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collana

FRAMMENTI
nel catalogo Àncora

Raniero Cantalamessa
Rifulge il mistero della Croce
Meditazioni per ogni giorno della Quaresima

Antonio Gentili
A pane e acqua
Pratica e spiritualità del digiuno

Antonio Gentili
Vengo a portare la spada
La vita cristiana come combattimento spirituale

René Lejeune
Il digiuno
Guarigione e festa

Mauro Orsatti
L'arte di pregare
Alla scuola del Nuovo Testamento

Lorenzo Piva
Il deserto fiorisce
Giorno dopo giorno con Gesù verso Gerusalemme

Ricardo Reyes Castillo


33 passi verso il Sacramento del Perdono

Il catalogo Àncora aggiornato si trova su www.ancoralibri.it


Fabio Bartoli

Per fortuna
c'è la Quaresima!
Riflessioni inattuali
Per i testi biblici:
© 2008 Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi
e Caterina da Siena, per gentile concessione

© 2017 ÀNCORA S.r.l.

ÀNCORA EDITRICE
Via B. Crespi, 30 - 20159 Milano
Tel. 02.345608.1 - Fax 02.345608.66
editrice@ancoralibri.it
www.ancoralibri.it
N.A. 5691

ISBN 978-88-514-1805-2

Stampa: Àncora Arti Grafiche - Milano

Questo libro è stampato


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su carta certificata FSC ,
che salvaguarda le foreste,
in uno stabilimento grafico
con Catena di Custodia
certificata FSC (Forest
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Stewardship Council ).
C
aro Marco, sei sempre stato uno dei miei ragazzi più
brillanti e, anche se dopo la laurea ti sei allontanato
un po’, ti ringrazio molto per la lunga lettera che
mi hai scritto. Una lettera che mi ha provocato molto e mi
obbliga a una risposta tanto articolata che, come vedi, è
divenuta un libro intero.
Tu poni tante domande e lanci molte accuse non solo
alla Chiesa, ma a ben guardare al cristianesimo stesso.
Domande e accuse che in fondo possono essere divise in
due gruppi:
1) Cristo ha annunciato al mondo la gioia e la salvezza,
perché allora la Chiesa deve invitare al pentimento con
tanta forza da dedicare a esso addirittura una stagione
intera in cui siamo invitati a ricordare le nostre miserie?
Non è un continuo ritornare sul senso di colpa? Non è una
specie di trucco per avere un potere sulle coscienze tenute
da questo senso di colpa in schiavitù?
2) Che senso hanno le privazioni e l’ascesi con cui la
Chiesa ci propone di mortificarci? Se Cristo ci ha liberati,
a che serve tutta questa disciplina? Perché e di che cosa
dovremmo punire il nostro corpo?
Caro Marco, in realtà quello che mi proponi è un viag-
gio al centro del mistero più fitto del cristianesimo, il

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mistero del male, e siccome ti voglio bene e capisco il tuo
turbamento, che non è poi così diverso dal mio, accetto di
fare con te questa fatica. Però tu devi farla accanto a me.
Il percorso che ti propongo non è né breve né facile, quello
che ti chiedo è di starmi vicino, di sospendere il tuo giudizio
fino alla fine. Anche se ci sono un paio di passaggi che forse
non capirai subito, dammi credito di un po’ di fiducia e ti
accorgerai che tutto acquista un senso. Così questo libro
alla fine sembra quasi la trascrizione di una delle nostre
chiacchierate su «la vita, l’universo e tutto quanto», come
scherzosamente chiami i nostri colloqui.
Poiché spero che questo libro non lo leggerà solo «Mar-
co», avverto gli altri venti lettori che il suo è un nome di
fantasia, scelto per assonanza con le Lettere a Malcolm
di C.S. Lewis, uno dei classici della spiritualità contem-
poranea. Però Marco esiste davvero, anzi a ben vedere
è più di una persona. In lui vedo tanti uomini e donne in
ricerca, così affamati di senso da venire a cercarlo «perfino
nella Chiesa cattolica», come mi diceva uno di loro. Amici
che vengono a consigliarsi con me, chiedendomi un aiuto
per vivere una vita interiore in questo tempo così confuso.
A tutti i Marchi del mondo dedico con tanto affetto
questo mio lavoro.
Don Fabio

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Il pentimento:
ricorda che sei figlio

7
8
C
aro Marco, il bello del carnevale è che finisce.
Chi vorrebbe vivere in una perpetua allegria,
in un forzato divertimento, che finirebbe assai
presto con il rovesciarsi in un incubo di egoismo? Ep-
pure a guardare la televisione a volte sembra di vivere
nel paese dei balocchi: niente da prendere davvero sul
serio, niente drammi senza soluzione, niente sfuma-
ture. Il bene da una parte (sempre la nostra ovviamen-
te, per definizione) e il male dall’altra, rigorosamente.
Anzi, la parola «male» vorremmo proprio cancellarla
dal vocabolario, far finta che non esiste, ridurla a una
disfunzione, un errore di valutazione, una svista.
Del male in televisione non si parla, o almeno non si
parla mai del male nostro, il male lo fanno «gli altri»,
i mostri, quelli che non sono del nostro gruppo. Ed è
rassicurante pensare che il male lo facciano solo i mo-
stri, ci fa sentire più buoni, perché noi siamo i buoni,
siamo i normali, e quanto più si ingigantisce la paura
dei «mostri», tanto più si rafforza la convinzione di
essere buoni.
Non si sente mai un dubbio in TV, mai un ripen-
samento, mai un’autocritica e anzi, quei pochi che
invitano all’autocritica subito vengono bollati come

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dei nuovi Geremia, disfattisti, uccelli del malaugurio.
Eppure, come scrive lo psicologo Albert Görres: «Sen-
za il termine male, o qualche altro vocabolo che ne
prenda il posto e dia una valutazione morale, non ri-
usciamo a comunicare tra noi, perché non riusciamo a
spogliarci di quelle intuizioni e di quei sentimenti che
accompagnano tenacemente le percezione del com-
portamento nostro e degli altri come buono o cattivo
(…) e la reazione corrispondente, fatta di delusione,
amarezza o rabbia»1. Questa gigantesca rimozione,
che rimane una fragile illusione, nasce dalla dispera-
zione. Vorremmo nascondere il male e dimenticarlo,
perché in fondo pensiamo che sia invincibile, perché
dubitiamo che le persone possano realmente cambia-
re, perché in realtà non crediamo che sia possibile un
autentico pentimento. E il paradosso è che proprio
perché dimentichiamo il male non siamo più capaci
di fare festa davvero!
La festa è la redenzione, lo scampato pericolo, la
liberazione; ma allora perché ci sia festa deve esserci
anche la concreta possibilità di una perdizione, di
un fallimento esistenziale. Non ci può essere per noi
alcuna Pasqua senza Quaresima! Forse per questo il
Carnevale assomiglia sempre più a una folle stagione
di frenesia piuttosto che a una festa collettiva. Non
siamo più capaci di divertirci perché non siamo più
capaci di pentirci, non riusciamo più a conoscere il
bene perché cerchiamo di rimuovere il male. Sai, è

1
A. Görres - K. Rahner, Il Male, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo
1987, p. 11

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come nelle favole: il mio amico Chesterton diceva
che le favole non servono per ricordare ai bambini
che esistono i draghi, i bambini lo sanno benissimo;
le favole servono a insegnare ai bambini che i draghi
possono essere sconfitti. Così è della Quaresima: gli
uomini lo sanno benissimo che esiste il male, hanno
tanti di quei demoni dentro che non possono proprio
sbagliarsi su questo, ma la Quaresima serve a ricor-
darci che quei demoni possono essere vinti!

Tu sei quell’uomo!
Per fortuna che c’è la Quaresima! Per fortuna, o per
Grazia, c’è un tempo in cui siamo invitati a ritornare
in noi stessi e pentirci. È il tempo delle ceneri, il tem-
po in cui ricordare che siamo polvere, in cui prendere
coscienza che il male abita in noi. Hai voglia a cercare
di illuderti o ingannarti, hai voglia a dare la colpa al
mondo che è cattivo, alla famiglia che ti ha educato,
alle cattive compagnie, a Saturno in trigono o a quel
che ti pare; alla fine, se sei onesto con te stesso, non
puoi che ammetterlo: io, io ho sbagliato, non un altro
al posto mio. Io avrei potuto fare diversamente, io ho
provocato dolore.
La realtà, che è quella cosa che non sparisce se
chiudiamo gli occhi, ci ricorda continuamente que-
sta inseparabile commistione di virtù e peccato che
siamo. È la parola del profeta Natan a Davide: «Tu
sei quell’uomo!» (cf 2Sam 12,1-7). Può sembrare una
parola dura, ma in realtà è il presupposto della salvez-
za, perché se io sono responsabile significa che posso

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cambiare, non sono un burattino in balia di forze più
grandi di me. Non è strano? Chi lavora per toglierti il
senso di responsabilità in realtà ti lascia solo e indi-
feso contro le spinte più distruttive del tuo inconscio,
convincendoti che non c’è niente da fare, che alla fine
dei conti sei irrimediabilmente cattivo, anche se non
è colpa tua.
Il pentimento dunque comincia da qui, da questa
assunzione di responsabilità: io ho fatto il male, non
un altro; io sono responsabile di me stesso. Così recita,
ad esempio, il Salmo 50, il manifesto biblico del penti-
mento: «Contro te solo ho peccato, quello che è male
ai tuoi occhi io l’ho fatto». È quello che Gesù chiama
«rientrare in se stessi»: mentre il male ci porta fuori
di noi e tende a inibire l’autocoscienza e la riflessione
su di sé, il pentimento ci riporta a noi stessi, ci fa
riflettere su chi siamo e sul nostro posto nel mondo.
Caro Marco, hai ragione a parlare nella tua lettera
di un aspetto nevrotico del pentimento, perché esiste
anche una possibilità di vivere in un modo patologico
questa lotta contro il male, però pentirsi in sé è sano
e aggiungerei assolutamente necessario a una perso-
nalità equilibrata: nessuno può essere grande senza
prendere coscienza della propria miseria. La grande
poesia, la migliore filosofia, l’arte più bella sono figlie
del pentimento e non sarebbero possibili in una socie-
tà dove nessuno mai si pentisse. Una società simile, se
mai potesse esistere, non sarebbe neppure una società
di uomini.

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Conosci te stesso
Una volta rientrati in noi stessi, messi di fronte alla
nostra responsabilità, scopriamo un paradosso, ed è
il secondo passo del pentimento: in noi convivono il
desiderio del bene e l’incapacità di compierlo, come
dice Paolo. La storia della nostra vita infatti è un
lungo rosario di «vorrei, ma non riesco»: da «vorrei
mettermi a dieta» fino a «vorrei riuscire a perdonare»
o «vorrei smettere di bere».
Fermati un attimo a considerare questo: non è
vero che desidereresti essere migliore di ciò che sei?
Ognuno lo desidera, è quello che definisce il concetto
stesso di umanità: «fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguire virtute e canoscenza» diceva Dante.
Eppure non ci riusciamo, vorremmo essere migliori,
proviamo e riproviamo, ma ogni volta siamo riportati
miseramente alla nostra incapacità. E non è un miste-
ro questo? Se in te abita la consapevolezza di un bene
più grande, come mai non riesci a metterlo in pratica?
Sai bene che dovresti fare quella telefonata, scrivere
quella lettera, ascoltare quella persona… perché allo-
ra non lo fai? O al contrario, sai perfettamente cosa
dovresti fare per elevarti al di sopra delle tue miserie
e delle tue dipendenze… eppure non riesci!
Questo ci fa comprendere che siamo esseri duplici,
da una parte sostanzialmente schiavi, ostaggi del
peccato come dice Paolo, e dall’altra colmi di una no-
stalgia di bene che vive nel nostro profondo. Siamo
come ergastolani che sospirano vedendo una lama
di azzurro attraverso la finestra, marinai spiaggiati

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che languiscono guardando l’orizzonte. A questo pa-
radosso il genio cristiano risponde con una grande
invenzione: l’umiltà, che cambia completamente il
nostro rapporto con noi stessi e il mondo.
La cultura precristiana non conosce l’umiltà come
valore, non nel senso che i cristiani danno a questa
parola. Ti ricordi i tuoi studi di filosofia? Per i filosofi
stoici, Seneca e gli altri, il grande valore è la metriotes,
la misura, la conoscenza del proprio limite, e quindi
il non avere pretese troppo alte, l’accontentarsi di ciò
che si è, scegliendo l’aurea mediocritas; in questo lo
stoicismo assomiglia molto a certe filosofie moderne,
come il buddismo promosso dalla Soka Gakkai. Per
questo era scritto sul frontone del tempio di Delfi:
«Conosci te stesso» (anche se poi Platone ha dato a
questa frase un altro valore).
Ma per il Cristiano non c’è autentica conoscenza di
sé senza partire dall’altissima vocazione a cui siamo
chiamati dall’amore di Dio, l’umiltà cristiana quindi
non sarà mai una mediocritas, per quanto aurea. Men-
tre per i filosofi stoici la pace e l’equilibrio interiore
consistono nel non avere alcun desiderio, per il Cri-
stiano al contrario consisteranno nell’andare fino in
fondo a ogni desiderio, per scoprire che alla fin fine è
un desiderio di Dio2.
Conoscere se stesso per il Cristiano significa pren-
dere coscienza di due cose a un tempo: da una parte,

2
C.S. Lewis ha scritto pagine bellissime sul mistero del desiderio
umano. Penso soprattutto alle Lettere di Berlicche o a quel formi-
dabile romanzo teologico che è Il grande divorzio.

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dell’infinito amore con cui siamo amati e dell’altissi-
mo orizzonte a cui questo amore ci destina; dall’altra,
della nostra attuale distanza da questo orizzonte e
della nostra incapacità di raggiungerlo con le nostre
sole forze. Non conoscendo Cristo, il mondo pagano
non poteva concepire né l’immensa grandezza a cui
l’uomo è destinato, né l’enorme bassezza di cui è capa-
ce, perché anche il male si rivela in tutta la sua portata
solo quando è apparsa la pienezza del bene. Quando
la scoperta di questa contraddizione, anziché gettarci
nella disperazione, ci riempie di gioia per l’enormità
della Grazia ricevuta, questa è l’umiltà. L’umiltà con-
siste nell’accettazione gioiosa di un paradosso: io e
te siamo nani destinati a diventare giganti, animali
chiamati a essere Dio.

Sii ciò che sei


Per questo il solo atteggiamento veramente umano,
l’unico che renda davvero conto della nostra com-
plessità, è il pentimento; di fronte alla scoperta della
nostra incapacità a essere veramente buoni ci sono
solo due atteggiamenti possibili: o quello di abbassare
le proprie pretese su se stessi e sulla vita, scegliendo
l’aurea mediocritas, o quello di accettare il proprio
limite e chiedere aiuto. Chi cerca di nascondere la
necessità del pentimento, facendo finta che il male
non esiste, finirà inevitabilmente con il dimenticare
quell’intima nostalgia, quell’aspirazione a un «di più»,
che resta piantato nel cuore di ogni anima che voglia
dirsi umana.

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Per questo la Chiesa dedica al pentimento tanta
attenzione: quaranta giorni, una stagione intera! E
c’è sapienza in questo, annunciare un tempo di pen-
timento, infatti, significa annunciare una speranza:
il male non vincerà, tu sei più grande del tuo peccato.
Se sei ancora capace di pentirti, vuol dire che la tua
volontà è ancora libera, vuol dire che non sei stato
definitivamente preso nella rete che il nemico del
genere umano ha disteso intorno a te. Per quanto
sia grande il tuo peccato, dice Bernardo di Chiara-
valle, più grande ancora è la misericordia di Dio. E
la Quaresima sta lì proprio a dirti che non c’è male
irreversibile, non c’è catena infrangibile, non c’è colpa
imperdonabile.
Caro Marco, finché pensiamo la morale come una
serie di leggi a cui obbedire e l’inferno e il paradiso
come il premio e la punizione per una vita virtuosa
o trasgressiva, non riusciremo a vedere il valore im-
menso del pentimento. Finché al centro della nostra
attenzione ci sono gli atti che abbiamo compiuto e
non lo spirito che li ha mossi, il pentimento è del
tutto irrilevante; ma questa prospettiva è fattuale
e materialista, in verità è proprio sulle intenzioni
che si combatte la battaglia! La Chiesa ha sempre
insegnato che il peccato è lo strumento attraverso
cui il diavolo vuole distoglierci dall’adorazione di
Dio e legarci in schiavitù. E allora c’è una rivoluzione
copernicana da compiere nella nostra comprensione
della lotta contro il male: non siamo cristiani per
diventare un po’ più buoni, ma per spezzare la catena
che ci impedisce di essere ciò che già siamo, ciò che

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siamo diventati il giorno del nostro battesimo: figli
di Dio. Per questo il pentimento è fondamentale: non
si tratta di cambiare i nostri comportamenti, ma la
nostra mentalità. Le opere seguiranno, ma nessuno
è più schiavo di colui che neppure desidera essere
liberato.
Dopo aver conosciuto me stesso, dopo aver com-
preso l’abisso di grandezza a cui sono chiamato e
l’abisso di povertà da cui provengo, sarò pronto per
dare il giusto nome alle cose e assumermi la mia re-
sponsabilità, sarò pronto ad ammettere che non solo
esiste un male, ma che questo male è peccato, cioè
colpa. Una colpa che è mia, una responsabilità che mi
devo assumere, una battaglia che devo combattere,
una bassezza da cui devo innalzarmi per aspirare a
qualcosa di grande.

Tornerò da mio padre


La parola ebraica più usata per «peccato», hatâ’âh,
significa etimologicamente «mancare il bersaglio». È
come se la freccia che noi siamo, scagliata verso il ber-
saglio della vita, uscisse dalla sua traiettoria, fallendo
l’obbiettivo. È degno di nota a questo proposito il fatto
che l’ebraico per dire ciò che noi chiamiamo peccato
non conosce sostantivi astratti, metafisici, ma solo
verbi, e conseguentemente azioni, di carattere concre-
to e relazionale. Così che, sinteticamente, si potrebbe
dire che la dinamica del male nella Bibbia è sempre
una ribellione (pesha) che porta a mancare il bersaglio
esistenziale della nostra vita (hatâ’âh) finendo con il

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piegare l’uomo, che risulta così incurvato su se stesso
(âwôn), piuttosto che teso verso Dio.
Marco carissimo, non mi piace il disprezzo con cui
parli di chi si pente. Solo chi non ha mai sentito il
dolore e il rimorso del fallimento, la consapevolezza
terribile di aver mancato il bersaglio, può irridere
questo sentimento. Non esiste un pentimento a buon
mercato! Non si tratta di fare opere di espiazione, non
ci è chiesto di sicuro di riparare al male commesso, e
come potremmo? Piuttosto e più semplicemente si
tratta di prendere coscienza, di tornare alla nostra
origine, di ri-cordare, cioè rimettere in cuore, la via su
cui eravamo incamminati e tornare a percorrerla. Non
per nulla in ebraico pentimento si dice teshuva, che
letteralmente significa «ritorno»: ricorda chi sei e da
dove vieni, qual è la tua chiamata e da quale inferno
sei già stato strappato!
Il terzo passo del pentimento, quindi, è ri-cordare
il Padre che ci ha generati, la bellissima voce che ci
ha chiamato per nome, facendoci entrare nella Vita.
Così la Quaresima inizia con la memoria: ricorda
la tua chiamata, l’evento di liberazione che ha dato
inizio alla tua storia con Dio, ricorda che sei figlio,
ricorda che la tua stessa esistenza è un dono del tutto
sorprendente e inatteso, giacché nulla poteva obbli-
gare il mondo a farti esistere e nulla in te ha potuto
meritare il dono della vita, ricorda che sei stato amato
prima ancora di esistere. Potrà sembrarti strano, ma
l’anima del pentimento è la gratitudine! Per questo
la liturgia ci invita a leggere in questo tempo il libro
dell’Esodo, dove è chiarissimo che non è il popolo di

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Israele a liberarsi da solo dai suoi oppressori egiziani,
ma piuttosto viene liberato da una gratuita e immeri-
tata azione di Dio.

Il senso di colpa
Si capisce, allora, che c’è una grande differenza tra
pentimento e senso di colpa: sono due sentimenti in
apparenza simili, in realtà diametralmente opposti e
mentre uno conduce alla vita, l’altro conduce alla mor-
te. Se il pentimento nasce dalla gratitudine per essere
stati amati nonostante la nostra indegnità, il senso
di colpa nasce invece da un astratto senso del dovere,
dall’incapacità di corrispondere a una immagine ide-
ale di noi stessi, come un vestito troppo stretto che
vorremmo indossare a forza. Paolo con la consueta
finezza lo spiega molto chiaramente: «La tristezza
secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che
porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo
produce la morte» (2Cor 7,10). Che cosa sono questa
tristezza secondo Dio e questa tristezza del mondo,
se non il pentimento e il senso di colpa?
Abbiamo visto che il concetto biblico di peccato è
sempre relazionale: il peccato non è la disobbedienza
a una legge astratta, ma la dimenticanza del Padre o
addirittura la ribellione contro di lui, e quindi il fal-
limento di una relazione. Il pentimento dunque è il
dolore di aver tradito una persona amata, di aver man-
cato alla sua fiducia. Il senso di colpa invece è il dolore
di non essere stati all’altezza della propria immagine
di sé: credevamo di essere santi, credevamo di essere

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buoni, credevamo di essere pronti e invece la realtà ci
ha costretto ad aprire gli occhi sulla nostra miseria
e ci siamo ritrovati soli, tristi e nudi. Il primo nasce
dall’amore, il secondo, alla fin fine, dall’orgoglio. La
differenza maggiore è che il pentimento, poiché nasce
dalla relazione, porta alla salvezza, perché il perdono
della persona amata ristabilisce quel legame che noi
avevamo spezzato, viceversa il senso di colpa, essendo
rivolto contro se stessi, non ha perdono e conduce alla
depressione e alla morte. Nessuno mi può perdonare,
se sono io a condannarmi!
Quello che voglio dirti è che hai ragione a scagliarti
contro il senso di colpa, dicendo che è un veleno per
l’anima, e purtroppo hai ragione anche quando punti
il dito contro la Chiesa che, sono tue parole, «per
troppo tempo ha usato il senso di colpa come un'ar-
ma per controllare le coscienze». È vero purtroppo,
e dobbiamo riconoscerlo onestamente: sono tanti,
troppi, i predicatori e i pastori che hanno annunciato
il Vangelo facendo leva su una sorta di «terrorismo
psicologico». Eppure voglio anche ribadire con forza
che non è questa la verità cristiana, anzi al contrario:
la «buona notizia» del Vangelo consiste proprio in
questo, annunciare al mondo che Dio è Padre e ci ha
liberati dal senso di colpa!

La scomparsa del Padre


Sì, Dio è Padre! Non è un ideale astratto, non è una
legge impersonale, è una persona, un tu, che chiede
solo di essere riconosciuto nel suo amore. La visione

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cristiana dell’uomo, paradossale coesistenza di ma-
gnificenza e miseria che ha nel suo centro l’umiltà,
alla fine si basa su questa certezza, e così ci mette al
sicuro dal senso di colpa. Sarò ben consapevole infat-
ti che senza l’aiuto del Padre non posso aspettarmi
niente di buono da me stesso e d’altra parte, proprio
perché Dio è Padre, sarò anche ben consapevole del
fatto che il suo aiuto è sempre lì, disponibile per
chiunque lo chiede.
La sparizione del Padre è il più grande dramma
della cultura occidentale. È un colpo al cuore del cri-
stianesimo, perché nega in radice ogni possibilità di
vita cristiana, ma è anche un colpo al cuore dell’uomo,
perché nessuno può essere felice senza padre.
È ora di dirlo chiaramente, è ora di dirlo una volta
per tutte: noi non crediamo in Dio, noi crediamo
in Dio-Padre! Fai benissimo ad aver rifiutato il Dio
deista, il motore immobile, principio universale, im-
personale, autoreferenziale, autosufficiente, impas-
sibile e tante altre cose che quattro secoli di teologia
razionalista hanno appiccicato sul concetto di Dio. Fai
benissimo a non crederci perché neppure io ci credo:
quel Dio lì non esiste affatto. Il Dio in cui io credo,
invece, è un altro. Il Dio in cui credo è il Padre di Gesù
Cristo, che per un misterioso e indebito dono della sua
benevolenza estende anche su di me la sua paternità,
adottandomi come figlio e fratello del Signore.
Intendiamoci, la Chiesa ha pesanti responsabilità
in questo oblio del Padre. Tutto questo è accaduto
perché abbiamo smesso di parlare della Trinità. Per
dialogare con la filosofia illuminista, che è sostan-

21
zialmente deista, siamo diventati deisti anche noi.
Quante sono (al di fuori della liturgia, che per mira-
colo ha mantenuto la struttura trinitaria) le preghie-
re cristiane che si rivolgono direttamente al Padre?
Preghiamo rivolgendoci a un generico Dio, astratto,
impersonale, che non è molto diverso tutto sommato
dall'Allah dei musulmani o perfino dal Brahma indu-
ista. I Padri della Chiesa non avrebbero mai pregato
così. Nello sforzo di dialogare con Freud, Feuerbach e
Hegel, abbiamo dimenticato Atanasio, Basilio e Ago-
stino! O ricominciamo a fondare la nostra apologetica
e la nostra morale su Dio Padre e riscopriamo tutta
la grande teologia trinitaria dei Padri, oppure tanto
vale che chiudiamo a doppia mandata le porte delle
nostre chiese e ci rassegniamo a una lenta estinzione.

La falsa devozione
Nel frattempo, per compensare la sparizione del
Padre dalla teologia, abbiamo riempito la devozione
di sentimentalismo, che però, non avendo alcuna
base teologica, è di fatto un volontarismo. Se tolgo
la razionalità dalla fede, se non ho cioè alcuna com-
prensione ragionevole del Dio Padre, non restano
che il sentimento e la volontà, ma questo porta a
una preghiera fatta di novene interminabili, di pra-
tiche superstiziose, di rituali pagani verniciati solo
superficialmente di cristianesimo. La cosa terribile
è che questo dio volontarista abbiamo continuato a
chiamarlo Padre. Abbiamo così dato agli uomini una
visione del tutto distorta della paternità di Dio e li ab-

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biamo allontanati definitivamente dalla Rivelazione
cristiana, contribuendo in maniera decisiva al rifiuto
dell'una e dell'altra.
Come se il rapporto con Dio dipendesse dalla recita
di formule magiche, abbiamo cercato la preghiera più
potente, la pratica più efficace… La preoccupazione
non è più stata: «Come posso crescere nell’amore?»,
ma: «Quali sono le giuste preghiere da dire? E quante
volte bisogna farlo?» Così all’amore si è sostituita la
paura, e abbiamo trasformato la relazione che unisce
il figlio al padre in un problema tecnico e l’obbedienza
libera in una sottomissione da schiavi, nel tentativo,
a malapena nascosto, di impossessarci di Dio, di ac-
quisire un potere su di lui, tentando di corromperlo
e blandirlo, come si fa con i potenti di questo mondo.
E al Gesù che ci dice «Non vi chiamo più servi, ma
amici» abbiamo risposto: no grazie, preferiamo re-
stare servi.

Il libertino e il moralista
Siamo così giunti al nostro tempo, il paese dei baloc-
chi. Un’epoca paradossale che da una parte, avendo ri-
fiutato il Padre, non ha più alcuna nozione del peccato
inteso nel senso ebraico di rottura della relazione, ma
dall’altra ha sperimentato nelle follie del XX secolo le
conseguenze di un libertinismo totalmente senza re-
gole. Sappiamo bene che non possiamo estirpare con
le nostre sole forze il male dal cuore e così ci avvilup-
piamo in un senso di colpa tanto più forte e doloroso
quanto più oscuro e senza nome. Per proteggerci dal

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male cerchiamo una redenzione senza redentore, e ci
affidiamo al potere taumaturgico della legge.
Abbiamo ucciso il Padre, come Edipo, e ora come
Telemaco, il figlio di Ulisse, sospiriamo sulla spiag-
gia aspettando il suo ritorno. Per poter vivere quindi
abbiamo sostituito il Padre con la legge e oscilliamo
sempre più rapidamente tra un soggettivismo in cui
tutto è permesso e un legalismo rigidissimo in cui
l’obbedienza alla legge sostituisce la bontà e diventa
il nuovo parametro della virtù: non importa che tu
sia un mostro, l’importante è che tu agisca sempre
secondo la legge. Nasce così la società che, come tu
dici, non conosce peccati, ma solo reati. Ma mentre
tu consideri questo una grande conquista della laicità
del pensiero, io ti dico invece che questa società è ter-
ribile, perché un peccato si può sempre perdonare, un
reato mai. Così, paradossalmente, il prezzo da pagare
per avere una società senza peccati è stato avere una
società senza perdono.
Queste oscillazioni tra soggettivismo e legalismo
sono divenute tanto rapide che un uomo della mia
generazione ha fatto in tempo a vivere entrambi gli
estremi, così che la situazione è ancora più confusa,
perché nemmeno sai più con certezza chi è l’uomo a
cui ti rivolgi. Se ancora Heathcliff, in Cime tempestose,
sarebbe capace di distruggere il mondo intero pur di
avere Catherine, ma non gli verrebbe mai in mente
di rivendicare un diritto alla sua follia, noi invece
pensiamo di poter giustificare qualsiasi cosa in nome
di un presunto amore, che in realtà è solo il nostro
capriccio travestito. Abbiamo creato un mostro di

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Frankenstein: il libertino moralista, l’uomo che pre-
tende che le sue voglie siano elevate a legge, così da
poter spadroneggiare liberamente su tutto e su tutti,
anticipato in maniera geniale da Dostoevskij con il
ritratto di Raskolnikov in Delitto e castigo. Sono molte
le follie del nostro tempo che illustrano questa menta-
lità, dalla cosiddetta «gestazione per altri», che sareb-
be meglio definire «utero in affitto» o meglio ancora
«gestazione della schiava», alla pretesa di legalizzare
la droga o il suicidio o addirittura l’omicidio dei meno
performanti, camuffandolo da eutanasia.
Se non esiste più un Padre, non esiste più nemmeno
una misura oggettiva del bene, così il bene diventa il
consenso sociale: è bene ciò che tutti approvano, così
che il grande peccato allora sarà il non conformarsi,
l’essere fuori dal pensiero corrente. La propaganda
rimpiazza la morale e la verità è di chi sa usare meglio
i social media. Poiché il solo modo di tenere insieme il
libertinismo che ci permette di fare ciò che ci pare e il
moralismo che tranquillizza la nostra coscienza è dare
nomi meno inquietanti alle cose, per nasconderci la
verità delle nostre azioni e sentirci meno responsabili,
usare un linguaggio «politicamente scorretto» diventa
intollerabile, come se ciò che conta non fosse più la
sostanza delle cose, ma il nome che diamo a esse.
Eppure, sebbene apparentemente agli antipodi,
il cristiano moralista non è tanto diverso nella sua
radice dall’ateo libertino. Entrambi hanno in comune
l’illusione dell’autosufficienza, di poter bastare a se
stessi. Il libertino si illude di poter rimuovere il male
e far finta che non esista, il moralista di poterlo vin-

25
cere con le sue sole forze. Entrambi in fondo negano
la drammaticità del peccato, il primo negando la sua
esistenza, il secondo illudendosi di poterlo controllare
e gestire attraverso la legge.
Il fondamento di questa illusione è la pretesa di po-
ter fare a meno del Padre, di poter essere felici da soli.
Così nel moralista la libera adesione del figlio è sosti-
tuita dall’obbligo giuridico, lo slancio della passione
dal precetto, il dono di sé dal dovere. E mentre il liber-
tino rifiuta la legge e il moralista cerca di adempierla
a perfezione, entrambi dimenticano che la sola cosa
che possa renderli felici è il libero legame dell’amore.

La morale come ideologia


Il bene viene così confinato nel cielo delle idee pla-
toniche, nel mondo iperuranio degli ideali e può quin-
di essere rifiutato come un vago sogno, da sostituire
con l' obbiettivo ben più concreto e a portata di mano
del piacere. E se non viene rifiutato è anche peggio:
diventa un modello ideologico astratto da imporre
con la forza a se stessi e agli altri, diventando così non
una liberazione della persona, ma una fonte infinita
di nevrosi e infelicità.
Questo accade sia quando pretendiamo che la mora-
le venga imposta per legge dallo Stato, sia quando ne
applichiamo i principi alla vita senza alcun riguardo
alle disposizioni interiori soggettive. Se guardi bene ti
accorgerai che è lo schema di ogni ideologia: si elabora
a tavolino un’idea di uomo e di società e poi si cerca di
imporlo a forza alle persone. È il leninismo applicato

26
alla vita spirituale. Quando la domanda etica non è
più «chi essere?», ma «che fare?» (che non per nulla è
il titolo dell’opera più famosa di Lenin), significa che
abbiamo trasformato la fede in ideologia e siamo del
tutto fuori da una prospettiva cristiana.
Caro Marco, quando leggo certi piani pastorali o gli
atti di certi convegni diocesani mi vengono i sudori
freddi e capisco benissimo le tue critiche a questa
Chiesa: pagine e pagine di analisi sociologiche accura-
tissime per descrivere la situazione, analisi psicologi-
che, antropologiche, culturali di una noia mortale, da
cui manca ogni vitalità, ogni soffio di speranza, per
giungere infine a una domanda, una sola: che fare?
Come se il fare non fosse figlio dell’essere, come se il
vangelo non ci chiamasse innanzitutto alla conversio-
ne, alla metanoia, cioè a cercare un pensiero «oltre»3.
Come se la realtà non mettesse in questione radical-
mente ciò che siamo e bastasse una piccola cosmesi
di facciata per risolvere tutti i problemi della Chiesa!
Hai ragione, questa Chiesa è diventata moralista.
Tu dici «pragmatica», ma il concetto è lo stesso. Di-
versamente da te però io non penso che questa sia la
verità del cristianesimo, ma una sua patologia, e una
patologia mortale per di più, contro la quale mi batte-

3
In genere la parola greca metanoia, composta dal prefisso meta- e
dal sostantivo nous, viene tradotta con «cambiamento di mentali-
tà». Ma mi sembra una traduzione riduttiva. Spesso meta- significa
«oltre», come nella parola «metafisica». Mi sembra quindi più cor-
retto tradurre metanoia come «pensare-oltre». Non si tratta quindi
tanto di rivoluzionare il nostro pensiero, quanto di approfondirlo,
per andare alle sue radici più vere.

27
rò sempre. Non c’è via di scampo: se il bene non è più
l’incontro con un Padre, ma la conformità a un ideale,
allora o dovrò negare me stesso, reprimendo la mia
umanità e tagliandola pezzi finché non corrisponda a
esso, oppure dovrò ridimensionare l’ideale, adeguan-
dolo alla mia misura, togliendogli il suo carattere di
assoluto, misurandolo sulla mia umanità anziché su
Dio. In un modo o nell’altro dovrò reprimere qualcosa
dentro di me: o le aspirazioni più profonde del mio
cuore alla trascendenza e all’assoluto, alla bellezza
e alla virtù, o i desideri più basici e primari del mio
istinto, della mia carne. Solo il cristianesimo, solo la
certezza di Dio Padre sa tenere insieme carne e Spiri-
to, assoluto e contingente, necessario e libero.

La morale del figlio


L’oblio del Padre mette irrimediabilmente in con-
flitto in noi lo Spirito e la psiche, il corpo e l’anima,
obbligandoci a separarli e facendo dell’uomo un fascio
di contraddizioni irrisolte. Ma il cristianesimo è in-
nanzitutto la Rivelazione dell’Incarnazione, che porta
in sé l’incontro dello Spirito e della carne. Il dogma
cristiano fondamentale è quello di Calcedonia: divi-
nità e umanità possono essere unite senza distinzioni
né confusioni. Guarda che mistero: non posso essere
un angelo senza cessare di essere uomo e non posso
essere un animale senza diminuire la mia umanità,
ma posso essere contemporaneamente Dio e uomo
e anzi, quanto più sono uomo tanto più sono Dio e
quanto più sono Dio tanto più sono uomo!

28
Questo è senz’altro vero di Gesù, ma lo è anche di
me: non devo essere meno uomo per avvicinarmi a
Dio. La carne anela allo Spirito, che unico può com-
pierne le aspirazioni più profonde, e lo Spirito d’altra
parte ha bisogno della carne, perché senza di essa non
può manifestarsi pienamente. E se pure, come vedre-
mo, una tensione tra i due rimane, è però una tensione
feconda, che spinge entrambi verso una crescita, che
li porta a non chiudersi in se stessi, preservandoci sia
dall’angelismo che dalla brutalità.
Dal ri-cordo del Padre si sviluppa una crescita or-
ganica, che non procede per repressioni e tagli, come
la violenza moralista, ma per sviluppi e integrazioni.
Accade così che il materiale umano di cui è fatto il
grande santo è lo stesso di cui è fatto il peccatore, e
non di rado, come ci ricordava papa Francesco nelle
bellissime meditazioni che ha scritto per il giubileo
dei sacerdoti, il nostro peccato fondamentale diventa
il tratto più caratteristico della nostra santità: così
il vanesio Francesco diventa lo sposo di Madonna
Povertà, il sensuale Agostino il grande teologo della
carità, eccetera.
L’uomo che ha conosciuto il Padre non ha bisogno
di rinnegare nulla di sé, perché sa di essere amato
tutto intero, nelle sue aspirazioni ideali come nei
suoi istinti più primordiali, nella sua carne come
nel suo spirito. Nella luce di questo amore ogni cosa
trova la sua giusta dimensione e il suo contesto, e noi
scopriamo così la nostra vera grandezza: l’uomo è un
animale chiamato a diventare Dio. Per questo prima
ti scrivevo che non si tratta di smettere di desiderare,

29
come ci insegnano lo stoicismo e il buddismo, ma al
contrario di andare in fondo al nostro desiderio per
scoprire che lì abita Dio.
Quando ero al liceo, vidi un giorno una scritta sul
muro della mia scuola: «Viva Dio, cioè viva io». Non
ho mai saputo cosa intendesse la mano che ha trac-
ciato quella frase, ma l’ho sempre interpretata come
una bellissima formula di una vera morale cristiana:
non si tratta infatti di distruggere un temperamento
umano, il pentimento non ha niente a che fare con
questo, ma piuttosto di assumerlo nella prospettiva
dello Spirito Santo, cioè nella relazione con il Padre,
in una parola di divinizzarlo.

Nella luce del Padre


In fondo è tutta una questione di luce. Si tratta di
scoprire cosa diventano la tua ira, la tua lussuria o
la tua pigrizia quando sono colpite dalla luce divina.
Immagina di essere illuminato da una luce verde o ul-
travioletta, o da lampi stroboscopici: i tuoi lineamenti
diventerebbero quasi irriconoscibili, sembreresti un
mostro; solo nella luce giusta apparirà chi sei davvero,
la verità della tua immagine. Così accade con il no-
stro temperamento: è l’amore del Padre quella giusta
luce che rivela la tua verità e solo allora, quando sei
illuminato da questa luce, puoi comprendere chi sei.
L’incontro con il Padre ti rivela a te stesso.
Io e te abbiamo entrambi un carattere irascibile:
il senso di colpa ci porterebbe a cercare di reprimere
la nostra ira, a tentare di spegnere in noi tutte le

30
pulsioni colleriche, nello sforzo di diventare man-
sueti e dolci, ma quale sarebbe il prezzo da pagare
per ottenere questo risultato? Alla fine non sapresti
più chi sei davvero, non saresti capace di distinguere
tra la tua natura e la sovrastruttura ideale che ti sei
autoimposto. E anche se ci riuscissi, l’esito finale sa-
rebbe probabilmente peggiore del punto di partenza,
talmente artefatto da essere irreale e senza vita. È per
questo che si vedono in giro nella Chiesa certi sorrisi
stereotipati che sono più spaventosi di un ghigno, cer-
te gentilezze che sono più offensive di uno schiaffo.
Se invece fosse il pentimento a guidarti, anziché
reprimere la tua ira cercheresti di riorientarla, di
illuminarla con la giusta luce per riprendere la mira e
indirizzarla verso il bersaglio. Ci può essere del bene
nell’ira: chi combatterebbe la mafia senza avere una
giusta ira contro il male? Chi sarebbe pronto al sacri-
ficio senza una santa ribellione contro l’ingiustizia?
Non si tratta quindi di spegnere l’ira, ma di adirarsi
secondo la volontà del Padre nella fedeltà alla missio-
ne da lui ricevuta.
Pensa un po’ che paradosso se mettessi ogni energia
nello spegnere in te l’ira per poi scoprire che il Padre
ti ha chiamato proprio perché per quel determinato
compito gli serviva un tipo irascibile! Si dice che del
maiale non si butta niente, vale la stessa cosa per
l’uomo: non c’è aspetto del tuo carattere, non c’è lato
della tua personalità che, visto sotto la giusta luce, sia
inutile al Regno di Dio.
La Quaresima, quando è vissuta bene, inaugura
una stagione di pentimento, non di senso di colpa. Il

31
suo obbiettivo è prepararci alla Pasqua, cioè a morire
e risorgere con Cristo, non schiantarci nel rimorso. È
un tempo da vivere guardando in avanti, in attesa del
compimento definitivo della promessa del Padre, non
rivolti all’indietro nel triste ripensamento dei propri
fallimenti. La Quaresima ci orienta verso la Risur-
rezione, perché, come vedremo tra un attimo, è solo
la Pasqua che ci fa comprendere la piena dimensione
del Padre. Nel suo inizio allora, poniamo proprio la
memoria del Padre. Mi colpisce molto il fatto che nel
Vangelo del Mercoledì delle ceneri (Mt 6,1-6.16-18)
Gesù per tre volte motiva le principali pratiche asce-
tiche (digiuno, preghiera ed elemosina) a partire dalla
relazione con il Padre. Non è per punirci dei nostri
peccati che siamo invitati all’ascesi, ma per farci ve-
dere dal Padre, cioè per ristabilire la relazione con lui4.

La paura del Padre


A prescindere dalle deformazioni teologiche e dagli
errori compiuti dalla Chiesa nella sua storia, dobbia-
mo riconoscere che non è comunque facile credere
che davvero Dio è nostro Padre. C’è qualcosa di pri-
mordiale in noi che resiste tenacemente a questa idea
e ci impedisce di abbandonarci davvero al suo amore,

4
Nell’ebraico biblico l’atto del guardare non è statico, come in
greco, ma al contrario indica un protendersi verso colui che è
guardato. Quando è compiuto da Dio, indica quindi il primo
movimento della Grazia. Spesso nella Bibbia, nel Magnificat ad
esempio, l’espressione «Dio mi ha guardato» è sinonimo di «Dio
mi ha toccato con la sua Grazia».

32
un dubbio che non ci abbandona mai del tutto, una
segreta inquietudine che tenta sempre di riportarci
indietro, dalla figliolanza alla servitù.
È facile pensare Dio come un padrone e di con-
seguenza noi stessi come servi: è l’atteggiamento
naturale dell’uomo in quanto creatura, è la posizione
di ogni essere ragionevole di fronte al mysterium tre-
mendum et fascinans, ma questo atteggiamento rima-
ne sostanzialmente precristiano, non corrisponde
affatto alla rivelazione del Vangelo e, a ben guardare,
neppure a quella ebraica. E tuttavia il nostro istinto
naturale resta questo: di fronte alla manifestazione
del divino la prima reazione, la più istintiva, è quella
di fuggire, di tirarsi indietro spaventati. Perché? Non
sembra logico! Come mai, se siamo stati creati per
essere in comunione con Dio, quando siamo davanti a
lui ci ritraiamo inorriditi? Come mai, anche ammesso
che riusciamo a entrare cinque minuti in preghiera,
siamo afflitti da mille distrazioni?
Il punto è che fin dall’inizio abbiamo prestato ascol-
to alla voce del serpente che ci ha convinti che Dio è
nostro nemico, invidioso della nostra libertà, e pone i
suoi precetti per legarci e impedirci un pieno sviluppo
della nostra umanità. Bisogna notare l’astuzia del
serpente: tutti gli alberi sono a nostra disposizione,
possiamo mangiare tutto, fare tutto, gustare tutto,
il mondo intero è nelle nostre mani tranne una cosa
sola. Ed è ben giusto e necessario che una cosa, una
sola, sia fuori dal nostro potere, perché quel divieto
serve a ricordarci che non siamo Dio, che siamo crea­
ture, legati al Creatore da un rapporto di assoluta

33
dipendenza. Ma l’arte del tentatore consiste nel farti
dimenticare tutto il creato che è nelle tue mani per
concentrarti su quell’unica cosa vietata, così che finia-
mo con il convincerci che se per una sola cosa non sia-
mo liberi allora non siamo liberi per nulla. E l’ironia
amara di tutta la vicenda è che quel divieto, l’essere
come Dio, era solo temporaneo, finché non l’avessimo
potuto ricevere in dono, ma noi abbiamo voluto ruba-
re il dono che il Padre aveva preparato per noi!
A partire da quell’evento è accaduto un vero ter-
remoto spirituale, le cui conseguenze giungono fino
a noi addirittura amplificate. Adamo, credendo al
serpente, ha rotto il rapporto fiduciale che lo legava a
Dio, da cui riceveva ogni cosa. Ha smesso di vederlo
come Padre e ha cominciato a vedere in lui un padro-
ne, ha smesso cioè di guardarlo con gli occhi del Figlio
e ha cominciato a vederlo come il diavolo stesso lo
vede! Per il diavolo, infatti, Dio è un padrone esigente
e terribile, a cui non può sottrarsi, ma verso il quale è
in una continua ribellione. Così si compie una terribile
inversione e ogni atto d’amore del Padre viene visto
come un’intrusione e una minaccia: la sua giustizia
diventa l’occhio inquisitore del Grande Fratello, la
sua provvidenza un’elemosina umiliante che vuole
tenerci in uno stato di minorità, la sua morale una
schiavitù intollerabile, fino al terribile atto di accusa
di Bakunin, che tu stesso mi citi nella tua lettera: «Se
Dio è, l’uomo non è libero».
Una volta che ci siamo separati dal Padre, abbia-
mo scoperto di essere nudi. Poiché abbiamo voltato
le spalle a Colui che ci proteggeva e ci custodiva e ci

34
riempiva di ogni bene, abbiamo scoperto di essere in-
difesi e di dover lottare per ogni cosa. Poiché abbiamo
sputato sul dono, ora siamo costretti a conquistare
tutto. Da qui la consapevolezza della nostra terribile
fragilità, che genera in noi la paura. Poiché ora abbia-
mo paura di Dio, che non vediamo più come Padre,
abbiamo paura di ogni cosa. E sopra tutto abbiamo
paura della morte, che non riusciamo più a vedere
come la sorella che ci ricongiunge a Dio, la maestra
saggia ed esigente che ci insegna a vivere, ma diventa
un mostro terribile, un muro invalicabile contro cui è
destinata a infrangersi ogni speranza e ogni illusione
di bene. È proprio nella consapevolezza di questa nu-
dità, nella paura della precarietà, che si radicano sia
il libertinismo che il moralismo. Entrambi sanno che
«del doman non v’è certezza», e questo assioma diven-
ta il fondamento sia dello smodato appetito e della
violenza prevaricatrice del libertino, che del bisogno
di stabilità e sicurezza che sta alla base del moralismo.

Il «figlio minore» (l’uomo in rivolta)


Caro Marco, tu ti professi ateo, eppure la Bibbia
neppure conosce questa parola. Io credo che nessuno
possa seriamente essere ateo, perché l’uomo non può
veramente rompere il legame che lo unisce a Dio (e
per fortuna!): siamo destinati a goderne in eterno,
come figli, o a subirlo in eterno come schiavi. Questo
è talmente vero che ben pochi credenti sono tanto
determinati da Dio nelle loro scelte e decisioni quan-
to te, che non fai altro che pensarci. Del resto sei in

35
buona compagnia: pensa a Pasolini, a De André, a
Odifreddi, tanto per citarne qualcuno famoso, vedi
come sono talmente ossessionati dal loro rifiuto che
prendono tutte le loro decisioni a partire dalla pro-
pria ribellione? La condizione dell’ateo in effetti è
una condizione terribile, perché si condanna da solo
a mordere in eterno una catena che non potrà mai
spezzare e che anzi si stringe sempre più quanto più
egli ci si ribella contro.
Così più che parlare di atei la Bibbia parla di em-
pi. L’empio è l’uomo che non vuole regole, che non
accetta nessuna imposizione su di sé, è il figlio più
giovane nella parabola di Lc 15, che esigendone l’ere-
dità dichiara morto il padre. Sartre e Camus hanno
tratteggiato questa figura umana in maniera indi-
menticabile, penso soprattutto al Camus de L’uomo in
rivolta, che ha osato tentare una storia sintetica della
rivolta contro Dio5. Questa ribellione però non è dav-
vero contro il Padre, ma contro quella contraffazione
del Padre che il serpente ci ha sbandierato davanti: il
padre/padrone irraggiungibile e tirannico nella mani-
festazione della sua volontà, che nella prospettiva dia-
bolica è divenuta arbitraria e inumana, come quella di
un satrapo orientale. Il problema è che questa rivolta
5
«Nel tempo stesso che rifiuta la propria condizione mortale,
l’uomo in rivolta rifiuta il potere che lo fa vivere in questa condi-
zione. L’insorto metafisico non è dunque sicuramente ateo, ma
necessariamente blasfemo. Egli bestemmia in nome dell’ordine,
denunciando in Dio il padre della morte e il supremo scandalo» (A.
Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 1981, p. 32). Conside-
ro L’uomo in rivolta un libro importantissimo per capire il nostro
tempo, sebbene ingiustamente dimenticato.

36
dell’uomo è una rivolta nel vuoto, un meccanismo pu-
ramente distruttivo che, non potendo vedere la verità
del Padre, finisce in realtà con il divorare se stesso.

Il figlio maggiore (il moralista)


Non meno terribile di quella dell’empio è la con-
dizione del moralista, ben rappresentato dal figlio
maggiore della parabola di Luca. Consapevole di aver
perduto la gioia, il moralista vorrebbe riconquistarla
con le proprie forze. Ma non può, perché l’essenza
della gioia è l’essere amati e questo non possiamo dar-
celo da soli in alcun modo. La cosa più essenziale della
nostra vita è inesorabilmente e irrevocabilmente nelle
mani di un altro, dunque nessuno può pretendere di
essere autosufficiente.
Il moralista cerca di sottomettere la propria natura
decaduta a forza di braccia, per così dire, ma la na-
tura non può sottomettere la natura ed egli diventa
simile a colui che cerca di strapparsi dalle sabbie
mobili afferrandosi per i propri capelli, come nella
favola del Barone di Münchausen. La conseguenza di
questa impossibile pretesa è un uomo che vive come
con il coltello tra i denti, sempre in lotta, mai in pace,
perché è diventato nemico di se stesso. Non potendo
accettare la sua fragilità e la sua povertà, finisce con
il non sopportare più i propri difetti. Non potendo
sottomettere la propria natura, si condanna a vivere
sotto lo sguardo di un gendarme che gli proibisce per-
fino di respirare. Nasce allora l’esigenza di una legge
totalizzante, che normi anche il più piccolo comporta-

37
mento, nella ricerca ossessiva del gesto perfetto, senza
rendersi conto che la perfezione non sta nel gesto, ma
nell’attitudine del cuore.
Si avviluppa così, il moralista, in una rete dalle
maglie sempre più strette che lo stringono da ogni
parte. Sperimentando la sua incapacità, cercherà di
rimediare al proprio limite legandosi sempre più stret-
tamente in regole e precetti che non faranno altro che
moltiplicare in lui il senso del fallimento. Per questo
nell’intimo della sua coscienza non può mai essere
soddisfatto, mai felice, perché la nudità che speri-
mentiamo dopo il peccato ha posto in noi un istinto
insopprimibile, più forte di qualsiasi cosa: l’istinto
di autoconservazione, l’imperativo «salva te stesso!»,
che è l’ultimo appello della natura umana. Così che
l’individualismo, il pensare prima a sé, non può mai
del tutto essere represso e, cacciato dalla porta, rien-
trerà inevitabilmente dalla finestra, in una forma o
nell’altra: si possono imitare gli atti dell’amore, ma
non ci si può forzare ad amare!
Solo la Grazia, cioè l’amore gratuito del Padre, può
sottomettere la natura, ma questo è proprio ciò che il
moralista non vuole. Egli infatti vuole meritare Dio,
perché la sola lingua che conosce è quella del meri-
to, tanto gli sembra impossibile che si possa essere
amati gratis! La conseguenza è che, se pure è capace
di imitare formalmente gli atti dell’amore, come il
figlio maggiore della parabola sarà pieno di un sordo
rancore verso i deboli, i peccatori, quelli che non ce la
fanno e non sarà veramente capace di perdono.

38
Schiavi della morte
Questa sfiducia, questa diffidenza verso il Padre,
è ultimamente ciò che chiamiamo peccato originale,
che ci tiene ostaggi del diavolo: come dice la Lettera
agli Ebrei, è attraverso la paura della morte che esso
ci tiene in schiavitù (Eb 2,15). La consapevolezza della
morte ci accompagna sempre, è come una presenza
oscura che cammina accanto a noi, ricordandoci sem-
pre la nostra fragilità e precarietà. A che serve essere
nobili e giusti? A che guadagnare il mondo intero? A
che sacrificarsi e lottare? Principi e re, papi e cardi-
nali, ricchi e poveri, santi e peccatori, tutti muoiono
allo stesso modo: «Allora ho pensato: "Anche a me toc-
cherà la sorte dello stolto! Perché allora ho cercato di
essere saggio? Dov’è il vantaggio?". E ho concluso che
anche questo è vanità. Infatti né del saggio né dello
stolto resterà un ricordo duraturo e nei giorni futuri
tutto sarà dimenticato. Allo stesso modo muoiono il
saggio e lo stolto» (Qo 2,15-16).
La frase della tua lettera che mi ha impressionato di
più è questa: «La certezza della morte smentisce defi-
nitivamente ogni possibilità di affidarsi a Dio», e in un
certo senso hai ragione. Come credere a un Dio Padre
buono se poi il destino finale della nostra vita sono i
vermi? Come credere che la vita è un dono quando «i
nostri anni sono settanta, ottanta per i più robusti, e
quasi tutti sono fatica e dolore; passano presto e noi
ci dileguiamo» (Sal 89,10)? In faccia al moralista, in
faccia all’uomo che cerca la salvezza, il diavolo sbatte
la certezza della morte, distruggendo ogni possibile

39
speranza di vincere il terrore che ci separa da Dio. Se
è certamente vero che la natura non può sottomettere
la natura, è più che mai vero che nessuno può sfug-
gire alla morte, e qui si dimostra il fallimento di ogni
pretesa giustizia umana. La morte, come una barriera
invalicabile, come un definitivo e tragico muro di se-
parazione, ci separa per sempre dal Padre.

Vincere la morte: un modello


sbagliato…
Nessuno? No, Marco, in verità non è così. C’è uno
che è stato liberato dalla morte e per questa ragione
ha riaperto la via verso il Padre che era sbarrata. C’è
uno che si è fidato del Padre tanto da andare a morire
per lui e per questa ragione ci ha salvati tutti, perché il
Padre ha dimostrato di essere compiutamente e piena-
mente Padre anche al di là della morte, risuscitandolo.
Sia lodato il nostro Signore!
Bisogna fare attenzione a questo punto, perché
nella nostra testa c’è un grosso equivoco, figlio di
una comprensione moralista del cristianesimo, che ci
impedisce di cogliere nel suo vero senso l’evento della
Risurrezione e cosa ha a che fare con noi. Te lo spiego
con un’immagine tratta dalla storia dell’arte.
Più o meno a partire dal 1200 si comincia a rap-
presentare il Cristo risorto come un eroe che esce
vittorioso dalla tomba con uno stendardo in mano,
mentre l’iconografia più antica stende un velo di
pudore sul mistero, preferendo rappresentarlo in for-
ma simbolica, come Giona che esce dalla balena, ad

40
esempio, oppure nella forma della discesa agli inferi.
Il paradigma iconografico più famoso di questa teolo-
gia zoppicante è forse la Risurrezione dipinta da Piero
della Francesca.
Questo modello è difettoso per almeno due ragioni:
innanzitutto presenta la Risurrezione di Cristo più co-
me la rianimazione di un cadavere che come l’ingresso
in una condizione di vita totalmente nuova e diversa,
ma soprattutto mette in ombra un elemento decisi-
vo: Cristo è stato risuscitato dal Padre! Perché è così
necessario affermare che l’autore della Risurrezione
è il Padre? Perché altrimenti si metterebbe in ombra
quella relazione d’amore che è appunto quel legame
più forte della morte che fa sì che la morte non possa
trattenere il Figlio. L’idea del Cristo che si autorisu-
scita, a prescindere dalla sua relazione con il Padre, e
ritorna vincitore nel suo corpo mortale è la proiezione
estrema dell’illusione moralista, perché rappresenta
l’impossibile fantasia che un uomo possa vincere la
morte da solo, con le sue proprie forze. E infatti, coe­
rentemente, Piero della Francesca lo raffigura come
un guerriero, con la faccia dura di uno che ha com-
battuto, non con il volto gioioso di chi ha ricevuto un
dono, e con uno stendardo in mano a indicare la sua
vittoria, che però in questo modo, senza nessun rife-
rimento al Padre, è ancora la vittoria di un individuo,
sia pure divino, e non di una relazione amorosa6.
6
Sono consapevole del fatto che l’intenzione degli artisti che
hanno rappresentato la Risurrezione in questo modo era quella di
sottolineare che Gesù è risuscitato nel suo vero corpo, attribuendo
così un valore teologico alla carne. Ma, come sempre, un’eresia

41
Questa comprensione sbagliata della Risurrezione
ha influenzato anche l’interpretazione dell’evento
della croce di Cristo. Così molti, come fai anche tu,
hanno cominciato con ragione a chiedersi che razza
di padre sia questo Dio che scarica la sua ira sul
figlio, abbandonandolo alla morte. Il grido di Gesù
«Perché mi hai abbandonato?» non è più inteso come
la prova della commovente e totale solidarietà di
Gesù con i peccatori, ma come un terribile atto di
accusa contro il Padre, colpevole di aver esigito uno
spaventoso tributo di sangue per soddisfare il suo
onore offeso.
Nessuna meraviglia se la gente abbandona in massa
il cristianesimo, quando noi stessi presentiamo in
questo modo i misteri centrali della nostra fede!

…e un modello giusto
Proprio risuscitando il Figlio, invece, il Padre ci ha
mostrato definitivamente che possiamo fidarci fino
in fondo di lui. È vero: il Padre domanda al Figlio un
sacrificio, ma non lo abbandona in questo sacrificio,
anzi, gli sta accanto fino in fondo e oltre. Per questo
la morte è stata vinta, il diavolo ha perso la sua arma
migliore e soprattutto noi possiamo davvero e fino in
fondo non temere più.

è una verità parziale assolutizzata, perché questo dato va unito


all’altro della Risurrezione come ingresso nella Vita divina. Questa
rappresentazione rischia dunque di essere unilaterale. Per fortuna
ci sono stati artisti come El Greco che hanno saputo tenere insieme
le due verità.

42
È a partire dalla Risurrezione, e non dalla Crea-
zione, che si scopre in piena luce il volto del Padre.
Questa scopertà è possibile però se permettiamo alla
Quaresima di fare posto a questa rivelazione nella
nostra mente e nel nostro cuore. Se pensiamo che Dio
sia Padre solo perché ci ha creati, inevitabilmente la
nostra attenzione si sposterà sulla legge morale natu-
rale, sull’obbligo di corrispondere al suo disegno su di
noi – e, come abbiamo visto, ciò è impossibile– e quindi
fatalmente si scivolerà nel moralismo, nonostante le
migliori intenzioni. Ma Dio è Padre non solo perché ci
ha creati, perché la vita sarebbe una beffa tragica se do-
vesse concludersi con la morte, ma anche e soprattutto
perché non ci abbandona nella morte, perché ha spa-
lancato per noi la strada perché possiamo tornare a lui.
Perché la morte possa essere vinta però è necessaria
una condizione: dobbiamo fidarci del Padre fino in
fondo, respingere l’inganno del serpente e, come Ge-
sù, accettare di entrare nella morte credendo che essa
non ha l’ultima parola. Possiamo descrivere la Quare-
sima come una pedagogia della croce, un tempo in cui
imparare la bellezza segreta nascosta nel sacrificio e
nel dono di sé, che ci prepari così a ritrovare il Padre
e a vivere la pienezza pasquale nella Risurrezione.
Questo non possiamo farlo da soli, è sempre l’effet-
to di un dono, una Grazia. Non siamo noi a riconciliar-
ci con Dio, ma è lui stesso a riconciliarci con sé. Noi
non saremo mai in grado di meritare il suo amore, ma
è lui che misteriosamente ci dà grazia e senza alcuna
virtù, senza alcun merito da parte nostra, si innamora
di noi. Qui non c’è niente da capire, mille pagine non

43
potrebbero convincerti del fatto che Dio ti ama, solo
un’esperienza può dirtelo, e questo significa lo Spiri-
to Santo, perché è lo Spirito che riversato in noi ci fa
sperimentare e sentire nella nostra carne, cioè nella
nostra concretezza umana, la certezza dell’amore di
Dio, il quale porta con sé quella speranza che non
delude e quindi è più forte della paura.

L’umiltà che salva


Dio non si innamora delle tue virtù, non ti deside-
ra perché sei bello, intelligente o santo, ma proprio
al contrario, perché sei piccolo e incapace. Così, ad
esempio, nel libro del Deuteronomio è scritto: «Il Si-
gnore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete
più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il
più piccolo di tutti i popoli – , ma perché il Signore vi
ama» (Dt 7,7-8).
Per questo dicevo che l’umiltà è il più appropriato
atteggiamento del figlio, è l’assunzione deliberata e
consapevole della nostra precarietà e nudità che non
saranno più così una condanna, ma un titolo di vanto:
sarò felice di essere povero e nudo, perché così sarò
rivestito di Cristo! È l’atteggiamento che il Risorto
chiede alla Chiesa di Laodicea: «Tu dici: "Sono ricco, mi
sono arricchito, non ho bisogno di nulla". Ma non sai
di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e
nudo. Ti consiglio di comperare da me oro purificato
dal fuoco per diventare ricco, e abiti bianchi per ve-
stirti e perché non appaia la tua vergognosa nudità»
(Ap 3,17-18).

44
Così la Quaresima ci ricorda che siamo polvere, che
se c’è in noi qualcosa di bene non è per merito nostro,
ma per un dono inspiegabile e fortunatissimo che
abbiamo ricevuto, e questa certezza ci impedirà di
diventare a nostra volta giudici e tiranni degli altri.
Perché colui che crede di avere qualche virtù per me-
rito proprio, colui che ha fatto della coerenza la più
alta virtù, finisce con l’ammalarsi di quella malattia
terribile che la Bibbia chiama «sclerocardia», o durez-
za di cuore, che è l’incapacità di pentirsi da una parte
e l’inesorabilità nel giudizio sul prossimo dall’altra.
Bisogna star bene attenti con le parole, molte per-
sone infatti fraintendono la concezione cristiana di
umiltà, confondendola con il disprezzo di sé. Nasce
così l’accusa di Nietzsche, che definiva l’umiltà una
morale da schiavi. Ma in realtà nel cristiano l’umiltà
non nasce affatto dal disprezzo di sé, anzi, te lo dicevo
prima: nessuno come il cristiano, consanguineo di
Dio, coniuge dell’Altissimo, ha un’alta opinione di se
stesso. Eppure, nel medesimo tempo, conserva la con-
sapevolezza del suo limite, sa di essere polvere e che
in polvere ritornerà. Ciò che chiamiamo umiltà è la
serena accettazione di questa contraddizione, il fatto
che la compresenza in noi di abiezione e grandezza sia
motivo di gioia anziché di disperazione.
Solo allora, dopo aver preso consapevolezza del
fatto che siamo polvere amatissima, potremo final-
mente cantare, come nel mirabile canto della notte
di Pasqua: «Felice colpa, che meritasti un così grande
Redentore!». Sì, il nostro merito non consiste nell’es-
sere innocenti, nessuno lo è, ma nell’assumere umil-

45
mente la nostra colpa. Questa umiltà è ciò che attira
su di noi la benevolenza del Padre e attraverso di essa
otteniamo il dono dello Spirito Santo e l’infinita gioia
di riscoprirci figli. Ti senti povero? Ti senti debole e
incapace? Ti senti cattivo? Vedi in te stesso una radice
malsana di egoismo che non riesci a estirpare? Pensi
che il tuo cuore sia malato senza speranza? Ma è
proprio per questo che il Padre ti ama! È proprio per
questo che riversa su di te il Suo Spirito senza misura!
Prendi a modello il re Davide, che nella sua vita
ha fatto di tutto: ha ucciso, ingannato, sedotto, bri-
gato per ottenere il potere, eppure sempre è tornato
umilmente al Signore, sempre si è sottomesso a lui, e
per questa ragione, non certo per le sue virtù, verrà
definito «uomo secondo il cuore di Dio» (cf At 13,22).

La croce, ma quella vera


E come sapremo di aver ricevuto lo Spirito Santo?
Lo Spirito è lo Spirito del Figlio e dunque compie in
noi le opere del Figlio. Sapremo di aver ricevuto lo Spi-
rito Santo quando ci ritroveremo a fare, quasi senza
accorgercene, le opere del Figlio, quelle che la carne
non può fare, quelle che per la natura decaduta sono
impossibili. I sentimenti sono ingannevoli, il cuore è
facile da imbrogliare, e in questo il diavolo è maestro,
ma una cosa non può né sa imitare, ed è il sacrificio
gioioso di sé sulla croce; quello è il segno definitivo
della presenza in noi dello Spirito Santo, perché né la
carne né il sangue possono arrivare fin qui, la legge
del «salva te stesso!» lo impedisce.

46
Bisogna però fare attenzione che la croce su cui sa-
liamo sia veramente la croce di Cristo e non una che
ci siamo scelti da noi stessi, perché in quel caso ancora
non saremmo fuori dal cerchio dell’autoreferenzialità,
dalla piaga terribile dell’individualismo. Può accadere
infatti che il moralista, appunto perché vuole salvarsi
da solo, si faccia carico di terribili sacrifici, che non
sono però dettati dall’amore, ma ancora dalla ricerca
di sé e di una presunta perfezione. Quanti uomini e
donne hanno distrutto se stessi inutilmente! Quanti
digiuni, quante penitenze sprecate, quanti sacrifici
gettati al vento in un'inutile ricerca di perfezione,
che in realtà non avvicinava di un passo a Dio perché
anziché accrescere l’amore alimentava l'ego!
È la gioia ciò che rivela la verità del cuore: aderire
alla croce di Cristo infatti ci riempie il cuore di gioia,
mentre la croce del moralista non è affatto gioiosa,
anzi, spesso è carica di un malcelato rancore verso
coloro che in teoria dovrebbero esserne i beneficiari.
Conosci il tipo, credo: «Ho lavorato ore per preparare
la cena e non se ne è neppure accorto!», oppure: «Non
vede nemmeno tutto quello che faccio per lei!»… La
Chiesa è piena di uomini e donne pii e devoti, pre-
murosi e pieni di attenzione, pronti a sacrificarsi per
gli altri; in ogni convento o parrocchia ce n’è uno, e
si capisce subito chi sono gli «altri» per cui questi si
sacrificano dalla loro faccia sconsolata!
Certo, il Padre ci chiede di partecipare con il nostro
sacrificio alla sua volonta di salvezza, così da farci
partecipare all’amore, perché chi ama si sacrifica, si
distrugge nell’amore. Non c’è amore che non chieda

47
di morire in qualche modo! Ma la differenza sta in
questo: se entriamo nella morte per obbedire amore-
volmente alla richiesta dell’amore del Padre, egli non
ci abbandonerà nella morte, e noi sperimenteremo,
ancora da dentro la morte, la potenza della sua Risur-
rezione. Così vivremo quel paradosso dell’anima che
potremmo chiamare un dolore felice: saremo in croce,
spaccati in due e umiliati, ma nell’animo avremo una
luce e una gioia impagabili. Viceversa, se entriamo
nella morte per obbedire a un dovere astratto, a una
legge, per soddisfare un obbligo di coscienza, in de-
finitiva è noi stessi che stiamo cercando e il Padre
allora non può che abbandonarci nella morte, perché
soccorrendoci confermerebbe il nostro moralismo, la
nostra illusione di poter fare a meno di lui, mentre
attraverso il fallimento della nostra morale possiamo
forse rinsavire e aprire gli occhi e il cuore all’amore.
Così l’ultima paura, la paura della morte, è definiti-
vamente esorcizzata, perché ora la morte è diventata
serva dell’amore e non più del diavolo. Nell’esperienza
dello Spirito Santo, cioè nella relazione amorosa con
il Padre, la croce non è più una condanna, ma una be-
nedizione, non più patibolo, ma abbraccio del Padre al
Figlio attraverso cui si spalanca la pienezza della vita!
La Quaresima ci insegna a morire con il Figlio, così che
anche possiamo risorgere con lui.

48
L’ascesi:
vivi da figlio

49
50
E
veniamo alla seconda parte della tua lettera,
caro Marco, in cui mi chiedi di renderti ragione
delle pratiche ascetiche e delle privazioni a cui
volontariamente tanti cristiani si sottopongono. «Se
Dio ha creato il corpo – così mi scrivi – perché questo
corpo deve essere trattato così male? Chi l’ha detto
che bisogna digiunare o fare tante rinunce per essere
santi? Il vangelo non è un annuncio di libertà? E più
radicalmente: come può un’azione del corpo santifi-
care l’anima?». Anche in questo caso per risponderti
dovrò fare un lungo giro, spero che sarai con me anche
alla fine del ragionamento.
Abbiamo visto che il pentimento ci porta a risco-
prire il Padre e quindi ci restituisce la dignità di figli.
Bene, ma questo è solo l’inizio del cammino; ora come
figli bisogna vivere, e questa è un’arte che va imparata,
e come ogni arte domanda fatica e paziente lavoro su
di sé. Questa fatica è ciò che noi cristiani chiamiamo
«ascesi». E sebbene sia uno sforzo di natura radical-
mente diversa da quella del moralista, non per questo
è meno esigente. Anche per questo è importante che ci
venga offerto ogni anno un tempo in cui esercitarci in
questo lavoro: è come l’esercizio del musicista che, per

51
quanto sia esperto e dotato, deve sempre ritornare a
scale e solfeggi per mantenere la sua manualità.
Nella sua prima Lettera Giovanni dice che, anche
se già siamo figli, ciò che saremo non è stato ancora
rivelato (cf 1Gv 3,2). Significa che tutta la nostra vita
è un cammino verso la piena realizzazione e la mani-
festazione di quel seme, l’essere-figlio, che abbiamo
prima ricevuto nel dono dello Spirito Santo, il giorno
del nostro battesimo, e poi rinnovato in ogni sacra-
mento ricevuto e in ogni incontro con Dio.
Nella Trinità tutta la vita del Figlio si esprime in un
movimento di inspirazione ed espirazione: il Figlio si
riceve costantemente dal Padre nello Spirito Santo e
costantemente al Padre si restituisce, sempre nello
Spirito. E se questa è la danza delle tre persone divi-
ne, deve essere anche il paradigma della vita filiale in
questo mondo: costantemente riceviamo noi stessi
da Dio, per mezzo dello Spirito, e costantemente dob-
biamo restituirci a lui nel dono di noi stessi, sempre
mediante lo Spirito, cioè nell’amore.
Il dono dello Spirito Santo è sempre un dono di
vita, ma al tempo stesso porta con sé una morte. La
traccia di morte e risurrezione impressa nell’acqua
del battesimo è in effetti lo schema di ogni autentico
incontro con Dio. Nel libro dell’Esodo è scritto che
nessuno può vedere Dio senza morire (Es 33,20) e così
ogni incontro con lui rappresenta sempre in un certo
modo una morte. Paolo scrive ai Colossesi: «Voi siete
morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in
Dio» (Col 3,3). Deve morire il nostro egoismo, deve
morire il nostro narcisismo, deve morire la nostra

52
superbia, ecco perché abbiamo bisogno di un’ascesi:
perché questa morte e rinascita sia vera nella nostra
esistenza concreta e non solo a parole.

La legge nel cuore


Non si tratta soltanto di compiere opere diverse
da quelle della carne, quanto di acquisire una nuova
mentalità, un nuovo nous direbbe Paolo, da cui scatu-
risca una vita nuova, una diversa creatività, dei diversi
comportamenti. Non si tratta quindi semplicemente
di sostituire una legge con un’altra: se provassimo a
vivere secondo lo Spirito senza avere assunto in noi il
nous di Cristo, senza aver cambiato la nostra menta-
lità, sarebbe come versare vino nuovo in otri vecchi,
per dirla con Gesù.
Vivere una vita cristiana non è difficile, è impossi-
bile. Oppure è facile, ma difficile no. Difficile è scalare
una montagna, è alzare 100 chili, è fare una cosa che
richiede un grande impegno, ma è comunque alla
mia portata. La vita nello Spirito invece è impossibile
per l’uomo naturale: è impossibile amare il nemico, è
impossibile vivere senza cercare il proprio interesse,
sarebbe come pretendere di volare o di camminare
sull’acqua. Ma se ci lasciamo trasformare dallo Spirito
Santo, allora sarà lui a compiere in noi le opere di Dio
e ci troveremo a fare l’impossibile quasi senza accor-
gercene. E se provassimo a vivere il Vangelo come una
legge, e quindi confidando su noi stessi e sulle nostre
forze, falliremmo miseramente: il vino nuovo dello
Spirito, frizzante e pieno di vita, spaccherebbe i vecchi

53
otri della legge, e si perderebbero questo e quelli. Non
è possibile alcuna imitazione di Cristo senza vivere
un’autentica vita in Cristo7.
Intendiamoci, la legge e l’etica in se stesse sono
cose giuste e sante (cf Rom 7,12) e, fintanto che stan-
no al loro posto, cioè non pretendono di sostituirsi
alla Grazia, anche necessarie. In effetti la pretesa di
contrapporre il dio della legge a quello della Grazia
è una delle più antiche eresie cristiane, e come ogni
eresia periodicamente torna di moda. Grazia e legge
si sostengono a vicenda e non si possono capire sepa-
ratamente. Come dice Paolo, la legge è un pedagogo,
reso necessario dalla nostra caduta. Sebbene non sia
fine a se stessa, ma abbia la sua ragion d’essere nella
Grazia a cui deve condurci, è necessaria perché senza
di essa non potremmo nemmeno conoscere il bene,
figuriamoci compierlo. La sua funzione è paragona-
bile a quella di una stampella: l’uomo sano non ne ha
bisogno, anzi diventerebbe per lui un impaccio che
gli impedisce di muoversi liberamente, ma poiché a
causa del peccato originale nasciamo zoppi, fino a
quando non siamo capaci di stare in piedi da soli non
possiamo proprio farne a meno; però, non appena sarà

7
Le due opere più influenti della tradizione spirituale cristiana
si intitolano proprio L’imitazione di Cristo, attribuita a Tommaso
da Kempis (XIII secolo), e La vita in Cristo, scritta da Nicola Caba-
silas (XIV secolo) Per molti secoli sono state contrapposte, come
espressione della sensibilità latina e di quella greca, ma in realtà
sono assolutamente complementari e non possono essere separate:
non è possibile alcuna imitazione di Cristo se non si vive in lui e,
d’altra parte, chi pretendesse di vivere in Cristo senza imitarlo
illuderebbe solo se stesso.

54
possibile, la getteremo via, proprio per essere più libe-
ri di seguire il nostro modello vivente: il Signore Gesù.
È noto che le forme di vita più primitive e semplici
hanno un esoscheletro, una sorta di armatura che ha
il duplice compito di proteggere l’organismo e sorreg-
gerlo, ma è evidente che, aumentando la complessità
dell’organismo, l’esoscheletro comporta molti più pro-
blemi che vantaggi. Se ancora una formica può trovare
utile corazzarsi in uno scheletro esterno, quanto sa-
rebbe di impaccio a un elefante? Nel processo dell’evo-
luzione, così, a un certo punto appare un’«invenzione»
geniale: lo scheletro interno, molto più funzionale ed
efficace, come può capire facilmente chiunque abbia
mai provato a indossare un’armatura. Il rapporto tra
la legge e la Grazia è simile: la legge è come una arma-
tura, che protegge i delicati organi interni e sostiene
il corpo, ma è pesante, impedisce i contatti esterni e
impaccia i movimenti, la Grazia invece è come uno
scheletro interno, molto più leggero e flessibile, che
lascia più libertà, permette di «sentire» il mondo, non
limita il contatto umano e non impedisce di respirare
come fa invece un’armatura8.
Quando i profeti annunciano che Dio porrà la legge
nel cuore dell’uomo (cf Ger 31,33), intendono qual-
cosa di simile: l’uomo non avrà più bisogno di una
regola esterna che gli dica come deve vivere, perché
spontaneamente, da se stesso, il cuore amante si

8
Mauro Leonardi, nel bel romanzo Abelis, e Italo Calvino, nel
romanzo Il cavaliere inesistente, esplorano magnificamente questa
metafora dell’armatura

55
orienterà al bene. È ciò che intende Paolo quando dice
che abbiamo in noi il nous di Cristo, è il senso auten-
tico del famoso motto agostiniano «ama e fa’ ciò che
vuoi», che tutto significa fuori che un autorizzazione
a fare ciò che ci pare. Ma fino a quel momento, fino
al giorno in cui avremo davvero imparato ad amare,
la legge ci è necessaria. Finché nel nostro cuore non
avremo ritrovato la comunione con il Padre, risco-
prendo che siamo figli e costantemente ci riceviamo
da lui in dono, senza una legge che ci guidi saremmo
abbandonati a noi stessi ed esposti a ogni possibile
ferita.
Questo vuol dire Paolo quando ci avvisa: «Se siete
morti con Cristo agli elementi del mondo, perché,
come se viveste ancora nel mondo, lasciarvi imporre
precetti quali: "Non prendere, non gustare, non toc-
care"? Queste cose hanno una parvenza di sapienza
con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione
del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non
quello di soddisfare la carne» (Col 2,20-23). Ovvero, il
presupposto della libertà dello spirito è l’essere morti
alle cose del mondo, cioè, ancora una volta, l’aver ac-
quisito una nuova mentalità. Una volta che abbiamo
il nous di Cristo, comprenderemo che la vita spirituale
non è tanto una questione di gesti più o meno perfetti
da compiere, ma di amore, cioè di relazioni.

Dalla legge alla Grazia


Ma come passare dal regime della legge a quello
della Grazia?

56
È evidente che il primo passo per poter interioriz-
zare la legge è quello di amarla e praticarla: nessun
progresso spirituale può nascere dalla disobbedienza
o dall’anarchia. Ma d’altra parte il compimento e lo
scopo dell’obbedienza è la libertà. Come un musicista
sarà capace di improvvisare solo se conosce le regole
dell’armonia o un poeta potrà prendersi qualche licen-
za solo conoscendo e amando la grammatica, così l’uo-
mo spirituale è libero nei confronti della legge perché
ne ha tanto interiorizzato l’intenzione che spontane-
amente si orienta a essa. Quando Gesù ci avverte che
«il Sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il
Sabato» (Mc 2,27) è questo ciò che intende. Egli può
in tutta libertà trasgredire il Sabato proprio perché
ne conosce e ama fino in fondo il senso; violandone la
lettera, ne compie però lo spirito. Può trasgredire il Sa-
bato perché lo vive davvero, perché ha fatto della sua
vita intera un Sabato. Così si comprende uno dei tanti
paradossi cristiani: lo scopo della legge è la libertà e,
per essere liberi, bisogna innanzitutto sottomettersi.
Ci sarà sempre una tensione tra la libertà creativa
della Grazia e la sottomissione e l’obbedienza alla
legge, ma questa tensione è necessaria; nella nostra
condizione di creature non possiamo farne a meno e
anzi, a ben guardare, essa è salutare. Proprio il fatto di
essere costretti a muoversi dentro un quadro predefi-
nito stimola l’uomo spirituale a dare il meglio di sé: è
la cornice che, delimitando lo spazio, libera la fantasia
del pittore, è la tonalità in chiave a determinare la ge-
nialità del musicista. Senza solidi argini l’acqua del fiu-
me si disperderebbe e mai arriverebbe al mare; senza

57
una cornice di riferimento, una struttura in cui muo-
versi, la creatività è solo esibizionismo inconcludente
e manifestazione di vanità, e la libertà un disperdere
a vuoto le proprie energie. Senza la Grazia la legge è
morta, ma senza legge la Grazia non ha un terreno
a cui applicarsi. La colomba di Noè non troverebbe
alcuna terra ferma su cui riposare, come è detto dello
Spirito che nel giorno del battesimo riposò su Gesù.
L’ascesi, quando è intesa correttamente, è proprio
questa tensione creativa, necessaria a tenere insieme
la legge e la Grazia. È una lotta e Paolo parla aperta-
mente di una «agonia», necessaria a interiorizzare
la legge, ad assumerla nella carne, nella concretezza
dell’esistenza. Senza una fatica e una disciplina non
vivremmo una vita spirituale, ma solo una vita ideale.
Solo quando si unisce alla carne lo Spirito è davvero
cristiano: come dice Gesù, «non chiunque mi dice:
"Signore, Signore", entrerà nel regno dei cieli, ma
colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli»
(Mt 7,21).

La carne e lo Spirito
Caro Marco, tu mi chiedi: come potrebbe un opera
della carne giovare all’anima? In realtà la carne non
è spontaneamente in sintonia con lo Spirito, anzi,
come dice Paolo, esiste una legge della carne che si
contrappone a quella dello Spirito. E se la legge della
carne può essere riassunta nell’imperativo: «Salva
te stesso!», quella dello Spirito invece si esprime nel
comandamento opposto: «Dona te stesso!».

58
Si capisce così perché Gesù insegni che chi cerca di
salvare la propria vita la perde, mentre chi è pronto
a perderla la guadagna (Mt 16,25). La vita spirituale
inizia quando sottomettiamo la carne allo Spirito,
quando abbandoniamo la logica difensiva ed egoista
della carne e ci sottomettiamo a quella del dono e
dell’amore disinteressato, che invece è propria dello
Spirito.
Gesù è categorico: ci vuole perfetti, non nel senso
che dobbiamo imitare perfettamente un modello pre-
determinato, ma nel senso che dobbiamo essere «per-
fetti come il Padre», cioè perfetti nell’amore, perfetti
nel dono di sé, perché il Padre è tale appunto perché
si effonde in un dono. Facendo un bilancio della sua
vita, Paolo dice: «Ho combattuto la buona battaglia,
ho conservato la fede» (2Tim 4,7): la fede, non la virtù,
come invece ci si potrebbe aspettare dal contesto; ma
a Paolo importa poco della virtù, ciò che gli preme è la
fede, la relazione con il Padre, il riceversi e restituirsi
che contraddistingue il figlio.
Ogni forma di ascesi quindi ha per orizzonte il
dono. Non si deve diventare cintura nera di astinen-
za, non vince chi fa le privazioni più grandi, ma chi
impara a sottomettere il suo egoismo così da liberare
il cuore per il dono. Ogni rinuncia, ogni privazione,
ogni sacrificio ha questo scopo: aprire interiormente
lo spazio per l’altro, liberare delle risorse spirituali di-
stogliendole dal servizio di sé per metterle a servizio
dell’amore. Senza questo riferimento al Padre la virtù
diventa autoreferenziale e finisce con l’alimentare
l’orgoglio e la vanità piuttosto che aprire all’amore.

59
Per questo Agostino scrive nella Città di Dio: «Le stes-
se virtù che la mente sembri avere, mediante le quali
comanda al corpo e ai vizi in vista del conseguimento
o della conservazione di qualsiasi bene, quando non
sono riferite a Dio sono vizi piuttosto che virtù; si ri-
feriscono infatti in questo caso a se stesse, e non sono
desiderate in vista di altro; sono gonfie e superbe».
Voglio farti un esempio, tratto da uno scritto poco
noto di Teresa di Lisieux: nessuno, a ben guardare, è
più casto del diavolo, che è un puro spirito, e nessuno è
più povero di lui, che non mangia, non dorme, non usa
denaro, è interamente dedito alla sua missione, senza
alcuna distrazione, senza alcuna ricerca del piacere…
Lo si potrebbe definire un campione di ascesi da un
certo punto di vista, ma io per conto mio diffiderei
senz’altro dei consigli di chi non è capace di apprez-
zare un buon vino!
Queste affermazioni possono sembrare sorpren-
denti perché nella nostra mente associamo subito
l’ascesi alla rinuncia e alla privazione, ma in realtà si
capiscono facilmente se pensiamo che askesis in greco
significa «esercizio». Non si tratta quindi di rinuncia-
re a qualcosa, ma di esercitarsi nell’amore.
Caro Marco, si parla spesso di mortificazione della
carne, eppure lo scopo dell’ascesi non è la mortifica-
zione, ma piuttosto la vivificazione della carne. La
nostra carne, infatti, è già mortificata, perché è priva
dello Spirito che solo dà la vita, e così compie le opere
della morte. Paolo nella Lettera ai Galati ne fornisce
un elenco impressionante: «fornicazione, impurità,
dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, di-

60
scordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie,
ubriachezze, orge eccetera». Non sono certo queste le
cose che ci fanno vivere, anzi piuttosto ci mortificano,
perché uccidono la nostra capacità di relazione. Ma se
noi permettiamo al Padre di insufflare nella nostra
carne lo Spirito la vivifichiamo, così che non compirà
più opere di morte, ma opere di vita: «amore, gioia, pa-
ce, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitez-
za e dominio di sé», e sarà resa viva essa stessa dalle
opere che compie (cf Gal 5,18-25). L’asceta non è colui
che vive come fosse morto, ma colui che vive come già
risorto, pur essendo ancora in una carne di peccato.
Tradizionalmente le principali opere ascetiche ven-
gono codificate, a partire dal brano evangelico che si
legge il Mercoledì delle ceneri (Mt 6,1-6.16-18), in tre
grandi gruppi: l’elemosina, la preghiera e il digiuno.
Vale la pena di dedicare qualche parola nello specifico
a queste tre pratiche, che in effetti formano l’ossatura
dell’esercizio quaresimale e riguardano i tre campi
fondamentali in cui l’uomo è tentato dal possesso e
quindi fatica a donarsi: il denaro, il tempo e il corpo.
Come ti ho già accennato, Gesù presenta questi tre
esercizi come compiuti davanti al Padre, per essere
visti da lui: servono quindi a ristabilire la relazione
interrotta, a restituirci alla comunione che avevamo
abbandonato. Donando a Dio le nostre risorse, il no-
stro tempo e il nostro corpo, impariamo il riceversi e
restituirsi del Figlio, rendiamo vera nella pratica della
vita la nostra figliolanza.

61
La conversione sta nella tasca
L’elemosina non gode di buona fama in questo tem-
po idealista. Siamo talmente pieni di una falsa spiri-
tualità che saremmo capaci di riempire un povero di
buone parole dimenticandoci di dargli da mangiare,
sottolineando poi, per giustificare noi stessi, che ciò
che conta è amare, che restituire dignità e valore a
una persona è assai più che dargli cibo e vestito. Senza
dubbio, ma «se non date loro il necessario per il cor-
po, a che cosa serve?» (Gc 2,16). Come potrà credere
all’amore che annuncio l’uomo che ho respinto dalla
mia tavola imbandita?
Nella nostra ipocrisia siamo arrivati addirittura ad
accusare l’elemosina di essere umiliante per la per-
sona che la riceve, abbiamo sentito dire che sarebbe
meglio non farla per non incentivare l’accattonaggio
e altri concetti simili, che sanno più di sociologia che
di cristianesimo, più adatti a una maestrina con la
matita rossa e blu che a un apostolo. Ma se fosse così,
perché la Chiesa l’avrebbe sempre raccomandata come
una fondamentale opera ascetica? Perché il Nuovo
Testamento la metterebbe costantemente in cima alle
opere dell’amore?
In realtà l’elemosina va a toccare direttamente il
nostro rapporto con il denaro e quindi una dimen-
sione fondamentale della nostra conversione. Come
diceva papa Francesco in una delle omelie di Santa
Marta: «Quando la conversione arriva alle tasche,
allora è sicura». Bisogna amare Dio con tutto il cuore e
con tutta la mente, non c’è dubbio, ma bisogna amarlo

62
anche con tutte le forze, e il nostro denaro fa parte
certamente di queste forze.
Il paradigma ideale dell’elemosina è la vedova di Mc
12,41-44: Gesù è stato impegnato fino a quel momen-
to in una discussione con i «dotti», con i professionisti
della fede, e si ferma ammirato a contemplare la fede
semplice di questa donna che, senza averne alcun ob-
bligo, getta «tutto ciò che aveva per vivere». Ci sono
molti elementi da sottolineare in questo brano che ci
aiutano a capire lo spirito autentico dell’elemosina.
Innanzitutto l’uso ripetuto del verbo «gettare»,
sei volte in poche righe, che nella forma greca ballein
indica un gesto fatto con leggerezza, quasi con non-
curanza, un lasciar cadere, come si fa con una cosa
di nessuna importanza. La leggerezza è un aspetto
fondamentale dell’elemosina, che è vera quando è
fatta con questo sereno distacco. Sebbene quei pochi
soldi siano tutto ciò che ha per vivere, la vedova li
tratta come una cosa senza valore, perché? Perché ha
compreso che non di solo pane vive l’uomo e, molto
più che dal denaro, la sua vita dipende dall’amore;
quindi è pronta a dare tutto senza richiedere nulla
in cambio.
La seconda cosa da notare è la riservatezza, l’agire
in segreto. La donna sa che nessuno la noterà, eppure
getta via tutto ciò che ha nel totale anonimato, perché
sa che il Padre «vede nel segreto» ed è davanti a lui
che compie il suo gesto. Ciò che cerca non è la stima
degli uomini, ma la comunione con il Padre. Non vuole
ricompensa, il suo gesto è totalmente e interamente
gratuito e disinteressato e può permettersi questo

63
disinteresse perché si fida interamente del Padre e
della sua provvidenza.
La terza cosa rilevante è che, mentre tutti danno del
loro superfluo, la vedova invece attinge al necessario,
dà tutto ciò che aveva per vivere. Come dice Agosti-
no, «il superfluo dei ricchi è il necessario dei poveri»
e quindi, dando il superfluo, compiamo un’opera di
giustizia più che di carità9. Solo quando arriviamo a
intaccare ciò che ci è necessario il nostro gesto può
dirsi veramente un atto d’amore.
Da questi tre elementi si capisce bene perché l’e-
lemosina è da considerarsi un esercizio ascetico: se
fatta nel modo in cui raccomanda il Vangelo, va a
colpire direttamente l’imperativo «salva te stesso!»,
purificandoci così dall’idolo della ricchezza e dalla
pretesa di bastare a noi stessi, di essere sicuri delle
nostre forze, insegnandoci invece ad affidarci in tutto
a un Altro.
C’è poi un altro aspetto da considerare: abbiamo
detto che lo scopo dell’ascesi è quello di imparare a
vivere la vita del figlio, ma il figlio è colui che si rea-
lizza nel compiere le opere del Padre. E la prima opera
del Padre è proprio quella dell’elemosina: non è forse
lui che «apre la mano e sazia la fame di ogni vivente»
(Sal 144,16)? E davvero il Padre, donandoci il Figlio,
non ci ha dato certo il superfluo, ma ha offerto tutto
di sé, tutto ciò che aveva per vivere! Esercitare l’ele-
mosina, allora, è essere come il Padre, donare tutto,
donare oltremisura, senza calcolo, senza trattenere

9
Come ricorda Gregorio Magno nella sua Regola pastorale (III, 21).

64
nulla per sé. Così l’elemosina diventa un atto liturgico,
è la rappresentazione liturgica della nostra partecipa-
zione al sacrificio del Figlio. Per questo si fa nel mo-
mento dell’offertorio, cioè quando stiamo per entrare
nel cuore della celebrazione eucaristica. Esercitarsi
nell’elemosina significa esercitarsi nella restituzione
al Padre di quella vita che abbiamo ricevuto da lui.

Preghiera e fedeltà
Il modello di riferimento più usato per parlare
della preghiera è senz’altro quello del dialogo amo-
roso. Anche tu lo dici, e hai ragione: pregare è amare.
Ma allora, mi chiedi, in che senso la si può definire
un’opera ascetica? Se la preghiera deve portare con
sé un gusto, una delectatio direbbe Bernardo, come
associarla all’ascesi e alla privazione? Non posso fare
per forza ciò che dovrei fare per amore!
Il punto, caro Marco, è che la parola amore oggi
è tanto abusata e stiracchiata nel suo significato da
essere diventata praticamente inutilizzabile, perché
ognuno attribuisce a essa un valore diverso, così che
si parla d’amore senza nemmeno capir bene cosa si
sta dicendo. L’amore è gioia, libertà, spontaneità,
certamente, ma è anche fedeltà, impegno, costanza.
Altrimenti non è che ricerca di sé e del proprio be-
nessere, e non dono. Questa regola, fondamentale nel
rapporto interpersonale, vale anche nella preghiera.
L’ascesi della preghiera sarà la stessa richiesta agli
sposi per mantenere vivo il loro amore: è l’ascesi della
fedeltà, l’impegno ad amare e onorare «tutti i giorni

65
della vita», come dice la formula matrimoniale, lo
Sposo divino.
La preghiera di Gesù è straordinariamente libera e
gioiosa, piena di affetto e sentimento che fluisce da lui
in una spontaneità e serenità senza pari. Non c’è dub-
bio che egli abbia vissuto come immerso in uno stato
di preghiera permanente. Basta scorrere i Vangeli per
accorgersi che la sua anima è in un continuo dialogo
con il Padre e da ogni sua parola traspare questo nesso
vitale, questa costante presenza al centro della sua co-
scienza. Gesù è letteralmente innamorato del Padre,
praticamente non pensa ad altro e ogni volta che si
ferma, senza alcuna fatica, senza bisogno di un atto
cosciente di volontà, il suo pensiero corre a lui. È quel-
lo stato che i mistici chiamano lo stato di preghiera
continua, come dice ad esempio di Francesco di Assisi
il suo biografo Tommaso da Celano, quando riferisce
che, più che pregare, egli stesso era fatto preghiera.
Tu dici che, se volessi pregare, non lo faresti con
delle formule, ma con «il cuore composto nell’amo-
re», dici che non vuoi farlo seguendo degli obblighi,
ma piuttosto lasciando libero il sentimento, eppure
quando insegna ai suoi a pregare Gesù non insegna
affatto a fare così! Non c’è un versetto in cui Gesù dica
ai Dodici: «Pregate come me», anzi, a ben guardare
sembra rimarcare la differenza, attraverso la formula
ripetuta più volte «Padre mio e padre vostro», come a
sottolineare che noi non possiamo avere con il Padre
lo stesso suo rapporto.

66
Pregare sempre: l’ascesi del tempo
Il fatto è che Gesù è ben consapevole che la nostra
preghiera è assai diversa dalla sua: per noi la comunio-
ne con il Padre, la sua presenza alla nostra coscienza,
è al massimo un punto di arrivo, non certo un dato
acquisito e, specialmente all’inizio della vita spiritua-
le, quando ancora è in forma germinale, va costante-
mente protetta e difesa. Per questo Gesù raccomanda
di pregare sempre, senza stancarsi (Lc 18,1), proprio
perché sa che il rischio di stancarci nella preghiera ci è
ben presente! Quindi, se vogliamo imparare a pregare
sempre, dobbiamo innanzitutto esercitarci a dedicare
alla preghiera dei tempi e degli spazi precisi: non pos-
siamo lasciare il dialogo con il Padre alla spontaneità
di un sentimento che, non essendo ancora educato, è
necessariamente labile.
Siamo creature che vivono nel tempo oltre che nello
spazio, ed esprimiamo l’amore attraverso il tempo.
Come scrive Saint-Exupéry, «è il tempo che hai perdu-
to per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così impor-
tante». Nella relazione con il Padre vale la stessa cosa:
è il tempo passato con lui la misura del nostro amore
e solo legandoci con un impegno potremo liberare la
nostra decisione di dargli tempo dalle pretese della
carne e di tutto il mondo che preme alle nostre porte.
Man mano che liberiamo il nostro tempo, offrendolo
a Dio, ci accorgeremo che il desiderio di dare tempo
a lui aumenterà sempre di più, fino a giungere anche
noi, al termine del cammino se Dio vuole, allo stato
di preghiera continua.

67
Non per nulla, caro Marco, il consiglio di tutti i
maestri spirituali è quello di prestabilire il tempo
della preghiera: che sia tanto o poco è secondario, ciò
che conta è che lo stabiliamo prima e ci sforziamo di
attenerci a ciò che abbiamo stabilito. Probabilmente
in quel tempo ti verrà in mente di tutto, non importa,
abbi pazienza con te stesso e non giudicare da solo la
qualità della tua preghiera. La cosa più importante è
la tua fedeltà, perché pregare è innanzitutto offrire a
Dio il proprio tempo e forse nessuna epoca come la no-
stra, in cui sperimentiamo drammaticamente il valore
del tempo e ne sentiamo la mancanza, costretti come
siamo a vivere al ritmo delle macchine, può compren-
dere quanto esigente e seria sia l’ascesi del tempo che
la preghiera ci chiede. Vivere una vita di preghiera mi
costringe ad abbandonare lo spontaneismo, a stabilire
nella mia agenda dei punti fermi, degli appuntamenti
fissi e irrinunciabili con il Signore attorno a cui far
girare tutto il resto: niente più di questo ci rende con-
sapevoli del fatto che non ci apparteniamo più e che,
al contrario, tutta la nostra vita non è l’esito di una
nostra costruzione, ma un dono ricevuto.

Pregare nel segreto: l’ascesi della


separazione
C’è un altro aspetto di cui tener conto, per capire
in che modo la preghiera domanda un’ascesi: Gesù
ci raccomanda, per pregare, di entrare nella nostra
stanza e, soprattutto, di chiudere la porta (Mt 6,6).
Raccomanda, cioè, di cercare l’isolamento e il silenzio,

68
spegnere radio, televisione, computer, smartphone
e scollegarsi dal mondo. L’aspetto del non voler ap-
parire, che sembra predominante nel contesto, nella
mente di Gesù probabilmente è secondario; ce ne ac-
corgiamo soprattutto se pensiamo che lui ha sempre
fatto proprio così: il Vangelo ricorda continuamente
come, ogni volta che voleva pregare, Gesù si isolasse
e certo non c’era in lui alcuna tentazione di vanità!
Dunque non credo che sia per fuggire la vanità che
Gesù raccomanda di cercare il segreto e il silenzio, ma
per un altro motivo. È interessante la parola scelta
per indicare il luogo della preghiera, tameion, che solo
analogicamente può essere tradotta con «stanza»: let-
teralmente indica il magazzino, la dispensa, che nelle
case ebraiche è una sorta di buco nel pavimento, senza
finestre, chiuso da una botola, insomma il punto più
intimo, oscuro e riservato della casa.
L’immagine scelta da Gesù non vuole quindi evoca-
re un luogo in cui ci sentiamo a nostro agio, nei nostri
affetti privati, come sarebbe la camera da letto, anche
perché nella maggior parte delle case di Israele certa-
mente non esistevano stanze private! Al contrario il
tameion è un luogo oscuro e nascosto, quasi una tomba
in cui seppellirsi. Non è tanto di una contrapposizione
tra preghiera privata e pubblica che si sta parlando,
quanto di un atteggiamento interiore: quando Gesù
ci chiede di entrare nel tameion e chiudere la porta,
sta dicendo che per pregare bisogna morire al mondo,
stare nascosti, fuori dai giochi del potere, fuori dalle
beghe della vita, disinteressati a ciò che ci circonda,
proprio come se fossimo già morti.

69
Sì, chi prega si separa; non per nulla la parola ebrai-
ca per «santo», kadosh, significa innanzitutto «sepa-
rato», e l’ascesi che la preghiera richiede oltre che
un’ascesi del tempo è un’ascesi di separazione, che va
a combattere direttamente l’ideologia del paese dei
balocchi, che ha fatto dell’apparire, del presenziali-
smo, un valore supremo. Bisogna sempre essere sul
pezzo, avere qualcosa da dire, un giudizio da espri-
mere… Basta fare un giro su Facebook per rendersene
conto: i social media, se da una parte hanno allargato
enormemente la nostra capacità di comunicazione,
dall’altra ci obbligano a perdere un’infinità di tempo
dietro a cose banali, che a volte sembrano serissime,
ma per lo più sono paragonabili alle chiacchiere che
si fanno al bar o dal parrucchiere. Tu insegni in un
liceo, ti sarai reso conto che i nostri ragazzi si sentono
perduti senza il loro smartphone. Proprio per questo
la preghiera ci chiede di disconnetterci, per scoprire
che una sola è la cosa seria nella vita.
E al tempo stesso c’è anche un’altra analogia inte-
ressante: nel Cantico dei Cantici il tameion è il luogo
dell’incontro tra la sposa e lo sposo, è la cantina del
vino, il luogo della solitudine, dove stare da soli con
Dio, ed è il luogo dell’amplesso con lui, il luogo in cui
ubriacarsi della sua dolcezza10. Anche per questo è
indispensabile separarsi dal mondo, per poter godere
nella preghiera l’intimità con Dio. Si congiungono

Ho dedicato un intero capitolo a questa metafora della cantina


10

nel mio libro sul Cantico dei Cantici Prendimi con te, corriamo!,
Àncora, Milano 2016.

70
così mistica e disciplina: la disciplina è essenziale alla
mistica perché è «chiudendo la porta» che diventa pos-
sibile l’intimità con Dio che porta con sé la delectatio
di cui ci parlano Bernardo e tutti i mistici cristiani. Sì,
come tu stesso dici, la preghiera è intimità con Dio, è
stare da soli con il Solo, ma questa intimità non può
essere raggiunta se non dedicando a lui, almeno per
un momento, tutto il tempo e lo spazio, separandoci
così dal resto del mondo.

L’uomo è ciò che mangia


Dopo la grande sbornia degli anni ’80/’90 il mondo
sembra rivalutare la sobrietà, che sta tornando di mo-
da. Ogni eccesso oggi è guardato con sospetto, se non
apertamente dichiarato trash. Anche se le motivazioni
di questa riscoperta sembrano di natura estetica più
che spirituale, il fenomeno è comunque degno di inte-
resse. Ma il digiuno cristiano è tutt’altro. Come ogni
altra pratica ascetica, ha la sua verità nell’apertura
all’altro più che nella rinuncia, è uno svuotarsi per
riempirsi, non una semplice rinuncia al proprio appe-
tito, ma piuttosto un riorientamento dell’Eros verso
Colui che solo è degno di essere amato e desiderato.
Non digiuniamo per punirci dei nostri appetiti, ma
per imparare a rivolgerli a Chi veramente ha gusto e
bellezza, Colui la cui presenza è più dolce del miele
e di ogni altra cosa, come canta un antico inno ci-
stercense. Immagina un pittore intento a dipingere
un capolavoro, è facile che dimentichi di mangiare,
assorbito com’è dalla bellezza che cerca di rappresen-

71
tare. Questo dovrebbe essere il digiuno: essere tanto
assorbiti dal capolavoro divino che stiamo cercando
di dipingere sulla tela della nostra vita da dimenticare
perfino le esigenze primarie del corpo.
Nel paese dei balocchi sperimentiamo tutta una
serie di malattie legate all’alimentazione che in pas-
sato erano pressoché sconosciute, dall’anoressia alla
bulimia a tutta una serie di allergie e intolleranze che
molte volte sono da ricondurre a malesseri interiori
che si ripercuotono nell’alimentazione. Questi disor-
dini sono spesso l’indice di un rapporto malato con il
nostro corpo, indicano quindi un rifiuto della propria
umanità, a volte della stessa vita. Il fatto è che aveva
proprio ragione Feuerbach, quando diceva che l’uomo
è quello che mangia. Aveva talmente ragione che il
Signore, perché noi potessimo essere trasformati in
lui, si è fatto cibo per essere mangiato. Questo dice
quanto il cibo e il mangiare siano atti importantis-
simi, che dicono veramente ciò che noi siamo nella
nostra profondità. Specialmente nella nostra cultura
mediterranea il cuoco è ormai una sorta di sacerdote
di una religione del benessere, un culto del piacere al
cui centro è solidamente piantato l’ego.
Il cibo è la fonte primaria della vita e non solo della
vita fisica, se consideriamo tutta la ritualità connessa
al mangiare insieme, con la capacità unica del pasto
di creare amicizia e confidenza tra le persone. Io per-
sonalmente sono convinto che l’inappetenza sia un
brutto sintomo dal punto di vista della vita interiore:
non dico che sia sempre così, ma molte volte nasconde
una sorta di disprezzo per il corpo e la vita stessa.

72
Perché allora ci è chiesto di digiunare? Non certo
per disprezzare il cibo né per reprimere l’appetito,
ma proprio al contrario per sottolinearne ancora di
più il valore, una volta che viene illuminato dalla luce
divina.

Digiunare per il regno dei cieli


La prima ragione per digiunare è che Dio stesso si
è dato a noi in cibo. In questa prospettiva il digiuno è
paragonabile alla verginità prematrimoniale: non di-
giuniamo cioè per punire i nostri appetiti, ma perché
attendiamo un cibo migliore, così come un giovanotto
non si nega i rapporti sessuali con la fidanzata perché
non li desidera, ma in attesa di poterli vivere come
sacramento dell’incontro con lo Sposo11.
Ogni digiuno, in questo senso, è una preparazione
all’eucaristia: aspettiamo a nutrirci di pane per com-
prendere che ogni cibo ci rimanda al pane eucaristi-
co. Visto in questa prospettiva, il digiuno è un gesto
strettamente liturgico, da inscrivere nel momento
dell’offertorio: il pane e il vino che portiamo in pro-
cessione perché siano trasformati in corpo e sangue
di Cristo sono il pane e il vino che non abbiamo voluto
consumare finché erano solo frutto della terra e del
nostro lavoro, in modo che ora ci vengano restituiti
come corpo di Cristo, qualcosa di molto più grande
che non potremmo mai produrre da soli.

11
È interessante notare che Gesù stesso connette la pratica del
digiuno con l’attesa dello Sposo (Mt 9,15)

73
Dunque, caro Marco, perché digiuniamo? In una
frase sola: per imparare a mangiare come figli e non
come animali. Digiuniamo per fare di ogni pasto
un'eucaristia, una lode a Dio, e così scoprire in ogni
pasto il segno che ci rimanda al corpo di Cristo, fatto
pane per noi. Digiuniamo perché, quando lo consume-
remo, il cibo diventi un’anticipazione del banchetto
celeste, di quella festa infinita di tutti i santi nella glo-
ria dei cieli a cui siamo chiamati. Per questo la pratica
del digiuno deve sempre sfociare nella celebrazione
eucaristica. Per lo stesso motivo non si dovrebbe mai
mangiare senza aver pregato.

Digiunare per dare spazio allo Spirito


Oltre a questa ragione, che potremmo definire
«escatologica», il digiuno ha anche una seconda mo-
tivazione: quella di restituire al nostro corpo la gran-
dezza e la dignità perdute a causa del peccato.
Abbiamo visto che dopo il peccato troviamo scritta
nella nostra carne la legge del «salva te stesso!». A
causa di questa legge, facciamo ogni cosa, o quasi, per
il nostro piacere e il nostro benessere, ma agire diret-
tamente contro questa fame che sale dal profondo
significa rimettere ordine nelle cose, ristabilire una
giusta scala gerarchica: non vogliamo essere governati
dalla fame, ma dall’amore! Anche perché, parafrasan-
do Kierkegaard, quando al timone è il cuoco la radio
di bordo non trasmette più la rotta da seguire, ma il
menu del giorno. Digiunare allora significa ristabilire
la rotta, affermare che non siamo determinati nelle

74
nostre scelte dai nostri appetiti, ma dal nostro amore.
In questo senso, quindi, nella categoria del digiuno
rientra ogni rinuncia al «benessere» del corpo. Non è
per masochismo che rinunciamo al nostro benessere,
caro Marco, ma per aprire in noi lo spazio di un auten-
tico altruismo. Per questo il digiuno dovrebbe essere
sempre connesso all’elemosina.
Proprio il fatto che il digiuno rimanda alla preghie-
ra e all’elemosina, dimostra che tra le opere ascetiche
ha un ruolo di cardine, di collegamento. Se è vero che
non si può digiunare senza pregare o fare l’elemosina,
è altrettanto vero che la preghiera è autentica solo se
comporta una rinuncia al possesso sul tempo e quin-
di, in un certo modo, un digiuno; come l’elemosina a
sua volta richiede la rinuncia al necessario, e quindi
un digiuno. In sostanza il digiuno, inteso come asti-
nenza dal mangiare, è utile perché crea in noi una
mentalità di sobrietà che ci dispone più facilmente al
dono del tempo nella preghiera e al dono dei nostri
beni nell’elemosina. Anzi, mi spingerei fino a dire che
in un ordine logico il digiuno viene prima delle altre
opere ascetiche ed è, in un certo senso, l’ascesi per
eccellenza. Non per nulla, quando bisogna combattere
un peccato fortemente radicato nell’anima o vincere
una dipendenza, i grandi autori spirituali raccoman-
dano il digiuno come un aiuto potente.

C’è posto per il fallimento?


A questo punto, caro Marco, capisci bene che la
vita cristiana non è una roba da signorine. Richiede

75
schiena dritta, ferma determinazione, impegno e fati-
ca. Per questo Paolo spesso paragona il credente a un
atleta o a un soldato. Naturalmente dove c’è lotta c’è
anche la possibilità concreta di un insuccesso e non è
affatto scontato che noi riusciamo subito e facilmen-
te a sottomettere la nostra umanità ribelle; a volte,
anzi, il combattimento dura anni e passa attraverso
un’alternanza di successi e insuccessi che spesso sono
umilianti per la nostra pretesa di perfezione.
Non devi però perdere la speranza; considera in-
nanzitutto che non è necessario un trionfo completo
per credere nella vittoria finale. Quando vedo una
crepa in una diga non ho bisogno di aspettare il crollo,
perché so già che è solo una questione di tempo prima
che l’acqua si apra una strada. Così accade con la no-
stra natura: quando la Grazia riesce a far breccia in un
cuore, sia pure per un momento, è solo una questione
di tempo prima che quel cuore sia interamente invaso
dalla Bellezza di Dio. E poi ricorda sempre che Dio non
chiede a noi di vincere il male, questo lo ha già fatto
lui. A noi chiede solo di combattere seriamente; nel suo
amore smisurato egli considera come successi anche i
nostri miseri e infruttuosi tentativi, se sono sinceri.
In fondo la sola cosa di cui devi davvero preoccuparti è
di tenere sempre aperta quella crepa, anche piccolissi-
ma, che il Signore ha aperto nel tuo cuore: finché l’ac-
qua dello Spirito continua a filtrare, sia pure per poche
gocce, si può sempre sperare, anche se naturalmente
vorrei vedere già correre in te i fiumi dell’amore.
Per questo, anche se può sembrare un paradosso,
la legge ci è molto più utile quando non riusciamo

76
a seguirla che quando ci riusciamo. Quando la met-
tiamo in pratica, infatti, siamo sempre esposti alla
tentazione dell’autosufficienza, al rischio del pela-
gianesimo, di pensare che possiamo fare a meno della
Grazia. Quello che ci apre alla benevolenza di Dio,
invece, è proprio il fallimento della nostra morale: ci
arrendiamo all’amore del Padre solo quando, sconfitti
e sfiniti, siamo costretti ad ammettere che ha ragione
Gesù quando dice che senza di lui non possiamo fare
nulla (Gv 15,5). Allora e solo allora la nostra pretesa
di autosufficienza si muta in preghiera. Allora e solo
allora, di fronte al fallimento della nostra virtù, siamo
pronti a invocare l’amore del Padre sulla nostra debo-
lezza. Solo quando ammettiamo tristemente, come
Elia, di non essere migliori dei nostri padri, iniziamo
davvero a crescere, solo quando riconosciamo che il
male è più forte di noi iniziamo davvero a chiedere
aiuto, solo quando smettiamo di cercare di cambiarci
iniziamo a essere cambiati. È questa preghiera ciò che
chiamo «tenere aperta la crepa».
Per questo l’autore della Lettera agli Ebrei così prega
per i suoi lettori: «Il Dio della pace vi renda perfetti
in ogni bene, perché possiate compiere la sua volontà,
operando in voi ciò che è a lui gradito» (Eb 13,20-21),
dove si capisce molto bene che non è il compiere la
volontà del Padre ciò che ci rende perfetti, ma al con-
trario bisogna essere resi perfetti dal Padre per poter
compiere la sua volontà. Non siamo noi a operare in
effetti, ma è il Padre che opera in noi «ciò che è a lui
gradito».

77
L’ascesi è dipingere un ritratto
Naturalmente è necessaria una meta, altrimenti
procederemmo a caso. La legge, come un saggio pe-
dagogo, ci offre una serie di passaggi intermedi che
sono necessari per giungere all’imitazione di Cristo,
il nostro vero punto di riferimento, e ci dà una serie
di obbiettivi di medio percorso, per così dire, per assi-
curarci che non stiamo procedendo a caso. Infatti se il
nostro bersaglio esistenziale non è un ideale astratto,
ma la persona di Gesù, allora non è arbitrario. Come
un pittore, dovendo dipingere un ritratto, si serve
di un modello prestabilito che non può modificare a
piacimento, così è per noi se vogliamo riprodurre il
volto di Cristo. Non siamo noi a decidere che cosa è
cristiano e che cosa non lo è.
Questo può creare nell’anima una tensione formi-
dabile. Infatti da una parte dobbiamo riconoscere che
non possiamo modellare la meta del cammino, ma
dall’altra vediamo che essa è al di sopra delle nostre
possibilità naturali: se dovessimo contare solo sulle
nostre forze, saremmo dei disperati, condannati a una
fatica impossibile! Quante volte falliremo nel tentati-
vo di riprodurne in noi l’immagine! Ma l’umiliazione
di non farcela, se vissuta nella maniera giusta, cioè
in una logica di pentimento e non di senso di colpa, è
proprio quella purificazione che ci fa crescere, che ren-
de sempre più vera la nostra tensione interiore. Poiché
l’obbiettivo dell’ascesi non è renderci virtuosi, quanto
ricondurci al Padre, probabilmente il pianto che ci
scuote il petto quando constatiamo la nostra inca-

78
pacità è più utile di un successo che potrebbe inorgo-
glirci e in definitiva farci credere di poter fare da soli.
E allora dovremmo forse far nostre le parole di
Lutero: «Pecca con forza, ma credi con ancora più
forza»? O per dirla con Paolo: «Restiamo nel peccato,
perché abbondi la Grazia»? Ma lo stesso Paolo subito
aggiunge: «mè genoito!», non sia mai! (Rm 6,1). Questo
equivoco nasce dal non aver compreso fino in fondo la
natura del peccato. Il moralista, per cui la legge è una
catena che ci tiene lontani dal piacere e dal diverti-
mento, ha in fondo al cuore la canzone di Clementina,
nel musical Aggiungi un posto a tavola: «Peccato che sia
peccato». La legge non basta a sottrarlo al fascino del
male e così nel suo cuore egli continua a desiderare ciò
che è proibito, anzi proprio quella proibizione eccita
e rafforza il suo desiderio. Il figlio invece ama sopra
ogni cosa il Padre e più di tutto desidera l’incontro
con lui, quindi sa bene che non la legge, ma il peccato
è la catena che lo tiene lontano dalla gioia. Anche se a
volte continuerà a fare ciò che nel fondo del suo cuore
non vuole, sa bene che quel male che lo attira in realtà
lo priva del suo bene più grande.
Il punto è che molte volte il fallimento nell’adem-
piere la legge nasce dall’applicare i nostri sforzi nella
direzione sbagliata, ed ecco perché il fallimento ci
può essere utile: gettandoci tra le braccia del Padre
ci aiuta a ricominciare, ma stavolta nella giusta ma-
niera. Tornando all’immagine del pittore, è come se,
dovendo dipingere in noi stessi il ritratto del Figlio,
continuamente cancellassimo e ridisegnassimo la
linea degli occhi, ma in realtà ogni fallimento diven-

79
ta come una traccia, che guida la nostra mano nel
tentativo successivo. Se siamo mossi dal pentimento
e non dal senso di colpa, ricominceremo ogni volta,
ma non da zero, piuttosto inserendo quel fallimento
nella comprensione di noi stessi e di quel Figlio la cui
immagine vogliamo riprodurre in noi.

Crescere poco a poco


In uno dei suoi folgoranti calembour, Totò diceva che
ogni limite ha una pazienza e, come spesso succede, la
battuta del giullare nasconde una profonda verità, che
appare ancora più evidente se il limite che vogliamo
raggiungere è molto alto. Così la costruzione in noi
dell’immagine del Figlio domanda molta pazienza,
è un processo graduale, che richiede tempo. Anche
quando il Signore si presenta in modo subitaneo e
folgorante, come a Paolo sulla via di Damasco, servo-
no poi lunghi anni di interiorizzazione da trascorrere
nel silenzio di Tarso perché quell’attimo di perfetta
chiarità si inveri nella vita. Nel libro del Deutero-
nomio è scritto: «Il Signore tuo Dio scaccerà a poco
a poco queste nazioni dinanzi a te: tu non le potrai
distruggere in fretta, altrimenti le bestie selvatiche si
moltiplicherebbero a tuo danno» (Dt 7,22).
C’è un difetto nell’analogia che ho usato prima del
pittore impegnato in un ritratto, ed è che il nostro non
è un modello statico, ma dinamico, vitale, e dunque la
sua riproduzione non è un esercizio puramente mec-
canico. Non si tratta di scalpellare e scartavetrare la
nostra umanità, come uno scultore fa con un blocco

80
di marmo, ma piuttosto di assomigliargli come un
figlio assomiglia al Padre, come un amico all’amico.
Così la somiglianza con Cristo non si sostituisce alla
nostra personalità umana (per questo non è un atto di
violenza né una fonte di frustrazione), nasce piuttosto
dall’incontro, dalla fusione di ciò che siamo, ognuno
nella sua irripetibile unicità, con lui. Per questo ci
sono tanti modi di essere figlio quanti sono i figli di
Dio, e nessuno è uguale a un altro. Non esiste un tipo
unico di cristiano ed è veramente una pena vedere cer-
te comunità o certi gruppi in cui tutti sembrano fatti
con lo stampo: parlano allo stesso modo, ridono allo
stesso modo, vestono perfino allo stesso modo. Ma il
Figlio ci ha liberati perché restassimo liberi, ruggisce
il leone di Tarso, e allora perché incatenarsi di nuovo
con queste meschinità?
Certo, taluni comportamenti contraddicono tal-
mente la paternità divina che non sono ammissibili e
non c’è alcun modo di essere figli mantenendo certe
scelte e certe prese di posizione, ma resta comunque
uno spazio enorme di libertà. È un po’ come quei gio-
chi che si vedono sulle riviste di enigmistica, in cui
bisogna unire dei puntini con un tratto di penna per
far apparire un disegno: la figura finale è sempre la
stessa, ma il risultato sarà anche diverso per ciascuno,
a seconda della mano e del gusto di chi fa il disegno.
L’importante, nel tratteggiare la forma finale, è non
tralasciare nessuno dei puntini, cioè nessun dogma,
nessun elemento essenziale della fede (non sono poi
molti, dopotutto). Tutto questo naturalmente doman-
da tempo, tempo e paziente esercizio.

81
Tu mi chiedi perché il Signore non guarisca in un
solo istante la nostra avarizia, la nostra lussuria e
tutte le nostre malattie spirituali come a volte invece
fa con quelle fisiche, e ti confesso che spesso me lo
sono chiesto anche io.
Mi sembra che ci siano almeno due buone ragioni:
la prima è che tutta la fatica che facciamo per limare
e perfezionare in noi stessi l’immagine battesimale
ha un valore immenso. Poiché la perfezione non
consiste nell’assenza di difetti, ma nella perfezione
dell’amore, a volte Dio ci lascia combattere anche per
decenni contro taluni difetti e cattive inclinazioni,
proprio perché così affiniamo sempre più il nostro
amore, la cosa che ai suoi occhi conta davvero. La se-
conda ragione è che ,quando certe malattie spirituali
sono profondamente incarnate, tanto da diventare
strutture portanti della nostra personalità, non pos-
sono essere estirpate finché non sia stata costruita
una struttura alternativa, che consenta di sostenere
la persona una volta che la struttura malata è stata
abbattuta. Altrimenti si rischia di fare assai peggio,
ed è pressappoco quello che dice il versetto del Deu-
teronomio che ho citato poco fa, dove si spiega che
Israele deve prendere possesso a poco a poco della
Terra promessa per evitare che si moltiplichino le
bestie selvatiche.

Crescere di gloria in gloria


Dice il padre della Chiesa Ireneo che il tempo ci è
dato per addomesticarci alla vita divina. Questo vuol

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dire che, appunto perché viviamo nel tempo, progre-
diamo nella divinizzazione «venendo trasformati in
quella medesima immagine di gloria in gloria, secon-
do l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3,18). Di
gloria in gloria, cioè un passo alla volta e, si noti, non
di fatica in fatica, non procedendo da una rinuncia
all’altra, ma piuttosto con una progressiva crescita
e accoglienza del dono. Eventuali rinunce e fatiche
sono necessarie per assimilare e far nostra via via la
misura del dono già ricevuto, e non al contrario per
meritarlo, quindi saranno sempre fatti con una grati-
tudine piena di gioia. Se non sei capace di digiunare
con allegria, profumandoti il capo come dice Gesù,
è meglio che non digiuni affatto. Se la castità è una
catena intollerabile, meglio sposarsi, e così via…
Dunque la nostra crescita spirituale è paragona-
bile all’intensificazione progressiva di un dono, e
si capisce che deve essere progressiva, perché certe
dimensioni di Grazia e di luce non possono essere
sopportate senza che tutto l’organismo interiore sia
stato preparato in maniera armonica a riceverle. Per
fare un esempio banale, immagina un padre che doni
al figlio un triciclo e, dopo che ha imparato a usarlo,
una bicicletta e poi un motorino e infine un’automo-
bile… Ogni dono presuppone una disciplina e una
responsabilità crescente e il dono successivo non può
essere dato finché le regole del suo uso non sono state
assimilate: non posso regalarti un’automobile se non
sai ancora usare un triciclo senza farti male! Così è
per la vita divina, che non può che crescere in una
progressione graduale.

83
Questa gradualità nella crescita, questo «poco a
poco», porta con sé la necessità della pazienza. Molte
e molte volte cadremo prima di arrivare, e del resto
abbiamo visto che impariamo più dalle cadute che
dai passi fermi. L’importante è mantenere costante
la direzione: a Dio interessano poco i singoli atti che
compiamo, ciò che a lui preme veramente è la tenden-
za della nostra vita. Anzi, un singolo peccato, se porta
a un ravvedimento, può essere perfino un’occasione di
santità, anziché di perdizione; ciò che conta è appunto
che rimanga singolo, cioè che non sia il primo passo
di un cammino che ci porti lontano dalla casa del
Padre. Lo staretz Zosima, uno degli indimenticabili
personaggi creati da Dostoevskij, diceva: «Non temete
il peccato, temete solo di rimanere nel peccato».
Un corollario interessante di questo assioma, che
Giovanni Paolo II chiamava «legge della gradualità»,
è che esso implica che la nostra condizione in questo
mondo non sarà mai perfetta, anzi spesso è proprio la
presunzione di imporre la perfezione ciò che trasfor-
ma la fede in ideologia e la spiritualità in moralismo.
Come giustamente diceva Berdjaev: ciò che è perfetto
non può in alcun modo essere detto cristiano. Anzi,
cristiano è proprio ciò che assume l’imperfezione e
la rende segno di Dio. È proprio attraverso le nostre
ferite, i nostri difetti, le nostre fragilità che si mostra
l’onnipotenza divina, perché «quando sono debole è
allora che sono forte» (2Cor 7,10).
Caro Marco, alla fine di questa lunghissima lettera
potremmo tenere come sintesi proprio questa folgo-
rante frase di Paolo: quando sono debole è allora che

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sono forte! L’obbiettivo della vita quindi non con-
sisterà nel cercare di essere forti, ma nell’assumere
con gioia la nostra debolezza, affidandoci con tanta
speranza a un Dio che è Padre.
Caro Marco, alla fine dei conti non posso che invi-
tarti a iscriverti a questa sorprendente caccia al tesoro
che è la fede (è di Gesù stesso il paragone: rileggi le due
folgoranti parabole di Mt 13,44-45), sperando che tu
possa scoprire il Padre e così essere felice.

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86
Post Scriptum
Vidi una moltitudine
immensa

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C
aro Marco, ogni lettera che si rispetti deve
avere un post scriptum e così eccolo qua: non
solo il Padre ci rende figli attraverso la morte e
la risurrezione, ma lo fa innestandoci in Cristo, cioè
nel suo Corpo che è la Chiesa. L’io individualista, au-
toreferenziale, che cerca sempre se stesso e il proprio
interesse, cede il passo alla persona ecclesiale, che non
vive più per sé, ma per il Corpo.
Nessuna comunione è possibile tra gli uomini fin-
tanto che restiamo schiavi del «salva te stesso!» scrit-
to nella carne del peccato. Viceversa, l’uomo peniten-
te, che attinge continuamente alla sovrabbondanza
del Padre, può vivere senza calcolo, senza misurare
le proprie forze, in un continuo slancio di generosità
che crea lo spazio per la comunione. Si va all’inferno
sempre da soli, mentre in paradiso non si può andare
che in comunità.
Ricordandoci il Padre, la Quaresima rende nuova-
mente possibile l’apertura del cuore verso la comunio-
ne; ricordandoci che non siamo autosufficienti, che
non bastiamo a noi stessi, ci restituisce la possibilità
di incontrarci come fratelli. Mentre il moralista e il
libertino sono essenzialmente soli, perché alla fine dei

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conti tanto l’idolatria della libertà quanto lo sforzo di
conquistare da sé la propria giustizia nascono da una
ricerca di se stessi, l’uomo penitente è spontaneamen-
te rivolto al prossimo. Egli sa che non può farcela da
solo e quindi liberamente chiede aiuto, e in questa
richiesta di aiuto trova accanto a sé altri compagni
di penitenza che a buon diritto, essendo tutti rivolti
verso il medesimo Padre, chiama fratelli.
Non per nulla subito all’inizio della celebrazione
eucaristica la Chiesa ci fa dire nella preghiera peniten-
ziale: «Confesso a Dio onnipotente, e a voi fratelli…».
Uno degli scopi di questa preghiera è per l’appunto
quello di creare la comunità fin dall’inizio della ce-
lebrazione. Forse nulla unisce le persone come la
consapevolezza di essere stati insieme colpevoli e per
questa ragione di essere stati insieme amati, insieme
perdonati, insieme salvati.
È vero anche l’inverso: nessuna penitenza ha com-
pletato il suo corso finché non ci restituisce alla co-
munità. L’uomo penitente non è l’asceta solitario
del deserto, ma l’uomo divenuto capace di relazioni
risanate, che siano veramente altruiste, e diffonde
intorno a sé l’amore di Dio. Può essere auspicabile, e
a volte perfino necessario, trascorrere un tempo nel
deserto per purificarsi, ma il deserto non è mai da
intendere come un luogo dove abitare. Nella Bibbia il
deserto è sempre un luogo di passaggio, la destinazio-
ne è oltre, verso la terra promessa della comunione e
della fecondità.
In questo modo, a partire dall’amore che ci unisce
e ci fa Chiesa, nessuno più muore da solo, nessuno si

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sacrifica da solo. Dopo Gesù nessuno può più dire:
«Mio Dio, perché mi hai abbandonato?», appunto
perché, sperimentando quell’abbandono, Dio stesso lo
ha visitato e ora, se ti senti abbandonato, puoi sempre
dire a te stesso: ma io sono come Gesù, dunque non
sono solo!
Nessuno va in croce da solo e dunque tutti veniamo
risuscitati insieme, come la Sposa, non più nuda, ma
vestita di una veste splendida, tessuta di oro e bisso,
cioè delle opere dell’amore. Finché è individuo l’uomo
è nudo, ma divenuto Corpo di Cristo è rivestito di Cri-
sto stesso, della luce dell’amore, diventa così la donna
vestita di sole dell’Apocalisse.
Il paradiso non è un luogo per persone sole, non
per nulla l’immagine finale della Bibbia è quella di
un’immensa folla festante, nella piazza della Geru-
salemme celeste: quello è il nostro orizzonte, quella
la nostra vocazione, quella la direzione che ci indica
la Quaresima. Caro Marco, entra anche tu in questa
festa infinita, sii ciò che sei, sii uno di noi, figli di re e
mendicanti, santi e delinquenti, ma tutti, indistinta-
mente, amati e perdonati.

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Indice

Il pentimento: ricorda che sei figlio . . . . . Pag. 7


Tu sei quell’uomo! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 11
Conosci te stesso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 13
Sii ciò che sei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 15
Tornerò da mio padre . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 17
Il senso di colpa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 19
La scomparsa del Padre . . . . . . . . . . . . . . . . . » 20
La falsa devozione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 22
Il libertino e il moralista . . . . . . . . . . . . . . . . » 23
La morale come ideologia . . . . . . . . . . . . . . . » 26
La morale del figlio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 28
Nella luce del Padre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 30
La paura del Padre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 32
Il «figlio minore» (l’uomo in rivolta) . . . . . . » 35
Il figlio maggiore (il moralista) . . . . . . . . . . . » 37
Schiavi della morte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 39
Vincere la morte: un modello sbagliato… . . » 40
…e un modello giusto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 42
L’umiltà che salva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 44
La croce, ma quella vera . . . . . . . . . . . . . . . . . » 46

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L’ascesi: vivi da figlio . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 49
La legge nel cuore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 53
Dalla legge alla Grazia . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 56
La carne e lo Spirito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 58
La conversione sta nella tasca . . . . . . . . . . . . » 62
Preghiera e fedeltà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 65
Pregare sempre: l’ascesi del tempo . . . . . . . . » 67
Pregare nel segreto: l’ascesi
della separazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 68
L’uomo è ciò che mangia . . . . . . . . . . . . . . . . » 71
Digiunare per il regno dei cieli . . . . . . . . . . . » 73
Digiunare per dare spazio allo Spirito . . . . . » 74
C’è posto per il fallimento? . . . . . . . . . . . . . . » 75
L’ascesi è dipingere un ritratto . . . . . . . . . . . » 78
Crescere poco a poco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 80
Crescere di gloria in gloria . . . . . . . . . . . . . . . » 82

Post Scriptum. Vidi una moltitudine


immensa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 87

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