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GIORGIO

ANTEI
LA SINDROME DEL BELLO
In margine a una mostra di Massimo Listri


Con le sue fotografie, Massimo Listri ci offre la possibilità di contemplare le cose in solitudine
e senza fretta, di coglierne aspetti altrimenti inafferrabili, di intuirne il significato e di
percepirne la bellezza. In molti casi, il piacere ispirato dalle sue immagini è più appagante di
quello suscitato dalla visione delle cose reali. Difficilmente i visitatori che si aggirano fra le
sale affollate della Galleria degli Uffizi sono in grado di usufruire appieno dei quadri di
Botticelli o dell’architettura di Vasari. Quali emozioni sono riservate a coloro che si accalcano
nello Studiolo del Principe, nella Sagrestia Nuova o nella Cappella Brancacci? La ressa, le
vampate di calore e i cellulari non danno scampo: i turisti che si riversano a Firenze
reagiscono all’arte come se, per così dire, avessero il cuore fatto a cotoletta, “ainsi fait que le
cordon bleu”: un cuore impanato e fritto, farcito di formaggio filante e dunque incapace di
trepidare e commuoversi. In altri termini, sono esenti dalla “sindrome del bello” e, almeno in
apparenza, non se ne rammaricano. Taluni, anzi, fanno sfoggio della loro carenza,
richiamandosi all’illustre antecedente di Stendhal, il quale, all’indomani della visita alla
basilica di Santa Croce, nel 1817, si ritrovò a pensare che l’effetto della bellezza su un animo
sensibile era fonte d’infelicità. Per scongiurarlo, appunta lo scrittore, sarebbe stato meglio, per
l’appunto, avvolgere il cuore in pan grattato: “Il vaut mieux, pour le bonheur, me disais-je, avoir
le coeur ainsi fait que le cordon bleu”. Un altro precedente invocato dai turisti restii è costituito
dal primo viaggio a Firenze di Mark Twain, risalente al 1867. Si legge nel libro in cui lo
scrittore americano raccolse quell’esperienza, “Innocents Abroad” :

“Florence pleased us for a while. I think we appreciated the great figure of David in the grand
square, and the sculptured group they call the Rape of the Sabines. We wandered through the
endless collections of paintings and statues of the Pitti and Ufizzi galleries, of course… I could not
rest under the imputation that I visited Florence and did not traverse its weary miles of picture
galleries […] We went to the Church of Santa Croce, from time to time, in Florence, to weep over
the tombs of Michael Angelo, Raphael and Machiavelli – I suppose they are buried there, but it
may be that they reside elsewhere and rent their tombs to other parties (such being the fashion
in Italy) – and between times we used to go and stand on the bridges and admire the Arno. It is
popular to admire the Arno” [Firenze ci piacque per un pò. Mi pare che apprezzammo la
grande figura del David nella grande piazza, e il gruppo scultoreo chiamato Ratto delle Sabine.
Vagammo fra le interminabili raccolte di quadri e statue delle gallerie di [palazzo] Pitti e degli
Uffizi, ovviamente… Non potrei reggere l’accusa di aver visitato Firenze e non aver percorso le
sue sfinenti miglia di gallerie d’arte […] Di tanto in tanto ci recammo a Santa Croce, a Firenze,
a piangere sulle tombe di Michelangelo, Raffaello e Machiavelli – presumo che siano sepolti
colà, ma può anche essere che risiedano altrove e che abbiano affittato le loro tombe ad altri
(essendo ciò comune in Italia) – e spesso andavamo ad affacciarci ai ponti per ammirare
l’Arno. Alla gente piace molto ammirare l’Arno]

Non contento, Twain rincara la dose annotando: “Si può percorrere un miglio di gallerie d’arte
e fissare stupidamente orribili, antichi incubi, fatti con il nerofumo della candela, prestare
orecchio agli estatici encomi delle guide e tentare di trovare un certo entusiasmo, che però
non arriva – e senti nient’altro che un leggero fremito quando nell’orecchio ti cadono i nomi, i
grandi nomi degli antichi re dell’arte – nient’altro”. Se lo scrittore americano avesse
conosciuto l’arte del Rinascimento attraverso le fotografie di Massimo Listri, avrebbe reagito
diversamente… pur nei limiti di un americano medio della seconda metà dell’Ottocento.
Nell’autobiografia Mark Twain non fa mistero della propria ignoranza in fatto d’arte, anzi ne
approfitta per rendere più gustosi i suoi quadretti:

“We galloped through the Louvre, the Pitti, the Ufizzi, the Vatican--all the galleries--and through
the pictured and frescoed churches of Venice, Naples, and the cathedrals of Spain; some of us
said that certain of the great works of the old masters were glorious creations of genius, (we
found it out in the guide-book, though we got hold of the wrong picture sometimes,) and the
others said they were disgraceful old daubs. We examined modern and ancient statuary with a
critical eye in Florence, Rome, or any where we found it, and praised it if we saw fit, and if we
didn't we said we preferred the wooden Indians in front of the cigar stores of
America” [Galoppammo attraverso il Louvre, Palazzo Pitti, gli Uffizi, il Vaticano – tutte le
gallerie – e attraverso le chiese dipinte a affrescate di Venezia, Napoli e le cattedrali di Spagna;
alcuni di noi dicevano che certe grandi opere degli antichi maestri erano superbe creazioni del
genio (lo scoprivamo nelle guide, anche se a volte scambiavamo un’immagine per l’altra)
mentre altri dicevano che erano vecchie croste deprecabili. Esaminammo con occhio critico la
statuaria moderna e antica a Firenze, a Roma e ovunque la trovassimo, e la lodavamo se ci
pareva, se no dicevamo che preferivamo gli indiani di legno all’entrata dei tabacchini
americani]

Ciò che porta a pensare che, nonostante tutto, Twain avrebbe ammirato le fotografie di
Massimo Listri, è che non aveva il cuore “ainsi fait que le cordon bleu”. Mancava di conoscenze
e sensibilità nei confronti delle opere d’arte dei grandi maestri, è vero, tuttavia si beava dello
spettacolo della natura e apprezzava i paesaggi urbani bellamente inseriti nello sfondo
naturale. La straordinaria fioritura della pittura di paesaggio verificatasi negli Stati Uniti fra il
1850 e il 1890 – dando origine al così detto “National Landscape” – incise profondamente
sui patterns percettivi e sul gusto degli americani, non da ultimo su Mark Twain. Quando, nel
1860, egli ebbe modo di ammirare il dipinto di Frederic Edwin Church, ''The Heart of the
Andes'', in mostra a New York, constatò che l’opera richiedeva più di una visita, giacchè, scrive
emozionato al fratello, “solo la terza vedrà il tuo cervello ansimare e sforzarsi nell’inutile
intento di catturarne tutta la meraviglia”. Ad onta del primato estetico della natura americana
reclamato da pittori della Hudson School, nel 1892, durante un soggiorno in Toscana, lo
scrittore dovette riconoscere che la bellezza del panorama di Firenze visto da Settignano era
superiore a quello della Yosemite Valley:

“In the distant plain lay Florence, pink and gray and brown, with the rusty huge dome of the
cathedral dominating its centre like a captive balloon… all around was a billowy rim of lofty blue
hills, snowed white with innumerable villas… This is the fairest picture on our planet, the most
enchanting to look upon, the most satisfying to the eye and the spirit. To see the sun sink down,
drowned on his pink and purple and golden floods, and overwhelm Florence with tides of color
that make all the sharp lines dim and faint and turn the solid city to a city of dreams, is a sight to
stir the coldest nature, and make a sympathetic one drunk with ecstasy”. [Lontano nella valle
giaceva Firenze, rosa, grigia e bruna, con l’antica enorme cupola della cattedrale dominante
nel mezzo come un pallone frenato e affiancata a destra dal bulbo più piccolo della cappella
dei Medici e a sinistra dall’aerea torre di Palazzo Vecchio; tutto in giro all’orizzonte una
frangia di marosi di alte colline azzurrine, cosparse di innumerevoli ville bianche come neve…
questa è l’immagine più bella del pianeta, la più incantevole a guardarsi, quella che più appaga
gli occhi e lo spirito. Vedere il sole tramontare, immergersi nei suoi flussi rosa, purpurei e
dorati e travolgere Firenze con maree di colore che attenuano le linee nette rendendole
evanescenti e vedere la città trasformarsi in una città di sogno, è una visione che commuove
anche la persona più fredda, ubriacandola di estasi]

Nella “città di sogno” descritta da Twain riverberano modelli letterari e pittorici di matrice
romantica, mutuati, al di là dei richiami ai paesaggisti dell’Hudson, da viaggiatori-esteti come
Wolfgang Goethe e Alexander von Humbold. Il punto di vista di Twain è aereo, la valle
dell’Arno appare spopolata e silenziosa, la città immobile, incantata, le ville macchie bianche
sparse sulle colline azzurrine… non c’è vita, né storia, solo un panorama muto, ma talmente
attraente da togliere il fiato. La sindrome del bello, per Mark Twain, nasce non dalle opere
dell’uomo ma dalle meraviglie del creato. Ci siamo detti che le fotografie di Massimo Listri
avrebbero suscitato la sua ammirazione: ne siamo sicuri? Anche le inquadrature di Listri sono
deserte, silenziose e, per così dire, remote, anch’esse sono inanimate, come incantate, ma a
differenza dei paesaggi di Church, o delle descrizioni alpine di Rousseau, vi figurano creazioni
umane. Nell’autobiografia, Twain si rammarica per i chilometri e chilometri di paesaggio
apenninico sottratti alla vista dalle gallerie ferroviarie, e confessa che il suo disappunto in
merito fu tale da indisporlo nei confronti dei tesori d’arte di Firenze. Il suo sguardo era
ansioso di verde, di azzurro e di rosa, non del grigio dei palazzi medicei, non del bianco
statuario; cercava la sinuosità delle colline, i profili aspri delle montagne, le macchie scure dei
boschi, non le invenzioni dei vetusti re dell’arte. Quindi, no, le fotografie di Massimo Listri non
gli sarebbero piaciute… oppure sì, perché gli avrebbero consentito di vedere le cose da vicino,
in solitudine e con calma, e forse in tal modo la cupola del Brunelleschi e il campanile di Giotto
l’avrebbero estasiato ancor più dell’Appennino.

E a Stendhal gli scatti del nostro fotografo sarebbero piaciuti? Per sperimentare la sindrome
del bello occorre viaggiare da soli: lo scrittore francese, allorquando, nel 1817, giunse a
Firenze, lo sapeva bene (mezzo secolo prima l’aveva intuito anche Saint-Preux, il protagonista
della “Nouvelle Héloïse”, per il quale la sindrome del bello equivaleva a una affezione
amorosa). Le fotografie di Listri, come già si è detto, permettono fruizioni solinghe, private,
tali da soddisfare l’esigenza di solitudine tipica dei Wanderer romantici, o comunque dei
viaggiatori sensibili e colti (si è appena visto come la galoppata di Mark Twain attraverso i
musei europei venne compromessa, oltre che dalla superficialità e dai pregiudizi, da una
compagnia vociante e zotica). Quindi, in linea di principio, Henri-Marie Beyle (ossia Stendhal)
avrebbe approvato. Tuttavia, occorre chiedersi: può la riproduzione di un’opera d’arte, anche
se eseguita magistralmente e, per così dire, reinventata dal fotografo, dare adito alla sindrome
del bello? È concepibile che dalla copia si sprigioni il medesimo potere di seduzione emanato
dall’originale? Se così fosse, le fotografie avrebbero “aura”, e ciò smentirebbe il principio
secondo cui la perdita di aura dell’arte si deve, per l’appunto, all’invenzione della fotografia e
del cinema. Tramontata ormai da tempo, l’arte “auratica” si sosteneva sulle idee di creatività,
genialità ed eternità, ossia, sull’unicità dell’opera; idee che a prima vista non riguardano le
copie… se di “copie” si può parlare nel caso del nostro fotografo, e no, di fatto non si può.

Le fotografie di Massimo Listri sorprendono i soggetti originali (musei, biblioteche, palazzi)
come Atteone sorprese Diana, con la medesima occhiata concupiscente, traendone visioni
ammirate; ed è appunto la meraviglia che le avvolge, frutto delle brame del fotografo, ciò che
le rende affascinanti ai nostri occhi. Ricreato dai pennelli di Tiziano, l’episodio di Diana e
Atteone racchiude una “historia” fuori dalla portata della lente di Listri; ma Listri,
fotografando il quadro all’interno della National Gallery of Scotland, sarebbe in grado di
rivelarne l’aura, ossia quel nimbo che nasce dall’incontro “morboso” fra l’opera e il visitatore.
In effetti, le immagini del fotografo fiorentino ci mostrano ciò che vorremmo vedere se le
circostanze e le limitazioni non ce lo impedissero, e cioè le opere nella loro intimità, Diana
nella sua nudità. Valga l’esempio di una fotografia fra le più recenti, uno scorcio del museo
fiorentino di San Marco. Ci ritroviamo in una stanza ampia, bene illuminata, dal pavimento di
cotto un po’ dissestato, in parte annerito d’ombra, le pareti un tempo bianche ingrigite
dall’umidità, due misteriose porte di quercia semiaperte, ad accrescere la sensazione di
irrealtà creata dalla prospettiva forzata adottata dal fotografo; al centro, colmando la metà
superiore dell’immagine, appare l’“Annunciazione” del Beato Angelico. La si vede come mai si
è vista, o come solo la vide il pittore mentre la dipingeva, allorquando se ne allontanava per
valutarne l’effetto d’insieme in rapporto alla luce, alla parete, al pavimento, agli archi delle
porte… la si vede di lunedì, a museo chiuso, come unicamente possono vederla i fantasmi dei
frati: grazie a Listri, un loro sacrosanto diritto diviene un nostro privilegio. La vediamo e la
desideriamo, e il nostro desiderio accresce il fascino dell’immagine, quasi fosse il ritratto di un
essere amato, e ciò scatena in noi una specie di languore, che potrebbe chiamarsi “sindrome
del bello”.

Se da un lato l’immagine del convento di San Marco proposta da Listri ci attrae quasi
misticamente, dall’altro, essendo una fotografia, liberat nos a malo, nel senso che ci sottrae ai
possibili danni relativi al rapporto “morboso” fra visitatore e opera d’arte originale. In questa
prospettiva, sovviene il caso di Martha, una giovane donna in visita a Firenze. Tornata in
albergo dopo aver sostato a lungo di fronte alla menzionata “Annunciazione”, Martha cadde
vittima di un attacco di schizofrenia acuta, che ne comportò il ricovero in ospedale. Quel
mattino, prima di accedere al museo, aveva appreso dalla radio che il diavolo si aggirava per le
strade della città, notizia che inspiegabilmente l’aveva turbata oltre misura. Entrata a San
Marco e ritrovatasi da sola al cospetto dell’opera del Beato Angelico, era caduta in deliquio,
forse per lo sgomento provocato dalla contrapposizione fra la beatifica visione e l’assillo
demoniaco.

Il caso di Martha esemplifica l’effetto perturbatore di certe opere d’arte, inducendoci a
ricordare come tale fenomeno abbia angosciato o intimorito non solo individui sparsi ma
anche intere collettività. Da un lato si pensi alla reazione di Dostoevsky al cospetto del “Cristo
Morto” di Hans Holbein il Giovane, dall’altro si vedano le ripercussioni del David di
Michelangelo sui fiorentini del primo Cinquecento. Chi all’epoca si fosse accostato a uno dei
capannelli che spuntavano ogni dì in piazza della Signoria (consuetudine spazzata via dalle
nuove invasioni barbariche), avrebbe appreso che la statua, con il suo sguardo torvo, lanciava
il malocchio sulla città. Il potere d’incantamento delle effigi scultoree era noto fin dai tempi di
Pigmalione, ma nel caso del David si trattava di una stregoneria capace di nuocere non a
questo o quel fiorentino bensì alla Repubblica in toto. Di fatto, furono molti coloro che
intravidero un nesso fra l’influsso malefico della statua e il ritorno dei Medici a Firenze. Per
quel che riguarda il malessere scatenato in Dostoevsky dal “Cristo” di Holbein, Anna
Grigor’evna Dostoevskaja, che nel 1867 accompagnò il marito a Basilea dove il quadro si
trovava in mostra, annota: “Lo spettacolo di questo volto tumefatto, coperto di ferite
sanguinanti è terribile, così non avendo la forza di guardarlo più oltre me ne andai in un’altra
sala…. Ma mio marito sembrava distrutto […] Quando ritornai dopo una ventina di minuti era
ancora là allo stesso posto, inchiodato. Sul suo volto commosso era impressa
quell’espressione di terrore che avevo già notato assai spesso all’inizio delle sue crisi di
epilessia. Lo presi dolcemente per un braccio, lo portai fuori della sala e lo feci sedere su una
panca, aspettandomi da un momento all’altro la crisi [epilettica] che per fortuna non ebbe
luogo”.

Martha non soffriva di epilessia, nondimeno la sua crisi nervosa fu così forte che venne
ricoverata nel reparto psichiatrico dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova, allora diretto da
Graziella Magherini, autrice, pochi anni dopo, di una ricerca sui disturbi psicologici d’indole
mentale o psicosomatica che colpivano alcuni turisti in visita a Firenze (1979). Magherini
esaminò circa duecento casi, riscontrando un legame fra il malessere dei viaggiatori e la
fruizione delle opere d’arte, in particolare nella culla del Rinascimento. Per lo più, notò la
studiosa, i turisti manifestavano attacchi di panico o disturbi del contenuto e della forma del
pensiero, con intuizioni e percezioni deliranti; altri avevano allucinazioni auditive o
percepivano fenomeni illusionali; altri ancora presentavano disturbi affettivi, sia in senso
depressivo che maniacale, con euforia e manifestazioni di estasi. Infine, alcuni, oltre ad un
senso di profondo turbamento, percepivano la città incombente, quasi nemica, “come se si
sentissero perseguitati non già da un’entità, ma dalla città stessa”. Dalle proprie analisi, la
psichiatra fiorentina trasse la conclusione che “la Bellezza e l’opera d’arte sono in grado di
colpire gli strati profondi della mente del fruitore e di far ritornare a galla situazioni e
strutture che normalmente sono rimosse”. L’allusione al ritorno del rimosso, e più
velatamente al concetto di “perturbante”, rivela l’impronta freudiana della ricerca, impronta
ancor più evidente nei successivi contributi alla neuroestetica. L’insieme dei disturbi
sensoriali e dei fenomeni illusionali descritti venne battezzato “Sindrome di Stendhal”, nome
che servì da titolo al libro in cui Magherini riversò lo studio in oggetto.

L’antefatto all’origine della “sindrome di Stendhal” riguarda il viaggio che portò Henri-Marie
Beyle in numerose città italiane, esperienza raccolta nel volume “Rome, Naples et Florence en
1817” (Paris, 1817). Giunto a Firenze, lo scrittore si recò in visita alla basilica di Santa Croce,
dove, “assis sur le marche-pied d’un prie-Dieu, la tête renversée et appuyée sur le pupitre, pour
pouvoir regarder au plafond, les Sibylles du Volterrano m’ont donné peut-être le plus vif plaisir
que la peinture m’ait jamais fait” [Là, seduto su un gradino di un inginocchiatoio, la testa
abbandonata sul banco, per poter guardare il soffitto, le Sibille del Volterrano mi
hanno dato forse il piacere più vivo che mai mi abbia fatto la pittura]. Si legge di
seguito:

« J’étais déjà dans une sorte d’extase, par l’idée d’être à Florence, et le voisinage des grands
hommes dont je venais de voir les tombeaux. Absorbé dans la contemplation de la beauté
sublime, je la voyais de près, je la touchais pour ainsi dire. J’étais arrivé à ce point d’émotion où
se rencontrent les sensations célestes données par les beaux-arts et les sentiments passionnés. En
sortant de Santa Croce, j’avais un battement de cœur, ce qu’on appelle des nerfs, à Berlin; la vie
était épuisée chez moi, je marchais avec la crainte de tomber ». [Ero già in una sorta di
estasi, per l’idea di essere a Firenze, e la vicinanza dei grandi uomini di cui avevo
visto le tombe. Ero arrivato a quel punto di emozione dove si incontrano le
sensazioni celestiali date dalle belle arti e i sentimenti appassionati. Uscendo da
Santa Croce, avevo una pulsazione di cuore, ciò che a Berlino chiamano nervi: la vita
in me era esaurita, camminavo col timore di cadere].

A quale paradossale conclusione giungesse M. Beyle all’indomani della crisi, si è visto sopra. A
parte la facezia della cotoletta farcita, l’autore di « Le Rouge et le Noir » stabilisce con le città
d’arte e i capolavori in esse racchiuse contatti ora enfatici ora distaccati, che più di una volta
risultano sconcertanti. Un solo esempio : nel 1811, in viaggio fra Firenze e Roma, nel lasciarsi
Siena alle spalle, annotò nel suo diario: « Je ne passai qu'un quart d'heure à Sienne, dont les rues
sont étroites, a cause de la chaleur, et dont les maisons ont du grandiose”. E’ vero che nei sei
anni trascorsi fra il 1811 e il 1817, il gusto e le conoscenze di Stendhal erano andate
affinandosi, tuttavia il contrasto fra le secche annotazioni del “Journal” e le rapite descrizioni
del libro ha sollevato non poche riserve sulla veracità delle seconde, in particolare
dell’episodio di Santa Croce. Rifacendosi a Julian Barnes, sobillatore primo dei dubbi (in
« Nothing to be frightened of »), John Menick si chiede il perché di tali incongruenze e se esse
non riducano la credibilità della sindrome, domandandosi a proposito di quest’ultima: « Is it
based in something that never happened? » Potrebbe trattarsi di una « falsa memoria »
(Erinnerungsfälschung), altra sindrome tipica dei viaggiatori, si risponde Menick, osservando:
“In fin dei conti molti resoconti di viaggio altro non sono che abbellimenti dei viaggi reali, del
tedio, del disappunto e delle opportunità mancate ad essi collegati”. Se così fosse, conclude, la
Sindrome di Stendhal dovrebbe essere intesa non già come reazione psicosomatica al
cospetto del sublime, ma piuttosto come una inconscia riscrittura dei nostri viaggi passati, e
ciò a partire dal fatto che “travels almost never live up to our expectations, and neither does the
past”.

Nella misura in cui abbelliscono la realtà, elevandola alle nostre attese, le fotografie di
Massimo Listri rappresentano esse stesse “false memorie”, ovvero, ricordi amati, impreziositi
e falsati. I musei, i palazzi e le biblioteche che colmano la sua galleria d’autore non esistono
come appaiono: se volessimo comprovarlo ne ricaveremmo una cocente delusione. Mai
verificare ciò che non è verificabile! Con la complicità della sua Sinar, Listri reinventa ciò che
vede, adeguandolo a ciò che vorrebbe vedere, a ciò che tutti noi vorremmo vedere… noi, che
viviamo in una caverna dalla quale non percepiamo se non i riflessi delle cose. Ecco! Massimo
Listri è un fotografo neoplatonizzante, che sarebbe piaciuto a Plotino, o come minimo al
Plotino che lasciò scritto:

“Che cos'è dunque che attira lo sguardo di chi osserva, e fa volgere il capo, e fa provare la gioia
della contemplazione? Se noi scopriamo che cos'è questa bellezza dei corpi, forse potremo
servircene come di una scala per contemplare le altre bellezze. Tutti, per così dire, affermano
che la bellezza visibile nasce dalla simmetria delle parti, l'una in rapporto all'altra, e ciascuna
in rapporto all'insieme; a questa simmetria si aggiunge la bellezza del colore; dunque la
bellezza di tutti gli esseri è la loro simmetria e la loro misura; per chi pensa così, l'essere bello
non sarà un essere semplice, ma soltanto e necessariamente un essere composto; l'insieme di
questo essere sarà bello e ciascuna parte non sarà bella in sé, ma solo nella sua armonia con le
altre. Però, se l'insieme è bello, bisogna pure che le parti siano belle anch'esse; certo, una bella
cosa non può essere fatta di parti brutte: tutto ciò che la compone deve esser bello”.

Le immagini di Listri palesano l’aspirazione ad una bellezza ideale, fatta di misura e simmetria
e armonia delle parti; aspirazione che cela un’incurabile “nostalgia di perfezione”, una forma
endemica di “saudade estetica”; aspirazione da cui ci lasciamo contagiare, come se,
inconsciamente, volessimo condividere la medesima sindrome.

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