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PICCOLA BIBLIOTECA AGOSTINIANA

Collana fondata da
AGOSTINO TRAPÈ
e diretta da
REMO PICCOLOMINI

38
LA GIUSTIZIA



Sant’Agostino

LA GIUSTIZIA
a cura di GIOVANNI CATAPANO

NUOVA BIBLIOTECA AGOSTINIANA


CITTÀ NUOVA

I testi di sant’Agostino sono tratti dall’Edizione bilingue della
Nuova Biblioteca Agostiniana - Città Nuova.

In copertina:
Raffaello Sanzio, La Giustizia.
Vaticano, Stanza della Segnatura.
© Archivio Scala, Firenze.
Grafica di Alessandra De Marco

© 2004, Città Nuova Editrice


Via degli Scipioni, 265 - 00192 Roma
tel. 06 3216212 - e-mail: comm.editrice@cittanuova.it

Con approvazione ecclesiastica

ISBN 88-311-4738-2

Finito di stampare nel mese di febbraio 2004


dalla tipografia Città Nuova della P.A.M.O.M.
Via S. Romano in Garfagnana, 23
00148 Roma - tel. 06 6530467
e-mail: segr.tipografia@cittanuova.it

INTRODUZIONE

Agostino non ha scritto dei trattati sulla giustizia,


però ne ha parlato innumerevoli volte nelle sue opere 1.
Benché inserite in contesti e periodi differenti, le sue ri-
flessioni seguono spesso degli schemi costanti. I temi
più ricorrenti possono essere organizzati, senza pretese
di sistematicità, attorno ad alcuni nuclei fondamentali.
Distingueremo così quattro livelli in cui può porsi il
problema della giustizia: in sé (I), nell’uomo singolo
(II), nella vita associata (III) e in Dio (IV). Quindi esa-
mineremo una questione ad essi trasversale, quella dei
rapporti tra la giustizia e la legge (V). Questo ci con-
durrà ad affrontare infine la dottrina della giustificazio-
ne (VI), dalla quale emergerà la figura di Cristo come
nesso unificante i vari aspetti della giustizia.

1 Il CD-Rom Corpus Augustinianum Gissense, a cura di C.


Mayer (1996, 20022), contenente in versione elettronica l’Opera
omnia di Agostino, se interrogato con la parola chiave iustitia dà
come risultato ben 2.462 luoghi. Per preparare questa antologia li
abbiamo consultati tutti, anche se la selezione finale, per ovvie ra-
gioni, ha dato ospitalità solo ad alcuni. La traduzione italiana dei
brani riportati è quella della NBA. Le abbreviazioni delle opere
agostiniane sono quelle stabilite dall’Augustinus-Lexicon, a cura
di C. Mayer, vol. I, Basel 1986.

5
I. LA GIUSTIZIA IN SÉ: UNA REALTÀ INTELLIGIBILE

1. La bellezza incorporea della giustizia

Se ci venisse chiesto qual è il modo ordinario in cui


noi uomini facciamo esperienza della giustizia, proba-
bilmente penseremmo subito a situazioni negative: un
torto subito, che ci fa invocare una giusta riparazione, o
un contrasto fra interessi, ove ognuno rivendica la par-
te che gli spetta. Agostino vede le cose in maniera dif-
ferente. Per lui il modo in cui l’uomo esperisce la giu-
stizia è in primo luogo la percezione d’una bellezza tut-
ta speciale 2. Prendiamo ad esempio un vecchio di cui
ammiriamo la rettitudine. Il suo corpo non ha più nul-
la di piacevole, eppure egli ci risulta quanto mai amabi-
le 3. E che dire dei martiri morti nel circo? La visione
dei loro corpi dilaniati è orribile, eppure la loro testimo-
nianza di fede ci riempie d’amore 4. Al contrario, un
giovane dalle sembianze splendide ci appare tuttavia ri-
pugnante, se sappiamo che si tratta di un ladro 5. La
giustizia di una persona ci attrae più della proporzione
e del colorito delle sue membra.
Queste particolari esperienze del bello ci mettono
in contatto con un genere di realtà, com’è quello posse-
duto dalla giustizia, che non può essere afferrato con i

2 Cf. lib. arb. III, 25, 77; s. 9, 16. Per la concezione agostinia-
na della bellezza, cf. il vol. 21 della PBA, a cura di R. Piccolomini
(1995). Il peso dato alla bellezza nell’esperienza della giustizia è un
tratto originale rispetto alla riflessione filosofica precedente.
3 Cf. en. Ps. 32, II, 1, 6.
4 Cf. en. Ps. 64, 8.
5 Cf. Io. ev. tr. 3, 21.

6
sensi del corpo. Ciò che rende un uomo degno d’amore,
perché giusto, è qualcosa che né gli occhi, né le orecchie,
né le mani riescono a cogliere 6. Noi percepiamo la giu-
stizia e la sua bellezza con occhi diversi da quelli mate-
riali: con gli occhi del cuore, cioè con la nostra intelli-
genza 7. Grazie ad essa contempliamo una realtà priva
di figura e d’estensione, senza colori e senza suoni, ma
non per questo inesistente o vuota 8. L’essere della giu-
stizia è invece così pieno e intenso che il suo valore non
è nemmeno comparabile con quello del metallo più pre-
zioso (dovremmo ricordarcene, quando la nostra onestà
è messa alla prova) 9. In quanto è un bene dell’anima,
tuttavia, la giustizia non possiede ancora l’essere in gra-
do sommo, che è proprio soltanto di Dio 10. La luce pu-
rissima dell’essere divino è la vera fonte della giustizia,
dalla quale discende ogni giustizia umana 11.

2. Interiorità e trascendenza della giustizia ideale

Se la giustizia non può essere percepita dai sensi


corporei, allora la nozione che ne possediamo non ha

6 Cf. en. Ps. 41, 7.


7 Cf. Io. ev. tr. 3, 21; en. Ps. 42, 6; 64, 8; ep. 120, 2, 9-10. La
giustizia appartiene al genere di realtà che l’anima conosce diret-
tamente, senza la mediazione degli organi corporei: cf. s. novi 21,
6; 23, 7.
8 Cf. an. quant. 3, 4 - 4, 5.
9 Cf. s. 335, 1; 335C, 13.
10 Cf. ep. 120, 2, 12.
11 Cf. div. qu. 82, 2; en. Ps. 61, 21. Vedi infra la sezione sul-
la giustizia in Dio.

7
un’origine sensibile. È vero: noi vediamo uomini giu-
sti, però ciò che è giusto in loro non è il corpo che si ve-
de, ma l’anima che non si vede; noi capiamo che uno è
giusto se compie visibilmente atti da giusto, eppure non
potremmo riconoscere quegli atti visibili come propri di
un giusto se non possedessimo già l’idea della giustizia.
Quest’idea non la troviamo fuori di noi, nei corpi che
popolano il mondo esterno, ma dentro, nel nostro inti-
mo; e in noi non la troviamo come il ricordo di qualco-
sa che abbiamo visto in passato o come un’immagine
che ci siamo formati ascoltando esperienze altrui, ma
come una presenza originaria. Quando dico che la giu-
stizia consiste nel «dare a ciascuno il suo», io non ricor-
do né immagino, ma intuisco qualcosa che da sempre
sta qui, nella mia mente, e che tuttavia non s’identifica
con essa, perché io so di non essere giusto 12.
La presenza interiore della giustizia illumina i miei
giudizi. È come una luce 13, che mi consente di vedere
che cosa e chi è giusto e che cosa e chi non lo è. Una lu-
ce intelligibile, incorporea, onnipresente 14. Nemmeno
l’uomo ingiusto, che si è allontanato volontariamente
dalla giustizia, cessa di essere toccato da qualche suo
raggio 15. Il fatto che anche all’iniquo possa risplendere,
per quanto indirettamente e parzialmente, il valore nor-
mativo della giustizia, dimostra che quest’ultima appar-

12 Cf. lo straordinario passo di trin. VIII, 6, 9 e P. AGAËSSE,


La notion de justice, note complémentaire 11 in BA 16 (1955), pp.
583-584; J. MORÁN, Como se hace uno justo («De Trinitate» VIII),
«Estudio Agustiniano», 6 (1971), pp. 101-114.
13 Cf. en. Ps. 63, 11.
14 Cf. s. 4, 7.
15 Cf. trin. XIV, 15, 21.

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tiene a un livello superiore a quello dell’anima umana.
Essa è sì nell’anima, ma come qualcosa che la trascen-
de. Il suo statuto è il medesimo di quello della sapienza
o della verità: è in me come qualcosa che sta al di sopra
di me 16. La regola della giustizia pertanto non coincide
con la nostra soggettività, né tanto meno è una nostra
costruzione; proprio per questo essa può presentarsi a
noi con una forza imperativa che ci vincola e ci obbliga.

II. LA GIUSTIZIA NEL SINGOLO UOMO

1. La vita del giusto

Per Agostino, abbiamo detto, l’esperienza che ci in-


troduce alla realtà intelligibile della giustizia è la perce-
zione della sua bellezza, la quale risplende in chi l’in-
carna nella propria vita. Incontrare un giusto ci colpisce
profondamente, perché sappiamo bene quanta ingiusti-
zia vi sia nel mondo. Ma quali sono le caratteristiche
che ci fanno riconoscere un uomo giusto? Esse spiccano
per contrasto con quelle dell’ingiusto: tra i due infatti vi
è un’opposizione irriducibile 17. La qualità fondamen-
tale del giusto è l’umiltà, mentre quella dell’ingiusto è
la superbia 18. Mentre l’ingiusto cerca di eliminare il

16 Cf. lib. arb. II, 12, 34; vera rel. 39, 72; conf. VII, 10, 16;
17, 23. Per la nozione di sapienza, cf. il vol. 33 della PBA, a cura
di G. Santi (2001).
17 Cf. lib. arb. II, 15, 40.
18 La superbia infatti è la radice di ogni peccato: cf. Sir 10,
13 e civ. XII, 6.

9
giusto, la cui esistenza suona come un rimprovero all’i-
niquità, il giusto cerca di conquistare l’ingiusto alla giu-
stizia 19. Il giusto non vorrà mai commettere azioni ini-
que 20, non si lascerà in alcuna occasione sedurre dal fa-
scino ingannevole della disonestà 21, non si farà prende-
re dalla sete di vendetta 22, preferirà subire l’ingiustizia
piuttosto che commetterla 23. Egli detesta il peccato;
perciò non può diventare giusto chi prima non confessa
le proprie colpe e non prende la decisione di rompere
definitivamente con il male 24, ovvero chi non cessa di
nutrirsi d’ingiustizia (come il ricco del Salmo 49 [48] o
l’epulone della parabola evangelica) per aver fame e se-
te della giustizia vera 25. Il giusto è uno che appunto de-
sidera la giustizia, perché desiderarla è già possederla 26,
e se il suo animo è ancora troppo debole per gioire del-
le opere di giustizia, egli almeno desidererà di provare
un tale godimento spirituale 27.
Il giusto è tale per il solo amore della giustizia 28;
noi però lo conosciamo per le opere che pratica. Queste
sono anzitutto opere di misericordia: «Nella carità è il
frutto del giusto» 29. Una di queste opere è ad esempio

19 Cf. en. Ps. 36, 2, 1.


20 Cf. c. Gaud. I, 30, 35.
21 Cf. en. Ps. 61, 16; 65, 22.
22 Cf. en. Ps. 78, 14; 108, 4.
23 Cf. en. Ps. 56, 14; 124, 8.
24 Cf. en. Ps. 84, 14-16; 99, 5.
25 Cf. en. Ps. 48, 2, 8.
26 Cf. ep. 127, 5.
27 Cf. la lunga e complessa esegesi di Sal 119 (118), 20 in en.
Ps. 118, 8, 3-5.
28 Cf. trin. IX, 9, 14.
29 En. Ps. 57, 22. Cf. en. Ps. 49, 12. Sul nesso inscindibile fra

10
l’elemosina. A chi è dedito al commercio, Agostino con-
siglia un affare: dia del denaro ai poveri e riceverà in
cambio da Dio stesso la giustizia 30. Purché, natural-
mente, il denaro che distribuisce non sia il ricavato di
qualche azione iniqua, come il furto o l’usura! 31. Non
si creda, comunque, che aiutare chi è nel bisogno sia so-
lo un atto di generosità verso il quale non ci spinga al-
cun dovere. Chi tiene per sé le proprie ricchezze, senza
farne parte gli indigenti, non può ritenersi esente da col-
pa, non può sentirsi in pace con la coscienza per il solo
fatto che i suoi guadagni sono stati onesti. Chi non aiu-
ta il povero commette ingiustizia tanto quanto chi lo de-
ruba, perché ci sono due modi di fare il male: uno è ren-
dere misero il prossimo, l’altro è lasciarlo nella mise-
ria 32. Non v’è innocenza né giustizia senza solidarietà.
Per essere giusti non basta però compiere opere di
misericordia. La caratteristica essenziale del giusto, co-
me si accennava sopra, è l’umiltà. Chi fa del bene ma se
ne ascrive orgogliosamente il merito, non è veramente
giusto 33. Si rammenti la parabola del fariseo e del pub-
blicano: il primo vantava la propria osservanza della
legge, mentre il secondo riconosceva i propri peccati; so-
lo il pubblicano tornò dal tempio giustificato 34. Il vero
giusto, spiega Agostino, è il giustificato, ossia colui che

giustizia e carità, cf. R.M. PIZZORNI, Giustizia e carità, Roma 1993


(1a ed. 1969), pp. 521-560.
30 Cf. s. 61, 3, 3-4.
31 Cf. s. 113, 2, 2.
32 Cf. en. Ps. 100, 4.
33 Cf. s. 13, 2.
34 Cf. Lc 18, 8-14 e en. Ps. 49, 30.

11
è «fatto giusto» da Dio 35. E uno è «fatto giusto» non
per suoi meriti, ma per la grazia del Signore 36. Le ope-
re di giustizia sono la conseguenza, non la causa del do-
no divino. Chi è davvero giusto sa che la sua giustizia
gli è stata donata. Perciò non se ne vanta come se non
l’avesse ricevuta 37.

2. La giustizia come virtù

L’origine divina e gratuita della giustizia nell’ani-


mo umano getta nuova luce sulla sua natura di virtù 38.
Dai tempi di Platone, la filosofia antica aveva concepi-
to la giustizia come la virtù morale più importante e l’a-
veva associata in posizione preminente ad altre tre virtù
(prudenza, fortezza e temperanza), che insieme ad essa
prenderanno nella tradizione cristiana il nome di virtù
«cardinali» 39. Grazie a Cicerone, Agostino conosce be-
ne questa quadripartizione della virtù, così come la clas-
sica definizione della giustizia quale disposizione a «da-
re a ciascuno il suo» 40, e di entrambe si serve a più ri-

35 Cf. en. Ps. 31, II, 24.


36 Cf. en. Ps. 109, 1; 110, 3 e quanto diciamo sotto nella se-
zione relativa alla giustificazione.
37 Cf. civ. XVII, 4, 8.
38 Per il concetto agostiniano di virtù, cf. la sintesi di G.J.
LAVERE, Virtue, in AAE, pp. 871-874.
39 Fondamentale in questa storia fu il ruolo di Ambrogio: cf.
M. BECKER, Die Kardinaltugenden bei Cicero und Ambrosius: De
officiis (Chresis. Die Methode der Kirchenväter im Umgang mit
der antiken Kultur, IV), Basel 1994.
40 Cf. div. qu. 31, 1 (citazione letterale di CICERONE, De in-

12
prese nelle proprie opere 41. Lo schema tradizionale ri-
ceve però dalla rivelazione cristiana un senso inedito.
Se è vero, come Agostino insegna, che senza la grazia
l’uomo peccatore non può compiere il bene fino in fon-
do e raggiungere la salvezza, allora anche le quattro
virtù, che l’uomo acquisisce in seguito all’abitudine e
allo sforzo, risultano imperfette e in definitiva inutili
alla felicità, qualora non siano sorrette e perfezionate
dall’aiuto di Dio.
Questo aiuto, cioè la grazia, si realizza specialmen-
te in tre grandi doni: la fede, la speranza e la carità, che
la dottrina cristiana designerà con l’espressione di
«virtù teologali». Le quattro virtù «cardinali» affonda-
no in esse le loro radici. Perciò Agostino ripete conti-
nuamente, citando il versetto di Ab 2, 4 amato da san
Paolo (cf. Rm 1, 17; Gal 3, 11; cf. anche Eb 10, 38), che
«il giusto vive di fede» e che senza la fede non c’è vera
giustizia né vera virtù 42. Ciò non significa che chi è pri-

ventione II, 53, 159s.). Per l’importanza di Cicerone come fonte


di Agostino, cf. il classico studio di M. TESTARD, Saint Augustin et
Cicéron, Paris 1958, 2 voll.
41 Per le quattro virtù, cf. Acad. I, 7, 20; mor. I, 15, 25; 25,
46; lib. arb. I, 13, 27; II, 18, 50; II, 19, 52; Gn. adv. Man. II, 10,
13-14; mus. VI, 16, 51; vera rel. 15, 29; div. qu. 61, 4; en. Ps. 83,
11; Gn. litt. XII, 26, 54; s. 150, 8, 9; ep. 155, 3, 10.12 - 4, 13; 167,
2, 5-6; 171A, 2; civ. IV, 20; V, 20; XIII, 21; XIX, 4; trin. VI, 4, 6;
XIV, 9, 12; c. Iul. II, 5, 12 (citazione da Ambrogio); IV, 3, 19; re-
tr. I, 7, 3; c. Iul. imp. I, 36.
Per la giustizia come virtù con la quale si dà a ciascuno il
suo, cf. ord. I, 7, 19; II, 7, 22; Gn. adv. Man. II, 27, 41; an. quant.
9, 15; lib. arb. I, 13, 27; div. qu. 2; exp. prop. Rm. 44 [52]; s. 150,
8, 9; en. Ps. 83, 11; civ. XIX, 4; XIX, 21, 1.
42 Cf. trin. XIII, 20, 26; c. Iul. IV, 3, 17.19.

13
vo di fede sia incapace di atti di giustizia verso il pros-
simo (la storia romana, ad esempio, ci tramanda vari ca-
si di gesti virtuosi ed eroici); tuttavia a tali atti non può
corrispondere il possesso di quella piena giustizia di
fronte a Dio, che solo la grazia di Cristo può donare 43.
Un discorso analogo vale per la speranza. Anch’es-
sa è necessaria per essere autenticamente virtuosi, per-
ché indirizza le nostre azioni al loro fine ultimo, la vita
eterna che ci è stata promessa 44. Se le nostre attività
non sono orientate al Regno dei cieli, allora non sono
espressioni di vere virtù e non ci rendono degni della
beatitudine, come Agostino ricorda con franchezza al go-
vernatore Macedonio 45. La moralità di un atto, infatti,
dipende in maniera essenziale dal fine che ci si prefigge
nel compierlo. Supponiamo che io non mi appropri del-
la roba altrui perché altrimenti subirei una sanzione
maggiore dell’illecito guadagno che potrei ottenere: sono
forse un giusto o non sono piuttosto un avaro? 46.

43 Cf. spir. et litt. 27-28, 48. Sulla valutazione agostiniana


delle virtù dei pagani, cf. J. MAUSBACH, Die Ethik des heiligen Au-
gustinus, Freiburg im Breisgau 19292, pp. 259-299; J. WANG
TCH’ANG-TCHE, Saint Augustin et les vertus des païens, Paris 1938;
G. BARDY, Les vertus des anciens Romains, note compl. 69 in BA
33 (1959), pp. 830-831; ID., Les vertus des païens, note compl. 23
in BA 37 (1960), pp. 760-762; F. PERAGO, Una “querelle” del V se-
colo sulla giustizia, la virtù, la salvezza degli infedeli, «Asprenas»,
9 (1962), pp. 32-40; M.-F. BERROUARD, Les vertus des païens, no-
te compl. 6 in BA 73B (1989), pp. 408-412; J. VIVES, Agustín: so-
lo salva la gracia de Cristo. Las virtudes de los Paganos, «Estudios
eclesiásticos», 70 (1995), pp. 311-313.
44 Cf. civ. XIX, 10. 20.
45 Cf. ep. 155, 3, 9-10.
46 Cf. c. Iul. IV, 3, 21.

14
Se fede e speranza sono condizioni indispensabili
delle virtù umane, la carità ne è addirittura la forma co-
mune. Tutte le virtù non sono altro che diverse configu-
razioni assunte dall’amore per Dio. Dio infatti è il som-
mo bene dell’uomo, e compito della virtù è appunto
quello di condurre al godimento del bene sommo 47. In
particolare, la giustizia è l’amore che ci fa servire Dio
soltanto e che, proprio grazie a ciò, ci consente di gover-
nare rettamente ciò che ci è sottomesso 48. Così facen-
do, la giustizia dà veramente a ciascuno il suo: a Dio,
che è amabile sopra ogni cosa, il primo posto; all’uomo,
che è fatto a immagine di Dio, la dignità di non essere
sottoposto ad altri che a Dio e il diritto di dominare il
resto; alle cose del mondo, un’amministrazione saggia e
rispettosa della volontà del Creatore 49. L’amore di Dio
sopra ogni cosa ristabilisce nell’uomo l’ordine infranto
con il peccato di Adamo, che preferì se stesso a Dio.
Conseguenza della disobbedienza dell’uomo a Dio fu la
disobbedienza dell’uomo a se stesso, il conflitto della
carne con lo spirito, la resistenza del corpo al dominio
dell’anima, quindi l’ingiustizia di un essere la cui parte
inferiore rifiutava di sottomettersi a quella superiore 50.
La carità, riportando l’uomo al giusto rapporto con Dio,
lo mette di nuovo nella condizione di dominare i propri
impulsi e di essere giusto con se stesso e con gli altri 51.

47 Cf. mor. I, 15, 25; 19, 35 - 25, 46.


48 Cf. mor. I, 15, 25; 24, 44. 46.
49 Cf. vera rel. 48, 93; civ. XIX, 4, 4.
50 Cf. civ. XIV, 13.15.
51 Cf. civ. XIX, 25.

15
Il nesso esistente fra la giustizia e la carità ci con-
sente infine d’intuire qualcosa circa il destino escatolo-
gico delle virtù 52. Nella vita del mondo che verrà, al-
cuni aspetti della virtù della giustizia certamente scom-
pariranno: il sovvenire ai bisogni dei poveri, ad esem-
pio, perché non vi saranno più indigenti, o il mantene-
re il controllo sui propri impulsi, perché non si daran-
no più pulsioni contrarie alla ragione 53. Rimarrà inve-
ce la giustizia come sottomissione amorosa a Dio; anzi,
essa raggiungerà la sua pienezza proprio nella visione
finale e nell’adesione perseverante al sommo Bene 54.
La giustizia inizia in questa vita come amore che lotta,
per compiersi in quella futura come amore che contem-
pla nella pace.

3. La perfezione della giustizia umana

La perfezione della giustizia coincide dunque con


la perfezione della carità, di quella carità che viene in-
fusa nei nostri cuori attraverso il dono dello Spirito San-
to. «Pertanto», conclude Agostino, «una carità prin-
cipiante è una giustizia principiante, una carità matu-
ra è una giustizia matura, una carità grande è una giu-
stizia grande, una carità perfetta è una giustizia perfet-

52 Su questo problema ha richiamato recentemente l’atten-


zione M. BECKER, Augustinus über die Tugenden in Zeit und
Ewigkeit, in Alvarium. Festschrift für C. Gnilka, hrsg. von W. Blü-
mer, R. Henke, M. Mülke, Münster 2002, pp. 53-63.
53 Cf. en. Ps. 83, 11; civ. XIX, 27.
54 Cf. ep. 155, 3, 12 - 14, 13; trin. XIV, 9, 12.

16
ta» 55. Siamo tanto più giusti, quanto più amiamo Dio.
Ma amiamo tanto più Dio, quanto più lo conosciamo.
Adesso noi conosciamo Dio in maniera enigmatica e
confusa, ma dopo questa vita lo vedremo faccia a fac-
cia, così come Egli è. Ecco perché anche l’amore di Dio,
e quindi la giustizia, non saranno perfetti che nella vi-
ta futura 56.
Che la nostra giustizia in questa vita sia sempre im-
perfetta, ci viene confermato autorevolmente dalle Scrit-
ture. Esse ci insegnano che nessun vivente è giusto da-
vanti a Dio (Sal 143 [142], 2), che chi si ritiene privo di
peccati s’inganna (1 Gv 1, 8), che non c’è nessuno che
non peccherà (1 Re 8, 46; Qo 7, 20); per questo ogni
giorno dobbiamo chiedere a Dio, nel «Padre nostro»
(cf. Mt 6, 12; Lc 11, 4), di rimettere a noi i nostri debi-
ti 57, come ribadisce concordemente lo stesso magistero
ecclesiastico 58. Sulla base di questa verità rivelata, tra-
smessa dalla Scrittura e dalla Tradizione, Agostino ar-
gomenta contro la tesi pelagiana dell’impeccantia, os-
sia dell’effettiva possibilità di vivere in questo mondo
senza commettere il minimo peccato 59. Agostino am-
mette che quaggiù possa esistere un uomo senza pecca-

55 Nat. et gr. 70, 84.


56 Cf. ep. Io. tr. 4, 8; spir. et litt. 36, 64; perf. iust. 3, 8; c. ep.
Pel. III, 7, 21.
57 Cf. pecc. mer. II, 13, 18; 14, 21; spir. et litt. 36, 65.
58 Cf. c. ep. Pel. IV, 12, 33. In c. ep. Pel. IV, 8, 21 - 12, 32.
Agostino cita Cipriano e Ambrogio a testimoni contro l’accusa
dei vescovi pelagiani di aver introdotto nella Chiesa una dottrina
(quella del peccato originale) nuova e contraria alla tradizione (cf.
c. ep. Pel. IV, 8, 20).
59 Cf. pecc. mer. II.

17
to, se liberamente vuole il bene e se la grazia di Dio gli
dà la forza per compierlo. Questa possibilità non può
non essere concessa, altrimenti i comandamenti divini
risulterebbero privi di senso. Tuttavia quanto la Rivela-
zione ci dice sul peccato di tutti induce a credere che, di
fatto, un uomo perfettamente giusto non esista. Nean-
che i santi più grandi (tranne Maria 60) furono esenti da
qualche peccato.
Può sembrare strano che l’uomo pecchi pur poten-
do non peccare. Non bisogna però dimenticare che, per
agire rettamente, occorre conoscere ciò che è giusto e
provare attrazione per esso. Nella nostra condizione ter-
rena, invece, noi siamo affetti da ignoranza e debolezza,
sicché a volte non sappiamo esattamente che cosa sia
giusto fare o, se lo sappiamo, il fascino sinistro dell’ini-
quità ci seduce di più 61. Certo, Dio potrebbe, con la sua
grazia, svelarci il giusto e rendercelo amabile; ma se
non lo fa, il motivo va cercato nella nostra volontà, che
non vuole chiederglielo, o nella sua sapienza pedagogi-
ca, che ci svela la necessità di essere aiutati 62. Dio così
ci insegna che la sua grazia è un dono da impetrare nel-
la preghiera e che la nostra giustizia viene da Lui, seb-
bene non si attui senza la nostra volontà 63. Quand’an-
che vi fosse un uomo perfettamente giusto, ciò dipende-
rebbe comunque, oltre che dalla sua volontà, dalla gra-
zia di Dio 64. In ogni caso, è assolutamente da esclude-

60 Cf. nat. et gr. 36, 42 e la nota ad loc. di A. Trapè in NBA


XVII/1, p. 429.
61 Cf. pecc. mer. II, 17, 26.
62 Cf. pecc. mer. II, 19, 32; spir. et litt. 35, 63.
63 Cf. pecc. mer. II, 19, 33; spir. et litt. 5, 7.
64 Cf. nat. et gr. 42, 49; 60, 70.

18
re che esista, sia esistito in passato o possa esistere in fu-
turo un uomo la cui vita sia stata sempre immune da
peccato: tutti infatti nasciamo con il peccato originale,
poiché tutti, senza eccezioni, abbiamo bisogno della sal-
vezza di Cristo.
La possibilità della giustizia perfetta e la sua ir-
realtà in questa vita non sono in contraddizione, né è
assurdo comandare all’uomo la perfezione della giusti-
zia, anche se di fatto egli non la realizza mai. Il coman-
do della perfezione ci indica infatti la meta alla quale
dobbiamo tendere. «Non si corre come si deve se s’igno-
ra dove si deve correre» 65. La perfezione che si attua ef-
fettivamente in questa vita consiste proprio nel tendere
perfettamente alla giustizia che si compirà nella vita fu-
tura 66. Ciò si concretizza anzitutto nel riconoscere
umilmente la propria imperfezione 67; e poi nel non
bramare nulla d’illecito 68 e nel sottrarsi al peccato 69;
nel combattere contro le passioni cattive 70 e la concu-
piscenza 71 e nel volere che la carne aderisca totalmen-
te allo spirito 72; nel distaccarsi interiormente dai beni
mutevoli di questo mondo 73; nel praticare il digiuno,
l’elemosina, la preghiera 74 e tutto il bene che s’insegna

65 Perf. iust. 8, 19. Cf. pecc. mer. II, 16, 23.


66 Cf. perf. iust. 8, 18.
67 Cf. c. ep. Pel. III, 7, 19; s. 306B, 3.
68 Cf. spir. et litt. 36, 65.
69 Cf. perf. iust. 13, 31.
70 Cf. s. 151, 3, 3.
71 Cf. nat. et gr. 62, 72.
72 Cf. c. Iul. III, 26, 62.
73 Cf. vera rel. 48, 93; s. 127, 7.
74 Cf. en. Ps. 42, 8.

19
a parole 75; nel crescere nella fede 76 sino a testimoniar-
la, se necessario, con il martirio 77.
Tutto ciò in attesa della giustizia futura. Anche que-
st’ultima, tuttavia, negli eletti non sarà così perfetta
com’è quella degli angeli, che non hanno mai peccato 78,
o com’è quella, ancor superiore, di Dio, che è il modello
irraggiungibile di ogni perfezione 79. Dopo la risurrezio-
ne, la giustizia umana sarà quella di una pace definitiva-
mente conquistata, di una perseveranza nel bene dona-
ta per sempre. Essa sarà il premio della giustizia perse-
guita in questa vita nella lotta contro il peccato, e non
consisterà più nell’osservare dei comandamenti, perché
l’essere sarà ormai identico al dover essere 80.

III. LA GIUSTIZIA NELLA VITA ASSOCIATA

1. Giustizia e Stato

Una società giusta è una società di uomini giusti.


Uno Stato giusto è uno Stato costituito da un popolo
giusto. Quando tratta della giustizia nelle diverse forme
associative dell’esistenza umana (dalla famiglia all’Im-
pero romano), Agostino non si preoccupa di determina-
re le caratteristiche che le istituzioni dovrebbero posse-

75 Cf. ep. 2*, 6; retr. I, 19, 4.


76 Cf. pecc. mer. II, 13, 20.
77 Cf. s. 159, 1, 1; 7, 8; s. 285, 5.
78 Cf. ep. Io. tr. 4, 3.
79 Cf. ep. Io. tr. 4, 9.
80 Cf. c. ep. Pel. III, 7, 23.

20
dere per essere qualificate come giuste, ma riporta il
problema alla qualità morale delle persone che di fatto
incarnano i vari organismi sociali 81. Non basta un cer-
to assetto istituzionale o un determinato codice di rego-
lamentazione dei rapporti tra i soggetti per assicurare la
giustizia in una società; occorre che siano giusti anche i
contenuti e gli scopi delle politiche e delle attività poste
in essere dai suoi membri.
Agostino illustra questo concetto nella Città di
Dio con due esempi famosi. Il primo è un gustoso aned-
doto su Alessandro Magno. Un giorno questi catturò un
pirata e gli chiese perché mai si fosse messo a infestare
il mare. Il pirata gli rispose che il motivo era lo stesso
che aveva spinto Alessandro a infestare la terra intera;
solo che Alessandro lo faceva con una forza militare ec-
cezionale, ed era per questo chiamato imperatore, men-
tre lui poteva disporre solo di una piccola barca, e per
questo veniva considerato un brigante. Risposta vera,
commenta Agostino: tra un regno potente, che soggioga
popoli per depredarne le ricchezze, e una cricca di ladro-
ni, v’è una differenza quantitativa, non qualitativa: a

81 Da questo punto di vista, probabilmente Agostino avreb-


be sottoscritto una delle obiezioni che A. MacIntyre e altri oggi ri-
volgono alla concezione procedurale della giustizia propria di fi-
losofi politici quali J. Rawls e R. Nozick e che può essere formu-
lata così: «La giustizia non è primariamente una questione di pro-
cedure e di regole; è piuttosto qualcosa che concerne il compor-
tamento delle persone rispetto ai propri simili, è insomma una
virtù della persona, tanto è vero che si può essere giusti in una so-
cietà ingiusta e ingiusti in una società giusta» (A. DA RE, Figure
dell’etica, in Introduzione all’etica, a cura di C. Vigna, Milano
2001, pp. 96-97).

21
entrambi manca la giustizia nei riguardi degli altri. Si
badi: la giustizia, non l’organizzazione interna, l’osser-
vanza delle regole stabilite dal gruppo o la ripartizione
del bottino secondo i patti. «Se non è rispettata la giu-
stizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande
di ladri?» 82. È una domanda retorica che, dopo tanti
secoli, fa ancora riflettere.
Il secondo esempio riguarda nientemeno che lo
Stato romano. Dopo il sacco di Roma del 410, si erano
moltiplicate contro il cristianesimo le accuse di aver in-
debolito l’Impero a causa dell’abbandono del culto de-
gli dèi, che ne avevano assicurato per tanto tempo la
protezione. Protezione? La storia romana, ribatte Ago-
stino, attesta una gran quantità di sciagure ben prima
dell’avvento della religione cristiana. I presunti dèi ado-
rati dai pagani, inoltre, non protessero affatto i Roma-
ni dal male della corruzione e dell’iniquità, anzi lo fo-
mentarono pretendendo dei culti spesso perversi. Auto-
ri come Sallustio e Cicerone testimoniano la grave de-
cadenza dei costumi in un periodo precedente la nasci-
ta di Cristo. Stando ai criteri posti proprio da Cicerone,
fu una decadenza che portò addirittura alla scomparsa
dello Stato romano in quanto res publica. Nel dialogo
ciceroniano De re publica, infatti, Scipione Emiliano
aveva definito lo Stato (res publica) come una «cosa del
popolo» (res populi), e il popolo, a sua volta, come «un

82 Civ. IV, 4. Cf. G. BARDY, Sans la justice, les empires sont


des brigandages, note compl. 44 in BA 33 (1959), pp. 800-801; P.
CAMBRONNE, La “iustitia” chez S. Augustin (Cité de Dieu, IV, 4).
(1) Des philosophies classiques à la théologie, «Cahiers Radet»
(Bordeaux), 5 (1987), pp. 9-48.

22
gruppo associato dalla universalità del diritto e dalla co-
munanza degli interessi» 83. In base a tali definizioni,
Scipione concludeva che, qualora il popolo non venga
amministrato con giustizia (come nel caso della tiranni-
de), non v’è nemmeno lo Stato, e che un popolo ingiu-
sto non è più un popolo degno di questo nome. A detta
dello stesso Cicerone, ciò si era purtroppo verificato a
Roma, a causa del vizio dilagante presso i cittadini 84.
Agostino sviluppa e porta alle estreme conseguenze il
paradosso ciceroniano. Se il popolo esiste solo quando
vi è conformità al diritto, e se l’autentico diritto si fon-
da su una giustizia che non coincide con l’interesse del
più forte 85, allora non vi è popolo quando gli individui

83 Cf. civ. II, 21, 2. Sul rapporto fra Agostino e il De re pu-


blica ciceroniano, cf. H. HAGENDAHL, Augustine and the Latin
Classics, vol. II: Augustine’s Attitude, Göteborg 1967, pp. 540-
553; P.-A. DEPROOST, Étude comparative du «De republica» de
Cicéron et du «De civitate Dei» de saint Augustin: civitas - virtus -
iustitia, Mémoire de licence, Un. Cathol. de Louvain 1979.
84 Cf. civ. II, 21, 3.
85 La filosofia agostiniana del diritto è stata studiata soprat-
tutto da autori di lingua spagnola: cf. A. TRUYOL SERRA, Supuestos
y conceptos fundamentales del pensamiento jurídico de San Agu-
stín, «Verdad y Vida», 2 (1944), pp. 308-336, 513-531; F. CAMPO
DEL POZO, Filosofía del derecho según San Agustín, Valladolid
1966; ID., Fundamentación del derecho según San Agustín, «Anua-
rio Jurídico Escurialense», 19/20 (1987/88), pp. 139-171; ID., La
fundamentación filosófica y teológica del derecho según san Agustín
y los mitos, «Pensamiento agustiniano», 13 (1998), pp. 11-37; ID.,
Fundamentación teológica del derecho y los mitos según san Agu-
stín, «La Ciudad de Dios», 213 (2000), pp. 169-199; L. VELA, Exi-
stencialismo jurídico de San Agustín, «Estudios eclesiásticos», 42
(1967), pp. 481-507; P.J. BADILLO O’FARRELL, Presupuestos teoló-
gicos de la filosofía jurídica agustiniana, prólogo de F.E. de Tejda,

23
non agiscono secondo giustizia. E se la giustizia consi-
ste nel dare a ciascuno il suo, il popolo romano, finché
adorava i falsi dèi del paganesimo e non rendeva al ve-
ro Dio il culto dovuto, si trovava nell’ingiustizia; quin-
di non era un popolo in senso proprio 86. Niente giusti-
zia, niente popolo; niente popolo, niente Stato 87.
Agostino è consapevole del carattere paradossale di
questa conclusione e non segue fino in fondo Cicerone
nella tesi della scomparsa dello Stato a Roma. Il popo-

Sevilla 1975; J.F. ORTEGA MUÑOZ, Derecho, Estado e historia en


Agustín de Hipona, Málaga 1981; A. BASAVE FERNÁNDEZ DEL VAL-
LE, La filosofía jurídica y socio-política de San Agustín, «Anuario
Jurídico Escurialense», 19/20 (1987/88), pp. 117-130. Oltre a
questa fiorente letteratura, cf. gli studi di V. GIORGIANNI, Il con-
cetto del diritto e dello Stato in sant’Agostino, Padova 1951; P.
BREZZI, I fondamenti filosofici del diritto e dello Stato, in AA.VV.,
S. Agostino e le grandi correnti della filosofia contemporanea, To-
lentino 1956, pp. 191-214; C. BOYER, Droit et morale dans saint
Augustin, «Revista Agustiniana de Espiritualidad», 7 (1966), pp.
169-185, ried. in ID., Essais anciens et nouveaux sur la doctrine de
saint Augustin, Milano 1970, pp. 245-262; S. DE MACEDO, O pen-
samento juridico de Santo Agostinho, «Revista Brasileira de Filoso-
fia», 28 (1978), pp. 433-441; C.P. MAYER, Legitimation des Rechts
bei Augustinus, in Geschichtliche Rechtswissenschaft: Ars tradendo
innovandoque aequitatem sectandi, Gießen 1990, pp. 383-401.
86 Cf. civ. XIX, 21, 1-2.
87 Cf. civ. XIX, 23, 5. Il modo in cui Agostino si serve dei
concetti di “giustizia” e di “Stato” propri della tradizione romana
è stato studiato da V. HAND, Augustin und das klassisch römische
Selbstverständnis. Eine Untersuchung über die Begriffe “gloria”,
“virtus”, “iustitia” und “res publica” in «De civitate Dei», Hamburg
1970, pp. 41-101. Cf. anche G. BARDY, Justice et République d’a-
près saint Augustin, note compl. 22 in BA 37 (1960), pp. 759-760;
J. CHRISTES, Christliche und heidnisch-römische Gerechtigkeit in
Augustins Werk «De civitate Dei», «Rheinishes Museum für Phi-
lologie», 123 (1980), pp. 163-177.

24
lo, infatti, si può anche definire come «l’unione di un
certo numero d’individui ragionevoli associati dalla
concorde partecipazione degli interessi che persegue», e
in questo senso i Romani, gli Ateniesi, gli Egiziani, gli
Assiri e tutti i popoli pagani furono davvero dei popoli
e i loro Stati furono davvero degli Stati 88. Resta co-

88 Cf. civ. XIX, 24. Sulla nozione agostiniana di “popolo”,


cf. J.D. ADAMS, Augustine’s Definitions of populus and the Value
of Society, in The City of God. A Collection of Critical Essays, ed.
with an Introduction by D.F. Donnelly, New York ecc. 1995, pp.
171-182. Più in generale, sulle idee sociali e politiche di Agostino,
specialmente in relazione alla concezione della giustizia, cf. G.
COMBÈS, La doctrine politique de saint Augustin, Paris 1927; T.M.
GARRETT, St. Augustine and the Nature of Society, «The New
Scholasticism», 30 (1956), pp. 16-36; S. COTTA, La città politica di
S. Agostino, Milano 1960; H.A. DEANE, The Political and Social
Ideas of St. Augustine, New York-London 1963; L. BELLOFIORE,
Stato e giustizia nella concezione agostiniana, «Rivista internazio-
nale di Filosofia del Diritto», serie III, 41 (1964), pp. 150-160; F.
CAVALLA, “Scientia”, “sapientia” ed esperienza sociale, vol. II: Le
due città di S. Agostino: società, diritto e giustizia, Padova 1974;
D.C SNYDER, Augustine’s Concept of Justice and Civil Govern-
ment, «Christian Scholar’s Review» (Houghton, Tex.), 14 (1985),
pp. 244-255; S. FOLGADO FLÓREZ, El Estado y el principio de la ju-
sticia. Una aproximación a la teoría de las limitaciones del poder
político, según San Agustín, «Anuario Jurídico Escurialense»,
19/20 (1987/88), pp. 75-115 (anche in «Pensamiento agustinia-
no», 2: Jornadas internacionales de filosofía agustiniana, Caracas
1991, pp. 99-140); J.L. TRELOAR, Cicero and Augustine: the Ideal
Society, «Augustinianum», 28 (1988), pp. 565-590; A.J. PAREL, Ju-
stice and Love in the Political Thought of St. Augustine, in Grace,
Politics and Desire: Essays on Augustine, Calgary 1990, pp. 71-84,
rist. in Augustine, ed. by J. Dunn and I. Harris, vol. II, Chel-
tenham, UK - Lyme, USA 1997, pp. 401-417; M. RUOKANEN,
Theology of Social Life in Augustine’s «De civitate Dei», Göttingen
1993; E. FORTIN, Justice as the Foundation of the Political Commu-

25
munque il fatto che in essi non vi fu una vera giustizia,
la quale si ha solamente quando i cittadini sono giusti;
essi lo sono quando in ciascuno l’anima comanda il cor-
po e la ragione controlla gli impulsi, e ciò è possibile so-
lo se anima e ragione si sottomettono a Dio, come ab-
biamo già detto. Agostino sa fin troppo bene che un in-
tero popolo fatto di cittadini così non esiste su questa
terra; perciò nella sua visione della storia umana la
Città di Dio e la città terrena, la comunità dei giusti e
quella degli ingiusti si mescolano, all’interno di ogni
popolo e di ogni Stato, in un intreccio che solo il Giudi-
zio finale giungerà a districare.

2. Giustizia e giudizio

Comunemente, il luogo sociale per eccellenza della


giustizia è considerato quello nel quale essa viene am-
ministrata: il tribunale. E il tribunale, inteso come or-
gano, è un soggetto giudicante. Questo nesso tra giusti-
zia e giudizio era evocato varie volte nella versione lati-
na della Bibbia utilizzata da Agostino 89, e il vescovo
d’Ippona non mancò di commentarlo. Egli spiega che
nel linguaggio delle Scritture la parola «giudizio» desi-
gna non un giudizio qualunque, ma un giudizio retto,

nity: Augustine and His Pagan Models, in Augustinus, De civitate


Dei, hrsg. von C. Horn, Berlin 1997, pp. 41-62; P. WEITHMAN,
Augustine’s Political Philosophy, in The Cambridge Companion to
Augustine, ed. by E. Stump and N. Kretzmann, Cambridge 2001,
pp. 234-252.
89 Cf. ad es. Sal 99 [98], 4 in en. Ps. 98, 7; Sal 119 [118], 121
in en . Ps. 118, 26, 1.

26
cioè un giudizio conforme a giustizia, e quindi un giu-
dizio buono, perché la giustizia non può non essere buo-
na 90. Perciò gli autori sacri talvolta usano «giustizia» e
«giudizio» come sinonimi; tra i due termini, tuttavia, vi
è propriamente una differenza, perché il praticare la
giustizia non si esaurisce nel giudicare rettamente 91; il
giudizio inoltre si esercita intellettualmente, discernen-
do il bene e il male, la giustizia invece si attua pratica-
mente, seguendo il primo ed evitando il secondo 92.
Tanto il giudizio quanto la giustizia, comunque, sono
un dono di Dio, e l’inferma volontà umana non riusci-
rebbe mai ad acquisirli con le sole sue forze 93.
Ispirandosi alla spiritualità biblica, Agostino ha
delineato un ritratto ideale del giudice giusto. Chi pos-
siede un’autorità giudiziaria deve anzitutto giudicare se
stesso. Se si esaminerà con onestà, riconoscerà di aver
commesso qualcosa di cui la coscienza lo rimprovera.
Che cosa succederà allora? Egli si pentirà delle proprie
colpe, le punirà con il rimorso e la riparazione, ma non
giungerà a distruggere se stesso. Ebbene, la stessa cosa
faccia il giudice con l’imputato. Se lo giudicherà colpe-
vole, lo punisca com’è giusto, ma non gli tolga la vita.
Bisogna colpire inflessibilmente il reato, ma risparmia-
re il reo. La disposizione di chi giudica dev’essere come
quella di un padre, che punisce per correggere. Proprio
perché la punizione è funzionale alla correzione, d’altra
parte, anche la mancata applicazione delle sanzioni

90 Cf. en. Ps. 118, 26, 1.


91 Cf. en. Ps. 105, 4.
92 Cf. en. Ps. 98, 7.
93 Cf. ibid.

27
(esclusa la pena di morte, come vedremo meglio tra po-
co) è una crudeltà, poiché toglie a chi ha sbagliato una
possibilità per migliorarsi 94. Così, se il giudizio dev’es-
sere guidato dalla misericordia, la misericordia dev’es-
sere regolata dalla giustizia. Favorire un colpevole per-
ché è povero non è un vero atto di misericordia: l’impu-
nità lascia il povero prigioniero della sua iniquità 95.

3. Pena di morte e intercessione dei vescovi

Agostino non si limitò a enunciare questi princìpi


in linea teorica, ma ne fece dei criteri operativi per la
sua prassi pastorale. Non esitò, ad esempio, a fare pres-
sioni presso i magistrati affinché non applicassero ai
Donatisti (che pure erano suoi avversari) la pena di
morte prevista dalla legge 96. Questi suoi interventi su-
scitarono le perplessità di Macedonio, vicario d’Africa
tra il 413 e il 414. Come può un vescovo ritenere suo
dovere quello d’intercedere a favore di un colpevole che
merita la morte? In questa maniera non si approvano
forse i misfatti del reo e non se ne diventa in certa mi-
sura complici? 97. La risposta a questa e ad altre obie-
zioni si trova nella lunga Lettera 153, uno dei gioielli
dell’epistolario agostiniano e un documento altamente
significativo dell’atteggiamento cristiano verso la pena
di morte.

94 Cf. s. 13, 7-9.


95 Cf. en. Ps. 32, II, 1, 12; qu. II, 88.
96 Cf. l’ep. 100 al proconsole Donato.
97 Cf. ep. 152, 2 (Macedonio ad Agostino).

28
I vescovi che intercedono per i colpevoli, spiega
Agostino, non approvano affatto i crimini e non desi-
derano nemmeno che restino impuniti. Essi anzi dete-
stano le colpe, ma per il motivo che queste corrompo-
no la natura di chi le commette, una natura che, essen-
do stata creata da Dio, è in sé buona. Bisogna persegui-
re il reato affinché il reo si corregga. Ma solo in questa
vita è possibile correggersi; perciò la pena di morte to-
glie al reo tale opportunità e lo consegna senza scampo
alla condanna eterna 98. L’intercessione dei vescovi
non ha altro scopo che concedere al reo una chance di
ravvedimento 99. Così insegna a fare Dio stesso, che fa
sorgere il suo sole sopra i giusti e sopra gli ingiusti, sen-
za distinzione, pur non equiparando affatto gli uni agli
altri 100. Dalla pazienza di Dio impariamo che la possi-
bilità di emendarsi dev’essere concessa sempre di fron-
te a una dichiarazione di pentimento: anche se non si
hanno sicure garanzie di successo; anche se il soggetto
è recidivo 101. Chiedendo questa possibilità, i vescovi
non intendono svolgere il ruolo di difensori, non vo-
gliono trovare attenuanti o giustificazioni per i reati
commessi; essi intervengono solo quando la colpa è ac-
certata e il reo si mostra pentito, al fine di allontanare
o mitigare la pena 102.
Con ciò non si vuole assolutamente disconoscere la
legittimità e l’utilità del potere e dell’apparato giudizia-

98 Cf. ep. 153, 1, 3.


99 Cf. ep. 153, 2, 5.
100 Cf. ep. 153, 2, 4-5.
101 Cf. ep. 153, 3, 6-7.
102 Cf. ep. 153, 4, 10.

29
ri, e neanche la funzione deterrente della pena di mor-
te. La severità nel punire è anzi espressione di miseri-
cordia, quando mira alla correzione di chi ha sbagliato.
La morte del colpevole, tuttavia, fa venir meno il ruolo
correttivo e rieducativo che la pena dovrebbe sempre
possedere 103. Certo, può capitare che un pentito grazia-
to torni poi a macchiarsi di altri crimini, o che qualcu-
no tragga dalla clemenza verso un colpevole un incenti-
vo a delinquere con la speranza di non essere punito,
ma tali aberrazioni non sono imputabili alle interces-
sioni dei vescovi 104. È poi chiaro che, anche se uno non
viene condannato alla pena capitale, deve tuttavia resti-
tuire ciò di cui si sia illecitamente impossessato: chi non
vuol rendere il maltolto, non è veramente pentito 105.
A proposito di restituzioni, Agostino conclude la
lettera con un interessantissimo excursus su varie forme
di guadagni illeciti in uso nei tribunali di allora, come
somme di denaro in cambio di sentenze o testimonian-
ze favorevoli, oppure mance agli ufficiali giudiziari. E
che dire dell’onorario di un avvocato che ha difeso con-
sapevolmente un colpevole contro un innocente? L’one-
stà non imporrebbe forse di restituire quei soldi? Ma
per ingiustizie come queste, commenta Agostino con un
pizzico di amara ironia, non esistono purtroppo giudici
competenti 106…

103 Cf. ep. 153, 6, 16-17.


104 Cf. ep. 153, 6, 18.
105 Cf. ep. 153, 6, 20-22.
106 Cf. ep. 153, 6, 23-26.

30
4. Persecuzioni e guerre «giuste»

La posizione di Agostino nei confronti della pena


di morte appare vicina alla sensibilità oggi diffusa in
gran parte dell’opinione pubblica occidentale, che fati-
ca sempre più ad accettare non solo l’applicazione, ma
persino la legittimità della pena capitale, e tende per-
tanto a chiederne la completa abolizione. Ci sono in-
vece due altre tematiche sulle quali le idee di Agosti-
no sembrano piuttosto lontane dal sentire odierno, e
come tali hanno attirato e continuano ad attirare sul
vescovo d’Ippona non poche critiche e accuse: si tratta
della questione delle persecuzioni religiose e del con-
cetto di «guerra giusta». Agostino, dicono, avrebbe
giustificato la persecuzione degli avversari della Chie-
sa da parte del potere politico, e teorizzato la liceità
morale del ricorso alla guerra in certe circostanze. Il
problema più grave pare essere il primo, dal momento
che oggi giustamente si afferma il diritto di non esse-
re perseguitati per motivi religiosi. Anche il secondo
problema tuttavia è diventato scottante, dopo che la
tragica esperienza dei conflitti novecenteschi e l’inau-
dito potenziale distruttivo raggiunto dalle armi hanno
suscitato nella coscienza collettiva un senso crescente
di avversione e di ripudio verso ogni forma di guerra.
Prima di pronunciare un qualsiasi giudizio nei con-
fronti delle opinioni agostiniane, sarebbe però il caso
di conoscerle adeguatamente, cosa che raramente fan-
no coloro che sogliono tirare in ballo Agostino su tali
argomenti. Trattandosi di questioni complesse, qui po-
tremo dare solo alcune indicazioni, che i lettori più in-

31
teressati approfondiranno con uno studio diretto dei
testi agostiniani 107.
Cominciamo dal problema delle persecuzioni. La
posizione di Agostino in materia va collocata nel conte-
sto storico dello scisma donatista che travagliò la Chie-
sa d’Africa a partire dagli inizi del IV secolo. L’opposi-
zione dei Donatisti alla «grande Chiesa», accusata di
ospitare i lapsi, cioè coloro che avevano ceduto alle per-
secuzioni anticristiane, era degenerata dal piano della
polemica religiosa a quello dello scontro cruento. L’in-
transigenza donatista aveva dato luogo, da parte delle
frange più fanatiche, ad atti di inaudita crudeltà contro
i cattolici e d’intimidazione verso coloro che intendeva-
no ricongiungersi alla comunità da cui si erano separa-
ti. Il conflitto si era inasprito a causa del sovrapporsi di
fermenti sociali e di rivendicazioni autonomistiche con-
tro il centralismo romano, che fomentavano disordini e

107 Entrambe le questioni sono state studiate dagli interpre-


ti. Per quanto riguarda la coercizione religiosa, cf. P. BROWN, St.
Augustine’s Attitude to Religious Coercion, «Journal of Roman
Studies», 54 (1964), pp. 107-116, rist. in ID., Religion and Society
in the Age of St. Augustine, London 1972, pp. 260-278 (tr. it. Re-
ligione e società nell’età di sant’Agostino, Torino 1975, pp. 245-
263) e in Augustine, ed. by J. Dunn and I. Harris, vol. I, Chel-
tenham, UK - Lyme, USA 1997, pp. 382-391; B. QUINOT, Saint
Augustin et le recours au bras séculier, note compl. 21 in BA 30
(1967), pp. 799-803; É. LAMIRANDE, Church, State and Toleration.
An Intriguing Change of Mind in Augustine, Villanova (Pa.) 1975;
ID., Coercitio, in Augustinus-Lexicon, a cura di C. Mayer, I, Basel
1986-1994, coll. 1038-1046; K.H. CHELIUS, Compelle intrare, ivi,
coll. 1084-1085; J.M. RIST, Agostino. Il battesimo del pensiero an-
tico (1994), tr. it. Milano 1997, pp. 306-313. Per la nozione di
“guerra giusta”, vedi, infra, nota 118.

32
tumulti e suscitavano dure reazioni da parte delle auto-
rità. Le famigerate bande dei «circoncellioni» semina-
vano il terrore per le campagne, in un clima di crescen-
te insicurezza. Gli imperatori, a cominciare da Costan-
tino, intervennero a più riprese, condannando i Dona-
tisti e cercando di reprimere il movimento con pene se-
vere, fino a sancire l’obbligo della riunificazione con i
cattolici 108.
Agostino in un primo periodo si pronunciò contro
l’uso della forza per costringere i Donatisti a rientrare
in seno alla Chiesa 109. Purtroppo l’opera in cui espose
il suo pensiero (il primo dei due libri Contro il partito
di Donato) è andata perduta. Egli mutò parere solo
quando sperimentò i misfatti che i Donatisti continua-
vano a perpetrare approfittando dell’impunità 110 e
quando i vescovi suoi colleghi gli fecero constatare il
gran numero di conversioni rese possibili dai provvedi-
menti imperiali 111. Agostino dunque non sollecitò ini-
zialmente l’assunzione di misure repressive ma, quando
esse erano già state attuate, prese atto dei successi che
avevano ottenuto e ne riconobbe l’utilità.

108 Per una sintesi della storia del donatismo e dell’atteggia-


mento di Agostino nei suoi confronti, e per la bibliografia sull’ar-
gomento, si veda l’Introduzione generale di R. Markus in NBA
XVI/1, pp. VII-XXXVIII.
109 Cf. ep. 93, 5, 17; 185, 7, 25; retr. II, 5.
110 Come il tentato omicidio del vescovo cattolico di Bagai:
cf. ep. 185, 7, 27. Lo stesso Agostino sfuggì a un attentato grazie
al fatto che la sua comitiva sbagliò strada: cf. POSSIDIO, Vita Au-
gustini, 12, 2.
111 Tra le comunità che ritornarono al cattolicesimo vi fu Ta-
gaste, la città natale di Agostino: cf. ep. 93, 5, 17.

33
Si potrebbe fondatamente obiettare che l’utilità
non è sinonimo di liceità morale 112. Una persecuzione
può forse produrre buoni risultati, ma come possiamo
ritenerla giusta? La risposta di Agostino a questa do-
manda ha l’aria di essere, almeno in parte, una replica
ad hominem. Essa cioè pare mirata anzitutto a confu-
tare le proteste e le lamentele che i Donatisti, da perse-
guitati, sollevavano. Non erano stati forse loro i primi
a ricorrere all’autorità dell’imperatore contro quelli che
consideravano i «traditori» della fede? 113 O vorranno
forse sostenere che ogni perseguitato è un martire? Al-
lora lo sono anche i pagani, dai quali i Donatisti inten-
dono nettamente distinguersi, e persino gli stessi demo-
ni, i cui templi sono abbattuti e i cui idoli sono distrut-
ti dai decreti degli imperatori cristiani 114. In realtà,
martire non è chiunque sia perseguitato, ma solo chi lo
è, come dice una beatitudine evangelica, «a causa della
giustizia». I perseguitati possono essere giusti o ingiu-
sti; la persecuzione è sicuramente ingiusta nel primo ca-
so, ma può essere giusta nel secondo, se è condotta allo
scopo di far ravvedere l’ingiusto dal suo errore e se con-
segue effettivamente tale obiettivo senza eccedere nel-
l’uso dei mezzi coercitivi 115. Non avvalersi di questi ul-
timi, qualora siano disponibili, sarebbe irresponsabile
in una situazione come quella venutasi a creare con lo

112 Agostino stesso distingue con cura il lecito dall’opportu-


no: cf. adult. coniug. I, 17, 18; 18, 22.
113 Cf. c. ep. Parm. I, 9, 15; ep. 93, 5, 16; 185, 2, 6. Traditores
erano chiamati i vescovi che avevano consegnato (tradiderunt) le
Scritture alle autorità civili durante la persecuzione di Diocleziano.
114 Cf. c. ep. Parm. I, 9, 15.
115 Cf. ep. 93, 2, 8; 185, 2, 11.

34
scisma donatista: non solo perché tutelare i fedeli dalle
violenze degli scismatici è doveroso, ma anche perché
spetta al pastore d’anime cercare di ricondurre all’uni-
co ovile le pecorelle smarrite, sottraendole al pericolo
in cui versano persino con metodi energici, se necessa-
rio 116. Se alcune persone abitassero in una casa che
stesse per crollare, e non volessero credere a noi che li
avvertiamo del rischio che stanno correndo, saremmo o
no autorizzati a tirarli fuori anche con la forza, prima
che fosse troppo tardi? 117. Agostino, dopo aver a lungo
esitato, è giunto a pensare di sì, e proprio con questa
sua idea dell’ammissibilità dell’uso della forza a fin di
bene occorre alla fine misurarsi, se si vuole valutare se-
riamente il suo atteggiamento nei riguardi della perse-
cuzione antidonatista.
Passiamo al problema della guerra 118. Agostino
viene spesso citato come il primo grande teorico cristia-

116 Cf. ep. 185, 6, 23.


117 Cf. ep. 185, 8, 33.
118 Anche su questo tema la letteratura è copiosa: tra gli stu-
di più recenti, cf. P. RAMSEY, The Just War according to St. Augu-
stine, in War and the Christian Conscience: How Shall Modern War
Be Conducted Justly?, Durham (NC) 1961, pp. 15-33, rist. in Au-
gustine, ed. by J. Dunn and I. Harris, vol. II, Cheltenham, UK -
Lyme, USA 1997, pp. 323-341; R.A. MARKUS, Saint Augustine’s
Views on the «Just War», «Studies in Church History», 20 (1983),
pp. 1-13, rist. in Augustine, cit., pp. 165-177; J.P. SZURA - R. DO-
DARO, Augustine’s Understanding of Io. 8, 3-11: Application to Just-
War Thinking and Non-Violence, in Congresso Internazionale su S.
Agostino nel XVI Centenario della Conversione, Roma, 15-20 set-
tembre 1986, vol. III, Roma 1987, pp. 19-23; D.A. LENIHAN, The
Just War Theory in the Work of Saint Augustine, «Augustinian
Studies», 19 (1988), pp. 37-70; J.F. LANGAN, The Elements of St.
Augustine’s Just War Theory, in The Ethics of St. Augustine, ed. by

35
no della «guerra giusta», cioè della legittimità della
guerra a certe condizioni. Che egli si sia espresso in que-
sto senso, è indubbiamente vero; tuttavia l’ha fatto en
passant, per cercare di risolvere difficoltà come quelle
sollevate dal testo biblico di Gs 8, 2, dove Dio ordina a
Giosuè di conquistare la città di Ai con un agguato 119.
Secondo Agostino il fatto che il popolo ebraico abbia
adottato una tattica bellica così poco convenzionale non
deve scandalizzare, poiché esso stava combattendo una
guerra giusta, giusta perché Dio stesso gliel’aveva ordi-
nata, secondo il racconto ispirato del libro di Giosuè.
Dio non può essere ingiusto, perciò chi ubbidisce a un
suo comando non commette ingiustizia 120. In tale con-
testo, Agostino ricorda la nozione comunemente am-
messa di «guerra giusta», che si ha in riparazione di un
torto, contro una comunità politica che non punisce
un’ingiustizia commessa da alcuni suoi membri o non
restituisce ciò che ha sottratto ingiustamente 121. Ago-
stino dunque non dà una definizione propria di guerra
giusta, ma riferisce quella corrente, al solo scopo di so-

W.S. Babcock, Atlanta 1991, pp. 169-189; R. DODARO, Eloquent


Lies, Just Wars, and the Politics of Persuasion: Reading Augustine’s
City of God in a “Postmodern” World, «Augustinian Studies», 25
(1994), pp. 77-137; R.L. HOLMES, St. Augustine and the Just War
Theory, in The Augustinian Tradition, ed. by G.B. Matthews,
Berkeley (CA) 1999, pp. 323-344; F.H. RUSSELL, War, in AAE, pp.
875-876.
119 Cf. qu. VI, 10. Egli intendeva rispondere alle obiezioni
manichee contro la moralità dei patriarchi e l’Antico Testamento:
cf. c. Faust. XXII, 74-75.
120 L’ubbidienza a Dio è anzi il fondamento della giustizia
nella società degli uomini: cf. conf. III, 8, 15; 9, 17.
121 Cf. qu. VI, 10.

36
stenere un’argomentazione esegetica (se è possibile con-
siderare «giusta» una guerra con criteri umani, tanto
più lo si potrà fare sulla base di un ordine divino). Il
tutto nello spazio di qualche riga di testo: davvero poco
per fare del vescovo d’Ippona il «teorico» (celebrato in
passato, oggi discusso) della guerra giusta.
Il modo abituale in cui Agostino parla della guerra
è invece un altro, che ne sottolinea gli aspetti tragici e
sconvolgenti. Una guerra è sempre indesiderabile, e
quando è giusta lo è ancora di più, perché presuppone
l’esistenza di ingiustizie e di torti che si devono ripara-
re. I buoni accettano di combattere una guerra giusta
con l’infelicità di chi deve subire una necessità che ad-
dolora 122. Il cristiano potrà prestare il servizio militare,
ma con lo spirito di un operatore di pace, non di chi vuol
rendere male per male. Perciò anche la guerra contro un
nemico colpevole d’ingiustizia dovrà essere condotta
con l’obiettivo di liberarlo dall’iniquità che l’opprime, e
non di distruggerlo per sete di vendetta; di qui l’esigen-
za di essere misericordiosi con i vinti e i prigionieri 123.
La morale cristiana, che predica il perdono, non nuoce
affatto alla difesa dello Stato, ma anzi, se fosse davvero
praticata da tutti, ne costituirebbe la più solida garan-
zia, perché rafforzerebbe più di qualsiasi altro fattore
quella concordia senza la quale uno Stato si disgrega 124.
In un mondo in cui si vivesse conformemente al Vange-

122 Cf. civ. IV, 15; XIX, 7.


123 Cf. ep. 189, 4-6.
124 Cf. ep. 138, 2, 9-11. 14-15, ove Agostino risponde a
un’obiezione anticristiana proveniente dal circolo pagano del pa-
trizio Volusiano (cf. ep. 136, 2).

37
lo, non ci sarebbe bisogno di «guerre giuste». Finché vi-
vremo su questa terra, a volte esse purtroppo saranno
necessarie; è tuttavia dovere di chi possiede autorità cer-
care di evitarle il più possibile, perché «titolo più gran-
de di gloria è proprio quello di uccidere la guerra con la
parola, anziché uccidere gli uomini con la spada, e pro-
curare o mantenere la pace con la pace e non già con la
guerra» 125. Per scongiurare la guerra non basta però la
diplomazia; occorre prima di tutto praticare la giustizia,
perché giustizia e pace sono due amiche inseparabili 126.
E la giustizia, come sappiamo, si concretizza nella soli-
darietà fattiva con chi ha bisogno.

IV. LA GIUSTIZIA IN DIO

1. Dio fonte della giustizia

Sinora abbiamo parlato della giustizia che inerisce


agli uomini, tanto come singoli quanto nella loro vita
associata. In molte pagine agostiniane il discorso sulla

125 Ep. 229, 2.


126 Cf. en. Ps. 84, 12 e R.M. PIZZORNI, La pace frutto della
giustizia e della carità secondo S. Agostino e S. Tommaso, in La pa-
ce, sfida all’Università Cattolica. Atti del Simposio Roma 1986, a
cura di F. Biffi, Roma 1988, pp. 561-572; E. TESELLE, Justice, Lo-
ve, Peace, in Augustine Today, Grand Rapids (Mich.) 1993 (tr. it.
Agostino oggi, Milano 2000), pp. 88-110; O. GRASSI, Il male “sto-
rico” e la “giusta” pace in Agostino, in Il mistero del male e la li-
bertà possibile (IV): Ripensare Agostino. Atti dell’VIII Seminario
del Centro Studi Agostiniani di Perugia, a cura di L. Alici - R. Pic-
colomini - A. Pieretti, Roma 1997, pp. 133-142.

38
giustizia si estende anche ad altri soggetti, a esseri per-
sonali sovrumani: gli angeli e soprattutto Dio. Il proble-
ma della giustizia divina ha impegnato la riflessione di
Agostino sin dalla giovinezza, quando, per scagionare
Dio dall’accusa di essere l’autore del male, egli aveva
aderito alla credenza manichea nell’esistenza di un
Principio malvagio, tenebroso, opposto alla Luce divina
e coeterno ad essa. In qualche modo, già allora Agosti-
no teneva per fermo quello che sarà sempre l’assioma
fondamentale della sua teodicea, e che più tardi troverà
espresso nelle parole di Paolo in Rm 9, 14: «C’è forse
ingiustizia da parte di Dio? No certamente!» 127. Non
possiamo concepire un Dio ingiusto: l’ingiustizia è in-
compatibile con la perfezione della bontà che si addice
all’Essere divino.
Il giudizio secondo il quale Dio sarebbe ingiusto è
insostenibile non solo perché attribuisce al soggetto
(Dio) un predicato (l’essere ingiusto) che esso per sua
essenza non può accogliere, ma anche perché viola le
condizioni conoscitive che lo rendono possibile come
giudizio. Si può riconoscere che qualcosa è ingiusto so-
lo mediante il confronto con l’idea della giustizia; que-
sta, a sua volta, per la sua permanenza e il suo valore
normativo di fronte alla coscienza umana, deve avere la
sua origine in una realtà superiore alla mente stessa,
cioè in Dio. Se Dio non fosse assolutamente giusto, noi
non possederemmo il criterio che ci consente di giudica-
re l’ingiustizia di qualcosa o di qualcuno. Un giudizio
che accusi Dio d’iniquità elimina se stesso nell’atto me-

127 Cf. div. qu. 68, 6; gr. et lib. arb. 21, 43.

39
desimo in cui si pone 128, e mostra così che ogni discor-
so sulla giustizia, in ultima analisi, rinvia necessaria-
mente a Dio, fonte di tutto ciò che è giusto e condizio-
ne della sua conoscenza.

2. La «teodicea» 129 agostiniana

Agostino tuttavia non si accontenta di un argo-


mento formale, che da solo basterebbe a respingere
qualsiasi negazione, per quanto implicita e parziale,
della giustizia divina. Egli affronta anche il contenuto
delle più importanti tra queste negazioni, provenienti
dai ragionamenti dei suoi avversari, da errate interpre-
tazioni delle Scritture (soprattutto dell’Antico Testa-
mento) 130 o dai dubbi che sono eredità comune della
nostra condizione umana, e che perciò meritano di esse-
re presi estremamente sul serio. Il tema della giustizia
di Dio si traduce allora nell’eterno problema del senso
della nostra esistenza e delle apparenti assurdità in cui
essa si trova immersa.

128 Cf. en. Ps. 61, 21.


129 Il termine, com’è noto, si deve a Leibniz (1710); nono-
stante la sua origine moderna, esso viene impiegato anche in rife-
rimento alle teologie antiche che intendevano “difendere” la giu-
stizia divina di fronte al male presente nel mondo. Cf. S. LANZI,
Theos anaitios. Storia della teodicea da Omero ad Agostino, Roma
2000, pp. 291-304.
130 Cf. ad es. il modo in cui viene difesa la giustizia di Dio
in div. qu. 53, 2-3, in relazione al noto episodio della spogliazione
degli Egiziani (Es 3, 21-22; 11, 2; 13, 35-36).

40
Chi di noi, ad esempio, non si è mai chiesto con
sconcerto perché mai le sventure colpiscano i buoni
mentre i malvagi godono nella prosperità? Agostino
ammette che, se non ci fosse concessa altra vita che que-
sta terrena e tutto si concludesse con la morte, non sa-
rebbe illogico affermare che vivere rettamente è inutile,
anzi dannoso (per quanto, a dire il vero, siano esistiti
uomini che, pur non avendo speranza nella vita eterna,
hanno preferito la rettitudine all’iniquità). Se però l’o-
rizzonte della nostra esistenza si allarga anche oltre la
morte, allora gli eventi di questa vita possono ricevere
un senso che non rimane rinchiuso nella loro contingen-
za ed è riconducibile alla volontà salvifica di Dio. Egli
certamente non è indifferente né impotente rispetto a
quanto accade nel mondo. La sofferenza dei giusti rima-
ne un mistero, per il quale non esistono soluzioni facili:
solo nel giorno del giudizio ne capiremo il perché 131.
Per ora tuttavia possiamo credere che la sofferenza assu-
ma nelle mani della Provvidenza una funzione terapeu-
tica, come quegli interventi dolorosi effettuati dai medi-
ci che sono utili per ottenere la guarigione 132. In ogni
caso, è stolto confrontare le nostre sorti con quelle di co-
loro che giudichiamo peggiori di noi, e lamentarci che
soffriamo di più di quelli che meriterebbero, secondo
noi, una punizione ben maggiore. In questo modo, in-
fatti, non facciamo altro che accusare Dio di essere ini-
quo e presumiamo di essere giusti più di Lui 133.

131 Cf. civ. XX, 2.


132 Cf. div. qu. 82, 1-3.
133 Cf. en. Ps. 63, 18; 70, 1, 14; 74, 8; 122, 10.

41
Ad arrecare sofferenze ai mortali non vi sono solo
calamità o malattie: vi sono anche ingiustizie, commes-
se dai nostri simili. La più grande di esse è forse l’ucci-
sione dell’innocente. Perché Dio permette che si compia
un’ingiustizia del genere? Perché non ferma la mano
dell’assassino? L’unica risposta valida, che Agostino si
sente di suggerire, viene dalla passione di Cristo. Gesù
non aveva nessuna colpa, eppure Dio ha permesso che
fosse ucciso, con una sentenza assolutamente ingiusta e
tra indicibili sofferenze. Sappiamo però quale bene sia
venuto da quella morte, ci è stato rivelato quale disegno
d’amore si nascondesse dietro di essa. Dobbiamo crede-
re perciò, anche senza riuscire a comprenderlo, che pu-
re per le altre uccisioni di innocenti Dio si comporti in
modo analogo, permettendo non ingiustamente che
venga commessa una pur grave ingiustizia 134.
Tra le varie sofferenze che colpiscono gli uomini,
Agostino è scosso in particolare da quelle che patiscono
i bambini 135. Egli non riesce a pensare che sofferenze
così strazianti siano un dato naturale, appartenente al-
la condizione umana come uscita dalle mani del Crea-
tore. Ai suoi occhi, l’unico modo per conciliare la giu-
stizia divina con la miseria in cui si trovano gli uomini
sin da piccoli è ricorrere alla dottrina del peccato origi-
nale. «Infatti sotto un Dio giusto nessuno può essere
misero senza meritarlo» 136. Se i bambini nascessero
davvero senza alcun peccato, come sostengono i Pela-
giani, allora Dio sarebbe ingiusto nell’imporre un giogo

134 Cf. en. Ps. 61, 22.


135 Cf. ep. 166, 6, 16.
136 C. Iul. imp. I, 40.

42
pesante ai figli di Adamo, come dice il Siracide (40, 1),
sin dal giorno della loro nascita dal grembo materno.
Le sofferenze dei bambini indicano una natura decadu-
ta, le conseguenze di un peccato che, non potendo evi-
dentemente essere di tipo personale, dev’essere quello
di Adamo; queste conseguenze sarebbero ingiuste, se i
bambini fossero privi anche di tale peccato. Con la giu-
stizia divina contrasta dunque la negazione della tra-
smissione del peccato originale, non la sua affermazio-
ne; quest’ultima è anzi necessaria se non si vuol cadere
nell’assurdo di ritenere che Dio sia ingiusto 137.
Il Dio di Agostino è certamente un Dio misericor-
dioso, un Dio che salva, un Dio che ama, un Dio che
perdona; ma è anche, innegabilmente, un Dio giusto,
un Dio che giudica, un Dio che punisce i peccati. Sorgo-
no qui due difficoltà, una relativa alla prescienza di
Dio, l’altra all’eternità delle pene infernali. Dio sa tut-
to, sa anche il futuro, quindi sa già i peccati che i mal-
vagi commetteranno. Ma allora quale sarà la responsa-
bilità del malvagio? Egli non potrà fare se non ciò che
Dio prevede; dunque perché punirlo? Questo, spiega
Agostino, è un falso problema. La prescienza di Dio
non rende necessarie le realtà future che dipendono dal-
le nostre scelte. Dio prevede che un uomo commetterà
liberamente un peccato, e questo peccato sarà appunto
commesso liberamente, non necessariamente. Come la
nostra memoria ricorda gli eventi passati senza averli
determinati, così la prescienza di Dio prevede i peccati
futuri senza causarli 138. Il malvagio non perde la re-

137 Cf. c. Iul. imp. III, 48.211; VI, 27.


138 Cf. lib. arb. III, 4, 11; civ. V, 9-10.

43
sponsabilità per il male che compie, quindi la pena che
subirà non sarà ingiusta.
I peccati sono dunque imputabili e pertanto puni-
bili; ma non è forse esagerato e ingiusto punirli con una
pena eterna? Questa seconda difficoltà, nota Agostino,
si basa sullo strano presupposto che il tempo della pena
debba corrispondere al tempo del peccato: in quest’otti-
ca, peccati commessi nel breve arco di tempo della vita
umana non dovrebbero essere puniti per l’eternità.
Questa presunta corrispondenza in realtà non si riscon-
tra nemmeno nella giustizia umana: forse che un colpe-
vole viene punito con una pena proporzionale alla rapi-
dità con cui ha commesso il reato? Non bisogna guarda-
re alla durata del peccato, ma alla sua gravità; e se si
considera che il peccato di Adamo, trasmesso poi a tut-
ti, è consistito nella perdita volontaria e ingiustificabile
di una felicità che poteva essere eterna, non c’è da stu-
pirsi che esso meriti come punizione un’eterna infeli-
cità. Punizione dalla quale ci può salvare solo la grazia
misericordiosa e indebita di Dio 139.
Questa grazia salvifica, però, non viene accolta da
tutti. Alcuni saranno salvati, altri resteranno dannati. I
salvati, d’altra parte, non lo saranno per merito loro,
ma in virtù della grazia di Dio. Sorge allora un grave
problema. Perché, se la salvezza è un dono che viene
dall’alto, questo dono non si realizza in tutti? Perché
solo alcuni lo possiedono e gli altri no? Con quale giu-
stizia viene a stabilirsi tale distinzione tra gli eletti e i
non eletti? La questione è delicatissima e le opinioni di

139 Cf. ep. 102, 22-27; civ. XXI, 11-12.


44
Agostino hanno suscitato nei secoli interpretazioni con-
fliggenti. Cerchiamo di stabilire alcuni punti fermi. In
primo luogo, Agostino sostiene con forza, contro i Pela-
giani, che nessuno merita la grazia: essa è un dono gra-
tuito da parte di Dio, che prende liberamente l’iniziati-
va di salvarci e non è vincolato da alcuna forma di de-
bito nei nostri confronti. Nessuno può reclamare un
presunto «diritto» di essere salvato, perché tutti sono
eredi del peccato di Adamo e quindi soggetti alla mede-
sima condanna. Ciò non significa che i giusti non siano
meritevoli: essi hanno sicuramente dei meriti, altrimen-
ti non sarebbero giusti; tuttavia non è merito loro esse-
re diventati giusti, ma della grazia di Dio, il quale li ha
giustificati prima di qualunque merito da parte loro 140.
Dunque Dio non farebbe alcun torto a coloro ai quali
non volesse concedere la sua grazia, né sarebbe ingiusto
nel condannarli, perché anzi il castigo sarebbe proprio
ciò che essi meriterebbero 141. In secondo luogo, Agosti-
no è altrettanto chiaro nell’affermare che Dio lascia che
si ostinino nel male solo coloro che lo meritano per pro-
pria colpa 142. Espressioni bibliche come quelle di Es 9,
12; 10, 20.27 («rese ostinato il cuore del Faraone») o
Rm 9, 18 («usa misericordia con chi vuole e indurisce
chi vuole») non devono indurre a credere che Dio causi
l’ostinazione dei malvagi contro la loro volontà o indi-
pendentemente da essa: i malvagi mantengono il libero
arbitrio e con ciò la loro responsabilità 143. Il castigo che

140 Cf. ep. 186, 6, 16; 194, 2, 5 - 3, 6.


141 Cf. Simpl. I, 2, 16.
142 Cf. ep. 186, 6, 20.
143 Cf. div. qu. 68, 4; gr. et lib. arb. 23, 45. Il peccato può es-

45
subiranno consisterà nel rimanere nel male che hanno
scelto 144. Dio non condanna chi non lo merita, perché
altrimenti sarebbe ingiusto. Non è quindi per capriccio
che Dio abbandona uno piuttosto che un altro, ma per
un giusto giudizio 145. «Egli non usa misericordia a co-
loro che non giudica degni di misericordia, secondo una
giustizia assai misteriosa e molto lontana dai sentimen-
ti umani» 146. In terzo luogo, Agostino non si stanca di
ribadire che, persino nei casi in cui non riusciamo a ca-
pire quale responsabilità possa esservi in chi viene la-
sciato nella miseria della sua condizione decaduta (co-
me i bambini che muoiono senza ricevere il battesimo),
dobbiamo comunque credere che Dio agisca secondo un
giudizio giusto, giusto anche se imperscrutabile 147. In
quarto luogo, bisogna guardarsi dal ritenere che Dio ab-
bia bisogno di qualcuno da condannare per poter essere
giusto: Egli sarebbe giusto anche se nessuno meritasse
la condanna, perché la distinzione tra buoni e malvagi
è indispensabile non al possesso della giustizia, ma uni-
camente al suo esercizio 148.
Certo, con tutto ciò non si è fornita ancora una ve-
ra risposta al nocciolo del problema della predestinazio-
ne: perché, tra due uomini parimenti meritevoli di con-
danna, uno è salvato e l’altro no? Perché non sono sal-
vati tutti e due? Agostino non può far altro, alla fine,

sere giustamente imputato solo a chi ha agito di propria volontà:


cf. div. qu. 24; lib. arb. II, 1, 3.
144 Cf. en. Ps. 5, 10.
145 Cf. praed. sanct. 14, 27.
146 Simpl. I, 2, 16.
147 Cf. c. Iul. imp. I, 38-39.
148 Cf. ord. II, 7, 22.

46
che confessare il mistero della trascendente giustizia di-
vina, che non ci è dato comprendere. L’unico modo per
farcene, per quanto possibile, una ragione, è pensare
che Dio non salva tutti affinché i salvati, vedendo il ca-
stigo subito dagli altri e sapendo che avrebbe dovuto es-
sere applicato anche a loro, apprezzino la misericordia
che li ha graziati e non s’insuperbiscano pensando a
presunti meriti delle loro opere 149. Dev’essere comun-
que tenuto per fermo che la selezione degli eletti, pur
essendo totalmente gratuita nei loro confronti, non è
arbitraria né ingiusta nei confronti dei dannati, e ri-
sponde a ragioni giustissime, anche se conosciute sol-
tanto da Dio. «Se questa risposta a qualcuno dispiace,
cerchi persone che ne sappiano di più, ma stia ben at-
tento a non incappare in persone che solo presumano di
saperne di più» 150.

3. Giustizia e misericordia in Dio e negli uomini

Dio dunque è giusto quando punisce il peccatore ed


è misericordioso quando lo perdona 151. La sua giustizia
tuttavia non è priva di misericordia né la sua misericor-
dia si macchia d’ingiustizia. Nel giudizio finale Egli
avrà misericordia di coloro che l’hanno avuta verso il
prossimo e punirà giustamente coloro che l’hanno rifiu-

149 Cf. ep. 186, 6, 24; 7, 26; 194, 2, 5; civ. XXI, 12.
150 Spir. et litt. 34, 60. Se non possiamo conoscere la soluzio-
ne del problema in questa vita, lo potremo sicuramente in quella
futura: cf. gr. et lib. arb. 23, 45.
151 Cf. en. Ps. 118, 7, 1.

47
tata ai loro simili 152. Il perdono che Dio concederà a chi
si è pentito non sarà ingiusto; ingiusto sarebbe al con-
trario trattare allo stesso modo chi si è convertito e chi
invece si è ostinato nel male 153. D’altra parte, la con-
versione è già un’opera della grazia, e la remissione dei
peccati, dal canto suo, non cancella in questa vita le giu-
ste conseguenze del peccato originale sulla fragilità
umana 154. Questo è comunque il tempo della miseri-
cordia, nel quale Dio chiama gli uomini a conversione,
prima che venga il tempo del giudizio 155.
L’unione perfetta di giustizia e misericordia in Dio
rappresenta il modello per eccellenza di quella giustizia
e di quella misericordia inferiori che sono alla portata
di noi esseri umani. La giustizia umana può e deve es-
sere utilmente commisurata al paradigma di quella di-
vina. Non vale però il contrario, non si può cioè assu-
mere la giustizia degli uomini come metro per compren-
dere e valutare la giustizia di Dio. Dio può fare giusta-
mente ciò che a un uomo non sarebbe mai lecito com-
piere: ad esempio, punire le colpe dei padri nei figli 156
o lasciare che si perpetri un delitto che si ha il potere
d’impedire 157. In particolare, è radicalmente diverso il
modo in cui gli uomini e Dio rendono male per male: i
primi lo fanno vendicandosi, e poiché anch’essi sono
peccatori la vendetta non è mai veramente giusta; Dio

152 Cf. en. Ps. 32, II, 1, 11; 147, 13.


153 Cf. ep. Rm. inch. 9; s. 22, 5-6.
154 Cf. ep. Rm. inch. 9-10.
155 Cf. en. Ps. 32, II, 1, 10.
156 Cf. c. Iul. imp. III, 17.
157 Cf. c. Iul. imp. III, 24.

48
invece lo fa abbandonando i peccatori al male che essi
stessi deliberatamente commettono, e la sua punizione
è scevra di qualsiasi iniquità 158. Tutto il discorso svi-
luppato da Agostino in difesa della giustizia divina può,
in fin dei conti, ridursi a questa conclusione: anziché
abbassare l’imperscrutabile giustizia di Dio al livello
dell’imperfetta giustizia umana e giudicarla alla stregua
della nostra, impariamo a elevare e purificare le nostre
teorie e le nostre pratiche di giustizia, riferendole, per
quanto possibile, a quella fonte irraggiungibile da cui
scaturisce ogni vera conoscenza e ogni buona realizza-
zione di tutto ciò che è giusto! 159.

V. GIUSTIZIA E LEGGE

1. Ingiustizia e peccato

Abbiamo visto che la giustizia esiste tanto nell’uo-


mo quanto in Dio, anche se la giustizia divina non può
essere racchiusa negli schemi che inquadrano quella
umana. L’ingiustizia, invece, esiste soltanto nell’uomo (e
negli angeli ribelli), mentre in Dio non se ne dà traccia.
Ma in che cosa consiste, essenzialmente, l’ingiustizia
umana? Possiamo dire, con buona approssimazione, che

158 Cf. en. Ps. 5, 10.


159 Secondo F.-J. THONNARD, Justice de Dieu et justice humai-
ne selon saint Augustin, «Augustinus», 12 (1967), pp. 387-402, no-
nostante le apparenze Agostino concepisce la relazione tra giustizia
umana e giustizia divina in termini analogici, che saranno esplicita-
ti da Tommaso d’Aquino grazie all’uso della logica aristotelica.

49
per Agostino essere ingiusti significa essere peccatori.
Ogni peccato, infatti, è iniquo 160, e chi commette un’in-
giustizia sicuramente pecca. La definizione di peccato
contiene in sé il concetto di un contrasto con la giustizia:
esso è «la volontà di conservare o di acquisire ciò che la
giustizia vieta e da cui ci si può liberamente astenere» 161.
Analizziamo questa definizione. Innanzitutto, pec-
care vuol dire voler fare qualcosa; solo chi è capace di
volere è capace anche di peccare. Non c’è peccato dove
non c’è volontà. In secondo luogo, ciò che il peccatore
vuol fare è tenere od ottenere una certa cosa. Poiché
non esistono cose in sé cattive, dal momento che tutte
sono state create da Dio, ciò che rende peccaminoso
quest’atto di volontà non è il suo oggetto, ma il suo mo-
do, cioè il volerne mantenere o prendere il possesso in-
giustamente. «In altre parole: il peccato non sta nelle
cose stesse ma nel loro uso illegittimo» 162, il che avvie-
ne quando le cose inferiori sono preferite a quelle supe-
riori 163. L’ingiustizia, in terzo luogo, è indicata da un
divieto: peccare significa contravvenire a un precetto,
violare un comando, trasgredire una legge. Questa leg-

160 Cf. c. mend. 15, 31, dove Agostino prende come esempio
di peccato la menzogna.
161 Gn. litt. imp. 1, 3; duab. an. 11, 15. Cf. anche cont. 11,
25: «In ogni peccato c’è sempre incluso un desiderio contrastan-
te con la giustizia, più grande in un peccato maggiore, più picco-
lo in un peccato minore».
162 Gn. litt. imp. 1, 3.
163 Per questo i peccati sono chiamati anche “delitti”, dal
verbo “delinquere” che evoca l’immagine di un liquido che de-
fluisce: l’anima infatti, allontanandosi dalla stabilità delle realtà
eterne e riversandosi su quelle mutevoli e caduche, perde la pro-
pria fermezza e per così dire si liquefà: cf. en. Ps. 74, 6.

50
ge può essere stabilita per la convivenza umana (come
nel caso del furto), iscritta nella natura (come nel caso
della sodomia) o rappresentata dalla giusta misura nel-
le azioni lecite (come nel caso dell’alcolismo) 164. Tutto
ciò, infine, non è affatto necessario: volendo, ci si po-
trebbe astenere dal possesso dell’oggetto ingiustamente
desiderato.

2. Ubbidienza e tipi di legge

Di questi quattro aspetti presenti nella nozione di


peccato, qui ci interessa particolarmente il terzo. L’in-
giustizia, in quanto peccato, è trasgressione di una leg-
ge. Ciò significa forse che la giustizia, al contrario, è os-
servanza di una legge? Se l’ingiusto è chi disubbidisce,
il giusto è chi ubbidisce? La risposta di Agostino è: in
un certo senso sì, in un certo senso no. Bisogna per pri-
ma cosa distinguere varie accezioni del termine «leg-
ge» 165. C’è una legge eterna, universale e immutabile,
che stabilisce quale debba essere l’ordine perfetto di tut-
te le cose 166; c’è una legge naturale, scritta nella co-
scienza di ogni uomo, che gli ordina di fare il bene, di
evitare il male e di non fare agli altri ciò che non vor-

164 Cf. qu. Mt. 16, 2; qu. vet. t., pref.


165 Cf. B. ROLAND-GOSSELIN, La morale de saint Augustin,
Paris 1925, pp. 21-71.
166 Cf. lib. arb. I, 6, 15 e S. ÁLVAREZ TURIENZO, San Agustín
y la teoría de la “lex aeterna”, «Anuario de Filosofía del Derecho»,
6 (1958/59), pp. 245-290; G. BARDY, La loi éternelle, note compl.
13 in BA 37 (1960), pp. 741-742; G. MADEC, Lex aeterna, note
compl. 10 in BA 6 (1976), pp. 551-554.

51
rebbe fosse fatto a sé 167; c’è una legge civile, emanata
da un legislatore umano per regolare la convivenza so-
ciale 168; c’è infine una legge rivelata, costituita dalla
Legge mosaica e da quella evangelica. Il problema della
giustizia come ubbidienza si pone in riferimento a cia-
scuno di questi diversi significati della legge.
La legge eterna, la legge naturale e la legge rivela-
ta hanno come autore Dio; quindi ubbidire ai loro pre-
cetti è sempre giusto. Non bisogna tuttavia dimenticare
l’economia temporale in cui i comandamenti divini

167 Cf. doctr. chr. III, 14, 22; conf. I, 18, 29; c. Faust. XV, 7;
en. Ps. 57, 1; Io. ev. tr. 49, 12; ep. 157, 3, 15; c. ep. Pel. III, 4, 13;
c. Iul. IV, 3, 25; R.J. DOUGHERTY, Natural Law, in AAE, pp. 582-
584. Per la nozione di lex naturalis nei Padri latini, cf. R.M. PIZ-
ZORNI, Sulla questione della legge naturale in Lattanzio, Ambrogio
e Agostino, in L’etica cristiana nei secoli III e IV: eredità e confron-
ti. XXIV Incontro di studiosi dell’antichità cristiana, Roma 1996,
pp. 353-368. Sulla regola aurea come espressione della legge na-
turale, cf. A.-M. LA BONNARDIÈRE, En marge de la «Biblia Augus-
tiniana»: une «Retractatio», «Revue des Études Augustiniennes»,
10 (1964), p. 305. Per un confronto con il pensiero di Tommaso
d’Aquino, cf. E.L. FORTIN, Augustine, Thomas Aquinas and the
Problem of Natural Law, «Mediaevalia», 4 (1978), pp. 179-208.
Alcuni ritengono che in Agostino si trovi non solo l’idea di una
“legge naturale”, ma anche quella di un “diritto naturale”: cf. ad
es. K. LUCKS, Die Gedanken des Aurelius Augustinus über das Na-
turrecht und die Gerechtigkeit. Eine rechtsphilosophische Untersu-
chung, Diss. Köln 1957; P. DELHAYE, Permanence du droit naturel,
Louvain-Montréal 1960, pp. 53-65; L. FERNANDEZ GOMEZ, Hu-
manismo y derecho natural en San Agustín, «Montalbán», 18
(1987), pp. 157-185; G. KRIEGER - R. WINGENDORF, Christsein
und Gesetz: Augustinus als Theoretiker des Naturrechts (Buch
XIX), in Augustinus, De civitate Dei, hrsg. von C. Horn, Berlin
1997, pp. 235-258.
168 Cf. lib. arb. I, 6, 14; 15, 32.

52
s’inseriscono: Dio può ordinare cose differenti in situa-
zioni e periodi differenti 169; anzi, lo stesso mutare del-
le circostanze richiede un qualche mutamento di ciò che
di volta in volta può essere giusto o ingiusto fare 170,
senza del resto che ciò implichi l’assenza di una giusti-
zia in sé 171. In quest’ottica, certi comportamenti dei pa-
triarchi non devono suscitare scandalo e vanno difesi da
accuse pretestuose come quelle mosse dai Manichei 172.
La legislazione civile, avendo un’origine umana,
talvolta può essere iniqua, nel qual caso è giusta non
l’ubbidienza ma la disubbidienza; una legge ingiusta
però non è degna del nome di legge 173, sicché in gene-
rale è giusto ubbidire anche alle leggi civili, intendendo
queste ultime in senso proprio. Ciò non vuol dire che
sia giusto compiere tutto ciò che la legge civile giusta-
mente permette. Prendiamo ad esempio la legge che
consente a un viandante di uccidere un ladro che l’ag-
gredisca. Questa legge è giusta, perché mira a evitare il
male maggiore: è più tollerabile che perisca l’aggressore
piuttosto che l’aggredito. Non si può affermare tuttavia

169 Cf. conf. III, 7, 13. Dio può addirittura ordinare cose che
in precedenza aveva vietato, o che contrastano con le norme del-
la convivenza umana, eppure ubbidirGli è sempre giusto, giacché
Egli non può essere ingiusto e proprio nella sottomissione a Lui si
fonda la giustizia della società: cf. conf. III, 8, 15; 9, 17. Esistono
comunque azioni che sono sempre giuste, come amare Dio con
tutto il cuore, e azioni che sono sempre ingiuste, come agire per
vendetta: cf. conf. III, 8, 15-16.
170 Cf. ep. 138, 1, 4.
171 Cf. doctr. chr. III, 14, 22; s. novi 23, 7.
172 Cf. il lungo libro XXII del c. Faust.
173 Cf. lib. arb. I, 5, 11. Analogamente, un diritto non è tale
se è ingiusto: cf. en. Ps. 145, 15.

53
che uccidere il ladro sia un atto giusto sotto tutti i pun-
ti di vista, anche se la legge civile non lo punisce. Se in-
fatti viene commesso per difendere qualcosa che può es-
sere perso contro il proprio volere, allora è dettato da
un attaccamento disordinato ai beni temporali, e quin-
di rientra nel genere delle azioni sbagliate 174. Esso sarà
punito da un’altra legge, superiore a quella civile: la leg-
ge eterna, la quale attribuisce l’infelicità alla volontà
cattiva, cioè alla volontà che ama le cose temporali di-
stogliendosi da quelle eterne 175.

3. Dal timore della pena all’amore della giustizia

Fatte queste precisazioni, si può dire in sintesi che


l’osservanza della legge, umana o divina, è giusta. In
questo senso, il giusto è uno che ubbidisce. Non è vero
però il contrario, cioè non tutti coloro che ubbidiscono
alla legge sono veramente giusti. Non basta fare ciò che
la legge prescrive; occorre anche farlo con un’intenzio-
ne retta, mossa non dal timore della pena minacciata
per i trasgressori ma dall’amore della giustizia e da una
sincera avversione per l’iniquità. Se mi astengo dal ru-
bare solo perché temo la punizione prevista per i ladri,
io non sono davvero onesto: ubbidisco alla legge, ma
non sono giusto. Qualora mi si presentasse l’opportu-

174 Cf. lib. arb. I, 5, 11-13.


175 Cf. lib. arb. I, 16, 34-35. Sul rapporto tra diritto e giusti-
zia in lib. arb., cf. S. COTTA, Droit et justice dans le «De libero ar-
bitrio» de St. Augustin, «Archiv für Rechts- und Sozialphilo-
sophie», 47 (1961), pp. 159-172.

54
nità di farla franca, non esiterei a rubare; moralmente
sono dunque un ladro, anche se materialmente non ho
sottratto niente a nessuno. Sembro innocente, ma nel
mio cuore sono nemico della giustizia, perché preferirei
che non vi fossero né il giusto comando che vieta il fur-
to né il giusto castigo per i ladri.
Agostino insiste molto sulla radicale insufficienza
del timore della pena per essere interiormente liberi 176,
per osservare davvero la legge nel suo significato
profondo 177, per essere innocenti davanti a Dio 178 e
per unire la fede nel Dio giudice con l’amore per il Dio
sommo Bene 179. Tuttavia egli riconosce a questo tipo di
timore una sua utilità come stadio iniziale, per quanto
imperfetto, del cammino che conduce alla vera giusti-
zia. La paura del castigo, e specialmente del castigo eter-
no, costituisce un freno che trattiene dal commettere
molte azioni malvagie e in qualche modo abitua l’ani-
ma a tenersi lontana dall’iniquità, predisponendola a
compiere con amore ciò che prima faceva con timore 180.
Questo amore, nel quale culmina il percorso di cre-
scita nella giustizia, non è però una conquista umana,
un prodotto della nostra forza di volontà; essendo un
bene, esso non può venire che da Dio 181. Si tratta della
carità, la quale si diffonde nei nostri cuori, come dice

176 Cf. Io. ev. tr. 41, 10; en. Ps. 67, 13.
177 Cf. exp. Gal. 43; spir. et litt. 14, 26; en. Ps. 118, 11, 1.
178 Cf. s. novi 11, 13; ep. 145, 4; spir. et litt. 8, 13; en. Ps. 93,
1; nat. et gr. 57, 67; c. ep. Pel. I, 9, 15.
179 Cf. s. 178, 9, 10 - 10, 11.
180 Cf. en. Ps. 32, II, 1, 6; 118, 25, 7; 149, 15; s. 161, 8, 8.
181 Cf. s. 145, 4; c. ep. Pel. II, 9, 21.

55
Paolo nella Lettera ai Romani (5, 5), per mezzo dello
Spirito Santo che ci è stato dato 182. Il dono della carità
ci consente di adempiere la legge fino in fondo 183, sra-
dicando dal nostro cuore i desideri cattivi 184 e liberan-
doci dalla schiavitù del peccato da cui la legge non ci po-
teva affrancare 185; esso inoltre ci fa amare la giustizia
non solo più di tutti i piaceri terreni, ma anche a prez-
zo di qualsiasi patimento corporale 186. La carità scaccia
il timore della pena, che era un timore servile, e lo so-
stituisce con un altro tipo di timore, il timor casto, che
consiste nel temere non la pena dell’ingiustizia ma la
perdita della giustizia stessa. Agostino illustra la diffe-
renza tra le due specie di timori (che egli vedeva rispet-
tivamente in 1 Gv 4, 18 e Sal 19 [18], 10) con un esem-
pio semplice ma efficace: il timore servile è come quel-
lo della moglie adultera, che teme il rientro del marito;
il timor casto è come quello della moglie fedele, la qua-
le teme invece che il marito s’allontani 187. Il timor ca-
sto è anche il timore di offendere Dio e di non poter
contemplare il suo volto: due cose che per l’uomo giu-
sto sono peggiori delle pene dell’inferno 188.

182 Cf. spir. et litt. 32, 56.


183 Cf. en. Ps. 77, 10; s. 251, 7, 6; 270, 4.
184 Cf. s. 145, 3.
185 Cf. div. qu. 66, 1.
186 Cf. ep. 145, 5-6; s. 159, 2, 2 - 6, 7; 306B, 4-6.
187 Cf. en. Ps. 127, 8; Io. ev. tr. 43, 7; s. 270, 4.
188 Cf. en. Ps. 127, 9; s. 127, 9; 145, 3; 161, 9, 9; 178, 10, 11.

56
4. Giustizia derivante dalla legge e giustizia derivante
da Dio

Se Agostino si preoccupa così tanto di esaltare l’a-


more della giustizia al di sopra del timore della pena e di
farlo coincidere con la grazia dello Spirito, è perché egli
vuole opporsi, sulla base dell’insegnamento paolino, a
ogni forma di fariseismo, che riduce la giustizia all’osser-
vanza esteriore della legge e la concepisce come esclusi-
va conquista delle forze umane. Questa ipocrita presun-
zione non è altro, in ultima analisi, che il rifiuto della
salvezza offerta da Cristo. Se fossimo stati in grado di
edificare da soli la nostra giustizia, basandoci unicamen-
te sul libero arbitrio per seguire le prescrizioni della leg-
ge, Cristo non sarebbe morto per noi. Perciò chiunque
ritenga che legge e libero arbitrio siano sufficienti per di-
ventare giusti davanti a Dio, è un nemico della croce di
Cristo 189. Viceversa, «chi arriva a capire che la giustizia
di Dio non risiede nel precetto della legge che intimori-
sce, ma nell’aiuto della grazia del Cristo, e la grazia è l’u-
nico termine a cui guida utilmente come pedagogo il ti-
more della legge, costui capisce perché è cristiano» 190.
Agostino ama citare a questo riguardo due testi di
Paolo. Uno è il brano della Lettera ai Filippesi nel qua-
le l’Apostolo ricorda di essere stato, prima della conver-
sione, «irreprensibile quanto alla giustizia che deriva
dall’osservanza della legge», ma di aver poi considerato
questa rispettabilità come spazzatura, «al fine di guada-
gnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia

189 Cf. c. ep. Pel. III, 7, 22.


190 Nat. et gr. 1, 1.

57
giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva
dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da
Dio, basata sulla fede» (Fil 3, 6-9). La giustizia derivan-
te dalla legge, spiega Agostino, è quella di chi ubbidisce
sì ai comandamenti, ma per timore del castigo che Dio
ha minacciato ai trasgressori. Chi è «giusto» in questo
senso apparente non fa il male, ma conserva nel cuore il
desiderio di farlo. La giustizia derivante dalle fede in
Cristo, ossia la giustizia derivante da Dio, è invece quel-
la di chi crede che Cristo può liberarlo dalla malizia in-
teriore, e grazie a questa fede ottiene da Dio la carità che
gli dà la forza di compiere il bene per amore della giusti-
zia 191. Ciò non significa assolutamente che la Legge mo-
saica sia un male o abbia un’origine meramente umana;
essa viene sicuramente da Dio e la sua funzione è posi-
tiva. Il suo limite però consiste nel fatto che indica ciò
che è giusto senza dare la forza per farlo. Essa rende con-
sapevole l’uomo del peccato e gli manifesta la sua incli-
nazione al male, che da solo però non può vincere. La
Legge compie il ruolo pedagogico che le spetta quando fa
prendere coscienza all’uomo del bisogno di essere salva-
to, conducendolo all’invocazione dell’aiuto divino 192.
Dalla lettera della Legge, che uccide la speranza di po-
terla osservare contando solo sulle risorse umane, si pas-
sa così al dono dello Spirito, che vivifica il credente fa-
cendolo aderire volentieri al bene 193.

191 Cf. exp. Gal. 21; s. novi 19, 10-11; s. 169, 4, 6 - 6, 8; 170,
5-7; ep. 186, 3, 9; gr. et pecc. or. I, 13, 14; c. ep. Pel. III, 7, 20. 23;
c. Iul. imp. II, 158; VI, 18.
192 Cf. exp. prop. Rm. 12 [13-18]; exp. Gal. 46; spir. et litt. 9,
15; ep. 145, 3; 157, 2, 6; gr. et pecc. or. I, 8, 9; c. ep. Pel. III, 4, 13.
193 Cf. s. 251, 7, 6. Con un felice gioco di parole, Agostino

58
L’altro testo paolino che Agostino predilige è il pas-
so della Lettera ai Romani in cui si dice, a proposito dei
Giudei, che «hanno zelo per Dio, ma non secondo una
retta conoscenza; poiché, ignorando la giustizia di Dio e
cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi
alla giustizia di Dio» (Rm 10, 2-3). La giustizia di Dio
non è quella per cui è giusto Dio, ma quella per la qua-
le Egli rende giusti noi 194. Questa giustizia altri non è
che Cristo, il quale ci ha meritato la giustificazione con
il suo sacrificio redentore 195. La giustizia che i Giudei
volevano stabilire come propria è invece quella che essi
pretendevano di meritarsi sforzandosi di osservare au-
tonomamente i precetti della Legge. È dunque quella
stessa giustizia derivante dalla Legge che Paolo aveva
ripudiato secondo la testimonianza autobiografica di Fil
3, 6-9 196. È la stessa giustizia che perseguono i Pelagia-
ni, confidando nella sufficienza del libero arbitrio 197; la

afferma che «osserva la legge liberamente (liber) chi l’osserva vo-


lentieri (libens)» (gr. et pecc. or. I, 13, 14).
194 Cf. ep. 140, 30, 72; spir. et litt. 9, 15; 11, 18; 18, 31; 32,
56; Io. ev. tr. 26, 1; s. 131, 9; en. Ps. 150, 4; trin. XIV, 12, 15; qu.
II, 65; c. ep. Pel. III, 7, 20; civ. XXII, 2, 1; gr. et lib. arb. 12, 24; c.
Iul. imp. VI, 18; M.-F. BERROUARD, «Iustitia Dei» en Rom. 10, 3,
note compl. 52 in BA 72 (1977), pp. 799-800; A.E. MCGRATH,
«The Righteousness of God» from Augustine to Luther, «Studia
theologica», 36 (1982), pp. 63-78.
195 Cf. civ. XXI, 24, 5; B. STUDER, Le Christ, notre justice, se-
lon saint Augustine, «Recherches Augustiniennes», 15 (1980), pp.
99-143, anche in Studia Patristica, vol. XVII/3, ed. by E.A. Living-
stone, Oxford-New York-Toronto-Sidney-Paris-Frankfurt 1982,
pp. 1316-1342, e in Dominus Salvator, Studien zur Christologie
und Exegese der Kirchenväter, Roma 1992, pp. 269-325.
196 Cf. gr. et lib. arb. 12, 24.
197 Cf. ep. 196, 2, 7; c. Iul. imp. VI, 18.

59
stessa che implicitamente si conferiscono i Donatisti,
quando sostengono che possono essere giustificati solo
quanti ricevono il battesimo da loro 198; la stessa che
s’illudono di possedere tutti coloro che si attribuiscono
il bene che compiono e fanno ricadere su Dio la respon-
sabilità per il male che fanno 199.

VI. LA GIUSTIFICAZIONE

1. Gratuità della giustificazione

La problematica del rapporto tra giustizia e legge fa


dunque emergere con particolare evidenza uno dei capi-
saldi della concezione agostiniana della giustizia: la ve-
ra giustizia dell’uomo è la giustizia di Dio, ossia la giu-
stizia che Dio gli dona per la fede in Cristo. L’uomo giu-

198 Cf. ep. 93, 3, 10; 185, 9, 37. I Donatisti ritenevano che il
battesimo impartito da un ministro indegno non fosse valido e an-
dasse quindi ripetuto all’interno della «vera Chiesa»; di questa es-
si, in quanto eredi dei martiri, si ritenevano parte, escludendo in-
vece coloro che si erano arresi alla terribile persecuzione anticri-
stiana di Diocleziano (303-304). In tal modo, osserva Agostino,
essi dimenticavano che nel sacramento opera Cristo: il battesimo
rimette il peccato originale e fa rinascere a vita nuova in virtù del-
la grazia del Salvatore, non della bontà del ministro.
199 Cf. en. Ps. 142, 5. Oltre a Fil 3, 6-9 e Rm 10, 2-3, Agosti-
no naturalmente si appoggia su molti altri passi dell’epistolario
paolino per sostenere l’insufficienza della Legge e la necessità del-
la grazia per la giustificazione dell’uomo. Si possono ricordare ad
es. Rm 3, 20-24 (commentato in exp. prop. Rm. 12 [13-18]; spir. et
litt. 9, 15; ep. 157, 2, 6; gr. et pecc. or. I, 8, 9; c. ep. Pel. III, 4, 13)
e 1 Tm 1, 8-9 (commentato in exp. Gal. 17 e spir. et litt. 10, 16),
senza parlare di Rm 7 e Gal 3.

60
sto non deve inorgoglirsi della sua giustizia, perché non
se l’è costruita con le proprie mani ma l’ha ricevuta dal-
l’alto. Giusto è solo il giustificato, colui che è stato reso
giusto da Dio. La riflessione di Agostino sulla giustizia
umana non può essere compresa al di fuori del grande
tema teologico della giustificazione. Non è questa la se-
de per ripercorrere tutta la dottrina agostiniana sull’ar-
gomento nella complessità delle sue articolazioni 200. Ci
accontenteremo di rievocarne tre aspetti: la gratuità del-
la giustificazione, il rapporto tra fede e opere, la figura
di Cristo come unico giustificatore.
Che la giustificazione sia gratuita, risulta chiaro
dalla sua nozione stessa. «Giustificare» infatti significa
«rendere giusto» 201; ora, se uno è reso giusto, vuol dire
che prima non lo era; ma se non lo era, meritava la con-
danna, non il perdono. Quindi la giustificazione non è

200 Una sintesi limpida e sicura è quella di A. TRAPÈ, Intro-


duzione generale a SANT’AGOSTINO, Natura e grazia I, Roma 1981
(NBA XVII/1; ried. in A. TRAPÈ. S. Agostino: introduzione alla
Dottrina della Grazia, vol. I: Natura e grazia, Roma 1987), pp.
CXXXII-CLIV. Cf. anche A.E. MCGRATH, Iustitia Dei: A History
of the Christian Doctrine of Justification, vol. I: From the Begin-
nings to 1500, Cambridge 1986; G.E. EVANS, Augustine on Justi-
fication, in Congresso Internazionale su S. Agostino nel XVI Cen-
tenario della Conversione, Roma, 15-20 settembre 1986, vol. III,
Roma 1987, pp. 275-284; G. LETTIERI, La dialettica della giustifi-
cazione nel «De spiritu et littera», in Ripensare Agostino: interio-
rità e intenzionalità. Atti del IV Seminario internazionale del Cen-
tro di Studi Agostiniani di Perugia, a cura di L. Alici - R. Piccolo-
mini - A. Pieretti, Roma 1993, pp. 123-165; G. FILORAMO, Giusti-
zia-giustificazione in Agostino, in Dizionario di spiritualità biblico-
patristica, 29 (2001), pp. 274-287.
201 Cf. ad es. s. 292, 4, 6; s. novi 19, 3. Per Agostino la giusti-
ficazione non è solo remissione dei peccati, ma anche santificazione.

61
ricompensa di un merito, ma grazia, perché è data gra-
tis, per la misericordia di Dio e non in cambio di qualco-
sa che la preceda 202. Questa grazia non si limita a rimet-
tere l’uomo nelle condizioni di operare ciò che è giusto,
ma continua ad accompagnarlo sostenendolo nell’eserci-
zio del bene. Quindi bisogna attribuire alla grazia divi-
na non solo la conversione e la remissione dei peccati,
ma anche i meriti delle opere buone, che non sarebbero
stati possibili in alcun modo senza l’aiuto di Dio 203. Di
conseguenza, pure la felicità eterna, promessa ai giusti,
va considerata come una grazia, perché va a premiare ciò
che per grazia è stato conseguito 204.

2. Fede e opere

La grazia è dunque necessaria tanto all’inizio


quanto allo sviluppo e al compimento della giustizia
umana. Ciò non significa affatto che chi ha ricevuto il
dono della fede possa ritenersi giustificato una volta per
tutte e quindi tornare a peccare con la garanzia di resta-
re impunito. Non si deve fraintendere l’affermazione
paolina secondo la quale l’uomo è giustificato dalla fe-
de senza le opere (cf. Rm 3, 28) 205. L’Apostolo intende-
va dire che il dono della giustificazione non viene otte-
nuto in virtù di precedenti opere meritevoli, come pen-
savano quei Giudei convertiti che si stimavano superio-

202 Cf. en. Ps. 31, II, 7; ep. 186, 2, 6 - 3, 8.


203 Cf. en. Ps. 109, 1; 110, 3; gr. et lib. arb. 6, 13; 7, 17.
204 Cf. ep. 194, 5, 21; gr. et lib. arb. 6, 14; 8, 20.
205 Cf. f. et op. 14, 21 - 16, 30.

62
ri ai credenti provenienti dal paganesimo perché ritene-
vano di aver meritato la grazia del Vangelo con l’osser-
vanza delle prescrizioni della Legge 206. Quando Giaco-
mo sostiene che la fede senza le opere è vana, non con-
traddice l’insegnamento di Paolo, ma anzi ne indica la
corretta interpretazione 207. Le opere di cui parla Giaco-
mo, infatti, non sono quelle che precederebbero la fede,
ma quelle che necessariamente la seguono, se di vera fe-
de si tratta. Chi crede ama, e chi ama non rimane ino-
peroso. La stessa parola «fede» include in sé il suono
del verbo «fare» e il suono del verbo «dire»: la fede au-
tentica fa ciò che dice 208. Essa è dunque la nostra giu-
stizia, per la quale il giusto vive di fede 209.

3. Cristo unico giustificatore

La fede di cui il giusto vive è la fede in Cristo. Ago-


stino ne è certo: solo Cristo può giustificare 210. Da dove
deriva questa certezza? In primo luogo, da molti e preci-
si passi della Scrittura e dalla fede unanime della Chie-
sa, quindi dalla Rivelazione. Ma Agostino, come al soli-
to, non si accontenta di credere nel dato rivelato e cerca,

206 Cf. en. Ps. 31, II, 1-2.6.


207 Cf. div. qu. 76, 1-2; en. Ps. 31, II, 3. Sull’interpretazione
agostiniana della Lettera di Giacomo, cf. P. BERGAUER, Der Jako-
busbrief bei Augustinus und die damit verbundenen Probleme der
Rechtfertigunglehre, Wien 1962.
208 Cf. s. 49, 2.
209 Cf. en. Ps. 32, II, 1, 4; 39, 17; 109, 8.
210 Cf. s. novi 19, 3. Questo principio viene fatto valere con-
tro i Donatisti: cf. s. 292, 4, 6; ep. 185, 9, 40.42.

63
per quanto possibile, di comprenderlo con l’intelligenza.
E trova il fondamento teologico dell’unicità di Cristo co-
me giustificatore nel mistero dell’Incarnazione. È con-
templando l’unione della natura umana e della natura
divina nella persona di Cristo che si capisce perché lui
solo possa giustificare. Dio è giusto e immortale; l’uomo
decaduto è ingiusto e mortale. L’ingiustizia dell’uomo è
la sua colpa, la mortalità dell’uomo è la sua pena. Un
semplice uomo non può giustificare un altro uomo, per-
ché un ingiusto non può essere reso giusto da un altro
ingiusto. Tra Dio e l’uomo, d’altra parte, troppa era la
distanza perché il secondo si riavvicinasse al primo. Al-
lora in Cristo, giusto e mortale, Dio si è fatto prossimo
all’uomo, assumendo la pena della mortalità senza mac-
chiarsi della colpa dell’ingiustizia, cancellando così la se-
conda e vincendo la prima 211. Cristo è l’unico giustifica-
tore perché è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini, es-
sendo lui stesso vero Dio e vero uomo 212.
Ancora una volta, il pensiero di Agostino manife-
sta il suo profondo cristocentrismo. La figura di Cristo
unifica i vari aspetti e livelli della giustizia: in quanto
Verbo eterno, sua è la luce intelligibile della giustizia
ideale che illumina le menti e fornisce il criterio per
distinguere il giusto dall’ingiusto; in quanto uomo, è

211 Cf. s. 171, 3. Nascendo senza peccato originale, Cristo fu


libero dal timore della morte e accettò quest’ultima volontaria-
mente, rendendola perciò redentrice: cf. R. DODARO, «Christus
Iustus» and Fear of Death in Augustine’s Dispute with Pelagius, in
Signum pietatis. Festgabe für C.P. Mayer zum 60. Geburtstag, hrsg.
von A. Zumkeller, Würzburg 1989, pp. 341-361.
212 Cf. conf. X, 43, 68 e la tesi di G. REMY, Le Christ média-
teur dans l’œuvre de saint Augustin, Lille-Paris 1979, 2 voll.

64
l’unico esempio di giustizia perfetta realizzata su que-
sta terra e modello ineguagliabile per la giustizia uma-
na; in quanto fondatore della Chiesa, raduna attorno
a sé il popolo veramente giusto, che rende a Dio il cul-
to a Lui gradito; in quanto vittima innocente, che nel
sacrificio della croce rivela l’amore del Padre, fornisce
la sola risposta credibile allo scandalo della sofferenza
e al mistero insondabile della giustizia divina; in
quanto autore della nuova Legge del Vangelo, porta a
compimento la Legge antica e conferisce la forza di
agire per amore della giustizia più che per timore del-
la pena; in quanto Verbo incarnato, riconcilia gli uo-
mini con Dio e in virtù della sua Passione ci merita la
giustificazione per mezzo della fede in lui. «Quindi la
nostra giustizia è lui» 213; anche nel caso della giusti-
zia, Cristo risulta essere, com’è stato autorevolmente
detto, il segreto principio di coerenza dell’intera dot-
trina agostiniana 214.
GIOVANNI CATAPANO *

213 Pat. 20, 17.


214 Riprendo l’espressione dal titolo del noto saggio di G.
MADEC, Christus, scientia et sapientia nostra. Le principe de cohé-
rence de la doctrine augustinienne, «Recherches Augustiniennes»,
10 (1975), pp. 77-85. Del medesimo, si veda la monografia La pa-
tria e la via. Cristo nella vita e nel pensiero di Sant’Agostino (1989),
Roma 1993.
* Sono grato ad Antonio Da Re e Remo Piccolomini per le
loro osservazioni su una prima versione di questa Introduzione.
Dedico il lavoro ai miei genitori, il cui esempio di rettitudine e
d’onestà è stato per me il primo e più efficace avvio alla conoscen-
za della giustizia.

65
NOTA BIBLIOGRAFICA

Ci limitiamo a segnalare qui pochi studi di carattere


generale sulla concezione agostiniana della giustizia. Per le
questioni particolari ad essa connesse, si rinvia ai titoli cita-
ti nelle note dell’Introduzione.

J. CANALS, La justicia según san Agustín, «La Ciudad de


Dios», 159 (1947), pp. 485-512.
M.T. CLARK, Augustine on justice, «Revue des Études Au-
gustiniennes», 9 (1963), pp. 87-94.
R. DODARO, Justice, in AAE, pp. 481-483.
G.-C. KIM, Augustins Gedanken über die Gerechtigkeit, Diss.
Heidelberg 1988/89.
A. MACINTYRE, L’alternativa agostiniana, in ID., Giustizia e
razionalità. 1. Dai greci a Tommaso d’Aquino (1988), tr.
it. Milano 1995, pp. 180-201.
O. PASQUATO, La giustizia in S. Agostino, in La giustizia nel-
l’Alto Medioevo (secoli V-VIII), tomo I, Spoleto 1995,
pp. 127-161.

Chi volesse approfondire la conoscenza della biblio-


grafia sull’argomento, può comodamente consultare la
banca dati disponibile on-line all’indirizzo http://www.au-
gustinus.de, inserendo come chiavi di ricerca parole come
iustitia, iustus (iusti), virtus, respublica, populus, ius, iudi-

66
cium, poena, coercitio, compelle intrare, bellum, malum,
praedestinatio, misericordia, peccatum, lex, timor, iustifica-
tio o altri lemmi dell’Augustinus-Lexicon.
Un eccellente strumento per orientarsi nell’universo
agostiniano (idee, opere, personaggi, letteratura) è costitui-
to dal dizionario Augustine through the Ages. An Encyclo-
pedia, General Editor A.D. Fitzgerald, Associate Editors J.
Cavadini, M. Djuth, J.J. O’Donnell, F. Van Fleteren, Grand
Rapids, Michigan - Cambridge, U.K. 1999 (qui abbreviato
con la sigla AAE), di cui sarà presto disponibile l’edizione
italiana presso Città Nuova.

Nel presente volume si fa uso delle seguenti abbrevia-


zioni:
BA = Bibliothèque Augustinienne. Les
œuvres de saint Augustin, Paris.
NBA = Nuova Biblioteca Agostiniana, a
cura della Cattedra Agostiniana
presso l’“Augustinianum” di
Roma. Opere di sant’Agostino,
edizione latino-italiana, Roma.
PBA = Piccola Biblioteca Agostiniana,
Roma.
SVF = Stoicorum veterum fragmenta,
collegit I. ab Arnim, Lipsiae
1903-1905, voll. 3.
Per sermones novi s’intendono i sermoni scoperti nel
1990 a Magonza da F. Dolbeau (pubblicati e tradotti nei
voll. XXXV/1 e XXXV/2 della NBA).

67

LA GIUSTIZIA



I.
LA GIUSTIZIA IN SÉ

1. LA BELLEZZA INCORPOREA DELLA GIUSTIZIA

a) L’amabile bellezza della giustizia, visibile solo agli


occhi del cuore

Saremo colmati dei beni della tua casa: il tuo santo


tempio, mirabile nella giustizia (Sal 65 [64], 5-6). Ec-
co i beni di quella casa! Non dice: Il tuo santo tempio
è mirabile per le colonne, mirabile per i marmi, mira-
bile per i tetti coperti d’oro; ma dice: Mirabile nella
giustizia. Con gli occhi del corpo riesci a vedere i mar-
mi e l’oro; nell’intimo c’è un occhio che ti consente di
vedere la bellezza della giustizia. Ripeto: nell’intimo
c’è un occhio capace di vedere la bellezza della giusti-
zia. Se la giustizia non avesse alcuna bellezza, perché
si amerebbe un vecchio giusto? Che cosa presenta nel
corpo che dia piacere agli occhi? Le sue membra so-
no curve, la fronte è solcata da rughe, il capo è im-
biancato. Debole e pieno di acciacchi, mai smette di
lamentarsi. Ai tuoi occhi non offre certo uno spetta-
colo piacevole questo vecchio decrepito; ma ne darà
forse al tuo orecchio con le parole, col canto? Anche
se da adolescente ha cantato bene, con l’età tutto è

71
cessato. E potrà recar piacere al tuo orecchio il suono
delle sue parole, quando lui, cadutigli i denti, riesce a
stento a pronunziare tutt’intere le sillabe? Nonostan-
te tutto, però, se egli è un uomo giusto, se non desi-
dera le cose altrui, se dona ai poveri ciò che ha, se ci
esorta al bene, se retto è il suo giudizio e integra la sua
fede, se per la vera fede egli è pronto a sacrificare le
sue membra (non importa se sono consunte dagli an-
ni, mentre importa ricordare che molti hanno subito
il martirio da vecchi), noi un tal vecchio lo amiamo.
Ma perché lo amiamo? Che pregio o attrattiva vedia-
mo in lui, con gli occhi della carne? Nulla. Esiste dun-
que una bellezza della giustizia, che noi riusciamo a
vedere con l’occhio del cuore, che amiamo e per la
quale ci entusiasmiamo 1. È questa la bellezza che cer-
tuni amarono moltissimo nei martiri, proprio mentre
le loro membra venivano dilaniate dalle belve. Quan-
do il sangue insozzava ogni cosa, quando le viscere
uscivano dal corpo squarciato dalle belve, gli occhi
non avevano se non di che inorridire. Eppure, di fron-
te a tale spettacolo, in quelle membra dilaniate e in-
sozzate di sangue c’era qualcosa che ispirava amore. E
cosa poteva mai essere se non l’intemerata bellezza
della giustizia? Questi sono i beni della casa di Dio: di
questi beni preparati a saziarti 2. Ma perché tu possa
saziartene quando vi sarai giunto, è necessario che tu
ne abbia fame e sete mentre sei in esilio. Ne devi es-
sere assetato, affamato, perché essi saranno i beni di
Dio. Ascolta il re cui queste cose sono dette, colui che

1 Cf. en. Ps. 32, II, 1, 6.


2 Cf. Io. ev. tr. 3, 21.

72
è venuto a ricuperarti e si è fatto per te Via (cf. Gv 14,
6). Che cosa dice? Beati coloro che hanno fame e sete
di giustizia, perché saranno saziati (Mt 5, 6)! Il tuo san-
to tempio, mirabile nella giustizia! E non pensate, fra-
telli, che questo tempio sia fuori di voi. Amate la giu-
stizia e sarete voi il tempio di Dio.
(Enarrationes in Psalmos 64, 8)

b) La giustizia come realtà incorporea e intelligibile

AGOSTINO – […] Tu infatti non dubiti, come sup-


pongo, che quest’albero non è proprio un nulla.
EVODIO – E chi potrebbe dubitarne?
A. – E non dubiti che la giustizia ha assai più va-
lore di questo albero?
E. – È assurdo il contrario. Non esiste alcun con-
fronto.
A. – Sei magnanimo con me. Ma ora poni atten-
zione a quanto segue. È evidente che questo albero ha
meno valore della giustizia al punto che tu ritieni di
dover escludere ogni confronto ed hai anche ammes-
so che questo albero non è un nulla. Ti piacerebbe se
accettassimo la tesi che la giustizia è un nulla?
E. – Chi è tanto pazzo da pensarlo?
A. – Proprio bene. Ma tu forse ritieni che questo
albero è qualche cosa perché è lungo secondo una sua
misura e largo e spesso. Se togli tali proprietà, sarà un
nulla.
E. – Sì, certo.
A. – E allora la giustizia che, secondo il tuo pa-
rere, è un qualche cosa, è anzi una quiddità indefet-

73
tibile e assai più nobile dell’albero, ti sembra che sia
lunga?
E. – È del tutto impossibile che la giustizia si pre-
senti al mio pensiero come lunga, larga o altro simile.
A. – Dunque la giustizia non ha alcuna di tali di-
mensioni e tuttavia è un qualche cosa.
(De quantitate animae 4, 5)

Finalmente le cose che non hanno né passato né


avvenire, ma permangono eterne, sono in parte invisi-
bili come la giustizia e la sapienza, in parte sono visi-
bili come il corpo di Cristo ormai immortale. Le invi-
sibili si vedono con l’intelletto, cioè in modo confa-
cente alla loro natura e, quando si vedono, sono mol-
to più certe di quelle percepite coi sensi del corpo: si
dicono tuttavia invisibili poiché non possono vedersi
con occhi materiali. […]
Al contrario la giustizia, la sapienza e qualunque
altra cosa della stessa specie, non ce le figuriamo in un
modo e le contempliamo in un altro, ma le contem-
pliamo e le comprendiamo invisibili con la semplice
percezione della mente e della ragione, prive di qua-
lunque forma e dimensione corporea, di lineamenti e
di configurazione di membra, senza limiti di luogo
circoscritto o di spazio infinito 3. […]
La Trinità è infatti superiore alle realtà corporee
non per la forma o grandezza della mole ma per la
sua natura diversissima e incomparabilmente supe-
riore; è incomparabilmente diversa dai beni dell’ani-

3 Cf. s. novi 21, 6; en. Ps. 41, 7.


74
ma nostra, come la sapienza, la giustizia, la carità, la
castità e altri beni congeneri che non valutiamo cer-
tamente in base alla mole corporea né ce li raffiguria-
mo di forma corporea, ma, quando l’intendiamo co-
me si deve, li vediamo alla luce della mente assoluta-
mente privi di qualsiasi natura corporea o somiglian-
za di natura corporea 4.
(Epistulae 120, 2, 9-12)

2. INTERIORITÀ E TRASCENDENZA
DELLA GIUSTIZIA IDEALE

a) La presenza interiore dell’idea della giustizia

Ma che cosa sia un giusto, da che cosa lo cono-


sciamo? Abbiamo detto che il solo motivo per cui
amiamo l’Apostolo è che egli è un’anima giusta 5.
Dunque noi sappiamo che cos’è un giusto, come sap-
piamo che cos’è un’anima. Ma che cosa sia un’anima,

4 Agostino distingue la giustizia come virtù umana o bene


spirituale dalla giustizia come norma o criterio o regola ideale.
Entrambe sono intelligibili, ma la prima è immanente all’anima, la
seconda è trascendente e risiede in Dio stesso. Cf. cat. rud. 27, 55:
«Ma [Dio] va amato non come un essere che si vede con gli oc-
chi, ma come si ama la sapienza, la verità, la santità, la giustizia, la
carità e ogni altra cosa simile: non come si manifestano negli uo-
mini, ma come sono nella fonte stessa dell’incorruttibile ed immu-
tabile sapienza»; civ. XI, 29: «Così in un modo si conosce la giu-
stizia nella sua idea immutabile e in un altro nell’anima dell’uomo
giusto».
5 Cf. l’inizio del lungo § 6, 9 di trin. VIII, da cui è tratto que-
sto brano.

75
come si è detto 6, noi lo sappiamo da noi stessi, per-
ché c’è in noi un’anima. Al contrario che cosa sia un
giusto da che cosa lo sappiamo, se non siamo giusti?
Se nessuno sa che cosa sia un giusto se non colui che
è giusto, nessuno ama il giusto se non il giusto. Nes-
suno può infatti amare colui che crede giusto, preci-
samente perché lo crede giusto, se ignora che cosa sia
un giusto, e secondo quanto abbiamo più sopra di-
mostrato nessuno ama ciò che crede e non vede, se
non secondo una norma di conoscenza generica o
specifica 7. Ma allora, se ama il giusto solo il giusto,
come vorrà essere giusto uno che non lo è ancora?
Nessuno infatti vuol essere ciò che non ama. Ma per-
ché divenga giusto colui che non lo è ancora, deve
proprio voler essere giusto; e per volerlo ama il giu-
sto. Perciò ama il giusto anche chi ancora non è giu-
sto. Ma non può amare il giusto se ignora che cosa sia
il giusto. Dunque sa che cosa sia il giusto anche chi
non lo è ancora. Da dove gli deriva questa conoscen-
za? L’ha visto con gli occhi, o c’è forse un corpo giu-
sto, come c’è un corpo bianco, nero, quadrato, roton-
do? Chi oserà affermarlo? Ma con gli occhi si vedo-
no solo i corpi. Ora nell’uomo non è giusta che l’ani-
ma e quando si dice che un uomo è giusto lo si dice
secondo l’anima, non secondo il corpo. La giustizia è
una specie di bellezza dell’anima; essa rende belli gli
uomini, anche molti di quelli che hanno il corpo con-
traffatto e deforme. Ma come con gli occhi non si ve-
de l’anima, così non si vede nemmeno la sua bellezza.

6 Subito prima del passo qui riportato.


7 Cf. trin. VIII, 5, 7-8.

76
Da che cosa apprende dunque che cosa sia il giusto,
colui che non lo è ancora ed ama il giusto per diven-
tarlo? Forse che i movimenti dei corpi fanno brillare
certi segni i quali rivelano che questo o quest’altro
uomo è giusto? Ma da che cosa sa che quei segni ri-
velano un’anima giusta, se ignora totalmente che co-
sa sia un giusto? Lo sa dunque. Ma da che cosa ap-
prendiamo che cosa sia il giusto, anche quando non
siamo giusti? Se lo sappiamo per qualcosa che è fuo-
ri di noi, lo vediamo in qualche corpo. Ma quella che
vediamo non è una realtà corporea. È dunque in noi
che vediamo che cosa sia il giusto. Quando cerco di
parlarne non ne trovo l’idea altrove, ma solo in me; e
se chiedo ad un altro che cosa sia il giusto, è in se
stesso che egli cerca ciò che deve rispondere; e chiun-
que su questo punto può rispondere il vero, trova in
se stesso che cosa può rispondere. Così quando vo-
glio parlare di Cartagine, è in me che cerco ciò che ne
dirò, e in me trovo l’immagine (phantasia) di Cartagi-
ne; ma questa immagine l’ho ricevuta per mezzo del
corpo, cioè per mezzo dei sensi del corpo, perché è
una città in cui sono stato fisicamente presente, che
ho visto, percepito con i miei sensi, di cui conservo il
ricordo, cosicché ne trovo in me un verbo quando in-
tendo parlarne. Questo “verbo” è l’immagine (phan-
tasia) che ne conservo nella mia memoria; non questo
suono, queste tre sillabe che pronuncio quando no-
mino Cartagine 8, neppure il nome che penso in si-
lenzio durante un certo intervallo di tempo; no, è ciò

8 In latino Car-tha-go.

77
che vedo nella mia anima quando pronuncio queste
tre sillabe o anche prima di pronunciarle. Così pure,
quando voglio parlare di Alessandria, che non ho mai
visto, ne appare in me una rappresentazione immagi-
naria (phantasma) 9. Avendo sentito dire da molti ed
essendomi persuaso, prestando fede alle descrizioni
che a me se ne sono potute fare, che è una grande
città, me ne sono formato con l’anima un’immagine
approssimativa; questa immagine è il suo “verbo” in
me, quando voglio parlarne, prima che abbia pro-
nunciato queste cinque sillabe, questo nome che qua-
si tutti conoscono. E tuttavia se io potessi far uscire
questa immagine dalla mia anima e presentarla agli
occhi di coloro che conoscono Alessandria, certa-
mente o esclamerebbero tutti: «non è essa», o, se mi
dicessero: «è proprio essa», ne sarei molto stupito e
contemplandola nella mia anima, o piuttosto l’imma-
gine che ne è come la pittura, non potrei da me rico-
noscere che è proprio essa, ma presterei fede a colo-
ro che l’hanno vista e ne conservano il ricordo. Ma
non è così che cerco che cosa sia il giusto, né così che
lo trovo, che lo vedo, né così che mi si approva, quan-
do ne parlo, né così che approvo quando ne sento
parlare, come se si trattasse di qualcosa che ho visto
con gli occhi, o percepito con qualche senso corpo-
reo, o udito da coloro che l’hanno appreso mediante

9 «La phantasia indica, in senso proprio, l’immagine dell’og-


getto percepito, conservata nella memoria, mentre phantasma de-
signa un’immagine costruita arbitrariamente con elementi presen-
ti nella memoria per rappresentare oggetti non percepiti» (G. Be-
schin in NBA IV, p. 347, nota 4).

78
la conoscenza sensibile. Quando dico, e con piena
conoscenza di causa: «L’anima giusta è quella che, re-
golando la sua vita e i suoi costumi secondo i dettami
della scienza e della ragione, dà a ciascuno il suo» 10,
non penso ad una realtà assente, come Cartagine;
non si tratta di una cosa di cui mi faccio un’immagi-
ne approssimativa, come Alessandria, che questa im-
magine corrisponda o no alla verità; ma contemplo
una realtà presente, e la contemplo in me, sebbene
non sia io stesso ciò che contemplo, e molti, se mi
udranno parlare, mi approveranno. E chiunque mi
ascolta e mi approva con piena conoscenza di causa,
vede anche lui in sé ciò che vede anche se non è egli
stesso ciò che vede. Il giusto invece quando parla di
questo, vede e dice ciò che è egli stesso. E dove lo ve-
de anch’egli, se non in se stesso? Ma ciò non può far
meraviglia: dove potrebbe infatti vedere se stesso, se
non in se stesso? Ma ciò che stupisce è che un’anima
veda in se stessa ciò che non ha visto in nessun’altra
parte, se ne faccia un’idea vera e veda un’anima vera-
mente giusta sebbene essa sia sì un’anima, ma non
l’anima giusta che vede in se stessa. Forse che c’è
un’altra anima giusta nell’anima che non è ancora
giusta? E se non c’è, che anima vede in sé, quando ve-
de e dice ciò che è un’anima giusta, cosa che non ve-
de in un’altra parte se non in sé, mentre tuttavia essa
non è un’anima giusta? Ciò che essa vede non sarà la
verità interiore, presente all’anima capace di intuirla?

10 Per questa classica definizione della giustizia, fatta pro-


pria da Agostino, vedi la nota 41 dell’Introduzione e la sezione II,
2, a.1 dell’antologia.

79
Ma tutti non ne sono capaci: e quelli che sono capa-
ci di intuirla non sono tutto ciò che intuiscono, cioè
non sono anch’essi delle anime giuste, benché possa-
no vedere e dire che cosa sia un’anima giusta. E co-
me potranno diventarlo, se non aderendo a questo
stesso ideale che intuiscono, per modellarsi in
conformità di esso e diventare anime giuste, non ac-
contentandosi di contemplare e dire che è giusta l’a-
nima che ordina la sua vita e la sua condotta secondo
i dettami della scienza e della ragione e distribuisce a
ciascuno ciò che gli spetta, ma per vivere anch’essi se-
condo giustizia ed improntare ad essa la loro condot-
ta distribuendo a ciascuno ciò che gli spetta, in modo
che non debbano nulla a nessuno, se non la mutua di-
lezione (Rm 13, 8)? E come si aderisce a quell’ideale
se non con l’amore? Perché dunque amiamo noi un
altro uomo che riteniamo giusto e non amiamo quel-
lo stesso ideale in cui vediamo che cosa sia un’anima
giusta al fine di poter diventare giusti anche noi? O
forse si deve dire che senza amare questo ideale non
ameremmo colui che esso ci fa amare, ma che, fino a
quando non siamo ancora giusti, l’amore di questo
ideale è troppo debole per darci la forza di diventare
giusti anche noi? Dunque l’uomo che è ritenuto giu-
sto è amato secondo la verità che contempla ed intui-
sce in sé colui che ama; questa verità ideale però non
si ama per un motivo diverso, ma per se stessa. Per-
ché al di fuori di essa non troviamo nulla che le sia si-
mile e che ci permetta, fintantoché non la conoscia-
mo, di amarla per fede, riferendoci ad un’analogia di
un essere già conosciuto. Infatti tutto ciò che ci appa-
re tale, è già essa stessa; o meglio non c’è nulla di si-

80
mile, perché essa sola è tale, quale essa è. Colui dun-
que che ama gli uomini, deve amarli perché sono giu-
sti o perché lo diventino. Così infatti deve amare an-
che se stesso: o perché è giusto, o per diventare giu-
sto. Allora ama il prossimo come se stesso (Mc 12, 33)
senza alcun pericolo. Chi si ama in maniera diversa si
ama in maniera ingiusta, perché si ama per essere in-
giusto, dunque per essere cattivo e di conseguenza
non si ama; infatti: Chi ama l’iniquità odia la sua ani-
ma (Sal 11 [10], 5 [6, secondo LXX]).
(De Trinitate VIII, 6, 9)

b) La trascendente luce intelligibile della giustizia ideale

Sforzatevi di pensare, fratelli, alla luce della ve-


rità, alla luce della sapienza, e come sia presente do-
vunque a tutti. Sforzatevi di pensare alla luce della
giustizia: è presente infatti a chiunque pensa. Che co-
s’è ciò che pensa? Chi vuol vivere ingiustamente pec-
ca, abbandona la giustizia. È diminuita? Si è conver-
tito alla giustizia. Che dire? È aumentata? L’abbando-
na, la lascia intera. Si converte ad essa e la trova inte-
ra. Che cos’è pertanto la luce della giustizia? Sorge
dall’oriente e va in occidente? O c’è un altro luogo
donde sorge e dove va? Non è presente ovunque? Se
un uomo che vive in occidente vuole vivere con giu-
stizia, cioè secondo giustizia, gli manca forse la giusti-
zia su cui fissare lo sguardo sicché possa vedere se-
condo giustizia? Così se uno che sta in oriente voles-
se vivere con giustizia cioè secondo la stessa giustizia,
forse manca a lui? È lì la giustizia; è presente a chi vi-

81
ve con giustizia 11. Confrontandosi con la sua norma
anche costoro vedono come si vive secondo giustizia.
Come i giusti vivendo bene la vedono, così i peccato-
ri vivendo male non la vedono. Infatti vive con giusti-
zia chi la vede e nello stesso tempo la vede per guida-
re secondo essa le sue azioni, perché se non dirigerà
le sue azioni secondo la regola della giustizia, andrà a
finire nell’errore dell’iniquità. Poiché perciò ha potu-
to essere presente a costui dovunque si è trovato, non
è in nessun luogo ed è dappertutto. Come la giustizia,
così la sapienza, la verità, la castità.
(Sermones 4, 7)

Ma si può far ricordare allo spirito il Signore,


perché si volga a lui (cf. Sal 22 [21], 28), come verso
quella luce che lo toccava in qualche modo, anche
quando si allontanava da lui. Da questo deriva infatti
che perfino gli iniqui pensano all’eternità e riprendo-
no giustamente, lodano giustamente molte cose, nella
condotta degli uomini 12. A quali regole si riferiscono
essi per pronunciare questi giudizi, se non a quelle in
cui vedono come ognuno debba vivere, sebbene essi
non vivano così? Dove le vedono? Non nella loro na-
tura, perché certamente è con lo spirito che si vedono
queste cose e perché è evidente che i loro spiriti sono

11 Cf. s. novi 22, 9; Io. ev. tr. 35, 4.


12 La legge morale si trova iscritta nella coscienza di ogni
uomo. Anche gli iniqui, pur rifiutando incoerentemente di appli-
carla a se stessi, si basano su di essa come criterio di giudizio. Cf.
en. Ps. 35, 1; 57, 1; conf. I, 18, 29; II, 4, 9; Io. ev. tr. 49, 12; ep. 157,
3, 15; c. Iul. IV, 3, 25.

82
mutevoli, mentre queste regole appaiono immutabili
a chiunque abbia potuto vedere in esse una norma di
vita; nemmeno in un modo di essere del loro spirito,
perché queste sono regole di giustizia, mentre è evi-
dente che i loro spiriti non sono giusti. Dove sono
dunque iscritte queste regole, in cui riconosce ciò che
è giusto anche lo spirito che non è giusto, in cui vede
che bisogna avere ciò che esso non ha? Dove sono
dunque iscritte, se non nel libro di quella luce che si
chiama verità? 13. Di qui dunque è dettata ogni legge
giusta e si trasferisce nel cuore dell’uomo che opera la
giustizia, non emigrando in lui, ma quasi imprimen-
dosi in lui, come l’immagine passa dall’anello nella ce-
ra, ma senza abbandonare l’anello 14. Invece quello
che non opera, e che tuttavia vede che cosa si debba
operare, è lui che si allontana da quella luce, ma tut-

13 Riconosciamo ciò che è giusto con la stessa facoltà con


cui riconosciamo ciò che è vero, ossia con l’intelletto che ci distin-
gue dagli animali. Cf. en. Ps. 42, 6: «Ci rendiamo conto di conse-
guenza di possedere qualcosa ove sta l’immagine di Dio, la men-
te e la ragione. La mente stessa invocava la luce di Dio e la verità
di Dio. È per suo mezzo che comprendiamo ciò che è giusto e ciò
che è ingiusto; che distinguiamo il vero dal falso; esso si chiama
intelletto, quell’intelletto di cui mancano le bestie; e chiunque tra-
scura questo intelletto, e lo pospone alle altre cose e si muove qua-
si non l’avesse, ascolti il salmo: non siate come il cavallo e il mulo
che non hanno intelletto (Sal 32 [31], 9)». Cf. anche civ. XII, 3.
14 L’idea di una legge divina trascritta e impressa nell’ani-
ma umana è di origine stoica. Agostino può averla trovata in Ci-
cerone (De legibus II, 4, 8s.; De re publica III, 22, 33): cf. le no-
te di A. Solignac in BA 13 (1963), pp. 663-664 e di P. Siniscalco
in sant’Agostino, Confessioni, vol. I, Fondazione Valla, Milano
19972, p. 187.

83
tavia ne è toccato. Quanto a colui che non vede nem-
meno come si debba vivere, è più scusabile nel suo
peccato, perché non trasgredisce una legge sconosciu-
ta; ma il fulgore della verità ovunque presente tocca
talvolta anche lui, quando, avvertito di essa, confessa
il suo peccato 15.
(De Trinitate XIV, 15, 21)

15 È il caso dei pagani, i quali, come scrive Paolo, «dimo-


strano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come ri-
sulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ra-
gionamenti, che ora li accusano ora li difendono» (Rm 2, 15).

84
II.
LA GIUSTIZIA NEL SINGOLO UOMO

1. LA VITA DEL GIUSTO

a) Giusti e ingiusti

Infatti due generi di uomini, i giusti e gli ingiu-


sti, sono, in questa terra e in questa vita, mischiati in-
sieme. Ciascuno di questi generi ha nel suo cuore
tendenze proprie. Il genere dei giusti si sforza di rag-
giungere il sublime per mezzo dell’umiltà; il genere
degli ingiusti precipita nell’infimo per mezzo dell’or-
goglio. Quello si abbassa per sorgere, questo si eleva
per cadere. Da ciò accade che un genere sopporta,
l’altro è sopportato; e l’intenzione dei giusti è di gua-
dagnare anche i malvagi alla vita eterna, mentre l’in-
tento degli empi è di restituire male per bene, e di
privare, se ci riescono, anche della vita temporale co-
loro che cercano per sé la vita eterna. A fatica insom-
ma l’ingiusto sopporta il giusto, ed il giusto l’ingiu-
sto: reciprocamente si sono di peso. Nessuno dubita
che questi due generi sono di peso l’uno per l’altro,
ma con diverse intenzioni. Il giusto infatti è di peso
per l’ingiusto, perché non vuole che sia ingiusto, ma
vuol far di quello un giusto, e lo desidera con le pre-

85
ghiere, e tenta con i fatti: l’ingiusto invece odia il
giusto in tal maniera che non vuole che lui esista,
perché non vuole che esista il bene. Quanto più il
giusto è buono, tanto più di peso è all’ingiustizia di
questo. E perciò questi si affatica, se ci riesce, per
farlo diventare ingiusto; ma se non può, cerca di to-
glierlo di mezzo, affinché non gli arrechi più noia e
fastidio. Ma anche se fa del giusto un ingiusto, pur-
tuttavia resta di peso per lui. Infatti, non soltanto il
giusto è di peso all’ingiusto, ma neppure due ingiu-
sti si sopportano a vicenda; e quando sembrano
amarsi, fra loro c’è complicità, non amicizia. Allora,
infatti, vanno d’accordo tra loro quando cospirano
ai danni del giusto; non perché si amano, ma perché
insieme odiano colui che dovrebbero amare. Contro
questo genere di uomini il Signore Dio nostro ci or-
dina la pazienza e quel sentimento di carità che co-
nosciamo nel Vangelo; come appunto il Signore ci
comanda con le parole: Amate i vostri nemici, e fate
del bene a coloro che vi odiano (Mt 5, 44). Del pari
anche l’Apostolo dice: Non lasciarti vincere dal male,
ma vinci il male con il bene (Rm 12, 21). Combatti
contro il male, ma con la bontà. La vera lotta, o per
meglio dire il combattimento salutare, consiste a che
vi sia un buono contro un malvagio, e non siano [i
combattenti] due malvagi.
(Enarrationes in Psalmos 36, 2, 1)

86
b) Il ripudio dell’ingiustizia

b.1) Meglio subire l’ingiustizia che commetterla

I giusti subiranno l’ingiustizia, non la commette-


ranno; e in realtà è assai meglio subirla che commet-
terla 1.
(Enarrationes in Psalmos 124, 8)

b.2) Il rifiuto di compiere azioni inique

Infatti, ciò che non si può fare giustamente, non


lo può fare neppure il giusto, poiché mentre decide
questo, egli perde prima di tutto la giustizia, per cui
ciò che non può fare da giusto, lo può come ingiusto.
Così dunque [Giobbe] disse: Oh, potessi io stesso dar-
mi la morte (Gb 30, 24 2), come se dicesse: «Potesse
questo essere conforme alla giustizia». In quel caso,
infatti, il giusto avrebbe potuto farlo. No, egli non
avrebbe neppure potuto augurarsi di commettere
un’ingiustizia, cosa che non può fare alcuno se non è
ingiusto 3; se invece era possibile, egli avrebbe capito
che ciò era un atto conforme alla giustizia. Ora, poi-
ché non poteva esser fatto che ciò diventasse secondo

1 Cf. en. Ps. 56, 14. A questa conclusione era giunta anche
la riflessione filosofica: cf. PLATONE, Gorgia, 469B-C; 473A; 474B;
475E; 508D-E; 527B.
2 Così traduceva la versione latina della Bibbia utilizzata da
Agostino. Nel Testo Masoretico (ebraico) il versetto è incom-
prensibile.
3 Cf. l’esegesi di Sal 66 (65), 18 in en. Ps. 65, 22.

87
giustizia, il giusto non ha potuto fare ciò che avrebbe
fatto solo l’ingiustizia.
(Contra Gaudentium Donatistarum episcopum
I, 30, 35)

b.3) La rinuncia alla vendetta

Abbiamo detto 4 che le precedenti parole sono


una profezia non un augurio 5. Tuttavia, pensando a
ciò che sta scritto nell’Apocalisse, cioè che sotto l’al-
tare di Dio i martiri gridano: Fino a quando, Signore,
tardi a vendicare il nostro sangue? (Ap 6, 10) non pos-
siamo sorvolare sul loro preciso significato. Non si ha
da pensare infatti che i santi desiderino la vendetta
per saziare il loro odio, il che sarebbe ben lontano
dalla loro perfezione. Eppure sta scritto: Il giusto si
rallegrerà vedendo la vendetta degli empi; laverà le sue
mani nel sangue del peccatore (Sal 58 [57], 11). E l’A-
postolo aggiunge: Non vendicatevi da voi stessi, caris-
simi, ma date luogo all’ira. Sta scritto infatti: Mia è la
vendetta, e io ripagherò, dice il Signore (Rm 12, 19).
Non proibisce quindi la vendetta; ma proibisce di
vendicarsi da se stessi per dare luogo all’ira di Dio,
che ha detto: Mia è la vendetta, e io ripagherò. E il Si-
gnore nel Vangelo propone la parabola della vedova,
che desiderando vendicarsi chiedeva udienza a un

4 In en. Ps. 78, 13.


5 Agostino si riferisce al versetto 10 del Sal 79 (78): Si cono-
sca tra i popoli, sotto i nostri occhi, la vendetta per il sangue dei tuoi
servi.

88
giudice ingiusto, il quale finalmente l’ascoltò non
perché mosso da giustizia ma perché stanco del fasti-
dio (cf. Lc 18, 3-5). Con la quale parabola il Signore
voleva dimostrare che molto più rapidamente Dio,
che è giusto, giudicherà i suoi eletti che a lui gridano
di giorno e di notte. Così infatti gridano sotto l’alta-
re di Dio i martiri per essere vendicati dal giudizio di
Dio. Ma che senso hanno, allora, le parole: Amate i
vostri nemici; beneficate coloro che vi odiano, e prega-
te per quelli che vi perseguitano (Mt 5, 44)? E ancora
le altre: Non rendendo male per male, né maledizione
per maledizione (1 Pt 3, 9)? E ancora: A nessuno ren-
dete male per male (Rm 12, 17)? Se non si deve ren-
dere a nessuno il male per il male, non soltanto non
si deve ripagare una cattiva azione con una cattiva
azione, ma neppure si deve augurare il male in rispo-
sta ad una cattiva azione o a un cattivo augurio 6. E
con un cattivo augurio ripaga anche colui che, sebbe-
ne non si vendichi da se stesso, tuttavia aspetta e de-
sidera che Dio punisca il suo nemico. Ebbene, se tan-
to l’uomo giusto quanto l’ingiusto possono desidera-
re che il Signore li vendichi dei loro nemici, in che
modo si distingueranno i loro desideri di vendetta?
Ecco: il giusto desidera in primo luogo che il nemico
si ravveda e solo subordinatamente che sia punito; e

6 Cf. en. Ps. 108, 4, ove si afferma che la legge del taglione
«è la giustizia degli ingiusti. Non perché sia iniquo che ciascuno
riceva in cambio quello che ha fatto, altrimenti la Legge non l’a-
vrebbe mai stabilito; ma perché il desiderio della vendetta è un vi-
zio e spetta, tra gli altri uomini, al giudice decidere di essa, piut-
tosto che sia il buono a ricercarla per sé».

89
quando vede che il Signore ha fatto giustizia, non tro-
va gioia nella condanna del nemico che non odia, ma
si rallegra della divina giustizia, perché ama Dio.
Inoltre, se la vendetta avviene in questa vita, il giusto
se ne rallegra, poiché con essa il colpevole ha da cor-
reggersi, o quanto meno se ne rallegra per gli altri, in
quanto costoro temeranno di imitare il colpevole.
Egli stesso poi ne diviene migliore, non alimentando
il suo odio nella punizione del nemico, ma approfit-
tandone per correggere i propri errori. In tal modo
quando il giusto vede la vendetta, la gioia che prova
deriva dalla bontà, non dalla cattiveria; ed egli nel
sangue (cioè nella punizione) del peccatore lava le
sue mani, cioè rende più pure le sue opere. Nel male
altrui non trova motivo di godimento, ma ne ricava
un esempio della divina severità 7. Nel caso poi che la
vendetta venga rimandata all’aldilà, cioè all’ultimo
giudizio, il giusto si uniforma al beneplacito di Dio,
che cioè non vi siano godimenti per i malvagi e che
gli empi non ricevano il premio destinato ai fedeli. Il
contrario sarebbe certamente ingiusto e del tutto
estraneo alla norma della verità che il giusto ama. Or-
bene il Signore, esortandoci ad amare i nemici, ci
propone l’esempio del Padre nostro che è nei cieli, il
quale fa sorgere il suo sole sopra i buoni e i malvagi, e
fa piovere sui giusti e sugli ingiusti (Mt 5, 45). Dicen-
do così, ha voluto forse intendere che Iddio non sot-
topone i malvagi a castighi temporali, oppure che al-
la fine non condannerà coloro che pertinacemente si

7 Cf. en. Ps. 57, 21.


90
ostineranno nel male? Sia dunque amato il nemico in
modo che non ci dispiaccia la giustizia con la quale il
Signore lo punisce. E ci si compiaccia della giustizia
con la quale il perverso è punito, in modo però che
non ci si rallegri della sua sciagura ma della bontà del
giudice. L’animo del malevolo, invece, si rattrista se
vede che il suo nemico si ravvede ed evita la pena.
Quando al contrario vede che è punito, trova gioia
nel vedersi vendicato; e questo non perché gli sia gra-
dita la giustizia di Dio che non ama, ma perché gli
piace la sfortuna del nemico che odia. Che se talvol-
ta lascia a Dio il giudizio, si comporta così perché de-
sidera che Dio faccia al suo nemico più male di quan-
to egli stesso possa fargliene. E quando infine dà da
mangiare al nemico affamato o da bere al nemico as-
setato, maliziosamente applica le parole: Così facen-
do, accumuli carboni ardenti sulla sua testa (Rm 12,
20). Si comporta, infatti, così per aggravare la sua pe-
na, per eccitare contro di lui l’indignazione di Dio,
che ritiene figurata nei carboni ardenti. Non capisce
che quel fuoco è il fuoco della penitenza che brucia e
produce dolore, finché il capo del peccatore, prima
eretto per la superbia, di fronte ai benefici ricevuti
dal nemico non sia costretto ad abbassarsi in saluta-
re umiltà, e così la cattiveria del malvagio non sia vin-
ta dalla bontà del giusto. Per questo molto sapiente-
mente l’Apostolo aggiunge: Non farti vincere dal mal-
vagio, ma vinci il malvagio col bene (Rm 12, 21). Ma
in qual modo potrà vincere nel bene il malvagio, uno
che solo apparentemente sia buono, mentre in fondo
al cuore è cattivo? Uno che a fatti lascia correre ma
che ha il cuore pieno di rabbia? Uno che con la ma-

91
no è inoffensivo ma con la volontà è spietato? Orbe-
ne, nelle parole di colui che prega in questo salmo
(cf. Sal 79 [78], 10) è profetata la vendetta che in fu-
turo Dio si prenderà degli empi, ma la profezia è fat-
ta in modo che anche noi vi impariamo come i santi
uomini di Dio abbiano amato i loro nemici né altro
abbiano loro desiderato se non il bene, cioè il perdo-
no in questo mondo e l’eternità dopo morte. Quanto
poi alle pene dei malvagi, essi non si rallegravano per
il male che ne deriva ai colpevoli, ma per il giudizio
di Dio che è una cosa buona. E tutte le volte che nel-
le sante Scritture si parla dell’odio dei giusti contro
gli uomini, si tratta sempre dell’odio contro i vizi, che
ciascun uomo deve odiare in se stesso, se se stesso
ama.
(Enarrationes in Psalmos 78, 14)

b.4) La confessione dei peccati

Avvicinatevi a lui e sarete illuminati (Sal 34 [33],


6). Se però vuoi avvicinarti ed essere illuminato, oc-
corre che ti dispiacciano le tenebre in cui ti trovi. Di-
sapprova ciò che sei, per meritare di essere ciò che
non sei. Sei peccatore e devi diventare giusto: ma non
acquisterai mai la giustizia, finché provi gusto nel ma-
le 8. Annienta la colpa nel tuo cuore e purificalo! Cac-
cia il male dal tuo cuore, poiché lì ha da abitare colui
che tu vuoi vedere. È così dunque che in qualche mo-

8 Il tema della confessione dei peccati come primo passo


verso la giustizia è sviluppato con ampiezza in en. Ps. 84, 14-16.

92
do si avvicina a Dio l’anima umana, l’uomo interiore
riformato secondo l’immagine di Dio, secondo la qua-
le era stato originariamente creato: l’uomo che si era
allontanato [da Dio] in quanto ne aveva persa la so-
miglianza. A Dio infatti non ci si avvicina o ci si allon-
tana per distanze di luogo; ma, come ti eri allontana-
to perché divenuto da lui dissimile, così gli ti avvicini
se gli diverrai somigliante.
(Enarrationes in Psalmos 99, 5)

c) Il desiderio della giustizia

Ci si affanna infatti quando si ricercano ed ama-


no molti beni, per il cui acquisto e possesso non è suf-
ficiente la volontà, poiché non ha il potere necessario
a raggiungerli. La vita giusta, invece, noi l’abbiamo
quando la vogliamo, giacché il volerla pienamente è
già la giustizia, e la giustizia, per essere perfetta, non
richiede altro che una perfetta volontà 9. Guarda se
c’è fatica, dove è sufficiente volere. Ecco perché divi-
namente fu detto: Pace in terra agli uomini di buona
volontà (Lc 2, 14). Dov’è pace, ivi è tranquillità, ivi è
il termine d’ogni desiderio e non c’è alcun motivo di
penare. Ma a far sì che questa volontà sia piena, oc-
corre che sia sana; sarà sana poi se non respingerà il
medico per grazia del quale soltanto può esser risana-

9 Cf. trin. IX, 9, 14: «Colui che, per esempio, conosce per-
fettamente ed ama perfettamente la giustizia, è già giusto, anche
prima che debba tradurre questo ideale di giustizia in un atto
esteriore mediante le membra del corpo». Cf. anche ord. II, 7, 22.

93
ta dal male di desideri nocivi 10. Orbene, il medico è
proprio Colui che ad alta voce proclama: Venite a me
voi tutti che siete affaticati (Mt 11, 28), e dice che il
suo giogo è dolce e lieve il suo peso (cf. Mt 11, 30),
poiché quando per mezzo dello Spirito Santo sarà sta-
ta diffusa la carità nei nostri cuori (cf. Rm 5, 5), si
amerà certo ciò che ci verrà comandato; il giogo di
Cristo non sarà duro né gravoso, se sotto quest’unico
giogo quanto meno superbamente, tanto più libera-
mente serviremo Dio.
(Epistulae 127, 5)

d) La pratica delle opere di misericordia

d.1) Le opere di misericordia come opere di giustizia

Adunate intorno a Lui i suoi giusti (Sal 50 [49],


5). È la voce di Dio e del profeta, che vede il futuro
come fosse presente, ed esorta gli angeli a riunire i
giusti. Manderà infatti i suoi angeli, ed essi riuniranno
dinanzi a lui tutte le genti (cf. Mt 25, 32). Adunate in-
torno a Lui i suoi giusti. Quali giusti, se non coloro

10 L’immagine di Cristo medico delle anime è una delle più


amate da Agostino ed è un tema caro alla letteratura patristica: cf.
R.E. ARBESMANN, The Concept of «Christus medicus» in St. Augu-
stine, «Traditio», 10 (1954), pp. 1-28; P.C.J. EIJKENBOOM, Het Ch-
ristus-Medicus motief in de preken van sint Augustinus, Assen
1960; M.-F. BERROUARD, Le Christ médecin, note compl. 15 in BA
71 (1969), pp. 854-855; S. FERNÁNDEZ, Cristo médico, según Orí-
genes. La actividad médica como metáfora de la acción divina, Ro-
ma 1999.

94
che vivono della fede, e compiono le opere della mi-
sericordia? Tali opere infatti sono opere di giustizia.
Leggi nel Vangelo: Guardatevi dal compiere la vostra
giustizia al cospetto degli uomini, per essere visti da es-
si (Mt 6, 1). E, come se gli uomini avessero chiesto:
Quale giustizia?, egli risponde: Quando compirai le
elemosine (Mt 6, 2). Le elemosine, dunque, rappre-
sentano le opere di giustizia. Riunite tali suoi giusti;
riunite coloro che hanno avuto compassione di chi
aveva bisogno, e hanno avuto intelletto a proposito
del misero e del povero; riuniteli, il Signore li conser-
verà e li vivificherà. Adunate intorno a Lui i suoi giu-
sti, coloro che collocano la sua alleanza sopra i sacrifici
(Sal 50 [49], 5); cioè che pensano alle sue promesse
più che alle loro opere. Tali opere sono infatti i sacri-
fici, come dice Dio: Misericordia voglio, più che sacri-
ficio (Os 6, 6; Mt 9, 13) 11.
(Enarrationes in Psalmos 49, 12)

d.2) Distribuire il denaro per acquistare la giustizia

È dunque bene ciò che rende buoni, ed è un be-


ne ciò con cui uno fa buono qualcun altro. Il bene che
rende buoni è Dio 12. Poiché non rende buono l’uo-
mo se non colui ch’è sempre buono. Affinché dunque
tu sia buono, invoca Dio. Esiste però un altro bene
con cui puoi far del bene, vale a dire tutto ciò che pos-
siederai. È l’oro, è l’argento: non è un bene capace di

11 Cf. civ. XX, 24, 2.


12 Cf. s. novi 16, 6.10.18; 23, 5.

95
render buono te stesso, ma con cui potrai fare il bene.
Tu possiedi oro e argento, eppure brami oro e argen-
to. Lo hai, eppure lo brami; ne hai tanto, eppure lo
desideri ardentemente. Questa è una malattia, non è
una ricchezza. Si trovano uomini infermi di questa
malattia, uomini che sono pieni di liquido, eppure
hanno sempre sete. Sono pieni di liquido, eppure
hanno sete di liquido. Come mai dunque tu godi del-
l’opulenza, tu che hai una cupidigia simile all’idropi-
sia? Tu dunque possiedi dell’oro: è un bene; lo possie-
di non per essere buono, ma per fare con esso il bene.
«Quale bene potrò fare con l’oro?», mi domanderai.
Non hai udito il salmo? Ha dato largamente ai poveri
– è detto –; la sua giustizia rimane per sempre (Sal 112
[111], 9). Ecco il bene, grazie al quale tu sarai buono:
la giustizia. Se hai il bene con cui essere buono, fa’ il
bene col bene con cui non sei buono. Hai del denaro?
distribuiscilo. Distribuendo il denaro, aumenterai la
giustizia. Diede infatti generosamente il denaro, lo di-
stribuì, lo diede ai poveri; la sua giustizia rimane per
sempre. Vedi che cosa diminuisce e che cosa aumenta.
Diminuisce il denaro, aumenta la giustizia. Diminui-
sce ciò che eri destinato a lasciare, ad abbandonare,
aumenta ciò che possiederai per sempre.
Vi do un consiglio per far guadagni: imparate a
commerciare. Tu infatti elogi il mercante che vende il
piombo e guadagna l’oro, e non elogi il commercian-
te che distribuisce il denaro e acquista la giustizia?
«Ma io – tu obietti – non distribuisco il denaro, per-
ché non ho la giustizia. Distribuisca pure il denaro chi
ha la giustizia; ma io, che non ho la giustizia, lascia
che mi tenga il mio denaro». Dunque, poiché non hai

96
la giustizia, non vuoi distribuire il denaro? Distribui-
scilo piuttosto per avere la giustizia 13. Da chi infatti
avrai la giustizia, se non da Dio, sorgente della giusti-
zia? 14. Se dunque vuoi avere la giustizia, devi essere
mendicante di Dio, il quale poco prima nel Vangelo ti
esortava a chiedere, a cercare, a bussare. Egli cono-
sceva bene il mendicante che lo implorava; ed ecco, il
padre di famiglia possessore d’immense ricchezze,
cioè delle ricchezze spirituali ed eterne, ti esorta e di-
ce: «Chiedi, cerca, bussa. Chi chiede, riceve; chi cer-
ca, trova e a chi bussa, verrà aperto» (cf. Mt 7, 7). Se
ti esorta a chiedere, ti rifiuterà forse ciò che chiedi?
(Sermones 61, 3, 3-4)

e) Innocenza e solidarietà

Salmeggerò e comprenderò nella via immacolata,


quando verrai a me (Sal 101 [100], 2). Fuori della via
immacolata non potrai né salmeggiare né comprende-
re. Se vuoi comprendere, salmeggia nella via immaco-
lata, cioè compi nella gioia le opere del tuo Dio. Qual
è la via immacolata? Ascolta come continua: Cammi-
navo nell’innocenza del mio cuore in mezzo alla mia ca-
sa (Sal 101 [100], 2). Questa via immacolata trae ini-
zio dall’innocenza e all’innocenza giunge. A che pro

13 Ciò vale solo per il denaro guadagnato onestamente. Chi


volesse dare ai poveri dei beni rubati ad altri, interpretando male
il significato della «ricchezza iniqua» di cui si parla in Lc 16, 9,
commetterebbe sicuramente un’ingiustizia: cf. s. 113, 2, 2.
14 Su Dio fonte della giustizia vedi la sezione IV, 1.

97
cercare molte parole? Sii innocente e hai raggiunto la
perfezione della giustizia. Ma che significa «essere in-
nocente»? In due maniere l’uomo fa del male, per
quanto è in suo potere: o rendendo misero un suo si-
mile o abbandonandolo nella miseria 15. Prova ne sia
che tu stesso non vuoi essere ridotto in miseria né, se
già sei misero, ti piace essere abbandonato nella tua
miseria 16. Chi causa al prossimo della miseria? Chi
usa violenza o trama insidie, chi s’appropria della ro-
ba altrui, chi opprime i poveri, ruba, attenta al matri-
monio degli altri, chi calunnia, ovvero per odio causa
al suo simile delle sofferenze. E chi è che abbandona
il misero? Chi vede il povero bisognoso di aiuto e, pur
avendo di che aiutarlo, lo trascura, lo disprezza, non
lo prende a cuore. Anche se chi si comporta così non
avesse a sua volta alcun bisogno di misericordia, tra-
scurando il misero si comporterebbe da superbo. Si
trova infatti ancora in mezzo alle sofferenze della vita
e, senza sapere che cosa gli possa accadere domani,
disprezza le lagrime del misero! Non è innocente co-
stui. Chi è allora innocente? Chi non fa del male né a
se stesso né agli altri.
(Enarrationes in Psalmos 100, 4)

15 Cf. mor. I, 26, 50: «Contro l’uomo si pecca in due ma-


niere, nell’una quando gli si fa torto, nell’altra quando non lo si
aiuta».
16 È qui implicita la “regola d’oro”, che comanda di non fa-
re agli altri quello che non vorremmo fosse fatto a noi: cf. en. Ps.
57, 1.

98
f) L’umiltà

f.1) Il giusto è il giustificato

Allietatevi nel Signore ed esultate, o giusti (Sal 32


[31], 11). O voi, che vi allietate in voi stessi! O empi,
o superbi, che vi allietate in voi! A voi che già credete
in Colui che giustifica l’empio, la vostra fede è compu-
tata a giustizia (cf. Rm 4, 5). Allietatevi nel Signore, ed
esultate, voi giusti. Ed esultate; sottintendi: nel Signo-
re. Perché? Perché siete già giusti. Per che cosa giusti?
Non per i vostri meriti, ma per la sua grazia. Perché
quindi siete giusti? Perché siete stati giustificati 17.
(Enarrationes in Psalmos 31/2, 24)

f.2) Operare la giustizia in questa vita è dono di Dio

Perciò: non si vantino il prudente della propria pru-


denza, il potente della propria potenza e il ricco delle pro-
prie ricchezze, ma chi si vuol vantare si vanti di conosce-
re e comprendere il Signore e di operare in mezzo alla ter-
ra quel che è onesto e giusto (Ger 9, 22-23 [23-24
Volg.]). Non in piccola parte conosce e comprende il
Signore chi conosce e comprende che dal Signore gli è
concesso anche di conoscerlo e comprenderlo. Che co-

17 Cf. en. Ps. 109, 1: «Nessuno può vivere secondo giustizia,


se non è giustificato, cioè se non è stato “fatto giusto”, e l’uomo
non è fatto giusto se non da colui che non può mai essere ingiu-
sto». Vedi anche le sezioni V, 4 sulla giustizia derivante da Dio e
VI, 1-2 sulla giustificazione.

99
sa hai, dice l’Apostolo, che non hai ricevuto? E se l’hai
ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevu-
to? (1 Cor 4, 7), cioè come se provenga da te ciò per cui
ti vanti. Opera quel che è onesto e giusto chi vive ret-
tamente. Vive rettamente chi obbedisce ai comanda-
menti di Dio e fine del comandamento, cioè il valore al
quale è relativo il comandamento, è la carità provenien-
te da un cuore puro, da una buona coscienza e dalla fede
non simulata (1 Tim 1, 5). Certamente questa carità è da
Dio, come afferma l’apostolo Giovanni (cf. 1 Gv 4, 7).
Dunque operare quel che è onesto e giusto è da Dio 18.
(De civitate Dei XVII, 4, 8)

2. LA GIUSTIZIA COME VIRTÙ

a) Definizioni

a.1) Virtù con cui si dà a ciascuno il suo

AGOSTINO – Rifletti ora se è tua opinione che la


prudenza è conoscenza razionale di cose che si devo-
no desiderare e fuggire.
EVODIO – Sì.
A. – E la fortezza è disposizione spirituale, con
cui si disprezzano i disagi e la perdita di cose indipen-
denti dal nostro volere?
E. – Penso.

18 Cf. en. Ps. 110, 3: «In realtà, l’uomo non può operare la
giustizia se non è giustificato». Per questo chi è veramente giusto
non si vanta della propria giustizia e non disprezza gli altri: cf. en.
Ps. 49, 30.

100
A. – Inoltre la temperanza è disposizione che fre-
na e reprime il desiderio di cose che si desiderano di-
sordinatamente. La pensi diversamente?
E. – Anzi la penso proprio come te.
A. – E come considereremo la giustizia se non co-
me virtù per cui si distribuisce a ciascuno il suo? 19.
E. – Non ho altra idea della giustizia.
(De libero arbitrio I, 13, 27)

a.2) Ordine armonico dell’anima

Ora, un fiume scaturiva dall’Eden (cf. Gn 2, 10),


cioè dalle delizie, dai piaceri e dai pasti; questo fiume
viene indicato dal Profeta nei Salmi allorché dice: Li
disseti al torrente delle tue delizie (Sal 36 [35], 9); poi-
ché questo è l’Eden che in latino si chiama voluptas
cioè «piacere». Esso si divide in quattro bracci e sim-
boleggia le quattro virtù cardinali, cioè la prudenza, la
fortezza, la temperanza e la giustizia 20. […]
La prudenza significa dunque la stessa contem-
plazione della verità che non può essere espressa da

19 Definizione classica e tradizionale della giustizia (cf.


ad es. PLATONE, Repubblica, 331E; 335E; SVF I, 374; III,
262.263.266.280; Rhetorica ad Herennium III, 2, 3; CICERONE, De
finibus V, 23, 67; De natura deorum III, 15, 38; Digesto I, 1, 10 =
Ulpiano), che Agostino riprende sotto l’influsso prevalente di Ci-
cerone (De inventione II, 53, 160 è citato letteralmente in div. qu.
31, 1: iustitia est habitus animi communi utilitate conservata cuique
tribuens suam dignitatem). Per le altre occorrenze di questa defi-
nizione nelle opere agostiniane, vedi la nota 41 dell’Introduzione.
20 Cf. civ. XIII, 21.

101
nessun linguaggio umano, perché è inesprimibile e, se
uno volesse spiegarla a parole, potrebbe concepirla
nella mente anziché esprimerla a parole; nel paradiso
infatti anche l’Apostolo udì parole indicibili che a
nessuno è possibile ripetere (cf. 2 Cor 12, 4). Questa
prudenza percorre dunque la terra che possiede l’oro,
il rubino e lo smeraldo (cf. Gn 2, 11-12), cioè la rego-
la del vivere che, purificata – per così dire – col fuoco
da tutte le immondezze terrene, diventa splendente
come l’oro più fine. Questa prudenza possiede anche
la verità, la quale non è offuscata da nessuna falsità,
come lo splendore del rubino non è offuscato dalla
notte; essa possiede ancora la vita eterna simboleggia-
ta dal verde vivo dello smeraldo per il vivido splendo-
re che non diminuisce giammai. Il fiume poi che gira
intorno all’Etiopia (cf. Gn 2, 13), regione assai calda,
anzi torrida, è simbolo della fortezza ardente e opero-
sa per lo zelo dell’attività. Il terzo fiume, il Tigri, scor-
re in direzione dell’Assiria (cf. Gn 2, 14) ed è simbo-
lo della temperanza che lotta contro il piacere che si
oppone assai fortemente ai suggerimenti della pru-
denza; per questo motivo nelle Scritture gli Assiri so-
no nominati di solito come gli avversari. Quanto al
quarto fiume la Scrittura non dice in direzione di qua-
le regione scorre o quale terra percorre (cf. Gn 2, 14),
poiché la giustizia si estende a tutte le facoltà dell’ani-
ma in quanto essa è l’ordine e l’equilibrio dell’anima,
per il quale si uniscono in perfetta armonia queste tre
virtù 21; la prima è la prudenza, seconda la fortezza,

21 Si tratta di una concezione vicina a quella platonica, per


la quale la giustizia, nell’anima come nella città, si verifica quan-

102
terza la temperanza: in tutta questa unione e disposi-
zione consiste la giustizia.
(De Genesi adversus Manichaeos II, 10, 13-14)

a.3) Amore che serve soltanto Dio


e governa ciò che è soggetto all’uomo

Posto che la virtù ci conduce alla vita beata, io af-


fermerei che la virtù non è assolutamente niente altro
se non l’amore sommo di Dio. E appunto il fatto di
dire che la virtù è quadripartita 22, lo si dice, per
quanto comprendo, in considerazione della varietà
delle disposizioni che lo stesso amore assume. Così
queste famose quattro virtù, la cui forza voglia il cielo
che sia in tutti gli animi come i loro nomi sono in tut-
te le bocche, non esiterei a definirle anche così: la
temperanza è l’amore integro che si dà a ciò che si
ama; la fortezza è l’amore che tollera tutto agevolmen-
te per ciò che si ama; la giustizia è l’amore che serve
esclusivamente ciò che si ama e che, a causa di ciò,
domina con rettitudine 23; la prudenza è l’amore che

do ogni parte svolge il ruolo che le spetta e tutte collaborano ar-


moniosamente fra loro: cf. PLATONE, Repubblica, 441D - 444A;
M.T. CLARK, Platonic Justice in Aristotle and Augustine, «The
Downside Review», 82 (1964), pp. 25-35.
22 Vedi Introduzione, nota 41.
23 Per il nesso concettuale tra questa seconda definizione e
la prima, cf. civ. XIX, 4, 4: «Compito della giustizia è assegnare a
ciascuno il suo. Ne consegue un giusto ordine naturale in modo
che l’anima sia sottomessa a Dio e il corpo all’anima e perciò l’a-
nima e il corpo a Dio».

103
distingue con sagacia ciò che è utile da ciò che è noci-
vo. Ma, come abbiamo detto, questo amore non è di
chiunque, ma di Dio, cioè del bene sommo, della
somma sapienza e della somma armonia. Pertanto le
virtù possono essere definite anche così: la temperan-
za è l’amore per Dio che si conserva integro ed incor-
ruttibile; la fortezza è l’amore per Dio che tollera tut-
to con facilità; la giustizia è l’amore che serve soltan-
to a Dio e, a causa di ciò, a buon diritto comanda ogni
altra cosa che è soggetta all’uomo 24; la prudenza è l’a-
more che discerne con chiarezza ciò che aiuta ad an-
dare a Dio da ciò che lo impedisce. […]
Che dire della giustizia che riguarda Dio? Forse
che le parole con le quali il Signore dice: Non potete
servire a due padroni (Mt 6, 24; Lc 16, 13) e quelle con
cui l’Apostolo riprende coloro che servono la creatura
piuttosto che il Creatore (Rm 1, 25), non furono scritte
già prima nel Vecchio Testamento, dove è detto: Ado-
rerai il Signore Dio tuo e lui solo servirai (Dt 6, 13; 10,
20)? Ma che bisogno c’è d’ora in poi di portare altre
testimonianze, dal momento che le Scritture ne sono
piene? All’uomo che ama Dio e del quale parliamo,
dunque, la giustizia prescriverà questa regola di vita:
che serva con la massima disponibilità Dio che egli
ama, cioè il bene sommo, la somma saggezza, la som-
ma pace. Quanto a tutte le altre cose, governi quelle

24 Cf. vera rel. 48, 93: «Dunque, chi ama la libertà, cerchi di
essere libero dall’amore per le cose mutevoli; e chi ama il potere,
si sottometta come suddito a Dio, l’unico che regna su tutto,
amandolo più di se stesso. Questa è la perfetta giustizia, per la
quale amiamo di più le cose di maggior conto e di meno quelle di
minor conto».

104
che gli sono soggette e abbia l’ardire di assoggettare le
altre. Questa norma di vita, come abbiamo mostrato, è
confermata dall’autorità dei due Testamenti. […]
Se infatti Dio è il bene sommo dell’uomo 25, e
voi 26 non potete negarlo, se ne deduce di certo che,
poiché desiderare il bene sommo è vivere bene, il vi-
vere bene non è niente altro che amare Dio con tutto
il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente (cf. Dt
6, 5; Mt 22, 37; Mc 12, 30.33; Lc 10, 27). Da qui sca-
turisce che questo amore in lui si conservi intatto ed
integro, ciò che è proprio della temperanza, e che non
si abbatta per nessuna avversità, ciò che è proprio del-
la fortezza; che non serva a nessun altro, ciò che è
proprio della giustizia; che vigili nel discernimento
delle cose affinché né la fallacia né l’inganno si insinui
di soppiatto, ciò che è proprio della prudenza. Que-
sta è l’unica perfezione dell’uomo, con la quale sol-
tanto egli ottiene di godere della pura verità; questa
cantano ad una voce i due Testamenti, questa ci rac-
comandano l’uno e l’altro.
(De moribus ecclesiae catholicae
et de moribus Manichaeorum I, 15, 25; 24, 44.46)

a.4) Amore di Dio e del prossimo

In quella turba non c’erano cinquemila uomini,


come l’altra (cf. Mt 14, 21; Mc 6, 44; Lc 9, 14; Gv 6,

25 Cf. mor. I, 3, 5 - 6, 10; 8, 13. Si tratta di un concetto fon-


damentale nell’etica agostiniana, che solo i platonici, tra i filosofi
antichi, avevano raggiunto: cf. civ. VIII, 8.
26 I Manichei.

105
10) che indica gli uomini carnali sottomessi alla legge,
schiavi cioè dei cinque sensi del corpo, ma piuttosto
quattromila (cf. Mt 15, 38; Mc 8, 9); con questo nume-
ro sono indicati gli spirituali in forza delle quattro
virtù dell’anima, con le quali si vive spiritualmente in
questa vita: prudenza, temperanza, fortezza e giusti-
zia. Di queste la prima è la conoscenza delle cose da
desiderare e da evitare, la seconda è la moderazione
della cupidigia dei piaceri materiali, la terza è la fer-
mezza d’animo contro le avversità temporali, la quar-
ta, che compenetra tutte le altre, è l’amore di Dio e
del prossimo.
(De diversis quaestionibus octoginta tribus 61, 4)

a.5) Virtù preposta a fare il bene


in vista della pace perfetta

Noi abbiamo bisogno della continenza e ricono-


sciamo che essa è un dono di Dio, mediante il quale il
nostro cuore non si lascia andare a parole maliziose
volendo scusare i peccati. Della continenza abbiamo
bisogno per trattenerci da ogni sorta di peccati e non
commetterli. Per suo mezzo ugualmente, qualora il
peccato sia stato commesso, ci asteniamo dal difen-
derlo con micidiale superbia. In ogni maniera, dun-
que, è necessaria la continenza se vogliamo evitare il
male. Fare il bene, invece, sembra esser compito di
un’altra virtù, la giustizia, come ci inculca il santo sal-
mo dove leggiamo: Allontànati dal male e fa’ il bene
(Sal 34 [33], 15). E soggiunge anche il fine per cui lo
dobbiamo fare: Ricerca la pace e mettiti sulle sue orme

106
(Sal 34 [33], 15). Ma la pace perfetta la conquistere-
mo solo quando la nostra natura sarà unita insepara-
bilmente al suo Creatore e in noi non ci sarà niente
che si ribelli contro di noi. È – per quanto mi è dato
capire – quanto volle inculcare il nostro Salvatore al-
lorché disse: I vostri fianchi siano cinti e le vostre lam-
pade accese (Lc 12, 35). Cosa vuol dire cingere i fian-
chi? Tenere a freno le passioni sregolate: e questo è
compito della continenza. Avere le lampade accese
vuol dire invece splendere ed essere fervorosi nelle
opere buone: e questo è compito della giustizia. Né
volle passare sotto silenzio il fine per cui dobbiamo
agire così, ma soggiunse: Siate simili a quelle persone
che stanno in attesa del padrone, finché non ritorni dal-
le nozze (Lc 12, 36). Quando egli verrà, ci ricompen-
serà per esserci frenati in quello che la passione sug-
geriva e per aver compiuto quel che la carità ordina-
va. Regneremo allora nella sua pace perfetta ed eter-
na, né avremo più da lottare col male ma godremo
sommamente nella gioia del bene.
(De continentia 7, 17)

b) Necessità della fede

b.1) «Il giusto vive di fede»

Ed ora chiudiamo questo libro 27 ricordando che il


giusto vive di fede (Ab 2, 4; Rm 1, 17; Gal 3, 11; Eb 10,
38), questa fede opera per mezzo dell’amore (Gal 5, 6),

27 Il XIII del De Trinitate.


107
cosicché le virtù stesse con le quali si vive con pruden-
za, forza, temperanza e giustizia, si rapportano tutte al-
la fede; altrimenti non potranno essere vere virtù 28.
(De Trinitate XIII, 20, 26)

b.2) Senza la fede, non c’è vera giustizia

Non può esserci vera virtù senza vera giustizia, né


può esserci vera giustizia se non si vive di fede. È scrit-
to infatti: Il giusto vive di fede (Ab 2, 4; Rm 1, 17; Gal
3, 11; Eb 10, 38). Chi mai tra coloro che vogliono es-
sere ritenuti cristiani, eccetto i soli pelagiani, o eccetto
tu solo forse tra i pelagiani 29, potrà dichiarare giusto
un infedele, giusto un empio, giusto uno che appartie-
ne al diavolo? E questo sia che si tratti di Fabrizio, di
Fabio, di Scipione o di Regolo 30, col nome dei quali

28 Conclusione ripetuta in trin. XIV, 1, 3.


29 Agostino si rivolge a Giuliano di Eclano, che contro il pri-
mo libro del De nuptiis et concupiscentia aveva scritto un’opera in
quattro libri indirizzata a Turbanzio. In essa Giuliano attaccava le
dottrine della concupiscenza e del peccato originale, e accusava
Agostino di condannare il matrimonio e ricadere nel manichei-
smo. Sulla figura di Giuliano, cf. la recente monografia di J. LÖS-
SL, Julian von Aeclanum: Studien zu seinem Leben, seinem Werk,
seiner Lehre und ihrer Überlieferung, Leiden 2001.
30 Gaio Fabrizio Luscino (sec. III a.C.) rifiutò di farsi cor-
rompere da Pirro nelle trattative per lo scambio dei prigionieri
dopo la battaglia di Ascoli (cf. civ. V, 18, 2); Quinto Fabio Massi-
mo, detto «il Temporeggiatore» (275ca-203 a.C.) si astenne dal
saccheggio delle statue sacre dei Tarantini (cf. civ. I, 6); Publio
Cornelio Scipione Africano (236-183 a.C.) sconfisse Annibale e si
distinse, oltre che per le straordinarie capacità militari, per la sua
religiosità (cf. civ. III, 21); Marco Attilio Regolo (sec. III a.C.), fat-

108
hai creduto di spaventarmi come se ci trovassimo in
una antica curia romana 31. Su questo argomento puoi
anche appellarti alla scuola di Pitagora o di Platone,
nella quale uomini eccezionalmente eruditi in una filo-
sofia molto più nobile delle altre sostenevano che non
esistono vere virtù, se non quelle impresse in certo
modo nella mente dalla forma di quella eterna ed im-
mutabile sostanza che è Dio 32. Ebbene, con tutta la
forza che mi è data, anche nell’interno di questa scuo-
la continuerò a gridare con la libertà della pietà che
neppure in quei filosofi c’è vera giustizia. Il giusto vive
di fede. La fede nasce dalla predicazione e la predicazio-
ne ha luogo per mezzo della parola di Cristo (Rm 10,
17). Il termine della legge è Cristo, affinché chiunque
creda consegua la giustificazione (Rm 10, 4). Come pos-
sono essere veramente giusti coloro per i quali è viltà
l’umiltà del vero Giusto? 33. La superbia li ha allonta-

to prigioniero dai Cartaginesi e inviato a Roma a trattare lo scam-


bio dei prigionieri, sostenne invece in Senato la tesi opposta,
quindi tornò a Cartagine per rispettare il giuramento fatto ai ne-
mici e lì fu ucciso in una botte irta di chiodi (cf. civ. I, 15, 1-2; I,
24; III, 18, 1; V, 18, 2).
31 Come prova della sufficienza del libero arbitrio per vivere
giustamente, Giuliano aveva addotto l’esempio di quei pagani che,
come gli antichi Romani appena citati, erano stati capaci di com-
portamenti virtuosi pur non possedendo la fede: cf. c. Iul. IV, 3, 16.
32 Cf. Acad. III, 17, 37. Agostino forse si riferisce alla dottri-
na neoplatonica dei gradi di virtù, secondo la quale, oltre le virtù
civili che presiedono alla vita politica, esistono delle virtù superio-
ri proprie dell’attività specificamente intellettuale e contemplati-
va, e queste ultime sono a loro volta immagini psichiche di para-
digmi insiti nell’Intelletto divino: cf. PLOTINO, Enneadi, I 2; POR-
FIRIO, Sentenza 32.
33 Si tratta di Porfirio e dei suoi seguaci, che avevano rifuta-

109
nati dal punto dove li aveva avvicinati l’intelligenza,
poiché pur avendo conosciuto Dio, né gli diedero gloria,
come a Dio, né gli resero grazie, ma vaneggiarono nei lo-
ro ragionamenti ed il loro cuore insensato si offuscò. Es-
si che pretendevano di essere sapienti, diventarono stol-
ti (Rm 1, 21-22). Come può esserci vera giustizia se in
essi non c’è vera sapienza? Se noi l’attribuissimo a lo-
ro, non ci sarebbe motivo per dire che non arrivano al
regno del quale è scritto: Il desiderio della sapienza por-
ta al regno (Sap 6, 20). Cristo sarebbe morto invano se
gli uomini, pur senza la fede in Cristo, potessero giun-
gere per qualunque altra ragione o qualunque altra via
alla vera fede, alla vera virtù, alla vera giustizia, alla ve-
ra sapienza. E quindi, come l’Apostolo con assoluta
verità afferma riguardo alla legge: Se la giustizia si ot-
tiene mediante la legge, Cristo allora è morto inutilmen-
te (Gal 2, 21), alla stessa maniera, con identica verità,
si potrebbe dire: se la giustizia si ottiene per mezzo
della natura e della volontà, Cristo è morto inutilmen-
te. Se una giustizia qualsiasi si ottiene per mezzo della
dottrina degli uomini, Cristo è morto inutilmente. Il
mezzo che porta alla vera giustizia è lo stesso che por-
ta al regno di Dio. Dio stesso, infatti – sia ben lontano
il pensarlo! –, si dimostrerebbe ingiusto se non am-
mettesse nel suo regno un vero giusto, dal momento
che il suo regno è essenzialmente giustizia, come è
scritto: Il regno di Dio non è né cibo né bevanda, ma
giustizia, pace e gioia (Rm 14, 17). Di conseguenza se
gli empi non hanno vera giustizia, le altre virtù, com-

to l’idea dell’Incarnazione e combattutto la fede cristiana: cf. civ.


X, 29.

110
pagne e colleghe di essa, anche quando sono presenti,
non sono vere virtù. (Quando i doni di Dio non sono
riferiti al loro Creatore, per questo stesso fatto i catti-
vi che se ne servono diventano ingiusti). Per tutte que-
ste ragioni la continenza e la castità non possono esse-
re vere virtù negli empi. […]
Non è una definizione assurda quella di chi ha
detto che «la virtù è un abito dell’anima conforme al-
l’ordine della natura» 34. Ha detto il vero ma ignora-
va quello che era conforme alla natura dei mortali per
liberarla e renderla felice. Tutti noi non potremmo
desiderare per naturale istinto di essere immortali e
felici se questo non fosse possibile. Questo bene som-
mo però non può pervenire agli uomini se non per
mezzo di Cristo e Cristo crocifisso, dalla cui morte è
vinta la morte e per le cui ferite la nostra natura è sa-
nata. Per questo il giusto vive della fede (Ab 2, 4; Rm
1, 17; Gal 3, 11; Eb 10, 38) in Cristo. Per questa fede
infatti egli vive con prudenza, fortezza, temperanza e
giustizia e proprio perché vive con fede egli vive ret-
tamente e sapientemente con tutte queste vere virtù.
Se le virtù pertanto non giovano all’uomo per il con-
seguimento della vera beatitudine che la vera fede in
Cristo ci ha promesso immortale, non giovano a nul-
la e in nessun modo possono essere vere virtù 35.
(Contra Iulianum IV, 3, 17.19)

34 CICERONE, De inventione II, 53, 159 (citato in div. qu.


31, 1).
35 La questione delle virtù dei pagani ha suscitato negli stu-
diosi un particolare interesse: si veda la bibliografia citata nella
nota 43 dell’Introduzione. Agostino non nega che certi pagani ab-
biano compiuto atti coraggiosi, temperanti ecc.; nega invece che

111
b.3) La giustizia dei pagani

Poniamo viceversa l’ipotesi che coloro che agi-


scono per natura secondo la legge non siano ancora
da contarsi nel numero di quelli che la grazia del Cri-
sto giustifica, ma invece nel numero di coloro che so-
no ancora empi e non adoratori veri e giusti del vero
Dio. Su costoro abbiamo letto o saputo o udito fatti
che secondo la regola della giustizia non solo non pos-
siamo biasimare, ma altresì lodiamo meritamente e
giustamente 36. Quantunque, ad esaminare per quale
fine siano compiute quelle azioni, sarebbe difficile
trovarne che meritino la lode e la difesa dovute alla
giustizia 37.
Nondimeno, nell’anima umana il disordine delle
passioni terrene non ha danneggiato l’immagine di
Dio fino al punto da non lasciarvene quasi nemmeno

vi possa essere una vita pienamente virtuosa, e quindi degna del-


la felicità eterna, indipendentemente dal sacrificio della Croce. Se
la salvezza fosse possibile senza la grazia, se non ci fosse bisogno
della giustificazione meritata dalla Passione, allora la morte di
Cristo sarebbe stata inutile e superflua. Ammettere questo, come
implicitamente facevano Giuliano e i Pelagiani, significherebbe
però svuotare di senso tutta la fede cristiana. Perciò occorre di-
stinguere la bontà degli atti dalla bontà dei soggetti che li compio-
no (cf. c. Iul. IV, 3, 20: «È possibile dunque che siano fatte delle
opere buone, senza che agisca bene chi le fa»).
36 Come le gesta memorabili degli antichi Romani, a cui si
allude in c. Iul. IV, 3, 17.
37 La virtù ricercata per la gloria, l’onore e il potere (come
facevano i Romani) o anche per se stessa (come facevano gli Stoi-
ci) diventa un vizio, perché è asservita alle passioni e gonfia l’ani-
ma d’orgoglio: cf. civ. V, 12, 3-4; V, 20; XIX, 25.

112
i più piccoli lineamenti. Perciò si può dire a ragione
che gli uomini anche nell’empietà della loro vita sen-
tono e osservano alcune prescrizioni della legge. Am-
messo che questo sia il senso delle parole: I pagani,
che non hanno la legge, ossia la legge di Dio, per natu-
ra agiscono secondo la legge, e delle altre parole: Sono
legge a se stessi e dimostrano che quanto la legge esige
è scritto nei loro cuori (cf. Rm 2, 14-15), ossia non è
stato completamente distrutto quanto ci fu impresso
con l’immagine di Dio quando gli uomini furono
creati […]. Se compiono le azioni della legge seguen-
do la natura, nel modo già sopra spiegato sufficiente-
mente, ma sono privi della grazia di Cristo, che mai
gioveranno a loro le scuse della coscienza nel giorno
in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini se non for-
se a farli punire con più mitezza? Come infatti non
escludono il giusto dalla vita eterna certi peccati ve-
niali senza dei quali non si vive questa vita, così non
giovano nulla all’empio per la vita eterna certe buone
azioni che mancano assai difficilmente nella vita an-
che degli uomini peggiori. Tuttavia, come nel regno di
Dio i santi differiscono nello splendore quasi stella da
stella (cf. 1 Cor 15, 41), così anche nella condanna
della pena eterna Sodoma sarà trattata meno dura-
mente di altre città (cf. Lc 10, 12) ed alcuni saranno fi-
gli della geenna il doppio degli altri (cf. Mt 23, 15).
Così nel giudizio di Dio si terrà conto se uno avrà pec-
cato di più o di meno di altri nella stessa empietà de-
stinata alla condanna.
(De spiritu et littera ad Marcellinum 27-28, 48)

113
Anche quelli che hai voluto ricordare 38, di cui
l’Apostolo ha detto: I pagani pur privi di legge sono
legge a se stessi. Essi mostrano scritta nei loro cuori la
realtà della legge (Rm 2, 14-15), non vedo come pos-
sano esserti di aiuto. Hai cercato di dimostrare per
mezzo di essi che anche gli estranei alla fede di Cristo
possono avere una vera giustizia, per il fatto che, sul-
la testimonianza dell’Apostolo, essi compiono secondo
natura ciò che la legge prescrive (Rm 2, 14). Con mag-
gior evidenza hai espresso qui il vostro domma, per il
quale siete nemici della grazia di Dio, che ci viene da
Gesù Cristo Signore nostro, che porta via i peccati del
mondo (Gv 1, 29): hai introdotto cioè un genere di
uomini in grado di piacere a Dio per la legge della na-
tura, senza la fede in Cristo. Questo è il motivo prin-
cipale per cui la Chiesa cristiana vi detesta. Ma cosa
vuoi che essi siano? Hanno essi vere virtù ma sono
sterili poiché non agiscono per Dio 39, oppure piac-
ciono a Dio anche per queste azioni e da lui sono pre-
miati con la vita eterna? Se li dichiari sterili, a che gio-
va loro il fatto che, secondo l’Apostolo, li difenderan-
no i loro pensieri… nel giorno in cui Dio giudicherà le

38 I pagani “virtuosi”: cf. c. Iul. IV, 3, 16.


39 Secondo Giuliano, le virtù sono tali indipendentemente
dal fine in vista del quale sono coltivate; quindi una virtù può es-
sere vera anche se sterile, cioè anche se il frutto che ci si attende
da essa non è un bene eterno (la beatitudine) ma solo un bene
temporale. Per Agostino, invece, una virtù è autentica soltanto
quando è fruttuosa, cioè soltanto quando è indirizzata al vero be-
ne: un avaro, ad esempio, non può dirsi temperante se il motivo
per cui frena i suoi appetiti è quello di evitare le spese necessarie
a soddisfarli. Cf. c. Iul. IV, 3, 19.

114
azioni occulte degli uomini (Rm 2, 16)? Se poi quelli
che sono difesi dai loro pensieri non sono sterili per il
fatto che hanno compiuto secondo natura le opere
della legge e perciò trovano l’eterna ricompensa pres-
so Dio, senza dubbio alcuno per questo sono giusti
poiché vivono della fede (cf. Ab 2, 4; Rm 1, 17; Gal 3,
11; Eb 10, 38) 40. […]
Questi dunque, che sono giusti secondo la legge
naturale, se piacciono a Dio gli piacciono per la fede,
perché è impossibile piacergli senza la fede (cf. Eb 11,
6). E per quale fede essi piacciono, se non per quella
di Cristo? Così infatti si legge negli Atti degli Aposto-
li: In Lui Dio ha accreditato la fede dinanzi a tutti col
risuscitarlo dai morti (At 17, 31). Per questo è stato
detto che, pur essendo senza la legge, hanno compiu-
to le opere della legge secondo natura (cf. Rm 2, 14),
perché sono giunti al Vangelo dal paganesimo e non
dalla circoncisione a cui era stata affidata la legge. È
stato detto «secondo natura» poiché la natura stessa è
stata in essi corretta dalla grazia di Dio affinché potes-
sero credere. Per mezzo di questi, però, non ti è pos-
sibile dimostrare quello che vorresti, che cioè gl’infe-
deli hanno vere virtù: anch’essi, infatti, sono fedeli. Se
non avessero la fede di Cristo, non potrebbero essere
giusti né piacere a Dio, al quale è impossibile piacere
senza la fede.
(Contra Iulianum IV, 3, 23.25)

40 Se le virtù dei pagani non hanno come frutto il premio


eterno, allora non sono utili alla salvezza; se invece lo hanno, e
quindi sono virtù genuine, allora non sono virtù di pagani, ma di
cristiani provenienti dal paganesimo anziché dal giudaismo, ai
quali si riferisce Paolo in Rm 2, 14-15.

115
c) Finalizzazione religiosa

c.1) La virtù si distingue dal vizio per il fine,


non per il compito

Sappi 41 pertanto che le virtù debbono essere di-


stinte dai vizi non per i loro compiti, ma per il fine. Il
compito è quello che si deve fare, il fine è quello per
cui lo si deve fare. Se un uomo fa qualcosa che appa-
rentemente non sembra peccato, si dovrà convincere
che è peccato se non lo fa per il fine per il quale lo si
deve fare. Non ponendo attenzione a tutto questo, hai
separato il fine dai compiti ed hai finito per chiamare
vere virtù i compiti senza il fine. Ne segue tanta assur-
dità che sei costretto a chiamare giustizia anche quel-
la che scopri dominata dall’avarizia 42. Nell’astenersi
dal prendere la roba altrui, se si considera il compito,
si ha l’impressione che si tratta di giustizia; se invece
si va a cercare il motivo per cui lo si fa e la risposta è
che non si perda di più nelle contese, come può esse-
re vera giustizia, quando serve apertamente l’avarizia?
Simili virtù le introdusse Epicuro quali schiave del
piacere perché servissero a fare tutto quanto si faceva,
unicamente per conseguirlo o per conservarlo 43. Ben
lontano sia il pensare che le virtù vere possano essere
al servizio di altri all’infuori di colui e per colui a cui

41 Agostino si rivolge sempre a Giuliano.


42 Cf. c. Iul. IV, 3, 19 e vedi supra, nota 39.
43 Gli Stoici rappresentavano polemicamente l’etica epicu-
rea con l’immagine di una regina (la voluptas) servita da ancelle (le
virtù): cf. civ. V, 20 e CICERONE, De finibus II, 21, 69.

116
diciamo: Dio delle virtù, convertici (Sal 80 [79], 8). Le
virtù che favoriscono pertanto i diletti della carne o
qualsivoglia altra comodità o profitto temporale, non
possono decisamente essere vere. E neppure sono ve-
re virtù quelle che non vogliono essere al servizio di
nessuna cosa 44. Le vere virtù sono al servizio di Dio
negli uomini e da lui sono donate agli uomini; sono al
servizio di Dio negli Angeli e da lui sono donate an-
che agli Angeli. Tutto quanto di bene viene fatto da-
gli uomini, anche se dal punto di vista del compito
sembra buono, se non lo si fa per il fine indicato dal-
la vera sapienza, è peccato per la stessa mancanza di
rettitudine nel fine 45.
(Contra Iulianum IV, 3, 21)

c.2) Le virtù autentiche


sono finalizzate al servizio di Dio

Chiediamo quindi a Dio, nostro Signore, il quale


ci ha creati, sia la forza per vincere i mali di questa vi-
ta, sia la felicità da godere nella sua eternità dopo la
vita presente, affinché, secondo quanto dice l’Aposto-

44 Così pensavano gli Stoici, per i quali la virtù era fine a se


stessa: cf. civ. XIX, 25 e SVF III, 38-48.
45 Cf. civ. XIX, 10: «Ma allora è vera virtù quando volge tut-
ti i beni, di cui usa bene, tutto ciò che ottiene col buon uso del be-
ne e del male e se stessa a quel fine, in cui per noi vi sarà una pa-
ce tanto bella e tanto grande che non ve ne può essere una più
bella e più grande». Il fine cui la virtù dev’essere orientata per es-
sere vera virtù è la pace nella vita eterna, in cui si gode di Dio,
sommo bene: cf. civ. XIX, 11.

117
lo: chi si vuol vantare, si vanti nel Signore (1 Cor 1, 31;
2 Cor 10, 17). Ecco quale dev’essere l’oggetto dei de-
sideri per voi e per lo Stato, di cui siamo cittadini: in
effetti una medesima origine ha la felicità dello Stato
e quella dell’uomo, poiché uno Stato non è altro che
la concorde società degli uomini.
Di conseguenza, se tutta la tua prudenza con cui
ti sforzi di procurare il bene comune nel disbrigo del-
le faccende umane; se tutta la tua fortezza con cui ti
mostri coraggioso nell’affrontare la malvagità degli
avversari; se tutta la tua temperanza con cui sai pre-
servarti dalla corruzione in mezzo al fango dei più de-
pravati costumi umani; se tutta la tua giustizia con cui
nel giudicare dai a ciascuno il suo 46; se – dico – tutte
queste virtù hanno di mira e tendono con ogni sforzo
a salvaguardare l’incolumità fisica, la tranquillità e la
sicurezza dagli attacchi dei malviventi per tutti coloro
dei quali desideri il bene; se ti preoccupi solo che ab-
biano figli simili a virgulti vigorosi e rigogliosi e le fi-
glie adorne come un tempio, le dispense traboccanti
d’ogni ben di Dio, le pecore feconde, le vacche pin-
gui, senza brecce nella cinta delle mura che guastino
le loro proprietà, e che non risuonino nelle loro piaz-
ze le grida dei litiganti, le tue virtù non saranno auten-
tiche, come non sarà autentica neppure la loro feli-

46 Agostino scrive a Macedonio, vicarius Africae tra il 413 e


il 414. È il medesimo destinatario della Lettera 153 sulla pena di
morte e l’intercessione dei vescovi, per la quale si veda la sezione
III, 3. La sua carica gli conferiva poteri militari, amministrativi e
giudiziari; Agostino gli indica con quale spirito esercitare il suo
ufficio.

118
cità. Non deve qui impedirmi di dir la verità la mia ri-
spettosa discrezione, che tu hai elogiata con gentili
espressioni nella tua lettera 47. Se la tua amministra-
zione – ripeto – di qualunque specie essa sia, dotata
delle virtù su accennate, ha per unico scopo quello di
preservare le persone da qualsiasi ingiustizia e mole-
stia fisica e non reputi tuo dovere di conoscere a qua-
le scopo esse facciano servire la tranquillità che ti
sforzi di procurare ad esse, cioè – per parlar senza am-
bagi – in qual modo adorino il vero Dio nel quale ri-
siede tutto il godimento di ogni vita tranquilla, tutti i
tuoi sforzi non ti gioverebbero a nulla per raggiunge-
re la vera felicità. […]
Se infatti, persuaso che hai ricevuto da Dio le
virtù che possiedi, te ne mostrerai riconoscente e le
userai per servirlo con spirito di religione anche nelle
tue alte cariche, incoraggerai e condurrai al suo servi-
zio le persone soggette alla tua giurisdizione con l’e-
sempio della tua vita religiosa e con lo stesso zelo con
cui provvedi al loro bene, sia accordando loro dei fa-
vori sia incutendo loro il timore; se procurando loro
tranquillità in questa vita, non hai altro scopo che
quello di renderli degni di possedere Colui presso il
quale potranno vivere felici, allora sì che le tue virtù
saranno autentiche. Non solo; ma col benigno aiuto
di Colui che te le ha largite, cresceranno e si perfezio-
neranno in modo da condurti sicuramente alla vita ve-
ramente felice, la quale non può essere se non eterna.
(Epistulae 155, 3, 9-10)

47 Si tratta della Lettera 154 dell’epistolario agostiniano.


119
c.3) Non è vera virtù
quella che non è sorretta dalla speranza

La vicenda presente senza la speranza è una falsa


felicità e una grande infelicità. Difatti non ha esperien-
za dei veri beni dell’anima poiché non è vera saggezza
quella la quale, nelle azioni che giudica con la pruden-
za, compie con la fortezza, frena con la temperanza,
distribuisce con la giustizia, non orienta la propria
scelta a quel fine in cui Dio sarà tutto in tutti (1 Cor 15,
18), in un’eternità certa e in una pace definitiva.
(De civitate Dei XIX, 20)

d) Trasformazione escatologica

In questo mondo dunque si ha la giustizia in ogni


individuo affinché Dio domini sull’uomo sottomesso,
l’anima spirituale sul corpo, la ragione sugli impulsi,
anche se insorgono, o sottomettendoli o contrastan-
doli, inoltre affinché si chieda a Dio la grazia delle
buone opere, il perdono dei peccati e si offra il ringra-
ziamento per i beni ricevuti. V’è poi la pace finale, al-
la quale si deve riferire e per il conseguimento della
quale si deve osservare l’attuale giustizia. In essa la
nostra natura, liberata per mezzo della non soggezio-
ne alla morte e al divenire, non avrà più impulsi e non
resisterà più ad ognuno di noi o tramite l’altro o da se
stessa. In quella pace dunque non è necessario che la
ragione domini gli impulsi perché non ci saranno, ma
Dio dominerà l’uomo, l’anima spirituale il corpo e
sarà così grande la serenità e la disponibilità alla sot-

120
tomissione, quanto è grande la delizia del vivere e do-
minare. E allora in tutti e singoli questa condizione
sarà eterna e si avrà la certezza che è eterna e perciò
la pace di tale felicità ossia la felicità di tale pace sarà
il sommo bene 48.
(De civitate Dei XIX, 27)

3. LA PERFEZIONE DELLA GIUSTIZIA UMANA

a) Imperfezione della giustizia umana rispetto a quella


angelica e a quella divina

a.1) La giustizia negli angeli e negli uomini

Se voi sapete che egli è giusto, sappiate che chiun-


que si diporta giustamente, è nato da lui (1 Gv 2, 29).
Attualmente la nostra giustizia deriva dalla fede. La
giustizia perfetta si trova solo negli angeli, ma se li
mettiamo a confronto con Dio, dovremo dire che a
mala pena essi sono nella giustizia. Ma se esiste una
giustizia relativamente perfetta nelle anime e negli
spiriti creati da Dio, questa si trova negli angeli buo-

48 Nella pace finale tutte le virtù si ridurranno a una sola: la


contemplazione di Dio faccia a faccia (cf. en. Ps. 83, 11). Le quat-
tro virtù fondamentali sopravviveranno come diversi aspetti della
beatitudine celeste, in una dimensione nuova, per sempre libera
dalle necessità e dalle fatiche della vita presente (cf. Gn. litt. XII,
26, 54); la giustizia, in particolare, esprimerà la sottomissione in-
defettibile a Dio sommo bene (cf. mus. VI, 16, 51-54; trin. XIV, 9,
12, ove si cita il fr. 50 Müller = 110 Grilli dell’Hortensius di Cice-
rone; ep. 155, 3, 12 - 4, 13).

121
ni santi e giusti, che non hanno abbandonato Dio con
nessun peccato, non sono caduti in atti di superbia,
ma sono sempre rimasti fedeli nella contemplazione
del Verbo di Dio, nulla avendo di più dolce se non la
visione di colui dal quale sono stati creati. Orbene in
questi angeli noi troviamo la perfetta giustizia, mentre
in noi si trova quella giustizia che ha avuto inizio dal-
la fede secondo lo Spirito 49. Allorché leggevamo il
salmo, avete sentito queste parole: Incominciate a lo-
dare il Signore con la confessione (Sal 147 [146], 7). Il
salmista dunque ci dice di incominciare: ora l’inizio
della nostra giustizia è la confessione dei nostri pecca-
ti 50. Se hai incominciato a non scusare il tuo peccato,
già hai dato inizio alla tua giustificazione: essa diven-
terà poi perfetta, quando il tuo unico diletto sarà la
giustizia, e la morte sarà assorbita nella vittoria (cf. 1
Cor 15, 54), né più ti attirerà la concupiscenza, non si
avrà più in te la lotta contro la carne ed il sangue e tu
avrai la corona della vittoria, il trionfo sul nemico: al-
lora ci sarà anche in te la perfetta giustizia.
(In epistulam Iohannis ad Parthos 4, 3)

a.2) In che senso siamo giusti “come” Dio

Figlioli, nessuno vi seduca. Chi fa la giustizia è giu-


sto, proprio come lui è giusto (1 Gv 3, 7). Sentendo di-
re che noi siamo giusti come lui, ci riterremo forse

49 Cf. civ. V, 19.


50 Cf. en. Ps. 84, 14-16; 99, 5.

122
uguali a Dio? Dovete capire bene il significato di quel
come. Giovanni aveva detto poco prima: chi crede in
lui, si rende puro, così come egli è puro (1 Gv 3, 3). La
nostra purezza viene messa alla pari con la purezza di
Dio, la nostra giustizia con la giustizia di Dio? Chi po-
trebbe asserire ciò? 51. In realtà non sempre il come
implica un’eguaglianza. Poniamo il caso che qualcu-
no, dopo aver ammirato questa grande basilica 52, vo-
lesse costruirne una più piccola e tuttavia proporzio-
nata alle misure di questa, in modo che se la lunghez-
za di questa è doppia della larghezza, anche l’altra ri-
spetti le medesime proporzioni: noi possiamo dire
che egli ha inteso innalzare la seconda basilica come
la prima. La prima tuttavia misura cento cubiti 53
mentre la seconda soltanto trenta; questa, nei con-
fronti dell’altra, è dunque uguale e disuguale ad un
tempo. Vedete allora che un come non sempre impli-
ca parità ed uguaglianza. Eccovi un altro esempio.
Notate anche voi quanta differenza passa tra la faccia
di un uomo e la sua immagine vista nello specchio:
una faccia rappresentata in immagine ed una che ap-
partiene al corpo reale, l’immagine che è una realtà di
imitazione e il corpo che è una vera sostanza. Che di-
re dunque? Qui come lì gli occhi, qui come lì gli orec-
chi. Eppure siamo di fronte a due realtà diverse e il co-

51 Gli Stoici: cf. SVF III, 245-254, in particolare i frammen-


ti 245 = CICERONE, De legibus I, 8, 25, e 253 = LATTANZIO, Divi-
nae institutiones III, 25.
52 Di Ippona, dove Agostino predicò le omelie sulla Prima
Lettera di Giovanni durante la settimana di Pasqua del 407.
53 Circa 45 m.

123
me viene usato per indicare una similitudine. Anche
noi dunque portiamo l’immagine di Dio; non è quel-
la che possiede il Figlio, uguale al Padre, e tuttavia in
nessun modo potremmo essere dichiarati a lui simili,
se in qualche modo a noi proprio non gli fossimo si-
mili. Egli ci rende puri, come lui è puro; ma egli è pu-
ro fin dall’eternità, noi lo siamo per mezzo della fede.
Siamo giusti come è giusto lui: ma egli lo è nella im-
mutabilità e perpetuità della sua natura, noi lo siamo
attraverso la fede in lui che non vediamo, affinché un
giorno possiamo vederlo. Quando sarà perfetta la no-
stra giustizia, allorché saremo diventati simili agli an-
geli, neppure allora questa giustizia sarà uguale alla
sua. Quanto dunque sarà ora lontana dalla sua perfe-
zione, se neppure allora potrà equipararla?
(In epistulam Iohannis ad Parthos 4, 9)

b) Possibilità mai realizzata della perfezione della giu-


stizia in questa vita

b.1) Quattro questioni relative all’impeccantia

In verità a quanti 54 dicono che in questa vita


l’uomo può essere senza peccato non bisogna oppor-
si subito con incauta ostinatezza. A negare infatti tale
possibilità si deroga e al libero arbitrio dell’uomo che
con la sua volontà aspira a tale risultato e alla potente
misericordia di Dio che lo aiuta a realizzarlo. Ma la

54 Pelagio e i suoi seguaci (specialmente Celestio).


124
prima questione è se quest’uomo possa esistere, la se-
conda se esista, la terza per quale ragione non esista,
se non esiste, mentre potrebbe esistere; la quarta se
qualcuno che non abbia mai avuto nessun peccato
non solo esista, ma anche possa essere esistito in pas-
sato o possa esistere in futuro. Riguardo la prima del-
le quattro questioni, cioè sulla possibilità che l’uomo
in questa vita sia senza peccato, confesserò che può
esserlo con la grazia di Dio e con il suo libero arbitrio.
Non esiterò ad affermare che anche il libero arbitrio
appartiene alla grazia di Dio, cioè ai doni di Dio, e
non solo perché sia, ma pure perché sia buono, cioè si
converta ad osservare i comandamenti del Signore, e
in tal modo la grazia di Dio non solo indichi cosa si
deve fare, ma aiuti altresì a poter fare quanto ha indi-
cato. Che cosa possediamo infatti senza averlo ricevu-
to? (cf. 1 Cor 4, 7). Tanto che anche Geremia dice: Lo
so, Signore, che l’uomo non è padrone della sua via e
che non è in potere di chi cammina il dirigere i suoi pas-
si (Ger 10, 23). Perciò il salmista, dopo aver notato ri-
volgendosi a Dio: Tu hai dato i tuoi precetti, perché sia-
no osservati fedelmente (Sal 119 [118], 4), non presu-
me di sé, ma si augura di poterli osservare con l’aiuto
della preghiera: Siano diritte le mie vie nel custodire i
tuoi decreti. Allora non dovrò arrossire, se avrò obbedi-
to ai tuoi comandi (Sal 119 [118], 5-6). Ma chi atten-
de da altri ciò che è talmente in suo potere da non
aver bisogno di nessun aiuto per farlo? Da chi poi il
salmista lo attenda, perché non l’attende dalla fortuna
o dal fato o da chiunque altro all’infuori di Dio, lo
spiega sufficientemente nei versetti seguenti: Rendi
saldi i miei passi secondo la tua parola e su di me non

125
prevalga il male (Sal 119 [118], 133). Dalla schiavitù
di questa esecranda dominazione del male sono libe-
rati coloro ai quali il Signore Gesù, perché l’hanno ac-
colto, ha dato il potere di diventare figli di Dio (cf. Gv
1, 12). Da quest’orrenda dominazione avrebbero do-
vuto essere liberati coloro a cui Gesù diceva: Se il Fi-
glio vi farà liberi, allora sarete liberi davvero (Gv 8,
36). Per queste e altre simili testimonianze senza nu-
mero non posso aver dubbi: né Dio ha comandato al-
l’uomo alcunché d’impossibile, né qualche impossibi-
lità impedisce a Dio di soccorrere e aiutare l’uomo
perché avvenga quello che comanda. L’uomo dunque,
se vuole, può con l’aiuto di Dio essere senza peccato.
Quanto invece alla seconda questione se esista un
uomo senza peccato, io credo che non esista. Credo
infatti piuttosto alla Scrittura che dice: Non chiamare
in giudizio il tuo servo: nessun vivente davanti a te è
giusto (Sal 143 [142], 2). Perciò c’è bisogno della mi-
sericordia di Dio che ha la meglio nel giudizio, ed es-
sa non ci sarà per chi non fa misericordia (cf. Gc 2,
13). E dichiarando il Profeta: Ho detto: Confesserò
contro di me le mie colpe al Signore e tu hai rimesso la
malizia del mio cuore (Sal 32 [31], 5); soggiunge subi-
to: Per questo ti prega ogni santo nel tempo dell’ango-
scia (Sal 32 [31], 6). Non dunque ogni peccatore, ma
ogni santo. È infatti voce di santi questa: Se diciamo
che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la ve-
rità non è in noi (1 Gv 1, 8). Nell’Apocalisse del me-
desimo Apostolo quei centoquarantaquattromila santi,
che non si sono contaminati con donne, sono infatti
vergini, e non fu trovata menzogna sulla loro bocca,
giacché sono irreprensibili (Ap 14, 3-5), in tanto sono

126
irreprensibili in quanto hanno ripreso sinceramente se
stessi, e in tanto sulla loro bocca non fu trovata menzo-
gna in quanto, se dicessero di essere senza peccato, in-
gannerebbero se stessi e non ci sarebbe in essi la ve-
rità, e conseguentemente ci sarebbe la menzogna do-
ve non fosse la verità, perché certo non mentisce il
giusto quando incominciando a parlare accusa se stes-
so (cf. Pr 18, 17). […]
Vediamo ordunque la questione che ho messo al
terzo posto. Poiché l’uomo, aiutandolo nella sua vo-
lontà la grazia divina, può vivere in questa vita senza
peccato, al quesito come mai ciò non avvenga potrei
con molta facilità e verità rispondere: perché gli uo-
mini non vogliono. Ma se mi si chiede perché non vo-
gliano, andiamo per le lunghe. Tuttavia dirò breve-
mente anche questo senza pregiudizio d’un esame più
diligente. Gli uomini non vogliono fare ciò che è giu-
sto per due ragioni: e perché rimane occulto se sia
giusto e perché non è dilettevole. Infatti tanto più for-
temente noi vogliamo qualcosa quanto meglio cono-
sciamo la grandezza della sua bontà e quanto più ar-
dentemente ci diletta. Ignoranza dunque e debolezza
sono i vizi che impediscono alla volontà di determi-
narsi a fare un’opera buona o ad astenersi da un’ope-
ra cattiva. Ma che diventi noto quello che era nasco-
sto e soave quello che non dilettava è dono della gra-
zia di Dio, la quale aiuta le volontà degli uomini 55: e

55 Cf. spir. et litt. 35, 63: «Ecco la ragione per cui la perfet-
ta giustizia rimane senza esempio tra gli uomini, pur non essendo
impossibile. Esisterebbe, se si usasse tanta volontà quanta ne oc-
corre a tanto risultato. La volontà poi sarebbe tanta, se per un ver-

127
che queste non siano aiutate da essa dipende dagli uo-
mini stessi e non da Dio, tanto se sono predestinati ad
essere condannati per la malizia della loro superbia,
quanto se sono predestinati ad essere giudicati e cor-
retti della loro stessa superbia, come figli della miseri-
cordia. Perciò Geremia, dopo aver detto: Lo so, Si-
gnore, che l’uomo non è padrone della sua via e non è
in potere di chi cammina dirigere i suoi passi, subito
soggiunge: Correggimi, Signore, ma con giusta misura,
non secondo la tua ira (Ger 10, 23-24). Come se dices-
se: «So che è un castigo il fatto di non essere aiutato
da te a camminare perfettamente bene; anche questo
tuttavia non lo fare nei miei riguardi con l’ira con la
quale hai stabilito di condannare i malvagi, ma con la
giusta misura con la quale insegni ai tuoi a non insu-
perbirsi». Tanto che altrove si legge: Mi aiutino i tuoi
giudizi (Sal 119 [118], 175). […]
Resta ormai la quarta questione: non solo se tra i
figli degli uomini esista, ma anche se sia mai potuto

so non rimanesse nascosta a noi nessuna delle verità che riguarda-


no la giustizia e se per l’altro verso tali conoscenze fossero per il
nostro animo così piacevoli che il loro piacere superasse quanto
di dolore o di gioia vi si opponesse: e che ciò non sia non dipen-
de da impossibilità, ma da un giudizio di Dio. Chi non sa infatti
che non è in potere dell’uomo sapere a suo piacere e che non è ne-
cessariamente oggetto d’amorosa ricerca ciò che si sa degno d’a-
morosa ricerca, se non suscita tanto piacere quanto è l’amore che
merita?». In pecc. mer. II, 19, 32 i due doni di Dio, necessari per
agire giustamente, vengono chiamati certa scientia e victrix delec-
tatio: la prima è la conoscenza sicura di ciò che è giusto fare, la se-
conda è l’attrazione per il bene che spinge a compierlo vincendo
ogni resistenza interiore. Per la corretta interpretazione di questi
due concetti, cf. la nota di A. Trapè in NBA XVII/1, p. 165.

128
esistere o possa esistere in avvenire qualcuno che non
abbia avuto o che in futuro non avrà assolutamente
nessun peccato. Con la soluzione di tale questione,
come ci consentirà l’aiuto del Signore, avrà finalmen-
te termine anche questo nostro discorrere tanto pro-
lisso. È certissimo che all’infuori assolutamente del-
l’unico Mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo
Gesù (cf. 1 Tm 2, 5), non esiste, non è esistito, non
esisterà un tale uomo. A questo proposito abbiamo
già detto molto parlando del battesimo dei bambini.
Se essi non hanno nessun peccato, non solo esistono
innumerevoli uomini senza peccato, ma sono anche
esistiti ed esisteranno. Ma se rimane vero e fermo ciò
di cui abbiamo trattato nel secondo punto, che nessu-
no è senza peccato, certamente nemmeno i bambini
sono senza peccato. Da questo si trae che, pur am-
messa la possibilità che qualcuno in questa vita abbia
potuto perfezionarsi tanto nella virtù da raggiungere
la pienezza della giustizia con l’esclusione di qualsiasi
peccato, costui tuttavia sarebbe stato senza dubbio in
peccato precedentemente e poi sarebbe stato conver-
tito da quella sua condizione a questa novità di vita.
Altro era infatti il quesito del secondo punto, altro è
il quesito di questo quarto punto. Nel secondo si cer-
cava se qualcuno in questa vita con la grazia di Dio e
con la forza della volontà giunga ad una vita perfetta
che sia assolutamente immune da ogni peccato. In
questo quarto punto si cerca invece se esista tra gli
uomini o abbia potuto o possa esistere in futuro, non
qualcuno che dal peccato giunga alla più perfetta giu-
stizia, ma qualcuno che non sia mai stato implicato
per nessun verso in nessun peccato. Perciò, se è vero

129
quello che con tanta profusione abbiamo detto dei
bambini 56, nessuno c’è, né ci fu, né ci sarà tra i figli
degli uomini in tale condizione, all’infuori dell’unico
Mediatore, in cui è riposta per noi la propiziazione e
la giustificazione (cf. Rm 3, 25; 1 Cor 1, 30), median-
te la quale si pone fine alle inimicizie dei peccati e ve-
niamo riconciliati con Dio (cf. Rm 5, 10).
(De peccatorum meritis et remissione et de baptismo
parvulorum ad Marcellinum II, 6, 7 - 7, 8; 17, 26; 20, 34)

b.2) La soluzione del problema:


il rapporto tra Legge e Spirito

Voglio dimostrare, se ci riuscirò, che le parole


dell’Apostolo: La lettera uccide, lo Spirito dà vita (2
Cor 3, 6), non vanno riportate alle locuzioni figurate,
benché anche a queste si possano ben adattare, ma
vanno intese piuttosto della legge che espressamente
proibisce il male. Quando l’avrò dimostrato, allora
apparirà meglio che vivere bene è un dono di Dio:
non solo perché Dio ha dato all’uomo il libero arbi-
trio senza il quale non si vive moralmente né male né
bene, non solo perché Dio ha dato la legge con la qua-
le c’insegna come si deve vivere, ma perché mediante
lo Spirito Santo diffonde la carità nel cuore (cf. Rm 5,
5) di coloro che ha preconosciuti per predestinarli, ha
predestinati per chiamarli, ha chiamati per giustificar-

56 Nel I libro di pecc. mer., dove Agostino ha sostenuto che


il battesimo è necessario anche ai bambini affinché siano salvati.

130
li, ha giustificati per glorificarli (cf. Rm 8, 29-30).
Quando questo sarà chiaro, vedrai, come spero, la fal-
sità di affermare che soltanto le opere di Dio sono
possibili senza nessun esempio di realizzazione, come
dicevamo del passaggio d’un cammello per la cruna
d’un ago e di tutte quelle operazioni che per noi sono
impossibili, ma facili a Dio 57; vedrai quindi la falsità
di non annoverare tra queste opere di Dio la giustizia
umana, perché non dovrebbe computarsi come opera
di Dio, bensì come opera dell’uomo, e infine vedrai la
falsità di dire che, se la perfezione della giustizia uma-
na è possibile in questa vita, non c’è ragione di crede-
re che essa sia senza nessun esempio di realizzazione.
Che dunque tutto ciò sia detto senza verità risulterà
sufficientemente chiaro, quando apparirà evidente da
una parte che la stessa giustizia umana deve attribuir-
si ad operazione di Dio, sebbene non si attui senza la
volontà dell’uomo, e che d’altra parte non possiamo
negare che la perfetta realizzazione della giustizia è
possibile anche in questa vita, perché tutte le cose so-

57 Cf. spir. et litt. 1, 1. In pecc. mer. II, come abbiamo visto


(testo citato nella sezione b.1), Agostino aveva affermato la possi-
bilità teorica e nel contempo l’inesistenza fattuale di un uomo sen-
za peccato (con l’eccezione di Gesù). Flavio Marcellino, l’alto fun-
zionario imperiale amico di Agostino e dedicatario di pecc. mer.
(oltre che di civ.), era rimasto sorpreso da tale affermazione, appa-
rentemente contraddittoria. Agostino viene incontro alla perples-
sità di Marcellino, traendo dalle Scritture alcuni esempi di fatti
possibili a Dio ma mai accaduti (come il passaggio di un cammel-
lo per la cruna di un ago, secondo Mt 19, 24-26). Anche vivere sen-
za peccato è un’opera di Dio, nel senso che, pur avendo come sog-
getto l’uomo, non è possibile senza la grazia: cf. spir. et litt. 2, 2.

131
no possibili a Dio (cf. Mc 10, 27), tanto quelle che fa
con la sua sola volontà, quanto quelle che ha stabilito
di fare con la cooperazione della volontà della sua
creatura. Perciò ogni cosa che Dio non fa tra quelle
che gli sono possibili, rimane certamente senza esem-
pio tra le opere fatte, ma ha presso Dio la causa della
sua possibilità nella potenza divina e la causa della sua
mancata realizzazione nella sapienza divina. E anche
se questa causa rimane nascosta all’uomo, egli non si
dimentichi che è un uomo e non attribuisca a Dio
mancanza di sapienza per il fatto che non comprende
appieno la sua sapienza.
(De spiritu et littera ad Marcellinum 5, 7)

b.3) Necessità in ogni caso dell’aiuto della grazia

Né m’interessa troppo infatti se siano esistiti sul-


la terra o esistano o possano esistere in futuro taluni
che abbiano avuto o abbiano adesso o avranno la ca-
rità di Dio perfetta, a cui non ci fosse nulla da aggiun-
gere – la carità è infatti la più vera, la più piena, la più
perfetta giustizia –, perché ciò che confesso e difendo
è che questo è possibile alla volontà umana solo se
aiutata dalla grazia di Dio, senza l’affanno di sapere
quando e dove e in chi si verifichi. […]
Infatti la questione se in questo mondo sia esisti-
to o esista o possa esistere qualcuno che viva con tan-
ta giustizia da non avere assolutamente nessun pecca-
to, può essere una delle questioni da discutere tra cri-
stiani veri e pii; chi invece dubita che ciò sia sicura-
mente possibile dopo questa vita, vaneggia. Ma io

132
non ne voglio dubitare nemmeno per la vita attuale.
Sebbene infatti mi sembri che non si possano inter-
pretare diversamente le parole: Nessun vivente da-
vanti a te è giusto (Sal 143 [142], 2) e altre dello stes-
so tenore, tuttavia desidero e mi auguro o che si pos-
sa dimostrare più valida un’interpretazione diversa di
questi testi o che si possa dimostrare che una giusti-
zia così perfetta e piena che nulla assolutamente le si
debba aggiungere è esistita in qualcuno durante la
sua vita corporale ed esiste oggi ed esisterà domani.
Tuttavia tanto più numerose sono le persone che,
non dubitando di dover dire con sincerità fino all’ul-
timo giorno della vita presente: Rimetti a noi i nostri
debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori (Mt 6,
12), confidano nondimeno che sia vera, certa e ferma
la loro speranza nel Cristo e nelle sue promesse. Ma
è solo con l’aiuto della grazia del Cristo salvatore cro-
cifisso e con il dono del suo Spirito che i primi pos-
sono giungere alla pienezza della perfezione nella
giustizia vera e pia e i secondi possono giungere ad
un qualsiasi progresso nella giustizia. Non so se
avrebbero il diritto d’essere contati in una qualsiasi
categoria di cristiani tutti coloro che osassero negare
quest’aiuto della grazia.
(De natura et gratia 42, 49; 60, 70)

b.4) Sensatezza del comandamento della perfezione

Non si deve nemmeno negare che Dio ci coman-


di d’essere tanto perfetti nell’eseguire la giustizia da
evitare assolutamente qualsiasi peccato. Non sarà in-

133
fatti nemmeno peccato se si farà un’azione che Dio
non proibisce di fare.
(De peccatorum meritis
et remissione et de baptismo parvulorum
ad Marcellinum II, 16, 23)

Il giusto sarà libero assolutamente da ogni pecca-


to soltanto quando nelle sue membra non ci sarà più
nessuna legge in lotta con la legge del suo spirito (cf.
Rm 7, 23), ma amerà Dio davvero con tutto il cuore,
con tutta l’anima, con tutta la mente: e questo è il pri-
mo e sommo comandamento (cf. Dt 6, 5; Mt 22, 37-38;
Mc 12, 28-30. 33; Lc 10, 27). Perché dunque non do-
vrebbe esser comandata all’uomo cotesta perfezione,
sebbene nessuno l’abbia in questa vita? Non si corre
come si deve se s’ignora dove si deve correre.
(De perfectione iustitiae hominis 8, 19)

c) Perfezione della giustizia, perfezione della carità

c.1) Il progresso nella giustizia


è il progresso nella carità

Pertanto una carità principiante è una giustizia


principiante, una carità matura è una giustizia matu-
ra, una carità grande è una giustizia grande, una carità
perfetta è una giustizia perfetta. Perfetta però è la ca-
rità che sgorga da un cuore puro, da una buona co-
scienza e da una fede sincera (cf. 1 Tm 1, 5). La carità
è somma in questa vita, quando per lei si disprezza la
stessa vita (cf. Gv 15, 13). Ma sarei sorpreso che la ca-

134
rità non avesse modo di crescere dopo che sarà uscita
dalla vita mortale. Dovunque poi e quando sia così
piena la carità da non esserci più nulla che le si possa
aggiungere, essa tuttavia non si riversa nei nostri cuo-
ri per le forze della natura o della volontà che si tro-
vano in noi, bensì per mezzo dello Spirito Santo, che
ci è stato dato (cf. Rm 5, 5) il quale e soccorre alla no-
stra debilità e concorre alla nostra sanità. È infatti la
stessa grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore
(cf. Rm 7, 25). A lui con il Padre e lo Spirito Santo
eternità e bontà nei secoli dei secoli. Amen.
(De natura et gratia 70, 84)

c.2) La perfezione dell’amore


solo nella visione finale

Ma forse qualcuno crederà che non manchi a noi


nulla per conoscere la giustizia, perché il Signore, che
sopra la terra portò a compimento con pienezza e ra-
pidità la parola di Dio, disse che tutta la Legge e i
Profeti dipendono da due precetti. E non li tacque,
ma li presentò con parole esplicitissime: Amerai il Si-
gnore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua
anima e con tutta la tua mente. Amerai il prossimo tuo
come te stesso (cf. Mt 22, 37-40; Mc 12, 28-31; Lc 10,
25-28). Che cosa più vero di questo, che adempiendo
tali precetti si adempie tutta la giustizia? Chi tuttavia
è attento a questo, lo sia anche al fatto che noi tutti
quanti manchiamo in molte cose (cf. Gc 3, 2), proprio
mentre pensiamo che a Dio, da noi amato, piaccia o
non dispiaccia ciò che facciamo, e poi, messi sull’av-

135
viso dalla sua Scrittura o da un qualche ragionamen-
to certo e chiaro, quando siamo venuti a sapere che
non gli piace, ce ne pentiamo e lo preghiamo di per-
donarci. La vita umana è piena di queste esperienze.
Ma da che dipende conoscere male che cosa piaccia a
Dio se non dal conoscere male Dio stesso? Infatti ora
vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma
allora vedremo faccia a faccia (1 Cor 13, 12). Chi oserà
credere che al momento in cui si avvererà quello che
dice Paolo: Allora conoscerò perfettamente come an-
ch’io sono conosciuto (1 Cor 13, 12), i contemplatori di
Dio avranno tanto amore di lui quanto ne hanno ora
i fedeli? O chi crederà che l’amore di ora sia in qual-
che modo da paragonarsi quasi da vicino all’amore di
allora? Ebbene, se quanto maggiore è la cognizione
tanto maggiore sarà l’amore, senza dubbio quanto ora
manca all’amore altrettanto si deve credere che man-
ca alla perfezione della giustizia. Infatti si può sapere
o credere qualcosa e tuttavia non amarla, ma è impos-
sibile amare ciò che non si sa né si crede. Ora, se pur
credendo, i santi sono potuti giungere a quell’amore
così grande di cui lo stesso Signore ha testimoniato
non potercene essere un altro più grande in questa vi-
ta, cioè all’amore per cui hanno dato la loro vita per
la fede o per i fratelli (cf. Gv 15, 13), quando da que-
sto pellegrinaggio in cui adesso camminiamo nella fe-
de (cf. 2 Cor 5, 7) si arriverà alla visione che speriamo
senza vederla ancora e attendiamo con perseveranza
(cf. Rm 8, 25), indubbiamente anche lo stesso amore
non solo sarà superiore a quello che abbiamo presen-
temente, ma di gran lunga superiore a quanto possia-
mo domandare e immaginare (cf. Ef 3, 20), né tutta-

136
via potrà per questo essercene di più che amare con
tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente.
Infatti non resta nulla in noi da aggiungere al tutto,
perché, se restasse qualcosa, quello non sarebbe il tut-
to. Perciò questo primo precetto della giustizia che ci
comanda di amare Dio con tutto il cuore e con tutta
l’anima e con tutta la mente e a cui tiene dietro il se-
condo precetto di amare il prossimo, lo adempiremo
esattamente in quella vita dove vedremo faccia a fac-
cia 58. Ma per questo il precetto della giustizia ci è sta-
to imposto anche nella vita attuale: perché fossimo av-
vertiti da esso che cosa domandare con la nostra fede,
dove lanciare la nostra speranza e come dobbiamo
protenderci verso il futuro dimenticando il passato
(cf. Fil 3, 13). E pertanto, a mio avviso, ha progredito
molto nel perfezionare la sua giustizia in questa vita
chi per l’esperienza del suo progredire sa quanto resti
lontano ancora dalla perfezione della giustizia 59.
(De spiritu et littera ad Marcellinum 36, 64)

58 Cf. perf. iust. 3, 8; c. ep. Pel. III, 7, 21.


59 Nel pellegrinaggio terreno verso la patria e la giustizia ce-
lesti, non dobbiamo mai stancarci di camminare, di fare progres-
si, di migliorarci. La coscienza della nostra imperfezione ci impe-
disce di sentirci degli “arrivati”. «Ti dispiaccia sempre ciò che sei,
se vuoi guadagnare ciò che non sei. In realtà, dove ti sei compia-
ciuto di te, là sei rimasto. Se poi hai detto: Basta; sei addirittura
perito. Aggiungi sempre, avanza sempre, progredisci sempre.
Non fermarti lungo la via, non indietreggiare, non deviare. Chi
non va avanti, si ferma; torna indietro chi si volge di nuovo alle
cose da cui si era allontanato; chi apostata, abbandona la via giu-
sta. Uno zoppo sulla via va avanti meglio di chi corre fuori stra-
da» (s. 169, 15, 18).

137
d) La relativa perfezione della giustizia in questa vita

d.1) Nel cammino verso la perfezione

Finché dunque, esuli e lontani dal Signore, cam-


mineremo in stato di fede e non ancora di visione (cf. 2
Cor 5, 6-7), per cui è scritto: Il giusto vivrà per la sua
fede (Ab 2, 4; Rm 1, 17; Gal 3, 11; Eb 10, 38), la no-
stra giustizia durante lo stesso esilio consiste in que-
sto: che alla perfezione e pienezza della giustizia, do-
ve nella visione dello splendore di Dio sarà ormai pie-
na e perfetta la carità, noi presentemente tendiamo
con la dirittura e la perfezione dello stesso correre,
cioè castigando il nostro corpo e costringendolo a ser-
vire (cf. 1 Cor 9, 27), facendo lietamente e cordial-
mente le opere di misericordia, sia nel prodigare be-
nefici, sia nel perdonare i peccati commessi contro di
noi, e attendendo incessantemente alle orazioni (cf.
Rm 12, 12; Col 4, 2), e compiendo tutto questo nella
sana dottrina (cf. 1 Tm 1, 10; 2 Tm 4, 3; Tt 2, 1), sul-
la quale si basa l’edificio della fede retta, della speran-
za ferma, della carità pura. Questa è per adesso la no-
stra giustizia con la quale corriamo affamati e assetati
verso la perfezione e la pienezza della giustizia per es-
serne poi saziati.
(De perfectione iustitiae hominis 8, 18)

Da questo è sorta l’abitudine che la virtù in pos-


sesso dell’uomo giusto in questa vita in tanto si dica
perfetta in quanto nella sua perfezione rientri anche e
la conoscenza verace e la confessione umile della sua
imperfezione. Allora infatti, secondo la debolezza at-

138
tuale, è a suo modo perfetta questa nostra piccola giu-
stizia quando riesce anche a capire quello che le man-
ca 60. Perciò l’Apostolo dice se stesso e imperfetto e
perfetto (cf. Fil 3, 12.15): cioè imperfetto pensando a
quanto gli manca per la giustizia, della cui pienezza ha
fame e sete ancora; perfetto, invece, e perché non ar-
rossisce di confessare la sua imperfezione e perché
avanza di buon passo per raggiungere la perfezione.
Alla stessa maniera possiamo dire che è perfetto un
viandante il cui procedere è buono, sebbene il suo in-
tendimento non si realizzi appieno se non nel rag-
giungimento della meta 61.
(Contra duas epistualas Pelagianorum III, 7, 19)

d.2) Nel combattimento spirituale


contro la concupiscenza

Ma se si può dire che sia una specie di giustizia


minore 62 quella che compete a questa vita e per la
quale il giusto vive mediante la fede, sebbene pellegri-
no dal Signore e quindi in cammino nella fede e non

60 Le imperfezioni sono quindi provvidenziali, perché ci


ammoniscono a essere umili e a evitare la superbia, che è la causa
prima di tutti i peccati: cf. pecc. mer. III, 13, 23.
61 Il medesimo paragone, ispirato dalle parole di Fil 3, 13-
14, ritorna in s. 306/B, 3. Il cammino in questione naturalmente è
di tipo spirituale, e coincide con la crescita nella fede (cf. pecc.
mer. II, 13, 20), con il distacco ascetico dal mondo (cf. s. 125, 7),
con le pratiche del digiuno, dell’elemosina e della preghiera (cf.
en. Ps. 42, 8).
62 Cf. c. ep. Pel. III, 7, 23.

139
ancora nella visione (cf. 2 Cor 5, 6-7), non è uno spro-
posito dire che anche a questa giustizia minore spetta
di non peccare. Né infatti deve già ascriversi a colpa
se non ci può essere ancora tanto amore di Dio quan-
to n’è dovuto alla cognizione piena e perfetta. Altro è
infatti non possedere ancora tutta intera la carità, al-
tro è non correre dietro a nessuna cupidità 63. Perciò
l’uomo, sebbene ami Dio meno di quanto lo può ama-
re nella visione, non deve tuttavia bramare nulla d’il-
lecito: come anche l’occhio può dilettarsi, se non c’è
il buio, in mezzo agli oggetti che sono alla portata dei
sensi del corpo, benché non possa fissarsi in una luce
che per il suo splendore lo abbagli. Ecco, come noi
concepiamo l’anima che si trova in questo corpo cor-
ruttibile: sebbene non abbia ancora smaltito ed elimi-
nato tutti gli istinti della libidine terrena con la supe-
reminentissima perfezione della carità di Dio, tuttavia
in questa giustizia minore deve comportarsi così da
non consentire per nessuna inclinazione alla libidine
di compiere nulla d’illecito. In questa maniera spicca
quanto compete a quella vita già immortale e a questa
vita terrena. A quella vita si riferiscono le parole: Tu
amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con
tutta la tua anima e con tutta la tua forza (Dt 6, 5), a
questa vita alludono quest’altre: Non regni più il pec-
cato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai
suoi desideri (Rm 6, 12); a quella vita: Non desiderare
(Es 20, 17; Dt 5, 21), a questa: Non andare dietro alle

63 Cf. perf. iust. 13, 31: «Altro dunque è sottrarsi ad ogni


peccato, e ciò è il compito della vita d’ora, altro è l’essersi già sot-
tratti ad ogni peccato, e ciò avverrà nella perfezione di allora».

140
tue concupiscenze (Sir 18, 30) 64; a quella vita spetta di
non cercare più nient’altro che di rimanere in tale
perfezione, a questa vita spetta di considerare come
giornate di lavoro quello che sta facendo e di sperare
come paga la perfezione dell’altra vita: cosicché per la
vita di allora il giusto viva senza termine nella visione
che ha desiderata nella vita di ora e viceversa per tut-
ta la vita di ora il giusto viva di quella fede nella qua-
le desidera la visione di allora come suo termine cer-
to. Stabilite queste verità, sarà peccato per le persone
che vivono mediante la fede consentire eventualmen-
te a qualche piacere illecito: non solo nel commettere
i famigerati e orrendi fatti e misfatti, ma anche in pec-
cati più lievi, come per esempio o prestare l’orecchio
ad una voce che non sarebbe da udire o prestare la
lingua ad una parola che non sarebbe da dire o acca-
rezzare nell’intimo del cuore un pensiero così da pre-
ferire che fosse lecito ciò che ci diletta malamente e
dalla legge conosciuto illecito: anche tutto questo è
appunto consentire al peccato e si attuerebbe, se non
ci atterrisse la pena.
(De spiritu et littera ad Marcellinum 36, 65)

Nel vero culto di Dio «fare la giustizia» è dunque


combattere la battaglia interna contro il male interno
della concupiscenza 65, «fare la giustizia perfettamen-

64 Cf. s. 151, 3, 3.
65 Per il significato del termine concupiscentia, giova ripren-
dere le preziose puntualizzazioni fatte da A. Trapè in NBA
XVII/1, pp. LXIX-LXXII. La concupiscenza non è il corpo, né il
senso, né il sesso, né il piacere sensibile; essa invece è l’insubordi-

141
te» è invece non avere più assolutamente nessun av-
versario da combattere 66.
(De natura et gratia 62, 72)

d.3) Nel martirio

Tuttavia in questa vita esiste una qualche perfe-


zione, alla quale sono giunti i martiri. E per questo si
ha la disciplina ecclesiastica, che i fedeli conoscono,
per cui i martiri sono nominati all’altare di Dio in un
momento nel quale non si debba pregare in loro favo-
re; si prega, invece, in suffragio degli altri defunti, dei
quali si fa memoria. È ingiurioso infatti pregare a fa-
vore di un martire; siamo noi nella necessità di racco-
mandarci alle sue preghiere. Ha combattuto davvero
fino al sangue contro il peccato. In realtà, di certuni
che sono ancora imperfetti e, tuttavia, parzialmente
giustificati, dice l’Apostolo agli Ebrei: Veramente non
avete ancora resistito fino al sangue, lottando contro il
peccato (Eb 12, 4). Ne segue che se quelli non hanno
durato fino a versare il sangue, indubbiamente alcuni
sono giunti fino al sangue. Quali fino al sangue? Cer-
tamente i santi martiri; a loro riguardo è stata appena
ascoltata la lettura del santo apostolo Giacomo: Con-

nazione dell’appetito alla ragione, la divisione dell’uomo in se


stesso, il disordine interiore, la debolezza nei confronti della virtù.
È, in una parola, l’inclinazione al male, che consiste nel preferire
i beni sensibili e temporali a quelli spirituali ed eterni, contro il
precetto fondamentale della giustizia.
66 Il che si verificherà soltanto dopo la risurrezione: cf. exp.
prop. Rm. 12 [13-18]; exp. Gal. 46; c. Iul. III, 26, 62.

142
siderate perfetta letizia, fratelli miei, l’esservi imbattuti
in ogni genere di tribolazioni (Gc 1, 2). Si dice ai già
perfetti, i quali per di più possono dire: Scrutami, Si-
gnore, e mettimi alla prova (Sal 26 [25], 2). Sapendo –
dice – che la prova produce la pazienza; la pazienza,
poi, porta a compimento l’opera (Gc 1, 3-4). […]
Migliaia di martiri sono sotto i nostri occhi, sono
essi gli autentici e perfetti amanti della giustizia 67.
(Sermones 159, 1, 1; 7, 8)

67 Cf. s. 285, 5: «La giustizia dei martiri è perfetta perché


raggiunsero la perfezione proprio nel crogiuolo della passione». Il
martire cristiano è colui che, pur non volendo perdere la vita, è di-
sposto a sacrificarla per testimoniare la sua fede. Agostino distin-
gue nettamente gli autentici martiri da quei fanatici (come certi
Donatisti) che cercano a tutti i costi la gloria del martirio: cf. ep.
185, 3, 12.

143
III.
LA GIUSTIZIA NELLA VITA ASSOCIATA

1. GIUSTIZIA E STATO

a) «Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Sta-


ti se non delle grandi bande di ladri?»

Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli


Stati se non delle grandi bande di ladri? 1. Perché an-
1 Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latroci-
nia? Domanda celeberrima, ma non sempre interpretata tenendo
conto del contesto in cui si trova. Agostino sta confutando la po-
sizione degli accusatori del cristianesimo, i quali sostenevano che
l’estensione dell’Impero romano andava attribuita al favore degli
dèi adorati dai pagani. Prima di mostrare che la felicità tanto de-
gli Stati quanto degli individui dipende dall’unico vero Dio, Ago-
stino spiega che la grandezza territoriale di uno Stato non è neces-
sariamente un bene. In primo luogo, più sono i popoli assogget-
tati, più è difficile gestirli (cf. civ. III, 10). In secondo luogo, se il
governo dei territori conquistati è buono, a trarne vantaggio sono
le genti sottomesse più che i conquistatori; se invece è iniquo, es-
so nuoce più a chi lo esercita che a chi lo subisce, perché subire
l’ingiustizia è meglio che commetterla (cf. civ. IV, 3). Un regno in-
giusto perciò non ha più dignità morale di una masnada di brigan-
ti: non è altro che un gruppo di malviventi su larga scala. Per il si-
gnificato dell’ablativo assoluto remota … iustitia («prescindendo
dalla giustizia»), cf. R.H. BARROW, «Remota … iustitia», «Vigiliae
Christianae», 15 (1961), p. 116.

144
che le bande dei briganti che cosa sono se non dei pic-
coli Stati? È pur sempre un gruppo di individui che è
retto dal comando di un capo, è vincolato da un pat-
to sociale e il bottino si divide secondo la legge della
convenzione. Se la banda malvagia aumenta con l’ag-
giungersi di uomini perversi tanto che possiede terri-
tori, stabilisce residenze, occupa città, sottomette po-
poli, assume più apertamente il nome di Stato che gli
è accordato ormai nella realtà dei fatti non dalla dimi-
nuzione dell’ambizione di possedere ma da una mag-
giore sicurezza nell’impunità. Con finezza e verità a
un tempo rispose in questo senso ad Alessandro il
Grande un pirata catturato. Il re gli chiese che idea gli
era venuta in testa per infestare il mare. E quegli con
franca spavalderia: «La stessa che a te per infestare il
mondo intero; ma io sono considerato un pirata per-
ché lo faccio con un piccolo naviglio, tu un condottie-
ro perché lo fai con una grande flotta».
(De civitate Dei IV, 4)

b) Roma pagana fu un vero Stato?

b.1) L’ingiustizia del culto politeistico

Perciò è ora l’occasione di esporre, con la brevità


e chiarezza che potrò, la tesi che ho promesso di di-
mostrare nel secondo libro di questa opera 2, sulla ba-
se delle definizioni che in Cicerone usa Scipione 3, nei
2 Cf. civ. II, 21, 4.
3 Si tratta di Publio Cornelio Scipione Emiliano (185-129 a.C.),
che figura come uno degli interlocutori del dialogo ciceroniano.

145
libri su Lo Stato, e cioè che non è mai esistito uno Sta-
to romano 4. Definisce in sintesi che lo Stato (res pu-
blica) è la cosa del popolo 5. Se la definizione è vera,
non è mai esistito lo Stato romano, perché mai fu co-
sa del popolo, ed egli ha dimostrato che questa è la
definizione dello Stato. Ha infatti definito il popolo
come l’unione di un certo numero d’individui, messa
in atto dalla conformità del diritto e dalla partecipa-
zione degli interessi 6. Nel dibattito spiega che cosa
intende per conformità del diritto, poiché dimostra
che senza la giustizia non si può amministrare lo Sta-
to; è impossibile dunque che si abbia il diritto in uno
Stato in cui non si ha vera giustizia 7. L’atto che si
compie secondo diritto si compie certamente secondo
giustizia ed è impossibile che si compia secondo il di-
ritto l’atto che si compie contro la giustizia 8. Infatti
non si devono definire e considerare diritto le illegali
istituzioni di certi individui, poiché anch’essi conside-
rano diritto la norma che promana dalla sorgente del-
la giustizia 9. È falso inoltre ciò che per sistema si af-

4 Cf. civ. II, 21, 3.


5 Cf. CICERONE, De re publica I, 25, 39 e civ. II, 21, 2. Cf. an-
che ep. 138, 2, 10: Quid enim est res publica nisi res populi?
6 Cf. CICERONE, De re publica I, 25, 39 e civ. II, 21, 2.
7 Cf. il brano citato in civ. II, 21, 1.
8 Cf. en. Ps. 145, 15: «Il diritto e l’ingiustizia son due realtà
contrarie: si chiama infatti diritto ciò che è conforme a giustizia.
E nota come non tutto ciò che si chiama diritto sia in effetti dirit-
to: che dire infatti se uno volesse legalizzare un diritto contrario
alla giustizia? Se è ingiusto non è nemmeno un diritto! Vero dirit-
to pertanto è solo quello che è conforme a giustizia».
9 Cicerone si faceva portavoce della concezione stoica secon-
do la quale il giusto è tale per natura, non per convenzione; diritto

146
ferma da alcuni, i quali sostengono l’erronea opinione
che è diritto quel che promuove l’interesse del più
forte 10. Pertanto nello Stato, in cui non si ha la vera
giustizia, non vi può essere l’unione d’individui messa
in atto dall’uniformità del diritto e quindi neanche il
popolo secondo la definizione di Scipione e Cicerone;
e se non v’è il popolo, non v’è neanche la cosa del po-
polo, ma di una massa d’individui che non merita il
nome di popolo. Quindi se lo Stato è cosa del popo-
lo, ma non si ha un popolo perché non è associato nel-
la conformità del diritto, inoltre non si ha il diritto
perché non v’è la giustizia, si conclude senza alcun
dubbio che lo Stato, in cui non si ha la giustizia, non
è uno Stato. La giustizia infatti è la virtù che distribui-
sce a ciascuno il suo. Dunque non è giustizia dell’uo-
mo quella che sottrae l’uomo stesso al Dio vero e lo
rende sottomesso ai demoni infedeli 11. Questo non è
distribuire a ciascuno il suo. Chi estorce il campo di
colui dal quale è stato acquisito e lo cede a chi non ha
alcun diritto su di esso è ingiusto, a più forte ragione
non è giusto chi sottrae se stesso al Dio Signore, da cui
è stato creato, e si rende schiavo degli spiriti malvagi.
Nei medesimi libri su Lo Stato si discute con chia-
ra, aspra e accesa polemica contro l’ingiustizia a favo-
re della giustizia 12. In precedenza, poiché si dibatteva

è solo ciò che si conforma alla giustizia naturale di origine divina:


cf. CICERONE, De legibus I, 15, 42 - 16, 43 = SVF III, 319-321.
10 Opinione già confutata a suo tempo da Platone (cf. Gor-
gia, 483D e ss.; Repubblica, 338C e ss.).
11 Tali infatti sono per Agostino quelli che i pagani adorava-
no come dèi. Cf. ad es. civ. IV, 1; VII, 33.
12 La diffusa opinione che lo Stato non possa essere gover-

147
a favore di alcuni aspetti dell’ingiustizia contro la giu-
stizia e si affermava che soltanto mediante l’ingiustizia
lo Stato può essere costituito e amministrato, si pose
come principio validissimo che è ingiusto che gli uomi-
ni siano sottomessi al potere di altri uomini. Tuttavia se
una città dominatrice, che amministra uno Stato este-
so, non applica l’ingiustizia così intesa, non può signo-
reggiare le province. Si ebbe in risposta da parte della
giustizia che è giusto che per simili individui sia opera-
trice d’interessi la sottomissione e che per loro interes-
se si verifichi il fatto, quando si verifica con giustizia,
cioè quando si toglie agli scellerati l’insubordinazione
della violenza e quando, assoggettati, si troveranno in
condizioni migliori, poiché non assoggettati si trovaro-
no in condizioni peggiori. Si aggiunse che fosse tenuto
presente un tale criterio, come a trarre un palese mo-
dello dalla natura e si formulò questo pensiero: «Per-
ché dunque Dio domina sull’uomo, l’anima sul corpo,
la ragione sulla passione e sulle altre inclinazioni de-
pravate dell’anima?». Da questo modello si trasse l’in-
segnamento che per alcuni è vantaggiosa la sottomis-
sione e che per tutti è vantaggioso essere sottomessi a
Dio. L’anima spirituale, che è sottomessa a Dio, domi-
na secondo onestà il corpo e nell’anima la ragione, sot-
tomessa a Dio Signore, domina secondo onestà la pas-
sione e gli altri impulsi. Perciò se l’uomo non è sotto-
messo a Dio si deve ritenere che in lui non v’è giusti-

nato senza ingiustizia era difesa da Lucio Furio Filo nel III libro
del De re publica e combattuta da Gaio Lelio Minore, per il qua-
le invece l’ingiustizia è sempre dannosa allo Stato ed esso non può
reggersi senza una grande giustizia. Cf. civ. II, 21, 1.

148
zia, poiché è assolutamente impossibile che l’anima
non sottomessa a Dio domini secondo giustizia il cor-
po e la ragione umana gli impulsi. E se in un individuo
di tale tipo non v’è giustizia, certamente neanche nel-
l’associazione d’individui di questo tipo. Non v’è dun-
que la conformità del diritto che rende popolo un cer-
to numero d’individui dal quale lo Stato ha il nome co-
me di cosa del popolo. Che dire poi degli interessi, da-
to che il gruppo di uomini associati, anche dalla parte-
cipazione ad essi, come comporta la suddetta defini-
zione, si denomina popolo? Se infatti rifletti con atten-
zione, non v’è alcun interesse per i viventi che vivono
senza religione, come vive ogni individuo che non è
sottomesso a Dio ed è sottomesso a demoni tanto mag-
giormente irreligiosi, perché pretendono che si sacrifi-
chi a loro come a divinità, sebbene siano spiriti molto
immondi. Ritengo tuttavia che è sufficiente quanto ho
detto della conformità del diritto, perché da questa de-
finizione si deduca che non v’è popolo da cui derivi la
denominazione di cosa del popolo, se in esso non v’è
la giustizia. Obiettano forse che i Romani nel loro Sta-
to furono sottomessi non a spiriti immondi ma a buo-
ni e santi dèi. Ma perché ripetere critiche che ho già
trattato quanto è necessario, anzi più del necessario? 13.
Chi tramite i libri dell’opera è giunto a questa parte
non può mettere in dubbio che i Romani si sono sotto-
messi a demoni malvagi e impuri, a meno che non sia
un cretino o sfacciatamente attaccabrighe. Ma per ta-
cere di quale stampo siano gli dèi che onoravano con
sacrifici, nella Legge del vero Dio è scritto: Chi sacrifi-

13 Cf. specialmente civ. VIII, 13-22; IX, 1-3.8-13.18-23.


149
cherà agli dèi e non soltanto al Signore, sarà votato allo
sterminio (Es 22, 19). Dunque colui, che con una sì
grande punizione ha dato questo comandamento, vol-
le che non si sacrificasse a dèi né buoni né cattivi.
(De civitate Dei XIX, 21, 1-2)

b.2) Senza il culto dell’unico Dio, non c’è vero Stato


secondo la definizione di Cicerone

Vi sono però luoghi in cui non v’è questo giusto


ordinamento che il Dio vero e sommo domini secon-
do la sua grazia su una città sottomessa, in modo che
essa non offra sacrifici se non a lui e perciò in tutti gli
individui, appartenenti alla medesima città e a Dio
sottomessi, l’anima spirituale con un ordinamento re-
golare secondo la fede domini sul corpo e la ragione
sugli impulsi. Così che come un solo giusto così l’u-
nione del popolo dei giusti vive di fede, la quale ope-
ra mediante l’amore con cui si ama Dio, come si deve
amare, e il prossimo come se stesso. Dove dunque
non v’è un simile tipo di giustizia, certamente il popo-
lo non è l’unione degli uomini associata dalla confor-
mità del diritto e della partecipazione degli interessi.
Se non lo è, non è popolo, se è vera questa definizio-
ne del popolo 14. Quindi non v’è neanche lo Stato co-
me cosa del popolo 15 perché non si ha la cosa del po-
polo se non si ha il popolo.
(De civitate Dei XIX, 23, 5)

14 Cf. civ. II, 21, 2; XIX, 21, 1.


15 Cf. civ. II, 21, 2; XIX, 21, 1. Se la giustizia è condizione

150
b.3) Possibilità di parlare di “popolo” e “Stato”
anche in assenza della giustizia

Il popolo si può definire non con questa formu-


la 16, ma con un’altra, cioè: il popolo è l’unione di un
certo numero d’individui ragionevoli associati dalla
concorde partecipazione degli interessi che persegue 17.
Quindi per stabilire di quali caratteristiche sia ciascun
popolo, si devono tener presenti gli interessi che esso
persegue. Tuttavia, quali che siano gli interessi che
persegue, se l’unione è di un certo numero non di ani-
mali ma di persone ragionevoli ed è costituita dalla
concorde partecipazione agli interessi che persegue, a
ragione è considerata un popolo e tanto più civile
quanto più è unito da costituzioni civili, tanto più bar-
baro quanto più è unito da costituzioni incivili 18. Se-

indispensabile dell’esistenza di un popolo, e quindi di uno Stato,


allora non esiste Stato laddove gli individui che si associano siano
ingiusti. Ora, un individuo è ingiusto quando in lui l’anima non
domina il corpo e la ragione non controlla gli impulsi, e ciò con-
segue all’allontamento da Dio e alla preferenza per se stesso e per
le cose materiali. Dove manca la sottomissione a Dio, che si espri-
me nel culto dovuto a Lui solo (cf. civ. X, 1-4.19) e nel sacrificio
spirituale a Lui gradito (cioè nell’amore: cf. civ. X, 5), manca la
giustizia; dove manca la giustizia, manca il popolo (se esso va de-
finito alla maniera di Cicerone); dove manca il popolo, manca lo
Stato.
16 Quella di Scipione Emiliano - Cicerone secondo la quale
il popolo sarebbe «l’unione di un certo numero d’individui, mes-
sa in atto dalla conformità del diritto e dalla partecipazione degli
interessi».
17 Cf. ep. 138, 2, 10: Quid est autem civitas nisi hominum
multitudo in quoddam vinculum redacta concordiae?
18 La condivisione concorde di beni e fini comuni da parte

151
condo questa nostra definizione il popolo romano è
un popolo e il suo è senz’altro uno Stato. La storia at-
testa quali interessi quel popolo perseguì nei primi
tempi e quali nei periodi successivi e con quali usan-
ze, giungendo a sanguinose sommosse e da esse alle
guerre sociali e civili, rese vana con la depravazione la
concordia che in certo senso è la prosperità del popo-
lo. Ne ho parlato abbondantemente nei libri prece-
denti 19. Tuttavia non direi che esso non è un popolo
e che il suo non è uno Stato, finché perdura una de-
terminata unione di un certo numero di esseri ragio-
nevoli, associato dalla concorde partecipazione agli
interessi che persegue. Quel che ho detto di questo
popolo e di questo Stato s’intenda che lo dico e lo
penso di Atene e degli altri paesi della Grecia, dell’E-
gitto, della primeva Babilonia d’Assiria 20 e di qualsia-
si altro popolo, mentre nei propri Stati ressero picco-
le e grandi estensioni di territorio. In genere la città

di un considerevole numero di individui razionali è condizione


sufficiente per l’esistenza storica di un popolo e di uno Stato, in-
dipendentemente dalla giustizia dei soggetti che lo compongono
e dal valore delle cose che essi amano. Indipendentemente non si-
gnifica indifferentemente: i popoli possono essere più o meno
buoni, a seconda che siano maggiori o minori i beni sull’amore dei
quali essi si fondano. R. Piccolomini, nel vol. 31 della PBA (p.
155, nota 17) mette in luce le possibili implicazioni dell’aggettivo
concors circa il ruolo della volontà nella formazione della comu-
nità politica. Vedi anche l’Introduzione di S. Cotta in NBA V/1,
pp. CXXXI-CLII.
19 Cf. civ. II, 18-21; III, 23-30.
20 Gli Assiri conquistarono Babilonia e la Mesopotamia in-
torno al 1100 a.C. e ne mantennero il possesso, con alterne vicen-
de, sino al 612 a.C., quando ne furono scacciati dai Caldei.

152
dei non credenti difetta della lealtà della giustizia per-
ché ad essa Dio non ingiunge, come se fosse a lui sot-
tomessa, di offrire sacrifici a lui soltanto e perciò in
essa l’anima non ingiunge secondo onestà e fede al
corpo e la ragione agli impulsi.
(De civitate Dei XIX, 24)

2. GIUSTIZIA E GIUDIZIO

a) «Giudizio» e «giustizia» nel linguaggio biblico

Cominciamo ad esaminare ed esporre i versi di


questo gran salmo che cominciano così: Ho operato il
giudizio e la giustizia: non consegnarmi a chi vuol far-
mi del male (Sal 119 [118], 121). Nulla di strano che
abbia agito secondo il giudizio e la giustizia colui che
poc’anzi aveva chiesto venissero fissate con i chiodi
del timore casto 21 di Dio le sue carni, cioè le passio-
ni carnali che sogliono ostacolare il nostro giudizio
impedendogli d’essere retto. Per quanto infatti nel
nostro modo di parlare si chiami giudizio tanto quel-
lo che è retto quanto quello che non lo è (per cui nel
Vangelo fu necessario specificare: Non giudicate ba-
dando alle persone ma con retto giudizio [Gv 7, 24]),
tuttavia nel nostro passo «giudizio» è detto in manie-
ra tale che non lo si chiamerebbe appunto giudizio se
non fosse retto. Se così non fosse, non si sarebbe con-
tentato di dire: Ho operato il giudizio, ma avrebbe det-

21 Per il concetto di timor casto, opposto al timore servile,


vedi infra la sezione V, 3, d.

153
to: Ho operato con retto giudizio. Una espressione di
questo tipo usò anche il Signore Gesù quando disse:
Voi avete dimenticato i punti più gravi della legge: il
giudizio, la misericordia e la fedeltà (Mt 23, 23). Anche
qui si parla di giudizio in maniera che tutto lascia sot-
tintendere come un giudizio non retto non sarebbe
giudizio. E molti altri sono i passi delle Scritture divi-
ne in cui ci si esprime così. Ad esempio: La misericor-
dia e il giudizio io canterò a te, o Signore (Sal 101
[100], 1). E ancora presso Isaia: Mi aspettavo che fa-
cesse il giudizio e invece operò l’iniquità (Is 5, 7). Non
dice: «Ho atteso che operasse secondo un giudizio
giusto, essa invece ha operato secondo un giudizio
iniquo»; ma si esprime lasciando intendere che un
giudizio in tanto è giudizio in quanto è giusto, mentre
non sarebbe giudizio se fosse ingiusto. Riguardo alla
giustizia, invece, non c’è una giustizia che sia buona e
un’altra che sia cattiva, a differenza del giudizio che
talvolta è buono tal altra cattivo. Essendo giustizia, è
per ciò stesso buona. È vero che nel nostro parlare co-
mune è invalso l’uso di distinguere espressamente se
si tratti di giudizio buono o di giudizio cattivo, come
anche quello di distinguere fra giudice buono e giudi-
ce cattivo. Comunque, riguardo alla giustizia nessuno
parla di giustizia buona e giustizia cattiva 22, come
nessuno parla di giusto buono e di giusto cattivo, poi-
ché per il fatto stesso di essere giusto uno è necessa-

22 Cf. en. Ps. 71, 4: «Si suole infatti dire che un giudizio è
perverso quando è ingiusto; mentre non siamo soliti parlare di
giustizia iniqua o ingiusta. Se infatti fosse iniqua o ingiusta, non
potremmo affatto chiamarla giustizia».

154
riamente anche buono. È dunque la giustizia una
grande virtù dell’animo, una virtù degna di lode
quanto altre mai, della quale non abbiamo ora agio di
dissertare a lungo. Tornando quindi al giudizio, esso,
se il rigore della espressione usata lo lascia intendere
esercitato nel bene, è l’operazione della giustizia. Chi
infatti ha la giustizia giudica rettamente; anzi, secon-
do la parola del nostro salmo, chi ha la giustizia giu-
dica, poiché, se non giudicasse secondo giustizia non
giudicherebbe affatto. Col nome di giustizia poi in
questo passo si indica non la virtù in se stessa ma le
opere che essa fa compiere. Chi, poi, opera nell’uomo
la giustizia se non colui che giustifica l’empio, che
cioè con la sua grazia lo rende, da empio, giusto? Co-
me dice l’Apostolo: [Siete stati] giustificati gratis per
la grazia di lui (Rm 3, 24). Opera dunque la giustizia,
cioè compie opere di giustizia, colui che ha in sé la
giustizia, la quale a sua volta è opera della grazia.
(Enarrationes in Psalmos 118, 26, 1)

b) La giustizia del giudice

b.1) I doveri del giudice giusto:


giudicare prima se stesso, amare, correggere

Perché non facciate parte dell’autorità ingiusta,


voi tutti uomini che volete avere sotto il vostro pote-
re altri uomini, istruitevi per non giudicare male e co-
sì vi perdiate nella vostra anima prima ancora di con-
dannare qualcuno nel corpo. Se vuoi essere giudice,
non puoi diventarlo con ricompense o con denaro.

155
Non ancora però ti rimprovero. Forse desideri essere
utile agli altri nelle varie situazioni umane e compri
per essere utile. Per servire la giustizia non lesini il de-
naro. Prima sii giudice dentro di te a tuo favore. Pri-
ma giudica te stesso perché, tranquillo nel segreto
della coscienza, possa occuparti dell’altro. Ritorna in
te stesso, bada a te, esaminati, ascoltati. Lì voglio tro-
varti giudice giusto, dove non cerchi testimoni. Vuoi
procedere con autorità perché uno ti dica nei con-
fronti di un altro quanto tu non sai. Prima giudica il
tuo intimo. Non ti ha detto niente la tua coscienza nei
tuoi confronti? Se non vuoi negarlo, ha detto, sì, qual-
cosa. Non voglio sapere ciò che ha detto, giudica tu
stesso che hai ascoltato. Ti ha detto nei tuoi confron-
ti ciò che hai fatto, ciò che hai ricevuto, ciò in cui hai
peccato. Vorrei conoscere quale sentenza hai emesso.
Se hai ascoltato bene, se hai ascoltato rettamente, se
nell’ascoltarti sei stato giusto, se sei salito al tribunale
della tua coscienza, se davanti a te stesso ti sei sospe-
so al cavalletto del cuore, se ti sei servito dei severi
carnefici del timore: hai ascoltato bene se così hai
ascoltato, e senza dubbio hai punito il peccato pen-
tendoti. Ecco: hai discusso la causa, hai ascoltato, hai
condannato. E tuttavia ti sei risparmiato. Alla stessa
maniera ascolta anche il tuo prossimo, se ti istruisci
come raccomanda il salmo: Istruitevi, voi che giudica-
te la terra (Sal 2, 10).
Se ascolti il tuo prossimo come ascolti te stesso,
perseguiterai i peccati, risparmiando il peccatore. E se
qualcuno, non curandosi del timore di Dio, fosse in-
sensibile nel correggersi dai peccati, tu questo [atteg-
giamento] perseguiterai, questo tenterai di corregge-

156
re, questo con ogni sforzo vorrai distruggere ed elimi-
nare affinché, condannato il peccato, l’uomo si salvi.
Sono due nomi: uomo e peccatore. L’uomo l’ha fatto
Dio, peccatore si è fatto l’uomo stesso. Venga distrut-
to ciò che ha fatto l’uomo, venga liberato ciò che ha
fatto Dio. [Nel condannare] non arrivare fino alla
morte, perché mentre punisci il peccato, non faccia
perire anche l’uomo. Non arrivare fino alla morte per-
ché, se qualcuno si pentisse, non venga ucciso l’uomo
perché ci sia chi si penta; non venga ucciso l’uomo
perché ci sia chi si corregga. Sii giudice della terra ri-
tenendo però nel cuore, tu uomo, questo amore per
gli uomini. Compiaciti di spaventare, ma ama. Se vuoi
mostrarti severo, siilo verso i peccati, non verso l’uo-
mo. Infierisci in ciò che anche in te ti dispiace, non in-
fierire nell’uomo che è stato fatto come te. Provenite
da un’unica fabbrica, avete avuto un unico artefice, lo
stesso fango è la vostra materia prima. Che cosa per-
di non amando colui che giudichi? In effetti perdi la
giustizia non amando colui che giudichi. Certo, ven-
gano inflitte le pene. Non lo respingo, non lo proibi-
sco; però con la disposizione di uno che ama, con la
disposizione di uno che vuol bene, con la disposizio-
ne di uno che corregge.
Tu infatti istruisci tuo figlio. E anzitutto fai in
modo che, per quanto è possibile, venga istruito nel
sentimento del pudore e nella nobiltà d’animo, si ver-
gogni di offendere il padre, ma non lo tema come un
giudice severo. E desideri di avere un tale figlio. Ma
se per caso disprezzasse queste cose, usi anche i colpi
di frusta, dai la punizione, imponi il dolore, ma perse-
gui la sua salvezza. Molti sono stati condotti sulla ret-

157
ta via con l’amore, molti con il timore, ma attraverso
la paura del timore pervennero all’amore. Istruitevi,
voi che giudicate la terra (Sal 2, 10). Amate e giudica-
te. L’innocenza non va cercata a scapito della corre-
zione. Sta scritto: Chi disprezza la correzione è infelice
(Sap 3, 11). Si può rettamente aggiungere a questa
massima: come chi disprezza la correzione è infelice,
così chi ricusa di dare la correzione è crudele. Ho osa-
to dire qualcosa, fratelli miei, che però sono costretto
ad esporvi in maniera alquanto più completa, perché
l’argomento è poco chiaro. Ripeto quanto ho detto:
Chi disprezza la correzione è infelice. Questo è chiaro.
Chi ricusa di dare la correzione è crudele. Sono con-
vinto senz’altro, sono convinto, e lo dimostro, che chi
ferisce è misericordioso, chi risparmia è crudele. Vi
pongo un esempio dinanzi agli occhi. Come provo
che è misericordioso chi ferisce? Mi riferisco all’esem-
pio di un padre e del [suo] figlio, non ad altri. Il pa-
dre anche quando ferisce ama. E non vuole che il fi-
glio perisca. Non bada al suo sentimento paterno,
pensa a ciò che è utile [al figlio]. Perché? Perché è pa-
dre, perché prepara l’erede, perché educa il suo suc-
cessore. Ecco: colpendo, il padre si mostra buono,
colpendo si mostra misericordioso. Portami l’esempio
di un uomo che risparmiando è crudele. Non mi al-
lontano da quelle persone, vi pongo le stesse davanti
agli occhi. Se il figlio, che è inesperto e non viene cor-
retto, vive in maniera da perire, e se il padre fa finta
di niente, se il padre lascia correre, se il padre teme di
urtare il figlio traviato con la severità della correzione,
risparmiandolo non si mostra crudele? Istruitevi dun-
que voi che giudicate la terra (Sal 2, 10) e, giudicando

158
rettamente, aspettate il premio non dalla terra, ma da
colui che ha fatto il cielo e la terra.
(Sermones 13, 7-9)

b.2) Il giudizio non va opposto alla misericordia

Hai udito in qual modo Dio eserciti la misericor-


dia e il giudizio 23; pratica anche tu la misericordia e
il giudizio. O forse tutto questo compete a Dio e non
all’uomo? Se non competesse all’uomo, il Signore non
avrebbe detto ai Farisei: avete abbandonate le cose più
gravi della legge, la misericordia e il giudizio (Mt 23,
23). Dunque anche tu devi praticare la misericordia e
il giudizio. Non credere che a te competa la misericor-
dia, e non invece il giudizio. Supponi di ascoltare a
giudizio la causa tra due persone, uno ricco e l’altro
povero, e che succeda che il povero abbia torto e il
ricco ragione; ebbene, se tu non sei esperto nelle cose
del Regno di Dio, ti sembrerà di far bene se, quasi
preso da compassione per il povero, nasconderai e oc-
culterai la sua ingiustizia, cercando di giustificarlo in
modo che sembri quasi avere ragione. E se sarai rim-
proverato perché hai giudicato male, rispondi, come
in nome della misericordia: Lo so, anch’io lo so; ma
quello era povero e si doveva essere misericordiosi.
Come puoi aver rispettato la misericordia rinnegando
il giudizio? E come – tu ribatti – avrei potuto attener-
mi al giudizio senza rinnegare la misericordia? avrei

23 Vedi la sezione IV, 3, a.


159
potuto sentenziare contro il povero, che non avrebbe
di che pagare, oppure, se ne avesse, non avrebbe poi
di che vivere dopo aver pagato? Ti dice il tuo Dio:
Non favorire il povero che è in giudizio (Es 23, 3) 24.
D’altra parte comprendiamo facilmente di non dover
favorire il ricco: ognuno se ne rende conto e volesse il
cielo che si comportasse pure così! Ma ci si inganna
nel voler piacere a Dio favorendo in giudizio il pove-
ro e dicendo a Dio: Ho favorito il povero. Dovevi ri-
spettare ambedue le cose, la misericordia e il giudizio.
Prima di tutto quale misericordia hai usato verso co-
lui di cui hai favorito l’ingiustizia? Ecco, hai rispar-
miato la sua borsa, ma hai ferito il suo cuore; questo
povero è rimasto ingiusto, anzi tanto più ingiusto in
quanto ha visto la sua ingiustizia favorita da te in
quanto uomo giusto. Si è allontanato da te ingiusta-
mente aiutato, ma resta al cospetto di Dio per essere
giustamente condannato. Quale misericordia hai usa-
to a colui che hai fatto [divenire] ingiusto? Ecco che
ti sei reso più crudele che misericordioso. Che cosa
avrei dovuto fare? dici. Avresti dovuto dapprima giu-
dicare secondo la causa, rimproverare il povero e im-
pietosire il ricco. Una cosa è giudicare, un’altra è chie-
dere pietà. Quando quel ricco avesse visto che tu ri-
spetti la giustizia, e che il povero iniquo non erge il

24 Cf. qu. II, 88, dove, commentando il medesimo versetto,


Agostino afferma: «Quando giudichiamo e vediamo che la giusti-
zia è in favore del ricco contro il povero, non deve sembrarci di
agire bene se, spinti dalla misericordia, saremo favorevoli al pove-
ro contro la giustizia. Buona è dunque la misericordia ma non de-
ve essere contro il giudizio. La Scrittura chiama, ovviamente, giu-
dizio quello che è giusto».

160
collo, ma, per colpa del suo peccato, viene da te giu-
stamente rimproverato, non si piegherebbe forse alla
misericordia che tu gli chiedi, dato che ha avuto sod-
disfazione dal tuo giudizio?
(Enarrationes in Psalmos 32, II, 1, 12)

c) Il giudizio e la giustizia doni di Dio

Ma chi è in grado di praticare l’equità e la giusti-


zia? Lo sarà forse l’uomo peccatore, iniquo, perverso,
che distoglie lo sguardo dalla luce della verità? Che
cosa allora dovrà fare l’uomo? Soltanto volgersi a Dio,
in modo che Dio crei in lui l’equità: quell’equità che
l’uomo non è in grado di formare ma solo di deforma-
re. L’uomo è capace di ferirsi; ma è forse capace di
darsi la guarigione? Quando lo vuole, egli può bu-
scarsi una malattia ma non può lasciare il letto quan-
do vuole. Se gli salta il ticchio, può esporsi senza ri-
guardo al freddo o al caldo: così decide e lo stesso
giorno si ammala. Quando però per il suo vivere sen-
za riguardi s’è preso un qualche malanno, provi a le-
varsi da letto quando gli pare! Lui che, quando l’ave-
va voluto, s’era messo a letto, provi ad alzarsi quando
lo vuole! Per ammalarsi e prendere il letto, gli era ba-
stata una sua intemperanza personale; per rimettersi
in piedi gli occorre la medicina preparata dal farmaci-
sta. Così anche dell’uomo e del suo peccato. Di per se
stesso l’uomo è capace di peccare ma, da se stesso,
non è in grado di conseguire la giustificazione: dev’es-
sere giustificato da colui che solo è giusto. Così il no-
stro salmo. Dapprima ha spaventato i popoli dicendo:

161
Confessino al tuo nome grande, poiché è terribile e san-
to, e l’onore del re ama il giudizio (Sal 99 [98], 3-4).
Ora che questi popoli atterriti gli si presentano ricer-
cando ansiosamente come debbano vivere da giusti
(la quale giustizia non riescono a trovare in se stessi),
al fine di indurli ad abbandonarsi a Dio, che li for-
merà nella giustizia, inculca loro questo autore della
giustizia dell’uomo e, proseguendo il discorso, dice:
Tu hai preparato l’equità; tu hai operato in Giacobbe il
giudizio e la giustizia (Sal 99 [98], 4). Certo noi dob-
biamo possedere il giudizio e la giustizia, ma chi pro-
duce in noi e il giudizio e la giustizia è colui che ha
creato anche noi, destinatari di tali doni. In che senso
poi dobbiamo noi possedere il giudizio e la giustizia?
Hai il giudizio quando distingui il male dal bene; hai
la giustizia quando segui il bene ed eviti il male. Di-
stinguendo, eserciti il giudizio; praticando, eserciti la
giustizia. Dice la Scrittura: Evita il male e pratica il be-
ne; ricerca la pace e cammina dietro a lei (Sal 34 [33],
15). Occorre che tu abbia per primo il giudizio, poi la
giustizia. Quale giudizio? Quello che ti fa discernere
il bene e il male. E quale giustizia? Quella che ti fa evi-
tare il male e compiere il bene. Ma tu non acquisterai
né l’una né l’altra cosa con le sole tue forze, poiché,
nota le parole, tu, o Dio, hai operato il giudizio e la
giustizia in Giacobbe (Sal 99 [98], 4).
(Enarrationes in Psalmos 98, 7)

162
3. PENA DI MORTE E INTERCESSIONE DEI VESCOVI

a) Punire la colpa per correggere il colpevole

Noi 25 dunque non approviamo affatto le colpe


che vogliamo siano emendate né le azioni compiute
contro la legge morale o civile vogliamo che restino
impunite perché ce ne compiacciamo 26 ma, pur aven-
do compassione del peccatore, ne detestiamo le colpe
o le turpitudini; inoltre quanto più ci dispiace il pec-
cato, tanto più desideriamo che il peccatore non
muoia senza essersi emendato. È facile ed è anche in-
clinazione naturale odiare i malvagi perché sono tali,
ma è raro e consono al sentimento religioso amarli
perché sono persone umane, in modo da biasimare la
colpa e nello stesso tempo riconoscere la bontà della
natura; allora l’odio per la colpa sarà più ragionevole
poiché è proprio essa a macchiare la natura che si
ama. Non ha quindi alcun legame con l’iniquità ma
piuttosto con l’umanità chi è persecutore del peccato,
per essere salvatore dell’uomo. Solo in questa vita c’è
la possibilità di correggere la propria condotta, poi-
ché nell’altra ognuno riceverà ciò che avrà meritato
per se stesso. Noi quindi nell’intercedere per i colpe-
voli siamo spinti dall’amore per il genere umano affin-

25 I vescovi intercessori.
26 Agostino risponde a un’obiezione sollevata dal vicario
imperiale Macedonio: «Se vogliamo che [una colpa] resti impuni-
ta, con ciò stesso l’approviamo. E se è evidente che sono compli-
ci di una colpa tanto chi la commette quanto chi l’approva, è an-
che certo che siamo accumunati nella stessa colpa ogni qualvolta
vogliamo resti impunito chi è caduto in una colpa» (ep. 152, 2).

163
ché la loro vita terrena non finisca con un supplizio,
che dopo la fine della vita non avrà mai fine.
(Epistulae 153, 1, 3)

b) La pazienza di Dio, modello per i giudici

Non aver dunque nessun dubbio che questo no-


stro dovere 27 non derivi dalla religione stessa dal mo-
mento che Dio, in cui non v’è ombra d’iniquità, la cui
potenza è sovrana, il quale non solo vede come cia-
scuno è presentemente ma prevede pure come sarà
nel futuro, il quale è il solo che sia infallibile nel giu-
dicare, perché nel conoscere non può ingannarsi, tut-
tavia come dice il Vangelo fa sorgere il suo sole sui
buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sui peccatori
(Mt 5, 45). Gesù Cristo, esortandoci a imitare questa
mirabile bontà, Amate – dice – i vostri nemici, fate del
bene a quanti vi odiano e pregate per i vostri persecuto-
ri, affinché siate figli del Padre vostro celeste che fa sor-
gere il suo sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui
giusti e sui peccatori (Mt 5, 44-45). Chi ignora che
molti abusano di questa indulgenza e bontà divina
per la propria perdizione? Ma san Paolo li deplora e

27 Il dovere dei vescovi di intercedere per i colpevoli penti-


ti. Macedonio (vedi sezione II, nota 46) dubitava del suo fonda-
mento religioso: «A questo proposito ho forti dubbi che questo
dovere derivi dalla religione. Se infatti i peccati sono proibiti così
severamente dal Signore che dopo una prima penitenza non si
concede la possibilità di una seconda, come si può pretendere che
in nome della religione ci sia perdonata una colpa, qualunque es-
sa sia?» (ep. 152, 2).

164
li biasima severamente dicendo: Ma pensi tu, forse, o
uomo, il quale condanni chi fa tali azioni e poi le fai tu
stesso, di sfuggire alla condanna di Dio? Ti burli forse
dell’immensa bontà, pazienza e tolleranza di Lui? Igno-
ri forse che la pazienza di Dio t’invita al pentimento?
Tu invece con la tua durezza di cuore impenitente ti am-
massi sul capo un cumulo di punizioni per il giorno del-
la collera e del giudizio finale, in cui Dio, rendendo
pubblico il Suo verdetto, darà a ciascuno secondo quel
che avrà fatto in vita (Rm 2, 3-6). Forse che Dio non
continua ad esser paziente perché i malvagi persisto-
no nella loro iniquità? Egli invece punisce in questa
vita solo ben pochi peccati, perché nessuno ignori
ch’esiste la sua Provvidenza, ma riserva la maggior
parte dei peccati all’ultimo giudizio, per dare a questo
un risalto maggiore.
Non penso che il divino Maestro ci ordini d’ama-
re la malvagità ordinandoci d’amare i nostri nemici, di
far del bene a chi ci odia, di pregare per chi ci perse-
guita. Se noi prestiamo a Dio un culto di pietà filiale,
potranno essere nostri nemici e persecutori unica-
mente gli empi aizzati contro di noi con odio accani-
to. Dobbiamo quindi forse amare gli empi? Dobbia-
mo forse far loro del bene e pregare per loro? Sicuro,
senza dubbio: è Dio stesso a comandarcelo; ma con
tutto ciò non ci associa agli empi, ai quali egli stesso
non si associa affatto, pur perdonando loro e donan-
do loro la vita e la salute. L’Apostolo espone questa
volontà di Dio, per quanto può conoscerla un santo,
dicendo: Non sai forse che la pazienza di Dio t’invita al
pentimento? (Rm 2, 4). Non ad altro che al pentimen-
to vogliamo noi stessi che siano indotti coloro per i

165
quali intercediamo, senza con ciò indulgere o essere
favorevoli ai loro peccati. […]
Poiché dunque tanta è la pazienza e la compas-
sione di Dio verso i peccatori, che non vengono con-
dannati nella vita eterna se nella presente emendano
la loro condotta, sebbene egli non aspetti la compas-
sione di nessuno, dal momento che nessuno è più fe-
lice, più potente, più giusto di Lui, come dobbiamo
essere noi verso i nostri simili, dal momento che la no-
stra vita terrena, per lodevole che possa essere, non va
esente da peccati? Se – infatti – noi diremo una simile
cosa, inganneremo noi stessi – come dice la Sacra
Scrittura – e in noi non è la verità (1 Gv 1, 8). Pertan-
to, sebbene siano diversi i doveri dell’accusatore, del
difensore, dell’intercessore, del giudice, dei quali sa-
rebbe troppo lungo e null’affatto necessario parlare in
questa lettera 28, tuttavia il severo giudizio di Dio pe-
sa perfino sui giudici dei delitti. Questi nell’adempie-
re il loro ufficio non devono essere mossi da risenti-
menti personali, ma unicamente esecutori delle leggi;
devono punire non già le ingiustizie perpetrate ai pro-
pri danni ma a quelli altrui, come devono essere i ve-
ri giudici: devono considerare d’avere essi stessi biso-
gno della misericordia di Dio a causa dei loro peccati
personali e non devono pensare di mancare al loro
dovere se usano indulgenza verso le persone sulle
quali han potere di vita e di morte.
(Epistulae 153, 2, 4-5; 3, 8)

28 La Lettera 153, scritta nel 413 o 414.


166
c) Funzione deterrente e inutilità correttiva della pena
di morte

D’altra parte non sono stati istituiti senza uno


scopo il potere del sovrano, il diritto di vita e di mor-
te proprio del giudice, gli uncini di tortura del carne-
fice 29, le armi dei soldati, il potere di punire proprio
del sovrano, e perfino la severità del buon padre di fa-
miglia. Tutti questi ordinamenti hanno le loro norme,
le loro cause, la loro ragione, la loro utilità. Quando
essi vengono temuti, non solo sono tenuti a freno i
malvagi, ma gli stessi buoni vivono più tranquilli tra i
malvagi. Non bisogna tuttavia proclamare buoni
quanti si astengono dal peccare per paura di tali ordi-
namenti, poiché non si è buoni per paura del castigo,
ma per amore della giustizia 30; non è comunque inu-
tile reprimere l’arroganza e la prepotenza degli uomi-
ni anche mediante la paura che incutono le leggi uma-
ne, affinché non solo gli innocenti si sentano sicuri in
mezzo ai malfattori ma, mentre con la paura del casti-
go è messo un freno alla loro possibilità di far del ma-
le, la loro volontà venga guarita ricorrendo all’aiuto di
Dio. Tuttavia con l’accennato ordinamento delle cose
umane non contrasta l’intercessione dei vescovi, anzi,
non ci sarebbe né motivo né occasione d’intercedere,
se quello non esistesse. I benefici di chi intercede e di
chi perdona sono tanto più graditi, quanto più giusti

29 Cf. ep. 133, 2; civ. XIX, 6 e T. MCCONNELL, Augustine on


Torturing and Pushing an Innocent Person, «The Southern Journal
of Philosophy», 17 (1979), pp. 481-492.
30 Vedi la sezione V, 3.

167
sono i castighi per coloro che peccano. Per nessun al-
tro motivo, inoltre – a mio parere – nell’Antica Al-
leanza, al tempo degli antichi Profeti, la Legge era più
severa nel comminare i castighi se non per mostrare la
giustizia dei castighi stabiliti per i colpevoli. In tal mo-
do, se la Nuova Alleanza ci raccomanda di perdonar-
li, questa indulgenza deve servire di medicina per la
salvezza dell’anima e per ottenere il perdono anche
dei nostri peccati oppure una manifestazione di man-
suetudine, che spinga le persone non solo a tenere,
ma anche ad amare la verità predicata da coloro che
son disposti a perdonare.
Ha poi grandissima importanza vedere con quale
animo si perdona. Poiché in certi casi si può essere in-
dulgenti castigando, come si può essere crudeli per-
donando. Infatti, per spiegarmi con un esempio, chi
non chiamerebbe piuttosto crudele colui che fosse re-
missivo con un ragazzo che s’ostinasse a giocare coi
serpenti? Chi invece non chiamerebbe misericordioso
colui che, proibendoglielo, castigasse pure con busse
questo ragazzo che si infischiasse dei rimproveri? Ma
non bisogna per questo estendere la severità fino alla
morte del colpevole, perché possa giovargli.
(Epistulae 153, 6, 16-17)

d) Casi di guadagni illeciti che andrebbero restituiti

Non è affatto vero che tutto ciò che si prende ad


uno che non vuol darlo venga sottratto con ingiusti-
zia. Molti infatti si rifiutano di pagare l’onorario al
medico o il salario all’operaio, e tuttavia non commet-

168
tono alcuna ingiustizia coloro che lo prendono con la
forza a chi si rifiuta, perché l’ingiustizia consisterebbe
piuttosto nel rifiutare la mercede. Ma non per questo
se un avvocato si fa pagare il suo giusto patrocinio e il
giureconsulto il suo consiglio veridico, deve un giudi-
ce vendere il suo giusto verdetto e il testimone la sua
testimonianza veridica. Poiché i primi sono adibiti al
dibattito giudiziale tra una parte e l’altra mentre i se-
condi sostengono una sola delle due parti. Ma se in-
vece di sentenze giudiziarie conformi alla giustizia e
di testimonianze veridiche, che non devono mai esse-
re vendute, ne sono vendute d’ingiuste e di false, è
azione molto più perversa ricevere denaro in compen-
so, dal momento che è azione infame darlo anche
spontaneamente. Con tutto ciò chi ottiene con dana-
ro una sentenza pronunciata in base alla giustizia,
suole reclamare il suo danaro come se gli fosse stato
sottratto ingiustamente, poiché la giustizia non do-
vrebbe essere venale; chi invece ottiene un verdetto
contrario alla giustizia sborsando danaro, vorrebbe
certo reclamarlo, se non avesse paura o vergogna d’a-
verlo comprato.
Vi sono altre persone di grado inferiore che sen-
za scrupolo ricevono denaro da tutte due le parti, co-
me un ufficiale giudiziario, cioè non solo da colui dal
quale è preso a servizio ma anche da colui per il qua-
le fa un servigio. Si ha l’abitudine di richiedere a co-
storo il denaro quando viene da essi estorto con smo-
derata disonestà, ma non quando si è sborsato per
un’abitudine tollerabile; anzi biasimiamo più quelli
che lo richiedono contro l’usanza invalsa che non co-
loro che l’accettano secondo tale usanza, poiché sono

169
allettate o son trattenute nel loro servizio da siffatti
vantaggi le numerose persone necessarie al disbrigo di
quelle faccende terrene. Qualora tali impiegati siano
riusciti a mutare vita o a salire a un grado più elevato
di santità, distribuiscono più facilmente ai poveri, co-
me se fosse loro proprietà, il gruzzolo messo insieme
con questo sistema anziché restituirlo, come se fosse
proprietà altrui, a coloro dai quali lo han ricevuto.
Chi invece s’è appropriato di beni mediante furti, ra-
pine, calunnie, assalti o aggressioni deve – a nostro pa-
rere – restituire anziché dare ai poveri il maltolto 31,
secondo l’esempio propostoci dal Vangelo nella per-
sona dell’appaltatore Zaccheo: egli dopo aver ricevu-
to come ospite in casa sua il Signore, convertitosi
d’improvviso a una vita santa, esclamò: Io do ai pove-
ri la metà dei miei beni e, se ho frodato qualcuno, gli re-
stituisco il quadruplo di quanto gli ho rubato (Lc 19, 8).
Tuttavia, se si considera più strettamente quel
ch’esige la giustizia, si dirà con maggior ragione all’av-
vocato: «Restituisci l’onorario che hai percepito, dal
momento che ti sei schierato contro la verità, hai dife-
so l’iniquità, hai ingannato il giudice, hai schiacciato
l’innocente, hai vinto con la menzogna». Tu stesso
ben sai quanti fior di galantuomini dotati di singolare
facondia agiscono così non solo con l’impunità, ma
sembra loro pure di compiere un’azione da menarne
vanto; è molto più ragionevole – ripeto – rivolgere
quel reclamo a un avvocato che dire a un impiegato
qualunque di tribunale: «Restituisci le propine, dal
momento che hai fermato per ordine del giudice la tal

31 Cf. s. 113, 2, 2.

170
persona, la cui presenza era necessaria allo svolgimen-
to del processo, l’hai incatenata affinché non oppo-
nesse resistenza, l’hai incarcerata perché non fuggisse
o infine perché l’hai presentata ai giudici durante lo
svolgimento del processo e l’hai lasciata andare al ter-
mine di esso». È chiaro d’altronde che a un avvocato
non si parla così poiché, naturalmente, uno non vuol
reclamare la somma data al difensore legale perché
vincesse la causa con la frode allo stesso modo che
non è disposto a restituire la somma ricevuta da par-
te dell’avversario dopo aver riportato la vittoria con la
frode. Qual avvocato, infine, o qual ex-avvocato si
trova facilmente così specchiato da dire al proprio
cliente: «Riprendi il denaro che m’hai dato per averti
difeso malamente e rendi al tuo avversario ciò che gli
hai sottratto ingiustamente in virtù della causa da me
trattata come procuratore». Eppure chi vuol pentirsi
sul serio della precedente vita scorretta, deve avere
anche il coraggio d’agire così se il cliente che ha inten-
tato un processo ingiusto, nonostante gli ammoni-
menti ricevuti, non vuol emendare la propria iniquità,
l’avvocato non deve esigere il compenso di quella ini-
quità, salvo che per caso si debba restituire il denaro
altrui sottratto di nascosto e non si debba restituire
quello guadagnato proprio nel tribunale – ove si pu-
niscono i misfatti – con l’ingannare i giudici e con l’e-
ludere le leggi. Che dire poi degli interessi guadagna-
ti con l’usura, che le stesse leggi e i giudici comanda-
no di restituire? È forse più crudele chi sottrae o ru-
ba qualcosa a un ricco di chi manda in rovina un po-
vero con l’usura? Questi ed altri proventi di tal gene-
re son posseduti senza dubbio ingiustamente e io ne

171
esigerei la restituzione; ma non v’è giudice per mezzo
del quale possano reclamarsi.
Se inoltre consideriamo attentamente quello che
sta scritto: Tutto il mondo con tutte le sue ricchezze ap-
partiene all’uomo fedele, mentre all’infedele non è do-
vuto neppure un soldo (Pr 17, 6 sec. LXX), non con-
vinceremo forse che posseggono beni altrui tutti colo-
ro che credono di godere beni guadagnati in modo le-
cito mentre non li sanno usare? Non appartiene certo
ad altri ciò che si possiede di diritto; si possiede poi di
diritto ciò che s’è acquistato con giustizia, e ciò ch’è
giusto è anche buono 32. Appartiene quindi ad altri
ciò che si possiede contro giustizia, come quando se
ne fa un uso cattivo. Comprendi perciò quanti do-
vrebbero restituire la roba d’altri, se si trovassero al-
meno alcuni ai quali si potesse restituire. Le persone
di questa specie però, dovunque si trovino, tanto più
disprezzano questi beni quanto più giustamente
avrebbero potuto possederli. La giustizia infatti è un
bene che non solo nessuno possiede male, ma nessu-
no può possederla se non l’ama. Il denaro invece non
solo è posseduto male dai malvagi, ma i buoni lo pos-
siedono tanto meglio quanto meno da essi è amato.
Ma intanto si tollera l’ingiustizia dei cattivi possessori,
anzi tra di loro si stabiliscono certi diritti che si chia-
mano civili non perché in virtù di essi avviene ch’essi

32 Cf. s. 50, 4: «Difatti anche fra gli uomini si dice di uno


che sa possedere qualcosa quando sa farne buon uso. Per cui uno
che non fa delle cose un uso conforme a giustizia non le possiede
a buon diritto. E se uno non possiede una cosa a buon diritto, se
afferma che è sua non parla da legittimo possessore, ma chi parla
in lui è la malizia d’uno sfacciato usurpatore».

172
facciano buon uso del denaro, ma perché quanti ne
fanno cattivo uso siano meno nocivi agli altri. Così an-
dranno le cose fino a tanto che i fedeli e i buoni – ai
quali appartiene tutto per diritto – che son divenuti
tali dopo aver fatto parte della classe dei cattivi pos-
sessori o che, pur vivendo in mezzo a loro, non si la-
sciano incatenare dai loro vizi ma ne soffrono, non
giungano alla città ove l’eternità sarà la loro eredità;
ove non vi sarà posto se non per il giusto, non vi sarà
principato se non per il sapiente; ove tutti coloro che
ne saranno cittadini possederanno beni veramente di
loro proprietà. Ciononostante anche quaggiù non in-
tercediamo perché non sia restituito il bene altrui se-
condo i costumi e le leggi terrene, quantunque noi de-
sideriamo che siate misericordiosi verso i malvagi, non
perché questi siano amati in quanto tali o affinché ri-
mangano tali, ma perché vengono dalle loro file tutti
quelli che diventano buoni e col sacrificio della mise-
ricordia viene placato Dio, senza la misericordia del
quale verso i malvagi nessuno sarebbe buono.
(Epistulae 153, 6, 23-26)

4. PERSECUZIONI E GUERRE “GIUSTE”

a) Persecuzioni giuste e ingiuste

a.1) Non tutti i perseguitati per motivi religiosi


sono martiri

O forse in materia di religione non hanno diritto


di intervenire l’Imperatore o i suoi inviati? Perché, al-

173
lora, i vostri ambasciatori si recarono dall’Imperato-
re? 33 Perché lo fecero giudice della loro causa, se era-
no intenzionati a non accettarne il giudizio? 34. Ma
dove mirano questi discorsi? E che? Anche se otten-
gono che non spetta all’Imperatore stabilire delle pe-
ne contro i sostenitori di false opinioni religiose, tut-
tavia, se lo fa e li punisce, saranno martiri? Ma così
questo titolo si allargherà a tutti gli eretici, contro i
quali il segreto potere di Dio ha stabilito, tramite il
manifesto potere degli uomini, molte e severissime
pene coercitive, e non solo agli eretici, in qualunque
modo imbiancati almeno del nome cristiano, ma an-
che agli stessi pagani. In verità sono anch’essi empi a
causa della loro falsa religione; e recenti leggi 35 han-
no ordinato di distruggere e demolire i loro idoli, e di
impedire, pena la morte, i loro sacrifici. Se quindi uno
di loro è condannato per tale crimine, lo si deve rite-
nere martire perché è stato punito dalle leggi a causa
di una superstizione che egli riteneva una santa reli-

33 I Donatisti rifiutavano Ceciliano come vescovo di Carta-


gine, perché consacrato da vescovi colpevoli di aver consegnato le
copie delle Scritture alle autorità civili (traditio) durante la perse-
cuzione di Diocleziano. Dopo aver tentato di far condannare Ce-
ciliano da tribunali vescovili, i Donatisti, tramite il proconsole
Anulino, lo accusarono davanti al tribunale di Costantino (cf. ep.
93, 4, 13; 185, 2, 6).
34 L’imperatore affidò la causa al vescovo di Roma, Milzia-
de, il quale convocò un concilio di vescovi italiani che diede tor-
to a Donato, il vescovo scismatico di Cartagine. Il medesimo ver-
detto fu pronunciato dal concilio di Arles (314), convocato dallo
stesso Costantino (cf. c. ep. Parm. I, 5, 10 - 6, 11).
35 Gli editti di Onorio del 399. Già l’editto di Costantinopo-
li di Teodosio (392) aveva vietato il culto pagano anche privato.

174
gione? Nessuno, certo, quale che sia il suo modo di
essere cristiano, oserebbe dirlo. Dunque, non chiun-
que è punito dall’Imperatore per una questione di re-
ligione è reso martire. Ma non si accorgono i difenso-
ri di queste idee 36, di essersi spinti così avanti da so-
stenere che i demoni stessi possono rivendicare per sé
la gloria dei martiri, visto che da parte degli Impera-
tori cristiani subiscono una tale persecuzione, che in
quasi tutto il mondo si distruggono i loro templi, si
fanno a pezzi i loro idoli, si proibiscono i loro sacrifi-
ci? 37 E che quanti li onorano, appena sono presi, ven-
gono puniti? Ma se dire questo è veramente da pazzi,
ne consegue che non è dalla sofferenza che nasce la
vera giustizia, ma è dalla giustizia che la sofferenza
viene resa gloriosa. Ecco perché il Signore, per evita-
re che, su questa questione, qualcuno annebbiasse le
idee ai semplici e potesse ricercare la gloria dei marti-
ri nella condanna dei propri errori, non ha detto, ge-
nericamente: «Beati coloro che soffrono persecuzio-
ni», ma ha aggiunto una grande differenza per distin-
guere la vera pietà dal sacrilegio. Ha detto infatti: Bea-
ti quelli che soffrono persecuzioni a causa della giusti-
zia (Mt 5, 10). Ora, non è assolutamente per la giusti-
zia che soffrono quelli che hanno diviso la Chiesa di
Cristo e che, quando cercano di separarla con finta
giustizia dalla paglia prima del tempo e ne perseguita-

36 I Donatisti, che si ritenevano “martiri” perché colpiti dal-


le misure coercitive delle autorità imperiali, a cominciare dai tem-
pi di Costantino: cf. c. ep. Parm. I, 8, 14.
37 Si ricordi che per Agostino gli dèi adorati dai pagani era-
no in realtà demoni malvagi: vedi supra, nota 11.

175
no il suo grano con false accuse, sono stati separati es-
si, piuttosto, come pula leggerissima, dai venti varia-
bili delle opinioni (cf. Ef 4, 14) 38.
(Contra epistulam Parmeniani I, 9, 15)

a.2) Differenza tra il persecutore ingiusto


e quello giusto

Se il subire la persecuzione fosse sempre lodevo-


le, sarebbe stato sufficiente che il Signore dicesse:
Beati i perseguitati, senza aggiungere per la giustizia
(Mt 5, 10). Così pure, se fosse sempre peccato perse-
guitare, non sarebbe scritto nei Libri santi: Persegui-
tavo chi in segreto sparlava del prossimo (Sal 101
[100], 5). Si dà dunque il caso in cui chi è perseguita-
to è ingiusto e chi perseguita è giusto. È comunque
certo che i cattivi hanno sempre perseguitato i buoni,
ed i buoni i cattivi, gli uni nocendo con l’ingiustizia,
gli altri giovando con le sanzioni disciplinari; agendo
gli uni inumanamente, gli altri moderatamente; ser-
vendo gli uni alla cupidigia, gli altri all’amore 39. Vo-

38 Agostino allude alla parabola evangelica della zizzania


(cf. Mt 13, 24-30). Diversamente dal padrone della parabola, che
rappresenta Cristo (cf. Mt 13, 36-43), i Donatisti vorrebbero se-
parare i giusti dagli ingiusti, i buoni dai cattivi, sin d’ora, senza at-
tendere il giudizio finale. La loro intransigenza però li ha portati
ad essere loro stessi separati dalla Chiesa. L’immagine della pula
dispersa dal vento è frequente nelle Scritture: cf. Gb 21, 18; Sal 1,
4; 35 (34), 5; 83 (82), 14; Sap 5, 14; Is 17, 13; 29, 5; 41, 16.
39 Cf. ep. 185, 2, 11: «Se dunque vogliamo riconoscere e
proclamare la verità, v’è una persecuzione ingiusta inflitta dagli

176
glio dire: il carnefice non bada al modo con cui stra-
zia, il medico invece bada al modo con cui taglia: que-
sti infatti cerca di ottenere la sanità, quello invece la
cancrena. Gli empi uccisero i Profeti, ma pure i Pro-
feti uccisero degli empi (cf. 1 Re 18, 40). I Giudei fla-
gellarono Cristo 40, ma anche Cristo flagellò i Giudei
(cf. Gv 2, 15). Gli Apostoli furono consegnati dagli
uomini alla potestà umana, ma anche gli Apostoli
consegnarono gli uomini al potere di Satana (cf. 1 Cor
5, 5; 1 Tm 1, 20). In questi casi, che cosa si deve con-
siderare, se non chi ha agito per la verità e chi per l’i-
niquità, chi per nuocere e chi per correggere?
(Epistulae 93, 2, 8)

empi alla Chiesa di Cristo e v’è una persecuzione giusta inflitta


agli empi dalla Chiesa di Cristo. Beata pertanto è questa che sof-
fre la persecuzione a causa della giustizia (cf. Mt 5, 10); miserabi-
li al contrario essi che subiscono la persecuzione a causa dell’in-
giustizia. La Chiesa pertanto perseguita spinta dall’amore, quelli
invece spinti dal furore: questa per farli ravvedere, quelli per di-
struggere; questa per distogliere dall’errore, quelli per precipitare
nell’errore; questa infine perseguita e arresta i suoi nemici affin-
ché regrediscano dall’errore e progrediscano nella verità; essi in-
vece, ricambiando male per bene (cf. Sal 35 [34], 12)».
40 Gesù fu fatto flagellare dal governatore romano Ponzio
Pilato, al quale le autorità religiose giudaiche l’avevano consegna-
to, dopo che la folla, sobillata dai sommi sacerdoti e dagli anziani
del popolo, chiese la liberazione di Barabba e la condanna di Ge-
sù (cf. Mt 27, 26; Mc 14, 15; Gv 19, 1). Gesù fu percosso anche
durante il processo davanti al sinedrio: cf. Mt 26, 67; Mc 14, 65;
Gv 18, 22.

177
a.3) Utilità della coercizione nel caso dei Donatisti

Già comprendi 41 dunque – se non mi inganno –


che non deve considerarsi il fatto che uno venga co-
stretto, ma se ciò a cui viene costretto sia bene o ma-
le. Non dico che uno possa essere buono per forza!
Voglio dire che uno, per paura di un castigo che non
è disposto a subire, o abbandona l’animosità che lo
tiene lontano dalla verità conosciuta, o è costretto a
conoscere la verità ignorata: la paura cioè lo potrebbe
spingere a ripudiare la falsità per la quale lottava, o a
ricercare la verità che ignorava, e infine a sostenere
volentieri come vero ciò che prima non voleva. Par-
rebbe superfluo ripetere queste cose con tante paro-
le, se non le vedessimo dimostrate da tanti esempi. Si
tratta non già di singoli individui, ma di molte città
che ora vediamo diventate cattoliche, che aborriscono
cordialmente lo scisma istigato dal demonio 42 e ama-
no ardentemente l’unità. Esse hanno approfittato –
diciamo così – del timore delle sanzioni che a te di-
spiacciono, e sono diventate cattoliche proprio grazie
alle leggi degli imperatori: il primo di essi fu Costan-
tino, al quale i vostri padri presentarono per primi
l’accusa contro Ceciliano 43, e poi giù giù, fino agli

41 Agostino scrive a Vincenzo, vescovo rogatista di Carten-


na, nella Mauritania Cesariense. I Rogatisti (nome derivato dal ve-
scovo Rogato, che si separò dai Donatisti) erano una minoranza
non violenta: cf. ep. 93, 3, 11.
42 Lo scisma donatista, per la cui origine cf. l’Introduzione
generale di R. Markus in NBA XV/1, pp. VIII-IX.
43 Costantino stabilì la confisca dei beni ecclesiastici in pos-
sesso dei Donatisti: cf. ep. 93, 4, 14.

178
imperatori attuali: questi ultimi decretano con pieno
diritto che deve osservarsi la sentenza di Costantino,
l’imperatore scelto proprio dai vostri, dai vostri prefe-
rito agli stessi vescovi 44.
In ciò mi sono dovuto arrendere agli esempi
messi sotto i miei occhi dai miei colleghi. Dapprima
ero del parere che nessuno dovesse essere condotto
per forza all’unità di Cristo, ma si dovesse agire solo
con la parola, combattere con la discussione, convin-
cere con la ragione, per evitare d’avere tra noi come
finti cattolici coloro che avevamo già conosciuti tra
noi come critici dichiarati 45. Questa mia opinione
però dovette cedere di fronte a quella di coloro che
mi contraddicevano non già a parole, ma che mi por-
tavano le prove dei fatti. Mi si adduceva innanzitutto
in contrario l’esempio della mia città natale 46 che,
mentre prima apparteneva interamente al partito do-
natista, s’era poi convertita alla Chiesa cattolica per
paura delle sanzioni imperiali. Adesso noi vediamo
ch’essa detesta tanto la micidiale animosità della vo-
stra setta, da sembrare non esserle mai appartenuta.
Così pure era avvenuto di molte altre città, di cui mi
si citava il nome affinché, alla luce dei fatti, mi con-
vincessi che pure a questo proposito si poteva appli-

44 Nel 405 (due o tre anni prima della stesura di questa let-
tera) la corte imperiale d’Occidente emanò un Editto di unità, che
applicava ai Donatisti le stesse pene previste per gli eretici.
45 Cf. ep. 185, 7, 25. Agostino aveva sostenuto questo pun-
to di vista nel primo dei due libri Contra partem Donati (cf. retr.
II, 5), purtroppo perduti.
46 Tagaste (oggi Souk-Ahras, in Algeria).

179
care il detto della sacra Scrittura: Porgi al saggio l’oc-
casione e crescerà in sapienza (Pr 9, 9). In realtà – lo
sappiamo con certezza – innumerevoli fedeli avreb-
bero voluto essere cattolici già da tempo, spinti dal-
l’evidenza della verità, ma per paura dei loro consor-
ti rimandavano di farlo di giorno in giorno! Moltissi-
mi invece rimanevano legati alla vostra setta non dal-
la forza della verità, nella quale non avete mai avuto
fiducia, ma dal forte legame della consuetudine! Ri-
guardo a costoro, si avverava in tal modo l’afferma-
zione divina: Il servo non può venire corretto a parole,
perché, anche se capisce, non ubbidirà (Prv 29, 19).
Quanti perciò credevano in buona fede che la vera
Chiesa fosse la setta di Donato 47, essendo divenuti
apatici e ritrosi per pigrizia mentale a conoscere la
verità cattolica, a causa d’una cieca sicurezza! E
quanti erano anche coloro, ai quali sbarravano il pas-
so dall’entrare nell’unità le ciarle dei calunniatori;
questi tali andavano blaterando che noi ponessimo
non so che altro sull’altare di Dio! Quanti inoltre,
persuasi che non importasse nulla se un Cristiano sia
da una parte o dall’altra, restavano in quella di Dona-
to solo perché vi erano nati, e nessuno li spingeva a
separarsene e passare al Cattolicesimo!
(Epistulae 93, 5, 16-17)

47 Successore di Maggiorino, il primo vescovo dissidente di


Cartagine. Da lui prese il nome il movimento donatista (anche se
i Donatisti, naturalmente, non si ritenevano una setta ma l’auten-
tica Chiesa).

180
a.4) Reprimere lo scisma donatista
senza condannare a morte

Vorrei che la Chiesa d’Africa non si trovasse af-


flitta da sì gravi tribolazioni 48, affinché non avesse bi-
sogno dell’aiuto d’alcuna autorità terrena. Ma poiché,
al dire dell’Apostolo, non c’è autorità che non derivi da
Dio (Rm 13, 1), senza dubbio vedendola protetta da
figli lealissimi della Chiesa, come siete voi, dobbiamo
credere che il nostro aiuto è nel nome del Signore, che
ha fatto il cielo e la terra (cf. Sal 121 [120], 2). Orbe-
ne, chi non s’accorge come, in sì gravi sciagure, ci vie-
ne mandato da Dio un non lieve conforto per il fatto
che una persona come te 49, così qualificata e amantis-
sima del nome di Cristo, è stata innalzata all’eminen-
te carica di proconsole, affinché la tua autorità con-
giunta con la tua buona volontà tenesse a freno i ne-
mici della Chiesa dagli scellerati e sacrileghi loro mi-
sfatti, illustre e meritatamente onorevole mio signore
e lodevolissimo figlio? Finalmente una sola cosa temo
riguardo al tuo sentimento di giustizia: poiché ogni
misfatto che si commette contro la società cristiana da
individui empi ed ostili è certamente più grave e cru-
dele dei misfatti che si potrebbero commettere a dan-
no di altri, ho paura che per caso tu pure pensi dover-
lo reprimere attenendoti all’efferatezza dei delitti an-
ziché lasciandoti guidare dalla mitezza cristiana. Per

48 Gli scontri e i disordini provocati dallo scisma donatista.


49 Un certo Donato, proconsole della provincia africana dal
novembre del 408 al giugno del 410. Agostino gli indirizza questa
lettera (l’ep. 100) all’inizio del suo proconsolato.

181
l’amore di Gesù Cristo ti scongiuro di non agire così.
Noi non cerchiamo su questa terra di vendicarci dei
nemici; le nostre sofferenze non debbono spingerci a
tale grettezza d’animo da dimenticare il comando da-
toci da colui, per la verità e il nome del quale noi sof-
friamo. Noi invece amiamo i nostri nemici e preghia-
mo per loro. Ecco perché, servendoci di giudici e leg-
gi atti a incutere spavento, desideriamo di farli emen-
dare e non già di farli uccidere, per strapparli dalle
pene del giudizio eterno. D’altronde vogliamo che
non siano trascurati nei loro confronti i mezzi coerci-
tivi, ma nello stesso tempo che non siano sottoposti ai
supplizi da loro meritati. Reprimi quindi le loro col-
pe, ma in modo che si pentano d’aver fatto del male.
Tu quindi nell’istruire processi riguardanti la
Chiesa, anche se riconosci quanto sia fatta segno a in-
fami ingiurie e quanto ne sia rattristata, dimentica,
per favore, che hai il potere di condannare a morte e
ricordati invece della mia raccomandazione. Non ave-
re a sdegno, onorando e dilettissimo figlio, che da te
imploriamo la sopravvivenza per coloro per i quali
imploriamo dal Signore la resipiscenza. Oltre al fatto
che non dobbiamo allontanarci mai dal proposito di
vincere il male col bene (cf. Rm 12, 21), la tua pruden-
za consideri pure che nessuno, all’infuori degli eccle-
siastici, ha l’incombenza di presentarti delle cause ec-
clesiastiche. Se quindi pensate d’applicare la pena di
morte per simili colpe, ci distogliereste dal denuncia-
re i colpevoli al vostro tribunale. Se i nemici della
Chiesa venissero a sapere questo nostro intendimen-
to, agirebbero con maggior audacia dei briganti allo
scopo di sterminarci; noi ci sentiremmo allora costret-

182
ti apertamente a preferire d’essere da loro uccisi anzi-
ché denunciarli ai vostri tribunali per farli condanna-
re a morte! Non accogliere con disprezzo questa mia
esortazione, raccomandazione e fervida implorazione,
te ne supplico. Io infatti non credo che tu non rifletta
che, quand’anche io non fossi vescovo e tu avessi una
carica più alta dell’attuale, mi rivolgerei a te con la
medesima confidenza. Gli eretici Donatisti siano frat-
tanto informati al più presto con un editto dell’Eccel-
lenza tua che restano in vigore le leggi di già promul-
gate contro la loro eresia 50, mentre essi pensano e
vanno dicendo che non hanno più alcuna forza, e lo
dicono per avere qualche possibilità di farci del male.
In tal modo ci sarai di grandissimo aiuto affinché le
nostre afflizioni e i nostri pericoli siano fruttuosi, se
cioè mediante le leggi imperiali reprimerai la loro set-
ta piena di menzogne e d’empia superbia. Devi però
agire in modo che tali scismatici non abbiano la sen-
sazione di soffrire una specie di persecuzione per la
causa della verità e della giustizia. Quando te n’è fat-
ta richiesta, adoperati di confutarli e convincerli con
fatti incontrovertibili suffragati dalla più chiara docu-
mentazione desunta dai verbali ufficiali dei processi
dell’Eccellenza tua o di giudici minori. Fa’ in modo
che pure i detenuti per tuo ordine mutino quanto più
possibile la loro volontà ostinata e leggano i medesimi
documenti agli altri per procurar loro la salvezza. Poi-
ché il costringere le persone senza istruirle, sia pure
allo scopo di far loro abbandonare un gran male e far

50 Vedi supra, nota 44.


183
abbracciare un gran bene, è uno zelo più gravoso che
vantaggioso.
(Epistulae 100, 1-2)

b) Guerra e pace

b.1) Concetto di “guerra giusta”

Per quanto riguarda il fatto che Dio comandò a


Giosuè, dicendogli di disporre un’imboscata [contro
la città] nella parte posteriore, vale a dire, dei guerrie-
ri posti in agguato per far cadere in trappola i nemici
(cf. Gs 8, 2), siamo indotti a considerare che non agi-
scono ingiustamente coloro che fanno una guerra giu-
sta. Per questo l’uomo giusto che si trova nella costri-
zione di far guerra – non tutti si trovano nella stessa
necessità –, non deve pensare a nulla di più importan-
te che a fare una guerra giusta. Intrapresa una guerra
giusta, non importa riguardo alla giustizia se si vince
in una battaglia campale oppure mediante un’imbo-
scata. Si è poi soliti denominare giuste le guerre che
vendicano dei torti, qualora una nazione o una città,
che dev’essere investita dalla guerra, abbia trascurato
di punire l’ingiustizia fatta dai suoi cittadini o di ren-
dere ciò che è stato portato via ingiustamente 51. È
quindi senza dubbio giusto anche questo genere di
guerra comandata da Dio, nel quale non è ingiustizia

51 Si noti che Agostino non dà una definizione originale di


“guerra giusta”, ma riferisce quella comunemente ammessa ai
suoi tempi.

184
(cf. Rm 9, 14), e sa che cosa deve darsi a ciascuno 52.
In rapporto a questa guerra il capo dell’esercito e il
popolo stesso se ne devono considerare non tanto i
promotori, quanto piuttosto gli esecutori [dei disegni
di Dio] 53.
(Quaestiones in heptateuchum VI, 10)

52 Il problema delle guerre condotte dai patriarchi è rapida-


mente affrontato, in risposta alle critiche del manicheo Fausto,
anche in c. Faust. XXII, 74-75. Per l’impossibilità che Dio sia in-
giusto, vedi la sezione IV, 1. L’Antico Testamento presenta nume-
rosi casi di comportamenti apparentemente immorali autorizzati
o addirittura comandati da Dio. Marcioniti e Manichei vedevano
in ciò una prova dell’opposizione tra il Dio dell’Antico Testamen-
to e il Dio rivelato da Gesù, il primo essendo in realtà non il vero
Dio ma un demiurgo malvagio. Agostino invece sostiene con for-
za l’unità tra i due Testamenti e l’identità tra il Dio creatore e au-
tore della Legge e il Dio Padre di Gesù. Egli tende a risolvere la
difficoltà posta da episodi come questo, contenuto nel libro di
Giosuè, distinguendo tra azioni giuste o ingiuste in sé e azioni la
cui giustizia dipende dalle circostanze o dalle tradizioni, e affer-
mando il principio che l’ubbidienza a un comando divino è sem-
pre giusta, perché Dio stesso è la fonte di ogni giustizia. Cf. conf.
III, 7, 13 - 9, 17. Dio, inoltre, sa perfettamente ciò che ciascuno
merita; perciò, se Egli ordina di agire in un certo modo nei con-
fronti di qualcuno, possiamo essere sicuri che quell’atto non reca
ingiustizia al prossimo.
53 Quindi essi non trasgrediscono il comandamento di non
uccidere. Cf. civ. I, 21: «Lo stesso magistero divino ha fatto delle
eccezioni alla legge di non uccidere. Si eccettuano appunto casi
d’individui che Dio ordina di uccidere sia per legge costituita o
per espresso comando rivolto temporaneamente a una persona.
Non uccide dunque chi deve la prestazione al magistrato. È come
la spada che è strumento di chi la usa. Quindi non trasgrediscono
affatto il comandamento con cui è stato ingiunto di non uccidere
coloro che han fatto la guerra per comando di Dio ovvero, rap-
presentando la forza del pubblico potere, secondo le sue leggi,

185
b.2) Anche quando sono giuste,
le guerre sono sempre indesiderabili

Riflettano 54 dunque che forse non è conveniente


per le persone oneste godere dell’allargamento del
dominio. Infatti l’ingiustizia di coloro contro i quali
sono state mosse guerre giuste ha favorito l’incremen-
to del dominio. Ed esso sarebbe stato piccolo se l’a-
more alla pace e la giustizia dei vicini non lo avessero
provocato per qualche torto a muover loro la guerra.
Ne consegue che con maggiore benessere per l’uma-
nità tutti gli Stati rimarrebbero piccoli godendo della
pace con i vicini e vi sarebbero nel mondo molti Stati
di popoli come in una città vi sono molte case di cit-
tadini. Quindi far guerra ed estendere il dominio con
l’assoggettare i popoli può sembrare prosperità ai cat-
tivi, ai buoni necessità. Poiché sarebbe peggio se gli
operatori d’ingiustizie dominassero sui più giusti, non
sconvenientemente si considera un benessere anche
questo. Indubbiamente però è maggiore prosperità
avere un buon vicino in pace che assoggettare un cat-
tivo vicino in guerra. È un cattivo auspicio desiderare
di avere chi odiare e temere perché vi sia chi vincere.
Se 55 dunque i Romani, muovendo guerre giuste, non
contrarie all’umanità e all’equità, hanno potuto con-
quistare un impero così grande 56, forse si doveva

cioè a norma di un ordinamento della giusta ragione, han punito


i delinquenti con la morte».
54 I pagani che esaltavano l’estensione territoriale dell’Im-
pero romano e l’attribuivano al favore degli dèi.
55 Cioè: ammesso ma non concesso.
56 Come sostenevano i difensori dell’imperialismo romano.

186
onorare come dea anche l’ingiustizia degli altri 57. Ve-
diamo infatti che l’ingiustizia ha molto collaborato al-
l’ingrandimento del dominio perché rendeva oltrag-
giosi coloro con cui far guerre giuste e incrementare
così l’impero.
(De civitate Dei IV, 15)

Dopo lo Stato ovvero la città viene il mondo inte-


ro, nel quale i filosofi 58 riconoscono il terzo livello
dell’umana convivenza, iniziando dalla casa e da essa
alla città e poi giungendo fino al mondo. Esso certa-
mente, come l’oceano, quanto è più grande, tanto è
più denso di pericoli. Prima di tutto nel mondo la di-
versità delle lingue rende estraneo un uomo all’altro.
Se due s’incontrano e non possano passare oltre ma
siano costretti da una qualche circostanza a rimanere
insieme e nessuno dei due conosca la lingua dell’altro,
i muti animali, anche se di specie diversa, s’intendono
più facilmente di loro, sebbene entrambi siano uomi-
ni. Infatti poiché soltanto per la diversità della lingua
non possono manifestare l’uno all’altro i propri pen-
sieri, non giova nulla a stabilire rapporti una grande

La questione della legittimità del dominio sugli altri popoli era


stata posta dalle famose antilogie sulla giustizia di Carneade, tenu-
te pubblicamente a Roma in occasione della sua ambasceria nel
155 a.C.
57 Agostino ironizza sul politeismo pagano: se i Romani
hanno venerato come dee persino la Paura e la Febbre (cf. civ. II,
14, 2; IV, 23, 2), perché non divinizzare anche l’ingiustizia dei ne-
mici, che, a quanto dicono i Romani stessi, fu la causa delle loro
guerre di conquista?
58 Gli Stoici: cf. SVF II, 1127-1131; III, 323.333-339.

187
affinità di natura al punto che un uomo sta più volen-
tieri col proprio cane anziché con un estraneo. Ma, si
obietta, si è avuto un ordinamento in modo che lo
Stato dominatore, mediante la pace della convivenza,
non solo ha imposto la soggezione ai popoli sottomes-
si, ma anche la lingua e riguardo ad essa non manca-
va, anzi era a disposizione un gran numero d’inse-
gnanti di lingua. È vero, ma questo risultato è stato
raggiunto con molte e immani guerre, con grande
scempio di uomini e grande spargimento di sangue
umano. Trascorsi questi avvenimenti, non ebbe termi-
ne la sventura di simili mali. Difatti non sono manca-
ti e non mancano come nemici i popoli stranieri, con-
tro i quali sempre sono state condotte e si conducono
guerre 59. Però anche l’ampiezza del dominio ha su-
scitato guerre di una peggiore specie, cioè sociali e ci-
vili 60, dalle quali il genere umano è più miserevol-
mente sconvolto, tanto mentre si guerreggia per so-
spenderle una buona volta come quando si teme che
scoppino di nuovo. Se io volessi trattare, come con-
viene, i molti e svariati massacri, le spietate e funeste
vicissitudini di tale calamità, sebbene non lo potrei
mai come l’argomento richiede, non vi sarebbe un li-
mite a una prolungata trattazione. Ma il saggio, dico-
no, dovrà sostenere una guerra giusta. Quasi che, se si

59 In passato, ad es. i Cartaginesi (cf. civ. III, 18-21); all’epo-


ca di Agostino, i “barbari”.
60 Le guerre sociali furono combattute da Roma dal 90
all’88 a.C. contro gli alleati (socii) italici. Le guerre civili videro
come protagonisti prima Mario e Silla (88-82 a.C.), poi Pompeo e
Cesare (60-53 a.C.), infine Ottaviano e Antonio (44-31 a.C.). Ago-
stino le ricorda in civ. III, 23-30.

188
ricorda di essere uomo, non dovrà affliggersi che gli
viene imposta la necessità di guerre giuste perché, se
non fossero giuste, non dovrebbe sostenerle e perciò
per il saggio non si avrebbero guerre. È infatti l’ingiu-
stizia del nemico che obbliga il saggio ad accettare
guerre giuste e l’uomo deve dolersi di questa ingiusti-
zia perché appartiene agli uomini, sebbene da essa
non dovrebbe sorgere la necessità di far guerra 61.
Chiunque pertanto considera con tristezza queste
sventure così grandi, così orribili, così spietate, deve
ammetterne l’infelice condizione; chiunque invece o
le subisce o le giudica senza tristezza della coscienza,
molto più infelicemente si ritiene felice perché ha per-
duto il sentimento d’umanità 62.
(De civitate Dei XIX, 7)

b.3) Il servizio militare


è lecito in funzione della pace

Non credere che non possa piacere a Dio nessu-


no il quale faccia il soldato tra le armi destinate alla
guerra 63. Era guerriero il santo re David, al quale il

61 L’ingiustizia degli altri popoli può rendere legittima la


guerra, ma non è detto che la renda necessaria. Bisogna al contra-
rio fare ogni tentativo per risolvere pacificamente le controversie
tra le nazioni. Cf. ep. 229, 2.
62 Gli Stoici affermavano che il saggio non può mai provare
tristezza (cf. civ. XIV, 8, 1.3). Agostino giudica disumano il loro
ideale di impassibilità: cf. civ. XIV, 9, 4.6.
63 Agostino scrive a Bonifacio, un generale di mercenari go-
tici ariani. L’incompatibilità tra fede cristiana e servizio militare
era stata affermata ad es. da Tertulliano nel De corona.

189
Signore diede una sì grande testimonianza. Erano
guerrieri moltissimi altri giusti di quel tempo. Era
soldato anche quel centurione che al Signore disse:
Non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’
una sola parola ed il mio attendente guarirà. Infatti
sono anch’io rivestito d’autorità avendo dei soldati ai
miei ordini e dico a uno: «Va’» ed egli va; ad un altro:
«Vieni», ed egli viene; e al mio attendente: «Fa’ ciò»,
ed egli lo fa. Per conseguenza il Signore disse di lui:
In verità vi dico che non ho trovato tanta fede in Israe-
le (Mt 8, 8-10; Lc 7, 6-9). Era soldato anche quel
Cornelio al quale l’Angelo rivolse le seguenti parole:
Cornelio, gradite sono state le tue elemosine ed esau-
dite le tue preghiere (At 10, 4.31), quando lo esortò
di mandare a chiamare l’apostolo Pietro, per sentire
che cosa doveva fare. Mandò infatti un soldato timo-
rato di Dio dall’Apostolo per pregarlo di recarsi da
lui (cf. At 10, 5-8.32-33). Erano soldati anche quelli
ch’erano andati a ricevere il battesimo da Giovanni
(cf. Lc 3, 14), il santo precursore del Signore e ami-
co dello Sposo, del quale proprio il Signore disse:
Tra i nati di donna non è sorto nessuno più grande di
Giovanni Battista (Mt 11, 11). Quei soldati gli aveva-
no chiesto che cosa dovessero fare ed egli rispose:
Non fate vessazioni ad alcuno, non fate false denunce
ed accontentatevi della vostra paga (Lc 3, 14). Egli
dunque non proibì loro di fare il soldato sotto le ar-
mi, dal momento che raccomandò loro di acconten-
tarsi della loro paga 64.

64 Cf. ep. 138, 2, 15.


190
È bensì vero che presso Dio sono tenuti in mag-
giore considerazione coloro i quali, rinunciando a
tutte codeste occupazioni mondane, lo servono an-
che nella perfetta continenza della castità, ma ognuno
– come afferma l’Apostolo – ha il proprio dono da
Dio, chi in una maniera, chi in un’altra (1 Cor 7, 7).
Altri dunque combattono contro i nemici invisibili
pregando per voi, mentre voi spendete le vostre ener-
gie combattendo per loro contro i barbari visibili.
Volesse però il cielo che tutti avessimo un’unica fede,
poiché allora saremmo angustiati di meno e vince-
remmo più facilmente il demonio con gli angeli suoi.
Ma poiché in questo mondo è inevitabile che i citta-
dini del regno dei cieli vivano in mezzo alle prove e
alle avversità insieme agli erranti e agli empi per esse-
re tribolati e purificati come l’oro nel crogiuolo (cf.
Sap 3, 5-6), per questo non dobbiamo pretendere di
vivere solo in compagnia dei buoni e dei giusti prima
del tempo, per meritare di ricevere questo premio a
suo tempo.
Quando perciò indossi le armi per combattere,
pensa anzitutto che la tua stessa vigoria fisica è un
dono di Dio; così facendo non ti passerà neppure per
la mente di abusare d’un dono di Dio contro di lui.
La parola data, infatti, si deve mantenere anche ver-
so il nemico contro il quale si fa guerra; quanto più
dev’essere mantenuta verso l’amico per il quale si
combatte! La pace deve essere nella volontà e la
guerra solo una necessità, affinché Dio ci liberi dalla
necessità e ci conservi nella pace! Infatti non si cerca
la pace per provocare la guerra, ma si fa la guerra per
ottenere la pace! Anche facendo la guerra sii dunque

191
ispirato dalla pace in modo che, vincendo, tu possa
condurre al bene della pace coloro che tu sconfiggi.
Beati i pacificatori – dice il Signore – perché saranno
chiamati figli di Dio (Mt 5, 9). Ora, se la pace umana
è tanto dolce a causa della salvezza temporale dei
mortali, quanto più dolce è la pace divina, a causa
dell’eterna salvezza degli Angeli! Sia pertanto la ne-
cessità e non la volontà il motivo per togliere di mez-
zo il nemico che combatte. Allo stesso modo che si
usa la violenza con chi si ribella e resiste, così deve
usarsi misericordia con chi è ormai vinto o prigionie-
ro, soprattutto se non c’è da temere, nei suoi riguar-
di, che turbi la pace.
(Epistulae 189, 4-6)

b.4) È più glorioso mantenere la pace con la pace


piuttosto che con la guerra

Sono certamente grandi, ed hanno una loro glo-


ria, gli uomini di guerra dotati non solo di molto co-
raggio, ma, ciò che è un titolo legittimo di gloria, ani-
mati anche da grande fede. Si deve ai loro disagi e ai
rischi ch’essi corrono se, con l’aiuto di Dio che ci pro-
tegge e ci soccorre, vengono domati nemici accaniti,
si procura la pace allo Stato e alle province, ricondot-
te all’ordine e alla tranquillità. Ma titolo più grande di
gloria è proprio quello di uccidere la guerra con la pa-
rola, anziché uccidere gli uomini con la spada, e pro-
curare o mantenere la pace con la pace e non già con
la guerra. Certo, anche quelli che combattono, se so-
no buoni, cercano senza dubbio la pace, ma a costo di

192
spargere il sangue. Tu 65, al contrario, sei stato inviato
proprio per impedire che si cerchi di spargere il san-
gue di alcuno. Mentre quindi gli altri soggiacciono a
un’evenienza inevitabile, tu hai una missione invidia-
bile. Rallègrati dunque, illustre signore e figlio carissi-
mo in Cristo, di questo tuo bene sì grande e verace,
rallegratene in Dio dal quale hai avuto la grazia d’es-
sere tale e di assumere una sì importante missione.
Confermi Dio ciò che per tuo mezzo ha fatto per noi
(cf. Sal 68 [67], 29).
(Epistulae 229, 2)

b.5) «Pratica la giustizia e avrai la pace»

Pertanto la misericordia e la verità si sono corse


incontro; la giustizia e la pace si scambiarono baci (Sal
85 [84], 11). Pratica la giustizia e avrai la pace; e in
tal modo giustizia e pace si scambieranno baci. Che
se al contrario non amerai la giustizia, non potrai
conseguire la pace: poiché queste due, giustizia e pa-
ce, si amano tra loro e si danno dei baci; per cui so-
lo chi pratica la giustizia consegue la pace che bacia
la giustizia. Sono due amiche! Tu ne vorresti forse
una, ma non pratichi l’altra. Difatti non c’è nessuno
che rifugga dal volere la pace, mentre al contrario
non tutti sono disposti a praticare la giustizia. Chie-
di agli uomini se vogliano o no la pace. Tutta l’uma-

65 Dario, un personaggio d’alto rango inviato in Africa in


missione di pace. Agostino gli invia questa lettera probabilmente
nel 428, alla vigilia dell’invasione vandala.

193
nità, senza eccezioni, ti risponderà a una voce che se
l’augura, che vi aspira, che la vuole e l’ama. Ma allo-
ra ama anche la giustizia! Poiché giustizia e pace so-
no amiche fra loro e si scambiano baci. Se non sen-
tirai amore per la sua amica, la pace non ti amerà né
potrà venire a te. E infatti che c’è di eccezionale nel-
l’amare la pace? Chiunque, per quanto si voglia per-
verso, aspira alla pace, essendo la pace una cosa so-
vranamente buona 66. Esegui però le opere di giusti-
zia: tenendo presente che giustizia e pace si baciano,
non sono in discordia. Perché vuoi porti in contra-
sto con la giustizia? Eccoti, ad esempio, la giustizia
che ti dice di non rubare, ma tu non le dài retta; di
non commettere adulterio, e fai il sordo; di non fare
agli altri ciò che a te non piacerebbe subire 67; di non
dire, nei riguardi del prossimo, le cose che non vor-
resti fossero dette sul tuo conto. Ti dice la pace: «Tu
sei un nemico della mia amica. Come osi venire in
cerca di me? Io sono amica della giustizia, né fo lega
con chi trovo nemico della mia amica». Vuoi dunque
conseguire la pace? Pratica la giustizia! Come t’esor-
ta anche un altro salmo: Tienti lontano dal male e
opera il bene (Sal 34 [33], 15), che è la stessa cosa di
amare la giustizia. Una volta che sarai riuscito a te-
nerti lontano dal male e a praticare il bene, va’ pure

66 Cf. civ. XIX, 12, 1. Sul tema della pace, cf. il vol. 31 del-
la PBA, a cura di R. Piccolomini (2000).
67 Come prescrive la regola d’oro (cf. Tb 4, 15 e spec. 24,
279): cf. ord. II, 8, 25; en. Ps. 32, II 1, 6; 35, 1; 57, 1-2; doctr. chr.
III, 14, 22; s. 9, 14-16; 260; 306, 10, 9; s. novi 19, 7; Io. ev. tr. 49,
12; ep. 157, 3, 15; c. Iul. V, 7, 30.

194
alla ricerca della pace e mettiti sulle orme di lei (Sal 34
[33], 15). Non durerai gran fatica a ricercarla: lei
stessa ti muoverà incontro, al fine di scambiare il suo
bacio con la giustizia.
(Enarrationes in Psalmos 84, 12)

195
IV.
LA GIUSTIZIA IN DIO

1. DIO FONTE DELLA GIUSTIZIA

a) In Dio non c’è ingiustizia

Bisogna però ritenere con fermissima fede che


Dio non fa nulla d’ingiusto e che non c’è alcuna natu-
ra che non debba a Dio ciò che è.
(De diversis quaestionibus octoginta tribus 68, 6)

Infatti dev’essere fissa e irremovibile nel vostro


cuore la convinzione che non vi può essere ingiustizia
presso Dio (cf. Rm 9, 14).
(De gratia et libero arbitrio 21, 43)

b) In Dio la fonte stessa della giustizia

C’è forse dell’iniquità presso Dio? Assolutamente


no (Rm 9, 14). Imprimiti questo nel cuore; il nemico
non cancelli questa convinzione dal tuo pensiero. Dio
può fare delle cose di cui tu non capisci il motivo; ma
non può fare nulla di ingiusto, poiché presso di lui non
c’è iniquità. Tu rimproveri Dio come se fosse ingiusto

196
(parlo con te, stammi attento un minuto). Non lo rim-
provereresti d’ingiustizia se tu non avessi un’idea del-
la giustizia. Non può gridare contro l’ingiustizia uno
che non sa che cosa sia la giustizia, in base alla quale
condanna ciò che è ingiusto. Come sai, infatti, che una
cosa è ingiusta, se non conosci che cosa sia la giustizia?
E poi, se per caso fosse giusto anche ciò che definisci
ingiusto? Non sia mai! – rispondi – è ingiusto. E gridi
come se tu lo vedessi con gli occhi della carne. Tu ve-
di che una cosa è ingiusta in riferimento a una certa
norma di giustizia, sulla quale misuri ciò che ti sembra
sconveniente. Vedendo che una cosa non corrisponde
alla norma che ritieni esatta, la condanni, come un ar-
tefice che distingue ciò che va bene da ciò che va ma-
le. Ebbene, io ti chiedo: Come vedi che questa cosa è
giusta? Come – ripeto – vedi che questo è giusto e, ve-
dendolo, condanni ciò che è ingiusto? Donde viene
quel non so che di cui è irrorata la tua anima, pur co-
sì nebulosa in tante sue parti, e che brilla nel tuo spiri-
to? Donde deriva questo concetto di giustizia? Non
avrà forse una sua fonte? O deriverà, forse, da te ciò
che è giusto? O tu stesso puoi darti una giustizia? Nes-
suno dà a se stesso ciò che non possiede! Orbene, sic-
come tu sei ingiusto, non potrai in alcun modo essere
giusto se non volgendoti a una certa giustizia di natu-
ra sua permanente. Finché sarai lontano da lei, sarai
ingiusto; se ti avvicinerai a lei sarai giusto. Se tu te ne
allontani, essa non viene meno; e se tu ti avvicini, essa
non cresce. Dove è, dunque, questa giustizia? Cerca in
terra! Non c’è. Cercare la giustizia non è come cerca-
re oro o pietre preziose. Cerca nel mare, cerca nelle
nubi, cerca nelle stelle, cerca negli angeli! Oh! in que-

197
sti, sì, la trovi; ma anche essi la bevono dalla sua fonte.
Perché la giustizia degli angeli la trovi, sì, in tutti, ma
deriva da uno solo. Guarda dunque! Va’ oltre, va’ las-
sù ove Dio ha parlato una volta sola. Ivi troverai la fon-
te della giustizia, come anche la fonte della vita, perché
presso di te è la fonte della vita (Sal 36 [35], 10). Tu
dunque, bagnato appena da una esigua goccia, ti met-
ti a giudicare il giusto e l’ingiusto. E ardiresti pensare
che in Dio vi sia dell’ingiustizia, mentre è da lui che
scaturisce la tua giustizia come dalla sua fonte? quella
giustizia che dà a te il senso del giusto, pur essendo tu,
per tanti aspetti, così iniquo e sciocco! In Dio si trova
la fonte della giustizia 1. Non cercare l’ingiustizia là
dove c’è luce senza ombra. Può certamente essere a
te nascosto l’uno o l’altro dei problemi. Ma, se un
problema ti è nascosto, prenditela con la tua ignoran-
za, e riconosci che cosa tu sia. Sta’ attento a queste
due cose: Che la potenza è di Dio, e tua, Signore, è la
misericordia (Sal 62 [61], 12). Non cercare le cose più
forti di te; non scrutare le cose più profonde di te; ma
pensa sempre le cose che ti ha comandate il Signore (Sir
3, 21-22). Poiché fra le cose che Dio ci ha comanda-
te rientrano anche queste due: Che di Dio è la poten-
za, e tua, o Signore, la misericordia. Non temere il ne-

1 Cf. s. 27, 3: «A te pare di dir cose giuste… O che quella


fonte della giustizia s’è seccata? Se dici cose giuste, chi ti ha dato
questo potere? O dici cose ingiuste, e allora dovresti tacere; o di-
ci cose giuste, e questo lo puoi solo perché ti è derivato dalla fon-
te della giustizia. Ora, la fonte della giustizia chi è se non Dio? Po-
ni dunque il primo fondamento della fede: C’è forse dell’ingiusti-
zia in Dio? (Rm 9, 14). A te può essere celata la giustizia, presso
di lui non può esserci ingiustizia». Cf. anche s. 61, 3, 4; 113, 2, 2.

198
mico 2! Egli fa solo ciò che gli è stato concesso. Temi
colui che possiede il sommo potere; temi colui che fa
tutto ciò che vuole, e che non fa niente ingiustamente:
colui le cui opere, qualunque siano, sono giuste. Cre-
devamo ingiusta non so quale cosa. Se è stato Dio a
farla, devi credere che essa è giusta.
(Enarrationes in Psalmos 61, 21)

2. LA «TEODICEA» AGOSTINIANA

a) Sventure dei buoni e prosperità dei malvagi

a.1) «Il Signore corregge colui che ama»

Molti, mormorando contro le disposizioni di


Dio, fanno obiezioni quando vedono i giusti sostene-
re spesso in questa vita gravi molestie, come se a loro
non giovasse nulla servire Dio, perché o subiscono av-
versità comuni a tutti, e indifferentemente nel corpo e
nei danni materiali, nelle ingiurie e in tutte le altre co-
se che i mortali giudicano mali, o addirittura peggiori
a causa della parola di Dio e della sua giustizia, che,
sgradite ai peccatori, provocano contro i suoi predica-
tori reazioni violente, insidie o odi. A costoro bisogna
rispondere che se la vita umana fosse solo questa, non
parrebbe affatto assurdo che non fosse di alcuna uti-
lità o anzi risultasse dannoso vivere rettamente. Seb-
bene non siano mancati uomini che hanno scambiato
la dolcezza della giustizia e della sua gioia interiore

2 Cioè Satana.

199
con tutte le fatiche e le molestie materiali, che l’uma-
nità sopporta per la sua condizione mortale, e anche
con tutto ciò che con grave offesa viene mosso a cau-
sa della stessa giustizia contro coloro che vivono ret-
tamente, tanto da superare, anche senza la speranza
della vita eterna, i tormenti per amore della verità, più
gioiosamente e lietamente dei lussuriosi che gozzovi-
gliano nell’ebbrezza dei piaceri 3.
A coloro tuttavia, che ritengono Dio ingiusto,
perché vedono i giusti nei dolori e nelle sofferenze, o
se forse non osano chiamare Dio ingiusto, affermano
che o non si cura delle vicende umane oppure che ha
stabilito una volta per sempre la fatalità del destino,
contro il quale anch’egli non fa niente, perché non si
creda che per incostanza venga turbato l’ordine delle
cose da lui stabilito, o pensino a qualcos’altro che im-
pedisce a Dio di risparmiare ai giusti questi mali, bi-
sogna dire che non ci sarebbe stata per gli uomini al-
cuna giustizia, se Dio non si preoccupasse delle vicen-
de umane. Infatti tutta questa giustizia degli uomini,
che l’anima umana può conservare facendo il bene e
perdere con il peccato, non sarebbe impressa nell’ani-
ma se non ci fosse una giustizia immutabile, scoperta
interamente dai giusti, quando a lei si convertono, e
perduta totalmente dai peccatori, quando si allonta-
nano dalla sua luce. Questa giustizia immutabile è di

3 L’esempio di coloro che, pur non nutrendo la speranza di


un premio dopo la morte, hanno sopportato patimenti e fastidi
per rimanere fedeli ai loro ideali di probità, attesta che la conten-
tezza derivante da una coscienza tranquilla sarebbe comunque
preferibile ai piaceri materiali, anche se la nostra esistenza non
fosse destinata a continuare nell’aldilà.

200
sicuro quella di Dio: egli non la comunicherebbe per
illuminare quanti si convertono a lui, se non si curas-
se delle vicende umane. Se poi permettesse che i giu-
sti soffrano gravi tormenti per non volere andare con-
tro l’ordine da lui stabilito, neppure lui sarebbe giu-
sto, non perché vuole mantenere il suo ordine ma per-
ché ha stabilito l’ordine delle cose in modo da casti-
gare i giusti con pene immeritate. Chi poi ritiene che
Dio non può, almeno in parte, allontanare i mali che
affliggono i giusti, è tanto stolto da non comprendere
che, come è blasfemo affermare che Dio è ingiusto, è
altrettanto blasfemo negare che è onnipotente.
Stabiliti rapidamente questi punti della questione
in esame, è grandissima empietà dubitare che Dio stes-
so sia insieme giusto e onnipotente. Il motivo più pro-
babile è che le prove, a cui sono sottoposti i giusti in
questa vita, tornino a loro vantaggio. Altra è infatti la
giustizia attuale degli uomini per meritare la vita eter-
na, altra doveva essere quella dell’uomo costituito nel
paradiso per conservare e non perdere la stessa salvez-
za eterna 4. Come infatti la giustizia divina consiste nel
comandare ciò che è utile e nel distribuire pene ai di-

4 I progenitori Adamo ed Eva erano stati costituiti in uno


stato di “giustizia originale”, una condizione di armonia interiore,
reciproca e con l’intera creazione. A loro sarebbe bastato conser-
varla per non essere sottoposti né alla morte né alla sofferenza.
Con il peccato invece la persero e ne privarono i loro discendenti
(questa privazione è il “peccato originale”). Il Battesimo cancella il
peccato orginale ma non le sue conseguenze, sicché la condizione
del battezzato, in questa vita, non è la stessa che i progenitori pos-
sedevano prima del peccato: essi potevano non morire, noi no. La
distinzione tra posse non mori e non posse non mori è fondamenta-

201
sobbedienti e premi agli obbedienti, così la giustizia
dell’uomo consiste nell’obbedire ai precetti salutari 5.
Ma siccome la felicità è nell’animo come la salute nel
corpo e come per lo stesso corpo altra è la medicina
prescritta per mantenere la salute e altra quella per re-
cuperare la salute perduta, così per la condizione gene-
rale dell’uomo altri sono stati i precetti dati allora per
non perdere l’immortalità, altri sono quelli che ora so-
no dati per recuperarla. E come per la salute fisica, se
qualcuno, rifiutando le prescrizioni del medico, con le
quali si mantiene la buona salute, cade malato, riceve
altre prescrizioni per poter guarire. Queste però spes-
so non bastano se la malattia è tale da richiedere da
parte del medico certi interventi il più delle volte aspri
e dolorosi, che sono tuttavia necessari per recuperare la
salute, sicché accade che l’uomo, sebbene già obbedi-
sca al medico, soffra ancora di dolori non solo a causa
della malattia, non ancora guarita, ma anche dei tratta-
menti della medicina; così l’uomo, caduto per il pecca-
to nella mortalità piena di malanni e di disgrazie di
questa vita, perché ha rifiutato di obbedire al primo
precetto, col quale avrebbe custodito e conservato la
salvezza eterna, da malato ha ricevuto altri precetti, ob-
bedendo ai quali si può dire senza dubbio che vive nel-
la giustizia, anche se è soggetto ancora alle tribolazioni
che provengono dalla stessa malattia, non ancora gua-
rita, o dal trattamento medico. A questo trattamento si
riferisce il testo: perché il Signore corregge colui che ama

le nella teologia agostiniana del peccato originale: cf. l’Introduzio-


ne generale di A. Trapè in NBA XVII/1, pp. LXI-LXV.
5 Per il rapporto tra giustizia e ubbidienza, vedi la sezione V, 2.

202
e sferza chiunque riconosce come figlio (Pr 3, 12; Eb 12,
6) 6. Coloro poi che, disubbidendo a precetti tanto sa-
lutari, vivono da iniqui, accrescono grandemente i pro-
pri malanni: o da essi traggono innumerevoli sofferen-
ze, fatiche e dolori anche in questa vita, oppure vengo-
no misericordiosamente avvertiti del male in cui si tro-
vano anche dalle pene subite, di modo che ciò che non
è sano venga toccato e colpito affinché, ricorrendo alla
medicina, siano sanati dalla grazia di Dio 7. Se poi
avranno disprezzato tutto ciò, ossia i richiami delle pa-
role e dei dolori, meriteranno, al termine di questa vi-
ta, la giusta dannazione eterna. In conclusione può di-
re che queste cose sono ingiuste chi ritiene che esista
solo questa vita mortale, che ora conduciamo, e non
crede alle realtà future divinamente predicate: costui
subirà i gravissimi castighi dell’ostinazione dei peccati
e della sua infedeltà.
(De diversis quaestionibus octoginta tribus 82, 1-3)

a.2) Sbagliato confrontare le nostre sorti


con quelle di chi riteniamo peggiore di noi

Non inorgoglitevi, dunque, e non proferite cose in-


giuste contro Dio (Sal 75 [74], 6). Ascoltate ormai la

6 Per i giusti le sofferenze o rappresentano i postumi del


peccato da cui sono stati guariti, o hanno un valore terapeutico,
servono cioè a ottenere la loro piena guarigione spirituale.
7 Per gli ingiusti le sofferenze o sono le conseguenze inevi-
tabili dei peccati che hanno voluto commettere, oppure sono de-
gli avvertimenti da parte di Dio affinché si ravvedano ed evitino
un male maggiore.

203
voce dei molti. L’ascolti ciascuno e ne sia compunto.
Che cosa sono soliti dire gli uomini? «Ma che davve-
ro Dio giudica le cose umane? Ed è questo il giudizio
di Dio?». Oppure: «Veramente si occupa Dio di ciò
che accade in terra? Sono tanti i malvagi che traboc-
cano di felicità, mentre tanti innocenti sono schiaccia-
ti dalle sofferenze». Ma ecco che capita a quest’iniquo
un qualche male (è Dio che lo castiga per farlo ravve-
dere), e costui rientra nella sua coscienza. Sa che per
i suoi peccati egli merita effettivamente di soffrire
qualche cosa. E allora cosa dice contro Dio? Dato che
non può dire: «Sono giusto», che cosa dirà? Dice: «Vi
sono uomini peggiori di me, e tuttavia non soffrono le
stesse mie tribolazioni». Ecco un’ingiustizia che gli
uomini proferiscono contro Dio. Rendetevi conto di
quanto sia ingiusto questo comportamento: per vole-
re apparire giusto lui stesso, l’uomo incolpa Dio, qua-
si fosse ingiusto. Colui che dice: «Soffro ingiustamen-
te ciò che soffro» e pensa davvero di soffrire immeri-
tatamente, mentre chiama giusto se stesso accusa
d’ingiustizia Dio per il cui volere egli soffre. Vi scon-
giuro, fratelli miei! Considerate se sia ragionevole cre-
dere che Dio sia ingiusto e che siate giusti voi. Se,
dunque, tu parlassi in questo modo, diresti ingiustizia
contro Dio 8.
(Enarrationes in Psalmos 74, 8)

8 Ammonimenti simili a questo si possono leggere anche in


altri luoghi delle Esposizioni sui Salmi: cf. en. Ps. 63, 18; 70, 1, 14;
122, 10.

204
a.3) Nel giorno del giudizio
si paleseranno tutti gli occulti giudizi di Dio

In questa vita impariamo a tollerare con animo


sereno i mali che subiscono anche i buoni e a non so-
pravvalutare i beni che conseguono anche i cattivi e
perciò nelle circostanze, in cui non si manifesta la
giustizia di Dio, è salutare il suo insegnamento. Noi
non sappiamo in base a quale giudizio di Dio il buo-
no sia povero e il malvagio sia ricco, perché questi
goda, sebbene noi presumiamo che dovrebbe essere
afflitto da tormenti per la sua depravata condotta e
l’altro sia nel pianto, sebbene la vita lodevole sugge-
risce che dovrebbe essere nella gioia; non sappiamo
come l’innocente esca dal tribunale, non solo inven-
dicato ma anche condannato, o perché angariato dal
sopruso del giudice o perché travolto da false testi-
monianze, e al contrario il suo avversario criminale
lo schernisca non solo perché impunito ma anche in-
dennizzato; non sappiamo perché il miscredente go-
da ottima salute e il credente si strugga nella malat-
tia; perché giovani sanissimi si diano al brigantaggio
e bimbi, che neanche a parole hanno potuto offen-
dere qualcuno, siano afflitti dalla violenza di varie
infermità; perché un individuo utile agli interessi
umani sia rapito da una morte immatura e un altro,
che all’apparenza non sarebbe dovuto neanche na-
scere, viva per di più molto a lungo; perché uno zep-
po di delitti sia elevato a cariche onorifiche e invece
il buio di un’esistenza ignobile occulti un uomo sen-
za macchia. E vi sono altri casi del genere che è im-

205
possibile elencare e calcolare 9. Facciamo l’ipotesi
che simili evenienze, nel loro quasi non senso, si ri-
petano, sicché in questa vita, in cui, come dice un
Salmo: L’uomo è divenuto come un’apparenza e i suoi
giorni trascorrono come un’ombra (Sal 144 [143], 4),
soltanto i cattivi conseguano questi beni effimeri e
soltanto i buoni subiscano questi mali. Il fatto si po-
trebbe riferire al giusto o anche benevolo giudizio di
Dio in modo che coloro, i quali non conseguiranno i
beni eterni che rendono felici, si illudano secondo la
loro malvagità o siano compensati secondo la mise-
ricordia di Dio con i beni nel tempo; invece coloro,
che non dovranno subire le pene eterne, siano afflit-
ti dai mali nel tempo a causa dei loro peccati di qual-
siasi specie ed entità e siano stimolati dai mali a po-
tenziare le virtù. Ma poiché in questa vita non solo i
buoni sono nel male e i cattivi nel bene, e ciò sembra
ingiusto, ma spesso anche ai cattivi tocca in sorte il
male e ai buoni il bene, più imperscrutabili divengo-
no i suoi giudizi e misteriose le sue vie (Rm 11, 33).
Noi dunque ignoriamo con quale giudizio Dio, in
cui si ha somma potenza, sapienza e giustizia e non
si ha alcuna debolezza, insipienza e ingiustizia, ope-
ri tali fatti o permetta che avvengano. Impariamo
tuttavia a nostro vantaggio a non sopravvalutare il
bene e il male, che osserviamo comuni ai buoni e ai
cattivi, a perseguire il bene che è proprio dei buoni
ed evitare il male che è proprio dei cattivi. Quando
poi giungeremo al giudizio di Dio, il cui tempo fin

9 Cf. ord. II, 5, 14.


206
d’ora si denomina propriamente giorno del giudizio
e talora giorno del Signore, si manifesteranno som-
mamente giuste non solo le sentenze di giudizio allo-
ra emesse, ma tutte quelle emesse dal principio e tut-
te quelle che fino a quel tempo saranno emesse. Al-
lora si manifesterà anche per quale giusto giudizio di
Dio avviene che attualmente molti e quasi tutti i giu-
sti giudizi di Dio siano un mistero per la conoscenza
e il pensiero dei mortali, sebbene non è un mistero
per la fede dei credenti che è giusto sia un mistero.
(De civitate Dei XX, 2)

b) L’uccisione dell’innocente

Dunque – dirai tu – se uno uccide un innocente,


commette un’azione giusta o ingiusta? Certamente
ingiusta. E perché allora Dio lo permette? Osserva
prima di tutto, però, quanti altri doveri tu abbia:
Spezza il tuo pane a chi ha fame e porta nella tua casa
il misero senza tetto; se vedrai qualche ignudo, vestilo
(Is 58, 7). Questa è la tua giustizia. Questo ti ordina
il Signore: Purificatevi, siate puri, fate scomparire il
male dal vostro cuore e dal mio sguardo. Imparate a fa-
re il bene; giudicate in favore dell’orfano e della vedo-
va; e poi venite e discutiamo, dice il Signore (Is 1, 16-
18). Tu vuoi discutere sul motivo per cui Dio abbia
permesso il delitto prima di praticare quei doveri che
ti renderebbero degno di intavolare una simile di-
scussione. O uomo, io non sono in grado di palesarti
il disegno di Dio; tuttavia ti dico che l’uomo che ha
ucciso l’innocente ha commesso un’azione ingiusta,

207
la quale non sarebbe accaduta se Dio non l’avesse
permessa. Tuttavia, sebbene l’omicida abbia fatto
una cosa ingiusta, non per questo Dio l’ha permessa
ingiustamente. Sia pure nascosta la causa per la qua-
le è stato ucciso quell’uomo, la cui sorte ti sconvolge
l’animo e la cui innocenza ti commuove. Potrei infat-
ti risponderti subito: Non sarebbe stato ucciso se non
fosse stato colpevole, sebbene tu lo consideri inno-
cente. È, questa, un’affermazione che, così alla svel-
ta, potrei buttare là. Tu infatti non hai scrutato il suo
cuore né esaminate le sue azioni né scandagliato i
suoi pensieri, per potermi dimostrare che è stato uc-
ciso davvero ingiustamente. Potrei dunque rispon-
derti facilmente. Ma mi si potrebbe muovere obiezio-
ne a partire dal caso di un certo giusto, di uno che era
giusto senza discussione e senza alcun dubbio. Egli
non aveva alcun peccato; eppure venne ucciso dai
peccatori, fu tradito da un peccatore. Mi si può rin-
facciare, cioè, il caso dello stesso Cristo Signore, del
quale non possiamo dire che fosse reo d’ingiustizia,
egli che pagava debiti che non aveva contratti (cf. Sal
69 [68], 5). Che dirò, dunque, a proposito di Cristo?
È proprio di lui che voglio trattare, mi dici tu. E di
lui ti rispondo. Tu mi proponi un quesito sul Cristo;
ed io tale quesito [così circoscritto] ti risolvo. È que-
sto un caso in cui conosciamo quale fosse il disegno
di Dio: disegno che noi non avremmo conosciuto, se
egli non ce lo avesse rivelato. Pertanto, una volta che
ti è noto il disegno per il quale Dio ha permesso che
il suo Figlio innocente fosse ucciso dagli ingiusti e
questo decreto ti sarà piaciuto (e non potrà non pia-
certi, se sei giusto), dovrai ritenere per certo che, an-

208
che nei confronti degli altri, Dio si comporta con
[analogo] proposito, anche se questo ti è nascosto.
Sì, fratelli, era necessario il sangue del giusto perché
fosse cassata la sentenza che condannava i peccatori.
Era a noi necessario un esempio di pazienza e di
umiltà; era necessario il segno della croce per scon-
figgere il diavolo e i suoi angeli (cf. Col 2, 14-15). La
passione del Signore nostro era a noi necessaria; in-
fatti, attraverso la passione del Signore, è stato riscat-
tato il mondo. Quanti beni ci ha arrecati la passione
del Signore! Eppure la passione di questo giusto non
si sarebbe compiuta se non ci fossero stati gli iniqui
che uccisero il Signore. E allora? Forse che il bene
che a noi è derivato dalla passione del Signore lo si
deve attribuire agli empi che uccisero il Cristo? Asso-
lutamente no. Essi vollero uccidere, Dio lo permise.
Essi sarebbero stati colpevoli anche se ne avessero
avuto solo l’intenzione; quanto a Dio, però, egli non
avrebbe permesso il delitto se non fosse stato giusto
[permetterlo]. Poni il caso che non avessero potuto
portare a termine il loro delitto, ma lo avessero sol-
tanto voluto: essi sarebbero stati ugualmente ingiusti,
ugualmente omicidi. Chi potrebbe dubitarne? Tanto
è vero che il Signore interroga il giusto e l’empio (Sal
11 [10], 5); e l’empio sarà interrogato nei suoi pensie-
ri (Sap 1, 9). Dio vede, dunque, ciò che ciascuno vuo-
le, non soltanto ciò che ciascuno riesce a compiere.
Ne consegue che, se i giudei avessero voluto uccide-
re il Cristo ma non fossero riusciti nell’intento (quin-
di di fatto non lo avessero ucciso), essi sarebbero ri-
masti ugualmente colpevoli, mentre tu non avresti
avuto i vantaggi della passione di Cristo. L’empio

209
dunque voleva compiere azioni degne di condanna e
nel tuo interesse gli è stato permesso di realizzarle.
L’averle volute s’imputa all’ingiustizia dell’empio;
l’essergli state permesse si attribuisce al potere di
Dio. L’empio dunque ha voluto ingiustamente, Dio
ha permesso giustamente. Perciò, fratelli miei, fu cat-
tivo Giuda, il traditore di Cristo, come pure lo furo-
no i persecutori di Cristo: malvagi tutti, empi tutti,
iniqui tutti, tutti meritevoli di condanna; e tuttavia il
Padre non ha risparmiato il suo Figlio, ma per noi tut-
ti lo ha sacrificato (Rm 8, 32). Concatena tutto que-
sto, se puoi; distingui, se puoi. Sciogli a Dio i tuoi vo-
ti, quelli che le tue labbra son riuscite a distinguere
(cf. Sal 66 [65], 13-14); osserva che cosa ha fatto l’in-
giusto e che cosa ha fatto il giusto. Quello ha voluto,
questi ha permesso. Quello ingiustamente ha voluto;
questi giustamente ha permesso. L’intenzione ripro-
vevole sia condannata; la giusta permissione sia glori-
ficata. Che male fu per il Cristo l’essere messo a mor-
te? Malvagi furono certo quelli che vollero compiere
il male; ma niente di male 10 capitò a colui che essi
tormentavano. Venne uccisa una carne mortale, ma
con la morte venne uccisa la morte, e a noi venne of-
ferta una testimonianza di pazienza e presentata una
prova anticipata, come un modello, della nostra re-
surrezione. Quanti e quali benefici derivarono al giu-
sto attraverso il male compiuto dall’ingiusto! Questa
è la grandezza di Dio: essere autore del bene che tu
fai e saper ricavare il bene anche dal tuo male. Non

10 S’intende di male morale, non ovviamente di male fisico.


210
stupirti, dunque, se Dio permette il male. Lo permet-
te per un suo giudizio; lo permette entro una certa
misura, numero e peso (cf. Sap 11, 20). Presso di lui
non c’è ingiustizia. Quanto a te, vedi di appartenere
soltanto a lui, riponi in lui la tua speranza; sia lui il
tuo soccorso, la tua salvezza; in lui sia il tuo luogo si-
curo, la torre della tua fortezza. Sia lui il tuo rifugio,
e vedrai che non permetterà che tu venga tentato ol-
tre le tue capacità; anzi, con la tentazione ti darà il
mezzo per uscire vittorioso dalla prova (cf. 1 Cor 10,
13). È infatti segno della sua potenza il permettere
che tu subisca la tentazione; come è segno della sua
misericordia il non consentire che ti sopravvengano
prove più grandi di quanto tu possa tollerare. Di Dio
infatti è la potenza, e tua, Signore, è la misericordia; tu
renderai a ciascuno secondo le sue opere (Sal 62 [61],
12-13).
(Enarrationes in Psalmos 61, 22)

c) Sofferenze dei bambini e peccato originale

Infatti voi 11 non trovate in nessun modo come


dimostrare la giustizia di Dio se egli, pur non trovan-
do nei nascenti nessun peccato, nondimeno li aggrava
di un corpo corruttibile e per giunta di così grandi ca-
lamità. Sono realmente innumerevoli i mali che sof-
frono i bambini: febbre, tosse, scabbia, dolori sparsi
in tutte le membra, diarrea, vermi e altri mali da non

11 I Pelagiani.

211
potersi contare, provenienti dalla carne stessa; poi i
moltissimi patimenti degli stessi trattamenti curativi
delle malattie, e dall’esterno i colpi delle ferite, le pia-
ghe delle percosse, le incursioni dei demoni 12. Ma
voi, sapienti eretici, per non confessare il peccato ori-
ginale, siete pronti a riempire il paradiso di tali fiori 13.
Se infatti dite che nel paradiso non ci sarebbero stati
questi mali, chiedo per quale ragione essi siano nei
bambini, che non hanno, come sostenete voi, nessun
peccato in nessun modo 14. Se invece non vi vergo-
gnate di dire che anche cotesti mali sarebbero stati nel
paradiso, quali cristiani siate voi che bisogno c’è che
lo diciamo noi?
(Contra Iulianum opus imperfectum III, 48)

12 Il problema delle sofferenze dei bambini si era posto ad


Agostino sin dall’epoca del De libero arbitrio. Allora egli aveva
cercato di risolverlo considerando i tormenti dei piccoli come un
monito per correggere gli adulti e confidando in una loro com-
pensazione futura (cf. lib. arb. III, 23, 68). Una ventina d’anni do-
po, scrivendo a Girolamo, Agostino si dichiara insoddisfatto di
quella risposta, in relazione alla “nuova” questione del destino dei
bimbi morti senza battesimo e all’ipotesi creazionistica circa l’ori-
gine delle loro anime (cf. ep. 166, 7, 18-21).
13 I Pelagiani cioè consideravano la fragilità e la vulnerabi-
lità della condizione umana come un dato naturale e non come se-
gno di una natura decaduta. Ciò però significa ammettere, osser-
va Agostino, che già nel paradiso terrestre l’uomo si trovava in ta-
le stato; in uno stato, cioè, ben poco “paradisiaco”. Cf. c. Iul. imp.
III, 154; VI, 17.27. In altre parole, Agostino rifiuta (in nome del-
la giustizia divina) l’idea che la miseria umana sia stata voluta da
Dio creatore come propria della natura originaria dell’uomo.
14 Se i bambini nascessero senza alcun peccato, essi dovreb-
bero trovarsi nella stessa condizione in cui erano i progenitori pri-
ma di peccare.

212
GIULIANO 15 – E per ripetere i risultati ottenuti:
ho dimostrato con l’attestazione tanto dei precetti di
Dio, quanto dei suoi giudizi, che è nemica della giu-
stizia di Dio l’opinione della «traduce» 16.
AGOSTINO – Piuttosto è stato dimostrato e con la
testimonianza delle Scritture e con le stesse disgrazie
dei bambini, le quali non potrebbero esistere se non
nel vostro paradiso, che nemici della giustizia di Dio
siete voi perché, negando il peccato originale, ritene-
te che abbia ingiustamente imposto un grave giogo
sui figli di Adamo dal giorno della loro nascita dal se-
no materno (cf. Sir 40, 1) 17.
(Contra Iulianum opus imperfectum III, 211)

15 Nel c. Iul. imp. Agostino riporta il testo dell’Ad Florum di


Giuliano di Eclano e lo confuta passo per passo. Per la discussio-
ne tra Agostino e Giuliano sul tema della giustizia divina, cf. A.E.
MCGRATH, Divine Justice and Divine Equity in the Controversy
between Augustine and Julian of Eclanum, «The Downside Re-
view», 101 (1983), pp. 312-319.
16 Tradux peccati, cioè la trasmissione del peccato originale.
La dottrina non va confusa con il traducianesimo, inteso come la
teoria della trasmissione dell’anima umana ai figli mediante l’atto
della generazione; concezione sostenuta da Tertulliano ed elenca-
ta da Agostino come una delle possibili ipotesi sull’origine dell’a-
nima (cf. lib. arb. III, 21, 59; ep. 166, 3, 7; 9, 27).
17 Cf. c. Iul. imp. I, 3.27; II, 16.81.117.124.139.144; III, 109;
IV, 130; V, 22.64; VI, 36. A proposito di un passo simile in c. Iul.
imp. I, 27, N. Cipriani annota: «L’esigenza della giustizia sta alla
base della polemica dei due vescovi: Giuliano respinge la dottrina
del peccato originale, perché contraria alla giustizia; Agostino af-
ferma il peccato originale in nome della giustizia, perché conside-
ra i mali, che soffrono i bambini, conseguenze del peccato di Ada-
mo. Se si ereditano le pene, si deve essere coinvolti nella colpa»
(NBA XIX/1, p. 29, nota 12). Cf. anche c. Iul. imp. VI, 27: «Da
questo si ha la prova che [i bambini] sono rei, dal fatto che sono

213
d) Prescienza e castigo

Perché dunque non dovrebbe punire con la giu-


stizia le azioni che con la prescienza non condiziona a
verificarsi? Come tu infatti con la tua memoria non
determini che si siano avverati gli avvenimenti passa-
ti, così Dio con la sua prescienza non determina che
si debbano avverare gli eventi futuri. E come tu ricor-
di alcune azioni che hai compiute e tuttavia non tutte
le cose che ricordi sono azioni che hai compiute, così
Dio ha prescienza di tutte le cose, di cui è autore, ma
non è autore di tutte le cose, di cui ha prescienza. È
poi giusto punitore di tutte le azioni, di cui non è in-
giusto autore. Dunque dal momento che Dio non ef-
fettua gli eventi futuri che conosce, cerca di compren-
dere con quale giustizia Dio punisce i peccati. Se per-
tanto non dovesse retribuire la pena a coloro che pec-
cano perché prevede che peccheranno, non dovrebbe
neanche retribuire il premio a coloro che agiscono be-
ne perché prevede egualmente che agiranno bene.
Ammettiamo piuttosto che è di pertinenza della sua
prescienza che non gli sfugga un qualsiasi evento fu-
turo e della sua giustizia che il peccato, poiché si com-
mette mediante la volontà, non avvenga senza esser
punito dal suo giudizio, come non è determinato ad
avvenire dalla sua prescienza 18.
(De libero arbitrio III, 4, 11)

miseri. Giusto è infatti Dio: una verità che tu ripeti insistentemen-


te contro di te, e non lo sai. Giusto, dico, è Dio, e quindi, se non
li sapesse rei, non lascerebbe che i nascenti né nascessero miseri
né diventassero miseri».
18 Cf. civ. V, 9-10.

214
e) Eternità della pena

Alcuni di quelli, contro i quali difendiamo la Città


di Dio, ritengono ingiusto che per i peccati, sebbene
gravi, ma commessi in un breve spazio di tempo, un
individuo sia condannato a una pena eterna. Ragiona-
no come se la giustizia di una qualche legge contempli
che ciascuno sia punito per lo spazio di tempo identi-
co a quello durante il quale ha commesso l’azione di
cui è punito. Cicerone scrive che nel codice sono con-
template otto forme di pene: il risarcimento, la prigio-
ne, la flagellazione, il taglione, il marchio d’infamia,
l’esilio, la morte, la schiavitù 19. Ora nessuna di esse è
ristretta al breve spazio di tempo in corrispondenza al-
la rapidità del reato, in modo da essere punito nel bre-
ve spazio di tempo, durante il quale si accerta che è
stato commesso il reato, escluso il caso del taglione.
Questo infatti comporta che si subisca ciò che si è
commesso. Da qui la prescrizione della Legge: Occhio
per occhio, dente per dente (Es 21, 24; Lv 24, 20; Dt 19,
21). Può avvenire infatti che un individuo con il rigo-
re della punizione perda un occhio nel breve spazio di
tempo in cui egli con la malvagità della colpa lo ha
strappato all’altro. Inoltre se è ragionevole punire con
la sferza un bacio dato alla donna d’altri, non è forse
vero che chi lo ha fatto in un attimo di tempo viene fu-
stigato in uno scorrere impareggiabile di ore e la dol-
cezza di un breve piacere viene punita con un dolore
di lunga durata? Si deve forse emettere la sentenza che

19 È difficile identificare il testo ciceroniano cui Agostino si


riferisce.

215
un individuo rimanga in carcere per lo spazio di tem-
po corrispondente a quello in cui ha compiuto l’azio-
ne, per cui ha meritato di essere imprigionato, mentre
uno schiavo molto giustamente sconta nei ceppi pene
di anni, perché con una parola o con una percossa,
azioni che si compiono in un istante, ha oltraggiato o
ferito il suo padrone? E poi il risarcimento, il marchio
d’infamia, l’esilio e la schiavitù, poiché spesso sono in-
flitti con la riserva che non siano condonati, non sono
forse, nei limiti della vita presente, simili alle pene
eterne? Quindi non possono essere eterni perché an-
che la vita, che da essi è danneggiata, non si protende
in eterno e tuttavia le colpe, che sono punite da pene
a un assai lungo termine di tempo, sono compiute in
un tempo assai limitato. Inoltre non v’è mai stato alcu-
no il quale sostenesse la teoria che le sofferenze dei de-
linquenti devono aver termine così alla svelta, come al-
la svelta sono stati perpetrati o l’omicidio o l’adulterio
o il furto sacrilego o un qualsiasi altro crimine da com-
misurarsi non dal lasso di tempo, ma dalla gravità del-
l’infrazione del diritto e della morale. Riguardo poi a
colui che per un grave delitto viene punito con la mor-
te, le leggi forse valutano la sua pena capitale dal bre-
vissimo attimo in cui viene giustiziato e non dal fatto
che lo sottraggono per sempre alla società dei vivi? Ed
è la stessa cosa sottrarre con la pena della prima mor-
te gli uomini dalla città che avrà fine e con la pena del-
la seconda morte dalla città che non avrà fine 20. Come

20 La “seconda morte” (espressione tratta da Ap 2, 11; 20,


14; 21, 8) consiste nella dannazione eterna dell’anima unita ai tor-
menti del corpo dopo la risurrezione finale: cf. civ. XIII, 2.

216
infatti le leggi della città terrena non hanno come
obiettivo che un giustiziato ritorni in essa, così le leggi
dell’altra che un condannato alla seconda morte sia ri-
chiamato alla vita eterna. Ma, obiettano i pagani, in
che senso è vero quel che ha detto il vostro Cristo: Con
la misura con cui avete misurato, si misurerà a voi in
cambio (Mt 7, 2; Mc 4, 24; Lc 6, 38), se il peccato nel
tempo è punito con la pena dell’eternità? 21. Essi non
riflettono che la stessa misura non è stata indicata sul-
la base del medesimo periodo di tempo ma sulla base
della reciprocità del male, nel senso che chi ha fatto il
male deve subire il male. Tuttavia la frase si potrebbe
specificamente interpretare in relazione all’argomen-
to, di cui il Signore trattava quando la proferiva, e cioè
ai giudizi e alla condanna. Perciò chi giudica e con-
danna ingiustamente, se è giudicato e condannato giu-
stamente, riceve nella stessa misura, sebbene non ciò
che ha dato. Con un giudizio ha commesso, con un
giudizio subisce, sebbene con la condanna abbia com-
messo un atto d’ingiustizia e subisca con la condanna
un atto di giustizia.
Ma la pena eterna sembra spietata e ingiusta al-
l’umana conoscenza, perché nell’attuale inettitudine
di defettibili conoscenze manca la conoscenza della
sapienza sublime e illibata, con cui si può conoscere
quale grande colpa è stata commessa con la prima tra-
sgressione. Quanto più l’uomo aveva in Dio la felicità,
con tanta maggiore empietà abbandonò Dio e si rese

21 Questa obiezione, formulata da un pagano, era stata rife-


rita ad Agostino dal prete Deogratias, e il vescovo d’Ippona ave-
va fornito la medesima risposta che dà ora in ep. 102, 22-27.

217
degno del male eterno perché distrusse in sé quel be-
ne che poteva essere eterno. Da qui deriva tutta inte-
ra la massa dannata del genere umano, poiché colui
che per primo commise la colpa fu punito in tutta la
discendenza che in lui aveva avuto il rampollo. Perciò
nessuno è liberato da questa giusta e dovuta pena, se
non dalla misericordiosa e non dovuta grazia, e così il
genere umano è ripartito in modo che in alcuni si ma-
nifesti ciò che consegue la grazia misericordiosa, in al-
tri la giusta punizione. E non si può verificare l’una e
l’altra situazione in tutti perché, se tutti persistessero
nelle pene della giusta condanna, in nessuno si mani-
festerebbe la grazia misericordiosa e se tutti fossero
ricondotti dalle tenebre alla luce, in nessuno si mani-
festerebbe la realtà della punizione. E perciò in essa
ve ne saranno molti di più affinché così si riveli ciò
che spetterebbe a tutti. E se la condanna fosse aggiu-
dicata a tutti, nessuno potrebbe con giustizia biasima-
re la giustizia di chi punisce; ma giacché molti ne so-
no liberati, devono rendere grazie infinite al dono
gratuito di chi libera 22.
(De civitate Dei XXI, 11-12)

22 Cf. ep. 186, 6, 24; 7, 26; 194, 2, 5. Queste affermazioni


non vanno interpretate nel senso dell’impossibilità di una salvez-
za universale e dell’inevitabile necessità di condannare alcuni per
suscitare l’umile gratitudine di altri. Nessuno viene dannato im-
meritatamente, e nessuno ha commesso per necessità i peccati che
gli fanno meritare il giusto castigo. Si potrebbe dire che il rappor-
to tra eletti e dannati è analogo a quello tra bene e male nel mon-
do (cf. lib. arb. III, 9, 26-28; mus. VI, 11, 30; vera rel. 40, 76; civ.
XI, 18). Come Dio ha creato buone tutte le cose, così ha chiama-
to tutta l’umanità a partecipare della sua beatitudine divina; come

218
f) Elezione e dannazione

f.1) Nessuno merita la grazia che salva

«Ma come può mai essere», ribattono essi 23,


«che non ci sia ingiustizia in Dio se con un atto del
suo amore predestina alla salvezza coloro che non ne
sono degni non avendo alcun merito derivante dalle
opere?». Ci si rivolge questa obiezione come se san
Paolo non l’avesse prevista, non se la fosse posta e
non vi avesse risposto. Egli previde certamente quali
pensieri, a udire le sue parole, sarebbero potuti nasce-
re dalla debolezza e dall’ignoranza dell’intelletto uma-
no e, dopo essersi posta la medesima obiezione nei se-
guenti termini: Che diremo, dunque? Forse che v’è in-
giustizia in Dio?, risponde immediatamente: Niente
affatto! (Rm 9, 14) Al fine poi di spiegare perché dob-
biamo guardarci dal pensare una simile cosa, vale a
dire perché in Dio non ci sia ingiustizia, non dice af-
fatto che Dio fonda i suoi giudizi sui meriti o sulle

il male si è introdotto nel mondo a causa di un peccato non neces-


sario, così l’esclusione dalla vita eterna è stata inflitta come giusto
castigo di una colpa non ineluttabile; come gli aspetti negativi del
mondo, non originari rispetto al piano della creazione, sono tut-
tavia sfruttati dalla sapienza divina per far risaltare quelli positivi,
così la punizione dei reprobi, provocata dalla loro volontà contra-
ria al fine per il quale sono stati creati, è utilizzata dalla giustizia
divina per esaltare il valore gratuito della salvezza degli eletti; co-
me il male non era affatto necessario all’ordine dell’universo, che
anzi ne era stato creato privo, così le tenebre dell’inferno non era-
no per nulla indispensabili alla luce del paradiso, che in principio
risplendeva benissimo senza di esse.
23 I Pelagiani.

219
opere dei bambini, anche se sono racchiusi ancora nel
seno materno – in quale modo infatti avrebbe potuto
affermare una simile cosa, dal momento che aveva
parlato dei due gemelli 24, i quali prima di nascere
non avevano potuto ancora fare nulla di bene o di ma-
le e che non già in forza delle loro opere ma della chia-
mata di Dio era stato detto: Il maggiore servirà al mi-
nore (cf. Rm 9, 10-13)? – ma volendo dimostrare per-
ché riguardo ai due gemelli non v’è in Dio alcuna in-
giustizia, afferma: (Dio) infatti dice a Mosè: Farò mise-
ricordia a chi vorrò farla, avrò pietà di chi vorrò aver
pietà (Es 33, 19; Rm 9, 15). Che cos’altro c’insegna
qui l’Apostolo se non che se uno si salva dalla massa
dei discendenti del primo uomo, alla quale per giusti-
zia è dovuta la morte, non lo deve ai propri meriti
umani ma alla misericordia di Dio? Per questo in Dio
non esiste ombra d’ingiustizia, poiché non è ingiusto
né quando condona né quando esige ciò che è dovu-
to. Quando infatti il castigo potrebbe essere giusto, il
perdono non è altro che una grazia 25. Di qui appare
ancora più evidente che se uno è salvato dal castigo
dovuto ed è giustificato gratuitamente, riceve un be-
neficio tanto più grande dal momento che un altro
ugualmente colpevole viene punito senza la minima
ingiustizia da parte di Dio che punisce.
(Epistulae 186, 6, 16)

24 Giacobbe ed Esaù: cf. Gn 25, 23.


25 Cf. en. Ps. 62, 12: «Cosa c’è infatti di così giusto quanto
punire il peccatore? Orbene, se è giusto che il peccatore venga pu-
nito, fu un tratto della sua misericordia non punire il peccatore ma
giustificarlo: fare del peccatore un giusto e dell’empio un pio».

220
«Ma è ingiusto, obiettano costoro, che in un pro-
cesso per una medesima colpa, uno venga assolto e
l’altro punito». Sì, senza dubbio sarebbe giusto che
fossero puniti entrambi; chi oserebbe negarlo? Rin-
graziamo dunque il Salvatore per il fatto che vediamo
bene che non subiamo il castigo meritato, che sappia-
mo sarebbe dovuto essere inflitto anche a noi nella
condanna d’individui simili a noi. Se infatti fossero
salvati tutti indiscriminatamente, non sarebbe messo
in risalto che cosa merita il peccato in base alla giusti-
zia e, se non venisse salvato alcuno, non verrebbe
messo in risalto che cosa largisca la grazia. Ma in una
questione tanto difficile è meglio servirci delle parole
di san Paolo: Dio pertanto, volendo mostrare la sua col-
lera e manifestare la sua potenza, ha sopportato con
gran longanimità recipienti di collera preparati per la
perdizione, per far conoscere in tal modo la ricchezza
della sua gloria verso i recipienti di misericordia (Rm 9,
22-23). Ecco perché l’argilla non gli può dire: Perché
mi hai fatta così? poiché egli ha il potere di formare con
la stessa massa un recipiente destinato a usi nobili e un
altro destinato a usi spregevoli (Rm 9, 20-21). E poiché
tutta questa massa è giustamente dannata, Dio rende
il disonore meritato in virtù della giustizia e concede
l’onore immeritato in virtù della grazia, non già di un
privilegio dovuto al merito o per l’ineluttabilità del fa-
to né per un cieco capriccio della fortuna, ma solo a
causa dell’abissale ricchezza della sapienza e scienza di
Dio, che l’Apostolo non riesce a scandagliare, ma ne
rimane stupito ed esclama: O abisso di ricchezza della
sapienza e scienza di Dio! Quanto imperscrutabili sono
i suoi disegni e incomprensibile la sua condotta! Chi in-

221
fatti conobbe i disegni di Dio o chi gli fu mai consiglie-
re? Oppure chi mai gli diede prima qualcosa perché
debba essergli contraccambiato? Poiché tutto è da lui e
per mezzo di lui e tutto tende a lui. A lui gloria per i se-
coli! Amen (Rm 11, 33-36).
Che Dio abbia la gloria di rendere giusti i pecca-
tori col dar loro gratuitamente la sua grazia, non vo-
gliono ammetterlo coloro i quali, non conoscendo la
giustizia di lui, cercano di stabilirne una loro persona-
le (cf. Rm 10, 3 26), oppure, costretti ormai dalle alte
proteste delle persone pie e timorate di Dio, ammet-
tono bensì che per avere, ossia per mettere in pratica
la giustizia, vengono aiutati da Dio, ma in modo che
preceda qualche loro merito personale, come se voles-
sero dare essi per primi al fine di ricevere in seguito il
contraccambio da Dio, di cui invece sta scritto: Chi
per primo ha dato qualcosa a lui perché debba essergli
contraccambiato? (Rm 11, 35) Essi credono che i pro-
pri meriti prevengano colui del quale sanno, o meglio,
non vogliono ascoltare che tutto è da lui, tutto è per
mezzo di lui, tutto tende a lui (Rm 11, 36). Dall’inesau-
ribile ricchezza della sapienza e scienza di Dio (Rm 11,
33) scaturisce la ricchezza della sua gloria partecipata
ai recipienti di misericordia (cf. Rm 9, 23) che sono da
lui chiamati all’adozione di figli suoi, ricchezza che
egli vuol far conoscere anche per mezzo dei recipien-
ti pieni di collera formati per la dannazione. E quali
sono le imperscrutabili vie di Dio, se non quelle di cui
parla il Salmo: Tutte le vie del Signore sono bontà e ve-

26 Per l’esegesi agostiniana di questo versetto paolino, vedi


la sezione V, 4, c.

222
rità (Sal 25 [24], 10)? La sua bontà e verità sono quin-
di imperscrutabili, poiché egli ha pietà di chi vuole,
mosso non da giustizia ma solo dalla misericordia, e fa
ostinare chi gli piace (cf. Rm 9, 18), mosso non già da
sentimento d’iniquità, ma per castigarlo secondo ve-
rità. La bontà e verità di Dio sono tuttavia in pieno ac-
cordo tra loro, poiché sta scritto: La bontà e la verità
si sono abbracciate (Sal 85 [84], 11), in modo che la
bontà non rechi pregiudizio alla verità con cui è puni-
to chi lo merita, né la verità alla misericordia con cui
è salvato chi non lo merita. Per conseguenza quali me-
riti può accampare chi si salva, dal momento che, se
dovesse ricevere il contraccambio che merita, non do-
vrebbe essere se non tra i dannati? I giusti, allora, non
hanno merito alcuno? Sicuro che ne hanno, poiché
sono giusti, ma non ne hanno avuto alcuno per diven-
tare tali, essendolo diventati quando sono stati giusti-
ficati, ma, come dice l’Apostolo: Sono stati giustificati
senza alcun merito precedente e solo per la grazia di lui
(Rm 3, 24) 27.
(Epistulae 194, 2, 5 - 3, 6)

f.2) Dio lascia nell’ostinazione solo chi lo vuole

A proposito di questo problema, dato che troppo


profondi e inscrutabili sono i disegni di Dio e incom-
prensibile il suo modo d’agire (cf. Rm 11, 33), l’uomo
tenga intanto ben presente che in Dio non c’è ingiu-

27 Per la gratuità della giustificazione, vedi la sezione VI, 1.


223
stizia e, dato che è un uomo, confessi di non sapere in
virtù di quale giustizia Dio ha pietà di chi vuole e fa
ostinare chi vuole (cf. Rm 9, 18); in modo però da ri-
conoscere – a causa di ciò ch’egli crede verità incon-
cussa, che cioè in Dio non v’è ombra d’ingiustizia –
che, sebbene nessuno venga da lui giustificato in virtù
di meriti precedenti, nessuno viene lasciato nell’osti-
nazione senza che lo abbia meritato per sua propria
colpa. In realtà è conforme alla retta fede e alla verità
credere che quando Dio rende giusti i peccatori e gli
empi, li salva dai castighi giustamente meritati; crede-
re, al contrario, che Dio condanni uno che non meri-
ta il castigo e che non è colpevole di nessun peccato,
vuol dire credere che Dio è ingiusto. Allorché dunque
Dio salva chi non lo merita, dev’essere tanto più rin-
graziato quanto più giusto era il castigo; quando inve-
ce viene condannato chi non lo merita, non si fa trion-
fare né la misericordia né la verità.
(Epistulae 186, 6, 20)

Dunque richiamatevi alla mente gli occulti giudi-


zi di Dio, quando vedete che in una causa identica,
quale è certamente quella di tutti i bambini che trag-
gono il male ereditario da Adamo, uno riceve il soc-
corso di essere battezzato, l’altro no, e muore nel vin-
colo di quel male. Inoltre, Dio vede nella sua prescien-
za che un battezzato sarà un empio, eppure costui è la-
sciato in questa vita; un altro battezzato invece è strap-
pato da questo mondo affinché la malizia non cambi la
sua mente (cf. Sap 4, 11). In questi casi non attribuite
l’ingiustizia o l’insipienza a Dio, presso il quale si tro-

224
va la fonte della giustizia e della sapienza; ma come vi
ho esortato fin dall’inizio di questo discorso 28, cam-
minate lì dove siete giunti, e Iddio vi concederà la rive-
lazione anche su questo (Fil 3, 15), se non in questa vi-
ta, certamente nell’altra. Infatti non ci sarà cosa occul-
ta che non sarà rivelata (cf. Mt 10, 26). Dunque quan-
do udite il Signore che dice: Sono io, il Signore, che ho
sviato quel profeta (Ez 14, 9), e le parole dell’Apostolo:
Ha misericordia di chi vuole e indurisce chi vuole (Rm
9, 18), credete pure che se egli permette che uno sia
sviato o indurito, costui ha meritato nel male; se inve-
ce di un altro ha pietà, riconoscete in questo con fede
e sicurezza la grazia di Dio che rende non male per
male, ma bene per male 29. Eppure non dovete sottrar-
re al Faraone il libero arbitrio per il fatto che in molti
punti Dio dice: Io ho indurito il Faraone; ho indurito,
oppure: Renderò duro il cuore del Faraone (Es 4, 21; 7,
3; 9, 12; 10, 20.27). Malgrado queste espressioni, non
possiamo negare che il Faraone stesso indurì il suo
cuore. Infatti si legge proprio così di lui quando furo-
no eliminati dall’Egitto i tafani, perché la Scrittura di-
ce: E anche questa volta il Faraone indurì il suo cuore e

28 Cf. gr. et lib. arb. 1, 1. Lo scritto è indirizzato all’abate Va-


lentino e ai suoi monaci del monastero di Adrumeto (oggi Susa,
in Tunisia), i quali abbisognavano di alcune delucidazioni circa la
compatibilità di grazia e libero arbitrio.
29 Cf. div. qu. 68, 4: «Senza dubbio usa misericordia a chi
vuole e indurisce chi vuole (Rm 9, 18), eppure questa volontà di
Dio non può essere ingiusta»; civ. XII, 28, 2: «È stato scritto in-
fatti: Tutte le vie del Signore sono bontà e verità (Sal 25 [24], 10;
cf. Tb 3, 2). Quindi non può essere ingiusta la sua grazia né cru-
dele la sua giustizia».

225
non volle lasciare andare il popolo (Es 8, 32). Allora da
una parte fu Dio che indurì quel cuore attraverso un
giusto giudizio 30, dall’altra fu il Faraone stesso ad in-
durirlo attraverso il libero arbitrio 31. Perciò state cer-
ti che non sarà vana la vostra fatica, se progredendo
nel proposito buono saprete perseverare fino alla fine.
Infatti Dio, che ora non retribuisce secondo le loro
opere coloro che libera, allora renderà a ciascuno se-
condo le sue opere (Mt 16, 27). Sicuramente Dio ren-
derà anche male per male, perché egli è giusto; e bene
per male perché egli è buono; e bene per bene perché
è buono e giusto; non sarà possibile soltanto che ren-
da male per bene perché non è ingiusto. Renderà dun-
que male per male, castigo per ingiustizia; e renderà
bene per male, grazia per ingiustizia; e renderà bene
per bene, grazia per grazia 32.
(De gratia et libero arbitrio 23, 45)

30 Cf. praed. sanct. 14, 27: «[…] La grazia di Dio non viene
data secondo i nostri meriti e a chi viene data viene data gratuita-
mente, perché non sta né a chi vuole né a chi corre, ma a Dio che
ha misericordia; e a chi non viene data, non viene data per un giu-
sto giudizio, perché non c’è ingiustizia in Dio (cf. Rm 9, 14)».
31 Cf. Simpl. I, 2, 16: «Infatti l’uomo cosí disputa con Dio,
quando gli dispiace che Dio rimprovera i peccatori, come se Dio
costringesse qualcuno a peccare, quando nega ad alcuni peccato-
ri la misericordia della sua giustificazione: questo è il motivo per
cui si dice che indurisce alcuni peccatori, perché non usa loro mi-
sericordia non perché li costringe a peccare. Egli poi non usa mi-
sericordia a coloro che non giudica degni di misericordia, secon-
do una giustizia assai misteriosa e molto lontana dai sentimenti
umani. Infatti i suoi giudizi sono imperscrutabili e inaccessibili le
sue vie (cf. Rm 11, 33). A ragione dunque rimprovera i peccatori,
perché egli non li costringe a peccare».
32 Cf. en. Ps. 118, 7, 1.

226
3. GIUSTIZIA E MISERICORDIA IN DIO E NEGLI UOMINI

a) Misericordia e giudizio

Egli ama la misericordia e il giudizio (Sal 33 [32],


5). Fa’ queste cose, perché anch’egli le fa. Riflettete
sulla stessa misericordia e il giudizio. Ora è il tempo
della misericordia, poi sarà il tempo del giudizio. Per-
ché ora è il tempo della misericordia? Ora chiama chi
si è allontanato, perdona i peccati di chi ritorna; è pa-
ziente con i peccatori, finché non si convertono; e
quando si sono convertiti dimentica il passato e pro-
mette il futuro; esorta i pigri, consola gli afflitti, inse-
gna agli zelanti, aiuta quanti combattono; nessuno ab-
bandona di coloro che si affaticano e a lui gridano,
dona di che offrire a lui, egli stesso dà i mezzi perché
lo si plachi. Non passi invano, fratelli, il grande tem-
po della misericordia, non passi invano per noi. Verrà
il giudizio: anche allora ci sarà il pentimento, ma or-
mai sarà senza frutto. Diranno tra sé presi da penti-
mento, gemendo per l’angoscia dello spirito – queste
cose stanno scritte nel libro della Sapienza – che ci ha
giovato la superbia, che abbiamo guadagnato col van-
tarci delle ricchezze? Tutte queste cose sono passate co-
me ombra (Sap 5, 3.8-9). Diciamolo ora: Passano tut-
te queste cose come ombra; diciamolo ora con frutto:
Passano, per non doverlo dire allora infruttuosamen-
te: Passarono. Questo è dunque il tempo della miseri-
cordia, ma ci sarà anche quello del giudizio.
Ma non crediate, fratelli, che la misericordia e il
giudizio possano in qualche modo separarsi in Dio.
Sembra infatti che a volte tra loro siano contrastanti,

227
in modo che chi è misericordioso non badi alla giusti-
zia, mentre chi è inflessibile nel giudizio dimentichi la
misericordia. Dio è onnipotente, e non rinunzia al
giudizio nella misericordia, né alla misericordia nel
giudizio. Egli ha infatti compassione, considera la sua
immagine, la nostra fragilità, il nostro errore, la nostra
cecità e ci chiama: a chi a Lui si converte perdona i
peccati, ma non li perdona a chi non si pente. È mise-
ricordioso con gli ingiusti? Ha forse rinunziato al giu-
dizio, oppure non dovrebbe giudicare fra chi si con-
verte e chi non si pente? Vi sembra forse giusto che
siano considerati uguali i convertiti e gli impenitenti,
cosicché allo stesso modo siano accolti chi confessa e
chi mentisce, l’umile e il superbo? C’è dunque anche
il giudizio nella stessa misericordia. E del pari, nel
giudizio ci sarà anche la misericordia nei confronti di
coloro ai quali dirà: ho avuto fame e mi avete dato da
mangiare (Mt 25, 35). È detto infatti in una certa epi-
stola apostolica: perché il giudizio è senza misericordia
per chi non ha avuto misericordia (Gc 2, 13). Beati – di-
ce il Signore – i misericordiosi, perché si avrà misericor-
dia di loro (Mt 5, 7). Dunque in quel giudizio ci sarà
anche misericordia, ma non senza giudizio. Se dun-
que vi sarà misericordia, non verso chiunque, ma ver-
so colui che è stato misericordioso, la misericordia
stessa sarà giusta, perché non sarà confusa. La miseri-
cordia, senza dubbio, consiste nel rimettere i peccati,
nel donare la vita eterna. Ma ecco anche qui il giudi-
zio: perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato
(Lc 6, 37-38). Senza dubbio vi sarà dato, e vi sarà per-
donato, è misericordia. Ma se da essa venisse meno il
giudizio, non direbbe: con la misura in cui avrete mi-

228
surato sarete voi stessi misurati (Mt 7, 2; Mc 4, 24; Lc
6, 38).
(Enarrationes in Psalmos 32, II, 1, 10-11)

b) Giustizia nel perdonare chi si è pentito

Fratelli miei, ascoltate in modo particolare quan-


to sto ora per dire. Non voglio considerare con te le
cose passate. Da oggi in poi cambiati, il domani ti tro-
vi diverso. Noi, nel nostro pervertimento, vorremmo
Dio tanto misericordioso da essere ingiusto. Altri al
contrario, confidando troppo nella propria giustizia,
lo vorrebbero tanto giusto da non volerlo misericor-
dioso. Dio invece si presenta l’uno e l’altro, si mostra
l’uno e l’altro. La sua misericordia non condiziona la
sua giustizia né la sua giustizia elimina la misericordia.
È misericordioso ed è giusto. Donde abbiamo la pro-
va che è misericordioso? Dal fatto che ora risparmia i
peccatori e concede il perdono a chi si pente. Donde
abbiamo la prova che è giusto? Dal fatto che verrà il
giorno del giudizio, che ora differisce ma non esclude.
E allora, quando verrà, renderà a ciascuno secondo i
meriti. O volete che dia a coloro che gli sono rimasti
nemici quanto dà a coloro che si sono convertiti a lui?
Fratelli, vi sembra giusto che Giuda venga posto do-
ve è stato posto Pietro? 33. Anche Giuda sarebbe sta-
to posto dove è Pietro se si fosse emendato. Ma, ab-
bandonata la speranza del perdono, preferì impiccar-
si anziché implorare la clemenza del re (cf. Mt 27, 5).

33 Cf. ep. Rm. inch. 9.


229
Pertanto, fratelli, come avevo iniziato a dire, non
abbiamo motivo per rimproverare Dio. Di nulla avre-
mo la possibilità di accusarlo, quando verrà a giudica-
re. Ciascuno pensi ai suoi peccati e si liberi ora da essi,
finché c’è tempo. Sia fruttuoso il dolore, non sia steri-
le il pentimento. Come se il Signore ci dicesse: «Ecco:
ho indicato la sentenza, ma non l’ho ancora emanata.
L’ho preannunziata, ma non l’ho ancora fissata». Per-
ché sei rimasto perplesso quando ho detto: «Se tu cam-
bi cambia anche lui»? È scritto che Dio può pentirsi
(cf. Gn 6, 6; 1 Sam 15, 11.35; Ger 18, 8.10). Ma credi
forse che Dio si penta come si pente l’uomo? È stato
detto: Se vi pentite dei vostri peccati, anch’io mi pentirò
di tutti i mali che stavo per infliggervi (cf. Ger 18, 8).
Forse Dio si pente perché ha sbagliato? Ma pentimen-
to in Dio significa mutamento della sentenza. Questo
mutamento della sentenza non è ingiusto ma giusto.
Perché giusto? Mutando il reo, il giudice ha mutato la
sentenza. Non spaventarti: la sentenza è mutata, non la
giustizia: la giustizia rimane inalterata in quanto chi è
giusto deve perdonare a chi ha mutato condotta. Co-
me non perdona a chi è ostinato, così perdona a chi è
mutato. Chi ha dato la legge è anche il re che condona.
Inviò la legge, è venuto con benevolenza. La legge ti
aveva costituito reo (cf. Rm 7, 7-11), chi ti aveva dato
la legge, ti ha assolto. Anzi, non ti ha assolto, perché as-
solvere significa giudicare un innocente; piuttosto con-
dona i peccati a chi si è convertito. Sono tutti rei infat-
ti coloro che sono avviluppati dai loro peccati. Nessu-
no speri di potersene liberare. Imploriamo tutti il per-
dono; il perdono però viene dato a chi si è convertito.
(Sermones 22, 5-6)

230
c) Incommensurabilità della giustizia divina rispetto a
quella umana

c.1) Impossibilità di misurare la giustizia divina


con il metro di quella umana

In conclusione se un giudice umano dice: Punirò


le colpe dei padri nei figli, lo dice ingiustissimamente
e contraddice il comando divino. Non per questo tut-
tavia o è mendace o è ingiusto Dio quando lo dice lui
(cf. Es 20, 5; 34, 7; Nm 14, 18; Dt 5, 9; Ger 32, 18).
[…]
Quanto più eccelsa, tanto più inscrutabile della
giustizia umana è la giustizia divina e tanto più distan-
te la giustizia divina da quella umana. Quale uomo giu-
sto lascia infatti che si perpetri un delitto che ha il po-
tere di impedire? Eppure Dio lascia commettere i de-
litti, benché egli sia incomparabilmente più giusto di
tutti i giusti e incomparabilmente più grande di tutte le
potestà sia la sua potestà. Pensa a questo e non voler
confrontare tra loro come giudici gli uomini e Dio, del
quale non si può mettere in dubbio la giustizia, nem-
meno quando fa ciò che sembra ingiusto agli uomini e
fa ciò che renderebbe ingiusto l’uomo se lo facesse.
(Contra Iulianum opus imperfectum III, 17.24)

c.2) Dio punisce giustamente,


l’uomo si vendica ingiustamente

Signore guidami nella tua giustizia a cagione dei


miei nemici (Sal 5, 9). Qui chiaramente ha dimostra-

231
to di essere in cammino, cioè in via di avanzamento
verso la perfezione, non ancora nella perfezione me-
desima, in quanto supplica di esservi guidato. Nella
tua giustizia dice, non in quella che sembra tale agli
uomini: infatti, anche rendere male per male sembra
giustizia: ma non è la giustizia di Colui del quale è
detto che fa sorgere il suo sole sopra i buoni e i malva-
gi (Mt 5, 45). Dio infatti, anche quando punisce i
peccatori, non infligge loro un male suo, ma li abban-
dona ai loro mali. Ecco – dice – ha partorito ingiusti-
zia, ha concepito sventura e generato iniquità; ha aper-
ta una buca e l’ha scavata ed è caduto nella fossa che
ha fatta; il suo male ricadrà sul suo capo, e discenderà
sulla sua testa la sua iniquità (Sal 7, 15-17). Dunque,
quando Dio punisce, punisce come giudice coloro
che hanno trascurata la legge, non cagionando loro
un male che deriva da Lui stesso, ma ricacciandoli in
ciò che essi medesimi hanno scelto per colmare la
somma delle loro miserie. L’uomo invece, quando re-
stituisce male per male, lo fa con intenzione malva-
gia: per questo egli stesso per primo è malvagio, men-
tre vuole punire il male 34.
(Enarrationes in Psalmos 5, 10)

34 Cf. en. Ps. 50, 9: «Punisce con giustizia solo Colui che in
sé non ha niente che meriti punizione; rimprovera con giustizia
solo Colui che in sé non ha niente degno di rimprovero». Per la
rinuncia alla vendetta, cf. en. Ps. 78, 14; 108, 4.

232
V.
GIUSTIZIA E LEGGE

1. INGIUSTIZIA E PECCATO

a) Definizione del peccato

D’altra parte tutte le cose fatte da Dio sono mol-


to buone; non esistono, al contrario, nature cattive,
ma tutto ciò che noi chiamiamo “male” o è peccato o
castigo del peccato. Il peccato poi non è altro che il
libero consenso della volontà al male quando pro-
pendiamo verso ciò che è vietato dalla giustizia e da
cui abbiamo la possibilità di astenerci. In altre paro-
le: il peccato non sta nelle cose stesse ma nel loro uso
illegittimo. L’uso delle cose poi è legittimo quando
l’anima resta fedele alla legge di Dio e rimane sogget-
ta all’unico Dio con amore perfetto, e governa tutte
le altre cose a lei soggette senza cupidigia o sensua-
lità, cioè secondo la legge di Dio. In tal modo l’anima
riuscirà a governarle senza difficoltà e senza timore
affannoso, ma con somma facilità e felicità. È, al con-
trario, castigo del peccato quando l’anima si tormen-
ta a causa delle creature che non le sono sottomesse
dacché essa non rimane soggetta a Dio; le creature
invece ubbidivano a lei quando essa ubbidiva a Dio.

233
Il fuoco quindi non è un male poiché è una creatura
di Dio, ma tuttavia la nostra debole natura viene bru-
ciata da esso per causa del peccato. Si chiamano poi
peccati naturali quelli che inevitabilmente commet-
tiamo prima d’essere aiutati dalla misericordia di
Dio, dopo essere caduti in questa vita per il peccato
del libero arbitrio.
(De Genesi ad litteram liber unus imperfectus 1, 3)

Il peccato è dunque la volontà di conservare o di


acquisire ciò che la giustizia vieta e da cui ci si può li-
beramente astenere. Benché, se non c’è libertà, non
c’è volontà. Ma io ho preferito definirlo in modo piut-
tosto approssimativo anziché scrupoloso. Avrei dovu-
to scrutare ancora questi oscuri libri 1 per apprende-
re che non è meritevole di biasimo o di condanna nes-
suno che o voglia ciò che la giustizia non vieta di vo-
lere o non faccia ciò che non si può fare? Non sono
queste le verità evidenti che cantano i pastori sui
monti, i poeti nei teatri, gli ignoranti nei crocicchi, i
dotti nelle biblioteche, i maestri nelle scuole, i sommi
sacerdoti nei luoghi sacri e il genere umano in tutto
l’universo? Che se nessuno è meritevole di biasimo o
di condanna quando non agisce contro il divieto del-
la giustizia o quando si astiene da ciò che non può, e
se invece ogni peccato merita il biasimo o la condan-
na, chi dubiterà allora che si pecca ogni volta che si
vuole una cosa ingiusta e si è liberi di non volerla? Di

1 Forse opere di filosofia morale, comprensibili ai soli “ad-


detti ai lavori”.

234
conseguenza, la definizione è vera e molto facile a
comprendersi, e non ora soltanto ma anche allora 2
avrei potuto dire che il peccato è la volontà di conser-
vare o di acquisire ciò che la giustizia vieta e da cui si
è liberi di astenersi 3.
(De duabus animabus 11, 15)

b) Tre forme di trasgressione

Pecca contro la comune giustizia in primo luogo


colui che, schiavo di voglie disordinate, contravviene
alle norme della convivenza umana, come chi com-
mette furto, rapina, adulterio, incesto e cose simili.
Altrettanto colui che pecca contro natura, ad esempio
con le colpe di vilipendio, strage, omicidio, sodomia,
bestialità. Ovvero colui che nelle stesse cose lecite
non sa moderarsi, come ad esempio colpire più del
necessario il servo o il figlio, esagerare nel mangiare,

2 Cioè all’epoca della sua adesione al Manicheismo.


3 Replicando a Giuliano di Eclano, che voleva utilizzare
questa definizione a sostegno della dottrina pelagiana, Agostino
preciserà che essa si applica propriamente al peccato di Adamo e
non alla pena di questo peccato, ereditata da tutti gli uomini e
consistente nell’ignoranza del giusto e nell’inclinazione verso il
male (la “concupiscenza”). Chi non sa che cosa sia giusto fare ed
è fortemente attratto dal male, non può certo dirsi libero di aste-
nersi da ciò che la giustizia vieta. Cf. c. Iul. imp. I, 44; VI, 17; re-
tr. I, 15, 4. Proprio per questo la grazia, lungi dall’eliminare il li-
bero arbitrio, lo ristabilisce nella sua integrità, rendendolo nuova-
mente capace di amare la giustizia: cf. spir. et litt. 30, 52; c. ep. Pel.
I, 2, 5.

235
bere oltre misura, essere sfrenato nei rapporti coniu-
gali, e cose del genere 4.
(Quaestiones XVI in Matthaeum 16, 2)

2. UBBIDIENZA E TIPI DI LEGGE

a) Legge immutabile di Dio e costumi mutevoli degli


uomini

a.1) L’immutabile giustizia divina


può ordinare cose diverse in tempi diversi

Non conoscevo nemmeno 5 la giustizia vera, inte-


riore, che non giudica in base alle usanze, ma in base
alla legge rettissima di Dio onnipotente; cui si devono
informare i costumi dei paesi e dei tempi, paese per
paese, tempo per tempo, mentre essa non muta in
ogni paese e in ogni tempo, non è diversa in luoghi di-
versi, né diversamente stabilita in circostanze diverse;
secondo la quale furono giusti Abramo e Isacco e
Giacobbe e Mosè e Davide e tutti gli altri uomini lo-
dati dalla bocca di Dio, mentre sono giudicati disone-
sti dagli ignoranti, che giudicano secondo la giornata
umana (cf. 1 Cor 4, 3) e misurano i costumi del gene-
re umano lungo tutta la sua storia sulla base dei pro-
pri costumi parziali e particolari 6. Così farebbe un ta-

4 La medesima classificazione compare nella prefazione alle


qu. vet. t.
5 Agostino si riferisce al suo periodo manicheo.
6 I Manichei sollevavano numerose obiezioni nei confronti

236
le, che, inesperto di armature, non conoscendo le
membra per cui ogni pezzo fu predisposto, volesse
coprire con un gambale la testa e calzare ai piedi l’el-
mo, brontolando perché non si accomodano; oppure
che, in un giorno dichiarato festivo al pomeriggio, si
adirasse perché non gli concedono di esporre in ven-
dita qualche merce, mentre era concesso al mattino;
oppure, vedendo che nella stessa casa un servo ma-
neggia un oggetto che al coppiere non si permette di
toccare, o dietro la stalla si compiono certe faccende,
che davanti alla mensa sono vietate, s’indignasse per-
ché, unica essendo l’abitazione e unico il servizio, non
dappertutto e non tutti hanno le medesime attribuzio-
ni. Non diversi sono costoro, che s’indignano all’udi-
re come in quell’antica età erano lecite ai giusti certe
azioni, che in questa non sono lecite ai giusti; e come
Dio desse precetti diversi a quegli uomini e a questi
per motivi contingenti, mentre sia gli uni che gli altri
ubbidiscono alla medesima giustizia. Non vedono
dunque come nella stessa persona nella stessa giorna-
ta nello stesso edificio ad ognuna delle membra con-
viene una certa cosa, alle altre un’altra; e come una
cosa lecita da gran tempo non lo è più dopo un’ora,
un atto permesso o comandato in quel certo angolo,
in quest’altro pur così vicino è vietato o punito? Dire-
mo che la giustizia è «varia e mutevole» 7? No, ma è

dell’immagine di Dio contenuta nell’Antico Testamento e della


condotta dei patriarchi, considerate in antitesi con il Nuovo Te-
stamento e con il comune senso morale. Agostino ci informa det-
tagliatamente di tali obiezioni nel Contra Adimantum e nel Contra
Faustum, ove s’impegna a confutarle.
7 Eco di un verso virgiliano (cf. Eneide, IV, 569).

237
il tempo da essa regolato che non procede sempre col
medesimo passo: non per nulla è il tempo 8. Ora, gli
uomini, la cui vita è breve sulla terra, incapaci di rap-
portare col discernimento i motivi validi nei secoli
precedenti e fra gli altri popoli di cui non hanno espe-
rienza, a quelli di cui hanno esperienza; capaci invece
di vedere prontamente in un corpo o una giornata o
una casa ciò che conviene a un certo membro, a un
certo momento, a un certo luogo o persona, nel pri-
mo caso si disgustano, nel secondo subiscono.
(Confessiones III, 7, 13)

a.2) La pluralità delle consuetudini


non implica l’assenza di una giustizia in sé

Quando s’imbattono nella lettura di questi fatti 9


persone che sono all’oscuro delle consuetudini altrui,
li reputano scostumatezze, a meno che non siano cor-
retti da una qualche autorità. Né riescono a persua-
dersi che tutto il loro comportamento in fatto di ma-
trimoni, di banchetti, di modi di vestirsi e ogni altra
usanza di vivere e acconciarsi potrebbe sembrare in-
decoroso ad altre genti o in altre epoche. Mossi dalle
innumerevoli e varie consuetudini, alcuni 10, per così

8 Cf. ep. 138, 1, 4: «Mutate le condizioni dei tempi, la stes-


sa retta norma esige per lo più che si muti ciò che prima era ben
fatto».
9 Come la poligamia di Giacobbe, che ebbe due mogli e si
unì anche alle loro schiave (cf. Gn 29, 15-30; 30, 1-13); compor-
tamento biasimato dal manicheo Fausto (cf. c. Faust. XXII, 5).
10 Si tratta di una categoria di critici diversa, e in certo sen-

238
dire, semiaddormentati – in quanto non erano immer-
si nel sonno profondo della stoltezza ma nemmeno
erano svegli alla luce della sapienza – ritennero non
darsi giustizia di per se stessa ma ogni popolo sareb-
be autorizzato a considerare giuste le sue costuman-
ze 11. Ora siccome queste costumanze sono diverse
nei diversi popoli mentre la giustizia deve rimanere
immutabile, diverrebbe ovvio che la giustizia non si
trovi in nessuna parte. Per non ricordare altro, non
compresero che il detto: Non fare agli altri quel che
non vuoi sia fatto a te 12, non può in alcun modo va-

so opposta, a quella appena citata. Mentre i primi (i Manichei) as-


sumevano come criterio di giudizio assoluto le consuetudini par-
ticolari proprie della loro epoca, questi negavano l’esistenza di
una giustizia in sé e sostenevano una concezione relativistica del
giusto e dell’ingiusto. Agostino forse ha in mente posizioni di ti-
po sofistico illustrate e criticate negli scritti di Cicerone (cf. De le-
gibus I, 14, 40 - 18, 48; De re publica III, 6, 9 - 21, 32 e le osserva-
zioni di M. Simonetti in SANT’AGOSTINO, L’istruzione cristiana,
Milano 20002, p. 500; C. SCHAÜBLIN in De doctrina christiana, A
Classic of Western Culture, ed. by D.W.H. Arnold and P. Bright,
Notre Dame - London 1995, p. 58; F. Dolbeau in AUGUSTIN
D’HIPPONE, Vingt-six sermons au peuple d’Afrique, Paris 1996, pp.
533-534).
11 Cf. s. novi 23, 7: «Questo infatti hanno opinato certuni, e
cioè che la giustizia nell’ambito della natura non esiste ma la si sta-
bilisce in base ad opinioni [umane]. Ciò vorrebbe dire che è giu-
sto – o meglio, si chiama giusto – ciò che gli uomini decidono sia
giusto in base ad una convenzione sociale, senza che ci sia alcuna
realtà obiettiva della giustizia (natura iustitiae)».
12 Si tratta «non di un testo scritturistico [Tb 4, 15], ma di
una sentenza che esprime il precetto fondamentale della legge na-
turale» (A.-M. LA BONNARDIÈRE, En marge de la «Biblia Augusti-
niana»: une «Retractatio», «Revue des Études Augustiniennes»,
10, 1964, p. 305).

239
riare secondo le diverse accezioni invalse nel mondo
pagano. Quando questo motto lo si riferisce all’amo-
re di Dio, scompaiono tutti i libertinaggi; quando lo si
riferisce all’amore del prossimo, tutti i delitti 13. Nes-
suno infatti vuole che sia demolita la propria abitazio-
ne; per cui non deve guastare nemmeno l’abitazione
di Dio, cioè se stesso. E nessuno vuole essere danneg-
giato da qualsiasi altro; per cui egli stesso non deve
danneggiare alcuno.
(De doctrina christiana III, 14, 22)

b) Legge temporale e legge eterna

b.1) Ciò che è giustamente permesso dalla legge civile


può essere punito dalla divina provvidenza

AGOSTINO – Mi parrebbe che prima si debba di-


scutere se un nemico che assale o un sicario che insi-
dia possano essere uccisi indipendentemente dalla
passione per difendere la vita, la libertà o l’onore.
EVODIO – E come posso giudicare liberi da pas-
sione costoro che con le armi difendono beni che pos-
sono perdere anche se non vogliono? 14. E se non pos-
sono perderli che bisogno c’è di giungere per essi fi-
no all’omicidio?

13 I “libertinaggi” (flagitia) sono azioni turpi che corrompo-


no il soggetto che le compie e quindi offendono Dio, di cui il sog-
getto è immagine e tempio; i “delitti” (facinora) sono le azioni che
recano danno al prossimo. Cf. s. 9, 15.
14 La “passione” (libido) è infatti «l’amore di cose che l’uo-
mo può perdere anche se non vuole» (lib. arb. I, 4, 10).

240
A. – Dunque non sarebbe giusta la legge che dà
facoltà al viandante di uccidere il ladro per non rima-
nere ucciso lui stesso o anche a un uomo o a una don-
na, se è possibile, di far fuori, prima della violenza, un
tizio che attentasse con la forza al loro onore. Anche
al soldato si ordina dalla legge di uccidere il nemico e,
se si astiene dall’uccidere, viene punito dal coman-
dante. Oseremo dunque dire che queste leggi sono in-
giuste o piuttosto che non sono leggi? Già, perché se-
condo me è legge soltanto quella giusta.
E. – Mi pare però che la legge sia abbastanza di-
fesa contro tale accusa perché ha concesso ai cittadini
amministrati il permesso di commetter delitti più pic-
coli affinché ne siano evitati dei maggiori. È molto più
sopportabile che sia ucciso l’individuo che attenta al-
la vita altrui anziché quello che difende la propria ed
è assai più grave che un individuo subisca violenza
carnale contro il proprio volere anziché colui che la
commette sia ucciso da chi è costretto a subirla. Il sol-
dato poi, nell’uccidere il nemico, è esecutore della
legge. Dunque è facile che possa compiere il proprio
dovere indipendentemente dalla passione. Inoltre
non è possibile che la legge, promulgata per difende-
re i cittadini, sia imputata di passione. Chi l’ha pro-
mulgata infatti, se lo ha fatto per ordine di Dio, cioè
perché lo ha disposto l’eterna giustizia, può averla
promulgata libero da ogni passione. Se poi ha stabili-
to la legge perché mosso da qualche passione, non ne
consegue che sia necessario con la passione obbedire
alla legge. Una buona legge può esser promulgata an-
che da un individuo non buono. Ad esempio un tale,
che esercita il potere tirannicamente, riceve denaro da

241
un cittadino, che a sua volta ne trae vantaggio, perché
stabilisca che a nessuno è lecito rapire una donna, sia
pure a scopo di nozze. La legge non sarà cattiva per il
fatto che l’ha promulgata un individuo ingiusto e cor-
rotto. È possibile dunque obbedire senza passione al-
la legge, la quale ordina, per la difesa dei cittadini, che
la violenza di un nemico sia respinta ugualmente con
la violenza. Il principio si applica a tutti gli esecutori
che per ordinamento giuridico obbediscono a un de-
terminato potere. Ma non veggo come gli altri, pur es-
sendo senza colpa la legge, possano essere senza col-
pa. La legge non li costringe ad uccidere, ma concede
loro la facoltà. Essi dunque rimangono liberi di non
uccidere per la difesa di beni che possono perdere
contro il loro volere e che per questo non debbono
amare. Può rimanere a qualcuno un dubbio circa la
vita nell’ipotesi che non venga sottratta all’anima con
la corruzione del corpo. Ma se può essere tolta, si de-
ve disprezzare, se non lo può, nulla da temere. Circa
il pudore poi non si può dubitare che è nella coscien-
za perché è virtù. Pertanto non può essere sottratto
dall’individuo che usa violenza 15. Dunque ogni bene,
che stava per toglierci l’uccisore, non è in nostro po-
tere. Non capisco pertanto come si possa considerar-
lo nostro. Non riprovo quindi la legge che permette
l’uccisione degli aggressori, ma non trovo con quale
criterio giustificare coloro che li uccidono.
A. – A più forte ragione io non riesco a trovare il
motivo per cui cerchi una difesa per individui che
nessuna legge considera rei.

15 Cf. civ. I, 18.


242
E. – Nessuna forse, ma delle leggi positive e che
possono esser raccolte dagli uomini. Non saprei se
non siamo soggetti a un’altra legge più potente e oc-
cultissima, supposto che non vi sia cosa che non sia
governata dalla divina provvidenza. Come sarebbero
infatti liberi davanti a lei dal peccato se si son mac-
chiati di omicidio per difendere beni che si devono
disprezzare? Mi pare dunque che la legge, promulga-
ta per governare il popolo, ragionevolmente permette
questi atti e che la divina provvidenza li proibisce. Al-
la legge civile infatti compete punire determinati atti
per stabilire il rapporto sociale fra la massa, e nei limi-
ti possibili alla umana legislazione. Al contrario le col-
pe, di cui sopra, hanno pene congruenti, dalle quali,
secondo me, soltanto la sapienza ci può liberare.
A. – Lodo e accetto questa tua distinzione, seb-
bene appena abbozzata e meno perfetta, comunque
fiduciosa e implicante un ordine superiore. A te sem-
bra infatti che questa legge, la quale si promulga per
l’amministrazione dello stato, non contempli e lasci
impunite molte colpe che saranno comunque punite,
e giustamente, dalla divina provvidenza 16. La legge
non fa tutto, ma non per questo si deve riprovare quel
che fa.
(De libero arbitrio I, 5, 11-13)

16 Il seguito della discussione perverrà a stabilire che la di-


vina provvidenza corrisponde alla legge eterna mentre le norme
civili corrispondono alla legge temporale: la prima punisce con
l’infelicità l’amore eccessivo per i beni caduchi; la seconda si limi-
ta a punire il reo privandolo del possesso o del godimento di al-
cuni di essi. Cf. lib. arb. I, 15, 32.

243
b.2) Definizione di «legge temporale»
e di «legge eterna»

AGOSTINO – […] E prima di tutto dimmi se la leg-


ge promulgata in un codice provvede agli uomini che
vivono la vita terrena.
EVODIO – È chiaro. I popoli e gli stati son forma-
ti da individui in tale condizione.
A. – E gli uomini e i popoli sono della medesima
durata del mondo sicché non possono perire o muta-
re e sono addirittura eterni, ovvero sono mutevoli e
soggetti al divenire?
E. – E chi dubiterebbe che le cose umane sono
mutevoli e soggette al tempo?
A. – Ma supponi che un popolo sia formato alla
moderazione e alla saggezza e sia custode diligente del
comune benessere sicché ciascuno stima di meno il
proprio interesse che quello pubblico. In tal caso non
è ragionevolmente costituita la legge che consente al
popolo di eleggere i propri magistrati, dai quali sia cu-
rato il suo interesse, cioè quello pubblico?
E. – Sì certo, ragionevolmente.
A. – Ma supponiamo ancora che il medesimo po-
polo, gradualmente depravatosi, anteponga l’interes-
se privato al pubblico, permetta il broglio elettorale e,
corrotto dagli ambiziosi, affidi il governo di se stesso
a disonesti e delinquenti. In tal caso, se v’è una perso-
na onesta che abbia molto prestigio, non dovrebbe,
egualmente secondo ragione, togliere al popolo il po-
tere di conferire le cariche e ridurlo al potere illimita-
to di pochi onesti o anche di uno solo?
E. – Anche in tal caso secondo ragione.

244
A. – Dunque queste due leggi sembrano tanto
opposte che una contempla il potere nel popolo di
conferire le cariche, l’altra glielo toglie. Questa secon-
da poi è così concepita che è assolutamente impossi-
bile la loro consistenza nel medesimo stato. Dovrem-
mo dunque dire che una delle due è ingiusta e che
non doveva essere promulgata?
E. – No certamente.
A. – Possiamo dunque chiamare, se ti va, tempo-
rale questa legge poiché, quantunque giusta, può giu-
stamente esser cambiata secondo i tempi.
E. – Sì.
A. – E la legge che si considera come suprema ra-
gione, alla quale sempre si deve obbedire, secondo
cui i cattivi meritano l’infelicità e i buoni la felicità,
per cui la legge, che abbiamo stabilito di chiamar tem-
porale, secondo ragione si stabilisce e secondo ragio-
ne si muta, può sembrare a chiunque usa l’intelligen-
za non eternamente immutabile? Ovvero può in un
qualche tempo essere ingiusto che i cattivi siano infe-
lici, i buoni felici, che un popolo moderato e pruden-
te si elegga i magistrati ed uno disonesto e iniquo sia
privo di questo diritto?
E. – Mi è evidente che questa è legge eternamen-
te immutabile.
A. – Ti è evidente anche, suppongo, che nella leg-
ge temporale non v’è alcuna disposizione giusta che
gli uomini non abbiano derivato dalla legge eterna.
Un popolo, in un determinato periodo giustamente
conferisce le cariche, in un altro giustamente non le
conferisce. Ora questo avvicendamento nel tempo,
perché sia giusto, è derivato dall’ordinamento eterno,

245
da cui è sempre giusto che un popolo ben ordinato
conferisca le cariche, un popolo male ordinato non le
conferisca. La pensi diversamente?
E. – No.
A. – Debbo dunque esporre brevemente, per quan-
to mi è possibile a parole, la nozione di legge eterna
che è stata impressa in noi. È la legge per cui è giusto
che tutte le cose siano in un ordinamento perfetto 17.
Se la pensi diversamente, dillo.
E. – È vero quel che dici, quindi non ho da
obiettare.
A. – Essa è una sola e da essa derivano nella loro
varietà le leggi temporali per ordinare gli uomini al fi-
ne. È possibile dunque che anche essa sia variabile?
E. – Capisco che è assolutamente impossibile.
Nessun potere, nessun accadimento, nessuna muta-
zione del reale potranno mai avere come effetto che
non sia giusto il perfetto ordinamento del tutto.
(De libero arbitrio I, 6, 14-15)

b.3) Essenza e origine dell’azione malvagia

AGOSTINO – […] Oramai, come suppongo, co-


minciamo a comprendere la funzione della legge eter-
na ed è accertato fino a qual punto possa giungere la
legge temporale nella sanzione. Sono state inoltre di-
stinte con sufficiente chiarezza due categorie di cose,
quelle eterne e quelle temporali, come pure due cate-

17 Per questo essa «ordina di distogliere l’amore dai beni


temporali e volgerlo purificato ai beni eterni» (lib. arb. I, 15, 32).

246
gorie di individui, gli uni che scelgono ed amano le
cose eterne, gli altri le temporali 18. È stato anche ac-
certato che è dato dalla volontà l’oggetto che si sceglie
per il conseguimento e il possesso e che soltanto dalla
volontà la ragione viene destituita dalla rocca del do-
minio e dalla razionale finalità 19. Infine è chiaro che
non si deve incolpare la cosa, qualora se ne usi male,
ma chi ne usa male 20. Riportiamoci dunque, se vuoi,
al problema posto al principio di questo discorso ed
esaminiamo se ha avuto la sua soluzione. Ci eravamo
proposti di indagare che cos’è agire male 21 e in vista
di questo assunto abbiamo esposto tutti i temi suddet-
ti. Ora conseguentemente è possibile riflettere ed esa-
minare se agir male è essenzialmente trascurare le co-
se eterne che la ragione da sé possiede, da sé intuisce
e che non può perdere se le ama per procurarsi come
grandi e ammirevoli le cose temporali e i piaceri che si
provano mediante il corpo, la parte più vile dell’uomo
e che non possono essere stabili. In questa categoria
mi pare che siano incluse tutte le azioni malvagie, cioè
i peccati. Attendo di conoscere il tuo parere.
EVODIO – È come tu dici ed io confermo che tutti
i peccati sono inclusi in questo unico concetto: disto-
gliersi dal mondo immutevole dei valori e volgersi alle
cose mutevoli del divenire. Queste tuttavia sono dispo-
ste razionalmente in un proprio ordine e sono espres-
sioni di una certa bellezza. È dunque di una coscienza

18 Cf. lib. arb. I, 15, 31.


19 Cf. lib. arb. I, 9, 19 - 14, 30.
20 Cf. lib. arb. I, 15, 33.
21 Cf. lib. arb. I, 3, 6.

247
pervertita e derogante dalla finalità rendersi schiava di
esse nel possederle poiché dall’ordinamento e legge di-
vina è stata resa superiore ad esse per dominarle col
proprio potere. E mi pare di vedere già definitivamen-
te risolto anche il problema del principio per cui si agi-
sce male. L’avevamo preso in esame in seguito all’altro
problema del significato dell’agire male 22. Salvo erro-
re, si agisce male, come ha confermato lo svolgimento
della dimostrazione, per libero arbitrio della volontà.
(De libero arbitrio I, 16, 34-35)

3. DAL TIMORE DELLA PENA


ALL’AMORE DELLA GIUSTIZIA

a) Insufficienza del timore della pena

a.1) Per essere interiormente liberi

Siamo liberi, in quanto ci dilettiamo nella legge di


Dio: è la libertà che ci procura questo diletto. Finché
è il timore che ti porta ad agire in modo giusto, vuol
dire che Dio non forma ancora il tuo diletto. Finché
ti comporti da schiavo, vuol dire che ancora non hai
riposto in Dio la tua delizia: quando troverai in lui la
tua delizia, sarai libero 23. Non temere il castigo, ama
la giustizia.
(In Iohannis evangelium 41, 10)

22 Cf. lib. arb. I, 3, 6.


23 Cf. en. Ps. 67, 13: «L’uomo opererà il bene per amore,
non per timore; non per paura della pena, ma per il diletto della
giustizia. Questa è la vera e retta libertà».

248
a.2) Per osservare davvero la Legge divina

Ora, se il precetto della legge si mette in pratica


per paura della pena e non per amore della giustizia,
si agisce servilmente, non liberamente, e quindi non si
mette nemmeno in pratica 24. Non è buono infatti il
frutto che non sorge dalla radice della carità.
(De spiritu et littera ad Marcellinum 14, 26)

a.3) Per essere innocenti davanti a Dio

È in errore chi crede di essere vincitore del pec-


cato se si astiene dal peccato per timore del castigo;
poiché anche se non si compie esternamente l’atto
della passione cattiva, questa è come un nemico che
portiamo dentro di noi. Come può risultare innocen-
te al cospetto di Dio chi desiderasse fare ciò che è
proibito, se gli fosse sottratto il castigo temuto? Per-
ciò è colpevole nella sua propria volontà chi vorrebbe
fare ciò che non è lecito e si astiene dal farlo solo per-
ché non lo può impunemente, poiché, per quanto sta
in lui, preferirebbe che non ci fosse la giustizia che
proibisce e castiga i peccati; e se preferisce che non ci
fosse la giustizia, chi metterebbe in dubbio che, aven-
done la possibilità, la sopprimerebbe? 25. Come può

24 Per l’applicazione di questo principio alla dottrina paoli-


na dell’insufficienza delle opere legali per la giustificazione, se-
condo Gal 2, 16ss., cf. exp. Gal. 43.
25 Cf. nat. et gr. 57, 67: «È infatti sotto la legge chi sente d’a-
stenersi dall’opera del peccato per timore del castigo minacciato

249
essere dunque giusto un nemico così accanito della
giustizia che, se gliene si offrisse l’occasione, ne sop-
primerebbe i precetti per non sopportarne le minacce
o il giudizio? Concludendo, è nemico della giustizia
chi non pecca per timore del castigo: sarà invece ami-
co della giustizia chi non pecca per amore di essa, poi-
ché allora veramente avrà timore del peccato. Mi spie-
go meglio: chi teme la geenna, non ha paura di pecca-
re ma di bruciare. Teme invece di peccare chi odia il
peccato stesso come la geenna. Ecco qual è il timore
casto di Dio e che resta per tutti i secoli (cf. Sal 19
[18], 10). Il timore del castigo invece ha il suo tor-
mento e non è insito nell’amore: l’amore perfetto lo
caccia lontano (cf. 1 Gv 4, 18) 26.
(Epistulae 145, 4)

a.4) Per unire la fede alla carità

Che c’è di grande nel temere il male? È una gran


cosa non fare il male; gran cosa fare il bene. Giacché
anche il ladro teme il male, e dove non può non lo fa:
eppure è ladro. Dio infatti chiede conto al cuore, non
alla mano. Il lupo giunge all’ovile delle pecore, ha in-

dalla legge e non per amore della giustizia, non ancora libero e di-
staccato dalla volontà di peccare. Nella sua stessa volontà è reo,
perché, se fosse possibile, preferirebbe che non ci fosse nulla da
temere per fare liberamente ciò che desidera occultamente». Cf.
anche s. novi 11, 13; spir. et litt. 8, 13; en. Ps. 93, 1; nat. et gr. 57,
67; c. ep. Pel. I, 9, 15; en. Ps. 118, 11, 1.
26 Per la differenza fra timore servile e timor casto, vedi in-
fra la sezione d.

250
tenzione di penetrarvi, di scannare, di divorare; i pa-
stori vigilano, i cani abbaiano; non può far nulla, non
porta via, non uccide; ma tuttavia lupo viene e lupo si
allontana. O forse per il fatto che non portò via alcu-
na pecora, venne lupo e si allontanò pecora? Bramo-
so giunge il lupo, bramoso torna indietro; ma è lupo
se lo agita la brama, è lupo se se ne va ululando 27. In-
terpella dunque te stesso, chiunque sei che vuoi giu-
dicare, e considera se non fai il male nel caso in cui
puoi farlo senza essere punito dagli uomini; temi Dio
allora. Nessuno è presente se non tu, colui al quale fai
del male e Dio che vede entrambi; attenzione in tal ca-
so: temi. È poco ciò che dico: In tal caso temi il male;
in tal caso ama il bene. Giacché non sei ancora perfet-
to, anche se non fai il male per timore dell’inferno.
Oso dire: Se è il timore dell’inferno dal trattenerti a
fare il male, in te è certamente presente la fede, per-
ché credi che ci sarà il giudizio di Dio. Mi rallegro
della tua fede, però ancora ho timore della tua mali-
zia. Che significa ciò che ho detto? Che se non fai il
male per timore dell’inferno, non fai il bene per amo-
re della giustizia.
Una cosa è temere il castigo, altra è amare la giu-
stizia. Deve trovarsi in te un amore casto, un amore
per il quale devi desiderare di vedere non il cielo e la
terra, non le superfici delle acque del mare, non gli
spettacoli frivoli, non i folgorii e gli splendori delle
gemme; ma desidera di vedere il Dio tuo, di amare il
Dio tuo, perché è stato detto: Carissimi, noi siamo fi-

27 Cf. s. 169, 6, 8.

251
gli di Dio, ma non è stato ancora rivelato ciò che sare-
mo; sappiamo però che quando egli si sarà manifestato,
noi saremo simili a lui perché lo vedremo così come
egli è (1 Gv 3, 2). Ecco per quale visione devi fare il
bene, ecco per quale visione non devi fare il male. Se
davvero ti è caro vedere il Dio tuo, se in questo pel-
legrinare hai un desiderio ardente di quell’amore, ec-
co il Signore Dio tuo ti mette alla prova, quasi a dir-
ti: Ecco, fa’ ciò che vuoi, sazia le tue brame, spingi ol-
tre la tua depravazione, da’ spazio alla lussuria, con-
sidera lecito tutto ciò che ti procurerà piacere; non te
ne faccio una colpa da punire, non ti mando all’infer-
no, soltanto mi rifiuterò di mostrarti il mio volto. Se
ne hai provato terrore, hai amato. Se alle parole: Il
Dio tuo si rifiuterà di mostrarti il suo volto, il tuo
cuore è stato acceso da tremiti, se nel non vedere il
tuo Dio hai veduto un duro castigo, hai avuto un
amore disinteressato. Pertanto, se il mio discorso ha
trovato nei vostri cuori una qualche scintilla di puro
amore per Dio, alimentatela. Per farla crescere, ricor-
rete alla preghiera, all’umiltà, al dolore della peniten-
za, all’amore della giustizia, alle opere buone, alle im-
plorazioni sincere, ad una condotta di vita irrepren-
sibile, all’amicizia fedele. Sollevate in voi questa scin-
tilla di autentico amore, aumentatela in voi; quando
questa si sarà sviluppata ed avrà suscitato una fiam-
ma adeguatissima e vivacissima, consuma il fieno di
tutte le passioni carnali.
(Sermones 178, 9, 10 - 10, 11)

252
b) Utilità iniziale del timore della pena

b.1) Dal buon servo nasce il buon figlio

Colui che per timore non fa il male, desiderereb-


be farlo se gli fosse possibile. Perciò, anche se non ne
ha la possibilità, ne ha il desiderio. Non lo faccio, egli
dice. Perché? Perché temo. Non ami ancora la giusti-
zia, sei ancora un servo: sii un figlio. Ma è dal buon
servo che nasce un buon figlio. Per ora non fare il ma-
le a motivo del timore, imparerai poi a non farlo an-
che per amore 28. […] Non commettere il furto, abbi
timore dell’inferno: l’animo preferirebbe che non vi
fosse l’inferno nel quale rischia di precipitare.
Quand’è che incomincia ad amare la giustizia, se non
quando preferisce che non esista il furto, anche se
non esistesse l’inferno nel quale sono gettati i ladri?
Questo è amare la giustizia.
(Enarrationes in Psalmos 32, II, 1, 6)

b.2) Il timore pedagogo della legge,


in attesa della carità

Ora, poiché mi dici: Temo la geenna, temo di


bruciare, temo di essere punito per l’eternità, che co-

28 Cf. Io. ev. tr. 41, 10: «Non sei ancora arrivato ad amare la
giustizia? Comincia ad aver timore del castigo, onde giungere ad
amare la giustizia». Il timore del castigo divino serve soprattutto
ai potenti, che non hanno sopra di sé autorità umane da temere:
cf. en. Ps. 149, 15.

253
sa dirò? È fuori luogo il tuo timore, non ha senso il
tuo timore? Dal momento che proprio il Signore
ispirò timore dopo aver dissipato quel timore, ed as-
serì dicendo: Non temete coloro che uccidono il corpo
e dopo non possono fare più nulla; ma temete colui che
ha il potere di far perire e il corpo e l’anima nella geen-
na infuocata; sì, ve lo dico, temete costui (Lc 12, 4-5).
Allora, dopo che il Signore ha suscitato timore e lo ha
inculcato con forza e ha duplicato la minaccia ripe-
tendo la parola, che starò a dire da parte mia? Temi a
sproposito? Non dirò di tali cose. Devi proprio teme-
re, niente si teme con più vantaggio; non c’è nulla che
tu debba temere di più. Ma ti domando: Se Dio non
ti vedesse, quando compi il male, né alcuno potesse
accusarti al giudizio di lui, lo faresti? Esaminati. Evi-
dentemente non puoi rispondere a tutte le mie paro-
le; considera bene te stesso. Lo faresti? Se lo facessi,
vuol dire che temi la pena, non ami ancora la castità,
non hai ancora la carità; hai paura del male, è un ti-
more servile il tuo, non è ancora attaccamento al be-
ne. Ma infine abbi timore, perché questa paura ti cu-
stodisca e ti guidi all’amore. Infatti questo timore, per
il quale ti fa orrore la geenna, e perciò non commetti
disonestà, ti trattiene e così non permette che pecchi
l’animo che interiormente vuole peccare. Il timore in-
fatti è per così dire un custode, quasi un pedagogo
della legge; è la lettera che minaccia, non è ancora la
grazia che viene in aiuto. Ebbene tale inquietudine ti
custodisca finché eviti il male per timore, ma verrà la
carità; entra nel tuo cuore e per quanto essa si affer-
ma tanto di timore va via. Che tu non commettessi il
male, questo operava il timore; la carità procura che

254
tu eviti il peccato, anche nell’eventualità che tu possa
commetterlo impunemente.
(Sermones 161, 8, 8)

c) L’amore della giustizia, dono di Dio

c.1) Da Dio l’amore che libera dal peccato

Anche qui 29 bisogna considerare tre cose: l’uo-


mo, il peccato, la legge. [Paolo] afferma infatti che
l’uomo è soggetto alla legge fino a quando vive nel
peccato; ugualmente la donna è soggetta alla legge del
marito fino a quando egli vive (cf. Rm 7, 1-2). Ora qui
per peccato si deve intendere quello che sopravviene
a causa della legge. Questo peccato, egli osserva, ol-
trepassa la misura perché, pur essendo già peccato in
se stesso, lo si commette ugualmente e si aggrava con
l’aggiunta della trasgressione. Dove infatti non c’è leg-
ge, non c’è nemmeno trasgressione (Rm 4, 15). Questo
è il senso delle parole: Perché diventi peccatore in som-
mo grado e il peccato sia tale per mezzo del precetto
(Rm 7, 13). Per questo motivo, sebbene la legge proi-
bisca di peccare, non dice che è stata data per libera-
re dal peccato, ma per mostrare il peccato; l’anima,
che ne è schiava, deve convertirsi alla grazia del Libe-
ratore per essere liberata dal peccato: Perché per mez-
zo della legge si ha la conoscenza del peccato (Rm 3,
20). Altrove dice: Ma il peccato, per rivelarsi peccato,

29 In Rm 7, 4ss.

255
mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene (Rm 7,
13). Dove dunque non c’è la grazia del Liberatore, il
divieto di peccare aumenta il desiderio dei peccati. Il
che ha però una sua utilità: che l’anima si senta inca-
pace di svincolarsi dalla schiavitù del peccato e così,
sbollito ed estinto ogni orgoglio, si sottometta al suo
Liberatore e l’uomo dica in sincerità: A te si stringe
l’anima mia (Sal 63 [62], 9); e così non è più sotto la
legge del peccato ma nella legge della giustizia. Ora si
dice legge di peccato non perché la stessa legge è pec-
cato ma perché è imposta ai peccatori. Per questo si
dice anche legge di morte, perché la morte è il salario
del peccato (Rm 6, 23), il pungiglione della morte è il
peccato e la forza del peccato è la legge (1 Cor 15, 56).
Col peccato precipitiamo infatti nella morte. E noi
pecchiamo più gravemente quando c’è la proibizione
della legge, che se non ci fosse alcun divieto della leg-
ge. Ma con l’aiuto della grazia noi adempiamo senza
fatica e con grande piacere le stesse onerose prescri-
zioni della legge. La legge dunque del peccato e della
morte, cioè quella che è stata imposta a coloro che
peccano e muoiono, comanda soltanto di non deside-
rare il male e tuttavia noi lo desideriamo. Invece la
legge dello spirito e della vita, che appartiene alla gra-
zia e libera dalla legge del peccato e della morte, ci
concede di non desiderare il male e di osservare i pre-
cetti della legge, non già per timore come schiavi del-
la legge, ma per amore come amici e servi della giusti-
zia, da cui quella legge proviene. Bisogna infatti servi-
re la giustizia con spirito di libertà e non di schiavitù,
cioè più per amore che per timore. Per questo è det-
to in tutta verità: Togliamo dunque ogni valore alla leg-

256
ge mediante la fede? Niente affatto, anzi confermiamo
la legge (Rm 3, 31). La fede infatti opera ciò che la leg-
ge comanda. La legge è dunque confermata dalla fe-
de; se non c’è la fede, la legge prescrive solamente e
rende colpevoli quelli che non osservano i comandi, al
fine di convertire finalmente alla grazia del Liberato-
re coloro che gemono nell’incapacità di adempiere
quanto è stato comandato.
(De diversis quaestionibus octoginta tribus 66, 1)

c.2) Da Dio l’amore


che consente di adempiere la legge

Vi dico, carissimi, una verità che voi stessi potre-


te considerare e controllare facilmente: la carità porta
a compimento la legge. Il timore delle pene sollecita
l’uomo ad agire, ma in maniera ancora servile. Se in-
fatti agisci bene perché temi di soffrire un castigo, o
se non agisci male perché temi di soffrire un castigo,
qualora qualcuno ti promettesse l’impunità, subito ti
abbandoneresti all’iniquità. Se ti si dicesse: Sta’ sicu-
ro, non avrai alcun castigo, fa’ pure: lo faresti senz’al-
tro! Eri trattenuto infatti [dal fare il male] dal timore
della pena, non dall’amore della giustizia. Nei tuoi ri-
guardi infatti ancora non operava la carità. Osserva
dunque come opera la carità. Amiamo colui che te-
miamo in maniera tale da temerlo con amore casto.
Infatti anche la sposa casta teme il marito. Ma distin-
gui timore da timore. La sposa casta teme di essere la-
sciata sola dal marito che è assente; la sposa adultera
teme di venire sorpresa dal marito che sopraggiunge

257
all’improvviso 30. La carità dunque è il completamen-
to della legge: perché l’amore perfetto caccia via il ti-
more (1 Gv 4, 18). Cioè il timore servile, che proviene
dal peccato. Infatti il timore casto del Signore rimane
per sempre (Sal 19 [18], 10). Se dunque la carità por-
ta a compimento la legge, donde viene questa carità?
Pensateci, fate attenzione e vi accorgerete che la carità
è un dono dello Spirito. Infatti l’amore di Dio è stato
diffuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo
che ci è stato dato (Rm 5, 5) 31.
(Sermones 270, 4)

c.3) Da Dio l’amore che scaccia i desideri cattivi

La legge esige il timore, la speranza si deve alla


grazia. Ma che differenza c’è fra la legge e la grazia dal
momento che è unico il datore e della legge e della
grazia? La legge incute timore in chi presume di se
stesso, la grazia sostiene chi ripone la speranza in Dio.
La legge, ripeto, incute timore; non trascurate l’asser-
to perché è breve; soppesatelo, e risulta di grande im-
portanza. Fate attenzione a quello che ho detto, pren-
dete ciò che vi presentiamo, riconoscete da chi lo as-
sumiamo. La legge incute timore in chi presume di se
stesso, la grazia sostiene chi ripone la speranza in Dio.
Che dispone la legge? Molti precetti, e chi può enu-
merarli? Ne ripresento un solo precetto, piccolo e di-

30 Cf. Io. ev. tr. 43, 7; en. Ps. 127, 8.


31 Cf. en. Ps. 77, 10; s. 251, 7, 6 e i testi citati infra nella se-
zione 4.

258
screto, quello che ha ricordato l’Apostolo, insignifi-
cante; vediamo chi ce la fa a sostenerlo. Non desidera-
re (Es 20, 17; Dt 5, 21; Rm 7, 7). Come va, fratelli?
Abbiamo ascoltato la legge; se non interviene la gra-
zia, hai udito la tua condanna. Perché mi ti fai vanto,
chiunque sei in ascolto di questo e presumi di te, per-
ché mi vanti la tua innocenza? Come ti puoi lusinga-
re di essa? Puoi dire: Non porto via la roba agli altri;
lo sento, lo credo, fors’anche lo vedo pure, ma tu hai
ascoltato: Non desiderare. Non mi unisco alla moglie
altrui: anche questo sento, lo credo, me ne accorgo.
Ma tu hai ascoltato: Non desiderare. Com’è che vai
guardando in giro al di fuori di te e non ti osservi den-
tro? Affonda il tuo sguardo e avvertirai un’altra legge
nelle tue membra. È dentro di te che devi scrutare;
perché ti sfuggi? Scendi all’interno di te. Scorgerai
un’altra legge nelle tue membra che si oppone alla
legge della tua mente e ti rende schiavo della legge del
peccato che è nelle tue membra (cf. Rm 7, 23). A ra-
gione ti si nasconde la bontà di Dio. Ti rende schiavo
la legge posta nelle tue membra, inconciliabile con la
legge della tua mente. A quella bontà che ti è nasco-
sta attingono i santi angeli: da schiavo non puoi assue-
farti alla bontà e goderne. Non conoscevi la concupi-
scenza se la legge non avesse detto: Non desiderare
(Rm 7, 7). Hai ascoltato, sei stato preso dal timore; hai
provato a reagire, non sei riuscito a prevalere. Infatti,
presa occasione dal comandamento, il peccato ha procu-
rato la morte (cf. Rm 7, 11). Sono parole dell’Aposto-
lo, lo riconoscete di certo: Presa occasione dal coman-
damento, il peccato ha suscitato in me ogni sorta di de-
sideri (Rm 7, 8). Di che menavi vanto in superbia? Ec-

259
co, l’avversario ti vince con le tue stesse armi. Tu cer-
tamente desideravi un comandamento che consoli-
dasse la tua posizione; ecco che nel comandamento il
nemico ha trovato occasione per inserirsi. Infatti, pre-
sa occasione dal comandamento, il peccato – dice – mi
ha tratto in inganno e, per mezzo di esso, mi ha ucciso
(Rm 7, 11). Che vuol dire ciò che è detto: Il nemico ti
vince con le tue stesse armi? Ascolta il medesimo
Apostolo che prosegue dicendo: Pertanto la legge è
certamente santa e santo e giusto e buono il comanda-
mento (Rm 7, 12). Rispondi ora ai riformatori della
legge; rispondi con l’autorità dell’Apostolo: La legge è
santa e il comandamento è santo, è giusto, è buono. Al-
lora ciò che è bene è diventato morte per me? No dav-
vero; ma il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la
morte servendosi del bene (Rm 7, 12-13). Da che que-
sto, se non dal fatto che, ricevuto il comandamento, è
subentrato in te il timore, ti sei chiuso all’amore? Ti
ha spaventato la sanzione, ti è mancato l’amore alla
giustizia. Chi teme il castigo non si aspetta altro, se
possibile, che di fare a suo piacere e di essere libero
da timori. Dio proibisce l’adulterio; hai desiderato la
moglie altrui, non l’avvicini, eviti l’adulterio; ne è da-
ta l’occasione, hai il tempo, il luogo, nessuno che sia
testimone, tu nondimeno ti astieni; perché? Perché
temi il castigo. Ma nessuno verrà a saperlo. Neppure
Dio, forse? Proprio così, perché Dio sa che cosa hai
intenzione di fare, tu non lo fai; davanti a Dio che ap-
punto minaccia tremi, non hai amore per lui che ti dà
i suoi precetti. Perché non commetti adulterio? Per-
ché se lo avrai fatto sarai condannato all’inferno. Tu
temi il fuoco. O se amassi la castità, non lo faresti,
κ

260
benché dovessi restare comunque impunito. Se Dio ti
dicesse: Ecco, fa’ pure, non ti condannerò, non ti
manderò all’inferno, però non vedrai mai il mio volto.
Se non lo facessi a motivo di tale minaccia, è per amo-
re di Dio che non lo faresti, non per timore della con-
danna. Ma lo faresti, nel caso faresti appunto così,
non spetta a me giudicare infatti. Interviene il soccor-
so della grazia, che fa i santi; se non lo fai, perché de-
testi la macchia dell’adulterio, perché ami chi coman-
da per ottenere chi promette, non perché temi chi
condanna; è già frutto della grazia non farlo tuo, non
attribuirlo alle tue forze. Ti astieni con soddisfazione,
bene; lo fai per amore, bene; approvo, consento. La
carità agisce in te quando operi di tua volontà. Se spe-
ri nel Signore, già assapori la bontà.
Ma da che ti viene codesta carità? Ammesso che
tu l’abbia! Io temo infatti che tu eviti il peccato per-
ché sei tuttora nel timore, e che tu ti veda superiore.
Ora, se è per amore che ti astieni, sei veramente gran-
de. Hai la carità? La possiedo, rispondi tu. Da che co-
sa ti viene? Da me stesso. Se l’hai da te stesso sei lon-
tano dal gustare la bontà. Amerai te stesso, perché
amerai la fonte dalla quale ti viene. Ma io ti provo che
non la possiedi. In quanto ritieni infatti che da te stes-
so ti viene un bene così grande, per questo non credo
che la possiedi. È certo che se tu l’avessi, sapresti da
chi ti debba venire. Ti deriva da te la carità, come un
qualcosa di breve durata? Se parlassi le lingue degli
uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, saresti
come un cembalo che tintinna e un bronzo che risuo-
na. Se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la scien-
za, la pienezza della profezia e la pienezza della fede,

261
così da trasportare le montagne, ma non avessi la ca-
rità, tutte queste qualità non ti potrebbero giovare. Se
distribuissi tutti i tuoi averi ai poveri e dessi il tuo cor-
po ad essere bruciato, ma non avessi la carità, saresti
un nulla (cf. 1 Cor 13, 1-3). Quanto è grande il valore
di questa carità se, nel caso sia venuta meno, a nulla
giovano tutte le cose? Paragonala non alla tua fede,
non alla tua scienza, non alla tua lingua; paragona la
carità ai termini di confronto minori, all’occhio del
tuo corpo, alla mano, al piede, al ventre, ad un qual-
che infimo membro; forse che ad un certo punto que-
ste minime cose sono paragonabili alla carità? Ebbe-
ne, ricevi da Dio l’occhio e il naso, ma la carità sei tu
a dartela? Se ti sei dato la carità che supera ogni cosa
ti sei fatto di Dio un dappoco. Che ti può dare di più
Dio? Qualsiasi cosa ti avrà dato, vale di meno. Supe-
ra tutto la carità che ti sei dato da te. Ma se la possie-
di, non te la sei data da te. Che cos’hai infatti che tu
non abbia ricevuto (1 Cor 4, 7)? Chi ha dato a me, chi
ha dato a te? Dio. Riconosci chi dona perché tu non
avverta chi dà la condanna. Per la fede, secondo le
Scritture, Dio ci ha dato la carità, grande bene, la ca-
rità che supera tutte le cose 32. Dio ti ha dato: perché
l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori; forse
da te? No davvero: per mezzo dello Spirito Santo che ci
è stato dato (Rm 5, 5).
(Sermones 145, 3-4)

32 In quanto espressione di carità, anche il desiderio del be-


ne proviene tutt’intero da Dio; non è vera pertanto la tesi soste-
nuta dai vescovi pelagiani, secondo la quale Dio perfezionerebbe
un desiderio buono al quale noi stessi daremmo inizio: cf. c. ep.
Pel. II, 8, 17; 9, 21.

262
c.4) Da Dio l’amore che rende operosa la fede

Credono a Dio anche quelli che sono sotto la leg-


ge (cf. Rm 6, 14) e per timore della pena cercano d’at-
tuare la propria giustizia, senza attuare quindi la giu-
stizia di Dio (cf. Rm 10, 3) 33. Questa si attua median-
te la carità, alla quale non piace se non ciò che è leci-
to, e non mediante il timore, che nell’agire è costretto
a seguire il lecito, mentre ben altro ha nel volere con
il quale preferirebbe, se possibile, che fosse lecito ciò
che non è lecito. Anch’essi dunque credono in Dio,
perché infatti, se non credessero in modo assoluto,
non avrebbero nemmeno paura del castigo della leg-
ge. Ma non è questa la fede che l’Apostolo elogia
[…]. Quello dunque è timore servile e quindi, benché
in esso si creda al Signore, tuttavia non si ama la giu-
stizia, ma si teme la condanna. […] Questa è infine la
fede che opera per mezzo dell’amore (cf. Gal 5, 6),
non del timore, non spaventata dalla pena, ma inna-
morata della giustizia. Da dove viene dunque cotesto
amore, cioè la carità per la quale la fede si fa operosa,
se non da Dio da cui la fede stessa l’ha impetrata? In-
fatti non ci sarebbe in noi, per quanto poca ce ne sia,
se non venisse riversata nei nostri cuori per mezzo
dello Spirito Santo che ci è stato dato (cf. Rm 5, 5). Si
dice proprio che è stata riversata nei nostri cuori la ca-
rità di Dio: non quella con la quale Dio stesso ama
noi, ma quella con la quale Dio si fa amare da noi. Al-
lo stesso modo in cui la giustizia di Dio è quella per la
quale diventiamo giusti noi per sua grazia (cf. Rm 3,

33 Vedi la sezione 4, c.

263
24) 34, e la salvezza del Signore è quella con la quale
egli salva noi (cf. Sal 3, 9), e la fede di Gesù Cristo è
quella con la quale Gesù fa fedeli noi (Gal 2, 16).
Questa è la giustizia di Dio, che egli non solo ci inse-
gna con i precetti della sua legge, ma ci elargisce con
il dono del suo Spirito.
(De spiritu et littera ad Marcellinum 32, 56)

d) Dal timore servile al timor casto

d.1) Due generi di timore

Che dire dei due generi di timore? C’è il timore


servile e il timore casto: uno è il timore di colui che
teme il castigo, l’altro di chi teme di perdere la giu-
stizia. Il timore del castigo è il timore servile 35. È
una gran cosa temere il castigo? Questo timore ce
l’ha anche lo schiavo più iniquo, anche il ladrone più
crudele. Non è gran cosa temere il castigo, ma è gran
cosa amare la giustizia. Chi dunque ama la giustizia,
non teme nulla? Teme, sì, ma non tanto di incorrere
nel castigo, quanto piuttosto di perdere la giustizia
(cf. 1 Gv 4, 18). Siatene convinti, fratelli, e in base a
questo rendetevi conto di ciò che amate. Qualcuno
di voi ama il denaro. Riuscirò a trovare qualcuno che
non lo ama? Ebbene, proprio perché egli ama riu-
scirà a capire quanto dico. Egli teme un danno. Per-

34 Vedi la sezione 4, d.1.


35 Cf. en. Ps. 118, 25, 7; s. 161, 9, 9.

264
ché teme un danno? Perché ama il denaro. Quanto
più lo ama tanto più teme di perderlo. Così, se uno
ama la giustizia, paventa piuttosto un danno morale,
teme la perdita della giustizia più di quanto tu non
tema la perdita del denaro. Ecco il timore casto, quel
timore che permane nei secoli dei secoli (cf. Sal 19
[18], 10): la carità non lo elimina né lo caccia via 36,
ma, anzi, lo accoglie, lo custodisce e se lo tiene stret-
to come un compagno fedele. Siamo in cammino
verso il Signore, finché lo vedremo faccia a faccia. Il
timore casto ci custodisce presso di lui; non ci reca
turbamento, ma ci rassicura. La donna adultera te-
me che venga suo marito, la donna casta teme che
suo marito se ne vada.
(In Iohannis evangelium 43, 7)

d.2) Timor casto e carità

Temiamo il Signore con timore casto: quel timo-


re che dura in eterno. C’è infatti un altro timore in-
compatibile con la carità, come insegna Giovanni:
Nella carità non c’è timore, anzi la carità perfetta esclu-
de il timore (1 Gv 4, 18). Non di ogni timore è detto
che viene eliminato dalla carità; in un salmo infatti si
dice: Il timore casto del Signore rimane nei secoli dei
secoli (Sal 19 [18], 10). C’è dunque un timore che ri-
mane e un altro che viene escluso [dalla carità]. Quel-
lo che viene escluso non è un timore casto, mentre è

36 Mentre scaccia quello servile: cf. en. Ps. 127, 7 e 1 Gv 4, 18.


265
casto quello che rimane. Qual è il timore che viene
escluso? Abbiate la bontà di stare attenti! Ci sono al-
cuni che temono [Dio] per il solo motivo di sfuggire
ai mali di questo mondo, per non essere colpiti da ma-
lattie, per scongiurare danni, privazioni, perdite di
persone care, per eludere condanne, prigionia o altre
sofferenze. Per queste ragioni temono e paventano,
ma certamente un simile timore non è casto. Ascolta
ancora! C’è chi non teme le sofferenze di questo mon-
do ma ha paura dell’inferno, paura che, del resto, an-
che il Signore ci incute. Lo avete ascoltato alla lettura
del Vangelo: Laggiù non morrà il loro verme né si spe-
gnerà il fuoco che li divora (Is 66, 24 in Mc 9, 48).
Ascoltando queste minacce, che toccheranno certa-
mente agli empi, alcuni, presi da timore, si astengono
dal peccato. Hanno paura e per questa paura non
commettono peccati. Son persone che temono [il ca-
stigo] ma non ancora amano la giustizia. Tuttavia quel
timore che li spinge ad astenersi dal peccato crea in
loro un’inclinazione costante per la giustizia, e ciò che
prima era difficile comincia a piacere e si assapora la
dolcezza di Dio. A tal punto l’uomo inizia a vivere
nella giustizia non per timore delle pene ma per amo-
re dell’eternità. La carità ha bandito un certo timore,
sostituendolo con il timore casto.
Cos’è questo timore casto, in riferimento al qua-
le dobbiamo, miei fratelli, intendere le parole: Beati
tutti coloro che temono il Signore [e] che camminano
nelle sue vie (Sal 128 [127], 1)? Se con l’aiuto del Si-
gnore nostro Dio potrò descrivere questo timore ca-
sto, forse molti, mossi proprio da questo timore ca-
sto, si sentiranno infiammati per conseguire l’amore

266
casto. Mi sembra però che a spiegarvi un simile timo-
re non riuscirei se non ricorrendo a un paragone. Im-
maginate una donna casta che teme suo marito, e im-
maginatevi un’altra donna che tema suo marito ma
sia adultera. La donna casta teme che suo marito si
allontani, l’adultera teme che torni. E se fossero
tutt’e due assenti? L’adultera teme che arrivi, l’altra si
preoccupa che tardi. Il nostro Sposo è, in certo qual
modo, lontano; colui che ci ha dato per caparra lo
Spirito Santo è assente. È assente colui che ci ha re-
denti col suo sangue, lo Sposo del quale nulla può es-
serci di più bello. […] Bello dunque è il nostro Spo-
so, ma [per ora] assente. La sua sposa si interroghi
per conoscere se sia casta. Tutti noi, fratelli, facciamo
parte delle sue membra, e se siamo sue membra, sia-
mo un unico uomo. Ebbene, ciascuno esamini se
stesso per vedere quale timore abbia: se quello in-
compatibile con la carità ovvero il timore casto che
dura in eterno. Oggi ciascuno ha avuto l’occasione
per saggiarlo, ma, ve lo ripeto, per l’avvenire ne avrà
altre. Il nostro Sposo è assente; e tu, interrogando la
tua coscienza, sei contento che venga ovvero ti piace
che tardi ancora? Esaminatevi, fratelli! Io ho picchia-
to alla porta del vostro cuore; lui ha già ascoltato la
risposta del vostro uomo interiore. Cosa abbia detto
la coscienza di ciascuno, non è potuto arrivare al mio
orecchio poiché io sono un uomo, ma vi ha ascoltati
colui che, assente corporalmente, vi è presente con la
potenza della sua maestà. E quanti di voi, se si dices-
se loro: Ecco Cristo è in arrivo, domani sarà il giorno
del giudizio, non direbbero: Magari venisse davvero!
Chi parla così dimostra d’amare molto. Che se al

267
contrario si dicesse loro: Cristo tarderà a venire,
avrebbero timore di questo ritardo, perché casto è il
loro timore, e come ora temono il ritardo, così, dopo
la sua venuta, potrebbero temere una [nuova] lonta-
nanza. Sarà comunque un timore casto e, per questo,
sarà anche sereno ed esente da ansietà. Non saremo
certo abbandonati da lui quando ci avrà incontrati, se
da lui siamo stati cercati prima che noi stessi lo cer-
cassimo. Ecco, miei fratelli, una nota caratteristica
del timore casto: esso nasce dall’amore. Il contrario è
di quell’altro timore, quello che non è casto: esso te-
me la presenza [della persona temuta] e ne teme i ca-
stighi. Se compie il bene, lo compie per paura: non
per timore di perdere il bene [che possiede], ma per
la paura di subire il male [che gli si minaccia]. Non
teme di perdere l’intimità del suo Sposo bellissimo,
ma teme di essere condannato all’inferno. Anche
questo timore è, in fondo, buono e utile; tuttavia non
durerà in eterno, non essendo appunto quel timore
casto che dura nei secoli dei secoli.
Quando si ha il timore casto? Voglio porvi una
domanda che vi spinga a interrogare voi stessi. È ve-
ro che Dio non cessa di parlarci attraverso le sue
Lettere 37, ma supponete che egli venga a parlarvi di
persona e vi dica: Vuoi peccare? Pecca pure e fa’
quel che ti pare e piace. Sia tuo tutto quello che in
terra ti attrae. Se c’è uno col quale sei adirato, muoia
all’istante; se c’è un altro che vuoi derubare, deruba-
lo pure; se vuoi percuotere un altro, percuotilo; se ti

37 Cioè attraverso le Scritture.


268
piace che uno sia condannato, lo si condanni; se uno
ha qualcosa di cui tu vorresti impadronirti, prenditi
pure ogni cosa. Che nessuno osi opporti resistenza o
dirti: Ma cosa stai facendo? Nessuno ti minacci di
non fare [la tale o tal altra cosa]; nessuno ti chieda
conto del perché l’hai fatta. Che tutti i beni della ter-
ra da te bramati ti siano dati in abbondanza e tu pos-
sa vivervi immerso, non per un po’ di tempo, ma per
sempre. Solo che, però, tu non vedrai in eterno il
mio volto… Miei fratelli, perché il vostro sussulto se
non perché è già nato in voi il timore casto che dura
in eterno? Perché il vostro cuore è rimasto colpito?
Fa’ che Dio venga a dirti: Tu non vedrai in eterno il
mio volto. Ecco, tu godrai di tutte le fortune del
mondo e avrai tutti i beni temporali, fino ad esserne
sommerso; non li perderai né dovrai mai lasciarli.
Cosa vuoi di più? Il timore casto piangerebbe, nono-
stante tutto questo, e gemendo esclamerebbe: Al
contrario, vadano in malora tutte queste cose, pur-
ché veda il tuo volto! Il timore casto, prendendo le
parole del salmo griderebbe: O Dio degli eserciti,
convertici e mostraci il tuo volto, e noi saremo salvi
(Sal 80 [79], 8). Ovvero, con l’altro salmo: Una sola
cosa ho chiesto al Signore. Osserva come sia ardente
in costui il timore casto, l’amore autentico e sincero.
Una sola cosa ho chiesto al Signore e questo conti-
nuerò a chiedere. Che cosa? Abitare nella casa del Si-
gnore tutti i giorni della mia vita. Ma questo non lo
chiederà forse per conseguire una prosperità terre-
na? Ascolta come continui. Al fine di contemplare la
dolcezza del Signore ed essere protetto in qualità di
suo tempio (Sal 27 [26], 4). Cioè: essere suo tempio

269
ed essere da lui protetto. Quest’unica cosa dovete
anche voi chiedere. Per il suo conseguimento, e non
per altro, dovete anche voi addestrare il cuore e te-
mere soltanto la sua perdita 38. Così facendo, non in-
vidierete alcuna delle prosperità terrene e spererete
nell’unica vera felicità, e farete sul serio parte del
corpo di colui al quale [nel salmo] si canta: Beati tut-
ti coloro che temono il Signore [e] camminano nelle
sue vie (Sal 128 [127], 1).
(Enarrationes in Psalmos 127, 7-9)

4. GIUSTIZIA DERIVANTE DALLA LEGGE


E GIUSTIZIA DERIVANTE DA DIO

a) Legge mosaica e giustificazione

a.1) Insufficienza della legge per la giustificazione

Sono pertanto nemici della croce del Cristo tutti


coloro che, cercando di stabilire la propria giustizia

38 In s. 161, 9, 9 Agostino presenta un grado forse ancor più


perfetto di timor casto: quello di chi rifugge il peccato non solo
per il desiderio di vedere Dio (e quindi per essere veramente feli-
ce), ma anche per il timore di dispiacere a Colui che ama: «Quel-
lo, non volendo dispiacere agli occhi del Padre, non del giudice
terribile, è preoccupato non di essere condannato, non di essere
punito, non di essere torturato, ma di turbare la gioia del Padre,
di rendersi spiacente agli occhi di chi lo ama. Infatti, se ama a sua
volta e si accorge che il Signore lo ama, non commette ciò che di-
spiace a chi lo ama».

270
derivante dalla legge, ossia dalla lettera che comanda
soltanto e non dallo Spirito che fa osservare il coman-
do, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio (cf. Rm
10, 3). Poiché se diventassero eredi coloro che proven-
gono dalla legge, sarebbe resa vana la fede (Rm 4, 14).
Se la giustificazione viene dalla legge, il Cristo è morto
invano (Gal 2, 21), è dunque annullato lo scandalo del-
la croce (Gal 5, 11). E per questo nemici della croce
del Cristo sono coloro 39 che dicono che la giustifica-
zione viene tramite la legge, alla quale spetta di co-
mandare e non di aiutare. La grazia di Dio invece tra-
mite il Signore Gesù Cristo nello Spirito Santo aiuta
la nostra debolezza.
(Contra duas epistulas Pelagianorum III, 7, 22)

a.2) Insufficienza del libero arbitrio e della legge per


compiere le opere della giustizia

Viceversa ci si deve opporre con la massima de-


cisione ed energia a coloro 40 che attribuiscono alla
forza della volontà umana da sola senza l’aiuto di
Dio la possibilità o di raggiungere la perfezione del-
la giustizia o di tendere ad essa con profitto. Quan-
do costoro sono incalzati a dire per quale ragione
presumono che ciò avvenga senza l’aiuto di Dio, si
tirano indietro e non sanno fare più tale affermazio-
ne, rendendosi conto di quanto sia empia ed insop-

39 I Pelagiani.
40 Si tratta sempre di Pelagio e dei Pelagiani.

271
portabile. Quanto però alla ragione per cui tali risul-
tati non si ottengono di fatto senza l’aiuto di Dio, af-
fermano che è duplice: perché è Dio che ha creato
l’uomo con il libero arbitrio della volontà e perché è
Dio stesso che con i suoi precetti insegna all’uomo
come deve vivere e certamente l’aiuta sottraendolo
all’ignoranza con i suoi insegnamenti. In tal modo
l’uomo nel suo operare saprà che cosa deve evitare e
a che cosa deve mirare, e quindi per mezzo del libe-
ro arbitrio che gli è innato per natura, imboccando
la strada indicatagli e vivendo nella continenza e nel-
la giustizia e nella pietà, meriterà d’arrivare alla vita
beata e insieme eterna.
Noi al contrario diciamo che la volontà umana
viene aiutata da Dio a compiere le opere della giusti-
zia nel modo seguente: oltre ad essere stato creato con
il libero arbitrio [della volontà], oltre a ricevere la
dottrina che gli comanda come deve vivere, l’uomo ri-
ceve fin d’ora mentre cammina nello stato di fede e
non di visione lo Spirito Santo, il quale suscita nel suo
animo il piacere e l’amore di quel sommo e immuta-
bile bene che è Dio. Egli allora in forza di questa spe-
cie di caparra che gli è stata data della gratuita muni-
ficenza divina arde dal desiderio d’obbedire al Crea-
tore e s’infiamma nel proposito d’accedere alla parte-
cipazione della vera luce di Dio, cosicché da dove gli
viene l’essere gli viene anche il benessere. Infatti an-
che il libero arbitrio non vale che a peccare, se rima-
ne nascosta la via della verità. E quando comincia a
non rimanere più nascosto ciò che si deve fare e dove
si deve tendere, anche allora, se tutto ciò non arriva
altresì a dilettare e a farsi amare, non si agisce, non si

272
esegue, non si vive bene. Ma perché tutto ciò sia ama-
to, la carità di Dio si riversa nei nostri cuori non per
mezzo del libero arbitrio che sorge da noi, bensì per
mezzo dello Spirito Santo che è stato dato a noi (cf.
Rm 5, 5) 41.
(De spiritu et littera ad Marcellinum 2, 4 - 3, 5)

a.3) La legge come pedagogo

La Legge pertanto, con l’insegnarci e il prescrive-


re ciò che si può osservare solo con la grazia, mostra
all’uomo la sua infermità affinché, convinto della pro-
pria debolezza, chieda aiuto al Salvatore, affinché la
volontà risanata da lui acquisti la capacità di fare ciò
che non potrebbe essendo inferma. La Legge dunque
ci conduce alla fede; questa a sua volta ottiene con la
preghiera una maggiore effusione dello Spirito; lo
Spirito diffonde la carità: ed è questo amore che ren-
de possibile l’adempimento della Legge. Perciò la
Legge è chiamata “pedagogo” (cf. Gal 3, 24), e sotto
le terribili minacce della sua severità sarà salvo chi
avrà invocato il nome del Signore (cf. Gl 3, 5; At 2, 21;
Rm 10, 13). Ma in qual modo invocheranno Colui nel
quale non hanno creduto? (Rm 10, 14). Affinché dun-
que la lettera, senza lo spirito, non sia morta, è neces-
sario lo Spirito che vivifica (cf. 2 Cor 3, 6) dato a chi
crede e lo invoca; allora la carità di Dio si diffonde nei
nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è sta-

41 Cf. anche spir. et litt. 25, 42.


273
to dato (Rm 5, 5), affinché si adempia quello che dice
l’Apostolo: Compimento della Legge è l’amore (Rm
13, 10). In tal modo la Legge è buona per chi ne fa un
uso corrispondente alla natura di essa (cf. 1 Tm 1, 8);
e se ne serve secondo la sua natura di legge chi com-
prende per quale scopo gli è stata data, e sotto la sua
minaccia si rifugia nella grazia che lo libera. Chiunque
si mostra ingrato verso questa grazia, da cui l’empio è
giustificato, e per adempiere la Legge fa affidamento
nelle sue forze ignorando la giustizia di Dio e preten-
dendo di stabilire la propria, non è sottomesso alla
giustizia di Dio (cf. Rm 10, 3). Perciò la Legge non co-
stituisce un aiuto alla sua liberazione dal peccato, ma
un legame che lo tiene attaccato alla colpa. Non per-
ché la Legge non sia cosa buona, ma perché il pecca-
to, come sta scritto, mediante una cosa buona procura
morte (Rm 7, 13) a siffatte persone. Difatti per cagio-
ne del comandamento pecca più gravemente chi, pro-
prio in forza del comandamento, sa quanto sia cattiva
l’azione che commette.
(Epistulae 145, 3)

a.4) Quattro stadi dell’uomo


rispetto alla legge e alla grazia

Mediante la legge nessun uomo sarà giustificato


davanti a lui; infatti per la legge si ha la conoscenza
del peccato (Rm 3, 20). [Paolo] aggiunge qui le altre
affermazioni simili a questa, che alcuni 42 ritengono

42 I Manichei.

274
contrarie alla legge e proferite per denigrarla. Oc-
corre però leggerle con molta accuratezza per toglie-
re anche la parvenza che l’Apostolo biasimi la legge
e affermi essere stato tolto all’uomo il libero arbitrio.
Distinguiamo pertanto quattro stadi in cui può tro-
varsi l’uomo: prima della legge, sotto la legge, sotto
la grazia, nella pace 43. Prima della legge seguiamo la
concupiscenza carnale; sotto la legge siamo da lei
trascinati; sotto la grazia non la seguiamo né ci fac-
ciamo trascinare; nella pace non ci sarà più alcuna
concupiscenza della carne. In altre parole prima del-
la legge non combattiamo perché non solo nutriamo
cattivi desideri e pecchiamo ma anche approviamo i
peccati; sotto la legge lottiamo ma siamo vinti: rico-
nosciamo che le azioni da noi compiute sono cattive
e, confessando che sono cattive, certo non vorrem-
mo compierle, ma, non essendo ancora in noi la gra-
zia, siamo sconfitti. In questo stadio ci si fa vedere la
miseria dove siamo prostrati e da cui vorremmo sol-
levarci; ma siccome ogni volta ricadiamo, l’afflizione
aumenta. Per questo è detto che la legge arrivò, in un
secondo momento, perché la colpevolezza raggiunges-
se il culmine (Rm 5, 20). Per questo si sottolinea nel
nostro testo che attraverso la legge è venuta la cono-
scenza del peccato (Rm 4, 15). Non l’abolizione del
peccato, poiché è soltanto ad opera della grazia che

43 Cf. exp. Gal. 46, dove vengono distinte tre condizioni di


vita dell’uomo: prima della legge, sotto la legge e sotto la grazia;
la vita sotto la grazia presenta poi due momenti, uno nel quale so-
no ancora presenti i desideri cattivi pur non essendo assecondati,
l’altro nel quale anche tali desideri scompariranno.

275
esso viene eliminato. Buona cosa è dunque la legge,
in quanto proibisce ciò che dev’essere proibito e co-
manda ciò che dev’essere comandato; ma, se uno ri-
tiene di poterla osservare con le sue sole forze senza
la grazia del Salvatore, cade nella presunzione, la
quale non solo non gli giova in nessun modo ma ad-
dirittura gli nuoce. Diventando più forte il desiderio
di peccare, si vien come afferrati dal peccato e pec-
cando si diventa anche trasgressori, poiché dove non
c’è la legge non c’è nemmeno la trasgressione (Rm 4,
15). Si è dunque prostrati fino a terra; ma è allora
che, prendendo coscienza di non potersi rialzare da
solo, l’uomo implora l’aiuto di colui che lo può libe-
rare. Viene quindi la grazia, che rimette i peccati
passati, aiuta l’uomo nei suoi sforzi, gli dona l’amo-
re per la giustizia e scaccia il timore 44. Mentre avvie-
ne questo processo, finché siamo nella vita presente
rimangono, è vero, i desideri della carne che lottano
contro il nostro spirito cercando d’indurlo a pecca-
re; lo spirito tuttavia non consente a tali desideri in
quanto è radicato nella grazia e nell’amore di Dio, e
così cessa di peccare. Il peccato infatti non sta nel
desiderio cattivo in se stesso ma nel consenso che
noi gli prestiamo. Lo confermano le parole dello
stesso Apostolo: Non regni dunque il peccato nel vo-
stro corpo mortale sì che obbediate ai suoi desideri
(Rm 6, 12). Con ciò mostra chiaramente che posso-
no essere in noi dei desideri cattivi, ai quali però se
non obbediamo non permettiamo al peccato di re-

44 Vedi supra, sezione 3.


276
gnare in noi. Sono desideri che traggono origine dal-
la mortalità della carne, che si contrae a seguito del
primo peccato del primo uomo, per la quale nascia-
mo con la nostra carnalità. Avranno fine quando,
con la risurrezione del corpo, meriteremo di rag-
giungere quell’immortalità che ci è promessa e avre-
mo la pace perfetta, che è il quarto stadio in cui l’uo-
mo si può trovare. Tale pace sarà veramente perfetta
perché nessuna resistenza albergherà in noi e noi
non opporremo alcuna resistenza a Dio. Lo dice l’A-
postolo: Il corpo sì è morto a causa del peccato, ma lo
Spirito è vita per la giustizia. Se dunque abita in voi lo
Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti, co-
lui che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti darà la vi-
ta anche ai vostri corpi mortali in virtù del suo Spirito
che abita in voi (Rm 8, 10-11). Il libero arbitrio fu
dunque in maniera perfetta nel primo uomo; in noi
invece prima della grazia non c’è quel libero arbitrio
per cui non si pecca ma solo quello per cui non si
vorrebbe peccare. Quando giunge la grazia fa sì che
non solo ci proponiamo di fare il bene ma ci dà an-
che la possibilità di compierlo: non con le nostre for-
ze ma con l’aiuto del Salvatore, il quale nella risurre-
zione ci concederà anche la perfetta pace, che è una
conseguenza della buona volontà. Infatti, gloria a
Dio nell’alto dei cieli e, in terra, pace agli uomini di
buona volontà (Lc 2, 14).
(Expositio quarundam propositionum
ex epistula apostoli ad Romanos 12 [13-18])

277
b) Esegesi di Fil 3, 6-9 45

b.1) Alla luce dell’opposizione


fra timore della pena e amore della giustizia

Al fine di guadagnare Cristo – dice – e di essere


trovato in lui non con una mia giustizia derivante dal-
la legge. Dal momento che aveva detto mia, perché ha
aggiunto: derivante dalla legge? Giacché, se deriva
dalla legge, com’è che è tua? Ti sei forse dato da te la
legge? Dio ha dato la legge, Dio ha imposto la legge,
Dio ti ha ordinato di osservare la sua legge. Come
avresti potuto avere una giustizia irreprensibile se la
legge non ti avesse indicato la debita condotta di vita
da essa richiesta? Se hai una giustizia secondo la leg-
ge, come puoi dire: Non avendo una mia giustizia de-
rivante dalla legge, ma quella che deriva dalla fede in
Cristo, che deriva da Dio?

45 Nella traduzione della CEI: «4b Se qualcuno ritiene di


poter confidare nella carne, io più di lui: 5 circonciso l’ottavo
giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da
Ebrei, fariseo quanto alla legge; 6 quanto a zelo, persecutore del-
la Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osser-
vanza della legge. 7 Ma quello che poteva essere per me un gua-
dagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. 8 Anzi,
tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della co-
noscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato per-
dere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di
guadagnare Cristo 9 e di essere trovato in lui, non con una mia
giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fe-
de in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla
fede».

278
Or dunque parlerò come infatti mi sarà possibi-
le; colui che dimora in voi disveli meglio e ne doni
l’intelligenza e il vivo desiderio l’affetto. Darà infatti
l’effetto se donerà l’affetto. Ecco dunque quel che
voglio dire: la legge di Dio, una volta fatta conoscere,
ordinò appunto: Non desiderare (Es 20, 17; Dt 5, 21).
Promulgata, quindi, la legge di Dio, eccettuati quei
riti carnali adombranti gli eventi futuri; promulgata
la legge di Dio, chiunque è stato preso da timore e ha
pensato di poter osservarla con le sue risorse ed ha
praticato ciò che la legge comanda non per amore
della giustizia, ma per timore della pena, è stato cer-
tamente un uomo irreprensibile quanto alla giustizia
che deriva dalla legge. Costui non ruba, non commet-
te adulterio, non dà una falsa testimonianza, non
commette omicidio, non desidera la roba del suo
prossimo; riesce a non farlo, ha forse il potere di non
farlo; da che gli viene? Dal timore della pena. Benché
chi teme il castigo non si lasci vincere da desideri per-
versi, ritengo che essi siano presenti in lui. Anche il
leone è distolto dalla preda da grande terrore di armi
e di dardi e forse da una moltitudine che lo aggira o
gli muove contro; eppure leone viene e leone si allon-
tana; non si è impadronito della preda, non ha depo-
sto la ferocia. Se ti riscontri tale, si tratta pur sempre
di giustizia, di una giustizia per la quale ti risparmi
tormenti. Che c’è di grande nel timore del castigo?
Chi non lo teme? Quale ladro, quale scellerato, qua-
le criminale? Ma quale differenza tra il tuo timore e
il timore del ladro? C’è che il ladro teme le leggi de-
gli uomini e commette il furto appunto perché spera
di eludere le leggi degli uomini. Tu, invece, temi le

279
leggi di colui del quale temi la pena e che non puoi
eludere. Giacché se avessi potuto passargli inosserva-
to, che cosa non avresti fatto? Ne segue che non è l’a-
more ad eliminare il tuo desiderio perverso, ma è il ti-
more a reprimerlo. Giunge il lupo all’ovile; a causa
del latrato dei cani e del clamore dei pastori, il lupo
si allontana dall’ovile; esso, però, è sempre lupo. Si
cambi in pecora 46. E questo opera infatti il Signore;
ma questa è la giustizia sua, non la tua. Giacché fino
a quando hai la tua, puoi temere la pena, non puoi
amare la giustizia 47.
(Sermones 169, 5, 7 - 6, 8)

b.2) Alla luce del rapporto fra libero arbitrio e grazia

Il beato Paolo dunque butta via la ricchezza del-


la sua giustizia di prima come danno e sterco al fine di
guadagnarsi il Cristo e d’esser trovato in lui, non con
una sua giustizia che deriva dalla legge. Perché sua, se
deriva dalla legge? Non è vero infatti che quella legge
non derivi da Dio: chi l’ha detto all’infuori di Marcio-
ne, di Manicheo e di altre simili pesti 48? Pur derivan-

46 Cf. s. 178, 9, 10.


47 Per un’interpretazione analoga di Fil 3, 9, cf. s. novi 19,
10-11; gr. et pecc. or. I, 13, 14.
48 Marcione (85ca - 160ca), nella sua opera perduta Antite-
si, affermava che il Dio creatore dell’Antico Testamento non è lo
stesso Dio Padre di Gesù Cristo del Nuovo Testamento, ma un
demiurgo malvagio, irascibile e vendicativo, la cui legge è stata
abolita da Cristo. Dottrine simili a quella marcionita erano soste-
nute da vari maestri gnostici, come Basilide, Valentino e Tolomeo

280
do dunque da Dio quella legge, dice sua la giustizia
che deriva dalla legge, e non vuole avere questa sua
giustizia, ma la butta via come sterco. Perché così se
non in base alla verità che abbiamo mostrata anche
più sopra 49: sono sotto la legge coloro che, ignoran-
do la giustizia di Dio e cercando di stabilire la pro-
pria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio (cf.
Rm 10, 3)? Credono infatti di osservare con le forze
del loro arbitrio la legge che comanda e, legati da que-
sta superbia, non si convertono alla grazia che aiuta.
Così li uccide la lettera (cf. 2 Cor 3, 6): o perché, con-
sapevolmente rei anche di fronte a se stessi, non fan-
no ciò che comanda; o perché credono di farlo, ma
non lo fanno con la carità spirituale che viene da Dio.
Così restano o consapevolmente ingiusti o illusoria-
mente giusti, evidentemente sfrontati nell’ingiustizia
cosciente, insipientemente esaltati nella giustizia falla-
ce. E per questo, in modo certamente paradossale ma
vero, la giustizia della legge non si adempie con la giu-
stizia che sta nella legge o che deriva dalla legge, ben-
sì con la giustizia che sta nello spirito della grazia. La
giustizia della legge si adempie appunto in coloro che,
com’è scritto, non camminano secondo la carne, ma
secondo lo Spirito (cf. Rm 8, 4). Ora, secondo la giu-
stizia che sta nella legge, l’Apostolo dice d’essere sta-
to irreprensibile nella carne, non nello spirito, e la

(II sec.). “Manicheo” è Mani (216-277), il fondatore del mani-


cheismo. Cf. ep. 186, 3, 9: «Forse che la Legge non deriverebbe
da Dio? Una cosa simile potrebbe pensarla soltanto un empio! Il
motivo invece è che la Legge impone sì dei precetti mediante la
lettera, ma non dà alcun aiuto mediante lo Spirito».
49 Cf. c. ep. Pel. III, 2, 2; 4, 9.

281
giustizia che deriva dalla legge la dice sua e non di
Dio. Si deve dunque intendere che la giustizia della
legge non si adempie secondo la giustizia che sta nel-
la legge o che deriva dalla legge, ossia secondo la giu-
stizia dell’uomo, ma secondo la giustizia che sta nello
spirito della grazia, dunque secondo la giustizia di
Dio, ossia secondo quella giustizia che viene all’uomo
da Dio. Lo si può dire in maniera più piana e più bre-
ve così: La giustizia della legge non si adempie quan-
do la legge comanda e l’uomo, quasi lo facesse con le
proprie forze, la manda in esecuzione, bensì quando
lo Spirito aiuta e la volontà dell’uomo, non libera ma
liberata dalla grazia di Dio, manda in esecuzione quel-
lo che comanda la legge. Giustizia della legge è dun-
que comandare ciò che piace a Dio e vietare ciò che
gli dispiace; giustizia che sta nella legge è invece ser-
vire la lettera della legge e non cercare fuori di essa
nessun aiuto di Dio per vivere rettamente. Infatti, do-
po aver detto: Non con una mia giustizia derivante dal-
la legge, ma con quella che deriva dalla fede nel Cristo,
aggiunge: Cioè con la giustizia che deriva da Dio. Que-
sta stessa è dunque la giustizia di Dio che i superbi,
ignorandola, vogliono sostituire con la propria (cf.
Rm 10, 3). La ragione infatti per cui si dice giustizia
di Dio non è perché di essa è giusto Dio, ma perché
viene all’uomo da Dio 50. […]
Perciò chi, seguendo la giustizia che si ha nella
legge, vive senza la fede della grazia del Cristo, come
l’Apostolo ricorda d’esser vissuto egli stesso irrepren-

50 Vedi la sezione d.1.


282
sibilmente, è da ritenersi privo assolutamente di vera
giustizia, non perché la legge non sia vera e santa, ma
perché voler obbedire alla lettera che comanda senza
lo Spirito di Dio che dà vita, come se tale obbedienza
provenisse dalle forze del libero arbitrio, non è vera
giustizia 51. La giustizia invece della quale chi è giusto
vive mediante la fede (cf. Ab 2, 4; Rm 1, 17; Gal 3, 11;
Eb 10, 38), poiché proviene all’uomo da Dio tramite
lo Spirito di grazia, è vera giustizia.
(Contra duas epistulas Pelagianorum III, 7, 20. 23)

b.3) Alla luce della distinzione fra giustizia


davanti agli uomini e giustizia davanti a Dio

Ciascuno, avendo in sé la concupiscenza, faccia


attenzione alla legge che dice: Non desiderare (Es 20,
17; Dt 5, 21); scopre in sé ciò che la legge proibisce, e
diventa trasgressore della legge. Ma scoprendo in sé
qualcosa a cui è soggetto, inizia già a dire: Mi compiac-
cio della legge di Dio secondo l’uomo interiore, ma nel-
le membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla
legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del
peccato che è nelle mie membra (Rm 7, 22-23). Si è co-
nosciuto infermo, invochi il medico: Sono uno sventu-
rato; chi mi libererà dal corpo di questa morte? Rispon-
da il medico: La grazia di Dio per mezzo di Gesù Cri-
sto nostro Signore (Rm 7, 24-25). La grazia di Dio, non

51 Cf. c. Iul. imp. II, 158 e, in riferimento agli Israeliti, c. Iul.


imp. VI, 18.

283
i meriti tuoi. Perché allora hai detto che sotto la legge
sei vissuto in modo irreprensibile quanto alla giusti-
zia? Badate: ha detto in modo irreprensibile secondo
gli uomini. C’è infatti una certa giustizia, che l’uomo
può assecondare così che nessun uomo possa trovare
da eccepire nei confronti di un uomo 52. Dice infatti:
Non desiderare ciò che appartiene ad altri (Es 20, 17;
Dt 5, 21). Se tu non porti via la roba altrui, non ci sarà
deplorazione alcuna da parte degli uomini. Così, a
volte desideri e non rubi; ma il giudizio di Dio incom-
be su di te, perché desideri: sei trasgressore della leg-
ge, ma agli occhi del legislatore. Vivi incensurato: al-
lora perché questo lo consideri un danno, perché que-
sto è spazzatura? È alquanto più stretto questo grop-
po, ma lo risolverà chi è solito farlo. A meritarlo non
sarò io solo per via di religiosa sottomissione, ma noi
tutti, in forza di una devota attenzione. I Giudei, tut-
to ciò che facevano e da cui gli uomini non potevano
trarre motivo di censura, vivendo in modo irreprensi-
bile sotto la legge, se lo attribuivano, ed ascrivevano
alle proprie risorse la stessa giustizia derivante dalla
legge; non potevano osservarla perfettamente, ma
s’impegnavano tanto quanto erano capaci; facendose-
ne un merito, il loro adempimento non era neppure
religioso.

52 Cf. exp. Gal. 21, dove Agostino qualifica questa giustizia


come «terrena e materiale», perché si ripromette una ricompensa
in questo mondo; anch’essa tuttavia può essere chiamata giustizia,
perché rappresenta una condizione relativamente migliore rispet-
to a quella di chi non pratica nemmeno esteriormente i precetti
della legge.

284
Ecco quindi ciò che egli chiama «adempiere la
legge»: non desiderare. A chi dei viventi è possibile
questo? Ci venga incontro il Salmo che ora è stato
cantato: Ascoltami per la tua giustizia (Sal 143 [142],
1), cioè: non per la mia. […] Prosegue col dire: Per-
ché nessun vivente sarà trovato giusto alla tua presenza
(Sal 143 [142], 2). […] Che cosa ha detto? Finché si
vive in questa vita, nessuno è ritenuto giusto, ma da-
vanti a Dio. Non ha aggiunto inutilmente: alla tua pre-
senza; solo perché uno può essere ritenuto giusto da-
vanti agli uomini, adempiendosi anche quello che è:
Quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della
legge, io sono vissuto in modo irreprensibile, davanti
agli uomini. Riporta alla presenza di Dio: Nessun vi-
vente sarà trovato giusto alla tua presenza.
Che cosa faremo allora? Gridiamo: Non entrare
in giudizio con il tuo servo (Sal 143 [142], 2). Gridia-
mo: Sono uno sventurato. Chi mi libererà dal corpo di
questa morte? La grazia di Dio per mezzo di Gesù Cri-
sto Signore nostro (Rm 7, 24-25). Dunque dal Salmo
abbiamo ascoltato una cosa, dall’Apostolo un’altra;
trovandosi quella giustizia secondo la quale vivono gli
angeli, trovandosi quella giustizia in cui non sarà pre-
sente alcun desiderio perverso, in base a ciò ciascuno
commisuri che cosa egli è ora e che cosa sarà allora e
troverà, nel confronto di quella giustizia, che questa è
danno e spazzatura.
(Sermones 170, 5-7)

285
c) Esegesi di Rm 10, 2-4 53

c.1) Alla luce dell’opposizione fra giustizia


derivante dalla legge e giustizia derivante da Dio

Dunque tutti quelli che, aggiungendosi il solo


aiuto della legge, senza quello della grazia, e confidan-
do nelle proprie facoltà sono guidati dal loro spirito,
non sono figli di Dio. A questa categoria appartengo-
no quelli di cui l’Apostolo dice ancora: Non ricono-
scendo la giustizia di Dio, e volendo stabilire la propria,
non si sono assoggettati alla giustizia di Dio. Parla co-
sì dei Giudei, i quali per la presunzione in se stessi ri-
fiutavano la grazia e quindi non credevano in Cristo.
Egli dice che essi volevano stabilire la loro giustizia,
che è la giustizia che proviene dalla legge. Certo la
legge non era stata stabilita da essi stessi; anzi, essi
avevano stabilito la propria giustizia nella legge che
proviene da Dio, perché credevano che le loro forze
fossero in grado di adempiere questa medesima legge;
con ciò essi non riconoscevano la giustizia di Dio, cioè
non la giustizia di cui è giusto Dio, ma quella che pro-
viene agli uomini da Dio 54. E per persuadervi che la

53 Nella traduzione della CEI: «2 Rendo infatti loro testi-


monianza che hanno zelo per Dio, ma non secondo una retta co-
noscenza; 3 poiché, ignorando la giustizia di Dio e cercando di
stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. 4
Ora, il termine della legge è Cristo, perché sia data la giustizia a
chiunque crede».
54 Cf. ep. 140, 30, 72; spir. et litt. 9, 15; 11, 18; 32, 56; Io. ev.
tr. 26, 1; trin. XIV, 12, 15; qu. II, 65; c. ep. Pel. III, 7, 20; c. Iul.
imp. VI, 18 e i passi citati infra nella sezione d.1.

286
loro giustizia è intesa dall’Apostolo come quella che
proviene dalla legge e quella di Dio come quella che
da Dio proviene all’uomo, ascoltate ciò che egli dice
altrove, parlando di Cristo: Per lui ho ritenuto che tut-
te le cose fossero non solo perdite, ma anche immondi-
zie, per guadagnare Cristo e per ritrovarmi in lui non
con la mia giustizia, che proviene dalla legge, ma con
quella che si ha per mezzo della fede in Cristo, che pro-
viene da Dio (Fil 3, 8-9) 55. Che significa infatti: Non
con la mia giustizia, che proviene dalla legge? La legge
in sé non era sua, ma di Dio, però chiamava sua la giu-
stizia, benché provenisse dalla legge, perché pensava
di poter adempiere quest’ultima con la propria vo-
lontà, senza l’aiuto della grazia che si ha per mezzo
della fede in Cristo. Perciò, dopo aver detto: Non con
la mia giustizia che proviene dalla legge, prosegue: ma
con quella che si ha per mezzo della fede in Cristo, che
proviene da Dio. Era questa che ignoravano i Giudei,
dei quali dice: non riconoscendo la giustizia di Dio,
cioè quella che proviene da Dio (e questa infatti la dà
non la lettera che uccide, ma lo spirito che vivifica), e
volendo stabilire la propria (e questa egli l’ha chiama-
ta giustizia che proviene dalla legge, quando ha detto:
non con la mia giustizia, che proviene dalla legge), non
si sono assoggettati alla giustizia di Dio, cioè non si so-
no assoggettati alla grazia di Dio. Infatti essi erano
sotto la legge, non sotto la grazia; e quindi su di essi
dominava il peccato, dal quale non è la legge, ma la
grazia che libera l’uomo. Per questo altrove dice: Al-

55 Vedi supra, sezione b.


287
lora il peccato non dominerà più su di voi; infatti non
siete più sotto la legge, ma sotto la grazia (Rm 6, 14);
ciò significa non che la legge sia cattiva, ma che vi sot-
tostanno quelli che essa rende rei fornendo precetti,
ma non soccorsi. La grazia appunto è quella che pre-
sta aiuto perché ciascuno sia esecutore della legge,
mentre senza la grazia chi è sottoposto alla legge sarà
soltanto un suo ascoltatore 56. A chi è in tale condizio-
ne pertanto dice: Voi che cercate di giustificarvi nella
legge siete decaduti dalla grazia (Gal 5, 4).
(De gratia et libero arbitrio 12, 24)

c.2) Come esortazione all’umiltà

Vi è ancora qualche altra opinione allora, per cui


i Giudei caddero in errore, oppure sono stati esclusi
dalla grazia del Vangelo per qualche altra ragione im-
putabile che non sia quell’unica della quale l’Aposto-
lo non tacque e che ho ricordato poco fa? Rendo loro
testimonianza – egli dice – che hanno zelo per Dio, ma
non secondo una retta conoscenza. Dove ha dato posto
alla lode, là alla riprensione. In che cosa hanno devia-
to allora quelli? Perché, sebbene innegabilmente ab-
biano zelo per Dio, non è secondo retta conoscenza.
È come se, consultando l’Apostolo, dicessimo: Che si-
gnificato ha ciò che hai detto: Non secondo una retta
conoscenza? In che consiste questa «retta conoscen-

56 Cf. c. ep. Pel. III, 2, 2: «La legge dunque fa uditori della


giustizia, la grazia esecutori». La “giustizia di Dio” è appunto la
grazia della Nuova Alleanza: cf. ep. 140, 30, 73.

288
za» che manca loro, che pure hanno zelo per Dio?
Vuoi sapere quale retta conoscenza non hanno? Pre-
sta attenzione a ciò che segue: Poiché ignorando la giu-
stizia di Dio e volendo stabilire la propria, non si sono
sottomessi alla giustizia di Dio. Consegue che se hai
zelo per Dio e vuoi averlo secondo una retta cono-
scenza, e appartenere al Nuovo Testamento – ai Giu-
dei è stato impossibile appartenervi perché hanno
avuto zelo per Dio non secondo una retta conoscenza
– riconosci la giustizia di Dio e, se ne hai di giustizia,
non cercare di attribuirla a te; se vivi bene, se osservi
i precetti di Dio, non ritenere che sia cosa tua; ecco
infatti in che consiste voler stabilire la propria giusti-
zia. Riconosci da chi hai ricevuto ed è in tuo possesso
ciò che hai ricevuto. Nulla possiedi infatti che tu non
l’abbia ricevuto. Ma se l’hai ricevuto, perché te ne van-
ti come non l’avessi ricevuto? (1 Cor 4, 7) 57. Quando
infatti ti vanti, quasi tu non abbia ricevuto, è in te che
ti vanti; e dov’è: Chi si vanta, si vanti nel Signore (1
Cor 1, 31; 2 Cor 10, 17)? 58. Conserva il dono, ma ri-
conosci il datore.
(Sermones 160, 2)

c.3) Applicazione ai Pelagiani

Stando così le cose, coloro i quali si compiaccio-


no d’appartenere alla stirpe israelitica ed estraniando-

57 Cf. en. Ps. 70, 1, 4.


58 Cf. s. 160, 1.

289
si dalla grazia del Cristo si vantano solo della legge,
sono quelli di cui l’Apostolo dice ugualmente che non
volendo riconoscere la giustizia di Dio e cercando di far
sussistere la propria, non si sono sottomessi alla giusti-
zia di Dio. Chiamò giustizia di Dio quella che l’uomo
ha da Dio, loro propria invece quella ch’essi credono
sia loro sufficiente per compiere i comandamenti sen-
za l’aiuto e il dono di Colui che ha dato la legge. Simi-
li a questi poi sono coloro i quali, pur professandosi
cristiani, sono talmente contrari alla grazia di Cristo,
da credere di poter adempiere i comandamenti di Dio
con le sole forze umane; in tal modo, ignorando an-
ch’essi la giustizia di Dio e cercando di far sussistere la
propria, non si sono assoggettati alla giustizia di Dio e
seguono i Giudei non certo nel nome, ma tuttavia nel-
l’errore. Questa razza d’individui s’era trovati come
caporioni Pelagio 59 e Celestio 60, accesissimi asserto-
ri di questa eresia; i quali, con recente sentenza di
Dio, ad opera di diligenti e fedeli suoi servi, sono sta-
ti privati anche della comunione cattolica 61, ma, a

59 Il monaco britannico contemporaneo di Agostino che ha


dato il nome al pelagianesimo. Sulla sua vita, le sue opere e il suo
pensiero, cf. il profilo di V. Grossi in INSTITUTUM PATRISTICUM
AUGUSTINIANUM - ROMA, Patrologia, vol. III: Dal Concilio di Ni-
cea (325) al Concilio di Calcedonia (451). I Padri latini, a cura di
A. Di Berardino, con presentazione di J. Quasten, Casale Monfer-
rato 1978, pp. 439-458.
60 Discepolo di Pelagio, difendeva l’idea che l’essere umano
possa vivere senza peccare. Agostino lo confuta nel De perfectio-
ne iustitiae hominis.
61 Pelagio e Celestio erano stati dichiarati al di fuori della
comunione ecclesiale da papa Innocenzo I (cf. ep. 182, 6 del 27

290
causa della loro coscienza inaccessibile al pentimento,
persistono ancora nella loro condanna.
(Epistulae 196, 2, 7)

Vedo che si deve pregare per te 62 Dio, che l’Apo-


stolo pregava per gli Israeliti, perché guarisse costoro
che, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabi-
lire la propria, non si erano sottomessi alla giustizia di
Dio (cf. Rm 10, 3). Tali infatti siete anche voi 63 che
volete stabilire una propria giustizia, facendovela con
il vostro libero arbitrio, e non chiedete a Dio e non
prendete da lui la giustizia vera che è chiamata giusti-
zia di Dio: non la giustizia di cui è giusto Dio, bensì la
giustizia che è data da Dio, come la salvezza del Si-
gnore (cf. Sal 3, 9) non è quella per cui si salva il Si-
gnore, bensì la salvezza con la quale il Signore salva
gli altri 64. Onde il medesimo Apostolo dice: Al fine di
essere trovato nel Cristo, non con una mia giustizia de-
rivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede,
cioè con la giustizia che deriva da Dio. Essa è la giusti-
zia di Dio ignorata dagli Israeliti, che ne volevano sta-

gennaio 417). Pochi mesi dopo, tuttavia, essi erano stati assolti dal
sinodo romano. L’intervento dei vescovi africani, che si riunirono
in concilio a Cartagine, spinse il nuovo papa Zosimo a cambiare
idea e confermare nel 418 la condanna emessa dal suo predeces-
sore. Per i dettagli della vicenda, nella quale Agostino svolse un
ruolo di primo piano, cf. le Introduzioni generali di A. Trapè in
NBA XVII/1 (1981), pp. XXXVI-XXXIX, e di G. Madec in
NBA II (1994), pp. LXIX-LXXIII.
62 Agostino si rivolge a Giuliano di Eclano.
63 I Pelagiani.
64 Vedi la sezione d.1.

291
bilire una propria proveniente dalla legge; distruggen-
do la quale, Paolo non distruggeva certamente la leg-
ge, bensì la superbia degli Israeliti, i quali reputavano
che a loro bastasse la legge, come se potessero adem-
piere la giustizia della legge con il libero arbitrio, e
ignoravano la giustizia di Dio, che è data da Dio, per-
ché ciò che la legge comanda sia fatto con il soccorso
di colui la cui sapienza ha sulla lingua la legge e la mi-
sericordia: la legge perché comanda, la misericordia
perché aiuta a fare ciò che comanda. Questa giustizia
di Dio, o figlio Giuliano, concupiscila, e non voler
confidare nella tua forza. Concupiscila, ti ripeto, que-
sta giustizia di Dio: il Signore ti doni di concupirla, il
Signore ti doni anche di possederla.
(Contra Iulianum opus imperfectum VI, 18)

d) La «giustizia di Dio» come giustizia donata da Dio


all’uomo

d.1) Due accezioni dell’espressione


«giustizia di Dio»

E dopo poche altre righe conclude: Perché noi


potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio (2
Cor 5, 21). Questa non è la giustizia di cui Dio stesso
è giusto, ma la giustizia con la quale Dio ha fatto giu-
sti noi.
(De spiritu et littera ad Marcellinum 18, 31)

Come si afferma: Del Signore è la salvezza (Sal 3,


9), non per dire che è salvo il Signore, ma in quanto

292
essa è dono di lui a coloro che salva, così anche la gra-
zia di Dio, meritata da Gesù Cristo nostro Signore, è
detta «giustizia di Dio» non perché di essa sia giusto
il Signore, ma per il fatto che di essa egli giustifica gli
empi 65.
(Sermones 131, 9)

Perché non saranno, gli stessi santi, anche la mol-


titudine della sua grandezza (cf. Sal 150, 2)? Non del-
la grandezza per cui egli è grande, ma per la quale egli
ha reso grandi tante persone, o meglio miriadi di per-
sone. Non diversamente in alcuni luoghi si tratta del-
la giustizia per la quale egli è giusto, mentre altrove
della giustizia che egli produce in noi affinché noi sia-
mo giustizia in lui.
(Enarrationes in Psalmos 150, 4)

Si considera volontà di Dio anche quella che Egli


pone in atto nel cuore di coloro che obbediscono ai
suoi comandamenti, e di essa dice l’Apostolo: È Dio
che opera in voi anche il volere (Fil 2, 13), come si con-
sidera giustizia di Dio non solo quella per cui Egli è
considerato giusto, ma anche quella che Egli pone in
atto nell’uomo che da lui viene reso giusto.
(De civitate Dei XXII, 2, 1)

65 Cf. spir. et litt. 11, 18; 32, 56; c. Iul. imp. VI, 18. Vedi su-
pra, nota 54.

293
d.2) Cristo giustizia di Dio e nostra

Ecco però che fine della legge è Cristo per la giu-


stizia di quanti credono (Rm 10, 4) [in lui]. Egli infat-
ti per opera di Dio è diventato per noi e giustizia e san-
tificazione e redenzione, affinché, come sta scritto, chi
si vanta si vanti nel Signore (1 Cor 1, 30-31). Quindi la
nostra giustizia è lui.
(De patientia 20, 17)

Cristo è infatti giustizia di Dio, il quale, come di-


ce l’Apostolo, è diventato per noi sapienza di Dio e giu-
stizia e santificazione e redenzione affinché, come sta
scritto, chi si vanta si vanti nel Signore (1 Cor 1, 30-31).
Coloro che vogliono stabilire la propria giustizia non
conoscono questa giustizia di Dio, che senza meriti è
dono della grazia, e perciò non sono sottomessi alla
giustizia di Dio che è Cristo (cf. Rm 10, 3).
(De civitate Dei XXI, 24, 5)

294
VI.
LA GIUSTIFICAZIONE

1. GRATUITÀ DELLA GIUSTIFICAZIONE

a) La giustificazione è totalmente immeritata

Costui 1 cerchi pure di passare in rassegna, se lo


può, i propri meriti per i quali Dio è diventato suo
protettore, come se fosse stato Dio ad essere protetto.
Cerchi pure di ricordare se fu lui il primo a cercare
Dio o se piuttosto non fu cercato da Colui che è venu-
to a cercare e a salvare ciò che era perduto (Mt 18, 11;
Lc 19, 10). Se infatti l’uomo vorrà cercare quali meri-
ti abbia avuti prima della grazia al fine di riceverla,
non potrà trovare dei meriti ma solo delle colpe, an-
che se la grazia del Salvatore lo abbia trovato quando
aveva un sol giorno di vita sulla terra. Poiché se l’uo-
mo merita la grazia per aver compiuto qualche buona
azione, la ricompensa non gli viene computata come
dono gratuito ma come cosa dovuta; se invece crede in
Colui che giustifica l’empio, affinché la sua fede gli sia

1 Chi pensa, come Pelagio, che la grazia segua e non prece-


da le opere buone.

295
computata a giustizia (Rm 4, 4-5) (il giusto infatti vive
di fede [Ab 2, 4; Rm 1, 17; Gal 3, 11; Eb 10, 38]), evi-
dentemente prima d’essere giustificato, cioè d’essere
reso giusto, mediante la grazia, che cos’è l’empio se
non un empio? Se egli dovesse essere trattato secon-
do quel che si merita per giustizia, che cosa merite-
rebbe di ricevere se non la punizione? Se dunque è
giustificato in virtù della grazia, non lo è più in virtù
delle opere, altrimenti la grazia non è più un dono
gratuito (cf. Rm 11, 6). Alle opere infatti si rende ciò
che è dovuto, la grazia invece è concessa gratis e pro-
prio per questo si chiama grazia 2.
Se però qualcuno dirà che è la fede a meritare la
grazia di fare il bene, noi non solo non lo neghiamo
affatto, ma lo ammettiamo anche di buon grado, poi-
ché noi, per questi nostri fratelli 3, che si vantano tan-
to delle loro opere buone, desideriamo che abbiano
proprio questa fede con la quale pregando possano
ottenere la carità, la quale è la sola capace di compie-
re il bene. Ora la carità è un dono talmente esclusivo

2 Cf. en. Ps. 31, II, 7: «Se è grazia, è data gratuitamente. Che
vuol dire data gratuitamente? Vuol dire che è gratuita. Niente di
buono hai fatto, e ti è data la remissione dei peccati. Le tue ope-
re sono scrutate, e tutte sono trovate malvagie. Se Dio ti rendesse
ciò che dovrebbe per tali opere, senza dubbio ti condannerebbe:
la morte infatti è il salario del peccato (cf. Rm 6, 23). Che cosa è
dovuto alle opere malvagie se non la dannazione? E alle buone,
che cosa è dovuto? Il Regno dei Cieli. Ma tu sei stato trovato in
mezzo alle opere malvagie; se ti fosse retribuito il dovuto, dovre-
sti essere punito. Che cosa accade invece? Dio non ti paga con la
pena dovuta, ma ti dona la grazia che non ti deve affatto. Doveva
far vendetta, e ti concede il perdono».
3 I Pelagiani.

296
di Dio da essere chiamata Dio stesso (cf. 1 Gv 4,
8.16). Coloro dunque che hanno la fede con cui otte-
nere la giustificazione, hanno per grazia di Dio conse-
guito la legge della giustizia. Ecco perché la Sacra
Scrittura dice: T’ho esaudito nel tempo della misericor-
dia e t’ho aiutato nel giorno della salvezza (Is 49, 8; 2
Cor 6, 2). Per questo è Dio a suscitare, con l’aiuto del-
la sua grazia, il volere e l’agire secondo il suo benepla-
cito (Fil 2, 13) in coloro che vengono salvati in virtù
dell’elezione della sua grazia, poiché, con coloro che lo
amano, Dio coopera in ogni cosa per il bene (Rm 8, 28).
Se coopera in ogni cosa, lo fa anche per la stessa ca-
rità che otteniamo in virtù della fede, affinché per
mezzo della sua grazia amiamo Dio il quale ci ha ama-
ti per primo (1 Gv 4, 19) affinché credessimo in lui e,
amandolo, compiamo il bene che noi non abbiamo
compiuto per essere amati.
Coloro invece i quali per i loro meriti aspettano
ricompense, come se fossero loro dovute, e li attribui-
scono alle forze della propria volontà anziché alla gra-
zia di Dio, fanno come è stato detto del popolo Israe-
litico carnale, che cioè perseguendo la legge della giu-
stizia non vi arrivano affatto. Perché mai? Perché non
l’hanno cercata mediante la fede, ma come se essa
provenisse dalle opere. Proprio questa giustificazione
proveniente dalla fede è quella che arrivarono ad ot-
tenere i Pagani di cui san Paolo dice: Che diremo, dun-
que? Che i Pagani, i quali non perseguivano la giustifi-
cazione, l’hanno conseguita, s’intende quella prove-
niente dalla fede, mentre al contrario Israele, che ha
perseguito la Legge dalla quale doveva derivare la giu-
stificazione, non vi è arrivato. Perché mai? Perché non

297
la cercava nella fede, ma come se essa provenisse dalle
opere. Inciamparono nella pietra d’inciampo, come sta
scritto (cf. Is 28, 16): Ecco io pongo in Sion una pietra
d’inciampo e di scandalo, ma chi crede in essa non ri-
marrà deluso (Rm 9, 30-33). Ecco qual è la giustifica-
zione proveniente dalla fede, mediante la quale cre-
diamo d’essere giustificati, cioè di diventare giusti me-
diante la grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo no-
stro Signore affinché siamo trovati incorporati in lui
non già con la giustizia nostra derivante dalla legge, ma
con quella derivante dalla fede in Cristo. Questa giusti-
zia proveniente da Dio consiste nella fede (Fil 3, 9), e
precisamente nella fede mediante la quale crediamo
che la nostra giustificazione è dono di Dio e non già
frutto della nostra volontà e delle nostre forze.
(Epistulae 186, 2, 6 - 3, 8)

b) Gratuità dei meriti

b.1) Da Dio la volontà buona

Perciò, se non mettiamo al sicuro che non solo


l’arbitrio della volontà, che si flette liberamente da
una parte o dall’altra ed è tra quei beni naturali di cui
un soggetto cattivo può usare anche malamente, ma
altresì la volontà buona, che è già tra quei beni non
usabili malamente, non la possiamo avere se non da
Dio, non so in che modo riusciremo a difendere il te-
sto: Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?
(1 Cor 4, 7). Perché, se da Dio riceviamo la volontà li-
bera, indecisa ancora tra l’essere buona o cattiva, e se

298
invece la volontà buona viene da noi, quello che viene
da noi è meglio di quello che viene da Dio. Poiché
questa è un’affermazione assurdissima, costoro devo-
no per forza riconoscere che riceviamo da Dio anche
la volontà buona 4. A parte poi la stranezza che la vo-
lontà possa fermarsi così a mezza strada senza essere
né buona né cattiva. Infatti, o amiamo la giustizia e la
volontà è buona – più buona se l’amiamo di più, me-
no buona se l’amiamo di meno –, o non è buona se
non l’amiamo affatto. Chi poi esita a dire non solo cat-
tiva, ma anche pessima la volontà che non ama in nes-
sun modo la giustizia? Se dunque la volontà o è buo-
na o è cattiva, e se la volontà cattiva non la riceviamo
da Dio, resta che da Dio riceviamo la volontà buona.
Altrimenti non saprei di quale altro dono di Dio do-
vremmo godere, quando veniamo giustificati da lui.
(De peccatorum meritis et remissione
et de baptismo parvulorum ad Marcellinum II, 18, 30)

b.2) Da Dio la grazia necessaria per acquisire i meriti

Da queste testimonianze divine 5 è provato che la


grazia di Dio non è concessa secondo i nostri meriti,
dal momento che la vediamo attribuita non solo senza
che uno abbia meritato precedentemente in senso

4 Ciò vale anche per gli angeli: cf. civ. XII, 9, 1-2.
5 I passi della Scrittura citati in gr. et lib. arb. 5, 10-12 (nel-
l’ordine: Zc 1, 3; Sal 80 [79], 8; 85 [84], 5.7; Gv 6, 66; 2 Cr 15, 2;
1 Cr 28, 9; Rm 4, 4; 1 Cor 15, 9-10; 2 Cor 6, 1; 2 Tm 1, 8-9; Tt 3,
3-7).

299
buono, ma anche dopo che abbia meritato numerose
volte in senso cattivo. Anzi possiamo costatare che
proprio in questo modo viene data ogni giorno. Chia-
ramente una volta che è stata data, allora cominciamo
ad acquisire anche meriti nel bene, ma sempre attra-
verso di essa; infatti se essa ci si sottrae, l’uomo cade,
non innalzato, ma abbattuto dal libero arbitrio. Per
questa ragione neppure quando l’uomo ha cominciato
ad avere meriti nel bene deve attribuirli a se stesso,
bensì a Dio, a cui si dice nel Salmo: Sii il mio sostegno,
non abbandonarmi (Sal 27 [26], 9). Se dice: Non ab-
bandonarmi, dimostra che se sarà abbandonato, egli di
per se stesso non sarà più capace di alcun bene; per cui
dice ancora: Io dissi nella mia prosperità: Non vacillerò
in eterno (Sal 30 [29], 7). Egli aveva pensato che a lui
appartenesse il bene di cui abbondava a tal punto da
non vacillare; ma perché gli fosse rivelato a chi appar-
teneva ciò di cui aveva cominciato a gloriarsi come fos-
se suo, la grazia l’abbandonò appena un poco ed egli,
raccolto l’ammonimento, disse: Signore, nella tua vo-
lontà prestasti al mio onore la potenza, ma distogliesti
da me il tuo volto e io sono stato confuso (Sal 30 [29],
8). Perciò all’uomo, se è empio, non solo è necessario
essere giustificato dalla grazia di Dio, cioè passare dal-
l’empietà alla giustizia, quando gli viene reso bene per
male, ma anche quando sia già stato giustificato in se-
guito alla fede, è necessario che la grazia cammini con
lui, ed egli si appoggi su di essa per non cadere 6. […]
E poi, perché non dicessero di aver meritato tale

6 Persino la necessità di chiedere l’aiuto divino nella pre-


ghiera viene appresa per grazia: cf. pecc. mer. II, 19, 33.

300
dono con le proprie opere, subito dopo aggiunge:
Non in seguito alle opere, affinché per caso qualcuno
non si glori (Ef 2, 9). Con ciò non ha negato o svuota-
to di valore le opere buone, perché dice che Dio ren-
de a ciascuno secondo le sue opere (cf. Rm 2, 6), ma
le opere provengono dalla fede, non la fede dalle ope-
re; per questo le opere di giustizia ci provengono da
Colui dal quale ci proviene anche la fede stessa, e del-
la fede è detto: Il giusto vive della fede (Ab 2, 4; Rm 1,
17; Gal 3, 11; Eb 10, 38).
(De gratia et libero arbitrio 6, 13; 7, 17)

c) Gratuità del premio

Pertanto, o carissimi, se la nostra vita buona altro


non è che grazia di Dio, senza dubbio anche la vita
eterna, che viene data in contraccambio alla vita buo-
na, è grazia di Dio; ed essa pure viene data gratuita-
mente, perché è stata data gratuitamente la vita buo-
na per la quale quella eterna viene concessa 7. Ma
quella vita buona per cui viene concessa, è semplice-
mente grazia; in definitiva questa vita eterna che vie-
ne concessa per essa, poiché di essa è premio, è grazia
per grazia, come una ricompensa che contraccambia
la giustizia. E così si dimostra vero, perché è vero, che
Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere (Rm 2, 6).
(De gratia et libero arbitrio 8, 20)

7 Cf. ep. 194, 5, 21: «Perciò se tu, o uomo, riceverai la vita


eterna, anche se è la paga della giustizia, per te è tuttavia un dono
gratuito, dato che per te è un dono gratuito la stessa giustizia».

301
2. FEDE E OPERE

a) Come debba intendersi la tesi paolina della giustifi-


cazione per la fede senza le opere

Poiché l’apostolo Paolo, affermando che l’uomo


è giustificato dalla fede senza le opere (cf. Rm 3, 28),
non è stato bene compreso da quanti hanno interpre-
tato la frase in modo da ritenere che, dopo avere una
volta creduto in Cristo, anche se agissero male e con-
ducessero una vita criminosa e perversa, possono
ugualmente salvarsi grazie alla fede, il passo di questa
lettera (cf. Gc 2, 14-26) espone come si deve intende-
re il pensiero stesso dell’apostolo Paolo 8. Si serve
perciò di preferenza dell’esempio di Abramo per di-
mostrare che la fede, se non opera il bene, è vana (cf.
Gc 2, 21-24). Anche l’apostolo Paolo si è servito del-
l’esempio di Abramo per confermare che l’uomo è
giustificato dalla fede senza le opere della legge (cf.
Rm 4, 1-25). Quando ricorda le buone opere di Abra-
mo, che hanno accompagnato la sua fede, mostra a
sufficienza che l’apostolo Paolo non ha affatto inse-
gnato, con l’esempio di Abramo, che l’uomo è giusti-
ficato dalla fede senza le opere, sicché chi crede non

8 Cf. en. Ps. 31/2, 2-3.6. Sull’accordo fra Paolo e gli autori
delle lettere cattoliche (non solo Giacomo), i quali reagirono con-
tro errate interpretazioni della dottrina paolina, cf. f. et op. 14,
21ss. L’insegnamento neotestamentario va quindi considerato nel
suo insieme; esso vuole farci evitare due eccessi opposti, entram-
bi errati e pericolosi: la presunzione della propria giustizia da un
lato e il pensiero dell’impunità dei peccati dall’altro. Cf. en. Ps.
31, II, 1.

302
si preoccupi di operare il bene. Ma ha piuttosto inse-
gnato che nessuno deve ritenere di essere giunto per i
meriti delle opere precedenti al dono della giustifica-
zione che dipende dalla fede. In questo senso i Giu-
dei si ritenevano superiori ai pagani che credevano in
Cristo, in quanto dicevano di essere giunti alla grazia
del Vangelo per i meriti delle buone opere prescritte
dalla legge. Inoltre molti di coloro che avevano credu-
to erano scandalizzati perché la grazia di Cristo veni-
va conferita a pagani incirconcisi. Per questo motivo
l’apostolo Paolo afferma che l’uomo può essere giusti-
ficato dalla fede senza le opere precedenti. Infatti chi
è giustificato dalla fede, come potrebbe in seguito
operare diversamente se non secondo giustizia, anche
se prima non ha compiuto niente di giusto, essendo
pervenuto alla giustificazione della fede non in virtù
delle opere buone ma per grazia di Dio, che in lui non
può più essere vana, perché ormai opera il bene in
forza della carità? Se, dopo aver creduto, egli uscisse
subito da questa vita, rimane in lui la giustificazione
della fede, senza le buone opere precedenti, perché
egli l’ha ottenuta per grazia e non per merito, e nep-
pure le successive, perché non gli è concesso di resta-
re in questa vita. È chiaro perciò che quanto dice l’A-
postolo: Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato
per la fede indipendentemente dalle opere (Rm 3, 28),
non deve intendersi nel senso che possa chiamarsi
giusto chi, avendo ricevuto la fede e restando in vita,
vivesse poi malamente. Quindi tanto l’apostolo Paolo
si vale dell’esempio di Abramo, perché è stato giusti-
ficato per la fede senza le opere della legge, che non
aveva ancora ricevuto, quanto Giacomo che mostra

303
che le buone opere sono conseguenza della fede del-
lo stesso Abramo. E così mostra come si debba inten-
dere l’insegnamento di Paolo.
Infatti coloro che ritengono questa sentenza del-
l’apostolo Giacomo contraria a quella dell’apostolo
Paolo, possono anche sostenere che Paolo si contrad-
dice, perché altrove dice: Non coloro che ascoltano la
legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono
in pratica la legge saranno giustificati (Rm 2, 13). E in
un altro passo: Ma la fede che opera per mezzo della ca-
rità (Gal 5, 6). E ancora: Poiché se vivrete secondo la
carne voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito
voi fate morire le opere del corpo, vivrete (Rm 8, 13).
Quali siano poi le opere della carne, che si devono
mortificare con le opere dello Spirito, lo precisa altro-
ve, dicendo: E del resto le opere della carne sono ben
note: fornicazione, impurità, idolatria, stregonerie, ini-
micizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni,
invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste
cose vi preavviso come già ho detto, che chi le compie
non erediterà il regno di Dio (Gal 5, 19-21). E ai Co-
rinzi: Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adul-
teri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né
ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il re-
gno di Dio. E tali eravate voi; ma siete stati lavati, sie-
te stati santificati, siete stati giustificati nel nome del
nostro Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro
Dio (1 Cor 6, 9-11). Con queste espressioni insegna a
chiarissime lettere che essi sono arrivati alla giustifica-
zione della fede non per qualche buona opera antece-
dente e che questa grazia non è stata data per i loro
meriti, quando dice: E tali eravate voi. Ma quando di-

304
ce: Quelli che fanno tali cose non erediteranno il regno
di Dio, mostra a sufficienza che, dopo aver creduto,
devono agire bene. Lo stesso apostolo Paolo predica
insistentemente e apertamente in molti luoghi ciò che
dice anche Giacomo: che tutti coloro che hanno cre-
duto in Cristo devono vivere rettamente per non in-
correre nel castigo. Lo ricorda anche lo stesso Signo-
re, dicendo: Non chiunque mi dice: «Signore, Signore»,
entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del
Padre mio che è nei cieli, egli entrerà nel regno dei cie-
li (Mt 7, 21). E altrove: Perché mi chiamate: «Signore,
Signore», e poi non fate ciò che dico? (Lc 6, 46). E an-
cora: Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le
mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha co-
struito la sua casa sulla roccia, ecc. E chiunque ascolta
queste mie parole e non le mette in pratica è simile ad
un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia,
ecc. (Mt 7, 24-27). Pertanto le sentenze dei due apo-
stoli Paolo e Giacomo non si contraddicono, quando
uno dice che l’uomo è giustificato per la fede senza le
opere e l’altro dice che la fede senza le opere è vana;
perché uno parla delle opere che precedono la fede,
l’altro delle opere che seguono la fede, come anche lo
stesso Paolo spiega in molti passi.
(De diversis quaestionibus octoginta tribus 76, 1-2)

b) La fede nostra giustizia

Orbene, o giusti, o retti, esultate nel Signore,


perché a voi si addice la lode. Nessuno dica: che giu-
sto posso essere io, oppure quand’è che sono giusto?

305
Non abbattetevi e non disperate di voi. Siete uomini,
fatti a immagine di Dio; Colui che vi ha fatto uomini,
anch’Egli si è fatto per voi uomo; e affinché molti fi-
gli potessero essere resi partecipi dell’eredità eterna,
per voi è stato versato il sangue dell’Unigenito. Se vi
disprezzate a motivo della fragilità terrena, ebbene
soppesatevi considerando anche il prezzo pagato per
voi; riflettete degnamente a ciò che mangiate, a ciò
che bevete, a chi acconsentite nel dire Amen. Vi esor-
tiamo forse con questo ad essere superbi, e ad osare
arrogarvi qualche perfezione? Ma neppure dovete, lo
ripeto, reputarvi alieni da ogni giustizia. Io infatti non
voglio interrogarvi sulla vostra giustizia; perché forse
nessuno di voi oserebbe rispondermi: Io sono giusto.
Vi interrogo invece sulla vostra fede. Come nessuno
di voi osa dire: Sono giusto, così nessuno di voi osa
dire: Non sono fedele. Ancora non ti chiedo come vi-
vi, ma ti chiedo che cosa credi. Mi risponderai che
credi in Cristo. Non hai udito l’Apostolo: il giusto vi-
ve della fede (Rm 1, 17; Gal 3, 11; Eb 10, 38)? La tua
fede è la tua giustizia, perché, certamente, se credi
stai in guardia [contro i tuoi peccati]; ma se stai in
guardia ti sforzi [di compiere il bene], e il Signore co-
nosce il tuo tentativo, scruta la tua volontà, conside-
ra la lotta che conduci contro la carne, ti esorta per-
ché tu combatta, ti aiuta perché tu vinca, ti assiste
mentre ti batti, ti rialza se cadi, e ti incorona se vinci.
Ebbene: esultate, o giusti, nel Signore (Sal 33 [32], 1);
ed è come dire: Esultate, o fedeli, nel Signore, perché
il giusto vive della fede. Ai retti si addice la lode (Sal
33 [32], 1).
(Enarrationes in Psalmos 32, II, 1, 4)

306
Abbiamo detto che l’opera di Dio è la giustizia.
Tuttavia il nostro Signore Gesù Cristo, interrogato
quale fosse l’opera di Dio, rispose: Questa è l’opera di
Dio: credere in colui che egli ha mandato (Gv 6, 29).
L’amoroso nostro Signore avrebbe potuto dire: La
giustizia è l’opera di Dio. […] Se – come ho detto –
opera di Dio è la giustizia, come sarà opera di Dio ciò
che il Signore ha detto e cioè il credere in lui? a meno
che la giustizia non sia lo stesso credere in lui. Ma ec-
co – dirai – dal Signore abbiamo udito: Questa è l’o-
pera di Dio: credere in lui; da te invece abbiamo udito
che opera di Dio è la giustizia. Dimostraci che crede-
re in Cristo sia, proprio questo, la giustizia. Ti sembra
dunque – parlo adesso a uno che pone delle doman-
de e interroga su cose giuste –, ti sembra dunque che
credere in Cristo non sia la giustizia? Cos’è dunque?
Da’ un nome a quest’opera! Se consideri attentamen-
te quanto ascoltato, mi risponderai di sicuro: Questo
si chiama fede; credere in Cristo si chiama fede. Am-
metto ciò che tu dici: Credere in Cristo si chiama fe-
de; ma tu da parte tua ascolta un altro passo della
Scrittura: Il giusto vive di fede (Ab 2, 4; Rm 1, 17; Gal
3, 11; Eb 10, 38). Operate la giustizia, credete! Il giu-
sto vive di fede. È difficile che viva male colui che cre-
de rettamente. Credete con tutto il cuore, credete non
zoppicando, non esitando, non argomentando contro
la fede sulla base di congetture umane. È stata da lui
chiamata fede perché ciò che si dice si fa. Quando si
pronuncia la parola “fede” si ode il suono di due sil-
labe: la prima deriva da fare, la seconda da dire. Ti
domando dunque: Credi tu? Mi rispondi: Credo. Fa’
ciò che dici, e questo è già fede. Io infatti posso udire

307
la voce di chi [mi] risponde, ma non posso vedere il
cuore di chi ha fede.
(Sermones 49, 2)

3. CRISTO UNICO GIUSTIFICATORE

a) Cristo non è un giusto qualunque, ma un giusto che


giustifica gli altri

Da qui (cf. Gb 38, 4ss.) [Giobbe] comincia a se-


gnalare la dignità sovraeminente del nostro Signore
Gesù Cristo, nel quale trovano la salvezza tutti coloro
che erano stati colpiti dalla suggestione velenosa del
serpente: i quali pertanto non debbono pensare che la
loro salvezza si trovi in loro stessi. Egli infatti è Dio
non come coloro ai quali è detto: Voi siete dèi e figli
dell’Altissimo (Sal 82 [81], 6), ma nel senso che per lui
non è una usurpazione indebita l’essere uguale al Pa-
dre (cf. Fil 2, 6); ed è anche figlio dell’uomo, non co-
me quei figli dell’uomo nei quali non c’è salvezza (Sal
146 [145], 3), ma a differenza dei suoi eguali (Sal 45
[44], 8). Egli è anche giusto, e non un giusto qualun-
que, come Giobbe, come Paolo e come l’intera Chie-
sa 9, ma un giusto che rende giusti anche gli altri, es-
sendo l’Unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità
(Gv 1, 14). Ci si inculca dunque la differenza fra la di-
vina umanità (di quell’uomo, dico, nel quale il princi-

9 I quali furono giusti perché furono resi tali; essi infatti nac-
quero nel peccato: cf. ep. 185, 9, 40.

308
pe di questo mondo non ha trovato alcun male [cf.
Gv 14, 30] poiché nella passione pagava il debito di
cose da lui non usurpate [cf. Sal 69 [68], 5]) e la con-
dizione dei santi giustificati attraverso la remissione
dei peccati.
(Adnotationes in Iob 38)

b) Solo Cristo giustifica

Il mediatore autentico, che la tua misteriosa mi-


sericordia rivelò e mandò agli umili, affinché dal suo
esempio imparassero proprio anche l’umiltà, questo
mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù (1
Tm 2, 5), si presentò fra i peccatori mortali e il Giu-
sto immortale, mortale come gli uomini, giusto come
Dio, affinché, ricompensa della giustizia essendo la vi-
ta e la pace, per la giustizia, congiunta con Dio, abo-
lisse la morte degli empi giustificati (cf. 2 Tm 1, 10),
che con loro volle condividere.
(Confessiones X, 43, 68)

Che è tanto lontano, tanto alieno dagli uomini


quanto Dio, l’immortale dai mortali, il giusto dai pec-
catori? Non si tratta di una lontananza nello spazio
ma nella dissimilitudine. Non siamo anche soliti di
esprimerci così quando diciamo di due uomini che
hanno costumi diversi: Costui è ben lontano dall’al-
tro? Quantunque l’uno accanto all’altro, benché assai
vicini per abitazione, benché tenuti insieme da una
catena, il pio è lontano dall’empio, l’innocente è lon-

309
tano dal colpevole, il giusto è lontano dall’ingiusto. Se
questo viene detto di due uomini, che si deve dire di
Dio e degli uomini? Essendo egli, dunque, immortale
e giusto, lungi da noi come da mortali e peccatori, si
abbassò fino a noi per diventare prossimo, egli che era
lontano. E che cosa fece? Poiché egli aveva due beni
noi due mali, egli due beni, la giustizia e l’immortalità,
noi due mali, l’ingiustizia e la mortalità, se egli avesse
assunto l’uno e l’altro nostro male, sarebbe diventato
uguale a noi e, insieme a noi, avrebbe avuto bisogno
di un liberatore. Che fece allora per essere prossimo a
noi? Prossimo: non lo stesso che noi, ma quasi come
noi. Fa’ attenzione a due cose: È giusto, è immortale.
Dei due tuoi mali, uno è la colpa, l’altro è la pena; la
colpa consiste nel fatto che sei ingiusto, la pena con-
siste nell’essere tu mortale. Egli, per essere prossimo,
prese su di sé la pena tua, non assunse la colpa tua; e,
assumendola, fu per cancellarla, non per commetter-
la. Giusto e immortale, a distanza dagli ingiusti e dai
mortali. Peccatore, mortale, tu eri lontano dal giusto
immortale. Egli non divenne peccatore, come tu sei;
divenne però mortale come te. Restando giusto, di-
venne mortale. Assumendo la pena e non assumendo
la colpa, cancellò e la colpa e la pena. Il Signore, dun-
que, è vicino, non angustiatevi per nulla (Fil 4, 5-6).
Sebbene asceso corporalmente al di sopra di tutti i
cieli, non si allontanò con la divinità. Dovunque è
presente il Creatore di tutte le cose.
(Sermones 171, 3)

310
c) Cristo è l’unico nel quale si debba credere per essere
giustificati

Ma, allora, in chi bisogna credere? 10. In colui del


quale Paolo afferma: A chi crede in colui che giustifica
l’empio, la sua fede gli viene computata come giustizia
(Rm 4, 5). Non è pertanto Paolo colui che giustifica
l’empio, per cui credendo tu in lui, la tua fede ti possa
essere computata come giustizia, appunto perché hai
creduto in colui che giustifica l’empio. Ma tu non cre-
di in lui, poiché chi giustifica l’empio non è Paolo, non
è Elia, non è uno degli angeli, ma il solo Giusto 11, il
Santo dei santi, del quale fu detto: Affinché egli sia
giusto nel concedere la giustizia a colui che è animato
dalla fede (Rm 3, 26). Quanto a te, si potrà dire che sei
giusto, ma è inaudito affermare che tu sei uno che giu-
stifica. Che significa infatti giustificare se non rendere
giusto? 12. Come vivificante è colui che fa vivere, co-
me salvifico è colui che salva, così è giustificatore co-
lui che rende giusto. Orbene, chi è che rende giusto
l’uomo? Colui che è venuto fra noi giusto, cioè senza
peccato. Chi è che rende giusto l’uomo? Colui che

10 Agostino distingue tre modi di credere: credere qualcuno


(cioè credere che qualcuno è qualcosa, ad es. che Gesù è il Cristo;
anche i demoni credono questo), credere a qualcuno (cioè ritene-
re che sia vero ciò che dice; in questo senso noi crediamo anche
ai profeti) e credere in qualcuno (cioè affidarsi totalmente a lui;
solo Cristo è degno di tale fiducioso abbandono). Questa distin-
zione fra le tre costruzioni del verbo credere avrà grande fortuna
nel Medioevo.
11 Iustus iustorum, il «giusto dei giusti».
12 Cf. en. Ps. 109, 1; s. 292, 4, 6.

311
non è diventato giusto in questo mondo ma era giusto
quando venne nel mondo. Ecco chi è colui nel quale
dobbiamo credere se vogliamo compiere l’opera di
Dio, poiché l’opera di Dio (Gv 6, 29) consiste effetti-
vamente in questo: credere in colui che giustifica l’em-
pio (Rm 4, 5).
(Sermones novi 19, 3)

312
INDICE

INTRODUZIONE (di Giovanni Catapano). . . pag. 5


I. La giustizia in sé: una realtà intelligibile. » 6
1. La bellezza incorporea della giustizia. . » 6
2. Interiorità e trascendenza della giustizia
ideale . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 7

II. La giustizia nel singolo uomo . . . . . . » 9


1. La vita del giusto . . . . . . . . . . . . » 9
2. La giustizia come virtù . . . . . . . . . » 12
3. La perfezione della giustizia umana . . » 16

III. La giustizia nella vita associata. . . . . » 20


1. Giustizia e Stato . . . . . . . . . . . . » 20
2. Giustizia e giudizio . . . . . . . . . . . » 26
3. Pena di morte e intercessione dei vescovi » 28
4. Persecuzioni e guerre «giuste» . . . . . » 31

IV. La giustizia in Dio . . . . . . . . . . . » 38


1. Dio fonte della giustizia . . . . . . . . » 38
2. La «teodicea» agostiniana . . . . . . . » 40
3. Giustizia e misericordia in Dio e negli
uomini . . . . . . . . . . . . . . . . . » 47

313
V. Giustizia e legge . . . . . . . . . . . . . pag. 49
1. Ingiustizia e peccato . . . . . . . . . . » 49
2. Ubbidienza e tipi di legge . . . . . . . » 51
3. Dal timore della pena all’amore della
giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . » 54
4. Giustizia derivante dalla legge e giustizia
derivante da Dio . . . . . . . . . . . . » 57

VI. La giustificazione . . . . . . . . . . . . » 60
1. Gratuità della giustificazione . . . . . . » 60
2. Fede e opere . . . . . . . . . . . . . . » 62
3. Cristo unico giustificatore . . . . . . . » 63

NOTA BIBLIOGRAFICA . . . . . . . . . . . . » 66

LA GIUSTIZIA

I. LA GIUSTIZIA IN SÉ . . . . . . . . . . . . » 71
1. La bellezza incorporea della giustizia . . » 71
a) L’amabile bellezza della giustizia, visibi-
le solo agli occhi del cuore . . . . . . . » 71
b) La giustizia come realtà incorporea e in-
telligibile. . . . . . . . . . . . . . . . » 73
2. Interiorità e trascendenza della giustizia
ideale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 75
a) La presenza interiore dell’idea della
giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . » 75
b) La trascendente luce intelligibile della
giustizia ideale . . . . . . . . . . . . . » 81

314
II. LA GIUSTIZIA NEL SINGOLO UOMO . . . . pag. 85
1. La vita del giusto . . . . . . . . . . . . . » 85
a) Giusti e ingiusti . . . . . . . . . . . . » 85
b) Il ripudio dell’ingiustizia . . . . . . . » 87
c) Il desiderio della giustizia . . . . . . . » 93
d) La pratica delle opere di misericordia » 94
e) Innocenza e solidarietà. . . . . . . . . » 97
f) L’umiltà . . . . . . . . . . . . . . . . » 99
2. La giustizia come virtù . . . . . . . . . . » 100
a) Definizioni . . . . . . . . . . . . . . . » 100
b) Necessità della fede . . . . . . . . . . » 107
c) Finalizzazione religiosa . . . . . . . . » 116
d) Trasformazione escatologica . . . . . . » 120
3. La perfezione della giustizia umana . . . » 121
a) Imperfezione della giustizia umana ri-
spetto a quella angelica e a quella divina » 121
b) Possibilità mai realizzata della perfezio-
ne della giustizia in questa vita . . . . » 124
c) Perfezione della giustizia, perfezione
della carità . . . . . . . . . . . . . . . » 134
d) La relativa perfezione della giustizia in
questa vita . . . . . . . . . . . . . . . » 138

III. LA GIUSTIZIA NELLA VITA ASSOCIATA . . » 144


1. Giustizia e Stato . . . . . . . . . . . . . » 144
a) «Se non è rispettata la giustizia, che co-
sa sono gli Stati se non delle grandi ban-
de di ladri?» . . . . . . . . . . . . . . » 144
b) Roma pagana fu un vero Stato? . . . . » 145
2. Giustizia e giudizio. . . . . . . . . . . . » 153

315
a) «Giudizio» e «giustizia» nel linguaggio
biblico . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 153
b) La giustizia del giudice . . . . . . . . » 155
c) Il giudizio e la giustizia doni di Dio . . » 161
3. Pena di morte e intercessione dei vescovi . » 163
a) Punire la colpa per correggere il colpevole » 163
b) La pazienza di Dio, modello per i giudici » 164
c) Funzione deterrente e inutilità corretti-
va della pena di morte . . . . . . . . . » 167
d) Casi di guadagni illeciti che andrebbero
restituiti . . . . . . . . . . . . . . . . » 168
4. Persecuzioni e guerre “giuste”. . . . . . » 173
a) Persecuzioni giuste e ingiuste . . . . . » 173
b) Guerra e pace . . . . . . . . . . . . . » 184

IV. LA GIUSTIZIA IN DIO . . . . . . . . . . » 196


1. Dio fonte della giustizia . . . . . . . . . » 196
a) In Dio non c’è ingiustizia . . . . . . . » 196
b) In Dio la fonte stessa della giustizia. . » 196
2. La «teodicea» agostiniana . . . . . . . . » 199
a) Sventure dei buoni e prosperità dei
malvagi . . . . . . . . . . . . . . . . » 199
b) L’uccisione dell’innocente . . . . . . . » 207
c) Sofferenze dei bambini e peccato originale » 211
d) Prescienza e castigo . . . . . . . . . . » 214
e) Eternità della pena. . . . . . . . . . . » 215
f) Elezione e dannazione . . . . . . . . . » 219
3. Giustizia e misericordia in Dio e negli
uomini. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 227
a) Misericordia e giudizio . . . . . . . . . » 227
b) Giustizia nel perdonare chi si è pentito » 229

316
c) Incommensurabilità della giustizia divi-
na rispetto a quella umana. . . . . . . pag. 231

V. GIUSTIZIA E LEGGE . . . . . . . . . . . . » 233


1. Ingiustizia e peccato . . . . . . . . . . . » 233
a) Definizione del peccato . . . . . . . . » 233
b) Tre forme di trasgressione . . . . . . . » 235
2. Ubbidienza e tipi di legge . . . . . . . . » 236
a) Legge immutabile di Dio e costumi mu-
tevoli degli uomini . . . . . . . . . . . » 236
b) Legge temporale e legge eterna . . . . » 240
3. Dal timore della pena all’amore della
giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 248
a) Insufficienza del timore della pena . . » 248
b) Utilità iniziale del timore della pena . » 253
c) L’amore della giustizia, dono di Dio . . » 255
d) Dal timore servile al timor casto . . . » 264
4. Giustizia derivante dalla legge e giustizia
derivante da Dio . . . . . . . . . . . . . . » 270
a) Legge mosaica e giustificazione . . . . » 270
b) Esegesi di Fil 3, 6-9 . . . . . . . . . . » 278
c) Esegesi di Rm 10, 2-4 . . . . . . . . . » 286
d) La «giustizia di Dio» come giustizia do-
nata da Dio all’uomo . . . . . . . . . » 292

VI. LA GIUSTIFICAZIONE . . . . . . . . . . » 295


1. Gratuità della giustificazione . . . . . . » 295
a) La giustificazione è totalmente imme-
ritata . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 295
b) Gratuità dei meriti . . . . . . . . . . » 298
c) Gratuità del premio . . . . . . . . . . » 301

317
2. Fede e opere . . . . . . . . . . . . . . . pag. 302
a) Come debba intendersi la tesi paolina
della giustificazione per la fede senza le
opere . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 302
b) La fede nostra giustizia . . . . . . . . » 305
3. Cristo unico giustificatore . . . . . . . . » 308
a) Cristo non è un giusto qualunque, ma
un giusto che giustifica gli altri . . . . » 308
b) Solo Cristo giustifica. . . . . . . . . . » 309
c) Cristo è l’unico nel quale si debba crede-
re per essere giustificati . . . . . . . . » 311

318

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