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I.I.S.S.

De Rogatis – Fioritto San Nicandro Garganico


Testi di Lingua e Letteratura Italiana
Classe 5^A L.S.
A.S. 2020/2021
Prof. Grana Lucia

GIACOMO LEOPARDI

“L’infinito”:
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma, sedendo e mirando, interminati
spazi di lá da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Cosí tra questa
immensitá s’annega il pensier mio;
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

GIOVANNI VERGA

“Rosso Malpelo”:
Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo
malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena
rossa lo chiamavano Malpelo, e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo aveva
quasi dimenticato il suo nome di battesimo.
Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della
settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi: nel
dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.
Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano
anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti
schivavano come un cane rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri
operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli
andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel po’ pane bigio, come
fanno le bestie sue pari, e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il
soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava, fra i calci, e si lasciava caricare
meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, ché la
sua sorella s’era fatta sposa, e aveva altro pel capo che pensare a ripulirlo la domenica.
Nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto Monserrato e la Carvana, tanto che la cava
dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava assai.
Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto in quella
stessa cava.
(…)

GIOSUÈ CARDUCCI

“San Martino”:
La nebbia a gl’irti colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
Urla e biancheggia il mar;

Ma per le vie del borgo


Dal ribollir de’ tini
Va l’aspro odor de i vini
L’anime a rallegrar.

Gira su’ ceppi accesi


Lo spiedo scoppiettando:
Sta il cacciator fischiando
Su l’uscio a rimirar

Tra le rossastre nubi


Stormi d’uccelli neri,
Com’esuli pensieri,
Nel vespero migrar.

GABRIELE D’ANNUNZIO

“La pioggia nel pineto”:


Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.
(…)

“Un ritratto allo specchio: Andrea Sperelli ed Elena Mutti (tratto da ‘Il
piacere’)”:
Chi era ella mai?
Era uno spirito senza equilibrio in un corpo voluttuario. A similitudine di tutte le creature avide di
piacere, ella aveva per fondamento del suo essere morale uno smisurato egoismo. La sua facoltà
precipua, il suo asse intellettuale, per così dire, era l’immaginazione: una immaginazione
romantica, nudrita di letture diverse, direttamente dipendente dalla matrice, continuamente
stimolata dall’isterismo. Possedendo una certa intelligenza, essendo stata educata nel lusso d’una
casa romana principesca, in quel lusso papale fatto di arte e di storia, ella erasi velata d’una vaga
incipriatura estetica, aveva acquistato un gusto elegante; ed avendo anche compreso il carattere
della sua bellezza, ella cercava, con finissime simulazioni e con una mimica sapiente, di accrescerne
la spiritualità, irraggiando una capziosa luce d’ideale.
Ella portava quindi, nella sua comedia umana, elementi pericolosissimi; ed era occasion di ruina e
di disordine più che s’ella facesse publica professione d’impudicizia.
Sotto l’ardore della immaginazione, ogni suo capriccio prendeva un’apparenza patetica. Ella era la
donna delle passioni fulminee, degli incendi improvvisi. Ella copriva di fiamme eteree i bisogni
erotici della sua carne e sapeva trasformare in alto sentimento un basso appetito...
Così, in questo modo, con questa ferocia, Andrea giudicava la donna un tempo adorata. Procedeva
nel suo esame spietato, senza arrestarsi d’innanzi ad alcun ricordo più vivo.
(…)

GIOVANNI PASCOLI

“X Agosto”:
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto:


l’uccisero: cadde tra i spini;
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini.

Ora è là, come in croce, che tende


quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:


l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono.

Ora là, nella casa romita,


lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi


sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!

“L’assiuolo”:
Dov’era la luna? ché il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù…

Le stelle lucevano rare


tra mezzo alla nebbia di latte
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù…

Su tutte le lucidi vette


tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?…);
e c’era quel pianto di morte…
chiù…

“Novembre”:
Gèmmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore…

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante


di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,


odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. È l’estate,
fredda, dei morti.
FILIPPO TOMMASO MARINETTI

“Manifesto del Futurismo”:


1. Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.
2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
3. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare
il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il
pugno.
4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza
della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti
dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della
Vittoria di Samotracia.
5. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra,
lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.
6. Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico
fervore degli elementi primordiali.
7. Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo
può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze
ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo.
8. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!… Perché dovremmo guardarci alle spalle, se
vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi
viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente.
9. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto
distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere
contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.
(…)

ITALO SVEVO

“La morte del padre (tratto da ‘La Coscienza di Zeno’)”:


Mia madre era morta quand’io non avevo ancora quindici anni.
(…)
Mia madre continuava a vivere sebbene distante da me e poteva anche compiacersi dei successi
cui andavo preparandomi. Una bella comodità! Ricordo esattamente il mio stato di allora. Per la
morte di mia madre e la salutare emozione ch’essa m’aveva procurata, tutto da me doveva
migliorarsi.
Invece la morte di mio padre fu una vera, grande catastrofe. Il paradiso non esisteva più ed io poi,
a trent’anni, ero un uomo finito. Anch’io! M’accorsi per la prima volta che la parte più importante e
decisiva della mia vita giaceva dietro di me, irrimediabilmente. Il mio dolore non era solo egoistico
come potrebbe sembrare da queste parole. Tutt’altro! Io piangevo lui e me, e me solo perché era
morto lui. Fino ad allora io ero passato di sigaretta in sigaretta e da una facoltà universitaria
all’altra, con una fiducia indistruttibile nelle mie capacità. Ma io credo che quella fiducia che
rendeva tanto dolce la vita, sarebbe continuata magari fino ad oggi, se mio padre non fosse morto.
Lui morto non c’era più una dimane ove collocare il proposito. Tante volte, quando ci penso, resto
stupito della stranezza per cui questa disperazione di me e del mio avvenire si sia prodotta alla
morte di mio padre e non prima. Sono in complesso cose recenti e per ricordare il mio enorme
dolore e ogni particolare della sventura non ho certo bisogno di sognare come vogliono i signori
dell’analisi. Ricordo tutto, ma non intendo niente. Fino alla sua morte io non vissi per mio padre.
Non feci alcuno sforzo per avvicinarmi a lui e, quando si poté farlo senz’offenderlo, lo evitai.
All’Università tutti lo conoscevano col nomignolo ch’io gli diedi di vecchio Silva manda denari. Ci
volle la malattia per legarmi a lui; la malattia che fu subito la morte, perché brevissima e perché il
medico lo diede subito per spacciato. Quand’ero a Trieste ci vedevamo sì e no per un’oretta al
giorno, al massimo. Mai non fummo tanto e sì a lungo insieme, come nel mio pianto. Magari
l’avessi assistito meglio e pianto meno! Sarei stato meno malato.
(…)

LUIGI PIRANDELLO

“Il treno ha fischiato”:


Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni
d'ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall'ospizio, ov'erano stati a visitarlo.
Pareva provassero un gusto particolare a darne l'annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai
medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via:
- Frenesia, frenesia.
- Encefalite.
- Infiammazione della membrana.
- Febbre cerebrale.
E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere compiuto; nella
pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale.
- Morrà? Impazzirà?
- Mah!
- Morire, pare di no...
- Ma che dice? che dice?
- Sempre la stessa cosa. Farnetica...
- Povero Belluca!
E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell'infelice viveva da
tant'anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che
pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di
quel suo naturalissimo caso.
Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s'era fieramente ribellato al suo capo ufficio, e che
poi, all'aspra riprensione di questo, per poco non gli s'era scagliato addosso, dava un serio
argomento alla supposizione che si trattasse d'una vera e propria alienazione mentale.
(…)

“La costruzione della nuova identità e la sua crisi ( tratto da ‘Il fu Mattia
Pascal’)”:
Subito, non tanto per ingannare gli altri, che avevan o voluto ingannarsi da sé, con una leggerezza
non deplorabile forse nel caso mio, ma certamente non degna d’encomio, quanto per obbedire alla
Fortuna e soddisfare a un mio proprio bisogno, mi posi a far di me un altr’uomo.
Poco o nulla avevo da lodarmi di quel disgraziato che per forza avevano voluto far finire
miseramente nella gora d’un molino. Dopo tante sciocchezze commesse, egli non meritava forse
sorte migliore.
Ora mi sarebbe piaciuto che, non solo esteriormente, ma anche nell’intimo, non rimanesse più in
me alcuna traccia di lui.
Ero solo ormai, e più solo di com’ero non avrei potuto essere su la terra, sciolto nel presente d’ogni
legame e d’ogni obbligo, libero, nuovo e assolutamente padrone di me, senza più il fardello del mio
passato, e con I’avvenire dinanzi, che avrei potuto foggiarmi a piacer mio.
Ah, un pajo d’ali! Come mi sentivo leggero!
Il sentimento che le passate vicende mi avevano dato della vita non doveva aver più per me, ormai,
ragion d’essere. Io dovevo acquistare un nuovo sentimento della vita, senza avvalermi neppur
minimamente della sciagurata esperienza del fu Mattia Pascal.
Stava a me: potevo e dovevo esser l’artefice del mio nuovo destino, nella misura che la Fortuna
aveva voluto concedermi.
(…)

EUGENIO MONTALE

“Non chiederci la parola”:


Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,


agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,


sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

“Meriggiare pallido e assorto”:


Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia


spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare


lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia


sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia

“Spesso il male di vivere ho incontrato”:


Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio


che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

“Non recidere, forbice, quel volto”:


Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.

Un freddo cala… Duro il colpo svetta.


E l’acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.
GIUSEPPE UNGARETTI

“Veglia”:
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore

Non sono mai stato


tanto
attaccato alla vita

“San Martino del Carso”:


Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro

Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto

Ma nel cuore
nessuna croce manca

È il mio cuore
il paese più straziato.

“Soldati”:
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie

“Il porto sepolto”:


Vi arriva il poeta
E poi torna alla luce con i suoi canti
E li disperde

Di questa poesia
Mi resta
Quel nulla
Di inesauribile segreto.

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