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Jean Giraudoux, ministro dell'Informazione durante la guerra, aveva scoperto che padre
Festugière, professore di Lettere e uno dei maggiori grecisti dell'epoca, era mobilitato come
soldato semplice e aveva la mansione di scopare la caserma. Giraudoux lo fece passare al
servizio della censura della posta. Padre Festugière scoprì come le lettere dei soldati alle
fidanzate fossero talmente simili che si sarebbero potute tranquillamente scambiare. Forse
valeva per il testo, ma non certo per le persone.
La stessa cosa avviene per i nostri peccati. C'è un segreto della confessione, ma non è
necessariamente là dove pensiamo che sia. Possiamo facilmente scandagliarne una parte,
quella che non desta interesse.
I peccati dell'uomo sono di una banalità deprimente nel loro andamento ripetitivo. Le
rassegna, o il genio di Mauriac, di Bernanos e di Julien Green, bastano per ricavarne la lista.
Ma il vero segreto incomincia più lontano: là dove ognuno di noi si dibatte nelle tenebre, là
dove ognuno tenta di sfuggire alla morte, sulla soglia della nostra vera dimora interiore, «quella
soglia dove l'uomo nasce alla finitezza» (Freud). Qui, non si può più esprimere il segreto, non
perché romperebbe una evidente discrezione, ma perché è quello della persona.
La Chiesa ha sempre precisato che, nel peccato, la rottura dell'amicizia tra le persone (il
“male di colpa") è più grave del disordine o dei danni causati dal peccato (il “male di pena”). Tutti
i giorni i giornali descrivono il male di pena. Ma chi potrà esprimere il segreto del male di colpa?
Una volta un principe disse a un poeta: «Dimmi ciò che desideri e io te lo darò. Il poeta
rispose: Tutto ciò che volete, Sire, eccetto il vostro segreto».
1.
Il segreto non è più
quello di una volta
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Possiamo risparmiarci il senso di nausea?
Di fronte a Dio e all'idea di Dio, in certi momenti, la paralisi ci blocca, blocca chiunque. Questa
paralisi è la paura. Non una paura qualsiasi, ma la paura di dover andare fino in fondo a noi
stessi.
Donde viene questa paura? Che dire di essa?
La risposta consiste in una parola. Fu di una novità totale, incomprensibile, esplosiva ai tempi
di Cristo. Ma questa parola è stata svalutata. Risponde alla domanda. E, ci dice, ci offre, non
solo un’idea, ma il cuore di Dio. É stata vissuta fino alle lacrime dai discepoli di Cristo. E noi
l'abbiamo neutralizzata.
Tuttavia questa sola parola ci permette, anche oggi, di andare fino in fondo, tanto di fronte a
uno dei più temibili problemi della nostra vita, che è la fragilità, il tempo, la durata e la morte,
quanto di fronte al segreto ultimo della confessione: l'accesso alla misericordia.
È proprio di Dio che abbiamo paura? Non credo. Ma piuttosto di noi stessi, di questo abisso
misterioso, incerto che scandagliamo. In realtà preferiremmo senza dubbio non saper troppo di
noi, né dell'immagine che ci riflettono gli altri e la comunità, che si tratti del nostro passato o del
nostro futuro.
Un tale, parlando di suo padre, ha dato una immagine dura. Questi era un grande proprietario
di piantagioni di cotone del Sud degli Stati Uniti. Quando si chiedeva al cineasta Biberman quali
ragioni l'avessero indotto a girare il bel film Slaves sui Negri americani, Biberman diceva: «Molto
tempo fa, mio padre mi raccontava storie sulla bellezza e sulla grandezza del Sud. Mi
descriveva ciò che faceva ogni mattina quando era giovane: appena sveglio, tirava un cordone e
il domestico negro arrivava e lo vestiva. Quando usciva, il mozzo di stalla univa le mani perché
se ne servisse come di un gradino per salire a cavallo. Mio padre allora cavalcava attraverso i
campi, e, nelle prime ore del mattino, i Negri lavoravano tutti nei campi di cotone. Era così bello
e così fresco: la rugiada sulle foglie, il cotone che ancora stormiva. Improvvisamente scorgeva
la più bella delle fanciulle negre, che sembrava sbocciata nella notte. Scendeva da cavallo e... la
prendeva. Dopo aver provato piacere, la teneva ferma e la colpiva sulla bocca: «Tieni, questo è
per te, piccola sporca Negra...» e la rimandava al lavoro, mentre i Negri cantavano. Biberman
concludeva: «Mi venne voglia di vomitare e non dimenticai mai questa storia».
Di fronte alla forza dell'egoismo, del disprezzo, dell'oblio, di fronte al potere del male, c'è da
aver paura. Un giorno si giunge a scoprire, con san Francesco di Sales, che «la frontiera tra il
regno del bene e il regno del male passa nel proprio cuore».
Il problema: tra la nausea e noi stessi ci sarà sempre solo timore e paura?
«Mi venne voglia di vomitare»…. Chi, se è davvero lucido, non rischia di dire questo anche di
se stesso? La "nausea"? La lucidità da sola basta quando si è soli di fronte alla domanda: «Chi
sono? Che cosa sono dunque?»
Per me, è qui, in questa domanda, che si trova il vero inizio della vita cristiana, che si rinnova
ogni volta attraverso il sacramento della penitenza.
«Io non mi abbasserò mai». 11 Cristo si è messo in ginocchio davanti ai suoi discepoli.
Pietro vuole offrirgli la propria forza: «Darò la mia vita per te». Ma Dio non ha bisogno di forza.
Allora nelle vicende della Passione Cristo domanda: «Mi ami?» È il modo più dolce di dirci: ciò
che mi interessa di te, non è la tua forza o la tua generosità, ma la tua miseria, la tua nudità e la
tua povertà. È il Salvatore che ha sete di ritrovare i perduti e i naufraghi. «Pietro, mi ami al punto
da darmi ciò che sei divenuto dopo avermi rinnegato? Adesso sei capace di darmi ciò che mi
attendevo da te: la tua stessa infedeltà, la tua debolezza, la tua libertà, certo, ma la tua libertà di
povero. Vuoi rischiare di spingerti fino a quel punto?».
Quando Pietro accetta quella debolezza al posto della forza che voleva avere e che
credeva fosse quella dell'amore, quando accetta che quella forza dell'amore, che pensava di
avere, sia vana e venga sostituita dall'offesa che lo rende debole per sempre, allora scopre
l'autentica porta della Vita. La forza può perdersi, non l'offesa. Questa non si dimentica mai.
Mediante l'amore che infonde nei nostri cuori, Dio ci propone di essere offesi e resi deboli in ciò
che crediamo sia la nostra forza. L'amore che viene da Cristo non ci rende subito forti, ma
deboli, di quella debolezza più forte di qualsiasi forza. La forza degli uomini sarà sempre limi-
tata. Ma l'offesa dell'amore, se viene da Dio, ci apre all'infinito, proprio quanto la sua forza ci
sembra senza limite: per questo è di una debolezza senza nome. È la dipendenza stessa che
diviene fuoco. Perché è dipendenza ed è, nello stesso tempo, rispetto e debolezza: così Cristo ci
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rispetta, ed è debole proprio in virtù del suo rispetto. Entriamo allora in questo nuovo battesimo
del sacramento della penitenza che è una vita a due: Cristo e noi.
Prima di essere giunti al momento in cui Pietro è stato confermato, prima di poter dire a
Cristo: «Tu sai che ti amo» c'è per ognuno di noi ciò che corrisponde al tradimento di san Pietro.
C'è nella nostra vita una confessione che è il nostro proprio modo di risparmiarci forse, quel
tradimento, cioè di conoscere la stessa offesa, ma senza tuttavia commettere un rinnegamento
così grave. Questa confessione consiste nello scoprire che non amiamo Dio, e nel dirglielo.
Cristo chiama come discepoli non degli indulgenti, dei deboli, dei soddisfatti, ma dei
guerrieri. E tuttavia la prima condizione affinché il loro impegno sia vero è riconoscere che essi
sopportano penosamente la vita e la croce, trascinandola come possono, e molto spesso
rifiutandola. Chi confessa questo a Dio comincia ad essere davvero offeso. È entrato nel suo
battesimo. Un giorno dobbiamo prepararci tutti a dire questo. Dopo aver ripetuto a Dio che noi lo
amiamo e che forse daremmo la vita per lui; dopo esserci consacrati per anni al suo servizio,
dobbiamo prepararci a scoprire che non lo amiamo, e fare di questa scoperta una preghiera.
Tra l'affermazione: «Darei la vita per te» e la confessione: «Tu sai che ti amo», c'è per tutti
noi, come per san Pietro, lo sguardo del Cristo che incrocia quello di un
uomo che può solo dire: «'Tu sai che non ti amo» e che piange. Primi passi mossi
dall'offesa. Questo grido: «Mio Dio, non ti amo», quando diventa preghiera, diventa la nostra
suprema confessione. Tutti i poveri, tutti i piccoli, tutti gli offesi dalla vita trovano qui una via
d'uscita e sono accolti da Dio.
La conclusione del Vangelo non è una conclusione che condanna, se non il nostro
orgoglio.
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Non siamo ancora usciti - anzi - dal peso che le distinzioni, intellettualmente mal gestite,
tra “fede” e “religione” fanno gravare sulla teologia e sulla catechesi. Da una parte ci sarebbe la
fede, cioè l'adesione pura e purificata all'ideale evangelico, alla “Parola”, dall'altra le motivazioni
impure delle “credenze” e della “religione”, cominciando con la paura. Ma ci siamo abbastanza
accorti che, facendo così, abbiamo reso astratti le due componenti: la Parola non è più
Qualcuno, ma una categoria astratta del linguaggio ecclesiastico, e l'uomo è divenuto un essere
di cristallo. Il risultato è un aumento di angoscia. A forza di proporre ai cristiani di essere “adulti”
o “responsabili”, s'incute terrore a tutti quelli a cui la vita ha insegnato che nessuno giungerà
mai al livello di questo ideale. (Ci si perdoni qui un'analogia: un certo numero di coppie, a forza
di essere martellate da pseudo-consigli sull'accordo fisico, arrivano a credersi anormali nella
loro vita coniugale, e i pretesi consigli non giungono che a far subire loro ciò che uno psicologo
ha chiamato il “terrorismo (dell’orgasmo”).
Pongo allora la domanda: dei due atteggiamenti che ci sono proposti, quale veramente ci
libera? Quello che sotto il pretesto di compiutezza, di libertà, di rifiuto dei tabù giunge infine, che
lo si voglia o no, al malessere di una cattiva coscienza e di una falsa colpevolezza, poiché si
scopre che non si arriva con le proprie sole forze a essere qualcuno “per bene” ; o
l'atteggiamento che, grazie all'umanità del sacramento della confessione, ci conduce passo
passo ad ammettere con dolcezza la nostra miseria.
Il primo atteggiamento ha apparenze di liberazione. A che serve confessare delle futilità?
Conduce, in realtà, al ciclo terrorista della lotta tra lassismo e cattiva coscienza. La permissività
è un cancro, poiché, di per sé, rifiuta ogni limite. E la chemioterapia dello stoicismo è temibile.
Come se si potesse da soli purificarsi? Come se tutto non fosse normalmente mescolato?
Eppure la vita di tutti i testimoni della fede parla chiaro. Da Abramo a Foucauld, non si sono mai
creduti immuni dall'ambiguità, né capaci di raggiungere la verità da soli. Proprio questo è il ruolo
del sacramento. L'intervento del Trascendente in questo mondo con le sue impurità. Questo
sarebbe stato semplice per Mosè, per esempio, se i suoi motivi fossero stati chiari. Ne ha ab -
bastanza del ministero affidatogli da Dio. Ha voglia di lasciare tutto. Ma tutto è mescolato: ci
sono la stupidità del popolo o solo il suo sfinimento, la fatica fisica e le insonnie, la pigrizia
interiore, l'angoscia del futuro, il peso della durata, c'è il silenzio di Dio... questo tirocinio della
pazienza è la suprema purificazione che Dio propone per andare sempre più avanti nel mistero
del suo disegno. «Dio ci inventa insieme con noi». «Perfino mediante il peccato» aggiungerà
sant' Agostino.
Avrebbe un suo fascino, in un certo senso potrebbe sembrare più bello, se la salvezza
dipendesse dalla santità del sacerdote, del cristiano. Sarebbe in realtà una soluzione molto
crudele, sia per il salvatore che per il salvato. Non usciremmo mai dal dilemma del tutto o
niente: o sacerdoti perfetti, o nessuno che ci possa salvare. E’così che i cristiani immaginano
talora la Chiesa, allontanandosi dal medico perché il farmacista non piace.
In realtà, Dio ha rimesso la salvezza nelle mani della nostra libertà, libertà di dare e libertà
di ricevere, e non
nelle mani della nostra santità. Ciò che rende la Chiesa a tal punto odiosa agli occhi di
alcuni è precisamente quello che ci salva: cioè la messa è sempre la messa, e l'assoluzio ne
sempre un'assoluzione, qualunque sia lo stato d'animo di chi celebra. Poiché questi, se non è
sempre, o necessariamente, in amicizia con Dio, è sempre libero di voler fare bene per gli altri.
Se Dio gli chiede molto per la propria salvezza, gli chiede pochissimo per la salvezza degli altri.
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La misericordia di Dio non ammette che la salvezza degli altri possa essere compromessa dalla
mediocrità dei cristiani. Ecco un invito ad adorare la misericordia.
Infatti, se qualcuno avesse il diritto di fare il difficile e di non tollerare che la salvezza
venga amministrata indegnamente, questi sarebbe proprio Dio. E non 1'avrebbe tollerato, se
avesse amato ciò che chiamiamo - ahimé! ,malissimo - la sua “Gloria” prima di amare i
peccatori. O più profondamente, se la gloria di Dio fosse stata quella della sua purezza, prima di
essere quella della sua misericordia. Ora la gloria della sua misericordia è precisamente volere
che la salvezza sia offerta agli uomini, anche in modo indegno, piuttosto che non essere offerta
affatto. «Li salverò in qualsiasi modo, ma li salverò»: dopo parecchi passi dei Vangeli, non è una
delle intuizioni centrali della Lettera agli Ebrei? A meno di non accettare per sacerdoti degli
esseri di cristallo e non degli esseri di carne e sangue. Occorreva difatti scegliere tra la
distribuzione della salvezza col contagocce da parte di esseri rari quanto gli eroi della carità, o
la distribuzione della salvezza letteralmente da parte di chiunque, purché questi accetti di
essere separato dagli altri per questo fine. E questo consenso, se dato lealmente, è del resto il
più profondo che possa essere affidato al prete stesso, il quale giungerà anche lui alla santità
attraverso le vicissitudini della miseria.
Ma è cronico nella storia della Chiesa: tutti i motivi sono buoni per vuotare il sacramento
del suo realismo. Sia che si pretenda di rispettare la trascendenza, o che si cerchi di proteggere
gli uomini rendendo loro la religione «facile». Dio non sarebbe il medico di turno, a cui si
dovrebbero confidare strani sentimenti, anche indegni di lui. Honest to God. Timori, stanchezze,
debolezze non sarebbero degni di Dio. A che serve confessare simili inutilità? Allora, fondato su
tutti i motivi pastorali, psicologici o storici oggi si diffonde un po' ovunque il movimento
seguente: liberiamo gli uomini dagli obblighi della confessione, con ciò che il termine conserva
di sfumatura giansenistica per un francese (anche educato nella permissività).
Conosco poche pagine belle e profonde sul sacramento della riconciliazione, sulla
penitenza e la confessione quanto quelle che aprono il nuovo Rituale del sacramento. Non sono
sicuro che la dimensione di queste pagine sia stata sufficientemente compresa. Sono luminose
e segneranno una data
importante nella storia del sacramento, poiché il sacramento ha conosciuto una storia
laboriosa (cfr. Cyrille Vogel, La Penitence et le Penitent, t. 1 e 2, Cerf; e il riassunto che ne
abbiamo dato sotto la guida dello stesso padre Vogel, in On demande des pécheurs, «Pour une
meilleure connaissance de l'histoire», Cerf, 1981, pp. 157-166).
Non abbiamo probabilmente mai avuto tante possibilità come oggi. Ci hanno reso la
pienezza delle forme del sacramento: i testi sono precisi, semplici, ammirevolmente adattati, le
situazioni sono rispettate, la varietà delle possibilità è riconosciuta.
Il rischio è dunque di nuovo presente. Non più un sacramento ridotto al terrore del
confessionale, ma invece banalizzato da una soluzione semplicistica, anche quando non è
necessaria l'assoluzione collettiva. Talora si svende un po' in fretta la possibilità stessa di un
incontro di fede. L'assoluzione collettiva supplirà a tutto.
Ma sono i poveri che, ancora una volta, rischiano di gustare i frutti amari di queste
soluzioni quando, conformemente al Rituale, esse non s'impongono: pseudo-teologia, pseudo-
psichiatria e pseudo-storia... Poiché tutto si riunisce qui per ricordarci che non c'è salvezza
senza liberazione, né liberazione senza confessione, e né confessione senza lasciarsi
convertire.
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«In un mondo dove non conoscete il sì e il no di niente, dove non c'è legge morale né
intellettuale, dove ogni cosa è permessa, dove non c'è niente da sperare e niente da per dere, in
cui il male non porta punizione né il bene ricompensa, in un mondo simile non c'è dramma
perché non c'è lotta, e non c'è lotta perché non c'è niente che ne valga la pena. Ma con la
Rivelazione cristiana, con le immense idee del Paradiso e dell'Inferno, le azioni umane, il destino
dell' uomo sono investiti di un valore prodigioso. Noi siamo capaci di fare un bene infinito e un
male infinito. Dobbiamo trovare la via verso vette di luce o verso abissi di miseria. Siamo come
gli attori di un dramma in cui abbiamo la parte principale. Per noi la vita è sempre nuova e
interessante perché ad ogni attimo abbiamo qualcosa di nuovo da imparare e qualcosa di
necessario da compiere. L'ultimo atto, come dice Pascal, è sempre cruento, ma anche sempre
magnifico, poiché la Religione non ha solo messo il dramma nella vita, lo ha messo al termine,
nella Morte»(Claudel ).
Al processo dei carnefici del campo di Treblinka, un avvocato domanda a uno di essi, un
consigliere al Ministero degli Interni del III Reich, che dopo la guerra ridivenne segretario di
Stato, se avesse cercato di conoscere la verità riguardo allo sterminio degli ebrei. Questi
rispose:
- No, questo non dipendeva dalla mia giurisdizione.
- Che cosa avreste fatto se lo aveste saputo ufficialmente?
- Ebbene, avrei detto: «Questo riguarda il tale e il talaltro, chiedetelo a loro».
Si immaginano uomini che minacciano, che maltrattano, che urlano. Ma in primo luogo
c'è l'assenza. Gente che non sa, sguardi che non vedono più, strade che si vuotano. «Cercate il
tale». Ma il tale è occupato. Il tale non c'è. «Sono venuti», «l'hanno portato via»: tutti e nessuno.
Uscire dall'ossessione,
ma non dal senso di colpa
Le critiche mosse contro la confessione sono di tutti i tempi. La storia del sacramento
della penitenza ha avuto lunghi periodi di ricerca a tentoni e brevi periodi di un equilibrio fragile.
Ogni critica è preziosa se verte su ciò da cui tutto dipende, qualunque sia l'epoca, la teologia o
la filosofia, o il modo di praticare il sacramento: cioè il senso di colpa.
Quando si evoca la beatitudine del perdono, si dice qualcosa di banale, se non si intende
con questi termini una realtà talmente paradossale che si esita ad indicarla con termini propri, e
che io stesso ho rinunciato a porre come titolo del presente capitolo. Avrei dovuto intitolarlo: la
beatitudine di essere colpevole. E questo non per provocazione, poiché, contrariamente a ciò
che può sembrare, il Vangelo e le psicologie più moderne convergono su questo punto
pienamente. Certo, con il Vangelo e con le migliori ricerche attuali, oso affermare che la
colpevolezza è fonte e luogo per eccellenza di una scoperta decisiva: una nuova creazione con-
tinua dell'uomo da parte di se stesso. Un uomo diventa “uomo” quando varca questo limite al di
là del quale accetta, non nella paura o nell'ansia, ma nell'angoscia di scoprire ciò che è, fino
all'estremo dei suoi limiti.
Ebbene, noi siamo abilissimi non solo nel chiuderci a questa angoscia, ma nello
sbarazzarci del problema stesso. Non dobbiamo nemmeno più opporci alla confessione, poiché
abbiamo eluso l'essenziale, per il fatto che non bisognerebbe più parlare di colpevolezza.
Come? Voi sarete ancora alle prese, ci dicono, con questi problemi di confessione, quando da
tempo si è proceduto ad una vasta epurazione dei tabù e dei rimorsi morbosi che avvelenavano
i cristiani. Qualunque psicologia funziona, quando si tratta di “liberarci”... Ricordiamo la frase di
santa Teresa d'Avila: «Per aiutarmi a cadere, avevo numerosi amici, ma per rialzarmi mi trovavo
completamente sola». Quando si tratta di confessarsi, oggi non si trovano più molti amici...
La mia intenzione qui non è solo di battermi per riconoscere il ruolo della colpevolezza in
tutta la vita dell'uomo, e quindi il ruolo del sacramento, ma anche di andare più avanti. Sostengo
che ricusare l'autentica colpevolezza sia rendere impossibile la felicità del perdono e togliere a
chi soffre la possibilità di conoscerla.
Ma prima di tutto riconosciamo pienamente che esiste un senso di colpa cattivo. È
evidente. Uno dei più grandi servizi che i filosofi contemporanei e certi medici ci hanno reso
(penso, beninteso, a Nietzsche e a Freud, a Nabert, Deleuze, Guattari, Foucault, Lyotard ed
anche a Diel o a Minkowski) è di aiutarci a distinguere il vero senso di colpa da quello falso, ed è
un grande servizio.
Vi è una decolpevolizzazione autentica perché c'è una falsa colpevolezza. Freud ha
sottolineato l'ambivalenza del senso di colpa e non c'è nessuna difficoltà a riconoscerlo. Il
senso di colpa può essere morboso. Finché non abbiamo scoperto dove è la nostra vera e
propria debolezza, rischiamo di lasciarci trascinare alla deriva. Possiamo accusarci di non avere
energia, forza, coraggio, tenacia, obbedienza, umiltà, castità o moderazione: tutto ciò è vero, ma
non è la nostra autentica colpevolezza. Se ci si limita a queste accuse, ci si impegna in
un'impresa disperata: la creazione di un universo fantastico e aberrante, di un mondo irreale e
giustificatore che è precisamente l'universo morboso dell'errore. Allora o si abbandona tutto, un
giorno o l'altro, o si cerca di rendere “sacro” l'annientamento che si prova, e che è soltanto uno
pseudo-annientamento, forse perfino un modo per evitare la verità. Si resta a un rimorso che
vorrebbe che l'errore non ci fosse stato. Si soffre del peccato, ma non si può sopprimerlo; allora
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ci si pente, ma senza speranza. E’l'ossessione: la condanna di se stessi da parte di se stessi in
una colpevolezza disperata.
Dio diventa quindi l' “Osservatore” di cui parla Sartre, di fronte a lui l'uomo sarebbe un
assoggettato, una cosa, un oggetto da guardare: «Io vi sento fin nelle ossa, dice il personaggio
di Huis-Clos, potete chiudervi la bocca. Fermerete il vostro pensiero? Lo sento, fa tic tac come
una sveglia e so che voi sentite il mio. Siete dappertutto. Mi avete rubato perfino il volto: voi lo
conoscete, ma io non lo conosco più».
Ecco Cristo proporci un'altra luce. Ci conduce a scoprire come la nostra autentica
colpevolezza sia molto più profonda delle infedeltà provenienti dai. nostri errori e noi non siamo
colpevoli perché siamo deboli, avari, ladri, impudichi o violenti, ma perché non amiamo e
rifiutiamo di confessarci questa profonda incapacità di amare. È scoprendo dove è l'autentica
colpevolezza che ognuno comincia ad essere a poco a poco libero dai falsi sensi di colpa.
Non si tratta più solo di porre rimedio al passato, ma di trasformarlo. Non si tratta di
riconquistare una impossibile innocenza, ma di riconoscersi peccatore-perdonato perché
amato. Non si tratta più di credere che si eviterà l'angoscia, si tratta invece di accettarla come
feconda, come fonte di comunione con tutti i fratelli, come la chiamata più profonda presente in
noi: questa chiamata che nasce dall'accettazione della nostra mediocrità e si rivolge da noi
stessi a noi stessi, impegnandoci a continuare il nostro perfezionamento perché abbiamo
scoperto, in un al di là di noi, una fonte creatrice, una forza di vita più forte della nostra paura o
della nostra vergogna.
La vera colpevolezza è quella che, accettando di riconoscere la ferita, ci spinge a volgerci
verso il prossimo per amare, e lo dimostra accettando una parola che illumina e dice la verità su
noi stessi, trasformando così la nostra vita. Non si volge solamente verso il passato, sa che la
vita dell'uomo non ha niente di definitivo, niente di chiuso, niente su cui si possa tirare una riga,
niente di ' finito '.
Come possiamo
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Partiamo come possiamo, come è partito il Figliol Prodigo, semplicemente perché non ne
poteva più di aver fame e di essere insoddisfatto. Noi non siamo meglio di lui. L'atto di
confessarsi è molto spesso opprimente. Inutile nasconderlo. Proprio davanti a colui che l'amava
il Figliol Prodigo ha scoperto che la sua colpa vera non era quella che credeva. Se questa
scoperta è beatitudine, è perché si accompagna alla scoperta del perdono, ma è anche e in
primo luogo perché ci permette infine di scoprire ciò che occorre fare per liberarsi dalla brutta
paura che insidia ogni essere umano di fronte a se stesso quando è lucido. L'amore è sempre un
amore “ritrovato”, perché lo si scopre maggiore di quanto non si pensasse. Man mano che se ne
comprendono le esigenze, come san Pietro ad esempio, si piange per non averle riconosciute.
Si credeva di amare e si stava in pace nella propria tranquillità di coscienza. Ma non c'è
amore comodo. L'amore è una forza temibile che ci strappa al nostro benessere. Unisce questi
due aspetti, del tutto contraddittori alla nostra insensibilità. È fuoco, vulcano, intensità,
possesso e follia, e nello stesso tempo respiro impercettibile, timidezza, delicatezza, rispetto e
silenzio.
Le lacrime di Pietro sono state benefiche perché; manifestavano il suo strazio di non
essere all'altezza di colui, che nella sua delicatezza, lo chiamava con una discrezione infinita. La
penitenza sarà sempre come la lotta di Giacobbe: un dramma in cui l'amore è temibile non
perché I' amante esercita potere e dominio, ma al contrario perché è infinitamente disarmato. È
simile ad una tortura, forse, ma alla “tortura” amorosa che un bambino infligge ad un adulto
perché questi ridiventi a sua volta disarmato come un bambino.
La vera colpevolezza è davvero una felicità. Riconoscere Dio come un essere che ama e
senza difesa... Voi dite a Dio nella vostra preghiera «Padre nostro»: «Padre nostro, che sei nei
cieli...». Ma non vi sentite anche attratti dalla preghiera che, ogni Natale, porta gli uomini ad
inginocchiarsi davanti a un bambino e li autorizza a dire a Cristo stesso: «Mio Piccolo...»? Forse
è solo quando tale preghiera sale alle nostre labbra che la scoperta della nostra rozzezza può
farsi strada in noi senza farci paura.
Non scopriamo la nostra durezza e la nostra violenza dall'esterno, ma solo dall'interno.
Per il semplice fatto che la si scopre, ci si avvicina già un po' alla verità, e avvicinandosi alla
verità si scopre che è una beatitudine. È proprio ciò che riconosce san Pietro quando piange
dopo aver incontrato lo sguardo di Cristo: la colpa fondamentale di essere barbaro di fronte
all'amore, più ancora che di non amare. Noi resistiamo. Il dramma di Cristo fu di trovarsi davanti
«cuori tardi a credere e spiriti senza intelligenza».
Come poteva farcelo intendere Dio? Soltanto facendoci scoprire che i nostri tradimenti o i
nostri peccati visibili o scandalosi non sono che la manifestazione di qualcosa di molto più
profondo, che coinvolge la nostra stessa identità: noi non sappiamo amare davvero. Ecco cos'è
la beatitudine del perdono e il pentimento. Siamo nel momento in cui il Figliol Prodigo si getta
nelle braccia del Padre; ecco il sacramento.
Come il Figliol Prodigo, ogni cristiano, per indirizzarsi verso questo amore, è invitato a
valersi proprio di quella sfasatura, che può trovare nella sua vita, tra la propria rozzezza e la
purezza dell'amore. Ed è invitato a fare di questo cammino, normalmente un cammino di
lacrime, un cammino di riavvicinamento, d'intimità, di prossimità, proprio perché l'amore ha
avuto pietà della nostra fragilità.«Vieni, dice Dio al Figliol Prodigo. Vieni non come se tu fossi
pronto, ma vieni invece perché non ne sei degno, né capace, né puro. E io ti purificherò per
questo stesso passo. Non aver paura di lavarti nel sangue di mio Figlio: è stato versato per la
tua riconciliazione e la riconciliazione di tutti».
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Possiamo ricamare alI'infinito sulla distinzione dei peccati o fare come se il problema
della confessione non esistesse. Ma esiste. E schivarlo sarebbe tradire. Quelli che riducono la
confessione dei peccati ad una questione di disciplina ecclesiastica più o meno arbitraria o
facoltativa si ingannano e ci ingannano. D'altra parte le esitazioni della storia, il Vangelo e le più
salde conclusioni dei filosofi moderni convergono ancora una volta. Non è una questione di
mutamento di disciplina o di tradizione. È più profondo e più semplice.
Alla fine di Delitto e castigo, si vede Raskolnikov, l'omicida, crollare nel momento in cui la
donna che egli ama gli legge nel Vangelo di san Giovanni la risurrezione di Lazzaro. Questa
donna aveva scoperto da parte sua il dramma di essere una prostituta. Cosa propone a colui
che ama, e proprio perché lo ama e vuole salvarlo, pur sapendo benissimo che questo lo
manderà alla deportazione? Gli domanda una sola cosa: confessare, confessare il suo delitto.
Portando il romanzo di Dostoevskij sulla scena, Gaston Baty, per rappresentare il
matrimonio di Sonia e di Raskolnikov, ebbe una trovata geniale: nell'ultimo quadro si vedeva
Raskolnilcov, l'omicida, avanzare lentamente sulla piazza della chiesa che simboleggiava Dio e,
davanti ai passanti, che rappresentavano la società, lo si sentiva rifare la confessione del suo
delitto: faceva di nuovo a Sonia, la donna che amava, ma questa volta ad alta voce e davanti a
tutti, quella confessione che le aveva confidato a tu per tu. Quale celebrazione comunitaria!
Bergson diceva che il criminale di cui si ignora il delitto è uno sconosciuto per gli altri, che
lo prendono per un essere diverso da ciò che è veramente; in un certo senso non esiste, diceva,
neppure per se stesso. Questo perché ogni confessione è una liberazione, che permette a noi
tutti di dire prima della morte: «Io valgo di più della mia vita...». È l'essenza stessa di ciò che Dio
ci propone nella confessione: reintegrare la mia storia in quella della salvezza. C'è una dif-
ferenza tra me e la mia storia, tra la mia persona e i miei atti. I miei atti sono compiuti, passati,
mi sfuggono e si accumulano dietro di me: hanno creato un disordine, sono stati un fallimento
nell'amore. Proprio nell'amore, in questo amore che ho per me stesso, per gli altri, per la
comunità, Dio mi invita a intervenire, a riparare e a restaurare. Mi dà questo potere inaudito di
ricuperare, di riprendere il mio passato, di rinnovare il potere creatore della mia libertà, di
protestare contro i fallimenti che ho inflitto all'Amore. E’molto più di una innocenza ritrovata, è la
restaurazione del senso stesso della mia vita, poiché il senso ultimo del mio passato dipende
dal mio futuro: a condizione di riconoscere innanzitutto ciò che è stato.
Non è un piccolo problema di sacrestia. E’il solo cammino della vittoria sul male di
quaggiù, quello di cui siamo responsabili. Il solo che ci permette di dominare il tempo e il
rimorso del passato, di assumere il presente come un futuro già segretamente iniziato, di vivere
la storia come storia di salvezza, di essere veramente liberi. « Credere alla remissione dei
peccati è il momento cruciale per cui un uomo diventa spirito; chi non ci crede non è spirito».
E l'assoluzione collettiva?
Non è la Chiesa ad aver inventato ciò che Dio propone: chi viene verso il Padre per
chiedere perdono si abbandoni a Lui. È ciò che fece il Figliol Prodigo. La confessione è un
lasciarsi andare. Chiunque tenga per sé volontariamente qualcosa che sa grave non si
abbandona. È tutto. In primo luogo non si tratta di catalogare gli errori. Se teniamo qualcosa per
noi perché ci sembra umiliante, non ci lasciamo andare, e non possiamo conoscere la
beatitudine del perdono. È evidente: chi dissimula rifiuta di servirsi del proprio peccato per il
bene, non cerca di avvicinarsi all'amore per la via stessa del peccato,..
Non è questione di quantità, di curiosità, di ricerca malsana, ma di libertà per chi è felice
di lasciarsi andare, scaricando tutto il peso che lo schiacciava. Se, nelle celebrazioni
comunitarie, diamo delle assoluzioni collettive per dispensare dalla beatitudine della verità,
dalla beatitudine di essere colpevoli, come pretendere che ci sia ancora un perdono vero e
proprio?
Senza dubbio ci occorrerà molto tempo, come ci vollero ottanta anni per trarre tutte le
conseguenze di una migliore comprensione dell'eucaristia. Siamo ancora lontani dalla meta!
Stiamo uscendo, meno male, dall'atmosfera congestionata, terrificante e angosciosa delle
confessioni di un tempo, e questo, tra l'altro, per la felice pratica delle celebrazioni comunitarie.
Ma se fossimo logici, presentiremmo forse che lo sviluppo di questi primi, tentativi rischia di
non essere quello che pensavamo.
Senza rendercene conto abbiamo aperto la porta a qualcosa di molto più impegnativo di
quanto non immaginassimo. Perché, la celebrazione collettiva non rischia di rendere necessario
una confessione pubblica...? È una mia domanda, ma non sarebbe forse opportuno
costringerci? Che significato avrebbe un'assoluzione senza lacerazione, senza cammino,
senza confessione? Che significato avrebbe l'assoluzione di un peccatore muto? Nessun
giuridismo, foss'anche di manica larga, può rispondere al nostro posto, e sarebbe inutile parlare
così spesso di incarnazione e di valori umani, se limitassimo l'incarnazione al punto in cui sono
in gioco, nel
modo più profondo, la nostra responsabilità e la nostra identità. Non è di Dio che ci si
prende gioco in questo caso, ma della nostra miseria e della nostra libertà.
Cristo non ha dispensato Maria Maddalena dal gesto di piangere. Simone il Fariseo aveva
forse in animo gli stessi sentimenti, ma non l'ha mostrato, e questo fu proprio l'unico rimprovero
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di Cristo: «Simone, tu non mostri niente. Guarda questa donna: si è lasciata andare, e con ciò ha
manifestato la sua contrizione e il suo amore».
Il problema non è cercare supplenze per evitare la confessione, poiché non c'è supplenza
all'amore. Un grande apostolo della misericordia, nella Chiesa d'oggi, al seguito di padre Lataste,
padre Jacques Nourissat, mentre stava con i condannati a morte in una prigione degli Stati Uniti
- in un settore della prigione chiamato «corridoio della morte» - riporta così ciò che gli confidava
uno dei condannati: «Si pensa che il giorno del processo il giudizio degli uomini sia il più duro.
Per me, non è stato niente. Mi sono detestato per i primi tre anni di prigione come nessuno può
odiarsi. Ho cercato di uccidermi, i miei amici me l'hanno impedito. Ma più mi guardavo, più mi
detestavo e non trovavo in me niente di buono... Dopo tre anni un mattino ho detto a colui che si
chiama Dio: " Se tu esisti, tu solo puoi amarmi, e soprattutto insegnarmi ad amare me stesso ".
Allora, racconta padre Nourissat, chi mi parlava si è messo in ginocchio si è reso conto a poco a
poco della speranza che era in lui. La pace è tornata. Quest'anno, quando sono ripassato a
vederlo in prigione, mi ha detto: " Ora ho capito che era Cristo che mi insegnava ad amarmi.
Così, va bene! ". Il suo viso, conclude padre Nourissat, era raggiante come la sua anima, era
divenuto libero».
Se mi domandaste quali gesti mi hanno maggiormente colpito nella mia vita di prete, non
saprei quale scegliere. Tra i molti ce n'è tuttavia uno che ricordo volentieri. Non manco di
discrezione nel riferirlo, perché la persona interessata mi ha autorizzato esplicitamente a
parlarne. Ebbi la fortuna di vivere molti anni non lontano da mio padre. E da questo uomo rude,
franco, vero, per quindici anni ho ricevuto la testimonianza incredibile di una confidenza totale,
ogni volta che mi chiedeva di confessarsi. Mai dimenticherò la sua riflessione, la prima volta:
«Fai il tuo dovere di sacerdote...». Quel giorno scoprii per sempre che possiamo essere uomini
liberi, che nulla sulla terra, se non noi stessi, può impedirci di trovare la libertà, e di testimoniare
che Dio è misericordia.
È come se avessi sentito, ridetto da mio padre, ciò che lo staretz Zosimo rispondeva a
suo fratello durante la confessione:
«Sì. Ho paura; ho paura di morire.
«Non temere nulla e non avere mai paura, non addolorarti. Purché il pentimento duri, Dio
perdona tutto. Non c'è peccato sulla terra che Dio non perdoni a chi si pente sin ceramente.
L'uomo non può commettere un peccato tale da poter esaurire l'amore infinito di Dio. Può
esserci un peccato che supera l'amore di Dio? Pensa solo a pentirti e scaccia ogni timore. Credi,
Dio ti ama come non puoi neanche immaginarlo, e ti ama proprio nel tuo peccato e con il tuo
peccato. Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore che si pente che per dieci giusti. Non ti
affliggere per gli altri e non irritarti per le offese. Perdona nel tuo cuore al defunto tutte le sue
offese verso di te, riconciliati con lui in verità. Se tu ti penti, tu ami. Ora, se tu ami, sei già in
Dio...». In questo è forse il vero «segreto della confessione».
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2.
Piccola guida alla penitenza
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Il museo Nagasaki contiene dei tesori: gli stupendi nambans, paraventi giapponesi del
XVI secolo, sui quali i portoghesi, primi visitatori, sono rappresentati con i loro compagni gesuiti,
in abiti lunghi e cappelli neri. Di fianco a questi paraventi, si possono rimirare bei vasi: i calici
con cui fu celebrata la messa, ancora per molto tempo dopo i martiri dell'epoca di Tokugawa
Ieyasu e di Hideyoshi.
Non sono né i calici né i paraventi a colpirmi di più. Ma ciò che, da quel giorno, considero
le icone più venerabili del mondo sono alcune immagini semplicissime, con un disegno quasi
primitivo grandi come quaderni di scuola. Sono state conservate. Per quale miracolo?
Rappresentano il volto di Cristo e quello della Vergine. Sono le immagini presentate davanti ai
passi dei giapponesi divenuti cristiani, quando negli anni intorno al 1610 si proponeva loro di
abiurare scegliendo tra la libertà e il martirio. Bastava camminare sul volto di Cristo per essere
liberi ed evitare il supplizio. Trentacinquemila furono martirizzati. Ho riferito altrove l'atrocità di
ciò che si seppe inventare per far loro pagare la fedeltà (cfr. Surpris par la certitude, Cerf, Parigi,
t. III, p. 71).
«Che dite voi di Gesù Cristo?». Proprio davanti al volto di Cristo ci si apre anche alla
“confessione”. Che si tratti di confessare la propria fede o il proprio peccato: è davanti a Cristo
che il problema si pone, è davanti alla Croce che si apre ogni celebrazione. Da quel Volto che
non rassomiglia a nessun altro viene sempre il perdono.
Proprio dopo essere stato a Nagasaki, mi trattenni all'università di Kyoto per una riunione
di studenti e di professori, non cristiani o cristiani, cristiani di vecchia o di fresca data.
Domandavo loro: «per quale ragione, voi giapponesi, siete divenuti cristiani? Voi avete tutto. Lo
scintoismo per celebrare la nascita e le forze della vita; il buddismo per circondare la morte e
celebrare l'aldilà, e, tra i due,, avete il Giappone e il vostro affetto alla giapponesità. Avete battuto
gli svizzeri con gli orologi migliori del mondo; avete battuto i tedeschi con l'ottica migliore del
mondo; avete battuto gli americani con l'elettronica migliore del mondo ... Allora perché avete
bisogno di Cristo?».
Uno di loro, convertito da quattro anni, professore di storia dell'arte e specialista
dell'estetica di Kant, che era appena entrato nell'Ordine dei domenicani, fratello Kamitsubo,
rispose: «Fino a Hiroshima, fino alla bomba di Hiroshima, noi non eravamo mai stati vinti.
Eravamo persuasi di essere i figli del sole. Nessuno ci poteva vincere. Ma dopo il disastro, ci fu
solo il Cristo per farci amare la nostra fragilità».
A nessun adolescente, nel momento in cui sperimenta la propria libertà, piace dipendere
spontaneamente da un altro, se non l'ha scelto. A chi piace dipendere? Per questa ragione il Dio
del Vangelo ha preso l'abito del mendicante. «Ho avuto fame. Ho avuto sete. Sono stato senza
casa. Sono stato solo. Voi non avete potuto vegliare un'ora con me. Viene l'ora in cui mi
lascerete solo».
Ma noi andiamo più avanti. Il peccato uccide Dio. «Mi appartengo» è la regola di ogni
inferno terreno. «Tendiamo insidie al giusto perché ci è di imbarazzo. (...) Ci è insopportabile
solo a vederlo» (Sap 2,12 ss.).
Ebbene Cristo non oppone alcuna resistenza. Fa il nostro gioco come il padre del Figliuol
Prodigo ha fatto il gioco del figlio minore. Cristo affida la borsa a Giuda e il nucleo della Chiesa a
Pietro. Non si difende più. Accetta che lo si insulti, che lo si schiaffeggi. Hanno sputato su di lui:
taceva. Lo spogliano. Accetta che lo si calpesti.
Che cosa ci manca ancora per sentire il nostro peccato? Senza dubbio essere andati
abbastanza lontano in fondo alla nostra fame, essere scesi abbastanza in basso in fondo al
nostro desiderio per scoprire quanto, attraverso Gesù Cristo, il nostro Dio sia un Dio che ci prega
quanto noi lo preghiamo. Il Dio che ci accoglie nella confessione è il Dio che si rivela con una
generosità totale: è il Cristo della beatitudine e della dolcezza. È il Cristo della passione di fronte
ad Erode, a Caifa, a Pilato ... e a noi. Egli mendica. Solo l'Onnipotente può rivelarsi così. «Egli
non aprì la bocca, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori». «Non mi sono tirato indietro. Ho
presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba».
«L'Onnipotente è vinto. Egli non può! Ha creato il cielo e la terra, e non può venire a capo
di questo essere che dice semplicemente no! Questo figlio, è finito, non lo conquisterà mai.
Questo frammento di Se stesso, che è al fondo del ribelle, non riuscirà a ricuperarlo. Non Lo si
vuole. Mostra l'inferno e si ride. Propone il cielo e la terra, e si rifiuta. Dio stesso scende e offre
Se stesso. Depone le vesti e si inginocchia ai nostri piedi, li afferra. Noi lo respingiamo con odio,
con ironia, o, ciò che è peggio, con noia» (Claudel).
«Egli mendica» ... chi ha amato una sola volta, una volta sola nella sua vita e che è forse
stato sorpreso dallo sconvolgimento inatteso, sa che qui si affronta il segreto più profondo della
vita. Se si ama, si è due proprio desiderando di fare uno con l'altro. Questo è pericoloso. Il
desiderio, il bisogno dell'altro che è in colui che ama diventa facilmente accapparatore e
distruttore, se non giunge alla scoperta della reciprocità.
È proprio la promessa dell'amore a sopprimere la dualità, ma nel rispetto dell'altro.
Ora, quando Dio mendica, non mendica il nostro rispetto, ma la nostra debolezza. Là si
gioca la nostra “confessione”, in questo momento in cui, di fronte alla domanda di Cristo: «Chi
dite che io sia?», noi abbiamo abbastanza confidenza per andare fino in fondo e dirgli a nostra
volta - e questo a causa della nostra debolezza - rigirando la domanda: «Chi dici tu, Signore, che
io sia?». È il grido della confessione. È il grido che canta la ferita deliziosa dell'amore reale,
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perché ci rende dipendenti dall'altro. «Insegnami chi sono per essere capace di tutto questo».
«Sei Tu che conti, mio Signore».
«Poiché Tu, mio creatore, che solo conti in verità, ti sei annientato per noi, poiché non hai
mercanteggiato la tua follia per ottenere la mia felicità, il mio desiderio, la mia preghiera, la mia
verità, allora io entro nel tuo desiderio, e a mia volta, ti prego e ti supplico: Vieni, Signore Cesù».
Gesù dice: «Adesso credete? ecco, verrà l'ora, anzi è già venuta in cui vi disperderete
ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo» (Gv 16,31-32).
«Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni;
ci rimprovera le trasgressioni della legge
e ci accusa di mentire.
Si vanta di conoscere Dio,
La sua esistenza è un rimprovero alle nostre idee;
c'è insopportabile solo al vederlo.
La sua vita, di fatti, è diversa da quella degli altri.
Si vanta di aver Dio per padre.
Vediamo, dunque, se le sue parole sono vere,
proviamo ciò che gli accadrà alla fine.
Poiché se il giusto è figlio di Dio, Dio lo assisterà,
lo libererà dalle mani dei suoi avversari.
Mettiamolo alla prova per conoscere la sua mitezza,
per saggiare la sua rassegnazione.
Condanniamolo a una morte infame,
perché, secondo le sue parole, Dio verrà in suo soccorso»
(cfr. Sap 2,12-20).
«Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù dicendo:
" Signore, allontanati da me
che sono un peccatore "» (Lc 5,8).
“ In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato
ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita”
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(Gv 5,24).
«Da questo conosceremo che siamo nati dalla verità e davanti a lui rassicureremo il
nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce
ogni cosa» (I Gv 3,19-20).
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Schivare l'incontro
C'è in ognuno di noi questa fantastica capacità: renderci duri. C'è questo punto segreto,
custodito e riservato, dove abbiamo il potere di dire “no”, e con tutte le giustificazioni possibili.
Nessuno sfugge al punto di durezza. I più grandi l'hanno confessato: «Tremo talmente al pen-
siero di uscire da me che mi guardo quanto più posso dal pregare Dio che mi faccia nascere». Il
contrario della confessione è proprio l'inferno. Ne abbiamo ricordato la definizione: «Io mi
appartengo». E per appartenersi si mente, si mente. Tutte le menzogne diventano buone,
legittime, desiderabili : Bisogna proprio appartenersi. Noi viviamo con noi stessi un permanente
periodo elettorale: bisogna eleggere le proprie illusioni contro l'Altro. Allora ci si mente. È forse
là un punto segreto dove Dio ci attende. Bernanos è ancora ottimista quando fa dire al parroco
di Torcy: «Noi vogliamo tutto ciò che Egli vuole, ma non sappiamo che Lo vogliamo. Noi non ci
conosciamo. Il peccato ci fa vivere in superficie di noi stessi. Rientriamo in noi solo per morire.
È là che Egli ci attende».
O piuttosto no, Dio non ci “attende” soltanto “là”, ma in ogni occasione in cui come un
mendicante ci propone di disarmare per fare della nostra vita un'azione a due. «Vuoi accettare di
non mentire a te stesso?» Il peccato è dapprima questo potere di rifiutare la presenza di un
Altro. Tutto avviene qui: accettare qualcun altro nella nostra vita, accettare l'interferenza di
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un'altra libertà diversa dalla nostra, rifiutare il dubbio, disarmare instancabilmente, in fondo
all'essere. Nella notte del Getsemani, Cristo l'ha detto perché noi potessimo ripeterlo
confessandolo ogni giorno: «Non la mia volontà, ma la tua». Questa parola ha una portata
eterna.
So che in me rimane questo punto duro che mi impedisce talora di aver voglia di
spogliarmi di me stesso davanti alla luce. Qualunque siano ora le forme e le formule della
confessione e dell'assoluzione, certamente non ci sarebbe più il sacramento della
riconciliazione, se non si accettasse una parola di misericordia che faccia luce su di sé, se non
si accettasse la parola di un Altro, e quindi un certo “giudizio” su se stessi: il solo giudizio che
non ferisce, anche se mette a nudo, è in uno sguardo creatore di bontà.
Ma non si ha voglia di spogliarsi di se stessi. E il limite è veramente superato solo
quando ammettiamo la possibilità di resistere alla luce. C'è per ognuno di noi la stessa lotta di
Giacobbe. Abramo, Mosè, Geremia, Giobbe, San Paolo e San Pietro hanno resistito e si sono resi
conto che potevano resistere a Dio. Tale resistenza è sottile. Noi l'immaginiamo come un potere
di rifiuto. È questo che ci inganna. Noi siamo molto più abili: noi non rifiutiamo Dio o la luce di
Dio. Non dobbiamo neppure uscire dal problema: ce la caviamo senza neppure sentire la
questione. Il peccato non consiste nell'uscire dal codice della strada, ma nell'essere tanto abili
da non entrarvi, per non mettersi sotto la luce, per non aver voglia di guardare quale sarebbe la
via migliore, poiché la chiamata rischia di essere come un arpione. Un presentimento ci fa
sospettare che se ci lasciassimo andare ad accogliere questo appello si sveglierebbe in noi non
si sa quale nostalgia, si scuoterebbe non si sa quale coscienza, si installerebbe non so quale
stupore, quale disagio sconcertante. Allora sarebbe meglio non sapere e non entrare troppo
nella disputa. Non apriamo le imposte, rischieremmo di vederci chiaro. La penombra è più
riposante. Ci si appartiene.
Pensiamo a questo punto alla lotta di Giacobbe con l'angelo. È la nostra. «Vedendo che
non poteva vincerlo», dice il testo biblico parlando dell'Angelo di fronte a Giacobbe. È la
confessione fatta da Dio stesso, della consistenza della nostra libertà. Queste semplici parole ci
portano nelle profondità ultime del segreto di Dio. Dio che non può vincerci: che vuol dire ciò?
Noi siamo invitati da Dio a scoprire la nostra consistenza. Dobbiamo andare ancora più
avanti della religiosa trappista. Il corrispettivo più temibile di questa consistenza non è soltanto
la nostra libertà: è il rispetto di Dio di fronte alla nostra libertà, rispetto tale che noi possiamo
evitare l'incontro. Tocchiamo qui il punto più prezioso e nello stesso tempo più nevralgico della
rivelazione cristiana e del sacramento della penitenza.
Il più prezioso perché ci mette concretamente di fronte alle profondità dell'amore di Dio,
di cui non sospettiamo mai tutta la violenza e nello stesso tempo la delicatezza estrema. Il più
nevralgico, perché quest'amore, come ogni grande amore, è timido e totalitario: dà tutto e
chiede tutto, ma lo attende dalla nostra libertà, non da una seduzione che diminuirebbe la sua
lucidità, come “drogandoci”, se si potesse dire. Questo amore non è timido in quanto totalitario,
ma perché totalitario: è precisamente perché vuole tutto che si rivolge necessariamente alla
nostra libertà più profonda, accettando che questa libertà rifiuti, se vuole.
Se la delicatezza di Dio permette veramente alla nostra libertà di dirgli di no, le permette
di dirlo per sempre: dire di no per qualche tempo non è dire no, a meno che non si sia
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segretamente decisi a prolungare all'infinito questo tirarsi indietro che si dice provvisorio. E se
questo pericolo non è reale, è finalmente “per ridere” che il Cristo avrebbe voluto fare paura alle
figlie di Gerusalemme: «Se si tratta così il legno verde, che ne sarà del legno secco?» (Lc 23,31).
Allora la croce è ‘teatro ', e così tutto il Vangelo, e l'amore stesso di Dio per noi. È una
bestemmia minimizzare ciò da cui il Salvatore ha voluto salvarci a prezzo del suo sangue.
Perfino i migliori di noi inconsciamente, subiscono più o meno questa impressione illusoria, ma
sempre rinascente.
La croce e gli avvertimenti di Gesù ci insegnano che se c'è contro la grazia una lotta
benedetta e sacra, c'è anche una resistenza pericolosa, perché veramente efficace: essa
consiste nel rifiutare la lotta schivando l'incontro: è davanti a questo invincibile rifiuto che Dio
s'inchina. Questo non vuol dire che coloro che accettano la battaglia evitino sempre i peccati
gravi, anzi uno stato di peccato dietro al quale si metterebbe la propria anima al riparo come
all'interno di una fortezza. Nonostante tutto, a nostra insaputa forse, qualcosa in noi grida verso
il Liberatore, e di conseguenza... verso la lotta che questi ingaggerà con noi. È già l'inizio, ma nel
peccato, della divisione interiore di cui parla San Paolo: «Io sento due uomini in me...» (Rm 7, 14-
25). È l'inizio della salvezza.
L'isola di Réunion ha la fortuna di essere una delle terre più recenti del nostro pianeta. La
sua vicina, l'isola Maurice, è nata sei milioni di anni fa; Réunion ha soltanto tre milioni d'anni. È
tutta nuova. È costituita dai residui di due vulcani: uno in attività, il Piton de la Fournaise,
l'altro spento, il Piton des Neíges. Ai piedi di quest'ultimo tre cerchi giganteschi hanno
servito come rifugio, durante il XVIII e il XIX secolo, agli schiavi che fuggivano le proprie
condizioni di vita e si davano “alla macchia”. Anche per la strada ancor oggi si raggiunge
difficilmente il cerchio di Cilaos. Un villaggio, una chiesa, un antico piccolo seminario, delle
case, un convento di religiose, dove si insegna alle ragazze un po' d'artigianato per sopravvivere.
Se Réunion è geologicamente fresca, lo è anche nella spontaneità delle trovate dei creoli.
Sorprendente incrocio del mondo, dove la mescolanza delle razze riconduce all'essenziale.
A Cilaos, ai piedi del vulcano, le suore sono accoglienti con coloro che fanno tappa prima
di partire per una escursione. Una sera arriva un gruppo di studenti musulmani, sono molto
numerosi nell'isola. Non c'è alloggio. Nonostante si sia ai Tropici, fa freddo, data la quota.
Restano le suore. Proprio da loro si troverà come passare la notte. Li sistema suor Antonietta,
con il suo meraviglioso sorriso. Ma nella camera c'è un crocifisso. «Non potresti toglierlo di là?»
domanda uno dei giovani musulmani. Suor Antonietta conserva il sorriso. Risponde solamente:
«No, non lo toglierò. C'era prima di te. E poi non ti ha fatto nulla di male ed Egli ti ama».
Poche parole che dicono tutto di ciò che apre, e aprirà fino alla fine dei tempi, il
sacramento del Dio riconciliatore: «C'era prima di noi». Il perdono è anteriore alla nostra
risposta. L'episodio evangelico della cena di Gesù in casa di Simone con la peccatrice e anche la
parabola dei due debitori ce lo fanno comprendere. Non è per chiedere e ricevere il perdono che
la peccatrice agisce così con Cristo, ma perché ha già ricevuto il perdono. Cristo lo dice a
Simone: «Ella è perdonata perché ha amato» sottinteso: amando aveva accolto Cristo (Lc 7,44-
48). Nella parabola dei debitori, il padrone ha tutto condonato al servitore ancora prima di
sapere se quel debitore meritasse il perdono. Ora il debito rappresentava una somma enorme,
folle, l'equivalente di un miliardo. Il servitore è perdonato prima che si sappia se a sua volta è
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capace di rimettere a uno dei suoi compagni la somma di mille lire, irrisoria di fronte al proprio
debito. Il perdono era proposto prima ancora che il servitore si indurisse. E’la buona novella
portata da Cristo. Il perdono è già dato: «Dio non ha mandato suo Figlio per condannare, ma per
salvare».
Possiamo chiederci: ma in quale momento Cristo ci ha dato questo perdono?
Il Vangelo di Giovanni risponde ancora: «Chi crede, sfugge al giudizio» (Gv 3,17-19).
L'episodio della cena presso Simone, il fariseo, sottolinea che le tre realtà sono legate: la venuta
di Cristo, la confessione di fede e la confessione del peccato. In un certo senso, la peccatrice
chiede più che un perdono per il suo proprio peccato: accetta la venuta di Cristo nella sua vita. È
l'esperienza di tutti gli incontri del Vangelo, come è quella della vita di tutti i santi. È anche
semplice e chiaro in Zaccheo, in Pietro e in Paolo quanto in Francesco d'Assisi, in Ignazio di
Loyola o in Charles de Foucauld. Quando ricevono il perdono? Quando accettano l'incontro di
Cristo. Al di là del loro peccato, Cristo risponde ad un'angoscia e ad una insoddisfazione più
profonde.
Il momento in cui avviene l'incontro decisivo della fede è lo stesso in cui riceviamo il
perdono che, al di là dei nostri peccati, risponde all'angoscia fondamentale della nostra vita. È il
momento in cui accettiamo di essere riconosciuti per ciò che siamo, di essere amati come
siamo; il momento in cui accettiamo una luce creatrice di misericordia, venuta da un Altro, e in
cui riceviamo nello stesso tempo la sola vera liberazione. Questo momento è in genere sentito
come temibile. Il giovane ricco, Simone il fariseo, la suora trappista danno testimonianza:
ammettere la luce di un altro è forzatamente sentito come una certa morte di se stesso, come
la rinuncia ad essere la sola misura di se stesso, a non essere il solo punto d'appoggio. Allora
non c'è più distinzione tra questo momento decisivo della fede, consegna incondizionata di sé
in risposta ad una parola di misericordia, e il momento in cui riceviamo il perdono. È accettare la
venuta di Cristo che decide la fede e il perdono. In questo senso, confessarsi sarà sempre l'atto
di prova assoluta della fede, che riprende, di nuovo, durante la nostra attraversata del deserto,
l'atto iniziale con cui abbiamo aderito a Gesù Cristo perché «Egli c'era prima di noi», e noi
eravamo perdonati prima ancora di saperlo.
Il sospetto di Eva
Sant'Agostino si è confessato?
Per celebrare il centenario di Santa Caterina da Siena con i domenicani della regione
parigina, avevamo invitato al convento Régine Pernoud e un professore, uno «storico» di
professione. Régine Pernoud ci fece un ammirevole parallelo tra Caterina da Siena e Giovanna
d'Arco, mettendo in rilievo la somiglianza della loro lotta. Di ciò che disse il professore, ricordo
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soltanto delle approssimazioni sulla vita di penitenza di Santa Caterina, e questa allusione:
«Non dimenticate che Sant'Agostino non si è mai confessato». Ahimè! Che vuol dire questo?
Non lo so. Ma sappiamo che Sant'Agostino ha pianto a lungo.
Ci sarebbe anche da piangere davanti ai sunti pseudostorici di cui non abbiamo bisogno
per allontanarci dalla confessione. Come se fosse un progresso ritornare alla pratica per
tentativi del tempo di Agostino.
Quando la storia vuole legittimare il lassismo, certamente non è più “maestra di
sapienza” come diceva padre Congar. Essa usurpa un potere grave: abbandonare alla loro
miseria coloro che, nella confessione, avrebbero bisogno di essere amati nella loro stessa
miseria. E tutti, un giorno, rischiamo di farne parte. Poco tempo fa era una moda degli storici
prendersela con tutti i mezzi possibili con la confessione auricolare. Un giorno bisognerà
analizzare perché siamo progressisti in certi settori della pastorale e perché ritorniamo al
passato più incerto in altri.'
Qui io non ho che un problema. È sufficiente una sola domanda per misurare il valore
teologico di una dottrina su Cristo: si fa ancora di Cristo un mezzo? Così basta una sola
domanda per il sacramento della penitenza: «Di fronte alla Passione di Cristo, dove vi
situereste? Nel momento in cui è avvenuta la rivelazione ultima del Dio cristiano, mendicante e
disarmato, che cosa avremmo fatto noi? Di quale gruppo avremmo fatto parte durante la
Passione?».
Non possiamo pretendere di essere del gruppo di quelli che hanno seguito Cristo fino in
fondo. Non vorremmo, all'opposto, essere di quelli che chiedono, sopportano o tollerano che sia
crocefisso. Non vorremmo essere né Caifa, né gli scribi che vogliono la sua morte. Tremiamo di
essere con Giuda o con Pilato che si lava le mani.
Allora ci restano gli apostoli. Ma essi sono fuggiti. Grazie alla confessione, non rivendico
altro privilegio che quello degli apostoli: scoprirmi debole, fallire forse, ma in modo tale che la
debolezza stessa sia occasione di comprendere e di amare, infine, Gesù Cristo. Non voglio
pretendere altro che la debolezza umana, ma che almeno serva per essere condotti, come gli
apostoli, a scoprire Gesù Cristo, Figlio di Dio che ci rivela la beatitudine della dolcezza di Dio.
1. Si troverà una traccia di riflessioni ricche e utili nel libro collet tivo dovuto all'interesse verso il problema religioso -
segno felice e significativo dei tempi - da parte di giovani universitari francesi: Gruppo della Bussière, Pratiques de la con f
ession. Quindici studi di storia, prefazione di Michel Sot, Editions du Cerf, 1983.
L'interpretazione di questi studi sarebbe molto suggestiva. Potremmo domandarci perché la “pratica” cristiana, così
piena di forza religiosa e teologale per chi confessa, sembra talora lungi dall'essenziale quando è tradotta in categorie socio-
psicologiche: “pastorale della paura”, “strumento di potere”, “conflitto di competenza”, “contestazione”, “affermazione del-
l'individuo”, “oppressione delle coscienze”... B talmente vero .., che possiamo augurarci tanto più vivamente un approfondimento
di questi studi storici. E se non ci fosse che questo rovescio della mcdaglia? Chi dirà gli altri aspetti positivi del “segreto della
confessione “ nel passato? Abbiamo aperto questo libro ricordandolo. Avviene della confessione come della preghiera: è
impossibile e necessaria. Dio ha affidato la salvezza non alla nostra santità, ma alla nostra libertà. Quindi “questo accade”. L
sempre un miracolo. Abbiamo bisogno non tanto di competenza quanto di audacia... Dal curato d'Ars agli scioperanti di Danzica,
la storia della confessione lo prova bene. Sarebbe bene allora dare un seguito storico a questi studi sulla pratica di coloro che la
confessione non ha né oppressi, né spaventati, né repressi, ma liberati! Ma come parlare della “pratica” della confessione senza
confessare? E se la confessione e l'esame di coscienza individuale non avessero solo ristretto l'orizzonte dell'uomo occidentale,
ma lo avessero obbligato ad una sorprendente storia dei diritti della persona, cominciando dal diritto di essere personalmente
incontrato, riconosciuto e amato da Dio. È sorprendente che, per la pratica della confessione, si abbia così poco interrogato i
convertiti (grandi o piccoli) sulla liberazione di cui sono stati testimoni e sulla gioia di essere perdonati. Tale gioia esiste forse
quanto la paura nella storia della Chiesa. È vero che saremmo obbligati a constatare i limiti ancora troppo pesanti nei corsi di
studi teologici e pastorali dei chierici, che riducono a quasi nulla un'autentica teologia della misericordia (cfr. le nostre
osservazioni in Le Pouvoir du mal, ed. du Cerf, Parigi, 1976, pp. 91-123; 228-244; 255-271, e l'introduzione all'Enci clica di
Giovanni Paolo Il Dives in misericordia, ed. du Cerf, Parigi, 1980).
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Noi siamo fatti così: ci occorre ripetere un atto, anche facile, perché diventi più naturale
ancora. Che c'è di più semplice che “consegnarsi a Dio” ? E ci domanderemo ancora: una volta
consegnatici a Dio, che ci rimane da fare? Ebbene, bisogna ricominciare, perché non siamo
angeli, e consegnandoci a Dio una volta, non possiamo avere la chiarezza, la profondità e lo
spogliamento necessari perché non ci sia più bisogno di ricominciare sempre.
Il progresso della vita spirituale può paragonarsi a quello di un tuffatore che ricomincia
indefinitivamente lo stesso gesto perché gli diventi infine naturale, e non perché acquisisca non
si sa quale perfezione artificiale. È anche simile al progresso di un paralitico che impari di nuovo
a camminare: i primi passi sono più volontari, complicati e laboriosi del cammino semplice e
naturale a cui giungerà con l'esercizio.
Per chi sente la necessità, la nostalgia di giungere a una simile semplicità, la confessione
è il mezzo indispensabile di ripetizione e di rieducazione. Non c'è mai null'altro da fare di ciò che
si è già fatto: la luce ha fatto irruzione nelle tenebre, bisogna che altrettanto bruscamente, ma
sempre di più, e in modo sempre più definitivo, la stessa luce illumini le stesse tenebre.
Noi viviamo per un preciso progresso: quello del movimento, sempre lo stesso, che ci fa
passare dalla morte alla vita, ma che non ci ha fatto ancora sufficientemente passare dalla
medesima morte alla stessa vita.
La santità non è null'altro che questo passaggio, che, in sé e per sé, si compie in un batter
d'occhio, che è già compiuto per noi, ma che, a causa della natura umana, non lo è ancora
abbastanza. Aspirare alla santità è cercare ciò che abbiamo già; non è correre in tutti i sensi per
staccare una stella, è semplicemente imparare a respirare meglio partendo da una prima
respirazione.
Tutto l'ordine dei sacramenti dipende da questa funzione; chi non ha ammesso il mistero
di questa respirazione, artificiale all'inizio, e che deve diventare totalmente naturale - o più
esattamente soprannaturale - rischia di non comprendere la funzione della confessione e di non
trovare per essa nessun interesse.
«Non è poca cosa mettere al mondo e far nascere alla vita eterna il figlio di Dio!
Occorrono molti sforzi, uno sull'altro, e se almeno avessimo una visione chiara! Ma dobbiamo,
piangendo, lavorare a pieno ritmo nella notte, contro natura, nella fede pura! Ogni malato è
qualcuno, che partorisce sotto il nostro sguardo. Non è poca cosa spogliarsi della crisalide»
(Claudel).
Un discepolo andò, un giorno, a trovare il suo maestro e gli domandò: «Maestro, voglio
trovare Dio». Il maestro guardò il giovane senza dire nulla e gli sorrise.
Il giovane ritornò ogni giorno ripetendo che voleva la religione. Ma il maestro sapeva
meglio di lui a che cosa attenersi. Un giorno che faceva molto caldo, chiese al giovane
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di accompagnarlo al fiume per fare una nuotata. Il giovane si tuffò nell'acqua. Il maestro
lo seguì e lo tenne sott'acqua con forza. Il giovane si dimenò per un poco poi il maestro lo lasciò
e gli chiese di che cosa avesse avuto più voglia quando era sott'acqua:
«Dell'aria» rispose il discepolo.
«Desideri Dio nello stesso modo? - domandò il maestro - Se lo desideri così, lo troverai
subito. Se non hai questo desiderio e questa sete, avrai un bel lottare con l'intelletto, le parole e
le azioni, ma non potrai trovare la religione. Finché questa sete non è presente in te, non vali più
di un ateo. Anzi spesso l'ateo è sincero e tu non lo sei». (Vivekananda).
E queste pietre bianche rotonde che non possono entrare nella costruzione, chi sono,
signora?
«Ella mi risponde: - Fino a quando resterai così inetto, costretto a chiedere tutto? Sono
coloro che hanno la fede, ma che posseggono nello stesso tempo le ricchezze di questo
mondo. Quando sopraggiunge una persecuzione, le loro faccende e le loro ricchezze li
conducono a rinnegare il loro maestro.
«Signora, replicai, quando saranno dunque pronte alla costruzione?
«Quando le ricchezze che li seducono saranno state ridimensionate; allora tali pietre
potranno essere utilizzate. Come in realtà una pietra rotonda non può diventare quadrata senza
essere tagliata e senza perdere una parte di sé, così pure i ricchi di questo mondo non possono
diventare utili al Signore che dopo aver ridotto le proprie ricchezze». (Il pastore di Erma, II
secolo).
Un re convocò un giorno tutti gli artisti dei suoi domini e li invitò ad un concorso. Si
trattava di rappresentare il volto del re. Allora arrivarono gli indù con colori meravigliosi, con
ocre e blu di cui solo essi conoscevano il segreto; poi gli armeni con una creta di qualità
speciale; giunsero poi gli egiziani con sgorbie e forbici particolari e dei bellissimi blocchi di
marmo. Infine si presentarono per ultimi i greci, semplicemente con uno sacchettino di polvere.
Ogni delegazione venne chiusa per parecchie settimane nelle sale del palazzo. Poi, il giorno
fissato, il re venne e vide dapprima i meravigliosi quadri in ocra e blu degli indù, le crete
modellate dagli armeni e le statue degli egiziani, le une più belle delle altre. Infine entrò nella
sala dei greci. Questi non avevano fatto che una cosa: con la loro polverina avevano pulito e
lucidato la parete del marmo della sala dov'erano, in modo tale che quando il re si presentò, non
contemplò che una sola cosa: il proprio volto riflesso sulla parete.
Furono proprio i greci a vincere il concorso, poiché avevano compreso che solo il re
poteva rappresentare se stesso.
Così è di Dio e della sua presenza, se tu accetti le purificazioni della polvere degli
avvenimenti della vita (Al Ghazzali).
Dio non guarda ciò che si dona, ma ciò che si tiene per sé. (Sant'Ambrogio).
Il lavoro che Dio fa in noi raramente è ciò che ci aspettiamo. Quasi sempre lo Spirito
Santo sembra agire alla rovescia, sembra perdere tempo. Se il pezzo di ferro potesse concepire
la lima che lo sgrossa lentamente, quale rabbia e quale noia!
In questo modo Dio ci modella (Bernanos).
Questo va verso Dio e quello ne torna, perché ha le mani ingombre e non può prendere
ciò che Dio gli vuole donare (San Giovanni della Croce).
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La caccia ai topi
Radioscopia per un esame di coscienza
Abbiamo sete di felicità, ma abbiamo paura di aver sete, abbiamo sete di conoscerci, ma
temiamo ogni esame di coscienza.
Una signora arrivò un giorno dal curato d'Ars; dopo aver a lungo atteso gli disse la propria
gioia di poter infine conoscersi meglio grazie a lui, avendo sentito parlare della sua
chiaroveggenza. Il curato rispose: «Oh! Signora, come siete fortunata a conoscervi poco! Se vi
conosceste solo a metà, non potreste più sopportarvi del tutto...» Jean-Marie Vianney sapeva di
cosa parlava. Dopo aver pregato per ottenere il discernimento, aveva supplicato per non essere
condotto nella disperazione.
La luce da sola è troppo dura da sopportare. Non ci resta che chiedere a Dio: «Se
aumentate la luce, aumentate la grazia, cioè la vostra presenza» È ciò che chiedeva Pio V
dicendo: «Se aumentate la sofferenza, aumentate anche la forza».
E tuttavia il discernimento ci viene proposto. Dio non vuole operare senza di noi questa
riconciliazione che ha deciso di fare con noi. Cosa ci blocca?
Spesso pochissime cose. A noi e al nostro esame di coscienza capita come all'elefante e
al topo. I guardiani del serraglio o dello zoo sanno bene perché l'elefante, quando ha preso con
la proboscide la balla di fieno, agita vivamente la proboscide a sinistra e a destra. Il principale
nemico dell'elefante, animale noto per la sua intelligenza, non è gran cosa: un topo, il sorcio dei
campi che nascosto nel fieno risale nella proboscide dell'elefante e, mordendolo, lo fa im-
pazzire.
Noi siamo altrettanto intelligenti... ma anche per noi dei semplici topi rischiano di rendere
dure, folli e cieche le nostre “condotte”, le inclinazioni, i comportamenti, le “abitudini”, le
“passioni” di cui siamo padroni e che, tra noi e le cose, orientano e decidono le nostre azioni.
Un esame di coscienza individuale o collettivo passa forse dapprima attraverso l'umiltà di
una certa caccia ai topi... Ma chi ha abitato in baite di montagna sa che è impossibile essere al
sicuro dai topi. Bisogna sempre ricominciare. Né il grano avvelenato dei superiori, né la scopa
degli psicologi o dei regolamenti, né le trappole dei sociologi o delle buone risoluzioni sono
sufficienti: bisogna accettare instancabilmente di rimettersi a caccia. Ricominciare e sempre
ricominciare... Da un esame di coscienza a un altro esame di coscienza.
Nessuna radiografia è soddisfacente. Bisogna sempre riaprire la porta che si era
accuratamente chiusa e barricata con gli alibi migliori. Tutto va bene per ritardare la luce.
«Qualcuno bussa alla porta; e se fosse Gesù?». Lo spiritual negro non si sbaglia. Solo le parole
di Gesù possono arrivare nel momento giusto. Solo Gesù può prepararci a ricevere la sua luce.
Solo le sue frasi come «parole che colpiscono alla schiena» possono farci aprire la porta senza
ferirci.
«Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. Se
dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai. Io sono il tuo Dio. Tu sei prezioso ai miei
occhi. Non temere, perché io sono con te» (cfr. Is 43,1-5).
«Come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo architetto» (Is 62,5).
« Ho dissipato come nube le tue iniquità e i tuoi peccati come una nuvola. Ritorna a me,
perché io ti ho redento» (Is 44,22).
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«Ricordati Signore, del tuo amore, della tua fedeltà che è da sempre. Non ricordare i
peccati della mia giovinezza: ricordati di me nella tua misericordia, per la tua bontà, Signore»
(Sal 24,6-7).
«Se riconosciamo i nostri peccati, Dio che è fedele e giusto ci perdonerà e ci purificherà
da ogni colpa» (i Gv 1,9).
«Quale vantaggio infatti avrà l'uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la
propria anima?» (Mt 16,26).
«Chi si vergognerà di me e delle mie parole, di lui si vergognerà il Figlio dell'uomo»(Lc
9,26).
«Non vogliamo lasciarvi nell'ignoranza ... Perché non continuiate ad affliggervi come gli
altri che non hanno speranza» (1 Ts 4,13).
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«La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé: ...
“Riposati e fai festa” Ma Dio gli disse: Stolto questa notte stessa ti sarà chiesta la tua vita»(cfr.
Lc 12,16-21).
«Chi dice di essere nella luce e odia il suo fratello, è ancora nelle tenebre» (1 Gv 2,9).
«Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli» (1 Gv
3,14).
«Ascoltate questo, voi che calpestate il povero... Comprate con denaro gli indigenti e il
povero per un paio di sandali» (cfr. Am 8,4-7).
«Ascoltate: Dio non ha scelto i poveri nel mondo? Li ha fatti ricchi con la fede, eredi del
Regno» (cfr. Gc 2,1-9).
La legge del Regno: «Amerai il prossimo tuo come te stesso... Ma se fate distinzione di
persone, commettete peccato e siete accusati dalla legge» (Gc 2,9).
«Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa
contro di te, lascia lì la tua offerta...» (Mt 5,23-24).
«Se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi., anche voi dovete lavarvi i piedi gli
uni gli altri» (Gv 13,14).
«Guardati perciò dal rovinare con il tuo cibo uno per il quale Cristo è morto!» (Rm 14,15).
«Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo?
Tu perché giudichi il tuo fratello? E anche tu perché disprezzi il tuo fratello? Tutti infatti ci
presenteremo al tribunale di Dio» (cfr. Rm 14,4-13).
«... Non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento si riassume
in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L'amore è pieno compimento della
legge» (cfr. Rm 13,9-10).
4.
preghiere
Polvere quotidiana
Tu l'hai rialzato
Dona
Benedetto il Signore
41
Per quella breccia nell'essere incompiuto che noi siamo, aperta verso l'impossibile, e da
dove tu passi, Signore, qualche volta;
per la nostra debolezza incaricata di insegnarci l'indulgenza, e per quegli angoli profondi
della nostra sufficienza, che ci impediscono di aprirci, e di sprofondarci nell'accettazione
di noi stessi; per le ineguaglianze del mondo invano proposte alle compensazioni
dell'amore;
per il desiderio di Te che nulla può appagare, e che fonda la nostra libertà; per
l'incommensurabile distanza che ci separa dalla tua bellezza, e che supponiamo ti ispiri
la carità del tempo;
Signore, pietà di noi.
Per l'imperfezione che ci dispone alla preghiera, e per questa lotta spirituale
continuamente perduta e rinnovata che ci fa uomini;
per questo tratto di cammino davanti a noi su questa terra che ci è dato di fare con Te,
senza riconoscerti, e che tuttavia finisce ad Emmaus;
Cristo, pietà di noi.
Per quella parte di nulla che mi rende incomprensibile a me stesso e agli altri, ma non a
Te, che solo conosci il mio nome, per questo nulla donde io vengo, per questo nulla che è
il nostro proprio modo di essere infiniti, e che ci rende preziosi ai tuoi occhi;
Signore, pietà di noi.
Sì, per questo, e per tutto ciò di cui dimentichiamo di renderti grazie. Sii benedetto, Tu o
Signore, per il quale tutto è stato fatto.
Libero adattamento da AyDxú Fxossaftn, L'art de croire, Grasset, 1979, pp. 79-81.
42
In questo, o Dio, hai dato prova del tuo amore per noi:
Cristo è morto per noi mentre noi eravamo ancora peccatori.
Essendo tuoi figli, o Padre, coeredi di tuo Figlio
e, partecipando alle sue sofferenze,
avremo anche parte alla sua gloria.
Libero adattamento dai versetti tratti dal salmo 83 e dalla Lettera ai Romani.
44
Polvere quotidiana
Signore, non allontanarti da noi, perché siamo peccatori. O Dio dei peccatori quotidiani,
dei fiacchi, dei qualunque: i nostri peccati non sono straordinari, sono polvere quotidiana
e così comune che li dimentichiamo quasi, soprattutto se dimentichiamo te, il
Santissimo, e il tuo desiderio di possederci completamente. Dio dei peccatori, dei tiepidi,
degli indifferenti, abbi pietà di noi!
Vedi questo cuore che ti accorda il minimo, che non vuole consumarsi nel tuo amore.
Vedi queste preghiere: ti sono accordate con parsimonia e quasi contro voglia, e spesso
siamo contenti di passare dalla preghiera a qualcos'altro. Considera questo lavoro: è
talora mediocre, raramente ispirato dall'amore fedele verso di te. Ascolta queste parole:
di rado vengono da un cuore buono e amante che dimentica se stesso al tuo servizio.
Abbi pietà di noi, Dio longanime e amico dell'uomo!
Dio Santo, il tuo Figlio si è offerto in sacrificio per noi; per questo noi abbiamo l'audacia di
invocarti. Egli ha pagato il salario del peccato, la morte. Per questo nella vita non
disperiamo. Noi veneriamo il mistero che annuncia la sua morte fino al suo ritorno.
Mediante il sacramento nel quale è presente il Crocifisso risuscitato, noi ti preghiamo,
Padre misericordioso, abbi pietà di noi secondo la grandezza della tua misericordia. Il
nostro cuore loderà la tua bontà in eterno.
Tu l'hai rialzato
Signore,
noi cadiamo senza poterci rialzare
siamo paralizzati
incapaci di continuare.
Sostenuti dalla fede della tua Chiesa
noi veniamo verso di te
poiché chi può perdonare i peccati
se non Tu solo?
Rialzaci e guariscici
per la tua misericordia,
per Gesù, nostro fratello,
poiché Tu l'hai rialzato dalla morte,
Lui che vive presso di te
per questo mondo e per tutti i tempi.
DONA
Signore, guardami passando.
Fermati un momento nella mia anima, mettila in ordine con un soffio,
senza averne l'aria, senza dirmi nulla.
Se vuoi, Signore, che io creda in te, donami la fede.
Se vuoi, Signore, che io ti ami, donami l'amore.
Io non ho e non posso nulla.
Ti dono tutto ciò che ho: la mia debolezza e il mio dolore.
E quella tenerezza che mi tormenta e che Tu vedi bene...
E quella disperazione... E quella vergogna sconvolta...
Il mio male, null'altro che il mio male...
E’tutto.
E la mia speranza!
Talora anche mi presento a Dio come una portatrice di dolore, carica di tutti i fardelli del
vicinato, e gli dico: «Non fare attenzione a me. Non posso piacerti. Guarda soltanto le
sofferenze che ti porto come una povera commissionaria che viene da parte di altri. Ecco
il male di mio padre, ecco il dolore del mio amico, quello del tale o del tal altro».
Eccoti, mio Dio, Tu mi cerchi? Che cosa vuoi? Non ho nulla da darti.
Dall'ultimo nostro incontro, non ho messo da parte nulla per te.
Nulla ... non un'azione buona. Ero troppo stanco.
Nulla ... non una buona parola. Ero troppo triste.
Il disgusto di vivere, la noia, la sterilità.
- Dona!
- La fretta, ogni giorno, di veder la giornata finita, senza
servire a nulla; il desiderio di riposo lontano dal dovere
e dalle opere, il distacco dal bene da fare, la stanchezza
di Te o mio Dio!
- Dona!
- Il torpore dell'anima, i rimorsi della mia pigrizia e la
pigrizia più forte dei rimorsi...
- Dona!
- Il bisogno di essere felice, la tenerezza che spezza, il
dolore di essere senza aiuto...
- Dona!
- Dei fastidi, dei terrori, dei dubbi... - Dona!
Dio ha iniziato la nostra liberazione: ed ecco d'un tratto la nostra felicità, è vero!
La nostra bocca è piena di gioia! La nostra lingua si è messa a parlare da sola!
Le genti dicono intorno a noi: si può dire che Dio non bada a spese per loro!
Sì, non bada a spese per noi, e l'abbiamo sperimentato con gioia!
Inizia, Signore, la nostra liberazione come la pioggia!
Come pioggia a torrenti su una terra arida!
Benedetto il signore