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I FONDI OCEANICI 77
di A.Hallam
Che le linee di costa dei due lati dell'oceano Atlantico combaciano l'una con l'altra come i pezzi di
un rompicapo dev'essere stato notato non appena furono compilate le prime buone carte geografiche
del Nuovo Mondo. Ben presto la complementarietà della forma dei due continenti provocò delle
speculazioni circa la loro origine e le loro storie, e un certo numero di teorie primitive cominciò a
suggerire che queste forme non fossero tali per una semplice coincidenza. Nel 1620 Francesco
Bacone richiamò l'attenzione sulla somiglianza dei contorni dei due continenti, ma non giunse a
suggerire che essi potevano un tempo aver costituito un'unica massa continentale. Nei secoli
successivi altre teorie cercarono di spiegare questa corrispondenza, in genere come risultato di
qualche supposta catastrofe, quale lo sprofondamento della mitica Atlantide. Il primo che suggerì
che i continenti si erano effettivamente mossi sulla superficie della Terra fu Antonio Snider
Pellegrini nel 1858, ma anch'egli attribuì l'evento a una causa soprannaturale: il diluvio universale.
Oggi, naturalmente, la migrazione dei continenti costituisce una parte essenziale della teoria della
struttura della Terra universalmente accettata dai geologi.
Fra le varie ipotesi che precedettero la teoria moderna della tettonica a zolle (si veda il volume
Tettonica a zolle e continenti alla deriva, Letture da «Le Scienze », 1974), una teoria si pone in
evidenza: quella formulata da Alfred Wegener nei primi anni del XX secolo. Wegener aveva
accesso soltanto a una piccola parte delle informazioni disponibili oggi, eppure la sua teoria anticipa
di molto alcuni aspetti fondamentali della concezione attuale della Terra: non solo il moto dei
continenti, ma anche la deriva polare coi cambiamenti climatici che ne conseguono e il significato
della distribuzione di antiche piante e animali. Nel suo lavoro vi sono anche parti che si sono poi
dimostrate sbagliate, ma i punti fondamentali delle sue argomentazioni sono stati confermati. La sua
teoria non resta semplicemente quella di un precursore dei concetti che oggi prevalgono, ma è
quella del suo autentico progenitore.
Wegener presentò per la prima volta le sue idee nell'ambiente scientifico nel 1912, ma tali idee
hanno ricevuto credito generale soltanto cinquant'anni dopo. Quando infine le sue vedute sulla
Terra sostituirono il modello precedente, negli anni sessanta, il cambiamento rappresentò una
revisione radicale di una dottrina ben stabilita, ed esso ebbe luogo soltanto perché nuovi dati,
derivati dalle scoperte in geofisica e oceanografia, lo rendevano obbligatorio. Nel frattempo la
teoria di Wegener era stata quanto meno trascurata, e spesso era stata trattata con noncuranza. Nel
momento peggiore i sostenitori della deriva dei continenti venivano sprezzantemente liquidati come
maniaci. Per capire questa reazione bisogna esaminare sia l'opera di Wegener che l'atteggiamento
dei suoi contemporanei. Ricavò Wegener le sue conclusioni da dati attendibili e le sostenne con
argomenti coerenti? Oppure si limitò a formulare delle congetture e si trovò ad avere ragione per
caso? Se i suoi ragionamenti erano plausibili, perché la sua opera fu avversata con tanta persistenza
e determinazione? Mi proverò a rispondere a queste domande e in più cercherò di valutare che
genere di uomo fosse Wegener e quale fosse il suo valore di scienziato.
Wegener non aveva credenziali come geologo. Nato a Berlino nel 1880, figlio di un ministro
evangelico, studiò alle Università di Heidelberg, Innsbruck e Berlino e ottenne il dottorato in
astronomia. Sua passione predominante fu però la meteorologia.
Tale sua passione fu ricompensata quando egli fu selezionato come meteorologo per una
spedizione danese nella Groenlandia nord-orientale. Al suo ritorno in Germania accettò un incarico
in meteorologia all'Università di Marburg ed entro pochi anni scrisse un importante testo sulla
termodinamica dell'atmosfera. Nel 1912 partecipò a una seconda spedizione in Groenlandia, col
danese J.P. Koch. Questa spedizione comprendeva la più lunga traversata della calotta glaciale mai
intrapresa; le osservazioni glaciologiche e meteorologiche pubblicate riempiono molti volumi.
Nel 1913 Wegener sposò Else Képpen, figlia del meteorologo Wladimir Peter Képpen. Dopo la
prima guerra mondiale (in cui Wegener combatte come ufficiale) sostituì il suocero alla direzione
del Dipartimento di ricerche meteorologiche dell'Osservatorio marino di Amburgo. Nel 1924
accettò una cattedra di meteorologia e geofisica all'Università di Graz in Austria, dove trovò che i
suoi colleghi mostravano maggior simpatia per i suoi interessi di ricerca di quanto non avessero
fatto i suoi colleghi di Amburgo.
Wegener morì nel 1930 mentre guidava una terza spedizione in Groenlandia, probabilmente di un
attacco cardiaco causato da sovraffaticamento. I suoi necrologi elogiativi dicono che egli aveva
ottenuto una notevole considerazione sia come meteorologo che come esploratore artico; altre fonti
aggiungono che egli fu inoltre un organizzatore e amministratore capace e un insegnante lucido e
stimolante. La sua opera sulla deriva dei continenti, che sarà certamente la sua eredità permanente,
era rimasta di interesse marginale, sebbene l'avesse assorbito profondamente.
Non è certo come Wegener concepisse per la prima volta l'idea che i continenti possono muoversi.
Secondo un racconto di dubbia autenticità ne ebbe l'ispirazione durante un viaggio in Groenlandia,
mentre osservava la fessurazione di un ghiacciaio (il processo che dà origine agli iceberg). Dai suoi
scritti e da quelli dei suoi contemporanei, tuttavia, sembra più probabile che egli sia giunto alla
teoria nella stessa maniera in cui vi erano giunti i suoi predecessori: notando su una carta geografica
la complementarietà delle linee di costa dell'oceano Atlantico. Secondo lo stesso Wegener l'idea gli
venne per la prima volta nel 1910, ma un contemporaneo che lo aveva conosciuto da studente
sostiene che egli si era interessato a questo argomento fin dal 1903. Sia che questa idea sia stata
maturata per un decennio o per soli due anni, essa fu presentata pubblicamente per la prima volta
nel gennaio 1912 in una conferenza alla Associazione geologica tedesca a Francoforte sul Meno. Le
prime relazioni pubblicate comparvero più tardi, nello stesso anno, su due riviste tedesche.
Nel 1912 le teorie prevalenti sulla formazione e l'evoluzione della Terra non potevano adattarsi
alla deriva dei continenti. I geologi e i geofisici credevano allora che la Terra si fosse formata allo
stato fuso e che si stesse ancora solidificando e contraendo. Durante questo processo gli elementi
pesanti, quali il ferro, sarebbero sprofondati nel nucleo e i più leggeri, quali il silicio e l'alluminio,
sarebbero risaliti alla superficie per dar luogo a una crosta rigida.
Alla maggior parte dei geologi dell'epoca sembrava che questo modello riuscisse molto bene a
spiegare i tratti principali della superficie terrestre. Le catene montuose erano prodotte per
compressione alla superficie durante la contrazione, proprio come le rughe che si formano sulla
buccia di una mela che si asciuga e si contrae. Su scala più vasta la pressione causata dalla
compressione, applicata a grandi strutture arcuate, causava il crollo e la subsidenza di alcune regioni
alla superficie, creando così i bacini oceanici, mentre altre zone seguitavano a emergere come
continenti. I movimenti verticali della crosta venivano considerati interamente plausibili, mentre
venivano esclusi i movimenti paralleli alla superficie. Così i continenti e i bacini oceanici erano,
alla lunga, intercambiabili; alcune aree continentali sprofondavano più rapidamente delle terre
adiacenti e venivano inondate dal mare; contemporaneamente alcune parti del fondo oceanico si
sollevavano fino a diventare terre emerse.
La somiglianza o l'identità di numerose piante e animali fossili su continenti lontani veniva
spiegata ammettendo l'esistenza di ponti di terraferma che avevano collegato le masse continentali
ed erano poi affondati fino al livello del fondo oceanico. La stratificazione dei depositi sedimentari
parlava di successive trasgressioni e regressioni del mare sui continenti. Le regressioni potevano
venire attribuite alla subsidenza dei bacini oceanici e le trasgressioni al parziale riempimento dei
bacini con sedimenti erosi dai continenti. Più o meno al tempo in cui Wegener elaborava la sua
teoria della deriva dei continenti venne proposta un'elaborazione del punto di vista tradizionale,
secondo la quale i movimenti verticali della crosta sono regolati dall'isostasia: il concetto è che tutti
gli elementi del sistema sono in equilibrio idrodinamico. Così i continenti, essendo meno densi
dello strato sottostante, galleggiano più in alto dei fondi oceanici.
Wegener individuò un certo numero di difetti e contraddizioni nel modello della Terra che si
contrae. Inoltre parecchie caratteristiche importanti della superficie terrestre non venivano affatto
spiegate dal modello, a meno che non venissero considerate come prodotte da coincidenze. La più
ovvia di queste caratteristiche è la corrispondenza delle coste atlantiche dell'Africa e del
Sudamerica. (Nel disegnare questa corrispondenza Wegener non adoperò la vera e propria linea di
costa, ma il bordo della piattaforma continentale, che è un limite più significativo; nelle
ricostruzioni moderne si usa lo stesso metodo.) Un'altra anomalia si ha nella distribuzione delle
catene montuose, che sostanzialmente si limitano a cinture strette e curvilinee, mentre se si fossero
prodotte per la contrazione del globo dovrebbero essere distribuite uniformemente su tutta la sua
superficie, proprio come le rughe su una mela secca.
Egli scoprì un'altra caratteristica singolare dall'analisi statistica della topografia terrestre. In base ai
calcoli dell'area totale della superficie terrestre, Wegener trovò che una grande percentuale della
crosta terrestre è a due diversi livelli. Uno corrisponde alla superficie dei continenti e l'altro al fondo
dei mari.
È logico aspettarsi una distribuzione simile se la crosta è composta di due strati, quello superiore
di rocce più leggere, quali i graniti, e quello inferiore di basalto, gabbro o peridotite, che dovrebbero
formare anche i fondi oceanici. Questa interpretazione è rafforzata anche dalla misura delle
variazioni locali della gravità terrestre. Non è invece compatibile con un modello della crosta in cui
le variazioni in elevazione derivano da sollevamenti e subsidenze casuali; in questo caso ci si
dovrebbe aspettare una gaussiana, cioè una distribuzione delle elevazioni a forma di campana
centrata su un singolo valor medio del livello.
Wegener trovò sostegno per le sue idee anche nei fossili e in certe caratteristiche geologiche
tipiche che sembravano tagliare i margini continentali. Fra tutta la documentazione fossile i rettili
forniscono un ottimo esempio. In Brasile e in Sudafrica, e in nessun altro luogo al mondo, si
trovano dei fossili di Mesosaurus, un piccolo rettile che visse verso la fine dell'era paleozoica, circa
270 milioni di anni fa (si veda I fossili e la deriva dei continenti di A. Hallam, in «Le Scienze », n.
54, febbraio 1973). Questa caratteristica distribuzione veniva spiegata tradizionalmente assumendo
che un ponte di terraferma aveva collegato i due continenti ed era poi sprofondato. Wegener rifiutò
questa spiegazione su basi geofisiche; essa violava infatti il principio dell'isostasia, poiché il
materiale del ponte doveva essere meno denso di quello del fondo oceanico e quindi non poteva
affondarvi. L'unica alternativa ragionevole era che i continenti un tempo fossero stati uniti e si
fossero quindi allontanati.
L'evidenza geologica è di natura simile. Per esempio sia in Africa che in Sudamerica, si trovano
grandi blocchi di rocce particolarmente antiche; se si riportano insieme i continenti nella posizione
giusta i blocchi coincidono perfettamente. Lo stesso Wegener riconobbe la portata della scoperta e
così la descrisse: «È come se dovessimo rimettere insieme i pezzi strappati di un giornale in base ai
loro contorni e poi controllare se le righe di stampa dei pezzi vicini si collegano. Se è così non
resta che concludere che i pezzi erano effettivamente uniti in questo modo. Se avessimo a
disposizione soltanto una riga per eseguire questo controllo, avremmo ancora una buona
probabilità che la ricostruzione sia valida, ma se si hanno n righe, questa probabilità viene elevata
alla potenza n-esima».
Particolari formazioni rocciose, che formano fasce
continue dal Sudamerica all'Africa accostate,
forniscono l'evidenza geologica che i continenti
formavano un tempo un'unica massa. Le zone in
grigio scuro sono antichi blocchi (« eratoni »); le
zone in grigio chiaro sono aree con rocce un po' più
giovani. Wegener considerò che delle continuità
come queste sono delle buone prove della teoria
della deriva dei continenti.
Pubblicò i suoi dati e le sue conclusioni nel 1915, in un libro intitolato Die Entstehung der
Kontinente und Ozeane (L'origine dei continenti e degli oceani).
Le basi geofisiche della teoria di Wegener erano in stretto rapporto col principio dell'isostasia.
Ambedue assumono infatti che il substrato sottostante ai continenti si comporta come un fluido
altamente viscoso; Wegener inoltre suppose che se una massa rocciosa si può muovere
verticalmente in questo fluido, essa dovrebbe essere in grado di muoversi anche orizzontalmente,
ammettendo soltanto che venga applicata una forza abbastanza grande. A dimostrazione che tali
forze esistono egli citò compressioni orizzontali degli strati piegati nelle catene montuose. C'è
un'altra prova elegante della natura fluida del materiale sottostante: la Terra è una sfera schiacciata,
che si gonfia leggermente all'equatore, e l'entità del rigonfiamento è esattamente quella che ci si
aspetterebbe per una sfera di un fluido perfetto ruotante alla stessa velocità. Essa è quindi un fluido
di natura particolare: a sforzi rapidi, come quelli di un terremoto, reagisce come un solido elastico,
mentre le sue caratteristiche fluide si possono osservare sui periodi molto più lunghi del tempo
geologico. Il suo comportamento è analogo a quello della pece, un materiale che si spezza sotto un
colpo di martello, ma fluisce plasticamente per il suo stesso peso, e cioè sotto la forza di gravità, più
debole, ma persistente.
La deriva dei poli venne proposta da Wegener per spiegare la distribuzione degli antichi climi. Certi tipi di carbone sono una prova di
clima tropicale; le tilliti, che segnalano le glaciazioni di clima polare e i depositi di sale, di gesso e le arenarie desertiche sono una
prova di clima arido. I simboli usati per la carta vengono spiegati nella legenda a sinistra; inoltre le zone aride, caratteristiche delle
latitudini con venti costanti, sono rappresentate in grigio. La carta superiore mostra la ricostruzione di Wegener per il Carbonifero,
circa 300 milioni di anni fa; la carta inferiore è per il periodo Permico, circa 230 milioni di anni fa. (La distorsione dell'equatore è
provocata dal tipo di proiezione geografica impiegata.) I movimenti dei continenti e dei poli non sono correlati, ma una ricostruzione
coerente si può fare solo rimettendo insieme i continenti come fece Wegener.
Dopo la prima guerra mondiale Wegener riunì i suoi due principali interessi studiando, insieme a
Képpen, i cambiamenti nel clima mondiale attraverso i tempi geologici. Cartografando la
distribuzione di certe specie di rocce sedimentarie, egli fu in grado di ricavare la posizione dei poli e
dell'equatore nei tempi passati. I risultati più impressionanti sono quelli che egli ottenne per i
periodi Permico e Carbonifero, circa 300 milioni di anni fa. La posizione del polo Sud veniva
determinata dalla disposizione dei letti di argille non stratificate, detti tilliti, che si sono formati
durante il movimento dei ghiacciai. Nella ricostruzione di Wegener della Pangea il polo sud era
appena a est dell'attuale Sudafrica e all'interno dell'antica Antartide.
A novanta gradi dal polo Wegener trovò abbondanti prove di una zona equatoriale umida. Queste
prove consistono in vasti depositi di carbone che si estendono dalla parte orientale degli Stati Uniti
alla Cina; le piante fossili che si possono identificare nei carboni sono di tipo tropicale. Altri
indicatori climatici fra le rocce sedimentarie sono il sale e le sabbie deposte dai venti, che
suggeriscono la presenza di antichi deserti. In passato come oggi i deserti si formavano
specialmente nelle zone dei venti costanti ai due lati dell'equatore. Nell'attuale emisfero
settentrionale i carboni del periodo Carbonifero sono seguiti, in strati più recenti, da depositi di sale
e dune sabbiose, che Wegener interpretò come segno di una significativa migrazione a sud della
posizione dell'equatore. Questo movimento fu confermato da un corrispondente spostamento a sud-
est del centro principale dei depositi di tilliti, il che significa che anche il polo si era spostato in
quella direzione.
L'ultima edizione de L'origine dei continenti e degli oceani dedicava un capitolo agli antichi climi
e conteneva una estesa discussione della deriva polare. Il moto dei poli è un fenomeno
completamente diverso dalla deriva dei continenti, ma è impossibile interpretare coerentemente la
distribuzione delle tilliti e dei depositi di carbone e di sabbia a meno che i continenti vengano
rimessi insieme più o meno come aveva proposto Wegener.
L'ultima edizione contiene anche una documentazione più completa, rispetto alle edizioni
precedenti, sulle somiglianze nella geologia dei continenti meridionali, e ciò era dovuto a un
produttivo scambio di idee fra Wegener e il geologo sudafricano Alexander L. du Toit. Gli
argomenti geofisici fondamentali, però, rimangono notevolmente simili a quelli proposti da
Wegener nel suo primo lavoro, scritto quasi vent'anni prima.
La reazione iniziale del mondo scientifico all'ipotesi di Wegener non fu uniformemente ostile, ma
nel migliore dei casi fu mista. Alla sua prima conferenza a Francoforte sul Meno alcuni geologi
furono indignati; a Marburg, pochi giorni dopo, sembra che invece l'auditorio fosse più favorevole.
In seguito alle prime pubblicazioni parecchi famosi geologi tedeschi dichiararono la loro
opposizione allo «spostamento dei continenti» (traduzione più accurata di «deriva» del termine
usato da Wegener, Verschiebung). Un certo numero di geofisici, d'altra parte, espressero la loro
approvazione al concetto. In effetti nel 1921 Wegener poteva affermare di non conoscere alcun
geofisico che si opponesse all'ipotesi della deriva.
Non sembra che le prime pubblicazioni, compresa la prima edizione de L'origine dei continenti e
degli oceani, siano state lette molto fuori della Germania: fu soltanto quando la terza edizione,
pubblicata nel 1922, fu tradotta in diverse altre lingue, compreso l'inglese, due anni dopo, che
l'ipotesi di Wegener trovò un uditorio internazionale. Come in Germania, la sua opera ebbe
inizialmente un'accoglienza abbastanza buona o almeno non venne lasciata cadere completamente.
Secondo i rendiconti pubblicati, a un convegno della Associazione britannica per l'avanzamento
della scienza tenuto nel 1922, la discussione sulla deriva dei continenti fu «viva, ma
inconcludente». Come è facile aspettarsi, molti erano scettici, ma l'accoglienza generale riservata
alla teoria era favorevole. Più o meno in quel momento parecchi celebri geologi di ambedue le
sponde dell'Atlantico si dichiararono favorevoli alla teoria.
L'antagonismo irragionevole e ostinato alle idee di Wegener, che doveva diventare l'ortodossia
della geofisica fino agli anni sessanta, iniziò a svilupparsi verso la metà degli anni venti. Due eventi
provocarono questo inasprimento delle resistenze: uno fu la pubblicazione di un trattato intitolato
La Terra, di Harold Jeffreys dell'Università di Cambridge; e l'altro fu un simposio dell'Associazione
americana dei geologi del petrolio, tenuto nel 1928. Jeffreys attaccò la teoria di Wegener in quello
che era forse il suo punto più debole: la natura delle forze a cui Wegener attribuiva il moto dei
continenti. Wegener aveva scritto che la deriva della Americhe verso ovest si poteva spiegare come
conseguenza delle maree nella crosta terrestre: egli aveva chiamato Polflucht, cioè «fuga dai poli»,
la forza responsabile della migrazione dell'India verso il nord e nelle catene montuose alpina e
himalayana. Jeffreys fu in grado di dimostrare mediante semplici calcoli che la Terra è di gran
lunga troppo resistente perché tali forze possano deformarla anche leggermente. Se così non fosse le
catene montuose crollerebbero sotto il loro stesso peso e il fondo oceanico sarebbe perfettamente
piatto. Se le forze di marea fossero abbastanza intense da muovere i contenenti verso ovest, esse
sarebbero anche abbastanza grandi da fermare la rotazione terrestre nel giro di un anno.
Queste obiezioni sono decisive, e il meccanismo proposto da Wegener è stato abbandonato da
lungo tempo. (La teoria moderna attribuisce il movimento dell'espansione dai fondi oceanici lungo
un sistema di dorsali medio oceaniche, dove rocce fuse sgorgano dall'interno della Terra.) Oggi
tuttavia ci rendiamo conto che Jeffreys non aveva fatto altro che dimostrare l'inadeguatezza delle
ipotetiche forze motrici, senza rifiutare la teoria; aveva semplicemente ignorato la maggior parte dei
dati empirici che costituivano la parte più sostanziale degli argomenti di Wegener. Jeffreys aveva
liquidato la deriva dei poli sostenendo che era geofisicamente impossibile.
Fra i partecipanti al simposio dell'Associazione americana dei geologi del petrolio, la maggioranza
era ostile, in vari gradi, alla teoria di Wegener; solo uno era decisamente favorevole. I rendiconti del
simposio sono principalmente un coro di critiche. I relatori sostenevano che l'apparente coincidenza
dei profili dei continenti atlantici era imprecisa e non teneva conto dei movimenti verticali della
crosta. Le formazioni rocciose simili sulle due sponde dell'oceano, dopo tutto, non erano in stretti
rapporti, e in ogni caso le somiglianze attuali non implicavano necessariamente la contiguità nel
passato. Gli antichi animali potevano essersi spostati attraverso ponti di terraferma. Le tilliti del
Carbonifero e del Permico del Sudafrica e di altre zone probabilmente non erano glaciali e
probabilmente i carboni dell'emisfero settentrionale non erano tropicali; i dati per il moto della
Groenlandia non erano decisivi.
Altri oratori pretesero che la teoria risolvesse dei paradossi che essa ha affrontato soltanto nelle
sue versioni più moderne. Essi chiedevano per esempio perché, se il continente americano si può
muovere lateralmente spostando i fondi oceanici, esso si è arricciato sul bordo occidentale,
formando le catene montuose delle cordigliere. La forza compressiva che aveva formato queste
montagne non suggeriva forse una notevole resistenza da parte del fondo oceanico, supposto fluido?
E ancora, perché il Pangea è rimasto intatto per la maggior parte della storia della Terra, e poi si è
frantumato improvvisamente nel giro di poche decine di milioni di anni?
Infine, oltre a mettere in dubbio l'interpretazione e le conclusioni di Wegener, alcuni partecipanti
al simposio attaccarono violentemente le sue credenziali e i suoi metodi. Si comportava come un
avvocato, sostenevano, che sceglie fra i fatti da presentare solo quelli che appoggiano la sua ipotesi.
Egli «si prendeva delle libertà col nostro globo», «faceva un gioco senza regole restrittive, in cui
non era tracciato alcun codice di condotta». Wegener non partì in battaglia per difendere le sue
teorie da queste critiche. Uomo ormai di mezza età, egli disponeva di un tempo limitato per la
ricerca e non si sentì in grado di tener testa alla crescente ondata di pubblicazioni; si contentò di
lasciare il campo a ricercatori più giovani.
Dopo la morte di Wegener i geologi e i geofisici divennero ancora più ostili alla sua ricostruzione
della storia della Terra. Negli Stati Uniti la reazione fu particolarmente violenta; per un geologo
americano esprimere simpatia per l'idea della deriva dei continenti significava giocarsi la carriera.
Per ironia della sorte, non appena fu emesso il verdetto di condanna, la teoria fu notevolmente
rafforzata dai contributi di du Toit e di Arthur Holmes, dell'Università di Edimburgo. Essi
eliminarono alcuni degli argomenti più deboli di Wegener, misero insieme altri dati a sostegno della
teoria ed elaborarono un meccanismo più plausibile per il movimento. Holmes suggerì che i
continenti sono mossi dalle correnti convettive nel mantello terrestre. La sua ipotesi non era
completamente soddisfacente, ma superava con successo le critiche di Jeffreys e dei suoi seguaci.
Inoltre anticipava la spiegazione moderna del perché i continenti si muovono.
A posteriori, sapendo quanti aspetti della teoria di Wegener sono stati confermati negli ultimi
vent'anni, siamo in grado di apprezzare immediatamente i suoi risultati. Egli esaminava
criticamente un modello della Terra accettato quasi universalmente. Quando vi scoprì delle
debolezze e delle incoerenze ebbe tanto coraggio e spirito d'indipendenza da abbracciare
un'alternativa radicale. Inoltre le sue conoscenze erano così vaste da permettergli di andare in cerca
e di valutare criticamente nuovi dati di numerose discipline. Egli applicò le stesse qualità mentali
alla spiegazione degli antichi climi e della deriva dei poli.
Il rigore intellettuale che Wegener portò nella sua opera è illustrato dai suoi stessi scritti e
testimoniato dalle parole di coloro che lo conobbero bene. In una lettera a Kiippen scritta nel 1911
Wegener difendeva i suoi punti di vista sulla deriva dei continenti; la lettera è riprodotta nella
biografia di Wegener scritta dalla sua vedova.
«Lei considera il continente primordiale come un prodotto della mia fantasia, ma è solo un
problema di interpretazione dei dati. Io sono giunto a questa idea in base al fatto che le linee di
costa combaciano, ma le prove devono venire da osservazioni geologiche. Esse ci obbligano ad
ammettere, per esempio, un legame di terre emerse fra il Sudamerica e l'Africa. Questo si può
spiegare in due modi: lo sprofondamento di un continente, che li collegava, o la separazione. In
precedenza, per il principio di permanenza, non dimostrato, è stato considerato soltanto il primo, e
la seconda possibilità è stata ignorata; ma la moderna teoria dell'isostasia e, più in generale, le
nostre idee geofisiche correnti, si oppongono allo sprofondamento di un continente, perché esso è
più leggero del materiale su cui poggia. Perciò siamo obbligati a considerare l'interpretazione
alternativa. E se ora troviamo molte semplificazioni sorprendenti, e se cominciamo almeno a dare
un senso reale a un'intera messe di dati geologici, cosa dovremmo aspettare per gettar via i vecchi
concetti? Forse ciò è rivoluzionario? Non credo che le vecchie idee abbiano più di un decennio di
vita. Attualmente la nozione di isostasia non è ancora stata elaborata completamente; quando lo
sarà, le contraddizioni implicite nel vecchio modello appariranno in piena luce».
Ciò, evidentemente, sembrava molto ovvio a Wegener, ma è chiaro che egli sottovalutava la
tenacia di chi restava ancorato ai vecchi concetti.
Il successo di Wegener nel costruire una teoria sistematica della storia della Terra partendo da
osservazioni sparse e apparentemente non collegate potrebbe essere attribuito alla larghezza nel
modo di affrontare il problema, e forse anche al fatto che egli non era uno specialista. Si può avere
un chiarimento sul suo metodo nell'affrontare i problemi scientifici leggendo un necrologio scritto
da Hans Benndorf, professore di fisica e collega di Wegener a Graz. «Wegener acquisiva le sue
conoscenze principalmente in un modo intuitivo, mai, o assai di rado, deducendole da formule e in
questo caso esse dovevano essere molto semplici. Se poi aveva a che fare con problemi riguardanti
la fisica, cioè un campo lontano da quello di cui era esperto, rimanevo spesso sbalordito dalla
precisione dei suoi giudizi. Con che facilità, con quale senso dei punti importanti egli si districava
attraverso i più complicati lavori dei teorici! Spesso, dopo una lunga pausa di riflessione, diceva:
"Io credo questo e questo", e la maggior parte delle volte aveva ragione, come noi avremmo
stabilito parecchi giorni dopo, in seguito a un'analisi rigorosa. Wegener possedeva un senso per le
cose significative che sbagliava di rado».
Le affermazioni di Benndorf sul metodo di Wegener sono confermate dalle affermazioni di
Wilhelm Max Wundt, il quale conobbe Wegener quando era studente a Berlino: «Alfred Wegener si
preparava ad affrontare i suoi problemi scientifici con delle capacità normalissime in matematica,
fisica e nelle altre scienze naturali. Mai, in tutta la sua vita, egli fu restio ad ammettere questo
fatto. Tuttavia egli aveva la capacità di applicare queste doti con grande volontà e cosciente
determinazione. Aveva una straordinaria capacità di osservazione, una capacità di capire cosa è
contemporaneamente semplice e importante e cosa si può sperare che porti dei risultati. Oltre a ciò
possedeva una logica rigorosa, che gli permetteva di mettere giustamente insieme tutto ciò che
riguardava le sue idee».
Se Wegener era realmente lo scienziato abile e intelligente descritto dai suoi contemporanei e se le
sue conclusioni erano ben radicate in fatti e ragionamenti, nasce un problema immediato: perché
l'opposizione alle sue idee fu così forte, vasta e persistente?
Una spiegazione possibile è che la teoria di Wegener era «prematura» per i tempi in cui egli la
presentò. Gunther S. Stent, dell'Università di Berkeley, in California, sostiene che un'idea va
considerata prematura se non può essere collegata da una serie di passi semplici e logici alla
conoscenza canonica, cioè generalmente accettata, di quel tempo. Un principio simile, espresso da
Michael Polanyi, uno studioso inglese di filosofia e sociologia della scienza, sostiene che nella
scienza ci dev'essere sempre un'opinione prevalente, sulla natura delle cose, alla quale va
confrontata la validità di tutte le asserzioni. Ogni osservazione che sembra contraddire il punto di
vista ben stabilito sulle cose va preliminarmente giudicata non valida e accantonata, nella speranza
che in seguito essa si riveli falsa o irrilevante. Questa interpretazione di come procede la scienza
suggerisce che i geologi e i geofisici dovevano venire sommersi dai dati, come avvenne negli anni
sessanta, prima che si decidessero ad abbandonare la dottrina ben stabilita dei continenti stazionari.
Le innovazioni di Wegener, proprio perché erano innovatrici, dovevano essere ibernate finché da
esse non potesse sorgere una nuova ortodossia.
Quasi certamente c'è del vero in questa interpretazione, e bisogna convincersi che il rifiuto
dell'opera di Wegener era una circostanza necessaria al progresso ordinato della scienza;
ciononostante questa analisi non è del tutto convincente. Potrebbe spiegare l'indifferenza alla teoria
della deriva dei continenti, ma non l'atteggiamento di tanti scienziati che la relegarono nel regno
della fantasia. E non spiega neppure perché il modello tradizionale della Terra venne conservato
anche dopo che Wegener ebbe dimostrato che vi erano delle contraddizioni, nonostante queste
contraddizioni non venissero mai risolte. I paleontologi continuarono a basarsi su misteriosi ponti di
terraferma, per esempio, mentre contemporaneamente i geofisici, che avevano adottato il principio
dell'isostasia, insistevano che lo sprofondamento di tali ponti era impossibile. È stato suggerito che
l'ostacolo principale che impediva che la deriva dei continenti venisse accettata era la mancanza di
una forza motrice plausibile, dopo che Jeffreys aveva rifiutato quella proposta inizialmente da
Wegener. Eppure, se è così, perché la teoria di Holmes delle correnti convettive ricevette così poca
considerazione? Del resto la natura del meccanismo che sposta i continenti rimane incerta ancora
oggi, eppure la tettonica a zolle si è così bene affermata che coloro che ne rifiutano i principi
fondamentali vengono di solito trattati da reazionari.
Forse la lunga gestazione della teoria di Wegener può venire spiegata meglio come una
conseguenza dell'inerzia. Al simposio del 1928 dell'Associazione americana dei geologi del petrolio
sembra che un geologo abbia detto: «Se dobbiamo credere all'ipotesi di Wegener, dobbiamo
dimenticare tutto quello che abbiamo imparato negli ultimi 70 anni e ricominciare tutto da capo».
Bisogna ancora ricordare che per i geologi Wegener era un outsider; essi devono averlo considerato
un dilettante. Oggi, ovviamente, ci rendiamo conto che la sua posizione era per lui un vantaggio,
dato che non aveva niente da guadagnare a conservare il punto di vista tradizionale. Inoltre ci
rendiamo conto che in fondo egli non era affatto un dilettante, ma un ricercatore interdisciplinare di
grande talento e immaginazione, che si è certamente meritato un posto nel pantheon dei grandi
scienziati.
Febbraio 1973
I fossili e la deriva dei continenti
La somiglianza tra fossili ritrovati in zone ora separate da aree oceaniche ha condotto, all'inizio
del secolo, all'ipotesi della deriva dei continenti. Oggi la tettonica a zolle è avvallata da prove
paleontologiche.
di A.Hallam
Nel corso degli ultimi dieci anni i geologi si sono in gran parte convertiti alla tettonica a zolle, un
concetto che implica la migrazione laterale dei continenti. Se A. Wegener che propose l'ipotesi della
deriva dei continenti agli inizi di questo secolo fosse ancora vivo, considererebbe probabilmente la
questione con soddisfatta ironia. I ricercatori che hanno resuscitato la sua ipotesi hanno dedicato
scarsa attenzione alle prove che i fossili fornivano in suo favore. Invece, secondo la testimonianza
dello stesso Wegener, egli cominciò a considerare seriamente l'idea della deriva dei continenti
soltanto dopo essersi convinto delle prove paleontologiche che indicavano una precedente
interconnessione tra Brasile e Africa. I fossili, dunque, più che non la nota coincidenza tra le
opposte sponde, furono i suoi ispiratori.
Le prove paleontologiche non sono meno importanti oggi: le somiglianze e le differenze tra i
fossili nelle diverse parti del mondo a partire dal Cambriano, aiutano ora i paleontologi sia nel
sostenere il concetto di deriva, sia nel mettere a punto una cronologia sufficientemente precisa di un
certo numero di eventi particolarmente importanti avvenuti prima e dopo la scissione dell'antico
continente di Pangea.
All'epoca di Wegener non appariva per nulla romanzesca la possibilità che in diversi momenti del
lontano passato i vari continenti fossero stati legati fra loro in un modo o nell'altro. Infatti, i biologi
e i paleontologi del XIX e dei primi anni del XX secolo si appellavano già a tali connessioni
intercontinentali per spiegare le notevoli rassomiglianze tra piante e animali dei diversi continenti.
Era comunemente accettato, per esempio, che una tale connessione doveva essere esistita fino al
Giurassico inferiore, cioè fino a circa 180 milioni di anni fa tra l'Australia e le altre regioni che si
affacciavano sull'oceano Indiano. Un'altra interconnessione accettata era quella tra Africa e Brasile
durata fino al Cretaceo inferiore, cioè circa fino a 140 milioni di anni fa, nonché quella tra
Madagascar e India durata fino all'inizio del Cenozoico, cioè fino a soltanto 65 milioni di anni fa.
Nello stesso tempo però, la spiegazione ortodossa di queste connessioni era che la posizione dei
continenti fosse fissa e che gli oceani aperti che li separavano fossero attraversati da lunghi ponti
continentali. Sempre secondo l'ipotesi ortodossa questi grandi ponti continentali erano poi
scomparsi senza lasciare alcuna traccia.
Il ponte continentale proposto nel 1887, che doveva unire America meridionale e Africa: la sua ampiezza è analoga a quella dei
continenti che unisce. Si pensava che esso fosse scomparso all'inizio del Cretaceo senza lasciare alcuna traccia. Nel XIX secolo
l'ipotesi di grandi ponti continentali era assai diffusa per spiegare le somiglianze nelle faune fossili dei diversi continenti.
Wegener respinse perentoriamente tale spiegazione. Egli mise in evidenza che la crosta terrestre è
costituita di rocce che sono assai meno dense dei materiali che formano l'interno della Terra. Se i
fondali degli oceani avessero conservato tracce dei ponti continentali sprofondati, i quali dovevano
avere lo stesso spessore dei materiali leggeri che costituiscono la crosta continentale, i rilievi
gravimetrici in mare avrebbero dovuto rivelarli. Invece la gravimetria indicava esattamente il
contrario: le rocce che costituivano la crosta oceanica erano assai più dense di quelle della crosta
continentale.
L'improbabilità dell'ipotesi dei ponti continentali poteva essere messa in evidenza anche in termini
di equilibrio isostatico. Se infatti le rocce crostali a bassa densità dei ponti continentali scomparsi
fosse stata in qualche modo forzata entro la crosta oceanica più densa, i ponti avrebbero avuto la
tendenza a riemergere nuovamente. Ciò rendeva necessario postulare l'esistenza di una qualche
colossale forza non meglio identificata che continuava a mantenere sommersi tali ponti. L'esistenza
di tale forza sembrava estremamente improbabile. A meno che non si trascurasse del tutto il
problema posto dai fossili, l'unico modo, secondo Wegener, di spiegare le somiglianze fra piante e
animali di continenti diversi era quello di immaginare la deriva dei continenti stessi.
È strano che né i paleontologi né i geofisici abbiano prestato molta attenzione alle convincenti
argomentazioni di Wegener. I paleontologi erano quasi unanimi nel rifiutare l'ipotesi forse perché
essi non potevano apprezzare per intero la fondatezza delle considerazioni geofisiche di Wegener:
l'effetto fondamentale della nuova ipotesi sui paleontologi fu che, in luogo delle ampie lingue di
terra che erano state favorite sul volgere del secolo XIX, divennero fra essi più popolari ponti
intercontinentali abbastanza stretti. Naturalmente, anche quando i ponti avevano assunto questa
forma, rimanevano da risolvere seri problemi isostatici. Per ciò che concerne i geofisici, essi
ignoravano in gran parte la considerevole massa di prove paleontologiche che Wegener aveva
raccolto a favore della deriva dei continenti. Forse essi non riuscivano ad apprezzarne il significato
o forse diffidavano di dati puramente qualitativi e del carattere apparentemente soggettivo delle
valutazioni tassonomiche.
Ai grandiosi ponti continentali del XIX secolo si sostituirono, nel XX secolo, ponti di più modeste dimensioni, dato che gli studi
geofisici non avevano trovato alcuna indicazione che permettesse di sostenere vaste interconnessioni tra i continenti. La cintura che
unisce Brasile e Africa occidentale e quella tra l'Africa orientale e l'India, che si riteneva fosse esistita fino alla fine del Cretaceo,
costituiscono un tentativo per soddisfare coloro i quali criticavano l'ipotesi di ponti continentali più ampi.
Isolamento e omogeneizzazione
Tenendo a mente tali considerazioni, si cercherà di chiarire in cosa la teoria dell'evoluzione può
essere utile a quella della deriva dei continenti. Chiaramente, quando una massa di terra emersa
prima unita si separa in due o più tronconi, viene a determinarsi l'isolamento genetico (e quindi
anche la divergenza morfologica) tra i segmenti separati di una fauna che precedentemente era
omogenea. Per converso, l'unione di due aree continentali è seguita dall'omogeneizzazione delle
faune corrispondenti nel momento in cui tra le due terre si verifica una migrazione incrociata. Il
processo sarà, assai probabilmente, accompagnato dall'estinzione di ogni gruppo meno ben adattato
che si trovi in quel momento a dover affrontare una competizione più attiva.
Due fattori, l'evoluzione parallela e la convergenza, possono produrre, in aree terrestri separate,
specie animali che sviluppano una morfologia simile poiché occupano nicchie ecologiche identiche.
Un esempio ben noto è quello del formichiere dell'America meridionale, del formichiere dell'Africa
e del pangolino cosmopolita. È assai improbabile, tuttavia, che fenomeni di questo tipo coinvolgano
l'insieme di una fauna.
Per ciò che concerne invece gli invertebrati che abitano i fondali marini poco profondi, è chiaro
che un istmo che separi due oceani costituisce una barriera per la migrazione. È tuttavia forse assai
meno evidente che un ampio bacino oceanico profondo può essere quasi altrettanto efficace di un
istmo nel preservare l'isolamento genetico degli abitanti dei fondali delle piattaforme continentali
delle opposte rive. Tale isolamento è dovuto al fatto che questi animali si disperdono soltanto una
volta nel loro ciclo vitale: quando cioè essi sono larve e come tali fanno parte della comunità
planctonica che vive alla superficie dell'oceano o nelle vicinanze. Lo stadio larvale di un organismo
bentonico non è normalmente lungo abbastanza da consentire all'animale di sopravvivere a una
lenta traversata dell'oceano.
Tali considerazioni sono state restituite in forma quantitativa qualche tempo fa dal biologo danese
G. Thorson. Egli ha studiato lo stadio larvale di non meno di 200 specie di invertebrati marini e ha
concluso che soltanto il 5% potrebbe sopravvivere nel plancton per più di tre mesi. Tale intervallo
di tempo è troppo corto per permettere la colonizzazione della riva opposta dell'oceano salvo che
nel caso di un trasporto eccezionalmente favorevole. Più recentemente Thorson è stato criticato per
aver preso in considerazione soltanto organismi che popolano acque temperate fredde. I dati raccolti
tramite la pesca del plancton con le apposite finissime reticelle, indicano che un numero
significativo di larve di specie tropicali possono sopravvivere a una traversata atlantica in entrambe
le direzioni. Esse viaggiano in un senso trasportate dalla corrente equatoriale superficiale e nell'altro
trasportate dalla controcorrente subsuperficiale. È anche vero che —alcuni molluschi e alcuni
coralli si trovano ovunque nella fascia tropicale; ciò aggiunge validità all'ipotesi di una migrazione
transoceanica per larve a lunga vita. Nello stesso tempo è possibile che organismi con uno stadio
larvale prolungato rappresentino una fase recente dell'evoluzione, intervenuta soltanto da quando
hanno cominciato ad aprirsi gli attuali oceani Atlantico e Indiano.
Comunque, è evidente che, anche se le conclusioni di Thorson possono essere in qualche caso
corrette, una bar riera oceanica restringe effettivamente la migrazione della maggior parte degli
invertebrati marini bentonici. Inoltre, se la capacità di migrazione è in proporzione diretta con la
lunghezza dello stadio larvale, ne segue che quanto più ampia è la barriera oceanica, tanto più
differenti sono le faune sulle opposte sponde: ciò è quanto si verifica effettivamente oggi. Le faune
comuni alle due sponde del Pacifico sono ancora meno numerose di quelle che si riscontrano su ge
due sponde dell'Atlantico. Di conseguenza a livello di faune marine fossili, il grado di somiglianza
o di differenza tra due associazioni costiere, dovrebbe permettere una stima dell'entità della
separazione fra le due coste.
Dato l'attuale stato delle conoscenze, sarebbe inutile cercare un qualunque metro di misura
assoluta della somiglianza tra faune fossili. Se si adotta tuttavia un criterio dinamico e ci si occupa
dei cambiamenti nel grado di somiglianza nel corso di intervalli geologici successivi, è possibile
fare qualche passo avanti. Tale approccio ha diversi vantaggi: primo, gli animali appartenenti a
phyla nettamente separati possono essere raggruppati insieme; secondo, il fattore specifico che
determina il potenziale di migrazione di una certa specie non deve necessariamente essere chiarito;
terzo, è possibile utilizzare il lavoro di differenti tassonomi senza preoccuparsi se essi sono più o
meno raffinati nel loro metodo di classificazione; quarto e più importante vantaggio, è che tale
approccio tiene nel debito conto il fattore principale per il geologo, cioè il fattore tempo.
La distribuzione dei fossili
Vi sono quattro modelli di distribuzione dei fossili; essi sono strettamente correlati e saranno qui
definiti in ordine, unitamente a qualche esempio. Tutti gli esempi saranno scelti in relazione alla
presenza o all'assenza di connessioni fra terre o mari ma non saranno necessariamente tutti legati
con la deriva dei continenti.
Il primo modello è quello della convergenza; !a convergenza è l'aumento col tempo nel grado di
rassomiglianza fra faune di differenti regioni. Un esempio, che non è connesso con la deriva dei
continenti, è quello tratto dalla storia dell'America meridionale nel Cenozoico, a cominciare da 65
milioni di anni fa. Per la maggior parte di quell'era, l'America meridionale ha avuto una fauna
estremamente caratteristica. I mammiferi fossili delle formazioni cenozoiche dell'Argentina
costituirono uno dei ritrovamenti più spettacolari del viaggio di Darwin a bordo del Beagle. La
natura chiaramente endemica di quella fauna, paragonabile con quella dell'Australia attuale, è una
chiara prova del fatto che il continente è stato isolato per molti milioni di anni.
Divergenza fra i mammiferi del continente americano verificatasi durante un periodo di milioni di anni quando la porzione
settentrionale era separata da quella meridionale. Fra i mammiferi comuni nell'America settentrionale ma sconosciuti in quella
meridionale vi erano mastodonti, tapiri, cammelli primitivi e vari carnivori. I mammiferi del nord comprendevano numerosi animali i
quali sono ora estinti. Qui sono illustrati: un bradipo gigante, Mylodon (a), un notoungulato, Paedotherium (b), un roditore,
Prodolichotis (c), un ungulato, Macrauchenia (d) e un antenato del più diffuso armadillo, Plaina (e).
All'incirca verso la fine del Pliocene, approssimativamente due milioni di anni fa, si manifestò un
drastico mutamento. Tra America settentrionale e America meridionale si stabili
un'interconnessione, l'istmo di Panama, e la maggior parte degli animali del nuovo mondo, prima
impossibilitata a trasferirsi dall'una all'altra delle due porzioni del continente, attraversò il ponte.
Tra essi vi erano il mastodonte, il tapiro, i cammelli primitivi e un certo numero di carnivori. Nello
stesso tempo si estinse la maggior parte della fauna indigena dell'America meridionale; fra i
perdenti vi erano tutti i marsupiali primitivi (salvo due generi) che là erano rimasti protetti e che
evidentemente erano incapaci di competere con gli animali meglio adattati che erano migrati
dall'America settentrionale. Il traffico, tuttavia, non fu soltanto orientato in una sola direzione: gli
armadilli si diffusero rapidamente verso nord attraverso tutta la America centrale fino agli USA
meridionali.
Simpson ha valutato che prima che America settentrionale e America meridionale fossero unite,
vivevano circa 29 famiglie di mammiferi a sud dell'istmo di Panama e circa 27 famiglie del tutto
differenti a nord. Dopo l'unione, la fauna di entrambe le porzioni del continente si ridusse a 22
famiglie di mammiferi. Questo è un esempio particolarmente drammatico di convergenza, anche se
l'instaurarsi del ponte continentale di Panama non sembra aver niente a che fare con la deriva dei
continenti.
Alla fine del Pliocene, dopo che si era stabilito un ponte emerso tra America settentrionale e America meridionale, si verificò la
convergenza delle faune a mammiferi delle due porzioni del continente americano. Un mammifero, originario dell'America
meridionale, l'armadillo, migrò verso nord. Nello stesso modo, numerosi mammiferi precedentemente sconosciuti a sud di Panama,
migrarono in America meridionale; in breve le due porzioni del continente americano arrivarono ad avere 22 famiglie di mammiferi
in comune. Nello stesso tempo, molti mammiferi sudamericani, incapaci di competere, si estinsero.
La fauna a mammiferi del Cenozoico dell'Africa costituisce un altro esempio di convergenza. Fino
a circa 25 milioni di anni fa, la fauna africana aveva caratteri fortemente endemici: oltre agli
antenati degli attuali elefanti, anche il lamantino e l'irace si trovavano solo là. Ciò significa che il
continente doveva essere stato isolato per un periodo considerevole.
Nel Miocene inferiore un certo numero di mammiferi, provenienti dall'Eurasia, entrarono in Africa
attraverso uno o più ponti continentali. La migrazione determinò la riduzione e addirittura
l'estinzione di alcuni elementi della fauna africana. Nello stesso tempo gli elefanti ancestrali
attraversarono i confini dell'Africa verso l'Eurasia e in breve si diffusero in tutto il mondo. Meno di
25 milioni di anni più tardi, i Mastodonti attendevano l'emersione dell'istmo di Panama per
penetrare nella più ampia regione continentale ancora preclusa ai proboscidati. La costruzione dei
ponti continentali, che determinò un aumento sostanziale nel Miocene nel grado di convergenza tra
le faune dell'Africa e dell'Eurasia, può essere attribuita alla deriva dei continenti e, specificamente, a
un movimento verso settentrione della zolla arabo-africana.
Un terzo esempio di convergenza ci riporta fino al Cambriano e all'Ordoviciano inferiore, cioè
all'intervallo di tempo compreso tra 500 e 600 milioni di anni fa. I più noti organismi marini del
Cambriano, i primi artropodi noti col nome di trilobiti, possono essere separati in due faune distinte;
la linea che divide le due province faunistiche passa per l'America nordorientale, per le isole
britanniche e per la Scandinavia (si veda l'illustrazione seguente). Nel corso dei 75 milioni di anni
che seguirono, cioè durante l'Ordoviciano superiore e il Siluriano, le due faune a trilobiti andarono
perdendo le differenze geografiche. Allo stesso modo si comportò un certo numero di altri
invertebrati marini primitivi: coralli, brachiopodi, graptoliti e conodonti. Lo stesso accadde a due
gruppi dei primi pesci d'acqua dolce, ai primitivi ostracodermi appartenenti agli ordini degli
anapsidi e dei telodonti. I pesci d'acqua dolce sono naturalmente confinati nelle acque continentali
che abitano. Dal tardo Siluriano o dal Devoniano inferiore, cioè da circa 400 milioni di anni fa,
nella regione nord-atlantica si ebbe una sola provincia faunistica.
L'oceano protoatlantico, in via di
scomparsa all'incirca 400 milioni di anni
fa, deve alla fine essersi ridotto a due
bacini mi. non: quello canadese e quello
del golfo del Messico. La linea in colore
attraversa regioni che oggi sono unite,
come la Penisola scandinava, le Isole
britanniche, parti dell'Africa e della
America settentrionale: essa segna il
limite tra due regni faunistici diversi che
erano distinti nel Cambriano e
nell'Ordoviciano inferiore. Ciascuno di
essi è contraddistinto da un fossile tipico:
la forma europea è il trilobite Holmia
kjerzdfi; la forma americana è il trilobite
Paedeumias transitans. La differenza tra
i due regni diminuí sempre più finché a
metà del Paleozoico essa era scomparsa.
La convergenza tra le due associazioni
indica che il protoatlantico fu inghiottito,
mentre le zolle americana ed europea
andavano fra loro avvicinandosi.
Il paleontologo A. W.
Grabau notò, molti anni fa, la
differenza tra trilobiti di aree
adiacenti e suggerí che il netto
confine tra le due province
poteva essere attribuito
all'esistenza di una barriera
oceanica. Più di recente, J.
Tuzo Wilson dell'Università di
Toronto, seguì la proposta di
Grabau e aggiunse che il margine tra le due province faunistiche segnava la sutura di un oceano
protoatlantico che si era verificata per la deriva dei continenti nel Paleozoico. Da allora J. F. Dewey
della State University of New York a Albany ha sviluppato, con notevole successo, tale concetto in
chiave di tettonica a zolle e di subduzione (si veda l'articolo La tettonica a zolle crostali di J. F.
Dewey in « Le Scienze » n. 48, agosto 1972).
Il punto di vista di Dewey, che è basato soprattutto su prove di carattere geologico, prevede la
scomparsa di un antico segmento di oceano entro una o più zone di subduzione nel momento in cui
le zolle americana e europea si spostarono l'una verso l'altra. I fenomeni di compressione e il
conseguente sollevamento nella regione di subduzione formarono le catene caledoniane nell'Europa
nordoccidentale e le antiche catene appalachiane nell'America nordorientale. Le prove di una
convergenza faunistica nell'intervallo compreso tra Cambriano e Devoniano riflette evidentemente
il restringimento stazionario del protoatlantico, un processo che deve essere continuato per decine di
milioni di anni fino a che la maggior parte dell'antico oceano non fu scomparsa. In questo caso
abbiamo un esempio di prove paleontologiche che avvallano la ricostruzione di un episodio di
deriva continentale che era stato individuato in modo indipendente sulla base di dati geologici.
Endemismo disgiunto
L'espressione endemismo disgiunto si riferisce alla situazione seguente. Un gruppo di organismi
fossili è limitato nella sua distribuzione geografica, ma, nnndimeno, appare in due o più parti del
mondo che sono ora separate da barriere geografiche principali come sono le zone oceaniche
profonde. Il caso classico è quello del Mesosaurus, un piccolo rettile che viveva nel Paleozoico
superiore, circa 270 milioni di anni fa. Gli strati che contengono i fossili di Mesosaurus sono stati
trovati soltanto in Brasile e in Africa meridionale. Questo animale, che misurava circa mezzo metro
dal naso alla punta della coda, era evidentemente acquatico. Però non doveva essere un buon
nuotatore, poiché in tal caso, oltre che in Brasile e in Africa meridionale, lo si ritroverebbe in molte
altre parti del mondo. Sembra logico trarre la conclusione che nel Paleozoico superiore, Brasile e
Africa meridionale erano contigui; questo indizio paleontologico a favore della deriva dei continenti
è stato notato già molti anni fa.
Un rettile del tardo Paleozoico, Mesosaurus, i cui resti fossili sono stati ritrovati su entrambe le coste dell'Atlantico meridionale e in
nessun altro luogo al mondo. Se Mesosaurus fosse stato in grado di nuotare cosi bene da attraversare l'oceano, esso si sarebbe diffuso
assai di piú anche altrove. Siccome di fatto ciò non è accaduto, questo è considerato un caso di endemismo disgiunto e suggerirebbe
che America meridionale e Africa costituissero, al tempo in cui viveva Mesosaurus, una terra unica.
In almeno due casi che coinvolgono i rettili dominatori del Mesozoico, i dinosauri, gli indizi
paleontologici impongono una netta revisione della tabella di marcia della deriva dei continenti. I
dinosauri in questione appartengono a cinque generi di sauropodi, la linea evolutiva alla quale
appartengono anche alcuni fra i favoriti dei musei, come Brontosattrus e Diplodopus. Due di tali
generi si svilupparono nel Giurassico superiore e tre nel tardo Cretaceo, circa 70 milioni di anni più
tardi.
I generi giurassici cui ci si riferisce sono Brachiosaurus, il più grande di tutti i sauropodi e
Barosaurus. I resti di dinosauri di entrambi questi generi si trovano nella Morrison formation degli
USA occidentali e nei depositi fossili di Tendaguru della Tanzania; resti fossili di Brachiosaurus
sono stati trovati anche nel Portogallo e in Algeria. Questi enormi erbivori devono aver occupato
una nicchia ecologica simile a quella degli elefanti. Anche se essi possono aver popolato zone
palustri, indubbiamente si devono essere trovati in imbarazzo di fronte a un fiume largo e, a
maggior ragione, all'oceano. La loro presenza sia in Africa sia in America settentrionale, dunque,
indica l'esistenza di una interconnessione presente fra queste due aree durante il Giurassico
superiore. La necessità di tale connessione a sua volta pone una limitazione cronologica alla
separazione oceanica tra le porzioni settentrionale e meridionale del supercontinente di Pangea.
Una ricostruzione assai nota della distribuzione delle masse continentali nel Giurassico, preparata
da R. S. Dietz e J. C. Holden della National Oceanic and Atmospheric Administration, mostra una
zona possibile di attraversamento tra l'Eurasia (che era allora collegata con l'America settentrionale)
e l'Africa. Essa si trovava dove Spagna e Africa settentrionale vanno quasi a toccarsi; un ponte
continentale posto in questa zona nel Giurassico risolverebbe il problema degli endemismi
apparentemente disgiunti dei due sauropodi. L'esistenza di depositi marini di età giurassica in quelle
parti della Spagna e dell'Africa settentrionale che possono essere state congiunte, sembra tuttavia
escludere l'esistenza di tale ponte continentale.
Gli strati fossiliferi che contengono i resti di due generi di dinosauri del Giurassico superiore si trovano rispettivamente nel.
l'America nordoccidentale e in Africa orientale; i fossili di uno dei due generi sono anche noti in Portogallo e in Algeria. A quel
tempo il grande continente unico di Pangea si era già spezzato; la posizione occupata dai singoli frammenti è quella calcolata da R. S.
Dietz e da J. C. Holden della National Oceanic and Atmospheric Administration. A meno che non esistesse nel Giurassico superiore
un ponte continentale che univa Africa settentrionale e Spagna, la presenza di fossili identici su continenti separati, costituisce un
altro esempio di endemismo disgiunto. Ma laddove avrebbe dovuto esserci il ponte continentale, vi sono rocce marine di età
giurassica: ciò rende assai improbabile l'esistenza di un ponte continentale in quel periodo.
Mentre il tempo passa e la ricostruzione dei movimenti delle zolle diventa sempre più precisa,
ritengo che aumenterà l'interesse in numerose questioni biologiche che derivano da questo modo di
vedere la storia della Terra. Per esempio, si acquisiranno nuovi dati per stabilire la velocità
dell'evoluzione tra organismi isolati. Secondariamente, si sarà in grado di scoprire qualcosa di
nuovo circa la facilità di migrazione e di colonizzazione in diverse situazioni geografiche. La
distribuzione disgiunta di molti organismi viventi, come per esempio i dipnoi, i marsupiali e gli
uccelli corridori giganti, sarà meglio compresa.
Forse si potrà anche acquisire qualche nuovo elemento sul più spinoso degli argomenti, cioè sul
perché molti gruppi di animali e piante si sono estinti.
Novembre 1968
La conferma della deriva dei continenti
I continenti attuali erano probabilmente un tempo raggruppati in due sole grandi masse continentali, Gondwana e
Laurasia. Questa affascinante teoria riceve oggi nuova conferma da ulteriori dati.
di Patrie M. Hurley
Ancora cinque anni fa la teoria della deriva dei continenti era considerata con molto scetticismo,
soprattutto da parte degli studiosi americani. Le prove raccolte negli ultimi anni sono tuttavia tali
che i critici di questa ipotesi sono ora sulla difensiva. La lenta accettazione di quella che, in effetti, è
un'idea assai antica costituisce un buon esempio della accurata verifica alla quale sono sottoposte le
teorie scientifiche. Questo è vero soprattutto nel campo delle scienze della Terra, ove i fatti
osservati sono spesso contraddittori e le verifiche sperimentali pressoché impossibili.
Fu Francesco Bacone, fin dal 1620, a formulare l'ipotesi che le Americhe fossero state un tempo
unite all'Europa e all'Africa. Nel 1668 P. Placet scrisse una fantasiosa memoria dal titolo La
corruption du grand et du petit monde, où il est montré que devant le déluge, l'Amerique n'était
point séparée des autres parties du monde. Circa due secoli dopo Antonio Snider fu colpito dalla
somiglianza delle piante del periodo carbonico (circa trecento milioni di anni fa) che si rinvenivano
in America e in Europa. Questo gli suggerì la possibilità che i continenti facessero un tempo parte di
un'unica grande massa continentale. Il suo lavoro fu pubblicato nel 1858 con il titolo : La Création
et Ses Mystères Dévoilés.
Alla fine del secolo XIX i geologi intervennero in pieno nella discussione. In quel periodo il
geologo austriaco Eduard Suess notò una tale corrispondenza fra le formazioni geologiche affioranti
nell'emisfero meridionale che poté riunire idealmente le terre emerse in un unico continente che egli
chiamò terra di Gondwana (il nome proviene da Gondwana, una regione geologica tipica dell'India
centro-orientale). L'americano F.B. Taylor nel 1908 e il tedesco Alfred L. Wegener nel 1910,
indipendentemente uno dall'altro, suggerirono il meccanismo che avrebbe potuto determinare
spostamenti laterali della crosta terrestre e quindi anche la deriva dei continenti. Il lavoro di
Wegener fu al centro di un dibattito continuato fino a oggi.
Wegener aveva posto in evidenza un gran numero di correlazioni, sia geologiche sia
paleontologiche, che indicavano come la medesima successione di eventi geologici si fosse
manifestata sulle due sponde dell'Atlantico. Egli concluse pertanto che all'inizio dell'era mesozoica
(circa 200 milioni di anni fa) tutti i continenti attuali dovevano essere raggruppati in un'unica massa
continentale, un supercontinente, che egli chiamò Pangea. Oggi le prove di cui disponiamo
suggeriscono piuttosto l'idea di due grandi masse continentali: Gondwana nell'emisfero meridionale
e Laurasia in quello settentrionale.
Nell'emisfero meridionale fu trovata un'ulteriore correlazione in una successione di glaciazioni
avvenute nei periodi carbonico e permico dell'era paleozoica. Queste glaciazioni lasciarono tracce
evidenti nelle regioni meridionali del Sudamerica, dell'Africa e dell'Australia, nell'India
peninsulare, nel Madagascar e, come si è scoperto di recente, nell'Antartide. La prova delle
glaciazioni è convincente: le tilliti — antichi depositi glaciali consolidati — sono senza dubbio
derivate dall'azione di una potente copertura glaciale. Molte tilliti giacciono inoltre su rocce
cristalline arrotondate e striate dall'azione abrasiva dei ghiacciai. In tutte le regioni dell'emisfero
meridionale le tilliti non solo ricorrono in un medesimo periodo geologico, ma si trovano intercalate
in una successione di strati orizzontali contenenti piante fossili delle medesime specie. Questa
successione, che si estende dal Devonico al Triassico, è chiamata successione di Gondwana. Le
migliori correlazioni si trovano negli strati del Permo-Carbonico, quando le piante dei generi
Glossopteris e Gangamopteris raggiunsero il loro massimo sviluppo. Queste piante erano tanto
abbondanti da dare luogo ai giacimenti di carbone che si trovano intercalati nella successione di
Gondwana.
Il geologo sudafricano Alex L. Du Toit e altri hanno studiato con grande accuratezza la
successione di Gondwana nei vari continenti. Lo sviluppo di una tale successione in aree che
attualmente si trovano a grande distanza rappresenta la prova convincente che le relative masse
continentali erano un tempo riunite in un unico continente. Non solo, ma si è anche potuto stabilire
che esse vagavano in prossimità del polo sud. É inconcepibile, d'altro canto, che la complessa
speciazione delle piante della successione di Gondwana si sia potuta sviluppare
contemporaneamente in aree separate quali sono le masse continentali come ci si presentano oggi:
basti pensare che per interrompere la diffusione di una determinata associazione vegetale è
sufficiente una fascia d'acqua di poche diecine di chilometri. Si direbbe che il continente Gondwana
rimase unito sino all'era mesozoica, quando si spezzò nelle sue varie parti. Da allora l'evoluzione ha
seguito cammini differenti, producendo le diverse associazioni vegetali che si osservano
attualmente nei vari continenti.
Wegener e Du Toit pubblicarono i loro lavori fra il 1920 ed il 1940. La discussione pro e contro la
deriva dei continenti si polarizzò per lo più fra i geologi e i geofisici occidentali. Eminenti geofisici,
come Sir Harold Jeffreys dell'Università di Cambridge, manifestarono una forte opposizione
all'ipotesi della deriva, in base alla considerazione che la crosta terrestre e il mantello sottostante
fossero troppo rigidi per permettere movimenti su scala tanto vasta, considerando l'energia limitata
che si pensava fosse disponibile per tale fenomeno.
Tuttavia non tutti la pensavano allo stesso modo. Verso la fine degli anni trenta il geofisico
olandese F.A. Vening Meinesz suggerí che dei movimenti termoconvettivi nel materiale che
costituiva il mantello avrebbero potuto fornire una spiegazione del fenomeno. Le sue idee erano
confortate dai rilievi gravimetrici da lui eseguiti nelle fosse e negli arcipelaghi del Pacifico
occidentale, dai quali risultò che una qualche forza manteneva le irregolarità della crosta terrestre e
si opponeva alla naturale tendenza all'appiattimento. La forza in questione aveva presumibilmente a
che fare con i movimenti termoconvettivi del mantello. Arthur Holmes, dell'Università di
Edimburgo, si pronunciò in favore di questa ipotesi, seguito da S.W. Carey della Tasmania, dagli
inglesi Sir Edward Bullard e S.K. Runcorn, dal sudafricano L.C. King, dal canadese J. Tuzo Wilson
e da altri. La dinamica della storia della Terra richiamava l'attenzione di un numero sempre
maggiore di geofisici, con il risultato che, per la reciproca influenza di tutte le branche della
geofisica e della geologia, si aprivano nuovi orizzonti.
Continenti e oceani
È opportuno richiamare qui sinteticamente taluni concetti fondamentali, soprattutto per inquadrarli
nel contesto della deriva dei continenti. La topografia della Terra presenta due livelli principali:
quello delle terre continentali emerse e quello dei fondali oceanici pianeggianti. I livelli intermedi
costituiscono soltanto una porzione assai limitata dell'intera superficie terrestre. Ci si può chiedere
che cosa mantiene così nettamente separati, come quota media, i due livelli principali, in quanto, nel
corso dei miliardi di anni della storia terrestre, ci si aspetterebbe che fosse stato raggiunto un
equilibrio a quota intermedia, al di sotto di quella del livello medio dei mari attuali. Ancora oggi
possiamo osservare invece i netti margini delle masse continentali, le catene di montagne di recente
sollevamento, le profonde fosse oceaniche : in breve una topografia accidentata, in costante
ringiovanimento.
Le aree continentali sono costituite da un mosaico di blocchi con lati di un migliaio di chilometri e
con età variabile da tre miliardi a poche diecine di milioni di anni. In Africa sembrano esservi
diversi nuclei antichi, o cratoni, circondati da fasce di rocce più recenti, molte delle quali hanno
un'età di 600 milioni di anni, o anche meno. L'età delle rocce più recenti contrasta in modo netto
con quella dei cratoni, che è stimata a due o tre miliardi di anni.
Osservando in dettaglio le fasce più recenti, appare evidente che, benché esse siano costituite da
rocce in gran parte nuove, vi sono vaste plaghe che hanno la medesima età dei cratoni. Si direbbe
che la superficie terrestre sia stata contorta e piegata attorno a delle antiche masse continentali,
alcuni lembi delle quali sono stati coinvolti nei corrugamenti, mentre rocce ignee si iniettavano nei
nuclei delle pieghe. In alcune zone le rocce più antiche sono state metamorfosate fino a renderle
irriconoscibili, ma in altre esse sono sufficientemente indisturbate da permettere la datazione con
metodi radioattivi. Queste fasce composite sono denominate aree di ringiovanimento (orogeni).
Quando sono erose e spianate tutto quello che si può osservare, dal punto di vista topografico, è che
un'altra fascia si è aggiunta alla massa continentale. Il rilievo geologico di queste zone mette
tuttavia in evidenza che si tratta di antiche catene montuose.
Un'osservazione accurata dei cratoni mostra che anche questi presentano le strutture geologiche
tipiche delle catene montuose. Queste strutture sono ora separate in vari segmenti, con le rocce più
recenti che intersecano lo schema strutturale antico.
Questa evoluzione appare con maggiore evidenza quando si esaminano le catene montuose più
recenti, per esempio le Alpi o l'Himalaya. Esse infatti non sono state ancora smantellate
completamente dall'erosione (peneplanate) e pertanto le loro accidentalità topografiche rendono i
fenomeni evidenti anche agli occhi dei profani. Ma è soltanto quando osserviamo la distribuzione su
scala mondiale di queste catene montuose, unitamente alla distribuzione delle fosse e delle dorsali
oceaniche, che ci rendiamo conto di come le cause di tutto ciò possano essere stati cospicui
movimenti della crosta terrestre.
Lo schema dei fenomeni geologici su scala mondiale fornisce la prova che le principali masse continentali sono state spostate da
lenti moti convettivi che hanno sede nel mantello, al di sotto della crosta terrestre. Le linee di colore scuro identificano le creste delle
dorsali oceaniche, ora ritenute corrispondenti alle colonne montanti delle correnti convettive. Le dorsali sono dislocate
trasversalmente da sistemi di fratture. Le linee a tratti indicano il limite approssimativo delle dorsali oceaniche. Le aree in grigio
chiaro indicano la distribuzione attuale delle catene montuose di recente corrugamento. delle ghirlande insulari. delle fosse, delle aree
a elevata sismicità, delle aree vulcaniche attive, tutte indicanti zone di discesa delle correnti convettive del mantello. Le colonne
discendenti s e m brano coincidere con le aree caratterizzate da terremoti profondi (triangoli neri) e intermedi (punti pieni neri). Le
colonne ascendenti corrisponderebbero alle aree dei terremoti superficiali (punti vuoti).
La Terra è inoltre intersecata da fasce geologicamente attive, ove si manifestano la maggior parte
dei terremoti e dei fenomeni vulcanici e dove vi è un elevato flusso di calore. In tempi recenti
queste fasce sono anche state interessate da movimenti osservabili sotto forma di pieghe e di faglie
di grandi dimensioni. La direzione dei movimenti, che non è possibile ricostruire dalla superficie,
può essere ricavata dallo studio delle onde sismiche che si propagano nei vari punti della superficie
terrestre durante i terremoti. Ora è anche possibile dedurre la direzione dei movimenti che
avvengono nelle zone di fratture prossime alla superficie terrestre, in modo da poter risalire alla
direzione delle spinte.
Osservando una carta del tipo di quella riprodotta, si è immediatamente colpiti dall'ampiezza e
dalla sistematicità della distribuzione di queste fasce di attività geologica. Alcuni di questi sistemi si
estendono per molte migliaia di chilometri. Ciò dà un'idea immediata dell'ampiezza dei movimenti
di materiale all'interno della Terra, ma non implica necessariamente che questi movimenti si
manifestino su distanze dello stesso ordine di grandezza anche in profondità. È, infatti possibile che
placche di materiale rigido subiscano le spinte e si fratturino su larga scala se il materiale sottostante
è meno rigido.
Nei due passati decenni la topografia dei fondali oceanici fu rilevata con gli ultrasuoni. Le
principali dorsali sottomarine furono cartografate in dettaglio da diversi oceanografi, come Bruce C.
Heezen e Maurice Ewing della Columbia University e H.V. Menard della Scripps Institution of
Oceanography. I sedimenti dei fondali marini furono anche esplorati con metodi sismici e con
sorpresa si constatò che essi rappresentavano soltanto una sottile spalmatura sulle rocce del fondo
oceanico, cosa che era allora assai difficile da spiegare in base alla teoria, allora prevalente, della
persistenza delle aree oceaniche in tutto l'arco della storia geologica della Terra. All'attuale ritmo di
deposizione, tale spessore di sedimenti comporterebbe un tempo di accumulo di 100 o 200 milioni
di anni, quindi risalirebbe all'incirca al Cretacico, contro una storia geologica dei continenti e degli
oceani che risale ad almeno tre miliardi di anni. Come è possibile che i tre quarti della superficie
terrestre siano stati interessati da processi di sedimentazione soltanto per un periodo di tempo che
rappresenta il 5% della storia terrestre? E inoltre perché tutti i vulcani sottomarini e tutte le isole
oceaniche risultano così giovani? Le nuove ricerche oceanografiche ponevano così grandiosi
problemi da risolvere.
All'inizio degli anni sessanta, Harry H. Hess dell'Università di Princeton e Robert S. Dietz
dell'U.S. Coast and Geodetic Survey, formularono separatamente l'ipotesi che il sistema delle
dorsali oceaniche fosse originato da correnti ascendenti di materiale del mantello, che
successivamente si espandevano verso l'esterno rinnovando i fondi oceanici. Le rocce dei fondi
oceanici verrebbero così ringiovanite, spazzando via lo strato sedimentario: nessuna parte dei bacini
oceanici sarebbe quindi veramente antica. Sebbene questa ipotesi radicale abbia molti punti in suo
favore, essa è sembrata ai più troppo forzata.
Sembra che il polo nord magnetico abbia vagato in modo inspiegabile nel corso degli ultimi due o trecento milioni di anni (linee
colorate a sinistra), come mostra il magnetismo fossile misurato in rocce di varia età nei diversi continenti. Il diagramma si basa su
quello preparato da Allan Cox e Richard R. Doell dell'U.S. Geological Survey. È difficile che il polo possa avere seguito
contemporaneamente dei cammini cosi diversi: evidentemente sono stati i continenti a muoversi. K.M. Creer dell'Università di
Newcastle osservò che i cammini potevano essere riuniti qualora le grandi masse continentali del Sudamerica, dell'Africa e
dell'Australia fossero state raggruppate nel tardo Paleozoico come indicato nella figura di destra.
L'interpretazione che si diede a questo fatto fu che i continenti si erano spostati rispetto alla
posizione attuale del polo magnetico indipendentemente uno dall'altro, dal momento che i tracciati
risultavano differenti per ogni continente. Poiché era improbabile che il polo magnetico si fosse
discostato molto dall'asse di rotazione terrestre, e che l'asse di rotazione si fosse spostato rispetto
alla massa principale della Terra, si concluse che dovevano essere state le masse continentali a
spostarsi sulla superficie della Terra. Inoltre, lo spostamento in latitudine dei continenti meridionali,
andando a ritroso nel tempo, si aveva generalmente verso sud, cioè in accordo con l'ipotesi già
formulata che il continente Gondwana si trovasse nelle regioni antartiche. In breve, la migrazione
dei poli non solo si accordava con la teoria della deriva dei continenti, ma anche con la posizione
nella quale i continenti si sarebbero trovati all'inizio del movimento di deriva. Queste prove non
furono tuttavia sufficienti a smuovere le convinzioni della maggior parte degli scienziati americani.
Fu soltanto la riunione annuale della Società geologica americana, tenuta a San Francisco nel 1966,
che inflisse un primo duro colpo agli oppositori della teoria della deriva dei continenti. Diverse
comunicazioni misero in evidenza nuove sorprendenti prove che stabilivano una connessione fra i
fenomeni dell'espandimento dei fondi oceanici, dell'origine delle dorsali e delle faglie oceaniche, e
quelli della direzione e della durata nel tempo dei movimenti di deriva dei continenti. Inoltre, nuove
spiegazioni dei movimenti che avvengono lungo le faglie hanno fatto concordare con la teoria anche
alcune prove sismiche che in un primo tempo la contraddicevano.
Studiando il magnetismo delle rocce si è osservato che il campo magnetico terrestre, oltre ad avere
cambiato direzione, ha anche avuto frequenti inversioni di polarità. Per studiare quando si erano
verificate tali inversioni, tre esponenti del Geological Survey degli Stati Uniti — Allan Cox, G.
Brent Dalrymple e Richard R. Doell — misurarono accuratamente la magnetizzazione di campioni
di rocce basaltiche che essi datarono mediante la misurazione del quantitativo di argo-40 che si era
formato nelle rocce per decadimento del potassio-40 radioattivo. Essi poterono osservare che le
inversioni manifestavano un ritmo ben definito in un arco di tempo di 3,6 milioni di anni. La loro
scoperta fu presto confermata quando Neil D. Opdyke e James D. Hays della Columbia University
osservarono lo stesso ritmo di inversione negli strati più antichi dei sedimenti oceanici. Si poté così
stabilire che le polarità del campo magnetico si invertirono in determinati periodi.
Uno schema strano nel magnetismo delle rocce dei fondi oceanici veniva nel frattempo messo in
luce da Ronald G. Mason e Arthur D. Raff della Scripps Institution of Oceanography. Usando un
magnetometro trascinato da una nave, essi scoprirono che enormi aree dei fondi oceanici
presentavano uno schema di magnetizzazione a strisce. Mettendo in relazione questo schema di
magnetizzazione con la scoperta delle inversioni di polarità magnetica e con l'idea di Hess che le
dorsali e le fosse oceaniche corrispondessero alla risalita e all'espandimento dei materiali messi in
movimento dalle correnti di convezione magmatica, F.J. Vine, ora a Princeton, e D.H. Matthews
della Università di Cambridge proposero che l'ipotesi del continuo rinnovarsi dei fondi oceanici
potesse essere controllata esaminando lo schema magnetico dei due fianchi di una dorsale oceanica.
La straordinaria scoperta che lo schema risultava effettivamente simmetrico fu fatta da Vine e Tuzo
Wilson, che studiarono i fianchi di una dorsale sottomarina nei pressi dell'Isola di Vancouver.
La storia del campo magnetico terrestre si era impressa nella magnetizzazione delle rocce del
fondo oceanico, sui due lati della dorsale: il magma fuso che via via risaliva verso il centro della
cresta si andava magnetizzando durante il raffreddamento secondo il campo magnetico. Esso veniva
poi spinto verso l'esterno da nuove venute di materia, portando così con sé, nelle rocce ormai
consolidate, l'impronta della direzione del campo magnetico. Poiché i periodi di inversione del
campo magnetico erano noti, la distanza fra i complessi rocciosi, denotanti un campo magnetico
invertito, forniva la misura dell'espandimento del fondo oceanico (si veda l'illustrazione seguente).
A questo importante studio segui subito quello di James R. Heirtzler, W.C. Pitman, G.O. Dickson e
Xavier Le Pichon, che dimostrarono come analoghe strutture simmetriche si potevano individuare
negli oceani Pacifico, Atlantico e Indiano. Questi studiosi scoprirono in effetti dei punti
riconoscibili nella storia delle inversioni del campo magnetico fino a circa 80 milioni di anni fa,
ossia fino al periodo cretacico. Essi tracciarono le isocrone, ossia le linee di eguale età, su vaste aree
dei fondi oceanici, rendendo cosi possibile la loro datazione e il riconoscimento della direzione e
dell'entità dei loro movimenti laterali, semplicemente conducendo un rilievo magnetico. Si può ben
immaginare cosa ciò significhi per la teoria della deriva dei continenti.
La prova dell'espandimento del
fondo oceanico è stata ottenuta
determinando la polarità del
magnetismo fossile delle rocce
che si trovano sui due fianchi
delle dorsali oceaniche. Nello
schema, le rocce di polarità
normale, o attuale, sono indicate
in colore, le rocce a polarità
invertita sono invece rappresen-
tate in grigio. Lo spostamento fra
i due blocchi rappresenta una
delle fratture trasversali. Per
ragioni di simmetria, è ragione-
vole pensare che le rocce siano
risalite allo stato fuso o semi-
fuso e che si siano poi spinte
gradualmente verso l'esterno
della dorsale. Questo schema è
basato sui lavori di vari studiosi.
Tuttavia questa e altre nuove scoperte non implicano necessariamente la deriva dei continenti:
l'espandimento dei fondi oceanici potrebbe anche verificarsi senza la deriva. Nondimeno va rilevato
che la direzione e l'entità dei movimenti sia dell'espandimento dei fondi oceanici sia della deriva dei
continenti sono perfettamente compatibili. Soprattutto, la principale obiezione che veniva fatta alla
teoria della deriva, ossia quella riguardante l'energia necessaria allo sviluppo di movimenti di tale
entità, non ha più ragione di esistere.
Tornando alle passate discussioni sulla teoria della deriva, è interessante osservare come ogni
nuova prova che veniva portata in suo favore si trovava contrastata da prove contrarie. La
ricostruzione di Wegener, per esempio, fu combattuta da molti geologi con argomentazioni
analoghe e dettagliate. Gli argomenti delle glaciazioni permo-carbonifere del Gondwana furono
contrastati da Daniel I. Axelrod dell'Università di California di Los Angeles, e da altri. Essi
sostennero che la maggior parte delle specie di piante fossili tendono ad essere limitate come
habitat alle latitudini che competono all'attuale posizione dei continenti, ciò che è difficile
conciliare con le intercalazioni dei depositi glaciali. L'idea che le masse continentali che formavano
il supercontinente Gondwana si siano spostate come latitudine fu anche controbattuta da F. G. Stehli
della Case Western Reserve University: i suoi studi indicano che le faune antiche presentano il
maggior numero di specie nella fascia equatoriale e che l'equatore, cosí definito, non ha subito
spostamenti apprezzabili.
La corrispondenza è notevole,
come si può osservare dall'illus-
trazione. L'errore medio risultò
inferiore a un grado sulla maggior
parte del contatto tra le diverse
masse continentali. Assieme ad
alcuni colleghi del Massachusetts
Institute of Technology, pensam-
mo allora di eseguire un ulteriore
controllo sulla corrispondenza
dalle masse continentali mediante
il confronto delle età delle rocce
sulle due sponde dell'Atlantico.
Le tecniche per la determina-
zione dell'età assoluta delle rocce
in base ai minerali radioattivi
erano ormai in grado di fornire molti ragguagli sull'età e la storia geologica sia dei cratoni sia delle
fasce di rocce più recenti. A tale scopo si possono usare due tecniche combinate: la misura dello
stronzio-87, formatosi dal decadimento radioattivo del rubidio-87 su tutto il campione di roccia, e la
misura dell'argo-40, formatosi per decadimento radioattivo del potassio-40 su particolari minerali
separati dalla roccia. Il lavoro fu svolto in collaborazione tra il nostro laboratorio geocronologico e
quello dell'Università di Sào Paulo in Brasile. Abbiamo anche avuto la collaborazione di geologi
che hanno lavorato sulla costa occidentale dell'Africa (Nigeria, Costa d'Avorio, Liberia e Sierra
Leone) e sulle coste orientali del Brasile e del Venezuela. Il gruppo di Sào Paulo (G. C. Melcher e
U. Cordani) esegui le misure di potassio- argo dei campioni di rocce brasiliane, mentre noi
eseguimmo le misure dello stronzio-rubidio su campioni di tutte le provenienze.
I geocronologi europei (specialmente M. Bonhomme in Francia e N. J. Snelling in Gran Bretagna)
avevano fatto un lavoro da pionieri sulla geologia precambriana delle ex-colonie e protettorati
dell'Africa occidentale. All'inizio notammo con grande interesse il brusco limite tra le province
geologiche del Ghana e della Costa d'Avorio, la cui età risultò di circa due miliardi di anni, e le
province geologiche del Dahomey e della Nigeria, le cui rocce risultarono avere una età sui seicento
milioni di anni. Il limite raggiunge la costa oceanica presso Accra nel Ghana. Se il Brasile fosse
stato unito all'Africa seicento milioni di anni fa, il limite fra le due province geologiche avrebbe
dovuto trovarsi, in Sudamerica presso la città di Sào Luís, sulla costa nord-orientale del Brasile. Il
nostro primo obiettivo fu quindi quello di datare le rocce in prossimità di Sà'o Luís.
Con grande soddisfazione potemmo cosí constatare che l'età delle rocce ricadeva nelle due
categorie già riscontrate sulla costa africana: le rocce con un'età di due miliardi di anni si trovavano
a occidente, quelle di seicento milioni di anni a oriente di un confine collocato esattamente là ove
era stato previsto. Si sarebbe detto che un frammento dell'antico cratone dell'Africa occidentale era
rimasto sul continente sudamericano.
Il tentativo di stabilire i collegamenti fra province geologiche della stessa età mostra come il Sudamerica e l'Africa fossero
presumibilmente congiunti circa 200 milioni di anni fa. Le aree scure rappresentano gli antichi blocchi continentali, chiamati cratoni,
le rocce dei quali hanno un'età di almeno due miliardi di anni. Le aree chiare indicano le fasce di corrugamento più recente; si tratta
di bacini di geosinclinale ove si accumularono grandi spessori di sedimenti e rocce vulcaniche, che furono successivamente corrugati
e intrusi da materiale igneo, con formazione di graniti e altri corpi intrusivi e metamorfici. La maggior parte di questi complessi
hanno una età compresa fra 450 e 650 milioni di anni, ma alcuni risalgono tuttavia a 1100 milioni di anni fa. I punti indicano i luoghi
di prelievo delle rocce datate da molti laboratori, incluso quello dell'autore al Massachusetts Institute of Technology. I punti pieni
indicano le rocce di oltre due miliardi di anni; i punti vuoti le rocce più recenti. La regione nei pressi di So Luís è una parte del
cratone africano rimasto sulla costa brasiliana.
Nel lavoro che segui non trovammo alcuna incongruenza nelle età delle rocce di molte province
geologiche su entrambe le sponde dell'Atlantico (si veda l'illustrazione precedente). Anche gli
andamenti strutturali dei complessi rocciosi, dove erano noti, si adattavano assai bene e così le
caratteristiche minerarie dei singoli complessi rocciosi come le fasce mineralizzate a manganese,
ferro, oro, e stagno, che sembravano seguire uno schema analogo nelle zone corrispondenti delle
due coste.
Ci si può chiedere se un tale confronto può essere fatto anche per altre masse continentali. In una
certa misura ciò è possibile. Sfortunatamente il processo che conduce alla separazione e
all'allontanamento dei continenti sembra iniziare dalle zone di ringiovanimento geologico fra i
cratoni, perché tali zone sono anche quelle di minore resistenza della crosta terrestre. Per essere in
grado di ricostruire la posizione originaria dei blocchi continentali è necessario che la separazione
sia avvenuta secondo una linea trasversale alle strutture e alle fasce di età diversa. Nell'Atlantico
settentrionale questo non è avvenuto, ma le aree continentali furono simultaneamente interessate da
un'evidente fascia orogenetica nel Paleozoico (si veda l'illustrazione successiva). Questa fascia
interessa la regione dei monti Appalachi e le aree costiere del Nordamerica, con una
sovrapposizione lungo la costa dell'Africa occidentale, quindi si divide in due rami: uno interessa le
Isole britanniche e la costa atlantica della Scandinavia e della Groenlandia; l'altro piega a est verso
l'interno dell'Europa. Le varie parti di questa fascia orogenetica sono in effetti interessate dalla
sovrapposizione di almeno quattro distinte fasi orogenetiche. Tutte e quattro queste fasi sono
rappresentate sulle due sponde dell'Atlantico settentrionale: tale perfetta corrispondenza è assai
difficile da spiegare se non si ammette l'ipotesi che a quel tempo i continenti fossero riuniti in un
unico blocco.
I collegamenti delle regioni nord-
atlantiche sono più difficili da provare
di quelli dell'Atlantico meridionale.
Questo tentativo di ricostruire una
porzione della Laurasia antecedente
alla deriva si basa sulle antiche catene
corrugate. La fascia scura rappresenta
la geosinclinale del Paleozoico
inferiore e medio (470-350 milioni di
anni fa). La fascia grigia indica la
geosinclinale del Paleozoico supe-
riore (350-200 milioni di anni fa). La
seconda si sovrappone alla prima nel
nord dei monti Appalachi, nell'Irlanda
e nell'Inghilterra meridionali, quindi
diverge verso est. Su entrambe le
sponde dell'Atlantico settentrionale si
riscontrano quattro distinti periodi
orogenetici sovrap-posti, il che rende
assai probabile che le aree interessate
fossero un tempo adiacenti.
Le connessioni dell'Antartide
Gli ampi rilevamenti geologici compiuti di recente nell'Antartide sono risultati assai proficui per la
ricostruzione dell'antico supercontinente di Gondwana. Prima della fine del Permico soltanto
l'Antartide orientale esisteva come continente, rappresentato dalle zone corrugate delle montagne
transantartiche. Queste sono costituite da due distinte geosinclinali (si veda l'illustrazione a pag.
76). Quella interna comprende sedimenti precambrici e del Cambrico antico, corrugati e intrusi da
rocce ignee nel Cambrico superiore e nell'Ordoviciano inferiore (circa 500 milioni di anni fa). Le
rocce della geosinclinale interna hanno un'età simile a quella che si riscontra negli altri frammenti
del Gondwana, indicata dai coralli cambrici del genere Archaeocyatha. La geosinclinale esterna è
formata da sedimenti del Paleozoico inferiore che, come avvenne negli Appalachi settentrionali,
furono corrugati e intrusi da rocce ignee durante il Paleozoico medio-superiore e, successivamente,
ricoperti dalla citata tipica successione di Gondwana, con depositi glaciali e di carbone alternati. Si
direbbe che tracce di eventi geologici assai simili si possono riscontrare nell'Australia orientale. I
calcari corallini Archaeocyatha che affiorano a nord di Adelaide seguono il margine di una
geosinclinale più antica che comprende sedimenti del tardo Precambrico. Successivamente, più a
est, vi fu un grande accumulo di sedimenti del Silurico e del Devonico inferiore nella fossa della
Tasmania. I corrugamenti e le iniezioni di rocce ignee sono avvenuti in questa area di geosinclinale
per lo più nel Devonico inferiore e medio (circa 350 milioni di anni fa). La successiva copertura
sedimentaria comprende una successione di Gondwana assai simile a quella dell'Antartide.
Vi sono anche evidenti prove in favore di una connessione tra l'Australia e l'India, particolarmente
nei bacini sedimentari permici dei due blocchi continentali e nella successione carbonifera di
Gondwana. Strati calcarei contenenti conchiglie di Productidi si riscontrano nei livelli superiori
delle successioni, in entrambi i continenti. Vi è anche un'evidente correlazione fra le
mineralizzazioni di ferro dello Yampi Sound, nell'Australia nord-occidentale, e del Singhbhum in
India.
L'illustrazione seguente rappresenta una ricostruzione del Gondwana basata sugli elementi che
sono stati fin qui esposti. Le tre masse continentali dell'Antartide, dell'Australia e dell'India sono
state fatte combaciare non secondo la linea di costa attuale, bensì considerando le forme dei
continenti quali risultano alla profondità di 1000 metri sotto il livello del mare. Come si può vedere,
le masse continentali così definite combaciano bene. La connessione di dettaglio delle tre masse
continentali anzidette con l'Africa sudorientale è invece ancora in discussione, poiché sono per lo
più assenti le strutture trasversali ai margini continentali, che permettono di stabilire i punti di
contatto. Ho tuttavia ritenuto di comprendere anche l'Africa nella figura, per mostrare come
anch'essa possa combaciare sulla base dei limitati dati cronologici che si hanno delle rocce
dell'Antartide.
Questa disposizione delle masse continentali nel tardo Paleozoico va considerata alla stregua di
una semplice ipotesi di lavoro. Spetta ai geocronologi di controllare in dettaglio ogni contatto e di
stabilire le correlazioni in base all'età delle rocce, mentre è compito dei geologi trovare le
corrispondenze fra i lineamenti strutturali e le successioni delle rocce sui due lati delle linee di
possibile contatto. Un punto di collegamento particolarmente interessante potrebbe risultare da uno
studio in corso sui limiti fra depositi marini glaciali profondi e poco profondi e sulle tilliti
continentali attorno a quella che sembra essere stata una forma embrionale di bacino oceanico, al
tempo nel quale l'Antartide si stava separando. Questo studio sull'antica posizione dell'Antartide,
che è condotto da L.A. Frakes e John C. Crowell dell'Università di California di Los Angeles,
potrebbe fornire l'elemento chiave per la soluzione del problema. Uno studio sulla dettagliata
correlazione fra le piante fossili dell'Antartide e quelle delle masse continentali adiacenti è in corso
da parte di Edna Plumstead dell'Università di Witwatersrand, e potrebbe anch'esso fornire elementi
sulle connessioni fra i blocchi.
L'età dell'Atlantico
Per quanto riguarda l'inizio dello smembramento del supercontinente Gondwana, una delle
migliori prove è costituita dall'età dei sedimenti sottomarini al largo della costa occidentale
dell'Africa. Le perforazioni eseguite attraverso questi sedimenti, fino al basamento antico di rocce
non sedimentarie, mostrano come essi siano relativamente giovani, non anteriori al Mesozoico
medio (circa 160 milioni di anni). Se l'Atlantico meridionale fosse esistito per la maggior parte dei
tempi geologici, il continente africano avrebbe dovuto avere una vasta piattaforma sedimentaria per
l'intero sviluppo del suo margine occidentale. La piattaforma continentale avrebbe dovuto
comprendere sedimenti che risalgono nel tempo sino all'età degli antichi cratoni. Invece non è così,
in quanto risulterebbe che la spaccatura abbia cominciato ad aprirsi nella sua parte settentrionale,
nel Triassico medio, e che si sia andata allargando progressivamente verso sud fino alla definitiva
separazione delle masse continentali che avvenne nel Cretacico. D'altro canto si direbbe che la costa
orientale dell'Africa avesse iniziato ad aprirsi un po' prima, cioè nel Permico.
Con l'accettazione delle teorie dell'espandimento dei fondi oceanici e della deriva dei continenti si
può ben dire che i problemi di fondo della geologia cominciano ad avviarsi alla soluzione. Sebbene
non universalmente accettata nei particolari, la spiegazione dei fatti fondamentali può essere la
seguente.
Ecco un tentativo di ricostruzione di
una parte del Gondwana, in cui
sono stati riuniti l'Antartide
orientale, l'Africa. l'Australia, il
Madagascar e l'India. Le forme
delle masse continentali sono
assunte in corrispondenza della
isoipsa di 1000 metri sotto il livello
del mare. Le geosinclinali del tardo
Precambrico e del Paleozoico
dell'Australia orientale possono
essere correlate con quelle delle
montagne transantartiche. I
profondi bacini permici della parte
nord-occidentale dell'Australia si
ricollegano a quelli dell'India. Altre
correlazioni seno fornite dai
depositi glaciali, dalla fauna e dai
depositi minerari.
Da lungo tempo si è osservato che catene di montagne, vulcani e terremoti non sono distribuiti
casualmente sulla superficie della Terra ma si trovano invece lungo zone generalmente ristrette e
bene individuabili. Per giustificare tali evidenti indicazioni di instabilità della crosta terrestre, sono
state proposte molte ipotesi. Ognuna di esse si è appoggiata ai concetti più disparati: l'espansione
globale, la contrazione globale, l'effetto delle forze di marea e il sollevamento o la fusione di grandi
porzioni della crosta terrestre. Di tanto in tanto emergeva un'altra spiegazione, la deriva dei
continenti, ma essa era sgradita a molti geofisici poiché sembrava in contrasto con quanto si sapeva
delle proprietà meccaniche della crosta terrestre. Ciononostante la deriva dei continenti sembrava
fornire una spiegazione alla stupefacente somiglianza tra continenti distanti migliaia di chilometri.
Essa inoltre spiegava perché diversi continenti come America meridionale e Africa avessero forme
perfettamente complementari.
Nel corso degli ultimi dieci anni la deriva dei continenti ha trovato un solido avallo nello sviluppo
del concetto di espansione dei fondali oceanici, proposto da Harry H. Hess della Princeton
University: la crosta costituente i fondali dell'oceano viene continuamente allontanata rispetto a una
stretta frattura che si trova al centro di una dorsale il cui sviluppo può essere seguito in tutti i
principali bacini oceanici. Dal mantello terrestre risale il magma di tipo basaltico che riempie la
frattura e genera continuamente nuova crosta oceanica.
L'espansione dei fondali oceanici avrebbe potuto essere una delle tante ipotesi geologiche
affascinanti ma difficili da provare; fortunatamente invece la polarità del campo magnetico terrestre
periodicamente si inverte e tale fenomeno ha fornito la prova irrefutabile dell'espansione dei fondali
oceanici. Si era infatti osservato, sulla base di rilevamenti magnetometrici, che le rocce dei fondali
oceanici non hanno una magnetizzazione uniforme, bensì a strisce parallele alla più vicina dorsale
medio-oceanica, lungo le quali l'intensità della magnetizzazione cambia bruscamente.
Questa ipotesi ricevette una conferma decisiva da una serie di rilevamenti magnetometrici
compiuti perpendicolarmente alle dorsali medio-oceaniche (si veda l'articolo La conferma della
deriva dei continenti di P. M. Hurley, in « Le Scienze », n. 3, novembre 1968). Per di più fu messa a
punto una cronologia delle inversioni del campo magnetico terrestre che mostrò che la velocità di
espansione dei fondali oceanici è di 18 cm all'anno.
Attualmente è chiaro che quasi tutta la crosta che costituisce i fondali degli oceani ai giorni nostri
si è formata nel corso degli ultimi 200 milioni di anni ossia durante l'ultimo 5% della storia
geologica della Terra. Il fatto che si generi continuamente nuova crosta significa che o la Terra ha
subito un'espansione veramente considerevole oppure che la crosta si è consumata alla stessa
velocità con cui veniva generata. Vi sono indicazioni sufficientemente convincenti che la Terra non
ha subito, durante gli ultimi 200 milioni di anni, un'espansione globale superiore al 2%. Ciò
significa, in linea generale, che sulla Terra vi è un sistema di movimenti superficiali che conducono
la crosta dalle zone in cui si genera a zone in cui si consuma.
Il concetto dell'espansione dei fondali oceanici è stato ora incluso insieme con quello della deriva
dei continenti in un unico modello chiamato teoria della tettonica a zolle crostali. La parte
geometrica della teoria descrive la litosfera come costituita da una serie di zolle rigide. La parte
cinematica della teoria conduce alla conclusione che tali zolle sono in costante movimento relativo:
esse possono scivolare l'una accanto all'altra, possono allontanarsi l'una dall'altra rispetto a una
dorsale oceanica che le separa oppure possono muoversi l'una verso l'altra, nel qual caso è
necessario che una delle due si consumi. Ora esamineremo quali tipi di instabilità della crosta
terrestre possano essere chiariti in chiave di tettonica a zolle crostali.
Terremoti
La maggior parte dei terremoti avviene lungo fasce ristrette della crosta terrestre che si
congiungono l'una all'altra delimitando regioni che sono meno attive dal punto di vista sismico. Le
zone ad alta sismicità sono associate a tutta una serie di strutture caratteristiche, come le fosse
tettoniche, le dorsali oceaniche, le zone orogeniche, le zone ad elevata attività vulcanica e le
profonde fosse oceaniche.
La litosfera, ossia l'involucro più esterno della Terra, è formata da un mosaico di zolle. Secondo il modello della tettonica a zolle
crostali, queste ultime sono frammenti rigidi sottoposti a costante moto relativo. I limiti tra le zolle sono di tre tipi: assi di dorsali ove
le zolle divergono e si genera nuova crosta; faglie trasformi, ove le zolle slittano l'una accanto all'altra e zone di subduzione dove le
zolle convergono e una delle due sprofonda al di sotto del margine avanzante dell'altra. I triangoli indicano proprio quest'ultimo.
Le zolle sismiche segnano i limiti delle zolle le quali sono invece sufficientemente inattive dal
punto di vista sismico. Vi sono quattro tipi di zone sismiche che possono essere tra loro distinte sia
su basi morfologiche sia su basi geologiche.
Il primo tipo è rappresentato da strette fasce caratterizzate da elevato flusso di calore superficiale e
da un'attività vulcanica di tipo basaltico che avviene lungo l'asse di dorsali medio- -oceaniche ove i
terremoti hanno ipocentro poco profondo (meno di 70 km). Gli assi delle dorsali sono naturalmente
i luoghi di attività dell'espansione dei fondali medio-oceanici. In Islanda, ove la dorsale Medio-
Atlantica affiora al di sopra del livello del mare, la velocità di espansione è stata misurata e si è
stabilito che è di circa 2 cm all'anno.
Il secondo tipo di zona sismica è caratterizzato da terremoti poco profondi e dall'assenza di attività
vulcanica. Buoni esempi possono esserne la faglia di San Andreas in California così come la
regione che si estende attorno alla faglia dell'Anatolia nella Turchia settentrionale; lungo entrambe
le faglie sono stati misurati considerevoli spostamenti orizzontali (si veda anche l'articolo La faglia
di San Andreas di D. L. Anderson, in «Le Scienze », n. 42, febbraio 1972).
Il terzo tipo di zona sismica è intimamente connesso con le fosse oceaniche profonde associate a
sistemi di archi insulari come quelli che bordano l'Oceano Pacifico occidentale. In tali zone si
possono verificare terremoti superficiali, intermedi (da 70 a 300 km) o profondi (da 300 a 700 km) a
seconda della localizzazione dell'ipocentro lungo la porzione fortemente inclinata dalla zolla
litosferica che delimita la fossa. Così gli epicentri dei terremoti (cioè i punti in superficie,
sovrastanti l'ipocentro o fuoco) definiscono l'andamento in superficie di una struttura geologica che
si immerge nell'interno della Terra a partire dalla fossa. Tali zone inclinate verso l'interno della
Terra e altamente attive dal punto di vista sismico, chiamate zone o piani di Benioff, si trovano al di
sotto di catene vulcaniche attive e sono dotate di forma varia e complessa.
Il quarto tipo di zona sismica è ben rappresentato dalla fascia sismica che si estende da Burma fino
al Mediterraneo. Si tratta di un'ampia e diffusa zona continentale in cui terremoti generalmente
superficiali sono associati a elevate catene montuose che chiaramente debbono la loro esistenza alla
presenza di grandi forze di compressione. Localmente si verificano anche terremoti intermedi, come
in Romania e nell'Hindu Kush. I terremoti a ipocentro profondo sono rari: terremoti di questo tipo
sono stati registrati in alcune località, come per esempio a settentrione della Sicilia al di sotto dei
vulcani delle Eolie.
Un terremoto ha luogo nel momento in cui le tensioni accumulate giungono al punto in cui le
rocce della crosta terrestre si fratturano. La fratturazione è una conseguenza del comportamento
rigido del corpo roccioso, in contrasto con il comportamento plastico che consente di assorbire
lentamente le tensioni. Le prime onde sismiche ad allontanarsi dalla zona di frattura (ipocentro)
sono onde di compressione e successiva rarefazione generate dall'improvvisa emissione di energia
elastica. Le stazioni sismologiche che dopo un terremoto ricevono le prime onde possono essere
assegnate a uno dei quattro quadranti geografici. In due dei quadranti, che si trovano da banda
opposta l'uno rispetto all'altro, le prime onde sono di compressione; negli altri due sono di
rarefazione. I quadranti definiscono così l'orientazione di due piani nodali su uno dei quali un
improvviso slittamento ha probabilmente provocato il terremoto. L'intersezione dei due piani nodali
è la cosiddetta direzione nulla, parallelamente alla quale di fatto non si verifica alcuna
deformazione. La diagonale del quadrante in cui le prime onde sono di compressione indica la
direzione dello sforzo principale minimo, parallelamente alla quale la deformazione è di tipo
estensionale. La diagonale del quadrante in cui le prime onde sono di rarefazione indica la direzione
lungo la quale lo sforzo principale è massimo e lungo la quale vi è una deformazione di tipo
compressionale. Lynn R. Sykes del Lamont-Doherty Geological Laboratory della Columbia
University, ha applicato questo tipo di analisi alle varie fasce sismiche del mondo e ha constatato
che sistematicamente gli assi delle dorsali sono sottoposti a tensione, che vi è movimento laterale
nel secondo tipo di zone sismiche, che nel terzo e nel quarto vi dominano fenomeni di
compressione. Così la sismologia sottolinea che esistono tre tipi di margini di zolle crostali: margini
rispetto ai quali le zolle divergono essendo spinte in direzioni opposte; margini lungo i quali le zolle
slittano l'una accanto all'altra; margini rispetto ai quali le zolle convergono essendo spinte l'una
verso l'altra. Poiché i materiali rocciosi non si possono accumulare indefinitamente nelle zone di
compressione, ne consegue che da qualche parte vi devono essere zone in cui le zolle vengono
consumate.
Il mosaico di zolle
È possibile quindi costruire un modello della dinamica crostale globale basato su un mosaico di
zolle ciascuna delle quali è delimitata da uno o più dei tre tipi di margini descritti. Lungo l'asse delle
dorsali le zolle si separano mentre tra l'una e l'altra si generano nuove porzioni di superficie per
aggiunta continua di nuova crosta oceanica lungo i margini in via di allontanamento. Lungo le
faglie trasformi le zolle scivolano l'una accanto all'altra mentre le superfici in gioco rimangono
immutate. Nelle zone di subduzione una zolla si consuma sprofondando nel mantello al di sotto del
margine in avanzata di un'altra zolla.
La dimensione delle zolle crostali è assai variabile: dalle sei zolle principali, una delle quali
trasporta praticamente tutto l'Oceano Pacifico, alle zolle piccolissime, come quella che comprende
sostanzialmente la sola Turchia. I margini delle zolle non coincidono necessariamente con i margini
continentali; la maggior parte di questi ultimi in effetti coincide con zone del tutto tranquille sia dal
punto di vista sismico che vulcanico. Le zolle crostali dunque possono coinvolgere
contemporaneamente zone continentali e zone oceaniche oppure solo le une o le altre. Questa
constatazione supera una delle obiezioni tradizionali alla deriva dei continenti e cioè la difficoltà
che una massa continentale, geologicamente debole, si faccia strada attraverso la crosta oceanica
che lo è di meno. Secondo il modello della tettonica a zolle crostali infatti, continenti e oceani sono
entrambi trasportati dallo stesso meccanismo dinamico.
Un'occhiata ai margini della zolla africana mostra due importanti conseguenze del moto delle
zolle. La maggior parte del limite è costituito dall'asse di una dorsale che si estende dall'Atlantico
settentrionale fin nell'Oceano Indiano e nel Mar Rosso; cosicché l'intera zolla africana si deve
estendere in ampiezza. Un comportamento di questo tipo implica necessariamente che vi devono
essere zolle in qualche altra parte del globo che si riducono di dimensioni. La seconda conseguenza
del progressivo aumento di dimensioni della zolla africana è che la dorsale Carlsberg nell'Oceano
Indiano si sta allontanando dalla dorsale Medio-Atlantica: ciò dimostra un altro elemento essenziale
della cinematica delle zolle e cioè che il loro moto è relativo. Non esiste un sistema di coordinate in
base al quale possa essere definito un moto assoluto salvo quello per cui un particolare margine di
zolla viene assunto come punto di riferimento e arbitrariamente considerato fisso.
L'assunto basilare che le zolle sono rigide è fondamentale per la tettonica a zolle e appare
largamente giustificato dal fatto che ancora oggi quasi tutti i margini continentali possono essere
fatti coincidere tra loro non avendo perduto la loro fisionomia originaria. Si tenga conto che in tali
ricostruzioni il margine continentale è scelto come coincidente con l'isobata — 2000 m
sull'adiacente scarpata continentale. Ricostruzioni di questo tipo possono essere fatte con precisione
anche maggiore tra coppie di anomalie magnetiche simmetricamente disposte da un lato e dall'altro
dell'asse di una dorsale: se le zolle si fossero deformate nel corso della loro storia l'incastro tra le
due forme sarebbe impossibile. A ulteriore conferma di tale rigidità delle zolle vi sono i profili
sismici a riflessione che mostrano come i sedimenti deposti sopra la crosta oceanica in espansione
rispetto all'asse della dorsale formino livelli estesi e indisturbati.
Il fatto che zolle rigide siano in moto relativo su una Terra supposta sferica significa che ogni
spostamento tra una zolla e l'altra può essere descritto come una rotazione attorno a un asse
passante per il centro stesso della Terra. L'intersezione di tale asse con la superficie della Terra è
chiamato polo di rotazione.
Gli assi di rotazione possono essere prescelti (figura a sinistra) in modo tale che un gruppo di due o più punti sulla superficie di una
sfera (A, B, C) possono essere mossi secondo una rotazione rigida attorno all'asse fino a raggiungere nuove posizioni (A', B', C') tali
da conservare l'originaria geometria del gruppo. Si può trovare un asse unico soltanto se è nota la posizione iniziale e finale di uno o
più punti. Similmente il moto relativo di due zolle rigide può essere descritto come la rotazione rigida attorno ad un asse di rotazione
opportunamente prescelto (figura a destra). La zolla A è considerata fissa mentre la zolla B è ruotata in senso antiorario rispetto
all'asse di rotazione. Se la zolla B ruota di un angolo , nuova superficie si aggiunge simmetricamente a entrambe le zolle lungo
l'asse della dorsale, il quale a sua volta si sposta di un angolo pari alla metà di .
Faglie trasformi che dislocano porzioni dell'asse di una dorsale o zone di subduzione in cui il
margine in avanzata appartiene alla stessa zolla, mantengono la stessa lunghezza. Laddove invece le
faglie trasformi dislocano zone di subduzione in cui il margine in avanzata appartiene una volta
all'una e una volta all'altra zolla, si allungano o si accorciano a seconda che i margini in avanzata
convergano o divergano. Una faglia trasforme che congiunge l'asse di una dorsale a una zona di
subduzione aumenta o diminuisce di lunghezza a seconda della zolla su cui si trova il margine in
avanzata.
Se sono noti gli assi di rotazione e le velocità angolari tra due coppie di zolle (A-B e A-C), si
possono calcolare gli assi e la velocità angolare di una terza coppia (B-C).
Il terzo asse e la velocità angolare di rotazione (figura a sinistra) sono definiti come la somma vettoriale degli altri due. Se si
conoscono le velocità angolari di due rotazioni rigide attorno a due assi (1 e 2) passanti attraverso il centro di una sfera, si può dalla
loro somma vettoriale calcolare la velocità angolare attorno a un terzo asse (3) che giace nello stesso piano degli altri due.
Nell'esempio illustrato i poli degli assi di rotazione 1 e 2 distano 900 e le velocità angolari attorno ad essi ( , e ) sono uguali
cosicché il polo del terzo asse si trova a metà di un cerchio massimo tra i poli 1 e 2. Similmente (figura a destra) se si conoscono gli
assi di rotazione e le velocità angolari che descrivono il moto relativo delle zolle A e B e delle zolle B e C, si può accertare l'asse di
rotazione (BG) del moto relativo delle zolle A e C.
Ciò significa che se i segmenti dell'asse di una dorsale coincidono con i limiti tra A e B e tra A e
C, si può calcolare il moto relativo tra B e C. Xavier Le Pichon del Centro di studi oceanografici e
di geologia marina di Brest in Francia, ha sviluppato la tecnica per valutare il moto relativo tra le sei
zolle maggiori; è stato cosí in grado di individuare le direzioni di convergenza e le velocità
caratteristiche di tutte le principali zone di subduzione.
Con la stessa tecnica Pitman ha valutato il moto relativo fra Africa ed Europa nel corso degli
ultimi 80 milioni di anni. Durante questo periodo, America settentrionale e Africa sono state parti di
zolle separate che si allontanavano muovendosi attorno a una serie di assi di rotazione diversi
mentre l'Oceano Atlantico centrale andava aprendosi. L'America settentrionale e l'Europa si sono
allontanate in modo simile ma muovendosi attorno a una serie diversa di assi di rotazione. Se ne
deduce perciò che vi è stato un moto relativo fra Africa ed Europa. Tale movimento è stato piuttosto
complesso ma l'effetto finale è stato quello di eliminare quasi completamente una regione oceanica,
inizialmente assai ampia, che separava i due continenti.
Dato che le dislocazioni relative avvengono lungo paralleli di rotazione, il moto relativo fra tre
zolle non può essere descritto dall'usuale triangolo del vettore velocità salvo che istantaneamente in
un punto. Se tuttavia si ha interesse ai movimenti relativi in un'area della superficie terrestre così
piccola da poter essere considerata piana (con il risultato che i paralleli di rotazione sono
virtualmente segmenti di linee rette) il triangolo del vettore velocità è uno strumento adatto per
descrivere il moto relativo. Un'area piccola ma di grande interesse è quella in cui tre margini di
zolla si riuniscono a formare una giunzione tripla. Le giunzioni triple sono richieste dalla rigidità
stessa delle zolle: è il solo modo in cui il limite tra due zolle rigide può terminare. D. P. McKenzie
della Università di Cambridge e W. J. Morgan della Princeton University, hanno analizzato con il
metodo del triangolo del vettore velocità tutte le possibili forme di giunzione tripla e hanno
dimostrato che tali giunzioni possono essere stabili o instabili a seconda che esse siano in grado o
meno di conservare la loro geometria mentre evolvono.
Quattro tipi di giunzioni triple: a sinistra situazione e
triangolo delle velocità al tempo t0; a destra la loro
configurazione al tempo t1 . Gli assi delle dorsali
sono le linee continue e in colore; le zone di
subduzione sono le linee continue e nere; le faglie
trasformi sono in grigio. Una giunzione tripla fra le
tre dorsali (schema 1) è sempre stabile. Quando a
una giunzione tripla si incontrano tre zone di
subduzione (schemi 2 e 3) e due margini avanzanti
che delimitano la zolla A non sono allineati, la
giunzione tripla è stabile soltanto se il vettore AVC è
parallelo al margine avanzante della zolla C (2). In
caso contrario (3) la giunzione tripla si sposta.
Cosicché in un certo istante compreso tra to e t1, la
giunzione tripla si sposta oltre il punto X. Prima di
questo istante il movimento relativo è definito da
AVC, dopo lo è da AVB. L'ultimo schema (4) illustra
il caso di una giunzione che coinvolge
contemporaneamente due dorsali e una faglia
trasforme: dalla configurazione in to essa evolve
rapidamente verso la situazione in t1.
Le velocità delle onde trasversali poi aumentano con la profondità con un marcato incremento
nell'intervallo compreso tra 350-450 km e 700 km.
Questi dati sismici indicano che un involucro esterno rigido dello spessore di 70-150 km (la
litosfera) poggia al di sopra di uno strato meno rigido e più caldo (la astenosfera) che diventa via via
più viscoso con l'aumentare della profondità. Lo spessore della litosfera dunque coincide
probabilmente con lo spessore delle zolle rigide, mentre si può constatare che essa è discontinua ai
loro margini. I terremoti costituiscono un mezzo per sondare la validità di questa ipotesi dato che la
rigida e fredda litosfera ne costituisce probabilmente la sorgente. La distribuzione dei terremoti
fornirebbe dunque una guida per valutare lo spessore della litosfera e per individuarne l'andamento
quando, nelle zone di subduzione, essa discende nell'interno della Terra. Le dorsali e le faglie
trasformi sono caratterizzate da terremoti la cui profondità si estende fino a 70 km nell'interno della
Terra. La zona inclinata lungo la quale si distribuiscono gli ipocentri dei terremoti intermedi e
profondi indica il progressivo sprofondamento nelle zone di subduzione della litosfera nella
astenosfera dove essa viene consumata.
Bryan L. Isacks e P. Molnar del Lamont-Doherty Geological Observatory, analizzando le
registrazioni dei primi im pulsi sismici, hanno individuato le tensioni presenti nelle zolle litosferiche
durante il loro sprofondamento. Essi hanno scoperto che le tensioni sono distribuite nello stesso
modo in cui lo sarebbero se una fredda striscia di litosfera, dopo essersi piegata, scendesse in
un'astenosfera via via più densa incontrando una resistenza sempre crescente. Dove, in profilo, la
litosfera appare curvarsi verso il basso, e cioè nelle zone di subduzione, la sua parte superiore
appare sottoposta a tensione come accade nel caso di un ripiegamento elastico. Dove la litosfera è
scesa solo un poco nell'astenosfera appare sottoposta a tensione nel senso della lunghezza, ciò che
sembra indicare una debole resistenza alla sua discesa. Le zone sismiche inclinate con continuità
rappresentano porzioni della litosfera che sono discese nelle parti più profonde della litosfera: esse
sono caratterizzate da compressione. Ciò sembra indicare che la litosfera viene sottoposta a
compressione mentre va incontrando una resistenza sempre maggiore alla sua penetrazione
nell'astenosfera. Un caso interessante è costituito da quelle particolari zone sismiche in cui appare
una netta discontinuità nella distribuzione degli ipocentri in profondità che sembra indicare una
discontinuità nella litosfera stessa. I terremoti al di sopra della discontinuità indicano uno stato di
tensione in atto; i terremoti al di sotto indicano uno stato di compressione. Sembra evidente in tal
caso che un frammento di litosfera si è spezzato e distaccato dal corpo principale e scende più
velocemente di quest'ultimo.
La cinematica generale delle zolle, cioè il meccanismo con cui si accrescono e si consumano,
richiede la presenza di una qualche forma di trasporto di massa nel mantello terrestre. Il flusso di
calore è più elevato lungo gli assi delle dorsali; esso diminuisce rapidamente a un valore basso
relativamente costante nell'ambito delle zolle per raggiungere un minimo nelle zone di subduzione.
La litosfera dunque può rappresentare un freddo e rigido strato conduttivo limite che viene generato
presso le dorsali calde e distrutto nelle zone di subduzione fredde. Ogni modello accettabile della
geometria della circolazione delle masse nel mantello terrestre deve soddisfare un certo numero di
condizioni.
La zolla litosferica costituita di rocce solidificate costituisce uno strato di conduzione termica al contorno al di sopra dell'astenosfera
fusa o semifusa In questo schema la litosfera è più spessa al di sotto del continente che è trasportato verso una zona di subduzione
ove la zolla sprofonda al di sotto di un'altra zolla. Presso l'asse della dorsale si genera nuova crosta oceanica.
Laddove le zolle discendono entro l'astenosfera, il loro margine anteriore è caratterizzato dalla
presenza di intere catene di vulcani; se ne può dedurre che le rocce vulcaniche sono in qualche
modo connesse con la discesa della zolla. Dato che le rocce vulcaniche sono meno dense dei basalti
della crosta oceanica, è probabile che esse si siano formate per fusione parziale di basalti oceanici
insieme con altro materiale, per esempio altri basalti trascinati dalla zolla entro l'astenosfera. Il
mantello impoverito che costituisce parte della zolla discendente è più denso della astenosfera
ancora intatta attraverso la quale esso discende; ciò perché esso ha subito la rimozione della
frazione basaltica più leggera al di sotto dell'asse della dorsale e perché è più freddo. Perciò, una
volta che una zolla ha cominciato a discendere in una certa zona di subduzione, è probabile che essa
continui finché la zolla che si immerge incontra una resistenza crescente alle maggiori profondità
nella astenosfera.
Dato che la crosta continentale è spessa soltanto 40 km, mentre le zolle sono spesse 70 km o più, i
continenti si comportano come passeggeri passivi al di sopra delle zolle stesse. Nel quadro della
tettonica a zolle, l'espressione « deriva dei continenti » non ha più significato di quella di « deriva
dei fondali oceanici ». Ciononostante, a differenza degli oceani, i continenti impongono alcune
restrizioni al movimento delle zolle. Le strette e ben definite fosse oceaniche e le zone inclinate
lungo le quali si addensano gli ipocentri dei terremoti e che sono regolarmente associate alle fosse,
indicano che la litosfera oceanica viene facilmente consumata per subduzione, probabilmente a
causa del fatto che essa è costituita da crosta sottile e densa. Le zone sismiche intracontinentali
associate con le catene mostrano uno stato di deformazione da compressione presente su vaste aree;
ciò implica che la litosfera continentale è difficile da consumare poiché è costituita da crosta spessa
e relativamente leggera.
All'interno del sistema alpino himalayano vi sono strette zone caratterizzate da una tipica
associazione di rocce, nota come complesso delle ofioliti, la cui composizione e struttura
suggeriscono che esse siano frammenti di crosta oceanica e di mantello terrestre. Se è così, le zone
ofiolitiche indicano le linee lungo le quali i continenti sono entrati in collisione, in seguito alla
contrazione di un oceano, per il consumo di una zolla.
La collisione tra due continenti si
verifica quando una zolla sulla
quale si trova una massa
continentale sprofonda al di sotto
di un'altra zolla che trasporta a sua
volta un'altra massa continentale
(schema 1). Dato che la crosta
continentale è troppo leggera per
sprofondare nella astenosfera.
avviene la collisione che genera le
catene montuose (2). La catena
himalayana si formò evidentemente
quando una zolla che trasportava
l'India entrò, circa 40 milioni di
anni fa, in collisione con l'antica
zolla asiatica. La zolla discendente
può spezzarsi e sprofondare mentre
un'altra zona di subduzione si
genera altrove (3).
Zolle estinte
È ora certo che la tettonica a zolle ha agito durante gli ultimi 200 milioni di anni della storia della
Terra. Durante questo periodo si sono formati pressoché tutti gli oceani attuali mentre altri sono
andati distrutti. Le principali masse continentali erano riunite 200 milioni di anni fa in un solo
supercontinente detto Pangea.
È tuttavia legittimo chiedersi se la scissione del Pangea, avvenuta circa 180 milioni di anni fa, sia
stata il principio della tettonica a zolle. Studi geologici di catene montuose di età superiore ai 200
milioni di anni indicano che anch'esse debbono la loro genesi all'interazione fra zolle ora
scomparse. Le catene montuose uraliano-appalachiano-caledoniane, che sono connesse con l'antico
supercontinente di Pangea, mostrano ristrette fasce nelle quali sono presenti le ofioliti.
Ricostruzione dell'antico continente di Pangea ottenuta incastrando l'una accanto all'altra le masse dei principali continenti. Pangea
cominciò a spezzarsi circa 200 milioni di anni fa lungo una frattura tra Africa e Antartide. Altre fratture consentirono all'America
meridionale, all'Australia e all'India di separarsi e di raggiungere le loro attuali posizioni. Le catene montuose formatesi prima di 260
milioni di anni fa sono indicate dai due fondini che consentono di distinguere le più antiche dalle più recenti. Tali catene indicano
linee di collisione tra frammenti continentali, di epoca antecedente al Pangea. Cosicché una precedente collisione tra America
settentrionale e Africa determinò la formazione della porzione più recente degli Appalachiani circa 260 milioni di anni fa. Tale
collisione spiegherebbe come mai equatore e polo sud di circa 440 milioni di anni fa furono posti, in conseguenza della successiva
formazione del continente di Pangea, l'uno accanto all'altro.
Queste antiche zone ofiolitiche, come quelle più recenti del sistema alpino-himalavano, indicano
ancora oggi la posizione che dovevano occupare oceani attualmente scomparsi. Ciò significa che gli
Urali, per esempio, sono stati determinati dalla collisione di due masse continentali e che le ofioliti
sono state generate da espansione di fondali oceanici in prossimità dell'asse di una dorsale attiva
prima che i continenti fossero spinti l'uno contro l'altro.
Vi sono anche altre indicazioni a sostegno di movimenti orizzontali dei continenti su vasta scala
attivi prima di 200 milioni di anni fa. I depositi glaciali ed altri dati indicano che circa 400 milioni
di anni fa una calotta polare meridionale copriva il Sahara. Nello stesso tempo la parte orientale
dell'America settentrionale si trovava in prossimità dell'equatore. Nella ricostruzione del Pangea tali
posizioni, presso il polo sud per il Sahara e presso l'equatore per l'America nord-orientale, sono
incompatibili: essi indicano necessariamente che Africa e America settentrionale dovevano essere
separate da un oceano largo circa 10.000 km. La contrazione di questo oceano e la conseguente
collisione dell'America settentrionale con l'Africa è stata probabilmente la causa dello sviluppo
delle catene appalachiane (si veda anche l'articolo Geosinclinali, orogenesi e crescita delle masse
continentali, in « Le Scienze », n. 46, giugno 1972). Sembra ragionevole ammettere che lungo le
zone di convergenza delle zolle si siano stabilite lunghe, strette e ben definite zone di corrugamento.
Se è cosi, la tettonica a zolle è stata attiva durante gli ultimi due miliardi di anni.
L'assenza di ben definite zone di corrugamento più antiche di 2 miliardi di anni sembra indicare
invece che in precedenza qualche altro meccanismo, diverso dalla tettonica a zolle così come la si
conosce oggi, determinasse la evoluzione della crosta terrestre. Gli antichi scudi continentali,
regioni che contengono rocce di età superiore ai 2,4 miliardi di anni, sono caratterizzate da una
distribuzione irregolare delle rocce su aree così ampie da poter essere difficilmente giustificate con
processi avvenuti al margine di zolle rigide. Evidentemente gli scudi continentali si stabilizzarono
circa 2,4 miliardi di anni fa e, circa 400 milioni di anni dopo, la litosfera acquisì una rigidità
sufficiente a suddividersi nel mosaico di zolle tipico dei tempi successivi.
Ciò non significa necessariamente che la tettonica a zolle cosi come la si conosce oggi sia
realmente iniziata 2 miliardi di anni fa. Le catene montuose di età superiore ai 600 milioni di anni
non hanno complessi ofiolitici simili a quelli delle catene montuose più recenti: ciò significa che
l'espansione dei fondali oceanici in epoca antecedente a 600 milioni di anni fa, dava luogo a un tipo
differente di crosta oceanica e di mantello. I dati geologici indicano che le zolle possono essere
diventate più spesse e che i margini di zolla possono essere divenuti più specificamente
individualizzati soltanto col trascorrere del tempo.
Un corollario interessante della tettonica a zolle è che essa fornisce una indicazione del fatto che il
volume totale della crosta continentale può essere aumentato col tempo. Si è visto infatti che il
mantello primitivo della astenosfera è soggetto a parziale fusione per liberare un fuso basaltico che
risale e raffredda a formare la crosta oceanica presso l'asse delle dorsali, e che la fusione parziale
della crosta oceanica, compresa in una zolla discendente, può dare luogo a un liquido che può
fuoriuscire alla superficie terrestre sotto forma di vere e proprie catene vulcaniche lungo il margine
di zolla. Le rocce vulcaniche, con le loro inclusioni profonde di fusi che sono cristallizzati prima di
raggiungere la superficie, hanno la stessa composizione complessiva della crosta continentale. Le
catene vulcaniche possono dunque essere luoghi in cui vengono generati frammenti embrionali di
crosta continentale. Dato che essi si trovano sul margine anteriore di una zolla, il loro destino è
quello di entrare in collisione con altre catene vulcaniche o con uno dei diversi tipi di margine
continentale. In tal modo nuove strisce di crosta continentale leggera vengono aggiunte ai margini
continentali.
Come si è visto, l'arrivo di un margine continentale alla zona di subduzione, impedisce l'ulteriore
distruzione della zolla. Cosí le dorsali oceaniche forniscono un mezzo efficace di crescita della
crosta continentale, mentre non sembra esservi un meccanismo atto a distruggerla. Ciò implica che
il volume totale della crosta continentale è aumentato nel corso degli ultimi 2 miliardi di anni. Non
si deve concludere tuttavia che le fasce di nuova crosta continentale siano state aggiunte ai
continenti sotto forma di una successione di anelli concentrici e regolari. In tempi diversi sono state
aggiunte fasce discontinue e irregolari in modo tale da riflettere la complessa interazione dei
margini continentali con il mosaico dei margini di zolla.
Anche se vi sono fenomeni geologici che la tettonica a zolle crostali non è ancora ovviamente in
grado di spiegare e anche se il meccanismo profondo che determina la dinamica della crosta è
oscuro, ciò non costituisce una obiezione di fondo alla teoria. Uno degli errori importanti che molti
geologi hanno fatto nel passato è stato quello di respingere la deriva dei continenti per il solo fatto
che non era chiaro come e perché essa si manifestasse. Il considerevole successo della tettonica a
zolle dipende non soltanto dal fatto che essa consente di collocare in un unico quadro logico
fenomeni diversissimi come l'espansione dei fondali oceanici, la deriva dei continenti. l'attività
sismica, il vulcanismo e l'orogenesi, ma anche dal fatto che essa è stata analizzata dal punto di vista
quantitativo e sperimentata al punto da non essere più contestabile almeno nelle sue linee essenziali.
Settembre 1983
Come si fratturano i continenti
Lo studio del processo attraverso il quale i continenti, nel corso di milioni di anni, si separano e si
deformano, è molto utile per conoscere le proprietà delle zolle che compongono la crosta terrestre.
di Vincent Courtillot e Gregory E. Vink
Secondo la teoria della tettonica a zolle, la crosta terrestre è formata da zolle di circa 100
chilometri di spessore, che si muovono l'una rispetto all'altra e in questo modo si spiegano molti
fenomeni geologici. La distribuzione su scala mondiale dei terremoti e dei vulcani è chiarita in
maniera efficace dai processi di moto che interessano le zolle: la loro formazione in corrispondenza
delle dorsali medio-oceaniche; la loro distruzione quando collidono o quando, nelle zone di
subduzione, si immergono nel mantello; il loro attrito quando scorrono l'una contro l'altra lungo le
cosiddette faglie trasformi. D'altronde, la somiglianza nella forma dei margini di due continenti,
oggi separati da migliaia di chilometri (per esempio il margine orientale dell'America Meridionale e
quello occidentale dell'Africa) mostra che in passato essi si sono spaccati e separati. In altre parole,
in passato i continenti si trovavano su un'unica zolla. Un'ulteriore conferma alla teoria è data dalla
distribuzione dei fossili vegetali e animali sui vari continenti.
Se si suppone che le zolle, muovendosi, non si deformino, i loro moti relativi possono essere
calcolati per mezzo di teoremi matematici che descrivono il moto di un corpo rigido su una sfera. Si
è riusciti così a valutare con notevole precisione il moto della maggior parte delle grandi zolle
terrestri durante gli ultimi 150-200 milioni di anni. D'altro canto i moti delle zolle, che si presume
siano rigide, possono contribuire al massimo a far comprendere la loro cinematica. Se si suppone
che le zolle siano rigide, si deve anche supporre che i loro margini abbiano una geometria fissa, il
che impedisce di proporre un modello realistico di come la crosta continentale si fratturi. Per
esempio si dovrebbe pensare che la frattura che diede origine all'America Meridionale e all'Africa
debba essere avvenuta istantaneamente lungo una linea: un evento, dunque, estremamente
improbabile.
In realtà, vi sono numerose prove che la crosta continentale effettivamente si deformi. Le catene
montuose che spesso sono il risultato della collisione di zolle ne sono la testimonianza più evidente.
Inoltre, la distribuzione dei terremoti ai margini di zolla fa pensare che questi ultimi non siano tanto
stretti, mentre il verificarsi di terremoti ben lontano dai margini suggerisce che al centro di una zolla
si liberi una tensione e si realizzi perciò una deformazione. Il lavoro che descriveremo in questo
articolo fa vedere come la fratturazione della crosta continentale possa essere considerata un
processo che si svolge nel corso di milioni di anni in una zona larga parecchie centinaia di
chilometri. Suggerisce, inoltre, come sia un evento estremamente improbabile che la crosta in
questa zona si comporti in maniera rigida.
La prova «chiave» a sostegno della teoria della tettonica a zolle si trova sul fondo degli oceani
sotto forma di anomalie magnetiche. Fondamentalmente, il materiale vulcanico che risale lungo
l'asse della dorsale medio-oceanica e forma nuova crosta oceanica è sufficientemente caldo da far
allineare i minuscoli domini magnetici interni con il campo magnetico terrestre. Man mano che il
materiale si raffredda, bloccando l'allineamento, esso si espande lontano dall'asse e, alle sue spalle,
lungo l'asse, risale nuova crosta. Ora, il campo magnetico della Terra varia in modo irregolare e la
sua polarità si inverte approssimativamente cinque volte ogni milione di anni. Perciò, man mano
che la nuova crosta oceanica si espande allontanandosi dall'asse della dorsale, due «nastri»
magnetici divergenti registrano l'andamento di queste inversioni. Ciò permette di misurare l'età del
fondo oceanico e anche di determinare la velocità con cui le zolle divergono. Questa velocità varia
da un centimetro a più di 15 centimetri all'anno. Inoltre quando l'asse della dorsale è dislocato da
una serie di faglie trasformi, lo schema magnetico che si ha nella crosta oceanica dovrebbe
riprodurre la dislocazione stessa.
Vi sono casi in cui lo schema magnetico non corrisponde alla dislocazione. Queste mancate
corrispondenze furono inizialmente spiegate in termini di improvvisi «salti» della dorsale in una
posizione nuova. Il problema consiste nel fatto che alcune volte questi salti sono così numerosi e
così ravvicinati nel tempo che il processo è visto meglio come l'evoluzione continua di un margine
di zolla. Consideriamo i particolari schemi magnetici a forma di V trovati nel Pacifico, in primo
luogo vicino alle isole Galapagos e poi sulla dorsale di Juan de Fuca, al largo della costa pacifica
dell'America Settentrionale. Uno studio su di essi condusse Richard N. Hey, che lavorava allora allo
Hawaii Institute of Geophysics, e i suoi collaboratori (in particolare Frederick K. Duennebier dello
stesso Hawaii Institute, W. Jason Morgan della Princeton University e Peter R. Vogt dello US
Naval Research Laboratory) a sviluppare un modello in cui una frattura (rift) si propaga
ininterrottamente attraverso la crosta oceanica a una velocità paragonabile a quella delle zolle che si
allontanano divergendo dal rift stesso.
Come spiegano Hey e Tanya M. Atwater dell'Università della California a Santa Barbara, il
processo avviene dove due rift sono dislocati da una faglia trasforme e, se lo si rappresenta
mediante un modello a vari stadi, ogni stadio è un salto improvviso in cui la punta del rift si propaga
in avanti, dando origine a una nuova faglia e spostando crosta oceanica da un lato della frattura
(cioè da una zolla) all'altro.
Ne risulta una scia a forma di V, costituita in parte da piccoli frammenti di crosta delimitati da
faglie inattive. Se il processo è considerato continuo, come lo è infatti nella crosta terrestre, la scia
rappresenta, nell'andamento delle anomalie magnetiche, una discontinuità a forma di V. Hey mise in
rilievo che si può attribuire erroneamente tale discontinuità a una frattura. (L'attribuzione è errata
perché lungo la discontinuità non si è mai registrato uno scorrimento tra zolle.) Hey ha chiamato
«pseudofaglia» ogni ramo della V.
La spaccatura della crosta continentale deve comportare anche la propagazione di rift, ma i
particolari di questo processo non sono ancora chiari. All'inizio degli anni settanta J. Tuzo Wilson
dell'Università di Toronto assieme a Kevin C. Burke e a John F. Dewey della State University di
New York ad Albany suggerirono la possibile esistenza di un legame tra «punti caldi», giunzioni
triple e frattura dei continenti, avanzando l'ipotesi che, se un continente diviene stazionario rispetto
al mantello sottostante, le anomalie termiche (punti caldi) di quest'ultimo potrebbero far incurvare a
duomo il continente e spaccarlo secondo uno schema di rift a tre rami. (Incurvatura e frattura
sembrano dare origine spesso a una conformazione del genere, che si osserva anche, per esempio,
nella crosta di una torta cotta in forno.) I tre rift potrebbero svilupparsi allora in due rift attivi e in
uno abortito. (Burke e Dewey pensavano di poterne vedere degli esempi lungo i margini fratturati
dell'Atlantico.) I rift attivi che si propagano da molte giunzioni potrebbero alla fine congiungersi
spaccando così il continente.
In epoca più recente sono state avanzate altre due proposte. In primo luogo, Morgan ha suggerito
che la fratturazone avvenga spesso in corrispondenza di una sequenza di punti caldi: in questo caso
il moto di un continente, al di sopra di un'anomalia termica del mantello sottostante, dà origine a
una serie di vulcani in superficie; sotto la superficie, intanto, l'anomalia assottiglia e indebolisce la
crosta, rendendola pronta a fratturarsi (si veda l'articolo I «punti caldi» della superficie terrestre di
Kevin C. Burke e J. Tuzo Wilson in «Le Scienze» n. 100, dicembre 1976). In secondo luogo, Hey e
Vogt hanno suggerito che alcuni aspetti della frattura dei continenti potrebbero essere spiegati da un
processo che richiama il modello della propagazione di rift attraverso la crosta oceanica. Sul fondo
oceanico, però, il modello esige che un rift receda mentre un altro avanza, così esso può solo
modificare la geometria di margini di zolla preesistenti e non si può applicare alla frattura di un
continente, un processo in cui, invece, si forma un nuovo margine.
A questo punto, le anomalie magnetiche sono di nuovo una prova importante. Nel 1977, uno degli
autori (Courtillot), lavorando con Jean Louis Le Mouél e Armand Galdeano dell'Università di
Parigi, realizzò una mappa magnetica di una parte del settore occidentale del Golfo di Aden e di
parte dell'adiacente massa continentale (la depressione dell'Afar nel Gibuti e in Etiopia). L'Afar è un
laboratorio naturale dove l'espansione del fondo oceanico può essere studiata senza l'ostacolo di
migliaia di metri d'acqua sovrastante. Come l'Islanda, è una parte esposta del sistema mondiale di
dorsali medio-oceaniche e sono molti i ricercatori che ritengono che in questi ambienti asciutti si
possa imparare molto sul processo fondamentale della fratturazione di zolle. Fin dal 1938, il
paleontologo e filosofo francese Pierre Teilhard de Chardin era convinto che l'Afar fosse il luogo
dove sarebbe stato possibile dimostrare la teoria di Alfred Wegener sulla deriva dei continenti. In
epoca più recente, gli studiosi impegnati in ricerche sottomarine che si sono spinti fino alla Dorsale
medio-atlantica a 37 gradi di latitudine nord, nell'ambito della French-American Mid-Ocean
Underwater Survey (FAMOUS), sono rimasti impressionati dalla somiglianza del rift dell'Afar con
quello che essi avevano osservato nell'oceano ad almeno 3000 metri di profondità (si veda l'articolo
Il triangolo dell'Afar di Haroun Tazieff in «Le Scienze» n. 21, maggio 1970).
Le indicazioni più chiare di ciò che è avvenuto nell'Afar derivano dalle mappe magnetiche. Esse
rivelano la giustapposizione di due tipi di crosta. In un tipo di crosta, le anomalie magnetiche sono
accentuate e formano bande parallele: lo schema è tipico dell'espansione del fondo oceanico. Le
bande possono essere correlate con i periodi compresi tra le inversioni del campo magnetico
terrestre e quindi possono essere datate. Nell'altro tipo di crosta, le anomalie magnetiche sono più
ampie, a profilo più arrotondato e meno accentuate. Esse indicano una zona di quiete magnetica,
chiamata MQZ, da «magnetic quiet zone».
La MQZ forma un'enorme V inclinata che bruscamente interrompe lo schema magnetico
oceanico. Interrompe perciò anche le bande delle anomalie magnetiche che segnano l'espansione del
fondo oceanico e, di conseguenza, i margini della MQZ possono essere datati in modo piuttosto
preciso. Tra 45 e 46 gradi di longitudine est, nel Golfo di Aden, essi hanno un'età di circa 10 milioni
di anni e intersecano l'anomalia magnetica che rappresenta il fondo oceanico di quell'epoca. Verso
ovest i margini divengono progressivamente più giovani: vicino al lago Assal, nell'Afar, essi sono,
infatti, molto recenti. Il verificarsi in quella zona di numerosi terremoti e la nascita di un vulcano,
avvenuta nel novembre del 1978, confermano che i dintorni del lago sono oggi sede di attività
tettonica.
La mappa delle anomalie magnetiche nell'Afar e sul fondo del Golfo di Aden rivela che due tipi differenti di crosta sono giustapposti.
Nel golfo, le anomalie (in blu e viola alternati) sono accentrate e hanno forma allungata, seguendo lo schema tipico della crosta
oceanica. Altrove, particolarmente verso nord-est, esse sono attenuate e delimitano una regione imbutiforme chiamata «zona di
quiete magnetica» o MQZ (in grigio). È probabile che la MQZ rappresenti la crosta continentale deformata dalla propagazione del
rift lungo il fondo del golfo.
L'interpretazione più semplice di queste osservazioni è che una frattura si stia propagando verso
ovest entro crosta oceanica e continentale preesistenti. I margini della zona di quiete magnetica si
sarebbero formati nel corso di una precedente propagazione, che diede luogo, sulla sua scia, a nuova
crosta oceanica. Il Golfo di Aden ne è il risultato. L'apertura angolare della V formata dai margini è
di circa 30 gradi, un valore che si ricava, con semplici calcoli trigonometrici, dalla velocità di
espansione del fondo marino che ha formato il Golfo di Aden (1,5 centimetri all'anno) e dalla
velocità con cui la punta del rift si è mossa verso ovest (tre centimetri all'anno).
A favore di questa interpretazione vi è lo studio dell'attività sismica della regione. compiuto da
Jean-Claude Ruegg e Jean-Claude Lépine dell'Università di Parigi, i quali hanno osservato che gli
ipocentri della maggior parte dei terremoti verificatisi sotto il Golfo di Aden sono raggruppati in
una fascia larga approssimativamente 10 chilometri e che segue da vicino il rift. (La posizione di
quest'ultimo si deduce da una mappa del fondo del golfo e dalla posizione delle anomalie
magnetiche più giovani.) La fascia degli ipocentri si estende dal Golfo di Aden fin dentro il Golfo di
Tagiura, un prolungamento a forma di becco del Golfo di Aden verso occidente. Essa coincide poi
con il rift di Bulbet-Assal, che corre dal Golfo di Tagiura al lago Assai e termina apparentemente
vicino al lago stesso, dove pensiamo che sia attualmente situata la punta del rift che sta avanzando.
A ovest del lago, la sismicità diviene diffusa, suggerendo che la crosta si stia deformando su un'area
più vasta.
Ulteriori prove emergono dall'età e dalla composizione chimica dei basalti dell'Afar, determinate
da Michel Treuil dell'Università di Parigi, da Jacques Varet del Bureau de Recherches Géologiques
et Minières e da Olivier Richard dell'Università di Parigi a Orsay. I basalti sono le rocce vulcaniche
che compongono la crosta oceanica e quelli ritrovati ai margini del Golfo di Tagiura hanno una
composizone tholeiitica, sono cioè poveri in olivina, ma contengono ortopirosseno. Essi sono
formati dalla fusione parziale su vasta scala del mantello sottostante la dorsale medio-oceanica. Più
vicino al lago Assai e alla punta del rift, i basalti diventano più alcalini, ossia sono più ricchi in
sodio e in potassio; ciò indica un minor grado di fusione parziale rispetto a quello subito dalle
tholeiiti. L'età dei basalti in ogni sito concorda strettamente con l'età dedotta in quel particolare sito,
per la crosta oceanica, dalle anomalie magnetiche registrate.
La velocità di propagazione
del rift del Golfo di Aden
viene dedotta dalle ricostru-
zioni. Ogni punto rappresenta
il limite più occidentale di
un'anomalia magnetica (asse
orizzontale) e l'età dell'anoma-
lia (asse verticale). La
pendenza della retta che unisce
i punti implica una velocità di
tre centimetri all'anno. Il fatto
che la retta incontri l'asse
orizzontale (età zero) circa nel
punto corrispondente a 42
gradi e 30 minuti di longi-
tudine dimostra che la punta
del rift è ora nel lago Assai.
La storia della scienza è ricca di ipotesi ardite. Esse, nel migliore dei casi, vengono per la maggior
parte dimenticate, ma, di quando in quando, qualcuna si rivela successivamente esatta. Cosí è stato
per il concetto della sfericità della Terra e della sua rotazione nello spazio, che, al momento della
formulazione, non era sostenuto da alcun dato di fatto. La stessa cosa pare ora accadere con la teoria
della deriva dei continenti che, nella sua forma estrema, afferma che tutti i continenti erano
originariamente riuniti in una sola grande massa continentale denominata Pangea. Tale massa
successivamente si suddivise e i frammenti che ne derivarono, i continenti odierni, compirono un
moto di deriva fino a raggiungere le loro attuali posizioni.
Nei tre anni scorsi, geologi e geofisici sono stati obbligati dall'evidenza dei fatti ad abbandonare il
vecchio dogma che affermava che la crosta della Terra è essenzialmente fissa; essi sono stati
costretti invece ad accettare l'affermazione che la crosta terrestre è sufficientemente mobile, ipotesi
che inizialmente era sembrata eretica. La nozione che i continenti possono compiere moti di deriva
lungo percorsi di migliaia di chilometri nello spazio di poche centinaia di milioni di anni, è ora
accettata universalmente. La geologia, dunque, si trova nella stessa condizione in cui si trovava la
astronomia ai tempi di Copernico e Galileo: i testi scolastici devono essere ora riscritti per includere
il punto di vista mobilistico.
Anche se la teoria della deriva dei continenti ha trionfato, alcuni dettagli rimangono ancora incerti.
I sostenitori della deriva devono a questo punto illustrare nei particolari come gli attuali continenti
possano essere incastrati l'uno nell'altro per dar luogo al Pangea o, in alternativa, a ricostruire i due
successivi supercontinenti di Laurasía e Gondwana che alcuni preferiscono al continente unico. Il
concetto originale di Pangea (che letteralmente significa e tutte le terre ») fu proposto negli anni
venti da Alfred Wegener. Successivamente sono stati fatti molti tentativi per perfezionare la sua
ricostruzione; sono stati realizzati cori schizzi abbastanza generici che mostravano come i diversi
continenti potevano essere fra di loro riuniti. Un certo numero di ricercatori ha prodotto mosaici
sufficientemente accurati che però non potevano tener conto dei recentissimi risultati ottenuti in
geotettonica. Recentemente alcuni ricercatori inglesi hanno presentato una ricostruzione dettagliata
che mostra come le masse continentali fossero giustapposte prima dell'apertura sia dell'oceano
Atlantico sia dell'oceano Indiano. Le loro soluzioni però, mostrano soltanto i moti relativi che
hanno interessato le diverse masse continentali.
In questo articolo viene presentata una ricostruzione del Pangea nella quale i continenti vengono
riuniti con una certa precisione cartografica. Per la prima volta il Pangea viene sistemato sul globo
in una posizione definita da coordinate assolute. La ricostruzione è accompagnata da quattro carte
che mostrano la scissione e la successiva dispersione dei continenti alla fine dei quattro maggiori
periodi geologici che coprono gli ultimi 180 milioni di anni : il Triassico, il Giurassico, il Cretaceo
e il Cenozoico.
La linea razionale su cui si basa la nostra ricostruzione è il meccanismo della deriva associato con
quelli della tettonica a zolle e dell'espansione dei fondali oceanici (si veda l'illustrazione seguente).
Secondo tali ipotesi, la Terra ha un guscio esterno roccioso, la litosfera, dello spessore di circa 100
chilometri. Tale guscio esterno si è spezzato in un certo numero di zolle separate, probabilmente in
conseguenza di tensioni generatesi nella sottostante astenosfera che rappresenta la parte superiore
del mantello terrestre. Finora sono state riconosciute dieci zolle principali, più un certo numero di
zolle minori. I continenti che giacciono su queste zolle sono stati quindi da esse trasportati sulla
superficie del pianeta.
Il meccanismo attraverso cui le zolle si muovono non è ancora chiaro: esse potrebbero essere
spinte, trascinate lungo cellule di convezione presenti nel mantello, guidate da forze gravitazionali,
oppure trascinate. Riteniamo sia preferibile il modello basato sul trascinamento; sospettiamo infatti
che tali zolle siano più fredde e più pesanti presso uno dei loro margini che non altrove e che quindi
in tale zona esse si immergano entro il mantello terrestre lungo zone dette di «subduzione». Tali
zone normalmente coincidono con le profonde fosse oceaniche che sono disposte principalmente
alla periferia del Pacifico. Il risultato dell'azione di un tale meccanismo lungo uno dei limiti della
zolla è la localizzazione di una zona di tensione o addirittura di una spaccatura che si apre lungo un
limite opposto; tale spaccatura viene riempita da un flusso in solido di rocce che costituiscono il
mantello viscoso e da dicchi di basalto toleitico fuso (il basalto toleitico rappresenta il risultato di
una parziale fusione e differenziazione del mantello). Siccome le rocce del mantello e i loro derivati
basaltici sono entrambi pi ú pesanti che non le rocce granitoidi che costituiscono i continenti, esse
tendono a disporsi lungo un livello che si trova a circa 4 km al di sotto del livello del mare. Come
conseguenza, quindi, del trascinamento si forma continuamente nuova crosta oceanica. Mentre due
zolle adiacenti continuano nel loro movimento di allontanamento, dicchi basaltici continuano a
svilupparsi entro le dorsali sottomarine che si trovano a mezza via tra le due zolle. Tale meccanismo
estremamente simmetrico, che crea nuovi bacini oceanici o rinnova continuamente fondali oceanici
antichi, è chiamato «espansione dei fondali oceanici». La velocità di espansione misurata dalla
dorsale oceanica verso entrambe le zolle adiacenti, varia da 1 cm all'anno (equivalente a 10 km ogni
milione di anni) fino a diversi cm all'anno. Si tratta quindi di un meccanismo geologico assai
rapido, molto più veloce che non il sollevamento delle catene montuose per tettonismo o del loro
livellamento per erosione. Per esempio, la zolla nordamericana si muove verso ovest di circa due
metri in un secolo.
La tettonica a zolle spiega il
meccanismo intimo della deriva
dei continenti. Il processo
comincia (I) quando sotto un
continente (in colore) che giace
al di sopra di una unica zolla
crostale, si sviluppa una frattura
in espansione. Dalla astenosfera
giunge basalto fuso sino in
superficie. Successivamente, si
forma una zona di subduzione o
fossa, nella quale la crosta
oceanica della zolla mobile A
viene spinta e distrutta (2).
Mentre il nuovo continente
trasportato dalla zolla A si sposta
verso sinistra, tra le due masse
continentali si apre un nuovo
bacino oceanico. Nel terzo stadio
(3) il continente che si trova
sulla zolla A incontra la fossa e
la ricopre per una certa distanza
X; in qual. che caso la direzione
di immersione della fossa si
inverte dirigendosi invece che
verso ovest verso est. Dato che il
continente che si trova sulla
zolla B è qui fissato arbitraria-
mente, la frattura medio ocea-
nica migra verso sinistra,
rimanendo nel centro del nuovo
bacino oceanico la cui ampiezza
da D è divenuta D'.
La scoperta della Dorsale medio-oceanica, che si allunga per circa 40 000 km interessando tutti gli
oceani, è stata una premessa essenziale alla formulazione dell'ipotesi dell'espansione dei fondali
oceanici. Si riconobbe presto, infatti, che ogni dorsale è caratterizzata dalla presenza di una fossa, o
depressione assiale, nell'ambito della quale vengono continuamente iniettati dicchi basaltici. Questa
depressione lineare nella dorsale è null'altro che la frattura di cui si è parlato più sopra. Il termine
«medio-oceanica», anche se è particolarmente appropriato per quella parte della dorsale che
interessa l'Atlantico e l'oceano Indiano, è fuorviante per la dorsale del Pacifico. Gli oceani Atlantico
e Indiano sono oceani di frattura, formatisi quando i continenti si allontanarono l'uno dall'altro e
dunque è naturale che l'asse dell'espansione, segnata dal sistema di dorsali, rimanga nella parte
centrale di tali oceani. Il Pacifico, invece, non è un oceano di frattura; esso è chiaramente l'oceano
primordiale e sta diventando sempre più piccolo mano a mano che nuovi bacini oceanici vengono
sviluppandosi. Anche se il Pacifico ha esso pure una dorsale, essa decorre in senso meridiano molto
più a est del centro del bacino.
In realtà i movimenti crostali sono notevolmente più complessi di quanto sia stato finora detto. Le
fosse e le fratture sembrano migrare e le zolle contrapposte sono anche soggette a dislocazioni
prodotte da attriti interni. Le grandi zone di attrito lungo i margini delle zolle sembrano anche in
grado di assorbire una certa quantità dello stato di tensione o di compressione della crosta. Soltanto
alcune zolle corrispondono esattamente alla loro configurazione ideale : non tutte sono rettilinee,
non tutte hanno una frattura accompagnata da una fossa oceanica contrapposta e sono caratterizzate
da una zona di grandi attriti in connessione con tali antitetiche strutture. La zolla antartica, per
esempio, non ha alcuna fossa oceanica. Tuttavia, tale anomalia è in parte spiegata dal fatto che una
sfera non può essere coperta da elementi rettangolari.
Il Pangea, il continente unico, doveva apparire cosi circa 200 milioni di anni fa. Il Panthalassa, che lo circondava, era l'ocea. no
Pacifico primordiale. La Tetide, il Mediterraneo primordiale, si è formata da una grande baia che separava l'Africa dall'Eurasia. Le
posizioni relative dei continenti, fatta eccezione per l'India, sono basate sull'incastro ottenuto con il calcolatore, usando, per definire i
limiti dei continenti attuali, l'isobata corrispondente ai 2000 metri di profondità. Quando i continenti sono stati sistemati nel modo in
cui appaiono qui sopra, le posizioni relative dei poli magnetici permiani, ricavate sulla scorta delle analisi paleomagnetiche, vanno a
cadere nelle posizioni segnate dai circoli. I semicerchi A e S servono come punti di riferimento geografico: essi rappresentano gli
archi delle Antille e l'arco insulare del Mar di Scozia, nell'Atlantico meridionale.
Possiamo visualizzare il moto di trascinamento passivo cui sono soggetti i continenti come quello
di piastre sialiche giacenti al di sopra di zolle crostali più grandi e più spesse. I continenti,
dall'epoca in cui il Pangea si è scisso in una serie di frammenti, hanno generalmente mantenuto la
loro forma e le loro dimensioni. Deve essersi verificata una qualche modificazione con la aggiunta
alle masse continentali delle catene montuose che però sono per la maggior parte confinate ai
margini dell'oceano Pacifico.
I margini dei continenti che si affacciano su oceani di frattura (oceano Atlantico e Indiano) non
devono avere subito grossi cambiamenti, dato che essi possono essere giustapposti come le tessere
di un mosaico.
Per contro, le zolle crostali possono mutare di forma e di dimensioni sia per aggiunta di nuovo
fondo oceanico lungo le fratture che si allungano al centro delle dorsali, sia per riassorbimento di
porzioni della crosta oceanica entro le fosse oceaniche. È stato così possibile per le zolle
nordamericana e sudamericana in moto attraverso il Pacifico crescere di più in principio, poi,
attraversato il cerchio massimo terrestre, di meno, e ora convergere attraverso il Pacifico centrale.
Una storia anche più complessa è quella dell'evoluzione della regione del Mar dei Caraibi,
incastrata tra le zolle nordamericana e sudamericana, così come quella del Mar di Scozia, tra le
zolle sudamericana e antartica. Come vedremo nel seguito, almeno due zolle sono senza possibilità
di dubbio entrate in collisione, producendo una catena montuosa intercontinentale: la catena
dell'Himalaya.
Nella nostra ricostruzione del Pangea non abbiamo utilizzato le attuali linee di costa ma i contorni
dell'isobata corrispondente ai 2000 metri (si veda l'illustrazione precedente). Essa è stata prescelta
poiché si trova all'incirca a metà della scarpata continentale e segna quindi grossolanamente la metà
del muro verticale generatosi nel momento in cui i continenti iniziarono il loro moto di deriva.
Supponendo che tali pareti abbiano successivamente raggiunto condizioni di stabilità, l'isobata dei
2000 metri indica con buona approssimazione la posizione dell'originaria frattura.
Per accostare i due margini dell'Atlantico, abbiamo seguito con qualche modifica, la ricostruzione
proposta da E. Bullard, J. E. Everett e A. G. Smith. dell'Università di Cambridge. Per l'oceano
Indiano abbiamo invece usato l'ottima soluzione messa a punto tramite calcolatore da W. P. Sproll,
del Marine Geology and Geophysics Laboratory della ESSA (Environmental Science Services
Administration). Gli studi di Sproll hanno avuto come risultato un preciso incastro tra Australia e
Antartide e tra Antartide e Africa: i tre continenti insieme costituiscono la maggior parte del
Gondwana. Presumibilmente anche l'India era parte del Gondwana ma non è ancora chiaro dove
essa si incastrasse. Fortunatamente l'andamento delle zone di frattura sui fondali oceanici fornisce
una traccia grossolana ma utile del movimento di deriva dei continenti. Sulla scorta di tali tracce
siamo stati in grado di collocare le coste occidentali dell'India contro l'Antartide; tale soluzione
differisce da quella tradizionale che vedeva l'India accostarsi all'Australia occidentale.
Un'altra difficoltà di incastro è rappresentata dalla convessità dell'Africa e dalla concavità
dell'America settentrionale. Le zone di non coincidenza, in particolare quella della piattaforma della
Florida e delle Bahamas, sono sufficientemente ampie perché se ne possa dedurre ragionevolmente
che Africa e America settentrionale non sono mai state collegate. Sulla base di questa supposizione,
in luogo del Pangea, si ottengono due supercontinenti separati: Laurasia, nell'emisfero
settentrionale, e Gondwana in quello meridionale. Questa versione della deriva dei continenti è
attualmente assai accreditata.
Noi tuttavia preferiamo la soluzione del Pangea. Le aree di non coincidenza, a nostro avviso,
possono essere ragionevolmente considerate come modificazioni intervenute dopo che Africa ed
America settentrionale iniziarono il moto di deriva. La piattaforma della Florida e delle Bahamas
può essere considerata come il risultato del riempimento sedimentario di un piccolo bacino
oceanico sviluppatosi quando Africa e America settentrionale si separarono. Senza questa ipotesi
preliminare la piattaforma Florida-Bahamas si sovrappone a una larga porzione dell'Africa
settentrionale (Si veda l'illustrazione seguente).
Secondo la nostra ricostruzione, il Pangea era un vastissimo continente dai contorni irregolari
circondato dal grande oceano del Panthalassa: il Pacifico primordiale. Se America settentrionale e
Africa vengono accostate, ne deriva direttamente l'incastro tra il blocco del futuro continente
settentrionale e quello del futuro continente meridionale. A oriente, la Tetide, un grande golfo
triangolare, separava l'Eurasia dall'Africa: l'attuale Mediterraneo è ciò che resta della Tetide.
Adottando la terminologia usata sulla Luna, le altre più importanti irregolarità nei contorni del
Pangea possono essere chiamate Sinus Borealis (l'Oceano Artico primordiale) e Sinus Australis
(una baia meridionale che separava l'India dall'Australia). Resta problematica la ricostruzione della
regione centro-americana. Una possibilità è che il Golfo del Messico sia ciò che resta di un braccio
di mare che si estendeva dal Panthalassa entro le Americhe, ciò che potremmo chiamare Sinus
Occidentalis.
L'incastro tra l'Africa e
l'America settentrionale è
stato realizzato da Walter
P.Sproll con l'aiuto del
calcolatore. Come nella
ricostruzione del Pangea,
anche in questo caso si
suppone che le masse
continentali realmente si
estendano nell'oceano fino
a circa metà della scarpata
continentale, fino alla
profondità cioè di 2000
metri. La costa dell'
America settentriona-le
tra A e A' mostra le mi-
gliori possibilità di
incastro con la costa
africana compresa tra B e
B'. Le zone bianche sono
quelle di non coincidenza
nel mosaico; quelle nere
sono zone di ricopertura.
La ricopertura prodotta
dalla piattaforma delle
Bahamas, una zona in
realtà assai estesa, è
messa in evidenza dal
colore scuro. Gli autori
ritengono che la piatta-
forma rappresenti una
zona di accumulo di
sedimenti seguito dalla
crescita di barriere coralli-
ne dopo la separazione dei
due continenti. La non
coinciden. za maggiore
nel mosaico proposto si
trova al largo della colo-
nia spagnola di Ifni. La
cavità che vi corrisponde
deve essersi creata quando
una piccola parte dell'
Africa scivolò di 190km
verso sud ovest per
formare il gruppo orien-
tale delle Canarie.
Misurata a livello dell'isobata dei 2000 metri, l'area totale del Pangea risulta essere di 200.000
km2, ossia il 40% dell'intera superficie terrestre; il che equivale all'area dei continenti attuali,
misurata all'altezza della stessa isobata. Quando i continenti facevano ancora parte del Pangea essi
erano generalmente più a sud e più a est di quanto attualmente non siano, cosicché la distribuzione
delle terre emerse nei due emisferi all'incirca si equivaleva; oggi invece due terzi di tutte le terre
emerse si trovano a nord dell'Equatore. La giunzione a Y lungo la quale si accostavano America
settentrionale, meridionale e Africa, si trovava nell'Atlantico meridionale non molto distante dalla
posizione attuale delle Isole dell'Ascensione. Se fosse esistita New York a quell'epoca, si sarebbe
trovata sull'Equatore a una longitudine di 10° est (invece che a 74° ovest). Anche la Spagna si
sarebbe trovata sull'Equatore, ma in prossimità della sua longitudine attuale. Il Giappone si sarebbe
trovato nell'Artico, molto più a nord della sua posizione attuale. India e Australia avrebbero
costituito le rive dell'Antartico, assai più a sud della loro posizione attuale.
L'evento che ha avuto come risultato la scissione del Pangea e la deriva dei suoi frammenti, non
può essersi verificato più di 200 milioni di anni fa. Può invece essersi verificata (cosa che con ogni
probabilità è accaduta realmente) una deriva antecedente alla deriva di cui stiamo trattando; il
risultato della prima deriva deve essere stata la formazione del Pangea dalla riunione di due o più
continenti più piccoli. Le prove di questo sono ancora scarse e d'altro canto non toccano
direttamente l'argomento in discussione.
Il preludio immediato alla scissione del Pangea deve essere stato l'intrusione di una grande
quantità di rocce basaltiche lungo i margini continentali dove devono essersi generate fratture. Le
serie basaltiche triassiche di Newark lungo le coste orientali degli USA, sono un buon esempio.
Misure radiometriche indicano che la più antica di queste rocce ha un'età di 200 milioni di anni, che
coincide all'incirca con la metà del Triassico. Interpretando i dati, ne risulta che circa 200 milioni di
anni fa due grandi fratture iniziarono a svilupparsi nel Pangea: da esse risultò l'apertura degli oceani
Atlantico e Indiano verso la fine del Triassico, 180 milioni di anni fa (si veda l'illustrazione qui
sotto). La frattura settentrionale spaccò il Pangea da est a ovest lungo una linea poco a nord
dell'Equatore e creò il Laurasia, costituito da America settentrionale ed Eurasia. Il Laurasia, senza
dubbio, ruotò in senso orario come una sola zolla, attorno a un polo di rotazione che si trova
attualmente in Spagna, generando un «Mediterraneo» occidentale che infine divenne parte del
Golfo del Messico e del Mar dei Caraibi. La frattura meridionale staccò dal Gondwana una zolla
che comprendeva America meridionale e Africa; a questo punto il Gondwana era costituito da
Antartide, Australia e India. Non molto tempo dopo, se non contemporaneamente, l'India si staccò
dall'Antartide a causa di una frattura più piccola e iniziò la sua rapida deriva verso nord.
Dopo 20 milioni di anni di deriva, alla fine del Triassico, circa 180 milioni di anni fa, si era separato un gruppo di continenti a nord,
chiamato Laurasia, da uno a sud, chiamato Gondwana. Quest'ultimo cominciò a frammentarsi: l'India fu lasciata libera dallo
svilupparsi di una frattura a Y (linea spessa in colore), che fra l'altro innescò il meccanismo che doveva poi isolare la massa
dell'Africa e America meridionale da quella della Antartide e dell'Australia. La fossa della Tetide (zona tratteggiata in nero) corre da
Gibilterra fino al Borneo. Le linee e le frecce nere indicano le zone di grandi attriti e le zone di slittamento ai limiti fra le zolle
crostali. Le frecce bianche individuano il vettore del movimento quando è iniziata la deriva. Le aree oceaniche rappresentate in
colore indicano le zone di fondale oceanico nuovo creatosi attraverso il meccanismo dell'espansione.
Durante il Giurassico, compreso tra 180 e 135 milioni di anni fa, la direzione di deriva instauratasi
in relazione alle fratture triassiche, causò l'ulteriore apertura degli oceani Atlantico e Indiano (si
veda seguente). Come l'America settentrionale prosegui il moto di deriva in direzione nordovest,
l'Atlantico superò i 1000 km di ampiezza e probabilmente rimase in collegamento diretto con il
Pacifico. La costa orientale degli attuali USA si spostò in senso quasi est-ovest a una latitudine di
circa 25° nord, cosicché poterono svilupparsi scogliere coralline lungo tutto il margine della
piattaforma continentale atlantica fino all'attuale Grand Banks, di fronte alla Nuova Scozia.
Durante il Giurassico, durato 45 milioni di anni, la frattura atlantica si estese verso nord
delimitando le coste del Labrador e, forse, dando inizio alla apertura del Mar del Labrador tra
l'America settentrionale e la Groenlandia. L'interazione tra le zolle africana ed eurasiatica provocò
la rotazione di 350 in senso antiorario della Spagna: nacque il Golfo di Biscag'ia. La Tetide, oceano
che può essere considerato precursore del Mediterraneo, andò man mano chiudendosi alla sua
estremità orientale. La Tetide non era soltanto una zona di subduzione crostale, una fossa, ma anche
una zona di attrito lungo la quale l'Eurasia slittava verso ovest rispetto all'Africa: la compressione
associata con la fossa della Tetide provocò lo sviluppo di catene montuose costituite da serie
sedimentarie profonde.
Dopo 65 milioni di anni, alla fine del Giurassico, circa 135 milioni di anni fa, gli oceani Atlantico settentrionale e Indiano si erano
aperti considerevolmente. Lo sviluppo dell'Atlantico meridionale cominciò da una frattura tra Africa e America meridionale. La
rotazione della massa continentale eurasiatica cominciò a chiudere la Tetide alla sua estremità orientale. La zolla indiana in questo
periodo si trovò a passare al di sopra di un centro termico (punto colorato) dal quale defluí il basalto che formò lo scudo del Deccan.
Più tardi, dallo stesso centro termico, si sviluppò la dorsale della Chagos-Laccadive nell'Oceano Indiano. Cosí un centro termico
nell'Atlantico meridionale (punto colorato) genererà le dorsali di Walvis e del Rio Grande.
Alla fine del Giurassico, lungo una frattura incipiente, iniziò la separazione tra America
meridionale e Africa; tale frattura si spinse tra le due masse continentali a cominciare dal sud e non
più a nord della Nigeria attuale. La situazione tettonica dapprima doveva rassomigliare a quella che
si incontra oggi nelle zone di frattura dell'Africa orientale (dall'Etiopia alla Tanzania); la frattura poi
gradualmente deve essersi aperta per formare la sede di una massa d'acqua simile all'odierno Mar
Rosso. In un primo tempo, infatti, nei bacini interni apertisi per l'azione delle faglie, si
accumulavano spessi depositi di sedimenti d'acqua dolce che, in seguito, vennero coperti da depositi
salini.
Dalla fine del Cretaceo, circa 70 milioni di anni più tardi (e circa 65 milioni di anni fa), la
separazione tra America meridionale e Africa era completa e l'Atlantico meridionale aveva
rapidamente raggiunto un'ampiezza di almeno 3000 km (si veda l'illustrazione seguente). Nello
stesso tempo la frattura nord atlantica, senza penetrare nell'area dell'oceano Artico attuale, si era
spinta dal margine occidentale della Groenlandia fino al suo margine orientale, delineandone quindi
la forma. L'Africa aveva compiuto un movimento di deriva verso nord di circa 100 e continuato la
sua rotazione in senso antiorario mentre l'Eurasia ruotava lentamente in senso orario.
Dopo 135 milioni di anni di deriva, alla fine del Cretaceo, 65 milioni di anni fa, l'Atlantico meridionale si era aperto divenendo un
oceano. Una nuova frattura staccò il Madagascar dall'Africa. La frattura nord atlantica delineò il margine orientale della Groenlandia,
mentre ormai il Mar Mediterraneo era già chiaramente riconoscibile. L'Australia era ancora unita all'Antartide. Una grande fossa in
senso nord sud, non rappresentata nella figura, doveva esistere nell'ambito del Pacifico per assorbire la crosta in più che continuava a
formarsi a causa del movimento verso ovest delle zolle dell'America settentrionale e meridionale. Si noti che il meridiano centrale
per tutte queste ricostruzioni è 200 di longitudine est dal meridiano di Greenwich.
I due moti opposti finirono col chiudere la Tetide al suo estremo orientale. Nel frattempo
continuava la lenta rotazione verso ovest dell'Antartide. A questo punto tutti i continenti attuali
erano delineati nelle loro forme, fatta eccezione per le connessioni tra Groenlandia e Europa
settentrionale e tra Australia e Antartide.
Anche se non appare nelle nostre carte, nell'area dell'antico Pacifico doveva esistere un esteso
sistema di fosse orientate in senso nord sud: ciò per eliminare, attraverso la subduzione, la crosta
eccedente derivata dalla rapida deriva verso ovest delle due zolle su cui giacevano America
settentrionale e America meridionale. L'America settentrionale, presumibilmente, entrò in contatto
con una di tali fosse nel Giurassico superiore e nel Cretaceo inferiore, con il risultato che si sviluppò
la fascia di pieghe Franciscan, lungo il margine occidentale del continente, quella che ha preceduto
l'attuale California Coast Ranges. Sembra che tale fossa sia stata poi coperta e chiusa dal moto di
deriva verso ovest del continente nord americano; tali fosse hanno infatti la capacità di riassorbire la
crosta oceanica ma non la crosta granitica dei continenti che è più leggera.
Contemporaneamente, o poco dopo, l'America meridionale incontrò la fossa andina e la dislocò
verso ovest senza mai coprirla : la prima fascia di pieghe che dovevano dar luogo alle Ande derivò
direttamente da tale incontro. Sembra logico pensare che la fossa, originariamente, si immergesse
verso ovest e che sia stata successivamente costretta a mutare la propria immersione fino a quella
attuale che è orientata verso est.
Nel Cenozoico e nel Quaternario (da 65 milioni di anni fa fino a oggi) i continenti proseguirono il
loro moto di deriva fino a raggiungere le posizioni che possiamo oggi osservare. La frattura
medioatlantica si propagò fino al bacino artico, distaccando infine la Groenlandia dall'Europa (si
veda l'illustrazione seguente). Ricordiamo che, durante il Cretaceo, vi erano stati altri tre eventi
principali: le due Americhe erano entrate in collegamento attraverso l'istmo di Panama, generatosi
per vulcanismo e per sollevamento del mantello terrestre; la massa continentale indiana aveva
concluso il suo rapido viaggio verso nord entrando in collisione con i margini profondi dell'Asia;
l'Australia si era separata dall'Antartide e aveva compiuto il suo moto di deriva verso nord fino a
raggiungere la sua attuale posizione.
Il mondo cosi come appare oggi si è formato durante gli ultimi 65 milioni di anni, nel Cenozoico e nel Quaternario. All'incirca metà
dei fondali dell'oceano sono stati creati in questo periodo geologicamente breve, come è indicato dalle zone differenziate in colore.
L'India completò un b110 spostamento verso nord andando a collidere con l'Asia, mentre una frattura separava l'Australia
dall'Antartide. La frattura nordatlantica, infine, penetrò nell'area dell'oceano Artico, spezzando il Laurasia. L'apertura crescente tra
America meridionale e Africa è delineata con precisione dalle dorsali vulcaniche prodotte dal centro termico di Walvis. Gli archi
insulari delle Antille e del Mar di Scozia occupano la loro posizione attuale, rispetto alle circostanti masse continentali.
Nella collisione tra India e Asia, il margine settentrionale della zolla indiana subì il fenomeno
della subduzione al di sotto della zolla asiatica : ne è nata l'Himalaya. Traversando l'equatore, il
margine occidentale dell'India, che all'inizio del Cenozoico proseguiva il suo movimento verso
nord, entrò in contatto con una fonte di magma basaltico che dal mantello terrestre saliva fino in
superficie a tale latitudine. Grandi masse di magma eruppero attraverso la crosta terrestre e si
estesero sopra tutto il subcontinente indiano, dando luogo allo scudo basaltico del Deccan. Anche
dopo che l'India, nel suo moto di deriva si era lasciata alle spalle la grande sorgente, il magma
continuò a fluire sul fondo dell'oceano, producendo la dorsale Chagos-Laccadive che in seguito,
all'atto in cui iniziò un moto di subsidenza entro l'oceano Indiano si ricopri di coralli. Da ultimo, un
ramo della frattura dell'oceano Indiano separò l'Arabia dall'Africa, creando il Golfo di Aden e il
Mar Rosso; una derivazione di tale frattura si estese sinuosamente verso ovest e verso sud nel
continente africano.
Mutamenti meno drastici, manifestatisi durante il Cenozoico, sono quelli che hanno provocato la
parziale chiusura della regione caraibica e la continua apertura dell'Atlantico meridionale mentre
nuova crosta oceanica si aggiungeva tramite il meccanismo della espansione dei fondali oceanici.
Mentre l'Atlantico continuava ad espandersi a settentrione, il moto verso nord ovest della massa
eurasiatica si fermò e si inverti, invertendo così contemporaneamente anche il suo moto relativo
rispetto all'Africa. La nuova direzione di attrito ha influito in modo fondamentale sui caratteri
tettonici del Mediterraneo e del Medio Oriente. La frattura principale in senso nord sud nell'oceano
Indiano cessò di essere una linea di espansione e divenne invece il luogo in cui venivano assorbiti i
grandi attriti derivanti dal moto in senso antiorario e verso nord della zolla africana.
Si potrà osservare che le carte che accompagnano questo articolo mostrano più della posizione
relativa e dei moti relativi dei singoli continenti: a ciascuno di essi, cominciando con il Pangea, è
stata anche assegnata una precisa posizione geografica. Dato che questo non è mai stato tentato
prima, riteniamo opportuno dire come si è arrivati a tale risultato. Nel quadro dinamico della
tettonica a zolle, bisogna supporre che ogni parte della crosta sia in grado di muoversi e che quasi
sicuramente si è mossa.
Dopo una ricerca approfondita per individuare alcuni punti di riferimento fissi, si è concluso infine
che il centro termico di Walvis poteva fornire ciò che si cercava. Nell'arrivare a tale conclusione, si
è accettata l'ipotesi formulata in precedenza da J. Tuzo Wilson dell'Università di Toronto: la dorsale
di Walvis e del Rio Grande nell'America meridionale sono particolarissime dorsali basaltiche che si
sono formate via via che la crosta oceanica si espandeva, da una sorgente fissa di lava proveniente
da una regione profonda del mantello; mentre la nuova crosta veniva spostata, dall'orifizio fisso la
lava sarebbe periodicamente defluita per formare tutta una serie di piccoli coni vulcanici.
Osservando la collocazione di ciascuno dei coni successivi è possibile stabilire la direzione assoluta
dello spostamento della crosta in quella regione. Lo studio delle dorsali di Walvis e del Rio Grande
ci ha messo in condizione di stabilire non solo la direzione di deriva della zolla sudamericana
rispetto a quella africana ma anche il moto che le due zolle possono aver avuto in qualunque altra
direzione (si veda la figura seguente).
La separazione fra le zolle sudamericana e africana può essere delineata nelle sue coordinate geografiche assolute osservando
l'orientazione a V delle dorsali vulcaniche prodotte dal centro termico di Walvis (C). Il centro caldo rappresentava evidentemente una
sorgente di magma che si alimentava profondamente nel mantello durante i 140 milioni di anni trascorsi. Gli schemi qui sopra
illustrano un'ipotesi inizialmente formulata da J. Tuzo Wilson. Le dorsali vulcaniche mostrano che le zolle sudamericana e africana
non solo hanno compiuto un movimento rapido di deriva allontanandosi l'una dall'altra ma sono anche migrate verso nord. Le
strutture come le faglie trasformi, che interessano la dorsale medio-oceanica (A-A') e le strutture B-B' sui continenti opposti, possono
fornire indicazioni ben più ampie che non il solo moto relativo di due zolle.
Sfortunatamente, la emissione basaltica a Walvis è iniziata non prima di 140 milioni di anni fa,
cosicché essa non serve per i movimenti verificatisi prima della fine del Giurassico. Per tracciare i
movimenti della crosta durante i primi 60 milioni di anni dopo la frammentazione del Pangea è
necessario fare assegnamento su pure e semplici supposizioni. Si è supposto che l'Antartide si sia
mossa assai poco dalla sua posizione iniziale quando essa era parte del Pangea: ciò sembra
probabile perché la zolla antartica è interamente circondata da un sistema di fratture e di zone di
grandi attriti, mentre non vi sono fosse verso le quali la zolla avrebbe potuto muoversi
allontanandosi dalla sua posizione polare attuale.
Una conferma di tale supposizione. ottenuta con una metodologia indipendente, si ha individuando
la posizione dei poli nord e sud prima della frammentazione e dispersione del Pangea. Tali posizioni
si ottengono studiando la direzione di magnetizzazione delle rocce del Permiano ottenute da E.
Irving del Dominion Observatory canadese e dai suoi collaboratori. Noi abbiamo individuato le
posizioni dei poli nel Permiano rispetto a ciascun continente attuale e abbiamo quindi ruotato tali
posizioni così come era necessario per riunire i continenti nella nostra versione del Pangea. Con
questo metodo le posizioni dei poli nord e sud avrebbero dovuto teoricamente andare a coincidere
ciascuno in un punto. In realtà, vi è una certa dispersione, così come avviene anche nella nostra
ricostruzione del Pangea, ma tutte le posizioni cadono entro il circolo polare artico o il circolo
polare antartico.
Si può quindi ora riassumere come i continenti si siano mossi nel tempo e nello spazio.
Le due Americhe hanno compiuto un lungo moto di deriva generalmente orientato verso ovest.
L'America settentrionale si è spostata di più di 8000 km in direzione ovest nord-ovest; la penisola
della Florida una volta si estendeva nell'Atlantico meridionale in prossimità della posizione attuale
delle isole dell'Ascensione.
Muovendo verso il sistema di fosse della Tetide, India e Australia sono state spostate assai a nord.
L'Africa ha ruotato in senso antiorario di circa 20° mentre la massa eurasiatica che pure si
muoveva verso le fosse della Tetide, aveva ruotato in senso orario all'incirca della stessa quantità.
Il rapido viaggio compiuto dall'India è probabilmente da attribuirsi al fatto che essa doveva
poggiare su una zolla ideale: di forma approssimativamente rettangolare essa si staccò dal Pangea
secondo una frattura che si estendeva lungo quelle che sono oggi le coste orientali dell'India: a
questo punto la massa subcontinentale indiana è stata libera di muovere verso nord in direzione di
una fossa principale, con un movimento che fu facilitato da due zone parallele di scorrimento.
Qualche decina di anni fa Wegener ha proposto la teoria della deriva dei continenti, dicendo che
essa era dovuta allo sviluppo di forze che egli aveva chiamato Westvanderung (deriva verso ovest) e
Polarfluchtkraft (spostamento latitudinale dai poli). Anche ammesso che esistano, tali forze non
sono sufficientemente grandi per essere causa della deriva.
La nostra soluzione, tuttavia, conferma la deriva verso ovest indicata nell'ipotesi di Wegener e
che, come avviene nell'atmosfera, si oppone direttamente alla rotazione terrestre. Abbiamo potuto
anche intuire una certa deriva latitudinale ma solo dal polo sud e cioè, parafrasando la terminologia
di Wegener, abbiamo individuato una Sudpolarfluchtkraft.
Marzo 1969
L’espansione dei fondi oceanici
I fenomeni geofisici, dai terremoti alla deriva dei continenti, stanno forse per essere spiegati con
una nuova teoria che promette di correlare il magnetismo terrestre con le dinamiche interna e
orbitale della Terra.
di J.R. Heirtzler
In ogni campo della scienza sono rare le nuove teorie che razionalizzino globalmente un gran
numero di osservazioni e che spieghino tutti i principali aspetti del mondo fisico. Una sintesi di
questo genere sembra attualmente a portata di mano in geofisica. Negli ultimi anni si è affacciata
una nuova teoria sui movimenti dei fondi oceanici. Essa riguarda immense e un tempo insospettate
forze che rimescolano l'interno della Terra, determinando la disposizione dei bacini oceanici e delle
masse continentali quali sono oggi. La teoria è basata su una grande varietà di osservazioni e di
ipotesi che riguardano la morfologia dei fondali oceanici e la distribuzione dei sedimenti, le faglie e
i terremoti, la struttura interna del globo, il campo magnetico terrestre e le sue periodiche inversioni.
Questa teoria è inoltre perfettamente compatibile con quella della deriva dei continenti. Le due
teorie assieme sono già riuscite a spiegare molte strutture della superficie terrestre e a chiarire la
natura dei processi che si svolgono all'interno della Terra. È anche possibile che la loro importanza
non sia stata ancora compiutamente apprezzata: esse potrebbero condurre infatti a una sintesi
globale che correli il magnetismo terrestre con le dinamiche interna e orbitale della Terra.
Conferma sperimentale
Mentre Vine e Matthews pubblicavano il loro lavoro, ero impegnato, assieme a colleghi del
Lamont Geological Observatory della Columbia University e del U.S. Naval Oceanographic Office,
nel rilevamento magnetico di dettaglio della dorsale di Reykjanes, facente parte della dorsale
atlantica a sud dell'Islanda, nota per le sue notevoli anomalie magnetiche. Scoprimmo che le
anomalie avevano andamento lineare e simmetrico, disposto parallelamente all'asse della dorsale.
Ciò rappresentava una significativa conferma dell'ipotesi dell'espansione del fondo oceanico, con
relativa formazione di anomalie magnetiche, proprio com'era stato suggerito da Vine e Matthews.
Un poco più tardi lo stesso Vine e J. Tuzo Wilson dell'Università di Toronto mettevano in evidenza
che le recenti inversioni del campo magnetico combaciavano, una per una, con parte degli estesi
allineamenti magnetici registrati in prossimità della costa occidentale dell'America settentrionale da
Mason, Raff e Vacquier.
Nel 1965 fu chiaro, a noi e ad altri, che il magnetismo poteva rappresentare la chiave per costruire
la storia dei fondi oceanici e dei movimenti dei continenti. In soli tre anni si erano fatti notevoli
progressi. Gli studiosi che hanno dato un contributo significativo a queste ricerche sono assai
numerosi, al punto che è impossibile citarli tutti in un breve articolo, o anche semplicemente
indicare chi furono i primi a fare nuove osservazioni o a proporre nuovi modelli.
Le anomalie magnetiche (linee colorate) registrate in tutti gli oceani rivelano la medesima successione di corpi magnetizzati (bande
bianche e nere), paralleli alle dorsali oceaniche. I corpi sono costituiti da rocce che hanno raggiunto la superficie in corrispondenza
degli «assi di espansione», in periodi successivi caratterizzati da un campo magnetico «normale», come l'attuale, o «invertito». I
minerali componenti la roccia, inizialmente allo stato fuso, vengono magnetizzati nel senso del campo magnetico, quindi la roccia
viene allontanata dall'asse di espansione da nuove risalite di materiale. Nella figura sono riportate le rilevazioni magnetiche relative a
tre oceani. Le anomalie (espresse in gamma, che è una unità di misura dell'intensità del campo magnetico) e i corpi magnetici che a
esse si riferiscono sono distanziati in modo diverso nei vari oceani per effetto delle differenti velocità di espansione, ma si ha sempre
la medesima successione di 171 inversioni in 76 milioni di anni.
I primi studi sulle misure del campo magnetico sul mare furono iniziati al Lamont circa vent'anni
fa. Strumenti semplici e precisi furono approntati per essere trainati dalle navi, mentre al tempo
stesso si elaborarono tecniche efficienti per la registrazione e l'interpretazione dei dati necessari alla
ricostruzione delle strutture dei fondi oceanici sottostanti agli strati sedimentari. Nel 1965, quando
si delineò compiutamente l'importanza delle anomalie magnetiche, disponevamo di una gran messe
di dati rilevati in tutti gli oceani e anche delle tecniche di elaborazione dei dati con i calcolatori.
Esaminando i dati sulla base delle nuove ipotesi, fummo in grado di riconoscere che la medesima
successione di corpi magnetici si riscontrava in corrispondenza delle dorsali del Pacifico
meridionale, dell'Atlantico meridionale e dell'Oceano Indiano.
Un ulteriore esame ha rilevato uno schema dell'espansione dei fondi oceanici che, su scala
mondiale, conferisce un significato a un'ampia varietà di osservazioni. Esso, per esempio, sembra
spiegare molti terremoti, stabilisce una scala cronologica dettagliata per le inversioni del campo
magnetico, e spiega la direzione e l'entità della deriva dei continenti. I fenomeni geologici che
intervengono nell'espansione lungo le dorsali e nello sprofondamento lungo i bordi dei continenti
non sono tuttavia ancora compiutamente spiegati.
La cronologia geomagnetica
I corpi magnetizzati dei fondi oceanici forniscono la storia, sorprendentemente completa, delle
inversioni del campo magnetico per un arco di tempo di 76 milioni di anni, fino a comprendere
parte del Cretacico. Si iniziò con la scala cronologica stabilita dagli studiosi della Stanford
University e dell'U.S. Geologica] Survey, che correlarono la magnetizzazione con l'età delle rocce,
determinata con metodi radioattivi, risalendo a circa 3,5 milioni di anni. Confrontando le età
assegnate a specifiche inversioni del campo magnetico con le distanze dall'asse delle dorsali,
fummo in grado di estendere le osservazioni di Vine e Wilson a buona parte dei fondi oceanici,
determinando le velocità di espansione nei vari oceani. Le velocità risultarono diverse per vari tratti
della dorsale, ma in molte aree sembravano assai costanti nel tempo. Esse variano da due a cinque
centimetri all'anno. Si tratta di valori notevoli su scala geologica, anche se risultano dello stesso
ordine di quelli riscontrati lungo la faglia di S. Andrea nella California meridionale.
Nelle diverse aree studiate non abbiamo rilevato alcuna evidente interruzione nel movimento di
espansione. Abbiamo pertanto ritenuto di poter assumere come costante la velocità di espansione e
di datare, su questa base, le inversioni della polarità magnetica ben oltre i 3,5 milioni di anni della
scala cronologica citata. Questa estrapolazione può apparire a prima vista ingiustificata, ma essa è
in effetti suffragata dall'accordo dei dati ottenuti nei vari oceani, nonché dalla compatibilità con
altre prove geofisiche, quali per esempio le datazioni radioattive e paleontologiche delle rocce. Nei
limiti di errore insiti nei vari metodi, non si sono rilevate discordanze. Finora abbiamo identificato
171 inversioni del campo magnetico terrestre su un arco di tempo di 76 milioni di anni. Riteniamo
che le datazioni di ciascuna di queste fasi magnetiche siano abbastanza accurate. Evidentemente, se
l'espansione dei fondi oceanici si fosse interrotta bruscamente in tutto il mondo per un certo periodo
di tempo, la nostra scala cronologica risulterebbe accorciata dello stesso periodo di tempo. Tale
eventualità non sembra tuttavia molto probabile, anche se non può essere esclusa del tutto. Nel
complesso, le prove dell'accuratezza della scala cronologica sono talmente rilevanti che essa può
essere ora utilizzata per lo studio delle variazioni delle velocità di espansione in alcune delle aree
che risultano più complesse.
La durata media dei periodi con campo magnetico normale, o attuale, risulta di 420.000 anni,
mentre quella dei periodi con campo magnetico invertito è di 480.000. I due valori, abbastanza
vicini, indicano come la Terra abbia all'incirca la stessa probabilità di trovarsi in uno stato
magnetico e nell'altro. Il periodo di polarità magnetica attuale è già durato 700.000 anni e pertanto
siamo forse prossimi a un cambiamento. Soltanto il 15% dei periodi a polarità normale sono infatti
durati più di 700.000 anni, anche se pare che alcuni periodi abbiano raggiunto i tre milioni di anni.
D'altro canto, i periodi più 'brevi risulterebbero inferiori ai 50.000 anni, ma in realtà è difficile
controllare questo dato, in quanto si tratta di intervalli di tempo troppo brevi per essere confermati
mediante metodi di datazione assoluti. Ciò lascia intravedere uno dei limiti della scala cronologica
geomagnetica, che per essere così dettagliata difficilmente potrà essere presto smentita, mentre
d'altro canto è difficile usarla per datare corpi magnetici limitati. Per utilizzare la scala cronologica
geomagnetica è necessario conoscere l'età approssimativa dei materiali, così come si usa il mirino
telescopico per orientare un potente telescopio.
Il geomagnetismo di cui abbiamo parlato è «congelato», nelle rocce ignee di tipo basaltico che
risalgono dal profondo della Terra. Naturalmente, su gran parte del fondo oceanico questo
basamento igneo è ricoperto da depositi sedimentari di vario spessore. Anche i sedimenti possono
essere magnetizzati nel senso del campo magnetico terrestre quando si depositano sul fondo
dell'oceano. (La loro magnetizzazione rappresenta tuttavia soltanto un decimillesimo di quella dei
basalti, cosicché anche un notevole spessore di sedimenti non interferisce con le misure delle
anomalie magnetiche determinate dalle rocce del basamento.) Carotando il fango dei fondi marini,
si possono portare alla superficie campioni degli strati sedimentari che registrano le inversioni del
campo magnetico. Alcuni studiosi hanno recentemente sviluppato delle tecniche assai sensibili per
misurare la debole magnetizzazione di questi campioni. In tal modo sono state registrate le
inversioni magnetiche fino a circa dieci milioni di anni fa. La possibilità di correlare nel tempo
strati sedimentari dei diversi oceani si è dimostrata di grande utilità per i geologi, che spesso non
dispongono di altre valide indicazioni sull'età degli strati. Si sono osservate evidenti correlazioni fra
le inversioni magnetiche e le principali modificazioni delle microfaune fossili. Si è pensato che tali
modificazioni fossero il risultato di mutazioni determinate dall'aumento dell'esposizione ai raggi
cosmici, qualora l'effetto protettivo del campo magnetico terrestre si fosse attenuato nel corso
dell'inversione di polarità magnetica. Tuttavia vi possono essere spiegazioni alternative, che
verranno esposte successivamente in questo articolo.
Considerazioni conclusive
La sensazione di molti geofisici che si stia per giungere a teorie globali sui fenomeni terrestri
deriva dalla singolare coincidenza nello spazio e nel tempo di certi fenomeni geofisici, molti dei
quali riguardano le dinamiche del nostro pianeta. Le teorie esistenti non stabiliscono infatti alcuna
relazione di causa ed effetto tra questi fenomeni.
Riportiamo brevemente alcune di queste coincidenze. Il polo di espansione attuale si trova,
almeno per diversi oceani, in prossimità dell'asse magnetico terrestre. Analogamente il polo di
espansione del Pacifico settentrionale, nel Cretacico, si trovava in prossimità del polo magnetico
dello stesso periodo. In corrispondenza delle inversioni magnetiche si sono spesso notati
significativi cambiamenti nelle microfaune marine. La caduta di un grande meteorite avvenne
esattamente in corrispondenza dell'ultima inversione del campo magnetico. Alcuni studiosi hanno
recentemente preso in considerazione i rapporti esistenti fra l'attività orogenetica e le inversioni
magnetiche, mentre altri intravedono una correlazione fra le variazioni nell'espansione dei fondi
oceanici e le stesse fasi orogenetiche. È anche stata suggerita la possibilità che il campo magnetico
terrestre sia generato da movimenti convettivi, causati a loro volta da irregolarità dell'orbita
terrestre. È anche stata ripresa una teoria, vecchia di trent'anni, secondo la quale le epoche glaciali
furono causate da cambiamenti dell'inclinazione dell'asse terrestre. Vi sono infine prove evidenti
che i principali terremoti avvengano in corrispondenza di certe variazioni nel movimento di
rotazione della Terra.
La rappresentazione su scala mondiale dell'espansione dei fondi oceanici risulta particolarmente significativa se si confrontano i dati
magnetici con quelli sismici. Le dorsali oceaniche (tratti neri marcati) sono dislocate trasversalmente dalle zone di frattura (linee sottili).
In base ai valori dell'espansione, stabiliti sui dati magnetici, l'autore e i suoi colleghi hanno determinato le linee « isocrone », che
rappresentano l'età dei fondi oceanici in milioni di anni (linee tratteggiate sottili). Ai margini di molte masse continentali (linee grige) si
trova buona parte delle fosse oceaniche profonde (tratteggiate). Riportando gli epicentri dei terremoti registrati tra il 1957 e il 1967
(punti colorati) essi si addensano presso le dorsali o le fosse oceaniche.
Questo articolo non è il luogo adatto per una completa valutazione di tutti questi aspetti. È tuttavia
interessante notare come un tratto comune di queste, e di altre considerazioni che si trovano al
limite del campo di applicazione delle ricerche geofisiche, sia rappresentato dal ruolo tenuto dagli
spostamenti dell'asse di rotazione terrestre. Sembra che variazioni anche minime possano influire in
modo sorprendente sia sugli eventi climatici che si svolgono sulla superficie della Terra, sia sulle
forze agenti all'interno di essa.
L'intima relazione fra il polo di espansione e quello magnetico suggerisce che i movimenti
convettivi all'interno della Terra e il campo magnetico terrestre possano avere una causa comune.
Entrambi potrebbero derivare sia da irregolarità orbitali sia da fenomeni di induzione nell'ambito
della massa terrestre. Poiché il verso delle correnti convettive non muta quando il campo magnetico
si inverte, è chiaro che i movimenti convettivi non generano per se stessi il campo magnetico, e
nemmeno è probabile che l'inversione del campo possa determinare il movimento nelle cellule di
conversione. Qualunque sia la forza motrice di questi due fenomeni, si direbbe che essa è legata ai
movimenti della Terra. Si è recentemente dimostrato che i terremoti di intensità superiore a 7,5
nella scala di Richter, causano, o sono causati da cambiamenti della nutazione, un piccolo
movimento rotatorio dell'asse di rotazione terrestre. Qualunque sia il meccanismo di questi
cambiamenti, si può pensare che anche nel passato le variazioni dei movimenti assiali della Terra
possano aver causato i principali terremoti, la formazione delle catene montuose e anche le
inversioni del campo magnetico.
Concludendo, a intervalli di pochi mesi si verificano cambiamenti nel movimento di rotazione
della Terra che interessano l'espansione dei fondi oceanici e causano i terremoti a essa associati. Se
tali cambiamenti sono abbastanza ampi, si può anche arrivare a un'inversione del campo magnetico.
Si noti che la presenza del campo magnetico e l'espansione dei fondi oceanici sembrano dovuti al
semplice fatto che la Terra ruota su se stessa. Sono soltanto le variazioni di moto che sono associate
a certi terremoti e alle inversioni del campo magnetico. I cambiamenti delle microfaune marine
sono collegabili a variazioni climatiche, che a loro volta derivano da variazioni del moto terrestre.
Queste considerazioni non possono ancora essere confermate, ma nemmeno decisamente respinte.
In verità, esse non sono più astruse di quanto si presentassero, fino a pochi anni fa, le teorie
sull'espansione dei fondi oceanici.
Dicembre 1969
I fondi oceanici
La scoperta che essi si espandono in corrispondenza delle dorsali medio-oceaniche, suggerisce che
essi siano costituiti da enormi zolle, che si comportano come unità strutturali nella dinamica della
crosta terrestre.
di H.W. Menard
La geologia marina è una scienza in piena evoluzione. Tutti i dati ottenuti negli ultimi trent'anni
(rilievi batimetrici, campionamenti e fotografie dei fondali, misure del flusso di calore attraverso di
essi e loro marcatura magnetica), sono stati reinterpretati sia secondo la teoria della deriva dei
continenti sia alla luce delle recenti acquisizioni sull'espansione dei fondi oceanici e sulla nuova
tettonica a zolle, secondo la quale la crosta terrestre è costituita da zolle che si accrescono da un lato
e si dissolvono dall'altro. L'acquisizione di nuovi elementi, e la loro interpretazione, si sussegue a
un ritmo talmente rapido che la letteratura scientifica fatica a tenere il passo. In un momento come
questo ogni sintesi globale corre il rischio di avere vita molto breve; ciononostante può essere
interessante presentare un numero così notevole e vario di dati inseriti in un quadro coerente.
Prima che la deriva dei continenti, l'espansione dei fondi oceanici e la tettonica a zolle avessero
attirato l'attenzione dei geologi, la maggior parte di essi riteneva che la crosta terrestre formasse uno
strato relativamente stabile attorno al mantello e al nucleo. In questo quadro, si ammettevano solo
movimenti di carattere isostatico, determinati dalla tendenza di blocchi rigidi della crosta a
galleggiare sul mantello plastico. Le strutture geologiche che comportavano uno spostamento
orizzontale di un centinaio di chilometri erano ritenute eccezionali. Tale modo di vedere non è più
ammissibile alla luce delle nuove scoperte, che sono tutte in accordo con l'espansione dei fondi
oceanici, la deriva dei continenti e la tettonica a zolle. Li riassumerò qui brevemente, per mostrare
le loro relazioni con i lineamenti attuali dei fondi oceanici.
Secondo la teoria della tettonica a zolle, la crosta terrestre è suddivisa in immensi frammenti che
galleggiano sul mantello. Quando una di queste zolle si muove, essa ruota attorno a un punto
chiamato polo dell'espansione. Questo movimento determina grandi effetti geologici; quando due
zolle si allontanano l'una dall'altra, staccandosi lungo una linea detta linea di espansione, si
determina una frattura nella crosta attraverso la quale risale il materiale fuso del mantello, che
solidificandosi, si salda ai margini di ognuna di esse. Nello stesso tempo il margine della zolla più
distante dall'asse della frattura, il margine migrante, viene spinto contro un'altra zolla e può subire
un piegamento verso il basso e sprofondare a una profondità di cento chilometri o più in una zona di
materiale plastico, chiamata astenosfera. Questo processo provoca la rifusione del materiale della
zolla, allo stesso ritmo con cui essa si accresce lungo la dorsale medio-oceanica. Molte delle fessure
attraverso le quali si genera il materiale delle zolle si trovano nel mezzo dei fondi oceanici, che
pertanto si accrescono con continuità rispetto a una lunga linea mediana. Dove le zolle si
allontanano, anche le masse continentali subiscono lo stesso movimento.
La conseguenza più ovvia di questo processo che avviene nel fondo oceanico è la simmetria dei
fianchi da una banda e dall'altra dell'asse della frattura. Quando due zolle crostali si allontanano (a
una velocità compresa fra 1 e 10cm all'anno) il materiale basaltico che fluisce attraverso la frattura
si suddivide a metà. Il sollevamento produce una dorsale che da entrambi i lati è fiancheggiata da
profondi bacini oceanici e caratterizzata da rilievi paralleli alla dorsale stessa. In corrispondenza
della dorsale il flusso di calore che emana dall'interno della terra è generalmente elevato, per effetto
dell'intrusione di filoni di roccia fusa. Una situazione analoga a quella che si verifica sotto le dorsali
medio-oceaniche si può sviluppare anche al di sotto di una massa continentale, determinando una
depressione lineare, come il Mar Rosso o il golfo della California. Se l'espansione continua o se la
linea lungo la quale essa avviene si prolunga entro un oceano, alla fine si determina una morfologia
simmetrica, come quella che ora si osserva nei bacini oceanici. Questa simmetria si manifesta anche
nei caratteri meno evidenti del fondo oceanico, per esempio nella distribuzione del magnetismo
nelle rocce basaltiche su entrambi i lati delle dorsali medio-oceaniche. Quando il materiale fuso
raggiunge la superficie e si consolida, registra e «congela» in sé la direzione del campo magnetico
terrestre. Poiché quest'ultimo subisce periodiche inversioni, ogni fascia di nuovo materiale che si
allontana dalla dorsale presenta la stessa distribuzione del magnetismo. Ne risulta che sui due lati si
osservano bande parallele con caratteri geomagnetici corrispondenti, il cui andamento rappresenta
una prova del fenomeno dell'espansione e ne permette la datazione, per confronto con strutture
magnetiche simili rilevate sui continenti e datate in modo sicuramente attendibile con altri mezzi.
La prominenza della dorsale medio-oceanica è funzione della differenza fra la velocità di
espansione e quella del lento sprofondamento che si manifesta dopo che il materiale si è
solidificato. La velocità di sprofondamento si mantiene pressoché costante per tutto il bacino
oceanico e sembra dipendere dall'età della crosta. Essa può essere calcolata dividendo l'età di una
certa porzione della crosta oceanica, rivelata dalla distribuzione del magnetismo, per la profondità
alla quale si trova. Tali calcoli dimostrano come la velocità di sprofondamento della crosta ammonti
a circa 9cm ogni mille anni per i primi 10 milioni di anni dopo il suo consolidamento, a 3,3cm nei
successivi 30 milioni di anni, e quindi a 2cm. Non tutta la crosta sprofonda: in corrispondenza della
parte meridionale della dorsale medio-atlantica, il fondo oceanico si è mantenuto allo stesso livello
almeno per 20 milioni di anni.
La velocità con cui il fondo oceanico si espande varia da 1 a 10cm all'anno. Un'espansione rapida
dà origine a rilievi morbidi, come nel Pacifico orientale. I fianchi ripidi della dorsale medio-
atlantica, invece, sono dovuti alla bassa velocità di espansione.
Si immagini, per esempio, che una zolla situata a oriente della linea di espansione rimanga fissa,
mentre quella a occidente si muove. Una metà del nuovo materiale che affiora in corrispondenza
dell'asse di espansione aderisce alla zolla fissa e l'altra metà a quella in movimento. La successiva
risalita di materiale avviene a una distanza dalla zolla fissa pari alla metà della larghezza della
fascia di nuovo materiale consolidato. Il flusso successivo risale invece a una distanza dalla zolla
fissa equivalente all'intera larghezza della fascia primitiva e così via. Ne risulta quindi che la linea
di espansione si allontana dalla zolla fissa seguendo quella in movimento. Se ciò avvenisse a una
velocità superiore alla metà di quella con la quale se ne allontana la zolla in movimento, ne
risulterebbe una sorta di effetto Doppler, nel senso che le bande magnetiche sarebbero addensate
dalla parte della placca in movimento e allargate dalla parte della placca fissa.
Può sembrare improbabile che la linea di espansione mantenga una velocità costante e rimanga
esattamente equidistante dalle due zolle. W. Jason Morgan, della Princeton University, osserva
tuttavia che non vi sono serie obiezioni a tale ipotesi, poiché è logico che la crosta si divida nelle
zone di minore resistenza, che sono ovviamente quelle dove essa si era aperta in precedenza. Ne
risulta che la linea di espansione si trova sempre esattamente in posizione equidistante da due zolle
crostali, indipendentemente dai suoi spostamenti.
Il movimento delle linee di espansione rende ragione di alcune delle principali strutture dei fondi
oceanici. La dorsale del Cile, al largo della costa del Sudamerica, e quella del Pacifico orientale, si
trovano in corrispondenza a linee di espansione. Dato che fra tali strutture la crosta non sprofonda,
mentre sul lato interno di ciascuna di esse la crosta si accresce continuamente, almeno una delle
linee di espansione deve essere in movimento, altrimenti il bacino situato fra le due si dovrebbe
innalzare a formare rilievi montuosi, o sprofondare in una fossa. Anche la dorsale di Carlsberg,
nell'Oceano Indiano, e la dorsale medio-atlantica non sono separate da sprofondamenti crostali, e
quindi una di esse si deve muovere.
Anche l'antica dorsale di Darwin, nel Pacifico occidentale, e la recente dorsale del Pacifico
orientale, possono corrispondere a linee di espansione in movimento. Come nel caso della dorsale di
Carlsberg e di quella medio-atlantica, l'esistenza di due vaste zone di espansione sugli opposti lati
dell'oceano, senza che vi siano sprofondamenti della crosta, lascia i geologi perplessi. Tuttavia, è
possibile che la linea di espansione del Pacifico occidentale sia semplicemente migrata attraverso il
bacino, lasciandosi indietro i rilievi della dorsale di Darwin. Le due dorsali potrebbero quindi essere
state generate lungo la stessa linea di espansione. Si possono citare altri casi. Manik Talwani, del
Lamont-Doherty Geologica! Observatory, prospetta l'ipotesi che tutte le linee di espansione siano in
movimento.
In prossimità di una linea di espansione una zolla è costituita da due strati di materiale, uno strato
superiore «vulcanico» e uno inferiore «oceanico». Gli ammassi di lava e i relativi filoni che si
collegano al mantello costituiscono lo strato vulcanico, le cui rocce sono rappresentate da un
magma toleitico (o dagli equivalenti metamorfici), ricco di alluminio e povero di potassio. Anche lo
strato oceanico è costituito da materiale del mantello, ma non se ne conoscono con precisione
densità, composizione e condizioni. A una maggiore distanza dalla dorsale la zolla presenta anche
un terzo strato, sedimentario.
I sedimenti provengono dalle masse continentali e si depositano in tutto il bacino oceanico,
accumulandosi fino a una notevole profondità. Essi sono costituiti da fanghi calcarei contenenti
gusci di microrganismi. Oltre una certa profondità, che varia da regione a regione, i gusci calcarei si
disciolgono prima di raggiungere il fondo, per cui i sedimenti sono costituiti da argilla rossa con
altri materiali insolubili.
Per motivi solo parzialmente noti, i sedimenti non sono uniformemente distribuiti. In
corrispondenza delle linee di espansione la crosta appena consolidata è naturalmente priva di
sedimenti; nel raggio di 100 km i fanghi calcarei difficilmente raggiungono uno spessore
misurabile. Essi si accumulano a una velocità media di 10m per milione di anni, intervallo di tempo
durante il quale la zolla si sposta orizzontalmente di 10-100km e sprofonda di 100m. Le argille
rosse, invece, si accumulano a una velocità inferiore a un metro per milione di anni.
Le perplessità aumentano quando si considera che lo spessore dei sedimenti su una crosta oceanica
di età superiore ai 20 milioni di anni non aumenta più dopo che essa ha raggiunto la profondità al di
sotto della quale non si ha più sedimentazione calcarea. In molte zone, in realtà, l'età dei sedimenti
più antichi è più o meno la stessa dello strato vulcanico su cui si trovano. Si direbbe quindi che
quasi tutti i sedimenti delle profondità oceaniche si accumulino in fasce ristrette sui due lati delle
dorsali medio-oceaniche. È un fenomeno di difficile interpretazione.
Lo strato vulcanico si forma prevalentemente in corrispondenza della linea di espansione. Un certo
contributo alla sua formazione è fornito anche da magma toleitico eruttato da vulcani e camini
magmatici sulle pendici della dorsale. Si può dire in generale che lo spessore dello strato vulcanico
diminuisce con l'aumentare della velocità di espansione. Se la crosta si espande lentamente, il
materiale ha il tempo di accumularsi; un'espansione rapida riduce questo tempo e quindi l'accumulo.
Si può perciò concludere che il materiale dello strato vulcanico viene emesso con una velocità quasi
costante. Questi rapporti sono stati calcolati solo in dieci casi, ma si riferiscono a velocità di
espansione varianti da 1,4 a 12cm per anno, e a spessori da 0,8 a 3,8km.
Complessivamente il materiale vulcanico che defluisce lungo tutte le linee di espansione attive
ammonta a circa 4 km3 per anno, cioè al quadruplo del volume totale delle effusioni vulcaniche che
si verificano sulle masse continentali. Dalla superficie dell'oceano non è possibile cogliere il
minimo segno di questa attività vulcanica sottomarina. Sul finire del secolo diciannovesimo,
tuttavia, furono osservate colonne di fumo sprigionarsi dall'acqua, in corrispondenza della porzione
equatoriale della dorsale medio-atlantica. L'oceanografo inglese John Murray commentò il fatto
auspicando che il fumo preludesse alla formazione di un'isola vulcanica, che in quella zona sarebbe
stata utile alla marina britannica come base di rifornimento.
La distribuzione del magnetismo sui fondali (le età di formazione delle diverse fasce magnetizzate sono indicate dai numeri) e i
rapporti esistenti fra le dorsali e le faglie indicano i movimenti delle zolle nel Pacifico nord-orientale. Nella fase 1, i vari segmenti
delle dorsali (indicati in colore) sono dislocati dalle faglie (indicate con i nomi) per effetto dei movimenti della zolla. Nella fase 2, la
direzione di espansione è cambiata. Il riassetto delle zolle ha determinato un accorciamento del segmento B, mentre le faglie Pioneer,
Mendocino e Molokai si sono estese e orientate nelle nuove direzioni. Nella fase 3, mentre la faglia Mendocino ha mantenuto la sua
estensione, i tratti della faglia compresi fra molti degli altri segmenti si sono accorciati o sono pressoché scomparsi, poiché i segmenti
di dorsale tendono a riunirsi. Fra le faglie Murray e Molokai la dorsale si è spostata verso est e il segmento D è scomparso.
Anche lo strato oceanico, come quello vulcanico, si forma in corrispondenza delle linee di
espansione. Le misure ecometriche dello spessore di questo strato, eseguite lungo le linee di
espansione, sui fianchi delle dorsali medio-oceaniche e sui fondali oceanici profondi, dimostrano
tuttavia che, almeno in parte, lo strato oceanico non si solidifica rapidamente e completamente in
corrispondenza delle linee di espansione, ma si sviluppa lentamente dal mantello. Lo spessore dello
strato sulla linea di espansione dipende dalla velocità con cui il fondo oceanico si espande. In certe
zone, come nell'Atlantico meridionale, dove il fondo si espande a una velocità di 2 cm all'anno, non
si forma alcuno strato oceanico in un raggio di qualche centinaio di chilometri dalla linea. Più
lontano, lo strato oceanico si accumula rapidamente, raggiungendo uno spessore normale, che si
aggira sui 4-5 km sui fianchi della dorsale medio-oceanica. Una velocità di espansione di 3 cm per
anno è associata con uno strato oceanico spesso circa 2 km al centro, che aumenta il suo spessore di
1 km in 12 milioni di anni. Una zolla che si sposta a una velocità di 8 cm all'anno ha uno spessore di
3 km al centro e lo aumenta di 1 km in 20 milioni di anni. Ne risulta che quanto più la crosta
iniziale è sottile, tanto più rapidamente aumenta lo spessore con la espansione crostale.
Man mano che una zolla si espande, le faglie, le colate di lava e le eruzioni vulcaniche che si
verificano lungo le pendici della dorsale medio-oceanica ne determinano la particolare morfologia.
Tale processo si può essere verificato molto facilmente in Islanda, che costituisce una porzione
della dorsale medio-atlantica cresciuta cosi rapidamente da emergere dal mare. Una fossa tettonica
centrale, larga 45 km all'estremità settentrionale, attraversa l'isola parallelamente alla dorsale. della
fossa sono costituiti da gradinate di faglia in movimento. Altre gradinate di faglia si osservano sul
fondo della fossa, altrimenti caratterizzata da numerose fratture longitudinali, alcune delle quali
sono riempite da filoni di lava. La lava fluida risale dalle fessure, ricoprendo montagne, valli e
faglie circostanti, o formando allungati vulcani a scudo. Circa 200 di questi vulcani, che negli ultimi
100 anni sono stati in eruzione in media una volta ogni cinque anni, punteggiano il fondo della
fossa. Una trentina di essi sono normalmente attivi.
Come l'equilibrio fra espansione e sprofondamento modella le pendici delle dorsali medio-
oceaniche, cosi quello fra quantità di lava effusa e velocità d'espansione forma i rilievi sottomarini.
I rilievi maggiori si formano generalmente in corrispondenza delle linee di espansione lenta, dove
essa procede a una velocità di 3,5 cm all'anno. Al contrario, lungo una linea caratterizzata da una
velocità di espansione di 5-12 cm all'anno, si formano rilievi di altezza inferiore ai 500 m. Questa
relazione è una naturale conseguenza del fatto che il ritmo di effusione della lava, considerato su
lunghi periodi di tempo, è costante. Se valutato per brevi periodi, esso può tuttavia subire
apprezzabili variazioni come è suggerito dal fatto che uno strato vulcanico potente, associato a una
lenta espansione, può essere costituito da rilievi vulcanici, intervallati da depressioni con strato
vulcanico più sottile.
I vulcani sottomarini cominciano a formarsi, di solito, in corrispondenza delle linee di espansione, quindi si accrescono spostandosi
sulla crosta in movimento. Se un vulcano cresce abbastanza da superare la distanza che lo separa dalla superficie dell'acqua, emerge a
formare un'isola, come ad esempio quella di S. Elena nell'Atlantico meridionale. Per emergere un vulcano di questo tipo deve
raggiungere un'altezza di 4000 metri in dieci milioni di anni. I vulcani insulari finiscono sott'acqua dopo 20 o 30 milioni di anni, e
costituiscono quindi i rilievi sottomarini sormontati da sedimenti che vengono chiamati «guyots».
Alcune strutture magnetiche sono ancora più difficili da interpretare. Douglas J. Elvers ed i suoi
colleghi del U.S. Coast and Geodetic Survey scoprirono una curva a forma di boomerang nella
distribuzione del magnetismo dei fondali a sud delle Aleutine. I bracci di questa struttura, che
Elvers chiama «great magnetic bight» a, sono dislocati da zone di frattura perpendicolari
all'andamento generale della struttura magnetica. Walter C. Pitman III e Dennis E. Hayes del
Lamont-Doherty Geological Observatory, fra gli altri, sono stati in grado di spiegare in modo
perfettamente comprensibile questa struttura, ammettendo che i margini interni di tre placche si
incontrino formando una Y. Schemi complessi assai simili sono stati osservati ora anche
nell'Atlantico e nel Pacifico. Infatti, se le faglie trasformi sono perpendicolari alle linee di
espansione e si conoscono due velocità di espansione, sia l'orientazione sia la velocità
caratteristiche di una terza linea possono essere calcolate ancor prima che quest'ultima venga
riscontrata nei rilievi magnetici. Si può anche calcolare l'andamento e la velocità caratteristica di
una terza linea che sia già stata inghiottita in una fossa.
Man mano che una zolla si accresce, il suo margine esterno si distrugge con lo stesso ritmo. Talora
esso si infila sotto il margine di un'altra zolla e rientra nell'astenosfera. In tal caso si viene a formare
una profonda fossa, come quella delle isole Tenga e delle Marianne nel Pacifico. Altrove, la crosta
in movimento determina nuovi rilievi. Xavier Le Pichon, del Lamont-Doherty Geological
Observatory, ne deduce che il verificarsi dell'uno o dell'altro fenomeno dipende dalla velocità
relativa delle due zolle. Se tale velocità è inferiore a 5-6 cm per anno, la crosta può resistere agli
sforzi e formare vaste catene montuose corrugate, come quella dell'Himalaya. In questi rilievi la
crosta è deformata con sviluppo di piegamenti e sovrascorrimenti su larga scala. Se la velocità è più
elevata, la zolla sprofonda nel mantello, creando una fossa oceanica, in cui la morfologia e le
strutture superficiali indicano le tensioni in atto.
Anche le zone di sprofondamento della crosta dove i movimenti non sono attualmente in corso
sono rilevabili dallo studio delle strutture geologiche. Piegamenti e sovrascorrimenti su larga scala
possono costituire una prova di antichi sprofondamenti crostali, benché tali strutture possano anche
svilupparsi in altri modi. Anche le rocce di un certo tipo possono indicare la formazione di una
fossa. Le ghirlande di isole parallele alle fosse, per esempio, sono caratterizzate da vulcani che
eruttano lave andesitiche, molto differenti dalle lave basaltiche del fondo oceanico. Le stesse fosse,
e i profondi fondali oceanici. sono caratterizzati dalla sedimentazione di grovacche e livelli
selciferi, che nelle masse continentali sono caratteristiche dei bacini di geosinclinale, vaste
depressioni dovute a spinte orizzontali simili a quelle determinate dagli spostamenti delle zolle
crostali. Perciò la presenza di alcuni o di tutti questi tipi di rocce può indicare un antico
sprofondamento crostale. Questo collegamento della geologia sottomarina tra le linee di espansione
e gli sprofondamenti crostali delle masse continentali si sta rivelando uno degli aspetti più
produttivi della tettonica a zolle. Gli sprofondamenti crostali, tuttavia, non sono in grado di darci,
sulla storia del fondo oceanico, la stessa ricchezza di informazioni che ci viene fornita dalle linee di
espansione, poiché nei primi la maggior parte degli eventi geologici è obliterata dai movimenti
successivi.
Al margine delle masse continentali si osservano fatti inspiegabili. I due lati di una fossa oceanica
si spostano l'uno verso l'altro a una velocità di oltre 5cm per anno, per cui ci si aspetterebbe di
trovare i sedimenti sul fondo della fossa ripiegati a formare rilievi e depressioni. I rilievi di David
William Scholl e collaboratori dell'U.S. Naval Electronics Laboratory Center sul fondo delle fosse
hanno invece messo in evidenza sedimenti non deformati. Oltre a ciò, l'enorme quantità di
sedimenti oceanici che presumibilmente è stata trascinata ai margini delle fosse non viene registrata
dai rilievi effettuati sul fondo delle fosse stesse. Del fenomeno esistono varie ingegnose, ma inedite,
spiegazioni, sulla base della tettonica a zolle. Una di esse potrebbe rivelarsi esatta. Secondo tale
ipotesi, i sedimenti sono ripiegati in modo così intricato che le scarpate e le pareti delle fosse non
possono venir risolte con le comuni tecniche di rilevamento, che studiano i sedimenti dalla
superficie dell'oceano e lungo profili perpendicolari alle scarpate. Questo tipo di pieghe potrebbe
essere rilevato soltanto portando lo strumento di registrazione molto più vicino al fondo, secondo
una direzione che formi con la scarpata un angolo acuto.
Una catena di montagne si forma quando i margini
esterni di due zolle si spingono uno verso l'altro a una
velocità inferiore a sei centimetri all'anno. Anziché
infilarsi una sotto l'altra, le due zolle subiscono
entrambe dei corrugamenti e danno luogo a una
catena di montagne. Questa è costituita da materiale
della crosta ripiegato sotto gli sforzi di compressione
esercitati dalle due zolle. Le catene di questo tipo
sono riconoscibili perché comprendono sedimenti
caratteristici degli alti fondali oceanici.
Sparse sulla Terra, sono più di 100 le piccole zone di attività vulcanica isolata note ai geologi
come hot spot («punti caldi»). Diversamente dalla maggioranza dei vulcani terrestri, non sempre
essi si trovano ai confini delle grandi zolle in movimento che costituiscono la superficie terrestre;
molti di essi, al contrario, stanno ben addentro alle placche. La maggior parte dei punti caldi si
muove solo lentamente, e in alcuni casi il moto delle placche ha lasciato dietro di essi delle code di
vulcani estinti. I punti caldi e le loro code di vulcani sono pietre miliari che segnano il passaggio
delle zolle.
Che le zolle si muovano, oggi è fuori discussione. L'Africa e l'America meridionale, per esempio,
si allontanano l'una dall'altra e nuovo materiale viene iniettato nel fondo oceanico che li separa. Le
loro linee di costa complementari e certe caratteristiche geologiche che sembrano scavalcare
l'oceano ci ricordano come questi continenti un tempo fossero uniti. Il moto relativo delle zolle che
portano questi continenti è stato ricostruito dettagliatamente, ma il moto di una zolla rispetto a
un'altra non può venire ricondotto facilmente al moto per quanto ri guarda l'interno della Terra. Non
è possibile stabilire se sono ambedue i continenti che si muovono (in direzioni opposte) o se un
continente è stazionario ed è l'altro che si allontana. I punti caldi, che sono ancorati agli strati più
interni della Terra, forniscono gli strumenti sperimentali necessari a risolvere la questione. L'analisi
della distribuzione dei punti caldi mostra che la zolla africana è stazionaria e che negli ultimi 30
milioni di anni non si è mossa.
Il significato dei punti caldi non si limita al loro ruolo come sistema di riferimento. Oggi appare
chiaro che essi hanno anche un importante significato nei processi geofisici che spingono le placche
attorno al globo. Quando una zolla continentale si trova su uno hot spot, il materiale che risale dagli
strati più profondi crea un vasto duomo, cioè un inarcamento verso l'alto. A mano a mano che
cresce, il duomo provoca delle profonde fratture e, almeno in qualche caso, il continente può
spaccarsi completamente lungo alcune di queste fratture, così che il punto caldo dà inizio alla
formazione di un nuovo oceano. Quindi, come le teorie precedenti hanno spiegato il moto dei
continenti, così i punti caldi possono spiegarne i mutamenti.
La teoria moderna della tettonica a zolle divide in due strati la parte più esterna della Terra. La
litosfera, che è lo strato esterno e l'unico a noi direttamente accessibile, è fredda e rigida. Sotto di
essa c'è l'astenosfera, incandescente e in grado di deformarsi lentamente. L'astenosfera non è
liquida; per quanto all'interno della Terra vi siano piccole quantità di roccia fusa, essa è solida; ma è
un solido che può fluire lentamente quando è sottoposto a sforzi meccanici. È simile al ghiaccio,
che sembra fragile quando se ne osserva un cubetto, ma è chiaramente plastico in un ghiacciaio che
scorre giù per una vallata montana.
La distinzione fra litosfera e astenosfera si basa sulla rigidità e in larga misura riflette differenze di
temperatura. Una distinzione più vecchia, che si basa sulla composizione chimica, divide la parte
esterna della Terra in crosta e mantello. Il limite fra questi strati non coincide con quello fra
litosfera e astenosfera: la crosta è la parte superiore della litosfera, e quest'ultima contiene anche la
parte più esterna del mantello. L'astenosfera si trova di solito interamente nel mantello.
Sotto gli oceani la crosta è composta essenzialmente di basalti; viceversa i continenti sono
costituiti in buona parte di rocce granitiche. Il granito è più leggero del basalto e i continenti sono
considerevolmente più spessi della crosta oceanica, con il risultato che i continenti galleggiano ben
più in alto dei fondi oceanici. In passato è stato ipotizzato che i continenti si muovano sui fondi
oceanici come delle navi, ma questo paragone ha dovuto essere abbandonato. In effetti i continenti
vengono trasportati dalla litosfera come zattere bloccate nel ghiaccio di un fiume gelato.
La litosfera si divide in una dozzina circa di zolle, sulle quali sono saldamente ancorati i
continenti. Le zolle sono separate le une dalle altre dalle creste delle dorsali medio-oceaniche, dove
si crea della nuova litosfera. Le dorsali percorrono tutti gli oceani del mondo e costituiscono il più
vasto sistema montuoso della Terra. Alle creste delle dorsali il vulcanismo sottomarino aggiunge
del nuovo materiale alle zolle, facendole così divergere. Il processo opposto, cioè la consunzione
delle placche di litosfera, si osserva dove le zolle convergono e si sovrappongono. In queste zone,
dette zone di subduzione, una zolla si tuffa al di sotto di un'altra e viene riassorbita nel mantello.
Si crede che il moto delle placche litosferiche sia associato a correnti convettive a grande scala nel
mantello. Effettivamente queste correnti potrebbero causare il moto delle zolle, ma si sa troppo
poco sulla convezione nel mantello perché possano essere garantite delle conclusioni sicure.
Quasi tutta l'attività vulcanica è limitata ai margini delle zolle. Per tutta la lunghezza delle creste
medio-oceaniche si ha vulcanismo sottomarino in cui le lave eruttate sono principalmente
basaltiche. Ai limiti delle placche che convergono le lave si formano per fusione dei costituenti più
leggeri della placca in subduzione. La lava che risale può costituire un arco di isole, come quelli
delle Filippine, del Giappone, delle Aleutine e, in Italia, delle Eolie, oppure una catena montuosa
vulcanica, come le Ande e la Catena delle Cascate americane. Le lave associate ai margini in
compressione sono diverse dai basalti delle creste medio- -oceaniche; note come lave andesitiche,
contengono più silicio, sodio e potassio e meno ferro e magnesio.
Il vulcanismo che non è associato a margini di zolle è una piccola percentuale di tutta l'attività
vulcanica sulla Terra, probabilmente assai meno dell'uno per cento. Sono questi vulcani isolati che
sono stati chiamati «punti caldi». Si distinguono proprio perché sono isolati: in mezzo a una zolla di
litosfera rigida, lontano dai centri di attività sismica, un punto caldo può essere l'unico tratto di
rilievo di un paesaggio altrimenti monotono. Quasi tutti i punti caldi sono zone di vasto
sollevamento della crosta, e questo inarcamento è diverso dall'attività a scala minore, caratteristica
di tutti i vulcani, che dà luogo alla formazione di montagne o di isole. Infine le lave associate ai
punti caldi sono diverse da quelle che si trovano sia nelle dorsali medio-oceaniche sia nelle zone di
subduzione. Le lave dei punti caldi sono basaltiche come quelle delle dorsali oceaniche, ma
contengono percentuali maggiori di metalli alcalini. Le lave ricche di alcali sono rare ai margini
delle zolle.
Il meccanismo che genera i punti caldi va ricercato nel mantello. Essi possono essere le
manifestazioni superficiali di altrettanti piume («pennacchi»), cioè di correnti cilindriche
ascensionali di materiale incandescente ma solido. I pennacchi potrebbero risalire da zone più
profonde dell'astenosfera, dal limite dove si ha un passaggio di fase, a diverse centinaia di
chilometri di profondità nel mantello. La caratteristica composizione delle lave di punti caldi fa
pensare che la loro sorgente sia isolata dalla circolazione generale del mantello. Ad esempio i
pennacchi potrebbero avere origine in zone stagnanti, al centro di correnti convettive circolari,
oppure potrebbero provenire da una parte profondissima del mantello, sottostante altre parti che
verrebbero efficacemente rimescolate dalla convezione. Tuttavia la circolazione nel mantello è
ancora poco conosciuta, e per il momento ogni tentativo di spiegare l'origine dei punti caldi deve
restare al livello di ipotesi. Qui ci occuperemo principalmente delle loro manifestazioni superficiali,
che non dipendono strettamente dalla sorgente precisa del magma.
Forse il punto caldo più vistoso e più facilmente riconoscibile è quello che ha formato le isole
Hawaii. Durante una spedizione nei mari del sud nel 1838, il geologo americano James Dwight
Dana notò che queste isole, a mano a mano che dal Kilauea e dal Mauna Loa, che sono i vulcani
attivi delle Hawaii, ci si allontana verso nord-ovest, diventano progressivamente più vecchie.
L'apertura dell'Atlantico meridionale cominciò 120 milioni di anni fa, quando il grande continente meridionale di Gondwana si
spezzò. In Africa, prima di allora, c'era stato un abbondante vulcanismo di hot spot, e questo indica che il continente era fermo sul
mantello. Poi i continenti, una volta separati da una frattura, si allontanarono simmetricamente dalla dorsale medio-oceanica che si
stava formando, e il moto della zolla africana estinse i punti caldi. Circa 30 milioni di anni fa l'Africa si fermò e sulla sua zolla
cominciò il periodo attuale di vulcanismo; ma siccome l'espansione del fondo oceanico continuava nella dorsale medio-atlantica, la
dorsale stessa fu obbligata a muoversi verso ovest e la velocità dell'America meridionale raddoppiò. La dorsale si formò su una linea
che comprendeva diversi punti caldi (ne è raffigurato uno solo). Finché fu la dorsale a stare ferma, i punti caldi produssero code di
rocce vulcaniche che si spingevano fino alle coste dei continenti, mentre, quando essa cominciò a migrare. i punti caldi «caddero»
dalla cresta della dorsale e ora sono isolati sulla zolla africana
Serie di rocce indicano che l'Africa ha avuto numerosi vulcani attivi fino all'apertura del
continente di Gondwana, 120 milioni di anni fa. Poi l'attività vulcanica cessò e non riprese fino a 30
milioni di anni fa. I due periodi di attività e la lunga stasi fra di essi possono essere visti come
segnali che indicano le fasi della formazione dell'oceano Atlantico.
I primi episodi di attività vulcanica fanno pensare che l'Africa, quando faceva parte del continente
di Gondwana, fosse stazionaria sul mantello. Quando il supercontinente si fratturò lungo l'attuale
dorsale medio-atlantica l'Africa si mosse verso est: questo movimento sul mantello fece estinguere
il vulcanismo per i successivi 90 milioni di anni. Conviene ammettere che la dorsale medio- -
atlantica che si stava sviluppando fosse allora stazionaria, e che i due continenti se ne allontanassero
simmetricamente; essi ruotavano in direzioni opposte attorno a un asse passante presso il capo
Farewell, sulla costa groenlandese.
Circa 30 milioni di anni fa la zolla africana si fermò e l'attività vulcanica riprese, continuando fino
a oggi. Se l'attività vulcanica si era fermata, non si era fermata l'espansione del fondo oceanico; di
conseguenza la dorsale medio-atlantica dovette cominciare a spostarsi verso ovest. Il moto relativo
del continente africano e dell'America meridionale restava immutato, ma raddoppiava la velocità
della zolla sudamericana rispetto al mantello. Quando la dorsale medio-atlantica cominciò a
spostarsi, i punti caldi sulla sua cresta furono lasciati indietro, e attualmente una linea di punti caldi
fra i quali si trovano Tristan da Cunha e l'isola di Ascensione è situata qualche centinaio di
chilometri a est della cresta, su una litosfera che ha 30 milioni di anni.
Le prove della mobilità della dorsale medio-atlantica stanno sul fondo oceanico. A Tristan da
Cunha inizia una catena di materiali vulcanici, diretta a nord-est, detta dorsale di Walvis. Si crede
che sia una traccia del punto caldo, prodotta durante la prima parte dell'espansione (quando la cresta
era fissa e l'Africa era in movimento); infatti arriva fino alla costa africana, con lave che datano
l'apertura del Gondwana. Dal lato opposto della dorsale medio-atlantica c'è una altra linea di
materiali vulcanici, la dorsale del Rio Grande, che arriva fino alla costa brasiliana. Il suo termine
dal lato mare non ha punti caldi, ed è separato dalla dorsale da un intervallo equivalente a 30
milioni di anni.
Si può spiegare la disposizione di questi tratti superficiali ammettendo che quando l'Atlantico si è
formato, Tristan da Cunha era già un vulcano attivo e poggiava direttamente sul rift che poi si è
aperto per formare l'oceano. Le lave del punto caldo si riversarono su tutti e due i fianchi della
dorsale e furono poi trasportate via dalle zolle in espansione; eruzioni continue formarono due
tracce a forma di V. Quando la dorsale medio-atlantica cominciò a spostarsi a ovest, il punto caldo
fu lasciato indietro sulla zolla africana stazionaria. Non poteva più produrre una dorsale laterale, e
quindi le colate di lava successive si limitarono ad accumularsi l'una sopra l'altra. Oggi a Tristan da
Cunha si trovano rocce vulcaniche giovani e lave che hanno almeno 18 milioni di anni. Poiché sulla
zolla americana non si deposero più lave, ebbe termine anche la dorsale del Rio Grande.
Siccome i punti caldi sono particolarmente frequenti sulle dorsali e sembra che controllino in
qualche modo la posizione di queste, è ragionevole immaginare che la cresta della dorsale medio-
atlantica un giorno possa tornare ai punti caldi che ha abbandonato; in tal caso gli intervalli di 30
milioni di anni delle dorsali di Walvis e del Rio Grande resteranno a testimoniare un periodo
diverso.
Nell'Atlantico settentrionale il fondo oceanico parla di una storia leggermente diversa. Esso si è
formato per la rotazione della zolla eurasiatica e di quella nordamericana attorno a un polo passante
nell'oceano Artico; però, come è stato detto, la zolla americana era già in rotazione con un polo
situato in Groenlandia, presso Capo Farewell, a causa della sua separazione dall'Africa. Una zolla
non può ruotare rispetto a due poli, entrambi fissi, e in questo caso appunto il polo artico era in
moto: il risultato fu uno spostamento laterale della dorsale medio-atlantica settentrionale.
80 milioni di anni fa, quando l'Atlantico settentrionale cominciò ad aprirsi, la zona di espansione
del fondo marino passava a ovest della Groenlandia; l'espansione continuò così fino a 50 milioni di
anni fa, formando il golfo di Baffin. Un punto caldo estinto ha lasciato una coppia di dorsali laterali
che segnano questo movimento e che si estendono fino all'isola Disko in Groenlandia e, dall'altro
lato, fino a Capo Dyer sull'isola di Baffin. Intanto 60 milioni di anni fa si formava una nuova
dorsale medio-oceanica a est della
Groenlandia e, da allora, i continenti
hanno seguitato ad allontanarsi
secondo la stessa linea.
Le dorsali nell'Atlantico settentrionale e nell'oceano
Artico indicano che in questa zona, fra SO e 60
milioni di anni fa, il luogo dell'espansione del fondo
oceanico si è spostato. Inizialmente i continenti si
separavano lungo una dorsale a ovest della
Groenlandia, che apriva il golfo di Baffin. Un punto
caldo estinto ha registrato questo movimento con
delle code di rocce vulcaniche che vanno dalla
dorsale estinta fino a Capo Dver sull'isola di Baffin
da un lato e all'isola Disko in Groenlandia dall'altro.
Circa 60 milioni di anni fa l'espansione del fondo
oceanico si spostò dove oggi esiste la dorsale
medio-atlantica che passa a est della Groenlandia.
Non è chiaro perché lo stesso processo abbia due effetti diversi. Noi abbiamo tentato di risolvere
la questione collegando il moto delle zolle ai punti caldi: gli archi di isole si formano quando il
continente è stazionario sul mantello e il fondo oceanico gli si infila sotto, mentre quando il
continente sovrascorre una zolla oceanica stazionaria si innalzano le catene costiere.
L'unica spiegazione plausibile per la forma regolare degli archi di isole è stata avanzata da F.C.
Frank, dell'Università di Bristol. Egli ha messo in evidenza che un sottile guscio sferico, flessibile
ma inestensibile, si può piegare soltanto lungo una piega o una frattura circolare; il che si può
dimostrare facilmente ammaccando una pallina da ping pong. L'idea è che, dove il fondo oceanico è
in movimento ed è libero di prendere la sua forma preferenziale, si formano in mare le isole nella
caratteristica forma arcuata; invece, quando è il continente che avanza, la zolla oceanica sprofonda
prima di potere sviluppare un arco di isole. I movimenti noti delle zolle nell'area del Pacifico
depongono a favore di questa congettura: le zolle oceaniche del Pacifico avanzano e sottoscorrono
l'Eurasia, ma sono sovrascorse dalle Americhe.
Finora abbiamo considerato i punti caldi principalmente come indicatori del moto delle zolle, ma
essi possono anche dare inizio a cicli di attività tettonica.
Quando un continente si ferma, il duomo che si rigonfia al di sopra di un punto caldo può
fratturarsi; una fossa tettonica (rift), al suo apparire, ha molto spesso una caratteristica struttura a tre
rami. Quarant'anni fa Hans Cloos, un geologo tedesco, riconobbe la prevalenza di queste fosse
tettoniche a tre rami e mostrò che sono spesso legate alla formazione di duomi su crosta
continentale. Noi pensiamo che spesso queste fosse tettoniche siano embrioni di oceani in
formazione. La causa ultima dell'apertura di un continente può, quindi, essere il fatto che il
continente viene a trovarsi fermo sul mantello. Sembra che siano i punti caldi a guidare l'apertura,
anche se non ne sono l'unica causa.
Se questo meccanismo fosse normalmente in gioco nell'apertura degli oceani, si potrebbe spiegare
così la concentrazione di punti caldi che si osserva sulle dorsali medio-oceaniche. Lo
smembramento del continente di Gondwana si accorda bene con questa interpretazione; si ricorderà
che l'Africa è stata ferma fino all'inizio dell'apertura.
Di solito due rami della fossa tettonica si aprono per formare un bacino oceanico, mentre il terzo
ramo abortisce e resta come frattura nella massa continentale. Rimettendo i margini dell'oceano
Atlantico nella posizione che avevano prima dello smembramento del Pangea, si nota una grande
abbondanza di fosse tettoniche a tre rami. I rami di cui si ebbe l'apertura scomparvero per dare
luogo all'oceano, gli altri si conservano come fosse tettoniche che entrano nei continenti. Il migliore
esempio di fossa tettonica abortita, sulla costa atlantica, è dato dalla fossa di Benue, che va dal golfo
di Guinea fino all'Africa equatoriale.
La prevalenza di fosse tettoniche a tre rami si rivela
rimettendo insieme i continenti che circondano l'Atlantico.
Nella maggior parte dei casi due rami si sono incorporati
all'Atlantico, mentre il terzo resta come fossa cieca. Oggi si
può osservare un processo simile dove la penisola arabica
si allontana dall'Africa (in alto a sinistra): il golfo di Aden
e il Mar Rosso sono due rami di una fossa tettonica e il
terzo, dal triangolo dell'Afar, si spinge in Etiopia e in
Somalia.
Gli aulacogeni riconosciuti da Shatsky in Unione Sovietica erano di età paleozoica (fra 225 e 600
milioni di anni). In seguito Paul Hoffman, del Servizio geologico del Canada, ha descritto una
formazione, detta aulacogeno di Athapuscow, di due miliardi di anni; si trova sottostante il ramo
orientale del Gran Lago degli Schiavi, nel Canada settentrionale. Lo stesso Shatsky riconobbe
quello che è probabilmente l'aulacogeno meglio sviluppato dell'America settentrionale: si tratta di
un pacco di sedimenti spesso 15 chilometri, nell'Oklahoma meridionale, parallelo al confine con il
Texas. 600 milioni di anni fa si formò
come fossa tettonica, quando si aprì un
oceano più o meno dove oggi c'è
l'Atlantico settentrionale. La chiusura di
quell'oceano causò la formazione delle
catene degli Appalchi, di Caledonia e di
Ouachita.
Questo aulacogeno dell'Oklahoma meridionale è un
residuo di un antico ciclo di deriva continentale. La
fotografia è un'immagine a colori falsati fatta nel
dicembre 1972 dal satellite LANDSAT. L'aulacogeno
inizia nella fascia di basse terre della metà inferiore
della fotografia e si estende a ovest per altri 400
chilometri. A nord ci sono i monti Ouachita. 600
milioni di anni fa, quando si apri un mare secondo un
asse nord-est sud-ovest, l'aulacogeno era un ramo
abortito di un sistema di fosse a tre rami; la chiusura
del mare fece sorgere la catena degli Ouachita così
come gli Appalachi. L'erosione degli Ouachita si è
aggiunta ai sedimenti che già erano nella fossa.
Questi antichi aulacogeni dimostrano che il ciclo della apertura e chiusura dei continenti è in atto
almeno da due miliardi di anni. Lo sviluppo di duomi e di fosse tettoniche nei continenti che sono
venuti a trovarsi fermi su dei punti caldi può avere fatto parte del ciclo per tutto questo periodo di
tempo.