretazione costruttivista della rappresentanza. I
regimi rappresentativi, assediati dal pluralismo, contribuivano a
suscitarlo. Cosa sarebbe accaduto una volta istituito il suffragio
universale? Per Mosca, la dimensione inclusiva e demagogica
del regime rappresentativo era incontrollabile: i pretendenti alla
rappresentanza, in cerca di consenso elettorale la sfruttavano
e ne profittavano anche gli elettori. Il suo verdetto era quindi
senza appello: condannate a essere fonte inesauribile di fram-
mentazione, le istituzioni rappresentative alimentavano anche
l’immoralità pubblica. «Gli elettori, ebbe a scrivere Mosca nel
suo primo scritto di polso, anziché votare il più preparato e il
più onesto scelgono quello che saprà meglio considerare i loro
interessi locali, ovvero di classe, ovvero anche individuali»79.
Includono il peggio ed escludono il meglio. Resterà fedele a
quest’idea80 e curiosamente propugnerà un anacronistico ritorno
all’autorità dei notabili. Solo l’avvento del fascismo l’avrebbe
persuaso a riconoscere al regime rappresentativo qualche me-
rito, ma non scorgeva vie d’uscita. Rimase in preda delle sue
inquietudini.

78
  G. Mosca, Sulla teorica dei governi..., cit., p. 286.
79
  Ivi, p. 306. Mosca ribadirà caparbiamente il suo punto di vista in
occasione dell’introduzione del suffragio universale nel 1912, quando fu
uno dei due soli deputati che votarono contro. All’occasione pronunciò un
durissimo discorso: cfr. Sulla riforma elettorale politica. Discorso pronunciato
alla Camera dei deputati nella tornata del 7 maggio 1912, ora in Id., Ciò che
la storia potrebbe insegnare, Milano, Giuffrè, 1958, pp. 353-367.
80
  Cfr. G. Mosca, Cause e rimedi della crisi del regime parlamentare, in
Id., Partiti e sindacati nella crisi del regime parlamentare, Bari, Laterza, 1949.

141
5. Tecniche di dosaggio e di esclusione

Dove c’è concorrenza, sostiene Elias, c’è tendenza al mono-


polio. Anche nella lotta per la rappresentanza. È un paradosso.
Da un lato la rappresentanza moderna è stata inventata per
consentire al pluralismo d’esprimersi. Dall’altro non sfugge
alla propensione al monopolio e a comprimere la concorrenza.
Il pluralismo, specie quello degli avversari politici, può essere
scomodo per chi governa, o per qualche concorrente: i partiti
maggiori possono volersi liberare di quelli minori. Il ripristino
dell’autorità monocratica è la soluzione estrema. Un po’ per
convenienza, un po’ per necessità, la tendenza a comprimere il
pluralismo si manifesta però anche tra coloro che apprezzano
il regime rappresentativo. La cui storia è anche storia di uno
straordinario assortimento di argomenti, manovre, espedienti,
regole, riforme, intesi a disegnare il perimetro della rappre-
sentanza, ad ammettere più o meno pluralismo, a escludere o
includere. Non mancano nemmeno le promesse di allargare gli
spazi democratici, ma solo per restringerli meglio. E quanto
suggerisce Giovanni Sartori, quando ha polemicamente coniato
per alcune innovazioni recenti – volte a valorizzare il ruolo
dei cittadini e gli elettori: primarie, referendum, investiture
dirette – il concetto di «direttismo»81.
La regola è che ogni misura, inclusiva o esclusiva che sia,
venga avanzata in nome dell’interesse generale, della stabilità,
della rappresentatività, della democrazia, della governabilità. Se
il regime rappresentativo è una tecnica che prevede l’assunzione
di dosi controllate di pluralismo, e dunque di disordine, quanto
pluralismo e quanto disordine conviene accogliere? Quali pre-
tendenti conviene ammettere e quali escludere? Quali offerte di
rappresentanza sono legittime e quali illegittime? Cos’è decidibile
dalla rappresentanza e cosa non lo è? A disciplinare la contesa
politica non sono coinvolte unicamente le parti politiche, ma
pure i portatori d’interessi, gli osservatori, gli intellettuali, gli
specialisti accademici della rappresentanza, la pubblica opinione.

81
  G. Sartori, Democrazia. Ha un futuro?, in A. D’Orsi (a cura di), Lezio-
ni Bobbio. Sette interventi su etica e politica, Roma-Bari, Laterza, 2006. Sul
ritorno della democrazia diretta un’indagine molto circostanziata è quella di
Y. Papadopoulos, Démocratie directe, Paris, Economica, 1999.

142
Ne è buon esempio il tema del mandato. A parte la con-
tesa teorica su cosa significhi, il costituzionalismo liberale
ha dettato tre regole principali: l’irrevocabilità dello stesso
mandato, il suo carattere nazionale e il divieto d’istruzioni.
Poche regole sono state più trasgredite delle ultime due. Ben
più incisive sono invece le regole di dosaggio che circoscrivono
i potenziali fruitori dell’offerta di rappresentanza, che peri-
metrano il popolo, o, meglio, l’elettorato82. I criteri possibili
sono numerosi. A lungo non v’è stato dubbio su restringere il
diritto di voto83. I rivoluzionari francesi furono più generosi,
offrirono l’opportunità di votare a quasi 5 milioni di elettori,
ma distinsero tra cittadini «attivi» e «passivi», con qualche
dubbio sulla distinzione: attivi erano i ceti abbienti, ma pure
i ceti istruiti, che s’iscrivessero alle liste elettorali. Dopo
la Rivoluzione, i criteri saranno più restrittivi. Secondo un
fautore convinto del regime rappresentativo come Benjamin
Constant, il diritto di voto spettava unicamente a chi avesse
interessi – proprietari  – da salvaguardare: quello era il reale
perimetro della società84. Più avanti, la barriera del censo
diverrà insostenibile e sarà abbassata introducendo il criterio
dell’istruzione, che Stuart Mill, però, declinava attribuendo
ai ceti colti il diritto di plural voting85. I cui estremi residui,
riservati agli universitari, saranno cancellati in Gran Bretagna
solo nel 1948.
Estendere o meno il diritto di voto è una scelta tanto
complessa, quanto delicata. L’estensione altera gli equilibri di
potere: tra le élites e i nuovi ammessi e tra le stesse élites, che
intrattengono rapporti diversi con i nuovi ammessi86. È sempre

82
  Una dimostrazione di quanto definire il popolo sia complicato si trova
in P. Rosanvallon, Il popolo introvabile. Storia della rappresentanza democratica
in Francia, Bologna, Il Mulino, 2005.
83
  B. Manin, Principes du gouvernement représentatif, cit.
84
 B. Constant, Principes de politique (1815), in De la liberté chez les
modernes. Écrits politiques, Paris, Librairie Générale Française, 1980, pp.
316-317. Ma non troppo diversamente si sarebbe espresso mezzo secolo dopo
W. Bagehot in La costituzione inglese, cit.
85
  J.J. Miller, J.S. Mill on plural voting, competence and participation, in
«History of Political Thought», 4, XXIV, 2003, pp. 647-667. 
86
  A. Bateman, Disenfranchising Democracy. Construction of the Electorate
in the United States, the United Kingdom, and France, Cambridge, Cambridge
University Press, 2018.

143
un motivo di conflitto. Il suffragio è divenuto universale in
Francia nel 1848, a seguito di un sollevamento rivoluzionario,
mentre in America lo è diventato più pacificamente. In ambedue
i casi era esclusa la popolazione femminile, mentre negli Stati
Uniti anche quella afroamericana. La soglia avversa al voto
femminile sarà mantenuta molto a lungo. Si dubitava della
capacità di giudizio autonomo delle donne e anche qualche de-
mocratico si mostrava perplesso, ritenendole troppo sottomesse
all’autorità familiare. La soglia cadrà a Novecento inoltrato:
in Italia nel 1946, nell’ultrademocratica Svizzera nel 1971. In
America il diritto di voto è stato riconosciuto alla popolazione
afroamericana dopo la guerra civile, ma ha dovuto attendere
il Civil Rights Act e il Voting Rights Act nel 1965 per essere
attuato pienamente. In realtà, molte assemblee statali hanno
seguitato a adottare a suo danno misure di scoraggiamento,
complicando le procedure d’identificazione degli elettori 87,
oppure di disenfranchisement: per esempio escludendo coloro
che abbiano subito una condanna penale, in percentuale molto
più numerosi entro questa popolazione.
Si possono tuttavia usare anche altri criteri di dosaggio,
perfino religiosi. All’alba del regime rappresentativo, John Loc-
ke, il grande teorico della tolleranza, invitava a escludere dalla
vita pubblica i cattolici perché leali a un sovrano straniero88.
L’esclusione durerà fino al 1793. All’inizio del terzo millennio
in Europa si dibatte sul voto agli immigrati: che ci si guarda
di escludere dalla fiscalità. Alla luce delle scelte che gli elettori
vanno effettuando con crescente frequenza, è comparsa all’o-
rizzonte addirittura qualche proposta di revocare il diritto di
voto ai ceti meno istruiti: quasi che un diploma scolastico sia

87
  È il tema appassionatamente sollevato da L. Guinier in The Tyranny
of the Majority: Fundamental Fairness in Representative Democracy, New
York, Free Press, 1995. Guinier è una giurista americana, designata da
Clinton nel 1993 quale assistant attorney general per i diritti civili. L’oppo-
sizione alla nomina, avviata dal Wall Street Journal, accusandola di essere
una quota queen, indusse Clinton a ritirare la nomina in ragione delle sue
proposte definite estremiste e «anti-democratiche». Il suo libro denuncia
come, nel pieno rispetto del principio di maggioranza, le regole elettorali
sistematicamente penalizzassero l’elettorato afroamericano. Il tema è più
che mai di attualità.
88
  J. Locke, Saggio sulla tolleranza, in Id., Scritti sulla tolleranza, a cura
di D. Marconi, Torino, Utet, 1977, p. 104.

144
di per sé garanzia di superiore affidabilità. Oppure di avvalersi
di uno strumento ultrademocratico come il sorteggio89.
È possibile selezionare anche i pretendenti alla rappresen-
tanza: in Inghilterra nel XVIII secolo la proprietà fondiaria
era un requisito necessario. Alla lunga, è rimasto unicamente
il criterio dell’età. Ma la selezione può avvenire sulla base di
criteri politici. Nel dopoguerra la ricostituzione del partito fa-
scista è stata vietata in Italia, mentre nella Repubblica federale
tedesca, oltre al partito nazista, è stato messo fuori legge nel
1953 quello comunista. Nel nuovo millennio nell’Europa ex-
socialista i partiti comunisti sono stati colpiti da anatema. Si
danno anche esclusioni parziali e ufficiose, come la conventio
ad excludendum, che impediva agli eletti del Partito comunista
italiano di accedere al governo. Un espediente più sottile è
dettare norme riguardanti la vita interna dei partiti, ovviamente
per garantirne il carattere democratico90.
La tecnica più banale di dosaggio del pluralismo e della
rappresentanza sono le regole che presiedono allo svolgimento
della competizione: quelle elettorali, che dettano i criteri sia
per avanzare l’offerta, sia per condurre le operazioni di voto.
Richiedere un certo numero di firme, o un deposito cauzionale,
per candidarsi è una forma di selezione. Lo è pure stabilire
quando e come si vota, chi predispone le schede elettorali,
come devono compilare la scheda gli elettori, come si conteg-
giano i suffragi e si traducono in seggi, come sono ritagliate
le circoscrizioni.
Confidando su quest’ultima possibilità, Sieyès volle correda-
re le sue perorazioni di principio a favore della rappresentanza
nazionale con una singolare proposta d’ingegneria elettorale
finalizzata a sterilizzare sia le istruzioni degli elettori, sia gli

89
  Punta sul sorteggio D. Van Reybrouck, Contro le elezioni. Perché votare
non è più democratico, Milano, Feltrinelli, 2015, mentre preferisce gli esperti
J. Brennan, Contro la democrazia, Roma, Luiss University Press, 2018.
90
 I. van Biezen, Constitutionalizing Party Democracy: The Constitutive
Codification of Political Parties in Post-War Europe, in «British Journal of
Political Science», 42, 2011, pp. 1187-1212. Cfr. anche F. Casal Bértoa,
D.R. Piccio e E. Rashkova, Party Laws in Comparative Perspective: Evidence
and Implications, in I. van Biezen e H.M. ten Napel (a cura di),  Regulating
Political Parties: European Democracies in Comparative Perspective, Leiden,
Leiden University Press, pp. 119-148. Tutto il volume contiene dati di ricerca
interessanti.

145
esiti della contesa. Per neutralizzare l’estrazione territoriale e le
affiliazioni politiche immaginò di disegnare geometricamente le
circoscrizioni, ritagliando la Francia in quadrati, delle medesime
dimensioni: il territorio nazionale diveniva uno spazio unitario e
omogeneo, suddiviso unicamente per ragioni funzionali91. Non
contavano dipartimenti, città, villaggi, monti, vallate, fiumi, né la
consistenza demografica delle circoscrizioni. Un contemporaneo
di Sieyès, quasi a coronarne la proposta, avrebbe suggerito di
mettere i deputati in uniforme, onde spogliarli ufficialmente
d’ogni legame privato92: com’era d’uso per i funzionari dell’as-
solutismo monarchico.
Disegno e ridisegno delle circoscrizioni condizionano la
competizione elettorale e i suoi esiti. Il Reform Act del 1832 si
preoccupò di bonificare i rotten boroughs, in cui il deputato non
aveva quasi bisogno di elettori: fu l’effetto di una dura contesa
politica. Sono contese, che su scala diversa, si riproducono
tuttora. In Francia di quando in quando l’esecutivo pilota il
redécoupage, in maniera per nulla innocente, dei collegi93. Negli
Stati Uniti il gerrymandering è una pratica molto frequente. Sono
molto attivi da alcuni anni gli stati a guida repubblicana, nei
quali si diluiscono le circoscrizioni a prevalenza democratica
incrociandole con altre a prevalenza repubblicana. Oppure
vengono ridisegnate in ragione dell’appartenenza etnica degli
elettori94.
Contano anche le norme che disciplinano lo svolgimento
delle operazioni di voto: le tecniche con cui il voto è espresso,
la segretezza, la cabina elettorale, la scheda unica nazionale,
la dislocazione territoriale dei seggi. Ufficialmente servono
a moralizzare la competizione e a promuovere autonomia e
responsabilità personale dell’elettore al momento della scelta.
Ma neanch’esse mancano di orientare i comportamenti di voto

91
 Id., Osservazioni sul rapporto del comitato di costituzione concernente
la nuova organizzazione della Francia di un deputato all’Assemblea nazionale,
1789, trad. it. in Opere, t. I, cit., pp. 457-460.
92
  P. Rosanvallon, Il popolo introvabile, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 207.
93
  C. Benelbaz, Le redécoupage électoral sous la Ve République, in «Revue
du droit public», 6, 2010, pp. 1066-1089.
94
  Sulle pratiche attuali di gerrymandering in America T. Ginsburg e A.Z.
Huq,  How to Save a Constitutional Democracy, Chicago, The University of
Chicago Press, 2018.

146
e d’influire sui risultati95. Perfino il timing delle elezioni non
è senza conseguenze: solo dal 2011 nel Regno Unito è stata
sottratta all’esecutivo la possibilità di convocare i comizi elet-
torali a suo piacere. Ha effetti selettivi pure l’apertura dei seggi
nei giorni festivi o in quelli feriali e quante ore restano aperti.
Molte delle norme in questione incoraggiano, o scoraggiano,
selettivamente, la partecipazione elettorale, con conseguenze di-
verse per le forze politiche e per gli interessi che rappresentano.
Fa anche differenza che gli elettori siano tenuti a iscriversi alle
liste elettorali, o siano iscritti d’ufficio: l’iscrizione a richiesta
è un incentivo negativo per i meno istruiti e i più restii agli
adempimenti burocratici96. In America le elezioni del 2020
sono state segnate dalla polemica sul voto per corrispondenza,
a quanto pare più redditizio per un partito anziché per l’al-
tro. Non senza controversie si sperimenta il voto elettronico.
Può favorire, o contrastare l’astensione. Si può pure imporre
l’obbligo di votare e sanzionare chi si astiene. Un modo per
prevenire l’astensione è investire nell’educazione dei cittadini,
cui un tempo provvedevano anche i partiti, poiché è risaputo
che gli astenuti provengono in prevalenza dai ceti meno ab-
bienti e meno istruiti. C’è altresì da supporre che l’astensione
sia una soglia occulta di censo che a qualcuno torna comoda97.
Un altro meccanismo selettivo dell’offerta consiste nel rego-
lare le disponibilità finanziarie dei concorrenti98. Anche questa
operazione non è mai innocente. Si possono prevedere finanzia-
menti privati e pubblici. Vietare o autorizzare i finanziamenti
privati, istituire o meno tetti a questi ultimi, imporre vincoli
alle spese elettorali e obblighi di rendicontazione ai concorrenti
sono altri modi per dosare l’offerta di rappresentanza. È ovvio
che, quando si autorizzano i finanziamenti privati, i partiti che

95
  Sulle tecniche di voto e su come esse condizionino gli elettori, cfr. A.
Garrigou, Le vote et la vertu. Comment les Français sont devenus électeurs,
Paris, Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, 1992.
96
 L’indagine condotta in Francia da C. Braconnier e J.-Y. Dormagen,
La démocratie de l’abstention. Aux origines de la démobilisation en milieu
populaire, Paris, Gallimard, 2007, mostra tra le altre cose quanto i vincoli
amministrativi possano restringere l’esercizio del diritto di voto.
97
  D. Gaxie, Le cens caché. Inégalités culturelles et ségrégation politique,
Paris, Seuil, 1978.
98
  J. Mendilow e É. Phélippeau (a cura di), Handbook of Political Party
Funding, Cheltenham, Edward Elgar, 2018.

147
dispongono di un bacino elettorale tra i ceti abbienti siano
avvantaggiati rispetto a quelli che si rivolgono ai ceti inferiori,
anche se si sono finanziate campagne elettorali vincenti con
una miriade di contributi modesti.
A dispetto dell’equivalenza tra un uomo e un voto, l’offerta
si può notoriamente selezionare anche tramite le modalità di
conteggio dei voti e di traduzione dei voti in seggi99: sono i siste-
mi elettorali in senso stretto. Ne discendono di nuovo forme di
competizione e risultati molto diversi. Nei sistemi proporzionali
i voti hanno tutti lo stesso valore. Tali sistemi sono apprezzati,
o criticati, innanzitutto perché favoriscono l’espressione del
pluralismo: gli elettori hanno più opportunità di scelta. C’è
pure chi ritiene che i sistemi proporzionali incoraggino la
partecipazione elettorale. Si può tuttavia corredarli di soglie
di sbarramento: che cancellano una quota di voti ridotta, ma
sempre di cancellazione si tratta. O di premi di maggioranza,
che sopravalutano una parte dei voti rispetto al resto.
Sono altamente selettivi, invece, i regimi uninominali,
che corrispondevano in origine a una concezione del popolo
in quanto sommatoria di collettività territoriali, come quella
americana o britannica. I quali inevitabilmente condannano
all’irrilevanza formazioni politiche con ampio seguito: si veda
la sorte del Partito liberale in Gran Bretagna, dove peraltro in
qualche caso il partito che alle elezioni ha ottenuto più voti è
arrivato secondo nell’attribuzione dei seggi. Sempre con intenti
selettivi nel 1959 de Gaulle impose in Francia l’uninominale
con doppio turno, convinto che avrebbe favorito il ralliement
degli elettori moderati, mentre a sinistra gli elettori socialisti e
comunisti sarebbero rimasti divisi. Furono disboscati i partiti
minori, ma socialisti e comunisti non sono rimasti divisi per
sempre e alla lunga i partiti minori sono ricomparsi e cresciuti
in consistenza fino a superare i partiti established.
Se l’avvicendamento al potere di partiti diversi è una
regola ampiamente accettata, la reductio ad duo dell’offerta
politica ha da tempo trovato molti estimatori. È il grande mito
della superiorità british: semplificando al massimo la contesa,

99
  Tra i primi, M. Duverger (a cura di), L’influence des systèmes électoraux
sur la vie politique, Paris, Colin, 1950. Cfr. anche G. Sartori, Ingegneria co-
stituzionale comparata: strutture, incentivi ed esiti, Bologna, Il Mulino, 1995.

148
i partiti che vogliano massimizzare il loro seguito elettorale
sono sospinti a moderare la loro offerta. Si tendono così a
emarginare le formazioni politiche estreme, a tutto vantaggio,
si dice, della stabilità politica e dell’efficacia decisionale. Se
non che, innanzitutto l’idea di due partiti che oltre Manica
si avvicenderebbero ordinatamente al governo è un mito
esagerato. Una cosa erano le opposizioni parlamentari, ma
quella che si usa chiamare alternanza entrerà nel costume
politico in Inghilterra solo dopo il Reform Act del 1832 e
in maniera più limitata di quanto dicano i suoi estimatori100.
In secondo luogo, alla prova dell’esperienza, non sempre i
sistemi dualistici moderano la competizione. Nel secondo
dopoguerra ci sono riusciti per tre decenni. Finché dagli anni
’80, in Gran Bretagna e in America, la contesa politica non si
è gravemente polarizzata. Ha assunto le forme di un’accen-
tuata radicalizzazione sulla destra, non bilanciata però sulla
sinistra. Il Partito laburista e quello democratico si segnalano
piuttosto per la loro moderazione. È stata definita polarizza-
zione «asimmetrica»101, non per questo meno problematica,
divenuta infine una tendenza generale.
Distinguendo tra regimi «maggioritari» e «consensuali»,
Arendt Lijphart ha invece argomentato come in questi ultimi,
dove il pluralismo politico, religioso, linguistico, culturale è
riconosciuto e rispettato102, le performances dell’azione di gover-
100
  In Inghilterra l’alternanza al governo si afferma dopo le guerre napoleo­
niche: J.D.C. Clark, A General Theory of Party, Opposition and Government,
1688-1832, in «The Historical Journal», 2, XXIII, 1980, pp. 295-332. Ma si
affermerà relativamente: cfr. G.N. Sanderson, The «Swing of the Pendulum»
in British General Elections, 1832-1966, in  «Political Studies», 3, XIV, 1966,
pp. 349-360. Cfr. anche P. Rosanvallon, La legittimità democratica. Imparzialità,
riflessività, prossimità, Torino, Rosenberg & Sellier, 2015, pp. 46-56. Sull’al-
ternanza divenuta tratto irrinunciabile dei regimi democratici, cfr. P. Aldrin,
L. Bargel, N. Bué e C. Pina (a cura di), Politiques de l’alternance. Sociologie
des changements (de) politiques, Vulaines-sur-Seine, Éditions du Croquant,
2016, in particolare il capitolo introduttivo dei curatori che racconta come
il mito dell’alternanza sia stato esportato dalla political science statunitense
in tempi piuttosto recenti, tra gli anni ’70 e ’80 del Novecento.
101
  M. Grossmann e D.A. Hopkins, Ideological Republicans and Group Inter-
est Democrats: The Asymmetry of American Party Politics, in «Perspectives on
Politics», 1, XIII, 2015, pp. 119-139. Il concetto di polarizzazione asimmetrica
è applicato alla politica americana, ma si adatta anche alla politica europea.
102
  A. Lijphart, Patterns of Democracy: Government Forms and Performance
in Thirty-six Countries, New Haven, Yale University Press, 2012.

149
no siano spesso più efficaci. Quando contenuto, il pluralismo
dei partiti ha offerto apprezzabili vantaggi. La tesi è ripresa
da Carlo Trigilia, per il quale i vantaggi sarebbero evidenti sul
terreno di quella che si usa chiamare la «coesione» sociale103.
È ancora lotta per la rappresentanza, perché pure la coesione
sociale e i suoi benefici sono controversi. Ultimamente, tuttavia,
anche le democrazie consensuali si sono per lo più arrese alla
semplificazione dualistica.
Le regole scritte, come sempre, non sono tutto. L’andamen-
to del gioco dipende anche da regole non scritte, o da come i
giocatori interpretano le regole scritte e non: tanto i giocatori
interni al gioco, cioè pretendenti alla rappresentanza ed elet-
tori, quanto i giocatori esterni, studiosi inclusi. Ne abbiamo
un esempio recente. Un grande tema di discussione tra giuristi
e scienziati sociali negli anni ’70 è stata la già citata governa-
bilità. È una discussione che tramite i media ha coinvolto la
pubblica opinione e, necessariamente, le forze politiche. Era
un invito rivolto a queste ultime perché rivedessero le tecniche
di rappresentanza e di governo. A suscitare la pressione dei
media sono state le loro esigenze spettacolari, che l’avvento dei
networks commerciali, dipendenti dal mercato pubblicitario,
ha esasperato all’estremo. Simili sviluppi sono approssimati-
vamente descritti con l’etichetta di «presidenzializzazione»104,
evocando una qualche convergenza col modello americano, sia
nella conduzione dell’esecutivo, sia in sede di competizione
elettorale105.

103
  Argomenta in dettaglio C. Trigilia, La sfida delle disuguaglianze. Contro
il declino della sinistra, Bologna, Il Mulino, 2022.
104
  Come tutte le formule, anche questa è sbrigativa. Ne sono pienamente
consapevoli gli studiosi che l’hanno introdotta: cfr. T. Poguntke e P. Webb (a
cura di), The Presidentialization of Politics. A Comparative Study of Modern
Democracies, Oxford, Oxford University Press, 2005. Inquadra storicamente il
fenomeno, sottolineando il ruolo delle nuove tecnologie della comunicazione,
A. Mughan, Media and the Presidentialization of Parliamentary Elections, New
York, Palgrave, 2000. Un’analisi della presidenzializzazione e delle sue ragioni
in P. Rosanvallon, Le bon gouvernement, Paris, Seuil, 2010.
105
 L’accostamento è approssimativo: sul carattere labirintico del regi-
me rappresentativo-democratico in America, cfr. S. Mettler, From Pioneer
Egalitarianism to the Reign of the Super-Rich: How the U.S. Political System
Has Promoted Equality and Inequality over Time, in «Tax Law Review», 68,
2015, pp. 563-611.

150
Traumatizzati dal sovrappiù di leadership che aveva segnato
i regimi autoritari, le nuove costituzioni democratiche avevano
predisposto accorgimenti intesi a stabilizzare l’esecutivo106, senza
tuttavia prevedere alcuna forma di leadership personale, ecce-
zion fatta forse per il gollismo, che aveva comunque suscitato
qualche riserva. La riabilitazione della leadership non è però
stata opera solo dei media e dell’ingegneria elettorale. Insieme
alla reinterpretazione dello stile e dell’azione di governo, è stata
inaugurata nel 1979 da Margaret Thatcher. Il «governo di ga-
binetto» britannico era già predisposto. Ma lei l’ha rinnovato,
adottando una forma di conduzione dell’esecutivo fortemente
personalizzata e aspramente polemica nei confronti dei suoi
avversari: il Partito laburista e i sindacati. In contrasto con
lo stile «corporativo» fino a quel momento in vigore, era una
tecnica rivolta a contingentare il pluralismo e la rappresentanza,
fondata sull’esclusione, che rivisitava radicalmente lo spirito
con cui anche nel Regno Unito era stato finora applicato il
principio di maggioranza.
Non importa dopotutto sapere perché il principio di
maggioranza sia preferibile: se è solo un espediente faute
de mieux, o se il pronunciamento a maggioranza è prova di
maggiore affidabilità della scelta107. Sta di fatto che l’abuso di
tale principio è temutissimo da sempre e che per prevenirlo,
il costituzionalismo ha introdotto qualche dispositivo – non
insormontabile – di salvaguardia: ha separato i poteri e ha ap-
posto limiti al loro esercizio. Al ripristino dei regimi democratici
all’indomani del secondo conflitto mondiale, nella pratica era
comunque invalsa una precauzione: se non proprio il kelsenia-
no «compromesso tra interessi opposti»108, per cui conviene

106
  Con accenti dubbiosi ne coglieva i primi sviluppi B. Mirkine-Guétzévich,
Le régime parlementaire dans les récentes constitutions européennes, in «Revue
internationale de droit comparé», 4, II, 1950, pp. 205-238. Confermava G.
Vedel, Rapport général sur le problème des rapports du législatif et de l’exécutif
présenté au Congrès de l’Association internationale de science politique, in
«Revue française de science politique», 2, VIII, 1958, pp. 755-781. E final-
mente A. Grosser, The Evolution of European Parliaments, in «Daedalus»,
1, XCIII, 1964, pp. 153-178.
107
  Il dibattito è sterminato. Cfr. N. Bobbio, La regola di maggioranza: limiti
e aporie, in N. Bobbio, C. Offe e S. Lombardini, Democrazia, maggioranza e
minoranze, Bologna, Il Mulino, 1981.
108
  H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, cit., p. 30.

151
che maggioranza e minoranza in qualche modo s’incontrino,
quanto meno l’idea di tenere sotto controllo la conflittualità
sociale, mostrando qualche cura anche per l’elettorato delle
opposizioni. Dagli anni ’80, in nome della governabilità una
siffatta cautela sembra sia divenuta eccessiva: le società demo-
cratiche sono state ritenute pacificate a sufficienza da permet-
tersi modalità di governo meno laboriose, più sbrigative, più
efficienti e anche meno inclusive, foriere di misure di policy
anch’esse meno inclusive: ovvero più gradite al mercato e ai
suoi addetti. Se si considerano autocrazia e democrazia non
come un dilemma, bensì come i poli estremi di un continuum
lungo cui si situano i regimi politici, l’esasperazione dello stile
adversary che caratterizza la contesa politica da qualche tempo,
sommato alla leadership personale, segnala uno slittamento dei
regimi rappresentativi in direzione dell’autocrazia: non assoluto,
ma nemmeno trascurabile109.
Per concludere: le partite elettorali non sono mai del tutto
leali. O che le carte sono sempre un po’ truccate da chi le di-
stribuisce, o detta le regole del gioco. I regimi rappresentativi
hanno escogitato una tecnica per condurre pacificamente i con-
flitti, ma, occorre rassegnarsi, seppure condotta con altri mezzi,
è sempre guerra. Eppure, per quanto chi detta le regole e dà
le carte si affanni a limitarne a suo vantaggio l’imprevedibilità,
le elezioni hanno il pregio, che è anche rischio, di riservare di
quando in quando qualche sorpresa. Un verdetto inatteso e
scomodo può sempre capitare.

6. Dalla rappresentanza fidelizzata alla rappresentanza occasionale

Da metà XIX secolo la rappresentanza politica è stata ridi-


segnata dai partiti. Finora i suoi pretendenti avevano operato
su scala locale. I partiti socialisti hanno avanzato viceversa
un’offerta di rappresentanza nazionale, sfruttando la vasta
constituency potenziale che si stava formando nelle fabbriche
e nei quartieri operai.

109
  M. Camau e G. Massardier (a cura di), Démocraties et autoritarismes.
Fragmentation et hybridation des régimes, Paris, Karthala, 2009.

152
Fu l’occasione per reindirizzare contro i partiti l’avver-
sione contro la rappresentanza110. La requisitoria pronunciata
nell’inquieta Germania del primo dopoguerra da Carl Schmitt
ne è un esempio. Levandosi a difesa dell’unità dello Stato, Sch-
mitt all’intrusione dei partiti opponeva un ritratto nostalgico,
idilliaco e anche ingannevole del parlamentarismo liberale.
Portavoce di «interessi di gruppi di individui» e aventi «per
base l’egoismo»111, i partiti avrebbero trasferito il conflitto
sociale lì dove si erano svolti finora civili e fecondi confronti
tra opinioni diverse. Gli eletti dei partiti erano descritti come
delegati, vincolati a ratificare decisioni assunte e contrattazioni
svolte impropriamente in altre sedi.
Non sono mancati però tutt’altri punti di vista112. Tra di essi
quelli espressi negli stessi anni da Weber e Kelsen, entrambi
fiduciosi delle possibilità di rinnovare grazie ai partiti la voca-
zione inclusiva e mediatoria del regime rappresentativo. L’uno
e l’altro convinti che i tentativi di sopprimere il pluralismo e
i conflitti servissero unicamente a rendere questi ultimi più
drammatici e difficili da governare. In alternativa alle soffocanti
routines burocratiche, ma anche alla «massa non organizzata»113,
per Weber i partiti svolgevano tutt’altro servizio. «Il proleta-
riato industriale, sta scritto in un articolo apparso alla fine
del 1917, se si muove compatto, è certo una potenza enorme,
anche nel dominio della “strada”». Canalizzata entro i partiti,
tale potenza perdeva però il suo impeto distruttivo: diveniva
«per lo meno [...] capace di un ordine e di una conduzione
ordinata [...] tramite politici che pensano razionalmente»114.

110
  Sulla polemica contro i partiti, cfr. D. Palano, Partito, Bologna, Il Mu-
lino, 2013. La problematica e instabile legittimazione dei partiti occupa una
posizione preminente anche nel racconto di P. Ignazi, Party and Democracy.
The Uneven Road to Party Legitimacy, Oxford, Oxford University Press, 2017.
111
 C. Schmitt, Parlamentarismo e democrazia (1923), in Id., Parlamen-
tarismo e democrazia e altri scritti di dottrina e storia dello Stato, Cosenza,
Marco Editori, 1998. Qui Schmitt cita Mosca e Michels, il quale ricambierà
poco dopo: cfr. Prefazione alla seconda edizione, in La sociologia del partito
politico, cit., pp. 17-18.
112
  D. Mineur, Archéologie de la représentation politique. Structure et fon-
dement d’une crise, Paris, Presses de SciencesPo, 2010, pp. 186-198.
113
  M. Weber, Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania,
Bari, Laterza, 1919, p. 140.
114
 Id., Sistema elettorale e democrazia, in Scritti politici, cit., p. 83.

153
Ossessionato dalla pervasività della razionalità burocratica,
Weber suggeriva comunque di bilanciarla, e di bilanciare il
pluralismo, prevedendo l’elezione a suffragio universale del
Presidente del Reich115. Non fu una grande idea.
Un’apertura di credito meno condizionata sarà quella di
Kelsen, il quale proverà a conciliare ciò che a Schmitt appariva
inconciliabile, muovendo dal riconoscimento del pluralismo116:
l’azione di raggruppamento svolta di partiti era un mezzo per
ridurlo. Schmitt aveva letto Michels e si faceva forte della
legge di ferro delle oligarchie. L’aveva letto pure Kelsen, ma
non si lasciava intimidire. Non sperava in una democrazia
perfetta117. Ma i partiti imprimevano una piega egualitaria alla
rappresentanza e ne potenziavano l’azione inclusiva. Magari
solo per calcolo elettorale, valorizzavano l’infinitesima quota
di potere riconosciuta a ciascun elettore e contribuivano a
«democratizzare [...] la formazione della volontà generale»118.
Sarà stata una finzione, perfino «grossolana» o «crassa»119, ma
la rappresentanza era per Kelsen – diversamente da Orlando –
una forma di divisione del lavoro utile a regolare il pluralismo
degli interessi e anche a dare voce agli strati inferiori della
società. «L’ostilità alla formazione dei partiti, concludeva, e
quindi, in ultima analisi, alla democrazia, serve – consciamente
o inconsciamente – a forze politiche che mirano al dominio
assoluto degli interessi di un solo gruppo»120.
La storia ci avrebbe messo qualche tempo, e qualche
tragedia, per dare ascolto ai suggerimenti di Kelsen, ma si
rivelerà meno grama quando, un quarto di secolo dopo, i
partiti saranno accolti a pieno titolo dai regimi democratici.
Merita di essere citata la conversione di un altro giurista di
provenienza weimariana, che a suo tempo aveva condiviso le
critiche di Schmitt. Più tardi giudice costituzionale della Re-

115
 Id., Il Presidente del Reich, in Scritti politici, cit.
116
  H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, cit., p. 29.
117
  Ivi, p. 32.
118
  Ivi.
119
 A seconda delle traduzioni in italiano. Kelsen ripeterà più volte la
formula krasse fiktion: in Essenza e valore della democrazia, cit., p. 70. E poi
in Il problema del parlamentarismo (1924), in Id., Il primato del parlamento,
Milano, Giuffrè, 1982, p. 178.
120
  Ivi, pp. 30-31.

154
pubblica Federale, Gerhard Leibholz nel dopoguerra sosterrà
che non v’era altro modo per «organizza[re] e rend[ere] attivi
i milioni di cittadini che si sono emancipati politicamente. Essi
soli riuniscono gli elettori in gruppi capaci di agire politica-
mente [...] Senza il loro tramite il popolo non sarebbe oggi
assolutamente in grado di esercitare un’influenza politica sulle
vicende statali»121. I partiti andavano a suo parere addirittura
costituzionalizzati.
L’astrattezza del popolo dei partiti non era la stessa del
popolo astratto della nazione, né di quello individualizzato
dei notabili. Era un popolo articolato e riordinato in con-
stituencies di grandi dimensioni, fondate su grandi divisioni
sociali e durature nel tempo, che non s’incontrava soltanto al
momento delle elezioni. Ma i partiti socialisti rimodulavano
del pari la rappresentanza, suddividendola in due stadi. Nel
primo il claim di rappresentanza istituiva e includeva i propri
mandanti: la constituency di cui i partiti si facevano portavoce.
Il secondo stadio risiedeva nella delega conferita dal partito,
simbolicamente costituito in corpo collettivo unitamente al
proprio seguito, ai candidati e agli eletti: come delega, poneva
qualche vincolo.
La rappresentanza fidelizzata e inclusiva, inventata dai
partiti socialisti, è stata replicata dai partiti confessionali e
conservatori. Le speranze di rinnovamento suscitate erano
più modeste, erano speranze di mantenimento dello status
quo, di protezione dai partiti di sinistra, ma anche tali partiti
erogavano servizi di rappresentanza inclusivi e protettivi,
eventualmente in forme clientelari. La stabilità – relativa – la
si otterrà tuttavia unicamente una volta superato il secondo
conflitto mondiale.
La rappresentanza fidelizzata dai partiti produrrà un ultimo
aggiustamento. Era un po’ un segno del suo esaurimento: gli
accordi e le pratiche di concertazione adottati a lungo andare
in alcuni regimi democratici tra l’esecutivo, espresso dai par-
titi, e le organizzazioni di rappresentanza «funzionali», quelle
imprenditoriali e i sindacati. Il «neocorporativismo», a volte

121
  G. Leibholz, Il mutamento strutturale della democrazia nel XX secolo
(1968), in Id., La rappresentazione nella democrazia, Milano, Giuffrè, 1989,
p. 320.

155
ufficiale, altre volte ufficioso, è stato una variante della rappre-
sentanza e del governo, che ha rivisto la divisione del lavoro
tra le istituzioni, almeno su alcuni temi, quali l’occupazione, i
salari, i servizi di sicurezza sociale122. I partiti erano però entrati
ormai nella cerchia dello Stato e il loro rapporto con gli elettori
era cambiato. A loro volta, gli interessi avevano guadagnato
autonomia. Sarà la premessa di un nuovo grande rinnovamento
delle tecniche e delle strategie della rappresentanza politica, che
è divenuto visibile più o meno dopo la metà degli anni ’60. Un
sommovimento ulteriore, e un altro sintomo di esaurimento,
è stato la comparsa dei grandi movimenti collettivi, che han-
no adottato modalità di rappresentanza inedite, aggirando le
istituzioni elettive e istituendo con il loro seguito un rapporto
volutamente fluido. Vi farà seguito la radicale trasformazione
sia dei partiti, sia della rappresentanza.
Sono tre i moventi principali, tra tanti, di tale trasforma-
zione. Il primo è stato il cambiamento dei pre-testi con cui i
partiti avevano finora costruito e articolato i loro claims: l’in-
nalzamento del livello medio d’istruzione, l’incremento della
differenziazione sociale, il transito alla società post-industriale,
mettevano in dubbio le grandi constituencies aggregate dai parti-
ti. Il secondo movente è l’evoluzione del con-testo e l’attenuarsi
delle contrapposizioni politiche: la dialettica democratica era
entrata a far parte del costume politico. Il terzo movente, lo si
è già menzionato, è stata l’irruzione nella contesa politica della
televisione: è quello che più ha indotto i partiti a rinunciare
all’azione di raggruppamento, mobilitazione e manutenzione
di constituencies durevoli e di grandi dimensioni e a preferire
nuove forme, provvisorie, di aggregazione.
Se non che, la televisione ha anche concorso a rivedere
i pre-testi e il con-testo, oltre a intervenire nella conduzione
della lotta politica e dell’azione di governo. Aveva comincia-
to la radio, ma la televisione si è rivelata infinitamente più

122
  P.C. Schmitter avvia la discussione in Still the Century of Corporatism?,
in «The Review of Politics», 1, XXXVI, 1974, pp. 85-131 e parla di corpo-
rativismo. Ripropone il tema in G. Lehmbruch e P.C. Schmitter (a cura di),
Trends toward Corporatist Intermediation, London, Sage, 1979. Anche questo
è un argomento ampiamente sviscerato. Tra i contributi che si possono util-
mente rileggere, cfr. S. Berger (a cura di), L’organizzazione degli interessi in
Europa occidentale (1981), Bologna, Il Mulino, 1981.

156
penetrante. Grazie a essa, i pretendenti alla rappresentanza
hanno potuto raggiungere un’audience più larga e variegata e
adattare ben più celermente la loro offerta al corso degli eventi
e agli umori degli elettori, quali sono raccontati dai sondaggi
e dagli stessi mass media. Fidelizzare e includere larghi seguiti
elettorali attorno a speranze di cambiamento dello stato del
mondo era un’operazione dispendiosa e impegnativa. Anche
l’impiego dei media commerciali è costoso. Ma riduce in com-
penso gli impegni organizzativi ed è anche più agevole offrire
agli elettori servizi simbolici. È stata una nuova svolta: che ha
pure cambiato le regole del gioco. Se la rappresentanza politica
era stata inventata quale opportunità di mediazione dei con-
flitti e d’inclusione dei governati, è decaduta come tale. Resta
fondamentale quale rito di consacrazione per i pretendenti al
monopolio statale.
La rappresentanza fidelizzata agiva sui tempi lunghi: una
constituency stabile e leale non si raduna in poco tempo. La
rappresentanza occasionale si fonda su manovre di breve termi-
ne, intese a provocare spostamenti limitati nei comportamenti
di voto, magari solo in alcuni collegi e in qualche ambiente
sociale. È più flessibile, ma anche più effimera e decisamente
meno inclusiva. Non è avara di promesse, ma proprio il suo
carattere occasionale rende selettiva la responsiveness.
Sono sviluppi anticipati da Joseph A. Schumpeter. Econo-
mista di vaglia, sostenitore convinto della libera concorrenza,
preoccupato dal declino del capitalismo imprenditoriale,
politologo per caso, o per genio, Schumpeter, condivideva la
diffidenza degli elitisti classici verso la democrazia. Così come
era anche lui dell’idea che nella rappresentanza è l’offerta a
trainare la domanda123. In Austria e in Germania aveva fatto
esperienza dei partiti socialdemocratici. Le pagine da lui dedi-
cate alla democrazia traevano però più immediata ispirazione
dal suo trasferimento oltreoceano, dove da tempo era visibile
l’impiego di cospicui capitali finanziari nella contesa politica.
A suo parere, era inutile illudersi: la democrazia non prevede
alcuna volontà popolare ed è piuttosto una gara tra le capacità
persuasive e manipolative dei candidati a servizio delle loro
ambizioni di potere, con implicazioni estreme. «Il metodo

123
  J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, cit., p. 258.

157
democratico, precisava, crea legislazione e amministrazione
come sottoprodotti della concorrenza per il potere» 124. È
la concorrenza a guidare l’azione politica, la cui «funzione
sociale» è «assolta, per così dire, incidentalmente, nello
stesso senso in cui [sul mercato economico] la produzione è
incidentale rispetto alla realizzazione di un profitto»125. L’a-
mara conclusione era che la sottomissione alle convenienze
elettorali impone ai governanti «una visione angusta e limitata
dei problemi e rende loro difficile servire interessi nazionali
lontani, che possono richiedere un’attività impegnativa in
scopi non immediati»126.
Schumpeter non si scandalizzava più di tanto. Il pluralismo,
che la rappresentanza portava seco, garantiva se non altro qual-
che libertà agli individui. La sua teoria democratica metteva però
in luce uno dei rischi più gravi della rappresentanza elettiva,
cioè la sua difficoltà di proiettarsi nel lungo periodo. Così,
senza troppa enfasi, lui indicava qualche correttivo: oligarchico,
burocratico, aristocratico o tecnocratico127. Puntualmente non
democratico.
In effetti, la rappresentanza occasionale, che ha rinunciato
a tessere vincoli fiduciari permanenti tra eletti ed elettori,
accorcia parecchio gli orizzonti temporali e quelli dell’azione
di governo. I suoi pretendenti sono pronti a riformulare la
loro offerta alla prossima tornata. Ma sono anche vincolati a
esaudire le pretese di quei settori di elettorato e degli interessi
che considerano decisivi per il loro futuro. L’handicap è piut-
tosto gravoso e alimenta la richiesta di ulteriori aggiustamenti
atti a contingentare il pluralismo e ad assicurare margini più
ampi di discrezionalità all’azione di governo. A loro volta, i
partiti d’opposizione concentrano la loro offerta, anziché sulla
proposta, sulle delusioni suscitate da chi governa e sui suoi
fallimenti. È lo scenario che si è aperto alla fine del XX secolo.
Per loro fortuna, quantunque sia decaduta l’azione inclusiva –
politica e materiale – svolta dai partiti, discrete tracce della
passata fidelizzazione tuttora resistono. Gli elettori non sono

124
  Ivi, p. 273.
125
  Ivi, p. 269.
126
  Ivi, p. 274.
127
  Ivi, pp. 271-281.

158
poi così mobili e si muovono semmai tra partiti contigui, o
verso l’astensione.
L’evoluzione dei partiti ha pure indotto l’azione di rap-
presentanza a esondare dal parlamento e dai partiti. I claims
sono in gran parte predisposti da imprese di rappresentanza
prepolitica, più prossime al modello privatistico e non inte-
ressate a insediarsi ai vertici del regime democratico128, ma
solo a farsi sentire entro la sfera pubblica e a influenzare le
scelte politiche. Gli interessi meglio attrezzati interloquiscono
direttamente con l’esecutivo, i parlamentari, le burocrazie
pubbliche, le amministrazioni locali. Ne risulta una condizio-
ne di «iper-rappresentanza», simbolicamente e materialmente
bilanciata dalla «meta-rappresentanza» attribuita all’esecutivo
e al suo leader.
Più del concetto di direttismo, coniato da Sartori, ha avu-
to fortuna un termine privo di valenze critiche e ironiche: la
«disintermediazione»129. Importato – anch’esso – dal lessico
imprenditoriale e manageriale, è l’ennesimo travestimento della
rappresentanza politica. Replicando le strategie pubblicitarie
che celebrano il rapporto diretto tra produttore e consumatore,
la disintermediazione si accredita come anti-rappresentanza.
Al pubblico, oppresso dalle emergenze, si offre quale testo
il racconto del leader pronto a guidarlo, non intralciato da
vincoli di partito e da programmi stringenti, e a rispondere
alle necessità del momento. L’investitura più o meno diretta
da parte degli elettori, magari propiziata dalle primarie, si vor-
rebbe inclusiva. Manin la chiama «democrazia del pubblico» o
dell’audience, stando alla traduzione in inglese del suo libro130.
Se ne sono avvantaggiati gli interessi economicamente più dotati
e più agguerriti sul piano mediatico e sono stati penalizzati i
gruppi sociali che componevano i grandi elettorati fidelizzati.

128
  D. Castiglione, The System of Democratic Representation..., cit.
129
  Sulla disintermediazione A. Chadwick, Disintermediation, in M. Bevir
(a cura di), Encyclopedia of Governance, Thousand Oaks, Sage, 2007, pp.
232-233; M. Cuono, In principio era il mercato, poi venne la rete. Disinterme-
diazione, spontaneità, legittimità, in «Iride», 2, XXVIII, pp. 305-317. E ancora
C. Biancalana (a cura di), Disintermediazione e nuove forme di mediazione.
Verso una democrazia post-rappresentativa?, Milano, Fondazione Feltrinelli,
2018; A. Campati, La «democrazia immediata»: prospettive a confronto, in
«Teoria politica», Annali X, 2020, pp. 297-315.
130
  B. Manin, Principes du gouvernement représentatif, cit., pp. 283-290.

159
Tolta la maschera falsamente inclusiva del direttismo, è stata
una reinvenzione esclusiva della rappresentanza, non troppo
benefica per la legittimità dei regimi democratici.
La teoria della rappresentanza ha provato a contenere i
danni riscoprendo e valorizzando il concetto di accountabil-
ity, anch’esso importato dal linguaggio del management131.
L’accento è spostato dal mandato espresso dagli elettori al
rendiconto che gli eletti sono tenuti a dare del loro operato,
giustificandolo pubblicamente. Il concetto era già noto alla
teoria politica. Hannah F. Pitkin, già a metà anni ’60, vi rav-
visava un aspetto della rappresentanza politica, senza tuttavia
attribuirle troppa enfasi: era all’incirca la stessa cosa della
responsiveness132. L’attenzione odierna per l’accountability
ridisegna invece il profilo della rappresentanza e del regime
democratico. Il cui nuovo profilo è tratteggiato da Fritz Scharpf
opponendo il government for the people al government of the
people. Il popolo, manco a dirlo, c’è sempre. Ma se la demo-
crazia, diciamo, tradizionale, si legittimava in quanto input
oriented, perché prometteva di prestare ascolto agli elettori,
la democrazia attuale – Scharpf si riferisce alle istituzioni eu-
ropee – si legittima in quanto output oriented133. Agli elettori
spetta il compito di giudicare a cose fatte. A considerare la
bassa popolarità delle istituzioni dell’Unione europea, i giudizi
dei cittadini non sono così lusinghieri.
È tuttavia l’accountability più affidabile del mandato? La
teoria è molto prudente. Se è finzione il mandato, il giudizio
retrospettivo non è da meno e per le medesime ragioni134. Se
i pretendenti alla rappresentanza è giocoforza si avvalgano di
distorsioni, dissimulazioni, distrazioni, perché mai dovrebbe-

131
  D. Castiglione, Accountability, in M. Bevir (a cura di), Encyclopaedia
of Governance, cit., pp. 1-7. Nonché A. Przeworski, S.C. Stokes e B. Manin
(a cura di), Democracy, Accountability and Representation, Cambridge, Cam-
bridge University Press, 1999.
132
  H.F. Pitkin, Il concetto di rappresentanza, cit., pp. 83-84. Sul rapporto
tra accountability e responsiveness, le riflessioni di A. Di Giovine, Dal principio
democratico al sistema rappresentativo: l’ineluttabile metamorfosi, in «Rivista
AIC», 1, 2020, pp. 93-98.
133
  F. Scharpf, Governare l’Europa. Legittimità democratica ed efficacia delle
politiche dell’Unione Europea, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 6-13.
134
  J.M. Maravall, Accountability and Manipulations, in A. Przeworski,
S.C. Stokes e B. Manin, Democracy, Accountability and Representation, cit.

160
ro rinunciarvi al momento di rendicontare la loro azione? È
improbabile, inoltre, che gli elettori siano in grado di giudi-
care più di quanto siano capaci di dare istruzioni credibili.
Reagiscono a volte al funzionamento dei servizi pubblici,
o all’andamento del costo della vita. Per lo più votano per
inerzia. Altre volte aderiscono all’offerta elettorale di una
parte politica unicamente per impedire a un’altra di prendere
il sopravvento. Neanche gli elettori più informati sarebbero
in grado d’esprimere con un semplice voto una valutazione
complessiva e attendibile dell’operato degli eletti. Dalle parti
della rational choice si sostiene che siano sensibili alle perfor-
mances economiche. Ma vi sono dati di ricerca che mostrano
come in media gli elettori abbiano memoria unicamente di
quelle registrate alla vigilia del voto135. Tanto più che la contesa
per la rappresentanza esercita anch’essa un’azione distorsiva
non solo al momento di avanzare un’offerta elettorale, ma
anche quando si tratta di render conto, i concorrenti usano
criticarsi, e denigrarsi, reciprocamente. L’attenzione prestata
all’accountability è semmai coerente con il government for the
people e con la prospettiva esclusiva con cui gli eletti hanno
preso a pensare e rivestire il proprio ruolo: per intendere le
esigenze della collettività vi sono i gruppi d’interesse, i mo-
vimenti collettivi, i sondaggi, la società civile, i pareri degli
esperti. Compito degli eletti è governare, secondo il principio
per cui le scelte di policy non hanno colore politico, ma sono
giuste o sbagliate.
Consapevole della modesta affidabilità dell’accountability
«verticale», la teoria politica le ha affiancato l’accountability
«orizzontale»136. È l’azione di verifica e controllo svolta dalle
magistrature, dalle corti costituzionali, dal Parlamento rispetto
all’esecutivo, dall’opposizione rispetto alla maggioranza, dalla
pubblica opinione, dai media. Grosso modo, è la separazione
dei poteri. In linea di principio, ha maggiori opportunità
di successo. Ma anche i margini di problematicità dell’ac-
countability orizzontale sono elevati. I pubblici poteri sono

135
  Questo dimostrano ad esempio per gli Stati Uniti i dati analizzati da
C.H. Achen e L.M. Bartels in Democracy for Realists, cit., pp. 90-115.
136
 G. O’Donnell, Horizontal Accountability in New Democracies, in
«Journal of Democracy», 3, IX, 1998, pp. 112-126.

161
in concorrenza tra loro e l’azione di controllo reciproco non
sempre è affidabile. Quanto le magistrature sono indipendenti
e quanto il loro operato è condizionato dalle preferenze poli-
tiche dei giudici?137 Non sono affidabili nemmeno le agenzie
internazionali che valutano le performances dei regimi politici,
che dettano ratings molto considerati dagli investitori e che
magari misurano la qualità democratica138. Non sono in ogni
caso questi i rimedi alla svolta occasionale ed esclusiva della
rappresentanza politica.
Un contributo per rinvigorire l’accountability potrebbe
semmai venire dall’attività professionale di analisi e valutazione
delle policies, condotta da specialisti, centri di ricerca, uffici
ad hoc, che osservano le policies, la loro ideazione, il loro
andamento, i loro costi, il loro impatto139. È un’attività che
è considerevolmente cresciuta ed è apprezzabile, quantunque
riveli anch’essa margini elevati di problematicità. Non solo
non esistono criteri di valutazione universali, ma soprattutto,
quale uso è fatto delle analisi professionali entro la contesa
per la rappresentanza? Ancora una volta, comunque, se
l’analisi delle politiche può essere utilissima per migliorare
l’attività normativa e amministrativa, il suo contributo inclu-
sivo è modesto ed è improbabile che concorra ad accorciare
la distanza che la rappresentanza occasionale ha suscitato tra
eletti ed elettori.
Che è il fine che perseguono invece non le formule diret-
tiste che si esauriscono nel voto – elezioni dirette, primarie,
referendum –, ma le procedure partecipative adottate da

137
  L’argomento è sviluppato da P. Rosanvallon, La legittimità democra-
tica, cit.
138
  L’attività di valutazione è largamente condotta internazionalmente e
non solo. World Audit, è un’agenzia no profit che assembla informazioni
raccolte da agenzie come Freedom House, Transparency International, Am-
nesty International, Human Rights Watch, The International Commission of
Jurists (cfr. www.worldaudit.org), che misurano la qualità democratica. Dal
2006 viene compilato un Democratic Index a cura dell’Economist Intelligence
Unit: una delle istituzioni culturali fondamentali del capitalismo giudica
la democrazia. S’interroga sul tema D. Beetham, The Idea of Democratic
Audit in Comparative Perspective, in «Parliamentary Affairs», 4, LII, 1999,
pp. 567-581.
139
  G. Regonini, Explaining Complexity to Power. A Failed Mission?, in
«International Review on Public Policy», 1, V, 2023.

162
molti regimi democratici, sempre nell’intento di rivitalizzare
la rappresentanza politica140. Le procedure partecipative sono
numerose: a volte sollecitate dai cittadini, altre volte istituite
dalle autorità di governo per coinvolgerli e interpellarli. Forum
civici, town meetings, débats publics, giurie popolari, assemblee
decentrate d’ogni sorta, consessi e sondaggi deliberativi, con-
sultazioni online, sono tecniche di governo ormai ordinarie.
Si possono, grosso modo, distinguere tra democrazia diretta,
o rappresentanza decentrata, e forme di consultazione su
temi circoscritti. Le tecniche più raffinate sono ascrivibili alla
cosiddetta «democrazia deliberativa», che più di ogni altra è
stata oggetto di riflessione elaborata141. La democrazia rappre-
sentativa è accusata di trattare i cittadini come consumatori o
spettatori? Ebbene, è venuta l’ora di ascoltarne le opinioni in
maniera meno sbrigativa e più attendibile che non attraverso il
voto o i sondaggi: la deliberazione si preoccupa d’informarli, di
migliorare le loro competenze sulle issues, di farli argomentare
alla pari e in buona fede, di metterli in condizione di conoscersi
e persuadersi reciprocamente, per maturare scelte condivise e
orientate all’interesse generale.
La pratica, come d’abitudine, non mantiene la promessa,
la deliberazione è laboriosa e non si presta a ogni genere di
decisione. Difficile è che sia egualitaria, perché non tutti han-
no gli strumenti conoscitivi adeguati per partecipare alla pari
ai suoi consessi, né sono in grado di impadronirsene entro di
essi, tantomeno di argomentare in pubblico. Né è immaginabile
un’informazione pienamente esaustiva attorno alle alternative
disponibili. Come sono infine scelti i facilitatori professionali
e gli specialisti che intervengono nei consessi deliberativi?
Ancora: sono di solito i governanti a selezionare chi partecipa:
con quali criteri lo fanno? Un altro limite della deliberazione

140
 G. Smith, Democratic Innovations. Designing Institutions for Citizen
Participation, Cambridge, Cambridge University Press, 2009; E. De Blasio e
M. Sorice, Innovazione democratica: un’introduzione, Roma, Luiss University
Press, 2016.
141
 Per tutti: A. Floridia, La democrazia deliberativa: teorie, processi e
sistemi, Roma, Carocci, 2013; Id., Un’idea deliberativa della democrazia.
Genealogia e principi, Bologna, Il Mulino, 2017. Un contributo recente è il
volume collettaneo curato da L. Blondiaux e B. Manin, Le tournant délibératif
de la démocratie, Paris, Presses de SciencePo, 2021.

163
è il suo côté spoliticizzante: i partecipanti sono individui, al
cui buon senso, politicamente sterilizzato, sono demandate le
scelte142. Ma esistono realmente scelte non politiche, dunque
non divisive?
La deliberazione, che, a pensarci, è anch’essa una forma di
rappresentanza, immagina comunque un dialogo e una coope-
razione orizzontale tra i cittadini in contrasto con l’accresciuta
verticalità elitista dei regimi rappresentativi attuali. Malgrado
i suoi limiti e le difficoltà a maneggiarla, non mancano perciò
motivi per apprezzarla quale complemento – e non in contrasto –
alla rappresentanza politica. Come altre forme partecipative, è
una forma d’inclusione politica, ambivalente, ma rispettabile.
Vi sono esperienze in cui la deliberazione ha aiutato a dirimere
controversie molto delicate. In Irlanda e in Islanda sono stati
convocati consessi deliberativi su temi di grande rilevanza,
addirittura costituzionale143. Purché la loro convocazione non
sia strumentale e i governanti concedano loro sincera considera-
zione, le consultazioni deliberative potrebbero restituire valore
alla decisione condotta collegialmente e smentire il rabbioso
antagonismo delle odierne contese elettorali. È da vedere se
riusciranno ad attecchire.
Niente, in verità, potrà mai acquietare le critiche alla
rappresentanza politica. Dichiararne la crisi nell’ordinaria con-
tesa politica torna utile a chi si voglia sgravare delle proprie
responsabilità, oppure voglia propiziare revisioni delle regole,
o lanciare nuovi claims di rappresentanza, o infine ridurre gli
spazi delle istituzioni elettive. In compenso, neanche la moder-
nità avanzata sembra pronta a rinunciare alla sua finzione. E

142
  F.M. Rosenbluth e I. Shapiro, Responsible Parties. Saving Democracy
from Itself, New Haven, CT, Yale University Press, 2018. Una critica serrata
dei correttivi direttisti in F. Pallante, Contro la democrazia diretta, Torino,
Einaudi, 2020.
143
 Merita menzione il caso della riforma costituzionale condotta in
Islanda nel 2009-2013: cfr. H. Landemore, Inclusive Constitution-Making:
The Icelandic Experiment, in «Journal of Political Philosophy», 23, 2014, pp.
166-191. Pure interessante è il caso della Irish Constitutional Convention del
2012-2014, seguito dalla Irish Citizens’ Assembly. Cfr. D.M. Farrell, J. Suiter
e C. Harris, Systematizing’ Constitutional Deliberation: The 2016-18 Citizens’
Assembly in Ireland, in «Irish Political Studies», 1, XXXIV, 2019. Sempre in
Irlanda sono state riunite due assemblee deliberative nel 2012 e nel 2016 sui
temi delle unioni civili e dell’aborto.

164
infatti la lotta per la rappresentanza prosegue animatissima. Ne
danno esempio i dibattiti sulle quote per rimediare al deficit di
rappresentanza di cui soffre la popolazione femminile. Sono un
claim ricorrente, già predisposto dall’azione di rappresentanza
prepolitica dei movimenti femministi, di cui alcuni partiti si
sono impadroniti. C’è chi intende guadagnare consenso entro
tale popolazione, chi è favorevole per ragioni di giustizia, chi
considera un’inclusione paritaria della popolazione femminile
motivo di arricchimento e di uguaglianza. Che la discussione
sia vivace è buon segno e ha anche ottenuto, in alcuni paesi,
importanti risultati. Resta fermo che le quote sono un benefi-
cio simbolico, mentre alla popolazione femminile sono dovuti
miglioramenti sostanziali144.
Persistono in compenso, e si sono aggravate di molto,
altre disuguaglianze nella rappresentanza: le quali ormai non
riguardano unicamente gli strati inferiori della società, ma
anche i ceti intermedi. Ne è prova l’impressionante incre-
mento dell’astensionismo, come pure la frequenza di verdetti
elettorali che premiano formazioni politiche eccentriche. Per
la rappresentanza è una sfida serissima. I suoi addetti pro-
fessionali si sono forse persuasi che, salvate le apparenze, sia
possibile governare anche in condizioni di bassa inclusione e
d’incerta legittimità. Data l’entità dei problemi che tocca loro
affrontare, forse sbagliano calcoli: la loro autorevolezza si è
drammaticamente indebolita, la ribellione degli esclusi può
rivelarsi molto scomoda, i nostalgici dell’autorità monocratica
sono sempre all’erta.

144
  K. Celis e J. Lovenduski, Power Struggles: Gender Equality in Political
Representation, in «European Journal of Politics and Gender», 1-2, I, 2018,
pp. 149-166.

165
capitolo terzo

PARTITI

1. Dall’America all’Europa

La tecnologia politica del moderno regime rappresentativo


ha visto la luce in Inghilterra, donde è stata largamente esportata.
Quel suo fondamentale ingranaggio che è il partito politico è
stato inventato oltre Atlantico. In Europa dei partiti americani
è a lungo invalsa un’immagine semplificata e distorta, tributaria
delle esplorazioni condotte in loco da James Bryce e Moises
Ostrogorski1, che furono condizionati dalle loro frequentazioni
upper class, intellettuali, giornalistiche, dove, volgendo la fine
del XIX secolo, i partiti erano oggetto di critiche impietose.
Da tali critiche fu influenzato anche Max Weber2. Da allora,
i partiti americani hanno prevalentemente goduto in Europa
di modesta considerazione: partiti senza valori, né programmi,
guidati da spregiudicati mestieranti della politica, funzionali
unicamente alla conquista delle cariche elettive e responsabili
della scarsa moralità della vita pubblica.
Non era esattamente in questo modo. La storia dei partiti
americani era iniziata intorno alla fine degli anni ’20, quando

1
  Cfr. J. Bryce, The American Commonwealth (1889), New York, Macmil-
lan, 1911; M. Ostrogorski, La démocratie et l’organisation des partis politiques,
Paris, Calmann-Lévy, 1902. Sulla ricezione di Bryce e Ostrogorski in Europa
e su come abbiano condizionato il punto di vista europeo sui partiti ame-
ricani cfr. M. Vaudagna (a cura di), Il partito politico americano e l’Europa,
Milano, Feltrinelli, 1991. È da segnalare inoltre il contributo di A. Testi,
Trionfo e declino dei partiti politici negli Stati Uniti, 1860-1930, Torino, Otto,
2000. La bibliografia americana è ovviamente ricchissima. Ci limitiamo a M.
Shefter, Political Parties and the State. The American Historical Experience,
Princeton, Princeton University Press, 1993 e A. Ware, Political Conflict in
America, New York, Palgrave MacMillan, 2010.
2
 M. Weber, La politica come professione, in Id., Scritti politici, Roma,
Donzelli, 1998.

167
ci si era già approssimati al suffragio «universale»: ovviamente
bianco e maschile. È nella cosiddetta età di Jackson che i partiti
sono intervenuti a riconfigurare la rappresentanza politica. Eroe
delle guerre indiane, avvocato, figura pubblica di prestigio,
Andrew Jackson era un estraneo rispetto all’oligarchia nota-
biliare che aveva finora guidato il paese. Per sostenerlo vide
pertanto la luce la prima grande impresa di rappresentanza
collettiva, che sarà confermata dopo le elezioni. Per stabilire un
confine più netto tra i detentori dell’autorità sociale, tutt’altro
che sbandati dopo l’elezione di un outsider, e le istituzioni
di governo, l’alternativa sarebbe consistita nel costituire bu-
rocrazie professionali centralizzate, analoghe a quelle che si
erano iniziate ad allestire in Europa3. Burocrazie di tal fatta,
però, oltre a essere in contrasto con il federalismo e la cultura
americana dell’autogoverno, avrebbero resistito, oltre che ai
notabili, anche ai nuovi arrivati, che preferirono i partiti e lo
spoils system. In fin dei conti, era una soluzione democratica.
Per utilizzare la formula di Maurice Duverger, quelli
americani erano partiti d’origine «interna»4. Il primo, quello
jacksoniano, fu allestito in vista delle elezioni. Ma vi provvide
una fazione che aveva già avuto accesso alle istituzioni pubbli-
che federali e locali. Contrariamente a quanto ha argomentato
la lunga schiera dei loro detrattori, e aspiranti riformatori, i
partiti americani, benché non disponessero delle complesse
elaborazioni ideologiche che caratterizzeranno i partiti europei,
erano formazioni politiche nient’affatto sprovviste di principi e
disegni politici. Ovvero, non erano unicamente strumenti per
selezionare e sostenere i candidati e gate-keepers delle carrie-
re politiche. Senza prevedere iscritti, come i partiti europei,
erano comunque imprese di rappresentanza permanenti, che
assemblavano larghe constituencies, strutturate a più livelli,
ramificate sul territorio, guidate da addetti professionali, a loro
volta affiancati da un gran numero di attivisti e simpatizzanti.
Ai partiti americani mancava il riferimento tipicamente euro-
peo alle classi sociali. Quantunque i conflitti sociali fossero aspri
e col tempo i sindacati divenissero ben organizzati e combattivi,

3
  M. Shefter, Political Parties and the State, Princeton, Princeton University
Press, pp. 61-98.
4
  M. Duverger, I partiti politici (1951), Milano, Comunità, 1961, p. 16.

168
e le constituencies dei partiti includessero operai e immigrati, i
percorsi della rappresentanza di questi strati non sono per nulla
paragonabili a quelli offerti alla classe operaia dai partiti socialisti
europei. Per Sombart, che s’interrogò sull’argomento, l’appunta-
mento con il socialismo era rinviato ed era prova della relativa
arretratezza politica americana5. Ma è più appropriato ritenere
che la tempistica della politica di massa e dei grandi conflitti
industriali sia stata diversa sulle due sponde dell’oceano e che i
claims di rappresentanza si siano perciò sviluppati diversamente.
Per Martin Shefter la nazionalizzazione della working
class fu condizionata dalla precoce introduzione del suffragio
universale, dalla frammentazione delle istituzioni di governo,
dall’insorgere di altre linee di frattura, in parte connesse alla
guerra civile, intersecatesi con quella di classe6. Segnate dalla
presenza di un’amplissima ed eterogenea popolazione immi-
grata, le classi lavoratrici d’oltreoceano si prestarono ben più
a essere ricomposte lungo cleavages etnici. Entro e attorno alle
fabbriche s’insedieranno i sindacati, ma, visto che i partiti si
erano ormai impiantati, non si svilupparono quelle sinergie che
hanno segnato l’esperienza del movimento operaio in Europa.
Tre altri argomenti li ha sollevati Arnaldo Testi. Il primo è
che un vivace movimento socialista, con un seguito anche nel
mondo intellettuale, comparve pur sempre, ma ebbe solo vita
più breve che in Europa. Il secondo argomento è la stretta
alleanza stabilita tra Partito democratico e sindacati che ha
segnato la stagione del New Deal. Il terzo sono gli apprezzabili
risultati ottenuti dalle classi lavoratrici nei singoli stati, dove si
concentreranno le loro rivendicazioni in termini di legislazio-
ne sociale e di welfare: non a carattere pubblico come quello
europeo, ma pur sempre welfare7.
I partiti americani e il party government hanno vissuto una
prolungata stagione di successi dopo la Guerra civile. Specie nei
centri urbani, ove le condizioni erano più propizie. Lì si con-
centrava la popolazione, lì i guasti prodotti dall’industrialismo
erano più visibili e dolorosi, lì covavano i maggiori potenziali di

5
  W. Sombart, Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo? (1906), Milano,
Bruno Mondadori, 2006.
6
  M. Schefter, Political Parties and the State, cit., p. 111.
7
  A. Testi, Trionfo e declino..., cit., pp. 137-198.

169
opposizione da ordinare e politicizzare. Il governo municipale
era la prima istituzione pubblica a preoccuparsi dello stato della
popolazione. Ciò ne faceva una posta appetibile per chiunque
nutrisse ambizioni politiche. In queste condizioni sono stati
escogitati dai partiti il patronage e la machine politics. I loro
addetti erano liberi imprenditori affiliati al partito, spesso
d’estrazione popolare, che con larga autonomia tessevano reti
di relazioni, dispensavano favori, procuravano sussidi a chi
versava in ristrettezze, intercedevano presso le autorità mu-
nicipali, procacciavano opportunità di lavoro, promuovevano
occasioni d’intrattenimento. Preposti a quella che per Weber
era addirittura un’«impresa [...] fortemente capitalistica»8, i
cosiddetti boss svolgevano un’attività di radicamento, ma anche
di governo, modulata in funzione delle situazioni locali. Ancora
a inizio Novecento i partiti americani, oltre a mobilitare la loro
constituency popolare in vista delle elezioni, l’accudivano, la
socializzavano alla politica, l’istruivano, l’organizzavano e la
proteggevano in mille forme. È probabilmente la loro efficacia
che ne fece oggetto delle durissime critiche evocate all’inizio9,
finché dopo le riforme della Progressive Era i partiti non su-
biranno una profonda mutazione.
Le riforme promossero la costituzione di un’amministra-
zione federale e la nazionalizzazione del governo del paese.
L’obiettivo era contrastare i grandi interessi economici, insieme
al patronage e alle macchine di partito, mediante una forma di
governo fondata su una partecipazione più ampia e diretta dei
cittadini e su un’amministrazione pubblica competente e attenta
all’interesse generale10. Contro il degrado della vita pubblica,
segnalato da una sequenza di casi di corruzione, l’idea dei

8
  M. Weber, La politica come professione, cit., p. 211.
9
  Per una ricostruzione, cfr. N.L. Rosenblum, On the Side of the Angels:
An Appreciation of Parties and Partisanship, Princeton, Princeton University
Press, 2008, pp. 165-189. Molto opportunamente vi si sottolinea l’uso sinergico
dei termini corruzione e riforma: pp. 170-172.
10
  P. Rosanvallon, La legittimità democratica, Torino, Rosenberg & Sellier,
1985, pp. 70-79. Ma cfr. anche G. Borgognone, I tecnocrati del progresso. Il
pensiero americano tra capitalismo, liberalismo e democrazia, Torino, Utet,
2015. Quella che i difetti della democrazia si curassero con più democrazia
sarebbe un’antica convinzione della politica americana, cfr. C.H. Achen e L.M.
Bartels, Democracy for Realists. Why Elections Do Not Produce Responsible
Government, Princeton, Princeton University Press, 2016, pp. 52-68.

170
Progressisti era che servisse un consenso non-partisan e che i
partisans divenissero indipendent citizens, capaci di scegliere
razionalmente i propri rappresentanti, non intralciati da lealtà
partitiche11. Pertanto, furono introdotte procedure referendarie
a livello statale e locale, le primarie, il recall, l’investitura diretta
del capo dell’esecutivo, nonché l’elezione a suffragio diretto dei
membri del Senato. Sempre per moralizzare il costume politi-
co, si adottò la registrazione obbligatoria alle liste elettorali e
perfino i test di alfabetismo. Ma l’effetto non fu di rendere più
libero il voto, ma di complicarne, e restringerne, l’esercizio. Fu
un modo per consolidare il bipartitismo e liberarsi dei third
parties: il Socialist Party e il People’s Party, sorto negli anni ’90
per sostenere le ragioni dei farmers poveri e del proletariato
urbano contro la grande industria, la speculazione finanziaria,
i monopoli12. Finora sollecitati a votare dalla machine politics,
fasce consistenti di elettori working class e immigrati furono
sospinti verso il non voto e ai margini della vita politica: nel
giro di quindici anni la partecipazione elettorale, che era arrivata
all’80 per cento degli aventi diritto, decadde di 15-20 punti13.
Per i partiti americani iniziava un’altra stagione.
Nel frattempo, varcata la metà secolo, i partiti moderni
avevano cominciato ad attecchire in Europa14. Le comunicazioni
erano già sviluppate a sufficienza perché le notizie sull’espe-
rienza americana varcassero l’oceano. C’è da presumere che
coloro che hanno fondato i partiti socialisti ne avessero qualche
conoscenza15. In vista dell’allargamento del suffragio furono
comunque allestite imprese di rappresentanza dello stesso
genere, ma adattate ad altre circostanze e ad altri con-testi.
È una vicenda iniziata con i partiti socialisti, i cui pre-testi
originari sono stati l’industrializzazione e l’urbanesimo. Ma se

11
  N.L. Rosenblum, On the Side of the Angels, cit., p. 181.
12
  L. Goodwyn, Democratic Promise. The Populist Movement in America,
New York, Oxford University Press, 1976. Sul consolidamento del biparitisimo
A. Ware, Political Conflict in America, cit. pp. 100-104.
13
  W.D. Burnham, Critical Elections and the Mainsprings of American
Politics, New York, Norton, 1970, pp. 84-85.
14
 Una ricognizione comparativa su Stati Uniti, Francia e Germania è
condotta in I. Katznelson e A.R. Zolberg (a cura di), Working-Class Forma-
tion: Nineteenth-century Patterns in Western Europe and the United States,
Princeton, Princeton University Press, 1986.
15
  L’ipotesi è avanzata dalla comparazione transatlantica condotta da M.
Ostrogorski, La démocratie et l’organisation des partis politiques, cit.

171
il loro intento era offrire alle classi lavoratrici un’opportunità
di opposizione e resistenza diversa dall’illegalità, dalla protesta
locale, dalle esplosioni distruttive di violenza, il loro testo era
un disegno alternativo d’ordine sociale e di giustizia. I domi-
nati non sono d’istinto disposti alla ribellione16: convocarli per
resistere insieme e ordinatamente, anche fuori dalle contese
elettorali, richiese grandi capacità persuasive e organizzative.
Nell’elaborazione dei loro testi, quasi tutti i partiti socialisti
hanno impiegato dosi diverse di marxismo, traendone ispira-
zione per la loro azione simbolica e organizzativa intorno al
concetto di classe. Quanto mai variegato è stato tuttavia il loro
repertorio d’esperienze. Dapprincipio hanno tutti fruito delle
forme di autorganizzazione dal basso delle classi popolari.
Fondamentale era, naturalmente, il con-testo: l’andamento e
il timing dello sviluppo capitalistico e la dislocazione territo-
riale della possibile audience del partito. In Germania, dove
la struttura industriale aveva una conformazione policentrica,
la Spd, anche grazie all’intesa col sindacato, riuscì a superare
gli ostacoli opposti dal Reich bismarckiano e guglielmino. La
socialdemocrazia austriaca era al contrario concentrata attorno
a Vienna. Il socialismo italiano era diviso tra campagne, città,
Nord e Mezzogiorno e infinite specificità municipali. I social-
democratici scandinavi avranno largo seguito nelle campagne.
Il laburismo inglese è invece gemmato col nuovo secolo dalle
Unions, che da metà Ottocento avevano preso slancio e ottenuto
significativi riconoscimenti legislativi: nell’attesa l’elettorato
operaio si rivolgeva ai liberali. In Francia la rappresentanza
del mondo del lavoro fino ai primi del Novecento fu condotta
prevalentemente dai sindacati. Sul terreno elettorale suppliva il
riformismo moderato di un partito di notabili come il Partito
radicale, fin quando nel 1905 la Sfio non riuscì a unificare una
parte delle preesistenti formazioni operaie e socialiste.
Non tutte le esperienze nazionali hanno avuto uguale inten-
sità. Usando una metafora idraulica, i partiti socialisti comunque
concorsero a mettere a regime il malcontento e i sentimenti
d’ingiustizia popolari, trasformando quelle che erano state finora
intese come classes dangereuses in classes laborieuses. Laboriose,

16
  Ancora B. Moore jr., Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta (1978),
Milano, Comunità, 1983.

172
ma organizzate e pertanto dotate di un potenziale d’intimidazione
in grado di mettere in scacco sia l’autorità dello Stato, sia il do-
minio del mercato. Il seguito dei partiti non solo era denominato,
identificato e rivendicato, era disciplinato e protetto, tessendo
reti di socialità e di aiuto reciproco. I partiti dettavano norme
sociali, codici di condotta, linguaggi, identità condivisi. Alla loro
constituency offrivano un riparo e un’opportunità di abitare la
politica. Nelle congiunture critiche il fabbisogno d’«integrazione»,
o d’inclusione, s’impennava e i partiti l’esaudivano17, svolgendo
a un tempo un’azione di governo di portata sistemica.
Il mondo del lavoro ha trovato rappresentanza anche nei
grandi partiti moderati, conservatori, confessionali, che si
definivano interclassisti. La cui esperienza non è stata meno
impegnativa. Pure questi partiti si sono sviluppati raggruppando
e incorporando trame associative preesistenti e creandone di
nuove. Ha fatto da battistrada la politica britannica. Gli allar-
gamenti del suffragio avevano indotto i pretendenti a organiz-
zarsi sistematicamente, specie nei centri urbani. Ostrogorski ha
reso famoso il caso del caucus di Birmingham, organizzato dai
liberali18. Dagli anni ’80 del XIX secolo i conservatori avevano
apprestato una macchina di propaganda agguerrita e condotta
professionalmente come la Primrose League. Contava centinaia
di migliaia d’iscritti e coinvolgeva proprietari e imprenditori, ceti
intermedi e working class. Avanzando mirati propositi riforma-
tori, venati di paternalismo, la Ligue e il partito svolgevano la
loro azione promozionale entro le società locali, fatta anche di
feste, banchetti e balli popolari. Offrì un contributo la Chiesa
d’Inghilterra: era anch’essa un’istituzione che raggruppava e
rappresentava, benché con altre finalità19.

17
  Sul concetto d’integrazione, G. Roth, I socialdemocratici nella Germania
imperiale (1962), Bologna, Il Mulino, 1971. Sul rapporto tra l’insorgere dei
partiti e le congiunture critiche A. Pizzorno, I soggetti del pluralismo, Bologna,
Il Mulino, 1980, pp. 11-50.
18
  M. Ostrogorski, La démocratie et l’organisation des partis politiques, cit.
Ostrogorski è aspramente critico. In realtà, organizzarsi politicamente era
nell’ordine delle cose man mano che la contesa politica si animava: cfr. T.R.
Tholfsen, The Origins of the Birmingham Caucus, in «The Historical Journal»,
2, II, 1959, pp. 161-184.
19
  D. Ziblatt, Conservative Parties and the Birth of Democracy, Cambridge,
Cambridge University Press, 2017. Cfr. anche M. Roberts, Popular Conservatism
in Britain, 1832-1914, in «Parliamentary History», 3, XXVI, 2007, pp. 387-410.

173
In altri paesi la costituzione di partiti di massa in concor-
renza con quelli socialisti ha incontrato più difficoltà. L’as-
semblaggio era complicato, anche per ragioni culturali: come
radunare con un unico claim gli strati superiori, intermedi e
popolari? Sono stati utilizzati più pre-testi: le reti notabiliari
locali, l’appartenenza confessionale, il nazionalismo. E l’avver-
sione al socialismo. Nel secondo dopoguerra due grandi partiti
popolari su base confessionale si sono imposti in Germania e
in Italia. In Francia, fallito il tentativo del Mrp di costituire
un partito confessionale, solo dopo il 1958 un grande partito
moderato nazionale si è raccolto attorno alla figura del generale
de Gaulle, quando però il modello classico del partito di massa
iniziava a consumarsi.
Pur disponendo di un capitale politico d’avvio molto
più sostanzioso, e avendo a che fare con tutt’altro pubblico,
i partiti non socialisti hanno imitato la scelta d’instaurare
rapporti durevoli e solidi con gli elettori e di attrarre iscritti
che li sostenessero finanziariamente o col lavoro volontario. I
partiti socialisti hanno trasformato operai, artigiani, maestri di
scuola, impiegati, sindacalisti in dirigenti, sindaci, parlamentari,
ministri. Vista la concorrenza, anche i grandi partiti moderati
e conservatori hanno investito sulla carriera dei loro addetti
mediante l’inclusione dei ceti intermedi. Fu un processo di
democratizzazione generalizzata, seppur contenuta, delle élites.
Con oltre due milioni di voti, cioè quasi il 30 per cento
dei consensi, la Spd aveva radunato a fine secolo il seguito
elettorale più numeroso tra i partiti tedeschi. Alla vigilia del
primo conflitto mondiale i socialisti svedesi attraevano un terzo
dei votanti, mentre i confratelli italiani, divisi in due partiti,
e quelli austriaci erano a un quarto. Per contro, in Francia i
socialisti e in Gran Bretagna i laburisti dovranno aspettare il
dopoguerra per superare la soglia del 20 per cento.
I partiti erano anche strutture composite e litigiose. Per ra-
gioni ideologiche, ma pure per diversità di vedute sulle strategie
e sulle tattiche da adottare. Per i partiti socialisti, la divisione
più grave è stata quella con i comunisti nel primo dopoguerra:
la rivoluzione dei soviet ha costituito un effetto di con-testo che
avrà implicazioni politiche di gran momento, in Italia e nella
Repubblica di Weimar. L’esperienza del dopoguerra successivo,
condizionata dalla partecipazione comune alla lotta antifascista

174
e alla Resistenza, è stata meno drammatica, anche se, forti della
loro coerenza ideologica e della loro consistenza organizzativa,
i partiti comunisti in Italia e in Francia hanno superato i cu-
gini socialisti. I comunisti italiani hanno comunque corretto il
modello leninista, cui i confratelli d’oltralpe si sono attenuti
più rigorosamente. Forse la leadership comunista italiana era
più duttile, forse il radicamento operaio dei comunisti francesi
era più robusto20.
Ad ogni buon conto: l’elemento più qualificante del con-testo
dei partiti europei è stata la torreggiante presenza dello Stato.
Costituiva tanto un antagonista, quanto un modello. A metà XIX
secolo i suoi apparati avevano assunto dimensioni imponenti e
la dipendenza da essi della vita collettiva era in crescita. Fu una
sollecitazione essenziale per mettersi per quanto possibile alla
sua altezza. La socialdemocrazia tedesca ci provò con il massimo
impegno. Per reclutare e accudire le sue centinaia di migliaia
di iscritti, per organizzare le migliaia di quadri che li intratte-
nevano, allestì una burocrazia gigantesca21. Michels l’avrebbe
definita «una copia in miniatura dello Stato»22. Parlamentari,
eletti locali, quadri e collaboratori, professionali o volontari, sedi,
organi di stampa e via seguitando, sostenevano la sua presenza
sociale. Circondata da un ricchissimo insediamento subculturale
e da un largo assortimento di organizzazioni collaterali, la Spd
tedesca si configurava addirittura come «contro-società» – la
formula è di Annie Kriegel23 – premessa e non solo promessa
di un nuovo ordine. È il caso più illustre, ma non il solo.

20
  M. Lazar, Maisons rouges: les partis communistes français et italiens de
la Libération à nos jours, Paris, Aubier, 1992.
21
  G. Roth, I socialdemocratici nella Germania imperiale, cit. Alle soglie
del primo conflitto mondiale la Spd contava un milione di iscritti, 4 mila
funzionari e 10 mila impiegati: ivi, p. 156.
22
  La formula della copia in miniatura la ripropone R. Michels in Demo-
crazia formale e realtà oligarchica (1909), in G. Sivini (a cura di), Sociologia
dei partiti politici, Bologna, Il Mulino, 1970. Ancora: R. Michels, La sociologia
del partito politico (1911), Bologna, Il Mulino, 1966, pp. 40 e 490. L’idea di
Eduard Bernstein era che si dovesse dar luogo a una «democrazia efficiente,
con assemblee rappresentative, funzionari retribuiti e una direzione centrale
munita di pieni poteri»: in I presupposti del socialismo e i compiti della so-
cialdemocrazia (1899), Bari, Laterza, 1968, pp. 200-201.
23
 A. Kriegel, Le parti modèle: la social-démocratie allemande et la IIe
Internationale, in Id., Le pain et les roses, Paris, Presses Universitaires de
France, 1968, p. 165.

175
Grazie allo spazio culturale e simbolico da essi circoscrit-
to, i partiti erano pure nazioni nella nazione. Se l’intento era
unificare una pluralità di condizioni sociali e locali etero-
genee, di provvederle di una qualche coerenza, lo facevano
anche operando sul piano simbolico. Gli Stati fabbricavano
la nazione tramite la lingua, la bandiera, i monumenti, le ce-
rimonie pubbliche, la scuola, la coscrizione. Anche i partiti lo
facevano, svolgendo un’azione educativa, che accompagnavano
elaborando simboli e rituali distintivi: bandiere, inni, raduni,
feste popolari, perfino un loro linguaggio. Relazioni complesse
si intrecciavano infine tra dirigenti, quadri, militanti, iscritti,
elettori: professionali, fraterne, amicali, clientelari, formali e
informali.
Per apprezzare le differenze tra i partiti Weber ha distinto
tra partiti di notabili, che erano dei proto-partiti, e partiti
di massa. Seguiranno classificazioni più elaborate. Maurice
Duverger, un giurista migrato dal diritto pubblico alle scienze
sociali, ha scritto nel 1951 un libro fondamentale, in cui, oltre
a distinguere partiti d’origine interna ed esterna, nati entro
o fuori dalle istituzioni rappresentative, li ha classificati in
partiti diretti e indiretti, di comitati, di sezioni, di cellule, di
quadri, di massa, di milizia e perfino in famiglie politiche24.
Come sempre, definizioni, classificazioni e tipologie sono utili,
ma fanno torto alla pratica25. I partiti apprendono reciproca-
mente, ma differiscono i loro dirigenti, i quadri, i meccanismi
di reclutamento, i comportamenti dei loro addetti, le forme
di appartenenza, gli assetti organizzativi. Non meno diverse
le prestazioni di rappresentanza, le tattiche e le strategie, i
discorsi, le issues, nonché le policies di cui i partiti si fanno
promotori.
Fanno parte del con-testo dei partiti anche i rapporti
tra loro. I partiti socialisti erano outsiders, ma, almeno fino

24
  M. Duverger, I partiti politici, cit. Il concetto di famiglia politica sarà
approfondito da D.L. Seiler, Partis et familles politiques, Paris, Presses Uni-
versitaires de France, 1980; e, più di recente P. Mair e C. Mudde, The Party
Family and Its Study, in «Annual Review of Political Science», I, 1998, pp.
211-229.
25
  Sono del tutto condivisibili le avvertenze di metodo di F. Raniolo, Miti
e realtà del Cartel party. Le trasformazioni dei partiti alla fine del ventesimo
secolo, in «Rivista italiana di scienza politica», 3, 2000, pp. 553-582.

176
alla Prima guerra mondiale, alcuni lo erano più di altri: la
Spd più di tutti, ma pure una parte dei socialisti italiani e
francesi. Al momento del conflitto preferiranno però la lealtà
nazionale alle tanto declamate solidarietà internazionali. A
guerra finita, ciò non impedì alla contesa politica di divenire
esplosiva e in Germania, come in Italia, i partiti socialisti, cui
si erano aggiunti i partiti comunisti, furono estirpati con la
forza da altri partiti, che Duverger ha definito pour cause «di
milizia». Assai turbolento è stato l’entre deux guerres pure in
Francia, dove l’estrema destra giungerà al potere all’indomani
dell’invasione nazista. Terribile è stato in Spagna il destino
del regime dei partiti repubblicani. Ha qualche buona ragione
Daniel Ziblatt, secondo cui la presenza sociale del Partito
conservatore è ciò che ha consentito in Gran Bretagna di
affrontare più agevolmente lo stress del suffragio universale
e di tenere a bada le pulsioni antiparlamentari, che anche lì
non mancavano26.
Screditato l’autoritarismo a partito unico, nel secondo do-
poguerra i partiti hanno potuto far valere le loro benemerenze.
Non tutte le loro dirigenze si erano arrese ai regimi autoritari,
alcune si erano ritirate a vita privata, altre erano espatriate,
altre si erano opposte anche armi alla mano. In molti avevano
subito persecuzioni spietate. Quando si sono insediate alla
guida dello Stato, nessuno, o quasi, ebbe forza d’obiettare. E
i partiti sono stati riconosciuti finanche nei testi costituzionali,
con i quali hanno ufficialmente sottoscritto la loro adesione
al regime democratico27. Non che i rapporti reciproci fossero
idilliaci, ma col trascorrere degli anni le asprezze decadranno.
Nel caso ritenuto più pacifico, che è quello del Regno Unito,
dopo aver collaborato per cinque anni al governo, in occasione
della campagna elettorale del 1945, Churchill accusò il Labour
di voler imitare la Gestapo per attuare il suo programma
socialista. Ancora più teso è stato il conflitto in Francia e in
Italia e ci è voluto del tempo perché si calmasse: il Partito
comunista italiano, tolta la parentesi del ’45-’47, non è arrivato

26
  D. Ziblatt, Conservative Parties and the Birth of Democracy, cit.
27
 I. van Biezen, Constitutionalizing Party Democracy: The Constitutive
Codification of Political Parties in Post-War Europe, in «British Journal of
Political Science», 42, 2011.

177
mai a ricoprire ruoli nel governo nazionale. Ma la volontà di
non esasperare oltre misura la contesa politica ha permesso di
stabilizzare i regimi democratici e ha incoraggiato importanti
misure politiche inclusive. È questo il segno del Golden Age
della democrazia dei partiti28, che si è esaurito, guarda caso,
insieme alla stagione dello sviluppo, dell’intervento pubblico
nell’economia e del welfare.

2. Il radicamento dei partiti

Fino a quando è stato in vigore il suffragio ristretto la


contesa elettorale è rimasta per lo più circoscritta all’attività
dei notabili entro le sfere locali. Era riconosciuta a questi
ultimi una posizione di preminenza sociale che erano tenuti
a onorare, controbbligando gli elettori. Le affinità politiche
più ampie, costituite attorno alle personalità di maggior
spicco, non erano stringenti, e i confini di quelli che allora si
chiamavano partiti erano fluidi. La novità dei grandi partiti
popolari è stato l’allargamento a dismisura degli spazi della
lotta politica, coinvolgendo nuovi strati sociali, ma pure il
rinnovamento dei metodi di lotta: era diventata una guerra
di posizione, condotta in maniera pianificata e sistematica,
con le sue casematte e le sue trincee. Era quanto serviva a
strutturare constituencies non solo disperse sul territorio, ma
pure eterogenee per condizione sociale, occupazionale, perfino
per la lingua che parlavano.
Tutti i partiti hanno investito capitali simbolici, organizza-
tivi, relazionali e di competenze per darsi un’organizzazione
nazionale e anche un’articolazione funzionale complessa. Il
mondo del lavoro era diviso tra grandi, medie, piccole industrie,
imprese artigiane per settori produttivi, tra operai qualificati
e generici, tra lavoro contadino e artigiano. C’erano i ceti in-
termedi, pubblici e privati, gli intellettuali, i giovani e anche
le donne, già quando non votavano. I partiti dovevano essere
pure istituzioni pensanti. Attiravano intellettuali di prestigio e
ai loro dirigenti e quadri era richiesto un elevato livello cul-

28
  La definizione è di P. Mair, Ruling the Void? The Hollowing of Western
Democracy, in «New Left Review», 42, pp. 25-51.

178
turale. Si costituiva così un sapere di partito, che precipitava
in quotidiani, riviste, libri. Era anche un modo, specie per i
partiti socialisti e comunisti, per approssimarsi ai circuiti del
potere. Per i partiti moderati e conservatori l’avvicinamento
era superfluo, visto che dai circuiti del potere avevano di solito
avuto origine. Ma per i partiti socialisti e comunisti l’estraneità
fu un problema. Pure la cultura ha concorso ad allargare le
loro relazioni anche con gli avversari politici.
Quantunque fossero organizzazioni nazionali, i partiti sono
stati anzitutto i loro insediamenti locali. Avendo in mente il
modello dello Stato-nazione, sono stati osservati troppo dall’alto
verso il basso, o dal centro verso la periferia. Ma se i partiti
hanno preso lo Stato a modello, operavano anche in tutt’altro
modo. Il contatto con gli elettori era assicurato dalla loro
presenza sul territorio e dalle loro pratiche di radicamento.
Almeno finché i media non hanno invaso la rappresentanza. Alle
contese elettorali per il governo municipale i partiti socialisti
hanno dedicato le loro prime energie. Era localmente che il
consenso andava reperito e accumulato, per essere ricomposto
sul piano nazionale. Ma la condizione degli altri partiti non era
troppo diversa: dovevano reggere la concorrenza.
Gli insediamenti locali richiedevano manutenzione co-
stante. La colorazione politica dei territori, una volta definita,
è rimasta piuttosto stabile nel tempo, ma non era scontata
dall’inizio. I partiti di massa lo sapevano e se ne preoccupa-
vano. Era una scelta strategica: reclutavano in massima parte
localmente i candidati alle elezioni nazionali e questi ultimi,
una volta eletti, erano un raccordo permanente. Restavano
legati ai loro collegi, li visitavano, vi pronunciavano discorsi,
v’incontravano associazioni e portatori d’interesse, vi inau-
guravano opere pubbliche, presenziavano a manifestazioni
sportive e a feste patronali, visitavano le scuole, ossequiavano
i maggiorenti locali, stringevano mani, carezzavano infanti,
scrivevano lettere di raccomandazione, si facevano intermediari
con le burocrazie pubbliche e le autorità nazionali. Oggetto
di grandi cure erano gli amministratori e le amministrazioni
locali: erano poste pregiate, queste ultime, della competizio-
ne elettorale, erano presidi da conquistare per controllare il
territorio e per alcuni partiti erano luoghi di sperimentazioni,
in molti casi originali e di successo. Specie nei grandi centri

179
urbani è la storia del «socialismo municipale», sviluppatasi
sovente in contrasto con il centralismo statale e nemmeno
ristretta ai partiti socialisti29.
Lo sviluppo locale dei partiti non poteva che avvenire se-
condo geometrie molto difformi e mutevoli. L’intensità della
loro penetrazione era dettata dalle loro capacità e dalle loro
scelte organizzative, ma anche dalle circostanze. Fungevano
sovente da pre-testo circuiti preesistenti. Come già per lo Stato,
non sempre ai partiti conveniva omologare e unificare più di
tanto l’assortimento delle situazioni locali. La facciata nazio-
nale ricopriva un variegato mosaico di tasselli, sul piano non
solo sociale. A scavare nei radicamenti sul territorio si trova di
tutto: solidarietà di classe, deferenze notabiliari, tradizioni mu-
nicipali, antiche beghe paesane, varie forme di associazionismo
civico, coalizioni d’interessi d’ogni genere, l’azione di qualche
personalità politica, di qualche imprenditore, professionista o
ecclesiastico di prestigio30.
L’ibridazione tra organizzazione nazionale e insediamenti
locali non era del tutto pacifica: alimentava costumi politici
eterogenei ed era motivo di polemiche e competizione interna.
In alcuni partiti più che in altri, lealtà nazionali e consuetudini
locali confliggevano. Grande motivo di critica, dall’esterno, ma
anche dall’interno, erano le relazioni personali, contrapposte,
nel nome della moralità pubblica e della legalità, ai vincoli
associativi impersonali. In alcuni partiti il dualismo era ben
sopportato. Non potendo contare su risorse di autorità socia-
le, i partiti di sinistra si sono di solito mostrati critici verso il
clientelismo, ma non ne erano del tutto immuni31.
È da notare, per inciso, come il cosiddetto clientelismo
non sia un fenomeno residuale, un retaggio arcaico destinato
a scomparire. Non va nemmeno ridotto a patronage, cioè a

29
  P. Dogliani, Un laboratorio di socialismo municipale. La Francia (1870-
1920), Milano, Angeli, 1991.
30
  Una ricerca da fare sarebbe quella sulla collocazione delle sedi periferiche
dei partiti: quante erano collocate presso le parrocchie, le sedi sindacali, gli
ambulatori dei medici condotti, gli studi degli avvocati, ecc.
31
  Offre un interessante esempio M.P. Berg, Reinventing «Red Vienna»
After 1945: Habitus, Patronage, and the Foundations of Municipal Social
Democratic Dominance, in «The Journal of Modern History», 3, LXXXVI,
2014, pp. 603-632.

180
scambio di voti e favori. Nella vasta galassia di relazioni appros-
simativamente unificate entro questa categoria rientrano autorità
sociale, paternalismo, obbligazioni reciproche di vario genere,
gratuità, amicizia, connivenze, intimidazioni: tutti moventi, che
travalicano i confini della politica e non sono riducibili alla
logica dello scambio. Questo ne spiega la sopravvivenza nelle
democrazie avanzate32.
È merito delle ricerche che in Italia sono state dedicate
all’argomento l’aver aperto squarci illuminanti sulla complessità
dei rapporti intrattenuti dai partiti con gli ambienti in cui
s’insediavano per svolgere la loro azione di rappresentanza. Il
difetto di molte di tali ricerche sta nell’aver ridotto indiscrimi-
natamente le relazioni clientelari a testimonianza d’arretratezza
e immoralità. Non è neanche infondato supporre che i ricerca-
tori abbiano trovato rapporti clientelari laddove sono andati a
cercarli, come nel Mezzogiorno d’Italia, non trovandoli dove
non venivano cercati.
Una teoria generale delle modalità con cui i partiti reclu-
tavano proseliti, coltivavano elettori e curavano interessi è
difficile da formulare. I fattori che entrano in gioco sono così
numerosi che è difficile riconoscere regolarità affidabili. Tra i
tentativi più riusciti c’è quello condotto da Martin Shefter, che
ragiona sul timing dell’insorgere delle burocrazie pubbliche
e della politica di massa33. Le burocrazie consolidatesi prima
che quest’ultima si sviluppasse avrebbero fatto argine al pa-
tronage, che avrebbe trovato condizioni più propizie allorché
per qualche motivo – il Mezzogiorno d’Italia, alcune regioni
di Spagna, Grecia, della stessa Francia – l’azione dello Stato
è stata rallentata o diluita. L’intermediazione personalistica e
a corto raggio avrebbe più possibilità di persistere quando

32
  Aiutano a rileggere la complessità del patronage e delle relazioni clientelari
in maniera più distaccata rispetto al loro racconto come residui premoderni
J.-L. Briquet e F. Sawicki (a cura di), Le clientélisme politique dans les sociétés
contemporaines, Paris, Puf, 1998 e S. Piattoni (a cura di), Clientelism, Interests
and Democratic Representation. The European Experience in Historical and
Comparative Perspective, Cambridge, Cambridge University Press, 2001. Cfr.
anche H. Kitschelt e S.I. Wilkinson (a cura di), Patrons, Clients, and Policies
Patterns of Democratic Accountability and Political Competition, Cambridge,
Cambridge University Press, 2007.
33
  M. Shefter, Party and Patronage: Germany, England, and Italy, in «Politics
and Society», 4, VII, 1977, pp. 403-451.

181
difettano i servizi resi universalisticamente dallo Stato. Ogni
teoria incontra comunque le sue eccezioni.
È ovvio motivo di differenza la strategia organizzativa che
ciascun partito decide di adottare. Gli studiosi dei partiti ita-
liani hanno spesso utilizzato quale parametro il Partito comu-
nista italiano e la rappresentazione che esso dava di se stesso.
All’indomani del secondo conflitto mondiale aveva costituito
una poderosa organizzazione politica nazionale, dotata di una
leva di quadri di elevata professionalità, temprata negli anni
della lotta clandestina e della resistenza antifascista. Geloso dei
suoi confini e del suo severo costume politico, il Pci è stato
però un caso unico per la capacità di governare con mano
ferma i terminali locali. La stampa di partito era rigogliosa
e distribui­ta capillarmente. Oltre al sindacato, l’affiancavano
numerose organizzazioni collaterali. Le sue sezioni operavano
in permanenza, gli iscritti si riunivano con regolarità, grandi
energie erano dedicate all’addestramento dei quadri e all’i-
struzione degli iscritti. Il gruppo dirigente era impegnato a far
aderire il partito alla società italiana, ma pure a fare aderire
la società al partito, o a farvi aderire quella parte cui indiriz-
zava la sua offerta di rappresentanza: il concetto gramsciano
di egemonia è stato una guida preziosa. Erano ben diverse le
forme in cui il partito era abitato e agiva in un luogo e in un
altro: tra le fabbriche dei centri industriali del Nord, in cui
era spalleggiato dai sindacati, nelle campagne emiliane, dis-
sodate dal proselitismo socialista, e nel Mezzogiorno, dove la
Democrazia cristiana, grazie al suo largo accesso alle risorse
pubbliche, riusciva a rivolgere agli elettori un’offerta crescente
di misure protettive. Il partito era diverso anche lì dove si era
combattuta la Resistenza, nei luoghi in cui si erano svolte le
lotte contadine del dopoguerra, nelle aree di piccola impresa
più restie all’azione sindacale e in quelle in cui era più vivace
la concorrenza della Chiesa e dell’associazionismo cattolico34.

34
  In realtà, il Pci è riuscito fin quasi alla fine a inviare in periferia dirigenti
di fiducia dei suoi organismi centrali, spesso estranei al contesto locale. Ma lo
ha fatto più nel Mezzogiorno che nelle altre regioni, dove spesso s’imponevano
logiche locali originali: L. Baldissara, «Per una città più bella e più grande». Il
governo municipale di Bologna (1945-1956), Bologna, Il Mulino, 1994. Delle
condizioni del Pci nel Mezzogiorno peninsulare dà ampia illustrazione S.G.
Tarrow, Partito Comunista e contadini nel Mezzogiorno, Torino, Einaudi, 1972.

182
Ma il Partito comunista era un unicum. La Democrazia
cristiana, che al contrario concedeva ai propri terminali peri-
ferici ampia autonomia, è un parametro più realistico. Aveva
alle spalle l’esperienza del Partito popolare, che aveva fatto
delle autonomie locali uno dei capisaldi del suo programma
politico. La Chiesa e l’associazionismo cattolico l’avevano
aiutata a dotarsi di una macchina nazionale, complessa ed
efficace. Stratificata e ramificata, disponeva anch’essa di un
quotidiano, di una casa editrice, di grandi associazioni di
cooperative e di un’organizzazione sindacale imparentate con
essa. Giunta immediatamente al governo a tutti i livelli, ebbe
largo accesso a risorse che le hanno consentito di liberarsi da
legami troppo vincolanti con le gerarchie ecclesiastiche e gli
ambienti imprenditoriali. Per quanto però fosse solido come
istituzione nazionale, il partito seguitava a aderire dappresso
alle società locali35. Nei primi anni ’50 ha provato a dotarsi di
una leva di quadri professionali, ma è rimasta un patchwork
di fazioni eterogenee. La Dc veneta era tutt’altra cosa da
quella campana. I notabili bresciani non somigliavano a quelli
abruzzesi. Sconfinamenti, colonizzazione, bricolages, erano la
regola. Con pragmatismo, il patchwork contemplava la paura del
comunismo e la più prosaica ambizione d’estrarre risorse dallo
Stato, non senza offrire un ospitale riparo alle configurazioni
locali di potere, alcune decisamente sulfuree.
Pure la vicenda dei partiti francesi è fatta di adattamenti
e ibridazioni con le circostanze locali. Nelle quali non sola-
mente s’imponevano notabili autoctoni, ma se ne ospitavano
molti paracadutati dal centro, che erano tuttavia tenuti a
radicarsi localmente. La possibilità di accumulare mandati
elettivi nazionali e locali era un incentivo a farlo e un mezzo
per riuscirvi. Non sempre saldissime, le strutture di partito
specie in provincia erano coadiuvate, e a volte surrogate,
dalle amministrazioni municipali. È un fenomeno che seguita

35
  Il clientelismo democristiano è stato un grande tema di ricerca. Cfr. P.
Allum, Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Torino, Einaudi, 1975. Cfr.
ancora di P. Allum, Al cuore della Dc. Il caso veneto, in «Inchiesta», 70, 1985
pp. 54-63 e La Dc al Nord e al Sud. Due modelli di partiti clientelari, in «Me-
ridiana», 30, 1997, pp. 194-224. Cfr. anche M. Caciagli, Democrazia cristiana
e potere nel Mezzogiorno, Rimini, Guaraldi, 1977; L. Graziano, Clientelismo
e sistema politico. Il caso dell’Italia, Milano, Angeli, 1984.

183
a riprodursi: i partiti tendono ad «ancorarsi» localmente e
l’ancoraggio resiste perfino alle recenti disavventure naziona-
li dei partiti maggiori. Nel 2022 le performances del Partito
socialista e dei Repubblicani sono state decisamente superiori
alle elezioni legislative rispetto alle presidenziali, sia in ragione
del sistema elettorale, sia ancor più del radicamento locale di
entrambi36. Le pratiche non sono le stesse, ma l’adattabilità
locale dei partiti vale ovunque.
Per citare con sicurezza altri esempi servirebbe spingere
più avanti le frontiere della ricerca. Ne varrebbe la pena, per
diverse ragioni. Quanto l’attuale fisionomia dei territori è stata
plasmata dall’azione di rappresentanza svolta dai grandi partiti
popolari? Quanto, questi ultimi, hanno costituito i territori? In
più, il decadimento attuale dei partiti sta forse riportando in
primo piano le tecniche di insediamento locale della politica.

3. I partiti e la democrazia

Non vi sono partiti senza ostilità ai partiti 37. Hanno


sempre suscitato un’avversione caparbia e astiosa: contro di
essi e, quando conviene, dentro di essi. Pianta robustissima,
l’antipartitismo ha resistito a tutte le mutazioni che i partiti
hanno subito, o promosso, fino ad oggi. C’è l’antipartitismo,
degno prolungamento dell’antiparlamentarismo, dei nostalgici

36
  In Francia si fa ricerca su questi temi. La notabilizzazione è un tratto
peculiare della politica francese, che si fonda sulla pratica del cumul des man-
dats. Tra i contributi recenti: J. Fretel, Le parti comme fabrique de notables.
Réflexions sur les pratiques notabiliaires des élus de l’UDF, in «Politix», 65,
XVII, 2004, pp. 45-72. Nello stesso numero P.-P. Zalio, D’impossibles notables?
Les grandes familles de Marseille face à la politique (1860-1970), pp. 93-118;
R. Lefebvre, La difficile notabilisation de Martine Aubry à Lille. Entre pres-
criptions de rôles et contraintes d’identité, pp. 119-146. Un interessante filone
di ricerca è quello sviluppato sul radicamento locale. Cfr. ancora C. Mattina,
Clientélismes urbains. Gouvernement et hégémonie politique à Marseille, Paris,
Presses de SciencePo, 2016 e il numero della rivista «Politix» dedicato agli
«Ancrages politiques», 92, XXIII, 2011. Infine, J.-L. Briquet e L. Godmer
(a cura di), L’ancrage politique, Villeneuve d’Ascq, Presses universitaires du
Septentrion, 2022.
37
  Si rinvia nuovamente a D. Palano, Partito, Bologna, Il Mulino, 2013 e P.
Ignazi, Party and Democracy. The Uneven Road to Party Legitimacy, Oxford,
Oxford University Press, 2017.

184
dell’autorità monocratica, che vorrebbero sopprimere i partiti.
Non è trascorso molto tempo da quando i partiti costituivano
un’imponente concentrazione di potere, utilizzata pacificamente,
ma pur sempre temibile, sia per lo Stato, sia per il mercato
capitalistico, che metteva in dubbio le gerarchie sociali e impli-
cava attenzione per gli strati inferiori della società: ve l’hanno
prestata anche i partiti moderati e conservatori. L’avranno fatto
per calcolo elettorale, ma l’hanno fatto. E ciò li ha resi, e forse
ancora li rende, ingombranti.
Al polo opposto c’è l’antipartitismo democratico. I partiti
fanno rappresentanza e come tali sono criticati38. Tra i due
antipartitismi, non c’è parentela, ma c’è un antipartitismo in-
termedio e più sottile, per il quale non è il caso d’incrementare
più di tanto il numero dei partiti. A ridurlo ne trarrà vantaggio
la governabilità, sarà più agevole ascoltare la voce degli elettori,
si offriranno meno motivi alla vita collettiva per dividersi e an-
che la moralità pubblica potrebbe giovarsene: sono argomenti
familiari per qualsiasi osservatore della politica italiana degli
ultimi cinquant’anni.
Le imputazioni più ricorrenti rivolte contro i partiti si
possono ridurre a tre. La prima, propria dei critici di destra
e di cui Carl Schmitt è stato esemplare portavoce, li accusa
di essere istituzioni divisive: pregiudicano l’unità dello Stato-
nazione, dividono la vita collettiva, compromettono l’azione di
governo39. Si sono già ricordati il punto di vista di Weber e la
replica di Kelsen a Schmitt. Ma si può anche avanzare un’altra
obiezione. Nessun dubbio che i partiti siano fazioni a pieno
titolo, che, tramite la lotta per la rappresentanza, si contendano
il monopolio statale promuovendo interessi di parte: lo erano
in partenza e lo sono tuttora, quantunque abbiano perso gran
parte del loro rilievo. È indubbio pure che le loro divisioni si
proiettino sulla società e la dividano. Ma quantomeno i partiti
di massa, che sono quelli cui si riferivano Schmitt, Weber e
Kelsern, tanto dividevano, quanto riordinavano e semplificavano
il pluralismo. La rappresentanza occasionale ha cambiato le
38
  Un’esemplare argomentazione in M. Revelli, Finale di partito, Torino,
Einaudi, 2013.
39
 C. Schmitt, Parlamentarismo e democrazia (1923), in Id., Parlamen-
tarismo e democrazia e altri scritti di dottrina e storia dello Stato, Cosenza,
Marco Editori, 1998.

185
cose, ma la fidelizzazione promossa dai grandi partiti popolari
conduceva a una società suddivisa in grandi blocchi e non tra
interessi circoscritti, locali o funzionali. Non bastasse: una volta
esteso il diritto di voto e allargata la cittadinanza democratica,
quei partiti svolgevano una fondamentale attività di mediazio-
ne – di linkage40 – tra Stato e cittadini. Erano corpi intermedi,
oggidì decaduti.
Il secondo grande capo d’imputazione elevato contro i
partiti è la loro immoralità, la congenita propensione dei loro
addetti a curare interessi di parte, e anche i propri, a scapito
dell’interesse collettivo. L’accusa ha qualche fondamento: se i
partiti sono fazioni, è inevitabile che perseguano profitti, per
sé, per i propri quadri, per i propri elettori. Dando per scon-
tato il «patronato delle cariche», e riconoscendo la presenza
inevitabile di qualche interesse dietro ogni «causa», Weber si
guardava tuttavia dal pronunciare sentenze definitive di con-
danna41. Anche perché tra patronato delle cariche e corruzione
non c’è alcun nesso obbligato. Che il primo possa consentire
vantaggi illegittimi è indubbio. E pure è indubbio che permet-
ta di attribuire responsabilità di rilievo a figure incompetenti
e immeritevoli, purché leali al partito. Ma ricoprire cariche
pubbliche è anche condizione necessaria affinché un partito
realizzi se non la propria visione del mondo, quanto meno un
qualche progetto di governo. E occupare cariche pubbliche è
il mezzo per riuscirci. In un regime pluralistico, che confida
sulla concorrenza tra progetti di governo diversi, il problema
sta negli abusi, o nella mancanza di contrappesi, oltre che
nell’incerta distinzione tra cariche politicamente disponibili e
cariche che non dovrebbero esserlo.
Vecchia per quanto sia, l’accusa d’immoralità andrebbe
anzitutto ponderata. Una cosa è la corruzione, un’altra la sua
reputazione. Quanto sono attendibili le rilevazioni campio-
narie condotte anche da agenzie internazionali accreditate?
Fondate solitamente sull’opinione dei cittadini o di specifiche
categorie, come gli imprenditori, tali indagini non brillano per
affidabilità. Un elemento per tutti: gli interpellati dai sondaggi

40
  K. Lawson, Political Parties and Linkage, New Haven, Yale University
Press, 1980.
41
  M. Weber, La politica come professione, cit., p. 187.

186
da un lato sono sovraesposti alla critica rivolta contro i partiti
tramite i media, dall’altro in maggioranza confessano di non
avere esperienza diretta di comportamenti corrotti42. Vi sono,
senza dubbio, le illegalità accertate dall’ordine giudiziario. Ma
non c’è alcuna prova che gli addetti ai partiti siano più inclini
al malaffare di altre categorie professionali.
Non è da sottovalutare neppure l’uso che è fatto dell’accusa
d’immoralità nella contesa politica, nella dialettica tra istitu-
zioni pubbliche e in quella tra Stato e mercato. Come sarebbe
doveroso distinguere tra partito e partito. Vi sono partiti che
proteggono con cura i propri confini e che impongono ai loro
dirigenti, quadri e militanti una disciplina più severa, che valoriz-
zano le remunerazioni simboliche a scapito di quelle materiali43.
Solitamente è la parte dei partiti outsiders. I partiti established
sono invece più permeabili a condizionamenti esterni e sono
più disponibili a legittimare le ambizioni di carriera individuali
e a consentire ai loro addetti di conseguire benefici privati dalla
propria attività. I partiti non vivono fuori dal mondo e più si
integrano entro di esso più ne condividono i valori, i costumi,
le regole. Le semplificazioni moralistiche, da qualsiasi parte
provengano, sono spesso argomenti in favore del contingenta-
mento del pluralismo. Non risolve comunque il problema né
ridurre il numero dei partiti, né ridurli a uno solo o abolirli: le
autocrazie non sono più morali dei regimi pluralisti. È semmai,
la concorrenza libera e aperta a costituire un antidoto: c’è
sempre qualcuno pronto a denunciare le trasgressioni.
C’è infine un terzo e grave capo d’imputazione sollevato
contro i partiti: quello di lesa democrazia. La requisitoria più
celebre è quella pronunciata a inizio del XX secolo da Robert
Michels, il quale formulò nientemeno che una «legge ferrea
dell’oligarchia», denunciando l’insuperabile incompatibilità
tra le promesse di riscatto e d’uguaglianza avanzate dai partiti
socialisti e la loro azione politica. I dirigenti dei partiti ten-
devano a imborghesirsi e a istituire nuove oligarchie e nuove
disuguaglianze, facendo del partito un «fine a se stesso»44.
42
  M. Flinders, Defending Politics. Why Democracy Matters in the Twenty-
First Century, Oxford, Oxford University Press, 2012, pp. 12-14.
43
  D. Gaxie, Rétributions du militantisme et paradoxes de l’action collective,
in «Swiss Political Science Review», 1, XI, 2005, pp. 157-188.
44
  R. Michels, La sociologia del partito politico, cit., p. 519.

187
Per quanto avesse eccellenti motivi per polemizzare, la
risposta Michels se la dava da solo: «la democrazia non è
concepibile senza organizzazione», e unicamente «nella misura
in cui si organizzano in massa e danno al loro aggregato una
struttura, i proletari acquistano capacità di resistenza politica e
dignità sociale»45. L’organizzazione richiede tuttavia divisione del
lavoro e competenze specifiche e segna inevitabilmente «l’inizio
della formazione di una leadership professionale», che a sua
volta, lui scrive, segna «l’inizio della fine della democrazia»46.
Quel che sorprende è lo scandalo, del tutto fuori misura per
un allievo di Weber, cui era dedicata la prima edizione della
sua opera principale47. Per Weber il patronato degli uffici era
inevitabile e non cancellava i benefici dei partiti. Per Michels,
invece, nei partiti non c’era nulla da salvare: né il rinnova-
mento nella composizione sociologica delle élites, né l’azione
inclusiva e di educazione politica rivolta ai ceti popolari. Come
mai Michels non si accorgeva di come la vivace competizione
interna ai partiti impedisse l’instaurarsi di oligarchie ossificate
e impenetrabili? E perché non intese che la cooptazione di
figure provenienti dai ranghi inferiori o da cerchie esterne al
partito, seppur utilizzata come arma nelle rivalità interne, fosse
di per sé motivo d’instabilità e di cambiamento?
Michels traeva un altro dei suoi argomenti dalla scuola della
psicologia delle folle. Mentre Weber considerava criticamente
i contributi di Gustave Le Bon, Michels condivideva l’idea che
le masse fossero per istinto sottomesse e gregarie e l’applicava
ai partiti48. Non fosse che le masse, oltre a essere assai più ar-
ticolate di quanto il termine supponga, non si sottomettono né
indefinitamente, né appieno. Anche le leadership in apparenza
più solide sono a rischio. Dichiaratosi seguace nei suoi primi

45
  Ivi, pp. 55-56.
46
  Ivi, p. 189.
47
  Ivi, pp. 203-204. E infatti la discussione tra maestro e allievo fu molto
animata: cfr. L. Scaff, Max Weber and Robert Michels, in «American Journal
of Sociology», l, LXXXVI, 1981, pp. 1269-1286. Sui rapporti tra i due F.
Tuccari, Sociologia del partito e teoria politica: Max Weber e Robert Michels, in
«Annali della Fondazione Luigi Einaudi», XXIV, 1990, pp. 295-317. Ancora
dello stesso autore 100 anni dopo. Le radici, le ragioni e l’inattualità della
Sociologia del partito politico di Robert Michels, in «Annali della Fondazione
Luigi Einaudi», XLVI, 2012, pp. 55-84.
48
  R. Michels, La sociologia del partito politico, cit., p. 89.

188
scritti della teoria della classe politica di Gaetano Mosca, Mi-
chels alla lunga pervenne a tutt’altre conclusioni sul fascismo
rispetto allo studioso siciliano. Aveva iniziato la sua traietto-
ria politica da simpatizzante del sindacalismo rivoluzionario.
Deluso dalla democrazia e dai partiti democratici, concluderà
quale ammiratore di Mussolini, dimenticando le riserve assai
severe da lui stesso manifestate all’indomani dell’insediamento
del regime.
La replica agli argomenti di Michels è che ai partiti non
si può chiedere quanto non possono dare. Secondo Elmer E.
Schattschneider, che è uno studioso americano dei partiti di
buona fama, «la democrazia non va trovata nei partiti, bensì
tra i partiti»49. Cioè nel pluralismo. Sarebbe anche auspicabile
entro i partiti, ma non è detto che sia essenziale, specie alla
luce degli effetti inclusivi – politici e sociali – che l’azione dei
partiti ha per lungo tempo suscitato. I nostalgici dell’autorità
monocratica resteranno indifferenti a ogni difesa. Lo resteran-
no pure i critici ultrademocratici. La storia della democrazia
senza i partiti sarebbe però stata più democratica di quello
che è stata con i partiti? Non lo sappiamo. Forse non sarebbe
stata nemmeno possibile. Per contro sappiamo che l’odierna
condizione dei partiti offre nuovi e seri motivi di riflessione.
Gli antidoti che hanno per lungo tempo temperato gli effetti
della legge di ferro dell’oligarchia hanno perso d’efficacia. Nelle
pagine che seguono vedremo in che modo.

4. Quando gli «outsiders» divennero «established»

Al termine del secondo conflitto mondiale i partiti europei


hanno cambiato di status. Da outsiders sono stati promossi a
established. I regimi autoritari avevano messo a dura prova lo
Stato, la nazione, le istituzioni rappresentative. I partiti han-
no contribuito a rilegittimare l’autorità pubblica e sono stati
incorporati entro i nuovi regimi rappresentativi e democratici.

49
  E.E. Schattschneider, Party Government (1942), New York, Holt, Rine-
hart & Winston, 1967, p. 60. Una posizione analoga è quella di G. Sartori,
secondo cui la democrazia in grande non presuppone quella in piccolo: cfr.
Democrazia, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, Treccani, pp. 742-759.

189
Rispetto agli anni ’20 si erano registrate consistenti variazioni
negli equilibri elettorali. Qualcuno aveva cambiato nome. Ma
gli attori erano i medesimi: conservatori, liberali, partiti con-
fessionali, socialisti e comunisti. I partiti fascisti furono messi
al bando, anche se qualche loro filiazione è sopravvissuta ai
margini del regime democratico. Il loro pluralismo non fu
sottoposto a eccessive restrizioni. La Gran Bretagna si attenne
al suo tradizionale bipartitismo, corretto dal Partito liberale.
In Germania sarà la soglia di sbarramento prevista dal regime
elettorale a porre un limite. Altrove si preferì lasciare liberi i
partiti di moltiplicarsi. In genere, hanno preso il sopravvento i
partiti moderati e conservatori. L’eccezione erano i paesi scan-
dinavi, a prevalenza socialdemocratica, e il Regno Unito, dove
gli elettori nel 1945 preferirono il Labour di Attlee ai Tories
di Churchill. Probabilmente, proprio il fatto che lo spazio
delle sinistre era ampio, ma non soverchiante, ha agevolato
l’accettazione dei partiti.
La prima ambiziosa ricognizione teorica e comparativa sui
partiti, diversa dagli studi di caso condotti da Ostrogorski e
Michels, è quella già citata di Maurice Duverger apparsa nel
195150. Scontato che nessuna indagine dedicata alle istituzioni
democratiche potesse più ignorarli, Duverger affrontava anche
la questione dei sistemi di partiti, ovvero delle loro interazioni,
e quella degli effetti dei sistemi elettorali. La dialettica tra i
partiti aveva rinnovato il funzionamento del regime rappresen-
tativo e s’instauravano modelli di competizione politica diversi,
che imponevano di aggiornare la classificazione delle forme di
governo: un regime a due partiti funzionava diversamente da
uno in cui i partiti erano più numerosi.
Per almeno due fondamentali ragioni non poteva non incu-
riosirsi del successo dei partiti europei la political science per
eccellenza, quella americana, figlia della sociologia empirica.
Agli americani interessava conoscere come si stessero stabiliz-
zando le democrazie europee. Un secondo movente è che per
gli studiosi la fragilità dei partiti d’oltreoceano a confronto con
gli interessi rimaneva un tema aperto. Nel 1942 Schumpeter
li aveva liquidati come «marchi» e niente più, ma nello stesso
anno era apparso il libro di Schattschneider, che definiva e

50
  M. Duverger, I partiti politici, cit.

190
apprezzava il party government51. I partiti europei divennero
pertanto oggetto di un grande sforzo di ricerca per i political
scientists americani, che contribuiranno fra l’altro a inaugurare
in Europa un nuovo ambito disciplinare collocato tra diritto
pubblico e sociologia: la scienza politica.
Tra i tanti contributi merita in special modo di essere
ricordato un volume curato a metà anni ’60 da Joseph LaPa-
lombara e Myron Weiner. Riconosciuta ai partiti una «fun-
zione» specifica, e benefica per la vita democratica, quella
d’integrazione sociale, il libro faceva il punto sulla condizione
dei partiti europei e non solo, prestando anche attenzione ai
cambiamenti che si profilavano52. A tali cambiamenti era in
special modo dedicato il capitolo scritto da Otto Kirchheimer,
un altro autorevole giurista weimariano, già allievo di Schmitt
ed esponente della Spd, emigrato alla vigilia della guerra in
America e poi tornato in Germania53, divenendo dagli anni ’50
un attento osservatore della politica europea. Avendo in mente
le differenze tra i partiti nell’una e nell’altra sponda, e tra l’uno
e l’altro dopoguerra, in un suo scritto del 1957 Kirchheimer

51
  Tra gli altri, E.E. Schattschneider, Party Government, cit. Schattschnei-
der confermerà l’idea che i partiti sono democraticamente essenziali in The
Semisovereign People: A Realist’s View of Democracy in America, New York,
Holt, Rinehart and Winston, 1960. Dieci anni prima un comitato istituito dalla
American Political Science Association, presieduto dallo stesso Schattschnei-
der, aveva ribadito l’importanza dei partiti: cfr. Toward a More Responsible
Two-Party System: A Report of the Committee on Political Parties, in «American
Political Science Review», 3, XLIV, 1950.
52
  J. LaPalombara e M. Weiner (a cura di), Political Parties and Political
Development, Princeton, Princeton University Press, 1966. Su questo libro
una special issue della rivista «Party Politics» e per un commento quarant’anni
dopo J. LaPalombara, Reflections on Political Parties and Political Develop-
ment. Four Decades Later, in «Party Politics», 2, 13, 2007, pp. 141-154. Non
era il solo volume comparativo sui partiti. Dieci anni prima era apparso S.
Neumann (a cura di), Modern Political Parties, Approaches to Comparative
Politics, Chicago, The University of Chicago Press, 1956. Apparirà un anno
dopo S.M. Lipset e S. Rokkan (a cura di), Party Systems and Voter Alignments,
New York, Free Press, 1967.
53
 O. Kirchheimer, The Transformation of the Western European Party
Systems, in J. LaPalombara e M. Weiner (a cura di), Political Parties and Po-
litical Development, cit. Sul contributo di Kirchheimer cfr. A. Krouwel, Otto
Kirchheimer and the Catch-All Party, in «West European Politics», 2, XXVI,
2003, pp. 23-40. Cfr. anche W. Safran, The Catch-All Party Revisited: Reflec-
tions of a Kirchheimer Student, in «Party Politics», 5, XV, 2009, pp. 543-554.

191
annunciava la progressiva erosione in Europa della dialettica tra
maggioranza e opposizione54. Qualche anno dopo, nel volume
di La Palombara e Weiner, avanzava invece una previsione in
netto contrasto con quella di Duverger. Quest’ultimo, aveva
trattato l’America da paese politicamente arretrato: l’avvenire
dei partiti consisteva nella generalizzazione del modello del
partito di massa. Per Kirchheimer quel modello di partito, da
lui denominato d’«integrazione democratica», era invece in via
di superamento e piuttosto il destino dei partiti europei era
di americanizzarsi: a questo scopo coniava la fortunatissima
etichetta di partito catch-all.
Nel 1960 Daniel Bell aveva annunciato la fine delle ideolo-
gie55. Kirchheimer non lo cita, ma nella medesima atmosfera,
tenendo ben presenti le varietà nazionali, elencava alcuni mo-
tivi principali di cambiamento. Si erano rinnovati i pre-testi
dell’azione di rappresentanza. I grandi contrasti ideologici e
politici si stavano consumando grazie allo sviluppo economico
e alle misure inclusive del welfare. L’attenuazione degli effetti
delle divisioni di classe e la diffusione dei consumi cambiavano
i sentimenti dei cittadini e pure le condizioni della contesa
politica. Erano motivi sufficienti perché i partiti rivedessero la
loro offerta di rappresentanza, e si rivolgessero ai segmenti di
elettorato più prossimi e più compatibili con la loro constitu-
ency originaria, aggiornando del pari lo stile con cui la contesa
politica era condotta. Anche i rapporti tra partiti ed elettori
erano meno stringenti. Erano in ritardo unicamente i partiti
comunisti in Francia e in Italia, ma s’intravedeva qualche spira-
glio: i loro elettori restavano leali, ma non era più immaginabile
alcuna opzione rivoluzionaria.
Già nei suoi scritti precedenti Kirchheimer aveva registrato
il profondo cambiamento di stile nelle relazioni tra i partiti.
I quali si abituavano l’uno all’altro, sedendo fianco a fianco
nelle istituzioni elettive. I partiti socialisti stavano assumendo
stabilmente responsabilità di governo. I laburisti avevano vinto

54
  O. Kirchheimer, The Waning of Opposition in Parliamentary Regimes
(1957), ora in Id., Politics, Law and Social Change. Selected Essays, a cura di
F.S. Burin e K. Shell, New York, Columbia University Press, 1969.
55
  D. Bell, The End of Ideology: On the Exhaustion of Political Ideas in
the Fifties, Glencoe, The Free Press, 1960.

192
le elezioni in Gran Bretagna nel 1945. In Francia la Sfio aveva
fatto parte più volte dell’esecutivo, fino alla crisi del 1958. In
Italia nel 1963 era nato il primo esecutivo di centrosinistra.
In Germania era prevedibile che la Spd giungesse presto al
governo. Tutti i partiti erano rappresentati negli esecutivi
locali. I rapporti reciproci si erano distesi e si erano del pari
adattati i regimi democratici. Da piazzaforte da espugnare lo
Stato democratico era diventato una macchina da pilotare.
La strategia catch-all forniva l’occasione per rivedere l’orga-
nizzazione e per semplificare la catena di comando. Leadership
nazionale e rappresentanza in Parlamento si sovrapponevano,
i partiti s’insediavano sempre più nei circuiti del potere e
moltiplicavano le loro relazioni con gli ambienti economici. Il
compito di accudire e includere gli elettori era meno pressante
e se lo stavano assumendo direttamente gli eletti, nazionali e
locali. Era pure iniziata l’emorragia degli iscritti. Traendo un
bilancio mezzo secolo dopo, Susan Scarrow ha tuttavia invitato
a non mitizzare il passato e a non sopravalutare la consistenza
e la lealtà della membership di allora. Alla luce dei dati da lei
esibiti, l’osservazione è pertinente. Il passato non è tale da
meritare confronti troppo nostalgici56.
Non esistevano del resto né un unico modello, né un’unica
pratica di membership57, che non aveva nemmeno sempre il
medesimo significato. Pure entro lo stesso partito le diversità
territoriali erano consistenti. Sono anche incerte le cono-
scenze sulla qualità dell’adesione testimoniata dall’iscrizione.
L’iscrizione a un partito era spesso una consuetudine dettata
dall’ambiente. Non è nemmeno facile stabilire se l’erosione degli
iscritti, che di solito si ritiene iniziata a metà anni ’50, sia da
attribuire a un cambiamento di gusti dei cittadini o all’azione
dei partiti, che, avvicinandosi al potere, hanno rivisto i loro
servizi di rappresentanza e hanno promosso le iscrizioni con
meno impegno, disponendo di altre fonti d’introito. Di sicuro,
una volta divenuti established, avevano altri mezzi per retribuire

56
 S.E. Scarrow, Beyond Party Members. Changing Approaches to Partisan
Mobilization, Oxford, Oxford University Press, 2015.
57
  Da una ricerca limitata a Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda
un ulteriore invito alla cautela è quello di A. Gauja, The Politics of Party
Policy. From Members to Legislators, Basingstoke, Palgrave McMillan, 2013.

193
i loro addetti e attivisti e per gratificare la loro constituency,
con la quale istituiranno un rapporto più professionale e più
uniforme sul piano nazionale.
Tornando a Kirchheimer, lui additava ancora un altro
aspetto: stava prendendo quota e acquistando autonomia la
rappresentanza pre ed extrapolitica, sollevando delicati problemi
di equilibrio con i partiti. Non manca nemmeno nel suo saggio
qualche accenno alla visibilità offerta dalla televisione, mentre
il personalismo che caratterizzava il gollismo gli appariva più
una deviazione che non l’avvio di una tendenza destinata a
prevalere.
Kirchheimer era un socialdemocratico d’anteguerra, che
annunciava con qualche rimpianto e qualche inquietudine il
tramonto di una tradizione illustre. Il ritratto da lui delineato
non era privo di accenti critici. Al di là delle sue intenzioni, il suo
resoconto aveva nondimeno il pregio di rassicurare. Certificava
il decadimento di molti motivi di tensione. Il raffreddamento
della contesa politica aveva indotto i grandi partiti a concen-
trare l’azione di rappresentanza su nuove issues e su idee meno
contrapposte d’ordine sociale e di giustizia. In politica estera,
tolti i partiti comunisti, nessun partito europeo si opponeva
più all’alleanza occidentale e c’era un ampio accordo sulla
convergenza europea. L’evoluzione era gradita a parecchi, alle
burocrazie pubbliche e al mondo imprenditoriale, che avevano
temuto l’azione dei partiti. Concentrandosi sul governo, anzi-
ché sulla mobilitazione elettorale, i partiti sembravano porre
le premesse di una democrazia più conciliante.
C’è da chiedersi se il resoconto non convenisse anche a
molti addetti ai partiti. Pochi avranno letto Kirchheimer. Ma
l’etichetta aveva appeal e ha superato i confini dell’accademia.
Per i grandi partiti popolari l’integrazione delle cosiddette
masse nello Stato era cosa fatta. Una volta familiarizzate col
potere, le loro dirigenze si adeguavano. Va anche ricordato
come almeno dagli anni ’60 fosse in corso un rinnovamento
generazionale, professionale e culturale del personale politico.
Una buona parte della leva di quadri e dirigenti che aveva
occupato le istituzioni rappresentative dagli anni ’40 proveniva
in gran parte da esperienze d’opposizione, o di marginalità
politica. Ma era ormai entrata in scena una generazione più
giovane, più variegata socialmente, più incline a governare

194
anziché a rappresentare, e anche a pensare la politica come
una qualsiasi professione. Per questa leva la democrazia era
un’altra cosa. Da metà anni ’60 il turnover si accentuerà. Gli
ultimi arrivati saranno più spesso equipaggiati di studi superiori
e si troveranno più a proprio agio entro le istituzioni elettive e
di governo che non dentro gli apparati di partito. La struttura
degli incentivi e delle remunerazioni si era sbilanciata a favore
di quelli materiali contro quelli simbolici58. Lo sviluppo era
fisiologico, ma gravido di conseguenze, anche sotto il profilo
dell’immagine pubblica degli addetti alla politica.
Il rinnovamento non ha investito tutti i partiti allo stesso
modo. In parte è stato inconsapevole, in parte inevitabile,
per i partiti di centro e conservatori è stato probabilmente
meno impegnativo che per quelli di sinistra, i quali erano
cresciuti svolgendo un’azione critica, ormai superata59. Nei
partiti comunisti la preoccupazione di disorientare l’elettorato
era ancora dominante. Non è detto nemmeno che entro il
medesimo partito il cambiamento fosse omogeneo su tutto il
territorio nazionale e per tutto il bacino elettorale. Ma la linea
di tendenza era quella. Gli addetti all’apparato, più dedicati
agli elettori, erano più legati al passato, perché il passato era
la fonte del loro potere. Mentre coloro che operavano nelle
assemblee elettive e nelle postazioni di governo erano più
disposti a innovare. Fu un motivo di contesa, non a vantaggio
dei primi.
Per concludere sul punto. Kirchheimer aveva descritto in
primo luogo la situazione tedesca, dove la Spd si accingeva
ad avvicendare al governo la Cdu, che non quella italiana o
francese. Ma aveva colto una tendenza, che sarebbe stata con-
fermata dalla ricognizione condotta quasi vent’anni dopo da
Angelo Panebianco, più concentrata sulla dimensione organiz-
zativa, che disegnava anch’essa un modello e dettava un’altra
etichetta: il partito «professionale-elettorale»60. Panebianco
sottolineava anche il ruolo crescente dei media. La televisione
era una tecnologia meno laboriosa da manovrare dei vecchi
58
  Una riflessione sui cambiamenti generazionali del personale politico in
A. Pizzorno, The Individualistic Mobilization of Europe, in «Daedalus», 1,
XCIII, 1964, pp. 199-224, segnatamente pp. 211-217.
59
  O. Kirchheimer, The Transformation..., cit. p. 190.
60
  A. Panebianco, Modelli di partito, Bologna, Il Mulino, 1983.

195
e ingombranti apparati, che prometteva anche di essere più
efficace e più penetrante a fini elettorali, offrendo maggiori
opportunità d’espansione al di fuori del proprio bacino iniziale,
ridisegnando radicalmente tanto la fisionomia dei partiti, quanto
l’andamento della lotta per la rappresentanza, che avrà però
qualche sviluppo inatteso.

5. Gli «outsiders» non finiscono mai

Nel 1967 il resoconto di Kirchheimer segnalava come la lotta


per la rappresentanza si stesse rinnovando. L’offerta politica
dei partiti tendeva sempre più a fondarsi sull’azione di governo
e diveniva più generica e ormai restia a educare e formare gli
elettori: stava diventando adattiva. Ma non c’è cambiamento
senza imprevisti e senza calcoli sbagliati. Non lo immaginava
Kirchheimer e nemmeno i partiti established immaginavano la
comparsa di nuovi outsiders. Erano probabilmente convinti
di aver stabilito un solido monopolio entro la sfera della rap-
presentanza: i gruppi d’interesse, divenuti molto attivi, non
costituivano una sfida su quel terreno. Il calcolo, viceversa,
era errato, perché nel giro di poco tempo hanno fatto la com-
parsa due categorie di outsiders temibili, che hanno rinnovato
le modalità di conduzione della contesa politica: i movimenti
collettivi da un canto, la nuova destra estrema dall’altro.
Innanzitutto: non c’è solo la rappresentanza politica e non
c’è un solo modo di fare rappresentanza. C’è la rappresentanza
prepolitica, che si autoesclude dalla competizione elettorale, e
di cui fanno appunto parte i gruppi d’interesse. I movimenti
collettivi costituiscono, invece, un genere molto particolare, che
dimostra come si possa lottare per la rappresentanza politica
anche rinnegandola e conducendola in altre forme. I movimenti
collettivi non erano un’invenzione dell’ultima ora. Sono una
tecnica usata spesso nei regimi rappresentativi allorché alcuni
claims non riescono a farsi largo tra le chiuse della rappresen-
tanza politica ufficiale, salvo poi esaurirsi, o istituzionalizzarsi,
dando luogo a nuovi partiti, o a longevi reticoli associativi61. In

61
  Come si definisce un movimento sociale? Ne danno una definizione
S. Tarrow e C. Tilly, secondo cui i movimenti sociali sono istituzioni che

196
America i movimenti vantano una lunga storia, di autonomia,
di sfide, ma pure di sinergie con i partiti62: nei primi anni ’60
era comparso il movimento per i diritti civili della popolazione
afroamericana e, sotto la presidenza Johnson, si era aggiunto
il movimento degli studenti contro la guerra in Vietnam. Sulla
scena europea i movimenti sono invece ricomparsi nel 1968:
non hanno travolto le imprese di rappresentanza politica attive
in quel momento, ma ne hanno spezzato il monopolio.
Erano movimenti, questi ultimi, che avevano tratti piutto-
sto specifici. Volutamente si configuravano non come partiti
potenziali, bensì come contro-partiti. Come aggirare i partiti
established? Le modalità con cui i concorrenti si autodefinisco-
no, e definiscono la situazione, servono ovviamente a plasmarli:
una volta descritti i partiti quale ostacolo insormontabile alla
volontà dei cittadini e alle attese degli elettori, la strategia
dei movimenti è stata quella di costituirsi come il loro calco
negativo.
Nonostante fossero in piena evoluzione, i partiti erano
ancora spazi perimetrati con cura, che da un canto accoglie-
vano, dall’altro vincolavano in qualche misura chi vi aderiva.
Erano condotti professionalmente e l’organizzazione presidiava
l’intero territorio nazionale. I movimenti sociali apparsi dalla
fine degli anni ’60 hanno condotto la lotta politica entro spazi
vagamente definiti e spesso inconsueti. Amavano descriversi
senza regole, senza gerarchie, senza confini stabiliti e senza
membership stabile. Di fatto, non mancava una leadership, ma
non era formalizzata, e, malgrado l’immagine pubblica che
volevano dare di sé, alcuni erano anche piuttosto impositivi.
I primi a sollevarsi furono gli studenti. Ne discuteremo di
nuovo nel prossimo capitolo. Non elaboravano programmi, ma
piuttosto ereditavano la funzione critica abbandonata dai partiti
pigliatutti. Una caratteristica dei movimenti di quella stagione

animano campagne di rivendicazione, che identificano obiettivi che pubbli-


cizzano con grande varietà di strumenti, che organizzano un seguito entro
il quale intrecciano vincoli di solidarietà e di cooperazione, e lo mettono
in mostra. Cfr. Contentious Politics, New York, Oxford University Press,
2015, p. 11.
62
  Su questi temi S. Tarrow, Movements and Parties: Critical Connec-
tions in American Political Development, Cambridge, Cambridge University
Press, 2021.

197
era la richiesta d’inclusione non mediata, attiva, egualitaria,
nella vita pubblica. Tra i loro pre-testi va annoverata l’espe-
rienza di un quarto di secolo di pratica democratica. La libertà
di parola, d’associazione, di movimento, perfino di consumo,
erano stimoli alla ribellione per vasti strati e categorie sociali.
Unificando proteste, dissidenze, resistenze, pratiche di
autodifesa, il movimento degli studenti elaborava un nuovo
modo di pensare la vita associata, alternativo al mercato capi-
talistico: si raccontava come una costellazione di enclaves da
abitare liberamente, ove si discuteva, ragionava, studiava, si
dichiaravano i propri bisogni e le proprie aspirazioni, si agiva
in solido con altri, coltivando la propria passione politica e
ricostituendo le relazioni associative e i vincoli di solidarietà
dismessi dai partiti. La pratica non era sempre fedele al rac-
conto. Ma i movimenti studenteschi riproposero la speranza
politica e sollevarono questioni di amplissima portata: i rapporti
di dominio, la soggettività, le differenze di genere, il lavoro, i
diritti, la pace. Politicizzata l’istruzione e la ricerca, fecero da
innesco ad altre rivendicazioni di rappresentanza: le difficoltà
abitative nei centri urbani, la condizione familiare e quella
femminile, i diritti civili, la sanità, la disciplina militare, perfino
la subordinazione del basso clero e dei fedeli. La ribellione si
era estesa ad altre categorie sociali.
Ancora in polemica con i partiti, i movimenti preferiranno
smascherare l’inganno delle elezioni: piège a cons le definirà un
saggio famoso di uno dei loro intellettuali di riferimento come
Jean-Paul Sartre63. Fare lotta politica tramite le elezioni «seria-
lizzava», nelle parole di Sartre, gli elettori, omologandoli e pri-
vandoli della loro socialità. Erano echi della critica rousseuiana
alla rappresentanza e ai suoi inganni. Al tempo stesso, le chances
d’intaccare la preminenza elettorale dei partiti established erano
minime: i tentativi d’estrarre dai movimenti qualche formazione
politica competitiva si riveleranno fallimentari. Meglio allora
nobilitare la propria azione denunciando le frustranti ritualità
e la separatezza della rappresentanza convenzionale. I partiti
erano ormai oligarchie sclerotizzate, paternalistiche, prigioniere
di esangui rituali e di grevi vincoli burocratici. Il calco negativo

63
 J.-P. Sartre, Elections, piège à cons, in «Les temps modernes», 318,
XXIX, 1973, pp. 1099-1108.

198
dei movimenti dichiarava l’intenzione di restituire alla politica
un grado più elevato di trasparenza, moralità e democrazia.
Indirizzando i propri claims non già verso il Parlamento e
l’esecutivo, bensì verso le scuole, le università, le catene di
montaggio, i municipi, gli ospedali, i teatri, i supermercati,
le stazioni ferroviarie. Sottraendosi alle regole, la lotta per il
potere si disperdeva tra mille luoghi.
Fondamentale è stata la messa in scena da parte dei media
dei movimenti, del loro seguito e delle loro pratiche di pro-
testa. I movimenti ne hanno profittato e, da allora, la politica
democratica non è stata più la stessa. Anche perché i movimenti
entreranno in permanenza tra le tecniche utilizzate nella lotta
per la rappresentanza. Non solo: già nemmeno nel loro Golden
Age la reputazione dei partiti era stata troppo salda64, ma i
movimenti ne hanno accelerato il decadimento. Per contro,
oltre a rifornirli a medio termine di nuovi quadri, i movimen-
ti suggeriranno ai partiti nuovi claims e li convinceranno ad
aggiornare le forme di comunicazione verticali e orizzontali,
traendo ispirazione dalla loro esperienza. Inizierà la stagione
dell’autoriforma dei partiti.
Quasi in contemporanea, un’altra schiera di nuovi venuti
della rappresentanza, anche se a più lento rilascio, è stata quella
dei partiti di destra nazionalista, che a metà anni ’80 saranno
rietichettati come populisti65. Emarginato dopo la Seconda
guerra mondiale, l’estremismo di destra era rimasto in attesa.
Le incertezze economiche di fine anni ’60 e dei primi anni ’70
e, ancor più, la grande agitazione politica avviata dal ’68, gli
hanno offerto una finestra di opportunità per iscriversi aper-
tamente alla contesa politico-elettorale. Nel 1969 in Germania,
dopo aver registrato promettenti risultati alle elezioni locali, i

64
  Come mostra la ricerca di N. Clarke, W. Jennings, J. Moss e G. Stoker,
The Good Politician. Folk Theories, Political Interaction, and the Rise of Anti-
Politics, Cambridge, Cambridge University Press, 2018.
65
  Anche qui la letteratura è sterminata. Di populismo riparleremo più
volte. Al momento rinviamo ai testi più generali: R.C. Heinisch, C. Holtz-
Bacha e O. Mazzoleni (a cura di), Political Populism: A Handbook, Baden
Baden, Nomos, 2017; C. Rovira Kaltwasser,  P.A. Taggart,  P. Ochoa Espejo
e P. Ostiguy (a cura di), The Oxford Handbook of Populism, Oxford, Ox-
ford University Press, 2017; C. de la Torre (a cura di), Handbook of Global
Populism, Abingdon, Routledge, 2018; M. Oswald (a cura di), The Palgrave
Handbook of Populism, Cham, Palgrave MacMillan, 2022.

199
neonazisti dell’Npd avevano sfiorato la soglia di sbarramento
alle elezioni federali. Nel 1970 la maggiore formazione neofa-
scista d’Europa, il Movimento sociale italiano, si era riproposto
quale partito di protesta. Aveva animato la rivolta di Reggio
Calabria e si era rivolto ai ceti e ambienti più turbati dal ’68:
alle elezioni del 1972 sfiorava il 10 per cento. Infine: nel 1973
un reduce della guerra d’Algeria, già deputato poujadista, riu­
sciva a federare i nostalgici di Vichy e dell’Algeria francese,
riprendendo, con una lieve variazione cromatica, il logo del
Movimento sociale italiano.
Il partito fondato da Jean-Marie Le Pen ci metterà un
decennio a farsi largo. Solo nel 1984, dopo che socialisti e
comunisti erano giunti al governo, con un ambizioso program-
ma di nazionalizzazioni e riforme egualitarie, ha ottenuto alle
elezioni europee un ragguardevole 11 per cento dei consensi.
Ma già la sua costituzione aveva avviato il rilancio della de-
stra estrema, con un programma antipluralista, autoritario
e etnonazionalista. Evocando il popolo in quanto principio
identitario, il Front national riscopriva i più tipici temi rea-
zionari. La sinistra divideva, il Front prometteva di riunire.
La piega sicuritaria e xenofoba erano il piatto forte della sua
offerta politica.
Seguiranno altri partiti. A metà anni ’70 il Vlaams Natio-
nale Partij – più tardi divenuto Vlaams Blok e alfine Vlaams
Belang  – si faceva portavoce in Belgio del separatismo fiam-
mingo. Subito dopo in Gran Bretagna e in Germania appari-
vano rispettivamente, seppur con modesto seguito elettorale,
il British National Party e i Republikaner. In Svizzera, nel
1979, un imprenditore zurighese, Christoph Blocher, ripo-
sizionava a destra un antico partito agrario e centrista come
l’Svp/Udc. In Italia, la Lega Nord, guidata da Umberto Bossi,
a inizio del nuovo decennio ha inventato la nazione padana.
In Austria, nata per riciclare i quadri del partito nazista e a
lungo incuneatasi tra popolari e socialdemocratici, la Fpö dal
1986, sotto la guida di Jörg Haider, ha assunto apertamente
posizioni estreme. Dagli anni ’90 in Gran Bretagna, con fortune
altalenanti, l’Ukip ha guidato una lunga campagna ferocemente
ostile all’unificazione europea, che sarà premiata dal Brexit.
Nel 1988 sono nati i Democratici svedesi, nel 1993 Alba dorata
in Grecia, nel 1995 i Veri finlandesi. È un’onda lunghissima.

200
Nel 2013 ha visto la luce Allianz für Deutschland, instauran-
do ambigui rapporti col passato nazista. Nello stesso anno
in Spagna compariva Vox, rivendicando apertamente la sua
parentela col franchismo, e nel 2014 il Movimento sociale, che
nel 1994 si era riconvertito in Alleanza nazionale, prendendo
le distanze dal fascismo, è risorto sotto l’etichetta di Fratelli
d’Italia. Malgrado l’evidente matrice politico-culturale di gran
parte di essi, osservatori e studiosi li hanno riclassificati più
asetticamente come populisti, includendo altri outsiders di
più difficile collocazione. Nel 1972 in Danimarca e nel 1973
in Norvegia erano comparsi due partiti il cui pre-testo era
la critica della fiscalità e dell’interventismo statale: si erano
denominati entrambi partiti del progresso, ma presto avevano
scoperto anch’essi l’immigrazione.
Altamente innovativi nelle forme, i movimenti collettivi
avevano mantenuto una continuità, seppur critica, con i prin-
cipi della democrazia pluralista e con le ambizioni inclusive
consolidatesi nel dopoguerra. La differenza con gli outsiders
di estrema destra è palese. Questi ultimi proporranno un
rinnovamento di tutt’altro segno della lotta per la rappre-
sentanza, nel suo stile e nei contenuti. Sarà fondamentale la
loro retorica: proclamarsi portavoce del popolo, vittima dei
partiti, delle burocrazie pubbliche, dei sindacati, del fisco,
della criminalità, dei migranti, delle istituzioni europee, delle
complicità fra élites politiche, finanziarie, imprenditoriali,
mediatiche, intellettuali.
Distinguendo tra partiti d’estrazione fascista e partiti
sprovvisti di simili radici, Piero Ignazi ha applicato ai secondi
la teoria dei valori «postmaterialisti» di Ronald F. Inglehart66.
Scontata per i movimenti, l’applicazione non lo è per i partiti
della destra estrema. La loro xenofobia, insieme all’offerta di
misure law & order, avrebbe esaudito domande non soddisfatte
dalla destra established. La rilevanza assunta dai temi culturali
non implica alcuna parentela. La destra estrema è semmai un

66
  P. Ignazi, The Silent Counter-Revolution: Hypotheses on the Emergence
of Extreme Right-Wing Parties in Europe, in «European Journal of Political
Research», 1, XXII, 1992, pp. 3-34. Di R.F. Inglehart cfr. The Silent Revolu-
tion. Changing Values and Political Styles among Western Publics, Princeton,
Princeton University Press, 1977.

201
«contro-movimento», cioè una replica ai movimenti collettivi67.
Aiuta a far chiarezza l’osservazione dei settori di elettorato
che hanno inizialmente accolto l’offerta della nuova destra
estrema. Risalendo alle elezioni del 1984, si scopre come a
votare il Front national alle europee di quell’anno fossero
per lo più segmenti di classe media, come commercianti,
artigiani, agricoltori, impiegati privati, nonché una parte dei
ceti a reddito medio-alto dei quartieri borghesi di Parigi e di
Lione. Era un’utenza che già in passato aveva sostenuto alle
elezioni presidenziali candidati d’estrema destra nazionalista.
Gli uomini prevalevano sulle donne, scarseggiavano i giovani
ed erano sottorappresentate le professioni intellettuali68. Con
qualche aggiustamento dovuto alle circostanze nazionali, il
pubblico sarà lo stesso per gli outsiders della medesima filiera.
Solo più tardi le nuove destre estreme hanno trovato ascolto
tra i ceti popolari e tra gli elettori della sinistra, in realtà molto
sopravalutato69.
Forse si sarebbe manifestata anche in loro assenza: ma
l’offerta di rappresentanza della risorta destra nazionalista
è molto in debito con l’aggiornamento delle tecniche di co-
municazione politica. Per i partiti established si trattava di
riconvertirsi. Le nuove destre erano più libere di adeguarsi
alla politica spettacolo70. I media non sono stati però l’unica

67
  D.S. Meyer e S. Staggenborg, Movements, Countermovements, and the
Structure of Political Opportunity, in «American Journal of Sociology», 6, CI,
1996, pp. 1628-1660.
68
  Così secondo la prima indagine sul seguito elettorale del Fn: M. Charlot,
L’émergence du Front national, in «Revue française de science politique», 1,
XXXVI, 1986, pp. 30-45. La parola populismo non è mai adoperata.
69
  Già abbiamo ricordato (cap. II, nt. 26) come in realtà l’elettorato dei
partiti di centrodestra sia sempre stato in buona parte un elettorato popolare.
Non c’è da stupirsi se lo stesso accade anche per la destra estrema. Per un’in-
dagine recente sui comportamenti degli elettori provenienti dagli strati inferio-
ri – e anche sulla provenienza sociale degli elettori populisti – che smentisce
i luoghi comuni sulla sua estrazione sociale cfr. D. Tuorto, Underprivileged
Voters and Electoral Exclusion in Contemporary Europe, Basingstoke, Palgrave
Macmillan, 2022. Sulla loro provenienza politica, di nuovo smentendo i luoghi
comuni, cfr. A. Krouwel, T. Bale e L. Tremlett, Variation in the Extent to
Which Mainstream Political Parties’ Voters Consider Voting for Radical Right
Populist Parties, in S. Bukow e U. Jun (a cura di), Continuity and Change of
Party Democracies in Europe, New York, Springer, 2020, pp. 169-201.
70
  G. Mazzoleni, J. Stewart e B. Horsfield (a cura di), The Media and Neo-
populism. A Contemporary Comparative Analysis, Praeger, Westport, 2003. Ricco

202
arma di cui si siano serviti. Hanno puntato molte carte sulla
rappresentanza occasionale, evitando di replicare il modello
tradizionale di partito, che prevedeva una macchina organizza-
tiva strutturata e diffusa su tutto il territorio. Sono comunque
riusciti a svolgere un’efficace azione di constituency building.
Viste le oscillazioni elettorali, attenuate solo a lungo andare,
non è detto che abbiano raggruppato una constituency fideliz-
zata paragonabile a quelle dei partiti tradizionali, ma i claims
e i testi della destra estrema hanno lo stesso attecchito entro
una quota di elettorato.
La collocazione di Berlusconi e del suo partito tra destra
convenzionale e destra estrema è dopotutto intermedia. Ma
rientrano nello spettacolo populista gli applausi entusiastici
dei suoi fans, rimessi in onda quale intrattenimento televisi-
vo. L’aspetto originale è che Berlusconi era anche un grande
imprenditore mediatico, professionalmente predisposto a fare
spettacolo della sua azione politica. Non possedendo i mede-
simi strumenti e le stesse competenze, Bossi dava spettacolo
in canottiera e Matteo Salvini l’ha imitato in divisa e a torso
nudo. Tra gli spettacoli apprezzati dalle nuove destre c’è il
folklore, che, quando serve, si può inventare: la Lega Nord ha
travestito i suoi militanti con le insegne della Lega lombarda,
li ha fatti esibire a Pontida e ha celebrato un bizzarro battesi-
mo alle sorgenti del Po. Il Front national, i Liberali austriaci,
l’Ukip hanno sfruttato più stagionate rievocazioni nazionaliste.
La nostalgia del passato e la sua romanticizzazione caricaturale
sono ingredienti molto utilizzati71.
Un altro ingrediente è la figura del leader e l’evocazione
di un legame fiduciario personale con i suoi seguaci. La fi-

d’informazioni e di spunti è T. Aalberg, F. Esser, C. Reinemann, J. Stromback


e C. De Vreese (a cura di), Populist Political Communication in Europe, New
York, Routledge, 2017. Cfr. anche F. Roncarolo, Media Politics and Populism
as a Mobilization Resource, in R.C. Heinisch, C. Holtz-Bacha e O. Mazzoleni
(a cura di), Political Populism: A Handbook, cit. Qualche dato di ricerca in
T. Akkerman, Friend or Foe? Right-Wing Populism and the Popular Press in
Britain and the Netherlands, in «Journalism», 12, VIII, 2011, pp. 931-945.
71
 Sulla dimensione nostalgica del populismo, cfr. R. Genovese, Totali-
tarismi e populismo, Roma, Manifestolibri, 2016. Un’indagine empirica in
E. Steenvoorden e E. Harteveld, The Appeal of Nostalgia: The Influence of
Societal Pessimism on Support for Populist Radical Right Parties, in «West
European Politics», 1, XLI, pp. 28-52.

203
gura del leader – secondo Weber e Schumpeter – è sempre
stata importante per i grandi partiti popolari, che però non
la esageravano. Per i partiti pigliatutti, secondo Kirchheimer,
che guardava con diffidenza al gollismo72, era un modo per
semplificare il messaggio. Per la destra estrema la leadership
personale è invece un tratto genetico. Le sue filiazioni attuali
hanno anch’esse fatto dei loro leaders un simbolo unificante
e trasfigurante e uno strumento d’espressione collettiva. È
stato riproposto all’occasione il venerando concetto di ca-
risma73. La citazione weberiana è forse sovradimensionata,
ma è anche improprio l’accostamento allo stile di leadership
del fascismo. Quest’ultimo esaltava le virtù straordinarie – e
dunque il carisma – del capo e la sua capacità di guidare il
proprio seguito verso un futuro glorioso. Gli attuali leaders
populisti escludono i toni marziali, non sono eroi, né profeti
e nemmeno élite. La postura tribunizia e la propaganda mar-
tellante soddisfano unicamente la preferenza dei media per i
gesti sensazionali, i discorsi scandalosi e le figure istrioniche.
Ma essi non esibiscono competenza, cultura e eventualmente
una biografia straordinaria. Sono uomini e donne comuni, che
si sono fatti da sé, anche quando imprenditori ricchissimi. Pur-
ché pronuncino le parole che i loro rappresentati vorrebbero
pronunciare essi stessi.
I leaders della nuova destra estrema drammatizzano,
semplificano, offendono, denunciano e soprattutto offrono al
loro seguito un’opportunità di rispecchiarsi. Non dissimulano
nemmeno vizi e debolezze, che anzi studiatamente offrono
all’occhio ingordo dei media. Le traversie della loro vita
privata non hanno segreti. All’evidente estraneità sociologica
e culturale delle dirigenze dei partiti established, i leaders
populisti oppongono la comunanza affettiva con il loro se-
guito, fatta di emotività, tracotanza, volgarità nel linguaggio
e nei gesti74. Ma questo non è carisma. Dirà il tempo se un

72
  O. Kirchheimer, France from the Fourth to the Fifth Republic, in «Social
Research», 4, XXV, 1958, pp. 379-414.
73
 Su questo aspetto e sui leaders populisti F. Rositi, L’oggetto società.
Studi di teoria sociologica, Pavia, Pavia University Press, 2020, pp. 121-122.  
74
  La letteratura sul populismo ha parecchio insistito sul tema della leader-
ship. Per una messa a punto L. Viviani, A Political Sociology of Populism and
Leadership, in «Società/Mutamento/Politica», 15, VIII, 2017, pp. 279-303.

204
simile stile di leadership sia irrinunciabile o meno. Gli avvi-
cendamenti al vertice, resi inevitabili dalla lunga durata del
fenomeno, potrebbero suggerire uno stile più misurato. Così
pure l’accesso a importanti postazioni di potere. Al momen-
to, tuttavia, seguita però a prevalere una sbrigativa retorica
dell’efficienza. Poche misure di policy, semplici e risolute: meno
tasse e meno regole, severità inflessibile contro ogni devianza
e diversità, più indipendenza nazionale, meno ingiunzioni
delle istituzioni europee, fuori dai confini i migranti, se del
caso anche a mare. A quasi mezzo secolo dalla loro prima
comparsa, grazie alle circostanze, la ricetta ha trovato il suo
pubblico. Anche numeroso.

6. Divergenze e convergenze

Kirchheimer aveva delineato un percorso di ravvicinamento


tra i partiti, fatto di convergenze programmatiche e di pacifica
concorrenza elettorale. Non aveva previsto la comparsa di nuovi
concorrenti75, né aveva previsto i grandi cambiamenti econo-
mici, sociali e culturali che hanno smentito le sue previsioni.
Nel suo modello si possono distinguere tre livelli: il primo è
quello dei claims di rappresentanza, o dell’offerta elettorale; il
secondo è quello delle relazioni reciproche; il terzo livello è
quello della struttura organizzativa dei partiti. Riprenderemo di
nuovo l’argomento nel prossimo capitolo, ma in queste pagine
occorre comunque occuparsene. Lo faremo considerando per
cominciare gli sviluppi avvenuti ai primi due livelli, iniziati con
l’arrivo nel 1979 di Margaret Thatcher alla guida dei conser-
vatori britannici e poi a Downing Street.
Da parte di chiunque vincesse le elezioni era costume dal
dopoguerra non contraddire troppo apertamente l’azione di
chi aveva governato in precedenza e mostrare anche qualche
attenzione alla sua constituency. Nonostante scontri sociali a
volte molto duri, l’indirizzo inclusivo dell’azione di governo,
75
  Sulle sfide, programmatica e organizzativa, dei movimenti, e sulla capa-
cità di raccoglierle positivamente, dei partiti established, almeno fino ai primi
anni ’90, cfr. R. Rohrschneider, Impact of Social Movements on European Party
Systems, in «The Annals of the American Academy of Political and Social
Science», 528, 1993, pp. 157-170.

205
pur in dosaggi diversi, era condiviso da tutti i partiti. A metà
anni ’70, la mediazione dei conflitti si era addirittura fondata
sulla concertazione tra governo, associazioni imprenditoriali e
sindacati. Sfruttando le opportunità offerte dal regime elettorale
e dal governo di gabinetto, Thatcher ha invece rinnovato sia
la strategia elettorale, sia i contenuti dell’azione di governo,
sia lo stile con cui era condotta la competizione politica. Ha
innanzitutto rinunciato alla prospettiva catch-all per ricostitui­
re la propria constituency intorno ai valori tradizionali e alla
proprietà privata; ha in secondo luogo investito sulla propria
figura di leader, a spese dell’esecutivo, del parlamento e del suo
stesso partito; ha quindi ridefinito in chiave adversary i rapporti
con il Labour e con le Unions; ha sopra ogni cosa avviato la
grande svolta pro-market76. Ed è divenuta un modello per gli
altri partiti di centrodestra.
I modelli si possono applicare in molti modi. Di fatto, il
modello Thatcher non è mai stato replicato integralmente.
Sotto la presidenza Chirac il centrodestra francese, pur con
qualche inasprimento, manterrà lo stile repubblicano. Per un
riposizionamento radicale bisognerà attendere l’elezione nel
2004 di Nicolas Sarkozy. Sarà molto prudente la Cdu tede-
sca, attenta a salvaguardare le intese corporative tra mondo
imprenditoriale e mondo del lavoro. E sarà prudente pure
il Ppe spagnolo, giunto al governo nel 1996: il market turn
era stato del resto già intrapreso dal Psoe. In Italia, la destra
guidata da Berlusconi, in cui coabitavano velleità neoliberi-
ste, conservatorismo cattolico e demagogia etnonazionalista,
tenderà a distanziarsi dalle abitudini troppo accomodanti
della Democrazia cristiana, ma più sul piano simbolico che
nella sostanza.
Per i partiti established del fronte opposto la postura adver-
sary, anziché conciliante, costituiva un cambiamento del con-testo.
Avrebbero forse potuto tornare indietro per riproporre il vecchio
cleavage di classe e chiudersi in difesa della loro constituency
originaria. Ed è quanto hanno provato a fare senza successo i

76
  R. Heffernan e P. Webb, The British Prime Minister: More Than First
Among Equals, in T. Poguntke e P. Webb (a cura di), The Presidentialization
of Politics. A Comparative Study of Modern Democracies, Oxford, Oxford
University Press, 2005.

206
laburisti, guidati da Michael Foot, i quali però, subita una grave
scissione, hanno dapprima perso rovinosamente le elezioni del
1983 e quindi hanno avviato una profonda revisione strategica.
Negli anni ’90 essa culminerà, sotto la guida di Blair, nell’a-
desione sostanziale al market turn thatcheriano77, mantenendo
tuttavia almeno in parte la prospettiva catch-all. Da un lato il
New Labour ha tralasciato l’elettorato working class per con-
centrarsi sui ceti medi e sugli ambienti imprenditoriali. Dal lato
opposto, ha rispettato lo stile catch-all nei rapporti con gli altri
partiti, in coerenza con l’immagine moderata e tranquillizzante
che intendeva dare di sé.
È una strategia che è stata seguita dagli altri partiti socialisti
e socialdemocratici, i quali hanno tutti più o meno bilanciato
la loro riconversione pro-market sollevando nuovi temi che
si sono però rivelati altamente divisivi, in quanto di portata
antropologica, irriducibili al compromesso: i diritti civili, la
condizione femminile, l’aborto, l’omosessualità, il fine vita, le
convivenze familiari e infine, specie grazie alle provocazioni dei
partiti populisti, l’immigrazione78. Per il modello piglia-tutti è
stato un altro motivo di smentita. A tirare le somme, la contesa
politico-elettorale si è polarizzata, benché in maniera asimme-
trica, secondo l’esempio americano: a destra, per l’appunto, ma
non a sinistra79.
C’è in ogni caso una dimensione del modello catch-all che
ha tenuto davvero ed è quella del ravvicinamento morfologico
e programmatico tra i partiti. Ciò è stato possibile in virtù di
alcune importanti innovazioni organizzative e di qualche intesa
sulle regole. È l’argomento approfondito da Robert S. Katz
e Peter Mair, i quali a metà anni ’90 hanno coniato un’altra
formula molto fortunata, almeno tra gli addetti ai lavori: quella
del cartel party80.

77
  Come si dirà nel prossimo capitolo, i socialisti francesi avevano cam-
biato strategia già qualche anno prima: nel 1984, licenziando l’alleanza col
Partito comunista.
78
  L. Boltanski, The Left After May 1968 and the Longing for Total Revolu-
tion, in «Thesis Eleven», 1, 2002, pp. 1-20.
79
 M. Grossmann e D.A. Hopkins, Ideological Republicans and Group
Interest Democrats: The Asymmetry of American Party Politics, in «Perspec-
tives on Politics», 1, XIII, 2015.
80
  R.S. Katz e P. Mair (a cura di), How Parties Organize: Change and Ad-
aptation in Party Organization in Western Democracies, London, Sage, 1994;

207
Per ridurre i costi della concorrenza, i partiti established si
sarebbero intesi in primo luogo per concedersi qualche beneficio
differenziale rispetto agli outsiders che erano già sopravvenuti
e che avrebbero potuto sopravvenire in futuro. L’avrebbero
fatto stipulando un patto – non necessariamente esplicito – di
oligopolio, con cui si sarebbero attribuiti i mezzi necessari
a garantire una sopravvivenza confortevole a quelli fra loro
che avrebbero pro tempore recitato la parte dell’opposizione.
L’intesa si spiega anzitutto alla luce dei costi crescenti della
contesa politica. Sperimentato nella Repubblica federale dal
1959, il finanziamento pubblico è stato esteso man mano con
due motivazioni preminenti. La prima è il servizio reso dai
partiti al regime democratico: in qualità di public utilities, an-
davano mantenuti a spese delle pubbliche finanze81. La seconda
motivazione era una promessa: ne avrebbe tratto vantaggio la
moralità pubblica, scoraggiando il ricorso alla corruzione e
ai finanziamenti privati, gravati da condizionamenti, e talora
addirittura illegali. In aggiunta, osservano Katz e Mair, i partiti
established si sarebbero riconosciuti reciprocamente opportunità
preferenziali d’impiego dei media di proprietà pubblica.
L’obiettivo di proteggersi dagli outsiders era, a pensarci,
irraggiungibile. Quale partito che si dicesse democratico avreb-
be potuto escluderli dal finanziamento pubblico? Riguardo
ai media, l’avanzata delle televisioni commerciali ha sventato
ogni pretesa di trattamenti di favore: anzi, i media commer-
ciali hanno molto gradito gli outsiders. Si sono, nondimeno,
sviluppate altre e nuove convergenze – parziali – messe in
luce da Katz e Mair in altri scritti successivi82. A cominciare
dai temi di policy.

Idd., Changing Models of Party Organization and Party Democracy, in «Party


Politics», 1, I, 1995, pp. 5-28. Per l’importante riflessione di Peter Mair sui
partiti si rinvia alla raccolta On Parties, Party Systems and Democracy: Selected
Writings of Peter Mair, Colchester, Ecpr Press, 2014.
81
  Per l’applicazione, anche empirica, del concetto di public utility, I. van
Biezen, Political Parties as Public Utilities, in «Party Politics», 6, X, 2004, pp.
701-722. Sul finanziamento pubblico: K. Casas-Zamora, Paying for Democracy:
Political Finance and State Funding for Parties, Colchester, Ecpr Press, 2005.
Sull’Italia, D.R. Piccio (a cura di), Il finanziamento alla politica in Italia. Dal
passato alle prospettive future, Roma, Carocci, 2018.
82
  R.S. Katz e P. Mair, The Cartel Party Thesis: A Restatement, in «Per-
spectives on Politics», 4, VII, 2009, pp. 753-766.

208
A loro parere, la fine della Guerra fredda, la globalizzazione,
la terziarizzazione, la secolarizzazione e l’individualizzazione
avevano trasformato la fisionomia delle società avanzate e
corroso i cleavages su cui si erano fondati i partiti di massa,
insieme al dualismo tra destra e sinistra, cambiando i pre-testi
della rappresentanza83. È il motivo per cui i partiti si sarebbero
ritrovati a perseguire strategie di policy molto simili. Il capitolo
più convincente del racconto di Katz e Mair è però quello
dedicato ai cambiamenti interni. I partiti established sarebbero
divenuti più confortevoli per i loro gruppi dirigenti, mentre
avrebbero assistito indifferenti alla fuga degli iscritti e all’e-
straneazione degli elettori84. È stato un doppio adeguamento:
più i partiti si insediavano in public office, più deperiva la loro
azione on the ground85. Di quando in quando hanno annunciato
una campagna di reclutamento d’iscritti, ma perfino quelli che
maggiormente tenevano a esibirli si sono riconvertiti a forme
d’adesione più soft.
Otto Kirchheimer aveva segnalato la mutazione in atto nei
partiti con accenti un po’ nostalgici, ma rassegnati. Katz e Mair
hanno toni michelsiani86. Peter Mair ha anche sottolineato gli
effetti del cambiamento addirittura per i regimi democratici. Le
nuove tecniche mediatiche di raccolta del consenso elettorale
hanno reso i partiti leadership, media e capital intensive. Ricon-
vertiti alla rappresentanza occasionale, hanno rinunciato alla
83
  Alla luce dei casi degli Usa, del Regno Unito e della Svezia, cfr. M. Blyth
e R. Katz, From Catch-All Politics to Cartelization: The Political Economy of
the Cartel Party, in «West European Politics», 1, XXVIII, 2005, pp. 33-60.
84
  Sul declino delle iscrizioni: R.S. Katz, P. Mair et al., The Membership of
Political Parties in European Democracies, 1960-1990, in «European Journal
of Political Research», 3, XXII, 1992, pp. 329-345; P. Mair e I. van Biezen,
Party Membership in Twenty European Democracies. 1980-2000, in «Party
Politics», 1, VII, 2001, pp. 5-21; I. van Biezen, P. Mair e T. Poguntke, Going,
Going, ... Gone? The Decline of Party Membership in Contemporary Europe,
in «European Journal of Political Research», 1, LI, 2011, pp. 24-56. Ma cfr.
anche S.E. Scarrow, Beyond Party Members, cit.
85
  R. Katz e P. Mair, The Ascendancy of the Party in Public Office. Party
Organisational Change in XXth Century Democracies, in R. Gunther, J.R.
Montero e J. Linz (a cura di), Political Parties. Old Concepts and New Chal-
lenges, Oxford, Oxford University Press, 2002, pp. 113-135.
86
  Una critica a questi accenti è sollevata da H. Kitschelt, Citizens, Poli-
ticians, and Party Cartellization: Political Representation and State Failure in
Post-Industrial Democracies, in «European Journal of Political Research», 2,
XXXVII, 2000, pp. 149-179.

209
manutenzione del loro seguito. Altre ricerche mostrano come
i partiti si siano perfino adeguati alle ricette del New public
management contestualmente somministrate alle pubbliche
amministrazioni. Ovvero hanno esternalizzato e privatizzato
molte loro attività87.
Non bastando i finanziamenti pubblici, i partiti si sono
rivolti ai professionisti di fund raising. L’identificazione dei
temi di policy, il framing, il priming, l’agenda setting e la scelta
delle soluzioni sono state delegate ai think tanks, ai media, ai
gruppi di interesse e alle lobbies88. Si sono anche indeboliti i
rapporti che i partiti intrattenevano con gli intellettuali e col
mondo degli studi. Infine, veicolata dai media, e ultimamen-
te dai social, l’attività promozionale è divenuta compito dei
professionisti di marketing elettorale, di comunicazione e di
sondaggi89, pronti a offrire i loro servigi a qualsiasi partito. Non
c’è partito che non investa massicciamente in quest’ambito e
non c’è neppure partito che non abbia investito sulla leadership.
I leaders tradizionali dovevano in primo luogo riscuotere la
fiducia dei maggiorenti del partito e il rispetto degli alleati e
dei concorrenti. L’una e l’altro dipendevano dalla loro capa-
cità di persuadere, mediare e organizzare il consenso intorno
a sé. Contava anche, ovviamente, la popolarità elettorale di
ciascuno. L’interlocutore immediato dei leaders contemporanei
sono invece i mass media, che li hanno sospinti al centro dello
spettacolo. Non c’è leader che non sia affiancato da spin doc-
tors, da esperti d’immagine, da addetti al suo look e alla sua
quotidiana messa in scena.

87
  In merito cfr. A.-S. Petitfils, L’institution partisane à l’épreuve du ma-
nagement. Rhétorique et pratiques managériales dans le recrutement des nou-
veaux adhérents de l’UMP, e P. Aldrin, Si près, si loin du politique. L’univers
professionnel des permanents socialistes à l’épreuve de la managérialisation, in
«Politix», 3, XX, 2007, rispettivamente a pp. 53-76 e 25-51; nonché F. Faucher,
La «modernisation» du Parti travailliste. 1994-2007. Succès et difficultés de
l’importation du modèle entrepreneurial dans un parti politique, in «Politix»,
81, XXI, 2008, pp. 125-149.
88
 Sulle relazioni tra partiti e interessi E.H. Allern e T. Bale, Political
Parties and Interest Groups: Disentangling Complex Relationships, in «Party
Politics», 1, XVIII, 2011, pp. 7-25. Il testo introduce una special issue su
Political Parties and Interest Groups: Qualifying the Common Wisdom.
89
  P. Baines, C. Scheucher e F. Plasser, The «Americanisation» Myth in
European Political Markets. A Focus on the United Kingdom, in «European
Journal of Marketing», 9-10, XXXV, 2001, pp. 1099-1117.

210
Secondo la teoria della «democrazia del pubblico» i media
commerciali, in cerca di audience, avrebbero relativamente
neutralizzato e depoliticizzato l’informazione, ridimensionando
l’influenza dei partiti nella discussione pubblica, liberalizzan-
do quest’ultima e rendendo più libere le scelte degli elettori,
meno vincolate da affiliazioni sociali, culturali, partitiche90. Che
gli elettori siano più liberi di farsi un’opinione e di scegliere
non è però così certo. Sono più verosimili altri effetti nella
conduzione della contesa politica. Divenuto prioritario l’ap-
peal personale dei candidati, i partiti si sono messi in cerca di
figure in grado d’attrarre l’attenzione mediatica – o le hanno
fabbricate. A loro volta, le figure ritenute in grado di bucare
lo schermo si sono messe alla ricerca di partiti interessati a
adottarle91. Ovviamente, i media dicono la loro: fabbricano
leaders e li impongono ai partiti. Trainata dall’esperienza
americana, la personalizzazione è un obbligo cui i partiti non
ritengono conveniente sottrarsi92. Da sempre le narrazioni
della politica rivolte al largo pubblico hanno avuto un’istintiva
preferenza per gli individui anziché per il lavoro collettivo. La
media logic l’ha rafforzata smisuratamente. Vi avrà fors’anche
contribuito la diversificazione e frammentazione delle società
contemporanee, che ha eroso i cleavages tradizionali e rende
più difficili da pensare progetti collettivi e suscitare speranza
politica. Ad ogni buon conto, la gara mediatica tra i preten-
denti alla leadership, che drammatizza la contesa e trasforma
le elezioni in horse race, è movente decisivo di polarizzazione,
ulteriormente eccitata dalla concorrenza dell’estrema destra
etnonazionalista93.

90
  B. Manin, Principes du gouvernement représentatif, Paris, Flammarion,
1996, pp. 283-290.
91
 Anche quello della leadership è un tema molto frequentato: cfr. J.
Blondel e J. Thiébault (a cura di), Political Leadership, Parties and Citizens,
London-New York, Routledge, 2010.
92
  Oltre ai già ricordati lavori di M. Calise, Il partito personale, Roma-
Bari, Laterza, 2000 e Id., La democrazia del leader, Roma-Bari, Laterza,
2016, cfr. G. Rahat e O. Kenig, From Party Politics to Personalized Politics?
Party Change and Political Personalization in Democracies, Oxford, Oxford
University Press, 2018.
93
 Già vent’anni fa segnalava l’azione spesso devastante dei media J.N.
Cappella e K.H. Jamieson, Spiral of Cynicism: The Press and the Public Good,
Oxford, Oxford University Press, 1997.

211
Il cartel party indica insomma una riconversione singolare,
che intreccia divergenze e convergenze. Molto probabilmente
le convergenze nelle forme dei partiti sono dovute anche al
rinnovamento generazionale degli addetti ai partiti e a una
più avanzata professionalizzazione della politica: l’azione di
governo è ritenuta fondamentale e quella di rappresentanza
secondaria. È comunque avvenuta una riconversione produttiva
in piena regola. I partiti, in quanto imprese politiche, produ-
cono altro rispetto al passato e lo fanno in maniera diversa,
almeno in parte. Esternalizzata la rappresentanza ai gruppi
d’interesse, alle organizzazioni professionali, ai movimenti,
alle associazioni, ai sindacati, ai think-tanks e altro ancora, i
partiti mantengono semmai una funzione di brokeraggio. In
vista delle campagne elettorali si apre una doppia competi-
zione: tra interessi, in lizza per assicurarsi i servizi dei partiti,
e tra i partiti, che si disputano il gradimento e il sostegno
finanziario degli interessi.
Il decadimento della presenza sociale dei partiti e la loro
rimodulazione organizzativa ha altresì sollecitato gli aspiranti
alle cariche elettive a muoversi in proprio, a crearsi un loro
seguito, a radunarsi in cerchie di eletti, nazionali e locali, di
aspiranti all’elezione, di detentori di cariche pubbliche, di
collaboratori a vario titolo. Ciascuna cerchia si adopera per
reperire risorse finanziarie autonome e instaurare rapporti diretti
con la sfera degli interessi. Dal canto loro, in sede locale non
mancano imprese e imprenditori politici pronti a sfruttare in
franchising il marchio del partito94. Nati localmente, i partiti
seguitano comunque a riconoscere un elevato valore alle sfere
politiche locali95, ove si disputano poste molto apprezzate, anche
a motivo delle riforme introdotte da tutti i regimi democratici,

94
  R.K. Carty, Parties as Franchise Systems. The Stratarchical Organizational
Imperative, in «Party Politics», 1, X, 2004, pp. 5-24.
95
  Si veda J.-L. Briquet e L. Godmer (a cura di), L’ancrage politique, cit.
Interessanti dati di ricerca ad esempio in N. Brack, O. Costa e E. Kerrouche,
MPs between Territories, Assembly and Party. Investigating Parliamentary
Behaviour at the Local Level in France, Belgium and Germany, in «French
Politics», 4, XIV, 2016, pp. 395-405. L’articolo introduce un numero dedi-
cato a Constituency Representation in France, Belgium and Germany. Per il
Regno Unito D. Denver, G. Hands e I. MacAllister, The Electoral Impact of
Constituency Campaigning in Britain, 1992-2001, in «Political Studies», 2,
LII, 2004, pp. 289-306.

212
unitamente a circuiti militanti e reti di relazioni preziosi per
compensare la fragilità della rappresentanza occasionale. È stata
perfino reinventata la propaganda porta a porta96.
Un altro fenomeno da studiare sono le fitte ibridazioni
tra partiti established e interessi economico-finanziari che si
sviluppano localmente. La letteratura sui «regimi urbani»,
sulle coalizioni che si costituiscono tra politica ed economia,
avanza interessanti suggestioni97. Ma molto resta da esplo-
rare. Qualche indicazione la offre la ricerca, condotta da
Silvano Belligni e Stefania Ravazzi su Torino98. Le relazioni
tra dirigenze dei partiti e gli addetti ad altre sfere – ambienti
imprenditoriali e fondazioni bancarie in primo luogo  – sono
divenute strettissime. Si sovrappongono anche i loro fini.
Altre ragioni per riflettere le dà l’investigazione condotta
da Luciano Brancaccio e Vittorio Martone su Roma e sulle
vicende di «mafia capitale», dove si sono intensamente ibridati
circuiti politici, imprenditoriali, affaristici, di volontariato e
pure malavitosi99. Altrettanto intrigante è il caso di Marsiglia
raccontato da Cesare Mattina, che descrive ancora altri in-
trecci, istituiti lungo un arco pluridecennale, da ambedue gli
schieramenti politici in concorrenza.
L’ibridazione con gli interessi economici si è fatta intima
specie intorno alle policies100. Il market turn ha condotto a
pensare il territorio come un patrimonio da mettere a reddito.
Nel caso delle politiche urbane il fine primario delle istituzio-
ni del governo locale non è erogare servizi agli abitanti, ma
rendere la città business friendly. È una variante del «capita-

96
 R. Lefebvre, La modernisation du porte-à-porte au Parti socialiste.
Réinvention d’un répertoire de campagne et inerties militantes, in «Politix»,
1, XXIX, 2016, pp. 91-115. Anche R. Ladini, The Differentiated Effects of
Direct Mobilisation on Turnout: Evidence from the 2013 Austrian Parliamentary
Election, in «German Politics», 2, XXX, 2021, pp. 267-296.
97
  A. Harding, Urban Regimes and Growth Machines Toward a Cross-National
Research Agenda, in «Urban Affairs Quarterly», 3, XXIX, 199, pp. 356-382.
98
  S. Belligni e S. Ravazzi, La politica e la città. Regime urbano e classe
dirigente a Torino, Bologna, Il Mulino, 2013, pp. 13-26.
99
  L. Brancaccio e V. Martone (a cura di), Mafia capitale, in «Meridiana.
Rivista di storia e scienze sociali», 87, 2016. Nonché V. Martone, Le mafie
di mezzo. Mercati e reti criminali a Roma e nel Lazio, Roma, Donzelli, 2017.
100
  Più in generale, G. Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland,
Bologna, Il Mulino, 2015. Inoltre, C. Mattina e G. Pinson (a cura di), La città
neoliberale, Milano, Meltemi, 2021.

213
lismo politico», in cui i profitti delle imprese dipendono dai
vantaggi che riescono a ottenere dagli addetti alla politica101.
Il territorio è un patrimonio da mettere a reddito e le istitu-
zioni locali di governo, insieme alle formazioni politiche che le
conducono, si fanno in concorrenza per attrarre investimenti
e attività produttive. Devono sopperire alla riduzione tanto
delle entrate fiscali, quanto dei trasferimenti dal centro, che
spesso sono attribuiti mediante procedure competitive. Sono
apprezzate parecchio le policies condotte in partenariato con i
privati102. Nulla è al riparo dalla valorizzazione e dalla privatiz-
zazione: rigenerazioni urbane, grandi infrastrutture, aeroporti,
stazioni, porti, impianti sportivi, palazzi dei congressi, parchi
di divertimento, centri commerciali, università, ospedali, ma
pure teatri, musei, monumenti, fiere, cerimonie religiose e
pellegrinaggi, eventi sportivi, concerti, spettacoli. Il turismo
estromette gli abitanti originari e alcune città si scoprono
smart e provano a rilanciarsi coltivando le alte tecnologie. È
un fenomeno che raggiunge l’apice nelle grandi metropoli,
ma che non risparmia i centri urbani grandi, medi e neanche
i borghi abbandonati103.
Con quali conseguenze? Alcune hanno riguardato il perso-
nale politico. Il training entro i partiti e le loro ramificazioni
territoriali e funzionali tipico della generazione precedente
appartiene al passato. Sono oggidì secondarie: opinioni, lealtà,
esperienze. È accaduto anche che i partiti si aprissero all’asso-
ciazionismo giovanile, ambientalista, femminista, antimafia. Ma
le risorse più richieste sono quelle economiche, quelle relazio-
nali e quelle di visibilità. Mediazione, contrattazione, gestione,
facilitazione, marketing territoriale sono attività prio­ritarie. Va
da sé che più l’azione di governo si ravvicina al business, e i
governanti interagiscono con i suoi addetti, più i modi di pensare
si contaminano e, a lungo andare, si contaminano pure gli stili
di vita. Non necessariamente la politica si volge in corruzione
perseguibile penalmente, ma non è un mistero che si possono

101
  R.G. Holcombe, Political Capitalism: How Economic and Political
Power Is Made and Maintained, Cambridge, Cambridge University Press,
2018.
102
  G. Pinson, Gouverner la ville par projet. Urbanisme et gouvernance des
villes européennes, Paris, Presses de SciencesPo, 2009.
103
  C. Mattina, Clientélismes urbains, cit.

214
condurre lucrosissimi affari senza lesioni della legalità, con
lesioni non visibili, oppure difficili da perseguire penalmente.

7. In cerca del popolo

Grande tema di dibattito nella sfera pubblica è ormai da


molto tempo la sfiducia dei cittadini verso i partiti: è anche un
claim di rappresentanza – c’è chi su di essa prova a guadagnare
consenso – e un frequentato tema di ricerca. Divenuta preoccu-
pante, la sfiducia ha sollecitato qualche replica. Tanto quanto
l’ha suscitata l’irruzione dei movimenti e delle nuove destre104.
I correttivi elaborati dai partiti a questo fine si possono
per lo più unificare sotto l’etichetta sartoriana di direttismo,
o sotto quella di disintermediazione105. Traendo ispirazione
dai movimenti, l’iniziativa l’hanno assunta i partiti socialisti e
socialdemocratici, interessati anche a differenziarsi maggior-
mente dai partiti di destra. Hanno pertanto introdotto riforme
organizzative interne, intese a promuovere la partecipazione
degli iscritti – e a volte degli elettori – alla vita del partito: alla
selezione della leadership e dei candidati alle cariche elettive
e perfino all’elaborazione programmatica, e all’assunzione di
alcune scelte politiche chiave106. Quale motivazione più nobile
può accampare un partito che essere più democratico, più
responsive e più inclusivo?
Una prima mossa è l’evoluzione monocratica, coe­rente con
quella avvenuta entro i regimi parlamentari107. Vi si accom-
pagnano le primarie, con cui si selezionano i candidati, vuoi

104
  Una ricerca sul rapporto tra partiti e movimenti in D.R. Piccio, Party
Responses to Social Movements. Challenges and Opportunities, New York,
Berghahn, 2019.
105
 Due ricognizioni generali: W.P. Cross e R.S. Katz (a cura di), The
Challenges of Intra-Party Democracy, New York, Oxford University Press,
2013; A. Gauja, Party Reform. The Causes, Challenges, and Consequences of
Organizational Change, Oxford, Oxford University Press, 2017.
106
  Avendo condotto un’indagine qualitativa sull’esperienza britannica e
francese, F. Faucher, New Forms of Political Participation. Changing Demands
or Changing Opportunities to Participate in Political Parties?, in «Comparative
European Politics», 13, 2015, pp. 405-419.
107
 G. Passarelli (a cura di), The Presidentialisation of Political Parties,
London, Palgrave, 2015.

215
alle cariche interne, vuoi alle istituzioni rappresentative108.
Animate dal fervore suscitato dai media, sono state accolte
con curiosità e interesse. In Italia vi hanno fatto ricorso le
coa­lizioni di centrosinistra. Il Partito democratico ha addirit-
tura dato voce agli elettori per scegliere i propri segretari. In
Spagna le primarie sono state adottate dal Psoe dal 1998 per
eleggere il proprio leader, contestualmente candidato alla guida
del governo. I socialisti francesi dal 2006 hanno scelto così
il loro candidato alla presidenza della Repubblica. Il Labour
si è accodato nel 2015. L’innovazione sarà introdotta pure da
alcuni partiti di centrodestra: in Francia i Repubblicani, dopo
aver sperimentato le primarie in alcune consultazioni locali,
se ne sono avvalsi per scegliere nel 2016 e nel 2021 il loro
candidato alla presidenza.
Posto che le primarie americane sono un’altra cosa, la
formula non è esente da critiche109. I candidati sono con cura
preselezionati dai maggiorenti del partito e poco spazio è
concesso agli outsiders. Di rado le primarie hanno condotto
a esiti imprevisti: tra i più noti, per ben due volte, nel 2015
e nel 2017, gli iscritti al Labour hanno scelto una personalità
marginale rispetto all’establishment come Jeremy Corbyn. È
anche successo in Italia al Partito democratico, dove le primarie
aperte hanno designato Elly Schlein. Ma è legittimo il sospetto
che presidenzializzazione e primarie siano state pensate anche
per risparmiare testi e offerte di rappresentanza troppo one-
rosi, per depotenziare gli organismi collettivi del partito e per
soffocare il dibattito interno, nonché per concentrare il potere
nelle mani del leader e della cerchia dei suoi fedeli110.

108
  G. Sandri, A. Seddone e F. Venturino (a cura di), Party Primaries in
Comparative Perspective, Farnham, Ashgate, 2016; R. Lefebvre e E. Treille
(a cura di), Les primaires ouvertes: un nouveau standard international?, Ville-
neuve d’Ascq cedex, Presses universitaires du Septentrion, 2019. Non manca
un handbook: R.G. Broatright (a cura di), Routledge Handbook of Primary
Elections, London, Routledge, 2018.
109
  Una riflessione critica in E. Melchionda, Alle origini delle primarie.
Democrazia e direttismo nell’America dell’età progressista, Roma, Ediesse,
2005. Inoltre: F. Faucher, Leadership Elections: What Is at Stake for Parties?
A Comparison of the British Labour Party and the Parti Socialiste, in «Parlia-
mentary Affairs», 4, LVIII, 2015, pp. 794-820.
110
  C’è anche chi sostiene che le riforme dei partiti siano controproducenti:
suscitano modesta legittimazione e aggravano i vincoli sugli addetti alla poli-

216
Interessati alla spettacolarizzazione antagonistica della con-
tesa politica, a codeste innovazioni hanno significativamente
contribuito, lo si è già ricordato, i mass media, non proprio
a titolo gratuito. In molti casi si sono intromessi nella scelta
sia dei candidati, sia dei vincitori. Tra le tante novità che i
media hanno promosso c’è anche l’informalizzazione della vita
politica. Non solo i nuovi partiti, o quelli che si rinnovano,
non si vogliono più chiamare in questo modo. Ma i leaders,
in carica o aspiranti, si sono persuasi a mettere senza riserve a
disposizione dei media la loro vita privata. È una rivoluzione
rispetto a quando essa era con cura protetta ed era moral-
mente inaccettabile violarne la soglia contro la volontà degli
interessati. Mutuate dal mondo dello spettacolo o dello sport,
è la strategia di peopolisation111. Grazie alla televisione l’infor-
malizzazione è straripata, alimentando un grande spettacolo
popolare. I leaders scendono dal palcoscenico, si aggirano in
platea e finanche per strada. Pure in politica è caduta la parete
invisibile che separa gli attori dal pubblico, il quale è entrato a
far parte della performance112. Accade quando il leader appare
fisicamente sulle piazze, oppure si esibisce nei programmi
d’intrattenimento, dove si consente a chi assiste – in studio,
per telefono, o tramite qualche sondaggio – di manifestare in
presa diretta preferenze, pretese, risentimenti, delusioni. Nel
frattempo, sulla rete si librano i cinguettii con cui i leaders
pubblicizzano in tempo reale le loro mosse113. Neanche questo
è tuttavia bastato. Per quanto si siano sottomessi allo spettacolo
mediatico, gli addetti alla politica sono ancora percepiti come
diversi e distanti, come casta privilegiata, a tutto vantaggio
degli outsiders populisti, i quali per contro recitano la parte
dei nuovi e genuini portavoce dei cittadini.

tica: cfr. F.M. Rosenbluth e I. Shapiro, Responsible Parties: Saving Democracy


from Itself, New Haven, Yale University Press, 2018.
111
  J. Dakhlia, Politique People, Paris, Bréal, 2008.
112
  G. Marrone, Corpi sociali. Processi comunicativi e semiotica del testo,
Torino, Einaudi, 2001, pp. 215-285.
113
  S.E. Scarrow, Beyond Party Members, cit., p. 20, ha coerentemente
proposto il concetto di fan party. Il legame tra il leader e il suo seguito è
simile a quello di una vedette dello spettacolo con i suoi ammiratori: l’uno
non può esistere senza gli altri. Non ci sono ovviamente solo fans e non
sono nemmeno maggioritari. Ma un po’ di fans ci sono indubbiamente e
sono trattati come tali.

217
Forse il distanziamento dai cittadini è inevitabile. È la tesi
avanzata da Danilo Zolo, il quale considera l’autoreferenzia-
lità delle élites politiche come una tecnica di autodifesa dalla
complessità sociale114. Il problema è che l’autodifesa non fun-
ziona, non solo perché la critica al distanziamento dei partiti
dagli elettori è onnipresente, ma perché i partiti stessi se ne
fanno portavoce l’un contro l’altro. Convinti di contrastare in
tal modo la concorrenza dei partiti populisti, ai quali si sono
aggiunte alcune combattive formazioni di sinistra e ambienta-
liste, che tengono parecchio a rimarcare la loro diversità dai
loro vicini socialisti.
È una scommessa che al momento pare sia riuscita a Syriza
in Grecia115, a Podemos in Spagna116, a France Insoumise e
poi Nupes in Francia117, un po’ meno a Die Linke in Germa-
nia e ad alcuni partiti ecologisti tedeschi e francesi. Per un
breve momento, c’è riuscito anche il Labour di Corbyn. Li si
assimila sovente ai partiti populisti. Basta tuttavia tracciarne
la genealogia, leggerne i programmi, osservarne l’operato,
considerarne i quadri e pure gli elettori per dissipare ogni
equivoco. La leadership di Podemos vantava qualche trascorso
nella sinistra comunista. Syriza ha federato diverse formazioni
della sinistra greca e nel Partito comunista ha fatto le sue prime
prove Alexis Tsipras. Jean-Luc Mélenchon, leader di France
Insoumise, proviene dal Partito socialista. La leadership di
Die Linke è stata costituita inizialmente da fuorusciti della
Spd e da reduci del Partito comunista della Ddr. Tutti hanno
sottratto una quota più o meno ampia del seguito dei partiti
socialisti, sia tra gli strati popolari, sia tra le classi medie istruite
e legate al welfare.

114
  D. Zolo, Il principato democratico. Per una teoria realistica della demo-
crazia, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 145.
115
  G. Katsambekis e A. Kioupkiolis (a cura di), The Populist Radical
Left in Europe, Abingdon, Routledge, 2019. Su Syriza, Y. Stavrakakis e G.
Katsambekis, Left-Wing Populism in the European Periphery: The Case of
Syriza, in «Journal of Political Ideologies», 2, XIX, 2014, pp. 119-142.
116
  J. Sola e C. Rendueles, Podemos, the Upheaval of Spanish Politics and
the Challenge of Populism, in «Journal of Contemporary European Studies»,
1, XXVI, 2018, pp. 99-116. Anche F. Campolongo e L. Caruso, Podemos e
il populismo di sinistra. Dalla protesta al governo, Milano, Meltemi, 2021.
117
 M. Cervera-Marzal, Le populisme de gauche. Sociologie de la France
insoumise, Paris, La Découverte, 2021.

218
Non mancano nell’attuale paesaggio politico nemmeno
alcune formazioni difficili da classificare. Rientra nel novero
il Movimento 5 Stelle, che è un singolare esempio di politica
inventata in laboratorio: programmi fluidi, retorica antipolitica,
lotta incondizionata ai privilegi dei politici established, cabina
di comando situata all’esterno. In più, con un seguito elettorale
ondivago: proveniente agli inizi da sinistra, poi estesosi verso
destra, infine tornato al punto di partenza. In origine, un’inno-
vazione è consistita nell’impiego della rete, quale strumento di
ciclico interpello, neanche troppo trasparente, di una member-
ship di dimensioni ignote, o comunque inattendibili. Anziché
uno statuto, il movimento ha perfino elaborato un singolare
non-statuto. Militanti e attivisti inizialmente si ritrovavano
tramite strutture volutamente fluide, quali i meet up. Non è
stato mai tenuto alcun congresso, ma solo qualche sporadica
adunanza. In occasione delle elezioni i candidati al parlamento
sono stati prescelti tramite una sorta di bando pubblico. Dopo
aver condotto un’accanita guerra da corsa contro i partiti, pochi
mesi al governo e qualche incarico ministeriale sono bastati per
revocare gran parte dell’originalità del movimento, ma non per
classificarlo con sicurezza. La polemica antipolitica avvicina il
Movimento 5 Stelle ai populisti di destra, ma si tratta soprat-
tutto di un partito Zelig – ci si consenta una classificazione così
eterodossa – dal futuro molto incerto. Il tentativo di avvicinarsi
al modello più consueto di partito è tutto da verificare118.
Un’altra creatura anomala è La République en marche, fon-
data da Emmanuel Macron in occasione delle presidenziali del
2017. È un partito outsider, ben connesso tuttavia alle élites,
anche economiche, dotato di larghi mezzi finanziari e guidato
con piglio manageriale: ha assemblato esponenti del mondo

118
  Non c’è niente di terribile nell’impossibilità di classificare. Il Movi-
mento 5 Stelle non è ascrivibile al populismo etnonazionalista di destra e
nemmeno al preteso populismo di sinistra. È difficile classificarlo sul piano
programmatico e anche per la sua genealogia. Chi più si è addentrato nel
labirinto del Movimento 5 Stelle sono P. Ceri e F. Veltri, Il movimento nella
rete. Storia e struttura del Movimento 5 Stelle, Torino, Rosenberg & Sellier,
2018. Inoltre, C. Biancalana, Political Parties and the Challenge of Disinter-
mediation. Rhetoric and Practices of Organizational Change in Italy, Baden
Baden, Nomos, 2022; L. Caruso, Digital Capitalism and the End of Politics.
The Case of the Italian Five-Star Movement, in «Politics & Society», 4, XLV,
2017, pp. 585-609.

219
imprenditoriale, della funzione pubblica e dell’attivismo civico,
insieme a profughi dei tradizionali partiti di governo. Thomas
Piketty l’ha definito un tentativo di assemblare quelle che lui
chiama la droite marchande e la gauche brahmine119, profittando
della débâcle bilaterale dei socialisti e dei Repubblicani. L’an-
damento delle elezioni del 2022, presidenziali e legislative, ha
comunque testimoniato la fragilità del suo impianto. Chissà se
l’essersi ribattezzato Renaissance gli porterà più fortuna.
Ovunque collocati, l’aspirazione condivisa dei partiti outsid-
ers è divenire established. Col tempo sia le destre populiste, sia le
nuove sinistre hanno stabilito presidi nel governo locale, hanno
attivato circuiti militanti, si sono contaminate con i circuiti del
potere, non solo periferici, e in alcuni casi hanno avuto accesso
al governo nazionale120. A consigliare loro di radicarsi è fra le
altre cose l’esigenza di reclutare un personale politico idoneo a
occupare cariche elettive e di governo. Il Front national, ribat-
tezzato dal 2018 Rassemblement national, dispone ormai di una
rete di eletti nelle amministrazioni municipali competitiva con
quella degli altri partiti e ha infine avuto accesso all’Assemblea
nazionale. Come succede alla Fpö austriaca, alla Lega, alla Svp/
Udc in Svizzera, da ultimo a Fratelli d’Italia, che sono riusciti
a diventare partiti di governo.
Chi se la passa peggio, al momento, sono i partiti estab-
lished, la cui curva di rendimento tende disperatamente verso
il basso. I dati parlano chiaro. Patrimoni elettorali imponenti,
accumulati in decenni di attività, si sono dispersi. Ne sono stati
vittime tanto gli established di sinistra, quanto quelli di destra.
La Spd tedesca dal 41 per cento dei consensi dei primi anni ’90

119
  T. Piketty, Capital et idéologie, Paris, Seuil, 2019, p. 1007. Sul partito
B. Dolez, J. Fretel e R. Lefebvre (a cura di), L’entreprise Macron, Grenoble,
Presses universitaires de Grenoble, 2019. Un punto di vista interessante,
che tratta il partito di Macron come un caso di «tecnopopulismo», perché
si appella ai francesi nella loro totalità, è esposto in C.J. Bickerton e C.
Invernizzi Accetti, Technopopulism. The New Logic of Democratic Politics,
New York, Oxford University Press, 2021. Più dubbio è l’accostamento,
entro la medesima categoria, del Movimento 5 Stelle e di Podemos. Nel caso
di Macron la centralità dei tecnici è palese, negli altri due casi molto vaga.
120
 R.C. Heinisch e O. Mazzoleni (a cura di), Understanding Populist Party
Organisation. The Radical Right in Western Europe, Basingstoke, Palgrave
MacMillan, 2016. Da vedere è anche la special issue dedicata a Right-Wing
Populist Party Organisation Across Europe: The Survival of the Mass-Party?,
di «Politics and Governance», 4, IX, 2021.

220
è discesa al 26 per cento del 2021; i socialdemocratici svedesi
hanno registrato un calo simile, dal 45 al 28 per cento, i danesi
dal 36 al 27 per cento. Dal canto loro i socialisti spagnoli sono
passati dal 38 al 28 per cento, il Partito socialista francese è
quasi scomparso, in Grecia è toccato al Pasok. La sinistra ita-
liana a fine anni ’80 – Pci più Psi – si aggirava intorno al 40
per cento dei suffragi. Il Partito democratico è disceso dal 33
per cento dei consensi nel 2008 al 18 nel 2022121.
Qualche attenzione specifica meritano le vicissitudini del
Labour. Nel 1997 Blair vinse ottenendo 13 milioni e mezzo
di voti, quattro anni dopo rivinse, ma perdendone quasi tre
milioni, un altro milione andò disperso nel 2005 e un altro
ancora nel 2010, quando i Tories tornarono al governo. A quasi
vent’anni dall’invenzione del New Labour era fuoruscito più
o meno un quarto degli elettori, finché la base del partito non
ha sostenuto a sorpresa l’avventura di Corbyn, il quale, col suo
programma anti-austerity e ristabilendo i rapporti con le Unions,
si è riallacciato alla tradizione del laburismo, anche se forse
non abbastanza. Col contributo di un’associazione d’iscritti,
Momentum122, il partito ha risollevato le iscrizioni e rivitalizzato
la militanza crescendo tra il 2015 e il 2017 da quasi 9 milioni e
mezzo di voti a poco meno di 13 milioni123. È durata finché lo
stress del Brexit e la riconversione nazional-populista dei Tories,

121
  Una ricostruzione degli effetti elettorali punitivi della svolta pro-market
dei partiti socialisti e socialdemocratici in Gran Bretagna, Danimarca, Svezia
e Germania, che tiene in considerazione il sistema elettorale e la presenza
o meno di altri partiti pro-welfare, in C. Arndt, The Electoral Consequences
of the Third Way of Third Way Welfare State Reforms. Social Democracy’s
Transformation and its Political Costs, Amsterdam, Amsterdam University
Press, 2013. Contano molto anche le scelte passate dei concorrenti di sini-
stra. Nel caso danese, erano stati corresponsabili delle politiche di riforma
e una quota di elettori si sarebbe rivolta alla destra estrema. Cfr. anche L.
Rennwald, Partis socialistes et classe ouvrière. Ruptures et continuités du
lien électoral en Suisse, en Autriche, en Allemagne, en Grande-Bretagne et
en France (1970-2008), Neuchâtel, Éditions Alphil-Presses universitaires
suisses, 2015.
122
 A. Rhodes, Movement-led Electoral Campaigning: Momentum in the
2017 General Election, in D. Wring, R. Mortimore e S. Atkinson (a cura di),
Political Communication in Britain, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2019.
123
  L’andamento delle iscrizioni è influenzato dalle scelte dei partiti. Cfr.
P. Seyd, Corbyn’s Labour Party: Managing the Membership Surge, in «British
Politics», 1, XV, 2020, pp. 1-24.

221
guidati da Boris Johnson124, non hanno gettato lo scompiglio
tra gli elettori working class e posto fine all’esperimento.
La discesa della curva di rendimento elettorale non è
meno severa per i partiti established di centro e di destra. La
Democrazia cristiana è caduta in pezzi a inizio anni ’90. L’ac-
coppiata Cdu-Csu a inizio anni ’90 superava il 40 per cento,
ma alle elezioni del 2021 è discesa al 24 per cento. Il Partito
popolare spagnolo ha più che dimezzato i suoi consensi da
inizio millennio. Alle elezioni presidenziali del 2022, in Francia
sono quasi spariti anche i Repubblicani, salvo rialzare un po’
la testa, in ragione del loro radicamento locale, alle elezioni
dell’Assemblea nazionale. Anche i popolari austriaci non
sprizzano di salute125. Si ripete spesso il luogo comune del
tradimento della working class, ma non si fa mai il conto  –
salato – di quanti elettori si siano spostati dai partiti moderati
verso la destra estrema126. Non è un caso che la destra mode-
rata stia sempre più accogliendo l’agenda di policy dei partiti
populisti127 e mutuandone pure lo stile. Dopo Sarkozy e Boris
Johnson, alle ultime elezioni presidenziali francesi Valérie Pe-
cresse, candidata dei Repubblicani, ha riproposto temi e stile
di Marine Le Pen. Anche la Cdu come successore di Angela
Merkel ha scelto una figura molto orientata verso destra. La
destra italiana ha giocato d’anticipo. Hanno trovato scampo
solo i Tories, che, promuovendo il Brexit, hanno incorporato
la destra estrema.
Tra declino elettorale dei partiti established e riconversione
della loro offerta di rappresentanza e di governo c’è un’impres-

124
  Così E. Fawcett, Conservatism. The Fight for a Tradition, Princeton,
Princeton University Press, 2020, p. 343. Sul rischieramento a destra dei
Tories, cfr. anche G. Evans, R. De Geus e J. Green, Boris Johnson to the
Rescue? How the Conservatives Won the Radical Right Vote in the 2019
General Election, in «Political Studies», pubblicata online nell’ottobre 2021.
125
 T. Bale e C. Rovira Kaltwasser, Riding the Populist Wave: Europe’s
Mainstream Right in Crisis, Cambridge, Cambridge University Press, 2021.
126
  A. Krouwel, T. Bale e L. Tremlett, Variation..., cit.
127
  Sull’impatto dei partiti populisti sulla competizione politica D. Albertazzi
e D. Vampa (a cura di), Populism and New Patterns of Political Competition
in Western Europe, London, Routledge, 2021. Sui temi dell’immigrazione J.
van Spanje, Contagious Parties. Anti-Immigration Parties and Their Impact
on Other Parties’ Immigration Stances in Contemporary Western Europe, in
«Party Politics», 5, XVI, 2010, pp. 563-586.

222
sionante coincidenza. Le politiche di austerità hanno aggravato
il problema. C’è anche una coincidenza con l’estraneazione,
anche sociologica, dei loro addetti dagli elettori. Quanto
hanno ancora aiutato gli scandali che, grazie anche ai media,
perseguitano i partiti perfino oltre le loro colpe? L’avanzata dei
partiti populisti non era fatale, anche se hanno magari trovato
leaders più capaci dei loro avversari128.
Ma non è nemmeno detto che i tradizionali partiti estab-
lished siano consegnati alla storia, o in procinto di esserlo. Va
riconosciuto, piuttosto, che i partiti di massa da cui si sono
sviluppati hanno a suo tempo seminato bene e in profondità:
tuttora resistono le mappe politiche, ma pure sociali, che
hanno disegnato per gli elettori. Le appartenenze politiche si
trasmettono ancora da una generazione all’altra129. Si è sovente
parlato di «volatilità» elettorale: gli elettori sarebbero divenuti
irrequieti130. Il fenomeno si è accentuato con il nuovo secolo,
ma, a ben vedere, gli elettori per lo più si ricollocano presso
formazioni contigue, o semmai si estraniano. Forse, a essere
volatile è soprattutto l’offerta elettorale. Intanto, i partiti
established sono ancora molto attivi: conducono campagne
elettorali, selezionano candidati alle cariche elettive, intratten-
gono rapporti con le altre élites, specie quelle imprenditoriali
e mediatiche, si contendono un cospicuo patrimonio di risor-
se: il patronato delle cariche, o lo spoils system, nazionale e
locale, non demordono. Il market turn ha ridimensionato il
settore pubblico, ma sono tantissime le postazioni di potere
appetibili. I media li hanno bensì espropriati di parte della
loro capacità di orientare la pubblica opinione e sono deca-
duti anche sul piano del framing e dell’agenda setting delle
politiche pubbliche. Ma la polemica tuttora condotta contro
di essi conferma come siano temuti.

128
  J.P. Veugelers, Challenge for Political Sociology: The Rise of Far-Right
Parties in Contemporary Western Europe, in «Current Sociology», 4, XLVII,
1999, pp. 78-105.
129
 È uno dei temi sollevati dalla circostanziata analisi condotta da G.
Evans e J. Tilley, The New Politics of Class in Britain. The Political Exclusion
of the Working Class, Oxford, Oxford University Press, 2017.
130
  Discute il tema P. Mair, Party System Change. Approaches and Interpreta-
tions, Oxford, Oxford University Press,1998, pp. 27-31 e 79-81. Il fenomeno
si è accentuato, ma gli elettori non sono allo sbando. Cfr. ancora A. Krouwel,
T. Bale e L. Tremlett, Variation..., cit.

223
I partiti in declino potrebbero anche riprendersi. Po-
trebbero elaborare offerte e servizi di rappresentanza più
apprezzati. Che uso è immaginabile per le nuove tecnologie
informatiche? La rete e i social sono armi già utilizzate nelle
campagne elettorali e non solo, ma le loro potenzialità – e i
loro pericoli – sono oggetto di grande studio. C’è chi li pensa
come una macchina manipolatrice onnipotente e chi ha ap-
preso a sfruttarli in campagna elettorale131. In America sono
stati usati per ricostituire lealtà partitiche usurate e depresse.
Sono una prospettiva realistica i partiti digitali? Qualcuno
ritiene che potrebbero raggiungere un più largo numero di
cittadini, informandoli e consentendo loro di concorrere alla
discussione e ai processi decisionali. Forse nascondono robuste
redini elitiste, ma il cantiere è stato appena aperto132. C’è solo
da aspettare.
Le vicissitudini dell’ultimo decennio mostrano come i
partiti si possano anche improvvisare: gli investimenti che
richiedono sono tutto sommato modesti. Non costa nemmeno
moltissimo impadronirsi di un partito e ridisegnarlo da cima a
fondo. Quale futuro dunque aspettarsi? Esprimendo un punto
di vista sconsolato ed estremo, a inizio millennio Peter Mair
paventava il rischio di una democrazia senza partiti. Dopotutto,
una democrazia a basso tasso di politicità si prova a fabbricarla
da parecchio tempo. Ma non è detto: la politica e l’ideologia
tendono comunque a ricomparire e potrebbero suggerire ai
partiti nuovi claims con cui raggruppare gli elettori. Sulla de-
stra estrema lo stanno già facendo. La politica americana, che
ha inventato i partiti intermittenti, eppure fortemente radicati
nelle mappe mentali degli elettori133, potrebbe offrire qualche
lezione, con la sua lunga esperienza di movimenti, che han-
no periodicamente rivitalizzato i partiti. Due esempi recenti
sono l’ormai declinante Tea Party e Black lives matter, tuttora

131
 Su questa possibilità C. Cepernich, Le campagne elettorali al tempo
della networked politics, Roma-Bari, Laterza, 2017.
132
  P. Gerbaudo, I partiti digitali. L’organizzazione politica nell’era delle
piattaforme, Bologna, Il Mulino, 2021; F. Raniolo e V. Tarditi, La rivoluzione
digitale e le trasformazioni organizzative dei partiti, in «Rivista di Digital
Politics», 2, I, 2021, pp. 249-270.
133
 È quanto sottolineano e argomentano ripetutamente C.H. Achen e
L.M. Bartels, Democracy for Realists, cit.

224
attivissimo134. Dotati di larghi circuiti di aderenti e condotti
da quadri a tempo pieno, hanno soccorso i partiti, riducendo
quella quota di elettori che manifesta la sua volontà disertan-
do le urne. L’esempio non è da copiare pedissequamente, ma
si potrebbe adattarlo. La grande partita dei partiti è sempre
stata disseminata d’imprevisti e di nuove invenzioni. È presto
darla per conclusa.

134
 Sul Tea Party, T. Skocpol e V. Williamson, The Tea Party and the
Remaking of Republican Conservatism, New York, Oxford University Press,
2012. Su Black lives matter A. Célestine, N. Martin-Breteau e C. Recoquillon,
Introduction. Black Lives Matter: A Transnational Movement?, in «Esclavages
& Post-esclavages», 6,  2022; e C. Recoquillon, Midterms: le rôle crucial de
Black Lives Matter, in «AOC», 24 novembre 2022. Più in generale, S. Tarrow,
Movements and Parties, cit.

225
capitolo quarto

MERCATO

1. Un nuovo contratto sociale

La tecnica pacifica di governo e di risoluzione dei conflitti


sperimentata in Inghilterra a fine XVII secolo non ha mai avuto
vita facile. È stata ampiamente contrastata e non sono mancati
casi di regresso, verso l’originario nucleo coercitivo della statua-
lità, come le autocrazie instaurate nell’entre-deux-guerres, cadute
le quali per i regimi rappresentativo-democratici è iniziato un
nuovo ciclo. Secondo il resoconto prevalente, le regressioni
autoritarie erano dipese dalla fragilità dei regimi rappresentativi
rispetto agli strascichi del primo conflitto mondiale, alla crisi
economica e alle conseguenti turbolenze sociali. Pertanto, essi
andavano non solo ristabiliti, ma anche rafforzati.
Una prima forma di rafforzamento consistette nella piena
ammissione dei partiti tra le istituzioni rappresentative e di
governo. L’esclusione, spesso violenta cui li avevano condannati
le autocrazie, era dopotutto un titolo di legittimazione. E di
fatto i grandi partiti popolari divennero i nuovi protagonisti
della vita democratica: quando ve n’è stato bisogno, sono stati
essi che hanno scritto le nuove costituzioni. Erano eterogenei
e dissentivano su molte cose. Nondimeno, per necessità o
convinzione, riuscirono a concordare sulle regole e non solo.
I testi scritti non scendevano troppo nei dettagli per lasciarsi
aperta ogni possibilità. Ma esplicitavano alcuni principi e anche
qualche impegno di sostanza: il primo articolo della Costituzione
italiana è dedicato al lavoro.
In realtà, a guerra finita il clima non era per nulla pacifico:
erano aspri i contrasti sociali, politici e ideologici. Ci è voluto
qualche tempo perché il clima divenisse meno concitato, con
l’ausililio di altri ingredienti, stabilizzando i rinnovati regimi
democratici.

227
Nel 1982, quando ormai si era infranto quello che po-
tremmo chiamare il «regime di governo» del dopoguerra, cioè
la miscela di Stato, mercato, partiti, società civile, Albert O.
Hirschman ha avanzato un’interessante teoria per spiegare
cosa stava accadendo dopo i sommovimenti del decennio
precedente. Le preferenze degli esseri umani non sarebbero
prefissate, ma instabili e si evolverebbero ciclicamente. Op-
ponendo al concetto d’interesse, consueto agli economisti,
quello di delusione, si alternerebbero per Hirschman stagioni
in cui dominano le strategie individuali di ricerca della felicità
e quelle in cui prevalgono le strategie collettive1. Durante le
prime gli individui provano a cavarsela da soli, ma, quando la
delusione sopravviene, si persuadono a collaborare con altri.
Si avvia allora un nuovo ciclo fondato sull’azione pubblica e
collettiva, che dura fino alla delusione successiva. Sperando
di non far torto eccessivo a Hirschman, possiamo considerarli
due sentimenti, due modi di pensare la vita collettiva, due im-
maginari, che si avvicendano: nell’uno la dimensione pubblica
gode di un sovrappiù di legittimità, nell’altro il sovrappiù di
legittimità è riconosciuto agli individui e all’interesse privato.
I modi di pensare la società, gli immaginari, non si co-
stituiscono d’un tratto, ma maturano lentamente. Non sono
nemmeno compatti e universalmente condivisi. S’incontrano,
si scontrano, si sovrappongono e s’intrecciano. La loro inten-
sità è mutevole e si possono modulare e interpretare in vari
modi. Gli immaginari sono anche declinabili: da destra, da
sinistra, dal centro. Per quanto pubblici siano l’uno e l’altro,
l’immaginario totalitario e la mobilitazione di massa propri del
fascismo non sono la stessa cosa dell’immaginario pluralistico,
ma anche solidaristico – lo aveva delineato il rapporto Beve-
ridge – del postfascismo. Così com’è lontana l’atmosfera della
ricostruzione negli anni ’50 e quella del decennio successivo
in cui si era ormai infiltrato il consumismo, per non parlare
delle ambizioni emancipative degli anni ’70. Eppure, sono tutti
modi di pensare fondati sull’azione pubblica.
I modi di pensare comunicano anche da un paese e da un
milieu sociale all’altro e non necessariamente variano in sin-

1
  A.O. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica (1982), Bologna, Il
Mulino, 1983.

228
cronia. Soprattutto non sorgono, né aleggiano spontaneamente
al di sopra delle istituzioni e degli attori. Sono fasci d’idee che
hanno bisogno di prolungata digestione. Servono esseri umani
in carne e ossa che li suscitino, accreditino, coltivino: dalla
ricerca scientifica alla creazione letteraria e artistica, fino al
dibattito pubblico. Il concetto gramsciano di egemonia prevede
un disegno politico ed è senz’altro più impegnativo. I modi di
pensare sono più vaghi, ma anche intorno a essi si svolge un
gran lavorio2.
Così, se il pluralismo dei partiti è stato il primo ingrediente
del nuovo regime di governo e del nuovo contratto sociale
«implicito»3, il secondo è stato l’immaginario pubblico e della
solidarietà reciproca: non sappiamo quanto fosse diffuso, ma
lo era alquanto nella sfera pubblica e nella sfera della cultura.
Il terzo ingrediente è stato invece lo Stato, cui fu conferito il
compito di tenere a bada e, se del caso, surrogare il mercato.
In fondo, si trattava di uno scambio: il mondo del lavoro
accettava di canalizzare entro le istituzioni rappresentative e
democratiche il suo potenziale di autodifesa e di resistenza e
otteneva in compenso di essere protetto dagli incerti dell’e-
sistenza. Confermato un comune orientamento alla piena
occupazione e alla riduzione delle disuguaglianze e delle ingiu-
stizie, la conformazione di ciascuna economia, la cultura delle
élites, le caratteristiche dei sistemi industriali hanno dettato
all’azione dello Stato modalità e dosaggi diversi4. In alcuni

2
  Che il ciclo dell’immaginario pubblico del secondo dopoguerra fosse
inframezzato da ampi scorci privatistici lo ricorda A. Pizzorno, The Individ-
ualistic Mobilization of Europe, in «Daedalus», 1, XCIII, 1964, pp. 199-224. 
3
  B. Moore jr., Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta (1978), Milano,
Comunità, 1983, pp. 38-41.
4
  La Repubblica federale decise di privatizzare le imprese pubblicizzate dal
nazismo: l’«economia sociale di mercato», inaugurata da Ludwig Erhard dal
1945, e ispirata dall’«ordoliberalismo», non era la stessa cosa del keynesismo.
Prevedeva un’attiva azione statale, ma per promuovere il libero mercato,
ritenuto un antidoto all’autoritarismo. Cfr. R. Ptak, Neoliberalism in Ger-
many: Revisiting the Ordoliberal Foundations of the Social Market Economy,
in P. Mirowski e D. Plehwe, The Road from Mont Pèlerin: The Making of
the Neoliberal Thought Collective, Cambridge, Harvard University Press,
2009. Sul piano pratico, le cose erano più complicate, perché la preferenza
per il libero mercato era temperata dal corporativismo cattolico-renano e
dall’azione di sindacati e degli stessi imprenditori: così secondo W. Streeck,
Playing Catch-Up, in «London Review of Books», 9, XXIX, 2017. Le politiche

229
paesi furono nazionalizzati importanti comparti produttivi e
i servizi fondamentali. Poiché in prevalenza a governare sono
stati i partiti liberali, conservatori e democristiani, non del
tutto convertiti all’intervento pubblico, magari agitando lo
spettro del socialismo, fu posto qualche freno. In ogni caso
lo Stato assunse un ruolo d’indirizzo e istituì con il mercato
un’ibridazione molto stretta.
Quelli che corrono tra il 1945 e il 1975 sono stati deno-
minati i «Trenta gloriosi» anni dello sviluppo e gli specialisti
li ritengono anche il Golden Age dei partiti. Sarebbero da
ripensare in maniera meno nostalgica di quanto non li pensino
tanti osservatori delle presenti condizioni dei regimi democra-
tici. Le devastazioni prodotte dalla guerra erano state enormi,
le economie paralizzate, le popolazioni allo stremo e diffusa
era la miseria. Le urgenze della ricostruzione diedero perciò
priorità agli investimenti produttivi e infrastrutturali, riman-
dando l’incremento dell’offerta di beni e servizi ai cittadini.
Ciò malgrado, la situazione si sbloccò.
Un grande aiuto per superare le avversità iniziali l’offrì il
Piano Marshall. Ma intervennero pure alcune misure fortunate
e alcune coincidenze. La liberalizzazione dei commerci inter-
nazionali fu forse troppo precipitosa e a lungo termine i suoi
effetti sono stati meno virtuosi di quelli ottenuti a breve. Ma
sul momento impresse una spinta di rilievo. Erano convenienti
le ragioni di scambio con i paesi produttori di materie prime.
Non era scontato in partenza, ma prese avvio un’enorme cre-
scita della produttività e della produzione. Non mancarono
nemmeno pratiche repressive brutali contro il mondo del
lavoro. L’espianto di popolazione dalle campagne ai centri
urbani in cui si concentravano le attività manifatturiere è stato
doloroso. Una volta avviato, però, lo sviluppo offrirà dividendi
cospicui e prolungati e una quota fu destinata a realizzare
qualche promessa di giustizia sociale: era una tecnica com-
plementare per pacificare e prevenire i conflitti. I beneficiari
dello Stato sociale furono le classi medie e quelle lavoratrici.
Ma l’ibridazione tra Stato democratico e mercato ha giovato
anche alle classi superiori: l’inclusività dell’azione di governo,

keynesiane saranno provvisoriamente adottate negli anni ’70, al tempo delle


coalizioni tra Spd e Fdp.

230
per quanto dapprincipio modesta, favorirà la stabilità politica
e gli imprenditori avranno il loro tornaconto dalla domanda
suscitata dai programmi di welfare, dall’edilizia popolare, dalla
scolarizzazione di massa, dal progressivo miglioramento dei
sistemi sanitari, oltre che dall’incremento dei consumi.
In partenza, neanche la popolarità dei nuovi regimi de-
mocratici era troppo solida. In molti paesi, l’Italia è tra le
eccezioni, la quota di elettori che si astenevano dal voto era
consistente. In America gli scienziati sociali l’esorcizzavano
parlando di «apatia» fisiologica, e addirittura benefica, che
evitava un eccesso di aspettative5. Un’altra prova di disagio era
il consenso radunato in Italia, in Francia e altrove da partiti
che Sartori chiamava «antisistema»: quelli comunisti e quelli
neofascisti6. Ma non solo. Assemblando ed esplorando dati
tratti da indagini quantitative e qualitative svolte nell’arco di
settant’anni, dunque su tempi lunghissimi, un’appassionante
ricerca condotta or non è molto in Gran Bretagna ha docu-
mentato come insoddisfazione e diffidenza già negli anni ’40
e ’50 fossero endemici. Malgrado il governo laburista stesse
investendo massicciamente nelle politiche abitative e sanitarie
e a sostegno dell’occupazione, non difettavano i motivi di
malcontento verso il governo e i partiti: il reinserimento dei
reduci era laborioso, salari e stipendi erano bassi, il lavoro
nelle fabbriche era duro e disagevoli erano le condizioni di vita
sia nelle campagne, sia nei centri urbani. Forse l’immaginario
collettivo suscitava ben maggiori aspettative. Con ogni proba-
bilità considerazioni analoghe valgono anche per gli altri paesi.
Gli studiosi di estrazione marxista avanzavano riserve
sullo sviluppo e pure sui regimi democratici. Le scienze so-
ciali dedicavano invece le loro ricerche ai problemi suscitati
dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione, offrendo idee
per grandi progetti riformatori. Ma nell’insieme i loro bilanci
erano piuttosto positivi. A loro volta, studiosi che dall’America
scrutavano l’Europa si rallegravano della sua convergenza con

5
  Il contributo classico è W.H. Morris Jones, In Defense of Apathy. Some
Doubts on the Duty to Vote, in «Political Studies», 1, II, 1954, pp. 25-37.
Ma pure S.M. Lipset, Political Man. The Social Bases of Politics, New York,
Doubleday, 1960, p. 63.
6
  G. Sartori, Parties and Party Systems. A Framework for Analysis, New
York, Cambridge University Press, 1976.

231
la modernità americana e della sua conversione al gradualismo
postideologico7. Il rischio di contrasti distruttivi sembrava
scongiurato. Nel 1957 Otto Kirchheimer, che era tornato a
frequentare la Germania, aveva evidenziato nientemeno che
la tendenza dei partiti a stabilire «diverse forme di accordi di
cartello»8. Un pluralismo più ordinato e meno conflittuale si
stava impiantando dappertutto. Per Seymour M. Lipset era
il miglioramento dei livelli di reddito e delle condizioni della
middle class e delle classi popolari che alimentava la legittimità
e stabilità dei regimi democratici9. Nel 1957 Ralf Dahrendorf
si è fatto conoscere teorizzando l’avvenuta istituzionalizzazione
del conflitto di classe10. C’era anche chi già immaginava di
governare in maniera più efficiente concedendo una delega
più ampia ai tecnici e alla scienza11.

2. Sessantotto

Dopo vent’anni, l’usura tuttavia non sorprende. La Guerra


fredda proseguiva, ma si avvertivano segni di disgelo. La rico-
struzione era compiuta, o quasi, e la vita democratica si svolgeva
in maniera abbastanza ordinata. Nel 1964 i laburisti britannici
avevano avvicendato i conservatori. Nel 1966 al governo erano
arrivati i socialdemocratici tedeschi, in coalizione con la Cdu.
In Francia la Costituzione del 1958 era ormai accettata da
tutte le forze politiche. In Italia si costituivano i governi di
centrosinistra con i socialisti. Ma le acque non erano poi così
calme. In America erano attivi da tempo i movimenti per i

7
 N. Gilman, Mandarins of the Future. Modernization Theory in Cold
War America, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2007, pp. 56-62.
8
  Kirchheimer così precedeva il cartel party di R. Katz e P. Mair: cfr. O.
Kirchheimer, The Waning of Opposition in Parliamentary Regimes (1957), ora
in Id., Politics, Law and Social Change. Selected Essays, a cura di F.S. Burin
e K. Shell, New York, Columbia University Press, 1969.
9
  S.M. Lipset, Political Man, cit. Cfr. dello stesso autore The Changing
Class Structure and Contemporary European Politics, in «Daedalus», 1, XCIII,
1964, pp. 271-303. L’articolo è contenuto in una special issue intitolata A New
Europe che complessivamente registra questi cambiamenti.
10
  R. Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale (1959),
Bari, Laterza, 1963.
11
  J. Meynaud, La tecnocrazia. Mito o realtà (1964), Bari, Laterza, 1964.

232
diritti civili della popolazione afroamericana, seguiti da quelli
giovanili contro la guerra vietnamita. In Europa si risvegliarono
le proteste operaie e l’azione sindacale, salutando un traguardo
mai raggiunto in precedenza come la piena occupazione. Che
rendeva più facili da politicizzare i bassi livelli salariali, la
ripetitività e faticosità delle catene di montaggio, le pratiche
repressive in uso nelle fabbriche, le gravose condizioni di lavoro
nelle piccole imprese, nell’edilizia, in agricoltura.
Le nuove forme di protezione sociale si sviluppavano
ancora con lentezza e non erano risolutivi i consumi di mas-
sa. Mediamente si viveva meglio, ma le fasce di popolazione
svantaggiata restavano amplissime e chi era in condizioni più
favorevoli nutriva aspettative ulteriori. L’irrequietezza circolava
anche tra le classi medie. Gli stipendi dei dipendenti pubblici
erano bassi, come quelli del settore privato, le gerarchie erano
rigide. Costituivano già forme di resistenza i mutamenti, spesso
ritenuti scandalosi, che si registravano nella moda, nella musica,
nel teatro, nel cinema, nelle arti figurative.
Un annuncio profetico lo si può trarre da un breve scritto
di Titmuss, il primo studioso riconosciuto di social policy e
politicamente prossimo al Labour12, apparso nel 1964. Il con-
tratto stipulato tra le forze politiche, che coincideva con i nuovi
sistemi di sicurezza sociale, era instabile: non aveva arginato
i poteri privati, né arrestato la tendenza alle concentrazioni
monopolistiche. La distribuzione del reddito e della ricchezza
restava fortemente sperequata. Lo sviluppo tecnologico, per
com’era orientato, insidiava l’occupazione, in prospettiva ri-
chiedendo al welfare di compiere costosi interventi riparativi,
mentre azioni ulteriori sarebbero occorse a tutela dell’infanzia
e degli anziani. Le riforme finora adottate non bastavano. Per
Titmuss il welfare soffriva anche di un serio deficit culturale,
che andava colmato iniettandogli qualche dose di altruismo,
in particolare riscoprendo la cultura della solidarietà propria
del movimento operaio tra Otto e Novecento. Il punto era
fondamentale. Le culture non fioriscono spontaneamente.
Sopraggiunto il benessere, l’immaginario collettivo e solida-
le  – che soprattutto il movimento operaio aveva suscitato in

12
  R. Titmuss, The Limits of the Welfare State, in «New Left Review»,
1, 27, 1964.

233
contrasto con quello del mercato – si stava esaurendo. In effetti,
concentrandosi sul governo, i partiti perdevano la capacità
di produrre cultura e, tramite i consumi di massa, tutt’altra
cultura produceva il mercato. Il welfare erogava prestazioni
fondamentali, ma inesorabilmente le burocratizzava. Il futuro
dell’incontro tra capitalismo e democrazia non si prospettava
troppo felice.
Entro la sinistra riformista che l’aveva inventato, Titmuss
non era il solo a nutrire dei dubbi sull’avvenire dell’interven-
to pubblico. In molti s’interrogavano su come perfezionare
il controllo democratico dell’economia di mercato, su come
coinvolgere i lavoratori nella sua conduzione e come distribuire
più largamente i frutti dello sviluppo. La strategia catch-all
dei partiti di cui parla Kirchheimer non era incompatibile con
l’impegno dei partiti socialisti per la giustizia sociale e con
lo sforzo di preservare il loro seguito più tradizionale. Nel
1956 a Bad Godesberg la Spd aveva celebrato una revisione
profonda, che prevedeva la piena accettazione del capita-
lismo, ma manteneva aperta la questione della democrazia
economica, solo in parte affrontata dando voce ai lavoratori
nel governo delle aziende mediante la cogestione. La sinistra
riformista francese, impegnata nello sforzo di trovare un’al-
ternativa alla modernizzazione conservatrice del gollismo,
s’interrogava anch’essa su come rilanciare la pianificazione,
introdotta nel dopoguerra. Riflettevano anche i laburisti e in
Italia, mentre i comunisti erano stati presi alla sprovvista dal
neocapitalismo, i socialisti si chiedevano come governarlo.
Anche loro proponevano di programmare l’economia e l’in-
tervento pubblico, in sintonia con la sinistra democristiana. La
nazionalizzazione dell’energia elettrica fu una grande riforma
varata a questo scopo13.
Capita sovente d’indicare come punto di rottura il ’68. A
ricostruire senza miti, positivi e negativi, la cronologia degli
eventi, la mobilitazione collettiva era iniziata molto prima. Ep-
pure, la rottura sopraggiunse tanto inaspettata quanto fragorosa.

13
  Tra i documenti più interessanti, combinando prospettiva tecnocratica
e prospettiva partecipativa, cfr. P. Mendés-France, La république moderne,
Paris, Gallimard, 1966. Anche in Italia la stagione riformista fu molto fertile,
basti pensare a riviste come «Tempi moderni» e «Mondo operaio».

234
Avviata il 3 maggio la mobilitazione degli studenti, dieci giorni
dopo cinquecentomila francesi si riversarono per le vie di Parigi,
avviando uno sciopero generale grandioso, che coinvolse dieci
milioni di lavoratori. Esprime bene la portata di quell’evento,
e uno dei significati che gli furono attribuiti, un osservatore
simpatetico: «a maggio scorso, si è presa la parola come si è
presa la Bastiglia nel 1789. La piazzaforte che è stata occupata
è il sapere detenuto dai dispensatori di cultura e destinato a
mantenere l’integrazione o la compressione di lavoratori, stu-
denti e operai entro un sistema che detta loro come funzionare
[...] è la parola prigioniera che è stata liberata»14. Prendere la
parola, da parte di chi tace, è un gesto di resistenza, anzi di
sovversione e, al tempo stesso, un effetto, provvisorio, ma non
insignificante, di redistribuzione del potere.
Ammesso che gli eventi stiano da qualche parte, amano
confondersi con le loro narrazioni. A dettare e amplificare
il racconto del ’68 è stato l’ingente capitale culturale di cui
erano dotati i suoi protagonisti, che ne ha condizionato tanto
il resoconto immediato, quanto la memoria. Gli scaffali delle
biblioteche traboccano di autobiografie, inchieste giornalistiche,
indagini storiche e sociologiche, romanzi, a opera di quanti
hanno vissuto quell’esperienza. Sovrabbondano i racconti
cinematografici. Quel che è indubitabile è che gli accadimenti
della primavera del ’68 attestarono una dissidenza imponente
e una non meno imponente rivendicazione di rappresentanza15.
Articolate in maniere diverse e di diversa durata, in ciascun
contesto nazionale, le proteste si diffusero a macchia d’olio.
Deflagrarono la differenziazione sociale, la pluralità e il plura-

14
  M. de Certeau, La prise de parole et autres écrits politiques, Paris, Seuil,
1994, p. 27.
15
  Ricorda la difficoltà di separare narrazioni e interpretazioni E. Neveu,
The European Movements of ’68: Ambivalent Theories, Ideological Memories
and Exciting Puzzles, in O. Fillieule e G. Accornero (a cura di), Social Move-
ment Studies in Europe: The State of the Art, New York, Berghahn Book,
2016. Tra le tante letture disponibili G. Ortoleva, Saggio sui movimenti del
1968 in Europa e in America con un’antologia di materiali e documenti, Roma,
Editori Riuniti, 1988; K. Ross, May ’68 and Its Afterlives, Chicago, University
of Chicago Press, 2002; M. Zancarini-Fournel, Le moment 68: une histoire
contestée, Paris, Éditions du Seuil, 2008. Una comparazione a vasto raggio,
da cui manca però l’Italia, in R. Vinen, The Long ’68: Radical Protest and Its
Enemies, London, Allen Lane, 2018.

235
lismo, per come erano stati finora canalizzati e riordinati dalla
rappresentanza politica e dai partiti.
Intorno al maggio del 1968 la conflittualità aveva raggiunto
livelli molto elevati persino nell’Europa socialista: in Polonia e
in Cecoslovacchia16. Si era ripetuta a distanze transoceaniche,
in Messico e in Giappone. In Europa l’entrata in scena degli
studenti fu l’innesco di un’amplissima ribellione collettiva, a
volte rumorosa, altre volte più sorda. La frattura generazionale
ne provocherà altre, coinvolgendo gli operai delle fabbriche,
specie le fasce più giovani, meno qualificate, inurbate e immi-
grate di recente, gli intellettuali, i colletti bianchi, gli insegnanti,
i giornalisti, gli inquilini, i medici, i malati, le donne, i quadri
intermedi e i militanti sindacali, l’associazionismo, spezzoni del
clero e perfino dei partiti.
Le motivazioni di chi protesta sono sempre difficili da
ricostruire. C’era chi ricercava miglioramenti salariali, chi
opportunità di accesso ai consumi, chi servizi e condizioni
abitative migliori, chi tutele sui luoghi di lavoro, chi mobilità
sociale e occupazionale, al contempo guidati da genuine ragioni
ideali. In ogni caso, la sollevazione investì l’intero «sistema»:
la società e la cultura «borghese», l’autorità, l’organizzazione, i
costumi, la disuguaglianza, il profitto, i consumi, il formalismo,
la razionalità su cui si fondava l’ordine delle cose. Nessuna
istituzione fu risparmiata: lo Stato, la religione, la famiglia,
i partiti, inclusi quelli di sinistra, i sindacati, le fabbriche, la
scuola, l’università, la cultura, la stampa, gli ospedali psichia-
trici, le forze armate. Anche le misure riformatrici introdotte
nell’ultimo decennio furono squalificate, in quanto strumenti
di addomesticamento del dissenso, di prevenzione del conflitto
e perciò di dominio: entro qualsiasi sfera il potere fu messo in
discussione. I movimenti immaginavano un modello di società
diverso.
Grazie agli scioperi, nell’industria e nei servizi, la conte-
sa per il potere politico s’intrecciò con quella per il potere
economico. La critica della politica established da parte dei
movimenti collettivi non aveva un significato antipolitico, né
antidemocratico, tanto meno populista: il termine quasi non

16
  G. Crainz (a cura di), Il ’68 sequestrato. Cecoslovacchia, Polonia, Jugo-
slavia e dintorni, Roma, Donzelli, 2018.

236
esisteva, era riservato agli specialisti e indicava altre cose. Fina-
lizzata all’emancipazione, era critica d’ogni forma di dominio e
conteneva una critica morale, sorretta da un’acuminata critica
sociale, che le impediva di decadere in moralismo: che è quel
genere di accusa sbrigativa d’immoralità, che risparmia lo
sforzo d’investigarne le ragioni, sociali, culturali, economiche17.
Piuttosto, l’azione di rappresentanza condotta dai movimenti
rivendicava una nuova con-vivenza, un nuovo modo di fare
società, basati su altri valori, e un’altra politica, affrancata dal
pragmatismo elettorale dei partiti. Non la soppressione della
politica, ma una politica – e una società – più solidali, più
pluraliste, più aperte, più egualitarie, più inclusive, più dispo-
nibili a riconoscere le soggettività individuali. Suscitando una
quantità sorprendente di attivismo e partecipazione. In Italia,
ad esempio, il livello di sindacalizzazione di molte categorie,
come gli insegnanti e il pubblico impiego, crebbe in misura
considerevole.
La prospettiva normativa era ambiziosa, anche se vaga.
La mobilità sociale individuale era derubricata da valore a
disvalore, così com’era esaltato il primato della dimensione
collettiva e politica su quella privata: il privato, si disse, è
politico. Inventata in quelle circostanze, la formula indicava
come le lotte contro il potere, e per il potere, avessero rotto
gli argini che separavano la sfera politica da quella affettiva,
sessuale, biologica. Il potenziale critico dei movimenti studen-
teschi stimolò la creatività per rinnovare, ampliare e adeguare
i «repertori della protesta»18. Scioperi d’ogni sorta, organizzati
ed estemporanei, «a gatto selvaggio» e prolungati, assemblee,
cortei, marce, sit-in, picchettaggi, occupazioni di stabilimenti
industriali e edifici pubblici, disobbedienza civile, interruzioni
di servizi, boicottaggi, autogestioni, assenteismo organizzato,
espropri proletari, campagne d’opinione, ma anche manifesti,
ciclostilati, giornali, riviste, libri, canzoni testimoniavano la
portata dell’insubordinazione. Pure il modo di abbigliarsi e
acconciarsi divenne parte della protesta.
17
  Sul moralismo come anti-politica cfr. W. Brown, La politica fuori dalla
storia, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 19-46.
18
  Il concetto è avanzato inizialmente in C. Tilly, The Contentious French.
Four Centuries of Popular Struggle, Cambridge, The Belknap Press at Harvard
University Press, 1986, p. 4.

237
Il linguaggio era incandescente e comparirà la violenza,
alla fine culminata nel terrorismo. Va ricordato tuttavia che
la quantità di violenza impiegata dalla protesta non sempre
era la stessa e diverse erano le intenzioni dei responsabili:
enormi sono le differenze tra un esproprio proletario in un
supermercato, un picchettaggio in occasione di uno sciopero,
il danneggiamento di un macchinario in fabbrica, e l’assassinio
di un dirigente d’azienda, di un magistrato, di un poliziotto,
di un attivista sindacale, di un dirigente politico, di un im-
prenditore, di un giornalista. Sui motivi della degenerazione
terroristica, il dibattito è tuttora aperto. Una convincente
spiegazione generale  – perché in alcuni paesi si è sviluppato
il terrorismo e in altri no – non si è ancora trovata. Sappiamo
che i paesi più colpiti furono quelli che avevano conosciuto
il fascismo. Nell’esperienza tedesca il terrorismo si legittimò
istituendo una continuità tra la Repubblica federale e il nazi-
smo. Nell’esperienza italiana qualche frangia estrema sostenne
la continuità tra la sollevazione dei movimenti e la resistenza
antifascista, ma l’impiego della violenza fu anche alimentato – e
forse avviato – da un imponente terrorismo di estrema destra
e dalle manovre di alcuni settori dello Stato.
Si è già detto delle difficoltà dei partiti. Fra le altre cose, la
mobilitazione collettiva scompaginò la cartografia convenzionale
della sinistra. Molti studiosi marxisti erano rimasti interdetti,
ma le formazioni operaiste e neomarxiste, apparse da metà anni
‘60 in avanti, avevano già messo in discussione lo sviluppo e
l’impiego della tecnologia, avviando uno sforzo di ripensamento.
I movimenti studenteschi e giovanili sfruttarono in special modo
la critica del neocapitalismo e dello Stato sociale elaborata dalla
Scuola di Francoforte e divulgata dal più celebrato maître à
penser del momento e uno tra i primi intellettuali mediatizzati:
Herbert Marcuse. A mezza strada tra Freud e Marx, Marcuse
forniva una diagnosi critica del presente più coerente con la
condizione e le esperienze degli studenti di quella offerta dalle
interpretazioni marxiste tradizionali.
Anziché avvalersi delle loro capacità tecnologiche ed
economiche a fini d’emancipazione, le società capitalistiche
avanzate se ne servivano per coltivare la propria irrazionalità
intrinseca, per confermare la costrizione dei loro abitanti al
lavoro alienato e per comprimerne i bisogni, i sentimenti,

238
i costumi 19. Fors’anche in ragione della comune origine
francofortese, e della condivisione dell’esilio americano,
Marcuse concordava sulla convergenza tra i partiti segnalata
da Kirchheimer. Ma denunciava con accenti assai critici l’am-
bivalenza dell’azione inclusiva svolta dal neocapitalismo col
concorso dello Stato in favore delle classi lavoratrici: la loro
arrendevolezza era scambiata con la sicurezza occupazionale,
la protezione sociale e i consumi di massa. Anche per lui il
problema stava nella cultura. La sua replica era l’invito a
ribellarsi: all’autorità, ai consumi, alla repressione sessuale, a
ogni forma d’imposizione e vincolo gravante sugli individui
e sulla vita associata. I movimenti collettivi accolsero l’invito
e per un breve momento provarono a rilanciare la politica
della speranza, o dell’utopia.
Almeno a breve termine, il «sistema» si sarebbe mostrato
più vulnerabile di quanto Marcuse prevedesse. Si sarebbe preso
la rivincita più avanti. Messa in primo piano la dimensione
culturale del dominio e del conflitto, i movimenti collettivi
suscitarono anche una riflessione sul loro conto e sulle coerenze
e incoerenze con i movimenti del passato20. Quando le ribellioni
esplodono, è difficile stabilire quale sia stato l’«ingrediente»
risolutivo21. Le università erano un luogo piuttosto appartato
della vita collettiva e anche un luogo privilegiato. Quanto aveva-
no in comune i movimenti con la storia del conflitto di classe?
Un’interpretazione, almeno riguardo all’innesco, l’aveva
suggerita con quasi dieci anni d’anticipo Jürgen Habermas
avvistando nelle università un potenziale focolaio di ribellione22.
In conformità con la richiesta di nuove competenze funzionali
allo sviluppo, la popolazione studentesca, e universitaria, era
cresciuta. Migliaia di studenti d’estrazione sociale eterogenea
condividevano esperienze di vita, valori, interessi, preferenze
politiche, aspettative e progetti di mobilità sociale, oltre che,
naturalmente, motivi di malcontento, tra cui l’assenza di op-

19
  H. Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964), Torino, Einaudi, 1967.
20
  Un’interessante comparazione di lungo periodo C. Tilly, Social Move-
ments. 1768-2004, New York, Routledge, 2004.
21
  Lo sottolinea B. Moore jr., Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta,
cit., p. 401.
22
  J. Habermas, Riflessioni sul concetto di partecipazione politica (1961),
in Id., L’università nella democrazia, Bari, De Donato, 1968.

239
portunità corrispondenti alle attese che i loro titoli di studio
suscitavano.
Quella di Habermas era una previsione. Dopo il maggio
saranno avanzate altre spiegazioni. Raymond Aron, accampò un
classico argomento conservatore: gli studenti borghesi temevano
il declassamento prodotto dall’università di massa23. Un altro
punto di vista conservatore era che gli studenti erano più inclini
all’anticonformismo e alla protesta dei giovani che lavoravano.
Un’altra ipotesi ancora è che le università, come i partiti, la
Chiesa, le imprese, la famiglia, i sindacati, seguitavano a proporre
valori, norme, gerarchie convenzionali, ormai insopportabili.
Il punto è che la sollevazione assunse portata ben più ampia
e durevole della protesta studentesca, che l’aveva avviata e le
aveva conferito il suo significato corrosivo.
Tra i contributi fioriti a ridosso della ribellione del ’68 è
da ricordare quello, simpatetico, di un importante sociologo
del mondo del lavoro, Alain Touraine, fin dall’inizio prossimo
agli studenti di Nanterre. Incombeva ormai la società post-
industriale, segnata dalla contrazione del lavoro operaio e
dall’esaurimento del conflitto di classe tradizionale. I «nuovi
movimenti sociali» erano il nuovo soggetto storico corri-
spondente a una nuova frattura fondamentale, di carattere
simbolico24.
Sulla dimensione simbolica, e sull’originalità di quel ciclo
di lotte, ragionerà più a distanza anche Alberto Melucci, avan-
zando un’interpretazione più dinamica. Il mutamento culturale
e tecnologico aveva ridisegnato le soggettività degli individui, i
loro modi di pensare se stessi e la vita collettiva. Sempre meno
gli individui si sentivano appagati dai consumi di massa e dallo
Stato sociale e si riconoscevano entro le identità che grazie al
movimento operaio avevano finora indossato. Le richieste di
redistribuzione erano divenute richieste d’emancipazione e il
conflitto era tracimato oltre la sfera economica, dando luogo a
una trama infinitamente più articolata e più mobile di motivi
di aggregazione e di focolai di resistenza. Diveniva per Melucci
23
 R. Aron, La révolution introuvable. Réflexions sur les événements de
Mai, Paris, Fayard, 1968.
24
  A. Touraine, La conscience ouvrière, Paris, Seuil, 1968; Id., Le mouve-
ment de mai ou le communisme utopique, Paris, Seuil, 1968; Id., La société
post-industrielle. Naissance d’une société, Paris, Seuil, 1969.

240
prioritaria la questione del «riconoscimento». Gli individui
erano tanto disponibili all’agire collettivo, quanto restii a farsi
soffocare entro qualche forma politica verticalmente costi-
tuita, quali partiti e sindacati. Ed erano anche desiderosi di
sottrarsi all’impersonalità burocratica dello Stato del welfare,
per tessere, insieme ad altri, nuove trame di relazioni, nuovi
codici condivisi e nuove identità collettive25. Prerogativa degli
interpreti è attribuire un significato agli eventi. La preminente
dimensione culturale prospettava per Melucci conflitti più
numerosi e più erratici, grazie a una costellazione d’iniziative
di rappresentanza eterodosse e instabili: la pluralità sociale e
il pluralismo politico avevano, a suo dire, preso altre strade
rispetto a quella del conflitto di classe.
È una prospettiva che trova conferma entro un orizzonte
intellettuale molto diverso. Con tutt’altro linguaggio – dalla
sociologia del conflitto a quella della cultura politica – e traen-
done tutt’altre implicazioni, lo slittamento delle issues verso il
piano culturale era confermato oltre Atlantico dal già ricordato
Ronald F. Inglehart, con un’indagine fondata su dati di survey
raccolti su scala internazionale. Una volta conseguita, grazie
allo sviluppo, la sicurezza materiale, ed essendo cresciuto il
livello medio d’istruzione insieme a quello d’informazione,
era avvenuta una «rivoluzione silenziosa»26. Le nuove gene-
razioni reclamavano più libertà individuale e più autonomia
nei confronti dell’autorità. Pensavano ad autorealizzarsi e si
concentravano sulla qualità della vita, i diritti, l’uguaglianza
tra i sessi, la cultura, l’ambiente, la partecipazione alle scelte
collettive. Nutrivano un altro atteggiamento verso la politica,
meno deferente e meno disponibile a partecipare tramite il
voto, o mediante l’iscrizione a partiti e sindacati, e più incline
ad altre forme di attivismo: manifestazioni e petizioni, per
esempio.

25
 A. Melucci, L’invenzione del presente. Movimenti collettivi, identità,
bisogni individuali, Bologna, Il Mulino, 1982.
26
  Dopo aver parlato a ridosso del ’68 di valori «postborghesi» (cfr. R.F.
Inglehart, The Silent Revolution in Europe. Intergenerational Change in Post-
Industrial Societies, in «American Political Science Review», 4, LXV, 1971,
pp. 991-1017), Inglehart introduce il concetto di «postmaterialismo» in The
Silent Revolution. Changing Values and Political Styles among Western Publics,
Princeton, Princeton University Press, 1977.

241
Quant’erano però diffusi e condivisi i valori «postmate-
rialisti»? Erano realmente in declino quelli materiali? Qual è
il confine tra gli uni e gli altri? Il transito dalla società della
penuria a quella del benessere e della piena occupazione – o
dove benessere e occupazione apparivano a portata di mano
anche dei meno fortunati – non poteva non rinnovare i modi
di pensare e pure le soggettività individuali. Ma il conflitto
sociale, che era stato finora canalizzato da partiti e sindacati,
non aveva mai perseguito unicamente il benessere materiale.
Quanto ai movimenti, sì avevano segnato una rottura, ma,
entro le lotte che avevano promosso, temi postmaterialisti e
materialisti si accavallavano. Nel corso degli anni ’70 le lotte
sindacali, le richieste di miglioramenti salariali e di condizioni
e ritmi di lavoro più dignitosi, di nuove prestazioni di welfare
hanno seguitato a riproporsi vivacissime. Tant’è che la mo-
bilitazione del mondo del lavoro suscitò l’attenzione di altri
studiosi autorevoli, che testimoniarono invece la vitalità del
conflitto di classe27.
Va nondimeno notata la considerevole influenza esercitata
dalla teoria di Inglehart non solo tra le scienze sociali, ma nella
sfera pubblica. Non smentiva l’idea, avanzata nei primi anni
’60, per cui le lacerazioni della società industriale erano sotto
controllo. Ed era rassicurante la tesi secondo cui le rivendi-
cazioni postmaterialiste erano esigenti, ma erano quelle della
classe media istruita. L’epicentro del conflitto non era più la
working class, che aveva la capacità d’inceppare la produzione.
Acquietata dal benessere, era la classe media che sospingeva le
società occidentali a rivedere le loro priorità: dai meno nobili,
e più costosi, beni materiali ai più nobili, e meno costosi, beni
immateriali. Si trattava d’estendere i diritti civili e d’incoraggiare
la partecipazione democratica. Se non che, è successo ben di
più. È intervenuta una trasformazione radicale delle strutture
sociali, economiche e anche politiche.

27
  C. Crouch e A. Pizzorno (a cura di), Conflitti in Europa: lotte di classe,
sindacati e stato dopo il ’68, Milano, Etas Libri, 1977.

242
3. Ripristinare l’autorità

Le élites politiche established non potevano rimanere inerti


di fronte alla grande mobilitazione collettiva e a una forma di
rappresentanza anomala, ma comunque in concorrenza con esse.
Dopo qualche esitazione i partiti di sinistra, coerentemente con
la loro tradizione, ricercarono motivi d’incontro con le ragioni
della protesta, escludendo le derive violente. I partiti moderati e
conservatori si riposizionarono invece più a destra, ma nemmeno
da parte loro mancarono tentativi di risposta. Quasi ovunque
ebbe luogo nell’immediato una revisione inclusiva degli orien-
tamenti di policy. Furono anzitutto riformate le università, ma
furono anche adottate ambiziose riforme in materia di lavoro,
diritti sociali, partecipazione democratica. In Italia nel 1970,
la Democrazia cristiana condivise con i suoi alleati socialisti
e, in parte, con i comunisti, che stavano all’opposizione, una
tra le più feconde stagioni di riforme civili ed egualitarie della
storia nazionale.
A essere accolta, o subita, fu anche la richiesta di sfrondare
le relazioni sociali e i costumi, da regole, forme, riti, gerarchie
anacronistici. Una replica specifica alla protesta degli studenti
è stata la cooptazione. I partiti recluteranno molti quadri dei
movimenti. Molti si erano formati nelle loro organizzazioni
giovanili. Altri saranno cooptati dalle università, dalla scuola,
dalle case editrici, dai media. Alcuni sono diventati professio-
nisti della protesta, trasferendosi da un movimento all’altro e
portandosi appresso competenze e reti relazionali. Quasi mezzo
secolo dopo, sono parecchi i reduci di quelle esperienze ancora
attivi sulla scena pubblica o nei ranghi della società civile28. La
quale, salutata come nuovo spazio politico alternativo ai partiti,
emetteva i suoi primi vagiti29.
In realtà, il cambiamento promosso dai movimenti, che
era stato anzitutto culturale, si sarebbe rivelato infinitamente
meno impegnativo del mutamento delle condizioni econo-
miche, internazionali e nazionali. Fino al 1975 terrà ancora
28
 Manca una ricerca sistematica. Un’indagine di pregio è quella di E.
Neveu, Des soixante-huitards ordinaires, Paris, Gallimard, 2022.
29
 Una definizione coeva in N. Bobbio, Società civile, in Dizionario di
politica (1976), diretto da N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino, Torino,
Utet, 1983.

243
l’occupazione. Ma molti fatti problematici si sono susseguiti
dall’inizio del decennio. Nel 1971 erano stati revocati gli
accordi di Bretton Woods e la convertibilità del dollaro: era
un modo con cui gli Stati Uniti internazionalizzavano i costi
della guerra in Vietnam. Nel 1973 i paesi produttori avevano
inaspettatamente rincarato i prezzi del petrolio, con pesanti
effetti di traino sui prezzi delle altre materie prime. Non sarà
l’ultimo shock energetico del decennio. Ne è seguita quella
miscela d’inflazione di prezzi e salari e di stagnazione che è
stata chiamata stagflazione, alimentata anche dall’incremento
considerevole delle rivendicazioni sia degli addetti all’industria,
sia degli addetti al terziario.
Fu considerata una crisi di elevata gravità. O comunque
fu vissuta come tale. Anche perché corrispondeva a un mo-
vimento più di fondo. L’avevano annunciato lo stesso Alain
Touraine e anche Daniel Bell, l’uno più attento all’insorgere
di nuovi conflitti, l’altro più fiducioso sul conto del progresso
scientifico e tecnico: le società industriali stavano divenendo
«postindustriali»30. Si stava concludendo una lunghissima e
gloriosa avventura iniziata due secoli prima e giunta al culmine
nell’ultimo trentennio. È stato un deperimento inevitabile, o è
stata la conseguenza di una partita di potere tra gli addetti al
capitalismo e lo Stato, i partiti, i sindacati, le burocrazie pub-
bliche? Non c’era altro modo per contrastare il ristagno dei
profitti? Fatto sta che quello fu un momento cruciale giacché
veniva messo in discussione il presupposto della prosperità
e dell’egemonia occidentale31. A metterla in dubbio fu forse
soprattutto la crisi petrolifera: ovvero la grande ribellione
«politica» dei paesi produttori, rispetto ai quali l’Occidente si
trovò in una condizione di grave debolezza.
Nel mezzo secolo successivo il decadimento della manifat-
tura ha desertificato intere regioni e impoverito vasti segmenti
di popolazione, ha vanificato competenze, ha cancellato legami
politici, relazioni sociali, perfino storie familiari. Sono aspetti

30
  D. Bell, The Coming of Post-Industrial Society. A Venture in Social Fore-
casting, New York, Basic Books, 1973; A. Touraine, La société postindustrielle,
Paris, Denoël, 1969.
31
  Molto appropriato è anzitutto il titolo: D. Cohen, The Inglorious Years.
Collapse of the Industrial Order and the Rise of Digital Society, Princeton,
Princeton University Press, 2021.

244
ancora da approfondire. La sostituzione con la new economy a
elevato contenuto tecnologico e con servizi ad alta qualificazione
non è avvenuta alla pari. Anzitutto sul terreno dell’occupazione.
A distanza di mezzo secolo, se ne intende meglio la portata.
Ma era appunto iniziata una complessa partita di potere. La
piena occupazione aveva fatto crescere il costo, anche politico,
della manodopera. La crescita della produttività ristagnava. Per
contro, nei paesi in via d’industrializzazione la manodopera
costava molto meno ed era meno tutelata. Si diffondevano
anche le capacità tecnologiche. Sono state le condizioni in cui
si è avviato il transito dal fordismo al postfordismo32, ed è la
trovata con cui il capitalismo si è difeso.
Sul momento ci si è concentrati piuttosto sull’irrequietezza
dei movimenti, sulle rivendicazioni sindacali e sulle difficoltà
della politica established. È stato di nuovo Habermas, in un
libro del 1973, a formulare una teoria elaborata33. Lo Stato
interventista aveva trasferito le contraddizioni proprie del capi-
talismo dalla sfera economica a quella politico-amministrativa.
Che non era però in grado di governarle. Qualora fosse inter-
venuto energicamente per ridurre la spesa pubblica a beneficio
dell’economia e a spese delle classi medie e popolari, sarebbe
stata messa a repentaglio la sua legittimazione. Non troppo
diversamente Claus Offe sosteneva che per il capitalismo il
welfare era tanto una necessità, quando un costo insopporta-
bile. Sciogliere l’intreccio avrebbe tuttavia messo a rischio le
istituzioni democratiche34. A rompere gli indugi è stata dunque
la fazione degli imprenditori, che, entrando in grande stile
sulla scena pubblica, ha avviato una controffensiva politica di
cui forse non prevedeva gli effetti, ma di cui intendeva essere
parte attiva.
Nella stagione della ricostruzione e dello sviluppo gli
imprenditori non si erano dedicati unicamente ai loro affari.
Le forze politiche e i loro addetti li tenevano a bada, ma li
trattavano con gran riguardo. Se a volte adottavano policies
scomode – misure fiscali, nazionalizzazioni, in alcuni paesi

32
  A. Amin (a cura di), Post-Fordism. A Reader, Oxford, Blackwell, 1994.
33
  J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo (1973),
Roma-Bari, Laterza, 1975.
34
  C. Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo (1975) Milano, Etas Libri, 1977.

245
perfino la cogestione – erano pieni di cautele. Gli ambienti
imprenditoriali contavano e intervenivano nella contesa politica,
intrattenevano rapporti eccellenti con alcuni partiti, finanzia-
vano campagne elettorali, disponevano di organi di stampa e
di case editrici, nonché di giornalisti e intellettuali simpatetici.
Al culmine dello sviluppo erano stati coinvolti nell’azione di
governo tramite le intese neocorporative, a volte formalizzate
ufficialmente. Finché alcuni tra loro, di fronte all’instabilità
del momento e alle difficoltà economiche, non si sono risolti
a ragionare di una strategia alternativa. Storicamente, gli im-
prenditori costituiscono un garbuglio di fazioni multiforme,
stratificato, competitivo e anzi conflittuale. In difficoltà entro
i confini nazionali, grazie all’incremento degli scambi, avevano
intensificato le loro relazioni transnazionali. E di lì è giunta la
loro proposta.
Possiamo considerare tale il Report pubblicato nel 1975
dalla Trilateral Commission, dedicato nientemeno che alla «crisi
della democrazia»35. La Trilaterale era un’istituzione america-
na, fondata da un grande banchiere come David Rockfeller e
diretta da Zbigniev Brzezinski, che presto sarebbe diventato
consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter. Per
utilizzare un’etichetta che verrà di moda qualche anno dopo,
era un think tank molto agguerrito. Era al contempo un club
riservato a imprenditori e finanzieri di rango, a riconosciute
personalità politiche in pensione, ad alti funzionari pubblici
e a studiosi di prestigio, provenienti dagli Usa, dall’Europa e
dal Giappone36.
Lungi dal presentarsi come una riflessione di qualche
colore politico, il rapporto convocava la competenza apolitica
degli esperti e si proponeva come un’investigazione scientifica,
distaccata e obiettiva. Anziché affidarlo a studiosi d’economia,
non ancora incoronata regina delle scienze sociali, il rapporto
fu redatto da tre scienziati sociali di prestigio: un sociologo
francese della burocrazia e due politologi, uno americano,
l’altro giapponese. Finora, per le scienze sociali la prospettiva

35
  M. Crozier, S.P. Huntington e J. Watanuki, La crisi della democrazia
(1975), Milano, Angeli, 1977.
36
  S. Gill, American Hegemony and the Trilateral Commission, Cambridge,
Cambridge University Press, 1991.

246
prevalente era stata quella evoluzionistica della modernizzazio-
ne: c’erano regimi democratici moderni e altri meno, i quali
andavano incoraggiati a mettersi al passo. Secondo il rapporto,
viceversa, tutti i regimi democratici erano in difficoltà, nessu-
no escluso. La diagnosi era semplificata, ma efficace: i motivi
dell’«ingovernabilità» risiedevano nella cultura e nella pratica
democratiche invalse negli ultimi decenni, nella proliferazione
e nel particolarismo degli interessi, nel pluralismo ridondante
e nell’overload di attese e sfide che ne seguiva37.
Tralasciando le critiche alla società capitalistica che avevano
accompagnato la grande mobilitazione collettiva, la teoria del
sovraccarico e dell’ingovernabilità da cui muoveva il rapporto
suonava come una requisitoria contro i governanti e contro
la loro inadeguatezza e soprattutto contro le istituzioni de-
mocratiche, quali si erano riconfigurate nel dopoguerra. La
democrazia era il problema e il capitalismo la vittima: era un
rovesciamento di 180 gradi. Lo stato presente delle società
occidentali dipendeva dall’infiacchimento di tutte le autorità
costituite e le dirigenze elettive ne erano responsabili. Preoc-
cupate di mantenere il favore degli elettori, avevano abdicato
la loro funzione di governo, non esercitandola con la neces-
saria risolutezza, tempestività ed efficacia, né contrastando le
troppe illusioni prodotte dal benessere. Non era un problema
d’investimenti o d’innovazione. Ma di leadership. Era giunto
il momento per le classi dirigenti, politiche, economiche, in-
tellettuali di unire le forze e mobilitarsi.
Molti temi diverranno luoghi comuni negli anni a venire.
Come il tono morale della critica: c’era un che d’immorale
nello scarso rispetto per l’autorità, nell’aggressività degli in-
teressi corporativi e nell’ignavia dei partiti e delle burocrazie
pubbliche. Il rapporto infieriva sugli intellettuali critici, che
spargevano troppe tossine, troppe accuse di corruzione e di
complicità tra politica ed economia e che mettevano troppi
grilli in capo ai cittadini. Pure i mass media erano redarguiti,
perché troppo solleciti ad amplificare i problemi della società e
a delegittimarne le élites. E ce n’era, ovviamente, per i cittadini,
troppo preoccupati del loro interesse privato, troppo esigenti,

37
 Il concetto di overload era stato proposto da A. King, Problems of
Governing in the 1970s, in «Political Studies», 2-3, XXIII, 1975, pp. 162-174.

247
troppo viziati dalla demagogia dei politici e poco rispettosi
verso le autorità costituite.
Erosi i valori e le autorità tradizionali, anche quelle religiose,
a soffrire il declino di autorevolezza erano tutte le istituzioni.
Nella grande varietà europea, sintetizzata da Crozier, i soli a
resistere, in virtù della loro superiore robustezza organizzativa,
erano i partiti comunisti, la cui affidabilità democratica era però
molto dubbia. Oltre al sovraccarico di partecipazione, di parte-
cipanti, di pretese, era un problema l’eccesso di responsabilità
caricato sulla politica, insieme all’estrema complessità e tortuo-
sità decisionale. Ulteriori motivi di crisi erano la disgregazione
sociale, la repentina domanda di apertura di sistemi finora molto
rigidi, la destabilizzazione delle istituzioni educative, la decli-
nante presa dei sindacati sul mondo del lavoro e l’insufficiente
autodisciplina di quest’ultimo, il peso eccessivo della middle
class, troppo restia alla modernizzazione, nonché l’inflazione
fuori controllo. Era urgente perciò approntare un nuovo regime
di governo, scongiurando una temutissima involuzione statalista,
all’insegna del socialismo, e procedere, malgrado gli ostacoli,
sul cammino dell’unificazione continentale.
Sugli Stati Uniti pesavano invece, a dire di Huntington, gli
straripanti impegni sulla scena internazionale, insieme ai grandi
programmi governativi di assistenza sociale avviati negli anni ’60.
Tanto più che tali programmi non avevano curato l’insofferenza
verso la politica. Persa fiducia negli effetti democratici attribuiti
allo sviluppo economico dalla teoria della modernizzazione,
già nei suoi scritti precedenti Huntington aveva insistito sul
mantenimento dell’ordine a qualsiasi prezzo quale requisito
fondamentale d’ogni regime politico38. Per lui, che aveva anche
collaborato con qualche regime autoritario, il male dei mali era
l’«eccesso di democrazia»39 maturato negli ultimi decenni.
Meno preoccupante, grazie alle prestazioni della sua eco-
nomia, era la condizione del Giappone, dove a trattenere le
aspettative popolari concorrevano le gerarchie e la cultura
tradizionale. Ma pure da quelle parti, negli anni a venire, si

38
  S.P. Huntington, Political Order in Changing Societies, New Haven,
Yale University Press, 1968.
39
  M. Crozier, S.P. Huntington e J. Watanuki, La crisi della democrazia,
cit., p. 108.

248
prospettavano tensioni analoghe a quelle che si erano manife-
state negli altri paesi trilaterali e quindi conveniva anticiparle.
Tre elementi erano essenziali nel rapporto. Il primo, si è detto,
era l’ammissione delle comuni difficoltà dei paesi interessati.
Il secondo era la cura con cui si evitava di polemizzare diret-
tamente con la democrazia: il rapporto dichiarava l’intenzione
di proteggerla e di aggiornarla. Il terzo elemento era l’appello
al mondo libero e alle classi politiche established lanciato dalle
élites imprenditoriali. Il Report opponeva un grande spazio
democratico ai regimi non democratici e alle economie non ca-
pitaliste. A tale spazio spettava il compito di darsi fini comuni e
d’incrementare la propria capacità di governo, in maniera stabile
ed efficiente. Accettando il fatto, sentenziava Huntington, che
gerarchia, coercizione, disciplina, segretezza, inganno, delusione
delle aspettative degli elettori sono armi legittime e irrinunciabili
d’ogni azione di governo, anche democratico40.
Alla diagnosi, discussa in riunione plenaria dalla Commis-
sione, faceva seguito un protocollo terapeutico. Meno concer-
tazione, meno conciliazione, più decisione. Andava rimessa a
punto l’articolazione tra le istituzioni: esecutivo, parlamento,
partiti, governi locali, potere giudiziario. I partiti dovevano
operare da filtro, più che da tramite, e tale azione andava loro
riconosciuta finanziandoli a carico dei pubblici bilanci. I media
dovevano mostrarsi più responsabili e più sobri nel trattare
le informazioni. I processi produttivi erano da riorganizzare.
L’istruzione superiore andava valorizzata, ma occorreva del pari
riabilitare il lavoro manuale, affinché ciascuno stesse di buon
grado al proprio posto.
Era una perorazione sottilmente conservatrice. I toni erano
pacati, ma il Report rovesciava il significato che a guerra finita
era stato attribuito al termine democrazia. Confermava la con-
fezione, ma ribaltava le priorità stabilite trent’anni prima. Il
problema non stava nel capitalismo, bensì nella democrazia. Era
lei il malato da curare. Era una mossa formidabile: la premessa
di un programma di sdemocratizzazione soft. Niente misure
drastiche, ma la democrazia andava resa meno democratica:
anzitutto sul piano formale. Per gli aspetti di sostanza nulla era

40
  Ivi, p. 92. Si avverte in queste parole qualche accento polemico verso
gli scandali che avevano travolto la presidenza Nixon.

249
detto e provvederà qualcun altro. Per l’immaginario pubblico
del dopoguerra era una ferita sanguinosa.
Approssimandosi la fine del decennio le riflessioni sulla
governabilità si moltiplicheranno e diverranno un tema politi-
co di prima grandezza. L’idea che si fosse esagerato, e si fosse
superata la soglia del disordine, che gli interessi «corporativi»
fossero di pregiudizio all’azione di governo, era comoda per
molti usi, per i conservatori e pure per le sinistre di governo.
Tornava comunque in superficie il pregiudizio liberale verso la
sovranità popolare e i suoi dispositivi, a iniziare dal principio
di maggioranza, enunciato in America negli anni ’20 da Walter
Lippman e ribadito vent’anni dopo da Schumpeter41. Amplificato
e semplificato a puntino dai media e dalla stampa internazionale,
il messaggio susciterà ragguardevole attenzione. Nei decenni
successivi i grandi capitalisti del pianeta moltiplicheranno le
occasioni per ritrovarsi, con largo seguito di esperti e giornalisti.
Saranno costituiti altri club. Nel 1975 iniziava la consuetudine del
G7 e dei periodici incontri tra i leaders delle maggiori potenze
economiche. Crescerà la pressione sulle élites della politica, che
la sollevazione degli anni ’70 aveva predisposte ad accogliere il
messaggio. Governare è sempre arduo e il Report le autorizzava
ad assumere una postura più gestionale e più rigorosa.
Nel 1975 il grande market turn non era ancora alle viste. Nel
rapporto erano assenti termini come tecnologia, innovazione,
informatica. Ma quando si tratterà di congedare la fabbrica
fordista fondata sulla produzione di massa, di disdire le con-
certazioni tra esecutivo, imprenditori, sindacati e di promuo-
vere il mercato a dispositivo fondamentale di governo, i suoi
argomenti torneranno utilissimi. Non sappiamo se Margaret
Thatcher l’avesse letto, ma nell’interpretare il suo ruolo di
premier avrebbe potuto ispirarla parecchio.

4. Neoconservatorismo e neoliberismo

Le alchimie del cambiamento non sono meno complicate


e ardue da decifrare di quelle della ribellione. A cose fatte,

41
  Il testo di W. Lippman in cui l’argomento è riproposto più vigorosamente
è The Phantom Public (1925), Chicago, Transactions, 1993.

250
è facile concordare sulla portata del cambiamento avviato a
fine anni ’70, che ha ridisegnato gli equilibri tra i protagonisti
dell’intesa postbellica: i partiti, lo Stato, il mercato, il mondo
del lavoro. Ma c’è dissenso sui dettagli, dove il diavolo soli-
tamente si nasconde. Il rapporto della Trilateral Commission
testimoniava una ripresa d’iniziativa politica entro il mondo
imprenditoriale, ancora affezionato alle pratiche concertative.
A rompere definitivamente il regime di governo istituito nel
dopoguerra è stata l’iniziativa politica di due leaders, Ronald
Reagan e Margaret Thatcher. A confronto con i più modesti
tentativi di ridimensionamento della spesa pubblica avviati
dai loro predecessori, Carter e Callaghan, entrambi hanno
amplificato e pubblicizzato la rottura e le hanno conferito il
significato di una grande svolta: conservatrice, neoliberale e
anche modernizzante.
Concentriamoci di nuovo su Thatcher. Tolti i paesi scan-
dinavi, il Regno Unito era il paese che più era stato segnato
dall’intesa del dopoguerra. Aveva perso in pochi anni il suo
sconfinato impero coloniale. Ma l’esperimento del welfare vi
era stato condotto con grande impegno, trovando l’accordo dei
due partiti maggiori. A metà anni ’70 tra stagflazione, eccesso
di spesa pubblica, rivendicazioni sindacali, si era fatto invece
la nomea di paese più malandato d’Occidente. Era anche il
primo in cui si era manifestato il declino industriale42. L’allarme
giungerà al culmine durante il winter of discontent tra il 1978
e il 1979. È tipico delle crisi suscitare condizioni propizie a
destabilizzare gli equilibri politici precedenti e, eventualmente,
per affidarsi a un leader salvifico, pronto a adottare le inevi-
tabili terapie d’urto. Che effettivamente la situazione fosse
critica importa poco. Importa che fu definita come tale e che
Thatcher seppe assumere il profilo del leader adatto alla crisi.

42
 Sul declino di lunga durata dell’imprenditoria britannica, cfr. M.J.
Wiener, Il progresso senza ali. La cultura inglese e il declino dello spirito in-
dustriale, 1850-1980 (1981), Bologna, Il Mulino, 1985. Un political scientist
attento come D. Kavanagh descrive al contrario una condizione di crescita più
lenta di altri paesi europei, ma comunque regolare e interrottasi in occasione
della crisi petrolifera del 1973: cfr. Thatcherism and British Politics. The End
of Consensus, Oxford, Oxford University Press, 1990, pp. 17-18. Fatto sta
che l’imputazione della crisi al particolarismo dei sindacati ebbe successo e
fu riproposta in tutto l’Occidente.

251
Alle elezioni tenutesi nella primavera del 1979 l’astensionismo
crollò, votarono due milioni in più di elettori, il Labour man-
tenne i suoi consensi, ma i conservatori crebbero di tre milioni,
recuperando sull’astensione e sui liberali. E ottennero un’ampia
maggioranza ai Comuni.
Non abbiamo troppe certezze sulle ambizioni iniziali di
Thatcher. Tra le tante definizioni possibili del suo disegno, quan-
do di populismo ancora non si parlava, o indicava altre cose,
Stuart Hall, padre dei cultural studies, lo definiva «populismo
autoritario»43. È una definizione che sarà molto discussa44, ma
che metteva in evidenza il riorientamento strategico proposto
da Thatcher sul terreno della rappresentanza, su quello del
governo e su quello dello stile politico. Se i laburisti avevano
usato le Unions e lo Stato per proteggere la loro constituency
fatta di operai e colletti bianchi legati al welfare, Thatcher
avanzava un nuovo claim di rappresentanza a beneficio di chi
non godeva di simili protezioni: piccoli e medi imprenditori,
operai specializzati, commercianti, professionisti, risparmiatori
e soprattutto tax payers. Non erano ceti non protetti, tutt’altro,
ma sicuramente risentiti per il potere dei sindacati e sensibili a
un’offerta politica che intrecciava valori tradizionali, moralismo
vittoriano, promesse di misure law & order, nostalgie imperiali,
anti-intellettualismo e insofferenza verso la popolazione im-
migrata45. Coronava l’offerta un vigoroso appello identitario.
Thatcher si faceva così portavoce di quanti erano turbati dai
cambiamenti del costume e dall’aumento della criminalità.
I Tories erano stati finora il partito dell’establishment, con
una palese attenzione di marca paternalista ai ceti medi e in-

43
  S. Hall, The Great Moving Right Show, in «Marxism Today», 1, XXIII,
1979, pp. 14-20. L’articolo è ripubblicato in Id., The Hard Road to Renewal.
Thatcherism and the Crisis of the Left, London, Verso, 1988.
44
  Si veda per esempio la critica a S. Hall di B. Jessop, K. Bonnett, S.
Bromley e T. Ling, Authoritarian Populism, Two Nations, and Thatcherism, in
«New Left Review», 147, 1984, pp. 32-60. L’articolo, che è scritto anch’esso
mentre gli eventi si svolgono, critica l’interpretazione di Hall, ma mette in
evidenza come il thatcherismo si stesse liberando della vecchia strategia «One
Nation» del Partito conservatore e ne adottasse una opposta.
45
 La miccia del risentimento contro gli immigrati l’aveva accesa dieci
anni prima Enoch Powell: cfr. M. Sobolewska e R. Ford, Brexitland, Iden-
tity, Diversity and the Reshaping of British Politics, Cambridge, Cambridge
University Press, 2020, pp. 98-113.

252
feriori46. Con l’aiuto della stampa popolare, si riqualificarono
come il partito della gente comune: la libera concorrenza era
il mezzo che ne avrebbe premiato le virtù, la laboriosità, la
sobrietà, lo spirito d’iniziativa. Seguirà l’azione di governo,
all’insegna del binomio classico della destra: autorità e pro-
prietà. In ossequio a quest’ultima, Thatcher consoliderà la
constituency originaria del partito all’insegna del «capitalismo
popolare». Una quota di azioni delle grandi imprese privatizzate
era messa a disposizione di chiunque volesse acquistarle: era
quella la vera sovranità restituita al popolo. Geniale operazione
d’ingegneria sociale è stata l’alienazione delle council houses
agli inquilini: cosa c’era di meglio che inventare uno strato di
piccoli proprietari immobiliari avversi al fisco?47
Se c’era sentore di populismo – inteso come appello al
popolo – in questo claim, c’era pure qualche sentore autoritario
nello stile antagonistico della nuova premier. Dietro la continuità
delle forme, la rimodulazione della pratica di governo superava
le ricette della Commissione Trilaterale. Rilanciava in particolare
il conflitto sociale, rompendo un costume introdotto dai partiti
britannici già durante la guerra: anche per i conservatori vale-
va l’impegno a includere gli strati inferiori. Tornate le vacche
magre, ogni mediazione statale entro le relazioni industriali
era cancellata48 e il conflitto sociale veniva perfino criminaliz-
zato: come all’occasione del grande sciopero dei minatori del
1984-198549. Coerentemente, misure spietate erano assunte
contro gli irredentisti irlandesi. Infine, d’intesa con Reagan,
era rilanciato il confronto con l’Unione Sovietica e i negoziati
con i partners europei divennero accaniti. Nel momento di

46
  Nel 1938 Harold MacMillan, premier dal 1957 al 1963, aveva pubblicato
un libro intitolato The Middle Way: A Study of the Problems of Economic and
Social Progress in a Free and Democratic Society, New York, Macmillan, 1938.
47
 Merita la lettura B. Biais e E. Perotti, Machiavellian Privatization,
in «American Economic Review», 1, XLII, 2002, pp. 240-258.
48
  D. Kavanagh e P. Morris, Consensus Politics from Attlee to Thatcher,
Oxford, Blackwell, 1989.
49
  P. Scraton, If You Want a Riot, Change the Law: The Implications of the
1985 White Paper on Public Order, in «Journal of Law and Society», 3, XII,
1985, pp. 385-393. Sulla svolta punitiva, che sarà condivisa e aggravata dai
governi del New Labour, cfr. Anche S. Farrall, N. Burke e C. Hay, Revisit-
ing Margaret Thatcher’s Law and Order Agenda: The Slow-Burning Fuse of
Punitiveness, in «British Politics», 2, XI, 2016, pp. 205-231.

253
più bassa popolarità, sopraggiunse il caso a rompere definiti-
vamente gli equilibri. Indossò le divise dei generali argentini.
Nell’autunno del 1982 la guerra delle Falkland permetteva a
Thatcher di richiamare in servizio l’antico orgoglio imperiale,
di umiliare i generali argentini e di stravincere le successive
elezioni, peraltro con l’aiuto dei laburisti, che un anno prima
avevano pensato bene di dividersi.
Congedati i tecnici di scuola keynesiana e affascinata dalle
idee di Hayek e di Friedman, Thatcher impose un’agenda fatta
di riorientamento dell’economia verso l’offerta e le esporta-
zioni, di compressione dei salari, di redistribuzione del carico
tributario da redditi e patrimoni a beni e servizi, di difesa della
stabilità dei prezzi, di privatizzazioni delle imprese pubbliche,
di riforma del governo locale. La vittima più illustre è stato
il welfare, accusato di creare rapporti di dipendenza: anziché
lavorare, era più conveniente sfruttare le sue protezioni. Chi ha
studiato l’argomento sostiene che il welfare ha dato prova di
resistenza, anche in virtù della sua popolarità50. Ma per quanto
l’azione di governo rinunciasse a rotture troppo brusche, alcuni
programmi, quelli meno in grado di suscitare proteste, furono
ridimensionati, gettando le premesse di restrizioni ulteriori.
Era anche questa una manovra che sollecitava l’archiviazione
dell’immaginario della felicità pubblica a favore di quella privata.
Eroicizzare la leadership è un modo per raccontare la storia.
L’operato di una specifica figura politica, per quanto conside-
revole sia la sua personalità, è in realtà parte di processi molto
più complessi. Di suo, un leader ci può mettere parecchio: i
suoi talenti, la capacità di distinguere le situazioni favorevoli
da quelle che non lo sono, di calcolare le mosse da compiere
e le possibili conseguenze, di rischiare, quando è il caso, di
trovare alleati e scegliersi i nemici, di selezionare i propri col-

50
  Di grande interesse l’analisi di Paul Pierson, intesa a mostrare proprio la
capacità di resistenza del welfare confrontando le due esperienze di Thatcher
e di Reagan. Malgrado la posizione di Thatcher fosse più favorevole di quella
di Reagan, il governo di gabinetto britannico concentra il potere, mentre il
divided government lo disperde, le difficoltà che incontrò furono comunque
considerevoli. Il primo problema è sempre liberarsi degli impegni e delle inerzie
del passato. Quindi, da un lato sono fondamentali i programmi, dall’altro le
capacità tattiche degli attori: cfr. P. Pierson, Dismantling the Welfare State.
Reagan, Thatcher, and the Politics of Retrenchment, Cambridge, Cambridge
University Press, 1994.

254
laboratori. Ma sono fondamentali le circostanze in cui opera.
Thatcher è stata anche un personaggio mediatico ben studiato
e ben riuscito, coerente con la domanda di leadership sollevata
dai media. Pronta ad appellarsi alla pubblica opinione, ebbe
fortuna per i suoi toni assertivi, sprezzanti, non solo verso
l’opposizione, ma pure verso i suoi ministri, i parlamentari, il
suo partito. È stata ancora lei a trascinare gli imprenditori51.
A darle aiuto è stata anche la sintonia con l’esperienza
di Reagan. In una situazione ormai protratta di stagnazione,
inflazione e accesa conflittualità sociale, miscelando conservato-
rismo morale e denuncia dei privilegi di cui godeva l’elettorato
democratico, specie la sua componente afroamericana, Reagan
trovò il sostegno di una parte dell’elettorato bianco preoccupata
dall’incremento numerico di tale componente. Gli servì a vincere
le elezioni e ad avviare lo smantellamento dell’eredità del New
Deal, che per il Partito democratico costituiva un’importante
risorsa di potere. Ancor più che per Thatcher, i risultati sareb-
bero stati inferiori alle attese, ma se ciò che conta è l’immagine,
è un fatto che la svolta da lui impressa alla politica americana
non sia stata ancora contraddetta. Al più riaggiustata.

5. «Market turn»

Margaret Thatcher e Ronald Reagan da soli non ce


l’avrebbero mai fatta a ridisegnare il regime di governo delle
democrazie occidentali e i confini tra mercato e Stato. Furono
bensì capaci di radunare intorno a sé un vasto seguito elettorale,
che ha permesso loro di promuovere il ridisegno nel rispetto
delle regole della democrazia formale e anche di far scuola. Ma
se la fuoruscita dal fordismo è stata una sfida comune a tutte
le democrazie occidentali, la direzione che ha preso il cambia-
mento è stata frutto di un gran numero di fattori. Quali i più
importanti? Questo non è un libro di storia e si contenta di
perlustrare alcune piste. La selezione è ovviamente soggettiva
e resta al lettore l’onere di farsi un suo giudizio.
La prima pista è quella che conduce alle nuove tecnologie
e al loro impiego. Per considerarne la portata si può utilmente

51
  D. Kavanagh, Thatcherism and British Politics, cit., pp. 123-150.

255
profittare dell’indagine comparativa condotta da due studiosi,
Torben Iversen e David Soskice, entrambi affiliati all’autore-
vole scuola delle varieties of capitalism52. Negli anni ’70, è la
premessa, il fordismo aveva ormai dato tutto quanto poteva
dare e la tecnologia, in particolare l’informatica, ha costituito
a un tempo la sfida e il rimedio. Tutt’altro però che scontato:
la sua somministrazione e la sua efficacia sono infatti dipesi
dalla collaborazione attiva dello Stato. È una prospettiva un
po’ diversa da quella, sostanzialmente evoluzionistica, di molti
contributi della medesima scuola.
Smentendo un argomento assai ripetuto, nel capitalismo
globalizzato le imprese dei paesi avanzati godrebbero di un
vantaggio tecnologico che le tutela dalla concorrenza delle
economie emergenti. E sarebbero al tempo stesso dipendenti
da competenze radicate sul territorio e dunque meno mobili
di quanto si dica e anche meno in grado di dettare condizioni
alle autorità di governo. Il grande merito di queste ultime, e dei
regimi democratici, è consistito nel contrastare la propensione
del capitalismo a costituire monopoli inefficienti: a questo è
servito liberalizzare la circolazione di capitali, merci, servizi,
manodopera e competenze. Com’è servito rimuovere i poteri
di veto dei sindacati e riformare le relazioni industriali. Da un
lato sono state premiate le imprese più pronte ad aggiornarsi
e a sostenere la concorrenza, dal lato opposto quelle a bassa
produttività sono state forzate a innovare, o a uscire dal mercato.
A smentita di chi lo dà per superato, lo Stato avrebbe
reinventato il capitalismo. L’avrebbe fatto, tuttavia, in confor-
mità con le preferenze degli elettori, che avrebbero spronato i
governanti a condurre politiche lungimiranti, superando pure
la riluttanza degli imprenditori. A farla da protagonista sarebbe
stata la constituency degli highly skilled workers, o la nuova
middle class, altamente scolarizzata e legata alla new economy,
alla conoscenza, alla ricerca, alla tecnologia, all’informazione,
alla finanza e addensata nei grandi centri urbani. Estesa anche
a coloro che aspirano a farne parte, tale constituency, per man-
tenere il proprio benessere, pretende un’economia performante
e chiede allo Stato, oltre che di promuovere la concorrenza, di

52
  T. Iversen e D. Soskice, Democracy and Prosperity. The Reinvention of
Capitalism in a Turbulent Century, Princeton, Princeton University Press, 2019.

256
effettuare massicci investimenti in istruzione e ricerca: proprio
quanto serve a farsi valere entro il capitalismo globalizzato.
Sono rimasti indietro invece i losers: la old middle class e gli un-
skilled e semi-skilled workers. L’incremento delle disuguaglianze
denunciato dai critici della globalizzazione sarebbe tuttavia
molto dubbio. L’inconveniente più serio è che, mostrandosi
restii a seguire il ritmo del progresso, i losers sarebbero facile
preda del populismo, che però, stiamo attenti, è unicamente
un danno collaterale e provvisorio, provocato dalla grande
crisi finanziaria del 2008 e destinato a essere sanato una volta
rilanciata la crescita.
Il resoconto è ben documentato. Ha il merito di non ridurre
la tecnologia a variabile esogena e mossa da dinamiche proprie.
Le imprese hanno deciso come svilupparla e come utilizzarla
e lo Stato ha svolto un’azione promozionale e di facilitazione
nei confronti delle loro decisioni. Solleva, tuttavia, qualche
perplessità la tesi della prevalenza elettorale degli high skilled
workers sulla old middle class e sulle fasce meno qualificate
della working class. Sì, perché gli elettori non votano solo alla
luce delle loro convenienze economiche e, come mostra il caso
Thatcher, il neoconservatorismo è stato un’arma accortamente
maneggiata per coinvolgere alcuni settori della working class,
non necessariamente i più progrediti. Ulteriori dubbi li solleva
il ritratto complessivamente idilliaco che Iversen e Soskice
tracciano del nuovo regime di governo. Non tutti i capitalismi,
essi ammettono, né tutti i regimi democratici, se la sono cavata
allo stesso modo. Non mancano ritardi e fallimenti. Ma quanti
sono rimasti attardati, o faticano, o scartano, hanno pur sem-
pre un modello da seguire. Quant’è però verosimile che ciò
avvenga davvero, o il ritardo di alcuni paesi e di alcuni settori
di popolazione è funzionale alla riuscita di altri? Il capitalismo
ha sempre prosperato tra le disuguaglianze che suscita e le ha
sempre suggerite quale tecnica di governo.
Non solo, ma le controversie in seno al capitalismo sono
state molto più ampie e drammatiche di quelle tra settori
tecnologicamente avanzati e settori in ritardo. Quella che
ha suscitato l’attenzione di Luciano Gallino si è svolta tra il
capitalismo industriale e il capitalismo finanziario, il quale
proprio dalle nuove tecnologie ha tratto grande impulso. Per
Gallino, la «produzione di denaro per mezzo di denaro»,

257
ovvero la finanziarizzazione, con l’obiettivo di ricavarne un
reddito «decisamente più elevato rispetto alla produzione di
denaro per mezzo di merci»53, è stata il modo per rimediare,
di nuovo con l’avallo e il favore dello Stato, al deperimento
della manifattura. Se però le classi superiori ne hanno ottenuto
smisurati vantaggi, sia pure correndo alti rischi, vista la con-
genita instabilità della speculazione, la terapia è stata motivo
d’indebolimento aggiuntivo del capitalismo industriale nei paesi
avanzati e di gravi danni per vasti strati sociali. L’argomento è
stato ripreso da un reputato specialista tedesco di sociologia
economica, Wolfgang Streeck, nelle pagine di un libro aspra-
mente polemico, scritto a ridosso della crisi del 2008, dal
titolo Tempo guadagnato, ma in verità dedicato a denunciare
il troppo tempo perso. Il capitalismo finanziario ha tutelato i
capitalisti, ma non il capitalismo come tale e soprattutto non
la società che gli sta intorno.
Nella prospettiva di Streeck il rapporto tra Stato e mercato
è raccontato in termini più complessi: la crisi di metà anni ’70
sarebbe stata infatti l’avvio di una vera e propria ribellione
delle élites economiche contro il contratto sociale negoziato
nel dopoguerra54. È stato un conflitto in piena regola, con
cui il mercato capitalistico e i suoi addetti si sono presi la
rivincita sullo Stato con due mosse fondamentali. La prima è
stata una mossa simbolica, cioè la dichiarazione, strumentale,
dello stato di crisi, imputata all’intervento statale sul mercato.
La seconda mossa è stata la rivolta contro la fiscalità, condotta
sul piano simbolico, ma pure, concretamente, mediante la fuga
dei capitali, il loro trasferimento nei paradisi fiscali, nonché
con l’evasione. Il capitalismo finanziario, che ha carattere
eminentemente speculativo, è stato anche un’arma tanto per
suscitare una gigantesca ridislocazione della ricchezza dai ceti
inferiori a quelli superiori, quanto per ridisegnare i rapporti
dello Stato col mercato. Infatti, se per qualche tempo la crisi
dello «Stato fiscale» è stata tamponata lasciando crescere
l’inflazione, lo «Stato debitore» è stato stretto d’assedio dai

53
 L. Gallino, Finanzcapitalismo: la civiltà del denaro in crisi, Torino,
Einaudi, 2011.
54
  W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo demo-
cratico, Milano, Feltrinelli, 2013.

258
suoi creditori, finché quello che Streeck chiama lo «Stato del
consolidamento» non è caduto nella trappola della specula-
zione finanziaria.
Alla riduzione delle entrate tributarie provocata dalla crisi
negli anni ’70 gli Stati non hanno potuto replicare aggravando
l’imposizione, vuoi per non scontentare settori dell’elettorato
ritenuti cruciali, vuoi perché la deregolamentazione finanziaria li
ha messi in concorrenza tra loro su questo terreno. Per esaudire
le aspettative dei cittadini, hanno allora fatto ricorso al debito
e hanno privatizzato una quota crescente di asset pubblici.
Come coadiuvante, sono state abbattute le tutele del lavoro
e si è ridotto il costo di quest’ultimo, anche delegittimando e
contenendo le organizzazioni sindacali, finché gli Stati non sono
finiti in mano ai creditori, che speculano sui loro debiti. Sono
entrate nella partita le istituzioni internazionali di consulenza,
vigilanza e certificazione, tutte private, che dovrebbero rassicura-
re i creditori. I paesi dell’Unione europea hanno in più adottato
il famigerato fiscal compact: il quale, mascherato da solidarietà
transnazionale, ha ridotto ulteriormente la sovranità statale. Ciò
malgrado, dopo la crisi del 2008 gli Stati sono stati obbligati
a soccorrere i loro aguzzini, cioè le banche. Incentivate dalla
finanziarizzazione, queste ultime erano intervenute a sostegno
dei consumi e della domanda, favorendo la crescita del debito
privato, fino a trovarsi a rischio d’insolvenza. Essendo too big
to fail, il punto d’arrivo è stato una tripla crisi, bancaria, delle
finanze pubbliche e dell’economia reale.
Due constituencies incompatibili, il «popolo dello Stato» e il
«popolo del mercato internazionale», hanno dunque stritolato
gli Stati. Ciascuno dei due popoli ha una sua idea di giustizia:
la «giustizia sociale» l’uno, la «giustizia di mercato» l’altro.
Mediante le politiche di austerità gli Stati si sono accaniti sui
cittadini e sui lavoratori per esaudire le pretese del popolo del
mercato. Non fosse che – mirabile invenzione! – il popolo del
mercato è intrecciato col popolo dello Stato. Il quale, attraverso
i fondi d’investimento e quelli pensionistici, detiene una quota
del debito e possiede azioni e obbligazioni di quelle medesime
imprese, industriali, bancarie, di servizi, che dettano allo Stato
le loro pretese. Le vittime sono i padroni dei loro carnefici.
Ma la grande partita di potere non si è esaurita nell’azione
degli addetti allo Stato e degli addetti al capitalismo. Non ha

259
avuto minore importanza il rinnovamento dei modi di pensare
la vita associata, l’economia e la politica – brillantemente evo-
cato da Hirschman nel suo saggio sui modelli di felicità – che
è stato promosso da vari attori e agenzie e che ha indotto a
pensare diversamente tanto le élites quanto la gente comu-
ne. Le idee, si sa, dispongono di sacerdoti, di missionari, di
fedeli, che le mettono in circolo e che anch’essi partecipano
alle contese per il potere. La stagione dell’intervento pubblico
era iniziata con la crisi del 1929. Ma il convincimento che più
giustizia sociale e più inclusione giovassero alla vita collettiva
e anche all’economia si era consolidato perché condiviso da
un gran numero di attori, cui però, com’è ovvio, non sono
mancate le opposizioni: in particolare la critica al keynesismo
condotta da autorevoli tribune nelle università, nelle banche
centrali, ai vertici delle pubbliche amministrazioni, negli am-
bienti dell’imprenditoria e della finanza, sui grandi organi di
stampa, entro i partiti conservatori, liberali, confessionali. Era
una critica anche politica, fomentata dal clima della Guerra
fredda e dall’anticomunismo: mentre il mercato era presidio
essenziale di libertà, l’intervento pubblico era preludio di una
resa al socialismo. Ebbene, proprio quando la Guerra fred-
da stava consumando la sua ultima vampata e il capitalismo
industriale ha iniziato a decadere, la critica ha guadagnato
posizioni nel dibattito pubblico, fino a diventare ortodossia
per l’azione di governo.
Dal 1947 uno dei più agguerriti circoli di resistenza al
keynesismo era stata la Mont Pélerin Society, insieme alla scuola
monetarista di Chicago e a quella della public choice55. Segnala
l’autorevolezza della prima il Nobel attribuito a Friedrich von
Hayek, premiato unitamente a un economista di tutt’altra ob-
bedienza come Gunnar Myrdal. Nel 1976, più o meno quando

55
 Per cogliere la complessità, anche nel contesto internazionale, della
marcia intellettuale e politica del neoliberalismo e del suo contrasto con
la socialdemocrazia, cfr. P. Mirowski e D. Plehwe (a cura di), The Road
from Mont Pélerin, cit. Sulla rational choice, cfr. M. Amadae, Rationalizing
Capitalist Democracy. The Cold War Origins of Rational Choice Liberalism,
Chicago-London, The University of Chicago, 2003. Sul ruolo del monetari-
smo e della public choice, M. Blyth, Great Transformations: Economic Ideas
and Institutional Change in the Twentieth Century, Cambridge, Cambridge
University Press, 2002, pp. 139-147.

260
impartiva i suoi ammaestramenti agli ufficiali cileni che avevano
abbattuto il governo Allende, sarà invece premiato un espo-
nente della scuola di Chicago: Milton Friedman. Dieci anni
più tardi il premio sarebbe toccato a James M. Buchanan, un
alfiere della public choice, anche lui proveniente da Chicago e
già consigliere di Pinochet56.
Due studiosi di scuola polanyana, Fred Block e Margaret
R. Somers, hanno chiamato le loro idee «fondamentalismo di
mercato»57, per il quale la libera concorrenza, la responsabilità
individuale e la pluralità dei centri decisionali propria del merca-
to sarebbero la tecnica di governo più idonea a decongestionare
il sovraccarico e a promuovere la crescita. Ne avrebbero ricavato
vantaggi pure i membri più deboli della società. Bastava liberarsi
della pervasiva presenza delle burocrazie pubbliche, in primis
quelle del welfare, degli intrecci corporativi con i sindacati, per
affidarsi alle capacità creative degli individui tramite il libero
mercato. Grosso modo, il programma thatcheriano.
Un interessante confronto, sempre di matrice polanyiana,
tra il caso americano e quello svedese, lo ha effettuato Mark
Blyth, per illustrare come le nuove idee abbiano potuto attec-
chire. Nei momenti di crisi le idee nuove riducono l’incertezza,
ravvicinano e coalizzano interessi diversi, offrono argomenti
utili a superare gli equilibri di potere preesistenti, concorrono
a creare nuove istituzioni e a rinnovare l’azione di governo,
suscitando infine tra gli attori l’aspettativa e le condizioni
di una nuova stabilità58. La stagflazione, a metà anni ’70, e
l’incapacità dei governi di rimediarvi, avrebbero persuaso un
gran numero di studiosi, istituzioni universitarie, centri di
ricerca, fondazioni, think tanks, organi di stampa nazionali e
internazionali.

56
 Hayek, Friedman e Buchanan hanno tutti e tre presieduto la Mont
Pélerin Society. Anche il Nobel è un dispositivo promozionale. Pur cercan-
do di mantenere un equilibrio tra economisti di diverse obbedienze, è stato
molto generoso verso il neoliberalismo. Particolarmente intrigante la vicenda
di Hayek, uno studioso emarginato in Gran Bretagna, che otterrà grande
fortuna negli Usa grazie al premio, istituito nel 1969. Sul quale cfr. A. Offer
e G. Söderberg, The Nobel Factor: The Prize in Economics, Social Democracy
and the Market Turn, Princeton, Princeton University Press, 2016.
57
 F. Block e M. Somers, The Power of Market Fundamentalism. Karl
Polanyi’s Critique, Cambridge, Harvard University Press, 2014.
58
  M. Blyth, Great Transformations, cit.

261
Il disegno non era antidemocratico, ma identificava to-
talmente la democrazia e il liberalismo: il libero mercato era
presupposto necessario della libertà individuale. È quanto
Friedman aveva enunciato da tempo59. Il mercato rivelerebbe
e integrerebbe le preferenze degli individui, rispettandone la
diversità, in maniera incomparabilmente più affidabile di qual-
siasi regime elettorale, che permette di trovare rappresentanza
solo a un numero limitato d’interessi. L’intervento dello Stato,
purtroppo, resta inevitabile, poiché residua una ristretta gam-
ma di issues – ordine pubblico, sicurezza, tutela dei contratti,
definizione dei diritti di proprietà – che non sono trattabili
mediante scambi di mercato, che gli addetti allo Stato, elettivi
e burocratici, in quanto attori autointeressati, hanno il difetto
congenito d’inquinare. L’unica soluzione, pertanto, avendo li-
cenziato l’interesse generale quale principio normativo, è ridurre
al minimo il raggio d’azione di qualsiasi autorità pubblica. Sono
idee che hanno avuto fortuna.
Per farsi un’idea della penetrazione capillare del nuovo
immaginario privatistico conviene leggere invece la ricerca
molto originale di due sociologi francesi: Luc Boltanski ed
Eve Chiapello60. Il capitalismo e i suoi addetti avrebbero vinto
la partita profittando nientemeno che delle critiche dei loro
ultimi avversari, ovvero delle energie intellettuali sprigionate
dalla protesta dei movimenti collettivi. Lungi dall’essere solo
una tecnica di produzione e distribuzione, il capitalismo è un
fatto culturale, è una costruzione di giustificazioni morali,
di norme e di valori. L’interesse individuale e la ricerca del
profitto corrispondono a uno «spirito» – è una citazione
weberiana – a una formula, a un apparato simbolico che
li legittima, li naturalizza e li rende collettivamente accetti.
Capita però anche a norme e valori elaborati dal capitalismo
di essere messi in dubbio, dando luogo a una continua at-
tività di negoziazione e aggiornamento, che, quando serve,
incorpora pure le critiche: che possono sia essere represse,
sia messe a frutto.

59
  M. Friedman, Capitalism and Freedom (1963), Chicago, Chicago Uni-
versity Press, 2002.
60
 L. Boltanski e E. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Paris,
Gallimard, 1999.

262
Due categorie fondamentali di critiche si sarebbero sto-
ricamente rivolte contro il capitalismo. Da un lato la critica
«sociale», fondata sui concetti di giustizia e uguaglianza, che
tratta il capitalismo quale fonte di sfruttamento, disuguaglianze,
miseria, ingiustizia. Dall’altro la critica «artistica», fondata sul
principio di libertà, che ne evidenzia la dimensione oppressiva
e lo accusa di soffocare le soggettività individuali, di suscitare
inautenticità e alienazione, d’intossicare i rapporti sociali. L’una è
focalizzata sulla dimensione materiale, l’altra su quella simbolica.
Finora la critica sociale aveva prevalso: dopo la Grande
depressione e nel secondo dopoguerra, un «secondo spirito» del
capitalismo aveva sostituito il «primo spirito», che era stato quello
del capitalismo familiare, della borghesia imprenditoriale e della
fiducia nei benefici del progresso. Associato alla produzione di
massa e alla fabbrica fordista, il «secondo spirito» autorizzava
l’azione dello Stato, per regolare il mercato e ovviare alle sue
carenze. Colpito, tra gli anni ’60 e ’70, da nuove critiche, lo
spirito del capitalismo è tornato ad aggiornarsi. Stavolta però si
è registrata un’importante novità: offuscando la critica sociale, è
stata la critica artistica ad avere la meglio. Valendosi di un’appro-
fondita ricognizione della letteratura manageriale, che evidenzia
la manovra culturale condotta attraverso di essa, Boltanski e
Chiapello ritraggono il «terzo spirito» del capitalismo. Il cui
rinnovamento tecnologico, produttivo e organizzativo sarebbe
stato guidato dalla richiesta di autonomia individuale, autenti-
cità, creatività, emancipazione, avanzata dalla critica artistica.
Nei nuovi movimenti collettivi non c’era solo una compo-
nente individualista e libertaria. Vi era una forte spinta alla
socialità, alla solidarietà, alla reciprocità. Il capitalismo è stato
perciò selettivo nella sua manovra d’appropriazione. Introiettata
l’avversione alla gerarchia e al formalismo della critica artistica, ha
da un lato puntato a coinvolgere e responsabilizzare i lavoratori,
dall’altro si è adoperato per aggiornare i modelli di consumo:
dal consumo di massa di prodotti standardizzati alla differen-
ziazione e individualizzazione dei prodotti, la quale concede
ai consumatori la più piena libertà di scelta. La rimozione del
concetto di classe è il coronamento simbolico di questo aggior-
namento61. Naturalizzate le disuguaglianze, segnalati coloro che

61
  Ivi, pp. 419-422.

263
non si adeguano con termini politicamente asettici come quello
di esclusione, il paesaggio è ripopolato dagli individui, con le
loro soggettività, i loro bisogni, la loro imprenditività, creatività,
adattabilità. Sono le virtù richieste dalle nuove professioni e dal
mercato del lavoro. Partecipativo e inclusivo, il terzo spirito del
capitalismo ha archiviato la gerarchia e premia l’autocontrollo
e la cooperazione: orizzontale e soi-disant paritaria. Non ha
nemmeno tralasciato di tutelare i meno fortunati: anziché le
impersonali e opprimenti burocrazie del welfare, interverrà
qualche provvedimento riparatorio dello Stato, insieme alla
generosa spontaneità della società civile e all’azione caritatevole
dei ceti abbienti62. Il congegno è ben architettato.
Prestare attenzione alle idee e ai modi di pensare non implica
comunque prestare minor attenzione alle trasformazioni d’ordine
strutturale, sulle quali, per concludere, un punto d’osservazione
ideale l’offre infine il ceto medio. Ormai maggioritario, dopo
aver preso il largo dai ceti inferiori ed essersi avvicinato ai ceti
superiori, s’è trovato inaspettatamente ad affrontare una peri-
gliosa odissea, tutt’altro che conclusa e che rischia di portarlo
al punto di partenza. Cosa sia accaduto da queste parti l’ha
raccontato Arnaldo Bagnasco, che sul tema ha diretto un am-
bizioso programma di ricerca63. Secondo Bagnasco la fuoruscita
dal capitalismo industriale e le trasformazioni provocate dalle
nuove tecnologie informatiche nella vita collettiva, nella strut-
tura occupazionale, nell’organizzazione del lavoro, non hanno
investito solamente la working class. Hanno investito in pieno
il terziario, diviso tra lavoratori dipendenti e autonomi, tra
dipendenti privati e pubblici, tra attività tradizionali e terziario
avanzato, tra redditi elevati e redditi modesti, tra lavoratori
stabili e precari, tra giovani e anziani. Diversificato anche per
costumi e modelli di consumo, questo largo segmento di società
è stato destabilizzato e soprattutto reso inquieto, tanto più che
non s’intravede un possibile punto d’approdo.
La tecnologia ha alimentato parecchie illusioni. Ma non
ha impedito a chi si era sentito assestato in una condizione di

62
  Cfr. L. Boltanski e E. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, cit.,
pp. 467-481.
63
  A. Bagnasco, La questione del ceto medio. Un racconto del cambiamento
sociale, Bologna, Il Mulino, 2016.

264
benessere e sicurezza di essere in parte precarizzato, in parte
privato di una quota della propria retribuzione, in parte col-
pito dalla caduta dei valori immobiliari o dalla speculazione
finanziaria. Solo una minoranza si è avvantaggiata. Ne sono
derivati percorsi di vita frammentati e caotici e disuguaglianze
in sensibile aumento. Il problema è particolarmente visibile
in Italia, dove sono le famiglie a sopperire alle difficoltà che i
giovani incontrano a entrare non solo nel mercato del lavoro,
ma nella vita adulta. Ne deriverebbe un deficit d’integrazione,
che è in primo luogo un fatto culturale, aggravato dall’incapa-
cità della rappresentanza politica, cioè dei partiti, di svolgere
quell’azione di riordinamento e raggruppamento sociale che
erano riusciti a svolgere tra gli anni ’50 e ’70.
È in queste condizioni che si è registrata, stando all’analisi
di un altro sociologo economico, Steffen Mau, una larga e
inattesa adesione del ceto medio al market turn e ai suoi prin-
cipi64. Mau però avanza una ulteriore suggestione: le rotture
nei modi di pensare non avvengono mai all’improvviso e il
caso del ceto medio è esemplare, perché il suo riorientamento
culturale e politico precede la svolta pro-market. Lo sviluppo,
le provvidenze e le misure redistributive del welfare gli avevano
consentito di crescere di dimensioni e di progredire in termini
di retribuzione, istruzione, patrimonio, status, consumi, mobilità
ascendente. Comprensivo ormai degli strati più qualificati della
working class, era stato così indotto ad aggiornarsi. Per quanto
i livelli di consenso nei confronti del welfare non fossero de-
caduti e una parte del ceto medio fosse rimasta politicamente
affezionata ai partiti di sinistra, si è fatta strada entro di esso la
convinzione che i suoi progressi si sarebbero consolidati solo
a condizione di aderire a un’idea di welfare meno generosa.
Maturando del pari una discreta avversione alla fiscalità e alle
politiche redistributive.
È stata la premessa di una grandiosa operazione d’ingegneria
sociale. Il benessere aveva consentito al ceto medio l’accesso
alla proprietà: la casa di abitazione e poi la seconda casa. Gli
aveva dato l’opportunità d’investire in azioni, obbligazioni,

64
 S. Mau, Inequality, Marketization and the Majority Class. Why Did
the European Middle Classes Accept Neo-Liberalism, Basingstoke, Palgrave
Macmillan, 2015.

265
titoli pubblici, polizze assicurative. Un esercito di consulenti
finanziari l’ha convinto a adottare un’ottica speculativa, onde
ricavare qualche incremento di reddito. Le riforme dei sistemi
pensionistici hanno favorito l’investimento in fondi pensione
privati, dunque in attività finanziarie, e le privatizzazioni delle
imprese pubbliche, effettuate a prezzi di saldo, l’hanno indot-
to a preferire trattamenti fiscali favorevoli agli investimenti
finanziari: il ceto medio è entrato a far parte del popolo del
mercato evocato da Streeck. Si capisce pertanto come, divenuto
attuale il rischio di declassamento, possa essersi radicato un
atteggiamento critico verso le politiche inclusive nei confronti
dei disoccupati, dei precari, dei ceti deboli, troppo dipendenti
dal soccorso pubblico. È un’operazione persuasiva, cui sono
parzialmente sfuggiti unicamente gli occupati stabili del settore
pubblico – ormai in diminuzione65 – e che richiama alla mente
il monito di Titmuss sul fragile entroterra culturale del welfare.
Un’operazione alla quale ha dato il suo contributo finanche la
rappresentanza politica del mondo del lavoro, in special modo
i partiti socialisti. È l’argomento delle pagine che seguono.

6. Dalla sinistra al centro

La logica del consenso elettorale è nei regimi democratici


un motore potentissimo. È stata essa a persuadere i partiti
socialisti e socialdemocratici a ripensare la propria strategia,
oppure l’analisi della direzione che aveva preso il cambiamen-
to sociale e dei suoi effetti? La risposta più attendibile è che
abbiano contato entrambe le ragioni. L’esempio più citato è
quello del Labour.
Era stato fin dall’origine un partito non marxista e riformista.
Dopo aver impiantato il welfare nella seconda metà degli anni
’40, era tornato al governo nel 1964, avendo diluito il progetto
riformatore del dopoguerra, elaborato in circostanze diverse.
Avvicendatosi con i Tories per tutti gli anni ’70, sconfitto da
Thatcher nel 1979, nel 1981 aveva subito la secessione della sua
ala moderata. Due anni dopo, nel 1983, avrebbe perso quasi

65
  G. Standing, The Precariat. The New Dangerous Class, London, Blooms-
bury, 2011, pp. 51-54.

266
cinque milioni di voti e consentito ai conservatori, che pure
per parte loro di voti ne avevano persi due milioni – dunque
gli elettori non erano poi così contenti –, di conseguire, grazie
al sistema elettorale, una maggioranza straripante di seggi. Da
allora il Partito laburista ci ha messo all’incirca un quindicennio
per trovare la ricetta vincente, sotto la leadership di Tony Blair.
È stato lui a farsi promotore, dal 1996, di un progetto radicale
di rebranding, il cui riferimento intellettuale era la dottrina della
Third way di Anthony Giddens.
Sociologo di fama, affiliato come Beveridge e Marshall alla
London School of Economics, Giddens delineava uno scenario
correttivo rispetto alla New Right e addirittura alternativo
rispetto alla Old left 66, condividendo molte delle critiche ri-
volte dalla prima allo Stato sociale e all’intervento pubblico.
Mutamenti irreversibili erano avvenuti nelle società avanzate
ed erano irreversibili pure il declino della working class e la
crescita dei ceti intermedi. Un cambio di paradigma era ine-
vitabile: al conflitto sociale doveva subentrare la partnership
e il welfare «negativo» di Beveridge andava sostituito con un
welfare «positivo». «Al posto del bisogno», scriveva Giddens,
andava collocata «l’autonomia; al posto della malattia, la tutela
della salute; al posto dell’ignoranza, l’istruzione, come compo-
nente continua della vita; al posto della povertà, il benessere;
al posto dell’ozio, l’iniziativa»67. Pur senza aderire all’elogio
della meritocrazia, le pretese di autorealizzazione degli indivi-
dui erano legittime e l’imprenditività e la creatività di ciascuno
andavano premiate68. In buona sostanza: il problema non era
il capitalismo, ma adattare al capitalismo tutto il resto.

66
 Prima di The Third Way. The Renewal of Social Democracy (1998),
London, Polity, 2008, A. Giddens aveva scritto Beyond Left and Right. The
Future of Radical Politics, London, Polity, 1994. Anche Tony Blair scriverà
un pamphlet intitolato: The Third Way: New Politics for the New Century,
London, Fabian Society, 1998.
67
  A. Giddens, The Third Way, cit., p. 64.
68
  L’esperienza laburista sotto la guida di Blair e le sue matrici culturali
sono state largamente studiate. Ci limitiamo a citare: M. Bevir, New Labour: A
Critique, London, Routledge, 2005. Un bilancio di lungo periodo in F. Faucher
e P. Le Galès, The New Labour Experiment. Change and Reform Under Blair
and Brown, Stanford University Press, Stanford, 2010, ma pure G. Evans e
J. Tilley, The New Politics of Class in Britain. The Political Exclusion of the
Working Class, Oxford, Oxford University Press, 2017.

267
Se Giddens suggeriva una revisione tecnocratica del regi-
me democratico, accompagnata da qualche preoccupazione
egualitaria e inclusiva, nell’azione di governo del New Labour,
pur temperando il feroce individualismo thatcheriano, i temi
dell’uguaglianza e dell’esclusione resteranno molto in ombra.
Lo Stato tornava in gioco, ma erano escluse misure macroe-
conomiche a tutela dell’occupazione, men che mai negoziate
con i sindacati, e il New Labour si convertiva alla libera con-
correnza e alla crescita trainata dalle esportazioni, rinunciando
ad alimentarla tramite la domanda e i salari.
Quanto alla revisione del welfare, insistendo a considerarlo
una trappola che manteneva la povertà più di quanto la riducesse,
la proposta del New Labour era di abilitare gli individui a ope-
rare autonomamente sul mercato, a proteggersi da sé dai rischi
dell’esistenza per ascendere con le loro forze lungo la scala sociale,
investendo in formazione e facilitazione dell’accesso all’impiego.
Ancora: se il thatcherismo aveva riscoperto i valori tradizionali, il
New Labour ha preferito i fermenti solidali, i vincoli comunitari
e l’attivismo della società civile. Era il suo rimedio alle lesioni
provocate alla «coesione» sociale dalla povertà e dall’eccesso
di disuguaglianza. Almeno dapprincipio, la cittadinanza sarà
intesa come il nuovo principio unificante, in sostituzione delle
identità: o di classe, cara ai socialisti, oppure nazionale, cara al
thatcherismo69. Preventiva rispetto alle disuguaglianze suscitate
dal mercato, l’«uguaglianza di opportunità»70 avrebbe schiuso
l’orizzonte di una comunità coesa, moderna, istruita, tecnologica-
mente progredita, cosmopolita e tollerante, resa tale da cittadini
autonomi, imprenditivi, operosi, e reciprocamente responsabili.
I partiti di destra si erano riposizionati più a destra. I
partiti di sinistra hanno puntato a occupare gli spazi rimasti
liberi al centro. Non c’è stata solo la svolta laburista71, che non

69
  D. Morrison, New Labour, Citizenship and the Discourse of the Third
Way, in S. Hale, W. Leggett e L. Martell (a cura di), The Third Way and
Beyond. Criticisms, Futures, Alternatives, Manchester, Manchester University
Press, 2018.
70
 La formula fa tuttora parte dell’armamentario dei partiti di sinistra.
Ma è alquanto problematica, come illustra E. Granaglia, Uguaglianza di
opportunità. Si, ma quale?, Roma-Bari, Laterza, 2022.
71
  Un bilancio sul New Labour, elevato a modello per altre esperienze,
in S. White (a cura di), New Labour: The Progressive Future, Basingstoke,​
Palgrave, 2001.

268
è stata nemmeno la prima. Già nel 1984, disdetta l’Union de
la gauche con i comunisti, sotto la presidenza Mitterand, in
Francia era stata dismessa l’industria siderurgica e il ministro
delle finanze Delors aveva schierato il governo all’avanguardia
della finanziarizzazione dell’economia72. Anche di lì, oltre che
dalla revisione voluta da Clinton in America, Blair potrebbe
aver ricavato qualche ammaestramento. Si è invece apertamente
ispirato alla Terza via un altro grande esperimento di revisione,
quello pilotato dalla Spd, tornata nel 1998 al governo con i
Verdi. Finora la Germania si era caratterizzata per la sua solida
consuetudine corporativa, che aveva compensato la relativa
riluttanza dello Stato a intervenire nella vita economica: la
Mitbestimmung con i sindacati era l’istituzione fondamentale
di quella consuetudine. Ebbene, all’inizio degli anni Duemila
il governo Schröder ha fatto quanto non avevano osato fare i
governi guidati da Kohl.
Secondo il progetto di «Agenda 2010» e il piano Hartz, nel
2003, per contrastare il rallentamento dell’economia e incre-
mentarne la competitività, il governo si decise a somministrare
dosi massicce di flessibilità al mercato del lavoro, a decentrare
parte della contrattazione, a ridimensionare i sindacati. Erano
di contorno i tagli ai sussidi di disoccupazione, alla sanità,
alle pensioni, insieme all’istituzione dei famosi mini-jobs. Sono
misure che hanno giovato alle imprese e alla finanza, ma che,
a detta di molti osservatori, hanno scavato una profonda linea
di frattura tra la parte sindacalmente protetta e stabile del
mondo del lavoro e quella non protetta. Anche a motivo della
fuoruscita della sua ala più critica, la Spd ha pagato nel 2005
un prezzo elettorale molto alto73.
La fuoruscita da fordismo aveva articolato e complicato
la vecchia constituency dei partiti socialisti: un aggiornamento
dell’offerta elettorale era inevitabile. La revisione delle promesse
egualitarie e redistributive era con ogni probabilità la soluzione
più coerente con la loro storia. È questa la tesi di Stephanie
L. Mudge, secondo cui il nuovo knowledge regime, che aveva
attecchito entro tali partiti, e tra economisti e sociologi a loro

  M. Bernard, Les années Mitterrand, Paris, Belin, 2015.


72

  W. Streeck, Re-forming capitalism, cit.; A. Busch e P. Manow, The SPD


73

and the Neue Mitte in Germany, in S. White (a cura di), New Labour, cit.

269
vicini, è stata la logica prosecuzione dei compromessi che il
riformismo socialista aveva già stipulato col mercato tra gli
anni ’50 e ’60, auspice il keynesismo74. In fin dei conti, i partiti
socialisti hanno temperato le misure pro-market con le politiche
attive del lavoro, la flexsecurity, il welfare. aziendale e fiscale.
Tra molte varianti nazionali, l’eco della Terza via si è fatta
sentire pure tra i partiti più convintamente riformisti, quelli
scandinavi: la tradizione corporativa dei sindacati ha fatto una re-
sistenza limitata e in nessun paese è avvenuta una privatizzazione
integrale del sistema scolastico come in Svezia75. In Italia la
provenienza comunista di una componente fondamentale del
gruppo dirigente della sinistra negli anni ’90 spiega forse il
sovrappiù di zelo con cui sono state privatizzate le imprese
pubbliche. La sfida posta dalla contrazione del capitalismo
industriale era impietosa: i partiti socialisti hanno ritenuto
che le promesse inclusive del dopoguerra si fossero definitiva-
mente consolidate nei diritti sociali, che andassero solo un po’
sfrondati i cattivi costumi – il burocratismo e il parassitismo
assistenziale – suscitati dal welfare. Il pluralismo democratico
si era radicato nelle menti dei cittadini e non serviva nemmeno
più un contropotere – e una controcultura – quale essi erano
stati per lungo tempo. Il loro compito era governare razional-
mente un nuovo ordine sociale. Affidati a professionisti della
politica provenienti dalla classe media istruita, hanno redatto
il loro business plan. È una strategia che non ha pagato più
di tanto sul piano elettorale. Le oscillazioni del malcontento
li hanno più volte riportati al governo, ma, lo si è già visto,
nell’arco di quarant’anni il loro share tra gli elettori si è più o
meno dimezzato76.

74
  S.L. Mudge, Leftism Reinvented. Western Parties from Socialism to
Neoliberalism, Cambridge, Harvard University Press, 2018. Per orientarsi
nella parabola delle socialdemocrazie in Europa cfr. P. Borioni, Socialde-
mocrazia e capitalismo: dalla parità del lavoro col capitale alla sua rimercifi-
cazione, in «Studi storici», 1, LXII, 2021, pp. 247-276. Un ritratto di più
breve periodo, ma più dettagliato, limitato a quattro casi, in F. Escalona,
Du régime social-démocrate keynésien au régime social-démocrate de marché,
Paris, Dalloz, 2018.
75
  Un piccolo, ma emblematico squarcio in L. Pelling, Le scuole svedesi:
il sogno proibito di Milton Friedman, in «Il Menabò», 174, 2022: https://
eticaeconomia.it/le-scuole-svedesi-il-sogno-proibito-di-milton-friedman/.
76
  Vedi supra, pp. 220-221.

270
Ciò non toglie che la preoccupazione per i diritti civili,
per l’emancipazione femminile, per l’integrazione dei migranti
abbia prodotto apprezzabili iniziative di policy e che essi ab-
biano pure promosso alcune innovazioni intese a temperare la
loro immagine d’estraneità rispetto ai cittadini77. Molte misure
«direttiste» sono state opera loro.
Non sono bastate tuttavia a rimediare all’impopolarità della
politica established, e non è nemmeno bastata l’untuosa salsa
moralistica che ha impregnato la scena pubblica. Le istanze
morali hanno una lunga tradizione78. Se le sono a lungo dispu-
tate la destra e la sinistra, con singolari inversioni delle parti.
Per semplificare: la destra conservatrice ha a lungo accusato
la sinistra di importare nella sfera dell’interesse generale gli
interessi particolari delle classi lavoratrici. Finché le parti non si
sono invertite: il bene collettivo è passato a sinistra e la destra
è divenuta portavoce della proprietà e degli interessi privati. La
politica mediatica si è impadronita della disputa, amplificando
l’efficacia della denuncia. Stavolta la destra, quando ha potuto,
ha raccolto la sfida. Alle presidenziali americane del 2016 tema
fondamentale della campagna elettorale è stato la moralità di
ambedue i concorrenti. È stato riproposto nel 2020. In Spagna,
sempre nel 2016, i due partiti maggiori sono stati sfidati con
successo da due formazioni politiche di nuova costituzione,
la cui fondamentale priorità era la moralizzazione della vita
pubblica. Nella campagna per le presidenziali francesi del
2017 l’accusa d’immoralità ha escluso dalla gara il concorrente
favorito dai sondaggi. Sempre nel 2017 l’immoralità dell’esta-
blishment è stata al centro della campagna elettorale in Gran
Bretagna e la moralità del candidato premier più promettente
è tornata ancora in ballo alle elezioni del 2019: più tardi sarà
costretto a dimettersi proprio dai dubbi sollevati sul suo conto.
Dopo quasi mezzo secolo di rivendicazioni moralistiche, alle
elezioni politiche italiane del 2013 una formazione politica
che non aveva altro programma che la lotta al malaffare ha

77
  Il New Labour ha fatto da battistrada anche in questo: P. Seyd, New
Parties/New Politics? A Case Study of the British Labour Party, in «Party
Politics», 5, III, 1999, pp. 383-405.
78
  Come mostrano C. Mattina, F. Monier, O. Dard e J.I. Engels (a cura
di), Dénoncer la corruption: chevaliers blancs, pamphlétaires et promoteurs de
la transparence à l’époque contemporaine, Paris, Demopolis, 2018.

271
raccolto il consenso di un quarto dei votanti, salito a un terzo
alle elezioni successive. Sottoposto alla prova del governo, per
il Movimento 5 Stelle la discesa è in compenso stata brusca.
A difesa della moralità pubblica il nuovo mantra è la traspa-
renza. Agli addetti alla politica e alle pubbliche amministrazioni
le norme impongono di rendere noti redditi e patrimoni, quelli
dei loro congiunti, le donazioni che eventualmente ottengono
e quant’altro. S’istituiscono autorità specificamente dedicate
al contrasto della corruzione. La vigilanza sulle borse, a tutela
degli investitori e degli azionisti, ha una lunga tradizione.
Oggidì si tutelano anche i consumatori e gli utenti. È una
nuova variante d’intervento pubblico. Si moltiplicano i codici
di condotta: nelle amministrazioni pubbliche, nelle università,
negli ospedali, nelle aziende private, e molto oltre. Hanno
successo gli esperti di moralità. Una grande mobilitazione di
competenze, giuridiche, manageriali, filosofiche, sociologiche
e politologiche è da tempo in atto: oltre a essere oggetto di
misurazioni e confronti, la corruzione come oggetto di ricerca
è popolarissima79. Ed è divenuta un affare profittevole pure la
certificazione, spesso affidata ad agenzie private, della moralità
pubblica nazionale e internazionale. Non hanno fatto difetto
nemmeno le manifestazioni d’immoralità dei moralisti.
È possibile che negli ultimi decenni si sia elevata la soglia
di tolleranza dei cittadini. Un’ipotesi è che l’eccesso di regole
proprio dello Stato regolatore, a tutela del libero mercato,
accresca gli incentivi a trasgredire o vanifichi le sanzioni80. Il
rischio di regole inapplicabili, incomprensibili, estranee alla
comune sensibilità, ritenute ingiuste dai destinatari – aggiun-
giamoci le ambivalenze della soft law così di moda – sarebbe
più elevato. Ma potrebbe contare la frenesia di profitto del
capitalismo contemporaneo81, insieme alla concentrazione
dei partiti sul successo elettorale, incoraggiata dalla rappre-

79
  L’indicatore è molto rozzo. Alla parola corruption Google Scholar offre
15.100 risultati tra il 1956 e il 1965, 22.100 tra il 1966 e il 1975, 33.600 tra
il 1976 e il 1985, 754.000 tra il 1986 e il 1995, 294.000 tra il 1996 e il 2005
e 656.000 tra il 2006 e il 2015.
80
  R.G. Holcombe, Political Capitalism: How Economic and Political Power
Is Made and Maintained, Cambridge, Cambridge University Press, 2018.
81
 È la tesi di W. Streeck, Come finirà il capitalismo? Anatomia di un
sistema in crisi, Milano, Meltemi, 2021.

272
sentanza occasionale. Ovvero: se in una società fondata sulla
competizione, in varie forme, per il potere la corruzione è
endemica, potrebbe anche darsi che l’andamento attuale di
tale competizione renda la corruzione più conveniente per
chi vi partecipa. Ciò detto, nulla autorizza a concludere che
tutti siano corrotti: c’è anche chi lotta per il potere facendosi
un’arma della propria moralità.
La denuncia dell’immoralità è comunque un nuovo modo
di far politica. Ai moralisti importa unicamente indignarsi,
scovare, denunciare, perseguire, epurare, punire. Conta la
caccia ai colpevoli, ai reprobi, ai disonesti, spettacolarizzata
dai media. Fa parte dell’immaginario privatistico l’insistenza
sulle responsabilità personali. Piacciono la gogna, le manette,
la forca, le esecuzioni sommarie. Non senza confondere fatti
di gravità molto differente. Al moralismo sono d’ingombro le
cautele e le sottigliezze, per quanto imperfette, dello Stato di
diritto. Mentre le indispensabili gogne mediatiche, non di rado
smentite dagli approfondimenti d’indagine e dalle sentenze
giudiziarie, non trovano mai risarcimento. Si è pure aperto uno
spazio per i garantisti: che lanciano l’anatema contro il «po-
pulismo giudiziario»82. Poco ci s’interroga nella sfera pubblica
sulle cause sociali dei fenomeni degenerativi, sugli incentivi e
sui vincoli che li producono. La conclusione, come osservava
ai tempi suoi Edmund Burke, è che quando le accuse sono
generalizzate e se ne abusa, ricadono sulle istituzioni e servono
a screditarle83. È l’obiettivo che qualcuno intenzionalmente si
prefigge.

82
  P. Blokker e O. Mazzoleni, Judicial Populism: The Rule of the People
against the Rule of Law, in «Partecipazione e conflitto», 3, XIII, 2020, pp.
1411-1416. Nello stesso numero Idd., In the Name of Sovereignty. Right-Wing
Populism and the Power of the Judiciary in Western Europe, pp. 1417-1432.
Ma il populismo giudiziario, alimentato dai media, non è un’esclusiva dei
partiti populisti.
83
  Scrive più precisamente Burke: «L’idea della corruzione indiscriminata
della Camera dei Comuni indurrà alla fine un disgusto per i parlamenti.
Sono gli stessi corruttori che fanno circolare questa accusa generale di cor-
ruzione. Sono loro che hanno interesse a confondere tutte le distinzioni e
a coinvolgere tutto in un’unica accusa generale». Cfr. E. Burke, Letter to a
Member of the Bell-Club, Bristol, 1777, ora in H.J. Laski (a cura di), Letters
of Edmund Burke A Selection, Edited with an Introduction, Oxford, Oxford
University Press, 1920, p. 215.

273
L’indignazione moralista è coerente con lo stile agonistico
gradito ai media. E trae nuovo alimento dall’opportunità offerta
a chicchessia dai social di esprimere pubblicamente le proprie
opinioni. Secondo Wendy Brown l’incessante ripetizione dell’ac-
cusa d’immoralità rivolta alla politica, da più parti, ma anche
dalla politica stessa, dissimulerebbe la rinuncia a prospettare
un mondo preferibile all’attuale. Questo è il mondo, col suo
bagaglio inevitabile di disuguaglianze, violenze, ingiustizie, pri-
vilegi. Forse per questo da un lato si pretende che la politica,
se non altro, sia morale, mentre, dal lato opposto, la moralità è
il massimo che essa promette. Nell’additare la rinuncia, Brown
polemizza in special modo con le forze politiche di sinistra, che
avrebbero abdicato le loro promesse di giustizia, uguaglianza,
emancipazione e redistribuzione, per dedicarsi a quella forma
di politica low cost che è l’antipolitica84. È anche un proble-
ma quando il moralismo spaccia formule democraticamente
incerte come il direttismo, la disintermediazione, il governo
dei tecnici e la compressione del regime rappresentativo quali
garanzie di moralità.
Alla denuncia dei misfatti dei politici85 si oppone infine il
racconto edificante del cittadino smanioso di partecipare, di
ovviare in prima persona ai vizi della politica, e quello della
società che vuol rappresentarsi da sé, pronta ad affrancarsi dai
partiti. Fa da accompagnamento la domanda pressante, veico-
lata dai media, di personale politico giovane, anticonformista,
dotato di leadership e di visione, estraneo agli intrighi della
politica convenzionale, espressione della società civile o delle
imprese. Fecondo come sempre di neologismi, Giovanni Sartori
l’ha battezzato «novitismo»86. Era una denuncia della stretta
parentela tra i cliché della pubblicità commerciale e quelli del
marketing politico. Ironica, ma sconsolata.

84
  W. Brown, La politica fuori dalla storia, cit. Cfr. anche V. Mete, Anti-
politica. Protagonisti e forme di un’ostilità diffusa, Bologna, Il Mulino, 2022.
85
  Sulle strumentali esagerazioni di tale denuncia cfr. M. Flinders, Defending
Politics. Why Democracy Matters in the Twenty-First Century, Oxford, Oxford
University Press, 2012. Si veda anche Id., The Demonisation of Politicians:
Moral Panics, Folk Devils and MPs’ Expenses, in «Contemporary Politics»,
1, XVIII, 2012, pp. 1-17.
86
  G. Sartori, Democrazia. Cosa è, Milano, Rizzoli, 1993, p. 263.

274
7. La Grande dispersione

La rottura dell’equilibrio di poteri del dopoguerra e il de-


clino del capitalismo industriale, col suo sogno di sviluppo e
prosperità senza limiti, hanno lasciato prevalere una nuova idea
di ordine sociale e di giustizia. Si è trattato, sia chiaro, di una
difficile partita di potere e non di una manovra politica lineare.
Ex post si usa spesso attribuire al cambiamento una regia, che
è facile imputare ai suoi beneficiari. È possibile che qualcuno,
inizialmente, l’abbia concepito come un disegno high modernist,
nei termini di James C. Scott87. Nella pratica si sono accavallate
una pluralità di manovre, di misure di policy, d’idee elaborate
da intellettuali, esperti, centri di ricerca, think-tanks, vittorie e
sconfitte elettorali, moti di resistenza e conflitti d’ogni sorta.
Attori e coalizioni di attori eterogenei e in concorrenza hanno
adottato strategie e tattiche non coordinate, secondo le circo-
stanze, e hanno adoperato armi diverse. Archiviare il regime
di governo maturato a metà del XX secolo, è stata un’impresa
complicatissima ed è tuttora in corso di svolgimento.
Non è stata la fine dello Stato, ma di un dato modo di
fare lo Stato, che ha dovuto reinventarsi e ibridarsi altrimenti
con altre istituzioni di governo e di risoluzione dei conflitti.
Sottomettendosi a un grandioso processo di dispersione, ester-
nalizzazione, privatizzazione e anche spoliticizzazione della
propria autorità, che è defluita in più direzioni, di cui quattro
appaiono più importanti: lateralmente, la più scontata, verso il
mercato; verticalmente, verso l’alto, in direzione delle istituzioni
sovranazionali; verso il basso, a profitto delle istituzioni di
governo subnazionali; di nuovo verso il basso, cioè verso la
società civile88.
Del deflusso e della nuova ibridazione con il mercato si è
già detto, ma qualcosa resta ancora da precisare. Distinguendo
due aspetti: il primo è la dispersione dello stesso mercato, il
quale è disperso di per sé, ma può esserlo in modi e misure

87
  J.C. Scott, Seeing Like a State: How Certain Schemes to Improve the
Human Condition Have Failed, New Haven, Yale University Press, 1998.
88
  Il ragionamento che segue è una rielaborazione di quello svolto in A.
Mastropaolo, F. Roncarolo e R. Sciarrone, Processi di convergenza e diver-
genza politica nelle democrazie avanzate, in C. Trigilia (a cura di), Modelli di
capitalismo e tipi di democrazia, Bologna, Il Mulino, 2021.

275
diversi. Fino agli anni ’60 il capitalismo è stato «organizzato»89
dalla grande industria manifatturiera, dai rapporti associativi
e collaborativi tra le imprese e dai sindacati, nonché dalla sua
particolare ibridazione con lo Stato interventista. Nell’insieme:
la proprietà azionaria delle imprese era stabile, la fabbrica for-
dista raggruppava e stabilizzava un’ampia quota della manodo-
pera – in media in Europa gli addetti all’industria superavano
un terzo degli occupati – le condizioni salariali tendevano a
omologarsi, i consumi di massa erano standardizzati ed erano
anch’essi uno strumento in fin dei conti d’integrazione sociale.
I diritti, individuali e collettivi, riconosciuti ai lavoratori costi-
tuivano un avvio di demercificazione del lavoro.
La formula opposta, quella del capitalismo «disorganizzato»,
semplifica anch’essa, ma evidenzia il contrasto90. La disorga-
nizzazione non è accidentale, né frutto di derive irrazionali.
Corrisponde a nuovi conflitti e a nuove e fortissime relazioni
di potere. Ne è risultato per il mercato un assetto assai più
policentrico e fluido che in precedenza. Ma si sono comunque
istituite nuove gerarchie, dove primeggiano le grandi istituzioni
finanziarie, i grandi fondi d’investimento, le banche, le agenzie
di rating, che dietro le apparenze del disordine nascondono
parecchia intenzionalità. Il capitalismo del nuovo millennio è
più differenziato e più instabile, ignora i confini tra gli Stati e
ancor più ne piega le regole. Anche quando alleati, gli addetti
al capitalismo sono sempre stati divisi da profondi contrasti. Al
momento la sua divisione principale è tra capitalismo finanziario
e speculativo e capitalismo industriale e produttivo.
Rinnovato il modo di fare il mercato, il capitale è diventato
«impaziente» e le imprese stesse sono un bene da scambiare
liberamente. Pertanto, le loro performances non si misurano
più in fatturato, vendite, investimenti, innovazione, dividendi,
occupazione, ma in capitalizzazione borsistica, andamento

89
  S. Lash e J. Urry, The End of Organized Capitalism, Cambridge, Pol-
ity, 1988.
90
 C. Offe, Disorganized Capitalism: Contemporary Transformations of
Work and Politics, Cambridge, MIT Press, 1985. Una descrizione dettagliata
delle modalità di dispersione e disorganizzazione del mercato, seppure cir-
coscritta a un solo paese, che tuttora mantiene la reputazione di un paese
ben organizzato, in W. Streeck, Re-Forming Capitalism. Institutional Change
in the German Political Economy, Oxford, Oxford University Press, 2009.

276
delle quotazioni, relazioni trimestrali, attenzioni dei grandi
investitori istituzionali91. Qual è il loro orizzonte temporale?
Quanto le imprese si soffermano a valutare gli effetti di lungo
termine delle loro scelte? Quale affezione hanno per i loro
dipendenti e quanta ne richiedono e ne ottengono? Il massimo
della provvisorietà lo raggiunge il «capitalismo delle piattafor-
me», dominato dal cambiamento tecnologico, dall’informatica,
dall’intelligenza artificiale.
È dispersione anche avere rimosso ogni limite ai movimenti
di capitali, merci e servizi. Le imprese possono liberamente
decidere dove collocare il proprio quartier generale, la sede
legale, la domiciliazione fiscale, su quale mercato borsistico
quotarsi, dove svolgere le attività di ricerca, di progettazione,
di marketing e quelle produttive. Usano mettere solitamente
le autorità pubbliche nazionali e subnazionali in concorrenza
tra loro, in ragione delle condizioni che offrono. Rispetto alla
produzione e ai consumi di massa del fordismo, le aziende
hanno, inoltre, puntato a individualizzare i comportamenti di
consumo, facendone opportunità di distinzione. Per questa, e
altre ragioni, l’organizzazione produttiva è stata rivista all’in-
segna delle flessibilità, che ha coinvolto tempi e condizioni di
lavoro, mansioni, figure contrattuali, retribuzioni. Le grandi
imprese sono divenute assemblaggi di servizi e attività pronti
a essere esternalizzati ed eventualmente messi sul mercato.
Parlare di lavoro operaio non evoca più la fabbrica fordi-
sta, con le sue produzioni in grandi serie, le sue migliaia di
tute blu e colletti bianchi, spesso affezionati all’azienda, che
cercava a modo suo di gratificarli. È problematico perfino
stabilire chi siano gli operai: le statistiche classificano così gli
autisti, gli addetti alle manutenzioni, alla logistica, alle pulizie.
In uno spazio ancora più incerto si collocano gli addetti alla
ristorazione, al turismo, alla cura della persona. Sempre più
i lavoratori dipendenti sono vincolati alle prestazioni anziché
alle mansioni. Mentre la quota di lavoratori a termine, precari,
intermittenti, part time, on demand, giù fino alla cosiddetta gig
economy, governata dagli algoritmi, pare sfiori un quarto degli

91
 Fondamentali considerazioni sulla rimercificazione del lavoro in A.
Supiot, La sovranità del limite. Giustizia, lavoro e ambiente nell’orizzonte
della mondializzazione, Milano, Mimesis, 2021.

277
occupati92. Infine, lo Stato ha rimercificato la condizione giu-
ridica del lavoro, «decorporativizzando» le relazioni industria-
li93. Ne hanno risentito i sindacati e perfino l’associazionismo
imprenditoriale.
Il secondo aspetto dello slittamento verso il mercato consiste
nella privatizzazione d’interi comparti in precedenza sottopo-
sti all’autorità pubblica. Dopo la Grande crisi, lo Stato aveva
salvato il mercato capitalistico promuovendo investimenti e
consumi, pubblici e privati, e nazionalizzando alcune imprese.
Ebbene, una delle repliche al decadimento industriale è con-
sistita nel restituire ai privati non solo le imprese pubbliche
che erano state nazionalizzate, ma anche alcuni servizi pubblici
essenziali. Sono stati così ceduti al mercato istruzione, sanità,
pensioni, sicurezza, trasporti, carceri, difesa, giustizia, energia:
l’elenco potrebbe continuare. Gli stessi spazi urbani sono a
disposizione ben più degli investitori che degli abitanti. Il
capitalismo finanziario ha pure ottenuto la privatizzazione e
liberalizzazione dell’attività creditizia, in precedenza condotta
da banche pubbliche, o controllate dallo Stato, tenendo ben
separate l’attività d’investimento dalla raccolta del risparmio.
Ma quello verso il mercato non è che uno dei grandi mo-
vimenti dispersivi e di re-ibridazione dello Stato. Un secondo
movimento è avvenuto in favore delle autorità sovranazionali94.
Si era avviato già dal dopoguerra. La promessa preminente era
la pace: l’indebolimento della sovranità territoriale degli Stati
avrebbe consentito l’istituzione di un regime di governo e di
mediazione pacifica d’interessi e conflitti di rango superiore
e dunque più efficace. La promessa non è stata mantenuta,
ma le istituzioni sovranazionali si sono via via moltiplicate e
hanno esteso le loro competenze. Si sono moltiplicate anche le

92
 G. Standing, The Precariat, cit., p. 24. Pur riconoscendo come il
precariato sia a volte volontario e inteso come una liberazione dal lavoro, il
racconto di Standing è a dir poco inquietante.
93
 È una tendenza che non risparmia nemmeno i paesi con più solide
tradizioni neocorporative. Cfr. S.A. Rothstein e T. Schulze-Cleven, Germany
After the Social Democratic Century: The Political Economy of Imbalance, in
«German Politics», 3, XXIX, 2020, pp. 297-318 e P. Munk Christiansen,
Still the Corporatist Darlings?, in P. Nedergaard e A. Wivel (a cura di), The
Routledge Handbook of Scandinavian Politics, Abingdon, Routledge, 2018.
94
 A. Caffarena, Le organizzazioni internazionali, Bologna, Il Mulino,
2009.

278
istituzioni private, in concorrenza o a complemento di quelle
pubbliche95. Il market turn e la globalizzazione hanno fatto da
acceleratore: si occupano di scambi commerciali, di sostegno
allo sviluppo, di soccorso agli Stati in difficoltà, di protezione
e valorizzazione del patrimonio culturale, di tutela di sanità
e ambiente, di lotta al crimine e alla corruzione. Vi sono isti-
tuzioni giudiziarie e arbitrali e anche alleanze militari. Tutte
impongono limiti allo Stato: in materia di diritti, di debito
pubblico, di good governance e altro ancora.
L’alienazione – ufficiale – di sovranità di gran lunga più
impegnativa, e il tentativo di collaborazione più stringente, ha
coinvolto i paesi europei, facendo da modello ad altre, assai
meno riuscite, cooperazioni regionali. Dagli anni ’80 sono ser-
vite a riscrivere le relazioni tra Stato e mercato e ad accelerare
la disdetta dei contratti sociali stilati nel secondo dopoguerra.
L’Unione ha adottato norme vincolanti in fatto di politica com-
merciale, industriale, fiscale, ambientale, regionale, ma anche
demografica e da ultimo monetaria. La formula dello «Stato
membro» sostituisce efficacemente quella dello Stato nazione
per rappresentare l’ibridazione, ormai quasi inestricabile, con
le istituzioni europee e gli altri Stati membri96. Evitando lo
sviluppo di una qualche forma di sovranità comune, si è co-
munque costituito un nuovo regime di governo, insieme a una
trama transnazionale di contese per il potere. La difficoltà di
conciliare le esigenze di paesi molto eterogenei è stata motivo
per adottare uno stile fondamentalmente apolitico, tecnocratico,
burocratico, elevando almeno dagli anni ’80 il libero mercato a
principio unificante e legittimante del governo comunitario97.

95
  M.R. Ferrarese, Poteri nuovi. Privati, penetranti, opachi, Bologna, Il
Mulino, 2022.
96
 C.J. Bickerton, European Integration. From Nation-States to Member
States, Oxford, Oxford University Press, 2012. Può dare un’idea del grado
di interpenetrazione tra Stati membri e Unione europea uno dei documenti
preparatori dell’European Union (Withdrawal) Act 2018, per regolare la fuo-
ruscita del Regno Unito: circa 8.000 leggi avrebbero dovuto essere convertire
in leggi nazionali, insieme a 12.000 regolamenti europei, mentre più o meno
il 15 per cento degli atti del Parlamento avrebbero dovuto esser emendati
(da The Guardian, 30 marzo 2017).
97
  N. Jabko, Playing the Market. A Political Strategy for Uniting Europe,
1985-2005, Ithaca-London, Cornell University Press, 2006. Per una guida
S. Cassese, From the Nation State to the Global Polity, in D. King e P. Le

279
Quanta democrazia ne è scaturita? Stando a Fritz Scharpf va
intesa come government for the people anziché come government
of the people98. Sono gli addetti alle istituzioni europee a co-
noscere e stabilire dall’alto cosa convenga all’Unione e ai suoi
cittadini99.
Secondo Perry Anderson, il deficit democratico è origina-
rio100. Un indirizzo spiccatamente pro-market si è radicato fin
dall’inizio, in particolare, entro l’Alta Corte di giustizia, che
si sarebbe subito imposta quale suprema autorità normativa,
ancor più che giurisdizionale, collocata al vertice di un sistema
che ha attribuito straordinaria centralità, in contrasto con la
politica, proprio all’azione dei giuristi101. Un’altra istituzione
sovrastante, introdotta più di recente, e indipendente secondo
il modello invalso da tempo per le banche centrali, è la Ban-
ca centrale europea. L’applicazione alquanto eterodossa dei
principi democratici contrassegna comunque tutto il regime di
governo dell’Unione. Il Consiglio dei ministri, che è l’istituzio-
ne politica di rango più elevato, adotta le sue decisioni senza
che alcuna istituzione elettiva nazionale, né l’Europarlamento,
siano in grado di farle opposizione. La Commissione, che ha
potere d’iniziativa legislativa e una considerevole capacità re-
golamentare, svolge la sua attività con stile rigorosamente non
partisan, in gran parte attraverso le sue direzioni generali: le
quali interagiscono e negoziano con gli stakeholders, gli interessi
organizzati, la società civile, i sindacati, le autorità regionali e
locali, i policy networks e le lobbies, attivissime presso gli uffici
di Bruxelles102. Quanto all’Europarlamento, è bensì titolato a

Galès, (a cura di), Reconfiguring European States in Crisis, Oxford, Oxford


University Press, 2017.
98
  F. Scharpf, Governare l’Europa. Legittimità democratica ed efficacia delle
politiche dell’Unione Europea, Bologna, Il Mulino, 1999.
99
  Per alcuni osservatori, simili formule edulcorano un vistoso deficit de-
mocratico: cfr. A. Vauchez, Démocratiser l’Europe, Paris, Seuil, 2014. Ma c’è
chi la pensa diversamente. Cfr. A. Moravcsik, Le mythe du déficit démocratique
européen, in «Raisons politiques», 2, X, 2003, pp. 87-105.
100
  P. Anderson, Ever Closer Union? Europe in the West, London, Verso,
2021.
101
  Ivi. Sul ruolo dei giuristi e degli avvocati si veda la ricerca di A. Vauchez,
Brokering Europe. Euro-Lawyers and the Making of a Transnational Polity,
Cambridge, Cambridge University Press, 2015.
102
  H. Kriesi, S. Adam e M. Jochum, Comparative Analysis of Policy Net-
works in Western Europe, in «Journal of European Public Policy», 3, XIII,

280
pronunciarsi sulle norme approvate della Commissione, sul
bilancio comunitario e su altre decisioni di rilievo, ma non
dispone di capacità legislativa e fiscale e si contenta di svol-
gere tramite le sue commissioni, un’attività di consultazione e
audizione importante, ma non risolutiva.
L’Unione corrisponde al modello dello Stato «regolatore»103,
che suggerisce anche agli Stati membri. Ciò non ha impedito
alla politica europea di costituire una sfera a sé, dove si è se-
dimentata una considerevole produzione d’idee, competenze,
professionalità e si è rappresa un’élite amministrativa e tecnica,
identificata con le istituzioni comunitarie. Per quanto di diversa
estrazione nazionale, gli addetti all’Unione sono divenuti una
fazione, tanto interessata a promuovere il processo di unifica-
zione, quanto a sottrarre potere agli Stati-membri, tramite la
produzione di regole104.
Siamo così al terzo moto di deflusso e d’ibridazione: verso
le istituzioni subnazionali. Di per sé, non è originale. Malgrado
la pretesa di esercitare un’autorità omogenea su tutto il suo
territorio, l’azione dello Stato è sempre stata irregolare. Il
decentramento e l’autogoverno locale sono una tecnica – di-
fensiva e utilizzata in dosi variabili – per contenere e sfruttare
l’irregolarità, spesso dotata di un significato democratico. Dagli
anni ’60 si sono risvegliate le «nazioni senza Stato»: in Scozia,
Catalogna, Paesi Baschi, Fiandre e altrove105. Concorrendo a
suscitare pretese delle fazioni politiche locali anche dove simili
precedenti mancavano. Finché dagli anni ’80 la devolution non
è entrata nell’armamentario dei critici dello Stato106. Il New

2006. Su questa operazione di ridefinizione, e sulla sua portata politica, cfr.


P. Aldrin e N. Hubé, From Democracy by Proxy to a Stakeholder Democracy.
The Changing Faces of an EU Founding Value, in F. Foret e O. Calligaro (a
cura di), European Values: Challenges and Opportunities for EU Governance,
London, Routledge, 2018. Secondo P. Anderson, Ever Closer Union? Europe
in the West, cit., a Bruxelles c’è più del doppio di lobbisti registrati che a
Washington.
103
  A. La Spina e G. Majone, Lo Stato regolatore, Bologna, Il Mulino, 2000.
104
  Ancora C.J. Bickerton, European Integration, cit.; D. Georgakakis e
J. Rowell (a cura di), The Field of Eurocracy. Mapping EU Actors and Profes-
sionals, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2013.
105
  M.J. Keating, Plurinational Democracy: Stateless Nations in a Post-
Sovereignty Era, Oxford, Oxford University Press, 2001. 
106
  In particolare, M.J. Keating, Rescaling the European State. The Mak-
ing of Territory and the Rise of the Meso, Oxford, Oxford University Press,

281
Federalism americano le ha attribuito un valore eminentemente
fiscale. Per rivestirlo di paramenti più nobili, si è detto che il
decentramento avrebbe ravvicinato i governanti ai governati:
avrebbe consentito a questi ultimi d’influenzare direttamente
l’operato del governo, di vigilare intorno all’impiego della spesa
pubblica, e ai governanti di commisurare più puntualmente i
servizi alle esigenze dei cittadini. L’autogoverno, con corredo
d’identità territoriale, avrebbe altresì compensato l’erosione di
quella nazionale. Ma la devolution è stata introdotta più spesso
come mezzo per ridurre la spesa. Conferiti alcuni servizi alle
autorità locali, a esse spetta decidere se sfidare l’impopolarità,
aumentando la pressione tributaria per mantenerli, o ridurli,
o ancora privatizzarli.
Una parte molto attiva nella dispersione verso il basso
l’hanno svolta gli addetti al capitalismo. Le imprese hanno
sempre abitato il territorio come meglio loro conveniva: in
funzione d’infrastrutture, risorse energetiche, materie prime,
disponibilità di manodopera e altri fattori. Dopo essersi tro-
vate per due secoli più a loro agio col mercato nazionale, che
alimentava la domanda e offriva una molteplicità di servizi, le
imprese accolgono il decentramento con favore. Mette le au-
torità pubbliche in concorrenza e le rende più condiscendenti
nei loro riguardi.
Ma è soprattutto cambiata la prospettiva. Per secoli l’am-
bizione dello Stato è stata riequilibrare e ricomporre le asim-
metrie territoriali: mediante la lingua, l’istruzione obbligatoria,
il servizio di leva. Era una tecnica di dominio. La nazione era
pensata come uno spazio unitario e a tutti i cittadini, almeno
in linea di principio, erano attribuiti uguali diritti, uguali do-
veri e uguali servizi. Il culmine è stato raggiunto nella stagione
dell’intervento pubblico. Le aree in ritardo erano aiutate a
svilupparsi; quelle più avanzate andavano decongestionate. Lo
Stato regolatore ha molto semplicemente mercificato i territori:

2013. Ma pure The Territorial State, in D. King e P. Le Galès (a cura di),


Reconfiguring European States in Crisis, cit. Dello stesso autore The Inven-
tion of Regions: Political Restructuring and Territorial Government in Western
Europe, in N. Brenner, B. Jessop, M. Jones e G. MacLeod (a cura di), State/
Space. A Reader, Chichester, Wiley, 2003. Inoltre: L. Hooghe, G. Marks e
A.H. Schakel, The Rise of Regional Authority. A Comparative Study of 42
Democracies, London, Routledge, 2010.

282
ha legittimato le disuguaglianze tra loro e ha consentito che i
servizi pubblici dipendessero dalle possibilità finanziarie delle
istituzioni locali107. I territori sono stati messi in concorrenza in
ragione della loro struttura produttiva, delle loro risorse naturali,
delle capacità delle loro dirigenze politiche e amministrative,
dei loro imprenditori, delle scuole, delle università e dei centri
di ricerca, nonché del capitale sociale e dello spirito d’inizia-
tiva dei loro abitanti. È compito specifico delle autorità locali
negoziare con i privati e attrarre investimenti offrendo norme
compiacenti, infrastrutture e servizi, drenando competenze da
altri territori e disputandosi con successo le risorse finanziarie
messe in palio dallo Stato, dall’Unione europea, dai privati. Gli
elettori scontenti, si dice, non hanno che da sanzionare chi li
governa localmente. Per le regioni più prospere il soccorso
a quelle in difficoltà da obbligo di solidarietà – non sempre
disinteressato, peraltro – è divenuto un costo tra gli altri. L’U-
nione europea ha incoraggiato la regionalizzazione, per ridurre
l’influenza delle autorità statali, introducendo il principio,
alquanto nebuloso, di sussidiarietà e la tecnica di multi-level
governance108. A titolo di compenso alle regioni svantaggiate
sono state elargite le politiche di coesione, che tuttavia non
paiono risolutive per rimuovere disuguaglianze stridenti, che
spesso suscitano sollevazioni elettorali esplosive109.
Nella grande concorrenza tra regioni, città, territori, hanno
preso le distanze le global cities110, ove si concentrano le attività
di comando, finanziarie, creative, la ricerca avanzata. Connesse
dalle tecnologie digitali, le città globali sono rappresentate
come una rete saldata da un peculiare costume cosmopolita,
da una lingua franca, che è l’inglese, e da ogni sorta d’inter-
dipendenze. Negoziano spazi di governo riservati. Di qui a

107
  M.J. Keating, Rescaling the European State, cit. e The Territorial State, cit.
108
  S. Piattoni, Multi-level Governance: A Historical and Conceptual Analysis,
in «Journal of European Integration», 2, XI, 2009, pp. 163-180.
109
  A. Rodríguez-Pose, The Revenge of the Places That Don’t Matter (and
What to Do About It), in «Cambridge Journal of Regions, Economy and So-
ciety», 1, XI, 2018, pp. 189-209; G. Viesti, Centri e periferie. Europa, Italia,
Mezzogiorno dal XX al XXI secolo, Roma-Bari, Laterza, 2021. In realtà, la ribel-
lione elettorale ha portata ben più ampia. È sotto gli occhi di tutti il contrasto
di comportamenti elettorali tra i centri urbani grandi e medi e la provincia.
110
 S. Sassen, Cities in a World Economy, New York, Safe, 2018. Cfr.
anche T. Iversen e D. Soskice, Democracy and Prosperity, cit., pp. 276-277.

283
farne attori politici in concorrenza con lo Stato tuttavia ce ne
corre. Più che un singolo attore, le città sono fasci di attori,
non necessariamente coordinati tra loro. È più convincente
l’idea che quando le città sono prospere, gli introiti fiscali sono
più elevati e più opportunità si offrono a chi le governa, che è
dunque più in grado di mobilitarsi per ottenere risorse dallo
Stato e anche per negoziare con le imprese. Talvolta le città
sono in grado di trainare anche l’hinterland e la regione in cui
sono collocate. Ma non è affatto detto che le élites urbane siano
compatte nel sostenere i loro progetti, né che siano in grado
di resistere alla concorrenza di altre istituzioni di governo. È
da vedere quali rapporti il governo cittadino riesca a stabilire
vuoi con lo Stato, vuoi col mercato. Se per talune imprese vi
sono sinergie convenienti, non è detto che valga per tutte.
Così come lo Stato, magari per calcoli politici, può mostrarsi
collaborativo, oppure ostile111.
Il quarto movimento di deflusso e dispersivo è quello che
ha reinventato la società civile. La formula è veneranda e ve-
nerata, ma i suoi significati sono cambiati più volte. Forme di
cooperazione autorganizzata e gratuita fuori dallo Stato e dal
mercato ve ne sono sempre state. Fondate sul disinteresse, la
reciprocità, l’altruismo, la generosità, la carità, la solidarietà,
il civismo, hanno costituito una quota di rilievo del governo
del sociale tramite il sociale. I movimenti collettivi degli anni
’70 hanno reinscritto nel lessico politico la società civile per
definire le forme di autorganizzazione cui avevano dato impul-
so112. All’inizio degli anni ’90, Robert D. Putnam ha coniato il
concetto di «capitale sociale» sottolineandone l’importanza113.
Non è un’esclusiva progressista. Tanto Reagan, quanto Thatcher
avevano già riesumato la filantropia delle classi superiori.
Nella seconda metà degli anni ’90 è stato il New Labour a
fare della società civile uno dei suoi strumenti114. Ma il Partito

111
  G. Pinson, Voracious Cities and Obstructing States?, in S. Oosterlynck,
L. Beeckmans, D. Bassens, B. Derudder e B. Segaert (a cura di), The City as
a Global Political Actor, London, Routledge, 2018.
112
  Di nuovo N. Bobbio, Società civile, cit., p. 1088.
113
  A dire il vero, non è stato lui l’inventore, ma ne ha fatto la fortuna.
Cfr. R.D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano, Mon-
dadori, 1993.
114
  Il teorico è ancora A. Giddens, The Third Way, cit., pp. 43-46.

284
conservatore ci riproverà con la Big Society di David Cameron
e dalla Shared Society di Theresa May. Nella prospettiva della
governance la società civile è ormai divenuta uno stakeholder
molto ascoltato dalle istituzioni rappresentative e di governo,
mentre le grandi organizzazioni internazionali l’hanno promossa
a prodotto d’esportazione verso il Global South e a certificato
indispensabile di dignità democratica.
L’immagine della società civile è appunto quella di un
deposito di moralità e di relazioni solidali sottratto al mer-
cato, agli opportunismi elettorali, ai pregiudizi ideologici, ai
corporativismi sindacali, all’impersonalità burocratica, e uni-
versalistica, del welfare115. La presidiano una galassia d’attività
associative e una folla di operatori disinteressati e altruisti che
vi trovavano un’opportunità tanto di partecipazione sostitutiva
di quella offerta dai partiti, quanto di colmare i vuoti lasciati
dal welfare in ritirata. La società civile, e la costellazione d’i-
stituzioni via via classificate come terzo settore, privato sociale,
non profit, volontariato, servono a soccorrere i poveri, gli am-
malati, gli anziani, i minori in difficoltà, i disabili, i migranti,
gli ex-carcerati, le vittime del racket. Le agenzie di advocacy
svolgono un’azione benemerita nella protezione dei diritti. Se
non che, col supporto anche finanziario dello Stato regolatore,
la società civile è stata riconvertita in fornitrice sostituitiva di
servizi, spesso appaltati a seguito di procedure competitive, in
partenariato con imprese for profit e anche sottomessi ai criteri
del New Public Management, ovvero: previsioni, valutazioni
d’impatto, calcoli costi/benefici, rankings, benchmark, audit
e quant’altro.
Hanno dato un impulso le imprese e la finanza, che hanno
ritenuto conveniente reinvestire nelle charities una quota dei
loro profitti, non solo per migliorare la propria reputazione.
In cambio di vantaggi fiscali, di agevolazioni normative, di ri-
sorse finanziarie, di visibilità mediatica, il «filantrocapitalismo»
ha invaso la società civile e ne ha indossato i paramenti116.

115
  Su questa immagine idealizzata N. Rose, Powers of Freedom. Reframing
Political Though, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, pp. 167-196.
116
  P. Arrigoni, L. Bifulco e D. Caselli, Perché e come studiare la filantropia,
in «Quaderni di Sociologia», 82, LXIV, 2020, pp. 3-23. In America il dibattito
è molto animato: cfr. ad esempio T. Skocpol, Why Political Scientists Should
Study Organized Philanthropy, in «Political Science and Politics», 3, XLIX,

285
Così allarga e stringe i cordoni della borsa, detta l’agenda e
le iniziative da promuovere, i modelli d’azione da applicare,
sollecita la maturazione di competenze specifiche, prescrive
capacità imprenditoriali, o ciò che viene chiamato social entre-
preneurship. Pronto a sostenere le attività caritative tradizio-
nali, il social housing, la ricerca, il restauro e la valorizzazione
dei beni culturali, il capitalismo filantropico si è assicurato
un’opportunità aggiuntiva e prioritaria d’intervento nel policy
making. Il welfare, figlio del contratto sociale del dopoguerra,
era una responsabilità collettiva. La sua attuazione sarà pure
stata imperfetta, ma era sottoposta al governo democratico e
alla discussione pubblica. Si è sviluppata al suo posto un’altra
forma d’ibridazione, che ha aperto altro spazio ai privati e agli
interessi imprenditoriali117.

8. Altre dispersioni

Le dispersioni che hanno investito l’autorità statale non si


contano. Si è dispersa, lo si è visto, pure la rappresentanza:
politica, affidata ai partiti, e prepolitica, condotta dai gruppi
d’interesse, dai sindacati, dai movimenti. Era un rischio, alla
luce dei fenomeni di frammentazione e dispersione sociale e
culturale che hanno caratterizzato tutte le società avanzate, e
non è stato evitato. Dove la dispersione, anche se in dimen-
sioni ben più ridotte, da sempre è una tecnica di governo. Si
governa omologando e standardizzando, ma si governa pure
disperdendo.
Può divenire una forma di dispersione finanche la politica
dei diritti fondamentali, che pure nutre l’ambizione di
ravvicinare e rendere uguali tra loro gli esseri umani addirittura

2016, pp. 433-436. Ma non manca però nemmeno qualcuno che tessa gli elogi
della filantropia dei ricchi: cfr. Z.J. Acs, Why Philanthropy Matters: How the
Wealthy Give, and What It Means for Our Economic Well-Being, Princeton,
Princeton University Press, 2013.
117
  A. Eikenberry e D. Kluver, The Marketization of the Nonprofit Sector:
Civil Society at Risk?, in «Public Administration Review», 2, LXIV, 2004,
pp. 32-40. Con qualche serio attentato alla virtuosità della società civile: cfr.
G. Moro, Contro il Non profit, Roma-Bari, Laterza, 2014. Sulla mutazione
del welfare indotta dalle varie forme di commistioni col privato si rinvia a O.
De Leonardis, In un diverso welfare. Sogni e incubi, Milano, Feltrinelli, 1998.

286
su scala universale. Lasciamo da canto la questione, serissima,
dell’universalità, che è ampiamente contestata118. Consideriamo
piuttosto come i diritti sono vissuti. La consacrazione solenne
contenuta nel termine svolge un’importante azione performativa,
che non basta però a inverarli. I diritti si possono definire,
ridefinire, reinterpretare, applicare selettivamente, disapplicare,
senza necessariamente revocarli. La distinzione tra diritti che
costano, come i diritti sociali, e diritti che non costano, tra cui,
guarda caso spiccano i diritti di proprietà, è un argomento di
cui i decisori politici si valgono119. La loro implementazione
tramite l’azione amministrativa e la loro protezione affidata al
potere giudiziario non sono motivi di certezza120. L’una e l’altra
non sono insensibili alle preferenze politiche dei loro addetti,
alle circostanze sociali e politiche, al clima d’opinione del
momento. Il potere legislativo ha sempre spazi per intervenire.
Ha conseguenze anche il declino delle istituzioni che avevano
rivendicato alcuni diritti. Conta infine come i loro titolari li
vivono: trattarli come prerogative individuali, per nessun motivo
comprimibili, nel nome della soggettività di ciascuno, o di
qualche gruppo particolare, è diverso dall’esercitarli alla luce del
principio della responsabilità reciproca. I diritti rischiano perfino
di diventare un’arma politica regressiva: la polemica contro i
vaccini insorta al tempo del Covid ne ha fornito una prova.
Un modo per vanificare i diritti è anche contrapporli tra
loro. Una grave forma di dispersione si cela dietro la questione
delle «differenze» e della loro tutela. Da un lato vi è il diritto di
ciascuno alla propria individualità: dunque il contrasto doveroso
alle discriminazioni, a cominciare da quelle che colpiscono la

118
  R. Romanelli, Nelle mani del popolo. Le fragili fondamenta della politica
moderna, Roma, Donzelli, 2021, pp. 195-218.
119
 I diritti in realtà costano sempre. Cfr. S. Holmes e C.R. Sunstein,
Il costo dei diritti. Perché la libertà dipende dalle tasse (1999), Bologna, Il
Mulino, 2000.
120
 Una ricognizione sulla problematica effettività dei diritti in P.-Y.
Baudot e A. Revillard (a cura di), L’État des droits. Politique des droits et
pratiques des institutions, Paris, Presses de SciencesPo, 2015, in particolare
Introduction. Une sociologie de l’état par les droits dei curatori del volume,
pp. 11-58. Un’indagine sull’applicazione del diritto al lavoro in C. Bec, De
l’État social à l’État des droits de l’homme?, Rennes, Presses universitaires
de Rennes, 2007. È in generale fondamentale S. Rodotà, Il diritto di avere
diritti, Roma-Bari, Laterza, 2014.

287
popolazione femminile e le minoranze: sessuali, etniche, lingui-
stiche che siano. Concentrata sulle disuguaglianze socioeconomi-
che, l’azione dello Stato sociale era parecchio manchevole. Dal
lato opposto, l’azione di governo ha messo sovente la lotta alle
discriminazioni in rotta di collisione con l’uguaglianza e con la
tutela dei diritti sociali. È stata la mossa politica compiuta da
quello che Nancy Fraser ha chiamato il progressive neoliberalism,
inaugurato da Bill Clinton121 e condivisa dalle socialdemocrazie
europee. Non sarà forse perché contrastare le discriminazioni
di genere ed etnoculturali è meno costoso che non contrastare
le disuguaglianze sociali? Secondo Axel Honneth, invece, con-
flitti identitari e conflitti redistributivi sono tutti conflitti per il
«riconoscimento»122. Da unificare e non da separare.
Eppure: se la dispersione dell’autorità pubblica si è spinta
tanto in profondità, la partita di potere intorno alla governabilità
ha anche provocato un contromovimento, volto ad accorciare,
sveltire, rendere più pronta ed efficace la catena di comando
dell’autorità. L’abbiamo già menzionata come presidenzializza-
zione123, intesa a ridurre i tempi della discussione, del negoziato,
del compromesso, per affidare l’esercizio di quella quota di
autorità statale di competenza delle autorità elettive a un leader
incoronato dagli elettori. Di fronte alla sfida della complessità,
già un quarto di secolo fa Danilo Zolo aveva ritenuto inevitabile
l’involuzione oligarchica dei regimi democratici e addirittura
l’avvento, grazie ai media, di un «principato multimediale»124.

121
  N. Fraser, Il vecchio muore e il nuovo non può nascere. Dal neoliberalismo
progressista a Trump e oltre, Verona, Ombrecorte, 2019. Il caso dell’ammini-
strazione Clinton è esemplare. Da un lato si è predicata l’uguaglianza della
popolazione afroamericana, dall’altro è proseguita la politica di aggravamento
delle misure repressive verso forme di criminalità che sono più diffuse tra
quella popolazione. È il fenomeno di mass incarceration. Cfr. L. Wacquant,
Punishing the Poor. The Neoliberal Government of Social Insecurity, Durham,
Duke University Press Books, 2009.
122
 Quella di A. Honneth è una delle più penetranti critiche della di-
spersione di cui disponiamo. Oltre a A. Honneth, Riconoscimento. Storia di
un’idea europea, Milano, Feltrinelli, 2004, cfr. la raccolta di saggi curata da M.
Solinas, Capitalismo e riconoscimento, Firenze, Firenze University Press, 2010.
123
  T. Poguntke e P. Webb (a cura di), The Presidentialization of Politics.
A Comparative Study of Modern Democracies, Oxford, Oxford University
Press, 2005.
124
  D. Zolo, Il principato democratico. Per una teoria realistica della demo-
crazia, Milano, Feltrinelli, 1992, pp. 135-175.

288
La redistribuzione dell’autorità dello Stato dal parlamento
verso l’esecutivo non manca, tuttavia, d’incontrare ostacoli in-
gombranti. A dispetto della diffusa insofferenza verso la politica
partisan e della sua perdita di legittimità, la sottomissione dei
partiti e del parlamento non è affatto scontata e le loro resi-
stenze possono costituire un intralcio piuttosto efficace. Non
sempre i partiti sono coesi, né le loro proiezioni parlamentari
sono sempre sottomesse all’esecutivo. Si prova ad aggirare il
problema dissociando la politics dal policy-making. Una cosa è
la politica dichiarata, in cui i conflitti hanno preso l’abitudine
di aggravarsi, un’altra sono i negoziati e i compromessi che si
stipulano dietro le quinte, sottratti soprattutto allo sguardo dei
media. Non è tanto politica occulta, quanto un’ardua necessità.
Restano comunque altri ostacoli, come quelli opposti dall’ordine
giudiziario e dalle corti costituzionali125, dalle banche centrali e
dalla pletora d’istituzioni definite «indipendenti»126: authorities
regolative127, comitati di «saggi», agenzie specializzate, commis-
sari e garanti d’ogni sorta, affidati a figure definite «tecniche»,
ovviamente non immuni da preferenze politiche, che esercitano
un ruolo indiretto di governo tutt’altro che secondario. Non
si tratta di vincoli insormontabili, anche perché le istituzioni
elettive mantengono un potere di nomina. Ma la portata del
contromovimento promosso intorno all’esecutivo ne risulta
comunque ridimensionata128.
125
  Qualche ostacolo l’oppone quella che è stata definita la «giuridifica-
zione»: L.C. Blichner e A. Molander, in Mapping Juridification, in «European
Law Journal», 14, pp. 36-54, 2008, distinguono cinque dimensioni. La mol-
tiplicazione delle norme costituzionali; l’espansione e diversificazione della
legislazione; la tendenza a risolvere sempre più i conflitti tramite il diritto;
la crescita del potere giudiziario; la propensione degli individui e dei gruppi
a considerarsi secondo una prospettiva giuridica.
126
 B. François e A. Vauchez (a cura di),  Politique de l’indépendance.
Formes et usages contemporains d’une technologie de gouvernement, Villeneuve
d’Ascq, Presses universitaires du Septentrion, 2020.
127
  F. Vibert, The Rise of the Unelected. Democracy and the New Separation
of Powers, Cambridge, Cambridge University Press, 2007; F. Gilardi, Delegation
in the Regulatory State: Independent Regulatory Agencies in Western Europe,
Cheltenham, Edward Elgar, 2008. Offre una giustificazione democratica alle
authorities, e ad altre istituzioni indipendenti, come antidoti alle strumentalizza-
zioni plebiscitarie della democrazia, P. Rosanvallon, La legittimità democratica.
Imparzialità, riflessività, prossimità, Torino, Rosenberg & Sellier, 2015.
128
  Tratta molto efficacemente tutti questi temi Y. Papadopoulos, Democracy
in Crisis? Politics, Governance and Policy, London, Palgrave MacMillan, 2013.

289
Nella Grande dispersione c’è però anche un aspetto parados-
sale: i vigorosi movimenti e il più tenue contromovimento in cui
si articola corrispondono a una spinta possente a omologare le
tecniche di governo, se non altro fra le democrazie occidentali.
È anche questa una partita di potere, di durata lunghissima. Ed
è un aspetto, è inutile nasconderlo, dell’egemonia americana
sull’Occidente manifestatasi dall’indomani del secondo conflitto
mondiale. Ristabilita la pace, insieme all’Unione Sovietica, gli
Stati Uniti erano il maggior protagonista della nuova società
internazionale, incline, per comprensibili ragioni, a vigilare su
ciò che accadeva fuori dai propri confini. La partita non è stata
esclusivamente militare. Gli Stati Uniti sono stati un partner
fondamentale delle economie europee e un formidabile punto
di riferimento culturale: cinema, letteratura, musica, costume.
Entro l’imponente lavorio di contaminazione che plasma il
pianeta da secoli129, anche le tecniche di governo americane
sono state oggetto di una potente azione promozionale130.
L’Europa aveva importato il New Deal. Tolto il Regno Unito,
che ha fatto da sé, ha importato anche la svolta pro-market e
la Grande dispersione.
Negli anni ’40-’50 a promuovere tale importazione hanno
contribuito le scienze sociali e gli specialisti accademici dello
sviluppo, economico e politico131. A fine millennio sono inter-
venute le grandi società di consulenza, che hanno dato un con-
tributo all’omologazione promossa anche dalle tecno-burocrazie
di Bruxelles. È un’omologazione, quest’ultima, che Wolfgang
Streeck suggerisce d’interpretare come un’altra partita di po-
tere: intesa a stabilire una nuova divisione del lavoro su scala
continentale, tra paesi dell’Europa centrosettentrionale e paesi
dell’Europa meridionale132. Non è stata una congiura. Ottime
ragioni dettano le scelte compromissorie adottate dall’Unione, le
quali però sono state sempre effettuate alla luce delle strategie
di autodifesa degli Stati-membri, riconducibili a molte varia-

129
  È da segnalare la riflessione di J.-F. Bayart, L’énergie de l’État. Pour
une sociologie historique et comparée du politique, Paris, La Découverte, 2022. 
130
  Sui costumi, cfr. V. de Grazia, Irresistible Empire. America’s Advance
Through Twentieth-Century in Europe, Cambridge-London, The Belknap
Press of Harvard University Press, 2005.
131
  N. Gilman, Mandarins of the Future, cit.
132
  W. Streeck, Tempo guadagnato, cit.

290
bili tra cui le condizioni, economiche o politiche, di ciascuno
Stato, la capacità d’insediarsi entro le istituzioni comunitarie,
l’abilità negoziale. In mancanza di un forte potere costituente,
la filosofia dell’omologazione, più che della cooperazione, per
alcuni è un rischio, per altri un’opportunità.
I compromessi tra strategie di autodifesa hanno imposto
le medesime regole – tra cui quelle riguardanti la libera con-
correnza e l’unione monetaria – a paesi che avevano vissuto
esperienze storiche divergenti, nonché in condizioni politiche,
economiche, sociali diversissime. In Italia, per limitarsi a un solo
esempio, da un lato la contesa politica nazionale ha proposto
l’Europa come un’opportunità irrinunciabile di rimediare a
secolari ritardi e di definitiva modernizzazione, dall’altro le
tappe più impegnative sono state compiute nella sua stagione
politicamente più incerta dal dopoguerra, in termini di difficoltà
economiche e anche politiche. Fatto sta che i paesi dell’Europa
centrosettentrionale sono riusciti a difendere, in gran parte, il
loro sistema industriale, magari delocalizzando le produzioni
meno redditizie nei paesi di nuova ammissione dell’Europa ex-
socialista, e i paesi dell’Europa mediterranea hanno aggravato
le loro asimmetrie territoriali interne.
Da tempo prevale la teoria secondo cui solo formazioni
politiche più ampie di quelle nazionali siano in grado di resi-
stere adeguatamente alla competizione globale, che non è solo
economica, ma, come stanno rammentando gli eventi in corso,
anche militare, o, come si usa dire, geopolitica. È possibile che
un giorno o l’altro anche questa teoria sia rivista. Per intanto,
alla luce della sua applicazione, posto che l’Unione europea è
diventata un’imprescindibile unità di analisi da cui considerare
l’azione di governo, resta da vedere quanto e come entro i
vecchi confini nazionali l’omologazione all’insegna del market
turn e della Grande dispersione abbia attecchito.
Con molta approssimazione: se un tratto condiviso dagli
Stati membri è la dissoluzione di alcune delle grandi concen-
trazioni di potere che avevano negoziato il contratto sociale
implicito del dopoguerra, cioè i grandi partiti popolari, il
mondo del lavoro organizzato e le burocrazie pubbliche,
il cambiamento ha assunto tutt’altre fattezze entro ciascun
paese. I mercati nazionali si sono aperti, ma sono rimasti di-
versi, così come la dialettica tra le forze politiche, quella tra

291
istituzioni di governo nazionali e decentrate, la dislocazione
degli interessi, il regime proprietario delle imprese, lo stato
del sistema industriale, il ruolo dei sindacati, i divari terri-
toriali. Capita ogni volta si trapiantino regole e istituzioni: il
regime rappresentativo raccontato da Montesquieu alla luce
dell’esperienza inglese non si è realizzato da nessuna parte,
forse nemmeno in Gran Bretagna. Le riforme ispirate o im-
poste dall’Unione europea si sono ibridate con le situazioni
nazionali, e, così, pure i movimenti che hanno caratterizzato la
Grande dispersione dell’autorità pubblica: non è da escludere
che se per un verso c’è stata effettivamente dispersione, per
un altro si sia realizzata comunque un’accettabile divisione del
lavoro tra livelli e istituzioni di governo. Molto dipende anche
dall’azione delle élites, politiche, imprenditoriali, intellettuali,
ma non solamente da esse.
Confrontare nei dettagli i regimi di governo, le miscele
tra tecniche di rappresentanza, governo e di risoluzione dei
conflitti prodotte dalla Grande dispersione sarebbe tema di
tutto un programma di ricerca, anche molto impegnativo133.
Ci concederemo perciò solo una domanda, cui non daremo
risposta. C’erano altre possibilità di affrontare la ritirata – par-
ziale – dal capitalismo manifatturiero? A prendere almeno
un po’ sul serio le avvisaglie del cambiamento, forse entro il
vecchio ordine erano ancora disponibili risorse di potere e di
legittimazione utili ad apprestare altre difese. La crescita non
è tutto e le capacità tecnologiche avrebbero potuto essere
usate per concertare una ritirata socialmente meno ingiusta
e politicamente meno problematica, promuovendo i consumi
pubblici anziché quelli privati, riducendo gli orari di lavoro,
redistribuendo l’occupazione, contenendo sprechi e trappole
del welfare, tutelando le minoranze, salvaguardando l’ambiente,
sperimentando nuove e più egualitarie forme di coordinamento
e cooperazione tra gli umani, disseminando più qualità della
vita e meno guerre. Oltre che rinunciando ad abbandonare al
mercato il trattamento dei rapporti tra i paesi più fortunati e
il Global South. Anche la sfida – nient’affatto secondaria – del
pluralismo ridondante si sarebbe potuta alleviare elevando la

133
  Ma è già utile leggere C. Trigilia, Modelli di capitalismo e tipi di de-
mocrazia, cit.

292
competenza dei cittadini e potenziando le capacità di mediazio-
ne dei regimi democratici. Ha preso il sopravvento l’indirizzo
opposto, che ha polarizzato la contesa politica e acuito le di-
suguaglianze. La coincidenza con il risveglio del nazionalismo
identitario è un motivo di riflessione134.

9. Alla ricerca del populismo

È coincidenza o retroazione? È una delle domande che


suscita l’avanzata dagli anni ’80 del Novecento di una nuova
generazione di partiti, denominati «populisti». Come si è detto
nel capitolo precedente, alcuni sono unicamente il riciclaggio
di antichi partiti di destra estrema. Altri sono il restyling di
partiti più moderati, e altri ancora sono di nuova formazione.
Tutti avanzano claims di rappresentanza eccentrici rispetto a
quella dei partiti established. Non senza sollevare qualche serio
problema di classificazione. Perché mai chiamarli populisti
quando si sono ben guardati dall’autodefinirsi in questo modo?
Perché l’impiego della categoria di destra estrema, radicale,
fascista, postfascista o nazionalista, è stato sopraffatto da quella
di populismo?135
La parentela col fascismo i diretti interessati l’hanno solita-
mente negata e hanno qualche ragione: non è facile confrontare
un fenomeno tuttora in sviluppo con un altro, storicamente
compiuto, di grandissima ampiezza, che è stato movimento,

134
 In fondo, qualche tentativo di prevenire c’è stato. Basti pensare al
Rapporto sui limiti dello sviluppo del 1972 commissionato dal Club di Roma
e al Rapporto Nord/Sud prodotto dalla Commissione Brandt. Entrambi, per
ragioni diverse, molto discussi. Molto discutibili anche a mezzo secolo di
distanza, comunque, molto poco ascoltati.
135
  A dire il vero, c’è chi ancora li denomina destra estrema. Ad esempio,
P. Ignazi, L’estrema destra in Europa, Bologna, Il Mulino, 1994; H. Kitschelt
e A.J. McGann, The Radical Right in Western Europe: A Comparative Analy-
sis, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1995; M. Schain, A. Zolberg
e P. Hossay (a cura di), Shadows over Europe: The Development and Impact
of the Extreme Right in Western Europe, New York, Palgrave Macmillan,
2002. Qualcuno accoppia le due etichette: T. Akkerman, S.L. de Lange e
M. Rooduijn, Radical Right-Wing Populist Parties in Western Europe. Into
the Mainstream?, London, Routledge, 2016. Mentre Cas Mudde, che è tra
gli studiosi più noti del fenomeno, ha infine preferito The Far Right Today,
Cambridge, Polity, 2019.

293
partito, ideologia e addirittura regime. Fascismo e nazismo
sono apparsi in tutt’altre circostanze storiche: all’indomani
di un’esplosione smisurata di violenza, che aveva, tra l’altro
consentito una straordinaria diffusione di competenze militari.
Entrambi sono giunti al potere costituendo milizie private, che
hanno aggredito gli avversari politici e preso d’assalto lo Stato,
ottenendo la connivenza dell’esercito, delle forze dell’ordine,
delle burocrazie pubbliche, degli ambienti imprenditoriali.
Incomparabili con quelle attuali sono anche le condizioni
economiche e politiche. Non è in corso nulla di simile alla
Rivoluzione d’Ottobre, nessuna sinistra rivoluzionaria insidia i
regimi democratici e il movimento operaio è divenuto un reperto.
Infine, al momento, le destre denominate populiste rispettano
le regole, sono a loro agio tra le liturgie elettorali e, a loro dire,
non mettono per nulla in discussione le libertà fondamentali.
Ciò malgrado, qualche affinità si ripropone non appena si getti
lo sguardo al linguaggio, allo stile e all’offerta di rappresentanza.
A cominciare dal fondamentalismo democratico, che i cosiddetti
populismi predicano: le forme della democrazia pluralista sono
rispettate, salvo darne una reinterpretazione plebiscitaria. È aperta
l’insofferenza verso la divisione dei poteri, lo Stato di diritto, i
diritti delle minoranze e verso i congegni di salvaguardia che il
costituzionalismo ha predisposto contro gli abusi della sovranità
popolare e del principio di maggioranza136. È vero, la retorica e
lo stile dei populisti potrebbero anche essere effetti indotti dai
media, e non tratti politici intrinseci137. Ma il loro è pur sempre
un linguaggio oltremodo brutale, contro avversari e dissenzienti,
refrattario a ogni riflessione e argomentazione elaborata: pre-
dilige la disinformazione, i complotti, le intimidazioni. Rivolti
contro un largo assortimento di nemici: la politica established, la
burocrazia, l’expertise, il fisco, le istituzioni europee, i sindacati,
il femminismo, gli omosessuali, i rom, i migranti, gli islamici.

136
 Osservando le esperienze della Polonia e dell’Ungheria, P. Blokker
traccia il profilo di un costituzionalismo populista. In Europa occidentale
quando i populisti sono arrivati al potere hanno incontrato molti ostacoli.
Ma qualche parentela si scorge: cfr. P. Blokker, Populism As a Constitutional
Project, in «International Journal of Constitutional Law», 2, XVII, 2019, pp.
536-553. Più in generale, cfr. N. Urbinati, Io, il popolo: come il populismo
trasforma la democrazia, Bologna, Il Mulino, 2020.
137
 Cfr. nota 70, Cap. III.

294
Dove l’asino casca davvero è però quando pronuncia il nome
del popolo. In democrazia, lo sappiamo, la parola è impiegata
con larghezza. Solo che quello della destra estrema non è il
popolo demos, ma dichiaratamente un popolo ethnos138, unito
dalla storia, dalla religione, dai costumi, dal colore della pel-
le. Non fosse depresso, infelice e vittimista, sarebbe lo stesso
popolo della tradizione fascista. Sono vaghe, infatti, le tracce
della comunità di destino, dell’orgoglio da razza superiore,
degli antichi disegni di potenza. Sono tramontati gli spazi vitali,
il culto della forza e della guerra. È pure venuta a mancare
la nazione in armi, pronta al sacrificio. Dietro termini come
«sovranismo» e «nativismo»139, si cela un nazionalismo di se-
cond’ordine, fatto di presunti valori tradizionali, di offese ai
migranti, di abborracciate riscritture della storia patria, di riti
funerari ed evocazioni folcloristiche.
Il fascismo idealizzava lo Stato, gli sottometteva l’individuo
e proclamava la superiorità della politica sull’economia. Tra
Stato e mercato la destra estrema non ha dubbi. Promette
un po’ di attivismo statale in più, ma nient’altro. Il fascismo
era per le gerarchie militaresche. Le disuguaglianze suscitate
dal mercato sono per il populismo una tecnica di governo.
Lo Stato per esso è fatto di misure poliziesche, stabilimenti
carcerari, respingimenti alle frontiere. Il fascismo si voleva
inoltre rivoluzionario e attingeva talvolta alla cultura della
sinistra. Nell’arte, in architettura, nell’urbanistica, nel culto
della tecnica era moderno. Nella destra populista non c’è molta
cultura, ma solo qualche elogio nostalgico di quando eravamo
tra noi, e di formule malinconiche come «prima gli italiani», les
français d’abord, America first, taking back control. Eppure, una
certa aria di famiglia si avverte140, peraltro in consonanza con
altri fenomeni regressivi da ultimo comparsi ben oltre i confini

138
  Non senza fare torto al concetto di etnia: U. Fabietti, L’identità etnica,
Roma, Carocci, 1998.
139
  Sul sovranismo si veda il numero dedicato al tema da «Parole chiave»,
3, 2020. Sul nativismo H.-G. Betz, Facets of Nativism: A Heuristic Exploration,
in «Patterns of Prejudice», 2, LIII, 2019, pp. 111-135.
140
  Da ultimi, A. Mondon e A. Winter, Reactionary Democracy How Rac-
ism and the Populist Far Right Became Mainstream, London, Verso, 2020;
C. Vercelli, Neofascismo in grigio. La destra radicale tra l’Italia e l’Europa,
Torino, Einaudi, 2021.

295
occidentali141: non solo in America latina, dove il nazionalismo
ha lunghissime radici, ma perfino in India e in Giappone. La
globalizzazione ha accelerato anche la circolazione delle idee e
le idee sanno acclimatarsi anche in condizioni molto eteroge-
nee. Il nazionalismo viaggia ormai da un secolo e mezzo e, in
tempi d’incertezze, di frammentazioni, di divisioni, di difficoltà
a governare, la riscoperta dell’identità nazionale è una ricetta
che si presta molto a farvi fronte.
Ma restiamo alle esperienze occidentali. Diversamente dai
partiti liberali, socialisti, confessionali, che annunciano fin dal
nome la famiglia politica cui sono affiliati, le destre populiste
usano molte denominazioni diverse. Sono, si è detto, i loro os-
servatori e concorrenti che le hanno chiamate in questo modo.
Per quale ragione? Categorie e classificazioni non sono mai
innocenti. Come mai è invalsa l’etichetta di populismo che per
più di un secolo aveva indicato fenomeni quanto mai eterogenei
e che, come ha mostrato Margaret Canovan, sfuggono a ogni
troppo precisa definizione?142 La domanda non è peregrina,
perché anche l’impiego di un termine a prima vista innocuo,
o non troppo scomodo, potrebbe esser stato tra i motivi del
successo dei partiti cosiddetti populisti.
Le vicissitudini del termine sono iniziate da più di un secolo
e mezzo143, grazie a un movimento politico e intellettuale che in
Russia, superata la metà del XIX secolo, mitizzava la comunità
contadina e la opponeva alla modernità di provenienza europea.
Lenin ne fece oggetto di una dura polemica tacciandolo di scarso
realismo e contrapponendogli il marxismo144. Le vicissitudini
sono proseguite non molto dopo tra i contadini del Midwest

141
  È l’ipotesi avanzata nel libro di F. Finchelstein, Dai fascismi ai popu-
lismi. Storia, politica e demagogia nel mondo attuale, Roma, Donzelli, 2019.
142
  Canovan distingue due ceppi principali – i populismi «agrari» classici
e i populismi «politici» – l’uno suddiviso in tre tipi, l’altro in quattro, acco-
munati dalla retorica multiuso del popolo contro l’élite. Cfr. M. Canovan,
Populism, New York, Harcourt Brace, 1981.
143
 Oltre a Canovan le hanno ricostruite D. Palano, L’invenzione del
populismo. Note per la genealogia di un concetto paranoico, in «Storia del
pensiero politico», 2, 2019, pp. 273-295; A. Jäger, The Semantic Drift: Images
of Populism in Post-War American Historiography and Their Relevance for
(European) Political Science, in «Constellations», 3, XXIV, 2017, pp. 310-327.
144
  V.I. Lenin, Che cosa sono gli «Amici del popolo» e come lottano contro
i socialdemocratici? (1894), Roma, Editori riuniti, 1972.

296
e gli abitanti della provincia americana: dove il populismo ha
designato un movimento vivacemente avverso alle corpora-
tions e alle élites politiche in carica. Favorevole alla fiscalità
progressiva, alla nazionalizzazione delle ferrovie, all’intervento
governativo nella vita economica, il movimento col nuovo secolo
si è esaurito, pur lasciando molti residui confluiti per lo più nel
Partito democratico145. Finché, sempre in America, da etichetta
politica, tra gli anni ’40 e ’50 del Novecento il populismo non
è diventato una categoria accademica, grazie ad alcuni storici e
scienziati sociali molto noti, come Richard Hofstadter, William
Kornhauser, Daniel Bell e Seymour M. Lipset146.
Questo gruppo di studiosi ha tacciato il populismo di
antimodernismo, antiintellettualismo, autoritarismo, plebisci-
tarismo, complottismo, antisemitismo: l’hanno ritenuto addi-
rittura una patologia regressiva e provinciale della democrazia
di massa. Reinterpretando le vicende più disparate, nel mazzo
populista venivano ricongiunte la democrazia jacksoniana, il
People’s Party, il New Deal e il maccartismo. Non solo: anche
il fascismo, il nazismo e – perché no? – il comunismo. Né più
generosamente erano trattati gli elettori: quale che fosse la loro
estrazione sociale, era il loro basso livello culturale a indurli ad
apprezzare le formule semplificanti e manichee dei populisti.
È il viatico – per la verità non sempre condiviso147 – che ha
sospinto l’etichetta a fare il giro del mondo, adoperata per
classificare i movimenti e regimi apparsi anzitutto in America
latina e poi in Africa e in Asia148 renitenti alle categorie occi-
dentali, quali il socialismo e la democrazia liberale, ma anche il

145
  Un’interpretazione simpatetica in L. Goodwyn, Democratic Promise.
The Populist Movement in America, New York, Oxford University Press, 1976.
146
  Cfr. per tutti, S.M. Lipset, Political Man, cit.
147
  Il pieno accoglimento del populismo nelle scienze sociali è stato molto
prudente: nell’Encyclopedia of the Social Sciences, diretta da E.R.A. Seligman,
New York, Macmillan, 1937, il lemma «Populism» si limitava a rinviare ai
lemmi Agrarian Movements e Russian Revolution. L’indice dell’International
Encyclopedia of the Social Sciences, diretta da R.K. Merton e D.J. Sills, New
York, Macmillan, 1968 non prevedeva nemmeno una voce dedicata al populi-
smo, ma rinviava al lemma Radicalism, ove al populismo sono dedicate poche
righe, che indicano come suoi tratti distintivi la fiducia nell’uomo comune,
che vive in prossimità con la natura, e i cui interessi sono in contrasto con
quelli delle oligarchie che detengono il potere.
148
  Un testo molto influente è quello di G. Ionescu e E. Gellner (a cura di),
Populism: Its Meaning and National Characteristics, New York, Macmillan, 1969.

297
fascismo, collocati in qualche punto intermedio tra arretratezza
e modernità, accomunati dalla retorica del popolo e guidati da
leaders capaci di suscitare grande favore popolare.
Di fronte a simili estensioni, Margaret Canovan ha provato
a troncare la disputa, rigettando ogni teoria generale. Non c’è
il populismo, ma una pluralità di fenomeni, difficili da compa-
rare, e semmai di sindromi, accomunate da una retorica vaga
e ambigua del popolo opposto alle élites149. Non è servito a
granché. Più o meno allo stesso momento Stuart Hall definiva
authoritarian populism il thatcherismo150. Ragionava sulla scia
di Ernesto Laclau, un intellettuale argentino, già prossimo al
peronismo di sinistra, il quale, forte della sua esperienza latino-
americana, considerava il populismo una categoria interpre-
tativa difficile da maneggiare, ma da sottrarre in ogni caso al
dilemma modernità/arretratezza e che poteva essere utilmente
adoperata per interpretare forme d’azione politica progressista
non riducibili neppure alla prospettiva classista della sinistra151.
Il populismo sarebbe un modo per conferire un significato al
contrasto universale tra il popolo e le élites. Poteva sfruttarla
la destra ma, dopotutto, anche la sinistra152.
Hall e Laclau erano intellettuali di spicco, ma radicali, colloca-
ti entro un orizzonte politico radicale, che ostacolava la diffusione
delle loro idee. E più probabile che l’applicazione dell’etichetta
di populismo agli outsiders di estrema destra entrati sul mercato
politico-elettorale tra gli anni ’70 e ’80 abbia un’altra origine153.
Ovvero, sia da attribuire a uno storico francese dell’antisemiti-
smo, Pierre-André Taguieff, il quale, nel 1984, definiva in questo
modo il Front national. Benché quest’ultimo non nascondesse la
sua parentela col neofascismo italiano e riproponesse temi tipici
della destra estrema quali l’antiparlamentarismo, l’ordine e la
sicurezza contro la criminalità diffusa, l’opposizione «al marxismo
e al liberalismo cosmopolita», nonché l’intolleranza xenofoba,

149
  M. Canovan, Populism, cit.
150
  S. Hall, The Great Moving Right Show, cit.
151
  E. Laclau, Politics and Ideology in Marxist Theory. Capitalism, Fascism,
Populism, London, NLB, 1977, p. 173.
152
 Per Canovan il populismo di Thatcher non era affatto una novità:
era una retorica piuttosto consueta per i conservatori opporre il popolo alle
Unions, cfr. Populism, cit., p. 215.
153
  È la tesi di A. Jäger, The Semantic Drift, cit.

298
Taguieff lo classificava come «nazional-populismo»154. La nuova
destra estrema avrebbe così trovato il suo nome.
Perché, però, l’etichetta ha attecchito? Forse perché serviva
a rendere meno indigesta l’irruzione. Riconoscere il ritorno
in grande stile della destra estrema, del nazionalismo e del
fascismo sarebbe stato un grave smacco per i regimi demo-
cratici. In fondo, per qualcuno, il difetto più grave stava nei
toni. Meglio dunque evitare uno stigma insormontabile. Non
si solleverà troppo scandalo, infatti, allorché qualche partito
established vorrà intrattenere con i cosiddetti populisti fruttuosi
commerci e stringere con essi qualche intesa di governo. Al
contempo, l’etichetta suggeriva un nuovo dualismo, di quelli che
la contesa politica, i mass media e, per altre ragioni, le scienze
sociali prediligono. Collassati i regimi comunisti, ecco da una
parte allineati i partiti established, normali, civili, razionali,
responsabili e naturaliter democratici, e, sul fronte opposto, gli
intrusi. Erano il nuovo altro in cui rispecchiarsi, ridefinendo
la propria identità: scomodo, ma non terribile.
Il bello è che, dopo aver dato un’etichetta ai nuovi outsid-
ers, c’è stata qualche difficoltà a precisarne il significato155. Il
populismo è di volta in volta definito uno stile, una strategia
comunicativa156, un’ideologia, benché «sottile»157, oppure l’altro
volto dei regimi democratici158 o una variante «illiberale» della
democrazia159. Quanto però è la parola che ha orientato le in-

154
  P.-A. Taguieff, Le populisme et la science politique, in «Vingtième-siècle.
Revue d’histoire», 56, 1997, pp. 4-33 e soprattutto in L’illusion populiste. De
l’archaïque au médiatique, Paris, Berg International, 2002.
155
  È meno secondario di quanto sembri. Il populismo è divenuto tema
di una quantità smisurata di programmi di ricerca, convegni, seminari, corsi
universitari, articoli su riviste specializzate, libri individuali e collettivi. Il
business è colossale. Ai numerosi handbooks di cui alla nota 70, cap. III, si
è infine aggiunta una rivista scientifica ad hoc : «Populism».
156
  Così la prudentissima M. Canovan, Populism, cit.
157
  C. Mudde, Populist Radical Right Parties in Europe, Cambridge, Cam-
bridge University Press, 2007. L’ideologia populista si fonderebbe sull’idea
dell’unità e omogeneità del popolo e sulla visione negativa delle élites.
158
  Y. Mény e Y. Surel (a cura di), Democracies and the Populist Challenge,
Basingstoke, Palgrave, 2003.
159
  C. Mudde e C. Rovira Kaltwasser, Populism: A Very Short Introduction,
Oxford-New York, NY, Oxford University Press, 2011. Di questa formulazione
si è notoriamente impadronito Viktor Orbàn, che, dopo la sua rielezione nel
2014, ha con orgoglio definito l’Ungheria uno «Stato illiberale».

299
terpretazioni, anche accademiche, del fenomeno? E quanto l’ha
condizionato? Nella contesa per la rappresentanza sono armi
anche le parole e le classificazioni, che pure producono effetti
di con-testo. È possibile che chi le subisce se ne appropri. Per
il risorto nazionalismo di destra è stata una fortuna scoprirsi
populista a sua insaputa. Non a caso, anziché respingere lo
stigma della propria alterità, l’ha indossata, istituendo fra l’al-
tro una coerenza sovranazionale, che ha sormontato la varietà
delle sue manifestazioni.
Il vero regalo ai cosiddetti populisti è stato, tuttavia, il rico-
noscimento della loro amicizia col popolo e con i ceti popolari
contenuto nel nome. Accompagnata dall’attenzione della sinistra
per i ceti medi istruiti e benestanti, quest’amicizia è divenuta
un testo già pronto all’uso per i partiti populisti. I quali nella
loro offerta di rappresentanza non parlano di disuguaglianza,
ingiustizia, sfruttamento, ma di freno all’immigrazione, di vincoli
burocratici da rimuovere, di tasse da ridurre, di parassiti da
punire. Quanto ai ceti popolari essi sono un mondo variegato.
In parte hanno preferito sempre i partiti di destra, mentre una
parte non è forse troppo grata per le misure che ultimamente
promettono loro i partiti socialisti: spesso classificate come assi-
stenziali, saranno sì utili a sopravvivere, ma sono un certificato
di fallimento e anche d’indegnità. Non c’è perciò da stupirsi,
posto che il partito attualmente preferito dalla working class è
l’astensione160, se i partiti populisti hanno ottenuto tra questi
ceti qualche significativo riscontro elettorale.
Senza, tuttavia, esagerare: se c’è un confine elettorale
permeabile è più quello tra l’elettorato dei partiti established
di destra e la destra estrema. Le parole d’ordine dei populisti
sono valori tradizionali, sicurezza, proprietà e identità. Fatti a
misura delle classi medie, come lo sono le promesse di sgravi
fiscali, deregulation, riduzione del costo della manodopera,
assenza di vincoli ambientali161. Anche i ceti abbienti possono
essere risentiti e intolleranti. Perché mai, d’altronde, l’estrema
destra populista prospera anche in paesi e regioni non certo
disagiati quali la Norvegia, la Svezia, le Fiandre, l’Austria, la

160
  D. Tuorto, Underprivileged Voters and Electoral Exclusion, cit.
161
  É. Agrikoliansky e A. Collovald, Mobilisations conservatrices: comment
les dominants contestent?, in «Politix», 2, XXVII, 2014.

300
Svizzera, l’Olanda, il Sud-Est della Francia, la Lombardia e il
Veneto, la Baviera? Sono i ceti benestanti che a Parigi hanno
votato Éric Zemmour, secondo candidato d’estrema destra alle
presidenziali francesi del 2022, così come è nei quartieri alti di
Madrid che Vox ha trovato il suo primo bacino elettorale di
qualche consistenza. Qualche varco verso il populismo sembra
esserci semmai con la sinistra radicale162.
Eppure, niente ha impedito di avere largo corso alla teoria
secondo cui l’audience privilegiata dei populisti sarebbero gli
sbandati dell’elettorato popolare. Le hanno dato veste accademi-
ca anche indagini di pregio sullo stato dei regimi rappresentativi
e democratici. Secondo una di esse, condotta da studiosi tra i
più autorevoli, il vento impetuoso della globalizzazione avrebbe
scompaginato la mappa delle fratture che avevano diviso le
società europee tracciata da Lipset e Rokkan. In particolare,
avrebbe «disallineato» l’antico cleavage tra capitale e lavoro e ne
avrebbe suscitato un’altro, eminentemente culturale, tra perdenti
e vincenti della globalizzazione163. Questi ultimi sarebbero gli
imprenditori e gli addetti ai settori aperti alla competizione
globale, i ceti istruiti e cosmopoliti, coloro che accettano senza
timore le sfide del cambiamento e sono virtuosamente portati a
vivere in un mondo più vasto. Li caratterizzano i grandi valori
universalistici e una prospettiva libertaria, di cui si farebbero
alfieri i partiti established. Viceversa, i losers, cioè gli strati operai
più arretrati, gli impiegati semi-qualificati, gli addetti ai servizi
alla persona, i piccoli commercianti, i ceti meno scolarizzati e
meno abbienti, i disoccupati, i lavoratori flessibili e precari, la
pensano in tutt’altro modo. Inadeguati al cambiamento, non
più trattenuti dai partiti socialisti, il loro conservatorismo con-
genito non troverebbe più freno e ne farebbe la clientela ideale
dei partiti populisti, che ne strumentalizzano le inquietudini:

162
 A. Krouwel, T. Bale e L. Tremlett, More or Less Vulnerable? Varia-
tion in the Extent to Which Mainstream Political Parties’ Voters Consider
Voting for Radical Right Populist Parties, in S. Bukow e U. Jun (a cura di),
Continuity and Change of Party Democracies in Europe, New York, Springer,
2020, pp. 169-201.
163
  Rivisitando la mappa dei cleavages redatta da S.M. Lipset e S. Rokkan,
cfr. il contributo di P. Beramendi, S. Häusermann, H. Kitschelt e H. Kriesi
(a cura di), The Politics of Advanced Capitalism, New York, Cambridge
University Press, 2015.

301
quelli di destra opponendo misure esclusive, intolleranti e au-
toritarie, quelli di sinistra – giacché, lo si è visto, ci sarebbero
anche quelli – vagheggiando il ritorno alle misure assistenziali
proprie dello Stato interventista.
Che il cleavage si sia disallineato è un’affermazione discuti-
bile. È semmai decaduto il suo sfruttamento politico. Il cleavage
tra capitale/lavoro c’è ancora, o ci sarebbe se non mancasse il
lavoro stabile e se qualche formazione politica si preoc­cupasse
di dar voce insieme al mondo del lavoro e del post-lavoro: ai
disoccupati, ai precari, ai lavoratori flessibili. È probabile che
alcuni segmenti di elettorato popolare siano stati disorientati
dal cambiamento. Ma se c’è scivolamento verso destra, per
di più limitato, cosa l’ha provocato? Gli istinti conservatori
e autoritari delle classi popolari sono un vecchio motivo per
la sociologia politica164. Riportarlo in auge serve soprattutto a
sgravare d’ogni responsabilità il market turn, le classi superiori,
le dirigenze politiche established e quelle dei partiti socialisti,
che, piuttosto che contrastare il destino toccato al loro seguito
elettorale, l’hanno abbandonato. La sfida era difficilissima. Ma
non ci hanno nemmeno provato.
Prendersela con i losers torna buono pure per condurre
un’altra manovra: ghettizzare come populiste le formazioni di
nuova sinistra, che vantano tutt’altra storia, professano tutt’altri
principi e proprio ai ceti popolari si rivolgono aggiornando
il lessico classista. Screditare i propri rivali, classificandoli in
maniera arbitraria, riesumare il vecchio motivo degli estremi
che si toccano, non è una mossa inconsueta nella contesa per la
rappresentanza. Ecco così, accatastati alla rinfusa, culturalmente
obsoleti e democraticamente inaffidabili, tanto i «nuovi barba-
ri» dell’estrema destra populista, quanto la sinistra démodée,
che si preoccupa dei ceti deboli ed è affezionata ai temi della
giustizia sociale e dell’uguaglianza165.
Non fosse che, per complicare le cose, qualche outsider di
sinistra si è lui stesso definito populista. Gli ha offerto legitti-
mazione teorica il succitato Ernesto Laclau, il quale, stabilitosi
164
  È la tesi del working-class authoritarianism di S.M. Lipset, Political Man,
cit., pp. 97-130. Per Lipset, vi sarebbero pulsioni autoritarie dappertutto,
tranne che tra le élites.
165
  G. Katsambekis e A. Kioupkiolis (a cura di), The Populist Radical Left
in Europe, Abingdon, Routledge, 2019.

302
in Gran Bretagna dagli anni ’80, ha approfondito il suo sforzo
di riabilitazione. Armato di letture gramsciane e schmittiane,
Laclau ha precisato la sua idea di populismo, come terapia,
anziché patologia, democratica166: nelle società globalizzate le
lotte per l’emancipazione avrebbero dovuto congedare le classi
sociali e avvalersi di nuove categorie: il popolo, appunto, e le
élites. Il populismo sarebbe una strategia discorsiva, che coincide
in realtà con la politica. Nella prospettiva costruttivista e «an-
tiessenzialista», da lui condivisa con Chantal Mouffe, il dilemma
tra popolo ed élites, tra dominanti e dominati, è ubiquo. Su di
esso occorre però allestire un’appropriata costruzione ideologica
e dunque un claim di rappresentanza, che additi un nemico
comune, ricomponendo i dominati, con i loro disparati motivi
di risentimento e le loro domande di giustizia: il popolo è un
«significante vuoto», da riempire di volta in volta.
Quella indicata da Laclau è una strategia divisiva, in
aperto contrasto con quella tecnocratica, che dà per superato
il conflitto, dei partiti socialisti, che ha anche trovato chi era
disposto ad applicarla: ovvero quel gruppo d’intellettuali spa-
gnoli che hanno fondato Podemos. Hanno persino intrecciato
legami con qualche populismo sudamericano, specie quello di
Chàvez, visto come opportunità di riscatto per quella regione
del globo. Alla sfida delle urne, Podemos ha in realtà proposto
ricette tratte dall’esperienza riformista della socialdemocrazia
postbellica, come hanno fatto i suoi imitatori: Tsipras, Corbyn
e Mélenchon. Niente a che vedere comunque con la destra
populista. La nuova sinistra non è mai intollerante e xenofoba,
ma eventualmente è eurocritica. È anche saldamente ancorata
ai principi della democrazia rappresentativa. Ne immagina
semmai un’estensione partecipativa, inclusiva, ugualitaria e
non torsioni plebiscitarie, cui è difficile anche ricondurre la
leadership personale che caratterizza alcune sue formazioni.
In conclusione: la mappa tracciata da Lipset e Rokkan di-
mostra ancora una buona capacità di tenuta. Sebbene qualche
correzione si possa pur sempre introdurla. Tra di esse, una in
special modo. Quando a metà anni ’60 l’avevano disegnata i suoi

166
  E. Laclau, La ragione populista (2005), Roma-Bari, Laterza, 2008. Di
C. Mouffe il contributo più recente è: Per un populismo di sinistra, Roma-
Bari, Laterza, 2018.

303
autori, l’avevano fatta à rebours: in funzione delle configurazio-
ni partitiche del momento, che avevano emarginato l’estrema
destra. Avevano, perciò, dimenticato come l’Illuminismo e la
Rivoluzione francese avessero scavato anch’essi un cleavage
e suscitato un viluppo di sentimenti e idee antiuniversalisti,
intolleranti, oscurantisti, autoritari, antipluralisti, antidemo-
cratici, antipolitici. I quali per due secoli hanno costituito i
pre-testi dell’azione di rappresentanza pre-politica e politica
di ambienti, circuiti, associazioni, formazioni politiche, anche
di respiro internazionale167. A coltivare il cleavage in questione
ha provveduto nel tempo una grande e persistente filiera poli-
tica, articolata tra mille obbedienze: elitiste e plebee, laiche e
religiose, eversive, legittimiste e plebiscitarie, qualcuna persino
compatibile col regime rappresentativo, antimoderne, ma anche
modernizzanti, reazionarie, rivoluzionarie, pro e anticapitaliste,
nazionaliste, organiciste, antisemite, antislamiche. Spesso anche
molto colte. Non sempre il passato è da archiviare e il nuovo è
da preferire: è da vedere in che modo.
Di questa filiera il fascismo è stato un episodio, che aveva
calato quei pre-testi in un nuovo stampo, quello della politica
di massa. È stato anche un’esperienza troppo ampia e invasi-
va perché la sua rovina ne cancellasse ogni traccia. I conti in
tutta Europa furono chiusi frettolosamente e in superficie. Ma
un discreto residuo di reti associative, organi di stampa, case
editrici, di militanti politici e anche d’intellettuali, è sopravvis-
suto ed è rimasto molto attivo. Si è talora manifestato anche
in modo drammatico, o si è dissimulato dietro le componenti
più conservatrici della destra established: in America, l’estrema
destra razzista non si è mai inabissata. Finché negli anni ’80
l’estremismo di destra non ha trovato in Europa le condizioni
per riaffiorare autonomamente.

167
  Una ricostruzione della genealogia intellettuale della destra estrema, che
le attribuisce un respiro addirittura planetario, in M. Varga e A. Buzogáni, The
Two Faces of the «Global Right»: Revolutionary Conservatives and National-
Conservatives, in «Critical Sociology», 6, XLVIII, 2021, pp. 1089-1107. I due
autori avanzano un’interessante distinzione tra due orientamenti in concorrenza:
l’uno più legato alla dimensione identitaria europea, l’altro apertamente nazional-
conservatore, concentrato sui temi della famiglia, della condizione femminile,
del genere. La dice lunga anche la convergenza tra le destre populiste occi-
dentali e quelle polacche e ungheresi, le cui posizioni sui temi della famiglia,
della condizione femminile, del genere sono inequivocabilmente reazionarie.

304
Il mutamento sociale e culturale dell’ultimo mezzo secolo,
tumultuoso a dir poco, ha fatto da fertilizzante. La nuova con-
dizione femminile, le famiglie omogenitoriali, i cambiamenti del
costume e delle norme sociali sono per gli elettori più anziani,
meno istruiti, più provinciali motivo più che comprensibile di
turbamento e di ansia168. Lo sono anche le migrazioni. L’insof-
ferenza verso l’estraneo non è un tratto della natura umana, ma,
allorquando sopraggiungono gli estranei, ormai regolarmente
fioriscono incomprensioni, diffidenze, paure. La sfida della
diversità e dell’integrazione è sempre ardua, specie quando la
diversità è eccitata come arma politica, quando si agita l’im-
magine di una invasione fuori controllo e quando i pubblici
poteri non ritengono d’investire per trattare in maniera adeguata
la questione. Dal canto loro, gli estranei tengono alla propria
storia, alla propria lingua, ai propri costumi: quanto più l’am-
biente è ostile, tanto più essi divengono armi di autodifesa169.
In queste condizioni le destre populiste, alfine interconnesse su
scala internazionale170, hanno avuto buon gioco a trasformare
il tema della disuguaglianza, tralasciato dai partiti established,
in questione identitaria.
Non è stato così difficile. Accantonando la retorica dei
losers, neanche i ceti più istruiti sono indenni dagli effetti di
spaesamento indotti dalla diversità culturale. Che le identità
nazionali siano un principio di coagulo durevole è molto dub-
bio. Nella grande frammentazione contemporanea consentono
più che altro di assemblare maggioranze elettorali risicate.
Ma è ciò che basta alle nuove destre per ritrovare un posto
nei quartieri alti del potere e per esercitare un’apprezzabile
influenza culturale. Quanto a ciò che esse sono: fasciste no,
perché fuori tempo, populiste abusive, nazionaliste per inerzia,
una possibilità è infine che siano la variante pop della tradi-
zione antilluminista, comunitaria, reazionaria, coerente con i

168
 Per Ronald Inglehart e Pippa Norris, che l’hanno studiata su scala
globale, l’involuzione conservatrice riguarda in prevalenza le generazioni
più anziane: cfr. R. Inglehart e P. Norris, Cultural Backlash: Trump Brexit
and Authoritarian Populism, New York, Cambridge University Press, 2019.
169
  A. Ciccozzi, Il rischio dei muri degli altri. Cirese, dislivelli di cultura e
rimossi antropologici, in «Dialoghi Mediterranei», n. 50, 2021.
170
  J.M. Ramos e P. Torres, The Right Transmission: Understanding Global
Diffusion of the Far-Right, in «Populism», 3, I, 2020, pp. 87-120.

305
tempi, i costumi e la politica mediatica. Naturalmente, qualora
riuscissero a dare consistenza al cleavage dimenticato, e magari
a intendersi – per ragioni di convenienza elettorale  – con le
destre established, il futuro dei regimi democratici prenderebbe
una piega parecchio inquietante.

306
POST SCRIPTUM
VERSO UNA DEMOCRAZIA ESCLUSIVA?

La storia della modernità occidentale è storia d’invenzioni,


anche di tecniche di dominio e di governo della vita collettiva.
Spiccano da un lato lo Stato-nazione, aggiornato dal regime
rappresentativo-democratico e dal welfare, dall’altra il mercato
capitalistico. Possiamo anche considerare Stato e mercato, nelle
loro diverse versioni, come gli ingranaggi di un meccanismo che
finora nessuno è riuscito a dissociare, sebbene inconvenienti,
tensioni, rotture, fallimenti non si contino. A maggior ragione
dacché si è prospettata la possibilità che lo Stato diventasse
democratico. L’ambivalenza è intrinseca e le prestazioni, per
chi voglia considerarle dal punto di vista dell’uguale dignità
degli esseri umani1, non sono mai state soddisfacenti. Fa in
compenso parte dell’ambivalenza quella che Norbert Elias
definisce la «riduzione dei differenziali di potere» tra gover-
nanti e governati e pure tra strati sociali2. Per nulla univoca e
lineare, e in una prospettiva plurisecolare, qualche riduzione
è avvenuta. Atteso che la riflessione di Elias è contenuta in
un libro dato alle stampe a fine anni ’60, che ne è però, dopo
circa mezzo secolo, dei differenziali di potere alla luce delle
ultime mutazioni delle società occidentali?
È possibile argomentare che la riduzione comunque prosegue
su scala planetaria: a danno dell’Occidente e a beneficio di altre
regioni del globo. Se nelle società occidentali le disuguaglianze
si sono considerevolmente aggravate, la globalizzazione avrebbe
portato benefici in molti paesi in precedenza esclusi dallo svilup-
po. Alcuni vi sono stati alfine inclusi e si sono registrati sensibili
miglioramenti, non egualitari, per tutta la popolazione. Molti

1
  Sempre che ci s’intenda su cosa sia.
2
 N. Elias, Che cos’è la sociologia?, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990,
pp. 74-76.

307
paesi, tuttavia, restano ancora esclusi. In ogni caso, una quota
mostruosa della ricchezza planetaria si è concentrata nelle mani
di una minoranza ristrettissima. Al contempo, se la marcia della
democrazia aveva preso un po’ di abbrivio tra i due millenni
anche fuori dall’Occidente, sembra al momento essersi interrotta.
Alcuni regimi, che si erano aperti al pluralismo, sono regrediti
all’autoritarismo, in altri persiste solo la patina della democrazia
elettorale, mentre nelle democrazie occidentali, dal market turn
in poi, è indubbio che i governanti prestino minor attenzione
alle attese e alle esigenze di gran parte dei governati. Non solo:
ma da queste parti l’arresto nella riduzione dei differenziali si
protrae da tanto tempo da far sospettare qualcosa di diverso
dalle tante restaurazioni che hanno contrastato in precedenza
la riduzione. Potrebbe essere iniziato un terzo ciclo, in cui gli
ingranaggi dello Stato e del mercato hanno preso a funzionare
all’incontrario e a incrementare i differenziali di potere.
Per misurare l’andamento dei differenziali l’indicatore più
ovvio sono le disuguaglianze economiche e sociali e quelle
politiche. Sulle prime la letteratura, dopo un lungo silenzio,
si è alfine arricchita di contributi di pregio3. Dopo tre decenni
di riduzione, dagli anni ’80 nei paesi occidentali le differenze
di patrimonio e di reddito si sono aggravate. Le funzioni, non
sappiamo quanto socialmente utili, di una minoranza d’individui
sono premiate smisuratamente, l’occupazione è diventata insta-
bile e il peggioramento delle condizioni di lavoro e retributive
è la norma. La mobilità discendente, che può essere lenta, ma
anche accelerata e drammatica, è un rischio frequente. Per
gli strati inferiori si sono in qualche caso ridotte le chances di
vita. Si sono anche allargate le asimmetrie territoriali e la pro-
venienza etnica è un altro motivo di disuguaglianza. Rispetto
a un passato non troppo remoto il processo è doppio: molti
arretrano, o sono in stallo, alcuni avanzano, ma non riducono
più di tanto la distanza da una minoranza di super-ricchi, che
in larga parte si riproduce per via ereditaria. Ad aggravare

3
  M. Franzini e M. Pianta, Disuguaglianze: Quante sono, come combatterle,
Roma-Bari, Laterza, 2016. Il contributo, anche mediaticamente più celebre,
è quello di T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Milano, Bompiani, 2013.
Cfr., anche per le implicazioni politiche che trae, M. Savage, The Return of
Inequality. Social Change and the Weight of the Past, Cambridge, Harvard
University Press, 2021.

308
le disuguaglianze socioeconomiche concorrono pure fattori
culturali e psicologici.
Dopo aver costituito per un secolo il principale pre-testo
dell’azione di rappresentanza, la disuguaglianza economica è
addirittura fuoruscita dall’agenda delle maggiori forze politiche.
Rinominata libera concorrenza, è divenuta una tecnica di do-
minio preferenziale e c’è voluta la catastrofica crisi finanziaria
del 2008 per riproporla nel dibattito pubblico, anche se non
altrettanto nell’azione di rappresentanza e di governo. In pa-
rallelo, ha ripreso a crescere il secondo differenziale di potere,
quello tra governanti e governati, che i regimi rappresentativi
e democratici avevano consentito di ridurre.
La manifestazione fondamentale di disuguaglianza politica
risiede nella sproporzionata capacità di farsi valere di cui di-
spongono alcuni individui, interessi, categorie e gruppi sociali.
Le élites economiche hanno sempre beneficiato di maggiori
opportunità di rappresentanza e di ascolto, da parte dell’esecu-
tivo, delle assemblee elettive, delle pubbliche amministrazioni
e di altri centri decisionali. Ma il fenomeno si è aggravato. È
un segno, dopotutto, anche questo: non solo ai ceti superiori
basta sostenere l’uno o l’altro candidato, o ingaggiare un’agenzia
di lobbying, o promuovere una campagna di stampa, ma pure
godono di un accesso preferenziale alle cariche pubbliche.
Al Congresso americano metà degli eletti sono milionari4. In
Europa i seggi nei parlamenti nazionali sono riservati a indi-
vidui altamente scolarizzati e con discreti livelli di reddito5.
A servizio di questi ceti sono anche le capacità persuasive dei
media, incrementate dall’evoluzione tecnologica.
La piena uguaglianza politica, foriera di maggiore ugua-
glianza sociale, era stata la grande promessa – ma per molti
conservatori era una minaccia – del suffragio universale. Filtrato
dalla rappresentanza politica, era congegnato in modo tale da
attutirne l’impatto. Nei regimi rappresentativi si era subito
consolidata la divisione del lavoro tra gli addetti professionali

4
  N. Carnes, The Cash Ceiling Why Only the Rich Run for Office and What
We Can Do about It, Princeton, Princeton University Press, 2018.
5
 Cfr. D. Gaxie e L. Godmer, Cultural Capital and Political Selection.
Educational Backgrounds of Parliamentarians, in H. Best e M. Cotta (a cura
di), Democratic Representation in Europe. Diversity, Change and Convergence,
Oxford, Oxford University Press, 2007, pp. 106-135.

309
alla politica e i cittadini comuni e i regimi democratici l’hanno
confermata. Ciò malgrado, la rappresentanza politica fidelizzata
consentiva in qualche misura la riduzione di questo secondo
differenziale. Rispettata per qualche decennio, la promessa del
suffragio è stata alfine smentita6.
Il voto non è un comportamento naturale e men che mai lo
è per i ceti meno istruiti e meno abbienti. Compensava l’azione
persuasiva e d’incitamento dei partiti. Alla loro evoluzione in
agenzie di marketing elettorale, e al loro rinnovamento program-
matico, ha corrisposto il declino della partecipazione al voto,
specie tra i ceti più deboli. Non meno diseguale è la partecipa-
zione associativa e ai movimenti di protesta7: anche quella che
si definisce spontanea richiede competenze – comunicative e
organizzative, ormai anche informatiche – che sono socialmente
distribuite in maniera molto diseguale. A loro volta, gli attivisti
dei movimenti trovano più agevolmente i propri interlocutori
tra i loro pari che non tra i ceti inferiori. Anche le istituzioni
partecipative di base coinvolgono maggiormente i ceti medi.
Sia pure imperfettamente, le disuguaglianze si cumulano. E si
cumulano anche le discriminazioni di genere e di razza.
Perché si erano ridotti i differenziali? La risposta della so-
ciologia di Elias rinvia al crescere delle interdipendenze tra gli
esseri umani promosso dal monopolio statale e dalla modernità:
a dettare i differenziali è il loro grado di dipendenza reciproca.
L’ipotesi che possiamo avanzare è che le élites abbiano trovato
il modo di affrancarsene. Un saggio premonitore, vecchio ormai
di un quarto di secolo, di Christopher Lasch era intitolato alla
loro ribellione8. Il fondamentalismo di mercato e le riforme
finalizzate a promuovere la governabilità hanno trasformato
la ribellione in secessione delle élites. Le élites contemporanee

6
  K.L. Schlozman, H.E. Brady e S. Verba, Unequal and Unrepresented.
Political Inequality and the Peoples Voice in the New Gilded Age, Princeton,
Princeton University Press, 2018. Per quanto dedicate agli Usa, molte conclu-
sioni sono applicabili anche all’Europa. Un’altra interessante ricerca americana
è quella di M. Gilens e B. Page, Testing Theories of American Politics: Elites
Interest Groups and Average Citizens, in «Perspectives on Politics», 3, XII,
2014, pp. 564-581.
7
  M. Quaranta, Political Protest in Western Europe. Exploring the Role of
Context in Political Action, Heidelberg-New York, Springer, 2015.
8
  C. Lash, La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, Milano,
Feltrinelli, 2001.

310
hanno la loro morale, la loro cultura, il loro linguaggio, il loro
sistema penale, sanitario, scolastico, fiscale, nonché luoghi riser-
vati e ben protetti in cui vivere. Le élites non sono compatte, i
loro confini sono slabbrati e tra loro imperversano concorrenza
e contrasti. Non tutti fra l’altro apprezzano senza riserve la
propria secessione. Dopo avere però subito per tre secoli le
pressioni dal basso, sembrano aver trovato la formula per non
arretrare più neanche quel tanto che basta a governare quelle
pressioni. L’iniziativa l’hanno presa le élites del mercato. E han-
no coinvolto nella secessione altri gruppi sociali, tra di essi le
élites della politica e le antiche contro-élites, cioè le leadership
dei partiti socialisti. E dire che le disuguaglianze, oltre a essere
un problema morale e motivo d’instabilità politica, elettorale e
sociale, sono un ostacolo alla crescita9.

* * *

Eppure: perché mai le vittime della disuguaglianza appa-


rentemente non si difendono? Perché, nonostante i differenziali
di potere abbiano ripreso a crescere di buona lena, nei paesi
avanzati il conflitto non si era mai svolto in maniera tanto
pacifica? Perché mai i diseguali fanno tanta fatica a trovare
portavoce nella contesa per la rappresentanza? Dov’è finito il
loro potenziale di resistenza e d’opposizione? Nei primi anni
’70 Habermas e Offe consideravano l’ibridazione tra Stato so-
ciale e mercato insuperabile, pena suscitare gravi problemi di
legittimazione. E invece lo Stato sociale è stato ridimensionato
seriamente senza proteste eccessive. Cos’è successo allora al
conflitto, tenuto conto che i motivi non gli mancano?
La prima risposta è che gli esseri umani hanno sempre
faticato a ribellarsi apertamente insieme ad altri. Tranne che
incontrino imprenditori politici che li incoraggino, ribellarsi col-
lettivamente è costoso e carico di rischi10. Preferiscono resistere
individualmente, o adattarsi, o piegare le norme, o profittare
delle situazioni. Molta parte dei conflitti sfugge perciò alla vista,
9
  M. Franzini e M. Pianta, Disuguaglianze: Quante sono, come combatterle,
cit., pp. 31-33; A. Bagnasco, La questione del ceto medio. Un racconto del
cambiamento sociale, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 50-51.
10
  B. Moore jr., Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta (1978), Mi-
lano, Comunità, 1983.

311
è una fortuna per chi detiene il potere. La seconda risposta è
che la Grande dispersione, la ridefinizione della statualità, gli
spazi di governo occupati dal mercato, l’importanza assunta
dai media, gli sviluppi della tecnologia e la loro applicazione ai
processi produttivi, è possibile abbiano alzato i costi della ribel-
lione. Ha avuto un certo successo la formula dell’inevitabilità:
non c’è alternativa, diceva Thatcher, invitando a adattarsi. Due
politologi americani, Mattew A. Crenson e Benjamin Ginsberg,
la raccontano invece in questo modo: una volta professionalizzate
le forze armate, ridotta la tassazione diretta a beneficio di quella
indiretta, notoriamente meno visibile e più agevole da esigere,
riformato il governo locale, le élites avrebbero scoperto come
costi meno, e sia più redditizio, investire nel rovesciamento dei
modi di pensare dei cittadini anziché nel fornire servizi pubblici,
libertà sindacali e quant’altro11. Ovvero, le élites hanno affinato
le tecniche con cui esercitano la loro azione di dominio. O con
cui conducono il conflitto dall’alto verso il basso.
L’hanno fatto, con l’aiuto di osservatori e interpreti, i quali
concorrono a dare un significato al conflitto, occultandolo,
negandolo, deviandolo, confondendone e delegittimandone
le ragioni. Non è una novità, ma i media offrono un aiuto
senza precedenti. Sono state riscritte le categorie con cui le
disuguaglianze e il disagio sociale erano definiti in precedenza.
Che dire dei racconti incantati della libertà individuale, della
soggettività, della creatività? Le disuguaglianze sarebbero anzi
virtuose: basta rietichettarle come merito12. Suonano a stor-
mo le campane avverse all’«assistenzialismo»: cosa c’è di più
giusto che premiare il merito, la competenza, la laboriosità?
Nella retorica pro-market, tagliare i posti di lavoro, introdurre
nuove tecnologie, adottare nuovi algoritmi, delocalizzare senza
preavviso, ridurre le imposte ai ceti abbienti, è solo ricerca
della combinazione più appropriata dei fattori di produzione
a beneficio della crescita. Le parole sono armi possenti. Danno
una mano pure le statistiche: basta vedere quelle sulla disoc-
cupazione. Per una stagione, le rivendicazioni del mondo del

11
  M.A. Crenson e B. Ginsberg, Downsizing Democracy. How America
Sidelined Its Citizens and Privatized Its Public, Baltimore, Johns Hopkins
University Press, 2002.
12
  S. Cingari, La meritocrazia, Roma, Ediesse, 2020.

312
lavoro sono state squalificate come corporative: facendo tutt’uno
con quelle di qualche robusta corporazione professionale. Da
ultimo, veicolare o dar retta a quelle rivendicazioni è diventato
populismo.
D’altro canto, le misure politiche che hanno consentito
l’incremento della disuguaglianza sono state introdotte con
studiata gradualità, tenendo d’occhio in primo luogo i loro
effetti elettorali. Si è fatto anche un po’ di maquillage alle
disuguaglianze, tramite opportunità di consumo messe alla
portata di tutti. Un’altra antica tecnica è mettere i disuguali
in concorrenza tra loro: gli occupati stabili contro i precari,
i giovani contro gli anziani, i nativi contro gli immigrati: la
razzializzazione delle disuguaglianze è diventata il piatto forte
del menù. I penultimi si specchiano negli ultimi e si battono
per restarlo.
Né mancano forme più banali di prevenzione e repressione
del conflitto. L’azione sindacale è ammessa, ma lo sciopero,
oltre a essere stato sottoposto a qualche restrizione normativa,
è stato riclassificato come disturbo alla vita collettiva. Quando
le imprese lo ostacolano, anche in maniera eterodossa, magari
incontrano il favore del pubblico. Anche in questo caso, da
che parte stiano i mass media è inutile precisarlo.
Potrebbe essere ritenuto perfino un successo delle istitu-
zioni democratiche: se il loro fine è condurre pacificamente i
conflitti, il ridimensionamento dei conflitti al di fuori di esse
prova che funzionano. Il punto è: quale interpretazione dare
del voto? Si può protestare anche rinunciando a deporre la
scheda nell’urna, o deponendola bianca, o preferendo un partito
d’opposizione. Se non che, intorno al voto si svolge da tempo
un’intensa attività di sottovalutazione, rimozione, distorsione.
In particolare: i comportamenti di voto che potrebbero te-
stimoniare malessere sociale e scontento sono stati da ultimo
reindirizzati in via esclusiva – evitando problematizzazioni
ulteriori – contro la politica e i suoi addetti.
È la capiente rubrica dell’antipolitica13. Antipolitica è l’a-
stensione, è la volubilità elettorale, è rifuggire l’impegno nei
partiti, è dichiarare la propria sfiducia ai sondaggi, è votare per

13
  V. Mete, Antipolitica. Protagonisti e forme di un’ostilità diffusa, Bologna,
Il Mulino, 2022.

313
i partiti outsiders. Sono tutti gesti interpretati come dissenso
verso gli addetti alla politica: per i loro comportamenti e il loro
basso livello di moralità. Sono distanti e sono una casta privile-
giata e questo è ciò che gli elettori patiscono. Ma è davvero la
politica l’oggetto del dissenso? E se per caso il dissenso fosse
indirizzato contro le politiche che i politici adottano, o non
contrastano, a beneficio di alcuni interessi e non di altri? Se
fosse un modo di ribellarsi alla disuguaglianza? Non importa
più di tanto: dopotutto, anche gli addetti alla politica frui-
scono della secessione delle élites. Ed è giusto che paghino il
biglietto, recitando la parte del capro espiatorio. Non si fa caso
nemmeno al fatto che una quota di risentimento è congenita e
che i politici sono esposti by default all’impopolarità14. Tanto
meno si fa caso all’atmosfera antipolitica in cui i cittadini sono
immersi, alla critica onnipresente della politica, di cui i media
fanno spettacolo, come lo fanno del malcontento antipolitico
dei cittadini.
Ma c’è ancora un altro modo per gravare di uno stigma
d’indegnità le scelte elettorali di alcune categorie sociali: è
addossare loro i successi dei partiti populisti. Dati alla mano,
l’accusa non è troppo fondata. Una minoranza delle vittime
della disuguaglianza, dei losers, usa il voto populista come
forma estrema di protesta, ma è più frequente la tendenza
ad astenersi. I losers sono comunque accusati di ignoranza e
congenita propensione alla conservazione, all’autoritarismo,
all’intolleranza e al ripiegamento identitario. Il giudizio è
ingiusto e sbrigativo. Le scelte di voto sono dettate da ra-
gioni infinitamente più complesse e variegate di quelle che
traspaiono dai dati statistici, comunque raccolti. Si dà alfine
un paradosso. Dopo aver provato a rivitalizzare i regimi
democratici coi rimedi che Sartori chiamava «direttisti»,
restituendo lo scettro al popolo sovrano, si è scoperto che il
popolo non sa maneggiarlo come si conviene e si è ingranata
la marcia indietro. Verrebbe insomma dal popolo, incompe-
tente e irresponsabile, la minaccia alla legittimità e stabilità
14
  Non c’è società, notava Pierre Bourdieu, «che non abbia una visione
sospettosa sulle condotte disinteressate. In tutte le società, al fondo, si tro-
va una filosofia del sospetto sulle condotte che si vogliono disinteressate,
pure, etiche, ecc.». Cfr. L’intérêt au disintéressement. Cours au Collège de
France.1987-1989, Paris, Seuil/Raisons d’agir, 2022, p. 225.

314
delle istituzioni democratiche. La colpevolizzazione sa anche
di beffa. Le cause sociali del cosiddetto populismo sono assai
più profonde.

* * *

Il silenzio dei disuguali non vuol dire che abbiano rinun-


ciato a resistere. C’è la resistenza individuale: come taluni com-
portamenti elettorali, l’emigrazione delle giovani generazioni
e perfino la denatalità. Ma di tanto in tanto, anche qualche
grande sussulto collettivo smuove l’atmosfera. Non sono sus-
sulti comparabili alle prolungate e ripetute turbolenze degli
anni ’60 e ’70, ai grandi scioperi, alle grandi manifestazioni,
ai movimenti di allora. E nemmeno alle lotte della prima metà
del Novecento. Ma non sono insignificanti. È stato scritto che
la protesta collettiva odierna sarebbe gratificante sul piano
simbolico, ma innocua nella sostanza15. È un’affermazione opi-
nabile. Gli esiti a breve termine saranno modesti, ma si iscrive
in memoria, tesse nuovi legami, contrasta l’invasione mediatica
della sfera pubblica e pur sempre imbarazza i dominanti. Le
grandi adunanze pacifiste d’inizio millennio non hanno distolto
i governanti occidentali dai loro propositi bellicosi. Occupy Wall
Street ha ottenuto aggiustamenti insignificanti nei confronti
della finanza. Né hanno avuto più fortuna le proteste no-global
in occasione dei summit internazionali o i movimenti anti-
austerity. Ma le agitazioni ambientaliste hanno preso qualche
slancio. Tributario del movimento degli Indignados, Podemos
ha frenato la deriva neoliberista della politica spagnola. L’am-
bientalismo tedesco ha portato i Verdi al governo. Momentum
ha promosso il rinnovamento, provvisorio, ma non trascurabile,
del Labour di Corbyn. La mobilitazione insorta attorno alla
figura di Bernie Sanders ha bilanciato l’attivismo reazionario
intorno a Donald Trump. È importantissimo al momento
il ruolo svolto da Black lives matter anche per i suoi effetti
elettorali. In Francia hanno riscosso grande partecipazione le
proteste di Nuit debout e poi quella dei gilets jaunes: repressi
con le maniere forti, c’è voluta la pandemia per mettere questi

15
  N. Srnicek e A. Williams, Inventing the Future: Postcapitalism and a
World Without Work, London, Verso, 2016.

315
ultimi a tacere. L’Irlanda e l’Islanda sono piccoli paesi, dove
però la mobilitazione civica ha favorito esperimenti costitu-
zionali di notevole interesse. C’è qualche assonanza con le
amplissime sollevazioni che hanno agitato paesi più lontani,
molte represse con la violenza, ma che nel lontano Cile sono
culminate in un sorprendente rovesciamento politico di cui
sono stati protagonisti la popolazione femminile, le giovani
generazioni e i popoli indigeni: l’esperimento costituzionale
condotto colà non ha avuto vita facile e sembra essersi arenato.
Non esistono però percorsi rettilinei.
Sebbene non siano tutte visibili, le resistenze dei disuguali
resistono. Una quota non secondaria addirittura si ammalora:
diventa devianza, malessere psichico, consumo di droghe,
autoesclusione, intolleranza razziale, tifoserie calcistiche vio-
lente, fondamentalismo religioso, protesta anti-vax. Ma non
c’è da scoraggiarsi. Si è abusato della formula della modernità
«liquida» coniata da Zygmunt Bauman, anche contro le sue
intenzioni16. Se però i legami sociali sono divenuti più insta-
bili, continuamente se ne intrecciano di nuovi. Si sviluppano
nuove connessioni e nuovi esperimenti di socialità e solidarietà.
Incontrano difficoltà a guardarsi tra loro, si sono frazionati e
hanno moltiplicato i loro temi: il genere, l’ambiente, l’energia,
l’abitare, il paesaggio, il lavoro, le grandi infrastrutture, le
migrazioni, la vita quotidiana. Differenziazione e pluralismo
producono forme di sperimentazione democratica circoscrit-
te, ma pur sempre vitali: le comunità parrocchiali, i comitati
di quartiere, le attività di assistenza ai malati, ai disabili, ai
carcerati, ai richiedenti asilo, i movimenti dei consumatori
e i gruppi d’acquisto, le iniziative di difesa dell’ambiente e
del territorio, le attività economiche alternative al mercato, i
workers’ buyout, le agenzie di advocacy, i movimenti antiraz-
zisti e benicomunisti. Per quanto si provi a emarginarli come
devianza, sono forme d’azione politica anche i centri sociali
e lo squatting. E resiste sempre il pensiero critico, che mette
in discussione il presente e che prova ad allargare l’orizzonte
del possibile. Magari sotto forma di letteratura, di musica, di
graffiti sui muri. Il sentimento di abitare un mondo ingiusto
è bene all’erta. L’immaginario del bene pubblico, della soli-

16
  Z. Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2011.

316
darietà reciproca, dell’uguaglianza, non si è inaridito, ma si
riproduce, e non solo nelle pieghe, ai margini, sullo sfondo.
Capita che torni in primo piano: è successo in occasione della
pandemia. Purtroppo, si è lasciato subito soffocare.
Saranno orizzonti parziali, ma sono altri orizzonti: c’è
ancora la memoria, non nostalgica, ma critica, di un altro
regime di governo più inclusivo. Le sinistre established e gli
ambienti intellettuali loro prossimi si sono riconvertiti, ma non
compattamente. Importanti residui della loro storia sopravvi-
vono. Un cospicuo lascito d’idee e d’esperienze proviene dai
movimenti collettivi che negli anni ’70 avevano rinnovato la
rappresentanza. Il loro claim specifico era l’emancipazione: i
regimi occidentali erano invitati a revocare le loro pratiche
imperialiste, a contrastare meglio e di più le disuguaglianze, a
escogitare nuove opportunità di coinvolgimento dei cittadini,
più mature di quelle – già allora in decadenza – offerte dai
partiti. Quei movimenti sono stati superati, ma hanno cambiato
la società, anche se non come avrebbero voluto. Ha attinto a
piene mani da quelle idee, secondo Boltanski e Chiapello, il
terzo spirito del capitalismo. Perché mai non dovrebbe ispirarsi
a esse anche la resistenza e la critica al mercato? Tutto questo
non basta ad arrestare l’aspirazione del capitalismo, anziché
dello Stato questa volta, a impadronirsi di ogni ambito della
vita collettiva – non è fatta grazia nemmeno alla sfera religiosa,
a quella sessuale, a quella familiare – ma intanto si resiste.
Dalla recessione del 2008 in avanti sembra essere fra l’al-
tro maturato un nuovo stile nella conduzione dei movimenti
e nelle forme associative. I movimenti collettivi degli anni ’70
erano imprese di rappresentanza alternative, sì debolmente
organizzate, ma dotate pur sempre di gerarchie e gruppi di-
rigenti, oltre che provviste di una ragguardevole elaborazione
culturale. Le proteste femministe e antiglobal ne hanno replicato
lo stile. Le ultime forme di agire collettivo provano a svilup-
parsi in orizzontale, conducono esperienze di cooperazione, di
autogoverno, d’inclusione, per risolvere problemi condivisi, o
per condividere problemi individuali. Disordinate per quanto
siano, servono a far circolare informazioni e competenze, ad
allargare le reti di relazioni, a imbastire discussioni collettive, a
formulare proposte e a guadagnare spazi di autonomia, distin-
guendosi dalle lotte per la rappresentanza politica e per i ruoli

317
di governo. Nel loro stesso farsi servono a vivere la società e
la politica in un altro modo. Non senza ambivalenze. Perché
costituiscono anche un rischio di segmentazione e di secessione
particolaristica dei dominati17.

* * *

A prima vista, il pluralismo e gli spazi di autonomia degli


individui si sono parecchio allargati. Ciascuno può pensare
ciò che vuole, può dirlo liberamente. Le soggettività si sono
evolute e da destra e da sinistra è un incessante salmodiare
alle loro virtù. Ciascuno può praticare lo stile di vita che
più gli aggrada, può consumare secondo le sue preferenze,
può finanche decidere, da qualche parte, su quando e come
porre fine alla propria esistenza. La famiglia è sempre meno
intesa come un’istituzione costrittiva. Non c’è più nemmeno
un unico modello di famiglia. Anche la condizione femminile
ha registrato progressi, pur con molte differenze da un paese
all’altro. Ai cittadini si sono infine offerte nuove opportunità di
partecipazione alla vita pubblica. Il problema insorge quando
si avvicina lo sguardo e si osservano i dettagli.
I dominanti sono sempre piuttosto severi nel prescrivere
come gli individui debbano essere liberi. Lo Stato ha preteso,
con qualche ottima ragione, che tutti i cittadini fossero sotto-
posti alla legge. Il suffragio universale ha consentito a tutti i
cittadini che ne avessero titolo di concorrere, indirettamente,
alla sua scrittura. Non si è però risolto il problema delle leggi
ingiuste e nemmeno quello dell’uguaglianza di fronte alla leg-
ge. Ultimamente, si pretende che tutti gli individui divengano
imprenditori di sé stessi, impegnandosi ad abilitarli. Anche
ammesso che sia possibile, è una pretesa che scivola nell’arbi-
trio. Le disuguaglianze sociali ed economiche sono anche un
ostacolo alla piena fruizione delle libertà fondamentali. Infine,
si è manifestato un vigoroso backlash reazionario, che incombe
sui luminosi destini della soggettività, non riducibile all’influenza
dei partiti populisti. La destra repubblicana americana rivendica

17
  Dati di ricerca interessanti in C. Neveu (a cura di), Expérimentations
démocratiques. Pratiques, institutions, imaginaires, Villeneuve d’Ascq, Presses
universitaires du Septentrion, 2022.

318
la massima libertà dallo Stato. Ma la recente sentenza della
Corte suprema, dove essa è dominante, in materia d’interruzione
volontaria della gravidanza è un precedente.
Nessuna legge ha introdotto limiti alla vita associativa, ma
qualche non lieve ritocco ha ristretto le libertà sindacali: nei
servizi di pubblica utilità, motivato con l’esigenza di tutelare
gli utenti. Sono limitazioni che si possono estendere. La mi-
naccia del terrorismo è diventata motivo, non infondato, per
aggravare i controlli. Si è già ricordato come la mediasfera,
fatta di giornali, catene televisive, social, in mano a pochissimi
grandi imprenditori globali invochi sì a sua difesa la libertà
d’opinione, ma di fatto la restringa18.
Ma c’è un altro grave motivo d’inquietudine. Per descri-
vere il mutamento del costume politico avvenuto in Germania
all’indomani del primo conflitto mondiale, George L. Mosse
ha adoperato il concetto di «brutalizzazione»19. Fu, nel caso
del nazismo e del fascismo, una brutalizzazione senza limiti dei
conflitti e dell’azione di governo: era uno strascico della guerra
e la violenza culminò in un’altra guerra. Un aspetto della situa-
zione attuale è l’impennata di brutalizzazione e, a voler usare le
coordinate di Norbert Elias, di rimilitarizzazione dei conflitti.
Siamo, per ora, lontani da condizioni tanto drammatiche, la bru-
talizzazione avviene ai margini, o per vie traverse. Ma è in atto.
Una forma è la violenza verbale, che è in crescita da tem-
po. Nelle manifestazioni di piazza, nei raduni pubblici, negli
incontri elettorali, nelle aule parlamentari, nelle assemblee
elettive decentrate. La polarizzazione come stile politico arriva
da destra anziché da sinistra. Accelerato però dai media e dai
social, il linguaggio dell’odio circola ampiamente e contamina
la pubblica opinione e il costume civile20. Da qualche parte è
già tracimato sotto forma di violenza fisica.
C’è pure da interrogarsi sull’azione di governo. I regimi
democratici hanno previsto da sempre una dose di coercizione:

18
 Pongono la questione, in linea di principio divenuta ineludibile, del
regime proprietario dei media J. Cagé e B. Huet, L’information est un bien
public. Refonder la propriété des médias, Paris, Seuil, 2021.
19
 G.L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti,
Roma-Bari, Laterza, 2005.
20
  S. Bentivegna e R. Rega, La politica dell’inciviltà, Roma-Bari, Laterza,
2022.

319
a difesa dell’ordine pubblico, della sicurezza dei cittadini, della
legalità. Ma, il dosaggio della coercizione, e dunque della bru-
talità, si direbbe in crescita anch’esso. Con crescente fastidio
sono accolte le azioni di protesta. Le violenze in occasione
del G8 di Genova hanno fatto storia. Le brutalità poliziesche
d’oltreoceano fanno sempre rumore. Ma anche nella patria dei
diritti dell’uomo molta violenza è fuoruscita dalle caserme delle
forze dell’ordine per contrastare i Gilets jaunes21. Alla luce di
un approccio vendicativo alla devianza, è cresciuto l’impiego
della coercizione nella giustizia penale, in special modo contro
i ceti disagiati, meno attrezzati per difendersi. Sono brutali gli
sgomberi dei senza casa e dei rom. Ed è brutale la pratica dei
respingimenti, in terra e in mare, e altri episodi di brutalità si
annoverano perfino contro coloro che si mostrano solidali con
le vittime della fame e della guerra. Purtroppo, le pubbliche
opinioni si abituano. Tanto più che alcune forze politiche aval-
lano la brutalità e altre non si oppongono abbastanza.
È pure impressionante la coincidenza tra la brutalizzazione
all’interno dei confini nazionali e quanto accade nelle relazioni
tra Stati. La scomparsa degli eserciti di leva ha costituito
una sorta di rivoluzione postfordista applicata alla guerra:
manodopera meno numerosa, ma più qualificata e più tec-
nologie. Incluse quelle mediatiche. Anziché scoraggiare la
guerra, la rinuncia alla coscrizione, l’incoraggia: le opinioni
pubbliche la guardano con più distacco. Forse la guerra
esplosa ai confini dell’Europa ha cambiato un po’ le cose. In
ogni caso: la globalizzazione alimenta la ridefinizione delle
gerarchie del sistema internazionale e non è detto che debba
avvenire in maniera pacifica. Qualcuno potrebbe essere indotto
a ricorrere alla forza militare: anzi, sta già succedendo. È pure
da tenere a mente il monito di Tilly sugli Stati e sulla guerra:
quando gli Stati si predispongono alla guerra investono risorse
in armamenti e li sottraggono ai servizi pubblici e ne risente
pure lo spirito pubblico e il costume civile. Per limitarsi a un
esempio recente: la discussione pubblica intorno alla guerra
in Ucraina si sottrae troppo spesso al principio del rispetto
delle altrui ragioni.

21
  O. Filleule e F. Jobard, Politiques du désordre. La police des manifesta-
tions en France, Paris, Seuil, 2020.

320
La rimilitarizzazione delle relazioni internazionali è av-
venuta anche attraverso il terrorismo, che è un delicatissimo
punto di congiunzione, donde la rimilitarizzazione delle
relazioni internazionali si è riversata entro la sfera stata-
le. George W. Bush ha ipocritamente aperto un carcere a
Guantanamo, fuori dai confini americani, e Barak Obama,
a dispetto del Premio Nobel per la pace, si è guardato dal
chiuderlo e dall’abolire le eliminazioni mirate. È ancora in
funzione. In Occidente, in barba alla sua celebrata civiltà
giuridica, qualcuno ha proposto di legalizzare, seppure in
situazioni di emergenza, la tortura22.
Viste le difficoltà del momento, tra le élites che hanno fatto
secessione si manifesta anche la tentazione di rienergizzare
l’azione di governo introiettando qualche dose di populismo.
Il quale non ha alcuna remora a convivere con il fondamenta-
lismo di mercato in quanto eleva anch’esso a criterio supremo
l’autonomia dell’individuo, affrancato d’ogni obbligazione
collettiva. Il capitalismo è sempre la gallina dalle uova d’oro
di cui non si discute. Le riserve che i populisti nutrono verso
la globalizzazione e l’unificazione europea sembrano desti-
nate al più a risolversi in vaghe misure protezionistiche e in
parecchio «sciovinismo del welfare»23, esclusivo dei migranti.
Potrebbe costituire, il populismo, una risorsa politica da
sfruttare e da qualche parte l’esperimento è in corso. Quanto
al regime rappresentativo, pare si contenti di diluirne alcuni
tratti senza rimuoverlo. Più qualche dose di brutalizzazione
simbolica. Se non che, l’etnonazionalismo, che evoca nemici
estremi, interni ed esterni, e che alza muri visibili e invisibili,
corre il rischio di tralignare. La brutalizzazione può estendersi
alla contesa politica. Il Brasile è lontanissimo, ma l’assalto al
Campidoglio il 20 gennaio 2020 è un episodio da scrivere

22
  Ci ha provato l’illustre giurista americano A.M. Dershowitz, Terrorismo,
Roma, Carocci, 2003. Criticamente il tema è trattato in K.J. Greenberg e J.L.
Datel, The Torture Paper. The Road to Abu Ghraib, Cambridge, Cambridge
University Press, 2005. Anche M. Di Giovanni, C.R. Gaza e G. Silvestrini
(a cura di), Le nuove giustificazioni della tortura nell’età dei diritti, Perugia,
Morlacchi, 2017.
23
  La formula è di H. Kitschelt e A. McGann, The Radical Right in Western
Europe: A Comparative Analysis, Ann Arbor, University of Michigan Press,
1995, pp. 22-24.

321
a caratteri cubitali nella storia della più vantata democrazia
d’Occidente. Gli Stati Uniti non sono l’Europa, ma l’Europa
ha da lì imparato parecchio.

* * *

La democrazia inclusiva del dopoguerra è destinata


a trasformarsi in democrazia socialmente e politicamente
esclusiva? C’è ragione di temerlo. Dinnanzi alla sfida delle
disuguaglianze in crescita e del pluralismo culturale, religio-
so, politico, andrebbe riscoperta anzitutto, e rivitalizzata, la
vocazione al confronto pacifico e al compromesso che aveva
dato origine ai regimi rappresentativi. Frustrata e contraddetta
tante volte, non si è mai estinta. Nelle attuali condizioni, la
riconversione dicotomica della competizione politico-elettorale
è un lusso che le democrazie avanzate non possono più con-
cedersi. Poteva funzionare in un’altra stagione. Adesso è un
problema: polarizza la pubblica opinione e avvelena l’azione
di governo e indebolisce per giunta qualsiasi parte politica ne
sia titolare pro tempore. Ormai, le elezioni partoriscono per
lo più maggioranze risicate, quando non fittizie, comunque
poco legittimate.
È pure in corso una difficilissima partita tra il pianeta e
gli esseri umani che lo abitano: una parte di essi ne hanno
largamente abusato e un’altra parte non vuole rinunciare alle
opportunità di crescita che l’abuso può offrire loro. Nessuno al
momento sembra in grado non di giocare d’anticipo, perché è
troppo tardi, e nemmeno di prevenire gli inconvenienti più gravi.
Le élites alla testa dei regimi democratici sono per contro
prigioniere dei loro calcoli elettorali, delle pretese del mercato
e dei conflitti di potenza che si sono riaperti. Non versano in
condizioni più favorevoli i regimi autoritari e i nuovi venuti
sulla scena dello sviluppo. C’è anche il rischio che l’Occidente
si faccia prendere dalla sindrome dell’assedio. Mentre forme
di conduzione più riflessive e più rispettose delle altrui ragioni
di conduzione dei regimi democratici sarebbero auspicabili. Se
possibile adoperandosi per estenderle alle relazioni tra gli Stati.
La regola secondo cui nessun regime di governo è invulne-
rabile è, tuttavia, ben collaudata: quello in carica è stanco, il
fondamentalismo di mercato è messo sempre più in discussione.

322
Resta da intendere quali fazioni e quali interessi potrebbero
imporre un altro disegno di ordine sociale e di giustizia e in
che modo. Chi è in grado di mobilitare e unificare le vittime
della disuguaglianza? Che possibilità di farsi ascoltare hanno
le correnti di pensiero, le formazioni politiche, i segmenti di
società che coltivano un immaginario alternativo? A prima
vista, modeste. Qualcuno tra gli addetti al capitalismo ha in-
teso che il limite è stato raggiunto, che le uova d’oro ha costi
insopportabili. Dove sta, però, il punto d’incontro donde
sincronizzare gli ingranaggi ultracomplessi dello Stato e del
mercato in maniera socialmente più giusta? C’è ancora spazio
per un’idea d’ordine, di giustizia, di sicurezza, anche su scala
internazionale, meno ipotecata dal profitto e più attenta alla
civile convivenza e alla dignità di ciascuno?
L’unica raccomandazione che chi ha scritto questo libro
si sente di avanzare è di coltivare la conoscenza, la ricerca, la
scuola, lo studio: bisogna battersi per sottrarli al mercato e rivol-
gerli a dubitare, a capire, a spiegare, a criticare, a inventare. La
conoscenza è un’arma che è sempre stata utilizzata nella contesa
per il potere. Lo è anche l’ignoranza, che assume al momento
le vesti del depauperamento dei sistemi d’istruzione, che va
assolutamente contrastato. Chi si batte per un mondo diverso
può contare sulle idee, che rientrano pure loro nei rapporti
di forza. Per fortuna, la storia rifugge i percorsi prefissati e le
circostanze offrono a volte opportunità impreviste. Il futuro è
sempre aperto, anche quando sembra più fosco. La sola cosa
che sappiamo è che può accadere di tutto.

323
INDICE DEI NOMI
INDICE DEI NOMI

Aalberg, T., 203 Bartolini, S., 116, 118


Accornero, G., 235 Bassens, D., 99, 284
Achen, C.H., 107, 122, 161, 170, 224 Bateman, A., 143
Acs, Z.J., 286 Baudot, P.-Y., 131, 287
Adam, S., 280 Bauman, Z., 316
Agostino, 15 Bayart, J.-F., 290
Agrikoliansky, É., 113, 300 Beck, U., 93
Akkerman, T., 203, 293 Beeckmans, L., 99, 284
Albertazzi, D., 222 Beetham, D., 162
Aldrin, P., 149, 210, 281 Beik, W., 46
Allamprese, A., 61 Bell, D., 192, 244, 297
Allende, S.G., 261 Belligni, S., 213
Allern, E.H., 210 Benelbaz, C., 146
Allum, P., 183 Benigno, F., 39, 53
Alter, K.J., 86 Benkler, Y., 91
Altheide, D.L., 89 Bentivegna, S., 319
Althusius, J., 45, 52 Beramendi, P., 301
Amadae, M., 260 Berg, M.P., 180
Amin, A., 245 Berman, H.J., 24
Anderson, B., 26 Bernard, M., 269
Anderson, P., 39, 280, 281 Best, H., 309
Anter, A., 14, 38 Betz, H.-G., 102, 295
Armao, F., 87 Beveridge, W., 72, 228, 267
Arndt, C., 221 Bevir, M., 52, 86, 94, 159, 160, 267
Aron, R., 240 Bezes, P., 100, 101
Arrigoni, P., 285 Bhambra, G.K., 84
Atkinson, S., 221 Biais, B., 253
Attlee, C., 190 Biancalana, C., 159, 219
Bickerton, C.J., 220, 279, 281
Bagehot, W., 138, 143 Biezen, I. van, 145, 177, 208, 209
Bagnasco, A., 264, 311, Bifulco, L., 285
Baines, P., 210 Billig, M., 102
Bairoch, P., 76 Bismarck, O. von, 130
Baker, K.M., 78, 80 Blackstone, W., 134
Baldissara, L., 182 Blair, A. (Tony), 207, 221, 267, 269
Bale, T., 202, 210, 222, 223, 301 Blichner, L.C., 289
Bargel, L., 149 Blickle, P., 45-47
Barnett, M., 85 Blocher, C., 200
Bartels, L.M., 107, 122, 161, 170, 224 Block, F., 60, 261

327
Blokker, P., 273, 294 Camau, M., 152
Blondel, J., 211 Cameron, D., 285
Blondiaux, L., 163 Campati, A., 107, 159
Blyth, M., 209, 260, 261 Campolongo, F., 218
Bobbio, L., 99 Canfora, L., 127
Bobbio, N., 54, 151, 243, 284 Cannon, J., 80
Bodin, J., 36 Canovan, M., 296, 298, 299
Boltanski, L., 30, 91, 109, 119, 207, Cappella, J.N., 211
262-264, 317 Carlo I, 45, 56, 76
Bonnett, K., 252 Carnes, N., 309
Borgna, P., 86 Carré de Malberg, R., 139, 140
Borgognone, G., 170 Carter, J., 246, 251
Borioni, P., 270 Carty, R.K., 212
Bossi, U., 200, 203 Caruso, L., 218, 219
Bouckaert, G., 100 Casal Bértoa, F., 145
Bourdieu, P., 15, 20-23, 25-28, 55, 63, Casas-Zamora, K., 208
87, 91, 109, 112, 119, 314 Caselli, D., 285
Boyer, R., 21 Cassese, S., 279
Brack, N., 212 Castel, R., 70, 72
Braconnier, C., 147 Castiglione, D., 114, 159, 160
Brancaccio, L., 213 Cedrini, M., 94
Brennan, J., 145 Célestine, A., 225
Brenner, N., 282 Celis, K., 165
Briquet, J.-L., 181, 184, 212 Cepernich, C., 224
Broatright, R.G., 216 Ceri, P., 219
Bromley, S., 252 Cervera-Marzal, M., 218
Brown, W., 237, 274 Chadwick, A., 159
Brunner, O., 49 Chandler Jr., A.O., 85
Bryce, J., 167 Charlot, M., 202
Brzezinski, Z., 246 Chàvez, H., 303
Buchanan, J.M., 261 Chiapello, E., 262-264, 317
Bué, N., 149 Chirac, J., 206
Bukow, S., 202, 301 Christin, O., 46, 78
Burbank, J., 46 Churchill, W., 177, 190
Burin, F.S., 192, 232 Ciccozzi, A., 305
Burke, E., 80, 133, 134, 136, 273 Cingari, S., 312
Burke, N., 253 Clark, J.D.C., 149
Burke, P., 37, 48 Clarke, N., 199
Burnham, W.D., 171 Clausewitz, C.P. von, 75
Buscetta, T., 17 Clinton, W.J. (Bill), 144, 269, 288
Busch, A., 269 Cohen, D., 244
Bush, G.W., 321 Coke, E., 134
Buzogáni, A., 304 Cole, G.D.H., 52
Collovald, A., 113, 300
Caciagli, M., 183 Comte, A., 91
Caffarena, A., 278 Conniff, J., 134
Cagé, J., 319 Constant, B., 143
Calise, M., 121, 211 Cooper, F., 46
Callaghan, J., 251 Corbyn, J., 216, 218, 221, 303, 315
Calligaro, O., 281 Costa, O., 212

328
Cotta, M., 114, 309 Eikenberry, A., 286
Cottino, A., 53 Elias, N., 15, 17, 18-22, 28, 58, 60,
Crainz, G., 236 63-65, 74, 75, 81, 83, 84, 142, 307,
Crenson, M.A., 312 310, 319
Croce, B., 141 Engels, J.I., 62, 271
Cromwell, O., 40, 76 Erhard, L., 229
Cross, W.P., 215 Escalona, F., 270
Crouch, C., 242 Esser, F., 87, 89, 203
Crozier, M., 127, 246, 248 Evans, G., 222, 223, 267
Evans, P.B., 15
D’Agostino, G., 105 Eyal, G., 92
D’Ambrosio, L., 61
D’Orsi, A., 142 Fabietti, U., 295
Dahrendorf, R., 232 Faris, R., 91
Dakhlia, J., 217 Farrall, S., 253
Dard, O., 62, 271 Farrell, D.M., 164
Datel, J.L., 321 Faucher, F., 210, 215, 216, 267
De Blasio, E., 163 Fawcett, E., 222
De Certeau, M., 235 Ferrarese, M.R., 52, 85, 96, 279
De Gaulle, C., 148, 174 Ferraresi, F., 27
De Geus, R., 222 Figgis, J.N., 52
De Grazia, V., 290 Fillieule, O., 235
Finchelstein, F., 296
De la Torre, C., 199
Finnemore, M., 85
De Lange, S.L., 293
Fischer, N., 53
De Leonardis, O., 286
Flinders, M., 187, 274
De Vreese, C., 203
Floridia, A., 163
Delmas, C., 91 Florio, M., 97
Delors, J., 269 Foot, M., 207
Denver, D., 212 Ford, R., 252
Dershowitz, A.M., 321 Foret, F., 281
Derudder, B., 99, 284 Foucault, M., 30, 49, 55, 65-69, 75
Di Giovanni, M., 321 Fraenkel, E., 54
Di Giovine, A., 160 France, P., 95
Di Leo, R., 127 Franzini, M., 308, 311
Di Palma, G., 29, 69, 132 Fraser, N., 288
Diletti, M., 93 Fretel, J., 184, 220
Dogan, M., 117 Freud, S., 65, 238
Dogliani, M., 119 Friedman, M., 254, 261, 262
Dogliani, P., 180
Dolez, B., 220 Gallino, L., 86, 96, 257, 258
Dormagen, J.-Y., 147 Garrigou, A., 147
Doyle, M.W., 46 Gaudin, J.-P., 52, 99
Dubet, F., 74, 98 Gauja, A., 193, 215
Duguit, L., 52 Gaxie, D., 107, 110, 147, 187, 309
Dulong, D., 92 Gaza, C.R., 321
Durkheim, É., 71 Gellner, E., 297
Dutoya, V., 108 Genovese, R., 203
Duverger, M., 148, 168, 176, 177, Genschel, P., 96
190, 192 Georgakakis, D., 281

329
Gerbaudo, P., 103, 224 Hermet, G., 52
Germanese, D., 119 Hibou, B., 31, 35, 102
Giddens, A., 267, 268, 284 Hintze, O., 43, 44, 105
Gierke, O. von, 52 Hirschman, A.O., 31, 36, 228, 260
Gilardi, F., 289 Hirst, P.Q., 52
Gilens, M., 310 Hobbes, T., 28, 36, 45, 76, 108, 125
Gill, S., 246 Hobsbawm, E., 76
Gillis, J.R., 44 Höfert, A., 46
Gilman, N., 232, 290 Hofstadter, R., 297
Ginsberg, B., 312 Holcombe, R.G., 62, 94, 95, 214,
Ginsburg, T., 146 272
Giolitti, G., 130 Holmes, S., 287
Girotti, F., 71 Holmwood, J., 84
Godmer, L., 184, 212, 309 Holtz-Bacha, C., 199, 203
Goodin, R.E., 88 Honneth, A., 288
Goodwyn, L., 171, 297 Hooghe, L., 282
Gorski, P.S., 50 Hopkins, D.A., 149, 207
Granaglia, E., 268 Horsfield, B., 202
Graziano, L., 183 Hossay, P., 293
Green, J., 222 Hubé, N., 281
Greenberg, K.J., 321 Huet, B., 319
Grosser, A., 151 Huntington, S.P., 127, 246, 248, 249
Grossmann, M., 149, 207 Hupe, P., 94
Groulier, C., 102 Huq, A.Z., 146
Gruening, G., 100
Guinier, L., 144
Ignazi, P., 153, 184, 201, 293
Gunther, R., 209
Inglehart, R.F., 201, 241, 242, 305
Invernizzi Accetti, C., 220
Habermas, J., 77, 78, 239, 240, 245,
Ionescu, G., 297
311
Haider, J., 200 Iversen, T., 256, 257, 283
Hale, S., 268
Hall, S., 252, 298 Jabko, N., 279
Hallin, D.C., 88 Jackson, A., 168
Halpern, C., 98 Jäger, A., 296, 298
Hamilton, A., 137 Jamieson, K.H., 211
Hands, G., 212 Jasanoff, S., 87
Harding, A., 213 Jay, J., 137
Harling, P., 80 Jellinek, G., 138
Harris, C., 164 Jennings, W., 199
Hart, P. ‘t, 94 Jessop, B., 252, 282
Harteveld, E., 203 Jessoula, M., 61
Hartmann, M., 86 Joachim, J., 86
Häusermann, S., 301 Jobard, F., 320
Hay, C., 253 Jochum, M., 280
Hayat, S., 105, 108 Johnson, B., 222
Hayek, F. von, 254, 260, 261 Johnson, L.B., 197
Hazan, E., 94 Jones, M., 282
Heffernan, R., 206 Jouvenel, B. de, 131
Heinisch, R.C., 199, 203, 220 Jun, U., 202, 301

330
Kane, J., 94 Lehingue, P., 115
Kantorowicz, E.H., 22, 49 Lehmbruch, G., 156
Katsambekis, G., 218, 302 Leibholz, G., 155
Katz, R.S., 207-209, 215, 232 Lenin, V.I., 296
Katznelson, I., 171 Lijphart, A., 149
Kauppi, N., 86 Ling, T., 252
Kavanagh, D., 251, 253, 255 Linz, J., 209
Kazancigil, A., 52 Lippman, W., 250
Keane, J., 94 Lipset, S.M., 115, 116, 191, 231, 232,
Keating, M.J., 281, 283 297, 301-303
Kelsen, H., 81, 107, 139, 151, 153, Locke, J., 76, 144
154, 185 Lombardini, S., 151
Kenig, O., 211 Lovenduski, J., 165
Kerrouche, E., 212 Luigi XIV, 19, 37, 46
King, A., 247 Luigi XVI, 105
King, D., 100, 279, 282 Lupo, S., 48
King, D.S., 96
Kioupkiolis, A., 218, 302 Mabileau, A., 121
Kirchheimer, O., 191, 192, 194-196, MacAllister, I., 212
204, 205, 209, 232, 234, 239 Machiavelli, N., 36
Kitschelt, H., 181, 209, 293, 301, 321 MacLeod, G., 282
Kluver, D., 286 MacMillan, H., 253
Kohl, H., 269 Macron, E., 219, 220
Kornhauser, W., 297 Madison, J., 136, 137
Koselleck, R., 78 Madsen, M.R., 86
Kriegel, A., 175 Mair, P., 115, 176, 178, 207-209, 223,
Kriesi, H., 280, 301 224, 232
Krouwel, A., 191, 202, 222, 223, 301 Maitland, F.W., 52
Majone, G., 98, 281
La Spina, A., 98, 281 Malthus, T.R., 59
Laband, P., 138, 139 Mancini, P., 88
Laclau, E., 298, 302, 303 Manin, B., 78, 121, 143, 159, 160,
Ladini, R., 213 163, 211
Landemore, H., 164 Manow, P., 49, 269
LaPalombara, J., 191 Maravall, J.A., 23, 24, 42, 44, 45
Lasch, C., 310 Maravall, J.M., 160
Lascoumes, P., 95, 98 Marchionatti, R., 94
Lash, C., 310 Marcuse, H., 238, 239
Lash, S., 276 Maria Antonietta, 105
Laski, H.J., 52, 273 Marini, R., 89
Latour, B., 124 Marks, G., 282
Lawson, K., 186 Marrone, G., 217
Lazar, M., 175 Marshall, T.H., 73, 267
Le Bon, G., 188 Martell, L., 268
Le Galès, P., 96, 98, 100, 267, 282 Martin-Breteau, N., 225
Le Pen, J.-M., 200 Martone, V., 213
Le Pen, M., 222 Marx, K.H., 59, 72, 238
Lebaron, F., 92 Massardier, G., 152
Lefebvre, R., 184, 213, 216, 220 Mastropaolo, A., 275
Leggett, W., 268 Matteucci, N., 243

331
Mattina, C., 62, 184, 213, 214, 271 Mudde, C., 176, 293, 299
Mau, S., 265 Mudge, S.L., 269, 270
May, T., 285 Mughan, A., 150
Mayer, A.J., 39, 40 Munk Christiansen, P., 278
Mazlish, B., 85 Murray, G., 93
Mazzoleni, G., 87, 202 Mussolini, B., 189
Mazzoleni, O., 199, 203, 220, 273 Myrdal, G., 260
McGann, A.J., 293
McIlwain, C.H., 77 Namier, L.B., 79, 80
Mégie, A., 52 Napel, H.M. ten, 145
Mélenchon, J.-L., 218, 303 Napoleone, 41
Melucci, A., 240, 241 Nedergaard, P., 278
Mendés-France, P., 234 Neumann, S., 191
Mendilow, J., 147 Neveu, C., 318
Mény, Y., 299 Neveu, E., 93, 235, 243
Merkel, A., 222 Nixon, R., 249
Merton, R.K., 297 Norris, P., 305
Mete, V., 274, 313
Mettler, S., 150 O’Donnell, G., 161
Meyer, D.S., 202 O’Gorman, F., 80
Meynaud, J., 91, 232 Obama, B., 321
Michels, R., 30, 130, 153, 154, 175, Ochoa Espejo, P., 199
187-190 Offe, C., 151, 245, 276, 311
Miglio, G., 13 Offer, A., 261
Mill, J.S., 137, 143 Offerlé, M., 110
Miller, J.J., 143 Ongaro, E., 100
Mineur, D., 153 Oosterlynck, S., 99, 284
Mirkine-Guétzévich, B., 151 Orlando, V.E., 139, 140, 154
Mirowski, P., 229, 260 Ortoleva, G., 235
Mitterand, F., 269 Ostiguy, P., 199
Molander, A., 289 Ostrogorski, M., 167, 171, 173, 190
Mondon, A., 295 Oswald, M., 199
Monier, F., 62, 271
Montero, J.R., 209 Page, B., 310
Montesquieu, C.-L. de Secondat de, Palano, D., 153, 184, 296
76, 80, 292 Palidda, S., 83
Moore Jr., B., 30, 32, 40, 56-59, 113, Pallante, F., 164
117, 118, 172, 229, 239, 311 Palumbo, A., 97, 101
Moravcsik, A., 280 Panebianco, A., 195
Morgan, E.S., 133 Papadopoulos, Y., 142, 289
Moro, G., 286 Parkin, F., 117, 118
Morris, P., 253 Pasquino, G., 243
Morris Jones, W.H., 231 Passarelli, G., 215
Morrison, D., 268 Passeron, J.-C., 26
Morss, E.R., 85 Patapan, H., 94
Mortimore, R., 221 Pavolini, E., 61
Mosca, G., 108, 140, 141, 153, 189 Pecresse, V., 222
Moss, J., 199 Pelling, L., 270
Mosse, G.L., 319 Pellizzoni, L., 93
Mouffe, C., 303 Perotti, E., 253

332
Petitfils, A.-S., 210 Roberts, M., 173
Phélippeau, É., 81, 147 Rockfeller, D., 246
Phillips, A., 61 Rodotà, S., 287
Pianta, M., 308, 311 Rodríguez-Pose, A., 283
Piattoni, S., 181, 283 Rohrschneider, R., 205
Piccio, D.R., 145, 208, 215 Rokkan, S., 115, 116, 191, 301, 303
Pierson, P., 254 Romanelli, R., 82, 84, 287
Piketty, T., 220, 308 Romano, C.P.R., 86
Pina, C., 149 Romano, S., 52
Pinochet, A., 261 Roncarolo, F., 203, 275
Pinson, G., 99, 213, 214, 284 Rooduijn, M., 293
Pitkin, H.F., 107, 120, 123, 126, 160 Rosanvallon, P., 143, 146, 149, 150,
Pizzorno, A., 29, 76, 119, 123, 126, 162, 170, 289
127, 130, 173, 195, 229, 242 Rose, N., 69, 70, 73, 74, 285
Plasser, F., 210 Rosenblum, N.L., 170, 171
Plehwe, D., 229, 260 Rosenbluth, F.M., 164, 217
Poggi, G., 17, 53, 71 Rositi, F., 204
Poguntke, T., 150, 206, 209, 288 Ross, K., 235
Polanyi, K., 59, 60, 71, 72 Roth, G., 173, 175
Pollitt, C., 94, 100 Rothstein, S.A., 278
Poulantzas, N., 95 Rousseau, J.-J., 106, 123, 141
Procacci, G., 70 Rovira Kaltwasser, C., 199, 299
Prud’homme, J.-F., 52 Rowell, J., 281
Przeworski, A., 160 Rozenberg, O., 131
Ptak, R., 229 Runciman, D., 13, 52
Putnam, R.D., 284 Russo, F., 114

Quaranta, M., 310 Safran, W., 191


Saint-Simon, C.-H. de Rouvroy, 91
Ragona, G., 21 Saitta, P., 30, 61
Rahat, G., 211 Salas-Porras, A., 93
Ramos, J.M., 305 Sanders, B., 315
Raniolo, F., 176, 224 Sanderson, G.N., 149
Rashkova, E., 145 Sandri, G., 216
Ravazzi, S., 213 Sarkozy, N., 206, 222
Reagan, R., 251, 253-255, 284 Sartori, G., 107, 115, 142, 148, 159,
Recoquillon, C., 225 189, 231, 274, 314
Rega, R., 319 Sartre, J.-P., 198
Regonini, G., 162 Sassen, S., 283
Reinalda, B., 86 Savage, M., 103, 308
Reinemann, C., 203 Saward, M., 108
Rendueles, C., 218 Sawicki, F., 181
Rennwald, L., 221 Scaff, L., 188
Revelli, M., 185 Scarrow, S.E., 193, 209, 217
Revillard, A., 287 Schain, M., 293
Reybrouck, D. Van, 145 Schakel, A.H., 282
Rhodes, A., 221 Scharpf, F., 160, 280
Ricardo, D., 59 Schattschneider, E.E., 109, 189-191
Rich, A., 93 Scheucher, C., 210
Roberts, H., 91 Schlein, E., 216

333
Schlozman, K.L., 310 Steenvoorden, E., 203
Schmitt, C., 49, 153, 154, 185, 191 Stewart, J., 202
Schmitter, P.C., 156 Stoker, G., 199
Schröder, G., 269 Stokes, S.C., 160
Schulze-Cleven, T., 278 Strange, S., 86
Schumpeter, J.A., 82, 108, 109, 157, Strath, B., 13, 45, 46
158, 190, 204, 250 Strayer, J.R., 34
Sciarrone, R., 275 Streeck, W., 94, 95, 229, 258, 259, 266,
Scott, A., 101 269, 272, 276, 290
Scott, J.C., 30, 34-36, 275 Strömbäck, J., 87, 89, 203
Scraton, P., 253 Suiter, J., 164
Scuccimarra, L., 136 Suleiman, E.N., 101
Seddone, A., 216 Sunstein, C.R., 287
Segaert, B., 99, 284 Supiot, A., 61, 277
Seligman, E.R.A., 297 Surel, Y., 299
Semi, G., 213 Swigart, L., 86
Seyd, P., 221, 271 Szakolczai, A., 70
Shany, Y., 86
Shapiro, I., 164, 217 Taguieff, P.-A., 298, 299
Sharman, J.C., 61 Tarditi, V., 224
Shefter, M., 167-169, 181 Tarrow, S.G., 182, 196, 197, 225
Shell, K., 192, 232 Terris, D., 86
Sidney, A., 134 Testi, A., 167, 169
Sieyès, E., 80, 135, 136, 138, 139, Thatcher, M., 70, 151, 205, 206, 250-
145, 146 255, 266, 284, 298, 312
Sills, D.J., 297 Thiébault, J., 211
Silvestrini, G., 321 Thiel, S. van, 100
Sivini, G., 175 Thiel, T., 90
Skinner, Q., 13, 36, 45, 46, 76 Tholfsen, T. R., 173
Sklair, L., 86 Thompson, E.P., 95, 116
Skocpol, T., 15, 225, 285 Tilley, J., 223, 267
Skornicki, A., 66 Tilly, C., 15, 17, 19, 21, 28, 33, 44, 45,
Smith, G., 163 88, 117, 196, 237, 239, 320
Snow, R.P., 89 Titmuss, R., 73, 233, 234, 266
Sobolewska, M., 252 Tocqueville, C.-A.-H. Clérel de, 106
Sola, J., 218 Torres, P., 305
Solinas, M., 288 Touraine, A., 240, 244
Sombart, W., 169 Traverso, E., 84
Somers, M.R., 60, 261 Treille, E., 216
Sorice, M., 163 Tremlett, L., 202, 222, 223, 301
Soskice, D., 256, 257, 283 Trigilia, C., 150, 275, 292
Spagnoletti, A., 48 Trump, D., 315
Spanje, J. van, 222 Tsipras, A., 218, 303
Spinoza, B., 45 Tuccari, F., 188
Spire, A., 53 Tuorto, D., 202, 300
Srnicek, N., 315
Staab, P., 90 Ullmann, W., 44, 45
Staggenborg, S., 202 Underdown, P.T., 134
Standing, G., 98, 266, 278 Urbinati, N., 107, 294
Stavrakakis, Y., 218 Urry, J., 276

334
Vampa, D., 222 Webb, P., 150, 206, 288
Varga, M., 304 Weber, M., 11, 13-15, 21, 22, 28, 30, 50,
Vauchez, A., 95, 280, 289 58, 59, 65, 81, 82, 121, 128, 129, 153,
Vedel, G., 151 154, 167, 170, 176, 185, 186, 188, 204
Veltri, F., 219 Weiner, M., 191, 192
Venturino, F., 216 White, S., 268, 269
Verba, S., 310 Wiener, M.J., 251
Verbeek, B., 86 Wilkinson, S.I., 181
Vercelli, C., 295 Williams, A., 315
Veugelers, J.P., 223 Williamson, V., 225
Vibert, F., 289 Winter, A., 295
Viesti, G., 283 Wivel, A., 278
Vinen, R., 235 Wolfe, A., 54
Violante, P., 135 Wring, D., 221
Viviani, L., 204
Zalio, P.-P., 184
Wacquant, L., 83, 288 Zancarini-Fournel, M., 235
Walzer, M., 50 Zangl, B., 96
Ware, A., 167, 171 Zemmour, É., 301
Watanuki, J., 127, 246, 248 Ziblatt, D., 173, 177
Watson-Wentworth, C., marchese di Zolberg, A.R., 171, 293
Rockingham, 133 Zolo, D., 87, 218, 288

335
SAGGI

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