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percezione visiva

LA PERCEZIONE
La percezione visiva è la relazione tra un osservatore e il
mondo circostante.
Intuitivamente si può ipotizzare che gli oggetti vengano
percepiti attraverso una sorta di rappresentazione interna
nella mente dell’osservatore. Ma come fa l’oggetto a
trasferirsi nella nostra mente e di cosa sono fatti questi oggetti
nella nostra mente?
Alla prima domanda sembra essere stata trovata una risposta,
la seconda è ancora un’incognita.
Come fa l’oggetto a trasferirsi nella nostra mente? Ovvero,
come si colma la distanza tra oggetto e osservatore, quando
sono molto distanti tra loro?
Consideriamo la realtà ESISTENTE anche a prescindere da un
osservatore, ma non sempre VISIBILE in sé per sé. Gli oggetti
sono visibili se esposti ad una determinata luce: un oggetto
illuminato diventa visibile.
Le prime teorie fatte a riguardo sono:
La teoria delle “scorze” (Lucippo di Mileto, Epicuro, Lucrezio):
Secondo la teoria delle “scorze” gli oggetti sono ricoperti da
una sorta di pellicola, come una vera e propria buccia esterna,
che è in grado di propagarsi nello spazio e arrivare all’organo
sensoriale dell’osservatore.
La teoria dei “raggi visuali” (scuola di Pitagora: Euclide,
Tolomeo...): Secondo la teoria dei “raggi visuali“ è una
proprietà dell’occhio quella di emanare raggi visivi, i quali,
come tentacoli, raggiungono l’oggetto per poterlo esplorare e
per ricavarne informazioni.
Ad oggi potremmo dire che la teoria delle scorze è quella più
realistica, perché sono le proprietà dell’oggetto a renderlo
visibile e non quelle dell’occhio, eppure per 1500 anni la
teoria dei raggi visuali fu quella dominante. Un po’ perché
sembra strano che la scorza di un oggetto possa estendersi
fino all’occhio umano, un po’ perché intuitivamente la visione
è rappresentata come una sorta di raggio luminoso emanato
dall’occhio, in virtù del quale gli oggetti diventano visibili. La
teoria dei raggi quindi cercava di accomunare la vista al tatto,
infatti la distanza tra l’osservatore e l’oggetto viene colmata
attraverso il contatto diretto tattile. In realtà, tutto sommato
bastava confutare questa teoria osservando che, se sono i
raggi visuali a rappresentare un oggetto, allora dovremmo
poter vedere anche al buio. La realtà è che la teoria
rappresentava a livello intuitivo un’idea di oggetti in
prospettiva: vedendo un oggetto infatti si potrebbe pensare
che è l’occhio a raggiungerlo, così come in realtà potrebbe
invece sembrare che sia l’oggetto ad andare verso l’occhio.
Successivamente Alhazen trasse ispirazione da
un’osservazione che tutti possiamo fare: si accorse che dopo
aver guardato per qualche istante un oggetto, specie se
luminoso, nel nostro occhio rimane impressa una sua
immagine. Questo si verifica anche ad occhi chiusi,
escludendo così l’idea che la visione sia legata all’emanazione
dei raggi visuali. Ritenendo dunque l’intuizione dietro la teoria
delle scorze corretta, Alhazen capisce che bisognava solo
ridurre le dimensioni della scorza rendendola compatibile con
la trasmissione all’occhio umano. La teoria di Alhazen viene
chiamata Teoria delle “scorzettine”, quelle che oggi
definiremmo FOTONI o PACCHI DI FOTONI.
La possibilità di rappresentare gli oggetti nello spazio
esterno dipende dal fatto che, poiché la luce viaggia in linea
retta, ogni settore della nostra retina (la parte sensibile alla
luce del nostro occhio) corrisponde ad una specifica porzione
di spazio esterno. Se la luce seguisse traiettorie fantasiose
non sarebbe più possibile stabilire la precisa corrispondenza
punto a punto. Inoltre se seguisse traiettorie casuali sarebbe
possibile vedere oggetti in secondo piano che solitamente
sarebbero occlusi dagli oggetti posti davanti al loro in primo
piano.
Come fa l’oggetto a trasferirsi nella nostra mente?
Una prima ipotesi potrebbe essere che l’occhio raffiguri la
realtà in maniera precisa e fedele come farebbe una foto o
uno specchio, ma così non è.
La parte dell’occhio sensibile alle stimolazioni luminose è la
RETINA, che si trova nella parte interna dell’occhio. Quindi
affinché i raggi visivi possano stimolare la retina, devono
penetrare nell’occhio e questo è possibile perché nella parte
anteriore di esso vi è la pupilla, attraverso la quale la luce può
passare.
La pupilla è un foro, però noi lo vediamo scuro e non riusciamo
a guardarci attraverso, questo perché, un po’ come l’interno di
una grotta, la luce riflessa sulle pareti esterne è maggiore di
quella che viene riflessa dai raggi che entrano in un foro e ne
riescono dopo essere stati riflessi dalle pareti interne ad esso.
Per esempio un oggetto illuminato in modo isolato da una
luce debole apparirebbe luminoso, ma se si illuminasse la
superficie circostante con una luce più potente, lo stesso
oggetto apparirebbe buio.
La percezione degli oggetti non dipende dunque da quanta
luce un oggetto riflette in assoluto, ma dal
rapporto di luce riflessa dalle varie superfici che si affiancano
negli ambienti circostanti.
I raggi luminosi dunque attraversano la pupilla fino a
giungere alla retina, ma questo comporta che le immagini
siano proiettate sul fondo della retina capovolte, sottosopra e,
poiché la retina è curva, anche incurvate.
Una serie di esperimenti pionieristici fatti negli anni 30, “The
Innsbruck Goggle Experiments”, prevedevano di far indossare
ai soggetti lenti prismatiche che possono deviare la traiettoria
dei raggi di luce in tutti i modi possibili. Si è osservato dunque
che, seppure i soggetti nei primi momenti non riuscivano a
rapportarsi con il mondo esterno, dopo qualche giorno di
adattamento essi riuscivano addirittura ad andare in moto o in
bici senza problemi. Questo porta ad affermare che
LA STRUTTURA DELLA RETINA
La retina è principalmente costituita da tre strati:
Uno su cui sono collocati i recettori retinici (le cellule sensibili
alla luce, quelle che rispondono ai segnali luminosi) di due
tipi, i CONI, sensibili ai dettagli fini e ai colori e i
BASTONCELLI, meno sensibili ai dettagli e ai colori ma più
sensibili alla luce, ovvero rispondono anche a luci molto
deboli.
Uno strato invece, il più superficiale, è composto dalle cellule
gangliari, che raccolgono i segnali efferenti provenienti dai
recettori retinici e li trasmettono al cervello attraverso il nervo
ottico.
Recettori retinici e cellule gangliari sono collegati da uno
strato intermedio caratterizzato da un tipo di
che collega direttamente un recettore retinico ad una cellula
gangliare e costituita da cellule denominate e un tipo di che
comprende le cellule orizzontali che collegano gli output di
varie cellule retiniche e le che svolgono la stessa funzione
ma per le cellule gangliari.
non è importante il modo in cui le informazioni
relative al mondo circostante raggiungono gli organi
sensoriali, il compito dei sistemi percettivi è quello di
metterci nelle condizioni di utilizzare tali informazioni per
permetterci di interagire in modo adeguato con il
mondo circostante. Che le rappresentazioni siano capovolte o
invertite non ha molta importanza,
l’importanza risiede nella regolarità del mondo circostante.
Anche se ricevessimo dal mondo circostante
immagini distorte, la relazione tra le parti continuerebbe a
restare costante esattamente come nel mondo
reale. Il sistema visivo impara rapidamente a ricavare queste
regolarità perché è proprio su queste
regolarità che si basa la nostra capacità di interagire con la
realtà esterna.
connessione verticale
bipolari
connessione orizzontale
cellule amacrine
La risoluzione foveale (sensibilità alla luce e ai dettagli): I
singoli coni sono collegati alle singole cellule gangliari
attraverso singole cellule bipolari, mentre i bastoncelli,
attraverso l’intermediazione di connessioni orizzontali,
tendono a far convergere più segnali in uscita su una stessa
cellula bipolare. Questo comporta che il segnale veicolato dai
coni risulterà più pulito e più nitido, mentre quello proveniente
dai bastoncelli risulterà più confuso, essendo il risultato della
sovrapposizione di più segnali che convergono su una stessa
cellula bipolare.
CONSEGUENZE:
Prima conseguenza
Se si prova a guardare direttamente le linee a destra, esse si
riusciranno a distinguere tra di loro, ma se si sposta lo sguardo
sulla croce le linee viste dalla periferia dell’occhio non
saranno più distinguibili in modo nitido. Questo non perché la
periferia ha una ridotta sensibilità, infatti se al posto di otto
linee ce ne fosse solo una, l’occhio sarebbe tranquillamente in
grado di percepirla e distinguerla, la periferia sarebbe in grado
di distinguere i singoli segmenti verticali
Il problema è che nella periferia del campo visivo più
bastoncelli convergono su una singola cellula gangliare
sovrapponendo tutte le informazioni che provengono da
ciascuno di essi nel segnale che arriverà al cervello. Ne deriva
quindi una percezione più confusa. Inoltre i campi recettivi dei
bastoncelli, a differenza di quelli presenti nella fovea che sono
adatti al rilevamento dei campi minuti e precisi, sono molto più
ampi e quindi ricevono informazioni da un campo esterno più
esteso, le cui caratteristiche vengono elaborate
inevitabilmente in modo più grossolano.
Le differenze tra coni e bastoncelli identificano due diversi
sistemi visivi:
Il sistema fotopico, tipico dei coni, è un sistema visivo sensibile
ai dettagli, capace di discriminazione cromatica e attivo in
presenza di intensa stimolazione luminosa.
Il sistema scotopico, tipico dei bastoncelli, è molto meno
sensibile ai dettagli e ai colori ma più sensibile alla luce,
ovvero con capacità di rispondere ad un’intensità di luce
anche molto bassa, inoltre questo sistema è più sensibile alla
rilevazione del movimento.
Queste differenze si ripresentano all’interno del cervello,
caratterizzando i sentieri del “what” legati all’identificazione
degli oggetti, dei volti, delle forme e dei colori e i sentieri del
“where” legati al movimento e all’esplorazione dello spazio.
(I due percorsi però non sono innervati uno solo ed
esclusivamente dai coni e uno solo ed esclusivamente dai
bastoncelli.)
L’indipendenza dei due sistemi si manifesta in primo luogo
nella loro collocazione all’interno della retina.
I coni, rappresentati in rosso, si distribuiscono per la maggior
parte nello spazio cosiddetto fovea, mentre i bastoncelli,
rappresentati in blu, si distribuiscono in tutte le parti mancanti
dei coni.
RISPOSTA DEI DUE SISTEMI VISIVI A STIMOLAZIONI DI
DIVERSA INTENSITA’ E DURATA Esperimento:
Sull’asse delle ordinate sono posti i valori dell’intensità di luce
sottoposta ai recettori retinici, mentre sull’asse delle ascisse la
durata dell’esposizione alla luce in un ambiente altrimenti
completamente buio.
Se i recettori vengono sottoposti ad una fonte di luce di
intensità 1 per una durata continuativa di 15 minuti, oppure ad
una luce di intensità 4 per una durata di un minuto, in
entrambi i casi non accadrebbe nulla, perché nessuno dei due
stimoli sarebbe abbastanza per produrre una risposta né dai
Coni né dai bastoncelli. Mentre per esempio per produrre una
risposta nei coni la luce dovrebbe avere intensità 4 ed essere
presentata per una durata di almeno cinque minuti e per
produrre una risposta nei bastoncelli la luce dovrebbe essere
di intensità 1 ed essere presentata per almeno 20 minuti.
Poniamo che venga presentata una luce di intensità 2 per una
durata continuativa di 15 minuti, allora si attiverebbe solo ed
esclusivamente il sistema dei bastoncelli.
Possiamo constatare che quando si passa bruscamente da un
ambiente molto illuminato ad uno poco illuminato (per
esempio quando si va al cinema) inizialmente si fa fatica a
vedere, ma non appena l’occhio si abitua sarà più facile.
Poiché però si parla di un ambiente poco illuminato, si fa
riferimento solo ed esclusivamente al sistema dei bastoncelli,
infatti avremo difficoltà a distinguere dettagli e colori e dei
volti riusciremo a vedere solo la loro forma grossolana.
Seconda conseguenza
Fenomeno dell’inibizione laterale (sensibilità al contrasto,
ovvero la transizione di luminosità tra superfici contigue).
Se isoliamo una sola cellula retinica possiamo osservare che
la sua risposta visiva non comprenderà tutto il campo visivo,
ma solo una piccola frazione, identificabile mostrando una
fonte luminosa nello spazio e vedendo in quali zone si attiva
una risposta.
Il campo recettivo delle cellule gangliari è formato dalla
somma di molti piccoli campi recettivi relativi alle cellule
retiniche.
I primi esperimenti scoprirono che i campi recettivi delle
cellule gangliari hanno una curiosa organizzazione
antagonista: se una stimolazione corrispondente al centro del
campo recettivo tende a produrre una risposta che possiamo
definire di tipo eccitatorio da parte della cellula, la periferia di
quello stesso campo recettivo, esposta alla stessa fonte
luminosa, tenderebbe ad inibirla o attenuarla.
Per spiegare questo fenomeno è stata proposta questa
spiegazione: la cellula gangliare riceve segnali provenienti dai
recettori retinici corrispondenti al centro del suo campo
recettivo tramite connessioni verticali trasmesse dalle cellule
bipolari, per converso la parte periferica del campo recettivo
della cellula gangliare trasmette i segnali attraverso
connessioni orizzontali. Si tende a credere che le connessioni
di tipo verticale siano genericamente di tipo eccitatorio, mentre
le connessioni orizzontali di tipo inibitorio.
Fenomeno dell’inibizione laterale:
Studiato da Ernst Mach che creò le cosiddette “Bande di
Mach”.
In esse compare una sequenza di bande di crescente intensità
luminosa. La superficie di ciascuna barra che si trova nei pressi
del bordo con la barra più scura, tende ad apparire più
luminosa, mentre al contrario la superficie di ciascuna barra
collocata in corrispondenza della zona di transizione con una
barra più chiara tende ad apparire più scura. Questa
apparenza percettiva è del tutto illusoria poiché tutte le bande
hanno lo stesso colore su tutta la superficie.
Prendiamo per esempio in esame quattro cellule gangliari che
si trovano su due di queste bande
Nella cellula C centro e periferia del campo recettivo
ricevono la stessa intensità di luce (bassa intensità) quindi
l’attività inibitoria della periferia attenua la forte risposta
eccitatoria del centro in modo omogeneo e di normale portata.
Nella cellula D invece l’intensità luminosa del centro è la
stessa della cellula C, ma la periferia viene colpita per una
parte da una luce più intensa, per questo svolge un’attività
inibitoria più grande, facendo risultare più scura quella zona.
Nella cellula A centro e periferia del campo recettivo ricevono
la stessa intensità di luce (intensità più alta rispetto alle
cellule C e D, per questo la vediamo più chiara) quindi di
nuovo l’attività inibitoria sarà omogenea e di normale portata.
Nella cellula B il centro è stimolato dalla stessa intensità
luminosa della cellula A, ma la periferia è colpita anche da
una luce meno intensa, quindi l’attività inibitoria sarà meno
intensa e quella zona apparirà più chiara.
Facciamo un esempio attribuendo all’intensità luminosa dei
valori del tutto arbitrari e immaginando che ogni periferia sia
divisa in due e che ogni metà attui un’inibizione del 20%
rispetto all’intensità luminosa.
Il centro del settore 3 ha una risposta pari ad un’intensità di 10
mentre il centro del settore 4 ha una risposta di intensità pari
a 15.
La cellula C quindi complessivamente risponde con intensità
pari a 6: Ogni metà della periferia inibisce del 20%, quindi il
40% di 10 fa 4 (40x10=400; 400:100=4), sottratto (poiché la
sua azione inibisce e quindi attenua) all’intensità 10 del centro
del campo fa 6.
La cellula D invece complessivamente risponde con
un’intensità pari a 5, quindi leggermente inferiore alla cellula
C (per questo la vediamo più scura): la metà sinistra della
periferia inibisce del 20% una luminosità di intensità 10
(20x10=200; 200:100=2), mentre la periferia destra inibisce
del 20% una luminosità di intensità 15 (20x15=300;
300:100=3), sommando le due inibizioni la periferia inibisce il
centro di 5, sottratto all’intensità che colpisce il centro che era
10, fa 5.
La cellula A complessivamente risponde con un’intensità pari
a 9 (per questo il settore 4 lo vediamo più luminoso rispetto al
settore 3): Ogni metà della periferia inibisce del 20%, quindi il
40% di 15 fa 6 (40x15=600; 600:100=6), sottratto
all’intensità 15 del centro del campo fa 9.
Infine la cellula B risponde con un’intensità pari a 10 (per
questo la vediamo leggermente più luminosa): la metà sinistra
della periferia inibisce del 20% una luminosità di intensità 10
(20x10=200; 200:100=2), mentre la periferia destra inibisce
del 20% una luminosità di intensità 15 (20x15=300;
300:100=3), sommando le due inibizioni la periferia inibisce il
centro di 5, sottratto all’intensità che colpisce il centro che era
15, fa 10.
Un altro esempio del Fenomeno dell’inibizione laterale è
la “Griglia di Hermann”.
In corrispondenza degli incroci tra i vari quadrati scuri
appaiono delle ombre, spostando lo sguardo però esse
spariscono, dunque sono del tutto illusorie.
Perché appaiono proprio lì?
Un ipotetico recettore che si trovi posizionato esattamente in
corrispondenza del centro di un’intersezione, riceve
naturalmente dalla periferia un contributo inibitorio molto più
intenso rispetto a quello che riceve un recettore collocato al
centro di una linea, infatti la periferia del recettore collocato al
centro del crocevia sarà stimolata più intensamente dalla luce
bianca, proveniente da quattro lati, di quanto lo sia la periferia
di un recettore collocato in corrispondenza di una linea, che
riceve luce intensa solo da due direzioni.
In base all’organizzazione antagonista delle cellule recettrici,
rispetto alla risposta di un’analoga cellula collocata in
corrispondenza della linea.
Utilità di questo fenomeno:
Già quando abbiamo visto il sistema nervoso abbiamo detto
che non esiste un sistema che lavori solo per messaggi
eccitatori, ma è necessaria l’inibizione, altrimenti il sistema
collasserebbe.
L’inibizione effettuata dalla periferia permette l’utilizzo di una
minore energia al centro delle superfici, risparmiandola per
concentrare l’attività in corrispondenza dei bordi, essenziali
per delimitare ed individuare gli oggetti, differenziandoli dallo
sfondo.
tenderà a svolgere un’azione inibitoria maggiore sulla
risposta della cellula, che conseguentemente
una periferia più intensamente stimolata
risulterà più attenuata
PERCORSI CHE CONNETTONO L’OCCHIO AL CERVELLO:
(Non c’è una ragione logica per quello che stiamo per vedere
ma bisogna solo prendere atto delle scoperte fatte a riguardo)
Le retine di tutti e tue gli occhi possono essere entrambe
divise a metà, la parte esterna delle due emiretine viene
denominata “emiretina temporale” (nella figura colorata di
rosso per l’occhio destro e nera per l’occhio sinistro), la parte
interna delle due retine invece viene denominata “emiretina
nasale” (nella figura segnata con tratti neri per quanto
riguarda l’occhio destro e rossi per l’occhio sinistro). Le due
emiretine temporali proiettano le loro fibre ipsilateralmente,
ovvero ai due emisferi che si trovano sullo stesso lato, mentre
le fibre provenienti dalle due emiretine nasali si incrociano a
livello del cosiddetto “chiasma ottico” (dalla lettera
dell’alfabeto greco) e terminano il loro percorso nei due
emisferi contro laterali, ovvero opposti rispetto alla
collocazione dell’occhio. Quindi l’ destra proietta le sue fibre
alla corteccia visiva dell’ così come l’ proietta le sue fibre
alla corteccia visiva dell’ , per converso l’ origina nell’occhio
sinistro ma incrocia le sue fibre nel chiasma ottico terminando
il suo percorso nel , così come
l’ destra origina nell’occhio destro, si incrocia nel chiasma
ottico e termina nella corteccia
Prima conseguenza:
La percezione visiva è contro lateralizzata.
Poiché la luce viaggia in linea retta e deve seguire un percorso
obbligato per arrivare a stimolare i recettori
emiretina temporale
emisfero destro,
emisfero sinistro
emiretina temporale s
inistra
emiretina nasale
emiretina nasale s
inistra
l’emisfero destro
visiva sinistra
retinici, la , che riceve le afferenze dell’
nasale , elabora inevitabilmente le informazioni provenienti
dall’ per la , che elabora le informazioni provenienti dall’
destra e dell’
e viceversa
.
corteccia visiva destra
sinistra
emiretina temporale
emicampo visivo sinistro
corteccia visiva sinistra
emicampo destro
emiretina
Lo stesso vale per gli emicampi visivi superiori ed inferiori
(Quando l’emicampo viene diviso sia nel meridiano verticale
che nel meridiano orizzontale, si parla di “quadranti”): il
quadrante
proietta sulla superficie inferiore della corteccia visiva destra e
viceversa per il quadrante
che proietta nella corteccia visiva superiore destra, discorso
analogo per i due quadranti superiore ed inferiore
dell’emicampo visivo destro.
Ulteriori conseguenze:
LA MACCHIA CIECA
Le stimolazioni retiniche prodotte dai segnali luminosi
raggiungono il cervello tramite il nervo ottico, che raccoglie gli
assoni di tutte le cellule gangliari. Il punto dove si origina il
nervo ottico è sprovvisto di recettori, esso infatti rappresenta
un vero e proprio buco nella retina.
I nervi ottici originano nella metà nasale di ciascun occhio: il
nervo ottico dell’occhio destro, trovandosi nell’emiretina
nasale destra, proietta l’emicampo visivo destro. Dunque per
trovare la macchia cieca di quest’occhio dobbiamo analizzare
proprio l’emicampo destro.
superiore si
nistro
inferiore
sinistro
Esperimento veloce:
Chiudendo l’occhio sinistro e guardando dunque solo con
l’occhio destro il punto di fissazione segnato con la x e
allontanandoci e avvicinandoci lentamente dallo schermo per
trovare la posizione giusta, arriveremo ad un punto dove il
pappagallo sparirà dalla gabbia. Questo avviene nel momento
in cui i raggi di luce riflessi dall’immagine del pappagallo
saranno proiettati esattamente in corrispondenza della
macchia cieca.
Come mai non ci accorgiamo di avere due buchi così cospicui
nella nostra visione?
La prima ragione è prevedibile: siccome abbiamo due occhi, la
macchia cieca di un occhio non cadrà esattamente nello
stesso punto dell’altro occhio, quindi ciascuno di essi
compensa la macchia cieca dell’altro. Ma essa non si
manifesta in modo evidente neanche quando guardiamo il
mondo con un occhio solo, questo probabilmente dipende dal
fatto che il sistema visivo ha imparato a compensare quel
vuoto. Infatti, nel caso del pappagallo, quando esso scompare,
noi non tendiamo a vedere un buco al posto del pappagallo,
ma semplicemente una gabbia vuota. Il sistema visivo assume
che le informazioni presenti nell’ambiente circostante
continuino in modo omogeneo anche nella zona
momentaneamente perlustrata dalla macchia cieca.
LA MAGNIFICAZIONE CORTICALE
La quantità di superficie corticale dedicata all’elaborazione
dell’informazione proveniente dal centro del campo visivo è in
proporzione molto più estesa rispetto a quella dedicata
all’elaborazione delle informazioni che provengono da tutto il
resto del campo visivo. In particolare la parte di informazione
che proviene dal piccolo puntino giallo al centro del campo
visivo, impegna quasi la metà della corteccia visiva
disponibile, anch’essa colorata in giallo. Questo diventa un
secondo fattore che spiega la migliore qualità della nostra
percezione al centro del campo visivo: per la natura e
disposizione dei coni nella retina e per la magnificazione
corticale.
Esercizi:
Cosa comporta una lesione in un punto del nervo ottico,
prima del chiasma ottico? (Freccia blu)
I fasci di fibre provenienti dall’occhio sinistro non si sono
ancora separati nel chiasma ottico, dunque quella che viene
compromessa è tutta l’informazione che proviene dall’occhio
sinistro, il danno conseguente è equivalente alla perdita della
visione dall’occhio sinistro.
Cosa comporta invece una lesione in un punto del percorso
denominato “tratto ottico”, successivo al chiasma ottico?
(Freccia verde)
Qui la lesione riguarda un punto del percorso in cui le fibre
provenienti dai due occhi si sono già incrociate nel chiasma
ottico. Da quel momento in poi alla corteccia visiva destra
arrivano le fibre provenienti dell’emiretina temporale destra e
dall’emiretina nasale sinistra, quindi riceve informazioni
luminose dall’emicampo visivo sinistro. Il deficit conseguente
alla lesione viene denominato “emianopsia”, ovvero cecità per
la metà del campo visivo contro laterale, in questo caso
l’emicampo visivo sinistro.
LA CORTECCIA VISIVA
David Hubel e Torsten Wiesel, vincitori del premio Nobel per
la medicina nel 1981 per i loro studi sulla corteccia visiva. I
loro studi vennero condotti intorno agli anni 60 e gli permisero
di scoprire la presenza nella corteccia visiva di una gerarchia
di cellule selettivamente specializzate per rilevare la presenza
nell’ambiente circostante di specifiche caratteristiche degli
stimoli presentati.
Il primo livello è costituito dalle “cellule semplici” che
sembrano particolarmente sensibili al rilevamento di
caratteristiche elementari quali per esempio l’orientamento di
una barretta luminosa.
Se una barretta obliqua, inclinata approssimativamente di
45o, compare al centro del campo recettivo della cellula
semplice, questa produce una risposta intensa. Se la stessa
barretta stimola una porzione del campo recettivo
leggermente periferico rispetto al centro, come già sappiamo
relativamente all’organizzazione antagonista centro-periferia,
la risposta della cellula si attenua marcatamente. Quando lo
stimolo invece è orientato in modo completamente diverso, la
cellula rimane del tutto inattiva. Non è quindi la presenza di
luce in quanto tale a determinare la risposta della cellula, ma
alcune specifiche caratteristiche dell’ambiente esterno.
Per ultimo, quando il campo recettivo della cellula semplice
viene illuminato e quindi stimolato globalmente, investendo
quindi sia il centro che tutta la periferia, la risposta della
cellula tende ad essere del tutto assente, risultato
dell’organizzazione antagonista centro-periferia.
Il livello successivo è costituito dalle “cellule complesse”.
Esse rispondono selettivamente a particolari combinazioni di
caratteristiche semplici, ad esempio una particolare
inclinazione o un particolare orientamento uniti ad un
movimento in una certa direzione.
Seguendo il movimento della bacchetta inclinata
orientativamente di 45o, essa continua a produrre una
risposta per tutto il percorso, se però si cambia orientamento
alla bacchetta la cellula smetterà di reagire allo stimolo. Di
nuovo, non è la presenza di luce in sé per sé a produrre una
risposta nella cellula, ma una particolare combinazione di
caratteristiche semplici dello stimolo esterno.
Le ultime sono chiamate “cellule ipercomplesse”.
A sinistra sono mostrate le cellule complesse, che rispondo ad
una barretta che si muove in una certa direzione, a prescindere
dalla sua lunghezza, le cellule complesse infatti non
sembrano essere sensibili a questa ulteriore caratteristica
dello stimolo, mentre a destra sono mostrate le cellule
ipercomplesse, in grado di integrare selettivamente tre
caratteristiche semplici: l’orientamento, la direzione e la
lunghezza, rispondendo solo ad una particolare combinazione
delle tre.
Implicazioni per quanto riguarda la selettività funzionale delle
cellule:
PER L’ORIENTAMENTO
Questo è un frammento di corteccia visiva in cui si vede
l’organizzazione delle cellule in piccole colonne, ciascuna
delle quali sembra rispondere sistematicamente ad un certo
orientamento spaziale. Ciascuna colonnina grigia rappresenta
uno strato di corteccia sulla cui superficie sono collocati vari
neuroni, tutti i neuroni presenti sulla medesima colonna
rispondono allo stesso orientamento spaziale.
Test delle “immagini postume”, considerate dagli studiosi
delle vere e proprie finestre sulle proprietà neurali del nostro
sistema visivo.
Presentazione del test:
La prima coppia di reticoli comprende barrette orientate in
verticale, la seconda coppia barrette orientate in senso
diverso. Dopo aver osservato le prime barrette, il compito è
quello di cercare di tenere lo sguardo fisso sul segmento
orizzontale che divide il reticolo superiore da quello inferiore
delle seconde barrette (quelle leggermente oblique) per circa
una trentina di secondi, così facendo stimoleremo gli stessi
distretti neurali per un periodo di tempo prolungato (il
tentativo di mantenere lo sguardo fisso su una posizione
spaziale non è naturale per il sistema visivo, che tende invece
ad esplorare in continuazione lo spazio circostante, quindi
bisogna esercitare un certo controllo. Proprio perché si tratta
di un’operazione insolita è possibile che l’occhio dia un po’
fastidio ma non c’è da preoccuparsi e passerà dopo pochi
secondi dal termine dell’esperimento). Nella fase finale del
test si ritorna alle barrette verticali dell’inizio e probabilmente
esse non appariranno più verticali.
Spiegazione: in presenza delle barrette verticali non si
attiva esclusivamente una popolazione di neuroni selettivi
solo per quel particolare orientamento, ma contribuiscono
anche neuroni che si attiverebbero per angolazioni
leggermente diverse (è infatti impensabile credere che per
ogni minimo spostamento e angolazione si attivino solo i
neuroni specifici per quell’angolazione).
Le barrette verticali potrebbero essere interpretate come una
sorta di prodotto medio delle tre diverse angolazioni.
Da qui si passa alla fase dell’affaticamento, in cui il sistema
visivo viene stimolato per un periodo costante da un reticolo le
cui barrette sono leggermente inclinate in una specifica
direzione. È una caratteristica tipica del sistema nervoso
quella di reagire a stimolazioni ripetute e continuate con una
progressiva riduzione dell’intensità della risposta. I neuroni di
quello specifico orientamento, sottoposti ad affaticamento,
hanno una risposta inferiore.
Quindi la percezione delle barrette verticali ora dipende
dall’effetto integrato delle due popolazioni rimanenti. Il
percetto dunque ora dovrebbe essere orientato leggermente
in direzione delle due popolazioni neurali disponibili, quindi in
direzione opposta alla barretta che ha causato l’affaticamento.
PER LA FREQUENZA SPAZIALE
Una delle caratteristiche dei campi recettivi delle cellule
retiniche è che essi aumentano via via che ci si sposta verso la
periferia, questo ha a che fare con le caratteristiche che
differenziano i coni e i bastoncelli, i primi sensibili ai dettagli,
rilevabili con campi recettivi molto ridotti e focalizzati, mentre i
secondi che rispondono in modo più grossolano alle
informazioni visive, compatibilmente con campi recettivi più
ampi e allargati. La corteccia visiva sembra organizzata per
rispondere in modo conforme a queste diversità di
informazioni provenienti dalla retina. Ogni immagine relativa
al mondo esterno può contenere sia minuti dettagli che
informazioni più grossolane, legate alla sagoma globale, nel
primo caso si parla di informazioni ad alta frequenza spaziale
(dove per frequenza spaziale si intende la transizione tra una
zona ad alta luminosità ed una a bassa luminosità, in questo
caso quindi la transizione è molto serrata), mentre nel
secondo caso si parla di informazioni a bassa frequenza
spaziale (dove le aree uniformemente illuminate sono più
ampie).
La corteccia visiva sembra rispondere in modo conforme a
queste caratteristiche della realtà esterna, contenendo cellule
che hanno campi recettivi molto ristretti e cellule che hanno
campi recettivi progressivamente più ampi. Il nostro sistema
visivo sembra dunque mostrare una particolare selettività
anche per le frequenze spaziali, così come abbiamo analizzato
per l’orientamento.
Presentazione del test:
Le prime barrette mostrate saranno sempre le stesse, ma
questa volta non ci concentreremo sulla loro inclinazione
quanto più sulla loro frequenza spaziale, ovvero sulla loro
larghezza, che segna la transizione di luminosità riflessa dalle
zone chiare e dalle zone scure. La seconda coppia di reticoli
avrà diverse frequenze spaziali e il compito è quello di
mantenere lo sguardo sempre sul segmento orizzontale che
separa i due reticoli per una durata di circa 30/40 secondi.
Infine verranno mostrate nuovamente le barrette verticali ed in
questo caso esse non sembreranno più della stessa
larghezza.
Spiegazione: come nel caso dell’orientamento, ad una
particolare frequenza spaziale non risponde solo una singola
e specifica popolazione neurale, ma anche popolazioni neurali
che avrebbero risposto a frequenze spaziali leggermente
diverse.
Così procede l’affaticamento di una di queste popolazioni
neurali, presentando in modo continuativo un reticolo con una
frequenza spaziale particolarmente adatta a produrre una
risposta da parte di quella popolazione neurale.
Quando viene ripresentato il reticolo test dopo la fase di
affaticamento, questa stessa popolazione neurale tenderà a
non contribuire all’elaborazione della sua frequenza spaziale,
di conseguenza la larghezza percepita delle barrette
dovrebbe apparire modificata verso una sequenza spaziale
intermedia tra le popolazioni neurali che, non essendo
affaticate, possono ancora contribuire alla sua definizione.
La nostra percezione delle alte e basse frequenze spaziali
però dipende anche dalla distanza tra noi e gli oggetti
osservati, ad esempio il testo di un libro che si legge molto
bene ad una certa distanza, potrebbe diventare illeggibile
avvicinandosi troppo al libro, mentre un prato fiorito del quale
si possano distinguere i singoli filamenti di erba, diventa una
macchia confusa quando osservata da maggiori distanze. Gli
oggetti non mutano, restano sempre al loro posto, cambia
l’individuazione da parte del sistema visivo.
Così filtrando opportunamente le alte e le basse frequenze
spaziali nelle immagini, si possono creare degli interessanti
effetti visivi.
Nell’immagine vediamo due volti affiancati, uno corrucciato
e uno più sereno e disteso, ma rimpicciolendo la figura
otteniamo un effetto analogo a quello che otterremmo se ci
allontanassimo da essa.
A distanze diverse particolari diversi dei due volti diventano
percepibili, al punto che ora il volto corrucciato diventa quello
che prima era sereno e viceversa.
Quando analizziamo processi psicologici elementari e
semplici, l’osservazione dei substrati neurali che li riguardano
è precisa, puntale e necessaria alla loro comprensione.
Ovviamente però, quando osserviamo un panorama, il nostro
cervello non si limita a rispondere a onde luminose o a
barrette oblique, ma entrano in atto processi molto più
complessi, che dunque implicano un massivo intervento dei
substrati neurali.
Per questo l’analisi dei processi neurali ora diventa molto più
vaga.
Forse in futuro si riusciranno ad analizzare meccanismi così
complessi con la stessa precisione con cui si conoscono quelli
più semplici, ma fino ad allora lo psicologo può intraprendere
una strada più autonoma nel tentativo di studiare i fenomeni
psicologici. Nel farlo, tenta di rendere conto di questi
fenomeni, escogitando modelli teorici più astratti.
Poiché noi sappiamo che la percezione non è un semplice
rispecchiamento della realtà esterna, la domanda che ci si
pone è: come si crea nella mente l’immagine ordinata e
coerente della realtà, così come siamo abituati a percepirla
quotidianamente? Come si realizza questo “prodigio“ in base
al quale gli individui riescono ad identificare ciò che stanno
percependo?
Ovvero, ritornando alle domande che ci siamo posti nella
prima unità, rispondiamo ora a
Di cosa sono fatti questi oggetti nella nostra mente?
TEORIE CHE MAGGIORMENTE HANNO INFLUENZATO ED
INDIRIZZATO LE RICERCHE SULLA PERCEZIONE VISIVA
Sono teorie che hanno cercato di spiegare il modo in cui il
sistema visivo ci permette di assemblare, in configurazioni
organizzate, il flusso di informazioni provenienti dal mondo
esterno.
Teoria della Gestalt (che in tedesco significa “forma”)
Tenta di individuare i principi che ci permettono di percepire il
mondo circostante in termini di forme ordinate e coerenti.
Le ricerche dei teorici della Gestalt hanno permesso di
individuare dei principi organizzativi che il sistema visivo
sembra adottare in modo del tutto spontaneo e a prescindere
da qualunque apprendimento precedente o credenza rispetto
alla realtà esterna.
Sono principi basilari che non presuppongono la mediazione
di alcun processo cognitivo di alto livello. Questi principi sono
noti con il nome di “leggi di raggruppamento percettivo” o
“leggi di organizzazione del campo visivo”.
Le principali leggi:
-Legge della vicinanza.
In una configurazione fatta di semplici punti su uno sfondo, i
punti più vicini tra loro tendono ad essere immediatamente e
spontaneamente raggruppati dal sistema visivo.
Noi tendiamo a percepire delle linee verticali.
-Legge della somiglianza.
In una configurazione in cui gli elementi sono tutti
equidistanziati tra loro e non possono dunque essere
raggruppati per vicinanza, gli elementi simili tra loro tendono
ad essere raggruppati insieme.
Noi tendiamo a percepire gli elementi organizzati in righe
orizzontali. -Legge della simmetria.
Tendiamo a raggruppare spontaneamente linee che creano
configurazioni simmetriche, integrandole come se fossero parti
di una figura unitaria. Questa tendenza si manifesta molto
meno nel caso di linee asimmetriche.
-Legge della chiusura.
A parità di distanza tra gli elementi, tendiamo a raggruppare in
un insieme unitario gli elementi che possono più facilmente
essere chiusi rispetto agli altri.
Tendiamo a percepire una catena di anelli rettangolari e non
una sequenza di colonnine.
-Legge della buona continuità.
Sebbene le linee nella parte destra potrebbero essere
percepire come nella configurazione a sinistra, noi tendiamo a
percepire una sorta di X, perché la direzione di ciascuna linea
sembra preservare meglio la propria continuità, rispetto
all’alternativa in cui le linee risulterebbero spezzate.
Questo spiega come il sistema visivo riconosce una
figura rispetto ad uno sfondo, a discapito di qualunque teoria
che ritenga noi vediamo le figure in base a ciò che abbiamo
appreso in precedenza.
Se così fosse infatti non dovremmo essere in grado di farlo in
presenza di immagini come questa, la cui figura non ha un
preciso significato e presumibilmente non è mai stata
incontrata in precedenza.
La nostra propensione ad isolare figure dallo sfondo è
talmente fondante che noi non siamo capaci di percepire
contemporaneamente due possibili conformazioni, anche se
gli elementi oggettivamente presenti nella scena
potenzialmente permetterebbero di farlo. Questo fenomeno si
evidenzia in modo molto chiaro nello studio delle cosiddette
“figure ambigue” o “figure reversibili”.
La più famosa è l’immagine “coppe e profili” di Edgar Rubin.
Sebbene nell’immagine sia possibile interpretare come figura
la coppia centrale, oppure i due profili uno di fronte all’altro,
appare impossibile per l’osservatore percepire entrambe le
interpretazioni nello stesso momento. Una volta interpretata
una configurazione come figura, il resto apparirà
inevitabilmente come sfondo. Dunque, le diverse
interpretazioni possono periodicamente alternarsi nel tempo,
succedendosi una dopo l’altra, ma non convivere
simultaneamente nello stesso percetto.
In letteratura sono state proposte innumerevoli versioni di
figure ambigue, per esempio questa, che fa ironicamente
riferimento a Freud e all’enfasi che ha posto sulle pulsioni
sessuali.
L’altra relativa ad un quadro di Salvador Dalí, intitolato “Il
mercato degli schiavi”.
Più o meno al centro del dipinto sembra essere posizionato
un busto di Voltaire, che però può essere interpretato anche
come una coppia di donne, le cui teste equivalgono agli occhi
del busto, mentre i colletti bianchi rappresentano gli zigomi.
Dal punto di vista della psicologia della Gestalt, ogni atto
percettivo coglie immediatamente l’unità dell’oggetto
percepito. Questo viene espresso dal famoso motto “il tutto è
diverso dalla somma delle parti”.
Anche se noi sappiamo che gli oggetti possono essere
scomposti in elementi di base più semplici, quando
percepiamo un oggetto ne cogliamo immediatamente la sua
forma unitaria, che è qualcosa che va oltre la semplice
combinazione di tutte le parti che lo compongono.
La croce viene percepita nella sua globalità, non come una
semplice combinazione di vari segmenti verticali e orizzontali.
Nel nostro percetto domina la figura completa e si potrebbe
dire che non c’è traccia degli elementi di cui è costituita.
La psicologia della Gestal ha utilizzato un approccio
fenomenologico allo studio della percezione, che consiste nel
mostrare immagini ad un osservatore, chiedendo
semplicemente di descrivere i percetti conseguenti.
Ispirandosi a quelli che essi identificavano come principi
organizzativi alla base di ogni atto percettivo, gli studiosi
hanno prodotto innumerevoli esempi di illusioni ottiche, in cui
il principio organizzatore sembrerebbe indurre il sistema visivo
a percepire cose che in realtà non esistono.
Illusione di Zöllner:
Una sequenza di linee oggettivamente parallele, viene
percepita come una successione di linee convergenti e
divergenti a due a due.
Uno dei modi che è stato proposto per interpretare l’effetto,
consiste nel supporre che il sistema visivo tenti di
regolarizzare gli angoli formati dalle linee e dai segmenti che
le attraversano. I segmenti verticali e orizzontali
rappresentano dei punti di riferimento molto precisi e stabili,
ma rispetto a questi sistemi di riferimento più canonici, il
sistema visivo sembrerebbe tendere a regolarizzare gli angoli
formati dalle linee oblique che attraversano i segmenti,
cercando di portarli, forzandoli, verso la formazione di angoli
di 90o (legge della tendenza alla buona forma).
Questa figura è stata inventata da Gaetano Kanizsa, famoso
psicologo della Gestalt italiano, da cui prende il nome questo
famosissimo “triangolo di Kanizsa”.
Nell’immagine si vede con chiarezza un triangolo più chiaro
rispetto allo sfondo, che si trova in rilievo e occlude
parzialmente allo sguardo un triangolo rovesciato il cui
perimetro è costituito da linee nere e tre dischi, anch’essi neri.
Nell’immagine però non esiste alcun triangolo, né in primo
piano bianco, né sullo sfondo a linee nere, ma solo sei
segmenti neri che a due a due formano tre angoli. Così come
non esiste alcun disco, ma solo tre sezioni di disco.
Ove possibile però l’occhio umano tende a completare le
figure interrotte, ovvero tende a percepirle come intere (legge
della tendenza alle buone forme). Il triangolo rovesciato e i
dischi in effetti potrebbero benissimo essere completi, a patto
che alcune loro parti siano occluse alla vista da un triangolo in
primo piano, così ecco che il triangolo quasi magicamente
compare, confezionato illusoriamente dal sistema visivo,
obbediente alle leggi che esso applica nel tentativo di
organizzare ordinatamente il flusso di informazioni provenienti
dal mondo esterno.
Teoria delle caratteristiche distintive
Si potrebbe dire che rappresenti concettualmente la posizione
opposta alla teoria della Gestalt.
È vero che la realtà del mondo circostante si presenta
immediatamente già organizzata nella nostra percezione, ma
questo potrebbe essere il risultato del semplice fatto che non
siamo consapevoli dei meccanismi cognitivi che conducono a
quella rappresentazione globale.
Dal punto di vista concettuale sembrerebbe sensato
immaginare che la globalità dei percetti sia il risultato di
un’iniziale estrazione delle caratteristiche elementari che
vengono successivamente integrate in un percetto unitario.
Non saremmo consapevoli di tale estrazione, semplicemente
perché la durata di tali processi è talmente rapida da risultare
inferiore al potere di risoluzione temporale della nostra
consapevolezza.
L’osservazione di partenza della teoria delle caratteristiche
distintive, consiste nel fatto che la combinazione di elementi,
che costituiscono tutte le lettere dell’alfabeto, in realtà risulta
unica e specifica per ciascuna lettera, come dalla tabella qui
sotto
In effetti, se così non fosse, non sarebbe possibile distinguere
le lettere tra di loro. Naturalmente un’impostazione di questo
tipo non può non richiamare alla memoria gli studi di
neurofisiologia sui neuroni della corteccia visiva primaria,
sensibili alle caratteristiche elementari degli stimoli visivi.
Un modello che ipotizzi questa simile estrazione di
caratteristiche elementari, non potrebbe però rendere conto
del fatto che noi non leggiamo le parole un frammento alla
volta, ma sembriamo coglierle nella loro globalità.
Una possibile alternativa potrebbe consistere nel valutare
l’ipotesi che le caratteristiche possano essere sia locali che
globali. Anche in questo caso questa possibilità è compatibile
con le evidenze fisiologiche che indicano recettori anche per la
frequenza spaziale a livello molto periferico.
La sensibilità del nostro sistema visivo per le caratteristiche
globali degli stimoli è stata evidenziata dagli studi di Navon,
attraverso l’utilizzo delle sue lettere composte.
Si tratta di lettere grandi formate da lettere piccole, in cui le
lettere a ciascun livello possano essere congruenti o
incongruenti tra loro. Il compito dei soggetti consiste a turno
nell’identificare il più rapidamente possibile la lettera globale,
ignorando l’informazione proveniente dal livello locale, o
viceversa, concentrarsi sul livello locale, ignorando quello
globale.
Confrontando le prestazioni nelle due condizioni congruenti
ed incongruenti, ci si rese conto che, mentre la lettera globale
poteva essere individuata rapidamente anche in presenza di
informazioni incongruenti provenienti dal livello locale,
quando invece l’attenzione doveva essere rivolta a livello
locale, non era possibile ignorare l’informazione proveniente
dal livello globale. Quando questa informazione era
incongruente i tempi di reazione risultavano rallentati. Questo
indica che l’informazione a livello globale viene estratta prima
rispetto a quella locale, al punto da poter interferire con essa.
Gli psicologi hanno escogitato vari metodi per evidenziare la
sensibilità del sistema visivo alle caratteristiche costitutive
degli stimoli.
Un ulteriore esempio consiste in questo compito che
richiede ai soggetti di individuare una particolare lettera, in
questo caso una “Z”, in un elenco di lettere le cui
caratteristiche sono simili a quella della “Z”, oppure diverse.
La lettera risulta più immediatamente individuabile nel caso in
cui le altre lettere si differenzino maggiormente da essa,
indicando dunque che il sistema sembra essere sensibile alle
caratteristiche costitutive degli stimoli.
Il modello di riconoscimento delle caratteristiche semplici si
applica molto bene alla lettura di lettere e parole, ma forse è
troppo artificioso per quanto concerne le forme della realtà
esterna. Tuttavia l’impostazione teorica della teoria è stata
applicata al modello di cui ci stiamo per occupare, pensato per
rendere conto della percezione degli oggetti della realtà
esterna.
Teoria del riconoscimento attraverso le componenti, composta
da Biederman.
Sostituisce alle caratteristiche elementari delle lettere, i geoni,
che idealmente sarebbero ioni geometrici, unità minime,
combinando le quali si può risalire alla forma degli oggetti.
Biederman aveva probabilmente un precursore nei tentativi
fatti da Guzman, il quale aveva ipotizzato che alla base di
molte configurazioni fosse possibile individuare un numero
relativamente limitato di strutture regolari di base, la cui
combinazione ne permettesse l’identificazione.
I geoni di base identificati da Biederman sono poco più di una
trentina.
Come si vede dall’illustrazione, dalle loro possibili
combinazioni possono scaturire migliaia di rappresentazioni di
oggetti ordinari.
Anche in questo caso, una volta elaborata una certa teoria, i
ricercatori si propongono di verificarla in modo indipendente.
Esperimento: Vengono presentati ai partecipanti degli oggetti
da riconoscere, i quali però vengono mostrati come fossero
collocati dietro una grata, che permette di individuarne solo
frammenti.
Ad esempio la torcia elettrica, mostrata attraverso le due
grate B e C.
La quantità di perimetro evidenziabile attraverso le due grate
deve essere identica nei due casi, quello che cambia è la
natura dei frammenti percepibili. Nel caso B si tratta di
intersezioni dell’oggetto, mentre il caso C tende a mostrare
più superfici lineari.
L’identificazione risultava migliore nel caso in cui la grata
permetteva l’individuazione di settori angolari o intersezioni
dell’oggetto.
Nei modelli basati sui processi di estrazione di caratteristiche
e componenti viene evidenziato il modo in cui il processo di
elaborazione procede: ma quando le caratteristiche e le
componenti sono state estratte, cosa determina il
riconoscimento dell’oggetto?
Le caratteristiche di questi due stimoli sono identiche: perché
nel primo caso dico che si tratta della lettera “A“ mentre nel
secondo dico che si tratta di uno scarabocchio?
Si potrebbe dire: ci sono gli analizzatori per le caratteristiche
locali e per quelle globali.
A livello globale, le due forme sono diverse, ma questo
varrebbe per la semplice differenziazione, il “riconoscimento“
è una cosa diversa.
Teoria del confronto di sagoma
Vi è un ipotetico ulteriore stadio nel processo di elaborazione,
che permette il riconoscimento dell’oggetto.
Nella figura in alto si sottolinea il passaggio dallo stimolo alla
retina, nella figura in basso si parte dalla retina e si va al
rilevatore.
Qui si vedono all’opera più rilevatori contemporaneamente.
Le diverse caratteristiche accumulate vengono confrontate
con dei modelli presenti nella nostra mente e
presumibilmente accumulati in base all’esperienza. Tali
modelli sono definiti “sagome”. Se il confronto con queste
sagome risulta omogeneo, ovvero se esiste nel sistema
cognitivo una sagoma che si conforma a quella dell’oggetto
elaborato, allora l’oggetto viene riconosciuto o identificato.
Differenza tra la teoria delle caratteristiche distintive e la
teoria del confronto di sagoma: nella prima le caratteristiche
locali, ad alta frequenza e quelle quelle globali, a bassa
frequenza, sono comunque entrambe caratteristiche, ovvero
partecipano ad un processo che va dal basso verso l’alto.
Nella seconda invece la sagoma non è una semplice
caratteristica visiva a bassa frequenza, ma è un modello
astratto collocato ad un livello più avanzato del processo.
E se gli stimoli venissero presentati a grandezze diverse?
Oppure se venissero presentati con orientamenti diversi?
Come si riconoscono le lettere negli innumerevoli modi in cui
possono essere scritte (corsivo, stampatello, maiuscolo,
minuscolo, ecc.)? Quanti modelli di sagome dovrebbero
affollarsi nel nostro sistema cognitivo?
Alcuni sistemi elettronici adottano un sistema di
riconoscimento basato sul principio delle sagome, ma sono
sistemi piuttosto limitati, in cui gli elementi da riconoscere e
identificare sono relativamente pochi e ben differenziati tra
loro.
Per risolvere questo ulteriore problema, è stata elaborata la
Teoria del prototipo.
Sostiene anch’essa che il riconoscimento diventi possibile
attraverso un confronto tra un input e un modello/sagoma
contenuto nel nostro sistema cognitivo. Tali modelli o sagome
però rappresenterebbero dei modelli astratti ed invarianti
rispetto ai cambiamenti locali degli input, allo stesso modo in
cui un prototipo costituisce una sorta di astrazione delle
caratteristiche che accomunano e caratterizzano i vari oggetti,
a prescindere dalle loro variazioni contingenti e occasionali.
Questo esperimento con i suoi dati supporta l’idea della
presenza di un prototipo nel nostro sistema cognitivo
Partendo da un certo volto prototipo venivano create delle
varianti che contenessero una percentuale di elementi comuni
decrescenti rispetto all’esemplare di partenza.
Nella prima fase dell’esperimento alcuni di questi volti
venivano mostrati ai soggetti, in una seconda fase ai soggetti
venivano nuovamente mostrati dei volti, alcuni già presentati
nella fase precedente, altri del tutto nuovi. Il compito dei
soggetti era indicare per ciascun volto se esso era nuovo o
vecchio.
Per interpretare il grafico va specificato che in ordinata i valori
da -1 a -5 si riferiscono alla sicurezza con la quale il soggetto
definisce nuovo un volto, mentre i numeri da +1 a +5 si
riferiscono alla sicurezza con cui un soggetto definisce vecchio
un volto. In ascissa è riportata la ripartizione di volti
oggettivamente vecchi e oggettivamente nuovi.
I volti prototipi non venivano mai mostrati ai soggetti nella
prima fase dell’esperimento, alcuni venivano invece presentati
nella seconda fase.
Il grafico mostra che quando i volti sono nuovi i soggetti li
classificano come tali con tanta maggiore convinzione quanto
più essi si allontanano da un prototipo, che comunque non era
mai stato presentato. Per converso, quando i volti erano
vecchi la convinzione dei soggetti aumentava quanto più i
volti erano simili al prototipo da quale erano stati ottenuti, di
nuovo mai stato presentato.
Il dato ancora ancora più interessante è che quando alcuni dei
volti prototipi venivano mostrati nella seconda fase, venivano
quasi sempre classificati come vecchi, con la massima
confidenza per giunta, nonostante non fossero mai stati
presentati agli osservatori.
Questo sembra davvero compatibile con l’idea che quando
percepiamo dei volti tendiamo comunque a rappresentarli in
termini di prototipi.
I volti prototipici tendono ad essere volti dai lineamenti
regolari e simmetrici.
Per chi fosse curioso di vedere come da un volto qualunque si
possa trovare una variabile prototipica può visitare questo sito:
www.faceresearch.org/demos/average
L’approccio Ecologico alla Percezione Visiva
Propone una teoria provocatoria e originale alla domanda “di
che natura sono gli oggetti nella nostra mente?”, la Teoria
Senso-Motoria della Percezione Visiva, in base alla quale non
vi è necessità di ipotizzare alcuna rappresentazione interna
nella nostra mente.
In epoca relativamente recente sono stati analizzati due
percorsi visivi, la Via del What, che ha caratteristiche simili a
quelle dei coni nella retina e la Via del Where, che invece ha
caratteristiche più similari a quelle dei bastoncelli della retina.
Al percorso che elabora le informazioni dalla periferia verso il
centro del sistema visivo, denominato Bottom-Up (dal basso
verso l’alto), se ne affianca uno che procede nella direzione
opposta (dall’alto verso il basso), il flusso di elaborazione
Top-Down.
Nel tentativo di identificare un ipotetico centro neurale
responsabile della nostra esperienza visiva cosciente,
vedremo il fenomeno del Blind-Sight, nella risposta al quesito
“esiste un centro cerebrale che rende consapevole/cosciente il
prodotto dei vari percorsi di elaborazione delle informazioni
visive?”.
L’approccio ecologico allo studio della visione parte dal
presupposto che il sistema visivo non si è evoluto per
rispondere a stimoli presentati per pochi millisecondi sullo
schermo del computer degli studiosi, ma per imparare ad
interagire con il mondo circostante, mentre ne è immerso. Di
conseguenza, se si vuole davvero scoprire quali sono le
qualità essenziali del sistema visivo, bisogna studiarlo nella
sua interazione dinamica con la realtà circostante e non
isolandosi negli spazi asettici dei laboratori.
Le più importanti caratteristiche identificate dagli studiosi
dell’approccio ecologico fanno riferimento a queste dinamiche
globali.
Flusso ottico:
Quando ci muoviamo nell’ambiente esterno, i suoi elementi
mutano continuamente in riferimento alla nostra posizione e ai
nostri spostamenti. Le caratteristiche di questi mutamenti
costituiscono delle invarianti, ovvero manifestano se stesse
sempre nello stesso modo, cioè obbedendo alle stesse leggi.
Questo è il modo in cui l’insieme delle informazioni luminose
provenienti dall’ambiente nel quale siamo inseriti si modifica
in relazione al nostro movimento. In questo caso il soggetto si
sta muovendo in direzione rettilinea verso l’orizzonte. La
lunghezza delle frecce indica la velocità alla quale i segnali
luminosi provenienti dall’esterno si spostano sulle retine
dell’osservatore. Mentre ci spostiamo gli oggetti più vicini a
noi si spostano più rapidamente rispetto agli oggetti più
lontani, che tendono ad essere percepiti come più statici.
Questo andamento viene denominato “flusso ottico”. In
questo caso il flusso ottico è in espansione, ovvero ha una
progressione divergente.
In questa immagine invece la direzione dello spostamento è
esattamente opposta e quindi il flusso ottico risulta
convergente.
Affordance (opportunità):
Rappresenta una sorta di indicazione, contenuta nella forma
stessa dell’oggetto, relativa al modo in cui l’osservatore
potrebbe interagire con esso.
L’afferrabilità di una palla, la scalabilità di una scala o la
sedibilità di una sedia.
Questo concetto è assolutamente originale per almeno due
ragioni: la prima è che aggiunge una dimensione
completamente nuova alle caratteristiche normalmente
studiate nella psicologia della visione, come la forma, il colore,
ecc. Oltre queste caratteristiche infatti non si riteneva ve ne
potessero essere altre in grado di descrivere l’oggetto.
In secondo luogo colma un vuoto concettuale dove le
caratteristiche degli oggetti appartenevano agli oggetti statici,
separati dall’osservatore esterno. Questo concetto rompe in
un colpo solo, sia l’isolamento a cui sembra essere
condannato l’oggetto esterno statico, sia la rigida separazione
tra percezione e azione. Ciò che ritiene l’approccio ecologico è
infatti che la percezione non si sia sviluppata per contemplare
a distanza oggetti statici, ma per interagire con essi.
Subentra così il concetto di “Ciclo percettivo”, in cui la
percezione serve per agire e l’azione a sua volta può
influenzare la percezione.
L’affordance è una caratteristica dinamica dell’oggetto che
predispone l’osservatore, attraverso l’atto percettivo, ad
interagire con lo stesso oggetto.
Non esiste una percezione non mirata all’azione.
Alcuni studi recenti hanno applicato questa teoria
In questo studio si mirava ad indicare come dal modo in cui il
soggetto predispone la presa di un oggetto, si può prevedere
in anticipo l’uso che il soggetto intende fare di esso. Per
esempio se intende portare la mela alla bocca per morderla,
oppure se intende consegnarla ad un altro individuo.
Teoria Senso-Motoria della Percezione Visiva
Sembra derivare abbastanza naturalmente dall’approccio
ecologico e in particolare dalle osservazioni relative
all’affordance.
Questa teoria risponde alla domanda “come sono le
rappresentazioni nella nostra mente?” dicendo che queste
rappresentazioni non esistono affatto.
Mentre nell’approccio classico la percezione consiste
nell’elaborazione da parte del cervello di esperienze interne,
nella teoria Senso-Motoria non crea esperienze interne ma
azioni da eseguire sull’oggetto, ovvero studia come sarebbe
opportuno agire per interagire appropriatamente con
l’oggetto.
Tuttavia non è del tutto chiaro come questa teoria possa
risolvere alcuni problemi che ne mettono in discussione alcuni
aspetti, ad esempio se fosse vero che non esistono
rappresentazioni interne, come dovrebbero essere classificati i
sogni? E i contenuti delle nostre fantasie, memorie e pensieri
che possiamo fare a prescindere dal fatto che abbiamo gli
occhi aperti o chiusi?
Forse dovremmo accontentarci di applicare la teoria solo ad
alcuni ambiti della visione, come in questo esempio:
Questo è un caso definito “groundbreaking”, ovvero
rivoluzionario, che apre scenari mai immaginati prima. Questo
caso ha aperto la strada alla scoperta di due importarti
percorsi nel sistema visivo, quelli del “cosa” e del “dove”,
chiamati anche e , facendo riferimento alla localizzazione
anatomica, o addirittura e , facendo riferimento alla
caratteristica delle cellule e delle fibre che compongono
questi due sistemi.
“la via ventrale”
“la via dorsale”
“sistema Parvocellulare”
“sistema Magnocellulare”
“Cosa” e “dove” si riferiscono alle dimensioni funzionali, “cosa”
si riferisce al riconoscimento degli oggetti, mentre “dove” alla
capacità di interagire con essi nello spazio.
“Ventrale” e “Dorsale” si riferiscono ai substrati neurali, il
percorso del “cosa” va dalla corteccia occipitale lungo il lobo
temporale, mentre quello del “dove” va dalla corteccia
occipitale verso la corteccia parietale.
“Parvocellulare” e “Magnocellulare” si riferiscono alla
grandezza delle cellule gangliari che proiettano al cervello, le
“Magnocellulari” sono più grandi, hanno campi recettivi più
ampi, perché ricevono segnali da più cellule retiniche e quindi
sono maggiormente indicate per individuare movimenti nel
campo visivo, ovvero spostamenti da un campo recettivo
piccolo ad un successivo campo recettivo piccolo. Il passaggio
di un oggetto da un campo recettivo ad un altro può essere
rilevato dalla cellula gangliare Magnocellulare con campo
recettivo ampio.
Per converso le cellule gangliari Parvocellulari sono più
piccole e quindi hanno campi recettivi più circoscritti, che
ricevono segnali da un minor numero di recettori retinici e
dunque risultano più adatte alla rilevazione dei dettagli degli
oggetti circostanti.
Il caso clinico:
La paziente DF aveva una bassa compromissione della via
Ventrale.
Al cospetto di un compito come quello rappresentato dalla
prima immagine, in cui veniva mostrato un disco con un
rettangolo in mezzo e l’osservatore doveva orientare il disco in
modo da replicare l’esatta inclinazione del rettangolo, forniva
risposte completamente casuali.
Nel grafico “Con”, che rappresenta i soggetti di controllo, le
risposte sono tutte raggruppate e variano pochissimo tra di
loro, mentre la paziente “DF” non aveva nessuna
rappresentazione del corretto posizionamento della forma
presentata.
Questo dato quindi risulta sorprendente.
Di fronte allo stesso identico disco, se questa volta si chiedeva
alla paziente di inserire nella fessura, rappresentata dal
rettangolo, un oggetto, come nell’atto di imbucare una lettera,
le sue risposte risultavano immediatamente corrette.
Dunque la compromissione della via ventrale non permetteva
a DF di visualizzare correttamente le caratteristiche
dell’oggetto, ovvero la sua forma e il suo orientamento,
tuttavia era in grado di interagire con esso.
Se si chiedeva a DF di disegnare copiando da un modello
che veniva presentato, la paziente non era in grado di
riprodurre alcunché, se però si chiedeva di disegnare gli stessi
oggetti a memoria, la paziente era in grado di farlo.
Questo dimostra che il disturbo non è nella produzione dei
movimenti o nella conoscenza, ma nella capacità di elaborare
appropriatamente le informazioni visive relative alle
caratteristiche degli oggetti, che non permettevano alla
paziente di riconoscerli esplicitamente.
I pazienti che invece mostrano compromissioni nelle aree
della corteccia parietale, mostrano alterazioni legate
all’elaborazione della dimensione spaziale degli stimoli.
“Test del barrage”
Su un foglio di carta posto davanti al soggetto sono collocati
vari segmenti obliqui, il compito del soggetto è quello di
barrare con una penna tutti quelli che vede. Il soggetto ignora
completamente quelli che sono collocati controlateralmente
rispetto alla lesione cerebrale, che per i disturbi
dell’orientamento spaziale riguarda principalmente l’emisfero
destro.
Questa sindrome si può chiamare “Neglect Spaziale
Unilaterale”, “Eminattenzione spaziale” o anche
“Eminegligenza spaziale”.
Gli studiosi hanno scoperto che non è limitata solo allo spazio
esterno, ma sembra riguardare anche altre dimensioni delle
rappresentazioni spaziali.
Infatti anche nel disegno a memoria il risultato mostra
l’incapacità di riportare una parte dell’oggetto, anche se in
questo caso il riferimento è interno al soggetto, nella sua
immaginazione.
Interessante è il “Neglect centrato sull’oggetto”.
In questa immagine si vede che nel ricopiare un disegno egli
non ignora tanto tutta la parte sinistra dell’immagine, ma
tende ad ignorare sistematicamente la parte sinistra di ciascun
oggetto presente (manca la parte sinistra della casa e manca
la parte sinistra di entrambi gli alberi).
Ancora più evidente in questo caso, in cui quando la torre è in
verticale, ricopia solo la parte destra, coerentemente con l’idea
che ignori la parte sinistra del campo visivo, ma quando la
torre è orientata in modo obliquo, ci si aspetterebbe che il
paziente ricopiasse solo la parte della punta e non la base
dell’edificio, invece la copia è fedele all’inclinazione, omette
solo la parte sinistra della torre, disegnando anche le zone
che in realtà sono presentate nell’emicampo visivo sinistro.
Il Neglect quindi riguarda la parte sinistra dell’oggetto, non
del campo visivo.
“Neglect immaginativo”
Individuato da Bisiach e Luzzatti.
Nel caso da loro studiato veniva chiesto al paziente di
descrivere una piazza a lui nota, immaginata da una
particolare prospettiva, per esempio immaginando che lui si
trovasse di fronte ad un certo edificio.
Il paziente descriveva accuratamente solo la parte della
piazza che corrispondeva alla metà destra del suo campo
visivo immaginativo.
Subito dopo si chiedeva al soggetto di ipotizzare che lui si
trovasse dal lato opposto alla piazza.
Ora il paziente descriveva accuratamente l’altra metà della
piazza che ora si trovava nella metà giusta del suo campo
immaginativo, ma non era assolutamente in grado di riportare
nulla dell’altra metà, nonostante l’avesse correttamente
descritta pochi istanti prima.
Questo Neglect può essere dissociato da quello percettivo, il
paziente non omette la parte sinistra delle scene quando le
osserva o le copia, ma solo quando se le rappresenta
mentalmente.
Quest’ultimo esperimento dimostra che il Neglect è un
disturbo dell’attenzione e non della visione.
Alla paziente venivano mostrate immagini come quella
mostrata in figura, perfettamente allineate una sopra l’altra, in
modo che la paziente potesse ignorare la stessa parte di
entrambe le immagini. Una delle due case sta andando in
fiamme ed il fumo è posto nella parte sinistra della casa.
Alla paziente veniva chiesto in quale delle due case avrebbe
preferito vivere e lei rispondeva subito che la cosa era del
tutto indifferente, dal momento che le due case le
sembravano completamente identiche. Lo sperimentatore
insisteva e invitava la paziente ad effettuare comunque una
scelta, a questo punto la paziente, seppur contrariata dalla
domanda immotivata, sceglieva sempre la casa integra.
L’informazione proveniente dal lato sinistro del campo visivo
era quindi stata elaborata, ma la paziente ne restava
inconsapevole, non essendo in grado di orientare l’attenzione
su di essa.
Le evidenze descritte fin qui provengono dalla clinica,
vediamo come la differenza tra i percorsi del “cosa” e del
“dove” possono essere studiati anche su soggetti normali.
Questo di seguito è un lavoro ideato da un ricercatore italiano
di nome Salvatore Aglioti.
Quella mostrata nell’immagine è una famosissima illusione
ottica nota con il nome del suo ideatore Hermann Ebbinghaus,
o in alternativa con quello di Edward Titchener che la rese
famosa pubblicandola in un suo libro.
L’illusione consiste nel fatto che i due cerchi centrali
circondati a sinistra da cerchi piccoli e a destra da cerchi più
grandi, sono in realtà di dimensioni identiche, anche se
appaiono abbastanza chiaramente di grandezza diversa.
L’illusione poteva essere presentata con una variante che
prevedeva che i dischi centrali potessero essere afferrati dai
pazienti.
Studiando la cinematica del movimento della mano è stato
possibile mostrare come, nonostante l’occhio segnali
chiaramente una differenza di dimensioni tra i due dischi, la
mano si muova e si predisponga all’afferramento dell’uno
dell’altro come se essi fossero effettivamente identici.
Una prova molto efficace per evidenziare la relativa
indipendenza tra il sistema che elabora le caratteristiche
fisiche degli oggetti e il sistema che ci predispone
all’interazione con essi.
Il primo sistema segnala un’illusione ottica, mentre il secondo
opera come se tale illusione non esistesse.
Successivamente dovrebbero essere mostrati dei pattern,
ovvero dei modelli grafici con una caratteristica struttura, con
diversi tipi di movimento, espansione e contrazione, oppure
movimenti di rotazione. I settori all’interno dei pattern sono
formati da colori isoluminanti, ovvero che riflettono
esattamente la stessa quantità di luce. In questo caso non
dovrebbe essere coinvolto il percorso Magnocellulare, che
reagisce invece proprio il contrasto, ovvero alle differenze di
luminosità, tra aree contigue, mentre dovrebbe essere
selettivamente stimolato il sistema Parvocellulare, sensibile
alle differenze cromatiche. Per converso però il sistema
Parvocellulare non è sensibile al movimento. Dunque, non
appena nell’immagine saranno introdotte informazioni ad alto
contrasto luminoso, capaci dunque di attivare il sistema
Magnocellulare, le informazioni relative al movimento,
segnalate debolmente dal sistema Parvocellulare, spariranno
completamente e saranno del tutto soppiantate da quelle
vincolate dal sistema Magnocellulare, che invece è molto
sensibile al movimento.
Gli effetti saranno più visibili quanto più la riproduzione dei
movimenti sarà preservata nel video osservato sui vari
dispositivi.
(IL VIDEO RELATIVO SI TROVA AL MINUTO 29:05 DELLA
QUARTA LEZIONE SULLA PERCEZIONE)
Applicando una griglia statica di macchie nere disposte
casualmente (random dots pattern), la percezione del
movimento di espansione dei cerchi colorati svanisce: i cerchi
appaiono statici anch’essi.
Per converso, applicando su una struttura di cerchi concentrici
statici una griglia di random dots in espansione e contrazione,
la sensazione del movimento sarà trasferita alla struttura di
cerchi concentrici.
Anche per il movimento rotatorio, applicando una griglia
statica di macchie nere disposte casualmente (random dots
pattern), la percezione del movimento di rotazione dei cerchi
colorati svanisce: i cerchi appaiono statici anch’essi.
Se ora però applichiamo sopra la struttura radiale
oggettivamente statica, una griglia di random dots rotanti, la
sensazione di rotazione verrà trasferita alla struttura radiale.
Colori isoluminanti attivano selettivamente il sistema
Parvocellulare. I demo mostrati evidenziano come tale
sistema, sensibile all’informazione cromatica, sia invece poco
sensibile all’elaborazione del movimento...
La via dorsale e la via ventrale costituiscono due percorsi
indipendenti nel nostro sistema visivo, esiste però un altro
modo per differenziare il flusso dell’informazione nel sistema
visivo.
Non si tratta di fare riferimento a due sistemi anatomicamente
differenti, quanto piuttosto alla direzione assunta dal flusso
d’informazione nel sistema visivo.
Le teorie considerate finora sono caratterizzate da una
dinamica del processo di tipo unidirezionale: dal basso verso
l’alto (il che naturalmente risulta anche intuitivamente
inevitabile).
Si potrebbe pensare che l’informazione viaggi dalla periferia
verso l’interno del cervello, dove viene analizzata in aree di
livello gerarchicamente sempre superiore fino a quando,
raggiunto un ipotetico vertice, in questo punto elaborazione ha
termine.
Ma esistono modalità alternative di elaborazione delle
informazioni?
Le evidenze mostrano che il processo percettivo assomiglia di
più ad un ciclo continuo, in cui la direzione del flusso dal basso
verso l’alto può essere affiancata ed integrata da un flusso
che segue la direzione opposta, ovvero dall’alto verso il basso.
In inglese le due direzioni di questo percorso sono note con le
etichette di Bottom-Up e Top-Down.
Questo primo esempio è figurativo.
Osservando questo paesaggio naturale, si vede un lago, una
montagna parzialmente innevata, eppure se si continua
guardare la montagna, presto si scoprirà che essa è popolata
da una gran quantità di creature animali: un orso, un lupo, una
lince, un’aquila ad ali spiegate, uno stambecco ed un caprone.
Mentre la prima volta che l’immagine viene osservata questi
profili non vengono immediatamente individuati, una volta
individuati essi risulteranno visibili quasi subito ad ogni
successiva esposizione e osservazione alla stessa immagine.
Poiché le informazioni estratte dall’occhio saranno
naturalmente sempre le stesse, perché sempre la stessa sarà
l’immagine, il dato indica che mentre il sistema visivo estrae le
informazioni dal basso verso l’alto, il percorso inverso
influenza il processo di estrazione, mentre è ancora in corso,
coadiuvandolo nell’obiettivo di interpretare la realtà
circostante.
Quest’altro esempio riguarda invece l’interpretazione di
messaggi linguistici.
-lxfxnx, cxe xi xixi dx qxextx, ix cxi xgxi xexoxdx lxtxexa x
sxaxixa?
Riuscite a leggere questa frase?
Il compito sembra indubbiamente difficile, eppure tra poco
riuscirete a leggerla senza alcuna esitazione. Leggete in
sequenza le prossime frasi.
1-Questa frase è molto semplice da leggere ma non solo
perché tu puoi vedere tutte le lettere in ciascuna riga.
2-Infatti in quext’altra frase, qualxhe lettera è stata soxtituita
eppure tu puoi leggxrla con poco sforxo in più.
3-In qxestx fraxe pox, ognx quaxta lxttexa è sxata xostxtuixa
da xna x, xa prxbabxlmexte tx sei xncoxa in xradx di lexgerlx.
4-Rixscx a lxggxre xncxe qxesxa fxasx, in xui xgnx texza
xetxerx è sxatx omxssx?
5-lxfxnx, cxe xi xixi dx qxextx, ix cxi xgxi xexoxdx lxtxexa x
sxaxixa?
Non risulta molto più semplice leggere ora questa frase?
Eppure è sempre la stessa di pochi istanti prima.
(RISULTATI:
2-Infatti in quest’altra frase, qualche lettera è stata sostituita
eppure tu puoi leggerla con poco sforzo in più.
3-In questa frase poi, ogni quarta lettera è stata sostituita da
una x, ma probabilmente tu sei ancora in grado di leggerla.
4-Riesci a leggere anche questa frase, in cui ogni terza lettera
è stata omessa?
5-Infine, che mi dici di questa, in cui ogni seconda lettera è
sparita/svanita?)
Questo mostra che mentre noi siamo impegnati a registrare le
informazioni che provengono dal mondo esterno, il sistema
cognitivo aiuta a elaborarle sulla base delle ipotesi predittive
che possono essere ricavate dagli indizi che provengono dal
contesto e che possono indirizzare più direttamente il
processo di interpretazione.
Vediamo altri due esempi a favore dell’esistenza del ciclo
ricorsivo Bottom-Up, Top-Down.
Il primo riguarda il riconoscimento di stimoli linguistici ed è
noto con il nome di “Word Superiority Effect”. Ai soggetti
viene presentata una parola e subito dopo uno stimolo di
mascheramento per cancellarne le tracce. Il compito dei
soggetti consiste nel dire nel minor tempo possibile se la
parola conteneva o meno una certa lettera, ad esempio la
lettera D.
In altre prove ai soggetti viene mostrata per la stessa durata
della parola una singola lettera, subito dopo anche essa
mascherata. Di nuovo il compito del soggetto consiste nel
segnalare il più rapidamente possibile se si tratta di una certa
lettera, ad esempio la D, come nel caso precedente.
La logica suggerirebbe che dovrebbe essere più semplice
riconoscere la lettera in isolamento, dal momento che c’è
molta meno informazione da elaborare, ma il “Word
superiority effect” dimostra esattamente il contrario. Questo è
possibile solo ipotizzando che la conoscenza relativa alle
parole possa facilitare il processo di individuazione delle
lettere in esse contenute.
Chiaramente si tratta di un processo che dall’alto, conoscenze
lessicali, si affianca al processo di estrazione delle
caratteristiche, che procede dal basso.
Infine, consideriamo un altro esempio, in questo caso relativo
al riconoscimento dei volti.
Così come con le parole, anche il volto nel suo complesso ha
un ruolo importante rispetto alle parti che lo compongono.
Quella illustrata è una famosa illusione, nota con il nome della
ex Iron Lady del Regno Unito, Margaret Thatcher, perché sul
suo volto è stata mostrata per la prima volta.
Quelli che appaiono affiancati l’uno all’altro sembrano due
volti identici, attribuibili alla stessa persona, ma queste sono le
immagini ruotate nel verso giusto.
L’elaborazione delle caratteristiche relative agli elementi che
compongono un volto, Bottom-Up, è molto più efficiente al
cospetto di una sagoma ben definita e familiare, rispetto ad
un’altra del tutto estranea, come può esserlo quella di un
volto girato sottosopra. Gli stessi dettagli in un caso vengono
evidenziati, nell’altro vengono addirittura ignorati.
Quelle descritte finora sono le caratteristiche fondamentali del
sistema visivo, studiato in modo abbastanza approfondito, ma
sempre e comunque ad un livello introduttivo.
Attualmente gli studiosi sembra siano stati in grado di isolare
ed individuare nel cervello più di 30 aree legate al sistema
visivo.
Quando si parla di percezione l’elemento che sembra
distintivo di questo processo è la nostra capacità di avere
consapevolezza di ciò che percepiamo. Se non avessimo
consapevolezza dei nostri percetti, probabilmente non
parleremmo di percezione visiva. Quindi potrebbe essere
interessante capire, da quello che abbiamo detto, dove
potrebbe essere ravvisabile nel cervello un’area responsabile
della consapevolezza.
Nel Neglect l’integrità delle aree visive primarie sembrerebbe
irrilevante per derivarne la consapevolezza degli oggetti
percepiti: il soggetto sembra in grado di estrarre ed elaborare
l’informazione (vedi case in fiamme) ma non ne ha
consapevolezza.
Poiché l’area visiva primaria (V1) è integra, saremmo indotti a
pensare che essa abbia un ruolo irrilevante nella generazione
dell’esperienza consapevole...
Semplificando un po’, un analogo discorso può essere
applicato all’agnosia visiva (come nel caso della paziente DF):
il paziente è in grado di interagire con l’oggetto eppure non lo
riconosce.
Di nuovo, l’integrità di V1 sembra irrilevante per il
riconoscimento consapevole degli oggetti... Eppure...
GY (un famoso paziente) era affetto dalla sindrome
cosiddetta del “Blind-Sight”, scoperta e studiata da Lawrence
Weiskrantz negli anni 70. Essa è determinata da un danno
alla corteccia visiva primaria, che produce una cecità nella
zona coinvolta. Nel caso di GY si trattava di uno Scotoma,
ovvero di una sezione relativa solo ad una porzione di campo
visivo.
Nel video successivo il paziente tiene lo sguardo fisso sul
punto di fissazione rosso, in basso a sinistra sullo schermo. Lo
stimolo, il segnale luminoso in movimento, viene presentato
nella parte di campo visivo che il soggetto non vede, eppure,
come si potrà vedere egli ripete con esattezza con la mano i
movimenti e le traiettorie seguite dallo stimolo. Tuttavia GY,
intervistato al termine della prova, dichiara di non vedere
assolutamente nulla e di non sapere con certezza da cosa
dipenda il fatto che egli sia in grado di indicare accuratamente
i movimenti del segnale luminoso.
La sua è solo una sensazione di movimento, non è in grado di
descrivere l’oggetto che si muoveva.
(IL VIDEO A CUI SI FA RIFERIMENTO INIZIA AL MINUTO
46:32 DELLA QUARTA LEZIONE SULLA PERCEZIONE)
In questo caso dunque sembrerebbe verificarsi un fenomeno
complementare ai casi precedenti. Mentre nel caso del
Neglect o dell’agnosia visiva l’integrità di V1 sembrava
irrilevante per la consapevolezza percettiva, nel caso del Blind
Sight il segnale sembrerebbe essere correttamente elaborato,
ma il soggetto non ne ha consapevolezza, solo che questa
volta è proprio V1 ad essere compromessa.
Al contrario dei casi precedenti, questa volta l’area visiva
primaria sembrerebbe essenziale per la consapevolezza
visiva. L’enigma richiederà sicuramente molti altri anni di
ricerca.

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