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Giorgio

Antei

ALLA RICERCA DEL TEMPIO PERDUTO
Riflessioni sulle chiese napoletane in rovina
fotografate da Massimo Listri




Le foto di Massimo Listri aggradano d’acchito per l’elegante compostezza formale e
l’accurata scelta dei soggetti. Vi è in esse indubbia padronanza della geometria, ma a
poco servirebbe senza i suggerimenti di un gusto personale e l’assidua frequentazione
di un museo ideale; cui si aggiunge quella sensibilità “atmosferica” che guida
inconfondibilmente lo sguardo del fotografo, con risultati che rientrano sempre e
comunque nella sfera del bello. Al di sotto del livello del gusto agisce in queste
immagini un altro richiamo, definibile dall’esterno come “potere di evocazione”. Chi va
cercando, distingue prima o poi una trama di allusioni e suggestioni, deliberate o
casuali, che provocano la dilatazione del significato convenzionale dell’immagine.
Taluni collegamenti, come quelli che rinviano ai maestri della prospettiva
rinascimentale, sono scontati; talaltri molto meno. Il segreto di “Sala Bianca” (Musei
fiorentini, 2009) è così ben dissimulato che nemmeno il fotografo ne è del tutto
consapevole. Osservando l’ambiente da vicino –deserto come tutti gli interni di Listri–
scopriamo la presenza di una figura umana “intrappolata” nello specchio riccamente
incorniciato al centro della composizione, lì dove si situa il punto di fuga; una figura
poco visibile a causa della sontuosa porta bianca –bianca come la sala tutta– che
occupa gran parte del cristallo. Sebbene sommersa nella profondità dell’immagine,
essa c’è, e si sbraccia in segnali. Riconoscere la fisionomia del fotografo è facile,
difficile è individuare i rimandi della sua insperata apparizione.

Da questo punto di vista, la serie che abbiamo voluto battezzare “Alla ricerca del
tempio perduto” è indubbiamente una delle più stimolanti, quanto meno a giudicare
dalla varietà di associazioni che risveglia in noi. L’abbandono, lo squallore, la
devastazione, la luce spettrale –tratti comuni a tutte le foto della suite– rinviano
immancabilmente alla dimenticanza e alla perdita. La sensazione di malinconia è così
intensa che sembra esaurire il significato delle immagini. Invece vi è dell’altro.
Osservando bene, si scopre che ognuna di esse racchiude un dramma, un racconto,
una testimonianza, un esempio, ovvero, si capisce che le foto, se richieste, diranno di
più di quanto dicono a prima vista. Non c’è di che stupirsi. Pur ridotta a macerie, la
monumentalità dell’architettura religiosa è comunque attraente. Nella fattispecie,
tuttavia, l’importante non è l’evidenza bensì il “non detto”. In altri termini, affinché le
chiese di Listri parlino, bisogna stabilire con loro un rapporto partecipe, tale che ne
favorisca le confessioni; bisogna mostrare loro predilezione, genuino interesse,
comprensione; bisogna accostarsi senza riserve, disposti ad ascoltare non solo storie
ma anche lamentevoli litanie: che cos’altro ci si potrebbe aspettare da templi perduti?

I templi si perdono a seguito di catastrofi naturali o per colpa di sfaceli storici e falle
umane. La cattedrale di St. Paul, a Londra, fu distrutta da successivi incendi accidentali
nel 1087 e nel 1135; un secolo dopo venne flagellata da una sfilza di bufere; nel 1548,
come conseguenza del “Chantries Act”, fu demolita parte degli interni (cappelle, altari,
chiostri, cripte e lapidi); tredici anni più tardi, nel 1561, venne divorata nuovamente
dal fuoco, in tal caso a causa d’un fulmine o della combustione fortuita di materiali
infiammabili immagazzinati da un lattoniere all’interno del campanile. Da ultimo,
quando ormai i difficili lavori di restauro erano giunti a termine, il tempio si perse per
l’eternità nel Great Fire, l’incendio che nel 1666 distrusse buona parte di Londra. A
Wenceslaus Hollar (1607-1677), che aveva appena raffigurato il recupero della
cattedrale in una suite di belle incisioni, non rimase altro rimedio che rappresentarne
la distruzione definitiva.

“Etiam periere Ruinae”, sono state distrutte perfino le rovine, dice il cartiglio apposto
alla stampa riprodotta sopra, riecheggiando Lucano (Fars., IX, 969). Tuttavia,
curiosamente, ciò che vediamo non sono resti fumanti, bensì il tempio ancora intatto
avvolto dalle fiamme, quello stesso edificio raffigurato da Hollar da tutti gli angoli dieci
anni prima (1656-1657). In fatto di sante rovine, Hollar la sapeva lunga (basti ricordare
due dei suoi disegni romani, “Santa Croce di Gerusalemme” e “Tempio della Sibilla
Tiburtina”); perché, dunque, rappresentò l’incendio di St. Paul in tal modo? Per la
buona ragione che la scena è simbolica e non realistica. Ciò che ritrae, infatti, è un rogo
divino, scatenato da “the purging force of Fire”, non una vampata qualsiasi. La
conflagrazione è un exemplum, ossia, un’immagine elaborata allo scopo di trasmettere
un insegnamento morale. Per far sì che il contenuto didascalico non si perdesse nel
fattuale, l’incisore rappresentò St. Paul avvolta dalle fiamme come se si trattasse di un
eretico sulla pira. Lo sfarzo, sottintendono le lingue di fuoco, non si addice alle
cattedrali perché le allontana dalla loro funzione sacra, facendone fabbriche profane.
Non stupisce, allora, che Dio, onde castigare l’empietà dei londinesi –che avevano
restaurato St. Paul come se si fosse trattato di un luogo d’incontro sociale– avesse
inviato loro il peggiore degli incendi.
Ciò che si viene dicendo trova conferma in un libro anonimo apparso a Londra nel
1667, ad un anno dal Great Fire: “The Causes of the Decay of Christian Piety”. Se ne
conoscono due edizioni, corredate da incisioni di Hollar diverse ma ispirate allo stesso
concetto: la forza purificatrice del fuoco. La prima rappresenta il rogo della “Nave della
Cristianità”, la seconda l’incendio di St. Paul qui riprodotto. Riferendosi alla decadenza
morale degli inglesi, annota l’autore: “I begli edifici sacri dove i nostri padri lodavano
Dio vengono divorati dal fuoco” (“our holy and beautiful houses where our fathers
praised him [God] are burnt with fire”). Una simile calamità, aggiunge, costituisce il
triste corollario di una religiosità ridotta a spettacolo mondano (“pageant-like piety”).
La corruzione della fede si propaga alle chiese, contaminandole a tal punto che devono
essere purificate con il fuoco (“…rendred them so polluted as required no sligther
purgation than that of Fire”). Con certezza Hollar condivideva la medesima opinione: lo
si deduce dalla scritta che appare in calce ad una delle vedute di St. Paul eseguite per
festeggiare la conclusione del restauro (1657): “Dabis Deo his quoque finem”, cioè, Dio
porrà fine anche a questo (Virgilio, “Eneide”). Sia l’autore che l’incisore, insomma,
ritenevano che la perdita dei templi si dovesse a quella stessa divinità in onore della
quale erano stati eretti.

La trasformazione dei luoghi sacri in spazi profani non poteva se non scatenare l’ira
divina. Fu l’empietà, dunque, la causa finale della distruzione della cattedrale
londinese, le cui navate –note non per nulla come “St. Paul Walk”– alloggiavano di
tutto tranne devozione. In effetti, nella catastrofe del 1666 non sparì soltanto la
chiesa, bensì pure grandi quantità di mercanzie riposte al suo interno; circostanza che
va a rafforzare il significato espiatorio delle fiamme, per altro già nitidamente espresso
dal Salmo 18:
La terra tremò e si scosse;
vacillarono le fondamenta dei monti,
si scossero perché egli era sdegnato.

Dalle sue narici saliva fumo,


dalla sua bocca un fuoco divorante;
da lui sprizzavano carboni ardenti

La medesima simbologia appare con uguale chiarezza nell’Epistola agli Ebrei (12:29)
nonché nel Deuteronomio (4:24):

Poiché l’Eterno, il tuo Dio, è un fuoco consumante, un Dio geloso.

Perché mai decine e decine di chiese napoletane sono cadute in rovina, perché gli
altari son stati sconsacrati, i quadri e gli ornamenti depredati? La simmetrica vastità
delle navate rimanda a nobili origini architettoniche, per lo più barocche, ma lo stato di
abbandono in cui versano è tale che evocarne l’antico splendore duole come un cilicio
di crine. Le possibili spiegazioni di tale disastro sono molte, ma nessuna convincente
del tutto. La causa non è da imputarsi ad un sacco o ad altra scorribanda punitiva.
Raramente un conflitto fa danni del genere; parafrasando una frase di “The causes”,
“questa disgrazia è stata più rovinosa dei terribili strascichi d’una guerra”. La crisi del
cattolicesimo praticante non è una ragione plausibile se non sul piano simbolico. È
vero che l’egemonia di San Gennaro ha distolto l’attenzione da martiri come Sosso,
Festo, Desiderio e Procolo, in precedenza molto amati, ma una cosa è infischiarsene,
ben altra profanarne i tabernacoli. L’indolenza del clero e l’inerzia degli enti pubblici
sono fattori rilevanti, ma da soli non bastano a chiarire il fenomeno. Osservando le
foto di Listri, sembrerebbe che le navate fossero state razziate da orde di barbari
sacrileghi o di luterani iconoclasti. Tuttavia, questa calamità non ha consistenza storica
e pertanto non compare negli annali: rientra appena nella cronaca di una città, di un
quartiere, di una strada. È una sciagura dalle radici locali; è il risultato di una diffidenza
idiosincratica verso ogni autorità civile e religiosa; è il riflesso di un’atavica
miscredenza, emblematizzata dal detto popolare “gabbare lo santo”. Sembrerebbe che
le chiese di Napoli caschino a pezzi in conseguenza della risaputa incredulità
scaramantica partenopea, ossia, per effetto di iettatura. Inutile additare colpevoli,
dunque, a meno che non si voglia incolpare un popolo intero (“¿Quién mató al
comendador? ¡Fuenteovejuna, señor!”, risponde Pascuala al Giudice nella commedia di
Lope de Vega, dando a intendere che l’uccisione del Commendatore fu responsabilità
di tutto il paese di Fuenteovejuna).
L’obiettivo di Listri congela le rovine in pose malinconiche, ricoprendole con un sudario
che, nonostante tutto, è cupo solo in apparenza. Infatti, da sotto il velo fuoriescono
grida, sberleffi, impunita irriverenza. Anche i romani trascuravano i templi, ma non
impunemente. L’abbandono dei luoghi sacri era considerato un segno di decadenza
etica oltre che religiosa, pertanto doppiamente riprovevole. Gabbare gli dei era
impossibile, sottrarsi al loro castigo pure: tutti finivano per pagare il prezzo
dell’empietà. Orazio non ne dubitava:

E tu, romano,
Sebbene ora innocente,
Le colpe dei tuoi padri sconterai,
Fino a che non avrai ricostruito i templi
E le sedi in rovina degli dei
E le immagini loro
Dal nero fumo degli incendi offese.
(Odi, III, 6. Trad. G. Zangheri)

Hollar appose tali versi ad una delle incisioni eseguite nel 1657, concretamente quella
che raffigura la cattedrale di St. Paul prima dell’incendio del 1561, quando ancora
possedeva una guglia svettante. Di sicuro voleva dare a intendere che la maledizione
sarebbe stata ritirata a breve: non appena il tempio avesse recuperato l’antica
magnificenza, i malintesi fra Dio e i londinesi sarebbero finiti. Il povero Hollar giunse a
capacitarsi soltanto dieci anni dopo che ricostruire santuari per poi profanarli era un
metodo infallibile per attirare l’ira celeste. Colpa della Riforma anglicana, che aveva
semplificato il culto e sgombrato i

templi, ma senza badare all’ammonimento di Cristo: “La mia casa deve chiamarsi casa
del Signore, ma voi ne state facendo un covo di ladri”. In effetti, la soppressione dei
Segni esteriori del cattolicesimo romano non corrispose ad un’autentica purificazione
dei luoghi sacri. Assieme agli ornamenti, scomparve anche la solennità, con il risultato
che le chiese svuotate si trasformarono in spazi sociali se non apertamente
commerciali. In mancanza d’una “frusta di corde”, continuò l’invasione dei “venditori
di buoi, di pecore e di piccioni, e degli usurai seduti”. Non diversamente da ciò che
pensava l’autore di “The Causes” la Riforma non riuscì a sanare il decadimento morale
né ad interporsi al degrado dei templi. Non vi è nulla di strano, allora, che dopo
l’incendio di St. Paul, tanto costui come Hollar si persuadessero che la perdita della
cattedrale era stata causata dalla noncuranza e dall’irriverenza di coloro che –leggasi
buona parte degli inglesi– anteponevano gli interessi materiali alla cura dell’anima.

Ai tempi di Hollar, sull’altra sponda della Manica, per la precisione nelle Province
Unite, abitava un popolo timorato, convinto che gli esseri umani erano depravati per
natura e quindi spiritualmente “morti”. A meno che non fosse predestinato, l’individuo
non aveva la benché minima possibilità di “risuscitare”. Né astenersi dal peccato né
erigere altari bastava ad assicurarsi la salvezza. Anche se, va detto, era unicamente
edificando templi che gli uomini pii (la ricca borghesia di Utrecht o dell’Aia) potevano
esprimere la propria sottomissione al potere divino. La Casa di Dio doveva elevarsi al di
sopra delle altre fabbriche, non a gloria degli architetti, ovviamente, bensì a gloria del
Creatore. Non meno importante, l’altezza delle guglie e dei tetti doveva mettere in
risalto, per contrasto, la “bassa statura” del genere umano. Proseguendo, oltre che
imponenti e austeri i templi dovevano essere vuoti: qualsiasi paramento, qualsiasi
immagine, qualsiasi reliquia avrebbe turbato il già precario equilibrio fra
sovrannaturale e secolare, ostacolando la trasmissione dell’unico assioma valido: la
reciprocità fra la grandezza di Dio e il rigore della sua Legge. In osservanza a tale
correlazione, gli architetti dovevano disegnare spazi cultuali che fungessero allo stesso
tempo da vestiboli dell’Aldilà. Se l’ammissione dell’umana depravazione e del destino
individuale costituiva il pilastro della devozione, allora il fondamento liturgico del
Tempio altro non poteva essere che la celebrazione della morte.

Verso la metà del Seicento, sempre nelle Province Unite, prosperò un circolo di artisti
accomunati da una straordinaria attrazione per le navate voltate, i pavimenti lastricati
ed altri particolari architettonici delle chiese gotiche del loro paese. Si potrebbe
pensare a una mania tipicamente olandese (come quella dei tulipani) o a
un’infatuazione meramente estetica, ma non si trattava né dell’una né dell’altra. Alla
base di cotanto interesse giaceva una questione di vita o di morte; infatti, dipingevano
chiese in lode a Dio ed anche per far sì che le persone pie (committenti e clienti in
primis) si sovvenissero dell’imminenza della dipartita: memento mori. Condividevano
tutti la persuasione che le arti d’imitazione non avrebbero superato il livello d’un futile
esercizio scimmiesco se non avessero svolto una funzione moraleggiante. Lo schema
simbolico sotteso a gran parte della loro produzione obbedisce proprio a questo
convincimento (dal quale traspare in qualche modo l’aspetto iconoclastico del credo
calvinista, imperante nei Paesi Bassi e in particolare nella Guida di San Luca). Non era
questo l’unico denominatore comune. Ognuno di loro, inoltre, era maestro dello
scorcio e virtuoso della prospettiva, attitudini acquisite –e tradotte alla “lingua”
olandese– a partire dall’insegnamento dei grandi pionieri del Quattrocento italiano,
Fra’ Carnevale e Bramante.

Fatta eccezione per la fascinazione della prospettiva e la nudezza degli ambienti, fra le
rappresentazioni di detti artisti e le foto di Listri non esistono collegamenti evidenti;
all’opposto, salta agli occhi il contrasto fra l’austerità delle chiese olandesi e lo
squallore di quelle napoletane. Tuttavia, accostandosi, si presagisce un rapporto
inespresso, oscuro, connesso in qualche modo al tragitto postumo delle anime. Per i
calvinisti, il Purgatorio era un’invenzione diabolica, predisposta per seminare
confusione nei credenti; per i cattolici, invece, era una risorsa misericordiosa, messa in
atto a salvaguardia dei peccatori pentiti. Dal punto di vista scismatico, morendo il
corpo ritorna alla polvere e l’anima a Dio; nella prospettiva ortodossa, le anime, il più
delle volte, vagano in pena per saecula. Sia le chiese olandesi che napoletane ospitano
scheletri e fantasmi, ma le differenze dottrinarie circa l’espiazione fanno sì che il loro
rispettivo significato vari profondamente. Diversamente dalle anime cattoliche, i
fantasmi calvinisti sono dei puri simulacri, al massimo degli “avvertimenti”. Ciò non
vuol dire che i templi napoletani siano luoghi di “purgatura”: la loro desolazione è tale
che difficilmente gli spettri vi abiterebbero a lungo. Comunque sia, il nesso latente fra i
due gruppi d’immagini in questione consiste nella giustapposizione di due concezioni
della dipartita, quale fine e quale transito.
L’esponente di maggior spicco del circolo citato, colui che rappresentò con maggiore
originalità la futilità delle cose, la brevità dell’esistenza e il potere livellatore della
morte, è senz’altro Peter Saenredam da Assendelft (1598-16659). Non vi è il minor
dubbio che le sue chiese parlino “il linguaggio dell’architettura”, ovvero, un idioma
fatto di linee, superfici e volumi; tuttavia, credere che non esprimano altro sarebbe
riduttivo non solo nei confronti di Saenredam ma anche nei confronti della cultura
iconografica del Secolo d’Oro olandese e della stessa etica protestante. Per Saenredam
–sostiene Roland Barthes– l’unica cosa importante è “l’intérieur d’églises vides”,
l’interno di chiese vuote, “réduites au velouté beige et inoffensif d’une glace à la
noisette”, ridotte al beige vellutato e inoffensivo d’un gelato alla nocciola (R. Barthes,
Le mond-objet, in “Essais critiques”, 1964). I suoi templi “sont dépeuplées sans recours,
et cette negation-là va autrement loin que la dévastation des idoles”, sono
irrimediabilmente deserti, e questa negazione oltrepassa di molto la distruzione degli
idoli. “Jamais le néant n’a été si súr”, il niente non è mai stato più sicuro.

Roland Barthes sbaglia. Saenredam non si limita affatto a “peindre avec amour des
surfaces insignifiantes et ne peindre que cela”: crea atmosfere allucinate, ispirate
all’imminenza della fine, ai cinque punti del credo calvinista e a una visione di Dio
senza Amore. Diversamente da ciò che Barthes sostiene, Saenredam, lungi dal
rompere la “tirannia del significato” la porta a estremi imprevedibili, proteggendola
all’interno di templi come Sint Bavokerk o Sint Laurenskerk. Quantunque ricordino la
crema pasticcera, le delicate tonalità della sua tavolozza dissimulano messaggi foschi,
in linea con una concezione del mondo opposta all’edonismo. Per Saenredam e i pittori
di Delft, le chiese sono luoghi dove, più che adorare Dio, si rinnova la “cerimonia
dell’addio”, dove, per così dire, l’almanacco contempla una sola effemeride: il ritorno
alla polvere. Domina in esse a mood of morbidity, un clima languido, quasi funereo, in
netto contrasto con l’ambiente inoffensivo e zuccheroso descritto dal semiologo
francese. In quanto non ospitano più altari né altri ammennicoli della divinità, i templi
di Saenredam sono paragonabili in certo qual modo a quelli partenopei; ciò
nondimeno, se ne discostano perché, a differenza dei secondi, non mostrano segni di
abbandono bensì di morte. Per dirlo con una metafora, le chiese barocche di Napoli e
le chiese gotiche di Haarlem o Alkmaar piangono pianti diversi.
Basta un’occhiata per avvertire la singolarità di questo dipinto (“Sint Bavokerk”, 1630).
In rapporto alla vastità e alla profondità della navata, accentuata dall’impianto
rigorosamente simmetrico e dal basso punto di fuga, i personaggi sembrano delle
miniature sperdute all’interno d’un grande affresco. L’anomalia compositiva fa un
tutt’uno con la stranezza del contenuto: da dei credenti compenetrati, infatti, non ci si
aspetterebbe che avanzassero verso di noi così riccamente abbigliati e sussiegosi, con
l’atteggiamento di chi si avvia ad un ricevimento. Occorre inoltre sottolineare, se ce ne
fosse bisogno, che, anche in virtù del beige vellutato delle pareti, dalla scena trapela
qualcosa di irreale, una sorta di sospensione fra la solennità dell’architettura e la
leggerezza dell’atmosfera. Se non fosse per la corrente ominosa che circola per l’aria,
ci si potrebbe chiedere dov’è finito il gelataio. Eppure no. A partire dalla certezza che
nel quadro tutto è studiato, visibile o invisibile che sia, si deduce che fra le colonne del
tempio si cela non un sorbettiere bensì un’avvertenza cifrata. In altre parole, oltre a
raffigurare fedelmente l’interno di Sint Bavokerk, il quadro sembra veicolare un
messaggio edificante, un monito che si avvale della chiesa come sfondo scenografico
ad hoc. Se ciò fosse vero, Saenredam, nel rappresentare la cattedrale, non si sarebbe
prefisso di risvegliare l’orgoglio degli abitanti di Haarlem (come invece fece Hollar con
le vedute di St. Paul) bensì di ricordare loro l’imminenza del trapasso. E costoro
sicuramente capirono che il gruppo al centro della scena, così insignificante rispetto
all’imponente navata, era composto dagli spiriti che abitavano sotto le lastre di pietra
del pavimento, spiriti a cui presto si sarebbero aggiunti i loro.
Volente o nolente, Saenrendam stesso s’incarica di convalidare l’anteriore congettura
con un altro dipinto, che, per l’appunto, si direbbe concepito allo scopo di illustrare il
contenuto latente di “Sint Bavokerk”, e di reiterare en passant la propria predilezione
per le allegorie e e certi simboli ricorrenti. Gli elementi architettonici predominano
vistosamente anche nel secondo quadro (è noto che, nella scia di Saenredam, artisti
quali Houckgeest, de Witte y Van Vliet eressero l’architettura ecclesiale a sottogenere
pittorico). A prima vista le due opere si rassomigliano anche nell’ambientazione;
tuttavia, ad una disamina più accorta trapelano discrepanze notevoli, ad iniziare dal
diverso stato di conservazione dei due templi (il secondo è la cattedrale di Alkmaar). La
navata di Sint Laurenskerk è ingombra di detriti e utensili collegati ad opere in corso
piò o meno occulte; non si avvertono segni di abbandono, ma la presenza di un
muratore fa sì che il clima trasognato di “Sint Bavokerk” si dissolva e aumenti, per
contro, la tensione narrativa. Questo “effetto di realtà” porta a pensare d’acchito che
all’interno della chiesa di Sint Laurenskerk stia accadendo qualcosa di molto più
complesso rispetto alla “semplice” passeggiata raffigurata in “Sint Bavokerk”, qualcosa
di palese e nondimeno misterioso. L’intensificazione del contenuto fattuale si avvale di
elementi diversi come il punto di fuga decentrato, la presenza di personaggi
eterogenei e di oggetti inattesi, la simultaneità di situazioni contrastanti, la teatralità;
elementi che nell’insieme fanno sì che dalla scena emani una sensazione di scompiglio
ben diversa dall’impressione di compostezza suscitata dal primo quadro.

La tavola mostra la navata meridionale di Sint Laurenskerk da una prospettiva laterale.


Il punto di fuga, sempre basso, guida lo sguardo verso il fondo scena e quindi verso il
corteo funebre che lo sta attraversando. In primo piano compaiono due figure maschili
separate dalla larghezza del quadro, la prima di fronte all’osservatore, in elegante
abito nero, la seconda, vestita umilmente di rosso, rivolta verso il corteo. In secondo
piano si scorgono donne, bambini e un cane. Dalle colonne pendono tre stendardi
funerari, mentre sul pavimento, nell’angolo inferiore destro del dipinto, sono visibili
attrezzi da muratore, una scopa, un martello, una fune, un pezzo di legno e un cumulo
di terra smossa. Non discosto da tale armamentario compare, appoggiato ad un badile,
l’uomo in rosso, il cui ruolo di becchino è attestato sia dagli oggetti enumerati che dal
funerale in corso. Chiarito questo, la storia racchiusa nel quadro diventa facilmente
comprensibile: sotto il lastricato, Sint Laurenskerk (non diversamente da Sint
Bavokerk) alberga tombe che i seppellitori vanno scavando a seconda della necessità.
Sebbene i sepolcri siano riservati ai borghesi abbienti –come rivela la figura in nero in
primo piano e la pompa del corteo–, la morte non fa distinzione fra ricchi e poveri,
uomini e donne, adulti e minori, cristiani e bestie. Tuttavia, alla cecità della Falce fa da
contrappeso il Sacrificio di Cristo (simboleggiato dalla fune e dal martello) e la
Redenzione degli Eletti. E parlando di eletti viene da chiedersi: chi incarna l’uomo in
nero, un’anima incamminata verso l’Alto o verso il Basso? Andrà ad aggiungersi alla
spensierata comitiva di Sint Bavokerk o diverrà brace perpetua?
Saenredam riesce a inquietarci con poco: due assi di quercia unite per il lungo fino a
comporre una superficie di un metro per 70 centimetri, una tavolozza limitata, degli
interni ripetitivi, dei personaggi minuscoli… eppure i suoi pennelli ritraggono la Morte
e il suo seguito con una efficacia allusiva inversamente proporzionale all’esiguità dei
mezzi espressivi. All’interno di Sint Laurenskerk si raccoglie l’intera società olandese,
discriminata in base al sangue, la classe, il genere e l’età. Vengono dapprima i patrizi e i
mercanti, che uniscono alla ricchezza materiale i meriti spirituali –un’accoppiata ben
vista da Calvino–; seguono i lavoratori, umili ma devoti; le donne e i bambini, ignoranti
ma obbedienti, e… un cane, la cui specie, per dirlo con Byron, “labors, fights, lives,
breathes for him alone [il suo padrone] / unhonored falls, unnoticed all his worth /
denied in heaven the soul he held on earth”. Scartando i cani, quanti, fra tutti loro,
vedranno riaffermata in cielo l’anima avuta sulla terra? Pochi, sicuramente pochi.
Quantunque parsimoniosa, la tavola di Saenredam offre all’occhio attento un quadro
ben più che costumbrista del contesto olandese dell’epoca. Qualcosa di analogo
potrebbe dirsi –mutatis mutandis– delle chiese di Listri: sebbene siano chiuse da
decine d’anni non hanno cessato d’inscenare i mali della società che le circonda. Con le
loro facciate scempiate, continuano ad additare il difficile rapporto della Chiesa con
una città lacerata e priva di certezze. Così come i templi di Saenredam alludono alla
caducità della vita, quelli di Listri rimandano all’incongruenza della storia e
all’inadeguatezza della fede. “Jamais le neánt n’a été si sûr”, constata Roland Barthes
riguardo al pittore di Haarlem; tuttavia, la sua frase calzerebbe meglio se applicata
all’atteggiamento di Napoli nei confronti dei propri santi.

Più sopra si è suggerito come le chiese partenopee condividano con le olandesi


allusioni al trapasso e al tragitto post mortem. Potrebbe non essere così. I templi
napoletani sembrano piuttosto mausolei disabitati, sepolcri svuotati, dai quali rifugge
perfino la morte. Per quanto si tenda l’udito, non si percepiscono echi di singhiozzi. La
vera tragedia di queste chiese è che le anime dei defunti non popolano più le navate.
Ciò non è imputabile alla luce che le inonda (causa che semmai agisce nei Carpazi)
bensì al fatto che colà dove non vi sono tombe non vi sono neppure morti che
risorgano. Beffati, gli spiriti si dirigono altrove e le chiese, abbandonate, muoiono. “Les
morts ne gouvernent plus les vivants. Et les vivants, oublieux, cessent de remplir les
voeux des morts”, i morti non governano più i vivi, e i vivi, immemori, non adempiono
più i voti dei morti (Proust, “La Mort des Cathedrales”, 1904).

A detta di Calvino, nessuna forma di idolatria era altrettanto grottesca di quella in cui
un prete, mediante mormorii magici, incarnava Cristo fra le proprie mani per poi
offrirlo in sacrificio mentre la gente guardava sbigottita. Secondo lui, onde riscattare la
vera funzione cultuale delle chiese, si sarebbe dovuto proibire la messa e sopprimere
gli altari. Per contro, Marcel Proust pensava che “quand le sacrifice de la chair et du
sang du Christ ne sera plus célébré dans les églises, il n’y aura plus de vie en elles”. Se
fossero secolarizzate, se fossero aboliti i riti della fede, le cattedrali morirebbero,
diventerebbero “simples pièces de musée, glacées elles-mêmes”. Proust si riferiva al
pericolo che, per questioni politiche, si sospendessero le sovvenzioni statali al clero,
con il conseguente abbandono del culto. Tornando sull’argomento alcuni anni dopo,
paragonò le cattedrali a grandi conchiglie arenate sulla spiaggia della Storia:

“Quand je parlai de la mort de Cathédrales, je craignis que la France fût transforméee


en une grève où de géantes conques ciselées sembleraient echouées, vidées de la vie
qui les habita et n’apportant même plus a l’oreille qui se pencherait sur elles la vague
rumeur d’autrefois…” [quando parlai della morte delle cattedrali, temevo che la
Francia venisse trasformata in una sorta di arenile dove fossero andate a incagliarsi
gigantesche conchiglie sbalzate, svuotate della vita che le abitò, senza nemmeno
richiamare più all’orecchio chino su di esse il vago rumore d’altri tempi].
Per descrivere le chiese di Massimo Listri non sovviene metafora più pregnante di
quella immaginata da Proust: grandi conchiglie cesellate mezzo sepolte nella sabbia,
prive di vita nonché di potere di evocazione. Ciò nonostante, la similitudine non è del
tutto appropriata: l’occhio attento capta segnali, l’udito acuto percepisce fruscii, la
mente sveglia intreccia fili:

La triste storia di questo tempio in rovina


Soltanto un cercatore di arselle
La può raccontare.

Al cospetto delle chiese del fotografo fiorentino, la prima cosa che si affaccia alla
memoria è appunto quell’haiku di Basho in cui si dice che a narrare la penosa vicenda
d’un tempio abbandonato dovrebbe essere chiamato un hurakami hori, nessun altro
all’infuori di un cercatore di arselle. Chi scrive ne ha conosciuto uno. Ogni mattina, al
ritirarsi la marea, percorreva la spiaggia di Baelo Claudia tracciando geroglifici sulla
sabbia. In realtà, faceva tutt’altro: dissotterrava molluschi fino a riempire il sacco che
caricava sulle spalle. Il suo sguardo era così penetrante che le prede venivano
individuate quantunque fossero invisibili. Era come se fra le arselle e il cercatore
esistesse un’intesa di fondo, un patto pietoso come quello che nell’antica Roma
intercorrere fra le vittime e il vittimario. Mentre si andava riempendo, il sacco vibrava
di vite interrotte, vite di poco conto che solo un hurakami hori avrebbe potuto
raccontare… ovvero qualcuno come Basho, che ne avesse battuto la pista e carpito il
segreto. Una storia triste la può raccontare soltanto chi conosce il mondo dei defunti:
è questo il senso dell’haiku? Oppure vuol dire che senza morte non vi è storia? Al
riguardo, chi non ricorda il caso di Ming, quella vongola che visse nei mari dell’Islanda
per cinque secoli filati, fintantoché un biologo la uccise per accertarne l’età?
Sacrificandola poté verificare che aveva 507 anni –e non 470 come si era stimato– e
scrivere una pagina di storia delle scienze naturali.

Se avesse conosciuto il loro deplorevole stato, Proust avrebbe definito i templi


napoletani “églises assassinés”, chiese spacciate e abbandonate sulla spiaggia della
dimenticanza. Soltanto Massimo Listri –hurakami hori d’Oltrarno– avrebbe potuto
fare ciò che ha fatto: andarne alla ricerca, scoprirne l’antica bellezza e raccontarne la
storia.

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