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Parole che suonano con un che di sinistro, rife-
rite ad uno degli uomini più infelici e nevrotici che
mai vi siano stati tra i grandi artisti.
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WAGNER A PARIGI
E LA SUA VISITA A ROSSINI
(1860)
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Ma vorrei far precedere qualche parola d’introdu-
zione, per descrivere la situazione in cui Rossini e
Wagner si trovavano in quell’epoca a Parigi.
Era l’inverno del 1860. Wagner abitava al n. 16 di
Via Newton presso la Barrière de l’Etoile, in un pic-
colo alloggio (poi demolito) che egli aveva in gran
parte mobiliato con suoi propri oggetti trasportati da
Zurigo, dove abbellivano una dimora che egli aveva
nomato Asilo. Di li era partito, nel 1859, alla volta
della Francia. Abituato a questi mobili, che gli ricor-
davano un luogo dal quale si era allontanato con
dispiacere, egli amava essere costantemente circon-
dato dai vari oggetti la cui vista gli evocava i sem-
pre palpitanti ricordi di quella donna affascinante,
Mathilde Wesendonck per la quale, durante anni di
vicinanza a Zurigo, egli aveva concepito l’entusiasmo
che sappiamo ; la stessa donna del resto, che tanta
influenza esercitò sul suo genio3.
In questa tranquilla dimora, egli viveva assai mo-
destamente. Vicino al Bois de Boulogne, non usciva
quasi mai se non per la passeggiata quotidiana, ac-
compagnato da un piccolo vivacissimo cane che egli
amava vedere saltellargli attorno. Il resto della gior-
nata lo trascorreva a collaborare ininterrottamente
con Edmond Roche per la traduzione francese del
Tannhäuser. Negli intervalli si consacrava alla Tetra-
logia, limando l’orchestrazione di questo colossale la-
voro, che a quest’epoca era già quasi del tutto ulti-
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con cui il maestro ci iniziava al vero senso, al carat-
tere profondo del suo pensiero, tale quale l’aveva con-
cepito? Che fuoco, che vivacità! Che esuberanza di
declamazione ! Quanto alla voce (non sempre intonata !)
la definiva spiritosamente «voce scomposta di un com-
positore», aggiungendo che era tale da far scappare
tutti i maestri cantori, compresi quelli di Norimberga !
Alludeva ai Meistersinger, di cui stava terminando
il libretto.
Tale era, a quei tempi, l’umbratile vita parigina
di Wagner. Malgrado la ripugnanza che provava per
le visite, non aveva potuto dispensarsi dalle formalità
d’uso nei confronti di certi esponenti del mondo musi-
cale. Incontrò cosi Auber, Halévy, Ambroise Thomas,
etc. e conobbe Gounod4.
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Quanto a Rossini, che non aveva ancora incontrato,
si mostrò perplesso. Sapendo che io ero tra gli amici
più intimi del maestro italiano volle mettermi a parte
dei motivi della sua esitazione. I quali, erano poi i
seguenti : alcuni giornali parigini che senza tregua
perseguitavano Wagner e la sua « musica dell’avve-
nire)) coi loro sarcasmi si erano per di pili concessi
il piacere maligno di diffondere tra il pubblico una
quantità di aneddoti inventati di sana pianta e molto
spiacevoli nei riguardi dell’autore del Tannhäuser.
Al fine di conferire apparenza di verità a queste sto-
rielle, non si peritavano di sbandierare nomi di per-
sonaggi di rilievo attribuendo ad essi la paternità dei
loro pettegolezzi. Rossini soprattutto, al quale fin
troppo spesso venivano attribuite certe arguzie, (d’un
gusto discutibile, dato che erano apocrife) si trovò
ovviamente eletto per essere arruolato (in qualità, di
dispensatore sempre ben fornito) da queste fabbriche
della maldicenza.
Si affermava quindi che ad uno dei pranzi setti-
manali ai quali l’autore del Barbiere riuniva alcuni
personaggi di rilievo, i domestici, promettendo il menù
del «Rombo alla tedesca», cominciarono col servire
agli invitati una appetitosissima salsa, di cui ognuno
prese la sua parte. Improvvisamente, poi, il servizio
fu interrotto, il pesce non arrivò. I convitati si inter-
rogavano a vicenda perplessi : cosa bisognava fare con
quella salsa? Al che Rossini, rallegrandosi maliziosa-
mente del loro imbarazzo, trangugiando lui stesso la
salsa, avrebbe esclamato: «Allora cosa state aspettan-
do? Assaggiate questa salsa che, credetemi è eccellente.
Quanto al rombo, ahimè! È la portata principale...
è vero... ma il pescivendolo all’ultimo momento non
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me lo ha recapitato. Ma non ve ne sbalordite. In fondo,
non è lo stesso per la musica di Wagner? Buona salsa,
ma niente pesce. Niente melodia!».
Narravano ancora che un’altra volta un visitatore,
entrando nello studio di Rossini, sorprese il maestro
intento con movimenti di gran fastidio a rigirare in
tutti i sensi una enorme partitura... Quella del
Tannhäuser. Poi fermandosi dopo rinnovati sforzi :
« Dopo tutto, non è tanto male ! » avrebbe sospirato
« ecco qui ! Dopo mezz’ora che cerco, comincio a ca-
pirci qualcosa!». (La partitura era aperta al contra-
rio !) Ma ecco, che proprio in quel momento si sente
un gran fracasso nella stanza vicina. « Oh, oh, ma
eccola è proprio questa, quella polifonia, Corpo di
Dio ! assomiglia maledettamente all’orchestra della
“ grotta di Venere ” ». Al che la porta s’apre d’im-
provviso, e il maggiordomo viene ad avvertire il mae-
stro che la domestica * aveva fatto cadere un vassoio
di piatti !
Impressionato da tali storie, che credeva veridiche,
Wagner esitava, si capisce, a presentarsi a casa di
Rossini. Io faticai non poco a rassicurarlo : gli feci
capire che tutte quelle ciance erano pure invenzioni,
che una stampa ostile si divertiva a diffondere tra il
pubblico. Aggiunsi che Rossini (del quale meglio di
ogni altro potevo conoscere il carattere, per l’intima
amicizia e le relazioni quotidiane che avevo con lui)
era di spirito troppo elevato per rimpicciolirsi con sif-
fatte scempiaggini, che nemmeno avevano il merito di
essere di natura spirituale ; e contro le quali, del resto,
lui stesso non smetteva di protestare energicamente5.
Riuscii a convincere Wagner, affermando che avreb-
be potuto presentarsi da Rossini senza timore, poiché
sarebbe stato ricevuto nel modo piu cordiale. Una volta
decisosi, mi espresse il desiderio di essere accompa-
gnato e presentato da me. Prendemmo appuntamento*i
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per l’indomani mattina. Io avvisai frattanto Rossini,
che prontamente rispose : « Ma è naturale : riceverò il
signor Wagner col più grande piacere. Voi sapete i
miei orari: venite pure con lui quando vorrete». Poi
aggiunse : « Gli avete almeno fatto capire che sono
estraneo a tutte le stupidaggini che mi si attribuiscono
sul suo conto?». Dopo aver descritto, con qualche par-
ticolare, le condizioni in cui allora Wagner si trovava
a Parigi, prima di mettere i due maestri in*presenza
l’uno dell’altro, dovrò completare questa mia intro-
duzione dedicando a Rossini le righe che seguono.
Questi abitava allora nella casa sita all’angolo tra
la Chaussée d’Antin e il Boulevard des Italiens, al
primo piano : un appartamento ben conosciuto da
tutti i parigini6.
Nel 1856 il Maestro, che viveva a Firenze, tornò
improvvisamente a Parigi, che dal 1836 non aveva pili
rivisto. Colpito già da qualche tempo da nevrastenia,
si era rivolto invano ai medici di Firenze i quali pare-
vano impotenti a combattere il male, che andava peg-
giorando, fino a minacciare seriamente la salute men-
tale dell’illustre malato. M.me Rossini giudicò neces-
sario un cambiamento di luogo. Pensò a Parigi, ove
suo marito contava ancora qualche vero amico tra la
legione degli ammiratori. Ancor piu che sugli aiuti
terapeutici, essa contava nelle gioie di ritrovare i vec-
chi amici, e sulla allettante possibilità di averne di
nuovi ; tutte cose (pensava ella) tali da poter eserci-
tare una benefica azione nel morale cosi indebolito e
scoraggiato di suo marito. All’inizio non fu facile
averla vinta sulle resistenze di Rossini e riuscire a
convincerlo ad intraprendere un tale viaggio, che si
sarebbe dovuto compiere in carrozza, con frequenti
fermate per il cambio dei cavalli, e tappe in tutte le
città ove si dovesse trascorrere la notte. Rossini, in-
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fatti, si rifiutava con ostinazione a viaggiare in fer-
rovia. Come scusa affermava che era troppo umiliante
essere trascinati dal capriccio di una macchina, come
tanti pacchi postali. In realtà, per una stranezza del
suo stato nervoso, egli aveva davvero paura del treno7.
Alfine si convinse. Dopo un viaggio che durò quin-
dici giorni egli giunse a Parigi, estenuato e d’aspetto
assolutamente miserevole. Lo stato dei suoi nervi, già
seriamente scosso dalla malattia, s’era ulteriormente
aggravato in seguito alle scomodità e alle difficoltà del
viaggio. Rivedendolo, col volto emaciato, lo sguardo
spento, la parola esitante, la mente oscurata, i suoi
amici ne furono costernati. Dinanzi a tali sintomi, non
si poteva non temere un inevitabile rammollimento
cerebrale.
Per fortuna la scienza medica grazie alla dedizione
di illustri clinici, giunse nello spazio di qualche mese
a trionfare su questo, stato allarmante e nel mentre
che il corpo gradualmente si ristabiliva, l’atmosfera
confortante che alcuni amici devoti si curavano di
creare attorno al maestro fini per riaccendere la fiam-
ma d’una mente che si credeva fosse spenta per sempre.
Più tardi, una cura a Kissingen concluse la guarigione.
Le tracce di un male che era parso incurabile si dis-
solsero definitivamente.
Da allora, l’autore di Guglielmo Teli e del Barbiere
ritrovò a Parigi un’aureola di gloria e di prestigio da
nessuno uguagliata in campo musicale. I ricevimenti
a casa sua divennero famosi. Gli artisti più rinomati
brigavano per ottenere il favore di farvisi ascoltare.
Lo si vedeva, allorché i suoi saloni venivano aperti,
circondarsi delle più illustri personalità parigine di
tutti i campi. In tanta regalità intellettuale, ranchiusa
in una calma olimpica ch’era retaggio dell’età, Rossini
seppe restare semplice, buono, affabile, privo d’alteri-
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già, nemico di ogni ostentazione. Vorrei anzi che mi
fosse permesso, a tal proposito di far tabula rasa di
quella sua troppo esagerata fama di « spiritoso mot-
teggiatore», e di quella del tutto ingiusta di «beffeg-
giatore impietoso» di che i giornali parigini di allora
si compiacevano gratificarlo, attribuendogli con incre-
dibile leggerezza un numero di risposte d’un gusto
pili o meno dubbio, ch’egli non si era mai sognato di
dare ; o facezie irriverenti verso alcuni, di cui egli era
addirittura incapace. Rossini soffriva di questa pessima
pubblicità che spesso debordava dai limiti della mali-
zia, per divenire del tutto perfida a suo riguardo.
Spesso gli capitava di lagnarsene, e quando gli si ri-
spondeva: «Voi sapete maestro, non si presta che ai
ricchi», egli sospirava; «A dire il vero mi sarebbe
gradita un po’ più di « povertà » e un po’ meno di
«generosità». A forza di volermi «prestare», mi rim-
pinzano, mi stracolmano ! E che razza di prestiti, buon
Dio ! Un tal pattume insudicia me ancor più di quanto
colpisca gli altri! Tutto ciò mi esaspera, ma cosi va
il mondo»*.
Ho voluto in queste poche righe sottolineare la si-
tuazione cosi divergente in cui in quell’epoca i due
uomini s’incontrarono a Parigi. L’uno adulato come
un semidio, l’altro, privo di ogni prestigio, schernito
persino come un malfattore. E frattanto, non dimen-
tichiamocelo, Wagner, che «si trovava al culmine del
suo genio, grande ai suoi occhi quanto poi doveva
esserlo a quelli del pubblico, aveva già creato l’opera
da titano che dormiva, ignorata e colossale, in un an-
golo del modesto alloggio di Via Newton. Tristano e
Isotta, interamente completata, la Tetralogia sul punto
d’esserlo.
Come d’accordo, Wagner, puntuale all’appuntamen-
to (che si era curato superfluamente di rammentarmi,
per lettera, alle prime ore del mattino) venne a pren-
dermi a casa. Questa era a pochi passi dalla dimora
di Rossini, per cui ci mettemmo subito in cammino.
Salendo le scale, dissi a Wagner : « Se troveremo
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valletto altrettanto rigoroso idi Leporello, probabil-
mente il numero « mille e tre » del catalogo sarebbe
stato oltrepassato...».
«Oh, come correte», rispose Wagner, «mille, con-
cedo, ma ancora tre, è davvero troppo!».
In quel mentre il maggiordomo venne ad avvisarci
che Rossini ci stava aspettando.
Non appena fummo entrati fece : « Ah, signor
Wagner, come un novello Orfeo non temete di oltre-
passare la soglia terribile...» e, senza dar tempo di
replicare : « So che mi hanno reso assai perfido ai
vostri occhi8. Mi si attribuiscono a vostro riguardo
tante cattiverie, che nulla da parte mia potrebbe giu-
stificare. E poi, perché dovrei comportarmi cosi? Io
non sono Mozart né Beethoven. Nemmeno ho la pretesa
di un dotto : ma ho quella d’esser un uomo beneducato,
e mi guarderei bene dall’ingiuriare un musicista che
come voi, da quanto mi è stato detto, si sforza d’al-
largare i limiti della nostra arte. I maligni che si com-
piacciono d’occuparsi di me dovrebbero concedermi,
se non altro, il merito d’esser provvisto di buon senso.
Quanto a disprezzare la vostra musica, per farlo
dovrei prima conoscerla ; per conoscerla dovrei ascol-
tarla a teatro, poiché è a teatro e non con la semplice
lettura di una partitura che si può giudicare equa-
mente una musica destinata alla scena. La sola vostra
composizione che conosco è la marcia del Tannhäuser.
L’ho ascoltata più di una volta a Kissingen dove mi
trovavo per una cura, tre anni or sono. Produsse un
grande effetto e, lo confesso sinceramente, per quanto
mi riguarda l’ho trovata molto bella... Ed ora che
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riuscito ad imparare e a pronunciare, con sforzi eroici,
sono ‘ich bin zufrieden’. Ne ero molto fiero e a Vienna
me ne servivo in tutte le occasioni ufficiali o private,
ma soprattutto ufficiali. Ciò mi valse, presso la popo-
lazione viennese che passa per essere la più amabile
di tutti gli stati tedeschi, e soprattutto presso le belle
viennesi, la reputazione di uomo della più compiuta
urbanità: “ich bin zufrieden”. Questa chiacchierata
fece sorridere Weber, lo rassicurò e lo mise a suo agio.
“D’altronde”, continuai, “discutendo le mie opere,
m’avete fatto fin troppo onore, a me che sono cosi poca
cosa in confronto ai grandi geni del vostro paese. Cosi,
mi piacerebbe chiedervi di potervi abbracciare ; e, cre-
detemi, se per voi la mia amicizia può avere qualche
valore, ve la offro completamente e di tutto cuore”.
Lo abbracciai affettuosamente e vidi spuntargli una
lacrima negli occhi».
WAGNER « So che allora era già minato dalla tisi
che doveva portarselo via di li a poco».
ROSSINI « Già. Mi apparve in uno stato pietoso :
il colorito livido, emaciato, con la tosse secca dei ma-
lati di petto... per di più, claudicante. Faceva pena a
vederlo. Pochi giorni dopo tornò da me per chiedermi
qualche raccomandazione per Londra, dove era in pro-
cinto di recarsi. Fui atterrito dal pensiero di vederlo
intraprendere un tale viaggio. Tentai di dissuaderlo
nel modo più energico dicendogli che commetteva un
crimine... un suicidio! Niente da fare. “Lo so”, mi
rispose, “ci lascerò la vita... ma devo farlo. Devo
rappresentare Oberon, il mio contratto me lo impone,
devo, devo...”. Tra le varie lettere per Londra (dove,
durante il mio soggiorno inglese, avevo stretto impor-
tanti relazioni) gliene affidai una di presentazione per
il re Giorgio, il quale, molto ospitale per gli artisti
era stato particolarmente benevolo nei miei confronti.
Col cuore amareggiato, abbracciai un’ultima volta que-
sto grande genio, col presentimento che non l’avrei
più rivisto. E cosi fu. Povero Weber!. Ma tornando
ai “complotti”, ecco la mia opinione in proposito:
niente di <meglio che opporvi inerzia e silenzio; cre-
detemi, è molto meglio della risposta e la collera.
I malevoli sono un esercito : l’individuo che vorrà di-
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battere o, se preferite, battersi contro tali accattoni,
non avrà l’ultima parola. Da parte mia, fregandomene
di questi attacchi, paravo i loro colpi di fioretto colle
mie “ fioriture ”, ai soprannomi opponevo le mie ter-
zine, ai lazzi i pizzicati ; e tutto il baccano messo in
moto da coloro che non amavano queste mie cose, non
riusci mai a costringermi (ve lo giuro) ad appioppargli
un solo colpo di grancassa in meno nei miei “ crescen-
do ”, ne ad impedirmi, se mi andava, di inorridirli
con un “felicità” in più nei miei finali. Adesso voi
mi vedete col parrucchino, ma, credetemi, non sono
stati certo quei mascalzoni a farmi cadere un solo
capello dalla testa». Frastornato dapprima da questa
tirata ultrapittoresca in cui il maestro italiano, fino
allora serio e compunto, si rivelava bruscamente sotto
un aspetto cosi opposto (Rossini infatti aveva ripreso
il suo abituale spirito umoristico, di persona che chia-
ma le cose col loro nome), Wagner cercava di tratte-
nere il riso: «Oh, quanto a questo», rispose indicando
col gesto il cervello, « grazie a ciò che avete là dentro,
maestro, quest’inerzia di cui parlate non si rivelò
piuttosto una potenza attiva? Una potenza consacrata
dal pubblico, e cosi sovrana, da far compiangere i folli
che avrebbero voluto contrastarla?... Ma mi avete fatto
capire, poc’anzi, d’aver conosciuto Beethoven...».
ROSSINI « È vero ; fu a Vienna, precisamente al-
l’epoca di cui vi parlavo : nel 1822 quando fu rappre-
sentata la mia Zelmira. Avevo già ascoltato a Milano
alcuni quartetti di Beethoven, e non vi dirò con quanto
sentimento d’ammirazione ! Conoscevo anche qualche
sua composizione per pianoforte. A Vienna, ebbi modo
d’assistere per la prima volta all’esecuzione d’una sua
sinfonia, l’Eroica. Questa musica mi sconvolse. Non
ebbi che un solo pensiero : conoscere questo grande
genio, vederlo, foss’anche una volta sola. A tal propo-
sito feci pressione in Salieri che sapevo essere in rela-
zione con Beethoven».
WAGNER «Salieri, l’autore delle Danaidi? ».
ROSSINI «Proprio lui. A Vienna, dove risiedeva
da lungo tempo, aveva raggiunto una posizione di
primo piano, in conseguenza al successo ottenuto da
numerose sue opere, rappresentate al Teatro Italiano.
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Mi disse che, in effetti, egli talvolta vedeva Beethoven ;
ma mi confessò che, a causa del carattere ombroso e
lunatico di questi, la cosa che chiedevo non sarebbe
stata facile. Questo stesso Salieri tra parentesi, aveva
avuto rapporti altrettanto stretti con Mozart. Dopo
la morte di questi, fu sospettato, ed anche seriamente
accusato, d’averlo tolto di mezzo, per gelosia di me-
stiere, con un veleno lento...».
WAGNER « Ancora ai miei tempi questa diceria
persisteva a Vienna».
ROSSINI « Mi divertii un giorno a dire a Salieri,
per scherzo : “ È una fortuna che Beethoven, per istinto
di conservazione, eviti di farvi sedere alla sua mensa ;
potreste bene spedirlo all’altro mondo, come avete fatto
con Mozart”. “Ho dunque l’aria d’un avvelenatore?”,
mi rispose Salieri. “Oh, no. Avete piuttosto l’aria d’un
vigliacco matricolato ! ”. Cosa che in effetti era. Questo
povero diavolo, d’altronde sembrava curarsi ben poco
di passare per l’assassino di Mozart. Ciò che non riu-
sciva a digerire era che un giornalista viennese, difen-
sore della musica tedesca, il quale amava molto poco
l’opera italiana e Salieri soprattutto, avesse scritto
che, con le Danaidi, Salieri aveva vuotato la sua botté
di tutto il buono che conteneva, e senza neanche molta
fatica, ché grandi cose non ne aveva mai contenute.
La costernazione di Salieri su questo fatto era stra-
ziante. D’altra parte, devo confessare che per soddi-
sfare il mio desiderio, egli credette di non poter fare
meglio che rivolgersi a Carpani, il poeta italiano, che
era “persona grata” agli occhi di Beethoven, e con
l’intervento del quale la cosa sarebbe quasi sicuramente
riuscita. In effetti, Carpani s’impegnò con tanto zelo
presso il maestro, che fini per ottenere il consenso a
ricevermi. Devo dirlo? Salendo le scale che conduce-
vano al povero alloggio dove viveva il grand’uomo,
faticai a controllare la mia emozione. Quando la porta
s’apri mi trovai in una specie di bugigattolo, cosi
sporco da rivelare un disordine spaventoso. Mi ricordo
soprattutto che il soffitto, che era immediatamente
sotto il tetto, era costellato di crepe cosi larghe che
la pioggia doveva penetrarvi a fiotti.
I ritratti di Beethoven che conosciamo rendono
abbastanza bene la fisionomia dell’insieme. Ma ciò che
nessun bulino saprà mai incidere, è la tristezza inde-
finibile sparsa su tutti i suoi tratti, mentre sotto le
spesse sopracciglia brillavano, come al fondo di ca-
verne, due occhi che, quantunque piccoli, sembravano
trapassarvi. La voce era dolce e a tratti un po’ velata.
Quando fummo entrati, senza prestarci attenzione,
indugiò per qualche istante, proteso su una bozza di
stampa che stava finendo di correggere. Poi, alzando
la testa, mi disse bruscamente in un italiano abbastan-
za comprensibile: “Ah, Rossini, siete voi l’autore del
Barbiere di Siviglia? Mi congratulo con voi, è un’ec-
cellente opera buffa, l’ho letta con piacere e me ne
sono allietato. Finché esisterà un Teatro d’opera ita-
liano, la si eseguirà. Non cercate mai di far altro che
opere buffe : voler riuscire in qualcosa di diverso sa-
rebbe forzare il vostro destino”. “Ma”, l’interruppe
prontamente Carpani, (beninteso, scarabocchiandolo a
matita in tedesco, perché non si poteva proseguire in
altro modo la conversazione con Beethoven, che Car-
pani mi traduceva parola per parola), disse dunque:
“ Il maestro Rossini, ha già composto un gran numero
di partiture d’opera seria : Tancredi, Otello, Mosè ;
ve le ho mandate da poco, raccomandandovi di esa-
minarle”. “In effetti le ho scorse”, rispose Beethoven,
“ ma, vedete, l’opera seria non è nella natura degli
italiani. Per trattare un vero dramma, non hanno
abbastanza dottrina musicale, e del resto, come po-
trebbero acquisirla in Italia?”».
WAGNER «Quest’unghiata leonina non avrebbe
certo mitigato la costernazione di 'Salieri, se fosse
stato presente...».
ROSSINI «No di certo! Tuttavia gli raccontai la
cosa. Si morse le labbra... senza farsi troppo male,
suppongo ; che, come vi ho detto, era vigliacco a tal
punto che di certo all’altro mondo il re degli inferi,
per vergogna di dover rosolare un simile codardo,
l’avrà mandato a farsi friggere altrove! Ma torniamo
a Beethoven. “Nell’opera buffa” continuò, “nessuno
saprebbe eguagliare voialtri Italiani. La vostra lingua
e la vivacità del vostro temperamento vi destinano ad
essa. Guardate Cimarosa e quanto nelle sqe opere la
parte comica è superiore a tutto il resto ! E lo stesso
con Pergolesi. Voi italiani, lo so, tenete in gran conto
]a sua musica sacra. Nel suo Stabat, ne convengo, vi
è un sentimento assai toccante ; ma la forma vi manca
di varietà... l’effetto è monotono, mentre la Serva
Padrona.-. ” ».
WAGNER (interrompendolo) « Bisogna dire, mae-
stro, che per fortuna, vi siete ben guardato dal seguire
il consiglio di Beethoven...».
ROSSINI «A dire il vero, sentivo tuttavia più in-
clinazione per l’opera buffa. Trattavo più volentieri
soggetti comici che seri. Ma non spettava a me la
scelta dei libretti; che mi erano imposti dagli impre-
sari. Quante volte mi è capitato di ricevere all’inizio
una parte sola del testo, un atto per volta, e mi toc-
cava scrivere la musica senza sapere il seguito e la
fine della vicenda. Pensi un po’... ma si trattava, per
me, di mantenere mio padre, mia madre e mia nonna !
Vagando come un nomade di città in città, scrivevo
tre, quattro opere in un anno. E credete pure che ciò
non mi fruttava di che vivere da gran signore. Per il
Barbiere, ricevetti 1200 franchi in contanti, più un
vestito color nocciola coi bottoni dorati, che il mio
impresario mi regalò perché fossi in condizioni di
presentarmi decentemente all’orchestra. Questo vestito,
è vero, avrà potuto valere un cento franchi. Totale,
1300 franchi. Io avevo impiegato tredici giorni sola-
mente per scrivere la partitura. A conti fatti, essa mi
rese 100 franchi per giorno. Vedete bene (aggiunse
Rossini sorridendo) che guadagnavo pur sempre un
bel salario. Potevo andare fiero con mio padre che
allora aveva l’impiego di trombettiere municipale a
Pesaro, e guadagnava due franchi e mezzo al giorno».
WAGNER « Tredici giorni ! Il fatto è certamente
unico... Io sono ammirato di come, in queste condi-
zioni, costretto alla vita nomade che mi avete detto,
abbiate potuto scrivere certe pagine di Otello e di
Mosè, pagine superiori, che portano il segno non del-
l’improvvisazione, ma d’un lavoro di riflessione unito
alla concentrazione di tutte le energie mentali».
ROSSINI (interrompendolo) «Oh, avevo facilità, e
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molto istinto ’. In mancanza di una istruzione musicale
approfondita (e, d’altra parte, dove avrei potuto tro-
varla, ai miei tempi in Italia?) * il poco che sapevo,
l’avevo imparato dalle partiture tedesche. Un dilet-
tante di Bologna ne possedeva qualcuna : La Creazione,
Le Nozze di Figaro, Il Flauto Magico... Me le prestava,
e siccome a 15 anni non avevo i mezzi di farmele
arrivare dalla Germania, le ricopiavo con accanimento.
Vi dirò che spesso mi capitava di trascrivere solo la
parte vocale, trascurando l’accompagnamento dell’or-
chestra. Allora, su un foglio separato, immaginavo un
accompagnamento di testa mia, che poi confrontavo
con l’originale di Haydn o di Mozart, dopo di che
completavo la mia copia aggiungendovi il loro. Ho
imparato più con questo sistema che con tutti i corsi
del Liceo di Bologna. Ah ! se solo avessi potuto stu-
diare nel vostro paese, sento che avrei potuto produrre
qualcosa di meglio di quanto ho fatto ».
WAGNER « Certamente non meglio, per citare
qualcosa di vostro, della “ Scena delle Tenebre ” del
Mosè, della “Cospirazione” del Guillaume Teli o, in
altro genere, “Quando Corpus morietur... ” ».
ROSSINI «Voi mi state elencando, ne convengo,
alcuni momenti felici della mia carriera. Ma cos’è
tutto ciò paragonato all’opera di un Mozart, d’un
Haydn? Non saprei esprimervi abbastanza l’ammira-
zione che nutro per questi maestri, per questa scienza
51
versatile, questa sicurezza per loro cosi naturale nel-
l’arte del comporre. Li ho sempre invidiati : ma ciò
va imparato sui banchi di scuola, e per di più oc-
corre essere Mozart per trarne profitto. Bach, poi,
per non lasciare il vostro paese, è un genio schiac-
ciante. Se Beethoven è un prodigio dell’umanità, Bach
è un miracolo di Dio ’. Mi sono abbonato alla grande
pubblicazione delle sue opere. Ecco... guardate là sul
mio tavolo, l’ultimo volume apparso. E vi dirò, il
giorno in cui mi arriverà il successivo, sarà per me
un giorno di gioia senza paragoni. Come vorrei prima
d’andarmene da questo mondo, poter ascoltare una
esecuzione integrale della sua grande Passione! Ma
qui, coi Francesi, nemmeno a pensarci...».
WAGNER «Fu Mendelssohn che per primo rivelò
la Passione ai tedeschi, con una esecuzione magistrale
che lui stesso diresse a Berlino».
ROSSINI «Mendelssohn! Oh, che persona simpa-
tica! Mi ricordo con grande piacere le belle ore che
trascorsi in sua compagnia a Francoforte, nel 1836.
Io, che allora abitavo a Parigi, mi trovavo in quella
città in occasione di un matrimonio che si celebrava
nella famiglia Rothschild, al quale ero stato invitato.
Fu Ferdinand Hiller che mi presentò a Mendelssohn.
Fui affascinato nel sentirlo eseguire al pianoforte, tra
le altre cose, alcune delle sue deliziose romanze senza
parole. Poi mi suonò qualcosa di Weber. Allora gli
chiesi Bach, molto Bach. Hiller mi aveva avvertito
che nessuno lo interpretava meglio di lui. Di primo
acchito Mendelssohn parve stupefatto della mia richie-
sta. “ Ma come, mi disse, voi italiano amate a tal punto
la musica tedesca?”. “Amo solo quella”, replicai, e,
in maniera un po’ troppo disinvolta aggiunsi : “ della
musica italiana me ne fotto ! ”. Mi guardò meravi-
gliato ; il che non gli impedì di suonare in modo
ammirevole e con rara compiacenza nei miei riguardi,
numerose fughe ed altri brani del grande Bach. Ap-
presi da Hiller che, dopo che ci fummo salutati,
Mendelsshon gli disse riferendosi a quella mia uscita
bizzarra : “ Ma questo Rossini fa proprio sul serio? In
tutti i casi, è uno strano tipo davvero ! ” ».
WAGNER (ridendo di cuore) « Posso capire, mae-
52
stro, la meraviglia di Mendelsshon, ma mi permette
di domandarle come terminò la sua visita a Beetho-
ven? ».
ROSSINI «Oh, fu breve. D’altronde si capisce,
tutta una parte della conversazione doveva svolgersi
per iscritto. Gli dissi tutta la mia ammirazione per il
suo genio, e tutta la mia gratitudine per avermi dato
l’opportunità di esprimergliela. Lui mi rispose con un
profondo sospiro e con queste sole parole : “ Oh, un
infelice ! ”. Mi domandò, dopo una pausa, qualche det-
taglio sui teatri in Italia... sui cantanti in voga... se
le opere di Mozart venissero frequentemente eseguite...
se ero soddisfatto della compagnia italiana a Vienna
poi, augurandomi una buona esecuzione e il successo
per la Zelmira, si alzò, ci accompagnò alla porta e mi
ripetè: “Soprattutto, fate molto del Barbiere”. Scen-
dendo poi quella scala malridotta, provai per la mia
visita a questo grand’uomo un’impressione cosi penosa,
che non potei controllare le lacrime. “Ah, disse Car-
pani, è questo ciò che vuole. É misantropo, burbero e
incapace di conservarsi un’amicizia ”. La sera stessa,
presi parte ad un pranzo di gala dal principe di Met-
ternich. Ancora sconvolto da quella visita, da quel
lugubre “un infelice” che mi era restato nell’orecchio,
confesso che non riuscii a controllare dentro di me
un certo sentimento di compassione, per il fatto di
vedermi per contrasto, trattato con tanti riguardi da
quella brillante assemblea viennese ; ciò che mi portò
a dire a voce alta e senza mezzi termini tutto ciò che
pensavo circa la condotta della corte e dell’aristocra-
zia nei confronti del piu grande genio dell’epoca, di
cui si curavano cosi poco e che lasciavano in tali
strettezze. Mi risposero come già mi aveva risposto
Carpani. Domandai se anche questo stato di sordità
di Beethoven non fosse degno della più grande commi-
serazione... Se fosse caritatevole tirar fuori le mancan-
ze che gli erano rimproverate, per cercar scuse che
evitassero di venirgli incontro? Aggiunsi che sarebbe
stato facile, per mezzo di un impegno di sottoscrizione
minimo, se tutte le famiglie ricche fossero intervenute,
assicurargli una rendita abbastanza consistente da
metterlo per tutta la vita al riparo da ogni necessità
53
materiale. Nessuno appoggiò la mia proposta. Dopo il
pranzo, la serata terminò con un ricevimento che vide
nei saloni di Metternich i più illustri nomi della società
viennese. Ebbe luogo qui un concerto. Sul programma
figurava uno degli ultimi trii apparsi di Beethoven...
sempre lui, lui dovunque, come si diceva di Napoleone.
Il nuovo capolavoro venne religiosamente ascoltato ed
ottenne uno splendido successo. Ascoltandolo in quel
luogo di magnificenze mondane, consideravo tristemen-
te che nello stesso momento il grand’uomo terminava,
nell’isolamento di quell’abituro ove viveva, qualche
opera di alta ispirazione destinata, come le altre, ad
iniziare a bellezze d’ordine sublime quella stessa bril-
lante aristocrazia dalla quale era escluso e che, presa
dalle proprie gioie, non si preoccupava della miseria
di chi gliele procurava.
Pur non essendo riuscito nei miei tentativi di
creare una rendita annuale a Beethoven, non mi persi
d’animo. Volli provare a mettere insieme i fondi ne-
cessari a comprargli una casa. Giunsi ad ottenere
qualche promessa di sottoscrizione ; ma anche aggiun-
gendo il mio contributo, il risultato fu decisamente
mediocre. E fui costretto cosi ad abbandonare anche
questo secondo progetto. La risposta più frequente era :
“Voi non conoscete abbastanza Beethoven. Il giorno
che fosse proprietario di una casa, la venderebbe l’in-
domani stesso. Non sarà mai capace di stabilirsi in
una dimora definitiva ; lui sente la necessità di cam-
biare quartiere ogni sei mesi, e la serva ogni sei setti-
mane”. Era una scusa per rifiutare? In ogni modo,
penso di aver parlato abbastanza di me e degli altri,
che rappresentiamo il “ passato ” se non il “ trapas-
sato”. Parliamo un po’ del presente, e se voi volete,
signor Wagner, soprattutto dell’avvenire, dato che il
vostro nome appare quasi sempre legato a questo
epiteto. Ciò sia detto, beninteso, senza la minima in-
tenzione maliziosa da parte mia. Anzitutto ditemi :
vi siete stabilito definitivamente a Parigi? Riguardo alla
vostra opera Tannhäuser, sono convinto che arriverete
a farla rappresentare. Si sta facendo troppo chiasso
intorno a questo lavoro perché i Parigini rinuncino
alla curiosità d’ascoltarla. La traduzione è pronta?».
54
WAGNER «Non ancora terminata: sto lavorando
alacremente con un collaboratore molto abile e so-
prattutto molto paziente. Il problema, per la perfetta
comprensione dell’espressione musicale, consiste nel-
l’identificare, per cosi dire, ogni parola francese col
significato corrispondente della parola tedesca, sotto
le medesime note. E una fatica ardua e di difficile
realizzazione ».
ROSSINI « Ma perché, come hanno fatto anche
Gluck, Spontini e Meyerbeer, non scrivete di sana
pianta un’opera direttamente su un libretto francese?
Ormai siete in grado di rendervi confo sul posto dei
gusti che predominano qui, e del particolare tempera-
mento, inerente allo spirito francese, per le cose di
teatro. Lo stesso feci anch’io allorquando lasciai l’Ita-
lia e rinunziai alla mia carriera italiana per stabilirmi
a Parigi».
WAGNER « Per quanto mi riguarda, maestro, io
non credo che ciò sia realizzabile. Dopo il Tannhäuser,
ho scritto il Lohengrin, e poi Tristano e Isotta. Queste
tre opere, sotto il duplice aspetto letterario e musi-
cale, presentano un’evoluzione logica della mia conce-
zione definitiva ed assoluta del dramma lirico. Il mio
stile ha sentito gli effetti inevitabili di tale evoluzione.
E se è vero che oggi avverto la possibilità di scrivere
altri lavori nello stile di Tristano, confesso d’altra
parte d’essere del tutto incapace di riprendere quello
di Tannhäuser. Orbene, se dovessi comporre per Parigi
un’opera su testo francese, non potrei e non dovrei
seguire altra strada che quella che mi ha portato a
scrivere Tristano. Per cui, un lavoro siffatto racchiu-
derebbe un tale scuotimento delle forme musicali del-
l’opera, da restare di certo incompreso e senza alcuna
possibilità, allo stato attuale delle cose, d’esser accet-
tato dai Francesi».
ROSSINI «Ma ditemi, qual’è stato nel vostro spi-
rito il punto di partenza di queste riforme?».
WAGNER « Il loro sistema non si è sviluppato al-
l’improvviso. I miei dubbi si riferiscono alle mie prime
prove, che non mi soddisfecero ; ed è piuttosto nella
concezione poetica che in quella musicale che il germe
di queste riforme si rivelò dapprima al mio spirito.
55
I miei primi lavori, in effetti, si ponevano una finalità
essenzialmente letteraria. Preoccupandomi in seguito
dei mezzi su cui lavorare, per attribuirvi un senso
attraverso l’aggiunta, cosi penetrante, dell’espressione
fonica, deplorai che l’indipendenza in cui si muoveva
il mio pensiero nella sua forma ideale dovesse umi-
liarsi dinanzi alle esigenze imposte dalla routine alla
forma del dramma musicale10.
Queste arie di bravura, questi scialbi duetti fatal-
mente fabbricati sullo stesso stampo, e quant’altri piu
accessori che senza motivo interrompevano l’azione
scenica ! E i settimini, poi ! perché in tutte le opere
che si rispettavano ci voleva il solenne settimino dove
i personaggi del dramma, abbandonano lo spirito del
loro ruolo, si mettevano in riga alla ribalta, tutti
riconciliati ! per venire di comune accordo (e che razza
d’accordo, Dio mio !) a spacciare al pubblico quelle
stereotipe insulsaggini*...».
ROSSINI (interrompendolo) « Sa come veniva chia-
mata questa cosa ai miei tempi in Italia? “ La schiera
dei carciofi”. Confesso che avvertivo perfettamente il
ridicolo di ciò. Mi faceva invariabilmente l’effetto di
una banda di facchini che veniva a cantare per avere
la mancia. Ma cosa volete farci? Era l’usanza ; una
concessione da fare al pubblico per evitare i lanci di
mele cotte... quando non erano crude’.».
WAGNER (continuando senza far caso all’interru-
zione di Rossini) «E l’orchestra poi, con quegli accom-
pagnamenti sempre uguali... incolori, che ripetevano
continuamente le stesse formule senza tener conto dei
personaggi e delle situazioni... in poche parole, tutta
questa “musica da concerto” estranea all’azione, non
aveva altro motivo di sussistere se non la convenzione,
musica che in molte parti soffoca le migliori opere...
tutto ciò mi sembrò come una cosa contraria al buon
senso ed incompatibile con l’alta missione di un’arte
nobile e degna di questo nome».
ROSSINI «Avete fatto allusione, tra l’altro, al-
l’aria di bravura. A chi lo dite! Era il mio incubo.
56
Dover accontentare in nna volta la prima donna, il
primo tenore, il primo basso ! Non trovavano di meglio
da fare, questi valentuomini (e non dimentichiamo i
loro omologhi sul lato del “ tremendo Femminino ” !)
che preoccuparsi di contare il numero di battute della
loro aria, per venirmi poi a dichiarare che non l’avreb-
bero cantata, perché quella del loro collega aveva un
certo numero di battute in più, senza contare il mag-
gior numero di trilli, di gruppetti...».
WAGNER (allegramente) « Misuravano a braccio !
Non restava altro al compositore che far collaborare
la propria ispirazione con un metro... per musica».
ROSSINI « Diciamo pure in breve un ariametro ’.
Questa gente, quando ci penso, era davvero feroce.
Sono proprio loro che a forza di farmi stillare il cer-
vello, m’han reso calvo anzitempo. Ma lasciamo stare,
e riprendiamo il vostro ragionamento... Questo, in ef-
fetti, non dà luogo a repliche, se vogliamo considerare
lo sviluppo razionale, regolare e rapido dell’azione
drammatica. Il problema è un altro : questa indipen-
denza rivendicata dalla concezione letteraria, come
mantenerla una volta subentrata la forma musicale,
che non è altro che convenzione? Uso la vostra espres-
sione... perché, restando nello spirito della logica asso-
luta, è ovvio che nessuno canta conversando ; il colle-
rico, il cospiratore, il geloso non cantano di certo !
(scherzando:) Un’eccezione può essere fatta per gli
innamorati, che a rigore si possono far gorgheggiare...
Dirò di più : si va forse incontro alla morte cantando?
L’opera è dunque convenzione da capo a fondo. E che
dire della stessa strumentazione? Immaginiamo un’or-
chestrazione scatenata : chi potrebbe ravvisarvi con
precisione la differenza tra una tempesta, un tumulto,
un incendio?... sempre convenzioni ! »-
WAGNER «E evidente, maestro, che la convenzio-
ne s’impone, ed in larghissima misura, o dovremmo
abolire del tutto il dramma lirico come pure la com-
media musicale. Ma è altrettanto indiscutibile che
tale convenzione, essendo stata elevata al rango di
forma d’arte, deve essere utilizzata in maniera da evi-
tare gli eccessi che conducono all’assurdo e al ridicolo.
È questo l’abuso contro il quale io reagisco. Ma si è
57
voluto ingarbugliare il mio pensiero. Mi si raffigura
oggi come un borioso... che denigra Mozart!».
ROSSINI (con umorismo) ((Mozart, Vangelo della
musica... Ma a meno che si sia sacrileghi chi oserebbe
toccarlo? ».
WAGNER « Mi si accusa di ripudiare, o quasi, salvo
rare eccezioni come Gluck e Weber, tutta la musica
d’opera in blocco. Ci si ostina con evidente malafede,
a non voler capire nulla dei miei scritti. Ma come !
Ben lungi dal contestare, e dal non sentire al massimo
grado il fascino, in qualità di musica pura, di tante
ammirevoli pagine d’opera giustamente famose, io in-
sorgo e reagisco contro il compito che queste musiche
sono condannate a svolgere ; quello del posticcio acces-
sorio, di schiave della ripetitività estranea all’azione
scenica, che sistematicamente si rivolge a null’altro
che alla sensualità dell’invito. Un’opera, secondo il
mio ideale, è destinata per la sua stessa natura, che
è complessa, ad avere per fine la formazione di un
organismo ove si realizzi la perfetta unione di tutte
le arti che contribuiscono a costituirla : l’arte poetica,
l’arte musicale, l’arte decorativa e figurativa. E non
è forse avvilire la missione del musicista, il fatto di
costringerlo ad essere un semplice illustratore in suoni
di un qualunque libretto, che inizia già con l’imposi-
zione di un sommario numerato fatto di arie, duetti,
scene d’assieme... in una parola di «pezzi» (pezzi,
ma sarebbe meglio dire spezzettature) che egli dovrà
tradurre in note ; pressapoco come un miniatore che
colori delle bozze stampate in nero? Certamente, vi
sono numerosi casi in cui alcuni compositori, ispirati
da una situazione drammatica ricca d’emozioni, hanno
scritto pagine immortali. Ma quanto alle altre pagine
delle loro partiture sono sminuite o annullate per
colpa di questo procedimento soffocante che io de-
nuncio ! Orbene, fin tanto che questi errori perdure-
ranno, non sentiremo regnare la compenetrazione re-
ciproca, completa tra la musica e la poesia, né questa
duplice concezione, fusa sin dall’inizio e sbocciata da
una sola idea ; e il vero dramma musicale non potrà
esistere ».
ROSSINI « Sarebbe a dire, se ho ben capito, che
58
per realizzare il vostro ideale il compositore dovrà
essere il librettista di sé medesimo? Ma, per varie ra-
gioni mi sembra una condizione praticamente insor-
montabile ».
WAGNER «E perché mai? Che cosa mai può impe-
dire che i compositori insieme al contrappunto fac-
ciano nel contempo studi letterari, esaminino la storia,
approfondiscano le leggende? Tutto ciò li condurrebbe,
istintivamente, per forza di cose, a compenetrare un
qualche soggetto, poetico o tragico, a seconda del loro
temperamento. E poi, se a loro mancasse l’abilità
o l’esperienza per costruire l’intreccio drammatico,
avrebbero pur sempre la risorsa di rivolgersi a qualche
drammaturgo di professione col quale s’identifichereb-
bero attraverso una collaborazione stretta e continua.
D’altronde, tra i compositori di musiche teatrali, credo
che ve ne siano stati di quelli che, all’occasione, hanno
mostrato di possedere istinto e attitudini letterarie e
poetiche degne di nota; capovolgendo e rimescolando
secondo le loro esigenze sia il testo, sia l’ordine delle
scene che essi sentivano in modo diverso, e sapevano
capire meglio del loro librettista. Senza andar tanto
lontano, maestro, prendiamo ad esempio la scena della
congiura dal Guillaume Teli. Non mi direte d’aver
seguito pedissequamente, parola per parola, il testo
fornitovi dai vostri collaboratori ! Non lo crederei.
Non è difficile, se si va a guardare da vicino, scorgervi
in molti punti, certi effetti di declamazione, e sfuma-
ture che portano il segno della musicalità, se cosi
posso esprimermi, dell’ispirazione spontanea, fino a
livelli tali che io mi rifiuto di attribuire la loro genesi
unicamente all’intervento sul canovaccio del testo che
avevate sotto gli occhi. Un librettista, quale che sia
la sua abilità, non saprebbe mai concepire (soprattutto
nelle scene d’assieme) l’ordine che conviene al compo-
sitore, per realizzare l’affresco musicale tal quale gli
è suggerito dall’immaginazione».
ROSSINI «Questo è vero. La scena di cui dite,
infatti, fu profondamente modificata, e con fatica,
dietro le mie indicazioni. Io scrissi Guillaume Teli
ospite in campagna del mio amico Aguado, durante
un’estate. Li non avevo sottomano i miei librettisti.
59
Mi vennero in aiuto Armand Marrast e Crémieux (tra
parentesi due futuri cospiratori contro il regime di
Luigi Filippo), che si trovavano con me in villeggia-
tura ospiti di Aguado ; essi mi aiutarono nella tra-
sformazione del testo e dei versi secondo quanto mi
era necessario per «ordire», a regola d’arte, il piano
dei miei personali cospiratori contro Gessler».
WAGNER «Ecco, dunque una confessione impli-
cita, maestro, che già contiene la conferma di quanto
ho appena detto ; basterebbe estendere questo principio
per accorgersi che le mie idee non sono poi cosi con-
traddittorie e irrealizzzabili come può sembrare. Io
affermo che è logicamente inevitabile che, attraverso
un’evoluzione forse lenta, ma del tutto naturale, finirà
per nascere non già quella musica dell’avvenire di cui
ci si ostina ad attribuirmi la pretesa di voler parto-
rire, ma l’avvenire del dramma musicale stesso, al
quale contribuirà il generale sviluppo delle arti, e
donde sorgerà (un orientamento tanto fecondo quanto
nuovo nella nozione di compositore, di cantante e di
pubblico ».
ROSSINI « Si tratta dunque di un radicale rove-
sciamento! E voi credete che i cantanti, tanto per
cominciare da loro, abituati come sono a sfoggiare il
loro talento col virtuosismo canoro (che, se riesco ad
afferrare il vostro concetto, verrebbe sostituito da una
sorta di melopea declamata) o il pubblico stesso, abi-
tuato com’è, per cosi dire, al vecchio gioco, finiranno
per sottomettersi a delle trasformazioni cosi distrut-
tive della tradizione? Ne dubito assai».
WAGNER «Sarà certamente un’educazione lenta
da fare ma si farà. Quanto al pubblico, è lui che forma
i maestri, o è vero il contrario? E poi, c’è un’altra
constatazione, di cui riconosco in voi una dimostra-
zione illustre. Non è stato forse il vostro stile cosi
personale a far dimenticare in Italia, tutti i vostri
predecessori ; a conferirvi con inaudita rapidità, una
popolarità senza pari? e poi, maestro, la vostra in-
fluenza, oltrepassata la frontiera, non è forse divenuta
universale? Riguardo poi ai cantanti, di cui voi pre-
vedete il rifiuto di tutto ciò, essi dovranno sottomet-
tersi ed accettare una situazione che, del resto, li no-
60
biliterà. Allorquando essi s’accorgeranno che il dramma
lirico, nella sua nuova forma, non si presterà piti a
quegli elementi di facile successo che sono la forza dei
polmoni o i vantaggi di una vocalità seducente, capi-
ranno che l’arte, ormai, li avrà chiamati ad una mis-
sione più alta. Obbligati a rinunciare all’isolamento
nei limiti dei loro rispettivi ruoli, si identificheranno
con lo spirito sia fisiologico che estetico che domina
nell’opera. Essi saranno immersi in un’atmosfera in
cui, per cosi dire, tutto fa parte di tutto, senza al-
cunché di secondario. Per di più, disabituandosi ai
successi effimeri prodotti da un virtuosismo non certo
di lunga durata, liberati dal supplizio di dover far
risuonare le loro voci su parole insipide, allineate in
rime banali, si accorgeranno che sarà a loro rivelato
come poter adornare il proprio nome di un’aureola
più gloriosa e duratura, quand’essi si saranno incar-
nati nei personaggi che rappresentano attraverso la
penetrazione completa (sotto l’aspetto fisiologico e
umano) della loro ragion d’essere nel dramma, quando
si applicheranno sullo studio delle idee, dei costumi,
del carattere dell’epoca in cui si svolge l’azione ;
quando avranno aggiunto una dizione irreprensibile al
prestigio di una declamazione magistrale, colma di
verità e nobiltà».
ROSSINI « Sotto l’aspetto dell’arte pura, queste
sono senza dubbio vedute larghe e prospettive sedu-
centi. Ma considerando il particolare aspetto della
forma musicale, come dicevo prima, ciò va a parare
fatalmente alla melopea declamata. Cioè a dire : l’ora-
zione funebre della melodia ! Altrimenti come collegare
la connotazione espressiva, per cosi dire, di ciascuna
sillaba alla forma melodica, la cui fisionomia è stabi-
lita dai ritmi precisi, concordanze simmetriche tra gli
elementi che la costituiscono?».
WAGNER «È ovvio, maestro, che un tale sistema,
messo in pratica ed esteso con rigore, sarebbe intolle-
rabile. Ma, se volete capirmi, ecco cosa vi dico : ben
lungi dal rigettare la melodia, io al contrario la re-
clamo e a gran voce. Non è forse la melodia il com-
pleto sviluppo di ogni organismo musicale? Senza la
melodia, niente sarebbe o potrebbe essere. Ma, inten-
di
diamoci : io la reclamo diversa da quella che, rinser-
rata negli stretti limiti dei procedimenti convenzio-
nali, subisce il giogo dei periodi simmetrici, dei ritmi
ostinati, dei giri armonici prevedibili e delle cadenze
obbligatorie. Voglio la melodia libera, indipendente,
senza ostacoli. Una melodia che nel suo insieme in-
confondibile, contraddistingua non solo ciascun per-
sonaggio perché non possa essere confuso con un altro,
ma in più il tale fatto, il tale episodio inerenti al
contesto del dramma. Una melodia che abbia una sua
forma ben precisa, e che assecondando molteplici in-
flessioni del testo poetico, possa estendersi, restrin-
gersi, aprirsi nel seguire le condizioni che l’effetto
musicale esige, al modo che il compositore desidera11.
Di questo genere di melodia voi, maestro, avete fissato
uno “ specimen ” sublime nella scena del Guitta urne
Teli. “ Sois immobile”, ove il canto, tenuto libero,
sottolinea ogni parola,-e, sostenuto dagli accenti ansi-
manti dei violoncelli, attinge le più alte vette del-
l’espressione lirica».
ROSSINI «Dimodoché, in quel momento io avrei
fatto “musica dell’avvenire” senza saperlo?».
WAGNER « In quel momento, maestro, avete fatto
musica di tutti i tempi, che è la migliore».
ROSSINI « Vi dirò : il sentimento che in vita mia
mi ha più commosso, è l’affetto che provavo per mia
madre e mio padre, del quale, devo dirlo, ero ricam-
biato a usura. È stato questo, credo, a farmi trovare
la nota emotiva che ci voleva per questa scena della
“mela” del Guillaume Teli. Ma signor Wagner, se mi
permettete, vorrei porvi un’altra domanda. Come po-
treste conciliare, con questo sistema, l’impiego simul-
taneo di due o più voci, o addirittura dei cori? A
stretto rigor di logica, ciò sarebbe da escludere...».
WAGNER « In effetti, il rigore iniziale richiede-
62
rebbe che il dialogo musicale fosse modellato su quello
parlato e la parola venisse lasciata a turno a ciascuno
dei personaggi. Ma d’altra parte, si può anche ammet-
tere per esempio che due personaggi diversi possano,
a un dato momento, trovarsi in un medesimo stato
d’animo, considerare un comune sentimento e per
giunta fondere assieme le loro voci per identificarsi
in un unico pensiero. Allo stesso modo numerose per-
sone riunite, anche se animate da contrastanti senti-
menti, possono a ragione usare la facoltà di esprimerli
simultaneamente, anche se individualmente ciascun
sentimento si riferisce solo a chi lo prova. Capirete
adesso, maestro, quali risorse immense, infinite offrirà
ai compositori questo sistema, di attribuire a ciascun
personaggio del dramma, a ciascuna situazione una
formula melodica tipo, suscettibile, nel corso dell’azio-
ne, di prestarsi agli sviluppi più diversi e più estesi,
pur conservando il suo carattere originario? Solo al-
lora, questi assieme ove ciascun personaggio si mani-
festasse nella sua individualità, ma ove tutti gli ele-
menti si combinassero in una polifonia appropriata
all’azione; questi assieme ripeto, non ci farebbero fi-
nalmente più l’effetto di assurdo che risulta dal ve-
dere personaggi animati dalle passioni più opposte
che, a un dato momento, si trovano condannati senza
senso né ragione a riunire le loro voci in una sorta
di “largo d’apoteosi”, dove le armonie patriarcali
servono solo a dirci che “ non si starà mai bene come
in seno alla propria famiglia ”12. Per quanto concerne
i cori, è anzitutto evidente una verità psicologica, ed
è che le masse collettive obbediscono più energicamente
dell’individuo isolato ad una determinata sensazione :
lo spavento, il furore, la pietà... È dunque logico am-
mettere che la folla possa esprimere collettivamente
questi stati d’animo nel linguaggio fonico dell’opera,
senza offendere il buon senso. Ancor più, l’intervento
dei cori, quand’è logicamente indicato dalle situazioni
del dramma, rappresenta una forza senza eguali, ed uno
63
dei più preziosi fattori dell’effetto teatrale. Tra cento
esempi, dovrei almeno ricordare l’impressione ango-
sciante dell’impetuoso coro dell’Idomeneo —• Corriamo,
fuggiamo! — senza neppure dimenticare, maestro, il
vostro ammirevole affresco del Mosè : il coro desolato
“delle tenebre...”».
ROSSINI (battendosi la fronte, con umorismo)
«Ancora! Decisamente, dunque avevo anch’io qualche
disposizione per la “musica dell’avvenire!”. M’avete
fatto venire l’acquolina in bocca! Se non fossi troppo
vecchio ricomincerei e allora... guai all’“ ancien
régime ! ” ».
WAGNER (replicando prontamente) « Ah, maestro,
se voi non aveste gettato la penna dopo il Guillaume
Teli, a 37 anni... un crimine! Voi stesso ignorate che
cosa avreste potuto tirar fuori da quel cervello ! In
qual caso, non avreste che cominciato...».
ROSSINI (riprendendo il tono serio) « Che volete,
non avevo figli. Se ne avessi avuti, senza dubbio avrei
continuato a lavorare. Ma, per dire il vero, dopo aver
penato per quindici anni e composto, in questo periodo
di cosiddetta “inerzia”, quaranta opere, sentii il bi-
sogno di riposarmi e ritornai a vivere tranquillamente
a Bologna. D’altronde, la situazione dei teatri in
Italia, che già lasciava a desiderare durante la mia
carriera, era allora in piena decadenza ; e l’arte del
canto era tramontata. Il che era da prevedere».
WAGNER « A cosa attribuite un fenomeno cosi
inatteso, in un paese dove le belle voci sono più che
abbondanti? ».
ROSSINI « Alla scomparsa dei castrati. È impos-
sibile potersi fare una idea del fascino vocalistico,
della perizia virtuosistica di cui, in mancanza d’altre
cose, e per caritatevole compensazione, erano provvi-
sti questi bravi tra i bravi. Ed erano anche degli
insegnanti incomparabili. Generalmente era affidato
proprio a loro l’insegnamento del canto nelle scuole di
canto annesse alle chiese, e mantenute a spese delle
stesse. Erano vere e proprie accademie di canto. Gli
allievi accorrevano, e parte di loro non di rado abban-
donava gli scranni del coro per dedicarsi alla carriera
teatrale. Ma, in seguito al nuovo regime politico in-
64
staurato in tutta Italia dai miei agitati compatrioti,
tali scuole vennero soppresse e rimpiazzate da alcuni
“ Conservatori ” dove, in fatto di buone tradizioni,
del bel canto non si conserva proprio niente. I ca-
strati svanirono, e si perse l’uso di produrne nuovi.
Questa fu la causa della decadenza irrimediabile del-
l’arte del canto. Una volta sparito questo, l’opera
buffa (ciò che il canto aveva di meglio) andò alla de-
riva. E l’opera seria? Il pubblico che, già ai miei
tempi, mostrava poca inclinazione a volersi elevare
alle altezze della grande arte, sembrava non nutrire
più alcun interesse per questo genere di spettacolo.
Un manifesto recante l’annuncio di un’opera seria,
di solito produceva il solo effetto d’attirare qualche
spettatore claustrofobo, desideroso di respirare libera-
mente, lontano dalla folla, qualche “ aria ” rinfre-
scante. Ed ecco, per quali ragioni, ed altre ancora,
decisi che la miglior cosa che potessi fare fosse di
tacere. Taccio, e cosi -finita è la commedia».
ROSSINI (si alza, stringe affettuosamente le mani
a Wagner, aggiungendo) « Mio caro signor Wagner, non
saprò mai abbastanza ringraziarvi per la vostra visita,
e soprattutto per l’esposizione cosi chiara e interes-
sante che mi avete fatto delle vostre teorie. Io, che
non compongo più, essendo arrivato all’età in cui
piuttosto ci si “decompone”, sto aspettando di an-
darmi a “ ridecomporre ” una volta per tutte e sono
troppo vecchio per volgere lo sguardo verso nuovi
orizzonti. Ma le vostre idee, checché ne dicano i vo-
stri detrattori, sono di natura tale da far riflettere i
giovani. Tra tutte le arti la musica, per la sua natura
astratta, è la più suscettibile di trasformazioni, che
sono illimitate. Dopo Mozart si sarebbe potuto preve-
dere Beethoven? E dopo Gluck, Weber? Ma anche
dopo costoro, non siamo certo arrivati alla conclu-
sione. Ciascuno deve dunque curarsi di progredire per
trovare del nuovo, senza tener presente la leggenda di
quel tale Ercole, all’apparenza gran viaggiatore, il
quale giungendo a un certo luogo di dove non riu-
sciva a vedere più chiaro, vi piantò le sue colonne e
tornò indietro».
WAGNER «Forse si trattava di un confine da
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riserva di caccia, messo li per impedire ad altri d’en-
trare ! ».
ROSSINI « Chi lo sa? Indubbiamente avrete ra-
gione voi, poiché sembra certo che costui mostrasse
una spiccata predilezione per la caccia al leone. Ad
ogni modo speriamo che la nostra arte non debba mai
subire i limiti imposti da un piantatore di colonne
di quel genere. Per parte mia, io ho fatto il mio tempo.
Spetta ad altri, e a voi in particolare, che vedo cosi
vigoroso e intriso di idee cosi profonde, fare qual-
cosa di nuovo e con buon esito, il che vi auguro di
tutto cuore».
Cosi terminò questo memorabile incontro. Nel corso
della mezz’ora abbondante che durò, questi due uomini
(non avendo arginato la verve spirituale dell’uno il
repertorio umoristico dell’altro) non ebbero l’aria di
essersi annoiati, posso .assicurarlo.
Rossini, riaccompagnandoci attraverso la camera
da pranzo adiacente al suo studio, si fermò improvvi-
samente dinanzi a un piccolo mobile delizioso, fine-
mente decorato, che era posto fra due finestre e che
tutti i frequentatori abituali di quella casa conosce-
vano bene. Era un piccolo organo meccanico del
XVII secolo, di fabbricazione fiorentina. «Ecco», disse
il maestro a Wagner «questo organino può farvi ascol-
tare qualche vecchio motivo del mio paese, che forse
potrà interessarvi». Cosi dicendo azionò il meccanismo
e subito lo strumento emise il suo repertorio con un
arcaico suono di pifferi. Erano vecchie arie popolari.
«Che ne dite?», riprese Rossini. «Ecco un po’ di
passato e anche di trapassato. Chissà chi sarà l’ignoto
autore di queste cose? Qualche strimpellatore di balli
paesani, si direbbe. E roba semplice e primitiva. Risale
a chissà quanto tempo fa, e vive ancor oggi ! E forse
qualcosa di simile a quello che tra un secolo rimarrà
di noi?».
«Di noi!». Qualche spirito un po’ troppo indaga-
tore non avrebbe perso l’occasione di scorgere in que-
sta espressione, una piccola stoccata nascosta sotto
l’apparenza di una senile bonomia. Io non credo che
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l’intenzione del maestro fosse tale. Questa considera-
zione, d’altronde identica ad altre che gli avevo sen-
tito fare in circostanze analoghe, sembrava esser ve-
nuta spontanea e semplice, senza intenzioni. In ogni
caso Wagner non vi badò. Ci accomiatammo quindi
dal maestro. Scendendo le scale, Wagner mi disse:
« Confesso che non mi aspettavo di trovare in Rossini
l’uomo come mi è apparso. E una persona semplice,
spontanea, seria e ha mostrato interesse a tutti gli
argomenti che abbiamo toccato nel corso di questo
nostro breve incontro. Io ho dovuto limitarmi a espor-
gli una veduta d’insieme delle mie idee, facendo leva
solo su qualche dettaglio pratico di cui egli poteva
immediatamente saggiare la mia consistenza. Eppure,
c’era da aspettarsi che queste mie dichiarazioni gli
sembrassero eccessive, visto che erano riferite allo
spirito che prevaleva ai tempi della sua carriera ; spi-
rito di cui egli è per forza di cose imbevuto ancor oggi.
Come Mozart, egli possedeva al più alto grado il dono
dell’invenzione melodica. Inoltre, era meravigliosamen-
te provvisto d’istinto teatrale e drammatico. Chissà
cosa sarebbe riuscito a produrre, se avesse ricevuto
un’educazione musicale profonda e completa ! E so-
prattutto se fosse stato meno “ Italiano ” e meno
scettico, e avesse sentito dentro di sé la natura sacra
della sua arte ! Non c’è da dubitare che in questo caso
avrebbe preso una svolta tale da condurlo alle più alte
vette. In poche parole, egli è un genio che si è disperso
per non essersi ben costruito, e per non aver ricono-
sciuto il luogo spirituale al quale le sue alte facoltà
creatrici l’avevano destinato. Nondimeno devo consta-
tare che, tra i musicisti che ho incontrato a Parigi,
è il solo veramente grande».
Mi separai da Wagner e, tornandomene subito a
casa, mi accinsi a metter ordine tra le note che avevo
preso durante l’incontro tra questi due uomini celebri.
Mi venne allora in mente questa considerazione :
che Rossini, che ci aveva parlato con tono cosi emo-
zionato della sua visita a Beethoven, esprimendo la
sua ammirazione per quel genio colossale, era lontano
dal sospettare di essersi trovato di fronte ad un genio
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della stessa tempra. Non dimentichiamo che Wagner
ancora non aveva ottenuto il prestigio che la fama
conferisce. Il suo nome, che già circolava in Germania
in seguito alle rappresentazioni di Tannhäuser e Lohen-
grin in diversi teatri, aveva acquisito, è vero, anche
a Parigi qualche notorietà ; ma negli articoli che la
stampa moltiplicava contro di lui si parlava più del
«polemista» che del compositore. Col risultato che
Wagner agli occhi di Rossini (che nulla conosceva
della musica wagneriana) occupava insomma come
«personalità» un posto parecchio inferiore a quello
di un Gounod o un Félicien David, rappresentando
tutt’al più un certo tipo di tedesco, ebbro delle visioni
della sua mente esaltata, più parlatore che musicista,
troppo radicale nelle sue utopie rinnovatrici perché si
potesse prendere sul serio la possibilità di realizzarle.
Cosicché, all’inizio Rossini ascoltò Wagner più con
l’apparenza di una beneducata curiosità, che con vero
interesse. Nel corso della conversazione, però, questa
impressione si modificò e Rossini, la cui perspicacia
era notoria non tardò ad accorgersi che questo tedesco
era «un cervello».
D’altronde durante questo incontro i due uomini
di genio (l’uno, carico di fama, sopravviveva da tren-
tanni alla più brillante carriera ; l’altro, alla vigilia
di una gloria incomparabile, non aveva rivelato ancora
ai contemporanei le titaniche facoltà che celava), si
comportarono nel modo previsto : semplice e cortese
Rossini, dignitoso e deferente Wagner. Quest’ultimo,
presentandosi al maestro di Pesaro non s’era fatto
eccessive illusioni su come sarebbe stata, accolta l’espo-
sizione delle sue dottrine. Neppure s’aspettava che
Rossini con tanta urbanità, prolungasse la conversa-
zione ; e il grido d’allarme : « Ma voi state pronun-
ciando l’orazione funebre della melodia», non lo sor-
prese affatto. Era il « il grido del cuore » che si doveva
prevedere. Del resto non era certo per trovar compren-
sione che Wagner aveva desiderato questo incontro.
Egli sperava soprattutto di poter studiare da vicino
la psicologia di questo strano musicista, miracolosa-
mente dotato, che dopo un’ascesa cosi sbalorditiva-
mente rapida nello sviluppo delle sue facoltà creatrici
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sfociate infine nel Guillaume Teli, non trovò di meglio
da fare, a 37 anni d’età, che sottrarsi al suo stesso
genio, quasi fosse un fardello ingombrante e sfuggirvi
immergendosi nel borghese «far niente» d’una vita
scialba, noncurante dell’arte sua, come se mai l’avesse
praticata.
Era questo il fenomeno che incuriosiva Wagner, e
che gli premeva di poter analizzare.
Oltretutto, non doveva dispiacergli d’afferrare l’oc-
casione di far personalmente giustizia di tutte le assur-
dità che gli erano attribuite da una pubblicità igno-
rante ed aggressiva, circa le sue presunte incompren-
sioni nei riguardi degli operisti più illustri, suoi pre-
decessori, da Mozart fino a Meyerbeer e Rossini. A
costui, come abbiamo visto, parlò in termini dignitosi
e precisi, limitandosi ad una semplice smentita, come
conviene a chi non ha bisogno di difendersi da accuse
messe in giro dalla malevolenza e da testimonianze che
intenzionalmente falsavano la sue dichiarazioni. Con
imperiosità poi, allorché fu in presenza del maestro
italiano, espose le sue idee nel loro autentico signifi-
cato, senza preoccuparsi di cautele oratorie o di ambi-
guità diplomatiche, non più di quanto si curasse di
mitigare, spruzzandola d’acqua santa, la formulazione
delle sue critiche nei confronti dello stato decrepito e
tarlato dell’opera e dei suoi secolari attributi, altret-
tanto che all’ammuffito sistema applicato dai compo-
sitori per infiorettare la loro musica. Erano, bisogna
dire, delle punture piuttosto acuminate che rivolgeva
direttamente a Rossini. Costui, come si è visto, lungi
dall’adombrarsene, discusse col suo solito spirito gio-
viale e umoristico. Ma, osservando il mutamento che
poco a poco si formava nel suo atteggiamento ci si
accorgeva chiaramente lo ripeto, che egli non aveva
tardato ad intuire il valore autentico dell’uomo che
gli stava di fronte. In luogo del visionario gonfio di
prosopopea, annaspante tra le confuse fraseologie di
una incoerente pedanteria, come i suoi amici gli ave-
vano dipinto questo tedesco filosofo, Rossini si avvide
subito di aver a che fare con uno spirito di prim’or-
dine, robusto, chiaro, conscio della propria forza, ca-
pace di abbracciare con sguardo d’aquila i domini del-
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l’arte nei suoi illimitati spazi e ben deciso ad innal-
zarsi alle cime più elevate.
L’incontro tra questi due uomini, una volta chiariti
gli equivoci, era approdato ad un sentimento di reci-
proca stima che si mantenne anche in seguito, con sin-
cerità e rispetto. Eppure, quanto disparate sono le
nature dei loro geni !
Wagner, temperamento profondamente germanico,
era assolutista, imperioso, combattivo, nutrito della
filosofia di Schopenhauer, profondo e sublime come
Beethoven ; cervello in continua ebollizione, dominato
e tormentato dal suo «genio», dal suo «dèmone»,
come lo chiamava; cosciente della missione che era
la sua forza, del suo destino di creatore.
L’altro, Rossini, l’italiano, spirito vivace, brillante,
adepto della filosofia di Epicuro, godeva dell’appa-
renza delle cose senza darsi pena di penetrare oltre ;
si lasciava vivere alla * giornata seminando al vento
le sue improvvisazioni. Come «genio», in luogo del
« dèmone » devastatore di Wagner, aveva una fata
dolce e generosa e carezzevole ; non cedeva alle attrat-
tive dell’arte se non dietro estorsioni, e faceva appello
in quel caso alla compiacenza d’un meraviglioso istinto
sempre desto.
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zonatorio : « Ehi Azevedo, allora ! l’ho visto, è venuto
qui... il mostro... la vostra bestia nera... Wagner!».
Mentre il maestro s’intratteneva con Carata, Aze-
vedo mi prese da parte per sapere qualcosa di pili
circa questo incontro. Un attimo dopo Rossini venne
a interromperci: «Avete un bel dire», prosegui al-
l’indirizzo di Azevedo, «questo Wagner, debbo ammet-
terlo, mi sembra fornito di qualità di prim’ordine.
Tutto il suo fisico, il mento soprattutto, rivela il
temperamento di chi possiede una volontà di ferro.
Che gran cosa è « sapere » ciò che si vuole ! Se egli
possiede nella stessa misura anche il dono di «potere»,
farà parlare di lui». Azevedo tacque, ma mi sussurrò
all’orecchio « Ma perché Rossini parla al futuro? Quel-
l’animale, perdio, sta già facendo fin troppo parlare
di sé al presente ! ». Rossini non poteva certo indovi-
nare fino a che punto nello spazio di dieci anni, la
sua profezia sarebbe stata non solo compiuta, ma pro-
digiosamente superata.
Non è forse un particolare straordinario da notare,
circa la vita dell’autore del Barbiere e del Guillaume
Tell, che nello spazio di quarantanni egli era stato
destinato ad incontrare due grandi geni come Beetho-
ven e Wagner, il primo rivoluzionatore della musica
strumentale all’inizio del secolo, e l’altro dell’opera
alla fine della stessa era? E che, nell’intervallo tra
Fidelio e Tannhäuser era toccato proprio a lui, l’ita-
liano, ammaliare i contemporanei con il fascino melo-
dico delle nuove forme di cui fu il brillante promotore
recando cosi il suo incontestato apporto ai destini
futuri del dramma musicale?
Come ho già detto, i due maestri non si rividero più.
Dopo il fiasco di Tannhäuser all’Opéra di Parigi,
i giornali francesi ed alcuni giornali tedeschi pubbli-
carono a riguardo di Wagner nuove storielle, dove il
nome di Rossini fu daccapo messo in mezzo. Poi, in-
tervennero alcuni maldestri amici (vien fatto di do-
mandarsi a quale scopo) per presentare agli occhi di
Wagner, l’immagine del maestro italiano sotto un
aspetto poco edificante. Né più né meno, lo si fa-
ceva passare per un falso galantuomo. Io mi sforzai di
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far capire a Wagner l’esatta verità sull’argomento Is.
Non meno contrariato Rossini incaricò tra gli altri
Franz Liszt perché convincesse Wagner a tornare a
visitarlo, al fine di potergli fornire le prove indiscu-
tibili della sua perfetta innocenza. Wagner rifiutò l’in-
vito, dicendo che una sua nuova visita a Rossini avreb-
be sortito l’effetto di moltiplicare le fandonie dei gior-
nali, quando questi ne avessero avuto notizia ; questi
stessi giornali erano già abbastanza farciti di chiac-
chiere su presunti « Pater peccavi » da parte sua ; e
un gesto del genere l’avrebbe messo in una scomoda
posizione... e d’altronde egli voleva evitare di mettere
Rossini in causa, dal momento che non aveva mutato
l’impressione di profonda simpatia dovuta alla nobiltà
del suo carattere, concepita in seguito al loro primo
incontro...
Si trattava quindi di un rifiuto. Wagner vi si
ostinò anche quando io stesso rinnovai, senza suc-
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cesso, un ultimo invito da parte di Rossini, allorché
questi mi incaricò di riportare a casa di Wagner la
partitura della Messa di Gran prestatagli da Liszt.
Io credo che il vero motivo del rifiuto di Wagner
risiedesse soprattutto nella .sua convinzione di poter
trarre ben poco profitto da un secondo incontro con
il maestro italiano. Lo scopo che s’era proposto solle-
citando il primo incontro s’era adempiuto. E lui non
desiderava altro che quello.
I due maestri non si rividero dunque più, ma io
posso testimoniare che tutte le volte che il nome di
Rossini passò per la bocca o per la penna di Wagner,
egli non si distolse mai dalla deferenza e dalla profonda
stima che aveva concepito nei suoi riguardi. Lo stesso
avvenne per Rossini, che spesso s’informò da me circa
i successi che in seguito ottennero le opere di Wagner
in Germania ; p a tal proposito numerose volte mi
incaricò di inviargli i suoi saluti e le sue congratu-
lazioni.
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