Sei sulla pagina 1di 13

GIORGIO ANTEI

LA STRADA DI TOMAR

“Isto pensava, isto escrevo; isto tinha n'alma;


isto vai no papel: que d'outro modo não sei escrevcr”.
João Baptista Almeida Garrett

I castelli del Ribatejo e dell’alto Alentejo, come ad esempio Monsanto e Almourol, parlano sia in
prosa che in poesia. Da un lato raccontano vicende e leggende, dall’altro recitano versi e intonano
carmi. Equivalgono, insomma, a testimonianze storiche e letterarie. Ciò senza contare che
risvegliano in coloro che vi si avvicinano “amorosamente” evocazioni anche autobiografiche. Pure
le mie corde sono state toccate in passato da certi castelli portoghesi, da quello di Ourém a quello
di São Jorge, corde che ancor oggi continuano a vibrare. Appunto per questo ho deciso di
ripercorrere, a mo’ di “sentimental journey”, le tappe di un viaggio che mi portò a capire qualcosa
di me che fino ad allora mi era sfuggito, e anche qualcosa del Portogallo.

“Vai e impara” mi disse la mia maestra, Luciana Stegagno Picchio, alla fine di un corso sul teatro
portoghese del Cinquecento; cosicchè partii e dopo un lungo periplo sul maggiolino rombante d’un
lusitanista pisano mi ritrovai tutto solo a Coimbra, immerso nella povertà mesta e premurosa che
caratterizzava il quartiere di Santa Clara, sulla sponda destra del Mondego. Non esisteva
accattonaggio in città, ma negli occhi di molti si leggeva un’implorazione che oltre che
abbattimento provocava dolore e ira. Come nel sonetto di Dante. Quante volte non me ne
rammentai mentre risalivo Rua Ferrerira Borges diretto all’università? In Angola infuriava la
Guerra do Ultramar ma di essa, nella Beira Litoral, giungevano solo echi remoti, frammisti ai fados
di Amalia Rodrigues:

Lá vai brincando, pela mão de uma quimera


Essa garota que fui eu, sempre a sorrir
Como se a vida fosse eterna primavera
E não houvesse dores no mundo p’ra sentir

(Eccola che saltella, per mano d’una chimera/ quella fanciulla ch’io fui, sempre sorridente/ come se
la vita fosse eterna primavera/ e nel mondo non si sentisse alcun dolore)

Di fatto, la censura non concedeva altro che annunci mortuari collettivi seminascosti fra le pagine
del “Diario de Coimbra”. Scorrendoli cadevo in preda a quella che imparai subito a chiamare
saudade, una sensazione che si veniva a me giorno dopo giorno e mi diceva: “Voglio un poco stare
teco”. Per liberarmi, entravo nel caffé Santa Cruz, dove mi accoglieva un’iscrizione dapprima
misteriosa: “O café é uma das feições mais characteristicas de uma terra. O viajante
experimentado e fino chega a qualquer parte, entra no café, observa-o, examina-o, estuda-o, e
tem conhecido o paiz em que está, o seu govêrno, as suas leis, os seus costumes, a sua religião” (i
caffé si contano fra gli aspetti più caratteristici di un paese. Il viaggiatore esperto e raffinato arriva
in un posto qualsiasi, entra in un caffè, lo osserva, lo esamina, lo studia e si rende conto del paese
1
in cui si trova, del suo governo, delle sue leggi, delle sue usanze e della sua religione) . Almeida
Garrett non sbagliava: il caffé Santa Cruz rappresentava un paese tradizionalista, arretrato, retto
da un governo dittatoriale, ottusamente colonialista. Tutto ciò mentre all’intorno aleggiava un
dolce inno all’amore:

Coimbra do choupal
Ainda és capital
Do amor em Portugal, ainda
Coimbra onde uma vez
Com lágrimas se fez
A história dessa Inês tão linda

(Coimbra del Choupal/ è ancora capitale/ dell’amore in Portogallo, ancora/ Coimbra dove una
volta/ si fece con lacrime/ la storia di quell’Ines così bella)

Ascoltavo e mi chiedevo che cosa fosse un “choupal” e chi mai fosse Inês. La prima risposta giunse
ben presto grazie all’apparizione di Elsie, studentessa tedesca di cui ricordo particolarmente
l’abbronzatura e un traiva-lingua che ripeteva come un ritornello:“ O tempo perguntou pro tempo
quanto tempo o tempo tem. O tempo respondeo pro tempo que o tempo tem tanto tempo quanto
tempo o tempo tem”. Fu appunto Elsie a farmi varcare il ponte di Santa Clara, fu Elsie che mi
trascinò nella parte alta della città, fu lei che mi convinse ad alloggiare in una pensioncina
all’angolo di Marnoco e Sousa, ultimo piano, bell’affaccio su un verziere, e fu per merito di Elsie che
scoprii che “Choupal” era un parco boscoso appena fuori città.

Riguardo all’identità della bella Inês, venne fuori che si trattava di Inês de Castro, quella
nobildonna “mísera e mesquinha, que depois de ser morta foi rainha”. Giunsi a questa conclusione
a seguito di una passeggiata notturna per il Penedo da Saudade, durante la quale intravidi, incisa
su una pietra, un’epigrafe tratta dal canto III dei “Lusiadas”:

Tu só, tu, puro Amor, com força crua,


Que os corações humanos tanto obriga,
Deste causa à molesta morte sua,
Como se fora pérfida inimiga.
Se dizem, fero Amor, que a sede tua
Nem com lágrimas tristes se mitiga,
É porque queres, áspero e tirano,
Tuas aras banhar em sangue humano

[Tu che cangi ad altrui voglie e costumi,/ Solo tiranno in mezzo agli altri dei;/ Tu che albergavi ne'
suoi dolci lumi,/ Amor, tu le affrettasti i giorni rei./ Ma non ti basta da' nostri occhi fiumi/ Trarre
notanti, se tiranno sei,/ Chè per trofeo di tua fierezza aneli/ Vittime sanguinose, are crudeli!/ Fra
placidi ozi allegri dì contavi]

Di ritorno in Marnoco e Sousa afferrai il mio Camoes e lessi ad alta voce la strofa successiva:

Estavas, linda Inês, posta em sossego,


De teus anos colhendo doce fruto,
Naquele engano da alma, ledo e cego,

2
Que a fortuna não deixa durar muito,
Nos saudosos campos do Mondego,
De teus fermosos olhos nunca enxuto,
Aos montes ensinando e às ervinhas
O nome que no peito escrito tinhas.

[Bell’Ines giovinetta, ed il tuo cuore/ Sotto la man di chi n'avea le chiavi/ Lieti frutti cogliea d'un
casto ardore,/ Nè t'era noto ancor che ai dì soave/ Mesce il fato l'amaro, e il tuo signore/ Solo talor
chiedevi, e al caro duolo/ Rispondea di Mondego il verde suolo]

La storia è questa: di nobile stirpe galiziana, Inés de Castro accompagnò in Portogallo, come
damigella, la cugina Constanza, che andava sposa a Pedro, figlio di re Alfonso IV ed erede al trono.
Pedro e Inés caddero subito innamorati, creando grave scandalo a corte. Rimasto vedovo, il
principe impalmò segretamente la giovanissima galega, da cui ebbe tre figli. In odio al re e alla
corte, Inés, in assenza di Pedro, si rifugiò nel convento di Santa Clara, a Coimbra, dove fu trucidata
per ordine del sovrano. Dopo aver guerreggiato contro il padre, Pedro, asceso al trono del
Portogallo, fece esumare le spoglie di Inés e, incoronatala regina, ordinò di inumarla nel convento
di Alcobaça, in uno splendido sarcofago accanto al quale ne fece erigere un secondo destinato a se
stesso.

Pur adorando i cavalli sopra ogni cosa, Elsie era commossa, tutta compresa “da quell’inganno
dell’animo, lieto e cieco” che è la passione d’amore. Quando Pedro si assentava, Inês viveva di
“memorie d’allegria”, in preda “la notte a dolci sogni menzogneri,/ il giorno ad alati pensieri”.
Povera donna, la tragedia era in atto da tempo sotto forma di ragion di stato e lei continuava a
bearsi ignara! Quando infine Inês capì cosa l’attendeva, emise un lamento pietoso: “Vi è qualcosa
d’umano nell’uccidere una donzella/ fragile e indifesa solo perché tiene avvinto/ il cuore di chi
seppe conquistarla”? Neppure “colui che poi la fe’ regina” potè salvarla dai fremebondi carnefici di
re Alfonso:

Tais contra Inês os brutos matadores


No colo de alabastro, que sustinha
As obras com que Amor matou de amores
Aquele que depois a fez Rainha;
As espadas banhando, e as brancas flores,
Que ela dos olhos seus regadas tinha,
Se encarniçavam, férvidos e irosos,
No futuro castigo não cuidosos.

[Tal contro il bianco collo e i molli avori,/ Onde sì caro il bel volto sorgea,/ Levan l'ignude spade, e i
duri cuori/ Quel dolce lagrimar più crudi fea:/ Già tinge il puro sangue i bianchi fiori,/ Che anzi il bel
pianto inumiditi avea,/ Nè sapean quai vendette acceso in breve/ Avrebbe di quel sen la scura
neve]

Dopo la lettura, Elsie volle che ci spostassimo sul balcone, nel vano intento d’individuare il
monastero di Santa Clara la Velha, situato accanto alla Quinta das Lagrimas e alla Fonte dos
Amores: tutti luoghi che avevano visto la bella Inês da viva e l’avevano ripianta da morta. Era buio
e come se non fosse bastato la visuale era occupata in buona parte dal convento di Santa Teresa,
un complesso che, fra costruzioni e giardini, si estendeva da Marnoco e Sousa fino a Aires de

3
Campo. Una sola finestra riluceva giallognola sulla mole nera del convento, in corrispondenza del
terzo piano, un riquadro saudoso come una “janela aberta para o passado”. Finestra che la
mattina seguente era spalancata, diversamente dalle altre quattordici che si affaccioavano sul
giardino. A che distanza si trovava? Abbastanza vicina da permettermi di percepire una monaca
con cuffia bianca seduta accanto al davanzale; e non tanto lontana da impedire a lei, la monaca, di
vedere me (o piuttosto Elsie, che soleva esporre l’abbronzatura ai quattro venti).

Per mia sorpresa, nelle settimane successive la finestra rimase aperta giorno e notte, spalancata o
illuminata, la stessa suora immota dietro al parapetto, quasi si trattasse di un manichino: un
manichino a dir poco inquietante, dal momento che, almeno in apparenza, aveva lo sguardo fisso
su di me, o se si vuole su di noi. Ciò rischiò di vanificare la promessa fatta alla Stegano Picchio alla
mia partenza da Pisa. Avevo le miglior intenzioni, per cui, di ritorno dall’università, mi buttavo sul
Romanceiro Geral, recitando a squarciagola versi del tipo: “Guerinaldo, Guerinaldo/ Pagem de el-
rei mais querido;/ Queres tu oh Guerinaldo/ Tomar amores conmigo?”. Dopo qualche minuto,
però, correvo al balcone, mi accertavo che tutto fosse immutato e tornavo al Romanceiro: “Venha
uma espada e cavallo/ Eu serei já capitão/…”. Poi m’interrompevo di nuovo, mi affacciavo al
balcone, e così di seguito.

La pensione era retta da Dona Agueda, persona pia come poche, in tutto dissomigliante
dall’Agueda del romance (“Era una menina bella/ discreta e bem parecida”), che inorridiva alle
battute sboccate di noi ospiti. Ancora non capisco perché a senhora ci mise tanto ad associare la
“Spanner” di cui Elsie sparlava a tavola con la monaca del terzo piano. Quando se ne rese conto
ebbe un malore, reazione che ci indusse a pensare che Dona Agueda potesse essere il frutto
proibito della religiosa in questione. Rinchiusa in convento poco prima del parto, costei aveva
dovuto rinunciare alla figlia, senza però dimenticarsene. Per quarant’anni era rimasta alla finestra
intenta a sbirciarla, mesto sollievo di una maternità negata. Questo ci dicemmo dapprima, ma la
spiegazione di Dona Agueda, quando si fu ripresa, fu tutt’altra: la monaca era “uma santa de carne
e osso”, vale a dire “Lucia de Jesus dos Santos”, al secolo Lucia Abobora, ovvero niente meno che la
pastorella di Fatima.

Allora non potevo saperlo, né tanto meno lo sapeva Dona Agueda, ma irmã Lucia taceva da oltre
dieci anni per imposizione del Vaticano (avrebbe taciuto fino alla morte, avvenuta nel 2008).
Scomparsi i parenti più stretti, era rimasta del tutto isolata in una cella del convento di Santa
Teresa, terzo piano, ultima porta a destra, e da allora non si era più staccata dalla finestra, unico
varco aperto sul mondo da quando, nel 1917, aveva visto la Madonna. Che assurdità! Lucia fu
beatificata non tanto per le visioni e i miracolosi messaggi ricevuti quanto per averli sottaciuti, per
aver accettato obbediente la censura impostale dalla Chiesa; per questo fu relegata fra quattro
mura come una donzella in una torre di pietra mal tagliata. Ma io, ripeto, non potevo saperlo: per
me quella torre era eburnea, sospesa fra cielo e terra, abitata da un essere sovrumano in attesa
che dall’alto calasse la Scala al Fattore. Ovviamente esagero. All’epoca, infatti, ero in preda a
dissonanze ideologiche e cognitive che giammai mi avrebbero permesso cedimenti spiritualistici.

Sebbene non si trattasse di un castello vero e proprio, il convento di Santa Teresa fu la prima tappa
del mio itinerario fra le rocche medievali portoghesi. Lasciata Coimbra, dove nonostante tutto
avevo imparato abbastanza da non sentirmi in colpa, mi diressi a Ourém, non lontano da Fatima.
Dominava l’abitato una fortezza fatta erigere da Afonso Henriques verso la metà del XII secolo, un
vasto complesso architettonico cadente, articolato in più corpi immersi nel verde. Fra le mura
riecheggiava una leggenda secondo la quale, quand’ancora il Ribatejo era in mano mussulmana,

4
una principessa mora chiamata Fatima era stata rapita da un manipolo di cristiani capitanati da
certo Gonçalo Hermigues. Durante la prigionia la fanciulla si era innamorata di Gonçalo (“a moura
apaixonou-se pelo cristão”), decidendo di farsi cristiana per compiacerlo. Come nome di battesimo,
la principessa Fatima aveva scelto Oureana, da cui poi era derivato il toponimico Ourém.
Ascoltando questo racconto, mi capitò per la prima volta di pensare che il Romanceiro, e più in
generale la poesia tradizionale portoghese, deve molto agli amori di frontiera, sbocciati
perigliosamente in una fascia di terra contesa fra due realtà, amori spesso tragici o quanto meno
infelici, fatti ad un tempo di passione e morte. Amori impossibili e pertanto indelebili, scolpiti nella
sensibilità di un popolo che ha elevato la nostalgia a sentimento nazionale. Lo strappo etnico e
culturale causato dalla Reconquista, quello strappo su cui si erige la storiografia portoghese, si può
leggere oltre che in termini epici anche e soprattutto in termini lirici.

Stavo riflettendo su ciò quando, ormai uscito dal castello, imboccai neanche a farlo apposta la
Calçada da Mulher Morta, un ripido stradello tutto curve che dall’erta della fortezza conduceva al
pianoro sottostante. La sciagura all’origine del nome, avvenuta nove secoli addietro, era stata
causata da un amore irrealizzabile fra un bel cavaliere di stanza nel castello e una contadinella, di
certo mora, che viveva nei paraggi. Scoperta la tresca, il padre della giovinetta vi si era opposto
energicamente, e poiché essa era fuggita l’aveva rincorsa e colpita con una zappa. Tramortita, la
fanciulla era rotolata lungo il pendio sfracellandosi contro un masso. Parlo al singolare, ma in
realtà Elsie era con me, sempre pronta a sbottare in imprecazioni anche in portoghese o a
intenerirsi fino alle lacrime. Era con me, eppure me ne stavo appartato, e ciò perché – mi dicevo –i
castelli medievali acuiscono il senso della solitudine. Vagare fra rovine squadrate poste su picchi
rocciosi in un silenzio estivo non diverso da quello che Eugenio Montale (all’epoca ancora vivo)
udiva a Monterosso, produceva in me un effetto di straniamento che Elsie, a modo suo,
condivideva. Quei cumuli di pietre non erano diversi dai “roventi muri d’orto” della Riviera, né
erano diversi i pruni e gli sterpi, gli schiocchi di merli e i frusci di serpi. I castelli sono superstiti d’un
passato immaginario più che storico – pensavo –, scenari di epopee divorate dal tempo, restituite
al presente sotto forma lirica o favolosa; ecco cos’erano i castelli portoghesi, teatri della saudade:

E andando nel sole che abbaglia


Sentire con triste meraviglia
Com’è tutta la vita e il suo travaglio
In questo seguitare una muraglia

A quei tempi, il castello di Idanha-a-Vella era costituito dal solo mastio e pochi resti di una cinta
muraria costruita e ricostruita nel tempo su un basamento romano. La sua importanza risiedeva
nell’aver fatto parte delle fortificazioni erette dai cavalieri templari a difesa del territorio donato
loro da Afonso I, ossia il già menzionato Afonso Henriques; territorio che si estendeva lungo la linea
di confine fra la regione di Coimbra, in mano ai cristiani, e il califfato Almohade. Fu proprio a
Idanha-a-Velha che i templari irruppero nella mia mente (ove fino ad allora avevano figurato ben
poco) determinando in qualche modo la road map del mio viaggio. Ma ancor più vi si fece spazio il
califfo Abu Yúsuf Yaakub al-Mansur, contro il quale, per l’appunto, si batterono i cavalieri del
Tempio, e ciò grazie a una quartina di Jorge Luis Borges:

Murieron otros, pero ello aconteció en el pasado


Que es la estación (nadie lo ignora) más propicia a la muerte.
¿Es posible que yo, súbdito de Yaqub Almansur,
Muera como tuvieron que morir las rosas y Aristóteles?

5
Muoiono le rose, muore Aristotele ma i resti turriti dei manieri sparsi per l’Alentejo permanevano
ed era mia intenzione esplorarli. Ricordavo il “Romance da Moira Encantada” e volevo collocarlo in
situ, inscenarlo in questa piuttosto che in quella fortezza, ovvero in un set ove le strofe prendessero
forma e la protagonista s’incarnasse. La romanza parlava d’una fanciulla mora rinchiusa
tristemente in una torre per via d’un incantesimo (“…Olhos voltam au castello/ Para ver, para
avistar/ A linda moira encantada/ Que era triste a suspiras”). Solo chi avesse avuto l’ardire di
arrampicarsi fino al castello avrebbe potuto riscattarla, altro modo non esisteva. Ma nessuno
osava:

Quem se atreve, ai quem se atreve


Ir ao castello e trepar,
Para vencer lo encanto
Que tanto sabe encantar?

Nonostante l’ambito premio spettante al salvatore, ad onta cioè della “linda formosura”della
donna, anche i più spericolati tentennavano:

Ninguem ha que a tal se atreva


Não ha que em moiras fiar;
Quem lá fosse a taes deshoras
Para só desencantar,
Grande risco assim corrêra
De não mais de lá voltar.

Trovai la location giusta a pochi chilometri da Idanha-a-Velha, seguendo il corso del fiume Erges,
che nel Duecento rappresentava la linea di difesa cristiana contro gli attacchi dei maomettani,
costituendo allo stesso tempo il limite inferiore delle terre donate da Afonso Henriques a Gualdim
Pais, gran maestro dell’ordine templare. Era il castello di Monsanto, arroccato su un alto picco
roccioso prospiciente la Serra da Gardunha: se ero alla ricerca di un luogo stregato e inaccessibile,
quel turrito fortilizio era perfetto. Tornando al “Romance da Moira Encantada”, tutti i pretendenti,
dunque, indugiavano ai piedi della rocca, timorosi “de não mais de lá voltar”. Infine sopraggiunse
Dom Ramiro, “um bom cavalleiro” il cui petto ardeva d’un tale amore che nessun pericolo
l’avrebbe frenato. Come suole succedere, però, il desiderio, anziché spronarlo, lo bloccò per tre ore:

Tres horas eram passadas


N’este continuo ansiar,
Cavalleiro d’armas brancas
Nunca soube arreceiar,
Invoca a linda moirinha,
Mas não ouve o seu falar

Mentre l’alba si avvicinava Dom Ramiro non pensava ad altro che a far sua la bella moretta (“mais
que a moira conquistar”), per cui, vinta l’ansia, s’inerpicò fino alla sommità del roccione e iniziò a
scalare la scivolosa muraglia (“Vae subir por muro acima/ Sente os pés a resvalar”). Sfortunato
cavalleiro! Il tempo concessogli per liberare la fanciulla dal castello stregato era ormai scaduto (“Ai
que era passada a hora/ De a poder desencantar”). Al primo sole una nube bianca come la

6
candida, finissima veste della bella figlia di Agar uscì dal mastio, avvolgendo la fanciulla nelle sue
spire:

Jurava u povo, jurava


E teimava em affirmar
Que dentro d’aquella nuvem
Vira a donzellinha entrar

Conclusione: Dom Ramiro, affranto, si gettò lancia in resta contro le schiere di Yaqub Almansur ed
espugnò un castello, gesta che non lo salvò dalla saudade:

D’ali parte e contra os mouros


Grande briga vae armar,
Por fim ganha um bon castello
Mas sem moira para amar.

Ci arrampicammo fino al castello un bel pomeriggio d’agosto. Ne derivò un’insolazione che mi –


ossia ci – obbligò a pernottare a Monsanto, ospiti di una villica gentile (chi non era gentile in
Portogallo allora?) che ci offrì la propria camera da letto e del latte. La camera era immacolata,
bianche le pareti, le lenzuola ricamate, le tende orlate, bianca la culla accanto al letto
matrimoniale. La donna, d’età indefinibile – trenta, quarant’anni? – si chiamava Iria e, dopo essersi
schermita dalla mia profferta di denaro, raccontò la sua storia. In quella camera lei non aveva mai
dormito, l’aveva allestita in attesa del ritorno do seu noivo dalla Svizzera, dov’era andato anni
prima a lavorare. Con il denaro che lui le faceva pervenire tramite il parroco di Monsanto aveva
comprato l’arredo e con le sue mani callose aveva cucito, ricamato, orlato. Un giorno o noivo
sarebbe tornato, l’avrebbe portata all’altare, sarebbero giaciuti su quel letto, sarebbe nata una
creatura… nel frattempo Iria, orfana da tempo, dormiva in un giaciglio in cucina. Non aggiunse
altro. Febbricitante mi stesi sul talamo intoccato, sperando che Elsie non si avvicinasse. Una
campana di vetro galleggiava ai piedi del letto, o così mi sembrò. Ricopriva l’effigie in gesso
colorato di una monaca, forse la stessa irmã Lucia, mi venne da pensare. Invece era santa Iria.

Viaggiavamo con l’autostop e spesso capitava che, anziché avanzare lungo il tracciato stabilito, ci
adattassimo al percorso degli automobilisti che ci raccoglievano. Per questo potemmo visitare il
mosteiro di Santa Maria di Alcobaça, da cui Elsie fu cacciata per via degli short. Non solo, ma ebbe
un alterco con la guida intenta a delucidarci il significato dei bassorilievi della tomba della povera
Inés. Poi fu la volta di Nazaré, o piuttosto del Pico do Milagre, un alto sperone di roccia a
strapiombo sull’oceano. Sulla sommità della punta si ergeva non un castello bensì la Ermida da
Memoria, una cappelletta nobilitata dal grandioso panorama marino, probabilmente edificata su
una più antica torre di scolta. Da lì, guardando verso sud est, si scorgeva l’abitato di Pedemeira,
non solo ma si percepiva pure, portato da continue folate di vento, l’acre odore delle sardine e
delle cipolle bruciate. Il mare, sulla destra, era solcato da saveiros dall’alta prua rossa che
lottavano contro i cavalloni per guadagnare la riva, ove li attendevano stuoli di donne in abiti neri
e quadriglie di buoi. La Ermida era stata costruita per alloggiare una madonnina nera con bambino
ritrovata, si diceva, in una fenditura irraggiungibile della roccia. Dunque, il 14 settembre 1182,
regnando Afonso Henriques, un certo cavaliere chiamato Fuas Roupinho era uscito a caccia a
cavallo e a causa delle nuvole che ricoprivano la costa si era smarrito. Incitato dal demonio,
l’animale si era lanciato su per il Pico, per poi precipitare giù dal medesimo con Roupinho in
groppa. Mentre cadeva, questi scorse l’anfratto e la sacra effigie lì riposta, talché si affidò ad essa

7
in extremis. Per sua fortuna, per le creature celesti non è mai troppo tardi: mani angelicali
afferrarono il cavaliere e lo depositarono in salvo nel punto in cui venne eretta la Ermida.

Il cavallo invece andò a fracassarsi sugli scogli. Fra le cose che imparai a Nazaré, la più inaspettata
la appresi da Elsie. Mi disse che il suo lobo sinistro, la cui assenza avevo notato anteriormente, le
era stato staccato di netto dal cavallo con cui praticava dressage, non per un istinto malevolo
dell’animale bensì per un attacco di gelosia nei confronti di un palafreniere, “auf ein Reitknecht
eifersüchtig”. Udendola, mi chiesi quante belle principesse more, nell’antico reame del Portogallo,
non fossero state morsicate da destrieri maomettani adombrati. E mi chiesi pure se la gelosia d’un
corsiero, quando a suscitarla è una donna, rientra nelle passioni equestri o in quelle equine. I
cavalli capiscono le lingue, riconoscono i nemici, disdegnano i deboli, amano essere spronati,
ispirano poeti e romanzieri… altro che perissodattili ippomorfi! Gli amori equestri sorsero negli
avamposti fortificati dell’Alemtejo, sia cristiani che mussulmani, ove i cavalli, lungi dal mescolarsi,
riproducevano i contrasti e le passioni dos jinetes e das jinetas: contrasti di sesso, indole, razza e,
perché no, di sensibilità e gusto. In altre parole, i cavalli – e non solo i cavalieri, non solo le armi e le
dame – dovrebbero costituire un capitolo della storia della Reconquista e dell’architettura militare
lusitana del secolo XII, pensavo.

Per strappare ai mori le terre perdute secoli prima ad opera dei mori stessi, i sudditi di Afonso
Henriques (cioè i primi portoghesi propriamente detti) si avvalsero, oltre che della spada e della
croce, dell’aiuto diretto e indiretto di Gesù Cristo, della Madonna e dei santi. In effetti, i casi
d’intervento soprannaturale a favore dei cristiani sono numerosi anche in ambito lusitano,
quantunque non si presentino fenomeni estremi come le madonne equestri armate di spada, non
rare in altri punti della Cristianità. Ordini religiosi armati come i Templari costituiscono, in un certo
senso, emergenze di quella coincidentia oppositorum – per l’appunto croce e spada – che innalzò la
Reconquista a una delle maggiori epopee cristiane. Ma ancor più significativo è il miracolo come
strumento bellico e politico. Uno dei più famosi è sicuramente il milagre de Ourique (25 luglio
1139), evento o leggenda fondante della monarchia e dell’identità nazionale portoghese. Il
beneficiato fu per l’appunto Afonso Henriques, acclamato Portugalensium Rex all’indomani della
battaglia di Ourique, che confermò la veridicità del prodigio mediante giuramente: “Io, Alfonso, Re
del Portogallo… dinnanzi a voi Vescovo di Braga e Vescovo di Coimbra e di tutti i vassalli del mio
Regno, giuro su questa croce di ferro, su questo libro dei Santi Vangeli, su cui pongo le mie mani,
che io, miserabile peccatore, vidi con questi occhi indegni Nostro Signore Gesù Cristo steso sulla
Croce…”. La testimonianza del sovrano prosegue così: “Mi trovavo con il mio esercito nella regione
dell’Alemtejo, a Campo di Ourique, pronto a dar battaglia a Ismael e ad altri quattro re Mori, che
avevano schierato infinite migliaia di uomini” allorquandoi cristiani, impressionati dalla superiorità
numerica dei nemici, cominciarono a temere che uno scontro in quelle condizioni sarebbe potuto
essere azzardato (“dizião alguns ser temeridade acometter tal jornada”). Sopraggiunta la notte,
Alfonso si addormentò sulla Bibbia, mormorando: “Mui ben sabeis vos, Senhor Jesus Christo, que
por amor vosso tomei sobre mim esta Guerra contra vossos adversaries; en vossa Mão está dar a
mim, e aos meus, Fortaleza para vencer estes blasfematores de vosso nome”. Nel sonno ebbe una
visione che in realtà non era tale perché il vecchio che gli si presentò dinnanzi era Dio in persona.
Chiese Alfonso: “A che scopo mi appari, Signore? Vuoi per caso accrescere la mia fede, che è già
tanta?” Rispose Dio:

“Não te appareci deste modo para acrecentar tua fé, mas para fortalecer teu coracão neste
conflicto, e fundar los principios de teu Reino sobre pedra firme. Confia Affonso, porque não só
vencerás ésta batalha, mas todas as outras, em que pelejares contra os inimigos da minha Cruz”

8
(Non ti sono apparso per aumentare la tua fede, ma per rafforzare il tuo cuore in questa Guerra e
fondare i principi del tuo Regno su solida pietra. Sii fiducioso, Alfonso, perché non solo vincerai
questa battaglia, ma tutte le altre che combatterai contro i nemici della mia Croce).

Subito dopo Dio aggiunse: “Eu sou o fundador, e destructor de Reinos, e Imperios; e quero em ti, e
teus decendentes fundar para mim hum Imperio (Io sono un fondatore e distruttore di Regni ed
Imperi, e voglio fondare su di te e sui tuoi discendenti un impero per me).

I castelli portoghesi sorsero per volontà divina, nell’ambito di una strategia “imperiale” rivelata a
Afonso Henriques alla vigilia della battaglia di Ourique, ed è per questo che – pensavo – ancor più
che fortezze, costituiscono templi turriti, sante cittadelle disposte ai confini della Cristianità, devoti
avamposti incuneati in una terra via via strappata agli infedeli ed elevata a nazione per volere del
Creatore. Ecco, d’altro canto, perché i Templari meritano il nome loro attribuito – mi dicevo –, non
solo per il legame originario con il tempio di Salomone ma anche per il compito loro affidato dal
novello re in nome di Dio: quello di costruire sacre fortezze e avviare nuovi povoamentos cristiani. I
templari parteciparono alla presa di Santarèm, nel 1147, ed eressero negli anni seguenti i castelli di
Tomar, Pombal, Redinha, Ega, giù giù fino alla roccaforte di Almourol. E di castello in castello, di
donazione in donazione edificarono un patrimonio territoriale che ricopriva gran parte della Beira
Baxa; e come se non fosse bastato, il re offrì loro un terzo di tutte le terre conquistate a sud del
Tago, offerta che non colsero per i rischi connessi. Croce, spada e abaco, una triade che i lusitani –
fossero clérigos o leigos, cabaleiros o bispos – continuavano a impiegare ancora allora, mentre ci
riflettevo su.

Elsie non la smetteva di chiedersi che parte avessero svolto le donne. Non tutte erano belle morette
avvolte in candide vesti o sventurate dame galiziane. A meno che non vi venissero rinchiuse con la
forza, nei castelli non vi era posto per loro, non dico uno spazio fisico ma neanche mentale. E nei
campi di battaglia – insisteva Elsie –, erano presenti in battaglia o no?Eccome se c’erano! Il bando
mussulmano era fitto di guerreiras damas, talché Camões, nel descrivere l’impresa di Ourique,
aveva scritto:

Cinco Reis Mouros são os inimigos,


Dos quais o principal Ismar se chama;
Todos exprimentados nos perigos
Da guerra, onde se alcança a ilustre fama.
Seguem guerreiras damas seus amigos,
Imitando a fermosa e forte Dama
De quem tanto os Troianos se ajudaram,
E as que o Termodonte já gostaram.

(Ha cinque re nimici, e l'africano Osmar d'armi vi splende e forze altere; è ciascuno guerriero e
capitano, e or vibra l'asta, ed or dispon le schiere: sieguono armate l'animosa mano Nuove Camille
e Amazoni guerriere, che a lato anch'esse dei feroci duci fiammeggian d'ire e non di vaghe luci)

“Os Lusíadas” avevano visto la luce nel 1572, a quattrocento anni di distanza dalle gesta di Afonso
Henriques. Tutto nel frattempo era cambiato, a cominciare dal significato di “epopea” e dalla
funzione dell’architettura militare. Mentre i poemi epici si spostavano sempre più verso il
“verosimile meraviglioso”, i castelli rassomigliavano sempre più a palazzi signoriali. L’antica

9
austerità era mutata in sfarzo, il carattere sacrale in mera profanità e le donne maomettane in
amazzoni del Termodonte. Su questo Elsie e io concordavamo.

Un automobilista assonnato ci chiese di accompagnarlo fino a Lisbona, invito che accettammo


controvoglia. Ci inoltrammo nell’Alfama in tram, poi proseguimmo a piedi (non esisteva altro
modo, allora). Il castello di São Jorge era in abbandono, malinconico, ma dotato di un fascino
avvolgente come la nube della Moura Encantada. Nessuna severità marziale, nessun richiamo
spirituale, nessuna allusione leggendaria: era un giardino bellamente incolto chiuso fra mura come
un hortus conclusus. E vi era una lapide marmorea, laggiù in fondo, con dei versi strazianti che
parlavano di una cerva bianca, versi che rappresentano a tutt’oggi una delle lacune più
dolorosamente sentite della mia memoria. Ciò che ricordo è che a Lisbona vedemmo “E o Vento
Levou” e ricordo pure che all’uscita dal cinema, mentre attraversavamo O Rocio diretti alla Baixa,
continuammo a ripetere a una voce: “Por pior que seja à noite, amanhã é outro dia”. Se mi avesse
sentito la mia maestra!

Era tempo di tornare a Coimbra, Praya do Ribatejo fu la prima tappa del cammino. Situata su un
isolotto poco distante dalla sponda settentrionale del Tago, la rocca di Almourol, più che un edificio
reale, sembrava l’avvisaglia di un mondo immaginario. Spuntava dalla roccia con la naturalezza di
una stalagmite, alta e appuntita, indistinguibile dalla base; era in rovina, e ciò si addiceva al
paesaggio, ne accresceva la solitudine e la compostezza, quasi si fosse trattato del “Wanderer” di
Caspar Friedrich o del “Bard” di John Martin. Ma ai miei occhi iniettati di rosso Almourol non aveva
nulla di romantico, era più simile a certi monumenti dell’antichità rivisitati da Bertolt Brecht:

Chi costruì Tebe dalle Sette Porte?


Dentro i libri ci sono i nomi dei re.
I re hanno trascinato quei blocchi di pietra?

Tuttavia, quando udii la storia di Beatriz e il moro mi dimenticai di Brecht. Dom Ramiro – da non
confondere con il “bom cavaleiro” menzionato prima – tornava al castello di Almourol al termine
di eroiche imprese cavalleresche, allorquando s’imbattè in due donne more, alle quali chiese
dell’acqua. Tremante la più anziana gliela porse, ma la brocca le scivolò di mano e s’infranse.
Infuriato per il contrattempo, Dom Ramiro, senza neanche scendere da cavallo, passò a fil di spada
ambedue, madre e figlia. Dopo di che proseguì verso la rocca, dove l’attendevano la moglie e la
figlia, senza rendersi conto della presenza di un fanciullo nascosto fra il fogliame, figlio e fratello
delle more trucidate. Tempo dopo il moretto, ormai cresciuto, entrò come paggio al servizio di Dom
Ramiro, al solo scopo di vedicarsi. Prima fu la volta della moglie, che avvelenò poco a poco finchè
non morì fra atroci dolori. Poi rivolse il proprio rancore alla figlia, Beatriz, che nel frattempo si era
fatta grande e bella. Neanche Allah, però, ha il potere di soggiogare i sentimenti. Il moro
s’innamorò della fanciulla e lei di lui (e ciò nonostante il tragico passato) e da innamorati
scomparvero e mai più si seppe di loro. Disperato Dom Ramiro esplorava l’orizzonte dall’alto del
mastio, giorno dopo giorno, anno dopo anno. La notte si aggirava fra le stanze del castello,
gridando frasi sconnesse, provocando gli angosciati scalpitii del suo fedele corsiero.

Bronzea com’era, Elsie sarebbe potuta essere berbera, se non proprio etiope. La storia degli amanti
di Almourol la impressionò profondamente. C’era in essa una violenza gratuita che neanche
l’amore riusciva a bilanciare. Metti una spada in pugno a un uomo, o una zappa o un pezzo di
corda, e la prima a morire sarà una donna, e poi un’altra, diceva. I castelli – diceva – sono scenari
delittuosi, non eroici fortilizi, sono monumenti alla prepotenza e alla brutalità, non ritrovi

10
cavallereschi, sono luoghi solitari abitati da colpe. Diceva tutto ciò in portoghese, con una
pronuncia terribile, ma non potevo darle torto. Man mano che i castelli si succedevano e le storie si
moltiplicavano, affioravano aspetti imprevedebili, penosi, ben lontani da quella visione del
medioevo appresa sui banchi di scuola. I cavalieri non erano cavalieri, le dame non erano dame e
gli amori… erano veri amori gli amori? Elsie e io ci guardavamo e non sapevamo che cosa
rispondere.

Ed ecco Tomar! L’autobus ci lasciò in Rua Marqués de Pombal all’angolo con Rua Santa Iria, ove si
trovava il convento omonimo, un caseggiato fatiscente pieno di finestre, costruito sul ciglio destro
del fiume Nambão. Dal ponte lì accanto si vedeva bene come le mura esterne sorgessero
letteralmente dall’acqua e come, ad un certo punto, formassero un corpo protruso a spigoli acuti,
una specie di baluardo basso e per così dire “mancato”, con una statua femminile in pietra affissa
in un canto. Entrammo nella cappella deserta e all’improvviso fu chiara l’origine della statuetta
sotto vetro intravista a Monsanto: era proprio Santa Iria. La visita al convento ci condusse fino alla
Casa do Pego –il menzionato “baluardo” –, ovvero il luogo ove la santa era stata martirizzata.
Macerie, solo macerie, e sotto, ad una certa profondità, un riflesso d’acqua. Seppi che nella
fanghiglia era stato rinvenuto ciò che restava della statua litica d’un toro, forse legata al culto
mitraico. Questo aveva portato uno studioso locale a ipotizzare che il cristianesimo delle origini,
nell’antica Extremadura, fosse tributario del mitraismo; o in alternativa che i cavalieri templari
avessero portato con sé dalla Terra Santa credenze pagane, incorporandole segretamente alla
devozione cristiana. L’ipotesi era inquietante: all’epoca in cui Dio aveva espresso la volontà di
fondare un suo impero in Portogallo, non solo il Vangelo era in lotta con il Corano, ma al di sotto di
entrambe le fedi era individuabile una religiosità più antica, basata anch’essa sul sacrificio come
riscatto. Perché le fedi si battono, si calpestano, si escludono? Perché nel Medioevo, nella penisola
iberica, i tori erano considerati incarnazioni diaboliche e in quanto tali tormentati e trafitti sui
sagrati? Poche volte avevo sperimentato una sensazione altrettanto pacata e assorta, eppure
anche quel convento beatamente solitario era stato costruito su un suolo intriso di sangue: sangue
di una catecumena incorruttibile o di una giovinetta incauta? Almeida Garrett non si sbilancia,
tuttavia ad ogni buon cristiano consta che alla santità si può arrivare in più modi.

Databile nel VII secolo, la storia di Santa Iria – sostiene Almeida Garrett – si basa sul presupposto
che “o demõ, em chegando a entrar n’um corpo humano, não sai d’elle señao para se ir metter
n’outro”. Dunque, della bellissima, castissima e devotissima Iria si innamorarono due uomini,
Britaldo, un veemente giovinotto pagano e un Remigio, un clérigo concupiscente. Quest’ultimo,
reso astioso dai dinieghi della fanciulla, decise di vendicarsi (“não obtendo nada com rogos e
lamentos, jurou vingarse”). Per cui le propinò “uma bebida de sua diabolica preparação”, che le
ingrossò il ventre in tal modo da sembrare incinta. La voce della gravidanza di Iria si sparse in men
che non si dica, e in men che non si dica cominciarono a piovere “as ingiurias e os insultos”. Avendo
saputo che la fanciulla era in quello stato, Britaldo tornò all’attacco deciso a farla sua (“tan
mysterioso è u coração do homen!“), senza però piegarla (“a santa resiste a tudo, forte na sua
virtude”); amareggiato, la fece uccidere in riva al fiume da un suo scagnozzo, chiamato Banam.
Trascinato dalla corrente il corpo di Iria finì nel fiume Zezere e da lì nel Tago. Dopo molte
vicissitudioni, fra le quali il riconoscimento dell’innocenza e del martirio della poveretta, le spoglie
furuno inumate in un sepolcro angelicale sul fondo d’un fiume, le cui acque si ritirarono
miracolosamente permettendo “ao povo” di scoprirlo. Il cadavere non potè essere mosso (altro
prodigio) ma le chiome e la veste vennero riportate a Tomar.

11
Elsie mi strappò dalle mani il “Viagens na minha terra”, lo scorse prima in avanti e poi all’indietro,
e ad un certo punto cominciò a leggere gongolante:

Stando eu á janella… passa um cavalleiro, pedia pousada


Meu pae lh’a negou, quanto me custava!

Una pausa ad arte, poi Elsie riprese a leggere:

Roguei e pedi… mas eu tanto fiz que porfim deixava

Poucas as pallavras, que mal me fallava


Mas eu bem sentia que elle me mirava

Era “O Romance de Santa Iria”, che Almeida Garrett aveva riprodotto nel “Viagens” e del quale
non mi ero accorto, mentre Elsie l’aveva scovato e ora me lo sciorinava nel suo portoghese
stentato. Nel “Romance” la schermaglia fra la zonzella e il cavaliere avanza di verso in verso finché
i due non si ritirano nelle rispettive stanze:

Dei-lhe as boas noites, não me replicava,


Tam má cortezia nunca a vi usada!

Racchiuso in sei distici rudimentali, ciò che accadde verso mezzanotte ha l’incedere precipitoso
d’un epilogo immaginabile ma non per questo meno crudele. Come spesso succede nelle
composizioni popolari, le ripetizioni raccorciano il ritmo narrativo rendendolo vieppiù avvincente;
un effetto facile, forse, ma di grande resa drammatica:

La por meia noite que me en soffocava,


Sinto que me levam co’a bocca tapada…

Levam-me a cavallo, levan-me abraçada


Correndo, correndo sempre á desfilada

Sem abrir los olhos, vi quem me roubava,


Callei-me e chorei — elle não fallava

Ormai niente avrebbe pouto interrompere Elsie. Leggeva con la stessa foga con cui due anni prima
aveva protestato per le strade di Bonn, con la stessa volontà di denuncia, come se le colpe di
Salazar e di Franco fossero racchiuse emblematicamente nella sventura di Iria:

Andando, andando, toda a noite andava;


Lá por madrugada que me allentava…

Horas esquecidas conmigo luctava;


Nem força nem rogos, tudo lhe mancava.

Tirou do alfange… allí me matava,


Abriou uma cova onde me interrava

12
Dove si consumò la tragedia? Checché ne dica Almeida Garrett, si svolse a Nabantia, in riva al
Nabão – poi ribattezzata Tomar – nel punto in cui ora sorgeva un vecchio convento abbandonato,
con una cappella sul cui altare un’altra Iria dava di sè e della propria santità una versione ben
diversa da quella popolaresca. Alla fine della composizione mancavano sei versi:

No fim de sette annos passa o cavalleiro


Uma linda ermida viu n-aquelle outeiro.

“Minha Sancta Iria, meu amor primeiro,


Se me perdoares, serei teu romeiro”

“Perdoar não te heide, ladrão carniceiro,


Que me degollaste que nem um cordeiro”.

Nel “romance”, il martirio si riduce a un delitto efferato, che Iria, sebbene assisa fra i santi, non
perdona. Per questo, disse Elsie, ha tutta la mia comprensione: l’umanità ha bisogno di santi che
ispirino il senso della giustizia, non quello del perdono. Durante il viaggio ambedue avevamo
imparato lezioni di vita, chissà non belle, chissà non edificanti, forse ominose, forse sconfortanti,
comunque utili.

Dunque, ci dirigemmo a braccetto al Convento di Cristo, sull’altra sponda del Nabão, seminando
bucce di tremoços e declamando all’unisono: “O tempo perguntou pro tempo/ quanto tempo o
tempo tem?”. Lo chiamavano “castello” e un castello, in effetti, era stato; ma un vero castello,
allora, più non era.

Giorgio Antei
Aprile 2019

13

Potrebbero piacerti anche