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FABIO ROSINI

Solo l’amore crea


Le opere di misericordia spirituale

MARAPCANA.TODAY

Prefazione di
MONS. MATTEO ZUPPI

EDIZIONI SAN PAOLO


INDICE

PREFAZIONE

INTRODUZIONE

LA MISERICORDIA E I SUOI SURROGATI

La misericordia non è un sentimento

Amore “viscerale ” per l’altro

LE OPERE DI MISERICORDIA CORPORALE E SPIRITUALE

La misericordia: opera di Dio nell’uomo

Corpo e spirito

1 . CONSIGLIARE I DUBBIOSI

Una serie interminabile di bivi

La tentazione del serpente antico

Le certezze di chi dubita

La strada del consigliere

2 . INSEGNARE AGLI IGNORANTI

Il bisogno di sapere

L’edificazione dell’altro

Insegnare ed educare

Aperti sempre al nuovo

La sapienza che manca all’uomo

3 . AMMONIRE I PECCATORI
"Convincere di peccato"

Ammonire, non accusare: il dono dell’Intelletto

Timor di Dio e correzione

La correzione fraterna

4 . CONSOLARE GLI AFFLITTI

Il senso del dolore

Giobbe e i suoi amici

La vera consolazione: dare completezza

Consolati per consolare

5 . PERDONARE LE OFFESE

La necessità del perdono

Il fuoco dell’ira

Solo Dio può perdonare

Una storia meravigliosa di perdono

6 . SOPPORTARE PAZIENTEMENTE LE PERSONE MOLESTE

Un 'opera all'insegna della continuità

Dare all’altro il tempo di pentirsi

Il molesto, messaggero di Dio

Il “ritmo ” di Dio

7 . PREGARE DIO PER I VIVI E PER I MORTI

Parlare a Dio degli uomini

Un ’opera che sgorga dalla nostra impotenza

La sostanza di tutte le opere

Solo l'amore crea


Ringraziamenti

NOTE
PREFAZIONE

Queste pagine scritte, in realtà parlano. È proprio nello stile di don


Fabio, così diretto, esigente, chiaro da essere abrasivo, tenero da fare sentire
dolcemente capiti nel profondo, senza sconti e compromessi, come l’amore
di Dio, che sgombera il cuore da dubbi che lo fanno credere profondo e in
realtà lo paralizzano. Leggendolo sembra sentire la voce avvolgente di
Fabio che parla tra le righe del libro, frutto dei tanti incontri che
instancabilmente offre a molti, dimostrando che il problema non sono i
giovani ma la nostra timidezza e mediocrità. È rivolto a tutti, anche ai preti
e agli educatori che invece di legare a Cristo si preoccupano del loro ruolo e
della considerazione; ai genitori che scappano dalla responsabilità; ai
cristiani intossicati da luoghi comuni buonisti, surrogati e caricature di
sentimenti e scelte veri. La misericordia, infatti, è un’assunzione di Dio,
pagata a caro prezzo, che porta in alto, fa sentire davvero amati e insegna a
trovare risposte all’amore per l’altro, senza paure e falsi rispetti. La
misericordia libera dalla falsa religione dell’individualismo, per cui ti lascio
solo, magari con tanta buona educazione o con anonime e asettiche verità
virtuali. Misericordia è farsi carico dell’altro, scelta di Dio che diventa la
nostra scelta, mia e sua allo stesso tempo.
Il libro è un frutto di questo Anno Santo straordinario e ci aiuta a vivere
la misericordia tutti i giorni, facendoci sentire Dio che continua a
“misericordiare”, a scegliere noi di farlo con tutti, aprendoci gli occhi per
vedere e capire il mondo e il prossimo. Siamo aiutati a discernere, perché
non tutto è misericordia e questa non è ridotta a insipida melassa di buone
intenzioni, di mezze verità, di una facile e ingannatrice comprensione che
non sa indicare vie di liberazione e cambiamento! Fabio ci aiuta a
smascherare false identità e a riproporre, in maniera personale, le opere di
misericordia possibili a tutti. Unisce quelle corporali e quelle spirituali. Non
c’è distinzione e le une rimandano necessariamente alle altre, liberando
dalla tentazione di occuparsi dell’uomo solo per offrire alcune risposte al
corpo ma senza guardare e aiutare la persona e viceversa. Misericordia
senza paternalismi e sconti per attrarre qualche compratore poi
inevitabilmente deluso! «Chi mi sa dire tante cose belle forse non mi serve
a molto, ma chi mi sa insegnare a fare cose belle mi è veramente utile»,
perché «il centro della misericordia non è l’amante e i suoi sentimenti, ma
l’amato e il suo vero bene».
Non si può vivere, in realtà, senza misericordia, lasciare le cose grigie,
indefinite, rimandare, accontentarsi di essere spettatore, crogiolarsi su quel
divano da cui papa Francesco vuole fare alzare tutti perché non perdiamo la
vita e possiamo lasciare davvero l’impronta, la nostra impronta nella storia.
Ecco, la misericordia che ci aiuta a capire e a vivere don Fabio Rosini, è la
vera impronta che possiamo lasciare, nostra e di Dio. Perché «la felicità più
profonda, nella vita, è prendersi cura di qualcuno. Solo l’amore vero dà la
felicità vera».
C’è nella sua riflessione molta Parola di Dio e molta umanità, cioè il
terreno buono che il seme cerca perché possa dare frutto. E ringrazio Fabio
perché, attento ed esperto conoscitore della Parola, aiuta a comprenderla
non con inutili accademie, in astratto o con falsi moralismi, ma con la
sapiente umanità che questa richiede, perché essa è vita e cerca solo di
generare vita buona. La semplicità del discorrere è essenzialità raggiunta
disboscando da ritualità vuote; frutto di tanta preghiera, di ascolto,
dell’inquietudine di lavorare nella grande messe di questo mondo e di
parlare di Gesù, opportune et inopportune, ma sempre con tanta passione,
«esperto di umanità», come diceva Paolo VI. «La misericordia di Dio cerca
la nostra povertà e la ama. E la nostra povertà, una volta amata, diventa
misericordia».
Queste pagine ci aiutano a capire e a vivere quello che scrive papa
Francesco nell'Amoris laetitia: «La misericordia non è una proposta
romantica o una risposta debole davanti all’amore di Dio, che sempre vuole
promuovere le persone, poiché “l’architrave che sorregge la vita della
Chiesa è la misericordia. Tutto della sua azione pastorale dovrebbe essere
avvolto dalla tenerezza con cui si indirizza ai credenti; nulla del suo
annuncio e della sua testimonianza verso il mondo può essere privo di
misericordia”. È vero che a volte “ci comportiamo come controllori della
grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa
paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa”» (n. 310).
Questo libro ci aiuta a conoscere e a fare conoscere a tanti non in astratto
ma con le “opere” la bellezza di questa casa. È fare misericordia.
Scrivo queste parole il giorno della memoria di san Francesco, uomo di
umanissima e fortissima misericordia per tutti e proprio per questo capace
di trasformare il lupo in una compagnia amata dalle sue stesse vittime e
riconciliata con loro. Nelle Ammonizioni, che ci riportano l’eco dei discorsi
che negli ultimi anni di vita egli ten ai suoi frati, è scritto: «Dove è carità e
sapienza, / ivi non è timore né ignoranza. / Dove è pazienza e umiltà, / ivi
non è ira né turbamento. / Dove è povertà con letizia, / ivi non è cupidigia
né avarizia. / Dove è quiete e meditazione, / ivi non è affanno né
dissipazione. / Dove è il timore del Signore a custodire la sua casa, / ivi il
nemico non può trovare via d’entrata. Dove è misericordia e discrezione, /
ivi non è superfluità né durezza».

MONS. MATTEO ZUPPI


Arcivescovo di Bologna
Ho scritto questo libro nella prima estate in cui
non ci sono né mio padre né mia madre.

Questo libro è dedicato a loro,


che mi aspettano in cielo,
e che mi hanno aspettato tanto,
troppo, anche qui sulla terra.

Da loro ho avuto tante buone certezze,


i migliori insegnamenti,
eppure con loro sono stato ignorante e cattivo,
li ho addolorati, offesi e spazientiti.

Ma nessuno ha pregato per me più di loro.

I conti non tornano.


INTRODUZIONE

In punta di piedi, sperando di non importunare nessuno, ho preso il


coraggio di parlare delle opere di misericordia spirituale. L’ho fatto in una
serie di trasmissioni alla Radio Vaticana, mentre le spiegavo anche ai
giovani della Diocesi di Roma, in una esperienza mensile concordata con
alcuni vice-parroci. Oggi queste opere sembrano discutibili, futili, se non
riprovevoli. Siamo nel tempo della prassi, dell’efficientismo, del servizio di
sostanza, delle ONLUS, del volontariato, delle ONG, dei risultati, delle
statistiche...
Forse possiamo serenamente mettere in cantina, nel ripostiglio del
“religioso”, queste tracce di spiritualità, di cui questo meritevole mondo di
attivismo sociale fa tranquillamente a meno.
Un mio amico mi raccontava che la vigilia di Natale era andato a portare
assistenza ad una serie di senza-tetto romani, insieme ad altri operatori
simpatizzanti di un movimento cattolico. Finito il giro notò che faceva
ancora in tempo a venire alla S. Messa di mezzanotte e allegramente sbottò:
«Che bello! Ce la facciamo ad arrivare per la Messa!». Gli altri quattro in
macchina si erano voltati attoniti: «La Messa?!». Non era nei loro
programmi. Non li interessava. Erano simpatizzanti del movimento
cattolico, ma non andavano a Messa, neanche a Natale. Il Natale lo avevano
appena fatto visitando i senza-tetto, rinunciando al cenone in famiglia.
Forse hanno ragione loro. Forse non c’è bisogno di alcuna opera di
misericordia spirituale, né di preghiera, né di Messe di Natale. O forse no.
Sono stato parroco, e sono stato spesso presso i letti dei morenti. Ho
cercato di celebrare la quasi totalità dei funerali dei parrocchiani, cedevo
solo se proprio non potevo essere presente, perché lì celebravo molto
volentieri. È una prospettiva che mi ha scavato dentro, illuminato, fatto
camminare nel cuore. Il momento in cui tutto si azzera, in cui le amicizie, le
relazioni familiari appaiono nude, azzime. Il dolore è autentico e non puoi
dire stupidaggini. Sarà perché la mia prima omelia l’ho fatta al funerale di
mio fratello morto in un incidente aereo, sarà perché il primo sacramento
che ho amministrato da prete è stata l’unzione degli infermi a mio padre che
aveva lasciato degenerare un tumore allo stomaco pur di essere presente alla
mia ordinazione il giorno prima, e andava a farsi togliere lo stomaco ormai
compromesso, ma ringrazio Dio per avere questo parametro: ciò che fa
soffrire di più non è il corpo ma il cuore. Non è il dolore ma il non senso.
Non è la morte ma la solitudine.
Le opere di misericordia spirituale si occupano del cuore, del non senso,
della solitudine.
Qualcuno in passato ha pensato che la cosa più urgente per l’uomo sia il
soddisfacimento dei suoi bisogni materiali. Per averlo ascoltato abbiamo
dovuto raccogliere i pezzi di intere società disumanizzate perché de-
spiritualizzate.
Di questi tempi davanti alla mia chiesa c’è stato un barbone bulgaro. Gli
avevo chiesto cosa volesse, mi è sembrato di capire che volesse tornare a
casa da sua madre. La mia conoscenza della lingua bulgara ha i suoi limiti.
Gli ho organizzato il viaggio. Dopo una decina di giorni era tornato. Allora
sono arrivati degli splendidi ragazzi della Caritas Diocesana, ci hanno
parlato. Lo hanno portato all’ostello. E così ha avuto un letto per dormire e
un luogo per lavarsi e mangiare. Talvolta dormiva da loro, ma poi scappava
e si piazzava daccapo davanti alla mia chiesa. Mi salutava allegro
chiamandomi per nome ogni volta che entravo o uscivo. Mi chiedeva molto
poco, era quasi sempre ubriaco.
Non capisco un’acca di bulgaro ma ce l’ho fatta a capire cosa volesse.
Che mi fermassi a parlare con lui. Che sapessi il suo nome. Si chiamava
Gheorghi. L’altro giorno lo hanno fatto partire con l’aereo per la Bulgaria,
una seconda volta. Non so se tornerà ancora.
Non è facile chiacchierare con Gheorghi. Per questo ho scritto questo
libro.
LA MISERICORDIA E I SUOI SURROGATI

Partiamo dal farci qualche domanda: quale è il nostro bilancio a riguardo


dell’amore compassionevole? Raggiungiamo un quorum soddisfacente di
misericordia? Il mondo di cui facciamo parte possiede il numero legale per
dirsi un mondo misericordioso? Sicuramente è un mondo che parla molto
dei buoni sentimenti, che celebra la generosità, che sbandiera solidarietà,
tolleranza, accoglienza. Nello stesso tempo lamenta ingiustizia, denuncia
crudeltà e oppressione. E addirittura esistono due spettacolarità
contrapposte, “social” da una parte, “horror” dall’altra.
Prendiamo atto di essere in un mondo confuso, contraddittorio, che con
una mano dà e con l’altra prende, con una cura e con l’altra squarta.
Questo vuol dire che siamo di fronte alla lotta fra il bene e il male, e
quindi fra misericordia e crudeltà? I buoni e i cattivi?
Il Salmo 136, come vedremo, ripete una frase frequentissima nella
Bibbia: «perché eterna è la sua misericordia». Esiste la sua misericordia,
quella di Dio, che è eterna. E ne esistono altre, che di eternità sanno poco.
Hanno limiti, terminano. Si possono sconfiggere, le si spezza. Misericordie
incomplete. Frattaglie di misericordia. Sentimentalismi, assistenzialismi,
buonismi. Si infrangono contro il muro del giustizialismo, approdano allo
slogan del: «Questo è troppo!». E falliscono.
Nel frattempo il male non è mai del tutto tale. Ha motivi, parte da
rivendicazioni, è frutto di una storia. Curioso: in genere è intessuto di
giustizia, ha una storia da raccontare, ha una rabbia che lo auto-giustifica. È
animato da un sentimento di rivalsa, ricorda un amore spezzato, un bene
frantumato, una vita derubata.
Sentimenti. Poderosi, violenti. Prendo un mitra e ammazzo tutti perché a
11 anni mi hanno schiantato di bullismo. Prendo un aereo e abbatto un
grattacielo, perché avete bombardato il mio villaggio. Allora ti prendo io, a
te e a tutti quelli della tua risma, ti metto a Guantanamo e ti interrogo per
180 ore, con una cella gelata e il waterboarding. Ho ragione. Sto facendo la
cosa giusta. Gott mit uns.
Quale è la l, il fulcro di tutto ciò? Niente buoni e cattivi. Solo visioni
parziali, unilaterali, disintegrate, individualiste, anche se buonine.
Quello di cui dobbiamo parlare è ben altra roba. Si chiamano opere di
misericordia, o anche opere di vita eterna. La parola “eterna”, in greco aiôn,
in ebraico olam, in tutte le lingue implica un significato di completezza, di
assenza di limite, con accezione di intierezza. Opere complete. Misericordia
senza errori nel codice sorgente. Quali errori? Vediamo.

La misericordia non è un sentimento

L’amore non è un sentimento. No, non lo è. In sé sarebbe un atto.


Essendo la cosa più complicata e più profonda che un bipede possa fare,
l’amore ingarbuglia tutto l’uomo e quindi anche i sentimenti, ma se fosse
solo un sentimento obbedirebbe ai confini dei sentimenti. E invece l’amore
spesso chiede di viaggiare anche in altri territori. Come tutte le volte che si
fa qualcosa che non si ha nessuna voglia di fare, ed è solo per l’altro, per il
suo stretto bene. No, cullare un bambino che ti sveglia per la quarta volta
nella stessa notte, ove quella sia la quinta notte consecutiva di questa solfa,
non lo si fa in forza di un sentimento, lo si fa solo per la creatura.
Sentimenti? Non pervenuti dalla seconda notte in poi. Forse il sentimento di
stupore per non aver soppresso l’infante, mi dicono.
Anche la misericordia patisce queste false identità. Come succede spesso
con i capisaldi della vita cristiana, fra comprensioni generiche,
inconsapevoli scorciatoie logiche e la tendenza alle piccole superficialità, la
questione va perlomeno messa in discussione. Sarà meglio attingere ai dati
genuini e primordiali delle Sacre Scritture.
E qui prendiamo umilmente atto che la misericordia è un argomento
troppo vasto per essere circoscritto. Rassegniamoci: potremo solo
individuarne le caratteristiche principali. Due, vedremo.
Che cos’è la misericordia nella Scrittura? Se pertinacemente reputiamo
che sia uno stato emozionale/interiore di chi la prova, un senso di pietà, di
perdono e di accoglienza che si rivolge all’altro quando è bisognoso o
quando è nell’errore, siamo fuori mira. Secondo questa linea Dio, in primis,
sfodererebbe questa attitudine quando si è in certe situazioni, ossia quando
ad esempio si è in difetto. Lui userebbe essere misericordioso e perdonare
di fronte all’errore e alle debolezze umane. Dicono. Tale perdono, a ben
vedere, sembra una specie di condono edilizio ad opera della pazienza di
Dio. L’uomo sbaglia e però Dio perdona.
Poi noi, a nostra volta, dobbiamo essere misericordiosi. Come? Per
coerenza, obbedendo ad una nobile sorta di dovere e con l’impegno della
volontà. Buonanotte ai sentimenti. Il rischio minimo, visto il
coinvolgimento del verbo dovere, è di suonare falsi, se è vero che la
misericordia è un moto del cuore.
Riduttivo. Fuorviante. Da dove possiamo ripartire?
I termini fondamentali che esprimono la misericordia nell’Antico
Testamento si rinvengono in un testo imprescindibile del capitolo
trentaquattresimo del libro dell’Esodo, dove il Signore proclama il proprio
Nome con un’abbondanza di attributi inaudita fino a quel momento nella
Scrittura.
L’antefatto immediato riguarda Mosè, l’uomo che ha vissuto una
straordinaria rivelazione di Dio e del suo nome, e sulla base di questa
rivelazione ha vissuto un’opera epica, quella della liberazione del popolo
dall’Egitto. Arrivati ai piedi del monte Sinai, dopo l’apertura del Mar Rosso
e il cammino nel deserto, viene stipulata un’alleanza. Questa alleanza viene
subito tradita dal popolo - ricordiamo il vitello d’oro - e bisogna ripristinare
lo stato dei rapporti fra Dio e il popolo. Vengono forgiate nuove tavole di
pietra con le Dieci Parole dell’alleanza, quindi siamo pronti perché il
Signore passi davanti al popolo e a Mosè proclamando il suo nome, perché
dal suo nome deriva la potenza di fare nuove le cose e ristabilire ciò che era
rotto. Il testo recita: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso,
lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per
mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma
non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli
dei figli fino alla terza e alla quarta generazione»{1}.
Misericordioso, pietoso, lento all’ira, ricco di grazia e di fedeltà. Questa
è la sua carta d’identità. Come già detto, il Dio della Bibbia non era stato
mai così loquace sulle sue proprie attitudini. Pensiamo ad esempio
all’espressione: «lento all’ira». Proviamo a mettere il tachimetro ai nostri
scatti d’ira...
«Ricco di amore e di fedeltà»: Dio è ricco, ricco d’amore, dirà san
Paolo: «Dio ricco di misericordia»{2}. È la sua ricchezza. C’è gente che è
ricca di qualità, di idee, di beni, di soldi, Lui è ricco di misericordia.
Quando vuole parlare di se stesso, non dice: «Quanto sono forte, quanto
sono bravo, quanto sono bello, quanto ho ragione». Lo potrebbe ben dire,
invece afferma: «Io sono misericordia», «Sono pazienza, sono ira pigra». E
capiamo una cosa grossa: che fra l’identità di Dio stesso e la sua
misericordia, la sua pietà, la sua grazia e la sua fedeltà, c’è perfetta
coincidenza. Dio non è misericordioso qualche volta, quando serve: la sua
natura è la misericordia. È così da fermo.
Stonerebbero però quelle altre espressioni che vengono di seguito e
parlano di “punire” e “castigare”, perché? Cosa c’entrano con la
misericordia? Una cosa per volta.
Due termini ebraici fondamentali, i primi due attributi usati in questo
testo, ci danno la chiave per intendere le linee bibliche sulla misericordia.
Il primo, tradotto nella nostra versione come “misericordioso”, in
ebraico hesed, è il termine più usato nella Bibbia per indicare l’amore di
Dio, la sua tenerezza, la sua postura di fronte all’uomo. Che cos’è la hesed?
Ad esempio il già menzionato Salmo 136 ripete, come dicevamo, una
quantità ossessiva di volte, ventisei, la stessa frase, che in ebraico suona kì
leolam hasdò: «... perché eterna è la sua misericordia», in alcune
traduzioni: «perché eterno è il suo amore».
Si parla di una serie di cose che Dio fa «... perché eterna è la sua
misericordia». Ad esempio nei primi versetti: «Lodate il Signore perché è
buono: perché eterna è la sua misericordia. Lodate il Dio degli dèi: perché
eterna è la sua misericordia. Lodate il Signore dei signori: perché eterna è la
sua misericordia. Egli solo ha compiuto meraviglie: perché eterna è la sua
misericordia». Fin qui niente di sconcertante. Ma prosegue: «Ha creato i
cieli con sapienza: perché eterna è la sua misericordia. Ha stabilito la terra
sulle acque: perché eterna è la sua misericordia»{3}. Egli ha creato il
mondo... per misericordia? Se la misericordia è intesa come risposta al
peccato e alle miserie dell’uomo, di che parliamo qui, visto che l’uomo non
è stato ancora creato? La misericordia viene dunque messa in relazione con
la creazione. Questo ci è meno chiaro.
Più avanti, il Salmo dice: «Percosse l’Egitto nei suoi primogeniti:
perché eterna è la sua misericordia. Da loro liberò Israele: perché eterna è
la sua misericordia»{4}. Nella liberazione Lui stava esercitando il suo amore
misericordioso. Lo capiamo di più perché c’è l’esperienza di redenzione
dall’oppressione del peccato, dal male. Dio libera il suo popolo da questa
miserabile condizione «... perché eterna è la sua misericordia». Ha guardato
la miseria di un popolo oppresso. Ci torna di più.
Ma andiamo avanti con questo Salmo e scopriamo, alla fine, che: «Egli
dà il cibo ad ogni vivente: perché eterna è la sua misericordia»{5}. Ossia
Dio opera anche oggi, provvedendo alle creature, secondo misericordia,
come ha creato il mondo secondo misericordia e redime il suo popolo
secondo misericordia.
Tre snodi fondamentali: la Creazione, la Redenzione e la Provvidenza. Il
mondo è creato dalla misericordia, il popolo sperimentò la liberazione per
misericordia e il mondo è sotto una misericordiosa conduzione della storia
presente. Di che cosa parliamo se tocchiamo la creazione, la redenzione, la
provvidenza? Grossomodo parliamo... di tutto.
Dio sta sempre operando secondo misericordia perché la misericordia è
la sua natura. Se vogliamo dunque capire questo termine dobbiamo
affermare che è l’amorevolezza di Dio che però si esplicita nella fedeltà e
nell’operatività: Dio sfodera la sua hesed, la sua misericordia, facendo
qualcosa con noi. Non sta provando un sentimento occasionale, è l’impulso
che guida OGNI sua opera, tutto ciò che fa per l’uomo. È una tenerezza
fedele, che governa, porta avanti, crea, guida la storia. È la sua premura per
l’uomo che è collegata alla sua fedeltà che Lui è e ha verso di noi. Questo
termine quindi ci pone di fronte a un Padre che non ci abbandona, un Padre
misericordioso qualunque cosa faccia con noi, iniziamo a capire che anche
quando ci corregge, ci dice dei no, anche quando ci rimprovera, si sta
occupando di noi. L’amore, la misericordia, appare qui come un dato
operativo non sentimentale, impatta sui fatti, non resta al cuoricino di chi è
misericordioso, ma tocca efficacemente la vita di chi è oggetto della
misericordia.

Amore “viscerale ” per l’altro

Passiamo al secondo termine usato in Es 34,6: il lessema raham, meno


usato di hesed ma altrettanto fondamentale nella Scrittura. Viene dal verbo e
dal sostantivo relativi a “viscera”, “utero”. È un tipo di amore legato alla
capacità di gestare. Siamo passati dunque da un aspetto paterno/maschile, la
premurosa tenerezza virile, a un termine tipicamente materno/femminile
dove compare la capacità di concepire la vita.
Dobbiamo smarcarci dalla nostra mentalità, dove il termine
“misericordia” è collegato alla parola “cuore” - in latino mìsereor (pietà) e
cor-cordis (cuore) - e quindi relativizzare la nostra visione legata a
quest’organo, il cuore, che pulsa, batte, che nell’emozione accelera ma nello
spavento si ferma.
Salpando dal nostro approccio cardiaco alla misericordia entriamo nella
lingua ebraica dove si fa uno sull’unico organo umano capace di “gestare”
la vita. È l’organo umano dedicato completamente alla vita di qualcun altro,
che inaugura quella specifica cura tutta femminile, quell’irripetibile
splendido tratto materno che è la capacità di custodire la vita, alimentarla,
prendersene cura, “coccolarla”, da cui deriva che nella storia le donne
abbiano ucciso sempre meno degli uomini. La donna non possiede la forza
fisica dell’uomo, non corre veloce come l’uomo, non salta più in alto
dell’uomo. Ma mentre all’uomo è riservata la caratteristica della
fecondazione, del far partire, del saper innescare, ed è la sua genialità, di
contro la capacità di accogliere, gestare, allevare, custodire, crescere è tutta
femminile. L’uomo può concepire di uccidere, per la donna è molto più
difficile - a parte la moderna terrificante piaga dell’aborto che apre un
capitolo inaudito nella storia dell’umanità.
L’amore di Dio, sorprendentemente, è viscerale, di certo non nel senso di
essere irruente o riferibile alle emozioni, ma di essere analogo a ciò che
nelle viscere femminili genera l’altro. L’amore è ciò che fa rinascere l’altro.
Se abbiamo sperimentato il perdono di Dio riguardo a un peccato grave, ci
rendiamo conto che questo perdono non è solo assoluzione da una colpa, ci
fa rinascere, ci fa ripartire. Rende tutto nuovo.
La misericordia di Dio ha in sé sia la paternità sia la maternità. Un passo
della Scrittura dice: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da
non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si
dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai»{6}. Il Salmo 103 dice:
«Ha rivelato a Mosè le sue vie, ai figli d’Israele le sue opere. Buono e
pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell'amore. Egli non continua a
contestare e non conserva per sempre il suo sdegno. Non ci tratta secondo i
nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe. Come il cielo è alto
sulla terra, così è grande la sua misericordia (hesed) su quanti lo temono;
come dista l’oriente dall’occidente, così allontana da noi le nostre colpe.
Come un padre ha tenerezza (raham) dei suoi figli, così il Signore ha
tenerezza di quanti lo temono»{7}. Qui, Dio porta avanti con noi un’opera:
allontanare le nostre colpe. È tenero perché sa di cosa siamo plasmati e
ricorda che siamo tanto fragili.
La misericordia non è quel tipo di realtà che ha come tema lo stato
d’animo di chi ama, ma è centrata sulla vita di chi è amato. L’amore è
un’opera, non un moto interiore, se rimane tale è un’inclinazione senza
verità, senza realtà, senza obbedienza alle reali necessità dell’amato.
L’amore fa il bene dell’amato, con robustezza paterna e tenerezza materna
prendendosi cura dell’altro provvedendo, generando, curando, dando nuove
prospettive, nuove possibilità. L’amore di Dio è così, è un amore che sa di
cosa sei fatto, quanto sei debole, perché sei caduto e a te provvede
allontanandoti dalle tue colpe.
Questo vuol dire che Lui ti dà sempre ragione? Assolutamente no!
L’amore, per esempio, corregge, ce ne dà testimonianza il Deuteronomio al
capitolo ottavo: «Riconosci in cuor tuo che, come un uomo corregge il
figlio, così il Signore tuo Dio corregge te»{8}. Per questo capiamo come mai
Dio nel capitolo trentaquattro dell’Esodo rivela il suo amore, rivela un
amore che non ci lascia a noi stessi, un amore che ci porta a essere curati da
Lui, corretti da Lui. Ecco perché: «non lascia senza punizione, castiga la
colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta
generazione»{9}.
In modo arcaico ma profondo, considerando quanto la correzione di una
struttura storta sia difficile, questo testo esprime la necessità di non leggere
mai un problema umano come un problema individuale. Oggi la moderna
psico-dinamica sta sempre più prendendo atto che un disagio è sempre
sociale. Mi diceva un amico psicoterapeuta: «Per aiutare un disagio di un
ragazzo dovrei mettere in terapia tutta la famiglia, dal bisnonno se fosse
vivo, in giù, e poi tutti i compagni di classe e i coinquilini del suo palazzo...
Noi lavoriamo come se esistesse un disagio decontestualizzabile!».
Sia come sia, abbiamo bisogno di una costante terapia di correzione e di
crescita.
È interessante notare che, nel Nuovo Testamento, il canto della Beata
Vergine Maria, il Magnificat, è un canto all’opera di Dio, al suo braccio
sfoderato e su come operi. Questo testo proclama la misericordia di Dio,
citandola in apertura e chiusura della parte del canto che descrive lo stile di
Dio nel portare avanti la sua opera. Maria parla con Elisabetta e canta: «L
’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio
salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le
generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me
l’Onnipotente e Santo è il suo nome». Ora entra nello specifico di come il
Signore faccia le sue grandi opere: «di generazione in generazione la sua
misericordia si stende su quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del
suo braccio, ha disperso i superbi nel loro cuore, ha rovesciato i potenti dai
troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato
i ricchi a mani vuote. Ha soccorso Israele suo servo, ricordandosi della sua
misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua
discendenza, per sempre»{10}. La misericordia dunque include questa
seconda parte del testo e ha uno stile. Quale? «Ha spiegato la potenza del
suo braccio, ha disperso i superbi nel loro cuore, ha rovesciato i potenti dai
troni, ha innalzato gli umili». La misericordia è allora quella che rovescia i
potenti dai troni? È quella che disperde i superbi nei pensieri del loro cuore?
Nella vita, se Dio non permettesse certe umiliazioni, certe amarezze, chi
potrebbe fare un passo indietro e dire: «Che cosa ho fatto? Ma come sto
vivendo?». Chi sarebbe mai ri-entrato in se stesso, se la vita non ci avesse
contestati, smascherati senza sconti?
La misericordia tiene a me, sa quanto sono prezioso, non mi molla.
Cerca quell’unica pecora che si è persa e va cercando finché non la trova.
Dio non vuol perdere un solo uomo e non c’è nessuno per il quale Dio dica:
«Senza di te è lo stesso, si può fare anche senza di te». Quante persone
abbiamo lasciato per strada nella nostra vita? Abbiamo detto: «Con quello lì
ci siamo persi, pazienza». Dio non fa così, la sua misericordia è costante,
fedele. Una madre, se un figlio risulta disperso, mica si rassegna. Lo cerca.
In tutti i modi.
La misericordia di Dio è quella che ci consolerà quando ne avremo
bisogno, ma sa schiaffeggiarci, sa correggerci, sa prendersi cura di noi
mettendosi contro di noi.
Le persone che ci hanno fatto del bene forse ci hanno dovuto parlare con
la dovuta durezza. L’amore non è un mollusco! L’amore è forte, potente,
incide. Se l’amore fosse un sentimento, non muoverebbe nulla, resteremmo
tutti in una brodaglia di stati d’animo. Un amico vero ti vede come sei o
cosa fai e resta estraneo? Non ti contesta se ti serve? Non si sporca le mani
con te? Chi è un buon padre? Quello che concede tutto o quello che, senza
esasperare, sa correggere i propri figli e portarli al loro vero bene?
Una volta parlavo con degli adolescenti delle tentazioni di Cristo nel
deserto e del fatto che nel caso del pinnacolo del tempio, siamo tutti
fotografati nella pretesa che Dio si muova con i nostri tempi, che faccia
sempre quello che gli chiediamo. Una ragazza di quattordici anni alla
domanda: «Che cosa penseresti se tuo padre facesse sempre quello che gli
chiedi?» stette un momento zitta e poi mi rispose: «Che non mi vuole più
bene». Aveva ragione. Chi ti vuole bene ti dice «no». Chi ti vuole bene ti
contesta, ti corregge. Logicamente non fa solo questo, ma sa farlo quando
ce n’è bisogno.
La misericordia di Dio è la sua cura della nostra vita, perché la
misericordia è la premura per qualcun altro, è la ricerca del bene di qualcun
altro. La misericordia impone che uno sappia con tenacia e tenerezza
cercare il bene per l’altro, accompagnare l’altro al suo aspetto più bello,
sostenere verso il bene le persone, guidarle, se opportuno.
Chi mi sa dire tante cose belle forse non mi serve a molto, ma chi mi sa
insegnare a fare cose belle mi è veramente utile.
No, nessun dubbio: la misericordia è un atto, è un’opera, è una sapienza,
una cura, una sana apprensione per l’altro che non molla fino a quando non
ha aiutato l’altro verso il buon risultato. È saper accogliere, e quindi
guardare, e gridare se ce n’è bisogno, saper dire di no oppure di sì, non
dipende da ciò che “sente”, ma da quello che serve di più.
Il centro della misericordia non è l’amante e i suoi sentimenti, ma
l’amato e il suo vero bene. Se resta solo l’amante è narcisismo, è estetica.
Dio ci ama correggendoci quando ne abbiamo bisogno, consolandoci
quando ne abbiamo bisogno, avallandoci quando ne abbiamo bisogno e
mettendoci davanti dei muri se ne abbiamo bisogno. Lui sa di che cosa
siamo plasmati, sa che senza di Lui non ce la facciamo. Come un padre
corregge i suoi figli, e come una madre è sempre un “sì” per la nostra vita,
qualunque cosa abbiamo combinato.
E soprattutto Dio non si scoraggia mai e non molla la presa «... perché
eterna è la sua misericordia».
Ma questo dove ci porta? Paternità che provvede, maternità che genera.
Queste sono prerogative che hanno a che fare con la vita. Non sono
categorie etiche ma biologiche o esistenziali. Nascere, esser cresciuti,
preservati, curati, guariti, sanati, protetti, guidati.
L’ottica è quella di chi tiene per mano e conduce un bimbo, il suo bimbo.
Frutto delle sue viscere, pupilla dei propri occhi. Questo è il Dio della
Bibbia, non una potestà divina generica, qualsiasi, ma il Dio della vita. La
misericordia di Dio indica un nesso essenziale del tutto: la vita. La vita
dell’uomo è preziosa. Nasce in Dio e solo Dio possiede le caratteristiche di
colui che fa sorgere e guida la vita.
Dire che la misericordia non è un sentimento non è solo per dare una
definizione che ci salvi dall’emotività, ma perché dobbiamo aprirci ad una
dimensione più profonda. Non si può copiare la misericordia, perché non si
può lavorare di analogia sulla vita. Quale sarebbe l’analogia della vita?
Proviamo ad analizzare la frase del Vangelo di Luca che ci incastrerebbe
in una apparente attività mimetica: «Siate misericordiosi, come il Padre
vostro è misericordioso»{11}.
Prima dell’attività analoga a quella di Dio viene la relazione con Dio:
una relazione filiale. La misericordia non sorge dall’uomo ma dalla
relazione con Dio.
In un libro non si può fare, ma qui ci sarebbe da ripetere almeno cinque
volte questa frase.
La misericordia non sorge dall’uomo ma dalla relazione con Dio.
La misericordia non sorge dalla mia volontà ma dalla mia relazione con
Dio.
La misericordia non sorge dalla mia psicologia ma dalla mia relazione
con Dio.
La misericordia non sorge dalla mia energia ma dalla mia relazione con
Dio.
Si può fare? L’editore, nella sua saggezza, lo permetterà? La
misericordia, essendo intessuta di capacità di generare e condurre la vita,
deve avere, come la vita, la sua sorgente in Dio.
Ecco perché falliamo.
Perché partiamo da noi stessi.
Ecco perché ripetere in modo ossessivo che la misericordia non è un
sentimento, perché non è una prerogativa o caratteristica personale ma il
frutto di una relazione.
E quindi? La misericordia di cui parliamo non è un’opera umana, quella
umana l’abbiamo descritta ad inizio di capitolo come incompleta, parziale e
fallimentare. Ciò di cui dobbiamo parlare è il frutto di una sinergia, o,
meglio ancora, è un’opera di Dio nell’uomo - ma non è una magia, implica
il suo assenso, la sua adesione. Le opere di misericordia sono
attualizzazione di una virtù teologale, la carità. Sono l’opera dello Spirito
Santo in noi. Altrimenti non parliamo di opere di vita eterna.
Infatti nel trattare le singole opere di misericordia spirituale dovremo
focalizzare i surrogati, le para-opere, la misericordia tarocca. È la più
diffusa. Quella vera è rara assai.
LE OPERE DI MISERICORDIA CORPORALE E
SPIRITUALE

La misericordia non è solo la natura di Dio. È anche una nostra


drammatica urgenza. Proviamo a pensare un matrimonio senza
misericordia, un’amicizia o un ambiente di lavoro senza misericordia.
L’inferno. Come un figlio che non abbia misericordia per suo padre - che
mio padre muoia solo come un cane, quel bastardo non mi ha mai
veramente accettato, ora paghi! - Sono scenari inauditi?
O ancora immaginiamo una paternità con una misericordia falsa,
ipocrita, irreale. L’amore fittizio di tante relazioni mai chiarite, mai
veramente intrecciate fino a toccare il cuore. Quella distanza di un
millimetro dalla verità che sembra una galassia di differenza. Una mestizia
inconfessabile, quella di non essersi mai detti tutto, di aver lasciato le cose
grigie, indefinite.
Ancor di più: può un essere umano tirare fino in fondo la riga della sua
esistenza accettando il bilancio di non aver mai amato veramente? La
misericordia appartiene agli optional o alle necessità della vita umana?
La felicità più profonda, nella vita, è prendersi cura di qualcuno. Provare
per credere. Solo l’amore vero dà la felicità vera.
Al capezzale di tanti morenti ho appreso che alla fine della vita ci si
chiede se veramente si è voluto bene fino in fondo a qualcuno. Questa sarà
la domanda che ci faremo. Ci accorgeremo di non essere andati a vuoto se
avremo la certezza di aver dato gioia a qualcuno, di esserci presi cura di
qualcuno sul serio.

La misericordia: opera di Dio nell’uomo

Possiamo allora chiederci: questo come si fa? Da dove sorge questo


prodotto? Che cosa sono le opere di misericordia? Come si compiono?
Come ci si prende cura dell’altro? Qual è lo stile? Sembrano domande ovvie
ma in realtà dobbiamo scandagliare ancora una volta alcuni malintesi.
Tendenzialmente, come abbiamo visto, crediamo che la misericordia
sorga dalla volontà, dalla decisione di essere misericordiosi e corroboriamo
questo stile, quest’approccio, con il dovere: è il dovere che ci chiama, che ci
impone di essere misericordiosi. Si richiamano le persone alla misericordia
e a compiere atti di pietà, di perdono, di accoglienza sulla base del “deciditi
per”, “renditi conto che è necessario”, “è doveroso”.
Questo tipo di approcci ci portano all’apnea esistenziale, scivolando nel
considerare la misericordia, l’amore, come una cosa faticosa, doverosa, per
esercitare la quale dobbiamo essere in ottimo stato fisico-psichico, visto che
richiede le nostre forze, la nostra coerenza, il nostro impegno. Arriviamo
perciò a un numero considerevole di persone che rinunciano all’esercizio
della misericordia perché la trovano spossante, onerosa. Si vive il perdono e
il servizio per l’appunto in apnea: tirerò il fiato dopo l’atto di misericordia,
tornando a occuparmi finalmente della mia vita dopo essermi occupato di
quella dell’altro andando in debito di ossigeno...
Tutto questo non quadra e corrisponde a fallimenti spirituali tristi, a non
infrequenti balbuzie di misericordia - atti non portati a compimento,
parabole non narrative ma grafiche, dove s’inizia a fare qualcosa, ma poi si
smette perché si è stanchi, non ce la facciamo più. È la traiettoria di molti
volontari che vogliono fare le cose e scoprono che le fanno sulle loro forze,
ma queste sono poche. Come si esce da questa impasse?
Nel capitolo secondo del Vangelo di Marco accade qualcosa di
emblematico. Gesù è nella casa di Pietro e c’è molta gente, tra la quale gli
scribi. Non si riesce ad accedere a Gesù e in quel mentre alcune persone
vogliono portargli un paralitico. Le case, a quel tempo, avevano il tetto fatto
d’un pagliericcio e costoro salendo fanno un foro attraverso il quale calano
il paralitico su di una lettiga e lo pongono dinanzi a Gesù. Che cosa
diremmo noi a proposito? Qual è l’urgenza in questa situazione? Un uomo
viene calato da un tetto perché è paralitico, non c’è dubbio, glielo portano
perché non cammina. È questo il problema.
Gesù guarda la scena e dice: «Figlio, ti sono perdonati peccati»{12}.
Come? Cosa c’entra? Come se ad un disperato che abbia percorso il
deserto ed arrivi stremato dalla sete, noi dicessimo: «Desideri
un’amicizia?». Il paralitico non cammina, il suo problema è c-a-m-m-i-n-a-
r-e! Gesù dice: «... ti sono perdonati i peccati». Ma cosa dice? Ha capito la
situazione?
«Erano seduti là alcuni scribi e pensavano in cuor loro: “Perché costui
parla così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non Dio
solo?”»{13}. Gli scribi hanno ragione, dicono una cosa giusta: chi può
trattare il peccato? Noi sappiamo lavare un indumento, rigenerare i
materiali, pulire, bonificare varie cose, ma un cuore come si pulisce?
Un’anima come può essere tersa da un errore? Resta lì, te lo tieni, ci
convivi. Puoi sublimare o rimuovere o re-interpretare, ma resta lì. Azzerare
il conto dei peccati non è alla portata delle tecniche umane.
Nell’Antico Testamento ci sono due verbi, “creare” e “perdonare”, che
hanno un solo soggetto, Dio. Creare, in ebraico barò (trarre dal nulla), dice
che solo Dio può creare, è innegabile. L’altro verbo, selah, è perdonare e
anche questo lo può fare solo Dio. Chi può dire che i nostri peccati sono
rimessi? Quale psicoanalista può dirlo? Dio può donarci una vita nuova,
solo Lui sa fare questo. Gli scribi hanno ragione.
Il problema degli scribi è piuttosto non aver capito con chi hanno a che
fare. Hanno a che fare con la potenza stessa di Dio: «E subito Gesù,
conoscendo nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: “Perché
pensate queste cose nel vostro cuore? Che cosa è più facile: dire al
paralitico ‘Ti sono perdonati i peccati ’, oppure dire ‘Alzati, prendi la tua
barella e cammina’? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il
potere di perdonare i peccati sulla terra, dico a te - disse al paralitico -:
àlzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua”. Quello si alzò e subito presa la
sua barella, sotto gli occhi di tutti se ne andò, e tutti si meravigliarono e
lodavano Dio, dicendo: “Non abbiamo mai visto nulla di simile!”»{14}.
Gesù non nega che solo Dio può perdonare i peccati, ma dice: « . . . il
Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati», ossia: lui
porta questo potere sulla terra.
La misericordia di Dio è solo di Dio, noi non possiamo gestirne la
natura, non ce ne possiamo impossessare, non si può chiedere all’uomo la
misericordia di Dio, si chiede a Dio. L’uomo può essere “canale” della
potenza di Dio. Se per misericordia noi intendiamo un sentimento da
quattro soldi, allora l’uomo lo può produrre, se per misericordia intendiamo
solo una buona intenzione, allora, per quello che vale, l’uomo la può
possedere, ma perché questa cosa vada davvero a buon fine, allora è
richiesta la capacità di creare, di influire sul reale, come solo Dio può fare.
Ma come funziona la fruizione, il contagio di questa misericordia?
Andiamo alla scena della resurrezione di Gesù nel Vangelo di Giovanni
al capitolo venti: «... venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a
voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al
vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha
mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro:
“Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno
perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”»{15}.
Focalizziamo un dato: come il Padre manda Cristo, così Cristo manda
noi, donandoci il suo Spirito.
Mettiamo un po’ di ordine mentale: perché Gesù sa amare? Perché è
amato. Lui è e vive di un regalo, il Padre l’ha generato, gli ha dato l’essere,
gli ha dato tutto se stesso. Il Figlio è felice di essere, è un gioioso debitore,
prova gratitudine verso il Padre. È felice di essere amato e quindi la sua vita
è amare. Pensiamo al battesimo di Gesù nel fiume Giordano, Dio azzera la
sua distanza e irrompe dicendo: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi
sono compiaciuto»{16}.
Gesù contempla questo amore, questa gioia e ne è felice. Lui non fa
nulla senza il Padre. Per Lui, a pensarci, entrare nella nostra condizione di
peccatori è stato, al Getsemani, prepararsi alla separazione dal Padre, ed è
stato drammatico, spaventoso, tanto è vero che ha gridato «Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?»{17}. Urla: «Come faccio senza di Te?».
E pensare a quante cose noi facciamo tranquillamente senza il Padre...
Ricevere lo Spirito Santo vuol dire, in primis, avere l’essere di Cristo
che è relazione al Padre, vivere di Lui, ed essere pieni di gratitudine.
Il perdono dei peccati, la misericordia secondo la caratura di Dio, è la
capacità di cambiare una vita, di darle un impulso radicalmente nuovo, e
questa è un’opera di Dio. Noi non possiamo che fallire se impostiamo la
misericordia sulla nostra volontà, sulla nostra decisione o sul senso del
dovere. Queste cose possono solamente essere un povero preludio, è la
potenza di Dio che sola può operare questa rigenerazione.
Deve succedere anche a noi qualcosa che succede a Gesù. Come lui si è
mosso, è stato mandato, così anche noi abbiamo bisogno di vivere, di
muoverci, spinti dallo stesso movente, mandati in modo analogo.
«Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi»{18}.
Di che parliamo?
Nel Vangelo di Giovanni c’è una persona chiamata il “discepolo amato”,
che nell’ultima Cena fa un gesto, reclina la testa sul petto di Gesù. In quel
momento, ha un dialogo intimo con Gesù riguardo al tradimento di Giuda:
«Ora, uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola, al
fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: “Dì, chi è colui a
cui si riferisce? ”. Ed egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse:
“Signore, chi è?”»{19}. In quel momento lui sente il cuore di Gesù battere
d’amore per Giuda. È da quel momento che è chiamato “discepolo amato”
non prima, perché ha conosciuto l’amore. «Reclina la testa sul petto» di
Gesù, questa espressione era già comparsa alla fine del prologo dell’inizio
del Vangelo di Giovanni, dove c’è un inno straordinario che, verso la fine,
dice: «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel
seno del Padre, lui lo ha rivelato»{20}. È la stessa immagine, quella di un
bambino raggomitolato sul papà. Gesù è sempre attaccato e rivolto al Padre,
e il discepolo amato fa la stessa cosa con Gesù, ne ascolta il cuore. Si può
capire ora l'espressione: «Come il Padre ha mandato me, anch'io mando
voi».
«Ricevete lo Spirito Santo», ora la natura di Dio può entrare in noi, ora
possiamo vivere di amore e perdono. «A coloro a cui perdonerete i peccati,
saranno perdonati», ora possiamo avere misericordia, assumiamo una
grandiosa responsabilità, donataci dal Signore, di portare il suo amore agli
altri perché dice anche «a coloro a cui non perdonerete, non saranno
perdonati»: se non lo fai tu, chi lo farà? Se non lo fa chi ha conosciuto
l'amore di Dio chi potrà farlo? Per dare questo amore bisogna averlo
ricevuto.
C'è una differenza abissale tra la filantropia e l'agape, il termine greco
usato principalmente in san Paolo e dal Nuovo Testamento per indicare
l'amore. Esiste l'amore per l'uomo, che è umano e deve essere riconosciuto
come tale, e l'agape, ossia l'amore di Dio, quello che nell'uomo è versato
dallo Spirito Santo. Di fatto, la filantropia avrà sempre a che fare con la
giustizia mentre l'amore di Dio ha a che fare con il perdono, con la capacità
di dare la vita eterna, di dare lo Spirito Santo e di poterne essere veicolo.
Dice la Prima lettera di Giovanni: «Chiunque ama è generato da Dio»{21}.
Sia chiaro che noi possiamo tranquillamente chiedere all'uomo di fare opere
di accoglienza, opere di umana misericordia, opere filantropiche, sia
benedetto Dio quando gli uomini e le donne aprono il cuore al bene, ma le
opere di cui parliamo sono, per l’appunto, sia spirituali che corporali per far
riferimento all’integralità della persona umana.
Noi possiamo, in effetti, fare cose buone per l’umanità, partendo non
dall’amore ma dal senso del dovuto, dall’impulso della giustizia o dalla
nostra buona volontà o da un amore che è estetico e umano, ma senza
eternità. Ma la giustizia umana, ad esempio, non salva, non ha lo Spirito
Santo che ri-crea, rigenerando chi ha sbagliato. I nostri “penitenziari” ad
esempio sono chiamati, appunto, luoghi di penitenza, perché in quel luogo
un malfattore dovrebbe vivere una ri-educazione per tornare a essere, da
elemento negativo della società, positivo. Mi si perdoni, ma non ho ancora
visto qualcuno uscire dalla prigione migliore di quando è entrato. A meno
che qualcuno non abbia riposto fiducia in lui, amandolo. Sì, questo l’ho
visto. Ma non era .il carcere che aveva operato la crescita e la novità della
persona. Era l’amore trovato, occasionalmente, per coincidenza topografica
e non per caratteristica strutturale. Nessun carcere guarirà mai una persona.
Solo l’amore guarisce l’uomo. Le carceri incattiviscono, una società
giustizialista e punitiva non ha alcuna furbizia, chi esce manterrà un’indole
vendicativa. La vera cura è la misericordia.
Stabiliti questi parametri, quand’è che un atto di misericordia è un’opera
che fa presente Dio? Quando c’è dentro Dio, ovvio. Gli uomini possono
quindi fare il bene, un bene generico, transeunte, dal respiro corto, ma quel
bene che ha di più, che porta in sé l’invisibile, non è solo pelle, è di più
della biologia, implica la misericordia spirituale, che innerva anche le opere
di misericordia corporale, nasce dal rapporto con Dio, nasce dalla fede. Non
si può curare un malato e insieme donargli la speranza, il senso del suo
dolore in Cristo, della resurrezione, se non si uniscono le opere di
misericordia corporale con quelle di misericordia spirituale, è grottesco
scinderle. È impossibile compiere le opere della nostra fede emettendo
semplicemente atti fisici; si può vestire un ignudo, e aver solamente coperto
il suo corpo, ma dargli la dignità di figlio di Dio, come si fa nel battesimo,
lo si può fare solamente con la fede. Ciò non vuol dire disprezzare le opere
umane però occorre vedere, nella loro bellezza, anche la loro
incompletezza, perché non portano con sé l’eternità, il paradiso. Benedetti
quelli che fanno del bene sulla terra, comunque, saranno accolti dal Padre,
che saprà premiarli; ma noi siamo chiamati, avendo conosciuto l’amore di
Dio, a riempire ogni cosa di eternità, compiendo queste opere partendo dal
nostro rapporto con Dio.

Corpo e spirito

A questo punto possiamo giungere a chiederci davvero cosa sono le


opere di misericordia spirituale e corporale.
L’amore opera secondo due coordinate, il corpo e lo spirito, perché
l’uomo è così, è costituito di un corpo e uno spirito, ha una vita biologica e
una vita interiore. La Chiesa dice che l’uomo è «unità di anima e di
corpo»{22}. Tutto ciò che nell’uomo è corporale è anche spirituale, e tutto ciò
che è spirituale diventa certamente corporale, sono due aspetti della stessa
realtà. Se vediamo le opere di misericordia corporale, riguardano il «dar da
mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, ospitare i
pellegrini, visitare i malati, visitare i carcerati, seppellire i morti». Sono
tutte opere che riguardano il corpo: sfamare, dissetare, vestire, ospitare,
visitare, seppellire. Riguardano una realtà fisica, sono oggettive. Le opere di
misericordia spirituale, invece sono «consigliare i dubbiosi, insegnare agli
ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese,
sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i
morti». Consigliare, insegnare, ammonire, consolare, perdonare, sopportare,
pregare. Sono opere che toccano l’altro nella sua realtà dello spirito, la sua
parte psichica, spirituale, nascono dalla realtà interiore, riguardano il cuore
e la sfida è proprio prendersi cura del cuore.
Le opere spirituali, più di quelle corporali, hanno a che fare direttamente
con la fede. Le opere di misericordia corporale, di fatto, materialmente, si
potrebbero fare anche senza la fede. Il testo che enuclea le opere di
misericordia corporale è il capitolo venticinquesimo del Vangelo di Matteo:
«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui,
siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i
popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore
dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il
re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio,
ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo,
perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete
dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito,
malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi Allora i
giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti
abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando
mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo
vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a
visitarti? E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete
fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me ”»{23}.
All’inizio di questo testo si afferma che Gesù radunerà di fronte a sé tutti
i “popoli”, le “genti”, i “gentili”, alla lettera le “etnie”, ovvero le persone
che lo vedono per la prima volta, che non hanno avuto una professione di
fede esplicita nel suo Nome, non sanno di aver fatto qualcosa per Lui, di
aver avuto un rapporto con Lui. Lo svelerà il giudizio universale, dove sarà
manifestato ciò che è autentico, ciò che l’uomo ha fatto bene. Sembrerebbe
quindi che non ci sia bisogno di avere una fede esplicita in Gesù Cristo per
compiere le opere di misericordia corporale. È da Dio che viene la
misericordia ma queste opere le può fare l’uomo a partire dalla sua umanità.
Infatti le opere di misericordia corporale sembrano più accessibili.
Vestire un ignudo sembra un problema meramente pratico, e ciò può
apparire relativamente facile, mentre consolare un afflitto sembrerebbe
molto più difficile. Nelle opere di misericordia spirituale ci vuole ben altro
che delle mani che si muovono. Per queste opere ci vuole una caratura
spirituale, mentre per quelle corporali basterebbe il corpo. Le opere di
misericordia corporale, questo è certo dal testo di Matteo 25, saranno
richieste a tutti, tutti saranno giudicati su l’averle fatte o no. Chiunque, ateo
o credente, può prendersi cura di qualcuno, non ci vuole la fede per farlo. A
questo possiamo arrivare con la nostra umanità. Per le opere di misericordia
spirituale ci vuole di più, sembrerebbe.
Ma stiamo bene attenti ad una cosa: la sfida non è praticare le opere
corporali e praticare le spirituali. La vera sfida è UNIRLE. Se non vengono
praticate contemporaneamente sono falsificate le une dall’assenza delle
altre. Ammesso che sia vero che è più difficile consolare un afflitto
piuttosto che vestire un ignudo, è pur vero e ovvio che consolare un afflitto
senza rilevare che, per esempio, ha bisogno di indumenti, è grottesco e
rende ridicola la consolazione offerta.
Vale a dire: non è una buona strategia separarle. I pragmatici svuotano
l’amore di eternità, gli spiritualisti lo svuotano di realtà. Non c’è cuore e
non c’è cielo in chi disprezza le spirituali, non c’è corpo e non c’è terra in
chi trascura le corporali. Il Signore Gesù unisce nel suo corpo cielo e terra,
umanità e divinità, corpo e spirito. E questa è la nostra bellissima avventura:
di certo non la settorializzazione o lo smembramento ma la comunione di
tutte le dimensioni della nostra esistenza con la grazia di Dio.
Perché le opere di misericordia spirituale sono proprio queste?
«Consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori,
consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le
persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti»? Non abbiamo nella
Scrittura un testo unico ma un insieme di testi che danno conto di una
sapienza operativa che spazia fra varie opere.
La prima attestazione del nostro elenco la abbiamo da un maestro della
fede, Lattanzio, vissuto tra il 250 e il 325 d.C., che fa un’operazione
peculiare. Siamo nel tempo dei grandi concili, quello di Nicea, di
Costantinopoli, il tempo in cui si cristallizza la fede della Chiesa e, mentre
altri deducono il Credo della Chiesa dalla teologia, Lattanzio vuole
combattere contro le eresie ed enunciare la vera fede attraverso la prassi dei
cristiani: amano così, fanno queste cose e da questo si capisce la loro fede,
si capisce cosa credono. Questo è il cuore del discorso.
La Lettera di Giacomo dice: «Tu hai la fede ed io le opere; mostrami la
tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede»{24}.
Per essere cristiani non è sufficiente che qualcuno ti dica chi è Cristo,
bisogna che veda Cristo in quel qualcuno. I cristiani operano secondo il
Padre, da figli di Dio e quindi sanno compiere le opere spirituali, sono
capaci di una sapienza che indica una vita nuova. Questa sapienza non l’ha
chi è sapiente, ma chi ha una vita diversa. Sono gli occhi, le mani,
l’intelligenza, di qualcuno che nasce da Dio. Affronteremo l’avventura di
come agisce un figlio di Dio, quindi come agisce il Padre. Si consiglia un
dubbioso in una ben precisa maniera perché si è ricevuto un dono di
consiglio di quella caratura, si sa insegnare ciò che veramente conta perché
si è stati ammaestrati in ciò che solo il Padre può rivelare.
La nostra avventura sarà scoprire le opere cristiane che si prendono cura
del cuore altrui secondo una vita, una visione delle cose, una intuizione che
parte dalla Pasqua del Signore Gesù e dalla vita che si riceve solo ed
unicamente dai sacramenti.
San Paolo dice una cosa inaudita nel secondo capitolo della Prima lettera
ai cristiani di Corinto: «Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo,
ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose
noi parliamo, con parole non suggerite dalla sapienza umana, bensì
insegnate dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. Ma
l’uomo lasciato alle sue forze non comprende le cose dello Spirito di Dio:
esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché di esse si può
giudicare per mezzo dello Spirito. L’uomo mosso dallo Spirito, invece,
giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno. Infatti chi mai
ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo consigliare? Ora,
noi abbiamo il pensiero di Cristo»{25}.
Tuo cognato ti chiede cosa fare con un problema che ha sul lavoro. Che
gli dici? Se hai lo spirito del mondo, sulle tue forze gli parlerai delle
banalità di questo mondo, delle sue sornionerie, delle sue disonestà, dei suoi
individualismi. Ma se hai ricevuto lo Spirito di Dio, saprai fargli scoprire la
Provvidenza in quel problema, gli saprai indicare la via dell’amore in quella
tribolazione, gli svelerai come incontrare Dio in quel fatto, come crescere in
quell’evento apparentemente opaco. Se hai il pensiero di Cristo.
E se non ce l’hai, sto pensiero di Cristo? Espettorerai ovvietà. Vedrai il
paralitico e dirai: qui ci vuole un dottore. Siamo al livello dell’acqua che
bagna e del fuoco che brucia. Verità da zero a zero.
Il popolo cristiano lamenta spesso, nei sacerdoti, una predicazione di
incisività nulla. Buoni sentimenti e volontarismo. Volontarismo e buoni
sentimenti, in selezione random. Venite al Signore con canti di noia.
Pure pure, c’è di peggio; possiamo arrivare alla confusione tipo
consolare gli erranti minimizzando gli errori, ammonire severamente gli
afflitti, insegnare il fatto loro alle persone moleste e rimproverare i
dubbiosi. Un non inconsueto frappé di concetti cristiani sparati per
secrezione ormonale.
Direzioni spirituali improvvisate, consigli non verificati, assiomi emessi
senza preparazione ma dedotti da confuse reminiscenze di lontani ricordi di
seminario, o di catechismo. Esagero? Forse sì. O forse no.
Ma viaggiare nelle opere di misericordia spirituale sarà invece
un’avventura nella sapienza cristiana, sarà un tuffo nel “tratto” cristiano,
nella sua indole. Una specie di trattato pratico sulla grazia
dell’incarnazione, sull’inculturazione quotidiana, su come lo Spirito Santo
ci ispiri nelle varie situazioni.
Cominciamo dunque.
LE OPERE DI MISERICORDIA
SPIRITUALE
1 . CONSIGLIARE I DUBBIOSI

Questa è la prima delle opere di misericordia spirituale. Come ci


muoveremo, analizzandole una per una? Più o meno in quattro fasi:
anzitutto abbiamo bisogno di capire l’urgenza, la miseria che affrontano -
nel nostro caso qual è il problema dei dubbiosi e quindi quale misericordia
hanno bisogno di trovare. In seconda battuta vedremo i surrogati di ogni
singola opera. Quindi finalmente capiremo in cosa consistano e, da ultimo,
quale sia la strada per arrivare a ricevere la grazia di praticare questi atti.

Una serie interminabile di bivi

Che problema ha un dubbioso? La vita è una serie interminabile di bivi


che ci pongono davanti a delle opzioni, delle scelte; questo è un aspetto
drammatico della nostra esistenza. Nell’eleggere questa o quella strada, noi,
talvolta, ci giochiamo tutto. Alcune persone si rovinano la vita per le
proprie scelte, altre invece scelgono bene e la salvano, escono dalla
disperazione, dal dolore, o dalla semplice cattiva gestione.
Ogni mattina ci svegliamo con la necessità di fendere il reale separando
ciò che faremo da ciò che non faremo; ogni cosa implica un’esclusione. Le
scelte quotidiane che possono essere banali, ordinarie e con pochi rischi,
oppure rilevanti, tali da poter compromettere molto, quando non tutto. E
spesso non sappiamo nemmeno se una scelta sia rilevante o no. Spesso ci
dedichiamo esageratamente a opzioni secondarie e ci distraiamo su quelle
vitali, per sottovalutazione, quando non per ignavia.
Un dubbio, a sua volta, può “stroncare” una persona fino a ridurla in uno
stato di inattività.
Esistono persone, ed è un dato antropologico nuovo, che entrano in una
fase d’indecisione attorno ai vent’anni e non ne escono per molto tempo.
Essendo fallita la fase d’identificazione della propria direzione, si può
arrivare ai quarant’anni senza aver fatto alcuna scelta definitiva. È un’area
di parcheggio di cui molti non trovano l’uscita e le persone in questo, stallo
non riescono, per esempio, a sposarsi o ad identificarsi, ossia a prendere una
via univoca. Spesso sono condizionati da una cultura circostante di fatto
largamente ambigua.
San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco più volte hanno
criticato la cultura del relativismo. Perché è tanto vituperata dai Papi?
Perché è una cultura dove si equiparano tutte le scelte, dove la libertà è
scambiata per la banale possibilità di scelta. La libertà è molto di più.
Richiede tanto di più. È il possesso completo di se stessi, il principio di
auto-determinazione, la capacità, cioè, di terminarsi, porsi dei confini,
potersi dire dei no e dei sì reali, autentici, efficaci. Chi non sa dirsi dei no,
infatti, deve soddisfare tutte le proprie voglie, non è libero, è una persona in
fase infantile, uno stato di immaturità da superare. Facciamo un esempio:
come si fa a provocare una crisi nevrastenica in un bambino? Lo si porta in
un negozio di giocattoli e gli si chiede di scegliere un giocattolo solo. Una
crudele tortura. Dovendo scegliere, il bimbo sentirà a ogni ipotetica
elezione, la selezione conseguente, ossia l’angoscia di perdere tutti gli altri
giocattoli, ogni scelta corrisponderà a una perdita immensa. Questo non è
un buon sistema per crescere un bambino, bisogna guidarlo nella scelta e
aiutarlo, per questo c’è l’età della “discrezione”, nella quale si può, per
l’appunto, “discernere”. Ci sarà un motivo perché una serie di cose fatte con
un minorenne risultano abuso...
Fa tristezza pensare che molti genitori post-sessantottini hanno messo in
atto proprio questa sanguinosa pedagogia: scegli tu, ti lascio libero. A un
bimbo di sette anni bisogna dare punti d’appoggio, non pinnacoli da cui
buttarsi. Un bimbo ha bisogno di ordine, di orari. Non può dover scegliere a
che ora andare a letto o mangiare. È interessante che questi bimbi spesso
diventano, da adolescenti, dei soldatini a caccia di regole, squadrati
dall’orrore del disordine. Te li ritrovi ventenni senza una singola linea retta
interiore, e pieni di rette esteriori, per reggersi in piedi. Poi, poveri cuccioli,
se trovano un punto di riferimento esterno valido ti consegnerebbero il
cuore tanto ne sono felici. E Dio ci salvi dal prenderlo, quel cuore. Dio ci
guardi dal mettere le nostre manacce su quelle anime che vanno invece
aiutate a crescere, a trovare la loro struttura endogena. Bisogna restare un
passo indietro. Bisogna esercitare una castità paterna, a rischio di essere
deludenti, meglio, piuttosto che diventare indispensabili. Quanti preti ho
visto prendere quella strada, con una ebbrezza da centro di gravità
permanente, non avrai altro prete all’infuori di me. E non solo preti.
Criminali. Dio ci salvi e salvi i nostri giovani.
Formare una persona all’arte della scelta chiede delicatezza, pazienza,
tempo e, ripeto, castità paterna. La realtà della scelta, il dubbio, è la
drammatica e vertiginosa condizione nella quale ci troviamo: per scegliere,
ripetiamolo, dobbiamo necessariamente perdere qualcosa. Perdere in questo
caso vuol dire rinunciare a tutto quello che non abbiamo eletto. Sposarsi, ad
esempio, vuol dire eleggere un coniuge e buttar via tutte le altre possibilità,
consacrarsi vuol dire scegliere una strada e scansare tutte le altre, qualunque
scelta è così.
Qual è il conseguente problema del dubbioso? È la condizione
assolutamente umana di non avere chiarezza fra una scelta e un’altra, non
aver chiaro quale sia la via migliore. Ma a questo punto compaiono delle
prospettive superficiali. La principale è pensare che sia una questione di
opzione fra il bene e il male. Magari fosse così elementare. Se la scelta
fosse fra il bene e il male, sarebbe facile e schematico, chi deve scegliere tra
questi estremi sceglie di sicuro il bene, non è difficile. Ma non è mai così
banale. La vera scelta, infatti, non è fra il bene e il male ma fra il bene vero
e il bene falso. Tutte le opzioni, nelle scelte serie, hanno almeno una
parvenza di bene ed è questo che rende arduo il campare.
Il dubbioso, colui che deve decidere, si trova a un bivio e non riesce a
farlo. Perché? Prima ancora che lui arrivi lì, c’è un problema di fondo: la
Vita è ambigua e ha, per lo meno, una duplice apparenza e, tante volte, il
fatto di porre l’argomento su due sole opzioni è semplicistico.

La tentazione del serpente antico

Da dove parte questa realtà? La parola “dubbio” etimologicamente ha la


radice della parola “due”, “dualità”, l’ambiguità del reale. Dove nasce
questa tortura?
Secondo la Scrittura parte dal capitolo tre della Genesi, dalla tentazione
del serpente, dove appare un’altra interpretazione della situazione rispetto a
quella data da Dio. L’uomo ha uno status di partenza patentemente buono
che a un dato momento viene percepito in una maniera “altra”. Il Dio
creatore, l’Onnipotente e Padre, ha posto l’uomo in una realtà luminosa, ma
dove s’insinua la tentazione? Nell’interpretazione di questa realtà. Mentre i
fatti sgorgano dall’onnipotenza di Dio, l’interpretazione degli stessi è
soggetta a una lettura, l’ermeneutica delle cose, che può patire l’ambigua
malizia del diavolo. In sé, nella parola “diavolo” la radice di duplicità, di
spaccatura, di contrapposizione non è presente per caso.
Il peccato sgorga da questo dubbio sul reale, ed Eva, l’umanità, cade in
quell’interpretazione che porta alla distanza da Dio, al dubitare prima e al
rifiutare poi la lettura della realtà fornita da Dio, che però è il creatore, e
conseguentemente tutte le cose diventano automaticamente ambigue.
Satana è il maestro di quest’ambiguità, incrina il senso del vero e del
bello, mostrando il male dove non c’è. Satana non nega che Dio esista ma fa
credere che in Dio sia presente il male. L’uomo perciò è costretto da questo
ragionamento a determinare se stesso, la propria vita, partendo dalla
coesistenza di tutte le ipotesi, anche le peggiori, ossia quella di un Dio
fondamentalmente non certo, o non buono, o non presente o non partecipe.
Tutto può essere.
Questo “pensare” è ciò che Cartesio, filosofo francese fondatore del
razionalismo moderno, intende quando afferma: «Ego cogito, ergo sum, sive
existo»{26}. «Io penso, dunque sono, ossia esisto». Questo pensare appare
come un’abissale solitudine. Non c’è aiuto, non c’è padre o madre, non c’è
qualcuno che ci prenda per mano e ci porti fuori dalla penombra, in piena
luce: l’uomo deve risolvere tutto sulla base della propria ragione. Non c’è
alcuna relazione a fondamento della nostra vita. È terrificante e triste.
Anche perché la ragione ha dei limiti devastanti.
In questa penombra, il rapporto con Dio è fuorviato dalla paura e,
nutrendo il dubbio dell’ambiguità stessa del suo Creatore, l’uomo perde di
conseguenza la capacità di “vedere” le cose, i fatti, nella loro autentica
connotazione.
Il corpo, nel racconto della Genesi, che prima era una realtà vissuta con
semplicità, a un tratto, diventa vergogna perché la corporeità può essere ora
interpretata o come semplice realtà personale o come strumento di potere, di
attrazione, di sfruttamento e tutto ciò che ne consegue. L’uomo allora deve
coprire il suo corpo perché si sente oggetto di uno sguardo ambiguo. Il
lavoro, che prima era benedetto, diventa maledetto, perde la sua essenza di
servizio, di sostentamento, di progettualità per divenire fonte di guadagno o
di autoaffermazione, perdendo il suo aspetto fraterno. Di questo passo, tutto
diventa oggetto di un’interpretazione oscura, fuorviante, spersonalizzante,
cosificante.
Appare allora, nel testo straordinario della Genesi, una realtà
conseguente di confusione, nella quale la coppia non è più sintonica ma
distonica, in rivalità, e fa presente tutta la realtà ambigua e male
interpretata. Le cose, nel buio, portano l’eco del bene ma anche quello del
male secondo un rischio, quello di essere lette male e di essere usate male.
Tutto diventa indefinibile.
Così accade che anche nella più terribile depravazione, c’è sempre
memoria di qualcosa di buono e, anche nel bene più alto, c’è la paura di un
male latente. Siamo nell’assurda realtà di dover trovare qualcosa di
giustificabile nel male e qualcosa di valido nel bene ma fino a un certo
punto, dove rimane però qualcosa di sospettabile; pensiamo ad esempio
come la giustizia possa finire per giustificare la violenza.
Quest’ambiguità sembra essere nelle cose ma in realtà è nel cuore,
perché è proprio il cuore che accoglie o rifiuta quella lettura benevola che
Dio ci dà. Per questo vale la pena di iniziare a chiedersi se la soluzione del
dubbio non sia fuori di noi. L’uomo, nell’ascoltare quella voce che dice, in
estrema sintesi, che Dio non lo ama, ha perso sicurezza, pensa che Dio si è
adirato con lui, che deve, in fondo, meritare il suo amore. Così avviene ad
Adamo ed . Il male usa questa tentazione mettendoci nella condizione di
leggere la realtà da un duplice, triplice o ancor più molteplice punto di vista.
Quest’ambiguità è una cecità dell’uomo, una sua sovra-lettura, una
proiezione della propria ambiguità interiore. L’uomo si trova in una realtà
soggetta a questa incompletezza di lettura, c’è sempre qualcosa che
potrebbe essere il contrario di ciò che appare, pensiamo che qualcosa possa
essere bene invece è male o viceversa. Come si risolve questo problema?
Sia chiaro: i dubbi sono di vario genere. Ci sono cose che proprio non si
sanno. E si dubita finché non si ricevono dei dati oggettivi. Qui il problema
è, piuttosto, farseli venire, i dubbi. Altro infatti è non avere chiari tutti i
termini di una questione, questa è una condizione di semplice assenza di
dati; altro è partire in quarta quando ancora non abbiamo tutti gli elementi, e
questa è superbia, supponenza, arroganza; altro ancora è restare al bivio fra
diverse possibilità di lettura, e questo è il caso di cui stiamo trattando fin
qui. Il primo caso, quello della mancanza delle informazioni necessarie, è
veniale. Non ci si compromette l’anima per questo. Gli errori fatti per
mancanza di dati non sporcano il cuore, fanno soffrire praticamente, non
esistenzialmente. Ma è facile scadere nel secondo caso, quello per cui non
ci si mette in discussione, non si torna a vedere se si è esaminato tutto, non
si considera con umiltà se non stiamo sottovalutando o sopravvalutando
qualcosa. Questi errori fanno male. Anche perché annullano la misericordia
altrui, ci rendono incapaci di ascoltare, ci fanno patire i consigli come
invasioni, come infantilizzazioni, mentre siamo noi che siamo
testardamente affezionati a una sintesi perlomeno frettolosa.
Ma stando di fronte a un vero dubbioso, quali sono le strategie sbagliate?
Ecco la domanda importante: quali sono i surrogati di questa opera?
Qualcosa abbiamo già accennato, vediamo di cristallizzarlo meglio. Le
tentazioni dei consiglieri di dubbiosi girano su due polarità opposte.
Partiamo da quella minore: la tendenza razionalista, una iper-analisi,
fatta mettendosi a scartabellare i dati, cercando la soluzione “oggettiva”,
alla Sherlock Holmes, come se esistessero malattie e non malati, fatti e non
persone che fanno cose e vivono cose. E si arriva in un attimo allo
schematismo: tu mi poni un tuo problema e io cerco lo schema in cui
metterti, appiccicandoti addosso altro, senza ascoltarti veramente. Sono i
consigli “professionali”. Il dubbioso è messo, a martellate, dentro il novero
delle cose che già sappiamo. Eppure niente si ripete mai del tutto. Le cose
non accadono due volte, come dice il buon vecchio Lewis{27}.
Di cosa si tratta? Di superficialità, talvolta di esibizionismo di supposta
sapienza, comunque di schematismo.
Ma l’altro polo è il peggiore: il paternalismo. Ricordo una riunione di
sacerdoti in cui chi presiedeva pose la questione: un fedele cosa deve
trovare in un padre spirituale? Uno dei presenti rispose: una indicazione
chiara su quale sia la volontà di Dio, deve saperla dire con certezza a chi
gliela chiede. Non ho mai dimenticato il freddo e la rabbia che quella
affermazione mi provocarono. Reagii male, dicendo ad alta voce che io da
quel consesso di paternalisti mi chiamavo fuori. Chi presiedeva,
stimandomi, mi chiese di spiegarmi. Non so se fui capito da quei confratelli,
ma dissi che un buon padre non è quello che risolve i problemi dei figli, ma
quello che insegna ai figli a risolvere i problemi.
Quante volte ho dovuto ripetere questa frase. Quanti dittatori delle
coscienze ho incontrato, laici e preti, che infantilizzano le persone in nome
dell’obbedienza, lasciandole in condizione minorile per un assioma
inconsapevole: risolvere il problema è più importante che far crescere le
persone. E la prossima volta che farà questo fratello? Dovrà tornare da me a
chiedermi come fare, perché non l’ho aiutato a crescere nel problema, ma
ho dato la soluzione. Ripeto: la soluzione diventa più importante del
fratello.
Talvolta non è vero che uno debba risolvere un dubbio, ma che ci sia
piuttosto da fare un percorso nel proprio cuore. E cosa va trovata? La
semplice risposta? No. Come se andassi a vedere un film e uno mi dicesse il
finale dopo cinque minuti. Bravo, grazie, e ora che me lo vedo a fare il
film? Il piacere era tutto nell’arrivarci per gradi...
Il gusto di una equazione di secondo grado, quando ero al liceo, era
arrivare a disegnare la parabola dell’equazione. Come se fosse meglio
essere portato da una funivia in cima a un monte, piuttosto che scalarlo.
Capisco la pigrizia, ma è tutta un’altra cosa! Poi la montagna è mia, è nei
miei muscoli, ci ho fatto a botte, ho imparato tante cose, ho tanto da
ricordare e da condividere.
No, invece! Di peso, in vetta, preso e messo lì.
Un dubbio è una strada di crescita, una sfida, diamine, un’avventura.
Cosa fare con questo figlio? Devo entrare in seminario? Lascio questo
lavoro? Cosa conta veramente? Dimmi cosa dirgli a sto ragazzo turbolento.
Te lo dico e poi? Ti dico che hai la vocazione e poi? Te lo dico: non è il
lavoro adatto per te. E poi? Come la gestisci la situazione critica che di
certo verrà dopo? Se non possiedi la decisione, la rinuncia implicata, la
maturazione necessaria, farai le cose che sembrerai un mattone del Lego.
Ottuso. Fuori luogo.

Le certezze di chi dubita

La nostra opera di misericordia è appunto consigliare i dubbiosi, ma che


vuol dire consigliare? Consulère, in latino, significa “sedersi accanto a
qualcuno”, “stargli accanto”. Che cosa vuol dire e come si lavora su questo
punto? Il dubbioso è spossato dall’ambiguità del reale e non riesce a
distinguere fra ciò che è vero bene e ciò che è falso bene.
Se andiamo a vedere, nei Vangeli, Gesù non risolve i dubbi dipanandoli,
ponendo le questioni in maniera articolata e critica, come piace tanto fare a
noi occidentali, ma fa tutto in un’altra maniera, radicale e semitica, che
appare un pochino deludente per la nostra voglia di capire tutto.
Quest’attitudine la troviamo in tutto l’Antico Testamento il quale non
dimostra l’esistenza di Dio, lo pone esistente, mette una stele, afferma con
certezza una cosa. Non dimostra l’esistenza del maligno, lo mostra in atto,
non parla della debolezza dell’uomo cercando di articolare un discorso,
spiegandola, giustificandola, ma semplicemente la pone come reale. Noi
crediamo di risolvere i dubbi, analizzandoli, sembra ovvio, e certamente i
dubbi vanno ascoltati, è un segno di maturità, ma la soluzione del dubbio,
appunto, non è nel dubbio, questo non lo realizziamo e non lo ricordiamo
quasi mai.
San Giovanni Paolo II, nella veglia con i giovani alla GMG di Toronto
del 2002, diceva: «E giusto accontentarsi di risposte provvisorie ai problemi
di fondo e lasciare che la vita resti in balia di pulsioni istintive, di
sensazioni effimere, di entusiasmi passeggeri?»{28}. Tutto questo
meraviglioso discorso finì in una splendida esortazione, improvvisata a
braccio, a non far leva sui dubbi ma sulle certezze, a non appoggiarsi su ciò
che è ambiguo ma su ciò che è nitido.
Sembra ovvio ma è proprio ciò che non facciamo. Come si può fare
allora e da dove partire? Quando siamo di fronte a un dubbio, dobbiamo
disambiguare la realtà. Qual è il modo per mettere ordine? Dobbiamo
iniziare da ciò che è certo, da un punto di riferimento. Allora fanno bene
quelli che danno la soluzione? Non sto dicendo questo, ma ben altro.
Bisogna partire dalle certezze, ma non dalle certezze del consultato, ma del
dubbioso. E questo implica farlo parlare, conoscerlo, lasciare che vengano
fuori i suoi fulcri.
Gesù, nel capitolo undicesimo del Vangelo di Giovanni porta avanti un
dialogo in evoluzione con Marta: «“Signore, se tu fossi stato qui, mio
fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu
chiederai a Dio, Dio te la concederà ”. Gesù le disse: “Tuo fratello risorgerà
”. Gli rispose Marta: “So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno
”. Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se
muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi
questo? ”. Gli rispose: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio
di Dio, colui che viene nel mondo”»{29}. Marta ha parlato per prima e, nel
suo dolore, nel malcelato rimprovero, esprime qualcosa di costruttivo, di
propositivo. Gesù parte da ciò che è una sicurezza per lei, dalla certezza del
rapporto straordinario di Gesù con il Dio d’Israele, allora fa l sulla sua fede
nella resurrezione dei morti e quindi triangola con la sua esperienza, la sua
fede che lui sia proprio il Messia. A questo punto Marta è pronta a passare
la soglia dell’atto di fede vero e proprio. Se i punti precedenti sono stati
collocati e se lei crede che Cristo sia il Figlio di Dio, allora potrà “aprirsi” a
credere alla resurrezione del fratello, si è smarcata. Interverrà Maria, e poi
ancora Marta, lei - non Maria - farà spostare la pietra del fratello Lazzaro. E
avviene ciò che avviene. Bisognerebbe approfondire la lettura di questo
testo e qui non è opportuno. Ma questo è un esempio di disambiguazione.
Come si fa dunque a uscire dal sistema ambiguo? San Paolo, nella
Seconda lettera ai Corinzi, scrive: «In questo progetto mi sono forse
comportato con leggerezza? O quello che decido lo decido secondo calcoli
umani, in modo che vi sia, da parte mia, il “sì, sì ” e il “no, no ”? Dio è
testimone che la nostra parola verso di voi non è “sì ” e “no". Il Figlio di
Dio, Gesù Cristo, che abbiamo annunciato tra voi, io, Silvano e Timòteo,
non fu “sì ” e “no ”, ma in lui vi fu il “sì ”. Infatti tutte le promesse di Dio in
lui sono “sì”. Per questo attraverso di lui sale a Dio il nostro “Amen ” per la
sua gloria»{30}. Il punto di forza è partire dai “sì”, dalle certezze, è
annunziare le cose nitide e chiare con semplicità. I nostri dubbi sono
radicati nell’antico dubbio suscitato dal serpente, in quel “no”, il dubbio che
in Dio possa essere presente sia l’amore che il non amore, che la realtà
possa essere una storia di salvezza ma anche no. L’antico inno del Te Deum
dice: «In te, Dòmine, speravi, non confùndar in aetérnum», «Tu sei la
nostra speranza, non saremo confusi in eterno».
Il Vangelo è l’annunzio di un “sì”, che fa da perno per leggere tutto il
resto della vita. Se pensiamo che la vita sgorghi da una sorgente ambigua e
non dalle mani della Provvidenza, stiamo davanti alla vita con le mani
alzate per difenderci, i dubbi ci torturano. Si esce da questo pensando al ”sì”
che Dio è per noi, conservando nel cuore che Dio non può smettere di
amarci.
Gesù, va notato, si adira quando gli si attribuisce di scacciare il demonio
in nome del male (Mt 12,22-32), questo non lo accetta e parla del peccato
contro lo Spirito Santo, quando si mette appunto l’ambiguità in Dio.
Quest’ambiguità non esiste! Dio è solo amore (1Gv 4,8). Da qui si parte per
aiutare un dubbioso. Non è la ragione, difatti, che risolve i dubbi, ma
l’amore. L’amore dà principi molto più profondi della ragione, senza
escluderla, senza contraddirla, si serve della ragione e la supera. L’amore è
ragionevole e nello stesso tempo è ancora più sapiente. Per consigliare un
dubbioso ci vuole amore, ascolto, non si tratta solo e semplicemente di
sbrogliare ciò che il dubbioso deve scoprire.
Le scelte si fanno, infatti, in prima persona singolare, resta obbligatorio
questo statuto adulto delle scelte, ma consigliare chi deve scegliere richiede
di farsi eco del “sì” di Dio, l’assenso materno del suo amore, antecedente a
tutto, per suscitare l’appoggio nelle cose certe.
Un dilemma esistenziale non si legge dal basso della confusione ma
dall’alto della certezza dell’amore di Dio. Torneremo su questo, ma urge
vedere quale è il tratto di chi pratica la misericordia del consiglio.
È certo che la prima caratteristica di un buon consigliere è che intenda
cosa gli si stia dicendo, che ci si senta da lui capiti, ascoltati. Questo aiuta
assai perché mettere in ordine i discorsi di fronte a qualcuno, dire il proprio
dubbio, quali sono le questioni, molto spesso inizia già a risolvere i
problemi.
Ma l’ascolto del buon consigliere ha una qualità tutta specifica. Il buon
consigliere non parte dalla ricerca delle risposte ma delle domande. La sfida
è trovare la domanda che riporta le cose nella giusta prospettiva. Non
contestare cosa si vede ma il punto di vista, che può essere falsato da tanti
elementi, e uno non vede la via delle cose perché c’è qualcosa di rovesciato,
c’è un inganno o un malinteso da qualche parte; se s’inizia a mettere ordine,
allora si possono capire anche i pesi specifici delle cose. Quasi sempre si è
partiti dalla domanda sbagliata. Occorre stanarla, ma la deve stanare il
dubbioso, non il consigliere. Certo che dall’esterno è più facile, ma bisogna
stare al passo della congestione del dubbioso, sennò nel percorso lasceremo
dei sepolti vivi, che poi inficeranno la lucidità del discernimento.
Per trovare la domanda sbagliata bisogna analizzare il punto di partenza,
la posizione, il baricentro da cui si osserva la situazione. Questo è il
problema del dubbio. Il maligno lavora proprio ponendoci nel posto
sbagliato per vedere le cose. La parola in greco eidolon dal verbo vedere,
vuol dire “idolo”, ma ha un portato etimologico di “prospettiva”, “visione”,
“modo di guardare”. Da dove viene la prospettiva? Perché non riusciamo a
deciderci? Possiamo razionalizzare molto ma la prospettiva con cui
guardiamo la realtà non è normalmente razionale ma irrazionale, non risiede
nei motivi ma nei moventi. Occorre dunque un sano distacco che ci aiuti a
tornare a vedere le cose nella giusta prospettiva.
Dice il Salmo 49: «Nella prosperità l’uomo non comprende, è simile alle
bestie che muoiono»{31}. Ricordiamo che le opere di misericordia spirituale
sono molto affini ai sette doni dello Spirito Santo, questa più di tutte le
altre.
Tra i sette doni dello Spirito Santo c’è proprio il dono del consiglio, la
capacità di scegliere secondo la sua luce. Di cosa abbiamo bisogno per
scegliere secondo lo Spirito Santo? San Filippo Neri, nelle orazioni
principali della visita delle Sette Chiese, con una sintesi semplice e
stupefacente, pone i doni dello Spirito Santo in contrapposizione ai peccati
capitali e quello che si oppone alla capacità di scelta e al consiglio,
sorprendentemente, è l’avarizia. Ci si pensa su e risulta ovvio: chi è che non
riesce a procedere a una scelta? Chi non riesce a separarsi dalle cose. Lo
abbiamo abbondantemente visto nella prima parte: ogni scelta implica una
perdita. È necessario dunque il distacco, la libertà dalle cose.
Gli avari sono coloro che non buttano via nulla, si tengono tutto, abitati
dall’ansia che non gli permette di lasciare niente. Nei discernimenti più
ardui, infatti, la strada per una decisione spesso passa per una seria
elemosina. Nell’elemosina, quando non è mediocre, quando è fatta “a
sangue”, toccando sul serio i propri possessi, si prova un pasquale senso di
perdita seguito dalla gioia; il prodotto dell’elemosina è un senso di
liberazione e nello stesso tempo anche di possesso di se stessi. Si
comprende che non comanda il denaro, comandiamo noi, il cuore ha vinto
sulle cose. Quando si torna a esaminare la decisione che, nel dubbio, non si
era stati capaci di compiere, si scopre che si è liberi, che non si ha più paura
di perdere qualcosa perché si fa esperienza che a “perdere” non succede
niente, che l’essere attaccati alle cose ci impedisce di scegliere liberamente.
Il dono del consiglio, che si oppone all’avarizia, è quello di cui abbiamo
bisogno per risolvere l’ambiguità della nostra vita. C’è bisogno di un
riferimento satellitare interiore, un Est, un luogo da cui sorga il sole,
dell'oriente, dell’orientamento, abbiamo bisogno di parametri. Per trovare i
parametri delle scelte, bisogna partire da una constatazione - che sembra
ovvia ma non lo è - insita nella ricerca: per trovare il parametro devo partire
dalla asserzione che esiste un parametro. Ossia che la verità esiste.
Nella realtà della nostra vita esiste qualcosa di oggettivo, chiamasi
verità. Se mi trascuro, ad esempio, sto peggio, questo è vero, è
semplicemente reale. Se non curo i miei rapporti con le persone sto male.
Se non governo la mia vita e i miei impulsi mi distruggo. D’estate fa più
caldo che d’inverno. Nel nostro emisfero, sia chiaro. La verità esiste, il fatto
stesso che la cerchiamo, afferma sant’Agostino, attesta che c’è: «Se non ti è
chiaro ciò che ti dico e dubiti che sia vero, guarda almeno se non dubiti di
dubitarne; e, se sei certo di dubitare, cerca il motivo per cui sei certo...
chiunque comprende che sta dubitando, comprende il vero e di ciò che
comprende è certo; dunque è certo del vero. Ciò vuol dire che chiunque
dubita dell’esistenza della verità, ha in se stesso il vero, per cui non può
dubitarne. Ma il vero è tale unicamente per la verità; perciò non deve
dubitare della verità chi ha potuto dubitare per qualche motivo»{32}. «Resta,
se puoi, nella chiarezza iniziale di questo rapido fulgore che ti abbaglia,
quando si dice: Verità»{33}. È una nostra esigenza e si campa meglio se la si
tiene da conto.
Esiste la verità, non la si può affrontare in maniera semplicistica,
grossolana, però esiste. Il nostro viaggio è dall’ambiguità alla certezza. E da
dove nasce la certezza? Dalla fiducia che, per esperienza, cresce dalla stima
paterna. E come fare con gli ambigui padri odierni? Dove prendere
certezza? Vediamo un caso liturgico.
Quando vengono ordinati dei sacerdoti - e in modo analogo dei diaconi -
colui che presenta i candidati dice: «Reverendo Padre, la Santa Madre
Chiesa chiede che questi fratelli siano ammessi all’ordine del Presbiterato».
Risponde il vescovo: «Sei certo che ne siano degni?». Non lo chiede a loro
se ne sono degni ma a chi, a nome della Chiesa, li presenta, non chiede
esattamente se sono degni, ma se chi li presenta ha certezza in proposito:
«Hai questa certezza?». Si parla direttamente a questa persona, spesso è il
rettore del seminario e questa persona risponderà in prima singolare, di
fronte ai candidati: «Dalle informazioni raccolte presso il popolo cristiano
e secondo il giudizio dato da coloro che ne hanno curato la formazione,
posso attestare che ne sono degni». I candidati devono sentirlo: «Sì! Sei
adatto, lo puoi fare. Noi ti stiamo ammettendo all’ordine del diaconato o del
presbiterato perché abbiamo una certezza su di te, sei degno di questo
compito e di questa grazia». E il vescovo di rimando: «Con l’aiuto di Dio e
di Gesù Cristo nostro Salvatore noi scegliamo questi figli per l’ordine del
Presbiterato». Le implicazioni di questo curioso dialogo sono molte e
profonde, ma rileviamo la totale passività dei candidati. Devono ricevere
molte cose in quel giorno, ma in questo passaggio ricevono l’attestazione
pubblica di una certezza: qualcuno pensa che questo tu lo possa fare e
questo qualcuno è la comunità ecclesiale. Di questa certezza avranno
bisogno mille volte, per incidere sul reale e prendere possesso dei doni che
gli serviranno per costruire la Chiesa.
Se non riceviamo fiducia, non avremo fiducia, se non abbiamo qualcuno
che ci dica che ce la possiamo fare, non ce la faremo. Questa fiducia
proviene dalla paternità perché, ripetiamo, si cresce dalla fiducia paterna.
Alcuni padri scuotono la testa dicendo: «Tu non ce la puoi fare». La
conseguenza è che i figli non hanno avuto confidenza. Se invece un padre
dice a un bambino: «Dai, vedrai che lo fai», la conseguenza è la fiducia di
potercela fare e si sfoderano le proprie qualità, si diventa capaci di tirar
fuori il meglio di sé.
L’uomo è portatore di tanta bellezza, la sua vita è così preziosa davanti a
Dio. Questa fiducia è il punto fondamentale, per vivere bene è necessario
averla. Quante volte ho piazzato un giovane davanti a un crocifisso e gli ho
detto: ora stai qui e riprendiamo a parlare solo quando ti dice chi sei
secondo lui. Quando te lo avrà detto, si riprende il discernimento. Il ragazzo
torna dopo un po’, gli chiedo: «Che ti ha detto?» e lui: «Che mi vuole bene,
che è stato disposto a morire per me, che sono importante».
È qui che bisogna mettere l’orientamento: nel fatto che il Signore, anche
quando possiamo aver fatto degli errori, non ci abbandona, continua ad
avere fiducia in noi, continua a pronunciare il suo “sì” per noi. La maggior
parte degli errori, soprattutto dei giovani, viene dalla poca cura di se stessi.
Se si guardano le cose dalla prospettiva di Dio, dalla sua tenerezza, dalla
sua misericordia, tutto cambia. La nostra vita non è un errore, non ha una
natura ambigua, ma porta con sé delle realtà oggettive, certezze di cui avere
g p gg
coscienza e che non dobbiamo lasciarci scappare. Il combattimento è
finalizzato a difendere questa consapevolezza, quella di essere amati, di
possedere in noi quella bellezza e pienezza che rendono la vita se stessa. Per
consigliare un dubbioso bisogna quindi primariamente farlo ripartire dalla
certezza dell’amore di Dio.
Consigliare un dubbioso implica, come abbiamo visto, farlo ricentrare
sulla più profonda delle certezze. Questa va attestata, incarnata, consegnata.
È la forza del consigliere. Non è un elaboratore di dati, è un testimone, ha
esperienza di quella roccia che resiste ai venti e ai fiumi, l’aver scavato fin
nel profondo della vita, alla sua radice. No, non si dubita: Dio ti vuole bene.
Non è un assioma, quello che ti dico risiede nella mia carne, nel mio cuore,
nel mio intimo, nel mio ministero o nel mio matrimonio, nella mia vita. Ma
se questo è formulato in forma di domanda, ha ben altra forza. Il pallino
deve rimanere al dubbioso in via di crescita. «Può essere che Dio abbia
deciso di scordarsi di te?». Una domanda che mi sono divertito tante volte a
fare è: «Che ne dici: Dio ama di più te o me? O ama di più te, me o san
Francesco?». Quando una persona si riconosce un cucciolo di Dio, quando
apre il cuore alla sua tenerezza, tante cose si sbrogliano. È sempre quello il
vero dubbio, alla fin fine non ne ho incontrati altri.
A quel punto si fa l sui punti fermi della vita, sulle cose imprescindibili.
Per il discernimento occorre partire dai “sì” che abbiamo già ricevuto.
Come si riconoscono? Il bene è semplice e lineare, in contrasto con il male
che è tortuoso e contraddittorio. Il male, per essere fatto, a ben vedere deve
essere sempre giustificato, il bene possiede una sua auto-evidenza nel cuore.
Quando il vero bene tocca il nostro cuore, non ci sono mille distinguo in cui
ingarbugliarsi, sorge una luce nella nostra anima che è indubitabile.
Dice il Salmo 51 : «Ecco, nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha
concepito mia madre. Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto
del cuore mi insegni la sapienza»{34}. Il nostro miglior alleato è il nostro
cuore, è lì che troviamo la certezza di essere amati, è lì che sappiamo che la
nostra vita è bella. La sapienza, di cui parla il salmo, afferma che si può
anche essere nati poveri e peccatori, ma non si è nati per caso, questa
coscienza è ciò che salva il dubbioso mostrandogli la limpidezza della
verità. La chiarezza, la semplicità parte dal far perno sulle cose nitide. A
questo punto appare utile fare un elenco di cose certe della propria vita,
cose che non devono essere messe in discussione. Normalmente,
percorrendo questa strada i dubbi si sciolgono, si riducono, sono meno
angoscianti. Si tratta di arrivare a cose non ambigue già presenti dentro di
noi, sono doni di Dio, fatti della nostra vita. Su questo bisogna far l.
La strada del consigliere

E come si fa a compiere questa opera di misericordia? E dove stanno


questi consiglieri così luminosi? Da quale porta entreranno? Che sentiero
hanno percorso? Quello dell’esperienza dell’amore di Dio e quello della
povertà, del distacco, come quello della libertà e quello dell’aver conosciuto
i propri inganni e saperci fare i conti. È una parola...
So che esistono corsi per la direzione spirituale, ma come si fa a fare
della paternità una tecnica? Bisogna saper parlare? Sì, in parte, ma
soprattutto bisogna saper tacere. Altrimenti non si può aver un minimo di
pedagogia, di strategia, uno vomita subito quello che vede e l’altro non
cresce. Ci vuole fermezza e dolcezza nello stesso boccone. E radicamento
nella paternità e nella maternità di Dio. E nessuna fretta di risolvere, un
consiglio non è un tiro al piattello.
Facciamoci aiutare, per trovare la strada del consigliere, da uno
splendido testo di B. Pascal - così ci faccio pure bella figura - : «Bisogna
saper dubitare quando occorre, affermare quando è necessario, sottomettersi
quando è necessario. Chi non si comporta così, non capisce la forza della
ragione. Ci sono persone che sbagliano contro questi tre principi, o
affermando tutto come apodittico (tutto è certo), perché non si intendono di
dimostrazione, o dubitando di tutto perché non sanno a chi bisogna
sottomettersi. O sottomettendosi in tutto perché ignorano quando si deve
giudicare»{35}.
Dubitare - affermare - sottomettersi.
C’è il momento in cui è buono dubitare, è necessario per cambiare
posizione, prospettiva. Questo necessita umiltà per non prendere le nostre
opinioni come assolute, ricordando che sono sempre work-in-progress. Il
pane quotidiano di chi voglia saper dare consigli è l’arte di conoscere le
proprie cantonate.
Niente da fare, purtroppo non si scappa da alcune espressioni del Salmo
119, del tipo: «Bene per me se sono stato umiliato, perché impari i tuoi
decreti. Signore, io so che i tuoi giudizi sono giusti e con ragione mi hai
umiliato. Il tuo amore sia la mia consolazione, secondo la promessa fatta al
tuo servo»{36}.
Quanti ceffoni mi deve dare la vita perché inizi a scoprire i miei
inganni? Devo saper dubitare di quello che penso. Un mio amico psicologo
dice che la salute mentale è la de-sintonia dal proprio ego. Quanto è vero!
Un buon consigliere sa non prendersi troppo sul serio. Ricorda le proprie
assolutizzazioni, fa i conti con i propri errori di lettura. E quindi sarà cauto e
bonario di fronte alle assolutizzazioni altrui.
La strada primaria del training del consigliere è la memoria dei propri
errori mista alla disponibilità a scoprirne altri. Un giro di parole per dire:
umiltà. Che si riceve come gadget dall’esperienza delle umiliazioni e nella
grande grazia dei propri limiti.
Un consigliere bravo non è un forte, ma un debole che ha accettato la
sua propria debolezza.
Così. Robetta.
C’è poi la certezza, per la quale non si devono mettere in discussione
alcune cose, quelle semplici, quelle che appaiono evidenti, sapere le cose
certe nella nostra vita, luoghi dove puntare il compasso. Bisogna aver
chiaro da dove sorge il bene nel cuore, bisogna dissetarsi tanto a quella
dolce sorgente. Ci vuole di aver registrato le buone regole della propria
felicità. Una coppia, ad esempio, sin dal fidanzamento, dovrebbe sempre
avere il decalogo delle cose che fanno bene al loro rapporto e dalla cura e
dall’assiduità a queste cose buone sorgeranno dei genitori saggi, sereni,
rasserenanti.
Per crescere nella capacità di consigliare, bisogna essere costanti nelle
cose sane. Un ubriaco, che consiglio vuoi che mi dia? La preghiera, le
buone abitudini, la vita fraterna, l’esercizio della franchezza e della libertà
dalle cose, allora uno ha uno sfondo chiaro per ascoltare. Chi è impicciato
con se stesso, finisce per proiettarsi, perché è angosciato.
Mi pulisco gli occhiali per guardare meglio. Se ho i mufloni nelle
orecchie e sugli occhi, cosa vuoi che capisca?
Chi si dedica alla direzione spirituale ha bisogno di calma e non di
efficientismo. E non ha bisogno di essere un tuttologo-psicologo-
antropologo-sociologo, ma gli basta conoscere sul serio il Padre, di essere
figlio nel Figlio, e di riposare nello Spirito e da lì parlare. E soprattutto
ascoltare.
E, da ultimo, ci si addestra nel sottomettersi a questa certezza, ossia si
cresce piano piano a svolte di obbedienza filiale, consegnandosi. Perché non
c’è miglior padre di chi sa essere figlio. Allora si diventa pronti nell’arte di
consigliare quando si è intrapresa la strada dei discepoli, quella
dell’obbedienza. Che non è un atto eroico, facciamo per favore un po’ meno
le vittime. L’obbedienza a Dio è la semplice verità delle cose, non è un just-
in-case. Non è che sono così bravo che obbedisco. Sono così fesso da non
obbedire, piuttosto.
L’obbedienza a Dio è una questione del senso delle cose, della realtà. È
una misura del pratico, non è solo spirituale. Le cose sono come sono.
Il primo discernimento è ricordarci come siamo bisognosi di Dio, della
sua misericordia.
Appunto.
2 . INSEGNARE AGLI IGNORANTI

La seconda opera di misericordia spirituale soccorre un’altra miseria


umana: l’ignoranza. Che tipo di miseria è? Che urgenza può avere?
Ogni vita biologica ha una sua finalità, una propria costituzione,
un’identità, gli animali hanno i loro istinti, i felini sono predatori, i topi
sono roditori, i cani sono segugi; ogni specie ha il proprio istinto, il proprio
“fiuto”. E l’uomo?
L’attitudine umana è invece tutt’altra, l’uomo possiede l’intelletto, la
ragione, e soppesa, analizza il reale, comprende. Può farne a meno? Fra le
varie prerogative dei bipedi c’è la tortura cui è sottoposto qualunque
genitore per un lasso di tempo: la fase del “perché?”. Un bimbo o una
bimba possono diventare un disco rotto che ad ogni affermazione
contrappone un perché. Ho visto padri stroncati da questa fase...
Per un bambino è la sana esplorazione della vita, la scoperta dei
meccanismi del reale, l’appagante analisi dei nessi delle cose.
Ma per un adulto è tutta altra solfa. Non comprendere, per l’uomo, è una
condizione di particolare sofferenza, i perché lo torturano.
Non è piccola cosa che sulla croce Gesù gridi: «Dio mio, Dio mio,
perché mi hai abbandonato?»{37}. Il “perché” è il centro del dolore di Cristo.
E concerne l’espressione della più grande angoscia umana, quella di essere
soli, abbandonati, una paura che si materializza sin dal primo istante della
vita, l’uscita dal grembo materno; in quel momento si perde la sicurezza
entrando nell’interrogativo del «Che mi sta succedendo?». Il dramma della
nascita segna interiormente, rivelando un aspetto traumatico che condiziona
tutta la vita per la quale, conseguentemente, si cercheranno risposte a
domande come: «Perché sono nato? Perché sto in questo mondo? Chi sono?
Che devo fare?». Sono domande che rivelano come l’uomo necessiti
informazioni di senso e scopo.
Ribadiamo: non siamo nel campo del superfluo, ma del necessario.
Spesso si soffre più per il non senso delle cose dolorose, piuttosto che
per il dolore che ci hanno provocato.
Il bisogno di sapere

Recepire informazioni è inscritto nell’uomo; alcuni anziani guardano


mille notiziari ogni giorno, sapendo rilevare persino i confronti tra le varie
edizioni, «Questo ha detto questo...», magari rivedendo lo stesso servizio
più volte. Cosa esprime un anziano in questa compulsione da informazione?
È la sua necessità di stare nella vita, essere al corrente. Sapere quello che
succede. Non essere tagliato fuori.
Tanti seguono dibattiti politici televisivi fino a notte fonda e viene da
chiedersi come facciano a svegliarsi per lavorare il giorno seguente. C’è poi
il mare magnum di internet con tutto il suo carico di notizie virtuali. E
infinite perdite di tempo appresso alle informazioni più insulse.
Dietro tutto ciò c’è la voglia di sapere, ricevere dati, capire, che,
ribadiamo, non è attività opzionale ma necessaria, non si può farne senza.
L’uomo, dalle informazioni, da ciò che sa, decide ciò che è.
Coscienti di questa condizione umana, le dittature si sono
tendenzialmente occupate delle informazioni; infatti quando si vuole
governare una realtà, bisogna manipolare le notizie e basta fornire
un’informazione fuorviata a una società per condizionarne la vita.
Antonio Gramsci, marxista italiano, parlava esplicitamente di una
“egemonia culturale” in grado di manipolare le coscienze, spiegando che la
vera rivoluzione è proprio culturale, non il fare ma il far pensare. Gramsci
afferma in uno scritto: «Non c ’è attività umana da cui si possa escludere
ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo
sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una
qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo ”, un artista, un uomo di
gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di
condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una
concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare»{38}.
È un dato di fatto che molti manuali di storia usati per l’insegnamento
sono stati scritti da persone di un certo orientamento politico, capaci di
fornire informazioni se non ritoccate, comunque accentuate. A tal proposito
si possono approfondire i dati oggettivi di alcuni momenti storici, è il caso
del Medioevo o ancora del Risorgimento o altro, la cui lettura potrebbe
apparire molto diversa da come è stata raccontata. Nessuna voglia di
scatenare polemiche, né di difendere l’indifendibile, ma la realtà delle
questioni è spesso diversa ed è stata raccontata con un innegabile
orientamento ermeneutico. E ha cagionato una cultura zeppa di luoghi
comuni, di antipatie e simpatie provocate ad arte.
Nel meraviglioso, ma angosciante, 1984, libro di George Orwell,
romanzo dell’anti-utopia, s’ipotizza l’esistenza di un tipo di dittatura, che
andò realizzandosi in modo vagamente simile nell’Unione Sovietica e in
altri luoghi, dove un osservatore chiamato Grande Fratello controlla tutta la
vita degli uomini ed è immagine di una dittatura perniciosa che invade ogni
angolo dell’esistenza umana. Il grande “occhio” possiede un Ministero della
Verità in grado di fornire informazioni manipolate in modo tale da
assoggettare l’uomo e dominarlo: «Il Ministero della Verità (Miniver, in neo
lingua) differiva in maniera sorprendente da qualsiasi altro oggetto che la
vista potesse discernere. Era un ’enorme struttura piramidale di cemento
bianco e abbagliante che s’innalzava, terrazza dopo terrazza, fino
all’altezza di trecento metri. Da dove si trovava Winston (il protagonista del
romanzo) era possibile leggere, ben stampati sulla bianca facciata in
eleganti caratteri, i tre slogan del Partito: LA GUERRA È PACE, LA
LIBERTÀ È SCHIAVITÙ, L’IGNORANZA È FORZA»{39}.
Nel fenomeno dei bambini-soldato si vede la potenza di un
condizionamento, il risultato di un indottrinamento neanche tanto raffinato,
ma efficace.
Anni fa un militare americano mi parlava tranquillamente del suo
reparto di guerra psicologica. Rimasi allibito di come candidamente parlava
della manipolazione delle informazioni, per lui uno strumento come un
altro.
Già. Solo che gli strumenti dei militari si chiamano armi...
L’uomo è assetato di senso e quindi di dati, ed è conseguentemente
manipolabile. Le cose possono essere rovesciate di prospettiva, basta
spostare di poco i parametri. E ci si ritrova pieni di dati, ma ignoranti. E
senza consapevolezza. Ignoranza fino in fondo.
Insegnare agli ignoranti lo fanno tutti. Bisogna vedere se è un’opera di
misericordia. Ho fatto il cappellano di una enorme azienda mediatica per
cinque anni. Ho chiesto spesso ai giornalisti se erano sicuri che ci fosse
salvezza per loro. Credevano fosse una battuta, ma io ero serio, visto che
alcuni di loro - per carità, alcuni, non tutti - esercitano il loro mestiere
ricalcando ottimamente le tracce del loro primo collega. Chi?
Il primo informatore fuorviante, infatti, appare nel nostro solito testo del
capitolo tre del libro della Genesi ed è il serpente, che consegna delle
informazioni con una scaltra astuzia, in realtà portatrice malata di buio, per
confutare la sapienza di , renderla ignorante nell’impressione di diventare
sapiente: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero
del giardino ”?»{40}; questa è proprio una domanda da giornalista, capziosa,
imbarazzante, a cui bisognerebbe rispondere: «No comment», ma la Bibbia
non ne conosce ancora l’uso... Eva va nel pallone, come succede di fronte a
una domanda che dà come per scontato qualcosa di losco, da giustificare,
ma il serpente, una volta che ha imbrigliato Eva nel suo discorso, sferra
l’attacco: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne
mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il
bene e il male»{41}.
Questa affermazione è di un’astuzia abissale, non può essere presa alla
leggera: il serpente fornisce un’informazione alterata che vuole toccare
qualcosa di ben preciso, la memoria di Eva, dove era depositata l’esperienza
e quindi la memoria del suo rapporto con Dio.
La struttura essenziale della conoscenza dell’uomo, infatti, è la sua
memoria, ed è strutturata su ciò che ha nel cuore: ri-cordo, cor, cordis. I
ricordi, depositati nel cuore, sono legati alla dimensione affettiva, non
oggettiva, e sono capaci di delineare la persona umana e condizionarne le
scelte e l’approccio alla vita.
Il primo giornalista, il serpente, chiese il commento di un . fatto e quindi
manipolò un’informazione per deporre nel cuore dell’uomo una panzana.
Era questo lo scopo. Non gli ficca in bocca il frutto, Eva lo prenderà da
sola, basta innescarla.
Spesso dietro l’angoscia esistenziale e gli errori che ne derivano, c’è una
menzogna, le persone s’incastrano perché costruiscono se stesse su una
frottola, fondano la loro vita su una cattiva informazione, una stortura,
un’interpretazione sbagliata della realtà. C’è un nocciolo nero dietro i nostri
egoismi, dietro le nostre rapacità, un nucleo di falsità che in qualche modo
ci ha reso soli e disperati.
Capiamo allora quanto sia urgente insegnare a ri-valutare la realtà
partendo da quel parametro essenziale e prezioso che è la paternità di Dio,
solo così diventa possibile contrastare i falsi metri di giudizio che attentano
alla nostra esistenza.
Ma quello che va rimarcato è che noi abbiamo sempre dei maestri, che
ne siamo consapevoli o no. Non improvvisiamo mai veramente,
l’apprendimento è alla base della nostra sapienza e chiunque nasce, parte
sempre come una pagina bianca su cui qualcuno (in)-segna. Siamo vergati
interiormente da chi ci ha insegnato a vivere.
Chi? Un po’ tutti. I genitori rigano il cuore dei propri figli, con i loro
gesti, con le loro risposte, con i loro silenzi, le pause, le presenze, le frette.
Era tutta misericordia? E poi i compagni di gioco, i media, i formatori
scolastici... può terminare questo elenco?
So bene che quando debbo annunziare il Vangelo - a proposito, anche
Gesù è un po’ un giornalista, annunzia il regno dei Cieli, meglio dirlo sennò
l’ordine mi fa causa - l’informazione che fornisco deve contrapporsi ad una
soverchiante quantità di insegnamenti difformi e contrari. La mia unica
forza è che quello che dico è più grande di me, mi supera enormemente, ma
supera pure tutto quello che i giovani che mi ascoltano già sanno. Ha una
sua forza semplice, acqua e sapone, senza optional. Viene dall’amore del
Padre che è nei cieli. Conosce il cuore e può vincere perché non si impone
ma solo si propone. È rispetto, è stima di chi ascolta, sa di pazienza e
incoraggia, cura. Non fa leva sulla paura ma sul senso dello spessore delle
cose e le riporta alla loro dignità. E tanto altro.

L’edificazione dell’altro

Cosa vuol dire insegnare? Per dare una semplice etimologia di


“insegnare” si può partire dal suo sinonimo “istruire” che è apparentato con
la parola “costruire”, e fa riferimento all’edificazione dell’altro. “In-
segnare” è: “scrivere dentro”, “imprimere”, “incavare” nel cuore dell’altro.
L’antitesi per contro è “ignorare” che indica una gnosi preceduta da un
“alfa” privativo, “non avere conoscenza”.
Insegnare agli ignoranti. È facile intendere la gravità di quest’opera, ma
è necessario focalizzare l’attenzione sulla drammatica carenza di oggi: la
formazione cristiana. Coloro che si mettono a fare qualche atto cristiano,
presto o tardi scoprono la loro mancanza di educazione. Per portare fino in
fondo un agire cristiano, bisogna essere stati educati a farlo, avere una
consapevolezza di quanto si sta facendo, la percezione se quanto si fa sia
congenito o meno con la fede e che ci salvi dallo scadere in azioni banali,
mediocri, immemori di una qualche eternità.
Il problema è educare le nuove generazioni, condurre i cristiani a essere
portatori del dono della fede; questo è un insegnamento al quale prima si
faceva attenzione con metodi e abitudini proprie dei tempi che furono e che
oggi sta dando adito a latitanze, ad improvvisazioni improbe e colpevoli, a
banalizzazioni stucchevoli. Ecco i surrogati di questa opera di misericordia.
L’arte dell’educazione è meravigliosa ed è propria della Chiesa che è
madre e maestra, la sua storia è irrorata dall’opera di Dottori e Padri della
fede capaci di insegnare ed educare, facendo sbocciare vite sante e vere.
In nome dell’insegnare, invece, talvolta si sfocia in una saccenza che
invade in maniera insostenibile l’attenzione dell’altro, inondandolo con una
sapienza non richiesta e rivelando solo una sgradevole mancanza di
profondità.
Insegnare a un ignorante è misericordia quando, oltretutto, lo si sa fare.
Molti insegnano cose giuste senza conoscerle veramente, insegnandole
perciò male, espettorano indicazioni rubate qua e là, tagliate spesso da santi,
da papi o da sapienti, appioppandole al prossimo senza saperle veramente
vivere. Queste cose sanno di falso e banalizzano la vera sapienza.
Quante volte abbiamo visto svilire cose importanti perché sono state
sulla bocca di tutti: tutti le insegnano, tutti le dicono ma non c’è chi le abbia
vissute davvero nella carne.
Altri insegnano le cose giuste senza tener conto di chi ascolta, del suo
linguaggio, con l’effetto della coincidenza topografica con gli ascoltatori,
ma non con il risultato dell’apprendimento proficuo.
Dobbiamo aprire il triste capitolo delle lamentele del popolo di Dio
sull’omiletica clericale? Papa Francesco ha affrontato magnificamente il
tema nella sua Esortazione programmatica, rimando a quella per un
approfondimento di così grave problema{42}.
Quando non si sa insegnare, l’altro può essere offeso dall'insegnamento,
non si sente amato da chi lo ammaestra, o perlomeno quello che gli
s’insegna non lo salva, non lo aiuta. La cosa giusta può essere detta nel
momento sbagliato o senza cura adeguata dell’esito, ossia senza verifica se
l’altro è stato messo in condizione di capire.
Queste mancanze aprono la strada ad insegnamenti virtuali - mediatici -
impropri, che sono però in realtà solo informazione non formazione, ove,
ovviamente, informare non vuol dire automaticamente educare.
Dobbiamo prendere atto che non è facile compiere quest’opera, il grave
rischio, da quanto stiamo vedendo, è far del male, una persona può essere
distrutta da un insegnamento distorto.
È necessario sottolineare un aspetto fondamentale, cioè che si tratta di
un’opera che lo Spirito Santo deve compiere in noi, una sapienza che è Lui
a donarci. E va rimarcato che la sapienza sarebbe un dono dello Spirito
Santo, anzi è proprio il primo, e un po’ li contiene tutti.
Allora un rischio non infrequente è emettere una sapienza solo umana,
non intrisa di misericordia divina. Per le sapienze umane, che non sono per
nulla inutili e verso cui è dovuto il rispetto che meritano, ci sono però i
professionisti, li si paga e si prendono le loro responsabilità legali.
Noi, in questa sede, abbiamo da parlare di un’opera di misericordia, non
di ogni insegnamento.
Insegnare ed educare

Focalizziamo due atti che l’insegnante deve fare e che spesso non
vengono debitamente distinti: insegnare ed educare.
Si può apprendere senza lasciarsi educare e ci si può lasciar educare
senza apprendere.
Ad esempio Pietro, un giorno mostra di aver ricevuto l’insegnamento:
«Disse loro: “Ma voi, chi dite che io sia? ”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il
Cristo, il Figlio del Dio vivente ”»{43}. Subito dopo però: «Da allora Gesù
cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e
soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e
venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise
a rimproverarlo dicendo: “Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà
mai". Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: “Va ’dietro a me, Satana! Tu mi
sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!
”»{44}.
Alla fine dirà Gesù: «Allora Gesù disse ai suoi discepoli: “Se qualcuno
vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.
Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la
propria vita per causa mia, la troverà”»{45}.
Pietro ha un dato, ma non l’obbedienza al dato. C’è una realtà fatta dal
sapere, ma non dall’obbedire, aver capito l' insegnamento ma non agire
secondo lo stesso.
Per contro può esserci anche un obbedire ma non sapere, essere
educatissimi ma ignoranti: è il caso dei farisei che hanno una minuziosa
osservanza pragmatica della legge, ma non riescono a riconoscere il Signore
a cui obbediscono. È quanto in sostanza Gesù denuncerà nel terribile
capitolo ventitreesimo del Vangelo di Matteo.
Quindi insegnare agli ignoranti è un’opera raffinata che implica non solo
un’informazione da appioppare a qualcuno, ma da consegnare
sapientemente per fare apprendere l’altro. Non è un’opera che ci s’inventa,
è radicata nella Scrittura.
Il cuore dell’Antico Testamento è di fatto riconoscibile nella legge, in
ebraico Torah, che trae origine dal verbo yrh che implica in primis “vedere”
ma viene ricondotto all’atto di indicare con il dito una direzione, per cui
porta in sé i significati di “indicazione”, “avvedutezza”, “istruzione”,
“avvertimento”, “via”. Quindi più che “norma” rimanda piuttosto alla
ricezione di una “sapienza”.
L’istruzione si trova al centro di tutto l’Antico Testamento. Dice il
Salmo 119: «Quanto amo la tua legge! La medito tutto il giorno. Il tuo
comando mi fa più saggio dei miei nemici, perché esso è sempre con me.
Sono più saggio di tutti i miei maestri, perché medito i tuoi
insegnamenti»{46}.
A sua volta Gesù è stato un maestro, anzi “il” Maestro.
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù parla in modo strano del conoscere la
via: «Io sono la via, la verità e la vita»{47}. In questo testo si parla appunto
della vera conoscenza, ma di quale? Qual è il vero insegnamento di Gesù?
Egli parla ancora di un altro maestro: lo Spirito Santo. Ancora una volta
pare che l’uomo abbia la necessità di essere discepolo, colui che impara.
La condizione dell’uomo, appunto, non è porsi davanti alla vita come
maestro ma come uno che ha sempre da imparare: «Ma voi non fatevi
chiamare “rabbi ”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti
fratelli... E non fatevi chiamare “guide ”, perché uno solo è la vostra Guida,
il Cristo»{48}.
Nella chiusura del Vangelo di Matteo, Gesù consegna tre azioni, due
sono collegate all’insegnamento: «Andate dunque e fate discepoli tutti i
popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo,
insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato»{49}.
Ammaestrare, insegnare, battezzare, come detto due su tre implicano
consegna, “traditio” di sapienza. La Chiesa è madre per il battesimo e
maestra per le altre due indicazioni. Ma come è possibile che ai seminaristi
non si insegni ad insegnare? Ma cosa è successo perché non ci sia
addestramento al munus docendi{50}? Almeno un tempo nei seminari si
insegnava la retorica, ampollosa ma adeguata alla ricezione popolare. Si
pensi a Mussolini con una retorica che oggi, se la rivediamo, ci sembra un
film comico, allora aveva un’indubitabile devastante efficacia.
Invece oggi l’ammaestramento nella fede è lasciato alla dotazione
ormonale dei candidati.

Aperti sempre al nuovo

Cosa ci sarebbe da imparare per esser buoni maestri della fede?


Perlomeno la prima e più grande difficoltà che deve affrontare chi debba
essere istruito...
Ricevere la sapienza, essere ammaestrati, rappresenta infatti un trauma:
ognuno ha già, di fatto, la sua sapienza, non c’è nessuno che veramente sia
semplicemente ignorante. Può esserci un’ignoranza consapevole, che è
risultato di ridimensionamenti, lezioni amare della vita, che rendono capaci
di ricevere.
Ma quella con cui lo Spirito Santo ha da combattere, con me ad esempio,
è la mia ignoranza inconsapevole, sbagliare e non sapere neanche di
sbagliare, o ignorare perché si stia male, e continuare a prendersela con le
cause sbagliate, addirittura non focalizzare che ci stiamo procurando del
male da noi stessi o, peggio ancora, lo si stia procurandolo ad altri, e
pensarsi a posto.
«Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i
malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: “Padre, perdona
loro perché non sanno quello che fanno”»{51}.
Il problema è che l’ignorante non si ritiene tale, non si tratta difatti di
ignoranza contro sapienza, ma di sapienza vera contro sapienza falsa.
Sulla strada per Emmaus, Gesù deve lavorare in una situazione
paradigmatica: «Due di loro erano in cammino per un villaggio di nome
Emmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano
tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano
insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi
erano impediti a riconoscerlo»{52} - non è riconosciuto, va rimarcato, non
perché si presenti sotto altre sembianze, ma perché, come dice il testo, i loro
occhi erano incapaci di riconoscerlo.
Uno sguardo ottuso, che corrisponde, vedremo, ad una sapienza ottusa.
«Ed egli disse loro: “Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra
voi lungo il cammino?”. Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome
Clèopa, gli rispose: “Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che
vi è accaduto in questi giorni? ’’. Domandò loro: “Che cosa? ”»{53}.
È impressionante che anche Gesù è un ignorante, non sa quello che è
successo, ossia non lo sa come lo sanno loro. È l’estraneo che non vede
quello che vedono loro. E chiede loro di informarlo. Si fa insegnare da
ignorante. Poi dicono che la fede non conosca ironia...
Qui è straordinario che i due discepoli consegneranno tutti i dati
necessari, passo per passo, proprio gli stessi dati che dopo appariranno
nitidamente prova del contrario di quanto ora pensano, ma tutti i dati sono
sotto una luce distorta: la loro aspettativa.
«Gli risposero: “Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta
potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi
dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a
morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe
liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose
sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono
recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute
a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli
è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come
avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto ”»{54}.
È qui che tutto diventa inutile, sotto la prospettiva delle loro aspettative
che loro devono contestare, ma non lo hanno capito. E Gesù rivolge un
insulto ai due discepoli: «Disse loro: “Stolti e lenti di cuore a credere in
tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse
queste sofferenze per entrare nella sua gloria”?»{55}. “Stolto” è un insulto
forte per l’ebraismo, vuol dire “cattivo”, “storto”, “tortuoso”.
Questi discepoli dimostrano di possedere una loro interpretazione dei
fatti, Gesù li ammonisce affinché cambino lettura. Hanno fatto un errore
tipico: confondere le promesse ricevute con le proprie aspettative.
Questa è la sfida che deve affrontare l’ignorante: cambiare la propria
visione delle cose dei fatti, lasciandosi in certo senso insultare,
riconoscendosi stupido, lento a comprendere, aprendosi ad una prospettiva
sorprendente e abbandonando la sua propria sintesi dei dati.
È così. Ogni volta che ascolto la Parola di Dio, che prego, che mi metto
al cospetto di Dio, so, devo ricordare, che mi dovrò scoprire stupido e un
po’ storto. Non entro nella liturgia per restare quello che sono, ma per
lasciarmi contestare e per lasciarmi educare. Debbo anzi supplicare che Dio
mi insulti un po’, mi contesti, secondo la sua paternità, perché io faccia un
passettino fuori dai miei inganni, che sono sempre ancora tanti. Se lui lo
vuole.
Padre Amedeo Cencini parla splendidamente, con felice neologismo,
della docibilitas, la capacità di apprendere, vale a dire l’attitudine che
permette che un altro possa insegnarci qualcosa. La felicità è direttamente
proporzionale alla capacità di sorprenderci, imparare daccapo le cose: «La
formazione non avviene fuori dal mondo, ma è formazione a stare nel
mondo, in questo mondo, con le sue ferite e contraddizioni, coi suoi
interrogativi e aspirazioni, con la sua novità sempre inedita e
imprevedibile». C’è un “sempre” e un “novum” come dimora di Dio: «Il
giovane deve comprendere che molto spesso sono proprio i cambiamenti
repentini e radicali a provocare la fede, a favorirne lo sviluppo quotidiano e
impedirgli di ripetersi semplicemente senza più nutrirsi della Parola e degli
eventi del giorno. Deve rendersi attento alla tentazione di chiudersi alla
novità di Dio, di assuefarsi a una certa immagine del divino, di usare la
religione per evitare di cambiare mente e cuore e capire che il Dio di ieri è
l’idolo di oggi»{56}.
Se non mi apro al nuovo, non apprendo niente. Questo è semplicemente
evidente.
Il dono di una santa ignoranza permette all’uomo di riaprirsi
costantemente a ciò che non sa, e quindi di crescere. La morte, da questo
punto di vista, sarà l’ultima e la più grande sorpresa, quella che svelerà il
cielo. La vita è una scuola, una serie di lezioni da ricevere e in fondo la
preparazione a quel momento, l’ultima e definitiva lezione, la più bella
delle scoperte: il volto del Padre.
Ma l’urgenza di aprirsi a un’altra sapienza è collegata simmetricamente
all’atto dell’insegnante che è amore, è carità, è volere il vero bene dell’altro.
Insegnare è amare, ma per farlo bisogna a propria volta aver vissuto il
trauma del lasciar contestare la propria visione errata del bene, essersi a
propria volta riconosciuti ignoranti e bisognosi di imparare quale sia il vero
bene.
Insegnare è un atto d’amore, lo abbiamo già visto, implica due fasi: aver
vissuto il “trauma” dell’apprendimento e quindi conoscerne la durezza e le
soddisfazioni e allora si procederà con tenacia e insieme con pazienza. Si
deve sempre ricordare quanto è difficile mettersi in discussione.
L’altra fase è insegnare ciò che serve e questo implica che uno non
insegni, semplicemente, ma insegni a qualcuno. Costui è il centro della
strategia educativa. Il contenuto non basta, ci vuole che il contenuto sia
consegnato a questo uditore ben preciso. Ci vuole il senso del feedback,
intendere quanto stia arrivando e conoscere le vere necessità di chi ascolta.
Dicono che la differenza fra un predicatore esperto e un predicatore
inesperto è che il secondo continua a parlare finché non ha detto tutto quello
che sa, mentre il primo smette di parlare appena ha detto quello che serve.
Che mazzata per i prolissi come il sottoscritto...

La sapienza che manca all’uomo


Resta un punto da affrontare: ma qual è la vera ignoranza? Quale è la
sapienza che all’uomo manca? Perché, in fondo, siamo sempre in
apprendimento?
Al termine del prologo, Giovanni scrive questa frase: «Dio nessuno l’ha
mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha
rivelato»{57}. C’è qualcosa di cui non sappiamo mai abbastanza che solo
Cristo, attraverso lo Spirito Santo, può rivelare: il Padre.
Lo sa rivelare perché è nel seno del Padre, è l’immagine di qualcuno che
sta appoggiando la testa sul petto del papà, è un bimbo accoccolato fra le
braccia forti del padre, è l’immagine filiale. È solo Lui, il Figlio, che può
rivelare il Padre.
Molti pensano i Vangeli come un insieme di cose da sapere, di
informazioni. Gesù, il maestro, insegna altro, è teso ad insegnare non
nozioni ma l’amore del Padre.
Nello stesso Vangelo di Giovanni, Gesù dice: «In verità, in verità io vi
dico: il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal
Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa allo stesso modo. Il Padre
infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere
ancora più grandi di queste, perché voi ne siate meravigliati »{58}.
È la grazia di Dio che insegna la meraviglia del cambiare vita. Scrive
san Paolo nella Lettera a Tito che si proclama la notte di Natale: «E apparsa
infatti la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a
rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con
sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della
manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù
Cristo»{59}.”
La grazia è l’amore che cambia la vita, la direzione dell’uomo, la
capacità di comprendere il Padre di nuovo, e non si tratta di un
apprendimento intellettuale ma di un cambiamento esistenziale.
Insegnare vuol dire scrivere e scolpire nel cuore dell’altro, nella sua
profondità più recondita, l’amore del Padre. È Cristo a portare la verità di
questo amore: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo
sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla
verità, ascolta la mia voce»{60}.
I discepoli sono mandati a compiere quest’opera nell’ammaestrare e
insegnare. L’uomo impara infatti attraverso atti, attraverso la sapienza di
educatori che fanno fare esperienza di un vero apprendimento. Difficile
vedere qualcuno imparare qualcosa solamente perché gli si è spiegato,
s’impara quando si è messi a fare qualcosa. L’educatore indica cosa fare, il
maestro dà l’esercizio per il cambiamento.
Il vero insegnante, come Gesù mostra, è colui che insegna Dio, il suo
amore nella prassi, non una nozione, per quest’ultima è sufficiente un libro.
L’insegnante non è chi fornisce una semplice lezione, ma chi insegnando
ama l’altro, col tratto misericordioso di chi cerca di capire come fargli
intendere il riflesso dell’amore di Dio capace di brillare nel cuore di chi ha
bisogno di scoprirlo.
Il principio dell’educazione è che ogni persona è un regalo di Dio, è una
sua opera, il suo masterpiece, un suo capolavoro. L’arte degli educatori è
quella di fornire elementi che annuncino l’unicità della persona umana,
opera di Dio. Ultima domanda: quale training per arrivare a compiere
questa bellissima opera? Se il maestro per eccellenza è Cristo, perché mai lo
è? Come abbiamo visto poc’anzi, perché è l’unico che può insegnare la cosa
più importante: il Padre. E perché? Perché è il Figlio, lo conosce, lo può
rivelare.
Il miglior addestramento a saper indicare il Padre è esserne figli.
Conoscere Lui. Allora, di sicuro, se lo hai veramente conosciuto, quando ne
parli, grondi tenerezza da tutto ciò che dici. E chi ti ascolta impara la cosa
più importante: che il Padre è meraviglioso.
3 . AMMONIRE I PECCATORI

Che disastri son stati compiuti in nome di questa opera! Quali oscuri
fantasmi di inquisitori non patentati, ma anche patentati, invadono la
fantasia pensando all’autorizzazione di correggere il prossimo, alla furia
perfezionista e moralista con cui sono cresciute generazioni censurate a
priori, con la convinzione che il richiamo e il rimprovero siano comunque e
sempre atti leciti.
Ah! Che abbiamo fatto del cristianesimo, facendolo diventare la frusta
etica della società, il rimprovero religioso che incute derive di auto-
castrazioni!
Quanti formatori che, non sapendo veramente coltivare cuori, hanno
risolto il dilemma educativo con la risorsa del senso di colpa, sparato in
tutte le direzioni, indiscriminatamente.
Con quale frutto? Appena il mondo si è emancipato ha preso a calci
questo esercito di moralisti, odiando ogni censura in maniera altrettanto
furiosa. E il risultato non è equilibrato, ahimè, ma equiparabile per
bruttezza: nessun limite, niente è male, il concetto stesso di peccato è da
abolire, distruggere, stracciare.
E le persone sprofondano nei gorghi dell’autodistruzione senza poterla
nemmeno sospettare come dannosa, perché di niente si può più dire: «è
sbagliato». Cosa? Chi? Come si permette?! L’intolleranza della tolleranza è
violenta quanto l’inquisizione moralista.
Chiarire cosa sia questa opera è assai grave. Ma sarebbe un po’ tutto il
cristianesimo che necessita di de-mistificazione, perché ha subito un fuoco
doppio di fraintendimento: da parte dei cristiani immaturi, che, come dice la
Lettera ai Galati, da redenti son tornati di nuovo sotto il giogo della
schiavitù{61} con le loro asfissie colpevolizzanti e perfezioniste, e di contro
da parte di una mentalità saccente, superficiale, piena di luoghi comuni
post-illuministi intrisi di generalizzazioni spesso sentimentali, carnali e
infantili.
Così da una parte si è massacrato il senso dell’ammonizione, che, come
vedremo a breve, sarebbe in realtà tutto intessuto di cura, di amorevolezza,
di sano timore per la salute e salvezza altrui, mentre dall’altra si è
polverizzato il senso del peccato, dell’errore, nella sua accezione
esistenziale, quella di disastro, di tragedia.
Dell’ammonizione si è ritenuto il senso pervertito di un interventismo
aggressivo, del peccato si è sovradimensionato il suo secondario aspetto
etico e legale.
Che macello! Forse è meglio saltarla proprio questa opera? Abbiamo i
requisiti per poterne parlare?
Ci proviamo, un po’ come con tutte le cose che sono in questo volume,
proprio per tentare, umilmente, di fare un po’ di luce, demistificare,
appunto. In fondo è quello che si cerca di fare sempre, da queste parti.

"Convincere di peccato"

Il verbo ammonire viene dal latino ad-monere, dare un avvertimento,


un’ammonizione, l’immagine è quella di una persona che sta in rischio di
vita e qualcuno lo salva avvertendolo.
Il peccatore invece è colui che ha una “mancanza”; “peccare”, infatti, nel
concetto biblico significa “sbagliare la mira” dei propri atti, trovarsi in una
dinamica errata che porta l’uomo a un vagabondaggio esistenziale fuori
meta, ecco perché, in forma più aulica, i peccatori sono chiamati anche
“erranti”.
Abbiamo necessità di questa opera? Se ne può fare senza?
Ci è utile conoscere un verbo, elenchein, usato sia nel Nuovo
Testamento che nella versione greca dell’Antico, che vuol dire “convincere
di peccato”, è un verbo chiave per quest’opera di misericordia. Un Salmo
che lo usa, spiega bene l’espressione dell’ammonizione: «Ascolta, popolo
mio: contro di te voglio testimoniare{62}. Israele, se tu mi ascoltassi!»{63}. È
Dio che parla al popolo auspicando che apra il cuore.
Il Salmo prosegue: «Non ci sia in mezzo a te un dio estraneo e non
prostrarti a un dio straniero. Sono io il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto salire
dal paese d’Egitto: apri la tua bocca, la voglio riempire»{64}. Il Dio d’Israele
enuncia il dramma devastante dell’idolatria, del confidare nelle cose vuote,
senza vita, e ricorda che invece Lui è stato un liberatore, un padre
provvidente, che vuole saziare il suo popolo.
Ma Dio non riesce a trovare udienza: «Ma il mio popolo non ha
ascoltato la mia voce, Israele non mi ha obbedito»{65}. E più avanti descrive
quanto sarebbe buono per il popolo: «Se il mio popolo mi ascoltasse! Se
Israele camminasse per le mie vie! Subito piegherei i suoi nemici e contro i
suoi avversari volgerei la mia mano; quelli che odiano il Signore gli
sarebbero sottomessi e la loro sorte sarebbe segnata per sempre. Lo nutrirei
con fiore di frumento, lo sazierei con miele dalla roccia»{66}. Quante volte lo
abbiamo detto di qualcuno: quanto starebbe meglio quello lì, se ascoltasse!
A quello non si può dire niente, non ascolta più nessuno. E quante volte lo
avranno detto di noi... Se stesse a sentire un attimo...
Cosa è più tragico: l’errore in sé o disattivare gli aiuti ad uscirne?
Abbiamo saltato un versetto di questo stesso Salmo, dove viene emessa
la minaccia, la più dura che si possa ascoltare: «L’ho abbandonato alla
durezza del suo cuore. Seguano pure i loro progetti!»{67}.
Il punto focale, la vera miseria, non è sbagliare ma non rendersene
conto, distruggere la propria vita ed essere convinti di stare sulla strada
azzeccata, ed è qui che arriva la situazione peggiore: essere abbandonati a
se stessi. Una prospettiva, questa, che mostra un aspetto terribile della
relazione: quello di aver perso la cura, lo slancio per qualcuno e di lasciarlo
nel suo errore, non aiutarlo. Muoia ammazzato, se l’è voluta.
Non mi vuoi sentire? E chi ti parla! Cuociti nel tuo brodo!
Forse abbiamo sperimentato l’amore vero degli amici, quello per cui un
giorno ti svegli dal tuo inganno e scopri che alcuni non ti hanno mollato,
hanno continuato a starti accanto e non hanno rinunciato a dirti la verità,
malgrado reagivi malissimo e non li ascoltavi, ma loro sono rimasti lì, pur
non avallandoti non hanno però smesso di prendersi cura di te; e per contro
scopri che altri ti hanno lasciato a te stesso appena ti hanno percepito
nell’inganno, non avevano altra risorsa che l’aggressività, l’accusa, il
rifiuto. Il giudizio.
E alla fine ti chiedi tu che amico sei. E forse ti scopri anche peggiore di
coloro che ti hanno condannato.
Nell’amicizia ci vuole tenacia, non la lavagna dei buoni e dei cattivi.
Su questa opera c’è da piangere.
Dobbiamo temere grandemente di non avere nessuno che ci faccia da
sponda oggettiva, nessuno che ci sveli che stiamo sprecando qualcosa o
rovinando qualcos’altro, ne va della propria salvezza. Ma forse ancor di più
dobbiamo temere di non saper parlare con chi ha bisogno del nostro
sguardo, della nostra opinione affettuosa. Dobbiamo avere orrore di aver
perso l’amore materno per chi ci sta intorno - tanto da poterlo veder
distruggersi e pensare: ben gli sta! - e non sapergli restare accanto e provare
ad aiutarlo comunque.
Ho paura della mia rabbia verso il prossimo, ma quella è ancora una
relazione. Ho più paura della mia indifferenza. Quella è morte.

Ammonire, non accusare: il dono dell’Intelletto

Come abbiamo visto, la prima dinamica capace di imbruttire


quest’opera, è tramutare l’ammonimento in accusa, azione che porta a porre
l’accento sugli errori dell’errante attaccando e accusando verticalmente
dall’alto. È una movenza che tende a essere aggressiva e distruttiva, ciò
implica la convinzione di aver capito l’errore e che quindi sia opportuno un
atteggiamento irruente, violento-giudicante per smascherare l’altro e
rinfacciargli la mancanza.
Questo sistema è stigmatizzato dal Sermone della montagna del Vangelo
di Matteo nel quale Gesù dice: «Non giudicate, per non essere giudicati;
perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la
misura con la quale misurate sarà misurato a voi. Perché guardi la pagliuzza
che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo
occhio? O come dirai al tuo fratello: “Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo
occhio”, mentre nel tuo occhio c ’è la trave? Ipocrita! Togli prima la trave
dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio
del tuo fratello»{68}.
Il testo introduce il problema dell’accusa dell’altro, della pedanteria
riguardo allo sbaglio, ma questo rigorismo è in realtà correlato a una cecità
e a un problema con se stessi. Perché è tanto gustoso guardare ed
evidenziare gli errori degli altri? Per alcuni è un vero e proprio sport,
un’attività che genera tutto un mondo imparentato con quell’attitudine che è
il gossip, il farsi gli affari degli altri.
Ma il gusto di rimarcare le altrui pecche riguarda invece una propria
incertezza e insufficienza, guardando quello che fa l’altro si cerca conforto
e compensazione. Aver da ridire su qualcuno è una forma di vivere con le
proprie incongruenze, non si guarda la trave del proprio occhio
puntualizzando sulla pagliuzza nell’altrui occhio, è un comportamento
chiaramente immaturo e inutile.
Si assiste spesso ad atti di correzione fraterna condizionati da vere e
proprie proiezioni che sono realisticamente soltanto accuse e condanne ma
che non rispecchiano assolutamente l’agire dell'ad monere, del dare un
avvertimento salvando l’altro da un pericolo. Satana, satàn in ebraico, nella
Scrittura è l’accusatore, l’avversario che si oppone agendo tramite
un’accusa foriera di un senso di colpa latente capace di bloccare il peccatore
nel proprio stato. L’opera di misericordia non ha certo a che fare con
un’attitudine priva d’amore che sfocia nell’assalto, rimarcando
violentemente l’errore.
Esiste poi, come abbiamo visto, l’abbandono dell’altro, che è disprezzo.
Ma c’è una ulteriore deriva, di tipo reticente: tacere davanti all’errore
dell’altro, questo è un peccato di omissione e non è un atto misericordioso.
Un inganno è tale, e inganno va chiamato, l’ostentata tendenza a un
annacquato buonismo che rende gassoso e non definisce l’errore appare
persino come un velato sadismo, si è in realtà aguzzini dell’altro.
Se prima satana agisce accusando, ora è un affabile adulatore, una
tentazione che tende a minimizzare il peccato e/o a far cadere in un
vittimismo che espelle e proietta fuori di sé le responsabilità del peccatore
stesso, con il risultato di rimanere ancora una volta nel suo stato. La
caratteristica omissiva abbraccia ovviamente anche quella realtà del parlar
dietro, non dire in faccia ciò che si pensa marchiando, nel nascondimento,
l’errore altrui: è ipocrisia.
Una simile condotta pone al riparo da smentite perché si corre il rischio
o di rendersi conto di aver sbagliato giudicando o che l’altro risponda
tirando fuori gli errori di chi ammonisce. Come si vede, sia nella dinamica
accusante sia in quella omissiva, esiste una palese doppiezza e incapacità di
relazione.
L’inabilità ad attuare quest’opera è proporzionale alla rarità relazionale
dell’avere qualcuno vicino che sappia veramente confrontarsi e correggere,
se necessario, edificando con metodo l’altro. È davvero raro comunicare
quello che si ha nel cuore, in genere siamo tutti nel politicamente corretto,
nel non dannoso, rapporti “decaffeinati” che non portano da nessuna parte,
possiedono quell’aurea di solitudine che alla fine ha come conseguenza
l’incomunicabilità.
Tali mancanze contaminano senza dubbio anche l’attività genitoriale;
molti genitori sono affetti da un grave deficit educativo, non sapendo
correggere i propri figli cadono in una dicotomia che li vede o latitanti o
eccessivamente duri. Sono lati di una stessa medaglia, un’assenza educativa
spacciata per bontà, o una violenza dettata da incapacità, la prima indice di
non impegno, la seconda di una mancanza di maturità.
Giungiamo allora alla constatazione che l’atto di ammonire si
caratterizza per un’abilità comunicativa, conoscenza del linguaggio e dei
tempi dell’altro ma soprattutto per la verifica di voler correggere senza fini
egoistici. Per questa ragione è doveroso farsi una seria domanda: si desidera
correggere qualcuno per stare più comodi o perché realmente si ama e se ne
vede la bellezza e preziosità minacciata?
Un discernimento preventivo deve autenticare il desiderio di correzione
perché il fine deve essere l’amore, il vero bene dell’altro; ammonire per
dissimulare la propria rabbia, perfezionismo, la pretesa, l’amor proprio, non
giustifica mai l’ammonimento e va evitato, chiaramente.
Chi se non lo Spirito Santo attraverso i suoi doni è in grado di illuminare
la volontà disinnescando le falsità e gli eventuali abbagli?
Il primo dono dello Spirito Santo funzionale all’opera di misericordia in
questione è l'Intelletto, la capacità di intus-legere - “leggere dentro” e di
intus-ligare - “collegare internamente”, ossia vedere nel profondo, percepire
i nessi reconditi.
Questo dono contrasta l’attitudine al giudizio e alla condanna e Gesù lo
testimonia nell’episodio della donna adultera: «Allora gli scribi e i farisei
gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli
dissero: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora
Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che
ne dici? ”. Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di
accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia,
poiché insistevano nell'interrogarlo, si alzò e disse loro: "Chi di voi è senza
peccato, getti per primo la pietra contro di lei E, chinatosi di nuovo,
scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno,
cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in
mezzo»{69}.
Nella ritualità talmudica della lapidazione, il primo che scagliava la
pietra doveva essere colui che accusava, il testimone che si assumeva la
responsabilità di imputare la colpevolezza. Gesù afferma che solo chi è
senza peccato può essere il testimone certo, perché il peccato rende ciechi,
incapaci di vedere, l’egoismo impedisce di conoscere l’altro, ne consegue
che capire realmente la colpa dell’altro implica libertà dal proprio ego, per
poterlo guardare nell’unico sguardo che è verità: lo sguardo d’amore.
Soltanto con questo sguardo unito all'Intelletto, si diventa capaci di intuire,
non giudicando, dove si trova il vero problema, perché spesso si correggono
solo gli effetti e non le cause degli atteggiamenti.
L’amore concede la grazia di comprendere il cuore delle persone
facendole sentire accolte e ascoltate, anche quando si userà parlare loro con
franchezza. Comparirà una attitudine che suona in greco parresia ed è l’arte
cristiana di comunicare con libertà perché si è disposti a perdere tutto per
l’altro. Pietro, negli Atti degli Apostoli, guadagna finalmente questa
parresia che lo rende capace, davanti al sinedrio, di palesare il loro errore:
«Pietro, colmato di Spirito Santo, disse loro: “Capi del popolo e anziani,
visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo,
e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il
popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete
crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato.
Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è
diventata la pietra d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti,
sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi
siamo salvati”»{70}. Pietro non ha paura a esprimersi con franchezza perché
può finalmente testimoniare la verità, costi quel che costi, e non tacere ciò
che conosce, perché ha ricevuto lo Spirito, e questa parresia gli permette di
non emettere la verità come una condanna ma come una mano per salvare,
l’atto di offrire la via d’uscita, la pietra su cui ricostruire dopo l’errore.

Timor di Dio e correzione

Il secondo dono dello Spirito coinvolto è il Timor di Dio, quel senso del
rischio che è apprensione bella, sana, calda, amorevole, nei confronti
dell’altro, non poter vedere che si distrugga, che implica il temere per
l’altro, avere paura per lui. L’aspetto più essenziale di questo atto è la cura
dell’altro, darsi pena per lui e usare tutto ciò che si è e si ha per poterlo
aiutare.
Dall’altra parte salvarsi vuol dire - sempre - accettare di essere corretti, e
questa è una cosa che non mette a proprio agio, abbiamo dei cecchini
interiori a tutela delle nostre mura che possiedono una grande reattività e i
mattoni del nostro orgoglio sono alquanto spessi. San Paolo, nella Lettera
agli Ebrei, parla dell’amarezza della correzione: «Certo, sul momento, ogni
correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo, però, arreca
un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati
addestrati»{71}.
Accogliere la correzione è molto difficile, tante volte chi corregge lo fa
malamente, ciò nonostante se si prende nel verso giusto può essere sempre
utile, può far crescere, anche quando è mal fatta. Ma richiede un’attitudine
che è una nostra vecchia conoscenza, fondamentale in chi corregge e in chi
è corretto, l’umiltà.
Pretendere a priori che l’altro accolga ciò che gli si dice è sempre una
pretesa un po’ esagerata; l’attitudine corretta vuole che si desideri portare
l’altro a salvarsi dai propri errori perché umilmente consapevoli di doverci
salvare dai nostri. La famosa trave nel nostro proprio occhio. Correggere
qualcuno nasce primariamente dal correggere se stessi, prima di combattere
esternamente si deve battagliare internamente.
C’è un passaggio dell’immenso san Giovanni Crisostomo, che nelle
catechesi a coloro che vengono preparati al battesimo afferma: «Reprimi
dunque l’ira, placa il furore; se qualcuno ha commesso ingiustizia, se
alcuno ha usato violenza deploralo, non sdegnarti, compiangilo, non andare
in collera e non dire: “subisco un ’ingiustizia nell’anima ”. Non vi è
nessuno che subisca ingiustizia nell’anima, a meno che noi non
commettiamo ingiustizia a noi stessi nell’anima, e ti spiego in che modo.
Ti sottrasse qualcuno il patrimonio? Non commise ingiustizia riguardo
all’anima, ma, riguardo alle ricchezze; se tu invece serbi rancore hai
commesso ingiustizia verso te stesso nell’anima. Infatti le ricchezze
sottratte non ti danneggiarono in nulla, anzi ti giovarono: invece tu, non
avendo deposto l’ira, renderai allora conto di questo rancore.
Qualcuno ti oltraggiò e ti maltrattò? Non commise affatto ingiustizia
riguardo all’anima, ma neppure riguardo al corpo. Tu ricambiasti gli
oltraggi e maltrattamenti? Tu commettesti giustizia a te stesso nell’anima,
dovendo rendere conto allora delle parole che pronunziasti.
Questo soprattutto voglio che voi sappiate, che nessuno può commettere
ingiustizia a te stesso nella anima, neppure il diavolo»{72}.
Devastante. Notare bene: anima in greco si dice psichê... Davvero devo
aggiungere un commento a questo testo, pietra tombale su tutti i vittimismi?
Quando partiamo dal nostro bisogno di correzione, e sappiamo bene che,
come dice san Giovanni Crisostomo, le vere ferite interiori ce le facciamo
da soli, allora sapremo umilmente approcciare la correzione del fratello.

La correzione fraterna

Ecco il nostro personaggio principale, finora tenuto dietro il sipario: la


correzione fraterna. Affrontiamo questo atto, che talvolta diventa un mostro
a sette teste, e altrove diventa un’inerte ameba.
Il testo dei testi che riguarda la nostra opera di misericordia è nel
capitolo diciottesimo del Vangelo di Matteo, il capitolo sulla comunione
ecclesiale-fraterna. Eccolo: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro
di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il
tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone,
perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non
ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la
comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. In verità io vi dico:
tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che
scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo»{73}.
Partiamo dal constatare la difformità dalla nostra prassi ecclesiale.
Quello che ho visto usualmente nella comunità cristiana è di questo tenore:
se un tuo fratello commette una colpa, prima ne parli in giro, e tutti ne
parlano, di conseguenza lo saprà anche qualcuno che lo conosce, alla fine
qualcuno avrà il coraggio di dirlo pure a lui...
Il Vangelo dice, ovviamente, tutto il contrario. E c’è un’espressione
importantissima, che non dobbiamo lasciarci scappare: che quando un
fratello commette una colpa, si cerca lui per primo, «...se ti ascolterà, avrai
guadagnato il tuo fratello». Guadagnare. Strana espressione.
Molti tribolano assai per guadagnare soldi, altri si cambiano i connotati
per guadagnare stima altrui, altri faticano per guadagnare posizioni e
sicurezze. Qui compare una strana avidità: guadagnare fratelli.
Cercare il fratello. Altro è parlare per mettere i puntini sulle “i”, altro è
parlare per guadagnare, ritrovare il cuore di un fratello. È l’arte di non
smarrire i propri fratelli.
Se ti muore un fratello scopri che tutto quello su cui non eravate
d’accordo non contava niente di niente. Hai perso un fratello. L’anima ti si
spezza e non l’aggiusterai più, tutta la vita ti mancherà un pezzo e solo nel
cielo lo ritroverai. E quante cose perdono importanza.
Sì, ci vuole di pensare al cielo e alle cose definitive. Infatti il testo non
era finito, rileggiamo l’ultima parte: «In verità io vi dico: tutto quello che
legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla
terra sarà sciolto in cielo»{74}.
Chissà perché tutti pensano al potere quando si legge questo testo...
È quello di cui parliamo: io su questa terra ho dei legami, secondo lo
statuto dei veri rapporti umani, che sono legami indissolubili, come la
paternità - perché mai un figlio smetterà di essere tuo figlio - o come la
fraternità - perché mai tua sorella non sarà più tua sorella - perché,
ripetiamolo, i rapporti veri sono indissolubili. Ma possono essere traditi,
rinnegati e allora uno sta sciogliendo qualcosa su questa terra. Questo è
anche nel cielo. La fedeltà e le infedeltà alle relazioni sono qualcosa che sta
al cospetto di Dio. Su questo si giocherà il cielo. Posso cancellare dalla mia
vita questo fratello che mi ha disgustato, ma questo fatto non svanisce, sta
lì, e davanti a Dio questo conterà, non gli si smagnetizza il database da
quelle parti.
Il battesimo, l’eucarestia, fanno di noi il corpo di Cristo, anche se non lo
focalizziamo, e fanno della nostra vita qualcosa che rende presente il
“cielo”: ogni atto cristiano è sale della terra che può dare gloria a Dio o
meritare di essere calpestato dagli uomini. La gente può trovare la fede per i
miei atti cristiani? Sì, grazie a Dio. Ma la gente può anche perdere la fede
per i miei atti non cristiani? Sì. Indubitabilmente.
Cerco fratelli quando parlo? O cerco giustizia?
Cercare è un atto di un certo tipo. Ci sono un paio di parabole
imprescindibili sul “cercare”. Prendiamone una: «Quale donna, se ha dieci
monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca
accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche
e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che
avevo perduto ”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un
solo peccatore che si converte”»{75}.
L’ansia con cui questa donna cerca la moneta perduta, come il pastore
cerca la pecora perduta, parla di un atteggiamento: cerco finché non ti trovo,
per me non è lo stesso nove o dieci, so che ne ho dieci, non vi inventate
niente, qui non si esce finché non ritroviamo la moneta. Qui non si molla
finché non si ritrova questo fratello. Non ne posso fare a meno.
Una madre o un padre se perdono un figlio e non lo ritrovano non
dicono: «Vabbè, ne abbiamo altri due, due o tre è più o meno lo stesso...».
Ma quando mai? Finché non ritrovano un bimbo perdono un anno di vita
per ogni dieci minuti in più che passano.
Questo è cercare un fratello. Questione di vita o di morte.
Andate a parlare con quelli che non ritrovano le persone. Una ragazza di
mia conoscenza ha perso il marito dopo tre mesi dal matrimonio, che io
avevo presieduto, è uscito di casa un giorno; hanno ritrovato la sua
motocicletta. Niente. È successo vari anni fa. Mettiti nella situazione, se hai
un cuore.
Questo è perdere un fratello. Tu pensa se oggi lo ritrovassimo. Questo è
ritrovare un fratello.
Venissi a sapere che mio fratello morto venticinque anni fa lo posso
ritrovare non so dove, credi che continuerei a scrivere queste quattro cose?
Eppure potrei ritrovare tanti altri fratelli persi...
Si perdono relazioni per atteggiamenti di reciproca e ipocrita piaggeria,
non si parla, non ci s’incontra veramente: guadagnare un fratello implica la
verità che non è l’atto di andare ad ammonirlo perché capisca quanto è
fetente ma per guadagnarlo, acquisirlo, riaverlo vicino al cuore come
fratello. È vederlo felice. Quella è la verità da cercare, non la pedante
precisione dei chiarimenti.
E sicuramente non ci sfugge un passaggio del testo di Matteo diciotto
che sembra confutare il nostro discorso. Vediamo: «e se non ascolterà
neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano». Vale a
dire? Molti impugnano questo testo in una tradizionalissima interpretazione
che autorizza la scomunica, l’allontanamento dalla comunità cristiana.
Non si può negare che la prassi della scomunica abbia una base nella
Scrittura, ma non è questo il testo. Come come? Che dice costui?
Dico: in san Paolo abbiamo la base per la prassi suddetta, si può
certamente vedere il testo di 1Cor 5,1-5, ad esempio, e i suoi paralleli, per
prendere atto di tale estremo rimedio, comunque pensato come ultima
risorsa per recuperare il fratello. Ma questo testo parla d’altro.
Siamo in Matteo. Dice il nostro testo che se non ascolta neanche la
comunità «sia per te», notiamo il ritorno del singolare, un atteggiamento
relazionale personale, non comunitario, «come il pagano e il pubblicano».
Non “un” pagano, ma “il pagano”. Cosa è il pubblicano, cosa è il pagano
per Matteo?
«Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierni il tuo
nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi
perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa
sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli
ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete?
Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri
fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi,
dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste»{76}.
Il pagano e il pubblicano sono coloro per cui si dà la vita, il nemico da
amare perché Dio lo ama. Con alcune persone bisogna provare a parlare, ma
se non ascoltano: amarli come sono, caricarsi di loro e amarli come Cristo
ha fatto. Con alcuni si può parlare di Cristo ma con altri bisogna esserlo. Te
li prendi così come sono, ci hai provato, ma non ti ascoltano. Non li butti
via, dice il Vangelo, a quel punto li ami come si ama un nemico, senza
aspettarsi che cambi. Non è una cosa così remota. Va fatta tante volte.
Chissà quante volte ce l’hanno fatta a noi.
Ammonire un peccatore è un atto d’amore, profondo, dolce e
coraggioso, tenero e allo stesso tempo forte, richiede intelligenza e senso
della preziosità della persona, chiede che lo Spirito Santo aiuti a distinguere
il desiderio di amare profondamente chi sta sbagliando da quello di volersi
liberare semplicemente la coscienza. Quanti errori rilevati senza amore o al
contrario quanti non detti continuando a esecrare a distanza, senza entrare in
relazione.
Ammonire richiede un grande attenzione all’altro, vera cura dell’anima,
del cuore, della vita, degli esiti, della felicità di chi si ha vicino.
Normalmente, anche se non sempre, una critica o un’ammonizione fatta con
amore si percepisce immediatamente e rende felici, per questo
comprendiamo ora che lo Spirito Santo è spirito di correzione e
consolazione, come si vedrà fra poco anche nell’opera consolare gli afflitti,
e si oppone a quello spirito maligno tanto dannoso di accusa e adulazione.
Abbiamo tutti bisogno di essere amorevolmente corretti, di qualcuno che
si prenda cura di noi, di quella premura che sa dare una parola pacata:
«Infatti l’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio»{77}.
L’uomo non cambia direzione perché è stato rimproverato amaramente,
ma perché è stato aiutato a ritrovare la propria bellezza, la propria
importanza autentica. Per avere tale premura ci vuole un modo di percepire,
vedere, intendere il fratello che è sublime. È un’opera di misericordia. È
vedere l’altro con gli occhi di Dio.
Ecco Benedetto XVI: «Impariamo a guardare l’altro non solamente con i
nostri occhi, ma con lo sguardo di Dio, che è lo sguardo di Gesù Cristo.
Uno sguardo che parte dal cuore e non si ferma alla superficie, va al di là
delle apparenze e riesce a cogliere le attese profonde dell’altro: attese di
essere ascoltato, di un ’attenzione gratuita; in una parola: di amore»{78}.
4 . CONSOLARE GLI AFFLITTI

In una qualche maniera chiunque deve trovare una posizione davanti al


dolore. Perché con il dolore bisogna fare i conti.
Un tentativo, diffusissimo, è cercare di eliminarlo. Come se fosse
possibile. No, non si toglie il dolore dall’esistenza umana, perché il dolore
non è un male in sé, ma un risultato del male. L’errore più diffuso è infatti
confondere il dolore con i problemi. Il dolore fisico e il dolore interiore
sono come la spia della benzina, che si accende per avvisare l’autista. Il
dolore è un sofisticato meccanismo biologico e spirituale per segnalare un
problema, per richiamare l’attenzione su qualcosa di sbagliato, di rotto.
Proviamo a togliere il dolore. Non avremo più gente che cura in tempo
le proprie malattie, non avremo più possibilità di segnalare i disastri
esistenziali. Il dolore è un sintomo, non è il male. Senza sintomi non si
fanno diagnosi. Il dolore è un dono per salvarsi. Star male serve per
prendersi cura di sé.
Allora la nostra società moderna intontita da cascate di rimedi
narcotizzanti, quelli fisici e soprattutto quelli psicologici, è una società
assuefatta ai suoi mali, che non nota il suo dolore perché sepolto sotto uno
tsunami di distrazioni. Quando il dolore supera la forza dei divertimenti,
delle narcosi, allora possiamo arrivare anche troppo tardi, quando la
cancrena del cuore può perfino non permettere amputazioni, perché di parte
sana non ce ne sta abbastanza.
Dio può tutto, e può far «risalire dalla grande perdizione»{79} ma non
può imporre la sua salvezza. Ecco il raffinato diabolico meccanismo in cui
siamo cascati: non tanto il rifiutare la salvezza, quanto piuttosto assuefarci
alla bruttezza e non aver niente da chiedere. Un esercito di uomini e donne
sul binario morto della mediocrità e dell’insensibilità. E invece sarebbero
così nobili, così preziosi. Ma la realtà è ormai di là dal mare della narcosi.
Eppure questa situazione non ha mai l’ultima parola. È comunque
pantomima e non realtà e la realtà torna presto o tardi a galla e alla
Provvidenza non gli si riesce mai a fare il gioco delle tre carte, finisce
sempre per pescare la carta giusta. E noi ci svegliamo. Probabilmente nel
dolore, ma finalmente reali, vivi, consapevoli e non dormienti.
Quante volte il dolore fa crescere le persone, e le spoglia delle
insulsaggini. Quante persone sono partite dal dolore. Sì, diciamolo subito
qual è il goal: consolare l’afflitto è aiutarlo a rovesciare il meccanismo,
ossia passare dal dolore come esito di un male, allo sfruttare il dolore come
un punto di partenza, come inizio e non più come termine.
L’altra strategia dominante, anche se meno della precedente, di fronte al
dolore, è la rabbia. La ricerca del colpevole sembra essere una soluzione.
Avere qualcuno con cui prendersela è un impulso naturale, meccanico. Ma
non serve a niente di niente. Anche perché, nella mia esperienza, tutti i
cuori, per le strade più disparate e inimmaginabili, finiscono per avercela
con il colpevole più alla portata: se stessi.
Eserciti di arrabbiati cercano di sopravvivere al loro realissimo dolore
con la fittizia soluzione della punizione del colpevole. Dolore per dolore,
ma manco mezzo gaudio. Punito il supposto malfattore, tutto è esattamente
come prima, chi è morto resta morto, resta comunque che «ciò che è storto
non si può raddrizzare e quel che manca non si può contare»{80}

Il senso del dolore

Abbiamo veramente bisogno che qualcuno sappia Consolare gli afflitti,


sappia parlare al cuore spezzato, e non c’è ombra di dubbio che questa è
una delle opere di misericordia più difficili, un banco di prova per la qualità
e lo spessore del cuore.
La miseria che quest’atto soccorre è, appunto, il dolore che viene
definito “afflizione”, dal latino ad-fligere, ossia colpire, al passivo, essere
colpiti, piagati, feriti. È uno stato che richiede lenimento, aiuto, soccorso, e
quest’opera parla, nello specifico, di quella particolare consolazione che
deve arrivare al cuore dell’afflitto perché, si tratti di un male interiore o
fisico, la consolazione riguarda sempre il vissuto interiore, la
consapevolezza, la lettura del male che si patisce. Quindi abbiamo a che
fare con il senso del dolore.
Il significato della sofferenza e del dolore è la grande sfida, e da sempre
l’essere umano cerca spiegazione e motivazione alle proprie pene. Come si
è accennato nell’opera di misericordia Insegnare agli ignoranti, il dolore
fisico può essere duro, ma se c’è una motivazione, si sostiene, il cuore è
sereno, se, però, il dolore è senza spiegazione allora diventa insostenibile.
L’afflizione ha bisogno di una parola che la riempia, la indirizzi, di
un’indicazione che ne orienti la comprensione.
Consolare gli afflitti ha, come le altre opere, dei surrogati, ed in
particolare questa patisce diverse scimmiottature che sembrano assolvere
l’ufficio della consolazione ma non lo compiono. Solitamente si osservano
tre devianze specifiche, tre camouflage dell’atto misericordioso:
compiangere, anestetizzare, proiettare.
Compiangere l’afflitto può, in parte, essere cosa opportuna, se vuole dire
entrare empaticamente nel suo male, piangere con lui, condividere il dolore;
ma c’è il pericolo dello scivolamento dal buon com-piangere al vittimizzare,
associarsi al dolore sottolineandolo, calcando la mano. Esiste una prassi che
produce una serie di atti di spettacolarizzazione del dolore, si pensi ad
esempio a quell’ostentazione del lutto, tradizionale, un tempo, in certi
luoghi, dove si esibiva lo strazio per rendere visibile e dare maggior peso al
dolore. Questo atto è pericoloso perché se da una parte il dolore va
chiaramente accolto, non negato né sottovalutato, preso nella sua
dimensione senza banalizzarlo, dall’altra il risalto esagerato rischia di
inchiodare sempre più chi sta soffrendo nella condizione di vittima, oggetto
di qualcosa di assurdo e inaccettabile.
La vittimizzazione, una volta innescata, è quella logica per la quale la
persona, piangendosi addosso con la complicità di altri, rimane incastrata
nel pozzo del dolore, in un nero narcisismo che impedisce di riprendere la
via, di stare meglio. È evidente che il vittimismo non consola nessuno, ma
aggiunge problema a problema.
La seconda deriva è di tipo narcotico, secondo una mentalità che
abbiamo già visto tanto forte nella nostra epoca; ma qui siamo nello
specifico dell'atto diretto, personale, quando si tenta di aiutare l’afflitto
distraendolo. Anche questo impulso, nella sua accezione sana, non è in sé
un male: a volte decentrare l’attenzione può aiutare a ritrovare lucidità.
Ma altro è decongestionare per aiutare a tirare il fiato, e altro è
architettare l’alienazione, circondare chi soffre di attenzioni che non gli
permettano di pensare, così che di fatto siamo al rimuovere per rimuovere,
tout-court; questo intervento è una spinta verso la superficialità, pericolosa,
perché così si rimanda il problema e lo si aggrava. Fuggire da un fatto
accentua i problemi, che tornano per forza a bussare alla porta di chi soffre,
amplificati stavolta dal senso d’incapacità, dal non averli ancora affrontati;
questo approccio li fa diventare sempre più onerosi, aspri, assurdi.
La terza degenerazione dell’atto di consolare è invitare l’afflitto a
guardare chi sta peggio. Questo tipo di consolazione equivale a paragonare
l’esistenza a una simmetria, come se esistesse il dolorimetro e la classifica
della scalogna. Ma che aiuto mi può dare considerare qualcuno che soffre
maggiormente? A meno che non mi vuoi aiutare a rendermi conto che sto
drammatizzando una cosa comune - e, se è vero, questo va anche fatto e
aiuta. Ma se invece mi stai lanciando nell’altrui vanagloria del dolore, mi
potresti addirittura far sprofondare in un non senso maggiore. Dovrei
dedurne che siccome c’è chi è più disperato di me, ho da calmarmi e
rasserenarmi. Ma non si può stare bene per senso del dovere! No, c’è chi sta
peggio allora devi star bene! Ma questa è un’equazione scorretta e priva di
fondamento, non funziona così. Io sto male e sta male pure quello, forse
peggio, ma io sto male, non ci sono i vasi comunicanti su queste cose.
Consolare richiede un grande equilibrio che eviti, quindi, sia la
vittimizzazione, che l’alienazione, che la comparazione della sofferenza con
standard altrui.
Questi approcci errati sono residui in parte dell’immaturità umana e in
parte di quel cristianesimo allo “yogurt”, una spiritualità “vintage” nella
quale l’azione consolatoria diventa verosimilmente solo un rimprovero,
perché l’unico grimaldello esistenziale è il buon vecchio senso di colpa,
come abbiamo visto altrove.

Giobbe e i suoi amici

Nella Scrittura troviamo il caso di Giobbe, l’uomo fatto oggetto di una


sofferenza inaudita che perde tutto, salute, beni, figli, e va interrogandosi
sul perché della sua afflizione. In una serie di discorsi, tre amici tentano di
consolare Giobbe fornendo ognuno, via via, tre linee di interpretazione del
suo dolore, rincorrendosi l’un l’altro e ripetendosi fra loro, ma per ciascuna
proposta Giobbe ha una risposta assai reattiva: tutti gli “amichevoli”
chiarimenti appaiono viziati da errori basilari. Orrori più che errori.
La prima spiegazione è il dolore come conseguenza di una colpa, e tocca
accettare la sofferenza perché uno se la merita; Elifaz, il primo goffo
consolatore di Giobbe, ripreso poi dagli altri più volte, dice: «Ricordalo:
quale innocente è mai perito e quando mai uomini retti furono distrutti? Per
quanto io ho visto, chi ara iniquità e semina affanni, li raccoglie»{81}. E più
avanti, esplicitamente: «Non esce certo dal suolo la sventura né germoglia
dalla terra il dolore, ma è l’uomo che genera pene, come le scintille volano
in alto»{82}. Senza vie di mezzo: l’uomo genera il suo dolore.
È la solita vecchia storia che chi è buono sta bene e chi è cattivo sta
male. Giobbe peraltro non rientra nel novero perché il lettore sa
dall’apertura del libro{83} che Giobbe è un buon uomo e non si registrano
misfatti da parte sua, e lui, giustamente lo rimarcherà{84}. L’affermazione di
Elifaz è che nessun innocente soffre: ma la Bibbia comincia con due fratelli,
Caino e Abele, e Abele l’innocente, è quello che finisce male; e poi, nella
storia più importante, l’Esodo, il popolo d’Israele viene condannato al
dolore e all'oppressione dal faraone, e non perché era colpevole. E come
c’era arrivato Israele in Egitto? Perché Giuseppe era stato fatto patire per
mano dei fratelli: per caso Giuseppe era colpevole? Ma quando mai?
Giuseppe è il giusto per eccellenza! Sono solo esempi macroscopici, ma la
storia biblica smentisce questa lettura.
Ma non è qui il punto. Può certo capitare che la causa del nostro dolore
sia stata un nostro errore, ma metabolizzare il dolore perché in fondo si è
colpevoli non è una consolazione, e riduce Dio ad un esattore di Equitalia.
E anche fosse, se anche mi meritassi quello che sto passando, questo a
che mi serve? Ora che, a ragione, ti ho detto che te lo sei procurato tu di
stare su una sedia a rotelle per come guidavi quella maledetta moto, di
grazia, tu ora che ci fai con questo? Come se uno non si torturasse già da
solo abbastanza... Ti devo saper dire ben altro che questo!
La seconda consolazione, per bocca degli amici, è che il dolore serve a
correggere. Non è una banalità, c’è tanto di vero. Ancora Elifaz sta parlando
e dice: «Perciò, beato l’uomo che è corretto da Dio: non sdegnare la
correzione dell’Onnipotente, perché egli ferisce e fascia la piaga, colpisce e
la sua mano risana»{85}. Vero, ognuno ha bisogno di correzione. Il dolore fa
crescere. Vero. Ma nel caso di Giobbe è inopportuno, abbiamo visto che lui
è presentato sin dall’inizio del libro come un giusto, apposta perché il
compito del libro è relativizzare queste visioni - e noi pigramente stiamo
sfruttando la fatica dell’autore biblico.
Il secondo amico, Bildad è il suo nome, riprenderà sia la prima che la
seconda affermazione, e arriverà a dire: «Se tu cercherai Dio e implorerai
l’Onnipotente, se puro e integro tu sarai, allora egli veglierà su di te e
renderà prospera la dimora della tua giustizia; anzi, piccola cosa sarà la
tua condizione di prima e quella futura sarà molto più grande»{86}. Vale a
dire: se fai il buonino e ti lasci correggere, vedrai che poi ti premia, ma te lo
devi meritare. Ripetiamo: il libro patentemente smentisce che questo sia il
problema di Giobbe.
E da ciò capiamo una cosa: questi sono modi schematici di parlare.
Elifaz e Bildad non guardano veramente Giobbe, e così succede quando le
nostre risposte son forse giuste ma anche teoriche. Algebra esistenziale.
Arrivo da te che stai soffrendo ed espettoro lo slogan appreso nelle mie
esperienze precedenti. Non ti ho guardato, non ho capito che cosa ti
succede. Ti metto in una scatoletta i miei schemetti piccoli piccoli, e te li do
in testa.
Del tipo: che gli dico a mio fratello che ha un tumore? E che vuoi che ti
risponda? Dovrei avere davanti tuo fratello ed entrare in relazione con lui, e
a quel punto gli direi quello che gli dice il mio cuore, non il tuo, ammesso e
non concesso che tuo fratello peraltro voglia parlare con uno sconosciuto
come me... E che gli devi dire?! Ce lo hai un cuore? Gli vuoi bene a tuo
fratello? E digli quello che vuoi, se gli vuoi bene veramente, vedrai che lo
aiuterai e non lo ferirai.
Quelli che hanno “la risposta giusta”. Dio ci salvi. La risposta a chi? Ora
o sei anni fa? Qui o a Bergamo Alta? Ma come è possibile che qualcuno
non prenda atto che esiste solo la realtà, che le astrazioni sono aria fritta?
Dio ti sta correggendo. Grazie. Sarà. Boh. E allora che fo? A piè fermo
soffro e son corretto, son corretto e soffro. Buonanotte.
Ma sì che è vero, solo che uno lo capisce piano piano, e in genere in
prima persona singolare e frequentemente, a posteriori.
La terza “consolazione” possiede la maggior attinenza perniciosamente
religiosa, quella della rassegnazione, l’abbandonarsi all’imperscrutabile
piano di Dio; il terzo amico si chiama Zofar, e dirà: l’unico sapiente è Dio e
siccome Dio sa tutto, rassegnati, perché in realtà non si può fare niente
contro la sua decisione: «Credi tu di poter scrutare l’intimo di Dio o
penetrare la perfezione dell'Onnipotente? È più alta del cielo: che cosa puoi
fare? È più profonda del regno dei morti: che cosa ne sai? Più lunga della
terra ne è la dimensione, più vasta del mare. Se egli assale e imprigiona e
chiama in giudizio, chi glielo può impedire?»{87}.
A Roma si dice: «A chi tocca nun se ingrugna». Bisogna rassegnarsi
all'incomprensibile, che Dio solo conosce. Ma la rassegnazione è
un’attitudine cristiana? Etimologicamente, la parola rassegnare viene dal
latino resignare, da re-ad-signàre, riconsegnare i sigilli, rinunciare a un
incarico. Rassegnarsi significa rinunciare alla sfida degli esseri umani che
necessitano di vivere con consapevolezza. La risposta cercata da una
persona che soffre è di altro tipo, molto più profonda.
Le motivazioni dei tre amici manifestano inadeguatezza all’atto
consolatorio, sono modi erronei, banali, superficiali e prevedibili, e
purtroppo paradigmatici di tante spiegazioni del dolore millantate per
cristiane.

La vera consolazione: dare completezza

Qual è allora la vera consolazione, non errata, né ipocrita o sentimentale


- piagnucolosa -, capace di fornire strumenti attraverso i quali saper vivere
il tempo del tormento? Cosa è “consolare gli afflitti”?
In ebraico per consolare si usa il termine nacham, vuol dire riposare,
fermarsi, trovare requie o anche dare rifugio a chi cerca il luogo della pace,
dove la sofferenza finisce.
Il greco usa un verbo con una preposizione, parakaleo, chiamare
dappresso. È il nome dello Spirito Santo, il Paráclito, ed è il nome
dell’avvocato difensore - ad-vocatus alla lettera - ed è il consigliere, il
maestro interiore.Ancor più interessante, per la nostra opera di misericordia,
è l’etimologia latina cum-solàri, altrove tradotta maccheronicamente stare
con il solo, ove l’antico sòllus - sòlus non vuol dire solo, solitario, ma
intende il completo, l'intero; questo termine, per esempio, produce la parola
italiana sollazzo che esprime l’essere riempiti, sfamati, appagati. In effetti
esiste una espressione latina che suona solari famen che significa sfamare,
rendere sazi. Consolare si presenta quindi curiosamente in una chiave di
dare completezza perché, in effetti, il dolore è privazione.
Notiamo che Gesù, nella massima tribolazione, prima di morire, si
esprime così: «Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: “E compiuto!”. E,
chinato il capo, consegnò lo spirito»{88}, con unica parola al participio
perfetto del verbo greco teléô, che significa arrivare al fine, raggiungere il
bersaglio, Gesù esprime un compimento di vita, il raggiungimento di uno
scopo. Che cosa vuol dire?
La vera consolazione è il compimento del processo che inizia da uno
stato di privazione, quando si trova la parte mancante, quando si riceve il
senso completo del cammino della sofferenza. Il consolatore, nell’accezione
latina del termine, è colui che ridà il pezzo sottratto dal dolore, affronta la
menomazione che lo rende invivibile, torturante, perché inteso in maniera
p
incompleta.
Gli amici di Giobbe si fermano alle cause, i veri consolatori cercano la
parte che Dio vuole donare. Dopo che il Signore avrà manifestato la sua
grandezza, Giobbe gli risponderà: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora
i miei occhi ti vedono»{89}. C’era un di più che Giobbe doveva vedere, non
lo aveva ancora afferrato ma ora lo può contemplare. Dio disapproverà la
vuota condotta dei tre amici: «disse a Elifaz di Teman: “La mia ira si è
accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perché non avete detto di me
cose rette come il mio servo Giobbe ”»{90}.
Chi compie l’atto del consolare è capace di mettersi accanto al sofferente
mostrandogli ciò che non riesce a vedere e consentendogli di aprire il cuore,
lo sguardo, lo spirito, a un’altra prospettiva, una profondità integra che dà
completezza. Stiamo parlando di speranza. Ma non un senso generico di
auspicio che le cose si aggiustino. Notiamo bene la differenza fra
aspettativa e speranza: la speranza non è una mia produzione, perché allora
non sarebbe una virtù teologale - che significa dono di Dio e non virtù
naturale - al contrario dell’aspettativa che viene dalla mia biologia/
psicologia. Invece la speranza si basa su una promessa. C’è una qualità alta
nel consolatore: dovrebbe conoscere così bene l’afflitto da sapergli far
tornare nel cuore cosa Dio gli ha promesso e aiutarlo a vedere il dolore
come parte di questa fedeltà di Dio.
Si potrebbe dire: e che deve mai saper fare questo consolatore? Niente,
solo un atto di misericordia secondo la natura di Dio, che faccia presente
l’eternità, che sveli il volto di Dio nel dolore. Così. Niente di notevole... Ma
che abbiamo fatto dell’agire da figli di Dio?! Ma pensiamo veramente che
illuminare gli atti più alti che esistano vorrebbe dire più o meno
improvvisare? Ma c’è da pregare una vita intera per arrivare alle opere di
misericordia, e soprattutto quella spirituale che richiede,
inequivocabilmente, di essere mossi dallo Spirito Santo! Saper toccare il
cuore di un afflitto fino a riaccendere la sua speranza stroncata dal dolore è
l’opera in questione, non è per specialisti ma per battezzati. Altrimenti
ricadiamo nelle compensazioni di cui sopra.
C’è una strada nella vita umana che è l’adempimento delle promesse
ricevute, e il dolore è spesso un crocevia del compimento dell’opera di Dio.
Queste cose se non le sanno i cristiani, ma chi le deve sapere?
Puntualizziamo ancora un momento: io non ho una risposta razionale al
dolore, io, come uomo non so perché la gente soffra e non spiego i miei
dolori veramente. Se provo a farlo cado nel meccanismo causa-effetto e
produco le varie risposte di cui sopra. Io non conosco risposte soddisfacenti
al dolore fuori dal mistero di Cristo. Non intendo altra strada per trovare il
bandolo della tragica matassa della vita umana fuori dalla Pasqua di Nostro
Signore. Che cosa vorremmo fare altrimenti? Non conosco risposte umane,
filosofiche, scientifiche, se non mediocri. Figuriamoci se posso io qui
mettermi a scrivere un libro sulle opere di misericordia spirituale per
arrivare a fare di queste dei richiamini di buon senso, ma fatemi il piacere!
Ci vuole lo Spirito Santo per consolare il dolore umano! Se ci potevamo
consolare sulla base delle nostre abilità, che bisogno c’era che Cristo
venisse a prendere su di sé il nostro dolore per sbrogliarlo? Perfino lui, sulla
croce, è arrivato al «perché mi hai abbandonato?», al non senso.
La consolazione che qualcuno mi porta nel mio dolore deve essere
l’irruzione di Dio stesso, il suo sguardo sulle cose, la prospettiva rispetto a
quella che chiunque può produrre. Prendiamo le Beatitudini: sono un
esempio di sguardo che vede i fatti nel modo completo, e non per caso
vengono definite “magna charta” del cristianesimo:
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei
cieli»{91}.
Sono tutte premesse che anticipano l’altro pezzo della storia, un presente
che si apre al futuro che tuttavia è attuale: «... di essi è il regno dei cieli».
La sofferenza allora non è immobile, non è un termine, ma il principio di un
processo che svincola dalla staticità del dolore.
La sofferenza psicologica che inchioda, blocca, si chiama angoscia e la
parola rimanda al termine angolo, luogo senza uscita. L’angosciato vive un
dolore che non porta da nessuna parte{92}.
Come ci si può opporre a questa dinamica negativa? Lo Spirito Santo
che Gesù annunzia nel Vangelo di Giovanni, è propriamente l’attore di
questa consolazione-paraclesi: «Ma il Paráclito, lo Spirito Santo che il
Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto
ciò che io vi ho detto»{93}. Lo Spirito Santo, nel nostro caso, insegna
all’afflitto ciò che non sa, che nella sofferenza c’è qualcosa che manca
ancora, che sta arrivando e deve essere svelato annunciando qualcosa di
futuro: «Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la
verità,... e vi annuncerà le cose future»{94}.
San Paolo svilupperà questa esperienza con queste parole: «Ritengo
infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla
gloria futura che sarà rivelata in noi»{95}, «Infatti il momentaneo, leggero
peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna
di gloria...»{96}. Nella lingua ebraica la gloria equivale al peso specifico
delle cose. Acquisire spessore. Avere uno spessore che sa di eternità. Se
vedi una persona che ha sostanza, profondità, nobiltà, ci puoi scommettere:
la sofferenza l’ha resa così bella. C’è una cosa che ho detto mille volte ai
giovani: se un problema lo puoi risolvere, risolvilo. Ma se non lo puoi
risolvere, è lui che risolverà te. Se c’è un pizzico di grandezza nelle
persone, in genere viene da lì.
Ma non automaticamente. La sofferenza rende profondi se la accogli. Se
la rifiuti ti massacra e basta, senza guadagno. Per questo è importante
questa opera, perché il dolore è un bivio in cui o si va verso il sublime, o si
degenera.
Lo Spirito Santo, decifrando la Croce di Cristo, svela all’umanità la
parte mancante alla sofferenza, quella che Dio trasforma in profondità, in
novità, in evoluzione, in crescita. Il dolore certamente non è da cercare, ma
quando si manifesta bisogna saperlo accogliere come l’inizio di un
cambiamento, talvolta l’abbandono di un’immaturità, comunque uno
strumento prezioso che Dio usa per costruire qualcosa di più serio, più vero.
In ultima analisi il cielo.
La croce è la porta della resurrezione: la croce e la morte erano i
presupposti, ma la resurrezione è il vero risultato. Scrive Giovanni Paolo II,
nella Lettera apostolica Salvifici Doloris : «Si può dire che insieme con la
passione di Cristo ogni sofferenza umana si è trovata in una nuova
situazione. Ed è come se Giobbe l’avesse presentita, quando diceva: "Io so
infatti che il mio Redentore vive... ”, è come se avesse indirizzato verso di
essa la propria sofferenza, la quale senza la redenzione non avrebbe potuto
rivelargli la pienezza del suo significato»{97}.
Un processo conta per la sua meta, per il suo punto di arrivo, quando si
soffre è importante che qualcuno ci aiuti ad avere nel cuore la certezza non
di una fine ma di un inizio, mentre il dolore e l’angoscia usano imprimere
un pensiero terminale, lo Spirito Santo rivela nella Croce una partenza, uno
start verso il disegno straordinario di Dio.
Gesù trasformerà quello che sembrava una fine, la tomba, in un punto di
partenza, da questo si evince che la consolazione è scoprire che ogni storia
umana è nelle mani di Dio, è Lui a condurla, consapevoli che il mistero
della Croce non ferma l’esistenza ma spalanca la visione sulla meraviglia
della resurrezione.
Nel dolore le persone appaiono come mosche impazzite che cercano
l’uscita dal barattolo, ma bisogna che la sofferenza faccia il suo corso,
lasciargli compiere la sua missione. Consolare è un’esortazione a
consegnare l’afflizione a Dio affinché si comprenda che è solo una parte
della storia; la croce è un luogo di passaggio, è una «collocazione
provvisoria»{98} scriveva don Tonino Bello, si va sempre oltre.

Consolati per consolare

Saper consolare un afflitto chiede la memoria personale di quest’atto


pasquale, l’aver tesaurizzato il bene ricevuto dalle proprie sofferenze; le
persone veramente capaci di consolare sono quelle che sono state consolate,
quelle che hanno tratto dal soffrire un percorso di crescita nella fede, nella
speranza, nella carità, qualcosa di nobile, di grande, di bello. Mettersi
accanto a un afflitto, improvvisando una interpretazione non ha alcun senso,
è indicare una strada senza averla mai percorsa. Suona falso da un
chilometro di distanza.
San Paolo spiega con eloquenza l’arte di consolare veramente: «Sia
benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso
e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione,
perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di
afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio.
Poiché, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di
Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. Quando siamo tribolati, è per
la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è per la vostra
consolazione, la quale vi dà forza nel sopportare le medesime sofferenze
che anche noi sopportiamo. La nostra speranza nei vostri riguardi è salda:
sappiamo che, come siete partecipi delle sofferenze, così lo siete anche della
consolazione»{99}.
L’atto consolatorio deriva dall’esperienza della redenzione del proprio
dolore, non è affatto facile dare risposte al dolore altrui, la prudenza e la
pazienza sono necessarie, non si consola “d’ufficio” ma sulla scorta
dell’essersi lasciati lavorare dalla vita, aver accolto la propria storia. Se non
abbiamo accettato qualcosa, se siamo ancora scandalizzati di una parte della
nostra vita, che cosa mai vorremo dire? Parole senza fondamento. Così
succede che molti non si lasciano ammaestrare dalla Provvidenza ma
contemporaneamente pretendono di saper parlare agli altri. Spesso ho visto
consolatori più immaturi dei consolati. E da malato, per esperienza diretta,
si vede se chi ti parla ha sostanza o no.
Vediamo il training del consolatore in un meraviglioso testo del profeta
Isaia: «Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia
indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio
orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto
l'orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho
presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi
strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il
Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo
la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. È vicino chi
mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi
mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi
dichiarerà colpevole? Ecco, come una veste si logorano tutti, la tignola li
divora. Chi tra voi teme il Signore, ascolti la voce del suo servo! Colui che
cammina nelle tenebre, senza avere luce, confidi nel nome del Signore, si
affidi al suo Dio»{100}. La lingua da discepolo che sa consolare lo sfiduciato
la possiede colui che ha imparato a sperare, a consegnarsi a Dio mentre gli
strappano la barba, ha conosciuto la vicinanza di Dio nella solitudine e nella
persecuzione, può parlare a colui che cammina nelle tenebre, perché è da lì
che viene pure lui.
Come abbiamo detto, un’opera di misericordia spirituale non è un atto di
volontà: ti voglio consolare. Sì, grazie. Ma lo fai se ti sei lasciato portare
dallo Spirito Santo nel giorno della tenebra, altrimenti di che parli, fratello
caro?
La virtù teologale della Speranza, afferma la Chiesa, «risponde
all'aspirazione alla felicità, che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo»{101}.
Con intensità i recenti pontefici hanno esortato a coltivare questa virtù, si
pensi al famoso invito «non abbiate paura»{102} con cui san Giovanni Paolo
II iniziò il suo pontificato, o alla meravigliosa Lettera enciclica Spe Salvi di
Benedetto XVI, al «non lasciatevi rubare la speranza»{103} di papa
Francesco, solo per citare alcuni esempi. La Speranza non è un
atteggiamento positivo ottimista, non è un sentimento ma un atto e un dono
di Dio. Nel fondo dell’anima umana abita una Luce che in mezzo a mille
disperazioni, nel fondo del cuore, rende coscienti di una verità: la vita è
preziosa e non si nasce per il nulla. «La speranza poi non delude, perché
l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito
Santo che ci è stato dato»{104}.
«Nella sofferenza è come contenuta una particolare chiamata alla virtù,
che l’uomo deve esercitare da parte sua. E questa è la virtù della
perseveranza nel sopportare ciò che disturba e fa male. L’uomo, così
facendo, sprigiona la speranza, che mantiene in lui la convinzione che la
sofferenza non prevarrà sopra di lui, non lo priverà della dignità propria
dell’uomo unita alla consapevolezza del senso della vita. Ed ecco, questo
senso si manifesta insieme con l'opera dell’amore di Dio, che è il dono
supremo dello Spirito Santo. Man mano che partecipa a questo amore,
l’uomo si ritrova fino in fondo nella sofferenza: ritrova “l’anima ”, che gli
sembrava di aver “perduto ” a causa della sofferenza»{105}.
5 . PERDONARE LE OFFESE

Con “consolare gli afflitti” abbiamo terminato le quattro opere che


consentono di esercitare misericordia verso il cuore altrui. Le prossime due,
“perdonare le offese” e “sopportare pazientemente le persone moleste”,
sono misericordia sfusa, gratuita, non implicano che l’altro capisca o maturi
o impari o si rallegri. Resta il fetente che è, il pesante che sa essere.
Può restare il sospetto, nelle prime quattro opere, che di sbrogliare un
dubbioso, o fargliela imparare all’ignorante, o raddrizzare un peccatore, un
po’ lo si faccia anche per se stessi. Avere dalle proprie parti un afflitto che
si rasserena è una cosa che ci può togliere del peso di dosso. Non è che sia
per certo così, ma si può sospettare che ci sia questa tentazione. Ma con le
prossime due opere non ci si inganna, non si acquisisce vantaggio nel
praticarle, anzi.
Eppure potremmo rovesciare il discorso: se uno praticasse le prime
quattro senza implicare la quinta e la sesta, tutto è un po’ falso. Pensiamo a
uno che corregge un errante o insegna ad un ignorante ma non è disposto a
perdonarlo o sopportarlo... sarebbe una ridicola ipocrisia.
Lo constatiamo soprattutto perché quando ci avviciniamo ad un altro per
correggerlo o simili, dobbiamo dichiarare in qualche modo di farlo per
amore, e questo o sarà vero o sarà falso. Solo il perdono autentificherà o
meno le nostre dichiarazioni d’amor fraterno o simili...
E così apriamo il capitolo dei falsi perdoni.
Il perdonismo d’ufficio, il perdonaggio millantato, il perdonino a tempo,
il perdonetto selettivo, il perdonucolo sentimentale, il perdonasmo
muscolare, il perdonano obbligatorio, il perdonaccio rivendicato, il
perdoniere ecclesiale, il perdonastro di testa ma non di cuore...
continuiamo? È un elenco infinito. Il perdono è un po’ come la sacher-torte
del Tufello, o come la Cola-Guizza. Prodotto inflazionato e banalizzato.
Siamo sempre nel solito malinteso che ci perseguita dall’inizio della
nostra presente avventura: cercar di spremere fuori dalla nostra natura ciò
che si riceve in dono solo da Dio. E allora iniziano i nostri miserabili assalti
al perdono, che sfociano in due paludi principali: l’ipocrisia e la
superficialità. Nella prima troviamo tutto un galateo ecclesiale in cui si
millanta la comunione per raffinato esercizio dei muscoli facciali, un sorriso
che rasenta il digrigno, perché sta male dichiararsi in rotta di collisione. Ma
in separata sede si recupera il quorum di acido muriatico, per movimento
pendolare.
Nel campo dell’ipocrisia fioriscono molte dichiarazioni pubbliche di
perdono, spesso ridicole e ben identificabili come tali.
Ma ritengo che la scatola della superficialità ha più contenuti. Perché
alla fin fine la maggioranza delle persone desidera assolvere la pratica del
perdono e allora scandaglia la propria apertura alare e produce quello che
può, perdoni che riguardano questo ma non quello, o perdoni che durano lo
spazio di un’ondata ormonale, o misericordia da reflusso gastro esofageo,
sudaticcia, foriera di fuoriuscite di visceri dalle sedi naturali, diconsi ernie.
A Napoli dicono: «Ma se po’ campà accusi?».
Molti ci riescono. Male.

La necessità del perdono

Dove ci porta questa cinica riflessione? Alla necessità del perdono. Vale
a dire: il problema dell’assoluzione dell’altrui male non è una questione di
lusso, non è un prodotto di alto borgo esistenziale. No. Senza perdono per il
male ricevuto ci si blocca. Si cammina fermi sul posto. Non si va oltre.
Tutto ciò che non perdoniamo pulsa dentro di noi come un sepolto vivo.
Puoi pure scrivere un libro sulle opere di misericordia spirituale, ma: o hai
perdonato il male ricevuto oppure no. E i surrogati non funzionano.
E in molti siamo sempre in mezzo al guado, ancor dobbiamo arrivare
alla soluzione compiuta. Ma possiamo stare più o meno avanti.
Ma guarda tu che razza di contraddizione: senza perdono non si riesce a
sbloccare il profondo dell’essere e nello stesso tempo non abbiamo il
perdono come dotazione base, è una cosa che si riceve e non si produce in
casa.
Vediamo di capirci qualcosa.
«Egli perdona tutte le tue colpe»{106}. Le parole di questo salmo
esprimono magnificamente la grandezza di quest’opera di misericordia
perché, di fatto, il perdono è propriamente l’atto più vicino al cuore di Dio,
una grazia donataci dal suo amore misericordioso che permette di vivere la
relazione con Lui e conseguentemente con il prossimo, due aspetti che
rappresentano il centro e il fine stesso della vita umana.
Per comprendere dunque cosa sia e cosa comporti il perdonare le offese
bisogna ripetere l’assioma suesposto: il perdono non è opzionale. Nessun
rapporto umano è possibile senza perdono, nessuna verità relazionale e
frontalità autentica è pensabile senza tenere conto della propensione al male
che affetta il cuore dell’uomo e per la quale si rende quanto mai necessario
l’antidodo del perdono. Là dove sia presente una qualche flebile
consapevolezza di questa necessità, comunque il bisogno di essere
perdonati sembra più urgente dell’esigenza di perdonare, vedremo che
questo è vero genealogicamente, ma non esistenzialmente.
Come sempre, si deve porre l’attenzione sulla modalità umana di alterare
la verità dell’atto misericordioso annullando la grazia e rendendo inefficace
l’azione del vero perdono, condizione che richiede di diagnosticare alcune
falsificazioni che non portano all’attuazione e allo scopo dell’azione
misericordiosa stessa.
Nell’ambito di un’offesa, per esempio all’interno di un rapporto, si
assiste molto spesso a ciò che può essere definita “rimozione forzata”;
rimuovere significa tenere lontana dalla propria coscienza l’offesa ricevuta,
ignorarla e prenderne le distanze ma questo è un processo rischioso per
l’animo umano perché non tiene conto del fatto che la ferita rimane
comunque presente e per questo non si capisce quando e come si presenterà
e in quale forma.
La seconda alterazione mira invece a negare l’offesa mantenendo il
rapporto in un limbo quanto mai opportunistico necrotizzando la relazione
stessa, ma il male fatto o subito è tale, non si può né negare né edulcorare
con un vano buonismo che prima o poi sfocerà in rabbia.
Con simile attrezzatura si scade poi in quella attività razionale che cerca
di capire l’altro, ma anche questo si rivela insufficiente, anzi
controproducente, poiché mettersi nei “panni” dell’altro può persino
alimentare ancor di più l'inclinazione a sentirsi creditori perché si può
pervenire a tale constatazione: che non si sarebbe mai fatta un’azione
offensiva come quella ricevuta, anche a ragion veduta, io questo non lo
avrei fatto.
Queste deformazioni ribadiscono qualcosa di sostanziale, ossia che
l’opera di perdonare le offese non riguarda la buona volontà umana: l’errore
è proprio attingere da noi stessi. In genere si parte sempre dalla volontà che
si cerca di foraggiare con sentimenti di compassione verso coloro che ci
hanno fatto del male, ma questi impulsi sono labili, non continuano, sono
fragili e instabili.
Possiamo provare a sbirciare un po’ nel meccanismo umano, orizzontale
del perdono: ricordo un caso sottopostomi da un mio amico, bravissimo
psicoterapeuta e psichiatra, che giustamente difendeva la sua arte, più che
legittima - non ho niente contro la psicanalisi, è una cosa buona e doverosa,
ma ha la sua pertinenza: l’equilibrio non la felicità. L’equilibrio è vitale, ma
la felicità appartiene a un altro tipo di realtà.
Si parlava, con questo mio amico, del felice esito della terapia per un
uomo che era stato oggetto di violenze da parte del padre; arrivato in terapia
distrutto e pieno di acredine, incapace di tenere nulla fuori dalla
contaminazione di questo rancore verso il padre. Questo uomo, attraverso
un percorso terapeutico di consapevolezza e di crescita, aveva trasformato
in positività tutto il male subito... fondando una Onlus per la difesa dei
diritti dei figli maltrattati! Ossia non aveva realmente risolto il problema, lo
aveva sublimato, ad una altro livello, costruttivo, solidale, ma sempre
presente. Il motore era lo stesso. Non era una Pasqua, era una
riorganizzazione di inventario. In genere sono questi i migliori risultati. Non
disprezzabili, perché si va ad un livello più nobile, ma la ferita sta ancora lì.

Il fuoco dell’ira

Bisogna tener presente che il fuoco che alimenta la difficoltà umana a


perdonare si chiama ira, che consiste in una livella interiore sbilanciata, il
senso di squilibrio che banalmente stigmatizziamo come «desiderio di
vendetta»{107}, conseguente alla convinzione di essere stati vittima di
qualcosa e alla necessità di ristabilire la giustizia ricevendo il risarcimento
per il torto subìto. Queste condizioni tuttavia trascinano con sé il rischio di
scivolare da vittime a vittimisti, e il desiderio di giustizia tramuta in
giustizieri, e le ferite sanguinanti in qualche modo aprono la porta al
sadismo. Da queste dismisure si vede il rischio ulteriore che l'ira irrisolta sa
travestirsi in giustificazione razionale della perdita del senso del limite. Un
disastro interiore ed esteriore. Le persone arrabbiate campano così, e ce ne
sono proprio tante in giro.
Ribadiamo: il problema è che perdonare implica guarire. Dice il libro del
Siracide: «Un uomo che resta in collera verso un altro uomo, come può
chiedere la guarigione al Signore?»{108}.
Puntualizziamo meglio queste tre fasi.
La prima è quando il male ci viene addosso facendoci sentire vittime;
questa identificazione sfocia in un buco nero dal quale è estremamente
complicato risalire. La tortura del ricordo del male ricevuto cristallizza la
persona in un dannoso piangersi addosso, è un inganno che fa vivere da
infantili, da bimbi piagnucolosi, accade così di non riuscire a costruirsi una
famiglia ad esempio, o interrompere rapporti oppure portarli avanti, al
contrario, per alleanze vittimistiche.
Le ferite non rimangono latenti e spesso si ingrandiscono, anche se
apparentemente sembrano le stesse. Diceva un mio amico sacerdote: un’afta
in bocca, toccata con la lingua, sembra un cocomero, poi la guardi allo
specchio ed è un puntino. È proprio così, si fa diventare un puntino, un
cocomero. È l'innamoramento del proprio dolore, con il cuore inciso sul
tronco di un albero che ha da una parte la nostra iniziale, dall’altra quella
della “D” di dolore. «Non sai quanto ho sofferto...». E, francamente, non so
mica se sia urgente che lo sappia...
Quante persone scambiano l’amore per il soccorso, quanti “infermieri” e
quante “crocerossine” corrono in aiuto scambiando l’amore (che in sé
porterebbe il farsi carico delle pene e delle offese altrui, ma in modo adulto)
con un assistenzialismo che in realtà foraggia il proprio ego, l’eroe o
l’eroina che con i loro atti salvano l’altro dal pericolo e dal dolore.
La seconda deriva è il desiderio di giustizia per cui si inizia ad avere la
testa che è una bilancia, persone perennemente arrabbiate, vomitatori di
recriminazioni, quelli che: «Dacci oggi il nostro nemico quotidiano»,
qualcuno di cui parlare male, qualcuno di cui sottolineare la cattiveria. Non
stupisce che la pagina che tira di più dei giornali sia la cronaca nera, i fatti
di sangue chiamano a identificarsi, a proiettarsi.
La giustizia diventa un totem, ma a causa di questa la gente si rovina la
vita perché la comparazione, frutto dell’invidia, inizia a misurare ogni cosa
e ogni rapporto: «Mia sorella non doveva essere più carina di me! Lei ha il
nasino carino... io questo naso... perché mio fratello è più bello e più tosto?
È un’ingiustizia...». Dietro tutto questo c’è qualcosa di non perdonato.
La terza deriva è l’aspirazione alla punizione, il sadismo che viene dopo
il vittimismo e il giustizialismo: «Gli sta bene!». Si diventa boia autorizzati
degli altri, pronti a lasciare cadere la ghigliottina in virtù del risanamento
del torto o dell’offesa.
Una cosa è da spiegare: come mai molte persone sono affascinate da
film dove appare gente massacrata, torturata e lo spettacolo è il dolore? A
pensarci il monumento-simbolo di Roma è il Colosseo: a che serviva? Un
teatro dove lo spettacolo era il sadismo, ossia la morte. Perché si trova gusto
in questo? La pulsione della tortura, così frequente nella storia,
ingiustificabile in una mente razionale e serena, da quale bassofondo risale
nell’animo umano? Come mai le persone, negli scatti d’ira, arrivano a
violenze inaudite.
Non dimenticherò mai il giorno in cui ho dovuto consolare una donna
che aveva appena assistito all’omicidio di un uomo per un problema di
parcheggio, a due passi dalla mia parrocchia di allora.
Una umanità che non ha dimestichezza col processo della riconciliazione
e che non conosce la strada per disattivare il sadismo, si può preparare ad
una quotidianità di microviolenze. Se un uomo assolutizza le sue pulsioni,
si può sentire autorizzato ad uccidere la moglie di cui sta perdendo il
controllo.
Il disturbo di personalità narcisista-ossessivo è alla base di una
agghiacciante quantità di femminicidi. Chiaro che quello è una gravissima
patologia, ma se il perdono è un illustre sconosciuto, non ci sono più argini.
Insomma, con tinte “noir” provo a ribadire che questa opera sublime è
una assoluta urgenza del nostro equilibrio interiore. Chi non perdona non
trova pace.

Solo Dio può perdonare

Come fare? Come si compie questa opera? Cosa è veramente questa


opera.
Il perdono veritiero non può nascere, ripetiamolo, da un’attitudine
semplicemente volontaria, perché questa non domina le forze interiori della
passionalità e del peccato, il perdono è radicato nella profondità dell’essere
di Dio: solo Dio può perdonare. Ricordiamo la domanda dei farisei a Gesù:
«Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?»{109}. Abbiamo visto che
Gesù non contesta la domanda, ma proclama che lui, Figlio del Padre, sta
portando la natura di Dio, il perdono dei peccati, sulla terra.
Il perdono è l’iper-dono, cioè il dono doppio; l’offesa è una parola che
viene dal rafforzativo ob e dalla radice fen che è collegata anche al termine
funesto e indica ciò che uccide, ciò che ferisce a morte. Il perdonare allora è
fare un dono doppio a chi ci è mortifero, a chi ci è funesto, a chi ci offende,
a chi ci ferisce. È il potere proprio di Cristo il prendere l’offesa, la croce e il
dolore che noi gli diamo e restituirli mutati in perdono, contraccambiarli
come redenzione. Questo manifesta la sua irruzione nel mondo, questo è la
Pasqua, questo è la redenzione.
Vediamo di focalizzare meglio il processo che tanti uomini e donne
cristiani hanno sperimentato: il male che mi è stato fatto non lo posso
togliere, ma è tanto più funesto quanto più in realtà continua a segnare la
mia esistenza, perché non riesco a perdonarlo; chi perdona esce da quella
conseguenza, è finalmente libero dal male subito, ha fatto un salto di qualità
e questo è un vitale processo di crescita, collegato proprio all’incontro con
il Creatore, Colui che sa plasmare un nuovo cuore, che sa dare la novità, per
cui non si è più incastrati nel dolore del male ricevuto.
Noi abbiamo bisogno di guarire da tutto il male che abbiamo subito,
come bisogna guarire da tutto il male che abbiamo fatto. Badiamo bene:
questo evento non è un attimo, è un cammino, un processo di ampio respiro,
si cresce, si va avanti, è una ripresa di possesso del proprio cuore, il
perdono verso chi ci ha fatto del male è un ritornare in sella alla propria
vita, è ritornare attori e non restare passivi di fronte alla propria esistenza.
Ma il percorso è tornare in seconda battuta alla relazione orizzontale
essendo prima passati per la relazione verticale, perché, appunto, il perdono
non è un atto autonomo, originale, non parte da noi. Siamo povere creature,
altrimenti pretendiamo di esser capaci di produrre tanta vita da poter creare
di nuovo la realtà ma questo, ovviamente, lo può fare solamente Dio.
Ma cosa significa partire da Dio? Vuol dire ripartire dalla necessità
primaria di essere perdonati.
Sarà sulle prime incomprensibile per qualcuno, ma quando mi trovo
davanti ad una persona che non riesce a perdonare, certamente la accolgo e
cerco di capire il suo dolore e tutto ciò che tiene quel cuore nel rancore, ma
so anche che sono davanti a qualcuno che non ha un rapporto pienamente
adulto con Dio. Mi devo spiegare. Le persone molto mature nella vita della
grazia, i santi e tanti veri cristiani, che in genere fanno poca pubblicità della
loro esistenza, hanno un senso acuto del loro debito con Dio. Analizziamo
meglio la parola “debito”: dal latino debère indica l’essere obbligati verso
qualcuno. È notevole che il Nuovo Testamento introduca questa categoria
per descrivere la realtà del peccato, che nell’Antico era forse implicita, ma
non esplicita. Ci fa passare da un concetto legale del peccato - trasgressione
di una norma - ad un concetto relazionale - non hai rispettato il nostro
rapporto e mi devi qualcosa, abbiamo un problema fra noi.
Noi pensiamo che ciò implichi il peso della gravità dei peccati. Ma
questo è ancora il concetto legale. Santa Teresina di Lisieux non ha fatto un
peccato mortale nella sua breve vita, ma aveva un senso acutissimo della
sua necessità di Dio, e del suo debito con Lui. Se interroghiamo un cristiano
domenicale sul suo orgoglio, potremmo trovarci di fronte ad una risposta
piccata, un tizio che non accetta di essere messo sotto esame, di lì a poco
può dirci il classico: «lei non sa chi sono io», o simili. Se interrogassimo
san Filippo Neri sul suo orgoglio probabilmente lo vedremmo addolorarsi e
riconoscere la sua superbia... Il senso della propria fragilità aumenta quanto
più ci misuriamo con qualcosa di sublime. Se ci misuriamo con ostacoli da
quattro soldi, siamo perfetti. Se ci misuriamo con l’amore di Dio ce ne
mancherà sempre un pezzo.
Un mio caro amico, Carlo Striano, che ora è presso il Padre, da cui ho
appreso a pensare le cose di Dio da figli e non da schiavi, diceva che
all’inizio della vita spirituale i peccati li conti a tonnellate, ma quando sei
più intimo con il Padre, i peccati li misuri a grammi e ti pesano come
tonnellate. Un animo grossolano non noterà molte cose; un animo maturo
patirà molte insufficienze nel suo amor fraterno e nel suo rapporto con Dio.
Sentirà che è sempre tanto quello che manca. Origene diceva che il rapporto
con Dio è come aver «ricevuto la dolce ferita della sua freccia»{110} Se
qualcuno ha assaggiato la pazienza di Dio, non ne può più prescindere e non
se ne sente mai all’altezza e questa non è una sensazione schiacciante,
opprimente, ma è stupore, gioia di bimbi, sorpresa, felicità di una cosa
troppo più grande di noi.
Sulla scorta di una diffusa consapevolezza patristica e spirituale, vale la
pena di farsi le domande che inquadrano il nostro stato di debito; veramente
noi abbiamo dato tutto ciò che dovevamo dare? Siamo stati quei figli di Dio
che dovevamo essere? Siamo stati i cristiani che dovevamo essere? Siamo
stati il tempio dello Spirito Santo che dovevamo essere? Quella parte del
corpo della Chiesa che dovevamo essere? Veramente non siamo debitori
verso le persone che ci stanno intorno? Siamo stati le persone che potevamo
essere?
Io non sono il prete che dovrei essere, e so molto bene che mi manca
tanto per essere quel prete che potrei e dovrei essere; in molte cose sono un
debitore verso le persone che devo servire: di un amore maggiore, di
un’attenzione molto più profonda, di una carità molto più vera; non sono
stato il figlio che dovevo essere, e non il fratello che dovrei essere. La gente
si aspetta da me più amore, e non è una pretesa assurda.
Se ci si mette di fronte alle persone che abbiamo intorno, veramente non
siamo debitori ai fratelli di maggior carità, di ben altra dolcezza, di più
profonda accoglienza? Quando lasciamo questi pensieri entrare nel nostro
cuore, finalmente diventiamo debitori e stiamo davanti al Padre dicendo:
non ho amato quanto dovrei amare, non ho dato quanto dovrei dare, molto
spesso per paura o per ansia mi sono tenuto per me la mia vita. A quel
punto iniziamo a partire da Dio.
Guardarsi così implica un dolore, non bisogna negarlo. Mettere a fuoco
le falle dei miei atteggiamenti, scoprire quanto mi manca perché mi misuro
sull’amore e non sulla giustizia mi può far vedere il baratro della mia
fragilità, e l’insufficienza di ciò che tento di fare, e questo mi può portare ad
un bivio: o rifiutare orgogliosamente la mia debolezza o consegnarla alla
misericordia di Dio. Passare la vita a cercare di dimostrare che siamo
“all’altezza” delle nostre sfide si chiama fariseismo, dove l’ansia si sposta
dall'aver amato sul serio al sentirsi “a posto”. E così ci troviamo del tutto
fuori dalle parole di Gesù a Simone il fariseo: «... colui al quale si perdona
poco, ama poco»{111}.
Dio ha tanta pazienza con noi e per quanto l’altro abbia fatto peccati
oggettivamente più grandi dei miei, o mi abbia fatto cose che io non gli
avrei mai fatto, io so che comunque davanti a Dio la mia natura è la natura
di un debitore, so che mi è necessario stare nella verità e so anche che ciò
che veramente deciderà della mia vita non è quello che l’altro mi ha fatto,
ma quello che ho fatto io.
Ma, mi permetto di dire, non è neanche qui il punto. Altrimenti forse
stiamo ancora con il peccatometro in mano, con un’attitudine matematica,
da conto da pagare. Il punto è che Cristo stesso è un felice debitore. Dio da
Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, è un figlio grato, che non
esaurisce mai il suo gioioso debito verso il Padre da cui ha ricevuto tutto.
Chissà se qualcuno capisce cosa vuol dire la gioia di un bimbo che non
arriva a stringere fra le sue piccole braccia la grandezza del suo papà, ed è
felice che sia tanto più grande di lui. «Se mi amaste, vi rallegrereste che io
vado al Padre, perché il Padre è più grande di me»{112}.
Invece, tanto spesso, noi ragioniamo da creditori... Quante persone con il
cuore gretto, che non sanno contemplare la generosità della vita,
ossessionati da ciò che gli manca. E per contro quante persone cui la vita ha
detto dei “no” molto duri, fratelli disabili o poveri, con uno stupefacente
cuore allegro e grato, che guarda sempre quello che c’è e se ne rallegra.
Quante volte la mia fede da quattro soldi è stata umiliata dalla gioia di
questi fratelli, di alcuni malati, di vari morenti. Debitori sereni davanti al
mio tristo cuore di creditore.
Quanta gente che passa la vita recriminando, puntualizzando,
amareggiando e amareggiandosi. E quanta bella gente invece, assai più
profonda e umile, esperta nell’arte della gratitudine e dell’allegria.
I primi non sanno nemmeno da dove comincia il perdono, i secondi lo
conoscono, ne hanno bisogno e lo accordano come un’ovvietà. «E chi sono
io per non perdonarti? Se sapessi che pazienza Dio ha con me...!».
Il perdono parte dal misurare tutto alla luce del rapporto con Dio.

Una storia meravigliosa di perdono

Nella Genesi{113} c’è una storia meravigliosa di perdono che varrebbe la


pena leggere con calma e che conduce alla riconciliazione di un uomo,
Giuseppe, figlio prediletto di Giacobbe, con i suoi fratelli che per invidia lo
hanno venduto come schiavo, innescando una terribile sequenza di
tribolazioni; Giuseppe, di peripezia in peripezia, non interrompe mai il
rapporto con il Dio dei suoi padri, e incontra piano piano la benevolenza di
tutti coloro che hanno autorità su di lui, giungendo ad essere il primo
ministro d’Egitto. Qui, dopo tanto tempo i suoi fratelli andranno a chiedere
pane, ignari di chiederlo al fratello tradito.
Sarebbe molto interessante analizzare il processo del perdono di
Giuseppe, che è condotto con sapienza: è un processo di crescita in cui lui
non “svende” la sua benevolenza, ma con una strategia profondissima
conduce i fratelli al ricordo del male che hanno fatto, e al riscatto attraverso
un atto d’amore reciproco. Quando Giuseppe vede un fratello che offre se
stesso al posto di un altro{114} allora si può rivelare, il loro processo di
riconciliazione è maturo e lui li può accogliere fino in fondo.
Tutto questo racconto è di una finezza psicologica straordinaria, ma ciò
che qui ci interessa è l’argomento che usa Giuseppe per motivare il suo
perdono: «“Io sono Giuseppe, il vostro fratello, quello che voi avete
venduto sulla via verso l’Egitto. Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate
per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per
conservarvi in vita. Perché già da due anni vi è la carestia nella regione e
ancora per cinque anni non vi sarà né aratura né mietitura. Dio mi ha
mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nella terra e
per farvi vivere per una grande liberazione. Dunque non siete stati voi a
mandarmi qui, ma Dio. Egli mi ha stabilito padre per il faraone, signore su
tutta la sua casa e governatore di tutto il territorio d'Egitto. Affrettatevi a
salire da mio padre e ditegli: ‘Così dice il tuo figlio Giuseppe: Dio mi ha
stabilito signore di tutto l’Egitto. Vieni quaggiù presso di me senza tardare.
’... Riferite a mio padre tutta la gloria che io ho in Egitto e quanto avete
visto; affrettatevi a condurre quaggiù mio padre ”. Allora egli si gettò al
collo di suo fratello Beniamino e pianse. Anche Beniamino piangeva, stretto
al suo collo. Poi baciò tutti i fratelli e pianse. Dopo, i suoi fratelli si misero
a conversare con lui»{115}.
L’argomento di Giuseppe è sublime: guarda la storia dalla prospettiva
della Provvidenza: «... non vi rattristate e non vi crucciate per avermi
venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per
conservarvi in vita». Il male che mi avete fatto è stato preso e messo da Dio
nel suo piano di salvezza per tutti noi. Ma questa inaudita lettura verrà
ribadita alla fine della storia.
Giacobbe scenderà e morirà presso Giuseppe che se ne potrà prendere
cura, ospitando anche i fratelli. Alla morte di Giacobbe i fratelli temono e
dicono: «Chissà se Giuseppe non ci tratterà da nemici e non ci renderà
tutto il male che noi gli abbiamo fatto?»{116}. «Allora mandarono a dire a
Giuseppe: “Tuo padre prima di morire ha dato quest’ordine: Direte a
Giuseppe: Perdona dunque il delitto dei tuoi fratelli e il loro peccato, perché
ti hanno fatto del male! Perdona dunque il delitto dei servi del Dio di tuo
padre". Giuseppe a sentire questo pianse e i suoi fratelli andarono e si
gettarono a terra davanti a lui e dissero: “Eccoci tuoi schiavi! ”, Ma
Giuseppe disse loro: “Non temete. Tengo io forse il posto di Dio? Se voi
avevate tramato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un
bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo
numeroso. Dunque non temete, io provvederò al sostentamento per voi e
per i vostri bambini Così li consolò parlando al loro cuore»{117}. Giuseppe
dice forse: «Vi perdono perché sono vostro fratello» oppure: «Vi perdono
perché vi voglio bene», o ancora: «Vi perdono perché sono buono». No.
Triangola con Dio, smarcando il rancore, dicendo: «Se voi avete pensato di
farmi del male, Dio ha pensato di farlo servire a un bene».
L'assist che riceviamo da Dio illumina la nostra coscienza e permette di
esercitare il perdono, e solo così accogliamo quella luce che ci pone nella
santa condizione di chi è consapevole di aver ricevuto tanto e reso poco.
È così che si riesce a perdonare: vivendo della generosità di Dio.
6 . SOPPORTARE PAZIENTEMENTE LE PERSONE
MOLESTE

A riguardo delle opere cristiane, ci si può chiedere cosa sia peggio, se


negarle o scimmiottarle. Da quanto abbiamo visto sinora è facile capire che
chi scrive ritiene sia peggio scimmiottarle, vivere cioè un cristianesimo
senza vita eterna, senza la vita di Cristo, vivere il proprio battesimo come
un’appartenenza ad una religione e non come un cambio di origine
dell’essere, come un rinascere dall’alto. È peggio, perché non nega il
cristianesimo, ma lo rende brutto. E quindi inutile.
Se un ragazzo è innamorato non gli si deve dire di fare qualcosa per la
donna che ama, lo fa perché non ne vede l’ora, e per lui farsi quattro ore di
treno per arrivare e stare un pomeriggio con lei e poi tornare indietro, gli
sembra che ne valga la pena e lo rende felice. Se una persona ha incontrato
Dio nella sua vita, stare con Lui non è una regola cui sottomettersi, è la sua
gioia, il suo piacere ed è naturale impostare l’esistenza stessa e tutto ciò che
ne fa parte cercando il Padre celeste in ogni atto. «È in te (Signore) la
sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce»{118}. Ma tante volte questo
non è successo, e si nota nella fatica di tener dietro alla vita cristiana, tutto è
un po’ pesante, noioso, e le opere cristiane sono inguardabili, perché fatte a
partire da noi stessi, non dalla potenza di Dio.
L’effetto è che se un giovane si sta orientando nella vita e si chiede cosa
vuole fare di bello, se guarda dalle nostre parti spesso lo spettacolo che ha
davanti è talmente scadente... Chiunque vuole provare per credere, e se
evangelizziamo come possiamo pensare di non essere soppesati, valutati,
scandagliati? Le opere di misericordia sono il banco di prova primario di un
cristianesimo che sia o secondo la grazia o secondo un’iniziativa umana. Il
primo è felice, convinto, agile, il secondo è pesante, accusatorio, deludente.
Eppure tante volte si tenta di fare questo cristianesimo “Leroy Merlin”,
impostato sul bricolage, sul do-it-yourself, fatto in casa ad ondate
bioritmiche.
Alcune volte quasi si riesce a taroccare queste opere. Ma con sopportare
pazientemente le persone moleste mi sembra che sia difficile...
Chiariamo: le opere, nel loro ordine, hanno un loro crescendo. Mi
permetto di dire che degli atti di misericordia fin qui presentati questo è il
più difficile. Potremmo pensare che la precedente, perdonare le offese,
abbia questa palma e sia il gradino più alto. No, non credo. Il perdono ha la
sua occasionalità, ed è circoscritto in un ambito, gravissimo, dolorosissimo,
ma comunque delimitato.
Una persona che stia continuativamente molestandoci, la sosteniamo un
giorno, un periodo, una fase. Ma questa è l’unica opera che ha un avverbio -
pazientemente - che indica durata, continuità.
Tener duro per un tempo, si può tentare di fare. Ma sopportare senza
soluzione di continuità la molestia, il fastidio, il disturbo, l’interruzione
reiterata... Sono cose che sfibrano il più benintenzionato dei molestati.

Un 'opera all'insegna della continuità

La parola sopportare viene da sub-portare, sostenere, mentre alla radice


di pazientemente c’è il patire, la sofferenza collegata al fatto di essere
oggetto di qualcosa che ci fa soffrire. Le persone moleste invece sono quelle
persone particolarmente pesanti, da mole appunto, quelle che ci stanno
addosso, ci pesano, sono insostenibili. La negazione di quest’opera è
l’impazienza, che è qualcosa di molto dannoso.
Anche con quest’opera non si può barare perché, sopportare
pazientemente con uno scafandro messo addosso, dove dentro si cuoce, ma
fuori si resta tranquilli, porterà a una manifestazione evidente: prima o poi
si scoppia.
Come abbiamo accennato, sopportare pazientemente le persone moleste
è opera contraddistinta da una caratteristica di continuità, infatti una
persona non ci “molesta” se fa una cosa una volta sola, ma se si ripete e in
modo insistente, e questo ci fa vedere una cosa importante: lo straordinario
è più facile dell’ordinario. «We can be heroes, just for one day» cantava
Bowie, cioè essere eroi per un giorno si può fare, ma esserlo tutti i giorni
sopportando pazientemente il collega che ha tutti i giorni quella maniera di
ironizzare che molesta in maniera scientifica, è tanto, tanto più difficile.
Si crede che un matrimonio salti per i grandi argomenti? No! Ci sono
quelle quotidianità, quelle inezie, quelle piccole irritanti abitudini, che
sgretolano la gradevolezza della vita, quelle manipolazioni femminili,
quegli individualismi maschili, quelle cose dette male, quei ritardi
ingiustificati, quell’epsilon di disagio, di scomodità che l’altro è. Sempre.
Poi arrivano i grandi argomenti, quando non vengono più approcciati con
stima reciproca, perché l’altro è pesante, è noioso, perché tornare a casa è
entrare in una cosa spiacevole. Si tira la corda e ci si dà il diritto di fare le
nevrasteniche o i superficiali, e non ci si rende conto di quanto lo si fa e
quanto sia molesto.
La parola che dobbiamo pensare è esasperazione, vuol dire rendere
aspro, ed è la condizione per cui uno tira fuori la parte inacidita. Non viene
fuori subito. Se siamo pazienti o impazienti non si verifica con un breve
test, ma con la lunga ripetizione di una molestia.
I molesti sono quelli che non fanno una volta una cosa che dà fastidio,
ma la ripetono molte volte. Sono persone costanti, coerenti con se stesse,
che ti sfasciano regolarmente e tu stai lì, e stai lì sfasciato.
Come sbrighiamo questa pratica, in genere? Quali sono i surrogati di
questa opera? La prima, urbana, civile e quanto mai ipocrita, è la tolleranza.
È à-la-page, mitteleuropea, moderna, politicamente corretta. Come spesso
dice la mia guida negli Esercizi Ignaziani, il grandissimo p. Marko Ivan
Rupnik, tollerare si tollera un veleno. In effetti non è una grande
dichiarazione d’amore: «Cara, io ti tollero». Cioè: tu sei mortifera ma io ti
reggo. Tollerare è una specie di necrosi della relazione. Capisco che tu sei
funesto e mi rendo insensibile a quello che sei. Aspettando che finisci o che
cambi. Peraltro non dura. I portatori di atteggiamenti politically-correct
quanto scattano diventano feroci. Perché sono nel giusto e quindi tutto sarà
giustificato.
Un’altra attitudine assai diffusa è il buonismo. Quale orrore. Faccio il
buono, ti sopporto. Tu fai schifo, sia chiaro, ma io invece no. Quel sorriso
da ebeti che è un’accusa vivente verso tutti. È spesso un sentimentalismo
che si trasforma in disprezzo. Dio ci salvi dai buoni, da coloro che si
vendono per privi di peccato originale, quelli che non amano ma sono più
buoni degli altri. Classisti secondo una casta invisibile, secondo il karma
antipatico di dare lezioni di vita a tutti, e quindi di servirsi ove della
succitata tolleranza, ove della rassegnazione. Comunque non si stabilisce
relazione autentica con i buonisti, perché sono -isti, non buoni. Buono,
bello, è entrare in relazione, sporcarsi le mani e arrabbiarsi, reagire quando
occorre. Non restare statuariamente impassibili, santini da collezione di
devozionista. Comunque questi scoppiano prima dei tolleranti
mitteleuropei, perché lo schema religioso o moralista impone la punizione
del molesto, presto o tardi.
Poi c’è il servilismo. Se i buonisti si ergono sopra il prossimo, i servili si
spalmano sotto i molesti, sperando di trovare uno spazio di sopravvivenza
fra la scarpa e il pavimento, sai com’è, certe volte fra il tacco e la suola c’è
qualche mezzo centimetro... Sono codardi, ovviamente, e pusillanimi.
Vanno anche perdonati, accolti. Ma non svendano la loro inconsistenza
come opera di misericordia. Non hai reagito non perché hai lo Spirito Santo,
ma perché ti mancano gli attributi per fare altrimenti. Deboli con i forti, e
forti con i deboli. Uomini che non difendono le loro donne. Sacerdoti devoti
di don Abbondio. Vescovi che danno ragione a colui con cui stanno
parlando. Gente senza personalità, che poi, trovato qualcuno meno potente
di loro, sfogano la latenza di violenza accumulata. Meglio che mi fermo
qui, che sono intollerante e cattivo...
Non va taciuto il marpionismo. Talvolta una sconfitta è una buona
strategia. Un buon stratega sa perdere qualcosa per ottenere ciò a cui tiene.
L’abitudine al doppio fine, al piano B, al trovarsi lo spazio dei propri
vantaggi nelle pazzie altrui. Gli yes-men che circondano i potenti, i viscidi
che sanno farsi tornare i conti comunque quando cambia il padrone, quelli
che riescono a far carriera sotto tutti i capi, quelli che cascano sempre in
piedi quando cambia il vescovo. Ma non avevo detto che mi dovevo
fermare?
Ma è anche l’attitudine apparentemente paziente di certe giovini
ragazzuole. Uno degli errori più gravi che si fa nel fidanzamento è aprirsi
alla meta del matrimonio pensando di “limare” i caratteri, pianificando di
“cambiare” le persone: «Adesso il mio ragazzo è così molesto, ma me lo
sposo e poi vedrai che me lo lavoro!». Errore. Questo non succede. Le
persone non cambiano personalità. Se la cambiano è dopo un coma. E
comunque se uno cambia carattere, cambia pure i gusti e non ti si piglia più.
Però dobbiamo ammettere di essere stati tutti deboli di queste e di altre
debolezze, perché il molesto è proprio molesto, e tentare di vendersi per
cristiani quando non siamo in stato di conversione è un duro lavoro, e
bisogna che qualcuno lo faccia...
Vabbè, mi sto divertendo troppo. Non si fa. Non sta bene. Dopo mi
faccio una ramanzina che non me la scordo facile.
Dare all’altro il tempo di pentirsi

Sopportare, come abbiamo visto, viene da sub-portare, sostenere, e


alfine ci porta al suo analogo di identica etimologia: supportare. È ben altra
cosa se un amico dice all’altro «io ti supporto, ti sostengo» oppure «io ti
tollero». La dichiarazione d’amore succitata, «cara, io ti tollero», piuttosto
agghiacciante, è il bersaglio mancato della dichiarazione: «io ti sostengo,
sto dalla tua parte». Se sopportare però lo colleghiamo alla semplice virtù
della pazienza umana alla fine ci colloca in uno sforzo gigantesco e assurdo,
chi può sostenere la molestia dell’altro? Chi può sostenere l’insopportabile
che l’altro sa essere? Abbiamo bisogno di ben altra radice per questo atto
così generoso.
Bisogna puntualizzare che nel nostro uso comune, sopportare e
supportare non sono sinonimi, mentre lo sono etimologicamente; noi
concepiamo il sopportare in quanto tollerare, non c’è niente da fare,
purtroppo questo è il nostro senso comune, ecco perché noi andiamo verso
l’opera della misericordia che fa diventare il sopportare un supportare, il
sostenere, accogliere l’altro, in un certo senso occuparsene, ma come
facciamo a fare una cosa così? È una domanda che ci siamo fatti tante volte
in queste opere di misericordia spirituale.
Quest’opera insegna a riconoscere un bisogno fondamentale della nostra
vita che è appunto la pazienza. Ripetiamo che quest’opera ha una qualità in
più, rispetto alle altre: lo stile.
Consigliare i dubbiosi è consigliare i dubbiosi, un verbo ed un
complemento oggetto, ammonire i peccatori è uguale, consolare gli afflitti e
perdonare le offese idem, ma sopportare pazientemente le persone moleste
ha quell’aggiunta di avverbio, di forma, quel pazientemente, che mostra la
particolarità e la bellezza di questa opera, chiarisce che si tratta di un atto
duraturo, ripetitivo, svela un’attitudine straordinaria: la pazienza, appunto.
Questa va capita meglio. È l’unica attitudine che compare in tutte e
quattordici le opere di misericordia.
La parola pazienza, in italiano, è collegata linguisticamente e
logicamente alla parola patire: è la capacità, quindi, potremmo dire, di saper
soffrire.
Il greco del Nuovo Testamento usa il termine makrothymìa. In realtà, il
senso comune che diamo alla pazienza è tutto sommato abbastanza vicino al
greco, ma in questa lingua ha una connotazione più forte. Proviamo, allora,
a scomporre la parola. “Macro” è facile, vuol dire grande; thymìa è il
femminile di thymós e indica l’animo, l’interiorità dell’uomo, la sorgente
del sentimento, del proprio essere. Più che una valenza spirituale, ha portata
piuttosto esistenziale, alla radice dell’interiorità, e si traduce con le parole
italiane anima, animo.
In realtà, mentre usiamo “anima” per dire la dimensione spirituale,
usiamo invece “animo” per definire qualcosa di più elementare, di
sentimentale. Il termine giusto è la traduzione letterale: magnanimo, ecco
esattamente cosa vuol dire la parola makrothymìa; dall’animo grande,
longanime.
Questa è la prima caratteristica dell’amore nel celeberrimo inno alla
carità di san Paolo, nella Prima lettera ai Corinzi, al verso quarto del
capitolo tredicesimo.
Allora, proviamo a intendere la pazienza come connotata, diciamo così,
di magnanimità.
Che cosa vuol dire, però, essere magnanimi, avere un animo grande?
In lingua italiana, i sinonimi di magnanimità sono: mansuetudine, calma,
pazienza, tolleranza, generosità, nobiltà. Longanime è il primo sinonimo di
magnanimo che si trova nel dizionario: la “lunghezza” dell’anima, la sua
grandezza.
Fermiamoci a considerare questi aggettivi: mansueto, calmo, paziente,
tollerante, generoso, nobile. Quando abbiamo una prova di queste qualità?
Innanzitutto, proviamo a vedere quale sia il contrario. Aggressivo,
frettoloso, impaziente, intollerante, avaro, vile.
Abbiamo, così, qualità che sono di ordine, diciamo, interiore, soggettivo,
personale, nella relazione con l’altro. Cioè, non c’è un paziente se non c’è
nulla da attendere, non abbiamo un generoso se non c’è qualcosa o
qualcuno che ha bisogno di qualcosa, non abbiamo nobiltà d’animo se non
rispetto a qualcuno che ci porterebbe invece a comportarci in modo
ignobile.
Allora, abbiamo a che fare con un atteggiamento che è una capacità. Di
fare che cosa? Di dare all’altro il tempo, lo spazio, la possibilità.
La mansuetudine si mostra in chi non reagisce alla violenza, la calma
come tranquillità di fronte a qualcosa che di per sé ingenererebbe ansia.
Dunque, la magnanimità non è una qualità interiore, che si auto-verifica, ma
è una capacità che si rende autentica a fronte degli errori altrui. È, più
diffusamente, l’atteggiamento per cui si dà al prossimo la possibilità di
pentirsi, di ravvedersi, di tornare in se stesso, a ritrovare il meglio di se
stesso.
La radice di tutto è Dio; infatti, abbiamo a che fare, lo ripetiamo ancora
una volta, con un’opera di vita eterna, un atto che è frutto dalla sinergia con
lo Spirito Santo. Infatti è uno dei frutti dello Spirito in un testo memorabile,
quello del capitolo quinto della Lettera ai Galati di san Paolo{119}.
Nell’Antico Testamento è interessante ricordare che questo aggettivo,
magnanimo, è una delle determinazioni della qualità di Dio, nel testo che
abbiamo visto nel capitolo sulla misericordia nella Scrittura, nel libro
dell’Esodo dove Dio afferma di se stesso di essere «lento all’ira»{120}
espressione che poi verrà tradotta, nell’antica versione greca cosiddetta
“Settanta”, con makrothymìa.
C’è un passaggio molto bello nella Seconda lettera di Pietro: «Il Signore
non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di
lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si
perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi»{121}.
Perché questa pazienza in Dio? Perché Dio ci dà tempo per pentirci?
Perché Dio ci vuole dare spazio e modo di ravvederci? Insomma: perché è
paziente? La risposta a questa domanda è meno banale di quanto possa
sembrare a prima vista: perché di tempo ne ha tanto, il tempo è una sua
creatura, come ogni cosa.
Noi non abbiamo pazienza con il prossimo perché per noi il tempo è
limitato, ha una fine. Noi abbiamo poco tempo. Chi non crede nell'eternità,
non ha la pazienza di Dio, non sta dalla sua parte. Siamo schiavi del tempo,
piccoli, limitati, schiacciati dalle nostre ansie, e allora siamo impazienti,
rubiamo il tempo, premiamo, spingiamo, opprimiamo gli altri quando sono
deboli, quando sono fragili, perché se diamo tempo pensiamo di perderlo, di
non averne altro in cambio.
È interessante che, nel libro dell’Apocalisse, colui che ha ansia, che è
infuriato, impaziente, è il maligno. Il demonio, che non è il signore del
tempo e della storia, ha fretta, non ha più tempo, è pieno di furore sapendo
che gli resta poco tempo, un tempo contato. Questa è la definizione di lui
che abbiamo nel libro dell’Apocalisse{122}.
La pazienza di Dio è la sua eternità. Ha a cuore l’uomo, la sua salvezza,
e accorda tutto il tempo che ci vuole per ottenerla. Perché la salvezza è più
importante del tempo che si perde per ottenerla.
Quante volte le nostre valutazioni sono discutibili, sbagliate, per il fatto
che siamo completamente condizionati da questa creatura di Dio che è il
tempo. Dice lo stesso testo di Pietro appena citato, nel versetto precedente:
«Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore
un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno»{123}. Dio
è il magnanimo, perché ha una relazione “non ansiosa” con ognuno di noi,
non temporale, non temporanea, nella completa verità.
Il tempo è una creatura di Dio, come ciascuno di noi, che invece viviamo
nel tempo e siamo schiavi del tempo, spesso. Per poter dare il tempo agli
altri bisogna possederlo, bisogna finalmente averlo. Per dare abbondanza
agli altri bisogna avere ricchezza dentro di sé.
Allora, come può passare in noi questa makrothymìa, questa
magnanimità, questa longanimità, questa pazienza commovente di Dio
verso ciascuno di noi? Come può diventare una nostra qualità, come
possiamo riceverla? Si tratta di capitalizzare ciò che noi riceviamo, di
appropriarci completamente del tempo che Dio ci dà, cioè, dello spazio
della sua misericordia, della sua pazienza.
Siamo pazienti verso il prossimo quando abbiamo ben presente tutto
quello che Dio ci ha perdonato, tutta la pazienza che Dio esercita nei nostri
riguardi.
Ci sono riflessioni che dovrebbero accompagnarci costantemente, come
l’aver sempre chiaro davanti a noi che Dio non ci tratta secondo i nostri
peccati, secondo quello che meritiamo.
Se questo mondo fosse retto dalla giustizia, se fosse in mano a un Dio
che vuole “fare i conti” con noi e che ad un dato momento smette di darci
altre possibilità, nessuno di noi si salverebbe. Dio non ci tratta secondo i
nostri peccati. Anzi, c’è una parte del nostro animo su cui stende la sua
mano misericordiosa. Nessun uomo della terra ha mai visto davvero se
stesso svergognato fino in fondo, anche le persone più esecrabili della
storia; c’è sempre una parte che Dio si riserva per il giudizio. Perché Dio è
nostro Padre, e un padre protegge il figlio.
A volte percepiamo Dio come lontano da noi, ma nell’assenza di
iniziativa da parte di Dio c’è il grido della sua pazienza. È il silenzio di un
Dio che ci guarda con occhio benevolo molto al di là della nostra
apparenza, oltre la cortina di fumo che alziamo con noi stessi e usiamo gli
uni con gli altri.
C’è da capitalizzare questa pazienza di Dio. Con la misura con cui noi
misuriamo sarà misurato a noi in cambio. E bisogna stare un po’ attenti a
dire «basta, non ti do più una possibilità», perché arriverà certamente il
giorno in cui servirà anche a noi di avere un’altra possibilità. C’è un
assegno in bianco che Dio firma a tutti e che ci mette un pochino tutti nel
santo timore di chiudere i conti.
La makrothymìa, la magnanimità dell’uomo deriva da quella di Dio. Non
è una bontà dell’uomo, non è una qualità, non è una capacità, non è
un’attitudine di nostra produzione; è una memoria, un atto di coscienza
costante, per cui uno come san Paolo, per esempio, che di natura era
giustiziere e violento come egli stesso dice di sé{124}, diventa magnanimo,
paziente, capace di dare agli altri un’altra possibilità. Noi viviamo tutti della
seconda possibilità che Dio ci dà; e poi terza, quarta, millesima.
La Chiesa vive di pazienza, di misericordia; la Chiesa si regge sulla
pazienza, sulla misericordia. Il mondo intero si regge su questa scandalosa
capacità di Dio, che ha mostrato nel suo Figlio sulla croce, di perdonarci
mentre lo uccidiamo: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che
fanno»{125}. Veramente tante volte sappiamo poco di quello che facciamo e
magari scriviamo per noi stessi i certificati di “buona condotta” per
sopravvivere alla nostra coscienza. Non ci ricordiamo, come abbiamo visto
nel capitolo precedente, che siamo debitori davanti a Dio. Dalla memoria
della pazienza di Dio sorge la dolcezza, la lentezza dell’ira, la pazienza
verso il prossimo.
Qual è la caratteristica del magnanimo, del paziente? Sapere che Dio
opera. Ogni uomo che fa il male fa soffrire gli altri, ma sicuramente avrà dei
ritorni su se stesso per questo, presto o tardi. A Dio lasciamo il ruolo di
giudice supremo. Dio che ci dà la possibilità autentica, vera, di vivere con
un senso del tempo che è ampio, non ansioso ma sapiente.
Dio sa dove portarci, come “aggiustare” le cose, sa come raddrizzare la
nostra anima.
Il magnanime, il paziente, non è però colui che resta indifferente,
piuttosto cerca la giustizia e si muove nella verità, ma lo fa a partire dalla
pace, con pazienza.
È una questione di efficacia. Una parola detta è efficace se è magnanima.
La magnanimità non è quella che porta a tacere sul male, perché se uno è
molesto, è molesto, inutile fare finta di nulla. La pazienza porta a dire
quello che c’è da dire, ma perché l’altro è mio fratello, è prezioso, non lo
posso perdere.
Non si parla ad un molesto per sbarazzarsene. Altro è tollerare
disprezzando, altro è essere gli uni per gli altri sentinelle amorevoli.

Il molesto, messaggero di Dio

All’inizio di questo capitolo abbiamo rimarcato che l’impazienza è la


negazione di quest’opera, e lo è sotto vari punti di vista, ma è utile anche
focalizzare che l’impazienza è distruttiva. Il problema, infatti, è che
discernere, edificare, fare cose veramente grandi, sono cose che richiedono
l’atteggiamento costruttivo che implica pazienza. Il passaggio dal molesto
al costruttivo si può fare solo rimuovendo la molestia? Cosa è esattamente
questa attitudine della costruttività?
L’arte di edificare è emblematica in tutta la Scrittura, edificare il Tempio
è uno dei centri dell’Antico Testamento. Nel Nuovo Testamento ci sarà da
edificare ben altro Tempio. Prendiamo un testo di san Paolo dalla Lettera
agli Efesini: «Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere
profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e
maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di
edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della
conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la
misura della pienezza di Cristo. Così non saremo più fanciulli in balìa delle
onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli
uomini con quella astuzia che trascina all’errore. Al contrario, agendo
secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a
lui, che è il capo, Cristo. Da lui tutto il corpo, ben compaginato e connesso,
con la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni
membro, cresce in modo da edificare se stesso nella carità»{126}.
Perché questo testo in questa opera? Perché ciò che ci molesta di più nei
fastidi che gli altri ci danno è che interrompono qualcosa che stiamo
facendo. E allora? Proviamo a pensare che sostenere una persona molesta è
difficile perché frantuma un nostro assetto e disturba un nostro progetto.
Magari ci impedisce di fare quello che ci sembra essere addirittura la
volontà di Dio. E se questa opera è sublime, quanto lo è, e difficile, quanto
lo è, è anche perché tocca le più profonde corde della nostra crescita
spirituale. Per amare un fratello che ci molesta mentre facciamo qualcosa di
“santo”, bisogna amarlo più della cosa che facciamo. Anche se è santa. E la
Chiesa non si edifica con i progetti ma con la carità (Dio mio, avrò ancora
un lavoro dopo questo libro, in una Chiesa innamorata dei progetti, che
frantuma spesso l’esistente per affermare l’ipotetico?).
Cosa è edificare?
Nella Scrittura, abbiamo la parabola della vedova inopportuna, che è la
molesta per eccellenza: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio
né aveva riguardo per alcuno. In quella città c ’era anche una vedova, che
andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per
un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio
e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le
farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi ” E il
Signore soggiunse: “Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non
farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li
farà forse aspettare a lungo? lo vi dico che farà loro giustizia prontamente.
Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fède sulla terra"? »{127}.
L’interpretazione di questa parabola che in questo contesto vorrei offrire
è la seguente: io sono il giudice nella vita e le persone che mi molestano mi
stanno chiedendo di crescere. Le persone che mi danno fastidio, quelle che
telefonano nel momento sbagliato, quelle che mandano all’aria le situazioni,
quelle che contraddicono, quelle che mettono il bastone fra le ruote, sono
quelle che costringono a passare dalla mia ingiustizia al piano di Dio, al fare
la giustizia.
Si tratta di fare un’opera curiosa, trasformare le persone che sono
moleste, quelle che hanno proprio l’attestato della molestia, in emissari di
Dio, in persone che Dio ci manda, che Lui permette che arrivino nella
nostra vita, perché noi, da giudici iniqui diventiamo giudici generosi; si
tratta di trasformare ogni persona molesta in una vedova inopportuna, in
fondo cosa mi sta chiedendo una persona molesta? Mi sta chiedendo di
interrompere il corso dei miei atti. Quello difatti che è particolarmente
fastidioso nel momento in cui si è molestati, è la “rottura” del nostro ritmo,
della nostra pianificazione, il planning, una situazione per cui stiamo
facendo delle cose e la persona molesta ci interrompe o ce le fa fare
diversamente o addirittura male.
C'è un santo dubbio che ci deve venire in testa: e se Dio si servisse di
questa persona? E se Dio, per interrompere il piano della nostra vita, che è il
nostro e non il suo, si servisse proprio delle persone che ci intralciano per
farci smettere di andare al nostro ritmo e andare al suo? Perché, qual è il
suo? Qual è il ritmo di Dio? Il ritmo di Dio è la pazienza, la lentezza all’ira,
come abbiamo visto. Qui si fa proprio riferimento a quella qualità di Dio: la
lentezza all’ira.
Noi abbiamo il ritmo del nostro efficientismo, dobbiamo fare cose, fare
cose, fare cose, «faccio cose, vedo gente...» e i molesti, le persone difettose,
noiose, capaci di appesantirci, ci costringono a non essere efficaci. Ma
questa è veramente una perdita? Sotto un punto di vista operativo è
drammatico, sotto il punto di vista spirituale è una mano santa straordinaria
per piegare il nostro cuore perché alla fine ci affezioniamo ai nostri ritmi, ai
nostri obiettivi, ai progetti e così, molto spesso, i difetti degli altri sono
emissari della provvidenza per stare su questa terra, per stare nella realtà,
per renderci conto che le cose vanno a buon fine se Dio ci aiuta, non se noi
siamo validi e sempre attivi.
Se lo Spirito Santo entra nel mio cuore che succede? Lo Spirito Santo
che mi dirà? Il risultato di una partita di calcio? Che tempo farà domenica
prossima? Andiamo. Lo Spirito Santo mi parla dell’opera di Dio, parla di
Dio. È lo Spirito del Figlio, lo Spirito di Cristo, lo Spirito verso il Padre,
verso Dio; noi riceviamo lo Spirito per vedere come Dio opera nella nostra
vita.
L’impaziente è colui che non sa aspettare. C’è qualcosa da aspettare
nella nostra vita? Quando succede una cosa nella nostra vita per caso c’è un
piano di Dio? Per caso, Dio attraverso le cause seconde, resta causa prima
di tutta la storia e malgrado tutti gli intoppi, come le sfere in un biliardo
sbattono tra di loro, c’è comunque un disegno? Esiste la Provvidenza?
Esiste un piano di Dio nella nostra vita? Le cose sfuggono mai dalla mano
di Dio? Dio non dà a nessuno il permesso di peccare, per esempio quando si
subisce il male da qualcuno non è che Dio dice a qualcuno “puoi fare il
male”, perché Dio non dà il permesso di peccare e mai il male è qualcosa
presente nel suo piano, ma Lui sa trarre la vita dal male, trarre la vita
dall’offesa, sa tirar fuori come dare qualcosa anche per mezzo di una
molestia.
Esiste o non esiste una direzione nella nostra storia? La vita è
provvidenziale o va avanti a casaccio?
Queste sono le domande che ci interrogano per vedere se possediamo la
vera pazienza. Dovremmo leggere san Paolo: «... ci vantiamo anche nelle
tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una
virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude,
perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello
Spirito Santo che ci è stato dato»{128}. Chi nelle tribolazioni entra nel nome
di Cristo conosce la pazienza e questa dà la virtù provata dove il probatus è
ciò che fondamentalmente è l’esperienza, il discernimento, l’aver provato,
l'esser cresciuti ossia la vita adulta, e viene dal fatto di aver visto molte
volte quale grazia Dio ha saputo regalare in mezzo ad una tribolazione. La
pazienza è quel tipo di attitudine per cui si sa che comunque, malgrado il
male umano, Dio resta Signore della storia e sta portando da qualche parte:
il punto è smettere di guardare alla persona molesta ma guardare a Dio.
E questo è la costruttività. Questo è edificare. Non essere schiavi di
un’ipotetica architettura, ma nel qui e ora costruire per mezzo di tutto quello
che ci succede. San Massimiliano Kolbe ha costruito l’amore per mezzo
della ferocia nazista. Per questo ci vuole lo Spirito Santo che parla di Dio,
non è un problema di coerenza, non è un problema di bravura o di forza! È
un problema di apertura all’opera di Dio.
Personalmente, Dio ha messo spesso le più grandi grazie nelle mani
delle persone che mi hanno fatto del male. Sono fra un po’ venticinque anni
che vivo l’esperienza dei Dieci Comandamenti, e se solo si fermasse oggi
stesso, quel che ho potuto vivere e vedere sarebbe abbastanza grande per
magnificare Dio, da parte mia, e credo da parte di migliaia e migliaia di
persone, per tutta l’eternità. Ma se racconto che tutto cominciò perché un
fratello mi fece saltare l’appuntamento decisivo per il mio dottorato? Se
racconto che provai una rabbia violenta per questo fratello molesto che
fregandosene degli accordi presi mi mandò all’aria la pianificazione dei
miei studi in quel momento? C’era un carteggio fra il Segretario del
Pontificio Istituto Biblico e l’allora Cardinal Vicario di Roma, dovevo fare
l’insegnante, dedicarmi agli studi. Ma questo fratello mi fece saltare il tutto.
Mi ritrovai libero per un mese, un settembre intero. E provai a pensare che
forse era una grazia.
Ricordo in modo indelebile quando il Signore spense la rabbia nel mio
cuore per mezzo della Lettera di Giacomo: «E ora a voi, che dite: “Oggi o
domani andremo nella tal città e vi passeremo un anno e faremo affari e
guadagni ", mentre non sapete quale sarà domani la vostra vita! Siete come
vapore che appare per un istante e poi scompare. Dovreste dire invece: “Se
il Signore vorrà, vivremo e faremo questo o quello ”»{129}. Era l’estate del
1993. Nel settembre, a dottorato saltato almeno per quel momento, portai i
ragazzi a due ritiri, cotti e mangiati. I più importanti che abbia mai fatto.
Erano i due primi gruppi dei Dieci Comandamenti.
Voglio bene a quel fratello. Mi ha fatto del bene. C’è tanta gente a cui è
arrivato del bene per merito suo. Dovrei raccontare molte altre cose, ma
sarebbe complicato sollevare la cortina di fumo per non smascherare i
difetti di alcune persone, ma posso dire che le persone moleste mi hanno
sempre fatto del bene. Le più grandi grazie della mia vita me le hanno
portate loro. E il combattimento è sempre stato lo stesso: passare dalla mia
intelligenza alla Provvidenza.

Il “ritmo ” di Dio
C’è Dio dietro la mia storia? C’è Dio dietro quello che mi capita?
Quante volte si diventa duri, feroci, non ci si può parlare, perché abbiamo in
testa un obiettivo e non vediamo altro? Dio nella sua misericordia ha
previsto che l’uomo sia libero, e questo implica che nel mondo ci possa
essere il peccato e il peccato ci arriva addosso e spesso per mano di
qualcuno. Il Signore Gesù Cristo accoglie il male e lo restituisce per dono,
noi prendiamo il male come un errore da scansare, da buttare via e non
come una maniera per essere come il Padre che è paziente. Molte volte
frustriamo il piano di Dio su di noi, contristiamo lo Spirito Santo,
vanifichiamo le grazie che Dio ci manda e Lui ricalcola il percorso un’altra
volta riprendendo la strada per salvarci lo stesso malgrado le nostre
opposizioni.
Infatti bisogna pensare anche a quanto noi siamo molesti per Dio, quanto
siamo molesti per Gesù Cristo, per quel pastore che deve smettere di
pascolare il gregge, lasciando le novantanove pecore per andare a cercare,
mandando all’aria tutti i suoi progetti, quella pecora che s’è perduta?
Bisogna andare appresso a lei, prenderla sulle spalle, è molesta quella
pecora, però che allegria ritrovarla! Così è fatto Dio, a Lui interessa
trovarci, interessa portarci sulle spalle. Quando Cristo ha subito da noi
molestia, è entrato nel disegno del Padre e ci ha salvato.
La pazienza non è passività, non è rassegnazione ma è sfruttare il dolore,
quel concreto patire, valorizzarlo perché diventi cosa? Attesa. Ecco, la
pazienza è dire «io sto aspettando qualcosa di così importante che può
passare anche per questo», è accettare un costo per qualcosa di molto bello,
il poter patire in vista di qualcosa. «Se qualcuno vuol venire dietro a me
rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare
la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la
troverà»{130}; prendere la croce è il secondo atto, il primo è rinnegare il “sé”,
il negare l’innamoramento dei propri pensieri, accettare che quello che si
pensa non è un assoluto, essere liberi da quello che si progetta. Essere liberi
dalla propria vita. In greco psyché.
Senza ombra di dubbio, il più grande predicatore nella Scrittura è Mosè.
C’è un libro intero, il Deuteronomio, dove sono presenti quattro lunghissimi
discorsi di Mosè, parla sempre lui, parla, parla, ma dobbiamo ricordare che
Mosè era balbuziente{131}, il popolo di Dio stava lì e doveva ricevere la
Parola di Dio da una persona con difficoltà verbale! Pensa che pizza! Ma se
hai la pazienza di stare a sentire quello che dice, questo ha parlato con Dio e
nessuno finora ha mai parlato così; tu lo diresti in un quarto del tempo, ma
non diresti mai quello... Lento e immenso, o veloce e insulso? Vedi tu...
Che vuol dire? Che il “ritmo” di Dio non è il mio, «Perché i miei
pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie.
Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie
sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri»{132}.
A volte esiste anche una molestia, per così dire, santa; se nella vita ci
siamo imbattuti in qualche persona che porta avanti qualcosa di molto
santo, di molto buono, qualcuno che serve i poveri, che aiuta gli emarginati,
ci siamo trovati molto spesso di fronte a persone insistenti, martellanti, che
vogliono talmente tanto bene ai poveri di cui si occupano che non mollano
la presa e insistono finché non ottengono ciò di cui hanno bisogno i loro
poveri, persone che sanno essere moleste fino al punto di far aprire il cuore.
Molte volte abbiamo incontrato persone tenaci nel fare il bene fino alla
molestia, fino a ottenere, magari da potenti molto indifferenti, un bene per
qualcuno, don Oreste Benzi ad esempio, a mio povero avviso un santo della
nostra epoca, una persona dolce ma insistente, che chiedeva, chiedeva, per
le povere donne che lui liberava dall’oppressione della prostituzione,
chiedeva aiuto e lo otteneva. Nelle sue battaglie felici era sapientemente,
dolcemente, misericordiosamente molesto, sapeva dar fastidio finché non
otteneva il bene che cercava: questa è molestia santa e pure opportuna.
Tutti quanti noi alla fin fine abbiamo dovuto accettare che qualcuno che
ci chiedeva tanto una cosa aveva ragione nel chiedercela, che ci voleva
interrompere il corso delle nostre giornate alla fine era bello che ce le
interrompesse. Un bimbo sa essere molesto, ma è anche giusto che lo sia: è
un bimbo, cosa deve essere? Deve cercare la nostra attenzione! I giovani
sanno essere molesti, ma è giusto che lo siano, cercano paternità, cura, uno
sguardo, cercano sapienza, ed è giusto che ce la chiedano e speriamo che
non si stanchino di chiedercela, e che non si scoraggino se trovano in noi
freddezza.
C’è una frase di Francesco d’Assisi tanto bella: «Tanto è il bene che mi
aspetto che ogni pena m’è diletto»{133}, la pena, che è sulla mia strada, mi è
addirittura piacevole, perché so che mi porterà al bene.
Quando è che la persona molesta è insopportabile? Quando perdo di
vista il bene verso cui cammino. Quando la persona molesta è sopportabile,
è sostenibile? Quando non la considero estranea al bene che io sto
perseguendo. Quale bene? Noi camminiamo per cosa? Se abbiamo detto
prima che il nostro problema sono i nostri disegni che si spezzano, vuol dire
che noi teniamo a cuore i progetti, allora c’è da comprendere che l’unica
cosa che vale la pena avere a cuore è... il nostro cuore, la sua capacità di
amare.
Si vive per imparare ad amare, questo è il compito fondamentale della
mia esistenza, sono nato per conoscere, amare, servire il Signore in questa
vita e nella prossima e lasciarmi amare da Lui. Sulla lapide della tomba di
Chiara Corbella c’è scritta questa meravigliosa frase: «L’importante nella
vita non è fare qualcosa ma nascere e lasciarsi amare», io sono nato per
amare, quindi non è estraneo a questa mia sfida il fatto che qualcuno mi dia
fastidio, m’intralci, mi sia molesto, è proprio il banco di prova, è proprio la
strada dove io cresco, io voglio aver pazienza per sopportare le persone, ma
la realtà è che le persone insopportabili mi insegnano la sapienza, sono in
funzione della crescita del mio cuore se io decido di crescere.
Se la mia attesa è ben orientata, cosa attendo io? Il momento in cui me
ne sto per i fatti miei e finalmente mi riposo e mi faccio le mie cose? O io
aspetto di arrivare al traguardo dell’amore e perdere me stesso amando
veramente? Se quello che io attendo, se la mia pazienza è in vista di questa
meta, non è così insostenibile l’idea che qualcuno ci metta alla prova, che ci
esasperi un po’: costruire l’amore implica pazienza. Si vive in una mentalità
usa e getta, dove le cose devono essere immediate e senza durata, ma
l’amore non può essere così, l’amore è fedele, e quello di Dio è eterno, il
nostro mira a diventarlo.
L’amore è stabile, è indissolubile, tutto l’amore, non solamente l’amore
fra gli sposi, ogni rapporto se è vero, è indissolubile, non è in vista di una
rottura, ogni amicizia è indissolubile se è vera, ogni fraternità è
indissolubile se è vera, ma questo richiede pazienza, non la logica
utilitaristica dello sfruttamento. Questo vale anche per il creato, ne parla
splendidamente papa Francesco nella Lettera enciclica Laudato sì’
sull’ecologia, l’uomo sfrutta il mondo invece di coglierlo come dono e
come occasione d’amore.
Dobbiamo andare in profondità, quella profondità che è il centro e la
verità dell’essere: siamo nati per imparare l’arte dell’amore vero. Le
persone moleste sono maestri perfetti, esercitazioni viventi.
Per vincere una gara è meglio che ad un atleta in allenamento gli si
mettano difficoltà serie; così siamo anche noi: dobbiamo arrivare ad amare
come Gesù Cristo e ci lamentiamo se Dio ce ne dà l’occasione? Dio nella
sua misericordia ci ha regalato le nostre persone moleste, teniamocele
strette perché se perdiamo loro, perdiamo anche la via dell’amore.
7 . PREGARE DIO PER I VIVI E PER I MORTI

Quante volte, portando i giovani a conoscere i monasteri di clausura,


nello spazio del dialogo con le monache, li ho sentiti domandare; ma non vi
sembra che chiudervi qui dentro sia una perdita di tempo? Nel mondo ci
sono un botto di problemi, che state a fare qui? Perché sprecare la vita in
modo così inutile?
È impressionante come questo tipo di affermazioni/domande sembrano
molto “sociali” o “solidali”, ma rivelano, in realtà, una visione
individualista che si concretizza nel pensare che uno parte e va salvare il
mondo ognun per sé, ad uzzo proprio, secondo le proprie lune più o meno
diritte.
E si perde, veramente, in quel caso, un sacco di tempo e di energia. Per
disorganicità e unilateralità. Mentre il bene è di per sé di ben più ampio
respiro che l’attività di un singolo.
Ho sentito le monache rispondere facendo spesso lo stesso esempio: ma
lo sai che la Chiesa è un corpo? Lo sai che siamo uniti tutti quanti? Ognuno
di noi fa una parte della stessa missione. Lo vedi don Fabio che
evangelizza? Ma lo sai che don Fabio non è niente senza di noi? Tu vedi le
tue mani muoversi e fare cose “utili” ma lo sai che hai un cuore nel petto
che se smette di battere le tue manine non fanno proprio niente? Ma tu lo
sai che ci sono persone dietro a don Fabio che lo tengono in piedi e con te
non parleranno mai, ma ti aiutano per mezzo di don Fabio?
Una volta ho mandato una ragazza a chiedere il certificato di battesimo
alla sua parrocchia, documento utile per fare un tempo di prova in un
monastero. Non l’avesse mai fatto: il prete gli ha fatto una filippica
sull’inutilità dei monasteri. Una cosa ho saputo per certo: che quel prete non
prega, o lo fa talmente male che non capisce quanto sia urgente.
Se le cose che faccio non partono dalla preghiera, divento grigio, in
bianco e nero, trasparente, senza profondità. Perché non ho toccato il mio
cuore e soprattutto non me lo son lasciato toccare. E divento un
professionista. Dio mi salvi! E soprattutto salvi il popolo di Dio da un prete
che non prega.
Cristo ha salvato il mondo. Sì, ma dopo trenta anni di silenzio. E pure
quando s’era messo in giro a menar le mani si prendeva degli irritanti
blackout: «Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si
ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con
lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: “Tutti ti cercano! ”.
Egli disse loro: ‘‘Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io
predichi anche là; per questo infatti sono venuto! ”»{134}. E a Simone gli
tocca lasciare casa sua, Cafarnao, per andare a zonzo.
Gesù non si muove se non parte dalla preghiera. E nella preghiera scopre
il suo “altrove”, la sua direzione. Stare fermo per poter partire. Tutta la sua
missione parte da quaranta giorni di preghiera. E prima della cosa più
importante che avrà da fare, patire, morire, esser sepolto e risorgere, va ad
innescare tutto al Getsemani. Non per pianificare. Non per attrezzarsi. Per
dialogare con il Padre suo celeste.
E ha pregato per me sulla croce. L’uomo che ha segnato la storia più di
ogni altro, l’ha fatto in una sublime inutilità. Sulla croce, senza alcun
movimento concesso. Nessuno più inutile di uno così. Noi diciamo: ho le
mani legate, non posso fare niente. Lui inchiodate. E ha salvato il mondo
intero.

Parlare a Dio degli uomini

L’ultima delle opere di misericordia spirituale, quindi, è pregare Dio per


i vivi e per i morti. Come mai viene per ultima nella lista? Perché è la meno
importante? Normalmente, nelle dinamiche di fede, l’ultimo è il punto di
arrivo, la meta.
Come vedevamo, istintivamente noi ci muoviamo come se mettersi a
pregare sia un’attività sicuramente nobile, ma, con spirito pratico, a caldo
sulle cose, la vediamo come meno urgente o meno efficace rispetto alle altre
opere di misericordia. Il nostro efficientismo e il nostro padreternismo ci
portano ad agire, risolvere, muoverci... e invece stare fermi a parlare con
Dio... vabbè, dopo, pure, appena posso, sicuro, sta certo, aspetta che arrivo,
intanto iniziate voi, che qui ci sono dei problemi da risolvere.
Ma questa opera è “l’oltre” delle altre opere. Perché? Le opere di
misericordia sono per servire gli uomini e quelle spirituali, almeno quattro
su sette, sono per parlare agli uomini di Dio. Ma tante volte questo non è
possibile, non riusciamo a farlo perché non abbiamo le condizioni o perché
p p p
è proprio inutile: l’altro non ascolta e non accoglie. Allora dal parlare agli
uomini di Dio tante volte bisogna passare al parlare a Dio degli uomini.
Infatti bisogna rimarcare: qui non si parla di preghiera generica -
qualcuno potrebbe pensare che qui abbiamo l’opportunità di affrontare la
preghiera come atto in sé. No, l’argomento è: pregare Dio per i vivi e per i
morti. Qui dobbiamo parlare della preghiera specifica di intercessione. È
interessante ricordare una frase di san Giovanni Crisostomo: «A pregare per
se stessi costringe la necessità, mentre a farlo per gli altri stimola la carità
fraterna»{135}.
Eppure noi possiamo pregare per gli altri senza carità, senza cuore,
distrattamente come molte volte succede nelle formulazioni di preghiere
assembleari e magniloquenti; ad esempio preghiamo per la pace nel mondo,
ma è un atto estetico, roba di rappresentanza.
Infatti questa opera enumera, fra i suoi succedanei, un peculiare
surrogato: la preghiera non si oppone solo alla “non preghiera”, ma alla
preghiera superficiale. La preghiera richiede amore, e l’amore è un
movimento da me all’altro che in questo caso passa per il dialogo con Dio.
Pensiamo quante volte abbiamo nettamente percepito la preghiera come una
realtà epidermica, formale.
Questo tipo di opera ha una strana caratteristica: è invisibile, non è
un’opera che dà un riscontro, un’attestazione relazionale, come le altre. Se
io prego per te tu non mi vedi farlo, e viceversa. E così capita che ci si
promettano preghiere a ripetizione. Veramente tutti pregano gli uni per gli
altri come dicono? È cinico dubitarne, o è da realisti?
Perché è necessario l’amore per la preghiera di intercessione? Per due
motivi: per Chi supplichiamo e per coloro per cui supplichiamo.
Prima di tutto perché noi non preghiamo un ente, non presentiamo
un’istanza burocratica che innesca una procedura ecc. Dio guarda il nostro
cuore e non ci darà mai una cosa che veramente non chiediamo sul serio.
«Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà
aperto»{136}. La forza di questa frase del Vangelo sta proprio nella prima
parte: chiedete. Se non chiedete e non bussate come vi si potrà dare?
Chiedere è implorare, e nello stesso tempo credere che l’altro ha il potere di
esaudirci. Qui sono implicate un bel po’ di cosette serie, tipo: la sincerità, la
fede, lo slancio, la costanza.
Se guardiamo la distrazione con cui si trascinano le ripetizioni dei
formulari nelle preghiere dei fedeli domenicali... Ci dovrebbe essere gente
che parla energicamente con l’Onnipotente; meglio: ci dovrebbe essere un
esercito di figli che con una fiducia incrollabile supplicano il loro buon
Padre, come fa un bambino che vuole a tutti i costi una cosa dalla mamma e
la assilla finché non la ottiene.
Bisogna pensare che la preghiera è un paradossale combattimento con
Dio. Nel libro della Genesi, ad esempio{137}, Giacobbe lotta tutta la notte
contro Qualcuno che nel buio non riesce a vedere chiaramente; piano piano
capirà che l’avversario è Dio stesso. E da quella notte uscirà sia indebolito -
perché ha conosciuto il suo limite - che è rafforzato, cambiato, maturato: e
infatti cambia il suo nome in “Israele”, nientemeno. È un episodio chiave
nell’Antico Testamento, appare qui il Patriarca per eccellenza, l’uomo che
ha conosciuto la natura profonda del rapporto con Dio e che rivela
l’importanza della serietà del pregare. La lotta infatti simbolizza la volontà
di Dio di farci crescere nel nostro vero desiderio di preghiera. Benedetto
XVI diceva infatti di questo episodio: «La preghiera richiede fiducia,
vicinanza, quasi un corpo a corpo simbolico non con un Dio nemico,
avversano, ma con un Signore benedicente... per questo l’autore sacro
utilizza il simbolo della lotta, che implica forza d'animo, perseveranza,
tenacia nel raggiungere ciò che si desidera»{138}.
Il combattimento della preghiera, quindi.
La Chiesa dice: «La preghiera è una lotta. Contro chi? Contro noi stessi
e contro le astuzie del tentatore che fa di tutto per distogliere l’uomo dalla
preghiera, dall’unione con il suo Dio. Si prega come si vive, perché si vive
come si prega»{139}.
Invece le preghiere dei fedeli spesso vengono lette con un tono tale da
guadagnare lo “share” di attenzione della dissertazione sull' estinzione
dell'ornitorinco plantigrado nel basso Angola.
Questo è dovuto, in parte, alla nostra china liturgica da andazzo
pavloviano, a riflesso condizionato, un atto da farsi con la testa altrove dove
corpo e lingua reagiscono a filastrocca, con il coinvolgimento interiore
paragonabile alla lucetta di stand-by del televisore. Inizia la messa e parte la
marcia del reparto e si fanno le cose tutti insieme, unò-pì, unò-pì., da
qualche parte arriviamo. In mezzo ci sarebbe pure la preghiera esplicita per
i nostri fratelli e il mondo intero. Ma che davvero? Abbiamo pregato per i
terremotati? Sicuro? Non so, non ci stavo badando.
Ma il nostro stato di autoreferenzialità individualista tendenziale, che è
ben più preoccupante della deriva formale liturgica, ci porta ad osservare i
problemi delle altre persone che ci circondano e del mondo, con algida
distanza. Il telegiornale mentre mangi, i fatti del mondo come lo sfondo
generico del quadro della vita. Altre volte, al contrario, c’è una
partecipazione sentimentale, occasionale, da epidermide cardiaca, ma non
qualcosa che ci tocca veramente. Ossia con durata: ci passa lo stato d’animo
e neanche ci ricordiamo.
Le tragedie altrui sono cibo per la curiosità, non interrogazione
esistenziale, personale, interpellante.
Il punto è che per la preghiera ci vuole l’amore perché le grazie passano
per l’amore. E ciò che domandiamo a Dio non ha canale migliore, il mondo
viene salvato dall’amore. E tutte le cose belle che dobbiamo fare su questa
terra se le facciamo senza amore sono inguardabili, fredde. Ciò che ci fa
passare dal fare cose solo per dirle di averle fatte al farle veramente è
quando il nostro cuore è coinvolto.
Il problema è quindi che questa opera richiede qualcosa di molto nobile
nel profondo della nostra esistenza. Richiede che parta dalle viscere del
nostro essere. Pregare Dio per i vivi e per i morti vuol dire dimenticarsi di
sé e centrare tutta la propria attenzione, il nostro desiderio, sulla necessità
dell’altro, sulla premura per l’altro che si esprime in un atto che non avrà
riscontro, non avrà visibilità, di cui forse nessuno ci dirà grazie.

Un ’opera che sgorga dalla nostra impotenza

Allora quest’opera è fondata in una relazione che va a Dio e che riguarda


gli altri. Quest’azione sgorga, se sgorga, quando noi constatiamo la nostra
impotenza, quando noi scopriamo che non possiamo fare di più — come se
pregare fosse poco. Ma in realtà lì andiamo al nocciolo di tutte le opere che
facciamo.
Pensiamo al caso dei genitori. I genitori devono fare tante cose per i loro
figli, nella paternità e maternità c’è la cura concreta e oggettiva e tutte
queste opere possono essere intese tranquillamente in una chiave
genitoriale.
I genitori danno da mangiare e bere a questi affamati e assetati che sono
i loro bimbi, che loro accolgono e vestono perché arrivano nudi e da
proteggere, da alloggiare con cura, da assistere quando sono malati, da
aiutare quando si incastrano nelle loro paure. Quanti consigli da dare ad un
bambino, quanti dubbi da affrontare, quante cose belle da insegnargli,
quanti errori da correggere con amore, e quante volte bisogna consolarli,
incoraggiarli, ridar loro fiducia. Che bel mestiere!
E poi bisognerà perdonarli mille volte, e Dio solo sa quanto ti sa ferire
un figlio. E quanto sanno essere molesti! Che pazienza che ci vuole! E ce
l’hai. Ti viene.
Ma c’è un momento in cui tu, genitore, scopri che non puoi più far
niente per tuo figlio, perché lui non ti sta più a sentire, non ti sopporta, ti
accusa di cose che non riesci nemmeno a capire, sei diventato inutile, ti
scansa.
Peggio: viene il giorno in cui un padre e una madre scoprono che
potrebbero fare qualcosa, ma non lo devono fare perché il figlio deve
crescere, deve essere autonomo, va rispettata la sua libertà, sennò resta un
bamboccio. Quanta gente rifiuta quel giorno e non passa alla fase ulteriore:
accettare di non dover fare più niente per il figlio.
In quel giorno puoi solo pregare, in quel momento puoi e devi metterti a
fare preghiere, digiuni, elemosine per tuo figlio, senza dirglielo.
Puro amore, pura gratuità dove si è genitori fino in fondo. E questo
implica un rapporto sano, oggettivo, con la nostra impotenza. Abbiamo dei
limiti; e questa cosa implica l’apertura alla preghiera. Ma per quest’ultima
ci vuole il senso di Dio, il senso della Sua potenza, l’inchinarci di fronte a
qualcosa che solo Lui può fare.
Tante volte noi vorremmo convincere il cuore delle persone e sappiamo
che questo non è alla nostra portata. Noi possiamo solo offrire il nostro
cuore a Dio. E guai a noi se non lo facciamo. Molte volte per non esserci
messi a pregare abbiamo forzato le cose. Dovevamo metterci a pregare
invece abbiamo inondato di parole i dubbiosi, assillato gli afflitti, esasperato
gli erranti, confuso gli ignoranti. Per superbia abbiamo continuato a dire e
fare cose che non dovevamo fare, mentre dovevamo fermarci al nostro
posto e, nel segreto, alzare le mani, non in segno di resa ma di preghiera:
«Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte»{140}.
Quanto è difficile accettare di essere creature. La preghiera è un atto
tipico della creatura verso il suo creatore, di un piccolo verso il suo punto di
riferimento, di un essere limitato e mortale verso ciò che è la sorgente della
vita, quali siamo noi di fronte all’Eterno.
Non arriviamo a questa opera tante volte perché non accettiamo di dire
«qui io finisco», «qui mi fermo». Quante volte roviniamo la nostra vita per
interventismo.
Capiamoci: non sto dicendo che non possiamo fare tutto quello che
dobbiamo fare, o che dobbiamo orientarci a fare meno possibile. Ci vuole
equilibrio in tutto, e logicamente anche in questo. Infatti c’è un altro
paradossale surrogato di questa opera: pregare per qualcuno quando
potremmo fare qualcosa per lui. Pure questo è assurdo.
Pensare che potremmo metterci a risolvere un problema per una persona
e dire invece: io prego per te. Ovvio che è meglio fare quella cosa per lei.
Qui viene richiesto un senso della realtà, una nobiltà di percezioni, un senso
della misura delle cose, che solo la carità, quella vera, può dare.
Noi possiamo passare dalla preghiera distratta all’opposto, pervenendo
all’interventismo, ma ci sarebbe la posizione equilibrata, la preghiera
amorevole che si è interrogata se poteva ancora fare qualcosa e quando
accetta di aver incontrato il suo limite diventa grido verso Dio, supplica e
relazione con lui.
In questo senso noi dobbiamo stare attenti: tutto questo implica la fede.
E tutto questo è collegato essenzialmente con un aspetto del dono del
Battesimo: nelle prerogative del nostro Battesimo c’è il sacerdozio comune
dei fedeli.
C’è chi è ministro del sacerdozio di Cristo, coloro che sono ordinati, i
sacerdoti; ma in realtà ogni cristiano è un sacerdote, ogni cristiano ha
accesso al cuore di Dio, perché è suo figlio, e può intercedere per il mondo
intero, può intercedere per tutte le persone. Sappiamo che la Chiesa vive di
preghiera, perché vive di un cuore nascosto e pulsante che irrora tutte le sue
parti di questa relazione con Dio.
Abbiamo iniziato ricordando proprio questa risposta delle monache di
clausura ai giovani che porto talvolta a confrontarsi con loro. È bello citare
il testo di santa Teresina di Lisieux che ispira quella risposta: «Siccome le
mie immense aspirazioni erano per me un martirio, mi rivolsi alle lettere di
san Paolo, per trovarmi finalmente una risposta. Gli occhi mi caddero per
caso sui capitoli dodici e tredici della Prima lettera ai Corinzi, e lessi nel
primo che tutti non possono essere al tempo stesso apostoli, profeti e dottori
e che la Chiesa si compone di varie membra e che l’occhio non può essere
contemporaneamente la mano. Una risposta certo chiara, ma non tale da
appagare i miei desideri e di darmi la pace.
Continuai nella lettura e non mi perdetti d’animo. Trovai così una frase
che mi diede sollievo: “Aspirate ai carismi più grandi. E io vi mostrerò una
via migliore di tutte ”. L’Apostolo infatti dichiara che anche i carismi
migliori sono un nulla senza la carità, e che questa medesima carità è la via
più perfetta che conduce con sicurezza a Dio. Avevo trovato finalmente la
pace.
Considerando il corpo mistico della Chiesa, non mi ritrovavo in nessuna
delle membra che san Paolo aveva descritto, o meglio, volevo vedermi in
tutte. La carità mi offrì il cardine della mia vocazione. Compresi che la
Chiesa ha un corpo composto di varie membra, ma che in questo corpo non
può mancare il membro necessario e più nobile. Compresi che la Chiesa ha
un cuore, un cuore bruciato dall'amore. Capii che solo l’amore spinge
all’azione le membra della Chiesa e che, spento questo amore, gli apostoli
non avrebbero più annunziato il Vangelo, i martiri non avrebbero più
versato il loro sangue. Compresi e conobbi che l’amore abbraccia in sé tutte
le vocazioni, che l’amore è tutto, che si estende a tutti i tempi e a tutti i
luoghi, in una parola, che l’amore è eterno.
Allora con somma gioia ed estasi dell’animo gridai: O Gesù, mio amore,
ho trovato finalmente la mia vocazione. La mia vocazione è l’amore. Sì, ho
trovato il mio posto nella Chiesa, e questo posto me lo hai dato tu, o mio
Dio.
Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l’amore ed in tal modo sarò
tutto e il mio desiderio si tradurrà in realtà»{141}.
Santa Teresina, la patrona delle missioni, dell’evangelizzazione, è una
donna che non si è mai mossa dal suo monastero, è morta giovane, pregava
e sapeva, per averlo percepito nel momento chiave del suo discernimento,
che il cuore di tutto è l’amore, e l’essere in contatto con l’amore è vitale per
la salvezza del mondo intero, e per la Chiesa.

La sostanza di tutte le opere

Vale la pena di ribadire: in questa opera noi troviamo la sostanza di tutte


le altre opere, perché la preghiera per i vivi e per i defunti è l’invisibile delle
altre opere. Proviamo infatti a pensare che cosa diventano le altre opere se
non vengono dalla preghiera.
A pensarci bene, inoltrandoci in questo viaggio siamo stati attenti ad
enumerare i surrogati delle opere di misericordia spirituale, e questi
surrogati, se li guardiamo in profondità, avevano una fonte costante,
partivano sempre dalla stessa identica radice: l’assenza del rapporto con
Dio. E di conseguenza erano scimmiottature che mancavano di profondità.

Quando non c’è un cuore dietro l’atto che compio, è perché non c’è
preghiera. Perché parto da me stesso e non da Dio. E quello che offro è
mediocre. Non ha eternità. Perché di mio non ho eternità, e non me la
procuro a martellate di volontarismo. La misericordia è la ricchezza di Dio.
Non la mia.
Si può dar da mangiare agli affamati o dar da bere agli assetati senza
misericordia. Possibile? Questo è proprio il tema fondamentale del capitolo
tredicesimo della Prima lettera ai Corinzi, quello caro a santa Teresina: «Se
parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei
come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il
dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza,
se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità,
non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il
mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi
servirebbe»{142}.
Potrei dare il mio corpo, dare tutti i miei beni, ma senza amore. Io non
ho bisogno dell’amore per fare concretamente le opere. Per farle, le faccio
pure. Ma bisogna vedere come.
Potrei vestire gli ignudi, ma potrei farlo senza dargli dignità, come un
distributore automatico, mentre chi ti veste è sempre un po’ come Dio dopo
il peccato{143}, che cuce le vesti - l’immagine è di una tenerezza infinita - per
Adamo ed Eva che si vergognano, un Padre che copre i suoi bimbi deboli;
posso alloggiare i pellegrini come un albergatore, senza chiedermi se li ho
ospitati veramente nel mio cuore, senza “fare casa” con loro; potrei visitare
gli infermi per sentirmi in pace con la coscienza perché non ero ancora
andato a trovare quella persona malata e non ci faccio una bella figura, ma
non entrare nel suo dolore, espletare la pratica e andarmene quando il
quorum di imbarazzo ha raggiunto il livello massimo di sostenibilità. Io
posso visitare i carcerati, ma rimanere estraneo alla loro condizione. O farlo
con degnazione.
La più emblematica è l’opera corporale di seppellire i morti: che cos’è
seppellire i morti senza pregare per i morti, e senza credere nella vita
eterna? È un’attitudine da becchini, facendo un’opera fisica senza il senso
della perdita della persona, semplicemente mettere nella tomba una persona.
Lo si chiama “affossare”?
Noi non possiamo fare le opere di misericordia corporale senza la
settima opera di misericordia spirituale.
E non possiamo fare neanche le altre sei opere di misericordia spirituale
senza l’opera della preghiera. Pensiamo a consigliare un dubbioso senza
aver pregato, senza esser stati prima nella certezza di Dio che ci serve per
poter parlare con il dubbioso e senza essere entrati nel suo dubbio per capire
il dramma.
Pensiamo che cosa possa essere l’insegnare senza preghiera nel cuore,
senza amore dietro, vuol dire dare sulla testa dell’altro i dati senza cura del
suo bene più grande, del suo cuore.
Pensiamo cos’è l’ammonizione di un peccatore senza la preghiera: si
vede tanta gente che deve rimproverare il prossimo, deve puntualizzare, dire
“la verità”. C’è da chiedere: ma tu stai pregando per la persona che devi
ammonire? Ma tu sei disposto a digiunare per quella persona, a fare
un’elemosina - di quelle serie - per quel fratello? Ma tu veramente preghi
per questa persona? Allora, se non hai pregato, sta’ zitto, meglio che non ti
metti a fare questo atto di saccenza che non può essere fatta da chi non è
discepolo di Dio misericordioso.
E così perdonare le offese: si può fare come un atto di semplice recupero
della propria pace, atto di cura dei propri problemi. Infatti tante volte si
millanta il perdono, si crede di aver raggiunto il perdono, ma invece si è
semplicemente spostata l’attenzione; non c’è la preghiera e l’amore per
l’altro.
E così anche sopportare pazientemente una persona molesta si può fare
facendo passare il tempo nell’attesa che l’altro sparisca, ci lasci in pace, e
non come un mio percorso interiore in cui cresco nella pazienza dell’amore;
questo cammino interiore può scaturire solo da Colui che è paziente, lento
all’ira, ricco di grazia, pieno di misericordia.

Solo l'amore crea

Le opere di misericordia se non nascono dall’intimità di Dio, se non


nascono dal segreto tra noi e Dio, ma da dove vengono? Cosa potrebbero
mai essere? Saranno solo filantropia orizzontale, limitata al senso della
giustizia e del proprio perfezionismo e non avranno profondità, non
toccheranno il segreto. Le opere di misericordia corporale e spirituale hanno
bisogno dell’invisibilità della preghiera. Se io non vengo da questa
relazione che è la relazione che mi dà l’amore e che è entrare nel rapporto
della Santissima Trinità e che da figlio chiedo al Padre quell’amore che è lo
Spirito Santo, ma cosa posso andare a fare dopo? Nella relazione trinitaria
ogni Persona fa emergere l’altra, è questo il vero amore, il parametro su cui
basare le opere. Cristo intercede presso il Padre e lo Spirito Santo ce lo
rivela.
Da dove vengono le opere di misericordia corporale e spirituale? Tutto il
nostro viaggio è stato inteso come uno sdoganamento delle opere di
misericordia dall’orizzontale al verticale, dal visibile all’invisibile, dal
semplice umano all’umano toccato dal divino, dai nostri balbettii affettivi
alla carità che è virtù teologale e un dono di Dio. Passare da ciò che
improvvisiamo da soli a ciò che Dio può fare in noi, e solo Lui sa come,
perché sennò tutte queste opere si possono surrogare con il nostro
buonismo, attivismo e perfezionismo.
La preghiera è un atto che non dà riscontro davanti agli altri, è un
segreto, è un luogo intimo, o perlomeno lo dovrebbe essere. Se in quel
segreto c’è il nostro rapporto con il prossimo, e se il nostro rapporto con il
prossimo è davanti a Dio, allora quando arriviamo al prossimo portiamo
Dio. Cioè se io me la vedo con Dio al riguardo degli altri, con gli altri me la
vedrò al riguardo di Dio. E ciò che io faccio, forse senza bisogno di
chiacchiere e sbandieramenti, diventa annunzio, diventa evangelizzazione,
perché vengo dall’amore, vengo dalla realtà dell’invisibile di Dio.
«Solo l’amore crea!», è la frase che san Massimiliano Kolbe disse prima
di essere internato ad Auschwitz. Quanto è vero, l’amore non solo vince
l’odio ma dà la forma meravigliosa a tutto ciò che compiamo.
Dobbiamo ricordare una cosa fondamentale nella vita cristiana: non è
prioritario il cosa, ma il come.
La cosa più incisiva è con che cuore facciamo le cose.
Gli atti possono essere magniloquenti, ma anche le pompe del mondo lo
sono, ma ingannano il mondo e non vengono da Dio.
Le nostre opere possono essere anche piccole, ma nascere dal Padre e
dalla libertà dal nostro ego.
Allora salvano il mondo. Perché gli danno sapore.
Ma una domanda ci siamo fatti qua e là nelle altre opere, e perché non
porla anche adesso? Se le altre tredici opere nascono dalla quattordicesima,
quest’ultima da dove nasce? Da dove sgorga la preghiera? Come si arriva
alla preghiera? Da dove si tira fuori un vero grido verso l’Eterno? Semplice:
dall’angoscia.
Come? Da cosa? Dalla povertà, dai nostri limiti, dalla nostra impotenza,
dalle necessità, dall’angoscia, ripeto. Ossia? Dio ci ha fatto il dono
dell’angoscia per ammettere di non bastarci, di aver bisogno di Lui, di avere
i conti che non tornano, di dover chiedere aiuto.
Ma da questa angoscia ci difendiamo, cerchiamo di eluderla
intontendoci, alienandoci.
Ma bisogna porre meglio la domanda: da dove uscirà una preghiera per i
fratelli vivi e defunti che sia sincera? Beh, si tratta di cercare l’angoscia che
porta al grido di aiuto, e c’è da fare un lavoro un po’ amaro: farsi arrivare al
cuore il dolore altrui. Guardarlo e non fare zapping. Restare sul dolore,
focalizzare la perdita.
Quando ti fa male il cuore per qualcuno che hai perso o che soffre, allora
preghi veramente per lui. Non ci dormi, non riesci a pensare ad altro, provi
una pena profonda, senti le lacrime che stanno ad un millimetro dall’orlo.
Sì, preghi, supplichi, implori. E sei disposto a rinunciare a quello che è tuo
perché Dio lo aiuti.
L’amore non nasce dalla pancia piena. L’amore non nasce dal comfort.
L’amore nasce dallo spiffero amaro dei tuoi limiti, che, se non ti opponi,
diventa una porta aperta per farti amare debole e poi aprire gli occhi sulla
debolezza altrui e sentirne il peso, il dolore. Allora arriva la premura, da
debole a debole.
La misericordia di Dio cerca la nostra povertà e la ama.
E la nostra povertà, una volta amata, diventa misericordia.
Ringraziamenti

Il libro è dovuto alla perseveranza di molti che hanno insistito perché lo


scrivessi. A tutti quelli che ricordano di avermi detto in qualche modo che
mi dovevo mettere a fare questa cosa va il mio ringraziamento. Per non
sentirvi più, ho speso così le mie due settimane e mezzo di vacanze. E
avevate ragione voi. Mi ha fatto bene; l'ho scritto al confine fra il riposo e la
preghiera.
Nella stesura mi hanno aiutato i ragazzi che frequentano il percorso dei 7
Segni, trascrivendo le catechesi e le trasmissioni, e soprattutto il principale
imprescindibile responsabile di questo è testo è Fabrizio Fontana, che mi ha
aiutato in tutto e per tutto nella stesura in modo sapiente, garbato e
arricchente.
Debbo anche ringraziare la mia collaboratrice, Elisabetta Palio, che mi
fa molte volte da scaricabarile, e ha pazienza con il mio rude carattere.
Per non offendere qualcuno, a parte questi due, non ringrazio
esplicitamente nessun altro, così ne offendo molti di più. È una questione di
efficace democrazia.
NOTE

{1}
Es 34,6-7.

{2}
Ef 2,4.

{3}
Sal 1,136,1-6.

{4}
Sal 136,10-11.

{5}
Sal 136,25.

{6}
Is 49,6.

{7}
Sal 103,8-13.

{8}
Dt 8,5.

{9}
Es 34,7.

{10}
Lc 1,46-55.

{11}
Lc 6,36.

{12}
Mc 2,5.

{13}
Mc 2,6-7.

{14}
Mc 2,8-12.

{15}
Gv 20,19-23.

{16}
Mc 1,11.

{17}
Mc 15,34.

{18}
Gv 20,21.
{19}
Gv 13,23-25.

{20}
Gv 1,18.

{21}
1Gv 4,7.

{22}
Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et Spes, 14.

{23}
Mt 25,31-40.

{24}
Gc 2,18.

{25}
1Cor 2,12-16.

{26}
René Descartes, Discours de la Méthode, IV.

{27}
C.S. Lewis, Le Cronache di Narnia, Mondadori, Milano 2005, p. 567.

{28}
Giovanni Paolo II, Veglia con i giovani, 2, XVII Giornata Mondiale della Gioventù, Toronto, 27
luglio 2002.

{29}
Gv 11,21-27.

{30}
2Cor 1,17-20.

{31}
Sal 49,21.

{32}
Agostino, De vera religione, 39, 73.

{33}
Agostino, La Trinità, 8,2.

{34}
Sal 51,7-8.

{35}
Blaise Pascal, Pensieri - Sottomissione, 268.

{36}
Sal 119,75-76.

{37}
Mt, 227,46; Mc 15,34.

{38}
Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, p. 1523.

{39}
George Orwell, 1984, Cap. I.

{40}
Gen 3,1. A dire il vero l’attuale traduzione è imprecisa. Alla lettera l’ebraico del testo gioca su
un’ambiguità che anche nella lingua italiana è possibile innescare. Il testo sarebbe: «È certo che Dio
ha detto: non mangerete di tutti gli alberi del giardino?». Ci sono vari trabocchetti, ma uno è quello di
giocare sul «non tutti gli alberi». Sono due significati presenti: 1. Non mangerete da tutti alberi -
negazione totale del mangiare dagli alberi; 2. Non da tutti gli alberi mangerete - negazione parziale,
c’è qualche albero di cui non mangerete. Anche in italiano si può giocare su questa ambiguità: «non
puoi leggere tutti i libri» può essere inteso sia come: 1. non puoi leggere nessun libro; 2. non tutti i
libri li puoi leggere. Quindi, a rigor di logica, il serpente non dice neanche una cosa falsa, perché è
vero che Eva non può magiare da tutti gli alberi. Ma il gioco fra negazione assoluta e parziale è
innescato. Eva risponde come se dovesse giustificare un divieto assoluto. Ed è così entrata nel
sistema operativo del serpente.

{41}
Gen 3,4.

{42}
Papa Francesco, Evangelii gaudium, nn. 135-159.

{43}
Mt 16,15-16.

{44}
Mt 16,21-23.

{45}
Mt 16,24-25.

{46}
Sal 119,97-99.

{47}
Gv 14,6.

{48}
Mt 23,8-10.

{49}
Mt 28,19-20.

{50}
Tre sono i doni dell'ordinazione sacerdotale, chiamati in latino "tria munera": 1. il dono di
santificare, ossia essere tramite della grazia sacramentale, di ambito eminentemente liturgico; 2. il
dono di amministrare, ossia di governare nella comunione la comunità o le realtà che al singolo prete
vengono affidate; 3. il dono di insegnare, di essere maestri nella fede. Munus sanctificandi, munus
regendi, munus docendi. In genere si viene addestrati ai primi due, e i preti, storicamente, non li
hanno mai trascurati. Per il terzo...

{51}
Lc 23,33-34.

{52}
Lc 24,13-16.

{53}
Lc 24,17-19a.
{54}
Lc 24,19b-24.

{55}
Lc 24,25-27.

{56}
Amedeo Cencini, La formazione in tempi di rinnovamento, articolo citato sul sito:
http://dimensionesperanza.it/psicologia-e-spirituali-ta/item/3207-la-formazione-in-tempi-di-
rinnovamento-amedeo-cencini.html.

{57}
Gv 1,18.

{58}
Gv 5,19-20.

{59}
Tt 2,11-13.

{60}
Gv 18,37.

{61}
Gal 5,1.

{62}
La traduzione porta, letteralmente, il senso del verbo elenchein che è «testimoniare contro,
mostrare la colpevolezza di qualcuno, convincere qualcuno del suo errore». La traduzione CEI del
1974 riportava in modo più intellegibile il senso con equivalente dinamico di traduzione: «Ascolta,
popolo mio, ti voglio ammonire».

{63}
Sal 81,9.

{64}
Sal 81,10-11.

{65}
Sal 81,12.

{66}
Sal 81,14-17.

{67}
Sal 81,13.

{68}
Mt 7,1-5.

{69}
Gv 8,3-9.

{70}
At 4,8-12.

{71}
Eb, 12,11.

{72}
Giovanni Crisostomo, Catechesi Battesimali e ai Misteri, Catechesi prima, pp. 31-32.
{73}
Mt 18,15-18.

{74}
Mt 18,18.

{75}
Lc 15,8-10.

{76}
Mt 5,43-48.

{77}
Gc 1,20.

{78}
Benedetto XVI, Angelus, 4 novembre 2012.

{79}
Tb 13,2.

{80}
Qo 1,15.

{81}
Gb 4,7-8.

{82}
Gb 5,6-7.

{83}
Gb 1,1: «Viveva nella terra di Us un uomo chiamato Giobbe, integro e retto, timorato di Dio e
lontano dal male».

{84}
Gb 6,29-30: «Su, ricredetevi: non siate ingiusti! Ricredetevi: io sono nel giusto! C’è forse
iniquità sulla mia lingua o il mio palato non sa distinguere il male?».

{85}
Gb 5,17-18.

{86}
Gb 8,5-7.

{87}
Gb 11,7-10.

{88}
Gv 19,30.

{89}
Gb 42,5.

{90}
Gb 42,7.

{91}
Mt 5,3-10.

{92}
Possiamo, per capire meglio, analizzare il comportamento del figliol prodigo, nella parabola di
Lc 15, ove si vede un buon esempio di una dinamica relegante: egli si trova in un vicolo cieco perché
ha dilapidato tutti i suoi beni «vivendo da dissoluto», in greco asotōs, da a (privativo) e sōtòs che
deriva da sōterìa, salvezza, soluzione; il dissoluto è colui che non ha soluzione. Tipico del male è
proprio mettere alle “strette”, confinare in un sistema ellittico dove ciclicamente si reitera senza
uscire dal “loop” distruttivo. Il dissoluto sperpera tutto cercando un piacere che non arriva mai perché
incastrato in una dinamica autodevastante, angosciante.

{93}
Gv 14,26.

{94}
Gv 16,13.

{95}
Rm 8,18.

{96}
2Cor 4,17.

{97}
Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Salvifici Doloris, 19.

{98}
Tonino Bello, Il parcheggio del Calvario, in Omelie e scritti quaresimali, vol. 2, Luce e Vita,
Molfetta (BA) 2005, p. 307.

{99}
2Cor 1,3-7.

{100}
Is 50,4-10.

{101}
Catechismo della Chiesa Cattolica, 1818.

{102}
Giovanni Paolo II, Discorso di inizio pontificato, 22 ottobre 1978.

{103}
Papa Francesco, Omelia, XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù, Domenica delle Palme, 24
marzo 2013.

{104}
Rm 5,5.

{105}
Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Salvifici Doloris, 23.

{106}
Sal 103,3.

{107}
Catechismo della Chiesa Cattolica, 2302.

{108}
Sir 28,3.

{109}
Mc 2,7.

{110}
Origene, Commento al Cantico dei Cantici, 3.
{111}
Lc 7,47.

{112}
Gv 14,28.

{113}
Gen 37,1.

{114}
Gen 44,33 - 45,4.

{115}
Gen 45,5-15.

{116}
Gen 50,15.

{117}
Gen 50, 17-21.

{118}
Sal 36,10.

{119}
Gal 5,22.

{120}
Es 34,6.

{121}
2Pt 3,9.

{122}
Ap 12,12.

{123}
2Pt 3,8.

{124}
1Tm 1,13.

{125}
Lc 23,34.

{126}
Ef 4,11-16.

{127}
Lc 18,2-8.

{128}
Rm 5,3-5.

{129}
Gc 4,13-15.

{130}
Mt 16,24-25.

{131}
Es 4,10: «Mosè disse al Signore: “Perdona, Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono
stato né ieri né ieri l’altro e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono
impacciato di bocca e di lingua”».
{132}
Is 55,8-9.

{133}
Francesco d’Assisi, come riportano le fonti francescane, disse questa frase l'8 maggio del 1213
a san Leo nel Montefeltro.

{134}
Mc 1,35-38.

{135}
Giovanni Crisostomo, In Mt hom., 14.

{136}
Lc 11,9.

{137}
Gen 32,23-33.

{138}
Benedetto XVI, Udienza Generale, 25 maggio 2011.

{139}
Catechismo della Chiesa Cattolica, 2725.

{140}
Es 17,11.

{141}
Dall'«Autobiografia» di santa Teresa di Gesù Bambino, Manuscrits autobiographiques, Lisieux
1957,pp. 227-229.

{142}
1Cor 13,1-3.

{143}
Gen 3,21.

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