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MARAPCANA.TODAY
Prefazione di
MONS. MATTEO ZUPPI
PREFAZIONE
INTRODUZIONE
Corpo e spirito
1 . CONSIGLIARE I DUBBIOSI
Il bisogno di sapere
L’edificazione dell’altro
Insegnare ed educare
3 . AMMONIRE I PECCATORI
"Convincere di peccato"
La correzione fraterna
5 . PERDONARE LE OFFESE
Il fuoco dell’ira
Il “ritmo ” di Dio
NOTE
PREFAZIONE
Corpo e spirito
L’edificazione dell’altro
Focalizziamo due atti che l’insegnante deve fare e che spesso non
vengono debitamente distinti: insegnare ed educare.
Si può apprendere senza lasciarsi educare e ci si può lasciar educare
senza apprendere.
Ad esempio Pietro, un giorno mostra di aver ricevuto l’insegnamento:
«Disse loro: “Ma voi, chi dite che io sia? ”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il
Cristo, il Figlio del Dio vivente ”»{43}. Subito dopo però: «Da allora Gesù
cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e
soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e
venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise
a rimproverarlo dicendo: “Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà
mai". Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: “Va ’dietro a me, Satana! Tu mi
sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!
”»{44}.
Alla fine dirà Gesù: «Allora Gesù disse ai suoi discepoli: “Se qualcuno
vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.
Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la
propria vita per causa mia, la troverà”»{45}.
Pietro ha un dato, ma non l’obbedienza al dato. C’è una realtà fatta dal
sapere, ma non dall’obbedire, aver capito l' insegnamento ma non agire
secondo lo stesso.
Per contro può esserci anche un obbedire ma non sapere, essere
educatissimi ma ignoranti: è il caso dei farisei che hanno una minuziosa
osservanza pragmatica della legge, ma non riescono a riconoscere il Signore
a cui obbediscono. È quanto in sostanza Gesù denuncerà nel terribile
capitolo ventitreesimo del Vangelo di Matteo.
Quindi insegnare agli ignoranti è un’opera raffinata che implica non solo
un’informazione da appioppare a qualcuno, ma da consegnare
sapientemente per fare apprendere l’altro. Non è un’opera che ci s’inventa,
è radicata nella Scrittura.
Il cuore dell’Antico Testamento è di fatto riconoscibile nella legge, in
ebraico Torah, che trae origine dal verbo yrh che implica in primis “vedere”
ma viene ricondotto all’atto di indicare con il dito una direzione, per cui
porta in sé i significati di “indicazione”, “avvedutezza”, “istruzione”,
“avvertimento”, “via”. Quindi più che “norma” rimanda piuttosto alla
ricezione di una “sapienza”.
L’istruzione si trova al centro di tutto l’Antico Testamento. Dice il
Salmo 119: «Quanto amo la tua legge! La medito tutto il giorno. Il tuo
comando mi fa più saggio dei miei nemici, perché esso è sempre con me.
Sono più saggio di tutti i miei maestri, perché medito i tuoi
insegnamenti»{46}.
A sua volta Gesù è stato un maestro, anzi “il” Maestro.
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù parla in modo strano del conoscere la
via: «Io sono la via, la verità e la vita»{47}. In questo testo si parla appunto
della vera conoscenza, ma di quale? Qual è il vero insegnamento di Gesù?
Egli parla ancora di un altro maestro: lo Spirito Santo. Ancora una volta
pare che l’uomo abbia la necessità di essere discepolo, colui che impara.
La condizione dell’uomo, appunto, non è porsi davanti alla vita come
maestro ma come uno che ha sempre da imparare: «Ma voi non fatevi
chiamare “rabbi ”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti
fratelli... E non fatevi chiamare “guide ”, perché uno solo è la vostra Guida,
il Cristo»{48}.
Nella chiusura del Vangelo di Matteo, Gesù consegna tre azioni, due
sono collegate all’insegnamento: «Andate dunque e fate discepoli tutti i
popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo,
insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato»{49}.
Ammaestrare, insegnare, battezzare, come detto due su tre implicano
consegna, “traditio” di sapienza. La Chiesa è madre per il battesimo e
maestra per le altre due indicazioni. Ma come è possibile che ai seminaristi
non si insegni ad insegnare? Ma cosa è successo perché non ci sia
addestramento al munus docendi{50}? Almeno un tempo nei seminari si
insegnava la retorica, ampollosa ma adeguata alla ricezione popolare. Si
pensi a Mussolini con una retorica che oggi, se la rivediamo, ci sembra un
film comico, allora aveva un’indubitabile devastante efficacia.
Invece oggi l’ammaestramento nella fede è lasciato alla dotazione
ormonale dei candidati.
Che disastri son stati compiuti in nome di questa opera! Quali oscuri
fantasmi di inquisitori non patentati, ma anche patentati, invadono la
fantasia pensando all’autorizzazione di correggere il prossimo, alla furia
perfezionista e moralista con cui sono cresciute generazioni censurate a
priori, con la convinzione che il richiamo e il rimprovero siano comunque e
sempre atti leciti.
Ah! Che abbiamo fatto del cristianesimo, facendolo diventare la frusta
etica della società, il rimprovero religioso che incute derive di auto-
castrazioni!
Quanti formatori che, non sapendo veramente coltivare cuori, hanno
risolto il dilemma educativo con la risorsa del senso di colpa, sparato in
tutte le direzioni, indiscriminatamente.
Con quale frutto? Appena il mondo si è emancipato ha preso a calci
questo esercito di moralisti, odiando ogni censura in maniera altrettanto
furiosa. E il risultato non è equilibrato, ahimè, ma equiparabile per
bruttezza: nessun limite, niente è male, il concetto stesso di peccato è da
abolire, distruggere, stracciare.
E le persone sprofondano nei gorghi dell’autodistruzione senza poterla
nemmeno sospettare come dannosa, perché di niente si può più dire: «è
sbagliato». Cosa? Chi? Come si permette?! L’intolleranza della tolleranza è
violenta quanto l’inquisizione moralista.
Chiarire cosa sia questa opera è assai grave. Ma sarebbe un po’ tutto il
cristianesimo che necessita di de-mistificazione, perché ha subito un fuoco
doppio di fraintendimento: da parte dei cristiani immaturi, che, come dice la
Lettera ai Galati, da redenti son tornati di nuovo sotto il giogo della
schiavitù{61} con le loro asfissie colpevolizzanti e perfezioniste, e di contro
da parte di una mentalità saccente, superficiale, piena di luoghi comuni
post-illuministi intrisi di generalizzazioni spesso sentimentali, carnali e
infantili.
Così da una parte si è massacrato il senso dell’ammonizione, che, come
vedremo a breve, sarebbe in realtà tutto intessuto di cura, di amorevolezza,
di sano timore per la salute e salvezza altrui, mentre dall’altra si è
polverizzato il senso del peccato, dell’errore, nella sua accezione
esistenziale, quella di disastro, di tragedia.
Dell’ammonizione si è ritenuto il senso pervertito di un interventismo
aggressivo, del peccato si è sovradimensionato il suo secondario aspetto
etico e legale.
Che macello! Forse è meglio saltarla proprio questa opera? Abbiamo i
requisiti per poterne parlare?
Ci proviamo, un po’ come con tutte le cose che sono in questo volume,
proprio per tentare, umilmente, di fare un po’ di luce, demistificare,
appunto. In fondo è quello che si cerca di fare sempre, da queste parti.
"Convincere di peccato"
Il secondo dono dello Spirito coinvolto è il Timor di Dio, quel senso del
rischio che è apprensione bella, sana, calda, amorevole, nei confronti
dell’altro, non poter vedere che si distrugga, che implica il temere per
l’altro, avere paura per lui. L’aspetto più essenziale di questo atto è la cura
dell’altro, darsi pena per lui e usare tutto ciò che si è e si ha per poterlo
aiutare.
Dall’altra parte salvarsi vuol dire - sempre - accettare di essere corretti, e
questa è una cosa che non mette a proprio agio, abbiamo dei cecchini
interiori a tutela delle nostre mura che possiedono una grande reattività e i
mattoni del nostro orgoglio sono alquanto spessi. San Paolo, nella Lettera
agli Ebrei, parla dell’amarezza della correzione: «Certo, sul momento, ogni
correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo, però, arreca
un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati
addestrati»{71}.
Accogliere la correzione è molto difficile, tante volte chi corregge lo fa
malamente, ciò nonostante se si prende nel verso giusto può essere sempre
utile, può far crescere, anche quando è mal fatta. Ma richiede un’attitudine
che è una nostra vecchia conoscenza, fondamentale in chi corregge e in chi
è corretto, l’umiltà.
Pretendere a priori che l’altro accolga ciò che gli si dice è sempre una
pretesa un po’ esagerata; l’attitudine corretta vuole che si desideri portare
l’altro a salvarsi dai propri errori perché umilmente consapevoli di doverci
salvare dai nostri. La famosa trave nel nostro proprio occhio. Correggere
qualcuno nasce primariamente dal correggere se stessi, prima di combattere
esternamente si deve battagliare internamente.
C’è un passaggio dell’immenso san Giovanni Crisostomo, che nelle
catechesi a coloro che vengono preparati al battesimo afferma: «Reprimi
dunque l’ira, placa il furore; se qualcuno ha commesso ingiustizia, se
alcuno ha usato violenza deploralo, non sdegnarti, compiangilo, non andare
in collera e non dire: “subisco un ’ingiustizia nell’anima ”. Non vi è
nessuno che subisca ingiustizia nell’anima, a meno che noi non
commettiamo ingiustizia a noi stessi nell’anima, e ti spiego in che modo.
Ti sottrasse qualcuno il patrimonio? Non commise ingiustizia riguardo
all’anima, ma, riguardo alle ricchezze; se tu invece serbi rancore hai
commesso ingiustizia verso te stesso nell’anima. Infatti le ricchezze
sottratte non ti danneggiarono in nulla, anzi ti giovarono: invece tu, non
avendo deposto l’ira, renderai allora conto di questo rancore.
Qualcuno ti oltraggiò e ti maltrattò? Non commise affatto ingiustizia
riguardo all’anima, ma neppure riguardo al corpo. Tu ricambiasti gli
oltraggi e maltrattamenti? Tu commettesti giustizia a te stesso nell’anima,
dovendo rendere conto allora delle parole che pronunziasti.
Questo soprattutto voglio che voi sappiate, che nessuno può commettere
ingiustizia a te stesso nella anima, neppure il diavolo»{72}.
Devastante. Notare bene: anima in greco si dice psichê... Davvero devo
aggiungere un commento a questo testo, pietra tombale su tutti i vittimismi?
Quando partiamo dal nostro bisogno di correzione, e sappiamo bene che,
come dice san Giovanni Crisostomo, le vere ferite interiori ce le facciamo
da soli, allora sapremo umilmente approcciare la correzione del fratello.
La correzione fraterna
Dove ci porta questa cinica riflessione? Alla necessità del perdono. Vale
a dire: il problema dell’assoluzione dell’altrui male non è una questione di
lusso, non è un prodotto di alto borgo esistenziale. No. Senza perdono per il
male ricevuto ci si blocca. Si cammina fermi sul posto. Non si va oltre.
Tutto ciò che non perdoniamo pulsa dentro di noi come un sepolto vivo.
Puoi pure scrivere un libro sulle opere di misericordia spirituale, ma: o hai
perdonato il male ricevuto oppure no. E i surrogati non funzionano.
E in molti siamo sempre in mezzo al guado, ancor dobbiamo arrivare
alla soluzione compiuta. Ma possiamo stare più o meno avanti.
Ma guarda tu che razza di contraddizione: senza perdono non si riesce a
sbloccare il profondo dell’essere e nello stesso tempo non abbiamo il
perdono come dotazione base, è una cosa che si riceve e non si produce in
casa.
Vediamo di capirci qualcosa.
«Egli perdona tutte le tue colpe»{106}. Le parole di questo salmo
esprimono magnificamente la grandezza di quest’opera di misericordia
perché, di fatto, il perdono è propriamente l’atto più vicino al cuore di Dio,
una grazia donataci dal suo amore misericordioso che permette di vivere la
relazione con Lui e conseguentemente con il prossimo, due aspetti che
rappresentano il centro e il fine stesso della vita umana.
Per comprendere dunque cosa sia e cosa comporti il perdonare le offese
bisogna ripetere l’assioma suesposto: il perdono non è opzionale. Nessun
rapporto umano è possibile senza perdono, nessuna verità relazionale e
frontalità autentica è pensabile senza tenere conto della propensione al male
che affetta il cuore dell’uomo e per la quale si rende quanto mai necessario
l’antidodo del perdono. Là dove sia presente una qualche flebile
consapevolezza di questa necessità, comunque il bisogno di essere
perdonati sembra più urgente dell’esigenza di perdonare, vedremo che
questo è vero genealogicamente, ma non esistenzialmente.
Come sempre, si deve porre l’attenzione sulla modalità umana di alterare
la verità dell’atto misericordioso annullando la grazia e rendendo inefficace
l’azione del vero perdono, condizione che richiede di diagnosticare alcune
falsificazioni che non portano all’attuazione e allo scopo dell’azione
misericordiosa stessa.
Nell’ambito di un’offesa, per esempio all’interno di un rapporto, si
assiste molto spesso a ciò che può essere definita “rimozione forzata”;
rimuovere significa tenere lontana dalla propria coscienza l’offesa ricevuta,
ignorarla e prenderne le distanze ma questo è un processo rischioso per
l’animo umano perché non tiene conto del fatto che la ferita rimane
comunque presente e per questo non si capisce quando e come si presenterà
e in quale forma.
La seconda alterazione mira invece a negare l’offesa mantenendo il
rapporto in un limbo quanto mai opportunistico necrotizzando la relazione
stessa, ma il male fatto o subito è tale, non si può né negare né edulcorare
con un vano buonismo che prima o poi sfocerà in rabbia.
Con simile attrezzatura si scade poi in quella attività razionale che cerca
di capire l’altro, ma anche questo si rivela insufficiente, anzi
controproducente, poiché mettersi nei “panni” dell’altro può persino
alimentare ancor di più l'inclinazione a sentirsi creditori perché si può
pervenire a tale constatazione: che non si sarebbe mai fatta un’azione
offensiva come quella ricevuta, anche a ragion veduta, io questo non lo
avrei fatto.
Queste deformazioni ribadiscono qualcosa di sostanziale, ossia che
l’opera di perdonare le offese non riguarda la buona volontà umana: l’errore
è proprio attingere da noi stessi. In genere si parte sempre dalla volontà che
si cerca di foraggiare con sentimenti di compassione verso coloro che ci
hanno fatto del male, ma questi impulsi sono labili, non continuano, sono
fragili e instabili.
Possiamo provare a sbirciare un po’ nel meccanismo umano, orizzontale
del perdono: ricordo un caso sottopostomi da un mio amico, bravissimo
psicoterapeuta e psichiatra, che giustamente difendeva la sua arte, più che
legittima - non ho niente contro la psicanalisi, è una cosa buona e doverosa,
ma ha la sua pertinenza: l’equilibrio non la felicità. L’equilibrio è vitale, ma
la felicità appartiene a un altro tipo di realtà.
Si parlava, con questo mio amico, del felice esito della terapia per un
uomo che era stato oggetto di violenze da parte del padre; arrivato in terapia
distrutto e pieno di acredine, incapace di tenere nulla fuori dalla
contaminazione di questo rancore verso il padre. Questo uomo, attraverso
un percorso terapeutico di consapevolezza e di crescita, aveva trasformato
in positività tutto il male subito... fondando una Onlus per la difesa dei
diritti dei figli maltrattati! Ossia non aveva realmente risolto il problema, lo
aveva sublimato, ad una altro livello, costruttivo, solidale, ma sempre
presente. Il motore era lo stesso. Non era una Pasqua, era una
riorganizzazione di inventario. In genere sono questi i migliori risultati. Non
disprezzabili, perché si va ad un livello più nobile, ma la ferita sta ancora lì.
Il fuoco dell’ira
Il “ritmo ” di Dio
C’è Dio dietro la mia storia? C’è Dio dietro quello che mi capita?
Quante volte si diventa duri, feroci, non ci si può parlare, perché abbiamo in
testa un obiettivo e non vediamo altro? Dio nella sua misericordia ha
previsto che l’uomo sia libero, e questo implica che nel mondo ci possa
essere il peccato e il peccato ci arriva addosso e spesso per mano di
qualcuno. Il Signore Gesù Cristo accoglie il male e lo restituisce per dono,
noi prendiamo il male come un errore da scansare, da buttare via e non
come una maniera per essere come il Padre che è paziente. Molte volte
frustriamo il piano di Dio su di noi, contristiamo lo Spirito Santo,
vanifichiamo le grazie che Dio ci manda e Lui ricalcola il percorso un’altra
volta riprendendo la strada per salvarci lo stesso malgrado le nostre
opposizioni.
Infatti bisogna pensare anche a quanto noi siamo molesti per Dio, quanto
siamo molesti per Gesù Cristo, per quel pastore che deve smettere di
pascolare il gregge, lasciando le novantanove pecore per andare a cercare,
mandando all’aria tutti i suoi progetti, quella pecora che s’è perduta?
Bisogna andare appresso a lei, prenderla sulle spalle, è molesta quella
pecora, però che allegria ritrovarla! Così è fatto Dio, a Lui interessa
trovarci, interessa portarci sulle spalle. Quando Cristo ha subito da noi
molestia, è entrato nel disegno del Padre e ci ha salvato.
La pazienza non è passività, non è rassegnazione ma è sfruttare il dolore,
quel concreto patire, valorizzarlo perché diventi cosa? Attesa. Ecco, la
pazienza è dire «io sto aspettando qualcosa di così importante che può
passare anche per questo», è accettare un costo per qualcosa di molto bello,
il poter patire in vista di qualcosa. «Se qualcuno vuol venire dietro a me
rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare
la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la
troverà»{130}; prendere la croce è il secondo atto, il primo è rinnegare il “sé”,
il negare l’innamoramento dei propri pensieri, accettare che quello che si
pensa non è un assoluto, essere liberi da quello che si progetta. Essere liberi
dalla propria vita. In greco psyché.
Senza ombra di dubbio, il più grande predicatore nella Scrittura è Mosè.
C’è un libro intero, il Deuteronomio, dove sono presenti quattro lunghissimi
discorsi di Mosè, parla sempre lui, parla, parla, ma dobbiamo ricordare che
Mosè era balbuziente{131}, il popolo di Dio stava lì e doveva ricevere la
Parola di Dio da una persona con difficoltà verbale! Pensa che pizza! Ma se
hai la pazienza di stare a sentire quello che dice, questo ha parlato con Dio e
nessuno finora ha mai parlato così; tu lo diresti in un quarto del tempo, ma
non diresti mai quello... Lento e immenso, o veloce e insulso? Vedi tu...
Che vuol dire? Che il “ritmo” di Dio non è il mio, «Perché i miei
pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie.
Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie
sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri»{132}.
A volte esiste anche una molestia, per così dire, santa; se nella vita ci
siamo imbattuti in qualche persona che porta avanti qualcosa di molto
santo, di molto buono, qualcuno che serve i poveri, che aiuta gli emarginati,
ci siamo trovati molto spesso di fronte a persone insistenti, martellanti, che
vogliono talmente tanto bene ai poveri di cui si occupano che non mollano
la presa e insistono finché non ottengono ciò di cui hanno bisogno i loro
poveri, persone che sanno essere moleste fino al punto di far aprire il cuore.
Molte volte abbiamo incontrato persone tenaci nel fare il bene fino alla
molestia, fino a ottenere, magari da potenti molto indifferenti, un bene per
qualcuno, don Oreste Benzi ad esempio, a mio povero avviso un santo della
nostra epoca, una persona dolce ma insistente, che chiedeva, chiedeva, per
le povere donne che lui liberava dall’oppressione della prostituzione,
chiedeva aiuto e lo otteneva. Nelle sue battaglie felici era sapientemente,
dolcemente, misericordiosamente molesto, sapeva dar fastidio finché non
otteneva il bene che cercava: questa è molestia santa e pure opportuna.
Tutti quanti noi alla fin fine abbiamo dovuto accettare che qualcuno che
ci chiedeva tanto una cosa aveva ragione nel chiedercela, che ci voleva
interrompere il corso delle nostre giornate alla fine era bello che ce le
interrompesse. Un bimbo sa essere molesto, ma è anche giusto che lo sia: è
un bimbo, cosa deve essere? Deve cercare la nostra attenzione! I giovani
sanno essere molesti, ma è giusto che lo siano, cercano paternità, cura, uno
sguardo, cercano sapienza, ed è giusto che ce la chiedano e speriamo che
non si stanchino di chiedercela, e che non si scoraggino se trovano in noi
freddezza.
C’è una frase di Francesco d’Assisi tanto bella: «Tanto è il bene che mi
aspetto che ogni pena m’è diletto»{133}, la pena, che è sulla mia strada, mi è
addirittura piacevole, perché so che mi porterà al bene.
Quando è che la persona molesta è insopportabile? Quando perdo di
vista il bene verso cui cammino. Quando la persona molesta è sopportabile,
è sostenibile? Quando non la considero estranea al bene che io sto
perseguendo. Quale bene? Noi camminiamo per cosa? Se abbiamo detto
prima che il nostro problema sono i nostri disegni che si spezzano, vuol dire
che noi teniamo a cuore i progetti, allora c’è da comprendere che l’unica
cosa che vale la pena avere a cuore è... il nostro cuore, la sua capacità di
amare.
Si vive per imparare ad amare, questo è il compito fondamentale della
mia esistenza, sono nato per conoscere, amare, servire il Signore in questa
vita e nella prossima e lasciarmi amare da Lui. Sulla lapide della tomba di
Chiara Corbella c’è scritta questa meravigliosa frase: «L’importante nella
vita non è fare qualcosa ma nascere e lasciarsi amare», io sono nato per
amare, quindi non è estraneo a questa mia sfida il fatto che qualcuno mi dia
fastidio, m’intralci, mi sia molesto, è proprio il banco di prova, è proprio la
strada dove io cresco, io voglio aver pazienza per sopportare le persone, ma
la realtà è che le persone insopportabili mi insegnano la sapienza, sono in
funzione della crescita del mio cuore se io decido di crescere.
Se la mia attesa è ben orientata, cosa attendo io? Il momento in cui me
ne sto per i fatti miei e finalmente mi riposo e mi faccio le mie cose? O io
aspetto di arrivare al traguardo dell’amore e perdere me stesso amando
veramente? Se quello che io attendo, se la mia pazienza è in vista di questa
meta, non è così insostenibile l’idea che qualcuno ci metta alla prova, che ci
esasperi un po’: costruire l’amore implica pazienza. Si vive in una mentalità
usa e getta, dove le cose devono essere immediate e senza durata, ma
l’amore non può essere così, l’amore è fedele, e quello di Dio è eterno, il
nostro mira a diventarlo.
L’amore è stabile, è indissolubile, tutto l’amore, non solamente l’amore
fra gli sposi, ogni rapporto se è vero, è indissolubile, non è in vista di una
rottura, ogni amicizia è indissolubile se è vera, ogni fraternità è
indissolubile se è vera, ma questo richiede pazienza, non la logica
utilitaristica dello sfruttamento. Questo vale anche per il creato, ne parla
splendidamente papa Francesco nella Lettera enciclica Laudato sì’
sull’ecologia, l’uomo sfrutta il mondo invece di coglierlo come dono e
come occasione d’amore.
Dobbiamo andare in profondità, quella profondità che è il centro e la
verità dell’essere: siamo nati per imparare l’arte dell’amore vero. Le
persone moleste sono maestri perfetti, esercitazioni viventi.
Per vincere una gara è meglio che ad un atleta in allenamento gli si
mettano difficoltà serie; così siamo anche noi: dobbiamo arrivare ad amare
come Gesù Cristo e ci lamentiamo se Dio ce ne dà l’occasione? Dio nella
sua misericordia ci ha regalato le nostre persone moleste, teniamocele
strette perché se perdiamo loro, perdiamo anche la via dell’amore.
7 . PREGARE DIO PER I VIVI E PER I MORTI
Quando non c’è un cuore dietro l’atto che compio, è perché non c’è
preghiera. Perché parto da me stesso e non da Dio. E quello che offro è
mediocre. Non ha eternità. Perché di mio non ho eternità, e non me la
procuro a martellate di volontarismo. La misericordia è la ricchezza di Dio.
Non la mia.
Si può dar da mangiare agli affamati o dar da bere agli assetati senza
misericordia. Possibile? Questo è proprio il tema fondamentale del capitolo
tredicesimo della Prima lettera ai Corinzi, quello caro a santa Teresina: «Se
parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei
come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il
dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza,
se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità,
non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il
mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi
servirebbe»{142}.
Potrei dare il mio corpo, dare tutti i miei beni, ma senza amore. Io non
ho bisogno dell’amore per fare concretamente le opere. Per farle, le faccio
pure. Ma bisogna vedere come.
Potrei vestire gli ignudi, ma potrei farlo senza dargli dignità, come un
distributore automatico, mentre chi ti veste è sempre un po’ come Dio dopo
il peccato{143}, che cuce le vesti - l’immagine è di una tenerezza infinita - per
Adamo ed Eva che si vergognano, un Padre che copre i suoi bimbi deboli;
posso alloggiare i pellegrini come un albergatore, senza chiedermi se li ho
ospitati veramente nel mio cuore, senza “fare casa” con loro; potrei visitare
gli infermi per sentirmi in pace con la coscienza perché non ero ancora
andato a trovare quella persona malata e non ci faccio una bella figura, ma
non entrare nel suo dolore, espletare la pratica e andarmene quando il
quorum di imbarazzo ha raggiunto il livello massimo di sostenibilità. Io
posso visitare i carcerati, ma rimanere estraneo alla loro condizione. O farlo
con degnazione.
La più emblematica è l’opera corporale di seppellire i morti: che cos’è
seppellire i morti senza pregare per i morti, e senza credere nella vita
eterna? È un’attitudine da becchini, facendo un’opera fisica senza il senso
della perdita della persona, semplicemente mettere nella tomba una persona.
Lo si chiama “affossare”?
Noi non possiamo fare le opere di misericordia corporale senza la
settima opera di misericordia spirituale.
E non possiamo fare neanche le altre sei opere di misericordia spirituale
senza l’opera della preghiera. Pensiamo a consigliare un dubbioso senza
aver pregato, senza esser stati prima nella certezza di Dio che ci serve per
poter parlare con il dubbioso e senza essere entrati nel suo dubbio per capire
il dramma.
Pensiamo che cosa possa essere l’insegnare senza preghiera nel cuore,
senza amore dietro, vuol dire dare sulla testa dell’altro i dati senza cura del
suo bene più grande, del suo cuore.
Pensiamo cos’è l’ammonizione di un peccatore senza la preghiera: si
vede tanta gente che deve rimproverare il prossimo, deve puntualizzare, dire
“la verità”. C’è da chiedere: ma tu stai pregando per la persona che devi
ammonire? Ma tu sei disposto a digiunare per quella persona, a fare
un’elemosina - di quelle serie - per quel fratello? Ma tu veramente preghi
per questa persona? Allora, se non hai pregato, sta’ zitto, meglio che non ti
metti a fare questo atto di saccenza che non può essere fatta da chi non è
discepolo di Dio misericordioso.
E così perdonare le offese: si può fare come un atto di semplice recupero
della propria pace, atto di cura dei propri problemi. Infatti tante volte si
millanta il perdono, si crede di aver raggiunto il perdono, ma invece si è
semplicemente spostata l’attenzione; non c’è la preghiera e l’amore per
l’altro.
E così anche sopportare pazientemente una persona molesta si può fare
facendo passare il tempo nell’attesa che l’altro sparisca, ci lasci in pace, e
non come un mio percorso interiore in cui cresco nella pazienza dell’amore;
questo cammino interiore può scaturire solo da Colui che è paziente, lento
all’ira, ricco di grazia, pieno di misericordia.
{1}
Es 34,6-7.
{2}
Ef 2,4.
{3}
Sal 1,136,1-6.
{4}
Sal 136,10-11.
{5}
Sal 136,25.
{6}
Is 49,6.
{7}
Sal 103,8-13.
{8}
Dt 8,5.
{9}
Es 34,7.
{10}
Lc 1,46-55.
{11}
Lc 6,36.
{12}
Mc 2,5.
{13}
Mc 2,6-7.
{14}
Mc 2,8-12.
{15}
Gv 20,19-23.
{16}
Mc 1,11.
{17}
Mc 15,34.
{18}
Gv 20,21.
{19}
Gv 13,23-25.
{20}
Gv 1,18.
{21}
1Gv 4,7.
{22}
Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et Spes, 14.
{23}
Mt 25,31-40.
{24}
Gc 2,18.
{25}
1Cor 2,12-16.
{26}
René Descartes, Discours de la Méthode, IV.
{27}
C.S. Lewis, Le Cronache di Narnia, Mondadori, Milano 2005, p. 567.
{28}
Giovanni Paolo II, Veglia con i giovani, 2, XVII Giornata Mondiale della Gioventù, Toronto, 27
luglio 2002.
{29}
Gv 11,21-27.
{30}
2Cor 1,17-20.
{31}
Sal 49,21.
{32}
Agostino, De vera religione, 39, 73.
{33}
Agostino, La Trinità, 8,2.
{34}
Sal 51,7-8.
{35}
Blaise Pascal, Pensieri - Sottomissione, 268.
{36}
Sal 119,75-76.
{37}
Mt, 227,46; Mc 15,34.
{38}
Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, p. 1523.
{39}
George Orwell, 1984, Cap. I.
{40}
Gen 3,1. A dire il vero l’attuale traduzione è imprecisa. Alla lettera l’ebraico del testo gioca su
un’ambiguità che anche nella lingua italiana è possibile innescare. Il testo sarebbe: «È certo che Dio
ha detto: non mangerete di tutti gli alberi del giardino?». Ci sono vari trabocchetti, ma uno è quello di
giocare sul «non tutti gli alberi». Sono due significati presenti: 1. Non mangerete da tutti alberi -
negazione totale del mangiare dagli alberi; 2. Non da tutti gli alberi mangerete - negazione parziale,
c’è qualche albero di cui non mangerete. Anche in italiano si può giocare su questa ambiguità: «non
puoi leggere tutti i libri» può essere inteso sia come: 1. non puoi leggere nessun libro; 2. non tutti i
libri li puoi leggere. Quindi, a rigor di logica, il serpente non dice neanche una cosa falsa, perché è
vero che Eva non può magiare da tutti gli alberi. Ma il gioco fra negazione assoluta e parziale è
innescato. Eva risponde come se dovesse giustificare un divieto assoluto. Ed è così entrata nel
sistema operativo del serpente.
{41}
Gen 3,4.
{42}
Papa Francesco, Evangelii gaudium, nn. 135-159.
{43}
Mt 16,15-16.
{44}
Mt 16,21-23.
{45}
Mt 16,24-25.
{46}
Sal 119,97-99.
{47}
Gv 14,6.
{48}
Mt 23,8-10.
{49}
Mt 28,19-20.
{50}
Tre sono i doni dell'ordinazione sacerdotale, chiamati in latino "tria munera": 1. il dono di
santificare, ossia essere tramite della grazia sacramentale, di ambito eminentemente liturgico; 2. il
dono di amministrare, ossia di governare nella comunione la comunità o le realtà che al singolo prete
vengono affidate; 3. il dono di insegnare, di essere maestri nella fede. Munus sanctificandi, munus
regendi, munus docendi. In genere si viene addestrati ai primi due, e i preti, storicamente, non li
hanno mai trascurati. Per il terzo...
{51}
Lc 23,33-34.
{52}
Lc 24,13-16.
{53}
Lc 24,17-19a.
{54}
Lc 24,19b-24.
{55}
Lc 24,25-27.
{56}
Amedeo Cencini, La formazione in tempi di rinnovamento, articolo citato sul sito:
http://dimensionesperanza.it/psicologia-e-spirituali-ta/item/3207-la-formazione-in-tempi-di-
rinnovamento-amedeo-cencini.html.
{57}
Gv 1,18.
{58}
Gv 5,19-20.
{59}
Tt 2,11-13.
{60}
Gv 18,37.
{61}
Gal 5,1.
{62}
La traduzione porta, letteralmente, il senso del verbo elenchein che è «testimoniare contro,
mostrare la colpevolezza di qualcuno, convincere qualcuno del suo errore». La traduzione CEI del
1974 riportava in modo più intellegibile il senso con equivalente dinamico di traduzione: «Ascolta,
popolo mio, ti voglio ammonire».
{63}
Sal 81,9.
{64}
Sal 81,10-11.
{65}
Sal 81,12.
{66}
Sal 81,14-17.
{67}
Sal 81,13.
{68}
Mt 7,1-5.
{69}
Gv 8,3-9.
{70}
At 4,8-12.
{71}
Eb, 12,11.
{72}
Giovanni Crisostomo, Catechesi Battesimali e ai Misteri, Catechesi prima, pp. 31-32.
{73}
Mt 18,15-18.
{74}
Mt 18,18.
{75}
Lc 15,8-10.
{76}
Mt 5,43-48.
{77}
Gc 1,20.
{78}
Benedetto XVI, Angelus, 4 novembre 2012.
{79}
Tb 13,2.
{80}
Qo 1,15.
{81}
Gb 4,7-8.
{82}
Gb 5,6-7.
{83}
Gb 1,1: «Viveva nella terra di Us un uomo chiamato Giobbe, integro e retto, timorato di Dio e
lontano dal male».
{84}
Gb 6,29-30: «Su, ricredetevi: non siate ingiusti! Ricredetevi: io sono nel giusto! C’è forse
iniquità sulla mia lingua o il mio palato non sa distinguere il male?».
{85}
Gb 5,17-18.
{86}
Gb 8,5-7.
{87}
Gb 11,7-10.
{88}
Gv 19,30.
{89}
Gb 42,5.
{90}
Gb 42,7.
{91}
Mt 5,3-10.
{92}
Possiamo, per capire meglio, analizzare il comportamento del figliol prodigo, nella parabola di
Lc 15, ove si vede un buon esempio di una dinamica relegante: egli si trova in un vicolo cieco perché
ha dilapidato tutti i suoi beni «vivendo da dissoluto», in greco asotōs, da a (privativo) e sōtòs che
deriva da sōterìa, salvezza, soluzione; il dissoluto è colui che non ha soluzione. Tipico del male è
proprio mettere alle “strette”, confinare in un sistema ellittico dove ciclicamente si reitera senza
uscire dal “loop” distruttivo. Il dissoluto sperpera tutto cercando un piacere che non arriva mai perché
incastrato in una dinamica autodevastante, angosciante.
{93}
Gv 14,26.
{94}
Gv 16,13.
{95}
Rm 8,18.
{96}
2Cor 4,17.
{97}
Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Salvifici Doloris, 19.
{98}
Tonino Bello, Il parcheggio del Calvario, in Omelie e scritti quaresimali, vol. 2, Luce e Vita,
Molfetta (BA) 2005, p. 307.
{99}
2Cor 1,3-7.
{100}
Is 50,4-10.
{101}
Catechismo della Chiesa Cattolica, 1818.
{102}
Giovanni Paolo II, Discorso di inizio pontificato, 22 ottobre 1978.
{103}
Papa Francesco, Omelia, XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù, Domenica delle Palme, 24
marzo 2013.
{104}
Rm 5,5.
{105}
Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Salvifici Doloris, 23.
{106}
Sal 103,3.
{107}
Catechismo della Chiesa Cattolica, 2302.
{108}
Sir 28,3.
{109}
Mc 2,7.
{110}
Origene, Commento al Cantico dei Cantici, 3.
{111}
Lc 7,47.
{112}
Gv 14,28.
{113}
Gen 37,1.
{114}
Gen 44,33 - 45,4.
{115}
Gen 45,5-15.
{116}
Gen 50,15.
{117}
Gen 50, 17-21.
{118}
Sal 36,10.
{119}
Gal 5,22.
{120}
Es 34,6.
{121}
2Pt 3,9.
{122}
Ap 12,12.
{123}
2Pt 3,8.
{124}
1Tm 1,13.
{125}
Lc 23,34.
{126}
Ef 4,11-16.
{127}
Lc 18,2-8.
{128}
Rm 5,3-5.
{129}
Gc 4,13-15.
{130}
Mt 16,24-25.
{131}
Es 4,10: «Mosè disse al Signore: “Perdona, Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono
stato né ieri né ieri l’altro e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono
impacciato di bocca e di lingua”».
{132}
Is 55,8-9.
{133}
Francesco d’Assisi, come riportano le fonti francescane, disse questa frase l'8 maggio del 1213
a san Leo nel Montefeltro.
{134}
Mc 1,35-38.
{135}
Giovanni Crisostomo, In Mt hom., 14.
{136}
Lc 11,9.
{137}
Gen 32,23-33.
{138}
Benedetto XVI, Udienza Generale, 25 maggio 2011.
{139}
Catechismo della Chiesa Cattolica, 2725.
{140}
Es 17,11.
{141}
Dall'«Autobiografia» di santa Teresa di Gesù Bambino, Manuscrits autobiographiques, Lisieux
1957,pp. 227-229.
{142}
1Cor 13,1-3.
{143}
Gen 3,21.